Title: La guerra del Vespro Siciliano vol. 2
Author: Michele Amari
Release date: October 14, 2014 [eBook #47114]
Most recently updated: October 24, 2024
Language: Italian
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COLLEZIONE
DE’ MIGLIORI
AUTORI ITALIANI
ANTICHI E MODERNI
VOL. XL
LA GUERRA
DEL VESPRO SICILIANO
VOLUME SECONDO
DALLA STAMPERIA DI CRAPELET
9, RUE DE VAUGIRARD
O
UN PERIODO DELLE ISTORIE SICILIANE
DEL SECOLO XIII
PER
MICHELE AMARI
SECONDA EDIZIONE
ACCRESCIUTA E CORRETTA DALL’AUTORE
E CORREDATA DI NUOVI DOCUMENTI
PARIGI
BAUDRY, LIBRERIA EUROPEA
3, QUAI MALAQUAIS, PRÈS LE PONT DES ARTS
STASSIN ET XAVIER, 9, RUE DU COQ
1843
LA GUERRA
DEL
VESPRO SICILIANO.
Naufragio dell’armata al ritorno in Sicilia. Giacomo coronato re. Capitoli del parlamento di Palermo; privilegi ai Catalani. Fazioni di guerra. Supplizio d’Alaimo di Lentini. Agosta occupata da’ nemici, e da’ nostri ripresa. Seconda vittoria navale nel golfo di Napoli. Trattato della liberazione di Carlo lo Zoppo. Passaggio di re Giacomo sopra il reame di Napoli. Tregua di Gaeta. Pratiche di pace generale e crociata, conchiuse a danno della Sicilia. Morte di Alfonso re d’Aragona, al quale succede Giacomo. Novembre 1285–giugno 1291.
Come la morte di re Pietro, annunziata ad Alfonso in Maiorca, si sparse per la siciliana flotta, divampovvi col pronto veder delle nostre plebi una brama di tornarsene in patria. E in vero, con Aragona altro legame non rimanea che d’amistà; ma era a temer che mancato quel valoroso principe, i nimici ritentassero la Sicilia: e chi può dir se le menti sì aguzze al sospetto non immaginaron disposti i Catalani a ritenersi l’armata? Pertanto scoppia tra le ciurme un grido: «In Sicilia! in Sicilia!» e perchè l’ammiraglio dubbioso rispondea, che a gran rischio navigherebbero in quel procelloso romper di verno, la moltitudine rincalzata da Federigo Falcone da Messina, vice ammiraglio[1], peggio ostinandosi, ammutinata ripigliava[2] «In Sicilia! e muoia chi nol vuole.» Questa nè cieca nè volgare carità di patria, che i nostri istorici biasman dall’esito, e sol guardando al danno che ne incolse all’armata, non a quello che s’ovviò alla Sicilia, sforzava i capitani a far vela a ventitrè novembre, parendo bonaccia. Rincrudito il vento, cacciolli a Minorca. Ripartirono; ma soffiò sì atroce il tre dicembre, che la flotta tra Sardegna e le Baleari e su per lo golfo del Lione per tre dì orribilmente fortuneggiava. Comanda l’ammiraglio di prendere il largo, accender fanali alle navi per cansar gli urti, ristoppare gli struciti, del resto facendo prua a scirocco abbandonarsi alla fortuna. Ma con tutta l’arte e l’ardire, due galee messinesi, due d’Agosta, una di Catania, una di Sciacca, rompendo in acqua, miseramente naufragarono; e vi perì anco il Falcone. Le altre quaranta fean gitto del bottino francese; e dopo lungo travaglio, battute, sdrucite, sgomenate ad una ad una si ricolsero nel porto di Trapani. L’ammiraglio appena messo piè a terra, cavalcava a Palermo; ove giunto il dodici dicembre, recava primo alla regina il grave annunzio, e tramettealo a Giacomo in Messina. Destò quella morte per ogni luogo di Sicilia grandissimo compianto; e si notò delle donne che tutte vestiron gramaglia, fecer pubblico duolo, e quante entravano a corte, con insolita veracità d’affetto, come madri o figliuole confortavan la Costanza trafitta di profondo dolore[2].
Poi pensarono i notabili del reame alla solenne esaltazione di Giacomo, riconosciuto nel parlamento di Messina[3] dell’ottantatrè, e promulgatosi re all’avviso della morte del padre, il quindici dicembre[3]. Onde convocati per tutta l’isola i prelati, i baroni, e’ sindichi di terre e città, il due febbraio milledugentottantasei ragunavansi a parlamento in Palermo. Giacomo vi si trovò con la regina e l’infante Federigo: il vescovo di Cefalù, l’archimandrita di Messina, e assai più prelati di Sicilia, coi vescovi sì di Nicastro e Squillaci, nel nome di Dio e della Vergine il coronavano. In quei dì, tra le feste che splendidissime rendea il lusso de’ molti possenti baroni, il re a sue spese armò cavalieri quattrocento nobili siciliani: e molti feudi de’ ricaduti al fisco dopo la cacciata de’ baroni francesi, molte grazie largheggiò; per letizia, e necessità di moltiplicar dentro i sostegni, poichè fuori dell’isola non vedea che deboli amici e irosi avversari. Perciò in questo parlamento medesimo a dì cinque febbraio promulgava, come allor s’addimandarono, le costituzioni e immunità, registrate nel corpo delle leggi del reame di Sicilia col titol di capitoli di Giacomo, e scritte con linguaggio di concessione, ma dettate forse da’ notabili, e certo dalla volontà della nazione. Perchè re Pietro nel parlamento di Catania avea più presto promesso che compiuto le riforme; in quel di Messina ordinò solo i ministri del regio potere; ma i capitoli del parlamento di Santo Martino, e que’ recentissimi di papa Onorio, gli uni e gli altri manifesto effetto della nostra rivoluzione, davano al reame di Puglia belle guarentigie e maggiori assai di quelle che avanzavano alla Sicilia per la virtù immediata del vespro: ond’ era forza calarvisi anco in Sicilia, e tor cagione allo scontento, già scoppiato in più modi[4].[4] Ritrasser molto delle onoriane, e le avanzarono in alcune parti, queste nostre riforme. Breve esordiron dal patto sociale che strigne insieme governati e governanti in ogni civiltà. Promettea poscia il re zelante protezione delle persone e facoltà appartenenti alla Chiesa, senza quella dismisura di privilegi che la romana corte comandò in Puglia. Quanto alle pubbliche entrate, rilevando studiosamente le gravezze durissime de’ tempi di Carlo, la colletta ristrigneasi a’ noti quattro casi, e la somma a quindicimila once d’oro in que’ di occupazione di nimici o ribellione e di prigionia del re; a cinquemila negli altri due. Tuttavolta una sola colletta, s’aggiunse, levar si possa in un anno: restò vietata l’alienazion degli stabili della corona, che torna a peso pubblico[5]; e confermata l’abolizione de’ dritti di marineria, già bandita da re Pietro. L’amministrazione della giustizia civile e criminale si ordinò a speditezza e benignità, purgandola di assai mal tolti del fisco; tra i quali la multa su i comuni per non scoperti autori degli omicidi: e si volle che tra due mesi s’ultimasse ogni lite, o si richiamasse alla magna curia; che s’ammettesser le malleverie: si pose freno agli accusatori: speciali guarentigie fermaronsi nelle cause civili contro il fisco; e maggiori nelle accuse di maestà[6]. Con ciò disdetti vari statuti[5] crudeli, o abusi di pubblica amministrazione; come mutazion di moneta, sforzati imprestiti al governo, sforzato affitto degli ufici dell’azienda, trasporto del danaro pubblico, rapina degli avanzi de’ naufragi, bandite, custodia di prigioni, inquisizioni, divieto de’ matrimoni[7]: e si fe’ prova a cessar le baratterie e violenze degli uficiali, castellani, famigliari, e altri molesti sciami[8]. Ai feudatari fatto più certo e moderato il militar servigio; abrogato l’obbligo a fornir navi da guerra; dato che i fratelli e lor prole fino a terza generazione succedessero ne’ feudi; e accordati altri utili statuti[9]. Vietossi in lor pro che gli ascrittizi o altre maniere di servi passassero ai comuni, potendo bensì i tenuti al barone per sola ragion di beni, abbandonarglieli e andar via; iniqua legge, ma necessaria secondo il dritto dei tempi, la quale pur dà a vedere gli umori popolani sviluppatisi appresso il vespro nelle municipalità, che invitavano non solo, ma sforzavan anco i vassalli de’ baroni[10]. In ultimo rimetteansi ai possessori attuali le sostanze mobili di re Carlo o de’ suoi, occupate nella rivoluzione: s’aggiugnea che niun rendesse ragione di maneggio di cosa pubblica ne’ tempi angioini[11]. Queste ed altre leggi che men rilevano[12], bandironsi nel brio del[6] coronamento. Mal si osservarono quelle che ponean freno a’ magistrati e oficiali; onde a’ richiami delle città, rinnovolle Giacomo poco appresso sotto altre sembianze, con sancir pena a’ trasgressori; e sono venzette capitoli più, dei quali ho fatto qui parola perchè non si sa appunto in che anno si promulgassero, nè monta troppo indagarlo[13].
L’altro consiglio del nuovo principato fu di strignersi d’amistà e di commerci con Aragona, ond’avea sola speranza di aiuto. Però fermavasi lega tra i due re con tutte lor forze a difesa o conquisto; che ne condusse per certo la pratica Ruggier Loria, e accettò i patti in Aragona per Giacomo innanti Corrado Lancia e altri nobili[14], in Sicilia per Alfonso; restandoci il diploma che dienne Giacomo in Palermo il dodici febbraio, soscritto con esso da più testimoni vescovi, conti, e altri notabili, tra i quali si leggono il Mastrangelo, Palmiere Abate, tornato di Catalogna, e l’istorico Bartolomeo de Neocastro, avvocato del fisco[15]. Pochi dì appresso, a tutti i Catalani accordavasi caricar grano nei porti di Sicilia con moderata gabella[16]; e a que’ che dimorasser nell’isola, eleggere un console con giuridizione civile soltanto, salvo l’appellazione al re, e[7] ricuperare nei naufragi gli avanzi di lor beni[17]. Con queste franchige, che si dissero, ed erano, merito de’ servigi renduti, e incoraggiamento ad altri più, allettava i Catalani a mercatar nell’isola, com’avea usato re Manfredi co’ Genovesi[18]; il cui privilegio che scemava a terza parte i dritti di dogana accordò Giacomo due anni appresso, con altri di molto momento, ai cittadini di Barcellona[19]. Tentò infine ammollir l’animo del papa con messaggio d’obbedienza e devozione per Gilberto di Castelletto, cavalier catalano, e Bartolomeo de Neocastro; il quale narra la risposta di Onorio: bene e ornatamente parlare i Siciliani, e pessimi operare, e non potersi quindi assentir le loro inchieste: che fu la terza ripulsa di Roma alle nostre parole di pace[20].
Anzi Onorio svecchiò le scomuniche di papa Martino; pose nuovi termini a sottomettersi; e chiamò agramente a discolpa, pel fatto della coronazione, i vescovi di Cefalù e di Nicastro; i quali non ubbidirono più che gli altri Siciliani[21]. Le armi di costoro tagliavano intanto. Entrando l’ottantasei Taranto, Castrovillari, e Morano, voltavano sì a parte nimica per non poter più de’ rapaci almugaveri; ma con maggior audacia e disciplina altra banda di almugaveri spintasi in Principato, s’insignorì di castell’Abate presso Salerno. Non guari appresso, Guglielmo Calcerando inviato a reggere le Calabrie, riprese e riperdè Castrovillari e Morano[22], e tenne sì viva la guerra, che allo scorcio della state i governanti angioini chiamavan tutte le feudali[8] forze ad osteggiarlo[23]. Ma s’ebbe meglio fare in su i mari. Mentre Loria, ito in Catalogna con due galee e toltene sei più catalane, correa depredando le costiere di Provenza, Giacomo allestì due armatette; l’una di dodici galee nel porto di Palermo, capitanata da Bernardo Sarriano cavalier siciliano[24], sulla quale montarono Palermitani e uomini di val di Mazzara; l’altra di venti galee nel porto di Messina, armata forse di Messinesi e abitatori delle coste orientali, e diella a Berengario Villaraut. E l’una a dì otto giugno fe’ vela dritto per lo golfo di Napoli; ove al primo espugnò Capri e Procida, con terror tanto di Napoli stessa, che il cardinal Ghepardo in fretta fea racconciar la catena e le altre difese del porto. Poi tutta la state nelle isolette stanziò Sarriano, a prendere quantunque legni mercatassero per lo golfo; e all’entrar di settembre spintosi infino alle spiagge romane, investiva il castel d’Astura, infame per la presura di Corradino. Accesi di vendetta montano i Siciliani all’assalto; trafiggon di lancia il signore, figliuolo di quel Frangipane che vendè Corradino a re Carlo; fan macello de’ suoi; nè s’appagano che non mettan fuoco alla terra. Diedero il guasto tornando, ai liti di Castellammare, Sorrento, Positano, Amalfi; e ridussonsi in Palermo. L’altra armatetta con eguale onore e guadagno rediva nello stesso tempo a svernare a Messina. Uscita n’era il ventidue giugno alla volta del capo delle Colonne; donde scorse per Cotrone, Taranto, Gallipoli, predando i legni nimici, senza toccar gli altri che con Venezia mercatavano. Indi presentò battaglia a Brindisi; e aspettate tre dì le nimiche galee, che per niuna[9] provocazione non uscian dalla catena del porto, navigò sopra Corfù a trovare un avanzo de’ preparamenti di Carlo alla guerra di Grecia. Quivi smontate le nostre ciurme, affrontaronsi con una banda di mercenari francesi; e rottala, posero a sacco la terra; e di lì inaspettati ripiombavano sulle costiere di Puglia, pria di ricorsi a Messina. In tal modo dall’Adriatico, dal Tirreno le forze navali siciliane affliggeano il reame poco innanti conservo, i cui legni da battaglia s’ascondeano ne’ porti, ai mercatanteschi erano tronchi i commerci, ville e città sulla costiera piangeano gli stermini della guerra[25].
Giacomo bruttò questi allori con un esempio di crudele paura. Vedea serpeggiar anco qua e là umori di scontento; seppe Alaimo di Lentini presso a ottener da re Alfonso la libertà sua e de’ nipoti; e a spegnerlo s’affrettò. Manda a questo in Catalogna Bertrando de Cannellis catalano, che in Maiorca avvennesi con Adenolfo di Mineo, sciolto poc’anzi dal carcere. Perch’Alaimo, con profferta d’once diecimila d’oro, s’era chiarito innocente appo Alfonso; onde allargati furono egli e l’un de’ nipoti, lasciato l’altro ch’andasse in Sicilia a tor la moneta. Ma Bertrando guastò il mercato, riportando Adinolfo in catene a corte di Aragona, e conficcando il re con rimostrare gagliardamente: alla ragion d’impero del re di Sicilia doversi quei tre sudditi macchinatori di tradigione in Sicilia; uomini d’alto affare, da rivoltare a un pie’ sospinto il reame, e perdervi Giacomo e i fratelli e la madre d’ambo i re e ogni uom di favella catalana. S’ostinò dapprima Alfonso; ma l’ambasciatore, incalzando, e quasi chiamando il re d’Aragona[10] complice dei traditori, vinse alla fine. Rassegnatigli dunque i prigioni, li imbarca sotto gelosa guardia; fa loro confessar le peccata a un frate minore, pria che affrontasser, diceva, i rischi di tanto mare, pien di pirati e nimici. Sciolsero di Catalogna il sedici maggio milledugentottantasette. Il due giugno, venuti a cinquanta miglia da Marettimo, lieta la ciurma salutò la Sicilia; Bertrando fe’ chiamar sulla tolda i prigioni.
E volto ad Alaimo, diceagli che saziasse gli occhi suoi nella dolce vista della patria; a che il glorioso vecchio: «O Sicilia, sclamò, o patria! molto ti sospirai; e pur me beato se dopo i miei primi vagiti non t’avessi più vista!» Esitò pochi istanti il Catalano, forse per pietà, a queste parole, e ripigliò: «L’animo mio fin qui ti parlava, o signore; or quello del re intender è forza, e obbedire», e spiegava uno scritto. Adinolfo il leggea. Era mandato del principe, che dicea costar all’eccellenza di lui, com’Alaimo di Lentini, Adinolfo di Mineo, e Giovanni di Mazarino tramaron già iniqua e ineffabile cospirazione contro i reali e l’isola di Sicilia, ed eran rei sì d’altri misfatti; ondechè giudicandosi il viver loro in prigione, pericol sommo dello stato, la cui pace vuolsi con severissima giustizia serbare; commettea il re a Bertrando di ripigliarli di Catalogna, e mazzerarli al primo scoprir la Sicilia.
Non maravigliò Alaimo, nè tremò della morte; nè con vane parole toccò il passato, o si querelò; se non che risentiva l’acume di crudeltà che volle comandare tal supplizio a tal vista, e negargli sepoltura sulla terra degli avi. Del resto nella rassegnazione del vangelo, pregava salute al re, a’ carnefici stessi, e: «Una vita, dicea, di miserie e di pianto trassi infino a vecchiezza, e inonorata or chiudo. A me stesso non mai, ad altrui sol vissi; per altrui muoio. Peggio ch’uomo non creda (e pensava forse alla esaltazion di Pietro e allo spento Gualtiero), peggio ch’uomo non[11] creda io misfeci, e merito più cruda morte che questa. Essa almen sia pace alla patria, e fine ai sospetti.» Indi ei stesso chiede la banda di tela, preparata per istromento al supplizio e coltrice insieme e bara dell’eroe di Messina; vel fasciano e serrano i manigoldi; e il traboccano in mare. Così anco i due giovani periano. Approdò a Trapani la scellerata nave; e per tutta Sicilia si disse con orrore della fine d’Alaimo. Ricordavano la nobiltà del sangue, il grand’animo nelle cose della guerra e dello stato, la possanza a cui salì, il pazzo orgoglio di Macalda che il perdè; e tremavan gli amici, susurravano i guardigni gran cagione doverne avere per certo il re. Questi romori in intricato linguaggio riferisce il Neocastro, e riporta con simpatia di dolore tutto il supplizio e i memorabili detti d’Alaimo, forse il miglior cittadino, certo l’uom più famoso che la Sicilia vantava nella rivoluzione del vespro[26].
Nel medesimo tempo sulla costa orientale si combattea co’ nemici. Alla morte di Pietro e alla primavera d’appresso, pensarono di venir sopra l’isola[27]; ma assaliti dalla nostra flotta da entrambi i mari, appena sè medesimi difendeano. Però vollero al nuovo anno prender primi le mosse al doppio assalto, per guerreggiar se non altro in casa altrui; sapendo inoltre lungi il nostro ammiraglio, e disarmate le navi. Stigaronli vieppiù quei frati Perrone e del Monte, presi due anni innanzi cospirando a Messina, e da Giacomo[12] sciolti, per clemenza non già ma debolezza: ond’ora gliene rendean merto i frati, sollecitando di terraferma novelli garbugli, con vantar le radici lasciate in Sicilia e male sbarbate dal re, sopra tutto ad Agosta, Lentini, Catania, e altri luoghi di quelle regioni; e che con un po’ di forza da rannodare i partigiani e far testa a’ primi urti, darebber vinta l’impresa. Così disser dapprima a papa Onorio, che non li ascoltò; donde volsersi al cardinal Gherardo e ad Artois, e furono graditi[28]. I due reggenti dunque chiaman le milizie; assoldan altri Italiani e Francesi; procaccian moneta per collette e doni, o così diceansi, delle città[29]. A Brindisi messero in punto, con tener segretissimo il perchè, quaranta galee, cinquecento cavalli, cinquemila fanti, capitanati da Rinaldo d’Avella, cavalier napolitano tenuto assai prode. Seguian l’oste per la santa sede, legato il vescovo di Martorano, capitano Riccardo Morrone, col bando della croce e le bandiere della Chiesa; non potendo Onorio queste dimostrazioni negare quand’altri apprestava le forze. E nello stesso tempo, quarantasei tra galee e teride e più grosso esercito, s’adunavano a Sorrento con tutti i primi feudatari del reame, per tentare altra impresa e tenere in dubbio il nimico.
Salpò l’armata di Brindisi il quindici aprile; fe’ uno sbarco a Malta[30]; e improvvisa gittossi in Agosta il primo di maggio, colto il tempo che il popolo traendo alla fiera[13] di Lentini, lasciato avea vota la città, e mal guardavasi il castello. Perciò senza trar colpo sbarcarono. Ma facendosi ad amichevol parlare tra quelle mura vent’anni pria contaminate da lor gente con empio macello, gl’invalidi cittadini rimasi in Agosta con alto sentimento risposero: non li sperassero men che nimici giammai, nè da altra siciliana città s’aspettassero se non guerra. E replicando gli stranieri che veniano di voler del pontefice, un vecchio infermo, Paccio per nome, «Tenghiam noi, rispose, madre la Chiesa, nimico chi adesso la regge, poichè armi ed armati invia a combatterne. Al legato or chiedete s’Iddio mai comandò di sparger sangue cristiano per asservire cristiani! E s’ei diravvi che il comandò, miscrede al vangelo; e da noi apprenda che la fede cristiana dà sole armi alla Chiesa, l’umiltà, la croce, e la soave parola.» Così in que’ tempi pensava la Sicilia! Occupata da’ nimici terra e castello, non tornavano i cittadini in Agosta. E spargendosi l’allarme tutto all’intorno, si sgombravan gli armenti, si abbandonavano i campi, si riducean gli abitatori a’ luoghi più forti, con proponimento d’ostinata difesa[31].
Giacomo n’ebbe avviso in Messina, ove sedea per l’opportunità della guerra, ma in ozio, o ingannato da’ rapportatori che davan queto al tutto il nimico. Bella ammenda ne fece. Chiama incontanente alle armi i feudatari e le città de’ contorni; comanda per tutta l’isola di metter in mare le galee; a ciò parlamenta egli stesso i Messinesi, appellandoli popol suo, suo, ripigliava, sol per cittadinanza e amistà; e a Loria come figliuolo al padre si accomandò. Il quale, tornato poc’anzi di corseggiare coi Catalani[14] sulle costiere di Francia e far ossequio ad Alfonso nel suo coronamento a Saragozza, ridivenuto grande nei pericoli, correa a Messina ad armare le navi, con tutto il popolo generoso, che a gara aiutando fervea nell’opra; senza prender, altrove che nell’arsenale, scarso cibo e riposo; infiammato dall’ammiraglio con lodi, carezze, ed esempio di stender ei stesso la mano a’ lavori. E in questi sudava Ruggiero una notte, affumicato, sbracciato, in farsetto, quando alcun famigliare di corte gli susurrò, che stando il re coi suoi più fidati a trattare i disegni della guerra, suggerito avesser costoro dar lo scambio all’ammiraglio, pien di tanta iattanza, ma rattiepidito, fors’anco mal fido. Onde Ruggiero, così com’era, montato in palagio, dinanzi al re proruppe a rimbrottar gli avversari, poltroneggianti nelle sale della reggia mentr’ei correva i mari, affrontava nimici e tempeste, assicurava i lor ozi con tante vittorie: e voltosi a Giacomo, rassegnò il comando. Confitti al brusco piglio, abbassaron la fronte i cortigiani; e il re, che lui assente avea difeso con assai calde parole, il pregò di ciò ch’ei stesso bramava, di ritenere il comando. Indi l’ammiraglio tornò con doppio ardore ad apprestar l’armata, che fu pronta in sei dì. Giacomo, lasciata la madre nella rocca di Matagrifone, e munita e leale Messina, movea a dì quattro maggio per Taormina, con dieci soli compagni. Il dì sei fu ad Aci e a Catania; ove accozzaronsi da mille cavalli e molte migliaia di fanti, tra milizie feudali, cittadinesche, e mercenarie.
Avean quello stesso dì tentato Catania i nimici, fidandosi nelle macchinazioni de’ due frati, che s’eran tirati dietro molti giovani vogliolosi di novità; i quali messero occultamente in città e nascosero in un abituro dodici uomini d’arme francesi, che a notte schiudessero la porta della marina; e dovea entrarvi un grosso stuolo, che spiccato d’Agosta si pose in agguato a due miglia da Catania,[15] mentre una punta della flotta si mostrava in que’ mari. Ma il popol che levossi in arme scoprendo le navi, fe’ stare i traditori al di dentro, i nimici al di fuori; poi venuto il re con le genti, riseppe i primi e vegliolli senza farne sembiante, si ritrasser la notte i nimici. Con aspra scaramuccia ferironli allora sol dieci cavalli e cinquanta balestrieri catanesi, sortiti senza saputa del re, con Martino Lopez Catalano e messer Forte Tedeschi da Catania, che Giacomo in premio fe’ governadore di Aci; i quali nell’oscurità della notte ruppero il retroguardo che ripassava il Simeto, e tronche le funi della zattera, molti Francesi fecero prigioni, molti uccisero, i più periron nel fiume. In que’ dì Catania offriva lietissimo spettacolo ad animo siciliano. Approdarono pria con l’ammiraglio venzette galee, poi tredici: adunavansi grosse bande di milizie feudali: e mentre il re pensava chiamar parlamento per chiedergli moneta, nel fornirono i cittadini di Catania largamente; tra i quali una vedova, Agata Seminara per nome, presentavagli dugento once d’oro, e tutti i suoi gioielli per la difesa della patria. Notavansi tra i primi dell’oste Guglielmo Calcerando catalano, e’ nostri Riccardo Passaneto da Lentini, Riccardo di Santa Sofia, Ramondo Alamanno maresciallo del re, Corrado Lancia, Matteo di Termini, Antonio Papè da Piazza; tra la forte gioventù delle galee di Catania ricordasi un Niccolò la Currula, che lottava co’ tori e abbatteali. Queste armi drizzaronsi incontanente sopra Agosta. La notte innanti il tredici maggio fe’ vela l’armata; allo schiarire del dì mosse il re con le genti, dodici giorni dopo l’occupazione nemica: nel qual tempo s’eran armate quaranta galee, ben oltre mille cavalli, e più migliaia di pedoni[32]. Tanto vigore ebbe Giacomo,[16] prontezza il popolo, e virtù il patto che strignea re e popolo! Leggiamo in vero che dubbiosi palpitavan tutti in quel tempo, accrescendosi pel caso d’Agosta i sospetti d’umori volti a novità. Ma debol coda eran questi dello scontento nazionale, riparato da Giacomo con le riforme, e di qualche rancore privato contro gli atti severi di lui; la qual macchia non togliea che in questo incontro gl’interessi della nazione e del re fossero un solo.
Primo in Agosta arrivò Loria con la flotta; e non trovando l’inimica, senz’altro, sbarcò e assalì. Donde nelle strade della deserta città ingaggiavasi aspra zuffa tra le nostre ciurme e’ cavalli nemici, ch’ebber l’avvantaggio dapprima; ma quando Ruggiero, per mettere le genti in necessità della vittoria, fe’ levar le scale delle galee, rattestandosi i nostri e asserragliando le strade con botti e altro legname, tanto ferivan co’ tiri, che rincacciate entro il castello le genti di Rinaldo, s’insignoriron essi della città. Scandol molto diedero in questo scontro, portati dalla infernale rabbia de’ lor consorti Perrone e del Monte, i frati predicatori, saliti in su i tetti del chiostro a provocare i nostri che pugnavano co’ nemici; onde altri ne fur morti, altri si chiuser co’ nemici in fortezza, due caddero in man dell’ammiraglio. Un di costoro, capuano, svelò l’appresto delle nuove forze in Sorrento contro val di Mazzara, e che la armata partita d’Agosta, navigava già sopra Marsala con Arrigo de’ Mari, cittadino di quella terra, partigian de’ Francesi. Giacomo, sopravvenendo lo stesso dì con l’oste, vide lo stendardo di Sicilia sui muri d’Agosta. Onde ormai tutte le genti da tramontana, ponente, e mezzodì posero il campo al castello, fortissimo ancorchè in piano, ma scarso d’acqua e mal vittovagliato da Rinaldo,[17] che sognando conquisti, non s’aspettava sì pronto addosso il nemico[33].
E il re pria che strignesse la rocca, fatto accorto da’ detti del frate, commette il comando di Marsala a Berardo di Ferro, privato nimico al de’ Mari; provvedendo che ingrossino il presidio Bonifazio e Oberto di Camerana da Corleone, d’origine lombardi[34], con gli uomini di quella terra, sì feroci nel primo scoppio della rivoluzione: che inoltre i condottieri e soldati di maggior nome dei monti, scendano a rinforzar le città di marina: che vi si riparin muri e bastioni: e pattuglie battan d’ogni dove le spiagge, per far la scoperta dell’armata nimica. Presso Marsala questa approdò; tentò uno stormo contro la città; e funne respinta. Accozzatovisi Arrigo de’ Mari con dodici galee più, sbarcaron di nuovo; e ributtati nella seconda prova con maggior sangue, senza infestar l’isola altrimenti, fean vela per Napoli[35].
Ma all’assedio del castel d’Agosta, poichè il re invano intimava la resa più volte per Corrado Lancia, adoprossi ogni ingegno di guerra de’ tempi. Leggiamo che con una[18] specie di parallela fean gli approcci, tirando un muro a protegger gli artefici; che i fabbri della flotta costruivan terricciuole mobili a ruote, e cicogne, e un gatto da percuoter le mura, bruciato poi dagli assedianti in una sortita; che con mangani e altre macchine fean piover sassi nella fortezza, più micidiali perchè aggiustati a prender il balzo; e afferma il Neocastro come un Castiglione, ingegnere dell’armata, sì fino giocava il mangano da imberciare a ogni colpo il pozzo unico del castello. Però, ancorchè stesser saldi agli assalti, per essere in sito avvantaggioso e grossi di numero, il numero accrescea la strage, perdendosi pochi colpi degli assedianti: e più travagliavali il fetor dei cadaveri, l’acqua scarsa e corrotta, la fame che li portò a cibarsi de’ cavalli e suggerne il sangue. Ai trentaquattro dì, svanita una speranza di pioggia, nè apparendone alcuna d’aiuti, i Pugliesi del presidio abbottinaronsi sotto Giovanni Boccatorsola, giovane cavato napolitano, che assai vivo parlò al legato: ma furono ad inganno, ei preso e dicollato, messi fuor del castello gli ammutinati inermi; su i quali i Francesi buttan da’ merli il tronco di Giovanni, e con tiri di pietre li scacciano. Vennero alle linee de’ nostri, e furonne ributtati per timor di fraude: tre dì la misera plebe, tra due nimici, arrabbiando di fame e sete, disperata gridava pietà. L’ebbe da Giacomo, salve solo le vite. Agli stessi patti si arrese a dì ventitrè giugno milledugentottantasette, dopo quaranta d’assedio, Rinaldo d’Avella, col legato e le reliquie del presidio: e in quell’istante frate Perron d’Aidone, autor primo di tanto miserando strazio d’umani, per fuggir supplizio, o non sostenere il rammarico dell’impresa fallita, diè rabbiosamente del capo sulla muraglia, e finì suicida quel tempestoso suo vivere[36].
Lo stesso dì la bandiera siciliana ebbe una splendida vittoria nel golfo di Napoli. Messe in punto le macchine all’assedio d’Agosta, navigò l’ammiraglio a Marsala; ove non trovando i nimici, tornossi al re, e deliberavano di combatter senza indugio l’altro armamento apparecchiato sul Tirreno. Perilchè, rinforzato d’altre cinque galee di Palermo, delle quali fu capitano Palmiero Abate, e promesso alle genti, dice Speciale, un donativo, o piuttosto che fosse buon acquisto a’ privati ogni preda di quest’impresa, come porta il Montaner che meglio se n’intendea e a quest’uso attribuisce i maravigliosi fatti di quelle guerre, l’ammiraglio poggiò a Sorrento. Seppevi il sedici giugno pressochè pronta l’armata a Castellamare; andò a riconoscerla egli stesso; e risoluto ad affrettar la battaglia, scrisse una sfida all’ammiraglio nimico, il nobil Narzone. Avea questi, tra teride e galee, ottantaquattro legni grossi; su i quali montò il forte dell’oste, con assai nobili e cavalieri, e quei primi feudatari poco minori del principe stesso, i conti, di Monteforte, di Ioinville, di Fiandra, di Brienne, d’Aquila, di Monopoli, il primogenito di quel d’Avellino: onde questa poi si nomò la battaglia de’ conti. In mezzo alle schierate navi stette l’ammiraglio angioino, armando di fortissima gioventù la sua galea, circondata di otto più, a fronte, a tergo ed ai fianchi; e su due vaste teride alzò i due stendardi della Chiesa e de’ reali angioini. Spiegavano all’incontro le aquile siciliane quaranta galee, schierate da Loria, in qual ordine non sappiamo, ma sol ch’ei spartì gli ufici della gente, quali a ferir con tiri di balestre o di sassi, quali ad aggrappar le navi nimiche e arrembarle. Allo[20] schiarire del giorno, il ventitrè giugno, un acuto fischio uscì dalla nostra capitana, e l’armata si preparò. Esortata con lieto piglio da Ruggiero, gridò i santi nomi di Cristo e di Nostra Donna delle Scale; e vogò contro le bandiere papali.
Guglielmo Trara primo urtava la fila nimica, dalla quale quattro galee spiccansi a circondarlo, e altre seguivanle; ma volano alla riscossa le galee di Milazzo, Lipari, e Trapani, poi di Siracusa, Catania, Agosta, Taormina e infine di Cefalù, Eraclea, Licata, Sciacca; talchè svilupparon Trara, e universale ingaggiarono la battaglia: un contro due i nostri, ma più pratichi del mare, si fidavan di vincere, incoraggiati sì dall’ammiraglio, che a veggente di tutti, dall’alta poppa della galea in fulgida armatura comandava. Sanguinosa indi e lunga la giornata si travagliò, finchè spossati i nimici, e standosi inoperose dal canto loro le galee genovesi, avventavansi i Siciliani sulle altre all’abbordo; e cominciò la fuga alla volta di Napoli. Questo chiarì la vittoria. La quarta che i nostri guadagnavano in questa guerra per giusta giornata navale; la più nobil tra tutte per disavvantaggio di forze, ostinazione al conflitto, e numero di navi prese: e rimutò le sorti della guerra al par della prima battaglia del golfo di Napoli tre anni innanti, e di quella dell’ottantacinque al capo di San Sebastiano; ma ebbero queste maggior grido, l’una per la presura del principe Carlo, l’altra per la Catalogna liberata dalle armi di Francia. Più migliaia tra di nemici e nostri caddero in questa giornata. Accrebbero lo splendor della vittoria quarantaquattro galee prese, con le bandiere, l’ammiraglio nimico, tutti i conti, trentadue nobili, e quattro o cinque mila più uomini. Mandolli Ruggiero sotto scorta di dieci galee siciliane a Messina; fe’ atroce rappresaglia d’una enormezza del nemico, o seguì gli atroci esempi di quelle guerre e di quella[21] età, accecando parecchi prigioni; e con le altre trenta galee, spedito difilossi al porto di Napoli[37].
Dove il popolo, come si suole, appiccava ai governanti questa sconfitta; e scompigliavasi, e sarebbesi ribellato, se l’ammiraglio avesse incalzato per poco, e Gherardo ed Artois, sopraccorsi a tempo, con loro riputazione non l’avessero contenuto. Ruggiero usò la vittoria vendendo a’ reggenti per grossa somma di danaro, tregua per due anni su i mari; senza mandato del re, senza pro della Sicilia, con dar comodo al nemico a rifarsi, e troncar il[22] corso della fortuna. Però nei consigli di Giacomo gli emuli dell’ammiraglio ribadivan le accuse, e dicean tra’ denti fellonia; ma Giovanni di Procida, ch’era innanzi a tutti nell’animo del re, perdonar fece tal colpa alla gloria; parendogli non doversi provocare un tant’uomo, o volendolo in corte privato sostegno a sè medesimo.
Pertanto quando Loria tornò con la flotta a Messina, non fu conturbato, non fu troppo gioioso il trionfo. È degno di memoria, che alla dedizione d’Agosta, Giacomo vietò per questa vittoria sulle bandiere della Chiesa ogni pubblica allegrezza, fuorchè gl’inni al Signore. Ben attese a ristorar il castello d’Agosta, a rafforzar con un muro di cinta castello e città; e questa, diserta dalla strage del sessantotto e dal nuovo assedio, ripopolò con bandire, che tutti i Siciliani e Catalani che vi prendesser soggiorno, avrebbero stabili e franchige. De’ prigioni, Rinaldo d’Avella e il vescovo di Martorano si permutarono col castel d’Ischia (tanto fur leali ad essi i reggenti di Napoli); ma se l’ebbero a vergogna que’ cittadini, perchè per dodici anni, tenendo i nostri le bocche del golfo, riscotean tributo d’un fiorin d’oro all’uscita d’ogni botte di vino, e doppio sull’olio, e sì sulle altre merci. Per moneta si ricattaron gli altri nobili e’ conti; fuorchè Guido di Monteforte, quel che non temè d’assassinare nel tempio del Signore l’innocente Arrigo d’Inghilterra, e or nelle prigioni di Messina morì di malattia, dicono alcuni scrittori, per serbare castità e coniugal fede[38].
Valida per queste vittorie e per prosperità al di dentro, posò la Sicilia intorno a due anni, non curante delle invettive che lanciavale papa Niccolò IV, non guari dopo la sua esaltazione, il giovedì santo dell’ottantotto[39]: e, durando la tregua, trattavasi anco la pace, ma da oltramontani, e perciò male per noi. Perchè stando gl’Inglesi con Francia in pace sospettosa e mal ferma, Eduardo, veggente assai nelle cose di stato, temea non s’aggrandisse quel reame con l’impresa d’Aragona; e, a torne cagione, procacciava in sembianze amichevoli la liberazione di Carlo lo Zoppo e la pace. A ciò mosse le raccontate pratiche al tempo di re Pietro[40]. A ciò, dicendo muoversi ai preghi de’ figliuoli di Carlo e degli ottimati di Provenza, divisava un congresso a Bordeaux con gli oratori di Aragona, Francia, Castiglia, Maiorca, e i legati di Roma[41]: e ito a Parigi a dì venticinque luglio dell’ottantasei, fermò tra Francia e Aragona una tregua[42], non potendo la pace; perch’era durissimo a sciorre tal nodo. Giacomo, afforzandosi ne’ preliminari assentitigli in Cefalù dallo stesso Carlo, chiedeva, oltre il parentado con lui, la Sicilia, la diocesi di Reggio, e il tributo di Tunisi: la corte di Roma, pugnando pe’ reali d’Angiò più ostinatamente ch’essi medesimi non bramavano, rivolea la Sicilia a ogni modo: Alfonso per interessi di famiglia e di nazione tenea al fratello: induravano il re di Francia la romana corte e il Valois. Eduardo dunque, poichè non seppe spuntar di[24] suoi propositi il pontefice che nulla temea, si volse ad Alfonso, imbrigliato assai strettamente dalle corti d’Aragona e di Catalogna, ch’erano impazienti di tal cumulo di danni per interesse non proprio, e le turbava il novello romoreggiar delle armi francesi in Rossiglione. Alfonso tentennò: poi a poco a poco, tirato da Eduardo, cominciò ad abbandonare il fratello, in un accordo fermato ad Oleron in Bearn. Parve poco questo trattato alla corte di Roma, che il disdisse; e perciò i pazienti principi l’anno appresso rifecerlo, il venzette ottobre milledugentottantotto, a Campofranco; ove, menomate in fatto le guarentige d’Oleron, e lasciato dubbio là dove non poteasi far l’accordo, Alfonso liberò il prigione, senza fermar patti espressi per Giacomo, nè per la Sicilia, posponendo al suo proprio comodo il manifesto dritto della Sicilia, le cui armi, non quelle d’Aragona, avean cattivato il principe nel golfo di Napoli. Indi Carlo II, lasciati per lui in carcere tre figliuoli, e pagati ad Alfonso trentamila marchi d’argento, libero n’andò all’entrar di novembre milledugentottantotto. Giurò che renderebbesi alla prigione, s’entro un anno non procacciasse la pace ad Aragona. Ma di tal sacramento il papa lo sciolse, insieme con Eduardo e co’ baroni mallevadori; stracciò come disorbitante e nullo il trattato di Campofranco, scritto da un officiale della romana corte; e continuò a conceder decime ecclesiastiche al re di Francia, e a mostrar di favorire gagliardamente l’impresa di Valois, per allontanar sempre Alfonso dal fratello, e ottener senz’altri compensi la liberazione de’ figli di Carlo lo Zoppo, com’avea conseguito quella del padre. L’anno appresso questo principe, ancorchè uomo onesto e intero, fu piegato da simili ragioni a compier la favola, appresentandosi con un grosso stuolo d’armati al colle di Paniças, come se pronto a rientrare in prigione: e promulgò[25] non aver trovato chi ’l raccettasse; aver soddisfatto dal suo canto a ogni cosa; e ridomandò infine gli statichi e la moneta.
Tal fu il primo esito delle negoziazioni tra gli oltramontani principi pe’ fatti della rivoluzione nostra del vespro. Piegavano, com’anzi dissi, a nostro danno, per la potenza della corte di Roma, e perchè gl’interessi della Sicilia restarono in balìa del re d’Aragona, ch’era costretto ad abbandonarli se volea restare sul trono. Indi Giacomo ripigliò incontanente le armi, fidando nella nazione siciliana, che avrebbe avuto a combattere per le vite, per la libertà e per la corona del re. E Carlo II intanto, passato di Provenza in Italia, fe’ omaggio del suo reame al papa; e funne coronato a Rieti il diciannove giugno milledugentottantanove, con grande allegrezza di tutta parte guelfa d’Italia, che si vedea reso il suo principe. Cavalcò questi immantinenti alla volta del regno, che i Siciliani già laceravano con aspra guerra[43].
Perchè Giacomo di primavera dell’ottantanove risoluto l’assaltava, tirato ancora da una pratica con cittadini di[27] Gaeta. Passa a Reggio il quindici aprile con quaranta tra teride e galee, quattrocento cavalli, e dieci migliaia di fanti:[28] il quindici maggio muove a risalir lungo la costiera occidentale di Calabria; avanzandosi ei di terra con le genti, l’ammiraglio con la flotta; l’uno a veggente dell’altro, perchè operassero insieme. Occupavan Sinopoli, Santa Cristina, Bubalino, Seminara, e per duri assalti anco Monteleone, sbarcatevi le ciurme; e Rocca, Castel Mainardo, Maida, Ferolito, Aiello. Volle Artois fronteggiarli, e s’ebbe a ritirare in fretta alle province di sopra; dapprima campando appena da un agguato; poi non fidatosi a investire il siciliano campo; e infine confuso dall’ardir di Calcerando e de’ fratelli Sarriano, che con picciolo stuolo, percotendo di mezzo al suo campo sotto Squillaci, entrarono a rafforzar la terra e mantenerla nella fede di Giacomo. Arrendeansi indi a’ nostri Amantea, Fiume Freddo, Castel di Paola, Fuscaldo; resistean le rocche di Castel Belvedere e San Gineto, tenute entrambe da Ruggiero San Gineto, assecurandole il forte sito e la virtù del signore, e anco della moglie, la quale con virile animo fu vista sugli spaldi di San Gineto inanimire il presidio, e di sua mano piombar sassi sulle teste de’ nostri, che con l’audacia di tante vittorie stormeggiavano il castello. Giacomo, lasciata Belvedere, strinse duramente quest’altra fortezza, impaziente di seguire il corso delle sue vittorie, e adirato contro Ruggiero, che caduto già una volta prigione dei nostri nel frequente scaramucciar di Calabria, avea promesso di risegnare il castello, dando statichi due figliuoli, ed or negava i patti e si difendea con tanto valore[44].
Quivi un miserando caso attristò que’ medesimi animi infelloniti nelle ostinate lotte dell’assalto e della difesa. Era il castello presso ad arrendersi per diffalta d’acqua, quando[29] una inaspettata speranza di pioggia tanto il rinfrancò, che tornando alle offese, fu tolta di mira coi mangani la tenda stessa di Giacomo. L’ammiraglio a questo, rompendo ai soliti trapassi d’ira cieca e spietata, fa drizzare co’ remi un palco dinanzi la tenda; fa legarvi i due figliuoli, avvertito e veggente Ruggiero. Il seppe la madre, e con dolor disperato, corse alle mura, pregò i suoi, pregò i nemici, scongiurò ora il re di Sicilia, ora il feroce consorte: e i combattenti arrestavan la mano da’ colpi, lacrimosi guardando tutti Ruggier San Gineto. Qui altri dice ch’ei fe’ star la macchina, altri che con atroce virtù comandava di trar sempre. In questa tragica tensione d’umani affetti, s’era chiuso d’oscuri nugoli il cielo; disserravasi un turbine; il fremito de’ venti, il polverio confondeano ogni cosa; quando tra le ondate della caligine si vide il palco andare giù in un fascio, non si sa bene se per tiro del castello o folata di vento. Al maggior de’ giovanetti entrò nella tempia un palo aguzzo che l’uccise. Giacomo rendea ai miseri genitori il cadavere con onor di pompa funerale, rendea libero l’altro figliuolo, e scioglieva anco l’assedio. Perchè vedendo per quella medesima tempesta rifornito d’acqua il castello, e la propria sua flotta campata appena da grave rischio su quelle costiere; e tardandogli di mandare ad effetto una pratica con cittadini di Gaeta, rientrò in mare con tutte le sue forze per seguire i disegni della guerra[45].
Toccò Scalea, Castell’Abate, Capri e Procida che per lui si teneano; soprastette in Ischia; e smontò l’ultimo di giugno a Gaeta, agevolmente messo in fuga il conte d’Avellino, che in quello incontro ricordossi troppo vivamente la passata sua prigionia in Sicilia. Mala fazione che avea[30] chiamato Giacomo, presumendo assai delle proprie forze[46], sparatissima si trovò in quel tempo, in cui re Carlo II con tutti gli aiuti di Roma, rientrato nei regno per Solmone e Venafro, avviavasi a Napoli[47]. Largivagli il papa le decime ecclestastiche per tre anni[48]; bandiva per tutta Italia la croce, seguita in frotte da Guelfi di Lombardia e di Toscana, da Abbruzzesi, Campani e altri regnicoli, oltre le milizie feudali chiamate al servigio. Sotto il vessillo della croce e i comandi del legato pontificio, veniano i Saraceni di Lucera. Vide con gli occhi propri il Neocastro, donne portar armi tra quelle masnade, menarsi a guinzaglio grassi mastini per isfamarli di scomunicata siciliana carne. Questo esercito smisurato, sì diverso e bizzarro, capitanava il conte d’Artois[49], in cambio del non guerriero monarca, inteso in Napoli a chiamar parlamento[50], e con arti più miti tentare i Siciliani, promettendo perdono, e riforme, e che Francesi non manderebbe a governare la Sicilia, ma un legato del papa[51].
La fama dunque di tai forze, precorrendole a Gaeta, voltò tutti gli animi a parte angioina; tantochè gl’indettati con Giacomo furono i primi a gridare contr’esso. Però di ripari e provvedigioni si munì bene la terra; il re, tentate[31] indarno le pratiche, dopo alquanti dì si pose a sforzarla: accampatosi sur un poggio egli coi cavalli e il fior delle genti; e gli altri pedoni attendò al piano, trinceati ambo i campi, antiveggendosi il pericolo. Con assalti forte dati e forte respinti, e scambievole trar delle macchine gran pezza passò quest’assedio: occuparono e poser a sacco i nostri Mola di Gaeta; poi infino al Garigliano da un lato, a Fondi dall’altro, corser guastando e saccheggiando i contadi di Nola, Maranola, e Tragetto; ma Gaeta si danneggiava aspramente e non espugnavasi. Indi a poco sopravvenendo l’oste crociata, corse in frotte a stormeggiare i siciliani alloggiamenti; da’ quali ributtata con molto sangue, anch’essa a picciol tratto si accampò. Gaeta dunque tra la flotta e le genti nostre, queste tra la città e il nimico alloggiamento assediati stavano, percotendosi coi tiri a vicenda. S’ebbe maggior travaglio alla campagna, scaramucciando i nostri ogni dì or coi Saraceni, or coi Toscani crociati, or co’ Francesi; e spesso i mastini lasciati contro i nostri, sfamaronsi delle membra di chi li avea portato ausiliari alla guerra. Leucio, sì glorioso ne’ fatti dell’ottantadue, e Bonfiglio, messinesi, segnalavansi in questi affronti. Matteo di Termini in più grossa battaglia cominciata un dì, sfracellò coi tiri delle macchine la falange serrata de’ nimici. Non parea vero che diecimila uomini tenesser sì saldo tra una città e uno esercito fortissimi. All’oste siciliana si volgeano per la sua virtù le menti, i cuori, fin de’ nemici; piena di maraviglia e di perplessità, tutta l’Italia aspettava ormai la catastrofe[52].[32] Ma intanto la violazione de’ patti d’Oleron e di Campofranco, comandata, com’aperto vedeasi, da Roma, incresceva a Eduardo; e a confonder Niccolò venner anco di levante lagrimevolissimi avvisi: scacciati di Soria i cristiani; presa Tripoli dal Soldano con orribili atti di crudeltà; strette d’assedio in Acri le reliquie de’ fedeli che imploravan soccorso. Però Eduardo, non più sopportando che si spiegasse la croce contro cristiani mentre i maumettisti la calpestavano in Asia, mandò al papa per Odone di Grandisson una ambasciata acerba: che cessasse tanto scandalo; o alfin si aspettasse l’ira di tutti i principi cristiani. Umiliossi Niccolò a tal forza di verità. Spacciò, insieme con l’inglese, un messaggio a re Carlo, portatosi il diciotto agosto al campo a Gaeta; il quale non era uom da ricusare la tante volte promessa cessazione dalle armi. Aggiunte tai pratiche alla difficoltà, che vedeasi d’ambo i lati durissima, a ben finir questa fazione, fecer tosto fermare la tregua.
Vanno dall’un campo all’altro oratori a parlamentar di pace; nel quale incontro scrive il Neocastro, che i cavalieri francesi entrati nelle tende del sicilian re, vedendole sfolgorar di spade, lance e tutti ornamenti d’arme, e per ogni luogo le ben acconce macchine, e gli alloggiamenti trinceati con sapienza di guerra, ricordasser con rammarico le stanze del secondo lor Carlo, come cella di chierico, piene di libri profetici, musaici, dalmatiche in luogo di corazze. Quanto all’importanza del trattato, battendo gli angioini oratori su lor fola della cessione dell’isola, Loria al cospetto di re Giacomo rispondea brusco: non lascerebbe la Sicilia, se tutto il mondo venisse crociato sovr’essa. Indi del mese d’agosto milledugentottantanove si fermò tra Sicilia[33] e Napoli, in luogo della pace che non si poteva, una tregua infino al dì d’Ognissanti del novantuno, con questi patti: che si posasser le armi sì in mare e sì in terra, fuorchè nelle Calabrie e presso il Castell’Abate e in qualche altro luogo: che potesse Giacomo per mare vittovagliare e munire tutte le terre occupate da esso; non portar l’armata innanzi a quelle ch’ubbidivano a Carlo: che nelle infrazioni della tregua, si provasse il danno dinanzi a’ magistrati della parte offesa, o a Giovanni di Monforte per re Carlo, a Ruggier Loria per Giacomo; e tra dì quaranta il principe dell’offensore ne facesse risarcimento. Notevol è tra questi articoli, e mostra con quali indisciplinate masnade la Sicilia riportava tante vittorie, il patto che restasser fuori della tregua gli almugaveri, de’ quali Giacomo non si facea mallevadore; ma ben promettea non favorirli in loro fazioni, e non mandarvi uficiali, nè mercenari suoi. Di tal tregua presero grandissimo sdegno i baroni di re Carlo, che sentendosi dieci contr’uno, speravan rifarsi una volta delle sconfitte toccate nella siciliana guerra. Secondo i patti, primo levò il campo re Carlo, tre dì appresso Giacomo; il quale imbarcatosi con tutte le genti il dì penultimo d’agosto, prese il porto di Messina a sette settembre, dopo aver corso a capo Palinuro grande fortuna di mare. Ricantando le bravate dei baroni di Carlo, alcuno scrittore di quel reame, poi sentenziava che seguitando le offese, sarebbe stata senza dubbio inghiottita la picciol’oste di Sicilia; ma il guelfo Villani accetta esser tornato utilissimo quell’accordo al regno di Puglia; e Carlo stesso, men vantatore de’ suoi, di lì a pochi mesi non gloriavasi d’altro che dell’aver Giacomo tentato senza pro la espugnazione di Gaeta. Lo stesso può argomentarsi dalla fermezza de’ capitani di Sicilia nel trattare; dall’essere rimaso Giacomo signore della più parte delle Calabrie, oltre le terre occupate qua e là per altre province; e dagli[34] altri onorevoli patti che fermaronsi per, termine di questa certo audacissima impresa sulla estremità opposta del territorio nemico[53].
Nei due anni appresso, sostando la grossa guerra con Napoli, male si osservò la tregua; com’eran gli uomini sempre con le armi alle mani, e avvezzi ad offendersi e rubacchiarsi a vicenda; talchè or per cupidigia, ora per rappresaglia, ora per non potersi raffrenare gli almugaveri,[35] continuarono scambievolmente le prede in mare, gli assalti in terra[54], a quanto pare con maggiore avvantaggio dalla parte dei nostri, che fean bottega de’ prigioni[55], e[36] per mare talvolta minacciarono[56], talvolta consumarono importanti fazioni[57]; alle quali l’ammiraglio preparossi il pretesto, lagnandosi una fiata d’infrazione a’ patti, e aggiugnendo: non parlare per ambagi; ciò che avea in cuore nol mentiva col labbro; sapessero ch’egli osserverebbe la tregua al modo stesso che feano i nemici[58]. In questo tempo le armi siciliane mostraronsi ancora con gloria in levante. Andò Loria con la flotta a riportare il Margano principe d’Arabi, che in Sicilia promettea riscatto; e appena sbarcato in terra maomettana, cavalcando con uno stuol de’ nostri a Tolomitta, l’avviluppò d’insidie; ma essi con incredibili prove strigatisi da’ barbari, e sforzato il re a noverar la moneta, si tornavano con quella a Messina. Nel medesimo tempo venuto a Messina Giovanni di[37] Greilly, quel siniscalco di Eduardo che adoprò sì leale con re Pietro a Bordeaux, ed or s’era partito d’Acri per sollecitar aiuti della Chiesa, Giacomo, raccoltolo con assai onore, gli die’ sette galee siciliane che in que’ luoghi combattessero per la fede[59]. Più notevoli furono in questo tempo le pratiche della pace.
Perchè vennero da chi solo potea portarle a compimento; parendo papa Niccolò divenuto a un tratto più mite, per paura delle armi del Soldano. Il Neocastro non la dà a cagione sì piana. Narra, che non guari dopo bandita la tregua, un Geronimo, decrepito romito dell’Etna, si traesse dinanzi al sommo pontefice, a rivelare ammonimenti del Cielo a pro di Sicilia; sì che il piegò con la forza delle apostoliche parole, che gravissime spiccano su le pagine del siciliano istorico. Niccolò, qual che si fosse il perchè, mandava al re di Sicilia un frate catalano, Ramondo per nome, a fargli sperar propizia la santa sede s’ei menasse la siciliana flotta al soccorso d’Acri: e Giacomo rispondeagli, che, riconosciuto re di Sicilia, con tregua per cinque anni e aiuto di danari, passerebbe in Terrasanta con trecento cavalli, diecimila pedoni e trenta galee; promettendo Loria ch’a sue spese aggiugnerebbevi (sì alto era salito!) dieci galee, cento cavalli, duemila fanti. Ma in altro modo questa novella benignità del papa fu interpetrata in Sicilia. Pandolfo di Falcone e altri Siciliani pratichi delle cose di stato, sursero a distogliere il re; tornandogli a mente che simil laccio tese papa Innocenzo all’imperator Federigo; e che s’ei portasse le siciliane armi in levante, darebbe inerme l’isola in man dei nimici. Così fatto accorto Giacomo, inviò al papa Giovanni di Procida, uom da stare a petto a que’ di Roma: il[38] quale dando oneste cagioni del mutato proponimento, conchiuse, che si differisse l’impresa di Terrasanta infino alla ferma pace tra la Chiesa e Giacomo; ma il papa volle rimettere il negozio alla pace generale da trattarsi in Provenza, tra Aragona, Francia, Chiesa, Napoli, Maiorca, e Carlo di Valois, mediante l’inglese Eduardo[60]; procacciandola con estrema attività, per ottener la liberazione de’ figliuoli, Carlo lo Zoppo, che fermata ch’ebbe la tregua in Gaeta, lasciò l’insultato reame, per compier con le negoziazioni ciò che non avea saputo con la spada[61], e dimorò lungo tempo in Francia come un infelice importuno, mercanteggiando con Carlo di Valois, pregando Filippo il Bello, e spesso domandandogli danari in prestito[62].
E per tal modo tutte le speranze si dileguarono; sendo finita questa generai pace d’oltremonti là dove avean accennato i trattati di Oleron e di Campofranco. Perchè la corte dì Roma, o non potendo beffarsi di Giacomo, o tornando a pensare alle cose d’Italia più che della Soria, non die’ ascolto al ripiego di Giacomo, offrente pagarle tributo per la Sicilia[63]: e rinnovò gli appresti di guerra contro Aragona[64]: ove le corti, mal soffrendo sempre il pericol proprio[39] per l’utile altrui, di settembre dell’ottantanove avean mandato ambasciadori in Sicilia, che praticasser anco con Procida, Loria, Alamanno e Calcerando, a’ cui consigli Giacomo si reggea, e chiedesser venti galee siciliane in Catalogna, poichè per ragion della Sicilia si dovea quel reame rituffare ne’ mali della guerra[65]. A’ nuovi romori dunque, nacquero in Aragona discordie civili tra le corti e ’l re; le corti, inibita ad Alfonso ogni pratica dassè solo intorno la pace, voller che la si trattasse per dodici commissari della nazione[66]: e vinto Alfonso da necessità e stanchezza, ruppesi il debil filo al quale teneano gì’interessi di Giacomo. Bandito un congresso[67] in Provenza, al quale al papa mandava i due cardinali Gherardo da Parma e Benedetto Gaetani[68], perchè tra la riputazione della porpora e la capacità degli uomini, ogni cosa andasse a posta loro, alla prima si disse a Giacomo ch’inviasse suoi oratori, o si fece sperare d’ammetterli; ma quand’ei spacciò di giugno milledugentonovanta Gilberto di Castelletto e Bertrando de Cannelli, il re d’Aragona rispondea: si stessero; non gli sturbasser la pace sua; ferma quella, più agevol sarebbe a Giacomo[69]. Intanto i cardinali legati[40] a diciannove agosto del novanta avean fermato un patto con Carlo II e Filippo il Bello, che fatta la pace con Aragona, ma persistendo la Sicilia, il re di Francia si godesse sempre la decima accordatagli per tre anni, e l’avesse per altri anni due con pagare al papa per le spese della guerra di Sicilia quattrocento mila lire tornesi, che si ridurrebbero a trecento mila racquistandosi l’isola entro un anno e due mesi. Non conchiusa la pace con Alfonso, il re di Francia darebbe dugento mila lire solamente; sarebbe aiutato dal papa contro l’Aragona, e anco da Carlo II, se questi riavesse la Sicilia nella quale dovea principiarsi la guerra[70]. E’ manifesto così qual pace serbassero a Giacomo: nè allora l’ignorava alcuno. Andò al congresso re Carlo co’ dodici commissari di re Alfonso e delle corti d’Aragona, presenti i due legati del papa, e quattro d’Inghilterra. Adunaronsi in Tarascon; e segnarono il trattato a Brignolles, il diciannove febbraio milledugentonovantuno.
Nel quale umiliossi Alfonso a promettere di chieder perdono al papa, dapprima per legati, indi entro dieci mesi anco in persona; di guerreggiar in Terrasanta; di rendere a Carlo gli statichi, la moneta, i prigioni di guerra; di richiamar tutti i sudditi suoi di Sicilia, e togliere a Giacomo ogni aiuto. S’ingaggiò Carlo in cambio a procacciar l’assentimento di Filippo il Bello e del Valois: vedrebbe la Chiesa di rivocar la concessione del reame a costui, e ribenedir l’Aragona. Lasciossi luogo ad entrar tosto nella pace al re di Maiorca, e a quel di Castiglia, se si potesse[71]. Il dì appresso i due cardinali intimavan questo[41] trattato a Francia e alla corte di Roma[72]. Tanto si legge ne’ diplomi. Il Neocastro a queste condizioni aggiugne: riconosciuta l’alta signoria d’Alfonso su Maiorca; fermato censo annuo di trenta once d’oro, che pagasse Aragona alla corte di Roma; stabilito con quali forze dovesse andar Alfonso in Roma e indi in Terrasanta, e in Sicilia a procacciar anche con le armi la sommissione di Giacomo. Fu tolto allora ogni ostacolo al matrimonio d’Alfonso con la figliuola d’Eduardo d’Inghilterra: e un altro poco appresso ne strinse re Carlo per ottener la rinunzia del Valois, dando a Costui in isposa la sua figliuola Margherita, con le contee d’Angiò e Maine[73].
Non ebbe tempo Alfonso a raccoglier di questa pace altro che il biasimo. Accrebbelo con fornir munizioni navali a Genova, per l’armamento di sessanta galee agli stipendi di re Carlo; che ripigliato animo alla impresa di Sicilia, di marzo andò in Genova, co’ due cardinali legati,[42] a invitarvi que’ mercatanti guerrieri[74]. Ma quando più lieto si dipingea l’avvenire ad Alfonso, robusto e sano a ventisette anni, assicuratosi il reame, vicine le nozze con la bella figliuola d’Eduardo, una malattia di tre giorni l’uccise, il diciotto giugno del medesimo anno, pria che si fosse mandata ad effetto alcuna parte del trattato. Per non essere di lui figliuoli, ricadea la corona a Giacomo re di Sicilia. Talchè a un tratto dissipò la fortuna le meditazioni di chi avean intrecciato sì sottilmente la pace; e arrise alla Sicilia, per apparecchiarle più torbidi tempi, e poi maggior gloria. Giacomo, al primo avviso, convocato in fretta un parlamento a Messina, con molto affetto parlò; e, come suolsi sempre partendo, giurò eterno l’affetto, accomiatandosi da’ popoli in Messina, Palermo e Trapani; donde entrò in nave il dodici luglio. Lasciò luogotenente il fratel suo Federigo; una forte armata; assai acquisti in Calabria; e chiara fama di sè. Perchè negli otto anni che resse di presenza lo stato, dapprima vicario, poi re, s’ei fu in qualche incontro ingannatore e crudele, ne fece ammenda con la benignità nell’universale, i larghi ordini delle leggi, la virtù di guerra, le avventurate imprese contro i nimici della Sicilia. Oltre a ciò, sotto il suo governo ristoravasi la nazione a floridità e ricchezza; alleviata dalle tasse, e dalla tirannide che tutto soffoca in disperato letargo; francheggiata da sicurezza di buone leggi, e dalla virtù della rivoluzione che animava ogni parte del viver civile. Per le quali cagioni, accompagnavano amorosamente i Siciliani coi lor voti quel principe, che pochi anni appresso dovea meritare le più disperate maledizioni[75].
Primordi del regno di Giacomo in Aragona. Raffermata amistà tra Sicilia e Genova. Per quali ragioni allenava la guerra. Fazioni di Ruggiero Loria nel reame di Puglia e in Grecia. Giacomo si volge alla pace. Opinione pubblica in Sicilia; patriotti, Federigo d’Aragona, fazione servile; primi oratori al re. Primo trattato di Giacomo con re Carlo. Celestino V ratifica la pace. Più vigorosamente la procaccia Bonifazio VIII. Pratiche delle corti di Roma e d’Aragona con l’infante Federigo. Nuovi oratori a re Giacomo. Federigo chiamato al regno di Sicilia. Vana prova di papa Bonifazio a impedirlo. Settembre 1291—– gennaio 1296.
Volle re Pietro disgiunti i due reami d’Aragona e Sicilia, che per la distanza di tanto mare, e più per la libertà degli spiriti ed ordini pubblici, mal si potean reggere insieme, nè l’uno avria sofferto la dominazione dell’altro. Però chiamava a succedergli in Aragona Alfonso; Giacomo in Sicilia; quegli per testamento a Port Fangos pria dell’occupazione dell’isola; questi nel parlamento di Messina[76]: e venendo poi a morte, per fuggir viluppo novello di scomuniche, non fe’ altro lascio delle due corone combattutegli sì acerbamente dal papa; ma probabil è che desse in voce alcun solenne ricordo a tenerle divise per sempre[77]. Perchè a dieci marzo dell’ottantasei, Alfonso, giovane e ne’ principi d’un regno, piuttosto per compier tale ordinamento politico del padre, che per pensiero ch’aver potesse della morte, istituiva erede Giacomo, sì veramente[45] che lasciasse la Sicilia a Federigo; e dava a Federigo la seconda aspettativa del reame d’Aragona, se Giacomo avesse più a grado la corona dell’isola, o si morisse senza figliuoli; nel qual caso poneva a Federigo ugual legge di risegnar la Sicilia a Pietro, lor ultimo fratello[78]. Ma Giacomo, che in fatto di principato mai non guardò misura, dapprima rimettea al caso della sua morte senza prole il partaggio delle due corone[79]; e allontanato di Sicilia, più aperto dinegava quei termini, che non eran legge scritta del padre, nè Alfonso li potea comandare. Non ceduta l’isola dunque; nel coronarsi a Saragozza il ventiquattro settembre del novantuno, protestò ascender quel trono per ragion del suo sangue, non per lascito di Alfonso[80]. Fortificovvisi con assentir quante più larghe franchezze e guarentige sepper chiedere le corti; con fidanzarsi a una fanciulla di nove anni, figliuola di Sancio re di Castiglia; e fermar di novembre del medesimo anno la pace con questo vicino, stigator delle civili turbolenze d’Aragona[81]. Raffrenò anco le guerre private; spense i ladroni che infestavano il paese[82]; spinse suoi maneggi fino a chieder aiuto di danari al soldano d’Egitto, al quale mandò Romeo di Maramondo e Ramondo Alamanno a vantar le sue vittorie e la sua possanza su tutte le corti cristiane della Spagna[83]: e fin qui rideasi della corte di Roma, fattasi a vietargli,[46] con parole più che fermi colpi, il possedimento dell’Aragona[84].
Tornaron vane del pari le pratiche di suscitar Genova a gagliardi aiuti contro la Sicilia, tentate come dicemmo fin dai primi principi di quella guerra, e ripigliate da Carlo lo Zoppo dopo la pace con Alfonso, e or incalzate con maggior calore anche dal papa[85]. Ma Genova in quel tempo non curava nelle cose temporali l’autorità della cotte di Roma; e quanto alla corte di Francia, se volea tenersela amica per comodo de’ commerci, il medesimo interesse la tirava a restare in pace con Aragona e Sicilia, nè amava una briga con le loro forze navali congiunte e vittoriose, mentre avea a lottare con le rivali repubbliche marittime d’Italia. I guelfi di Genova per vero posponendo, come fanno i faziosi, l’interesse pubblico alle passioni di parte, s’erano indettati con l’Angioino; e privati corsali, in sembianza di far prede su i Pisani, stendean la mano contro i Catalani che con essi navigavano[86]; e la interruzione de’ commerci tra Genova e Sicilia, avvenuta in questo tempo, mostrava i pericoli della guerra, che l’acume mercantile conosce sì da lungi. Ma come dopo que’ sospetti giunse a Messian un vago romore d’armata allestita in Genova, galee già uscite in corso, prese fatte ne mari di Lilibeo; tutta la Sicilia sen commosse: e rammaricava l’assenza dell’Ammiraglio, inebbriato in Catalogna presso il re[87] a comparir primo a[47] corte, cavalcare con grande stuol di clienti, abbattere ne’ tornei le più forti lance di Spagna[88]. E Federigo, o quegli esperti consiglieri rimasi con esso alla siciliana corte, seppero antivenir questa guerra. Mandano a Genova un oratore, affidato in pubblico a salde ragioni, in segreto alla riputazion dei Doria e Spinola e di tutta parte ghibellina. Il quale nei consigli del comune tornò a mente l’antica amistà con Aragona, con Sicilia; le enormezze della ambizione e avarizia di casa d’Angiò contro Genova: or, mutando gli amici co’ nemici, non credesser pure soggiogar l’isola a un tratto, nè provocar questa guerra senta rovina de’ loro commerci; e pensasser alle avverse bandiere di Venezia e Pisa, che potrebber trovare nuovi compagni. Soverchiata da cotesti evidenti interessi della repubblica ogni briga papale, e venuti allo stasso effetto altri legati del re d’Aragona, si vinse il partito, che rafferma la amistà con Giacomo, si restasse il comune da ogni atto ostile a Sicilia; non fosse lecito a privati armarsi contr’essa sotto quantunque colore[89]. Per lealtà, e riguardo all’ammiraglio di Sicilia, sì pronto alle vendette, l’anno appresso gli fu resa incontanente una nave carica di grano[48] per Pisa, predata da mercatanti genovesi, con quel pretesto della cerca di merci pisane: e aggiungevi il comune, indennità di lire duemiladugento, ambasciadori a Federigo, che lui e Ruggiero sincerasser della fede genovese. Mantenuta fu questa poi contro la seduzion di larghe promesse, e la riputazione d’un’ambasciata di molti cavalieri di re Carlo, col conte d’Artois e legati della corte di Roma, allo scorcio del medesimo anno novantadue. Perchè i cittadini, sebbene divisi e parteggianti, sì che due anni appresso vennero al sangue, d’accordo rifiutaron ora la lega col re di Napoli, promettendo solo rigorosissima neutralità; tantochè dispettosi, senz’alcun frutto partironsi gli ambasciadori[90].
Intanto volgean le cose d’Oriente ad estrema rovina: Acri in primavera del novantuno cadde sotto le armi d’Egitto: e le stragi dei battezzati, gli atroci trionfi degli infedeli[91], davano argomento per tutta cristianità a lamentazioni piene di rabbia; correndo le lingue alla corte di Roma, e a’ tesori e al sangue sparsi contro Sicilia nel nome santo della croce. Però fu necessitata la romana corte a gridar addosso a’ maumettisti, tacendo alquanto di noi[92]. Rattenea ancora il papa un suo segreto pendìo a parte ghibellina, e l’amino tutto posto al vicino intento d’aggrandire i Colonnesi più che alla rimota ristorazione di Sicilia o di Terrasanta. Ed era molto abbassata parte guelfa in Italia, per quelle vittorie di Giacomo e de’ Siciliani[93]: il reame di Napoli scemo di danari, e di fortuna, e di territorio per le occupate Calabrie, governato da principe non guerriero, e stracco di tanti sforzi, male aiutavasi[49] alla guerra[94]. La Sicilia non la rincalzava per non averne cagione; ella sicura al di dentro, nè vogliosa d’estender più in terraferma il dominio del suo re. Pertanto in questi due anni, ancorchè fossero corsi i termini della tregua di Gaeta, poco si travagliò con le armi. Turbolente passioni di feudatari, faceano in Calabria or perdere una terra, or un’altra acquistare. Blasco Alagona, capitano per Giacomo, il quale occupata Montalto, e sconfitto e preso Guidon da Primerano, guerriero di nome, già meditava più importanti fatti, per accusa di frode all’erario, tornò subito in Catalogna[95]. E lo stesso ammiraglio, rivenuto in questo tempo in Sicilia, e uscito a far giusta guerra, la governò debolmente.
Allestite in Messina trenta galee, e sapendo da’ suoi rapportatori nessun armamento farsi ne’ porti di Napoli e di Brindisi, navigò di giugno milledugentonovantadue ver Cotrone, donde Guglielmo Estendard con parecchie centinaia di cavalli era per muover contro i nostri acquisti di Calabria. Il quale, scoperta la flotta, correa co’ cavalli a por l’agguato alle Castella, sotto il capo Rizzuto; e l’ammiraglio addandosene, tolta con seco picciola man di cavalli, spiccò per altra via il grosso delle genti: e sì da due bande assaltarono alla sprovvista l’agguato francese. Estendard, cupidamente cercato a morte da’ nostri, ebbe tre ferite, e il veloce cavallo il campò. Abbattutosi il suo all’ammiraglio mentre incalzava al passaggio d’un ponte, preser tanto fiato i nemici da poter lasciare il campo con minore strage; ma ne cadder molti prigioni; tra i quali un[50] Riccardo da Santa Sofia, che posto a guardia di Cotrone da re Giacomo, l’avea dato agli Angioini, ond’or incontrò il sommo supplizio.
Soddisfatto con questa scaramuccia all’onor dell’armamento, che la Sicilia forniva contro i nimici, Loria voltollo all’Arcipelago, sotto specie di combattere i feudatari francesi della Morea e le armi che teneanvi gli Angioini di Napoli, ma in effetto per saziarsi nelle solite scorrerie[96], segnando la strada agli avventurieri che, finita la siciliana guerra dovean flagellare la Grecia con pari valore e avarizia. Corfù, Candia, Malvasia, Scio depredò o messe a taglia, sotto specie che avesser porto aiuto a’ Francesi: tolse a Scio gran copia di mastice; a Malvasia, oltre il bottino, l’arcivescovo, del quale poi ebbe grosso riscatto: e, radendo la Morea, fu a Corone, a Chiarenza; e prima a Modone virtuosamente combattè contro i Greci che gli tesero insidie. Tornatosi a Messina con più riccchezze che schietta gloria, seppe che i corsali di Positano ed Amalfi infestasser le nostre navi mercantesche; ond’ei divisava già con l’infante Federigo, alla nuova stagione portar su quelle spiagge quaranta galee e duemila fanti leggieri, arder barche e ville, e trinceratosi in un monta, dar il guasto a tutta la provincia; se non che trapelò in Napoli il disegno, e del tutto il dileguaro le pratiche della pace[97].[51] Perchè Giacomo trovossi in Aragopa nelle necessità medesime d’Alfonso; e alla Sicilia toccò nuovamente ber l’amaro delle dominazioni straniere. Dieci anni d’infelicissima guerra avean provato a’ nimici, che se la Sicilia vincer si potea, si potea soltanto in Ispagna. Ripigliaron dunque i trattati, tronchi dalla morte d’Alfonso; ai quali il re d Aragona tuttavia sforzavano il privilegio dal Valois, l’armi di Francia, le arti di Roma; e vi s’aggiunsero i brogli di Sancio re di Castiglia, che, per fuggir di trovarsi in mezzo a Francia e Aragona guerreggianti, sollecitava gli accordi in palese, a anco nascosamente pe’ partigiani suoi in quell’ultimo reame. Allor Giacomo, fatto accorto dall’espresso voler delle corti e della nazione tutta[98], ch’ei tener non potrebbe ambo i regni, pensò lasciar la Sicilia, cagion di tanti travagli, che non rendeagli d’altronde più che l’Aragona nè obbedienza nè danari, pei limiti messi al potere regio, le misurate gravezze, la fatica e spendio della difesa. La morte di papa Niccolò d’aprile del novantadue, la guerra che scoppiò l’anno appresso tra Francia e Inghilterra, la lunga vacanza del pontificato, differirono mi non dileguarono la pace, comandata da interior forza nello stato aragonese. Calovvisi Giacomo più volentieri per profertagli terra e moneta, e soprattutto per isperanza di restar signore dei conquisti sopra Giacomo suo zio, re di Maiorca. Maneggiò il trattato, com’era sua indole, chiuso, ambidestro, dissimulante; sì che ad altri parve che beffasse gli Angioini, lasciando cader la corona di Sicilia dal suo capo su quel di Federigo; ma forse fu il contrario; e certo che avvolgendosi tra le torte vie, n’uscì com’avvien sovente, con infamia e poco guadagno[99].[52] La frode ebbe a lottar questa volta con la virtù d’una nazione, che per libertà novella era fatta rigogliosa, non intralciata e discorde; onde fu vinta la frode. La Sicilia, dopo quel felice ardimento, conoscea le sue forze; era piena d’alti spiriti per le guadagnate franchige civili, la nuova prosperità materiale, la provata virtù nelle armi, i molti ingegni esercitati nelle cose di stato quando divenner cose pubbliche. I quali elementi di vigor politico, stavano più nelle città che ne’ baroni; per la riputazion de’ partiti presi da quelle nell’ottantadue, delle grosse forze mandate, per dieci anni interi in oste e in armata, dell’attività e capacità de’ consigli municipali. E per vero le città primeggiarono nella mutazion di stato ch’or maturavasi; ad esse si accostò la più parte dei baroni, non per anco sviata dalla causa siciliana per timori e vizi d’ordine. La generalità dunque della nazione, tenendo alle libertà conquistate nel vespro, e abborrendo dalla dominazione di casa d’Angiò e della corte di Roma, presentava durissimo ostacolo a Giacomo; e tale anco gli era il proprio fratello, l’infante Federigo.
Venne Federigo in Sicilia appena fuor di fanciullo; quivi prestantissimo divenne, non meno all’armeggiare e in ogni esercizio di guerra, che negli studi delle lettere, allora in molto onore appo noi, de’ quali ebbe tal vaghezza, che poetava ei medesimo in lingua romanza, e amico fu dell’Alighieri, pria che lo sdegnoso spirito ghibellino lo sfatasse come dappoco. Ma brioso di gioventù, bello e gagliardo della persona, pronto d’ingegno, di piacevol tratto, a tutti grato ed umano, e fratello di re, caldamente l’amava il popolo, ch’ha femminil andare di passioni; e[53] poteva anco da maturo consiglio augurarsen bene, al vederlo con moderazione e giustizia tener le supreme veci, e con ogni studio procacciare la prosperità del paese, che s’ebbe pace e abbondanza sotto il suo vicariato[100]. Necessità politica, spesso sentita come da istinto innanzi che netta si divisasse alle menti, fe’ coltivar a Federigo con maggiore studio quelle virtù, e ’l rese più caro al popolo; portandoli entrambi a sperar l’uno nell’altro; e spingendoli a tali termini, che forse niuno si proponeva dapprima. Così la parte patriottica in Sicilia rannodavasi intorno a Federigo, sperando mantenere gl’intenti della rivoluzione del vespro, senza metter giù la monarchia nè la dinastia aragonese; e ne diveniva più solida e più forte.
Contro tal volere della massa della nazione, Giacomo potea trovar sostegno in una sola fazione. Accese le guerre del vespro, gli usciti di terraferma adunaronsi sotto le nostre insegne, massime dopo la esaltazion di re Pietro; cercando fortuna, e sfogo all’odio contro casa d’Angiò, e termine, se si potesse, al doloroso lor bando. Molto con lor pratiche operaron costoro nelle guerre di Calabria; molto stigarono i Siciliani stessi, come nell’eccidio de’ prigioni a Messina nell’ottantaquattro, temendo sempre non allenasse la rivoluzione. Ma più che alla Sicilia, teneano al re,[54] che speravano s’insignorisse della lor patria; e intanto li gratificava di feudi e ufici. In più numero ebbero simile stato in Sicilia uomini catalani e aragonesi, creature della corte, e però, al par degli usciti di Puglia, esosi a’ Siciliani, per gelosia dei premi che gli uni e gli altri usurpavano. A costoro s’univa, perchè non mancano i rinnegati giammai, qualche Siciliano. E con tal fazione servile pensò Giacomo di mercatare la tradigione della Sicilia; a chi profferendo di redintegrarle ne’ beni lasciati in Puglia, senza perdita de’ nuovi acquisti in Sicilia; a chi minacciando lo spogliamente di sue sostante in Ispagna; tutti adescando con promesse, carezze, e inique speranze sotto sante parole. Chi ha appreso il nome di Giovanni di Procida su le novelle istoriche che il danno autor del vespro, maraviglierà a vederlo primeggiare in questa fazione e tener pratiche con lo stesso re di Napoli, s’ignora se di voler di Giacomo, o senza. Ma oltre le parole de’ nostri istorici, ond’ei si scorge pochi anni appresso scopertamente sorto contro i patriotti siciliani e Federigo, e oltre i documenti della restituzion de’ suoi beni nel reame di Napoli, pattuita espressamente tra Giacomo e Carlo II[101], avvi, monumento di vergogna al suo nome, uno spaccio di Carlo al siniscalco di Provenza, dato il venti marzo milledugentonovantatrè, perchè libero mandasse a corte di Napoli il siciliano Pietro di Salerno, inviato a Carlo dal Procida, e[55] fatto prigione in Marsiglia[102]. Cimentato quel gran nome con le forze che ha in oggi l’istoria, sen dileguano i vanti della prima congiura: gli resta la sola feccia di questa seconda contro la Sicilia.
Entrando il novantadue, re Carlo e ’l papa mandarono oratore a Giacomo, Bonifacio di Calamandrano, maestro degli Spedalieri gerosolimitani di qua dal mare[103], famoso in arme e assai destro ne’ maneggi di stato. Col quale il figliuol di re Pietro, discepolo di Procida, temporeggiò[104][56] per la sopravvenuta morte del papa; rispondendo, che per essergli i Siciliani compagni nei dritti politici, non soggetti impotenti, ad essi ne riferirebbe: e in vero pensò che, non assentito da loro, rimarrebbe in carte ogni accordo. Inviava dunque a tentar gli animi Gilberto Cruyllas, cavalier catalano, che approdato in Messina il due aprile del novantatrè, conturbò d’ansietà dolorosa tutti i Siciliani. Vagamente spargeasi, divisato pace con Francia e re Carlo, e di riaver la grazia della Chiesa; ma spiegavan queste scure e compilate parole la disarmata flotta, i mercenari licenziati senza pure sgravar le collette, sopra ogni altro, gli stormi di frati stranieri che, chiudendo gli occhi i governanti, svolazzavan sinistri per tutta l’isola, a spiare, novellare, cercare i penetrali delle coscienze, ingerirsi appo nobili e cittadini. Ondechè adunato al venir di Gilberto un parlamento, apparve manifesto il voler della nazione. Pochi vollero assentire; negaron la pace i migliori, com’evidente magagna: e si deliberò che ambasciadori s’inviassero a intender espresso l’animo del re. Furon trascelti a nome di tutto il sicilian popolo, tre Messinesi, Federigo Rosso e Pandolfo di Falcone cavalieri, e Ruggiero Geremia giurisperito, e tre Palermitani, Giovanni di Caltagirone e Ugone Talach cavalieri, e Tommaso Guglielmo. In Barcellona appresentaronsi a Giacomo.
Il quale fe’ loro lieta e famigliare accoglienza, condottili nelle più segrete sue stanze: e parlava, esser cresciuto tra i Siciliani; da loro aver tolto pensieri, costumi, usanze; pensassero s’altro potea bramare che il ben del paese; ed[57] ecco che non da principe, ma come un altro cittadino, con essi triterebbe il negozio, divisato a onore ed util comune. E gli ambasciadori, non presi alle blandizie del re, si guardavan l’un l’altro. Ma il Falcone, accorto e bel parlatore, venne alle prese. Giustizia, dissegli, e verità che l’è compagna, voglionsi nel trattar le sorti de’ popoli: e dolce è ad ogni uomo la parola di pace; ma grossolana favola assai questa, che Roma e casa d’Angiò, dopo dodici anni d’oltraggi, di paure, di sangue, or lasciasser di queto la Sicilia. I sospetti poi toccò di que’ provvedimenti del governo regio in Sicilia; l’aperta frode del profferire all’infante Federigo l’uficio di senator di Roma, per trarlo dall’isola. Nè sperasse il re ferma pace in Aragona, in prezzo de consegnar legato mani e pie’ un generoso popolo; nè sperasse cansar da infamia il suo nome. Se pure, ei ripigliò, il gravava questo combattuto regno, perchè non lasciarlo provveder a sè da sè stesso, dando la corona a Federigo, non per dritto di successione, ma per elezion del popolo, lietissimo auspicio a chi unquemai la Sicilia reggesse? E se tremassero Giacomo e Federigo e tutti i reali d’Aragona, chiamerebbero i Siciliani un altro Federigo, rampollo della casa di Svevia; troverebbero i più disperati partiti, pria che abbassar le aquile dianzi agli abborriti gigli[105]: e se Iddio non benedicesse le armi loro, affranti alfine e debellati, vibrerebbero gli ultimi colpi ne’ petti de’ propri figliuoli e delle donne; sè stessi con quelle care vittime scaglierebbero nelle fiamme delle città. Ma Giacomo non se ne mosse. Lodò i legati di zelo; lodò i suoi propri maggiori di fede ai popoli: ei, nato di quel sangue, non che non abbandonar la Sicilia, combatterebbe per lei finchè gli restasse spirito di vita[106]. Con questo focoso parlare[58] accomiatolli: e non andò guari che di novembre, abboccatosi tra Junquera e Paniças con re Carlo, fermò i patti, a sè più avvantaggiosi, verso la Sicilia più rei, che que’ d’Alfonso, maladetti da lui medesimo, tre anni prima. Tennersi in segreto grandissimo; aspettando a ultimarli in buona forma, che fosse rifatto il papa, e raggirato, col popol di Sicilia, anco l’infante Federigo[107], cresciuto di potenza, perchè come i nostri videro più da presso la minaccia del giogo angioino, la perfida morbidezza di Giacomo, prendendone sempre in maggiore abborrimento la dominazione straniera, che sotto Carlo li avea calpestato sì orrendamente, sotto il re d’Aragona macchinava tal tradigione, vennerne al fermo proposito di rifarsi indipendenti; e più s’accostaron gli animi a Federigo.
Allor sopravvenne la elezione del nuovo pontefice, tardata oltre due anni per Discordia de’ cardinali, precipitata come per caso, a dì cinque luglio del novantaquattro, col tristo spediente di chiamare un uom dappoco; ma sotto ogni pochezza nelle cose mondane fu Pietro da Morrone, romito abbruzzese, che per vita povera, e straziata d’austerità,[59] avea già riputazione di santo[108]. La quale esaltazione come fu nota a corte d’Aragona, Giacomo affrettavasi a ultimare il trattato. Inviò in Sicilia a diciotto di luglio Raimondo Vlllaragut, che ritentasse di trarre al suo intento Federigo, e la madre, e gli nomini di maggior seguito. Volle tor dal fianco di Federigo, Corrado Lancia e Blascoq Alagona, intrinsechi del giovane; ai quali il re comandava che di presente venissero in Catalogna. A Corrado surrogò un uom suo, Ramondo Alamanno, sì nell’uficio di gran giustiziere e sì nel comando del castel di San Giuliano[109]. E intanto la guerra, condotta fin qui assai debolmente come finita nell’animo de’ governanti, posava del tutto in una tregua[110]. Carlo II, per pratiche, racquistava Cotrone in Calabria[111]; e a darsi riputazion di munificenza, largiva immunità[60] a questa e quell’altra terra, travagliata per l’addietro da’ nimici[112].
Celestino V, tal nome prese Pier da Morrone, volle tra’ suoi Abbruzzi in Aquila consagrarsi: entratovi per umiltà sur un asino; ma l’addestravano due re, Carlo II di Napoli, e Carlo Martello d’Ungheria, fattisi, tra per pietà e ambito, a corteggiarlo assai strettamente. Preso alle quali arti, non ostante che vi ripugnasse forte il sacro collegio, Celestino fissò la sede in Napoli; creò molti cardinali di nazione o parte francese; e fuor da’ consigli e dagli usi della romana corte tanto uscì di via, che religiosi scrittori del tempo, scherzando sulle formole, il proverbiavano: da pienezza di semplicità, non di potestà, decretar Celestino[113]. Ma portato dalla corte di Napoli, ben per la Sicilia fe’il papa.
Con lo stracco pretesto di Gerusalemme, e di volere far pianta di quella guerra la nostra isola, ratificò a primo d’ottobre milledugentonovantaquattro il trattato di Junquera. Nel quale Carlo promettea d’impetrare per Giacomo[61] e il suo reame, piena assoluzione dalle scomuniche, piena remission d’ogni offesa che i reali di Aragona e que’ popoli e i popoli di Sicilia recato avessero a casa d’Angiò e alla santa sede, e la restituzione del reame d’Aragona, in que’ dritti e termini medesimi in che il tenea re Pietro pria delle sue scomuniche; al qual effetto re Carlo procacciasse la rinunzia del re di Francia, e di Carlo di Valois. Restituiva Giacomo a Carlo tutti gli statichi; restituiva le Calabrie, e le isole adiacenti a Napoli. Stipulava rimetterebbe la Sicilia con Malta e le altre isole adiacenti, in poter della Chiesa nel termine di tre anni dal primo novembre del novantaquattro, a patto che la Chiesa tenessela un anno, nè la cedesse ad alcuno senza saputa di Giacomo. E vergognosa conseguenza ne fu l’altro patto, che resistendo i Siciliani, ei s’adoprerebbe con la forza a domarli[114]. Assentiti questi accordi, largheggiò Celestino a re Carlo per la difesa del suo reame e ’l racquisto dell’isola, le decime ecclesiastiche delle province francesi per quattro anni, e per un anno quelle d’Inghilterra e d’altre regioni di là dai mari. Poco stante chiamò Giacomo stesso ad Ischia: scissegli apponendo a grave peccato, per cagion di parentela, il matrimonio con la Isabella di Castiglia; e mandavagli[62] che fuggisse quelle nozze per menar una figliuolia di re Carlo, a lui congiunta ancora di sangue[115]. A tai scandali ne venne il pio Celestino; nè pur fu destro a servirsene, perchè prese termine sì lungo all’affare di Sicilia, e non assicurò punto la sommissione de’ popoli, non compose del tutto le differente tra Francia e Aragona[116]; onde il trattato a nulla tornava.
Questo inchinò Carlo alle ambizioni di Benedetto Gaetani da Anagni, salito in riputazione da avvocato nella curia papale, fatto indi notaio del papa, e cardinale; uom[63] procacciante, superbo, capacissimo nelle civili faccende il quale poc’anzi a Perugia era venuto ad aspre parole col re, ed or guadagnosselo con dirgli preciso; che Celestino avea voluto e non saputo aiutar casa d’Angiò; ei vorrebbe, e potrebbe, e saprebbe. E a Celestino gravava il papato, per coscienza e per sentirne mormorare ogni dì i cardinali; onde il tranellarono al rifiuto; e perfin si legge che ’l gaetani grossolanamente fingesse al semplice romito chiuso nella sua stanza, voce del Cielo che gl’imperava spogliarsi il gran manto. Ond’ei lasciollo, non ostanti le preghiere, veraci del popolo di Napoli, infinte della corte. Per la possanza di lei, indi a pochi dì, la vigilia del Natale del novantaquattro, in Napoli fu rifatto pontefice il Gaetani; quel famoso Bonifacio VIII, che salì da volpe, da lione regnò, e da cane morì, secondo la sentenza profetica, foggiata da poi e data a Celestino, come se a lui medesimo la dicesse nella prigione, ove per comando di Bonifacio fu chiuso, e finì in poco tempo, non senza sospetti di morte violenta. Ed or congiunto, scrive Speciale, il potere all’astuzia, si die’ tutto Bonifacio a scior quell’inviluppato nodo della siciliana lite[117].[64] Oltremonti gli ambasciadori di Giacomo e di Francia, con la riputazion del novello papa, ristringeansi un’altra volta a spianar gli ostacoli rimasi tra loro[118]; Bonifazio serbò il più grave a sè stesso, quasi per provarvi il suo ingegno. Avuti o richiesti, poco appresso la esaltazion sua, legati di Federigo, che furono Manfredi Lancia e Ruggiero Geremia, raccolseli umanamente il papa, li rimandò con grandi promesse, e l’importanza della cosa maneggiar volle da sè con Federigo; cui, non potendolo trar di Sicilia con forza, avean mostrato per l’addietro la dignità di senatore di Roma o altra debol’esca; ma Bonifazio pensò abbagliarlo profferendo una bella sposa e un impero. Mandogli un suo cappellano con breve dato il venzette febbraio del novantacinque, richiedendolo che venisse a corte di Roma con Giovanni di Procida, Ruggier Loria, e i primi d’ogni siciliana città, muniti di pien mandato de’ popoli. Portava i salvocondotti il medesimo nunzio. Federigo, proponendosi obbedire, immantinenti alle città nostre ne scrisse.
Il che è prova non dubbia della importanza che ritenea o ripigliava in tal frangente l’elemento municipale e popolare, ristorato dalla rivoluzione; il valor del quale d’altronde risplende assai nobilmente nell’epistola, che il comune di Palermo drizzò a Federigo, e rincalzò con la viva voce di tre inviati, Niccolò di Maida cavaliere, Pier di Filippo, e Filippo di Carastone giudici. Ricordavasi all’infante per queste lettere la romana corte qual fosse: il sommo Iddio aver giudiccato tra lei e la Sicilia, con quella serie di strepitose vittorie de’ pochi contro gli assai; tranquillasse gli agitati animi de’ cittadini; non desse in questo laccio dell’andata al papa, onde null’altro che danno incor gliene potrebbe[119]. Ma Federigo, com’è timida l’ambizione[65] di chi siede sull’alto, e ama piuttosto lasciarsi raggirar dai potenti che fondare in su i popoli combattuta ma grande fortuna, ostinossi all’andare. Montato sulla flotta con Procida che il tirava alla via più ignobile, e con Loria, e molti altri rinomati nella guerra o nei civili consigli, approdava negli stati della Chiesa sotto il monte Circeo, poc’oltre il dì assegnato dal papa; e non trovando Bonifazio, a lui andava a Velletri.
Atteggiossi allor Bonifazio a paternal carità. Inginocchiatosi dinanzi a lui Federigo, il rialza, prendegli il capo con ambo le mani, il bacia affettuosamente; e veggendolo balioso e svelto portar l’armatura, prese a lusingarlo: «Gentil garzone, ben par che da fanciullo reggevi quel duro peso.» Poi volto a Loria, senz’ira il domandò, s’ei fosse quel nimico della Chiesa, noto per tante sanguinose battaglie; e Loria a lui: «Padre, i papi il vollero!» Da queste accoglienze si passava ai consigli. In pregio d’abbandonar la Sicilia, promesse il papa a Federigo la giovane Caterina di Courtenay, figliuola di Filippo, in titolo imperador d’Oriente; e con lei i dritti a quella dominazione, e, per l’impresa del racquisto, aiuti di gente, e in quattro anni centotrentamila once d’oro. E in ver sembra che Bonifazio s’appose; e che il giovane allettato da grandi parole, e da beltà da lui non vista con gli occhi, si piegava a lasciar in balìa de’ nemici quel popolo, con cui era già entrato in legami più stretti che di vicario del principe. Ma da cauto, volle termin breve all’adempimento de’ patti, che fu il settembre vegnente[120]. Pien d’allegrezza tornò in Sicilia; abboccatosi pria ad Ischia con Gilberto[66] Cruyllas e Guglielmo Durford, inviati di Giacomo[121]. A corte di Roma lasciò, o rimandò a praticare per esso, Manfredi Lancia e Giovanni di Procida[122].
In questo modo parendo a Bonifazio avere in pugno Federigo e la Sicilia, ultimava gli accordi. Tra i principi che v’ebber parte le due forze venate a patti eran l’Aragona e la Francia. L’una di queste corti possedea la Sicilia; l’altra il dritto su l’Aragona, com’or si confessò aperto, messo da canto il nome del Valois[123]; e per questo la Francia avea sparso tanto danaro e tanto sangue, sovvenuto a’ bisogni di Giacomo re di Maiorca[124], ed or era tenuta a negoziare per lui. Acquistava il papa una maggiore autorità; Carlo II, la Sicilia; Giacomo d’Aragona, la pace e la vergogna; Giacomo di Maiorca, l’impunità alla ribellione contro il fratello; Carlo di Valois, il baratto d’un vano titolo con un picciol patrimonio[125]; e niente la Francia, fuorchè l’onore di ristorar casa d’Angiò a tutta la dominazione ch’avea avuto una volta. Convenuti diansi al papa in Anagni gli ambasciatori d’Aragona, Napoli e Francia, a dì cinque giugno del novantacinque rinnovavano i patti ratificati da Celestino; mutando sì i termini della dedizione di Sicilia e Malta alla Chiesa, che fosse pronta; e che a domar i popoli, essendone uopo, facesse Giacomo[67] ogni piacimento del papa. In cambio di ciò, s’era già fatta in mano del pontefice, la rinuncia del Valois e del re di Francia a ogni dritto sopra Aragona. Guadagnonne ancor Giacomo, che non fosse tenuto a rendere i trentamila marchi d’argento, dati da Carlo ad Alfonso con le altre sicurtà al tempo della sua liberazione; che Carlo, con la sua figliuola Bianca, dessegli in dote centomila marchi. Guadagnonne per capitol segreto la investitura di Corsica e di Sardegna, liberalmente donategli da Bonifazio che non aveaci alcun dritto. Al perdono largheggiato pei fatti della rivoluzione o della guerra siciliana, s’aggiunse quel degli usciti da’ tempi di Carlo I, e che si godessero quantunque or possedeano in Sicilia. Per un altro capitol segreto, Giacomo s’obbligò a fornire forze navali agli stipendi di Francia contro Inghilterra. La redintegrazione dello stato preso al re di Maiorca, instando gli ambasciatori di Francia e non avendo gli Aragonesi autorità a stipulare, differissi alquanto; ma poi si ultimò, come anco una lite di confini tra Francia e Catalogna[126].
Ratificava Bonifazio a dì ventuno giugno; dispensava alla consanguineità per le nozze tra Giacomo e Bianca; riconcedeva a re Carlo le decime ecclesiastiche per lo racquisto dell’isola; e il dì di san Giovanni, tra i riti del divin sagrifizio, promulgava in un con la pace, scomunica a chi contrastassela. Per novelli sospetti ribadì con più forti pene questi anatemi il dì ventisette giugno, poichè furon ripartiti alla volta di Sicilia Lancia e Procida. Accomandò loro un frate de’ predicatori, inviato a raffermar negl’intenti del papa la regina Costanza; indirizzò a Federigo il novello arcivescovo di Messina, con autorità di ribenedir l’isola e ultimare ogni cosa. Ei medesimo scrive intanto a Caterina di Courtenay, aver promesso con re Carlo la sua mano al valente Federigo; disponga, dicea il papa, la mente e l’animo a queste nozze; ascolti i consigli dell’abate di san Germano e d’un altro prelato, apposta a lei spacciati dalla paterna cura del pontefice; e tosto si metta in viaggio per venirne in Italia alle braccia dello sposo. Sollecitò anco Filippo il Bello a farsen mezzano. E di tutte queste pratiche ragguagliava minutamente Federigo, perchè sempre più inchinasse l’animo alla obbedienza e alla pace[127].
Volle infine indettare nel nuovo ordin di cose l’ammiraglio;[69] il quale, fatto ricchissimo e tra potente per concessioni de’ re aragonesi in Sicilia e in Valenza, e propri acquisti di prede, riscatti, baratterie, commerci, e per la gloria nelle armi, e per lo terrore di quell’animo impetuoso, era forse il primo tra’ grandi che salvar poteano o inabbissar la Sicilia in questo frangente[128]. Con costui dunque[70] trattando, prima in persona, poi per Bonifazio di Calamandrano, il papa concedettegli in feudo della Chiesa l’isola delle Gerbe, ch’egli acquistò con le armi di Sicilia, e or volea farne un nuovo principato cristiano, o nido di corsali in levante, da potersi render formidabile per la guerriera virtù dell’ammiraglio e de’ soldati dell’armata di Sicilia, che a lui sarebbersi rannodati[129]. Da un lato dunque tiravan Ruggiero i poderi in Ispagna, la sovranità delle Gerbe, la potentissima lega che minaccerebbe la Sicilia resistente; dall’altro le sue facultà in Sicilia, l’onor del suo nome, il tedio della pace, la cupidigia di preda, l’amore a un popolo ch’era prode e per dodici anni avean pugnato e vinto insieme, sopra ogni altro i fomiti dell’ambizióne; che, s’ei non chiedeva il titolo, aspirava alla potenza di re di Sicilia, e sapea che l’avrebbe rompendosi nuovamente la guerra, perch’ei sarebbe principal sostegno di Federigo. Perciò l’ammiraglio ascoltava le profferte di minore stato nella pace; ma era pronto a turbarla, e accomunar le sue sorti con la Sicilia e Federigo.
Le sorti della Sicilia che pendeano sul precipizio, per tal abbandono del re, del luogotenente, dell’ammiraglio, di tutti i grandi, poteano tornar su per novello empito del popolo; ma ristorolle con men sangue l’interesse di Filippo il Bello, o il caso, che spinse la giovane di Courtenay a rifiutar le nozze di Federigo, rispondendo al papa, che una principessa senza terra non dovesse maritarsi a un principe senza terra. Ostinata resse Caterina alle repliche del papa[130]: e Federigo, fatto accorto dell’inganno, tutto si volse a quelle ben più salde e vicine speranze che gli offriva la Sicilia; dove, trapelando le nuove de’ trattati, s’era con[71] più furore ridesto il turbamento d’animi del novantadue, per esser più certo e imminente il danno, e scorgersi la perfidia che il dissimulò. Indi l’infante diessi a prendere il regno; ma volea parere sforzato, ritenendol anco il sospetto della fazione degli stranieri, mascherati di lealtà a Giacomo, e tradenti per turpe guadagno il paese che li nudriva. Costoro, come aperti apparvero gl’intendimenti di Federigo, la focosa volontà del Sicilian popolo, diersi dapprima a gridare che la rinunzia del re fosse favola di Federigo volto a usurpar la cotona. Per darsi riputazione, fecero lor capo il solo che operava forse da coscienza e lealtà, Ramondo Alamanno gran giustiziere; e si notavano inoltre i nomi del Procida, di Matteo di Termini, di Manfredi Chiaramonte e di più altri. Vedendo tornar vane le arti, ai chiusero in lor castella, minacciando già la guerra civile.
La regina Costanza l’ovviò col ripiego, che novelli oratori si deputassero in Catalogna a intender la mente di Giacomo; dondechè adunato un parlamento, questo elesse Cataldo Rosso, Santoro Bisalà, e Ugone Talach[131]; e nel medesimo tempo Federigo, vedendo ormai vane le coperte vie, s’ingaggiò in parlamentò co’ patriotti, che svelerebbe ad essi quantunque risapesse de’ trattati di Giacomo coi nemici. Lasciò dunque coloro che si dicean leali, chiusi dalle lor mura e dall’universale sdegno del popolo; ed egli, con nome ancor di vicario e opere maggiori, andò in giro per tutta l’isola, ad accrescersi parte e riputazione, con opportune riforme, amministrazion vigilante, e volto benigno[132].[72] Giunser gli oratori siciliani in Catalogna, quando ratificati già dalle corti i capitoli della pace, re Carlo e il legato pontificio con la sposa veniano a Perpignano e Peralada, e Giacomo si facea loro all’incontro per Girona e Villa Bertram; i quai luoghi, straziati d’ogni più atroce eccesso nella guerra, or s’allegravano per lusso de’ grandi venuti al seguito de’ due re, e per frequenza di plebe che festevole ne venia chiamando Bianca «Regina della santa pace» e anelando lo scioglimento degli anatemi di Roma[133]. Il ventinove ottobre a Villa Bertram, sendo poche miglia discosto il corteo della sposa, raggiunser Giacomo i nostri legati: pallidi e severi gli si apprestarono a sconfonderlo tra tanta allegrezza, dinanzi tutti i nobili del reame. Esposta la domanda del sicilian parlamento, il re senza vergogna confessava il trattato. A che Cataldo Rosso: «O voi, sclamò, o voi passaggieri, sostate; oh dite se v’ha duolo ch’agguagli il duol mio[134]!» e dopo tal biblica lamentazione, in un coi compagni e i famigliar! della siciliana ambasceria, stracciaronsi i panni indosso, ruppero a dimostrazioni d’angoscia disperata, e a Giacomo gridavano: «Non più udita crudeltà, che un re desse leali sudditi a straziare a’ nimici!» Ma poich’ebbero così aggravato il biasimo del principe, ricomposti a dignità ed alterezza, protestarongli in piena corte: come la Sicilia abbandonata, disdicea tutti i dritti di lui alla corona; scioglieasi da ogni giuramento, fede ed omaggio; si tenea libera a prendere qual governo più bramasse. Fu forza al re quella protestazione accettare; e ne voller diploma gli ambasciadori, e l’ebbero. Lo stesso dì, vestiti a bruno, volgean le spalle[73] all’infida corte straniera. Ma pria Giacomo ebbe fronte a dir loro, ch’accomandava ai Siciliani la madre e la sorella. «Di Federigo nulla parlo, aggiugnea, perch’è cavaliere, e ciò che fare ei sel sa, e voi il sapete anco.» Almen così Federigo propalò poi in Sicilia. Incontraron gli ambasciadori, sciogliendo per l’isola, fierissima fortuna di mare, che dilungò il ritorno, e ’l tolse a Santoro Bisalà, sbalzato sulle costiere di Provenza, e tenutovi prigione finchè nol ricattarono i suoi Messinesi concittadini[135]. E in Catalogna il trenta ottobre Giacomo fu ribenedetto dal legato pontificio, egli e ’l reame; bandì nelle adunate corti d’Aragona il fine della gran lite di Sicilia; lo stesso dì Carlo II a lui e alla madre e a Federigo e a Piero con tutta lor baronia e amistà rimettea le offese fatte, le robe occupate a sè ed a suoi ne travagli della guerra. La dimane, portatosi Giacomo a Figueras, rese a Carlo i tre figliuoli e gli altri statichi; tolse la sposa; e celebrò le nozze il primo novembre[136].
Ansiosi in questo tempo pendeano tutti gli animi in Sicilia. Ma alla prima certezza di quelle nuove, ed anzi che tornassero gli ambasciadori, Federigo, sostando d’un tratto dal viaggio per val di Mazara, adunò in Palermo conti, baroni, cavalieri, e i sindichi delle città di qua dal Salso: ai quali, come per tener le promesse di Milazzo, palesava la non dubbia cessione dell’isola; la compiuta pace; la risposta a’ legati. Allora il fatto, soprattenuto per salvar le apparenze, pieno si consumò. Il parlamento di Palermo, a dì undici dicembre, ritirò la rivoluzione a’ suoi principi[74] con esaltare a una voce Federigo; ma, da riverenza all’universal voto della nazione, il chiamò solamente signor dell’isola, volendo più solenni comizi per dargli nome di re; onde disse generale adunata in Catania il dì quindici gennaio, e che non solamente i sindichi vi si trovassero, ma giusto numero dei primi d’ogni terra e città, per facultà, sapienza e riputazione, con pien mandato a partecipare in quel principalissim’atto di sovranità. Federigo protestando la santità della causa, e affidarsi in Dio e nei Siciliani, accettò il dominio; si votò con persona e facultà a difenderli. Cominciava allora a intitolarsi signor di Sicilia. Il dì appresso promulgava unitamente le novelle di fuori, le recenti deliberazioni, e richiedea le municipalità di sceglier tosto i deputati al parlamento di Catania[137].
In questo generale assentimento fu agevole ridurre i baroni recatisi in parte. A Ramondo Alamanno, afforzatosi nel castel di Caltanissetta, andavano Ruggier Loria e Vinciguerra Palizzi, con molti altri grandi del regno; ed ei cominciando a mostrar l’animo con liete accoglienze, sincerato della rinunzia, piegossi, e tutti gli altri con esso[138]. Poco stante venner ordini di Giacomo, che richiamava di Sicilia i Catalani, e gli Aragonesi, e comandava l’abbandono delle fortezze; compiuto a nome del re dall’Alamanno e da Berengario Villaragut, con questo rito, che gli uficiali, fattisi alla porta, gridavan alto tre fiate: se fossevi alcuno che prendesse la fortezza per la santa romana Chiesa? e niun rispondendo, si ritraeano col presidio, lasciavano schiuse le porte, appese le chiavi; e le municipalità incontanente se n’insignorivano a nome di Federigo[139]. Tornarono in patria quelli e altri cavalieri spagnuoli.[75] Molti altri restarono in Sicilia a seguir la fortuna di Federigo; tra i quali eran primi Ugone degli Empuri e Blasco Alagona, che dopo la rinunzia di Giacomo, era fuggito dalla sua corte: e altri nobili avventurieri aspettavansi di Spagna, a dispetto anco di Giacomo, che secondo il dritto pubblico di quel reame non potea lor vietare che militassero per cui lor piacesse. Così Blasco, confortando i suoi compagni, ricordava che lor nazione, libera sopra ogni altra ch’avesse re, non ubbidiva a voler di principe, ma a giustizia e ragione. Filavan indi il creduto testamento di Pietro, l’espresso d’Alfonso; che Giacomo potea risegnare alla Chiesa il proprio diritto al reame di Sicilia, non già l’altrui; che ben se insignoriva Federigo[140]. Con questi argomenti mal colorivano di legittimità quel reggimento per sè legittimissimo. Nè badavano che per dritto di successione potea il trono appartenere alla sola Costanza; e che nè Piero, nè Giacomo altrimenti v’ascesero, che, come or Federigo, per la elezione del popolo.
E già la Sicilia a questo solenne atto metteva il suggello, ad onta della romana corte, di Napoli, Francia, e Aragona, contro lei congiurati. Il dì quindici gennaio milledugentonovantasei, nella cattedral chiesa di Catania, s’assembrarono frequentissimi i rappresentanti della nazione, con quanti nobili catalani e aragonesi sperassero ventura qui, più che in lor patria. Ruggier Loria primo parlò; poi Vinciguerra Palizzi, prestante per forza d’ingegno e di parola; e seguendoli ogni altro, d’un accordo gridavano re Federigo; decretavano si fornisse la coronazione in Palermo[141]. Fu secondo di questo nome in Sicilia; ma s’intitolò terzo, per esser terzo de’ figliuoli di Pietro, o dei[76] reali d’Aragona qui dominanti, o per errore diplomatico piuttosto, credendosi secondo di Sicilia Federigo lo Svevo, che fu secondo degl’imperadori, primo tra nostri re[142].
Ma come Bonifazio riseppe que’ primi passi del parlamento di Palermo, non essendo in punto a usar la forza, non lasciava intentato alcun mezzo di frode. A Federigo scrisse il due gennaio, ricordando le pratiche dell’anno innanzi, la sollecitudine a trovargli terreno e sposa; che negava Caterina, ma non resisterebbe a nuovi preghi; e sì richiedealo, e lo scongiurava con ogni più efficace parola, che desistesse dalla usurpazione del regno. Al medesimo effetto ammonì la regina Costanza. Lo stesso dì «ai Palermitani e agli altri Siciliani» drizzò un breve pien di mansuetudine: come la romana Chiesa, or che Giacomo le avea risegnato questa bella Sicilia, volea consolar le sue afflizioni, fare il ben pubblico, governarla dassè per un cardinale; vedessero i Siciliani tra’ fratelli del sacro collegio qual più lor fosse a talento, quello il sommo pontefice manderebbe. E con tali missioni inviò il vescovo d’Urgel, e quel Bonifazio Calamandrano, che da quattro anni correa per tutta Europa in questi maneggi, come li chiamavan, di pace. Facean assegnamento altresì sulla fazion d’Alamanno e di Procida, non sapendola per anco spenta: e con tali speranze il Calamandrano a Messina approdò, poco innanzi o poco appresso il parlamento di Catania[143]. Il pratico negoziatore parlava ai cittadini di maravigliose prosperità lor preparate dal papa, ingeriasi, brigava; alfin vedendo grossa la piena per Federigo, tentò l’ultimo argomento, mostrando pergamene bianche col suggello della corte di Roma; dicea, consultassero i Siciliani tra loro, e[77] assoluzioni, perdonanze, immunità, franchige, dritti, usanze, patti, quantunque vorranno, ei scrìverà sulle pergamene, assentiralli il sommo pontefice. Ma i Messinesi, non che dar dentro la grossolana rete, sen beffavano; rincalzati da Loria, da Palizzi, e dagli altri primi. E Pietro Ansalone, prudente e ornato dicitore, al Calamandrano ne andò senza molte parole. «Sappi, gli disse, che i Siciliani non ubbidiranno a dominazione straniera; sappi che vogliono Federigo per loro re: e vedi qui! (aggiunse sguainandola spada) i Siciliani da questa aspettan la pace, non dalle tue carte bugiarde! Sgombra su dalla Sicilia, se morir non ami!» Il Calamandrano, scrive Speciale, incontrar non volle il martirio per servire a mondane ambizione. Tornato a Bonifazio, il fe’ certo non restare altra speranza che nelle armi[144].
Coronazione di Federigo II di Sicilia. Novelle costituzioni, per le quali è ridotta nel parlamento gran parte della sovranità. Federigo porta la guerra in Calabria, Principi della discordia tra il re e Loria. Presa dì Cotrone; fazioni in Terra d’Otranto; combattimento del ponte di Brindisi. Papa Bonifazlo spinge Giacomo contro 11 fratello. Ambasceria di Giacomo. Parlamento di Piazza. Battaglia di Ischia. Viene Giacomo a Roma. Chiama a sè Loria. Ribellion di costui da Federigo. La regina Costanza il porta via di Sicilia, con Giovanni di Procida. Primavera del 1296 alla primavera del 1297.
D’ogni luogo di Sicilia cavalcavano alla volte di Palermo, all’entrar di primavera, gli ottimati ecclesiastici e civili, i sindichi delle città, e insieme privati borghesi, e plebe, e vassalli, con frequenza non più vista, per trovarsi a quel nuov’atto di libertà, la coronazione di Federigo. Indi la sera innanzi la pasqua di resurrezione, erano sparse di mirto le vie della capitale, i portici, i tempî, i palagi parati in mille bizzarre guise a drappi di seta e oro; le luminarie davan chiaro di giorno per le contrade; la cattedrale, festeggiandosi il vespro del sacro dì, ardea dal baglior d’infiniti torchi di cera, grandi, scrive Speciale, al par di colonne; il fracasso di trombe, corni, taballi, come simbol della guerra soverchiante i diletti della pace, vinceva l’armonia de’ più dolci stromenti, e i lieti canti del popolo, che tutta spese in tai sollazzi la notte. Al nuovo dì che fu il venticinque marzo milledugentonovantasei, nella cattedrale fu unto e coronato re di Sicilia Federigo; ricondotto al palagio tra plausi non comuni, a cavallo, con vestimenta regie, diadema in capo, scettro alla man sinistra, pomo alla dritta. Ei stesso armò cavalieri meglio che trecento giovani di nobil sangue; creò conti; die’ feudi ed ufici: fatti Ruggier Loria grand’ammiraglio; Corrado Lancia[79] gran cancelliere, in iscambio del Procida; capitani dell’esercito Blasco Magona, frate Arnaldo de Poncio disertor di Calabria, Guglielmo di Casigliano e altri provati combattenti. Si passò ai giochi pubblici, adatti al secolo e al guerresco atteggiamento del paese, cavalcare, trarre al segno, giostrare; al palagio tennersi mense imbandite a chiunque, Così per due settimane si tripudiava[145]. In quel tempo, forse in quel primo brio, e con l’alacrità di chi avea gittato il dado a grande impresa, detta Federigo una poesia provenzale, indirizzata al suo fedel Ugone degli Empuri, che gli rispose nello stesso metro e rima: e i versi d’entrambi attestano con qual franco animo il giovin re andava incontro alla guerra; come fidava nella nazion siciliana; sperava negli aiuti degli avventurieri spagnuoli; e sospettava del re d’Aragona, dubbioso tra gl’interessi di famiglia che ’l tiravano a favorir Federigo, e le profferte e minacce de’ nemici che spingeanlo dal lato opposto. Federigo sfidava quasi gli uomini e la fortuna a trarlo giù dal trono, se potessero: Ugone par che credesse più nel coraggio, che nella capacità e nella mente del nuovo principe: ambo i componimenti, se non han pregio di poesia, servono alla istoria, perchè fedelmente dipingono l’animo di Federigo e le sue condizioni politiche[146].[80] S’innovò insieme la costituzione dello stato. Avean Pietro e Giacomo ristorato le buone leggi normanne, riformato abusi, temperato gravezze; ma Federigo, consigliato o sforzato da’ tempi, passò a sviluppare, ben oltre il confine normanno e svevo, i dritti politici della nazione, in guisa che, se non mutaronsi i nomi, si vantaggiò tanto negli ordini pubblici, da restar alla Sicilia premio non indegno del vespro. Nel proemio delle costituzioni, promettea Federigo, e non a ludibrio, di osservar la giustizia e liberalità comandate dall’Onnipotente ai re della terra. La colpa di Giacomo, gl’incerti passi ch’ei medesimo, Federigo, già diede con Bonifazio dopo essersi indettato co’ Siciliani, or lo strinsero a sacramentare su la sua fede e ’l terribil giudizio di Dio, che manterrebbe a tutto potere il presente stato della Sicilia; nè cupidigia di nuovo acquisto, nè altra ragione lo spunterebbe dalla difesa; nè farebbesi a domandar dalla romana sede scioglimento da cotali promesse, com’era pessima usanza di quell’età. A guarentigia di ciò, si strinse Federigo d’un altro vincol più duro: che nè con la Chiesa romana, nè con altri potentati, farebbe unquemai lega, pace, guerra, se nol consentisse la nazione. Slmilmente partì co’ rappresentanti della nazione il poter legislativo. Stanziò, che s’adunasse ciascun anno il dì d’Ognissanti generale parlamento de’ conti, baroni, e sindichi de’ comuni (nè qui si fa menzione di prelati), che insieme col re provvedessero alla cosa pubblica; e il re fosse tenuto, come ogni altro, dalle leggi decretate col parlamento. Data a questo la censura su i magistrati e uficiali pubblici; e che i sindichi accusassero, tutto il parlamento punisse. Tutto il parlamento, non esclusi i sindichi delle città, ebbe la scelta annuale di quella che noi diremmo alta corte de’ pari, cioè di dodici nobili siciliani, che giudicassero inappellabilmente, indipendenti da ogni altro magistrato, le cause criminali de’ baroni; importante privilegio[81] de’ tempi normanni, ristorato or che montava l’autorità de’ nobili e del parlamento.
Confermò Federigo largamente le franchezze e privilegi degli Svevi e de’ suoi predecessori aragonesi, con ciò che nei casi dubbi s’interpretassero a favor dei soggetti. Nè terminò quest’ordine di leggi politiche, senza riforma in quelle sopra i delitti di maestà, ch’a gran pezza dipendono dalle politiche, e secondo l’indole del reggimento, or portan mite freno, or cieca ed efferata vendetta. Ondechè fu tolta a’ privati l’accusa di fellonia; riserbata al principe; lasciata ai rei la scelta del giudizio, come lor fosse a grado, secondo il dritto comune, le costituzioni dell’imperador Federigo, o le usanze larghissime di Barcellona. Volle il re in fine, che su i beni confiscati per alto tradimento, si rendesse alle mogli quanto lor dava la civil ragione, o ad esse e alle figliuole si porgessero sussidi per vivere. E intendendo nel principio del suo regno a cancellar ogni ombra di parte, vietò severamente le parole di fellone, guelfo, o ferracano, divenute ingiurie in questo tempo, in cui l’opinione pubblica e gl’intendimenti del governo non discostavansi un passo. Fu questo il primo libro delle costituzioni di Federigo[147].
Contengonsi nel secondo poche riforme di abusi su l’amministrazione della giustizia[148], perchè Giacomo ci avea provveduto appieno; ma notevol è lo statuto, che fossero[82] Siciliani, nobili, e ricchi, da scambiarsi in ogni anno, e stipendiati dall’erario, i quattro giustizieri, deputati a conoscer le cause criminali per tutta l’isola, fuorchè in Palermo e Messina, che avean privilegio di speciali magistrati[149]. Sonvi ancora statuti ch’or diremmo di polizia, tra i quali si legge l’ordinamento de’ sortieri, ossia guardia cittadina, ne’ comuni demaniali, e che fosse multato d’un agostal d’oro tutt’uomo trovato per le strade senza lume, appresso il terzo tocco della campana[150]. Si diè maggior passo in altra parte d’amministrazione civile, decretando l’unità di peso e misura, se non per tutto il reame, ben in ciascuna delle due regioni in cui divideasi la Sicilia, a levante e a ponente del Salso[151]; e che nella prima si adoprassero il tumolo di Siracusa e il quintal di Messina; nella seconda que’ di Palermo[152]. Quanto innanzi sentivano in economia pubblica i Siciliani di quel tempo, si scorge altresì dalla legge ch’obbligò le chiese a vendere o concedere ad enfiteusi, entro un anno, i poderi ad esse pervenuti per lasciti o quantunque altro modo; talchè la incuria delle mani morte, come si chiamano, non nocesse all’industria del paese. Gli ecclesiastici, su i beni di lor patrimonio privato, andaron soggetti, come ogni altro cittadino, alle pubbliche gravezze: e si pose più giusta proporzione tra i contribuenti delle collette in ciascun municipio, che altra riforma non restava, dopo quella di Giacomo, nell’ordinamento delle entrate pubbliche[153]. S’aggiunse che gli uficiali dell’erario fosser tutti Siciliani, capaci, e obbligati ad esercitar[83] gli ufici in persona: e stabilironsi i modi e i tempi in cui rendessero ragione di lor portamenti[154].
Ma volgendosi nel terzo libro alla feudalità, s’ingaggiava a riconcedere i feudi che fossero caduti nel demanio regio; e più gratificava a’ baroni derogando alle leggi dell’imperator Federigo, anzi a tutt’ordine feudale, col permetter che si alienassero i feudi, pagata sì la decima al fisco, con lievi altre condizioni. Confermò, anzi estese alquanto, i capitoli di Giacomo per la successione de’ collaterali, e i discreti termini del militar servigio; migliorò le condizioni de’ marinai dell’armata[155]. Ebbe dunque la nazione, dritto di pace e di guerra e di dar leggi, moderate gravezze, più spedita e benigna amministrazione di giustizia, sicurezza pubblica, favore a’ commerci e alla agricoltura: nè merita poca lode, secondo i tempi, quella legge dell’alienazione de’ feudi, che, qualunque fosse stato il suo scopo, rendea più libere le proprietà. Federigo giurò solennemente l’osservanza di queste costituzioni; dienne perpetuo attestato nell’ultimo capitolo. Poco appresso confermava ai Catalani mercatanti in Sicilia i tre privilegi di Giacomo; rendea comuni a tutti sudditi spagnuoli del fratello que’ dati specialmente ai cittadini di Barcellona. Talmentechè è una mirabile[84] somiglianza tra i primordi delle due dominazioni di Giacomo e di Federigo, per trovarsi ambo nelle medesime necessità in Sicilia, e sperar dall’interesse privato dei sudditi in Aragona, gli aiuti che quindi lor contrastava l’interesse del re[156].
Poi si volse Federigo alia guerra. Tenne in Palermo l’ultima adunanza di quel parlamento; ove sedendo gli ottimati a destra e a manca del trono, a fronte i sindichi de’ comuni, il re con modesta parola, chiamando ogni suo potere da Dio, aringava; conchiudendo che rimbaldanziti i nimici, strignenti d’assedio Rocca Imperiale in Calabria, era uopo incalzarli per ogni luogo in terraferma; per pochi giorni più che si sudasse sotto le armi, i Siciliani asseguirebber premio di ferma pace; ei già li vedea azzuffantisi, vittoriosi, bagnati di novello sangue nemico. I quali detti fur tanto ne’ commossi animi, che non aspettato il fine, non serbato ordine o modo, prorupper tutti in un grido di: «Guerra al nemico, guerra per la libertà;» e deliberossi per acclamazione. Il popolo applaudendo con maggior foga, chiedeva le armi; agguerrito, non stanco in quattordici anni di guerra[157].
Cavalcando il re per Messina, lo stesso amore il festeggiò a Polizzi, Nicosia, Randazzo, e per ogni luogo; e più a Messina, gareggiante con Palermo, allor solo in virtù. Quivi per lungo tratto fuor la città si faceano incontro al principe, con bandiere e pennoncelli e signorile abbigliamento,[85] gli uomini di legge, onoratissimi in quel culto popolo; i nobili vestiti di seta, su cavalli ricoperti a drappi di oro; il clero venia salmeggiando; più presso alla città si trovaron brigate di matrone e donzelle, ricchissime di vesti, di gemme, di profumi orientali. Entrò Federigo per le strade parate e sparse di fiori; sotto un pallio portato da nobili uomini; precedendo un araldo che gridava le sue lodi; rispondendo il corteggio e il popolo; e gli stessi bambini, dice lo Speciale, facendo plauso in braccio alle madri. Smontato al palagio, la madre, la sorella che sì l’amava, la prima volta il salutarono re. Confermò ai cittadini messinesi la libertà di mercatare per tutta la Sicilia portando o traendo derrate, ch’era gran privilegio tra’ sistemi proibitivi di quell’età, e loro l’avea dato l’imperador Federigo, l’ultim’anno del secol duodecimo[158]. Loria allestì l’armata con mirabile prestezza in quest’alacrità della nazione. Nè andò guari che il re, spiegando la prima volta in guerra, l’insegna delle sveve aquile nere in campo bianco inquartate con l’addogato giallo e vermiglio di casa d’Aragona, passò lo stretto, con fortissim’oste, e fu accolto in giubilo a Reggio[159]. Perchè questa e altre città di Calabria eran rimase in fede della nazione siciliana, non ostanti gli ordini di Giacomo. Più se ne eran perdute; a ridur le quali non bastava, per aver poche genti, il pro Blasco Alagona; ma le tenea in sospetto, e stringeva Squillaci.
Su questa marciò dunque Federigo, poich’ebbe fatta la massa a Reggio. E al primo scorger la postura di Squillaci, domanda s’abbia altre acque che delle due riviere a pie del colle; e sapendo che no, fatte venir le genti dell’armata, le sparge sulla ripida costa che dalla città pende sul[86] fiume, occupa intorno tutti i passi. Dondechè i terrazzani sitibondi, brucianti, che guardavan dall’alto la limpida corrente del rivo, e lor era vietata, disperatamente uscirono ad azzuffarsi co’ nostri; ma rotti da Matteo di Termini, e rincacciati entro le mura, per non trovare altro scampo al morir dalla sete, s’arresero a Federigo[160]. Lasciata Squillaci, ei sostò alquanto presso Rocchella, per deliberare i movimenti della guerra contro il conte Pietro Ruffo, che s’era afforzato in Catanzaro, ubbidito alsì da tutta la provincia.
Quivi s’accese tra i nostri capitani una lagrimevole discordia. Perchè Ruggier Loria, grandissimo di fama, d’avere e d’orgoglio, pensava troppo d’essere primo o solo sostegno del nuovo principato: e allettandolo le arti di Giacomo e de’ nemici, che profferian alto stato a lui e a Giovanni di Procida e a tutt’altri stranieri gittatisi nella siciliana rivoluzione, tanto teneva ormai l’ammiraglio per Federigo, quanto questi e ’l reame di Sicilia si reggessero del tutto a sua posta. Per le medesime cagioni gli altri baroni, valenti anco in guerra, invidiavan profondamente l’ammiraglio, ed eran più grati a Federigo. A questi umori non mancò presta occasione. Volea il re oppugnar Catanzaro, avvisando che con essa cadrebbe tutto il paese: Loria, al contrario, congiunto di sangue col conte, lo dipingea fortissimo; però si lasciasse stare, s’occupasser le altre facili terre, Catanzaro si avrebbe per fame. In tal disparere, gli altri capitani non osavano in consiglio dir contro Ruggiero, perchè non li conficcasse di rimbrotti in qualche sinistro; non voleano lasciar passare non malignata la sua sentenza; ma con gesti e mormorar tra i denti, fean peggio che con parole. Federigo colse il cenno, e risoluto comandò di marciare su Catanzaro; l’ammiraglio[87] apprestasse le macchine per lo assedio. Ed egli tacque e ubbidì.
Messo il campo al castello, parve a Federigo assaltarlo dal Iato ov’era fabbricato sul piano; e volendo colmar di tronchi e fascine il fosso, con molto ardore egli stesso conducea le genti al vicin bosco; di sua mano dava con la scure per gli alberi; talchè fornita l’opera in poche ore, grande massa di legname si ammontò sullo spalto. S’udiron tutta notte squillar di qua e di là le trombe; stettero in arme gli assediati per timore, i nostri per impazienza del saccheggio, che promettea il re. Al far dell’alba, appena dato il segno, appianato in un attimo il fosso, le genti di mare leste scalavano. Ma un dispettoso comando le arrestò. Il conte, con l’acqua alla gola, chiama l’ammiraglio, mescolatosi, com’ei solea, tra i combattenti; gli offre darsi a patti, raccomandandosi a lui per lo comun sangue: e l’ammiraglio, fattogli cenno a tacersi, che non udissero i soldati, comandò di far alto, prima a suon di tromba, poi con voce e minacce egli stesso, galoppando qua e là sotto i muri; perchè i nostri, per tener già la vittoria, non sapeano spiccarsene. Corse indi Loria al re; n’ebbe una prima ripulsa, ma non restandosi per questo, e tirando seco altri baroni, tanto disse che, fremendone tutta l’oste, impetrò alfine l’accordo: si rendesser Catanzaro e le altre terre della contea, non avendo soccorso dal re di Napoli tra dì quaranta. Con giuramento e statichi il conte ratificò. Entrò nella tregua tutta la Terra Giordana, fuorchè Sanseverina, renduta ostinatissima alla difesa dall’arcivescovo, per nome Lucifero, che per lo suo gregge, Speciale dice, si giocava l’anima; e non ostia, ma umani corpi, non mistico vino, ma uman sangue offriva al Cielo. Federigo accampossi, per l’amenità del luogo, sotto Cotrone, ingaggiata dall’ammiraglio ne’ medesimi patti di[88] Catanzaro[161]. E tenendo appresso di sè dodici galee, mandò l’ammiraglio col rimagnente della flotta e trecento cavalli su’ confini di Basilicata, a sovvenire Rocca Imperiale, duramente battuta dal conte Giovanni di Monforte[162].
Col solito ardire quivi sbarcò Ruggiero; avvicinossi al campo nemico; poi, accozzate le forze con frate Arnaldo de Poncio, prior di Sant’Eufemia, che combattea in quelle regioni per parte aragonese, vittovagliarono la rocca una notte, con sacchi di grano portati in groppa da’ cavalli, in ispalla da’ pedoni, in improvvisa fazione sugli assedianti. Di lì l’ammiraglio percote d’un altro assalto Policoro, presso alla foce dell’Acri; vi prende i viveri dell’oste di Monforte, e cento cavalli che stavano a guardia. E tornavane al campo di Cotrone tutto lieto, se un caso non facea divampar tra lui e il re la rattenuta ira[163].
Perchè durante la tregua, i terrazzani di Cotrone, venuti un dì alle mani co’ Francesi del presidio per private cagioni, e avutone il peggio, chiaman soccorso dal nostro campo, di là ov’era attendata la fiera gente delle galee; la quale, rapite in furia quelle armi che il caso offrì, salta dentro, rinnova la zuffa, e rifuggendosi i Francesi nel[89] castello per postura fortissimo, entravi rinfusa con essi, pone ogni cosa a sacco ed a sangue. Intanto levandosi il romore nel campo, Federigo che meriggiava, desto dal sonno, così com’era senz’arnese, afferrata una mazza, lanciossi a cavallo, spronò al castello; e il trovò sforzato, e i suoi ch’uscivano col bottino. Ond’ei crucciosamente proruppe a rampognarli della rotta fede, nè si ritenne dal trucidar di sua mano i men presti a fuggirgli dinanzi. Poi comandò fosse resa tutta la preda; pagato dalla cassa regia ciò che non si rinvenisse; dati due prigioni, francesi per ognuno morto nella mischia: e fe’ scusa della tregua violata, ma non rendè la fortezza. Fe’ imbarcare il capitano francese, Pietro Rigibal, con tutto l’avere de’ suoi, e lettere drizzate all’ammiraglio, narrandoli il successo, e commettendo ch’avviasse Rigibal coi renduti prigioni al re di Napoli, poichè altra riparazione non restava.
Ma l’ammiraglio all’intendere il caso, infellonito diessi a gridare: «Son io, son io la cagione!» e affrettatosi al campo, assai superbamente parlava a Federigo, delle sue geste, dell’incontaminata fede guerreggiando fin co’ barbari e gl’infedeli; questa esser macchia incancellabile sul suo nome. «Mai più, conchiuse, mai più non sarò ludibrio di chi sta e susurra perfidi consigli agli orecchi del re. A man giunte, dalla rocca di Castiglione, vedrommi il fine di questa guerra. E tempo verrà che i ribaldi calunnianti or me in corte, tremeranno in faccia al pericolo.» Federigo, contenendosi appena, con un sogghigno gli rispondea: non ricantasse que’ servigi, noti e pagati a soperchio: essersi fermati a nome del re i patti di Cotrone, al re toccava mantener la sua fede; e a tutta possa aveal fatto; ma non saper soffrire l’orgoglio; andasse pur via dall’oste a sua voglia: e montato a cavallo, il piantò. Corrado Lancia, fidatissimo di Federigo, cognato dell’ammiraglio, tramezzatosi a riconciliarli, salvò almen le apparenze. Sì che per[90] questa volta l’uno e l’altro si davano a sfogar sopra i nimici gli animi grossi e tempestosi[164].
Prosperamente avanzavano in terraferma le armi nostre. Avuti i messaggi del conte di Catanzaro, re Carlo, esausto di danari, dopo molta deliberazione, avvisò munir le città marittime di Puglia, senza affaticarsi a impotenti aiuti nelle Calabrie; onde scorsi i dì quaranta, vennero in poter di Federigo tutta la contea di Catanzaro e la Terra Giordana. Il re con l’esercito, Loria con l’armata, venuti in questo sopra il conte di Monforte, lo fean levare dall’assedio di Rocca Imperiale. Poi l’uno, cavalcando ambo le Calabrie vittorioso, piegò agli accordi il feroce arcivescovo di Sanseverina; occupò, dato il guasto al contado, Rossano fortissima di sito, e le terre d’attorno; e inanimito da’ successi, minacciava le province di sopra. L’ammiraglio, valicato il golfo di Taranto, assaltava Terra d’Otranto. Dapprima innoltratosi sull’asciutto fino a Lecce, d’improvviso assalto di notte, la sorprese e depredò. Rientrato in nave, presentasi ad Otranto; senza fatica se n’insignorisce, mentre gl’irresoluti cittadini nè difendeansi, nè venieno a’ patti; e perchè gli parve comodo il porto, la rafforzò di torri e di mura, lasciovvi tre galee e scelta gente di presidio[165]. Dopo ciò tentava un colpo su Brindisi.
Ma perchè vel prevennero secento cavalli francesi, Ruggiero, posti in terra i suoi, trinceossi alla Rosèa con pali e corde intorno, a sua usanza; e non potendo assaltar la città, dava il guasto al paese. Avvenne un dì, che conducendo egli stesso la cavalcata infino al ponte di Brindisi, i fanti che ’l seguiano, spinsersi oltre il fiume in cerca di verzure e più limpid’acque, in un luogo che l’ammiraglio non tardò a riconoscer atto ad insidie: ond’ei sopra un ronzino corse lor dietro, gridando che tornassero. Ed ecco[91] una torma di cavalli francesi, uscita dall’agguato, a corsa drizzarsi al ponte. Voltò la briglia Ruggiero; a mala pena guadagnò il ponte; gridò che gli recassero il suo destrier di battaglia; e ansando facea montare gli uomini d’arme: perchè nella difesa del ponte stava la salvezza de’ suoi, sparsi e pochi incontro al grosso stuolo nimico. Già il capitano, Goffredo di Joinville, con un altro nobil guerriero, trasvolavan oltre l’arco di mezzo; eran perduti i nostri, se Peregrino da Patti e Guglielmo Palotta, cavalieri siciliani, non si gittavan soli sul ponte. Costoro a’ due Francesi fecer testa, indi a tutta la torma accalcatasi allo stretto varco: bagnati di sangue da capo a piè, coperti di ferite, tennero il ponte finchè l’ammiraglio sopravvenne co’ suoi, gridando: «Loria, alla riscossa!» Allora si strinse più aspra la zuffa. Sotto i colpi delle spade e delle mazze volavano, scrive Speciale, in pezzi le armature; fronte con fronte, petto con petto, cozzavano i guerrieri. L’ammiraglio e Joinville per caso affrontansi: e alza questi la mazza per ferire; Ruggiero al tempo, gli vibra una punta tra corazza ed elmo; ondechè il Francese, avvampando di vendicarsi, immerge gli sproni ne’ fianchi del cavallo per gittarlo addosso al nemico; e gittossi a morte, perchè l’agil animale, spiccato un salto, precipitava giù dal ponte. Nè finì la tenzone a questo; dura e ostinata si travagliò, finchè i balestrieri siciliani, bersagliando la massa de’ nemici serrata sul ponte, laceraronla, diradaronla e volserla in fuga. Molti, fitti nella melma del fiume, restarono uccisi o prigioni; i fuggitivi non inseguì Loria co’ suoi, laceri e ansanti poco men che i nimici, per la disuguale battaglia. Indi non s’ebbe dalla vittoria altro frutto[166]. Ma la virtù di Peregrino da Patti e di Guglielmo Palotta, che ricorda per la somiglianza del caso, illustri esempi[92] antichi e recenti, degnissima è della nostra memoria. Speciale la registrò nelle istorie siciliane; poi l’hanno obbliato i più, perchè tutto quaggiù, anche la gloria, vien da fortuna. E maggior mancamento mi sembra che nel toccar questi fatti, pochi scrittori e vagamente, s’innalzavano alla considerazione politica, che travagliandosi in guerra i due reami di Sicilia e di Puglia, il primo vinse per lo più il secondo, ch’è tanto maggiore di territorio: e nella state del novantasei, non che difendersi, conquistava tutto il paese dalla punta di Reggio al capo di Roseto[167]; infestava Terra d’Otranto; e più addentro portava le armi, se non ch’entrovvi di mezzo l’interesse degli altri potentati d’Europa.
Perchè papa Bonifazio, vedendo torcer Federigo dalle sue vie, più si ristrinse con Giacomo, per lanciarlo contro il fratello. E prima a ventuno gennaio del novantasei, col titol sonante di gonfaloniere, ammiraglio e capitan generale della santa sede, condusse il re di Aragona ai suoi soldi; da combattere in Terrasanta, e quest’era il pretesto, o altrove, e quest’era l’effetto, contro qualunque nimici e ribelli della Chiesa, con sessanta galee, armate da lui, pagate dal papa; e n’avesse Giacomo la metà della preda, l’investitura di Corsica e di Sardegna, del rimanente gli acquisti fossero della Chiesa o degli antichi signori cristiani[168]. Poco appresso il sollecitò Bonifazio a venir, com’avea promesso, a Roma[169]. E punto al vivo da Federigo, che tentava in questo tempo gli animi dei Napolitani, praticava con usciti lombardi e toscani, e fin co’ romani Colonnesi già disposti a ribellione contro il papa, più gravemente scaricò i colpi spirituali il dì dell’Ascensione;[93] cassò l’atto del coronamento del re di Sicilia; scomunicato lui, co’ popoli e loro amistà; dato termine a pentirsi il dì di san Pietro, nel quale rinnovò le maledizioni[170]. Intanto spandea le indulgenze a chiunque portasse armi contro Sicilia; aiutava Carlo con le decime ecclesiastiche del regno e di Provenza[171]. Talchè il re di Napoli, non ostante que’ rovesci, volendo ritentar la guerra, o farsen pretesto a cavar moneta da’ popoli, bandi general parlamento a Foggia, pel dì venti settembre; disse di nuova impresa sopra la Sicilia[172], ingiungendo ai feudatari che venissero in armi o pagassero[173]. Giacomo s’apprestava anch’egli al combattere; ma, ritenuto da pudore, e dalla briga che davangli in casa le guerre di Murcia e Castiglia[174], volle tentar prima nuovi ammonimenti a Federigo.
Al cader della state, guerreggiando Federigo in Calabria, giunsegli messaggio del re di Aragona Pietro Corbelles, de’ frati predicatori, parlando blandizie di pace; e finiva con minacce, che Giacomo, fatto or capitano della santa sede, non starebbe in dubbio tra quella e il proprio suo sangue; nel petto della madre, nelle viscere de’ figli immergerebbe la spada a’ comandi del santo pontefice; aprisse pur gli occhi Federigo, a ciò il fratello il richiedea d’un abboccamento ad Ischia. Ma Federigo, nulla mosso, palesava l’ambasceria ai suoi baroni; e vistili balenare, con generose parole li confortò. Riferissi del[94] negozio al general parlamento, secondo i freschi patti fondamentali; e perchè pensava che troverebbevi spiriti più generosi. Lasciato dunque luogotenente in Calabria con giuste forze, Blasco Alagona, ei tornato di fretta in Messina, dà giorno e luogo al parlamento; richiama Loria con l’armata[175]. Costui pe’ narrati sdegni, o perchè pareagli disperato il caso di Federigo, avea già in Terra d’Otranto ascoltato pratiche de’ nemici. Bartolomeo Machoses di Valenza, inviatogli da Giacomo in agosto, sotto colore d’ingiunger che risegnasse il feudo di Gerace in Calabria, l’avea indettato forse a tradigione: e anco si sospettò che se ne fossero allacciate le prime fila, fin dal tempo della esaltazione di Federigo, quando i baroni aragonesi leali a Giacomo si partiron di Sicilia. Altri messaggi in tutto questo tratto il re di Aragona avea spacciato alla madre, allo stesso Federigo, alle città di Palermo, Messina, e altre prime dell’isola[176]. Talchè l’ammiraglio, tornato immantinente a Messina, e abboccatosi col frate spagnuolo che stava ad aspettar la deliberazione, non fu senza speranza di avviluppare il vicin parlamento, che si calasse agli accordi. Convenuti in Piazza, di mezz’ottobre, i baroni e’ sindichi delle città, scopertamente diessi ad aggirarli, far partigiani, sparger terrori e promesse. Ma Vinciguerra Palizzi e Matteo di Termini, con più caldo s’adoprarono per lo contrario effetto; speser la notte innanzi l’adunata, girando qua e là a scongiurare che non si lasciasse partir Federigo. Indi forte si combattè in parlamento.
Esposta l’ambasceria, si dava liberissimo voto a ciascuno; e pendeano i più alla ripulsa, per amor di Federigo o di sè stessi, temendo Giacomo noli seducesse, allorchè[95] Loria col pianto sugli occhi, quasi per pietà del paese, s’alzava ad orare: «Non ingannassero sè medesimi; sarebbero irresistibili le congiunte forze di Giacomo e di Carlo; ripiglierebbero le Calabrie in un batter d’occhio; porterebbero in Sicilia fame, incendi, stragi; pagherebbe di molto sangue la Sicilia questo insensato ostinamento, All’incontro, qual danno nell’andata di Federigo? e forse, per l’amor che gli porta, si volgerà a noi il re d’Aragona. Ma s’ei verrà da nimico, pensate quanti Catalani e Aragonesi mancheranno alle vostre bandiere. Posson essi prender le armi per chi lor piaccia, ma son traditori se combattono contro le bandiere del re d’Aragona[177].» Gran bisbiglio seguì a questo parlare, vergognando gli stessi partigiani dell’ammiraglio ad assentir con parole, ma chinavano il capo; e gli altri altamente dicean contro: onde dopo lunga contesa, nulla deliberavasi.
Il dì seguente tolse ogni dubbiezza il re, surto egli stesso a concionar l’adunanza. «Non ripeterò, disse, le parole che si son fatte, che sono pur troppe. Io penso che dal trattare, altro non tornerebbe che più fuoco d’ira, tra Giacomo, soldato de’ vostri nimici, e me, che tutto alla Sicilia sonmi giurato: e tra la Sicilia e’ suoi nimici non è via di mezzo; o libera com’oggi, o calpestata oltre ogni antico strazio di servitù. Su questo partito deliberate dunque, non sull’andata del vostro re ad Ischia. Ma tu, Ruggier Loria, che parlavi misterioso di leggi e usanze d’Aragona, ricorda che io son re in Sicilia quanto Giacomo altrove: che s’ei mi porta ingiusta guerra, non sarà traditore se[96] non chi me tradisce! E quanto a’ pericoli dipinti sì atroci, richiama al tuo cuore l’antica virtù; pensa che Iddio combatte contro gl’ingiusti e i superbi.» Coronò tal generoso parlare il decreto del parlamento, che vietò l’andata all’abboccamento con Giacomo. Il fece intendere Federigo all’ambasciadore; accomiatollo[178]; e cominciò ad apparecchiar la Sicilia a validissima difesa.
Ma non son da pretermettere gli altri atti di questo parlamento di Piazza, non sì scosso dal grave partito politico, che non pensasse, quasi posando in pace, a molti statuti, trasandati in mezzo alle leggi fondamentali del parlamento di Palermo, o suggeriti da novella esperienza, o portati dallo sviluppo di novella forza civile. Ed in vero si favorì tanto sopra l’aristocrazia l’elemento municipale, che se ne scorge evidentemente la preponderanza della parte popolana, e l’intendimento di Federigo a fondarsi in su quella, più che sul baronaggio, fattosi torbido e parteggiante; e s’ha valido argomento che la parte popolana, alla quale, com’avviene, accostavansi anco parecchi nobili, fosse stata quella che vinse il partito della guerra in questo parlamento, e sostenne Federigo e la rivoluzione. Certo quegli statuti danno a vedere, secondo i tempi, assai civiltà. Decretavasi: i castellani non s’ingerissero nelle faccende de’ vicini municipi; non i nobili nelle elezioni de’ magistrati comunali; i feudatari non pretendessero dritti sul passaggio degli armenti; non levassero a lor posta gabelle sulle grasce; non frodassero i vassalli nella misura de’ poderi soggetti a terratico; nè terratichi nuovi riscuotessero su i feudi conceduti testè dal demanio: si vietò l’alienazione de’ feudi oltre i termini della recente legge; si die’ obbligo a’ baroni di soggiornare in Sicilia o tornarvi in corto tempo: e che il principe solo potesse assentire i matrimoni[98] delle lor figliuole co’ figli de’ nemici allo stato[179]. Altri statuti, proclamando che i deboli non debban soggiacere ai potenti, studiavano nuovi argini ai radicati abusi degli uficiali sull’avere dei privati[180]; innalzavano in ogni comune un ministero pubblico di tre cittadini, obbligati per giuramento a denunziare tutti gli aggravi de’ giustizieri e uficiali qualunque, e sì i misfatti contro la sicurezza delle persone; i quali, dal sacramento che davano, si appellaron giurati[181]. Fu decretata libertà universale d’importazione ed esportazion di vini e altre derrate; inibito di prender le persone o i letti, o diroccar le case pei debiti delle collette; francati da queste i militi[182]. Si rinnovi il divieto d’ingiuriar altrui con gli odiosi nomi di guelfo o ferracano: riabilitati agli ufici i sospetti di queste opinioni politiche, non rei di alcun fatto[183]. La quale benignità di principi s’osserva non meno nei molti ordinamenti sopra gli schiavi saraceni e greci, che numerosissimi erano in Sicilia per causa del corseggiar nelle ultime guerre: statuti tendenti a procacciar la conversione de’ primi alia fede di Cristo, de secondi a’ dommi ortodossi, o mantenere il pubblico costume; ma si fe’ divieto ai cristiani di usar con giudei; a costoro di tenere ufici ed esercitar la medicina[184]. Scagliossi pena del capo contro gli avvelenatori, stregoni, indovini, incantatori, che spargon, dice lo statuto, profani errori, e ingannano i popoli con empie fallacie[185]: talchè nè corsero quegli antichi nostri legislatori all’atroce e usato supplizio del fuoco, nè mostrarono prestar fede a negromanzie,[99] ma puniron solo la frode e il disordine civile. A questo medesimo effetto con molto studio vietaronsi i giochi di sorte, non di destrezza; e si commendaron que’ d’esercizio nelle armi[186]. Allo zelo di religione e morale, ch’appar da cotali ordinamenti, s’aggiunse un particolare statuto contro la usurpazione de’ beni ecclesiastici; un divieto di portar armi, ferro, o legname a paesi d’infedeli; ma si pagò il tributo a’ tempi con lasciar salva alla santa sede la riforma; e non si dice sol delle leggi per le quali poteano vedersi incerti i limiti tra il sacerdozio e l’impero[187]. Su questi capitoli di Piazza, perchè essi contengono più numero di sanzioni penali che niun degli altri anteriori di Federigo stesso o dì Giacomo, noteremo, ch’eccetto il sommo supplizio contro i maestri di veleni e malie, le pene son pecuniarie o di privazione; poche di carcere a tempo; e pei giochi vietati s’aggiungono in un caso le battiture. Riserbossi il principe di gastigare ad arbitrio alcuni abusi degli uficiali, e dichiarar secondo i casi la qualità del carcere detto dinanzi[188]. Talchè possiamo anco dir mite e non troppo disuguale il penal sistema che si tenne di mira.
In questo tempo, reggendosi sempre Ischia per noi, Pier Salvacoscia con cinque galee vi combattè bella fazione, assalito da nove teride smisurate, zeppe di armati, che i Napolitani mandavano a acquistar l’isoletta, vergognanti del tributo ch’indi si levava su i vini navigati per lo golfo. Appiccata la zuffa senza curare il disugual numero, vinsero i nostri; ogni galea cattivò una terida; fuggendo le quattro rimagnenti, i cui capitani re Cario fe’ mettere a morte, uscito questa fiata dall’indole sua dolce[189]: e come[100] disperando delle armi, cavalcò per Roma a ripregar Bonifazio. Costui indi punse nuovamente Giacomo che venisse a Roma; diegli le decime ecclesiastiche d’Aragona per l’armamento[190]. Giacomo, apparecchiandosi, di febbraio del novantasette mandò per ultimo avviso al fratello il vescovo di Valenza e Guglielmo di Namontaguda, insistendo per l’abboccamento ad Ischia. Ma perchè quei rispondea che ne riferirebbe al parlamento, gli oratori replicarono, che Giacomo anco ubbidirebbe al papa; e Federigo a loro, ch’ei perciò non terrebbe nimico il fratello, e molto meno la nazione catalana e aragonese; e farebbe anco richiamo alle corti. Partiron dunque scontenti gli ambasciadori spagnuoli: Federigo mandonne in Ispagna, e senza miglior frutto; perchè piaceva a que’ popoli, sì come al re, la pace con Francia, fors’anco lo stipendio del papa[191]. Speso in tali vane pratiche il verno, allo scorcio di marzo del novantasette si trovò Giacomo in Italia; senza armata, perchè volea più certo e largo il prezzo del muover guerra al fratello. Ebbelo da papa Bonifazio, che incontanente porgeagli la bolla d’investitura di Corsica e Sardegna[192], sol riserbandosi un anno a ritrattarla se fosse uopo al negozio di Sicilia[193]: manifesto disegno di un baratto con Federigo. Nondimeno prendea Giacomo la corona delle due isole; dava il giuramento per lo supremo impero delle armi della Chiesa[194]; e ottenne dal papa, che nell’assenza[101] sua di Spagna, il reame stesse sotto la protezion della santa sede, e, che legati di lei, n’avessero cura i vescovi d’Ilerda e Saragozza[195], ed esortassero i popoli alla siciliana impresa. Poco appresso si fe’ dare indugio alla restituzione di Maiorca a Giacomo suo zio[196]: fidanzò la sorella, Iolanda, a Roberto erede presuntivo della corona di Napoli: fe’ stretta lega con Carlo II per ridur la Sicilia. Nè preparava per anco le forze, ma per messaggi fitto praticava con Loria.
Il quale risoluto a spiccarsi da Federigo perchè nol potea governare, operava sempre più baldanzosamente. Un dì cavalcando il re con Corrado Lancia per la spiaggia di Musalla a Messina, fattosi tra loro, mostrava lettere di Giacomo che il chiamavano a un abboccamento; prometea di adoperarvisi per Federigo, e tornare. E il re, incauto o superbo, a’ conforti di Corrado gli dava il commiato; assentivagli ancora due galee per andare in Calabria a munir sue castella in questi nuovi pericoli di guerra. Ma quando l’ammiraglio ritornò in Messina per prender il viaggio di Roma, trovò il giovan principe, che suscitato dalle parole de’ cortigiani, avea rugumato su tal dimestichezza di Loria co’ nimici, su queste genti, armi, vittuaglie che adunava nelle sue castella; tra i quali pensieri dubbiando Federigo, ch’animo avea generoso con poca mente, tenne la peggior via: nè accarezzar quel grande, nè spegnerlo; ma l’offese. Porsegli ei stesso il pretesto che l’ammiraglio cercava per salvarsi dal biasimo di tradigione, nel che riuscì tanto appo i contemporanei, che qualche istorico in tal sembiante il tramandava alla posterità. In piena corte, fattosi quegli a baciar la mano al re secondo usanza, Federigo ritira a sè la mano sdegnosamente, e a Ruggiero che drizzavasi a domandar perchè tal oltraggio? brusco risponde: «Perchè trami co’ miei nimici»; e seguì più acceso; e finì comandandogli[102] non movesse pie’ dalla sala. Seguitonne uno spaventoso silenzio. Niuno stendea le mani sull’ammiraglio; ei, soprappreso dall’ira del re, non osava partirsi: dispettoso e fremente si trasse in un canto. Ma Vinciguerra Palizzi e Manfredi Chiaramonte, che non amavan forse Ruggiero, ma nè anco l’esempio d’un tal grande spento fuor dagli ordini delle leggi, fecersi a parlare per esso, con dolcezza che poi tornò sì dannosa alla patria. Mitigato da loro, il re li accettò mallevadori dell’ammiraglio; e questi, ch’era già notte, fu lasciato partir dal palagio, libero e ingiuriato.
Vola alle sue case, lieto in volto; convita a cena i molti amici adunatisi a complir del ritorno di Calabria; e mentre s’imbandiscon le mense, precipita per una scala segreta; monta a cavallo con tre fidatissimi; e a spron battuto prende la via di Castiglione. Giungevi all’ora terza del dì, con felice consiglio: perchè già Federigo, levato su dai nimici dell’ammiraglio, tornando allo sdegno, aveal fatto appellare alla sua presenza. Pericoloso ondeggiamento, che mosse tutta la Sicilia. Assai partigiani di Ruggiero, deliberati a correr con esso quantunque fortuna, vanno a trovarlo armati: ei rafforza con estrema prestezza le castella di Novara, Tripi, Ficarra, Castiglione, Aci, Francavilla, e altri luoghi che tenea in feudo: e minaccioso e fiero si stava. Quando i due mallevadori vennero a richiederlo che tornasse alla ubbidienza, e gli offrian sicurtà dalla parte del re, Ruggiero, per sentirsi in colpa o mosso da superbia, con molte ragioni il negò: alfine pagò del suo la enorme somma della malleveria; e tennesi sciolto da ogni vincolo d’onore. Tuttavia nè mosse guerra, nè chiese pace al re. E questi, dopo i primi errori, fatto senno, non osò assaltarlo, per non accender una guerra civile con le armi straniere alle spalle. Ma poco minor pericolo gli era l’indugio[197].[103] Di tal frangente il tirò la regina Costanza, con quella medesima riputazione ch’avea due anni prima ammorzato lo scisma di Giovanni di Procida. La regina, chiamata a Roma dal maggior figliuolo per menar a nozze la Iolanda, vinse sè stessa a lasciar Federigo; sperando pure metter pace tra gli sdegnati animi, e guadagnarne alla propria coscienza col rientrar in grembo della Chiesa. Volle per tal andata, con mirabil modestia, la permissione di Federigo: e sotto specie di chiederli compagni al viaggio, levò di Sicilia, con onor del re e loro, l’ammiraglio, pronto da un dì all’altro a romper guerra, e Giovanni di Procida, sospetto al par di costui, o peggio. Loria, avuta da Federigo sicurtà fino all’imbarco, non lasciò le sue fortezze, senza pria comandare a tutti i vassalli che stessero saldi,[104] e quando Giovanni Loria nipote di lui andrebbe in Castiglione, l’ubbidissero in ogni fortuna. Indi la regina e la principessa, spiccatesi con molto dolore da Federigo, seguite dal vescovo di Valenza e dai due baroni uscenti in esilio sì minacciosi, da Milazzo con quattro galee partivano alla volta di Roma. Come furo in alto, chi favellava, chi adagiavasi, sperando, qual più qual meno, ne’ novelli destini; la sola Costanza, dice Speciale, immota sulla poppa della nave, affisava i monti di Sicilia che fuggiano, gonfia gli occhi di pianto, pensando a Giacomo, a Federigo, e a’ disastri imminenti. Compironsi a Roma le nozze; strinsersi, non ostante il pregar di Costanza, i consigli della guerra; Giacomo ripartì per Catalogna ad allestir la flotta. Loria al medesimo effetto ritornava, amico e ammiraglio di re Carlo, a que’ porti del reame di Napoli ove per quindici anni s’era tremato al suo nome. E prima Giacomo il creò ammiraglio a vita in tutti i suoi reami con grande autorità, gran lucro, e campo illimitato alle rapine; si stabilì il matrimonio di Beatrice sua figliuola con Giacomo d’Exerica, principe del sangue reale d’Aragona. Il papa gli diè in feudo la terra e il castel d’Aci in Sicilia, che tenean dal vescovo di Catania; lo ribenedì insieme con Giovanni di Procida[198]. Costui fu redintegrato ancora nel possesso dei suoi beni nel reame di Napoli, secondo i primi patti di Giacomo e Carlo[199].[105] Così lasciavan insieme la Sicilia, ambo da nimici, i due regnicoli sì famosi nella rivoluzione del vespro, legati strettamente dalla comune fortuna e dalla comune ambizione, compagni nell’esilio, nelle speranze, nella fazione della[106] nuova dinastia in Sicilia, e finalmente nella tradigione. L’uno, allevato infin da fanciullo a corte di Pietro, fu uomo di animo smisurato, di altissimo intendimento nelle cose di guerra, il primo ammiraglio de’ tempi, gran capitano d’eserciti; ma sanguinario ed efferato, avaro, superbo, insaziabile di guiderdoni. Ristorò la riputazione delle armi navali in Sicilia; educò i Siciliani alle vittorie; fu sostegno potentissimo al nuovo stato. Gli si volse contro quando ebbe rivali nel potere; non veggo se più invidioso o invidiato; ed è un’altra macchia al suo nome, che abbandonò Federigo quando parea precipitare la sua fortuna. Portò con seco la signoria de’ mari; e pur non serbò lungi da noi l’antica gloria, perchè, se talor vinse in battaglia i vecchi compagni siciliani, talor anco fu vinto da essi; e appena chiusa con la pace di Caltabellotta la sanguinosa scena di che era stato parte principalissima, or con l’una or con l’altra delle fazioni guerreggianti, come se quel genio sterminatore non avesse più che fare al mondo, trapassò di malattia in Valenza; e le sue ossa andarono a riposare, com’egli avea ordinato molto prima, in un sepolcro posto a piè di quello del re Pietro[200]. Minore di lui di gran lunga fu Giovanni di Procida, e pur la capricciosa fortuna in oggi fa suonare assai più questo nome. Di ministro abilissimo del re d’Aragona, le corrotte tradizioni istoriche l’han fatto liberator di popoli, l’han posto a canto a’ Timoleoni ed a’ Bruti, han dato a[107] lui solo quel che fu effetto delle passioni e della necessità di tutto il sicilian popolo; alle virtù ch’egli ebbe, sagacità, ardire, prontezza, esperienza ne’ maneggi di stato, hanno aggiunto le cittadine virtù ch’ei non ebbe, che violò anzi, tramando pria co’ nemici, poi brigando sfacciatamente contro la siciliana rivoluzione, quando la ristorò Federigo. Oscuro morì in Roma costui in sull’entrar dell’anno milledugentonovantanove[201], innanzi che per prezzo d’infamia e per clemenza degl’inimici tutto riavesse il suo stato in terra di Napoli[202].
Tra questi e quanti altri o sudditi o principi furon grandi ne’ fatti nostri di quel tempo, sospinti da ambizione a vizi non senza glorie, spicca per una candidissima fama la regina Costanza, avvenente della persona[203], bellissima d’animo, per le care virtù di donna, e madre, e credente nel vangelo. La fine di Manfredi avvelenò il fior degli anni suoi; poi, se vide punito lo sterminator del sangue svevo e libera la Sicilia, ebbe a tremare ad ogni istante pe’ suoi più cari; pianger la morte di due figliuoli, la nimistà degli altri due; nè troppo la poteano far lieta le nozze della figlia nell’abborrita casa d’Angiò. Nacque e fu educata in Palermo[204]: tornata in Sicilia per sì strane vicende, la governò[108] dolcemente dopo la partenza di Pietro; dettò alcuna legge che infino a noi non è pervenuta; fu amorevole coi sudditi, fino con la insopportabile Macalda. Non ebbe ambizione, lasciando prima a Pietro, poi a’ figliuoli, la corona di Sicilia, ch’era sua per dritto di sangue: nè tal moderazione nacque da pochezza d’animo in costei, che ben seppe in pericolosissimi tempi provvedere alla difesa della Sicilia; e due fiate con assai destrezza salvar Federigo dalla fazione nimica a’ siciliani interessi. Quetata la coscienza con la benedizione papale; posate poco appresso le tempeste di Sicilia, l’anno medesimo milletrecentodue finì i suoi giorni in Barcellona, ove attendeva a fabbricar munisteri e ad altre opere che nella vecchiezza le suggeriva cristiana pietà. Ma in tutto il corso di questa virtuosa e infelice vita, forse non soffrì maggiore strazio, che nel tempo di cui sospendemmo per poco il racconto; vedendo allora, senza alcun chiaro di speranza, l’un contro l’altro armati Giacomo e Federigo[205].
Ribellione de’ feudi dell’ammiraglio in Sicilia. È spenta, ed egli sconfitto da’ nostri sotto Catanzaro. Preparamenti di Giacomo e di Federigo. Il primo sbarca sulla costiera settentrionale dell’isola; passa ad assediar Siracusa. Fatti della guerra guerriata che s’accende in Sicilia. Giovan Loria vinto e preso nello stretto di Messina; sciolto l’assedio di Siracusa; e Giacomo torna in Napoli e in Catalogna. Nuovo passaggio di lui in Sicilia. Parlamento di Messina. L’armata siciliana debellata dalla catalana a capo d’Orlando. Estate del 1297–4 luglio 1299.
Incominciò Loria il servigio del novello signore, con ritentar tradimento all’antico; arrischiatosi a venire in Sicilia con un sol velocissimo naviglio; non però tramando sì cauto, che Federigo non n’avesse spia: il quale, come era ardente di vendetta contro l’ammiraglio, fe’ armar navi che l’appostassero alle isole Eolie. Scampò Ruggiero per navigar guardingo, e darsi a una rapida fuga come scoprì i nostri, che non seppero o non vollero raggiugner l’antico lor capitano; ma tal contrattempo pur bastò a rompere tutti i disegni. Perchè risaputosi, Giovanni Loria nipote dell’ammiraglio e cresciuto da lui come figliuolo, ancorchè carissimo a Federigo, lasciava improvviso la corte, per levar l’insegna della guerra in Castiglione; tentava Randazzo indarno, armandosi il popolo contro i suoi partigiani[206]; poneva a sacco ed a guasto il vicin villaggio di Mascali; ma non potè altrimenti offendere il re e il paese senza la persona di Ruggiero. Federigo senza dimora il bandisce nimico pubblico; strigne d’assedio le fortezze feudali dell’ammiraglio; ponendosi ei medesimo a campo[110] a Castiglione, importantissima tra tutte per esservisi chiusi con Giovanni Loria, Guglielmo Paletta quel valoroso del ponte di Brindisi, Tommaso di Lentini[207], e molti altri guerrieri di nome, congiunti o clienti dell’ammiraglio. Indi con assai sangue, ma non lungamente, si travagliò quest’assedio nella state dei novantasette; finchè oppugnato da tre bande il castello, crollato da’ tiri delle macchine, fuor di speranza d’aiuto di là da’ mari, Giovanni s’arrendè, salve persone ed averi, e passò in Calabria con Ilaria moglie sua, figliuola del conte Manfredi Muletta, Ruggier Loria figliuol dell’ammiraglio, e tutta lor amistà. Francavilla s’era già data a’ Messinesi, venuti a osteggiarla. Il castel d’Aci, foltissimo sur una roccia che bagnasi in mare, tenne contro gli assalti de’ Catanesi. Ma venutovi Federigo dopo la resa di Castiglione, fece costruir una torre di legname, alta a pareggio delle mura, mobile su ruote interne, congegnata con un sottil ponte che s’addimandava cicogna, la quale approcciata a una picciola gittata di mano, fe’ tosto calare il presidio ad arrendersi. E così fu spenta in Sicilia la ribellione dell’ammiraglio[208].
Nello stesso tempo la fortuna peggio l’umiliava in Calabria. Con un grosso di cavalli di re Carlo[209] si pose egli a[111] sfogare il fresco dispetto, sugli acquisti nostri di quelle province, mescolando pratiche e forza[210]; che fin tirò Blasco Alagona a un abboccamento, per tentarlo, o metterlo in sospetto di Federigo; ma riuscì solo a questo intento. Il dubbioso principe chiamava Blasco in Sicilia: e Loria colsene il tempo a ribellar la città di Catanzaro, e patteggiar col castello che si desse a capo a trenta dì, se non fosse soccorso. Nè a ciò Federigo, impacciato in quegli assedi in Sicilia, ben potè riparare. Rimandò in fretta in Calabria il generoso Blasco e con esso Calcerando e Montecateno; ma la più parte dei feudatari non fu pronta a partirsi dalla Sicilia, per anco non queta; talchè il termine strignea, nè v’avea de’ nostri meglio che dugento cavalli, raccolti a Squillaci, mentre Loria con quattrocento minaccioso aspettavali. Era la notte anzi il trentesimo dì, e Blasco, fitto in questi pensieri, sforzavasi indarno a rifocillarsi con un po’ di sonno, quando un de’ suoi scorridori affannoso viene a dirgli, esser testè giunto al campo nimico Goffredo di Mili con trecento cavalli. Saltò Blasco dal letto; l’afferrò pel braccio, e «Taci, gli disse, o morrai; niuno de’ nostri nol sappia:» e il cresciuto pericolo dileguò nel suo grand’animo ogni dubbio al combattere. Innanzi dì, consultatone con gli altri due capitani, fa cibar le genti; muove da Squillaci su Catanzaro. Giunsero a vespro, in un vicin rispianato tra letti di torrenti, che[112] s’addomandava Sicopotamo, e trovaron Loria uscente a battaglia.
Settecento cavalli avea, con ventiquattro bandiere di signori, ordinati in tre linee: e comandava egli il primo squadrone, l’altro Reforziato cavalier provenzale, l’ultimo Goffredo di Mili. De’ siciliani uomini d’arme, partitisi ventiquattro anzi il combattimento, restaron centosettantasei, che Blasco, per la pochezza del numero, strinse in una sola schiera, toltone un drappelletto che pose all’antiguardo con Martino Oletta: e della battaglia ei comandò il centro, la destra Calcerando, Montecateno la manca; i lati assicurò con almugaveri e gente dell’armata, sparsi sulle ripe di due torrenti. In tal postura aspettavan lo scontro.
Dall’alto al basso caricò l’ammiraglio con la prima banda; nè pur fe’ tanto, che rompesse il nostro antiguardo: onde, perduta la foga, da paro a paro cominciò a combattere, e impedì Reforziato, che seguiva a corsa con l’altra schiera credendo compier la vittoria. Si distende Reforziato dunque su i fianchi dell’oste siciliana; donde i fanti a furia di dardi e sassi il ributtavano con molta strage. Ma Goffredo di Mili, movendo con la terza schiera, perplesso per l’inaspettata resistenza, postosi a canto a Ruggiero, per la strettezza del luogo, o non l’aiutò, o l’impacciò, mentr’ei si travagliava duramente con Blasco: ambo ostinati, l’uno, dice Speciale, per uso alla vittoria e fidanza nel numero; l’altro per vedere i suoi sì feroci e serrati, e non aver giammai voltato faccia in battaglia. Ruggiero, ferito al braccio, mortogli sotto il cavallo, sparve un istante in mezzo la mischia; la sua bandiera, assalita da un nodo di uomini fortissimi, balenò; l’alfier che la reggea, ferito in volto, non vedendo più il signor suo, die’ le spalle alla zuffa. Allor Blasco con terribil voce incalza, gridando: «Avanti, cavalieri, or che cede il mico:»[113] e i Siciliani, nel decisivo momento fatti maggiori che uomini, aprono gli squadroni nimici, li squarciano e sparpagliano. Di qui «Alagona» gridan essi, di lì «Aragona» le genti dell’ammiraglio, sperando invano l’usata vittoria in quel grido; e or nocque, perchè Goffredo Mili, nell’agitazione e rovinio del conflitto, credendo sentirsi gridar Alagona a’ fianchi, come circondato e perduto, fuggì, traendo con sè le altre schiere; e fece compiuta la disfatta. Caddervi i figliuoli di Reforziato e di Virgilio Scordia, Giordan d’Amantea e nobili molti. Reforziato stesso fu preso, ma fuggì, corrotte le guardie; assai più camparono per la notte sorvenuta. Il gran Ruggiero, ferito, a piede, obbliato da tutti i suoi nella rotta fuga, s’ascondea sotto una siepe, aspettando da un momento all’altro i nostri guerrieri e la morte; quando a caso il vide un suo famigliare che fuggiva, e smontato in un attimo, gli die’ il proprio cavallo. Piangendo di rabbia, risaliva in arcioni l’ammiraglio; anch’egli, a spron battuto dileguandosi innanzi i nostri, si rifuggiva a Badolato; e dava poi grande avere nel reame di Valenza a questo fedele, che con tanto pericol suo il tolse a indubitabil morte. Ma se il capo di Ruggiero non fu tra i premi di questa giornata, bastò ai nostri avergli dato la prima rotta ch’ei toccasse in sua vita: un pugno d’uomini, in mezzo al paese nimico, incontro a tal capitano, vinse tre tanti e più del suo numero. Si tornarono la dimane a Squillaci; e non che mantenere il castello, Calcerando ripigliò la terra di Catanzaro, ove gli avanzi della gente nimica non osaron far testa[211].
Non guari dopo Bernardo Sarriano, audace capitan di navilio finchè ebbe Siciliani, volto a parte nimica, assaltava Malta con un armatetta, tentava Marsala; e, deluso nell’una e nell’altra impresa, tornavasi a’ porti di Napoli;[114] non aspettato Federigo, che a’ primi avvisi armò in fretta in Palermo ed altrove una trentina di galee, con le quali pensava andar egli stesso. Senz’altra fazione d’importanza finì poi l’anno novantasette, e tutto il verno. Federigo, con Manfredi Chiaramonte e Vinciguerra Palizzi, macchinava contro lo ammiraglio, or di spegnerlo per una mano di uomini risoluti, allettati da gran premio; or di sfidarlo a duello per un campione, che fu il famoso difenditor di Girona, Ramondo Folch, visconte di Cardona; e dovealo appellar di tradigione secondo gli usi di Barcellona o il foro aragonese, e in duello ammazzarlo, o almeno, tirandolo in Ispagna, toglier tal mastino dal collo a Federigo[212]. Ma nulla approdaron queste pratiche contro Ruggiero. Un Montaner Perez de Sosa, mandato alsì da Federigo in Catalogna ad attraversare i preparamenti della guerra, non trovò riscontro ne’ popoli; e per poco scampò dalle mani di re Giacomo[213], infiammato nella causa, come diceanla, della santa Chiesa, dal danaro che il papa e Carlo gli porgeano[214]. Perchè Loria, trafitto dall’onta di Catanzaro, ma feroce in volto e superbo come per vittoria, era andato a re Carlo, a far grande scalpore della vergognosa fuga dei suoi, e che nulla s’otterrebbe senza il re d’Aragona: onde Bonifazio, visto che qui n’andava tutta la fortuna della guerra, die’ a Giacomo quanto ei volle; tollerò ch’ei tardasse la restituzione degli stati di Giacomo re di Maiorca, sollecitata efficacemente dal re di Francia; snocciolò dalla camera apostolica i danari raccolti da quelle province, che il pio Costantino, scrive Niccolò Speciale col fiero piglio del Dante, il pio Costatino ad altro uso largiva a Silvestro[115] poverello. Questa moneta armò contro la Sicilia Aragonesi, Catalani, Francesi, Provenzali, Guasconi, Italiani e altre genti; di che fornite a un di presso ottanta galee, fatta tregua col re di Castiglia, navigava re Giacomo a Ostia[215], entrando la state del novantotto.
E Federigo, fatto ammiraglio Corrado Doria, che avea nome di valente in mare, armava sessantaquattro galee; forse con grande aiuto dei Messinesi, ai quali in questo tempo raffermò la franchigia delle dogane di mare e di terra, e diede immunità dalle collette, imprestiti e tutte[116] altre esazioni, per premiarli del passato, e ingaggiarli a nuovi sforzi di fede e valore[216]. Gravate queste galee, oltre i soldati d’armata, di settecento cavalli, impedimento in mare, in terra pochi, salpò di Sicilia, proponendosi antivenire l’arrivo della armata d’Aragona a Napoli. Federigo sulla capitana, spiegando lo stendardo reale di Sicilia, seguito da lunga fila di galee, solcava il golfo di Napoli, a suon di trombe, in atto baldanzoso e minaccevole, senza ch’alcuno uscissegli contro; gittava l’ancora ad Ischia, che teneasi per lui; ove soprastato un bel tratto, fe’ inaspettato ritorno in Sicilia. Speciale il dà ad ammonimento del fratello, che volendo fare romore e non danno, mandava da Roma ad avvertirlo, non arrischiasse tutte le sue sorti lungi dalla Sicilia. Ma ne’ fatti dell’uno e dell’altro in questo tempo, si scorge tutto il contrario che moderazione e pietà di fratelli; onde più probabil sembra che per la flotta sua non provveduta, per avvisi della nimica sì forte, e sopra ogni altra, per non saper che si fare nè egli nè il Doria, buoni soldati ma infelici capitani d’armata, abbandonavano un disegno maggiore assai di loro, mal copiato da que’ maestri assalti di Loria dell’ottantaquattro e dell’ottantasette. Tornò dunque Federigo in Sicilia a munir castella e ordinar forze terrestri. Giacomo, di Roma andò in Napoli con la flotta; e dopo lunghi consigli, affrettandosi tanto che non aspettò stagione, fe’ vela sopra Sicilia a ventiquattro agosto del novantotto[217], con gran podere di navi e di genti[218]; seguendolo non guari dopo, Roberto[117] duca di Calabria, erede della corona di Napoli; e portando con loro, come usato stromento di guerra, un legato della corte di Roma, che fu il cardinale Landolfo Volta[219].
Messe in terra le genti vicino Patti, drizzata quivi la flotta, occupava Giacomo l’indifesa città il dì primo settembre: e principiò da questa banda l’impresa di Sicilia, per consiglio di Ruggiero, ch’ebbevi già molte castella, ed or, agognandone il racquisto, il procacciava con dir più agevole in quelle regioni per le sue molte clientele lo effetto delle armi. E in vero i collegati fondarono assai su le pratiche, aiutandole con la scena, niente spiacevole a Bonifazio, del rendersi la Sicilia non a casa d’Angiò, ma alla romana corte, di cui Giacomo si nominava capitan generale, ed esercitò con tal sembianza atti d’autorità, che avrebbero dovuto svegliare a gelosia la corte di Napoli, s’ella fosse stata in tali condizioni da potersi risentir delle usurpazioni de’ suoi alleati, dalle quali tornavate immediato[118] comodo[220], S’aggiunse a questo la riputazione de capitani; quando insieme col nome di Loria, suonava quel di Giacomo, principe non caro all’universale in Sicilia, ma intimo con parecchi baroni, riverito da molti per consuetudine a obbedirlo, e ridottato da’ più per arti di regno e valore in guerra. Indi lo sbarco si divulgò per tutta l’isola con terrore; e, sedotte da Ruggiero, s’arreser le castella di Milazzo, Novara, Monforte; San Piero sopra Patti e poche altre. Ma la più parte delle terre d’intorno, non curando lusinghe nè spaventi, tenne per la siciliana causa[221]. Il re d’Aragona, consumati poco men che due mesi senza maggiore acquisto, cercando alla flotta sua un porto vernereccio più capace, pensò impadronirsi di Siracusa. Andovvi allo scorcio d’ottobre, rinforzate prima le occupate castella; e trovò Siracusa sì gagliarda, da non mancare allo antico suo nome.
Attendatasi la formidabil oste di Giacomo sulla costiera ond’esce in penisola la moderna Siracusa, ch’era di già misero frammento dell’antica, si sparse depredando per la campagna; drizzò le macchine contro il castello dell’istmo; poi die’ furiosi assalti di terra e di mare; e sempre fu[119] niente alla città, forte e fedele, comandata dal pro Giovanni Chiaramonte. Sdegnò costui fin d’ascoltare i messaggi dello insidioso re d’Aragona. Penetrò una congiura, macchinata da chierici, che per promessa di dignità ecclesiastiche, accoppiando simonia a tradigione, profferiano a’ nemici la torre della porta Saccara; i quali furon puniti nel capo. Con estrema costanza i Siracusani patiron la fame: per quattro mesi e mezzo il re d’Aragona indarno li strinse con ogni argomento d’assedio. In questo tratto, di ferro e di morbi scemavasi l’oste; nè più s’allargava in questa orientale, che nella settentrional regione. Buscemi, Palazzolo, Sortino, Feria, Buccheri, gli s’arresero; e Buccheri pochi dì appresso tornò in fede. Mandatovi da re Giacomo il conte d’Urgel a ripigliarla, con un forte di cavalli e di fanti, i terrazzani, rustici e fieri, al dir di Speciale, diersi a combatterlo dall’alta lor postura, con una tempesta di selci, talchè mal concio si ritirò. Ma que’ ch’a furia di popolo avean vinto, la notte fur presi d’un vano timore che non tornassero i nimici con maggior forza; onde la terra sì egregiamente difesa contro gli armati, senz’alcuno assalto abbandonarono. Tal è senza capi la moltitudine. Tali passioni in quel tempo infiammavano i Siciliani, fin delle terra più rozze, ove non son ordini da rendere util valore una natura animosa e pugnace[222]!
Ondechè Federigo, consigliandosi di far guerra guerriata al nemico che non potea fronteggiare con giusto esercito, ragunò il più che potea genti a Catania, nè troppo discosto, nè troppo vicino al nimico, per vietargli, senza battaglia, di spargersi per l’isola, Nè perchè la città di Patti, tornata al suo nome, l’invitasse all’assedio della rocca, ov’eransi chiuse le soldatesche nimiche, lasciò Federigo l’importante sua postura. Manda a Patti uno stuol di Catalani sotto[120] Ugone degli Empuri, di Messinesi sotto Benincasa d’Eustazio, di Catenesi sotto Napoleone Caputo e altri Siciliani. Ei da Catania confortava i Siracusani a tener fermo, forse con aiuti, certo con larghe concessioni di franchigia nelle dogane, e abilità a legnare nei boschi regi: e redintegrò i confini antichi del territorio; die’ loro la proprietà d’alcuni poderi[223]. Non lungi dal re, Blasco Alagona stava con un pugno d’audacissimi, a volteggiar, dice lo Speciale, intorno i nimici alloggiamenti, come lupo che non osa assalire i mastini, ma rabida fame lo stiga al ratto. In questo tempo Giovanni Barresi, barone siciliano d’illustre prosapia, ribellatosi da Federigo, per animo non curante del pubblico, ed error di troppa scaltrezza a speculare il privato suo bene[224], die’ agli stranieri le castella di Naso e Capo d’Orlando[121] nel settentrione, la forte Pietraperzia nel cuore dell’isola. Sperando quivi sicuro asilo, i mercenari di Giacomo si avventurarono allora a cavalcar il paese più addentro che non soleano. Seppelo Blasco dai suoi rapportatori, e li appostò in Giarratana al ritorno di Pietraperzia. Una notte dunque di folgori e tempesta, mentr’essi, carichi di bottino, venian sicuri al campo, si trovano avviluppati nell’agguato di Blasco, tra sentieri mal noti; nè seppersi difendere, nè trovar via alla fuga. Berengario e Ramondo Cabrera, Alvaro, fratello del conte d’Urgel, con più altri andaron prigioni; pochi scamparono. E Blasco, tutto lieto della prima vittoria contro i Catalani, recò a Federigo in Catania le funate de’ gregari, legati a dieci a dieci, e sciolti, sotto buona scorta, gli uomini di paraggio[225].
Più segnalato avvantaggio s’ebbe per mare. Saputo l’assedio del castel di Patti, spiccavansi al soccorso dal campo sotto Siracusa trecento cavalli capitanati dall’ammiraglio, e venti galee cariche di vivanda con Giovanni Loria. Dei quali l’ammiraglio, con ardire e fortuna, cavalcando per lo mezzo della Sicilia nemica, giunse a Patti, e dileguò l’assedio; perchè i nostri, com’era intendimento di quella guerra, scansaron venire a giornata: e dato lo scambio al presidio del castello, stracco o dubbioso nella fede, velocissimo al campo tornò Ruggiero. Dopo lui giunse a Patti l’armatetta di Giovanni, e vittovagliò anco il castello, ma[122] non fu felice al ritorno, Perchè Federigo vedendo qual destro gli offriva la fortuna, di combattere contro una punta sola delle navi nemiche, sopraccorre di Catania a Messina; gittasi nelle braccia dei cittadini, scongiurandoli a montar sull’armata; nè molto penò a infiammarli, sì che avean allestito sedici galee, quando si seppe da’ riconoscitori l’armatetta catalana navigar ne’ mari di Mirto, e poi fur viste le prime galee, che abbandonate da’ venti si sforzavan remigando a valicare lo stretto. S’odono in Messina squillare le trombe per ogni contrada; corrono armati al mare giovani e vecchi; il fratello, scrive Speciale, chiama all’armi il fratello, il padre non respinge i figli che il seguono al rischio; in tutti è una brama, di perire o pigliar vendetta di cotesti Catalani, predon venderecci, venuti a portar guerra ingiusta a’ lor liberatori della vittoria di Roses. Disordinatamente vogan dunque i Messinesi all’affronto, con tal furore che il disordine stesso non nocque. Per breve zuffa, senza molto lor sangue, trionfarono de’ nemici, contrariati dal vento; ogni galea messinese ne cattivò una Catalana; le altro quattro si salvaron fuggendo; ma Giovanni Loria restò tra i prigioni. Al ritorno de’ vincitori, non furono spettacol nuovo a Messina, un re piangente di gratitudine che mescolavasi tra il popolo e combattenti; le donne che traeano agli altari, recando la offerte votate nell’ansietà del rimirar la battaglia. I prigioni più notabili furono chiusi in castello; i minori in altre carceri di Messina e di Palermo, ch’eran Catalani la più parte, e i nostri, com’è aspro il risentimento dopo dimestichezza e vicendevoli obblighi, non contenendosi che non aggravassero la prigionia col dileggio e chiamaronli garfagnini[226].[123] Dopo questo disastro poco giovò ai nimici la ribellione di Gangi; ove se vennero il traditor Barresi, Tommaso Procida, e Bertrando de’ Cannelli, catalano, a confortare la terra a difesa, non tardavano a presentarsi ostilmente con armi siciliane Matteo di Termini, maestro giustiziere, uom nuovo, ascendente a possanza nella corte di Federigo, e Arrigo Ventimiglia conte di Geraci s d’Ischia, d’antica nobiltà e nimistà a parte angioina[227]; i quali trovando ostinati i terrazzani e fortissimo il luogo, davano il guasto al contado[228]. Ma un altro più grave effetto ebbe il combattimento del Faro. Perchè arrivate al campo di Siracusa le navi fuggenti, ristretti a consiglio Giacomo, Roberto e il legato, co’ principali capitani, consideravano la resistenza durissima di Siracusa, da non vincersi di leggieri: le molte migliaia mancate all’oste[229]; la flotta menomata, ch’essi in[124] paese nemico non potrebbero ristorare, ma ben i Siciliani la loro, incoraggiati dall’ultima vittoria: e certo fu tra le principali ragioni, che la guerra andava in lungo, e gli stipendi della gente catalana correano scarsamente[230]. Perciò, messo il partito da un Pietro Cornel, assai riputato tra i condottieri di Giacomo[231], si deliberò la ritirata. Raccolsero sulle navi gli arnesi e le tende di maggior prezzo; poser fuoco agli alloggiamenti; e l’armata fe’ prora a settentrione. Lasciati da cinquecento cavalli e duemila fanti nelle occupate fortezze, il re d’Aragona, pria di partirsi di Sicilia, sostava a Milazzo, ridomandando a Federigo le sedici galee co’ prigioni; e promettea che mai più non tornerebbe a’ suoi danni. E forse, quant’era stato bene una volta non ascoltar Giacomo, tant’era in questo incontro assentirgli; e Vinciguerra Palizzi sostenealo caldamente nel consiglio del re, mostrando che a sì grande utilità potea ben sagrificarsi un po’ di vendetta. Corrado Lancia, per lo contrario, stigava Federigo ch’usasse la fortuna; che rispinto ogni accordo, di presente uscisse con l’armata a combattere i Catalani fuggenti: e il re, che non sapea reggersi fuorchè ad altrui consiglio, seguì per abitudine quel di Corrado. Data dunque tal risposta ai legati d’Aragona, Federigo, per novella ira di qualche parola di Ruggier Loria riportatagli in mal punto, affretta il supplizio di Giovan Loria e di Giacomo Rocca, condannati nel capo dalla gran corte, a ragione, per ch’eran rei di tradimento; ma costò poi molte lagrime alla Sicilia. Intanto infellonito contro il fratello, messa in punto tutta la flotta in pochi dì, montovvi Federigo, cercando battaglia. Gliela tolsero un vento fortunale che si levò, e la prudenza di re Giacomo,[125] il quale amò meglio affrontar la tempesta, che il fratello in quell’ira; non sappiam se mosso da carità del sangue, o da coscienza delle proprie sue forze. Perdute due navi tra le isole Eolie, tornossi di marzo del novantanove a Napoli; ove Bianca gli partorì un figliuolo, ei fortuneggiò tra vita e morte in breve malattia, e appena sorto dal letto, sopraccorse in Ispagna ad assicurar le sue frontiere minacciate. Federigo, battuto e mal concio dalla tempesta, si ricolse nel porto di Messina. Nè andò guari che Manfredi Chiaramonte ridusse Pietraperzia; il re stesso, con maggior oste e più duro assedio, Gangi, uscitini a patti i tre baroni nominati dianzi; ed ebbe alsì le castella occupate dai nimici presso Siracusa. Quelle della costiera di tramontana, già vicine ad arrendersi non ostanti i soccorsi di Napoli, instando all’assedio Federigo, furon liberate dal nuovo passaggio de’ Catalani[232].
Così allenando in primavera del novantanove, ambo le parti ripigliavan forze al nuovo conflitto. Papa Bonifazio, superbo di questo gran colpo di scatenare il fratello contro il fratello, sì che scrivealo fra le principali sue geste in accrescimento del nome cristiano, e vantavasi delle notti vegliate a macchinarlo, e della moneta gittatavi[233], raccolse allora sotto il patrocinio della Chiesa il reame di Aragona, che, assente il re, i vicini nol turbassero; die’ a Giacomo per la guerra siciliana le decime ecclesiastiche de’ suoi reami, e il vescovo eletto di Salerno, legato apostolico da maneggiar censure e perdoni[234]; ma questa fiata men prodigo fu di danari. Smorzava ciò lo zelo di Giacomo, ch’era cominciato a pentirsi, e tornò ciò non ostante a Napoli in fin di maggio[235], perchè l’anno innanzi, fidandosi ne’ sussidi di Bonifazio e di Cario, s’era vincolato a pagar egli i soldati, e indi i debiti stessi lo strinsero a continuar nel servigio de’ due potentati italiani, e raddoppiare gli sforzi alla vittoria. Par che in questo tempo una speranza inaspettata di libertà s’offrisse ad Arrigo, Federigo ed Enzo, figli di Manfredi, per la necessità in cui era Carlo II di far ogni piacere del re d’Aragona, o per altro disegno che non saprebbesi indovinare; e che il disegno o il desiderio dì Giacomo si dileguassero prestamente per la ragion di stato che volea sepolti vivi i veri eredi del trono di Sicilia. Dicemmo già ch’essi, con la sorella Beatrice, passaron dalle fasce alle tenebre e all’oblio della prigione. Ruggier Loria alla prima vittoria del golfo di Napoli ridomandò ben la Beatrice,[127] minor sorella della regina Costanza; non però i tre giovanetti ch’avrebbero conteso alla casa d’Aragona ogni dritto su la Sicilia, e, se non dalla corte, certamente dal volgo, si credeano spenti. Carlo II ordinava a un suo cavaliere il venticinque giugno del novantanove, che li traesse dal castello di Santa Maria del Monte; li vestisse, li provvedesse di cavalli, e liberi li mandasse alla corte di Napoli. Ma la storia nulla ci dice di loro; ed è evidente che i nipoti del gran Federigo, o furon vittima di qualche misfatto, o la loro liberazione fu contrabbandata, o tosto tornarono alla prigione, perchè non s’avviluppasse maggiormente con questi altri pretendenti la gran lite di Sicilia[236].
Il re d’Aragona, che per certo facilmente s’acquetò alla
sventura de’ fratelli della madre, seppe cavar moneta il più
che potea dallo esausto erario di Napoli[237]. S’acconciò col
suocero che questi gli pagherebbe il rimagnente delle spese
della passata impresa, sottilmente computato tra i commissari[128]
dei due re, per ventimila quattrocento ottantanove
once d’oro, obbligandovi Carlo tutti suoi domini, e specialmente
l’isola di Sicilia, se avvenisse di racquistarla;
e si pattuì ancora, che ripigliando la guerra, lo Spagnuolo
avrebbe pronta moneta, nè si farebbero mancare i sussidi
per lo innanzi[238]. Crebbero per cagion di sì gravi spese le
penurie della corte di Napoli; ch’indi in questo tempo veggiamo,
mal sovvenuta da’ popoli con mendicati doni più
tosto che tasse, vender gioielli, e più precipitosamente
ingaggiarsi co’ mercatanti toscani che le davano in prestanza,
le maneggiavano i cambi, e, come co’ falliti si fa,
toglieansi in pagamento le entrate più spedite[239]. Portan la
stessa sembianza gli stentatissimi pagamenti alle soldatesche[129]
[130]
di Giacomo[240]; la sollecitudine della romana corte a
farsi promettere da quella di Napoli il valsente di tanti
poderi, per la massa enorme de’ debiti che si erano ammontati,
di censo alla Chiesa, d’imprestiti dei suoi mercatanti, di sovvenzioni per la guerra, di sovvenzioni per la
dote della figliuola, con che comperaron Giacomo re d’Aragona[241].
Per questi travagli ancora, re Carlo vedea nel reame
di Napoli prorompere assalti e guerre private, come
avviene ove mal reggasi il freno degli ordini pubblici[242];
avea a temer sudditi volti a praticare con quegli stessi minacciati
ribelli di Sicilia[243]; era necessitato a porre magistrati
con istraordinaria autorità nelle città più grosse, ove
i consueti modi del reggimento rendeansi inefficaci[244].
Donde furono debolissimi in tal tempo i nerbi di guerra
d’un reame, che dapprima avea armato contro la Sicilia
tanti eserciti, tante flotte; nè per numero d’uomini, nè
per mole di preparamenti fallò che non la domasse.
Ed or fu costretto Carlo ad accattare l’armata dallo Spagnuolo, nè vi sopperì del suo che poche galee, e remiganti, vittuaglie, attrezzi, ch’erano il frutto di quegli ultimi disperati imprestiti di moneta[245]. Poco men tristo fu per vero l’esercito di milizie feudali, compagnie di venturieri, e in qualche caso fanti armati dalle città[246]; e pur non ebbero tanta forza che sbarbassero di terraferma le nostre soldatesche, varie, ribalde, senza disciplina, senza paga. Non che nelle Calabrie sì vicine a’ nostri aiuti, non[132] valser gli sforzi di re Carlo contro picciole castella di Principato stesso, contro le isolette a veggente di Napoli; e fa d’uopo che si volgesse a procacciar tradimenti, aiutandol Giacomo con la sua riputazione appo gli antichi suoi condottieri siciliani e spagnuoli, ch’or teneano per Federigo. Il pro Ruggier Sanseverino conte di Marsico, e quel Ruggier Sangineto che delle romane virtù imitava bene le snaturate ed atroci, or mostraronsi peritissimi a servir Carlo nelle novelle sue vie. Si pensò mandar la flotta catalana sopra Ischia, Procida, Capri, che teneano il governo angioino in molto sospetto, e sbarcarvi saccardi di Napoli, Capua, Aversa, che dessero il guasto alle campagne: e mal ritraesi se la fazione fu dismessa o fallì; certo che le tre isole resistettero fino alla sconfitta del Capo d’Orlando[247]. A castell’Abate, sulla meridional punta del golfo di Salerno, che i nostri per tredici anni avean tenuto con mirabile[133] costanza, andò il Sanseverino, men a combattere che a trattar tradimento con alcuni almugaveri del presidio, spagnuoli e siciliani, che passaron di lì a poco a’ soldi dell’Angioino. Sforzato da questi sleali, o da’ terrazzani, Apparente di Villanova capitan del castello, all’entrar di marzo del novantanove pattuiva che darebbe la piazza, salve robe e persone delle sue genti, con immunità larghissime e sicurtà degli abitatori della terra, s’a capo a trenta dì non fosse soccorso da Federigo; il quale non potendo mandar alcuno aiuto, s’arrese alfine il castell’Abate, con vana mostra di venirvi i principi Roberto e Filippo e grande oste del regno[248]. Sembra che per simil guerra tornassero all’ubbidienza del re di Napoli, Rocca Imperiale e Ordeolo, terre in Basilicata e val di Crati, alla cui espugnazione si fece gran ressa. Tenne fermo il castel di Squillaci[249]. Vendè[134] Otranto il traditore Berengario degl’Intensi, catalano, passato co’ suoi venturieri a parte nemica, e rimasovi in dubbia fede, sì che l’imprigionarono; ma poi gli ottenne mercede Giacomo, amico di sì fatti ribaldi[250]. Altri ne fallirono[135] a Federigo in questo tempo medesimo; i quali, al par che l’Intensa, credean colorire il prezzo del tradimento, con farsi pagar dai nemici i loro stipendi, non soddisfatti dal re di Sicilia, o così essi diceano, non trattenendosi forse dalla menzogna poichè s’eran gittati al più vil dei misfatti. Così Giacomo trattò col castellano di San Giorgio in Calabria, e il volse a parte angioina[251]. Guidone[136] Spitafora, che reggea per Federigo la terra di Taverna in Calabria, sedotto da Sangineto, la rese a tradigione, ed ebbesela in feudo. Per simil premio, il Sangineto ordiva che rendesse al nome d’Angiò Martorano anco in Calabria. Precipitavano alla corruzione i privati, tra tanti rivolgimenti e pericoli de’ governi. Precipitava alla corruzione, per troppa voglia e debolezza, lo stesso Carlo II, cui dritto animo e pietà cristiana non ritennero, non che dal trattare i tradimenti delle dette due terre, ma dal por giù ogni pudore, scrivendo in questi casi ne’ suoi diplomi latini: «Onore è ciò che toglie molestia;» che suona bisticcio miserabile in quell’idioma, e bestemmia nel linguaggio dei giusti[252].
Federigo al contrario, sommo magistrato d’un popolo ritempratosi nella rivoluzione, convocando il parlamento a Messina, cospicuo nelle regie vestimenta, dal soglio esordiva con la parola del profeta, «Morire in guerra, pria che mirare i mali del popol tuo.» Vivamente ei dipinse l’ingratitudine di Giacomo, or vegnente con fresche masnade e con due principi del sangue d’Angiò, contro il fratello, contro quest’isola che il crebbe alla gloria, ed egli s’apprestava per gratitudine a guastare e depredare i campi, a rovinar le città, a versare per vil prezzo il sicilian sangue. «Or noi, dicea Federigo, salviam le ricchezze del nostro suolo, antivenendo l’assalto, mentre son intere le forze del reame; combattiamo in mare questi vecchi nemici, le cui cento bandiere veggonsi appese ne’ vostri tempi, questi nuovi avversari, assai più ingiustamente armati contro noi, onde già li sgarammo nella prima prova, e peggio or li confonderà Iddio. Per noi la ragion delle genti; noi per la patria e per le case nostre combatteremo!»[137] Troncò questo parlare la siciliana impazienza, tuonando al solito a gran voce «Guerra»: e per tutta la nazione si fe’ un gran dire contro il protervo Giacomo, un chieder arme, uno stigarsi l’un l’altro alle battaglie ed al sangue. Indi appellati i feudatari e i borghesi, di gran volontà, frettolosi accorreano a Messina. S’apprestò la flotta, di quaranta galee: e saputo già in mare il nimico, poichè tutte le genti fur montate in nave, re Federigo ascese la capitana, riccamente ornata e dorata, e si spiegaron le vele. Il popol di Messina, affollato intorno al porto, le accompagnò con evviva, lagrime, voti[253].
Navigava que’ mari nel medesimo giorno la flotta catalana, rifornita al ritorno di Giacomo, rinforzata di poche galee del reame di Napoli; che salpò il ventiquattro giugno[254], e portava il re d’Aragona, con Roberto duca di Calabria, Filippo principe di Taranto e Ruggier Loria: acceso costui a vendicare il supplizio di Giovanni; i Catalani a lavar l’onta di quella sconfitta; Giacomo a finir presto le brighe di questa guerra. Erano alle isole Eolie, drizzandosi alla più vicina costiera di Sicilia, quando un legno siciliano sottile, uscito a riconoscere, tornò a vele e a remi a darne avviso alla nostra flotta, che, superato lo stretto, prendea già Milazzo. Indi i nostri a dare forzosamente ne’ remi, anelando prevenir lo sbarco; ma il tardo avviso, o i venti, o maggior arte dell’ammiraglio nemico, fecero che già guadagnati i lidi di San Marco, alla foce della fiumara Zappulla, gittate avea le ancore, rivolte le prue al di fuori, in ordine di combattere, quando la siciliana flotta, al girare il capo d’Orlando, l’avvistò. Scoppiava dalle nostre ciurme un impeto d’allegrezza all’aspetto del nemico; fean suonare infino a’ cieli il nautico grido di[138] guerra aur, aur, tolto un tempo da que’ Catalani medesimi; e a testa alta, infelloniti e bramosi, senz’ordine arrancavan sovr’essi. Potè Federigo a stento por freno a questa temerità, tanto più cieca, quanto in brev’ora si aspettavan dai mari di Cefalù otto galee di val di Mazzara con Matteo di Termini; e ’l giorno se n’andava; le navi nimiche si vedean legate sì salde alla spiaggia e tra loro, che non la flotta veneziana e la genovese congiunte alla nostra, diceano i pratichi, l’avrebbero sforzato giammai. A’ risoluti comandi del re, le ciurme ubbidirono, non s’acquetarono; e proverbiavanlo: «Che fa? che dorme? scordò chi siam noi? Invilì Federigo; o riguarda il fratello, e vuoi torcerlo di mano!» Così gonfi da tanti anni di fortuna in guerra, dandola alle lor braccia sole, non curanti s’avessero ammiraglio, o il sol nome, nè dove fosse il gran Loria, tardava loro mortalmente quella notte di state. Placidissima sorrise nel firmamento, mentre negli animi dei mortali bollivan tante ire, tanti pazzi immaginari di combattimenti, glorie, acquisti, vendette, paure. Il cauto Giacomo fe’ sbarcar cavalli e bagaglie e quanti pareano men validi al combattere; chiamò i presidi delle castella; e la mattina a dì, sulla spiaggia, parlando d’alto tra’ suoi baroni, esortava le genti. Dicea dell’ubbidienza alla santa sede; de’ lor maggiori combattenti sempre per la fede; s’ei balenò alquanto, s’era poi ravveduto; ammonito non potersi salvar l’anima del genitore, che sarebbe cruciata da atroci flagelli, finchè non si rendesse la Sicilia: onde tra la pietà del padre e del fratello, la prima avea vinto. «Voltici al buon sentiero, aggiugnea, quante offese non patimmo da questa indomabil genìa di Sicilia, che da noi apprese a combattere! Or eccola; minor di numero, minor di legni, e pur invasa di cotanta baldanza contro gli uomini e Dio! Gastigatela, Catalani!»
Indi con tutta l’oste montò sulle cinquantasei galee ordinate[139] in una linea di battaglia, con le ali distese, da soverchiare la minor linea nostra; e nel mezzo stette la capitana, col re e i figli dell’Angioino. A dirimpetto le s’era locato Federigo, standogli a dritta diciannove, a manca venti galee; e comandava alla poppa della sua nave un Bernardo Ramondo, conte di Garsiliato; alla prora Ugone degli Empuri, fatto conte di Squillaci; nel mezzo guardava lo stendardo reale Garzia di Sancio, con un gruppo di guerrieri fortissimi. Erano d’ambo le parti, noti, amici, congiunti; capitani due fratelli; come in guerra civile. Perciò più rabbiosamente, di qua di là mossero all’affronto, il sabato quattro luglio milledugentonovantanove, poco appresso il sorger del sole. Alle spalle de’ nemici la riva di San Marco, a dritta il capo d’Orlando; venian di fuori i nostri. S’udì squillo di trombe, fracasso di grida, tonfo di remi, e in un attimo sparve il mare di mezzo.
Con le armi da gitto trassero gran pezza, e non a voto. Ma Gombaldo degl’Intensi, giovin feroce, vago di gloria, e fors’anco di vendicare il suo nome, deturpato dal fratello traditor della Sicilia, sdegnando quel combattere da lungi, tagliata la gomona che il legava alle altre galee, la nimica fila investe. Due navi gli furo addosso dalle bande, una da prua; dan di cozzo, vengono all’abbordo: e Gombaldo, con bell’ammenda della temerità, contro tal pressa difendeasi, ancorchè ferito, e fieramente ributtava i nemici. Strettasi pertanto la mischia per tutta la fronte, incominciò più micidial furia di sassi e dardi vibrati da presso: le navi ad urtarsi di prua, di costa, a dar co’ remi su i remi dei nemici; ostinatamente infino alla sesta ora del dì, con molto sangue, senza avvantaggio d’alcuno, si combattè. Federigo cercava Giacomo; estremo orror si vedea in questa battaglia, se non si trovavan di mezzo le altre navi, ingaggiate e accanite tra loro, che tolsero di riscontrarsi a’ fratelli. Sotto la sferza del sole, nel caldo del luglio, cocente[140] quel giorno oltre l’usato, s’accese ne’ combattenti da fatica, da paura, da rabbia, dal perduto sangue una rabida sete. Nè vino, scrive Speciale, nè acqua la spegnea. Gomabaldo, trafelante, bruciato, date tutte le forze vitali in tante ore di bollente battaglia, cercò un attimo di riposo, s’adagiò sullo scudo, e spirò. L’ardire di costui preparava, la sua morte cominciava la rotta. Guadagnano i nemici alla fine la nave di Gombaldo: avviluppate tra loro con le gomone, co’ remi, mal s’aiutavano le altre nostre galee; quando si sentiron alle spalle ferir da sei navi ordinate a ciò da Ruggiero. Allora, perduta la speranza del vincere, allenarono nella difesa; soprastettero un istante; sei galee diersi alla fuga.
Federigo, dicon le istorie, come vide piegare i suoi, risoluto a morire, chiedea di Blasco, che fianco a fianco spargessero il lor ultimo sangue; alla ciurma gridava: «Non restargli altro che la vita a dare per lo popol suo;» e per vero gittavasi disperatamente tra le navi nemiche, se non che d’un subito, vinto anch’egli da passione, caldo, fatica, stramazzò tramortito sulla tolda. Estrema ansietà allor nacque ne’ suoi più fedeli: che farebbesi della persona del re, mentre in ogni attimo era vita o morte? Il conte di Garsiliato pensava di rendere a’ nemici la spada di Federigo; Ugon degli Empuri gli die’ sulla voce; comandò di vogare a Messina; e per disperata forza di remi, la capitana involossi ai nemici, e con essa dodici altre galee. Blasco, che combattea non lasciando mai degli occhi il diletto suo principe, come vide fuggir la nave, posposto a lui ogni cosa, comanda a’ remiganti che il seguano, al suo alfiere che ravvolga lo stendardo; e l’alfiere, rispondendogli che non vedrebbe mai Blasco Alagona lasciar la battaglia, die’ del capo rabbiosamente sull’albero della galea, e cadde semivivo; la dimane spirò. Ferrando Perez il suo nome. Seguirono altri strani casi nella sconfitta. Vinciguerra Palizzi,[141] testè creato gran cancelliere del regno, in cambio di Corrado Lancia che fu sì avventuroso da morire innanzi questo misero giorno[255], Vinciguerra, per antico rancore cercato a morte dall’ammiraglio, sopraffatto da quattro galee, dopo bella difesa, saltò sopra una barchetta vicina a caso, e rifuggissi ad altra nave. Così ancora Alafranco di San Basilio e altri nobili, gittatisi a nuoto. I più, soverchiati dal numero, pugnarono con cieco furore, finchè saliti sulle navi i nemici, incominciò un macello. Perchè l’ammiraglio con sinistra voce urlava: «Vendicate Gian Loria!» e nobili e plebei immolati cadeano, con mazze, coltelli, mannaie, o scagliati in mare: tanto che sostarono i soldati per pietà; e l’ammiraglio pure a comandar sangue, a percorrere le prese navi, più atroce contro i Messinesi, dei quali fu grandissimo lo scempio. Federigo e Perrone Rosso, Ansalone e Ramondo Ansalone, Jacopo Scordia, Jacopo Capece e altri nobili di Messina perironvi; poi per istanchezza si cominciò a far prigioni, a dar di mano al bottino. Pier Salvacossa, fuggitosi non a Messina col re, ma ad Ischia, vilmente cercò la grazia de’ vincitori con render l’isola, ch’avea tre anni prima difeso con singolare virtù[256]. Diciotto galee andaron prese; da seimila de’ nostri morti nella battaglia, o dalla rabbia de’ vincitori. Questa fu la giornata del capo d’Orlando; perduta per incapacità di cui comandava, e minor numero e temerità de’ combattenti: ed allora la fortuna[142] per la prima volta mostrò, lamenta Speciale trasportato da amor di patria, potersi vincere in naval battaglia i Siciliani, che per diciassette anni, in guerre diverse, in orribili scontri, e su lontanissimi liti stranieri, avean riportato senza interruzione incredibili vittorie[257]. Gli storici guelfi, credendo sparger vergogna su i Siciliani, perdenti sì ma con onore poco men che di vittoria, portan rovinate le sorti della Sicilia, tolta ogni difesa, certissimo il soggiogamento, se non che Giacomo nol volle; e a lui appongon anco che chiudesse gli occhi alla fuga di Federigo: non probabili cose, anzi non vere, come il seguito degli avvenimenti dimostrerà.
Giacomo, lasciato Roberto in Sicilia, tornasi a Napoli, indi in Catalogna. Ambo le parti s’apparecchiano a continuare la guerra in Sicilia. Dansi a Roberto varie città; è presa Chiaramonte; altre resistono. Tradimento di alcuni cittadini, che chiamano in Catania i nemici. Effetti di questo nell’isola. Nuovi passi di papa Bonifazio. Sbarco del principe di Taranto. Battaglia della Falconarìa, ove egli è sconfitto e preso. Inganno e combattimento di Cagliano. Luglio 1299, febbraio 1300.
Per molto sangue de’ suoi e vergogna e rimorso, seppe amara a Giacomo questa vittoria. Al far la rassegna delle genti catalane, scorgendo tanto numero d’uccisi, non meno gregari che condottieri e nobili, sclamava: non aver vinto, no, l’infelice giornata. Ma recatigli a funate i nostri prigioni, chinò vergognoso la fronte, nè seppe fare risposta a un vegliardo, che spiccatosi dalla torma, scrive Speciale, squadernò in volto al re quante più pungenti rampogne avean saputo ritrovargli le siciliane lingue fin dal suo primo abbandono; e «A te non chieggiamo, sclamava, il sangue che versammo per mantenerti sul trono, che rifar tu nol puoi, nè il vorresti; ma renda la nazion catalana, sì altera di libertà ed onore, renda i siciliani navigli suoi liberatori, che la tempesta affondò nel mar del Lione!» Le quai parole, o fosser vere, o immaginate dallo storico a ritrar ciò che fremea l’opinion pubblica, peggio or ferivano gli animi de’ Catalani, per cagion del poco utile ch’e’ traean dalla colpa. E in vero dal guerreggiare in Sicilia, Giacomo avea tutto il carico, gli acquisti casa d’Angiò: e anco gli stipendi correan male, per penuria di Carlo, slealtà di Bonifazio; il quale avea ben sovvenuto danari per l’armamento, ma quando gli parve lanciato Giacomo pell’arena, ei chiuse[144] la borsa[258]. Donde il re d’Aragona, che in accorgimenti non era secondo a niuno, si cavò lesto di briga. Ripassa in Calabria a tor le milizie del reame di Napoli, raccolte a Nicotra[259]; le traghetta in Sicilia; e adunati i primi del l’oste, con Roberto e Filippo, apertamente lor dice: aver compiuto le promesse al sommo pontefice, abbattuto le forze della Sicilia; ora veder sì gagliardo l’esercito angioino, che Roberto con l’ammiraglio agevolmente fornirebber l’impresa; quanto a sè, necessità lo stringea di tornarsi in Catalogna. Il che forse non spiacque a Roberto, bramoso di gloria. Il re d’Aragona dunque, da pratico mercatante di guerra, fa il cambio de prigioni siciliani coi suoi dell’altra stagione; que’ che gli soverchiano, lascia a Roberto; e sì le castella occupate, e molti suoi guerrieri di nome; ed ei, con Filippo principe di Taranto, fe’ vela per Salerno[260]. Invano re Carlo volle ingaggiarlo a restare, decretandogli ricca pensione sulla tratta de’ grani di Sicilia,[145] a misura che l’isola si racquistasse[261]; invano accordò privilegi commerciali ai mercatanti catalani con lusinghevoli parole[262]; inflessibil trovò sempre il re d’Aragona, che il vedea affogare tra’ debiti, e tardavagli svilupparsi da lui. Tolta di Salerno la sposa e l’afflitta madre, andò Giacomo a Napoli; ove freddamente accolto dal re, fece breve soggiorno, e ripartì per Ispagna, scontento di tutti, scontento di sè, lacerato da’ novelli amici che abbandonava, nè maledetto manco da Federigo e da’ Siciliani. In vero fu manifesto che il re d’Aragona, incalzando, avrebbe potuto desolare assai peggio il paese[263]: ma pensavasi ai torti suoi passati, più ch’a nuovi danni che oggi risparmiava; nè la sua partita si conobbe da moderazione o carità. E come supporne nel vincitore che lasciò sparger dopo il caldo della battaglia tanto generoso sicilian sangue al capo d’Orlando?
Intanto a Federigo l’avversità rendeva e prudenza e splendore. Come prima rinvenne a’ sensi, vedendosi rapito dalla battaglia, disperatamente chiedea la battaglia e la morte: gridava che mai non tornerebbe vinto in Sicilia; ma cedè tosto a più forti consigli: lottar ancora e regnare. Giunse a Messina, ingombra già di spaventoso lutto, assordata a gemiti e ululati, al nunzio, certo della sconfitta, confuso dei danni: che fosse caduto in battaglia il re; non campato un sol uomo; nessun riparo allo sterminio della patria. Donde al veder Federigo, pur fuggente sulla insanguinata nave, con le reliquie della flotta, si voltò il popolo in gioia, scordando i lutti privati nella speranza di salvar la cosa pubblica. Affollansi intorno a lui ansiosamente i cittadini;[146] dicono a gara che nulla han perduto, quand’egli è salvo; prenda tutto il lor sangue, tutto l’avere per difender la Sicilia. E Federigo rispondea con magnanime parole: reggersi ogni cosa quaggiù ai cenni di Dio; la umana vita avvicendarsi di prosperità e sventure; qual meraviglia se in diciassett’anni di vittorie, toccavasi una sconfitta? nè perduta si tiene la guerra, là dove avanzan uomini, arme, danari; con un po’ di costanza, si rivolterebbe la fortuna; chè niuno mai domò la Sicilia unanime e risoluta. Incontanente scrisse a Palermo, alle altre città, con uguale costanza; appose la sconfitta alle nostre navi, avviluppatesi tra loro; la perdita sminuì, come si suole: esortavale a tener fermo a’ primi affronti de’ nemici; ed egli, saputo ove si drizzassero, là correrebbe con nuove forze. Ma perchè dopo tal crollo, il tempo e la vittoria soli eran rimedio, disegnò Federigo difendersi e temporeggiare; lasciar che i nimici cavalcassero il paese a lor voglia; ma guardare strettamente le terre murate; ei stesso con iscelta gente porsi in Castrogiovanni, l’antica Enna, foltissima città in monte, che sta a cavaliere nel centro dell’isola, comoda a sopraccorrere in ogni luogo. Dondechè, ordinati Niccolò e Damiano Palizzi, fratelli di Vinciguerra, a comandare la città e ’l castel di Messina, e posti fidati capitani nelle altre piazze di maggior momento, disponeasi il re a pigliare il cammino della costiera orientale, sopravvederla, e ridursi a Castrogiovanni[264].
Gli angioini all’incontro, apprestavansi a usar la vittoria di Giacomo. Riebbero entro tre settimane Capri, Ischia, Procida, con romoreggiare appresti di guerra[265], e più[147] per la detta pratica di Pier Salvacossa da Ischia; il quale per cagion della provata virtù in arme, e del novello tradimento, fu fatto protontino d’Ischio, o, noi diremmo, vice ammiraglio, secondo al solo Raggier Loria nel comando dell’armata; ed ebbe lodi del re, e feudi in Sicilia[266], ma[148] non andò guari che meglio nel pagava la spada d’un sicilian soldato. Ma quanto alla Sicilia, che allora non si risguardava com’Ischia, compresero i governanti che, oltre la rapacità e crudeltà dell’amministrazione, quei fatti di Carlo I pe’ quali distruggeansi gli antichi privilegi, erano stati grande incentivo al vespro e alla ostinata nimistade a lor nome. E però tornando al ripiego, che pur tentò quel superbo nell’impresa dell’ottantaquattro, re Carlo II a dì ventiquattro luglio del novantanove, lodandosi molto del proprio pensamento, che insieme dividesse e non dividesse la corona, creava Roberto vicario generale perpetuo nell’isola, con maneggio larghissimo delle faccende civili, e potestà sopra il sangue, sì che fosse nell’isola, dice il diploma, perfetta immagine della regia persona[267]. Insieme con tai pergamene, sforzossi a mandare in Sicilia a tutta possa genti, vittuaglie, moneta per gli stipendi[268]; accortosi[149] della dura fatica che restava, e che per lungo tempo non trarebbe nulla del paese.
E per vero lentissimo progredì dapprima Roberto. Arrendeansi, a lui no ma a Ruggiero, gli antichi suoi feudi, Castiglione, Roccella e Placa; Francavilla seguivali se non era per timor della rocca, tenuta da Corrado Doria. Ma innoltrandosi dalla settentrional costiera per riuscire sulla[150] orientale, Randazzo, principal città in val Demone dopo Messina, die’ prima a vedere, scrive Speciale, che per la rotta di capo d’Orlando, non era vinta, no, la Sicilia. Perchè assaliti da Roberto, dato orribil guasto al contado, i cittadini tenner saldo in molti scontri, soprattutto in uno che durissimo si appiccò alla fonte di Roccaro; dove caduto alcun de’ più feroci Francesi, il duca si ritrasse; e a capo a pochi dì, per consiglio di Ruggier Loria, lasciò anco l’assedio, tardandogli di trovar vittuaglie. Affrettatosi dunque vergo il fertil paese dell’Etna, si rinfrescò alquanto occupando senza contesa Adernò, terra espugnabile; e tosto tramutò il campo sotto la munita fortezza di Paternò. Teneala il vecchio conte Manfredi Maletta, gran camerario del regno, di nobil sangue, carissimo agli Svevi e a’ principi aragonesi, ma uom di toga, uso a viver dilicato; onde tra tedio e paura dell’assedio, al secondo giorno s’arrese. Ciò fu salute dell’oste di Roberto, che per diffalta di vivanda, già era stretta in pochi dì a partirsi o cader nelle mani di Federigo. E più che questo, nocque l’esempio: perocchè gli uomini soglion l’altrui viltà maledire, e maledicendo seguirla, come pretesto a cessar da una pericolosa costanza. Maletta poi trasse la vita pochi più anni in terra di nemici, sovvenuto o insultato da essi con meschini favori; e infame e mendico morì: ma non ha il pondo nè premi nè pene da pagar ciò che sovente fa a una intera nazione un sol uomo[269]!
Per lettere di questo vile, Buccheri, sua terra fortissima, venne in man de’ nemici. L’ammiraglio, portata[151] una punta dell’esercito sopra Vizzini, con sè recando Giovanni Callaro, Tommaso Lalia e Giovan Landolina, presi al capo d’Orlando, l’ebbe per tradimento del Callaro; il quale mostratosi a’ cittadini, che virilmente avean preso a combattere, fu accolto con gioia, com’uomo d’assai riputazione, ed empiamente l’usò a far aprire le porte all’ammiraglio. Tornò questi allora a Palagonia; ove accozzatosi con Roberto, assalgon Chiaramonte, negano i patti che il popol chiedea, dopo le prime scaramucce, sentendosi non bastare alla difesa; e irrompono ostilmente nella città. La prima che in questa guerra del vespro, i nimici occupassero di forza; onde tutta sfogaronvi la ferità de’ tempi: passati gli uomini a fil di spada; sfracellati a’ sassi i bambini; sparato il corpo alle incinte; dopo il sangue e gli oltraggi,[152] adunata una misera torma di donne, solo avanzo del popol di Chiaramonte, fu cacciata e sparsa pe’ luoghi vicini. In questa vendetta le genti angioine fur sole; nella rapina fur prime: spigolarono dietro a loro i saccardi di Vizzini, seguenti con vergogna le armi straniere. Di qui voltasi l’oste a Catania, s’attendò nelle vigne dell’Arena; e dopo tre dì si ritrasse inaspettatamente, fidando in una pratica, più che nella forza, contro città sì grossa, comandata da Blasco Alagona. Per dar tempo al tradimento, assaltava Aidone; respinta dapprima per la virtù di Giovenco degli Uberti, capitan della città, intromessa il dì seguente per accordo. Ma posto il campo a Piazza, trovò riscontro assai duro. Perchè Guglielmo Calcerando e Palmiero Abate, con un nodo di sessanta cavalli, trapassarono folgorando per mezzo gli assedianti; e serratisi nella città, rafforzaronla col nome, con la virtù, con la riputazione di quel fresco prodigio. Indi il duca dal pian di San Giorgio, l’ammiraglio dalla fonte di Vico, invano entrambi strinser la terra, mandarono ad offrir patti, mossero assalti. I cittadin di Piazza rispondeano alle parole: avere fermato, già gran tempo, i lor cuori; morrebbero, non arrenderebbersi mai. Sostennero il detto con una virile difesa. Onde Roberto, perdutavi assai gente, si levò dall’assedio; sfogò con guastar le campagne; e avviossi a Paternò[270].
In questo tempo Federigo, sapendo minacciata Catania, v’era sopraccorso da Messina, nè avea trovato il nemico; donde tutto lieto, convocati i cittadini a parlamento, fece loro assai belle parole; e per tutti risposegli Virgilio Scordia, tenuto uom di virtù romana[271], per seguito e riputazione primo nella città. «Chi avrebbe mutato, arringava focoso costui, la libertà sotto tal principe con la tirannide[153] straniera? Di questa non s’era dileguata, no, la memoria; vedeansi ancor tinti di sangue francese i sassi e le mura, per ammonire ogni Siciliano a guardarsi dalla vendetta; nè era chi non fosse pronto a dar la vita per Federigo, cresciuto tra le lor braccia, fatto re e stato lor padre. Se un insensato qui vive con animo a te maligno, s’apra la terra sotto a’ suoi passi, e l’inceneriscan le folgori!» Così parlava il traditore, indettatosi poc’anzi a dar Catania a’ nemici. E Federigo, preso da quei fedeli sembianti, ripensava tra sè come rendergli merito; fatto or sì cieco al fidarsi, quanto fu lieve altre volte a sospicare: talchè or tenne raccoglitor di calunnie Blasco Alagona, che gli svelava gravi indizi delle pratiche di Virgilio. Seguì dunque a chiamar padre costui della patria; a Blasco rispose, amerebbe anzi perder Catania che macchiare con un solo sospetto la fama di tal grande: al che Blasco, accorto o sdegnato, risegnava il comando della città; e il re commettealo al conte Ugone degli Empuri, buon guerriero e non altro; facendo maggior assegnamento sull’aura popolare di Virgilio Scordia. Così andò via sicuro a Lentini, Siracusa, e altre grosse terre del val di Noto, e infine a Castrogiovanni[272]; ove fe’ lunga dimora, e diede o raffermò privilegi alla città di Caltagirone, che mostrano la sollecitudine del re a far parte per sè co’ favori speciali, come usavan contro lui studiosamente i nemici[273].
Era in Catania un Napoleone Caputo, cittadino di minor seguito che Virgilio, di pari ambizione; gareggianti amendue nel favor del popolo, nella munificenza del re; e perciò da[154] gran tempo nimici. Ed or nello scellerato proposito s’affratellarono; perchè Virgilio, non potendo far senza i più ribaldi, inchinossi a richieder Napoleone; questi, com’uom da meno, lietamente gli corse nelle braccia; e l’interesse fe’ perdonar dall’una e dall’altra parte le offese. Congiurati dunque tra lor due, o con pochissimi più, taccion ogni cosa a’ loro partigiani medesimi; finchè nacque l’occasione che Federigo, proponendosi uscire alla campagna contro il nimico, scarso di vittuaglie e ributtato da’ più importanti luoghi; chiamava i popoli alle armi; chiedea da Catania settecento uomini. Scrissene il re ad Ugone; questi consultò con Virgilio come ottener tal sussidio dalla città; e Virgilio il promettea, sol che si chiamasse il popolo a parlamento nel duomo il dì appresso; egli farebbe il rimanente. E insieme con Napoleone, cominciò e compiè la macchina della sommossa, in quanto avanzava di quel giorno’ e nella notte appresso; per toglier tempo a pentirsi o scoprire, per usar l’agitamento degli animi che vogliono il ben pubblico senza lor disagio, e per nascondere sotto l’util della città il tradimento alla nazione. Talchè la trama, stata segretissima tra’ pochi, in un attimo si distese ai molti senza pericolo: congiunti, amici, clienti, sgherri furo indettati e assegnato luogo ed uficio ad ognuno.
Nel medesimo tempio di Sant’Agata, che cinque anni innanzi suonò di liete voci, gridando i rappresentanti della nazione re di Sicilia Federigo, assembravasi quel giorno il popolo di Catania; entravano alla sfilata Napoleone e i cospiratori armati: Virgilio in abito e sembianti di pace, ito alle case d’Ugone, accompagnollo al tempio. Fatto silenzio, esponeva il conte i voleri di Federigo. E non avea finito il suo dire che un Florio, nom dell’infima plebe, sguainata la spada, grida pace, e gli dà un fendente in viso; gli altri con l’arme songli intorno; e insignorisconsi della sua persona; indi irrompono per le strade[155] gridando pace; e chi tarda a risponder pace, sforzavi con minacciose parole: talchè una picciola fazione strascinò e rivolse tutta l’attonita città. Nè la stettero a pensare che gittassero sopra tre barche, apparecchiate a questo, il conte co’ suoi seguaci, instando con feroce volto Virgilio e Napoleone: e Ugone li chiamava a nome; scongiuravali che s’alcuna offesa ebber unque da lui, sfogassero nel suo sangue, non si voltassero contro il re. Gli fer cenno a star zitto e navigare per Taormina: e il popolazzo intanto saccheggiava le sue case; se non che rimandò senza offesa alcuni altri uficiali del re, con tutto il lor avere. Incontanente i congiurati chiaman Roberto, che, dubbioso e in travaglio, ritraeasi a Paternò; dangli la città; il raccolgono con empia gioia; e chieggongli ed hanno, scrive Speciale, in premio di tanta virtù, terre, casali, castella, ch’ei più volentieri largiva perch’erano in man de’ nemici, nè pareagli vero comperar sì poco la sua salvezza. Certo la diffalta di Catania impedì l’estremo sforzo a cui s’apprestava Federigo, contro il nemico sprovveduto e vagante; certo fu cagione degli infiniti mali che succedettero, e del gran travaglio che si durò a scacciar dal nostro suolo gli stranieri[274].
Il che mi conduce a considerare come negli ordini feudali[156] non erano i governi sì incapaci a reggersi contro i sudditi, come in oggi si è detto, non vedendo in essi unito[157] e gagliardo quanto a’ tempi nostri il poter dello stato. Ma parmi che, s’e’ non poteano frenar sì pronti una ribellione; aveano assai meglio da spegnerla con le concessioni[158] feudali di quantunque venissero a perdere i ribelli; tra i quali, chi per conservare i propri beni e chi per occupare quelli dei più ostinati, moltissimi si trovavan disposti, non che a tornar essi alla ubbidienza, ma con forza, ambito, frode, domare i compagni; e gli stessi leali da somiglianti cupidigie erano sospinti a sforzi, che il semplice zelo non può. Una parte della nazione così armavasi contro l’altra, più rabbiosamente ch’oggi non avverrebbe, per gli ordini stabili della proprietà; sendo assai minor massa di premi le pensioni e gli ufici, che a’ governanti restano a dispensare. E però veggiamo larghissime le concessioni feudali, che Roberto, usando il potere di re, facea da Catania in quel tempo, e Carlo ratificava da Napoli, non che ai complici di Virgilio nella tradigione, ma ai nobili che in appresso voltaronsi a parte angioina; e veggiamo tra costoro grandi nomi, o di tali che dovean tutto lor essere a Federigo; e molte terre di val di Nòto darsi a parte nemica, dietro la occupazione di Catania, che parea il crollo[159] a’ nostri destini. Noto, per briga d’Ugolino Callaro[275], uomo di gran nome e compare del re; Buscemi, Feria, Palazzolo, Cassaroe, tratte da’ mali esempi, diersi al nemico; Ragusa ancora, ove un prete Omodeo, sotto specie di confessione, tramò con parecchi cittadini, e costoro non attentandosi al misfatto senza un valente uomo per nome Francesco Balena, van di notte alle sue case armati, minaccianlo della vita, ed egli infingendosi d’assentir per timore, audacissimo poi operò al reo intento, e asseguillo, cacciato il vicario di Manfredi Chiaramonte che tenea la terra, e chiamato da Vizzini Guglielmo l’Estendard[276]. Virgilio Scordia e’ consorti, in questo tempo non se ne stavano al proprio tradimento, che non si affannassero a tirarvi altri uomini, altre terre, tutta l’isola se possibil fosse[277]. E per tali condizioni de’ tempi e principî di corruzione della morale politica in Sicilia, è tanto più mirabil cosa come, dopo la sconfitta del capo d’Orlando, con quei grandi appresti di guerra, e la presenza di Ruggier Loria, e nerbo di fortissimi Francesi e Catalani, la corte angioina se guadagnò con le pratiche da trenta città, terre o castella[278], niuna n’ebbe con le armi, da Chiaramonte in fuori; e come Federigo, o piuttosto la parte della rivoluzione siciliana che operava con esso, non ostanti le raccontate tradigioni, manteneva in faccia al nemico tutto il rimanente dell’isola, e non poca parte alsì di Calabria.
Fu quest’anno a papa Bonifazio il più lieto di tutto il turbolento suo regno. Vide l’odiata casa Colonna prostrata[160] per ogni luogo dalle armi della croce; riparatene le ultime reliquie nella rocca di Palestrina; e questa, inespugnabil di forza, vide aprirsi alle larghe promesse, ond’ei l’ebbe, e sperdè i ribelli, la città fe’ spianare, arare il suolo, seminarvi sale, con dimostrazione vana ed atroce[279]. Nè esultò manco alle stragi del capo d’Orlando, principio, com’ei diceva, al racquisto di Terrasanta; e certo pareagli al soggiogamento dell’isola di Sicilia, al predominio per tutta la terraferma d’Italia, fors’anco fino in Lamagna[280]. Allor fu che, chiedendogli Alberto re dei Romani, la imperial corona, Bonifazio sedente in trono, col diadema di Costantino, la spada al fianco, e la mano sull’elsa, negava agli ambasciadori il dritto d’Alberto, e: «Non son io, lor disse, il pontefice sommo? Non è questa la cattedra di san Pietro? Non basto a difender io i dritti dell’impero? Io Cesare sono, io imperadore!» e brusco li accomiatava[281]. Ma tal concetto di sè, non tolse al pratichissimo nelle cose di stato, che attendesse con maggiore solerzia all’impresa di Sicilia, che sì gli stava a cuore, e ben altro gli parea che ultimata. In luogo del primo legato, poco giovevole per non avere riputazione nell’isola, mandava a Catania, con pien potere di scagliare e ritrattar gli anatemi, il cardinal Gherardo da Parma, venuto appo noi in odore di[161] santità[282]. Esortava al medesimo tempo Carlo e’ figliuoli a osar la fortuna in Sicilia; mandava a ciò lettere sopra lettere; e di sì gran vedere egli era Bonifazio, che nondimeno pose ogni sforzo a distoglier Filippo principe di Taranto dal meditato assalto sulle regioni occidentali dell’isola, dove temea che Federigo di leggieri non l’opprimesse[283]. Ma ammonimento alcuno non valse al principe, vago di militar gloria, nè a Carlo, debol co’ figliuoli, o impaziente di uscir da’ travagli della guerra.
Apprestatisi in Napoli quaranta galee, con quanti rimaneano in terraferma più rinomati nobili nazionali e francesi, e milizie, e soldati mercenari; capitanando l’oste il principe Filippo, col consiglio di sperimentati uomini di guerra; l’armata Pier Salvacossa vice ammiraglio: in sull’entrar di novembre fan vela per Trapani, a infestar le regioni occidentali dell’isola, grasse e fin qui illese[284], dalle quali Federigo traea il nerbo delle sue forze. Donde, come e’ seppe sbarcati i nimici a capo Lilibeo, depredanti il paese, accinti a strigner Trapani per mare e per terra, fieramente turbato, consultavane co’ suoi capitani che fare? Blasco Alagona, per amore alla persona del re, o invidiosa cupidigia di gloria, volea andar egli solo; dipingeva i pericoli: Roberto alle spalle, vicino e forte; Filippo con la flotta, da potervi rimontare a sua posta, e differir tanto la battaglia, che giugnesse il fratello, e cogliesserli[162] in mezzo; non lasci il re questa inespugnabile Castrogiovanni; dia a lui qualche schiera, per accostarsi al nemico novello, tirarlo a giornata con mostra di poche forze: e giurava che o presenterebbegli le bandiere angioine, o rimarrebbe sul campo. A questo parlare niun disse contro. Sedea su i gradi del soglio, a piè di Federigo, un Sancio Scada, nè bel dicitore, nè tenuto savio; ondechè non atteso da niuno, rincantucciato stavasi ad ascoltare e guardar gli altri, quando il re, fattosi a interrogare per ordine i consiglieri, sbadato, a lui primo si volse. E costui, scotendo il capo, maninconoso e veemente prorompe: «Stolto partito è questo, o re, che senza la tua persona si muova contro Filippo. Qual de’ tuoi padri, dimmi, avrebbe mai domato genti e reami, se tra il più folto de’ nemici, se alla testa de’ suoi cavalieri, non combatteva egli primo? Nel mio petto io sento, ch’innanzi a te grandi cose ardirei, e te lontano il braccio cadrebbe. E Blasco or vuole che la Sicilia tutta, volta a risguardare a te solo, te vegga come codardo schivar la battaglia! Blasco fida nel suo braccio, e insulta ogni altro; Blasco anela ingoiar ei solo la gloria; ma non sa misurarsi, per Dio! Con tutte le forze si combatta, ove sta tutta la fortuna. Ristorerassi la nostra, se Iddio ne darà questa vittoria. Se no; o perdendo con onore, o con infamia standoti, non ti aspettar che rovina[285].» Disse, e non curandosene altrimenti, nel suo silenzio tornò. Ma Federigo colse questo lampo; considerò che a star dubbioso un istante perdea tutta la Sicilia, osteggiata da due bande, oppressa, sedotta; e vergogna l’accese, e necessità di lavare a rischio della sua vita la fuga del capo d’Orlando. Lasciato dunque al presidio in Castrogiovanni Guglielmo Calcerando, già grave d’età; ei con una mano di cittadini di Castrogiovanni, e quante milizie[163] feudali si trovarono pronte, marcia alla volta di Trapani. Di Palermo, delle vicine terre, popolarmente anco armaronsi, e corsero all’esercito: non curaron verno, non aspettarono nuovo comando, antivennero i nostri, con quella ch’era secondo i tempi celerità, il pericolo che sopraggiugnesse Roberto. In breve furono addosso al nemico, che da Trapani, non valendo a espugnarla, si tornava a Marsala. Era lungi la flotta; non restava schermo alla battaglia: l’una e l’altr’oste apparecchiovvisi. Nella nostra avvenne, o almen poi si contò, che un Lopis di Yahim, ariolo, fattosi innanzi al re, vaticinavagli: «Vincerai, Federigo; io solo, con cinque cavalieri morrò.—– Perchè dunque non fuggi? risposegli il re; noi nel nome santo di Dio pugneremo.—– E quegli: Così è fisso nelle sorti, ch’io muoia e che tu vinca!» Ma nel narrare il successo della battaglia, scorda Speciale poi queste fole.
Ne’ vasti piani della Falconarìa, ad otto miglia da Trapani, dieci da Marsala, due o tre dalla marina, l’oste siciliana trovò i nemici, il dì primo dicembre milledugenonovantanove. Era più forte di fanti, animosi, ma senza disciplina; l’aiutava un po’ di gente catalana, ma s’ignora l’appunto folle sue forze: de’ nemici si sa che la vantaggiavan di cavalli; che un grosso di Provenzali s’aggiugnea a’ Napolitani della città e del regno; che avean secento cavalli, e assai più pedoni[286]. Ordinaronsi gli uni e gli[164] altri in tre schiere: Filippo a destra, alla mezzana il maresciallo Brolio de’ Bonsi, alla manca Ruggier Sanseverino conte di Marsico: e Federigo, per consiglio di Blasco, oppose Blasco stesso al principe con pochi cavalli e un forte di almugaveri; stette ei medesimo nella schiera di mezzo col grosso de’ fanti; assegnò la destra a’ cavalli di Giovanni Chiaramonte, Vinciguerra Palizzi, Matteo di Termini, Berardo di Queralto, Farinata degli Uberti, coi fanti di Castrogiovanni. Quest’ala entrò prima in battaglia, lentamente movendo contro Sanseverino. A tal vista, il principe di Taranto dall’altro corno, spicca i balestrieri provenzali a cavallo a ferir gli almugaveri; ei, stretto a schiera con gli uomini d’arme, spingesi a quella volta contro la bandiera di Blasco, che parea la più segnalata, non mostrandosi per anco le aquile di Federigo, inteso dietro le file ad armar novelli cavalieri nel memorabil giorno. Blasco per affannosi messaggi l’affrettò a montare a cavallo. Gli almugaveri intanto, fermi lasciano avvicinare il nemico. Com’entra a gittata di mano, a lor usanza gridano: «Aguzzate i ferri,» e dan co’ giavellotti a striscio su per le selci, che tutto allumò di scintille il terreno, scrive Montaner, con maraviglia e terror del nemico; e si venne alle mani.
Alla carica del principe, balenava un istante la gente di Blasco; scrollata di qua, di là, combatteasi la bandiera: ma rattestaronsi in un attimo que’ provati combattenti, nè cedeano un passo. Filippo allor vedendo la schiera nostra di mezzo rimasa alquanto indietro, credendol timore, pensò sperder quelle frotte di fanti; spronò sconsigliatamente ad essi, lasciandosi interi a destra gli almugaveri con Blasco, che freddo e fermo sopra lui ripiegossi. Allora un cortigiano, di cui Speciale per generoso sdegno tace il nome, supponendo abbattuto Blasco, gridava al re, fuggiamo; e forse tutto perdeasi; ma Federigo: «Fuggi[165] tu, traditore, gli disse; la mia vita io qui dar debbo per la Sicilia.» E fa spiegar la sua bandiera; e con un pugno di cavalieri, quanti n’avea in quella schiera, sprona egli il primo contro la cavalleria del principe.
Qui fece egregie prove; pugnandosi da corpo a corpo; tramescolate le due schiere; riscaldati i guerrieri dalla presenza, questi del re, quelli del principe. Lampeggiava in alto la spada di Filippo; Federigo or di mazza or di spada, uccise di sua mano più uomini; ferito lievemente ei stesso in volto, e alla man destra. Ma in questo si sentirono da sinistra i colpi di Blasco, che pria caricò con gli uomini d’arme la cavalleria del principe, poi risoluto tornò ad affrettare gli almugaveri che il seguivano a piede, e: «Uccidete, gridò, i cavalli a’ nemici.» Gli almugaveri con mezze lance, leggieri e lesti, saltano nel conflitto, tramettonsi negli ordini della cavalleria nemica. Un d’essi, s’è da credere al Montaner, col giavellotto passava fuor fuora un cavaliere copertosi collo scudo; un’altro, per nome Porcello, d’un fendente di squarcina tagliava netto la gamba armata d’un Francese, e aprì anco la pancia al cavallo. Fecero strage degli animali sì rabidamente, che molti anco n’uccisero a’ cavalieri di Federigo. Sdrucita dalle schiere del re in faccia, a destra dagli almugaveri, la cavalleria di Filippo andò in volta. L’ala sinistra, non ostante la virtù del conte Ruggier Sanseverino, con poco avvantaggio s’era affrontata col fior della siciliana nobiltà. La schiera di mezzo, forte di dugento cavalli napolitani, per l’error di Filippo a occupar il terreno ov’essa dovea combattere, poco o punto mescolossi nella battaglia; ma il maresciallo Brolio che la comandava, fu trovato nel campo, tra i cadaveri de’ suoi Francesi, trapassato da cento ferite.
Filippo combattendo s’avvenne in un Martino Perez de Ros, fiero e forzuto, che’ l percosse di mazza; e ’l principe[166] gli die’ due punte tra le squame dell’usbergo; ma il Catalano col suo ferro tentando invano tutta l’armatura al nemico, il ficcò alfine nella visiera con leggiera ferita: e indi vennero alla prese; e aggavignati stramazzarono entrambi giù da’ cavalli. Già Martino lottando, soverchia l’ignoto guerriero; già alza il pugnale per ispacciarlo, quando questi: «Beata Vergine! sclamava, son Filippo d’Angiò»; e l’altro soprattenne il colpo, ma non lentava il principe, e a gran voce chiamava Blasco, ingaggiato lì presso a finir lo sbaraglio della schiera nemica. Senza lasciarla, bollente e infellonito, comanda Blasco a due almugaveri: «Segategli la gola; paghi l’assassinio di Corradino;» e periva Filippo d’Angiò d’ignobil morte, se in questo non si levava un romore tra i nostri: «Il nimico, il nimico!» scoprendo i dugento cavalli napolitani del centro, allorchè si dileguarono in rotta gli squadroni della dritta; onde Blasco pur pensò a Corradino, sconfitto a Tagliacozzo mentre tenea la vittoria; e tutta, l’oste siciliana avventossi contro la novella schiera. Federigo, saputo il pericolo di Filippo, corre a lui; lo strappa a’ due almugaveri; e fattegli tor le armi, il da in guardia a’ suoi[287].
Così fu vinta la giornata della Falconarìa. Il conte di Sanseverino s’arrendè, poichè vide non potersi rattestare i fuggenti. Bartolomeo e Sergio Siginolfo, Ugone Vizzi, Guglielmo Amendolia e altri nobili, caddero al pari in poter de’ nostri. Vano romore fu poi quello dei dugento cavalli; i quali, scrive Speciale, come avvezzi a dilettoso[167] vivere, non aspettando le ferite, volsersi in fuga; ma un istorico men caldo direbbe, che perduto il lor capitano, dopo la sconfitta delle due ali dell’esercito, anzichè porre giù le armi o dar le vite senza pro, vollero da savi ritrarsi alla flotta, serbandosi a miglior uopo; ma loro il tolse l’oste vincitrice che inseguilli, e circondò, e soperchiò. In questa caccia un memorevol fatto mostrò vivamente a quali spiriti fosser saliti i Siciliani. Giletto, un soldato de’ nostri, addocchiando tra’ fuggenti Pier Salvacossa, il disertor dalle siciliane bandiere, il raggiugne, il ghermisce; alza il ferro. Gli offrì Salvacossa mille once d’oro in riscatto. Ma il soldato: «Gran fatica, rispose, è a contarle. Serba le mille once ai tuoi figli; e tu, traditore, tu muori;» e lo scannò. Delle sbaragliate genti, rari salvaronsi sulla flotta, stata spettatrice, e accostatasi nelle tenebre della notte a raccor quanti potesse; e indi partita per Napoli a riportar l’atroce novella. Federigo fe’ cibar le genti sul campo di battaglia; lasciò ad ogni combattente quantunque avesse preso di bottino o prigioni, serbando per sè i soli primari baroni; e al principe di Taranto con molta cura fe’ medicar le ferite, imbandir mensa, render ogni onore che s’addicesse a tal prigione. A sera entrava in Trapani; spacciava corrieri a spron battuto per tutta l’isola: che ne resta la lettera scritta a’ cittadini di Palermo, significando quella vittoria, ed esortandoli a montare su lor galee, e accozzati con le genovesi di Egidio Doria, salpare contro la sprovveduta flotta nemica. Poscia egli stesso vien co’ prigioni e l’oste, come a trionfo, in Palermo[288]. In merito de’ servigi[168] di questi cittadini, chiama ad osservanza e riconferma i privilegi di Federigo imperatore, Corrado e Manfredi, sopra le franchige all’entrata o uscita delle derrate, i favori ai commerci, e altri di minore importanza[289]: e seguì, girando per tutti i luoghi in val di Mazzara, a mostrarsi vittorioso, e spronar gli animi a nuovi sforzi per la patria. La più parte de’ prigioni assegnò nelle carceri del real palagio di Palermo; il conte Sanseverino nel castel di Monte San Giuliano; altri in altri luoghi; e il principe Filippo in quella medesima rocca di Cefalù, ove stette chiuso quindici anni prima suo padre[290].
Così la battaglia della Falconarìa, la più grossa che si combattesse a campo aperto in tutta la guerra del vespro, rese a Federigo la riputazione, ch’è a dir anco la forza, perduta cinque mesi prima al capo d’Orlando. Il duca Roberto, saputala a mezzo cammino, mentre marciava a grandi giornate alle spalle di Federigo, incontanente si tornò in Catania. Erane uscito agli avvisi dell’impresa del principe di Taranto; quando, ristretti a consiglio i capitani con Roberto stesso e ’l cardinal Gherardo, tutti esultavano, fuorchè Ruggier Loria, il quale comprese che Federigo di leggieri potrebbe opprimere il principe; onde ei consigliò di marciare in fretta su i passi dell’oste siciliana, metterla in mezzo se si potesse; e a ciò partironsi da Catania in due punte, l’una dritto per lo mezzo dell’isola, l’altra pel sentiero piano delle marine di mezzogiorno. Fallito il colpo, non videro altro riparo che chieder di terraferma novelli aiuti di genti e vittuaglie, perchè si[169] potesse ripigliar la guerra in primavera. Ruggier Loria dunque in un legno sottile, con la solita audacia, solo passò lo stretto del Faro, per apparecchiare ogni cosa a Napoli. Ammonì prima il principe, che per ninna lusinghevole occasione non si avventurasse a combattere il nemico, astuto e audace[291].
Ciò non di meno, entrato il milletrecento, di carnevale, non seppe guardarsi Roberto dalla cupidigia d’acquistar senza fatica il castel di Gagliano. Eravi prigione Carlo Moreletto, nobil francese, preso alla Falconarìa: teneva il castello un Catalano della corte di Federigo, Montaner di Sosa per nome. Costui cominciò ad usar col prigione più umanamente che non soleasi in quel tempo. Poi un dì, ragionando insieme, il portò ov’ei volle: parlava tra’ denti, come temendo non altri l’udisse; e, chiesto al prigione se manterrebbegli il segreto, gli disse pianamente, rimordergli la coscienza di tanto disubbidir la santa Chiesa di Roma, di combattere per una causa iniqua; volentieri ne uscirebbe, a rischio anco della vita, e con tal servigio da far ammenda d’ogni peccato. E il Francese: «Or sì lo spirito del Signore è con te; or ti ha reso il lume degli occhi. Ma di’, per Dio, quale ammenda faresti?» Il Catalano promettea schiudere a Roberto l’inespugnabil castello. Quei gliel credè; e pien d’allegrezza scrissene al duca[292].
Eran testè venuti in Catania, sotto la condotta del conte di Brienne e di due altri baroni, trecento cavalier francesi, legati tra loro con giuramento ad affrontarsi con Blasco Alagona e Guglielmo Calcerando, per vincerli o lasciar la vita in quest’impresa, e chiamatisi da ciò i cavalier della Morte[293]. Pare che il proponimento di costoro, facesse deliberare ne’ consigli di Roberto la fazione di Gagliano. Messone[170] il partito, si divisero tra loro i consiglieri; e chi ammonia non si fidassero per niente a’ Catalani, inveterati nimici al nome francese; chi, col medesim’astio, replicava non esser, cosa di che i Catalani non fossero pronti a far bottega. Il cardinal Gherardo, all’incontro, tornava a mente i detti di Ruggier Loria; rispondean gli altri, le guerre non reggersi a preti; diceano il cardinale caparbio, l’ammiraglio invidioso; e alfine, non vincendosi alcun partito, si temporeggiò: venisse a Catania il castellano medesimo, a ratificar la promessa, da non credersi a lettere d’un prigione. Ma tirossene Montaner, con onesto colore di non poter in tempo di guerra partirsi egli dalla fortezza; e mandò in vece un nipote suo, ammaestrato e ingannevole; il quale patteggiò sì scaltro con Roberto, da non lasciar ombra di sospetto. Indi nella guerriera nobiltà accendeasi un’altra gara, chi farebbe l’impresa? e ognun brigava ad ottenerla, e facea ressa a ricordare i suoi meriti; onde Roberto, per toglier discordia, volle che venisser tutti, ed ei sarebbe il capitano; e allora, aggiugnea, se pure l’intero esercito siciliano stesse all’agguato, sen riderebbero. Gualtiero conte di Brienne e di Lecce, il conte di Valmonte, Goffredo di Mili, Jacopo de Brusson, Giovanni di Joinville, Oliviero di Berlinçon, Roberto Cornier, Giovan Trullard, Gualtiero de Noe, Tommaso di Procida[294], con lor uomini d’arme, al nuovo dì si presentano a castello Ursino, a prender Roberto. L’aveva ei taciuto alla sposa; e per sua ventura, non era ancor surto di letto, quando il fecer chiamare i guerrieri; ondechè Iolanda appostasi a ciò ch’era, tanto ne domandò amorevolmente a Roberto che[171] seppe ogni cosa; tanto pregò, e disse ingloriosa e temeraria la fazione, che le sue amorevoli parole vinsero il duca a restarsene. Indi surrogato a condur l’impresa il conte di Brienne, costui con tutti que’ valorosi e i trecento cavalli, s’avviava a Gagliano. Il nipote di Montaner li guidava.
Ma d’ogni passo del doppio tradimento il castellano avea ragguagliato Blasco Alagona, il quale tenea spiatori in que’ contorni; e sapendo in via i nemici, con Guglielmo Calcerando e le siciliane genti, s’imboscò presso Gagliano. Temerari, e spensierati per conscio valore, andavano i Francesi. Forniti due terzi della via, a Tommaso di Procida corse alla mente un sospetto; e spronando verso il conte, il pregava non si mettesser così nelle tenebre della notte per greppi e gole ignote; pensasser ch’erano in terra di nemici; ei cavalcherebbe innanzi ad esplorare i luoghi, ch’avea tante fiate battuti in cacce, com’ei fu un tempo signor di Gagliano. E il conte gli die’ del codardo. «Con cotesti allato, dicea, tutta la Sicilia unita non temo.» Pervenuti tra sì fatte parole presso all’agguato, la guida li fe’ sostare; disse andrebbe ei solo al castello, per evitar che il presidio, accorgendosi d’inganno, non trucidasse Montaner e rovinasse ogni cosa. La schiera indi fermossi: il traditore andò a trovar Blasco all’agguato.
Blasco avea al chiaror della luna veduto luccicare le armi, sventolar le insegne; avea disposto i suoi; ma il generoso animo non soffrì d’assaltare alla sprovveduta, notte tempo, da masnadiere. Fa dar fiato a’ corni; fa gridar presso all’ordinanza nemica: «Blasco Alagona.» A tal nunzio nacque uno scompiglio ne’ traditi. I Siciliani ch’eran con essi e aspettavansi assai peggior sorte da una prigionia, diersi alla fuga. Tommaso di Procida, tornando al conte, scongiuravalo ch’il seguisse almen ora; si ritirerebbero alquanto; ei li condurrebbe innanzi dì allo aperto,[172] sì ratto da non poterli seguir tutti i nostri fanti, onde con avvantaggio avrebber da fare contro i soli cavalli. «No, disse il conte» non volgeran le spalle i cavalieri di Francia. «Ch’è infine la morte?» E Goffredo Mili: «Se tutti fuggan, ripigliava, io sol rimango. Chi scordar può la esecranda giornata di Catanzaro, ove l’orecchio m’ingannò, e n’ebbi vitupero d’avanzo per me e tutto il mio sangue! Ormai ho vivuto abbastanza.» Con questa franchezza d’animo s’apparecchiavano al disperato conflitto. Strinsersi a schiera, ov’era un po’ di piano rilevato; e Blasco lasciolli stare infino all’alba.
Con sottil arte egli avea ordinato in battaglia i suoi fanti, in due file, poste a forbice, da chiudere in mezzo il nemico; con l’avvantaggio alsì del terreno, che non potesservi caricare i cavalli; e anco della luce, che i nascenti raggi del sole ferissero i suoi alle spalle, in viso il nemico. Appena raggiornato, questi, per suprema temerità, non aspettando l’affronto, scese dalla collinetta a ingaggiarsi: e pria di giugnere alle file dei nostri, fu lacerato con un nembo di sassi e giavellotti, drizzati la più parte a’ cavalli, perchè mal potean passare i cavalieri, tutti vestiti di ferro; ma uguale era il danno, quando gli animali o uccisi cadeano, o feriti dando a sprangar calci, gittavan l’uomo, e incontanente, saltavangli addosso gli almugaveri e spacciavanlo. Pur que’ forti giungono ad abbattere la bandiera di Calcerando; e i nostri, rattestatisi sotto quella di Blasco, percosserli con un impeto estremo. Diradavasi il fitto nodo; cominciava lo sbaraglio e la strage; restava il solo conte di Brienne, con pochissimi intorno, salito sopra un gran sasso, difendendosi come lione, e a niun patto non volle dar la spada ad uom plebeo. Chiamato Blasco, a lui la rese. Ma il suo alfiere, che pien di ferite e di sangue, tenendo sempre in pugno la bandiera, cercava il signore per rendergliela pria di spirar l’ultimo fiato, vistolo prigione,[173] gittò in aria l’insegna da farla ricadere su la testa del conte, e, sguainando la spada, si cacciò tra le punte de’ nostri. Tal fu la fine della più parte; pochi andaron prigioni col conte; niuno scampò.
E ’l castellano, com’oscena belva, uscì a veder la carnificina de’ suoi traditi, a brancicare i cadaveri; scelse quei de’ più nobili, e li cuocea, dice Speciale, a modo pagano, per mercatarne colla pietà de’ congiunti. Moreletto, in catene, da una finestra vide la battaglia; e per disperato dolore d’aver chiamato a morte i suoi Francesi, die’ col capo alla parete della prigione, ricusò cibo e bevanda, e in pochi giorni perì miseramente. Mentr’ei si consumava di questo volontario supplizio, percossi di spavento stavano i guerrieri e i partigiani dello straniero; tutto il rimagnente dell’isola tripudiava senza modo della seconda vittoria, che tanto scemò le forze di Roberto. Donde, seguita lo Speciale, i Siciliani rialzaron le creste a loro usanza, e scordate le vicende della fortuna, ricominciarono a superbire[295]. [174]
Forze di Federigo e de’ nemici, e pratiche di Bonifazio. Trattato di Carlo II con Genova. Pratiche di lui in Sicilia. Armamenti navali; battaglia di Ponza; trattamento de’ prigioni siciliani, e morte di Palmiero Abate. Continua con poco frutto la guerra. Naufragio della flotta di Roberto. Congiura contro la vita di Federigo. Blocco di Messina; orribil carestia; e virtù del re. Tregua. Dalla primavera del 1300 a quella del 1302.
Nondimeno queste due vittorie poco fruttarono a Federigo, come nè la sconfitta del capo d’Orlando l’avea spogliato al tutto delle Calabrie. E fu per cagione della difficoltosa espugnazion delle terre, secondo l’arte militare d’allora; e assai più pe’ vizi dell’ordinamento feudale, ai quali, per ben comprendere questi avvenimenti, dobbiamo spesso tornar col pensiero, noi che in questo secolo, in vizi contrari viviamo. A un assalto nemico, lo stato mal connesso tutto si sgomenava; si spicciolavan le armi per ogni terra, pensando ciascuno a guardarsi dassè, più che a rinforzar l’oste regia; e assai lenti sviluppavano tutti i casi della guerra: ondechè, se ne togli alcun subito sforzo, d’altronde nè universale nè durevole, picciola parte delle forze dello stato restava a maneggiarsi dal principe.
E così parrà men temeraria quella ostinazione di Federigo a ricombatter sul mare, con disparità di numero, e Loria a fronte; perchè in mare almen potea adoprare unite e ristrette tutte le forze, e scansava lo scompiglio al di dentro. Che se allo sbarco del principe di Taranto, s’infiammaron tanto gli abitanti di val di Mazzara, che popolarmente seguiano il re a rituffar in mare il nemico, e guadagnavan la battaglia della Falconarìa, tornaronsi a’ consueti esercizi delle industrie, quando non videro altra occasione a far oste, che[176] in tediose e aspre espugnazioni. Indi gli stanziali restavan soli in arme quando si pugnò a Gagliano. Eran gente mescolata; Spagnuoli, Siciliani, e pochi altri Italiani di parte ghibellina; leggendosi tra’ condottieri un Farinata degli Uberti[296], e che molti Colonnesi, nello sterminio di lor casa, rifuggironsi a Federigo[297]. Maggior aiuto gli davan di Genova i Doria, gli Spinola, i Volta, e lor consorti, padroneggianti i consigli della repubblica, e armanti navi agli stipendi di Sicilia[298]. Donde avea Federigo forti ma poche schiere, alimentate da scarsi danari, per trovarsi la nazione esausta da diciott’anni di guerre, menomata dall’occupazione straniera, e ordinata con leggi assai gelose sopra i sussidi alla corona, i quali anco s’erano assottigliati per le franchige concedute alle più grosse città ed ai militi, in merito di segnalati servigi nella guerra. Ma la ferma volontà de’ popoli al mantener libertà e independenza, suppliva a tutto, e tenea la bilancia, che incredibil sembra, contro la smisurata potenza de’ nemici.
Aveano i nemici quanto danaro si potea trarre dal reame di Napoli, quanto ne sapea fornire la corte di Roma e la fazion guelfa dell’Italia di mezzo. Avean gente dalle or dette province, dalla Spagna, e dalla Francia soprattutto, alla cui materna carità la schiatta angioina di Napoli si volse e prima e poi in ogni suo pericolo. Ond’ecco appena saputa la sconfitta della Falconarìa, Carlo II scrivere a Filippo il Bello a dì otto dicembre, attestando che a lui ricorrea, come a capo e sostegno del suo legnaggio, e prima speranza dopo Dio, e ripregandolo con le più calde parole che gli fornisse gli aiuti di gente, chiesti già prima; che se il re di Francia avea altre guerre più vicine, nondimeno «le sue mani eran sì gagliarde e sì lunghe da poterle, volendo, stendere a’ suoi, e mandare speditamente un soccorso qual che si fosse, perchè in oggi il picciolo varrebbe quanto altra volta il grande; ma tardandosi, ne scenderebber così basso le sorti del re, che veruno sforzo non basterebbe poi a rialzarle[299].» Un’altra copia di questa lettera mandò il tre gennaio milletrecento con due ambasciadori, frate Volfranc de’ predicatori, e Pietro Pilet[300]. Nè la Francia ricusava quegli aiuti, co’ quali si tentò l’ultima volta il racquisto della Sicilia. Ma Bonifazio era il più potente aiuto, anzi il principe dell’impresa, con quel comando pontificale, quel grande ingegno, e veemente e alto animo. Intende costui nei primi dell’anno trecento, come re Carlo, per pietà del figliuol prigione, o tedio e spossamento, abbia dato ascolto ad oratori di Federigo; e prorompe a scrivergli atroci rampogne; conoscerlo già da lunghi anni, per la vil tregua di Gaeta, la disennata pace con Giacomo nel novantacinque, la stolta fazione del principe di Taranto; e così dalla sua pochezza tornasse danno a lui solo, non alla romana Chiesa o a cristianità tutta![178] Che saviezza, che riverenza al sommo pontefice, che gratitudine ei mostrava, a trattar di soppiatto la pace con Federigo! Perciò, il pontefice era necessitato ad ingiungere ad uomo sì incapace, non osasse continuar la pratica, senza comandamento scritto di lui: se disubbidisse, sentirebbe il peso di scomuniche e processi; e il papa, ch’aveaci speso tanta fatica e danari, saprebbe allo estremo far pace egli con Federigo, a danno della sola corte di Napoli, perchè non si ritardasse il racquisto di Terrasanta. Queste acerbe lettere scrisse il nove gennaio, replicò poco appresso: e ben mostrano chi fosse in quel tempo il sovrano di Napoli, se Carlo II o Bonifazio[301].
Carlo allor venne a lui tutto supplichevole, insieme con l’ammiraglio: l’uno per discolparsi, entrambi per chieder soccorsi, da ristorar la fortuna precipitata alla Falconarìa. E il papa, che non sapea perdonar questo rovescio, forte rampognò, ma forte insieme aiutò. Chiama a sè i cavalieri del Tempio e dell’Ospedale di san Giovanni di Gerusalemme, che rechino in aiuto di Carlo tutte lor armi stanziate di qua dal mare; ne richiede anco le città guelfe d’Italia. Esorta con frequenti lettere Roberto a incalzar la guerra; il cardinal Gherardo a sopravvegliare e governare ogni cosa; ai Siciliani gittatisi a parte angioina, scrivea carezzando e piaggiando. Il breve indirizzato a Gherardo, dato di Laterano il primo febbraio, spiega la gran tela che Bonifazio ordiva per volger mezza l’Europa contro quest’indomito siciliano scoglio; e chiudesi con accennare più altre pratiche, che pareagli bene di passar sotto silenzio, e son indi da giudicarsi men lodevoli assai delle dette dinanzi[302]. Ben egli è vero che il giubbileo,[179] bandito appunto in questo tempo, molto aiutava gli sforzi della romana corte contro Sicilia. Bonifazio l’istituì primo, o confermò con papal decreto la consuetudine antica di festeggiar con istraordinarie pratiche di religione il cominciamento del nuovo secolo[303]. Chiuse allora a’ suoi nemici politici i tesori d’indulgenza, largheggiati a tutto il popol di Cristo; privonne segnatamente cui desser favore agl’infedeli, o a Federigo, o ricettassero gli usciti Colonnesi[304]. E attirò in Roma, in poco spazio di tempo, da due milioni di stranieri, che veniano alle perdonanze, e con loro spese arricchian la città e ’l contado; e più la camera apostolica con le limosine, sì larghe, che nella cappella di san Paolo, due chierici senza mai cessare raccoglievano con rastrelli la moneta gittata dai fedeli ai piè dell’altare[305].
Grandi somme ne fornì dunque il papa a re Carlo, or in sussidio, or in nome di prestito, che tornava allo stesso, per la difficoltà di riaversi[306]; e ne dieron anco Firenze e[180] Lucca e altre cittadi, oltre i soliti accatti di Carlo da mercatanti stranieri[307], e da’ sudditi fin delle città occupate in[181] Sicilia[308], e oltre le sovvenzioni che impetrava da’ suoi fuor da’ termini soliti; come fece co’ prelati e feudatari di Provenza, che intendendo la presura del figliuolo, gli si proffersero, ed ei lor chiese danari, armature, navi[309]. In tal modo sopperiva alle spese della guerra, divenute più esorbitanti per cagion de’ continui soccorsi di vittuaglie e moneta all’esercito in Sicilia, ov’era carestia, e ostinato animo de’ popoli, da non lasciar all’occupatore altro terreno, che quello sul quale posava il piede[310].
Molta anco fu la cura a ingrossare l’esercito, che struggeasi, ora per battaglia, or nei casi della guerra guerriata;[182] e spesso anco vedeansi i mercenari lasciar le bandiere, o neghittosi e disobbedienti seguirle a ritroso, e voltar faccia al primo scontro; talchè fu necessitato re Carlo a dar illimitata balìa a Ruggier Loria, di punirli nella persona e nei beni[311]. Condottieri inoltre ricercava per ogni luogo, con grandi promesse, larghi stipendi: richiese Carlo di Valois e Roberto conte di Artois[312]; ebbe gente di Spagna, con l’opera di Loria, che non solamente scrivea i soldati, ma obbligatasi al pagamento se il re fallisse[313]. Firenze mandavagli dugento cavalli[314]; e tra’ capitani[183] suoi leggonsi Tommaso di Procida, il conte di Fiandra, il delfino di Vienna, Ranieri Grimaldi uscito di Genova[315], e altri condottier venduti di gente a lor vendute, pestilenza che per molti secoli poi invilì e distrusse l’Italia. Nelle Calabrie re Carlo armava contro i nostri acquisti le milizie feudali[316], e masnade leggiere raccolte a mo’ degli almugaveri, senz’altra legge nè soldo che ’l bottino[317]. Ma que’ disciplinati mercenari fea traghettare in Sicilia[318], misurando le speranze dagli stipendi; e falliangli ancora, come tutt’armi venderecce. De’ cavalli toscani porta l’istoria[184] che fur quattrocento, capitanati da Ranieri Buondelmonte, e congiurati tra loro contro quel Blasco Alagona, ch’avea tanto rinomo tra i capitani di Federigo. Ruggier Loria con l’armata li pose a terra in vai Demone; indi passarono in Catania, ove chiudeasi l’angioino esercito; e braveggianti ivan per vie e piazze domandando ove trovar potessero Blasco. Ma quando sepper da vicino chi egli era, e quali i suoi, scrive Speciale, cessaron l’inchiesta, come pronti alle parole non a’ fatti; talchè scherniti da’ lor consorti e da’ nemici, in breve ora si sciolsero[319].
Al medesimo effetto di far gente per l’esercito, e più per la flotta, e per toglier anco gli aiuti che occulti ne veniano a Federigo, la casa d’Angiò ripigliava gli sforzi per tirarsi Giacomo e i popoli suoi. E prima Carlo concedette a’ Catalani, Aragonesi e altri sudditi di Giacomo, ch’avessero per lui militato in Sicilia sulla flotta, la terra d’Agosta, e la città di Patti, abbandonate dagli abitatori negli atroci casi di queste guerre; dando lor anco quei contadi, co’ privilegi medesimi de’ Provenzali coloni nel reame, e altre immunità, come paresse allo ammiraglio[320]. Oltre questo allettamento, fortissimo ad uomini di mare, per la bellezza de’ porti e importanza delle colonie, non fu avaro di concessioni feudali a’ capitani spagnuoli più segnalati[321]. Il papa ritentava Giacomo per mezzo del cardinal[185] Gherardo d’illibato nome, e per altri messaggi[322]; e alfine scrìssegli, affettando stil tra amorevole e severo, con che toccava quella biasimevole partita dopo la battaglia del capo d’Orlando, lo scandalo, i sospetti indi nati: purgasseli con richiamar sotto pene rigorosissime i suoi sudditi dalle bandiere di Federigo; vietar che altri vi corresse; e, al contrario, procacciar armamento di uomini e navi al servigio della Chiesa[323]. Dettegli Bonifazio, per miglior argomento, due anni più di decime ecclesiastiche[324]: e nello stesso tempo re Carlo facea assai viva dimostrazione a soddisfargli i crediti della passata impresa, con investir su entrate certe e spedite delle contee di Provenza e Forcalquier once duemila annuali, già promessegli sugli acquisti che si speravano in Sicilia[325]. Ma sia per fuggir novella vergogna, sia per conoscere il peso di tai promesse, o per altra cagione che taccian le memorie del tempo,[186] Giacomo non si lanciò. Rispose al papa aver già fatto abbastanza: e sol rinnovò le inibizioni a’ condottier catalani di Federigo; e lasciò armar ne’ suoi porti per casa d’Angiò, che poi, con questi aiuti, guadagnava la battaglia di Ponza[326].
È detto innanzi quali interessi politici avvicinassero Genova alla Sicilia in tutto il corso della guerra del vespro, e come Federigo ne traesse aiuto. Favorivanlo i Ghibellini o Rampini, com’anco diceansi, che in quel tempo tenner lo stato in Genova. I Mascarati o Guelfi, tra’ quali qran primi i Fiaschi e’ Grimaldi d’antica nobiltà, ritentarono invano nel novantadue portar la repubblica a collegarsi con casa d’Angiò; e peggior prova fecero con le armi, tra ’l fine del novantacinque e il cominciamento dell’anno appresso. Contaminaron di sangue e arsioni la misera patria; e soverchiati e scacciati fuggendo, affortificaronsi nella città di Monaco; donde armaron poi a tentar disperati colpi su Genova, o ad aiutare di qualche naval forza re Carlo, che favoreggiavali dalle sue terre di Piemonte e di Provenza, ma non osava altro contro la repubblica, ancorchè desioso di voltarla a parte guelfa, e dispettoso degli aiuti a Sicilia[327]. Ma papa Bonifazio, men rispettivo assai, l’anno trecento, tra le altre pratiche dette, si volse a questa assai vivamente; pria sollecitando Giacomo di Aragona che distogliesse Genova da quella amistà; poi sforzandosi a parlar benignamente ai legati di Genova[187] e ad abbacinarli con molte promesse, e anco richiedendo Filippo il Bello, che insistesse e minacciasse di chiudere ai Genovesi ogni commercio in Francia[328]. Alfine il dì della cena del Signore, che fu quest’anno il sette aprile, innanzi l’innumera moltitudine di fedeli accorrenti in Roma al giubbileo, promulgava la scomunica contro Oberto e Corrado Doria, Corrado Spinola e lor case e amistà, e con essi tutta Genova e ’l contado; sotto la solita sanzione, che se infino all’Ascensione non si spiccassero dagli aiuti della ribelle Sicilia, alle pene spirituali s’aggiugnerebbe lo spogliamento de’ beni tenuti dalla Chiesa, e ogni roba loro sarebbe del primo occupante, chiunque potrebbe prendere le persone, sol che non le mutilasse o spegnesse[329]. A questo bando dalla cristianità, Genova tentennò; mandò oratori al papa; e appiccossi una pratica con re Carlo, Bonifazio l’incalzava per mezzo del re d’Aragona, del re di Francia, e d’epistole a’ Genovesi; minacciando l’ira del Cielo, con seguito di mali terreni; promettendo benedizioni e prosperità se ubbidissero. Al medesimo fine ingaggiò Porchetto Spinola, arcivescovo di Genova, uomo di gran riputazione per pietà e dottrina[330] pur da lui offeso l’anno innanzi, all’entrar di quaresima, allorchè dando le ceneri a’ prelati, in luogo delle usate parole, disse allo Spinola il papa: «Rammenta che se’ ghibellino, e co’ Ghibellini in polvere tornerai!» e gliene buttò in sugli[188] occhi[331]. Ma la debole umana razza, il più delle volte, a questi impeti trema e obbedisce.
Per tal violenza di Bonifazio, di mezz’aprile del trecento, cominciarono a trattare Genova e Carlo; prima in parole tra amici, poi per due legati del re; e la somma fu questa: ch’ei procaccerebbe la dedizione di Monaco, togliendole tutt’aiuto di Nizza e Provenza, e intanto darebbe in sicurtà le castella di Torbia e Sant’Agnese, da riaverle quando Monaco s’arrendesse; e che Genova richiamerebbe di Sicilia, facendone caso di stato, Corrado Doria e tutt’altri Genovesi militanti con re Federigo, nè permetterebbe nuovi armamenti per esso, ma sì per lo re Carlo. Ma, appiccata la pratica, Genova si mettea in sul tirato: desse il re, in luogo di Sant’Agnese, Esa, fortissima sopra una rupe in mare; aggiognesse in ogni modo la torre d’Albegio; fossero benvisti a’ Genovesi il vicario del re in Nizza e ’l siniscalco di Provenza: e poco appresso, che Genova non darebbe statichi per la restituzione delle castella, ma solo la fede di Niccolò e Albertazzo Spinola, Niccoloso e Federigo Doria; nè dalla parte della repubblica si facea altra nuova concessione che rimettere gli usciti ne’ lor beni e anco nella città, da’ Grimaldi e pochi altri all’infuori. E Carlo, perch’avea maggior bisogno, non ostante la mediazione del papa, calavasi a questi patti; nè pur ultimava la negoziazione, saltando i Genovesi, or alla resa di Monaco senza accettar sicurtà d’altre castella, or ad altri ripieghi. Ond’è manifesto; che que’ capi di parte ghibellina, mal combattuti da’ fautori del papa e di re Carlo, volean temporeggiando scansar gli effetti materiali delle scomuniche; ma più amavano tardar l’acquisto di Monaco, che rimettere in patria i Grimaldi, e strignersi tanto con re Carlo, da rinnalzar parte guelfa nella repubblica.[189] Anzi non si restavan essi d’armare per Federigo. I Grimaldi, non meno ostinati, ricusavano lasciar Monaco, per quanto Carlo e la corte di Roma li esortassero e minacciassero, con chiuder loro tutti soccorsi di Provenza, e farvi apparecchiar forze a lor danno. Invano dunque il papa v’intromettea suoi fidati; invano Carlo ad ogni intoppo accrescea il numero degli oratori[332], come se per[190] questo mancasse, e non perch’era Genova più forte e più destra. Aifin Bonifazio, sdegnato, di novembre scagliò[191] l’interdetto; l’anno appresso fe’ romoreggiare le armi del Valois; nè pur asseguì l’intento ad altro partito che la[192] resa di Monaco[333], e, ciò che vinse ogni ostacolo in popolo mercatante, larghi favori al commercio de’ grani, sì nel regno di terraferma e sì in Sicilia nel caso del racquisto. Cattivato così il pubblico, fu facil cosa al papa toglier al tutto i soccorsi de’ privati a Federigo; chiedendone giuramento da’ magistrati di Genova, e domando con insinuazioni e scomuniche i parmigiani più ostinati[334].
Mentre in tal modo praticava casa d’Angiò a scemare il nemico e ingrassar sè d’aiuti di fuori, non meno studiavasi a far parte in Sicilia, continuando le lusinghe all’universale, tentate con poco frutto l’anno innanzi, e rincalzandole, che son le più efficaci, con le pratiche particolari di perdonare,[193] promettere, dar largamente ad uomini e a cittadi. Raffermò a’ Catanesi le immunità lor concedute poc’anzi da Roberto vicario[335]; alla terra di San Marco, che si tenesse in demanio diretto dalla corona, gran favore in que’ tempi[336]; questo promesse a Camerata, disposta a tornar in fede, come dicea la cancelleria angioina[337]; a’ cittadini di Naso, pronti a fare il medesimo, profferse cinque anni di franchigia dalle collette[338]; diella, pria per anni dieci, poi infino a quindici, a que’ di Lipari per tutti pesi fiscali[339]: e in Calabria adoperava le medesime arti con le terre di parte siciliana; promesso a Geraci il perdono[340]; ad Amantea quantunque con essa fermerebbe Goffredo Sclavello, devoto del re[341]; a Tropea, come più importante, maggiori grazie, franchigia di alcune gravezze per sei anni, e licenza larghissima a misfare su le persone e robe de’ soldati nostri posti al presidio[342], a’ quali in van s’era profferto, in prezzo di[194] tradimento, ritenerli agli stipendi angioini[343]. Sparsersi pei novelli convertiti simili allettamenti; a’ baroni, confermar loro i feudi[344]; agli uomini mezzani, rimetter colpe, assicurar l’avere, redintegrarli nelle dignità, e (dicono i diplomi) anche nell’onore[345]. Assai più liberale usò Carlo con chi era stato tra i primi alla tradigione di Catania, o d’altro luogo importante, ratificando tutte le concessioni feudali di Roberto, e altre nuove aggiugnendone, con ufici e dignità: a Gualtier di Pantaleone da Catania, data Biscari, e armato cavaliere; e a pro di Virgilio Scordia non finivano le regie larghezze; creato inoltre capitan della città di Catania, e comandante del castello[346]. Donde si vede qual dura impresa si trovò alla prova il racquisto della Sicilia; non fidandosi i nimici in sì grande soperchio di forza; e gittandosi a comperar traditori, sì ardentemente, che non bastava la terra a’ molti guiderdoni d’opere o buone o ree, e fu necessità dar l’aspettativa, or concedendo il valor d’un tanto all’anno da investirsi in beni feudali a misura che ne ricadessero alla corona[347], or dando, in nome, ad alcun[195] barone i poderi de’ baroni di Federigo[348]. Queste ampolle di corruzione, lasciaronsi a ministrare in Sicilia stessa a Roberto e all’ammiraglio; il quale ebbe facultà, onori, comando, poco men che di principe. Alle continue concessioni feudali a pro di lui, s’aggiunse in questo tempo Malta e ’l Gozzo, con titol di conte[349]: chiamavalo poscia re Carlo, «fidatissimo quasi parte del suo corpo medesimo»; e tra tante virtù ch’egli ebbe, gli dicea, che par dileggio, purissimo nella fede; e armandolo d’autorità non minore dello stesso vicario Roberto, diegli che, osteggiando con l’armata, potesse rimetter colpe, debiti, pene qualunque a comuni, a privati[350]; che per richiamarli alla fede profferisse tutto che paressegli, e ratificherebbe sempre il re[351]. Così quella smisurata potenza, che Loria avea agognato invano nella siciliana corte, l’ebbe a corte di Napoli; e fallì le speranze dell’una e dell’altra; con noi[196] talvolta per non volere; co’ nemici, volendo sempre, spesso non bastò.
Facendone or indietro a ripigliare i casi della guerra, vedremo come infino alla uscita di primavera del trecento, nissun’altra notevole fazione seguì in Sicilia: e in Calabria i combattenti giunsero a far tregua tra loro, non volente il governo angioino[352]; il quale, se riebbe qualche terra, la comperò dal presidio per moneta, o da’ cittadini per pratiche[353]. Intanto con gli aiuti detti, rinforzava l’esercito in Sicilia, allestiva l’armata; e i nostri nell’armata sola affidavansi, lasciando in mal punto, così li biasima Speciale, la guerra di lor casa per cercarne altra fuori. Confortovveli l’ardire di Peregrin da Patti, quell’eroe del ponte di Brindisi, il quale, forniti di macchine pochi legni, abbattendosi con dodici galee pugliesi, le avea investito, messo in fuga, rincacciato fin sotto le mura di Catania, veggente Roberto; nè si stette dall’insultar co’ tiri la stessa città[354].
Armate dunque ne’ nostri porti venzette galee, con cinque più de’ Ghibellini di Genova, vi montavano Giovanni Chiaramonte, Palmiero Abate, Arrigo d’Incisa, Peregrino da Patti, Benincasa d’Eustasio, Ruggier di Martino e altri molti, fior della nobiltà siciliana; il supremo comando tenea Corrado Doria, genovese. Navigaron depredando e[197] guastando la riviera infino a Napoli, ove Ruggier Loria mettea in punto da quaranta galee del regno e spagnuole. Mandarono un legno a portargli la sfida: ed ei, ch’aspettava le dodici galee testè rifuggite in Catania, freddo rispondea, non esser pronto per anco a battaglia. Indi la nostra flotta, per vanto di chiudere in porto un tal ammiraglio, soprastette tra le isole del golfo; bravando, senza assalire, nè strignere il nemico, che rinforzavasi. Scorsero i Siciliani una scura notte infino a Ponza; e le dodici galee di Catania a vele gonfie presero il golfo: giunsevi nel medesimo tempo inatteso aiuto di sette galee genovesi de’ Grimaldi, anelanti di bagnarsi nel sangue de’ Doria. Con cinquantotto galee allora uscì Ruggier Loria, contro la nostra flotta di trentadue.
A tal disparità di numero, i baroni dell’armata siciliana, consultavano in fretta sulla nave dell’ammiraglio, per onestare, non la brama di ritrarsi, ma la temerità che accendeali a combattere. Perciò fu vana la saviezza di Palmiero Abate, uomo di gran cuore e nome, invecchiato nelle guerre del vespro[355], il quale scongiuravali: che di soverchio non tentassero la fortuna; non mettessero a certissima perdita quest’armata, e con essa le speranze tutte della patria; niun rossore, diceva, al ritrarsi con forze sì disuguali; si specchiassero nel gran Loria, che testè n’avea maggiori, e pur non tenne l’invito, ma combatter volle a[198] suo comodo. Questa sentenza di Palmiero tutti approvavano in sè medesimi, con le parole il contrario, per parere più bravi. Ma Benincasa d’Eustasio, disensato oltre tutti, proruppe: non per isguizzar come delfini innanti il navilio nemico, averli mandato la patria e il re: il mare che solcavano vide già due splendide vittorie de’ Siciliani, sopra numero di nemici doppio del loro; ed or da questi mezzi uomini[356] fuggirebbero? «No, si combatta, finì, e i tralignanti Siciliani che tremano, fuggan pur ora; non ci rovinino con l’esempio, ingaggiata che sarà la battaglia!» E Palmiero con ferocissimo sguardo: «A me, gli disse, a me, Benincasa, accenni! Or tempo non è di parole, perchè incalzano i fatti, e mostreranno tra noi chi fugga e chi stia. Ma poichè voglion questo i Cieli, o compagni, d’altro omai non si parli; alla battaglia apprestiamci con l’usato coraggio.» Saltò sul palischermo, picciolo e lesto; e montata la sua galea, armossi da capo a piè. Alacremente tutti correano alla prova disperata. Corrado Doria, ammiraglio, che non ebbe principal parte nel consultare, la cercò bene al combattere, drizzandosi risolutamente a ferir di costa, al primo scontro, la capitana nemica.
Fu combattuta il quattordici giugno del trecento questa infelice battaglia, in cui le cinque galee genovesi ch’eran per noi, si trasser da canto, e venzette sole siciliane affrontarono tutta la flotta nemica, con molta strage scambievole; finchè accerchiate, soverchiate e peste s’accorser tardi di loro temerità. Benincasa d’Eustasio, ch’alla prima avea preso una galea nemica, ne tolse bottino quanto seppe, e die’ l’esempio della fuga. Sei galee il seguirono; le altre, dopo ferocissima lotta, furono prese co’ baroni, i guerrieri, i marinai, tutti carichi di ferite. E Doria solo pur non calava stendardo, ancorchè trovatosi nel più fitto[199] de’ nemici dal principio della battaglia, quando il nocchier di Loria destro cansò l’urto del genovese; e tutti allor gli furono intorno, gli squarciavan co’ rostri i fianchi della galea, salivano all’abbordo, ed erano rincacciati in mare, inchiodati da’ valentissimi balestrieri genovesi. Loria alla fine, tirate indietro tutte le galee, gli spiccò addosso un brulotto. Così avuto prigione Corrado, onorò questa bella virtù con aggravar lui di catene; e a’ balestrieri die’ peggio cento volte che morte, fatto lor cavare gli occhi e mozzar le mani.
Fu a corte di Napoli e per la città e per tutto il reame, grande allegrezza di questa vittoria, di cui festeggiossi nelle città guelfe d’Italia, parendo l’ultima pinta alla rovina di Federigo[357]. Sopra ogni altra cosa, ne sperava re Carlo aver di queto le terre di quei baroni in Sicilia. Fattili venire quindi a Napoli, sbrancare in diverse carceri, e ad uno ad uno addur dinanzi a sè, li tastava or a trattamenti miti, carezze, promesse, or a minacce e stretture; nè mai potè spuntarne alcuno che gli facesse omaggio. Allora, con nuovo argomento, serbandone altri a Napoli in catene[358],[200] altri mandava in catene in Sicilia, a fin di tentare i prigioni con la vista della patria, le cittadi con la carità di questi lor valenti; e affidolli a Loria, vegnente a girar l’isola con la flotta, col terror della recente battaglia, co’ pien poteri, che innanzi dicemmo, de’ quali fu armato appunto in questo tempo, per usarsi con sommo sforzo d’arti e d’armi la vittoria di Ponza. In tal viaggio morì Palmiero Abate. Fu preso a Ponza combattendo, tutto lacero e sanguinoso; il gittaron prima in un carcere, poi in un fondo di galea; ove ammalignatesi le ferite per disagio e niuna cura, struggendoglisi l’animo dal rammarico di vedersi in tal essere, dinanzi quella patria per cui avea speso la sua vita perigliando venti anni tra le armi e’ maneggi di stato, e ora nel maggior uopo non poteala aiutare, a vista di Catania, col nome di Sicilia sulle labbra, spirò. Fe’ onorare Roberto, con esequie e sepoltura nel duomo di Catania, il cadavere di quel grande[359].
Arrigo d’Incisa, cittadin di Sciacca, portato a zimbello del pari, ebbe libertà dal caso, che fe’ sdimenticarlo in un carcere a Catania, quando Loria ripartì con l’armata per iscorrer le costiere di mezzogiorno. Donde l’ammiraglio, volendo mostrarlo a’ concittadini, mandava un legno sottile a torlo, con una grossa somma di danaro pe’ bisogni dell’armata; e il legno avveniasi con un di Sicilia, che il combattè e vinse; sì che Arrigo n’andò sciolto non solamente, ma gittò ancor le mani sulla moneta angioina[360]. Corrado Doria intanto tra li artigli di Ruggiero, emulo e avaro e però di tanto più crudele, era stretto in catene, abbruciato di sete, nudrito appena di quanto bastasse a tenerlo vivo, minacciato e macerato in mille guise, perchè rendesse a Loria la terra di Francavilla. Ei durò questo martirio gran tempo; poi scrissene a re Federigo, e assentendol[201] questi, risegnò il feudo. Ma Francavilla fu il solo acquisto, che tornò a parte angioina dallo strazio disonesto de’ prigioni di Ponza.
Poche altre terre guadagnò in questo tempo, tutte senz’arme: Asaro, data da due omicidi per fuggir la vendetta delle leggi, e incontrarono in brev’ora quella del popolo, che li vergheggiò a morte, mentre ordiano nuova prodizione[361]; Racalgiovanni[362] per tradigione del signore del luogo; Taba[363] d’un vil soldato, che aprì una porta a’ nemici, e nel trambusto fu ucciso, innanzi che imborsasse i danari del tradimento; Delia per maggior viluppo di iniquità di Giobbe e Roberto Martorana. Eran costoro amicissimi del signor della terra, ma presi di rea passione per la moglie e la figliuola del castellano, che il signore posto avea in Delia, nè potendo ottenerle per minore misfatto, il castellano trucidarono, fecero violenza alle donne, e, sperando che così n’andrebbero impuni, detter la rocca a Roberto. Ma innanzi ch’ei mandassevi maggior forza, Berengario degl’Intensi, condottier di Federigo[364], riprese Delia, intromesso occultamente da un cittadino; e i due scellerati, tratti a coda di cavallo, spirarono sulle forche. Racalgiovanni, assediata da Federigo, non soccorsa da’ nemici, in pochi dì si arrese[365].
L’ammiraglio in questo mentre girava l’isola intorno intorno, recando sulla flotta il cardinal Gherardo, senza[202] fare alcun frutto con le arti; e la fortuna delle armi, che aveagli fatto fuggir di mano Arrigo d’Incisa, non l’aiutò in alcun luogo delle costiere di mezzogiorno e ponente, munite egregiamente da’ nostri; e per poco non perde a Termini lui stesso. Tentò Ruggiero lo sbarco per non vedervi forze; e non sapea che Manfredi Chiaramonte e Ugon degli Empuri v’erano entrati la notte innanzi, e chetamente armata una torma di cavalli, aspettavanlo. Datesi dunque le ciurme a predar la città bassa, i nostri cavalli le caricano; le pestano, taglian la ritirata alle navi, gli sbaragliati fanno in pezzi o recan prigioni. L’ammiraglio, che non fuggì mai rischio, era sbarcato co’ suoi; ma non potendoli rannodare in tal contrattempo, si nascose in un cantuccio d’osteria, finchè, ritiratisi i siciliani cavalli, trovò un palischermo, e tornossi alla flotta, ove il piangean morto. Passò il Faro poi, senza tentar Messina; die’ un assalto a Taormina; nè altro ne riportò che il vanto di aver superato quegli ardui luoghi, e fattovi pochissima preda[366].
Così andando in lungo la guerra, l’anno trecento e gran tratto del seguente, passarono senz’altre fazioni, in vane parole di pace per oratori di Federigo a Carlo, pratiche di scambio de’ prigioni[367], e altre mene di parte d’Angiò, delle quali appena scopriam le vestigia nelle tenebre del tempo[368].[203] Eran deboli i due eserciti, per le cagioni che innanzi toccammo, e più per la carestia, che obbligò Loria a tornarsi con l’armata in terra di Napoli, per tor vittuaglie da provvederne Catania e le castella prese in val di Noto. Ciò fatto, vedendo uscire scarsi tutti i partiti, nella state del trecentouno, l’ammiraglio consultavane con Roberto di farsi veder, se non altro, ai nemici: e scelsero la via del mare, perchè Federigo avea oste e non armata. Spartita dunque la loro, sciolgono di Catania, Roberto per la costiera di mezzogiorno col grosso delle navi, Loria per settentrione con le rimagnenti. Osteggiava l’un Siracusa, forte di sito, avvezza a maggiori turbini di guerra, onde questo agevolmente sostenne; assaltava Scicli, e n’era ributtato del pari: ma Loria sol vettovagliò le castella di val Demone. Ed erano, l’uno presso li Scoglitti sulle rive di Camerina, ove un fiumicello serba ancor l’antico nome, l’altro alla marina di Brolo, del mese di luglio, pensando a tutto fuorchè ai rischi del mare, quando lo stesso dì scatenaronsi due opposti venti, che spingevan del pari i nemici navigli a farsi in pezzi su le nostre spiagge, assaliti, quel di Roberto da un forzato libeccio, l’altro dagli aquiloni. Gittarono l’ancora i nocchieri di Roberto; e si spezzavan le gomone, e cominciavan le galee a rompere sulli scogli, nè forza di remeggio valea; talchè tutte perivano, se il pilota della capitana non avvisava dar le vele al medesimo vento, stremandosi[204] a più potere lungi dalla riva. Così, preso capo Pachino, furon salvi i più; lasciando su quelle rive miserabile strage di ventidue navi e grande numero d’uomini; e quei che vivi giunsero a terra, ignudi e inermi, fuggendo il miglior sentiero per sospetto de’ nostri, inerpicandosi tra le spine, per luoghi più alpestri, alfin semivivi si ridussero a Ragusa, che tenea per parte d’Angiò. L’ammiraglio, perdute sol cinque galee, compier volle il giro dell’isola. Giunto a Camerina, fermossi a ripescar le ancore della flotta di Roberto, raccorre gli avanzi del naufragio; e saputo ov’era in fondo la galea di Guglielmo Gudur, vescovo eletto di Salerno, cancelliere del duca, tant’oprò con ramponi e altri ingegni, che levonne una gran cassa di moneta, e tutto appropriossi, facendo a sè guadagno del danno de’ suoi. Ma prima, soprastato innanzi Palermo, ebbe segreto abboccamento con Blasco Alagona, dicendo spossati al paro Siciliani e Angioini; agli uni e agli altri necessaria la pace[369]: e chi dir potrebbe se Loria, mentre con tal parlare intrattenea il fedel Blasco, non annodò i fili d’un attentato che indi a poco scoprissi?
Una congiura contro la vita di Federigo, tramata da tre cittadini di Palermo, di grande riputazione in tutta l’isola, per nome Pietro di Caltagirone; Gualtier dì Bellando e Guidone Filingeri; i quali ebber complice Pier Frumentino[370], marito d’una Toda, sorella di latte del re, cresciuta dall’infanzia con Federigo, e nota a corte; ond’anco[205] potrebbesi pensare, che vergogna domestica stigasse alla congiura costui. Era un ribaldo dappoco, che ripentito o tremante, flagellato dal pensiero d’essersi ingaggiato sì profondo, non seppe chiuder occhio una notte, non trovar posa sul letto; finchè la donna se n’accorse, e lo strinse, e tutto gli strappò, congiura e congiurati e assentimento che si svelassero al re. Ella innanzi dì, correva al palagio di Palermo; instava co’ famigliar!, menarla nuova, gravissima faccenda, da non tardarsi un istante; e portata alle stanze di Federigo, volle prima l’impunità del marito, poi disse per ordine la trama. Il rimanente andò ancor come suole. Presi i cospiratori e convinti; punito nel capo Pier di Caltagirone, reo principale; e Federigo, ch’era magnanimo, perdonò la vita a Bellando e Filingeri, cacciandoli solo dal reame. Di quest’attentato, più nero di tanto, quanto avrebbe distrutto insieme con la vita del re la libertà del paese, non possiamo penetrar le cagioni; perchè seccamente il narra Speciale, forse per caderne sospetti contro la corte angioina, ch’indi rappiccossi con Federigo, e diegli una sposa che sedea sul trono di Sicilia, quando Speciale dettò le sue istorie. A tal giudizio anco porta il dir dello Speciale, che si scoprisse la congiura, mentre Federigo, vista due volte l’armata nemica girar l’isola intorno intorno, temè nuova macchinazione, e con ogni studio ne investigava[371].
In questo tempo rincrudì contro amendue gli eserciti, nuovo nimico, la fame; più infesta al siciliano che allo straniero, il quale traea vittuaglia di terraferma; ma i nostri campi in due anni d’invasione steriliano, abbandonati,[206] arsi, tagliati gli alberi, svelte le vigne, rapiti gli armenti, messo a guasto ogni cosa per non picciola parte dell’isola. Ne nacque la carestia; e prima la sentì Messina, per esserle chiuso il mare dalle ostili flotte, onde a un tempo e mancavano i commerci, vita della città, e montava il caro de’ grani sopra l’universale di Sicilia, a cagione della difficoltà de’ trasporti per luoghi montuosi, occupati o infestati dall’Angioino. Già cominciavan cittadini a fuggirsene, chi per fame, chi per pretesto, passando al nemico. Stigato da quelli, venne a campo Roberto sotto Messina; pensando, per poco che aggravasse la carestia con la guerra, domare quel popolo ch’avea già fiaccato l’orgoglio dell’avol suo.
Al par che nell’assedio dell’ottantadue, pone in terra a Roccamadore; manda sullo stretto la flotta di cento galee; con le genti ei si avanza infino al borgo di Santa Croce, mettendo tutto a fuoco ed a sangue: e nell’arsenal di Messina bruciò due galee; e scaramucciava ogni dì per terra e per mare, rispinto sempre da’ nostri e dagli stanziali regi, tra’ quali capitanò una compagnia il cronista Ramondo Montaner. Ma, inviati da Federigo a vittuagliar Messina settecento cavalli e duemila almugaveri, con Blasco Alagona e ’l conte Calcerando, Roberto non li aspettò; passò con tutte le forze in Calabria, la notte medesima ch’ei seppe Blasco giunto a Tripi, e da lui mandato avviso a Messina che la dimane facessero una sortita, mentr’ei, piombando da’ monti, prenderebbe a rovescio il nemico. Raggiornato dunque, i nostri, gli uni dalle porte, gli altri dalle creste de’ monti, s’apprestavano di gran volontà a combattere, senza pensare al numero delle genti di Roberto, quando le videro fuggite. Entrato Blasco in Messina, tra l’allegrezza della ritirata e de’ rinfrescati viveri, si cominciò a braveggiare. Xiver de Josa, alfier di Calcerando, inviò in Calabria[207] una bizzarra sfida in rima, per un ministriere che la cantasse; e la canzone invitava i nimici a tornar pure in Sicilia, che non si difenderebbe lo sbarco, ma all’asciutto, in bella pianura, sariano aspettati a combattere. Montaner la dà a paura che Roberto andò via da Messina, nè fece ritorno alla sfida. Altri porta più sottil ragione di guerra: che non potea giovare a Messina quantunque salmeria di vivanda condotta per terra, consumandosi da’ cavalli della scorta più ch’e’ non fornivano; e che Roberto, tenendo lo stretto e stando in Calabria, senza rischiar giornata, toglieva a Messina gli aiuti di Reggio; e l’una e l’altra insieme avrebbe affamato, minacciato e percosso improvvisamente. Prima pose il campo a Reggio; poi con la medesima prudenza si ritirò alla Catona, per la valida difesa di Ugon degli Empuri; e ostinato stette al blocco, onde ad orribil pressura crescea la fame in Messina.
Respirovvisi un poco per lo gran valore di frate Ruggiero de Flor, oriundo tedesco, nato a Brindisi in povero stato, gittatosi fanciullo sur una barca de’ Templari, e fatto in pochi anni espertissimo navigatore, frate del Tempio, uom d’arme, formidabil corsaro. S’arricchì tra lo scempio de’ cristiani ad Acri; per invidia perseguitollo il gran maestro de’ Templari, e ’l fe’ mettere al bando di cristianità; ma tra i romori delle nostre guerre gli fu nulla. Con una galea genovese, venne costui in Catania ad offrirsi a Roberto; funne rifiutato; e passò incontanente ai soldi di Federigo, al quale non restava a temere scomunica. Allora con siciliani legni, pur dopo le nostre sconfitte navali, rifece le prime dovizie, corseggiando sopra nimici ed amici; con questo divario, ch’ai secondi lasciava cedole del valsente da rimborsar i alla pace: talchè, smisurato di pensieri all’imprendere, d’audacia all’oprare, e rapace ma non crudele, e largo donatore, anzi prodigo del mal acquistato, pei vizi al paro che per le virtù era salito in gran[208] nome in tutta l’oste di Federigo[372]. All’intendere il misero travaglio di Messina, presentavasi Ruggiero al re, dicendo sentirsi spinto e flagellato da un gran pensiero: o vittovagliar Messina per mare, o perdersi nelle onde, o, che peggio era, tra le man di Roberto e de’ frati del Tempio. Assentendolo il re, apparecchiava dodici galee; le empiea di grano a Sciacca; e con esse stava pronto nel porto di Siracusa.
Com’ei vide gonfiarsi il mare da ostro, piano senz’onda, rosseggiante come per sangue[373], s’appose che metteasi uno scirocco fortunale; e confortò le ciurme all’impresa, in cui il vento, dicea, non li abbandonerebbe in balìa de’ nemici, perchè di verno non cala sì tosto. La notte dà le vele alta tempesta; e con essa si trova a dì innanzi lo stretto. Loria scoprendolo, facea rabbiosamente escir le galee, forzar ne’ remi; ma indarno lottavano contro que’ gran cavalloni e corrente del Faro; e il templario, beffandosi de’ vani sforzi, a vele gonfie entrava in porto. Incontanente rinvilì il grano a metà del pregio; sfamò l’afflitto popolo, e ’l rafforzò in sua costanza. Ma non i campi Leontini, sclama Speciale, potean mietere, non tutti i granai d’Agrigento, rinserrar tanto, che bastasse in quell’uopo a Messina[374]!
Mentre nel blocco di Messina si disputava ostinatamente l’importanza dell’impresa, Blasco Alagona, fulmine di questa guerra, amico amantissimo di Federigo, fedelissimo alla Sicilia, non vinto unque in battaglia, ammalò in[209] Messina, come probabil è, dalla malsania degli alimenti; e in breve trapassò, non pianto in Sicilia, a sommo biasimo de’ nostri progenitori invidianti il glorioso nome, non pianto in Sicilia, fuorchè da Federigo. Ruppe in lagrime questi, per amore e interesse, alla perdita di tant’uomo; vestì a duolo; in piena corte lodò il valore, la fede, le chiare geste di Blasco. Del resto, poco tempo lasciavano allora a privato cordoglio le calamità pubbliche[375].
Perchè Messina, consumato il soccorso di Ruggiero de Flor, tornava alle stretture di prima e peggio; manicandosi, come dilicato cibo, non che de’ giumenti, ma cani, gatti, topi; e queste stomachevoli carni pur si aveano a sminuzzo; a comperare un po’ di pane non bastavan ricche suppellettili, arredi, gioielli. Narro non parti d’immaginativa, ma orribilità certe, che i nostri antichi durarono a salvamento della siciliana libertà, per lasciarne retaggio, mal guardato da poi. Allo scurar della notte crescea l’orrore in Messina, cresceano i lamenti; usciano a gridar pane, non i mendici, ma gli agiati, pelle ed ossa, scrive lo Speciale, vergognanti a mostrare il dì quelle spunte sembianze; e molti la dimane si trovavan per vie e piazze morti, qual di fame, qual dalla malignità degli scarsi e schifi alimenti. Talchè uno strazio, un compianto era per tutto il paese; caduta ogni baldanza agli uomini più valenti; le leggiadre donne, non attendendo ad ornamento e cura della persona, squallide mostravansi; e pargoletti si vider morire in braccio alle madri, poppando senza trarre una goccia dal seno inaridito. Niccolò Palizzi, cittadino e governador di Messina, meritò in questo frangente[210] somma lode di coraggio, umanità, antiveggenza, inespugnabil costanza; tra tanti pericoli e inevitabil balenare della popolazione, fu infaticabile e grande nel provvedere, con tal giusta misura, che si assicurasse la città dagli attentati de’ male contenti, e si risparmiasse il sangue pur de’ colpevoli. Da pochi all’infuori, ugual virtù ebbe il popol tutto di Messina, due volte salvator della Sicilia nella guerra del vespro; il prim’anno, con quel memorabil valore contro la forza viva di Carlo; e l’ultimo, con questa più maravigliosa perseveranza contro lo strazio della fame, lento, inesorato, inglorioso, fiaccante corpi ed animi insieme[376].
Federigo dunque, dolente com’egli era della perdita dì Blasco, fa spigolar quanta vittuaglia poteasi in val di Mazzara, e montando a cavallo, vien ei medesimo alla scorta, senza pensare a sè, ma solo al popolo; talchè sostando alquanto a Tripi, dopo lungo cammino, due pan d’orzo e un fiasco di vino, che a caso si trovò un de’ famigliali, furono la sola imbandigione del re; e sfamatosi, gittossi a terra, facendo guancial dello scudo; e riposato qualche ora, rimontò per fornire la via. Giunto presso alla città, manda i viveri, e torna indietro a raccorre nuovo sussidio, perchè bastavano appena a tirar innanzi pochi dì. Tosto rivenne dunque con altri grani, altri armenti: e allora entrò in città; allora gli occhi asciutti tra lo scempio del capo d’Orlando, sgorgaron lagrime al veder il popolo macerato, che sforzavasi a gridargli evviva.
Donde consultando con Palizzi, deliberossi a rimedio, crudo, ma men del male. Perchè i soccorsi di vittuaglie non si dileguino in un baleno, bandisce che la gente più mendica e invalida alla difesa, esca di Messina con lui, e sarà condotta in luogo ov’è cibo. Allora l’irresistibil talento[211] della conservazione di sè stesso, portò casi che da lungi s’estimano spietati: abbandonar patria, parenti, quanto v’ha di più caro; e lagrimando, scrive Speciale, ma non aspettando i figli il padre, la sposa il marito, una squallida moltitudine incominciò a poggiare su per la via dei colli: e Federigo, raccomandata la città al forte Palizzi, spogliatosi nel duro incontro ogni fasto di re, ai miseri spatrianti si fe’ compagno. Questo periodo fu il più glorioso della vita di Federigo; perchè le due virtù ch’egli ebbe sopra ogni altra, umanità e coraggio, bastavano allora a far l’eroe. «Per monti, per pendici (traduco a parola a parola lo Speciale), per burroni e dirupi con tal familiarità condusse i derelitti, con tanta carità ne prese cura, che per via toglieva or questo or quel pargoletto dalle mani delle spossate madri, recavaselo sulle braccia, o in groppa al cavallo; a mensa gli si aggreggiavano intorno i fanciulli, ed ei di propria mano spezzava loro il suo pane.» Così infino a grasse e sicure contrade li accompagnò. Drizzandosi a Randazzo con là misera plebe, per la via tra Francavilla e Castiglione, avvenne che un suo fedele, prigion de’ nemici in Castiglione, infintosi dover chiedere al re certe spese, e ottenuto di mandargli un uomo, l’avvertì occultamente trovarsi senza presidio la rocca. Nol ridisse Federigo a persona. Giunto a Randazzo, dando a vedere d’andarne a riposo, accomiata ognuno: e a mezza notte fe’ cavalcar chetamente gli uomini d’arme, e portosseli dietro senza dir dove. Fu la mattina a dì a Castiglione; occupò la terra e il castel disottano; i terrazzani, rifuggitisi in quel di sopra, astrinsero il presidio ad arrendersi. Così ritolse il feudo a Ruggier Loria. E alleggerita Messina, ripigliate forze per ogni luogo, mostrava a’ nemici assai più duro che non credeano, il soggiogamento dell’isola[377].[212] Per la qual cosa Roberto, veggendo che il blocco era nulla a’ Messinesi, e che anzi la carestia era trapassata nel proprio suo campo, e aspettando di fuori la novella oste di Carlo di Valois, levatosi dalla Catona, lasciò Messina gloriosa e vincente nella seconda prova: e per salvar le apparenze e aver agio da ristorarsi, trattò di tregua. Iolanda, fuor di sè per l’allegrezza, condusse questa pratica tra ’l marito e ’l fratello, dapprima per legati; e fermossi uno abboccamento a Siracusa. Venutovi il re, e con l’armata il duca, recando seco due compagni di oppostissima indole, Ruggier Loria e Iolanda; costei prima sbarcò al castel di Maniaci, a riabbracciar salvo e glorioso, dopo cinque lunghissimi anni, quel fratello che sopra ogni altro amò dall’infanzia. La dimane, tornata col duca, vidersi per la prima volta Roberto e Federigo, salutaronsi contegnosi; e trattato tre dì, con intendimento di raggirarsi a vicenda, e trovar tanto respitto che bastasse a ciascuno a ripigliar forze, fermarono per pochi mesi la tregua[378].
Carlo di Valois a Firenze, indi in Sicilia. Deboli effetti delle sue armi. Assedio di Sciacca. Postura e disposizioni di Federigo. L’esercito nemico si consuma sotto Sciacca. Proposte di pace e preliminari di Caltavuturo; abboccamento tra i principi; trattato di Caltabellotta. Esecuzione di quello. Convito del Valois a Messina. Riforma de’ capitoli della pace, per voler di Bonifazio. Federigo, rimaso re di Trinacria, sposa Eleonora figlia di re Carlo. Principi della Compagnia di Romania.—Settembre 1301, alla primavera del 1303.
L’ultima prova di Bonifazio fu di chiamar altre armi straniere. Voleva a un tempo soggiogar l’isola e rendere in terraferma d’Italia la riputazione a parte guelfa, abbassata in qualche provincia, rimasa in Toscana a primeggiar nel solo nome, per esser nata la divisione dei Neri e Bianchi; gli uni immansueti dal troppo favor del papa, gli altri mal celanti l’umor ghibellino. Perciò Bonifazio, che dopo la sconfitta del principe di Taranto s’era nuovamente rivolto ad implorare aiuti dalla casa di Francia, e vi avea mandato oratori suoi e di re Carlo[379], quando vide la Sicilia sempre più indomabile, e spregiarsi da’ Bianchi di Toscana e legati e scomuniche[380], prese a sollecitare più caldamente Roberto conte d’Artois, che ritornasse in Italia con forze, dandogli a ciò per tre anni le decime ecclesiastiche di sue possessioni, e i danari di mal tolto[381]; e maggiore assegnamento fece su Carlo di Valois, educato da fanciullo dalla romana corte a regie ambizioni. Costui, dopo il baratto, che si narrò, del titolo di re di Aragona con una figliuola di Carlo secondo e la contea d’Angiò in dote, si rese chiaro in arme nelle guerre d’oltremonti; e mortagli appena la[214] moglie, pensò ritentar la via del trono, chiedendo la Caterina di Courtenay, pretendente all’impero greco, offerta una volta a Federigo, poi solennemente promessa innanzi tutta la corte di Francia a Giacomo, figlio del re di Maiorca, ch’indi a poco si fece de’ frati minori, non sappiamo se per vocazione, o per dispetto dei disegni politici di Filippo e di papa Bonifazio che attraversassero il matrimonio[382]. Il papa adesso allettava Carlo di Valois con profferta di stipendio, comando d’eserciti, uficio di senator di Roma, e altre dignità: gli promettea Caterina, quand’egli muovesse alla guerra contro Federigo; e chiaramente scrivea a’ vescovi di Vicenda, Amiens e Auxerre che accordassero la dispensa, vedendo preparata l’impresa entro un dato termine, che più volte fu prorogato[383]: gli facea sperare il Conquisto dell’impero d’Oriente, con le medesime armi con cui combatterebbe in Sicilia: e parlò ancora d’elezione all’impero occidentale. A questi sogni aggiunse la realtà delle decime ecclesiastiche in Francia, Italia, isole del Mediterraneo, principato d’Acaia, ducato d’Atene, e fin d’Inghilterra; e la metà de crediti della corte di Roma per decime[215] su le chiese di Francia. Con tali sussidi assolderebbe il Valois cinquemila cavalli, per condurli in Italia. Il papa esortò Filippo il Bello e ’l clero di Francia a favorir l’impresa; prolungò a questo medesimo fine la tregua, che procacciato avea tra Filippo e ’l re d’Inghilterra[384].
Per tal modo, di settembre milletrecentouno, Carlo di Valois trovossi a corte del papa in Anagni, con re Carlo e’ figliuoli; e fu chiamato capitan generale in tutti gli stati ecclesiastici, e rettore di Romagna, Marca d’Ancona, ducato di Spoleto e altre province, con larga autorità negli affari temporali[385]. Non mancaron frasi a Bonifazio per mandarlo in Toscana, con titolo di conservator della pace, e vero uficio di tradimento e di violenza: cominciando la bolla con parlare de’ Magi, di Salomone, della saviezza, della pace; ed esagerando i disordini, gli scandali, la disubbidienza, e anche la ingratitudine de’ popoli di Toscana alle paterne cure del pontefice, che volea mantenervi la pace, e n’avea dritto, com’era noto ad ognuno, massime nella vacanza dell’impero[386]. Si stabilì in questi[216] consigli d’Anagni, che differita a primavera la guerra di Sicilia, svernasse il Valois in Toscana. Ito dunque di novembre a Firenze, ei fe’ quanto vollero i Guelfi; cacciò i Bianchi, e tra essi quel sovran poeta, che stampava d’obbrobrio, fino alla consumazione de’ secoli della presente civiltà, il nome del falso principe senza terreno. Resa tal tranquillità alla Toscana, tutta la benignità si rivolse alla Sicilia. Si rividero a Roma di marzo del trecentodue quei medesimi principi; ove Carlo II e Roberto prometteano al Valois d’aiutarlo all’impresa di Costantinopoli, ne’ termini fermati tra Carlo I e Baldovino, e di non far pace con Andronico Paleologo[387]. Allor mosse il Valois alla volta di Napoli, nel mese d’aprile. Alle armi preparate il papa aggiunse nuove scomuniche contro Federigo; la piena autorità del vescovo di Salerno legato pontificio[388]; l’assoluzion de’ peccati, come in crociata di Terrasanta, a tutti coloro che morissero ne’ combattimenti di Sicilia, o combattessero fino alla compiuta vittoria[389]. I soldati del Valois ebbon guarentigia da Carlo II, che venendo a morte nel territorio del regno, non si toccherebbero i loro beni, com’era voce che usasse la corte di Napoli verso gli stranieri; ma si disdicea e si chiamava aggravio ed abuso[390]. Al medesimo tempo il re creava Carlo di Valois suo capitan generale nell’isola di Sicilia[391]; gli conferiva pien potere di render la grazia regia a que’ ribelli; di redintegrarli in tutte le facoltà, dignità, onori; di conceder feudi;[217] perdonare a’ rei di misfatti privati, ai ladri del danaro pubblico; assolvere i debiti de’ comuni e degl’individui: largamente spaziandosi nelle lodi della propria clemenza verso quel popolo, che a punirlo secondo suoi meriti, avrebbe potuto spegnerlo di fame e di ferro, e diroccare le sue case[392]. Finalmente prevedendo l’esito di tanto romore; e poco fidandosi agli auguri di gloria trionfante, con cui principiava le sue lettere al Valois, diegli di poter fermare la pace con Federigo d’Aragona, entro alcuni termini che non sappiamo; e anco promesse ch’ei non la farebbe senza saputa del Valois[393]. In Napoli eran pronti, con le bandiere apostoliche, un’armata di più di cento legni grossi, torme numerose di cavalli, Roberto e Ramondo Berengario, figliuoli di re Carlo, baroni francesi moltissimi. Ed era il quinto o sesto formidabile sforzo, che i medesimi potentati, con gli stessi mezzi, movean contro Sicilia, contandosi già l’anno ventesimo della guerra del vespro[394].
L’avea affrettato Roberto, il quale, appena sottoscritta la tregua con Federigo, adunava in parlamento a Catania i capitani dell’oste, col cardinal Ghepardo e’ Siciliani di sua parte; e facea vanti in iscusa de’ non lieti successi della guerra: tornerebbe immantinenti con forze potentissime; lasciar intanto in Catania, vicario il pro Guglielmo Palotta, e pegni dell’amor suo la Iolanda e Lodovico, da[218] lei partoritogli poc’anzi in Catania. A Napoli l’accolser gioiosamente, come per vittorie, il re, gli ottimati, la plebe; ma stringendosi a consiglio, con parlare men gonfio, ei mostrava la necessità di nuovi sforzi estremi. I Siciliani allo incontro, ammaestrati dalle due sconfitte navali, e non potendo adunare un giusto esercito nell’isola occupata da varie bande, s’apprestavano a rifar guerra gurrriata. Coosigliavali ancora la sperienza del primo passaggio di Giacomo, fors’anco della guerra di Catalogna pell’ottantacinque, de’ prodigi che operan poche bande agguerrite e risolute, in regioni montuose, tra siti forti, e universal simpatia de’ popoli, che a te fornisce, toglie al nemico tutti i comodi della guerra, e finisce sempre con vittoria su la superbia soldatesca degli stranieri. Con tali disegni, Federigo girava per l’isola; sopravvedea le castella; iva esortando e infiammando le popolazioni delle città, che assaltate dal nemico, tenesser fermo, e non fallirebbe il re d’aiutarle; chiamate all’oste, pronte corressero. Spirata la tregua, Federigo nel cuor del verno, espugnò Aidone; Manfredi Chiaramonte gli racquistò Ragusa e con maggiore costanza per ogni luogo si ripigliavan le armi[395].
L’oste de’ collegati, per disegno di Ruggier Loria, si drizzò contro val di Mazzara, prova mal tornata al principe di Taranto; ma parve da ritentar il paese, abbondante, fin allora queto, piano, agevole a’ cavalli. Approdano dunque in sull’uscir di maggio a Termini, città a ventiquattro miglia dalla capitale; e se ne insignoriscono alla prima perchè il popolo non fece difesa, ascoltando un Simone Alderisio, traditore o codardo. S’accampò ne’ dintorni, questo, dicono i nostri scrittori, innumerevole esercito[396], sì mal ordinato, che in certe feste, rissatisi tra loro Francesi[219] ed Italeani, ne rimaser morti duemila[397]; e fu mestieri appettar di Puglia un sussidio di ventidue navi di grano, perchè si potesse muovere il pie’ dagli alloggiamenti. Ma spargendosi per lo paese, altro acquisto non riportaron che di greggi e rustiche prede; perchè Federigo avea munito ottimamente ogni luogo; era venuto ei medesimo a porsi a Polizzi, non molto discosto da Termini, con provvedigione da durar tutto assedio. Perciò, andati i nimici a Caccamo, ne tornaron col peggio; per la fortezza del luogo e la virtù di Giovanni Chiaramonte. Voltisi a Polizzi, e mandato a sfidar il re, presentando battaglia nella pianura, n’ebbero accorta risposta: che aspettassero, e sì a tempo il vedrebbero. Non osando assediarlo in Polizzi, e volendo insignorirsi della città più importante nel gruppo dei monti occidentali dell’isola, mutarono il campo a Corleone. Ma prevennerli i nostri sì accortamente, che una man di cavalli, sotto Ugone degli Empuri e Berengario degli Intensi, era entrata già in Corleone quando mostrossi l’oste angioina; eran pronte le armi, i cittadini sulle bastite: e ricordavansi essere stati in tutta l’isola i primi a seguire il movimento del vespro di Palermo. Con questo animo, schiudono una porta al nemico movente all’assalto; entrato, lo tagliano a pezzi; nella quale zuffa il fratello del duca Bramante, mentre confortava i suoi alla carica, sul limitare della porta, fu morto d’un sasso scagliatogli da una donna. Dopo diciotto giorni d’asseto, con onta e perdita Valois si ritrasse[398].
E non guardate pur da lungi Palermo, Trapani, Mazzara, trapassò alla costiera meridionale dell’isola; e pose il campo a Sciacca, non per la importanza, ma per la facilità, dell’acquisto; potendosi insieme osteggiar con la flotta.[220] Ma a Sciacca l’annunzio dell’assedio non avea punto sbigottito i cittadini, capitanati dal lor pro Federigo d’Incisa[399], che si rallegraron anzi di tal destro a spiegare, innanzi la Sicilia tutta, la loro virtù; stamparon bastioni e fossi; rabberciaron mangani e altri ingegni; in tutti i modi apprestaronsi al combattere. Con pari ardore veniano i nemici; ingaggiandosi i capitani tra loro, a non levarsi di Sciacca che non l’avessero espugnato: perchè parea agevole; e vergognavano che in cinquanta dì dallo sbarco, non avesser ferito un sol colpo con avvantaggio. L’armata angioina fece vela da Termini; occupò, non si vede a qual fine, la picciola terra di Castellamare; e senz’altra fazione surse alla spiaggia di Sciacca. Cominciato dunque l’assedio di mezzo luglio, si combattea vivamente ogni dì; gli assedianti facean giocare lor macchine, davano spessi assalti: ed era nulla ai difenditori, confortati dalla vicinanza del re, venutosi a porre co’ suoi stanziali a Caltabellotta, discosto nove miglia da Sciacca. Mandovvi poi Simone Valguarnera, con dugento uomini d’arme e più numero di fanti: il quale entrato di notte, a randa a randa la spiaggia, tra le poste nemiche, aggiunse tal franchezza agli animi de’ cittadini, che molti duri colpi indi n’ebbero le genti collegate.
Più atroce danno patirono dallo stare in maremma scoperta, sotto l’arsura del sollione, in faccia all’Affrica; onde furiosamente s’apprese nel campo la mortalità de’ cavalli, che allor travagliava molte parti d’Europa; e nacque anco una malattia che repente percotea gli uomini, e n’era a tale già il campo, da poter montare appena cinquecento cavalli. Federigo già ripensava alla vittoria del padre, allo scempio[221] delle formidabili schiere di Francia sotto Girona. Montaner, con pueril zelo, qui scrive che il conte degli Empuri, Ruggiero de Flor, Matteo di Termini e gli altri capitani, stigassero Federigo a dar dentro, e sdrucire quello scheletro di esercito; e ch’ei negasse di portare tal onta a casa di Francia. Il vero è, che volea lasciarlo struggere tuttavia dassè; e comandava l’adunata di tutte le milizie feudali e cittadinesche a Corleone, per condurle a sicura vittoria[400].
Ma il Valois, come ciò intese, e vedea menomare di dì in dì le sue genti, parendogli vergognosa fuga se lasciato l’assedio si rimbarcasse, e inevitabil danno se aspettasse l’assalto delle nostre genti, pensò trarsen fuori con una pace; diffidando inoltre di Bonifazio, che l’avea frustrato nella speranza del governamento di Roma; e tardandogli di fornir bene o male l’impresa di Sicilia, sì che restasse libero a tentar acquisti per sè nell’impero di Oriente. Ristrettosi dunque con Roberto, che mal si piegava, come giovane e feroce, a lasciar sì bella parte del retaggio paterno, ricordavagli tutte le vicende della siciliana guerra; quant’oro, quanto sangue si fosse sparso senza poter mai ridurre quest’isola; e ch’or peggio dileguavansi le speranze, per essere stracco il reame di Napoli, esausto l’erario pontificio, caduta la riputazione di lor armi, e rinnalzata quella di Federigo, che saprebbe riassaltar le Calabrie, conturbare il regno, accender fuoco nell’Italia di sopra, col favor dei Ghibellini. Le quali parole non persuasero Roberto; ma il vinse la necessità dell’esercito, e l’autorità del Valois. Fors’anche era il caso assegnato[222] per la pace nelle dette istruzioni del re. E certamente, o in Napoli quando si deliberarono le istruzioni, o a Sciacca, quando si usarono, per assentir tal subito fine della guerra, tal inopinato esito de’ disegni della lega francese e guelfa, non solamente si risguardò alle condizioni dell’esercito, ma anco si conobbe troppo arduo partito il continuare l’impresa contro la Sicilia, pronta sempre a quella maniera di guerra, poco dispendiosa a lei, poco rischiosa; non così a’ collegati che avrebbero avuto a rifare altro esercito, armar altra flotta, adunar altri tesori, mentre gli elementi della lega, come alla lunga avviene, tendeano a disciogliersi. Deliberato dunque l’accordo, Carlo mandava Amerigo de Sus, e Teobaldo de Cippòio, oratori suoi, a Federigo, che s’era tirato indietro a Castronovo per mettere insieme le sue genti[401]. Federigo assentì il diciannove agosto i preliminari della pace, e che, ad ultimarla, venissero ad abboccamento con essolui Valois e Roberto; intanto si cessasse dalle armi.
E il dì ventiquattro, tra Caltabellotta e Sciacca, in certe capanne di bifolchi, vennero, con cento cavalli ciascuno, Federigo e Carlo di Valois; favellaron soli gran pezza; poi fu chiamato Roberto[402]. Nè forse senza pianto si incontraron questa fiata Roberto e ’l siciliano re, per la perdita di Iolanda, amorevolissima ad entrambi, giovane, bella, di santi costumi, genio di pace tra lo sposo e ’l fratello; e morta sola a Termini, mentre stava l’uno allo assedio di Sciacca, l’altro pronto a piombargli addosso[403]. Non guari dopo, e in dolor pari, trapassò in Ispagna la regina Costanza, che nella pietà religiosa perdè quasi la carità di madre, non onorando nel testamento il suo glorioso[223] Federigo, perchè era percosso dagli anatemi di Roma[404]. Nell’abboccamento dei tre principi furon indi chiamati, dall’una parte Ruggier Loria, dall’altra Vinciguerra Palizzi, e poi più altri nobili e capitani. Trattarono alquanti dì; poco mutossi da’ preliminari: e fu fermata il ventinove agosto, giurata il trentuno la pace.
Per la quale restava a Federigo la Sicilia con le isole attigue, da tenerla, finch’ei vivesse, da sovrano assoluto, independente da Napoli e dal papa, con titol di re dell’isola di Sicilia, o re di Trinacria, quel più fosse a grado a Carlo II. Darebbe costui la figliuola Eleonora, in moglie a Federigo: a lor prole si procaccerebbe il reame di Sardegna o di Cipro, o si pagherebber centomila once d’oro: e allor dovrebbero lasciar l’isola di Sicilia. Renderebbersi da Federigo le terre occupate di là dallo stretto; dagli Angioini quelle prese in Sicilia; e similmente, senza riscatto, il principe di Taranto, e da amendue le parti tutti gli altri prigioni: perdonerebbesi ai sudditi datisi al nemico; ma i feudatari perderebbero tutti feudi dal principe da cui si fossero ribellati. Da questo andarono eccettuati solamente, come avviene, i due più potenti, Ruggier Loria e Vinciguerra Palizzi; fatta ad essi abilità di tenere, il primo il castel d’Aci in Sicilia, l’altro Calanna, Motta di Mori, e Messa in Calabria. Sarebbero reintegrati, continuava il trattato, i beni ecclesiastici in Sicilia, allo stato innanti la rivoluzione dell’ottantadue. Il Valois si adoprerebbe a ottener la ratificazione di re Carlo e del papa[405].[224] Fu questo il trattato di Caltabellotta, o, come il chiaman anco, di Castronovo, per esservisi fermati i preliminari.[225] Molto onore n’ebbero per tutto il mondo re Federigo e la Sicilia. E in vero la nazione, dopo venti anni, usciva gloriosa e vincente da guerra sì disuguale; Federigo, contro tal soperchio di forze collegate, si mantenea la corona sul capo: nè all’una ed all’altro tornava minor lode, dall’aver condotto a tal estremo, in tre mesi, il Valois, Roberto,[226] Loria, tant’oste, tal armata; e piegato a lor volontà il superbissimo Bonifazio. Nè si dica che non seppero i nostri usar la fortuna contro quel diradato esercito. Dovean essi negar bene una breve tregua, avvantaggiosa solo all’Angioino; era il contrario una pace, nella quale si asseguisse l’importanza di sgombrar via il nemico, e tener libera e tranquilla la Sicilia, foss’anco per pochi anni. Perchè gli Angioini, pur volti in fuga e sconfitti a Sciacca, tenendo molte cittadi e castella, avrebbero potuto continuare a lungo l’infestagione dell’isola; e la pace, ancorchè pregna de’ semi di nuova guerra, dava comodo a’ nostri a rassettar le entrate pubbliche, ordinar le milizie, ristorar le città, racchetare i baroni, prepararsi a ripigliar le armi, quando che fosse, freschi e gagliardi; mentre le forze de’ nemici, come collegate, menomar doveano di necessità col tempo, che muta interessi, occasioni, umori dei potentati. Donde niuno fu che non vedesse futile e vano, il patto del rendersi l’isola alla morte di Federigo; parole da salvar le apparenze: e ciò vuoi significare il Villani, chiamando questa una dissimulata pace; malcontento, come ogni altro guelfo, per la riputazione che ne perdea lor parte, la forza che crescea a’ Ghibellini, tenendosi la Sicilia da Federigo. Indi tutte le fazioni d’Italia, per contrari umori, diersi a lacerare il nome di Valois, motteggiando: esser venuto in Toscana a metter pace, in Sicilia a far guerra; e aver lasciato guerra in Toscana, vergognosa pace in Sicilia[406]. E meritò maggior biasimo, di baratteria contro la corte di Roma e casa d’Angiò e tutta lor amistade, per un altro accordo fermato in questo tempo con Federigo, che l’aiutasse d’uomini e navi alla impresa di Costantinopoli, e non fermasse pace altrimenti con l’imperadore Andronico Paleologo[407].[227] Promulgata da Federigo, lo stesso dì ultimo d’agosto, l’importanza del trattato, senza dir de’ patti disfavorevoli, rivocossi il comando dell’adunamento in arme a Corleone; e si sciolse, dopo quarantatrè giorni, con somma gloria di Federigo d’Incisa e de’ cittadini, l’assedio di Sciacca: ma la pace de’ principi non tolse sì tosto la ruggine dagli altri animi: e terrazzani è soldati, scrive Speciale, mescolati vagavan ora per la città, ora per gli alloggiamenti, ma sospettosi e guardigni, per abitudine inveterata all’offendersi. In breve tempo si rimbarcò l’esercito francese per Catania: ebbe rinfreschi per ogni luogo: radendo le spiagge, n’ammiravano, massime i soldati gregari, l’amenità; e con la gaiezza e facilità di lor sangue a’ sentimenti generosi, ripentiansi dell’esser qui venuti a recare e riportar tante afflizioni. Intanto da Termini sciogliea per Napoli una galea, per nome l’Angiolina, col cadavere di Iolanda. Federigo, da Caltabellotta n’andò a Sutera, a liberare il principe di Taranto, tramutatovi, come in più sicuro luogo, alla passata del Valois; e tutti gli altri prigioni fe’ recare in Lentini, e reseli, insieme con Filippo, al duca di Calabria, venutovi da Catania. Quivi Roberto e Federigo, per[228] simpatia di gioventù, di valore, e del comun cordoglio di Iolanda, strinsersi a tal dimestichezza, che come fratelli sollazzavansi, insieme; e dopo una caccia dormirono in un letto, come di que’ tempi si usava per dimostrazione d’amistà. Di Lentini stessa i legati pontifici sciogliean la Sicilia dalle scomuniche[408]. Andavano i principi insieme a Catania; dove Federigo perdonò largamente a’ cittadini; fece qualche dimora con essi, in segno di renduta grazia; e fuvvi sembianza di spegnersi odio assai più atroce, quando Ruggier Loria, per la prima volta dopo lo scoppio de’ loro sdegni nella reggia di Messina, gli s’inginocchiò dinanzi, a render omaggio per la signoria del castel d’Aci. S’erano sgombrati intanto da’ nemici gli altri luoghi di Sicilia; e apprestandosi lor gente a tornarsene in terra di Napoli, Loria fe’ vela con l’armata; i principi francesi, per tedio del mare, cavalcarono, permettendolo re Federigo, da Catania a Messina[409].
E in Messina mostrossi anco tra le allegrezze della pace, quella virtù che s’era provata in durissimi incontri; perchè gli uomini son così fatti, che i grandi eccitamenti delle passioni pubbliche, li rendono a un medesimo tempo audaci nell’arme, pronti e accorti nei consigli, arguti e forti nelle parole, e generosi ne’ tratti, e in ogni cosa di gran lunga più dignitosi e alti che nel mediocre viver di prima. I nobili messinesi, in abbigliamenti di pace, si faceano incontro a’ principi; li conduceano a città; e sontuosamente albergavanli. Ma convitando Valois i primi della città, e tra questi Niccolò e Damiano Palizzi, che nel blocco di Roberto avean tenuto, l’un la città, l’altro il castello, Niccolò,[229] chiamato a sè il minor fratello, ricordavagli quante fiate servì a tradigione l’allegria delle mense (nè Carlo di Valois era Catone); essere in quel ritrovo il fior della città; gli ospiti inimicissimi, fidanti nel favor del pontefice; l’occasione da tentar coscienze anco men larghe, perchè, presa d’un colpo di mano Messina, che sarebbe della Sicilia? e per tal acquisto qual peccato non si rimetterebbe? Perciò ammoniva il fratello che restasse nella rocca, e non s’arrendesse per quantunque caso atroce; non se vedesse lui medesimo tra’ nemici, con la testa sul ceppo, e ’l manigoldo levar in alto la scure. Damiano seguì il consiglio.
Qui lo Speciale si fa a descrivere il convito, il desco ricoperto di bianchissimi lini, il vasellame d’oro e d’argento, i donzelli in eleganti abiti, pronti a un girar d’occhio dello scalco; e altri dar acqua alle mani, altri servir le vivande, girare i vini in tazze sfolgoranti di gemme; e somiglianti sfoggi di lusso, contro i quali ei si scaglia, lamentando che principi e cittadini, e fin que’ ch’avean fatto voto d’imitare la povertà di Cristo, con tai vanità desser fondo a loro sostanze. Ma dopo le prime imbandigioni, quando comincia il favellìo, sedendo Niccolò Palizzi tra Roberto e il Valois, costui domandavalo: nelle stretture estreme del blocco, quando vedeansi gli uomini cader dalla fame, e fallir anco quei lor cibi pestilenziali, qual mente fosse stata ne’ cittadini? E Niccolò, con un inchino: «Signor, gli disse, sia fatto degli uomini, sia influenza de’ Cieli, dal nome francese abborriam noi sì fieramente, che per serbare quest’odio nostro, consumato l’ultimo boccon delle carni de’ giumenti e de’ cani, avremmo ucciso le donne, i vecchi, i bambini; e ristrettici chi nel palagio, e chi nella rocca, fitto avrem fuoco alla città, per mostrar che non mancasse in Sicilia la tremenda virtù di Sagunto e Perugia!» Carlo, crollando il capo, si volse a Roberto: «Vedi chi son costoro! Ben si[230] è fatta la pace!» Entro pochi dì valicarono in terraferma; e restò la Sicilia libera e gloriosa con Federigo[410].
Mandava poi re Carlo la figliuola con un corteo nobilissimo a Messina; e quivi splendidamente si celebravan le nozze, di primavera del trecentotrè[411]. Già spariva ogni traccia della guerra, fuorchè la gloria e i guiderdoni: che n’ebbe Messina nuove franchige da collette qualunque, e giurisdizione su più vasto territorio[412]; Sciacca immunità dalle dogane[413]. Ma il più salutare tra’ provvedimenti fatti dopo questa pace, fu di sgombrar via i mercenari siciliani, calabresi, genovesi, spagnuoli, che, finita la guerra, s’eran gittati in masnade a infestar l’isola con ladronecci e violenze. Il più avventuroso tra’ lor condottieri, quel Ruggiero de Flor, che sdegnava tal poca rapina, e per la pace si vedea ricader tra l’ugne del gran maestro del Tempio, s’avvisò di portar quella feroce gente a’ soldi dell’imperator di Costantinopoli, contro i Turchi che duramente travagliavano l’impero. Gliel’assentì pronto Federigo, per torsi tal tristizia di casa; fornì loro navi, armi, vittuaglie, e ogni cosa necessaria: e sì andarono in Oriente; dove traendo a loro i mercenari degli Angioini, lor veri fratelli, e quanti altri rotti e feroci uomini v’erano nimici del viver civile sotto le leggi, fecero quel formidabil corpo, che si chiamò la Compagnia catalana o di Romania, segnalatissimo per valore, infame per fatti d’iniquità e di sangue, contro amici e nemici; nel quale videsi tra i principali condottieri il cronista Ramondo Montaner. Tal gente acquistò[231] allora al re di Sicilia il titolo del ducato d’Atene e di Neopatria[414].
Il papa fu l’ultimo ad assentire la pace. Venuto a lui il Valois, nel ripigliò con sì agre rampogne, che ’l Francese fu per metter mano alla spada[415]; esacerbato ancora dalla discordia accesa tra il papa e casa di Francia per la disciplina ecclesiastica, di che nacquer pochi anni appresso la scomunica di Filippo, la presura di Bonifazio ad Anagni, e ’l disperato morir suo. Forse per cagion di queste contese, s’ammorzò alquanto la superbia di Bonifazio contro Federigo; e benignamente scriveagli: non poter ammettere senza disonor della Chiesa l’accordo com’era, ma si accomoderebbe; egli intanto preveniva Federigo nelle vie della pace; il ribenediva; non ricusava la dispensagione per le nozze con Eleonora; del resto mandava in Sicilia, a riformare i patti, i vescovi di Salerno e Bologna, con Giacomo di Pisa famigliar suo. E ’l re di Sicilia, che incominciava a gustar le delizie del viver tranquillo, piegossi a riconoscere per oratori la feudal signoria di Roma, disdetta chiaro abbastanza nel trattato di Caltabellotta, ed or voluta senza remissione da Bonifazio. Mandò dunque a corte di Roma il conte Ugone degli Empuri, Federigo d’Incisa, e Bartolomeo dell’Isola, promettendo e ’l giuramento ligio, e ’l censo di tremila once d’oro all’anno, e il servigio di cento lance, o vogliam dire trecento cavalli; imitazione de’ patti a’ quali Clemente avea[232] dato al conte d’Angiò i reami rapiti a Manfredi e a Corradino. Ebbe Federigo il titolo di re di Trinacria; promesse a corte di Roma la comodità di trarre grani dall’isola, e l’ampia redintegrazione de’ beni ecclesiastici. Nel qual modo, peggiorato per maneggi l’accordo che onorevole s’era fatto con le armi in pugno, Bonifazio l’approvò per costituzion pontificia del dì ventuno maggio milletrecentotrè, col voto del sacro collegio, dissentendo un sol cardinale[416].
Fu questo fatto di Federigo, illegittimo e non obbligatorio per la Sicilia, sì per virtù dei primitivi dritti di lei, e sì per la espressa e fondamentale legge del milledugentonovantasei, che vietava qualunque atto di politica esteriore senza assentimento della nazione. Perchè non abbiamo, nè sappiamo essersi allegato giammai, documento di tal approvazione nè alla pace di Caltabellotta, nè alle riforme di Roma. Ma resta in dubbio se Federigo lasciar volle quest’appicco a disdir quando che fosse e ’l trattato e l’omaggio al papa, o se, mutando il sostegno dell’amor dei popoli con la federazione de’ potentati, si contentò meglio del magro accordo, che della gloriosa resistenza; e prese a violar le sue medesime leggi, come prima il potè senza pericolo. Certo egli è dall’un canto, che Federigo non pagò giammai censo a Roma[417]; che non mandò le milizie; ch’indi a pochi anni ruppe nuovamente la guerra; che ripigliato l’antico titol di re di Sicilia, mandò in un fascio e trattato e papal costituzione[418]; che infine fe’ riconoscere dal parlamento la successione di Pietro II, onde il legal voto della nazione dileguò del tutto i vestigi di tali vergogne, se alcuno ne potea lasciare il fatto del[233] solo Federigo contrario alle leggi. Dall’altro canto è da considerare, che la guerra l’avea stracco; che puzzavagli la licenza dei baroni e de’ soldati mercenari; che gl’increscean forse gli stretti limiti della costituzione del novantasei; e sopra ogni altro, ch’ei non fu sì grande come il presenta la istoria, che mal serba misura nel biasimo o nella lode. Ebbe Federigo animo gentile, affabile, adorno dalle lettere, dato agli amori, pieghevole alle amistà, ma troppo, sì che reggeasi a consigli di favoriti: e ne nacque il turbolento patteggiar della sua corte, che ’l portò ad estremo pericolo con la ribellione di Ruggier Loria, e posate le armi di fuori, accese in Sicilia le dissenzioni civili. Nei maneggi di stato non fu molto accorto o magnanimo, nè coraggio politico ebbe, al paro che ’l soldatesco, questo principe, che nel novantacinque si lasciò raggirar da Bonifazio, e per poco non tradì i Siciliani, nè spegner seppe, nè accarezzare i suoi baroni; e dopo questa pace, ripigliando le armi al tempo dell’imperadore Arrigo di Luxembourg, troppo osò, poco mantenne; meritò nota, ancorchè troppo severa, di avarizia e viltà, da quel Dante ch’a lui s’era volto, come all’erede del grande animo di re Pietro. Tal sembra, su i più certi riscontri istorici, Federigo, lodato a cielo da Speciale suo ministro, da Montaner soldato di ventura catalano, e ammirato dalle età seguenti, perchè a lui si è dato quanto oprarono ne’ primordi del suo regno i Siciliani, esaltati ad eroiche virtù dalla rivoluzione del vespro. Ma s’ei non levossi con la sua mente all’altezza di gran capitano o uom di stato, avrà sempre una splendida pagina nelle istorie siciliane, come franco e schietto, costante nelle avversità, solerte in guerra, prode in battaglia, vigilante nel civil governo, umano co’ sudditi, degnissimo di fama per le generose leggi politiche che ne restano col suo nome, le quali s’ei[234] non dettò, ebbe prudenza certo e magnanimità da assentirle[419].
Conchiusione. Qual era la Sicilia prima del vespro; qual ne divenne; qual rimase.
La pace di Caltabellotta, che fece posar la prima volta le armi in venti anni dalla sommossa dell’ottantadue, è il termine del mio lavoro, avendo chiuso quella felice rivoluzione ch’io prendeva a narrare. Perchè non solamente i potentati di fuori, i quali, bene o male, vantavan ragioni su l’isola, s’acquetarono al reggimento di quella per lo innanzi chiamata ribellione; ma anco dentro da noi dileguossi la spinta del vespro; benchè dopo corto volger di tempo, si fosse ripigliata la guerra con esempi dell’antica virtù, e disdetti i termini del trattato di Caltabellotta, e sostenuta, in tutta la integrità, l’independenza della nazione. Ma tuttociò ritraea come debole immagine que’ primi tempi gloriosi; e sforzi del nimico men gagliardi, con più fatica si rispinsero; e mancava il rigoglio d’attual movimento; scopriasi il mal germe della feudalità rimbaldanzita; e ogni cosa muovere da una corte fiacca e discorde, anzichè dalla volontà della nazione. Del rimanente, prima ch’io lasci questo nobile subbietto, mi par bene ricercare qual fosse la Sicilia innanzi il vespro, qual ne divenisse, qual restasse poi.
Nel secol duodecimo la veggiam noi fiorita d’industrie, civile e potente, forse sopra la più parte degli stati d’Italia, domar quanti piccioli principati stendeansi dal Faro al Garigliano; e per questa nuova signoria, entrar nelle guerre civili d’Italia; e al medesimo tempo avviarsi a più intima unione con quelle province d’oltre lo stretto, e a reggimento più chiuso. Questo ebbe sotto casa Sveva, per lungo tratto del secol decimoterzo, con grande soperchio di[237] tasse: ma l’alta mente de’ principi mitigò l’uno e l’altro con buone leggi civili, gentilezza di costumi, cultura degl’ingegni, da avanzare nel rinascimento delle lettere ogni altra provincia italiana; e insieme die’ l’andare a forti opinioni contro la corte di Roma. L’avarizia e severità, spiacendo più che non allettavano gli ornamenti, piegarono i popoli alla repubblica del cinquantaquattro. Spenser questa i baroni; e tornò la dominazione Sveva con que’ vizi e quelle virtù: onde poco appresso ricadde, più per mala contentezza de’ popoli, che per forza straniera.
Ma il governo angioino, invece di far senno da ciò, inebbriossi d’ogni più insensato abuso; mutò non solamente le persone de’ feudatari, ma di fatto anco innovò la feudalità; nel rimanente correndo al peggio sulle tracce degli Svevi, e sforzandosi, direi quasi, a trar tutto alla testa il sangue, per farsene più vigoroso alle ambizioni d’Italia e d’Oriente. Sì duro ei tirò, che la ruppe. L’antagonismo delle schiatte, il sentimento di nazione latina fece sentir più duramente il governo tirannico; che anche antico e nazionale spinge i popoli a ribellarsi come il possano. De’ due popoli si mosse anzi il Siciliano che l’altro, o per l’indole più ardente, o per maggiore oppressione; perchè la corte, tramutata in terraferma, era quivi compenso ai mali comuni, e rispetto all’isola nuovo oltraggio politico, e danno materiale; onde, dopo la rivoluzione, lo stesso Carlo I e Carlo II si fecero a profferire special governamento alla Sicilia, e vicario con larghissima autorità, e moderate leggi: rimedi che dati a tempo avrebbero forse distornato i tremendi fatti del vespro, ma sì tardi non trovarono chi li ascoltasse. La congiura o non operò nel movimento, o poco l’affrettò. L’occasione al tumulto potea tardare; potea riuscir male la prima, la seconda prova; non fallire la rivoluzione, in tal disposizione de’ popoli, e assurda nimistà de’ governanti.
Come per forza d’incanto, al primo esempio che lor[238] balenò innanzi agli occhi, si rifecer uomini quegli imbestiati in vil gregge. Tremavano a un guardo; sospettosi tra loro; selvatichi e fieri, pur senza saper levare un pensiero al resistere; incalliti alla povertà, alla ingiustizia, al disprezzo, al disonor nelle famiglie, alle battiture sulle persone; sol ritraenti dell’umana dignità nell’odio che chiudevano in petto: e chi in cotesti avrebbe riconosciuto il legnaggio d’Empedocle, Dione, Archimede; de’ compagni di Timoleone, dei vincitor d’Imera? E pure un attimo d’esempio bastò. Quell’ignoto uccisor di Droetto, con un sol colpo, rese la greca virtù al popolo di Palermo; questo a tutta l’isola. Nacque la rivoluzione dal volgo; ed ebbe nei primi tempi sembianti popolani: frammischiatisi i nobili, la tirarono alla monarchia ristoratrìce delle antiche leggi. Allora tutta la nazione unita si adoperò al nuovo ordin di cose; non guardandosi le minuzie di pochi nobili parteggianti per gli Angioini, e pochi più spenti, per ingratitudine o sospetto, dal nuovo principe. E chi guardi i Siciliani in questo periodo, entro il medesimo anno ottantadue che li avea veduto marcire nella non curanza della servitù, li troverà franchi al combattere, pronti ed accorti al deliberare, devoti alla patria, affratellati tra loro, pieni di costanza, nè spogli di generosità tra lo stesso disunan costume de’ tempi: e dopo breve tratto, li scorgerà fatti provati guerrieri e marinai; pratichi negoziatori nelle faccende di stato; fermi oppositori alla corte di Roma, e pur tenaci nella religion del vangelo; e legislatori sorger tra loro, che i nomi ignoriamo, ma ne restano, irrefragabil testimonio, le savie leggi; e coltivarsi le lettere, prevalendo, com’è naturale in un movimento politico, gli studi della storia, su la poesia che fioriva nella corte Sveva; e Guido delle Colonne ne’ primi tempi della rivoluzione dettare in Messina una storia Troiana[420];[239] il Neocastro una nazionale e contemporanea, lasciando belli esempi allo Speciale, allo Anonimo, Simon di Lentini, Michele di Piazza e altri; e lo stile vivace e biblico, ritrarre il sollevamento dei pensieri; e quel che più è meraviglioso, tra ’l romor delle armi prosperare anco le industrie. Tanto egli è vero, che non v’ha parte alcuna degli esercizi degli uomini, che non prenda novella vita alle boglienti passioni d’un mutamento politico!
I quali effetti nascon talvolta da trascendente ingegno d’uno o pochi uomini, che rapisce la moltitudine là dove ei vuole; talvolta da felice talento de’ popoli, per la necessità e forza degli eventi, onde flnanco i mediocri compion dassè grandissimi fatti, senza la virtù d’una mente straordinaria che li governi. E il secondo caso parmi di scernere nella rivoluzione del vespro. Perchè, messe da canto le favole di Giovanni di Procida, le quali pur abbandonano il protagonista al cominciamento della rivoluzione, nessun uomo di quell’altezza ch’io dico, si trova infino al primo assedio di Messina; e questa diffalta forse fece dileguar la repubblica. In Messina poi Alaimo di Lentini meritò nome immortale; come a lui si deve e ai Messinesi, che la Sicilia non fosse soggiogata da quel possente esercito di Carlo. Re Pietro e Ruggier Loria spensero Alaimo; ma insieme educarono i nostri alla guerra, ed egregiamente usarono le virtù degli Spagnuoli e dei Siciliani unite insieme, a prostrare i nemici in Ispagna, sconfonderli in Italia: e lungo tempo dopo la morte del primo, dopo la tradigione dell’altro, durò la virtù loro, e notevoli uomini produsse.
Questi elementi sostenner Giacomo, glorioso e sicuro, sul trono; questi v’innalzaron Federigo, quando Giacomo fallì alla rivoluzione; questi, crescendo di vigore ne’ contrasti,[240] fronteggiaron soli mezz’Europa, quando quegli stessi Spagnuoli ch’eran venuti ne’ primi tempi ad aiutarne per loro interesse, per loro interesse ci si volser contro: antichissima usanza, che mostra esser la generosità di nazione a nazione o sogno, o foco di paglia, e l’interesse tale infaticabil consigliero, che piega alfine a sue voglie e principi e popoli.
La esaltazione di Federigo, rinnovamento o conferma della rivoluzione, è al veder mio più gloriosa del primo principio stesso. Perchè non la portò disperazione, o caso, ma l’accorgimento e ’l coraggio politico de’ nostri padri; operata senza disordini, senza fatti di sangue, con dignità d’universale concordia, con maestà di nazione che medita, e si propone, e fa, contro potenze cento volte maggiori di lei. Al considerar, quanti nomini di stato e d’armi, quanti prodi oratori, quanti incorrotti cittadini risplendettero nel regno di Giacomo e ne’ primi tempi di quel di Federigo, si troverà manifesto l’effetto del mutamento dell’ottantadue; la nazione rigenerata si troverà adulta in tutte le sue forze. Donde, se Federigo non fu un uomo straordinario, la Sicilia ridondava di tanta virtù, che bastò a resistere, e a fiaccar l’ultimo sforzo de’ collegati.
Prendendo poi a guardar tutta insieme la lunga guerra del vespro, io non so qual nazione possa vantare maggior fortuna. Carlo d’Angiò con un picciolo esercito debellava quel valente Manfredi, signore di due regni; e poco appresso le forze de’ Ghibellini adunate sotto Corradino: ma per macchina di guerra poderosissima e maravigliosa, non bastò a domar la sola Sicilia, nè egli nè i suoi successori, con ostinati sforzi. La Sicilia in venti anni guadagnava quattro battaglie navali; tre giuste giornate in campo; con moltissimi combattimenti di mare e di terra; fortezze espugnate; occupate entrambe le Calabrie e Val di Crati; dileguati di Sicilia tre eserciti nemici; sciolti due assedi di[241] Messina, due di Siracusa, e altri molti di minore importanza. Non fu interrotto questo lungo corso di vittorie, se non che da due sconfitte in mare, e da tre anni d’infestagione dell’isola; dove i nemici non riportarono alcun avvantaggio di conflitto, ma ciò che presero fu a patti, o per tradimento. Questi disastri toccaronsi per la virtù soldatesca, le pratiche, la riputazione di Giacomo, di Ruggier Loria, de’ venturieri spagnuoli: ma risanati che furono i nostri dal delirio di combatter in mare senz’ammiraglio, vinsero in campo; tagliarono a pezzi gli stanziali francesi e italiani nella guerra guerriata, per cui è fatta la Sicilia; sgararono nella lunga prova il reame di Napoli, maggiore tre tanti di popolazione[421]. Ed esso non bastò a domar l’isola, ancorchè, insieme col suo sangue e la sua moneta, si sperperassero contro Sicilia le decime ecclesiastiche di tutta l’Europa, i sussidi delle città guelfe d’Italia, oltre il danaro che die’ in presto la corte di Roma, che passò le trecentomila once d’oro, e al dir del Villani[422], il papa ne acquetò Roberto al tempo del suo coronamento. E non bastò, ancorchè la Francia fornisse braccia ed armi alla guerra, e poi l’Aragona con essa, e la misera Italia sempre; e la sede di Roma votasse la faretra degli anatemi, in una età, non che di religione, ma di superstizione; e si facesser giocare tutte le arti di quella corte, sapiente e destra, e avvezza a maneggiar le relazioni politiche della intera cristianità. E la Sicilia, che non era aiutata di danari da alcuno, d’uomini una volta dalle Spagne, poi sol da pochi avventurier catalani e ghibellini di Genova, finì la guerra mantenendo l’alto suo intento. Tali furono, o Siciliani, le geste dei vostri padri nel[242] secol decimoterzo! Ripigliaron così la independenza di nazione, la dignità d’uomini: e detterne esempio alla Scozia, alla Fiandra, alla Svizzera, che scuoteano, a un di presso in quel tempo, la dominazione straniera.
Volgendoci alla riforma civile, la medesima ammirazione convien che ci prenda. Gli sforzi che i popoli fanno a libertà, per loro natura non durano, se non giungono a porre buoni e durevoli ordini nello stato, e a spegnere i malvagi uomini, che ne guasterebbero i frutti. La prima cosa fecer quegli antichi nostri egregiamente; l’altra non seppero, o non poterono. Come le leggi esprimon l’interesse di chi è più forte, così dettaronle a vantaggio pari de’ baroni e del popolo i principi aragonesi, che per virtù di quelli regnavano. Allargati i termini della costituzione del Buon Guglielmo, ebbe il general parlamento la ragion di pace e di guerra, e quasi al tutto quella di dar leggi; furono rese ordinarie e annuali le adunanze di esso; datagli la censura su i ministri e uficiali pubblici; fondata o ristorata un’alta corte di pari: componeasi il parlamento, come ognun sa, dei prelati, dei baroni, e de’ rappresentanti o sindichi delle città; e sembra fuor di dubbio che di que’ primi tempi, in un sol corpo, o vogliam dire camera, deliberasse: veemente forma, che poi dileguossi sotto i monarchi spagnuoli. Tanto per la signoria dello stato. L’altra principalissima parte, ch’è l’entrata pubblica, fu ordinata con più sottile accorgimento. Limitati per legge fondamentale i casi e la somma delle collette; richiesta a levarle l’autorità del parlamento, sì che poi, con molta significanza, appellaronsi donativi. Si fe’ più largo il reggimento municipale, la cui importanza stava nell’adunata, o come diceasi, parlamento, in cui tutti conveniano, o almeno in larghissimo numero, i cittadini; e ne fu escluso per espressa legge l’ordine de’ nobili. Questi parlamenti popolareschi, e in qualche luogo, secondo[243] le particolari consuetudini, i consiglieri eletti a rappresentarli, maneggiavano tutti i negozi del comune, cioè la tassazione pe’ bisogni municipali, lo scompartimento delle collette generali, l’armamento delle milizie a richiesta del re, la elezione de’ sindichi al parlamento, e de’ magistrati del comune. La istituzione de’ giurati fu tribunato, o, come or diremmo, ministero pubblico, che esercitavasi in ciascun comune, a compiere il sistema di censura, alla cui sommità stava il parlamento. Il maneggio dell’alta giurisdizion civile e penale restò presso i magistrati regi: ma furono accresciuti, e avvicinati alle popolazioni; si provvide il meglio che si potea a contenerli da superbia e rapacità. Così uscissi dalla rivoluzione siciliana del secol decimoterzo, con un ordinamento politico, che le più incivilite nazioni del secol decimonono appena attingono. Notevole egli è, che un tal congegno di monarchia, l’ebbe tra tutte le province italiane la Sicilia sola; perchè nelle altre, di Venezia in fuori, non eran che repubbliche mal ferme o signori assoluti; e nel reame di Napoli non tardò il potere regio a trapassare i limiti delle costituzioni d’Onorio, e dileguarne fin la memoria, stimolato, più che ritenuto, dalle frequenti ribellioni.
In tutto il rimanente del regno di Federigo, o in que’ de’ fiacchi suoi successori, non dettavasi poi in Sicilia alcun’altra legge di ordine pubblico, ma particolari statuti, più atti a manifestare che a riparare i crescenti disordini dello stato. Dei quali fu sola radice l’aristocrazia, che tenne in Sicilia un corso difforme dagli altri reami d’Europa, dove nacque nelle età più barbare, piena d’abusi, e poi l’interesse unito dei monarchi e del popolo, a poco a poco, la raffrenò. Ma appo noi, come fondata al tempo delle prime crociate e dalla mano d’un principe, fu moderata nel cominciamento; e se tendea per sua natura all’usurpare, la ritirarono a que’ termini i monarchi, e il[244] romor del vespro la fe’ stare; finchè ripigliando nel corso di quella lunga guerra e riputazione e facultà, e indi cupidigia e baldanza, divenne l’ordine più possente dello stato: per soperchio di rigoglio recossi in parte tra sè medesima; rapì in quelle discordie e la corte e i popoli; e lacerò la Sicilia negli ultimi tempi del regno di Federigo. Precipitò indi al peggio, non raffrenandola le deboli mani dell’altro Pietro e dell’altro Federigo; venne alfine ad aperta anarchia feudale. E allora si smarrì la cosa pubblica nelle izze di parti; non si udì più il nome di Sicilia, ma di Palermo, di Messina e di questa e quell’altra terra; il nome di parzialità, come chiamavanle, l’una italiana, l’altra catalana; il nome di famiglie, Palizzi, Alagona, Ventimiglia, Chiaramonte e altri superbi, nemici di sè stessi e della patria: entravano a’ soldi de’ baroni coloro che, prese le armi nelle guerre della rivoluzione, non sapean divezzarsi dall’ozio e dalla militare licenza; incominciavano i liberi borghesi a far parte co’ baroni, sotto il nome di raccomandati e affidati. Nondimeno questa piaga penò oltre un secolo a consumar la potenza creata dalla rivoluzione del vespro. La istoria di quel periodo tuttavia ci presenta, come innanzi dicemmo, una immagine della prima virtù; e veggiamo nel milletrecentotredici, alla passata dell’imperatore Arrigo, il re di Sicilia levarsi per esso contro quel di Napoli; armare poderosissima forza; occupar nuovamente le Calabrie: e poichè escì vano nell’Italia di sopra quello sforzo ghibellino, e la potenza guelfa si aggravò tutta sopra la Sicilia, veggiamo i nostri difendersi virilmente; il sicilian parlamento stracciare i patti di Caltabellotta; chiamare alla successione Pietro figliuol di Federigo; e Palermo, assediata da innumerevol oste di Napolitani e Genovesi, rinnovellar le glorie di Messina dell’ottantadue, del trecentouno: e in tutta la guerra, i nemici che veniano in Sicilia a rubacchiar villaggi, arder[245] messi, guastare i campi, assediar città, veniano in Sicilia a perire; donde sempre le reliquie degli eserciti, a fronte bassa, tornaronsi di là dal mare; sempre la Sicilia restò vincente, ancorchè i suoi stessi baroni, nel cieco furor delle parti, chiamassero contro la patria i nemici. Onta e rabbia egli è da questo tempo in poi a legger le istorie nostre, come d’ogni altra monarchia feudale; a veder le nimistà municipali modellarsi su quelle de’ baroni; rinvelenir tanto più, quanto presentavano le sembianze d’amor di patria. Tra questa infernale discordia, per maggior danno, mancò la schiatta dei re aragonesi di Sicilia; sottentrò quella di Spagna, e si spense; e cadde la indipendenza politica della Sicilia, perchè l’abitudine richiedeva il governo monarchico, e le pessime divisioni rendeano impossibil cosa a’ Siciliani di accordarsi nella elezione di un re. Ne messe il partito Messina, tuttavia grande e vigorosa, nel parlamento del millequattrocentodieci; e nol potè vincere, nei contrasti de’ baroni di legnaggio catalano, che aveano in sè tutti i vizi di faziosi, di ottimati e di stranieri. Indi la Sicilia sofferse la dominazione spagnuola, col magro compenso del nome e forma di reame, e della integrità delle antiche sue leggi nell’amministrazione delle entrate pubbliche, della giustizia, e degli altri negozi civili. Fu accoppiata sotto la medesima dominazione straniera col reame di Napoli, come due servi a una catena. S’impicciolirono gli animi, crebbe la superstizione, si offuscarono, dirò così, gl’intelletti, imbarbarirono i popoli, lasciati a contender di cose deboli e puerili; e ogni cosa andò al peggio sino all’esaltazione di re Carlo terzo, quando furono ristorati entrambi i reami, e l’incivilimento dell’Europa sforzavasi nella faticosissim’opera di ritirare all’uguaglianza i figliuoli d’Adamo.
E questo lungo letargo della dominazione spagnuola, che guastava gli uomini e conservava le forme, cercava[246] danaro e ubbidienza, e del resto non si curava, fe’ durare sì, ma poco fruttuosa, infino a’ primordi del secol decimonono, l’antichissima pianta della costituzione normanna, riformata nella rivoluzione del vespro. Stava il parlamento, ma diviso, come diceasi, in tre bracci, ecclesiastico, baronale ossia militare, e demaniale; se non che i baroni non eran più guerrieri; la rappresentanza popolare era ristretta alle poche città del dominio o demanio regio; e queste tre camere, perchè fossero più docili, spartitamente si assembravano, e deliberavano; la deliberazione di tutte, o di due sopra una, era voto del generai parlamento. Non che il dritto di pace e di guerra, ma perduto avea questo parlamento il legislativo; se non che potea domandare alcuno statuto sotto il nome di grazia. Per bizzarro contrasto, quasi gareggiandosi in cortesie, si chiamavan presenti, e più comunemente donativi i sussidi della nazione al principe: e più maraviglioso era un corpo permanente di dodici eletti dal parlamento, quattro per ciascun braccio, che chiamavasi deputazione del regno, e con autorità non minore del nome, avea uficio di difendere le franchige del parlamento e della nazione, di maneggiar le tasse accordate dal parlamento, e, secondo i decreti di quello, porger il danaro al re, o investirlo negli usi pubblici: augusto magistrato, che nacque dall’antica corte de’ baroni, o fu imitato dagli ordini aragonesi; e che nelle costituzioni d’altri popoli si vide temporaneo e per abuso, nella nostra saldissimo. Il parlamento ordinario adunavasi ogni quattro anni; era sopra ogni altra cosa geloso delle tasse; e assai parcamente porgea danaro alla corona, la quale non violò giammai questo privilegio; e ne nacque l’effetto che infino ai principî della guerra della rivoluzione francese del secol decimottavo, tutta la entrata pubblica di Sicilia non sommò a settecentomila once annuali. Mentre l’autorità regia si era ristretta da un lato, avea libero comando[247] sopra le persone de’ cittadini; mettea fuori statuti e leggi, sol che non trovassero ostacolo nella deputazione del regno, facile per altro a piegarsi; non doveano i ministri e oficiali render conto di lor fatti ad altri che alla corona. Questo potere regio in gran parte esercitavasi, col consiglio de’ nostri magistrati primari, dal vicerè; ch’era insieme gran bene e gran male: il primo per la utilità dei provvedimenti pronti, vicini, meno sbadati, men ciechi; il male era la rapacità e superbia proconsolare. I nobili e il clero stavan tra ’l popolo e il potere regio, come baluardo, ch’aduggia e soffoca, mille volte più che non difende. Delle forme municipali non parlo, ch’eran le antiche, rappezzate di privilegi, di forme speciali diverse, ma pure ordinate assai largamente, quanto al maneggio de’ lor propri danari. Gli altri magistrati, posti su la giustizia e la civile amministrazione, eran macchina un po’ gotica, ma buona perchè semplice. Le leggi civili e criminali, al contrario, spaventavan per l’immenso viluppo. Questo fu il governamento della Sicilia infino al principio del secolo in cui viviamo.
La dominazione spagnuola snervò gli uomini che doveano por mano a queste leggi: e indi la Sicilia, che nella fondazione della monarchia normanna l’ebbe a un di presso comuni con l’Inghilterra; che nella memorabile rivoluzione del vespro le ristorò ed accrebbe, e lascionne retaggio alle generazioni avvenire; decadendo dal secol decimoquarto infino al diciottesimo, si trovò poco lontana nelle forme, ma di gran lunga nella sostanza, al dritto pubblico inglese, che poi venne sì in moda. E quando il turbine della rivoluzione di Francia crollò quest’antica macchina, la nazione, da pochi valentuomini in fuori, trovossi tale, da non saperla nè apprezzare, nè correggere.
Esposizione ed esame di tutte le autorità istoriche sul fatto del vespro.
Questa rivoluzione, ricordata da tutti gli storici che toccan quell’epoca, in cui fu maravigliosissimo avvenimento, è stata di ciascuno figurata a suo modo; e copiandosi a vicenda gli scrittori, si è alterato dall’uno all’altro il fatto, si son confuse e smarrite le cagioni. Ne’ cap. V e VI io n’ho scritto quanto mi par si ritragga di vero, comparando ed esaminando sottilmente tutte le autorità istoriche de’ tempi; ho delineato il ragionamento, che alla mia conchiusione conduce. In questa appendice, ne vengo ai particolari. Torno a mente al leggitore, che per autorità istoriche intendo: 1o. gli scrittori contemporanei, messi a riscontro tra loro, e valutati secondo le parti che ciascun tenne, la postura in cui si trovò a sapere i fatti, la critica e la esattezza che da a vedere: 2o. i documenti, che pongo in secondo luogo, perchè nel presente caso pochi se ne trovan di tali da stabilir fuori contrasto la verità, ma sol possono rischiarare le testimonianze degl’istorici, e aggiugnere o scemar fede a loro detti: 3o. la tradizione, in quanto valga dopo cinque secoli e mezzo di viver civile: 4o. la necessità di cagioni d’alcuni fatti seguenti, che non cadono in dubbio.
E cominciando dagli scrittori contemporanei o molto vicini a que’ tempi, è da notar che sono Francesi, Catalani,[250] Siciliani o d’altre parti d’Italia, e questi ultimi o Guelfi o Ghibellini; ondechè i più scrissero da spirito di parte, pochissimi ne furono scevri, o meglio che le parti amarono il vero. Pertanto di questa rivoluzione alcuni, senza toccar le cagioni, dicon l’uccisione dei Francesi in Sicilia, con qualche circostanza isolata ovvero oziosa, e nulla più. Altri intessono sottilmente una cospirazione; e ne fanno effetto immediato e palpabile il tumulto del vespro. Altri infine, accennando qual più qual meno gli apparecchiamenti e i desideri di Pietro d’Aragona, raccontano il tumulto di Palermo, senz’altrimenti connetterlo con quelli; com’effetto dell’odio alla tirannia angioina, scoppiato a un tratto, per ingiuria, in una festa popolare. Secondo queste tre classi divideremo le testimonianze istoriche poste qui a disamina.
Nella prima si noverano Ricobaldo Ferrarese (Muratori, R. I. S., tom. IX); i frammenti d’Istorie Pisane (ibidem); le due biografie di papa Martino IV (ibidem, tom. III, parte 1a, pag. 608 e 609, parte 2a, pag. 430); il nostro fra Corrado, che, inorridito delle fiere vicende passate sotto gli occhi suoi, rifuggiva dal particolareggiarle (ibidem, tom. I, pag. 729); il frate Catalano autor delle Geste de’ conti di Barcellona (Marca Hispanica, per Baluzio, capit. 28), che dice della chiamata di Pietro, dell’assedio di Messina, e dell’obbedienza negata a Carlo in Sicilia, ma non della sanguinosa rivoluzione che die’ principio a questi fatti; il Cantinelli (Chronicon, in Mittarelli, Rer. Faventinarum script., Venezia, 1771, pag. 276); un anonimo fiorentino (pubblicato dal Baluzio, Miscellanea, tom. IV, pag. 104, ed. Lucca), breve ma esatto, il quale narra, senza dir di congiura «che nel 1289 in calende d’aprile si ribellò Palermo, e poi a sommossa de’ Palermitani tutta la Sicilia;» e altri scrittori che inutile sarebbe a noverare, perchè nessuna luce sen trae.[251] Stretta investigazione meritano gli scrittori Francesi, cioè l’autore del Ms. della vittoria di Carlo d’Angiò, Guglielmo Nangis, l’autore della Cronaca del monastero di San Bertino; e i fabbri Italiani della congiura, Ricordano Malespini, Giovanni Villani, l’autore della Storia anonima della cospirazione di Procida, e con essi frate Francesco Pipino, l’autor della Cronaca d’Asti, il Boccaccio, il Petrarca.
Nel Ms. della vittoria di Carlo (Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 850), si legge che Pier d’Aragona, apparecchiando un navilio contro Carlo re di Sicilia, Siculorum monitu et uxoris, mandò ambasciadori al papa, infingendosi voler andare con grande oste sopra i barbari d’Affrica. Poi narrasi, che di febbraio (1282), un leon marino portato ad Orvieto prognosticasse co’ suoi pianti le calamità che sovrastavano; e qui finisce la cronaca. In essa è notevol solo il Siculorum monitu, che si potrebbe per altro interpretare per consigli degli usciti Siciliani rifuggitisi in corte d’Aragona.
Più espresso il Nangis. Secondo lui Pier di Aragona, ingrato ai re di Francia, stigato dalla moglie, co’ Siciliani, qui jam contra regem Siciliae Carolum conspiraverant, confoederatus est. Nam missi Siculorum, Panormitanorum maxime et Messanensium, ad ipsum tum convenerant, dicentes quod si contra regem Carolum vellet cum ipsis insorgere et eosdem tueri, de caetero ipsam in regem et dominum reciperent et haberent..... Circa idem tempus (1281) Petrus Arragoniae rex assensum dedit Siculis qui contra dominum suum regem Siciliae Carolum conspiraverant, etc. Indi, toccando l’impresa preparata da Carlo contro l’imperadore di Costantinopoli, che si ritrae da tutti gli altri istorici, ne parla il Nangis come di novella crociata al racquisto di Gerusalemme. Soggiugne che, tornati appena gli ambasciatori siciliani dalla corte di Pietro, i Palermitani e’ Messinesi[252] ribellaronsi; Pietro uditolo s’armò ad aiutarli; ma infìnse andar sopra i barbari in Affrica, e per messaggi confortava i Siciliani. Di Giovanni di Procida ei non parla; ma senza dubbio ne’ riferiti luoghi si contien l’accusa della congiura di Pietro coi notabili di Sicilia (Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 537, 538, 539). Prendendo dunque ad esaminare l’autorità del Nangis, diremo che, lette alla distesa le biografie dei re di Francia di quei tempi, ch’ei compilò, ognuno il vede lodator larghissimo de’ suoi signori, come frate e scrittor di corte; e comprendasi di leggieri come dovesse narrare sol ciò che passava per vero nella corte di Francia. Così nei fatti della guerra portata sopra Aragona l’anno 1285 e in altri, il biografo dissimula, ingrandisce, rimpicciolisce, guasta, com’ei crede maggior gloria de’ reali di Francia. A ciò s’aggiunga che dopo quella crudele strage de’ Francesi in Sicilia, l’esacerbata opinione pubblica in Francia non dovea accreditare altro, che il maggior biasimo dei Siciliani e di re Pietro d’Aragona; dovea aggravar l’eccidio con la premeditazione e col tradimento; denigrare la esaltazione del nuovo re con una macchia di congiura; così anche onestar la caduta dominazione di Carlo: perchè congiurar si può contro tutti i governi, ma di una rivoluzione disperata dei popoli, il governo solo ha la colpa. Di più, scrisse il Nangis dopo la ricordata guerra d’Aragona, ingiustissima sempre, ma che men parea, quanti più neri misfatti si addossassero a Piero. Per queste ragioni la testimonianza sua, di per sè sola, è men degna di fede. Nulla le aggiugne o toglie l’antica versione francese che sen trova nelle cronache di San Dionigi, e recentemente è stata ripubblicata a fronte del testo latino del Nangis (Rer. gallic. et franc. script., tom. XX. Paris, 1840); nè anco io ne farei parola, se questa versione, che per lo più tralascia molti squarci del testo, qui non sopprimesse la diceria su i[253] dritti di Pietro d’Aragona al trono di Sicilia, e aggiugnesse al testo, che Pietro mandò due cavalieri in Sicilia per vedere se la regina Costanza gli avesse detto il vero su le disposizioni de’ Siciliani; e che fattosen certo e stabilita la rivoluzione, ceulz de Palernes et de Meschines et de toutes les autres bonnes villes seignerent les huis des François par nuit, et quand il vint au point du jour qu’ils pourrent entour eulz voir, si occistrent tous ceulz qu’ils pourrent trouver, etc. Or questo racconto, che muta il vespro Siciliano in alba Siciliana, dice de’ Palermitani, de Messinesi, e della più parte degli altri Siciliani, come se in una medesima città, la notte avessero segnato le porte dei Francesi, e, allo schiarire del giorno, cominciato la strage, appena potettero distinguere da’ segni, le case ch’essi medesimi avean saputo riconoscere e segnare la notte. Si vede chiarissima in tal racconto la favola della uccisione contemporanea, con una inverìsimiglianza di più. Gli eruditi sono in dubbio se questa traduzione debba attribuirsi allo stesso Nangis. Io penso che un contemporaneo il quale scrisse con esattezza, se non la cagione, almeno il fatto, non abbia potuto poi guastare il fatto con sì grossolane favole: e però non saprei trarne argomento a indebolire vieppiù l’autorità del Nangis; ma suppongo piuttosto che la traduzione, o fu fatta, o almeno in questo luogo interpolata da altra mano, in tempo posteriore.
La Cronaca infine del monastero di San Bertino, più vagamente del Nangis dice della macchinazione (in Martene e Durand, Thes, Nov. Anecd., tom. III, pag. 762 e seg.). Scrive che Pier d’Aragona, pretendendo la Sicilia pel dritto della moglie, si adoprava, nunc commotiones, nunc seditiones excitans, nunc amicos sibi secrete concilians; semper, in quantum poterat, laborans ad finem intentum; tantochè commosse i barbari di Tunis contro i cristiani; cosa non vera, nè utile ad alcuno intento di Pietro; come non[254] vere sono quelle sommosse e sedizioni prima del vespro, che anzi durò pienissima infino a quel dì la calma del servaggio. Per suam etiam astutiam, segue il cronista, commotionem excitavit in regno Siciliae. Mandatus tandem ab eis, in Siciliam venit, dominium sibi usurpavit, et se in regem Siciliae coronari fecit; e del resto narra avvenuto in Palermo il primo tumulto, e il progresso della rivoluzione nell’isola. Io non avrei qui noverato questa cronaca, se tutta fosse scritta da Giovanni Iperio, vissuto un secolo dopo il vespro. Ma perchè gli eruditi editori nelle prefazioni, op. cit., pag 441 a 444, han creduto la prima parte opera d’uno scrittore del secol xiii, non l’ho voluto passar qui sotto silenzio. A chiunque appartenga lo squarcio risguardante il vespro siciliano, è da notare che i particolari sono più minuti che nel Nangis, e per lo contrario molto più vaghe le allusioni alle trame de’ Siciliani con Pier d’Aragona.
Passando agl’Italiani noi troviamo la tradizione della congiura in Ricordano Malespini, e ’l suo continuatore Giachetto Malespini, e in Giovanni Villani (Muratori, R. I. S., tom. VIII e XIII), che sono propriamente gli autori della fama di Giovanni di Procida, e da loro tutti gli altri han copiato il racconto. Ma prima si rifletta che queste tre autorità si riducono a una sola; quella cioè di Giachetto. Le trame della congiura non poteano esser manifeste in una città guelfa d’Italia prima del fatto del vespro. Ora Ricordano, che minutamente le racconta prima del vespro, cioè sotto l’anno 1281, per lo meno cessò di scrivere in quel tempo, anche dandogli il privilegio di vivere e di conservar tutte le sue facoltà fino a cento anni: perch’ei medesimo assicura essere andato giovanetto in Roma l’anno milledugento. È chiaro dunque che Ricordano non potè dettare quegli ultimi capitoli della sua cronica; e ch’essi son opera di Giachetto suo continuatore,[255] o almeno interpolati da lui, perchè narrando il fatto del vespro, e apponendolo alla congiura, volle inserire il racconto della congiura nella Cronaca di Ricordano che correa fino al 1281.
Quanto al Villani, ei dovea essere o bambino o fanciullo nel 1282, e certo cominciò a scrivere molti anni appresso; e il suo racconto della congiura e il fatto del vespro, sono non presi ma trascritti di parola in parola, il primo dalla Cronaca attribuita a Ricordano, l’altro dalla continuazione di Giachetto, con qualche lieve circostanza di più o di meno, che non toglie la evidenza del plagio, riconosciuto ben dal Muratori nelle sue prefazioni a’ Malespini e al Villani. Prendendo dunque a esaminare insieme i racconti del Villani e di Giachetto, che per la perfetta coincidenza si riducono a un solo, veggiam che costoro come Fiorentini, vivuti mentre la città reggeasi del tutto a parte Guelfa e si rafforzava della riputazione dei re di Napoli contro le rivali città di Toscana, senza pudore parteggiano, più che gli scrittori francesi; perchè la vicinanza rinfoca tutte le passioni. Indi ad ogni parola scopron gli animi Guelfi, e nimicissìmi a’ Siciliani. Del Villani, così il Muratori nota nella prefazione citata di sopra, doverglisi prestar poca fede nelle vicende di parti guelfa e ghibellina dopo i tempi dell’imperador Federigo secondo. S’aggiunga, ch’egli era forse più ingiusto per umor di famiglia; poichè ne’ diplomi del duello fermato tra re Pietro e re Carlo, si legge tra i nomi de’ mallevadori di Carlo (veggasi il capit. IX, voi 1, pag. 210) un Giovanni Villani, forse parente dello storico. Non son pochi gli errori in cui caddero cotesti scrittori, ch’eran per altro lontani dalla Sicilia, e disposti a colorire la narrazione come paresse peggiore pe’ loro nemici; che così sempre si è fatto e si farà anche senza il proponimento di calunniare. E lasceremo, perchè si può apporre ai copisti, l’errore di Giachetto, che porta il tumulto[256] del vespro a tre marzo. Ricordano e Villani raccontan quella improbabilissima corruzione di Niccolò III, comperato da Procida col danaro del Paleologo; suppongon che re Pietro d’Aragona pe’ suoi preparamenti domandasse un sussidio di moneta al re di Francia, quando si sa che una delle ragioni principali, con cui difendeva il suo segreto intorno lo scopo dell’impresa, era di prepararla senza alcun aiuto d’altrui. Giachetto e Villani portano, con errore evidente, il tumulto del vespro incominciato a Morreale, poichè s’erano adunati in Palermo «a pasquare, i baroni e’ caporali che teneano mano al tradimento;» dicono come nella festa un Francese prendesse una donna per farle oltraggio; e indi nascesse la briga, incalzata da’ congiurati; i quali nella zuffa ebber la peggio, poi uccisero tutti i Francesi in Palermo, e andando alle lor terre, commossero tutta l’isola. Nell’assedio di Messina i due cronisti non son più esatti; recando una lettera di Martino, apocrifa e foggiata senza riscontro alcuno con le idee che scernonsi nelle bolle messe fuori in quell’incontro (V. il cap. VII). Essi di più, raggirando su Procida sempre la lor macchina, il fanno mandare ambasciadore da’ Siciliani a Pietro, per offrirgli la corona, quando gl’istorici Siciliani e Catalani, che non poteano nè ignorare, nè tacere nome sì grande, dicono incaricati tutt’altri dell’importante messaggio. In questi e in tanti simili fatti, che notiamo nel corso del nostro lavoro, si scernon sempre i ridetti istorici male informati, fallaci, parziali.
Maravigliosa è la uniformità del lor dettato con quel d’una Cronaca anonima in antica lingua siciliana, che corre dal 1279 infino ad ottobre 1282 (di Gregorio, Bibl. arag., tom. I, pag. 243 e seg.). Questa coincidenza, creduta argomento di veracità della Cronaca, e il sapore antico della lingua e dello stile, persuasero al di Gregorio, che contemporaneo fosse questo scritto, del quale s’ignora[257] del tutto l’autore, ma ce n’ha un Ms. in carta di bambagia, posseduto al presente dall’erudito e gentile uomo, il principe di San Giorgio Spinelli di Napoli, che per l’ortografia e la forma de’ caratteri con lettere iniziali azzurre o vermiglie e vestigia di dorature, appartiene senza dubbio al secol xiv. Questo antico Ms. pervenuto al presente possessore forse da Messina, era del tutto ignoto in Sicilia nel secol passato; talmentechè di Gregorio pubblicò la Cronaca nella sua Biblioteca Aragonese sopra una copia del secolo xvii, con ortografia diversissima dal Ms. del San Giorgio, e queste altre differenze, che innanzi il Ms. di San Giorgio si legge; Quistu esti lu Rebellamentu di Sichilia lu quali hordinau effichi fari Misser iohanni di prochita contra lu re Carlu p., e che il luogo della lezione del Gregorio (pag. 264), et incalzaru la briga cantra li francischi cu li palermitani, e li homini a rimuri di petri e di armi gridandu «moranu li franzisi;» et intraru dintra la gitati cu grandi rumuri lu capitanu che era tardu pri lu re Carlu, etc.; ha nel Ms. del San Giorgio la bella variante: Incalzaru la briga contra li franchischi et livaru A rimuri efforo a li armi li franchischi cum li palermitani et li homini a rimuri di petti e di armi gridandu moranu li franchischi et Intrara in la chitati cum grandi rimuri et foru per li plazi et quanti franchischi trouavanu tutti li auchidianu Infra quilli rimuri lu capitanu chi era tandu per lu Re Carlu, etc.
Tuttavia nè l’antichità di questo Ms. nè quella dello stile e della lingua, alla quale s’appigliò il di Gregorio, non avendo per le mani altra copia che del secolo xvii, e volendo ad ogni modo raccomandare la Cronaca come contemporanea, nè l’una nè l’altra, io dico, posson portare a un’approssimazione sì stretta, da giudicare precisamente se l’autore fiorisse in fin del secolo xiii o nei principî, o nel fine del xiv; e indi se contemporaneo fosse al vespro, o quanto discosto. L’altro argomento, ch’è la coincidenza[258] col Villani, o meglio diremo Malespini, proverebbe il contrario, cioè che l’autor della Cronaca siciliana avesse avuto per le mani quella de’ Fiorentini; perchè si riscontrano con picciol divario la disposizione dei fatti, gl’incidenti, spesso le parole, più spesso gli errori; il che mai non avviene quando due scrittori, senza conoscersi l’un l’altro, dettino il medesimo avvenimento, foss’anco brevissimo e semplice. Le differenze poi son queste: che la parte aneddotica e drammatica è molto più ampia nella Cronaca siciliana, e che qualche data o nome di luogo è diverso, or con maggiore esattezza o probabilità dalla parte del Siciliano, or il contrario. Per esempio, il Siciliano scrive che Procida nel 1279 si trovasse in Sicilia (nè il dice proscritto e nascoso); quando da’ diplomi allegati da noi nel cap. V, vol. 1. p. 92, si vede chiarito ribelle e uscito infin dal 1270; e si sa che riparò a corte del re d’Aragona. Ma, quel ch’è più, il veggiamo incerto ed erroneo sul giorno della sollevazione di Palermo: Eccu chi fu vinuto lu misi di aprili, l’annu di li milliducentaottantadui, la martedì di la Pasqua di la Resurrezioni; quando e’ si vede certamente che quel martedì cadde il 31 marzo. Or che un Siciliano, vivuto di que’ tempi, avesse potuto errare o dimenticar questo giorno, io nol so comprendere; e da ciò potrebbe argomentarsi l’antichità men rimota di questa Cronaca, perchè sendo avvenuta nel corso d’aprile la strage in tutte le altre città di Sicilia, molti anni appresso si ricordava aprile come il tempo del riscatto; e l’autor siciliano, avute per le mani le cronache de’ Fiorentini, vi corresse a suo modo l’epoca; come fece del coronamento di re Pietro, asserito da quelli, negato da lui; e sì del luogo della prima sollevazione, portata da quelli in Morreale, da lui, e qui con esattezza, in un locu lu quali si chiama Santo Spirito, ch’era il nome della chiesa, non della campagna. Le quali correzioni portano a credere che il Siciliano[259] dopo i Fiorentini, non questi dopo lui avessero scritto; perchè i primi non sarebbero inciampati nell’errore del luogo della prima rissa, o avrebbero seguito il Siciliano nell’errore del tempo.
Perilchè mi è venuto in mente un supposto intorno questa Cronaca. Io penso che l’autore scrisse verso la metà del secolo xiv e fu della famiglia Procida, o attenente ed amico a quella; che nel regno dì Federigo d’Aragona, come si è veduto nel capitolo XV, Giovanni di Procida voltò a parte angioina, e con lui alcuni della famiglia. Quest’anonimo dunque, cliente o partigiano dei figliuoli di Procida, pieno d’umori guelfi, vivendo fuori dalla patria, s’imbattè nella cronaca de’ Malespini o del Villani; alla quale aggiunse or qualche verità, or qualche errore cavato dalla tradizione e tendente ad esaltar Giovanni di Procida; e ne dette quel che in oggi chiameremmo romanzo storico, o una istoria frammischiata di finzioni e novelle; come son di certo la debolezza, la paura, i pianti di tutti que’ grandi che si suppose trattasser la congiura con Procida. Certo egli è che parecchi Siciliani sotto Pietro, Giacomo e Federigo d’Aragona, or a ragione or a torto, furon puniti, o uscirono come ribelli, e ben potè avvenire che alcun d’essi o de’ loro figliuoli restassero fuori di Sicilia anche dopo la pace; certo che un germe, ancorchè debolissimo, di parte francese o guelfa o, come appo noi chiamavasi, di Ferracani, restò in Sicilia; certo che questa Cronaca, difforme dalle altre nostre di que’ tempi, si riscontra nelle parti più essenziali con quella de’ Guelfi Malespini e Villani. Di essa l’autore non si sa; il tempo non si sa; e assai debole testimonianza ne sembra. Il di Gregorio, pubblicandola per lo primo, mutila del principio, che poi si è dato alla luce (Buscemi, Vita di Giovanni di Procida, docum. 4), notò con allegrezza molti luoghi in cui risponde al Surita, senza riflettere che il Surita, autor[260] del secolo xvi, togliea que’ fatti da essa appunto e dal Villani.
Seguono nella medesima classe gli scrittori che primi aggiunsero alla cospirazione la favola della uccision dei Francesi per tutta l’isola in un dì. Frate Francesco Pipino, che fiorì ai tempi di re Roberto (Francesco Pipino, lib. 3, cap. 19, in Muratori, R. I. S., tom. IX, p. 695), cioè nei principi del secol xiv, ma al dir di Muratori (ibid., Prefazione) poco diligente e spesso rapportator di favole e maraviglie, narra ancor questa, ma assai timidamente. Dapprima descrive le oppressioni e violenze de’ Francesi, donde nacque una sedizione in Palermo, e la chiamata di Pier d’Aragona ch’era ad oste in Affrica. Ma parendogli poco, soggiugne: Hujus autem rei novitatem tractasse ac procurasse fertur multis periculis, sudoribus, oc dispendiis, magister Joannes de Procida, olim notarius, phisicus, et logotheta regis Manfredi (ibid., pag. 686 e seg.); e discorre minutamente la cospirazione, i soccorsi di danaro dati a re Pietro dal Paleologo, e da papa Niccolò (qui pagante e non pagato); fa ordinare da Procida che in un giorno assegnato tutti i Siciliani si levassero, e nel medesimo dì Pietro si partisse con la flotta: le quali due cose, ei soggiugne, riuscirono appunto; quindi Pietro venne in Messina, e incoronossi nelle feste di Pasqua del 1282. Fascio di anacronismi, errori e grossolane inverosimiglianze, che non è uopo confutare, quand’ei medesimo, che affastellar solea alla cieca, le porta col salvaguardia del fertur; e narra il medesimo fatto in due modi, l’uno della sollevazione casuale in Palermo, propagata nell’isola, l’altro della uccisione contemporanea in tutta l’isola. Nel capitolo che contien la prima narrazione ei mette l’intitolazione: De Carolo seniore Siciliae Rege, ex chronicis; onde si vede che la prima trasse da croniche, quella seconda dalla voce popolare, senza dire qual delle due credesse la vera, chè ben il dovea,[261] trattandosi di un fatto sì grande, e sì diverso secondo che all’una o all’altra si prestasse fede.
Peggio la cronaca d’Asti, la quale fa durare sol tre mesi le pratiche del Procida, che gli altri portano condotte in tre anni; e racconta quel miracoloso eccidio per tutta Sicilia in un dì; e manda ad assaltare l’Aragona, col re di Francia, lo stesso re Carlo, ch’era morto parecchi mesi innanzi. Perciò della cronaca d’Asti non ci impacceremo più a lungo.
Finalmente la stessa favola di una strage universale al tocco del vespro, fu scritta da Giovanni Boccaccio, ne’ Casi degli uomini illustri (lib. 9, cap. 19); nè è da maravigliare, che meglio di sessant’anni appresso il fatto, il novellatore toscano, dimorato a lungo in Napoli, e amante d’una figliuola di re Roberto, abbia spacciato il racconto che piaceva più nella corte angioina, e l’abbia scritto così di volo, non in istoria giusta, ma in una tal maniera di biografie, tendente a mostrare le strane vicende della fortuna.
Il Petrarca, contemporaneo del Boccaccio e non del vespro siciliano, nell’Itinerario siriaco, tiene ancor l’opinione che Giovanni di Procida fosse autor principale della rivoluzione di Sicilia, per privato risentimento. Del rimanente nè dice della cospirazione, nè accenna altri particolari; e si mostra anco poco informato della patria di Giovanni, che scambia col titol della signoria. La sue parole son queste: Vicina hic Prochita est, parva insula, sed unde nuper magnus quidam vir surrexit, Johannes ille qui formidatum Karoli diadema non veritus, et gravis memor iniuriae, et majora si licuisset ausurus, ultionis loco huic regi Siciliam abstulisse, etc. (tom. 1, pag. 620). Non è fuor di proposito qui aggiugnere, che il Petrarca fu attenente alla corte di Napoli; e ricordare un diploma di re Roberto, dato il 2 aprile 1331, che lo eleggea suo cappellano,[262] citato dal Vivenzio, Istoria del regno di Napoli, tom. II, pag. 358.
Prendendo adesso a dir degl’istorici, strettamente contemporanei tutti, che o non parlano di pratiche antecedenti al vespro, o non attribuiscono a quelle il vespro, io mi sento ripetere, che ai Siciliani e agli Spagnuoli poco sia da attendere, perchè vollero per amor di nazione passar sotto silenzio la congiura. E io ammetto questa diffidenza; e mi guardo dalle reticenze e dalle esagerazioni che si debbon trovare negli scrittori di questa parte; ma niuno dirà, che i fatti debban piuttosto cercarsi in quelli delle altre genti, lontane di luogo o di commerci; e che tra due classi di partigiani, se pur si voglia, meritino maggior fede gli avversi a noi, che i nostri. Indi è bene degli uni e degli altri dubitare, e starcene a più sode autorità: e così m’ingegnerò di fare; fidandomi di me in questo, che l’amor della patria grandissimo, mi conforta anzi a onorarla col vero; che a pargoleggiare con poveri inorpellamenti.
Di questo vizio in vero non so condannar l’anonimo che scrisse in latino la Cronaca di Sicilia, pubblicata in varie collezioni, e più correttamente dal di Gregorio (Bibl. arag., tom. II); la qual Cronaca dai dotti (ibid., p. 109 e 119) si tiene contemporanea, e degna di molta fede. Questo semplice cronista, sollecito di trascrivere i documenti, e parco assai di parole proprie, se darebbe qualche ombra col tacere il caso di Droetto, e narrar come nella piazza della chiesa di SantoSpirito molti Palermitani cominciassero a gridare: «Morte ai Francesi,» dilegua poco appresso ogni dubbio soggiungendo: «Et sic rebellantes subito, sicut Domino placati, contra ipsum Carolum, cum nulla praeveniret exinde aliqua provisio, etc. Si raccomanda inoltre l’anonimo per molta diligenza ed esattezza nell’epoca di cui trattiamo.
In quella visse Niccolò Speciale, uom di alto stato e di[263] molte lettere, secondo i suoi tempi; ito nel 1334 ambasciadore di re Federigo II di Sicilia a papa Benedetto XII (Prefazione del Muratori, ristampata dal di Gregorio nel tom. I della Bibliot. arag,, p. 285), Indi abbiamo per questo istorico un bene e un male; il bene, che fu in luoghi e in tempi da conoscere appunto, e non da uom del volgo, ciò che scrisse, veduto cogli occhi propri o ritratto da vicino; il male, che potè peccar di prudenza cortigiana contro la verità. Infatti, riguardo ai tempi di Federigo, non son senza questo studio alcuni luoghi della sua istoria; e quanto al vespro, tace i disegni anteriori di re Pietro, nè io mi terrei al suo silenzio della cospirazione, se altre autorità non ne avessi. Narrando il caso di Droetto, lo Speciale segue: Tunc Panormitani omnes, quod diu concaperant, operi st accingunt, quasi vocem illam coelitus accepissent, che deve intendersi del proponimento di vendetta e affranchimento che nudre ogni popolo oppresso, s’ei non è schiavo vilissimo nel sangue; perchè tutt’altra spiegazione è tolta dalle espresse parole che il tumulto avveniva: nullo comunicato consilio (loc. cit., p. 301). Questa negazione precisa di trattato precedente, dee far molto peso in un uomo come Speciale, che avrebbe forse dissimulato tacendo, ma non mai asseverata una bugia, in un fatto gravissimo e di necessità notissimo.
Crescon di forzna tali ragioni parlando di Bartolomeo de Neocastro, messinese, giurista, magistrato repubblicano di Messina nella rivoluzione (Carta del 10 maggio 1282, ne’ Mss. della Bibliot. com. di Palermo, Q. q. H. 4, fog. 116), indi avvocato del fisco, e nel 1286 ambasciatore di Giacomo I di Sicilia a papa Onorio (nel di Gregorio, Bibl. arag., tom. I, pag. 4, Prefaz. del Muratori). Perch’ei si trovò, non che nel vigor dell’età, ma in mezzo a pubblici affari, in questi tempi della rivoluzione; scrisse con fresca memoria, pria del 1295, chiamando nel suo proemio ancora[264] re di Sicilia Giacomo, e infante Federigo l’Aragonese, e conducendo la narrazione infino all’anno 1293: nè da’ suoi scritti trasparisce arte alcuna cortigianesca, ma candore e preoccupazione di patriotta messinese di que’ tempi. Il buon Bartolomeo dunque, francamente dice (cap. 16) dell’antico disegno di Pier d’Aragona sopra il reame di Sicilia, e delle armi apprestate in Catalogna; ma venendo al fatto del vespro, il narra con semplicità, in guisa da non far sospettare nè macchina celata in quel tumulto, nè reticenza nella narrazione. D’altronde è da notare, com’ei non era punto cortese verso Palermo, e scendea fino a vanti e finzion puerili per esaltar Messina sulla città sorella; vizi reciproci allora e per lungo tempo da poi, de’ quali le due città, rinsavite, or piangono e con esse la Sicilia tutta. Talmentechè scrivendo il Neocastro sotto gli auspici della rivoluzione vittoriosa, non avrebbe ei mancato, se il fatto gliene avesse dato l’appicco, dal far partecipare anche i Messinesi nella gloria del virile cominciamento; nè dal togliere all’emula città l’onore d’una subita sollevazione a vendetta, più nobile sempre di ogni pratica occulta. Se l’anonimo, lo Speciale e ’l Neocastro tacquer dunque la congiura di Procida, è da conchiudere, che o non fu, o non operò nella rivoluzione; la quale se fosse stata effetto immediato di quella, nè lo avrebbero potuto ignorare, nè avrebbero avuto la fronte di passarlo sotto silenzio.
Tengon lo stesso metro due altri contemporanei catalani, Ramondo Montaner e Bernardo D’Esclot, dei cui scritti infino a qui non si è fatto abbastanza tesoro nelle istorie di Sicilia; perciocchè il primo da pochi dei nostri, in pochi luoghi fu citato; il D’Esclot è stato ignorato più di lui, non ostantechè il Surita lo venga nominando di tratto in tratto negli Annali d’Aragona. Montaner nacque in Peralada nel 1265 o 1275 (chè ci ha una variante nel[265] suo testo.—Barcellona, 1562); militò sotto Piero d’Aragona, Giacomo e Federigo di Sicilia; e nel 1325 o 1335, tornato vecchio in patria, si die’ a stender la Cronaca. Soldato di ventura, superstizioso, vantator di sua gente, e soprattutto dei re, storpia nomi e fatti, massime favellando d’altri paesi; e intorno i casi di Carlo d’Angiò e degli ultimi principi di casa Sveva innanzi il 1282, reca strane favole, con stile talvolta vivace, talvolta noioso per moralizzar troppo, sempre pien di religione, di civil senno e di esperienza militare. Ondechè nei fatti di questa Cronaca, (che spesso sembran tolti di peso dalle narrazioni volgari de’ guerrieri e marinai, e spesso confusi nella memoria dell’autore, che incominciò a scrivere nel sessantesim’anno dell’età sua,) è da andare con assai riguardo di critica; massime ne’ primi tempi della dominazione aragonese in Sicilia, ne’ quali non è certo se Montaner venisse nell’isola. Questo autore fa parola (cap. 25 a 42) del proponimento di Pietro a vendicare Manfredi e Corradino, ed Enzo (egli aggiugne, chiamandolo Eus); e degli armamenti che preparava. Senz’altro passa, nel cap. 43, a raccontare il tumulto di Palermo, nella festa a una chiesa presso il ponte dell’Ammiraglio, che invero non è discosto dalla chiesa di Santo Spirito. Dice delle ingiurie alle donne; e che i Francesi col pretesto di frugare per l’arme los metian la ma (così in suo catalanesco) e les pecigavan e per les mammelles, e poi zoppicando continua a raccontar l’andata di Piero in Affrica; dove a magnifìcare il suo re, fa venire, con vele negre alle galee e vestiti a gramaglie, gli ambasciatori di Palermo e delle altre città; li fa parlar da fanciulli e da schiavi; e sì via procede nella narrazione.
Ben altra gravita istorica s’ammira nel D’Esclot, cavalier catalano, che scrisse nel 1300 (D’Esclot, tradotto in casigliano da Raffaele Cervera.—– Barcellona 1616, Pref.[266] del traduttore; e Notizia del Buchon, innanti la ed. del genuino testo catalano.—– Parigi 1840). Questo autore non è scevro di tale spirito nazionale che trascende alla vanità; ma il veggiamo benissimo informato de’ fatti, penetrante nelle cagioni, pregevole per ordine nella narrazione e dignità di stile. Porta in compendio parecchi documenti, che con molta fedeltà rispondono agli originali pubblicati gran tempo appresso in altri paesi. Nondimeno pende troppo a parte regia, ma senza viltà. Costui tace al tutto i disegni del re d’Aragona; degli armamenti dice che fossero apparecchiati per la impresa d’Affrica, che assai minutamente descrive. In Affrica, fa venire a Pietro gli ambasciatori di Sicilia; e da lui accettar il reame, confermando tutte le leggi, privilegi, e costumi del tempo di Guglielmo II. Descrive il fatto del vespro, come gli altri contemporanei di maggiore autorità, cagionato dagl’insopportabili aggravi, e nato per le ingiurie alle donne, e le percosse agli uomini che sen querelavano. Tutti questi casi, non affastellati, nè discorsi sbadatamente, ma con estrema diligenza e nesso d’idee (lib. 1, cap. 17, della traduz. spagnuola; o cap. 77 e seg. del testo catalano).
Ma posti da canto gli scrittori di parte nostra, noi troviamo il vespro nella stessa guisa rappresentato dagl’indifferenti e dagli stessi avversari. L’autore della Cronaca intitolata: Praeclara Francorum facinora, che fu certo Francese, dice di non modicum apparatum di Pier d’Aragona; e dei sospetti che destò in papa Martino e in re Carlo. Indi narra come i Palermitani uccideano, succensa rabie, Gallicos qui morabantur ibidem..... Deinde regi Carolo tota Cicilia fuit rebellans, et supra se Petrum regem Aragonum in suum defensorem ac dominum vocaverant, etc. (Duchesne, Hist franc. script., tom. V, pag. 786, anno 1281)» Or che questo Francese, il quale non fa un secco cenno del caso, nè se ne mostra male informato, parli dì[267] preparamenti di Pietro, e non di congiure, ma della sollevazione, è secondo me non lieve argomento.
Degli scrittori italiani, vari d’umori e molti anco Guelfi, è lunga la lista. Il Memoriale dei podestà di Reggio, scritto in questo tempo da un Guelfo senza cervello, non risparmia i Siciliani, nè Pietro; scrive (in Muratori, R. I. S., tom. VIII, p, 1155) che si trattava di matrimonio tra un figlio di Pietro e una figliuola di Carlo; che l’Aragonese s’infinse di andar sopra gl’infedeli, e: sub specie pacis et parentelae abstulit fraudolenter, etc. il regno di Sicilia. Questo fraudolenter non si riferisce ad altro che alle sembianze di pace, perchè la Cronaca narra del vespro (ibid., p. 1151) che i Siciliani rebelles fuerunt regi Karolo, e uccisero i Francesi. Nulla di congiura coi baroni siciliani; anzi aggiugne, che Pietro fe’ l’impresa di Sicilia aiutato dal re di Castiglia e dal Paleologo.
La Cronaca di Parma, contemporanea anch’essa, narra il caso un po’ diversamente dagli altri. Un Francese percosse del piè un Palermitano; indi la rissa, il grido universale, e la strage; et Siculi miserunt pro dicto regi Aragonae; e continua una breve narrazione degli avvenimenti (in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 801, anno 1282). Non vi è traccia di accordi nè di trame.
Fra Tolomeo da Lucca, pure contemporaneo, particolareggia le pratiche di Pier d’Aragona col Paleologo, e afferma aver visto il trattato. Papa Martino, a sollecitazione di Carlo, scomunicò l’imperator greco; questi mandò a Pier d’Aragona, Giovanni di Procida e Benedetto Zaccaria da Genova, con moneta; l’Aragonese allestiva l’armata; domandato dal papa, rispondea: taglierebbesi la lingua anzi che dir lo scopo. Dietro ciò viene il tumulto di Palermo, scoppiato per le molte ingiurie che si soffrivano; e seguon minutamente i fatti. Una sola vaga parola ci ha da notare, che la rivoluzione seguì, fovente il re[268] Pietro, per le sollecitazioni della moglie. Ma tra tanti minuti ragguagli, nulla di venuta del Procida in Sicilia, di congiura co’ baroni; e quel fovente si riferisce senza dubbio al favor che poi diè alla rivoluzione, o a qualche vago incoraggiamento prima (Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 3, 4, 5, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1186, 1187; e lo stesso negli Annali, ibid., pag. 1293).
Ferreto Vicentino, autor d’una Cronaca dal 1250 al 1318, nel qual tempo probabilmente ei visse, reca similmente le pratiche dell’imperator greco e del re d’Aragona; le esortazioni fatte a questi da Giovanni di Procida; il danaro dato, e gli armamenti. Del resto è poco esatto; porta l’andata di Pietro, di Catalogna a Messina direttamente; e fa pattuire il duello nel tempo dell’assedio di quella città, per evitare la strage. Non parla de’ Siciliani senza biasimo; e notevol è ch’ei dice chiamato Pietro dai maggiori del regno, che, ammazzati i Francesi, avean preso iniquamente lo stato; il che esclude ogn’idea di cospirazione antecedente di costoro col re (in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 952, 953).
In un’antica Cronaca napolitana (Raccolta di Croniche, Diarii ec, Napoli 1780, presso Bernardo Perger, tom. II, pag. 30) leggiamo: «1282. L’isola de Sicilia se rebellò contro re Carlo I e donasse a re D. Pietro de Aragona; quale rivoltazione fo per violentia che un Francese volse fare a una donna.»
Giordano, nel Ms. Vaticano, non altrimenti narra il vespro, che con le parole: Succensa est primo stupenda rabies, propter enim enormitates Gallicorum (in Raynald, Ann. ecc., 1282. §. 12).
Paolino di Pietro, contemporaneo, mercatante fiorentino, e scevro, per quanto si ritrae, da studio di parte in queste nostre vicende, racconta la sollevazione in queste parole, che per la grazia della lingua e semplicità antica[269] ci piace trascrivere: E incominciosse in Palermo, perchè andando ad una festa per mare, alquanti di Palermo fecero lor segnore, e levaro un’insegna per gabbo ed a sollazzo; ed alquanti Francesi per orgoglio la volsero abbattere; e quelli non lasciando e difendendola, vennero alle mani; e i Palermitani non curandoli in mare, ed i Franceschi non credendo ch’elli avessero l’ardire, combattero ed ucciserli. Per la qual cosa la terra fu sotto l’arme; e li Franceschi combattendo con li Palermitani, per paura di non morire tutti, si difesero, ed ucciserli tutti, e grandi e piccioli, e buoni e rei. E poi alla sommossa di Palermo, che parve opera divina ovvero diabolica, tutte le terre di Sicilia fecero il somigliante; sicchè in meno d’otto dì in tutta la Sicilia non rimase, niuno Francesco. Il re di Raona, sentendo questo, fece ambasciatori, profferendo avere e persona, e ritornò diqua, non avendo sopra Saracinì acquistato niente; ed arrivò in Sardegna; ed ivi stando ebbe dai Siciliani ambasciadori e sindachi con pien mandato; e andò in Sicilia; e di volere si fece loro re (Muratori, R. I. S., Aggiunta, tom. XXVI, pag. 73). La quale narrazione, ancorchè diversa dal vero, prova che in Italia s’incominciò a raccontare diversamente il fatto del vespro, errando talor nelle circostanze, e più sovente nelle cagioni, perchè più facile è; ma che Paolino di Pietro s’imbattè solamente negli errori dei fatti.
Non così il grave scrittore degli Annali di Genova. Fu questi Giacomo d’Auria, o Doria, che gli Annali, principiati da Caffari, continuò dal 1280 al 1293. Uomo d’alta affare nella repubblica, per carico pubblico ei scrisse le cose de’ suoi stessi tempi, viste con gli occhi propri, o ritratte da testimoni degni di fede, nel popol di Genova, mercatante e navigante, che avea commerci frequentissimi con Sicilia e anche con Napoli; tantochè alcune galee genovesi vennero ad osteggiar Messina a’ soldi di re Carlo; e Genovesi eran anco entro Messina e in altri luoghi di Sicilia[270] nel tempo della rivoluzione; e più numero nè militarono nelle armate nostre e nemiche nelle guerre seguenti. Donde ognun vede se abbian questi annali pregio di esattezza, sano giudizio, e anco, fino a un certo punto, imparzialità; non vedendosi piegare a nessun lato la narrazione dei fatti; e potendosi francamente conchiudere, che lo scrittore tenesse più al dover d’istorico, che agli umori della propria famiglia ghibellina. O lo scrittore premette espressamente, che furono causa del tumulto le oppressioni e aggravi de’ Francesi; che furono occasione gl’insulti che fean essi alle donne, eas inhoneste alloquentes et tangentes. Sicque subito tumulto surrexit in populo; nè parla punto di macchinazioni; ma con grande esattezza nota i fatti; ed espressamente porta chiamato re Pietro dai Siciliani, mentr’era in Affrica, e non avea nulla operato d’importanza (Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576, 577). Quanto valga questa testimonianza degli Annali di Genova non occorre dimostrarlo.
Più forte sarà quella di Saba Malaspina. Le istorie del quale si han divise in due parti: la prima che giugne infino al 1275, pubblicata, tra gli altri, dal Muratori (R. I. S. tom. VIII); la continuazione infino al 1285, per noi importantissima, data in luce dal di Gregorio (Bibl. arag., tom. II). Questi dotti nelle prefazioni notavano la gran fede che si debba all’istorico, prestantissimo secondo i suoi tempi. Ei fu Romano (de urbe, leggesi nel fin della istoria, in di Gregorio, loc. cit., pag. 423), decano di Malta, e segretario di papa Martino IV; e scrisse negli anni 1284 e 1285, con fresca memoria de’ narrati avvenimenti. Nel principio del libro protesta: nec ambages inserere, aut incredibilia immiscere, sed vera, vel similia; quae aut vidi, aut videre potui, vel audivi communibus divulgata sermonibus: e ben potea tener la parola stando appresso Martino, quando la corte di Roma era centro della[271] politica di tutta cristianità e governava al tutto il regno di Napoli nei pericoli della siciliana rivoluzione; talmentechè è probabilissimo, che lo stesso Malaspina scrivesse molte delle sentenze e bolle di Martino, e trattasse gli affarì più gravi; è certo ch’ei ne fu appieno sciente. Infatti la narrazione sua, quando tocca i processi della corte di Roma contro Pier d’Aragona, s’accorda perfettamente con gli originali al presente pubblicati; quando scorre i vizi del governo angioino, si riscontra con le leggi di quello, o le contrarie promulgate appresso il vespro; e vi si legge: frequentissime vidi ... vidique occasione custodiæ ... vidi quoque gravius ... vidi plus, ec., con che si dichiara espressamente testimone oculare. Inoltre, narrando i fatti del vespro, ci apprende e ordini pubblici, e nomi, e aneddoti lasciati indietro fin dagl’istorici nazionali, come sarebbe la immediata federazione de’ Corleonesi co’ Palermitani, che si riscontra appunto col diploma del 3 aprile 1282; ond’è manifesto che Malaspina vantaggia per informazione ogni altro scrittor di que’ tempi. Nè della veracità sua sarebbe da dubitare, fuorchè quando biasima Pier d’Aragona e i Siciliani, in ciò che torni a lode o scusa loro non mai; perchè Malaspina fu perdutamente guelfo; e guelfamente scrive; acerbo contro noi, contro re Pietro, cui chiama lione e serpente; lodatore di re Carlo, se non che amichevolmente si duole che per negligenza non raffrenasse le ribalderie de’ suoi, delle quali scrive con maggior ira, per due cagioni: risentimento di animo giusto al veder così fatti soprusi; rammarico d’un guelfo, che sapea sol per questi levata sì fiera tempesta contro la sua parte. Malaspina conduce così questo periodo.
Discorre le angherie degli oficiali di re Carlo; indi alcuni avvenimenti d’Italia pria della morte di Niccolò III; e qui incomincia a parlare di Pier d’Aragona. Porta come Giovanni di Procida e Ruggier Loria lo confortavano a venire[272] al conquisto di Sicilia; com’ei si armava; quali sospetti destò in Carlo, nel re di Francia, negli stati Barbareschi. Ripiglia poi le cose d’Italia dopo la morte di Niccolò; passa ai preparamenti di Carlo contro il Paleologo alla mala contentezza che accrebbero ne’ suoi sudditi; al mal governo dei vicari di Carlo in Roma. E con un’apostrofe lunghissima a quel re, gli torna a mente averlo lodato a cielo per tutta Italia, e avere commendato la sua dominazione; ma non sapergli perdonare due colpe: avarizia e negligenza. «Tante battaglie, sclama, hai vinto e vinceresti; e inespugnabili stanno questi due vizi!» Salta di qui al fatto del vespro (Bibl. aragonese, tom. II, pag. 331 a 354); il quale appone agli oltraggi recati alle donne e non ingozzati dagl’indocili nostri bravi: il progresso della rivoluzione ritrae in guisa da non lasciar sospetto d’una trama che si sviluppi, ma dar evidenza lucidissima d’una sedizione, che inonda di sangue la capitale, e, fatta gigante, invade tutta l’isola. Malaspina non fa parola, nè prima nè poi, di congiura, d’intesa qualunque tra re Pietro e i baroni o le città siciliane (ibid., pag. 354 a 360); nè in tutta la sua narrazione se ne vede orma. Nè questo egli aggiugne a’ rimbrotti che mette in bocca a re Carlo nell’accettare il duello (ibid., pag. 388); nè altro appone a Pietro, che essersi armato prima; e aver, dopo lo sbarco in Affrica, domandato a papa Martino aiuti che non poteva ottenere, per trarne pretesto a voltarsi all’impresa di Sicilia, ove i popoli, già ordinati in repubblica, lo chiamavano al trono. Questo è dunque il peggio, che un focoso partigiano della corte di Roma e di re Carlo, ma verace e inteso dei fatti, sapesse scrivere della siciliana rivoluzione! niuno mi dirà che Malaspina non potesse saper la congiura; che, saputala, avesse ritegno a bandirla a tutto il mondo![273] Dante in tre versi ritrasse compiutamente il vespro:
Quella sinistra riva che si lava
Di Rodano, poich’è misto con Sorga,
Per suo signore a tempo m’aspettava;
E quel corno d’Ausonia che s’imborga
Di Bari, di Gaeta e di Crotona,
Da onde Tronto e Verde in mare sgorga.
Fulgeami già in fronte la corona
Di quella terra che il Danubio riga
Poi che le ripe tedesche abbandona;
E la bella Trinacria che caliga
Tra Pachino e Peloro, sopra il golfo
Che riceve da Euro maggior briga
Non per Tifeo, ma per nascente solfo,
Attesi avrebbe li suoi regi ancora
Nati per me di Carlo e di Ridolfo,
Se mala signoria, che sempre accora
I popoli soggetti, non avesse
Mosso Palermo a gridar: Mora, mora.
Parad., c. 8.
A’ lettori italiani, o nati in qualunque altra terra ove s’estenda la presente civiltà europea, io non ricorderò la rigorosa esattezza istorica della Divina Commedia intorno i fatti d’Italia; la possanza di quella mente a scrutar le cagioni delle cose, e stamparle ne’ pochi tratti co’ quali suol delineare un gran quadro, sì che nulla vi resti a desiderare; l’autorità infine dell’Alighieri, come contemporaneo al vespro. E a chi noi sente con evidenza, non dimostrerò io, che quelle parole, in bocca di Carlo Martello, tolgano affatto il supposto di congiura baronale. Noterò bene che Dante, qui non solo tratteggiò la causa, ma ancora una delle circostanze più segnalate del tumulto, che fu il perpetuo grido: «Muoiano i Francesi, muoiano i Francesi!» Onde que’ tre versi resteranno per sempre come la più forte, precisa e fedele dipintura, che ingegno d’uomo far potesse del vespro siciliano. E, secondo me, vanno errati quei commentatori i quali, seguendo il racconto tenuto finora[274] per vero, veggon l’oro bizantino recato da Giovanni di Procida a Niccolò III, nello:
E guarda ben la mal tolta moneta,
Ch’esser ti fece contro Carlo ardito.
Inf., c. 19.
Il cenno che nel cap. V abbiam fatto del pontificato di Niccolò, basterà a mostrare, ch’ei fu ben ardito contro Carlo pria del 1280, quando si suppone, sulla testimonianza del Villani, questa corruzione. L’avea spogliato delle dignità di vicario in Toscana e senator di Roma, battuto e attraversato in mille guise Niccolò, dal primo istante che pose il piè sulla cattedra di san Pietro (Murat. Ann. d’Italia, an. 1278); onde l’ardimento contro Carlo, più tosto si deve intendere di questi fatti certi, che del supposto disegno della congiura, che per certo non ebbe effetto dalla parte di Niccolò, trapassato nel 1280. E le parole, mal tolta moneta, meglio stanno alla non dubbia appropriazione delle decime ecclesiastiche e del ritratto degli stati della Chiesa (Veg. Francesco Pipino, op. cit., lib. IV, c. 20), che alla baratteria di cui vogliono accagionare l’alto animo dell’Orsino. Del resto, tinto o no che sia stato il papa nella cospirazione, ciò non proverebbe che la cospirazione partorisse il vespro; anzi, se Dante quella conobbe, e al vespro die’ un’altra cagione, più forte argomento è dalla mia parte. Nè è da lasciare inosservato il silenzio del poeta su questo Giovanni di Procida, morto nel 1299, il quale se fosse stato autor della ribellione di Sicilia, Dante non avrebbe pretermesso di locarlo tra i grandi, o buoni o ribaldi; ma egli nol giudicò degno dell’uno nè dell’altro.
Passando dalle tradizioni scritte ai diplomi, si potrebbe credere che la corte di Roma, entrata in sospetto di re Pietro, sol per gli armamenti che si vedean fare ne’ porti della Spagna pensasse a lui più fortemente, quando ebbe[275] l’annunzio della sollevazione siciliana. Così nella bolla data il dì dell’Ascensione del 1282, cioè 37 giorni dopo il vespro di Palermo, querelasi il papa (Raynald, Ann. ecc., 1282, §§. 13 a 15), che molti protervi intenti a molestare re Carlo e la Chiesa, si sforzassero a raccendere in Sicilia la fiamma della discordia; ad id sua stadia inique congerunt; ad id suarum virium potentiam coacervant, manus presumptuosas apponunt, et etiam occulti favoris auxilium largiuntur.... onde ammonisce i re, feudatari, cittadini e uomini qualunque (ibid. §§. 16 e 17), che non si colleghino con le comunità di Sicilia ribelli, nè lor diano consiglio, aiuto, o favore. Ma queste pratiche accennate dalla corte di Roma, tutte presenti e non passate, quand’anche si riferissero a Pietro, sarebber quelle presso la repubblica siciliana per farsi chiamare al trono, non le macchinazioni che produssero il vespro.
Ma poichè re Pietro venne in Sicilia, apertamente il papa a 18 novembre 1282, il dichiarava involto nelle pene minacciate con questa prima bolla (Raynald, Ann. ecc. 1282, §§, 13 a 18): e fermato in questo tempo il duello tra i due re, s’ingegnava a distorne l’Angioino con più ragioni; tra le quali è, che temesse sempre le frodi di quel nimico, che la Sicilia, non in sui fortitudine brachii, sed in papali rebellione detestanda siculi, occupavit; quin verius, de ipsorum rebelliunm ipsam occupatam jam tenentium manibus, clandestinus insidiator et furtivus usurpator accepit (Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 8). Così privatamente a Carlo. Colorì più scure, e pur sempre vaghe, le accuse nel processo indi messo fuori per depor Pietro dal regno di Aragona, ch’è dato d’Orvieto a 19 marzo 1283 (Raynald, Ann. ecc., 1283, §§. 15 a 23; Duchesne, Hist. franc. script, tom. V, pag. 875 ad 882). Ivi si legge che la tempesta, quod execranda Panormitanae rebellionis audacia inchoavit, et reliquorum Siculorum malitia, Panormitanam imitata,[276] rosequitur, non cessava; sed per insidias Petri regis Aragonum.... invalescere potius videbatur.... poichè Pietro, dictorum rebellium se ducem constituit et aurigam. Perchè vantando il dritto della moglie, si adoperava con frodi e insidie, machinatis ab olim, prout communis quasi tenebat opinio, et subexecutorum consideratio satis indicabat et indicat evidenter. Indi, quaesito colore di osteggiare in Affrica, venne in Sicilia, concitando sempre più i popoli contro la Chiesa; e con le città e ville si strinse in confederazioni, patti e convenzioni, o piuttosto cospirazioni e scellerate fazioni; sicchè già usurpava il nome di re, e confermava nella ribellione, non solo i Palermitani, ma sì gli altri Siciliani, e in particolare i Messinesi, che già stavano in forse di tornare alla ubbidienza. Sciorinati poi i supposti dritti della romana corte sul reame d’Aragona, onde Pietro avea anche violato la fedeltà feudale, torna a quella burla, che il papa non sapea ingozzare, dell’impresa d’Affrica, che il fatto mostra, ei dicea, macchinata apposta, ut, opportunitate captata, commodius iniquitatem quam conceperat parturiret. Maxime cum per suos nuncios missos exinde, pluries eosdem Panormitanos sollicitasse, ac ipsis in presumpta malitia obtulisse consilium et auxilium diceretur. E così per tutti i versi mostrando re Pietro caduto nelle scomuniche, e aggressor della Chiesa, dalla quale tenea il regno d’Aragona, scioglie i sudditi dal giuramento di fedeltà, si riserba a concedere ad altri il regno, ec. Non è da pretermettere, che in questo processo medesimo il papa accusa il Paleologo, già d’altronde scomunicato, di exibito, a Piero, consilio, auxilio ac favore; nec non pactis confoederationibus conventionibus initis cum eodem, come allora argomenti di verosimiglianza persuadeano, e portava la voce pubblica; ma nondimeno non parla giammai di cospirazione d’entrambi co’ Siciliani. Nè punto ne parla nell’altra bolla indirizzata a’ prelati di Francia il 5 maggio 1284, narrando i motivi[277] della concessione delle decime ecclesiastiche per la guerra d’Aragona; ove le accuse sono la finta partenza per l’Affrica, e la occupazione della Sicilia, nulla diffidatione premissa, quod proditionis non caret nota (Archivi del reame di Francia, J. 714, 6; citata ma non pubblicata dal Raynald). Questa stessa frase leggasi nel breve del 9 gennaio 1284, pubblicato qui appresso, docum. XIV. Similmente nella bolla data d’Orvieto il 10 maggio 1284, trascritta in un diploma del cardinal Giovanni di Santa Cecilia, dato a Vaugirard, presso Parigi, il 7 luglio 1284, con cui papa Martino commetteva al cardinale di predicar la croce contro re Pietro, gli si appone che: de procedendo in Africam pretento colore, concinnatis dolis, et insidiis machinatis contra nos, eamdem Ecclesiam et carissimum in Christo filium nostrum Carolum Sicilie regem illustrem, nulla diffidatione premissa, quod proditionis non caret nota, procedens, insulam Sicilie, terram peculiarem ipsius ecclesie, licet iam memorato Sicilie regi rebellem, adhuc tamen eiusdem ecclesie recognoscentem dominium et nomen publice invocantem, militum et peditum caterva stipatus invadere ac occupare, etc. (Archivi del reame di Francia, J. 714, 6). In somma Martino, francese e papa, cieco nel devoto amore a Carlo, più cieco nella rabbia contro la siciliana rivoluzione, sforzavasi a mostrare, che Pietro avesse nudrito antichi disegni, tenuto qualche pratica; e che, quando l’audacia palermitana incominciò la rivoluzione, avesse usato questa opportunità per togliere il regno a quei che l’avean tolto a Carlo, presentandosi armato in Affrica, e sollecitando i Siciliani per messaggi, sì che il chiamarono. E questo appunto scrivea Saba Malaspina, nè più. Il papa non dice il re d’Aragona altrimenti traditore, che per esser venuto in Sicilia ostilmente, senza prima sfidarlo. Ei rileva con molto studio tutte le crudeltà del vespro; ma non accagiona nè punto nè poco del vespro il re Pietro, al[278] quale non lascia di trovar colpe, anche ne’ fatti più lontani, e fin col mentire che senza la sua venuta i Messinesi si sarebbero calati agli accordi. Quel medesimo fatto poi che nella sentenza del 19 marzo 1283 è il capo principale dell’accusa, cioè le sollecitazioni fatte d’Affrica a’ Siciliani per chiamarlo re, toglie netto ogni accordo di congiura; perchè è evidente, che se la esaltazione sua si trovava già da gran tempo fermata co’ Siciliani, non era mestieri or procacciarla con brighe e messaggi. Se dunque l’avversario più fiero che fosse al mondo contro il re d’Aragona e i Siciliani, non trattenuto da riguardo alcuno, in un processo fondato sopra fallacia di vecchi ricordi o romori che chiamava pubblica voce e sopra motivi di probabilità, non die’ espressamente quella origine al tumulto del vespro, mentre ammontava e supposti e calunnie, posso dire che rinforzano il mio assunto le stesse parole di Martino IV.
Il conferman quelle di papa Onorio; il quale ne’ capitoli messi fuori l’anno 1285 a riformazione del reame di Napoli (Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 30), ricordate le angherie che l’imperador Federigo incominciò, e Carlo aggravò, continua: reddiderunt etiam praedictorum consequentium ad illa discriminum non prorsus expertum, prout Siculorum rebellio, multis onusta periculis, aliorumque ipsam foventium persecutio manifestant, etc. Nè altramente ei scriveva al cardinal Gherardo nello stesso tempo, attestando le gravezze, afflizioni e persecuzioni del governo angioino, aver cagionato sì fieri turbamenti (in Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 11): e pur Onorio seguiva strettamente la politica della corte di Roma contro la dominazione aragonese in Sicilia!
Lo stesso re Carlo non disse di Pier d’Aragona nè di congiura nella lettera di maggio 1282 a Filippo l’Ardito (Docum. VI); e ne’ trattati del duello di Bordeaux, non apponeva a Pietro, che vagamente: di essere entrato in[279] Sicilia «contro ragione e in mal modo.» E fallito il duello, volendo diffamar l’avversario, ricantò pure che pria dell’occupazione di Sicilia si trattava un matrimonio tra una sua figliuola e un figlio di Pietro; spiegò quelle prime sue parole per pravità, infedeltà, e tradimento; ma tra tanti rimbrotti, non fece mai parola di trama co’ Siciliani (Diploma in Muratori, Ant. It. Med. Æv., Diss. 39, tom. III, pag. 650 e seg.).
Carlo lo Zoppo nel diploma del 22 giugno 1283, contro alcuni tristi officiali e consiglieri del re suo padre, scrisse: ipsi quotidie diversa gravamina et quaelibet extorsionum genera suadebant; ipsi vias omnes excogitabant per quas insula Sicilie a fide regia deviavit (Buscemi, Vita di Giovanni di Procida, Docum. 5).
Nel diploma di Carlo I, dato il 5 ottobre 1284 (Docum. XXIII), ove sottilmente si discorrono le vicende della siciliana rivoluzione in quel modo che Carlo amava a presentarla, e si carica di rimbrotti re Pietro, non si fa parola di congiura nè punto nè poco; ma che Pietro stato per lo innanzi amico, entrando di furto in Sicilia, gli si era presentato novello improvviso nemico. Slmilmente ne’ diplomi delle concessioni feudali a Virgilio Scordia di Catania (Doc. XXXVI), d’altro non si parla che di: suborta generaliter in insula nostra Sicilie guerra.... e di sequens invasio quondam Petti olim regis Aragonam. E nel medesimo tempo in un altro diploma del 20 luglio tredicesima Ind. (1301), che promettea guarentige alla terra di Geraci, disposta a tornare sotto il nome angioino (r. arch. di Nap., reg. 1299–1300, fog. 71, 82), leggesi: scrutinio itaque debite meditationis diligentius advertentes, quod officialium clare memorie domini patris nostri effrenata concitante licentia, insula nostra Sicilie et subsequenter postmodum nonnulle universitates civitatum, castrorum, casalium et villarum oac speciales persone[280] Calabrie, vallis Gratis, terre Jordane et Basilicate, principatus et aliorum locorum regni Sicilie citra farum, in rebellionis culpam cadentes, a fidelitate sancte romane matris Ecclesie atque nostra se turpiter abdicerunt, etc. Finalmente la rivoluzione del vespro non si accenna con altre parole che Siculorum gravis et periculosa commocio nel diploma di Carlo II (Docum XXXIX).
Tutti questi documenti mostrano ad evidenza che infino a tutto il secolo xiii, nè la corte di Roma, nè quella di Napoli ebber mai fronte di parlar di congiura siciliana; anzi, tratte dalla forza dell’evidenza, accettarono la manifesta cagione della rivoluzione dell’ottantadue, com’io l’ho ritratto. Ma coll’andar del tempo pensarono dipinger più nero il fatto, del quale già la verità s’incominciava a corrompere e dileguare. Il veggiamo in due diplomi, l’un di re Roberto dato il 2, l’altro di re Federigo II di Sicilia dato il 3 settembre 1314; mentre Roberto assediava Trapani, Federigo strignea Roberto. Avvenne allora, che un corsale napolitano prese una nave delle isole Baleari che mercatava in Sicilia, e che la città di Barcellona ne domandò a Roberto la restituzione. Costui dunque, scrivendo al comune di Barcellona, ingegnavasi a sostener buona la preda; e tra le altre ragioni allegava: quod homines insulae Siciliae a longissimis retro temporibus, rebellionis, perfidiae et hostilitatis improbe spiritum assumentes, contra clarae memoriae progenitores nostros proditionaliter rebellarunt, etc.; il quale proditionaliter si può intendere o perfidamente, ovvero con delitto di maestà, che per la diffalta al giuramento, si volle chiamar tradigione. Ma Federigo, confutando tutte le ragioni, largamente anco dicea della ingiusta aggressione di Carlo contro re Manfredi, dell’empia tirannide con cui condusse a disperazione i popoli del regno preso da Pietro. Non igitur, continua, scribi debuit quod proditionaliter rebellassent, cum rebellationem[281] hujusmodi nullum propositum, nullaque factio, vel conspirans conjuratio praecessisset; et licebat nec minus eis liberis, quod servilis status hominibus erat licitum, ut confugientes ad Ecclesiam, saevitiam effugerent, etc ... Quomodo igitur ipsos Siculos proditores fuisse dici debuti sive scribi? etc. Così ribatte in ambo i sensi questa taccia di tradimento; dimostrando, che non ci fu cospirazione, e che potea la Sicilia a buon dritto scuotere il giogo dell’usurpatore. Non ritraggiamo che Roberto avesse replicato. E considerando quanto dubbia fu l’accusa, quanto asseverante e particolareggiata la risposta, possiam conchiudere, che trentadue anni dopo il fatto, quando si era potuto conoscere appieno tutta la macchina, se la corte di Napoli pur la fingea, non mancavano ragioni da confutarla e negarla.
Ma la tradizione popolare, altri dice, porta infino ai nostri dì Procida e la congiura; e in un avvenimento nazionale sì grande, la tradizione non erra. Rispondo, che fallace è sempre; e di niun peso contro le maggiori autorità istoriche. Di più la tradizione verbale, presso i popoli barbari è guasta da bizzarria e ignoranza; presso i popoli inciviliti da bizzarria, da ignoranza e dalle istorie scritte. Queste scendono infino al volgo, più ripetute quanto più strane; il volgo e gli scrittori le alterano a gara. La tradizione genera la istoria scritta, e questa talvolta genera la tradizione. Così, volgendoci a’ nostri racconti volgari del vespro, troviamo la uccisione di tutti i Francesi per tutta l’isola in un dì; Giovanni di Procida, infintosi matto, girar la Sicilia con una cerbottana, susurrando a tutti all’orecchio, per dire ai Francesi pazze cose, ai Siciliani il segreto della congiura; e, mescolati a queste grosse fole, alcuni fatti ch’han sembianza di vero, come la prova della pronunzia a sceverar Francesi da nazionali nell’eccidio, e il rifiuto di Sperlinga. E l’eccidio contemporaneo è prettamente la favola di fra Francesco Pipino, della Cronaca[282] d’Asti, ec,, penetrata appo noi per cronache scritte o per tradizione di ciarle, quando la genuina tradizione nazionale con l’andar de’ tempi si diradò. A contrastar dunque la testimonianza di scrittori gravissimi o documenti, non si porti innanzi ciò che il volgo dice.
Riflettendo poi sulle sembianze politiche della sommossa di Palermo e de’ fatti che ne seguitavano, parrà inverosimile, e direi quasi assurdo, il supposto della congiura. Giovanni di Procida, nobil uomo, fidatissimo del re d’Aragona, mosso da amor di patria, odio a Carlo, o devozione all’Aragonese, praticava, secondo il Villani e gli altri della sua parte, perchè Pietro salisse al trono di Sicilia. Praticava con Niccolò, col Paleologo, e co’ baroni siciliani. Or lasciati da parte gli accordi con potentati stranieri, che tendean solo ad aggiugnere riputazione e forze a re Pietro, e poteano servir sempre, data o non data la congiura in Sicilia; il trattato di Procida coi nostri baroni dovea mirare a questi due effetti: che scacciassero i Francesi; e che chiamassero il re d’Aragona. I baroni dall’altro canto doveano, pria di gittare il dado, esser certi che Pietro stesse pronto in sull’armi, per aiutarli nel primo principio, o nei primi pericoli; dopo il fatto doveano, o gridar lui re, o almeno prender essi lo stato. Tutto il contrario si ricava dalle testimonianze degli stessi cronisti raccontatori della cospirazione, non che degli altri. Cominciò in Palermo il 31 marzo, si consumò in Messina il 28 aprile questa siciliana rivoluzione; e Pier d’ Aragona tuttavia faceva spalmar navi e scriver soldati in Catalogna, infino al 3 giugno. Partito allora, si drizza alle isole Baleari; vi soggiorna due settimane; indi fa vela, e il 28 giugno approda in Affrica; trattenendovisi a guerreggiare co’ barbari fin oltre mezz’agosto: mentre re Carlo, che avea in punto l’esercito per la impresa di Grecia, strignea già fieramente Messina; e si dovea aspettar sopra la Sicilia più[283] spedito e più pronto ch’ei non fu. Se dunque a re Pietro eran mestieri due mesi più di tempo ad allestire l’armata, non è credibile per niun modo, che i congiurati scelto avesser la pasqua per cominciare il gran fatto, come Malespini e Villani portano espressamente.
E sia pure che una impazienza, o un pericolo de’ cospiratori li avesse affrettato; e suppongasi che Pietro, per tenere un poco più la maschera, avesse voluto rischiar tutta l’impresa con differir tuttavolta la sua venuta; non si negherà che in Sicilia gli autori della rivoluzione doveano prender essi lo stato. Ma noi non solamente non veggiam punto nè poco Giovanni di Procida nel fatto del vespro, nè tra i capitani di popolo del primo periodo incontriamo alcuno de’ nomi riferiti da Malespini, da Villani e dall’anonimo scrittor della cospirazione; ma nè anco alcuno de’ grandi feudatari siciliani; nè delle famiglie più cospicue in que’ tempi. In un luogo popolani senz’alcun titolo di nobiltà; in un altro son fatti capitani di popolo uomini senza vassallaggio, fors’anco senza grande avere, e soltanto militi, ossia cavalieri, ch’era onoranza della persona, non già stato politico; i quali furon trascelti, come usi alle armi, o per altra loro riputazione personale. Così in Palermo Ruggier Mastrangelo con due cavalieri e un popolano; in Corleone Bonifazio, e altri in altri luoghi: e così anche de’ consiglieri, tra i quali si notano molti giurisperiti, cioè uomini del popolo, che la plebe infelicemente suol porre volentieri al reggimento delle sue rivoluzioni, credendoli dello stesso suo sangue e di mente molto maggiore. Veggiam di più la sollevazione propagata nell’isola secondo il corso delle armi palermitane, non già per movimenti spartiti che si potessero attribuire ai feudatari; veggiamo assai comuni mettere a fil di spada i Francesi, e pur tentennare al chiarirsi ribelli, cioè abbandonarsi all’impeto dell’ira e della vendetta, senza saperne altro scopo; veggiam[284] la sollevazione in Messina cominciata dalla plebe, contrastante anzi una parte dei nobili; e per ogni luogo gridato il governo a comune sotto la protezion della Chiesa, ch’era escluder Pietro e i feudatari, i quali non avean parte nel reggimento a comune. Gli adunati sindichi delle città e terre deliberano delle cose pubbliche; i comuni si strìngono con reciproci vincoli di federazione; Palermo e Messina tengon la somma delle cose, e a pien popolo prendon le loro deliberazioni. Ove son dunque «i baroni e’ caporali» del Malespini? Se le forze della congiura cagionavano il 31 marzo e le sollevazioni delle altre città; se de’ baroni cospiratori era la riputazione della vittoria; dovean essi compier lo intento, non venirne al dominio della Chiesa e alla repubblica, nè lasciar questa costituirsi con ordini popolani e uomini o popolani o della nobiltà minore e cittadinesca, Aggiungasi, che il dominio della Chiesa portava ostacol maggiore al re d’Aragona, che non più all’usurpator francese, ma al sommo pontefice veniva a togliere il reame: onde niuno mi persuaderà che Pietro, o uomini che praticavan con lui, avessero mai scelto tal partito. Aggiungasi, che con questi ordini, più debole tornava la rivoluzione; mancando un nome di re, una sembianza di legittimità monarchica, un centro di forze da accrescere riputazione, rapire i timidi come gli animosi, gl’interessati come i generosi. Non era infine senza sospetto gridar la repubblica in un’isola sì vicina alle repubbliche italiane, che potea assodarsi in quegli ordini popolani. Impossibil è, per natura umana e necessità sociale, che principe ambizioso, congiurato con baroni del secol decimoterzo, vincendo, abbandonasser lo stato in quell’andare. E basterebbe sol questo a disdire tutti gl’istorici del tempo, se tutti dicessero il vespro effetto immediato della congiura. Raccogliendo dunque il detto fin qui, abbiamo, che portano il vespro effetto immediato della congiura pochissimi[285] cronisti francesi, d’altronde non molto gravi, la istoria dei guelfi Malespini, seguita dal più guelfo Villani, e dalla Cronaca siciliana d’incerto autore, d’incerto tempo; alla narrazion de’ quali aggiugneano incredibil favola la Cronaca d’Asti, e Boccaccio, vivuto mezzo secolo appresso; e la stessa narrava dubbiamente il favoleggiante frate Pipino: tutti renduti sospetti da spirito di parte, lontananza di tempo e di luogo, e copia di altri errori. Non è più valida la tradizione che oggi troviamo in Sicilia, guasta dal tempo e dagli scrittori. Per lo contrario, lasciando anco i siciliani Speciale, Neocastro, e l’anonimo, e i catalani Montaner e D’Esclot, contemporanei e di autorità non lieve, noi leggiam la sollevazione di Palermo casuale e nata dal più non poterne, in un Francese, e in nove scrittori di vari luoghi d’Italia, tra’ quali Auria, Saba Malaspina e Dante, degni tanto di fede, e il secondo più, perchè famigliare del papa. I documenti del tempo, slmilmente, non dicono la congiura di Pietro co’ Siciliani, nè il vespro effetto di essa; ma che quel re facea disegni da lungo tempo sull’isola, e che seguita la rivoluzione, tanto adoprossi con artifizi e sollecitazioni, che il vôto soglio occupò. Gli ordini pubblici e gli uomini messi su nella rivoluzione, provan impossibile la narrazione degli scrittori guelfi. Ma ben si scorgono gli anteriori disegni di Pietro, dal Neocastro, dal Montaner, da Saba Malaspina, dal Memoriale de’ podestà di Reggio; e le sue pratiche col Paleologo da Tolomeo da Lucca e Ferreto Vicentino; e gli uni e le altre, dalle carte pontificie e di Carlo di Angiò. Sembra infine che ne porgano il bandolo Tolomeo, Ferreto e Saba Malaspina; perchè, nella stessa guisa che fanno Montaner e il Neocastro, dopo un cenno de’ disegni di Pietro sopra la Sicilia, i detti tre istorici portano, senza legarlo a quelli, il tumulto del vespro, e ne indican anzi le cagioni. Or se essi furono a tempo a saper le pratiche col Paleologo, il doveano essere[286] a sapere il rimanente della cospirazione; e l’avrebbero scritto, se fosse stato pur vero.
Indi tutto qual è si scerne, tra tanto viluppo d’autorità istoriche, il progresso de’ fatti. La pessima signoria straniera puzzava in Sicilia, sì che nobile o popolano non v’era che non bramasse uscirne. I grossi proprietari, che sogliono esser sempre più cauti e lenti, avean forse dato ascolto alle istigazioni del re d’Aragona; il quale consigliavasi con parecchi usciti di parte sveva, e adoprava principalmente tra questi Giovanni di Procida, non patriotta, ma destro, accorto e audace ministro d’un principe straniero, contro il tiranno della propria sua patria. Re Pietro, aiutato per comun interesse dal Paleologo, e connivente papa Niccolò, preparava un’armata e un piccolo esercito; con le quali forze potrebbe credersi ch’ei divisava dapprima portar la guerra in Sicilia col favor de’ baroni; perchè se avesse immaginato infin dal 1281 la finta impresa d’Affrica, con la medesima simulazione avrebbe fatto le viste di comunicarla a Francia, al papa e a Carlo, invece di ribadire i sospetti con quel suo silenzio. Mentre Pietro s’armava, e i nobili bilanciavano, e, concedasi pure, stigavano gli animi in Sicilia, ma non si dava principio alle opere, nè forse si sarebbe mai dato; il popolo di Palermo die’ dentro; innasprito per la nuova stretta di violenze di Giovanni di San Remigio, e acceso dagli oltraggi alle donne, rapito dalla tenzone che ne seguì. Il popolo scannò i Francesi; e ordinò lo stato a suo modo, perch’ei fu che vinse. E qui è da tornare a mente, che la feudalità fu sempre moderata in Sicilia nelle dominazioni normanna e sveva; che le grandi città demaniali aveano umori popolani, sì come in Italia, in Alemagna, in Provenza, in Catalogna, in Inghilterra; che le stesse terre feudali godean appo noi ordini di municipio non dipendenti dal barone; ch’era fresca e gradita la memoria della repubblica del cinquantaquattro, e vicino[287] l’esempio delle città italiane; che infine il baronaggio, rinnovato in gran parte sotto Carlo, dovea essere odiato vieppiù per la gente nuova e per gli abusi nuovi. Perciò il popol di Palermo gridò la repubblica: e com’egli armato corse l’isola, l’esempio, la forza, la influenza delle stesse cause, portaron rapidamente tutta l’isola alla repubblica. Ci avea in Sicilia ottimati e popolo; nè i primi amavan forse reggimento democratico, ma per l’impeto e la riputazione della rivoluzione si stettero. Lasciaron fare; e insieme strinsero le loro pratiche con Pietro, non potendo nè metter su una oligarchia, nè soffrir la repubblica a popolo: e per la influenza delle proprietà, per la riputazione della prosapia e degli uomini, in un paese, scosso sì da movimento popolano, ma avvezzo da lunghissimo tempo al baronaggio moderato, s’impadronirono alfine de’ consigli pubblici. Pietro, che non potea dritto venir sopra l’isola, perchè ciò sarebbe stato apertamente portar guerra alla Chiesa e alla repubblica, non all’usurpatore, immaginò la impresa d’Affrica, per mostrarsi armato e vicino. Allora i nobili valser tanto nel parlamento, da farlo chiamare al trono: e così, supposta anche la congiura aristocratica estesa quanto si voglia, si argomenterebbe che la medesima, sviata dai suoi primitivi disegni per la rivoluzione del vespro, li consumasse civilmente dopo cinque mesi, nel parlamento.
Ma i racconti del vespro, della esaltazione di Pietro, de’ disegni di costui, delle pratiche col Paleologo e coi Siciliani, molti anni corsero per tutta Italia e oltremonti, senza stampa, nè comunicazioni agevoli nè frequenti, guasti da uomini parteggianti, ignoranti, avvezzi a credere il falso, e non credere il vero, perchè troppo semplice. In Francia e nell’Italia guelfa la narrazione, com’avviene, prese colore dalle opinioni, e peggio si alterò. Di que’ che avean praticato con Pietro, alcuno, vantando sè medesimo[288] e i suoi, in un trattato tenebroso per sua natura, portò innanti vero e bugia, e tutto gli si credea: si ravvicinarono congiura, vespro, venuta di Pietro. Ma pure gli uomini più diligenti e informati seppero il vero in que’ primi principi. Di lì a pochi anni, la tradizione di voce si corruppe; le cronache niuno leggeale, o credea alle più strane; si sapea grandissima la potenza di re Carlo, e parea «quasi cosa maravigliosa e impossibile» (Giovanni Villani, cap. 56) ed «opera divina ovvero diabolica» (Paolino di Pietro, loc. cit.) questa ribellione di Sicilia; onde la si cominciò ad attribuire ad una causa non meno maravigliosa: la cospirazione di tre potentati coi maggiori baroni di Sicilia. I partigiani della corte di Napoli, trovando più onesto essersi perduta la Sicilia per una pratica sì infernale, che per sollevazione, propagarono via più quella voce. La rissa di Santo Spirito divenne scoppio della congiura; i ventotto dì che penò la rivoluzione a compiersi in tutta l’isola, si strinsero a due ore; il tocco del vespro fu il segno; si fece cospirare per tre anni tutto il popolo di Sicilia. Così pervennero i fatti ai raccoglitori d’istorie ne’ secoli d’appresso; e per caso, o seduzione della lingua e dello stile, le cronache di Malespini e Villani si trovaron le più divulgate.
Indi, per tacere di tanti altri, Angelo di Costanzo, autore del secol xvi, senza citazioni di contemporanei, e tenendosi alla favola non pur narrata da’ due scrittori fiorentini, portava l’eccidio in due ore per tutta l’isola (Storia del regno di Napoli, lib. 2); e non par vero come Denina (Rivol. d’Italia, lib. 13, cap. 3, 4) rimandi a lui; e come Giannone (Storia civile del regno di Napoli, lib. 20, cap. 5), segua questa favola, e presti più fede al racconto inverosimile del Costanzo, che al Malespini, al Villani, ec., da lui d’altronde citati. Nello stesso errore cadde il Capecelatro (Storia di Napoli, parte 4, lib. 1), anche dopo citata la storia in dialetto siciliano, che contien[289] quello della congiura, non la fola dell’eccidio contemporaneo.
A questa non si appiglia alcun altro scrittore di nome.
Il Suromonte (Storia di Napoli, lib. 3) segue al tutto Villani: così anche Surita (Annali d’Aragona, lib. 4, cap. 17), ch’era diligente e non altro.
De’ nostri, Maurolico (Lib. 4, an. 1282), e Fazzello (Deca 2, lib. 8, cap. 4), raccontan ambo i modi di spiegar la rivoluzione, cioè la congiura e l’odio concepito per la mala signoria, e sfogato per l’occasione dell’oltraggio di Droetto. Mugnos (Ragguagli del vespro siciliano) affastella senza discernimento congiura, oppressioni, ingiuria di Droetto, che fa soffrire alla figliuola di Ruggiero Mastrangelo, secondo lui, un de’ congiurati più grossi; e reca, con nomi e giorni e con tutti i particolari, le occasioni per le quali si sollevò ciascun’altra città dell’isola; che son favole mal tessute. Al solito non cita contemporanei; nè noi ci dobbiamo affaticare alla confutazione di questo vanitoso oriundo spagnuolo del secento. Burigny, francese, ma storico di Sicilia, tenuto per l’ordinario in minor conto che non merita, narra la congiura e ’l caso di Droetto; e comechè presti fede agli autori più recenti e allo stesso Mugnos, ne trae una giusta conchiusione: che l’eccidio fosse stato accidentale (Storia di Sicilia, Parte 2, lib. 1, cap. 2). Il Caruso, Inveges, Aprile, Gallo, Bonfiglio e i tanti altri annalisti che ingombrano le nostre biblioteche, tengon lo stesso metro dei nominati di sopra. E il semplice e laborioso di Blasi s’avvicina al segno, conchiudendo: «che la preparata congiura, che dovea scoppiare in un giorno in tutta l’isola, per un improvviso accidente anticipò;» nel qual modo gli parve avere accordato tutti i racconti diversi.
Ma gli storici stranieri di maggior polso, o sostengono l’opinione ch’io ho seguito, o se le avvicinano assai. Quel[290] sobrio Muratori (Annali d’Italia, 1282) raccontata la congiura, come scrissero Villani e Malespini, continua: Ora avvenne che nel dì 30 di marzo, e secondo altri nel 31, i Palermitani, prese le armi, ec., e narra il fatto senza altrimenti connetterlo con la congiura. Dalle stesse fonti Sismondi, con più immaginativa, trae che Procida procurasse la rivoluzione di Sicilia «non congiurando, ma eccitando le passioni del popolo; e mandando in Palermo i nobili e i militari (così interpreta la voce caporali di Giachetto Malespini) per poter governare il movimento, sicuro che l’occasione non sarebbe mancata.» Nondimeno egli attribuisce la sollevazione all’insulto; non parla altrimenti dei soci di Procida; e narra la uccisione successiva nel resto dell’isola (Hist. des Répub. ital. du moyen Age, ch. 22). Prima del Sismondi il Bréquigny, avvezzo alle più pazienti ricerche, e a quell’esame rigoroso che diffida di tutt’autorità, avea notato in poche pagine i fatti del vespro siciliano, ricavati da’ documenti; ne avea conchiuso, «vedersi chiaramente che la rivoluzione della Sicilia non fu una congiura, e che non v’ebbe punto congiura.» (Magasin Encyclopèdique, tom. II. Paris, an. iii, 1795, pag. 500 a 512). La stessa opinione tiene M. Koch (Tableau des Rèvolutions de l’Europe, tom. I. Paris, 1823, pag. 175); il quale aggiugne non creder più verosimile della uccisione contemporanea in tutta l’isola, «quella trama con Pietro d’Aragona, perchè i Palermitani alzarono lo stendardo della Chiesa, deliberati a darsi al papa, ec.» Nè diversamente pensò Shoell (Cours d’Histoire des États européens, Paris–Berlin, tom. VI, pag. 49). E per nominare in ultimo due de’ più vasti ingegni del secolo xviii, finirò il novero con Voltaire e Gibbon. Il primo, nella rapida corsa sulle vicende delle società umane, si fermò un istante sul vespro siciliano; seppe scernere la congiura dal fatto; affermò aver Giovanni[291] di Procida preparato gli spiriti, ma il caso della donna cagionato l’uccisione (Essai sur l’esprit et les mœurs des nations, ch. 61). Con esamina forse più accurata, l’autor della Decadenza e ruina dello impero romano, lasciò in dubbio la cagione de’ fatti, raccontati d’altronde con la maggiore esattezza storica (Decline and fall of the Roman Empire, ch. 62). «Si può chiamare in dubbio, ei disse, se il subito scoppio di Palermo fosse stato effetto del caso o d’un disegno:» e ciò che il fa rimanere in questo dubbio, è un errore: la supposta dimora di Pietro sulla costa d’Affrica al tempo del nostro vespro. Però deride il patriotta Speciale d’aver dissimulato ogni pratica antecedente, col dir seguita la sollevazione, nullo comunicato consilio, mentre Pietro «per caso» si trovava con un’armata sulla costa d’Affrica. Se lo storico inglese avesse riscontrato i tempi, ed avrebbe risparmiato quel frizzo a Speciale, e deposto ogni dubbio sulla cagione: perchè il 31 marzo si mosse Palermo; il 29 aprile non v’era città in Sicilia che tenesse pe’ Francesi; e Pietro non partì di Spagna per Affrica che in giugno, quando nei consigli siciliani era messo il partito per lui, quando forse alcun pubblico messaggio gli era giunto di Sicilia.
Degli scrittori recenti che han toccato questo punto d’istoria io non parlo. Certo diversità di giudizio non è offesa a begl’ingegni. Non parmi necessario confutar di parola in parola i loro scritti, perch’io credo che la dimostrazione abbastanza si contenga nel fin qui detto.
FINE DELL’APPENDICE.
N. B. Ho creduto bene in questa seconda edizione conservar la ortografia come sta negli originali ma aggiugnere l’interpunzione.
Alcuni documenti hanno un numero progressivo diverso da quel della prima edizione, per cagion dei nuovi documenti che ho voluto porre in ordine cronologico coi primi. Il numero progressivo della prima edizione sarà notato tra parentesi.
I (i).
Stratigotis Salerni fidelibus suis, etc. Ex parte Landulfine uxoris Johannis de procida de Salerno, fuit nobis humiliter supplicatum, ut cum ipsa semper erga eccellentiam nostram fideliter et devote se gesserit; et malitie predicti Johannis viri sui, qui ob proditionis causam quam erga nostram maiestatem commisisse dicitur se absentavit a Regno, nequaquam consenserit, licentiam sibi morandi secure in Civitate Salerni cum aliis nostris fidelibus, concedere de benignitate Regia dignaremur. Nos igitur suis supplicationibus inclinati, fidelitati vestre precipiendo mandamus, quatenus si eadem Landulfina fuit fidelis et de genere fideli orta, et malitie dicti viri sui nequaquam consenserit, eam morari in Civitate Salerni cum aliis nostris fidelibus libere permittentes, nullam permittatis sibi occasione proditionis predicti viri sui inferri ab aliquibus iniuriam molestiam vel gravamen. Dat. Capue, iij februarii xiij. Ind. Regni nostri anno V (1270).
Dal r. archivio di Napoli, registro di Carlo I, 1269, C, fog. 214.
II (ii).
Scriptum est Justitiario Basilicate, etc. Cum de novo laborari et cudi fecerimus ac cotidie faciamus in Sicla nostra auri castri capuani de Neapoli, novam monetam auri que vocatur Karolenses, quorum quilibet valet augustale unum, et medietas ipsorum Karolenorum, quorum quilibet medium augustale, pro bono populi, propter fraudem quam committebant campsores in aliis monetis recipiendis et expendendis; et beneplaciti nostri sit quod moneta ipsa predicto modo recipiatur et expendatur, videlicet Karolenses pro uno augustale, et medalia pro medio augustale, sicuti valet secundum legalem probam inde factam; fidelitati tue sub pena omnium que habes, et sub pena mutilationis manus, que pena manus sit in arbitrio et beneplacitu nostro, firmiter et expresse precipimus, quatenus non attentes recipere vel expendere pro minori quantitate Karolensem quam pro uno augustali, et medaliam Karolensis quam pro medio augustali: quod quidem mandatum per licteras tuas cum transcripta forma presencium secretis, magistris portulanis, et procuratoribus statutis super officio salis, magistris massariis,[294] et aliis officialibus jurisdictionis tue ex parte nostra facias, per eos sub pena publicationis bonorum suorum et mulilationis manus, quam penam manus nostro arbitrio reservamus, inviolabiliter observandum; a quibus officialibus singulis de receptione ipsorum literarum tuarum habeas et recipias licteras responsales in tuo ratiocinio producendas, ut super hoc nullam possint causam ignorantie allegare: nihilominus mandatum ipsum per vocem precontam fieri facias et parte nostra singulis tam Campseribus, quam aliis de jurisdictione tua; sub hac pena videlicet, quod qui receperit vel expenderit Karolensem pro minori pretio quam pro uno augustali, et medaliam ipsius Karolensis pro minori pretio quam pro medio augustali, Karolensis ponatur in igne ut accendatur, et sic totus calidus et accensus ab igne imprimatur in facie illius vel illorum qui Karolensem pro minori quantitate pro uno augustali, et medaliam ipsius Karolensis quam pro medio augustali dederint vel expenderint, sicut superius dictum est. Preco vero in sua voce preconia sic dicat: qualiter nos notum facimus fidelibus nostris regnicolis, quod predictam novam monetam fieri fecimus et faciamus continue laborari de fino auro et legali proba et assagio, et vocatur Karolensis, et tam Karolensis quam medalia ipsius est predicti valoris; et qualiter mandamus Justitiariis, secretis, magistris portulanis, et procuratoribus statutis super officio salis, magistris massariis, et aliis officialibus ac omnibus in regno habitantibus, quod nullus sit qui recipiat vel expendat Karolensem vel medaleam ipsius pro minori quantitate quam superius dictum est, sub pena superius nominata Preterea quia tempus instat ut magistri jurati in singulis terris ecclesiarum, comitum et baronum, et quod judices in singulis terris demanii nostri per singulas partes regni creari debeant pro anno proxime future septime indictionis, fidelitati tue firmiter et espresse precipimus, quatenus statim receptis presentibus precipias ex parte nostra universitatibus singularum terrarum et locorum tam demanii quam ecclesiarum, comitum et baronum jurisdictionis tue, cuilibet ipsarum videlicet, sub pena decem unciarum auri per te a contumacibus exigenda, ut universitates demanii judices sufficientes, ydoneos et fideles et jurisperitos si poterint inveniri in numero consueto, et universitates terrarum ecclesiarum, comitum et baronum magistros juratos bonos, sufficientes et ydoneos et fideles, quibuslibet videlicet ipsarum universitatum in magistros juratos de comuni voto omnium eligant; et ipsos ad tardius usque per totum mensem septembris proxime venture septime indictionis, cum decretis electionis et approbotionis eorum ad te mittere studeant, officia hujusmodi in terris ipsis pro toto eodem anno septimo indictionis a te pro patrie nostre curie recepturos; ita quod illi quos ad hoc eligerint non sint de hiis qui presenti anno sexte indictionis in terris ipsis officia ipsa gesserint; et sicut singuli eorum ad te venerint recipias ab eis fidelitatis, et de officiis ipsis fideliter exercendis pro[295] parte curie nostre, ut est moris, debitum juramentum, et statim cuilibet ipsorum fieri facias patentes licteras tuas universitatibus terrarum et locorum unde fuerint, ut eisdem judicibus et magistris juratis, de hiis que ad eorum spectat officium, per totum predictum annum septime Indictionis ad honorem et fidelitatem nostram devote respondeant et intendant; et a quolibet ipsorum magistrorum juratorum et Judicum recipias pro literis ipsis statim quod ipse litere sigillantur tarenos auri decem et octo et medium ponderia generalia, sicut pro inde in curia nostra recipi consuevit; nihilominus recipias a quolibet ipsorum judicum terrarum demanii, tempore creacionis eorum ad ipsum officium sine aliqua alia dilatione, pro officio ipso eam quantitatem pecunie que in terris eisdem pro officio ipso annuatim hactenus solvi curie consuevit, et ab omnibus ipsis magistris juratis et judicibus nihil aliud penitus per notarios seu quoslibet alios occasione scripture literarum ipsarum vel alia quavis causa pro officiis ipsis exigi patiaris; et tu tamen ratione tui sigilli nlhil ab eis exigas vel exigi facias quoquo modo: quam totam pecuniam quam a magistris juratis et judicibus predictis ad predictam rationem de tarenis auri decem et octo et medio pro quolibet ipsorum pro literis ipsis, et a predictis judicibus pro officio judicatus predicto modo receperis, nulla inde retencione facta, statim ad cameram nostram apud nos existentem, assignandam Magistro Martino de Dordano et Johanni Tursarachii camerariis nostris statutis supra officio griffi in hospicio nostro vel alicui ipsorum in absencia alterius et non ad cameram nostram Castri Salvatoris ad mare de Neapoli, transmittas. Cautus quod aliquis de terris et locis jurisdictionis tue, demanii videlicet in creandis judicibus, et de terris ecclesiarum, comitum et baronum in creandis magistris juratis, aliquatenus non obmittas; quia totam summam pecunie, ad quam ascendit pecunia erigenda predicto modo a magistris juratis singularum terrarum ecclesiarum, comitum et baronum et a judicibus singularum terrarum demanii jurisdictionis tue de terris illis omnibus que continentur in cedulis generalium subvencionum tibi et curia nostra transmissis vel in antea transmittendis et de quibuscumque aliis terris que a cedulis ipsis forsitan obmisse fuerint, a te integre et sine dilatione qualibet vel diminucione tue raciocinationis tempore exigi faciemus: pecuniam vero totam quam a singulis magistris juratis et judicibus jurisdictionis tue, et a quibus cum nominibus et cognominibus ipsorum et de quibus terris et locis fuerint receperis, personaliter et distincte in duobus quinternis redigi et notari facias; de quibus quinternis unum celsitudini nostre et alium magistris racionalibus magne Curie nostre sigillatis sigillo tuo sine mora transmittas. Terre vero jurisdictionis tue, tam demanii in quibus creandi sunt judices, quam ecclesiarum, comitum et baronum in quibus creandi sunt magistri jurati, secundum tenorem cedule ipsius generalis subvencionis in ipsa jurisdictione tua, utpote in quaternis[296] nostre curie registrate, sunt numero centum quatraginta. Et quia secundum tenorem dicte cedule quam pluries terre inveniuntur taxate simul in generali subvencione et in predicto numero.... combinatio terrarum ipsarum computata est pro una terra tamen, pro eaque inveniuntur simul taxate, volumus et mandamus quod si in qualibet terrarum ipsarum que sic combinate sunt per se et.... in terris videlicet que sunt demanii judices, et in terris ecclesiarum, comitum et baronum magistri jurati consueverunt creari, id videlicet serves quod in terris ipsis usque modo extitit observatum; et a quolibet ipsorum judicum et magistrorum juratorum creandorum in terris ipsis, recipias pro licteris ad predictam rationem et a quolibet ipsorum judicum pro officio judicatus, quantitatem pecunie quam pro officio ipso in terris ipsis a quolibet judice solvi hactenus curie consuevit; et pecuniam ipsam cum alia supradicta ad predictam cameram nostram mictas, assignandam predictis camerariis nostris, ut dictum est, vel alteri eorumdem; et ipsorum nomina, numerum et officia ac terras unde fuerint, in predictis duobus quaternis redigi facias et notari. Significaturus nobis et predictis magistris racionalibus numerum et nomina terrarum que in jurisdictione tua in demanio et manu curie nostre sunt, et terrarum ecclesiarum, comitum et baronum jurisdictionis ejusdem. Datum apud Lacumpensulem, mense augusti xiij ejusdem (1278).
Scriptum est in simili forma Justitiario Capitanate; terre vero jurisdictionis sue sunt centum quinquaginta. Dat. ut supra.
Idem | Terre laboris | terre etc. sunt | 400 |
» | Aprutii | » | 720 |
» | Principatus | » | 290 |
» | Terre Bari | » | 52 |
» | Terre Ydronti | » | 212 |
» | Vallis gratis et terre jordane | » | 254 |
» | Calabrie | » | 139 |
» | Citra flumen salsum | » | 101 |
» | Ultra flumen salsum | » | 49 |
Dal r. archivio di Napoli, reg. di Carlo I. 1268. A fog. 127.
Il numero di 49 terre e città che qui si da alla Sicilia oltre il Salso, risponde appunto a quello del diploma del 12 agosto 1279 qui appresso, docum. III, ove sono esse individuate, computandosi per una sola terra Giuliana, Adragna e Dranagi.
La proporzione delle imposte tra la Sicilia e le province di terraferma era a un di presso d’uno a quattro; come il mostra il diploma del 13 febbraio 1276, citato nella nota 2 pag. 51, 52 et 53 del vol. 1.
È notevole in questo documento che il numero delle città e terre di Sicilia non passava le 150, quante ne avea in terraferma la sola[297] provincia di Capitanata. Ciò mostra che la popolazione era allora, come oggidì, più sparsa in terraferma, e in Sicilia ristretta in più grosse città.
In fine questo diploma prova che le università, ossian comuni, eran chiamate ad eleggere di comun voto alcuni pubblici officiali; e che perciò sotto gli Angioini, e probabilmente in fin da’ tempi Svevi i comuni eran corpi importantissimi nell’ordine dello stato, e si usavano le adunanze popolari. Veg. la nota 1 a pag. 13 del vol. 1.
III (iii).
Cedula distributionis nove denariorum monete facte in Curia Regia, mense augusti vij Indictionis apud Lacumpensilem pro anno futuro octave Indictionis, de nova moneta Sicle Messane in Justitiaratu Sicilie ultra flumen Salsum.
Panormum | Unc. | 790 | 25 | 5 | |
Mons Regalis | » | 13 | 15 | 9 | |
Carinum | » | 9 | 2 | 11 | |
Alcamum | » | 25 | 13 | » | |
Calatafimum | » | 39 | 29 | » | |
Salem | » | 90 | 25 | » | |
Mons s. Julianj | » | 58 | 4 | » | |
Drapanum | » | 257 | 8 | 11 | |
Marsalia | » | 141 | 27 | 11 | |
Mazaria | » | 109 | » | » | |
Castrum Veteranum | » | 22 | » | 11 | |
Burgium | » | 4 | 10 | 16 | |
Xacca | » | 58 | 25 | 16 | |
Calatabellocta | » | 43 | 24 | 11 | |
Agrigentum | » | 72 | 20 | » | |
Licata | » | 55 | 6 | 16 | |
Calatanixecta | » | 50 | 13 | 11 | |
Nàrum | » | 40 | 9 | 18 | |
Sutera | » | 36 | 20 | 17 | |
Camerata | » | 51 | 28 | 14 | |
Castrum novum | » | 95 | 16 | 14 | |
Curilionum | » | 239 | 24 | » | |
Biccarum | » | 36 | 20 | 17 | |
Sclafanum | » | 15 | 18 | 14 | |
Calatabuturum | » | 65 | 12 | » | |
Golisanum | » | 14 | 15 | 19 | |
Politium | » | 87 | 6 | » | |
Petralia inferior | » | 1 | 24 | 12 | |
Petralia superior | » | 2 | 5 | 8 | |
Giracium[298] | » | 18 | 15 | » | |
Sanctus Maurus | » | 5 | 24 | 9 | |
Asinellum | » | 8 | 91 | 12 | |
Gratterium | » | 3 | 19 | » | |
Pollina | » | 6 | 13 | 11 | |
Ypsigro | » | 3 | 19 | » | |
Chephaludum | » | 79 | 28 | » | |
Therme | » | 29 | 2 | » | |
Caccabum | » | 39 | 29 | » | |
Brucatum | » | » | 21 | 16 | |
Mons major | » | » | 21 | 16 | |
Amena | » | 3 | 19 | » | |
Busachinum | » | 7 | 8 | » | |
Bibona | » | 13 | 24 | 4 | |
Trocculum | » | 5 | 24 | 8 | |
Sanctus Angelus | » | 8 | 19 | » | |
Juliana Adragna Dranagi |
} | » | 4 | 10 | 16 |
Modica | » | 1 | 24 | 9 | |
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Baya | » | 1 | 24 | 9 |
Summa pecunie totius predicte distributionis, unc. duomilia septigent. viginti quinque.
Pro qua pecunia distribuenda sunt in prescriptis terris juxta ipsam taxationem, ad rationem de libris tribus per unciam denariorum, in numero librarum octomilia centum septuaginta quinque.
Dat. apud Lacumpensilem, anno Domini mcclxxix die xij aug. vij. Ind. Regnor. Nostr. Jerhusalem anno iij, Sicilie vero xv.
Dalle pergamene del r. archivio di Napoli, fasc. 45, num. 3.
Le somme son tutte scritte; poche volte i grani segnati in cifre romane.
IV (iv).
In nomine domini Amen. Anno Dominice Incarnationis milliesimo ducentesimo octogesimo secundo. Die veneris tertia mensis Aprilis decime Indictionis. Nos Rogerius de Magistro Angelo, Henricus Barresius, Nicolosus de Ortilevo milites, et Nicolaus de ebdemonia capitanej civitatis Panormi; Et Nos Judex Jacobus Symonides baiulus, Judex thomasius grillus Juvenis, Judex symon de farrasio, perronus de Calatagirone, Bartoloctus de milite, Notarius lucas de guidayfo, Riccardus Fimetta miles, et Johannes de lampo, Consiliarij Universitatis Civitatis ejusdem; notarius Benedictus clericus publicus tabelllo civitatis eiusdem,[299] et subscripti testes ad hoc vocati specialiter et rogati, presenti scripto publico Notum facimus et testamur, quod Guillelmus bassus, Guillonus de Miraldo et Guillelmus curtus, nuntij legati sive ambassatores universitatis terre corilionis, obtulerunt et assignaverunt nobis predictis capitaneis et consiliarijs, presentibus nobis predictis Judicibus et tabellione ac testibus infrascriptis, petitionem infrascripti tenoris. Cuius tenor per omnia talis est. Coram vobis domino Rogerio de magistro Angelo, Domino Henrico Barresio, domino Nicoloso de domino Ortilevo, et domino Nicolao de obdemonia, capitaneis civitatis Panormi et consiliarijs civitatis ejusdem; Exponunt Guillelmus baxus, Guillonus de miraldo, et Guillelmus curtus, nuntij legati sive ambassatores Universitatis terre corilionis, dicentes pro parte et nomine dicte Universitatis: quod dicta Universitas offert se promptam et paratam ad prestandam unionem, fidelitatem et fraternitatem populo sive comunj Civitatis Panormi; ad adiuvandum dictum comune in omnibus et per omnia ad requisitionem eiusdem, cum armis, pecunia et personis; et ad hoc petunt se haberi pro civibus dicte civitatis Panormi; et petunt se tractari ut cives ejusdem civitatis et promittunt sollempni stipulatione, nomine dicte Universitatis Corilionis, vobis predictis dominis capitaneis pro parte dicte civitatis Panormi, tractare et habere omnes Cives Civitatis Panormi liberos et exumptos a prestacione doanarum, Cabellarum, et omnium angariarum, et perangariarum que imponuntur alijs in dicta terra Corilionis: et hoc firmant dicti legati, pro parte dicte univertitatis Corilionis, corporali prestito Juramento in animas omnium hominum terre Corilionis; hac conditione et pacto adiectis, quod dictum Comune Civitatis Panormi teneatur prestare dicte terre Corilionis auxilium, consilium et Juvamen, in armis, pecunia et personis, ad tuitionem dicte terre Corilionis et tenimenti terrarum, quas dicta terra nunc possidet. Item petunt homines terre Corilionis, se tractari et haberi libero et exemptos in dicta Civitate Panormi a prestatione doanarum omnium, tam terre quam maris, qua imponuntur alijs in dicta Civitate Panormi; et omnium aliarum angariarum et perangariarum. Hec omnia premissa pro parte dicte terre Corilionis, dicti legati, pro parte dicte terre Corilionis, promittunt vobis predictis dominis Capitaneis pro parte dicte Civitatis panormi sollempniter stipulantibas, habere rata et firma cum obligatione omnium bonorum dicte universitatis presentium et futurorum, sub pena decem milia unciarum auri si contra factum fuerit ab unlversitate Corilionis; dicta pena exigenda a dicta universitate Corilionis, et applicanda predicto comuni civitatis Panormi; Semper rato manente predicto pactio, omnia et singula in suo robore perseverent. Et toties dicta pena committatur et exigatur, quoties contra factum fuerit in premissis, vel aliquo premissorum: semper rato manente contractu predicto. Nos vero supradicti Capitanei, Judices et consiliarij dicte civitatis panormi, eamdem petitionem, ut pote Justam, toto populo[300] dicte Civitatis ibidem congregato ad hoc, cum deliberatione sollempni, et cum eiusdem populi consensu expresso et exinde requisito et habito, admisimus; promictentes pro parte et nomine comunis Civitatis panormi, cum eodem consensu eiusdem populi, per sollempnem stipulationem predictis legatis predicte terre Corilionis, pro parte ipsius terre sollempniter stipulantibus, tractare et habere homines terre Corilionis universaliter, singulariter, conjunctim et divisim, et quemlibet eorum, in Civem et Cives civitatis Panormi; et etiam promittimus per sollempnem stipulationem, pro parte dicti Comunis panormi, predictis legatis terre Corilionis, nomine ipsius terre sollempniter stipulantibus, predicte terre Corilionis et hominibus eiusdem ad requisitionem eorum, dare auxilium, consilium et Juvamen, cum armis, pecunia, et personis, ad tuitionem dicte terre Corilionis et tenimenti terrarum, quas nunc dicta terra Corilionis possidet. Item nos predicti Capitanei, Judices et consiliarij comunis panormi, nomine eiusdem comunis, eisdem legatis pro parte dicte terre Corilionis sollempniter stipulantibus, per solempnem stipulationem promittimus, prestare in dicta civitate panormi eidem terre Corilionis unionem, fidelitatem et fraternitatem, et ubique. Et per sollempnem stipulationem nos predicti Capitanei, Judices, Consiliarij, predictis legatis dicte terre Corilionis, nomine ipsius, promittimus prestare immunitatem, et libertatem, et exemptionem de solutionibus Jurium, doanarum et Cabellarum, que exiguntur ab aliis hominibus in dicta civitate, tam de doana maris, quam de doanis aliis, et Cabellis dicte civitatis panormi; et de omnibus angarijs alijs et perangarijs: et etiam promittimus nos predicti capitanei, Judices et consiliarij dicte civitatis, nomine eiusdem, eisdem legatis nomine dicte terre Corilionis per sollempnem stipulationem sollempniter stipulantibus, prestare auxilium ad destruendum Castrum calatamauri; et omnia alia necessaria que expedirent ad opus dicte terre Corilionis. Que omnia et singula, promissa et expressa pro parte et nomine comunis panormi, eidem terre Corilionis, pro ut superius est expressum; Nos predicti Capitanei, Judices et consiliarij, pro parte dicti Comunis panormi, cum predicto consensu dicti populi, eisdem legatis sollempniter pro parte dicte terre Corilionis (sollempniter) stipulantibus, per sollempnem stipulationem promittimus attendere et observare cum obligatione omnium bonorum comunis panormi predicti, presentium et futurorum, sub pena decem milia unciarum auri: si contrafactum fuerit a dicto Comuni civitatis panormi, dicta pena exigatur a dicto Comuni civitatis panormi et applicetur dicte Universitati Corilionis, semper rato manente predicto pacto omnia et singula in suo robore perseverent. Et tociens dicta pena committatur et exigatur a dicto Comuni, quocies contrafactum fuerit in premissis, vel aliquo premissorum: semper rato manente contractu predicto, omnia et singula in suo robore perseverent; ea pena soluta vel non, semper rato manente contractu predicto cum[301] omnibus et singulis sapra dictis. pro quibus omnibus Universaliter, et singulariter, conjunctim vel divisim, attendendis et observandis inviolabiliter, Nos supra dicti et Infrascripti: videlicet Rogerius de magistro Angelo, Henricus barresius, nicolosus de Ortilevo milites, et Nicolaus de ebdemonia, Capitanei Civitatis panormi, Judex Jacobus symonides baiulus Panormi, Judex thomasius grillus Juvenis, Judex symon de farrasio, perronus de Calatagirono, Bartholottus de milite, Notarius lucas de guidayfo, Riccardus fimetta miles, et Johannes de lampo Consiliarij comunis civitatis Panormi, nomine et pro parte dicti comunis, predicto consensu dicti comunis et dicti popoli panormi exinde requisito et expresse habito, in animas omnium hominum comunis civitatis panormi, corporaliter tacto libro et prestito sacramento ad sancta dei evangelia, Juravimus eisdem legatis, pro parte dicte Universitatis Corilionis recipientibus, prestitum dictum sacramentum attendere et Inviolabiliter observare. Unde ad futurara memoriam, et tam dicte civitatis Panormi, quam predicte terre Corilionis cautelam, factura est et scriptum hoc publicum Instrumentum, per manus mei predicti tabellionis, in plano Sancii Cataldi Panormi; subscriptionibus nostris qui supra Capitaneorum, Judicum, et consiliariorum, et aliorum subscriptorum proborum Virorum Civium Panormi testimonio, Ac sigilli felicis Urbis panormi munimine roboratum, Signoque mei dicti tabellionis signatum. Scriptum Panormi ut supra, Anno, die, mense et Indictione premissis.
Ego Roggerius de Magistro Angelo miles Capitaneus qui supra me subscripsi.
Ego Nicolaus de ebdemonia capitaneus qui supra me subscripsi.
Ego Symon de farrasio qui supra Judex Panormi me subscripsi.
Ego bartolottus de milite qui supra consiliarius me subscripsi.
Ego lucas de Guidayfo qui supra me subscripsi.
Ego Symon de escula miles civis panormi me subscripsi.
Ego Jacobus Symonides qui supra baiulus me subscripsi.
Ego Bonamicus Garzella Judex panormi me subscripsi.
Ego Symon de deumiludedi civis panormi Interfui testor.
Ego Philippus de Troyna magister Juratus Panormi testis sum.
Ego philippus ebdemonia miles interfui et testis sum.
Goffredus de pulearo testor.
Ego Homodei de Carastone testor.
Ego Fredericus de Ruga miney testis sum.
Ego Ottobonus de bagnolo Interfui et testis sum.
Ego Johannes de Lanfredo civis panormi interfui et testis sum.
Ego Magister Andreas de pradela civis panormi testis sum.
Ego Michael de Floderito civis panormi interfui et testis sum.
Ego Magister Martinus de sulmone interfui et testis sum.
Ego Symon de aydone civis panormi interfui et testis sum.
Ego Symon Fresonus civis panormi testis sum.[302] Ego Nicolaus Coppula testis sum.
Ego Nicolaus de Magistro Paulo Civis panormi testis sum.
Ego peronus de Calatagirone civis panormi testis sum.
Ego Symon de Guidayfo civis panormi testis sum.
Ego Perucio Guerrerio civis panormi testis sum.
Ego..... de instruoya testis sum.
Ego..... de pulcaro testis sum.
Ego Benedictus clericus publicuf tabellio panormi qui supra predictis Interfui rogatus scripsi et meo signo consueto signavi.
Questo diploma è una vasta pergamena scritta in grandi e belli caratteri, secondo il tempo, con le sottoscrizioni notate di sopra, che dalla varietà dei caratteri sembrano senza dubbio autografe; e in piè del diploma resta un pezzetto della cordellina di seta gialla con una lista rossa in mezzo, dalla quale pendea il suggello che si è perduto. Attesta l’autenticità del diploma un transunto in buona forma fattone il 15 febbraio 1393 pel notaio Giovanni Filadello, in pergamena che si comma anche in Corleone; nel quale espressamente si dice essersi osservato l’originale non guasto, non viziato, non raso, col suggello pendente da una cordella di seta rossa e gialla, e indi si trascrive per tenore il diploma del 1282. Un’altra copia anche in buona forma fatta nel 1791 se n’ha nella Bibl. com. di Pal. Mss. Q. q. G. 12. Io l’ho trascritto dall’originale che si conserva in Corleone nell’Archivio comunale; il quale l’ha racquistato recentemente, con molte altre importanti pergamene, per te cure dei colto, onesto e gentil uomo Pietro Castiglia segretario della Sottintendenza di Corleone. Questo mio concittadino e amico carissimo a mia inchiesta tanto si adoprò, che trovò i detti diplomi tra le carte del trapassato D. Giambattista Rocchè Cancelliere comunale, i cui figliuoli, degnissimi di lode, le han depositato nello Archivio della municipalità. Speriam che questo sappia ormai guardar gelosamente sì pregevoli monumenti.
V (v).
Nobilibus Civibas Urbis egregiae Messanensis, sub Pharaone Principe plusquam in luto et latere ancillatis, Panormitani salutem, et captivitatis jugum abjicere, et brachium accipere libertatis.
Consurge, consurge filia Sion, induere fortitudinem tuam, quae jucunditatis exula vestibus, et vestimentis tuae gloriae denudata, in die calamitatis et miseriae, in die amaritudinis et ignominiae conttebescis. Noli ultra lamenta promere, quae tui cotentam pariant, sed tolle arma tua, arcum et pharetram, et solve vincula colli tui. Jam enim facta es in opprobriam vicinis tuis, alterium et contenitum tuis, qui in circuitu ejus sunt, barbaris et Christi fidelium inimicis. Jam[303] humiliati sunt velut Joseph in compedibus pedes tui, et tamquam serva es pravis Ismaelitis viliter venumdata. Jam gentes tibi improperant ubi est Deus tuus? et cur ultra expectas; et per patientiam vilis efficeris non solum hostibus, sed et Creatori? Quid duritus, quidve miserius plebs Israelitica sustulit temporibus Pharaonis, quam quod draco iste magnus fecit, qui seducit universum Orbem, et se in hortum B. Petri, et electam Ecclesiae vincam intulit his diebus? Hic est enim Satan solutus a vinculis, qui post mille ducentos annos conglutiens omnia, vitam aufert praesentium et gloriam futurorum. Quid igitur tibi profuit redemptio piissimi Redemptoris, piissimi Salvatoris, si tunc eruta de fauce Diaboli, nunc in escam Draconis magni et Æthiopum populi devenisti? Keu miseri! quam vano fuimus errore decepti Nos et Ecclesia mater nostra. Sicut enim Lucifer discutiens tenebras in suo ortu clarus apparet et rutilans, sic istius adventum in nostrum opinabamur prodire lumen et gloriam caelitus inspiratam, dicentes intra nos: Noli timere, filia Sion, ecce Rex tuus tibi venit mansuetus, qui omnem a te tribulationem auferet, omnemque tibi molestiam extirpabit. Hic est Angelus, cujus ingressum piscina desiderat cordis tui, ut sanet omnes languores tuos, qui te oleo laetítiae prae participibus tuis unget. Hic est Cberubin, qui portas tibi aperiet Paradisi; et Raphael, qui te tamquam unicum Thobiae filium a mortis laqueo praeservabit. O infelix opinio, et spes fallax! Hic revera est Nero saevissimus, qui Dei Apostolos trucidavit, et in matris necem crudeliter exarsit. Hic est ignis aeterni judicti aequaliter omnia dissipans; et velut securis posita ad radicem. Proh dolori quem pastorem credidimus, est verissime lupus rapax, et quem agnum putavimus mansuetum, leonete ferocissimum experimur. Heu! quid nostram sic fascinavit prudentiam, et vires nostri animi enervavit, ut gentes, quae ebrietati deserviunt, jugum nobis imponerent servitutis? Certe patientia ingens fecit si igitur patientia est virtutum omnium condimentum, cur nobis bonorum omnium attulit detrimentum? Sunt ne ista Principis et Pastoris, ut quos debet regere, pascere et fovere, destruat, dissipet et evellat? Vehementi tamen admiratione miramur Dominam nostram et magnam Apostolicam Matrem Ecclesiam feritatem hujus Principis, et nequitiam sub silentio transmittere? quomodo tanti ardoris fumus potuit latere in vicinia, cui de ultimis terrae finibus facta singula patefiunt? Sic autem jam humiliatus est in pulvere venter noster, quod jam dicere possumus et debemus; Beatae steriles, quae non pariunt, et beatae libera, quae non lactant; et in laudem prorumpere Michaelis, quod non restat aliud dicere, nisi, Deus in adjutorium meum intende. Cum igitur Divina potius quam humana inspiratione compulsi, libertatis antiquae beneficium resumere intendamus, serpentibus omnibus, quae ad nostra pendebant ubera, penitus amputatis, et aspidum auribus oppressis, hortamur vos, fratres carissimi, ne in vanum gratiam Dei vos recipere[304] conlingat. Ecce namque tempro acceptabile, ecce none dies salutis vestrae. Nam milvus, et hirundo visitationis suae tempus, testante Domino, cognoverunt. Surge itaque, surge, illuminare Civitas generosa, et noctis caliginem procul pelle. Jam enim a Domino tibi dicitur: Tolle grabalum tuum, et ambula, cum sana facta sis. Quae sedebas in tenebris, et in umbra mortis viliter tabescebas, leva in circuitu oculos tuos, et contemplare caelum, et novam gloriam libertatis. Non te decipiat falsus error, et simulata bonitas persuadeat tyrannorum, quae falsis blanditiis tuis intendit intentionibus obviare, dum virus eorum vires resumere valeat, quia nunc aquis Divinae gratiae est sopitum. Sed attende et considera, quod minus tyrannica pravitas exercuit in subjectis Christicolis, quam in rebellibus Sarracenis. Melius est igitur nos mori viriliter in conflictu, quam gentis nostrae mala conspicere, et sub servitute tyrannica viliter deperire. Heu miseri, dum in laude divina diebus sacri jejunii, Passionis, et Resurrectionis Dominicae petebamus Ecclesiam, protinus ministri scelerum venientes, nos inde convitiose trahebant, et ducentes ad carcerem cum clamore dicebant: Solvite, solvite Paterini. Nulla dies quantumeumque celebris propter hos poterat Divinis obsequiis deputari, nec feriae, quae ad laudem Dei fuerant per Catholicos Principes introductae, locum habebant apud tyrannicam potestatem. Eramus enim tamquam oves errantes, et animae sine fide. Nunc igitur clamemus in caelum, et miserabitur nostri Deus Omnipotens, qui sanat contritos corde, et alliget contritiones eorum, ut sit nobis turris fortitudinis a facie inimici, et gentes, quae in sua feritate confidunt, potentiae ipsius dextera comprimantur. Estote itaque fortes in bello, et cum antiquo serpente pugnate, et quasi modo geniti infantes rationabiles sine dolo lac concupiscite libertatis, ut accipiatis justitiae gratiam in praesenti, et calamitatis fugiatis miseriam in futuro. Valete carissimi. Dat. Panormi xiii die Aprilis x Indictione.
Dall’Anonimi chronicon siculum, cap. 38.
VI.
A tres haut prince son tres cher seignior e neveu Philippe, par la grace de dieu Roi de France, Challes par icelle meisme grace Roy de Jerhusalem e de Sezile, Saluz e bone amour e soi appareillie a son plaisir. Sire, nous vous feisons assavoir que lile de Sezile est revelee contre nous; la quele chose nous porroit torner a grant damage, se nous ni metions hastif conseil: e por ce, bieus nies, nous avons tres grant besoign davoir avecques nous grant plante de bones genz darmes. Et avons mande priant a nostre neveu Robert, Conte Dartois, que il doie venir a nous avec quelques cinc cenz homes darmes. Dont nous vous prions, bieus nies, e requirons que il vous plaise que li devant diz cuenz nostre niez veigne a nous o tout les cinc cenz homes darmes; e li facez prester[305] tant de vostre monoie par quoi ou les devant diz vc homes darmes puisse venir tantost a nous. E tout ce que vous nous farez savoir par vos lectres que vous li alez fait prester, nous le vous ferons rendre en France. E nous avons mande par noz letres a nostre cher neveu le comte Dartois, que il doie venir a nous avecques les devant diz vc homes, e que vous li farez delivre la monoie que mestier sera pour lui e pour eaus. E sil avenoit, sire, que li devant diz cuenz nostre nies eust ensoigne du cors, dont dieu le gare, par quoi il ne peust venir. Nous vous prions, sire, que vous nous envoiessiez un bon capitaine avecques les devant diz vc homes darmes. Donné a Naples, le ix iour de may de la X Indiction (1282).
Dagli Archivi del reame di Francia, J. 513 e 49.
VII.
Vos inquam convenio, Patres Patrum, vos adloquor, principes sacerdotum, qui sacris tribunalibus assidentes, latus summi principis decoratis, et sic, tanquam pars eius corporis, vocati videmini, non tam in partem sollicitudinis, quam in plenitudinem potestatis; qui stateram recti judicij gestantes in manibus, utilitatibus publicis mancipati, tanquam oves (cives?) o utinam pacatissime civitatis, proprios nescitis affectus, nec quod anceps voluntatis arbitrium, sed quod judicium rationis appendat diligentia exacta discutitis, et personarum deletu[423] eminus circumscripto, cladi supponitis humeros, ac Regi subicitis potestatem; dum libertati noxiam a via voluptatis et procacio cupidinis obrupto frenatis, sub debito libraraminis eque libre pares litigantibus laxantes habenas, censendo simili censura dissimiles, parificando dispares equa lance. Ad hoc ex officij debito: sed utinam non erga neglectos regnicolas claudicarent, nec exhorbitarent, pro dolor, a tramite honestatis; qui nuper, non humano ingenio, non brachio carnis adiuti, sed afflati divinitus, monuque celica flati, resilientes paulisper a tyrampnide Pharaonis, ab effrenata callica (sic) feritato, omni crudelitate dicibili graviori, ut eis saltem sub false quietis morula[424] liceat respirare, jubentur tam improvide quam immite; nullis, pro pudor, iustis causis concussionis huiusmodi tam orride servitutis inspectis; nullis injuriarum illatarum atrocium oblatis, ne dum permissis emendis[425], tetram Egipti repetere servitutem, et iterato scabida colla priori adhuc jugo tumentia submittere importabili honerj barbare feritatis. Nam licet insana rabies Gallicorum, infesta mortalibus, inmortalibusque odibilis, quam vix fere (ferre) potest ipsa natura que genuit, vel occidentis[306] experi (hesperi) plaga inmensis direpta fulgoribus[426], que hoc publicum seculi malum, singulareque dispendium, divino permittente judicio, siculas usque transmisit ad horas, Romani eloquij privilegio insigniri[427]. Ex parte aliqua videatur, tamen gemine nobilitatis ytalici sanguinis, innateque prudencie dignis mandata natalibus, et gravitatis antique sacris moribus non imbuta, que sola novit provinciarum esse mater et domina, ab ipsis geniti mundi crepundijs (crepusculis?) et volubilis evi spacijs reddivivis, cum operis fabricator inmensi ex illaque prima rudi caligine, quia indigesta mundi orbita ortabatur[428] incerte, hoc sensibile opus placidos distinxit in vultus, equavit debitis numeris, digessit in partes, media qualitatum gaudere temperio, ac auspicijs digne uti felicibus incomparabilis libertatis, sacre patrie totam reverentiam (sic) non contingerit, sed velut symia monstruosissima bestiarum, solum ridiculosorum comittata (comitata?) conatibus, nec ad judicia meliorum intendens oculum racionis, internosque commitus (commentus?), sed tota herens in estivis, et proclivis yspide genti finitima (finitime?) inferam barbariam et convictum crudeliter efferatur. Hinc indiscreta dominia, hinc dira regimina, hinc importabile honus humeris affligitur miserorum. Quis non hec, Patres conscripti, quovis improvide desperationis agressu saltim moriendo fugiat? Quis eorum injuriosas manus pronas ad sanguinem ferre substineat? Quem truces vultus non terreant; minaces aspectus? Quem arrogans ex intimo viscerum non loquela conmoveat; superbia nuntia, ministra discordie, preco discriminis, amica flagicij? Quis marcide scaturiente ex corpore rapidum eorum ferat anhelitum, maris et aeris infectivum? Quis impetuosum incessum? Ut de ventris ingluvie, continuato mentis exilio, iuxata Bachi (Bacchi) licentia taceamus, dum potus e vicino conseritur potui, et vix tendens in aurora sequens precedentis ebrietatis ludibria tamtisper intersecat. Hanc putatis perfidem, patres, posse justiciam reddere, ac equitatis illibate semitam custodire? Hec ad jurgia prona suscitat lites emortuas, armat inhermes: sopitat, nudat[429][307] cathana dum sui aura incendij calices fecundiores exaurit. Non igitur hec quam cernitis, Patres, rebellio est, non recessus ingratus a pie matris uberibus, sed utroque iure permissa injuriarum justa deffensio, castus amor, pudicitie zelus, virginitatis illibate custodia, sancta tuytio libertatis. Jam enim nullum patientie genus adversa relinquerant, nec erat ultra jam locus ex accidentium novitate mirari. Stabamus siquidem in ea conditione strictissime sortii, adeoque lidubrijs (ludibriis) misere necessitatis impliciti, ut nec morte tranquilla digni, nec vita, pro miseria, videremur. Pape videtur libet et gemere, dum prodigiosa malorum fecunditas, tumultuosis pulsibus dubias luces, anxias noctes, dirosque sompnos, ferocium Gallicorum feralibus ymaginibus agitabat?[430] O felix mors, laudanda miseris, sortibus (fortibus) expetenda, non recusanda felicibus, qua te aviditate in hac inmani persecutione quesivimus, ut deploratum spiritum ad celos, vel terre tartara raperes, antequam hoc destinatum, dapnatnmque corpus publicarum utilitatum usus assumeret!
Sed tristes oculos, ut multa toleremur irruiti[431] claudere seve negas! O decepte cogitationis eventus, hunc moriendi ardorem non fugientis anime solvit efugium, non vitalibus nexibus dissolutis, ultimos ante se fugiens terminos nos spiritus agit aubelitus, set crebra suspiria non largus sanguis mortuos duret in artus, non rigore gelido membra stringuntur, et contra tam adversos casus et asperos, feda quedam vivacitate servantur; at ipsa pereundi cupiditas eo ipso quod vetatur accrescit. Sed age, iam liceat perpense catamitatis abyssum evolvere, et algam obrutam in profundo persequtionis pelago evocare ad littora, et tristitia sancta, corvulo[432], stili officio, ennodare ploranti. Ecce coram viris posite misere prosternuntur uxores violenter, candor virgineus ausu nephario purpuratur, nullus locus linquitur novis injuriis, dum omnis eorum coacta congeries acervatim questionis (sic) momento temporis inculcatur. Hinc obscenos veneris impetus, forme cupido, nepharide corruptionis ascendit. Hinc summa flagitiorum voluptas perturbat honesta; hine fragra (flagra) lateribus jude (inde) sceva manus scevit (saevit?) in faciem celesti signaculo decoratam. Ab re (ab ira?) durus[308] mulcro furit in miseros, mictia pectora scindit, et tristi exitu renitentem spiritum onte diem cogit abire, et extere stationis ignotas petere ripas. Alij diro scalore carceris diutius macerantur; alij fame pereuot; isti premuntur operibus; illi publicis invitii mancipantur oficijs; quos exausti census, sic mendicata pauperies aliena verecundie mittit ad hostia; bos perpetui carceris borrendus yatus absorbet, et non ille carcer quem legura justicia, quem severitas dementata est[433], qui locus est noxiorum pocius ad custodiam quam ad penam inventus. Non possunt humane mentis, humanarum cogitationum ingenia satis hundeque (sic) concipere que vidi. Jacet Neapoli, sub immense rupis obrupto, tristis et ultra naturalem profunde caliginis noctem mersis (mersus) arlibus Gallicis specus, quem tota circumfusi vastitas maris, et undique tempestas terrore ruiture molis everberat: borrent cunta crucibus, scaleni tritumenta (instrumenta?) supplicijs; nullus qui in hec supplicia morlesque prospectus est, et ad infelicium captivorum meetas pròmissus de simili exitu sperare monetur. Est dolor spiritus intus, quem tot victorum (vinctorum) trabunt redduntque gemitus, quem tot contelere (contulere) langores, tot fremitus, tot stridores, tot gemebunda suspiria: hoc tot annorum regnicolarum cubile fuit, ex quo crassatur pravitas gallicana. O perhempnibus tenebris obrutam feralis loci cruentam cecitatem; hoc gladius erexit furibundus. Cogit auri sacra fames avaritie pectora, novosque mille nocendi modos novis adinvenire fallacijs, et instinguibilis sitis excogitatis malitie artibus agit et agitai furibunda ingenia. Vincitur exactionibus numerus; proscriptionibus angustatur. Non nostra sunt, Patres, que cernitis nostris necessitatibus profulura, cultores sumus tantummodo gallice pravitatis. O utinam victus exilis et tennis miseris relinqaatur! O utinam nostra sitirent, et nos non sic avide devorarent! non persone rebus, non res personis suffragium prestant; totum ebibunt, totum exauriunt, insanabiles mustiones: summam excipe, ipso (ipsis) feris volucrìbns conviviare judicabimus indigni. Ulinam nos assumerei terra deiscens, vel spatia levis aheris elevarent, vel insanabilis rogus voraxque fama (flamma) renascentes injurias terminaret! Hie etiam cumulus malls nostris accesserat, quod si quis hec curie auribus inculcabat, coram regijs pedibus tyranni laoessitus injuria, equorum pedibus conculcabatur interdum: quandoque diris verberibus laceratus, diroque carcere pressus, qui miser venerat tristior recedebat; et saucios (suavius?) erat tram quam contentum pati. Si quis (quid) igitur habebamus inigrandum[434], si quid patiebamur, doloroso silentio subticendum. Quid de predatis ecclesijs referam,[309] quibus mitius, quibus erat liberius sub tyrampnide Pharaonis, quis solvendorum tributorum de proprijs immunitate concessa, impensas ex erario publico prophanis ministrabat? Nunc autem, pro pudor, sub principe christiano, sacris assistentes sacerdotes altaribus, publicis vectigalibus honerantur, publicis rapinis exponuntur (exponitur) patrimonium crucifixi. O gens area (sic) natura bene relegata, stolida viribus, indomita feritate, successibus prosperis insolescens, ad tui perniciem Ytaliam invitasti; non impune vastitatem agris Ytalicis intulisti, solitudine (solitudinem?) juventuti: nullus de hac pugna victor redijt, ut sacra tradunt annalia, ni quos dire mortis prepotens anticipavit auctoritas. Regna querere fati est, quesita servare virtutis. Transferunt enim nunquam felicia regna comete: et erraticorum conjunctio siderum amente (amentem) instigat furiam stolidorum, quonim infinitus est numerus: ubi plurimum valet anceps audacia, mortis contemptus, impetus arma movens, et quidquid non nisi potest sevienti furie attestarj. Hinc mentis tranquilla serenitas, vivax industria, virtutum mater, patientie gravitas operatur. Disciplina constant impia; clemencia fulciuntur: plura moribus sunt vicenda quam viribus. Fuit semper conscriptis patribus, Ytalicisque vigoribus (uxoribus) pudicitie cura, privilegia pugna cum vicijs, dum caute, sancte quoque habebatur ecclesie, et a publico aberat hoste infuria, pauca necessitati, nulla voluptati nostri concessere parentes. Ille in gallicis plus laudatur qui magis delectatur; cum bonis effusis proprijs, medicat (mendicat) infeliciter aliena; non est novum pater (patres) ut servata federa nuptiarum regnorum jura concilient; rupta dilacerent. Non casta custodia sacri connubij, graciosa redditio Scipionis divis honusta muneribus, dum libere redditur uxor, et precium procurante vidibi (sic)...... agrestes evocant animos celtibere feritatis; fecitque servata virginitas, quod tantus negabat exercitus; nec audebant arma promittere quod amor tranquille castitatis effecit. Quid e contra Lucretiam referam, Romane pudicitie ducem, nostre regionis honorem, virilem gestantem animum, licet maligne fortune spiritum muliebri corpore clausum; que corporis habitu sruprata, non animo, condito in viscera sua ferro, penam a se indebitam anxie necessitatis exegit; ut quamquam primum pudicum animum a polluto corpore separaret, et corruptorem suum Tarquinum, vel saltim monendo proscriberetur, quem regno tandem vitaque privavit? Hec tyrampnide (sic) regiam in temeritatem clementiam conmutavit; hec consularibus lustris dedit initia, hec curules patribus concessit honores. Quid virginis matrem (Virginiæ patrem) referam (qui) filie virginitatem sola qua potuit morte defendit, captumque de proximo ferrum, non recusanti puelle immersit? Puellaris vox festina inquit mater (pater) occidetur (occide), ingere ferrum ul integer spiritus subito ruptis vitalibus, rupto corpore cedat, non polluta corporis vincula honestam polluant spiritus puritate. Que res usque adeo plebem[310] impulit vindictam, ut tamdin militare desisterent, quam diu lex offensa reducitur; et publicus invasor mancipatus ergastulis, commissi flagitij debitam penam exsolvit. Nunc impijs constitutis privatum prosequentibus interesse, liber matrimoniorum consensus inaudite adicitur servituti, ut jure fori, non jure poli[435], matrimonium reguletur; ut nulli nubere liceat sue principis licentia speciali, que tamdiu differt venenose fallatie artibus dilativis, donec venter emortuns concipere desinat, et vinete cultor seminandi venaciter (vivaciter?) viribus vacueretur; ut sic per indiremptum Latinorum hereditas, liberorum successibus vacuata, transferatur ad exteras nationes. Hinc extinguntur clara genitiva; vipere pululant; et si quando pro raro Latino nubere liceat, non cum terra. Nec questionis calumpnia recipit, quasi non sint hec veatris auribus nunciata; namque quod sic publice geritur, necesse non est singulornm auribus intulerj. Nec latere potuit e vicino positos quid fama volatili orbem personuit universum, et longe positorum vultus oraque complevit; ut illud omittatur ad presens, quod absque rerum et personarum discrimine, pro causa huiusmodi non patet accessus ad mundi dominam et magistram. Non est igitur quo invitis feriatis, que matrum ex uteratione[436] queratur, ac ex certatione (gestatione) partus viperei gravem referat questionem. Est enim, patres, quedam ultima calamitatum rabies, extorta necessitas et laxata libertas, novissimeque in furorem ipsa vota vertuntur: nec est ita immanis crudelitas que multis crassantibus non proficiat in exemplum; hoc facimus, patres, que post penam liberis imperabunt. Cur enim nephanda progenies, dijs hominibusque infesta, ante vite initia peritura, non intus occidat orta, antequam suo contactu celum terrasque pollueret. Sic est in utero necanda superbia, ut ante perdampnate lucis initia delitescat. O exemplum datum divinitus! O res narranda per secula, et annalibus credenda perpetuis! Perire vitia si sic cum innatis fetibus extinguantur! Pulli serpentum viribus cum statura decernuntur a patribus non veneno[437].
Sed ad vos, pater omnium, nunc sermo dirigitur; nunc ad vos publice calicem exclamationis invertor. Undique bella fremunt, undique remurmurat hostis, comotus orbis atteritur, bellis intestinis et exteris laceratur. Hec sunt, pater, vestri neglectus semina, hec propago, hec emolida virga dominij, et enervatus vigor ecclesiastice libertatis. Dum novam, inauditam patrum conscriptorum injuriam, et pervalidam quo a vasallis illatam, et magis despectabile quo vicinam, nescio quo ducti spiritu, vendicare misericorditer distulistis, immo, ut cum summa reverentia loquar, videmini tunc fovere; et dum inpune a Viterbiensibus[311] arma sumuntur, dum dampnabiliter depopulantur castra, lenocinante utero ferario[438], dum sedes sedibus, et mortes mortibus inculcantur; dira per incautum propure (sic) contagia vulgus; et dum privata foventur odia, pijs a mentibus funditus resecanda, dum privatum persequimini interesse, sceptrorum vix publica deperit, et regendi paulatim auctoritas minoratur; et dum licenter fiunt que placeant flagitia, interdum ad ea que displicent pervenitur. Ruentis enim in deteriora seculi usus proclivior perniciosis exemplis proficit, invalescit. Occurit tunc urbis partiale dominium. Dum enim senator vester, juvenili mente subvectus, et vesanie flatibus equo leviter elevatus, non sedit arbiter equitatis, non cultor justicie, sed ecclesiastice partis invasor, in urbis turbatione huiusmodi totius orbis status pacificus perturbatur. Respuit, Pater, Ytalia, respuit peregrina dominia! Generosa quippe nobilitas levi contradictione regitur; molestie tractatione humili superbia (non) frangitur, (sed) et durescit: hec in exteris placeat intueri. At si vos ipsum intra metas racionis colligitis; si reflexis in vobis oculis tribunal ascenditis vestre mentis; si causam vestram, que a nemine debetur mortalium judicari, sed tota divino reservatur examini, colligitis nostro (vestro) sinu, non nisi fallor, invenio qua non possitis ex parte vestra conscientie formidare. Estis enim, ut cum summa reverentia loquar, non ecclesiasticis, set curis secularibus occupatis (occupatus); non ecclesiarum vacatis negocijs, non causis, non expeditionibus electorum, sed regum implicationibus, civitatum, comitum et Baronum: honorem sic habitum vestris sanctissimis auribus pervertistis; accessorium in principale, et principale in accessorium convertendo. Grana negligitis, vacatis paleis et arristis (aristis); hec, pater, ut evangelica monita resonant, et precepta intonant ad clementem non principaliter sed ex quadam adiectione queruntur. Ferunt enim quidam et murmurant quod intra privatum consistorium vestrum preces involant, ut de precio taceamus. Monstrat hec Eustachiana previsio, festinata, solivaga; monstrat expeditio tudertina magnarum precum committata suffragijs; monstrat vestrorum frequentata provisio; in exteris dilata justicia, immo verius denegata; indiscussa negocia, que nec etiam committuntur. Cur sic refriguit caritas, cur sic palatium[439] angustatur? Quare non fit examinatorum negociorum relatio? Cur tot et tam diu tenentur ecclesie viduate? Cur tot perduntur expense? Credo vos ad restitutionem teneri, si cupitis esse de numero salvandorum; nisi, quod nephas est dicere, scriptura divina solvi valeat, vel mentiri. Negocia que discordia lacerat negliguntur, que tanto magis accelerari[312] deberent, quanto de sui natura tractatum expetunt longiorem. Quid est; pater, quod publicis neglectis affectibus, manifestis consistorijs retardatis, immo penitus jam extintis, cedentem continuatis insequimini gressibus, ebdomadam ebdomade anectantes (annectentes?), sicut manifeste docuit negocium vicentinum. Expedirentur, pater, ecclesie, nec tara diu miseri languerent electi, si eo affectu prevalido, quo ad cessiones insurgitis, expediretis in brevi expedibiles questiones; migrasset profecto in bercia (inertia) et dato libello repudij, extra mundi terminos exulasset, si sic expeditionibus vacaretis, sicut cessionibus vacavistis. Videt (videte), pater, ne nimium vacetis a curate (accurate) custodie corporali, ne Dei teneatis ecclesiam viduam. Cum enim vos singularia agenda subagitant, et privatus succedit affectus, nulla debilitas, nulla vos perplexitas circumvolvit. Per pedes plumbeos quos habere vos dicitis, et singulari quedam jactantia commendatis, affectus dessignantur emollidi gressus, ne viam possint currere celestium mandatorum. Considerate, pater, quid ficulnee promittitur occupanti. Nil refert nullum, et inutilem habere prelatum; quamquam vos, ut publice fertur, Dei ecclesie adeo utilem judicetis, quod propterea reddenda justicie parcilis, ut vos et plurimum conservetis. Sed novimus humani generis invasoris profundas insidias, quibus se yantibus rivulis ingerit, quibus se cogitationibus introducit. In tanto curriculo temporis, quo fuistis ad apicem christiane religionis evecti, Leodiensem tantum ecclesiam per viam recti examinis expedistis. Nec malivoli absunt, pater, interpretes, qui verisimilibus presumptionibus adiuvantur, quod ideo facitis, ut affecti inedia, ac supervacuo labore consumpti, sua jura indeffensa dimittere compellantur, ut illis providealis postmodum, quos vobis carnalis affectus consonat, non judicium rationis. Mementote pater, quem finem sibi imposuere ipsa flagitia: est enim jam securis ad radicem arboris preparata. Videte igitur ne ut secare possit (sic), intromittatis manubrium proprie voluntatis. Non sic vos decuerunt vestra promissa, ante divine incarnationis festum vestris sanctissimis labijs promulgata, tradere flatibus Aquilonis, quibus vos quibusdam promissis excussis infirmitatis prehabite, publice respondistis vacare negociis sponse Christi. Nec est ut de promissioni bus quas fecistis, satisfecisse videamini verbo vestro; Aliud est enim justiciam reddere, aliud graciam facere personalem, aliud providere ecclesijs zelo justicie, quam personis, quas forte cecus carnalitatis amor associat non unit (sic) limpidus oculus rationis; maxime cum in uno voluntas recta, o utinam in altero pura necessitas dominetur! O preposterum ordinem non necessario conmutatum, extincta universali justicia, partialis cura supertonat, et ad unius suggestionem principis, quam suos indebite subditos privatos, ac infamatorijs maligni spiritus cedulis, quod satis generosum dedecet principem sussurrantis ecclesiarum regni expeditio (sic) relegatis misericordie visceribus inmaniter cxpeditur. Ex quo manifeste[313] patet, qua siti, quo odio, laicos sibi subjectos persequitur, qui genus electum persequitur electorum; nullum enim suo regio (regno?) paciatur promoveri ni gallice nationis, satisque sibi, reputant impedire, et si suis finaliler injustis desiderija defraudetur. Illud etiam a multis vobis impingitur, quod libenter frivolas occasiones exquisitis ut vacetis, et de permissione divina diffugium sumitis, que locum sibi vindicat etiam in profanis; nullumque, ut fertur, patienter admittitis, quod est summe delirationis indicium. Qui vestro neglectui stimulos afferat caritatis, et cum rubore confunditis, quasi affectetis magno opere, in vestre fetibus negligentie remanere: quanquam et patres conscripti non sic servilem timorem foras emiserint, quam vobis loqui audeant in spiritu libertatis. Sic itaque, pater sanctissime, contractam negligentie labem vivaciter, sic valenter extinguite, ut longi temporis negociorum cumulum brevis hora consumat, et silere facialis arrogantiam imprudentum. Sicque curratis in stadio huius vite, ut consedere tandem una cum grege vobis commisso, in potioribus divine dextere valeatis.
Dalla Biblioteca reale di Francia, Ms. 4042, codice del secolo XIII o XIV.
Questo volume è una scelta di epistole del secol XIII, autentiche e poste a modello di stile epistolare in que’ tempi. Dopo un gran numero di lettere del cardinal Tommaso da Capua, di Pietro delle Vigne, e di altri, si trovano in continuazione tre documenti relativi alla rivoluzione del vespro siciliano. Il primo è la lettera dei Palermitani ai Messinesi, pubblicata tante volte e da me riprodotta, docum. V; segue immediatamente la bolla di Martino IV, Cogit nos temporis qualitas, pubblicata in Raynald, ec.; e immediatamente appresso il presente documento, che è la risposta a quelle intimazioni del papa. Tutto porta a crederlo autentico, come sono senza eccezione le altre epistole del volume: e anche par che sia stato seguito l’ordine cronologico nel trascriverle. Nel testo io ho sostenuto (vol. I, pag. 150), che tale audace rimostranza fu scritta per certo in Sicilia e in quel tempo: basta a leggerla per convincersi di questo. Se poi fosse stata veramente spedita alla corte di Roma, a nome del popolo siciliano, non saprei affermarlo. Ne farebber dubitare le gravi e ardite parole, che rade volle si usano negli atti pubblici; ma è probabilissimo, che vedendo il contegno del papa, e perdendo ogni speranza di placarlo, il governo repubblicano della Sicilia, o qualche privato cittadino, abbian voluto squadernargli in faccia i suoi torti con lo stesso coraggio con cui in que’ giorni si resisteva in Messina all’esercito di Carlo d’Angiò. La rimostranza sembra scritta nella state del 1282, e certamente prima della esaltazione di Pietro d’Aragona.
VIII (vi).
Excellentissimo et quamplurimum diligendo Domino E. Dei gratia, illustri Regi Angliae, Domino Yberniae, et Duci Aquitaniae, P. per eandem gratiam, Rex Arragonum, salutem et sincerae devotionis affectum.
Dilectioni Regiae praesentibus intimetur, quod nos, ante recessum nostri viatici armatae nostrae, videlicet, in quo sumus, cura proponeremus illam ad Dei servitium facere, misimus Nuncium nostrum ad summum Pontificem, ut nobis, super eodem negotio, subsidium largiretur;
Quem idem Nuncium dictus summus Pontifex, audita supplicatione nostra, timens au.... Regem Siciliae accederet, sine responsione aliqua relegavit.
Postmodum vero cura venerimus in Barbariam, ad locum, videlicet, de Altoyl, ad exaltationem fidei Cnristianae, adhibito consilio Richerhominum nobiscum eiistentium, destinavimus iterum ad dictum summum Pontificem nostrum Nuncium, super eo, videlicet, quod nobis in prosequendo facto per nos inchoato, subveniret nobis decima per Ecclesiam in Regno nostro recepta, et concederet indulgentiam Apostolicam nobis, et illis qui nobiscum essent, et etiam quod terram nostram et ipsorum reciperet sub protectione Ecclesiae et commodo, cui Nuncio dictus summus Pontifex fecit quandam dilatoriam impensionem, distulitque sibi tradere literam.
Cumque nos resisteremus inimicis fidei, ut nostrum erat propositum si dicto summo Pontifici complaceret, venerunt ad noi Nuncii quorundam locorum et Civitatum Regni Siciliae, exponentes nobis et supplicantes quod ad Regnum ipsum accederemus, quia omnes Siculi unanimes et concordes nos in eorum Dominum invocabant;
Nos siquidem advertentes, quod istud esset nobis et Dominationi nostrae honorificum et utile, accedere ad dictum Regnum Siciliae cum familia nostra et stolo, ad habendum et impetrandum jus, quod illustris et bona Consors nostra, Domina Regina Aragon, et filii nostri habent in eodem Regno, proponimus; et erit decus nostrum et nostrorum, Domino perhibente.
Caeterum, cum ad gaudia connotentur, quotiens de statu vostro vobis prospero, felicia audiamus, rogamus vos quatenus certificetis nos de salute et statu vestro, quem semper voluimus prosperum et jocundum; nichilominus reservantes.... quicquid..,. vestrae Discretioni.... facto praemisso, praemeditato et circumspecto. Dat. apud Altoyll, etc.
Questo diploma si legge in Rymer, Atti pubblici d’Inghilterra, tom. II, pag. 208 della prima ediz. di Londra, con la data del 19 luglio 1282; ma con maggiore accuratezza è stato pubblicato sotto l’anno 1282 senz’altra data nella ediz. di Londra stessa, 1816,[315] tom. II, pag. 612. È indirizzato a re Eduardo I d’Inghilterra. Il nome di Collo è scritto Altoyll, come portava l’errore della pronunzia appo i Catalani, usi a smozzicar le parole e confonder il suono delle sillabe; ed è probabile che il c di quel nome proprio sia mutato in t per cagion della somiglianza di queste due lettere nelle scritture del secolo xiii.
Un altro errore, forse per la forma de’ caratteri nel MS. o simil cagione, sembra corso nella data della prima ediz., che secondo me dev’essere di agosto. Imperciocchè si sa che Pietro giunse in Affrica il 28 giugno e in Sicilia il 30 agosto; e ognun vede che il manifesto alla corte inglese dovè essere scritto dopo le prime vittorie sugli Arabi, e dopo la ambasceria al papa e il suo rifiuto, di che vi si fa espressa menzione, e poco prima della partenza per Sicilia. Or supponendo la data del 19 luglio, tutti que’ fatti avveniano in 20 giorni, e Pietro restava in Affrica dopo la deliberazione della nuova impresa 37 giorni; che non è credibile, anzi si sa che preso il partito prestamente l’armata aragonese mosse per l’isola. D’altronde, il parlamentò che chiamò Pietro, si tenne durante l’assedio di Messina, e questo cominciò il 27 luglio. Al contrario la data del 19 agosto risponde bene a tutte le testimonianze storiche, per le quali si ha che Pietro impiegò 5 giorni nella traversata d’Affrica in Sicilia, e 3 giorni prima a raccogliere i suoi; onde se cominciò a ordinar la partenza il 22 agosto, è naturale che tre giorni innanti ne avesse scritto a Eduardo e forse anco ad altri principi.
IX (vii).
Scriptum est eidem Capitaneo (a Faro ultra usque ad confinia Terrarum Sanctae Romanae Ecclesiae) etc. Ne vulgaris loquele fama, prehambula rumorum improvida portatrix, et novorum superstitiosa narratrix, in producenda notitìa nostrorum processuum ad audientiam tuam aliorumque nostrorum fidelium transcenderit veritatem; clara delucidatione presentium certum inde te reddere volumus, ipsamque tibi rei geste seriem aperimus. Noveris igitur quod dudum in Insula nostra Sicilie cum innumerabili multitudine nostri potentis exercitus transeuntes, in obsidione illius famose terre Messane felicia castra nostra defiximus; et inibi usque ad diem Sabbati vicesimum sextum presentis mensis Septembris, cum eodem nostro exercitu commorantes, terram ipsam, multis olim fecundam deliciis, multisque divitiis opulenta m, sic undique terra marique constrinximus, sic ferro flammaque vastavimus, quod nihil remansit penitus usque ad ambitum meniorum, quin illud aut ferrum ceciderit, aut ignis combuxerit, vel ruine sit seu depopulationi subiectum; et nichilominus tantis vinearum arborum et locorum extrinsecorum amenitatibus quibus decorabatur eadem civitas succisis, succensis penitus, et destructis, Civitatis corpus non[316] reliquimus inconcussum, quin ex crebris nostrarum ictibus Machinarum, multe pulcre domus intrinsecus sint et decora edificia diruta, ac Civitatis menia usque ad ruinam in locis pluribus concussata; sicque Civitatis menia usque ad ruinam in locis pluribus concussata; sicque Civitatis eiusdem incolas iam artaverimus extrinsecus gladio, intus fame, quod nullum de ipsorum vicina deditione restabat ambiguum vel dubietas remanebat. Verum, inter hec omnia, consultius cogitantes quod Messanensibus ipsis nihil ex nunc prodesse potest autumpni fructuosa fecunditas, tam tempore quam destructione consumpta; quodque Yemali iam tempore imminente, procellosa fari rabies Vassellorum nostrorum statum et transitum, sicque per consequens rerum necessariarum nobis et nostro exercitui, copiam poterat prohiberi; Deliberante prudentia, saniorìque consilio previdente, aliquantulum castra nostra retraximus: ac citra farum cum toto nostro exercitu incolumes venientes, in Civitate nostra Regii sospites permanemus. Adveniente vero tempore congruo, cum eodem et omni alio quod nostra totis viribus potentia procurabit, tam terrestri exercitu quam marino extolio, eamdem insulam nostram Sicilie repetemus; predictos Messanenses, et alios rebelles nostros Sicilie, divina nos comitante potentia, que nostram tuetur iustitiam, sic viriliter invasuri, quod perdetur penitus predictorum quorumlibet presumptuosa protervia; et erecta rebellium cornua sub pedibus nostris nostra potentia conculcabit. Dat. Regii penultimo Septembris xi Indictionis (1282).
Dal r. archivio di Napoli, reg. di Carlo I, 1283. E, fog. 14 a t. Pubblicalo nell’Elenco delle pergamene del detto archivio, tom. I, pag. 245–46, in nota.
X (viii).
Petrus Dei gratia Aragonum et Siciliae Rex, Rogerio de Magistro Angelo Militi, justìtiario comitatus Gyracii, parcium Cephaludi et Thermarum, fideli suo, gratiam suam et bonam voluntatem. Pro parte Clericorum tam latinorum quam graecorum Messanensis Dioecesis Jurisdictionis tuae, nostrorum fidelium, coram nostra fuit expositum Majestate, quod cum olim retroactis temporibus in exactionibus, mittivis, generalibus subvencionibus, promissionibus, et subsidiis quae in Terris et locis ipsius Jurisdictionis tuae, de mandato et pro parte curiae consueverunt imponi, cum hominibus terrarum et locorum ipsorum communicare et contribuere non consueverint, sed exenti exinde fuerint et immunes; nunc Universitates Terrarum et locorum ipsius Jurisdictionis tuae in solucione pecuniae facienda per universitates ipsas, de summa quantitate pecuniae tam per universitates easdem quam universitates aliarum terrarum et locorum Siciliae praedìcto Culmini nostro promissae in generali colloquio de mandato nostrae Celsitudinis tunc Cathanae celebrato, in sussidium expensarum quas[317] in expeditione imminentis guerrae negocii..... Curiam ipsam subire debemus, Collectores super ipsius recollectione..... rum per easdem Universitates Terrarum et locorum ipsius jurisdictionis tuae statutos, clericos ipsos ad concurrendum et contribuendum cum eis molestant et multipliciter inquietant contra eorum immunitatem hujusmodi in ipsorum praejudicium manifestum. Petentibus igitur super hoc per nostram excellentiam providere, ut sit serenitatis nostrae propositum libertates Ecclesiasticas auctore Domino potissime et inviolabiliter observare, fidelitati tuae praecipiendo mandamus, quatenus, si vera cognoveris quae veniunt ad cautelam, eosdem clericos, tam latinos quam graecos, contra eorum immunitatem praedictam per universitates et collectores praedictos molestare nullatenus paciaris. Et si praetextu hujusmodi contra eosdem clericos per universitates easdem vel collectores ipsos ad exactionem aliquam seu pignorum capcionem est processum, processum ipsum initum facias revocari; Ita quod exponentes ipsi coram Majestatis nostrae querelam iterare praeterea non cogantur. Dat. Messanae, Anno Domini millesimo ducentesimo octogesimo secundo (corr. 1283) mense februarii octavo eiusdem undecimae Indictionis, Regnorum Nostrorum Aragonum anno septimo, Siciliae vero primo.
Dall’archivio della Chiesa di Cefalù. Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 12.
XI (ix).
Petrus Dei gratia Aragonum et Siciliae Rei, etc. Decet Patri opera munificentie prestitis radiare, et subiectis semper intenta pro futuro decernere. Regnantis gloria est subiectis commoda..... sub ejus imperio; maxime dum ex commodis subiectorum utilitatis principis procuretur augumentum. Proinde quidem universis nostris fidelibus tam presentibus quam futuris, presentis relationis eloquio volumus fieri notum, quod in generali colloquio nuper in civitate Cathinae de mandato nostrae celsitudinis celebrato.....ad quod universitates terrarum et locorum insulae nostrae Siciliae per sindicos eorum nostra man...... Serenitas pro reformatione status ipsius provinciae diutius ab hoste nostro provinciae comite suisque sequacibus afllictae miseriis. Dignum est equidem regnantem humanitate singula praecellere et subiectis affectione oculos advertentem ipsos reformatione lenire, unde sibi et dignitas oritur et gloria geminatur: ac ipsorum nostrorum hostium subactione finali deo auctore nostrumque benigne propositum proseguenti ipsi serenitati nostrae subiecti..... afflictorum diu eorum colla calcantium stragibus satiati libertatis opitulationem gaudescant et diris consumptis hostibus glorientur et sub nobis possint profitere quicumque ad nostrum meruerunt regnum pervenire. Provincias enim deo auxiliante nobis submissas sic est propositi nostri, deo favente, disponere,[318] quod subiecti nostro gaudentes regimine floreant, nihilque doleant nostrum tardum Dominium acquisisse. Consideratis multis variisque et innumeris tormentorum generibus, quibus fideles nostri insulae nostrae Siciliae diutina fuerant vexatione contriti per huiusmodi nostros hostes; attenta etiam multitudine fidelitatis (et) devotione qua cum gratis obsequiorum servitiis excellentiam nostram gerunt et in futurum gerere poterunt gratiore; dum convenit principem semper humaniora censere, nec computare acceptum quod per alienum sensum in comodum eveniat, atque liberalitas dominos semper crescit, universitatibus et hominibus dictae insulae nostrae Siciliae fidelibus nostris exactionem collectarum quae ibi hactenus consueverunt imponi, nec non solutionem juris marinareorum quae ibi hactenus Curiae debebantur, remittendas et relaxandas duximus, de liberalitate mera et gratia speciali: et quod nulli successori de caetero liceat in eadem insula nostra Siciliae generaliter seu specialiter aliquas generales subventiones seu marinarium jura imponere, nostra sancit humanitas. Gaudeant sub felici nostro Dominio qui sub jugo hostis nostri regiminis tristiciam hactenus pertulerunt; reficiendi libertate divites qui dudum bonis eorum evasere pauperrimi, et importabilia servitutis jura tirannide subivere.
Ad hujus autem nostrae concessionis memoriam et robur perpetuo valiturum, ad cautelam Universitatis Messanae presens privilegium fieri jussimus per manus Vinciguerrae de Palitio, magnae Curiae nostrae notarii, consiliarii familiaris et fidelis nostri, et sigillo pendente Majestatis nostrae mandavimus communiri.
Dat. Messanae per manus Perriconis de Bonastro scriptoris familiaris et fidelis nostri, anno Domini 1282, (corr. 1283) die XV februarii X Ind. Regnor. Nostrorum Aragonum anno septimo, Siciliae vero primo.
Da’ Mss. di Caldo in Messina, nei Mss. della Biblioteca Com. di Palermo Q. q. G. 12. Ne fa menzione Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 135.
La copia MS. che cito è scorrettissima; nè ho potuto trovarne altra men trista. Ho corretto in Vinciguerrae de Palitio, sul cenno del Gallo, loc. cit., le parole che si leggeano viri generalis de palatio; il che basti a mostrare qual fosse quella copia. Non dubito tuttavia della verità del provvedimento, e anco terrei all’autenticità del diploma per le autorità citate, nel tom. I, p. 206.
XII.
Scriptum est Alberico de Verberiis, eie. Cura Camera nostra mutuo receperit per manus Magistri Ade de Dussiaco, thesaurarii, etc., die Veneris vicesimo quarto presentis mensis septembris huius duodecimo Indictionis, aput Nicoteram, a Petro de Gregorio Carboncello, Stephano portario, Johanae Carboncello, et Nicolao de Saxo, mercatoribus[319] et Civibus Romanis devotis nostris, uncias auri sexcentum nonaginta quinque ponderis generalis, computatis unciis auri triginta tribus quas eis donavimus gratiose; et pro ipsa pecunia, per totum proximo futurum mensem octumbris, eisdem mercatoribus restituendas assignari fecerimus eis in pignore et loco pignoris per manus dicti thesaurarii nostri vasa et corrigias argentea infrascripta, factis litteris nostris sub magno sigillo pendenti Vicarie et parvo secreto ad Judicem Guillelmum de Riso, et Judicem leonem de Juvenatio, Secretos principatus, etc., ut predicta summa pecunie eisdem mercatoribus in predicto termino de pecunia nostre Curie debeant assignare; devotioni vestre precipimus quatenus pignora superdicta, que dicti secreti tibi pro parte Curie nostre assignabunt, ab eis recipere, et in Camera predicti filii nostri salubriter conservare procures; facturus eis ad eorum cautelam ydoneam exinde apodixam, et significaturi nobis et predicto magistro Ade diem receptionis ipsorum pignorum, qualitatem et quantitatem ipsorum, cum distinctione ponderis et omnium aliorum que fuerint distinguenda. Pignora autem predicta sunt hec, videlicet: Scutelle sane de argento centum sexaginta, ponderis libramm ducentarum viginti sex unciarum octo tarenorum viginti duorum et medii; alie scutelle fracte quinque, ponderis librarum quatuor unciarum quinque tarenorum viginti duorum et medii; placcelle magne ad flores liliorum due, ponderis librarum novem et tarenorom quindecim; Nappi plani centum quindecim, ponderis librarum octuaginta novem unciarum undecim tarenorum viginti duorum et medii; Nappi et cuppe deaurate cum pedibus quindecim, Inter quas due sunt cum cohoperculis asmaltos, ponderis librarum viginti unciarum septem et tarenorum undecim; flascones novi cum repositoriis suis duo, ponderis librarum septem unciarum sex; Alii flascones de argento quatuor, ponderis librarum decem et septem unciarum quatuor et medie; Gallete nove de argento cum repositoriis suis due, ponderis librarum quindecim et uncie unius; poti de argento tredecim, et alij poti pro aqua duo, ponderis librarum sexaginta et unciarum duarum; pedes napporum sex; thuribolum unum; nappus sine pede unus; cocleare magnum unum, et aliud argenti fractum, ponderis librarum octo unciarum undecim tarenorum septem et medii; Nappi fracti et cohoperculi de potis, ponderis librarum undecim tarenormn viginti et medii; coclearia viginti quinque et cohoperculus poti unus, ponderis librarum duarum minus tarenis septem et medio; corrigie de argento sex ponderis librarum sex et unciarum quinque, quarum una est rubea deaurata cum pernis, alia diversi coloris ad Rosettas, alia cum friso ad aurum cum pernis, alia cum friso yndico ad aurum, alia cum friso vidiri deaurato, et alia viridis deaurata in buccula et mordente. Summa ponderis totius predicti argenti libras quadrigentas septuaginta novem uncias quatuor tarenos undecim; que[320] sunt ad marcam Colonie, de unciis octo tarenis viginti quatuor per marcam, marce sexcentum quinquaginta tres uncie sex tareni viginti unus. Dat. Nicotere, die XXIIII septembris XII Indictionis.
Dal r. archivio di Napoli, reg. di Carlo I, seg. 1283, A, fog. 57 a t.
XIII.
Scriptum est domino Johanni de Ravello Capitaneo Giracii, et Raymundo Miletis militi, et Judici, Aldebrandino etc. Cum nos Johanni de Mostoralo et Gualterio Luburges Gallicis, Goffrido de Mornayo, et Guillelmo de Sancto Vincentio, Petro Michaeli, Bertrando Visiano, Guillelmo de Lambesco, B....... de Laylla, Ynardo Catalano, et Guillelmo Catalano servientibus, de quorum fide et legalitate testimonium laudabile accepimus, et qui cum domino petro de Lamanno in Castro Sperlinge per hostes et Rebelles Siculos pro fide regia et nostra servanda obsessi fuisse dicuntur, velimus de bonis proditorum Giracii qui pro Regia Curia procurantur et aliis per nos concessa non sunt usque ad Regium et nostrum beneplacitum in subscripta...... gratiam facere speciale; devotioni vestre precipiendo mandamus, quatenus predictis servientibus, tantum de bonis feudalibus dictorum proditorum Giracii qui, ut dictum est, pro Curia procurantur et per nos concessa aliis non extiterint assignata, curetis quod ipsorum quilibet terram valentem sex uncias auri in redditibus habeat...... tenendi et usufructuandi eam usque ad Regie et Nostre beneplacitum voluntatis; de quorum assignatione fieri faciatis duo scripta..... consimilia, quorum uno eisdem ad ipsorum cautelam dimisso, aliud ad nostram cameram destinetis. Dal. Nicotere per Sparanum de Baro etc. die XXVII septembris XII Ind.
Similes facte sunt eisdem pro Petro de Labisco et Poncio de Alamanno, consanguineis domini petri de Lamanno; quod quilibet ipsorum habeat terram valentem uncias auri decem. Dat. ibidem XXVIII sep. XII. Ind.
Dal r. archivio di Napoli, registro segnato 1283, A, fog. 60.
Nello stesso foglio del registro v’ha un altro diploma dato a 28 settembre, che disdicea la concessione di 10 once annuali per ciascuno fatta poc’anzi a Pietro de Condes, e Bertrando Deiutreper, quos credebamus obsessos fuisse dudum in Castro Sperlinge, ma Pietro di Alemanno negava d’averli avuto compagni in quell’assedio.
XIV.
Martinus episcopus servus servorum Dei, carissimo in Christo filio Philippo regi Francorum illustri Salutem et apostolicam benedictionem. Petitiones per dilectos filios magistros Stephanum Baiocensem et Petrum Sygalonie in ecclesia Aurelianensi archidiaconos, capellanos nostros, tue celsitudinis nuncios circa negotium regnorum Aragonie ac[321] Valencie aliarumque terrarum quibus Petrus quondam rei Aragonum est per sedem apostolicam sua premorente malicia et justicia erigente privatus, ex parte regie serenitatis oblate, grandes nobis et fratribus nostris, quibus eas communicavimus, admirationis obtulere materiam: et, propter pericula que ipsi negotio ingerit quecumque dilacio, causam turbationis etiam, nisi eam consideratio petentis excluderet, obtulissent. Ut enim tractatus inter ecclesiam et te habiti super eodem negotio initium repetamus, novit excellentia regia quod propter graves iniurias carissimo in Christo filio nostro..... Regi Sicilie illustri patruo tuo a dicto Petro, non solum inique sed et proditionaliter, utpote absque promissione alicuius diffidationis illatas, adeo provocata sunt tuorum corda fidelium, quod quamplures ex eis honoris regii zelatores, te, proinde tanto amplius non indigne commotum quanto eedem iniurie pressius te contingunt, frequentibus suggestionibus adierunt, fideliter et viriliter asserentes: te tantas preclari generis et Regni tui tocius offensas, absque laudabilis fame, virtutis eorum, et nominis regij depressione, dissimulare non posse; quin eidem tuo patruo in adjutorium potenter exurgeres, et ad repressionem perversorum conatuum dicti Petri, regalis potentie dexteram adhiberes. Tu vero, et si labores immensos et cetera gravamina in hiis imminentia, innata tibi magnanimitate, calcares; proinde tamen, attendens quantis est talium assumptio sumptibus onerosa, venerabilem fratrem nostrum..... Dolensem Episcopum, et quondam R. de Stratis, eiusdem regni tui mareschalcum, tue celsitudinis nuntios propter hoc ad sedem apostolicam destinasti. Qui, premissis nobis prudenter expositis, te voluntarium, dispositum, et paratum ad iuvandum contra memoratum Petrum eundem tuum patruum affirmantes, decimam ecciesiasticorum reddituum eiusdem tui regni concedi tibi per triennium, ad relevacionem tantorum sumptuum necessariorum in huiusmodi iuvamine prosequendo, tuo nomine petierunt. Sed nos, debita meditatione pensantes quod adiutorium eidem tuo prestandum patruo, non erat causa sufficiens ad petitam decimam concedendam; familiariter ei et confidenter expressimus, quod, cum de fratrum nostrorum consilio intenderemus prefato Petro terminum assignare, infra quem ab ecclesie ac memorati Regis Sicilie persecutione desisteret, et ad ecclesie ipsius et nostra mandata rediret, ipsoque in eiusdem persecutionis insania persistente, procedere, sicut est processum postea contra eum, et de regno Aragonie alicui de natis tuis, quem ad hoc eligeres, excepto primogenito, providere, si ad hec principaliter exequenda per que tamen efficacius idem rex Sicilie iuvaretur, regalis magnificentia se offerret, tunc petitio et concessio decime posset magis racionabiliter et colorate procedere, iustitiorque, ad alia petenda et concedenda subsidia, causa suppeteret, et evidentior appareret. Et quia hec via nobis et eis videbatur utilior; nec minus honoris, et longe plus comodi allatura, nos, ipsis tuis nunciis[322] idem sentientibus, non immerito supponentes ipsam per te ac tuos consiliarios propitius acceptandam, de tua potencia spe concepta, sub dei et ipsius fiducia, contra memoratum Petrum, sicut nos facturos eisdem nunciis tuis expressimus, et per eos hec et alla tibi mandavimus exprimenda, privationis regie dignitatis, et suarum tunc terrarum expositionis, quantum sua exegit iniquitas, conscientia nostra et iustitia permiserunt, studuimus accelerare processum. Ad cuius executionem, conditionibus admodum temperatis adiectis in ea, dilectum filium nostrum J. tituli sancte Cecilie presbiterum cardinalem, de fratrum nostrorum consilio, ad regalem presenciam, non absque tua connivencia, duximus destinandum. Et licet, sicut premittitur, conditiones easdem intenta et radicata erga te ipsius matris ecclesie valde temperasset affectio; nichilominus tamen non solum eas postmodum adiectiones et detractiones varias, prout regalis excellentia per speciales ad hoc destinatos nuncios petijt, immutavit, verum etiam Valencie regnum adiecit liberum, juxta regie peticionis seriem, eidem tuo filio concedendum. Cumque horum contemplatio in meditationis rationabilis deducta scrutinium, assumptum iam per te fore negotium, et ipsius prosecutionem, vel omnino dispositam, vel saltem accurate disponi spondere verisimililer, immo verius satis indubilitabiliter videretur; ecce de novo dicte petitiones, quasi re integra, offeruntur. Numquid igitur non multe admirationis occasio, quod predictorum consideratio sic ab aliquibus, forte contemptu, vel negligi seu negligenter omitti, et sub dissimulationis videtur negligentia preteriri? Nonne considerari debuerat, quod talibus ex parte tua precedentibus, talibus per ecclesiam subsecutis, fuisset longe decentius, eodem assumpto negotio, apud eandem ecclesiam subsidiis ad prosecutionem ipsius negotii oportunis petendis insistere, quem ante illius absumptionem, immo eo quo ad tuum consensum explicitum post tot el tanta per eandem ecclesiam pro tua voluntate peracta, quasi prorsus integro, illa que sui difficultate aliquid noluntatis innuunt taliter postulare; ut et post concessionem ipsorum quo ad eandem ecclesiam que illa revocare non posset absque variationis obbrobrio consumata remaneat in aliorum arbitrio acceptatio eorundem, sicque processus ipsius ecclesie, quod absurdum est cogitare vel dicere, de illorum dependeat voluntate? Profecto, cum, sicut scriptum est, maxima sit pars petitionis in tempore, dicte petitiones competentiori fuerant tempore offerenda. A te namque dictoque nato tuo per te ad id electo, secundum ea que acte sunt hactenus, negotio acceptato; qua fronte ipsa ecclesia tibi vel ei suam vestram, vestramque suam causam prosequentibus, oportuna que prestare posset comode suffragia denegaret, cum sibi, vobis subveniendo, consoleret; vobisque consulendo sibi potius adversus tam infesti persecutoris nequitiam subveniret? Procul dubio, nec veritas, nec alicuius habetur verisimilitudinis coniectura, quod eadem ecclesia vos in se ipsam desereret,[323] vel in vobis derelinqueret semel ipsam. In hijs autem, princeps inclite, nichil devotioni tue, quam novimus solidam; nichil tue constantie, quam variationis non deeeret absque nova rationabili et evidenti causa, recipere imputamus, sed contra illos, si qui sunt, hijs verbis invehimur, qui, ut sue quieti vacent potius quam virtuti, quia tuum animum, in sui laudabilis propositi solidate constantem et in ecclesie devotione firmatum, non possunt a sic ceptis avertere, dicto negotio, quod, ipsius et predictorum qualitate pensata nequeunt impedire directe, impedimenta parare difficilium immo forsan, eorum extimatione, impossibilium adiectione, nituntur. Parum proinde attendentes quante indecentie, quante, apud mundi precipue principes et magnatos ac alios, foret infamie, quante note, post premissa et alia que ignorari eorum evidentia non permittit, deducta tam publice, tam patenter in actum, prefatum negotium deserendi, memoratum patruum suum in derogationem totius Regij generis, centra sanguinis jura deserere, ipsamque matrem ecclesiam contra eiusdem clarìssimi generis tui morem in tali statu derelinquere, concepa de regali auxilio spe frustratam! O! quantum ex hoc tui et prefati regni tui emuli, quorum forte non deest copia, insultarent! O! quantum detraherent exinde glorie Gallice nationis! Certe, si hoc et alia, que potius exprimenda sunt lingua quam littera, prelati eiusdem regni Francie ac barones, iuxta datam eis prudentiam, diligenter attendant, absque dubio a quibuslibet contrariis persuasionibus consultius abstinebunt. Placeat igitur magnificentie regie ut negotium juxta formam dicto cardinali ultimo traditam, absque ulteriori dilacione, procedat. Tuque ac idem tuus filius illud acceptate ac assumite iuxta ipsam. Scituri pro certo quod nos proposito invariabili et fixo proponimus, post idem negotium taliter acceptatum taliterque assumptum absque cuntatione aliqua, non solum predictis petitionibus infra descriptis annuire, prout responsiones ad illas subiecte declarant, sed et alia subsidia, que, pensatis circamstanciis, in negotio tanto pensandis, oportune viderimus, tibi et ei negotium prosequentibus, ministrare. Ut autem idem nostrum propositum alieque circumstantie que dictarum petitionum exauditionem differri suaserunt ad presens, circumspectioni regie securius exprimantur sermone quam scripto, dilectum filium discretum virum magistrum Egidium de Castelleto, notarium nostrum, Brugensem prepositum, de cujus prudencia et fidelitate plene confidimus et scimus te posse confidere, ad tuam presenciam destinamus. Cuius assertionibus in premissis secure fidem poteris indubiam adhibere.
Predicte autem petitiones, nobis ex parte tua, ut predicitur, presentate, sunt hec.
Supplicandum est domino pape, quod velit concedere decimam, non tantum in regno Francie, sed in aliis regnis et terris christianorum.—Premissa[324] supplicatio sive petitio fuit oblata ut premittitur. Sed, quia omnino videbatur absurda, fuit ut immediate sequitur artata sive restricta.——Supplicant nuntii ... regis Francie quod concedatur, in subsidium negotii regni Aragonie, ad minus decima quatuor annorum in regno Francie; et extra regnum in locis illis in quibus alias concessa fuit ... regi Sicilie: videlicet in Cameracensi, Leodicensi, Metensi, Tullensi, Viridunensi civitatibus et diocesis, et in Bisuntina, Lugdunensi, Viennensi, Aquensi civitatibus et provinciis.
Item annalia ecclesiasticorum beneficiorum, etiam dignitatum et personarum ac aliorum quorumlibet, integre, durante tempore concessionis decime.
Item legata indistincta.
Item quod in subsidium negotii fiat generalis predicatio crucis, et concedatur plenarie illa indulgentia, que conceditur proficiscentibus in succursum Terre Sancte; illis videlicet qui ad negotium personaliter ibunt. Item illis qui competens subsidium mittent de suo, nec non illis qui integraliter, pro toto tempore concessionis decime, solverint decimam primo anno.
Item alia subsidia que sedes apostolica, tam de regno Francie, quam aliunde, viderit oportuna.
Item impetrentur littere apostolice quibus hec omnia concedantur filio domini regis, quem ipse elegerit, excepto primogenito; que locum habebunt si prelati et barones consulent quod acceptet.
Item alle litere apostolice, continentes quod premissa concedantur regi iuvanti Romanam Ecclesiam contra Petrum de Aragonia, que locum habebunt si non consulatur quod acceptet.
Item corrigantur apostolice litere ubi loquuntur de consuetudinibus, statutis et usagiis que sacris canonibus, non repugnant; quia iam sequeretur quod alia, si aliqua sint contraria sacris canonibus, non deberent servari. Unde, cum homines illius terre multas consuetudines et varias habeant, a quibus non recederent ullo modo, posset esse quod filius regis necesse haberet deierare, vel habere discordiam gravem cum suis subditis.
Item amoveatur de apostolicis literis clausula illa suas patentes literas concedendo; cum dominus rex sic non consueverit obligari.
Item addatur in illa clausula, in qua dicitur quod filius regis jurabit omnia in apostolicas literas contenta: quod iuret prout eum contingunt.
Item petant nuntii, quod procedatur contra fautores Petri de Aragonia et adherentes eidem.
Item quod committatur domino Johanni plene legationis officium, cum potestate obligandi decimam creditoribus; et mutandi alia vota in votum crucis, si eam predicati contingat, excepto voto crucis transmarine;[325] et absolvendi etiam a voto crucis que predicabitur, si aliqui velint redimere vota sua.
—Ad primam supplicationem sive petitionem, prout est artata sive restricta ad regnum Francie et alia certa loca extra illud. Responsio. Licet ... regi Sicilie decima concessa non fuerit in omnibus locis que continet predicta petitio; tamen, postquam negotium de quo agitur, ut supra exprimitur, acceptatum fuerit et assumptum, concedetur per quatuor annos decima omnium ecclesiasticorum reddituum in locis omnibus supradictis, excepta diocesi Cameracensi, et provinciis Arelatensi et Aquensi. Ratio autem qua diocesis Cameracensis excipitur, illa est quia, propter quedam impedimenta, collectio decime in Lugdunensi concilio pro subsidio Terre sancte concesse, pro aliquo tempore fuit omissa, et modo colligitur; propter quod durum esset in eadem diocesi gravamen accumulare gravamini. Provincie autem Arelatensis et Aquensis excipiuntur propter necessitates regis Sicilie. In locum tamen predictarum provinciarum et Cameracensis diocesis exceptarum, subrogabuntur Tarentasiensem et Ebredunensem provincie; in ea parte ipsius provincie Ebredunensis que est extra comitatum provincie et Forcalkerii.
Ad secundam, de annalibus ecclesiasticorum beneficiorum. Responsio. Ista supplicato sive petitio denegatur; quia scandalo plena, parum utilis, omnino incerta, insolita, et nulli umquam hijs temporibus concesse, sed omnibus, etiam pro terre sancte subsidio, denegata.
Ad tertiam, de legatis indistinctis. Responsio. Concedentur in illis locis in quibus et decima.
Ad quartara, que incipit: Item quod in subsidium, etc. Responsio. Concedetur in locis illis in quibus et decima, et in regno Navarre, quo ad personaliter euntes; et quo ad mittentes subsidium competens, pro arbitrio illius cui hoc committet ecclesia; et quo ad solventes primo anno decimam integre pro omnibus quatuor annis.
Ad quintam, que incipit: Item alia subsidia. Responsio. Ad istam supplicationem sive petitionem, supra circa finem literarum nostrarum plene ac explicite respondetur.
Ad sextam, que incipit: Item impetrentur. Responsio. Fiet quod in ista petitione continetur, postquam filius electus et negotium acceptatum fuerit et assumptum.
Ad septimam, que incipit: Item alie litere. Responsio. Ista petitio precise repellitur; quia est, etiam ipso auditu, horrenda.
Ad octavam, que incipit: Item corrigantur. Responsio. Isti supplicationi sive petitioni satisfit ad plenum per speciales litteras apostolicas, que super hoc dicto cardinali mittuntur.
Ad nonam, que incipit: Item amoveatur. Responsio. Et isti similiter satisfit per alias speciales nostras litteras, que super hoc eidem cardinali mittuntur.
Ad undecimam, que incipit: Item petant Nuntii. Responsio. Factum est quod in ista petitione continetur; et fiet plenius, prout opus fuerit.
Ad duodecimam, que incipit: Item quod committatur. Responsio. Fiet quod in ista petitione continetur, postquam negotium acceptum fuerit et assumptum.
—Item obtulerunt dicti archidiaconi Nuntii tui quandam cedulam subscripti tenoris.
«Advertat apostolice sanctitatis provisio, scribere domino Johanni cardinali, quod vos concessistis et adhuc conceditis domino regi, in subsidium negotii Aragonie, trium annorum decimam integraliter et perfecte, quam vultis eidem assignari, dari et liberari statim postquam ipse negotium acceptaverit, et de filijs suis unum ad id elegerit; et leges, conventiones et pacta ipse rex pro se ac successoribus suis, et filius suus ad id per eum electus et deputatus per eundem dominum Johannem, sollempniter promiserint, prout unumquemque eorurm contingerit, secundum quod in litteris a vestra sanctitate concessis, tam super ipsius decime, quam super concessione terrarum que fuerant olim Petri de Aragonia plenius continetur; non obstante quod vos precepistis eidem domino J. verbotenus, quod unius anni decimam ad opus Romane Ecclesie retineret; et non obstante quod in quibusdam literis clausis scripsistis eidem, quod non procederet ad exactionem decime supradicte, nisi ante omnia dominus rex et filius eius primogenitus eadem leges conventiones et pacta sollempniter promisissent.
«Concedatur etiam ex nunc domino Johanni quod statim facta acceptatione huiusmodi et promissionibus, quemadmodum est predictum, habeat potestatem obligandi eandem decimam mercatoribus, de consilio tamen regis.»
Responsio. Contentis in predicta cedula satisfit per varias litteras, que dicto cardinali mittuntur. Dat. apud Urbemveterem, V idus Januarii, pontificatus nostri anno tertio (1284 contandosi gli anni del pontificato di Martino da febbraio 1281).
Dagli archivi del reame di Francia J. 714, 1. Suggellata col suggello di piombo, pendente da una funicella di canape. Nel suggello da un lato si legge MARTINUS. PP. IIII. Su l’altro è il solito tipo delle teste de’ due apostoli, divise da una croce, e sormontate dalle lettere SPA. SPE.
XV (xii).
Scriptum est domino Radulpho de Angelone, castellano Castri Salvatoris ad mare de Neapoli, etc. Cura nos Henricum Rubeum de Messana, captum olim per gentem domini patris nostri in conflictu habito in plano melacii cum rebellibus Messanensibus, quem in castro vestro cure comisso Regius carcer tenet inclusum, mitius agendo cum ipso,[327] liberaverimus de gratia speciali; devocioni vestre mandamus, quatenus statim receptis presentibus, dictum Henricum Rubeum solutum vinculis quibus teretur in castro predicto liberetis, et liberum abire permittatis; has vobis licteras in hujusmodi rei testimonium retinendo. Dat. Neapoli die XXVIIII martii XII. Ind. (1284).
Dal r. archivio di Napoli, registro di Carlo I, segnato 1283, A, fog. 124.
Il castello del Salvatore di Napoli è quel che oggi si chiama castel dell’Uovo.
XVI (xiii).
Scriptum est Capitaneis partis Guelforum florentie, etc. Satis confidentes inducimur de nostris negotiis humeris vestris incumbere, ut ad ea que diversimodo processibus nostris circumfluunt. prout in Regno Sicilie calunpniosa temporis procella commovit, ut de hiis nobiscum sitis ydoneos, vos diligenter invocare, quod per vos de quibus fidei puritate confidentes eadem nostra negotia colere compleantur. dum enim gratitudines serviciorum innumeras, que domino Genitori ostro devotione prestantes constanter in filium transtulistis diligenter advertimus; dum voluntatem vestram et aliorum Civitatis vestre, quam mater et alumpna fidelitas semper servavit illesam, memori meditatione pensamus; libenter vobis incumbimus a vobis habere suffragia, qui nescitis a consuetis recedere et absque sollicitadinis interlectione consurgitis ad ilia que dicti domini patris nostri fastigia, nostrique honoris augmentum respiciunt, et negotia nostra magnifice tamen prudenter ubilibet, placito cordis affectu et attentione fructuosa operis, procuretis. Verum cum per conventiones dudum habitas inter eumdem dominum patrem nostrum et commune Pisarum, de dandis anno quolibet quinque Galeis tamen armatis in subsidium quarumlibet necessitatum ipsius domini patris nostri, dictum commune Pisarum pro annis proximo preterito et presenti Galeas ipsas tamen armatas pro instanti guerra teneantur in ostrum subsidium destinare, et se dudum paratas» obtulerint illas dare seu mittere, quia paratas ipsas habebant cum necessitas immineret; sinceritatem et amicitatam vestram requirimus et rogamus attente, quatenus nostri contemplatione nominis et amoris, aput Pisas vos personaliter conferentes, a commune Civitatis ciusdem, iuxta conventiones easdem, dictas Galeas pro eisdem duobus annis, videlicet proximo preterito et presenti, ex parte domini patris nostri et nostra requiratis instanter; ut galeas ipsas in nostrum subsidium pro instanti passagio, simul cum alio nostro felici extolio congregandas, debeatis destinare; ita quod, vestro mediante auxilio, galeas easdem per totum presentem mensem aprilis infallibiliter habeamus; cum intendamus in principio mensis madii ad extremam depopulationem Rebellium nostrorum[328] et hostium in Robellem insulara Sicilie, duce Deo, cum magno et potenti extolio feliciter proficisci. Dat. Neapoli X aprilis XII Ind.
Dal r. archivio di Napoli, registro di Carlo I, segnato 1283, A, fog. 130.
XVII (xiv).
Scriptum est domino Catello de Catellis, et domino Gentili de Sancto Miniato dilectis, etc. Quia nuper exposuistis nobis quod aliqua communia lonbardie, ad dominum patrem nostrum et nos pure gerentia dilectionis affectum, per vos pridem Regio nostroque nomine requisita de gentis subsidio nobis dando, illud voluntarie obtulerunt; et iam passagli nostri tempus advenerit, devotioni vestre mandamus expresse, quatenus, statim receptis presentibus, ad eadem Communis redeuntes, ipsa ex Regis nostraque parte rogare et requirere studeatis, quod huiusmodi gentis promissum subsidium ad nos incontinenter transmittant, cum iam ultra quam foret expediens sit morata. Dat. Neapoli die XIX madii XII Ind.
Dal r. archivio di Napoli, registro di Carlo I, segnato 1283, A, fog. 131 a t.
XVIII (xv).
Karolus Dei gratia Rex Jerusalem et Sicilie, etc. Nobilibus et discretis viris, Potestati, Capitaneis, Anzianis, Consilio et Communi Civitatis Pisarum, etc. Et si credamus quod de captione Karoli primogeniti nostri Salerni principia rumores jam ad vos pernix fama perduxerit; ne tamen exinde nostre caritatis instintu, cuius honores affectuose zelamini, plus quam in causa sit,. concipiatis angoris, ad sinceritatis vestre notitiam presentium tenore deducimus, quod in eius capitone nihil, aut valde modicum, nostris iuribus est subductum. Et licet ad rumorem captionis ipsius, adiaceus regio perstrepuerit; tamen ad adventum nostrum, qui post casum ipsum infra triduum intercessit, vascellis hostium qui adhuc per adiacentem marittimam navigabantur, protinus in Siciliam refugis, omnis turbatio requievit; et factus est ad nos ex omnibus regni partibus concursus fidelium et nunciorum Universitatum quamplurium, qui, predicti casus acerbitate commoti, nobis ad prosecutionem assumpti negotii iuxta nostre.....dispositionis arbitrium, prompta personarum et rerum subsidia, sinceris affectibus, obtulerunt. Ita quod, contemplatione captionis dicti principis, credatur nostris adjectum juribus potius quam subtractum: circa predictum itaque casum in eo efficacissime consolati, quod divina gratia per eumdem principem nos locupletavit in sobole; ac attendentes quod in portu nostro Neapolis, galee munitissime quinquaginta quatuor, galeoni septem, et plura vassella; In portu vero civitatis nostre Brundusil, galee vigintiquinque et taride septuaginta; et in plagia nostra Nicotere,[329] taride septem, nil aliud quam verbum nostre iussionis expectant; quodque militum et nautarum nobis copie suppetunt, que in multo maiori negotio felicem pollicentur eventum; illud autem in rationis nostre trutina ceteris preponentes, qui in causa nostra divinam prosequimur et sancte Matris ecclesie libertatem; Ad continuationem assumpti negotii, sine intermissione aliqua confidenter intendimus, et totis nisibus preparamus, quod per mediterraneas regni partes terrestris exercitus, et per utraque marittima regni latera vassellorum nostrorum extolia in hostium et rebellium nostrorum Sicilie promeritum exterminium duce domino feliciter dirigantur. Ita quod in brevi, divina favente clementia, letos rumores de nostris processibus audietis. Verum ne sub expectatione galearum vestrarum, quas iuxta conditionem iniecti federis pridem in transitu vestro nostre promissionis adiectione vallatam, non solum declarato termino, sed ut cumque maturius in nostrum subsidium nostrique decus extolii fiducialiter et ilariter expectamus, contingat iam apparatos motus nostre potentie retardari; Sinceritatem vestram affectuose requirimus et rogamus, quod si forte galeas ipsas in receptione presentium iter ad nos, quod non credimus, non arripuisse contingerit, sic ipsarum acceleretis et stimuletis adventum, quod, sicut pro eis amica vobis affectione tenemur, sic etiam de promptitudine teneamur. Dat. Neapoli die XIV junii XII Ind.
Dal r. archivio di Napoli, registro di Carlo I, segnato 1283. A, fog. 150 a t.
XIX (xvi).
Scriptum est eidem (Justitiario Capitanate). Cum nonnulli de Sarracenis Lucerie, qui ad nostrum venerunt exercitum ad nostra servitia moraturi, abinde intendant discedere, sicut nuper accepimus, et redire ad propria, licentia a nobis aliqua non obtenta; fidelitati tue firmiter et districte precipimus, quatenus, si Sarraceni ex eisdem aliqui, nisi de ipsorum licentia a nobis vel marescallo nostro licteras habeant, ad partes ipsas redierint, statim capias de personis; et ipsorum cuilibet, ut de tanta temeritate non gaudeant, et alii timore perterriti similes deinceps committere non attemptent, pedem facias irremissibiliter amputari. Dat. in castris in lictore Bruczani, die VII augusti XII Indict.
Dal r. archivio di Napoli, registro di Carlo I, segnato 1283, A, fog. 54.
XX (xvii).
Scriptum est universitatibus per totam insulam Sicilie constitutis etc. Noverit Universitas vestra quod de illustri et magnifico viro domino Roberto Comite Atrebatensi, Karissimo nepote nostro, ut de nobis met ipsis plenius confidentes, ipsum in tota insula nostra Sicilie nostrum[330] generalem Vicarium usque ad nostrum beneplacitum, ordinamus: dantes sibi plenam, generalem et liberam potestatem assecurandi nomine nostro quascumque Universitates et speciales personas eiusdem Insule, in personis et rebus; remittendi eis offensam et culpam quam adversus nostram commiserint Maiestatem, et penas mortis rerum aut exilli, quas propterea incurrerunt; recipiendi eas in gratia nostra, et sub nostri nominis protectione tenendi; statuendi ibidem Justitiarium, secretos, portulanos et alios officiales quoscumque; et percipiendi fructus et redditus ad nostram Curiam pertinentes, sicuti nosmet ipsi, si presentes essemus, facere valeremus. In quibus omnibus totum sibi concessimus posse nostrum; in verbo Regie dignitatis tenore presentium promittentes Nos et heredes nostros rata habituros et firma, quocumque prefatus Comes noster Vicarius tractaverit, ordinaverit, promiserit, et fecerit in premissis et singulis premissorum; nulla unquam per nos aut ipsos heredes nostros quomodolibet irritanda, set manutenenda iugiter et servanda. Quare volumus et mandamus, quatenus persona nostra in eodem Comite speculantes, sibi in omnibus, tamquam nobis, devote pareatis et efficaciter intendatis. Dat. in Castris in litore Bruczani, die decimo augusti XII Ind.
Dal r. archivio di Napoli, registro di Carlo I, segnato 1283, A, fog. 168 a t.
XXI (xviii).
Excellenti et Magnifico Viro Nepoti suo Karissimo domino Roberto Comiti Atrebatensi Karolus Dei gratia Rex Jerusalem et Sicilie etc. Communis nobiscum sanguinis unione commoti, semperque a Vobis in necessitatibus nostris filialis zelo caritatis adiuti, illius in persona vestra spei fiduciam obtinemus, illa de vobis securitate confidimus, quod de quibuscumque nostris negotiis, que vestro subducerentur ducatui, quo altiora consisterent, eo securius in vestris brachiis quiescentes, adesse sentimus in illis alteram corporis nostri partem. Hiis igitur moniti, ac strenuitatis vestre deliberatione fulciti, cum ex communi consillo sit provisum ut in Insulam nostram Sicilie presentialiter transfretetis, Vos in tota eadem Insula nostrum generalem Vicarium usque ad nostrum beneplacitum ordinamus; quod si placet officium exercentes, terras et loca eiusdem Insule ad fidem culminis nostri, eo modo quo expedire videritis..... plenam enim vobis et generalem et liberam concedimus potestatem, assecurando nomine nostro quascumque Universitates, vel speciales personas dicte Insule, in personis et rebus; remittendi eis omnem offensam el culpam quam adversus nostram commiserint Maiestatem, et penas corporales vel reales aut exilli, quas propterea incurrerunt; recipiendi eas in gratia nostra, et sub nostri nominis protectione tenendi; statuendi ibidem Justitiarios, Secretos, Portulanos, et alios officiales quoscumque; et percipiendi[331] omnes proventus et redditus ad nostram Curiam pertinentes, et sicuti nos met ipsi si presentes essemus facere valeremus: in quibus omnibus totum vobis damus et tradimus posse nostrum. In verbo Regie dignitatis tenore presentium promittentes, nos et heredes nostros rata habituros et firma quecumque tractaveritis, ordinaveritis, promiseritis, et facienda duxeritis in premissis, et singulis premissorum; nullo unquam tempore per nos aut ipsos heredes nostros quomodolibet irritanda, set manutenenda iugiter et servanda. Dat. in Castria in litore Bruczani die X augusti XII Ind.
Dal r. archivio di Napoli, registro di Carlo I, segnato 1283, A, fog. 169.
XXII (xix).
Scriptum eidem. (Justitiario.....) Cum eorum excessus qui castra ut transfuge derelinquunt, jura gravissima persequantur, eo quod paulo minus distant a lese crimine majestatis; nos nolentes quod impune...... transeant hii qui castra nostra relinquerunt pertinacia perniciosa, firmiter fidelitati tue etc., quatenus, statim receptis presentibus, per omnes et singulas terras marittime decrete tibi provincie, inquirere interea studeas diligenter; et tam omnes illos qui gagia a curia receperunt, et venientes cum galeis et teridis exinde recesserunt postea, vel recedunt in posterum fugitivi....., subscriptos de vassellis melficte, quos maraldicio prothontino et comiti referentibus aufugisse didicimus quocumque modo..... vel eorum aliquos poteris invenire, capias de personis; et in pena commisse fuge, cum per tales non steterit quo minus noster sit exercitus dissolutus, pedem sinistrum cuilibet facias amputare: illos autem quos invenire non poteris, voce preconia, facies puplice forbannire; bona eorum omnia, tam mobilia quam stabilia, capere studeas, et ad opus nostre Curie facias procurare; factis nihilominus de captione bonorum ipsorum tribus scriptis puplicis consimilibus, continentibus qualitatem et quantitatem bonorum ipsorum particulariter et distincte, quorum uno penes te retento, aliud Camere nostre, et tertium magistris rationalibus magne nostre Curie nobiscum morantibus, studeas destinare. Nomina vero illorum de Melficta sunt hec, videlicet: excelsus de Nicolao, Dominicus de Sabino, Santorus de sapis, Nicolaus privignus Leonardi de Baro, Guillelmus de Sencita, Nicolaus Petracce de Nauclio Alexio, Angelus de Magistro accipardo, Riccardus gener Siri Raonis, Petrus de Adam de ferlicio gener Lucede Padule, Jacobus gener dompni Riccardi, Johannes Albanense, Andreas Stortus, Egidius de ferlicio gener Clemente, Petrus de Radosta, Magister Laurentius Zucarus, Leonardus de Stella, et Angelus de Vigillis gener Josey. Dat. Cotrone die XIX augusti XII Ind. (1284).
Dal. r. archivio di Napoli, registro di Carlo I, segnato 1283, A, fog. 34 a t.
Simili si leggono a fog. 35, date lo stesso dì, e indirizzate al giustiziere di Terra di Bari, a quel d’Abbruzzo, e allo stratigoto di Salerno; variando i nomi delle città e de’ disertori.
XXIII (xx).
Scriptum est eidem (Justitiario terre Bari). Si regis eterni dextera de qua regnorum nostrorum sceptra suscepimus debilitata non creditur, nec illud etiam rationabiliter ambigetur, quin qui sub ejus potentia reges et regna incuriose subegimus, rebellem regni nostri parctiolam eo nos dirigente qui statuit, viribus nostris adhibitis, facile subigamus; nec opus est ut credimus prudenter instruere unde sic..... servilis contumacia rebellium nostrorum Sicilie cursu jam imminente teneri potentie nostre laqueum et scuticam debite correctionis evaserit. Scilicet omni et usque ad ultimos orbis angulos fama pertonuit, quod, cum instanter quasi postquam predictam insulam generaliter rebellasse didicimus, potencie nostre viribus illuc in parte trajectis, civitatem Messane, velut ydre caput, tam arcte obsidionis in impugnationis instantia premeremus, ut jam velut elisis faucibus et in emissione spiritus singultiret, subito vir nobilis dompnus P. tunc rei Aragonie, hic qui nobis nunquam alicujus odii signum ediderat, immo precipuum se confitebatur amicum, honoris sui prodigus, ac juris et ritus gentium imprudenter oblitus, insulam ipsam latenter ingrediens, ostem sese nobis obtulit improvisum. Propter quod nos instanter oportuit bellum nostrum aliter integrari; protinus itaque conversi in eum potentie nostre consiliis, ipsum usque Bordellum in guasconie fines, ubi nobiscum ad pugne iudicium cum centeno hinc inde milite personaliter adesse juravit, venatione sumus sollicita persecuti; eo tamen contra religionem prestiti juramenti, non sine fame sue pernicie jurate pugne judicium declinante, mora nihilominus in partibus ipsis pertraximus usquequo de invasione regni sui, quod ad Romanam tenebat Ecclesiam, justa dispositione domini nostri summi pontiticis, per magnificum principem dominum Philippum regem Francorum illustrem comitum (sic) dominum ac nepotem nostrum et nos deliberato consilio ageretur, quibus effectum est, quod ejusdem Regni per predictum summum pontificem in Karolum dicti regis Francorum filium collacione translata, idem, rex regnum ipsum, iam per ejus capitaneos ex diversis partibus potenter invasum, vere futuro proximo, sic duce domino personaliter aggressurus, ut idem Petras proprio Regno careat qui sic imprudenter manus injecerat (in) alienum. Hiisque itaque consulte dispositis, ad partes istas immediate reduximus; bellum expeditum et liberum contra Siculos resumpturi: quo quidem cum instanter trajicere crederemus, annone coegit inopia quod transitum nostrum in predictam insulam usque ad predicti proximi futuri veris initium differamus; si nobis interim de annona, maginis et singulis necessariis...........quod[333] nos nihil impediat vel moretur quod rebellibus domitis, finem demus laboribus, et statum fidelium in cultu pacis et justitie componamus. Verum cum tam arduum amplumque negotium sine fidelium nostrorum subsidio comode geri nequeat; firmamque geramus fiduciam, quod in necessitatibus omnibus, ac specialiter in hoc casu, in quo non minus eorum quam nostram vertitur interesse, a quo..... ecclesie vel ecclesiastice persone non redduntur immunes, ipsos in veniat nostra serenitas liberales, generalem subventionem eisdem nostris fidelibus citra farum propterea providimus imponendam; fidelitati tue presentium tenore mandamus, quatenus, informati primo per sparanum de Baro militem, juris civilis professorem magne Curie nostre Magistrum rationalem, dilectum consiliarium, familiarem, et fidelem nostrum, de hiis que sibi circa id in jurisdictione tua per nostram excellenciam committantur, subvencionem ipsam in terris et locis decrete tibi provincie, juxta quantitatem taxationis anni proximo preterite duodecime indictionis, quam tibi per cedulam sub sigillo nostri culminis destinavimus, et ultra id ana tarenis tribus et granis septem per unciam, in singulis videlicet terris et locis, per sufficientes et ydoneos taxatores et collectores in consueto et competenti numero eligendos per universitates terrarum et locorum ipsorum, taxari et recolligi facias, cum studio et sollicitudine opportuna. Recipiens ab eis corporalia juramenta, quod pecuniam ipsam ultra ana granos duodecim per unciam pro expensis eorum, inter homines terrarum et locorum ipsorum bona burgensatica ibidem habentes, sive ibi sive alibi habeant incolatum, consideratis facultatibus, familiis, et condicionibus singulorum, prece, precio, timore, gratia, odio, et amore pospositis, personaliter et fideliter taxent, studiose recolligant, et tibi sine obstaculo retencionis assignent; quam tu, pro ut successive receperis, nihil inde retines ut pro quibuscumque serviciis prorsus expendens, ad cameram nostram penes nos statutam, per fideles et sufficientes nuncios destinari curabis. Ita quod, ad plus usque per totum proximo futurum mensem februarii, totam pecuniam ipsam ad eamdem cameram nostram mittas: facturi fieri de particulari taxatione ipsius pecunie cujuslibet terre vel loci, quaternos consimiles quinque; quorum uno tibi retento, reliquos sub sigillo tuo, unum videlicet taxatoribus et collectoribus, alium uno vel duobus probis viris terre vel loci cujuslibet per universitates locorum ipsorum ad id propterea eligendis ad faciendam inde copiam singulis taxationis sue scire volentibus assignabis alium ad nostram cameram, et relicum Magne Curie nostre magistris Rationalibus, ad plus infra mensem unum postquam taxatio facta fuerit, transmissuri. Universitates et personas alias ipsarum parcium ex parte nostra requiras efficaciter et inducas quod predictum augumentum tarenorum trium et granorum septem per unciam, in hujus tam urgentis necessitatis articulo, moleste non perferant..... in obtentu nostri culminis devote persolvant. Nos enim predictum negotium intendimus,[334] duce domino, collectis viribus tam potenter assumere, quod qualibet predictorum nostrorum rebellium deffensione tractu calcata brevissimo, nulla propterea nobis aut nostris fidelibus laborum vel sumptuum materia relinquatur. Si tamen universitatum ipsarum aliqua, augumentum ipsum gravem sibi fore censuerit, id nolumus invitis imponi; dummodo predicte prioris taxationis quantitas nullatenus minuatur. Dat. Brundusii die V octobris XIII Indictionis (1284).
Dal. r. archivio di Napoli, registro di Carlo I, segnato 1283, A, fog. 37.
XXIV.
Excellenti et magnifico prìncipi karissimo domino et nepoti suo domino Filippo, Francorum regi illustri, Karolus Dei gratia rex Jerhusalem, Sicilie, ducatus Apulie ac principatus Capue, Alme urbis senator, princeps Achaye, Andegavie, Provincie, Forcalcherii et Tornodorii comes, cum reverentia debita et omni recommendatione salutem. Cum, humani fragilitate generis laborantes, quadam ad presens egritudine teneamus, volentes a vobis, a quibus totalis spes nostra dependet, heredum nostrorum statui provideri; in assertione directa, et locutione vera et sana memoria costituti, vobis tutelam comitatuum Andegavie, Provincie et Forcalcherii, usquequo Karelus primogemitos noster princeps Salernitanus de nimicorum carcere quo tenetur restituatur pristine libertati, vel eo inibi decedente, usquequo Karolus primogenitus suus, nepos noster, ad legitimam etatem perveniat, vel ipso infra eam similiter moriente, donec alter liberorum dicti principis primogenito ipsius proximior legitimam similiter attingat etatem, fiducialiter duxerimus commendandam. Majestati vestre humiliter supplicantes quod attendentes, si placet, quatenus dictorum primogeniti et nepotum nostrorum in vobis, post Deum, spes constat atque refugium, et sola vestri culminis protectione nitantur, dictam tutelam in vestris manibus assumatis, et sanguinis communis in testu, gerere si placet et administrare volitis. Dat. Fogie anno MCCLXXXV, die vj januari xiij Iudictionis, regnorum nostrorum Jerhusalem anno octavo, Sicilie vero vicesimo.
Dagli archivi del reame di Francia, J. 511, 5.
XXV (xxi).
Inclito ac spectabili Viro domino Jacobo, filio quondam viri Magnifici domini petri olim Regis Aragonum, Robertus comes Atrebatensis Salutis monita pro salute. Formam conditiones et vincula Trenguarum, que olim de mense Augusti secunde indictionis proximo preterite ante Gaietam inter principem Inclitum domitium Karolum secundum Jerusalem et Sicilie Regem, Illustrem, consobrinum nostrum carissimum ex una parte, ac vos ex altera, tam celebriter constiterunt, vestre credimus[335] habere memorie; ac post nostra et aliorum quamplurium testimonia, nec non vulgarem exinde in populis notionem, confecta utraque proinde scripta sollempnia serie tam fulgenti expressione insinuant, quod transgressor, post conscientie stimulum, quo sub proprii censura Judicij graviter urgetur, irreparabile nichilominus sui honoris et nominis occurreret detrimentum. Qua consideratione commoniti, eo teste qui scrutator est cordium, ut predicti Regis nostrumque servaremus honorem, quantum Regis ipsius ac etiam Juramenti per nos inde prestiti ratione contingimur; sic de treuguarum ipsarum observatione curasse nos credimus, ut contra ipsarum formam nil penitus commississe, nil etiam consensisse, nil denique dissimulasse credamus; firma etiam opinione subnixi quod et vos in hiis, pro vestri nominis honore servando, bone fidei studia gesseritis et geratis; nec ab opinione ipsa ea occasione divellimur quod plerique vestrorum, non tamen vestra, ut credimus, beneplacita, propria consilia temere prosequentes, occulto forsitan maris terreque discursu contra predictas Treuguas Regios fideles invadunt, personas interimunt vel offendunt, ac bona diripiunt et predantur. Audimus et etiam quod et de Regia gente sint aliqui, a Regio tamen el nostro beneplacito declinantes, qui plerumque in vestrorum aliquos, simili temeritate, bachantur. Nec solum inter hostes bellorum duces in Treuguis, Verum etiam inter Cives, Reges, et alii presidentes in pace, non sic possunt humanam frenare nequitiam quin in iniurias et scelera decurratur. hiis igitur a qualibet suspicione ac admiratione sepositis, de illis certe grandi satis admiratione percellimur, que per vulgatos exercitus, duces, et officiales vestros, ac de potioribus quidem aliquos, tam puplice tam famose contra predictarum treuguarum seriem commissi noscuntur, quod verisimilitudo dissenciat, nec apparens ratio contradicat ea vel facienda quod credere certe non possumus, vel demum facta quod excusare nescimus, vestram latera notitiam nequivisse. Que vel facienda prohiberi debuerint, vel facta eos severius iudicari, quando clariori evidentia opus erat credibile facere quod illa nostris affectibus et propositis non placerent. Verum prius quam commissorum accedat expressio, satis adiacet verba repeti treuguarum; ut earum serie preposita, et deinde commissorum expressione subiuncta, clarius liqueat quod non sub lege sed contra legem Treuguarum ipsorum, quod usque ad festum omnium sanctorum proximo future quinte indictionis penitus duraturam, Guerram aliquam non faciatis in terra nec in mari, neque per vestrorum aliquos moveri aut fieri permittatis; exclusis a conditione Treuguarum ipsarum per terram Calabria et citra Calabriam usque Tribisacium et Castrum Abbatis quibus........................ per mare vero et usque ad lucos maris Treuge sunt indite prout......... .............. extensis etiam a terminis predictorum finium infra terram almugavaris, tantum si forte guerram aliquam per terram..... ubilibet infra regnum. Promisso tamen per vos bona fide, quod almugavaris ipsis,[336] in movenda vel facienda guerra ipsa, nullum prestetis Consilium, auxilium vel favorem, nec per officiales aut stipendiarios vestros associari permittatis eosdem. Et licet ex treuguarum ipsarum serie vobis et officialibus vestris competat pro munitione terrarum et locorum Calabrie vestro subjectorum dominio, vascella illuc per mare mittere cum munitionibus oportunis; per sequens tamen Capitulum, de treugis ipsis per vos gentem valitores ac fautores vestros ubilibet per mare servandum ac servare faciendum, expresse subjungitur, quod causa faciendi vel movendi guerram, scandalum, vel turbationem in locis aliquibus existentibus ubilibet in dominio ac potestate dicti Regis, vobis infra treguarum ipsarum tempus, cum vascellis aliquibus ire non liceat, aut illuc vascella mittere in magna vel modica quantitate. Quibus etiam treugis inter alia subditur, quod si medio tempore contra earum formam ab una parte aliqua dapna data fuerint, alteri, eis probatis in Curia domini dapna passi, vel viri nobilis domini Joannis de Monteforte Squillacii et Montis caveosi Comitis, pro parte dicti regis, seu viri nobilis domini Rogerii De Lauria, vestri ac Regni Aragonum Ammirati, pro parte vestra, Dominus Illatoris infra quadraginta dies, numerandos a die significationis, ex inde per litteras sibi factas dapna ipsa bona fide sarciri faciat.....passis. Nunc ergo que contra treguarum ipsarum tenorem, sub concepta ex illis securitate, commissa sint, Magnificentia vestra si placet intelligat; ac diligentia qua decet advertat utrum ex eis vestro adijciatur an dematur honori. Notorium est, et etiam veluti quod passi miserabiliter deflent videntes discunt, et adjacentes populi non ignorant, Nobisque in curia dicti Regis, que penes nos est, per probationes ydoneas plene constat, quod olim de mense octumbris anni tertie inditionis proximo preterite, dum vir nobilis dominus Guillelmus Estandardus, regni Sicilie Marescallus, tunc regius Capitaneus Calabrie, pro usu suo et gentis secum illic ad fidem et servitia regia commorantis, per Nuntios suos deferri facerit de partibus terre ydronti per mare ad partes Calabrie in barcis septem, sub ejus conductis periculo, per eumdem ad mensuram generalem frumenti salmas ducentas et hordei salmas totidem, dominus Guillelmus Gazzaramus, tunc Capitaneus Vester in Cutrono, per quasdam barcas armatas de gente vestra capi fecit, atque Cutronum devehi predictas barcas, cum eodem frumento et hordeo; ac frumentum et hordeum ipsum ibi ad opus suum exhonerari faciens, cum requireretur sollepniter per Estandardum predictum de restitutione barcarum ac victualium predictorum, eo quod hiis factum fuerat contra treguas predictas, finaliter et expresse respondit se nihil scire de treguis eisdem; ac demum barcas et victualia ipsa retinuit, ea seu valorem ipsarum restituere contradicens. Item quod olim, circa finem mensis Junii eiusdem tertie inditionis, ac Mensis Julii continuo subsequentis initium, Cum insula seu locus qui dicitur Licastelli situs in Calabria existeret in fide, potestate ac dominio dicti Regis, in tenuta[337] scilicet ac possessione viri nobilis domini Petri Rufi de Calabria Comitis Catanzarii, qui locum a Regia Curia tenuerat et tenebat, predictus Dominus Rogerius de Lauria, cum vascellorum vestrorum estolio et gente vestra, sub invocatione vestri nominis, vestrisque vexillis hostiliter ad locum ipsum accedens, illum non solum per armatos de vascellis ipsis in terram expositis, quamvis nec id bono modo equus treguarum ipsarum sensus admittat, sed etiam per reliquos de vascellis ipsis per mare aggrediens et impugnans, eum non sine strage civium rerumque jactura, sub octo ferme dierum impugnatione continua, tandem obtinuit. Qui locus ex tunc adhuc vestro nomine detinetur; ubi atque Geracii, Catanzarii, et in locis aliis per partes illas in Regia fide dominio ac potestate existentibus, in vascellorum ipsorum adventu et reditu, per navigantes in eis, preter personarum dispendia, que dapna in rebus illata sint preferimus ad presens, eo quod de illis distinctio clarior expectatur. Item quod infra predictum mensem Junii, Dominus Guillelmus de Padula, justitiarius vester in partibus basilicate, nec solum cum almugaveris, qui per terram, ut dictum est, locorum terminis non clauduntur, sed etiam cum Malandrinis, aliisque latinis et catalanis de gente vestra, terram Montis Albani de justitiaratu Basilicate sistentem in fide, potestate ac dominio dicti Regis citra et extra fines predictos a treuguis exceptos, sub invocatione similiter nominis vestrisque vexillis hostiliter agrediens, et ingrediens terram, in captivis absumpsit ac spoliis, atque cedibus et igne consumpsit. In quibus, prout vestra non credimus dissentire concilia, non solum dapnorum instauratio, quod etiam in privatorum transgressione de dapnis extimabili restauratione subjectis locum habere censitur, sed etiam, pro eo quod per officiales vestros vestro nomine gesta sint, ac eorum aliqua, utpote personarum clades, sarciri vel extimari non possint, ipsorum transgressorum.........peteretur. Quibus omnibus ut illud accidit, quod cum in treguis ipsis steterit, ut est dictum, de cohibendis gente valitoribus et fautoribus vestris a guerra per mare, atque cohibendo accessu vascellorum ipsorum ad guerram scandalum vel turbationem in insulis vel aliis locis regis faciendam, ecce vestra seu vestrorum vascella et navigantes in eis, per superum inferumque mare, more piratico, discurrentes; et non semper, sepe tamen, et sepius modico tum per mare marisque litora, tum plerisque aliquibus ex turma depositis, per plagias propinquosque saltus et nemora, contra fideles regios lapsi sunt et labuntur in predam ac..... ad terras et loca vestri dominii redeuntes, non scilicet occulte vel tacite, sed in pompis ac strepitu adeoque et civitatis.....locorum ipsorum in iis ignorantia quoquo modo pretendi ac tolerantia excusari non possit, ibi puplice predas exponunt, carcerant, tenent, venduntque captivos .............................quorumdam ex dapnis huiusmodi que contra treguas predictas per vestros regiis sunt illata per alias nostras literas infrascriptas.....ad ea tamen per presentes insistimus ut predictum locum[338] de Licastelli per vestros, ut dictum est, centra treguarum seriem.... occupatum, mandare velitis et facere absque mora restitui viro nobili domino Raynaldo Cugnetto de Barulo, dilecto Consiliario, familiari et nuncio nostro, latori presentium, ad id per nos pro parte Regie Curie ac per predictum Comitem Catanzarii coram nobis sollempniter constituto, vel alii ad id per eumdem nuncium statuendo pro parte ipsius Regie Curie atque Comitis memorati; ac de puniendis predictis, tam qui sub officiorum vestrorum titulis vestro nomine taliter excessisse quam qui sub predenum tolerantia deliquisse noscuntur; nec non eis et aliis vestris ad debitam treguarum ipsarum observantiam dirigentes, tam congrue providere, ut treguarum ipsarum..... citis quibus vestrum imminet juramentum, ac vestro proinde satisfaciatis honori: pro quibus omnibus et singulis explicandis apertius et efficacius prosequendis, predictum dominum Raynaldum Cugnettum ad vos specialiter mittimus, cui super iis que circa hec oretenus ex parte nostra magnificentie vestre retulerit, fidem cupimus plenariam adhiberi. Dat. Neapoli, die xxvii decembris iv Indictionis (1290).
Dal. r. archivio di Napoli, registro di Carlo II. segnato 1291, A, fog. 183, 184.
XXVI (xxii).
Karolus secundus, etc. Universis presentis scripti seriem inspecturis. Presentata nuper in Majestatis nostre presenciam, capitula convencionum et pactorum habitorum et tractatorum inter nobiles viros Thomasium de Sancto Severino, Marsici, et Hugonem, Vademontis Comites, Raymundum de Bauctio, Hugonem de Viariis, et Jacobum de Bursone milites, consiliarios, familiares et fideles nostros ex parte una, et Apperentem de Villanova, militem, Capitaneum et Castellanum terre et Castri Abbatis, per se et universitatem terre et castri prodicti, nec non stipendiariis, almugaveris, et malandrinis in eadem terra morantibus, ac servientibus dicti Castri ex alia, sigillis utique dicti Apparentii, Guillelmi de Molinis, Petri Formice, Guillelmi Aymari, et Petri Bertrandi munita, continebant per omnia seriem infrascriptam. In primis petit dictus Castellanus, quod absolvantur, renuncientur, et diffiniantur Universis et singulis hominibus habitatoribus dicte terre, Uxoribus, filiis et filiabus eorum, omnes offenciones, dampna, et gravamina, lesiones, et opposiciones acta seu illata per eos, vel eorum alterum, tam in factis quam in dictis, temporibus retroactis et presentibus, contra prefatum dominum regem Karolum, fideles, et valitores suos; et quod predicti homines, et eorum uxores, filii, et familie eorumdem, et omnes res et bona eorum sint affidati assecurati, et confirmati ad bonam fidem et sanum intellectum, sine fraude, et sine aliquo malo ingenio; et quod confirmentur et observentur eisdem omnes frankitudines, consuetudines, et observancie, quae antiquis temporibus ipsi, vel eorum antecessores[339] habere consueverant: et si forte donaciones vel concessiones alique facte fuerint per illustrissimum Regem prefatum, vel aliquem loco ipsius, de bonis et possessionibus hominum dicte terre, quod revocentur patronis eorumdem; et de toto hoc capitulo petit fieri regium privilegium per eorum cautela. Item petit idem Castellanus, terminum triginta dierum, ab eo die videlicet, quo Nuncii dicti capitanei ascendant lignum, ituri ad eorum dominum Dompnum Fredericum in antea memorandum: ita quod infra et per totum vicesimum diem ipsius termini, non recipiat, nec recipi faciat fodrum et gentem aliquam infra terminum et castrum predictum, nisi in antea usque ad numerum triginta dierum; tali modo et condicione, illis videlicet diebus, et viginti usque ad triginta, gens dompni Frederici predicti possit stare et preliari in campo, in loco videlicet ubi dicitur Lasilicta, sine fortellicia vel monte aliquo in quibus non sit habilis pugnatio militum et equitum ad arma, cum dictis dominis vel gente illustris Regis prefati, longe a mari infra terram per tractos tres baliste; et quod dicti nuncii sui ducantur secure ad eorumdem dominum supradictum; et si exforcium seu succursus eorum pugnare seu preliari possit vel campum teneri contra dominos supradictos et gentem predictam, idem Castellanus reddere terram et castrum minime teneatur, et predicti domini, obsides omnes pro observacione dictorum pactorum per ipsum capitaneum exhibitos, restituere teneantur. Et si forte exforcium seu succursus eo termino non venerit, seu accesserit, ut predicitur, predictus Castellanus reddat, et reddere teneatur penitus et liberari totaliter terram et castrum predictum, cui predictus dominus rex mandaverìt, seu dominis supradictis; et infra predictum spatium triginta dierum, ab hodierna die tercia videlicet martii in antea, sit treuga inter gentem dompni Regis Karoli predicti, Valìtores et fideles suos ex una parte, et Castellanum ac gentem terre et castri predicti ex altera: Ita quod gens predicti domini Regis non offendat nec offendi faciat de die vel nocte castrum vel terram predictam, nec gentem in personis vel rebus eorum; et dictus Capitaneus et gens terre et castri predicti, non offendat vel offendi faciat gentem dicti domini Regis Karoli; in personis vel rebus eorum, de die vel nocte, publice vel occulte. Item petit idem Castellanus, affidari et assecurari per illustrissimum Regem Karolum prefatum et dominos suprascriptos, bona fide et sine fraude, ad bonum et sanum intellectum, se et omnes stipendiarios, almugaveros, et malandrinos servientes dicti castri, et quascumque alias personas, tam de dicta terra quam aliis, qui et que cum dicto Castellano a predictis castro et terra recedere voluerint, et secum ire cum filiis et familiis eorumdem; et quod exhibeantur sibi vassella, que dictum Castellanum et totam comitivam recedentium cum eo, cum rebus eorum, deferant et deponant eos salve et secure usque ad terram Tropee, vel ultra, in aliquo loco dominii dompni Frederici predicti. Item petit idem Castellanus, quod si forte[340] nuncius suus missus per eum ad dompnum Fredericum predictum arrestaretur, seu turbaretur infra predictum terminum et (per?) gentem Illustris Domini regis prefati, non labatur eis terminus dierum predictorum tam de turbacione predicta; dum tamen de turbacione et arrestacione predicta nuncii, appareat evidenter. Item quod si aliqui almugaveri vel malandrini remanere voluerint ad fidem et servicia Regis prefati, et teneantur solvere seu solvi facere aliquid eidem Capitaneo vel alicui Capiti almugaverorum, quod solvant eidem debita, alioquin non recipiat seu recolligat illum vel illos. Que omnia et singula supradicta capitula, acceptata et affirmata fuerunt per viros magnificos superius nominatos, nec non confirmata per eos, prestito ad sancta Dei Evangelia corporaliter juramento ex una parte, et dictum Apparentem militem, Guillelmum de Molinis, Petrum Formicam, Guillelmum Aymari, Petrum Bertrandi, et alios quadraginta de Melioribus castri et terre predicte ex parte altera, teneri et observari pacta predicta: de quibus observandis dictus Caslellanus dedit obsides infrascriptos, videlicet: Matheum de Goffrido, Iohannem de Felice filium Mathei de Felice, Matheum de Madio, Nicolaum Magrintinum, Leonem filium Iohannis de Massa, Matheum de sancto Murro, Iohannem filium Mathei Dompne Gemme, Francisum Franciscum Ferranum, Gaudilectum Magistrum, Corradum Barbalco, Bonanoliam filium Castellani, Bernardum de Ribecta, Petrum Bertrandi, Lyoctum deductum, Cappellanum Mactalamala, Bernardum Corna, Inciluam, et Brancatum. In cujus scripti et pactorum Retroscriptorum roboratiorem firmacionem et tenacem observacionem, presens scriptum, predictus Castellanus et alii superius notati, fieri fecerunt, eorum propriis sigillis munitum. Scriptum in obsidione ante Castrum Abbatis, die tercio mensis Martii, duodecime Indictionis. In quibus noster extitit poslulatis assensus; quia ergo hiis qui post errorem et devium que sequuntur, rectam viam repetunt, et semitam veritalis, gratie nostre Ianuam nostram non claudimus; Immo volentibus abiurare perfidiam, fidem sequi, misericordie nostre libenter gremium aperimus, predictis pactis et Convencionibus sic tractatis, ubi sic executionis rem et facti efficaciam habeant sicut............. de certa nostra scientia, presencium tenore, accedimus; et etiam exaudimus ea tenore presencium Confirmantes, et Acceptantes expresse, ac per nos et nostros heredes et officiales quoscumque..... decernimus et volumus illibatam. Dat. Neapoli per Bartolomeum de Capua Militem, etc. die VII martii XII Indictionis (1299).
Dal r. archivio di Napoli, registro di Carlo II, segnato 1299, A fog. 43.
XXVII (xxiii).
Karolus secundus, etc. Tenore presencium notum fieri volumus universis, quod ostense fuerunt nuper nobis lictere viri nobilis Thomasii[341] de Sancto Severino, Comitis Marsici, consiliarii, familiaris et fidelis nostri, que erant per omnia continencie infrascripte. Nos Thomasius de sancto Severino, Comes Marsici, Regius Capitaneus generalis principatus ad guerram, tenore presencium notum facimus universis, quod existentibus nobis intus terram Castri abbatis, quam ad fidem et mandata Regia est regressa, Berlengarius de luminaria almugaverus, tam pro se quam pro subscriptis almugaveris, ad fidem et mandata regia redeuntibus, infrascripta sibi fieri peciit et attendere, primo videlicet quod pro ipso Berlengerio, Andrea Burraccio, Ferrerio oliveri de guardia, Bernardo Martini, et Guillelmo Raymundi gagia equitum, videlicet unciarum auri duarum per mensem pro quolibet, pro curia exsolvantur. Item pro Guillelmo et petro de terminis, capitibus almugaverorum, gagia duplicata, videlicet tarenum unum per diem pro quolibet capitum eorumdem. Item quod quilibet almugaverorum predictorum subscriptorum, ad fidem eandem recedentium, unius caroleni per diem gagia consequatur. Item quod ipsis omnibus, tam equitibus quam peditibus successivo, tam videlicet sanis quam egrotis, singulis tribus mensibus paga fiat. Ita quod quicquid predicti almugaveri de bonis hostium regiorum fuerint modo quolibet acquisiti, sine molestia aliqua inter se dividant, iuxta eorum consuetudinem, atque usum: que omnia supradicta pacta atque capitula, dictus Berlengerius, pro se et sociis suis, petiit observari. Nos igitur, consideratione debita prudentes almugaverorum ipsorum conversionem ad fidem, non sine re utile ex ratione varia fore proficuam, et honori Regio statuique pacifico patrie eonsiderantes accomodam, dicto Berlengerio capitula et pacta predicta pro se et sociis suis ad fidem redeuntibus prelibatam, tali modo providemus et promittemus observare, quod dictis equitibus, ab eo die quo equos habuerint in antea, gagia equitum computentur; et alia, pro ut supra destinata sunt, per Regiam Curiam et per nos observabunt eisdem, et eis gagia persolventur, illis videlicet qui in stabilita et obediencia morabunt. In cujus rei testimonium et testitudinem eorumdem, presentes patentes licteras nostras exinde fieri fecimus, nostro sigillo munitas. Nomina vero ipsorum, tam equitum quam peditum, sunt hec, videlicet: Berlengerius de luminaria, Andreas Burratius, Guillelmus Raymundi, Bertrandus Martini, et Ferreris Oliveri, equites; item pedites Petrus de terminis, Guillelmus spronus, Parisius de Arnes, Ferreris Alberti, Guillelmus Iurnectus, Dominicus Bonetti, Guillelmus de Auliana, Bernardus Maymonis, Bernardus gavarra, Raynaldus de Caraldo, Petrus pronamallolus, Petrus de Vico, Bernardus de Vitali, Petrus Ferranti, Petrus Baralacta, Dominicus Pallo, Raymundus Mathei, Boneccus de Salas, Bernardus de Fullularia, Bernardus de Saragueria, Bernardus de Armaterio, Berlengerius Baronus, Bernardus de Scarpa, Bartolomeus de Arnas, Bernardus de Prato, Petrus Fredera, Petrus Sardonus, Guillelmus Valentinus, Raymundus de Belsa, Guillelmus[342] Mirus, Raynaldus de Caralt, Petrus magister, Bonus natus de Corbera, et Petrus Forcia. Data in obsidione intus terram Castri abbatis, die XXVIII mensis martii xii Ind. Cumque petitum extitit per Almugaveros supradictos pacta prescripta per nostras licteras confirmari, Nos illa eis tenore presencium confirmamus; ha licteras nostras, sigilli nostri appensione munitas, in testimonium concedentes eisdem. Dat. Neapoli, per manum, etc. die iv aprilis xii Indictionis (1299).
Dal r. archivio di Napoli, registro di Carlo II, segnato 1299, A, fog. 36 a t.
XXVIII (xxiv).
Scriptum est Vicario Principatus et Stratigoto Salerni, etc. Pro parte Thomasii de Procida militis, fidelis nostri, nobis fuit humiliter supplicatum, ut cum pridem de mandato celsitudinis nostre quondam Iohanni de Procida, Patri ejusdem Thomasii, bona quedam burgensatica existentia in eadem civitate Salerni fuissent restituta, ac Matheo de Porta de Salerno militi fideli nostro, procuratori ejusdem Iohannis, postmodum assignata; nunc nonnulli de Salerno, asserentes predictum Iohannem, seu Thomasium filium ejus, ex certis causis, in certis pecunie quantitatibus sibi teneri, ad bona ipsa habentes recursum, illa capiunt; et dictum procuratorem in possessione eorumdem bonorum inquietant multipliciter, et perturbant, in ejusdem Thomasii prejudicium manifestum. Super quo provisionis nostre remedio implorato; fidelitati tue committimus et mandamus, quatenus bona predicta, a quocumque capi non permittens, dictum Matheum in possessione eorumdem bonorum non patiaris indebite molestari quin imo eumdem Matheum auctoritate presentium in ipsorum bonorum possessione manuteneas et defendas: et si secus huc usque fuerit attentatum, facias in irritum revocari; si vero aliqui in predictis bonis jus aliquod habere se dicant, illud, si voluerint, coram competenti judice, ordinarie prosequantur. Presentes autem literas, postquam eas inspexeritis in quantum fuerit opportunum, restitui volumus presentanti. Dat. Neapoli, in absentia Protonotarii, per magistrum Petrum de Ferreriis, etc. Die xvi aprilis xii Indict. (1299).
Dal r. archivio di Napoli, registro di Carlo II, segnato 1299, A, fog. 210.
XXIX (xxv).
Scriptum est Iohanni pittico militi, Castellano Castri Sancte Marie de monte, etc. Volumus et fidelitati tue presentium tenore districte precipimus, quatenus ad requisitionem Guillelmi de pontiaco, militis, Magne Curie nostre magistri Rationalis, dilecti Erarii, familiaris, et fidelis nostri, cui exinde scribimus, Henricum, Fredericum, et Encium, filios quondam Manfridi dudum principis Tarentini, quos in dicto castro carcer noster includit, statim absque alicuius more vel difficultatis[343] obstaculo ab eodem carcere liberes, eosque sic liberos prefato Guillelmo assignes; mittendos ad nos per eum, prout sibi per speciales nostras litteras demandatur, mandato aliquo huic contrario non obstante. Datum Neapoli, in absentia prothonotarii, per magistrum Petrum de Ferreriis, etc. die xxv Iunii Ind. (1299).
Dal r. archivio di Napoli, registro di Carlo II, segnato 1299, A, fog. 96 a t.
XXX (xxvi).
Scriptum est Guillelmo de pontiaco militi, etc. Scribimus per alias litteras nostras Iohanni piticco militi, Castellano Castri nostri Sancte Marie de monte, ut ad requisitionem tuam filios quondam Manfridi dudum principis Tarentini, quos in dicto Castro carcer noster includit, absque difficultate qualibet liberet, et tibi liberos assignet eosdem: propter quod volumus et fidelitati tue precipimus, ut statim receptis presentibus, prefatum Castellanum quod eos liberet instanter requiras; quibus liberis, convenientem robam ipsorum cuilibet fieri facias, eosque sub ducatu alicujus militis vel cuiusvis alterius, prout expedire videris, ad nos mittas; traditis sibi equis pro equitatu ipsorum ad locrium conducendis, nec non expensis, que pro adventu ipsorum ad nos usque Neapolim necessarie dignoscuntur; predictum vero Robarum et dictorum equorum locrium solvi, ac expensas huiusmodi exhiberi sibi facias per Erarium quod est tecum, de fiscali pecunia existente per manus suas; et in eius defectu de quacumque alia invenienda mutuo ab illis, restituenda postmodum illis per eumdem Erarium de quacunque pecunia Curie, que ad manus suas undecunque pervenerit successive. Ita quod nullus in hoc possit quomodolibet intervenire defectus. Dat. ut in proxima.
Dal r. archivio di Napoli, registro di Carlo II, segnato 1299, A, fog. 96 a t.
XXXI (xxvii).
Scriptum est Ecclesiarum prelatis, Comitibus, Baronibus, Iustitiariis, Secretis, Magistris Portulanis, et procuratoribus, Magistris Salis, provisoribus Castrorum, Castellanis, Capitaneis particularibus, ac quibuscumque officialibus et personis aliis Insule Sicilie et pertinentiarum ejus, tam presentibus quam futuris. Cultum vere fidei et spiritum veritatis Representatur ymago patris in filium, et per virtutis generative suffragium, memoria reservatur in eum; immo sic utriusque persona censetur altera, ut unius actum sanctio Iuris alterius censeat, et identitatem in ipsis alternis actionibus multifariam comprehendat. Et licet unius rei duorum in solidum non possit esse dominium, ipsa tamen Iuris edictio meliora prospiciens, dominum, vivente patre, filium, quadam extimatione constituit; et in emolumento ac honore stipitem hereditarium[344] subrogavit. Sane de Roberto primogenito nostro carissimo, duce Calabrie, ac in Regno Sicilie Vicario generali, utique filio benedictionis et gratie, plenarie confidentes, quem ab experto novimus aborrere vitia et amare virtutes, eum Vicarium nostrum generalem et perpetuum totius Insule nostre Sicilie ac pertinentiarum eius, duximus statuendum; plenam ei et integram meri ac mixti Imperii et animadversione gladij concedentes, sub certis et specialibus plenitudinibus, potestatem; quas nostre alie patentes sue inde commissionis littere continent et declarant. Volumus igitur et expresse mandamus, ut eidem primogenito nostro, quem velut ymaginarium presentie nostre in Insula predicta statuimus, tamquam nostro in illa Vicario generali de omnibus que ad generalis Vicarie officium pertinere noscuntur, tamquam persone nostre, reverenter intendere, ac ad honorem et fidelitatem nostram obedire devotius studeatis; ac insuper litteras eius omnes, sub sigillo Vicarie mittendas, tam super negotiis fiscalibus, quam privatis, curetis devote recipere, et exequi cum effectu, ac si essent sigillo nostri Culminis sigillate. Nos enim penas et banna que dictus noster generalis Vicarius tulerit vel ferri mandabit, rata gerimus et firma; eaque per eum, vel ad mandatum eius per Curiam, volumus irremissibiliter a transgressoribus extorqueri. Dat. Neapoli, per Bartolomeum de Capua, etc., die xxiiii Iulij xii Indict. (1299).
Dal r. archivio di Napoli, registro di Carlo II, segnato 1299, A, fog. 131.
XXXII.
A tres excellent, haut et puissant son tres cher et ame cousin Philippe, par la grace de Dieu Roy de France, Challes, par cele meisme grace Roy de Jerusalem et de Sezile, saluz et continuel accroissement de gloire et de toutes honneurs. Tres cher cousin, nous vous feimes assavoir par noz autres letres, encore na gueres, le point et lestat u quel nostre guerre estoit adonques; et vous escripsimes entre les autres choses, comme Robert nostre ainzne fils Duc de Calabre estoit en nostre Isle de Sezile, o tout nostre efforz de genz darmes de nostre Roiaume, tant françois comme latins, prouvenzaus, et dautres nacions, et entendoit tant com il povoit a nostre guerre poursuivre. Et que pour le departement du Roy Darragon de la dite Isle, le quel nous ne povions plus retenir a poursuire icele guerre, il nous convenoit de necessite de refere nostre armee et de renvoier la en la dite Isle, et denvoier avec il, en aide et en secours de nostro devant dit filz et de sa compaignie, ce pou de gent qui demoure nous estoit: et pour ce, biau cousin, car nous savions bien que après ce que nous aurions envoie celi secours nous devions demourer auques tout seul et avoir necessite de gent darmes, vous priames nous, si chierement com nous peumes plus, que vous nous voussessiez secourre et aidier de nous envoier, pour estre[345] avec nous par espace daucun tamps, aucune quantite de genz darmes. Orendroit, biau cousin, vous fesons nous assavoir que nous, selonc nostre desus dit propos, appareillames et feimes nostre de sus dite armee bonne et fort de quarante gros vaissiaus, et i meimes tout le demourant de la gent darmes que nous avions, les quex furent entour siz cent homes a cheval, et grant compaignie de petons, sanz la gent de mer, la quele fut si grant com il afferi a larmement des diz vaissiaus; et envoiames aveques eaus Philippe nostre fils prince de Tarante, au quel baillames nous conseil assez bon et souffisant de gent darmes usee et esprouvee, pour li conseiller et adrecier. Si en est avenu, biau cousin, un cas mout orrible et mout contraire, si comme ci desouz se contient. Car puis que il furent passez en Sezile, et orent prise terre pres dune cite que len appelle Trapes, le quel passage firent il mout bien, et sanz avoir nul nuisement en mer, il tindrent siege par pou de iours a cele cite. Et quant il orent veu que le siege nestoit pas bien profitable, il ordonerent et firent recoillir tout leur harnois et leur choses es galees, pour ce que elles sen allassent a un port qui est pres dileques; et le prince et la chevalerie toute i devoient aler par terre, pour entrer dedenz, et aler sen au duc, et soi assambler avec li. Si avint que, si comme le prince et les autres sen aloient, il encontrerent Frederic o tout son povoir quil avoit congregie de toutes parz pour eaus courre sus; et quant il virent quil ne povoient la bataille eschiver, il se combatirent a li; et ia soit ce que il desconfississent et venquissent sa premiere bataille, toutevoies a la grant multitude de gent tant a cheval comme a pie qui leur courrurent sus, il ne porent durer; ainz les convint a la fin perdre, si que pluseurs i furent morz et le prince et la greigneur part des Baronz et des gentilx homes de sa compaignie pris. Les Galees voirement sen sont retournees par de ça sans avoir nuisement ne empecchement autre, et les avons avec nous. Pour lequel avenement, biau cousin, nous sommes devenuz a si tres grant sousfraite de gent darmes que nous nen avons en Sezile avec notre devant dit filz le duc que cele gent seulement quil a euce puis son passage, nen avons par deça de qui nous le puissions secourre. Si que ia soit ce que cesti avenement desus dit nous soit assez grief et damageus, nous doutons trop que autre greigneur et plus perilleus ne sensuie de cesti; car se dou duc et de sa gent avenist chose contraire (la quele ia naviegne), nous serions emperil si comme davoir tout perdu. Car ia soit ce quil soient tiex et tanz que il nont doute que les annemis les puissent soudainement nuire, sauve se dieu leur voulsist estre ouvertement contraire, toutevoies secourre les convint il, et sil sont secourruz hastivement, nostre besoigne retournent bien a son premier estat. Et pour ce, biau cousin, nous recourrons encore a vous comme a celi qui estes chief et soustenance de vostre lignage, et en qui avons et devons avoir greigneur esperance que en autre après dieu; et vous prions comfiablement et de cuer tan chierement com nous[346] povons plus, que il vous pleise de veoir et de penser com cesti cas est grant et com il est tres necessaire et nous voilliez aidier et secourre daucune quantite de gent darmes. Car ia soit ce, chier cousin, que vous aiez aucune guerre en voz parties de la on set bien toutevoies que voz mains sont si puissanz et si longues que vous le povez bien estandre es vostres sil vous plaist; et vraiement, biau cousin, cesti secours que vous nous ferez orendroit, quelque il soit ou petit ou grant, nous est orendroit plus necessaire et sera mielz profitable que le greigneur autre fois. Car adonques par avanture nostre besoingne pourroit estre si au desouz que nule aide li proufiteroit. Escript a Naples, le VIII iour de Decembre.
Dagli archivi del reame di Francia, J. 513, 48.
XXXIII (xxviii).
Karolus secundus, etc. Tenore presentis procuratorii notum facimus universis, quod, sicut certa nobis nuper insinuatio patefecit, inter quosdam amicos nostros et aliquos de civibus Ianue, diebus proximis collatio intervenit; ex qua colligitur quod finis voluntatis que invenitur in omnibus civibus januensibus communis est iste: videlicet: quod si per nos fieret quod Castrum Monagi in forciam Comunis predicti veniret, quod si facere non possemus quod daremus Latorbiam et Sanctanecte in virtute Comunis ejusdem, ipso quidem Comuni nos faciente securos de reddendis nobis Castris eisdem Latorbie et Sanctanecte habito Castro Monachi memorato; et si constitueremus Nictie et in partibus illis Vicarium qui fideliter et sine dolo aliquo operaretur quod illi qui sunt in Monaco non haberent auxilium hominum, victualium nec alicujus alterius rei de terra nostra, comune janue faciet totum posse suum quod Corradus auris et alii omnes de janua in Sicilia existentes, inde discedant et januam revertentur; et si forte predicti nollent discedere, comune procedet in eos tanquam rebelles suos in avere et persona; et ultra habebimus a Comuni licentiam trahendi et habendi de janua homines ad nostrum soldum juxta voluntatem nostram; et insuper, prout creditur, multa alia ultra id grata et placibilia nobis fiant. Nos quoque pensantes, quod post obitum bone memorie Patris nostri nobis redditis libertati, prefatum Comune ianue semper amavimus, et nulla ejus volumus incomoda vel adversa; et quod erga dictum comune servare intendimus amorem et dilectionem intime caritatis, ipsumque in nostra et nostrorum persecutione manere; confisi de fide, industria et legalitate Mathei de Adria, Magne curie nostre Magistri rationalis, et Landulfi Ayosse de Neapoli militis, dilectorum Consiliariorum, familiarium et fidelium nostrorum, facimus, constituimus et ordinamus eos et quemlibet eorum in solidum, ita quod non sit melior occupantis conditio, sed quod unus inceperit alter perficere valeat et complere, ad tractandum, compiendum et firmandum nomine nostro cum comuni janue, vel cum hiis pro ipso comuni qui deputabuntur ab eo, omnia et[347] singula supradicta: et insuper, licet in premissis sane subaudiri possit et duceat intellectu, quod ubi dictum comune revocet de Sicilia januam prefatos Corradum et ceteros januenses, cohibere debeat ne alii vel ceteri illuc vadant, pro pleniori tamen cautela, que pro cetero non obficere consuevit, ad tractandum et firmandum cum Comuni prefato, quod sicut obligabit se dictum Comune de revocandis januensibus de Sicilia, prout super describitur, sic obliget se quod nullum vassellum armatum de ipso Comuni deinceps vadat in Siciliam in subsidium Frederici, et speciales personas ipsius illuc ire volentes in subsidium Frederici predicti, prout arctius comode comune ipsum poterit, cohibeat et restringat; obliganti quoque nos obligatione que expedit ad observationem debitam eorumdem: promittentes, sub ypoteca bonorum nostrorum omnium, nos ratum habituros, gratum et firmum quicquid per predictos procuratores nostros, aut alterum eorumdem, tractatum, completum et firmatum fuerit in premissis et quolibet premissorum. In cujus rei testimonium et cautelam, presentis procuratorii scriptum exinde fieri, et pendenti Maiestatis nostre sigillo, jussimus communiri. Actum et datum Neapoli, per Bartolomeum de Capua militem, etc., die xvi aprilis xiii ind. (1299).
Dal r. archivio di Napoli, reg. di Carlo II, segnato 1299–1300, C, fog. 137.
XXXIV (xxix).
Carolus secundus, etc. Tenore presentis scripti notum fieri volumus universis quod nos ex affectu caritatis interne quem erga comune Ianue semper habuimus et habemus, quamquam alique speciales persone ipsius contra nos sinistra et contraria moliantur, circa reformationem tractatus pacis atque concordie inter nos dictumque comune specialibus studiis libenter adhesimus, et libentius inheremus; utpote qui pacis bonum undequaque diligimus, et tractatum hujusmodi effectum.... debitum et premisse charitatis instinctu sincero animo affectamus: cum igitur subscripta nobis noviter sint insinuata capitula per aliquos amicos nostros cives Ianue, per que tractatus ipse perduci creditur ad debite prosecutionis effectum; nos confisi de fide, prudentia et legalitate Mathei de Adria, magne curie magistri rationalis, et Landulfi Ajosse de Neapoli, militum, consillariorum, et familiarium nostrorum, quos pridem ad comune prefatum pro eadem prosecutione providimus destinandos, plenam eis potestatem et auctoritatem liberam impartimur tractatum ipsum juxta predictorum subscriptorum capitulorum seriem et tenorem, prosequendi, perficiendi, firmandi atque complendi, ac omnia alia et singula faciendi, que circa ipsum oportune noscuntur, et nos ipsi facere possemus et deberemus, si presentialiter adessemus; promittentes Leucio de Capua; notario infrascripto legitime stipulanti pro parte dicti comuni et quorumcumque interest vel interesse poterit, nos ratum,[348] gratum, firmum, et acceptum perpetuis temporibus habituros, quicquid per predictos nuncios et Ambassiatores nostros in premissis actum, tractatum, ordinatum, promissum, atque firmatum fuerit, secundum quod capitula ipsa docent; illudque attendere, complere, atque perficere, ac attendi, compleri, et perfici facere, sub bonorum nostrorum omnium ypoteca: tenor autem capitulorum ipsorum talis est.
Infrascripta petuntur fieri, per Illustrem Dominum Regem Hierusalem et Sicilie comuni Ianue, videlicet: quod castrum Monachi et turris seu fortellicia Abegii, que turris seu fortellicia ab uno anno et dimidio circa in posse dicti domini regis dicitur pervenisse, reddentur ac restituentur dicto comuni, modo subscripto. Scilicet quod comune predictum extrabet et restituet omnes illos qui sunt in dicto Castro monachi, et omnes sequaces eorum, nec non et qui eorum occasione sunt banniti et forestati, ab omni hanno; et eis reddat omnia eorum bona talia et qualia sunt; exceptis domibus quorumdam Grimaldorum, que occasione guerre in parte destructe et deformate fuerunt, et tandem vendite, assignate vel tradite quovis titulo per comune Janue quibusdam intrinsecis civibus, per quos postmodum reparate vel redificate seu meliorate fuerunt, vel que vendite, assignate seu tradite vel quovis titulo predictis intrinsecis per dictum comune Ianue.... licet destructe vel deformate fuerunt; quarum domorum hujusmodi non fiet restitutio, sed satisfatio eis quorum fuerunt de pretio competenti, ad dictum bonorum virorum secundum eum statura et valorem in quibus erant eo tempore quo eis fuerunt per dictum comune quovis titulo vendite, tradite vel etiam assignate. Ita quod de ipsis possint gaudere sicut faciunt alii cives Ianue de bonis eorum; nec non dictum comune faciet remissionem eis de omnibus dapnis et injuriis per eos et sequaces eorum factis comuni predicto sive singularibus personis.
Et quod omnes predicti possint libere et secure ire, redire, habitare et stare cum familiis eorumdem in Ianua et districtu ejus, pro eorum arbitrio voluntatis, exceptis Grimaldensibus, videlicet illis de domo Grimaldorum et quinque de aliis de quibus comuni placuerit, qui debeant et possint stare extra Ianuam et districtum ejus ubicumque voluerint, nec redibunt in Ianua vel ejus districtu donec placuerit comuni prefato.
Et omnes predicti, tam illi de domo Grimaldorum quam alii, jurabunt attendere et observare mandata dicti comunis, Potestatis et cujuslibet alterius Rectoris vel Rectorum qui pro tempore fuerint in dicto comuni; et de hoc prestabunt competentes, ydoneas cautiones; et nihilominus solvent mutua, avarias, datas et collectas, que per ipsum comune imponentur sicut faciunt alii cives Ianue.
Predictis autem de domo Grimaldorum, et omnibus aliis, licebit navigare libere et ubicumque et quocumque voluerint, ad eorum et cujuslibet ipsorum propriam voluntatem; dum tamen solvant in eundo et redeundo expeditamentum, sicut solvent alii cives Ianue; et in omnibus[349] locis ubicumque fuerint et ibunt tractentur et habebuntur sicut alii Ianuenses. Restringentur tamen sub quolibet magistrato Ianuensi, sicut alii Ianuenses.
Predicta quidem castrum monachi et turris seu fortellicia Abegii, tradentur in posse dicti comunis hoc modo, videlicet: quod assignabuntur certis personis de Ianua, de quibus concordabunt dictus Dominus Rex et comune prefatum, sub ea conditione ut si predictum comune non fecerit observare prefato domino Regi et omnibus aliis prenominatis superscriptas obligationes et promissiones et omnes alias que inferius describuntur, teneatur dictum comune et persone quibus assignantur predicta castrum monachi et turris seu fortellicia, eadem statim restituere domino regi prefato, aut certo suo nuncio seu procuratori ejus ad hoc statuto vel statuendo per eum; et de hoc se obbligent dictum comune et dicte certe persone per sacramentum et alias ydoneas securitates et cautelas: observatis enim conventionibus, obbligationibus et promissionibus ante dictis et infrascriptis per comune prefatum, et finita guerra insule Sicilie, predictum castrum monachi libere restituatur comuni Ianue; non autem, per illos quibus dictum castrum tradetur, restituatur etiam in hoc casu turris seu fortellicia superdicta. Si vero nolentibus illis qui tenent dictum castrum monachi, dominus Rex prefatus tradere non posset ipsum castrum monachi modo prescripto comuni prefato, tunc comodabuntur comuni predicto per ipsum dominum regem castrum Ese et Turbie, et assignabitur Turris seu fortellicia Abegii; hoc modo videlicet quod dominus Rex tradet predicta castra Turbie et Ese in posse illorum de Ianua quos ipsi duxerint eligendos, et dictam turrim seu fortellicia Abegii, que castra custodientur ad expensas comunis Ianue: homines vero castrorum, fructus, redditus et proventus erunt semper dicti domini Regis et regentur et procurabuntur per officiales ipsius domini Regis, et dicta castra custodientur per illos de Ianua qui eligentur per predictum dominum Regem quousque comune Ianue habebit dictum castrum monachi, ad quod habendum continue intendent et procurabunt sine aliquo dolo vel fraude, quo castro habito sine dilatione aliqua statim dicta castra restituentur libere dicto domino regi, aut suo certo nuncio vel procuratori, per comune Ianue ac per prefatos qui habebunt in custodia dicta castra. Pro quibus castris modo prefato custodiendis et restituendis, obligabit se dictum comune Ianue per solepnes securitates et cautiones ydoneas et cautelas, nec non prefati quibus assignentur predicta castra jurabunt et per omagium firmabunt et promittent sub firmis et ydoneis obligationibus, dicta castra restituere in casu predicto statim quod pro parte dicti domini regis fuerint requisiti; dicta turri seu fortellicia Comuni Ianue remanente.
Simili modo obligent se predictum comune et persone predicte, quod si per prefatum comune Ianue non fuerint observate predicto domino[350] Regi prenominatas superscriptas obligationes et promissiones ac omnes alias que inferius describuntur, debeant dictum comune et persone quibus assignabuntur dicta castra Ese et Turbie ac turris seu fortellicia Abigii, eadem statim sine contradictione aliqua restituere domino regi prefato, aut suo certo nuncio vel procuratori statuto per eum, vel statuendo ad hoc: Remanentibus semper firmis obligationibus aliis factis domino Regi et aliis subscriptis per comune Ianue.
Circa predicta nichilominus idem dominus Rex prohiberit cum effecta et sine fraude aliqua, quod nullus de terra sua Provincie prestabit auxilium vel favorem predictis qui sunt in Monacho, eorum Rebellione durante; et quod non possint illi de Monacho aliqua victualis de terris domini Regis extrahere contra dictum comune Ianue et districtus eius: et hoc dictus dominus Rex faciet inhiberi per provinciam sub competentibus et arduis bannis et penis, quas et que faciet a contrafacientibus, prout expedit, extorqueri; et nichilominus procedet contra eos sicut contra Rebelles.
Et ut omnia superdicta sine aliqua suspicione procedant, dominus Rex non ponet Senescallum in Provincia, nec vicarium in Nicia, qui dicto Comuni Ianue rationabiliter possint esse suspecti.
Prefato quidem domino Regi dictum Comune Ianue promittit et cum effectu faciet infrascripta, videlicet: quod inhibebit sub magnis et arduis bannis et penis quod nullus de Ianua, seu districtus eius, vadat in auxilium seu succursum dompni Frederici, vel Siculorum, contra Ecclesiam et dominum Regem predictum; quas penas et que banna a contrafacientibus predictum comune cum effectu, sine dolo vel fraude, exiget et extorquebit; ac procedat contra eos sicut contra Rebellos.
Et revocabit sub certis magnis penis et bannis dominum Corradum de Auria et alios Ianuenses qui sunt in Sicilia in subsidium dompni Frederici, vel Siculorum..... ipse dominus Rex habere possit inde duos vel tres homines ad stipendia sua; et pro qualibet galea possit habere duas vel tres; et hoc dictum Comune promittet et mandabit.
In cuius rei testimonium presentis scriptum publicum, per manus predicti apostolica auctoritate notarij, exinde fieri et pendenti sigillo Maiestatis nostre iassimus communiri.
Actum Neapoli, presentibus Venerabili in Christo patre domino Petro Dei gratia Episcopo Iectorensi, Regni Sicilie Cancellario, Iohanne de Monteforte Squillacij et Montis Caveosi Comite, Camerario dicta Regni, et Iohanne pipino de Barolo, Magne Curie nostro Magistro Rationali, ac pluribus aliis.
Et datum ibidem per Bartolomeum de Capua militem, logothetam et prothonotarium Regni Sicilie, anno Domini mo ccco die vi Madij xiii Ind. Regnorum nostrorum anno xvi.
Et ego Leucius de Capua, qui super puplicus apostolica auctoritate notarius, ad mandatum prefati domini nostri Ierusalem et Sicilie Regis[351] predictis omnibus et singulis presens interfui, et stipulatione premisse cum debita sollempnitate recepta, ea propria manu scripsi, et in puplicam formam redigi meoque consueto signo signavi.
Dal. r. Archiv. di Napoli, registro di Carlo II, segnato 1299–1300, C, fog. 43.
XXXV(xxx).
Karoius secundus.... notum facimus universis quod nos de Viro Nobili Rogerio de Lauria Milite, Regnorum Sicilie et Aragonumm Ammirato, dilecto Consiliario, familiari, et fideli nostro, tamquam de corporis nostri parte plenario confidentes, ei committendum duximus, quod ipse promittere valeat Universitatibus et Specialibus personis Insule nostre Sicilie, gressus fidelitatis egressis, ad fidem et mandata Sancte Romane Ecclesie nostramque redire volentibus, quidquid sibi fore in haec parte providendum videbitur rationabile aut decens, secundum rectum bonumoque iudicium, Remoto cuilibet cavillationis seu dure interpetracionis anfractu: promittentes nos tenore presencium, bona fide, in verbo regie Majestatis, id quod per eumdem Ammiratum promissum fuerit, sicut premittitur, Universitatibus et personis Spectalibus supradictis, ratum et firmum habere, et inviolabiliter observare, ac si promissum foret specialiter per nos ipsos. In cujus rei testimonium presentes licteras exinde fieri, et pendente Majestates nostre sigillo iussimus communiri. Dat. Neapoli, per Bartotolomeum de Capua Militem, etc., die xx lunii xm Indict. (1300).
Dal. r. Archiv. di Napoli, registro di Carlo II, segnato 1299, 1300, C; fog. 35.–.
XXXVI (xxxi).
Karolus secundus, etc. Universis presentis scripti seriem inspecturis, tam presentibus quam futuris. Aufertur de vultu Regis iniquitas, cum humana equitas illi sit socia, benigna clementia constanter amica. harum quidem inspectio principem facit in cognoscendo providum, in discernendo securum; quia dum per amabilis equitatis instinctum in humaniorem partem dectinat iudicium, nec manstretudo legis offenditur, et rigor sevientis Iustitie temperatur; et dum levitas remissive elementie abolet termina, firmat Regnantium solia, ut in securitate perpertra gaudeant, et translationum amara dispendia non pavescant; quo fit ut sodalem nobis ipsam clementiam sereno complectentes amplexu, libenter exerceamus in subditis, et ministris nostris eam exercentibus, ubi maxime ratio puplice utilitatis exposeit, promptum et placidum prebeamus asseasum; quin potius ut quod per eos agitur clementer et provide suffragium plenioris firmitatis obtineat, expresse nostre connfirmationis munimine roboramus. Sane, licet Virgilius de Cathania miles, dilectus consiliarius, familiaris et fidelis noster, dudum[352] in insula nostra Sicilie rebellionis orto discrimine, cum occupationis iniuria et obstilitatis insultu capitibus factionis occupationis et obstilitatis eorum faventer adherens, et cum aliis rebellibus siculis diuturne conversans, eorum pro qualitate temporis extiterit fautor et fotor; delictum tamen hoc suum non ex proposito contigit, set ex casu, sicut antique sue devotionis ad tempus pro timore latente erga clare memorie dominum patrem nostrum et nos fides docuit, et efficacia operum, cum locus affuit, demonstravit; Et tandem post temporis multi curricula, dum Robertus primogenitus noster carissimus Regni nostri Sicilie Vicarius generalis cum copiosa caterva militum et peditum Comitiva, ad contundendam Siculorum ipsorum hostilitatis et rebellionis induratam proterviam transfretasset, Virgilius ipse, ductus spiritu bone mentis et pure, non de suo tamen reditu ad huiusmodi fidem nostram promptitudinem que diutius in pectore fideli latuerat indicavit, set eius ministerio Catanienses, quorum pro malitia temporis preclara fides erga nos simili modo delituit, optati temporis oportunitate captata, ad cultum et Reverentiam Sancte Romane Matris Ecclesie atque nostram, cum devotionis affectu humiliter redierunt. Prefatus vero Primogenitus noster in conversione dicti Virgilii, obtentu suorum tam grandium et laudabilium meritorum, subscriptum privilegium cum providi cautela consilii gratiose concessit: quod quidem de verbo ad verbum, presentium tenori subnectitur, de nostra speciali conscientia; ut quod per nos in hac parte agitur, processisse de certa nostra scientia demonstretur; cuius privilegij tenor per omnia talis erat. Robertus primogenitus Illustris Ierusalem et Sicilie Regis, dux Calabrie ac eius in Regno Sicilie Vicarius generalis, Universis presens privilegium inspecturis. Opus in nobis egregium Clementia suggerante proficimus, si ad illos qui devotionis et fidei claritate prelucent, et digna premia promerentur, manum nostre liberalitatis extendimus; eosque ad statum, honores et gloriam congruis beneficiis sublimamus. Quia proinde vigor fidelitatis augetur in subditis, et alii ad serviendum devotius animantur exemplo. Sane attendentes probitatem et merita Viri nobilis domini Virgilii de Cathania, consiliarii, familiaris et fidelis nostris dilecti, necnon grandia grata et accepta servitia, que miles ipse predicto domino Genitori nostro et nobis, precipue in reducenda noviter Civitate Catanie ad cultum fidei Sancte Romane Ecclesie ac Serenissimi principis predicti domini Patris nostri et nostre prestitit; et que ad presens sub continuis laboribus, in convertendis ad fidem predictam aliis Civitatibus et locis Insule Sicilie, prestat, ac diversimodo prestare poterit in futurum; Castrum Biccari, et Casale Chiminne, sita in Insula Sicilie ultra flumen salsum, cum hominibus, vassallis, fortellitiis, Casalibus, Villis habitatis et inhabitatis, Massariis, redditibus, proventibus, servitiis, domibus, possessionibus, vineis, terris cultis et incultis, planis, montibus,[353] pratis, nemoribus, pascuis, molendinis, aquis, aquarumque decursibus, tenimentis, territoriis, aliisque Iuribus, Iurisdictionibus, et pertinentiis suis omnibus, prout ea tenuit dominus Matheus de Termis Rebellis, hostis Regius atque noster, que videlicet de demanio in demanium et que de servitio in servitium, pro illo annuo redditu quem Castrum ac Casale predicta valent aut fuerint valere comperta, eidem domino Virgilio et suis heredibus auctoritate predicti Vicariatus quo fungimur, in perpetuum damus, donamus, et tradimus, ac ex causa donationis proprij motus instinctu, concedimus in baroniam, de liberalitate mera et gratia speciali, iuxta usum et consuetudinem Regni Sicilie. Ita quidem quod iidem dominus Virgilius et heredes ejus, pro Castro et Casali predictis predicto patri nostro, nobis, nostrisque heredibus et successoribus immediate ac in capite, iuxta usum et consuetudinem dicti Regni servire.... si videlicet pro eisdem Castro et Casali consuetum est serviri de militaribus servitiis infra octo de consueto tantummodo servitio. Si vero debeantur militaria servitia ultra octo, cum de certa scientia teneamus quod redditus et proventus eorumdem Castri et Casalis ad plurium quam octo servitiorum summam ascendunt, de servitio militum octo tantumodo teneantur; relaxato sibi per nos reliquo, de certa scientia gratiose: quod servitium dictus dominus Virgilius, in nostri presentia constitutus, pro se ac suis heredibus eidem domino patri nostro, nobis, nostrisque heredibus ac successoribus, voluntarie facere obtulit et promisit. Ita etiam quod si qui sunt, quibus per Clare memorie dominum Avum vel Genitorem nostrum aut nos aliqua bona, possessiones, seu Iura in predictis Castro Biccari et Casali Chiminne ac eorum pertinentiis sunt concessa, illa in capite teneant, prout eis concessa fore noscuntur; nec etiam respondeatur eisdem domino Virgilio et heredibus suis per Barones et feudatarios, si qui sunt ibidem, nisi de hiis tantumodo qui inter ipsa Castrum et Casale tenentur aliqui eorumdem. Quorum si qui sunt qui servire Curie Regie vel nostre in capite tenentur, in Regio et nostro demanio reserventur: Retentis etiam Regie ac nostre Curie salinis, si que sunt ibidem: animalia insuper et equitature Aratiarum et Marestallarum Regiarum atque nostrarum pascua, et aquas libere sumere valeant in territoriis et pertinentiis dictorum Castri atque Casalis: et si forte ipsarum tenimenta seu pertinentie protenderentur usque ad mare, reservetur domino Patri nostro et nobis ac dictis heredibus et successoribus nostris, possessio, Ius et proprietas totius litoris et maritime pertinentiarum ipsarum, in quantum de mari infra terram per iactum baliste dicte pertinentie protenduntur; quam maritimam per homines Regii ac nostri demanii volumus custodiri. Investientes predictum dominum Virgilium per annulum nostrum de Castro et Casali predictis. Ita quod, tam ipse quam predicti heredes sui, Castrum et Casale predicta, predicto domino patri nostro, nobis, nostrisque heredibus et successoribus perpetuo[354] in capite teneant et possideant; nullamque alium preter eumdem dominum Genitorem nostrum, nos, ac heredes et successores nostros, maioris dominii ratione, superiorem ac dominum recognoscant: pro quibus Castro et Casali, miles ipse in manibus nostris ligium fecit homagium, et fidelitatis prestitit Iuramentum: cui de gratia speciali concessimus quod quamcito predicta castrum et Casale fidei predicte redierint, dicti dominus Virgilius ac heredes ejus, absque ulteriori mandato Regie curie sive nostre, possint corporalem possessionem dictorum Castri et Casalis, auctoritate presentis privilegii, adipisci, retinemus insuper prefato domino patri nostro, nobis ac dictis nostris heredibus ac successoribus juramenta fidelitatis prelatorum, Baronum, et feudatariorum, si qui sunt ibidem, ac universorum hominum Castri et Casalis ipsorum, que dicto domine patri nostro nobis ac eisdem heredibus nostris et successoribus, precise contra omnem hominem, sicut est de jure et consuetudine, prestabuntur; quibus prestitis iidem dominus Virgilius et heredes sui assecurabuntur ab ipsis prelatis, Baronibus, et feudatariis et hominibus juxta usum et consuetudinem dicti Regni, propterea dicto domino Virgilio commisimus similiter auctoritate presentis privilegii, tempore adeptionis ipsius, possit pro parte Regie Curie seu nostre a predictis prelatis, Baronibus, et feudatariis, et hominibus juramenta predicta recipere, ac se facere assecurari, si hec duxerit eligendum, alioquin Iuramenta ipsa recipi, et eumdem militem assecurari faciemus per officiales nostros, quibus hoc providerimus committenda. Cavemus insuper eisdem domino Virgilio et heredibus ejus, per presens privilegium, quod si forte predicta Castrum Biccari et Casale Chiminne comperiantur aut sint de mero demanio, et propterea oporteret eadem Baronia hujusmodi ad nostram Demanium revocari; talis revocatio non liceat Regie Curie sive nostre, nec dato prius eisdem domino Virgilio et heredibus suis in terris et bonis fiscalibus, que de mero demanio non existant, equivalenti excambio pro Castro et Casali predictis. Ita quod inde reputent se contentos: et etiam si forsan dominus Matheus de termis, qui adhuc in rebellionis et erroris perfidia perseverans Castrum et Casale prefata ut ponitur tenet, ex concessione facta sibi ab olim per excellentem principem dominum Iacobum Illustrem Regem Aragonum tunc Sicilie occupatorem illicitum, vellet ad cultum fidei predicte redire sub conditione fortassis de prefatis Castro et Casali sibi et suis heredibus relaxandis, concedendis, dandis seu confirmandis, aut quivis alii pretenderent se jus habere in Castro et Casali eisdem, non liceat eosdem dominum Virgilium et heredes suos presenti datione, donatione, ac traditione, seu concessione, vel prefata possessione destitui ullo modo: quin immo in Casu ipso provideatur eidem domino Matheo, aut aliis jus forsam habentibus in eisdem, in terris et aliis bonis fiscalibus dicti Regni, que similiter de mero demanio non existant. Ita quod predictus dominus[355] Virgilius et heredes ejus fructu istius nostre gratie non priventur. Nos enim ipsi domino Virgilio, ad majorem sui securitatem expresse promissimus quod presentem nostram gratiam sibi et heredibus suis per sacrosanctam Romanam Ecclesiam et predictum dominum patrem nostrum, pro posse, curabimus confirmari. Salvis semper predicto domino Genitori nostro, nobis, ac dictis nostris heredibus et successoribus, juramento et fidelitatibus antedictis, ac usibus et consuetudinibus dicti Regni, nec non Iuribus Regie Curie dicti Regni se alterius cujuscumque. In cujus rei fidem perpetuamque memoriam, atque prefatorum domini Virgilii et heredum suorum cautelam, presens privilegium exinde fieri, et appensione sigilli Vicarie quo utimur jussimus communiri. Actum Cathanie, presentibus Viro Venerabili domino Guillelmo Electo Salernitano domini nostri Summi Pontificis in Insula Sicilie Vicemgerente Cancellario, nec non Viris Egregiis domino Thomasio de Sancto Severino Marsicensi, Domino et Philippo de Flandria Lauretani et Theani, et Domino Binengano de sabrano ejusdem regni Sicilie Magistro Iustitiario Arianensi, Comitibus, domino Rogerio de Lauria Regnorum Sicilie et Aragonum Ammirato, et domino Americo de Sus Consiliariis familiaribus nostris, ac pluribus aliis. Datura vero ibidem anno Domini mcco nonagesimo nono die undecima mensis Octubris xiii Indictionis. Nos igitur, ad eque censure regulam clementieque dulcorem, et ad tanti successus compendium, quod ex ipsius Virgilii commissione provenit, debitum considerationis nostre vertentes intuitu, grandiaque etiam et utilia sua servitia, que puris et devotis affectibus majestati nostre prestitit, prestat et in futurum prestare poterit, diligentius attendentes; predictis omnibus gestis per eumdem primogenitum nostrum assentientes, eaque approbantes, expresse prelibatum priviliegium in omni sui substantia et effectu, de certa nostra scientia et speciali gratia, confirmamus; prefatis reservationibus Iuribus curie nostre, et cujuscumque alterius semper salvis. In cujus rei fidem perpetuamque memoriam, et predicti Virgilii heredumque suorum cautelam, presentis indulti scriptum exinde fieri, et pendenti sigillo majestatis nostre jussimos communiri. Actum Neapoli, presentibus Venerabili in Christo patre Philippo Neapolitano Archiepiscopo, Viro nobili Ioanne de Monteforti Squillacii et Montiscaveosi Comite Regni Sicilie Camerario. Et Ioanne pipino de Barolo milite magne Curie nostre Magistro Rationali, dilectis Consiliariis, familiaribus et fidelibus nostris, ae pluribus aliis, etc. Dat. ibidem per Bartholomeum de Capua militem logothetam et prothonotarium Regni Sicilie, anno domini mo ccco die xx Iulii xiii Ind. Regnorum nostrorum anno sextodecimo.
Dal r. Archiv. di Napoli, registro di Carlo II segnato 1299–1300 C, fog. 84 a t.
XXXVII.
Bonifacius episcopus, servus servorum Dei. Dilecto filio nobili viro Carolo comiti Andegavensi salutem et apostolicam benedictionem. Obstinata Frederici, nati quondam Petri olim regis Aragonum, Siculorumque et aliorum eorum complicum et sequacium ac dampnanda rebellio, que longo iam tempore perduravit, non ad debitam reconciliationem sancte matris Ecclesie, non ad spiritum devotionis ad Deum, non de tenebris eripi et redire ad lucem, sed ad deteriores offensas indesinenter aspirans, sic ipsis deo et Romane Ecclesie, ac nobis et carissimo in Christo filio nostro Carolo regi Sicilie illustri, nephandis ausibus, impugnationibus diris, et atrocibus lesionibus, more tyrampnico exhibet se infestam, quod et divinum implorare auxilium, et fidelium subsidium adversus eos compellimur invocare; magno desiderio cupientes, ut tam infeste persecutionis instantie per fideles et devotos eiusdem ecclesie resistatur viriliter, ut ipsi, eorum elisa superbia, majestatis divine potentia prosternantur. Et ad hec tu, sicut filius benedictionis et gratie, prosecutionem negotii contra ipsos, una cum gentis tue equitum et peditum armatorum potenti comitiva et honorabili, assumpsisti, dirigente qui potest; personaliter cum gente ipsa in Siciliam transituris. Ut igitur eo ferventius huiusmodi negotium prosequaris, quo personam tuam et huiusmodi gentem tuam equestrem et pedestrem, tui consideratione, amplioribus gratiarum beneficiis fuerimus prosecuti; de omnipotentis dei misericordia, et beatorum Petri et Pauli apostolorum eius auctoritate confisi; et illa quam nobis Deus, licet immeritis, ligandi atque solvendi contulit potestate, tibi et omnibus de gente tua, vere penitentibus et confessis qui taliter procedendo interim, mortem corporalem incurreritis, et illis etiam qui perseveraverint in huiusmodi prosecutione negotii, quousque de predictis rebellibus habita fuerit generalis victoria et campestris, illam indulgentiam et veniam concedimus omnium peccatorum, que in generali concilio, transfretantibus in terre sancte subsidium est concessa. Huiusmodi quoque remissionis omnes volumus esse participes, iuxta quantitatem et qualitatem subsidii et devotionis affectum, qui ad idem negotium, auxilium, consilium, et favorem contra rebelles prestiterint supradictos. Ceterum per premissa non intendimus cuiquam beneficium absolutionis impendere a voto emisso de transfretando, vel crucis assumpte ad transfretandum personaliter in subsidium terre sancte quin transfretet personaliter congruo tempore, ut tenetur. Dat. Laterani xvj kal. maij, pontificatus nostri anno octavo (1302).
Dagli archivi del reame di Francia, J. 722, 4, suggellato a suggello di piombo pendente da fili di seta rossi e gialli. Nel suggello da un lato è scritto BONIFATIUS PP. VIII; dall’altro lato il tipo come al suggello del docum. XIV.
XXXVIII.
Karolus secundus, Dei gratia rex Jerusalem et Sicilie, Ducatus Apulie et principatus Capue, Provincie et Forcalquerii comes. Tenore presencium, notum facimus universis tam presentibus quam futuris, quod cum Illustris vir dominus Karolus, natus bone memorie francorum regis Illustris, Valesie (sic), Alansonis, Carnoti, et Andegavie comes, Carissimus filius noster, pro honore Sancte Romane matris Ecclesie atque nostro, in Sicilie Insulam contra ipsius ecclesie ac nostros Rebelles et hostes ad Bellicam prosecucionem se presencialiter conferat, eidem filio nostro presencium Tenore promictimus, quod cum Dompno Frederico de Aragonia ipsius occupatore Insule, hoste nostro, nulla pacis federa seu tractatus, eodem domino Karolo inscio, quamdiu ipse pro iamdicta prosecucione moram trabet in dictis partibus siculis, inihemus. In cuius nostre promissionis testimonium presentes licteras fieri et pendenti Majestatis nostre sigillo iussimus communiri. Data Neapoli per Bartholomeum de Capua militem, Logothetam, et Prothonotarium regni Sicilie, anno Dominj millesimo trecentesimo secundo, die quinto maij quintedecime Indictionis, regnorum nostrorum anno octavodecimo.
Dagli archivi del reame di Francia J. 511, 13, suggellato col gran suggello reale di Carlo II.
XXXIX.
Karolus secundus, Dei gratia rex Jerusalem et Sicilie, ducatus Apulie et principatus Capue, Provincie et Forcalquerii comes, Illustri viro domino Karolo, nato clare memorie Francorum Regis Illustris, Valesii, Alanzoni, Carnoti et Andegavie comiti, carissimo filio suo, vitam ilarem et gloriam triumphantem. Apparet maiorem esse clemenciam, que gravioris tollit iniquitatis offensam: ibi quidem miserentis suavitas proprie dicitur superexaltare iudicium, ubi delictum flagrantius miserationis lenitas abolet, et asperitatem pene merite, benignitas humane amabilitatis indulget. Sane, antiqui hostis instigante malicia, Siculorum gravis et periculosa commocio, contra Sacrosanctam Romanam Ecclesiam matrem nostram, clare memorie regem inclitum dominum patrem nostrum, et nos, in rebellionis culpam cecidit; sue debite fidelitalis nexibus enormiter abdicatis. Sicque successivis dissidiis aggregavit gravibus graviora, ut priori nocivo casui cumulata culpa continuate succederet, et in locum ... debite ... turbo et contumacia gravior adveniret: per que pena adaptata demeritis, in furore, non in judicii eorum, esset arguenda; protervia et audax prosumptio gravibus ... collidenda. Sed quia in omnibus subditorum nostrorum casibus atque culpis, quantum modeste possumus, et, licent (sic) imprompta, nobis est amica clemencia, et quo plus exceditur eo benignius nostra compassio, ipsorum casui libenter occurrimus ad sublevanda onera quibus eos peccati ... oppressit paterne caritatis instinctu benignius subvenimus.[358] Ecce quidem vobis, tamquam speciali filio et singulariter predilecto, qui personam nostram similitudinaria quadam ymagine presentatis, auctoritatem plenariam impertimur, quod Siculos ipsos universos et singulos, oberrantes in tenebris et deviantes in semita peccatorum, redeuntes a relegatione longinqua, et erroris devii fugata caligine cultum vere fidei amplectentes, ad gracie nostre sinum clementer recipere valeatis; omnesque culpas et offensas contra predictum dominum patrem nostrum et nos numerosa iteracione commissas, et penas eciam corporales et pecuniarias quas pro illis severitas juris indicit, ipsis universis et singulis clementer remittere et misericorditer relaxare ... ispsos ac heredes eorum, beneficio plene restitutionis in integrum, ad bona, honores, dignitates, et statum; ac infamiam, que ipsarum contagio eos aspersisse dinoscitur, totaliter abolendo. Et ut eorum reditus salutaris ad fidem, reparando plus offerat quam discessus ademerit luctuosus, prebemus vobis similem potestatem, ut ipsos universos et singulos, quam primum in effective agnicionis statu prefate fidei eos fruges emendacioris vite perduxerit, ab omnibus debitis et obbligacionibus descendentibus ex contractibus, gestionibus, officiis, amministracionibus, seu delictis quibus universitas eorum seu singulares persone nobis pro tempore retrohacto tenentur, et a culpis etiam quibus dampna plurima preiudicia et diminucionem patrimonii nostri incurrisse dinoscimur, possitis absolvere et perpetuo liberare. Et si eorum interesse putaverint, ad supputandam cuiuslibet ambiguitatis materiam, quam frequenter de facto saltem ingestus sollicite dubitacionis inducit, ad eorum requisicionis instanciam, generaliter et specialiter, ut petetur, pretactas remissiones, relaxationes, absoluciones, et liberaciones eis per Vos, ut premictitur, faciendes, sub titulo et sigillo nostro renovari de verbo ad verbum, sicut per vos facte fuerint, vel confirmari licterarum nostrarum inserto tenore, pro cautela petencium, faciemus. In cuius rei testimonium presentes licteras exinde fieri, et pendenti Maiestatis nostre sigillo iussimus communiri. Datum Neapoli, per Bartholomeum de Capua militem, Logothetam et Prothonotarium regni Sicilie, anno Domini millesimo trecentesimo secundo, die quinto maij, quintedecime indictionis, regnorum nostrorum anno octavodecimo.
Dagli archivi del reame di Francia. J. 511, 12, suggellato come il precedente.
XL.
Karolus secundus, Dei gratia rex Jerusalem et Sicilie, ducatus Apulie et principatus Capue, Provincie et Forcalquerii comes, universis tenorem presencium inspecturis tam presentibus quam futuris. Penarum metu plerique revocantur a devio; et largicione premii multi reducuntur ad bonum: personis igitur consideratis et causis, per interminacionem pene reprimendi sunt reprobi, vel ad recti lineam per[359] dulcedinem beneficentie provocandi. Sane si rebellibus Siculis eorumque fautoribus, propter illorum demerita et in peius semper adaucta flagicia, penalibus et repressivis pariter collidenda remediis deberentur, delictorum stipendia, vastitas, contricio, fames, et gladius, et ipsorum habitaculis herema solitudo. Ut tamen nostra clemencia eorum duriciem molliat, et beneficii gracia obliquas erroris semitas ad rectum tramitem veritatis adducat, magnifico viro domino Karolo, nato clare memorie Francorum Regis Illustris, Valesii, Alanzoni, Carnoti et Andegavie comiti, filio nostro carissimo, de quo singulariter sicut de nobis ipsis confidimus, potestatem concedimus, auctoritatem (auctoritate) presencium, quod ipse universitates singularesque personas Insule rebellis Sicilie, fautorum et fotorum rebellionis eiusdem, ad sinum nostre gracie possit clementer recipere; ac eis omnes culpas et offensas contra clare memorie dominum patrem nostrum et nos, quantacumque iteracione commissas, misericorditer relaxare: quodque Siculis ipsis et eorum fautoribus hostibus nostris, facere valeat de terris Insule prefate nostre Sicilie, concessiones seu donaciones in baroniis, castris, casalibus, alijsque bonis et Juribus, que tamen de nostro regali demanio non existant; ut per huiusmodi nostras tractaciones humanas ac gracias, eorumdem Siculorum fides, iam facta perfidia, non solum indurata se molliat, sed vere naturalitatis instinctus excitatus ab intimis ad obsequiorum nostrorum promptitudinem accensis affectibus recalescat. Datum Neapoli, per Bartholomeum de Capua, militem, Logotheam et Prothonotarium regni Sicilie, anno Domini millesimo trecentesimo secundo, die septimo maij, quintedecime inditionis, regnorum nostrorum anno octavodecimo.
Dagli archivi del reame di Francia. J. 511, 14, suggellato come i precedenti.
XLI.
Karolus secundus, Dei gratia rex, etc..... Universis tenorem presencium inspecturis tam presentibus quam futuris. Aborret a seculo nostro in alienis bonis fiscum nostrum de preda fore sollicitum, et luctum illicite querere in eo quod nequit racionabiliter obtinere. Sane auribus nostris nuper insonuit per aliquos dictum fore vulgariter, quod in aliegenarum bonis decedentium in regno Sicilie fiscus noster manus cupidas reprobe occupacionis extendit; quod et si sit veritati contrarium et a septa nostri temporis alienum, ad habundancioris tamen cautele suffragium, et ut de cordibus, veniencium maxime seu existencium in comitiva magnifici principis domini Karoli, nati clare memorie Francorum Regis Illustris, Valesii, Alanzoni, Carnoti et Andegavie comitis, filii nostri carissimi, omne circa hoc dubitacionis et suspicionis scrupulum auferamus, in verbo majestatis regie promictimus firmiter tenore presencium, quod si aliquos vel aliquem de comitiva predicta in toto regno[360] nostro Sicilie ultra farum vel citra, testatos vel intestatos mori contigerit, nichil Juris, consuetudinis vel, ut proprius loquamur, abusus in bonis eorum vendicabimus aut petemus, nec vendicari, peti, occupari aut retineri per aliquos vel aliquem officiales aut subiectos nostros quomodolibet patiemur; immo apponemus efficaciter presidii nostri partes, qualiter bona eorumdem decedencium ad heredes institutos vel legitimos seu executores ipsorum perveniant, contradictione quacumque illicita quiescente. In cujus rei testimonium presentes licteras exinde fieri, et pendenti majestatis nostre sigillo iussimus communirj. Data Neapoli, per Bartholomeum de Capua militem, Logothetam et Prothonotarium regni Sicilie, anno Dominj millesimo trecentesimo secundo, die octavo maij, quintedecime Indictionis, regnorum nostrorum anno octavodecimo.
Dagli archivi del reame di Francia, J. 511, 15, suggellato come i precedenti.
XLII.
Karolus secundus, Dei gratia rex Jerusalem et Sicilie, ducatus Apulie et principatus Capue, Provincie et Forcalquerii comes. Magnifico principi domino Karolo, nato clare memorie Francorum regis, Illustris Valesij, Alanzoni, Carnoti et Andegavie comiti, filio nostro carissimo, vitam ylarem et gloriam triumphantem. Ex paterne caritatis affectu, contemplantes in vobis ymaginem et dulcedinem pariter filialem, nec minus advertentes virtutes et gracias quibus vos providencia divina dotavit, inducimur de persona vestra confidere quantum de nobis ipsis possumus cogitare. Hujus itaque consideracionis intuitu, vos Capitaneum generalem in Insula nostra Sicilie, ac militaris nostre gentis equestris et peditis statuendum duximus auctoritate presencium; circa eorum execucionis effectum merum vobis et mixtum Imperium concedentes. Sic igitur in exequendis eisdem salutis auctor, director operis, et tocius boni propositi consumator, actus vestros in via prosperitatis et salutis optate dirigat, vobisque brachio sue benignitatis assistat, quod per ministerium vestrum operosum et efficax, in partibus siculis belli dissidio vastatis et pressis pacem prebeat, solacium quietis adducat, ut ruine reparacione secuta vobis perpetuus sit honor et gloria, statui nostro reparacio placida, et nostris subiectis et subditis diversis oneribus oppressis ab hactenus consolacio fructuosa. Datum Neapoli, per Bartholomeum de Capua, militem, Logothetam, et Prothonotarium regni Sicilie, anno Domini millesimo trecentesimo secundo, die nono maij, quintedecime Indictionis, regnorum nostrorum anno octavodecimo.
Datone avviso per altro spaccio, Universibus presentes licteras inspecturis fidelibus et devotis suis; conchiudendo: mandamus quatenus eidem filio nostro, in omnibus que ad predictum Capitanie generalis officium, tamquam persone nostre devote parcatis; et efficaciter[361] intendatis. Nos enim penas et Banna que ipse tulerit, rata gerentes et firma, ea per eum volumus a transgressoribus irremissibiliter extorqueri. Datum etc.
Dagli archivi del reame di Francia, J. 511, 16, suggellati come i precedenti.
XLIII.
Karolus secundus, Dei gratia, etc. Tenore presencium notum facimus universis ipsarum seriem inspecturis, quod nos de magnifico principe domino Karolo bone memorie Illustris Regis Francorum genito, Alanzoni (sic), Valesij, Carnoti, et Andegavie comite, filio nostro carissimo, tamquam de nobis ipsis plenarie confidentes, damus ei auctoritate presencium liberam potestatem quod ipse nostro nomine possit inire, tractare, facere, et firmare concordiam atque pacem cum Frederico de Aragonia, occupatore Insule nostre Sicilie, hoste nostro; prout scilicet idem comes instructus est per certa nostra capitula sub nostro sigillo exinde sibi data. In cuius rei testimonium et cautelam, presentes nostras licteras exinde fieri, et pendenti Majestatis nostre sigillo iussimus communiri. Data Neapoli, per Bartholomeum de Capua militem, Logothetam et Prothonotarium regni Sicilie, anno Domini millesimo trecentesimo secundo, die decimo maij, quintedecime indictionis, Regnorum nostrorum anno octavodecimo.
Dagli archivi del reame di Francia, J. 511, suggellato come i precedenti. È scritto tutto della stessa mano con cui è supplito il nome di Bartolomeo di Capua negli altri diplomi della medesima data di maggio 1302, che nel rimanente sono d’altra scrittura. Da ciò è da argomentare, che il ministro di Carlo II non affidasse ad altri la copia di questo segretissimo diploma.
XLIV.
DOMPNE FREDERIC DE CICILIA.
Ges per guerra non chal aver consir:
Ne non es dreiz de mos amis mi plangna,
Ch’ a mon secors vei mos parens venir;
E de m’onor chascuns s’esforza e s’ langna
Perch’ el meu nom maior cors pel mon aia.
E se neguns par che de mi s’estraia,
No l’en blasmi che almen tal faiz apert
Ch’onor e prez mos lignages en pert.
Pero el reson dels Catalans auzir
E d’ Aragon puig far part Alamagna;
E so ch’enpres mon paire gent fenir:
Del rengn’ aver crei che per dreiz me tangna,
[362]E se per so de mal faire m’assaia
Niguns parens, car li crescha onor gaia,
Bem porra far dampnage a deschubert,
Ch’en altre sol non dormi nim despert.
Pobble, va dir a chui chausir so plaia
Che dels Latins lor singnoria m’apaia;
Per que aurai lor e il me per sert;
Mas mei parens mi van un pauc cubert.
RESPONSIVA DEL COND’EN PUNA.
A l’onrat rei Frederic terz vai dir
Q’a noble cor nos taing poder sofragna,
Peire comte; e pusc li ben plevir
Che dels parenz ch’aten de vas Espagna
Secors ogan non creia ch’ a lui vaia,
Mas en estiu fasa cont chels aia,
E dels amics; e tegna li oil ubert
Ch’els acoilla pales e cubert.
Ne nos cuig ges ch’ el seus parenz desir
Ch’el perda tan ch’ el regne no il remagna:
N’el bais d’ onor per Franzeis enrechir:
Ch’en laisaran lo plan e la montagna.
Confundal Deus e lor orgoil decaia:
Pero lo rei e Cicilian traia
Onrat del faitz, che l poublat el desert
Defendon ben da chosion apert.
Del gioven rei me plaz can non sesmaia
Per paraulas, sol qa bona fin traia
So ch’el paire chonquis a lei de sert,
E si ’l reten, tenremlen per espert.
Dalla Biblioteca Laurenziana di Firenze, Pl. XLI, Cod. XLII, pag. 63.
L’ortografia di questo Ms., la quale non si dee mutar certamente da noi, porta a leggerlo con la pronunzia italiana, più tosto che con la francese.
DON FEDERIGO DI SICILIA.
«Uom non s’affanni a cagion di guerra: nè fia ch’io mi dolga degli amici, quando veggo i congiunti muovere al mio soccorso; i soggetti affaticarsi e anelare, perchè il mio nome s’esalti nel mondo. E se avvi chi si discosta da me, nol biasimo quando, a faccia scoperta, si fa a menomare il nome e’l pregio della mia schiatta. Pur son io quel che può far sentire fino in Lamagna le geste de’ Catalani e degli Aragonesi; son io che posso compier l’impresa egregiamente cominciata dal genitore; mio è di ragione il regno. Ma se v’ha nella mia schiatta chi mi[363] voglia male per ciò, e ne speri aumento d’onori e di prosperità, nessuno gli vieta d’offendermi apertamente; in questo suolo io dormo, in questo io voglio sempre. Or il sappia chi il voglia, mi son sospetti un poco, i parenti; ma piacemi la signoria de’ Latini: sia che sia, io avrò i Latini; ed essi, me.»
RISPOSTA DEL CONTE D’EMPURIIS.
«All’illustre re Federigo III fa intendere, o conte Pietro, che non s’addice a nobil animo perder possanza. Il creda a me, non avrà per ora alcun soccorso da’ parenti e dagli amici che attende di Spagna; ma confidi di vederli alla state vegnente; e tenga ben gli occhi aperti come accoglierli in palese e in segreto. Nè pensi che i suoi parenti voglian fargli perder tanto, che non gli resti il regno; e vogliano abbassar lui per aggrandire i Francesi. Lasceran questi il piano e il monte. Che Iddio li confonda e fiacchi il loro orgoglio! Che faccia uscir con onore il re e’ Siciliani; e li regga a difendere virilmente città e campagne. Piacemi del giovin re, che nulla si sgomenta a parole, e tira dritto a conservar la conquista, leggittima certo, del padre. E s’ei la manterrà, si che l’avremo per valentuomo.»
Questi due serventesi di Federigo d’Aragona, secondo di tal nome tra i re di Sicilia, e del conte Ugone de Empuriis, sono da gran tempo conosciuti, son citati dal Crescimbeni e dal Quadrio, e se ne legge qualche squarcio nelle raccolte di poesie provenzali, e segnatamente in quella di Raynouard, t. V, p. 113 e 154. Niuno li ha pubblicato per intero, perchè si è disperato dell’intelligenza di alcuni versi. Io n’ebbi, son or parecchi anni, una copia tratta dalla Biblioteca Laurenziana; e ne capii appena quanto bastò ad accendere la curiosità, senza poter mai, nè da me solo, nè con aiuto altrui, venire a capo di diciferarli. Ne debbo adesso la interpretatone a M. Fauriel dell’Accademia delle Iscrizioni e Lettere di Francia, chiaro d’ingegno e di sapere, e verso me cortesissimo.
Io credo che meritino un posto tra i documenti della istoria, queste due epistole in rima, non molto colorite d’immagini nè di ornamenti poetici, le quali confermano e rischiarano quanto noi sappiamo delle condizioni in cui si trovò Federigo nel salire al trono di Sicilia. Egli stesso le spiega nel primo serventese; e nel secondo ne riferisce altri particolari Ugone de Empuriis, fatto poi conte di Squillaci; che fu tra i primi cavalieri spagnuoli che si gittarono dalla parte di Federigo e forse il consigliarono a quella impresa; e lo servi fedelmente in corte e in guerra; e lo salvò nella battaglia del Capo d’Orlando, allorchè sconfitti i nostri, tramortito il re, si pensava di consegnar la sua spada ai nemici. Il carattere di Federigo qual si ritrae dalle più accurate indagini storiche, ben risponde a’ concetti de’ suoi versi. Egli ha per uno scherzo la guerra; non porta rancore a’ suoi nemici aperti; sa di emesso[364] in un’ardua impresa, ma piena di gloria; fida nello zelo dei Siciliani; si lagna con disinvoltura del fratello, senza però nominarlo; e conchiude con esprimer felicemente la costanza del suo proposito. Il suo cortigiano, anzi amico, crede bene al coraggio di Federigo, ma non par sicuro della sua abilità; spera che Giacomo non voglia perder del tutto suo fratello; e confida al par che Federigo negli aiuti degli avventurieri spagnuoli, che per altro non aspetta si pronti. Le quali particolarità ben s’accordano con ciò che ho narrato dal capitolo XIV al XVIII, nè è mestieri altro comento.
Noterò solamente che in questi versi si allude a due classi di parenti di Federigo. La prima è de’ parenti che si attendeano di Spagna, insieme con gli amici; e si riferisce manifestamente ad alcuni tra i principi del sangue reale d’Aragona, di Maiorca, e anche di Castiglia; che tra legittimi e bastardi non ce n’era penuria. Forse Federigo sperava ancora di aver seco il suo minor fratello Pietro, che mori di lì a poco nella guerra contro Castiglia; Dante il credea erede della virtù, come del nome del padre:
E se re dopo lui fosse rimaso
Lo giovinetto che retro a lui siede,
Ben andava il valor di vaso in vaso.
Purg., c. 7.
La seconda classe di parenti, non ostante il velo del numerò plurale, si riduce a un solo: al re Giacomo. Il conte Pietro, che Ugone de Empuriis prega di parlare in suo nome a Federigo, par che sia Pietro Lancia, fatto conte di Caltanissetta nel dì della coronazione di Federigo, e figliuolo di quel Corrado Lancia ch’era il favorito del re. Quanto ai soccorsi di Spagna, non sembri strano che si aspettassero non ostante la opposizione di Giacomo; perchè i cavalieri catalani e aragonesi avean dritto di prender le armi per cui lor fosse a grado: e Federigo in fatti sempre tenne molte pratiche col baroni e con le città che ubbidivano al fratello, e sperò non solo di averne soldati di ventura in suo aiuto, ma fin anco di far che la nazione trattenesse Giacomo dal muover guerra alla Sicilia.
Finalmente io penso che si possa precisamente indicare la data di queste poesie. Non furono scritte avanti il gennaio 1296, perchè Federigo, che vi è chiamato re, non fu eletto principe della Sicilia che il 12 dicembre 1295; nè ebbe il titolo di re che il 15 gennaio seguente. Non furono scritte dopo la state del 1296, perchè allora Giacomo si dichiarò contro il fratello; e nemmeno nella stessa stagione o poco innanzi, perchè Ugone de Empuriis accerta il re che non avrebbe i soccorsi di Spagna prontamente, ma si nella state. La data si dee ritirar dunque ai principi dell’anno 96: e se il conte Pietro è veramente Pietro Lancia, (chè noi non sappiamo d’altro conte Pietro che allor fosse alla corte di Federigo), i limiti allora si ravvicinano; perchè Pietro Lancia fu fatto[365] conte nelle feste, della coronazione, in fin di marzo 1296. Appunto a questo tempo si dovrebbero riferire i due componimenti. Pietro d’Aragona poetò in provenzale, com’ era uso nelle corti della Francia meridionale e degli stati cristiani della Spagna; Costanza fu figliuola di Manfredi, letterato e poeta; la educazione di Federigo lor figlio non potea dunque esser volgare: e di fatto nol fu; e venne a compirsi in Sicilia, mentre la rivoluzione esaltava tutti gli animi, e rinvigoriva gl’ingegni. Indi è probabilissimo, che questo giovane di venticinque anni, cresciuto nello studio delle lettere, come mise il piè su i gradini d’ un trono pien di gloria e di pericoli, nella alacrità del nuovo acquisto dettasse que’ versi, che noi pongono certo tra i migliori poeti, ma fan fede della cultura del suo ingegno, e della nobiltà del suo animo.
XLV.
Cappella di S. Maria l’Incoronata.
Sopra la porta di questa cappella si vede dipinta a fresco per opera d’antico pennello la coronazione del re Pietro d’Aragona, e della regina Costanza sua moglie, fatte in questa cappella nel 1282. Nella parte destra si vede il re genuflesso avanti il vescovo (e fu quel di Cefalù, poichè l’arcivescovo di Palermo Pietro Santafede s’era portato in Roma ambasciatore del regno al Pontefice Martino IV in discolpa de’ Siciliani dopo il vespro siciliano, come scrive il Pirri, in Cronologia Reg. fog. 61). Assiso il prelato in una sedia avanti i gradini dell’altare in abito pontificale, mette in capo al re la corona di Sicilia, alla presenza di alcuni prelati assistenti. Sotto il re si legge: Petrus Aragonius. Nella sinistra parte si vede la regina Costanza sua moglie che riceve la corona dal vescovo in piedi, coll’assistenza di alcuni prelati. Sotto la regina si legge: Regina Constantia. La diversità del re in ginocchio e il vescovo sedente, e di Costanza sedente e il vescovo in piedi, fu notata dal Gualterio in tabul. fog. 95: «Petro genuflexo a sedente archiepiscopo corona imponitur: Constantia sedente ab assurgente datur.» Il p. Amato, nel lib. 4, cap. 6, fog. 49, riflette sopra questa diversità: «Constantia Sueva Siciliae domina sedet: vir Petrus Aragonensis flexis genibus; primam stans Praesul, secundum coronat sedens.»
Nella parte superiore si vedon l’armi del re Pietro. Sotto il limitare della finestra si legge scolpito:
HIC REGI CORONA DATVR.
Sopra la finestra vi sono a pennello questi versi:
FILIA MANFREDI REGIS COSTANTIA PETRO
HIC SVA CONSORTI REGIA SCEPTRA DEDIT.
Nella parte destra si leggono i seguenti:
SPONSVS VT EST TEMPLI DEVS ISQVE HOMO VIRGINE NATVS
SIC AQVILAE GEMINVM CERNIS INESSE CAPVT,
Nella parte sinistra:
CVM SIS DIVORVM ALTRIX REGVM ET REGIA SEDES
ET MERITO REGNI DICTA PANORME CAPVT.
In un marmo sopra la finestra che sovrasta alla porta, si legge questa iscrizione:
HIC OLIM SICVLO CORONA REGI
SACRIS E MANIBVS DABATUR VNCTIO
HVNC MVNDI DOMINA DEIQVE MATER
HIC CRISTVS COLITVR PIVS CORONANS
ET QVISQVIS BONA FABRICAI LEGAVIT
TEMPLI MAGNIFICI TVI PANORME
DIVINA PRECE SEV HOSTIA IVVATVR.
ANNO REPARATI ORBIS MDXXV IDIBVS SEPTEMBRIS
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Trattando dell’interno di questa cappella l’autore scrive:
Nella volta della tribuna si osserva dipinto a fresco l’Eterno Padre sedente in trono, che con la destra corona il re Pietro d’Aragona, e con la sinistra Costanza, amendue genuflessi. A fianco del re si vede S. Pietro Apostolo in piedi, che tien con la destra le chiavi, con la sinistra un libro aperto col motto: Petrus ero Petro Regi Siculorum. A lato della regina si vede S. Paolo Apostolo, che ha nella destra la spada, nella sinistra un libro aperto; ma non può leggersi il motto cancellato dall’antichità.
Non senza dispiacere considerano gli amatori dell’antichità, che doveasi conservare, ec.
Da’ Mss. del Mongitore.—Cattedrale di Palermo, ec.—Nella Bibl. com. di Palermo, Q. q. n. 10, fog. 675.
FINE DEI DOCUMENTI.
CAPITOLO XIII. | |
Naufragio dell’armata al ritorno in Sicilia. Giacomo coronato re. Capitoli del parlamento di Palermo; privilegi ai Catalani. Fazioni di guerra. Supplizio d’ Alaimo di Lentini. Agosta occupata da’ nemici, e da’ nostri ripresa. Seconda vittoria natale nel golfo di Napoli. Trattato della liberazione di Carlo lo Zoppo. Passaggio di re Giacomo sopra il reame di Napoli. Tregua di Gaeta. Pratiche di pace generale e crociata, conchiuse a danno della Sicilia. Morte di Alfonso re d’Aragona, al quale succede Giacomo. Novembre 1285 a giugno 1291 | Pag. 1 |
CAPITOLO XIV. | |
Primordi del regno di Giacomo in Aragona. Raffermata amistà tra Sicilia e Genova. Per quali ragioni allenava la guerra. Fazioni di Ruggier Loria nel reame di Puglia e in Grecia. Giacomo si volge alla pace. Opinione pubblica in Sicilia; patriotti, Federigo d’Aragona, fazione servile; primi oratori al re. Primo trattato di Giacomo con re Carlo. Celestino V ratifica la pace. Più vigorosamente la procaccia Bonifazio VIII. Pratiche delle corti di Roma e d’Aragona con l’infante Federigo. Nuovi oratori a re Giacomo. Federigo chiamato al regno di Sicilia. Vana prova di papa Bonifazio a impedirlo. Settembre 1291 a gennaio 1296 | 44 |
CAPITOLO XV. | |
Coronazione di Federigo II di Sicilia. Novelle costituzioni, per le quali è ridotta, nel parlamento gran parte della sovranità. Federigo porta la guerra in Calabria. Principi della discordia tra il re e Loria. Presa di Cotrone; fazioni in Terra d’Otranto; combattimento del ponte di Brindisi. Papa Bonifazio spinge Giacomo contro il fratello. Ambasceria di Giacomo. Parlamento di Piazza. Battaglia d’Ischia. Viene Giacomo a Roma. Chiama a sè Loria. Ribellione[368] di costui da Federigo. La regina Costanza il porta via di Sicilia, con Giovanni di Procida. Primavera del 1296 alla primavera del 1297 | 78 |
CAPITOLO XVI. | |
Ribellione de’ feudi dell’ammiraglio in Sicilia. È spenta, ed egli sconfitto da’ nostri sotto Catanzaro. Preparamenti di Giacomo e di Federigo. Il primo sbarca sulla costiera settentrionale dell’isola; passa ad assediar Siracusa. Fatti della guerra guerriata, che s’accende in Sicilia. Giovan Loria vinto e preso nello stretto di Messina; sciolto l’assedio di Siracusa; e Giacomo torna in Napoli e in Catalogna. Nuovo passaggio di lui in Sicilia Parlamento di Messina. L’armata siciliana debellata dalla catalana a capo d’Orlando. Estate del 1297–4 luglio 1299. | 109 |
CAPITOLO XVII. | |
Giacomo, lasciato Roberto in Sicilia, tornasi a Napoli, indi in Catalogna. Ambo le parti si apparecchiano a continuare la guerra in Sicilia. Dansi a Roberto varie città; è presa Chiaramonte; altre resistono. Tradimento di alcuni cittadini che chiamano in Catania i nemici. Effetti di questo nell’isola. Nuovi passi di papa Bonifazio. Sbarco del principe di Taranto. Battaglia della Falconarìa, ov’egli è sconfitto e preso. Inganno e combattimento di Gagliano. Luglio 1299 a febbraio 1300 | 143 |
CAPITOLO XVIII. | |
Forze di Federigo e de’ nimici, e pratiche di Bonifazio. Trattato di Carlo II con Genova. Pratiche di lui in Sicilia. Armamenti navali; battaglia di Ponza; trattamento dei prigioni siciliani, e morte di Palmiero Abate. Continua con poco frutto la guerra. Naufragio della flotta di Roberto. Congiura contro la vita di Federigo. Blocco di Messina; orribil carestia, e virtù del re. Tregua. Dalla primavera del 1300 a quella del 1302 | 175 |
CAPITOLO XIX. | |
Carlo di Valois a Firenze, indi in Sicilia. Deboli effetti delle sue armi. Assedio di Sciacca. Postura e disposizioni di Federigo. L’esercito nemico si consuma sotto Sciacca. Proposte di pace e preliminari di Caltavuturo; abboccamento[369] tra i principi; trattato di Caltabellotta. Esecuzione di quello. Convito del Valois a Messina. Riforma de’ capitoli della pace, per voler di Bonifazio. Federigo, rimaso re di Trinacria, sposa Eleonora figlia di re Carlo. Principi della Compagnia di Romania. Settembre 1301 alla primavera del 1303 | 213 |
CAPITOLO XX. | |
Conchiusione. Qual era la Sicilia prima del vespro; qual ne divenne; qual rimase. | 236 |
APPENDICE. | |
Esposizione ed esame di tutte le autorità istoriche sul fatto del vespro | 251 |
1270. | 3 febbraio.—Carlo I agli stratigoti di Salerno. Salvocondotto per Landolfina moglie di Giovanni di Procida.—Documento I. |
1278. | 13 agosto.—Carlo I al giustiziere di Basilicata. Sul corso de’ nuovi carlini e mezzi carlini d’oro; e la elezione de’ giudici e maestri giurati.—Docum. II. |
1279. | 12 agosto.—Carlo I. Cedola della distribuzione della nuova moneta bassa per le terre della Sicilia oltre il Salso.—Docum. III. |
1282. | 3 aprile.—Confederazione tra le città di Palermo e di Corleone.—Docum. IV. |
— | 13 aprile.—Epistola de’ Palermitani ai Messinesi, perchè seguano la rivoluzione.—Docum. V. |
— | 9 maggio.—Carlo I a Filippo l’Ardito. Significa la rivoluzione della Sicilia e chiede aiuti di gente.—Docum. VI. |
— | ........—I Siciliani al collegio de’ cardinali e al papa. Giustificano la rivoluzione.—Docum. VII. |
— | 19 (agosto?).—Pietro d’Aragona a Eduardo I d’Inghilterra. Avviso del prossimo suo passaggio in Sicilia.—Docum. VIII. |
— | 29 settembre.—Carlo I al capitano dal Faro sino ai confini degli stati della Chiesa. Ragguaglio della ritirata da Messina.—Docum. IX. |
1283. | 8 febbraio.—Pietro d’Aragona al giustiziere Ruggiero[370] di Mastrangelo. Su la immunità degli ecclesiastici dalla imposta deliberata poco innanzi nel parlamento di Catania.—Docum. X. |
1283. | 15 febbraio.—Pietro d’Aragona al comune di Messina. Enuncia le franchige accordate a tutta la Sicilia nel recente parlamento di Catania.—Docum. XI. |
— | 24 settembre.—Carlo principe di Salerno ad Alberico de Verberiis. Descrizione del vasellame e minutaglie d’argento, impegnati dal principe in poter di mercatanti romani.—Docum. XII. |
— | 27 settembre.—Carlo principe di Salerno al capitano di Geraci, ec. Donazione di piccioli poderi a’ soldati che avean difeso il castel di Sperlinga nella rivoluzione di Sicilia.—Docum. XIII. |
1284. | 9 gennaio.—Martino IV a Filippo l’Ardito. Risposta a un’ambasceria su l’impresa d’Aragona.—Docum. XIV. |
— | 29 marzo.—Carlo principe di Salerno al castellano del castel dell’Uovo di Napoli. Ordina di liberare Arrigo Rosso da Messina.—Docum. XV. |
— | 9 aprile.—Carlo principe di Salerno ai capitani di parte Guelfa in Firenze. Perchè faccian mandare dalla città di Pisa le promesse galee per la impresa di Sicilia.—Docum. XVI. |
— | 19 maggio.—Carlo principe di Salerno a Catello de’ Catelli e Gentile da San Miniato. Perchè affrettin la leva di gente in Lombardia.—Docum. XVII. |
— | 14 giugno.—Carlo I al comune di Pisa. Ragguaglio della sconfitta del principe di Salerno, e del nuovo armamento del re contro la Sicilia.—Docum. XVIII. |
— | 7 agosto.—Carlo I al giustiziere di Capitanata. Faccia mozzare il piè a’ disertori Saraceni.—Docum. XIX. |
— | 10 agosto.—Carlo I a’ Siciliani. Proclamazione in cui si fa nota la elezione di Roberto conte d’Artois a vicario generale in Sicilia con pien potere.—Docum. XX. |
Detto.—Carlo I al conte d’Artois. Su lo stesso argomento.—Docum. XXI. | |
— | 19 agosto.—Carlo I a parecchi giustizieri. Faccian mozzare il piè sinistro ai disertori dell’armata.—Docum. XXII. |
— | 5 ottobre.—Carlo I al giustiziere di Terra di Bari. Toccando i capi più importanti della guerra di Sicilia, richiede nuovi sussidi de’ popoli a continuarla.—Docum. XXIII. |
1285.[371] | 6 gennaio.—Carlo I a Filippo l’Ardito. Lo prega a prender sotto la sua tutela le contee d’Angiò, Provenza e Forcalquier.—Docum. XXIV. |
1290. | 27 dicembre.—Roberto conte d’Artois a Giacomo d’Aragona. Sopra alcune trasgressioni alla tregua di Gaeta.—Docum. XXV. |
1299. | 7 marzo.—Carlo II ratifica i patti fermati col capitano per Federigo di Aragona in castell’Abate.—Docum. XXVI. |
— | 4 aprile.—Carlo II ratifica i patti fermati con gli almugaveri di Castell’Abate.—Docum. XXVII. |
— | 16 aprile.—Carlo II al vicario di Principato. Sopra la restituzione di alcuni beni a Tommaso di Procida.—Docum. XXVIII. |
— | 25 giugno.—Carlo II al castellano di Santa Maria del Monte. Che gli mandi liberi i figli di Manfredi.—Docum. XXIX. |
Detto.—Carlo II a Guglielmo de Pontiaco. Su lo stesso argomento.—Docum. XXX. | |
— | 24 luglio.—Carlo II. Elezione di Roberto suo figliuolo a vicario generale in Sicilia con larga autorità.—Docum. XXXI. |
— | 8 dicembre.—Carlo II a Filippo l’Ardito. Gli dà avviso della sconfitta e prigionia del principe di Taranto, e gli chiede nuovi soccorsi.—Docum. XXXII. |
1300. | 16 aprile.—Carlo II. Procura a’ suoi legati per trattare con la Repubblica di Genova.—Docum. XXXIII. |
— | 6 maggio.—Carlo II. Capitoli dell’accordo tra il re e Genova.—Docum. XXXIV. |
— | 20 giugno.—Carlo II all’ammiraglio Ruggier Loria. Gli dà pien potere a fermar quantunque patti con città o individui della Sicilia che volessero tornare in fede.—Docum. XXXV. |
— | 20 luglio.—Carlo II. Ratifica una concessione feudale fatta da Roberto vicario a 11 ottobre 1299, in favore di Virgilio Scordia da Catania.—Docum. XXXVI. |
1302. | 16 aprile.—Bonifazio VIII. Accorda le indulgenze per la guerra di Sicilia.—Docum. XXXVII. |
— | 5 maggio.—Carlo II a Carlo di Valois. Promette che senza saputa sua non farà pace con Federigo d’ Aragona.—Docum. XXXVIII. |
Detto.—Carlo II a Carlo di Valois. Facoltà di perdonare a’ Siciliani.—Docum. XXXIX. | |
1302.[372] | 7 maggio.—Carlo II. Proclamazione su lo stesso argomento.—Docum. XL. |
8 maggio.—Carlo II a Carlo di Valois. Sul dritto di albinaggio verso i Francesi dell’esercito del Valois.—Docum. XLI. | |
9 maggio.—Carlo II a Carlo di Valois. Lo elegge capitan generale in Sicilia.—Docum. XLII. | |
10 maggio.—Carlo II a Carlo di Valois. Gli dà autorità a fermar pace con Federigo.—Docum. XLIII. |
Serventesi del re Federigo II di Sicilia e del conte de Empuriis (marzo 1296?).—Docum. XLIV.
Descrizione di alcune antiche dipinture nella chiesa di S. Maria Incoronata in Palermo, tratta da un MS. del canonico Mongitore.—Docum. XLV.
FINE DELL’INDICE.
[1] Bart. de Neocastro dice Protontino, ch’era grado nell’armata, seguente all’ammiraglio, come il mostrano tre diplomi del 16 agosto 1299, per Pietro Salvacossa. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1299, A, fog. 170, a t. e 171.
[2] Bart. de Neocastro, cap. 101.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 8.
Il Montaner, che nella sua memoria confuse orribilmente la cronologia di questo periodo del regno di Giacomo in Sicilia, porta la tempesta sofferta dall’armata siciliana nel 1288 o 1289, con manifesto anacronismo.
[3] Neocastro e Speciale, loc. cit.
Anon. chron. sic., cap. 47.
[4] Bart. de Neocastro, cap. 102, nel quale si legge che Giacomo toglier volle, se alcuna ve n’era, le oppressioni del popolo.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 9.
Montaner, cap. 148.
Geste de’ conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.
Anon. chron. sic., cap. 47.
La data delle costituzioni è scritta ne’ nostri capitoli del regno, 5 febbraio decimaquarta Ind. 1285, contandosi gli anni dal 25 marzo, onde quel giorno risponde al 5 febbraio 1286 del calendario comune.
[5] Capitoli del regno di Sicilia.—Jacobus, cap. 1 a 7, 9, 44.
[6] Ibid., cap. 15, 16, 17, 18, 27, 45. Le cause col fisco si doveano spedire anche in due mesi. Pel cap. 42 fu rimessa ai possessori la terza parte dei furti, che si appropriava il fisco. Pel 43 permessi con qualche eccezione gli accordi tra accusatori e accusati. Pel cap. 23 fu proibito al fisco di sperimentare i suoi dritti su i feudi con azione possessoria, ma si stabilì che il facesse in via di petitorio, che non eccedesse i patti nell’agire contro i mallevadori, non eccedesse le leggi contro gli scopritori di qualche tesoro.
[7] Ibid., cap. 8, 10, 11, 12, 13, 22, 24, 25, 26, 28, 30. Pel 29 fu abrogato l’obbligo di pascere i porci nelle foreste del re.
[8] Ibid., cap. 14, 19, 20, 21.
[9] Ibid., cap. 31, 33, 39. Pel cap. 32 si stabilì che i balì de’ feudatari d’età minore fossero scelti tra i congiunti, e rendesser conto al pupillo. Pel 34 che i suffeudatari non servissero alla curia. Pel 35 che i suffeudi vacanti si riconcedessero dal barone. Pel 36 che i vassalli de’ baroni non fossero costretti dalla curia ad esercitare ufici. Pel 37 che non si mandassero maestri giurati della curia nelle terre feudali o ecclesiastiche.
[10] Ibid., cap. 38.
[11] Ibid., cap. 46 e 47.
[12] Ibid., cap. 40 vietati i servigi che esigeano i castellani; cap. 41, altri provvedimenti da reprimere l’insolenza de’ soldati delle castella.
[13] Ibid., al cap. 48, si stabiliron le pene contro i ministri e gli oficiali trasgressori delle costituzioni. Il cap. 49 risguarda la malleveria o l’imprigionamento degli accusati. I cap. 50, 51, 55 pel trattamento de’ prigioni; 52 per gli accordi tra accusatori ed accusati; 53 e 54 su l’asportazione delle armi; 56 tolta l’istanza pubblica pei delitti minori; 57 pei dritti sul ricevuto delle tasse; 58, 59, 60, 61, 63, altri provvedimenti per la riscossione delle tasse; 62 pei terragi da pagarsi al fisco o ai baroni; 64 per le foreste e bandite.
[14] Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 75.
[15] Diploma dato di Palermo a 12 febbraio decimaquarta Ind. 1285 (1286), ne’ Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 1, fog. 147, pubblicato dal Buscemi, Vita di Giovanni di Procida, docum. 6.
[16] Mss. citati, fog. 149, diploma del 18 febbraio 1285 (1286).
[17] Mss. citati, fog. 150, diploma del 22 febbraio.
[18] Mss. citati G. 12, diploma del 22 marzo 1258.
[19] Ibid. G. 1, fog. 156, diploma del 17 luglio 1288. Questi tre diplomi di Giacomo son trascritti in uno di Federigo II, pubblicato dal Testa nella Vita di lui, docum. 8.
[20] Bart. de Neocastro, cap. 105, 106.
[21] Raynald, Ann. ecc., 1286, §. 6 a 9.
[22] Bart. de Neocastro, cap. 101.
Montaner, cap. 116, con l’errore che Giacomo fosse ito a questa impresa.
[23] Diploma del 22 agosto 1286, nell’Elenco dello pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 16.
[24] Montaner attesta, a cap. 149, che Sarriano fosse cavaliere di Sicilia.
Niccolò Speciale, lib. 2, cap. 15, porta questa spedizione del Sarriano con anacronismo, rimandandola appresso la tregua di Gaeta.
[25] Bart. de Neocastro, cap. 102, 103, 104.
Diploma del 27 giugno 1286, per la catena del porto di Napoli, nel citato Elenco, tom. II, pag. 15.
Montaner, cap. 109, 113, 116, 148, 149, 152, il quale confondendo i tempi, pur narra questi fatti con tali minuzie che si riconoscono di leggieri, e sen trae maggior fede al racconto del Neocastro.
[26] Bart. de Neocastro, cap. 107, 108, 109.
Che Giovanni di Mazarino fosse chiarito reo di maestà, confermasi ancora da un diploma di re Giacomo, dato di Messina a 5 agosto 1288, nella Bibl. com. di Palermo, Mss. Q. q. G. 3, fog. 6, col quale son conceduti al nobile Bernardo Milo una torre e un podere presso Trapani, confiscati a questo Giovanni. Per un altro diploma del 30 luglio dello stesso anno fu conceduto ad un Villanuova il casale di Mazarino, Mss. citati, Q. q. G. 1, fog. 158.
[27] Diplomi del 17 dicembre 1285 e 25 maggio 1286, nell’Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 12 e 13.
[28] Bart. de Neocastro, cap. 110.
I Guelfi trovavan sì tiepido papa Onorio in tale impresa, che Giovanni Villani, scrittor di quella fazione, nel biasima apertamente, lib. 7, cap. 113. E pur noi lo veggiamo sì duro contro casa d’Aragona ne’ trattati della liberazione di Carlo lo Zoppo.
[29] Bart. de Neocastro, cap. 110.
Diplomi del 27 dicembre 1286, 15 aprile, 20 aprile, e 15 maggio 1287, nel citato Elenco, tom. II, pag. 18 e 19.
[30] Questo sbarco a Malta si legge nell’or citato diploma del 15 maggio 1287, con l’altra circostanza che la terra d’Eraclea e altre mandarono a offrirsi a’ Francesi; che par bugia del diploma.
[31] Bart. de Neocastro, cap. 110.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 10.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 117, il quale dice 50 i legni di Rinaldo d’Avella.
Montaner, cap. 106, con molti errori nel tempo e nei nomi.
[32] Bart. de Neocastro, cap. 110.
Atanasio d’Aci, in di Gregorio, Bibl. arag., tom. I, pag. 279 e seg.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 10.
Nessuno di questi scrittori porta l’appunto delle forze di Giacomo, se non che delle navali. Ma il Neocastro gli dà 1,000 cavalli al primo dì che venne in Catania, e dice poi ingrossata molto l’oste di cavalli e più di fanti.
Il Montaner, cap, 107, porta a 700 i cavalli e a 3,000 i fanti.
[33] Bart. de Neocastro, cap. 110.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 10.
Nel Neocastro si legge che Arrigo de’ Mari fosse cittadino di Marsala. Giovanni Villani in altro luogo parla di Arrigo de’ Mari, ammiraglio e genovese, e così leggiamo negli Ann. del Caffari. Se dunque furon due Arrighi de’ Mari, o un solo, nato in una di quelle città e fatto cittadino dell’altra, è oscuro, nè importa molto il chiarirlo.
[34] Diploma dell’imperador Federigo, dato di Cremona a 20 febbraio 1248. Indi si scorge che Oddone di Camerana con molti altri Lombardi, lasciata la patria per cagion dell’imperatore, venuti in Sicilia, ebber dapprima Scopello, poi, non bastando, la terra di Corlone che fu data in feudo ad Oddone. Ma essendo quella assai ricca, popolosa, e forte, l’imperadore ripigliandola in demanio, la permutò con Militello in val di Noto, che a lui ricadea per essersi estinta la linea della famiglia dei Lentini (collaterale forse ad Alaimo) che la possedea. Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 12.
[35] Bart. de Neocastro, cap. 110.
Anon. chron. sic., cap. 48.
[36] Bart. de Neocastro, cap. 110; e con minori particolarità Niccolò Speciale, lib. 2, cap. 10 e 12, Giovanni Villani, lib. 7, cap. 117, l’Anonymi Chron, sic., cap. 48, e, non senza circostanze poco credibili, Montaner, cap. 107. Costui con manifesto anacronismo, porta questa fazione prima della battaglia del golfo di Napoli nel 1284, in cui fu preso Carlo lo Zoppo.
[37] Bart. de Neocastro, cap. 110, 111.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 11.
Montaner, cap. 105, con errore di tempo e di qualche circostanza, dicendo che i Francesi tenessero ancora il castello di Cefalù; nel quale sappiamo che era stato già prigione Carlo lo Zoppo.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 117.
Anon. chron. sic., cap. 48.
Cronaca di Parma, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 812.
Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 22, in Muratori, R. I. S., tom XI.
Cronaca di Rouen, presso Labbe, Bibl. manuscripta, tom. I, pag. 381.
Un diploma del 1 giugno duodecima Ind. (1299) attesta che Guglielmo Sallistio fu preso nella battaglia de’ conti, ov’era nella famiglia del conte di Monforte, e fu accecato. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1299, A, fog. 88.
Un altro del 30 settembre terza Ind. (1289), dato di Napoli, accorda una sovvenzione a un Provenzale accecato dopo che fu preso nella battaglia navale, e perciò deve intendersi della più recente, cioè questa del 23 giugno 1287. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1291, A, fog. 16.
Ibid. a fog. 16 a t. e 17, son due altri diplomi dati il 3 ottobre e uno il 4, per Ruffino di Pavia similmente accecato, due uomini d’Ischia ai quali era stato cavato un sol occhio, ec.
Finchè non avremo per tempi anteriori altri di questi documenti, spiacevoli e non però men fedelmente da me riportati, potremo credere col Montaner (cap. 118) che Ruggier Loria si sia dato a tali crudeltà per rappresaglia, e molto tempo dopo che vide da’ nemici cavati gli occhi e mozzate le mani ai nostri presi combattendo: il che non toglie il biasimo, ma l’attenua. Montaner aggiugne che a queste rappresaglie i nemici cessarono dall’empio lor costume.
[38] Nic. Speciale, lib. 2, cap. 12.
Bart. de Neocastro, cap. 111.
La restaurazione d’Agosta è riferita dal Montaner, cap. 108. Il quale a cap. 118, sebbene con anacronismo, dice de’ tributi che i nostri riscuoteano da Ischia sulle merci uscite dal golfo.
Un diploma del r. archivio di Napoli, reg. seg. 1289–1290, A, fog. 54, citato da D. Ferrante della Marra (Discorsi, Napoli 1641), attesta che Ramondo de Baux, fatto prigione nella battaglia dei conti, fu ricattato dal padre; il quale impegnò la contea d’Avellino per avere il denaro.
[39] Raynald, Ann. ecc., 1288, §§. 10 e 11.
[40] V. il cap. 12.
[41] Rymer, Atti pubblici d’Inghilterra, tom. II, diplomi del 5 febbraio, 2 e 13 maggio, e 29 giugno 1286, pag. 315, 317, 318, 319.
[42] Rymer, loc. cit., pag. 326, 328, 329, 330, 331, 332, 333, due diplomi del 15 luglio 1286, e altri del 22, 24, 25, dello stesso mese.
Altro del 15 luglio, in Martene e Durand, Thes. Nov. Anecd. tom. I, pag. 1217.
[43] I particolari di questi maneggi furono i seguenti:
Onorio incominciò a sollecitar Filippo il Bello, affinchè ripigliasse l’impresa del padre; e a questo effetto diede autorità al legato pontificio in Francia di sospendere e scomunicare tutti gli ecclesiastici che favorissero Alfonso in Aragona. (Archiv. del reame di Francia, J. 714. 9.)
Eduardo I appena fermata la tregua di luglio 1286, caldamente sollecitò la corte di Roma a ratificarla (Rymer, Atti pubblici d’Inghilterra, tom. II, parecchi diplomi del 27 luglio 1286, pag. 334, 335); ed essa mandò gli arcivescovi di Ravenna e di Morreale per trattar della pace, senza fermarla però da lor soli, soggiugnea Onorio, in sì dilicato e importante negozio (Ibid., pag. 340 e 341, 7 novembre e 1 marzo 1287; Raynald, Ann. ecc., 1286, §§. 13 e 14; Cronaca di Parma, in Muratori, R. I. S. tom. IX. pag. 810).
Ma insistendo Alfonso su i preliminari di Cefalù, il papa sdegnato ruppe gli accordi (Raynald, Ann. ecc., 1287. §. 6, breve dato di Roma a 4 marzo, di cui si fa menzione in due altri di papa Niccolò IV, del 15 marzo e 26 maggio 1288, in Rymer, l. c. pag. 358); sovvenne Filippo il Bello e Valois, che nuovamente minacciassero la guerra (Raynald, Ann. ecc., 1286, §. 28); i quali tentarono con lieve dimostrazione il Rossiglione (Montaner, cap. 158 e 160).
Intanto le cortes d’Aragona e Catalogna, infin dai primordi del regno d’Alfonso, avean preso ad esercitare tutti i poteri sovrani (Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 77 e 78); la nazione disapprovava sempre apertamente la impresa di Sicilia, e se sosteneva Alfonso era per timore della dominazione francese (rimostranza del 1286, citata nel cap. VIII, in nota.) Perciò Alfonso fu tratto a stipulare ad Oleron in Bearn, il dì quindici luglio milledugentottantasette, presenti i due legati pontifici, la liberazion di re Carlo. Si pattuì riscatto di cinquantamila marchi d’argento: che promulgata la tregua tra Francia e Aragona e inclusavi la Sicilia, Carlo si adoprasse a portarla infino a tre anni, e farvi accostar la Chiesa e il Valois: che procacciasse in questo tempo una pace soddisfacente a’ re d’Aragona e di Sicilia, e ratificata sì dalla Chiesa. Dovea Carlo dare statichi tre figliuoli suoi, sessanta nobili e borghesi provenzali, e giuramento de’ castellani delle fortezze di Provenza, che rassegnerebbersi ad Aragona, s’egli ne’ tre anni non ottenesse la pace, o non si tornasse in prigione (Dipl. del 25 luglio 1287, in Rymer, loc. cit., pag. 346, e in Lünig, Cod. Ital. dipl., tom. II, pag. 1035–1040. Dipl. del 28, 31 luglio e 4 agosto 1287, in Rymer, loc. cit., pag. 350, 351, 352). Raffermaronsi oltre a questo le nozze tra la figliuola d’Eduardo e re Alfonso, per tanti anni attraversate da Roma (Rymer, loc. cit., pag. 320 e 349, 27 maggio 1286, e 28 luglio 1287).
La inflessibile politica della corte di Roma, non ostante che vacasse la sede per la morte di Onorio, distrusse questo trattato d’Oleron. Prima il collegio de’ cardinali, poi Niccolò IV, esortavan Eduardo a trovar altro modo alla liberazion del prigione; ammoniano Alfonso vietandogli di aiutar il fratello; e ridavan le decime a Francia per la guerra (Rymer, loc. cit., pag. 353, 358 e seg., 362, 365, 366, diplomi del 4 novembre 1287, 15 marzo, 3 aprile, 26 maggio, 15 settembre 1288; Raynald, Ann. ecc., 1288, §§. 11, 12, 13, 14, 15; breve del 15 marzo, 1288, Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 1, fog. 155).
Indi il trattato di Campofranco, scritto da un notaio del papa: per effetto del quale Carlo II pagò ventimila marchi, togliendone in presto diecimila da Eduardo; die’ sicurtà per altri settemila; statichi solo inglesi; parola ch’entro un anno procacciasse tregua tra Francia ed Aragona, o si rendesse alla prigione. Saragozza e altre città e baroni d’ambo le parti garantiron l’osservanza de’ patti; e Carlo giurolli una prima volta, e uscito di Catalogna rinnovò il giuramento, che il papa poi sciolse (Rymer, loc. cit., pag. 368 e seg., parecchi diplomi del 18, 21, 24, 25, e molti del 27 ottobre 1288, e altri del 28, 29 ottobre e 3 novembre dello stesso anno e 9 marzo 1289; Lünig, loc. cit., pag. 1035 a 1040; Raynald, Ann. ecc., 1288, §§. 16, 17).
Il dubbio in cui si restò pe’ patti di Campofranco, si scorge ancora da una lettera d’Alfonso data 4 gennaio 1290, dove affermansi non annullati que’ d’Oleron, e obbligatosi Carlo a procacciar la pace anche a Giacomo di Sicilia. Carlo II fu aiutato di danari al pagamento del riscatto, non meno da’ suoi sudditi, che da città italiane. Soprastette prima in Provenza; poi in primavera del 1289 passò in Italia; venne nel regno, ove fermò la tregua di Gaeta; e ripartì immantinenti per andare in Francia, a continuar le pratiche della pace, e far la commedia del presentarsi in Ispagna, poichè gli altri potentati accaniti non voleano piegarsi alla pace, ch’egli procacciava, portato dalla sua indole più che da’ suoi interessi (Rymer, loc. cit., pag. 429, 430, 435, 438, 441, diplomi del 5 e 7 settembre, 30 ottobre, 1 e 2 novembre 1289, e 4 gennaio 1290, e diploma del 1 novembre 1289, anche pubblicato dagli archivi d’Aix, per Papon, Hist. gén. de Provence, tom. III, docum. 20; Raynald, Ann. ecc., 1289, §§. 1 a 11, e 13, 14, 15; Cronica di Iacopo Malvecio, in Muratori, R. I. S., tom. XIV, cap. 103, 104, 106, 108, e diplomi di Carlo II in essa trascritti, dati di Marsiglia il 1 dicembre 1288, di Genova a 26 aprile 1289, e di Rieti il dì della Pentecoste del 1289, da’ quali si vede che il comune di Brescia porse 2,000 fiorini a Carlo, che ne l’avea pregato con molta istanza, dicendo dover soddisfare il danaro o tornar in prigione). L’insistenza del papa a minacciare Alfonso dopo la liberazione di re Carlo, per ottener quella de’ figliuoli, e l’abbandono assoluto di Giacomo re di Sicilia, si scorge da un breve del 25 settembre 1288, due del 9 febbraio, cinque del 31 maggio, uno del 28 giugno, e uno del 7 luglio 1289, relativi tutti a una novella concessione di decime ecclesiastiche al re di Francia, e una bolla del 31 maggio 1289, con la quale si dava autorità al vescovo d’Orléans e all’abate di Cluny, di ribenedire gli scomunicati per aderenza con Pietro o con Alfonso d’Aragona. Negli archivi del reame di Francia, J. 714.—18, 12, 11, 12, 12, 13, 13, 14, 15, 18, 15.
I comuni del regno di Napoli nel 1287 contribuiron danaro per la liberazione del re, come si scorge da un diploma nel citato Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 20. Veggansi anche per tutte queste negoziazioni, Bart. de Neocastro, cap. 111, 112.—Niccolò Speciale, lib. 2, cap. 15.—Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 23, in Mur., R. I. S., tom. XI.—Gio. Villani, lib. 7, cap. 125–130.—Ramondo Montaner, cap. 162, 166, 167, 168, 169, che più o meno ne riferiscono il vero.
[44] Un diploma di Carlo II dato di Venosa a 23 febbraio (non segnai bene l’Ind.) fa parola di danaro dato a Ruggier di Sangineto, a domanda della moglie, per lo riscatto de’ suoi figliuoli. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1291, A, fog. 213.
[45] Bart. de Neocastro, cap. 112.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 13.
[46] Bart. de Neocastro, loc. cit,, Nic. Speciale, lib. 2, cap. 14.
Veggasi anche il Montaner, cap. 116, 150, 163 e 165, il quale in vero segna due antecedenti passaggi di Giacomo in Calabria, e dà a veder sempre che molti fatti s’eran confusi nella sua memoria
[47] Si ritrae da’ diplomi del 27 e 28 giugno, notati nello Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 43 e 44, nota. 2.
[48] Raynald, Ann. ecc., 1289, §. 13.
[49] Bart. de Neocastro, cap. 112.
Nic. Speciale, lib 2, cap. 16.
L’appello al servigio militare entro pochi giorni, si ritrae dal citato Elenco, tom. II. pag. 48, 49, 50 e 51, ove leggonsi vari diplomi dell’11, 12, 13 e 16 luglio 1289.
[50] Ibid., pag. 51, diploma del 31 luglio.
[51] Raynald, Ann. ecc., 1289, §. 15.
[52] Bart. de Neocastro, cap. 112.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 14.
Montaner, cap. 164, 165, 169.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 134.
I gravi danni sofferti dalla città di Gaeta, si ritraggono anche dalle immunità delle tasse regie e fin delle decime ecclesiastiche, datele poco appresso in ristorazione e premio. Raynald, Ann. ecc., 1290, §§. 24, 25, e Villani, loc. cit.
[53] Bart. de Neocastro, cap. 112.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 14.
Montaner, cap. 169.
Raynald, Ann. ecc., 1289, §§. 65, 67.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 134, il quale dice il nostro esercito respinto di Calabria dal conte d’Artois. Non è vero, com’altri afferma, che Artois, cruccioso della tregua, lasciasse i servigi di Carlo; perchè da molti diplomi notati nello Elenco più sotto citato delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 62, 63, 65, 66, ec., si ritrae che Carlo, partito poco appresso, gli commettea gli affari del regno, chiamandone vicario Carlo Martello suo figliuolo; e nel diploma del 27 dicembre 1290, ch’io pubblico, docum. XXV, lo stesso Artois attesta aver giurato la tregua di Gaeta, e scrive da ministro di re Carlo per procacciarne l’osservanza. Le condizioni della tregua, taciute dagli scrittori che ne portan solo la durata, si leggon chiaramente nel citato docum. XXV.
Il soggiorno di Carlo II al campo di Gaeta confermasi per un diploma del 18 agosto 1289, nell’Elenco citato, tom. II, pag. 57.
I particolari detta pratica della tregua, scorgonsi ancora da una lettera di Carlo II ad Alfonso d’Aragona, data il 1 novembre 1289, in Rymer, tom. II, pap, 441.
Questi diplomi e due altri di Giacomo dati a 17 e 30 luglio 1288 in Palermo, Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 1, fog. 156 e 158, correggono l’errore del Neocastro e dello Speciale, che portano quest’impresa nella state del 1288; perchè i primi dimostrano fermata la tregua d’agosto 1289, i secondi che Giacomo nella state del 1288 fosse in Palermo. Forse nacque l’errore dal ricordare l’indizione piuttosto che l’anno, perchè la seconda indizione ricadea appunto sul fin della state dell’88, sì come nel corso di quella dell’89.
Bonifazio poi rimproverò a Carlo questa tregua frettolosa, fermata senza saputa sua nè di Gherardo. Essi erano allor legati del papa all’oste angioina; ed è strano che uno di loro si sarebbe opposto a ciò che volea il papa. Breve del 9 gennaio 1300, peste Raynald, Ann. ecc., 1300, §. 14.
[54] Diploma dato il 27 dicembre quarta Ind. (1290). Docum. XXV.
Queste infrazioni della tregua, che erano scambievoli, si veggono da parecchi altri diplomi, cavati come il precedente dal r. archivio di Napoli.
Diplomi dati di San Gervasio il 28 ottobre terza Ind. (1289), scritti da Roberto conte d’Artois, e Carlo primogenito del re Carlo II, a Giacomo d’Aragona e a Ruggier Loria, lagnandosi di atti contrari alla tregua. Reg. seg. Carlo II, 1291, A, fog. 10, a t.
Diploma di Ruggier Loria, dato di Messina a 26 settembre quarta Ind. (1290), col quale si lagnava della preda di alcune navi siciliane caricate in Catania di grano, del prezzo di tarì 14, 10 a salma, e prese da sei galee e un galeone di Puglia; e chiedendo la ristorazione, fieramente conchiudea: Alioquin nos qui bilingui ore non loquimur et quod in animo gerimus labiis simulari nescimus, vobis in apertum deducimus quod treuguas ipsas genti nostre observari similiter faciemus. Fu indirizzata la lettera al conte Giovanni di Monforte, e da costui ad Artois, e trascritta in un diploma dato di Corneto, il 4 novembre quarta Ind. col quale alle minacce di Loria, si pagò subito il valsente della preda, non senza far querela di altre simili infrazioni dalla parte de’ Siciliani. Reg. cit. fog. 163 e 164.
Altri diplomi del conte d’Artois dati di Corneto il 4 novembre quarta Ind., indirizzati, il primo a Giacomo, il secondo a Ruggier Loria, descrivean tutte le violazioni alla tregua, fatte di parte siciliana. Ibid., fog. 166 e 166 a t.
Diplomi dati a 21 e 22 dicembre quarta Ind., anche indirizzati a Giacomo e a Loria, su lo stesso argomento, e dettati su lo steso stile del diploma del 27 dicembre seguente, da me pubblicate. Ibid. fog. 185 e 185 a t.
[55] Diploma di Roberto conte di Artois, dato di Corneto a 21 febbraio terza Ind. (1290), per lo scambio di Guglielmo Mallardo, prigione del Siciliani, col decano di Nicastro, preso mentre parteggiava per essi in Calabria. Nel r. archivio di Napoli, reg. di Carlo II, seg. 1291, A, fog. 5.
Diploma dato di Venosa a 6 novembre terza Ind. (1289), per mandarsi una barca al Castell’Abate, a trattar la liberazione di Roberto di Cambray, prigione de’ nemici. Ibid., fog. 11 a t.
Diploma dato di Napoli a 12 maggio terza Ind. (1290), a Giovanni d’Eusebio, abate di Sorrento. Gli è data licenza d’andare in Ischia, Capri, Castell’Abate, e se occorra anche in Sicilia, per ottener la liberazione di un vescovo frate Pietro, d’Arrigo Filangieri, Pietro Capece e Roberto Apperdicaro, militi, e altri uomini da Sorrento nuper captorum ab hostibus. Ibid., fog. 27 a t.
Diploma dato di Napoli il 14 maggio terza Ind., al generale ministro de’ Minori, sopra la liberazione di alcuni frati presi da’ nemici, che, secondo la tregua, non si potean di ragione chiedere, perchè presi in terra, non in mare. Nondimeno il governo di Napoli ne avea scritto a Ruggier Loria. Ibid., fog. 30.
[56] Diploma dato di Venosa a 17 dicembre terza Ind. (1289). Il giustiziere di Basilicata vada alla terra Giordana; prenda 150 cavalli e 100 fanti; e si porti subito alle frontiere de’ nemici a combatterli. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1291, A, fog. 23.
Altro dato di Napoli a 9 marzo terza Ind. (1290). Annunzia estrema cura a guardar da insulto nemico il ducato d’Amalfi; e contiene molti minuti provvedimenti di riparazione di fortezze, vittuaglie, ec. Ibid. fog. 28.
Altro dato di Napoli a 11 marzo terza Ind. Perchè Niccolò di Gesualdo, capitano di Napoli, pigli il comando di tutta la marina dalla torre ottava infino a Pozzuoli, per prevenir le offese de’ nemici. Ibid., fog. 28 a t.
Altro dato di Napoli a 9 maggio terza Ind. Somiglianti e più affannosi ordini a Adamo Arenga, per la costiera dalla Rocca di Mondragone infino a Gaeta. Ibid.
Altro dato di Napoli a 13 maggio terza Ind. Per provvedersi saette ne’ luoghi marittimi del ducato di Amalfi. Ibid., fog. 29.
[57] Veg. il docum. XXV, citato di sopra.
[58] Diploma del 26 settembre 1290, citato nella pagina prec, nota 1.
[59] Bart. de Neocastro, cap. 113.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 14.
Raynald, Ann. ecc., 1290, §. 7.
[60] Bart. de Neocastro, cap. 112.
I portatori di questa o altra somigliante ambasceria di Giacomo, passarono per lo regno di Napoli, se pur non negoziarono anche col vicario di quello. Ce l’attesta un diploma del conte d’Artois, dato il 4 novembre 1290 in Corneto, pel quale s’ingiunge al giustiziere di Basilicata dì vegliare stretto gli oratori nimici, che non tramassero coi cittadini. Elenco citato delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 68.
[61] Questi viaggi di Carlo II, scorgonsi da’ diplomi notati nell’Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 61, nota 1.
[62] Due diplomi del 1294 e dal 1303, negli archivi del reame di Francia, J. 511. 10, e J. 512. 24, contengono le scritte del ricevuto per 28,500 lire tornesi prestate a Carlo II, dall’ultimo febbraio 1292, al 27 agosto 1293, della qual somma la più parte si dovea conteggiare col papa.
[63] Bart. de Neocastro, cap. 114.
[64] Raynald, Ann. ecc., 1290, §. 21.
[65] Diplomi del 5 e 7 settembre 1289, in Rymer, op. cit., tom. II, pag. 429, 430.
Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 117.
[66] Diplomi del 4 e 19 gennaio 1290, in Rymer, op. cit., pag. 456. Conferma ciò il Montaner, cap, 172, velandolo al suo solito; e meglio il ritrae Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap, 120 e seg.
[67] Prima si stabilì a Perpignano, dove non andarono gli ambasciadori d’Alfonso, perchè non piacque ai commissari deputati dalle corti. Diplomi del 18 gennaio, 2 e 3 febbraio 1290, Rymer, loc, cit.
[68] Bart. de Neocastro, cap. 112.
Raynald, Ann. ecc., 1290, §§. 18 e 19, breve del 23 marzo 1290, e §. 20, diploma del 20 gennaio.
[69] Bart. de Neocastro, cap. 114.
La testimonianza di questo scrittore intorno al permesso dato a Giacomo di mandare ambasciadori, è confermata da un breve di Niccolò IV, indirizzato il 16 gennaio 1291, a Carlo di Valois richiedendolo di lasciar passare ne’ suoi domini questi oratori. Negli archivi del reame di Francia, J. 715, 26.
[70] Diploma de’ cardinali di Sabina e di San–Niccolò in carcere Tulliano, convalidato co’ suggelli dei re di Francia e di Napoli, negli archivi del reame di Francia, J. 511, 8.
[71] Diplomi del 19 febbraio e 12 aprile 1291, in Rymer, tom. II, pag. 501 e seg. Esiste ne gli archivi del reame di Francia J. 587, 16, l’originale trattato dei 13 febbraio.
[72] Rymer, loc. cit., pag. 504, diploma del 20 febbraio 1291.
[73] Bart. de Neocastro, cap. 114.
Montaner, cap. 173, il quale con molti errori porta tutto questo trattato. Per altro egli il dice fatto in Tarascon, che si riscontra co’ diplomi; ma il Neocastro lo suppone in Aix, forse dalla vicinanza de’ luoghi, o perchè qualche conferenza veramente si fosse tenuta in Aix.
Veggasi per le nozze della figliuola di Carlo II con Carlo di Valois, il diploma del 18.....1290, in Lünig. Cod. Ital. dipl. tom. II, Sicilia e Napoli, n. 62; e in Martene e Durand, Thes. Nov. Anecd. tom. I, pag. 1236.
Due diplomi di Carlo II, negli archivi del reame di Francia, J. 511, 7, dati il.. dicembre 1289 e il 18 agosto 1290, contengono le condizioni del matrimonio; tra le quali la principale è, che le due contee si trasferivano al Valois anche nel caso di morte di Margherita, quand’ei cedesse il dritto su l’Aragona. Premorendo Valois alla moglie, costei avrà l’usufrutto, e Filippo il Bello la proprietà. Il secondo dei diplomi si trova in Dumont, Corps diplom., tom. I, part. 1, pag. 420.
Un altro diploma di Filippo il Bello, dato in Parigi, settembre 1290, dice già celebrato il matrimonio del Valois. Papon, Hist. gén. de Provence, tom. III, docum. 23.
[74] Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 600
[75] Bart. de Neocastro, cap. 114, 115, 116, 117.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 17.
Montaner, cap. 174, 175, 176.
Anon. chron, sic., cap. 48, il quale scrive: Sub cujus regis Jacobi dominio, omnes existentes in Sicilia de bono in melius multiplicantes ditati sunt, etc.
La rinomanza a che salì Giacomo per la difesa della Sicilia, è toccata leggiadramente da Amanieu des Escas in una poesia provenzale in cui il trovadore esalta il valor della sua donna su quello del
...Rey Jacma d’Arago
Que reys es dels Cecilias
Ses grat de Frans’ e de Romas.
Raynouard, Choix, etc. t. V, p. 24.
Il titolo dì Federigo, Infante dell’Illustre re d’Aragona, Luogotenente generale del regno di Sicilia, si legge in parecchi diplomi. L’uno ne la chiesa di Cefalù, dato in Palermo 30 dicembre settima Ind. (1294), ne’ Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. fog. 70, pubblicato in parte dal Pirro, Sic. sacra, Not. ecc. Ceph. xv. e dal Testa, Vita di Federigo, docum. 11.
L’altro del 24 gennaio quinta Ind. (1292), Testa, Ibid. docum. 15.
[76] Veggasi i cap. VIII e IX e in particolare la not. 1 alla pag. 226, t. I.
[77] A questo supposto ci conducono i testamenti di Alfonso e di Giacomo citati qui appresso, e il vario linguaggio degli storici intorno le ultime disposizioni di Pietro. Veggansi il Montaner, cap. 185; Bartolomeo de Neocastro, cap. 124, ove si legge: Non enim quod pater decrevit in ultimis, etc.; e Niccolò Speciale, lib. 2, cap. 7 e 17: Quod si testamentum patris in suis viribus consistebat, ex tunc regnare debuisset in Sicilia Fridericus.
[78] Diploma nel Testa, Vita di Federigo II di Sicilia, docum. 3.
Scurita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 120.
[79] Testamento di Giacomo, dato di Messina a 15 luglio 1291, in Bofarull, tom. II, pag. 251, citato da Buchon, edizione di Montaner, 1840, pag. 388.
[80] Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 123.
[81] Ibid., cap. 124; Bartolomeo de Neocastro, cap. 118.
Mariana, Storia di Spagna, lib. 14, cap. 15.
[82] Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap 125.
Montaner, cap. 177, 178.
[83] Diploma dei 10 agosto 1292, in Capmany, Memorias, etc., tom. IV, docum. 8.
[84] Raynald, Ann. ecc., 1291, §§. 53, 55.
Un’altra bolla di Niccolò, data il 13 dicembre 1291, concedea al vescovo di Carcassonne, e all’abate di S. Germain di ribenedir gli scomunicati d’Aragona, per favorire il Valois. Questi, per un diploma del 13 ottobre 1292, diè larga autorità a perdonare e ricevere omaggi in Aragona a Eustachio di Conflans, governatore di Navarra e a Giovanni di Burlas; negli archivi del reame di Francia, J. 715, 15, e J. 587, 17.
[85] Raynald, Ann. ecc., 1291, §. 59; e 1293, §§. 15 e 16.
[86] Annali Genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 601.
[87] Bart. de Neocastro, cap. 119.
[88] Montaner, cap. 179.
[89] Bart. de Neocastro, cap. 119.
Raynald, Ann. ecc. 1292, §. 14 a 19.
Questa deliberazione della repubblica non si legge negli annali genovesi; ma gli altri fatti che vi si narrano la rendon probabilissima e forse necessaria, come la riferiste il Neocastro, aggiugnendo con grande esattezza gli stessi nomi del podestà e de’ capitani che son registrati ne’ detti annali sotto quell’anno.
Nel Capmany, Memorias, etc., tom. IV, docum. 6, si leggono le istruzioni date da Giacomo di Barcellona a 3 Aprile 1292, a Oberto di Volta suo legato in Genova. Il re d’Aragona si lagnava di armamenti fatti contro di lui, di qualche ostilità commessa in mare, e de’ commerci interrotti con la Sicilia; e chiedea che si assicurassero le amichevoli comunicazioni. Copie di queste istruzioni furon mandate a cinque fratelli Doria, tre Spinola, due Volta, due Escatrafico, Niccolò Fiesco, e Manuele Zaccaria.
[90] Ann. genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 603, 604, 605.
[91] Bart. de Neocastro, cap. 120.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 145.
[92] Raynald, Ann. ecc., 1291, §§. 56, 58, 59.
[93] Gio. Villani, lib. 7, cap. 119, 121, 151.
[94] La penuria di danari e debolezza del governo di Napoli in questo periodo, si scorgon da parecchi diplomi del 1292–94, nel citato Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 91, 102. 111, 115, 131, 132, 149.
Carlo chiedea danari per la guerra o col pretesto della guerra. Levò una nuova colletta che si chiamava il Terzo. Ibid., pag. 91 a 131.
[95] Nic. Speciale, lib. 2, cap. 18.
[96] Bart. de Neocastro, cap. 121, 122, 123.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 19.
Montaner, cap. 159, 160, non senza anacronismi e altre differenze. Ei scrive queste scorrerie dianzi l’impresa di Giacomo nel 1289; fa depredar prima delle Isole e della Morea, anche Tolomitta e i mari d’Egitto, e poi Patrasso e Cefalonia, di che non fan motto gli scrittori siciliani. Costui e Speciale portano in Terra d’Otranto l’affronto con Guglielmo Estendard, che il Neocastro dice avvenuto alle Castella, ed io così anche ho scritto, per parermi il Neocastro diligentissimo in questo periodo. Delle minacce della nostra flotta su le coste pugliesi nella state del 1292, portan testimonianza tre diplomi nell’Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 95, 98.
[97] Bart. de Neocastro, cap. 123, 124.
[98] Si ritrae da tutti gli autori citati in questo capitolo; e assai vivamente dal soprannome di regina della santa pace, che dier gli Aragonesi e’ Catalani a Bianca, figliuola di Carlo II, quando si maritò con Giacomo per effetto di questo bramato accordo. Montaner, cap. 182.
[99] Queste occulte cagioni, che trascinarono Giacomo divenuto re d’Aragona ad abbandonare o tradir la Sicilia collegandosi co’ suoi nimici, si ritraggono qua e là da tutte le autorità citate nel presente capitolo; e massime dal Surita, Ann. d’Aragona, lib. V, cap. 1 a 10.
[100] Bart. de Neocastro, cap. 118.
Alle parole di questo istorico do piena fede quanto all’ottimo governo di Federigo luogotenente, perch’egli avea interesse a mostrarsi giusto e zelante del ben pubblico; e che il fosse stato, il provano ancora il fatto del popolo che lo esaltò al trono, e i suoi medesimi atti nei primi tempi del regno. Non mi è parso ricordar la lapide di Girgenti del 1293, pubblicata dal Testa, op. cit., docum. 4, ove Federigo è chiamato Juris amator, perchè i grandi, o buoni o pravi, non patiron penuria mai di si fatte parole, nè v’ha testimonianza istorica più fallace che le lodi a principi contemporanei.
Per le poesie di Federigo l’Aragonese si vegga il Quadrio, Storia e ragione d’ogni poesia, correggendolo solo in questo, che attribuisce tai versi a Federigo III di Sicilia detto il Semplice, non a Federigo II. Veggasi ancora il docum. XLIV.
[101] Veggasi un diploma di Carlo II, dato di Napoli il 29 settembre 1300, pubblicato dal Buscemi, Vita di Giovanni di Procida, docum. 8, cavato dal r. archivio di Napoli, nel quale si legge per Giovanni di Procida: Sane per conventiones inhitas???? super reformatione pacis inter nos et magnificum principem dominum Jacobum Aragonum regem illustrem, nunc filium nostrum carissimum, tunc hostem pubblicum, nobisque molestum tamquam per duces belli inter alia fuit conventum: Quod Joannes de Procida rebus tunc humanis perfruens ad certa bona stabilia in regno Sicilie que per culpe contatagium contra majestatem, etc.......... perdiderat restitueretur in integrum ex nostro beneficio principali, etc.
[102] Diploma del 20 marzo 1293, dal r. archivio di Napoli, registro dì Carlo II, segnato 1290, A, fog. 164, citato ne’ Discorti di D. Ferrante della Marra, Napoli, 1641, pag. 155.
Sì può sospettare che non ad altro effetto fossero stati mandati in Sicilia, sotto specie di consultare con Giovanni di Procida per gravi lor malattie, quasi mancando al tutto i medici nel reame di Napoli, Gualtiero Caracciolo e Manfredo Tomacello, come si scorge da’ diplomi del medesimo archivio, citati dal Marra nello stesso luogo.
Duolmi non aver potuto nè pubblicare nè leggere per tenore il detto importantissimo diploma del 20 marzo 1293, perchè quel registro fu distrutto in una delle sommosse che recaron tanto guasto agli archivi pubblici di Napoli. Per altro non è da dubitare della esattezza della citazione, quando se ne trovano fedelissime mille e mille altre del Marra, e io stesso studiando que’ registri, ho veduto una infinità di diplomi segnati certo da lui, perchè toccavano uomini della propria famiglia o d’altre affini. Costui, che avrebbe potuto fabbricare una base saldissima alle istorie della alla patria, durò sì penosa fatica per tesser la genealogia di tutte le famiglie nobili imparentate con la propria!
Danno argomento di somiglianti pratiche in Sicilia nel 1294 altri diplomi, l’uno dato d’Aquila a 3 ottobre ottava Ind. anno 10 di Carlo II, ch’è salvocondotto per quaranta di ad Arnaldo de Mairata, almugavero catalano, venuto testè di Sicilia, e disposto a far ritorno, pro certis suis negotiis; e l’altro dato di Napoli a 16 novembre ottava Ind. salvocondotto al frate Rinaldo de Poncio, prior degli Spedalieri in S. Eufemia, per recarsi in Sicilia. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1294–1295, A, fog. 28 a t. e 54 a t.
[103] L’ufficio di costui nell’ordine Gerosolimitano, ch’è stato argomento di dubbio tra i nostri istorici, si legge precisamente nel diploma del 10 ottobre 1294, citato in questo medesimo capitolo, pag. 62, in nota.
[104] Bart. de Neocastro, cap. 114.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 20, 24.
Montaner, cap. 181.
Un diploma di Carlo di Valois negli archivi del reame di Francia, J. 587,18, dato d’aprile 1293, annunzia che si dovea fare un abboccamento tra i legati di Carlo II, Filippo il Bello e Giacomo di Maiorca, con que’ dei tre fratelli Giacomo, Federigo, e Pietro; e promette rinunziare alla concessione del reame d’Aragona, se fosse mestieri per la pace.
[105] Così leggiamo nel Neocastro, dal quale è tolta tutta la diceria del Falcone, ch’ei forse udì raccontare dall’oratore medesimo.
[106] Bart. de Neocastro, cap. 124.
La più parte de’ nostri istorici, non escluso il Testa, confondendo questa con l’altra ambasceria del 1295, ne portano una sola, mettendo insieme i nomi degli oratori dell’una e dell’altra. Non attendon essi che il Neocastro assegna a questa ambasceria la data del 1293, e riporta che Giacomo negasse il trattato; che lo Speciale e i diplomi mostran l’altra seguita d’ottobre 1295, e che il re confessasse il trattato: nè che son diversi i nomi degli oratori. Ad Accorgersi dell’errore sarebbe ancora bastato il riflettere su le parole del Neocastro, dalle quali si vede espresso ch’egli scrivea durante ancora il regno di Giacomo in Sicilia; quando ognun sa che esso ebbe fine con la seconda ambasceria, e che questo istorico ci abbandona appunto alla prima risposta del re, senza parlare di Celestino V, nè di Bonifazio VIII, nè degli altri uomini o fatti che precedettero il trattato d’Anagni. Però sono evidentemente diverse le due legazioni.
[107] Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 8, il quale par che l’abbia cavato da documenti, scrivendo con la usata diligenza, che il 4 novembre 1293 si stabilì l’abboccamento, e seguì nel corso di quel mese.
[108] Raynald, Ann. ecc., 1294 §. 3.
Gio. Villani, lib. 8, cap. 5; e tutti gli altri contemporanei.
[109] Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 8.
[110] Ciò non dice alcun cronista, ma lo fa supporr il silenzio loro intorno i fatti della guerra, e il provano fuor di dubbio i seguenti diplomi del tempo:
Diploma dato di Capua a 26 ottobre ottava Ind. (1294), a Pietro de Rigibayo milite, perchè rendesse a un terrazzano di Castell’Abate once trenta, presegli per riscatto contro i patti della tregua; di che avea scritto al governo dì Napoli Federigo d’Aragona. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1294–1295, A, fog. 34.
Diploma dato di Napoli a dì 8 novembre ottava Ind. anno 10 del regno di Carlo II, perchè, secondo la tregua, si rendesse a Zaccaria di Roberto e Bernardo di Mili da Messina, una lor nave carica di grano, spinta da fortuna di mare a Gaeta. Ibid., fog. 49.
Diploma del 23 novembre, su la restituzione della medesima Ibid., fog. 65.
Diplomi dati di Napoli a 1 e 11 dicembre ottava Ind., per l’omicidio di alcuni d’Ischia in Gaeta, del quale sollecitava la punizione Federigo, figliuolo di Pietro una volta re d’Aragona. Ibid., fog. 64 a. t. e 79 a t.
[111] Diploma dato di Aquila a 7 settembre 1294, ottava Ind. anno 10 di Carlo II. Cotrone era tornata in fede per opera d’un Ugone, detto Rosso di Soliaco. Ratificava il re quantunque costui avea permesso a favor di quella città: dava perdono, e assicurazione de’ beni in piena forma, e anco, per quattro anni, franchigia dalle collette, taglie e sovvenzioni, dritto di legnare ne’ boschi, e altri simili favori. Nel r. archivio di Napoli, reg seg. 1294–1295, A, fog. 11.
[112] Diploma dato d’Aquila a 14 settembre ottava Ind. (1294). Franchigia per 10 anni dalle imposte, accordata agli uomini di Castro Simero in Calabria, in mercè de’ danni sostenuti nella guerra. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1294–1295, A, fog. 3 a t. e 4 a t.
Diploma dato di Napoli a 21 novembre ottava Ind., che fa parola de’ danni che nella presente guerra avean sostenuto gli uomini di Positano. Ibid., fog. 65.
Diploma dato di Napoli a dì 11 dicembre ottava Ind. Franchigia accordata a que’ di Scala, Sorrento e Ravello per la miseria in cui li avea gittato la presente guerra. Ibid., fog. 78 a t.
[113] Iacopo da Varagine, parte 12, cap. 9, in Muratori, R. I. S., tom. IX.
Francesco Pipino, lib. 4, cap. 10, in Muratori, ibid.
Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 29 a 32, in Muratori, R. I. S., tom. XI.
Gio. Villani, lib. 8, cap. 5.
[114] Bolla di Celestino, in Lünig, Codex Ital. dipl., tom. II, Napoli e Sicilia, num. 63; e in Raynald, Ann. ccc., 1284, §. 15.
È da avvertire che il Giannone (Storia civile del regno di Napoli, lib. 21, cap. 3, addiz. dell’autore) porta questo trattato con la data del 14 novembre 1293, citando una bolla di Celestino, in Raynald, Ann. ecc., tom. XV, in appendice. Questa citazione, che mi è costata grandissima fatica al riscontrare, è inesatta. In quel luogo dei Raynald, segnato dal Giannone sulla edizione di Roma per Mascardo, che nella più corretta edizione di Lucca 1749, da me adoperata sempre nel presente lavoro, risponde al §. 15 dell’anno 1294, non si legge data degli accordi tra Giacomo e Carlo che vi sono inseriti. Forse il Giannone tolse questa data da Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 8; e pure errò, perchè quegli porta il 14 novembre come il giorno in cui si stabilì di far poscia un abboccamento tra i due re, seguito, come aggiugne il Surita, nel corso dello stesso mese.
[115] Brevi del 1, 2, 5, 7, 8 ottobre 1294, in Raynald, Ann. ecc, 1294, §. 15.
[116] Questo, oltrechè si scorge da’ trattati successivi, è anche provato dalla frequenza de’ messaggi che Carlo II mandava a Giacomo per trattar la pace, non solamente dopo gli accordi di Junquera, ma ancor dopo la ratificazione di papa Celestino, come il dimostrano questi documenti:
Diploma dato d’Aquila a 19 settembre ottava Ind. (1294). È il passaporto ad alcuni messaggi del re per Catalogna. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1294–1295, A, fog. 4, a t.
Diploma dato d’Aquila il 2 ottobre ottava Ind. Tre religiosi sudditi di re Carlo, Ruggier di Salerno, Rodolfo di Granville, e Roberto di Pilaneto, mandati dal papa in Francia per negozi del re. Ibid., fog. 17,, a t.
Diploma dato d’Aquila a dì 3 dello stesso mese, al podestà e consiglio di Lucca. Sovente occorrendo mandare e aver messaggi tra il re e Giacomo d’Aragona perchè s’ultimasse la pace, il re chiedeva al comune di Lucca, che nel transito non molestasse gli oratori di Giacomo. Simile diploma lo stesso dì ad Amerigo signor di Narbonne, e ad Amerigo figliuolo di lui. L’uno e l’altro, ibid., fog. 27, a t.
Diploma della stessa data e oggetto agli officiali del re di Francia. Ibid., fog. 28.
Diploma della stessa data al podestà e consiglio di Lucca, per Giuglielmo Lulio, e Bertrando d’Avellano da Barcellona, trattanti questa pace. Ibid., fog. 28.
Diploma del 10 ottobre ottava Ind. Salvocondotto e raccomandazioni per lo vescovo di Valenza e Bonifazio di Calamandrano, Magistrum Hospitalis Sancti Joannis Hierosolimitani in partibus cismarinis, messaggi del papa a Giacomo. Ibid., fog. 84, a t.
Diploma della stessa data e oggetto a Giacomo re di Malora. Ibid.
[117] Gio. Villani, lib. 8, cap. 5 e 6,
Francesco Pipino, Chron., lib. 4, cap. 40, in Muratori, R. I. S., tom. IX.
Ferreto Vicentino, ibid., pag. 966, 967, 968, e 969.
Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1203.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 20.
Raynald, Ann. ecc., 1294, §§. 20 e 23, e 1295, §§. 11 a 15.
Guardai, e vidi l’ombra di colui,
Che fece per viltate il gran rifiuto.
Dante, Inf., c. 3.
Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio,
Per lo qual non temesti torre a ’nganno,
La bella donna, e di poi farne strazio?
Inf., c. 19.
E comento di Benvenuto da Imola, che nota in questo luogo le stesse tradizioni istoriche degli altri contemporanei da me citati.
[118] Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 9.
[119] Diplomi inseriti nell’Anonymi chron. sic. in di Gregorio, Bibl. arag., tom. I, pag. 163, 168.
[120] Nic. Speciale, lib. 2, cap. 21.
Anon. chron. sic., cap. 53, loc. cit.
Geste de’ conti di Barcellona, in Baluzio, op. cit., pag. 578.
Il termine di settembre si legge in un breve di Bonifazio a Caterina di Courtenay, dato a 27 giugno 1295, in Raynald, Ann. ecc., 1295, §§. 29, 30.
[121] Surita, Ann. d’Aragona, lib. 6, cap. 12.
[122] Breve di papa Bonifazio, in Raynald, Ann. ecc., 1295, § 32.
[123] Atto del 20 giugno 1295, pel quale i legati di Francia e di Carlo di Valois rinunziarono in mani del pontefice l’investitura, che qui senza formole si dice accordata al re di Francia. Negli archivi del reame di Francia, J. 587, 19.
[124] Diploma dato di Parigi il 12 gennaio 1295, col quale Giacomo di Maiorca si dichiara decaduto dal sussidio accordatogli dal re di Francia, nel caso che per sua colpa si sturbasse la pace. Il sussidio era 30,000 lire tornesi picciole in tempo di guerra, e 20,000 in tempo di tregua. Ibid., J. 598, 8.
[125] Di gennaio 1296, Filippo il Bello donò al Valois la sua casa de Fligella in Parigi. Carlo II oltre la dote della figlia, gli avea accordato a 2 marzo 1293 le sue case anche in Parigi. Ibid., J. 377, 1 e 2.
[126] Questi particolari del trattato leggonsi in Surita, Annali d’Aragona, lib. 6, cap. 10, il quale dice anche la data, e dà a vedere aver letto i documenti. Similmente il Feliu, Anales de Cataluña, lib. 12, cap. 4, annunzia tutte le condizioni dette da me nel testo, e per tutte cita in generale i documenti dell’archivio di Barcellona, aggiugnendo che i patti si tenner segreti per ingannare i Siciliani. Ma è da avvertire che non si parla della Sicilia nel trattato di Giacomo con Filippo e il Valois, conchiuso in Anagni alla presenza del papa il 20 giugno 1295, dal vescovo d’Orléans e l’abate di Saint–Germain–des–Prés, legati di Francia, e Gilberto Cruyllas, Guglielmo Durford, Pietro Costa, e Guglielmo Galvani dottore in legge, legati d’Aragona. Questo trattato è pubblicato dal Capmany, Memorias, etc., tom. IV, docum. 10, e negli archivi del reame di Francia, J. 589, 10, avvene una copia in buona forma. Non si parlò in esso della restituzione della Sicilia, la quale forse si stabilì in trattato segreto; perchè Giacomo avea ben ragione di coprire le sue brutture. Nei medesimi archivi di Francia, J. 587, 19, leggasi la rinunzia alla concessione dell’Aragona, fatta in mani del papa lo stesso giorno 20 giugno dai legali di Filippo il Bello e di Valois. Nella bolla di Bonifazio del 21 giugno, non si riferiscon tutti gli accordi, ma che inter caetera si era stabilita la cessione della Sicilia. Della quistione de’ confini, della ristorazione del re di Maiorca, ancor s’istruisce un breve di Bonifazio a Filippo il Bello, dato a 20 giugno, in Raynald, Ann. ecc., 1295, §§. 26, 27, 28.
Ricordisi la nota in questo stesso capitolo, sopra la restituzione dei beni a Giovanni di Procida.
Non ho citato intorno questa pace il Villani, che ne scrive nel lib. 8, cap. 13, perch’egli è poco informato e pieno di anacronismi.
[127] Raynald, Ann. ecc., 1295, §§. 24 e 29 a 36, dove si leggono i diplomi di Bonifazio, dati a 20, 21, 27 giugno, e 2, 4, 5 luglio.
Du Cange, Hist. de l’Empire de Constantinople, docum., pag. 36.
Queste condizioni della pace e pratiche con Federigo, si trovano con poco divario e più brevemente nell’Anonymi chron. sic., cap. 51; Niccolò Speciale, lib. 2, cap. 20; Montaner, cap. 181.
[128] Ruggier Loria possedeva in Sicilia i feudi di Aci, Castiglione, Francavilla, Novara, Linguagrossa, Tremestieri, San Pietro sopra Patti, Ficarra e Tortorici, come si vede dal cap. 16; e in Ispagna quelli di Cocentayna, Alcoy, Ceta, Calis, Altea, Navarres, Puy de Santa–Maria, Balsegue, e Castronovo, nominati in un diploma di Giacomo dato di Valenza il 5 dicembre 1597, che accordò in quelle terre a Ruggier Loria il mero e misto impero. Leggesi questo diploma nel Quintana, Vidas, etc., tom. II, pag. 192.
Non abbiam contro il grande ammiraglio prove manifeste di peculato, ma fortissimi sospetti; perchè delle due cose è certa l’una, o ch’egli fosse tenuto uomo d’una integrità senta pari, o che fosse conosciuto ladro del danaro pubblico, e tollerato per forza. I due diplomi di Giacomo dati di Barcellona il 7 marzo, forse 1291, e di Roma il 2 aprile 1297, e pubblicati dal Quintana, tom. II, pag. 178 e 180, pongono senza dubbio questa alternativa; perchè il primo scioglie li eredi dell’ammiraglio da ogni responsabilità per la sua amministrazione s’egli prima dì morire non ne rendesse i conti; il secondo, affidandogli un gran maneggio di danari, dice che renda solo un conto finale, da credersi in parola e senza documenti. Per questo diploma Ruggier Loria è eletto ammiraglio a vita in tutti i regni di Giacomo. A lui è data la cura della costruzione delle navi da guerra; l’autorità di far armare infino a due galee e prendere il danaro dalle casse regie senza special mandato del re; e il maneggio del danaro degli stipendi per tutta l’armata. Oltre a questo, gli è dato il dritto di spedire le patenti de’ corsali; la giurisdizion civile e penale su le genti della flotta durante l’armamento; l’autorità di scambiare i comiti, ossia capitani, delle galee; la franchigia di esportazione di qualunque merci lecite, comperate con suo danaro; il soldo di 60 sotbarch al giorno; la persona e le proprietà dello ammiraglio nemico che fosse preso in battaglia; gli utensili non nuovi delle galee prese e parte delle merci; gli scafi inutili delle navi regie; una ventesima parte de’ Saraceni presi, e una decima parte de’ nuovi tributi imposti su’ Saraceni; gli avanzi de’ naufragi; e gli altri dritti soliti degli ammiragli. Queste concessioni, egli è vero, furono in parte il prezzo del tradimento di Loria; ma non par dubbio ch’egli esercitasse in Sicilia, tra dritto e abuso, la più parte di questa autorità e di questi smisurati guadagni che gli si prometteano sotto le bandiere d’Aragona.
[129] Bolla di Bonifazio, in Raynald, Ann. ecc., 1295, §. 37.
[130] Breve di Bonifazio, ibid., 1296, §§. 8 e 9.
Du Cange, Hist. de l’Empire de Constantinople, ed. 1657, pag. 204, attribuisce il rifiuto ai consigli di Filippo il Bello.
[131] Nic. Speciale, lib. 2, cap. 22.
L’Anon. chron. sic., cap. 68, porta i nomi di Ugone Talach e Giovanni di Caltagirone, confondendoli con quei della legazione del 1293.
[132] Manifesto di Federigo, nell’Anon. chron. sic., cap. 54.
Vi si legge espresso fatta quella promessa da Federigo a’ Siciliani in parlamento a Milazzo. Probabilmente fu lo stesso parlamento quello che deputò gli ambasciadori a Giacomo, ancorchè Speciale non dica il luogo dell’adunanza.
[133] Montaner, cap. 182, il quale, per onor di Giacomo, non fa punto parola dell’ambasceria de’ Siciliani.
[134] Jerem. Threni, cap. I, v. 12.
[135] Nic. Speciale, lib. 2, cap. 22.
Anon. chron. sic., cap. 52 e 54, il quale porta un diploma, che si legge anco in Lünig, Cod. Ital. dipl., tom. II, Napoli e Sicilia, 64.
Geste de’ conti di Barcellona, cap. 29.
[136] Diploma citato. Altro del 30 ottobre 1295, in Testa, Vita di Federigo II di Sicilia, docum. 5.
Veggasi anche il Montaner, cap. 182.
[137] Diploma del 12 dicembre 1295, nell’Anonymi chron. sic. e Lünig, loc. cit.
[138] Nic. Speciale, lib. 2, cap. 23.
[139] Montaner, cap. 184.
[140] Nic. Speciale, lib. 2, cap. 22, 25.
Del ritorno de’ Catalani alla lor patria, fa menzione il Montaner, cap. 184; e a cap. 185, delle supposte ragioni di Federigo.
[141] Nic. Speciale, lib. 2, cap. 23.
[142] Tien quell’errore il Montaner, cap. 185, e riferisce gli altri motivi per cui Federigo si chiamò terzo, i quali non meritano che se ne faccia parola.
[143] Raynald, Ann. ecc., 1296, §§. 7, 8, 9 e 10.
[144] Nic. Speciale, lib. 2, cap. 24.
Bolla di Bonifazio VIII, data il dì dell’Ascensione, anno 2, in Lünig, Cod. Ital. dip., Sic. e Nap., num. 65.
[145] Nic. Speciale, lib 3, cap. 1.
Anon. chron, sic., cap. 54.
Montaner, cap. 185.
Dall’Anonimo pare che Giovanni di Procida fosse stato confermato nell’uficio di gran cancelliere. Ma in due diplomi del 3 aprile e 15 maggio 1296, pubblicati dal Testa., Vita di Federigo II, docum. 8 e 15, è segnato Corrado Lancia gran cancelliere. Il nome di lui si trova similmente in un altro diploma di concessione feudale a Federigo Talach, dato il 12 dicembre 1296, ne’ Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q, q. G. 1, fog. 187. Ed è più naturale che Federigo avesse dato quell’uficio a un suo fidatissimo partigiano, che al Procida, il quale gli si era scoperto contrario.
[146] Docum. XLIV.
[147] Capitoli del regno di Sicilia, costituzioni di Federigo II, lib. 1, dal cap. 1 al 6. Per la parola ferracano, veggasi il cap. III del presente lavoro.
[148] Per le difense e l’asportazion delle armi, cap. 9. Per le inquisizioni giudiziali, cap. 10. Eccezione per la falsità de’ pesi e misure, cap. 11. Esazioni sui carcerati, cap. 12. Malleverie nei giudizi criminali, cap. 13. Divieto delle esazioni negli stessi giudizi, cap. 14. Simili pei notai o piuttosto officiali dell’erario, cap. 15. Perdita dell’uficio ai magistrati che prolungasser le cause oltre due mesi, cap. 18. Divieto a diroccar le case, o guastare i poderi per misfatti dei proprietari, cap. 25.
[149] Cap. 7 ed 8.
[150] Cap. 17. Il cap. 16 è anche statuto di polizia, permettendo ai conti, baroni e militi di portar la spada e il pugnale. Il 19 disobbliga i cittadini d’accompagnare i carcerati.
[151] L’antico fiume Gela o Imera.
[152] Cap. 20.
[153] Cap. 24, 22, 21. Il cap. 23 è regolamento per le greggi transitanti. Il 26 di pena d’infamia, privazione d’uficio, e ristorazione de’ danni al doppio, contro i magistrati e officiali trasgressori di questi capitoli.
[154] Cap. 31, 32.
[155] Gap. 27, 28, 29, 30, 33. Il cap. 34 rimette ai famigliar! e cortigiani del re il dritto del suggello delle concessioni, che per avventura ricevessero dalla corte.
Il di Gregorio, Considerazioni sulla Istoria di Sicilia, lib. 4, cap. 4, suppone che l’alienazione de’ feudi fosse veleno dato al baronaggio in una coppa inzuccherata. Questa sarebbe in vero una lode di altissimo intendimento a’ nostri legislatori di quel tempo; ma è da considerare, che per lo meno non fu felice il trovato. Le condizioni del commercio e delle altre industrie appo noi in quel tempo, non eran tali che dal detto statuto potesse nascere una divisione di proprietà, e indebolimento della casta de’ baroni. Infatti i peggiori abusi di feudalità che ricordin le nostre istorie, seguirono dopo tal legge, nel secolo xiv.
[156] Diploma del 3 aprile 1296, pubblicato dal Testa, Vita di Federigo II di Sicilia, docum. 8.
Non ho fatto parola della descrizione generale dei feudi, che sembrerebbe compiuta da Federigo in questo tempo, se fosse vera la data del diploma che pubblicò il di Gregorio, Bibl. aragonese, tom. II, pag. 464 e seg. La data è del 1296, ma si dee senza dubbio portare oltre il 1303, leggendovisi il nome della regina Eleonora, la quale sposò Federigo II di Sicilia appunto in quell’anno.
[157] Nlc. Speciale, lib. 3, cap. 2.
[158] Diploma dato di Messina il 15 maggio 1296, pubblicato dal de Vio, Privilegi di Palermo, fog. 35, e dal Testa, Vita di Federigo II, docum. 15.
[159] Nic. Speciale, lib. 3, cap. 3 e 4.
Anon. chron. sic., cap. 55.
[160] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 5.
[161] Nic. Speciale, lib. 3, cap. 6.
Tali accordi, fatti da capitani di castella quando credeano che il lor signore non poteali aiutare, non furon molto rari in questa guerra. La forma di essi e le condizioni, che a un di presso doveano esser le medesime, si veggono nel diploma di Carlo II, dato il 7 marzo duodecima Ind. (1299), docum. XXVI.
[162] Fu costui il capitan generale di Carlo II, come si scorge da molti diplomi del r. archivio di Napoli, nel 1291–1293.
Veggasi ancora Elenco delle pergamene del r archivio di Napoli, tom. II, pag. 82, 91, 99, 131. Poi gli fu surrogato Guglielmo Estendard, per diploma del 30 aprile 1295, ibid., pag. 156. Nel 1299 fu rifatto capitan generale ad guerram in Calabria, Val di Crati e Terra Giordana, diploma del 29 giugno duodecima Ind., nel r. archivio sud. reg. seg. 1299, A, fog. 117.
[163] Nic. Speciale, lib. 3, cap. 7.
[164] Nic. Speciale, lib. 3, cap. 8, 9.
[165] Nic. Spedale, lib. 3, cap. 9, 10, 11.
[166] Nic. Speciale, lib. 3, cap. 15 e 16.
[167] Anon. chron. sic., cap. 55.
[168] Raynald, Ann. ecc., 1297, §§. 19 a 24, porta questa bolla dell’anno precedente.
Gio. Villani, lib. 8, cap. 18.
[169] Raynald, 1296, §. 11, breve del 5 febbraio.
[170] Bolla, In Lünig, Cod. Ital. dipl. Nap. e Sicilia, num. 65; e presso Raynald, 1296, §§. 13, 14, 15.
Le pratiche di Federigo coi Colonnesi, sono rinfacciate da Bonifazio nel manifesto contro questa famiglia, in Raynald, 1297, §§. 27 e 28.
[171] Raynald, 1296, §§. 13 e 15.
[172] Diploma del 28 agosto 1296, nell’Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 171.
[173] Ibid., pag. 172, 177, diplomi di sett., 1296, e febb., 1297.
[174] Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 20, 21.
[175] Nic. Speciale, lib. 3, cap. 12, 13, 14.
[176] Nic. Speciale, lib. 3, cap. 17.
Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 21, 23.
[177] L’ultimo concetto dell’orazione di Loria, riferita da Niccolò Speciale sembrerebbe triviale e superfluo pei noti principî del dritto comune e feudale. Ma ove si ricordi il dritto pubblico degli Aragonesi e dei Catalani, si vedrà ch’esso era per lo meno assai dubbio intorno il presente caso, cioè di combattere in paese straniero contro i comandi del proprio monarca, e forse contro le sue stesse armi che militassero da ausiliari.
[178] Nic. Speciale, lib. 3, cap. 17 e 18.
Questi dice espresso che il re, tornando repente di Calabria per quell’ambasceria, chiamò subito il parlamento a Piazza, e vinse il partito; poi tornato a Messina, rimandò l’ambasciadore con la risposta. Nei nostri capitoli del regno si leggono le costituzioni decretate in parlamento a Piazza il 20 ottobre, promulgate dal re a Messina il 25 novembre 1296, come ben il mostra il comentatore monsignor Testa. Dopo tuttociò non so comprendere come il Testa, nella Vita di Federigo l’Aragonese, porti deliberate in quel parlamento le sole costituzioni, e tenutone un secondo a Messina per quella principalissima faccenda dell’ambasceria, ch’è contro la chiara testimonianza dello Speciale, e contro la probabilità; non potendo supporsi che nel parlamento convocato così in fretta si deliberassero tranquillamente nuove regole di amministrazione pubblica, e si rimettesse ad altro tempo la vital quistione della pace e della guerra. Se il secondo parlamento fosse stato convocato, perchè nel primo non si era potuto conchiuder nulla sull’oggetto principale, nel primo si sarebbero tutto al più prese deliberazioni di poco momento, non quelle riforme a favor dell’elemento municipale che mostrano l’azione d’un partito preponderante. Due cose io credo abbian tratto in errore il Testa. La prima, aver seguito nello Speciale (cap. 18) la lezione, Fridericus Messanam egreditur, anzichè la più naturale di regreditur, ritenuta dal di Gregorio. La seconda sorgente di errore fu l’error del Surita, il quale avendo per le mani la cronaca di Speciale, che non porta date, e non i nostri capitoli del regno, ma alcuni diplomi riguardanti un’ambasceria di Giacomo a Federigo in febbraio 1297, pensò porre questa innanzi il parlamento di Piazza; e narrò che Federigo, avuti i messaggi, rispose che ne riferirebbe al parlamento, e que’ non vollero attendere. Il Testa in parte seguendo Surita, e in parte correggendolo come que’ che avea sotto gli occhi la vera data del parlamento di Piazza, compose quel secondo di Messina. A me par chiaro, che nel parlamento tenuto in Piazza il 20 ottobre 1296 si deliberarono insieme, come afferma Speciale, la risposta all’inviato aragonese, e, come il provano i capitoli del regno, le novelle costituzioni anzidette. Tengo ancor vera la legazione di febbraio 1297, perchè Surita certo la trasse da diplomi. E questo fatto, collocato così a luogo opportuno, riesce verosimile: perchè Giacomo insistè dopo la prima ripulsa; Federigo se ne rimise al solito al parlamento, e gli oratori aragonesi, avendone istruzione del re, o comprendendo che riferirsi al parlamento era un prender tempo a una seconda ripulsa, andaron via senz’aspettarla, come afferma il Surita. Indi si vede più chiaramente l’errore del Testa, che, togliendo al tutto da Surita questa legazione di febbraio 1297, fa tener poi il parlamento in Messina, quando al creder di Surita, lib. 5, cap. 26, fu convocato dopo la partenza de’ legati, e in Piazza.
[179] Cap. 45, 57, 37, 40, 42, 43, 44, 50, 51, 52, 54.
[180] Cap. 36, 38, 39, 46, 47, 48, 58.
[181] Cap. 45.
[182] Cap. 55, 41, 56.
[183] Cap. 53.
[184] Cap. 59 infino al 75.
[185] Cap. 76.
[186] Cap. 77 infino ad 84.
[187] Cap. 82, 83, 85.
[188] Questo statuto pel carcere è nel cap. 84.
[189] Nic. Speciale, lib. 3, cap. 18.
Questa fazione d’Ischia si dee porre tra il 15 settembre e il 20 ottobre 1296, perchè di questa data abbiam due diplomi di Carlo II, l’uno in Brindisi, l’altro in Roma; e Speciale afferma che il re si trovava in Napoli quando tornaron le quattro teride fuggenti.
[190] Raynald, Ann. ecc., 1297, breve del 30 dicembre 1296.
[191] Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 25. Veg. la nota a pag. 96 nel presente capitolo.
[192] Surita, ibid., cap. 28.
La bolla è data il 4 aprile 1297, in Raynald, Ann. ecc., 1297, §§. 2 a 16.
Veg. anche Gio. Villani, lib. 8, cap. 18.
Nic. Speciale, lib. 3, cap. 12.
[193] Raynald, ibid., §. 17.
[194] Diploma dell’8 giugno 1297, pubblicato dal Testa, Vita di Federigo, docum. 7.
[195] Raynald, Ann. ecc., 1297, §. 18.
[196] Ibid., §. 25.
[197] Nic. Speciale, lib. 3, cap. 18 e 19.
È gran danno che questo scrittore diligentissimo abbia a sdegno di riportar le date de’ più notabili avvenimenti. In questo di Ruggiero Loria, ancorchè certo si sappia che fin dall’anno precedente ei fosse risoluto a spiccarsi da Federigo, pur importerebbe molto ritrarre appunto il giorno che l’ammiraglio fu sostenuto a corte e poi si fuggi. Perocchè Giacomo a 2 aprile 1297, il creava grande ammiraglio a vita (diploma in Quintana, citato di sopra a pag. 69) e papa Bonifazio il 6 del mese stesso concedeva in feudo a Loria, tornato ad Apostolicae sedis gratiam et mandata, il castello e la terra di Aci, del dominio della chiesa o del Vescovo di Catania, e da lui al presente tenuti (Breve inserito in un diploma di Carlo II, dal registro del r. archivio di Napoli, seg. 1299, C, fog. 14, e pubblicato dal Testa, Vita di Federigo, docum. 10). Or egli è chiaro, che se queste concessioni furon fatte prima della fuga di Ruggiero, costui non tentennava già tra i nemici e Federigo, ma dissimulava la tradigione; e se ne dee conchiudere che Federigo, se errò, errò solo nel risparmiarlo. In ogni modo il nome di Loria e quel di Procida, che prima d’esso s’era gittato alla Via di tradigione, van condannati nel severo giudizio dell’istoria. Il risentimento contro l’invidia de’ cortigiani, potea portarli ad allontanarsi dalle faccende pubbliche e dalla corte, a menar vita privata nelle lor castella, appunto come Loria minaccio a Federigo dopo la presa ti Cotrone; non già a passare a parte nemica, accettar da essa, dignità, beni, carezze. Entrambi abbandonarono Federigo e la Sicilia, perchè non credeano ohe potessero reggere contro le forze di mezz’Europa collegata; e Loria, che avrebbe pur chiuso gli occhi al pericolo se Federigo si fosse lasciato governare da lui, cedè a quell’interesse, quando vide contrariata la sua disorbitante ambizione.
[198] Nic. Speciale, lib. 3, cap. 20, 21, 22.
Anon. chron. sic., cap. 56.
Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 26 e seg.
Gio. Villani, lib. 8, cap. 18.
Veggasi anche il Montaner, cap. 185, il quale seccamente narra l’andata della regina Costanza a Roma con Giovanni di Procida, ove il re d’Aragona era venuto per trattar pace tra Carlo e Federigo. E per le concessioni a Loria veggansi anche i due diplomi del 2 e 6 aprile 1297, citati nella nota precedente.
[199] Molti documenti fornisce il r. archivio di Napoli intorno i beni di Giovanni di Procida, e la restituzione che ne fece il governo angioino dopo la sua, come piaccia meglio chiamarla, conversione o tradigione. Ecco quelli in cui io mi sono avvenuto rifrustando i registri angioini.
Diploma del.....Carlo II concedette ad Anselletto de Nigella, valletto della sua corte: In primis, de bonis que fuerant Joannis de Procida, palatium quod dicitur Ferni cum terris adiacentibus eidem palatio circum circa, arbusto de nova plantato, olivato, vinea, avellaneto et castaneis etc. e le rendite di alcuni villani di cui si trascrivono i nomi, ch’eran tenuti a dare al signore una gallina per le feste di san Martino, Natale e Quaresima (carniprivio) e trenta uova per Pasqua. Reg. seg. 1294–95, A, fog. 81, a. t.
Diploma del 28 marzo duodecima Ind. (1299), perchè sulle pubbliche entrate di Salerno si pagassero once 12 annuali a Colino di Ducato, in compenso de bonis quondam Joannis de Procida militis, che il detto Colino avea risegnato alla curia, e questa ai procuratori di Giovanni di Procida. Reg. seg. 1299, A, fog. 30.
Diploma del 16 aprile duodecima Ind., perchè lo stratigoto di Salerno facesse rendere al procuratore de’ beni di Giovanni, ereditati da Tommaso di Procida, alcuni beni burgensatici presi da supposti creditori; e se costoro avesser dritto, il facesser valere innanzi il giudice competente. Ibid., fog. 15, a t.
Diploma della stessa data allo stesso effetto, ibid., fog. 210, pubblicato a docum. XXVIII.
Diploma dato di Napoli a 6 maggio duodecima Ind., per lo quale son resi a Tommaso di Procida alquanti beni, già conceduti ad altre persone, e a queste è assegnato un compenso. In questo diploma è notevole il principio: Sub presentanone promissionis facte per nos magnifico principi domino Jacobo regi Aragvnum filio nostro carissimo de restaurandis Thomaso de Procida militi fideli nostro burgensaticis bonis omnibus que quondam Johannes de Procida pater ejusdem Thomasii discessus sui tempore de regno nostro Sicilie in regno ipso tenuerat, etc. Ibid., fog, 56, e replicato a fog. 119.
Altro diploma della stessa data, per altri beni dello stesso Procida, simile al tutto. Ibid., fog. 56 a t.
Diploma del 18 agosto duodecima Ind., perchè senza strepito di giudizio si rendesse ragione a una vedova, che chiedea il pagamento di un debito che avea contratto con lei quondam Joannes de Procida miles dum erat in gratia clarissime memorie domini patris nostri, Ibid., fog. 213.
Diploma della stessa data del 18 agosto. Compenso di alcuni beni, ch’erano stati di Giovanni di Procida, e i presenti possessori li aveano ceduto al fisco per renderli a Tommaso. Ibid., fog. 137 a t.
Diploma del 29 settembre 1300, cavato dallo stesso r. archivio di Napoli e pubblicato dal Buscemi, Vita di Giovanni di Procida, docum. 8.
[200] Quintana, Vidas, etc., tom. I, pag. 170, dice che questo sepolcro si vedea ancora nel monastero di Santa Croce dell’ordine di san Bernardo in Catalogna; e trascrive la modesta iscrizione che vi si leggea ancora, secondo la quale Loria morì il 17 gennaio 1865. Ibid., tom. II, pag. 125, è pubblicata la disposizione testamentaria dell’ammiraglio per la sua sepoltura.
[201] Il sac. Buscemi, nella Vita di Giovanni di Procida, porta che finisse i suoi giorni di settembre 1299, argomentandolo dal diploma del 30 settembre 1300, docum. 8, in fin del suo lavoro, nel quale riconcedeasi a Tommaso, suo secondo figlio, il castel di Procida, di cui il primogenito, Francesco, non avea curato di prender l’investitura nel solito termine di un anno e un giorno dalla morte del padre. Gli altri diplomi da me trovati nell’archivio di Napoli e citati nella nota precedente mandano indietro la morte del Procida almeno infino a marzo 1299.
[202] Ricordinsi i documenti che ho notato nel cap. precedente a mostrare il tradimento di Giovanni di Procida alla Sicilia.
[203]
Vadi a mia bella figlia, genitrice
Dell’onor di Cicilia, e d’Aragona.
Dante, Purgat., c. 3.
[204] Veg. le autorità allegate dallo Inveges, Palermo Nobile, parte 3. Anni 1260–61–62.
[205] In gran parte ho tolto queste riflessioni su la regina Costanza, da Speciale, lib. 3, cap. 20, 21.
Nelle costìt. di Federigo II (capitoli del regno di Sicilia), si confermano tra gli altri privilegi quei della regina Costanza: nec non Aragonum et Siciliae regina sanctissima mater nostra, etc.
Per la morte della regina Costanza veggasi il Montaner, cap. 185.
[206] Federigo rimeritò la lealtà di Randazzo con alcune franchige nelle dogane di terra e di mare, per diploma del 15 giugno 1299, pubblicato dal Testa, op. cit., docum. 17.
[207] La fellonia di Tommaso di Lentini è confermata da un diploma del 18 febbraio 1299, col quale Federigo die’ in feudo a Bartolomeo Tagliavia la terra di Castelvetrano, posseduta da quello. Nei Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 3.
[208] Nic. Speciale, lib. 3, cap. 22.
Anon. chron. sic., cap. 57.
La presenza di Federigo all’assedio di Castiglione, si attesta da un diploma del 27 agosto 1297, dato nel campo sotto Castiglione, pubblicato dal Testa, Vita di Federigo, docum. 11. La dedizione del castel di Aci è da porsi nel mese di novembre 1297, perchè non tardò guari dopo quella di Castiglione ma infino al 18 novembre sapeasi in Napoli che tenesse pur quel castello; come si scorge da un diploma pubblicato dal Testa, ibid., docum. 14.
[209] Sembra che questa guerra di Calabria, di che parla Speciale, sia stata la cagion della chiamata al militar servigio in tutto il reame di Puglia, della quale ci restan moltissimi diplomi dati a 19 aprile, 7, 22, 23, 25, 27 e 30 maggio, 2, 11, 17, 18, 20, 22 giugno 1297, nell’Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 179 a 188. Ivi si legge a pag. 180 un altro diploma del 4 maggio, che accorda once 10 a un Giovanni pro sumptibus itineris ad exercitum.
[210] Conferma questo attestato dello Speciale un diploma del 29 aprile 1297, col quale Roberto vicario generale dava a Riccardo de Avenis alcune terre in Calabria, dummodo infra kalendas Augusti ad Ecclesie romane et Regis fidem redeat a qua defecerat. Elenco cit., tom. II, pag. 179.
[211] Nic. Speciale, lib. 4, cap. 1.
[212] Diplomi del 18 novembre (certamente 1297) e del 9 febbraio undecima Ind. 1298 (si legge 1297 computando gli anni dal 25 marzo), pubblicati dal Testa, Vita di Federigo II, docum. 14 e 18.
[213] Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 33.
[214] Diploma del 18 novembre 1297 citato di sopra, e i molti altri accennati nel seguito di questo capitolo.
[215] Nic. Speciale, lib. 4, cap. 2.
L’Anon. chron. sic., cap. 59, porta l’impresa di Giacomo, operante supradicto papa Bonifacio.
Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 33.
Montaner ci abbandona al tutto in queste guerre di Giacomo contro Federigo. Porta gli armamenti del primo, come fatti per amor di fermare la pace tra re Carlo e Federigo; a questo il dice venuto in Italia con centocinque galee; nè fa motto del passaggio in Sicilia nel 98, nè di quel dell’anno appresso, nè della battaglia del capo d’Orlando; ma crede aver soddisfatto all’uficio d’istorico, chiudendo il cap. 186 con queste parole: «Altri senza dubbio dirà: come dunque Montaner passa sì lieve su questi fatti? Se tai parole indirizzasse a me, replicherei che v’ha delle domande le quali non meritano risposta.»
Le trattative intorno la restituzione al re di Maiorca non appartengono direttamente al presente lavoro, ma fan vedere che Bonifazio per amor dell’impresa di Sicilia sagrificava gli interessi di Giacomo di Maiorca, e temporeggiava con Filippo il Bello che li volea sostenere. Ciò si conferma coi documenti degli archivi del reame di Francia qui appresso notati:
Diploma di Giacomo re d’Aragona, dato di Valenza a 15 febbraio 1237, permettendo a Carlo II di stabilire in suo nome, che per due anni non farebbe guerra a Filippo il Bello, e permetterebbe i commerci co’ suoi sudditi, J. 588, 20. Breve di Bonifazio dell’8 agosto 1297, pel quale temporeggia con Filippo il Bello, che insisteva a favore del re di Maiorca, J. 715, 24. Diploma di Giacomo di Maiorca, dato a Saint–Germain–des–Prés l’8 gennaio 1298, consentendo un certo differimento alla restituzione, stabilito tra i re d’Aragona e di Francia, J. 598, 1. Atto pubblico dato in Aix a 2 maggio 1298, nelle stanze di Carlo II, che stipola le condizioni coi re di Francia e Maiorca, a nome di Giacomo d’Aragona; secondo il citato diploma del 15 febbraio 1297, che anche trascrive, J. 511, 6.
[216] Diploma del 15 giugno 1298, tratto da’ registri della real cancelleria di Sicilia, pubblicato dal Pirro, Sicilia sacra, pag. 409, ed. 1733.
[217] Nic. Speciale, lib. 4, cap. 3 e 4.
Anon. chron. sic., cap. 58, 59.
[218] Il Testa, nella Vita di Federigo, porta l’armata ad 80 galee e 90 altre navi, non computatevi le sottili; a 500 cavalli e 1,156 pedoni le genti da sbarco venute d’Aragona con Giacomo. Quest’ultimo numero è tolto da un diploma del 23 giugno 1299, il quale per vero non descrive le forze portate da Giacomo, ma quelle da lui lasciate in Sicilia al fine di questa prima impresa, che poteano esser minori per cagion degli uomini perduti nella guerra, o maggiori pei Catalani e altri avventurieri che poi vi s’aggiugnessero. Picciolissimo fu in questa armata il numero delle navi napoletane, come si vede da parecchi diplomi dati tra il fin di marzo e mezz’aprile 1299, nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1299, A, fog. 1 a 15.
Quanto alle forze terrestri, che furono certo assai grosse, si vegga nel seguito del presente capitolo ciò che scrive Spedale delle perdite sofferte nello assedio di Siracusa.
L’Anon. chron. sic. porta venuto Roberto con re Giacomo. Speciale. non ne parla che nel consiglio per discior l’assedio di Siracusa. E per vero si ritrae ch’ei passava in Sicilia in fin di novembre 1298, o più tardi; leggendosi in alcuni diplomi che i feudatari del regno di Napoli dovessero far la mostra alla sua presenza in Napoli il dì 20 novembre per muover contro la Sicilia. Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, fog 209 e 210, diplomi dell’8 e 23 novembre 1298.
[219] Anon. chron. sic., cap. 59.
Nic. Speciale, lib. 4, cap. 10.
Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 35.
[220] Veggansi le concessioni feudali in Sicilia fatte da Giacomo a Fulcone Barresio, per diploma del 13 settembre 1298, e a Simone de Belloloco e Filippo di Porta, per altre carte accennate ne’ diplomi del 24 luglio 1299 e 28 dicembre 1300, e la intitolazione d’un atto pubblico dato di Novara il 1 luglio 1299; de’ quali diplomi, il primo e l’ultimo citansi nel seguito di questo capitolo, gli altri due nel cap, XVII. Non abbiam traccia di alcuna delegazione di tanta autorità, che facesse Carlo II a Giacomo. E però è manifesto, che Giacomo la esercitava come capitan generale della corte di Roma, la quale poco prima avea disposto di dare in feudo a Loria il castel d’Aci, come sopra si è detto. La finzione del ceder l’isola a Roma presto fu dismessa; ma non cessarono le pretensioni di Bonifazio, anzi ne nacque una timida gelosia nella corte di Napoli, come si argomenta dal diploma di concessione feudale a Virgilio Scordia, docum. XXXVI.
[221] Nic. Speciale, lib. 4, cap. 4.
Anon. Chron. sic., loc. cit.
[222] Nic. Speciale, lib. 4, cap. 5.
Anon. chron. sic., cap. 59.
[223] Diploma del 8 gennaio 1299 (per errore 1297 col computo dell’anno dal 25 marzo), pubblicato dal Testa, Vita di Federigo II, docum. 9.
[224] Parmi che tornino a questo concetto le parole di Speciale: plus sapere quam oportebat attentans, neque intelligens verbum illud: curo possidente possideas. Questo traditore giovò molto alla causa dei nemici, come si vede da un diploma di Carlo II, dato il 1 luglio 1299, nel quale è perdonato e redintegrato ne’ suoi feudi, perchè se nella ribellione fallì per concorso, oggi ravveduto, osservava la fede al re angioino, animo et opere. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1299, A, fog. 158 a t. e 24 a t.
Oltre a questo, il governo angioino, per diploma dato lo stesso dì, gli concedea l’aspettativa di altre terre e feudi, del valore d’once cento annuali. Ibid., fog. 158.
Mostra ancora la importanza del Barresi, che fu seguito da un suo fratello per nome Fulcone, un altro documento. A costui Giacomo re d’Aragona die’ in feudo in Sicilia a dì 13 settembre 1298, con diploma dato di Milazzo, pe’ suoi continui e rilevanti servigi a pro della Chiesa, il castello e casal di Chila tra Mineo e Caltagirone, con mero e misto impero. Raffermò questa concessione Roberto a dì 10 settembre 1299 da Aidone; e Carlo II da Napoli a 16 febbraio 1300. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1299–1300, C; e ne’ Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 2, fog. 88.
Il di Gregorio, nella Bibl. arag., tom. II, pag. 520, pubblicò un diploma di Federigo, pel quale furon conceduti a Blasco Alagona il castello e la terra di Naso, posseduti una volta da Giovanni e Matteo Barresi traditori. Questo documento porta la data di Palermo a 26 gennaio decima Ind. anno dell’Incarnazione 1297, e 2o del regno di Federigo; ma io credo errata manifestamente questa data, perchè la decima Ind. cadde bene di gennaio 1297 nell’anno comune, ma nell’anno dell’Incarnazione rispondeva al gennaio 1296. Indipendentemente da tal errore, si può corregger senza alcun dubbio duodecima ind. gennaio dell’anno dell’Incarnazione 1298, ossia gennaio 1299 dell’anno comune, perchè Barresi si ribellò da Federigo al passaggio primo di Giacomo, cioè tra agosto 1298 e la primavera del 1299 dell’anno comune. Il riferisce Speciale, diligentissimo nel descrivere questi tempi di Federigo, ne’ quali ei visse ed ebbe alto stato.
[225] Nic. Speciale, lib. 4, cap. 6 e 7.
[226] Nic. Speciale, lib. 4, cap. 7 e 8.
Tolomeo da Lucca, Ann. in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1303. Anon. chron. sic., cap. 60, che porta un po’ diverso il numero delle galee.
Non mi è riuscito di trovare una interpretazione plausibile di questo soprannome di Garsagnini o Garfagnini, con ch’eran proverbiati que’ prigioni catalani. Gli scrittori contemporanei non ne danno la origine; non si trova nella nostra lingua parlata; il Du Cange, nel glossario, la nota senz’altra spiegazione, che d’essere stata adoperata come ingiuria nel caso particolare narrato di sopra. Il Testa, leggendola garsagnini, spiega per sfregiati, marcati, rappiccandola con la voce garsa che suonava profondo cincischío, e così è rapportata dal Du Cange, e così resta ancora nell’idioma siciliano, in cui talvolta si pronunzia anche gassa. Ma io non so accettare che i siciliani guerrieri di que’ tempi, si beffassero delle cicatrici di altri guerrieri; a d’altronde questo combattimento del Faro non fu sì ostinato, che la più parte de’ prigioni potesse escirne con ferite. Perciò crederei più tosto leggere garfagnini per metatesi da qrafagnini, grifagnini, grifagni, o derivato da aggraffare, e in siciliano aggranfari. Ed era ben naturale che i nostri guerrieri cittadini dessero di saccardi, predoni, rapaci ladroni, a que’ soldati venderecci di Giacomo.
Non credo che questo soprannome potè trarsi in alcun modo dai Garfagnini, abitatori della Garfagnana nello stato di Modena.
[227] Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1271, sì legge un diploma del 12 gennaio decimaquarta Ind. (1278), col quale è conceduta a Guglielmo de Mosterio la terra di Grattieri, posseduta già dal conte Arrigo Ventimiglia, traditore, dicea re Carlo.
[228] Nic. Speciale, lib. 4, cap. 9.
[229] Speciale dice 18,000 uomini perduti; ma sembran troppi.
[230] Si vede dal citato diploma del 23 giugno 1299, Testa, docum. 16.
[231] Nello stesso diploma e in un altro della stessa data del 23 giugno, citato nel seguito di questo capitolo, si fa menzione di Pietro Cornel, nominato da Speciale in questo luogo.
[232] Nic. Speciale, lib. 4, cap. 10 e 11.
Anon. chron. sic., cap. 60 e 61.
Per la infermità di Giacomo in Napoli e il figliuolo quivi partoritogli da Bianca, veg. Surita, Annali d’Aragona, lib. 5, cap 37 e 38.
La data del ritorno di Giacomo in Napoli dopo questa prima impresa di Sicilia, si conferma per un diploma dato di Napoli a 5 marzo duodecima Ind. (1299), nel quale, dicendosi abbisognar molto frumento pro adventu illustris regis Aragonie, il re comandava trovarne subito 2,000 salme e farne biscotto, sì che fosse pronto il 12 marzo. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1299, A, fog. 41 a t.
Tra le terre ch’eran rimase a’ nemici in Sicilia fu anche Novara, e tenne per Loria, come si ricava da un diploma del 1 luglio 1299, dato in quella terra col titolo di re Giacomo d’Aragona.....existente etiam et dominante domino nostro domino Rogerio de Lauria milite, regnorum Aragonum et Sicilia ammirato, nec non et gratia Dei et regis et per sanctam Romanam Ecclesiam inclito domino Castellionis, Francavillae Nucariæ, Linguegrossae, Cremestadis, S. Petri supra Pactas, Ficariæ, et Turturichii, sui dominii praedictarum terrarum et locorum anno primo feliciter, amen.
Dal monastero Cisterciense di Santa–Maria di Novara. Tra’ Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 1, fog. 178.
Quanto a’ soccorsi di Napoli alle castella che teneansi nelle costiere settentrionali di Sicilia, dà validissimo argomento a supporli un diploma del 1 aprile tredicesima Ind. 1299, col quale è ordinato di mandarsi ad partes Sicilie per conto di Ruggier Loria 10 salme di sale. Certamente il governo di Napoli non si limitava a questa sola provvedigione. R. archivio di Napoli, reg. seg. 1299, A, fog. 31.
[233] Raynald, Ann. ecc., 1298, §. 17, breve al patriarca d’Armenia, 26 ottobre anno 4.
[234] Ibid. 1299, §§. 1 e 2, brevi dell’8 e 9 giugno.
[235] Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 87, 88.
[236] Docum. XXIX e XXX.
[237] Dei pagamenti fatti a Giacomo in Napoli dan fede i diplomi del 21, 22 e 25 marzo e 4 maggio, 15 e 18 giugno e 8 luglio duodecima Ind., nel registro del r. archivio di Napoli segnato 1299, A, fog. 24, 23, 33, 54 a t., 92 a t., 110 e 209 a t. Son quietanze ai capitani delle città di Aquila, Lucera, Guastimone e Salerno per le somme consegnate a Consalvo Garzia, commissario del re d’Aragona, e tolte da’ sussidi che quelle città avean promesso per la presente guerra.
Tre diplomi del 30 maggio, 6 giugno e 8 luglio attestano il pagamento di altre once 220 al medesimo Consalvo Garzia, su la sovvenzione che forniva la città di Napoli; e tutti questi danari furono di carlini d’argento di 60 all’oncia. Ibid., fog. 126 a t. e 138 a t.
Un altro diploma del 24 giugno duodecima Ind., porta il pagamento stipendi di alcuni uomini d’arme del re di Aragona, fatto dall’erario di Napoli per mezzo di Consalvo Garzia. Un di questi condottieri, per nome Bertirando Artus, avea 12 once al mese, e’ suoi scudieri 2 once; un altro condottiero 6 once, ec. Reg. citato 1298, A, fog. 115.
Questi pagamenti stentati e spezzati, fatti a misura che s’avea il denaro delle sovvenzioni, ancor mostrano quanto fosse esausto l’erario di Napoli in quel tempo. Veg. anche i diplomi del 25 maggio, 5 e 23 giugno nelle seguenti note.
[238] Diploma del 23 giugno 1299, dal registro del r. archivio di Napoli segnato 1299, A, fog. 111, pubblicato dal Testa, op. cit., docum. 16, dal quale si ricavano i seguenti particolari:
Che Giacomo avea lasciato in Sicilia 79 cavalli alferrati (cioè uomini scelti, armati da capo a pie’, donde forse presero il nome gli alfieri o portatori d’insegna), 422 altri cavalli, e 1,156 fanti; da pagarsi da gennaio ad aprile 1299, per once 5,259; e per maggio ancora, nel numero di 78 cavalli alferrati, 426 cavalli e 1,203 fanti, per once 2,071,15.
Che la flotta catalana si dovea pagare per 5 mesi da gennaio a tutto maggio; ma si contentava di 4 mesi di soldo per once 8,951, essendo rimasta gran pezza ne’ porti.
Che tornaron di Sicilia con Giacomo alferrati 28, cavalli 425, fanti 151 ch’erano già soddisfatti in Napoli.
Che i Catalani andavan creditori inoltre di once 6,085,28, per supplimento a’ cavalli morti o perduti.
Da ciò si argomenta ancora che a tutto dicembre 1298, avea pagato queste genti il papa o re Carlo.
[239] I mercatanti fiorentini, massime della compagnia de’ Bardi, prestavan danari a re Carlo, pigliando in sicurtà o in isconto la tratta de’ grani.
Diploma dell’ultimo febbraio duodecima Ind. (1299), nel quale si legge che il danaro col quale gli angioini comperarono dal traditore Berengario degli Intensi la città d’Otranto, era stato pagato in parte dal mercatante Bartolomeo della compagnia dei Bardi, la quale avea promesso dare in prestito alla corte di Napoli a tutto marzo 1299 once 4,000, e le era stata ceduta la tratta di 40,000 salme di frumento. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1299, A, fog. 22.
Diploma del 25 maggio duodecima Ind. a Lippo Ildebrandini e altri della compagnia de’ Bardi di Firenze. Saducetto d’Adria graffiere di Carlo II, e Consalvo Garzia cavaliere di re Giacomo, erano stati deputati insieme a raccorre il danaro della sovvenzione generale per la guerra, e tutt’altro danaro appartenente a Carlo o a Giacomo. La compagnia Bardi avea promesso once 4,000 per prezzo della tratta di 40,000 salme di grano. E i due suddetti le davan questa scritta per le once 4,000, da lei veramente pagate. Reg. cit. 1299, A, fog. 185.
Diploma del 5 giugno duodecima Ind. Carlo II dà cautela per 10,000 once d’oro, pagate da alcuni mercatanti della compagnia degli Spini di Firenze, mercatanti di Bonifazio VIII. Questo danaro era stato rassegnato in vari giorni, a un cassiere dei re e a Consalvo Garzia. E Bonifazio il dovea a Carlo pro pretio quorundum jocalium. Ibid., fog. 183.
Diploma del 23 giugno. Sen vede che a tutto quel mese Giacomo dovea a Pietro Cornel condottiero, per stipendi e prezzo di cavalli, once 1,941. Per mezzo de’ Bardi ne fu pagata una parte in Provenza; il rimanente dovea soddisfarsi entro un anno. Ibid., fog. 112. Questo Cornel, citato dallo Speciale come consigliator della ritirata da Siracusa nel 1298, nella state del 1299, pria della nuova impresa, se ne tornò in Ispagna, come si vede da un altro diploma dato l’8 giugno, ibid., fog. 104, che gli accordò il permesso dell’uscita dalle frontiere.
Diploma del 23 giugno duodecima Ind., per once 1,120 date in prestito da Benedetto Bonaccorsi della compagnia de’ Bardi di Firenze, con cessione di tratta dì grani. Ibid., fog. 141.
Diploma del 23 giugno 1299, ibid., fog 96 a t., che contiene altri imprestiti e cessione della tratta di grani alla compagnia de’ Bardi di Firenze.
Diploma dell’ultimo di giugno duodecima Ind. Altri imprestiti de’ Bardi. Ibid., fog. 97.
Diploma dell’ultimo di giugno. Da questo si vede che la compagnia de’ Bardi avea casa in Marsiglia; e che avea tratto di Marsiglia e pagato in Napoli once 2,200 per tasse di Provenza, e decime ecclesiastiche di quelle chiese, concedute dal papa per la presente guerra. Ibid., fog. 185 a t.
Altro diploma del 4 luglio, ibid., fog. 147, per altri imprestiti di mercatanti italiani.
Diploma del 2 agosto duodecima Ind., ibid., fog. 167 a t., per un’altra tratta di vittuaglie alla stessa compagnia.
Altri se ne veggono sullo stesso proposito nell’Elenco delle pergamene del medesimo r. archivio, tom. II, pag. 193, 213 e 215, in data del 5 maggio 1298, 7 gennaio, 20 e 25 febbraio 1299.
Molti altri diplomi attestano che la compagnia de’ Bardi avea in affitto la zecca di Napoli; e talvolta gli ufici delle segrezie di qualche provincia.
[240] Veg. la nota 238, pag. 128.
[241] Diploma del 12 febbraio duodecima Ind. 1299, dall’archivio di Napoli, reg. seg. 1299, A, fog. 17. Vi si legge come tre cardinali da parte di Bonifazio aveano intimato a Carlo che pensasse a soddisfare i grossi debiti verso la santa sede, per imprestiti a lui e al padre, censo non pagato, e sussidi sì nella guerra, sì per lo maritaggio della figliuola con re Giacomo.
[242] Diplomi del 18 e 20 marzo, 8 e 23 aprile, dai quali si ritraggono vari atti di forza privata commessi da masnade e genti armatesi popolarmente in Vico, Maddaloni, e altre terre anche in Principato. Ibid. fog. 21 a t., 23 a t., 30 a t., 51, 75.
[243] Diploma del 25 marzo duodecima Ind. per le vittuaglie che si portavano clandestinamente a’ confini dei nemici in Basilicata, particolarmente dalla terra di Colubrano. Reg. cit. 1299, A, fog. 24 a t.
Diploma del 9 aprile duodecima Ind., al capitano di Bari. È la commissione del suo uficio, pel buono e pacifico stato de’ cittadini, e perchè ab hostium non ledantur insidiis. Ibid., fog., 26.
[244] Diploma del 22 marzo duodecima Ind., ibid., fog. 23, nei quale si legge un capitano in Lucera.
Diploma del 26 marzo duodecima Ind., pel quale è eletto un capitano in Bari con mero e misto impero. Ibid., fog. 25.
[245] Diploma del 26 marzo duodecima Ind. (1299), col quale è fornita una picciola somma per riparazione delle galee testè tornate di Sicilia. R. archivio di Napoli, reg. seg. 1299, A, fog. 524.
Diploma del 9 aprile duodecima Ind., perchè si fornissero di biscotto alcune galee napoletane e aragonesi nel porto d’Otranto. Ibid., fog. 31 a t.
Diploma del 12 aprile duodecima Ind., per comperarsi subito gran copia di stoppa da rispalmar le galee. Ibid., fog. 51 a t.
Diploma del 2 maggio duodecima Ind., per cinque galee catalane ch’erano a Brindisi, e si dovean vettovagliare, e armarne quattro, non bastando la gente per cagion delle malattie. Ibid., fog. 65 a t.
Diploma del 29 maggio duodecima Ind. Remiganti in gran copia assoldati in Pozzuoli, Salerno, Sorrento, e Castellamare. Ibid., fog. 85.
Vari diplomi del 30 maggio duodecima Ind., per remiganti da assoldarsi in Gaeta, Amalfi, Castellamare e altri luoghi. Ibid., fog. 93.
Diploma del 2 giugno, per armarsi dieci galee e provvedersi di viveri. Ibid., fog. 87.
Tre diplomi della stessa data, che contengono altre richieste di uomini per la flotta. Ibid., fog. 88 e 99.
Diploma del 23 giugno, per armamento di galee in Brindisi. Ibid., fog. 97.
[246] Riguardo all’esercito si trovano nel r. archivio di Napoli questi documenti:
Diploma del 28 marzo duodecima Ind., per lo quale fu differita infino alla pasqua l’adunata in arme di tutte le milizie feudali a Foggia, bandita prima per marzo. Reg. 1299, A, fog. 26 a t.
Diploma del 18 aprile duodecima Ind., perchè da Principato e Terra di Lavoro si recassero in Napoli balestrieri e fanti. Ibid., fog, 51 a t.
Diploma del 27 aprile duodecima Ind., Chiamata al militar servigio in Calabria. Ibid., fog. 80.
Diploma del 2 maggio, duodecima Ind., per trovarti balestrieri e pedoni pronti agli ordini di Roberto duca di Calabria, vicario generale. Ibid., fog. 54.
Diploma dell’8 maggio, duodecima Ind. Chiamata al militar servigio e allo addoamento. Ibid., fog. 79.
In tutto il registro 1299, A, ci son molti altri diplomi per armamento de’ cavalli all’impresa di Sicilia.
[247] Diploma del 18 aprile, duodecima Ind., al castellano di Pozzuoli, per aver cura che di quella spiaggia non andasser marinai a Ischia e Procida, e non si facessero segnali alle dette isole con fuoco e fumo. Reg. cit., fog. 51 a t.
Diploma del 6 maggio, duodecima Ind,, pel quale è differito l’ordine dato al comune di Aversa che mandasse 1,000 uomini, armis et instrumentis aliis decenter munitos ad rebelles insulas nostras Iscle Capri et Procide. Ibid., fog. 61.
Diploma del 5 giugno 1299. Ibid., fog. 103 a t. Per adunarsi fanti con accette e scuri da mettere a guasto le campagne d’Ischia, ove Giacomo si dovea portare con la flotta. Napoli dovea fornir 400 uomini, Aversa 300, Capua 300.
Diploma del 12 giugno, duodecima Ind. Si doveano pagare per 10 dì, alla ragione di dieci grani al giorno, i 300 fanti d’Aversa, mandati pel guasto d’Ischia. Provvedeasi che il danaro si ritraesse da una contribuzione degli abitanti d’Aversa. Ibid., fog. 128.
[248] Veg. docum. XXVI e XXVII, e questi altri:
Diploma del 12 marzo, duodecima Ind. (1299), per la custodia degli statichi del castell’Abate. Reg. cit. 1299, A, fog. 45.
Diploma del 14 marzo. Il dì 20 i principi Roberto e Filippo si dovean trovare con le genti loro sotto il castell’Abate, per combatter quelle di Federigo, se venissero al soccorso. Perciò, affinchè abbian giusto numero di cavalli e fanti, è provveduto: quod de quolibet foculario mictant servientem peditem unum, munitum armis decentibus et expensis que sibi sufficient amorandum ibidem cum duce prefato. Ibid., fog. 46.
Diploma del 28 marzo. Per la medesima cagione, chiamati al militare servigio i feudatari delle città di Napoli, Capua ed Aversa pel 14 aprile. Ibid., fog. 2 a t.
Diplomi del 1 e 2 aprile duodecima Ind. (1299), per milizie presentatesi al castell’Abate, coram Roberto primogenito nostro duce Calabrie. Ibid., fog. 36.
Diplomi dell’8 e 9 aprile, da’ quali si scorge che Apparente di Villanova castellano del castell’Abate, consegnatolo agli angioini, ebbe salvocondotto a tornarsi in Sicilia. Ibid., fog. 6.
Altro diploma dell’8 aprile, per gli stipendi delle genti che avean assediato il castell’Abate. Ibid., fog. 7 a t.
[249] Diploma del 2 aprile 1299, risguardante il pagamento degli stipendi a 260 cavalli di Guidone di Primerano, a’ quali doveansi once 520 al mese, computato ogni milite per due scudieri. Si comanda che vadan subito alle frontiere de’ nemici a Rocca Imperiale e Ordeolo, per cavalcar continuamente quelle campagne, dandovi il guasto. In questo diploma si parla ancora di danari pagati ai Catalani e almugaveri di Berengario d’Intensa, e d’un negozio che costui dovea compiere. Vi si fe’ molta premura per l’assedio d’Ordeolo, ove si doveano adunare altre forze, e anche aiuti procacciati dal papa. Nel citato registro 1299, A, fog. 54.
Diploma del 1 maggio, duodecima Ind., dal quale si vede che già Rocca Imperiale era venuta in man degli angioini. Reg. seg. 1299, A, fog. 69.
Due diplomi del 2 maggio, duodecima Ind. (1299), coi quali son dati altri provvedimenti per l’assedio di Ordeolo; ed è creato un capitano in val di Crati e Basilicata cum mero et mixto imperio et gladii potestate, che vada subito a quell’assedio. Ibid., fog. 66 a t. e 68.
Diploma del 14 giugno. È data autorità a Ruggier Sangineto di fermar patti con Berengario de Muronis milite, per la ricuperazione d’Ordeolo e Porta di Roseto. Ibid., fog. 128.
Diploma del 15 luglio, duodecima Ind. Provvedimenti perchè non manchi il danaro a incalzar l’assedio d’Ordeolo. Ibid., fog. 124.
Diploma dell’8 settembre tredicesima Ind. (1300), dal quale si vede che Ordeolo con Pietra di Roseto eran già in poter degli angioini. Reg. 1299–1300, C, fog. 331 o piuttosto 371.
Diploma del penultimo maggio duodecima Ind. (1299). Provvedimenti per la espugnazione del castel di Squillaci. Ibid., fog. 86 a t.
[250] Diploma del dì ultimo febbraio duodecima Ind. I principi Roberto e Filippo, da parte del re, in Otranto avean patteggiato con Berengario degl’Intensi che la tenea per parte de’ nemici. Berengario indi era, dice il diploma di Carlo II, ad fidem et mandata nostra reversurus, e gli si dovean pagare, per lui e la sua compagnia, once 2,856, 7, 10, per stipendi dal 18 ottobre undecima Ind. (1297) sino a tutto agosto della stessa Ind. Reg. cit. 1299, A, fog. 22.
Diploma del 12 aprile duodecima Ind. (1299). Berengario d’Intensa avea preso statichi dalla terra di Montalto, e consegnatili a Stefano de Argat, sotto giuramento di custodirli per esso. Il re, non avendogli dato autorità a trattare, scioglie il giuramento dato allo stesso Berengario dall’Argat, e comanda che gli statichi si ritengan prigioni dal conte di Catanzaro. Ibid., fog. 49.
Diploma del 23 aprile duodecima Ind., per liberarsi alcuni Catalani e Aragonesi della compagnia di Berengario d’Intensa. ch’erano stati messi in prigione. Ibid., log. 75.
Diploma dell’8 giugno duodecima Ind., ove si dice che Otranto era tuttavia insidiata, e si sospettava di que’ medesimi Catalani della compagnia d’Intensa che l’avea consegnato agli angioini. Ibid., fog. 90 a t.
Diploma del 6 luglio duodecima Ind., per alcuni uomini d’Otranto. Da questo si scorge che Guglielmo Palotta tenea già Otranto per Federigo, che gli fu sostituito Berengario d’Intensa, e che Palotta adesso era anch’egli fedele di re Carlo. Ibid., fog. 160 a t.
Niccolò Speciale, lib. 3, cap. 15, dice chiaro il tradimento di Berengario, ch’era stato sostituito a Guglielmo Palotta nel comando d’Otranto. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 38, afferma che Berengario degl’Intensi, preso ad Aversa, fu liberato sotto sicurtà, per procaccio di Giacomo.
[251] Tre diplomi del 25 giugno, reg. cit. 1299, A, fog. 132 a t. e due del 2 luglio, ibid., fog. 119 a t. 120, svelano quest’altro tradimento. Un tal che tenne il castello di San Giorgio in Calabria, prima per Giacomo re di Sicilia, poi per Federigo, or abboccatosi col medesimo Giacomo, avea pattuito di render il castello a Carlo II, se gli si pagassero i soldi corsi, suoi e del presidio che montavano ad once 55. Non è mestieri aggiugnere che Carlo fece dar subito la moneta.
Da un altro diploma del 7 settembre tredicesima Ind. 1300, reg. seg., 1299–1300, C, fog. 372, segnato per errore 332, si vede che il nome di costui era Albagno d’Aragona. Con questo diploma si ordinava a favor di lui un altro pagamento.
Altri fallirono a Federigo, forse senza vender castella a’ nemici. Tali sembrano i casi de’ due documenti seguenti.
Diploma del 10 aprile duodecima Ind. Guidone Lombardo, già nemico, si era convertito. Datagli in feudo la terra di Monforte in Sicilia, ch’ei tenea da Giacomo e da Federigo. Ibid., fog. 13.
Diploma del 3 giugno duodecima Ind. Perdonato a Gerardo di Bonavite da Firenze, se tra 15 dì tornasse alla ubbidienza. Costui era stato disertore la prima volta dagli angioini ai nostri; ora era ad Ischia, e pensava tornare a’ primi con un nuovo tradimento. Ibid., fog. 89.
[252] Honor est quod onus alleviat, leggesi ne’ due diplomi dati il 10 aprile duodecima Ind. (1299) per la tradigione che racquistava a Carlo II le terre di Martorano e Taverna. Nel r. archivio di Napoli, reg. citato 1299, A, fog, 13 e 38, a t.
[253] Nic. Speciale, lib. 4, cap. 12, 13.
[254] Diploma del 24 giugno 1299, nel r. archivio dì Napoli, reg. seg. 1299, A, fog. 113, a t.
[255] Nic. Speciale, lib. 4, cap. 14.
Il tempo della morte di Corrado Lancia si argomenta anco da un diploma del 15 giugno 1299, sottoscritto da Vinciguerra Palizzi cancellier del regno, in Testa, op. cit., docum. 17.
[256] Del tradimento di costui fa fede anco un diploma di Carlo II, dato a 13 settembre tredicesima Ind. (1299), col quale son rimesse tutte lor colpe a Salvacossa, protontino d’Ischia, e agli altri abitanti che piegarono a parte siciliana, ma poi, succedentibus prosperis, dice il diploma, tornarono in fede. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1299–1300, C.
Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 37, 38.
[257] Nic. Speciale, lib. 4, cap. 18.
Anon. chron. sic., cap. 62 e 63, e diploma di Federigo, dato il 6 luglio 1299, ivi trascritto.
Veggansi ancora, Annali di Forlì, in Muratori, R. I. S., tom. XXII, pag. 174.
Cronaca di Bologna, ibid., tom. XVIII, pag. 304, dove è errato il giorno della battaglia, e portato il numero delle nostre galee a 33, delle nemiche a 55.
Cronaca di Cantinelli, presso Mittarelli, Rer. Faventinarum script. Venezia, 1771, pag. 311.
Ferreto Vicentino, in Muratori, R. I. S., tom. IX.
Tolomeo di Lucca, ibid., tom. XI, pag. 1303.
Gio. Villani, lib. 8, cap. 29, che si mostra assai male informato dei fatti di tutta questa guerra. Ei fa montare le galee nemiche a 70, e le nostre a 60, e dice Federigo Doria ammiraglio dell’armata siciliana. I nostri storici tacciono il nome di questo ammiraglio.
Una delle galee siciliane prese in questa battaglia fu prestata dal governo di Napoli a Francesco Ildebrandini di Firenze. Diploma dato di Napoli a 20 luglio duodecima Ind. (1299), reg. cit., 1299, A, fog, 174, a t.
[258] Annali di Forlì, in Muratori, R. I. S., tom. XXII, pag. 174. Vi si legge qualche errore nella cronologia di questi fatti; ma ciò non toglie alla ragione probabilissima che l’autore assegna a questa partenza di Giacomo, da non potersi spiegare abbastanza con la moderazione verso il fratello, o infedeltà con parte angioina, che gli attribuiscono gli scrittori guelfi.
La stessa ragione è detta nella cronaca di Cantinelli citata nella nota precedente. Ivi si legge che Giacomo tornò in Catalogna, quia dominus papa Bonifacius noluit sibi dare stipendia que sibi promiserat.
[259] Questa testimonianza dello Speciale, acquista maggior fede da’ documenti del r. archivio di Napoli.
Diploma del 24 giugno 1299, pel quale si provvede che i condottieri, con le compagnie mercenarie, si faccian trovare a Nicotra, ove andrà Giacomo con la flotta a imbarcarli. Reg. 1299, A, fog. 96 a t., e 113 a t.
Due diplomi del 20 luglio duodecima Ind. indirizzati a Egidio di Foloso e Stefano Testardo, condottieri, perchè subito si portassero a Nicotra per passare in Sicilia. Quivi si legge che il governo angioino facea opera a mandare in Sicilia quanta maggior forza potesse. Ibid., fog. 182.
[260] Nic, Speciale, lib. 4, cap. 15.
[261] Diploma del 5 agosto 1299, pubblicato dal Testa, op. cit., docum. 19. Si prometteano a Giacomo per tutta la sua vita 2,000 once all’anno, e 6,000, nel caso che si racquistasse tutta l’isola.
[262] Diploma del 18 luglio 1299, da’ Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 1, fog. 190.
[263] Nic. Speciale, lib. 4, cap. 15.
Anon. chron. sic., cap. 63.
[264] Nic. Speciale, lib. 4, cap. 14. Leggesi nell’Anon chron. sic., cap. 62, la citata epistola di Federigo, data di Messina a 6 luglio 1299, pubblicata ancora in altre opere.
[265] Diplomi del 19 luglio duodecima Ind. (1299). Rostaino Cantrlemi, eletto capitano dell’armatetta, che dovea partir subito contro le ribelli isole d’Ischia, Procida, Capri. Nel r. archivio di Napoli, reg seg. 1299, A, fog. 152 e 173.
Diploma del 20 luglio. Promessa di perdono agli uomini delle dette tre isole, Ibid., fog. 152.
Diploma del 29 luglio. Pei fanti e cavalli d’Aversa, levati per la fazione d’Ischia. Si dovean pagare i primi alla ragione di grana dieci al giorno, i secondi di un tarì e grana dieci al giorno. Ibid., fog. 177.
Diploma del 30 luglio duodecima Ind. 1299, anno 15 di Carlo II, indirizzato alla moglie di Tommaso di Mattafellone. Dopo la recente vittoria navale su i nemici, Ischia e Capri erano tornate al nome regio. Perciò liberasse immantinenti Corrado Salvacossa, datole prigione per iscambiarlo col marito di lei, prigione de’ nemici, al quale sarebbe provveduto altrimenti. Ibid., fog. 133.
Diploma del 31 luglio, ibid. Somigliante comando a Ludo de Huc, al quale il governo avea dato il prigione Giovanni Abbate d’Ischia, in compenso de’ danni che Ludo avea sofferto una volta, prigione in man de’ nemici. In entrambi questi diplomi si fanno grandi parole della vittoria che, jam patet in orbem, e della clemenza verso gli abitatori di Capri e Ischia.
Diploma del 13 settembre tredicesima Ind. (1299), per tenersi Ischia in demanio. Reg. seg. 1299–1300, C, fog. 3.
[266] Due diplomi dati di Salerno il 16 agosto duodecima Ind. (1299), pel quali Pietro Salvacossa milite è eletto protontino d’Ischia, e si vede che queste uficio era di comandante in secondo luogo nell’armata. Vi si leggono straordinarie lodi ed espressioni di benevolenza per costui. Reg. cit. 1299, A, fog. 170, a t.
Diploma dato dì Salerno il 16 agosto duodecima Ind., nel quale costui è eletto capitan generale delle navi nel regno di Napoli: Te igitur capitaneum vassellorum nostrorum que armantur et armabuntur in antea in partibus istis pro tempore generalem, Rogerio tamen de Lauria militi regni Sicilie et Aragonum ammirato dilecto consiliario familiari et fideli nostro cum in partibus istis erit superioritate officii reservata, duximus usque usque ad beneplacitum majestatis nostre statuendum eum plena meri et mixti imperii et gladii potestate, etc. ibid., fog. 171.
Diploma del 4 ottobre tredicesima Ind. 1299, 15o del regno di Carlo II, pel quale è riconceduta a Pier Salvacossa, protontino d’Ischia, la terra di Castronovo in val di Mazzara presso Vicari, e i casali di Palagonia, Calaczura e Calatalfati in val di Noto. Reg. seg. 1299–1300, C, fog. 6.
Diploma del 4 agosto tredicesima Ind. 1300, dal quale si vede che Salvacossa era naturale d’Ischia. Ibid., fog. 71 a t.
[267] Docum. XXXI.
Un altro diploma del 17 luglio, a Tommaso di Ortona, tesoriere presso Roberto, dispone che delle once 2,000 mandategli in carlini d’oro e d’argento e tornesi d’argento, si pagassero le genti d’arme lasciate da Giacomo in Sicilia, compresivi i 100 cavalli di Ruggier Loria. R. archivio di Napoli, reg. seg. 1299, A, fog. 174.
Un altro del 29 luglio porta la elezione di Giovanni di Porta a maestro razionale nell’isola di Sicilia presso Roberto. Ibid., fog. 132 a t.
Talchè si può argomentare che la corte angioina volesse far mostra d’istituire presso il vicario di Sicilia un ordinamento di amministrazione speciale, rendendo alla Sicilia que’ benefici che le erano stati tolti per le novazioni di Carlo I.
[268] Diploma del 18 luglio duodecima Ind. (1299). Una nave di mercatanti italiani avea portato in Milazzo vin greco e altre merci, che sembran d’uso domestico, a Ruggier Loria. Ei ne pagò parte; per lo rimanente, che volea gittar addosso a Carlo, die’ in pegno argento e masserizie. E Carlo infatti, tolse su di sè il debito, ragionandolo sugli stipendi dell’ammiraglio. R. archivio di Napoli, reg. seg. 1299, A, fog. 155 a t.
Diploma dell’ultimo luglio Duodecima Ind. Per biscotto da consegnarsi a richiesta di Giacomo o dell’ammiraglio. Ibid., fog. 200.
Diploma del 2 agosto duodecima Ind. Per mandarsi una galea con foraggi a Gualtiero conte di Brienne e di Lecce, militante in Sicilia. Ibid., fog. 136 a t.
Diploma del 19 agosto. Per farsi tornare all’armata in Sicilia alcuni marinai di castell’Abate, che se n’eran fuggiti. Ibid., fog. 138 a t.
Diplomi dell’11 e 29 agosto 1299, per grano, orzo e semola mandati all’esercito in Sicilia, nell’Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. II, pag. 222 e 223. Dall’ultimo di questi diplomi si scorge, che nel corso d’agosto si sparse nuova in Cotrone che Roberto si fosse ritirato di Sicilia, onde fu venduto in quella città un carico di vittuaglie ch’era a lui destinato.
Ricadono a un di presso in questo tempo, e perciò le noto qui, le seguenti concessioni feudali che non mi è paruto accennare nel testo, ma pur possono mostrare, che la corte di Napoli non cessava di gratificar di beni i suoi settatori più fedeli.
Diploma del 19 marzo duodecima Ind. 1299, pel quale fu conceduto a Squarcia Riso milite, il castello e la terra, Sancti Filadelli (San Fratello) situm in valle Demonis, in vece di quel di Sortino, datogli olim serviciorum tuorum intuita, ma tenuto da’ Siciliani. R. archivio di Napoli, reg. 1299, A, fog. 48 a t.
Diploma del 24 luglio duodecima Ind. Conceduta a Matteo ed Arrigo Riso militi, e a Francesco Riso da Messina, la terra di Geremia in Calabria. Ibid., fog. 149.
Diploma del 24 luglio duodecima Ind. Ratificata la concessione feudale del castel di Baccarati in vai di Noto, presso Aldone e Caltagirone, che Giacomo re d’Aragona avea già fatto a Filippo de Porta, in cambio di Castrocucco, da lui posseduto in Principato. Ibid., fog. 155.
Diploma senza data, che trovasi nello stesso registro 1299, A, appartenente alla duodecima Ind. cioè infino al 31 agosto. Pel castello di Cuttuli in Principato, già promesso a Ruggier Loria in restituzione o dono. Ibid., fog. 113.
[269] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 1 e 2.
La morte ignobile e povera di costui è detta dallo Speciale. I documenti tratti dal r. archivio di Napoli, che qui notiamo, provano che la corte angioina dapprima volle dar qualche facoltà a questo gran feudatario siciliano, ma lo spregiava come avvien sempre a’ traditori.
Tre diplomi del 26 aprile tredicesima Ind. (1300). Manfredi Maletta conte dì Mineo è fatto castellano di Manfredonia; e insieme si provvede a tramutare in Barletta i prigioni ritenuti in quella fortezza. Reg. seg. 1299–1300, C, fog. 146 a t.
Diploma del 12 maggio tredicesima Ind. Perchè la prescrizione non noccia a Manfredi Maletta, ritenuto da buone ragioni a sperimentare i suoi dritti su certe castella. Ibid., fog. 221 a t.
Tre diplomi del 18 maggio seguente. Perchè il castel di Manfredonia fosse consegnato a Maletta, ma i prigioni e le armi tramutati nel castel di monte Sant’Angelo, e le vittuaglie consegnate a un cittadino di Manfredonia. Ibid., fog. 250.
Diploma del 30 luglio tredicesima Ind. 1300. Era stata commessa al Maletta, ancorchè degno di cose maggiori, la custodia di Monte Vulto cum gualdo suo et vallis Vitalbe. Ibid., fog. 291.
Diploma del 3 agosto seguente. Ritoltagli questa custodia, perchè appartenea a Giovanni di Monforte. Ibid., fog, 264.
Diploma del 18 agosto tredicesima Ind. Legittimazione di Matteo Maletta, figliuol naturale del. vir nobilis comes Manfridus Malecta. V’era scritto ancora comes Minei, e si vede cancellato. Ibid., fog. 396 a t.
Diploma del 1 settembre decima quanta Ind. (1300). È affidata al conte Manfredi Maletta la custodia della regia foresta e palagio di San Gervasio. Ibid., fog. 176.
Si vede da questi diplomi qual poca fidanza avesse il governo angioino in questo sciagurato, e quanto lo disprezzasse nei medesimi favori che gli dispensava, per allettare coll’esemplo i baroni siciliani all’abbandono della santa causa ch’avean preso a sostenere.
[270] Nic. Speciale, lib. 6, cap. 3, 4, 5.
[271] Quondam pater patriae, qui Romanos hactenus redolebas. Ibid., cap. 7.
[272] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 6.
[273] Diplomi di Federigo, dati la più parte di Castrogiovanni d’ottobre 1299, co’ quali confermò alla città di Caltagirone le sue leggi e consuetudini, la proprietà de’ suoi beni, la franchigia della tassa de’ marinai, e le die’ inoltre un casale e un feudo. Privilegi di Caltagirone, lib. 1, fog. 1, 25 e 48, citati dal padre Aprile, Cronologia di Sicilia; cap. 22 a 25.
[274] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 7.
Anon. chron. sic., cap. 64.
Montaner, dopo lungo silenzio, ripiglia in questo tempo la narrazione de’ fatti di Sicilia, con dire al capitolo 190, che il duca Roberto era già in Catania, consegnatagli da messer Virgilio, dice egli, di Napoli, e due altri cavalieri. D’altronde ei si mostra non men restio che male informato, nel parlar di queste vicende.
I nomi de’ traditori e la liberalità senza misura che adoperò con essi la corte angioina, si veggono da’ seguenti diplomi. Le prime concessioni sonvi date il dì 11 ottobre 1299; e indi è da argomentare che quel giorno, o poco innanzi, entravano i nemici nella tradita Catania.
Diploma del 26 dicembre tredicesima Ind. (1299). Attendentes fidem et merita fructuosa Virgilii de Catania militis, il re lo elegge consigliere e famigliare suo, e lo raccoglie nella regia casa. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1299–1300, C, fog. 42 a t.
Diploma del 29 dicembre tredicesima Ind. 1300 (deve intendersi anche 1299, secondo il nostro computo, perchè la cancelleria angioina, come abbiamo notato più volte, ragionava il nuovo anno dal venticinque dicembre). È conceduto a Virgilio de Catania milite, il castel di Vicari e il casal di Ciminna. Fatta la concessione da Roberto, ratificata dal re con questo diploma. Ibid., fog. 41.
Diploma del 9 gennaio tredicesima Ind. (1300). Confermato a Margherita di Scordia da Catania, filia quondam magistri Michaelis de Sanducia, il casale di Scordia in val di Noto, ch’essa ebbe per successione del padre. Ibid., fog. 180 a t. Credo che costei fosse la moglie di Virgilio, che forse n’ebbe in dote il feudo di Scordia, e prese questo titolo col quale il chiama sempre Speciale.
Diploma del 20 luglio tredicesima Ind. 1300, anno 16 di Carlo II. Vi è trascritto un privilegio di Roberto, dato di Catania a dì 11 ottobre tredicesima Ind. (1299), pel quale furon dati in feudo al detto Virgilio il tenimento Piccarani, tenuto da Matteo di Termini ribelle, il tenimento Scorpionis et casale Chifala (forse Cefalà Diana), nella Sicilia oltre il Salso; sotto condizione di dargliene compenso, se gli uomini di quelle terre tornassero in fede a patti. Ibid., fog. 67.
Diploma del 20 luglio 1300, dov’è trascritto un altro privilegio di Roberto, dato anche di Catania il dì 11 ottobre 1299, confermandosi a Virgilio di Catania il castello di Thadar in val di Noto, ch’egli tenea tra i beni dotali; con la solita diceria de’ suoi grandi meriti nella conversione di Catania. Ibid., fog. 68 a t.
Diploma della stessa data, dove n’è trascritto uno di Roberto dell’11 ottobre 1299. Vi si riconcedono a Virgilio di Catania i casali di Pbake, Bayano, e Pisone in vai di Castrogiovanni. Ibid., fog. 69.
Diploma del 20 luglio 1300, docum. XXXVI. Vi si legge chiaramente, al par che nei diplomi sopra citati, e quasi con le stesse parole, la parte principalissima che questo Virgilio avea avuto nel tradimento di Catania, e prendea in trattarne degli altri.
S’intinsero nel tradimento di Virgilio o parteciparono de’ suoi frutti, Simone fratello, e Giacomo figliuolo di lui.
Diploma dato di Napoli a 4 agosto, tredicesima Ind. 1300, anno 16 di Carlo II, nel quale è trascritto un privilegio di Roberto dato di Catania l’11 ottobre 1299, tredicesima Ind. Di questo Simone è detto che i Catanesi tornarono alla ubbidienza, ejus ministerio ac Virgilii de Catania militis fratris sui. Al momento gli era stata conceduta l’aspettativa d’un feudo del valore di once 50 annuali. Or gli si assegnavano i casali Chanzerie, Consene, Contiminii et Racalginegi exhabitata ab antiquo, di qua dal Salso, presso Caltagirone. Ibid., fog. 86.
Diploma dato di Napoli il 20 luglio tredicesima Ind. 1300, in cui n’è trascritto uno di Roberto, dato di Catania a 11 ottobre 1299. Son conceduti a Giacomo di Catania, figliuolo di Virgilio, i castelli di Calatamauro e di Bivona, tenuti, il primo da Guglielmo Calcerando, l’altro da Ugone Talach. La concessione in Catania si vede fatta, com’era uso, innanzi molti nobili, Guglielmo eletto Salernitano, vicario pontificio nell’isola e cancelliere del re, Loria, Amerigo de Sus, Ruggier Sanseverino, e altri conti. Ibid., fog. 33 e 64. Il principio di questo diploma è nel fog. 33, il fine nel 64, perchè questo e molti altri registri furono legati ad occhi chiusi negli andati tempi. Ma si veggon le tracce della antica numerazione delle pagine, cioè xxxij nel attuale 33, e xxxiij nell’attuale 64.
Ho cavato dal r. archivio di Napoli i nomi degli altri traditori, per congegnarli alla esecrazione di tutti i Siciliani. Oltre Napoleone Caputo, di cui parla lo Speciale, e Simone e Giacomo di Catania, l’un fratello, l’altro figliuolo di Virgilio, furono Gualtiero Pantaleone, Gualtiero Lamia e Tommaso Connestabile.
Diploma del 26 dicembre 1299, pel quale Napoleone di Catania fu creato consigliere e famigliare del re, con la stessa formola del diploma della medesima data per Virgilio di Catania. Reg. seg. 1299–1300, C, fog. 42 a t.
Diploma del 20 dicembre 1299, nel quale con le medesime parole del diploma dell’ugual data, riportato di sopra per lo stesso Virgilio, Napoleone di Catania milite ebbe in feudo i casali di Avola e Buscemi, e quel disabitato di Momolina. Ibid., fog. 41.
Diploma del 26 dicembre 1299. Con le stesse parole di que’ di Virgilio e Napoleone, fu creato Gualtiero di Pantaleone di Catania, consigliere e famigliare del re. Ibid., fog. 42 a t.
Diploma del 24 gennaio 1300 tredicesima Ind., anno 16 di Carlo II. Ratificata con privilegio la concessione feudale del casale di Silvestro in territorio di Lentini a Gualtier Pantaleone di Catania, quem militari nuper decoravimus cingulo. Ibid., fog. 52 a t.
Diploma del 25 gennaio stesso. È conceduto a questo Gualtier Pantaleone il casal di Biscari in val di Noto, in merito della fede e prontezza quibus in procuranda reversione civitatis Cathanis ad fidei nostre cultum laborasse dignoscitur. Ibid.
Diploma del 15 febbraio tredicesima Ind. 1300, anno 16 di Carlo II.
Con le medesime formole è conceduta a Gualtiero de Lamia da Catania, stato sempre fedele in cuor suo, il tenimento di Vaccarato in territorio d’Aidone. Ibid., fog. 54.
Diploma del 20 luglio tredicesima Ind. 1300, pel quale è conceduto il casal di Muletta in Val di Mazzara a Tommaso de Comestabulì de Thasina civis Cathanie, un tempo ribelle, e poi, dopo il racquisto di Catania, voltosi a servire con efficacia Roberto. Ibid., fog. 85.
Due altri diplomi parlan di altri; certo traditori, ma non forse in questo fatto di Catania.
L’uno è dato il 28 dicembre 1300 (1299) tredicesima Ind., anno 15 di Carlo II, e contiene le seguenti concessioni: A Pietro di Monte Aguto, Racalmuto e Caccamo; a Gilberto di Sentillis, Giarratana e Palazzolo; a Ugolino di Callaro, Licodia; a Pietro Sossa, Calatafimi e Calatamauro in val dì Mazzara; a Simone di Belloloco, il caste! di Tane o Gane, e il casale di Chondroni o Thondroni, in vece del cartel di Sortino, concedutogli da re Giacomo all’assedio di Siracnsa, nell’ignoranza che Carlo lo avesse già dato a Squarcia Riso. Ibid., fog. 42.
L’altro il 2 maggio tredicesima Ind. 1300, anno 16 del regno di Carlo II. Conceduti a Giuliano d’Alessandro da Siracusa i casali di Cassibari e Lungarini. Ibid., fog. 56 a t., e duplicato a fog. 20.
[275] A costui fu data in premio Licodia. Veg. il diploma del 28 dicembre 1299, citato nella nota precedente.
[276] Nic. Speciale, lib. 5, cap, 8 e 9.
[277] Et que (servitia) ad presens sub continuis laboribus in convertendis ad fidem predictam aliis civitatibus et locis insule Sicilie prestat, etc., si legge nel docum. XXXVI.
[278] Anon. chron. sic., cap. 64..... Non tamen quod aliquod ipsorum captum fuerit a dictis hostibus ex pretio sive pugna.
[279]
Lo principe de’ nuovi Farisei
Avendo guerra presso a Laterano,
E non con Saracin, nè con Giudei,
Che ciascun suo nimico era Cristiano,
E nessuno era stato a vincer Acri,
Nè mercatante in terra di Soldano.
Dante, Inf., c. 27.
Gio. Villani, lib. 8, cap. 23.
Breve di Bonifazio, dato il 13 giugno anno 5, da Anagni, in Raynald, Ann. ecc., 1299, §. 6.
Ferreto Vicentino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 970.
[280] Raynald, Ann. ecc., 1299, §. 4; e 1301, §§. 1 e 2.
[281] Francesco Pipino, lib. 4, cap. 41 e 47, in Muratori, R. I. S., tom. IX.
[282] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 9.
Raynald, Ann. ecc., 1299, §, 4.
[283] Raynald, Ibid.
[284] Così io scrissi nella prima edizione, prestando fede allo Speciale piuttosto che a Montaner, il quale sostiene a cap. 192, che il principe di Taranto fosse mandato dal padre per porre in terra a capo d’Orlando, e andar a trovare Roberto in Catania; ma che stigato da’ suoi, per cupidità di gloria e di preda, si deliberava ad assaltar Trapani. La lettera di Carlo II, docum. XXXII, or toglie ogni dubbio, e attesta la grande esattezza dello Speciale, narrando come lui i particolari dell’impresa del principe di Taranto.
[285] Ho a un di presso voltato in italiano lo Speciale, il quale forse presta le sue frasi al buon Sancio, ma certo riferisce fedelmente il consiglio.
[286] La citata lettera di Carlo II a Filippo il Bello, dà al principe di Taranto a un di presso seicento cavalli, e gran forza di fanti. Angelo di Costanzo, scrittore del secolo XVI, porta i fanti a mille; ma le parole di Carlo II sembrano indicare un maggior numero L’epistola di Federigo ai Palermitani, citata qui appresso, dice anche seicento i cavalli nemici; Speciale settecento. Il Montaner, cap. 192, esagerando senza freno, fa montare la forza de’ nemici a 1,200 cavalli, e de’ nostri a 600 cavalli e 3,000 fanti; e toccando gli ordini della battaglia, dice messi da Federigo alla vanguardia Calcerando, Moncada e Blasco, i fanti alla dritta, e i cavalli alla mancina; il che mal s’accorda con la descrizione di Speciale, più particolareggiata e più degna di fede.
[287] Il Montaner porta abbattuta da Federigo la bandiera di Filippo, e indi i due giovani principi strettisi a combatter tra loro; e dall’Aragonese morto il cavallo all’Angioino, onde Martino Peris D’Aros s’era avventato a costui per spacciarlo, se non che Federigo il trattenne ad onta di Blasco Alagona. È evidente, che Speciale non avrebbe defraudato il suo re di questa gloria di abbattere il principe di Taranto; e che perciò il racconto del Montaner si dee noverar tra le disorbitanti sue favole ad esaltazione de’ reali d’Aragona.
[288] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 10.
Anon. chron. sic., cap. 56 e 57, ov’è trascritta la epistola di Federigo a’ Palermitani.
Epistola citata di Carlo II, docum. XXXII.
Gio, Villani, lib. 8, cap. 34.
Montaner, cap. 192.
Tolomeo da Lucca, Ann., in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1304, che con picciolo anacronismo porta questa battaglia nel 1300.
[289] Questo privilegio, dato in Palermo il 20 dicembre 1299, è pubblicato dal de Vio, privilegi di Palermo, pag. 24.
Il Testa, op. cit., pag. 98, dice anche accordate da Federigo larghissime franchige a Marsala, perchè que’ cittadini aveano egregiamente meritato nella battaglia della Falconarìa, capitanati da Giovanni di Ferro. Ma ei non cita questo privilegio, nè a me è venuto fatto di trovarlo, o vederne cenno negli scrittori contemporanei.
[290] Nic. Speciale, Anon. chron. sic, e Montaner, luoghi citati.
[291] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 11.
[292] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 12.
[293] Montaner, cap. 191.
[294] Tommaso di Procida, seguendo la diffalta di Giovanni suo padre, passò a parte angioina; ove fu molto accarezzato, e resigli i beni paterni, come si vede dai diplomi citati nel cap. XV, pag. 104, 105, 106, e da un altro del 21 ottobre decimaquarta Ind, (1300), per la restituzione di altri stabili in Salerno. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1299–1300, C, fog. 101, a t.
[295] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 12.
Anon. chron sic., cap. 68.
Ramondo Montaner, cap. 191, narra assai diversamente questa fazion di Gagliano. Il primo errore è, che la pone innanzi alla battaglia della Falconarìa. Il secondo, che tace del tutto il tradimento del castellano, e dice andati a Gagliano i cavalieri della Morte, per combatter Blasco e Calcerando, che sapeano trovarsi in quel castello. Ei dà a’ nostri dugento cavalli e trecento pedoni; ai nemici in tutto cinquecento cavalli e assai fanteria. Quanto ai movimenti e ai casi della battaglia, si allontana assai meno dallo Speciale, anzi, in alcuni punti, s’accorda del tutto con esso. Io ho creduto seguir piuttosto Speciale che Montaner, perchè il primo è istorico più grave e nazionale, il secondo infedelissimo in questo periodo. Si potrebbe dubitare che il castellan di Gagliano fosse il medesimo istorico Montaner: ma io penso che no; 1o. pel nome diverso, appellandosi il castellano Montaner de Sosa, e l’istorico solamente Montaner; 2o. pel detto anacronismo rispetto alla battaglia della Falconarìa, nel quale il castellano non sarebbe caduto di certo; 3o. infine per quel nobile e cavalleresco carattere dell’istorico Montaner, incapace di un inganno di guerra, che può ben dirsi tradimento nerissimo.
Degli uomini di paraggio uccisi o caduti in poter di Federigo in questi due combattimenti della Falconarìa e di Gagliano, ci fan fede anco i seguenti documenti: Diploma del 15 aprile tredicesima Ind. (1300). Per la tutela de’ figliuoli di alcuni cavalieri, nuper mortui in Sicilia, guerreggiando contro i nimici. Nomina Simone Agrilleri, Goffredo de Mili, Adamo de Siliac e Goffredo di Joinville. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1299–1300, C, fog. 143.
Diploma del 22 aprile tredicesima Ind. Per la cura dei beni feudali di Giovanni di Joinville, militis captivi apud hostes. Ibid., fog. 258.
Diploma del 22 giugno tredicesima Ind. Commessa a Filippo di Tuzziaco l’amministrazione de’ beni del suo parente conte di Brienne e di Lecce, prigione de’ nemici In Sicilia, ibid., fog. 93 a t.
Diploma del 7 luglio tredicesima Ind. 1300. Salvocondotto alla contessa di Corigliano, per andar a visitare il marito, prigione In Sicilia. Ibid., fog. 161.
Un altro diploma della stessa data contiene dei provvedimenti pe’ vassalli del conte di Brienne e di Lecce, prigione de’ nemici. Ibid., fog. 162.
Diploma del 20 luglio tredicesima Ind., per l’amministrazione de’ beni de’ militi, baroni e altri feudatarì, che, combattendo pel re in Sicilia, caddero in man del nemico. Ibid., fog. 279 a t.
[296] Veggasi cap. XXVII, pag. 164.
[297] Gio. Villani, lib. 8, cap. 23.
[298] Raynald, Ann. ecc., 1300, §§. 10 e 11.
Diploma di Federigo, dato il 1 dicembre 1299, presso l’Anon. chron. sic., cap, 57.
Diploma di Carlo II, dato il di 8 maggio tredicesima Ind. (1300). Il re commetteva a Matteo d’Adria e Landolfo Ayossa, legati suoi a Genova, d’attraversare gli aiuti che preparavansi a Federigo; armandosi, com’ei sapea, due galee da Rosso Doria, due da’ Volta, tre dagli Spinola, due da Francesco Squarciafico, una da Giacomo di Cisterna, e anche dodici dal comune, sotto specie di servir all’uopo delle sue guerre, ma in realtà per accompagnare quegli armamenti destinati alla Sicilia. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. Carlo II, 1299–1300, C, fog. 195, a t.
4 Federigo stese anche la mano a prender beni ecclesiastici in sussidio della guerra; ma assai discretamente, per non si concitar contro il clero siciliano, che teneva a lui non ostanti le istigazioni di Roma. Veggasi il trattato di Caltabellotta nel capitolo seguente, e i documenti citati dal di Gregorio, Considerazioni sopra la storia di Sicilia, lib. 4, cap. 5, e annotazione 49 allo stesso capitolo.
[299] Docum. XXXII.
[300] Diploma negli archivi del reame di Francia, J. 513, 47.
[301] Raynald, Ann. ecc., 1300, §§. 15 e 16.
[302] Raynald, Ann. ecc., 1300, §§. 12, 13, 14. Tra le ultime parole del breve son queste: Nonnulla vero alia pro subsidio negotii acies considerationis nostrae circumspicit, quae presentibus non duximus inserenda. Ibid., §. 21, si vede che Bonifacio scrisse ai Catanesi, rallegrandosi con loro della ribellione di Ragusa, di Noto e d’un’altra terra per parte angioina.
[303] Raynald, Ann. ecc., 1300, §§. 1 a 4, e nota del Mansi su lo stesso luogo. Bolla di Bonifacio, data 22 marzo, ibid., e nella cronica di Francesco Pipino, lib. 4, cap. 41, in Muratori, R. I. S., tom. IX.
[304] Raynald, Ann. ecc., 1300, §. 10, che cita una bolla del 1 marzo 1300 a questo effetto.
[305] Gio. Villani, lib. 8, cap. 36.
Raynald, Ann. ecc., 1300, §. 8.
Cronaca d’Asti, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 191, 192. L’autore della Cron. d’Asti fu testimone oculare.
Ferreto Vicentino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 896.
[306] Oltre le asserzioni di Bonifazio nel breve del 9 gennaio 1300, citato poco fa, questi sussidi forniti dalla corte di Roma nell’anno trecento, son provati da’ seguenti diplomi del r. archivio di Napoli, reg. seg. Carlo II, 1299–1300, C.
Diploma dato di Napoli a dì 8 maggio tredicesima Ind. (1300). È una quetanza de’ danari che Bartolomeo de Capua, protonotaio e logoteta, avea ricevuto per conto del re dalla corte di Roma, e speso ne’ bisogni della guerra e dei reame. Vi si leggon le seguenti somme. Da papa Niccolò V, once d’oro 6,000. Da papa Bonifazio ad Anagni, in due volte, once 4,000, più 3,000, più 5,700. Dal medesimo a Roma, per mezzo di rari mercatanti a fin di pagare galee e uomini d’arme di Catalogna in quest’anno tredicesima Ind. once 4,000. Infine anche in Roma altre once 10,000. Reg. cit., fog. 409 a t.
Diploma dato di Anagni a 5 giugno tredicesima Ind. È cautela per once d’oro 8,500, date in prestito a re Carlo da papa Bonifazio. Ibid., fog. 412 a t.
Diploma monco e senza data nel medesimo registro, fog. 374 a t, Si legge tra vari altri di settembre 1300. Slmilmente è cautela di danaro dato a re Carlo dal papa, cogitans quod ad promocionem et prosecucionem negocii recuperacionis insule nostre Sicilie contra Fridericum de Aragonia, hostem ejusdem Romane Matris Ecclesie atque nostrum Siculosque rebelles, pecuniali subsidio egebamus, etc., e segue con parole di gratitudine grandissima verso il papa, che gli avea dato in prestito fiorini 23,000 in fiorini d’oro e tornesi grossi d’argento; e once d’oro 1,000, in once d’oro. Il re ipotecava alla restituzione, tutti i suoi regni e beni. Avea ricevuto una parte di questo danaro per mezzo degli Spini di Firenze, mercatanti, o, come oggi si direbbe, banchieri del papa.
[307] Diploma dato di Napoli a 18 maggio tredicesima Ind. (1300). Nobilibus et discretis viris Potestati, Capitaneo, Principibus Artium, Vexilliferis Justitie, communi et populo civitatis Florentie. Li avea ringraziato re Carlo di fiorin d’oro 5,000, donatigli in quest’anno; e di 200 cavalli ausiliari, mandatigli il 20 aprile. Or nuove grazie rendea per altri 3,000 fiorini; e pregavali di richieder altri sussidi di danaro, da altre città di quelle regioni. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1299–1300, C, fog. 235.
Diploma dato di Napoli a 12 luglio tredicesima Ind. (1300). Re Carlo elegge Guglielmo Recuperanza da Pisa, procuratore a riscuoter da quantunque persone e comuni di Toscana, il danaro promesso o da promettersi, in sussidio della siciliana guerra. Gli commette in particolare di riscuoter 4,000 fiorini dalla città di Lucca, e mandarli per la compagnia dei Bardi di Firenze. Ibid., fog. 164.
Diploma dato di Napoli a 10 agosto seguente, perchè la compagnia de’ Bardi s’abbia questi 4,000 fiorini di Lucca, in isconto de’ suoi crediti contro il re. Ibid., 287.
Diploma dato di Napoli a 19 aprile tredicesima Ind. (1300). Guglielmo de Recuperanza è eletto, con piena guarentigia, procurator dal re a torre danaro in prestito col favor degli amici e devoti del re in Toscana, da comuni, compagnie e privati, pei bisogni dell’impresa che s’apparecchiava contro la Sicilia. R. archivio di Napoli; reg. 1299–1300, C, fog. 144 a t.
Diploma dato di Napoli a 4 maggio tredicesima Ind. Arrigo d’Aprano da Napoli, cavaliere, è mandato a corte di Roma, per accattar, con ordine del papa o senza, 4,000 once da alcune compagnie di mercatanti, obbligando i regni e beni di Carlo, e le decime ecclesiastiche a lui concedute da Martino IV, Niccolò IV, e Bonifazio. Ibid., fog. 150.
Diploma del 18 aprile tredicesima Ind. (1300) dato di Napoli, per imprestiti da mercatanti fiorentini, da soddisfarsi su la tratta de’ grani. Ibid., fog. 302.
Diploma dato di Napoli 20 maggio tredicesima Ind. La compagnia de’ Bardi di Firenze avea prestato al re once d’oro 1,200, per le spese di mandare in Ungheria Carlo suo nipote. Provvedimento di soddisfarle in parte con once 500, che gli uomini di Civita restavano a dare, per le once 1,000, promesse al re s’ei li ritenesse in demanio. Ibid., fog. 244.
[308] Diploma dato di Napoli a 19 giugno tredicesima Ind. (1300). Perchè si pagasse sulla tratta delle vittuaglie, il rimanente delle once 580, date in prestito a Roberto duca di Calabria da Gualtier de Ala e Marino Riccioli da Catania. R. archivio di Napoli, reg. 1299–1300, C, fog. 260 a t.
[309] Diploma al siniscalco di Provenza, dato di Napoli a 11 febbraio tredicesima Ind. (1300). R. archivio di Napoli, reg. 1299–1300, C, fog. 353.
[310] Diploma dato di Napoli a 13 giugno tredicesima Ind. (1300). Promettesi largo nolo e ristorazion dei danni che potessero recare i nemici, a chiunque portasse in Sicilia con le proprie navi, grano, orzo, vino, panni, ferro, ec. R. archivio di Napoli, reg. 1299–1300, C, fog. 241 a.t.
Diploma del 20 giugno, ibid., fog. 269; 8 settembre decimaquarta Ind. (1300), ibid., fog. 176; 18 ottobre seguente, ibid., fog. 100 a t.; 22 detto, ibid., fog. 102; 28 detto, ibid., fog. 106 a t.; detto, ibid., fog. 115, per grani ed altre derrate mandate a Roberto in Catania.
La corte di Napoli porgeva anche del danaro a Roberto.
Diploma dato di Napoli a 2 agosto tredicesima Ind. (1300), per once 7,940 in fiorini e carlini d’oro e d’argento, mandate a Catania per gli stipendi. Ibid., fog. 90.
Diploma dato di Napoli a 15 settembre decimaquarta Ind. (1300), per once 2,500 da mandarsi subito in Sicilia all’ammiraglio. Ibid., f. 160.
[311] Diploma dato di Napoli a 2 maggio tredicesima Ind. (1300), nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1299–1300, C, fog. 148 a t. Tratta de’ soldati, qui vel bolla nostra contra dictos hostes et rebelles nostros in actu vel congressu relinquerint, vel negligentes in illis aut inobedientes tibi (Rogerio de Lauria) fortassis extiterint, etc.
[312] Diploma dato di Napoli l’8 settembre 1299 duodecima Ind., r. archivio di Napoli, reg. 1299–1300, C, fog. 374. È mandato in Francia da re Carlo a que’ due principi del sangue, maestro Lodovico de Verdun, rogaturum eos et procuraturum cum illis ex parte nostra quod ipsi ad nos in regnum nostrum predictum....... nobis certa guerre nostre prosecutione accedant.
Gli è data autorità di pagare a ciascun di loro infino a ventimila lire tornesi picciole, per le spese del viaggio, togliendole in presto, sotto la ipoteca di tutti i beni del re.
[313] Diploma dato di Napoli 4 maggio tredicesima Ind. (1300). Ruggier Loria avea arruolato 60 cavalli in Catalogna, Valenza e altri domini di Giacomo pel soldo, che sarebbe stabilito da un vescovo e un frate legati di Carlo II. Loria obbligò per lo pagamento tutti i suoi beni in Ispagna. E Carlo dichiaravasi tenuto a ristorare perciò di quantunque spesa lui o i suoi eredi. R. archivio di Napoli, reg. seg. 1299–1300, C, fog. 150.
[314] Diploma dato di Napoli 18 maggio tredicesima Ind. Ibid., fog. 321.
Diploma del 18 maggio, al comune di Firenze, citato di sopra, pag. 180, nota 1.
[315] Diplomi del 23 giugno tredicesima Ind. R. archivio di Napoli, reg. 1299–1300, C, fog. 368 a t., e 27 giugno, ibid., fog. 268, pel Grimaldi; e del 21 ottobre decimaquarta Ind. (1300), ch’è il conto del credito di Tommaso di Procida per sè e la sua compagnia. A lui 5 once al mese, a’ suoi uomini d’arme 4 per ciascuno, 15 once per prezzo d’un caval baio perduto in servigio, 7 once per un altra, 15 e 10 once per riscatto di ciascuno di vari uomini d’arme, ed once 8 per uno scudiero, fatti prigioni da’ nemici. Una parte gli fu pagata in danaro, il rimagnente in frumento. Ibid., fog. 101 a t.
Altro diploma, ibid., fog. 107, pel conte Filippo di Fiandra.
Altro del 25 ottobre decimaquarta Ind., per Umberto (primo di questo nome) delfino di Vienna, condottiero di 100 cavalli, ibid., fog. 112 a t.
Altro del 31 ottobre per altri 300 cavalli, ec.
[316] Sette diplomi dati di Napoli a 20 maggio tredicesima Ind. a diversi baroni. Perchè si recassero al servigio feudale in Matera, sotto il conte Pietro Ruffo, capitan generale di guerra in quelle province, sì che si facesse un ultimo sforzo contro il nemico, già prostrato e confuso. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1299–1300, C, fog. 237 a t. e 238 a t.
[317] Diploma dato di Napoli a 13 maggio tredicesima Ind. È dato a Riccardo di Grimaldo, abitator di Cosenza, e a’ malandrini della sua compagnia, stati valentissimi contro i nimici, di appropriarsi quantunque prendesser su loro, persone e robe, fuorchè le persone il cui riscatto passasse le 100 once o potesse portare al re il racquisto di qualche terra, nel qual caso si darebbero 100 once alla compagnia. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1299–1300, C, fog. 222 a t.
[318] Diplomi dati di Napoli a 9 maggio 1300, tredicesima Ind. nel reg. citato 1299–1300, C, fog. 197 a t. Bertrando Vicecomite è eletto capitano con mero e misto impero, finchè giunga a Catania, a consegnare a Roberto gli stuoli di fanti e cavalli che mandavagli il re. Questa straordinaria autorità per lo solo viaggio, mostra che trista gente fossero questi rinforzi assoldati dal re di Napoli.
[319] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 13.
Ei dice espressamente 400 cavalli toscani. I diplomi testè citati, parlan di 200 cavalli di Firenze, ed è naturale che gli altri fossero di altre città di Toscana, al medesimo effetto richieste da Carlo e dal papa, come innanzi si disse.
[320] Diplomi dati di Napoli a 3 gennaio 1300, tredicesima Ind., registro citato 1299–1300, C, fog. 50 a t. Sono in favore de’ comites nauclerii, proderii, balistarii et marinarii seu homines maris, etc. La terra d’Agosta nell’uno, e la città di Patti nell’altro di questi diplomi, è detta: Nunc exhabitatam et propriis incolis derelictam, etc.
[321] Diploma dato di Napoli, 28 dicembre 1300, tredicesima Ind. (cioè a dire, secondo il nostro computo, dicembre 1299, perchè la cancelleria di Napoli cominciava il nuov’anno a 25 dicembre), nel r. archivio di Napoli, reg. 1299–1300, C, fog. 41 a t. È conceduto in feudo il castel di Palagonia in val di Noto in Sicilia, a Rimbaldo de Ofar, uno de’ guerrieri spagnuoli lasciati da Giacomo in Sicilia, e assai segnalatosi.
Altro diploma della stessa data, ibid., fog. 42. Concessioni di Caccamo e Racalmuto a Pietro di Monteagudo; di Giarratana e Palazzolo a Gilberto de Sentillis, e altri, forse la più parte spagnuoli.
[322] Breve del 1 febbraio citato di sopra, in Raynald, Ann. ecc., 1300, §. 12, e altri citati nello stesso paragrafo.
[323] Raynald, Ann. ecc., 1300, §§. 17, 18, 19, breve dato il 15 gennaio 1300.
[324] Raynald, Ann. ecc., 1300, §. 19.
[325] Diploma nel citato registro 1299–1300, C, fog. 363. È dato di Napoli il 7 maggio tredicesima Ind. (1300), e indirizzato al siniscalco di Provenza. Dice aver provveduto che sulle entrate delle dette contee, ubi melius, commodius, habilius et liberius percipi valeat et haberi, assignetur et stabiliatur Inclito principi domino Jacobo, Illustri Regi Aragonum, filio nostro carissimo, perceptio annui redditus unciarum auri duo millia computandis in summa pecunie ad quam tenemus eidem juxta quod..... in patentibus licteris nostris hactenus exinde factis, etc.
[326] Raynald, Ann. ecc., 1300, §. 19.
Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 42. Gli ordini di Giacomo furon replicati il 21 marzo, a’ suoi sudditi dimoranti in Sicilia, Ugone de Empuriis, Blasco Alagona, Martino d’Otiet, Bernardo Ramondo de Ribellas, Guglielmo Calcerando, Ponzio de Queralto, Guerao de Pons, Pietro di Puchuert e Bernardo Queralto.
[327] Veggansi Ann. genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI.
Iacopo de Varagine, parte 12, cap. 9, in Muratori, R. I. S., tom. IX.
Giorgio Stella, ibid., tom. XVII, pag. 1015 e 1019.
[328] Raynald, Ann. ecc., 1300, §§. 12, 18.
Egli cita questi brevi del papa senza pubblicarli. Uno se ne trova negli archivi del reame di Francia, J. 715, 25, dato di Laterano il 1 febbraio 1300, il quale fu recato da Isarno priore di Benevento. Bonifazio in questo breve, tra le altre cose, si applaudisce d’avere accolto i legati di Genova allocutione placida et affabili, servata gravitate, ut in talibus quam hujus rei qualitas exigebat, cum oblalionibus grandium et honorabilium gratiarum.
[329] Raynald, Ann. ecc., 1300, §. 10.
[330] Ibid., §. 11.
[331] Giorgio Stella, Annali di Genova, in Muratori, R. I. S., tom. XVII, pag. 1019.
[332] Queste pratiche con Genova, accennate appena da Raynald, Ann. ecc., e da Giorgio Stella, Ann. di Genova, ne’ luoghi citati, si ritraggono largamente da’ diplomi del r. archivio di Napoli, reg. di Carlo II, segnato 1299–1300, C. Noi ne pubblichiamo i più importami, cioè il primo e un altro che contiene i capitoli dell’accordo; degli altri, che son molti, diamo un elenco, perchè a trascriverli per tenore sarebbe ingrossar oltre modo il volume, e apparterrebbe a una collezion diplomatica, piuttosto che al presente lavoro. È da avvertire, che i nomi propri de’ castelli saranno scrìtti come trovansi in ciascun diploma; storpiati in uno ad un modo, in uno ad mi altro. Que’ di Esa o Eza e Torbia facilmente si riconoscono. Non così l’altro di Santaneta o Santonetta; ma dalla somiglianza del suono, e più dalla posizione topografica, sembra l’attuale terra di Sant’Agnese, su i confini degli stati piemontesi col principato di Monaco. Non ho saputo raffigurare in alcuna delle terre di quei dintorni il nome di Albegio, Labegio, o Abegio, che per altro era una semplice torre senza villaggio, ondechè, distrutta la fortezza, si potè perdere al tutto il nome, ma a molte terre del Piemonte si vede aggiunto, oltre al nome proprio, quello di Albie, e con questa traccia si potrebbe entrare in una ricerca ch’io non ho alcuna ragione da intraprendere. Torbia era castello fortissimo, come il dice Benvenuto da Imola nel comento a’ versi del Dante:
Tra Lerici e Turbia, la più deserta,
La più romita via è una scala, ec.
Purgat., c. 3.
Ecco l’Elenco dei diplomi:
Diploma del 16 aprile 1300, docum. XXXIII.
Lo stesso di 16 aprile 1300. Lettere patenti ai due legati. Reg. cit., fog. 257.
Lo stesso dì. Scritto al siniscalco di Provenza che venga a Nizza; consegni, a richiesta dei due legati, Latorbia e Santaneta; ma se Genova, in luogo d’ultimar questo trattato, movesse le forze navali contro i domini del re, il siniscalco si faccia ad offender la repubblica per mare e per terra, fog. 355.
A 17 aprile. Perchè si consegni a richiesta dei due legati il castel di Latorbia, fog. 145.
Lo stesso dì. Il medesimo per lo castel di Santaneta, ibid. A 18 aprile. Credenziali a’ due legati, fog. 256 a t.
A 20 aprile. Al siniscalco di Provenza. A richiesta de’ legati, inibisca di mandar soccorsi alla terra di Monaco dai luoghi vicini, fog. 355.
A 21 aprile. Si fa cenno della missione dei legati, Verum, attento et cognito quod in hiis et ceteris factis nostris prima post Deum sanctissimi in Christo patris clementissimi et domini nostri domini Bonifacii, summi pontificis, spes nos regit, etc., è ordinato che i legati vadan prima a corte del papa, ed espostogli il negozio, mutino, aggiungano o tolgano secondo che a lui parrà, fog. 145.
A 21 aprile. Lettere patenti, con autorità ai legati di dare e ricevere a nome di re Carlo le obbligazioni risultanti dal trattato, fog. 137.
A 6 maggio. Al castellano di La Torbia, che rassegni la fortezza a richiesta dei legati, fog. 200 a t.
Lo stesso dì. Due diplomi somiglianti ai castellani di Esa e Torre d’Abegio, fog. 225.
Lo stesso dì. Al siniscalco di Provenza, al medesimo oggetto della consegna di Esa, Latorbia e torre d’Abegio, fog. 362.
A dì 6 maggio. Documento. XXXIV.
A 7 maggio. Lettere di raccomandazione pei due legati di re Carlo, fog. 200.
Il dì stesso. Al siniscalco di Provenza. Tolga tutti aiuti a Monaco; e a questo effetto mandi un vicario a Nizza, fog. 862.
A dì 8 maggio. A Matteo d’Adria e Landolfo Ayossa legati in Genova. Si parla del recente trattato (certamente quello trascritto nel diploma del 6 maggio) come in romana curia noviter habiti de conscientia domini nostri summi Pontificis. Esaminato l’altro, il re mandava ai legati nuova procura per compiere il trattato. Insieme li forniva di lettere ai castellani delle fortezze da consegnarsi, al siniscalco di Provenza, e agli usciti genovesi in Monaco, per dar la terra, contentandosi a’ patti fermati in lor favore; e se costoro non si pieghino, i legati ne scrivano al cardinal Matteo di santa Maria in Portico. Per la restituzione delle castella staggite presso i Genovesi, facciasi il piacer del papa; cioè non si richieggano statichi, ma solo la fede di Niccolò Spinola, Niccoloso Doria, Albertazzo Spinola e Federigo Doria. I legati assicurino i Genovesi, che se i Grimaldi armeranno in Monaco, non sarà in lor offesa, ma de’ Genovesi militanti per Federigo d’Aragona. Intanto il re sapea che in Genova s’armavano per Federigo due galee da Rosso Doria, due da’ Volta, tre dagli Spinola, due da Francesco Squarciafico, una da Giacomo di Cisterna, e anche dodici dal comune, ma queste sotto specie di servire ad altro. Perciò impedissero questi aiuti, o, nol potendo, non fermassero l’accordo, fog, 195 a t.
Lo stesso dì 8 maggio. Nuove credenziali a’ legati, fog. 196.
Lo stesso dì. Lettere agli usciti genovesi di Monaco, perchè ubbidissero, fog. 200.
Diploma del 22 maggio tredicesima Ind. 1330. Sono i capitoli della pace con Genova, negli stessi termini di que’ del 6 maggio. Ma non vi si legge l’obbligo de’ Genovesi a richiamare gli armati di Sicilia, facendone caso di stato; nè di Carlo a tener siniscalco in Provenza non sospetto a Genova. In vece è detto, che la repubblica non darebbe, nè permetterebbe aiuti a Federigo; e Carlo non vieterebbe l’assedio di Monaco, nè la costruzione di bastioni a questo effetto. Si legge di più, che i Grimaldi e altri usciti possan avere asilo ne’ domini di Carlo, oltre certa distanza da Monaco. I legati sono i due soli primi; e i presenti capitoli si dicono testè mandati dal papa, fog. 410.
A 15 giugno. Nuova procura. Si parla del trattato, maneggiato in Genova per Adria ed Ayossa. Or sono elettr maestro Guglielmo Agrario procuratore a corte di Roma, i detti due primi legati, e Giovanni de Porta da Salerno, perchè ricevan Monaco dalle mani degli usciti genovesi, o insistan presso il sinscalco di Provenza per farsi a costoro viva guerra, e intanto congegnarsi la fortezza di Labegio, fog. 267 a t.
A 17 giugno. Al castellano della torre d’Albegio, per consegnarla a richiesta dei legati, fog. 242.
Lo stesso dì. Al siniscalco in Provenza e Forcalquier. Si dice che il papa avea mandato a re Carlo, Guglielmo Agrario per fargli intender la sua mente sullo affare di Monaco, indi il re aggiunse ai due primi legati, questo Agrario e Giovanni de Porta. E comanda al siniscalco di procacciare la resa di Monaco, con ogni modo di potenza o pazienza, fog. 365.
Lo stesso dì. Al medesimo siniscalco. Contiene sino a un certo punto gli stessi ordini. Aggiugnesi che, data Monaco dagli usciti, sian questi raccolti a Tolone, o in altri luoghi di Provenza, ove il trattato nol vieti, fog. 355.
Lo stesso dì. Al medesimo, perchè consegni la fortezza di Labegio a richiesta de’ legati, fog. 365 a t.
A 19 giugno. Al medesimo, se Monaco si trarrà di mano ai Grimaldi, sia data a persona fidatissima, talchè nullus alius nisi nos ibi posse habeat, e non accada alcuno sconcio quando sarà in potestà nostra, fog. 365 a t.
A 21 luglio. Al medesimo siniscalco. Dopo gli sforzi all’accordo tra il re e Genova, tra questa e i Grimaldi, non si conchiudea nulla, perchè degli usciti genovesi in Monaco chi assentiva, e chi no. Togliesse dunque le vittuaglie e tutt’altro aiuto a quel castello; e andasse a espugnarlo, per metterlo in man de’ Genovesi, fog. 367.
A 22 luglio. Al medesimo. Gli si trascrive una epistola del re al comune di Genova, tendente a manifestare questo provvedimento. Si raccomanda al siniscalco di metterlo ad effetto, fog. 367 a t.
A 23 luglio. Al medesimo. Gli è trascritta la lettera del dì innanzi, con altre più efficaci parole per la esecuzione; al qual fine gli si mandano Roberto de Aldermaro da Nocera e Iacopo d’Itra, giurisperito, fog. 357 a t.
Lo stesso dì. Nobilibus et discretis viris capitaneo, potestati, consilio et communi civitatis Janue. Si dà ragguaglio ad essi della pertinacia degli usciti di Monaco, e de’ provvedimenti dati testè al siniscalco in Provenza. I due nuovi legati del re al siniscalco, accordinsi co’ governanti di Genova sul modo da tenere per la riduzione di Monaco, fog. 281 a t.
A 4 agosto tredicesima Ind. 1300. Aggiunti, per lo compimento del trattato con Genova, ai quattro legati primi, frate Taddeo, abate del monastero di san Giovanni degli Eremiti in Palermo, e Giovanni Vernallo da Napoli. Possan tutti i legati consegnar la torre d’Albesio; e per la più facile espugnazione di Monaco, uno o due de’ castelli di Latorbia, Esa e Santa Neta, da restituirsi dopo la presa di Monaco, fog. 264 a t.
Da un altro diploma, ibid,, fog. 139 a t., si vede che questo fra Taddeo, citato in quello del 4 agosto 1300, era spesso adoperato da Carlo II. Gli fu dato un passaporto per andare in Schiavonia per faccende del re.
[333] Gio. Villani, lib. 8, cap. 47.
[334] Brevi di Bonifazio, dati l’un di Laterano a 1 giugno 1301, l’altro di Laterano a 26 agosto del medesimo anno, portati da Raynald, Ann. ecc., 1301, §§. 15, 16, 17.
[335] Diploma del 28 dicembre 1399 (è segnato 1300 contandosi gli anni secondo la cancelleria angioina di Napoli dal 25 dicembre; ma toglie ogni dubbio l’indizione, ch’è segnata tredicesima, e l’anno del regno di Carlo II, scritto 15, poichè il 16 incominciava in gennaio 1300). Nel r. archivio di Napoli, reg. 1299–1300, C, fog. 50.
Non son particolareggiate in questo diploma le immunità che il re confermava.
[336] Diploma del 5 febbraio tredicesima Ind. (1300). Ibid., fog. 53 a t.
È silmilmente confermazione del privilegio di Roberto vicario.
[337] Diploma del 14 giugno tredicesima Ind., ibid., fog. 389 a t.
[338] Diploma del 15 febbraio tredicesima Ind., ibid., fog. 54, parla di reversione proxima in spiritu sinceritatis, degli uomini di Naso.
[339] Diplomi del 15 aprile tredicesima Ind., ibid., fog. 135; e 11 maggio seguente, ibid., fog. 12 e duplicato a 57 a t.
[340] Diploma del 20 luglio tredicesima Ind., fog. 71, e duplicato a fog. 82, del quale trascriviamo un brano nell’appendice.
[341] Diploma del 4 maggio tredicesima Ind. 1300, anno 16 del regno di Carlo II. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1299–1300, C, fog. 198.
[342] Diplomi del 24 giugno e 30 agosto tredicesima Ind. Ibid., fog. 270 a t. e 91. Nel secondo son promessi a que’ di Tropea, se tornassero in fede innanzi il 1 ottobre, la franchigia de’ dritti di marineria e legnami per sei anni, e le persone e i beni degli almugaveri e altri nemici dimoranti in quella terra, per riscatto degli statichi di Trop a trattenuti in Messina.
[343] Diploma del 22 giugno tredicesima Ind. Ibid., fog. 249 a t.
[344] Due diplomi del 28 giugno 1300, pel conte Arrigo Ventimiglia, signor d’Ischia maggiore, della contea di Geraci, di Petralia soprana e disottana, Caronia e Gratterì. Ibid., fog. 79 a t. ed 80, e duplicati a fog. 47 a t. e 48.
[345] Diplomi dell’8 marzo tredicesima Ind. per Garzia Ximeno castellan di Geraci, ibid., fog. 31; del 21 aprile per Bartolomeo Cristoforo di Bucciano pedagogo; del 20 luglio per Pietro de Simenis castellano di Geraci (sembra lo stesso nome del Ximeno), ibid., fog. 70; el 20 luglio per Giordano Balderi, ibid., fog. 70; del 20 luglio per Giorgio Zaccaria milite, ibid., fog. 76; del 20 luglio, per Riccardo Guarna, ibid.; del 20 luglio altro per Giorgio Zaccaria, ibid., fog. 89; del 1 agosto per Niccolò di Cosenza abitatore di Lipari, ibid., fog. 277; del 6 settembre per Giovanni Misuraca, ibid., fog. 160 a t.
[346] Veggansi i vari diplomi citati nel cap. XVII, che son confermazioni di concessioni di Roberto.
[347] Son frequentissime nel detto registro di Carlo II, 1299–1800, C, le concessioni di questa natura.
Tra gli altri notasi a fog. 369 a t. un diploma di Carlo a Roberto dato a 20 luglio tredicesima Ind. Dice aver conceduto già in feudo a Giovanni de Anich once 50 annuali. Comanda che gli si dia locum quod dicitur Gratterium che rende tale somma; e se questo sia conceduto di già, ne abbia altro dal medesimo valore, dei beni de mero demanio non existentibus, cioè ricaduti al re per confiscazione, non soliti a tenersi in demanio.
Simile diploma, dato a di 11 febbraio tredicesima Ind,, ibid., fog. 358, per la concessione delle castella di Odogrillo e Mohac in Sicilia, a Bernardo Artus, per lo valore di 60 once all’anno, già promessogli.
[348] Diploma dato di Catania da Roberto a 14 marzo 1300, confermato da re Carlo a 29 luglio, pel quale sono conceduti a Paolo de Mileto i beni di Matteo e Tommaso di Termini traditori, cioè partigiani di Federigo. Reg. cit., fog. 34, e duplicato a 75.
[349] Diploma del..... maggio 1300. Ibid., fog. 56, e duplicato al fog. 19.
[350] Diploma pubblicato dal Testa, Vita di Federigo II, docum. 20, Quivi la data è del 20 luglio; ma riscontrandolo sull’originale nel registro 1299–1300, C, fog. 24 a t., citato erroneamente nel documento del Testa, reg. 1299, C, ho veduto che la vera data sia 20 giugno.
[351] Diploma del 20 giugno 1300, docum, XXXV.
[352] Diploma del 19 maggio tredicesima Ind. (1300), nel citato reg. di Carlo II, 1299–1300, C, fog. 250.
[353] Diploma del 31 luglio tredicesima Ind., dal quale si ritrae esser tornata in fede Cetraro, ibid., fog. 283; e gli altri citati nelle pag. 193, 194.
Sembra compiuta in quest’anno la dedizione, o vendita e tradigione, del castel di San Giorgio, trattata da Giacomo nella state del 99; trovandosi un diploma del 7 settembre tredicesima Ind. 1300 per pagarsi danaro, secondo i patti, ad Albagno d’Aragona, che dava al re il castel di San Giorgio in Calabria. Nel r. archivio di Napoli; reg. 1299–1300, C, fog. 372 segnato per errore 332.
[354] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 14.
[355] Speciale in questo luogo, dice Palmiero Abate, quasi evo prestantior tra gli altri capitani, e cel mostra concutiens caput jam vergens ad senium. Questo attestato parrebbe in contraddizione alle parole di Montaner, cap. 134, che il dà a vedere giovane, che si battesse la prima volta, nell’affronto di re Pietro co’ Francesi, tra Tudela e Besalu, l’anno 1285, come notammo, tom. I, pag. 331. Ma supponendo che fosse allora poc’oltre i 30 anni, e però nella battaglia di Ponza avesse varcato i 50, si posson trovare esatte a un tempo le due testimonianze dello Speciale e del Montaner; nè le contrasta il diploma del 1272, citato da noi, tom. I, pag. 223, che porta Palmiero in quell’anno castellano del castel di Favignana.
[356] Semiviri, Speciale.
[357] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 14. Anon. chron. sic., cap. 69. Cronica di Bologna, in Muratori, R. I. S., tom. XVIII, pag. 304. Da questa si sa il giorno della battaglia, e la festa che ne fu in Bologna, e confermasi il numero delle navi nostre e nemiche. Tolomeo da Lacca, Ann. in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1303, dice perdute da’ nostri 28 galee, e preso con Corrado Doria il figlio anco e il fratello.
Dà traccia altresì di questa battaglia un diploma del r. archivio di Napoli, registro citato 1299–1300, C, fog. 271, dato il 2 luglio tredicesima Ind. (1300), salvocondotto e raccomandazione per un Ramondo de Sulteri da Tolone, che: dimicans cum hostibus in marino conflictu cum eis novissime inito percussus et vulneratus est adeo, etc.
[358] Così lo Speciale. Confermasi tal testimonianza di lui per un diploma del 16 luglio tredicesima Ind. (1300), reg. cit., fog. 280 a t. È una scritta per le catene di ferro de’ prigioni siciliani, tunc morantibus in criptis predicte civitatis (Neapolis).
[359] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 15.
[360] Nic. Speciale, lib, 5, cap. 18.
[361] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 16.
[362] Racalgiovanni era castello sul giogo de’ monti che corrono ad occidente, tra i fiumi Salso e Morello, dal monte Artesino presso Asaro e Castrogiovanni.
[363] Castello or distrutto. Sorgea sotto il monte Tavi, rimpetto Leonforte, alla scaturigine del Dittaino.
[364] Così Speciale. Forse era altr’uomo, dello stesso nome di colui che vendè Otranto ai nemici, o quel desso, tornato a parte siciliana, con la indifferenza de’ condottieri mercenari. Di ciò darebbe argomento la dubbia fede in ch’era tenuto presso i nemici. Veg. cap. XVI.
[365] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 16 e 17.
[366] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 18.
[367] Diploma del 3 luglio tredicesima Ind. (1300). Salvocondotto a Bernardo Todoni, Iacopo Sirignano, e notaio Andrea di Taranto, oratori di Federigo di Aragona. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. Carlo II, 1299–1300, C, fog. 271.
Diploma del 4 luglio, ibid., fog. 28. Passaporto ad Alamanno Segafino milite, mandato in Sicilia a vedere i prigioni e trattare gli scambi.
Diploma del 13 agosto, ibid., fog. 271 a t. Permesso a Pietro d’Alamanno d’Ischia, per venire in Palermo a trattare il riscatto d’alcuni suoi concittadini prigioni.
[368] Diplomi del 25 aprile tredicesima Ind. ibid., fog. 138 a t. L’uno è ampio passaporto a Ramondo di Muntayana, mandato da Filippo principe di Taranto al padre, e da costui rinviato a Filippo. L’altro è permesso a Ramondo di Prestorano da Cefalù, di estrarre da qualunque porto del regno 100 salme di vino per portarle a Cefalù.
Diploma del 10 maggio seguente, ibid., fog. 224. Permesso del tutto simile in favor dello stesso Prestorano.
Diploma del 18 luglio tredicesima Ind., ibid., fog. 175 a t. Salvocondotto a Kirino da Messina, appartenente all’armata siciliana, perchè infino a tutto agosto potesse andare e tornar da Messina. Costui sembra al tutto adoperato come spione; e Prestorano fors’anco.
Diploma del 5 agosto tredicesima Ind. 1300. Salvocondotto al detto Ramondo di Muntayana, mandato dal re in Sicilia al principe Filippo. Dovea valere a tutto settembre. Ibid., fog. 278.
[369] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 19.
Il vescovo eletto di Salerno del quale parla Speciale, era in fatti cancelliere di Roberto e vicegerente, o, vogliam dire, vicario del papa in Sicilia. Con questi titoli si legge il suo nome in un diploma di Roberto, dato di Catania a 11 ottobre 1299, trascritto nel docum. XXXVI.
[370] Seguo nello Speciale piuttosto la lezione Frumentinum, che Furnuntinum; perchè appunto si legge d’un Pietro Frumentino giudice di Palermo, in un diploma del 27 marzo 1284. Tabulario della cappella del real palagio di Palermo, pag. 87.
[371] Nic. Speciale, lib. 5, cap. 20.
Il Fazzello, e altri appresso di lui, dicono compri i congiurati dalla corte angioina. Così dan certo, quel che vago si ritrae dalle memorie de’ tempi; e credon diminuire al paese il biasimo dell’attentato.
[372] Montaner, cap. 194, e Pachymer, in Andronic. lib. 5, cap. 12, opportunamente recato in questo luogo dal sig. Buchon nella collezione cit. Parigi, 1840, pag. 409.
[373] Montaner e lo Speciale con poco divario accennano questi segni, da’ quali il pratico Ruggiero de Flor conobbe qual vento sarebbe spirato. Il rossiccio che si dipinge nelle nubi verso il tramontar del sole, e tiensi indizio di vento, potea dar al mare il colore sanguigno, che Montaner si piace a descrivere in questo luogo.
[374] Nic. Speciale, lib. 6, cap. 2.
Montaner, cap. 196.
[375] Nic. Speciale, lib. 6, cap. 3.
Con frasi scure egli accenna alla invidia che fece passar senza dolore, e fors’anco con l’effetto contrario, la morte di questo gran guerriero. Ed è da ammirare l’istorico, secondo me gravissimo, e senza dubbio focoso patriotta, il quale, amando il paese d’amor non volgare, n’è tanto più severo nel biasimo de’ suoi vizi.
[376] Nic. Speciale, lib. 6, cap. 2, 4, 5.
[377] Nic. Speciale, lib. 6, cap. 3 e 4. Il Montaner, cap. 196, porta questi due soccorsi di Federigo innanzi quello di frate Raggiero.
[378] Nic. Speciale, lib. 6, cap. 5.
[379] Montaner, cap. 193.
[380] Gio. Villani, lib. 8, cap. 39 e seg.
[381] Raynald, Ann. ecc., 1300, §. 20.
[382] Il matrimonio di Caterina di Courtenay con Giacomo di Maiorca si era non solamente trattato, ma stimolato nel 1298, alla presenza del re e della regina di Francia e di molti principi reali, sotto la condizione della dispensa del papa, per la consanguineità. Diploma negli archivi del reame di Francia, J. 509, 11; e in Du Cange, Hist. de l’Empire de Constantinople, docum., pag. 38. Ma forse papa Bonifazio negò la dispensa, perchè la pretendente dell’impero greco sposasse il Valois, del quale ei si volea servire come strumento a’ suoi disegni.
[383] Brevi del 3 febbraio, 4 agosto, e 3 ottobre 1300, e 12 febbraio 1301, su la facoltà della dispensa e le proroghe ai termini; e breve del 3 settembre 1301, col quale il papa ratificò la dispensa, data dal vescovo delegato, sopra una promessa di Valois che non era stata rigorosamente osservata. Negli archivi del reame di Francia, J. 723, 8; J. 721, 8; J. 723, 9; e in Du Cange, Hist. de l’Empire de Constantinople, docum., pag. 41. La prima moglie di Carlo di Valois morì in Francia il 31 dicembre 1299, il 3 febbraio il papa da Roma preparava la dispensa al nuovo matrimonio. Du Cange, op, cit.
[384] Raynald, Ann. ecc., 1300, §§. 20 al 26; e brevi del 21 ottobre, 21 e 30 novembre 1300, da lui pubblicati. Veggansi ancora il breve del 4 agosto, e un altro del 30 novembre 1300; col primo de’ quali si accordò al Valois la metà dei crediti decorsi della corte di Roma per decime ecclesiastiche in Francia; e l’altro è indirizzato al Valois, assegnandogli un primo termine a venire in Italia. Negli archivi del reame di Francia, J. 721, 1.
Montaner, loc. cit.
Gio. Villani, lib. 8, cap. 32 e 43.
Nic. Speciale, lib. 6, cap. 7.
Ferreto Vicentino, lib. 1, in Muratori, R. I. S,, tom. IX, pag. 960 976 e seg.
Il matrimonio del Valois, con Caterina fu fatto il 28 gennaio 1301, Buchon, op. cit., ed 1840, pag. 47.
[385] Raynald, Ann. ecc., 1301. Brevi del 3 settembre 1300, da lui pubblicati o accennati, che tutti trovansi negli archivi del reame di Francia, J. 721, 2, e J. 722, 5.
[386] Raynald, 1301. Trovansi due bolle ne’ medesimi archivi, J. 722, 5, indirizzate l’una al Valois, l’altra a’ popoli di Toscana; e questa, seconda solamente è pubblicata nel Corps Diplomatique, tom. II, part. 2, pag. 4.
[387] Diplomi di Carlo II e di Roberto duca di Calabria, dati di Roma l’11 marzo 1302, negli archivi stessi, J. 509, 14, e J. 512, 21; e in Du Cange, Hist. de l’Empire de Constantinople, docum., pag. 43–44.
[388] Raynald, Ann. ecc., 1302, §. 1.
[389] Docum. XXXVII.
[390] Docum. XLI.
[391] Docum. XLII.
[392] Docum. XXXIX e XL.
[393] Docum. XXXVIII e XLIII.
[394] Veggansi oltre i citati documenti, per tutti i fatti del Valois in Toscana, e i preparamenti alla guerra di Sicilia:
Nic. Speciale, lib. 6, cap. 7.
Tolomeo da Lucca, Ann., in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1304.
Gio Villani, lib. 3, cap. 49 e 50.
Cronaca di Dino Compagni, lib. 2.
Cronaca di Parma, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 842 e 843. Ivi è detto il soprannome di Carlo senza terra.
[395] Nic. Speciale, lib, 6, cap. 6.
[396] Speciale e Anonymi chron. sic., loc. cit.
[397] Montaner, cap. 197.
[398] Nic. Speciale, lib. 6, cap. 8.
Anonymi chron. sic., cap. 70.
[399] Federigo d’Incisa fu di Sciacca. Il provano, oltre la testimonianza dello Speciale riportata da noi nel cap. precedente, anche due diplomi, dati da lui come gran cancelliere del reame, nel 1317 e 1318, nel Testa, op. cit., docum. 36 e 37.
[400] Nic. Speciale, lib. 6, cap. 10.
Anonymi chron. sic., cap. 70.
Montaner, cap. 197 e 198.
Gio. Villani, lib. 8, cap. 50.
Tolomeo da Lucca, Ann., in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1305.
[401] Nic. Speciale, lib. 6, cap. 10.
Anonymi chron. sic., cap. 70.
Ferreto Vicentino in Muratori, R. I, S., tom. IX, pag. 961.
[402] Veggasi la nota 2, pag. 223–24.
[403] Nic. Speciale, li. 6, cap. 9.
[404] Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 55.
[405] Nic. Speciale, lib. 6, cap. 10.
Anonymi chron. sic., cap. 70.
Gio. Villani, lib. 8, cap. 50.
Tolomeo da Lucca, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1305.
Ferreto Vicentino, in Muratori, ibid., tom. IX, pag. 962.
Montaner, cap. 198.
Costoro il riferiscono assai brevemente; i nostri perchè voller tacere alcuni patti; gli stranieri perchè poco ne sapeano. Ma luce maggiore ci danno i documenti, trascritti in parte da Raynald, Ann. ecc., 1302, §§. 3 e 4, 6 e 7, e 1303, §§. 24 a 27, e più compiutamente riferiti negli Annali d’Aragona, lib. 5, cap. 56 e 60, da Surita, che correggendo la brevità dei contemporanei Speciale e Montaner, e riscontrandosi appunto con gli squarci pubblicati poi da Raynald sulle carte degli archivi di Roma, chiaro mostra aver avuto sotto gli occhi gli originali trattati.
Indi si ritrae, che i preliminari di Castronovo, fermati a 19 agosto 1302, furon questi:
«Federigo, col titolo di re, regnasse, durante la sua vita, in Sicilia e nelle isole adiacenti; senza tenerle da alcuno, ma independente e assoluto.
«Sposasse Eleonora, figliuola di re Carlo.
«Scambievolmente si rendessero i prigioni, senza riscatto.
«Scambievolmente si restituisser le terre occupate; in dì 15 da Roberto quelle di Sicilia; in dì 30 dal re Federigo quelle di Calabria.
«Ad ultimar la cosa e stabilire il tempo e i modi della esecuzione di questi patti, Federigo e Valois venissero a un abboccamento tra Caltabellotta e Sciacca, da cominciare il venerdì 24 agosto e finir la domenica 26. Ivi si stabilisse il titolo da darsi a Federigo, e il regno che avrebbe la prole di lui e d’Eleonora in luogo della restituita Sicilia.
«Fosse tregua dal 21 al 26 agosto, e sei dì dopo l’abboccamento.
«Valois procacciasse la ratificazione di re Carlo e di papa Bonifazio.»
Nell’abboccamento poi tra Sciacca e Caltabellotta si fecer queste mutazioni:
«Si chiamasse Federigo, re dell’isola di Sicilia, o di Trinacria, come piacerebbe meglio a re Carlo.
«Ai suoi figliuoli si procacciasse il regno di Cipro o di Sardegna. Non asseguita questa promessa, tenessero tuttavia la Sicilia; ma fossero sempre obbligati a renderla per la somma di 100 mila once d’oro.
«Le terre di Sicilia si restituissero in dì 22 dal 1 settembre; quelle di Calabria in dì 45.
«I beni delle chiese si restituissero allo stato in cui erano prima della rivoluzione dell’82.
«Perdonasse Federigo ai ribelli di Catania, Termini, e delle altre città datesi ai nemici; restando loro i soli beni che possedeano fino al giorno che s’alienarono da Federigo; e perdonasse re Carlo a’ Siciliani, quando tornassero sotto il suo dominio.»
I quali patti giuraronsi da ambo le parti a dì 31 agosto 1302. Lo stesso giorno promulgò Federigo la pace; annunziando solo ch’ei resterebbe re dell’Isola di Sicilia, e comandando si cessasse dal mandar le milizie a Corleone. Il documento è trascritto nell’Anonymi chron. sic., cap. 70.
E re Carlo tosto consentilli, non già Bonifazio; onde nuovamente si cominciò a trattare, tra lui e Federigo. In fine a 12 maggio 1303, Bonifazio promulgò una costituzione pontificia, la cui somma è questa:
Fatto il trattato di Federigo col Valois, e chiestane dal primo, per suoi oratori, l’approvazione del papa, disdicea Bonifazio que’ patti pregiudiziali alla Chiesa; ribenediva contuttoció Federigo; dispensava la consanguineità per le nozze sue con Eleonora; e ad aprir nuove pratiche mandava legati in Sicilia. Allora Federigo, riformati i capitoli, fece presentarli a corte di Roma dal conte Ugone degli Empuri, Federigo d’Incisa, e Bartolomeo dell’Isola. Pei quali promettea tener la Sicilia in vassallaggio della Chiesa; pagar in ogni anno, il dì di san Pietro, tremila once d’oro di censo; fornire a richiesta del papa cento lance, ognuna con tre cavalli almeno, pagati per tre mesi, o, in vece di questa, una forza navale equivalente; assoggettirsi in caso di trasgressione alle pene stesse cui andava tenuto il re di Sicilia, duca di Puglia, ec., per la concessione a Carlo I d’Angiò; restituir le chiese nel possesso di quanto godeano prima dell’82; dar alla Chiesa, senza gabella, la tratta di 10 mila salme di grano per la impresa di Terrasanta; fornir, coi giusti dritti di tratta, quante vittuaglie abbisognassero a Roma. I dubbi nella esecuzione di questi patti, rlsolverebbersi dal papa. Così, assentendo i cardinali tutti, fuorchè Matteo di S. Maria in Portico, approvò Bonifazio l’accordo; e dichiarò che, secondo il voler di Carlo, Federigo s’addimanderebbe re di Trinacria, finchè tenesse l’isola.
Furon queste le condizioni, e le modificazioni della pace di Caltabellotta. Nè nasca alcun dubbio sull’autenticità de’ documenti citati, se non si leggan le altre due particolarità che ho notato nel testo. Perocchè veramente per altri diplomi, non appartenenti al trattato dei principi, dovette Federigo consentire a Ruggier Loria il possesso di Aci in Sicilia; re Carlo a Vinciguerra Palizzi quello di tre castella in Calabria, come riferisce Niccolò Speciale. Nè in quel trattato avea luogo l’obbligazione particolare di Federigo a Valois, che l’aiuterebbe nell’impresa dell’impero d’Oriente, la quale si scorge dal documento citato qui appresso.
[406] Gio, Villani, lob. 8, cap. 50.
[407] Diploma dato di Lentini a 26 settembre 1302. Federigo promettea di dare al Valois, pagati per quattro mesi, dugento cavalli e quindici o venti galee; e permetteagii di armare in Sicilia altre dieci galee e quattrocento cavalli. Questo diploma è pubblicato dal Burigny, Storia di Sicilia, lib. 8, part. 2, cap. 5; e da Du Cange, Hist. de l’Empire de Constantinople, docum., pag. 43. Io dubitava dell’autenticità, solamente perchè Federigo, dopo la detta pace, vi s’intitola tuttavia: Rex Siciliae, ducatus Apuliae et principato Capuae, contro i patti stabiliti. Ma rifletteva all’incontro che Federigo forse non sì credè tenuto a lasciare quel titolo, prima che il trattato fosse ratificato da re Carlo II, e dal papa. Certo è che ho letto negli archivi del reame di Francia, J. 510, 18, un diploma di Filippo il Bello dato in dicembre 1313, col suggello reale in cera verde attaccato a fili di seta verde e rossa, dove si trascrive questo medesimo diploma di Federigo, attestando il re di Francia aver veduto l’originale in buona forma, e darne egli questa copia. Molti altri diplomi attenenti alla casa di Valois si trovano in simil forma di copie autenticate da Filippo il Bello.
[408] Nic. Speciale, lib. 6, cap. 11 e 12.
Anonymi chron. sic., cap. 70 e 71, ove leggonsi il diploma di Federigo per la pace, dato di Callabellotta il 31 agosto 1302, e quel dei legati del papa per lo scioglimento dalle scomuniche, dato di Lentini il 23 settembre.
[409] Nic. Speciale, lib. 6, cap. 12.
[410] Nic. Speciale, lib. 6, cap. 14, 15 e 16.
[411] Nic. Speciale, lib. 6, cap, 17, 19 e 20.
Montaner, cap. 198.
Anon. chron. sic., cap 70.
[412] Diploma dato di Lentini a 1 ottobre 1302, presso Testa, Vita di Federigo II, docum. 22 e 26.
[413] Diploma dato di Caltabellotta a 31 agosto 1302. Ibid., docum. 24.
[414] Nic. Speciale, lib. 6, cap, 21 e 22.
Gio. Villani, lib. 8, cap. 51.
Montaner, cap. 119 e seg. sino al termine della cronaca.
Veggasi anche un diploma di re Federigo, dato di Messina a dì 8 ottobre decimaquinta Ind. (1316), pel quale elegge Pietro d’Ardoino cancelliere Felicis exercitus Francorum in ducatu Athenarum morancium, nostrorum fidelium, etc. Tra’ Mss. della Biblioteca comunale di Palermo, Q. q. G. 2.
[415] Ferreto Vicentino, lib. 1, in Muratori, R. I, S., tom. IX, pag. 962 e 978.
[416] Nic. Speciale, lib. 6, cap. 18.
Raynald, Ann. eccl., 1302, §§. 5, 6 ed 8, e 1303, §§. 24, 25, 26.
[417] Raynald, Ann. eccl., 1303, §. 54,
[418] Ciò avvenne nel 1314. Nell’Anon. chron. sic., cap. 79, leggesi il diploma di Federigo a questo effetto, dato il 9 agosto.
[419] Non è superfluo al proposito di Federigo, ricordar che Dante nei primi canti del Purgatorio lodavalo come onor della Sicilia; che disegnava intitolargli la cantica del Paradiso, la quale poi andò sotto il nome di Can Grande della Scala; e che, mutando questi onori in acerbo disprezzo, in molti luoghi del Purgatorio stesso, del Paradiso, e anco nel Trattato della volgare favella, il disse avaro, vile, iniquo. I biografi del gran poeta, non chiariscono abbastanza s’ei fosse venuto in Sicilia, nè quali rapporti privati lo avessero mutato sì fattamente riguardo a Federigo. Delle pubbliche cagioni, le quali son più degne dell’Alighieri, ognun sa le grandi speranze de’ Ghibellini alla passata dell’Imperatore Arrigo di Luxembourg; la lega di questo potentato con Federigo; la intempestiva morte d’Arrigo, per la quale tornossi in Sicilia il nostro re, ch’era corso con l’armata siciliana, ad unirsi all’imperatore contro gli Angioini di Napoli. Questo ritorno, se fu necessario per Federigo, tolse ogni riparo al precipizio de’ Ghibellini; e perciò lor parve perfidia, viltà, scelleratezza, come dicono le fazioni oppresse, agli stranieri che fan sembiante di aiutarle e poi si stanno. Ciò dunque spiega al tutto la mutata opinione di Dante. Ecco i luoghi di cui sopra io parlava:
Poi disse sorridendo: I’ son Manfredi,
............
Vadi a mia bella figlia, genitrice
Dell’onor di Cicilia, e d’Aragona.
Purg., c. 3.
E qui Benvenuto da Imola notava: Idest honorabilium regum; Quia domnus Fridericus fuit rex Siciliae et domnus Jacobus rex Aragonum; nè può ammettersi ragionevolmente alcun’altra interpretazione:
Che non si puote dir dell’altre rede;
Iacomo, e Federigo hanno i reami:
Del retaggio miglior nessun possiede.
Purg., c. 7.
Vedrassi l’avarizia e la viltate
Di quel, che guarda l’isola del fuoco,
Dove Anchise finì la lunga etate:
E a dare ad intender quanto è poco,
La sua scrittura fien lettere mozze,
Che noteranno molto in parvo loco.
Parad., c. 19.
E quel che vedi nell’arco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora,
Che piange Carlo e Federigo vivo:
Parad., c. 20.
Racha, Racha. Quid nunc personat tuba novissimi Federici! quid tintinnabulum secundi Caroli; quid cornua Johannis et Azzonis marchionum potentum; quid aliorum magnatum tibiæ? nisi: Venite carnifices, venile altriplices, venite avaritiae sectatores Sed praestat ad propositum repedare quam frustra loqui.
De Vulgari Eloquio, lib. 1, cap. 12.
E qui è da notare che Dante, mentre sì acerbamente detrae a Federigo, pur gli da la tromba come guerriero, ma a Carlo II di Napoli il campanello come sagrestano; riscontrandosi appunto con la descrizione che fa il Neocastro, cap. 112, delle tende di questo Carlo II, e di Giacomo allora re di Sicilia, nelle pratiche della pace di Gaeta, l’anno 1291. V. nel presente volume, pag. 32.
[420] In un codice del secolo xiv, ne’ Mss. della Bibl. reale di Francia, 4042, l’autore dice aver dettato questa storia settembre, ottobre, e novembre 1287. Veg. anche Tiraboschi, Stor. della lett, ital.; tom. IV lib. 2, cap. 6.
[421] Veggasi la proporzione delle tasse tra la Sicilia e il reame di terraferma al tempo di Carlo I, nel volume 1, pag. 51 e 52, in nota.
[422] Lib. 8, cap. 112.
[423] Deletu per delectu. Sine deletu personarum, senza riguardo a persona, Du Cange, Glossar.
[424] Morula per Mora.
[425] Emendis, espiazioni pecuniarie, e anche correzioni, emende, Du–Cange, Glossar.
[426] Piuttosto fulguribus, che meglio conviene alla forte immagine del direpta, e par che alluda alle tempeste più fiere e spesse nelle regioni occidentali e settentrionali d’Europa.
[427] Manifestamente il punto finale è un errore del Ms. e il periodo continua senza nè anco una pausa.
[428] Ortabatur da ort impedimento, ostacolo, e si usava questo verbo in luogo di obstare, Du Cange, Gloss. Potrebbe essere anche una voce barbara che non cadde sotto gli occhi del Du Cange, derivata da ortus.
[429] Propongo la variante sopit at nuda Cathana, che darebbe un significato; alludendo alla sicurezza del governo angioino, mentre il vulcano su cui dormiva era per scoppiare in sì tremenda eruzione. La figura dell’aura incendii sembra tratta dal noto fenomeno dell’esaurimento de’ pozzi nelle vicinanze de’ vulcani quando è prossima una eruzione. Corron qui alla memoria d’ogni Italiano i cori del Giovanni di Procida del Niccolini, il quale certamente non conoscea il presente documento inedito, e indovinò si bene le immagini che si dovean presentare alla mente de’ poeti siciliani da lui messi in scena.
[430] Sembra che il solo modo interrogativo di tutto il periodo possa far comprendere il Pape videtur libet et gemere, dandogli questo senso: «Crede il papa che non dovevamo far altro che piangere, mentre tal incredibil cumulo di mali, etc.?»
[431] in senso di schiacciati, calpestati; da irrumpere, violare, infrangere.
[432] Questa voce corvulo non so che sia. Par che derivi da corvus, e che l’autore, certamente con pessimo gusto, dica che in vece di stilo scrìverà con una penna di corvo le luttuose memorie della schiavitù. Forse anche si potrebbe adottare la variante corculo. Quell’alga imputridita che si tiri alla spiaggia, fa veder l’abitatore della marina.
[433] Il verbo domentare par d’invenzione dello scrittore di questa epistola. È tratto evidentemente da doma tetto, Du Cange, Gloss.
[434] A questa parola, che non trovo in alcun dizionario, si potrebbe sostituire migrandum che non reggerebbe alle regole della grammatica, ma darebbe pure un barlume di senso.
[435] Polis, urbs; Du Cange, Gloss.
[436] Senza dubbio exuteratione. L’atroce fatto creò questo nuovo sostantivo.
[437] Mancano o son guaste alcune parole in questo periodo e nel precedente. Ma il senso generale, che è ferocissimo, si comprende pur troppo.
[438] Avvi di certo una allusione a qualche fatto particolare; e ignorandolo non saprei nè comprender questa lezione, nè correggerla.
[439] Palatium tra gli altri significati ha quello di ospizio pe’ forastieri, e di refettorio de’ monaci, Du Cange, Gloss. Si potrebbe leggere anche paleum o palmum questa parola che è abbreviata con segni non molto chiari nel Ms.
NOTE DEL TRASCRITTORE:
—Corretti gli ovvii errori tipografici e di punteggiatura.
—La copertina è stata creata dal trascrittore utilizzando il frontespizio dell’opera originale. L’immagine è posta in pubblico dominio.