The Project Gutenberg eBook of Il tramonto di una civiltà, vol. 2 (di 2)

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Title: Il tramonto di una civiltà, vol. 2 (di 2)

O la fine della Grecia antica

Author: Corrado Barbagallo

Release date: May 4, 2024 [eBook #73535]

Language: Italian

Original publication: Firenze: Le Monnier, 1923

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)

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IL TRAMONTO DI UNA CIVILTÀ VOLUME SECONDO


CORRADO BARBAGALLO

IL TRAMONTO DI UNA CIVILTÀ

O

LA FINE DELLA GRECIA ANTICA

«..... Indagheremo e conosceremo insieme le ragioni per cui Sparta ed Atene, dal colmo della gloria, cui, fra i Greci, erano dal nulla pervenute, rischiarono poscia di precipitare nella servitù; le ragioni per cui i Tessali, straordinariamente cresciuti in ricchezza ed in potenza, sono ora ridotti allo stremo della disperazione». «Occorre all’uopo risalire alle cause prime, non già richiamare gli eventi, che da quelle sono proceduti: alle cause prime dei mali che ci hanno condotti allo sbaraglio attuale».

(Isocr., La Pace, 116-17; 101).

VOLUME SECONDO

FIRENZE
FELICE LE MONNIER
EDITORE


PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

49-1924 — Firenze, Stab. Tip. E. Ariani, Via S. Gallo, 38



INDICE


[1]

CAPITOLO PRIMO. LA GUERRA

Le guerre nella Grecia antica.

La Grecia antica fu, per tutta la sua non lunghissima, ma neanche brevissima, esistenza storica, profondamente afflitta dal male, endemico e inguaribile, della guerra. Sotto questo riguardo, le sue gloriose repubbliche non hanno che un solo termine di paragone (e il ripetersi del fenomeno non fu casuale): i Comuni italiani del Medio Evo. La sua vita fu tutta una serie ininterrotta di lunghe ostilità e di brevi armistizi, un affilare, un brandire, un incrociare, un risonare incessante di armi.

L’età, che potremmo dire preistorica, della Grecia antica si dischiude al nostro pensiero con la evocazione di due grandi serie di guerre: la guerra troiana e le altre infinite, che vanno sotto il nome di «migrazione dorica». Poi, in età cronologicamente più sicura, troviamo, nei secc. VII-VI, le incessanti guerre contro Messeni, Argivi, Arcadi, ecc., attraverso le quali Sparta conquista [2] l’alta sovranità sul Peloponneso. Poi, dal 500 al 494, si ha la insurrezione e la guerra delle colonie greche di Asia, aiutate da Atene e da Eretria, contro la Persia; dal 492 al 479, le prime paurose invasioni persiane; dal 478 al 449, la controffensiva greca ai danni della Persia, mentre contemporaneamente, nella Sicilia, e nell’Italia greca — la Magna Grecia — si svolgono lotte, lunghe e cruente, fra colonie e colonie elleniche — Crotoniati contro Sibariti, Siracusani contro Agrigentini, Siracusani contro Crotoniati —, nonchè fra Greci e Cartaginesi, Greci ed Etruschi, Greci ed Italici.... Nel 466 o nel 471, nella Grecia vera e propria, si ha la insurrezione, fieramente domata, di Nasso contro Atene; dal 466 al 464, la guerra di Atene contro Taso; dal 459 al 451, mentre la guerra della Lega ateniese contro la Persia continua, si susseguono una duplice serie di ostilità ateniesi-corinzio-spartane; dal 449 al 446, una guerra beotico-ateniese-spartana; nel 440-39, le ribellioni di Samo e di Bisanzio contro Atene; nel 437-34, una spedizione ateniese contro le città greche della Tracia e del Ponto; dal 435 al 433 la guerra corinzio-corcirese-ateniese; dopo di che, l’anno successivo scoppia l’insurrezione di Potidea e di una parte della Calcidica contro Atene, che inaugura i quasi ininterrotti ventisette anni della tremenda Guerra peloponnesiaca (431-04), che avvolse nelle sue fiamme l’intero mondo ellenico. Tra il 404 e il 403, segue [3] la prima riscossa di Atene e la campagna di Trasibulo contro «I Trenta»; fra il 400 e il 387, una nuova guerra spartano-persiana, intramezzata da ostilità di Sparta contro l’Elide e contro Tebe, mentre in Occidente si svolgono le conquiste del primo Dionigi su territorio siciliano ed italico, nonchè una lunga guerra di Siracusa contro i Cartaginesi. Nel 394 si apre, e continua fino al 387, la grande, così detta, Guerra corinzio-beotica, che travolse anch’essa nel suo turbine Tebe, Atene, Corinto, Argo, Sparta, l’Eubea, la Grecia centrale, la Calcidica, mentre, in Occidente, Dionigi il grande ripigliava la guerra contro Cartagine (383 ?) e i suoi tentativi di espansione in Italia, che adesso lo fanno entrare in lotta persino con gli Etruschi. Dal 386 al 380, s’incalzano e intrecciano guerre spartano-mantineesi, guerre olintiaco-calcidesi, guerre spartano-olintiache. Dal 377 al 362, si distende l’êra epica dei grandiosi conflitti tebano-spartano-ateniesi-tessalo-epirotici, e, in Occidente, si scatena una nuova offensiva di Siracusa contro l’eterna sua nemica: Cartagine. Dal 362 al 357, mentre le armi non posano nel Peloponneso, Sparta e Atene tornano a guerreggiare contro la Persia, e poi, fallita l’impresa, Atene ritenta la violenta annessione al suo impero dell’Eubea, della Calcidica, del Chersoneso tracico, testè perduti, entrando in conflitto con la Macedonia, di cui ora è divenuto re Filippo II. Dal 357 al 355, si svolge la così detta Guerra degli Alleati [4] contro Atene; dal 355 al 346, la Prima sanguinosissima Guerra sacra; nel 353, le prime guerre di Filippo II per la conquista della Tessaglia; dal 346 al 340, una serie, quasi ininterrotta, di ostilità fra Atene e la Macedonia; dal 339 al 338, la Seconda Guerra sacra, che suggella la fine dell’indipendenza greca sotto l’egemonia macedone. Contemporaneamente, nei trent’anni che scorrono dal 367 al 337, tutta la Sicilia greca arde di un incendio di guerre civili tra città e città, solo intramezzato da tentativi, or fortunati, or infelici, di Cartaginesi contro Greci, di Greci contro Cartaginesi. Fra il 336 e il 335, si susseguono due nuove invasioni macedoni in Grecia, che epilogano nella catastrofe di Tebe. Al 334 si apre la grandiosa gesta macedone-greca per la decisiva conquista della Persia, che durerà fino al 326. Intanto dal 333 al 330, durante l’assenza di Alessandro Magno, impegnato in Oriente, Sparta guerreggia contro la Macedonia, e, tra il 323 e il 322, spento Alessandro, si combatte, fra Greci e Macedoni, la disastrosa Guerra lamiaca. Poi seguono sino al 239 le infinite contese fra i successori di Alessandro, disputate e risolute, in gran parte, su suolo greco, e, dal 239 al 146, il viluppo più intricato di guerre macedono-acheo-etolo-spartano-romane. Il 146 registra il lugubre epilogo della distruzione di Corinto e della fine dell’indipendenza della Grecia, sotto il calcagno romano.

In sette secoli di storia, dunque, circa settecento [5] ininterrotti anni di guerre, di cui ognuna non sconvolse soltanto una breve regione, ma attirò nel suo vortice quasi tutti gli Stati ellenici della penisola e gli altri d’Italia e d’Asia, i quali, del resto, figurarono consuetamente, o nelle più o meno regolari simmachie ateniese, spartana, italica, o nelle temporanee alleanze, che le nazioni greche stipulavano e dissolvevano con mirabolante disinvoltura.

Nè il sesquisecolare impero repubblicano di Roma riesce foriero di migliore fortuna. Dalla fine politica della Grecia al tramonto della Repubblica romana, le più grandi operazioni militari del tempo avvengono su terreno greco: e le Guerre mitridatiche, continuate, salvo brevi armistizi, dall’88 al 66, e la campagna contro i pirati (67), e le guerre civili di Sulla contro Fimbria (85-84), di Pompeo contro Cesare (49-48), di Antonio e di Ottaviano contro gli uccisori di Cesare, nonchè contro Sesto Pompeo (42-35), e l’ultima di Ottaviano contro Antonio (32-30). Solo allora, finalmente, la pace, di cui, alla guisa del Secondo Impero Napoleonico, Roma ebbe a vantarsi dispensatrice, spiegò i suoi ozi ristoratori sull’Ellade malaugurata.

Questo fenomeno — tutto greco — della guerra perenne non fu nè arbitrario, nè casuale. Le sue profonde ragioni giacevano nella Grecia stessa, ossia nella natura, essenzialmente municipale, della sua organizzazione politica. È verità notissima [6] questa, che la Grecia non conobbe altra forma di Stato, che il municipio, i cui confini di regola non valicavano il territorio di una città. Ma si è raramente badato alle conseguenze enormi — benefiche e malefiche — che una tale situazione portava seco. La nobiltà e la grandezza dello spirito greco, come dello spirito dei Comuni medioevali italiani del Medio Evo, nacque appunto dal tanto deprecato fenomeno del municipalismo, che esaltava tutte le potenze morali dei cittadini, rinchiusi entro breve confine, per cui la loro città era tutta la patria, era tutto il mondo. Nacquero da questo stato di fatto il patriottismo ardente, la svariata, meravigliosa molteplicità di sviluppi culturali, artistici, spirituali, che caratterizzano la storia greca. Ma nacque anche il male endemico della guerra in permanenza. Ogni grande Stato possiede mezzi sufficienti, o quasi, alla sua prosperità; ha porti di mare, terre fertili, pianure, montagne, varietà di colture, sbocchi fluviali, centri naturalmente adatti all’industria e centri naturalmente adatti all’agricoltura. Ogni sua contrada può aiutare le consorelle e riceverne vicendevolmente aiuto. Una città isolata, uno Stato municipale, no. Essi sono di regola mancanti di qualcuno, o di più d’uno di tali beni. Quella o quello che possiede il legname non ha il porto in cui scaricarlo; chi fabbrica merci non ha libero il passo ai centri di importazione delle materie prime; chi ha il monte non domina il [7] piano; il municipio, cui sorride l’abbondanza dei suoi vigneti, non dispone di popolazione sufficiente al consumo del suo vino. Lo Stato municipale è, in conseguenza, per sua natura, mutilo e paralitico. Onde il bisogno continuo, ch’è sua ragione e mezzo d’esistenza, di aggregarsi, assoggettarsi, strappare altrui i beni di cui abbisogna. In questo profondo terreno sta la radice del guerreggiare continuo, rabbioso, delle repubbliche greche, così come dei Comuni medioevali italiani. Poi il successo fortunato o l’irritazione dello scacco mal tollerato, la gloria, l’ambizione, il cocente dolore, i danni, subìti o temuti, complicavano il problema, lo inciprignivano, lo avvelenavano. La guerra perciò, nella Grecia antica, fu, al pari dell’imperialismo cittadino, elemento, vitale e fatale, della sua esistenza secolare. Senza di essa la storia non conoscerebbe che una Grecia oscura e vegetante nella mediocrità e nel silenzio. Senza di essa lo splendore e la gloria di Atene e di Sparta non sarebbero mai stati. Il che non impedì che gli effetti della guerra continua si ritorcessero tremendi contro coloro che li avevano scatenati, e che, una volta generati, non assumessero un incalcolabile potere di distruzione.

La Grecia, che non poteva vivere senza guerra, era condannata a perire della sua guerra perpetua. Qui, dove gli Stati sovrani erano infiniti, innumeri dovevano essere ogni giorno i conflitti interstatali. Qui i viventi dovevano rodersi, l’un [8] l’altro, da muro a muro, da fossa a fossa. Anch’ella, questa antica nave senza nocchiero in gran tempesta, era destinata ad infrangersi tra i marosi giganteschi, che il suo violento procedere andava sollevando. E come i Comuni medioevali finirono con invocare un Signore, che desse loro finalmente la pace, così l’Ellade antica finì col preferire una signoria — quella dell’Impero romano — alla sua selvaggia libertà, madida di lacrime e di sangue. Pur troppo, il rimedio eroico giungeva, questa volta, troppo tardi!

Lo sforzo demografico.

Per rilevare compiutamente di quali malefici effetti la guerra sia stata cagione nel mondo greco, noi dovremmo a rigore andare esaminando le singole ripercussioni del fenomeno in tutti gli Stati, che composero il mondo ellenico. Purtroppo, questo ci è assolutamente impedito dalla scarsezza e dalla oscurità enorme delle notizie, che riguardano la loro vita interiore. Noi possiamo però scegliere l’esempio tipico di qualcuno dei numerosi Stati greci — quello ateniese, per esempio — intorno a cui siamo meglio informati, e da quest’analisi indurre tutte le analogie, che vedremo man mano spontaneamente emergere, e intorno ad esse collocare tutte le altre minori, assai più rade notizie, che ci provengono da altri Stati. Tale il procedimento, che siamo costretti [9] a seguire. Ma da esso ci illudiamo di ricavare suggestioni bastevoli a formarci un’idea esatta di quello che, per la Grecia antica, furono i mali infiniti, arrecati dalla guerra.


Come è necessario avvenga d’ogni piccolo Stato, che aspira a grandi scopi, Atene era costretta a guerreggiare con il massimo sacrificio di uomini di cui essa disponeva. La popolazione libera dell’Attica si aggirava, nel suo periodo migliore, intorno alle 250.000 anime. Eppure noi troviamo che alla battaglia di Maratona, nel 490 a. C., Atene partecipava con 9-10.000 opliti, e probabilmente con altrettanti armati alla leggera (gimniti)[1]; a Platea (479), con 8000 opliti e altrettanti gimniti[2]; mentre almeno 25.000 Ateniesi erano imbarcati sulla flotta[3]. Noi troviamo che gli Ateniesi, alla battaglia di Tanagra (457 a. C.), schierarono circa 14.000 opliti e altrettanti gimniti, mentre altri contingenti erano stati spediti ad Egina e in Egitto[4]; che, durante la Guerra del Peloponneso, Atene, nel 431, mobilitò per la difesa dell’Attica, oltre 30.000 fra opliti e cavalieri[5] e una cifra non certo minore di gimniti[6], e che nel 424 invase la Beozia con circa 20.000 uomini[7]. Questo, nel V secolo, ossia nell’età di maggior floridezza demografica dell’Attica. Nel quarto secolo Atene partecipa alla prima invasione di Epaminonda nel Peloponneso (370 o 369) con 12.000 uomini[8]; l’anno successivo, [10] gli Ateniesi guerreggiano contro la lega beotica in numero di circa 10.000[9]; finalmente, in occasione della Seconda Guerra sacra (339-38), la città eroica mobilitava tutti i suoi uomini fino ai 50 anni, armando da 9 a 10.000 opliti[10].

Or bene, queste cifre, di cui nessuna può dirsi esaurisca tutto lo sforzo della mobilitazione nell’Attica antica, e da cui di regola rimangono esclusi gli equipaggi e i marinai delle grandi flotte ateniesi, ci riportano da sole a una percentuale, ossia a una mobilitazione del 10%, del 12%, talora, persino, del 24%, della popolazione complessiva: proporzioni assolutamente inaudite, e che, ripetute e prolungate per secoli, dovevano necessariamente esaurire la vitalità di qualsiasi popolo[11].

La guerra, la pastorizia, l’agricoltura.

Un siffatto sistema di guerra continua devastava in egual misura la popolazione dello Stato e l’intera economia della nazione. Devastò e spense in sul nascere l’agricoltura e la pastorizia dell’Attica. Il giorno, in cui l’Impero ateniese fu costituito, e fu palese come occorressero molti uomini, ossia un abbondante macchinario umano per difenderlo, il governo della Repubblica dovette cercar di persuadere la popolazione dell’Attica a lasciare i campi e a venire in città, ove tutti — si diceva — troverebbero [11] da vivere nella milizia e nell’esercizio dei pubblici uffici[12]. Scambiando forse una responsabilità di cose con una responsabilità di persone, taluno degli antichi attribuì tale consiglio senza di meno ad Aristide, il capo del partito agrario, divenuto, per singolare ironia della sorte, il primo fondatore dell’Impero ateniese[13]. Ma, fosse Aristide o fossero altri, è certo che da questo momento comincia l’esodo dei contadini dell’Attica dalla campagna nella città; ossia l’inurbamento di tanta parte della popolazione, che fatalmente avrebbe portato seco l’arresto e la decadenza della pastorizia e dell’agricoltura nella contrada. Poi la guerra, che non tarderà ad accendersi infinite volte, farà il resto.

Il valore del bestiame, che pascolava nell’Attica, era tutt’altro che insignificante. L’Attica nudriva in gran copia pecore, capre, asini, muli, e gli stessi buoi ed i cavalli, dapprima scarsi, vi figurarono più tardi numerosi, in grazia specialmente dei pascoli dell’Eubea[14]. Or bene, il sopravvenire della guerra recava l’annunzio della fine di tanta ricchezza, così come, sur un campo florido di messi l’infuriare del vento prima ancora dell’irrompere della gragnuola. Non era per questo necessario che il nemico invadesse il Paese. «Quando il nemico è vicino», scriverà ad altra occasione un antico, «il fatto che l’invasione non è avvenuta non impedisce che il bestiame venga lasciato alla ventura»[15]. Ma assai [12] peggio, naturalmente, seguiva allorchè l’invasione aveva veramente luogo. Gravissimi erano allora gli effetti dell’antica — o dell’eterna? — maniera di condurre la guerra. Il più delle volte questa si riduceva a incursioni, saccheggi, depredazioni brigantesche[16]. «Farsi leva degli interessi dei proprietari, devastarne sistematicamente le terre, distruggerne le messi, menar bottino degli schiavi e del bestiame, ecco un espediente press’a poco infallibile per istrappare delle condizioni vantaggiose»[17]. Nè v’era mezzo alcuno ad impedire quest’affondamento dell’artiglio nemico nelle carni vive del Paese. La ristrettezza del territorio di ciascuno staterello greco portava l’invasore diritto al cuore dello Stato, lo conduceva rapidamente a distruggerne in una volta sola tutta la prosperità agricola. Una invasione fortunata era, dunque, un danno profondo, che talora non riesciva possibile riparare. È facile perciò misurare come e quanto la presenza degli Spartani nell’Attica, durante la guerra del Peloponneso, abbia nociuto all’esistenza economica del Paese.

Le colture dell’olivo, della vite, degli svariati alberi da frutto, che avevano formato la ricchezza della campagna ateniese, furono o interamente rovinate o non mai più ricostituite. Gli armenti, per lunghi anni allevati, curati, migliorati, diventarono preda e macello dell’invasore; e chi in tale lavoro aveva speso la propria ricchezza, e impegnato [13] la propria attività, vide in un’ora sola distrutte le fatiche di lunghi anni[18].

Ma tutto questo, oltre che agli agricoltori, riescì di danno inestimabile alla turba dei consumatori, i quali, come sempre, costituivano la grande massa della popolazione. Sotto la concorrenza dei vini forestieri, la felice supremazia dell’Attica cominciò, dopo la guerra del Peloponneso, a declinare via via, terminando per cedere il passo a quella di tutte le nazioni rivali. I prezzi salirono a proporzioni vertiginose. Mentre le risorse della popolazione diminuivano, il costo del vino passò da 10 a 35 lire l’ettolitro[19], con una media, fors’anco un minimo, di L. 25 circa[20]. Le qualità prelibate vennero ora importate a caro prezzo dall’estero, e il vino di Chio fu, sui mercati di Atene, pagato a L. 300 circa l’ettolitro[21].

Gli effetti disastrosi di una simile guerra non erano soltanto temporanei. Da un lato, per l’imminenza continua del pericolo, ai villaggi, sparsi o disciolti in fattorie, la popolazione rurale venne preferendo l’agglomeramento nelle cittadine fortificate, tra il caro dei viveri e l’incomoda lontananza dai centri naturali di lavoro[22], dall’altro finì col preferire le culture inferiori a quelle superiori. A che pro, infatti, indugiarsi in colture lunghe, costose, difficili, sia pure remunerative, le quali abbisognano assolutamente di una pace sicura e tranquilla, dacchè lo stato permanente è la guerra, e basta un attimo di odio a distruggere [14] l’opera paziente di lustri? Meglio dunque abbandonare le coltivazioni, che richiedono lavoro lungo e intensivo, e lasciare che la terra arida produca da sè quel poco che le talenta.

Poteva succedere di peggio, e successe di fatto. L’incertezza annua del raccolto, che non si sapeva mai se sarebbe toccato ai cittadini o agli invasori, finì talora col determinare — letteralmente — l’abbandono dell’agricoltura. «Non si semina», scrive un economista moderno[23], «che nella speranza di raccogliere. Non si dissoda, non si pianta, non si costruisce che a patto di non avere quotidianamente a paventare la perdita dei propri capitali. L’agricoltura più prospera non tarderebbe a deperire se il suolo venisse a mancare sotto i piedi di coloro che lo possiedono....; la decadenza sarebbe tanto più rapida quanto più imminente e grave ne fosse il pericolo. Certo la sicurezza del possesso non è sempre bastevole a imprimere ai lavori agricoli un impulso singolare, ma è senza esempio che questi abbiano prosperato facendone a meno....».

Fu allora che, perduta, ogni speranza, gli agricoltori ruinati si rovesciarono a schiere — spontaneamente, senza più bisogno di sollecitazioni — entro le mura cittadine a sollevare un’altra ondata di concorrenza ai danni della popolazione operaia o, peggio ancora, a imporre allo Stato ch’esso fornisse agli indigenti e ai disoccupati i mezzi per vivere. Per questo, appunto, con la fine [15] del V secolo a. C., comincia veramente la grande curée delle indennità pubbliche.

Ora non è più possibile restituire alla campagna tanta parte della popolazione d’improvviso inurbata. Ora, secondo il calcolo di un antico, più di 20.000 cittadini succhiano quotidianamente alle mammelle dello Stato ateniese[24], e l’indennità pubblica, da sanzione naturale della democrazia, diventa un «cancro roditore»[25] della Repubblica.

Ma noi moderni non siamo più in grado di formarci un’idea adeguata di tutto il disastro, che per gli antichi veniva dalla decadenza o dalla rovina dell’agricoltura. Presso di noi questa può riescire uno degli elementi secondari del vivere sociale. Per qualcuno degli Stati moderni, la società, più che sullo sviluppo dell’agricoltura, poggia sui progressi della sua industria e, specialmente, su la portata dei suoi commerci. Nel mondo antico accadeva precisamente l’opposto[26]. Allorchè quindi vi si discorre di rovina delle culture della terra e degli agricoltori, si può giurare di trovarsi dinanzi al crollo della maggiore e della miglior parte dell’edifizio economico. «Si enuncia una solenne verità», scriveva Senofonte, «quando si afferma che l’agricoltura è madre e nudrice di tutte le arti. Allorchè essa prospera, prosperano anche queste; allorchè il suolo deve rimanere incolto, può dirsi che ogni altra attività, praticata sulla terra e sul mare, si spenga»[27].

[16]

Restavano i rigagnoli dell’industria e del commercio, ma anche su di questi la guerra, permanente e devastatrice, non mancava di esercitare le sue conseguenze funeste.

La guerra e il commercio.

Le conseguenze delle interrotte comunicazioni marittime dovevano, naturalmente, essere più gravi pei Paesi che erano costretti a importare granaglie, ossia, che mancavano dell’elemento fondamentale della alimentazione quotidiana. L’Attica antica produceva cereali in pochissima quantità, onde difficilmente riesciva a fare a meno della importazione, così come più tardi non lo potrà l’Italia antica o non lo può oggi, ad esempio, l’Inghilterra. Atene ricavava dalla campagna appena 20.000 hl. di frumento[28], e ne abbisognava di una quantità per lo meno venti volte maggiore[29]. Gran parte della draconiana legislazione cittadina era diretta appunto ad assicurare tale rifornimento. Perciò lo Stato ateniese, mentre da un canto proibiva rigorosamente l’esportazione del grano, imponeva che due terzi almeno dei cereali esteri, approdati al Pireo, venissero devoluti al consumo cittadino, che nessun residente nell’Attica ne scaricasse altrove se non nel porto di Atene; ne limitava, oltre che da Atene, dal Ponto e da Bisanzio, l’esportazione; esentava — pare — da determinati oneri i commercianti di granaglie, [17] impediva rigorosamente l’incetta[30]. Ma tutto questo non bastava; per procurarsi il grano, occorreva avere facile il passo ai varî centri d’importazione: il Mar Nero, l’Egitto, la Fenicia, la Tracia, la Macedonia, la Tessaglia, la Siria, ecc.[31].

In tali condizioni il libero uso del mare era, per Atene, non solo la premessa necessaria di ogni ulteriore grandezza, ma una questione di vita e di morte. È evidente perciò a quali colpi lo stato di guerra e le incerte fortune della medesima abbiano dovuto replicatamente esporre l’economia del Paese. Se gli sbalzi dei prezzi delle cose venali furono, nell’Attica antica, assai più gravi e frequenti, che non in qualsiasi altra contrada del mondo contemporaneo, questo dovette seguire in modo particolare per il genere, di tutti più necessario alla vita: i cereali[32].

Allora si potè assistere a questa singolare e tormentosa tragedia economica: mentre la guerra in permanenza poneva ogni giorno in serio pericolo la campagna dell’Attica; mentre ormai non era lecito curare le produzioni più adatte al Paese e più remunerative — la viticoltura e l’olivicoltura — occorse insistere, fino al limite estremo possibile, nella coltivazione dei cereali, cui l’indole del terreno repugnava; il che voleva dire nella semina di terre, che non potevano lasciare alcun margine di profitto.... Per tal guisa sulla fatale decadenza dell’agricoltura dell’Attica [18] non operavano soltanto i pericoli delle invasioni imminenti, ma anche il semplice terrore del commercio limitato o impacciato.

Tutto ciò, si potrebbe pensare, poteva giovare a risollevare i prezzi all’interno e a procurare l’agiatezza di buona parte della popolazione agricola. Mera illusione! Chi era costretto a vendere i prodotti della propria terra al primo offerente, o si era già in precedenza gravato di debiti, non riesciva a sostenere la concorrenza della grande proprietà. Il rialzo dei prezzi non giovava quindi che a una piccola parte dei proprietari della terra, e nuoceva contemporaneamente alla grande massa della popolazione produttrice e consumatrice. La carestia e quello che oggi si dice il caroviveri si delineavano come un fatto economico quotidiano, recando seco — infallibilmente — la febbre affamatrice dell’incetta e della speculazione[33].

Ancora de la guerra e il commercio.

Ma il commercio ateniese non riguardava soltanto l’approvvigionamento vittuario del Paese. L’ignoto autore de La repubblica ateniese ribatte ad ogni piè sospinto su quello, che potremmo dire cosmopolitismo mercantile della vita economica dell’Attica. «Ciò che di squisito è in Sicilia, in Italia, in Cipro, in Egitto, in Libia, sulle rive del Mar Nero, nel Peloponneso o in qualsiasi altra regione, tutto, in grazia dell’impero marittimo, [19] che noi teniamo, affluisce presso di noi»[34]. E Tucidide aveva scritto: «La potenza della nostra città fa sì che godiamo agevolmente non solo dei nostri prodotti, ma di quelli di ogni parte del mondo»[35]. Vi affluivano di fatti le materie prime d’ogni genere e gli elaborati di ogni perfezione: legname per navigli e per costruzioni, lane, tele, pece, cuoio, papiro, pelli, cera, miele, metalli, pesci e carni salate, cacio, strutto, sego, bestiame, frutta, avorio, incenso, unguenti, droghe, silfio, vini, tessuti, tappeti, stoffe di seta, di lana e di porpora[36], oggetti di metallo, anche prezioso, lavori in ceramica, porcellana, oggetti di legno, schiavi ecc. ecc. I rivoli di tanta importazione scaturivano da ogni parte del mondo allora conosciuto, dalla Grecia peninsulare, dalla Tracia, dalla Macedonia, dal Tirreno, dal Jonio, dall’Egeo, dalle coste dell’Asia Minore, dalle sponde del Mar Nero, da Cipro, Creta, Cartagine, dalla Magna Grecia, in Etruria, in Caria, in Frigia, in Paflagonia, in Fenicia, in Spagna, in Siria[37].

Tanto ben di Dio non era unicamente destinato al fabbisogno della città, ma ne alimentava a sua volta lo scambio ed il commercio con l’estero. I forestieri scendevano sia al Pireo che ad Atene a fare le loro provviste e a fornirsi dei manufatti dell’industria paesana o forestiera, accumulati nei magazzini della metropoli. «Tutti coloro», chiedeva Senofonte o, piuttosto, l’anonimo autore di un suggestivo libretto su Le entrate di [20] Atene; «tutti coloro i quali abbondano di grano, di vino (specie se si tratta di qualità prelibate), di olio, di bestiame, vogliono trar vantaggio o dalla loro sagacia o dal loro danaro», «tutti quelli che han bisogno di vendere o di comperare nella maggiore quantità e nel più breve tempo possibile, dove potrebbero meglio profittare che in Atene?»[38]. In tal guisa, Atene, a cui tutti i prodotti delle contrade mediterranee mettevano capo, esportava, a sua volta, ovunque[39] pellicce, oggetti in cuoio, tessuti di varie fogge, vasi di terra e di metallo, letti, strumenti musicali, profumi, chincaglierie, oreficerie, argenterie, libri, tavole, statue, oggetti artistici, marmo, piombo, e, fra i generi alimentari, vino, miele, fichi e, specialmente olio[40], dal cui commercio, come dall’unica derrata, che la politica finanziaria ateniese affrancasse da misure proibitive, massimo era, qual’è ancor oggi, il guadagno.

D’altro lato, i mercanti ateniesi facevano direttamente, fuori dell’Attica, un attivissimo scambio di merci, acquisite e caricate[41], ed esportavano dall’Egeo vini e altri articoli in Sicilia, in Italia, nella Colchide, nel Ponto[42], ecc.

A quanto ascendeva il valore del movimento commerciale di Atene? Noi non abbiamo mezzo sicuro per determinarlo. Calcolando sull’ammontare del dazio d’entrata e di uscita, a cui sottostavano le merci che per terra o per mare entravano nell’Attica o ne uscivano — la famosa cinquantesima, [21] ossia un’imposta del 2% — quale ci è riferito per un anno di grave crisi economica ateniese, ci troveremmo di fronte a un movimento di 10-12 milioni[43]. Ma il commercio ateniese doveva essere ben altra cosa negli anni normali o nei giorni della gloria. Del resto esso non si svolgeva soltanto nell’Attica, ma circolava per tutto il suo impero marittimo. Entro così vasta periferia, noi non possiamo supporlo inferiore a 160-180.000.000 di lire-oro[44], ossia, dato il valore del denaro nell’evo antico, rispetto a quello moderno, pari circa a un miliardo di lire, il triplo di ciò a cui, innanzi la Guerra europea, ascendesse il movimento commerciale della Grecia contemporanea, che è pure uno dei più fiorenti del Mediterraneo[45].

Or bene, tutta questa gigantesca e preziosa attività veniva d’un tratto arrestata dalla guerra. Le navi, gli uomini erano tosto destinati a scopi ben diversi, che non fossero più quelli del pacifico commercio; i porti erano ingombri di vascelli militari e di materiale bellico; a tutte le flotte era imposto il duro cómpito della così detta guerra di corsa.

Una tale e tanto grave conseguenza basterebbe da sola ad avvertire delle proporzioni della crisi, che la guerra, col suo semplice annunzio, veniva ogni volta a provocare.

Nè la guerra si combatteva soltanto con le armi. Il gioco delle armi si intrecciava e si serrava [22] con quello delle proibizioni commerciali. «I nostri nemici», avvertiva acutamente l’autore de La Repubblica ateniese, «non consentiranno mai che le merci vengano portate in luoghi diversi da quelli in cui essi tengono il dominio del mare»[46]. La Guerra del Peloponneso — era ben noto in Atene — era stata inaugurata da un decreto vietante ai Megaresi l’accesso nei mercati dell’Attica e nei restanti porti della Confederazione[47]; più volte Egina ed Atene s’erano a vicenda bandito il boicottaggio di determinate mercanzie; in tempi lieti e tranquilli, Sparta, antico Impero celeste, chiudeva l’ingresso agli stranieri[48], e quindi alle loro importazioni. Ma la guerra induceva naturalmente a moltiplicare all’infinito la frequenza e la gravità di tante rappresaglie e di così gravi danni.

Quando Atene ebbe rotto le ostilità contro Filippo II, fu bandita la pena di morte contro chiunque apprestasse armi o attrezzi navali al nemico[49]. E, poichè le fabbriche ateniesi erano le fornitrici principali del materiale di guerra a molti Stati greci, siffatta disposizione, che deve aver avuto conseguenze crudeli, non deve certo essere rimasta episodio isolato. Noi non abbiamo menzione di veri e propri blocchi, parziali o totali, contro l’Attica: ma sappiamo che contro Atene fu più volte condotta la così detta guerra di corsa e siamo autorizzati a pensare che blocchi veri e propri non dovettero certamente mancarne [23] poichè ne troviamo enumerati parecchi a danno di altri Paesi. Il blocco, del resto, non danneggia soltanto coloro contro cui è dichiarato, ma ricade su quelli stessi che lo dichiarano, specie se si tratta di Stati industriali e commerciali. Esso equivale alla chiusura di una delle fonti dell’importazione e di taluno dei mercati d’esportazione, cioè a dire al disseccamento di una parte dell’agiatezza e della ricchezza di quei Paesi, che lo hanno per primi volontariamente decretato[50].

Ma non si trattava di ripercussioni o di effetti limitati. La grande legge della solidarietà universale abbraccia tutto il dominio e tutti i rami della produzione. «I frammenti del gran tutto», parla un antico, «si sorreggono come gli anelli di una catena; l’agricoltura ha bisogno dell’arte del legnaiuolo e del fabbro ferraio; questi, dei tessitori e degli architetti, e così, a chi ben guardi, tutto è solidale nell’intrecciarsi dell’umano consorzio». Per tal guisa, il fiorire o il decadere del commercio decideva in buona parte delle sorti dell’agricoltura e di quelle dell’industria.

Il rapporto di queste due attività riesce nell’evo antico alquanto diverso da quello che fra esse corre nell’evo moderno. Oggi il rapido miglioramento degli strumenti di produzione, la tenuità del prezzo delle merci sforzano i mercati più refrattari, determinano le correnti d’importazione e di esportazione, eludono i talora contrastanti [24] rapporti diplomatici. Nel mondo antico, invece, delle sorti del commercio, e quindi della esistenza delle varie industrie, decideva il più delle volte la violenza delle armi.

Gli Stati, con le loro navi da guerra e con la loro autorità, assicuravano le pericolose vie del transito, aprivano o chiudevano i mercati ai più temuti concorrenti, s’accaparravano, in gran copia e a buon mercato, l’approvvigionamento delle materie prime. L’industria e il dominio della terra e del mare erano, assai più che nell’evo contemporaneo, intimamente connessi fra loro, e la ricchezza e la forza erano, assai più che non oggi, a un di presso, un unico fenomeno sotto denominazioni differenti. «Non vi è città», spiega ancora l’autore de La Repubblica ateniese, «che non abbia bisogno di importare o di esportare; il che non potrebbe, se non assoggettandosi alle disposizioni di coloro che tengono il dominio delle acque»[51]. «Se taluna ha eccesso di legname per navi, dove lo venderà se non consente chi impera sul mare? Se tal’altra abbonda di ferro, di bronzo, di cotone, dove li scambierà se a costoro non si renderà benevisa?»[52]. Ma se tale circostanza faceva ad ogni popolo gradito il pensiero della guerra, ogni disastro bellico segnava necessariamente la fine d’ogni prosperità industriale.

A sua volta la rovina del commercio e dell’industria si ripercoteva malauguratamente su quello che abbiamo definito il fulcro dell’economia [25] antica: l’agricoltura. Si è talora ritenuto che le società puramente agricole siano capaci di vivere e di fiorire in piena ed isolata indipendenza. Nulla di meno esatto. Condizione necessaria della loro prosperità è stata in ogni tempo l’esistenza di mercati prossimi al coltivatore, ove questi possa smerciare le proprie derrate e donde abbia mezzo di ritrarre gli elementi necessari al proprio benessere. Quanto diverse non sono le prospettive dell’agricoltura in Paesi poveri e in Paesi arricchiti dalla febbrile attività del commercio e dell’industria! Le sorti dell’agricoltura risultano quindi strettamente connesse con le sorti dell’uno e dell’altra; fioriscono e decadono insieme. Tale è stata la sorte loro in ogni tempo: tale fu nell’Attica antica!


Ma gli effetti economici della guerra perenne, quale noi la ritroviamo in Grecia, non conoscono limiti. Le nazioni antiche non disponevano di una quantità sempre uguale e costante di prodotti naturali o di merci di cui godere. Le difficoltà dei trasporti, l’impossibilità di reagire artificialmente alle violenze degli agenti naturali, la mancanza di un comune mercato regolatore; sopra tutto, la scarsa potenzialità produttiva, riescivano di ostacolo insuperabile alla stabilità e alla costanza della produzione[53]. Ma, fra le cause di squilibrio, massime erano quelle dipendenti dalla guerra.

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La guerra distruggeva ciò che si era prodotto, allontanava le braccia dalla produzione, arrestava e stornava l’investimento dei capitali, turbava la pastorizia e l’agricoltura, impediva l’importazione e l’esportazione, determinava mirabolanti dislivelli nei prezzi delle derrate naturali e delle merci, che, come l’esperienza oggi ci avverte, dovevano anche allora prolungarsi per gran tempo, o, magari, aggravarsi, al ritorno delle brevissime paci[54]; arrestava gli affari o distruggeva il credito; sospendeva l’obbligo della correttezza e della legalità, e, sotto la minaccia di oscuri pericoli, terminava per pesare sulla vita sociale con una continua incertezza, un oscuro malessere, una paralisi quotidiana delle sue migliori energie, di cui, nell’assai più stabile regolarità del mondo contemporaneo, riesciamo a mala pena a cogliere la portata.

La guerra e le finanze ateniesi.

Con la crisi universale dell’economia privata s’accompagna quella dell’economia dello Stato. A quali proporzioni ascese lo sforzo finanziario che la Repubblica d’Atene si imponeva al ricorrere di ogni guerra?

Già, fin dal V secolo, la Città, sobbarcandosi a un dispendio annuo di circa 200.000 lire-oro aveva acquistato, e manteneva a suo carico, un corpo di mille arcieri, che salirono più tardi a 1600, i quali, pur serbando, quale principale attribuzione, [27] la polizia della città, potevano essere impiegati in operazioni più specificatamente militari[55].

Venne quindi istituito un corpo di cavalieri, i quali salirono via via a mille, e poi a mille e duecento[56], e per cui la spesa ascendeva a non meno di 225.000 lire annue[57]. Venne al tempo istesso organizzato, pel servizio della marina, un esercito di teti, anch’essi a carico dell’erario[58], e, finalmente, allorchè le guerre si resero permanenti e fu d’uopo combatterle in remote contrade, occorse, come nella Repubblica romana, stipendiare senza distinzione, tutti i soldati, nonchè reclutare dei mercenari. Allora ogni pedone ricevette in guerra L. 0,60 giornaliere, talora perfino L. 2, e ogni cavaliere, il doppio, o, magari, il triplo della prima delle cifre sovra indicate[59], senza calcolare l’indennità di equipaggiamento: la così detta καταστάσις[60].

Noi possiamo calcolare a quanto ammontasse la spesa giornaliera per lo stipendio di un esercito in piede di guerra. Supponendo un esercito in armi, tra milizie attive e di riserva, di 20.000 uomini di fanteria e di un migliaio o poco più di cavalieri[61], avremmo, per il solo stipendio ai soldati, L. 13.500 al giorno, ossia circa L. 900.000 all’anno, ossia, a seconda i tempi, 1⁄6 o 1⁄12 di tutte le entrate annuali del bilancio ateniese![62]. Ma all’indennità di equipaggiamento e al soldo per l’esercito di terra, occorreva in Atene aggiungere [28] le spese per le fortificazioni intorno alla città, e, sopra tutto, quelle pel mantenimento della flotta.

Le costruzioni navali non venivano, nè in pace nè in guerra, interrotte. Ogni anno si costruivano non meno di venti triremi[63], e il Consiglio, che non vi avesse provveduto, non poteva avanzare diritti ad onorificenze[64]. Ogni trireme costava, nel V secolo, un talento, ossia 6000 lire circa[65]. Al suo armamento occorrevano, tra marinai e soldati, duecento persone, di cui ciascuna, se normalmente, tra soldo e indennità di vitto, percepiva, al pari dei soldati di terra, L. 0,60 al giorno[66], riceveva talora, quale eccitamento a maggiore attività ed emulazione, fino ad una dramma (L. 1) circa[67]; sì che, calcolando in base ad una flotta di 300 triremi, le sole spese pel mantenimento dell’equipaggio, per un solo mese, dovevano ascendere a non meno di un milione di lire. Or bene, un’armata di 300 triremi fu tutt’altro che straordinaria per Atene. Al 353 la flotta ateniese ne contava 349[68]; nel 325, 360, oltre a 50, più costose, quadriremi e a 7 quinquiremi[69]; al 330, 392 triremi e 18 quadriremi[70].

Ma alla costruzione delle navi e all’allestimento delle flotte occorreva un arsenale: quello del Pireo era costato non meno di sette milioni[71]. Oltre ai vascelli da guerra occorrevano le navi onerarie, le altre destinate al tragitto della cavalleria, i battelli di servizio. Gli assedî reclamavano [29] nuove spese per costruzioni in legno o in muratura, per macchine da attacco e da difesa, sempre più copiose e più dispendiose, a misura del progresso dell’arte bellica, per l’acquisto dei proiettili[72], e per le mille altre imprevedibili necessità.

Nè il dispendio si limitava alle somme, teoricamente e ragionevolmente calcolabili. Ogni guerra implica di necessità un mondo di spese irragionevoli, eccessive, illecite, eppure inevitabili. Il disordine amministrativo ne decuplò in ogni caso il vertiginoso ammontare. I quattrini spremuti dal sangue più vivo dei cittadini, andarono, il maggior numero delle volte, a finire nello scialacquo dei generali, nelle speculazioni dei trasmettitori del soldo, nelle truffe dei fornitori, i quali, naturalmente, gareggiarono, come sempre, nel segnare in conto spese non avvenute, soldati inesistenti, forniture mai apparecchiate[73].

È possibile oggi, in base agli scarsi elementi che possediamo, calcolare il vuoto spaventoso, che ogni guerra ed ogni previsione di guerra dovevano scavare nel bilancio dell’antica Repubblica ateniese? L’assedio di Samo di soli nove mesi (440-39) costò ad Atene 8 o 9 milioni[74]; l’assedio biennale di Potidea (432-30), da 12 a 15 milioni di lire[75]; quello di Siracusa (415-413) superò di parecchio queste cifre, toccando i 100 milioni[76]: tutta la prima fase della guerra del Peloponneso — la così detta Guerra decennale (431-21) — dovette [30] ingoiare intorno ai 100 milioni[77]; la Guerra deceleica (412-404) dovette importare circa 40 milioni; l’intera guerra del Peloponneso costò non meno di 50.000 talenti, pari a circa 300 milioni[78]; le operazioni militari del 378-374, importarono 12.000.000 di lire[79]; altrettante la Guerra sociale del 357-55, di cui più di 9.000.000 circa per i soli stipendi ai mercenari[80]. Orbene, la gravità di tutte queste cifre risalta agevolmente quando si confrontano con quelle complessive del bilancio ateniese.

Atene, nell’età della sua maggiore floridezza, allorquando reggeva indiscussa il primato delle nazioni elleniche, vantava un’entrata di appena sei o, tutt’al più, di dodici milioni di lire[81]. Un solo anno di guerra bastava quindi ad ingoiare ogni entrata del bilancio, ed è perciò agevole intendere come, al momento della catastrofe dell’impresa di Sicilia, nel settembre 413, tutte le risorse ateniesi fossero state distrutte[82]. È facile spiegarsi come, due anni dopo, alla vigilia della grande vittoria navale di Cizico (410), la Città non si trovasse più in grado di pagare i suoi marinai e i suoi soldati[83]. Si capisce come la Guerra del Peloponneso, così decisiva per l’esistenza di Atene, fosse perduta due volte, nel 421 o nel 404, non già per i successi militari dell’avversario, ma per la impossibilità finanziaria, in cui la Città, dopo la disfatta di Antipoli, e dopo l’assai più crudele sorpresa di Egospotamòs, si [31] trovò di mettere in mare una nuova flotta[84]. Riesce infine perfettamente legittimo concepire quello che di fatto avvenne: come sforzi bellici, tanto superiori alle capacità finanziarie, finissero col mettere in pericolo la incolumità, l’esistenza storica dello Stato, anzi della nazione ateniese.


In che modo, con che mezzi, rischiando che terribili conseguenze, la Repubblica ateniese tentò provvedere alle sue impellenti, inesauribili necessità finanziarie?

Il bilancio dell’antica Atene, come quello di tutte le Repubbliche greche indipendenti, era un bilancio di guerra. Esso non poggiava su imposte regolari ed ordinarie, cui provvedessero la ricchezza e l’attività dei cittadini. I suoi cespiti principali erano il tributo dei così detti alleati, e le tasse doganali su tutte le merci all’entrata o all’uscita dal territorio nazionale e le imposte per l’uso dei loro porti e dei loro mercati. Era evidente la natura politica di cotali forme di tassazione e, quindi, la loro intima connessione con la potenza del Paese.

Il tributo degli alleati importava almeno la metà di tutte le entrate ordinarie dello Stato ateniese. Ma a quali repentagli non era esso posto dalla guerra, molte volte intrapresa per assicurarne, talora, per ampliarne i gettiti!

Durante la rovinosa spedizione d’Egitto del 460-49 parecchie delle città alleate di Atene si [32] credettero autorizzate a interrompere i periodici versamenti[85]. Nel 440, in seguito alla ribellione di Bisanzio e di Samo, l’ampio distretto della Caria fu visto ridursi a sole trenta città; la Ionia, stremata di municipi tributari, perdette ogni diritto all’autonomia finanziaria, e numerose cittadine del Chersoneso e della Calcidica, interruppero, le une, per breve ora, le altre, definitivamente[86], i rispettivi annui contributi. Nel 436-35, in seguito ai gravi malcontenti che avevano determinato l’invio di una colonia là dove sorgerà Anfipoli, quel pericoloso esempio è imitato da cinque altre cittadine della Tracia[87]. Nel 432-30, la rivolta di Potidea torna a rattizzare la defezione e l’insurrezione[88]. E così, ad ogni alitare di fronda, ad ogni insuccesso militare, ad ogni tentativo, ad ogni pericolo che si disegna all’orizzonte contro Atene, l’impero vacilla sulle sue basi, si sgretola, e un vuoto pauroso si apre sotto le fondamenta economiche dello Stato. Nel 404, in seguito alla miseranda catastrofe della Guerra peloponnesiaca, il contributo federale vien meno del tutto, e lo Stato ateniese precipita nella miseria più nera. Cinquant’anni dopo, al dissolversi della terza Lega marittima, la tragedia si rinnova. Il contributo federale discende a 45 talenti, poco più di L. 250.000[89], quante un tempo ne versava la sola Samo, e la storia di Atene è finita per sempre.

Ma non a questo soltanto si limitavano, nei [33] rapporti con gli alleati, i contraccolpi delle guerre continue. Le sempre emergenti strettezze finanziari e l’acuirsi del malcontento delle città alleate, che accompagnava di pari passo ogni periodo di ostilità, costringevano Atene ad usare della forza per ricondurre i debitori insolventi all’osservanza dei loro obblighi federali[90]. La guerra provocava la guerra! E, quando si pensa che prime a sottrarsi erano sempre le città più lontane, poste alla periferia dell’impero, e che ogni parziale, felice ribellione ingenerava, col contagio dell’esempio, nuove ribellioni, apparirà evidente di qual danno, prossimo e remoto, riescisse, per Atene, ogni più lieve guasto nello strumento medesimo della sua potenza, politica ed economica.

Ma le voci delle entrate ateniesi, che la guerra comprometteva, non si limitavano — dicemmo — al tributo degli alleati. Vi seguivano in primo luogo le imposte doganali. Il commercio ateniese aveva un valore suo proprio, quale fonte della ricchezza dell’erario[91]. L’abbiamo notato: la cinquantesima (la πεντηκοστή), ossia il dazio del 2% sopra tutte le merci, imbarcate, sbarcate, reimbarcate al Pireo, rendeva alla Repubblica, nei suoi giorni più difficili, circa 200.000 lire[92] all’anno. C’erano poi altre imposte doganali, di cui diamo soltanto accenni oscuri e indefiniti[93]. Una imposta dell’1% (una centesima) (ἑκατοστή), che non era forse l’unica del genere, colpiva — pare — l’uso del porto, così come due dazi, [34] difficili a determinare con precisione, esatti rispettivamente dallo Stato e dai Comuni, colpivano tutte le merci che venivano trasportate al pubblico mercato, alla classica agorà[94]. Gli alleati di Atene — sappiamo — erano obbligati a recarsi nella capitale dell’Attica per la trattazione e la risoluzione delle loro controversie giudiziarie. C’era poi l’imposta sulle vendite e sulle pubbliche aggiudicazioni di immobili: l’eponion[95]. Or bene, anche questi varî cespiti del bilancio ateniese, dipendevano, direttamente e indirettamente, dall’alterno stato di pace e di guerra. La guerra li aveva creati o almeno ne aveva, per Atene, elevato il gettito a proporzioni, che la maggior parte delle città greche ignorava. Ma la guerra, con le sue crisi, veniva ad annullarli o a scarnificarli profondamente. Essi dipendevano dalla potenza della nazione che ne godeva, dalla sua autorità sopra alleati e sopra forestieri; e questi non erano più tenuti nè a dogane nè a spese giudiziarie fin dal primo giorno in cui, alla soccombente repubblica veniva meno la forza necessaria a tanta coercizione, o le invasioni straniere arrestavano la regolarità dell’amministrazione della giustizia, o impedivano la possibilità materiale dell’esazione[96].

Per tal modo, se in ogni tempo la guerra ha esercitato un’influenza notevole sulla finanza degli Stati belligeranti, il particolare assetto delle finanze delle grandi città greche, in intimo, organico [35] rapporto con la loro potenza politica, rendeva tale legame indissolubile. Non soltanto ogni guerra ingigantiva le spese; ma il suo solo annunzio bastava a far sì che le entrate precipitassero a proporzioni miserevoli e insufficienti. La guerra bruciava ad ambo i capi l’esistenza economica di quelle repubbliche: ne distruggeva gli utili, ne rincrudiva i danni. Così il circolo di quella che fu la perenne tragedia finanziaria degli staterelli greci era chiuso e saldato.

Tributi e imposizioni straordinarie.

A rompere il malefico incantesimo, non v’era altro mezzo che trasformare le basi stesse del bilancio ateniese: farne, di un bilancio politico, un bilancio economico, al riparo, nella più alta misura possibile, da tutti i contraccolpi della guerra. Fu il sogno di quel singolare autore dell’operetta che ha per titolo Le entrate di Atene, che si è voluto identificare con Senofonte, e che, in ogni modo, in sulla metà del sec. IV, rappresentava il pensiero di una buona parte dell’opinione pubblica ateniese, completamente aliena dal voler ripetere le terribili esperienze dell’età che vi aveva proceduto[97]. Il sogno del democratico autore dell’opuscolo è quello di trasformare lo Stato ateniese in uno Stato industriale, in uno Stato imprenditore di lavori e di speculazioni commerciali. Su questa particolare concezione, [36] per altro disegnata, idealmente, in modo perfetto, incombe un pericoloso elemento utopistico[98]. Ma l’utopia celava una profonda verità ed una purissima intenzione: quella di far vivere gli Ateniesi, non più sui frutti dell’impero e della guerra, ma sui proventi della pace.

Ma per la trasformazione della finanza ateniese in una finanza di pace, occorrevano tempo, calma, abnegazione e, sopra tutto, uno stato di tranquillità, che assai di rado Atene godette. Nella ressa delle esigenze quotidiane, con la guerra permanente alle spalle, il rimedio più rapido e più naturale era, invece, quello d’inasprire i tributi: effetto e segno, insieme, dell’immiserirsi del pubblico erario e causa di mali nuovi e impreveduti. Siamo alla vigilia del grandioso conflitto col Peloponneso. La guerra di Samo (440-39), la difesa di Corcira contro i Corinzi (433-32), la successiva spedizione in Tracia e, finalmente, il tremendo assedio di Potidea (432-30), che inaugura appunto la guerra, hanno importato una spesa di circa 4000 talenti (= circa 24 milioni di lire)[99]. Occorse allora procedere ad una prima revisione dei tributi degli alleati, in parte ribelli, e, com’era naturale, a un rincrudimento dei medesimi[100]. Ma il rimedio è insufficiente, e, mentre le spese incalzano, esso provoca nuove renitenze e nuove defezioni. Dopo le entrate, le riserve del bilancio, di cui Pericle andava così orgoglioso, vengono, come giammai, profondamente [37] intaccate[101]. E la guerra non s’arresta, anzi è d’uopo intensificarla e passare decisamente all’offensiva. Intanto scoppia la rivolta di Mitilene (428). Allora viene riesumata l’antica eisphorà ateniese, che un tempo avea colpito le sole proprietà fondiarie dell’Attica, e ora dovrà colpire, insieme, la ricchezza, mobiliare e immobiliare, del Paese.

L’eisphorà del 428 è prelevata nella misura di 200 talenti (oltre un milione di lire)[102]. Era un gettito cospicuo; ma una goccia d’acqua nell’oceano dei bisogni infiniti. L’anno dopo, occorre tornare a rivedere i tributi[103]. Pure, siccome la guerra non dà successi notevoli, è pericoloso imporre agli alleati grandi sacrifizi. Bisogna limitarsi quindi a piccoli ritocchi. Ma nel 425 si ha la felice occupazione di Pilo, ossia l’invasione della Messenia, donde si spera, in Atene, non sia difficile far saltare in pezzi il dominio spartano sul Peloponneso. Allora, salito Cleone all’ufficio, che per tanti anni era stato gloriosamente tenuto da Pericle, si osa decretare un raddoppiamento dei tributi confederali. I 460 talenti, che Aristide aveva loro imposti e che già erano stati portati a 600[104] sono ora fatti salire a circa 1000: sei milioni di lire[105]! Si sperava forse sfuggire alla necessità di nuove eisphorai, così penose per il cittadino ateniese, da lustri abituato a vivere delle entrate del suo impero? Se tale voleva essere la speranza dei reggitori di [38] Atene, essa riuscì vana, chè, circa un anno dopo, intorno al 424, bisognò ricorrere di nuovo, e, probabilmente, più di una volta, all’eisphorà[106].

L’ombra di quella tregua, che il capo del partito conservatore ateniese, Nicia, riuscì a segnare nel 421 con Sparta, interruppe la continuata adozione di mezzi così eroici. Ma la speranza della pace non era stata che un inganno, un breve agitato respiro per meglio prepararsi alla nuova presa d’armi. Nel 418 si ha la guerra così detta di Mantinea; nel 417, una nuova spedizione ateniese in Tracia; nel 416 una spedizione contro Melo.... Pure, ad Atene non si vuol più sentir parlare di nuove eisphorai[107]; in compenso, non si esita, tra il 420 e il 417, a tornare ad aggravare il tributo dei pazienti alleati. Per alcuni distretti, esso è senz’altro triplicato, per altri, l’aumento è forse ancora più considerevole....[108]. Si toccano in questo momento i 1200 o 1300 talenti annui, a cui mai fin adesso il contributo federale era salito[109]. Era una entrata cospicua, che superava da sola quella, a cui un tempo s’era levata la somma complessiva delle entrate ateniesi. Ma i preparativi per la nuova guerra di Sicilia (415-13) costringono a pensare alla possibilità di nuove eisphorai[110]. Poi la guerra ha principio; si svolge paurosamente; affonda in un’enorme catastrofe, e finisce con l’ingoiare tutto: entrate ordinarie ed entrate straordinarie; vecchie riserve e nuovi proventi. Ma, poichè [39] le ostilità con Sparta si riaccendono, e si inaugura la terza fase della guerra peloponnesiaca — la fatale êra della Guerra deceleica (413-04) — occorre di nuovo dar mano a operazioni cesaree. Subito, nel 413, si sostituisce il tributo federale annuo con la nota imposta del 5% su tutte le merci esportate o importate nei territori federali[111]. Ora stesso si raddoppiano i diritti d’uso del Pireo, dall’1% al 2%, e l’antica centesima diviene la nuova cinquantesima; anche ora, forse, viene raddoppiata la percentuale dei diritti sulle vendite[112]. Ma il nuovo sforzo è sempre insufficiente ai bisogni: nel 410-09 viene creata la decima (la δεκάτη), una imposta del 10% sul transito delle merci sul Bosforo, che sarà per parecchio tempo l’unica risorsa costante della cassa militare degli strateghi ateniesi[113], e, qualche anno dopo, si deve, di nuovo, replicatamente ricorrere a ulteriori eisphorai[114]. Finalmente, nel 404, la terribile guerra si chiude: la distruzione della potenza ateniese è consumata.

Ma poco dopo, ancora una volta, si dà mano alle armi. L’egemonia su tutta l’Ellade, che Sparta era riuscita ad imporre, sembra in pericolo. Le città, un tempo sue alleate, e le sue suddite recenti si sollevano contro la nuova dominatrice, che si dimostra assai peggiore dell’antica. Divampa la Guerra corinzio-beotica (395-387). Atene si getta di nuovo nella mischia, e [40] perciò impone, a carico della sua stremata cittadinanza, nuove contribuzioni straordinarie[115]. Gli abili accordi di Sparta con la Persia e l’improvvisa pace di Antalcida (387) frustrano le speranze della coalizione antispartana. Ma, di lì a non molto, l’onnipotenza di Sparta pericola nuovamente. Tebe ha dato il segnale della riscossa, e ad Atene si torna a lavorare per la ricostituzione dell’antica lega marittima e per una nuova ripresa del gigantesco duello con Sparta. Perciò si intima un’altra contribuzione straordinaria, ma si vuole che la nuova eisphorà sia più grandiosa delle precedenti; onde vi si apparecchiano basi più solide e strumenti più sicuri degli antichi. Fu questo il capolavoro finanziario del 387-77, che, dal primo arconte, pigliò il nome di Nausinico. Questa volta, non solo furono senza dubbio riveduti e controllati i ruoli delle fortune ateniesi, ma vennero istituiti dei gruppi di cittadini, delle società — delle simmorie, come allora si disse — incaricate di riscuotere l’imposta, e farsi in certo modo garanti di tale riscossione[116]. Pur troppo, il censimento delle fortune ateniesi dette soli 5750 talenti di fortune imponibili, pari a 35 milioni di lire[117]; e, poichè, immediatamente dopo, veniva ordinata la prelevazione di almeno 300 talenti d’imposta[118], ne risulta che le fortune ateniesi vennero colpite per oltre il 5% del loro ammontare totale, o, ragguagliandone il reddito netto al tasso, certo elevato, [41] del 10%, per oltre il 50% del frutto annuo[119]!

L’indizione dell’eisphorà si rinnova due altre volte, fra il 376 e il 367. Siamo adesso nel cuore del grande duello tebano-spartano, nel quale, ancora una volta, entra di mezzo Atene, sforzandosi di riconquistare, appoggiandosi ora all’una or all’altra, la parte preminente, un tempo goduta, in Grecia. L’imposta sembra adesso colpire il 10% della ricchezza censita[120]. Il che significa che in due riprese vien assorbito l’intero reddito annuo dei cittadini ateniesi!

Nè le eisphorai del 376-67 sono le ultime della serie. I ricorsi di quelle aborrite contribuzioni si ripeterono implacabili con l’incalzare delle nuove necessità militari, col declinare del commercio e dei redditi delle dogane, col crescere in sicurezza dei redditi federali. L’età di Iseo, Lisia, Senofonte, Demostene[121], n’è tutta ingombra, sì che, di tanta frequenza e della consueta od eventuale gravezza dell’imposta, noi ritroviamo traccia nei lamenti di tutti gli oratori del tempo.

Ma l’eisphorà diviene ancora più esosa, quando, nel 362, è introdotta la speciosa innovazione della così detta proeisphorà, la quale impone ai ricchi l’obbligo di anticipare all’erario le somme votate dall’assemblea, salvo il diritto, che sempre rimaneva teorico, di risarcirsene sui contribuenti[122]. Le conseguenze di questo anticipo forzoso dovettero essere terribili, e, per averne un’idea noi [42] dobbiamo correre col pensiero ai decurioni del basso Impero romano. Fin adesso ogni cittadino aveva pagato, sia pur duramente, in proporzione della propria fortuna; d’ora innanzi i cittadini agiati dovranno pagare senza limiti in proporzione della ricchezza propria e del malvolere di tutti gli altri. Molte fortune, sulle quali lo Stato fin adesso aveva potuto contare per i suoi bisogni, vennero ora schiantate; altre famiglie fuggirono, imprecando, la patria, o preferirono chiamare i nemici del di fuori contro gli usurpatori del di dentro. E la Repubblica, per eccessivo studio di assicurare le sue finanze di guerra, finì col trovare inaridite tutte le fonti della sua prosperità.

Ma un altro sistema adoperava — come tutte le città greche a regime democratico — Atene, per assicurare il suo bilancio: quello di sforzare i cittadini agiati ad assumere taluni servizi pubblici. Fra questi, agli scopi della guerra, primeggiava la trierarchia.

La trierarchia è il più costoso, e, dopo l’eisphorà, il più rigido[123] fra i così detti doveri liturgici, cioè l’obbligo fatto ai cittadini più agiati di sobbarcarsi per un anno all’armamento e alla manutenzione di una trireme. Or bene, questo carico doveva, gli è evidente, riescire sempre più gravoso col crescere della forza marittima ateniese, con l’incalzare delle guerre, col ripetersi di disastrosi insuccessi, i quali venivano [43] senz’altro ad imporre l’urgenza e l’armamento di nuove flotte[124].

Se si calcola inoltre che, dalla seconda metà del secolo V, le maggiori imprese militari di Atene furono tutte marittime; che, almeno fin dalla prima metà del IV, lo Stato non assicurava più, come nel V, la mercede a tutto l’equipaggio, ma ai soli remiganti, dinanzi ai quali, del resto, il trierarca rimaneva moralmente e direttamente impegnato[125]; che fin d’allora neanche i componenti l’equipaggio o i remiganti venivano forniti in numero sufficiente e di qualità adeguata[126], per cui toccò più volte al trierarca, acquistarne dei nuovi, stipendiarli e, magari, regalarli abbondantemente[127]; quando si riflette che la difettosa legislazione, la lungaggine amministrativa, la forzata taccagneria dell’erario vennero procurando ai trierarchi brighe gravi e molteplici, sì da distorli dal reclamo di quegli arredi, cui avevano diritto[128], s’intenderà facilmente come l’ottemperanza al dovere della trierarchia potesse, durante una sola guerra, trascinare alla perdizione gran numero di cospicue famiglie ateniesi[129].

Ma, come se ciò non bastasse, fin dalla Guerra del Peloponneso, i trierarchi in carica, o, magari, uno solo fra essi, dovettero garantire per il successore od il collega[130] anticipando, al solito, per periodi di tempo indefiniti, le spese necessarie, [44] e, finalmente, dopo il 357, come già era avvenuto per la eisphorà, i trecento più ricchi ateniesi furono, davanti allo Stato, fatti responsabili delle contribuzioni dei rimanenti e tenuti all’anticipazione delle somme che sarebbero occorse[131]. Ma, poichè il numero dei trierarchi venne contemporaneamente fissato a 1200, la loro cifra per nave, e quindi la ripartizione degli oneri, variò in proporzione inversa della quantità delle triremi richieste.

Non si poteva non ricorrere alla menzogna ed alla frode. E i nuovi liturgi — è il nome che il diritto pubblico ateniese assegnava a questi, più o meno volontarî, contribuenti — furono più fortunati o più abili dei futuri decurioni del basso Impero romano: appaltando a dei terzi la trierarchia[132], riserbando per sè la riscossione dell’intera somma dei soci meno abbienti, valendosi all’uopo dei mezzi più odiosi; violando, in una parola, lo spirito della legge, finirono per collaborare a quella rovina delle medie e delle piccole fortune dell’Attica[133], che già altre cause non meno inscongiurabili, andavano provocando.

Le eisphorai e l’obbligo della trierarchia non esaurivano la serie delle liturgie e dei danni suscitati dalla necessità della guerra e gravanti sui cittadini ateniesi. Il loro buon volere veniva altresì sollecitato dalle contribuzioni volontarie, le così dette epidoseis[134], il cui versamento, manifestatane [45] l’intenzione, diveniva obbligatorio, e ogni suo postumo rifiuto cadeva sotto le sanzioni penali comminate dalla legge[135].

Riassumendo in breve giro di frasi gli effetti delle imposte straordinarie di guerra, così Senofonte induceva Socrate ad esprimersi: «Se scoppia una guerra, tu sarai nominato trierarca, e con la trierarchia sarai gravato di tali e tanti gravami che non potrai riuscire a sostenerli. E se opineranno che tu non ti comporti con prodigalità, ti colpiranno con lo stesso rigore con cui se ti sorprendessero a rubare le loro sostanze....»[136]. Nè si trattava di amplificazioni retoriche. Sin dallo scorcio del secolo V, una nuova taglia, rivoluzionaria sì, ma, pur troppo, regolare, venne a gravare sui più abbienti: quella confisca dei beni, che avrebbe dovuto rappresentare una legale punizione dei reati comuni o politici, e che, invece, ora, diviene a poco a poco una delle entrate ordinarie del bilancio ateniese. «Gli è più pericoloso», dirà Isocrate, «essere tenuto per ricco che avere perpetrato un delitto.... Di questo si può ottenere grazia o indulgenza, mentre la ricchezza condanna irremissibilmente a perire....»[137]. E ad Atene, nei frangenti più gravi, come negli anni più foschi della Rivoluzione francese le misure giacobine non mancarono mai nell’ordine del giorno della vita pubblica, sì che, attraverso le delazioni e le montature dei facili sicofanti, il [46] Moloch della guerra ingoiò facilmente, insieme con le fortune, il sangue e l’onore dei cittadini[138].

Il disagio dei privati.

Tante numerose e gravose esigenze statali dovevano trovare, ogni dì più, stremata la fonte naturale della loro esaudizione. L’accanimento tributario, a cui i sempre nuovi bisogni trascinavano il governo ateniese, ne era uno dei sintomi più notevoli. In seguito alla crisi economica degli ultimi anni della guerra del Peloponneso, si era — con misura eccezionale — consentito che a sostenere le liturgie ordinarie, ad esempio, la così detta coregia, sopperissero magari due persone insieme[139], e, nel 378 — vedemmo — si era ordinato che l’imposta sul patrimonio venisse pagata, non già per individui, ma per società[140]. In maniera analoga, la trierarchia cedette il posto alla syntrierarchia, per la quale le spese dell’arredamento e della manutenzione delle triremi furono distribuite fra due cittadini[141], e più tardi — pare nel 357 — alla trierarchia, anch’essa per società[142].

Ma nulla valse ad arrestare le conseguenze di uno stato di cose insopportabile. Ad onta d’ogni ripiego, i trierarchi legali continuarono a mancare, ed occorse ricorrere ai trierarchi volontari. Fin dal 357, noi ne abbiamo esempi numerosi, e [47] la loro apparizione è indizio sicuro di vasto perturbamento economico[143].

Fa senso, oggi, rilevare quale modesta unità di misura fosse quella che gli antichi Ateniesi adottavano per il concetto di ricchezza. Ricchissimo era, a loro avviso, chi possedeva 100.000 lire di capitale. Ricco chi ne possedeva soltanto 50 o 60.000[144]. Questi, se ne eccettui qualche patrimonio mostruoso, gl’indici più elevati dell’agiatezza ateniese. Le idee economiche di questo grande popolo di commercianti e di industriali rimangono in tal modo assai lontane da quelle che della ricchezza individuale si formeranno i Romani, per cui un reddito di mezzo milione faceva solo mediocremente ricchi[145], e un paio di milioni costituivano a mala pena il limite minimo di una ricca azienda domestica[146]. Or bene, questo fu per grandissima parte un effetto della guerra in permanenza. Nell’Attica antica ricorreva periodicamente un fenomeno identico a quello che si ripeterà nel nostro Piemonte dei secoli XVI-XIX. Per l’uno e per l’altro Paese, ogni guerra importava anzi tutto un repulisti della proprietà mobiliare dei ricchi. «Come si poteva arricchire», chiedeva del suo Paese Massimo D’Azeglio, «con questo sacco dato periodicamente ad ogni casa, almeno un paio di volte per secolo?»[147]. Come si poteva arricchire, chiederà l’osservatore moderno, nell’Attica antica, con questa specie di salasso, applicato normalmente [48] ad ogni azienda domestica di dieci in dieci anni, o di cinque in cinque?... A mezzo il secolo IV, Demostene grida angosciato: «Un tempo la nostra città abbondava di possedimenti e di denaro; adesso.... — bisogna dir così — ne abbonderà nell’avvenire....»[148]. «Un tempo le nostre ricchezze erano copiose e gli affari pubblici volgevano prosperamente.... Ora il pubblico erario non dispone di somme bastevoli alle vettovaglie di un giorno solo, e, quando bisogna accingersi a qualche impresa, non si sa donde ricavare i mezzi occorrenti....»[149]. «In Atene», ribadiva altrove angosciato, «quand’anche tutti gli oratori gridassero che il re di Persia sta per piombarci addosso e che non è possibile provvedere altrimenti, e quand’anche altrettanti indovini emettessero eguale presagio, non che contribuire, non si mostrerebbe il becco d’un quattrino e si sosterrebbe anzi di non possederne....»[150]. Era terribilmente vero, e sembrava quasi inconcepibile: «tutte le ricchezze ateniesi pubbliche e private erano esaurite!...[151]: «onde la moltitudine dava in isvarioni, colossali e feroci, nel valutare l’agiatezza dei migliori, che, dinanzi all’incalzare dei pubblici bisogni, non poteva supporre ridotti a sì dolorose strettezze»[152].

Se tali erano le condizioni dei meno disagiati, assai più lacrimevoli apparivano quelle della popolazione minuta della città e della campagna. La grande massa dei contadini viene nel V-VI sec. [49] definitiva senz’altro come indigente[153]. «L’enorme maggioranza dei nostri concittadini», scriveva Isocrate, «è così oppressa dal disagio, che non uno solo vive tranquillo e libero da preoccupazioni, ma da tutta la città si levano grida di dolore e di passione»[154].

Gli ultimi tempi innanzi l’êra volgare riboccano di impetrazioni di sussidi dai sovrani così detti ellenistici e di ininterrotte oblazioni di cittadini, di monarchi[155]. Gli Ateniesi, gli antichi signori della Grecia sono discesi al livello di ciurma dolorosa di mendicanti, e nella sfiorita metropoli dell’Ellade si anticipa, con le immancabili distribuzioni periodiche di danaro e di frumento, lo spettacolo della plebs urbana della Roma imperiale. Allorchè, nel 280, Atene voterà onori e monumenti a Democare, uno fra i suoi più lodati cittadini, il decreto che recherà il riassunto dei servizi, che gli erano valsi l’insigne omaggio, non citerà se non una serqua di ambascerie, proposte o disimpegnate, il cui frutto era stato il misero obolo di qualche elemosina[156].

E, insieme coi donativi umilianti, figurano adesso, numerose, le largizioni gratuite o semigratuite di cereali, che, come a Roma, così in Grecia, servivano a prevenire e a sventare i tentativi insurrezionali della parte più povera della cittadinanza, e costituivano un non lieve salasso delle già spremute finanze dell’erario[157].

Non basta: la guerra era unica ed esclusiva [50] cagione del gran numero di orfani e di mutilati, che lo Stato deve ora via via mantenere e retribuire. Gli orfani, gli invalidi, i mendicanti divennero folla dopo la Guerra peloponnesiaca, e bisognò organizzare su basi stabili questo servizio di pubblica assistenza[158].

Ma, mentre in alto e in basso s’impoveriva, le guerre continue, la paralisi dell’attività industriale, l’incessante grandinare delle imposte riducevano ogni giorno il numero degli schiavi e, peggio ancora, dei forestieri, i così detti meteci che vivevano e lavoravano in città. Non si trattava solo del danno, di cui taluni antichi finanzieri specialmente si preoccupavano, cioè della perdita delle imposte, che padroni di schiavi e stranieri erano tenuti a versare[159]. Non si trattava soltanto del venir meno di un profitto pubblico. Nell’antica Atene, specie dopo la formazione dell’impero e il moltiplicarsi delle mansioni politiche dei cittadini, i forestieri, grazie alla loro libera attività ed ai loro capitali, erano divenuti i propulsori più insigni dell’ingranaggio economico della città[160]: essi stavano a capo di molteplici intraprese, animavano il commercio, fondavano opificî, offrivano lavoro, pane ed utili a molta parte dei veri e propri cittadini, e la loro ricchezza, magari come semplice mezzo di scambio, circolava e veniva consumata tra gli Ateniesi stessi. Che cosa doveva avvenire di tutto ciò, allorquando, per i turbamenti incessanti che la [51] guerra portava, per le sue disastrose conseguenze economiche, anche il capitale straniero, al pari dell’antica fortuna, cominciarono a disertare i lidi gloriosi dell’Attica?

Spopolamento e sovrapopolazione.

Epilogo inscongiurabile di tanta rovina sopraggiungeva il sintomo doloroso della depopolazione, derivante, per un verso, dall’accresciuta mortalità a cagione della miseria, della guerra, delle conseguenti epidemie, che, specie fin dal terzo secolo a. C. flagellarono periodicamente l’intera Grecia, per un altro, dalla scemata natalità, effetto a sua volta dell’aumento del celibato e della previdibile attuazione di un maltusianismo avant lettre[161], specie da parte dei componenti il medio ceto, il più preoccupato e minacciato di rovina[162].

Dei cittadini ateniesi maschi adulti, che, nell’età di Pericle ascendevano a 35.000, se ne contavano alla fine dello stesso secolo, non più di 20.000; la cifra dei forestieri s’era dimezzata; la popolazione totale, compresi gli schiavi, ridotta da 250.000 a 130.000 anime[163]. Il corso del IV secolo, non ostante la legge naturale del progressivo incremento numerico di ogni umana società; non ostante il fatto che Atene in questo tempo, se vive in un perenne stato di guerra, non attraversa crisi colossali come quella, già oltrepassata, della [52] Guerra peloponnesiaca; il quarto secolo — diciamo — non riesce a risollevare la cifra della popolazione della Città. Quando esso sta per tramontare, i cittadini ateniesi sono ancora 20.000[164]. E poichè, se forse crebbe il numero degli stranieri[165], non aumentò certo quello degli schiavi[166], deve indursi che, alla fine di questo periodo, l’Attica non superava il numero di abitanti che il secolo precedente vi aveva lasciati. Nei duecento anni successivi, la popolazione dovette certamente scemare, sebbene noi non abbiamo alcun mezzo per giungere ad una valutazione numerica. La prima guerra mitridatica doveva dare l’ultimo colpo. Dopo di allora l’Attica non potè risollevarsi[167], e divenne una quantità insignificante nella storia demografica della Grecia antica.

Il fatto evidente della depopolazione non impediva la tragica contradittoria sensazione di un eccesso di popolazione. Mentre nell’Attica la vita si rendeva ogni giorno più tormentosa, dai territori degli alleati ribelli, dalle colonie, schiantate o minacciate, da ogni angolo del vecchio impero ateniese, tornavano, coatte o volontarie, le schiere dei cleruchi, orde di emigranti disfatti, senza averi, senza fede, senza speranze, rigagnoli affluenti alla miseria della popolazione della metropoli[168].

Il danno, che dal loro ritorno procedeva, non era puramente transitorio. L’abbiamo visto: il problema della sovrapopolazione, nel mondo ellenico, [53] e per motivi affatto estranei a quelli naturali, era uno dei più gravi e temibili[169]. A complicarlo, la perdita delle colonie creava, in mezzo alla miseria attuale, un fomite nuovo di miseria futura, cui non era possibile rimediare se non con la riconquista dei territori perduti. Ma, poichè, nel maggior numero dei casi, tale fortuna dipendeva dal ricupero della supremazia politica, alla quale era mezzo il pericoloso riaccendersi della guerra, riusciva difficile trovare chi non vi preferisse un volontario, lento, rassegnato suicidio. Atene, infatti, sia al costituirsi della sua terza federazione marittima, sia al preponderare dell’ingerenza macedone e romana, fu costretta a rinunziare apertamente all’acquisto o all’ipoteca, sia privata che pubblica, di case e di terreni nei Paesi alleati, sotto pena di vedersene confiscati gli acquisti[170].

Poichè, in siffatta guisa, ogni sbocco all’emigrazione era tagliato, si cominciarono fin dal IV secolo a formare compagnie di ventura, avide di bottino, destituite di ritegno, pronte a passare agli stipendi del maggior offerente, minaccia continua alla pubblica e alla privata tranquillità. E se nel 402-01 era stato difficile radunare, per conto di Ciro il giovane, 10.000 mercenari, e la maggior parte s’erano dovuti allettare con stipendi favolosi[171] e con promesse irrealizzabili, più tardi, i mercenari greci, costituirono, quasi esclusivamente, i nuovi eserciti nazionali e stranieri[172]. [54] I ruinati della guerra erano adesso divenuti i ministri quotidiani della sua opera di distruzione!

La guerra e la decadenza della Grecia.

Tutte le ripercussioni, che lo stato, quasi permanente, di guerra esercitò sull’antica Atene, hanno la loro esatta rispondenza negli altri Paesi. I radi accenni, che della loro vita interna ci sono pervenuti, confermano la legittimità delle analogie che noi possiamo inferire dalla storia politica ateniese.

La frequenza delle guerra non fu fenomeno unico dell’Attica; fu fenomeno generale di tutta la Grecia; così come la micidialità di ciascuna guerra, che tosto portava il nemico nel cuore stesso del Paese vinto, sconvolgendone, atterrandone l’esistenza, fu la conseguenza necessaria della forma di Stato — lo Stato municipale —, che unicamente la Grecia classica conobbe. Da questo fatto, ossia da questo pericolo, nacque la consuetudine universale di mettere disperatamente in armi una quantità di uomini, senza dubbio eccessiva rispetto alla capacità demografica delle singole popolazioni. Nell’Attica, vedemmo, in tempi nei quali non si usava ancora di mercenari, gli uomini mobilitati stavano in un rapporto di almeno 1 a 10 con la popolazione. Or bene, la Beozia antica, i cui abitanti non oltrepassavano i [55] 200.000, figurava alla battaglia di Delion (424 a. C.), con 18.500 uomini[173]; nel 418, ne spediva nel Peloponneso 11.000[174]; durante la prima Guerra sacra del 354, ne armava 13.000[175] e 10.000 contro i Galli, nel 280[176]; il che vuol dire che le cittadine beotiche usavano mobilitare dal 5 al 10% della loro popolazione totale. Dal Peloponneso, che raggiungeva al massimo un milione di abitanti, il re Archidamo, nel 431, moveva all’invasione dell’Attica con poco meno di 60.000 uomini[177]; nel 407, Agide ne conduceva seco circa 30.000[178]; alla battaglia di Nemea (394) partecipavano 23.500 Peloponnesiaci, sebbene vi mancassero i Corinzi, i Fliasii, ecc.[179]; nel 378, Agesilao condurrà contro Tebe 18-20.000 uomini[180]: a Mantinea, nel 362, combatterono circa 35.000 Peloponnesiaci; a Megalopoli, nel 331, circa 22.000, tratti però da solo una metà del Peloponneso[181], e il grande storico Polibio opinerà che, a mezzo il sec. II a. C., la Lega achea, la quale allora dominava il Peloponneso, poteva, senza grandissimo sforzo, armare dai 30 ai 40.000 combattenti[182]. Or bene, tutte queste cifre significano che, in caso di guerra, gli Stati peloponnesiaci solevano mobilitare dal 2% al 6% della popolazione complessiva.

Questo eccessivo, inaudito sforzo militare portava seco, la necessità di un analogo, eccessivo sforzo finanziario. La tragedia, in cui vedemmo dibattersi tutta la storia di Atene, è la perenne [56] tragedia di tutte le città greche. Se la guerra di Siracusa (415-13) costa ad Atene, come vedemmo, forse 100 milioni, la difesa vittoriosa della città costò ai Siracusani non meno di 2000 talenti (L. 12.000.000 ca.), oltre al peso di un debito pubblico che vien definito «intollerabile»[183]. Se Atene si limita a tenere in serbo una provvista d’armi pei casi straordinari, molti Stati greci provvedono all’armamento di tutti i loro uomini. Ma che cosa è l’ultima fase della Guerra del Peloponneso, se non una caccia disperata, non già al nemico, ma al denaro, che quotidianamente vien meno? Colui che l’uno e l’altro avversario si sforzano, a tale scopo, di guadagnare, e di trarre dalla parte loro, è senza meno il monarca della Persia. Intorno a lui, appunto, si combatte un duello diplomatico, più disperato e più decisivo ancora del duello militare, che si svolge intanto sulle arrossate acque dell’Egeo. Finalmente la volontà del re di Persia piega dalla parte di Sparta, e la guerra è decisa: il Gran Re verserà in otto anni alla Lega peloponnesiaca oltre 5000 talenti (L. 30.000.000 circa)[184], e la potenza di Atene è finita per sempre.

Quello ch’era successo alla dimane dell’occupazione spartana di Decelea, si ripete identicamente alla vigilia della pace di Antalcida (387) e della battaglia di Mantinea, l’ultima della breve gesta epica di Tebe. Alla vigilia della pace di Antalcida, una vasta coalizione di Stati greci ha [57] scrollato dalle fondamenta la tirannia spartana. Ma essi sono potuti riuscirvi grazie al denaro persiano. Basterà che un abile negoziatore — Antalcida — sconvolga la situazione diplomatica; ch’egli, cioè, prometta alla Persia le colonie greche dell’Asia Minore, cancellando per tal modo la più pura gloria delle guerre nazionali contro la Persia, perchè il denaro persiano muti corso, e passi dalla Lega a Sparta, e tutta la situazione militare ne sia anch’essa rovesciata dalle fondamenta.

Quale sarà d’altro canto, poco di poi, durante il lungo, incerto duello tebano-spartano, lo sforzo comune di Sparta, Tebe, Atene? Quello appunto, per ciascuno Stato, di trarre dalla sua l’alleanza, ossia il danaro, del Gran Re, e indurre questo, a prezzo di umilianti concessioni, ad abbandonare gli avversari, collaborando a quell’ordinamento delle cose greche che più sarà in grado di talentargli. Sembrò per un momento che la palma di tanto successo toccasse ora al tebano Pelopida, come un tempo era toccata allo spartano Antalcida. Ma era evidente il pericolo di questi armeggii, di questi intrighi, che dipendevano dalla consuetudine di fare la guerra senza mai poter disporre dei mezzi occorrenti. Ogni città greca è alla mercè del primo Stato straniero, che sia in grado di rifornirla di danaro; le sorti di tutta la Grecia restano nelle mani del nemico secolare dell’ellenismo, che di volta in volta dischiude i [58] suoi forzieri a questa o a quella città. Giammai, forse, si vide una situazione altrettanto paradossale, per cui la vittoria fu necessariamente congiunta alla servitù del vincitore. Eppure questo fu il male, ossia uno dei grandi mali, di cui visse e morì la Grecia antica!

Per altro, nell’angustia del suo territorio, nella scarsezza della sua popolazione, ogni Stato greco, che voglia reggersi e guerreggiare soltanto con mezzi propri, precipita diritto verso la rovina. Vedemmo il peso enorme delle eisphorai ateniesi. Ma esse non sono un esempio isolato. Anche Dionigi di Siracusa, tentando la sua grande opera politica in Sicilia, era stato costretto a colpire, per cinque anni consecutivi, i suoi concittadini di una imposta del 20% sull’intero capitale. Al termine dei cinque anni, i Siracusani erano stati pressochè spogliati di ogni loro sostanza!...[185].

Questa è la vita di ciascuna città, ellenica. Della quale noi possiamo appena rivivere un’idea e un’imagine fedele, ripensando, entro noi stessi, alla enorme tragedia, che gli Stati europei, vinti e vincitori, stanno attraversando dopo la Guerra mondiale. Impotenti a soddisfare i loro debiti, mancanti dei mezzi necessari ogni giorno a provvedere a tutto quanto occorre alla esistenza di una società civile; incapaci, infine, di poterseli procurare in qualche modo, essi si trovano nella identica disperata situazione di un capo famiglia, [59] a cui sia chiusa la possibilità di continuare a procurare il necessario a se stesso ed ad suoi. Ora i popoli superano queste terribili crisi a lungo andare, e a prezzo di enormi sacrifizi, allorchè si ripetono a grandissima distanza di tempo. Ma quando l’una tien dietro all’altra, incalzando senza tregua; quando gli uomini, per spensieratezza o per ambizione, vi si gittano a capo fitto, dentro, ogni giorno, l’epilogo non potrà non essere la catastrofe della società, vittima di così grande imprevidenza o di sì cieche illusioni. «I governi», scriveva Aristotele, dopo l’ammaestramento di lunghi secoli di dolorosa esperienza; «i governi che oggi sono giudicati i migliori della Grecia, così come i legislatori che li hanno fondati..., hanno mirato dissennatamente verso quelle virtù che sembra debbano essere utili e più capaci di soddisfare l’umana ambizione.... Taluni autori più recenti hanno sostenuto all’incirca le stesse opinioni e ammirato grandemente la costituzione di Sparta e lodato i propositi del suo fondatore, che tutta l’aveva rivolta verso la conquista e la guerra.... Ma ora che la potenza lacedemone è distrutta, tutti convengono che Sparta non è punto felice, e che il suo legislatore non fu irreprensibile....[186].


Anche le crisi demografiche, che vedemmo infierire in Atene, sono fenomeno universale della Grecia antica. Le guerre più che secolari, condotte [60] dai re di Macedonia, da Filippo II a Filippo V, se creano la potenza politica della Macedonia stremano la Tessaglia e la Macedonia stessa fino a rendere inevitabili dei seri provvedimenti di governo[187]. Sono state, ci avvertono gli antichi, le guerre esterne e le guerre civili a far sì che, nel primo secolo dell’êra volgare, tutta la Grecia non sia più in grado di armare 3000 opliti, quanti un tempo la sola Megara aveva spediti alla battaglia di Platea[188]. Ed è la guerra che determina, in ultima istanza, non solo le crisi demografiche, ma le più profonde crisi, politiche e sociali, delle singole città.

Anzi tutto le guerre civili in permanenza!

Le lotte civili, tanto nel mondo antico che in quello moderno, sogliono combattersi con iscarso spirito di tolleranza, anzi, con la brama insaziata di sopraffare, di sopprimere, oltre che moralmente, materialmente, gli avversari. Ma tale è la loro norma costante nei periodi di guerra. Si deve, anzi, alla guerra continua e insistente la ferocia delle lotte di classe e di partito, che ogni nazione dell’antichità ebbe ad alimentare nel suo proprio seno. La guerra è certo suscitatrice di passioni eroiche, fucina insigne di patriottismo e di fierezza, ma è anche il semenzaio più fecondo delle insurrezioni e delle reazioni, la Circe più implacabile nell’abbrutire le migliori fra le istituzioni politiche. La guerra, con la concitazione di spiriti che desta, con la prospettiva, [61] torbida e terrificante, di pericoli e di tradimenti che suscita, sospinge gli animi più miti al colmo di ogni eccesso. «Nella pace e nella buona ventura», scriveva Tucidide, «le nazioni ed i cittadini si mantengono migliori, perchè immuni da contrarietà: ma la guerra, privando di ciò che ogni giorno è necessario alla vita, è una feroce maestra, e foggia gli animi dei più ad immagine e somiglianza delle durezze presenti»[189]. Così nella universale perturbazione della tranquillità, dell’agiatezza, della reciproca confidenza, si snaturavano i sentimenti più indispensabili al vivere sociale, e si educavano generazioni, cui unica mèta era l’odio, unica fatica combattere e trucidarsi a vicenda.

Una guerra andata a male bastava a provocare l’esilio del partito che l’aveva promossa, la confisca dei beni dei suoi componenti, talora, l’eccidio dei responsabili, magari, degl’irresponsabili, e inaugurava per lunghi anni uno stato permanente di ire, di sangue, di ostilità fra i cittadini. La persecuzione, poi, provocava a sua volta la rivalsa e la vendetta.

Se così i concittadini si comportavano gli uni verso gli altri, che non è a pensare dei nemici vittoriosi dell’estero? Le trasformazioni, le limitazioni, i rivolgimenti interni, che meglio fossero talentati, erano il minore dei mali da paventare. Ogni guerra, ogni conquista, ogni colonizzazione, equivaleva ad una espulsione in massa di una [62] folla di derelitti, alla formazione di nuove schiere di esuli, gettati con le loro famiglie sul lastrico, mancanti di pace e di pane, orbati dei congiunti, feriti nei sentimenti più sacri di umani. Un grande moderno, Davide Hume, ha voluto, sulla scorta di un’unica fonte (Diodoro Siculo) raccogliere gli esempi più salienti di lotte e persecuzioni civili in Grecia, nel giro di circa cento anni, tra il V e il IV secolo a. C., il che vuol dire nel periodo più luminoso della storia di quel Paese. Da Sibari, in quel breve tempo, furono banditi 600 nobili coi loro seguaci; altri 600 da Chio; ad Efeso vennero trucidati 340 cittadini, e 1000 esiliati; a Corinto gli uccisi furono 120 e 500 gli esiliati; 300 gli sbanditi dalla Beozia. Ai primi del IV secolo, dopo la catastrofe della egemonia spartana, i democratici tornati nelle loro città, si vendicarono fieramente dei nobili, che avevano strappato ad essi di mano il potere. Più tardi, al ritorno degli esuli, a Corinto, a Megara, in Fliasia, i nobili si presero adeguata vendetta degli avversari. In Fliasia furono massacrati 300 democratici, ma i superstiti, dopo una nuova insurrezione, massacrarono a loro volta 300 nobili e sbandirono tutti gli altri. In Arcadia si ebbero 1400 esuli. A Siracusa, innanzi l’avvento della tirannia di Agatocle, il popolo aveva scacciato 600 nobili; egli ne bandì 6000, ne massacrò 4000, e per di più altri 4000 a Gela. Il fratel suo cacciò in esilio, da Siracusa, 8000 persone[190].

[63]

Ma l’elenco dell’Hume è incompleto, poichè non vi sono incluse nè le persecuzioni dei Trenta in Atene — 1200 massacrati e 5000 esiliati —, nè le vittime inevitabili della successiva restaurazione democratica[191], nè i contemporanei eccidî, seguiti ad Argo — più che 1200 nobili insieme con gli stessi demagoghi che si erano rifiutati di continuare il massacro —, nè quelli che furono consumati a Corcira — 1500 nobili e 1000 banditi[192] —; nè i 400 nobili espulsi da Mileto nel 411[193]; nè gli 800 Tegeati espulsi da Tegea nel 370[194]; nè i 4 o 5000 democratici espulsi da Mileto nel 405-04[195]; nè molte e molte altre migliaia, ancora, vittime di un identico destino, in breve giro di anni.

I superstiti, i banditi partivano con la rabbia e la vendetta nel cuore. Memori del giuramento dei loro persecutori[196], che chiudeva ad essi la speranza della patria, tanto maledetta e pur tanto desiderata, appuntavano nel buio dell’avvenire lo sguardo torbido e minaccioso, intricavano con i nemici, si aggiungevan loro a macchinare o ad aggravare la ruina della città natale, sempre in agguato a spiare il giorno del rifacimento dei danni, l’ora, amara ed allegra, della vendetta.

L’esilio, con cui le repubbliche elleniche quotidianamente civettarono, non mancò di produrre quelle stesse conseguenze, che altre cause — noi lo abbiamo veduto e continueremo a vederlo — andavano disseminando dal canto loro. L’esilio [64] insegnò ai cittadini a fare a meno della patria, anzi a non curarla, a danneggiarla, a combatterla. Irrispettosi dello Stato, non li fece neanche esitanti d’arricchirsi a sue spese; e quell’ingordigia del tesoro pubblico, quella sospirata dimestichezza con l’intrigo, con la venalità, con la concussione, che altri e più profondi motivi avevano in origine generata, trovarono nella perenne insicurezza del vivere sociale il terreno più acconcio di malefica coltura.

Quanto minacciosa non doveva salire la marea dello scontento, dell’odio, del pericolo! Nella seconda metà del IV secolo, Isocrate, esortando Filippo alla tanto da lui caldeggiata spedizione contro l’Impero persiano, l’assicurava che egli avrebbe trovato quanti soldati volesse, dappoichè, malauguratamente, la Grecia contava oramai più esuli che cittadini....[197]. E allorchè, ai giuochi olimpici del 324, Alessandro Magno farà proclamare il ritorno in patria di tutti i fuorusciti, uno storico antico calcola che ben 20.000 persone, pari cioè a 1⁄10 dei maschi adulti di tutta la Grecia, assistessero alla parola liberatrice[198], che doveva poi essere principio di nuovi, infiniti turbamenti.

Così la Grecia in perenne irrequietezza raccoglieva i frutti, di cui a piene mani aveva sparso i semi fecondi. «Le discordie e le sedizioni», avvertiva Flaminino alle deputazioni degli Elleni, radunate a Corinto, «offrono troppo grandi vantaggi [65] ai vostri nemici. Il partito vinto preferisce darsi allo straniero piuttosto che cedere dinanzi agli avversari....»[199]. Ma il tardo monito non poteva essere ascoltato. Attraverso la perdita di ogni motivo di attaccamento alla terra natale, si spegneva negli animi il desiderio della conservazione della sua indipendenza[200]; l’amore della patria andava miseramente smarrito con l’incertezza e con l’acuirsi quotidiano del disagio e delle preoccupazioni[201]. Gli Elleni, o immiseriti, o in sul punto di precipitare nell’indigenza, incrociavano cinicamente le braccia, appuntavano febbrili le sanguinanti speranze al di là dei confini della patria, in attesa di sorti ignote, che finalmente arrecassero la pace e la tranquillità. Il nome, un tempo odioso, dei nemici della città, finì per non sonare, ai loro orecchi, così repugnante come lo era stato un tempo tra gli echi, lieti e gloriosi, delle imprese persiane. Chi più nemico dei nemici dell’interno, fautori ad oltranza della spogliazione e della guerra? Perchè gli oratori e i votanti dell’agorà sarebbero dovuti riescire preferibili ai Macedoni del Congresso di Corinto, che dichiaravano di voler tutelare il diritto di proprietà e la sicurezza dei commerci; o ai Romani vincitori a Cinocefale, che venivano a liberare la Grecia di ogni tributo e di ogni irrequietezza? Il primo luccicare delle armi degli uni e degli altri segnerà nel Paese il costituirsi di un partito antinazionale, i cui sostenitori saranno appunto coloro che [66] tutto non avevano ancora perduto[202]. Quella nostalgia della definitiva vittoria dello straniero, che s’accovaccerà trepida nelle speranze dell’aristocrazia francese durante la Grande Rivoluzione, fermentò del pari nell’animo degli agiati di ogni cittadina greca, in sullo scorcio dell’esistenza della loro patria. «Se non fossimo periti prima, noi saremmo periti del tutto»[203]. Quando, finalmente, avrebbe la divinità concesso i suoi ozi dolcissimi? E nel petto di Isocrate il bel sogno di libera grandezza ellenica, sognata nel Panegirico, cedeva, con gli anni, nell’orazione a Filippo, dinanzi alla rinunzia di ogni libertà, al desiderio stanco di una signoria straniera, purchè quella signoria volesse dire la pace.

Ma noi possiamo cogliere in maniera più diretta, sia nell’eloquenza significativa della connessione dei fatti, sia nelle consapevoli dichiarazioni dei contemporanei, il rapporto intimo fra la guerra e la decadenza dei singoli Stati greci.

Dopo l’urto persiano le città greche dell’Asia Minore e dell’Eubea, che per l’innanzi avevano figurato all’avanguardia del progresso, decadono quasi d’un tratto[204], e la incerta resurrezione di taluna sarà più tardi soffocata dalla posteriore invasione di Alessandro Magno[205]. Egina, che fin dalle guerre mediche era, insieme con Corinto, divenuta primo emporio dell’Egeo, perde ogni importanza in seguito alla conquista ateniese del 457 ed all’esilio, cui, più tardi, la sua conquistatrice [67] costringerà la grande massa della borghesia indigena[206]. La decadenza delle città greche dell’Italia meridionale e della Sicilia coincide con l’aggravarsi delle guerre con le popolazioni indigene e, poco di poi, con l’invasione romana. La grande Sibari era già, fin dal settimo secolo, perita sotto il ferro sterminatore dei Crotoniati. Crotone, malconcia dalle ostilità dei Bruzzi e dei Lucani, vide, al tempo della guerra annibalica, la sua abbondante popolazione discendere a 2000 cittadini[207]. Turii, Cuma, Posidonia, Pyxus, Laos, la seguirono tosto nella disgrazia. La gloria di Siracusa, regina delle colonie elleniche, si oscura per non più riaccendersi, con la prima e con la seconda Guerra punica. Le due Guerre puniche, spopolano e abbrutiscono la Sicilia greca[208]; l’una e l’altra, insieme con la Guerra tarantina, sospingono nel sepolcro Taranto: le Guerre Sacre provocano la rovina della Focide; le invasioni romano-macedoni e le contese locali devastano, nel III secolo, l’Acarnania[209] e il Peloponneso[210]; distruggono la gloria di Megara[211]. La guerra di Roma contro gli Averni del 121 a. C. e, peggio ancora, le operazioni della seconda guerra civile, demoliscono la potenza e la gloria della grande colonia focese di Marsiglia, privata così «di tutto, salvo che del nome vano della libertà»[212]. La terza macedonica annienta la fortuna di Rodi, decimata dei suoi redditi coloniali, interdetta nei lucrosi commerci con la Macedonia, impacciata, [68] politicamente e commercialmente, da una gelosa sorveglianza, debellata dalla concorrenza di Delo, che Roma proclama porto franco[213]. E con Rodi finisce Corinto, spogliata del suo primato dalla numerosa serie di ostilità peloponnesiache, e, dall’invasione romana, precipitata nella polvere, mutilata delle sue mura, delle sue torri, dei suoi templi, depredata dei suoi tesori, delle sue divinità, dei suoi palazzi, vergine bellissima, colta, e «divorata dalla guerra», su cui soltanto le Nereidi restano, quali alcioni, a piangerne la sventura[214].

Delle sue spoglie arricchisce Delo, ma anche alla regina delle Cicladi toccherà subire dalla guerra il fatale colpo di grazia. Le invasioni mitridatiche ne inizieranno la catastrofe, le incursioni piratiche l’affretteranno, ed essa seguirà, rassegnata, come a fato implacabile, la sorte di Atene, di Rodi, di Corinto. La sua fine, come il tracollo di ogni grandezza, disperatamente sognata e per un istante raggiunta, ci stringe il cuore più di quella delle sue spente rivali. «Fosse piaciuto agli Dei», geme l’Isola santa nel carme di un ignoto poeta, «fosse piaciuto agli Dei di lasciarmi vagare in balìa, di tutti i venti.... Sarei meno infelice! Oh quante navi passano noncuranti dinanzi a me, ch’ero in altra età oggetto del culto dell’Ellade, divenuta ormai sterile e selvaggia: tarda, ma dura vendetta della crudele Giunone....»[215].

[69]

Il pensiero dei contemporanei.

Su tanto sepolcro di vivi recitava Isocrate il suo disperato elogio della pace. Correva uno degli anni più tristi dell’ultima guerra d’Atene contro i suoi stessi alleati — la Guerra sociale del 357-355 —, e ai suoi cittadini così egli prendeva a parlare: «È costume di tutti coloro, i quali arringano da questa tribuna, ripetere che il soggetto, di cui s’intratterranno, è d’interesse sommo e vitale per la repubblica. Or bene, se mai vi fu occasione degna d’un simile esordio, essa è la presente, nella quale noi ci accingiamo a discutere della pace e della guerra, cioè a dire di quello che sovra ogni altro pesa sulla vita degli uomini.... Io vi dirò che la pace arreca assai più utile che non gli sforzi febbrili della conquista; che la giustizia giova più della iniquità e la sollecitudine delle cose proprie più della brama di quelle altrui.... Mai danno alcuno ci venne da coloro che ci consigliarono la pace, mentre le nostre grandi e numerose calamità derivarono tutte da quegli altri, che temerariamente ci incitarono alla guerra.... La guerra ci privò di ogni cosa: della sicurezza del nostro Paese, della possibilità di procacciarci quanto occorre alla vita, della concordia in patria, del buon nome presso i Greci...; ci fece poveri, ci gittò in mezzo a pericoli infiniti...; ci infamò presso i nostri connazionali...; ci rapì per [70] ben due volte l’antica, gloriosa costituzione...: ci colmò in una parola di malanni....»[216]. Or bene, «se faremo la pace», «godremo nella nostra repubblica senza timore alcuno, senza le guerre, i pericoli, i turbamenti, nei quali siamo tutti precipitati, ed ogni giorno accresceremo la nostra ricchezza, esenti da tributi, da trierarchie, dai restanti obblighi militari, e, sicuri, coltiveremo i campi, navigheremo, attenderemo a tutte quelle altre occupazioni, che ora, a cagione della guerra, giacciono neglette. I redditi della città raddoppieranno e la rivedremo piena di mercanti, di stranieri, di meteci.... Io tengo per fermo che in tal guisa la nostra repubblica rifiorirà..., e noi stessi diverremo migliori, e tutto sarà per progredire»[217].

Una tesi identica sosteneva, nello stesso tempo, Senofonte, o chi fu l’autore del famoso opuscolo su L’entrate di Atene[218], indagando un sistema di economia pubblica, in cui la sua città, per vivere, avesse potuto fare a meno delle pericolose seduzioni della guerra: «Felicissimi sono gli Stati, che poterono godere a lungo della pace, e tale è Atene da poter prosperare nella pace sopra tutte le altre....». «Chi persiste a credere a noi più vantaggiosa la guerra per le ricchezze che ci apporterebbe interroghi l’esperienza dei secoli ed il nostro passato. Troverà che la città, divenuta un tempo ricchissima nella pace, ebbe tutto divorato dalla guerra; troverà che anche nell’età [71] nostra, a motivo della guerra, molte pubbliche entrate vennero meno, e le altre che continuarono ad affluire, furono dissipate in esigenze varie e diverse. Ma, dopo che sul mare è tornata la pace, esse sono cresciute ed i cittadini hanno potuto usare dei propri beni a proprio talento»[219]. Con la pace torneranno a convergere in Atene mercanti, navigatori, industriali, artisti, poeti, filosofi, operai, quanti lucrano coi doni dello spirito e del corpo quanti faticano col pensiero e con la mano. I ricchi andranno esenti da spese militari, il popolo abbonderà di tutto quanto è necessario alla vita, le feste saranno solennizzate con maggior sfarzo, gli edifizi pubblici, restaurati[220], lo Stato riconquisterà la stima e il rispetto degli Elleni[221]: tutte le classi sociali esulteranno[222].

Ma nè Isocrate, nè Senofonte porranno nell’ardore per la pace l’entusiasmo, l’impeto, la frenesia, che esagitava il cuore di Aristofane, un uomo, il quale, pure, come lo definisce un moderno, fu «uno degli spiriti più acri, più mordaci, più spietati», «il cui verso pare dardo e marchio al tempo stesso, per colpire da presso e da lungi, penetrando a fondo nella carne squarciata e imprimendosi come bollo sulla fronte»[223]. È un inno d’amore, una melodia ineffabile di dolcezza e di benessere, con la quale può soltanto rivaleggiare l’inno più antico, ma più solenne, di Bacchilide: «L’alma pace largisce ai mortali la ricchezza [72] e il fiore dei carmi soavi e fa che in sugli altari degli Dei, sublimati dall’arte, ardano tra i riflessi d’oro delle fiamme, le membra dei buoi e delle pecore vellose, popola i ginnasi, le aule e i banchetti, di giovani, le vie, di lieti simposî, e d’inni, l’aria e le labbra infantili»[224].

Ma Aristofane non era soltanto un poeta; egli parlava a nome di intere masse sociali, di tutti gli stanchi, di tutti i ruinati, di tutti gli agiati, di quanti ogni cosa avevano perduto e di quanti avevano diritto a non perderla, e rendeva il sentimento della oscura, e pur non immemore, popolazione dei campi[225]. E che fremiti, che applausi non dovettero accompagnare taluno dei brani lirici o dei recitativi delle sue comedie! In quanti cuori non dovettero trovare eco le parole, ch’egli metteva in bocca al suo coro di contadini, all’annunzio della pace, che chiudeva l’interminabile guerra del Peloponneso. «O giorno dolce ai giusti ed agli agricoltori! Io ti ho sospirato, ed ora corro a rivedere le vigne ed i fichi, che piantai nella mia giovinezza. Io anelo di risalutarli dopo sì lunga assenza!»[226]. Ah, quei fichi, quegli olivi, quelle vigne, quell’agiatezza sicura e tranquilla, quella pace serena, mista di azzurro, di verde, di profumi, di viole, in cui il vaporare delle zolle si mesce all’ardore acre delle pareti di una casetta rustica e del frutto dei campi e delle greggi![227]. «Oh, soggiornare in campagna, coltivando l’attiguo bocconcino di terra, lungi dalla febbre dell’agorà! [73] Possedere un paio di buoi, poscia ascoltare il belare del gregge e il gocciare del mosto nel tinello; regalarsi per companatico qualche tordo o magari qualche fringuello, nè essere costretti ad attendere al mercato il pesce stantio di tre giorni, che il rigattiere pesa con false bilancie: questa è la Pace»[228].

«O Pace, o Veneranda donatrice delle uve, con quali parole vorrò io salutarti?... Salve, o Ricchezza dei campi, salve o Amica dell’arte! Come sei bella! Qual alito soave non viene dal tuo cuore, alito dolcissimo, come di requie e di profumi!... Tu olezzi di frutta, di conviti, di Dionisiache, di tibie, di tragedie e di carmi di Sofocle.... Tu olezzi di edera, di mosto, di belanti pecore, di seni di donne, che corrono alla campagna». «Al tuo apparire le città riconciliate conversano e sorridono, ancorchè affrante di dolori e di ferite». «Com’è glorioso un martello da lavoro ben saldo! Come brillano al sole le vanghe!... Tu, o Pace, eri pei contadini il fresco grano e la buona salute; perciò oggi, al rivederti, le vigne e i piccoli fischi e le piante tutte esulteranno»[229].

Ma non saranno le parole di Aristofane a convertire gli spiriti dei suoi concittadini. Questo felice successo toccherà solo alla reazione che verrà dalla continua, assillante, infinita pena della guerra. Ancora settant’anni, e Demostene non troverà nella sua patria che vuoto od inerzia, e scambierà [74] l’una e l’altra col tradimento. Ogni sforzo, ogni sacrificio è divenuto insopportabile. Oh, la pace! La pace! La tranquillità agiata e laboriosa, per cui non ci saranno più nè esili, nè esecuzioni, nè confische, nè spartizioni di suolo e di ricchezze![230].

Troppo tardi! La pace ora non darà che l’oscurità, la decadenza, la servitù. Alla tirannia macedone seguirà quella romana, tanto più fatale, quanto più bramata. E allora, mentre Polibio gemerà pensoso[231] che, pur senza epidemie e senza guerre devastatrici, le città rimangono miserande e spopolate, la Grecia, nell’illusione di ricominciare la sua vita, non si accorgerà di avere smarrito le ragioni medesime della propria esistenza!

Note al capitolo primo.

1.  Nepos, Milt., 5; Paus., 10, 20, 2; Iustin., 2, 9, 9. Il numero dei gimniti si può dedurre dall’analogia con le altre guerre del secolo V.

2.  Herod., 9, 28.

3.  Calcolando solo 100 navi da guerra, 200 teti e un paio di decine di opliti per ciascuna trireme.

4.  Thuc., 1, 107, 5.

5.  Thuc., 2, 13, 6; 8; Diod., 12, 40, 4.

6.  Cfr. Thuc., 2, 31, 2: ὅμιλος ψιλῶν οὐκ ὀλίγος.

7.  Thuc., 4, 94, 1; cfr. 4, 93, 3.

8.  Diod., 15, 63, 2.

9.  Diod., 15, 68, 1-2.

[75]

10.  Calcolando su Diod., 18, 11, 3; cfr. Beloch, in Klio, V, 350. Sulle cifre precedenti, cfr. J. Kromayer, Studien über Wehrkraft d. griech. Staaten, in Klio, III, 448 sgg., cui il Beloch (in Klio, V, 347 sgg., 355 sgg.) ha talora opposta la sua preferita critica radicale. Tralasciamo dati minori d’altre età, relativi a singole operazioni, che non dànno punto l’idea dello sforzo militare di Atene, in ciascuna guerra.

11.  Gli Stati moderni, dopo l’introduzione della coscrizione obbligatoria, hanno mobilitato al massimo l’1 o il 2% della loro popolazione; di rado, come durante le guerre della Rivoluzione e dell’Impero, sono arrivati al 3%, e, mai, come nella Guerra mondiale, al 10%: sforzo che, come tutti sentono, non sarebbe possibile ripetere di frequente.

12.  Arist., Ath. Resp., 24.

13.  Loc. cit.

14.  Böckh, op. cit., I3, 56-57; cfr. Büchsenschütz, Besitz u. Erwerb, pp. 209 sgg.

15.  Cic., De imp. Cn. Pomp., 6, 15.

16.  Plut., Arat., 6, 1.

17.  Guiraud, La propr. jonc. ecc., 621-22.

18.  Cfr. Aristoph., Acharn., vv. 183, 232, 1023; Pax, v. 627; Lys., Pro sacra olea, 6.

19.  Demost., XLII (In Phaenipp.), 20; 31; Böckh, op. cit., I3, 123-24.

20.  I. G. II, 1 (= C. I. A., II), 384 b, col. II, 1. 68.

21.  Böckh, op. cit., I3, 124-25.

22.  Roscher, op. cit., 37.

23.  Passy, in Dictionn. d’écon. polit. di Coquelin et Guillaumin, I, 39, col. 1.

24.  Aristot., Ath. Resp., 24.

25.  È la frase del Böckh, op. cit., I3, pp. 224, 276. Sull’argomento, cfr. il saggio del Ciccotti, Le retribuzioni delle funzioni pubbliche ecc., in Bibl. st. econ., I, 2, pp. 525 sgg.

26.  Arist., Polit., 1, 3, 4.

[76]

27.  Oecon., 5, 17.

28.  Foucart, Notes sur les comptes d’Eleusis, in B. C. H., VIII, 1884, p. 211.

29.  Demost., XX (In Lept.), 31-32.

30.  Böckh, op. cit., I3, 103-114.

31.  Lys., Adv. frument., 14; Demost., XXXIV (In Phorm.), 30; XX (In Lept.), 31; LVI (In Dionysod.), 7 sgg. passim.; XXXII (In Zenoth.), 4; 18; 19 e l’Argomento apposto da Libanio alla medesima; Demost., L (In Policr.), 17; 58; Theophr., H. Pl., 8, 4, 3 sgg.; Perrot, Le commerce des céreales en Attique au IV siècle avant notre ère, in Revue hist., IV, 211 sgg.; Glotz, op. cit., 354 sgg.

32.  Su questo punto i dati, che, per la loro copia, ci autorizzano a tale conclusione, non ci provengono da Atene, ma da Delo; cfr. G. Glotz, Le prix des denrées à Délos, in Journal des savants, 1913, pp. 119 sgg. Ma, data l’analogia delle condizioni, naturali e commerciali, fra Delo e Atene, è legittima l’analogia delle relative induzioni: cfr. anche Thuc., 7, 28, 1.

33.  Lys., Adv. frumentarios, passim.; Demost., LVI (In Dionysod.), 7-8; XXII (In Androt.), 15; Xen., Oecon., 20, 27-28; Böckh, op. cit., I3, 104-107.

34.  Ath. Resp., 2, 7.

35.  2, 38, 2; cfr. Isocr., Panegyr., 42.

36.  Böckh, op. cit., I3, 60; Du Mesnil-Marigny, Hist. de l’écon. pol., II, 229; Beloch, Zur griechischen Wirtschaftsgesch., in Zeitschrift für Sozialwissenschaft, V, 3, 1902, pp. 172-73.

37.  Francotte, L’industrie en Grèce, 1, 148 sgg.; Glotz, op. cit., 366 sgg.

38.  De vect., 5, 3; 4; cfr. 1, 6-8.

39.  Scylax Caryandens., Peripl., 112 (in Geogr. gr. min., I, ed. Müller).

40.  Du Mesnil-Marigny, loc. cit.; Beloch, op. cit., 173-75.

[77]

41.  Demost., XXXV (In Lacr.), 36; LVI (In Dionysod.), 1 sgg.

42.  Du Mesnil-Marigny, op. cit., II, 230.

43.  Andoc., De mysteriis, 133 e Böckh, op. cit., I3, 386; Gilbert, op. cit., I, 392.

44.  Le premesse di tale conclusione sono un po’ complicate. Nel 413-12 Atene sostituì il tributo federale (L. 6.000.000 all’anno) con un’imposta del 5% su tutto il commercio che si svolgeva entro il suo impero marittimo. La nuova imposta non poteva render meno dell’antico tributo; probabilissimamente, era destinata a rendere di più. Noi possiamo perciò calcolare il gettito lordo pari ad 8 o 9 milioni. Ma queste cifre rappresentavano solo 1⁄20 (il 5%) del movimento commerciale, che si svolgeva entro l’impero marittimo ateniese, ossia L. 160 o 180 milioni; cfr. Francotte, op. cit., 14-15; Glotz, op. cit., 373.

45.  U. Ruffolo, La Grecia economica odierna, Roma, 1920, pp. 47 sgg.:

1910 L. 305.107.541
1911 L. 313.105.044
1912 L. 303.819.652
1913 L. 297.578.029

46.  2, 12.

47.  Thuc., I, 67, 4; Aristoph., Acharn., vv. 530-34.

48.  Thuc., I, 144, 2; Xen., Lacedaem. Resp., 14, 4; Plut., Agis, 10, 2; Lyc., 9, 5.

49.  Demost., XIX (De mala legat.), 286.

50.  Cfr. Aristoph., Pax, vv. 999 sgg.; Acharn., v. 842.

51.  2, 3.

52.  2, 11.

53.  E. Ciccotti, La guerra e la pace nel mondo antico, Torino, Bocca, pp. 7-8.

[78]

54.  Questo singolare fenomeno, di cui abbiamo avuto un esempio, vivo e lampante nella guerra mondiale, è stato comune a tutte le guerre moderne; cfr. G. Borgatta, Il problema dei prezzi nel dopo guerra (in Riv. d’Italia, 1920, 193 sgg.) e fonti ivi citate.

55.  Thuc., 2, 13, 8; Böckh, op. cit., I3, 263-64; Arist., Ath. Resp., 24.

56.  Thuc., loc. cit.; Aristot., loc. cit.; Böckh, op. cit., I3, 317.

57.  Xen., Ipparchich., 1, 19; I. G. I (= C. I. A., I), 188.

58.  Thuc., 6, 43, 1.

59.  Böckh, op. cit., I3, 340 sgg., 315-16.

60.  Böckh, op. cit., I3, 320; Sauppe, Die καταστάσις d. alt. Reiterei, in Philologus, 15 (1861), pp. 69 sgg.; Martin, Les cavaliers Atheniens, Paris, 1886, p. 334.

61.  Cfr. pp. 9-10 del presente volume.

62.  Cfr. p. 30 del presente volume.

63.  Böckh, op. cit., I3, 316.

64.  Demost., In Androt., 8.

65.  Aristot., Ath. Resp., 22, 7; Böckh, op. cit., I3, 140-141.

66.  Böckh, op. cit., I3, 343-44.

67.  Thuc., III, 17, 3; VI, 31, 3.

68.  I. G. II, 2 (= C. I. A., II), 795, col. f., l. 138 (p. 189).

69.  I. G. II, 2 (= C. I. A., II), 809, col. d., ll. 62 sgg.

70.  I. G. II, 2 (= C. I. A., II), 807, col. b, ll. 67 sgg.

71.  Isocr., Areop., 66. Cfr. Clerc, Les méthèques athéniens, Paris, 1893, p. 31.

72.  Böckh, op. cit., I3, 358-59.

73.  Id., op. cit., I3, 362 sgg.

74.  C. I. A., I, 177, ll. 8-10, 13-14; Isocr., De permut., 111; Nepos, Timoth., 1, 2; Diod., 12, 28, 3; cfr. Busolt, Gr. Gesch., III, 1, 551, nota; W. Bannier, in Rh. Mus., 61, p. 209; Cavaignac, L’hist. fin. d’Athènes, pp. 94-95, 110; Francotte, Les finances grecques, 167-168; J. Beloch, Gr. Gesch., II, 2 (2ª ed.), 337-38.

[79]

75.  Thuc., 2, 70, 2; Isocr., De permut., 113; cfr. Cavaignac, op. cit., 108, 116, 120.

76.  Francotte, op. cit., 209.

77.  Francotte, op. cit., 183 sgg., 209.

78.  Francotte, op. cit., 209.

79.  Busolt, Der zweite ath. Bund., in loc. cit., pp. 721-22.

80.  Isocr., Areop., 9; Demost., Olynth. III, 32; Aeschin., De falsa legat., 71; Busolt, op. cit., 722.

81.  Xen., Anabas., 7, 1, 27; Aristoph., Vespae, vv. 657-660. Cfr. Böckh, op. cit., I3, 509 sgg.

82.  Thuc., 8, 1, 3; cfr. Lys., In Nicomach., 22.

83.  Cfr. Xen., Hell., I, 1, 14.

84.  Per la situazione finanziaria di Atene, nel 421, cfr. Francotte, op. cit., 186.

85.  Pedroli, (in Studi di storia antica del Beloch), pp. 131-32.

86.  Pedroli, op. cit., 136, 137.

87.  Pedroli, op. cit., 139.

88.  Loc. cit.

89.  Demost., XIII (De rep. ordin.), 27; XVIII (De corona), 234.

90.  Thuc., II, 69, 1; III, 19, 1; IV, 50, 1; 75, 1.

91.  Xen., De vect., 3, 5 passim.

92.  Cfr. pp. 20-21 del presente volume.

93.  Böckh, op. cit., I3, 387-88; Gilbert, op. cit., 1, 391-92.

94.  Böckh, op. cit., I3, 393; Francotte, op. cit., 15 sgg.

95.  Gilbert, op. cit., I, 393, Francotte, op. cit., 19-20, 21-22.

96.  Thuc., 6, 91, 7.

97.  Cfr. G. Platon, Un saggio di socialismo di Stato nell’antichità, in Nuova Rivista storica, 1919, pp. 456 sgg.

[80]

98.  Questo lato dell’operetta dello Pseudo-Senofonte è stato considerato unicamente dal Platon, in op. cit., pp. 452 sgg.

99.  Cfr. p. 29 del presente volume e Cavaignac, op. cit., 120.

100.  Cavaignac, op. cit., 118.

101.  I. G. I (= C. I. A., I), 273 (pp. 148-49).

102.  Thuc., 3, 19, 1.

103.  I. G. (= C. I. A., I), 259; Cavaignac, op. cit., pp. XXXV-XXXVI, 125.

104.  Cfr. Thuc., 2, 13, 3 e vol. I, p. 129.

105.  Il grave documento è la iscrizione I. G. I (= C. I. A., I), 37; cfr. Cavaignac, op. cit., pp. XLIV-XLV, 128 sgg.

106.  Aristoph., Equites, v. 924.

107.  Cfr. il decreto di Callia I. G. (= C. I. A. I), 32 B., e, circa la sua probabile cronologia, Böckh, op. cit., I3, p. 596; II, p. 49; Francotte, op. cit., 202; Beloch, Gr. Gesch., (2ª ed.), II, 2, 346 sgg.

108.  I. G. (= C. I. A., I), 37. z"; 543 e Suppl. a p. 140; cfr. Cavaignac, op. cit., pp. XLV-XLVI, 135 e Pl., I, n. 3; Beloch, op. cit., (2ª ed.), II, 2, 342-43.

109.  Aeschin., De mala legat., 175; Andoc., De pace cum Lacedaem., 9.

110.  I. G. (= C. I. A., I), 55 c, v. 5; [.... δεδογ]μένον ῇ εἰσφέρειν ὅταν δέη[ι]....

111.  Cfr. vol. I, pp. 131-32.

112.  Cfr. Beloch, Gr. Gesch., II, 443 e n. 3 (2ª ed.).

113.  Cavaignac, op. cit., 156.

114.  Risulta dall’orazione di Lisia (Accept. muner. defens., 2 sgg.) nella quale l’oratore discorre di εἰσφοραί prelevate tra il 410 e il 405.

115.  Cfr. Lys., De Aristoph. pecuniis, 29. Queste contribuzioni dovettero aver luogo fra il 393 e il 387.

116.  Demost., II (Olynth.), 29; XIII (De rep. ordin.), 20. (Sul valore storico di questa orazione cfr. F. Blass, Die attische Beredsamkeit, Leipzig, 1877, III, 352 sgg. o l’edizione di Demostene del Well, Paris, 1881, pp. 436 sgg.). Cfr. anche Böckh, op. cit., I3, 609 sgg.; Francotte, op. cit., 28 sgg.

[81]

117.  Pol., 2, 62, 6-7; cfr. Demost., XIV (De Symmor.), 27; Philoc., Fragm., p. 77 (ed. Siehelis) sotto Harpoer. Che Polibio si riferisca al 378-77, è stato rilevato per primo dal Böckh, op. cit., I3, 572; e la sua opinione è ormai condivisa da tutti; cfr. Beloch, Das Volksvermögen von Attika, in Hermes, 20 (1885), p. 237; Lipsius, Die athen. Steuerreform in Jahr d. Nausinikos, in Neue Jahrbuch. f. klass. Phil., 117, p. 291, 1878.

118.  Demost., XXII (In Androt.), 44; cfr. Lecrivain, op. cit., 509.

119.  Beloch, op. cit., p. 257.

120.  Demost., XXVII (In Aph., I), 9, 37, cfr. Schäfer, Demosth. und seine Zeit., Leipzig, 1885, I2, 22-23. Il nostro calcolo è condotto seguendo, circa la εἰσφορά, la interpretazione del Beloch (Das Volksvermögen von Attika, in Hermes, 20 (1885), e Das atth. Timema, in Hermes, 22 (1887) pp. 371 sgg.), e del Lecrivain (Eisphorà, in Daremberg et Saglio, Diction. d’antiquité ecc., II, 1, pp. 504 sgg.), secondo cui l’imposta avrebbe gravato sull’intera ricchezza ateniese (5750 talenti). Una diversa opinione è quella del Böckh (op. cit., I3, 570 sgg.), secondo la quale l’imposta gravava sur una parte soltanto del capitale, cioè sur una sua frazione imponibile. Secondo una terza interpretazione del Rodbertus (in Jahrbücher f. Nationalökonomie, VIII, pp. 453 sgg.) i 5750 talenti del 377-78 rappresenterebbero il reddito annuo della ricchezza nazionale ateniese. La prima di queste tre opinioni è la più conforme alle fonti e alla realtà economica ateniese.

121.  Xen., De vect., 4, 40; Demost., VIII (Chersonn.). 70; Lys., Pro sacra olea, 31; De publ. bonor. Niciae, 7; De Aristoph. bonis, 43; 57; Isaeus, Nicostr., 27; Philoctem., 60; Apoll., 40; Dicaeog., 37; 41; 45.

[82]

122.  Böckh, op. cit., I3, 609 sgg.; Platon, La démocratie et le régime fiscal ecc., pp. 46 sgg.; Francotte, op. cit., 40 sgg. Sulla difficoltà del ricupero delle somme anticipate, cfr. Demost., XXX (In Policl.), 8 e passim.

123.  Demost., XX (In Lept.), 27.

124.  Cfr. Lys. (De affectata tyrannide), 12, e De Aristoph. bonis, 42-43; 67.

125.  Demost., XXX (In Policl.), 7; II (l’orazione è del 360 a. C.); XXXI (De corona trier.), 6; Böckh, op. cit., I3 n. 859 del Fränkel.

126.  Demost., XXX (In Policl.), 7.

127.  Thuc., 6, 31, 3; Demost., XXXI (De corona trier.), 6; XXX (In Policl.), 7; 12.

128.  Demost., XLVII (In Everg. et Mnesib.), 23 e passim.; XXXI (De corona trier.), 5; XXX (In Policl.) 7; 34; XLV (In Stephan. I), 85.

129.  Demost., XXX (In Policl.), 61.

130.  Cfr. tutta l’orazione di Demost., XXX (In Policl.), e Platon, op. cit., 53 sgg.

131.  Böckh, op. cit., I3, 648 sgg.

132.  Demost., XXI (In Mid.), 80; 155; XXXI (De corona trier.), 7, 8, 16, 18.

133.  Demost., XVIII (De corona), 102 sgg.

134.  Demost., XXI (In Mid.), 161; XVIII (De corona, 1), 85.

135.  Thumser, op. cit., 99 e n. 5; Platon, op. cit., 18; Clerc, op. cit., pp. 32 sgg.

136.  Oeconom., 2, 6.

137.  De permut., 160; cfr. Xen., Conviv., 4, 30 sgg.

138.  Isocr., De pace, 130 e tutta l’orazione di Lisia, Per i beni di Aristofane e la difesa in un processo di corruzione.

139.  Schol. ad Aristoph., Ranae, v. 404.

140.  Cfr. p. 40 del presente volume.

141.  Demost., XXI (In Mid.), 154; XXX (In Pol.), 37; Lys., In Diogit., 24; Böckh., op. cit., I3, 637.

[83]

142.  Demost., XLVII (In Everg. et Mnesib.), 21.

143.  Demost., XXI (In Mid.), 161.

144.  Cfr. Demost., XXVII (In Aphob. I), 7; XXIX (In Aphob. III), 59; Diod., 14, 5, 5; Lys., De Aristoph. bonis, 46; Demost., XXX (In Onoter. I), 10; Plat., Resp., 9, p. 578 D.

145.  Cfr. Pol., 32, 14, 3 sgg. che si riferisce al II secolo a. C. Un Apicio, rimasto con soli 2.000.000 di lire, non trovava al suo infortunio rimedio migliore del suicidio (Senec., Ad Helv. cons., 10, 9).

146.  Calcolando su Plin., N. H., 33, 134. Altri esempi di ricchezza romana: la casa di P. Clodio valeva tre o quattro milioni (Plin., N. H., 36, 103-104); dieci, il mobilio di M. Scauro, incendiato dai suoi schiavi (Ibid., 36, 115). Il patrimonio di Pompeo saliva a 19 milioni; quello di un suo liberto, a 25 (Plut., Pomp., 2, 6). Crasso, alla fine della sua dissipata esistenza, disponeva ancora di 45 milioni (Plut., Crass., 2, 2).

147.  M. D’Azeglio, I miei ricordi, Firenze, 1876, I, 66.

148.  Demost., XX (In Lept.), 115.

149.  Demost., (In Aristocr.), 206; 209.

150.  Demost., XIV (De Symm.), 25; cfr. XLII (In Phaen.), 23; VIII (Chersonn.), 21.

151.  Demost., XIII (De rep. ord.), 27.

152.  Lys., De Aristoph. bonis, 45 sgg.; In Philocr., 2 sgg.

153.  Cfr. Xen., Ath. Resp., I, 4; De vect., I, 1.

154.  De pace, 127.

155.  Cfr. Ch. Lecrivain, Prosodoi, in Daremberg et Saglio, op. cit., p. 705, n. 30; Böckh, op. cit., I3, 517; Demost., XXI (In Lept.), 33; 42: I. G. II, 1 (= C. I. A., II, 1), 379.

156.  Plut., Vitae decem orat., 8, 56; Demost., XVIII (De corona), 118.

157.  Böckh, op. cit., I3, 111-14.

158.  Böckh, op. cit., I3, 308 sgg.; cfr. Isocr., De pace, 82.

[84]

159.  Böckh, op. cit., I3, 400-02; cfr. Clerc, op. cit., 21 sgg.; Busolt, Die griech. Staats-und Rechts-Alterthümer, München. 1892, pp. 15, 197. Le εἰφοραί sui meteci pare fossero più gravose di quelle gravanti sui cittadini; cfr. Clerc, e Busolt, loc. cit.

160.  Francotte, L’industrie en Grèce, I, pp. 193 sgg.; II, 83-84.

161.  Pol., 37, 4, 5-8.

162.  Ciccotti, Il tramonto della schiavitù, pp. 90-91. Tre sono, a dire del Malthus (op. e loc. cit., 115), le grandi cause di depopolazione: l’astensione, il pervertimento sessuale, le calamità sociali, quali carestie, epidemie e, sopra ogni altro, la guerra, che riesce tanto più fatale quanto meno i popoli ch’essa investe si trovano lontani dallo stato di natura; cfr. De Bloch, Le Guerre future (trad. fr.), IV, p. 6. Sui rapporti tra guerra e depopolazione in Francia, cfr. Levasseur, La popul. française, Paris, 1889, I, 180 sgg., 190 sgg., 195 sgg., 211 sgg.; II, 210; III, 515, 520.

163.  Beloch, Bevölkerung ecc., 99-100.

164.  Ctesicl., in Athen., VI, p. 272 B; Demost., XXV (In Aristog. I), 51.

165.  Secondo i calcoli, molto accurati del Clerc (Les methèques ecc., pp. 369 sgg. e 379-80), i meteci, che nel l’età di Pericle erano circa 24.000, discesero, nel 309, a 10.000 (Athen., VI, pp. 272 B).

166.  L’opinione contraria — l’accrescimento degli schiavi nell’Attica durante il IV secolo — è stata introdotta nella corrente coltura storica da alcune pagine non documentate della Bevölkerung del Beloch. È questo un concetto assolutamente errato; cfr. E. Ciccotti, Indirizzi e metodi degli studî di demografia antica (Prefazione al IV vol. della Bibl. di st. econ.), 1908, pp. 48 sgg.

167.  Beloch, loc. cit. e pp. 74-75.

168.  Xen., Memor., 2, 8, 1.

169.  Cfr. vol. I, pp. 44-45.

[85]

170.  I. G. (= C. I. A., II, 1), 17, vv. 35 sgg.; cfr. Busolt, Der zweite ath. Bund, in loc. cit., 686 sgg.

171.  Cfr. Isocr., Philipp., 96; Xen., Anabas., I, 1, 9.

172.  Demost., IV (Philipp. I), 23-24; III (Olynth. III) 30; 33 e passim; VIII (De rep. ordin.), 5 sgg.; VIII (Chersonn.), 21; cfr. Liv., 31, 43, 5.

173.  Thuc., 4, 93, 3.

174.  Thuc., 5, 57, 2.

175.  Diod., 16, 30, 4.

176.  Paus., 10, 20, 3. Su questi dati numerici e su altri di minor conto, cfr. Kromayer, in Klio, III, 56 sgg. e J. Beloch, in Klio, VI (1906), pp. 34 sgg.

177.  Plut., Pericl., 33, 5. Un altro dato, meno attendibile, fa salire questo esercito a 100.000 uomini (Schol. a Soph., Oedip. Colon., v. 698, ed. Papageorgius, Lipsiae, 1888).

178.  Diod., 13, 72, 4, calcolando un numero di armati alla leggiera pari agli armati alla pesante.

179.  Diod., 14, 83, 1; cfr. Kromayer, op. cit., pp. 200 sgg.; Beloch, in Klio, V, p. 77.

180.  Diod., 15, 32, 1.

181.  Diod., 15, 84, 4 sgg.; 17, 62, 7.

182.  Pol., 29, 9, 8: καλῶς ποιοῦντας αὐτοὺς καὶ τρεῖς ἄγειν καὶ τέτταρας μυριάδας ἀνδρῶν μαχίμων. Anche su questi dati, cfr. Beloch, in Klio, 1906, pp. 51 sgg.

183.  Thuc., 7, 48, 3.

184.  Isocr., De pace, 97.

185.  Arist., Polit., 5, 9, 5.

186.  Polit., 7 (4), 13 (14), 10-12.

187.  Liv., 39, 24, 3 sgg.; Collitz, Griech. Dialekt. Inschrift., I, 345 passim.

188.  Plut., De defectu oracul., 8.

189.  3, 82. 2; Aristoph., Pax, vv. 349-351; Isocr., Philipp., 52.

190.  Cfr. Hume, Of the populousness of ancients nations (trad. it. in Bibl. di st. econ., III), pp. 405, nota.

[86]

191.  Cfr. lo stesso Hume, op. cit., 403, n. 5.

192.  Cfr. Hume, op. cit. 405.

193.  Thuc., 8, 21, 1.

194.  Xen., Hell., 6, 5, 10.

195.  Diod., 13, 104, 6.

196.  Si vegga in Demost., XXIV (In Timocr.), 149, il giuramento degli eliasti ateniesi.

197.  Isocr., Philipp., 96.

198.  Diod., 18, 8, 5. Sui pericoli derivanti dal ritorno degli esuli cfr. Diod., 17, 13, 3 e Hicks, Greek histor. Inscript., Oxford, 1882, nn. 125, 130.

199.  Liv., 34, 49, 10.

200.  Demost., XIX (De mala legat.), 181; Isocr., De pace, 129; Fustel de Coulanges, Cité ant., p. 454.

201.  Xen., De vectigal., 4, 51, 52.

202.  Fustel de Coulanges, Cité antique, 453-54.

203.  Cfr. Pol., 40, 5, 12.

204.  Beloch, Gr. Gesch., II, 1 (2ª ed.), 76.

205.  Strab., 14, 2, 17.

206.  Beloch, Gr. Gesch., II, 1 (2ª ed.), 170, 306.

207.  Liv., 23, 30, 6.

208.  Liv., 31, 29; Holm, Storia della Sicilia nell’antichità (trad. it., Torino, 1896-1901), II, pp. 381-82; Beloch, Bevölk., 298-99, 500.

209.  Strab., 7, 7, 6.

210.  Pol., 2, 62, 3.

211.  Plut., Demetr., 9, 4.

212.  Dion. Cass., 41, 25, 3; cfr. C. Jullian, Hist. de la Gaule, Paris, Hachette, III, 600 sgg.

213.  Cfr. Pol., 31, 7, 4-12.

214.  Anthologia Palatina, IX, Epigr. demonstr., 151 (ed. Didot, II).

215.  Ibid., 408.

216.  De pace, 1; 2; 25; 12; 19; 51.

217.  Op. cit., 19-21; 64; cfr. Philipp., 46 sgg.

[87]

218.  Sulla cronologia, cfr. G. Platon, in N. Riv. stor., 1919, pp. 456 sgg.

219.  Xen., De vectig., 5, 2; 11-12; 3-4.

220.  6, 1.

221.  5, 9-10.

222.  6, 1. Cfr. Aeschin., De mala legat., 171 sgg.

223.  Ciccotti, La guerra e la pace ecc., p. 86.

224.  Fr. 46, ed. Kenyon.

225.  Thuc., 2, 65, 2; Plut., Nic., 9, 5; Ps. Xen., Ath. Resp., 2, 14.

226.  Aristoph., Pax, vv. 556-59; cfr. vv. 569-70.

227.  Aristoph., op. cit., vv. 530-31; 571 sgg.

228.  Aristoph., fr. 344 (Insulae), ed. Didot. Opinare che questo dramma non sia di Aristofane, come gli antichi concordemente ammisero, è uno degli infiniti, cervellotici arbitrii dei moderni; cfr. Th. Kock, in Rh. Mus., 45 (1890), p. 55.

229.  Id., Pax, vv. 520 sgg., 566 sgg.; cfr. vv. 1127 sgg., 1346 sgg. e Acharn., vv. 32-33; 989 sgg.

230.  Cfr. [Demost.], X (De foedere Alexandr.) 15.

231.  Pol., 37, 4, 4.

[89]

CAPITOLO SECONDO. IL RIVOLGIMENTO ECONOMICO DEL MONDO ANTICO

Il nuovo Oriente.

Alla metà del secolo IV a. C., sembra davvero che la Grecia cominci a trarre profitto dalle sue stesse calamità. I mali inenarrabili portati dalla guerra, le profonde crisi, economiche e morali, subìte hanno infuso negli spiriti, divinamente bizzarri, dei suoi cittadini, numerose stille di meditata saggezza. Sparta, ferita a morte nel duello con Tebe, abbandona i vecchi sogni imperialistici, e si rassegna a vivere modestamente entro la breve zona del suo naturale territorio; Tebe anch’essa, la vittoriosa, come stremata nel difficile sforzo durato per circa quindici anni, sembra limitare tutte le sue ambizioni entro quei confini della Beozia, che un tempo le erano parsi sì angusti: anche Atene, uscitole vano, ancora una volta, il terzo tentativo di impero marittimo, volge tutto il suo pensiero e la sua attività ad opere di pace. Caratteristiche sono, a tale proposito, le amministrazioni di Eubulo (354-339) e di Licurgo (338-26), [90] la cui teorica sarà appunto formulata nel più volte citato libretto pseudosenofonteo su Le entrate ateniesi. Atene comincia a voler vivere soltanto di se stessa, e a bastare a se stessa, in una pace operosa. La povertà ha insegnato ai liberi che occorre lavorare, lavorare tenacemente, ed è stata più eloquente e persuasiva della propaganda di Socrate, vanamente coronata dal martirio. In Grecia perciò si diffonde rapidamente la pratica del lavoro libero, nè più i cittadini sdegnano di accomunarsi, in tale bisogna, agli schiavi. I grandiosi, vecchi sogni d’imperialismo, politico od economico, sono man mano repudiati, quando ecco, d’improvviso, tutto il mondo mediterraneo e quello orientale, ad esso più vicino, sono percossi da un vasto e profondo scoscendimento, che arresta a mezzo l’opera di resurrezione e inchioda per sempre alla sua croce il destino della Grecia: la conquista dell’Impero persiano e l’ellenizzazione dell’Oriente.

Fu questa l’opera che Alessandro Magno iniziò nel 334 a. C. per incitamento venutogli appunto dalla Grecia. Non solo lui, il figliuolo di Filippo II, cercava in quella ardita impresa un mezzo per farsi perdonare, col glorioso e definitivo trionfo sul nemico secolare della Grecia, la servitù che egli e il padre suo avevano inflitto al Paese, ma intendeva veramente a ritrovare, nel misterioso Oriente, un nuovo, più ricco campo di attività per la popolazione greca immiserita e, al [91] tempo stesso, in tragica contradizione, sovrabbondante ed esigua. L’impresa d’Alessandro doveva essere, e fu di fatto, il più vasto tentativo di colonizzazione che mai Stato o uomo politico greco avesse a concepire. Pur troppo, se suscitò un nuovo mondo, era destino che le sue estreme conseguenze si ritorcessero ai danni della Grecia stessa, cui quell’ultimo dei grandi Elleni agognava soccorrere.

Alessandro disseminò la sua lunga corsa attraverso l’Oriente di una selva di città destinate a vivere di vita rigogliosa, e che avrebbero fatto la prosperità delle contrade, che l’orma fatale del suo piede calcava[232]. E la via, da lui aperta, fu battuta in lungo e in largo dagli epigoni, cui sembrò — nè fu vana speranza — di continuare la grande tradizione dell’antico Paese del Sole.

Seleuco Nicatore inaugurava ben sedici Antiochie, cinque Laodiceee, nove Seleucie, tre Apamee, una Stratonicea. Risorgevano, o sorgevano ex novo, in Oriente le Beroie, le Edesse, le Perinto, le Maronee, le Callipoli, le Acaie, le Pelle, le Oropo, le Amfipoli, le Artuse, le Astaco, le Tegee, le Calcidi, le Larisse, le Eree, le Apollonie, le Soteire, le Alexandropoli, le Alexandrescate, le Niceforio, le Nicopoli. La Tracia e la Macedonia si popolavano di Tessaloniche, di Cassandree, di Demetrie, di Lisimachie; l’Asia Minore lanciava da sola alla luce del giorno ben cinquecento città, vigili avamposti di tutta una novella fiorita [92] industriale e commerciale[233]. E dall’Asia Minore alla Siria, dalla Mesopotamia e dalla Caldea all’altipiano dell’Iran, dall’India all’Arabia e all’Africa, tutto un mondo di civiltà, spente da secoli, resuscitava, un mondo di civiltà nuove sorgeva.

Tosto una folla di avventurieri, di operai, di imprenditori, fuggendo la patria, povera ed impotente, si recarono colà a far fortuna. Vi trovarono di fatto lavoro e ricchezza. Ma, ahimè, i nuovi centri, manifatturieri e commerciali, dell’Oriente ellenizzato accaparrano ora la clientela dell’antica e un dì gloriosa Ellade; sviano le tradizioni commerciali dell’antico mondo civile; ridestano furiosa la concorrenza, sempre ardentissima, fra le città greche e i Paesi orientali così detti barbarici, ora profondamente ellenizzati. Sorge in tal modo, improvvisa, una barriera di fronte agli antichi prodotti greci, oramai superflui al di là del Pindo e dell’Egeo[234]. In tale guisa la nuova Grecia uccideva l’antica!


Si costituisce, invero, nel IV secolo a. C., ad oriente del mondo ellenico, sulla più ampia zona di territorio che mai fosse toccata a successore di Alessandro Magno, il più vasto dominio del tempo, l’impero dei Seleucidi, che dall’Egeo si sarebbe in breve esteso fino a tutto il bacino dell’Indo e del Jassarte[235]. Non si trattava di una Potenza, minacciosa soltanto a motivo delle sue dimensioni [93] colossali. I primi Seleucidi vi si dedicarono a promuoverne le attività della produzione e, più ancora, dello scambio[236]. Seleucia, nella Mesopotamia, situata in una posizione privilegiata, alla confluenza di tutte le grandi vie dell’altipiano iranico e del golfo Persico, divenne, nel volgere di pochi lustri, la più notevole e fiorente piazza commerciale fra l’Europa e l’Asia nord e centrale, come Alessandria lo sarà fra l’Europa e l’Asia meridionale. Qui, attraverso il Tigri e l’Eufrate, convenivano gli Armeni a scaricare le loro merci assortite; qui si incrociavano le vie di transito della Persia e dell’Arabia, recanti, per vaste e numerose arterie, i gonfi flutti delle preziose derrate, di cui abbisognavano l’Oriente e l’Occidente. Ma la capitale dell’impero non era isolata. Antiochia, prima dopo Seleucia[237], Laodicea Sira, pregiata pel suo porto e pel vino squisito, che esportava in gran copia in Egitto[238], e, sovra tutte, Battra, che conquisterà uno dei primi posti, divenendo scalo delle merci, che dall’India, dall’Asia settentrionale e dalla Serica, viaggiavano alla volta del Mar Nero: tutte le tenevano dietro, recando a gara la fiaccola della civiltà e della vita[239].

Ma ciò che specialmente era destinato a rivolgere l’orientamento economico del mondo antico era la fondazione della grande Rotterdam dell’antichità, Alessandria d’Egitto, e l’impulso, che alla regione, di cui tosto sarebbe divenuta la capitale, [94] avrebbero dato i successori del grande Macedone, i Tolomei.

L’intensa sollecitudine, che questi monarchi nudrirono dei materiali interessi del loro Paese, fu piuttosto unica che rara. Continuando in una politica, che la larghezza degli orizzonti seppe integrare col più mirabile senso pratico — la vecchia rivalità degli antichi Faraoni con la Mesopotamia, che di altro non era espressione se non della gara commerciale fra il Nilo e l’Eufrate —, essi si curarono di collocare delle stazioni navali su tutti i punti, economicamente strategici, del mondo antico, la Tracia, le isole Egee, Creta, l’Asia Minore, la Fenicia, la Palestina, la Siria, l’Arabia, la Libia, la Cirenaica. E, mentre lasciarono che l’antica linea di Copto continuasse a servire quale tramite del commercio, eritreo ed asiatico, col Mar Rosso[240], condussero a termine quelle dirette linee di comunicazione fra questo mare e il Mediterraneo, ch’erano state iniziate dai Faraoni[241] e che resteranno mèta perenne di tutta la civiltà avvenire.

«Ciò che costituisce», scrive il maggiore storico moderno di questa età, J. G. Droysen, «l’importanza del territorio di Suez è il fatto che colà giacciono gl’incavi più profondi, operati dal mare tra le più grandi masse continentali del globo; gli è là che il Mar Rosso, il porto naturale di tutte le coste dell’Oceano Indiano fino all’Australia e alla Cina, non dista dal Mediterraneo, [95] il porto delle regioni occidentali, più di qualche miglio. Nell’età ellenistica l’importanza del Mar Rosso, delle Bocche del Nilo, della comunicazione pel canale tra il fiume e il mare non era certo pari a quella odierna, centuplicata dalle scoperte transatlantiche e dallo sviluppo del commercio e dell’arte nautica: ciò non ostante, l’irruzione dell’ellenismo nel Mar Rosso, ormai accessibile, dovette, dopo la spedizione di Alessandro Magno, costituire l’avvenimento più notevole nei rispetti della trasformazione dell’equilibrio esteriore; dovette, pei suoi resultati, riuscire così sorprendente e di effetti così durevoli, come lo sarà, sedici secoli di poi, la circumnavigazione del Capo di Buona Speranza, che infliggerà un colpo mortale al commercio italiano e anseatico»[242].

Per tal guisa, Alessandria, ove poi, a diffondersi nel mondo intero, «convergevano i prodotti dell’Egitto, dell’Etiopia, della Cirenaica, della Libia, della Mesopotamia, dell’Arabia, della Siria, dell’India», superata già, fin dal III secolo a. C., la stessa Seleucia, «era divenuta la prima piazza mercantile dell’Oriente»; e attraverso il Mar Rosso le sue merci penetravano nell’Oriente; per l’alto Nilo in Etiopia, e per il Nilo medesimo viaggiavano dal Mar Rosso al Mediterraneo, cioè a dire dall’Asia all’Europa[243].

I Tolomei avevano ben motivo di accaparrarsi il mondo. L’Egitto era un centro, unico più che raro, di prodotti naturali. L’Egitto, che nutriva [96] a miriadi buoi, capre e pecore di qualità eccellente, produceva altresì in copia l’orzo, il frumento, il dourah, le cipolle, l’aglio, le fave, i piselli, i cocomeri, il porro, il papiro, il loto, l’olio di sesamo, il vino, i fichi, il corsium, la palma, il sicomoro, il lino, il cotone, le erbe alimentari, le lenticchie, l’alloro, il mirto, le rose, il miele, e celava nelle sue viscere quel prezioso materiale da costruzione che sarà uno dei principali elementi economici dell’età ellenistica[244]. Ma perchè un Paese abbia a prosperare, non basta disponga di abbondanti risorse o di facili vie di commercio; è necessaria una buona organizzazione della produzione. Fu la fortuna che toccò in modo eminente all’Egitto tolomaico, ma non a questo soltanto: essa fu la fortuna di tutti i Paesi ellenistici.

L’organizzazione della produzione nel mondo ellenistico.

I vari Stati ellenistici ci fanno assistere a un fenomeno, che, dopo le esperienze contemporanee più recenti, può quasi sembrare inaudito: un socialismo di Stato, un intervento continuo del governo nell’agricoltura, nell’industria, nel commercio, che riesce — per gran tempo almeno — ai resultati più meravigliosi. I massimi proprietari, i più ricchi e attivi industriali dell’Egitto tolomaico, come delle terre racchiuse entro i confini del vasto impero dei Seleucidi, sono il re, e, col re, [97] i sacerdoti dei templi, grandi centri d’imprese economiche. I «beni regi» e i «beni del clero» occupano i tre quarti dell’Egitto tolemaico. Ma non si tratta di latifondi abbandonati ed oziosi, ma di terre fertilissime, sfruttate intensivamente e con ogni sistema di colture. La terra regia e le terre dei templi producono vini, cereali, datteri, grani oleiginosi, legumi, alberi da frutto e alberi industriali; alimentano greggi, forniscono i più ricchi prodotti del sottosuolo. Gli stabilimenti del re e quelli dei templi fabbricano birra e salami; elaborano i vini e gli olii; macinano il grano; tessono le tele e i tessuti. Grandi banche — dalle filiali sparse dovunque — forniscono i capitali per le più svariate intraprese.

Anche il commercio è un servizio di Stato: gli ardui viaggi di esplorazione di questo tempo, che sembrano precorrere i secoli XV-XVI, sono concepiti e organizzati nei gabinetti delle Corti ellenistiche, così come d’origine statale sono i più grandiosi lavori, diretti a intensificare e ad agevolare la produzione e lo scambio.

Ma lo Stato non è signore esclusivo delle attività economiche del Paese. Accanto alla terra di proprietà statale, v’è la terra di proprietà privata, o piuttosto di possesso privato; accanto alle grandi industrie governative, sono i piccoli mestieri indipendenti, tutti egualmente in fiore. Noi assistiamo, anzi, nel mondo ellenistico, a un fenomeno non meno strabiliante degli altri: la sparizione [98] della schiavitù, o la sua radicale trasformazione, e la rivalutazione e la diffusione del lavoro libero e salariato[245]: il che porta seco una specializzazione estrema dei mestieri, un significante perfezionamento tecnico della mano d’opera, financo un sottile sfruttamento della medesima[246].

Nè è tutto: le esigenze della produzione sollecitano l’intervento della scienza. Noi possiamo parlare ora di una scienza applicata all’agricoltura e all’industria. La macchina idraulica, inventata da Archimede, regola la distribuzione delle acque del Nilo. L’alessandrino Ctesibio inventa la pompa[247]; la grue (la nuova baroulcòs) sostituisce l’antico argano e la biga; il mulino ad acqua tien luogo del vecchio mulino a braccia. Le fabbriche regali di Pergamo e di Alessandria compiono miracoli che precorrono la grande industria, l’industria meccanica dei secoli XIX-XX[248]. Or bene, con che mezzi, con quali miracolose risorse, la Grecia classica, povera, angusta, fatta pesante dalla lenta economia schiavista, pervasa dalla follia delle eterne guerre municipali, avrebbe potuto resistere alle nuove minacciose concorrenze?

Roma e il nuovo Oriente.

Se questi erano i pericoli, a cui la nuova conquista dell’Oriente esponeva la Grecia, gli effetti dell’intervento di Roma nella storia del mondo, il suo affacciarsi all’eternità, che segue circa [99] due secoli più tardi, non saranno meno decisivi. Roma consacra definitivamente quel nuovo ordine di cose, che la spada di Alessandro Magno aveva disegnato. Il nuovo Egitto ellenistico bastava da solo a costituire per la Grecia un pericolo. Roma sopraggiunge ad assicurarne il trionfo. Roma sbarazza l’Egitto dalla pericolosa vicinanza di Cartagine, lo libera dalle sue potenti rivali — la Macedonia e la Siria —; inizia una serie di guerre che devasteranno le terre e le acque greche, e fa di Alessandria il centro maggiore dei suoi approvvigionamenti, sì che, mentre «prima neanche venti navi osavano valicare il Mar Rosso», l’aurora del primo secolo dell’Impero vedrà «intere flotte navigare» da questo porto «alla volta dell’India e della remota Etiopia, dirette all’acquisto di merci di gran valore da scambiarsi con altre, non inferiori nè per numero nè per pregio», che l’Egitto stesso sarà in grado di apprestare[249].

L’Egitto valeva bene, ed ebbe infatti, le più scrupolose cure dell’Impero; ma non valevano meno altre regioni più discoste ed altrettanto sospirate di quell’Oriente, che Alessandro e i successori si erano affaticati ad ellenizzare. Con lo stesso scrupolo usato verso l’Egitto, Roma organizzò il commercio col resto dell’Oriente, e i resultati dell’opera annullarono del tutto i vantaggi di qualsiasi relazione con la Grecia.

Dall’Oriente affluiva la più abbondante e svariata [100] copia di prodotti e di manufatti, ai quali soltanto era dato placare la febbre di lusso e di piacere, da cui fu invasa la metropoli del mondo, erede delle monarchie e delle Corti dei successori di Alessandro[250]. Di là provenivano l’incenso, la cassia, la senna, le resine, la mirra, l’aloe, il cinnamomo, il pepe, il garofano, lo zucchero, il riso, la tartaruga, i diamanti, gli zaffiri, gli smeraldi, le ametiste, i topazi, gli opali, i rubini, i giacinti, le perle, le tele, i filati di cotone e di lana, l’avorio, l’indigo, l’anice, le mussoline, l’ebano, il legno di teck, il marmo, il nardo, la porpora, il vetro, il cristallo, le lane, le stoffe colorate, le sete, le mezze sete, tutti i tesori dell’India, tutte le rarità della Cina[251].

Al paragone di tanto ben di Dio, la Grecia, non offriva che del marmo e qualche commestibile poco ricercato o punto necessario[252]. Oltre cento milioni di sesterzi, pari a 20 milioni di lire-oro, escivano ogni anno dai forzieri romani, pigliando il volo per le Indie e per la Serica, all’acquisto e all’importazione delle perle[253]; cinquanta e più, per i rimanenti prodotti[254], ed essi non costituivano che il saldo in moneta dell’importazione dell’Impero, non coperta dalle sue esportazioni in Oriente.

E in che cosa consisteva codesta esportazione? Essa consisteva, in massima parte in produzioni dell’Europa occidentale, quali il piombo, il rame, lo zinco, l’argento[255] ed in altre che venivano [101] fornite dallo stesso Egitto. Per tal modo l’Egitto, che disponeva delle principali vie dell’Oriente: l’Egitto, che ne aveva quasi monopolizzato il commercio, era anche la provincia che forniva a Roma buona parte dei mezzi con cui pagare le sue costose importazioni orientali. Dall’Egitto il commercio romano spediva in Cina manufatti di vetro, in Arabia e in India stoffe sontuose, broccati, bronzi, strumenti musicali, nonchè, probabilissimamente, lo splendido materiale da costruzione fornito dalle sue cave, quali il granito di Siene, la breccia verde della regione di Koser, il basalto, l’alabastro, il porfido. Quali vantaggi al confronto poteva fornire la Grecia europea?

Roma e il nuovo Occidente romano.

Ma un rivolgimento economico, assai simile a quello che la conquista di Alessandro aveva determinato in Oriente, comincia, un secolo e mezzo più tardi, verso la metà del sec. II a. C., a disegnarsi, anche nell’Europa occidentale, sin adesso barbarica.

Mentre Alessandria e l’Oriente si popolano di uomini e di ricchezze, nuovi centri di produzione, di commercio, d’industria balzano fuori dall’ombra che fin adesso ha velato l’orizzonte dell’Europa. Dalla distruzione di Cartagine, nel traffico del bacino occidentale del Mediterraneo e dell’Atlantico, la greca Marsiglia era poco a poco [102] sottentrata ai Fenici d’Africa. Essa commercia in loro vece con la Gallia, con la Bretagna, con le isole Cassiteridi: stanzia nuove colonie, inaugura industrie di metalli, fabbriche d’armi, arsenali[256] e assurge all’onore d’essere definita l’Atene della Transalpina, sì che, in sui primi anni dell’êra volgare, sebbene già in parte travolta dall’onda fatale della decadenza, occuperà con la sua grande ombra il quadro, che il geografo Strabone verrà abbozzando dell’antica Gallia meridionale[257].

Con Marsiglia si ha ora tutta una fioritura economica, chè sorgono quivi Arles, Bordeaux, Nîmes, Forum Julii, Tolosa, Lione[258], sovra ogni altra, Narbona, fra non guari emporio di tutta la Gallia[259], la quale fornisce carni, pesci salati, pelli, miele, lino, legname da costruzione. Più a oriente, la pianura padana, l’antica Gallia Cisalpina, entra ora nel gran mare della civiltà mediterranea. La Cisalpina è, in sullo scorcio di Roma repubblicana, una delle poche regioni italiche, in cui l’agricoltura continui a fiorire e l’industria proceda con passo sempre più rapido. Ivi Piacenza, Cremona, Parma, Padova, Modena, Bologna, Ravenna, forniscono, e continueranno per gran tempo a fornire l’Italia imperiale di tessuti di lana, di tele, di tappeti, ecc.[260]. Più a sud, la Spagna, per la cui conquista Roma aveva sì a lungo guerreggiato e sofferto, comincia ora a versare in larga copia i suoi beni: il suo olio, il suo vino, i suoi cereali, il suo miele, [103] la sua pece, il suo cinabro, il suo rame, il suo piombo, il suo oro, il suo argento, il suo stagno, nonchè a lavorare il lino e i metalli[261]. Anche qui, come in Oriente, i centri cittadini divengono presto numerosi, e Plinio, in sullo scorcio del primo secolo dell’êra volgare, vi menzionerà più che 330 città maggiori e 293 minori[262]. Più a sud ancora, al di là delle oramai violate Colonne d’Ercole, Roma aveva scoperto la Numidia e la Mauretania, le terre classiche, insieme con l’Egitto, dell’orzo, del finimento, di tutti i cereali, donde essa trarrà quattro dei milioni di grano che le occorrevano per approvvigionare l’Italia. Poichè l’Africa, dunque, era considerata dal governo romano come l’alma donatrice del pane cotidiano all’Italia, Roma si studierà di suscitarne la ricchezza con le cure più meticolose, con un regolare rimboschimento, con grandiose opere idrauliche, che ancor oggi sfidano la devastazione dei secoli[263]. Oltre che cereali, l’Africa settentrionale maturava l’uva, l’ulivo, le classiche mele puniche; produceva cotone, sparto, giunco, canne, fichi, mandorli, palme, melagrani; celava nelle sue viscere marmo e allume e, attraverso il suo territorio, dall’Etiopia e dalle più recondite contrade del misterioso continente africano, era possibile ricavare altri metalli e altre pietre preziose, polvere d’oro, bestie feroci, carichi umani di negri e di schiavi[264]. E anche qui, disseminate sur un Paese gravido di storia, che darà all’Impero le intelligenze migliori, e alla civiltà, i suoi [104] maggiori apostoli, tornano ora a brillare, come fari d’improvviso riaccesi, le antiche città numide e fenicie romanizzate, porti, fattorie, mercati, centri di studi e di piaceri: Caesarea (Cherchell), Cirta (Costantina), Lambesa e, sovra tutte, la nuova Cartagine, risorta, al pari della mitica Fenice, rigogliosa dalle sue ceneri e di cui un retore avrà a dire che contendeva il primato ad Alessandria e ad Antiochia, e rimaneva inferiore soltanto a Roma.

Dai Paesi mediterranei la luce della civiltà irradia ora sull’Europa settentrionale. A nord, al di là di quella felice Gallia Transalpina, che la spada di Cesare aveva dischiuso a Roma, e su cui la lungimirante accortezza di Augusto aveva fermato l’attenzione dell’Impero nascente, la lontana Britannia comincia a discoprire le sue risorse, le quasi sconosciute ricchezze naturali — il piombo, lo stagno, il rame, il ferro, l’elettro, perfino (incredibile!) il frumento — e comincia a lavorare l’avorio, a produrre collane, vasi di elettro e di vetro[265]. Man mano che gli anni passano, e che la civiltà romana lavora più a fondo l’Occidente, la vecchia, barbarica Europa celtica, fino al confine estremo della Germania, rivela i suoi tesori nascosti, disvela le sue produzioni ignorate, mette ogni giorno più in valore la sua attività produttrice. E Roma, l’Augusta Signora dell’universo, appresta alle mutate condizioni le nuove vie del traffico internazionale.

Le strade più battute, fra le mediterranee, saranno, [105] fin dal primo secolo dell’êra volgare, quelle, che, da Dicearchia o da Ostia, condurranno a Marsiglia, in Gallia, o a Cadice in Spagna, o le altre che da Pozzuoli per Messina proseguiranno alla volta della provincia d’Africa o dell’Egitto. Ma assai più importanti divengono ogni giorno le linee del traffico romano dei Paesi dell’est. Durante la Repubblica avevano dominato due linee terrestri attraverso l’Asia Minore. La prima, costeggiando le rive del Mar Nero, penetrava nell’Asia nord e centrale; l’altra si dipartiva dall’Eufrate per Mazaca, Apamea e Laodicea, fino ad Efeso, recando i prodotti naturali e industriali della Caldea, della Fenicia, della Siria, della Persia e dell’India, che colà attendevano d’essere alla loro volta caricati e trasportati in Italia[266].

Ma già, fin dagli ultimi anni della Repubblica, s’era cominciato a seguire una terza linea di comunicazione fra l’Occidente e l’Oriente, quella di Alessandria, la città che, dopo la riduzione dell’Egitto a provincia romana, accoglierà il maggior nerbo del commercio romano-orientale. Questa linea procedeva per terra o per mare. Per terra, era continuata da altre vie, fluviali e terrestri, attraverso l’Egitto, l’Arabia, fino alle Indie, a loro volta rotte e diramate a seconda delle occorrenze e delle destinazioni. Per mare, essa costeggiava tutta l’Asia sud-occidentale, e, grazie alla migliore navigabilità del Nilo e al più breve tragitto terrestre, era facilmente [106] prevalsa sulle più antiche comunicazioni fra l’Europa e l’Oriente. Meglio ancora, ottant’anni circa dopo la conquista romana dell’Egitto, ai navigatori toccava la buona fortuna di scoprire i mussoni di nord-est e di sud-ovest. Una nuova linea, senza confronto più rapida e più agevole, si schiudeva così fra l’Africa e l’India; il commercio occidentale la ricalcherà senza interruzioni per ben quattordici secoli, ed essa ribadirà la soggezione economica di Roma all’Egitto, e quella del mondo intero all’una ed all’altro.

D’altro canto, l’Impero cessa di servirsi dei porti greci di transito per l’Oriente di cui s’era servita la Repubblica. L’Impero rivolge ai porti italici della costa occidentale della penisola Balcanica gli estremi residui del traffico greco con l’Asia. Non soltanto, dunque, l’Oriente ellenizzato, ma anche Roma e il nuovo Occidente romanizzato strappano alla Grecia la corona dell’antica gloria, la ricacciano in sempre più angusti confini, e finiscono col concludere definitivamente un fatale processo, che altri eventi memorandi avevano iniziato.

La nuova situazione della Grecia nel mondo.

La Grecia classica non ha a tutta prima la sensazione dell’abisso, in cui il nuovo rivolgimento del mondo la trascina. A tutta prima, [107] l’inopinato rifiorire del vecchio Oriente sembra apportarle del bene. Il nuovo Paese, che sorge d’improvviso alle sue spalle, mancante di tutto e di tutto bramoso, par che ridesti la sua dormiente attività, che ridoni nuovi sbocchi e nuove clientele ai suoi mercati. Nei dieci anni di pacifico governo di Demetrio il Falereo, dal 317 al 307, rivive in Atene, ancora una volta, lo splendore di tempi oramai trapassati[267]. Non è solo il buon governo del suo improvvisato signore a colorare di luci rosee quel tramonto, che pure ha le sembianze di una nuova aurora. È il reflesso mendace del primo irradiarsi dell’ellenismo sul mondo. D’altro canto, l’acuta penuria di terre, di lavoro, l’eccesso di popolazione, di cui fin ora la Grecia ha sofferto, sembrano alleviarsi. Gli emigranti, che si recano all’estero, vendono a buon prezzo le loro terre; molte famiglie in patria inaridiscono, si spengono, e i loro beni vanno a ingrossare il patrimonio dei congiunti dei rami collaterali. Ma, appena le grandi città ellenistiche hanno oltrepassato il breve periodo critico dell’adolescenza, le concepite illusioni sfioriscono una dopo l’altra. Se finora Atene, come un dì la magnificava Senofonte[268], è stata l’umbilico del mondo civile, e le sue navi hanno potuto con eguale facilità toccare la Sicilia greca, la greca Napoli, il medio Adriatico, le città tracie, la Cirenaica, l’Asia Minore, Cipro, ora non più! Ora il mondo si è disteso assai più ad Oriente di un [108] tempo. Ora Atene non è al centro, ma in un angolo dell’antico oichouméne[269]. Il nuovo ordito stradale, che i sovrani ellenistici vanno allacciando, consolida questa inferiorità, ch’è poi, in fondo, l’inferiorità di tutta la Grecia classica, dalla quale non si salvano che per breve ora alcune sue stazioni isolate: Corinto, grazie alla sua incomparabile situazione di regina di due mari e al suo privilegio di residenza greca dei monarchi macedoni[270], Rodi e qualcuna delle città costiere dell’Asia Minore, grazie alla minor distanza dal cuore del nuovo mondo[271]; poi, dopo la violenta, romana decapitazione di Corinto e di Rodi, Delo, diventa centro vitale del commercio italico nell’Egeo[272]. Ma non si tratta di splendori durevoli, nè di nuovi grandiosi centri di produzione o di civiltà, sibbene di effimeri porti e di stazioni marittime, che nulla hanno a competere con le rivali dell’Occidente e dell’Oriente, di brevi ed anguste vie di transito ad altri mercati e di prodotti altrui.

Le stoffe seriche, fin ora uscite dalle frequenti fabbriche di Coo, scompaiono poco a poco dinanzi all’affluire di quelle che provengono dall’Estremo Oriente[273]; l’Argolide e la Laconia chiudono, una dopo l’altra, le sonanti fabbriche di armi[274]; le miniere, di ferro e di rame, dell’Eubea vengono abbandonate[275]; l’arte del bronzo e delle chincaglierie si spegne in quella Egina, che ne era andata per secoli gloriosa[276]; le officine artistiche [109] di Sicione si fanno deserte[277]; Atene — la stessa Atene — abbandona per sempre le sue ricche miniere di Laurio e le secolari industrie ceramiche[278]. Di quali materie — ripetiamo —, di quali prodotti naturali, di quali speciali attività poteva la Grecia disporre, che la mettessero in grado di resistere alla nuova concorrenza dell’Oriente e dell’Occidente?

Per altro lo sforzo stesso della conquista di un mondo nuovo si è rivolto contro il vecchio mondo, che l’ha intrapresa e miracolosamente condotta a termine. Le grandi e medie proprietà, che in Grecia ora si ricostituiscono, finiscono col mancare di braccia, e i loro prodotti non trovano più compratori. Per tal modo l’agricoltura, viene man mano abbandonata e cede il posto alla pastorizia o al deserto. È lo spettacolo, che offrono la Tessaglia, l’Attica, e, in modo ancora più impressionante, l’Eubea. Anche le città greche del Mar Nero, un giorno opulente esportatrici di cereali, prive della loro clientela, battute dalla insuperabile concorrenza dell’Egitto, dell’Africa e del nuovo Occidente, riducono poco a poco le tradizionali colture[279].

I piccoli proprietari vanno in rovina, e sono costretti a vendere il loro boccone di terra, ad emigrare, o ad arrolarsi quali mercenari. Taluni cedono altrui la propria terra, e restano come fittavoli sul podere, che un tempo era stato dei loro padri, o pigliano in fitto le terre, che i grandi proprietari [110] o i templi pongono in aggiudicazione. Ma la terra non rende più. Il fitto ingoia il ricavato della vendita dei prodotti. È il fenomeno di cui ci sono documento terribile i conti dei beni del tempio di Delo nel periodo ellenistico[280]. Così i nuovi fittavoli precipitano tra la folla dei debitori; il loro raccolto è sequestrato; il lavoro dell’anno successivo, ipotecato dai debiti e dai suoi gravosi interessi.

Di contro a questa poveraglia rurale, andata in rovina, i pochi fortunati grandi proprietari del tempo passano la loro vita, come i baroni medioevali, banchettando e bevendo, litigando a mano armata o ricercando i più bassi godimenti, bramosi di scordarsi nell’ebbrezza delle miserie che li circondano, dei pericoli che li attendono[281].

Un fenomeno analogo ricorre nell’industria. Le officine si sono chiuse, e gli schiavi operai sono stati ridotti di numero. Ma non ci sono più operai liberi. Essi sono quasi tutti emigrati, e gli industriali non possono mai sapere se i pochi superstiti rimarranno al loro servizio fino al termine del lavoro intrapreso. Manca il lavoro e manca, al tempo stesso, la mano d’opera. I salarî sono assai più bassi che nel periodo classico[282], e intanto la messa in circolazione delle ingenti riserve auree dell’Oriente ha provocato una diminuzione della potenza di acquisto della moneta, ossia un accrescimento generale dei prezzi. Si hanno, nel IV-III secolo a. C., sensibili [111] rincari dei cereali, del vino, dell’olio, del bestiame[283], e, in corrispondenza, di tutti gli altri generi, senza che il Paese trovi in se medesimo la forza di rimediare, giacchè, pur troppo, contemporaneamente, si svolge l’altra, parallela crisi, commerciale e industriale, e infieriscono ovunque le crudeli guerre dei Diadochi e degli Epigoni.

Quell’impoverimento, quell’indebitamento generale della Grecia nei secoli IV-III, che noi abbiamo visto dipendere da tante altre cause, e che continuerà ad essere il tratto caratteristico dell’economia del Paese nei due secoli successivi[284], dipende anche da questa impossibilità di lavorare, di guadagnare, di vivere.

Tale è la Grecia, nella quale, a mezzo il II secolo a. C. s’abbatte la nuova egemonia mediterranea romana, per assestarle l’ultimo colpo: sola, povera, relegata in un angolo del mondo, tagliata fuori dalle grandi arterie commerciali, vuotantesi d’uomini e di energie, invasa già dal rigore e dal gelo della morte. Nelle frequenti menzioni di Paesi, d’ora innanzi in rapporti commerciali con Roma, la Grecia non serba più che l’ultimo posto. Roma commercerà con la Sicilia, l’Africa, le regioni dell’Europa settentrionale e occidentale, l’Arabia, la Siria, la Persia, le Indie; poco o nulla con la patria di Epaminonda e di Temistocle[285]. Tutti i Paesi, un tempo soggetti all’impero del commercio ellenico, le coste dell’Egeo e del Mediterraneo, la Spagna, l’Italia, la Sicilia, la [112] Libia, l’Egitto e l’Asia Minore[286], subiscono ora altri dominî ed altri dominatori, e signoreggiano essi stessi i territorî della Grecia classica. Atene, mutila d’industrie e di commerci, si adatta a vivere delle benevoli oblazioni di quei Romani, che vi dispenseranno regolarmente frumento, vi istituiranno dotazioni alimentari e ne pagheranno i giuochi pubblici. I mercati dell’Impero romano obliano, o quasi, gli antichi olii e gli antichi vini dell’Egeo[287]; e le frequenti strade, militari o commerciali, riattate o costrutte ex novo rimangono lontane da questa penisola, un tempo sorrisa dal bacio della prosperità e della gloria.

Nuove strade si apriranno in Palestina, in Egitto, nella provincia d’Africa, tra l’Italia e l’Europa centrale, in Ispagna, nelle Gallie, in Britannia, in Tracia, in Asia Minore, in Siria. La Grecia rimane tagliata fuori dall’empito di tante arterie di vita[288], se ne togli un tragitto attraverso le montagne dell’Epiro, paese che i Greci, veramente, non avevano mai considerato come ellenico.

Per mare e per terra risorgono la pirateria e il brigantaggio dei tempi primitivi, che l’intensa attività del commercio ellenico avevano fugato[289]. Ma i mercati e le grandi fiere, che un tempo, in giorni determinati, adunavano e agitavano tutta la nazione, dispaiono; sedi di fiere e di mercati sono divenute l’Africa, l’Oriente, l’Europa occidentale[290]. L’industria arena, regredisce all’originaria [113] fase domestica; priva di sbocchi e di avvenire, si accontenta di bastare alla meno peggio ai bisogni locali.

Si maturava, esclama un moderno, un processo d’involuzione analogo a quello che subirebbe l’Inghilterra, ove perdesse d’un tratto la sua egemonia, commerciale e industriale, e scendesse al grado di Paese di secondaria importanza. Ricorreva, in anticipazione di secoli, quell’identico processo storico, che subiranno, con analoghe conseguenze, fra quindici secoli, alla scoperta dell’America, tutti i Paesi mediterranei. E come allora la prosperità e la fortuna passeranno dalle Repubbliche marinare dell’Italia alle città spagnuole, portoghesi, francesi, olandesi; dagli emporî meridionali a quelli occidentali dell’Europa moderna[291], così, ora alla nuova scoperta dell’Oriente ellenistico e della più giovane Europa occidentale, l’asse del mondo si sposta, dalla Grecia e dalla Magna Grecia, verso l’Asia, l’Egitto, l’Africa, l’Atlantico, provocando la decadenza delle nazioni, dalle cui sponde la Fortuna aveva esulato per sempre.

Note al capitolo secondo.

232.  Sull’opera colonizzatrice di Alessandro e dei successori, cfr. J. G. Droysen, Les villes fondées par Alexandre etc., in Droysen, Hist. de l’hellenisme, II, 1884, App. III (trad. fr.).

[114]

233.  Mayr, Lehrbuch d. Handelsgeschichte, Wien, 1894, pp. 27-29, 48 (trad. it. in Bibl. st. econ., vol. VI); Mommsen, Le province romane da Cesare a Diocleziano (trad. it. di E. De Ruggiero), Roma, 1887, pp. 330-32; Richter, Handel und Verkehr der wichtigsten Völker des Mittelmeeres im Alterthum, Leipzig, 1886, pp. 110 sgg.

234.  Guiraud, Main d’oeuvre industrielle ecc., pagine 35-36; Beloch, Gr. Gesch., III, 1, 287-88 (1ª ed.).

235.  Droysen, Hist. de l’hell., III, 61 sgg.

236.  Blümner, Die gewerbliche Thätigkeit der Völker d. klass. Alt., Leipzig, 1869, 19 sgg. (trad. it. in Bibl. st. econ., II, 1).

237.  Strab., 16, 2, 5.

238.  Strab., 16, 2, 9.

239.  Beer, Geschichte d. Welthandels, Wien, 1860-84, pp. 90-91. Su Seleucia, cfr. altresì Hüllmann, Handelsgeschichte d. Griechen, Bonn, 1839, pp. 237-54 e Beloch, Gr. Gesch., III, 1, 296 sgg. (1ª ed.).

240.  Strab., 17, 1, 45; Mayr, op. cit., 29.

241.  Lieblein, Handel und Schiffahrt auf dem Rothen Meere, Cristiania, 1886, pp. 99 sgg.

242.  Droysen, op. cit., II, 773.

243.  Noël, Hist. du commerce du monde, Paris, 1891, p. 23; cfr. Strab., 17, 1, 13.

244.  Lumbroso, Économie polit. de l’Égypte sous les Lagides, Torino, 1870, 95-96, 130.

245.  J. Kaerst, Geschichte d. hellenistichen Zeitalters, Leipzig u. Berlin, 1909, II, 1, 188 sgg.

246.  A testimoniare della varietà dell’industria dell’Egitto greco suole citarsi un passo di una lettera di Adriano, riportato da Flavio Vopisco (Hist. Aug., 8, 5). La lettera imperiale è confermata da molti elementi dei papiri greco-egizi (cfr. Wilcken, Griech. Ostraka, I, 188 sgg.; Pr. S., 5124; P. Tebt., 385), richiamati da A. Calderini, in Aspetti e problemi del lavoro secondo i papiri, Milano, 1920, pp. 14 sgg.

[115]

247.  Sulle macchine idrauliche e le relative menzioni nei papiri greci, cfr. A. Calderini, Macchine idrofore secondo i papiri greci, in Rendiconti del R. Ist. lombardo di sc. e lett., 1920, pp. 621 sgg.

248.  Sull’agricoltura, sull’industria e sul commercio nel periodo ellenistico, cfr. le Revenue Laws of Ptolemy Philadelpus, Oxford, 1896, di Grenfell e Mahaffy e la relativa Introduzione, pp. XXXIV sgg.; i Griechische Ostraka ecc. del Wilchen, I, 664 sgg.; 681 sgg.; Lumbroso, op. cit. passim, e Robiou, Mémoire sur l’écon. polit. de l’Egypte (Paris, 1871), passim; E. Ciccotti, Il tramonto della schiavitù, pp. 134 sgg.; J. Beloch, Gr. Gesch., III, 1, 279 sgg. (1ª ed.); G. Luzzatto, Storia del commercio, Barbèra, Firenze, 1914, I, 85 sgg.; Bouchè Leclerq, Hist. des Lagides, Paris, 1906; III, 179-381; G. Glotz, in Journal des savants, 1913, pp. 206 sgg., 251 sgg.; Idem, Le travail en Grèce, parte IV, capp. I-V; E. Ciccotti, Lineamenti dell’evoluzione tributaria del mondo antico, Introd al vol. V della Bibl. di st. econ., 1921, pp. 30 sgg.; M. Rostovtzeff, A large estate in the third century B. C., Madison, 1922.

249.  Strab., 17, 1, 13.

250.  Richter, op. cit., pp. 112-13.

251.  Hüllmann, op. cit., 202 sgg.; Noël, op. cit., pp. 59, 63; Mayr, op. cit., 49, 51; Beer, op. cit., 1, 106 sgg.; cfr. Pardessuss, Mémoire sur le commerce de la soie chez les anciens (estr. dalle Mémoires de l’Institut royal de France, Paris, 1832). Ecco il pensiero romano sul valore economico della provincia d’Asia, che formava appena un breve angolo dell’Asia Minore ellenistica: «tam opima est et fertilis ut et ubertate agrorum et varietate fructuum et magnitudine pastionis et multitudine earum rerum quae exportantur, facile omnibus terris antecellat» (Cic., De imp. Cn. Pomp., 6, 14).

252.  Noël, op. cit., p. 50. Cfr. il quadro dell’importazione dell’Impero romano, disegnato dal Richter (op. cit., 144 sgg.), sia pure senza eccessivi riguardi per la cronologia.

[116]

253.  Plin., N. H., 12, 84.

254.  Plin., N. H., 6, 101.

255.  Cfr. Beer, op. cit., I, 107.

256.  Blümner, op. cit., 141-42; Büchsenschütz, Die Hauptstätten d. Gewerbfleisses im klass. Alterthum, Leipzig, 1869, p. 54.

257.  Strab., 4, 1, 5 sgg.

258.  Strab., IV, 1, 6; 9; 2, 1; 12 sgg.; 3, 2; 5; Noël, op. cit., 76 sgg.; Mayr, op. cit., 127 sgg.

259.  Strab., IV, 1, 6; 12; 3, 2.

260.  Strab., 5, 1, 11; Beer, op. cit., 1, 103. La crescente importanza commerciale della Gallia Cisalpina (e della Transalpina) risulta altresì dal numero delle corporazioni industriali ivi costituite. Cfr. Waltzing, Étude hist. sur les corporations professionelles chez les Romains, Louvain, 1895-900, II, pp. 158-59; Blümner, op. cit., 98 sgg.

261.  Strab., 3, 2, 8; Blümner, op. cit., 127 sgg.; Hispania, in Diz. epigr. di E. De Ruggiero, 780 sgg.

262.  Plin., N. H., 3, 7; 18.

263.  Sull’importanza dell’Africa settentrionale, rispetto a Roma, cfr. Boissière, L’Algérie romaine, Paris, 1883, pp. 45-47, 56 sgg. G. Boissier, L’Afrique romaine, Paris, 1895, 136 sgg., 147. Su l’opera spiegata dai Romani in Africa, cfr. J. Toutain, Essai pour l’histoire de la colonisation romaine dans l’Afrique du nord, Paris, Fontmoing, 1896.

264.  Manzi, Il commercio in Etiopia dai primordî alla dominazione musulmana, 1886, pp. 99 sgg., 113 sgg.

265.  Strab., 4, 5, 3; [Eumen.], Paneg. Constantio, 9, 11; Cunningham, Lo sviluppo della industria e del commercio inglese (trad. it. in Bibl. Stor. ec., VI), pp. 55-56.

266.  Beer, op. cit., 1, 105.

[117]

267.  Diog. Laert., 5, 75. Le entrate di Atene tornano adesso a risalire a circa 1200 talenti (Duris, in F. H. G., II, p. 475, ed. Didot).

268.  Xen., De vectig., I, 6.

269.  Beloch, Gr. Gesch., III, 1, 286-87 (1ª ed.).

270.  Beloch, op. cit., III, 1, 279 e fonti citate (1ª ed.).

271.  Francotte, L’industrie en Grèce, I, 45-46; Glotz, Le travail dans la Grèce ancienne, pp. 395-400.

272.  Hüllmann, op. cit., 253 sgg.

273.  Blümner, Die gewerbliche Thätigkeit, p. 49.

274.  Op. cit., 78, 83.

275.  Op. cit., 87.

276.  Op. cit., 90.

277.  Plin., N. H., 36, 4, 9.

278.  Blümner, op. cit., 67-68, 87.

279.  Nel II secolo a. C. esse importano cereali; cfr. Pol., 4, 38, 5. Sui prezzi dei cereali in Egitto nel periodo Tolomaico, cfr. Wilcken, Ostraka, I, 667 sgg.

280.  Glotz, op. cit., 415.

281.  Pol., 20, 6, 5-6; Dicearch., I, 14-15 (in Geogr. Gr. minores, I, p. 103, ed. Didot).

282.  Glotz, in Journal des Savants, 1913, pp. 259-60.

283.  Beloch, Gr. Gesch., III, 1, 319-21 (1ª ed.); si confrontino i prezzi del periodo precedente, indicati dal Beloch stesso (op. cit., III, 1, 356-57, 2ª ed.). È strano perciò rilevare come questo storico concluda che «in generale la vita, nell’età successiva ad Alessandro, non divenne più cara».

284.  Cfr. Liv., 42, 5; Pol., 15, 1 sgg.; 20, 6, 3.

285.  Beer, op. cit., 1, 103 sgg.

286.  Hüllmann, op. cit., 114 sgg.

287.  Mayr, op. cit., 47-48.

288.  Mommsen, op. cit., 270. Cfr. Leger, Les travaux publics au temps des Romains, Paris, 1875, pp. 179 sgg.; Bergier, Hist. des grands chemins de l’Empire rom., Bruxelles, 1728, I passim.

[118]

289.  Sulla pirateria nei secoli II-I a. C., cfr. I. G., XII, 2, 860 (= C. I. Gr., 2335), 1, 8; Cic., De imp. Cn. Pomp., II, 31-32; App., Mithr., 63; sul brigantaggio terrestre, cfr. Strab., 12, 8-9.

290.  Noël, op. cit., 75, 84.

291.  Meyer, Die wirtschaftliche Entwickelung d. Altertum (in Jahrbuch f. Nationalökon, ecc., 1895 p. 728); Mayr, op. cit., 114, 116, 136; Beer, op. cit., II, 25-26.

[119]

CAPITOLO TERZO. LA CONQUISTA ROMANA

La conquista.

La Grecia libera non aveva saputo far degno uso della propria libertà. Essa aveva bruciato a tutti i suoi capi la propria esistenza storica. La Grecia del periodo ellenistico, ossia la Grecia dei secoli IV-II a. C., aveva subito i terribili contraccolpi dell’immenso rivolgimento economico che s’era operato nel mondo antico. A mezzo il II secolo la Grecia sopporterà, invocherà, anzi, la conquista romana, e per essa getterà via l’indipendenza, che tanto le era stata cara e alla quale numerosi beni aveva fin ora sacrificati.

Pur troppo, il mutamento non le sarà apportatore di fortuna. La Grecia diventava provincia romana in un momento critico della storia della grande Città laziale, ora assurta alla onnipotenza di metropoli mediterranea. La Grecia diventava schiava per sempre nell’atto stesso in cui Roma usciva da un periodo veramente grave della sua istoria: da una insurrezione generale dei Paesi mediterranei, che per circa mezzo secolo [120] (dal 201 al 149) essa si era illusa di dominare con l’esercizio di una mite, indiretta, egemonia. A un tratto il grande sogno dei suoi maggiori politici — dei Flaminini, degli Scipioni — era crollato. Le più remote e diverse contrade del mondo mediterraneo le si erano rivoltate tutte insieme, come al richiamo di un segnale convenuto — e le due Spagne, e Cartagine e la Macedonia, e la Grecia —, e l’avevano inchiodata alla croce di una guerra quasi ventennale, che, come la Seconda Punica, era tornata a devastare le risorse della Repubblica, e più volte aveva messo in pericolo il destino di un impero faticosamente conquistato. Appunto per questo Roma, adesso, abbandona ogni pietà, e non esita a schiacciare la rivolta — ferocemente — col flagello e con la spada, col ferro e col fuoco. Sotto la raffica della sua implacabile vendetta si abbatterono Cartagine, Corinto, Numanzia. N’è consigliero, e artefice, al tempo stesso, il più mite, il più squisito degli spiriti dei Romani del tempo — Scipione l’Emiliano —: segno che non era più lecito condursi in modo differente. Pur troppo, è nelle mani di questa implacabile e feroce virago, odiatrice del molle ellenismo di cinquant’anni prima, che cade ora, anch’essa, la Grecia, vinta a Scarfea e a Leucopetra, schiantata a Corinto, e per oltre un secolo espierà sanguinosamente tutte le imprudenze e le leggerezze passate[292].

Ma la Grecia — e non soltanto quella [121] balcanica — ha altresì la sventura di passare sotto il dominio di Roma, allorchè nella società italica si è già compiuta una trasformazione profonda, che, con le sue ripercussioni farà sanguinare tutte le province romane, sino al giorno, che ormai sembra follia sperare, dell’avvento dell’Impero.

Ed infatti, l’Italia del II-I sec. a. C. è un Paese, nel quale le antiche occupazioni indigene sono state abbandonate, quasi del tutto, per sempre. Le vecchie forme dell’agricoltura sono andate in rovina; l’introduzione della mano d’opera servile, che le guerre gigantesche hanno fornito in gran copia; le guerre stesse, che hanno distrutto la piccola e media proprietà; le devastazioni annibaliche; la concorrenza dei prodotti di province assai più ricche e feconde: queste ed altre cause minori hanno fatto sì che la tradizionale agricoltura italica perisca. La grande crisi, di cui l’età dei Gracchi ci sarà testimone, è la conseguenza di un così molteplice processo. Nè più l’Italia riesce a ripiegarsi verso la terra. Le province, il commercio, la speculazione sono ora motivi più lucrosi di guadagno, e per essi l’antica Italia agricola diventa quello che suol dirsi un grande Paese mercantile[293]. È l’età in cui prorompe — talora, per vie coperte, tal’altra sfacciatamente —, ai primi posti della vita pubblica, quella classe che sarà detta dei cavalieri, ossia dei capitalisti, dei nuovi arricchiti.

[122]

Sorte non diversa dell’agricoltura subiscono le manifatture e le industrie proprie della vecchia Italia — l’Italia etrusca e greca —, la cui tradizione non si era mai perduta fino a Q. Fabio Massimo e al primo Scipione. Prevale ora, su tutto, la frenesia della speculazione e del commercio; trionfa, su ogni altra classe sociale, la così detta plutocrazia, produttrice di ricchezza, ma di preferenza speculatrice sulla produzione altrui, talora a danno di questa produzione medesima, ed essa lega, trascina, verso quelli propri, gl’interessi della maggior parte della società romana[294], e nelle sue mani stritola il mondo intero, che da Roma dipende, e che a Roma essa finisce di asservire.

In questa situazione di spiriti e d’interessi ha radice l’imperialismo, politico ed economico, romano, che si disfrenerà implacabile fin dalla metà del sec. II a. C., ma in modo particolare nel secolo successivo, da Sulla a Cesare, nell’età delle grandi guerre orientali, mitridatiche, civili, galliche. In tutto questo periodo, mentre i generali romani e i capipartito guideranno gli eserciti: mentre decine di migliaia di soldati mercenari combatteranno contro i nemici di Roma o contro quelli del loro duce improvvisato, si formerà il concetto e si stabilirà saldamente la pratica, che tutto il carico della guerra e dell’impero, tutto il privilegio e il capriccio di Roma e dell’Italia romanizzata devono pesare sui provinciali.

[123]

Nel pieno cuore di questa età procellosa cade l’ingresso della Grecia nel novero delle province della Repubblica.

Le contrade greche cominceranno ad apprendere da Sulla, durante la prima guerra mitridatica, quanto costi l’orgoglio del dominio romano. Al generalissimo, intento all’assedio di Atene, la Beozia sarà costretta a spedire ben 10.000 muletti carichi di provvigioni; l’Attica, e la Megaride, a fornirgli il legname delle foreste abbattute; i templi di Epidauro, di Delfo, di Olimpia, a vuotarsi dei tesori, accumulati faticosamente per secoli, nella gloria di lui e del popolo romano. Più tardi, allorquando, durante la seconda guerra civile, Pompeo con uno sforzo supremo s’accingerà a contrastare il passo al fortunoso e audace avversario, tutta, o quasi, la Grecia dovrà donargli il suo sangue migliore: e le Cicladi, e Corcira, e Atene, e la Beozia, e la Focide, e la Tessaglia, e l’Epiro, e Creta; e tutte le città verseranno somme considerevoli nel grembo del generale romano, un tempo più felice di Sulla, ora flagellato crudelmente dalla fortuna[295]. La nuova guerra civile dei triumviri, Ottaviano ed Antonio, contro gli uccisori di Cesare, farà di nuovo contorcere la Grecia in uno spasimo di disperazione. La Grecia aveva favorito la riscossa dei tirannicìdi del 15 marzo 44. Or bene, dopo Filippi, i vendicatori dell’eccidio di Cesare dichiareranno, è vero, di volersi mostrare clementi. Ma uno di essi, Marco Antonio, si farà [124] ripagare la propria personale generosità con circa un milione di lire, quale strana dotazione di un suo eccentrico fidanzamento con la dea protettrice della città di Atene....[296]. Ma egli stesso si ricorderà bene dei torti, un giorno condonati alla Grecia, dieci anni dopo, alla vigilia della guerra di Azio. Allora Antonio mancava di rematori per le sue navi; farà quindi catturare, per ogni parte dell’Ellade, i viaggiatori, i mulattieri, i mietitori e quanti potevano essere atti al mestiere dei remi[297]; mancava di vettovaglie per l’esercito e per la flotta, mancava di bestie da soma e di schiavi pei trasporti; saranno quindi gli abitanti, a colpi di flagello, obbligati a trasportare a braccia, e non per una volta soltanto, il grano occorrente ai suoi uomini[298].

L’uragano devastatore si placherà in sullo scorcio dell’ultimo secolo innanzi l’êra volgare; ma allora esso avrà schiantato e distrutto, per gran parte, la ricchezza, la vita, l’onore di tutto il mondo, da Roma trionfalmente asservito, con la violenza delle armi o con l’abilità della diplomazia.

I divoratori delle provincie.

L’organizzazione delle province, escogitata dalla Repubblica romana, fu, teoricamente — senza dubbio — migliore della sua trista fama. Le province pagavano imposte dirette — decime e stipendia —; pagavano numerose imposte indirette, [125] i cui proventi, però, venivano ora impiegati, non più a beneficio della regione, ma a vantaggio del lontano fisco romano. Ma il terribile male, di cui soffrirono le province, non istava nella teorica norma legislativa, sibbene negli abusi — infiniti — di coloro che erano delegati ad eseguirla o di quegli altri, che speculavano sulla esecuzione.

Fra i primi figurano, e al primo posto, i governatori. I governatori si recavano in provincia, dopo avere speso somme enormi per conquistarsi, attraverso lunghi anni, la popolarità, per varare le loro gratuite magistrature di questori, pretori, consoli, per averle esercitate con dignità, o, più spesso, con isfarzo. La provincia quindi doveva essere, per loro, il campo opimo di risarcimento e di rifacimento di tutti i loro dispendi, troppe volte, anzi, di tutti i loro sperperi. E colà, armato di un potere assoluto — vicereale — esente da tutte le limitazioni, che incombevano sui magistrati in Roma, il governatore romano non esitava a speculare e a frodare sui suoi amministrati, a proposito di ogni cosa e di tutto: dell’acquartieramento delle truppe, dell’alloggio, dovuto o preteso per lui stesso, pei suoi impiegati, pei suoi aiutanti, pei suoi medici, pei suoi sacerdoti, delle requisizioni, della ripartizione e della percezione delle imposte, dei giudizi, dei testamenti, delle opere militari.... Perciò vediamo Cicerone, dopo il governo della Cilicia — un proconsolato, che, rispetto alle consuetudini del [126] tempo, passò come uno dei più singolarmente onesti — riportare in patria un guadagno netto di circa mezzo milione di lire[299]; Verre, che fu un tipo, e non, come erroneamente si crede, un’eccezione[300], riportare dalla Sicilia circa 10 milioni[301]; Sallustio, il moralissimo Sallustio, rovinato dai debiti di una vita dissipata, preposto, nel 46 a. C., da Cesare all’amministrazione della Numidia, o, come si esprime un antico, più propriamente, alla rovina di quel Paese[302], dopo due anni di governo, tornare a Roma quasi impacciato dalle proprie ricchezze, a edificarvi un palazzo senza rivali, a piantarvi giardini, l’uno e gli altri giudicati, più tardi, degni del soggiorno imperiale, e le cui terme, gli acquedotti, il tempio, il Circo, le statue, i colonnati ci offrono ancor oggi, coi loro ruderi, un esempio dei più mirabili monumenti dell’arte antica.

«È difficile dire», esclamava una volta Cicerone[303], «fino a qual segno noi siamo odiati dai provinciali a motivo dell’ingordigia e dell’iniquità dei magistrati, che abbiamo in questi ultimi anni delegato al loro governo. Quale tempio ha loro imposto rispetto? Quale città è stata per essi sacra? Quale domicilio, sbarrato a sufficienza? Le città, un tempo ricche e prospere, sono da costoro ricercate in modo speciale, e ad esse si muove guerra per aver campo di poterle saccheggiare».

Ma Cicerone si riferiva all’esercizio normale [127] del governo delle province, allorquando tutti i mali, di cui queste soffrivano, dipendevano solo dall’applicazione rigorosa del concetto, essenzialmente romano-repubblicano, che ai magistrati inviati da Roma toccava affermare, in tutta la sua assolutezza, il dominio della città ch’essi rappresentavano[304]. Di assai peggio toccò alle province tra l’infuriare delle numerose guerre civili, allorquando, venuto meno ogni freno giuridico, sia pur nominale, i luogotenenti della Repubblica, operavano ciascuno per proprio conto, a null’altro mirando che ad eccitare, ad esaltare la bravura dei soldati, ad accaparrarsi a qualsiasi prezzo la loro fedeltà, a procurarsi gl’istrumenti necessari della vittoria o della salvezza.

La conquista divenne allora un vero e proprio flagello, e l’amministrazione, un bottino, sistematicamente organizzato.

Sarà questo il tempo in cui Cesare largirà a ciascuno dei suoi veterani 2.000 sesterzi e 300 a ciascun cittadino romano, che volesse serbarsi neutrale; il tempo in cui salderà le spese occorsegli durante la terza fase della seconda guerra civile, imponendo ai senatori pompeiani di Utica il tributo di oltre 25 milioni di lire e vendendo all’asta pubblica un milione di Galli; il tempo in cui egli stesso potrà versare nelle casse dello Stato 150 milioni e, nel suo tesoro privato, 20 milioni di lire. Sarà questo il momento in cui lo stoico e morigerato Cassio caverà dal miglior sangue [128] e della Giudea, un tributo di ben 4 milioni, e poichè quei debitori, improvvisati d’ufficio, non si sbrigavano, ordinerà la messa all’incanto di ben quattro città[305].

Tutto ciò, senza calcolare i profitti privati dei legionari e degli ufficiali, i gravami straordinari per esaudizioni di voti, per allestimenti di giuochi pubblici, per nuove costruzioni edilizie; tutto quel contorno di fuochi di gioia, che, volta per volta, accompagnavano l’ebbrezza della vittoria, i fumi del trionfo, e spremevano lagrime di sangue dalle pupille inaridite dei provinciali.

Nè il governatore era solo. Con esso accorreva nella provincia un largo e numeroso stuolo di legati, questori, prefetti, interpreti, littori, mezzani elettorali, amici, «gente tutta egualmente affamata, cui la provincia doveva fare o rifare un patrimonio e per cui doveva rappresentare quasi un’oasi, nella quale, non solo si avevano a godere tutti i possibili diletti, ma si dovevano eziandio fare le provvigioni ed i rifornimenti per proseguire a miglior agio il lungo cammino della vita pubblica e dell’esistenza»[306].

Al governatore e alla sua coorte si aggiungeva quell’orda funesta, d’intermediari fiscali, che furono in provincia i pubblicani. Roma antica non ebbe per secoli un servizio di Stato per la riscossione delle imposte. La Repubblica preferì appaltare altrui tale ufficio, e si servì all’uopo di grandi compagnie di cavalieri romani: i così detti pubblicani. [129] Era quindi naturale che costoro, forti della loro qualità di cittadini romani e della solidarietà del governatore e del governo, cercassero di rifarsi larghissimamente sui provinciali delle somme che essi si erano obbligati a versare all’erario romano[307]. Ma le soverchierie, le violenze, gli abusi divennero infiniti il giorno, in cui, nel 122 a. C., un’incauta, o, piuttosto, temeraria legge di Caio Gracco fece passare nelle mani dei cavalieri quegli stessi giudizî penali, cui gli ingordi percettori di tributi in provincia, potevano finora soggiacere.

Gli esempi dei loro metodi furono veramente impressionanti, e noi avremo più innanzi a riferirne parecchi, relativi a città greche amministrate da Roma. Ma, già fin dal II secolo a. C., è divenuta proverbiale la ferocia dei pubblicani, che giungevano sino a fare schiavi per debiti i provinciali insolventi[308], inaugurando colà dei sistemi di giustizia civile, che in Italia erano stati da tempo aboliti. «Strappateci», perorerà L. Licinio Crasso, in sullo scorcio del II secolo a. C., propugnando la restituzione del potere giudiziario ai senatori, «strappateci dalle fauci di costoro, la cui sete di sangue non riusciamo più a spegnere!»[309] Cicerone ribadirà: «Non esiste nazione che non abbiamo salassata fino all’esaurimento, o così ferocemente domata, da cavarle la voglia di piatire, o così fortunosamente pacificata da aver resa lieta del nostro trionfo e [130] del nostro governo»[310]. «Noi, concedendo ai pubblicani la più intera libertà d’azione, roviniamo i popoli che abbiamo il dovere di proteggere.... Tempo fa apprendemmo dai nostri concittadini di quante sofferenze siano essi motivo ai provinciali: allorquando, infatti, si trattò di sopprimere parecchi pedaggi italici, dovemmo rilevare come le querele non si volgessero tanto contro la natura dell’imposta, quanto contro gli abusi dei delegati alla sua percezione, e le grida di dolore dei cittadini romani in Italia non possono non avvisarci, in modo troppo eloquente, delle dure sorti degli alleati, che stanno ai confini dell’impero»[311]. «Dovunque», s’esprimerà più tardi Livio, «entra un pubblicano, ne esce ogni garanzia di dritto pubblico, ogni libertà per gli alleati»[312].

Ma i cittadini romani e gli Italici non si recavano in provincia solo per governare o per riscotere imposte. Le province erano altresì un campo meravigliosamente fertile di affari e di profitti. Gli Italici venivano a contendervi ai provinciali le industrie, i commerci, i mestieri locali, a privarli della terra avita. Questo sistema, questo spodestamento economico dei vinti, non era lasciato soltanto all’iniziativa privata. Veniva diretto e organizzato dal governo romano. Dovunque la repubblica s’imbattè in un grande centro economico straniero, essa non pensò che ad abbatterlo o a sostituirlo. Così perirono Cartagine [131] e Corinto; così perì Marsiglia, controbattuta, sin dal 118 a. C., dalla romana Narbona, poi da tutta una folla di colonie romane, che Cesare fondò nella contrada: Bézier (Colonia Julia Septimanorum Baeterrae), Fréjus, Arles, Orange, Vienne, Valenza[313]; così decaddero o si spensero Neapoli, sopraffatta da Pozzuoli; Taranto ed Epidauro, da Brindisi e da Apollonia. L’Impero continuerà questa particolar forma di politica repubblicana. Se la Repubblica aveva vietato alla Gallia Narbonese di coltivare la vite e l’ulivo[314], l’Impero estenderà il divieto a tutte le province dell’Europa centrale e settentrionale[315]. E se la Repubblica aveva schiantato Cartagine, l’Impero distruggerà Aden, centro del commercio dell’Africa orientale sino allo Zanzibar e alle Indie[316].

Poi, sulle terre devastate, sulle città impoverite, sul deserto sparso di sale, calavano gli usurai Italici, e si aggiravano tra le ombre dei superstiti, a offrir denaro, a prestarne loro ad interesse, a fare, tra la povertà dei vinti, negozio sfacciato della male acquistata ricchezza[317].

La consorteria dei dominatori.

Tutto questo affaccendarsi di attività private audaci e malsane non poteva seguire senza la complicità, palese o manifesta, del senato, a Roma, e dei governatori, in provincia. E fu questo appunto l’aspetto più sinistro del regime provinciale [132] romano finchè durò la Repubblica. Mai, come sotto l’egemonia di Roma repubblicana, la solidarietà dei Romani della metropoli con tutti i loro concittadini, sparsi pel suo vasto impero coloniale, fu così perfetta ed iniqua. Mai, come sotto il suo regime, l’interesse, l’ingordigia dei cives romani furono identificati con le supreme ragioni di Stato e vennero preposti ai più sacri affetti di uomo, di genitore, di figliuolo, di madre. Le lettere che i più onesti, autorevoli romani spedivano dalla Città eterna ai governatori delle province, sono piene di raccomandazioni perchè essi favoriscano in ogni modo gli affari dei loro amici in provincia[318], e che in loro grazia tengano chiusi uno, o tutti e due gli occhi della loro non difficilissima probità amministrativa.

E che favori si fossero quelli, su cui i più onesti chiedevano la benevolenza dei governatori, noi lo rileviamo dallo stesso carteggio, a questo proposito assai interessante, di Cicerone. «Le vostre raccomandazioni», gli risponde una volta uno dei suoi sollecitati, «le vostre pretese mi riescono assai gravi.... Sono questi, dunque, i vostri clienti? Queste le vostre protezioni? Voi raccomandate un uomo crudelissimo, che ha assassinato, derubato, ruinato innumeri liberi, madri, cittadini romani, che ha devastato intere contrade, uno scimmione feroce, un uomo vilissimo.... Che cosa risponderò a coloro che ne hanno avuto i beni dilapidati, i fratelli, i figliuoli, i genitori [133] assassinati, e anelano giustizia riparatrice?...»[319]. Eppure, anche questa volta il lontano amico concludeva col dichiararsi, non ostante tutto, disposto ad obbedire e ad esaudire la piena volontà del sollecitatore: «Faciam omnia sedulo quae te sciam velle....»[320].

Tale situazione subì un crescendo continuo dal penultimo all’ultimo secolo della repubblica, per cui, se i rapporti fra cittadini e provinciali ebbero a modificarsi, fu solo nel senso di un’oppressione più dura, che, cominciata con lo sfruttamento delle cose, terminò col salasso più spietato delle persone. «Nell’ultimo secolo della Repubblica», scrive un moderno, «tutto il grande commercio è in potere dei Romani; tutto il numerario circolante esce dai loro scrigni o si apparecchia ad entrarvi»; ed essi s’intendono a meraviglia fra loro, e hanno dalla loro parte i pubblici ufficiali, congiurati insieme a ruinare le province ed a porle in istato di fallimento universale. Il loro scopo è di accumulare e di godere; i loro mezzi, l’astuzia e la violenza; i loro ausiliari, la legge e l’amministrazione. Il mondo intero è divenuto teatro del loro saccheggio universale...»[321].

Del resto, con che animo o con che mezzi avrebbero le autorità competenti — qualora lo avessero voluto od osato — potuto rendere giustizia ai provinciali?

«Grandi ostacoli», scriveva Cicerone al proprio fratello, «grandi ostacoli frapporranno i [134] pubblicani alla tua buona volontà e alla tua sollecitudine. Combatterli apertamente equivarrebbe ad alienare da noi e dalla Repubblica una categoria di persone, verso le quali, come privati, siamo tenuti da obblighi non lievi e che noi stessi riconciliammo col governo attuale. Lasciarli fare liberamente equivarrebbe a sancire la rovina dei popoli, che abbiamo il dovere di proteggere e di rendere felici». Agire, quindi, in favore dei pubblicani, senza ruinare la provincia «sarà veramente la massima tra le difficoltà del tuo governo....»[322]. Ma la giustizia, resa dai governatori provinciali, era locale e transitoria; l’appello ai giudici romani od al senato, troppo lontano ed inefficace, mentre il salasso, inflitto loro dagl’Italici, era universale, perenne, onnipresente! I vinti o le città spogliate si trovavano, novantanove volte su cento, nell’impossibilità di inviare un’ambasceria, di sostenere un giudizio, e dinanzi alla rete d’influenze e d’influenzatori, che avvinghiava patroni, avvocati e giudici, le risorse dei ruinati non potevano non essere insufficienti; le loro speranze, pretenziose e fantastiche.

Indiscutibile apoftegma dei dominatori era questo: che il giudizio sulla condotta dei Romani nelle province, non poteva non essere riserbato a Romani. Che peso potevano avere, al confronto, i risentimenti e le opinioni dei provinciali? Nulla, quindi, di singolare se molti tra i più virtuosi romani, fra i più puri spiriti [135] repubblicani — Cassio, Bruto, ed altri con loro trattarono le province con una durezza veramente stupefacente, non solo per noi moderni, ma per moltissimi di altri loro contemporanei, che certo non li valevano. Essi si ispiravano alla più pura teorica della amministrazione repubblicana, quella teorica, che l’Impero comincerà a mitigare, a svalutare, attirandosi, per questo le censure dei vecchi romani temporis acti. Che i governati non trepidassero all’arrivo d’un ufficiale romano; che dei cittadini romani potessero venir gravati di processo, al solo primo reclamo di un gruppo di provinciali; che questi, anzi, avessero riconosciuto il diritto di reclamare, era, per il repubblicano del buon tempo antico, indice sicuro di debolezza civica, di sùbita protervia, di sopravvenuta, deplorevole corruzione[323].

Vane e disperate erano dunque le proteste e le querele, ma — ciò non si era preveduto — esse finivano per riaprire e inacerbire le piaghe medesime dei querelanti. — È stato notato altra volta, dirà Cicerone, che, qualora i giudizi contro i concussionari «non esistessero, ciascun magistrato porterebbe via dalle province solo quanto reputasse necessario per sè e per i suoi figliuoli. Oggi invece che tali giudizi esistono, egli porta seco — e la cifra raggiunge altezze vertiginose — quanto fa d’uopo ai suoi protettori, ad suoi avvocati, al pretore, ai giudici.... Or bene, è possibile soddisfare alla cupidigia del più ingordo fra gli [136] uomini, ma non lo è egualmente procurare il necessario al buon successo di un giudizio, più pernicioso di tutte le rapine....»[324].

Quanto, per gli infelici, non era preferibile giungere, rassegnati, le mani e serrare in silenzio le labbra, praticando, consapevoli o no, quelle norme di rassegnazione cristiana, che sprizzavano dalle viscere stesse delle cose e che attendevano solo la voce fatidica di chi le raccogliesse e le promulgasse!

L’organizzazione provinciale delle terre elleniche.

Quale fu, in particolare, la sorte che Roma fece alle varie contrade elleniche, cadute sotto il suo dominio?

Buona parte della Grecia peninsulare fu incorporata senz’altro alla già esistente provincia di Macedonia: l’Epiro, le isole Ionie, i porti greci d’Illiria. La Grecia propria, ossia la Grecia di mezzo e meridionale, perduto il glorioso nome di Ellade e assunto quello di Acaia, forse in memoria dell’ultima contrada, che aveva guerreggiato con Roma, venne sottoposta a tributo[325] e affidata alla sorveglianza del governatore della Macedonia, in una singolare forma di soggezione politica, che stette fra la servitù provinciale e il protettorato moderno. Ma una buona parte del territorio — quello delle città che più tenacemente avevano resistito a Roma — venne dichiarata, [137] come si diceva, agro pubblico, ossia strappata agli antichi proprietari, e fatta dominio diretto del popolo romano. Così avvenne certamente nella Corinzia, nella Beozia, nell’Eubea, ed in altre meno famose contrade. Noi conosciamo, in modo abbastanza particolareggiato, quello che in simili casi soleva avvenire. Ce ne avverte il ricordo di quanto era toccato alla cittadina beotica di Tisbe, dopo la terza Guerra macedonica, dopo il 168, allorquando, tuttavia, la Grecia non era ancora divenuta provincia romana. Un’apposita commissione si era recata colà, a «riformare» il vecchio ordinamento, economico e politico, della città. Il territorio dei Tisbensi, era stato dichiarato demanio pubblico del popolo romano, che lo aveva ceduto, ma solo in locazione, agli antichi proprietari, i quali perciò avrebbero versato un periodico tributo. Buona parte della popolazione — tutti i cittadini non chiaramente favorevoli a Roma — era stata esclusa dalla pienezza dei diritti politici, dalle magistrature, dai sacerdozi, a cui potevano aspirare soltanto gli amici dei Romani. Le mura della città erano state demolite, e la residenza sull’acropoli, concessa soltanto a cittadini tisbensi dimostratisi indubbiamente fedeli[326].

Sorte uguale toccò, dopo il 146, a buona parte della Grecia. Ma le circostanze più gravi, nei rispetti politici, non furono l’improvvisa perdita della libertà, non lo smantellamento delle fortezze, il disarmo degli abitanti, e neanche la devastazione [138] d’interi territori, o il feroce trattamento usato alla popolazione — in parte asservita e venduta schiava —, non la confisca violenta della gloria secolare dei tesori artistici (cose tutte che seguirono immediatamente alla guerra); fu specialmente il divieto delle antiche confederazioni, nonchè, a ciascuna città, di qualsiasi forma di rapporti, civili ed economici, con le sue vicine o con le antiche alleate. La nazionalità greca era per tal modo atterrata e frantumata: la vita dei singoli municipii, spenta o soffocata!

Quello ch’era toccato alle città il cui territorio veniva confiscato, toccò anche a tutte le altre, che vennero semplicemente sottoposte a tributo. I loro ordinamenti municipali subirono una violenta, radicale trasformazione. Le secolari democrazie furono abolite, e ovunque sostituite con governi oligarchici[327], che, non le singole condizioni locali determinavano, ma venivano forzatamente e meccanicamente imposti dal di fuori. Le antiche assemblee popolari, che qua e là sopravvissero, ebbero ritolto l’antico potere legislativo, e spettò solo ai magistrati formulare quelle proposte di legge, che un tempo erano state gelosa prerogativa di ogni cittadino[328]. Dietro i magistrati stava poi lo Stato romano, nel cui interesse ogni, più o meno ardita, iniziativa municipale doveva ritrarsi e disparire.

Tra la folla dei Comuni sudditi e tributari, [139] esistevano, è vero, in Grecia, come in tutte le province romane, città privilegiate: le così dette città libere, sia sotto la forma di città alleate (foederatae), sottomesse cioè all’osservanza di un patto speciale con Roma, prezzo della serbata libertà, sia sotto l’altra di cittadine libere sine foedere. Atene e Sparta, innanzi ogni altra, godevano di questa ambita e privilegiata condizione. Ma quale singolare libertà non era quella ad esse consentita! La loro costituzione era, come per tutte le altre, fissata, una volta per sempre, da Roma, e la loro sedicente libertà consisteva nel potersi muovere entro il visibilissimo telaio di questa gabbia dorata[329]. Inoltre le città libere restavano legalmente obbligate a prestazioni gratuite di vascelli e di truppe, a forniture di grano a corso forzoso, all’ospitalità verso i funzionari e le legioni romane in viaggio[330]; talora, sebbene più di rado, al versamento delle imposte consuete delle province[331]; in ogni caso, al di sopra di tutto e di tutti, imperava, invisibile, onnipossente, la Maestà del nome romano.

Nei termini del trattato con Roma era infatti inserita la formula consueta di salvaguardia dell’arbitrio romano — maiestatem populi romani comiter conservato[332]; e lo stesso voluto equivoco della dizione lasciava la misura della indipendenza delle «libere» città greche all’arbitrio del più forte. In grazia sua queste obbedivano di fatto ai proconsoli, ricevevano ordini da Roma, [140] sottomettevano al governatore gli atti della propria amministrazione, inviavano annualmente una deputazione al senato per invocarne la decisione degli affari più intimi, senza che per questo potessero appellarsi ad alcunchè di solido il giorno in cui il buono o mal talento della lontana dominatrice avesse voluto dar di frego al concesso, grazioso privilegio[333].

Ma più di tutto amara e gravosa riesciva, anche per loro, quella trasformazione in senso oligarchico delle secolari istituzioni cittadine, che veniva ad equipararle senz’altro alle città suddite[334]. Atene, la città autonoma per eccellenza[335], vide così, all’estrazione a sorte dei suoi magistrati, sostituita l’elezione fra poche centinaia di elettori censiti e restituito all’Areopago l’antico potere di controllo politico[336], che a mezzo il V secolo era caduto sotto i colpi della democrazia ateniese, guidata da Efialte e da Pericle. Per tal guisa, fin dai primi anni dell’Impero, la decimata assemblea popolare, sovrana in principio ed impotente in realtà, fu vista ridurre le proprie attribuzioni ai decreti di elogi e di onori suggeriti dall’alto, e l’antico Consiglio cittadino, ridotto di numero, tramutarsi in un corpo esclusivamente, o quasi, di parata, mentre i magistrati serbavano solo le più ovvie tra le funzioni amministrative.

Come se ciò non bastasse, la politica estera delle città «libere», tal quale era già toccato alle cittadine dell’Italia romana, venne ora compressa [141] e soffocata entro limiti intollerabili. Al pari delle città suddite, esse subivano il divieto sia di comunicare con altre città, sia di stringere alleanze di qualsivoglia genere[337]. Per tal guisa, soffocate all’interno e all’estero, fissate su rotaie salde ed incrollabili, ognora impedite di manifestare i pensieri ed i desiderî più innocui, le sedicenti città libere potevano dirsi tali soltanto di nome[338]. Eppure l’antico regime municipale, come del resto ogni regime politico, per vivere e per generare quei meravigliosi effetti, di cui le innumeri autonomie locali erano state capaci nella Grecia classica, avea bisogno di un’indipendenza quasi assoluta: la subordinazione a un potere estraneo e cervellotico, l’osservanza di norme artificiose, colpivano i suoi organi e le sue funzioni più vitali, ne provocavano la decadenza e la corruzione[339].

I Romani in Grecia.

Accanto a questa teoria, vi fu, al solito, l’assai più lugubre pratica. Quale si dimostrò nella Grecia, ridotta a provincia, il contegno dei Romani?

I magistrati romani, anzi i semplici luogotenenti, traversavano la Grecia, sia spillando danaro alle città immiserite, sia costringendo le autorità locali ad obbedire alle loro intimazioni, sia saccheggiando manu militari i tesori e i capolavori artistici delle metropoli e dei templi, nel [142] silenzio complice o condiscendente del governo e dei suoi governatori.

P. Gabinio Capitone, sia nella qualità di luogotenente, come nell’altra di comes di Sulla, aveva tosto approfittato della partenza del suo generale per arricchirsi, a furia di quelle violente estorsioni, che certo non erano state sua originale invenzione. Lui aveva imitato il giovane ufficiale sullano Caio Antonio Ibrida, infausto proconsole della Macedonia e dell’Acaia, sotto lo specioso pretesto di ammannire una degna pena alle città già defezionate al nemico. In Grecia, Verre, il famigerato Verre, attingerà l’esperienza delle sue future gesta di Sicilia. Ivi egli comincerà con l’estorcere alle città statue e capolavori di arte, e, quando ne sarà sazio, si darà ad operazioni più prosaiche, ma non meno lucrose. Imporrà a Sicione un indebito tributo in danaro, e il primo magistrato cittadino, che avrà l’audacia di contrastargli, sarà messo sotto chiave in uno stambugio, e, perchè sangue non venisse sparso, si adoprerà il fumo delle legna verdi a fargli subire un lento e persuasivo processo d’asfissia. Indi spoglierà il Partenone del suo oro, Delo delle meravigliose statue di Apollo, Diana, Latona, e continuerà la sua via di rapine e di fervidi ritrovati, navigando alla volta delle colonie elleniche dell’Asia Minore, ove, con l’occhio fisso a più superbi destini, si recava ad accompagnare il propretore della Cilicia[340].

[143]

Finora non si era trattato che di novellini alle prime armi o di ufficiali romani in viaggio; ma tutti costoro doveva, senza tema di scapitarci, superare il proconsole del 57 a. C., L. Calpurnio Pisone.

Già scaltrito nei segreti dell’amministrazione, Pisone rinnoverà, in Macedonia e in Grecia, in una volta sola, tutti gli eccessi, di cui già molti altri governi provinciali solevano oramai rendersi colpevoli: e l’indebita percezione delle granaglie, e la scorretta amministrazione giudiziaria, e l’imposizione di nuove tasse ad esclusivo vantaggio del governatore, e la violazione delle più gelose libertà personali e municipali, e la rapina dei capolavori d’arte[341], e innumeri altri consimili abusi. «Egli», dirà, accusandolo, Cicerone, «ha abbandonato la Macedonia alle rapine dei Traci e dei Dardani perchè potessero cavarne la somma, a prezzo della quale avea venduto loro la pace...; egli ha estorto delle somme ingenti a Durazzo, ha spogliato i Tessali, imposto un nuovo tributo annuo agli Achei, derubato loro e i loro templi delle statue, dei quadri, dei capolavori d’arte.... Ha così sfruttato, vessato, dilacerato l’Acaia, la Tessaglia, Atene, Durazzo, Apollonia, Ambracia...; ha fatto scempio dell’Epiro, della Locride, della Focide, della Beozia; ha mercanteggiato l’Acarnania, l’Amfilochia, la Perrebia, l’Atamania; ha abbandonato ai barbari la Macedonia, mandato in rovina [144] l’Etolia, scacciato dalle loro terre i Dolopi e i popoli confinanti....»[342].

A tanto crudele destino non isfuggirono le città alleate e «libere». Fra Roma e queste città, non poteva darsi parità di relazioni. Quali che si fossero i termini degli accordi reciproci, era ingenuo supporvi un’eguale forza di obbligazione per amendue i contraenti. La dura realtà delle cose imponeva che l’esistenza, politica ed economica, delle città libere o alleate di Roma venisse mantenuta entro quei ristretti confini, che l’interesse ed i bisogni della grande metropoli reclamavano. Per ciò tutti i personali atti di devozione e di servilismo rimanevano talora assai lungi dal colmare la misura, tanto più che quelle città, sparse sul territorio provinciale, si trovavano, per dir così, a portata di mano, e, a differenza di quelle suddite, offrivano, col loro relativo benessere, maggiori incitamenti all’ingordigia peccaminosa dei dominatori. Così esse divennero zimbello delle voglie di tutti e di tutte le malversazioni degli ufficiali romani. Vedremo ciò che tenterà Verre in Sicilia; ma nel 57 a. C. il già citato governatore della Macedonia, Pisone, userà fare le città libere della Grecia oggetto particolare del proprio quotidiano saccheggio. Bisanzio, Apollonia[343], Durazzo, Atene, e con esse numerose altre del continente ellenico, anzi, per esprimerci col suo accusatore, tutte le città libere greche, provarono le carezze delle sue mani rapaci[344]. Persino Cassio, il severo [145] Cassio, assalirà la «libera» Rodi, la saccheggerà, confischerà gli averi dei privati, truciderà i cittadini più cospicui....

«Quanti proconsoli, esclamava Cicerone, non sono entrati nelle città alleate, come irrompendo in una piazza forte, presa d’assalto, e ne sono usciti lasciando dietro di sè vestigia così eloquenti da far esclamare: ‘Si giurerebbe che vi sia passato, non un uomo, ma una belva feroce!’»[345]. Non è quindi a meravigliare se, nell’ultimo secolo della Repubblica, noi troviamo molte città alleate, da cui Roma si augurava di poter sempre ritrarre il miglior nerbo delle sue milizie, letteralmente incapaci a fornire i contingenti più esigui![346].

Su quella folla d’infelici scendevano, come dovunque, quotidiani, famelici avvoltoi, i mercanti, i capitalisti romani, gli uomini d’affari: i così detti negotiatores.

La Grecia fu, con la provincia di Asia, il maggiore e più sciagurato campo delle loro gesta. Gli Italici, massacrati per ordine di Mitridate nell’88 a. C., ammontarono, nella sola Delo, a circa 20.000[347]. Quarant’anni più tardi, Pompeo potrà reclutare, da Creta e dalla Macedonia, una legione d’Italici[348], due dall’Asia[349], da Cipro circa 2000 soldati[350], altri ancora dalla Tessaglia, dalla Beozia, dall’Acaia, dall’Epiro[351]. E dalla Grecia e dall’Asia è a noi, fra tanta esiguità di notizie, pervenuta la copia maggiore — una copia enorme, rispetto alle rimanenti province — di menzioni [146] di società commerciali romane[352]. Or bene, tutta questa folla di Italici, domiciliati all’estero non erano in massima parte che speculatori, attirati fuori della patria dalla brama di formarsi un patrimonio o di accrescere quello di cui disponevano[353]. Essi non erano, in genere, che dei prestatori di danaro a interesse, pronti ad accorrere là dove la pubblica o privata miseria ne facesse probabile il guadagno e la fortuna. Tale era, pur troppo, la Grecia. Le guerre, le devastazioni, le requisizioni militari e tutte le altre cause, che abbiamo passate in rassegna, avevano ivi provocato o ingigantito la povertà, e la povertà avea costretto privati e municipi a gittarsi in un baratro di debiti. Ma gli obblighi, che i poveri ed i deboli contraggono con i ricchi ed i potenti, somigliano troppo ai patti che, nella favola esopica, le bestie più miti avevano stipulato col re della foresta. I capitali dei doviziosi vincitori furono messi a disposizione dei vinti, ma le usure ne riescirono enormi, ed acerrime, le conseguenze.

Nella prima metà del sec. I a. C., la città di Teno, non ostante la liberalità di taluni dei suoi creditori, non riesce a liberarsi dei debiti che la schiacciano[354]. Nella seconda metà dello stesso secolo, l’amico intimissimo di Cicerone, T. Pomponio, Attico, terrà in Grecia, legati agli uncini dei suoi prestiti, i privati e le città della Macedonia, dell’Epiro, dell’Acaia e delle isole greche, e, probabilmente rivestito delle guarentige e dei poteri della legatio libera, partirà in guerra, [147] quasi si trattasse di nemici in armi, contro i suoi debitori di Sicione, intenzionato a farsi giustizia da sè, se il senato non fosse stato pronto a impedirne lo scempio. Attico era, in fondo, un onesto; ma uomini assai peggiori di lui si aggiravano a migliaia per le città greche: vampiri famelici e voraci, in caccia, non di prosperità, ma di quella miseria, che non avrebbe tardato a generare, per loro, ricchezza. Nè l’attività o le gesta dei così detti finanzieri italici si arrestavano all’industria del danaro. Essi, dicemmo, s’impadronivano degli ultimi resti della produzione e del commercio locale, dimezzando e contendendo agli indigeni le ultime briciole, le estreme risorse della esistenza.

Così la Grecia formicolava di Romani e d’Italici — coloni, operai, negrieri di carne bianca, temibili concorrenti dei pirati[355], trafficatori in bestiame, in grano, in vino, proprietari di terre, largite loro dalla guerra e dallo Stato, impiegati, ispettori, intendenti, subamministratori, che calavano vittoriosi a privare dell’aria e della luce gli agonizzanti della remota provincia, o, magari, letteralmente, a finirli. E nell’Ellade antica, non ostante il talora vantato filellenismo romano, noi rileviamo da per tutto quella caratteristica partigianeria dei governatori in pro degli Italici e a danno dei provinciali, che ribadiva le catene del loro servaggio e ne impediva la resurrezione futura.

Cicerone, che pure una volta si rifiutava di ottemperare [148] alle richieste di Marco Bruto, non cessava di invocare servigi consimili da Servio Sulpicio Rufo, governatore dell’Acaia; e le sue insistenti raccomandazioni non si rivolgono ad una sola persona, ma sono indirizzate a tutta una folla di amici benevoli. Ma, se i più morigerati, come Cicerone, non esitavano a pretendere la rovina d’intere città, il cui destino, a loro modo di vedere, valeva bene l’attaccamento degli amici comuni[356], non diverso, noi abbiamo il diritto di affermarlo, doveva essere il tono delle raccomandazioni di tutti i più cospicui fra i contemporanei e i predecessori. Da per tutto, e da parte di tutti, un richiedere il privilegio per i concittadini e l’iniquità per i provinciali; da per tutto, uno spirito diffuso e sfacciato di clique, un ricorrere di transazioni, di concessioni, di permutazioni di favori, nel cui ingranaggio periva stritolata l’esistenza di un grande e fragile popolo.

Quale complicazione di effetti disastrosi tutto ciò dovesse arrecare, è facile arguirlo, allorchè si pensa che la Grecia era un Paese in decadenza, cui, invece di gabelle e vessazioni, sarebbe stato d’uopo largire le più delicate esenzioni di gravami, e sul quale ogni gravezza era un onere dieci volte più sentito e intollerabile che nelle rimanenti contrade. Allorchè alla Repubblica romana successe l’Impero, la Grecia non era più in grado di reggere alla prosecuzione dello scempio sesquisecolare, e i giustificati lamenti che da tempo risonavano alle orecchie dei Grandi di Roma, indussero [149] il primo imperatore, Augusto, ad adottare i primi rimedi ai mali, di cui il Paese moribondo soffriva[357]. Poco più tardi, il meno ellenofilo dei principi romani, Tiberio, accoglieva per sempre la Grecia tra le privilegiate province imperiali![358].

La Sicilia greca.

Ma già, prima ancora che la Grecia vera e propria passasse sotto il dominio romano, eguale destino era toccato alle città greche della Sicilia. Le sorti della Sicilia greca coincidono esattamente con quelle generali di questa provincia, che era destinata a sperimentare uno dei regimi più duri, sul quale noi siamo, per indiscreta fortuna, informati con sufficiente larghezza[359].

Dei 68 municipi siciliani, esistenti nell’età di Cicerone, tre, tutti colonie greche, erano città così dette alleate, signore cioè (almeno teoricamente) del proprio territorio, e, se n’eccettui il caso, pur troppo non raro, di guerra o di altra necessità, esenti da imposte e da prestazioni, fra cui la più dura era la provvigione del frumentum imperatum, di cui avremo a parlare più innanzi. Cinque, di cui una ellenizzata, erano libere e immuni, cioè a dire in una condizione materialmente analoga alle città alleate, salvo che il loro privilegio, resultando, non già da un trattato, ma da una concessione, era semplicemente precario e la loro immunità non rifletteva l’intero territorio, [150] ma solo quella sua parte ch’era coltivata dai cittadini dei municipi immunes. Trentaquattro altri comuni, fra cui non meno di tredici d’origine greca, erano decumani, cioè soggetti all’obbligo di fornire al governo romano 1⁄10 — la decima — di tutti i prodotti agricoli[360], che al solito non veniva esatto direttamente dallo Stato, ma indirettamente da appaltatori privati. Tutti i rimanenti, in numero, pare, di ventisei, fra i quali, dopo la seconda guerra punica, fu compresa la grande Siracusa, ed in tutto non meno di otto colonie greche[361], giacevano in sull’estremo scalino dell’abiezione provinciale e venivano denominati città censoriae. Il loro suolo, divenuto ager publicus qui a censoribus locari solet, era poscia stato restituito in locazione agli antichi proprietari, ma ciò, in seguito a un bando, che normalmente si teneva dai censori a Roma, forse perchè i concorrenti e i vincitori riescissero in prevalenza romani[362].

La maggior parte, dunque, della Sicilia era sottoposta alla decima. Ma per quanto onerosa si fosse questa condizione, i Siciliani non venivano lasciati in pace per così poco. Lo Stato sovrano poteva abbisognare di ulteriori contribuzioni, o, in sua vece, potevano abbisognarne il governatore ed i suoi numerosi attachés. La Sicilia era quindi costretta a fornire nuovi carichi di frumento, che, nel primo caso, veniva detto frumentum emptum, nel secondo, frumentum in cellam od aestimatum. [151] E se anche il nuovo frumentum emptum non bastava ai bisogni del popolo romano, si ricorreva a qualche cosa come una terza decima — il così detto frumentum imperatum — talora più gravosa delle due precedenti e corrisposta, non già dai soli territorî decumani, ma anche dalle stesse città esenti dall’imposta ordinaria[363].

Tale la malinconica teoria: «giacchè, infatti, chiedeva Cicerone, una decima è stata prelevata in virtù delle leggi e delle consuetudini» e alla prima se n’è aggiunta una seconda per i bisogni della nostra sussistenza ed in virtù di un regolamento posteriore: poichè ogni anno si acquista grano in nome della repubblica, e se ne esige quotidianamente per i magistrati ed i loro dipendenti, quale parte del ricolto, per esigua che sia, credete voi che rimanga al contadino od al proprietario siciliano, di cui costoro possano disporre pel consumo o per la vendita?»[364].

Ma, al solito, il modo in cui i governatori solevano tradurre in pratica queste norme teoriche era assai più tremendo del loro ideale contenuto. Alla Sicilia — prima in ordine di tempo fra le province romane — s’era molto probabilmente voluta fare una condizione di favore. In Sicilia, secondo risulta da tutte le notizie relative all’amministrazione dell’isola, l’imposta principale — la decima — non era appaltata ed esatta dalle onnipossenti romane compagnie di pubblicani. La decima era appaltata, nell’isola [152] stessa, dal pretore, a singole persone del luogo, cittadini romani o no: i così detti decumani. Si era voluto deliberatamente prolungare il regime tributario preromano a cui l’isola era avvezza da gran tempo[365]. Ma tanto liberale concessione metteva la provincia nelle mani del governatore, al di fuori del controllo e delle limitazioni, che su di lui poteva esercitare il senato o il censore romano. Sarà lui soltanto, il governatore, a presiedere le aggiudicazioni e ad assegnare gli appalti a chi vorrà; e, se altrove, talora, i pubblicani soverchiano il proconsole o il propretore, in Sicilia, questi tiene nel suo pugno la sorte delle città tributarie, ed entra a loro danno in combutta coi decumani, che egli potrà scegliere a suo talento[366]. Ecco perchè grande è il nostro errore nel ritenere quell’amministrazione di C. Verre in Sicilia, che si svolse fra il 73 e il 71 a. C., come un fatto transitorio ed eccezionale, come l’aberrazione mostruosa di un magistrato e di un uomo. Invece, secondo acutamente scriveva uno storico di quel periodo, «considerata nel suo complesso, malgrado tutte le sue colpe e al disopra di tutti i suoi non confessabili interessi», quell’amministrazione «sembrava dominata da un criterio direttivo: quello di affermare in tutta la sua estensione e in forma assoluta il dominio romano, di accentrare nel governatore tutta la direzione della vita amministrativa e giuridica della provincia»[367].

[153]

Non si trattava dell’opera individuale di Verre, ma di una pratica organicamente connessa con lo speciale regime amministrativo della Sicilia, di una pratica, quindi, costante ed universale, sì che le diffuse notizie che noi possediamo dell’infausto periodo dell’amministrazione di lui, debbono avere, ed hanno, in realtà, un valore più largo ed impersonale di quello che volgarmente loro si attribuisce, e debbono considerarsi come una preziosa miniera esemplificatrice delle vessazioni del governo e delle sue pratiche strabilianti.

La decima! La decima non era in verità che un pretesto od un pietoso velame destinato a nascondere cose assai peggiori. Talora essa valicava il doppio del legalmente stabilito, tal’altra, la metà di quello ch’era stato seminato, e non era impossibile che al coltivatore venisse, con facile rovesciamento di termini, lasciato solo il decimo del raccolto![368]. Nel distretto di Hibla, sotto l’amministrazione di Verre, era stata prelevata una quantità di grano sei volte maggiore del seminato. Da Herbita, la cui decima era stata fissata, un anno, in 18.000 (hl. 9000 ca.) e un altro anno in 25.800 medimni (hl. 12.500 ca.), i decumani avevano saputo spillarne ben 85.600 medimni e 2000 sesterzi per giunta. Dal solo municipio di Etna, essi ritraevano 300.000 moggia (hl. 25.000 ca.) e 50.000 sesterzi (L. 10.000) di utili[369].

Ma tanta mitezza di richieste si doveva unicamente [154] alla temperanza dei percettori dell’imposta. L’appaltatore della decima — il decumano — avea ordinato Verre, era in facoltà di entrare senz’altro in possesso della quantità di frumento, di cui si fosse creduto in diritto, salvo all’agricoltore d’intentargli processo.... Consiglio cinicamente irrisorio! I membri del tribunale competente venivano reclutati tra i satelliti e i complici del governatore, e sede del giudizio era quella scelta all’uopo dal decumano, onde gli agricoltori dovevano abbandonare i campi e l’aratro e intraprendere la via crucis dei tribunali e dei litigi giudiziari....[370].

— «Bisognava» — scrive Cicerone, introducendo uno di quei suoi mirabili dialoghi, riboccanti sarcasmo, delle Verrine, coi quali il loro autore mirava a porre in evidenza tutta l’infamia del governatore romano, — «bisognava dare ad Apronio» (uno dei più feroci caudatari di Verre) «tutto quanto Apronio avesse richiesto».

— «Anche se avesse richiesto una parte superiore al ricolto?

— «Sicuramente», ed «i magistrati avrebbero dovuto sforzarvi l’agricoltore.

— «Ma era lecito reclamare?

— «Senza dubbio»; «ma presso il giudice Artemidoro...: l’alter ego di Apronio.

— «E, se l’agricoltore avesse dato meno di quello che Apronio chiedeva?

[155]

— «Sarebbe stato condannato a una multa quadrupla del suo debito.

— «Da chi?

— «Dagli integerrimi componenti la onorata coorte del pretore.

— «E poi?...

— «Poi lo si sarebbe accusato di aver dichiarato una proprietà minore della reale, e lo si sarebbe invitato a scegliere nuovi giudici per decidere sulla sua infrazione alla legge.

— «Nuovi giudici? E tra chi?

— «Sempre fra gl’integerrimi componenti la coorte del pretore!...» — [371].

Non una sola volta, infatti, gli agricoltori avevano tentato le sorti del giudizio[372], ma, ahimè, avevano troppe volte subito la dura prova delle sentenze del tribunale del pretore, o di altri non meno eloquenti surrogati....

Un siciliano, accusato di non avere fatto completa denunzia dei propri possessi, veniva condannato a consegnare, non un solo decimo, ma tutto il frumento delle sue aie[373]. Tre altri contadini venivano costretti a versare, a titolo di decima, una quantità di derrate superiore all’intero raccolto, e, poichè cotal pena era sembrata sì inconcepibile, da ritoglier fin la volontà dell’obbedienza, i loro poderi venivano messi a ferro ed a fuoco, e, quando uno di essi si accinse a protestare, il decumano non esitò ad impiccare l’audace! Espedienti su per giù analoghi placano gli [156] spiriti temerari di due loro compagni di sventura. E tutto questo passava a Roma per esazione delle decime!

Ma se governatori, giudici e pubblicani adottavano coi privati trattamenti così sbrigativi ed inconfutabili, non meno eloquente era il metodo praticato con le città. Più volte queste usavano assumersi la così detta redemptio tributorum, usavano, cioè, riscattare il tributo, assumendo senz’altro l’appalto delle decime. Ma sì pietose intenzioni erano subito frustrate dalla ingordigia dei protetti del governatore, i quali (ed il caso si ripetè con scandalosa frequenza) chiedevano, per allontanarsi, somme e risarcimenti favolosi. I Termitani — citiamo di preferenza esempi tratti da colonie greche — che avevano voluto riscattare la decima cittadina, allo scopo d’impedire che il fortunato concorrente Venuleio si recasse sul posto, si erano dovuti obbligare a fornirgli 7000 moggia di frumento (hl. 600) e 2000 sesterzi (L. 500). Il poverissimo distretto di Lipari era fortunato di riscattare per 30.000 sesterzi (L. 6500) la sua decima di soli 600 medimni (hl. 300). Finalmente, gli Ennesi, dopo aver appaltato le decime per 8200 medimni (hl. 4000), dovevano corrispondere al solito Apronio 18.000 moggia di frumento (hl. 1500) e 3000 sesterzi (L. 600)[374], quale inevitabile pot de vin da versare nelle mani del concessionario.

Tutto questo per la prima decima! La seconda [157] e la terza, del pari che le contribuzioni destinate al pretore, venivano (vivaddio!) risarcite dall’erario. Ma nè il prezzo era liberamente dibattuto dalle due parti, nè — l’abbiamo osservato, e non fa d’uopo insistervi — le obbligazioni teoriche della Repubblica romana differivano gran fatto da quelle tradizionali del leone verso le bestie minori della favola. Il frumentum emptum od imperatum era facile rifiutarlo sotto pretesto della cattiva qualità, e, giacchè in ogni modo bisognava che venisse fornito, le città erano costrette a ricomperare le granaglie da loro versate in più nella prima decima e a corrispondere in moneta sonante il valore degli ettolitri richiesti al massimo dei prezzi correnti, che, naturalmente, il governatore preferiva stabilire[375]. Ma dove trovare il danaro necessario? Occorreva ipotecare l’avvenire, sobbarcarsi a dei debiti, e per l’appunto presso l’usuraio romano, che prestava al 2, al 3, spesso al 4% per mese, cioè a dire dal 24 al 48% per anno. E allora bisognava vendere i buoi, l’aratro, gli strumenti da lavoro; vendere se stessi o fuggire....[376].

Ma non accadeva sempre così. Talvolta si era più generosi: si accettava il frumento e si pagava. Si pagava al prezzo fissato stabilmente dal governo romano, salvo lievi deduzioni. Si deducevano i diritti di visita, di cambio — sicuro, di cambio, in un paese in cui non c’era cambio! —: i diritti, ancora più misteriosi, pro cerario, «nomi questi, esclama Cicerone, non già di diritti [158] reali ma di furti sfacciati», infine il 2% per gli scribae[377].

E che dire del frumentum in cellam, ossia del frumento destinato al governatore o al suo seguito, di cui la Repubblica corrispondeva l’importo? Il governatore, s’intende, avrebbe pagato; ma egli sapeva altresì escogitare i mezzi per non pagare, anzi per farsi pagare. Egli aveva il diritto d’imporre il trasporto del grano là dove avesse meglio creduto; il diritto, poniamo, di imporre ai contribuenti del Lilibeo di consegnare i carichi ordinati, a Panormo od a Siracusa; a quelli di Siracusa, a Panormo o al Lilibeo. Nella prospettiva di un trasporto così dispendioso, i sudditi preferivano fornire i cereali gratuitamente o fornirli magari in danaro sonante, a prezzi fantastici e favolosi[378].

— «Io», diceva ad esempio il governatore, rivolgendosi al contadino, in uno dei citati dialoghi delle Verrine di Cicerone, «io avrei bisogno di comperare da voi del frumento....»; «potrei pagarlo a quattro sesterzi al moggio....

— «Vostra Eccellenza è generoso; io, infatti, non potrei venderlo a meno di tanto.

— «Ma, voi l’avete capito, io non ho bisogno di frumento; io ho bisogno di quattrini.

— «Veramente», replicava l’altro interdetto, «io avevo sperato di fare qualche guadagno; ma se è necessario pagare, pagherò, purchè l’Eccellenza Vostra, mi faccia pagare al prezzo corrente del grano.

[159]

— «Il prezzo corrente del grano è di soli due sesterzi al moggio.

— «Cosa può quindi l’Eccellenza Vostra guadagnare da me, giacchè è stata indennizzata con quattro sesterzi per moggio?

— «Cosa posso guadagnare?...» «Io metterò in serbo per mio uso e consumo i quattro sesterzi del senato, e tu.... tu mi verserai otto sesterzi per moggio....

— «Otto sesterzi per moggio? E perchè mai?

— «Perchè?... Tu vuoi discutere, mentre io voglio guadagnare.

— «Vostra Eccellenza si diverte a celiare.

— «Non celierò: il senato vuole che tu mi dia del danaro e che io ti venda del grano. Ti basta?...» — [379].

Questa, la logica feroce degli amministratori delle province!

Ma tutto ciò non esauriva la serie delle gravezze imposte da Roma all’isola malaugurata, nè le altre, che riferiremo, sono più di una piccola parte di quelle di cui siamo informati.

La decima preesisteva alla conquista romana. Il guaio si era che, per l’innanzi, essa aveva sopperito ai bisogni locali, mentre ora andava a pieno beneficio della lontana metropoli del Lazio, ed era quindi necessario, in vista delle sempre incombenti necessità locali, imporre ulteriori tributi. E di tal natura pare debba, fra l’altro, considerarsi un tributo sugli averi pagato indistintamente da tutti i Siciliani, del quale ci informa [160] anche Cicerone[380]. A quelli diretti seguivano i tributi indiretti. La Sicilia era territorio chiuso da barriere doganali. Tutto quanto se ne esportava veniva colpito da un’imposta del 5%[381]. E non solo tutto quanto veniva esportato all’estero, ma, forse anche, tutto quello che ciascun Comune esportava in altri Comuni. Barriere commerciali pare si elevassero fra tutte le città dell’isola, ed è lecito indurre che, in maniera analoga, il trasferimento del possesso e dei possessori fondiari, doveva, come ogni altra forma di libera operosità, venir limitato o recisamente proibito[382].

Ma ai tributi, di cui, bene o male, sappiamo qualche cosa, sono da aggiungere gli altri, diretti od indiretti, di cui nulla di particolare noi conosciamo, ed essi, pare ascendessero senza meno al numero di sei, tra i quali, forse, non sono calcolati i diritti di Roma sulla pesca, sulle saline, sulle miniere[383], sui terreni da pascolo[384], e chi più ne ha più ne metta[385].

L’ordinamento economico non era la sola camicia di forza, con cui il governo di Roma soffocava i suoi governati di Sicilia. Le conseguenze n’erano aggravate dalla forma dell’ordinamento politico e giudiziario. Quale questo fosse, per la Grecia, noi l’abbiamo veduto; non diverso, o peggiore, poteva dirsi il regime della Sicilia.

Dopo la presa e il saccheggio di Siracusa, nel 212, che diede un bottino immenso, superiore a quello che darà la stessa Cartagine[386]; dopo la prima e la seconda resa di Agrigento, nel 262 e [161] nel 210, che ebbe conseguenze più lacrimevoli di quella della stessa Siracusa; dopo il massacro di parte degli abitanti, la vendita come schiavi degli altri[387], dopo il macello degli Ennesi[388] e la distruzione di parecchie città[389], dopo il disarmo generale, dopo mezzo secolo di guerre pressochè ininterrotte, i municipi dell’isola ricevettero nel 132[390], in concessione da Roma, un proprio ordinamento comunale, da cui però veniva bandito qualsiasi spirito di indipendenza e di autonomia locale. I sistemi di elezione dei magistrati locali furono, il più delle volte, regolati dal governatore romano, e, se questi talora poteva essere disposto a dettare delle savie disposizioni, era assai più naturale che lasciasse libero il varco all’intromissione illecita ed all’arbitrio. E di arbitrii e d’invasioni di poteri, legalmente definite, ve ne furono anche troppe. Il diritto di veto del governatore non aveva limiti e riesciva a rimettere quasi intere nelle sue mani le sorti delle elezioni[391]. Ma anche in quei casi, in cui ciò non avveniva, la qualità stessa e la pratica consueta dei suoi poteri tramutava qualsiasi disposizione liberale in una feroce ironia. Anzi tutto (è Cicerone stesso ad avvertircene) l’ordinamento dato alla provincia non aveva, come impropriamente si esprimevano i provinciali[392], valore di legge, nè le ulteriori disposizioni del senato, che parevano regolarne le sorti, esercitavano, rispetto al governatore, alcuna efficacia coattiva. Questi, inoltre, possedeva il supremo ius [162] edicendi, che, assai più delle generiche norme del lontano governo della Repubblica, aveva di fatto il peso di una vera e propria autorità governativa e legislativa[393]. Così Verre, che, lo ripetiamo, non bisogna considerare quale esempio isolato, ma come rappresentante, sia pure cospicuo, di tutto un sistema; Verre aveva facilmente potuto convertire, tutte le norme e le consuetudini elettorali della Sicilia in mirabili strumenti di lucro e di oppressione.

Ad Halaesa, ove non si poteva essere senatore che a trent’anni, furono per prezzo — egregio espediente di tirannide — creati senatori fanciulli di diciassette o sedici anni, senza riguardo, senza preoccupazione d’ogni altro limite di censo o di condizione personale[394]. Ad Agrigento, ove i posti senatorii dovevano essere egualmente ripartiti fra gli antichi ed i nuovi coloni, ne vennero — sempre per prezzo — mescolate e confuse indifferentemente le proporzioni[395]. Da per tutto poi i censori, la cui nomina, in forza della loro qualità di compilatori del ruolo delle imposte, era, pei provinciali, cosa d’interesse assai delicato[396], furono direttamente creati da Verre, anzi la loro elezione, messa senz’altro all’incanto. E, usciti dal mercato di Siracusa, ove il nuovo genere di asta venne bandito, i nuovi censori, stimolati dal pungolo del dispendio enorme, che loro era costata la carica, non tardarono a volersene rifare sulle viscere degli amministrati[397].

[163]

La cosa non andava diversamente riguardo all’ordinamento giudiziario.

È inutile, anche a tale proposito, svolgere i particolari teorici del lacunoso ed oscuro ordinamento giudiziario della Sicilia, che aveva preceduto il dominio romano e che questo si diceva avesse rispettato. La teoria non contava nulla; contava moltissimo la pratica; e la pratica di Roma repubblicana fu, di solito, assai poco esemplare. Il governatore poteva ciò che voleva, o, meglio, giudicava a priori in luogo di quelli che ne avevano il diritto, imponendo a costoro il proprio giudizio, che, novantanove volte su cento, corrispondeva al soddisfacimento dell’interesse proprio o dei propri accoliti. Ma la sua fertile fantasia sapeva escogitare anche di meglio; sapeva, nel solenne editto, comminare delle pene a chi indebitamente si fosse attribuita la funzione di giudicare[398], salvo a far dipendere la decisione sulla legalità o meno della carica dalle disposizioni del giudicante. E poteva anche di più: se la prima sentenza, per sciagura, tutt’altro che consueta, non fosse andata a suo genio, il governatore invitava nuovamente coloro che erano stati assolti o condannati a convenirgli dinanzi a giudizio[399]. Era il colmo, ma era, pur troppo, la realtà!


La Sicilia fu governata atrocemente; ma essa fu anche, con l’Asia Minore e con la Grecia, il Paese nel quale la concorrenza dei dominatori agli [164] indigeni fu più crudele e fortunosa. Non per nulla i timocratici comizi centuriati del 242 avevano deliberatamente forzato il senato romano a iniziarne la conquista! Così tutto quanto di vitalità indigena, morale, intellettuale, economica, vi era fin allora fiorita, la conquista romana si affrettò a soffocare, a stroncare o a confiscare a vantaggio di gente d’oltre mare. Questa invadenza forestiera riescì all’Isola non meno fatale della soffocazione o dell’esaurimento impostole dal governo. Il passaggio dei campi e delle aziende agricole, ai più cospicui cittadini romani, portò direttamente al latifondo, all’impiego su larga scala del lavoro servile, cioè ad un nuovo esaurimento del suolo, alla provocazione di torbide e cruente discordie, fra cui, non ultime, le Guerre servili.

Della decadenza della Sicilia, e, in conseguenza, delle città greche, che vi sorgevano e vi avevano gloriosamente brillato, noi abbiamo prove eloquenti. In soli tre anni, dal 73 al 71 a. C., a detta di Cicerone, gli agricoltori di Leontini erano discesi da 84 a 32; quelli di Mutyca da 187 ad 86; quelli di Agyrrium da 250 ad 80; quelli di Herbita da 252 a 120[400]. In quattordici anni, dal governo di C. Norbano a quello di Verre, la produzione dell’isola, era scemata in misura tale, da riescire impossibile, anche con mezzi straordinari, l’esazione di tutto quanto altra volta s’era potuto ricavare con la mitezza e la legalità[401]. «Il Paese sembrava» oramai «desolato dai torbidi di una [165] guerra lunga e crudele. Le pianure e le colline, per l’innanzi sì floride e ridenti, erano precipitate nell’abbandono e nella devastazione. La terra stessa sembrava piangere ed invocare i perduti coltivatori.... Il territorio di Etna, un tempo ben coltivato e fonte principale degli approvvigionamenti romani, e la piana di Leontini, che mai aveva saputo o fatto sapere cosa significasse carestia, apparivano allora così orridi e sfigurati da costringerci a ricercare invano in quelle — tra le più ubertose regioni della Sicilia — l’aspetto della Sicilia medesima....». Tutto un’esercito di agricoltori era fuggito, rinunziando, non solo alla terra, ma al focolare della patria.[402]. «L’incendio attizzato dalla violenza dei decumani, aveva distrutto, non solo le proprietà, ma tutti i beni dei contadini; dai beni era passato a violare le guarentige dei liberi.... Alcuni erano stati impiccati, altri flagellati a verghe, altri imprigionati.... altri condannati dall’Esculapio o dall’usciere del pretore.... Neanche la furia di schiavi ribelli e fuggiaschi avrebbe osato altrettanto!»[403].

Le altre città greche.

Tutto quanto è stato detto della Sicilia, è mestieri ripetere dell’Asia greca, l’una e l’altra, ed in pari misura, territorî classici della decima e della devastazione romana[404]. Ivi, l’abbiamo [166] notato, sterminata fu la copia degli speculatori, romani e italici, piccoli e grandi, che l’invasero[405]: i massacri, ordinati da Mitridate nell’88, costarono la vita a 80.000, fors’anche a 150.000, Italici[406], e molti dovettero essere gli scampati alla strage. Ivi stesso più colpevole che in Sicilia fu la condotta dei magistrati della Repubblica, e, giacchè il bottino era più abbondante, più sottile il meccanismo e più intensi gli armeggii delle loro clientele[407].

Quelle terre infelici, che, sotto il piede di Roma, venivano d’un tratto a scontare la felicità conquistata sotto il governo dei Seleucidi, o dei loro successori, toccarono anche la mala sorte di essere, nel lungo periodo di Roma repubblicana, teatro di taluna fra le più grandi guerre del tempo: la triplice mitridatica e la seconda e la terza guerra civile, le quali, se apportarono al tesoro romano, o a quello privato dei singoli generali romani, immense ricchezze, determinarono colà la più tremenda delle catastrofi. Pur troppo, anche in questa contingenza, essa fu, il maggior numero di volte, consapevolmente organizzata dai conquistatori.

Qui, nella terra sacra ai grandi Vespri asiatici dell’88 a. C., una tassa straordinaria imposta da Sulla, quattro anni dopo (84 a. C.), e che a lui venne anticipata dai capitalisti romani, salì, nel giro di pochi anni, in forza degl’interessi pagati, al sestuplo dell’importo originario[408]. Per saldarla, [167] le città dovettero cedere ai creditori gli edifizi pubblici, le riserve metalliche, i capolavori d’arte, gli schiavi, gli oggetti preziosi; e i privati, dopo aver subìto per lunghi anni torture, capestri e prigionie, e, dopo essere stati costretti a giacere all’aria aperta, bruciando d’estate per l’arsura, gelando d’inverno, immersi nel fango e nel ghiaccio, per il freddo, dovettero sacrificare all’ingordigia romana, le loro case, le loro terre e fin la libertà delle mogli, dei figli, di se stessi[409]. A rammentare quanto avevano sofferto, la schiavitù, esclama Plutarco[410], segnava un’ora di tregua e di pace! Più tardi, nel 63, la provincia subì lo sgoverno del pretore L. Valerio Flacco. Egli — si disse — addossava alle città delle somme enormi per l’equipaggiamento di flotte immaginarie, e a ciascuna, altre somme per i suoi personali bisogni[411]. Il suo governo oscurò la trista fama di quello di Verre in Sicilia, ma non gli fu impossibile trovare, quale suo difensore, lo stesso implacabile accusatore del famigerato pretore siciliano, nè difficilissimo ottenere dai tribunali romani l’assoluzione! Più tardi ancora, Bruto e Cassio si faranno anticipare da tutte le città asiatiche il tributo di ben dieci annate e il triumviro Antonio, entusiasta del suggestivo precedente, reclamerà subito dopo, quale doverosa obbligazione, un nuovo anticipo decennale....[412].

Cicerone, che pure più volte aveva cooperato ai danni delle province asiatiche[413], era nondimeno [168] costretto a riconoscere le terribili responsabilità, che gravavano sui metodi romani. «Io so», egli scriveva al fratello, proconsole nella provincia d’Asia, subito dopo il suo cliente L. Flacco, «io so che l’opinione pubblica apprezza e loda il tuo grande interessamento. Le città non contraggono più debiti, e molte sono state in grazia tua liberate dall’enorme fardello degli antichi. Moltissime, quasi deserte, tra cui due, una la più gloriosa della Ionia, l’altra della Caria — Samo ed Alicarnasso — ti sono debitrici della propria resurrezione.... L’onore, le fortune e la tranquillità dei cittadini più agiati hanno cessato di essere alla mercè della calunniosa delazione, tremenda ministra dell’ingordigia dei pretori. Gli oneri sono equamente ripartiti.... Immenso è il beneficio che tu hai arrecato all’Asia con l’abolizione dell’iniquo e gravoso tributo che essa pagava agli edili.... Un alto personaggio si è lagnato pubblicamente in Roma perchè il tuo editto contro ogni percezione di imposte straordinarie a titolo di giuochi pubblici, gli aveva impedito di risparmiare circa 200.000 sesterzi (50.000 lire). Figurarsi un po’ l’ammontare dell’imposta, allorquando chiunque bandiva a Roma dei giuochi poteva permettersi un simile salasso!» Io mi spiego gli scatti d’ira e di protesta del tuo primo anno di governo: «l’iniquità, l’ingordigia, l’insolenza, avevano trasceso ogni misura, e ti rivoltavano....»[414].

[169]

Ma la realtà era più eloquente della calda prosa ciceroniana. Abbiamo più innanzi riferito la imposta straordinaria, con cui Sulla volle castigare il paese, e gli utili enormi, che dalla sventura ebbero a ritrarre i finanzieri romani. Ebbene, senza i loro anticipi usurarî, gli Asiatici, più tardi, non saranno in grado di corrispondere l’eguale e regolare imposta, istituita — sia pure per breve tempo — da Sulla medesimo. Il male era così radicato da impedire che le vittime facessero a meno del cancro che le divorava!

Analoga era la condizione delle rimanenti città, sparse pei territori, che più tardi costituirono la provincia di Bitinia e del Ponto, e, più tardi ancora, l’altra della Tracia. E per quanto esse siano state, talora, trattate con una certa mitezza, fino a ricevere il titolo di libere[415] (ma non per questo, il più delle volte, di esenti da tributo)[416], le necessità di Roma e della sua politica estera non valsero a raddolcirne la sorte. Più interessante è, per la serie delle nostre osservazioni, il destino delle città greche di Creta e della Cirenaica, di cui la prima, per quanto, in età storica, decaduta dall’originaria grandezza, non discese mai così basso come dopo la conquista romana, che seguì a un lungo periodo di astiosa protezione. Dopo fiera, tenace resistenza, le principali città caddero, l’una dopo l’altra, in mano dei conquistatori, e la devastazione e il saccheggio, che ne accompagnarono la resa, non permisero [170] che mai più si rilevassero (67 a. C.)[417]. Delle città cretesi, la sola Cnosso potè d’ora in avanti dirsi in certo modo degna di tal nome; ma nel 36 a. C., la sua popolazione era così rada, da dover essere ricolmata dalla colonizzazione romana[418].

La Cirenaica, la cui storia costituisce qualcosa d’indipendente dagli altri Paesi greci, da cui ebbe diverse le cause dello sviluppo e della decadenza, fu, nel 96 a. C., lasciata in eredità a Roma dai principi dell’Egitto, i Tolomei. I fortunati eredi non credettero, per motivi loro particolari, di farne una nuova provincia; essi si affrettarono però a confiscare in favore del demanio pubblico i beni degli antichi sovrani[419], a stabilire un’imposta sui principali prodotti del Paese[420], ad obbligare la popolazione alle consuete requisizioni militari[421]. Più tardi la contrada divenne senz’altro provincia, e per l’appunto stipendiaria[422]. Ma il Paese venne tosto depredato, oltre che dai barbari, dai pubblicani. Il sylphium, che aveva costituito un tempo la sua ricchezza e la sua specialità, era, nell’età di Plinio (sec. I-II d. C.), disparso: i pubblicani vi avevano sostituito le colture armentizie, e, più tardi, gli abitanti medesimi, incapaci di resistere alla pressione tributaria («ob intolerandam vectigalis nimietatem»)[423], avevano sradicato gli ultimi campioni di quel prezioso prodotto locale.

Gran che di diverso non avvenne, o, almeno, [171] nella enorme oscurità che c’ingombra, possiamo arguire non avvenisse, dei confiscati ex-demanî regi della Cirenaica. Questi furono in sulle prime concessi in fitto ai pubblicani, i quali vi introdussero, come nel resto del Paese, la pastorizia. Poscia, trascurati dal governo, divennero preda del primo occupante, e possiamo essere sicuri che tali furono, assai più che i Cirenesi, i barbari invasori ed i cittadini romani[424].

Ma al pari delle province consorelle, la felice Cirene ebbe a patire, oltre che dai pubblicani, dallo sgoverno dei magistrati. La guerra civile fra Cesare e Pompeo arrecò alla provincia disastri incalcolabili. La successiva amministrazione del triumviro M. Antonio fece quanto poteva per aggravarli, e, sempre di lì a poco, in seguito al passaggio della regione dal governo di Antonio a quello di una figliuola di Cleopatra, spettò ai ministri egiziani il tristo vanto di completarne la rovina[425]. Neanche l’Impero le portò pace. Nel 21 d. C., il proconsole della Cirenaica, Cesio Cordo, veniva accusato, e quindi condannato, per concussione. Trentasei anni dopo, nel 59, un tal Pedio Bleso, rinnovando, in questi primi tempi, relativamente tranquilli, dell’età imperiale, le gesta di Verre, osò violare il tesoro di Esculapio e far pubblico mercato dell’arrolamento militare. Ancora, undici anni dopo, troviamo, per colpe analoghe, condannato all’esilio e alla restituzione del mal tolto, un tale Antonio Flamma[426].

[172]

Anche Cipro, al pari di Cirene, antico dominio dei Tolomei, veniva, nel 58, occupata da Roma, e riunita in provincia unica alla Cilicia. M. Porcio Catone, che ne era stato il conquistatore, poteva, con la confisca e la vendita all’asta del tesoro regio, raccogliervi ben 7000 talenti (L. 40.000.000)[427]. Ma assai peggio toccò a Cipro con l’annessione alla Cilicia. Nel 56 a. C. gli abitanti di Salamina, non più in grado di saldare con mezzi propri le imposte, dovettero ricorrere a dei prestatori romani, i quali non mancarono di far ascendere ad altezze vertiginose la somma prestata. I 106 talenti (L. 700.000 circa), cui infatti, nel 52-51, calcolati gl’interessi di legge, il debito sessennale ammontava, rappresentavano, a giudizio dei creditori, appena la metà della somma dovuta. Il pagamento ne riusciva impossibile[428]. Ma costoro non si scoraggiarono e, ottenuto dal governatore dell’isola uno squadrone di cavalleria, assediarono l’aula senatoria, e vi fecero perire per fame cinque dei componenti l’augusto consesso[429]. Il nuovo governatore romano, Cicerone, giunse in tempo a interrompere quell’orgia di rapacità e di ferocia. Ma non per questo ebbe uguale fortuna nell’imporre il rispetto della legge. I creditori, temendo che il loro ineseguibile debito divenisse nullo in virtù di una legge Gabinia, ottennero un decreto del senato, che lacerava senz’altro le clausole di tal legge. E, siccome ciò non bastava a garantire il pagamento [173] delle usure pretese, ne ottennero un secondo, con cui venne regolata l’incostituzionalità del primo. Intermediario, anzi promotore dell’uno e dell’altro fu, per colmo d’ironia, M. Giunio Bruto, il futuro vendicatore della maestà delle leggi romane, oltraggiate da Cesare!

Cicerone alla lettura dei decreti del senato non ritrovò l’energia che occorreva per resistere, ma non si sentì da tanto da consegnare agli usurai, mani e piedi legata, una città, alla quale era legata tanta parte della gloria ellenica nell’epica guerra nazionale contro la Persia di quattro secoli innanzi. Invocò un temperamento: che il debito venisse saldato, ma gli interessi non esorbitassero dal tasso legale. I creditori, forti delle patrie influenze, non accettarono; i più ragguardevoli personaggi dell’aristocrazia romana gli si sferrarono contro, e l’affare rimase in tronco. Evidentemente, non tutti i governatori avrebbero nudrito gli scrupoli di Cicerone, e la sua prossima dipartita avrebbe risolto la vertenza in modo ben diverso di come egli aveva sperato[430].

Così, anche per volontà e per opera di uomini, periva la Grecia antica. Appiano, il più dedicato degli storiografi dell’età classica, narra come, durante la campagna d’Africa, a Cesare, attendato a piè delle ruine di Cartagine, fosse apparso in sogno un esercito infinito di doloranti, e come egli, destatosi di un tratto, coll’occhio ancora gravido di tanta simbolica visione, avesse affidato [174] alle sue tavolette il proposito di colonizzare Cartagine[431]. «Quell’esercito in lagrime», commenta una squisita anima di storico moderno (Amedeo Thierry), «quell’esercito, che nel sogno, reale o immaginario, implorava pietà, era l’esercito infinito delle nazioni conquistate»[432]. Ricreare Cartagine, ricreare l’Italia, ricreare la Grecia, l’Asia, la Sicilia, l’Occidente, l’Oriente: ecco la grande riparazione, di cui Roma era debitrice alla civiltà umana. E fu il nobilissimo compito, che l’Impero raccolse, in espiazione, dalla Repubblica, e che mirabilmente eseguì.

Note al capitolo terzo.

292.  Su questa fase della politica romana cfr. G. Ferrero e C. Barbagallo, Roma antica, Firenze, Le Monnier, 1921, I, cap. XI.

293.  Questa trasformazione dell’economia sociale romana, cui risponde una parallela rivoluzione spirituale in senso imperialistico, è stata per primo ed egregiamente messa in luce da G. Ferrero nel vol. I della sua Grandezza e decadenza dei Romani (Milano, Treves), di che la maggior parte dei suoi critici non si accorse. Il lettore può confrontare anche G. Ferrero e C. Barbagallo, op. cit., cap. X.

294.  Pol., 6, 17: «.... Tutte queste cose sono esercitate dal popolo e, per dir così, tutti sono legati ai guadagni e agli affari che ne derivano: alcuni geriscono per proprio conto le concessioni; altri stanno in società con costoro; altri garantiscono per i concessionari; altri, a nome di questi, impegnano, in concessioni e intraprese pubbliche, le loro sostanze....».

[175]

295.  Cfr. Caes., De bello civ., 3, 3, 1-2; 5, 1-2; Lucan., Phars., 3, vv. 181 sgg.

296.  Dio. Cass., 48, 39, 2.

297.  Plut., Anton., 62, 1.

298.  Id., op. cit., 68, 4.

299.  Cic., Ad fam., 5, 20, 9.

300.  Ciccotti E., Il processo di Verre, Milano, 1895, pp. 231 sgg. e J. Carcopino, La loi de Hiéron et les Romains, Paris, De Boccard, 1919, pp. 283 e passim.

301.  Cic., In Verr. A. I, 18, 56; A. II, 1, 10, 27.

302.  Dio. Cass., 43, 9.

303.  De Imperio Cn. Pomp., § 65.

304.  Cic., Pro Font., §§ 30 sgg. e 33 sgg.

305.  Joseph., B. J., I, 11, 2; Cfr. Person, L’administration des provinces romaines sous la République, Paris, 1878, pp. 148, 167-69.

306.  Ciccotti, Il processo di Verre, 31-33; Person, op. cit., 264 sgg.

307.  Cfr. Cic., In Verr. A. II, 3, 32, 75.

308.  Diod., 36, 3, 1-2; Cic., In Verr. A. II, 3, 32, 75.

309.  In Cic., De Orat., I, 225.

310.  Cic., De Prov. Cons., 12, 31.

311.  Ad Q. fr., I, 1, 10, 33.

312.  Liv., 45, 18, 4-5.

313.  C. Jullian, La Gaule romaine, IV (1913), 30 sgg.

314.  Cic., De rep., 3, 9, 16.

315.  Svet., Dom., 7; Mayr, op. cit., p. 46; Weise, Beiträge zur Gesch. d. rom. Weinbaues in Gallien und an der Mosel, Hamburg, 1901, pp. 3-5, 8.

316.  Mayr, op. cit., 49-50.

317.  Cfr. E. Belot, Hist. des chevaliers romains, Paris, 1873, II, 154 sgg.

318.  Cic., Ad fam., 13, 9, 3; 55, 1-2; 65.

319.  Ad fam., 5, 10, 1-2.

[176]

320.  Ad fam., 5, 10, 2.

321.  Person, op. cit., 144; cfr. Cic., Pro M. Font., 5, 11 sgg.

322.  Cic., Ad Q. fr., I, 11, 32.

323.  Cfr. Tac., Ann., 15, 21.

324.  In Verr. A. I, 14, 41.

325.  Paus., 7, 16, 9; cfr. Marquardt, De l’organisation financière des Romains, 242-43; Brandis, Achaia, in Pauly-Wissowa, Realencyclopädie ecc., coll. 190-91, 194.

326.  Dittenberger, Sylloge Inscriptionum graecarum, n. 300; Eph. Epigr., I, pp. 278 sgg.

327.  Paus., 7, 16, 9; cfr. Dittenberger, Sylloge ecc., 242 (= C. I. G., 1543).

328.  Brandis, Achaia, in Pauly-Wissowa, Realencyclopädie, I, col. 193.

329.  Marquardt, Organisation de l’Empire, I, 105 sgg.

330.  Marquardt, op. cit., I, 103; Person, op. cit., 154 sgg.

331.  Tac., Ann., 15, 45.

332.  Cfr. Cic., Pro Balbo, 16, 35-36.

333.  Cfr. Marquardt, op. cit., I, 104 sgg. Si vegga per altro ciò che fu fatto della libera Ambracia durante la Terza macedonica (Liv., 38, 43, 3; 42, 67, 9), allorchè la Grecia non era ancora divenuta provincia romana.

334.  Marquardt, op. cit., I, 105 sgg.

335.  Strab., 9, 1, 20.

336.  Marquardt, op. cit., I, 309 sgg.

337.  Idem, op. cit., I, 102.

338.  Cfr. l’esempio tipico di Chio (Fustel de Coulanges, Mémoire sur l’Ile de Chio, pp 300 sgg., in Questions historiques, Paris, 1893).

339.  Fustel de Coulanges, La cité ant., p. 457.

340.  Cic., In Verr. A. II, 1, 17, 44 sgg.; 18, 47-48; 5, 72, 184 sgg.; 48, 126 sgg. Cfr. Hertzberg, Die Gesch. Griechenlands unter d. Herrschaft der Römer, Halle, 1866-75, I, 422-23; Ciccotti, Il processo di Verre, Milano, 1896, 87 sgg.

[177]

341.  Cic., In Pis., 35, 86; 87; 90; Idem, Pro Sest., 43: De prov. cons., 4, 6-7.

342.  Cic., Pro Sest., 43, 93 sgg. e In Pis., 40, 96; cfr. De prov. cons., 2, 3-4 e In Pis., 17, 40.

343.  Cic., De prov. cons., 3, 5-6; 4, 6 sgg.; In Pis., 40, 96.

344.  Cic., In Pis., 35, 86 e passim.

345.  Cic., De imperio Cn. Pompeii, 5, 13; Ad Att., 5, 16, 2.

346.  Cic., Ad fam., 15, 1, 5. Circa la devastazione delle città libere greche, cfr. eziandio Tac., Ann., 15, 45; Juv., Sat., 8, vv. 98 sgg.

347.  App., Mithr., 28.

348.  Caes., De bello civ., 3, 4, 1.

349.  Caes., op. cit., 3, 4, 2 e passim.

350.  Caes., op. cit., 3, 103, 1.

351.  Caes., op. cit., 3, 4, 2.

352.  Cfr. l’Appendice alla monografia del Kornemann, De civibus rom. in provinciis imp. consist., Berolini, 1891, pp. 98 sgg. e tutto il volume di J. Hatzfeld, Les trafiquants italiens dans l’Orient hellénique, Paris, 1919.

353.  Kornemann, op. cit., pp. 25 sgg.; Hatzfeld, op. cit., 193 sgg.

354.  Cfr. J. G., XII, 2, 860 passim.

355.  Person, op. cit., 115-16.

356.  Ad Att., 6, 2, 9; 5, 21, 12; 6, 1, 5.

357.  Cfr. G. Ferrero, Grandeur et décadence de Rome (trad. fr.), Paris, Plon-Nourrit, 1907, V, pp. 158 sgg.

358.  Tac., Ann., I, 76. Circa la situazione in genere della Grecia nell’età di Roma repubblicana, cfr. eziandio Hertzberg, op. cit., I, pp. 323-27, 334 sgg., 386 sgg., 416 sgg.

359.  Su quanto segue cfr. Marquardt, Organ. pol. ecc., II, 52 sgg.; Id., Org. fin. ecc., 237 sgg.; Ciccotti, Il processo di Verre, pp. 60 sgg. e il recentissimo citato volume di J. Carcopino, La loi de Hiéron et les Romains.

[178]

360.  Cic., In Verr. A. II, 3, 7, 18.

361.  La difficoltà di fissare il numero delle colonie greche di Sicilia proviene dallo stato lacunoso delle nostre notizie circa la loro distruzione e le successive fondazioni. Cfr. Pais, Alcune osservazioni sulla storia e sull’amministrazione della Sicilia durante il dominio romano (estr.), Palermo, 1888, pp. 108.

362.  È stato motivo di vivace discussione (cfr. Holm, Storia della Sicilia, trad. it., III, p. 153, n. 33), se oggetto della locazione fossero la terra o le sue imposte. La maggiore difficoltà della seconda ipotesi, che noi abbiamo implicitamente scartata, sta nel fatto, riconosciuto dai suoi medesimi sostenitori (Holm, op. cit., III, 153), che le città in parola non avrebbero soggiaciuto a condizioni peggiori delle decumanae, mentre, quasi con certezza, erano state conquistate con la forza (cfr. Pais, op. cit., p. 63). Del resto, l’origine della questione ci sembra assai poco legittima. Cicerone (In Verr. A. II, 3, 6, 13) parla espressamente di locazione del territorio (is ager a censoribus locari solet) e la restituzione del medesimo, cui poco prima egli aveva accennato, può benissimo intendersi come una vera e propria locazione, una delle tante bizzarre sedicenti forme di restituzione, di cui Roma soleva compiacersi.

363.  Marquardt, Org. fin., 239-40.

364.  Cic., In Verr. A. II, 3, 98, 227.

365.  Cfr. Carcopino, op. cit., 86 sgg.

366.  Idem, 106-07.

367.  Ciccotti, op. cit., 231. Del resto, nelle sue Verrine, Cicerone era costretto a concludere: «Se poi volete far credere che le mie accuse cadono su più di un pretore e interessano più di una provincia, non io paventerò la vostra difesa, ma mi dichiarerò patrocinatore di tutte le province». (In Verr. A. II, 3, 93, 217; cfr. 89, 207).

[179]

368.  Cic., op. cit., A. II, 3, 63, 147.

369.  Id., op. cit., A. II, 3, 43, 102, 32; 75, 45, 106.

370.  Id., op. cit., A. II, 3, 10, 25.

371.  Cic., In Verr. A. II, 3, 29, 70.

372.  Id., op. cit., A. II, 3, 13, 33.

373.  Id., op. cit., A. II, 3, 21, 53-54; 23, 57; 56.

374.  Cic., In Verr. A. II, 3, 42, 99; 37, 84 sgg.; 42, 100.

375.  Cic., In Verr. A. II, 3, 73-77, 170-79.

376.  Person, op. cit., 178-79.

377.  Cic., In Verr. A. II, 3, 78, 181.

378.  Cic., In Verr. A. II, 3, 81, 189; cfr. Person, op. cit., 179-81.

379.  Cic., In Verr. A. II, 3, 85, 196-97.

380.  In Verr. A. II, 2, 53, 131; 56, 139.

381.  Cagnat, Les impôts indirectes chez les Romains, Paris, 1882 (trad. it. in Bibl. storia econ., vol. V), 81.

382.  Ciccotti, op. cit., 77-78.

383.  Id., op. cit., 65-66.

384.  Marquardt, Org. pol., II, 317.

385.  Circa l’ordinamento finanziario della Sicilia, cfr. anche Holm, op. cit., III, 136 sgg.

386.  Liv., 25, 31, 11; cfr. Holm, op. cit., III, 105-6.

387.  Cfr. Holm, op. cit., III, 110.

388.  Liv., 24, 39, 1 sgg.

389.  Diod., 23, 9, 5.

390.  Person, op. cit., pp. 10-11; Marquardt, Org. pol., II, 49.

391.  Ciccotti, op. cit., 66 sgg.

392.  Cic., In Verr. A. II, 2, 13, 32.

393.  Ciccotti, op. cit., pp. 75-76.

394.  Cic., In Verr. A. II, 2, 49, 122.

395.  Id., op. cit., A. II, 2, 50, 124.

396.  Id., op. cit., A. II, 2, 53, 131.

397.  Ciccotti, op. cit., 116-18; Holm, op. cit., III, 272 sgg.

[180]

398.  Cic., In Verr. A. II, 2, 13, 33.

399.  Cfr. Holm, op. cit., III, 153 sgg.; Ciccotti, op. cit., 109 sgg.

400.  Cic., In Verr. A. II, 3, 51, 120.

401.  Ibid., A. II, 3, 49, 117; 53, 124.

402.  Ibid., A. II, 3, 18, 46, 47.

403.  Ibid., A. II, 3, 26, 66.

404.  Marquardt, Org. polit., II, 242.

405.  Hatzefeld, op. cit., 45 sgg., 101 sgg., 160 sgg.

406.  Val. Max., 9, 2, 3; Plut., Sulla, 24, 5.

407.  Cfr. Cic., Ad. Q. fr., 1, 14, 40; Fl. Joseph., A. J., 16, 2, 2.

408.  Plut., Lucull., 20, 4.

409.  Id., op. cit., 20, 1-2; cfr. App., Mithr., 63.

410.  Id., op. cit., 20, 2.

411.  Cfr. Cic., Pro Flacco, 12, 27 sgg.; 15, 34 sgg.; 18, 42 sgg.

412.  App., De bell. civ., 5, 5.

413.  Cfr. Ad fam., 13, 56, 1 sgg.; 65, 1 sgg. e passim; Ad Att., II, 16, 4.

414.  Ad Q. fr., I, 1, 8-9, 25-26; 13-14, 39-40.

415.  Marquardt, op. cit., 1, 114.

416.  Cagnat, op. cit., 79-80.

417.  Höck, Kreta, Göttingen, 1823-29, III, 506 sgg.

418.  Strab., 10, 4, 9.

419.  Marquardt, Org. pol., II, 429.

420.  Noi troviamo infatti prelevata sui pascoli di Cirene la nota imposta di scriptura (Marquardt, Org. fin., 317).

421.  Rossberg, Quaestiones de rebus Cyrenarum prov. rom., Frankebergae, 15.

422.  Marquardt, Org. fin., 243: pagava, cioè, non la decima, ma un tributo fisso in danaro (stipendium).

423.  Solinus, 27, 48, ed. Mommsen (1895).

424.  Rossberg, op. cit., 17-19.

425.  Rossberg, op. cit., 52 sgg.

[181]

426.  Rossberg, loc. cit.

427.  Plut., Cato, 38, 1.

428.  Cic., Ad Att., 5, 21, 12.

429.  Id., op. cit., 6, 1, 6; 2, 8.

430.  Cfr. su Cipro, Engels, Kypros, Berlin, 1841, 1, 451 sgg.; Bardt, Der Zinswucher d. M. Brutus, Berlin, 1898 (progr.); Sternkopf, Der Zinswucher d. M. Brutus, Dortmund, 1900 (progr.).

431.  App., Punic., 136.

432.  Tableau de l’Empire romain, Paris, 1876, pp. 65-66.

[183]

CAPITOLO QUARTO. FINIS GRAECIAE

Il mondo greco in sui primi dell’êra volgare.

Finora, noi siamo venuti indagando le conseguenze più dirette dei fatti o dei processi storici, a cui, nella fatale decadenza della Grecia antica, abbiamo assegnato una parte principale. Ma non è dagli effetti isolati di ciascuno, sibbene dalle molteplici, infinite, reciproche combinazioni, che il lettore deve attendersi spiegata la fine del Paese, di cui in queste pagine andiamo indagando le cause dell’ultima ruina.

Il regime a schiavi poteva essere sollecitato verso una rapida e benefica trasformazione; controbilanciati da altre influenze, gli effetti perniciosi dell’imperialismo e della guerra incessante potevano diventare motivi di prosperità, materiale e morale; il rivolgimento economico del mondo antico poteva ispirare, agli Elleni della Grecia classica, nuove audacie, ridestare le secolari, dormienti energie della razza; fin la conquista straniera [184] poteva essere scossa o riparata. Ciascuna, insomma, delle cause, che abbiamo successivamente illustrate, poteva ritrovare, in sè o fuori di sè, un limite alla propria azione demolitrice. Ma questa doveva riescire completa ed insanabile, allorquando, come di fatto avvenne, il pericolo minacciò da tutte le parti, ed il popolo, che vi soggiacque, ne vide gli effetti più semplici e più immediati crescere di forza e di virulenza e suscitare e propagare nuove, interminabili serie di sciagure.

Quale adunque era la sorte, che tanto avverse fortune avevano procurata alla Grecia, negli anni, in cui, a forze unite, erano riescite a batterla in breccia come muraglia crollante? Quali furono, in una parola, le condizioni, morali e materiali, del mondo ellenico nell’ultimo secolo, o giù di lì, dell’êra cristiana, allorchè il processo di decadenza della Grecia può dirsi consumato?

Volgevano i primi lustri dell’Impero, la battaglia di Azio aveva segnato un termine all’orrore delle guerre civili, e il geografo Strabone, reduce da un mesto pellegrinaggio in molti dei Paesi, che avevano costituito il vario e vasto impero della civiltà ellenica, segnava sulle sue tavolette cerate quei ricordi, coi quali egli doveva tramandarci la più interessante illustrazione della Grecia antica[433].

L’Epiro, un tempo fiorente di uomini e di prodotti naturali, è adesso in massima parte deserto, [185] e fra i villaggi rompenti le distese dei ruderi degli antichi centri cittadini, il silenzio pende fin sull’oracolo di Dodona, come ogni altra cosa, già spento. Deserte sono le montuose contrade fra la Macedonia, la Tessaglia e l’Epiro[434]; deserta la regione sacra dell’Olimpo, impero indisturbato di bande di malfattori[435]; deserte l’Atamania e la Dolopia[436]. L’Etolia e l’Acarnania sono traversate, anzichè da uomini, da branchi fuggiaschi di cavalli pascenti; e la gloriosa Ambracia, che Pirro aveva fatta capitale del suo regno, e i centri urbani limitrofi riescono a stento a formare una sola città.[437]. Tra le città focesi, mietute dalla sventura, la memoria di Delfo è testimonio eloquente del precipitare delle umane grandezze[438]. In Beozia, Tanagra, Tespia, Tebe sopra ogni altra, non sono più che borghi appena degni di menzione[439]. Dalle macerie dei borghi e delle antiche ridenti cittadine, l’Attica reca i segni dei tempi mutati. Il Pireo è un villaggio sparso di poche abitazioni[440] e visitato dagli stranieri solo a motivo delle sue mirabili collezioni artistiche, ma di cui è caso strano se qualche grande nave egizia si accinge a turbare le acque. La Messenia — la sempre infelice Messenia — non è più. Quello, a cui la crudeltà di Sparta non era riuscita, ha fatto il Destino onnipossente distruggitore d’ogni cosa: «il Paese è ora in grandissima parte abbandonato dagli uomini»[441]. Ma se Messene piange, Lacedemone non ride. Delle cento [186] città della Laconia, ben settanta giacciono prostese al suolo o deserte[442]. Buona parte dell’Argolide e dell’Arcadia, già dall’oracolo celebrate per la feconda popolazione — Orcomeno, Mantinea, Menalo, Metidrio, Cafie, Cineta, le loro mura, i loro templi — non sono più, al pari della grande Megalopoli, che un grande deserto, sacro agli armenti e alle ruine[443].

Quale il continente europeo, tali le isole e le, un dì gloriose, metropoli asiatiche. Le antiche città dell’Eubea sospirano invano la perduta grandezza[444]. Creta è perita sotto i colpi dei Cilici e dei Romani[445]. Gli abitanti della piccola Giaro non riescono tutti insieme a saldare il tributo annuo pari a 150 lire[446]. I centri più famosi della Ionia, vivono, scontando la memoria del loro passato[447]. La gloria di Chio, Clazomene, Smirne, non è più[448]. Mileto è l’ombra di se stessa[449]. Peso, Astira, Pirra e con esse «non poche delle antiche città eoliche» sono un mesto accorato ricordo di giorni migliori[450]: il mare che le circonda è un nido periglioso di corsari[451].

L’Occidente greco non è da più dell’Oriente.

Delle città della costa orientale della Sicilia, quelle che un dì sorgevano fra Catania e Siracusa perirono. Nasso e Megara Iblea non sono più[452]. Leontini col suo ubertoso territorio è una ruina; fin la grande Siracusa è in massima parte deserta e ha dovuto essere rinsanguata da una colonia romana[453]. La costa meridionale, da Pachino al [187] Lilibeo, è coperta di ruine. Non più Camarina, non Gela, non Selinunte[454] fermano lo sguardo e l’ammirazione dei visitatori. A settentrione Erice giace disabitata[455]; Imera e Terma sono disparse; nell’interno le antiche cittadine sono divenute ricoveri selvaggi di pastori; Eubea e Callipoli sono spente[456].

Al pari della Sicilia greca, la Grecia italica è una memoria storica. Cuma è quasi per intero distrutta[457]; in Campania, in Apulia, in Lucania, nel Bruzio, tutto è caduto in mano di barbari[458]. Petelia e Turii sono sannitiche[459]. Temesa, bruzzia[460]; Ipponio romana[461]; Caulonia, Sibari e Metaponto sono disparse[462]. Ma che dire delle stesse Reggio, Taranto e Neapoli, le sole che siano riuscite a salvare in parte la loro grecità? L’una è vuota di abitanti[463]; le altre non serbano dell’antica grandezza che la muta malinconia dei segni esteriori[464].

Così ci racconta, con voce talora rotta dalla commozione, il maggior geografo dell’età augustea. Ma egli non è il solo. È tutta una folla di voci di uomini che videro, e che udirono, che si leva e muove alla nostra volta a discorrerci della morte della Grecia. È Polibio, che, un secolo e mezzo circa innanzi l’età di Augusto, scrive che in Beozia non si vive più, non si amministrano più nè le città nè la giustizia; ma gli uomini gavazzano follemente, a guisa di morituri consapevoli, bramosi di vuotare nervosamente in fretta [188] tutto il calice della vita che fugge[465]. È Cicerone che, quarantacinque anni prima di Cristo, navigando alla volta della Grecia disparsa, medita sulla caducità delle umane sorti: «Colà un tempo si levarono città floridissime; oggi tutte giacciono dinanzi ai nostri occhi, abbattute e distrutte[466]». Sono gli scrittori del primo secolo dell’Impero a farci sapere che le isole dell’Egeo, un tempo superbe di marmi, di verde, di profumi, sono ora rupi solitarie, malinconici asili di relegati politici[467]. Sono i primi apostoli del Cristianesimo a informarci, senza volerlo, che la loro religione, la quale insegna che un giorno i felici di questo mondo saranno umiliati, e gl’infelici, esaltati, in nessun luogo, come nelle contrade dell’Ellade antica, ha trovato sì fitta e bramosa schiera di fedeli[468]. È Pausania, che vive nella prima metà del II secolo a. C., a ripeterci che la grande Tebe non è più che un deserto e solo la Cadmea è abitata, e ha usurpato il nome di quella che fu un dì la metropoli della Beozia[469]; che la Focide non ha che una sola cittadina, Elatea[470]. È, più tardi ancora, Dione Crisostomo, l’ultimo oratore dell’ellenismo, a discorrerci ripetutamente, con voce accorata, della Tessaglia deserta, dell’Arcadia spopolata[471], di Taranto, Metaponto, Crotone, mute, solenni solitudini[472]; a descriverci con arte squisita la spopolata e deserta Eubea del suo tempo, di cui nessuno coltiva i campi, ove non più la pastorizia scaccia l’agricoltura, ma gli [189] erranti pastori si convertono in nomadi e feroci cacciatori; l’Eubea, l’isola dalle città morte, ove le messi maturano entro la cerchia delle mura gloriose; ove le statue degli Dei e degli eroi giacciono seppellite fra le alte erbe, e branchi di bestiami pascenti profanano i vetusti edifizi cittadini[473]. La Grecia fu un giorno; oggi «solo le pietre e le ruine dei monumenti stanno a significare, a quelli che sopravvissero, lo splendore e la grandezza perduta»[474].

La decadenza morale.

Quali le condizioni morali?

Il divino spirito politico della Grecia classica è scomparso. L’uomo divorzia dal cittadino; l’individuo, dalla sua città e dallo Stato; la ricerca degli isolati vantaggi personali prevale assolutamente sulla cura pubblica. Ad Argo, dove le milizie della Lega achea erano penetrate per liberarla dalla schiavitù, dal sommo delle case i cittadini, spettatori indifferenti di una lotta che pure involgeva i loro più sacri interessi, applaudivano o zittivano i combattenti, quasi, esclama un antico[475], assistessero, in qualità di arbitri e di distributori di premi, allo svolgersi dei ludi Nemei!

Il centro del mondo non è più la nazione, la città, ma il proprio individuo[476]. Rovesciando ogni disposizione del più glorioso passato, l’individualismo [190] più gretto, più miope, più interessato, si disfrena in tutti i campi della vita civile, e il mondo ellenico si popola di quel tipo d’uomo, «l’uomo del Guicciardini», di cui morrà la luminosa Italia del Rinascimento, di cui moriva ora la Grecia, e i cui spiriti fermentano tuttavia così maligni nelle nostre vene di caduchi mortali del secolo XX.

Quest’uomo carico di storia, di esperienza, di dolori, di disillusioni, non ha più fedi, non più sentimenti eroici, non più grandi passioni, anzi, considera gli uni e le altre, come aberrazioni di sciocchi, di volgari, di folli. Per lui, vivere è solo «voltare tutte le cose divine ed umane, spirituali e temporali, animate e inanimate, a beneficio proprio....»[477]. Per lui conoscere il diretto cammino non significa scomodarsi e muoversi per imboccarlo. A suo avviso, si può pensare come si vuole, ma la scienza della vita insegna che bisogna operare solo come torna utile. Nessuno sforzo, dunque, è da tentare pel bene comune, dacchè il risultato non giova immediatamente a chi l’ha iniziato, ed è quindi preferibile condursi in modo da rendersi accetti ai potenti del giorno che passa. Egualmente, agire secondo una nobile passione è da matti; regola della vita, invece, l’intrigo, l’astuzia, la simulazione a scopo personale. Così in questo giro d’anni, matura in Grecia il tipo vile, falso, miserando del graeculus, tramandatoci da Cicerone[478], da Virgilio[479], da [191] Luciano[480]. Già in sullo scorcio del V secolo, l’occhio linceo di Tucidide aveva come squarciato il velame dell’avvenire e il suo stilo, duro, implacabile, aveva scolpito nell’opera sempiterna, quello che un giorno sarà il fosco quadro della decadenza morale della Grecia: «Venne mutata arbitrariamente l’usata significazione dei vocaboli.... La temerità fu definita valorosa abnegazione verso i propri amici politici; la preveggenza, manifesta pusillanimità; la moderazione, sotterfugio di dappocaggine; la prudenza, codardia. La violenza fu scambiata per virilità e la cautela e la ponderazione sembrarono capziosi pretesti per mutar consiglio. Coloro che si adiravano furon tenuti quali persone degne di fede; i loro contraddittori, quali uomini sospettabili. Chi era fortunato nell’insidiare altrui, passava per uomo prudente; prudentissimo chi riesciva a prevenire le insidie degli altri. Chi cercava di tenersi lontano da siffatti espedienti, era violatore dell’amicizia e pauroso degli avversari. Si lodò, insomma, chi preveniva altrui nell’ingiuria e chi vi trascinava coloro che giammai altrimenti vi sarebbero ricorsi. Ai legami del sangue furono preposti quelli dell’omertà, perchè i complici erano maggiormente disposti ad osare checchessia. Ed invero, non si contraevano alleanze per conseguire i vantaggi consentiti dalla legge, ma per consumare la violazione delle medesime. Ciò che poi le cementava e rendeva sacre non era il vincolo [192] della religione, ma quello della complicità. Se taluno proponeva qualcosa di buono, gli avversari vi assentivano, non per ispirito di generosità, ma per potere in tal guisa esserne meglio garantiti. Ciascuno preferiva poter vendicarsi delle offese, che evitare di esserne colpiti. Se taluni si riconciliavano, il giuramento teneva solo fino al giorno in cui uno dei due riescisse a soverchiare l’altro. Chè, se alla prima evenienza sorprendeva l’avversario distratto, s’affrettava a cogliere, dietro l’usbergo dell’amicizia, una vendetta tanto più allegra quanto più fitta era l’ombra che velava l’aggressione. Era il metodo più sicuro e, inoltre, poichè si vinceva con la frode, quello che maggiori titoli recava al premio dell’accortezza.....».

«Lo scrupolo e la religione vennero banditi dai rapporti sociali e in loro vece sottentrarono i volgari lenocinî del primo leguleio che dava lustra di onestà ai propri invidiati misfatti.... La schiettezza, compagna indissolubile della nobiltà dell’animo, perì soffocata, tra il cachinno universale. Nè a rappacificare gli animi valse autorità di parola, o religione di giuramento. Gli individui dubbiosi, di tutto e di tutti, erano più disposti a ricercare come difendersi dai possibili pericoli, che a fidare in alcuno. E si videro i dappoco cogliere molte volte il frutto della vittoria, perchè, senza fiducia nelle proprie risorse e timorosi dell’oculatezza della parola, dell’ingegno altrui, dando per [193] primi mano alle insidie, audacemente correvano verso ogni scelleraggine. Gli altri, invece, fidando di essere in tempo a prevenirne le trame, sicuri che non occorreva agire malamente, là dove bastava far uso di abilità, inermi, perivano, facili vittime degli avversari....»[481].

Il quadro è perfetto e completo; Polibio e Cicerone non avranno che ad aggiungervi solo qualche tocco. «Prestate», dirà il primo dei Greci del tempo suo, «un talento»; fate fare dieci copie; apponete altrettanti sigilli; invocate il doppio di testimoni; voi non riavrete egualmente il vostro denaro....»[482]. E Cicerone: I Greci non hanno mai fatto alcun conto della correttezza e della buona fede.... Non è proverbio tutto loro: «Testimonia in mio favore, chè non mancherò di ricambiartene....»? «Essi considerano il giuramento come una celia; la testimonianza, un puro gioco; la vostra stima, men che nulla; essi cercano e trovano lode, credito, approvazione solo nella menzogna impudente....». Essi non si sono mai fatti scrupolo di falsificare alla leggera documenti privati e pubblici....[483]. La grande Grecia è finita per sempre; sopravvive il greco rigattiere volgare, falso ed astuto, vanesio e pusillanime, pieghevole come servo, umile come parassita, pericoloso come aspide, che Roma disprezzerà e subirà insieme.

Dalla povertà dello Stato e dei privati, dal decadere del livello morale, dalla svogliata partecipazione [194] ai pubblici negozi ed al loro controllo[484], aveva, d’altra parte, origine quella trista incapacità della vita pubblica, i cui effetti dovevano rivelarsi così disastrosi nei secoli che furono contemporanei agli ultimi secoli della Repubblica e ai primi dell’Impero romano.

Già fin dallo scorcio del quarto secolo a. C. era salita in voga quella spensierata e ignominiosa consuetudine di profondere le pubbliche entrate e il pubblico decoro in onorificenze agli inetti, agli indegni[485], ai dominatori, che con deplorevole eufemismo venivano chiamati Salvatori. A Demetrio Falereo, nella sola Atene, furono erette trecentosessanta statue a piedi, a cavallo o sul carro[486]; le testimonianze di riconoscenza agli imperatori romani furono abbassate al livello della più umiliante adulazione[487], e lo stesso Nerone, prima del suo decreto di affrancamento dell’Ellade, fu colmato di onori inauditi: ambascerie universali, concorsi musici, serti di vittoria, sospensione di giuochi pubblici, perfino di quelli, giammai — anche a motivo di guerra — rimandati, suppliche per debutti, cerimonie pagate dagli Elleni in moneta sonante di danaro e di dignità[488].

Già fin dal tempo di Demostene, nella libera Atene, la corruzione nell’amministrazione delle finanze era tale, che, mentre nelle casse mancava il danaro occorrente a far marciare l’esercito per un sol giorno, singoli individui speculavano sui [195] dolori della nazione, e i generali, smarrito ogni senso di responsabilità, scialacquavano fra orge insane, il danaro destinato alla difesa della Patria[489]. Di peggio avvenne più tardi. I magistrati credettero di amministrare con sapienza, dispensando fra i poveri il denaro pubblico[490]. Il diritto di cittadinanza, gli uffici pubblici, i sacerdozi, le onorificenze, cominciarono a vendersi per prezzo[491]. Tutte le città ne facevano un vero e proprio traffico fraudolento. Le magistrature si conferivano, non già a seconda del merito, ma in proporzione dell’altezza dei redditi e della munificenza dei candidati[492]. Ciò non ostante, gli erarî pubblici erano tormentati da continue strettezze[493], chè le sole spese per monumenti onorarî verso i governatori, gl’imperatori, i senatori romani, o per le così dette ambascerie di fedeltà, erano divenute il cancro roditore delle pubbliche finanze. Bisanzio era, come da spesa ordinaria, gravata da più di 3.000 lire annue per una periodica deputazione augurale agl’imperatori; da più di 800, per un’altra al governatore della Misia, e a tali ignobili scopi nessuna delle province dell’impero stanziava somme sì cospicue, come la più misera di tutte, la Grecia[494].

Per tal guisa, se il regime della tutela uccideva la Grecia, il mantenimento o la ripresa dell’antica autonomia comunale si convertiva da un giorno all’altro in un novello motivo di rovina. Così, allorquando, nel 196, Tito Quinzio Flaminio [196] dichiarò i Greci nuovamente liberi, l’esperimento d’improvvisa libertà, si rivelò tosto perniciosissimo. E quando Nerone, due secoli dopo, sciolse gli Elleni dall’ordinamento provinciale romano, scoppiarono in Grecia tali disordini, da costringere, di lì a poco, Vespasiano, non solo a restaurare l’antico regime, ma a ridurre a provincia anche parecchi territori i quali avevano continuato a serbare una lustra di indipendenza[495]. I Greci, opinava il saggio imperatore, avevano irrimediabilmente disimparato a vivere da liberi!

La decadenza intellettuale.

Con l’onestà dei rapporti sociali, con la capacità a gerire la pubblica amministrazione, decadeva, e si riduceva progressivamente, il valore e la profondità della cultura sociale.

Perchè l’arte fiorisca possente e rigogliosa, è necessario che, insieme con l’anima dell’artista, vibri l’anima del suo popolo; che l’artista non sia un mero virtuoso, ma l’interpetre di grandi sentimenti. Fa d’uopo che l’arte, in luogo di soffocare in angusti cenacoli, in accademie sterili e silenziose, viva all’aperto, tragga alimento da tutte le correnti della vita; che gli artisti, infine, siano in grado di rinnovare ogni giorno le proprie ispirazioni al gran fonte battesimale della vita.

Tutte queste possibilità erano disparse nella [197] Grecia dei secc. III-I a. C., come spariranno nell’Italia dei secc. XVI-XVIII, sì che la meravigliosa letteratura greca dell’età classica diventa oramai un ricordo, doloroso e vano, del passato. Inoltre l’arte, che noi ricordiamo col nome di ellenica, aveva avuto delle sue esigenze speciali. La grande arte dei secc. VIII-V a. C. rivestiva un carattere pubblico; supponeva, quindi, un regime felice, prosperità nell’erario, serenità nella cittadinanza, agio di amare e gustare il bello, per desiderarlo, per rappresentarlo, per considerarne la celebrazione quale pubblico debito d’onore[496]. Tale era stata l’arte greca, che s’era incarnata nelle divine rapsodie epiche, nei carmi corali, nella lirica pugnace di Tirteo e di Solone, zampillante dal seno stesso della vita; tale la grande arte drammatica di Eschilo e di Euripide, che aveva rispecchiato, e maravigliosamente idealizzato, l’infinita varietà dei tipi e delle forme spirituali umane. Tali erano state l’antica architettura e la scultura, incapaci di svolgersi isolatamente, senza gli aiuti che le derivavano dalla Città, senza una mano superiore che le guidasse dall’alto a unità di scopo[497]. Tale la storiografia: non ricerca erudita, pretenziosa o sofistica, di particolari morti, ma vivente lezione civile ai futuri; tale la filosofia, che attingeva dalla vita i suoi problemi e per la vita li discuteva, tentava risolverli; tale, persino, l’eloquenza, portato, non sapremmo decidere, se più dell’eccellenza dell’oratore che la [198] diceva o dell’immensa, agitata, vibrante moltitudine, che l’ascoltava, e ch’era anche il suo critico, il suo censore, il suo ammiratore, il tempratore del suo gusto e della sua parola[498].

Ora tanta fiorita intellettuale è, ogni giorno un poco, spezzata dalla bufera incessante delle sventure. Man mano che si vuotava di uomini, di forze, di virtù civili, la Grecia si vuotava di poeti, di artisti, di oratori. Al disparire della serenità, della nobiltà, della profondità degli spiriti, l’arte, la filosofia, la scienza si ritraggono nel silenzio dei gabinetti dei loro pallidi coltivatori. La drammatica e la plastica perdono il maggiore dei campi di rappresentazione: la vita pubblica; i lirici non cantano, od i loro versetti servono solo ad infiorare le antologie; la storia smarrisce l’antica funzione, nazionale e sociale; l’oratoria precipita a retorica; fioritura maligna e devastatrice, invade la casistica, e le masse popolari, tornate grossolane e ignoranti, si avviano per quella china, che le condurrà all’ardore dei circhi od al bizantinismo.

«L’ignoranza e la colpa», aveva scritto l’autore de La repubblica ateniese, «sono figlie primogenite della povertà»[499], e l’Alessandro o Lo spacciatore di prodigi di Luciano esibisce, in quadro efficacissimo, il progrediente dilagare della superstizione. La cristallina chiarità della vita e della coltura ellenica si macola e adombra dei culti più [199] triviali, dei pregiudizi orientali più sciocchi. La fede nella magia e nel miracolo invade gli spiriti e regola gli atti più insignificanti della vita. Tutto imputridisce, anche l’incorruttibile, e, mentre il silenzio della storia protende la sua ombra a velarne pudibondo la scena, Dione Crisostomo recita sul baratro di tanta ruina l’epicedio dalla nazione disfatta[500]: «Un tempo molti primeggiarono in Grecia: voi, o Rodii, gli Ateniesi, quei di Sparta, quei di Tebe, per breve ora i Corinzi, in età più remota gli Argivi. Adesso tanta gloria è disparsa. Gli uni sono periti interamente; gli altri si governano..., disonorando la gloria conseguita, e ritenendosi felici di non trovare ostacoli nel delinquere». «Solo voi, o Rodii, restate, e solo per voi è possibile pensare che non tutto ciò che fu greco è morto o divenuto del tutto degno di dileggio. Quanto agli altri, si può dire in verità che il nome di Greci è ormai più disprezzabile di quello di Frigi o di Traci.... Tutta la loro gloria perì, e tutte le cose loro sono corrotte vergognosamente, miserabilmente. A guardare l’opera degli uomini di oggi, nessuno potrebbe argomentare lo splendore del tempo che fu. Le pietre e le ruine dichiarano meglio la grandezza e l’antica gloria. Quelli che ora abitano in Grecia, e in essa si governano, non si direbbero neanche discendenti di avi Misii. Meno lugubre è la sorte delle città distrutte al paragone delle altre. Di [200] quelle resta integra la memoria..... e la fama delle belle imprese d’un tempo non è stata macchiata. Meglio bruciare i cadaveri che lasciarli imputridire!...».

Note al capitolo quarto.

433.  Circa la cronologia dell’opera di Strabone, cfr. E. Pais, Straboniana, in Riv. di filologia e d’istruz. classica (1887), XV, pp. 216 sgg. D’altro canto, la presenza del geografo greco in parecchie delle regioni elleniche sopra descritte (cfr. Strab., 2, 5, 11) non è negata neanche dai più scettici critici moderni; cfr. Pais, op. cit., pp. 116, 117, 163, e M. Dubois, La géographie de Strabon, Paris, Imprimerie nationale, 1891, pp. 71 sgg.

434.  Strab., 7, 7, 3; 9.

435.  Id., 12, 8, 8-9.

436.  Id., 9, 4, 17; cfr. Paus., 10, 8, 2.

437.  Id., 7, 7, 6, 10, 2, 3; 23.

438.  Id., 9, 3, 4; 8.

439.  Id., 9, 2, 5.

440.  Id., 9, 1, 15.

441.  Id., 8, 4, 11.

442.  Loc. cit.

443.  Id., 8, 8, 1-2. Per quel che riguarda Mantinea, si è creduto di poter smentire questo passo con gli altri di Pausania, 8, 9, 3; 46, 1. Non si è badato che Strabone, dopo avere enumerato i luoghi più celebri dell’Arcadia, aggiunge testualmente: «o più non esistono o ne rimane appena qualche traccia»: nulla di diverso di quanto è lecito indurre da Pausania. Il fatto, poi, che di talune di codeste città, da Strabone considerate distrutte, si abbia più tardi notizia (cfr. E. Kuhn, Die städtische u. bürgerliche Verassung d. rom. Reichs ecc., Leipzig, 1865, II, pp. 76 sgg.) è di assai scarso peso. Sopravvisse talora il nome del luogo, ma non l’importanza della città; talora la denominazione venne spostata da luogo a luogo; tal’altra, infine, la cittadina distrutta e scomparsa fu, più tardi, ricostruita e riabilitata.

[201]

444.  Strab., 10, 1, 10.

445.  Id., 10, 4, 9.

446.  Id., 10, 5, 3.

447.  Id., 14, 1, 9.

448.  Id., 14, 1, 35-37. Di Chio: «Un giorno i Chii furono una grande potenza navale e aspirarono all’impero dei mari»; di Clazomene: «Dopo Ipocremno è Chitrio, ove un tempo fu Clazomene....»; di Smirne: «Dolabella.... distrusse gran parte della città....».

449.  Id., 14, 1, 7.

450.  Id., 13, 1, 19; 23, 2, 4.

451.  Id., 14, 1, 7; 32.

452.  Strab., 6, 2, 2.

453.  Id., 6, 2, 4.

454.  Id., 6, 2, 5; 6.

455.  Id., 6, 2, 6; cfr. Mommsen, in C. I. L., X, pp. 746-47.

456.  Id., 6, 2, 6. Strabone dovette percorrere e visitare la Sicilia; cfr. Dubois, op. cit., pp. 84, 85, 153 sgg.

457.  Id., 5, 4, 4; cfr. Vell. Pat., 1, 4, 2; Juven., Sat., 1, 3, v. 2.

458.  Strab., 5, 1, 2.

459.  Id., 6, 1, 3; 13.

460.  Id., 6, 1, 5.

461.  Loc. cit.

462.  Id., 6, 1, 10; 13; cfr. Paus., 6, 19, 11.

463.  Id., 6, 1, 6.

464.  Id., 6, 3, 1; cfr. Vell. Pat., 1, 4, 2.

465.  Pol., 20, 6 (= Geogr. Gr. minores, I, 103, ed. Didot.).

466.  Ad fam., 4, 5.

[202]

467.  Senec., Ad Helviam. matr., 6, 4; Tac., Ann., 3, 68; 69; 4, 13; 21; 30.

468.  Cfr. Act. Apostol., 13, 14, 16, 17, 18, 20; Apocalyps., I, 4; 9: 11; I Petr., I, 1; le Epistole di Paolo; cfr. A. Harnack, Missione e propagazione del Cristianesimo (trad. it.), Torino, Bocca, 1906, pp. 421 sgg.

469.  8, 33, 1; 9, 7, 4-5.

470.  10, 34.

471.  Orat., XXXIII, p. 461 (vol. II, p. 11, ed. Reiske).

472.  Orat., XXXIII, p. 401 (vol. II, p. 12, ed. Reiske).

473.  Orat., VII, pp. 105-6 (vol. I, pp. 232-33, ed. Reiske).

474.  Orat., XXXI, p. 358 (vol. I, p. 650, ed. Reiske); Strab., 7, 7, 3.

475.  Plut., Arat., 27, 1.

476.  Cfr. J. Kärst, Gesch. d. hellenistischen Zeitalters, Leipzig u. Berlin, 1909, II, 85 sgg., 305 sgg.

477.  È la frase magistrale, in cui F. De Sanctis (L’uomo del Guicciardini, in Saggi critici, Milano, Treves, 1914, III, p. 42) riassume la filosofia pratica dell’uomo della Rinascenza in Italia, descrittoci dal Guicciardini.

478.  Pro Flacco, 4, 9 sgg.

479.  Aeneis, 2, vv. 57 sgg.

480.  Cfr. il dialogo Del parassita.

481.  Thuc., 3, 32, 4 sgg. Com’è noto, è questo uno dei più difficili passi tucididei. Per la interpretazione ho seguito, dove ho potuto, Dion. Hal., De Thucyd. ecc., 29 sgg.

482.  6, 56, 13.

483.  Pro Flacco, 4, 9-10; 5, 12; 9, 20.

484.  Pol., 20, 4, 1 sgg.; 6, sgg. Tale era, del resto, il costante rimprovero di Demostene (In Philipp., I, 7 passim) ai propri contemporanei, tanto migliori dei contemporanei di Polibio.

[203]

485.  Demost., XIII (De rep. ordin.), 20, 21; XXIII (In Aristocr.), 118, 130, 141 sgg. 202-03.

486.  Diog. Laërt., 5, 75.

487.  Cfr. C. I. G., 478, 1300, 1323; Paus., I, 40, 2; II, 8, 1; III, 22, 7; V, 20, 5; VI, 19, 7; 25, 1; X, 8, 4.

488.  Svet., Nero, 22.

489.  Cfr. Demost., XIII (De rep. ord.), 30 passim; III (Olynth. III) 29; XXIII (In Aristocr.), 209; Isocr., De pace, 124 sgg.; Aeschin., De mala legat., 71; 161; cfr. Böckh, op. cit., 1, 362-64.

490.  Pol., 20, 6, 3.

491.  Mommsen, Province romane ecc. 256.

492.  Id., op. cit., 267-68; Pol., 20, 6, 2-3; cfr. Demost., XIII (De rep. ord.), 24.

493.  Mommsen, op. cit., 256.

494.  Id., op. cit., 267-68.

495.  Svet., Vespas., 8.

496.  E. Curtius, Griech. Geschichte, Berlin, 1878-81, III, 526, 532.

497.  Id., op. cit., II, 213.

498.  Sul valore della partecipazione del pubblico all’arte ateniese, cfr. E. Ciccotti, Le retribuzioni delle fruizioni pubbliche civili nell’antica Atene (in Rendic. del R. Ist. Lombardo di sc. e lett., Serie II, 30, 1893, pp. 265 sgg.), riprodotte in Bibl. st. econ., vol. I, 2, App. II, pp. 544 sgg.; Grote, op. cit., VII, pp. 389-95.

499.  1, 5.

500.  Orat., XXXI, pp. 358 (vol. I, pp. 648-49, ed. Reiske).

[205]

INDICE ANALITICO-ALFABETICO

Acaia, 77, 149, 183, 184, 185; (Grecia), II, 136, 142, 146, 148.

Acarnania, 181, 193; II, 67, 185.

Achei. V. Confederazione.

Aden, II, 131.

Afamioti, 77.

Africa, romana, 28; settentrionale: prodotti, II, 103; città, 92, 104; commercio con Roma, II, 111; strade, II, 112; mercati, II, 112.

Agatocle, 169; II, 62.

Agesilao, 163; II, 55.

Agide I, 97; II, 55.

Agide IV, 85, 103.

Agricoltura, e schiavitù, 11; assenteismo dei proprietarii, 16; produzione dei cereali, 17, 22 sgg.; lavori agricoli, 18, 21; macchinario, 19 sgg.; concimazioni, 20-21, 53, nn. 53 e 60; secondo Senofonte, 21; produzione del suolo in Sicilia, 22; in Grecia, 22-23; In Italia e altrove, 17, 23-24; nel mondo antico e nel moderno, 24; il maggese nel mondo antico, 24; e la servitù della gleba, 91, 101-02; e la guerra, II, 12 sgg.; sua importanza nell’evo antico, II, 15; nell’Attica, II, 16, 17; prodotti dell’Egitto ellenistico, II, 96; nell’Egitto antico, II, 96 sgg.; crisi agricola nella Grecia ellenistica, II, 109-10; nell’Italia dei secc. II-I a. C., II, 121; V. Cereali; Latifondo; Proprietà.

Agrigento, 29, 170; II, 161, 162.

Agyrrium, II, 164.

Aixonei, 215-16.

Alcibiade, (cliente di Lisia), 38; (discepolo di Socrate), 102, 136, 143, 172.

Alessandria, importanza commerciale, II, 93-94, 95; e Roma, II, 99; linea di A., II, 105-06.

Alessandro (Magno), VIII, 176; rinnova la Confederazione greco-macedone, 178-79; distrugge Tebe, 164, 179; e Atene, 179; violazioni dei patti della Dieta di Corinto, 186-190; in Oriente, II, 4; e gli esuli greci, II, 64; invasione nell’Asia Minore, II, 66; conquista dell’Oriente, II, 90-91, 95; colonizzazione, II, 91.

Aliarto, 161.

Alicarnasso, II, 168.

Ambracia, 178, 184, 186, 192.

[206]

Ambracia, II, 176, n. 42.

America (del nord), colonie a schiavi, 31; riduzione della mezzadria, 110, n. 32; confederazione, 161.

Amicle, 163.

Andro, 143.

Anfipoli (battaglia), II, 30, 32.

Antalcida, Pace di A. (a. 387), 125, 156-57, 162; II, 40, 57.

Antigonidi, IX.

Antigono, Gonata, 182, 191; Dosone, 183, 194.

Antiochia, II, 91, 93.

Antipatro, e Atene, 180, 190; e il Peloponneso, 180.

Antonio (Flamma), II, 171.

Antonio (C. Ibrida), II, 142, 171.

Antonio (M.), II, 5, 123, 124.

Apollonia, 77, 186; II, 131, 144.

Apronio, II, 154, 156.

Apulia, II, 187.

Arabia, II, 92, 94, 101, 105, 111.

Arcadia, 36, 149, 173, 179, 182, 192, 193; II, 62, 186, 187.

Archidamo, 151; II, 55.

Argo, 149, 157, 173, 183, 192, 193; II, 3, 189.

Argolide, 5, 36, 77, 149, 184, 193; II, 109, 186.

Aristide, 126; II, 11, 37.

Aristocrazia (L’), in Grecia, 47 sgg.

Aristofane, 39, 141; II, 71 sgg.

Aristotele, 25, 41, 49, 51, 52, 96, 104, 116, 119; II, 59.

Arles, II, 102, 131.

Armata, ateniese, II, 28.

Arte (L’), e la vita sociale, II, 196 sgg.

Arverni, II, 67.

Asia (Minore), 29, 125; emigrazione nell’Asia M., 46, 177; colonie greche, II, 2, 19, 142; loro decadenza, II, 66; città ellenistiche, II, 91-92; nel periodo ellenistico, II, 108; importanza economica, II, 115, n. 20; gli Italici nell’A. M., II, 165-66; guerre, II, 166; e Sulla, II, 166-67; e Flacco (63 a. C.), II, 167; e Bruto e Cassio, II, 167; e Antonio, II, 167; e Q. Cicerone, II, 168; imposte, II, 166, 169; città ellenistiche, II, 91-92, 94; e il commercio greco, II, 112; strade, II, 112; Italici, II, 145.

Aspledone, 173.

Astira, II, 186.

Atamania, II, 185.

Atene, officine e schiavi, 7, 36; II, 22; meteci, II, 50; lavori pubblici, 8; banche, 9; Prima Confederazione ateniese, VIII, 126 sgg.; tributo degli alleati, 129-30, 131-32; II, 31 sgg.; la «decima» di Bisanzio, 132-33; condizioni degli alleati, 130-31, 134 sgg., 138 sgg., 140, 141-42; II, 34, 36-38; Terza (così detta, Seconda) Confederazione, 125 sgg., 144; II, 32; imperialismo, 124 sgg.; cleruchie, 142 sgg.; e Sparta, 153-55; e Tebe, 168; e Alessandro Magno, 179; e Antipatro, 180, 190; nel 311 a. C., 182; dopo la Guerra di Cremonide (266-63 a. C.), 183; insorge contro la Macedonia, 192, 194; alleanza con Sparta (266 a. C.), 195; nella Guerra di Cremonide, 195-96; sforzi militari di Atene, II, 9-10; legislazione sui cereali, II, 16-17; importazioni, II, 18-19; importanza [207] commerciale, II, 18 sgg., 21, n. 44; esercito, II, 26 sgg.; armata, II, 28; entrate, II, 30, 31 sgg.; imposte doganali, 131-32; II, 33-34; altre imposte, II, 34, 39; «Le entrate ateniesi»: concetti, II, 19-20, 35-36, 70-71, 90; eisphorà, II, 37 sgg., 40 sgg.; Simmorie, II, 40; la ricchezza ateniese, II, 40, 46 sgg.; proeisphorà, 11, 41-42; Trierarchia, II, 42 sgg., 46-47; epidóseis, II, 44-46; decadenza, 145 sgg., II, 48 sgg.; diminuzione della popolazione, II, 51 sgg.; sovrappopolazione, II, 52 sgg.; e la Persia, II, 2; guerre, II, 3 sgg.; lotte civili, II, 63; mutamento di indirizzo politico nel IV secolo a. C., II, 89-90; nel periodo ellenistico e romano, II, 107-08, 112; e Sulla, II, 123; nelle guerre civili romane, II, 123; «città libera», II, 139; mutamenti costituzionali nella Grecia romana, II, 140; statue a Demetrio Falerno, II, 194; V. Attica.

Attica, popolazione e superficie, 5; le miniere del Laurium, 8, 34-35; II, 109; lavori pubblici, 8; produzione del suolo, 23; la proprietà immobiliare, 29-31; crisi agraria innanzi il VI sec. a. C., 94; Geomoroi, 96; servi della gleba, 77, 79, 182; Demetrio Poliorcete in A., 193; nella Guerra di Cremonide, 195; popolazione, II, 9; inurbamento della popolazione, II, 11, 14-16; pastorizia, II, 11; agricoltura, II, 12, 13, 109; produzione in cereali, II, 16; schiavi, II, 84, n. 166; invasa da Archidamo (431 a. C.), II, 55; e Sulla, II, 123; decadenza, II, 185; V. Atene.

Aulide, 173.

Azio, (battaglia), II, 184.


Bacchilide, II, 71-72.

Banche (Le), e gli schiavi, 9.

Batira, II, 93.

Beozia, superficie e popolazione, 5; schiavi, 6; e l’imperialismo ateniese, 161; confederazione, 160-61, 178; cittadine, 161, 173; nel 272 a. C., 182; guerre e conseguenze, II, 54-55; popolazione, II, 55; esuli, II, 62; e Pompeo, II, 123; agro pubblico romano, II, 137; decadenza, II, 186, 187; V. Tebe, Orcomeno, Tisbe, Tespia, e le singole cittadine.

Bezier (Colonia Julia Septimanorum Baeterrae), II, 131.

Bisanzio, 124, 126; II, 2, 16, 32; II, 144, 196.

Bitinia, provincia romana, II, 169.

Blocco commerciale, II, 22-23.

Bologna, II, 102.

Bordeaux, II, 102.

Brasida, 151.

Brindisi, II, 131.

Britannia, prodotti, II, 104; strade, II, 112.

Bruto. V. Giunio.

Bruzzi, II, 67.

Bruzzio, II, 187.

Buleuti, ateniesi, 116; beotici, 161.


Cadmea, 178; II, 188.

Caesarea, II, 104.

Cafi, 194.

Cafie, II, 186.

[208]

Calcedonia, 125.

Calcidica, 126, 175, 178, 173; II, 2, 3, 32.

Caldea, II, 92.

Callia, 34.

Callicirii, 89-90, 170.

Callicrate, 35.

Callipoli, II, 187.

Calpurnio (L. Pisone), II, 143.

Caltagirone, 170.

Camarina, 170; II, 187.

Campania, II, 187.

Caria, II, 19, 32, 168.

Carpato, 125.

Cartagine, 144, 147, 171; II, 2, 3, 4, 19, 101, 120, 173.

Cartagine (Nuova), II, 104.

Cassandro, 182, 191.

Cassio, II, 127, 135, 145.

Catania, 170.

Catone, 14, 18, 21.

Caulonia, II, 187.

Cause storiche, XVII-XVIII.

Cavalieri, ateniesi, II, 17; romani, II, 121.

Centesima, II, 33, 39.

Cereali, produzione in Sicilia, 22; in Grecia, 23; in Italia e in altri Paesi europei, 23-24; nel mondo antico e in quello moderno, 24; nell’Attica, II, 16; importazione nell’Attica, II, 16; centri di esportazione, II, 17; in Egitto, II, 96; nell’Africa nord, II, 103; in Britannia, II, 104.

Cesare. V. Giulio.

Cesio (Cordo), II, 171.

Cheronea (battaglia di) (a. 338 a. C.), 178.

Chersoneso (tracico), 126, 143; II, 3, 32.

Chio, 77, 127, 179; II, 62, 176, n. 42, 186.

Cicerone. V. Tullio.

Cicladi, 5; II, 123.

Cilicia, II, 125, 142, 172, 186.

Cina, II, 94, 100, 101; V. Serica.

Cineta, II, 186.

Cinquantesima, II, 21, 33, 39.

Cinuria, 149.

Cipro, 147; II, 18, 19, 145, 172.

Cirenaica, II, 169; in eredità a Roma, II, 170; provincia stipendiaria, II, 170; prodotti, II, 180; sotto il governo romano, II, 171; porti, II, 94; e Alessandria, II, 95; decadenza, II, 170-71.

Cirta, II, 104.

Citera, 125.

Città libere, II, 139-41, 144, 149, 169.

Cittadinanza, perdita della c., 93, 95; e diritto di proprietà, 93, 95-96.

Cizico, II, 30.

Claroti, 77.

Clazomene, II, 186.

Cleomene, 103, 191.

Cleone, 134.

Cleopatra, II, 171.

Cleruchie, 142 sgg.; II, 52-53.

Cnido (battaglia di), 156.

Cnosso, II, 170.

Codex iustinianaeus, e il colonato, 213.

Colonia parziaria, 211, 214.

Colonie, 45, 143, 170; II, 2; V. Cleruchie.

Colono, 211 sgg.

Columella, e il trattamento degli schiavi, 14; e il lavoro servile, 15; e la produzione dei cereali in Italia, 17, e n. 40; e i lavori agricoli, 18; e il fitto agrario, 78.

Commercio, e gli schiavi, 8-9; libertà di c., 189; il c. greco e i Macedoni, 189-90; e la [209] guerra, II, 16 sgg.; ateniese, II, 17, 18, 21; proibizioni commerciali, II, 22; blocco, II, 22-23; nel mondo antico, II, 23-24; nell’Oriente ellenistico, II, 97; nell’Egitto ellenistico, II, 93 sgg.; nella Grecia ellenistica, II, 111-12; nell’Italia romana, II, 121.

Confederazione, Confederazioni minori in Grecia, 172-73; arcadica, 173, 179; achea, 173, 174-75, 179, 188, 192, 194; II, 55; dei secc. III-II a. C., 174-75; tessalica, epirotica, focese, calcidica, etolica, 175; II, 4; greco-macedone, 177 sgg., 178-79, 183-84; le C. greche disciolte, II, 138; V. Atene; Sparta; Tebe; Siracusa.

Conone, 34, 156.

Coo, II, 108.

Copto, II, 94.

Corcira, 5; guerra corcirese-corinzia, II, 2, 36; II, 63, 123.

Corinto, 5, 157, 178; Dieta di C. (338 a. C.), 177, 178, 181, 182, 183, 184, 185; guerre, 2, 3, 65; distruzione, II, 4; guerre civili, II, 62; primo emporio commerciale dell’Egeo, II, 66; decadenza, II, 68; nel periodo ellenistico e romano, II, 108; distrutta, II, 120.

Corinzia, 77, 149; II, 137.

Corinzii, 150; II, 55.

Cornelio (P. Scipione Emiliano), II, 120.

Coronea, 161.

Corporazioni, industriali, II, 116, n. 29.

Cratete, 25.

Cremona, II, 102.

Cremonide, 183, 194; V. Guerra di Cremonide.

Creta, 77, 194; II, 19, 169-70; città, II, 94, 170, 186; Italici, II, 145.

Cristianesimo, II, 188.

Crotone, II, 2, 17, 188.

Ctesibio, II, 98.

Cuma, II, 67, 187.


Danaro, l’invasione del d. a Sparta e suoi effetti, 99-100.

Decadenza, concetto di decadenza, XI sgg.

Decelea, 6, 131, 136.

Decima, 82; «decima di Bisanzio», 132-33; II, 39; romana, II, 124; in Sicilia, II, 180, 151, 153, 156, 156-167, 159.

Decumani, municipi, II, 150; appaltatori della decima, II, 152, 154, 155.

Delfo, 168; II, 123, 185.

Delion (battaglia, 424 a. C.), 34; II, 55.

Delo, 124; lavori pubblici, 36; cleruchia ateniese, 143, 145; prosperità e decadenza, II, 68; nel periodo romano, II, 108; i conti del tempio, II, 110; statue, II, 142; Italici, II, 145.

Demetrio, II, 183, 191.

Demetrio Falereo, II, 107, 194.

Demetrio Poliorcete, 182, 193, 194.

Democare, II, 49.

Democrazia (La), in Grecia, 47 sgg.

Demostene, 7, 30, 35, 38, 185; II, 48, 73, 194.

Diadochi, 177.

Didymeion, 8.

Difilo, 34.

Dinomenidi, 169.

[210]

Dione Crisostomo, II, 188.

Dionigi (il grande), 169, 171; II, 3, 58.

Dodona, II, 185.

Dolopia, 185, 193.

Droysen (J. G.), XIX, 184; II, 94.

Ducezio, 170.

Durazzo, II, 143, 144.


Ectemori, obblighi, 79, 107, 14.

Efeso, II, 62.

Egina, 5, 143; II, 66, 108.

Egitto, centro di esportazioni, II, 17, 18, 95, 99; prodotti, II, 95-96; organizzazione economica, II, 96 sgg.; e Roma, II, 99, 100-101; e Alessandria, II, 95; commercio, II, 93, 95, 111-12; V. Alessandria.

Egospotamὸs (battaglia di), 152, 156; II, 30.

Eisphorà, II, 37 sgg.; proeisphorà, II, 42.

Elatea, II, 188.

Elei, 157; V. Elide.

Eleon, 173.

Eleusinion, 8.

Elide, 149, 157, 173, 182, 183, 184, 186, 194.

Emigrazione, 44 sgg.; in Oriente, II, 92.

Enna, 169; II, 156, 161.

Epaminonda, 163, 164, 166.

Epicrate, 34.

Epidauro, 36, 193; II, 123, 131.

Epidemie, nel mondo antico, 12.

Epigoni, 177.

Epimeleta (macedone), 184.

Epiro, 175, 180; II, 112, 123, 136, 184-85.

Epistate (macedone), 184.

Eraclea Pontica, 77, 79.

Eraclea Trachinia, 77.

Erechteion, 8, 128.

Eretria, II, 2.

Erice, II, 187.

Eritre, 173.

Esercito, ateniese, II, 26 sgg.; spesa, II, 27.

Esuli, in Grecia, II, 62-64.

Etiopia, II, 95, 103.

Etna, II, 153, 165.

Etolia, 180, 182, 184, 192, 193; II, 185; V. Confederazione.

Etruria, II, 19.

Etruschi. II, 2, 3.

Eubea (in Sicilia), II, 187.

Eubea, 5, 143, 178, 182, 185, 186, 193; II, 3, 66, 109, 137, 186, 188-89.

Eubulo, II, 89.

Europa, occidentale, produzioni, II, 100-101, 102 sgg.; e Roma, II, 102 sgg.; mercati, II, 112; centrale, II, 112.

Eutreso, 173.


Famiglia (La), e la schiavitù, 53-54.

Fara, 173.

Faraoni, II, 94.

Farnabazo, 156.

Fenicia, II, 17, 19, 94.

Fenippo, 103.

Fialei, 194.

Filea di Calcedonia, 51.

Filemone, 195-96.

Filemonide, 34.

Filiade, 187.

Filippi, II, 123.

Filippo, 34.

Filippo II, e la Grecia, 177-78, 185-86; regioni occupate in Grecia, 178; II, 3, 4.

Filippo V, e la Grecia, 184 sgg.; 190.

Fimbria, II, 5.

Fitto, 78, sgg.

Fliasia, II, 55, 62.

[211]

Fliunte, 157.

Focide, 7, 77, 168, 175, 182, 185, 186, 193; II, 67, 123, 185, 188.

Focione, 192.

Fonti storiche, XVIII sgg.

Forum Julii (Fréjus), II, 102, 131.

Francia, servi della gleba, 89, 90, 91; riduzione della mezzadria, 110. n. 22.

Fréjus. V. Forum Julii.

Frigia, 212; II, 19.

Frumentum, emptum, II, 151, 157; imperatum, II, 151, 157; in cellam, II, 150, 158.

Ftiotide, 185.


Gabinio (P. Capitone), II, 142.

Galli, II, 55, 127.

Gallie, strade, II, 112; Cisalpina, in sulla fine della Repubblica romana, II, 102; prodotti, II, 102-103; città, II, 102; corporazioni industriali, II, 116, n. 29; Transalpina, in sui primi dell’èra volgare, II, 102; città, II, 102, 131; Narbonese, II, 102.

Gela, 170; II, 62, 187.

Geomoroi, 96.

Germania, antica, II, 104; Confederazione innanzi il 1870, 184.

Giaro, II, 186.

Giudea, II, 128.

Giulio (C. Cesare), II, 5, 127, 173.

Giunio (M. Bruto), II, 135, 148, 173.

Giuochi Istmici, del 196 a. C., 185, 196-97.

Gracco, V. Sempronio.

Grecia, disegno della storia politica, VII sgg.; diffusione della grecità, XI; la schiavitù in G., 4 sgg.; il latifondo, 28-29; concentrazione della ricchezza, 26 sgg., 31 sgg.; ricchezza e povertà, 37 sgg.; servitù della gleba, 77-78; imperialismo, 115 sgg.; reazione antispartana, 156 sgg.; municipalismo e imperialismo, 172 sgg.; grandi e piccole federazioni, 173; durante le guerre del periodo ellenistico, 176, 181 sgg.; Consiglio federale ellenico, 177, 178-79; e Filippo II, 177-78; e Alessandro Magno, 178-80; nel 311 a. C., 181-82; nel 272 a. C., 182-83; sotto Demetrio II e Antigono Dosone, 183-84; sotto Filippo V, 185; reazione antimacedone, 185 sgg.; 192 sgg.; guerre, II, 1 sgg., 54 sgg.; Stati municipali, II, 6-7; depopolazione, II, 60; lotte civili, 46 sgg.; II, 60 sgg.; esuli, II, 62-64; guerre e decadenza, II, 66 sgg.; conquistata dalla Macedonia, II, 4; da Roma, II, 4; alla metà del IV sec. a. C., II, 89 sgg.; nel periodo ellenistico e romano, II, 92, 106 sgg., 188; insorge contro Roma, II, 120; durante le guerre civili romane, II, 123-24; provincia romana, II, 136 sgg.; e i Romani, II, 141 sgg.; II, 143-144; e i negotiatores romani, II, 145 sgg.; provincia imperiale, II, 149; nell’età di Augusto, II, 184 sgg.; il Cristianesimo in Grecia, II, 188; nell’età di Dione Crisostomo, II, 189, 199-90; decadenza economica, II, 107 sgg.; decadenza morale, II, 189 sgg.; decadenza intellettuale, [212] II, 196 sgg.; Italici, II, 145; V. Acaia.

Grote (G.), 174.

Guerra, nella Grecia antica, II, 1 sgg.; 54 sgg.; causa fondamentale, II, 5-8; sforzo demografico, II, 9-10; 54-55; e la pastorizia e l’agricoltura, II, 10 sgg.; e il commercio, II, 16 sgg.; e le finanze degli antichi Stati, II, 26 sgg.; 29 sgg.; 45-46, 55 sgg.; e la decadenza della Grecia, II, 60 sgg., 66 sgg.

Guerra degli alleati o sociale (a. 357-55 a. C.), 125, 134, 145; II, 3, 69.

Guerra corinzio-beotica, II, 2; II, 39.

Guerra di Cremonide (266-63 a. C.), 183, 194-196.

Guerra deceleica. V. Guerra del Peloponneso.

Guerra decennale. V. Guerra del Peloponneso.

Guerra lamiaca (a. 323-22 a. C.), 180; II, 4.

Guerra del Peloponneso (431-404 a. C.), II, 2-3, 36; conseguenze sociali per Sparta, 98; per Atene, 116; e il primo Impero ateniese, 125; e l’imperialismo spartano, 152; costo, II, 29-30, 30, 32, 56.

Guerra di Sicilia (415-13 a. C.), II, 38.

Guerra sociale, II, 30.

Guerra tarantina, II, 67.

Guerre mitridatiche, II, 6.

Guerre puniche, II, 120.

Guerre sacre, II, 4, 55, 67.


Halaesa, II, 162.

Harma, 173.

Herbita, II, 153, 164.

Hibla, II, 153.

Hiria, 173.

Hume (David), II, 62.


Iberi, 144.

Ietto, 173.

Iloti, 76-77; obblighi, 79; piccolezza del possesso, condizioni morali e giuridiche, 84 sgg., 86 sgg.; economiche, 87, 88 sgg., 209 sgg.

Imbro, 23, 143, 145.

Imera, II, 187.

Imperialismo (L’), nella Grecia antica, 115 sgg.; nel mondo moderno, 118; concetto greco, 119 sgg.; ateniese, 124 sgg.; e la decadenza di Atene, 145 sgg.; spartano, 149 sgg.: tebano, 160 sgg.; siracusano, 169 sgg.; macedone, 176 sgg.; nell’Italia romana, II, 122 sgg.; romano, II, 122 sgg.

Impero romano, colonato e servitù della gleba, 80, 85.

India, II, 92, 93, 95, 100, 101, 106, 111.

Industria, e schiavitù, 11; macchinario e lavori industriali nel mondo antico, 25 sgg.; II, 98; carattere voluttuario dell’i. antica, 26; fabbriche in Grecia, 36; II, 108-09; costosità, 9 sgg.; 46; nell’Oriente ellenistico, II, 98; nell’Europa occidentale, II, 102-104; nella Grecia ellenistica, II, 108-09, 112-13; corporazioni industriali, II, 116, n. 29; etrusca, II, 122.

Ionia, II, 32, 168, 186.

Ipponico, 34.

Ipponio, II, 187.

Irlanda, mezzadria, 85.

Iseo, 30.

[213]

Isocrate, 46, 154, 166, 167; II, 64, 66, 69 sgg.

Italia, produzione dei cereali, 17, 23-24; il latifondo nell’I. antica, 28; I. meridionale, mezzadria, 85; e l’impero siracusano, 169; crisi sociale dei secc. II-I a. C., II, 121 sgg.; e il commercio greco, II, 111.

Italici, e Greci, II, 2; nelle province romane, II, 130; nel mondo greco, II, 145-46; in Asia minore, II, 166; massacrati, II, 166.


Laconia, servitù della gleba, 76; la proprietà, 85; concentrazione della proprietà, 102 sgg.; nella Lega achea, 174; industria, II, 108; città distrutte, II, 186.

Lambesa, II, 104.

Lamia (battaglia), 190.

Laodicea (in Siria), II, 93.

Laos, II, 67.

Latifondo, origini, 17, 28; in Grecia, 28-29; in Tessaglia, 101.

Laurium (Miniere del), 8, 34, 35; II, 109.

Lavori pubblici, 8; in Atene, 35; a Delo, a Trezene, a Epidauro eco., 36-37.

Lega. V. Confederazione.

Legati, II, 128.

Legatio libera, II, 146.

Lemno, 23, 143, 145.

Leontini, II, 164, 165, 186.

Lepreon, 184.

Lesbo, 127, 143, 173.

Letteratura, in Grecia, II, 197 sgg.

Leucopetra (battaglia), II, 120.

Leuttra (battaglia, a. 371 a. C.), 157, 159, 162; città, 173.

Lex Gabinia, II, 172.

Lex Hadriana, 211; Manciana, 212.

Liberi (I), in Grecia a seconda delle varie regioni, 5; mortalità, 12; e la concorrenza servile, 40 sgg.; salarii, 41-43; nel IV sec., II, 90; nell’Oriente ellenistico, II, 98; nella Grecia ellenistica, II, 110.

Libia, II, 94, 95, 112.

Licinio (L. Grasso), II, 129.

Licurgo, ateniese (338-26 a. C.), II, 89-90.

Licurgo, 102, 103.

Lione, II, 102.

Lipari, II, 156.

Lisandro, 152, 153.

Lisia, 7, 38.

Livio (T.), II, 130.

Locri, 170.

Locride, 7, 77, 185; L. Opunzia, 182.

Lucani, II, 67.

Lucania, II, 187.

Luciano, II, 190-91, 198.

Lusso, in Grecia, 37 sgg.; a Sparta, 98.


Macedonia, 176; e Grecia, 178 sgg.; disputata fra Cassandro e Polisperconte, 182; sotto Antigono Gonata, 182: nel 272 a. C. 182-83; il latifondo in M. 29; e Atene, II, 4: e Persia, II, 4; esporta grano, II, 17; in rapporti commerciali con Atene, II, 19; con Rodi, II, 67; insorge contro Roma, II, 120: provincia romana, II, 136, 142; devastata da Pisone, II, 143; città ellenistiche, II, 91; Italici, II, 145; V. Confederazione.

Magna Grecia, il latifondo, 28-29; [214] guerre, II, 2; esportazione, II, 19.

Magnesia, 185.

Mantinea, 157, 173, 174, 194; II, 38, 55, 186, 200, n. 11.

Mar Mediterraneo, II, 94-95.

Mar Nero. V. Ponto.

Mar Rosso, II, 94, 95.

Maratona (battaglia, a. 490 a. C.), II, 9.

Mariandini, 77; obblighi, 79.

Maronea, 35.

Marsiglia, II, 67, 101-02, 131.

Mauretania, II, 103.

Megalopoli, 157; II, 55, 186.

Megara, 187; II, 60, 62, 67; Iblea, II, 186.

Megaresi, 168.

Megaride, 5; II, 123.

Melo, 143; II, 38.

Menalo, II, 186.

Menandro, 37.

Mercati, II, 112.

Mercenari (eserciti), II, 53-54.

Mesopotamia, II, 92, 93, 95.

Messene, 157, 158, 187.

Messenia, estensione, 149; conquistata da Sparta, 149, 158; servitù della gleba, 76-77, 209, 216-17; la proprietà, 85; concentrazione della proprietà, 103 sgg.; nella Lega achea, 174, 182; insorge contro la Macedonia, 193; decadenza, II, 185; V. Messene.

Messina, 170.

Metaponto, II, 187, 188.

Meteci, II, 30.

Metidria, II, 186.

Metone, 185.

Mezzadria, 78 sgg.; nell’Italia antica, 215; nell’Italia meridionale e in Irlanda, 85; regresso in Francia e in America, 110, n. 22.

Micalesso, 173.

Mileto, 8; II, 63, 186.

Milziade, 34, 37.

Miniere, 7, 25-36; del Laurio, 8, 34-35; II, 109; di Taso, 142; di pietra in Egitto, II, 96; in Spagna, II, 102-03; in Britannia, II, 104.

Misia, II, 195.

Mitilene, 173; II, 37.

Mitridate, II, 166.

Mnasone di Elatea, 7.

Modena, II, 102.

Mutyca, II, 164.


Narbona, II, 102.

Nasso (in Sicilia), 170; II, 186; (una delle Cicladi), 143; insurrezione, II, 2.

Naupacio, 77.

Nausicle, 34.

Neapoli, II, 187, 131.

Negotiatores (I), II, 145 sgg.

Nemea, (battaglia, a. 394 a. C.), II, 55.

Nerone, II, 196.

Nicia, 34; pace di N. (421 a. C.), 152; II, 38.

Nîmes, II, 102.

Norbano (C.), II, 164.

Numanzia, II, 120.

Numidia, II, 103.


Oceano indiano, II, 94.

Oicheis, 77.

Olimpia, II, 123.

Olimpo, II, 185.

Olinto, 173, 185, 190.

Olmone, 173.

Omero, 25.

Operai. V. Liberi.

Orange, II, 131.

Orcomeno, 161, 164, 165, 173, 194; II, 186.

Oriente, L’O. ellenistico, II, 89 [215] sgg.; organizzazione economica, II, 96 sgg.; scienze, II, 98; esportazioni, II, 100; Roma e l’Oriente, II, 100; città, II, 91-92; mercati, II, 112.

Oropo, 164.

Ottaviano, II, 5, 123.


Padova, II, 102.

Paflagonia, II, 19.

Palestina, II, 94.

Panteneto, 34.

Parma, II, 102.

Partenone, 128.

Pastone, 30, 34, 35.

Pastorizia, 25; e la guerra, II, 11 sgg.; nella Grecia ellenistica e romana, II, 109; nell’Eubea, II, 188-98.

Pausania, 151, 188.

Pedio (Bleso), II, 171.

Peloponneso, e Filippo II, 190; e Antipatro, 180-81; popolazione, II, 55; e la guerra, II, 55, 67; esporta ad Atene, II, 18; V. Sparta, Confederazione achea.

Penesti (I), in Tessaglia, 77, 87.

Pergamo, II, 98.

Pericle, 45, 120, 134-35; II, 36-37.

Perrebia, 185, 192.

Persia, e Grecia, II, 2, 3, 48, 56, 57; e Macedonia, II, 4; e Sparta, II, 4; e Roma, II, 111.

Peso, II, 186.

Petelia, II, 187.

Piacenza, II, 102.

Pirateria, II, 112.

Pireo, II, 185.

Pirra, II, 186.

Pirro, 182.

Pisistrato, 29.

Pisone. V. Calpurnio.

Platea, 162, 163, 165, 173; (battaglia), 126; II, 9.

Plateesi, 151, 164, 168.

Platone, 14.

Plinio (il vecchio), 15; II, 103, 170.

Plinio (il giovane), 215.

Plistonatte, 97.

Polibio, IX; XIX-XX; 190; II, 55, 74, 187, 193.

Polisperconte, 182.

Pompeo (C.), II, 5, 123.

Pompeo (Sesto), II, 5.

Pomponio (T. Attico), II, 146.

Ponto (Mar Nero), (città greche del), 177; II, 2; (regione), esportazione di cereali, II, 16, 18, 19; scalo dell’Oriente, II, 93; provincia romana, II, 169.

Popolazione, relativa in Grecia, 45; regresso e sue cause, 43-44; di Atene, II, 51 sgg.; del Peloponneso, II, 55.

Porcio (M. Catone), II, 172.

Portico di Filone, 8.

Posidonia, II, 67.

Potidea, 143; II, 2, 32, 36.

Povertà, in Grecia, 38 sgg.; II, 47 sgg.

Pozzuoli, II, 131.

Prezzi, II, 13, 110-11 e n. 52.

Progresso, concetto di progresso, XI sgg.; nel mondo antico, XII; presso gli Epicurei, XIII; nel mondo moderno, XIII.

Propilei, 128.

Proprietà, concentrazione, 26 seguenti; inalienabilità e indivisibilità, 91-92; i proprietari nei paesi a servitù della gleba, 92 sgg.; latifondo, 101 sgg.; V. Fitto, Mezzadria.

[216]

Province, romane; organizzazione, II, 124-25; metodi di governo, II, 125 sgg.; 131 sgg.; V. Europa occidentale.

Pubblicani, II, 128, 129, 134.

Pyxus, II, 67.


Quinzio (T. Flaminino), 185; II, 64-65; 120, 195.


Ravenna, II, 102.

Redemptio tributorum, II, 156.

Reggio, 170; II, 187.

Ricchezza (mobiliare), e sua concentrazione in Grecia, 31 sgg., 37 sgg., 68, n. 129.

Rodi, 125, 145, 179; II, 67, 108, II, 145, 199.

Roma, colonie, 143; ricchezza dei Romani, II, 47, e nn. 145, 146; combatte in Grecia, II, 4, 5; conquista la Grecia, II, 4, 119; e il rivolgimento economico del mondo antico, II, 98 sgg., 101 sgg.; commerci, II, 111-12; crisi politica e sociale nel II sec. a. C., II, 119 sgg.; politica commerciale, II, 130-31; e le province romane, II, 124 sgg., 131 sgg., 135; imperialismo, II, 122 sgg.

Romani, in Grecia, II, 141 sgg.

Russia, servi della gleba, 88, 90, 91.


Salamina, 23, 182; cipria, II, 172-173.

Salarii, in Grecia, 10, 41-43, 69, n. 135-136; riduzione nel periodo ellenistico, II, 110.

Sallustio (C.), II, 126.

Samo, 127, 131; II, 2, 29, 32, 36, 168.

Saserna, 18.

Scafe, 173.

Scarfea (battaglia), II, 120.

Schiavitù (La), origine, 2-3; importanza storica, 3-4; in Grecia, 4 sgg.; nelle varie regioni della Grecia, 5; in Beozia, 6-7; in Locride e Focide, 7; nelle officine, 7; nelle miniere, 8, 25-26; nei lavori pubblici, 8; nel commercio, 8-9; improduttività e costosità del lavoro degli schiavi, 9 sgg., 14 sgg., 21, 59, n. 32; mantenimento, strumenti da lavoro, 11; mortalità, 12; assicurazione, 13; e la produzione, 14 sgg.; lo schiavo sovrintendente, 16; nelle colonie americane, 16-17; lavori agricoli, 18; macchinario, 19 sgg., 25 sgg.; e la concentrazione della proprietà mobiliare e immobiliare, 26 sgg.; concorrenza ai liberi, 40 sgg.; e la popolazione, 43-44; e l’emigrazione, 45-46; ripercussioni, politiche, 46 sgg.; e i consumatori, 46-47; e le lotte di classe, 47; e la corruzione morale, 52 sgg.; e la famiglia, 53-54; reazione contro la s., 54-57; e la guerra, 31, 66, n. 91: nel IV sec. a. C., II, 84, n. 166; nell’Oriente ellenistico, II, 97-98; nella Grecia ellenistica, II, 110; V. Servitù.

Scipione. V. Cornelio.

Scipioni, II, 120.

Sciro, 23, 143, 145.

Scolo, 173.

Scopadi, 101.

Scriptura, II, 180, n. 129.

Seleucia, II, 91, 93, 95.

Seleucidi, impero del S., II, 92 sgg.

[217]

Selinunte, II, 187.

Sempronio (C. Gracco), II, 129.

Senofonte, 6, 21, 157, 158; e il trattamento degli schiavi, 14; A. de Le entrate di Atene?, II, 19, 70.

Serica (Cina settentrionale), II, 93, 100.

Servitù (della gleba), origini, 75-76; in Grecia, 77-78, 101; in Messenia e Laconia, 76-77; nell’Impero romano e nel Medioevo, 80; obblighi, 79; condizioni morali e giuridiche, 84 sgg., 88 sgg.; e il servizio militare, 86; in Russia, 87-88; nella Francia medievale, 88; improduttività del lavoro, 90; decadenza dell’agricoltura, 91; e la espansione coloniale, 96; servi arricchiti, 103-04, 111, n. 41; ripercussioni politiche, 104 sgg.

Sibari, II, 2, 62, 67, 187.

Sicilia, produzione del suolo, 22; il latifondo, 28; e Atene, 129, 143, 144, 147; II, 38; impero di Siracusa, 169; principali città greche, 170; guerre in S., II, 2, 4; esporta in Atene, II, 18; provincia romana, II, 149 sgg.; città greche, II, 67, 149, 153; organizzazione provinciale, II, 149 sgg.; e l’amministrazione di Verre, II, 152 sgg., 160 sgg.; decima, II, 150 sgg.; altre imposte, II, 160; gli Italici in S., II, 163-164; decadenza, II, 164-65; e il commercio greco, II, 111; V. ai nomi delle singole città.

Sicione, 182, 183, 193; II, 108, 142, 147.

Sicionia, 77, 149.

Sifa, 173.

Simmorie, II, 40.

Simonide, 50.

Simpolitia, 119.

Sinecismo, 119.

Sintelia, 119.

Siracusa, 29, 77, 89, 143; imperialismo, 169 sgg.; impero, 169-72; colonie, 170; costo dell’assedio del 415-13 a. C., II, 29; della difesa del 415-13, II, 56; imposte, II, 58; guerra, II, 2, 3; lotte civili, II, 62; decadenza, II, 67; saccheggio del 212 a. C., 160; spopolata, II, 186.

Siria, II, 17, 19, 92, 94, 95, 111, 112.

Smirne, II, 186.

Smith (A.), 82.

Società commerciali, II, 146.

Socrate, 50, 102.

Solone, 29.

Solunte, 170.

Spagna, esporta, II, 19; prodotti, II, 102 sgg.; insurrezione contro Roma, II, 120; e il commercio greco, II, 111; strade, II, 112.

Sparta, pasti in comune, 92-93; crisi sociale, 97 sgg.; divieto del commercio e dell’industria, e conseguenze, 99; confederazione, VIII; tenta unificare la Grecia, VIII; imperialismo, 149 sgg.; prime conquiste, 149; estensione del dominio peloponnesiaco, 149; obblighi degli alleati, 150; programma liberale, 150-51; e la guerra del Peloponneso, 152 sgg.; e Atene, 153-55; e Tebe, 158-59; reazione antispartana, 156; decadenza e cause, 95 sgg., 159; nella Lega greco-macedone, [218] 180; nel 311 a. C., 182; e Filippo II, 190; governata da un epistate macedone, 184; insorge contro la Macedonia, 192, 194; alleanza con Atene (266 a. C.), 194-95; xenofobia, II, 22; guerre, II, 2, 3; pace di Nicia (421 a. C.), 38; mutamento d’indirizzo politico nel IV sec. a. C., II, 89.

Sparta (Pace di) (a. 371), 162-63.

Spartani, numero, 103, 104, 113, n. 73; il possesso degli Spartani, 209; ricchezze, II, 97 sgg.

Stipendium, II, 124.

Strabone, II, 184.

Strade, del mondo antico, II, 104 sgg., 112.

Stratego (macedone), 183.

Strumenti da lavoro, e gli schiavi, 11; strumenti agricoli, 19 sgg.

Sulla, II, 5, 123, 166-167, 169.

Sulpicio (S. Rufo), II, 148.

Sylphium, II, 179.


Tanagra, 173; (battaglia, 457 a. C.), II, 9, 185.

Taormina, 170.

Taranto, II, 67, 131, 187, 188.

Taso, 142; II, 2.

Tebe, suddita di Orcomeno?, 165; confederazione tebana, 160 sgg.; organizzazione, 160-61; imperialismo e metodi, 161 sgg., 167-68; e Sparta, 158-59, 168; e Atene, 168; decadenza, 167-69; II, 185; città soggette, 173; e Filippo II, 178; ribellione e distruzione (a. 335 a. C.), 192, 164, 179; II, 4; ricostruzione, 181-82; guerre, II, 3, 4; assalita da Agesilao (378 a. C.), II, 55; mutamento d’indirizzo politico nel IV sec. a. C., II 89; nel II sec. di C., II, 188; V. Beozia.

Tegea, 36, 194; II, 63.

Temesa, II, 187.

Temistocle, 37.

Templi greci, 8, 128; II, 123, 142.

Tenedo, 189.

Teno, II, 144.

Tera, 145.

Terma, 170, II, 156, 187.

Teseion, 128.

Tespia, 164, 173, II, 185.

Tessaglia, servitù della gleba, 77; distribuzione della proprietà, 101; superficie, 101; agitazioni per debiti, 101; minacciata da Tebe, 168: Lega tessalica, 175; conquistata e governata dalla Macedonia, 178, 180, 181, 182, 184, 185, 186, 190; II, 4; insorge contro la Macedonia, 192, 193; guerre, II, 3; esporta grano, II, 17; agricoltura e pastorizia, II, 109; e Pompeo, II, 123; e Pisone, II, 143; decadenza, II, 188.

Thierry (Amedeo), II, 174.

Timarco, 7.

Timoleone, 169.

Tindaride (Nuova), 170.

Tiranni, in Sicilia, 169, 172; in Grecia, 179; nel Peloponneso, 183; in Elide, ad Argo, Sicione, Megalopoli ecc., 183; a Messene, 187.

Tirteo, 210, 217.

Tisbe, 161; II, 137.

Tolomei, monarchi dell’Egitto ellenistico, II, 94; politica, II, 94, 95.

Tolomeo I, 182.

Tolosa, II, 102.

[219]

Tracia, 124, 143, 177, 178, 185, 190-91, 169; II, 2, 17, 19, 32, 36, 38; V. Chersoneso.

Trasibulo, II, 3.

Trenta (I), 153; II, 63.

Trezene, 36, 182.

Trierarchia, II, 42 sgg.; syntrierarchia, II, 46.

Trifilia, 173, 184.

Tucidide, 34, 136, 170; II, 19, 191-93.

Tullio (M. Cicerone), II, 125, 126, 129, 132, 133, 135, 143, 145, 147-48, 151, 154, 157, 158, 160, 161, 164, 167, 173, 188, 190, 193.

Tullio (Q. Cicerone), II, 168.

Turii, II, 67, 187.


Valenza, II, 131.

Varrone, 14, 17 e n. 40.

Venuleio, II, 156.

Verre (C.), II, 126, 142; pretore in Sicilia (73-71 a. C.), 152 sgg., 162.

Vespasiano, II, 196.

Vienne, II, 131.

Vini, prezzi, II, 13, 111.

Virgilio, II, 190.

[221]

SOMMARIO DEL VOLUME SECONDO.

Capitolo I. — La guerra Pag. 1
Le guerre nella Grecia antica; Lo sforzo demografico; La guerra, la pastorizia, l’agricoltura; La guerra e il commercio; Ancora de la guerra e il commercio; La guerra e le finanze ateniesi; Tributi e imposizioni straordinarie; Il disagio dei privati; Spopolamento e sovrapopolazione; La guerra e la decadenza della Grecia; Il pensiero dei contemporanei.  
 
Capitolo II. — Il rivolgimento economico del mondo antico Pag. 89
Il nuovo Oriente; L’organizzazione della produzione nel mondo ellenistico; Roma e il nuovo Oriente; Roma e il nuovo Occidente romano; La nuova situazione della Grecia nel mondo.  
 
Capitolo III. — La conquista romana Pag. 119
La conquista; I divoratori delle province; La consorteria dei dominatori; L’organizzazione dei Paesi greci; I romani in Grecia; La Sicilia greca; Le altre città greche.  
 
Capitolo IV. — Finis graeciae Pag. 183
Il mondo greco in sui primi dell’êra volgare; La decadenza morale; La decadenza intellettuale.  
 
Indice analitico-alfabetico Pag. 205

[223]

FINITO DI STAMPARE A FIRENZE
NELLA TIPOGRAFIA «ENRICO ARIANI»
IL XX MARZO MCMXXIV

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.