The Project Gutenberg eBook of Novelle e ghiribizzi

This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.

Title: Novelle e ghiribizzi

Author: Pietro Fanfani

Release date: September 15, 2014 [eBook #46867]
Most recently updated: October 24, 2024

Language: Italian

Credits: Produced by Giovanni Fini, Carlo Traverso and the Online
Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This
file was produced from images generously made available
by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK NOVELLE E GHIRIBIZZI ***

NOTE DEL TRASCRITTORE:


—Corretti gli ovvii errori di stampa e di punteggiatura.

—La copertina è stata creata dal trascrittore utilizzando il frontespizio dell'opera originale. L'immagine è posta in pubblico dominio.

[i]

PIETRO FANFANI


NOVELLE

E

GHIRIBIZZI

MILANO

editore PAOLO CARRARA librajo

1879

[ii]


Proprietà Letteraria dell'Editore



Tip. Pietro Faverio.


[iii]

AL LETTORE

Le Novelle e i Ghiribizzi drammatici, raccolti in questo volume, salvo alcuni di questi ultimi, che ora si pubblicano per la prima volta, furono già da tempo messi fuori dall'Autore, ma erano poco o punto noti, perchè apparvero su qualche giornale, o in raccolte, o tirati in ristrettissimo numero di esemplari; per modo che posso dire, che a molti e molti giungeranno novissimi; tantopiù che l'Autore, nel rivederne questa ristampa, li venne ritoccando qua e là dove gli parve necessario. Egli scrisse la maggior parte di questi lavori mentre attendeva a comporre quelli di maggior lena in materia filologica, i quali porrò di mano in mano in luce, e quelli concernenti le due gravi questioni del Vocabolario della Crusca, e dell'autenticità della Cronica di Dino Compagni, quasi a sollievo dell'animo occupalo da' gravi studj. E però ora in un punto, ora in un altro Egli accenna o a questa o a quella delle due questioni, dando qua una bottata o mia graffiatina ad un avversario, là rivolgendo un frizzo o una celia ad un altro; anzi dirò che l'argomento di parecchi fra quegli scritti, lo attinse[iv] appunto dalle ricordate due questioni. Così facendo, l'illustre Autore si attiene al savio precetto del ridendo dicere verum: diletta con quella forma garbata, propria, limpida, festosa, del suo dire, onde Egli è modello insuperabile; e nel tempo stesso apertamente si mostra, non timido e parziale, ma sincero e devoto amico della Verità. Io quindi non dubito punto che questo volume, come tutti gli altri di quell'eletto Ingegno, troverà favore tanto presso coloro che si dilettano delle amene letture, quanto presso gli studiosi cultori della nostra lingua. Debbo però avvertire il Lettore, che c'è una mancanza; ed è questa qui. Alle pagine 15, 18, 83 ed altrove, leggerà Vedi Appendice I, II ecc., ma le Appendici non ci sono. Soprallavoro, in questi giorni la morte repentinamente spense lo strenuo Autore, nè tra' suoi fogli si è potuto trovare o scritto, o nota, o appunto alcuno, che accennasse quali dovevano essere le illustrazioni, che era suo intendimento di porre in fine del volume: sicchè le mancano; ma non per questo il volume scema di pregio, perchè non sarebbero state altro, per quanto io posso argomentare, se non ischiarimenti maggiori su persone e su cose, delle quali nel libro si discorre. Altre parole non aggiungo; il libro èccolo qui: e son certo che verrà benevolmente accolto.

L'Editore.


[1]

NOVELLA I.[1]

DON FICCHÍNO.

Don Ficchíno, adulatore e scroccone famoso, accetta due desinari nel giorno medesimo: saputosi, gli è fatto da capo un doppio invito; ma è trattato in modo che va a letto digiuno.

Don Ficchíno, morto pochi anni addietro d'indigestione, fu un pretazzuolo d'una piccola città di Toscana: e gli posero quel soprannome per la grande sua smania di ficcarsi attorno a tutti coloro che avevano nobiltà, ricchezza, o fama di letterati solenni. Fino da abatónzolo il fatto suo era uno spasso: un frucchíno, un lecchíno[2] vi so dir io! Se de' mortorj, se degli angiolíni[3], se delle benedícole[2] dove si leccasse il madonníno[4] ve n'era, lui vi si ficcava dei primi. Cresciuto negli anni, gli uscì di corpo la smania de' móccoli e delle sagrestíe; e si cominciò a ficcare per le case dei signori; e lì, per leccar qualcosa, lusingava ogni lor vanità: si sdrajava sotto i tavolini a sbraciar la cassetta alle signore[5]: faceva sonetti, cantava, sonava; era, vi dico, il cucco di tutte le veglie. Poi gli venne gli áscheri[6] di essere un po' letterato... ma, èramo a piedi![7]... Síe? che importa? Lasciate fare a lui! Si ficcò alle còstole di un letterato valente; e lì striscia, e lì loda, e lì lecca, il letterato gli fece pa[8]; lo resse per le maniche del sajo, affinchè non battesse il musíno in terra; lo fece affiatare con qualche altro letterato: e di lì a poco l'amicone si attentò a far l'autore. Fu un vero attentato! Ne scrisse di quelle che non hanno nè babbo nè mamma, o come dice il popolíno, di quelle di pelle di becco: ma un po' per l'ajuto del protettore; un po' per le dedicatòrie spante; un po' per le lodi che egli svergognatamente chiedeva, e spesso otteneva, dai[3] giornalisti; e un po' perchè cercò di razzolare in materie che fossero di moda, gli riuscì, sempre strisciando, leccando e ficcandosi, di farsi dire qualche parola dolce da due o tre valentuomini, della qual cosa non potete immaginare la gallòria che ne menava, e lo strombettío che ne faceva, e ne faceva fare. E come gli ignoranti sono sempre i più, ed egli bazzicava sempre de' signori, che generalmente sono ignorantissimi, lo cominciarono a chiamar professore, non cessando per altro di divertirsi alle spalle di lui, che era la più riderfacente caricatura dell'universo mondo. Poi volle pubblici ufficj; e qui sì che andò, s'arrabattò, si strisciò, si ficcò, s'incurvò, si prostrò, si scappellò, e ò ò ò ò. Quando c'era il Granduca, faceva giaculatòrie granducali ch'era una delizia: si teneva beato, se poteva parlare, non che altro, con uno staffiere de' Pitti: se poi poteva avere un'udienza, non entrava più nella pelle, e la camicia, come suol dirsi, non gli toccava il sedere: la raccontava, la commentava, e piangeva di gioja. Il Granduca fuggì; e lui, puntuale, s'inchinò a chi l'aveva fatto scappare: diventò un liberalaccio per la pelle; e quasi quasi si spacciava per martire: cercò, insieme con altri, di mettere in mala voce, e di dare uno sgambetto a un suo amico e benefattore: poi lisciò, strisciò, si prostrò, encomiò Vittorio Emanuele co' suoi figliuoli; e chi sa che cosa sarebbe stato capace di fare, se quella benedetta indigestione non lo mandava illuc quo plures abierunt. Sopra tutte le sue cardinali[4] virtù per altro c'era quella di essere un grande uccellatore di desinari; e come tutti lo sapevano, così tutti coloro che apparecchiavano più o meno lautamente, lo invitavano sempre, essendo per essi uno spasso grandissimo il vederlo mangiare con sì raro appetito, e il sentire le ingegnose lodi che sapeva dare al padrone, al cuoco, e a tutte le pietanze ed i vini; le quali lodi erano spesso sotto forma di sonetti o di brindisi, che rallegravano maravigliosamente tutta la brigata. Accadde una volta che fu invitato nello stesso giorno dalle due più ricche famiglie della città, ciascuna delle quali aveva un'ottimo cuoco e una famosa cantina. Don Ficchíno, tra questi due inviti parimente attraenti, stava come il famoso asino degli scolástici, i quali pensavano che posto in mezzo a due profende di fieno parimente fresco e odoroso, sarebbe prima morto di fame che abboccarne una[9]. Leggeva ora l'uno ora l'altro: prendeva la penna per ringraziare; ma non veniva all'atto. Guarda e riguarda, leggi e rileggi, a un tratto fa un salto d'allegrezza, e un sonoro frullo con una mano. Che cosa n'era cagione? La famiglia A., tenace un poco degli usi antichi, pranzava alle 2; l'altra famiglia B. alle 7. «Gua', posso andar qui e là.» E di fatto la[5] mattina della gran giornata, prese un bel bicchiere d'acqua del Tettúccio[10], per disporre lo stomaco; fece una sottilissima colazione, e alle 2 fu a casa A. Il pranzo era eccellente, e Don Ficchíno si mostrò pari alla sua fama. Vedendo andare attorno tanta grazia di Dio, non poteva lasciarla passare, senza intinger nel vassojo: «Chi lo sa, pensava, se a quest'altro desinare ci son tante delizie!» E lì trincava, e ingollava di santa ragione. Alle quattro era già finito il pranzo; e Ficchíno pensò tosto ad accomodar le cose per quell'altro delle 7. Si sdrajò un'oretta sul canapè; fece un pisolíno; e poi, ripicchiatosi tutto[11], andò a fare una bella passeggiatona, piuttosto faticosa: insomma alle 7 fu in grado di porre il piè sotto la tavola da capo; e se al primo pranzo si mostrò, come solevano dir di lui, la prima forchetta di Toscana, in questo secondo non canzonò. La cosa si sparse súbito; e non vi so dire che grasse risate vi si facessero su, e che saporiti e arguti motti si dicessero a propòsito del buon appetito di Don Ficchíno, in quelle conversazioni dove soleva andare. «Gli s'ha a fare una bella celia.—Sì sì: guardiamo se si gastiga la sua ingordigia.» E fatto capannello tra due o tre capi armònici, che altre volte si eran divertiti alle spalle del nostro abatíno, restarono[6] d'accordo in questo, di fargli un altro doppio invito fra qualche giorno; ma in modo che non gli tornasse più voglia di accettarne de' simili. La settimana appresso, eccoti un servitorino in livrea, che picchia alla porta del professore, e lascia un elegante biglietto, col quale il signore e la signora D. lo pregavano di favorirgli a pranzo il giorno di poi alle 2: pranzo d'addio, perchè la sera partivano. Quel pranzo d'addio fece venir l'acquolina in bocca a Ficchíno... Poco dopo un'altra scampanellata. «Chi è?—Una lettera per il signor professore.» Era un altro invito stampato, per un pranzo di giorno natalizio, la sera di poi alle sette e mezzo. Sòlite esitazioni; sòlita risoluzione:—Pranzai due volte l'altro giorno, e stetti benone. Dunque?... Alle due del giorno dopo, un'eletta compagnía di signori e signore era nel palazzo D. Don Ficchíno, secondo l'usanza, trottolava qua e là[12], a chi facendo inchini, chi adulando, con chi sdottoreggiando; ma con l'occhio sempre volto alla sala da pranzo. Finalmente arrivò il sospirato: Signori, è in tavola. A Ficchíno toccò l'onore di accompagnare la signora: ciascuno si mette al sue posto; l'apparecchio ricchissimo promette ogni più fino allettamento della gola; già si distribuivano le scodelle della minestra; quando entra un servitore con una lettera per il padrone. Questi l'apre, e cade abbandonatamente[7] col capo sopra la tavola.—Dio mio! che è stato? grida la signora: e tutti si alzano, chi dicendo una cosa, chi l'altra... Una sventura gravissima era sopraggiunta alla nobile famiglia: il signore e la signora si scusarono alla meglio; il pranzo andò all'aria; e gli invitati, fatte le loro condoglianze, andarono chi qua chi là. A Don Ficchíno seppe proprio male di questo fatto inaspettato; ma, Fortuna, disse dentro di sè, che stasera ci ho quest'altro pranzo! rimetterò le dotte lì. E mezzo sbalordito andò via, cercando di far le sette e mezzo. La prima cosa andò a mangiare un tagliuolo di stiacciat'unta, perchè, avendo, come l'altra volta, preso l'acqua del Tettúccio, e fatta una colazioncína leggiera, si sentiva assai fame: poi una capatína qui, una là[13]: finalmente l'ora tanto aspettata arrivò; e l'amico s'avviò súbito a casa F. portato dal desío e dall'appetito. Eravamo là sul principio del decembre; e il tempo nuvoloso si buttava al crudo, accennando a neve; sicchè non gli parve vero di infilarsi in quella casa, dove sperava riscaldarsi e refocillarsi tutto[14], tanto più che non aveva pensato a coprirsi troppo bene. Egli era dei frequentatori più assidui della conversazione di que' signori, sicchè il portiere lo salutò familiarmente ed il servitore d'anticamera lo annunziò tosto alla[8] signora, la quale era nel suo salottino con altre due amiche. A Don Ficchíno parve un poco strano il veder queste donne così sole, il perchè, dopo le solite riverenze, inchini, e strette di mano: Come mai queste signore così sole?—Gli uomini, rispose la signora, son su nella stanza da fumare: ma ora scenderanno. Sanno che dobbiamo andare al teatro. Al povero Don Ficchíno non rimase sangue nelle vene; e tutto confuso, con atto di gran maraviglia, esclamò: Al teatro!—Già, o non lo sapete che stasera c'è gran cose? venite anche voi.—Grazie, signora... Ma lei... ho forse sbagliato leggendo?... o la stampería?...—Ma che almanaccate, professore?... E il povero professore, levatosi di tasca l'invito, lo mostrò alla signora, la quale trattenendo a stento le risa: Noi non abbiamo mandato tali inviti; qualcheduno ha voluto farvi una celia. L'ira, la vergogna, la fame, si dipinsero stranamente in figura diversa sul volto del povero Ficchíno, il quale, se non fosse stato tanto ridícolo, avrebbe fatto pianger le pietre: A me! a un mio pari!... me la pagheranno... la mia penna!... Intanto eccoti giù tutti coloro che erano stati a pranzo, ed uscivano da fumare, i quali, saputa la cosa, dolenti in vista del mal tiro fatto al professore, sotto i baffi se la ridevano gustosamente.—Signori, ci sono le carrozze—disse un servitore, affacciandosi all'uscio; e tutti si alzarono, e andarono al teatro, dove, più che la commedia, dette materia di spasso la celia fatta a Don Ficchíno, la quale si sparse in un momento per tutti[9] i palchi, e anche per la platea. Ma la celia non finì qui. Il povero professore, con una fame da lupi, fece pensiero d'andare a pigliar qualcosa alla trattoría. Erano già sonate le otto da un pezzo; veniva un nevíschio fitto fitto, con un vento diaccio che pelava: quella città, piccola e pochissimo popolata, nell'inverno dalle sette in là pareva un deserto; e solo rimaneva aperto fino alle dieci il caffè, e quella trattoría, dove qualche rara volta soleva andar Don Ficchíno, il quale era fieramente in úggia al trattore e a' camerieri, come colui ch'era famoso lesinante, e seccatore pertinacissimo. Coloro che avevano ordito la trama pensarono che il professore, rimasto a denti secchi nelle due case, sarebbe andato alla trattoría; e però s'indettarono col padrone, che gli secondò a meraviglia, avendo, come dissi, in úggia Don Ficchíno, un di quegli avventori, com'egli diceva, che è meglio perdergli che trovargli. Bisogna sapere che Don Ficchíno, oltre all'essere spilòrcio e seccatore, era schizzinoso in estremo grado; e il mal odore di una pietanza, o qualche cosa di men che netto che vi fosse dentro, gli dava orribili archeggiamenti di stomaco. Èccotelo alla trattoría: si mette a sedere; picchia nel bicchiere; e al cameriere, che venne súbito:—Che ci avete di buono?—Eh, signor professore, non potrò darle, se non una zuppa e una bistecca.—Bene: porta súbito la zuppa e prepara la bistecca.—Súbito.—Quella zuppa si fece aspettare un pezzo: e lo stomaco del povero Ficchíno latrava rabbiosamente.[10] Finalmente èccola... L'aveva mangiata mezza cogli occhj nel tempo che il cameriere la portava in tavola: appena messa davanti, ne ingolla furiosamente una cucchiajata; un puzzo e un saporaccio orribile! il povero Ficchíno ebbe a dar fuori il primo boccone che gli diede la bália[15].—Geppíno, Geppíno!—Comandi, signor professore.—Ma questa zuppa puzza che mena la saetta.—E Geppíno, annusando:—Puzza? scusi, signor Professore: ma a me non mi pare...—Pòrtala via, e affretta la bistecca.—E Geppíno porta via la zuppa. Dopo un altro pezzo viene la bistecca; e se la zuppa era stata puzzolente, questa era puzzolente e mezzo. Allora Ficchíno montò su tutte le furie: maltrattò padroni e camerieri, e andava via tutto stizzito: ma fu trattenuto, e dovè pagare lo scotto, come se avesse mangiato. Affamato, assiderato, arrabbiato, corse al caffè; stavano per chiudere, e non c'era più nè latte, nè caffè, nè sèmelli o chífelli. Non restava altra speranza che il trovare qualche cosa di avanzato al povero desinare della sua donna di servizio; una montanína appannatotta[16], che Don Ficchíno teneva anche per maestra di lingua e di poesía; e che gli costava poco, avvezza com'era a necci[17][11] e polenda, suo cibo prediletto quando il padrone non mangiava in casa, che vuol dire quattro o cinque giorni per settimana. Erano le dieci quando Ficchíno tornò a casa; e domandato alla Zelinda se c'era nulla da mangiare, gli rispose che non c'era nulla, se non un po' di polenda, e un rosícchiolo di cacio.—Datemi quello.—E senza fare altre parole, mangiò la polenda con quel poco di cacio, ingollando, come suol dirsi, un boccone di quella e un boccon di veleno[18]: bevve un bicchier di vino, e insaccò nel letto a digerire la bile. Ma non era finita! Quando fu così sulla mezzanotte, che Ficchíno ruminava sempre chi diavolo potesse avergli fatto la celia, meditando vendetta, e la Zelinda se la dormiva placidamente; si ode una grande scampanellata. La serva si desta di sobbalzo, e súbito salta il letto. Ficchíno chiamava, bociando, Non aprite; ma un'altra scampanellata, e poi un'altra più rovinosa.—Affacciatevi, disse allora Ficchíno: potrebbe esserci qualcosa di grave. E la Zelinda si affaccia:—Chi è?—Un plico per il signor professore.—Senta, io non iscendo; lo metta dentro a questo paniere.—E, calato un paniere, lo tirò su con un involto assai grosso, che portò súbito di là al padrone, il quale, fattosi accendere il lume, rimandò a letto la donna, e sbuzzando[19][12] l'involto, vi trovò un Almanacco del gastrònomo, un pacchettino d'inviti a pranzo per più giorni alla fila nelle prime case della città, e un biglietto di questo tenore;

Caro Don Ficchíno,

«Un pasto buono e un mezzano, mantien l'uomo sano» come sapete; e «chi troppo mangia scoppia». Avendo voi mangiato a strippapelle tanti giorni alle còstole altrui, oggi, impauriti di vedervi scoppiare, vi abbiamo fatto la celia de' due finti inviti, della trattoría e del caffè, mandandovi a letto digiuno. Come però «Chi va a letto senza cena, tutta la notte si dimena», così abbiamo pensato di mandarvi questo Almanacco, dove leggerete descritte le più ghiotte vivande, per una qualche consolazione del forzato digiuno, e della veglia che ne è la conseguenza. Acciocchè poi non crediate che lo abbiamo fatto per ischerno della vostra magnificággine, o per altra cagione che per tenerezza della vostra sanità, vi mandiamo questi inviti a pranzo, che abbiamo raccolti stasera al teatro da que' signori, che parlavano e ridevano della celia fáttavi, ma che pur vogliono darvene un qualche compenso.

Valutate, illustre Ficchíno, la nostra buona volontà, e il Signore vi conservi lo stomaco.

Alcuni vostri ammiratori.

È facile l'immaginarsi che effetto fece sull'animo, già tanto amareggiato, del povero professore[13] questa novella canzonatura; e come lo rodesse la stizza di non potersi almeno sfogare un poco. Libro, inviti, lettera e ogni cosa scaraventò in fondo alla camera: spense il lume; ficcò il capo sotto le lenzuola, e stette quasi tutta la notte senza poter chiuder occhio, tra per la fame, per la rovella e per la vergogna. Come prima fu giorno, chiamò la Zelinda che gli portasse il caffè, dove inzuppò non so quante fette di pane. Per quel giorno non volle metter piede fuori dell'uscio, e fece propòsito di non accettar più inviti da nessuno... Ma poteva egli Don Ficchíno star fermo in sì fatto propòsito? Una, due volte, fino alla terza disse di no; ma poi, trattandosi di un pranzo dove si sapeva dovervi essere ogni più squisita delizia, non potè resistere, e accettò. Povero Don Ficchíno! fu l'ultimo pranzo! Era stato tanti giorni lontano dalle ricche tavole; erano tante e tanto preziose quelle vivande e que' vini, che lasciò libero il freno al suo poderoso appetito. Nella notte lo prese un'orribile gravezza di capo; poi una febbre da leoni; e dopo tre giorni era morto. Il suo corpo fu sepolto nel camposanto della sua città, e distingue le sue dalle infinite ossa che quivi ha seminato la morte, una pietra con questo epitaffio:

Ficchíno giace qui;
Nacque, mangiò, morì.


[14]
[15]

NOVELLA II.[20]

LA CONSOLAZIONE DELLA VEDOVA.

La novella della Vedova d'Efeso, raccontata prima da Fedro, poi da Apulejo, e poi da altri e altri, non è fatta se non per provare quanto facilmente l'uomo, e specialmente la donna, dimentica le persone più care furátele dalla morte. Se non la sapete, ve la dico in quattro parole. Le morì il caro marito; e lei giurò di voler finire i suoi giorni presso alla tomba di esso, accanto alla quale fece fare apposta un piccolo tugúrio, dove star sempre a piangerlo. Fu nel giorno stesso appiccato un famoso birbone, e lasciato esposto in mezzo alla campagna, proprio lì presso alla tomba, póstovi a guardia un soldato, acciocchè nessuno lo[16] spiccasse. Quel soldato era un pezzo di giovanotto, ma dite bello![21] e la vedovella un occhio di sole.—Povera donna, mi fa proprio compassione!—E va là per consolarla un poco. Era fiato gettato: la voleva morire per amor del marito. Ma si guardarono...—Che bell'uomo! somiglia il mio povero marito.—A farvela corta, finì come doveva finire: s'innamorarono come due gatti di gennajo. Mentre però quel soldato consolava la vedovella, i compagni dell'impiccato, che stavano alla posta, veduto il bello, lo spiccarono, e via a gambe: e tornato lui alla guardia, e vedendo sparito il pènzolo, gli cascò il fiato, e dava in tutte le smanie. La vedova allora andò a consolar lui:—Che è stato, amor mio? datti pace; a tutto c'è rimedio: o non c'è il corpo del mio marito buon'anima?... Vien con me.—Vanno: levano il marito morto dalla sepoltura, lei per il capo e lui per le gambe: te lo portano alla forca; e lo lasciano a penzolare pasto obbrobrioso dei corvi.

Questa vedova è parlante esempio della verità del nostro proverbio: Chi muore giace; e chi vive si dà pace, ma almeno non fu ipòcrita. Tanti filosofacci battezzarono per virtù una certa loro fortezza d'animo; e si fossero veduti morir mezzo mondo lì a' loro piedi, non si crollavano. Altri rimediano col fatalismo: i cattolici con la[17] rassegnazione cristiana, e col Dominus dedit, Dominus abstulit, fiat voluntas Dei; e così non pèrdono un'ora di sonno, nè mangiano un boccon di meno. Tutti però fanno testimonianza dell'alta sapienza dei Greci che la Morte appellarono Oblío.

[18]
[19]

NOVELLA III.[22]

I TORDI-MERLI.

Antonio Guidi era un assai valente calzolaio di Pistoja, che, facendo buoni guadagni, volle accasarsi, e sposò una onesta fanciulla di Prato, buona, timorata di Dio, e martire del lavoro, se non quanto era un poco ciarliera e caparbia; con la quale visse in concordia due o tre anni, andando sempre le loro cose di bene in meglio, e facendo vita molto agiata e lietissima, raramente turbata da' piccoli diverbj che ci sono sempre tra moglie e marito: tanto che erano l'invidia de' loro pari. Accadde una volta che ad Antonio furon mandati a regalare da un suo ricco avventore[23] due bei[20] mazzi di tordi, e un par di fiaschi di vino eccellente. Ricevuta questa grazia di Dio, egli la mandò súbito alla moglie per un ragazzo di bottega; e dille che i tordi gli faccia arrosto, e alle due sarò a casa[24]. Scoccate le due, Antonio va a casa, e appena salite le scale, dato un bacio alla moglie, la prima cosa domandò:

—È all'órdine?

—E la Lena:

—Scodello súbito.—Lavatosi Tonio le mani e il viso, si mettono a tavola, e cominciano a mangiare, ragionando, come solevano, del più e del meno in pace e in grazia di Dio, innaffiando spesso il cibo con un bicchieretto d'un certo vino, che era proprio di quello[25]. Finito di mangiare il lesso:

—Oh, disse Tonio, sentiamo un po' questi tordi! Lena, vágli a sfilare[26].

—Tordi? rispose la Lena: merli tu vorra' dire.

—Dico tordi, io: e che arnioni che avevano.

Intanto la Lena era ita in cucina, e torna co' tordi così croccanti e fumanti che dicevano mángiami mángiami: nè gli sposi se lo lasciarono dir[21] due volte, e cominciarono a darci dentro con nobile gara.

—Io, disse Tonio, ho mangiato poche volte tordi così saporiti.

—E batti co' tordi! rispose la Lena; ti dico che son merli.

—Tu se' una merla! ma che mi vuoi dare ad intendere? Sono tordi, e anche buoni.

—Come c'entra la merla? non importa canzonare. Del resto io son figliuola d'un famoso cacciatore, e ho visto più tordi e più uccelli che tu non hai capelli in capo: me ne avrei a intendere, eh? Sta certo che son merli.

—Scusa, va' a pigliar le penne.

E la Lena va, e torna con le penne.

—Lo vedi, ripiglia Tonio, non sono brizzolate? I merli le hanno nere.

—O brizzolate o non brizzolate, son merli.

—Guarda, ecco qui la lettera di chi me gli manda; guarda: due fiaschi di vino e dodici tordi.

—È uno sproposito; doveva dirci merli.

—E tu dici che se' figliuola d'un cacciatore? Si vede che da tuo padre ci hai imparato poco, perchè questi son tordi tordissimi.

—E séguita a trattar male e a canzonare! È questo il modo di trattare una moglie? Già me L'avevan detto prima di sposarti che tu eri un omaccio! Ora non gli basta impugnare la verità conosciuta, negando che questi son merli; vuole anche maltrattare!

—Ma chi ti maltratta, poco giudizio? Tu maltratti,[22] chè m'hai detto che sono un omaccio. Se avessi dovuto dar retta io alle ciarle, non t'avrei sposato di certo. Ma ora questi discorsi non c'entrano: la questione è su' tordi, e questi son tordi.

—Che ciarle? disse allora la Lena tutta inviperita, e rizzandosi con le mani sui fianchi. Che puoi tu dire, o tu o altri, del fatto mio? Guardate, per una picca, in che ginepraj entra, questo briacone! Se la sbòrnia non ti fa distinguere i merli da' tordi, ci ho colpa io?

Insomma di parola in parola si riscaldò tanto la disputa, che Tonio, il quale aveva un po' bevuto, mise le mani addosso alla Lena, la quale però, benchè tutta lívidi, badava sempre a dire che erano merli. Questa lezione per allora fece buono: si rimpaciarono presto, e de' merli non si fiatò più: ma venuti l'anno dopo al giorno stesso che seguì il litígio, ed essendo Tonio e la Lena a tavola tutti d'amore e d'accordo; la Lena a un tratto:

—Ti rammenti, Tonio?... finisce l'anno.

—L'anno di che?

—Gua', de' merli.

—Ah, già: ma guarda che dirizzone tu pigliasti! E' dovevan esser merli per te!

—Dovevan essere? erano, tu ha' a dire.

E d'una parola in un'altra si rinnovò la tragedia dell'anno passato; e così avvenne per più anniversarj. La buona Lena era di complessione delicata, e non troppo ben disposta di vísceri; per la qual cosa spesso era costretta di ricorrere a[23] medici ed a medicine: e Tonio ne stava dolente, perchè, da piccosa in fuori, e un po' capricciosa, era una buona moglie, e le voleva bene davvero, nè quelle sfuriate periòdiche erano sufficienti a scemarglielo. Una volta, nel principio dell'autunno, la malattìa si affacciò più minacciosa, ed il medico storceva fieramente la bocca ogni volta che le andava a far visita, nè celava i suoi timori al povero Tonio, il quale non sapeva darsene pace. Ogni giorno la malattía si faceva più grave e più paurosa, e ben presto ogni speranza si fu dileguata: e la povera Lena, sempre in perfetta conoscenza, come sono generalmente sino all'ultim'ora i malati di consunzione, si era già rassegnata a morire. Un giorno, verso la fine di ottobre, avuti che ebbe i sacramenti, chiama lì al capezzale il marito, e prendendolo amorosamente per mano:

—Tonino mio, gli dice con quel filo di voce che le rimaneva, io ti lascio; ci rivedremo in paradiso. Ti ho voluto sempre bene; e ti chiedo perdono, se qualche volta ti ho dato de' dispiaceri.

Il povero Tonio piangeva come una vite tagliata, e tra' singhiozzi diceva:

—Lena mia, che dici di dispiaceri? tu se' stata sempre buona, e sempre ti ho voluto bene. E se qualche volta... ti chiedo perdono io.

—Ah, di quei merli eh? Si avvicina il tempo, ed io sarò morta. Sì, ti perdono ogni cosa. Ma ora ne sei persuaso che erano merli?

—Sì, via, povera Lena, eran merli.

[24]

La Lena fece un sorriso, porse la bocca da baciare al marito, e in quel bacio spirò.

Questa Lena è símbolo dei Dinisti; e anch'io, per non vederne morir qualcheduno, bisognerà che all'ultimo dia al capo Dinista un bel bacio, esclamando:

—Sì, povera Lena, eran merli.

[25]

NOVELLA IV.

LE PÍLLOLE BACHÍCCHE.

Molti Fiorentini debbono ricordarsi di quel signore, con quella bella barba bianca che gli scendeva fino sul petto, alto della persona, sempre nobilmente vestito, il quale la sera dalle ventitrè alle ventiquattro passeggiava su e giù per via Cavour, seguíto sempre da un suo spropositato cane di Terranuova. Egli era Lombardo; ma era innamorato di Firenze e della sua lingua; nella quale per altro non fece gran profitto, perchè il suo Vangelo era il Vocabolario della Crusca, l'Accademia era per lui la vera Chiesa cattolica, il signor Arciconsolo il vero e legittimo Papa: e la sua cieca fede andava tanto in là, che, sebbene valutasse e non impugnasse tutte quante le manifeste prove, le quali chiariscono apòcrifa la Cronaca di Dino Compagni, tuttavía, perchè la[26] Crusca la tien vera, all'autorità della Crusca sottometteva la ragione, e diceva di tenerla vera anche lui. Ma questa sua cieca fede gli costò cara; e udite come e perchè.

Una volta, là nel 1871, il signore Lombardo, che per comodo chiamerò Girolamo, era maledettamente infreddato, con una tosse che non gli dava rèquie un momento; e come tutta la quinta impressione del Vocabolario della Crusca egli l'aveva sulla punta delle dita, così, ricordandosi che essa alla voce Bachícco, insegna che certe Píllole bachícche son buone per la tosse, chiama il suo cameriere e gli dice:

—Va giù dallo speziale, e pígliami una lira di píllole bachícche.

Il cameriere, lombardo anch'esso, dubitando di scordarsi il nome delle píllole, che ad esso pareva strano, pregò il padrone che glielo scrivesse su un po' di carta; e il padrone glielo scrisse, accertatosi prima, col vocabolario alla mano, di scriverlo bene. Arrivato alla speziería, dove erano a cròcchio tre o quattro medici, per parer uomo franco, non diede il foglio allo speziale; ma, ricordandosi bene il nome delle píllole, che nello scender le scale aveva letto e riletto più volte, così di punto in bianco, dice a voce piuttosto alta:

Una lira di píllole bachícche.

Que' medici a tal nome alzano tutti il capo; e lo speziale, dubitando di aver franteso, domanda:

—Píllole come?

E quell'altro:

[27]

—Bachícche, bachícche.

Qui i medici danno in una gran risata; ma lo speziale, che era uomo risoluto:

—O giovanotto, che venite qui per canzonare? Badate, potreste averci poco gusto.

Il cameriere, sopraffatto da quella risata, e da questa ammonizione, dubitò di avere sbagliato: cavò di tasca il foglietto, e dandolo allo speziale, disse ch'e' non intendeva di canzonar nessuno, e che aveva scritto così il suo padrone, il quale ne sapeva più di tutti gli speziali di Firenze. E qui un'altra gran risata de' medici. Lo speziale, piccato:

—Avete a dire al vostro padrone, che è una bestia: e, gettandogli in faccia quel fogliolíno, uscì da banco.

Quando il signor Girolamo vide tornare il suo uomo senza le píllole; e udì le insolenti parole dello speziale, non si domanda se montò sulle furie. Si vestì alla meglio: piglia sotto il braccio il volume del vocabolario dov'è la lettera B, entra dallo speziale, e senz'altre parole:

—La bestia, signore speziale, è lei, non io. Guardi (e qui apre il vocabolario), guardi qui. Bachícco, aggiunto di píllole buone per la tosse. Impari meglio la educazione, e prima di parlare ci pensi. Per questa volta, passi.

A tale improvvisa rammanzína, che finiva in una mezza minaccia, lo speziale non si potè tenere; e replicò che invece d'esser bestia lui solo, erano bestie anche gli Accademici della Crusca; che le[28] píllole bachícche non esistono, se non nella fantasia de' buffoni: che egli non aveva paura di minaccie; e che si levasse di lì, o l'avrebbe fatto pentire della sua arroganza. Il signor Girolamo, che era più zolfíno[27] dello speziale, a quella antífona si sentì montar le vampe alla testa; e ricopèrtoglisi il lume degli occhj, diede con tanta forza sul capo dello speziale il volume della Crusca, dalla parte della còstola, che gli fece uno sdrúcio[28] nel capo, e lo fece cadere sbalordito. I tre medici, che tuttora eran lì, raccolsero quel caduto, e lo medicarono; e il signor Girolamo, pentito di questa sua sfuriata, se ne scusò come meglio poteva, mostrandone vivo dispiacere; e col suo vocabolario sotto il braccio se ne tornava a casa: ma le Guardie di pubblica sicurezza, che erano accorse al romore, informatesi del fatto, lo raggiunsero per portarlo alla Questura; dove, dato ogni buon recápito di sè, fu ritenuto il volume del Vocabolario, corpo del delitto; ed egli, data ricca cauzione, fu lasciato libero, nel tempo che s'istruiva il processo.

Negli interrogatorj diceva sempre che era stato egli il provocato; che aveva chiesto le píllole bachícche come insegna la Crusca; e che, se lo speziale era un ignorante da non saper che cosa sono, e da tenersene beffato, ciò non gli dava il diritto di dar della bestia a lui. Pensò poi a trovarsi un[29] avvocato valente, non solo nella sua professione, ma anche nelle lettere; e si preparavano tutti e due alla discussione dinanzi al tribunale, la quale, cosa mirabile! non si fece troppo aspettare.

Premeva allo speziale di metter in sodo che il signor Girolamo aveva voluto schernirlo, col mandargli a chiedere quella roba che non è in rerum natura; giustificando per questa via le sue acerbe parole contro di lui, ed aggravando ad un tempo medesimo il procedere manesco del suo avversario: premeva dall'altra parte al signor Girolamo di provare che intenzione di schernirlo non ci poteva essere, perchè le píllole bachícche ci sono bell'e bene; e di mostrare che l'avversario suo non aveva niuna ragione di risentirsene, e molto meno di insultarlo per ciò; e così parvificare di molto l'improvviso atto di sdegno e d'ira del dargli il Vocabolario sul capo, perchè il sentirsi insultare a torto fa perder la pazienza anche a Giobbe.

In favor dello speziale fecero testimonianza collettiva tutti gli speziali di Firenze, che quelle píllole bachícche non ci sono; e che il mandarle a pigliare da uno speziale, può ben credersi esser fatto per celia: dall'altra parte l'avvocato del signor Girolamo dimostrava la buona fede del suo cliente col Vocabolario della Crusca alla mano, il quale registra queste píllole bachícche: e come i signori accadèmici dichiarano solennemente di registrare nel Vocabolario sole le voci vive, usate e usabili, così, o è vero che le píllole sopraddette[30] sono dell'uso vivo; o almeno il mio cliente ha giusta cagione di crederle tali.

Il tribunale non potè non valutare questa ottima ragione, tanto più che il signor Girolamo non era Toscano, da poter giudicare con la norma dell'uso; e però, esclusa ogni malizia dal canto suo, dichiarò essere stato condotto in errore dalla Crusca: aver lo speziale corso troppo nel dargli della bestia; e per conseguenza attenuò di molto il suo improvviso atto d'ira. Ma tuttavía, come la ferita ci era stata, e lo speziale, il quale era dovuto stare otto giorni a letto, si richiamava dei danni, così non potè il signor Girolamo passarla liscia; ma fu condannato a una multa piuttosto grave, ed al rifacimento dei danni in lire dugento, che egli pagò, sbuffando e maledicendo la Crusca e i Cruscanti: le quali maledizioni si accrebbero a mille doppj quando sentì, che, per questa cosa delle píllole, gli era stato messo il soprannome di Signor Bachícche; il che fu cagione di fargli abbandonare per sempre Firenze.

Vedete a che cose si trovano coloro che giurano sulla Crusca! La quale però, saputa la forma della sentenza, e come vi si diceva che Ella aveva errato, non che si ricredesse e correggesse l'errore; ma fece solenne protesta al Ministero di grazia e giustizia, contro il potere giudiziario, che si arrogasse il diritto di sentenziare in cose che non sono di sua competenza, offendendo un collegio così venerando come l'Accademia; e per di più[31] commise al suo illustre Apologista di fare un volume di difesa per le píllole bachícche; ed egli tosto si mise all'opera, e ci lavora indefessamente da cinque anni. I Filòlogi ne stanno in grande aspettazione, e tutti dicono che sarà un miracolo di dottrina e di erudizione Filològica.

[32]
[33]

NOVELLA V.

LA DISCREZIONE DE' FRATI.

Quando si vuol tassare di indiscreta una tal persona, gli si suol dire che la sua è discrezione da frati. Con molti esempj si potrebbe chiarire tal dettato familiare: io voglio darvi il seguente, come me lo ha raccontato un legnajuolo fiorentino. Udite.

Una mattina gli cápita a bottega un fratone zoccolante:

—Maestro, buon giorno; e cava fuori dalla manica la scatola del tabacco, offrendone una presa al legnajuolo, il quale, dopo avergli reso il buon giorno, lo ringraziò.

—Scusate, maestro, disse allora il frate: che ci avreste da darmi un pezzetto di legno, lungo un dito o così?

E il legnajuolo:

[34]

—Volentieri, padríno. E trovato il legnòttolo, glielo porge con buon garbo.

—Dio vi rimèriti e S. Francesco—dice il frate; e si volge per andarsene; ma, come se gli venisse in mente una nuova cosa:

—A propòsito, disse, giacchè qui avete tutti gli arnesi, me lo potreste piallare un pochino.

E il maestro pialla, e riduce al pulito.

—Ecco, séguita il frate, ora ce ne vorrebbe un altro pezzetto simile, un poco più corto: vi rincrescerebbe a farlo per l'amore di S. Francesco?

E il legnajuolo, che era un buon cristianello, storse[29] un poco, ma trovò l'altro legnòttolo, e piallátolo, lo dette al caro frate; il quale, simulando vergogna:

—Proprio mi rincresce d'incomodarvi; ma, oramai che siete stato tanto buono per me, scusate, fatemi una tacca quadra quassù a un terzo del legno più lungo, e un'altra simile nel mezzo de' mezzi al più corto[30].

Il legnaiuolo lo guardò, e fu per dirgli qualcosa di bello; ma, vedendo quella faccia impietrita del frate, si rattenne; e presi i ferri da ciò, si mise a fare le due tacche. Quando furon fatte:

[35]

—Caléttano bene?[31] domandò il frate: e l'artefice, dopo aver provato, e limato qui, e smussato là:

—Ecco; vanno ottimamente.

—Ora compite l'opera: mettéteci un poco di colla, e unite insieme i due pezzi.

—Ma, permìo![32] disse allora il legnajuolo stizzito: ci voleva tanto a dirmi Fàtemi una crocettína?—E, scaldata la colla, incollò i due pezzi, e diede al frate la crocettína bell'e fatta; il quale, offèrtogli un'altra presa di tabacco, lo pagò della loro usata moneta senza cònio: Gesù vi rimèriti e S. Francesco.

Il frate, pratico del mestiere, sapeva che, se di punto in bianco avesse chiesto la crocettína, forse sarebbe stato mandato in pace; e però trovò il ripiego che avete udito: e il legnajuolo, per non si ricordare che i frati, come i ragazzi, a dar loro il dito pigliano tutta la mano, perdè quasi un'ora di lavoro, restando sopraffatto dalla indiscrezione fratesca. Ma ricordiámoci che i soli indiscreti non sono i frati; e però scriviamoci in mente il proverbio qui sopra allegato.


[36]
[37]

NOVELLA VI.

UNA SCOMMESSA.

In un cròcchio di giovani tutti studiosi, ma tutti svegli, nemici dell'ipse dixit e di ogni pedantería, ne cápita spesso uno, studioso anch'esso e sveglio, ma cruscajuolo[33], e un poco pedante, il quale benchè sia il rovescio degli altri, pure vi è ricevuto volentieri, come colui che in fin de' conti è un buon diavolaccio, e serve di[38] molto spasso per le ingegnose difese ch'e' sa trovare a tutti i più sbardellati spropòsiti del Vocabolario novello, le quali, non che le sieno valutate nulla rispetto alla critica, ma sono mirabili per i sottili partiti che il nostro Gabriello (chiamiamolo così) riesce a trovare. Era un gran pezzo che que' giovanotti studiavano di farlo rimanere senza difesa, nè mai era loro riuscito; quando una sera entra tutto ridente il più arguto di loro, e vòltosi di punto in bianco all'amico: «Quanto vuoi scommettere che ti costringo a confessare che la tua Crusca ha errato?»

«Chi? tu? Scommetto quel che vuoi.—Una cena da pagarsi a tutti.—Vada.—» Allora lo sfidatore va, e prende il Glossario: sfoglia, sfoglia, e si ferma sopra il verbo Affatare, dove si vede il lettore rimandato ad Affaitare. Va ad Affaitare, e legge: «Affaitare, Afaitare, Affetare e Affatare, Att. Adornare, Acconciare, Abbellire: ant. franc. Affaiter; provenz. Afaitar; derivati dal lat. Affectare.

«§ 1. E per Affettare, Modificare, Impressionare. Rim. Ant. F. Ser. Noff. Oltr. I. 161. S'io non mi sfogo... In dire e dimostrare, Come giojoso amor m'affata e tene.»—Letto questo paragrafo, si voltò all'amico, e: «Qui giace Nocco[34], esclamò: la tua[39] Crusca pone falsamente l'affatare per forma varia di affaitare; ed è una delle tante sue corbelleríe il voler far dire a quel rimatore, che amor lo affetta, lo modifica, l'impressiona, cosa da fare smascellare dalle risa Eráclito—«Adagio, replicò Gabriello: questo affatare è una delle tante contrazioni che facevano gli antichissimi; e, prese le opere del Nannucci, fece un lago di quella erudizione Nannuccesca tanto garbata, e lacerò per un pezzo le orecchie di quegli amici con un diluvio di parolacce da fare spiritare i cani. Circa al significato poi dimostrò come quattro e quattro fanno otto, che l'amore affettava, modificava, impressionava, e teneva il buon rimatore; e gli amici facevano le più grasse risate. Quando ebbe detta e ridetto: «O sentiamo ora, esclamò, che cosa significherebbe, secondo il mio avversario, quell'Affatare.» E l'avversario rispose:

«Ci vuol poco: Affatare lì è lo stesso che Fatare, Ammaliare...» Gabriello gli troncò le parole in bocca, e si mise a beffarlo, come se avesse detto il più spropositato spropòsito di questo mondo, provando e facendo toccar con mano, che lì non poteva aver luogo l'ammaliare; e che la Crusca spiegava bene, e da pari sua: e mentre Gabriello si sbracciava a provare il suo assunto, e la infallibilità della sua Crusca, Pietro, che era il suo oppositore, zitto zitto accostossi allo scaffale, e preso il primo volume del Vocabolario novello, ritorna al tavolino, e se lo pianta sotto[40] le gómita, aspettando il fine dell'apologia gabriellesca. Chetátosi Gabriello:

«Amico, ci siamo» saltò su Pietro: «dunque tu dici che la Crusca registra bene Affatare per Affaitare, fondandosi su quell'esempio di Noffo.—Lo dico e lo mantengo.—Tu dici che Affatare significa, in quell'esempio, ciò che insegna la Crusca, cioè Affettare, Modificare, Impressionare.—Lo dico, e lo mantengo.—E tu neghi che in quell'esempio di Noffo, possa valere Incantare, Ammaliare.—Sicuro che lo nego; e rido di chi vuol sostenere questa minchioneria.—Dunque tu ridi della tua Crusca, e paga la scommessa. Leggi qui.»—E aperto il volume primo del Vocabolario novello, gli pone sotto gli occhj il tema Affatare, che si spiega Render fatato; e nel § I. legge scolpitamente: «E per Incantare, Ammaliare.—Rim. Ant. F. Noff. Oltr. I, 161: In un giojoso stato mi ritrovo. Che 'n nulla guisa prende il mio cor posa, S'io non mi sfogo, alquanto in mio parlare. In dire e dimostrare, Come giojoso amor m'affata e tene.»

Qui tutti que' giovanotti diedero in un grande scròscio di risa; e il povero Gabriello, vedendosi burlato con la sua Crusca, la quale il medesimo esempio registra nel Glossario in un significato, e nel Vocabolario lo registra in significato tutto diverso, gli pareva di sognare[35]: lesse e rilesse, ora[41] il Glossario, ora il Vocabolario, e non credeva a' suoi occhj; pure, vedendo che pur troppo la cosa era proprio in quel modo, prese il partito di volgerla in burla, affermando che egli aveva fino allora difeso ogni spropòsito più manifesto della Crusca, per emulare quell'antico filosofo, il quale si mise a provare che la neve era nera; ma che tanto grossa non se la sarebbe mai aspettata nemmeno dalla Crusca. Pagò bravamente la sua cena, che fu gustosissima e allegrissima; e d'allora in qua non ha più voluto saper nulla di Crusca nè cotta nè cruda[36].

[42]
[43]

NOVELLA VII.

IL GENIO D'ITALIA COL CAPO DI CAVALLO.

In quest'anno di grazia 1878, non dirò in qual città, ma per gli esami di licenza liceale avvenne un caso grazioso e nuovo, se mai ne fu. Tra' molti giovani, che erano andati là a farsi licenziare, ce n'era uno, che i suoi compagni lo chiamavano per soprannome Pepe, come colui che quanto era di ingegno vivacissimo, tanto era arguto e pungente motteggiatore. Egli aveva sempre in ciascun esame ottenuto tutti i punti, e passava per uno de' migliori giovani delle classi liceali della sua provincia; ma dove negli esami precedenti si era portato sempre con gravità, non si sa come gli venisse in capo di fare allora una delle sue scappatelle. Gli avevano ferito la fantasia quelli scritti del mio Borghini, dove si squadernano i garbati errori di[44] alcune opere del prete Tigri; e soprattutto gli era sembrato incredibile quello dell'aver dato per istampa come ritratto di Beatrice, quei versi co' quali Dante descrive un angelo; e non ebbe bene, finchè non potè trovare e leggere co' proprj occhj quello che per avventura avea reputato una spiritosa invenzione del periòdico nostro. Quando per altro ebbe toccato con mano che, non solo era vero lo strano errore, ma che per di più, cosa non osservata dal Borghini, il Tigri racconcia per conto suo i versi di Dante, perchè dove questi dice:

Par tremolando mattutina stella,

egli rifa con tanto garbo il verso così:

Appar lucente mattutina stella;

allora e' si pose a leggere tutto lo scartabello Tigresco; e ne prese piacevol diletto.—O come c'entra lo scritto del Tigri con l'esame di licenza?—C'entra sì, dice Tommaso Scarafaggio nello Scaramuccia del Donizzetti. State a sentire. Dunque, per tornare al nostro Pepe, se negli altri esami si era fatto onore, in questo passò di lunga mano tutti gli altri; nè gli sarebbe mancata súbito la più splendida dimostrazione di plàuso, se, come ho detto più su, non gli fosse venuto il ghiribizzo di farne una delle sue. Il tema della composizione italiana era: Le sciente e le arti in Italia nel secolo presente. Pepe si mette a lavorare di tutta forza: a un tratto, mentre pensava al come significare una sua idea, fu veduto[45] ridere, e scuotere il capo due o tre volte; poi rimettersi a scrivere col riso sulle labbra. Finita la composizione, la mandò al suo destino; e come gli esaminatori si aspettavano da lui maraviglie così la lessero con ogni attenzione, e ogni tanto la lettura si interrompeva per approvare, e notare le rare qualità dell'ingegno del giovane. Ma in cauda venenum: egli chiudeva il suo scritto con un'apòstrofe al Genio d'Italia (e questo luogo comune fritto e rifritto non potè non dare fieramente nel naso a que' professori), dove egli affermava che degnamente si rappresenta esso Genio col capo di cavallo, per simboleggiare anche il valore guerriero. A questa strana uscita, si scandalizzarono tutti quanti; e parve ai più, che sotto quelle parole si volesse schernire un cotale, che nelle cose della Istruzione fa alto e basso: il perchè proposero di non dargli il voto, non facendolo passare all'esame: ma poi fu vinto che si lasciasse in ponte la cosa, per accertarsi qual cagione o ragione potesse avere si fatta stranezza. Laonde, chiamato poco appresso il giovane, gli domandarono come mai egli avesse detto quella castroneria del Genio d'Italia col capo di cavallo; alche egli gravemente rispose: «Signori, io rimango proprio maravigliato di sentir battezzare questa cosa col nome castroneria, quando l'ho tolta di peso da una scrittura d'un letterato illustre e venerando, il quale è stato fino adesso Ispettore scolastico, ed è, stupiscano signori, ed è Uffiziale della Corona d'Italia per i suoi meriti letterarj, e per[46] avere lodevolmente esercitato il suo ufficio.» I professori dissero che ciò non era possibile: e il caro Pepe, cavatosi di tasca un foglio color di rosa, stampato da tutte e quattro le parti: «Guardino, signori; charta cantat.» E di fatto alla terza pagina di quel foglio, dove si descrive un lavoro d'arte, si legge: «E lodare (vorrei) la naturale postura del Genio d'Italia appoggiato in atto doglioso al suo scudo, che con l'equino capo appare símbolo del valore guerriero.» Rimasero a bocca aperta que' professori; e stati un poco sopra di sè, uno disse: «Ma qui non è obbligo intendere che il capo equino lo abbia il Genio....»—«O chi l'ha?—interruppe il giovane.—Qui abbiamo un Genio, e uno Scudo; e d'uno dei due questo capo gli ha a essere: il Genio ha figura umana, E il capo sta bene che l'abbia lui; ed anche secondo le regole della sintassi non può riferirsi se non a lui: se no, mi dicano lor signori, se s'ha a intendere che il capo di cavallo lo abbia lo scudo; ma sarà peggio il rimedio che il male.» Gli esaminatori rivoltarono il periodo per ogni verso, e non seppero risolversi a chi dare quel capo equino; e poi, vòlti al giovane: «Questo dev'essere uno de' suoi garbati motteggi: ora la dica un po' qui inter nos dove vuol ella andar a ferire?» E Pepe ridendo: «Che vogliono, signori miei, quando si vede, che a coloro i quali dicono tanti e mai tanti spropòsiti, come questo Tigri, il quale, in uno scritto di due pagine, lì proprio di séguito allo sformato errore dantesco, e' ci mette questo del capo equíno, che[47] non si sa di chi sia; quando si vede che a' così fatti si danno gelosi ufficj nelle cose della Istruzione, e si danno altresì delle onorificenze; e si vedono dall'altra parte trascurati tanti e tanti, che davvero sanno il conto loro; a che noi altri giovani ci dobbiamo travagliare dietro agli studj, e sudare per farsi da qualcosa? È meglio copiar gli spropòsiti di quei fortunati, per vedere se anche a noi fruttano ciò che fruttarono a loro.» I professori non poterono non riconoscere più che giuste le parole del giovane studente; e confortatolo a mantenersi, quale è, amante dello studio, gli fecero sperare che tali abusi dovevano necessariamente cessare: poi, non solo gli dettero pieno plàuso; ma gli diedero quelle maggiori attestazioni che si possono dare in simili casi; e Pepe tornò in famiglia contento come una Pasqua.

Rimane però sempre da sciogliere il dubbio a chi, se al Genio d'Italia, o allo Scudo appartenga quel capo equino dell'illustre Tigri; ed a sciogliere tal dubbio secondo le regole della sintassi e della logica, potranno provarsi i lettori del presente racconto, che è in ogni sua parte verissimo.

[48]
[49]

NOVELLA VIII.

SERO SAPIUNT PHRYGES.

E' ci fu, a' tempi del re Pipino, un certo villanzone chiamato Libáno, il quale aveva la smania di tenere il più bel par di buoi che si potessero vedere in tutti que' contorni, e gli soggiornava[37], e gli lisciava, che neanche fossero stati figliuoli. Alla mangiatoia gli teneva legati lentamente con piccola cordicella; e nell'estate, perchè non affogassero dal caldo, andato via il sole, lasciava spesso l'uscio aperto: «Tanto, dove hanno a stare meglio di qui? Non son minchioni a scappare!» Ma i cari buoi, i quali hanno di molto cervello e poco giudizio, che è e che non è, si diedero l'intesa[38];[50] e un giorno che Libáno, secondo il solito, ebbe aperto l'uscio della stalla, non curando tanta pasciona e tante carezze, l'uno dette a leva col corno al cappio della corda dell'altro, e cheti cheti se la batterono, mentre il padrone era nel campo a far erba, e l'Artemona sua donna preparava quella po' di minestra[39]. Intanto eccoti Libáno col fastello, e súbito corre alla stalla per dare quell'erba fresca fresca a' suoi buoi. «Artemona, Artemona, o i bovi dove sono?» E l'Artemona corre tutta sottosopra. E i bovi? O non ci sono?» Il povero Libáno era più morto che vivo: «Ah ingrati! Che vi potevo far di più? Credete di trovare una miglior mangiatoia? (allora a' ladri non ci si pensava nemmeno). Artemona, serra bene la stalla» L'Artemona, benchè dolente anch'essa, non potè tenersi che non facesse bocca da ridere alla tarda cautela di Libáno; e scotendo il capo chiuse la stalla. Il pover'uomo girò e rigirò per tutti que' contorni; ma i bovi non furono più trovati. Fino a quel tempo, volendo significare una cautela o rimedio preso tardi, od invano, si usavano i proverbi Sero sapiunt Phryges, o Cumani (troppo tardi metton giudizio i Frigi); e Post rem devoratam ratio (consumata la roba, fa i conti); ma dopo il fatto di questo Libáno si cominciò a dire Chiuder la stalla quando sono scappati i buoi, ed è rimasto nell'uso comune del popolo.


[51]

NOVELLA IX.

IL MIO CIUCO È ANDATO SEMPRE DI QUI.

Un merciajo ambulante soleva andare ogni due mesi in paese di montagna con la sua merce, che egli caricava sopra un ciuchetto; e come quelle massaje lo attendevano, così egli la vendeva tutta, e ritornava in giù con un buon grúzzolo di quattrini. Le strade, per le quali bisognava passare, sarebbero state, per dirla con Dante, alle capre duro varco; ma quel buon ciuco, ci aveva fatto i piedi, e vi passeggiava speditamente. Avvenne che, dolendosi tutti quei paesani di strada sì scellerata, il comune si indusse a farne un'altra molto più còmoda, e la strada antica fu per conseguenza abbandonata da tutti. Ma il caro merciajo, no signore, non volle abbandonarla, e sempre passava di su quel trabiccolajo[40]; della qual[52] cosa facendo le sue massaje gran meraviglia, rispondeva: «Oh, sapete com'è? il mio ciuco è andato sempre di lì, e di lì vo' andare.» Da quel tempo in qua si ápplica tal motto a coloro i quali o non si vogliono indurre ad accettare veruna varietà, o sono stoltamente tenaci di ciò che hanno sentito dire ai loro maestri, anche se que' detti sono castronerie[41] manifeste. E non tutti i così fatti sono gente volgare, tanta è la forza del pregiudizio, e forse anche la smania di rendersi singolare, o la picca, o qual'altra passioncella si voglia. Il Rossini non volle mai viaggiare per le strade ferrate! E alcuni adesso si ostinano a credere autèntica la cronaca di Dino Compagni, perchè il Giordani la lodò, e la sentivano lodare alle scuole!!

Tal proverbio, che ha riscontro nel proverbio latino Claudi more tenere pilam (reggersi a' pilastri come lo zoppo), è spiegato dal Manuzio ne' suoi Adagj, il quale dice essere appropriato a coloro «che pèndono dal giudizio altrui, e si fondano sull'altrui autorità, come coloro a' quali sta per ogni argomento il poter dire Ipse dixit

[53]

NOVELLA X.

DI UN FRANCESE CHE VOLEVA DIGIUNARE

Un gentiluomo francese, curioso di veder l'Italia, si partì da Parigi con intenzione d'osservare e di fare una memoria distinta delle cose più memorabili che vedrebbe nel suo viaggio. Arrivato in Bologna, volle trattenervisi. Partito dal suo albergo il giorno seguente assai per tempo, andò per due ore girellando per la città. Dopo averne vista la maggior parte, tornò con grandissimo appetito all'osteria, e nell'entrare disse súbito all'oste; Signor oste, voglio digiunare oggi.—L'oste credendo che il gentiluomo per certa divozione volesse digiunare davvero, rispose:—Vostra signoría è padrone.

In quel mentre il gentiluomo salì su in camera sua, e scrisse per un buon pezzo le cose osservate. Ma, stimolato dall'appetito e dalla sete, lasciò di scrivere, e s'affacciò alla finestra, chiamando l'oste, a cui disse: Signor oste, v'ho detto che volevo digiunare stamattina; ve ne ricordate?—Lo[54] so, soggiunge l'oste, e me ne ricordo.—Il gentiluomo senz'aspettare altro, tornò a scrivere; ma un quarto d'ora dopo, mosso e dalla fame e dalla sete, chiamò di nuovo l'oste, e con voce sdegnosa gli disse:—Che modo di procedere è questo? non v'ho detto un'ora fa, che volevo digiunare stamattina?—È vero, replicò l'oste, e vostra signoría è padrone di digiunare anche tutto il giorno.—Come, come? disse l'altro; tutt'il giorno! non ho mangiato ancora niente! voi mi burlate. Voglio mangiare: portatemi da mangiare e da bere.—Se vostra signoría vuol mangiare e bere, non vuole adunque digiunare, soggiunse l'oste; perchè digiunare vuol dire non mangiare e non bere.—Allora il Francese accortosi dell'equivoco, piacevolmente disse:—Sia maledetto il digiunare; dovevo dire Far colazione. Mai più dirò digiunare, chè troppo bene ho imparato a mie spese, che cosa è digiunare».

[55]

NOVELLA XI.

IL SARTO RADDIRIZZAGOBBI.

Si fa un gran dir per Firenze di quel tale omiciáttolo gobbo e stralinco[42], il quale, anni addietro, un po' col ripicchiarsi, un po' col far le moíne a questo e a quello, e un altro po' sforzandosi quanto poteva di coprire i suoi sformati difetti, aveva saputo tanto fare, che era pur passato, non colo per un uomo come gli altri, ma aveva fatto anche, come suol dirsi, qualche passioncella. Costui dunque, vedendosi accarezzato e celebrato, volle imbrancarsi co' signori, e bazzicare gli eleganti; ma guárdalo bene oggi, guárdalo meglio domani; tóccalo qui, tástalo qua; molti cominciarono a ridere alle spalle sue, e chi gli dava un soprannome, chi un altro tutti allusivi alla sua contraffatta persona. Coloro peraltro che sino allora lo avevano lodato, e[56] giudicátolo un uomo bello e ben fatto, volevano pur dare ad intendere che tutti quei difetti non ci fossero; e: Vedete dicevano, e' par gobbo, ma è il vestito che sulla spalla gli fa borsa: quel naso a petonciano, gli è perchè gli ci fu tirato una pera mézza: quegli occhj guerci, e' fu ferito in duello: quelle gambe torte, sono i calzoni fatti male, e gli stivali troppo stretti... E così a tutte le magagne infinite si trovava il suo rimedio; e sempre si conchiudeva; ma però è un bell'uomo. Gli eleganti facevano le più grasse risate di sì fatte difese; e già il povero sghengo[43] si vedeva al perso; quando gli fu detto, esserci un bravissimo sarto il quale lavorava così bene, che di certo lo avrebbe, rivestendolo egli, fatto parer diritto, come il più bell'uomo del mondo.—O dove sta?—Là sulla piazza di S. Marco: vedrai il cartello, il quale ha per insegna un tacchino che fa la ruota.—E il gobbo, via com'un bárbero dal sarto bravo.—Signor Maestro, vorrei tutto vestiario; vede, ho qualche difettuccio nella persona; mi hanno detto che lei...—Il sarto squadra l'amico da capo a piedi: tasta per tutto; e poi con solenne gravità:—Lei è un uomo come gli altri: qualche coserella qua e là c'è; ma si rimedia facilmente. Lasci fare a me, chè la tornerà meglio che nuovo.—E prese diligentemente le misure, gli disse:—Tra otto giorni le riporterò ogni cosa da me; e la manderò fuori, che tutti non faranno[57] altro che dire; e chi la canzonava resterà canzonato lui.—Lo sghengo va via tutto contento; e il bravo sarto si mette a pensare il miglior modo di raddirizzarlo, nè vi posso dire quanto mai ci si stillasse il cervello, e per quanto tempo facesse aspettare la sua raddirizzatura, facendo, disfacendo, rifacendo, rimpolpettando[44]. All'ultimo (pover uomo! ci aveva fatto il capo) pensò: «Farò al mio diletto cliente il più perfetto ábito che io abbia fatto in vita mia per il più ben formato uomo che mi sia capitato da vestire; e quando il cliente se lo metterà, sfido io, se e' parrà bello e diritto!» E lì col capo sul lavoro; e dopo pochi giorni glorioso e trionfante glielo riporta; e lo sghengo più glorioso e trionfante di lui, se lo mette addosso, e va fuori. Che volete vedere? Quel vestito era fatto con tutte le regole dell'arte, e sarebbe tornato perfettamente a qualunque persona ben formata; ma, posto addosso a quel mostro, faceva rifiorir più che mai le sue magagne, e lo faceva parer più sghengo che mai. Insomma bisognò che gettasse l'abito su un fico, se non volle morire arrabbiato tra' fischi e gli urli del popolíno; e anche il povero sarto diventò la favola di Firenze, e bisognò che smettesse il mestiere, perchè niuno ci si volle più servire, tenendo per fermo ch'e' dovesse aver perduto il cervello a pretender di[58] raddirizzare li storti col vestito fatto a regola d'arte.

Ed aveva ragione. Questo buon sarto doveva sapere il proverbio delle camíce de' gobbi, che si tagliano storte, e riescon diritte; e lui invece si era così confusa la mente, per la smania di raddirizzare il gobbo, che a ciò credeva bastare il mettergli addosso un vestito tagliato a regola d'arte. Sarebbe l'istesso, a male agguagliare, che un critico si pensasse di far apparir vera la Cronica del Compagni, riducendo alla retta cronología tutti gli infiniti errori cronològici di essa. La cronología sarebbe la vera, ma non istarebbe bene con la cronaca: la quale cronologicamente è sbilenca per natura, perchè il suo autore, non solo ha scritto gli errori, ma gli ha ribaditi in altri modi. Ridotta la cronología sarebbe ridotta più stralinca la Cronica: sarebbe il vestito tagliato secondo l'arte, il quale, messo addosso al gobbo, lo fa più gobbo che mai, e fa morir dalle risa chi lo vede, e fa tenere il sarto per matto.

[59]

NOVELLA XII.

DEL FRATE CAMBIATO IN ASINO.

Un contadino gelato dal freddo, smontò di sull'asino per camminare a piedi: il che vedendo due francescani, che in Francia sono chiamati cordeliers disse l'uno al compagno:—S'avessi io un asino, non sarei tanto pazzo di condurlo per la briglia, ma bensì mi farei portare fin al convento.—L'altro ch'era di umor allegro, soggiunse:—Mi basta l'anima di fare una burla a quel contadino, e levargli l'asino, purchè vogliate darmi un poco d'ajuto. Acconsentì súbito il frate, e pian piano s'accostarono ambedue al contadino, senza che se ne accorgesse. Levò il francescano con destrezza la briglia al ciuco e se la mise al collo seguitando il contadino; mentre l'altro con la cavezza lo condusse in disparte. Quindi a non molto, il contadino volendo rimontare sull'asino, si volse indietro; ma ebbe a morir di paura vedendo tanta metamòrfosi. E gridando con pietosa voce ohimè! ajuto! fu fermato dal francescano, che prostrátosi in ginocchioni richiedeva con grande[60] umiltà la sua libertà; dicendo, che per i suoi disordini, e l'enormità de' suoi peccati, era stato condannato a tale trasformazione; e che ora essendo venuto il termine della penitenza, era tornato al primo essere. Il contadino alquanto rasserenato, non solo gli diede la domandata libertà, ma, non accorgendosi della burla, scioccamente soggiunse:—Andate in santa pace; adesso non mi meraviglio più, se dopo una vita tanto disordinata, siete riuscito un così cattivo animalaccio. Il frate si partì, dichiarandosegli obbligato, ed andò a ricercare il compagno. Quando videro i frati dilungato il poveraccio contadino, per altra via si condussero ad una terra vicina. Pochi giorni dopo, pregarono i francescani un amico loro, che si compiacesse d'andare alla fiera per vendere quel ciuco, come di fatto io vendè; e mentre andava col compratore per ricevere il pagamento, venne loro incontro il primo contadino, che riconoscendo il ciuco, disse al compratore, che lo pregava d'ascoltare una parola in disparte; e domandatogli di chi fosse quella bestia, il compratore rispose:—L'ho comprato adesso adesso, ma non l'ho pagato. Deh! per vita vostra, replicò il contadino, rendetelo; non lo pagate. Non siate tanto sciocco di credere, che quella bestiaccia sia un asino: è l'anima d'un francescano ch'è tornato nelle sue dissolutezze. Rendetelo: vi dico io ch'è il più tristo animalaccio di quanti n'abbia il mondo, ed a me ha fatto venire la rabbia centomila volte.


[61]

NOVELLA XIII.

SETTE DI VINO.

Vi fu una volta un Lanzo, di quelli che facevano la guardia al tempo de' Medici, il quale avendo poche crazie da spendere pel desinare, si mise a fare il conto come le avesse a spendere, e diceva:«Sette divino; tanto della tal cosa, tanto della tal'altra, ecc.» e mancandogliene, o per il pane o per altro incominciò più e più volte a far il conto, ma sempre cercava di scemare sulle altre cose, e sul vino mai; e incominciava ogni volta: Sette di vino. D'allora in poi Sette di vino, si prese ad usare per significare ostinazione o cocciutággine. Per esempio: «La cosa è più chiara della luce del sole; ma i Dinisti sette di vino.» Questo Tedesco fu per avventura inventato sopra l'antico poeta Filosseno, per il quale fu fatto il proverbio Philoxeni non (il no di Filosseno,) che soleva usarsi specialmente, come nota il Manuzio,[62] quando alcuno ostinatamente o negava, o rifiutava, o non voleva in alcun modo recedere dalla propria opinione. Questo Filosseno fu tanto cocciuto che sopportò di esser condannato alle miniere, piuttosto che approvare e lodare i versi di Dionísio.

[63]

NOVELLA XIV.

UNA GITA DEGLI ALPINISTI SUL MEDIO EVO

Anni sono si fece un gran ridere di quel tale che, studiando attentamente una carta geografica, domandato che cosa cercasse, rispose: Cerco il Medio evo, del quale parlano spesso le storie; e come egli è ancor vivo e verde, tutti, ed egli lo sa, lo mostrano a dito per ciò, e gli amici suoi spesso spesso ne lo mettono in canzonella. Accadde non molto tempo fa che al nostro Carlíno (colui dal Medio Evo) capitò tra mano la Guida della Montagna pistojese di quel talentaccio dell'illustre e venerando prete Tigri, cittadino pistojese; leggendo la quale s'imbattè a pagina 143 nel seguente periodo: «Su questo poggio rimangono ancora le antiche torri, avanzo di tali arnesi di guerra del medio evo, alto sul livello del mare metri 822.»

Lette tali parole, fece un salto dall'allegrezza; e fregandosi le mani, esclamò: «Lo vedete se avevo ragione? E quei ciuchi mi canzonavano!» Il nostro Carlíno era della società degli Alpinisti,[64] come erano que' suoi amici che spesso lo canzonavano; e però la sera medesima si mise in tasca la sua brava Guida del Tigri, e andato là, quando vide che vi erano tutti: «Dite un po', amici carissimi, non siete voi quelli che mi canzonate sempre del Medio evo? Guardate qui;» e fece leggere ad uno per uno quel periodo, che parla del Medio evo alto sopra il livello del mare. E letto che ebbero: «Che vi pare, continuò, avevo ragione di cercare il Medio evo sulla carta? Imparate a far il dottore, ed a schernire quelle cose, che la vostra ignoranza vi fa credere errori. Ecco qui: il Medio evo, signori riveriti, è uno dei più graziosi monti dell'Appennino pistojese; e non ve lo dico io, ma ve lo dice il più illustre fra' pistojesi scrittori, il veneranda prete Tigri. Ridete ora di lui, se avete coraggio.» Quegli Alpinisti si guardarono sbalorditamente in viso l'un l'altro, non sapendo raccapezzarsi come stesse quella cosa del Medio evo alto sopra il livello del mare 822 metri: e come tra loro i più non erano áquile per la dottrina, tennero vere le parole di Carlíno e del venerando Tigri; e proposero di andar a fare una gita su questo Medio evo, per la quale assegnarono il giorno del prossimo giovedì. Fra que' buoni diavoli vi era un capo armonico, il quale più e più volte aveva riso alle spalle del Tigri per questo singolare error di sintassi, e per gli altri suoi sformati spropòsiti di ogni genere: a costui, che si chiamava Pietro, venne in mente di pigliarsi un poco di spasso de'[65] suoi colleghi e del prete Tigri ad un tempo; e però, affinchè il loro abbáglio non si dileguasse per istrada col domandare che facessero di questo Medio evo; egli disse che altra volta vi era stato, e si profferse loro per guida. Venuto il giovedì, la mattina a brúzzico erano tutti in punto, e sfilarono gloriosi e trionfanti su per Capo di strada, scortati da quattro muli carichi d'ogni ben di Dio.

Pietro aveva detto loro che il Medio evo era un grazioso poggio a levante di Popíglio; e però sarebbe stato opportuno il fermarsi a fare uno spuntino a Popíglio, per poi andare con maggior lena al termine della loro gita, e quivi sulla sera fare un buon pasto. I valorosi Alpinisti, cominciata che fu l'erta, salivano potentemente e allegramente su per quei monti, di sorte che arrivaron lassù a Popíglio senza punto sentirsi stanchi; dove rinfrescátisi, e trattenútisi un'oretta o così, ripresero via per quella piaggia deserta, nè penarono molto ad offrirsi dinanzi a' loro occhi alcune torri diroccate, alla vista delle quali Pietro esclamò: «Compagni, èccoli là quegli arnesi del venerando prete Tigri: gli arnesi di guerra che là vedete sono gli avanzi di quel Medio evo, che nel tempo dei tempi fu ricetto inespugnabile de' baroni di S. Marcello; e la cui memoria ha rinfrescata l'illustre guidajuolo della nostra montagna. Lassù moviamo il passo animosanmente: lassù ammireremo e mangeremo.» E tutti mossero animosamente i loro passi, gridando: Viva il Medio evo, Viva il Tigri!

[66]

Quella orribile pettata[45] per altro parve loro molto faticosa, ed arrivaron lassù mezzi trafelati; ma non senza ammirare la òrrida bellezza del luogo, non senza una lieta compiacenza di aver superato in sì piccolo tempo una vetta sì ardua. Calmátosi lo stupore, si risentì l'appetito; e si cominciò a discorrere di mangiare. Si svaligiarono i muli: si distese la tovaglia su un bel prato, e tutti cominciarono a mangiare, dandoci dentro di santa ragione, e trincando come tanti Lanzi. Prima di alzarsi furono fatti brindisi, cantate canzoni simposíache, dette, come suol farsi, un mondo di barzellette: all'ultimo Pietro fece un brindisi al Tigri di questo tenore: «Beviamo alla salute dell'illustre e venerando abate Tigri, stupendo cantore delle castagne e dei necci, nel suo gran poema Le Selve: duce e lucerna di queste montagne nella sua Guida e nella sua celeberrima Selvaggia: scopritore novello del Medio evo, dove ora ci rallegriamo. Beviamo alla salute del gran letterato, onore di Pistoja e delle Cortine[46].» E qui si gridarono furiosi Evviva; si votarono parecchj bicchieri: poi tutti si alzarono, e passo passo ritornarono a Popíglio, dove passarono la[67] nottata, per tornare a Pistoja la mattina appresso, come veramente fecero. Pietro aveva parlato con un suo amico della celia che voleva fare a quegli Alpinisti ignoranti, e indettátosi con esso per farla essere più solenne: di fatto, quando i rèduci dal Medio evo furono verso la porta al Borgo, si fece loro incontro una brigata di giovanotti, che gli accolsero a risate ed a fischj. Pietro, che era di balla, si fece avanti, ed a nome di tutti i compagni, rampognò acerbamente il villano procedere di quei giovani, verso persone benemerite della scienza alpinista. Allora uno di essi giovani, a nome di tutti rispose beffardamente: «Bellina quella scienza, che va a cercare il Medio evo sulla montagna! Asini che non siete altro!» Qui ci fu un gran battibecco[47]; gli Alpinisti citavano l'autorità del prete Tigri; quegli altri rispondevano parole di scherno; e si sarebbe certo venuti alle mani, se Pietro, chiamato da parte il capo di que' giovani schernitori, il quale era appunto l'amico con cui si era indettato, non si fossero trovati d'accordo a cessar per allora la lite, e rimettere la cosa al giudizio di persone competenti. Si prese dunque il partito di ritrovarsi il giorno di poi, quattro di ciascuna parte, alle Stanze[48]: quivi si sceglierebbero di comune accordo i giúdici; e poi quel che dicessero[68] essi, si avesse per rato e per fermo. E così fu fatto. Scelti i giúdici, fu disteso il quesito nella forma seguente: prima si raccontò per filo e per segno come la cosa era andata, cominciando da quel passo della Guida della Montagna pistojese, della quale si mandava a' giúdici una copia, affinchè lo vedessero lì al luogo suo; e poi si domandava: «C'è ragione sufficiente da schernire gli Alpinisti, che sono andati al Medio evo, quando il più illustre letterato di Pistoja mette il Medio evo sulla Montagna pistojese?»

La commissione giudicatrice, studiato e ristudiato il passo della Guida, ponderato, ventilato, stacciato e abburattato ogni cosa, rispose con questa sentenza: «Secondo le regole della sintassi, nel luogo della Guida, quello che è alto 822 metri sopra il livello del mare non può essere se non il Medio evo; e questa intelligenza è confermata dalle parole avanzi di tali arnesi di guerra del Medio evo, come quelle che sembrano dire, quegli arnesi essere già stati le fortificazioni di un tal paese, e non di un tal tempo. Il lettore erudito per altro, il quale sa che il Medio evo non è se non un periodo di tempo, cerca a che cosa mai può essere riferibile quell'alto sopra il livello del mare; e vedendo in cima al periodo le voci questo poggio, si accorge che lo scrittore, ignorante delle regole elementari di sintassi, non si è saputo fare intendere; ma che ha voluto proprio riferire alla voce poggio quell'alto sopra il livello. Ma[69] noi parliamo di lettori eruditi. Chi per altro non va tanto in là con la erudizione, e non intende se non ciò che suonano la parole, e ciò che la sintassi consente, intende necessariamente che il Medio evo è alto sopra il livello del mare, e che per conseguenza è un luogo, non un tempo: il perchè giudichiamo che i signori Alpinisti non sieno da schernire, se l'hanno inteso così, e, se mossi dalla grande autorità dell'illustre Tigri, hanno fatto la loro gita al Medio evo. Tutta quanta la colpa pertanto vuol recarsi alla ignoranza dell'illustre Tigri: se qualcuno merita riprensioni e beffe, è lui solo e non altri.»

A tal sentenza le parti si acquietarono: si rifecero le paci; e la sera fecero tutti insieme una bella ribòtta, mangiando, bevendo e ridendo allegramente.

[70]
[71]

NOVELLA XV

IL DIAVOLO SCOLARO DE' GESUITI.

Quanti fossero i giochetti, i gingilli, le arguzie, per via delle quali si infondeva la scienza ne' giovani scolari dai R. R. Padri Gesuiti, lo sanno tutti coloro che punto punto conoscono la storia della pede....—no, volevo dire della pedagogía italiana, e ne fanno tuttora testimonianza parecchie opere scolástiche composte da loro, tra le quali basti guardare il Miles Rethoricus del P. Forti. E non solo ne' libri di testo, ma anche negli esercizj giornalieri della scuola i maestri tenevano esercitato l'ingegno de' giovani in fanfaluche di ogni maniera, tra le quali una, che per dir vero non è al tutto sgarbata, mi darà materia a questa Novella.

Quando nel Collegio Cicognini di Prato vi erano i Gesuiti, un maestro di rettòrica, del quale non so dirvi il nome, essendosi una mattina dimenticato[72] di preparare il tema per la composizione del giorno di poi, dettò a' suoi ragazzi il seguente raccontino: «C'era qui ne' contorni di Prato una famiglia composta di padre, madre e due figliuoli, l'uno di quattro o cinque anni, l'altro tuttora in fasce. Il padre aveva allevato un capretto, e lo teneva per casa: avvenne che una domenica mattina, andando egli e la moglie alla messa, lasciarono il bambino piccino in custodia all'altro fratello, il quale, scambio di badare al fratellíno, stava a ruzzare col capretto: il bambino che era nella culla, cominciò intanto a strillare e a smaniare; e quell'altro, dátogli ora l'un balocco ora l'altro, nè trovando il verso di racchetarlo, all'ultimo gli diede un coltello; ma egli tutto stizzito, come fanno spesso i bambini, glielo tirò contro, e colpì nella gola il capretto, che era appunto lì presso la culla: il capretto si inviperì, e dando delle forti cozzate nella culla, la sfondò, e venne a dare una cozzata sì spietata al bambino che lo ammazzò. L'altro fratello, spaventato, e temendo il furore del babbo, apre una finestra che riusciva sul pozzo, e vi salta dentro. Intanto eccoti la madre, la quale, veduto quello spettacolo, fece un laccio, e s'impiccò: il marito, tornato poco di poi, al vedere quella spaventevole strage, fu còlto da apoplessía e morì istantaneamente.»

Il Padre Maestro, dettata questa storiellina, disse a' suoi giovani: «Su, ragazzi, a chi riesce di metter questa storiellina in meno versi latini,[73] quello avrà il tal premio così e così.» Immaginatevi se que' ragazzi s'arrabattavano; ma nè i grattamenti di capo, nè il rodersi le ugne potevano fare che niuno la potesse mettere in meno di dieci versi. Uno di essi, il più studioso e il più vispo, si era messo in capo di farla in un solo distico; ma sì! aveva almanaccato per quattro o cinque ore, nè gli si apriva il più piccolo spiraglio; il perchè, preso dalla stizza, e pure impuntato di voler fare quel distico, gli scappò detto: Lo vo' fare quand'anche m'avessi a raccomandare di Diavolo. Il Diavolo, il quale come sapete è quel Leo rugiens, che circuit, quærens quem devoret, udite tali parole, gli comparve súbito in forma d'un bel giovinetto per non ispaventarlo, e gli disse: «Senti, Ignazino, il distico te lo detterò io; ma se tu mi prometti di ajutarmi in un mio disegno.»—«Bene, disse il giovane, èccomi qua: ma bada, me tu m'ha' a risparmiare.—Sta bene, disse il Diavolo; e gli dettò il seguente distico:

Hircus cum puero, puer alter, sponsa, maritus,
Cultello, lympha, fune, dolore cadunt.

Dettato il distico, Berlic[49] disse a Ignazino che si ricordasse della promessa, e badasse bene di mantenerla, o lo porterebbe all'inferno in anima e in corpo. Ignazino giurò; e si lasciarono da buoni[74] amici. Venuta l'ora della scuola, niuno degli scolari era riuscito a nulla di buono, e il nostro ragazzo, se ne stava in un cantuccio, gongolando fra sè. All'ultimo si alzò, e: Padre maestro, io l'ho fatto in un solo distico. Tutti si meravigliarono, mostrandosi desiderosi di udire tal distico, che appena letto, rimasero mezzi sbalorditi: e quel ragazzo ebbe il premio, e lodi sopra lodi dal maestro e da' superiori. Berlic si lasciò rivedere il giorno appresso, e trovato Ignazino tutto lieto e contento, gli disse: «Senti, Ignazino, per una mia bizzarria, vo' venire qui alle scuole de' Gesuiti; agévolami l'ammissione, che non te ne pentirai.» E il nostro ragazzo tanto fece, che Berlic fu accettato come scolare esterno nelle scuole de' Gesuiti, dopo uno splendido esame che egli sostenne. Ammesso ch'e' fu, seppe così insinuarsi nell'animo de' superiori, e seppe dar tali prove d'ingegno e di dottrina, che in pochi anni diventò il factotum del Collegio, e si può dir che tutta la musica andasse alla sua battuta: nè c'è da demandare se egli se ne prevalesse per venire a' suoi fini: al qual effetto avendo già destinato di servirsi di Ignazino, che già era diventato Padre Ignázio, lui sempre ajutava in tutte le occorrenze, per forma che prese fama di uomo solennissimo, e ben presto ebbe i primi gradi dell'Ordine, e faceva alto e basso, massimamente nelle cose d'istruzione, la quale egli ordinava e governava secondo il consiglio del fido Berlic. Questo diavolo accorto non lasciava scoprire a P. Ignázio il suo fine[75] perverso; e tanto sapeva aggirarlo e offuscargli la mente, che non conosceva il veleno nascosto negli ordinamenti e nelle dottrine, cui egli faceva insegnar per le scuole. Il giuoco durò per un pezzo: durò tanto che il seme gettato dal diavolo fruttò largamente per le scuole de' Gesuiti; e P. Ignázio morì disperato, accortosi troppo tardi del male fatto alla civiltà per suggestione diabòlica.

Berlic poi, il quale è il diavolo delegato alle cose della Istruzione, si dice che cerchi di far sua arte da capo, ma per altro verso, qua in Italia; e però stia attento il Ministro, e badi di non fare come P. Ignázio.

[76]
[77]

NOVELLA XVI.

L'IPÒCRITA CÓLTO AL LACCIO.

Cominciando da Gesù Cristo, e venendo giù giù noverando i grandi uomini di 19 secoli, tutti hanno predicato che gli ipòcriti sono la peggior canaglia che viva sotto la cappa del sole: e sono da reputare benefattori dell'uman genere coloro che gli scherniscono, o qualche volta riescono a strappar loro la maschera, scoprendo la loro furfanteria. Essi quanto sono tristi tanto sono furbi: pure anche delle volpi se ne piglia, e qualche ipòcrita rimane anch'esso còlto al laccio; come accadde ad uno di sì fatti ciaccherini[50], del quale voglio adesso raccontarvi.

Carlo Medici, orefice fiorentino, del quale fui amico nella mia gioventù, fu uno de' più arguti begliumori che io abbia mal conosciuto, e fu parimente[78] ardentissimo nemico degli ipòcriti, de' bacchettoni, de' Sanfirenzini[51] e simili lordure. Oltre la bottega che aveva sul Ponte[52], ne aveva un'altra in Piazza di Santo Spirito, non ricca di giojelli e di pietre preziose, ma abbondante di lavori d'oro, come quella che forniva tutti i benestanti del prossimo contado. Una mattina il caro Medici va da sè ad aprir la bottega, e trova fatto repulisti di tutto il miglioramento[53]. È facile l'immaginare come rimanesse quel pover'uomo, il quale, non dico che fosse un uomo povero; ma di certo non aveva nulla da buttar via, e quel grosso furto era un vero spianto per lui. Come per altro era uomo accorto, non ne fece grande scalpore: ma fatta la sua denunzia, riportò altra roba in bottega, e tirò innanzi come se nulla fosse stato; sempre però mulinando e almanaccando per veder di scoprire il ladro. Passò molto tempo, e nè egli nè la polizia avevano potuto aver sentore di nulla; e quasi non vi pensava più; quando una mattina, alzátosi, come era sua consuetudine, innanzi giorno, esce di casa col suo sigaro in bocca, e cápita là verso Santo Spirito. La chiesa non era ancora aperta, nè per la piazza[79] c'era anima viva; quando a un tratto vide scantonare un uomo imbacuccato, che gli parve andare sospettosamente guardingo. Gli balenò un pensiero nella mente, e si pose ad osservare ogni mossa di quello sconosciuto; il quale, come si accorse di essere appostato, andò diritto diritto verso la chiesa; salì la scalinata; si inginocchiò dinanzi alla porta maggiore, e lì segni di croce e baci in terra, che neanche un Sant'Ilarione. Il Medici, veduta questa gran divozione, disse fra sè: Tu se' tu; e come san Pietro, sequebatur eum a longe, nè più lo perse d'occhio. La chiesa si apre: il divoto entrò dentro, ed entrò anche il Medici, che andava in èstasi vedendo con quanta devozione quell'animína di messer Domineddio strizzava limoni[54], e faceva ardentissime stralunature d'occhj: e quando fu giorno chiaro, conobbe essere un certo vecchietto del vicinato, che presso tutti passava per un santarello; ma che non era mai stato nel suo calendário. Ciò lo confermò nel primo sospetto; anzi il sospetto prese nella sua mente tal forma di certezza, che non dubitò di andare alla polizia a dare degli indizj contro costui circa al[80] furto fattogli; e la polizía, che in altra occasione aveva avuto qualche barlume di questo birbone, non esitò un momento, e senza metter tempo in mezzo, fece le sue indagini: e la mattina di poi mandò i suoi agenti a casa di lui con ordine di farvi una minuta perquisizione. Il povero Santo, che tutt'altro si aspettava, rimase più morto che vivo; ma seppe dissimulare: «Padroni; vengano pure: témono forse ch'io sia un cospiratore?»—«Eh! qualcosellina di peggio: ma saranno calunnie.»—«Il Signore vuol darmi questa mortificazione, ed io chino il capo. Sia laudato il suo santo nome. Egli fa tutto a buon fine; e forse permette ciò per far maggiormente brillare la mia innocenza, e confondere i calunniatori.» Aveva finito appena queste parole, che gli agenti scòrsero un usciolíno a muro: «E di qui dove si va?»—«In una dispensína, dove tengo poca roba per uso della parca mensa.»—«Apra.»—Il Santo va per la chiave, e apre; e l'occhio grifagno del capo birro, si accorse che la mano gli tremava, e che lo sgomento gli si dipingeva sulla faccia. Entrano: fiaschi, bottiglie, frutte in aceto, prosciutti, salami, e non altro: solo in quella stanzuccia mezza buja c'era un órcio assai grosso, chiuso a lucchetto.—«O quest'órcio?»—«È quel po' d'olio per la famiglia.»—«Apra.»—«Ma... non ho la chiave...»—«Apra, o lo mando in pezzi.»—Allora il nostr'uomo, vedutosi al perso, si gettò in ginocchioni dinanzi al caporale piangendo come una vite tagliata, e raccomandandosi che lo salvasse[81] dal disonore: poi, accostatosegli all'orecchio: «Per lei ci saranno mille lire prima che esca di casa mia.» Questo tentativo di corruzione fece venir la mosca sul naso al caporale, che diede al vecchio un bravo ceffone, intimandogli che aprisse. L'orcio era tutto pieno d'involti, scátole, astucci, borse, ogni cosa contenente gioje, oreríe, monete, medaglie; un vero tesoro: e giù in fondo una cassetta, dove erano parecchie chiavi di varj ingegni e grossezze, grimaldelli, leve, e altri arnesi ladreschi. Ogni cosa fu sequestrato e sigillato: il sant'uomo fu messo in gattabuja; nè si penò molto a scoprire che egli, non solo aveva scassato la bottega del Medici, ma che altri infiniti furti aveva fatto, non mai potuti scoprire; e per i quali erano state condannate altre persone. Il processo era già a termine, e presto doveva trattarsi la causa alla pubblica udienza; ma una mattina, entrata la guardia nella prigione, trovò il Santo penzolone dalla trave del palco. Aveva fatto strisce di un lenzuolo, ed appiccatosi per fuggire la vergogna e la pena durissima.

Lettore, impara da questa novella a non ti fidare di coloro che ostèntano devozione, moralità, ed ogni catonesca virtù: e ricordati sempre del Medici, orefice fiorentino, il quale appunto da simili ostentazioni prese certezza a denunziare per ladro uno reputato santo da tutti.

[82]
[83]

NOVELLA XVII.

LA PASTA FROLLA.[55]

Nei primissimi anni della mia gioventù, quando mi ero messo a studiar le scienze mediche nella scuola assai fiorente che era in que' tempi allo spedal di Pistoja, tra quelli spedalini, come si chiamavano gli scolari, che tutti passavano per scapati e un po' rompicolli, io ero forse il più rompicollo ed il più scapato di tutti.

Una volta che tutta la mia famiglia era andata in campagna, proposi ad alcuni miei compagni spedalini di fare un desinare in casa mia: ciascuno portasse una pietanza, e coceremmo ogni cosa noi nella cucina mia: io, che spesso avevo veduto fare la pasta frolla alla mia povera mamma, che mi voleva tanto bene, e alla quale davo tanti dispiaceri, io avrei fatto per il desinare una bella torta di pasta frolla, reputandomi un gran che nell'arte del pasticciere. Non prima erano usciti[84] di casa i miei, che la occupammo noi; e ci mettemmo al lavoro. Uova, farina, burro, zúcchero, latte per far la crema, tutto era preparato per il mio gran lavoro: scamiciato, sbracciato, con un grembiale dinanzi, mi metto all'opera, spettatori e assistenti tre o quattro di que' miei compagni. Faccio il mio monticíno di zúcchero e farina; faccio il buco nel mezzo, ci metto tre o quattro rossi d'uovo e del burro, e comincio a impastare, maneggiando e rimestando quell'intriso che parevo un pasticciere de' più consumati; ma quella pasta non voleva stare insieme. C è poca farina, dice uno degli assistenti; e io metti della farina, e maneggia, e rimesta; la pasta tiene: Bravo, bene, sentiamo. Non sa di nulla! e tutti ad una voce ci troviamo d'accordo che ci vuol dell'altro zúcchero: fo il buco, metto lo zúcchero, impasto; ma era venuta dura come un sasso. Qui bisogna metterci del burro:—fo il buco da capo, metto il burro; lavoro di dita e di mani; e intanto la massa cresceva maledettamente. Ma che ti par pasta frolla codesta? esclama Pippo Pacini[56]; la pasta frolla dev'esser gialla, e codesta par pasta da pane. E io piglio altri quattro rossi d'uovo, fo il solito buco, impasto, e mi preparo a spianare[57]. Eccoti un altro che ne assaggia un pezzetto: Ma che hai fatto? o se non si[85] sente il dolce! e tutti una gran risata.—Qua lo zúcchero;—e venuto lo zúcchero, giù zúcchero senza misericordia: ma allora non istava più insieme. Per farvela corta, ora rimettendo zúcchero, ora burro, ora uova, ora farina, venne una massa spropositata di pasta, la quale ogni altra cosa poteva essere da pasta frolla in fuori. Mi misi poi a far la crema per il ripieno; e col solito modo dell'aggiungere e levare ingredienti, impazzò ogni cosa[58]. Ma la torta doveva pur farsi: spianai la pasta, a distender la quale ci volle una téglia spropositata, benchè il foglio della pasta lo avessi fatto molto grosso, per adoprare tutta quella gran massa: misi la crema sopra il primo strato della pasta; la ricoprii con quell'altro strato; ci feci sopra de' girigògoli pur di pasta, e un bel contorno: inzafardai ogni cosa col chiaro d'uovo, e la mandai in forno, tenendomi per un pasticciere più bravo di Doney. Venuta l'ora del desinare, si mangia e si beve lietamente: di parecchj fiaschi vedemmo il fondo, ed erano lì quattro bottiglie di vin santo da beversi sulla mia torta. Ecco la torta, ecco la torta. Si mette in tavola questo gran teglione che l'occupava tutta. Permío! questa è l'arca di Noè.—Chiamiamo gente che ci ajuti a finirla.Guarda guarda, quante screpolature! Insomma chi ne diceva una, chi un'altra.[86] Io la cominciai ad affettare, e la prima fetta la presi per me. Mi cascò il fiato: la crema a quel mo' impazzata, pareva una torta di panico; e quella pasta non si sapeva di che sapore fosse: in alcuni punti era risecchíta; in altri flòscia e inzuppata; qua e là ci erano rimasti de' gavòccioli duri come palle da schioppo. Ora sto fresco!—E di fatto, come prima que' demonj ebbero assaggiato questo pasticcio, non vi so dire se gli scherni e le canzonature piovevano: il più benevolo complimento fu quello di battezzare la famosa torta col nome di Polpettone, e di paragonare me a Gragnuola, che chiamavasi così un di questi chiccaj da ragazzi[59], vecchio, súdicio e sciatto, il quale andava attorno con una sua tegliaccia di paste, che i ragazzi compravano a un quattrin l'una, e che ad una persona pulita non ne sarebbe giovato a toccarle neppur co' guanti. Votammo però le quattro bottiglie di vin santo; ed io stavo lì a succiarmi tutte le canzonature per il polpettone, ridendo e bevendo con essi: poi, a quel mo' mezzi brilli, andammo col teglione sul terrazzino di casa mia, e a quanti ragazzi passavano, a tanti scaraventavamo un pezzo di quella torta, i quali tutti allegri se la pappavano e ne portavano a cielo me, che l'avevo fatta.


[87]

GHIRIBIZZI DRAMMATICI

[88]
[89]

LA VISITA DI UN ISPETTORE SCOLASTICO

COMMEDIA FATTA PER CELIA

[90]

PERSONAGGI


Fabrizio Cerchi, Sindaco.
Giulia, sua moglie.
Leone Feroci, Ispettore scolastico.
Il Commendatore Rodolfo Fabrizi, fratello della Giulia.
Carlo Fei, Direttore del Ginnasio.
Elvira Bassi, Maestra comunale.
Gaspero Graffi, Segretario del Comune.
Laura, Cameriera della signora Giulia.
Giovanni, Servitore.
Caterina, vecchia.
Giovani scolari, tre de' quali parlano.
Il Custode della Scuola.
Varj invitati.

La scena è a Chiusi


[91]

ATTO PRIMO


Scena Prima.

Fabrizio e Giulia.

Seduti ad un tavolino che fanno colazione.

Giulia—Ma, caro Fabrizio, con questo tuo sindacato mi par d'esser diventata vedova. Questo momento della colazione... il pranzo a fuggi fuggi... poi, o c'è consiglio o c'è l'adunanza...

Fabrizio—Hai ragione; ma tu lo vedi da te, non ho un momento di bene. Che, che! non ne vo' più io: vo' pensare alle cose mie le quali, se duro un altro po' a fare il sindaco, vanno tutte a rotta di collo.

Giulia.—E anche alle cose della moglie potevi dire, che non è ancora da mettersi in un cantone, mi pare.

Fabrizio—In un cantone? Bella e fresca come una rosa la mia cara Giulietta! (La piglia per il ganascíno) Del resto, in quanto alla moglie, se[92] non l'ho rammentata, ci si intende che il primo pensiero dev'esser sempre per lei. Vedrai, quando avrò buttato via la ciarpa di sindaco!... non voglio uscirti un momento di torno.

Giulia—Oh! il troppo, poi, stròppia!

Fabrizio—Come sarebbe a dire?

Giulia—Non lo vedi che fo per celia? (Ridendo)

Fabrizio—Bene. Dunque oggi stesso scriverò la lettera di rinúnzia... Sicuro, se prima mi riuscisse d'avere un po' di nastro all'occhiello...

Giulia—Ma fammi il piacere! Eh! c'è proprio da essere ambiziosi d'avere una croce, ora che si veggon dare persino a' giovani di banco...

Scena Seconda.

Giovanni con una lettera.

Giovanni—Signor Padrone, c'è' questa lettera.

Fabrizio—Vediamo. (Prende la lettera) Che ti pare, Giulia? Neanche questi due momenti che son qui con te!

Giulia—Speriamo che finisca presto.

Fabrizio(che ha aperto la lettera)—Chi è che scrive? (volta la pagina e guarda la firma)... Permío! La sola sottoscrizione è una mezza lettera.—Cavalier professore Leone Feroci, regio ispettore scolastico di circondário.—E poi una bestia feroce! Sentiamo. (Legge)

«Illustrissimo Sig. Sindaco,

Onorato dalla fiducia di S. Maestà il Re della[93] nòmina di regio Ispettore Scolástico di circondário, ho l'onore di prevenirlo, che, avendo intrapreso la visita de' varii stabilimenti d'istruzione del mio circondário, ho stanziato di fare uno de' primi cotesto suo Comune. E però l'avverto che doman l'altro mi porterò costà. E nel tempo stesso, interesserei la sua gentilezza ad esser così buono, siccome io son nuovo della piazza, di dare ordine che mi si prepari un decente albergo, non volendo io trovarmi a contatto di persone da meno di me. L'avverto di soprappiù che V. S. Ill.ma non notizii i maestri e le maestre di coteste scuole del mio venire: l'autorità è bene che giunga improvvisa. Ho l'onore ecc. ecc.»

Fabrizio—Eccone un'altra delle seccature! (guardando la moglie). E ora come si fa? Dice che vien doman l'altro: la lettera, ritardata, è scritta due giorni fa. E' c'è da vederselo arrivar qui da un momento all'altro.

Giulia—Cotesto Sig. Cavaliere Ispettore, se l'ho a giudicare dal modo come è scritta la lettera, mi pare un bell'ignorante: se dal tono di essa, mi pare un villano presuntuoso. E' par che il sindaco lo tenga per un suo servitore.

Fabrizio—Che vuoi? sarà persona di riguardo.... E ora dove gli si trova l'albergo? Senti, ho pensato di riceverlo qui in casa. È persona d'autorità.... sono gente che fanno le relazioni al Ministro.... capisci? Facendogli due carezze, una buona parola la posson mettere, e[94]...

Giulia—E venir la croce, eh? Guarda, povero Fabrizio, che strana voglia t'è venuto! Se tu fossi donna, direi che tu se' gravido.

Fabrizio—Eh, non ci mancherebbe altro! Su via, Giulietta, sii buona, e fa preparare la camera de' forestieri.

Giulia—Facciamo anche questa. Bada, sbaglierò: ma questo signor Ispettore, dev'essere anche uno scroccone.... e ha scritto la lettera a quel modo appunto per veder d'appoggiar la labarda. O andiamo. (Parte).

Scena Terza.

Fabrizio solo.

Fabrizio—Mi pare anche a me che questo sor Ispettore debba aver le belle qualità che gli attribuisce mia moglie: però, bisogna dissimulare; e, in ogni caso, essendo egli ignorante e scroccone, potremo sfruttare in pro nostro queste due ricche miniere, e, al bisogno, potremo anche divertirci alle sue spalle.

Scena Quarta.

Giovanni poi il comm. Rodolfo.

Giovanni—Signor Padrone, c'è il signor commendatore Fabrizi.

Fabrizio—Il commendatore Fabrizi? Fallo passar[95] súbito; e poi avvisa la signora. (Giovanni parte; Fabrizio va verso la porta, e il Commendatore entra, e stringendogli la mano, continua) Che miracolo è questo? Come mai tu in questa cittaúccia?

Commendatore—Son venuto per ragioni d'uffizio, e te lo dirò poi. Ora parliamo di vojaltri. State tutti bene? E la Giulia? e il tuo bambino?

Fabrizio—Si crepa tutti dalla salute. Ma tu ora sei diventato un pezzo grosso davvero! e metto quasi su superbia d'esserti cognato.

Commendatore—Smetti con codeste sciocchezze. Sì, sono un poco salito; e dacchè ho avuta un'ingerenza governativa, per la quale mi bisogna trattenermi un po' qui, ho proprio caro di star qualche giorno vicino a mia sorella ed a te. Ma tu non far complimenti, chè avrai le tue faccende. Io, intanto, andrò di là dalla Giulia.

Fabrizio—Tu dici bene che le faccende non mi mancano; e per di più mi piove ora addosso la visita dell'Ispettore scolastico fatto ora di fresco!

Commendatore—E chi è questo ispettore?

Scena Quinta.

Giulia e detti.

Giulia(correndo ad abbracciare Rodolfo) Oh! Rodolfo mio, questa è proprio una consolazione! Che fai? Come stai? Di dove vieni? Ti trattieni, eh? E starai qui da noi....

[96]

Commendatore—Benedette donne! Senti quante domande a un fiato! Sto bene. Vengo da Roma. Mi trattengo otto giorni; e non istarò da vojaltri, perchè già mi son posato alla sottoprefettura, dove ho da trattare un affare assai grave, che può tornar utile a questa città. Per altro verrò spessissimo qui da te, pranzerò spesso qui, e faremo chiaccherate lunghe un miglio.

Giulia—Insomma fa come tu vuoi, purchè tu trovi il tempo di star molto con me.

Commendatore—Molto non so; ma di certo più che posso.

Fabrizio—Dunque, per tornare all'ispettore...

Commendatore—Ah! è vero, sì. E chi è?

Fabrizio—Il cavaliere professore Leone Feroci.

Commendatore—Leone Feroci? Ed è professore e cavaliere? Oh! povere cattedre, povera cavallería!...

Giulia—O che lo conosci?

Commendatore—Altro se lo conosco!

Fabrizio—O sentite: io dovrei tornare al Municipio; ma per oggi vo' pigliarmi un po' di scianto, e godere la tua compagnía. Farò venir qua il segretario a portarmi le lettere per la firma; e se giunge il sor Ispettore, gli farò dire che favorisca da noi. Scusa, vado a dar gli ordini. (Parte)

[97]

Scena Sesta.

Giulia e Rodolfo.

Giulia—Ma dunque, Rodolfo, quel tuo altro se lo conosco, mi ha messo in curiosità di saper chi è questo ispettore.

Commendatore—Il più ridícolo farfanícchio che tu possa immaginare. Un poetúcolo da serenate, un vanèsio, un ficchíno, uno svenévole, e uno scroccone numero uno.

Giulia—Eh! quella lettera non poteva mentire.

Commendatore—Che lettera?

Giulia—La lettera che ha scritto a mio marito per avvisarlo del suo arrivo. Tu sentissi che roba! Ma dev'essere anche un po' ignorante.

Commendatore—Anche. Ma quel che è peggio, benchè oramai in là cogli anni, è un donnajuolo di prima riga.

Giulia—E appunto quel buon uomo di mio marito gli vuol dar ricetto qui in casa!

Commendatore—Qui? Sta certa che se tu resti un momento sola, ti fa una dichiarazione in tutte le regole.

Giulia—Potrebbe esser che ci avesse poco gusto!...

Commendatore—No, sarà bene pigliarla in chiasso; e forse il signor Ispettore ci darà materia da divertirci.

Giulia—Sì, sì; ma appunto, tu lo sai, lui è un[98] po' geloso, e non vorrei che si facessero scene.

Commendatore—Non si farà nulla, non dubitare... A propòsito, ma quel capo armonico di quella cameriera ce l'hai sempre? Aspetta... come si chiama?

Giulia—La Laura? Altro se ce l'ho! L'è un servizio eccellente; ma ha un po' troppo il capo a' grilli. Dall'altra parte la tengo, perchè, a a questi lumi di luna, c'è da dare in peggio.

Scena Settima.

Fabrizio e detti.

Fabrizio—Oh! ecco fatto. Giovanni anderà alla stazione a ricevere l'Ispettore; il Segretario verrà qui alla firma, ed io potrò tenervi un po' di compagnía. Giulia, hai pensato a tutto, eh? Volevo cercar di farmi onore, e far vedere a questi pezzi grossi che anche nella nostra città si conosce la cortesía e la gentilezza. Ma tu, Rodolfo, hai bisogno di nulla? Già, che accadono complimenti? Tu sei in casa tua. Bada, veh; a pranzo, oggi, tu devi restar qui, anche per fare un po' di compagnía al sor Ispettore.

Rodolfo—Volentieri.

[99]

Scena Ottava.

Giovanni e detti, poi il Segretario.

Giovanni—Signor Padrone, c'è il segretario.

Fabrizio—Passi. (Il servitore va via, e volto agli altri:) Io firmo gli affari: tu intanto, Giulia, conduci Rodolfo a vedere il nostro bambino. Vedrai (a Rodolfo): non perchè sia mio, ma è un vero angelo di paradiso. (E alla Giulia) Tu guarda anche che tutto vada in regola, e cerca di essere sbrigata quando arriva l'Ispettore: siamo a tocca e non tocca. Io mi spiccio in pochi minuti. (Entra il segretario: Rodolfo e la Giulia salutano e partono).

Segretario—Signor Sindaco, buon giorno a lei.

Fabrizio—Buon giorno. Scusi, sa, se l'ho incomodata a farla venir qui. Che vuole? Oggi son tutto sottosopra; e venire al Municipio mi sarebbe stato impossibile.

Segretario—Ma le pare, signor Sindaco! ella può comandare.

Fabrizio—È pronto ogni cosa?

Segretario—Ogni cosa. Guardi, la non ha a fare altro che firmare. (Gli mette davanti tutte le carte, e il Sindaco comincia a firmare).

Fabrizio—(Dopo aver firmate varie lettere) Centomila lire!? Che cosa sono? Ah! quel famoso accollo... Eh gua', è inutile, caro Segretario,[100] in questa faccenda non ci vedo chiaro. Centomila lire per una bríccica a quel modo! Ma... il Consiglio ha approvato... (firma).

Segretario—Non dica tanto bríccica, signor Sindaco! E poi le spese son mai tante...

Fabrizio—(Da sè) (Già, compreso le ventimila lire che s'è intascato lui!) Eh già, già, intendo! le spese son mai tante!... (seguitando a firmare) Sussidio alla maestra elementare... Ma questa maestrína ha di gran sussidj. Non dico che non sarà brava, ma l'è anche bellína. (Guarda il Segretario sorridendo).

Segretario—Oh! Signor Sindaco, lei vuole scherzare al suo solito. Creda, la maestra lo merita, e non c'è ombra di secondi fini.

Fabrizio—Eh diavolo! (Seguita a firmare) Ecco fatto. C'è altro?

Segretario—Per oggi no.

Fabrizio—Dunque a rivederla. Se per caso ci fosse qualche cosa di nuovo, e se fosse necessaria la mia presenza, mi avvisi. Non voglio per nessuna cagione mancare al mio dovere.

Segretario—Sarà servita. (Fa riverenza e parte).

Scena Nona.

Fabrizio solo.

Fabrizio—Questo segretario mi comincia a piacer poco... Qualche anno addietro, era un miserabile[101] che non aveva scarpe in piedi... e ora, ville, poderi, e voglie venite, i quattrin ci sono. Ma di dove gli leva?

Scena Decima.

Giovanni e il Direttore del Ginnasio.

Giovanni—Il Signor Direttore del Ginnasio.

Fabrizio—Passi. Cápita proprio a tempo. L'avvertirò dell'arrivo dell'Ispettore, ed avrà agio di prepararsi un poco per far fare più bella figura alle nostre scuole. L'ispettore albergato qui—trattato onorevolmente—le scuole in buon ordine—una Relazione spanta al Ministro—lo zelo del benemerito Sindaco.... la cosa è fatta.

Carlo—Signor Sindaco, mi perdoni se vengo ad incomodarla qui in casa...

Fabrizio—Anzi lei accomoda, e vien più appunto che l'arrosto.

Carlo—Or ora sarà qui l'Ispettore...

Fabrizio—O come lo sa?

Carlo—È sparso per tutto il paese: egli lo ha scritto a un suo conoscente, il conoscente lo ha detto a questo e a quello, e i maestri sono tutti sottosopra.

Fabrizio—(Da sè) Fortuna che voleva giungere all'improvviso! Bene, bene: giusto avevo caro di vederla per pregarla di avvertire i maestri e le maestre, e fare in modo che l'Ispettore si debba lodare della scuola e di loro.

[102]

Scena Undicesima

Giulia, Rodolfo e detti.

Rodolfo—Ma lo sai che il tuo bambino gli è un angelo? Bravo! Anzi (volgendosi alla Giulia) bravi!

Giulia—Oh Signor Direttore, che miracolo? (Gli porge la mano, presentandolo al fratello): Questi è il Signor Direttore del nostro Ginnasio (E volgendosi a Carlo) E questo è il Commendator Rodolfo mio fratello. (I due si salutano, e si dànno la mano).

Scena Dodicesima.

Giovanni e detti.

Giovanni—La signora maestra Elvira, che vorrebbe parlare alla signora.

Giulia—Passi.

Fabrizio—(Ah! la vedovella ha sentito l'odore del signor Carlo).

Elvira(Entra, e la signora Giulia le va incontro) Signora Giulia... (Vedendo gli altri, e facendo riverenza) Signori...

Giulia—Che dice la carissima nostra signora Elvira? (A suo fratello) Questa è la signora Elvira Bassi maestra delle nostre scuole. (All'Elvira) Il commendatore Rodolfo mio fratello.[103] (Si fanno riverenze) S'accomodi qui accanto a me. (Il Direttore siede accanto al Sindaco, la Maestra dall'altra parte della stanza colla signora Giulia e Rodolfo).

Rodolfo—Non dubito che non debba essere un'eccellente maestra, perchè raramente la bellezza va disgiunta dal buono ingegno.

Elvira—Se non avessi sentito parlare tante volte di lei come di compitissimo cavaliere, direi che la si fa giuoco di me. Ad ogni modo non tengo le sue parole se non per un complimento non meritato.

Rodolfo—Anzi meritatissimo. (E parlando nell'orecchio alla sorella) Da questa maestrotta ci piglierei due lezioncine anch'io.

Giulia—(Sottovoce) Andiamo, vecchio matto! Tu hai moglie e figliuoli... (E volgendosi all'Elvira) Dunque, signora Elvira, qual mia buona ventura l'ha mossa a venir qui da me?

Elvira—Vorrei pregarla d'un favore...

Rodolfo—Parli pure liberamente. Io ho veduto là un certo libro che mi divertirò a dargli un'occhiata. (Si alza, piglia il libro e si adagia su una poltrona al lato opposto).

Elvira—Senta, signora Giulia, si dice qui per il paese, che or ora arriva l'Ispettore, e che starà qui da lei. È tanto che feci quella súpplica, e non ho avuto risposta. Vorrei che, parlando col signor Ispettore, la dicesse per me due parolíne dolci. Che vuole? Mi parrebbe ora di migliorare un po' condizione, molto più che[104] il Direttore mi ha formalmente chiesta per moglie.

Giulia—Volentierissimo... anche quattro delle parolíne. E poi c'è là mio fratello che è amico dell'Ispettore...

Fabrizio—(al Direttore) Senta, si deve fare una cosa solenne. Coll'Ispettore verrò io, verrà mio cognato, mia moglie: e anche inviteremo qualchedun'altro. Poi, per mezzo di mio cognato, ne parleranno i giornali... ci dobbiamo fare onore.

Direttore—Io farò quel che posso, acciocchè faccia buona figura lei, la faccia io, e tutta la città.

Rodolfo—(Fa una risata) Oh matto da legare!

Fabrizio—Matto da legare? Con chi l'hai, Rodolfo?

Rodolfo—Con quel capo ameno dell'autore di questo libro. Guarda...

Giulia—Sta... Ecco una carrozza. Si è fermata qui. È lui. (Tutti si alzano).

Rodolfo—Senti, Giulia: io per ora non vo' farmi vedere... potrei dargli soggezione, e tarpargli le ali a' suoi voli anacreòntici. Intanto insegnerò la lezione alla Laura.

Giulia—Badiamo un po' con queste lezioni...

Rodolfo—Eh! non dubitare. (Parte)

[105]

Scena Tredicesima.

Il Servitore, Leone e detti.

Servitore—Il Signor Cavaliere, professore, ispettore. (Fabrizio gli va incontro; entra l'ispettore e tutti gli fanno riverenza).

Fabrizio—Ben arrivato, signor Cavaliere. Le presento mia moglie (si dànno la mano), e le presento il direttore del nostro ginnasio, venuto qui per farle omaggio prima d'ogni altro. (Leone lo guarda con sussiego, e il direttore fa profonda riverenza). Questa poi è la signora Elvira, maestra egregia del nostro comune, che, essendo qui da noi, si è mostrata desiderosa di esserle presentata e raccomandata. (Leone le fa l'occhio pio e le dà la mano).

Leone—Signor Sindaco, il suo cortese invito mi riesce gradito a doppio, quando mi trovo in mezzo a sì gentili persone. (Guardando le donne) E ciò mi fa parer leggiere le gravi cure del mio ministero, e delle lettere. Sua Maestà il Re mi ha voluto onorare della sua fiducia, nè io poteva mostrarmi restío; ma quanto volentieri sarei rimasto nella quiete de' miei cari studj, che, se mi hanno dato delle amarezze per i morsi dell'invidia, queste mi sono state compensate da ampie lodi de' buoni, e da onorificenze.

Giulia—Ed onorificenze ben meritate, come tutti dicono.

[106]

Leone—Così fosse vero, come mi è caro il sentirmelo dire da labbra sì gentili. Che vuole? Io dirò che le mie povere cose sono state fortunate. Ella forse avrà veduto de' giornali che parlano di me, e perfino mi hanno voluto mettere tra gli uomini illustri...

Fabrizio—Per bacco! ma la mia casa si tiene onorata davvero di accogliere un personaggio sì segnalato.

Direttore—(tra sè) Ho bell'e capito: è un imbecille.

Giulia—Ma lei, signor Cavaliere, avrà bisogno di qualche cosa; non faccia complimenti.

Leone—Niente, niente affatto: il viaggio non è stato lungo: avevo un compartimento da me solo. Accetterò una limonata.

Giulia—Gliela faccio preparar súbito. Intanto la può andare nella sua camera a posar la valigia, e a cambiarsi, se vuole. (Suona il campanello, ed entra la cameriera).

Leone—(vedendo la cameriera, dice fra sè): Ma io son capitato nel paradiso di Maometto! Bocca mia che vuo' tu? Bel pezzo di ragazza!...

Giulia—(alla Cameriera) Laura, insegna al signor Cavaliere la sua camera: pòrtagli di là la valigia, e poi fa' preparar súbito una limonata. (A Leone) Vada pure, signor Cavaliere; l'aspettiamo.

Leone—Con permesso (fa riverenza e parte).

[107]

Scena Quattordicesima.

Detti.

(Partito Leone, tutti, fuor che il Sindaco, dànno in uno scròscio di risa.)

Giulia—Oh che figura ridícola!

Elvira—Ma che cos'è? È prete?

Direttore—Io credo di no. Ma certo, dev'essere un gran buffone.

Fabrizio—Eh! andiamo, signori! E anche tu, Giulia, non precipitiamo tanto co' giudizj.

Giulia—Senti, potrò sbagliare, ma è difficile, veh!

Scena Quindicesima.

Rodolfo e detti.

Rodolfo—(entra ridendo, e dice sottovoce alla Giulia) Ohe, l'amico ha bell'e incominciato a armeggiar con la Laura.

Giulia—Tu non canzoni?

Fabrizio—Che hai, che ridi così di genio?

Rodolfo—Eh nulla; raccontavo una cosa alla Giulia... Ma zitti... èccolo... vediamo che effetto gli fa il vedermi qui.

[108]

Scena Sedicesima.

Detti, poi Leone.

Leone—(entra rosso come un gámbero). Ecco fatto. Ora profitterò della cortese offerta... (Vede Rodolfo, e resta interdetto; poi dice tra sè) Come mai quel cosaccio di Rodolfo si trova qui? (Rodolfo si accorge del suo turbamento, e fa bocca da ridere, accennando alla Giulia).

Giulia.—Signor Cavaliere, le presento il Commendatore Rodolfo mio fratello.

Leone—(Impicciato) Oh guarda, il Signor Rodolfo! come? suo fratello?...

Rodolfo—(senza stringergli la mano). Eh, noi ci conosciamo da un pezzo, eh, sor Leone? Scusi, volevo dire signor Cavaliere... Si rammenta quando veniva a pranzo alla villa Lorenzi?

Leone—Ah, già, si stava allegri: ed ella sempre galante, sempre l'idolo di tutte le più nobili conversazioni... ma ora è tanto...

Direttore—(All'Elvira) I pranzi? gli è anche uno scroccone!

Rodolfo—Eh! ma anche Lei era il cucco di tutte le veglie... e poi, letterato com'è!... Mi ricordo sempre di quelle belle poesíe a Leopoldo II, e all'imperiale e real famiglia.

Leone—(Maladetta la tu' lingua)... Eh, cose vecchie! dovute fare per celare il lavoro segreto che facevamo per la povera Italia.

[109]

Rodolfo—Ah già, il lavoro segreto per la povera Italia... ci s'intende!...

Laura—(Entra con la limonata e con un vassojo di paste.)

Fabrizio—Ecco, signor Cavaliere, voglio servirla io. Laura, posa il vassojo su cotesta tavola.

Laura—(Eseguisce, e poi va dalla padrona e le dice sottovoce) Ma lo sa, signora, che quel sor cavaliere ha cominciato a fare il grazioso con me... Avesse sentito!... mi ha detto che io sono Laura, e lui vuole essere il mio... il mio...

Giulia—Petrarca.

Laura—Già, Petrarca... O che vuol dire?

Giulia—Vuol dire il tuo amante.

Laura—Creda, signora, sono stata lì lì per dargli le mani nel muso.

Giulia—Eh! diavolo!...

Laura—Ma se è vero!... Eppoi, bel cosíno!

Leone—Squisitissima limonata! e queste paste sono una vera delizia. Dunque (vòlto al Sindaco) domani comincieremo la visita delle scuole, e spero di trovarle tali da fare onore a lei, signor Sindaco, e qui al signor Direttore. Ed a maestri come si sta?

Direttore—Bene, bene davvero, signor Cavaliere. E se le piacerà di tastarne qualcheduno, la si accerterà di quel che le dico.

Rodolfo—(tra sè) Potrebbe essere che la mula si rivoltasse al medico, e i maestri tastassero lui.

Elvira—(alla Giulia) Signora Giulia, cerchi di[110] trovar modo a quel che le dicevo. Guardi, appunto viene verso di noi. (Leone si accosta).

Leone—So che la signora è donna molto istruita, e che favorisce molto le cose dell'istruzione. Ed io gliene faccio i miei complimenti. «Donne... Da voi gran cose la patria aspetta.»

Rodolfo—(da sè) Eccolo intorno alle donne!

Giulia—Oh! signor Cavaliere, io non la pretendo a donna letterata; desidero che il popolo si istruisca; amo i buoni maestri e le buone maestre come la nostra signora Elvira, che io anzi ardisco raccomandarle carissimamente, perchè lo merita.

Elvira—Tutta bontà della signora Giulia.

Leone—Eccomi qua. Che cosa posso fare per contentare la signora Giulia così compíta, e una signorína tanto amabile?

Elvira—Son vedova, Sig. Cavaliere.

Leone—La sua venustà, la sua giovinezza, la sua freschezza, mi dicevano ch'ella fosse fanciulla. (Da sè) Vedova? Boccon da ghiotti... E lo ha detto in certo modo... (La guarda lascivamente) Quando vengo alla visita della sua scuola, che farò la prima, mi esporrà il suo desiderio, ed io farò tutto per lei.

Rodolfo—Ma ecco, amici carissimi, non si potrebbe andare un poco giù nel giardino, chè sotto quel pergolato c'è un frescolíno di paradiso, e far lì l'ora del desinare?

Fabrizio—Bravo Rodolfo! benissimo pensato.[111] Andiamo. Ella, signor Direttore, rimarrà qui da noi.

Direttore—Con tutto il piacere.

Fabrizio—Ed anche la signora Elvira.

Elvira—Mi duole di non poter accettare un onore così segnalato...

Giulia—Senza complimenti: ma se poi non può veramente, faccia pure il piacer suo.

Elvira—Proprio non posso: grazie.

Leone—Io, se non fosse troppo scomodo, domanderei da scrivere. Bisogna che scriva al Ministro per cosa di somma premura, che dimenticai ieri sera.

Rodolfo—(da sè) Scrivere al Ministro... lui!... che pagliaccio!...

Fabrizio—La guardi: (mostrandogli il tavolino) lì v'è tutto. Ella è padrone di casa. Noi scendiamo giù: la faccia tutto il suo comodo, e poi ci onori, se le piace, della sua compagnía.

Leone—Ho capito; mille grazie. (Partono salutando e salutati).

Scena Diciassettesima.

Leone solo.

Leone—Ci mancava quello scorbellato di Rodolfo! Ero capitato proprio nella più invidiabile pasciona per tutti i versi. Eh! quella vedovella è proprio un bocconcíno (gua' lo dicono...) un bocconcíno da preti. Anche la sindachessa[112] è una gran donna simpatica, e da far carte false per lei!... Ma la moglie del sindaco... io, suo ospite... Chi però m'ha ferito la fantasia, è quel demonietto della cameriera. Eh! s'i' la potessi avere a quattr'occhi!... Eppure qui la ci dovrebbe capitare per ripigliare il vassojo. Ho trovato una scusa da rimaner qui, appunto sperando che nasca qualche cosa. Ma io ho detto di scrivere al Ministro... E se mi stanno dattorno perchè io dia la lettera da buttare in buca? Basta, qualche scusa troverò. (Siede al tavolino)

Scena Diciottesima.

Laura e detto.

Laura—(Vedendo Leone) Oh!

Leone—Chi è? Oh Laurína bella! (si alza)

Laura—Scusi, signor Cavaliere, credevo...

Leone—Scusi? Ma questa è la più gran fortuna ch'io potessi avere: questo era il mio più vivo desiderio. Te l'ho già detto, Laurína mia, che son rimasto incantato dalla tua bellezza; che per te mi sento strugger d'amore...

Laura—La piglia fuoco presto, sa ella, signor Cavaliere? Andiamo! si campa anche canzonate, sa. Un signore come lei; un cavaliere, confondersi con una povera cameriera!

Leone—«Ogni disuguaglianza amore agguaglia,» dice un poeta: e Dante scrisse:«Amore[113] a cor gentil ratto s'apprende.» (S'infiamma) Credi, Laura, che muojo per te.

Laura—La non mi faccia spavento, per carità. Muojo per te! Tutti dicon lo stesso; ma io non son mica una grulla, sa, da credere a tutte le dichiarazioni degli uomini. Anch'io naturalmente desidero, come tutte le ragazze, di prender marito: ma però, non creda ch'io sia di quelle che amano di far la civetta.

Leone—(Sempre più acceso) Tu sei la più cara, la più amabile, la più buona ragazza ch'io abbia mai veduto. (Va per abbracciarla.)

Laura—Le mani, signor Cavaliere carissimo, la l'ha a tenere a sè. Se io fossi una sua pari, non le nego che ascolterei volentieri le sue parole, perchè, sebbene ella abbia qualche annetto più di me, pure, guardi, la mi sarebbe simpatico. Eppoi, un uomo come lei... un cavaliere... un letterato tanto famoso! Anch'io, sa, mi diletto di leggere i libri belli... (Da sè) Proviamo: delle volte questi vecchietti!...

Leone—Ma che sua pari e non sua pari? io ti adoro; e a posseder te, mi parrebbe di possedere un regno. Eccomi qui, sono tutto, tutto tuo.

LauraTutto, tutto tuo... e dàgli! Ma a che titolo?

Leone—Al titolo che tu vuoi. Laura mia dolce; ma levami da queste pene: non ne posso più. (L'abbraccia, e intanto si affaccia Rodolfo,[114] che, vedendo la scena, rientra dentro e fa capolíno)

Laura—Le ripeto che tenga le mani a sè, o ci avrà poco gusto.

Leone—(È la prima cameriera che fa così la casta Susanna). Che vuoi? Brucio, ardo: proprio non ne posso più!

Laura—La chiami i pompieri; che vuol che gli dica? Ha delle buone intenzioni? Ne parli con la signora; ed io le confesso, che lo sposerò volentieri, perchè m'è simpatico. Se no, la giri di bordo.

Leone—(Sarà quel che sarà, ma questo bocconcíno non me lo lascio sfuggire). Sì, Laura mia, ho intenzioni ottime: oramai sento che senza te non potrei più vivere. Tu mi hai ammaliato. Parlerò alla signora, farò quel che vuoi. Ma prima ho bisogno d'avere un colloquio teco. Senti, mi devi concedere che stasera, quando tutti dormono, io venga da te.

Laura—Credo che la sia matto... (Rodolfo fa un po' di rumore per farsi sentire)

Leone—Ecco gente. (Si ricompone) Dunque addio a stasera.

Scena Diciannovesima.

Rodolfo e detti.

Rodolfo—Ma, caro cavaliere, questa lettera al Ministro è molto lunga: giù tutti v'aspettano.

Leone—(confuso) Che volete? avevo lasciato de' fogli... ho dovuto pensare[115]...

Rodolfo—Andiamo, andiamo, per oggi non pensate più agli affari. Venite giù nel giardino, dove abbiamo intavolato una graziosa chiassata. (Leone e Rodolfo partono insieme)

Scena Ventesima.

Laura sola.

Laura—Non so se gli do una lezione da ricordarsene per un pezzo, o se reggo la burletta, e guardo di accalappiarlo. Delle volte.... Ne parlerò con il signor Rodolfo.

FINE DELL'ATTO PRIMO.


[116]
[117]

ATTO SECONDO


Scena Prima

(Siamo in una scuola. I giovani seduti alle loro panche; il Direttore del Ginnasio, che è pur maestro, passeggia e provvede al buon ordine.)

Direttore—Signori, stieno un po' quieti: pensino che or ora sarà qui il signor Ispettore; e che in questa scuola si farà un formale esperimento de' loro studj.

Giovane 1.º—Ma è vero, signor Direttore, che l'Ispettore è tanto ridícolo?

Direttore—Si cheti, e parli con rispetto de' superiori. Sarebbe tempo che da ora in là mettesse un po' di giudizio, e stesse un po' più sull'uomo.

Giovane 1.º—Che vuole? L'ho sentito dire...

(Entra il Custode, e consegna una lettera al Direttore, il quale legge sottovoce. I giovani in questo tempo schiasseranno tra loro.)

Direttore—Una lettera dell'Elvira? Sentiamo:[118] «Mio caro, ti scrivo dalla mia scuola con lo sdegno nel cuore. Quel signore Ispettore, al quale ho parlato della mia súpplica al Ministro, mi ha promesso d'ajutarmi, facendo proposizioni ingiuriose al mio onore: io ho risposto come donna prudente ed onesta doveva fare; ora temo che voglia farmi del male presso i superiori. Ti avverto per tua regola. Elvira.» Ah! vile farfanícchio! vieni qui, e te lo farò vedere io come si scorbácchiano i tuoi pari. Proprio bellíno da fare il grazioso con le donne!

Giovane 2.º—Signor Direttore, ma che starà un pezzo questo signor cavaliere?

Direttore—(Pensoso e inquieto) Tra poco sarà qui.

Giovane 3º.—Ma su che c'interrogherà?

Direttore—Non dúbitino, ci penserò io. La mia scuola si deve fare onore... Anzi dobbiamo provare, se ci riesce, di mettere su disputa con questo ispettore, e fargli vedere che i giovani di Chiusi non sono talpe. Lei (accennando a uno de' tre giovani) è il più vispo della scuola, ed è uno de' più studiosi: se la sente di mettere alla prova questo signore? È un uomo come gli altri, sa!

Giovane 1º.—Lo vede, se dicevo bene?

Direttore—No signore. Lei scherniva; e i superiori non si scherniscono. Io faccio cosa lécita, perchè mi studio di far fare buona figura alla nostra scuola; e perchè, in fin de' conti, non è male che qualcuno di questi signori, i quali[119] vengono ne' luoghi piccoli col pensiero di soverchiarci, sieno, potendo, sopraffatti. Bene: che si sente in grado lei di stare un poco a tu per tu?...

Giovane 1.º—Altro!

Giovane 2.º—Anch'io, purchè sia una cosa che so bene.

Giovane 3.º—Anch'io.

Direttore—Coraggio dunque. Lei (al giovane 1.º) è molto pratico di Dante: farò in modo che lo intèrroghi su Dante.

Giovane 1.º—Sì, sì.

Direttore—(Al giovane 2.º) E lei sa bene la storia della letteratura. E lei (al giovane 3.º) è bravo nel latino.

Scena Seconda.

Il Custode, poi l'Ispettore, il Sindaco, Rodolfo, Giulia, ed altri.

Custode—Il signor Ispettore, col signor Sindaco, e altri signori.

(Il Direttore va verso la porta, ed entrano tutti: saluti e strette di mano scambievoli.)

Ispettore—Ella, signor Direttore, ci ha lasciati...

Direttore—Perdoni, signor Cavaliere: essendo anche maestro di quarta ginnasiale, nel tempo che Ella andava alla scuola femminile, ho creduto meglio di venir qui alla scuola mia, per isporre questi giovani a riceverla degnamente.

[120]

Ispettore—Ha fatto bene. E, mi dica un po'; studiano questi giovani?

Direttore—Per quel che fa la piazza, ci possono stare.

Ispettore—E il nostro gran padre Alighieri lo fa studiar loro? e la lingua latina va bene? e la lingua nostra si trascura anche qui come in altre scuole?

Direttore—(da sè) Guarda che mútria! Or ora lo sentirai!—Spero che sarà contento. Ma si accòmodino; ed ella faccia l'esperimento che più le piace.

Leone—Intèrroghi prima i giovani suoi sopra la letteratura e la lingua latina.

Direttore—Oh! signor Cavaliere, dove c'è il sole ogni altra stella sparisce. Intèrroghi Ella sopra quel che le piace: e questi giovani si troveranno onorati, e ricorderanno con orgoglio di essere stati interrogati da sì degno personaggio.

Leone—Ma desidero però che intèrroghi anche lei. (Piano al Sindaco) Facendolo interrogare, gli faccio, senza parere, l'esame anche a lui.

Direttore—Faremo a vicenda, se così le piace.

Leone—Cominci lei. Rodolfo—(da sè) Ho bell'e capito, l'amico non vuole impicciarsi; ma ce lo tirerò io.

Direttore—(volto al giovane 1.º) Dica lei: quali sono i più grandi scrittori del secolo d'Augusto?

Giovane 1.º—Virgilio, Orazio, Sallustio e Tito Livio sono i principali.

Leone—Ma, tra' principali, doveva metterci anche[121] Lucrezio, Tacito e Plauto. (I giovani sghignazzano)

Direttore—Mi perdoni, signor Cavaliere: parmi che Lucrezio e Plauto fossero assai prima di Augusto; e che Tacito fosse molto dopo.

Leone—Sì sì; ma i buoni critici gli mettono tra gli scrittori Augustali.

Direttore—Mi perdoni; la nuova critica non è arrivata fin qua a Chiusi.

Rodolfo—(Oh, pezzo d'ásino d'un Ispettore!) (e volto alla Giulia) Il principio non è brutto: l'avrebb'a ire a finir bene!

Giulia—L'ho detto che non avevo sbagliato a crederlo un ignorante.

Direttore—Contínui, signor Ispettore. Ubi major, minor cessat.

Leone—(Ammansito) Grazie. (E volto al giovane 2.º) E la lingua latina come si spense?

Giovane 2.º—Per le irruzioni de' barbari...

Leone—Sì, ma come? con che ordine?

Rodolfo—(Dio che roba!)

Giovane 2.º—Non lo so...

Leone—Non lo sa? Signor Direttore, queste sono cose elementari...

Direttore—(Ah, sfacciato!) Che vuole? il giovane è un poco sopraffatto... Lo metta ella in via, e vedrà che lo sa.

Leone—Dunque (volto al giovane), venuti i barbari in Italia sotto i Longobardi, (i ragazzi ridono) che fecero?

Giovane—Ma i Longobardi[122]...

Leone—Bene; i Longobardi che fecero?

Giovane—Nulla.

Leone—Nulla? Signor direttore... sono molto addietro questi suoi scolari!

Direttore—(Bada, che mi scappa la pazienza! Ma freniámoci.) Scusi, secondo la Critica vecchia, i Longobardi non furono i primi barbari che venissero in Italia; chè molti e molti anni innanzi...

Leone—Già, già, lo so. Ma i critici sogliono ora cominciar da' Longobardi, perchè essi esercitarono sulla povera Italia la maggiore influenza.

Rodolfo—(Dio mio ajutáteci!)

Direttore—Eh, scusi, ma i Goti...

Leone—I Goti, già, vennero dopo i Longobardi.

Sindaco—(Per bacco, questa l'è grossa davvero!)

Direttore—Ci pensi meglio, signor Cavaliere.

Fabrizio—(vedendo l'impiccio) Signor Ispettore, ella che ama tanto la Divina Commedia e Dante, ed è sì valente Dantista, intèrroghi piuttosto sopra il gran Ghibellino, che intenderemo qualcosa tutti.

Leone—Volentieri. Dica (volto al giovane 3.º) com'era Dante in politica?

Giovane 3.º—Prima fu guelfo, e combattè co' Guelfi a Caprona e a Campaldino; poi mutò parte...

Leone—Coloro che insegnano tali cose non sono capaci di comprendere l'alto concetto dantesco. Dante fu italiano, e non altro: ed egli fu l'iniziatore primo della unità italiana sotto un solo Re.

[123]

Rodolfo—(da sè) L'iniziatore primo? Sfido io! se è iniziatore non può essere altro che primo.

Direttore—(È meglio ch'i' la pigli in celia: se no va a finir male.) Mi perdoni, signor Cavaliere, ma il Trattato della monarchía, dove Dante espone il suo pensiero politico, lo ha letto? Che ci ha trovato codesto concetto, ed anche il solo Re?

Leone—Che domande son codeste? L'ho letto e studiato; e anche ne ho fatto lo spoglio, essendo esso uno de' primi testi di lingua citati dalla Crusca.

Direttore—Badi, è scritto in latino!... Ma lasciamo andar ciò. Sappia dunque che, e nella Monarchía, e nella Commedia, Dante vagheggiava la monarchía universale sopra tutto il mondo civile: l'imperatore doveva aver l'alto dominio sopra ogni paese, di qualunque forma di governo: il Papa doveva avere il dominio delle coscienze. L'Italia, che Dante chiama il giardino dell'Impero, non era, come vede, per esso, se non una parte di tal monarchía: l'Imperatore doveva, come altrove, imperarvi, non reggervi: si ricordi che anche di Dio disse: In tutte parti impera e quivi regge; e potevano, anzi dovevano, tutte le terre d'Italia rimanere con la loro autonomía, repubbliche le repubbliche, principati i principati...

Leone—Codesta, signor Direttore, è critica codína... Non lo sentì anche il Padre Giuliani, là nel 1865?

[124]

Direttore—Io do retta a Dante, e non al Padre Giuliani...

Sindaco—Mi pare, signori carissimi, che questo non sia tempo da díspute. Contínui la sua interrogazione.

Rodolfo—Cavaliere, faccia spiegare qualche luogo fra i più belli della Divina Commedia.

Leone—(che mal può celare la stizza, e la confusione) Volentieri, Signor Direttore, (al Direttore con atto imperioso) faccia leggere al giovane, che ella crede più adatto, quel luogo sublime dove Dante incontra la sua Beatrice, il quale comincia:

«A noi venía la creatura bella
«Bianco vestita, e nella faccia quale
«Par tremolando mattutina stella.»

Direttore—(ridendo sotto i baffi, e volgendosi al giovane 2º) Su, dica lei, per ubbidire al signor Ispettore.

Giovane 2.º—«A noi venía la creatura...» (si mette a ridere)

Leone—Che mancanza di rispetto è questa? di che ride?

Giovane 2º—«La creatura bella, bianco vestita...»

Leone—Bene: che c'è da ridere?

Giovane 2.º—La non è Beatrice.

Leone—Come non è Beatrice?!

Direttore—Signor Cavaliere, forse ora ella è distratto: ci pensi meglio, e indichi esattamente[125] il luogo che desidera di udire spiegato. Che vuole? son giovani, e bisogna preparar loro il terreno...

Sindaco—(alla moglie) Mi pare che il Direttore tiri a voler metter fuori di scherma il Cavaliere; il quale, par proprio che...

Giulia—(interrompendolo) Che sia quale lo giudicai io, eh? Non dubitare, no. Sentiamo come n'esce.

Leone—Dunque Beatrice, la donna di Dante, quella che lo accompagna per il Purgatorio e per il Paradiso... (i giovani sghignazzano) Dante se la vede venire incontro tutta vestita di bianco...

Una voce—No, di rosso.

Leone—(stizzito) Insolenti! Facciano silenzio. Dunque, come diceva, Dante in que' sublimi versi... perchè Virgilio nel Purgatorio non ci poteva andare...

La voce—Vi andò.

Leone—Signor Direttore, queste sue scuole sono molto mal disciplinate.

Direttore—Mi pare di non meritar sì fatto rimprovero. Dall'altra parte son giovani, e sono compatíbili, se desiderano di far vedere che ne sanno più di coloro...

Sindaco—(interrompendo) Signor Direttore, la prego di far tacere i suoi giovani.

Direttore—Silenzio! Signor Cavaliere, i giovani sono quieti; e l'interrogato da lei, aspetta di udire le sue ammonizioni.

[126]

Leone—(al giovane) Sì, ripeto, il Purgatorio è la più bella parte del sacro poema: Virgilio vi andò sino ad un terzo di viaggio; Beatrice lo rimpiazzò; Dante la vide, e la descrive con que' versi.

Giovane—Mi perdoni, signor Ispettore: Virgilio accompagnò Dante per tutto il Purgatorio: que' versi, da lei per isvista citati, descrivono un angelo; e Beatrice è descritta così dal poeta, là nel canto XXVII del Purgatorio quando apparisce a Dante:

Sotto candido vel, cinta d'oliva,
Donna m'apparve...
Vestita di color di fiamma viva[60].

Leone—Lo sapevo da me; e mi maraviglio che ella si metta a far il maestro a un suo superiore.

Giovane—Ma a me mi par che non lo sapesse...

Leone—Insolente! (i ragazzi ridono) Signor Direttore, (monta su tutte le furie) ella solo è responsabile dell'insulto che ricevo nella sua scuola. Il Ministro mi sentirà... E lei, signor Sindaco,[127] farà chiudere la scuola. I giovani possono andare.

Direttore—Signori, vadano pure... (i giovani escono ridendo: il Sindaco, Rodolfo e la Giulia, si alzano)

Leone—E lei, signor Direttore, me ne renderà conto. Nella persona mia è offesa la maestà reale.

Direttore—(acceso di sdegno) Sì, mi par di sentire quella maschera d'un teatro toscano, che, essendo col suo lucernone in capo, pretendeva di tenere a freno certi suoi schernitori, dicendo che egli rappresentava S. A. il Granduca. O senta dunque che cosa le ho da dire; e questi signori mi scuseranno: e se lei, sor Ispettore, ricorrerà al Ministro, io saprò che cosa rispondere; e si vedrà chi ne va a capo rotto. Io mi maraviglio bene di un governo, che, a sindacare, e sopravvegliare le scuole, dèputa farfanícchi suoi pari, che appena sarebbero buoni a far il maestro di prima elementare; e dà persino ad essi delle onorificenze; e che non hanno altro pregio, se non quello della ciarlatanería e della più abietta servilità, di mutar casacca a ogni momento, di incensare tutti gl'idoli nuovi, e prostrarsi a tutti i nuovi padroni; di strisciare i ricchi e i potenti; di farsi largo a forza di male arti, e di viltà e umiliazioni di ogni genere: e che, mentre dovrebbero contentarsi di star ne' loro cenci, e godersi gli onori non meritati, osano di impanciarsi a parlare di[128] cose che non sanno; e abusano vilmente il loro ministero...

Fabrizio—Signor Direttore, pensi a quello che dice: si calmi. Il suo procedere non è degno di lei.

Rodolfo—(alla Giulia) Lo sapevo che sarebbe ita a finir male. Proprio me la godo!

Giulia—Ma il Direttore esce troppo fuor del mánico.

Leone—(in tutto il discorso farà i più strani atti di sdegno) Vedremo! A me tali insulti? loro signori, sono testimoni... A un mio pari!

Giulia—Si calmi, signor Cavaliere. Il Direttore è sopraffatto da qualche cosa. Ma si accorgerà egli stesso del suo errore...

Direttore—(al Sindaco, dandogli la lettera dell'Elvira) Guardi, se ho ragione di parlar così. Affido questa lettera alla sua lealtà. (Il Sindaco leggendo fa atti di stupore.)

Leone—Non ammetto scuse. Prima al Ministro: poi al Tribunale (come invasato).

Direttore—Vedremo quel che la ci guadagnerà. Signor Sindaco, mi permetta di uscir di qui, perchè non voglio pormi nel caso di perdere la pazienza davvero.

Fabrizio—Si serva. (Il Direttore parte. Il Sindaco volto a Leone, che fa atti di scusa) Signor Cavaliere, mi duole proprio amaramente...

Leone—Ma spero che anche lei, signor Sindaco, mi farà dare solenne riparazione. Che si canzona![129] Un'autorità costituita... nell'esercizio delle sue funzioni!

Giulia—Signor Cavaliere, anch'io sono dolente di questo scandalo; ma sono le solite bizze de' letterati. Faccia una cosa, ci rida su, e stia allegro. Il Direttore le chiederà scusa... (Nel tempo che parla la Giulia, il Sindaco e Rodolfo confabulano; e il Sindaco fa vedere al cognato la lettera della Elvira.)

Leone—Mi perdoni, signora Giulia, ma voglio vederne la fine... bisogna dare un esempio...

Rodolfo—(Chiama da parte Leone, e gli dice:) Leone, credo che sarà meglio per voi il lasciar correre. Alla fin de' conti il torto è vostro... Si riderà su per i giornali della vostra ignoranza: la maestrína, alla quale avete promesso favore sotto condizione, ne scrisse súbito al Direttore, il quale vi ha fatto quella celia, mosso da giusto sdegno, e da gelosía: io sono stato testimonio di tutto: sono amico del Ministro... e in coscienza dovrò dirgli la cosa come sta, per non veder fatta un'ingiustizia.

Leone—(a queste parole allibisce) La maestra non è vero...

Rodolfo—Ci conosciamo da trent'anni...

Custode—Signori, ci sono le carrozze.

Giulia—Andiamo, andiamo, signor Cavaliere; non ci pensi più. Seppelliamo ogni cura e ogni rancore in un bicchiere di Sciampagna: il pranzo ci aspetta. (Giulia dà il braccio a Leone, ed escono).

[130]

Fabrizio—Oh che scene!

Rodolfo—Ma come si è ammansito súbito, eh? Lesto, lesto: raggiúngili: io verrò a piedi. Bisogna che parli prima col Direttore. (Fabrizio parte; e Rodolfo chiama) Giovanotto.

Custode—Comandi, signore.

Rodolfo—Senti un po' se il signor Direttore può favorir qui da me.

Custode—Súbito.

Scena Terza

Rodolfo solo.

Qui bisogna vedere che questo scandalo non si faccia più grave; che non vorrei tornasse a danno anche di questo buon Direttore, e della signora Elvira. Benchè...

Scena Quarta.

Direttore e detto.

Direttore—(interrompendolo) Che mi comanda il signor Commendatore?

Rodolfo—Comandare, nulla. Solo volevo, ora che sono andati via tutti, studiar con lei il modo di riparare a questo guajo; e vedere se la cosa può andare a buon fine per tutti.

Direttore—Ella ha veduto quella lettera alla mia Elvira. Le pare una bella prodezza? le pare ingiusto il mio sdegno?

[131]

Rodolfo—No, ingiusto non è: ma però egli è sempre Ispettore, e lei ha passato il segno... e poi nel tempo della Ispezione! in presenza degli scolari... Se non una pena, una mortificazione non può mancarle.

Direttore—C'è tanti giornali!...

Rodolfo—No, no: la senta. Io ho de' conti vecchj con quel sor Leone: mi ha sempre sdegnato il suo strisciar con tutti: la sua insaziabile smania di parer da qualcosa, senza esser nulla: il suo continuo braccar lodi da' giornalisti: il voltar casacca da un momento all'altro: la sua stomachevole piacentería con tutti coloro da cui crede poter trarre qualche frutto; e mi ha pure stomacato e mi stòmaca quel suo esser così donnajuolo, benchè a quel mo' ridícolo, e ora vecchio; e però, io come io, ho avuto molto caro che la gli dia questa lezione. Ma le ripeto, a come stanno le cose ora, se egli potrebbe aver de' rimproveri, o forse esser anche destituito, anche lei non anderebbe esente da rimproveri, che potrebbero esser cagione di frastornare il suo matrimonio, e il miglioramento di sorte della sua Elvira.

Direttore—Ma dunque?

Rodolfo—La senta: bisogna fare in modo che l'amico ne faccia una delle più grosse: e la farà di certo, se noi sappiamo dissimulare, ed assicurarlo da ogni amarezza. Egli ci cascherà: so quel che dico; e lo conosco troppo bene. Allora l'uomo è nostro: penserò io a impaurirlo; e[132] gli faremo fare tutto quello che ci parrà e piacerà. Ma bisogna che la dia retta a me.

Direttore—Sentiamo!

Rodolfo—Ella è invitata a pranzo dal Sindaco. Venga; e mostrandosi dolente del fatto accaduto, preghi l'Ispettore a dimenticarlo.

Direttore—Eh!

Rodolfo—Aspetti... Egli, tanto, è un buacciuòlo; e tutti sanno che la cosa si fa per celia. Lo lodi: lo imburri; si raccomandi anche...

Direttore—Ma senta, signor Commendatore...

Rodolfo—Si tratta di far la burletta; e da questa può nascerne il bene di lei e della sua Elvira. Mi dia retta: rideremo; ed Ella e la sua Elvira saranno contenti. Se mi riesce, non solo il caro Leone non si risentirà del torto che ella gli ha fatto; ma e della scuola e di lei scriverà al Ministro ogni bene; e ajuterà efficacemente il buon èsito della súpplica della signora Elvira, la quale farò in modo che venga a finir la serata da mia sorella; e potrà giovarci anche lei maravigliosamente. Ma perchè il topo resti in tráppola, bisogna che sia tranquillo d'animo. A tavola glielo metterò accanto: lo tratti onorevolmente, e gli mesca da bere...

Direttore—Mi fido di lei; e l'ubbidirò.

Rodolfo—Io scappo, per non dar sospetto. A rivederci a or ora.

Direttore—A rivederla. (Rodolfo parte) Vediamo come va a finire. Sicuro, i' mi sono un poco lasciato[133] andare... Ma dall'altra parte un farfanícchio a quel modo... Andiamo a vestirci per il pranzo.

Scena Quinta.

Elvira e detto.

Elvira—Mi è stato detto che eri qui; e qui son venuta per saper un poco com'è andata la faccenda...

Direttore—Ora non posso distendermi troppo a raccontarti ogni cosa per filo e per segno; ma sta certa che l'ho servito di coppa e di coltello. L'ho solennemente scorbacchiato in presenza di tutti.

Elvira—Dio mio! ma questa cosa ti potrebbe far danno, e frastornare le nostre nozze.

Direttore—Veramente un po' troppo uscito dal mánico, sono; e me l'ha detto anche il Commendatore: però mi ha consigliato come mi debbo regolare; e spero che la cosa anderà a finir bene anche per noi. Il Commendatore ha immaginato non so che burletta; e mi ha accertato che, se noi lo secondiamo, ce ne troveremo contenti. Anzi ti avverto che la signora Giulia ti inviterà stasera al thè: sta preparata; e seconda anche tu il nostro disegno, che il Commendatore si dà molta cura anche per noi, e ama di veder concluso il nostro matrimonio.

Elvira—Tanto meglio. Dunque va pure a prepararti[134] per il pranzo; ed io verrò a casa della signora Giulia volentierissimo. Addio.

Direttore—(le stringe la mano) Addio. (L'Elvira esce; il Direttore scrive alcuni appunti; e poi dice) Ecco fatto! O andiamo. (Esce e cala il sipario)

FINE DELL'ATTO SECONDO.


[135]

ATTO TERZO


Scena Prima.

La stanza del Sindaco come nell'atto I.

Fabrizio—(seduto al tavolino) O questa proprio me la sono goduta! Non c'è che dire: le donne hanno gli occhj più lunghi di noi! Questo sor Ispettore, disse la Giulia appena letta la lettera, debb'essere un ignorante e uno scroccone; e non è scattato un pelo: proprio tale in carne e in ossa. Che bocconi! come tracannava! (Firma alcune lettere) Ora bisognerà tornar di là, a veder come finisce la scena. Che grullo! E come ci ha creduto súbito alle scuse del Direttore! e come ha preso per contanti gli encomj che gli si facevano...

Scena Seconda.

Giulia e detto. Giulia—Fabrizio, cerca di sbrigarti. Abbiam finito di prendere il caffè, e vogliamo passare in sala.

[136]

Fabrizio—O che non potete andare senza di me? Io ho qualche cosuccia da fare.—Ehi, dimmi un po': séguita a andar bene tra l'Ispettore e il Direttore?

Giulia—Pajono amiconi da cent'anni. Un po' l'arte sopraffina del Direttore; un po' i fumi del buon vino; quel caro cavaliere parla con una effusione di cuore che innamora. Ha dimenticato la scenata della scuola; e ha ripreso, a quanto pare, il disegno fatto circa alla Laura...

Fabrizio—Disegno circa alla Laura? Che disegno?

Giulia—Non ne sai nulla? Credevo che Rodolfo te n'avesse parlato.

Fabrizio—No... Io so solamente di una certa proposta insolente che l'Ispettore fece alla signora Elvira.

Giulia—Ma il sor Ispettore non si ferma a una sola. Prima che con la Elvira, si era aperto amorosamente con la Laura, ed era venuto alle strette; e vuole a tutti i patti che stasera lo riceva da solo a solo...

Fabrizio—Non mi canzoni! O come lo sai?

Giulia—Rodolfo, senza volere, ha veduto e udito ogni cosa, e me lo ha detto. Anzi credo che tutto questo rimpaciamento tra il Direttore e il Cavaliere sia maneggio di Rodolfo stesso, il quale ha voluto che ogni amarezza e ogni dispiacere si diléguino dall'animo dell'Ispettore, affinchè non abbandoni per essi, o ci vada meno caloroso, l'affare della Laura. E di fatto par che,[137] non solamente duri nel suo propòsito, ma che ci si sia riscaldato; perchè, scontrátala nell'uscir da pranzo, le ha detto non so che negli orecchj, e credendo di non esser veduto, le ha fatto anche pa[61].

Fabrizio—O sciocco che non è altro! Ma senti: Giulia; queste son cose che non istanno bene, e tu mi scandalizzi a pigliarle in burla come fai.

Giulia—È tutta farina di Rodolfo: egli vuol fare al signor Leone, sua vecchia conoscenza, una burla solenne, nella quale non ci sarà ombra di scandalo; e dalla quale anzi nascerà un gran bene.

Fabrizio—Quel Rodolfo mi pare un po' troppo spericolato, e non vorrei trovarmi a qualche pasticcio.

Giulia—Per codesto sta' pur sicuro... Ma sentiamo la Laura stessa. (Suona il campanello e viene un servitore) Dite alla Laura che venga qui. Sentiamo un po' meglio da lei, per potersi governare anche noi. Oh, tanto meglio, ecco anche Rodolfo.

Scena Terza.

Rodolfo e poi la Laura.

Rodolfo—Ma di là siamo tante mosche senza capo: venite via.

[138]

Giulia—Senti, bisogna prima intendersi su questa faccenda dell'Ispettore.

Fabrizio—Sì, perchè non vorrei pasticci...

Rodolfo—Non dubitare, no. Senti.

Laura—(entra) Mi comanda signora?

Giulia—Oh, bene! due colombi a una fava. O sentiamo un po' che cosa avete almanaccato contro quel valente cavaliere.

Laura—Signor Commendatore, lo dica lei.

Rodolfo—Io dirò quel che si può dire. Del rimanente state pur certi che non nascerà veruno scandalo. La Laura tra poco fingerà di sentirsi poco bene, e ti domanderà di poter ritirarsi in camera sua: il caro Leone, già indettato con lei, domanderà di ritirarsi per qualche momento a scriver lettere, e anderà dalla Laura... Altro non posso dirvi per ora: governerò il tutto io; e tu, Giulia, secóndami, e sii certa che non farei niuna cosa disdicevole a una mia sorella.

Fabrizio—E tu, pazzerella, acconsenti a far questa bella figura?

Laura—La stia pur certo, signor padrone, che la parte che fo io la potrebbe fare una monaca.

Rodolfo—Via, via, non facciamo più chiácchiere. Andiamo di là; che non istà bene questo sparire di tutti i padroni di casa. (Partono)

[139]

Scena Quarta.

Sala di conversazione. Varj convitati che giuocano, chi a scacchi, chi a calabresella, i quali ogni tanto fanno qualche parola riguardante il loro giuoco. A un tavolino sul davanti Leone e il Direttore, che giuocano a dama.

Direttore—Signor Cavaliere, le buffo questa dama; doveva mangiarmi la pedina.

Leone—Ecco le solite distrazioni!

Direttore—Che vuole, lei ha altri pensieri che il giuoco della dama...

Leone—Pur troppo la dice bene... E anche stamattina nella sua scuola... tutte distrazioni, sa?...

Direttore—Lo vedeva bene, io; e me ne profittai per vendicarmi un poco... ha capito?... Che vuole? mi perdoni?...

Leone—Anzi mi perdoni lei... Sa: non sapevo... Del resto... (si alza). Ma questo giuoco sarà bene smetterlo, eh?

Direttore—Smettiamo. Io credeva di far piacere a lei...

Leone—Grazie tante... La senta, signor Direttore: io ho pubblicato un ultimo mio lavoretto... Non sarà gran cosa... ma è fatto con amore... Gliene manderò una copia.

Direttore—Mi terrò onorato d'un suo dono: e son certo che da quel libro imparerò assai.

Leone—Veramente alcuni giornali ne hanno parlato[140] anche troppo bene; ma temo di adulazione; e vorrei che qualche uomo leale e spassionato ne dicesse proprio quel che ne pensa su qualche giornale accreditato. Lei, vede, potrebbe darlo questo giudizio; gliene sarei proprio tenuto: e se poi potessi fare qualche cosa per lei...

Direttore—Volentierissimo, signor Cavaliere.

Scena Quinta.

Rodolfo, Giulia, Fabrizio.

(Tutti si alzano)

Giulia—Signori, ci perdónino se gli abbiamo lasciati qui soli. Mio marito doveva sbrigare una faccenda per il Municipio: io e mio fratello abbiam dovuto attendere a preparare un giochetto per più tardi. E per di più è venuta una forte emicránia alla cameriera, che l'ho dovuta accompagnare io stessa in camera sua, e ordinarle che vada a letto.

Leone—(Tra sè) Povera Laurína! è stata di parola. Or ora verrò a consolarti, sai!

Direttore.—Ma le pare, signora! che accadono scuse? Avremmo tutti avuto dispiacere, se, per cagione di noi, avessero trascurato le cose loro.

[141]

Scena Sesta.

Un Servitore e poi Elvira.

Servitore—La signora maestra Elvira.

Giulia—Passi súbito (le va incontro). Brava signora Elvira: ci ha fatto proprio un favore.

Elvira—Sarebbe stata villanía il rifiutare sì cortese invito.

Leone (Vedendo l'Elvira, si trova impicciato).

Rodolfo—Signor Leone, stasera ci vorrebbe un poco di quel saporito brio, col quale ella condiva già le più nobili conversazioni.

Leone—Eh, caro Commendatore, lei, che delle più nobili conversazioni è stato sempre il più bell'ornamento, dubito che voglia prendersi giuoco di me, povero letteratuccio... ma pure, la guardi, stasera mi sento in vena, e chi sa... Prima però bisogna che le mi concedano una mezz'oretta di tempo per isbrigare alcuni affari di ufizio; e poi tornerò qui, e mi studierò di ringiovanire.

Fabrizio—Si serva pure: ella sa dov'è tutto l'occorrente per iscrivere.

Rodolfo—(alla Giulia). Ci siamo: il topo si avvía verso la tráppola. Attenti.

Giulia—Signor Cavaliere, noi andiamo di qua nella sala del pianoforte; e aspettiamo lei per prendere il thè.

Leone—(Leva fuori l'orologio). Una mezz'oretta mi basterà. Guardi, sono le otto e un quarto; prima delle nove sarò da loro.

[142]

Varie voci—Dunque l'aspettiamo: faccia presto.

Leone—Ma lor signori son troppo cortesi verso di me. A rivederli a or' ora (passando vicino all'Elvira:) Signora Elvira, mi ha perdonato, eh? Mi raccomando a lei. (L'Elvira fa un atto di assentimento col riso sulle labbra; e Leone esce).

Rodolfo—(alla Giulia e al Sindaco). Non si può negare che sia un gran buffone. Ora vedremo quel che sa fare.

Fabrizio—Rodolfo, mi raccomando; bada che non accada qualche scandalo. Giulia, anche te...

Giulia—Sta di buon animo: finirà tutto allegramente. (E volta agli invitati:) Signori, passiamo di qua, dove si starà più comodi; e intanto la signora Elvira ci farà sentire qualche nuovo pezzo di musica sul pianoforte.

Elvira—Volentierissimo, giacchè la signora si contenta di così poco.

(Escono ordinatamente, e co' soliti convenevoli).

Scena Settima.

Camera della Laura; da una parte il letto da una persona con parato, e alcuni mobili.

Laura e Caterina vecchia.

Caterina—Ma che pasticci mi fai fare, pazzerella? Badiamo che non mi trovi a...

Laura—A che ti vuoi trovare? fammi il piacere! (Le accomoda le vesti). Guarda, tu pari tutta me. Ora pòsati sul letto: l'uscio è accosto; quando[143] viene l'amico, stúdiati più che puoi di nasconder la faccia: parla sottovoce. Abbassiamo dell'altro la calza di questo lume, (lo fa) e tiriamo ben giù la ventola. Così va ottimamente. Io sto qui nello stanzino accanto: fa' pulito ogni cosa; e ci sarà per te un bel regalíno. Ricòrdati bene di tutto (si sente rumore). Sta'... mi par di sentir gente. Addio.

Scena Ottava.

Leone e detta.

Caterina—Dio mio! in che pasticci mi mette questo capo sventato.

Leone—(apre adagio adagio e mette il capo dentro) Laurína!...

Caterina—Chi è? (scende dal letto).

Leone—(entra). Son io, amor mio.

Caterina—(sottovoce) O Dio! È lei, sor cavaliere? Per carità, parli sottovoce. Oh, che ho fatto! Tremo come una foglia.

Leone—(si avvicina) Fídati di me, mia dolcissima Laura: io son qui per farti felice. Vieni, amor mio, tra le mie braccia.

Caterina—(fa la ritrosa) Senta, signor cavaliere...

Leone—Ma perchè mi tratti col sor cavaliere, e col lei? L'amore non vuol complimenti.

Caterina—Mi vergogno a darle del tu...

Leone—Ma no: fatti coraggio, anima del cuor mio... (si avvicina sempre più).

[144]

Caterina—Per l'amor di Dio, Leoncíno mio, abbi compassione di me... Sono una fanciulla onesta... Non abusare della confidenza che ho avuto in te...

Leone—Angiolo mio, (la abbraccia affettuosamente) io sarò tuo, tuo per sempre: ti adorerò proprio come le cose sante; ma calma per carità quell'ardore che ora mi avvampa. (Si sente rumore di passi).

Caterina—Signore, ajutatemi! Siamo scoperti.

Leone—(s'impaurisce) Laurína, per carità... Oh, Dio! dove mi nascondo?

Caterina—Qui, qui, dietro il parato del letto.

(Leone si nasconde; e Caterina si distende sul letto).

Scena Nona.

La signora Giulia con Rodolfo, e detti.

Giulia—Laura...

Caterina—(coprendosi) Signora...

Giulia—Come stai!

Caterina—Poco bene, signora...

Giulia—Ma qui c'era gente... Con chi discorrevi?

Caterina—Signora mia, con nessuno...

Rodolfo—(nel tempo che le due parlano, gira per la stanza, e adocchia il nascosto.) Con nessuno, eh? O qua dietro chi c'è'? (Va e tira fuori Leone, che resta confuso e immòbile.) E che faceva, signor Ispettore, là dietro?

[145]

Leone—Passeggiavo...

Giulia—Senti, passeggiava! Ed una persona della sua età, del suo grado, si lascia andare fino a questo punto, e rispetta così l'ospitalità?

Leone—Signora, per pietà... Che vuole? Al cuore non gli si comanda. Commendatore, mi raccomando anche a voi...

Rodolfo—Ah! ora vi raccomandate? Dopo aver così vituperosamente sparlato di me, e messo su de' giornalisti a scrivermi contro, avete il coraggio di raccomandarvi a me!! Meritereste che vi rendessi pan per focaccia.

Leone—Credete, Commendatore, son calunnie...

Rodolfo—Chetatevi, sfacciato! ci conosciamo. Un vostro pari, e chiappato in questo luogo, parlar di calunnie! Vedi, Giulia, che gente si elegge a ufficj così gelosi! Vedi che ospite gentile si è ficcato qui in casa tua.

Leone—Per carità...

Rodolfo—Non c'è carità che tenga; e mia sorella, per ora, dee conoscere di che be' panni vestite. Voi non avreste dovuto dimenticare con quali arti vi sia riuscito farvi un po' di largo nel mondo, voi, che e per ingegno e per istudj non avreste mai potuto stare se non terra terra. Encomiatore sfacciato di ogni ricco e potente, vi abbracciaste alle falde d'un letterato di qualche nome ed egli vi mise al mondo come letterato, benchè fosse il primo a mettervi in canzonella, e contraffare i vostri modi ridícoli: vi voltaste come le banderuole ad ogni vento che tirava, e scriveste[146] per bianchi e per neri, per guelfi e per ghibellíni: cercaste sempre lodi e favori, o raccomandandovi a modo di pitocco, o cercando di destar compassione: sempre vi ficcaste presso questo e quello: la vostra vita fu un continuo domandare impieghi ai governi di tutti i colori; e piangevate di consolazione, raccontando le udienze degli Arciduchi figliuoli di Canapone, come poi piangevate di gioja raccontando quelle de' figliuoli di Vittorio Emanuele: sfruttaste anche voi il sacro nome d'Italia... E foste creduto dagli stolti; e squadernando dinanzi agli occhj degli asini in seggio le lodi pitoccate e bugiarde, aveste ufficj e onorificenze. Questi e queste vi fecero dimenticar l'esser vostro: credeste d'esser davvero uomo da qualcosa: accortamente sfruttaste l'ira che aveva contro di me un giornalista, il quale, per fare, secondo lui, dispetto a me, celebrò e fe' celebrare le vostre sciocchezze stampate.

Leone—Ma, Commendatore...

Rodolfo—Chetátevi: accenno solo qualcuna delle vostre prodezze, per edificazione di mia sorella, la cui casa avete adesso contaminata; ma potrò squadernarle tutte a tutti, se non ponete al presente scandalo quel rimedio che solo può esserci.

Leone—Commendatore, signora Giulia... mi raccomando... non mi rovinate... Ditemi quello che debbo fare.

Giulia—Con quale intenzione ella era venuto in questa camera?

[147]

Leone—Con onesta intenzione; e lo aveva detto anche alla Laurína.

Giulia—Dunque ella è pronto a fare il suo dovere sposandola?

Leone—Come! qui su due piedi?...

Rodolfo—Esitereste forse?

Leone—Non èsito: ma qui, ora...

Rodolfo—Qui, ora dovete darle la mano, e giurarle fede; e dobbiamo annunziare il matrimonio di là alla conversazione. Questa è la condizione prima che io pongo alla vostra salvezza.

Leone—Ed io lo farò.

Giulia—(Va al letto dov'è la creduta Laura, e scoprendola e alzandola, la conduce sul davanti. Veduto che è la vecchia, Rodolfo e la Giulia danno in una risata; Leone si copre il volto colle mani.)

Caterina—Signora, avesse sentito che parolíne dolci mi diceva il mio Leoncíno!

Laura—(esce dallo stanzino) Eccomi qua io a spiegare tutta questa faccenda: io ho fatto quel che ho fatto, per dare una lezione al signor cavaliere, il quale, al modo tenuto meco, doveva avermi preso per qualche civetta; ed ho voluto fargli vedere che sono una ragazza onesta, e che tutte le cameriere non sono pari a quelle che forse egli ha trovato sin qui.

Rodolfo—Vedete, signor Leone, anche una fanciulla vi dà lezioni di morale e di creanza. Spero che, se l'amavate prima, come le giuravate, adesso l'amerete anche più... e farete il vostro dovere.[148] Lo sfregio aveste intenzione di farlo a lei, ed a lei dovete fare giusta ammenda.

Laura—Ho inteso ogni cosa; e so di che si tratta: ma io ringrazio tanto e poi tanto. Per ora amo di restar fanciulla, e non abbandonerò la mia buona signora; ma, se dovessi rompermi il collo...

Rodolfo—Lo vorresti fare con un po' più di sugo, è vero? Brava Laura. Sentite, Leone, la Laura rifiuta le vostre grazie: dunque di ciò non si parli più. (Leone è nella massima confusione.) Oh, senti, Giulia, tu va di là in sala; e così voialtre due (alla Laura e alla Caterina) uscite per un momento di qui; che debbo dir due parole all'Ispettore, col quale verrò tosto di là anch'io, e finiremo allegramente la serata. (Tutte le donne vanno via.)

Leone—Rodolfo, vi siete vendicato troppo crudelmente.

Rodolfo—Troppo cortesemente dovete dire. Ma adagio, ci restano molte cose da fare. Voi avete abusato vilmente della vostra autorità con la villana proposta fatta alla maestra: avete ferito nel cuore il direttore, che è per essere suo sposo: avete violato l'ospitalità di questa casa onorata; e nella scuola avete dato prova della vostra asinità. Acciocchè tutte queste cose rèstino celate, bisogna che voi facciate di tutto per farle dimenticare.

Leone—Ma che cosa?

Rodolfo—Nulla che non sia di stretta giustizia, e secondo la pura verità. Farete un largo rapporto[149] al Ministro, dove farete l'elogio che meritano al sindaco e al direttore per il buon procedere delle scuole; delle quali parimente direte tutto il bene possibile: nè direte bugía, quando gli scolari di esse hanno mostrato di saperne più di voi.

Leone—Ero distratto...

Rodolfo—Síe: eri distratto!—Vi adoprerete con ogni efficacia, ed io verrò in vostro ajuto, perchè la súpplica della signora Elvira sia risoluta favorevolmente, e si possa fare con più allegría il suo prossimo matrimonio. Promettete ogni cosa?

Leone—Prometto.

Rodolfo—Per cancellare poi ogni sospetto dalle menti de' convitati, vi mostrerete lietissimo, farete ogni atto di cortesía al Direttore e alla Elvira; e, come siete poeta, così farete un sonetto per le loro nozze.

Leone—Mi proverò.

Rodolfo—Dunque andiamo; ma prima ascoltate un consiglio. È un po' tardi; ma sarà sempre opportuno. Temperate quella smania di nominanza che vi consuma; tanto, siate pur certo che le lodi accattate, e fatte o per favore, o per amicizia, non sono sufficienti a dar fama durevole; e chi non ha stoffa vera, come suol dirsi, resterà sempre un minchione, anche se lo celebreranno cento lingue e cento penne: anzi quelle lodi gli saranno cagione di scherno appresso le persone che veggon diritto. Temperate la lingua,[150] e datevi anche una risciacquatína al cuore; chè è da vera birba il far l'arte che avete fatto con noi sino ad ora. Non dico altro, perchè m'intendete. Di ciò che avete detto o fatto contro di me non ne faccio verun caso, nè ve ne serbo odio: mi basta la leggiadra vendetta che io ne ho potuto fare qui in casa di mia sorella: e però, dove facciate appuntíno quanto avevate promesso, non dubitate che io sia per nuocervi minimamente.

Leone—Farò tutto senza che manchi un ette.

Rodolfo—Bene. Intanto andiamo a prendere il thè: mostratevi allegro, e mettete alla prova tutta la vostra fantasia! (Partono).

Scena Decima.

Sala del thè.

Giulia, Elvira, Fabrizio, il Direttore e tutti i convitati.

(L'Elvira è al pianoforte, e avrà finito una sonata: tutti battono le mani).

Giulia—(Va là e le stringe la mano) Brava signora Elvira; mi rallegro proprio di cuore: lei suona come un angelo.

Elvira—(si alza) Troppo buona la signora Giulia.

[151]

Scena Ultima.

Rodolfo, Leone e detti.

Rodolfo—Oh! siamo arrivati troppo tardi!

Leone—Abbiamo sentito, avvicinandoci, un concento di paradiso...

Rodolfo—(sotto voce) Bravo! così.

Fabrizio—Era la mano maestra della signora Elvira.

Leone—(avvicinandosi alla Elvira) Le faccio, signora Elvira, i miei complimenti; e mi duole di non essermi potuto beare nelle sue celesti armoníe.

Elvira—Tutta bontà sua. L'approvazione de' suoi pari è il più bel premio che io possa sperare dalla mia buona volontà.

Rodolfo—(da sè) Senti come la sa lunga! E quel baccello si beve la sopraffina canzonatura come un delizioso liquore!

(Viene il thè: la Giulia lo prepara, e poi l'offre a questo ed a quello. Gl'invitati siedono senza ordine e senza precedenza).

Fabrizio—Dunque, signor Cavaliere, com'è contento di questa città e di queste nostre scuole?

Leone—Contentissimo: posso dire che questa Chiusi, lungi dall'esser chiusa, è per me il più spazioso e apríco giardino che mai abbia veduto, e dove fioriscono i più eletti fiori, degni del paradiso (volgendosi alle donne).

[152]

Rodolfo—(da sè) Ohe! questi sono voli più che pindárici.

Leone—Per le scuole e per gl'insegnanti, non ho mai veduto di meglio nella mia dura carriera; nè può essere altrimenti, quando ci sono delle signore Elvire e dei signori Carli.

Elvira e Carlo—Troppo buono!

Leone—C'è stato un piccolo malinteso... ma il valente direttore mi ha fatto veder la cosa per il suo verso; sì che, invece di sdegno, mi ha accresciuto la stima.

Direttore—E qui corampopolo gliene rinnuovo le più umili scuse.

Leone—Lasci stare le scuse. Lei è degno della mia stima e della mia protezione.

Direttore—Troppo onore! troppa grazia!

Fabrizio—Anche la signora Elvira anderà superba di tanta sua degnazione, dovendo tra poco essere sposa del signor Direttore.

Rodolfo—Oh, mi rallegro... E quando, se è lécito?

Direttore—Ora a Pasqua.

Rodolfo—Bravi! Cavaliere, voi siete valoroso poeta, ed anche all'improvviso: su, preparate un sonetto per questi due sposi, che tanto vi onorano e vi stimano.

Leone—Caro Commendatore, volentieri... ma così stans in duobus pedibus.

Fabrizio—(al Direttore sotto voce) O non si dice stans pede in uno.

[153]

Direttore—(c. s.) Sì: ma egli ha la licenza di dire a quel modo.

Giulia—Bene: si ritiri nella stanza accanto, e ci pensi su: io sono ambiziosa di poter dire: qui in casa mia scrisse e declamò un sonetto l'illustre Feroci.

Leone—A tanta cortesía non è possibil resistere: mi proverò. (Va via)

Rodolfo—Io non mi son mai trovato a uno spasso come quel di stasera: e tu, Giulia, e lei signora Elvira, e il signor direttore, fate maravigliosamente la vostra parte. Ma quel demonio della Laura, eh?

Fabrizio—Insomma si può sapere com'è andata?

Rodolfo—Te lo dirà poi la Giulia: ti basti che tutto è andato bene; che l'Ispettore si era indotto a sposar Laura, e che ella gli ha detto un bel no.

Fabrizio—Ma, o in camera?...

Giulia—C'era la vecchia Caterina... (Ridono tutti)

Direttore—Ma dica, Commendatore, come anderà del rapporto al Ministro?

Rodolfo—Non ha sentito? Porterà a cielo ogni cosa... E poi lasci fare a me.

(Nel tempo del colloquio gli altri fingeranno di parlare tra loro, e sfoglieranno libri e album, l'Elvira guarda della musica insieme con la Giulia.)

Fabrizio—A propòsito: guarda se mi fai dare un po' di nastro all'occhiello: non per me, sai,[154] ma perchè sono quasi il solo sindaco non cavaliere; e poi per decoro di tua sorella.

Rodolfo—Se non vuoi altro che una croce, sta di buon animo, che non ti mancherà. Tu lo sai, come dice quell'amico: Una croce e un sigaro non si nega a nessuno.

Leone—(entra) Ecco fatto.

Giulia—Come! così presto?

Rodolfo—O non l'ho detto che scrive all'improvviso?

Leone—Bádino, ve', signori, mi usino compatimento. (Legge e gestisce con enfasi)

Tu sei Minerva, o Elvira; e tu se' Apollo,
O illustre Carlo; e se vi unite insieme.
Da voi d'eroi nascerà chiaro seme,
Di cui l'ausonio ciel ben fia satollo.

Quando sotto il dolce giogo porrete il collo,
Rifiorirà d'Italia ogni altra speme;
E quel che più a noi Italiani preme,
S'impregnerà di gloria ogni rampollo.

Ritornerà per noi l'età dell'oro;
Ritornerà, credete, êra novella;
Faremo tutti un bello eletto coro.

E in quel carattere che mai non si cancella,
Griderem tutti nel più stil sonoro:
Viva il dottissimo Carlo e Elvira bella.

(Mentre legge, Rodolfo, Carlo, e tutti, udendo gli spropòsiti, fanno atti di scherno e di maraviglia).

[155]

Tutti—Bravo! viva il poeta! viva il cavaliere Ispettore.

Leone—(tutto giojoso) Grazie, grazie, signori e signore. Scuseranno: quasi improvvisato!

Tutti—Bello, bellissimo! Bravo!

Giulia—(Va da Leone, e dandogli la mano dice) Mi rallegro con lei, signor cavaliere (Leone fa delle svenevoli scimmiottate); e come è stato tanto cortese per la poesìa, così oso pregarla di esser tale sino in fondo.

Leone—Eccomi qua: comandi.

Giulia—Vogliamo fare un ballónzolo; ed ella mi deve onorare di ballar meco la prima quadriglia.

Leone—Io lei? Lei me, ha a dire! Mi tengo più beato di questa sua garbatezza, che dell'essere coronato in Campidoglio.

(Si dispongono per il ballo: uno si mette al pianoforte e suona. Leone farà mille svenevolezze; e prima che il ballo cominci a buono, Rodolfo, guardando con atto di scherno Leone, dice)

Rodolfo—E questa è la gente che il Governo prepone alle scuole!!!...

(Il ballo comincia; e mentre ballano cala il sipario)

FINE.


[156]
[157]

L'ARLECCHINO, IL BRIGHELLA E IL CÒLA

DEL VOCABOLARIO NOVELLO DELLA CRUSCA


SCHERZO DRAMMATICO[62]

[158]

PERSONAGGI

Il Primo Compilatore.
Il Segretario della Crusca.
Arlecchino.
Brighella.
Còla.
Colombina.
Ciapo.
Rontino, bidello della Crusca.
Altre Maschere teatrali.
Due Questurini.

Siamo nel carnevale.

[159]

Scena Prima.

(Il Primo Compilatore è seduto su una gerla dinanzi al suo tavolino, e sta lavorando al gran Codice della Nazione. Scrive, pensa e si gratta il capo: ha dinanzi un monte di libri d'ogni sesto)

Ecco fatto. Questa etimología mi è costata sudori di sangue; ma posso dire di aver dato nel segno. (Legge)

«Adrugíno. Avv. Rim. Ant. F. Pucciarell. 2, 219: E s'ella (la piena) vuol pure al tutto affondarmi Nel suo andare a mettermi adrugino, Io mi lamento, e dico: o me tapino! (Forse questo strano vocabolo s'ha a leggere a drugino, e sembra una corruzione di a ritrècine, dicendosi figuratam. Andare a ritrècine, per Andare a rovina, a precipizio. Così qui Mettere a drugino significherebbe Mettere a precipizio.) Sta ottimamente. (Chiama) Rontino!

Rontino—Comandi, chiarissimo.

Compilatore—Portate questa carta a' miei colleghi chiarissimi, chè la búttino nella tramoggia, e ménino il frullone di tutta lor possa. Ma,[160] aspettate un momento: c'è altra roba da portare al buratto.

Rontino—Son qui a' suoi comandi. (Il Compilatore parte)

Scena Seconda.

Rontino solo.

(Legge la carta datagli, e lettala, dà in uno scròscio di risa; poi dice:) Stando fra queste mura, sono avvezzo a sentirne delle grosse, ma qui si passa la parte. Questo barbassore almanacca col ritrècine; e non si è accorto che quell'Adrugíno gli è un error di copista: e giusto ieri copiai per il Fanfani quel sonetto antico, dov'è tal esempio, che legge correttamente A dichino. Ma zitti un po', chè nessuno mi abbia a sentire, e corregger l'errore. Mi diverto tanto quando gli veggo sbagliare. Oh! èccolo!

Compilatore—Tenete; anche questa è roba per il frullone. O di che ridete?

Rontino—Rido di questo metter nel frullone.

Compilatore—Già lo so che siete un mezzo rivoluzionario... ma abbiate giudizio. L'Accademia cribra e affina; e gli Accademici debbono, qui tra queste sacre mura, parlare il linguaggio figurato della impresa della Crusca. Del resto, sappiate voi, e lo sappiano i nemici della Accademia, che sotto questo scherzo del frullone e delle gerle, c'è molta più gravità e molta più sapienza, che gl'ignoranti non pensino, come[161] cantò sul muso a' nostri invidiosi avversarj l'illustre nostro Segretario, vero Boccadoro. (Rontino fa un inchino, e parte)

Scena Terza.

Il Compilatore solo.

È vicino al tocco, e per oggi basta. (Accende il sigaro e passeggia per la stanza.) Birboni! Lavorar come cani dalla mattina alla sera; logorarci la vita e l'ingegno sopra il gran Codice della Nazione, per farlo tale che non ci sia una cosa sola da cancellare; e poi mettersi rabbiosamente a censurarci, ed anche a schernirci! Ma questi son tempi maledetti... Come! qualunque Arzagogo, cioè forestiero venuto da Oga Magoga, potrà censurare e schernire un mio pari senza esemplar punizione? E non c'è più un Granduca che ci protegga, e un boja che bruci i nostri nemici, almeno in effigie?... Basta: per ora le 12,000 lire durano: lasciámoli cantare; e almeno, per far loro dispetto, mostriámoci lieti. (Canta e balla)

Se dura la pasciona
M'imbúbbolo del resto:
Se mangio, bevo e vesto,
[162]E c'è' chi me lo dà,

Che accade disperarsi?
Lasciamo dir chi dice:
Viviam vita felice
Senza pensar più là.

Evviva l'allegría,
Viva la libertà.

Scena Quarta.

Rontino e detto.

Rontino—Oh, viva l'allegría...

Compilatore—(resta un po' sopraffatto, ma poi ripiglia) Sì, diglielo a que' malanni de' nostri avversarj, co' quali spesso tu parli; diglielo che qua dentro si sta allegri, e si ride delle costoro persecuzioni, perchè siamo certi della fiducia del Ministero. Bene; che volete? Che c'è di nuovo?

Rontino—C'è un uomo, bizzarramente vestito, che vorrebbe parlare con V. S. chiarissima.

Compilatore—Fatelo passare. (Rontino parte)

Scena Quinta.

Brighella e detto.

Brighella—(entra facendo un monte d'inchini e di riverenze.)

Compilatore—Venite innanzi senza cerimonie. Chi siete, e che volete?

Brighella—Son Brighella.

[163]

Compilatore—Come Brighella! Brighella è una maschera, e non uomo vero e reale.

Brighella—Ecco, signore; coloro che primi rappresentarono sul teatro le maschere, quando furono inventate, vennero per virtù divina, dopo la loro morte, trasportati in corpo e in anima, in un luogo delizioso del mondo di là, dove, con altri begliumori, fanno lieta cera. Non si ricorda del Giornale il Piovano Arlotto? eppur la se ne dee ricordare! Egli descrisse quella regione di Gelocòra, dove sta il Piovano col Berni, col Lasca, e con altri begliumori. Bene: là sto anch'io con le altre Maschere miei compagni; e come nel carnevale, colui che può, ci concede di tornar per ventiquattr'ore nel mondo de' vivi, così di queste ne ho voluto spendere una mezza qui con la vostra signoría.

Compilatore—Ah dunque lei è uno spirito (si segna). Questo è un vero onore (impaurito)... Ma che cosa vuole?

Brighella—Voleva solo ringraziarla...

Compilatore—E di che?

Brighella—Dell'onore fattomi col mettermi nel Vocabolario; dell'avermi fatto nascere in due luoghi, nel bresciano e nel bergamasco; dell'attribuirmi un carattere di piacevolezza e di furbería; e per ultimo dell'avermi fatto essere il contrapposto di quel birbone di Arlecchino, col quale sempre siamo in briga anche a Gelocòra.

Compilatore—Caro signore spirito, le sono gratissimo della sua bontà, la quale mi è soave conforto[164] alle maligne persecuzioni de' nostri avversarj.

Brighella—Però vorrei pregarla anche di una cosa...

Compilatore—Dica, dica pure liberamente; son qua per servirla.

Brighella—Bisognerebbe che, in quest'altra edizione, la correggesse quell'esser io di due provincie. Le par egli che un uomo possa esser nato in due luoghi? Poi bisognerebbe cambiare quel gli s'attribuiva un carattere, perchè io quel carattere lo avevo, e non mi si attribuiva; poi bisognerebbe che la mutasse quel carattere di briga, perchè carattere di briga, è frase ridícola; poi doveva dire che il mio linguaggio è un mescuglio di varj dialetti, con mescolanza di parole straniere; poi doveva dire com'era fatto il mio vestito, che è l'esenziale, parlando di una maschera: poi...

Compilatore—Ma, signore spirito, lei vuol troppe cose...

Brighella—Voglio ciò che mi spetta, e ciò che è suo dovere di darmi.

Scena Sesta.

Rontino e detti, poi Arlecchino.

Rontino—Chiarissimo, c'è un uomo vestito da Arlecchino che vuol parlare con lei.

Compilatore—Ma che storia è questa? Prima[165] Brighella, e ora Arlecchino: ditegli che non posso...

Arlecchino (entra da sè) Come non posso? I' so che l'ha ricevuto Brighella, e voglio passar anch'io; e voglio giustizia.

Brighella—Ma io sono da più di te.

Arlecchino—Bellíno! Tu se' un servitoraccio come me; e per di più sei un accattabrighe e un malanno.

Brighella—Malanno a me? (Gli s'avventa, e Arlecchino gli dà quattro steccate)

Compilatore—O pover a me! che impiccio è questo? Buoni, buoni, figliuoli miei; questo è luogo sacro: rispettate le ombre degli Infarinati e degli Inferigni. Su via, Arlecchino, che cosa volete?

Arlecchino—Lei ha detto nel Vocabolario che io sono un semplicione, e che sono il contrapposto di Brighella, che è un furbo spiritoso: poi ha detto che ho il vestito a scacchi di più colori. Queste son due bugíe, e voglio che siano levate dal Vocabolario. Il mio vestito non è, come vede, a scacchi, ma a toppe di più colori, e di tutte le figure geometriche; circa il semplicione, gli so dire che a furbería rivendo lei e tutti i suoi colleghi; e quanto all'esser contrapposto di questo pezzo d'animale...

Brighella—A me pezzo d'animale? (Si azzuffano da capo, e Arlecchino, lavorando di stecca, ne regala qualcheduna al Compilatore, il quale con gran fatica riesce a ficcargli fuori dell'uscio, ajutato da Rontino, corso al rumore)

[166]

Compilatore—Ringraziato Dio! Rontino, bada bene: chiunque venga, io non ci sono. (In questo entra un uomo bizzarramente vestito.)

Scena Settima.

Còla e detti.

Còla—È questa la Crusca? Siete voi (a Rontino) il Cruscajo che fa quel librone?...

Rontino—No, è quel signore là.

Compilatore—Sì, son io: che volete?

Còla—Io sono Còla: e vengo a dolermi con lei, perchè la m'ha messo in quel suo librone, dove sono tanti spropòsiti.

Compilatore—Che modo di parlare è codesto? Portate rispetto, o sarà peggio per voi. Non lo sapete in che luogo siete?

Còla—Lo so: e non ho paura. Come c'entro io nel Vocabolario? E chi le dà facoltà a lei di darmi del balordo? Poi la mi sbattezza, perchè io veramente mi chiamo Giancòla: e poi la mi fa nascere un secolo e più innanzi, intendendo come Dio vuole un verso del Bellincioni. Dunque, o mi levi, o le darò una querela per libello famoso, per diffamazione e per ingiurie.

Rontino—(Ride sotto i baffi)

Compilatore—Impertinente! Rontino, cacciate fuori questo figuro.

Còla—Figuro a me? Ah lei vuol insultare, e[167] poi tratta male chi si risente?... (Fa l'atto di andargli incontro: Rontino entra di mezzo; e mentre, ridendo ambedue, si sospingono, entra Colombina)

Scena Ottava.

Colombina e detti.

Colombina—(Vedendo que' due abbirrucciati, si spaventa, e si getta nelle braccia del primo Compilatore. Al comparire di questa bella ragazza, la zuffa cessa: Còla va via; e Rontino lo manda via il Compilatore. Colombina quasi vergognandosi) Dio mio, che spavento! Per carità, signore, mi perdoni, se, così impaurita, mi son lasciata andare un po' troppo!

Compilatore—Anzi, grazie. (La guarda ridendo stupidamente) Un bel pezzo di ragazza come voi!... Poche volte ho avuto di queste fortune... Ma, scusate, perchè siete venuta qui?

Colombina—Sa, io sono la Colombina... Le ha lette le Commedie del Goldoni?

Compilatore—Altro se le ho lette! Come! voi siete quella vispa, briosa, e avvenente cameriera, adorata da servitori e padroni?... (Le avvince un braccio alla vita, e la Colombina gli sorride) Che posso io fare per voi?

Colombina—Qui dentro si fa quel libro, che ha in corpo tutte quelle cose... che ci son tutti i nomi; dove c'è anche Arlecchino e Brighella, mie[168] antiche conoscenze, e mi hanno detto che lo fa lei signoría. Ma ecco, perchè si è scordato di me, e ricordatosi piuttosto di quello zótico di Còla, che nella commedia italiana è noto tanto meno di me? Eppure mi dicono ch'ella è cavalier compitissimo... Po' poi mi pare di non avere il viso vòlto di dietro.

Compilatore—(Stringe più forte, e fa pa alla Colombina) Carina mia, proprio fu una svista.

Colombina—Ma che svista? quando era alla voce Colombina, ci voleva tanto a ricordarsene? Ecco: son proprio rimasta male!... Ma spero che la troverà modo di rimediare; e mi ci metterà anche me, è vero? (Lo guarda affettuosamente)

Compilatore—Sì, carina: ti ci metterò quel che vuoi. (Stringe più forte) Ma tu sarai buona con me?

Colombina—Bonissima come le piacerà...

Compilatore—(L'abbraccia e le dà un bacio)

Scena Nona.

Il Segretario e detti.

Segretario—(Di dentro) Si può?

Compilatore—Oh Dio! il Segretario! Se mi vede con una donna!... Colombina, entra per un momento nel buratto. (Colombina entra) Passi.

Segretario—Scusi se la interrompo: ma ricevo[169] questa lettera del Ministro, la quale è gravissima; e bisogna stare un momento insieme per rispondere accortamente.

Compilatore—Se può aspettare un quarto d'ora, verrò io da lei: adesso vorrei dare súbito una ripassata all'articolo Colombiína, che è già nel buratto. Mi è venuto in mente una correzione da fare e non vorrei che mi sfuggisse l'occasione.

Segretario—Come l'occasione?

Compilatore—Voleva dire non mi uscisse di mente. Benedetta proprietà!

Segretario—Bene: faccia pure; e tra mezz'ora l'aspetto. (Parte)

Scena Decima.

Gli stessi, poi Ciapo ed altri.

Compilatore—Esci fuori, Colombina mia. (Esce) Vedi? ti ho fatto accademichessa, mettendoti nel buratto.

Colombina—(Ridendo) Grazie!

Compilatore—Ora dammi un poco di prova che tu sarai bonissima con me.

Colombina—Che cosa posso fare per lei?

Compilatore—Io sono innamorato di te; vieni meco qui nella stanza accanto: soli saremo.

Colombina—Già:

E là, giojello mio, ci sposeremo;

come dice Don Giovanni alla Zerlina. (Ride)

[170]

Compilatore—Non mandar la cosa in burla, via! Vieni... ti farò felice.

ColombinaIce.... (Ridendo)

Compilatore—(Piglia la Colombina a mezza vita, e vuol tirarla per forza nella stanza: intanto entra improvvisamente Ciapo, seguíto da Rontino; i quali, vedendo quel contrasto, restano meravigliati, e fanno atti di stupore. Il Cruscante rimane interdetto: Colombina ride)

Compilatore—(Indispettito) Che volete ora? E tu, Rontino, non t'avevo detto che non lasciassi passar nessuno?

Ciapo—I' lo credo io! E l'ha ragione vosustrissima.

Rontino—Questo contadino e' s'è infilato dentro senza dir nulla, e io gli son corso dietro per rattenerlo.

Ciapo—Ma tu l'ha' fatta a sego. Insomma, sor Cruscajo, la senta me, e po' finirà costì. I' son Ciapo: i' son famoso personaggio delle Commedie d'if Fagiòli: la mette niv Vocabolario ic Còla, e la 'un ci mette me, ch'i' son di casa. (Si sente del rumore nella stanza accanto)

Compilatore—Che diavolo c'è' di là? Rontino, va un poco a vedere. (Rontino va e torna)

Rontino—E' son tre o quattro come mascherati, che voglion parlare con la signoría vostra chiarissima.

Compilatore—Corpo di Santa Nafissa! ma che diavolo è oggi con queste maschere? (Entrano tumultuariamente Carlíno e altre maschere dell'antico teatro)

[171]

Tutti—(Parlano un po' per uno e fanno un baccano del diavolo) Vogliamo giustizia.—Se c'è Còla, ci vo' essere anch'io.—Siamo venuti apposta da Gelocòra.

Compilatore—Signori spiriti, si ricòrdino che questo è luogo sacro; e non faccian fracasso. Parli uno per tutti.

Uno—Noi siamo tutti maschere, o personaggi notissimi della Commedia italiana: se vosustrissima ha dato gli onori del Vocabolario al Còla, che è di tutti il più oscuro, perchè non lo ha dato a noi?

Tutti—È un'ingiustizia.—Vogliamo anche noi entrar nel frullone.

Rontino—(Da sè) La burla l'è riescita proprio bene.

Compilatore—Signori spiriti, noi abbiamo messo Còla e Arlecchino e Brighella, perchè gli abbiamo trovati negli scrittori citati da noi.

Uno—Oh bella! perchè noi non siamo stati scritti da certi scrittori, cessiamo dunque di essere stati al mondo e su per i teatri, come gli altri?

Tutti—Bella ragione!! ah, ah, ah, ah!!

Compilatore—No, non vogliamo dir questo...

Uno—E a me mi pare che lo voglian dire dirissimo, perchè il fatto dalle SS. LL. porta a questa conclusione: e se le volevano dar notizia a' loro lettori delle Maschere e personaggi dell'antica commedia, e sono arrivati fino al Còla, che è la meno comune, e la meno nota, le ci dovevano mettere anche tutti noi.

[172]

Tutti—Vogliamo entrar nel frullone, e se no, lo sfondiamo.—Giù la Crusca.—Viva la libertà. (Fanno un baccano del diavolo)

Scena Undecima.

Il Segretario e detti, poi uno Spazzino.

Segretario—Ma qui va sottosopra l'Accademia! che diavolo è stato?

Tutti—Vogliamo giustizia!

Compilatore—Questi, signor Segretario, sono gli spiriti delle maschere teatrali che si dolgono di non essere stati messi nel Vocabolario. È stato un via vai tutta la mattina, e tra questi, Arlecchino, Brighella e Còla si dolgono di essere stati qualificati a sproposito.

Segretario—(Si segna) O spiriti o non spiriti, qui non si fa baccano; o se no gli farò stare a dovere anche loro. Ai signori Arlecchino, Brighella e Còla, io rispondo che la Crusca è infallibile, che essa cribra e affina; e nel suo Vocabolario non c'è una sola cosa da correggere. Se quelle maschere furono diverse da come le descriviamo noi, la nostra descrizione ha virtù di far loro cambiar natura, e di farle diventare altre da quel che furono. Quelle altre maschere o personaggi che non sono nel Vocabolario, è segno che non ci avevano a essere, e avranno pazienza. La Crusca non rende conto a nessuno di ciò ch'ella fa... (Entra uno Spazzino con una lettera)

[173]

Spazzino—Questa lettera di gran premura per il chiarissimo signor Segretario.

Segretario—(La spiega e la legge sottovoce)

«Chiarissimo amico,

«Vi avverto che i nostri nemici hanno architettato una solenne burla alla nostra Accademia, mascherandosi da Arlecchino, Brighella, Còla, con altri personaggi dell'antica Commedia; e verranno costà, a richiamarsi non so di che. I particolari non gli so; ma so che quello mascherato da Colombina è quello sbarbatello del Tommasi, che va sempre col Fanfani. Vi scrivo per mettervi sull'avviso, acciocchè possiate sventare questa mina.

Il vostro G.
Accademico Corrispondente

Ah, l'è arrivata tardi! Ma almeno cerchiamo di vendicarci. Rontino.

Rontino—Comandi, chiarissimo.

Segretario—(Sottovoce) Va, e torna con due questuríni.

Rontino—La servo súbito. (Va e, passando d'accanto a una delle maschere, dice) Siamo scoperti: mi manda per due questuríni.

Segretario—Dunque, signori spiriti, ragioniamo un poco tranquillamente.

(Fanno la ridda cantando)

Vorresti ragionare,
Per farci aggraffignare:
Ma noi, che siamo spiriti,
[174]Sul muso ti ridiam.

Se tutti i tuoi destini
Fondi su' questuríni;
Se più assai che la Crusca
Bázzichi il Tribunal,

Lascia, bel Segretario,
Lascia il Vocabolario:
Delle manette il Codice
Méttiti a compilar.

(Sfilano la ridda ed escono ridendo)

Segretario—(Mordendosi il dito) Nemmeno questa è riuscita, e anche questa volta se la ridono!... Ma anche lei, caro collega, lasciarsi sopraffare dalle chiacchiere; e creder che fossero spiriti!...

Compilatore—Che vuol ella? ho udito così spesso V. S. Illustrissima parlare della immortalità dell'anima, che ho creduto...

Segretario—Síe, tutte belle cose; ma quando è tempo di far l'uomo, quelle scioccheríe si lasciano andare.

Scena Ultima.

Rontino con due Questurini.

Segretario—Ecco il soccorso di Pisa!... (Vòlto a' Questurini) Signori, abbian pazienza, la lepre ci è sbiettata: sarà per un'altra volta.

Caporale—Ella sa, signor Segretario, che la Real Questura è sempre disposta a' servigi della illustre Accademia della Crusca. Ha da comandarci?

[175]

Segretario—Grazie tanto. (I Questurini partono stringendo la mano al Segretario) Per questa volta sette loro! Ma ride ben chi ride l'ultimo, e sarà certo più efficace l'arte nostra, e la nostra potenza, che le chiacchiere del Fanfani, e de' suoi amici. Ma, caro collega, oportet orare et non deficere, chè senza l'aiuto di Dio nulla di buono può farsi. È vero per altro che Dio dice ajutati ch'i' t'ajuto; e però, oltre la santa orazione, bisogna studiare assiduamente di mettere in pratica i sani precetti dell'aria di Don Basilio; e studiare ogni modo di tenere alle còstole de' padroni delle persone di grande autorità, acciocchè non ci manchi la loro fiducia, nè le 42,000 lire. Ora andiamo súbito a rispondere alla lettera ministeriale, e facciamo una risposta da pari nostri. (Partono e cala la tela)

[176]
[177]

IL CODINO

GHIRIBIZZO DRAMMATICO


[178]

PERSONAGGI

La Giustizia.
La Temperanza.
La Monarchía costituzionale.
L'Aristocrazía.
La Democrazía.
La Libertà.
La Licenza.
La Crusca.
L'Autore.
Rontino, bidello della Crusca.

[179]

ATTO UNICO


Scena Prima.

La Crusca, L'Autore e Rontino.

Autore—Ma che diavol di faccenda sia questa? come mai esser invitati a questo tribunale la Crusca ed io? Che ci sia qualche pasticcio? Oh oh! zitti, ecco la sora Crusca. Guarda come gli lustra il pelo, e come l'è in ghíngheri! Chi la sa non la insegni!

Crusca—(Entrando vede l'autore, e fa appena pena l'atto di chinare il capo, ma assai muffosamente: l'autore fa altrettanto con lieve riso corbellatorio. La Crusca, voltandosi indietro, dice) Rontino, dammi da sedere.

Rontino—(Porta innanzi una sèggiola) I' non gli posso dar altro che questa ciscranna che qui: la non lo vede che mobilia ch'e' c'è in questa stamberga? S'i' credeo, i' portao con meco una delle nostre gerle.

Crusca—Veramente invitare una mia pari in un luogo come questo!...

[180]

Autore—(Ridendo da sè) Una sua pari!... Jam fuimus Troes, madama, Jam fuimus Troes.

Crusca—(Piano a Rontino) Ohe Rontino, ma non l'ha' visto chi c'è?

Rontino—Aittro s'i' l'ho visto! E' mi saitterebb'iggrillo, ved'ella?... Ma ecco roba: zitti.

Scena Seconda.

La Monarchía costituzionale, l'Aristocrazía, la Democrazía, la Libertà, la Temperanza e la Licenza.

Monarchía—A che tempi siam noi! si dee veder la Monarchía citata dinanzi ad un tribunale! Mi pareva che dovendosi definire un piato filologico potessero bene questi signori venire alla mia residenza.

Democrazía—Oh carina! l'è la Giustizia, sai, quella che ci ha fatto chiamare; ed a lei tutti dobbiamo star soggetti. Che ha' tu da brontolare? Non ci siamo venuti noi, che certo siamo da quanto te?

Licenza—Da quanto lei? i' dico da più io. Guarda con chi mi vorrebbe metter alla pari! con quella codinaccia!

Temperanza—Zitte con codesta parola: è quella su cui oggi si dee dar giudizio; e finchè la sentenza non è venuta, non dee più proferirsi.

Licenza—O brava monachína infilzata, via!

Crusca—(Da sè) Ah, ora comincio a capir qualosa![181] mi hanno richiesto per un voto filologico. Ma che ci ha che fare il Fanfani? Starò a vedere; ma con lui non ce ne voglio di certo.

Autore—(Da sè) Oh bella! Io e la Crusca siamo qui per un voto filologico. S'ha rider un po'.

Scena Terza

La Giustizia e tutti i precedenti.

Al giungere della Giustizia tutti si alzano: la Monarchía sta nell'usato sussiego: l'Aristocrazía e la Democrazía fanno col capo un lieve cenno di riverenza: la Libertà fa riverenza nobile e profonda: la Licenza fa una smusatura, e per poco non volta le spalle alla Giustizia: la Crusca anch'essa sta sulle sue: l'Autore fa riverenza, come è suo debito, e osserva tutti: la Giustizia, fatto un cortese salutare, si pone sopra il suo seggio, e dice:

È nata, o signore, fiera disputa tra voi, circa il vero significato della voce Codíno, e come avviene delle cose politiche, anco leggiere, che troppo si fanno gravi, così è avvenuto di questa, leggerissima se altra ne fu; la qual potrebbe partorir effetti assai spiacevoli tra coloro a cui si dà tale appellativo, e coloro che ad essi lo danno, quando non si determini bene chi proprio se lo merita. Ciascuna di voi la intende a modo suo; ed i partigiani vostri si danno del[182] codíno tra loro con tanta confusione e con tanta stizza, che la cosa non patisce più indugio. Però vi ho raccolte qui per sentir proprio dalla vostra bocca che cosa intendete ciascuna per questo benedetto Codíno: ed ho pure invitato qui la Crusca e il Fanfani, acciocchè diano il loro voto filologico in questa materia, prima che io ne porti sentenza.

Crusca—Io non rifiuto, o signora, di dare il mio voto, ma non accetto per compagno un Fanfani.

Autore—Nè io d'esser compagno vostro ho punta ambizione, tali scagnozzi avete accettato tra la vostra famiglia.

Crusca—Siete un insolente e un birbante...

Autore—Brava! le solite vostre onorate ragioni...

Giustizia—Signori, questo non è luogo da gattigliare così. Attendete a quello per che vi ho chiamato, ponendo ben mente alle ragioni che allegheranno queste rispettabili matrone, per poi significare il vostro pensiero nella soggetta materia.

Monarchía—Io come io, credo che Codíno propriamente non possa dirsi se non chi avversa in tutto ogni prerogativa del monarca costituzionale: chi crede esser solamente governo legittimo quello della mia sorella maggiore Monarchía assoluta, e che per mantenerla darebbe anche la sua patria nelle mani dello straniero.

Aristocrazía—Anch'io suppergiù la penso così.[183] Tra' codíni per altro mi parrebbe necessario il metterci anche coloro che tengono in riverenza solo la persona del Monarca e quasi se ne fanno idolo, tenendo per nulla la dignità e la nobiltà de' magnati.

Democrazía—Eh! non ci sarebbe male! senti un po' a che vorrebbero ridurre quelle signore garbate il numero dei codíni! Le dicano: per loro il popolo non c'è, è vero? o se c'è, non ha diritto veruno, eh? Lo sanno chi sono i codíni? Sono i monarchici tutti e tutti gli aristocratici: sono tutti coloro che credono nel diritto divino, negando la sovranità popolare; che portano croci all'occhiello, livree ricamate e simili mostre di servitù. Quelli sono i codíni.

Licenza—E per me lo sapete chi sono i codíni? Son tutti coloro che, dovendo andare a un fine, si fanno inciampo di leggi, di trattati, di lealtà, di diritti acquisiti o non acquisiti, di proprietà o pubbliche o private, di giuramenti e di simili altre favole, rimanendosi dalle loro imprese per via di esse. Non bado appunto appunto chi è rosso o turchino, dico solo che quel che è utile in politica, è onesto, e che il fine santifica i mezzi. Chi non crede ciò è codíno: chi non è con me, è codíno.

Temperanza—Già, disse bene il Giusti: A detta di Caino, Abele era codíno. Ma a codesta regola il mondo sarebbe codíno tutto, sai?

Licenza—Tutto? oh povera grulla! Ma dimmi[184] un po'; in questi ultimi anni che ha' tu fatto? ha' dormito sempre?

Giustizia—Dico da capo che questo non è luogo da battibecchi. A te, Libertà.

Libertà—Anch'io, benchè lontanissima dalle spavalderíe della Licenza, in una cosa convengo con lei, cioè nel non badare al colore politico. In ogni stato civile, o monarchico o democratico o aristocratico, io posso trovarmi soddisfatta, purchè chi governa abbia a cuore i veri e più santi diritti del popolo: studii alla sua prosperità, e al suo avanzarsi di bene in meglio così materialmente come moralmente; professi la eguaglianza civile, e ne faccia legge, e la faccia osservare; coltivi nel cuore de' sudditi l'amor della patria e della sua indipendenza da qualsivoglia straniero, estirpandone ad un tempo le male erbe dell'interesse e del turpe guadagno; maledíca ed estèrmini que' ribaldi che della Italia si fan copertína allo sfogo de' loro odj e delle loro bestiali passioni o che se ne fanno svergognata bottega; aborra da qualunque sopruso, rispettando, e facendo rispettare le leggi; non ponga vincoli alla manifestazione del pensiero, ma non comporti per altro che la stampa, la quale è il più efficace strumento di vera libertà, si converta in istrumento di licenza e di anarchía. Ora, venendo al propòsito nostro, mi pare che Codini si debbano propriamente chiamar coloro, i quali si mostrano avversi ad ogni principio di libertà e di progresso, e che vorrebbero l'Italia[185] presente foggiata com'era nel bel mezzo del secolo passato, quando cioè gli uomini portavano ancora la coda.

Temperanza—E anch'io son dell'avviso medesimo della mia cara sorella Libertà.

Giustizia—(Voltandosi alla Crusca e all'Autore) Avete udito quali sono le opinioni di queste signore? Tocca adesso a voi a formulare il vostro voto. Madonna Crusca, siate la prima.

Crusca—Veramente al C non ci sono ancora arrivata, perchè, come sapete, quella benedetta A sono 24 anni che mi tiene impicciata, e non so come levarne le gambe. E poi, in quanto alla voce Codíno, che vuole? essa è così variabile di significato... Non sente? anche quelle signore, chi la intende così e chi cosà! Dall'altra parte io non vorrei disgustarmi nessuna di loro, perchè po' poi in questo mondo si può aver bisogno di tutti... Ecco: la mi dispensi via... tanto, veda, io nel Vocabolario questa voce non ce la metterò neanche. Senta il Fanfani: lui abbocca ogni cencio dell'uso, e lui di certo ha da perder meno di me.

Giustizia—Brava madonna Crusca:

«Guelfo non son nè ghibellin m'appello,»

con quel che segue. La vostra risposta è stata proprio degna! Eh! se l'Italia fosse governata da un... Basta non usciam dal propòsito. Fanfani, a voi.

Autore—La Crusca va compatita: l'ha bisogna di star bene con tutti; se no, come potrebbe[186] avere 24 anni di A sulla groppa? E poi quell'A è proprio un affare serio, sapete? Sentite, (ma già lo sapete) e' n'aveva, pigia pigia, stampati sette fascicoli quattordici anni fa, che ne fece quella nobile e vittoriosa difesa quel suo facchino; e poi la gli ha dovuti mandare al gas e rifarsi da capo. Che volete? si tratta almeno di dar fuori questo magno primo volume, per dare il fermo alle chiacchiere de' malevoli e de' nemici invidiosi: poi l'avrà tempo di sbirbarsela quanto le pare; chè, il secondo, o un'altro primo volume, lo vedranno i figliuoli de' figliuoli de' nostri figliuoli.

Giustizia—Ma come c'entrano tutte queste brache? Vo' sapere che cosa pensate della voce Codíno.

Autore—Ah, è vero, sì: perdonatemi se ero uscito di via. Nello sdebitarmi per altro sarò molto breve, perchè io non saprei dare o proporre altra definizione a tal voce, che quella dátane poc'anzi dalla Libertà, e confermata dalla Temperanza. Solo aggiungerò che chi si fece bello di aver trovato questa voce Codíno, e' non trovò cosa nuova, dacchè fino dal secolo XVI si usò per appellativo di Uomo all'anticaccia e con idee all'antica, il nome di una disusata foggia di portare i capelli, dicendosi ai così fatti o zazzere o zazzerotti, come si può vedere nelle Commedie del Cecchi, stampate dal Le Monnier, vol. II, pagina 428: «È una usanza da zazzere lunghe fino alle calcagna.» E vol. I, pag. 33: «Un nostro[187] zazzerotto, in un suo giardino, in viva pietra, avea fatto scolpire una statua al naturale, ecc.»

Crusca—(Da sè) Eccolo con la erudizione a spropòsito!

Giustizia-Alla definizione della Libertà dunque si stia: e niuno sia mai più ardito di abusare la voce Codíno come si è fatto fin qui, sotto pena della mia disgrazia.

(La Giustizia parte salutando; e tutti salutano tacendo; la sola Licenza, dice tra sè:) Síe, canta canta! e sai, ti darò una bella retta!—(Poi partono tutti)

[188]
[189]

IL COLLARE DELLA SS. ANNUNZIATA

TRAGEDIA DI UN VERISTA IN TRE ATTI


[190]

PERSONAGGI

Lo Shach di Persia.

Il Gran Visir.

Il principe Mohamed Mirza, Ministro per i finimenti e la sella del cavallo.

Il principe Osman, preparatore della pipa e del caffè.

Il ministro degli affari esteri del regno d'Italia.

Grandi del regno di Persia, il Boja, e Popolo.

La scena ne' primi due atti è a Torino nelle stanze destinate allo Shach per il suo soggiorno; nel terzo a Teheran.


[191]

ATTO PRIMO

Scena Prima.

Lo Shach e il Gran Visir. Lo Shach è accoccolato in terra e sta fumando.

Shach—Questo Re d'Italia è bravo e cortese.

Gran Visir—Ed amato dal suo popolo.

Shach—Come c'entra il popolo? Chétati.

Gran Visir—(Fa profonda riverenza)

Shach—Ed il Kan di questi preti di Torino è bravo anche lui. Dágli 500,000 franchi per il suo Shach, che è prigioniero in Roma.

Gran Visir—Gli mangerà mezzi per sè.

Shach—Chétati.

Gran Visir—(Fa profonda riverenza)

Scena Seconda.

Osman e detti.

Osman—Sire, c'è qua il Ministro degli affari esteri del regno d'Italia.

Shach—(Accenna che può entrare)

[192]

Scena Terza.

Il Ministro degli affari esteri e detti.

Il Ministro—(Fa tre profondissime riverenze) Sacra Maestà, il mio augusto signore, se V. S. M. lo permette, ha mandato per il suo Gran Visir il Collare della SS. Annunziata. Posso io presentarglielo?

Shach—(Senza muoversi nè smetter di fumare) Presèntalo.

Gran Visir—E io posso...

Shach—Píglialo.

(Il Ministro fa entrare due araldi dell'Ordine che portano su un bacile d'argento il Collare: il Gran Visir s'inginocchia, e il Ministro glielo mette al collo, mentre lo Shach guarda ogni cosa facendo bocca da ridere. E cala il sipario)

FINE DELL'ATTO PRIMO.


[193]

ATTO SECONDO

Scena Prima.

Lo Shach e il Gran Visir.

Il Gran Visir ha il Collare.

Shach—Pare che tu sia più ambizioso di codesto Collare, che delle decorazioni del Leone e del Sole.

Gran Visir—No, sire; ma tuttavía è cosa di molto onore. Chi ne è insignito diventa cugin del Re.

Shach—(Ridendo ironicamente) Oh, anche tu dunque hai qualche cosa di regale... Fatti in qua che veda cotesta catena. C'è delle lettere: che sono?

Gran Visir—Per tutto ci sono queste quattro lettere F. E. R. T.; e uno di questi grandi del regno mi ha detto che l'Ordine dell'Annunziata è antichissimo, che fu istituito quando un principe di Savoja prese d'assalto Rodi, e che quelle lettere significano Fortitudo ejus Rhodum tenuit.

Shach—Espugnò Rodi? E chi lo teneva Rodi? Gente del nostro sangue, della nostra religione... (Con isdegno)

[194]

Gran Visir—(Tutto spaurito e tremante) Sire... Maestà...

Shach—(Ridendo ironicamente) Il Re d'Italia la poteva spender meglio... O lo ha fatto per ischerno?...—Va via, e mandami Mohamed. (Il Gran Visir parte)

Scena Seconda.

Mohamed Mirza e lo Shach.

Mohamed—(Si prosterna a terra senza parlare)

Shach—Sta su. (Mohamed si alza) Dimmi un po': cos'è questo Collare... questa Annunziata?...

Mohamed—Sire... Direi... Non so...

Shach—Di', e di' súbito.

Mohamed—Il Gran Visir ha fatto male ad accettarlo: è quasi atto di ribellione. Ora si è imbrancato con quasi tutti i capi rivoluzionari... Lanza, Ricasoli, ecc.

Shach—Ribellione!! Rivoluzionari!!—Tágliali la testa.

Mohamed—Sire! qui non è prudenza il farlo. E poi dice che quel collare è fatato, e chi lo porta al collo non può esser decapitato. (Così gli verrà voglia di provare.)

Shach—Vo' provar súbito: mándamelo qua.

Mohamed—Sire...

Shach—(Stato un po' sopra pensiero) Basta, ora dissimuliamo, e divertiamoci un poco alle sue spalle. Vallo a chiamare; e secóndami.

[195]

Scena Terza.

Gran Visir e detti.

Shach—Cugino del Re? Rivoluzionari? Te lo darò io!...

(Entrano tutti lieti Mohamed ed il Gran Visir)

Shach—Mi era venuto qualche sospetto; ma il tuo amico Mohamed gli ha tutti dissipati. Gòditi il Collare; e io me ne rallegro, perchè è alto onore che un mio vassallo sia cugino di un Re. Tornati a Teheran, farò di ciò solenne festa. Tu, Mohamed, fagli atto di riverenza, e baciagli il piede.

Mohamed—(Ubbidisce e dice fra sè) A Teheran ci riparleremo!

FINE DELL'ATTO SECONDO.


[196]
[197]

ATTO TERZO

Scena Prima.

Lo Shach e Mohamed.

Shach—Quel Gran Visir mi dà sospetto.

Mohamed—Sire, e' cerca di farsi amare dal popolo. Nel viaggio d'Europa si è innamorato di quella falsa civiltà, nemica dei Re... e va più sul sicuro, perchè sa che quel Collare gli salva il collo.

Shach—Vedremo se è più potente il Dio de' Persiani o quel dei Cristiani. Oggi c'è' il gran convito ordinato a festeggiare il mio ritorno, e le onorificenze ottenute dal Gran Visir. Pensa che tutto vada in regola.

Mohamed—(Fa profonda riverenza e parte)

Scena Seconda.

Lo Shach e il Gran Visir.

Gran Visir—(Entra tutto affannato) Sire, il popolo vuol vedere la vostra sacra persona[198]...

Shach—Il popolo? Che cos'è il popolo? È roba da Europa questa: e badiamo che sia la prima e l'ultima volta che odo sulle tue labbra questa parola. In Persia non c'è altri che lo Shach e i suoi schiavi. (E fingendo buon umore) Oggi debb'esser giorno di letizia, nè voglio pensare a cure di regno.

Mohamed—(Entra tutto ansante) Sire, per varie strade di Teheran si sono udite delle grida di sedizione.

Shach—Dillo ai carnefici, e fa che non risparmino nessuno.

Gran Visir—Maestà, la clemenza è la più bella virtù dei Re.

Shach—Cose da Europa! Tu, Mohamed, va, e fa il tuo dovere; e tu, Visir, fa' di venir al convito con tutte le tue decorazioni e specialmente col Collare.

Scena Ultima

Lo Shach e tutti i grandi del regno sono a una tavola sontuosissima, ed il convito è quasi al suo fine. Il Gran Visir ha il Collare dell'Annunziata. Fatte molte libazioni in onore dello Shach, il principe Mohamed Mirza si alza e dice:

Mohamed—Si beva alla salute del Gran Visir...

Shach—(Si alza con atto di ferocia, dicendo) Al Gran Visir il brindisi che merita glielo farò io. Esso avrebbe preso gusto alla civiltà europea: almanacca già con le idee di clemenza, di diritti del popolo, di libertà. (Qui il povero[199] Visir diventa bianco come un panno lavato, e trema come una vetta) Già si vanta cugino di Re; e chissà fin dove giunge la sua ambizione: e lo fa con sicurtà, fidandosi in quel Collare che gli vedete al collo, insegna d'un Ordine cavalleresco fondato per ricordare una vittoria di Cristiani sopra Musulmani; e che secondo la religione cristiana è incantato, e chi lo porta al collo non può essere decapitato. (Atti di orrore fra tutti quei grandi) Ma Dio è grande, ed io farò vedere chi ne può più, o gli incantesimi de' Cristiani, o la fede e la forza de' credenti. (Volgendosi al Boja) Aly, tagliagli la testa.

(Il carnefice viene innanzi, piglia per i capelli il Visir, lo trascina nel mezzo della sala, e con un colpo di scimitarra gli fa cadere la testa a' piedi. Allora lo Shach alzando gli occhi e le braccia al cielo esclama:)

—Dio è grande: la Persia è salva.

(Tutti ripetono quegli atti e quelle parole, e cala il sipario)

Fine della tragedia.


[200]
[201]

DI ALCUNE ETIMOLOGÍE
DEL
VOCABOLARIO DELLA CRUSCA

[202]
[203]

Diatriba drammatizzata, fatta sulla piazza dell'Impruneta l'ultimo giorno della fiera.

La Etimología è cosa tanto arrendevole, che di essa può dirsi: È come la cotta de' preti; ne viene da tutte le parti. Tizio sa bene la lingua greca, e tutto viene dal greco; Cajo sa le lingue orientali, e tutto viene da quelle; Sempronio il tedesco, e ogni cosa vien dal tedesco: e tutte quelle cose che parvero miracoli nel tempo addietro, adesso si rifiutano per sogni di infermi; come per tali si rifiuteranno da qui a cento anni le strampaleríe de' nostri etimologisti odierni: sicchè a tutti gli etimologisti passati, presenti e futuri, potrà adattarsi, con le opportune variazioni, quell'epitaffio, che il Salvetti scrisse per uno dei così fatti:

Qui giace Gaudenzio Paganino,
Che fu matto in volgar, greco e latino.

Fra gli etimologisti per altro, che a me vanno molto a fagiuolo, c'è il famoso Carafulla buffone, le cui etimologíe sono rimaste famose, e sono[204] semplicissime, come per esempio la bombarda, è detta così, perchè rimbomba, arde, e ; Prezzémolo perchè suona Chi ti prezza ámalo; Girándola, perchè Gira, arde e dóndola. Mi va a genio parimente quell'accademico della Crusca, che scrive Inghilese, e biasima chi scrive Inglese; allegando la ragione etimologica che, dicendosi Inghilterra e non Inglterra, non si può dire se non Inghilese: anzi narrasi che questo valentuomo stia facendo un'opera col fine di ridurre alla vera ragione etimològica tutti i patronímici, provando che dee dirsi Inghilterrese, e Danimarchese, anzi che Danese, e Spagnese per Spagnuolo; Portogallese per Portoghese, e Firenzino per Fiorentino, come di fatto Sanfirenzini si chiamano una razza di ipocritacci; e via di questo gusto. Ma più di tutti mi va a genio il Tórtoli, etimologista della Crusca, che, quando non copia il Littrè, è più bravo anche del Carafulla. Non lo credete, uditori? E io, tra le tante, ne sceglierò alcune poche, per farvelo toccar con mano. Badate qui.

Bisogna sapere che, tra l'altre cose, l'etimologista della Crusca ha la smania di darci ad intendere che egli è una mezza torre di Babele, simile in questo al famoso bestione Domenico Valeriani, già Segretario della Crusca, di cui parlerò più qua; e come se non fosse suo fatto, scappa fuori a parlar turco, arabo, provenzale, antico francese, olandese, inglese, svedese, e anche biscaíno. Ma incominciamo, pigliando la voce Azzardo. Egli, non solo ci insegna che viene dal francese hasard, ma[205] probabilmente dall'arabo iasara. Capisci? e' si comincia con l'arabái! Il Littrè di tal voce francese hasard ne dà una etimología storica, confermata da un passo dell'antichissimo cronista Guglielmo di Tiro, il quale accerta che viene da un castello chiamato El Azar, cui i Crociati francesi chiamavano Hasart; e dove fu trovato il giuoco di dadi che ha questo nome, e che gli Italiani chiamarono Zara; onde poi il Caso, la Fortuna, sì chiamò hasard. Ma il gran Tórtoli ha voluto far vedere che va oggimai ritto da sè, senza farsi reggere per i lacci dal lessicografo francese, sul muso del quale ha squadernato quell'arábico suo iasara: anzi dicesi che il Littrè è rimasto così sbalordito di tanta sapienza, che ha accaparrato l'etimologista della Crusca per correggere la seconda edizione del suo gran Vocabolario.

Voci. E' farà proprio il suo bollo!

Coraggio, e avanti, uditori miei: èccovi i giganti, chiamati, così per dire, Badaloni dal Pulci; e il Carafulla della Crusca, benchè nel poema sieno gente terribile, accorta e forzuta, gli fa esser Perdigiorni, Scioperoni, e gli fa nascere dal verbo badare, ridendo sul muso alla logica e al senso comune. E parendogli troppo comune l'accettata etimología dal noto Bátalo dell'Eneide...

Un uditore m'interrompe; e si fa il seguente

Dialogo tra me e uno degli uditori.

Ud. Ecco, a me mi basterebbero queste due, a giudicar la sapienza e la gravità etimològica[206]...

Io. Abbi un altro po' di pazienza; chè per lo meno ti spasserai un poco. Hai udito del Badalone, che vien da Badare: o senti ora di questo Badare. Te la do a indovinare alle mille.

Ud. Neanche alle dumíla: chi può mai arrivare alla stranezza di certi cervelli?

Io. Dunque senti: Badare viene da Patet; e il primo significato di Badare, è quello di Essere aperto.

Ud. (Si fa il segno della Croce.) Ma che diavol dicete, Fanfani mio: questa la non può essere se non una barzelletta delle vostre.

Io. Barzelletta delle mie? O leggi qui. Eccoti il Vocabolario novello, ed ecco la voce Badare.

Ud. (legge) «Badare. Neutr. Indugiare, Trattenersi, Perdere il tempo. Dal provenz. badar, badeiar, franc. badauder, che probabilmente ha l'origine nella voce latina patet; giacchè il primo significato della voce badare è quello di Essere aperto; e il significato di Osservare attentamente non è che un traslato, quasi Stare a guardare a bocca aperta; il che i Latini esprimevano col verbo Inhiare

Io. Che ti par egli?

Ud. A me mi par di sognare! Lasciamo star quella nannuccesca erudizione del Badar, Badeiar, e Badauder; ma quel Patet e quel primo significato di Essere aperto, l'è cosa proprio da Bonifazio[63]. Scusate, vediamo gli esempj di questo Badare per Essere aperto.

[207]

Io. Che esempj?

Ud. To'; s'e' lo insegnano, ne daranno esempj.

Io. Nemmen per sogno.

Ud. E allora bisogna proprio dir: Légalo![64] Dunque un uomo che Perde il tempo si può dir che Patet, perchè sta a bocca aperta!!!

Io. Ma tu lasci il più bello. Lo stare a guardare a bocca aperta, a un tratto non è più il Patet, ma l'Inhiare.

Ud. Questa è più garbata della etimología carafullesca del Prezzémolo; e a me mi basta: non ne vo' sentir altre. Addio.

Io. Addio.

Ud. (Tornando indietro) A propòsito: quanto ci costano queste garbatezze della Crusca?

Io. Quarantatremila lire l'anno.

Ud. Viva la faccia di chi gliele dà!

Uditori benevoli, non mi lasciate voi altri, perchè, crediate, c'è da spassarsi. Udite la Baldòria:

«Baldòria Sost. femm. Propriamente vale Allegrezza, Gioja, onde i modi Far baldòria per Far allegría; Essere in baldòria per Essere in allegría. Dal provenzale Baudor, se non da Baldo, provenz. Baud, nel significato di Allegro.»

Badate, cioè state a bocca aperta, dinanzi alla erudizione provenzale dell'etimologista, che sa a menadito tutto il Renouard; e ammirate la recòndita[208] sapienza di quella Baldòria, che propriamente vale Allegrezza e Gioja. E dire che fino adesso tutti sono stati così ciechi che hanno tenuto per fermo esser appunto il rovescio, argomentando che, facendosi la baldòria per segno di pubblica esultanza, ne fosse derivato la frase far baldòria per Stare in allegrezza. Dunque avete capito, uditori; secondo le occorrenze, dite: La nascita d'un figliuolo mi è stata cagione di molta baldòria; ovvero: Provo gran baldòria per la sua ricuperata salute. La vale 43,000 lire questa sola cosa della Baldòria! Ma ora state a sentire una novellína della Pera burè.

Capitava anni e anni addietro nella bottega del librajo Piatti quel bestione celebre di Domenico Valeriani, che fu Segretario della Crusca; e della cui asinità diede prove così manifeste il Nannucci. Era costui un vero pallone pien di vento: e per aver imparato alla peggio qualche parola di lingue orientali, e di altre moderne, si presumeva di esser da più del Mezzofanti; ma diceva tali e tanti spropòsiti che era lo spasso di tutti. Una mattina fra le altre, passando di lì un fruttajuolo col suo barroccino carico di belle frutte, le andava bociando con una graziosa cantilena la qual sempre si chiudeva con la pera burè; e da ciò uno della brigata prese occasione a domandare, come fosse originato tale appellativo a quella sorte di pere. «Ci vuol poco, rispose non so chi di essi: il popolo chiama burrone alcune specie di frutte che hanno la loro polpa morbida come[209] il burro; ma quando venne la corte di Lorena, che, parlando francese, franceseggiò molto la lingua, e molti affettavano il gallicismo per atto di adulazione, questa pera burrona si infrancesò chiamandola pera burè, e così chiamasi tuttora.» Tutti acclamarono:

Ma la proposta al cor del Valeriani
Non talentando; in guise aspre, il superbo,

si mise a schernire la ignoranza del semplice etimologista, derivando con recòndita erudizione la pera burè da un pesce, (così egli disse) da un pesce detto in francese Buret, che dicevasi somministrare un color rosso. Questa pera-pesce, che SOMMINISTRAVA il color rosso, tutti si accorsero alla prima dover essere una delle solite Valerianate; ma dissimularono: e solo fu mostrato il desiderio di accertarsi che pesce fosse questo Buret, cui nessuno conosceva; e si misero a cercarlo per i Vocabolarj francesi più recenti: ma cercarono invano. «Ma, Professore, questo Buret, nemmeno nel Vocabolario dell'Accademia francese si trova; non si trova neppure nel Littrè.» E il Valeriani, facendo un risettíno di compassione, si rizza, va a pigliare un antico Vocabolario francese; cerca la voce Buret, e la dà all'oppositore, il quale legge «Buret (Murex), Poisson d'où l'on tirait autrefois la pourpre.» Come ebbe letto, l'amico si volse ridendo al Segretario: «Caro signor Professore, questa voce Buret è sparita da due secoli fa dalla lingua francese, e la pera burè è appellativo[210] del secolo passato: la vede bene che la sua congettura non regge: e poi non lo vede che il Richelet, il cui vocabolario la mi ha dato a leggere, dice che Buret corrisponde al latino Murex? Lo sa ella che cosa significa Murex?» Sicuro che lo so «—Bene; che significa?—Significa la Murena—» Qui fu una risata generale; e l'oppositore ricominciò: «Signor Segretario, Murex è la conchiglia, onde si traeva la porpora; e se il Murex poteva senza scandalo battezzarsi per pesce avanti il Buffon, la dee pur confessare, che è da bestie il chiamarla Pesce adesso.» Il Segretario montò sulle furie: dispensò a tutti dell'asino e dell'ignorante; e se n'andò accompagnato dalle più grasse risate della conversazione.

Ora l'etimologista della Crusca, dopo 40 anni dal fatto, dà alla pera burè l'istessa origine dátale dal Valeriani, che ne fu tanto scorbacchiato e deriso; e per di più, dopo aver detto che è di colore giallógnolo sparso di rosso, reca un unico esempio del Lastri, dove si dice che le pere burè sono bianche e grigie!!! E per queste belle cose si spendono 43,000 lire l'anno! Nè meno garbata è l'etimología di Ciofo, voce non si sa di qual dialetto, ma registrata nel Vocabolario per Uomo sciatto nel vestire; dicendosi che forse è forma varia di Ciompo. Da Ciofo a Ciompo mi pare che ci scattino parecchj filari d'émbrici, e che non possano esser nemmeno parenti alla lontana: il bello, è che la etimología vera l'avevano lì sotto gli occhj, e la son iti a cercare in Oga Magoga. Carciofo lo[211] registrano essi per Uomo da nulla, e simili: ci voleva tanto a vedere che ciofo non è se non un'aferesi di carciofo? Questa per altro non arriva alle mille miglia la famosa etimología di Cipiglio, che per essi è quasi Piglio del ciglio, sorella carnalissima del Prezzémolo, quasi chi ti prezza ámalo. Piglio del ciglio! a pensarci un anno non può dirsi cosa più buffonesca; nè s'indovina come possa esser nata nella zucca dell'etimologista. Zitti; èccolo: Cipiglio si divide in Ci-pi-glio: la prima e l'ultima sillaba formano la parola ciglio: la sillaba del mezzo PI, vale potenzialmente piglio; e così Cipiglio è piglio del ciglio. Ma vediamo che cosa è piglio per la Crusca: Piglio, essa dice, è un modo di guardatura,... Ah! ho capito: il cipiglio è un modo di guardatura del ciglio; e per conseguenza nelle ciglia risiede la virtù visiva. Caspiterína! si spendono 43,000 lire l'anno; ma almeno questo Tórtoli primo compilatore etimologista ci tiene un po' allegri!—Ora state a sentir questa:

«Abento e Abente. Quiete, Riposo. Anche nel moderno dialetto siciliano abbentu significa Avvento, e per traslato Riposo, Pace; forse perchè la venuta di Cristo portò al mondo La tant'anni lacrimata pace, come disse Dante. Potrebb'essere anche voce composta della preposizione a e di vento; quasi a riparo del vento, e quindi Riposo.»

Anche l'Avvento del nostro Signore, con la tant'anni lacrimata pace di Dante! Questa la poteva fare il Prete Tigri. Guardate come c'entra l'Avvento?[212] Ma quell'Avvento che a un tratto diventò a vento vale una Golconda. E poi A vento che vale A riparo del vento, e quindi riposo! Ma, signori Accademici miei, A vento, non potrà mai venir a dir codesto; anzi verrà a dire il contrario. E poi le mi dicano: che relazione necessaria vi è tra l'essere a riparo del vento, e il riposo?... Non si può negare che il signor Ministro non ponga bene la sua fiducia!

Coraggio e avanti: ci si fa incontro un Arzagogo con una nuova foggia; chi mai sarà egli?—Pare, risponde il Tórtoli, che sia un forestiero venuto di lontani paesi, e d'aspetto singolare e strano, quasi venuto d'Oga Magoga—O di che ridete?

Uno degli uditori. Ridiamo perchè questa etimología a orecchio, ci ricorda, la chiusa di quel sonetto del Bellincioni:

Non vuol dir altro Arma virumque cano
Che un uomo armato con un cane in mano;

e così il Tórtoli a quell'Arzagogo gli è parso di sentir Oga Magoga, e lo ha messo nella Crusca, benchè ci abbia che fare quanto il cávolo a merenda.

Io. Bravo! per l'appunto così. Il Sacchetti, sul cui esempio è fatta l'etimología, non parla per niente di forestieri, ma di un arfasatto fiorentino pur che sia, a cui salti il ticchio di vestire una strana foggia: e se l'etimologista avesse posto mente all'esempio del paragrafo seguente, che è pur del Sacchetti, dove la voce Arzagogo sta per una specie[213] di Nibbio, e si fosse ricordato che Nuovo nibbio si disse per Uomo semplice, sciocco e strano; se avesse posto mente alla voce Arzigògolo, nato senza fallo da questa, e che fu parimente usata per Uomo semplice e strano, come registrano i vecchi Accademici; si sarebbe risparmiato questa buffonata. Ma quell'agogo nella sua caraffullesca mente gli si trasformò in Oga Magoga; e non la potè tenere: e chi sa quel che gli pareva di dire.

Dunque s'intuoni al Tórtoli alleluja,

Gloria ed osanna.

Ma c'è molto di meglio. Interpretano, e dànno ragione anche della lingua asinina. Vedete qui in Ajari; e' c'insegnano che è voce imitativa d'un certo verso che fa l'asino specialmente quando è in caldo...»

Ud. 1.—L'asino in caldo? ma in caldo ora si dice che vanno le cagne.

Ud. 2.—E poi qual è quel verso che fa l'asino quando è in amore? O che è un uccello, che fa il verso?

Ud. 3.—To'! o non si chiama l'usignuolo di maggio?!

Zitti: state a sentir la cosa di questo Ajari. Dunque, esso è il verso dell'asino in caldo: e tal voce è antica nella lingua italiana, come provano con un esempio del Sacchetti, che canta così: «Egli è meglio uno ajari che cento pì pì

Ridi, che ben n'hai donde, udienza mia;

ridi, chè più belle di questa è impossibile nemmeno[214] il sognarle. Piglia le novelle del Sacchetti; cerca il luogo qui accennato, e troverai che si parla di una dama provenzale, la quale, vedendo uccelli in amore, e udendo quel loro pì pì, che risolveva poco o nulla, eccoti un asino tutto baldanza, il quale ragliava di santa ragione, e corso alla sua asina, se ne sbrigò in un áttimo; a che, vòltasi la dama alla sua cameriera Marietta (uso le proprie parole del Sacchetti) le dice in sua lingua: O Marione, per mie foye, ch'egli è meglio un ajari che cento pì pì; il quale ajari (se il Sacchetti scrisse così) vedesi dato dall'autore per voce di altra lingua con significato di raglio. E l'etimologista la registra per voce antica italiana, e ci sente (che orecchie!) il verso dell'asino quando è in caldo!!

Mi penso, uditori umanissimi, che questo piccolo saggio di etimologíe sarà più che sufficiente a valutare che razza di cervello debba avere l'etimologista della Crusca; ma, se non siete stanchi, vorrei darvene a gustare un altro pajo.

Voci. Sì, sì, ci si diverte più con queste etimologíe che con Stenterello.

Bene, e io ve le dirò; e ci sarà un altro pochino di Asino. Ecco qui messa a registro la voce Arrilibro: che sarà essa mai? L'etimologista la dice «capricciosamente composta da Arri e Libro, quasi che il libro, invece d'essere spiegato allo scolaro, sia dal maestro incitato a fare da sè;» e lo autèntica con un solo esempio, dove si legge d'Ascensio «che insegna l'a b c a cómpito e arrilibro.» Ora[215] bisogna sapere che l'etimologista, e i caporioni de' Cruscanti, hanno il baco di voler essere uomini serii; e per parer tali mi vengono fuori col far essere un libro un asino, e come un asino farlo stimolare coll'arri!! Tutte le prove della stoltezza di questa etimología, proprio degna del prete Tigri, le ho date nel mio—Antico sentire—: qui, uditori, ridiamo insieme; e dicendo un altro arri all'etimologista, facciamoci insegnare la etimología di artagoticamente. Vo' sapete, uditori, che il Boccaccio fa fare a un de' suoi personaggi un discorso composto di voci strane senza verun significato, per derisione di un certo imbecille, tra le quali c'è questo artagoticamente, la quale gli antichi Accademici, che avevano senno, dichiararono: «Voce che per sè medesima non significa nulla; ma è detta ad uno scimunito quasi in senso di Miracolosamente.» Ma il senno degli antichi Accademici era corto per gli Accademici novelli: essi non avevan sì acuta la vista dell'intelletto, che potessero mirare la dottrina che si asconde sotto il velame della strana voce. Il primo compilatore etimologista però l'ha compresa ben egli; e, seguitando le sicure orme etimologiche del Carafulla, ha affermato che tale avverbio in sostanza vale Con arte gotica, cioè Barbaramente.

Voci. «Légalo, è matto.»

Veramente un uomo savio, e che ha tutti i suoi giorni, queste scioccheríe non può dirle. Lasciamo stare la parte etimologica, sorella del prezzémolo di Carafulla, ma quel cioè barbaramente è cosa[216] da gente più che barbara e più che cretina. Il Boccaccio scrisse prima del rinascimento, quando l'arte gotica dominava per tutto il mondo civile, (nè d'altra arte gotica può parlarsi, perchè l'arte architettonica era solo conosciuta), e l'etimologista pretenderebbe che il Boccaccio stesso la volesse battezzare per barbara!! e confermandolo esso in nome proprio con quel cioè, viene a dire che son fatti con arte barbara quegli edifizj gotici che tutto il mondo ammira anche adesso, e che tutti gli artisti studiano ed illustrano mirabilmente. Queste sciocchezze può dirle Stenterello per far ridere il popolíno della Piazza Vecchia, e di Borgo[65]; ma che s'abbiano a vedere poste sul serio in quel gran codice della Nazione che costa 43,000 lire l'anno... Ma per ora basterà, uditori miei riveriti: continueremo un'altra volta.

Un popolano. L'ha detto che il Vocabolario costa 43,000 lire l'anno: o chi le paga?

Io. Le paga il Governo.

Pop. Ig Goerno? O ig Goerno e' cattrini di doe gli lea[66]?

Io. Dalle imposizioni.

Pop. Ma le'mposizioni le si pagano noi: dunche tutti che' cattrini e' si pagano con le nostre tasche. La sa icch'i' gli ho a dire? che questa faccenda la 'un va bene; perchè spende' tanti filussi per farsi cuculià da' forestieri, l'è cosa da grulli.[217] Loro letterachi le ci pensino, e ricorrino a chi si dee, perchè faccia smétte, questa burletta[67]...

Io. Caro amico, noi l'abbiamo detto e ridetto, nè cesseremo di dirlo; ma gli Accademici vanno insinuando che siamo gente trista e invidiosa: mettono de' pezzi grossi alle còstole di chi comanda, acciocchè questa burletta che tu dici tu, la si perpétui...

Pop. E' pezzi grossi si segano, e si mettan su if foco[68]...

Qui tutti diedero in una gran risata: io dovei promettere di fare un'altra diatriba etimològica per la sera della Befana; e chi andò in qua, chi in là.

FINE.


[218]
[219]

INDICE


Novella I. Don Ficchíno Pag. 1
" II. La consolazione della vedova " 15
" III. I tordi-merli " 19
" IV. Le píllole bachícche " 25
" V. La discrezione de' Frati " 33
" VI. Una scommessa " 37
" VII. Il Genio d'Italia col capo di cavallo " 43
" VIII. Sero sapiunt Phryges " 49
" IX. Il mio ciuco è andato sempre di qui " 51
" X. Di un francese che voleva digiunare " 53
" XI. Il sarto raddirizzagobbi " 55
" XII. Del frate cambiato in asino " 59
" XIII. Sette di vino " 61
" XIV. Una gita degli alpinisti sul medio evo " 63
" XV. Il diavolo scolaro de' Gesuiti " 71
" XVI. L'ipòcrita còlto al laccio " 77
" XVII. La pasta frolla " 83
Ghiribizzi drammatici.—La visita di un Ispettore scolastico; commedia fatta per celia " 89
" L'Arlecchino, il Brighella e il Còla del Vocabolario novello della Crusca; scherzo drammatico " 157
" Il Codíno " 177
" Il Collare della SS. Annunziata; tragedia
di un verista, in tre atti
" 189
Di alcune Etimologíe del Vocabolario della Crusca; diatriba drammatizzata, fatta sulla piazza dell'Impruneta l'ultimo giorno della fiera " 203

[220]

NOTE:

[1] Vedi in fin del volume le Illustrazioni, al N. I.
[2] Frucchíno è colui che mette le mani per tutto, che si profferisce a tutti, che entra ne' fatti di tutti. Lecchíno, è colui che loda e adúla per entrare nella grazia altrui.
[3] Trasporto alla sepoltura di bambini morti prima dei sette anni.
[4] Madonníno era una moneta toscana di quattro crazie (28 centesimi); e tanto soleva darsi agli abatónzoli, i quali assistevano alle funzioni.
[5] La cassetta, dentro cui sta chiuso un piccolo braciere, sulla quale tengono i piedi le signore nell'inverno.
[6] Gli venne gli áscheri, modo familiare per dire Gli venne voglia, Gli prese vaghezza.
[7] Essere a piedi. Non essere sufficiente a una cosa.
[8] Fare pa è modo fanciullesco, che vale Carezzare strisciando soavemente la palma della mano sulle gote.
[9] Dante disse:
«Intra duo cibi, distanti e moventi
D'un modo, prima si morría di fame,
Che liber uom l'un si recasse a' denti,»
Par., C. IV.
[10] Acqua leggermente purgativa, di cui c'è la sorgente a Montecatini nella Val di Nièvole.
[11] Ripicchiarsi, Acconciarsi, o Vestirsi con ogni cura.
[12] Trottolare è camminare a passi corti e presti, andando e riandando, in piccolo spazio.
[13] Una capatína. Dare una capata, o capatína in un luogo, è andarvi, senza molto trattenervisi.
[14] Riscaldarsi è del freddo; refocillarsi, del cibo.
[15] Iperbole dell'uso comune, per significare l'archeggiamento di stomaco prodotto da cibi sudici e puzzolenti.
[16] Grassoccia ed attraente.
[17] Necci sono stiacciatine di farina di castagne, cotta fra due lastre infocate.
[18] Suol dirsi quando la soverchia stizza ci fa parere amaro il cibo.
[19] Sbuzzare, Aprire, stracciando o tagliando, la sopraccarta di un plico, per vedere o leggere i fogli che vi son dentro.
[20] Vedi Illustrazioni, N. II.
[21] Modo dell'uso comune per significare il superlativo con più efficacia.
[22] Vedi Illustrazioni, N. III.
[23] Avventore è colui che abitualmente va a comprare ad una tal bottega, o si giova dell'opera d'un artefice.
[24] Questi passaggi dal narrativo al drammatico sono frequenti appresso gli antichi, e, saputi fare, sono veramente efficaci.
[25] Di quello, cioè Squisito, Eccellente. Questa reticenza, o ellissi, è comune nell'uso; e ciascuno ascoltatore o lettore la compie agevolmente da sè.
[26] Levarli dallo spiedo, dove sono infilati.
[27] Zolfíno si dice comunemente di una persona, che per cosa a nulla si accende d'ira.
[28] Sdrúcio è ferita assai larga e lacerata.
[29] Storcere, usato intransitivamente, è Fare un atto con la bocca, storcendo in una parte le labbra chiuse; il che significa disgusto, o che una cosa si fa di mala voglia.
[30] Nel mezzo de' mezzi, modo usato da' nostri artefici a significare il preciso punto di mezzo, rispetto a larghezza.
[31] Calettare, di uso comune tra' nostri artefici, è quando un pezzo di legno incastrato in un'altro, calza bene e combacia esattamente in ogni punto.
[32] Permío è esclamazione di sdegno o di maraviglia, comunissima nell'uso, per non dirne un'altra dov'entra il nome di Dio.
[33] Il vero Cruscajuolo ha già rinunziato alla ragione, per ascoltare solo l'autorità. Lo 'nfarinato e lo 'nferigno sono i veri profeti; il signor Arciconsolo è il solo papa; unico vangelo linguistico il vocabolario della Crusca, la quale è pur essa infallibile: i censori della Crusca sono eretici, ciurmatori, furfanti. Spesso il Cruscajuolo è un professoricchio di ginnasio, o un impiegatuccio d'archivio, che lustra le scarpe, e fa il servitorino a' capi Cruscanti, o per avere avanzamenti, o per essere fatto accademico. Se, per caso rarissimo, il Cruscajuolo ha un po' d'ingegno, o prima o poi si vergogna, e abjura la fede cruschevole.
[34] Modo proverbiale usato dagli antichi comici, e non uscito al tutto d'uso; della cui vera o supposta origine parla, raccontando anche una graziosa novella, il Passarini ne' suoi Modi di dire proverbiali. Si usa per significare, Qui sta il punto formale della questione; che suol dirsi anche qui sta il busillis, dove per altro c'è di più l'idea di una difficoltà da vincere.
[35] Il povero Gabriello.... gli pareva di sognare. Costruito comunissimo nel parlar familiare, e usitatissimo anche appresso i buoni scrittori; nè tal uso è contrario alla ragione, come mostrai nel mio opuscolo Di alcune proprietà della lingua italiana. Il costrutto grammaticale sarebbe stato al povero Gabriello... parve di sognare; ma ne scapita la efficacia e la naturalezza.
[36] Modo dell'uso comune a significare fiero disgusto, e ripudio assoluto.
[37] Gli soggiornava. Aveva per essi tutte le cure più gelose, affinchè nulla mancasse loro.
[38] Darsi l'intesa è il trovarsi d'accordo, due o più persone, di fare in un dato caso una cosa. Qui n'è detto per traslato.
[39] Quella po' di minestra. Modo usitatissimo per significare la scarsezza, e anche la povertà, del mangiare contadinesco.
[40] Trabiccolajo è voce del popolo, che significa, enfaticamente, qualunque luogo erto e scosceso.
[41] Castroneria è grave errore, di giudizio più specialmente, quasi dica errore da qualificare chi lo fa per un castrone.
[42] Stralinco è l'uomo storto e contraffatto di tutte le membra.
[43] Sghengo equivale presso a poco a Stralinco.
[44] Rimpolpettare, voce dell'uso familiare, è Studiarsi, provando e riprovando, di ridurre in miglior forma un'opera o lavoro qualunque.
[45] Pettata è salita così faticosa che affatica il polmone, e fa venire, come suol dirsi, il fiato grosso.
[46] Cortina è quello spazio delle mura esterne di una fortezza, che è tra baluardo e baluardo. A Pistoja si chiamano Cortine i quattro comuni suburbani, per rispetto al loro territorio che sta dinanzi alle quattro cortine della fortezza. È insomma quel medesimo che erano per Milano i Corpi santi.
[47] Battibecco è contesa di parole assai vivace.
[48] Luogo di riunione delle persone civili, così detto per antonomasia.
[49] Berlicche è nome col quale i nostri fanciulli chiamano il diavolo.
[50] Ciaccherino, e Buon ciaccherino si dice ironicamente per Uomo tristo, e pien d'ogni magagna.
[51] Sanfirenzini si chiamano coloro che frequentano l'oratorio di Filippo Neri, che in Firenze è nella chiesa di S. Firenze; e s'intendono per una specie di ipòcriti tristi.
[52] Sul Ponte. Per antonomasia si chiama così il Ponte vecchio dagli orefici fiorentini, che vi hanno le botteghe.
[53] Miglioramento, per la migliore e più nobil parte di suppellettili, di gioje, o simili che uno possiede, è bella voce usata per antico; è viva tuttora a Siena, e la uso anch'io perchè vorrei vederla diventare di uso comune.
[54] Strizzava limoni. I falsi devoti, per parer santi, essendo in chiesa, congiungono le mani in atto di preghiera, e spesso, quasi presi da impeto di amor divino, le premono molto, ristringendosi nelle spalle, e alzando gli occhi al cielo. Quell'atto di stringer forte le mani, è simile a quello di chi strizza limoni, e però il popolíno usa questa frase in tal caso; e quell'alzar degli occhi al cielo lo chiama stralunargli: il quale stralunare è anche più diabolico di quello de' diavoli danteschi
«Che stralunavan gli occhi per ferire.»
[55] Vedi nell'Appendice.
[56] In quell'anno che andai io allo spedale, ci venne anche Filippo Pacini, che adesso onora tanto la scuola medica fiorentina.
[57] Spianare la pasta è ridurla in larga falda, passandovi e ripassandovi sopra col matterello, detto per ciò anche Spianatojo.
[58] Impazzare si dice di ogni vivanda liquida fatta con latte, o torli d'uovo sbattuti, quando, o per troppo bollire, o per altre negligenze, venga granellosa o a stracci.
[59] Chiccajo si chiama colui che va attorno vendendo paste dolci fatte alla peggio, le quali esso porta sopra una gran téglia, o una larga paniera.
[60] Gli errori de' quali qui si tocca, sono stati veramente detti e stampati da persone che hanno ufficj nell'insegnamento; e questo dell'angelo scambiato con Beatrice lo fece veramente il prete Tigri, dandolo per soggetto a un pittore, e facendo poi egli stesso la illustrazione di quel dipinto, la quale illustrazione, che si fonda tutta sopra questo incredibile errore, è stampata. L'autore si è giovato di tali errori, per applicarli al suo personaggio ideale.
[61] Far pa, si dice del Far carezze a' bambini fregando loro amorosamente la mano sulle gote.
[62] È questo un puro scherzo, il quale non tocca minimamente la persona di questo o di quell'Accademico; ma solo l'ufficio accademico.
[63] Così chiamano a Firenze lo Spedal de' matti.
[64] Esclamazione con la quale si vuol dar del matto ad altrui.
[65] Sono due teatri popolareschi di Firenze.
[66] Il Governo? O il Governo? i quattrini di dove gli leva?
[67] Ma le imposizioni le si pagano noi: dunque quei quattrini e' si pagano con le nostre tasche. Lo sa quel che gli ho a dire? che questa faccenda la non va bene: perchè spender tanti filussi (denari) per farsi cuculiare da' forestieri, l'è cosa da grulli. Loro letterati ci pensino, e ricorrano a chi si deve, perchè faccia smettere questa burletta.
[68] I pezzi grossi si segano e si mettono sul fuoco.—È un di que' giuochi di parole tanto amati dal nostro popolo che gli ha in bocca ogni momento. Qui si scherza sul doppio significato di pezzi grossi che vale uomini di molta autorità, e grosse legne da ardere.