Title: Garibaldi
Author: Francesco Crispi
Release date: April 18, 2011 [eBook #35914]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net
Garibaldi
tratto dalla Nuova Antologia, giugno 1882
La Nuova Antologia vuol rendere anch'essa il suo tributo alla memoria di Giuseppe Garibaldi. Ed il suo direttore, con una squisita cortesia, della quale gli son grato, ha invitato me, che non sono redattore della rinomata effemeride, per adempiere tale ufficio.
Dopo tutto ciò, che in questi giorni fu detto e scritto di Garibaldi, è un'opera assai difficile il poterne ancora degnamente ragionare. Non già che il tema sia esaurito, ma perchè mi sembra esser necessaria un'abilità che confesso di non avere, per soddisfare le non ordinarie esigenze dei lettori.
La biografia di un uomo—sia pure un grande statista od uno scienziato—è subito fatta. Ma non si può tesser la vita di Garibaldi senza fare la storia italiana degli ultimi 50 anni. E non basta!
Se Garibaldi, sin dalla prima sua giovinezza, ebbe un culto per la patria, se i suoi pensieri, i suoi studî, le sue cure, le sue opere non ebbero altro scopo—l'anima sua generosa spaziava nell'infinito; il dovere per lui non aveva limiti di territorio, egli era il cavaliere dell'umanità. Ed allora come ricordare questa parte della sua vita senza toccare il problema ancora insoluto delle nazionalità, senza parlare dei popoli, che lo invocarono nei momenti del pericolo, che sperarono in lui, ed alla difesa dei quali egli concorse colla spada o con la parola?
Nato dal popolo, educato ai principii della democrazia in un paese dove infrenata era la libertà, egli intravide la istituzione della republica con un Re. Ciò parve una contraddizione agl'ideologi della politica: ai republicani che non ritengono possibile e duraturo il regime da essi prediletto senza il periodico mutamento delle persone nella suprema magistratura dello Stato; ai monarchici, i quali presentono la instabilità delle dinastie nel trionfo della democrazia.
Garibaldi al contrario trovava ad armonizzare nella sua mente questi due estremi, Popolo e Re. Laonde egli non credeva tradire la sua coscienza quando al 1859 ed al 1860 scriveva nella sua bandiera il motto: Italia e Vittorio Emanuele. Molto meno credeva poter offendere il Re, quando parlava della republica italiana e del suo avvenire. S'illudeva intanto, quando, pei loro fini particolari, i monarchici al 1859 si vantavano di aver conquistato Garibaldi; e più tardi, al 1879, i republicani s'illusero sperando che Garibaldi fosse ritornato a loro e ch'essi avrebbero potuto valersi di lui per la distruzione della monarchia.
Io non so come sarà governata l'Europa da qui a 50 anni. Penso intanto e sono profondamente convinto, che per la monarchia del diritto divino non vi sarà posto. Quello che valgono i grandi Stati costituiti in republiche, ve ne dà un esempio la Francia; e però, per dare pace duratura alle nazioni, non ci si offre che un solo rimedio, ed è l'attuazione del concetto garibaldino di un Re capo della democrazia. Fortunatamente per l'Italia, Garibaldi s'è fidato ad una dinastia, la quale comprende le tendenze dei tempi. Essa non può dimenticare che il principato nazionale è sorto dai plebisciti, e che tradirebbe le sue origini, se osasse arrestare il progresso.
Fin qui ho definito, senza volerlo, la mente politica del nostro eroe; ma ciò non basta, perchè il quadro sarebbe incompleto, se non delineassi l'uomo nella società. Noi siamo nel secolo delle plebi, e nessuno più di Garibaldi ne presentì il prossimo avvenimento e ne patrocinò la redenzione. Ma anche in questo s'ingannarono quei socialisti, i quali avendolo attirato nei congressi internazionali, credettero valersi del suo nome per legittimare le loro teorie.
Le sofferenze dell'operaio e la tirannide della borghesia, gli scioperi e le coalizioni, la necessità di mettere l'accordo tra coloro che lavorano e coloro che ne profittano, erano tanti problemi la cui soluzione egli spingeva col cuore. Ed ammirava il lavoratore della terra e degli opifizi, e onorava i sacrifici dei suoi militi sui campi di battaglia.
Quando nel 1863 ferveva il brigantaggio nelle Provincie napolitane, e le Camere discutevano le leggi eccezionali per estirparlo, egli osservava che erano imputabili il governo e la borghesia. Il suo cuore si spezzava alle notizie degli stragi e del sangue versato; e quando gli parlavano di quegli sciagurati, i quali assaltavano e distruggevano le fattorie, scannavano il bestiame, bruciavano gli alberi e le messi, egli rispondeva che colà era una questione sociale, la quale non si poteva risolvere col ferro e col fuoco. Un giorno, raccontandogli uno de' suoi amici che i briganti, condannati dai consigli di guerra, affrontavano imperterriti la morte, egli ebbe ad esclamare quanto eroismo miseramente sciupato! cotesti uomini, traviati dal delitto, sarebbero stati soldati valorosi all'appello della patria.
Il partito internazionale si lusingò un momento di aver l'ausilio di Garibaldi, dopo che gli aveva consentito a recarsi al congresso di Ginevra. Nulla di più assurdo; e se i socialisti non se ne sono convinti, basterebbe ricordar loro il fatto che Garibaldi si rifiutò al 1871 di portare la sua spada in difesa della Comune di Parigi, e nol permise a suo figlio Menotti, che vi era stato chiamato.
Il partito internazionale rinnega la patria e la famiglia. Pe' suoi apostoli la costituzione spartana è un rancidume, perchè essi vogliono abbattere le frontiere domestiche e le frontiere nazionali.
Le frontiere domestiche e le frontiere nazionali erano sacre a Garibaldi. Egli aveva una venerazione per la famiglia; e la patria per lui era una religione.
Garibaldi voleva l'indipendenza e la libertà di tutti i popoli; ma non soffriva che l'Italia perdesse la sua autonomia. Quanto egli amasse la famiglia, lo sanno coloro che lo videro in mezzo ai suoi cari, e che dal 1874 in poi assistettero alle lotte del suo cuore, ardente come egli era di assicurare l'avvenire a' suoi bimbi.
Il ministro Mancini ed io abbiamo preziosi autografi di Garibaldi, diretti a noi prima e dopo la celebrazione del suo matrimonio. Scelgo una delle sue lettere, e ne fo dono ai lettori della Nuova Antologia, perchè nelle parole di lui si rivela la grande anima dell'uomo e del patriota.
Agl'internazionalisti varrà di lezione:
«Caprera 13, 1880.
«Mio carissimo ed illustre Crispi.
«Da molti anni vincolato a voi nel mutuo amore per questa nostra Italia—che ebbimo la fortuna di servire insieme sui campi di battaglia—io vi devo la generosa cooperazione al compimento del mio sacro dovere, che mi ha costituito oggi felice e tranquillo sulla sorte dei miei cari.
«Con somma gratitudine sono per la vita
«vostro G. Garibaldi.»
Quando fui a Caprera pei funerali del compianto Eroe, la vedova mi volle nella sua camera per dirmi, che egli le aveva raccomandato più volte di ringraziare gli amici di quello che avevano fatto per la sua famiglia, e che l'aveva incaricata di dichiarar loro che egli moriva tormentato dal pensiero che Nizza appartenesse ancora ai francesi.
Coloro che dopo la sua morte han parlato e scritto di Garibaldi, han ricordato le cento battaglie da lui vinte, la strategia del gran capitano, la preveggenza e la calma di lui sul campo di battaglia.
Io non sento il bisogno di ripetere le stesse cose, perchè nulla direi di nuovo e nulla aggiungerei a ciò che tutti sanno.
Sul campo di battaglia Garibaldi era un veggente. Il suo viso splendeva, i suoi occhi fulminei sorridevano, egli vedeva tutto, prevedeva tutto, nulla gli sfuggiva, avreste detto che egli assistesse ad una festa: ludum bellicum.
Era un eroe? No, più che un eroe: egli creava gli eroi, perchè accanto a lui non si poteva essere codardi.
E la codardia fu il solo peccato che Garibaldi non perdonava. Ricorderò un aneddoto.
Il 26 giugno 1860 scoppiò in Palermo una di quelle agitazioni, che si dicono dimostrazioni popolari. Era la prima del genere, ma sventuratamente non fu l'ultima, perchè essa fu di esempio ai partiti, i quali poscia ne usarono e ne abusarono. Le grida di morte e di evviva, gli schiamazzi indescrivibili giunsero alle orecchie del Dittatore, il quale ordinò che una deputazione si presentasse da lui per informarlo dei desiderii del popolo. Quattro o cinque tribuni improvvisati salirono le scale del palazzo reale e furono tosto alla presenza di Garibaldi. Ed egli:
—Che vuole il popolo?
—La dimissione del Ministero.
—Va bene. Ma chi mettereste al posto di coloro che oggi governano?—
E qui, uno della deputazione uscì fuori con una carta, nella quale erano scritti sette od otto nomi. Il Dittatore, letto il nome di colui che era a capo della lista, rispose immantinente:
—Non lo voglio, perchè questo fugge nei pericoli, e noi abbiamo bisogno di persone che affrontino il fuoco.—
E poichè mi è caduto dalla penna la parola dittatore, mi permettano i lettori che io ne spieghi il significato, e dica in qual modo Garibaldi esercitasse il suo ufficio sovrano. Ricordando ch'egli era un soldato e che l'unione in un uomo dei poteri civili e militari mena spesso al dispotismo, più d'uno potrebbe in questo argomento cadere in errore.
Garibaldi aveva molta dimestichezza coi classici antichi. Egli conosceva a menadito la storia della repubblica romana, ed ammirava il valore e la sapienza dei suoi capitani. Egli ricordava sovente, che in tempo di guerra la salute della patria s'era dovuta alla dittatura.
Il 12 maggio 1860, alle 4 1/2 del mattino, uscivamo da Marsala per avviarci verso i monti vicini. Precedevamo Garibaldi, io ed un altro condottiero dei Mille. Il mio compagno impegnò il suo discorso sulla necessità della costituzione del nuovo governo, e consigliava la formazione di Comitati secondo lo stile del 1848. Ed il Generale:
—No, mio buon amico. Io non sono del vostro avviso. Coi Comitati avremmo il disordine. Un solo, un solo dev'essere alla testa del governo.—
Dopo questa sentenza, fu fatto il silenzio.
La sera pernottammo a Rampagallo, ed il 13 verso le 7 pomeridiane abbiamo fatto il nostro ingresso a Salemi. Il 14 fu fatto il decreto col quale Garibaldi dichiarava di assumere la dittatura in nome di Vittorio Emanuele Re d'Italia.
Il 15 maggio abbiamo vinto i Borboni a Calatafimi, il 21 ci siamo battuti presso Monreale e S. Martino, il 27 siamo entrati in Palermo, il 3 giugno abbiamo ricostituito il Governo con la nomina dei segretari di Stato pei varii rami della publica amministrazione. Prima di giungere a Palermo, un solo segretario di Stato era agli ordini del generale.
La dittatura liberò la Sicilia e le provincie napolitane, e fondò l'unità della patria italiana. Nessuno dirà, che con tanta autorità esercitata da un sol uomo la libertà ne rimanesse offesa. Quantunque non aiutato dalle assemblee, Garibaldi governando seppe interpretare il pensiero del popolo.
Nessuno avrebbe detto che quello fosse un regime militare, perchè in nissun caso fu vista la spada dominatrice e tiranna. Garibaldi era accessibile a tutti, poveri e ricchi, plebei e borghesi; ed il diritto di stampa e quel di riunione non furono frenati da legge alcuna. In tutta la Sicilia non vennero eseguite che tre sentenze di morte: un ribaldo fu fucilato perchè, durante la guerra, aveva messo a sacco e fuoco alcuni Comuni della provincia di Palermo; altri due furono fucilati nella provincia di Trapani, colpevoli di assassinii e di rapine.
Garibaldi non trovò ostacoli nell'esercizio delle sue funzioni. Appena nel giugno 1860, i borbonici ebbero lasciato Palermo tutto procedette come nei tempi normali, le imposte furon riscosse senza difficoltà, i commerci ripresero il loro movimento, i cittadini ritornarono alle loro abituali occupazioni. Quello che meravigliò gli uomini d'affari, fu il pagamento delle cedole del debito publico, ordinato sin dai primi giorni del nuovo Governo e regolarmente eseguito.
I siciliani, i quali ricordavano il governo parlamentare del 1848, i disordini di allora, le difficoltà finanziarie e politiche, non sapevano darsi ragione come da Garibaldi si fosse mantenuto tanto ordine con tanta libertà. Era la Dittatura con tutti i beneficii, senza i suoi vizii, l'unità del potere illuminata dalla publica opinione, la sovranità della ragione, senza violenze e senza i traviamenti della passione.
Fin qui, l'uomo di Stato ed il Capitano.
Ma non sento aver compiuto il debito mio, senza inoltrarmi nei penetrali del gabinetto, e senza aver detto quello che era Garibaldi tra le quattro mura.
La reggia di Palermo e quella di Napoli non turbarono la mente sua, ed a Palermo e a Napoli egli aveva scelto una modesta cameretta, e dormiva in un letticciuolo non dissimile da quello nel quale ultimamente giaceva nella sua Caprera.
Ed in tanta potenza egli non dimenticò gli amici, non i compagni de' suoi primi anni, non i patrioti coi quali aveva comunanza di aspirazioni e di affetti.
Il 3 ottobre 1860 Giorgio Pallavicino fu nominato prodittatore nelle provincie napoletane. Prima che ricevesse il decreto—egli l'ebbe da me nel pomeriggio del giorno 4—aveva fatto stampare nei giornali una lettera a Mazzini, nella quale lo consigliava ad allontanarsi dalle provincie meridionali, dicendogli che la sua presenza creava imbarazzi e metteva a repentaglio quella concordia che tanto era necessaria al trionfo della causa italiana.
Quella lettera ferì gravemente il cuore di Garibaldi. La coincidenza di quelle parole col contemporaneo decreto, che investiva Pallavicino dei supremi poteri dello Stato, avrebbe potuto suscitar dubbii che Garibaldi voleva dissipati. Volle veder Mazzini per potersi spiegare con lui, e Mazzini venne a Caserta la sera del 4 ottobre.
Garibaldi era nel letto, e i due, appena furon vicini, si strinsero cordialmente la mano, come amici che si vedono la prima volta dopo lunga e penosa lontananza. Garibaldi fu il primo a parlare:
—Spero che non vorrete lasciar Napoli dopo i consigli che vi furono dati. La lettera di Pallavicino è un'aberrazione e capirete, che io non posso diffidare di voi, nè supporre che la vostra presenza in Napoli sia d'imbarazzo al trionfo della causa nazionale, per la quale ambedue abbiamo lavorato.
—Generale, io era sicuro dell'animo vostro; ma la lettera ha fatto profonda impressione nel paese, perchè scritta dal vostro prodittatore.
—Pallavicino è da poche ore prodittatore, e quello che egli ha scritto è di sua competenza, e non può essere un atto di governo. Comunque sia, io domando che non vi moviate, e vi assicuro che nissuno oserà portarvi molestia.—
Mazzini e Garibaldi, dopo questo incidente personale, scambiarono poche altre parole sulle condizioni d'Italia, sulla necessità di compiere l'opera nazionale. Verso le 8 pomeridiane l'antico triumviro si levò, e, congedatosi, riprese la via di Napoli.
Questo episodio, ignoto a molti, compie il ritratto del nostro eroe.
Il dottor Riboli, il quale nella sua permanenza a Caprera nel 1861, studiò fisicamente Garibaldi, scriveva che la craniologia della di lui testa presentava un fenomeno originale dei più rari, anzi, senza precedenti: l'armonia di tutti gli organi perfetta, e la risultante matematica del loro insieme, la quale, indicava: l'abnegazione anzitutto, e ovunque la prudenza, il sangue freddo, l'austerità naturale dei costumi, la meditazione quasi continua, l'eloquenza grave ed esatta, la lealtà dominante.
improvvisato al Teatro Brunetti di Bologna, per invito del Circolo Universitario Vittorio Emanuele il 1º Giugno 1884
Signore e Signori,
Io non so se debba ringraziare più il Circolo universitario il quale mi volle onorare dell'incarico di commemorare Giuseppe Garibaldi, o questo eletto uditorio che non mi attendevo.
Io credeva che sarei venuto a fare una conferenza ai giovani dell'Università; trovo invece tutto un popolo innanzi a me.
La conferenza per la sua modestia, parrebbe inferiore ad un discorso che converrebbe tenere innanzi a voi.
Il popolo di Bologna per me è stato uno dei più simpatici dell'Italia.
Non dimenticherò, signori, quello che fu fatto da questa eroica città nei momenti terribili in cui il governo del prete, baldanzoso delle baionette austriache, insolentiva su voi, e come voi più di una volta tentaste di rompere le catene che vi tenevano nella schiavitù.
Non dimenticherò che in questa città sorse il primo Ateneo scientifico del mondo, che qui fu la sede del diritto, e che innanzi ai vostri giureconsulti si inchinavano reverenti gli imperatori di Germania, quando anche erano padroni del paese nostro.
Comprenderete dunque con quale animo io debba parlare, e come sia titubante al pensiero se potrò riuscire a soddisfare le vostre legittime esigenze.
Oggi, signori, è la festa dell'unità nazionale; domani sarà l'anniversario della morte di Garibaldi.
Ben fecero gli studenti nell'aver voluto commemorare il luttuoso anniversario in questo giorno sacro alla patria, alla quale è indissolubilmente legato il nome dell'Eroe.
La festa dell'unità nazionale ricorda a tutti noi che lo Statuto di Carlo Alberto, promulgato spontaneamente al 1859 e al 1860 dai governi insurrezionali, fu completato dai plebisciti. Con essi sorse e si consolidò il nuovo giure publico italiano, contemperandosi il diritto regio col diritto popolare, l'autorità di Vittorio Emanuele colla volontà di Garibaldi, il quale fu ai tempi suoi la vera personificazione del popolo. (Applausi).
E poichè dovrò parlare di Garibaldi, che potrò dire di lui che voi non sappiate?
Nei due anni che sono corsi dopo la morte dell'Eroe, furono scritti su lui opuscoli e libri di ogni genere. È possibile, signori, che la sua vita sia una miniera non esaurita, e che io possa dirvi cose nuove, e dipingere con nuovi colori la figura dell'uomo che ha tanto operato per la patria?
È possibile che io vi parli convenientemente e come si deve dell'uomo innanzi al quale si inchinarono reverenti popoli e principi?
Garibaldi a 25 anni fu affigliato alla Giovane Italia e si fece cospiratore; a 27 anni fu proscritto.
Presa la via dell'esilio, si rivelò grande ammiraglio e potente capitano. Al 1860 quando compiè l'impresa di Sicilia, si scoprì ch'era in lui la mente del legislatore.
I suoi storici non hanno saputo dirci dove abbia fatto gli studii; quale Università abbia frequentato, in qual collegio militare, in quale istituto di marina abbia appreso l'arte della guerra: e non lo potevano.
Dal 1837 al 1846, nelle libere terre di America, nei tempestosi flutti dell'Oceano egli apprese a combattere e a vincere. Ivi il suo genio si scoprì ai popoli attoniti, o l'eco lontana ripercosse sulla vecchia Europa, mentre la patria nostra era schiava, i plausi delle città redente dal valore italiano.
Garibaldi come matematico non ebbe rivali. Gli erano famigliari i nostri grandi poeti e i nostri publicisti.
Seppe la storia meglio di uno dei nostri accademici: e fu entusiasta di quella di Roma, i cui ruderi aveva visitato all'età di 15 anni, e n'era rimasto meravigliato.
Ai nostri giorni si osò dubitare che fossero sue alcune considerazioni di diritto publico internazionale, fatte al Parlamento subalpino, sol perchè si era avvezzi a vedere in lui il marinaio e il soldato. Orbene, nell'aprile 1860, quando si preparava la spedizione dei Mille, Bixio ed io lo trovammo collo Statuto in mano che commentava meglio dei professori emeriti delle nostre Università.
Allora l'animo suo era tutto compreso nella difesa della sua Nizza nativa che una crudele ragione di Stato aveva deciso di strappare alla madre Italia (Applausi prolungati).
Dissi che, presa la via dell'esilio, egli si è rivelato gran capitano e grande ammiraglio. Permettetemi, signori, che io accenni, senza estendermi, ai primi anni della sua vita militare, e che non vi narri in tutti i particolari quello che egli abbia fatto prima del 1860. A Montevideo ed a Roma, in Lombardia, in Tirolo, e poscia nei Vosgi egli non era signore di sè, altri esercitando l'impero e l'autorità nei paesi in cui ebbe a combattere.
La storia ricorderà le virtù del gran Capitano, la strategia, le risorse sul campo di battaglia, il coraggio col quale seppe vincere un nemico dieci volte superiore di forze; ma l'epopea di Garibaldi, il suo grande poema è la campagna del 1860. Dittatore e capitano, libero delle sue azioni, ha provato quanto egli sapeva e quanto poteva.
La storia del 1860 fu scritta da parecchi, ma non tutti seppero e poterono farla con precisione e senza commettere errori.
Certamente non ve la farò io oggi questa storia, così ampiamente come la vorrei, imperocchè il breve spazio di una conferenza, non me lo permetterebbe.
Ve ne dirò abbastanza, perchè ve ne formiate un esatto concetto.
La notte del 5 maggio i Volontari si raccolsero a Quarto; la mattina del 6 si imbarcarono sul Piemonte e sul Lombardo che una mano poderosa di nostri giovani amici aveva strappato al porto di Genova. I primi due giorni, tutti ignoravano dove andasse la piccola flotta, la quale veramente questa volta portava i destini d'Italia.
Taluni credevano che andasse nel territorio allora pontificio; altri in Calabria; pochi ancora si persuadevano che l'impresa era destinata per la Sicilia.
Quando fu saputo che Garibaldi il 7 maggio era stato a Talamone, che si era provveduto di munizioni e n'era partito, la mente degli uomini di Stato vagò in mille fantasie. Quando un pugno di Garibaldini sconfinò il territorio romano, le paure crebbero; si credette che Garibaldi avrebbe attuato quel progetto che gli era stato impedito alla Cattolica, e ne fu ordinato l'arresto.
Navigammo in alto mare, e per vie non consuete ai nocchieri. Abbiamo fatto in sei giorni un viaggio che suol farsi in ventiquattr'ore.
All'alba dell'11 maggio la piccola flotta surse vicino alle Egadi.
Quando partimmo da Quarto, Garibaldi aveva deciso di sbarcare a Porto Palo, fra Trapani e Girgenti; ma essendo presso le Egadi, seppe che le truppe borboniche avevano lasciato Marsala la notte prima, e che la flotta di re Francesco aveva preso per le coste del Levante; Garibaldi decise per Marsala.
Non saprei esprimervi lo stato degli animi nostri quando fu preparata la spedizione, durante il viaggio ed al nostro arrivo in Sicilia. Erano gli anni della poesia (Grandi applausi).
Accanto a Garibaldi tutto pareva possibile; non si vedevano pericoli, non si temevano ostacoli.
Il desiderio affrettava il momento dell'azione; a nessuno pareva che l'azione potesse essere inferiore alla volontà, e che il più ardito desiderio potesse essere una esagerazione (Approvazioni).
Siamo entrati nel porto. Garibaldi approdò a sinistra, sul Piemonte. Bixio con quella furia che fu memorabile in lui, virò a destra, arenando col Lombardo; La flotta napoletana, informata col Semaforo del nostro arrivo, ci corse subito incontro; siamo scesi in mezzo alla mitraglia, ma Marsala fu occupata.
La notte dall'11 al 12 maggio la passammo vegliando ed aspettando il nemico, che non si fece vedere. Abbiamo dovuto marciare su Calatafimi per incontrarlo.
A Calatafimi il generale Landi disponeva di 8 mila uomini di ogni arma; cavalleria, artiglieria, fanteria e cacciatori.
Garibaldi aveva il comando di appena 1600 uomini con cattivi fucili, meno le 100 carabine, che erano in mano ai genovesi; e dei 1600 uomini non tutti entrarono in battaglia.
Il nemico era postato sopra una collina, la quale chiamasi il pianto dei Romani.
Questa collina è sottostante al monte sul quale siede la città di Calatafimi.
Fummo più volte provocati dal nemico; ma Garibaldi impose di stare tranquilli, anche quando il nemico era alla portata del fucile.
Finalmente la battaglia si impegnò; i volontari, Garibaldi alla testa, montarono all'assalto, decimati dalla mitraglia; si giunse sul luogo nel quale era schierato il nemico; la lotta divenne ostinata e dura; più volte si venne all'attacco, e più volte i soldati regi soperchianti con forze nuove, pareva volessero superarci. La bandiera italiana, sulla quale era lo scudo di Savoia, fu poderosamente contrastata, e Schiaffino cadde morto stringendola e impedendo che altri la prendesse; Menotti allora l'afferra, e la lotta continua, senza permettere ai Borbonici che si impossessassero del sacro vessillo; Garibaldi, in mezzo a suoi, grida:
«Qui bisogna vincere o morire. Non si indietreggia (Applausi frenetici).»
Ancora una carica alla baionetta; ed il nemico è vinto (Nuovi applausi prolungati).
La presa di Palermo si dovette non solo al valore dei legionarii e del loro capitano, ma sopratutto alla sua strategia.
La marcia su Palermo, quanti uomini dell'arte l'han giudicata, la ritennero come uno dei fatti più memorabili delle guerre moderne.
Dopo alcune avvisaglie, sui monti presso Monreale, Garibaldi ordinò che si piegasse a destra; il nemico era superiore di forze a noi.
Il giorno 24 fu ordinata l'ascensione del monte vicino, nella cui valle, che è al lato opposto, siede il comune di Piana dei Greci.
Non si perdè tempo: erano le 6 di sera, e ci trovammo in un bivio che tiene a destra la strada rotabile che conduce a Corleone e Giuliana; a sinistra un sentiero che porta al bosco di Ficuzza (questo nome vi ricorderà altre date ed altri fatti).
Garibaldi, Bixio, Sirtori ed io ci siamo raccolti a consiglio. Era la prima volta che si teneva un consiglio di guerra, perchè Garibaldi preferiva deliberare lui e comandare.
Dopo che gli fu fatta una descrizione dei luoghi, il generale decise di mandare Orsini coi cannoni e con quanti volontari avrebbero voluto seguirlo, su Corleone e Giuliana; nessuno ne capì lo scopo. Il grosso dei volontari restò con lui e pernottò alla Ficuzza. Quando Orsini marciava coi suoi compagni, Garibaldi si abbassò, si avvicinò ai mio orecchio, e pronunciò queste parole che parevano misteriose: «Povero Orsini! Lo mandiamo al sagrifizio:» per me era un' incognita.
Siccome dissi, la notte dal 24 al 25 pernottammo nel bosco di Ficuzza.
La mattina seguente fummo a Marineo, la sera a Misilmeri, dove il Comitato insurrezionale di Palermo aveva mandato i suoi emissarii a raggiungerci. Il 26 fummo a Gibilrossa, e li 27 eravamo padroni di Palermo.
Il colonnello Bosco, credendo di correre dietro a Garibaldi, trovò Orsini; la diversione era mirabilmente riuscita.
Garibaldi, innanzi a Palermo trovò i 16 mila uomini che il generale Lanza, alto commissario del Borbone, teneva a difesa della capitale. Anche ivi la lotta fu calda; si passò dal ponte dell'Ammiraglio al ponte delle Teste in mezzo al saettare dei cacciatori che erano appostati ai due lati della via; ma al piano di Sant'Erasmo le truppe borboniche dovettero battere in ritirata; siamo subito corsi dietro di loro, lungo la strada che oggi porta il nome di Lincoln.
Era bello il vedere Garibaldi in quei momenti.
Sui campi di battaglia il suo volto era radiante di gioia; non pareva che fosse in una lotta dove cadevano da ogni parte morti e feriti, ma ad una danza di nozze.
Egli si fermò sul suo cavallo, dinanzi alla via che oggi porta il suo nome e dietro all'altra che ha quello di Lincoln. A destra la flotta napoletana fulminava colla mitraglia, a sinistra i cacciatori borbonici saettavano colle palle. Fermo, impassibile non si mosse se non quando l'ultimo dei suoi volontari fu entrato in città (Vivissimi applausi).
In otto giorni, Palermo fu sgombra dalle truppe regie, e Garibaldi le andò a raggiungere a Milazzo, e le vinse. Passato il faro, corse trionfante fino a Napoli con pochi o niuni contrasti; entrò quale Cesare vincitore nella grande città, e le truppe borboniche, sbalordite, gli resero gli onori. Il Borbone era partito sin dal giorno innanzi.
Il 1º ottobre, fu il giorno della più difficile, della più terribile battaglia del 1860; Re Francesco era alla testa di 42 mila uomini, quanto vi era di più fresco nei suo esercito; Garibaldi non ne comandava che appena 20 mila. La lotta fu lunga, ostinata, da Santa Maria a Maddaloni, in tutta la linea del Volturno; ma anche quel giorno l'Eroe fu vincitore, e prima che la battaglia fosse finita, annunciò la vittoria telegraficamente a Napoli (Applausi vivissimi).
La battaglia di Calatafimi segnò la liberazione della Sicilia; la battaglia del Volturno la caduta materiale della dinastia dei Borboni.
La battaglia di Calatafimi—avvertite che essa avvenne il 15 maggio 1860—vendicò le vittime del 15 maggio 1848; la battaglia del Volturno gettò le basi dell'unità italiana (Applausi).
Al Volturno Garibaldi provò ai suoi detrattori che egli non era un semplice guerrigliero, ma che era un grande capitano e che aveva l'intelletto e l'arte di muovere grandi masse di truppe. La vittoria dell'1 e del 2 ottobre si deve agli ordini dati da Garibaldi ed alla sua presenza sul campo di battaglia, non meno che al valore, all'energia ed all'intelligenza dei suoi luogotenenti che sapevano ubbidirlo. Avvertite, signori, che Garibaldi non risparmiò mai la sua persona, come certi colonnelli e certi generali che comandano, stando lontani dal campo.
Signori, abbiamo visto Garibaldi sotto un solo aspetto, che del resto era da voi conosciuto: il guerriero; e niuno negherà che dopo Napoleone, sia stato il più grande capitano del secolo.
Vediamolo ora sotto un altro aspetto, quello del legislatore, che molti ignorano, e che taluni forse non sospettano che egli fosse.
Avvertite, signori, che non è legislatore colui che redige le leggi, ma colui che le concepisce.
I codici francesi non furono scritti da Napoleone I, ma ne ebbero il pensiero, e ne portarono l'impronta: potrei dire lo stesso di tutti i legislatori del mondo.
Signori, molti di voi forse non sanno quello che sia un popolo in rivoluzione.
Voi non avete forse visto un popolo, agitato, incerto, talora ardito, talora sgomento, una società che si scioglie ed un'altra che si ricompone, un governo che rovescia ed un altro che si ricostituisce.
Grave è la responsabilità di coloro i quali mentre imprendono a distruggere un governo il quale ha i suoi publici funzionari; la sua polizia, la sua truppa, devono ricomporne un altro al quale mancano tutte le forze organiche, per esistere e farsi rispettare.
Vi è un momento di transizione nei quale nessuno può comandare; è là che si sperimenta il vero uomo di Stato per sapere uscire dall'imbarazzo in cui si trova e per assicurare la società che nulla è caduto e che tutti gli interessi sono rispettati coi nuovo regime.
Il primo scopo di Garibaldi era di gettare le basi dell'unità italiana con Vittorio Emanuele, re; il mezzo era l'ordinamento delle forze nazionali per distruggere il nemico, il quale era di ostacolo al conseguimento dell'unità. A questo scopo il 13 maggio 1860 furono fatti i decreti di Salemi. Ma ciò non bastava.
Era necessario rendere impossibile ai Borboni di governare, ed organizzare intanto l'amministrazione nostra. Tanto fu stabilito coi decreti di Alcamo. Il governo politico, l'ordinamento dei municipii, le finanze furono materia di varii decreti allora publicati.
E per le finanze fu principale intendimento di alleviare le classi non abbienti, e così fu abolita la tassa sul macinato e la tassa di importazione sui cereali. (Sensazione)
Al tempo stesso, fu ordinato alle popolazioni di rifiutare il tributo al governo illegittimo, avvisandoli che da quel giorno tutto apparteneva alla nazione.
Voi comprendete che la difficoltà maggiore non era nel consigliare il rifiuto dell'imposta al nemico, ma nel persuadere i contribuenti di pagare al governo che nasceva. Al tempo stesso bisognava persuadere i cittadini che il governo che nasceva non era nè avido nè dissipatore, e però Garibaldi ordinò che i suoi compagni non fossero trattati che colla razione da soldato.
E ciò non bastava.
Il 18 maggio, quando fummo a Partinico, trovammo i principali edifizi della città arsi dalle truppe borboniche.
Garibaldi comprese quale guerra selvaggia si faceva in quei momenti dal nemico, e senti che bisognava incoraggiare il popolo e assicurarlo dell'avvenire. A tale scopo fu fatto il decreto che ordinava il risarcimento dei danni di guerra dallo Stato, e più tardi, a non aggravare della fortissima spesa l'erario nazionale, furono invertite a cotesto beneficio tutte le rendite di quelle Opere Pie di stato incerto—e ve ne sono ancora molte in Italia e non si sa chi le mangia (Ilarità, applausi)—escluse le rendite destinate agli Ospedali, all'indigenza, al publico insegnamento, e a tutto ciò che veramente dovrebbe essere la provvidenza dei governi.
Giunti al passo di Renna, vennero desolanti notizie dalle terre vicine. Bande di scorridori portavano lo sconforto nelle tranquille popolazioni, col saccheggio e la rapina.
Fu in conseguenza una necessità il fare leggi di guerra.
Garibaldi allora istituì tribunali militari, a cui fu data la giurisdizione, per tutti i reati, durante il tempo della guerra. Più tardi di questi tribunali ne furono istituiti in ogni capoluogo di circondario.
Nulla a Garibaldi faceva maggior ribrezzo del furto. Talora aveva compassione dell'imputato per reati di sangue nei quali poteva vedersi la conseguenza dell'affetto. Disinteressato, generoso, non tollerava gli abusi contro la proprietà altrui.
Occupata Palermo, furono completate codeste leggi, e si riordinò con forme stabili l'amministrazione civile.
E poichè le popolazioni giudicano la bontà dei governi dal bene che alle medesime ne deriva, il Dittatore decretò la divisione dei demanii comunali col diritto di una quota speciale a coloro che avevan prese le armi nelle guerre nazionali.
In questo modo era doppio il vantaggio: avevamo una legge agraria colla ripartizione dei latifondi, la creazione di nuovi proprietarii e la soddisfazione alle plebi che per quell'atto di suprema economia si interessavano all'opera dell'emancipazione politica, dalla quale ricavavano il beneficio.
Nè ciò soltanto.
Furono fatte varie leggi per la educazione militare dei fanciulli e per provvedere, con pensioni, agli orfani e alle vedove dei morti per la patria.
Signori, da taluno fu censurato Garibaldi perchè egli aveva richiamato in vigore le leggi del 1848. Riflettendoci bene, i critici severi dovranno finire per dare ragione a lui che ne ebbe il pensiero ed a colui che ne fu l'esecutore.
Le Insurrezioni del 1859 e del 1860 non furono che una rivendicazione del diritto italiano, affermato e sancito al 1848.
Al 1848 furono distrutti i trattati di Vienna, che erano un vincolo internazionale per le dinastie straniere in Italia; e fu dichiarata la decadenza dei Borboni e degli altri principi che allora governavano nella penisola. Caduti al 1849 sotto il giogo delle vecchie tirannidi dovemmo subire la violenza, ma il diritto italiano non rimase spento; e solo si aspettava la risurrezione dei popoli per rivendicarlo e rimetterlo in onore.
Il richiamo adunque delle leggi politiche del 1848 fu una logica necessità, e Garibaldi lo comprese e vi diè complemento col plebiscito del 21 ottobre 1860 che dichiarò l'Italia una e indivisibile dalle Alpi ai due mari (Applausi).
Signori, io fo ora a me stesso una domanda: il mondo ufficiale ebbe fede in Garibaldi? Non posso affermarlo, e non oso negarlo.
I fatti apparenti più di una volta mi han dato ragione di dubitarne.
Prego intanto di non esser frainteso. In tutto questo non c'entra la monarchia, e molto meno Vittorio Emanuele, il più leale dei principi, il miglior amico di Garibaldi (Applausi).
Signori, il mondo ufficiale consiste nel sistema, nelle abitudini, nei cortigiani che circondano il trono, nei bigotti che stanno sotto i gradini del trono, che temono le innovazioni e che non hanno fede nelle forze popolari (Applausi).
Al 1848 quando Garibaldi venne da Montevideo, gli fu negato di comandare un corpo di truppe. Al 1849, dopo la caduta di Roma, si finse—lui nato a Nizza la quale allora faceva parte del regno—che egli, militando a Roma, avesse perduto la nazionalità sarda; e però fu mandato in esilio. Pei ministri che allora governavano egli era il condannato politico del 1834, il socio della Giovane Italia.
Al 1859, contro la volontà del Re e del suo primo ministro, Garibaldi fu chiuso entro un angusto campo di battaglia, con pochi uomini e senza artiglierie, lungi dall'òrbita degli eserciti alleati, quasi dimenticato.
Alla testa dei Cacciatori delle Alpi egli fece miracoli di valore, vinse il famigerato Urban; ma, per mancati aiuti, talora dovette sgombrare le terre da lui redente, non potendo resistere alle forze soverchianti del nemico.
Al 1860, salpato da Quarto, poco mancò che non lo arrestassero nelle acque di Sardegna.
Dittatore di Sicilia e di Napoli, la sua amministrazione fa continuamente insidiata e i suoi uomini bersagliati dalle calunnie. Nulladimeno, giunto a Marsala, egli aveva proclamato Vittorio Emanuele Re d'Italia; tutti i suoi decreti portavano in capo le parole: «Vittorio Emanuele» ed erano in nome del Re intestate le sentenze dell'autorità giudiziaria e tutti gli atti publici.
Dopo il suo ingresso a Palermo fu elevato lo stemma reale in tutti i publici edifizi e lo stemma reale fu impresso nelle bandiere.
E dopo ciò perchè dubitare di lui? perchè dubitare degli uomini suoi?
Vi era forse un solo fra coloro che lo circondavano che non volesse l'unità colla monarchia?
Garibaldi, imbarcandosi a Quarto, aveva inalberato la bandiera collo scudo di Savoia; tanto che alcuni cittadini i quali non credevano in quella bandiera, non vollero imbarcarsi, ed altri scesero a Talamone.
Sul finire del luglio 1860, il mondo ufficiale gli suscitò ostacoli per passare il faro. Ed avvertite che l'impresa siciliana sarebbe rimasta infeconda, se i Garibaldini non avessero cacciato Francesco Borbone dalla sua capitale.
Allora si temè che se la rivoluzione fosse penetrata sul continente, la monarchia italiana ne avrebbe patito. Impertanto i nostri avversarii congiurarono con un generale borbonico e con un ministro fedifrago, e mandarono emissarii perchè avessero provocato una insurrezione militare (Profonda sensazione).
Si ideò—strano progetto—che si desse provvisoriamente il governo ad un principe borbonico, affinchè questi avesse preparato il nuovo regno di Vittorio Emanuele.
Vani conati che spiegavano il malvolere e suscitavano sospetti in un momento in cui era necessaria la concordia per il compimento dell'unità nazionale.
Coteste son macchie che non salgono in alto, ma si arrestano sotto i gradini del trono. Il 7 settembre 1860 Garibaldi entrò trionfante in Napoli, e il primo suo atto fu di affidare la squadra napoletana all'ammiraglio Persano.
Quale pegno maggiore si poteva avere da lui?
Quest'uomo singolare, disinteressato, generoso, provvidenziale, vera personificazione del popolo, aveva del soprannaturale.
Nella vita di quest'uomo parrebbe che ci fosse del divino.
L'Ercole e l'Achille degli antichi non valevano lui.
Se fosse nato in Atene o in Roma, gli avrebbero alzato altari (Applausi).
Percorriamo a brevi tratti i punti singolari di questa vita, straordinaria, tempestosa, difficile, e vedrete che le mie parole non sono una esagerazione.
In America alla testa di 70 uomini contro 1000 nemici, al comando di due povere barche contro la flotta brasiliana, seppe uscire vincitore.
Un giorno trascinò le sue barche sull'Oceano che le ingoiò; egli si salva a nuoto, ritorna a terra, ricompone la legione, combatte e vince.
Quando nei principii del 1848 ebbe notizia del movimento italiano, si imbarcò sopra un facile brigantino che fu battezzato la Speranza e con 85 legionari prese la via del mare. A metà del cammino, scoppia il fuoco e tutti si credono perduti, e lui con sangue freddo spegne le fiamme divoratrici e tutti giungono salvi in Italia.
Il 26 agosto 1848, dopo aver vinto due volte gli austriaci, stremato di forze, scioglie la piccola legione, passa in mezzo all'esercito nemico, lo delude, entra non visto nella Svizzera, e ritorna per altre vie in Italia a combattere nuove battaglie.
Il 2 luglio 1849, resa inutile la difesa di Roma, esce dalla porta opposta a quella dalla quale entravano i francesi; tenta di prendere la via di Venezia, e non gli riesce. Gli austriaci lo cercano, lo spiano, lo attendono, ed egli scioglie la legione, amareggiato il cuore per la perdita della sua compagna, sconfina il territorio toscano e si salva.
Non vi dirò, signori, quale lo vidi a Calatafimi e a Palermo, in mezzo alle palle borboniche, sereno, raggiante il viso; fu sempre così in tutti i combattimenti.
Ricorderò soltanto un episodio della battaglia di Milazzo.
Il 20 luglio 1860 s'era impegnata la battaglia; e le sorti per un momento parvero incerte.
Spunta da una viuzza un mezzo squadrone di cacciatori con un maggiore alla testa.
Garibaldi, Missori e il giovane Bertini erano a poca distanza; l'ufficiale napoletano non se ne accorse, intento a correre per riprendere un cannone che i garibaldini avevano preso al nemico; ma i cacciatori borbonici sono ricevuti dalle fucilate dei nostri e ritornano indietro.
Garibaldi, si getta sulla via, colla sciabola sguainata, e osa intimar loro la resa; Missori imbraccia la carabina ed uccide il cavallo del comandante. Costui alza il fendente sul capo di Garibaldi, e l'Eroe para il colpo e taglia la gola al nemico. Qui si impegna una lotta corpo a corpo; tre contro quindici; e dei soldati della tirannide, alcuni sono presi, altri sono fatti prigionieri (Applausi vivissimi).
Ho detto, un momento fa, come il primo ottobre 1860 Francesco Borbone avesse raccolto tutte le sue forze; 42 mila uomini, la parte più scelta delle sue truppe, lungo la linea del Volturno, contro 20 mila volontari.
Impegnata la battaglia, Garibaldi si dirige in carrozza da Santa Maria verso Monte Sant'Angelo, dove soleva stare ogni giorno per osservare il nemico e per dirigere i suoi. Improvvisamente da alcune vie coperte, sino ad allora ignorate, spunta un nugolo di nemici e la carrozza è circondata.
Ferito il cavallo, ucciso il cocchiere, la carrozza forata dalle palle, Garibaldi e i suoi aiutanti scendono e si mettono in difesa.
La meraviglia nei nemici per cotesto atto audace fu tanta che fu dato tempo a Simonetta ed a Mosto di accorrere coi cacciatori.
Garibaldi è salvo; e riprende il comando della battaglia; il Borbone è vinto (Applausi prolungati).
È inutile, signori, che io ricordi i pericoli corsi in altre battaglie, nel Tirolo, a Mentana, nei Vosgi, là, sulla terra francese, dove mentre tutta la Francia era sconfitta, Garibaldi solo era vincitore. Nulla dimanco non se n'ebbe riconoscenza all'Eroe, il quale più tardi venne fischiato a Bordeaux.
Nelle cento battaglie se il suo corpo non restò sempre illeso, la sua vita fu sempre salva. Avvenne di lui come di Napoleone I, che i nemici non seppero fondere la palla che lo doveva uccidere.
Signori, in certi periodi storici, nei momenti in cui l'umanità soffre ed attende la sua liberazione, avviene che la provvidenza faccia sorgere nel mondo una creatura straordinaria, i cui atti e le cui virtù escono dal comune.
Dei suoi prodigi le immaginazioni restano colpite, e le popolazioni vedono in quella creatura un essere sovrumano.
E lo dissi e lo ripeto: se Garibaldi fosse nato in Atene od in Roma, i popoli ne avrebbero fatto un semi-dio e gli avrebbero alzato dei templi.
Ai nostri giorni siamo più modesti; l'altare di Garibaldi è nel cuore di ogni patriota, senza distinzione di partito nè di classe. Hanno un culto per lui, hanno venerazione per l'eroe quanti vogliono l'Italia quale la fecero i plebisciti, una dalle Alpi ai due mari, quanti amano la patria, forte, grande, prospera e rispettata (Applausi prolungati).
Questo, o signori, dovevo dire ai giovani dell'Università, ai Bolognesi che mi hanno con tanta benevolenza ascoltato, alle popolazioni lontane alle quali forse giungerà l'eco della mia parola (Applausi prolungatissimi insistenti).
Nota dei trascrittori
Sono stati corretti i seguenti evidenti refusi (tra parentesi il testo originale):
p.8 - Garibaldi s'è [s è] fidato ad una dinastiap.9 - le leggi eccezionali per estirparlo [estiparlo]p.10 - Agl'internazionalisti [interzionalisti] varrà di lezionep.13 - alle 4 1/2 [4 1|2] del mattinop.14 - Dopo questa sentenza, fu [fa] fatto il silenzio.p.23 - il [i] Circolo universitariop.24 - rompere le [la] catene che vi tenevanop.36 - ed un'altra [un' altra] che si ricomponep.36 - un altro che si ricostituisce [ricostituisco]p.41 - dalle Alpi [alpi] ai due marip.43 - portavano [portavavano] in capo le parole
La E maisucola accentata (nell'originale E') è stata trascritta come È.
Per il resto (punteggiatura, grafie alternative o desuete, date incomplete, ecc.) si è mantenuto invariato il testo originale.
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