The Project Gutenberg eBook of Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte II

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Title: Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte II

Author: Michele Amari

Release date: November 26, 2019 [eBook #60789]
Most recently updated: October 17, 2024

Language: Italian

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STORIA
DEI MUSULMANI
DI SICILIA. Volume Terzo — Parte Seconda


STORIA
DEI
MUSULMANI
DI SICILIA

SCRITTA
DA MICHELE AMARI.

VOLUME TERZO
Parte Seconda.

FIRENZE.
SUCCESSORI LE MONNIER.

1872.


Proprietà letteraria.



INDICE


[345]

LIBRO SESTO.

CAPITOLO I.

Trapasserei di molto i limiti ch’io mi proposi mettendo mano a quest’opera, s’io continuassi a trattare per filo e per segno la storia della Sicilia fino al tempo che vi rimasero abitatori musulmani. Nel presente libro io dunque toccherò per sommi capi le vicende della corte e de’ popoli cristiani, quanto basti a rischiarar quelle de’ Musulmani, delle quali noterò ben tutti i particolari che siano pervenuti infino a noi. Aggiugnerò le relazioni del principato co’ Musulmani di fuori; sì per la connessione del subietto, e sì per la novità dei fatti che, la più parte, si raccolgon ora per la prima volta negli scritti arabici.

Mancano gli annali cristiani della Sicilia dal primo al ventunesimo anno del duodecimo secolo, quando Ruggiero il giovane comparisce a un tratto uom di Stato, potente per armi e ricchezze, conquistatore del ducato di Puglia e nemico audacissimo de’ papi. Riscontrando co’ diplomi le poche parole che ne dicono i cronisti, ritraggiamo appena in questo periodo che, morto il primo conte Ruggiero (1101) rimasero di lui due bambini, Simone e Ruggiero, l’uno di otto anni, l’altro di sei; che la contessa Adelaide [346] resse la Sicilia e la Calabria a nome del primo, infino al millecento cinque[1] ed a nome di Ruggiero infino al cento dodici;[2] e che l’anno appresso, il giovanetto rimanea padrone di sè medesimo e dello Stato. La madre andava in Palestina a rimaritarsi con Baldovino I, re di Gerusalemme; gli recava i tesori della Sicilia: ma il Crociato, quando gli ebbe sciupati, sciolse il matrimonio, connivente il papa, il patriarca ed un concilio (1116); sì chè l’Adelaide tornossi oltraggiata in Sicilia, dove poco stante (1118) morì.[3] Una cronica [347] dice vagamente che Simone nel “breve suo consolato avea durate gravi molestie da’ Pugliesi;[4]” ond’e’ parrebbe che baroni di quella provincia, o forse il duca, si fossero provati ad occupare le Calabrie. Orderico Vitale, monaco francese di quella età, asseriva che un Roberto figlio del duca di Borgogna, fu dalla Adelaide chiamato in Sicilia, adoperato a reprimere i baroni, maritato ad una sua figliuola e poi scelleratamente morto di veleno:[5] ma il nome non torna nei ricordi siciliani;[6] nè un misfatto, sì leggermente supposto in tutti i tempi, può credersi a quel frate, ghiotto di favole e punto benigno all’Italia. L’abate di Telese, biografo del re, dice poco della sua fanciullezza: che lo Stato fu governato dalla [348] prudentissima Adelaide sua madre; che Ruggiero non vedea mendico nè pellegrino che non gli desse tutti i danari ch’egli avea in tasca e que’ che domandava alla madre; e che, vivente il padre, giocando a battagliare con gli altri bambini, ei sgarava sempre il maggior fratello e lo scherniva: “lascia a me la corona e le armi, ch’io ti farò vescovo o papa di Roma.[7]” Cotesti aneddoti mostrano, oltre gli alti spiriti del fanciullo, che a corte non si parlasse de’ papi con tanta riverenza, e che si tenesse in gran pregio la carità, precipua virtù dei Musulmani; ma non delineano di certo la storia del tempo.

La penuria de’ racconti pur vale a provare che sotto la reggenza non seguì alcuno strepitoso avvenimento; cioè che la contessa e i suoi consiglieri seppero usare, e forse compiere, i buoni ordini posti dal primo Ruggiero; e ch’e’ tennero salda la mano su quella nuova mescolanza di uomini, la quale parrebbe proprio il simbolo della discordia. La feudalità che tosto volse ad anarchia nel ducato di Puglia, non osò levar la testa in Sicilia: la quale generalità è compendiata, s’io ben mi appongo, nelle parole dei notabili di Traina, Centorbi ed altre terre della Sicilia centrale, i quali il millecenquarantadue attestavano in giudizio il seguente fatto de’ tempi della reggenza. Querelandosi un Eleazar,[8] signore di San Filippo [349] d’Argirò, che il vescovo di Traina, signore di Regalbuto, gli avesse usurpato un tratto di terreno, Adelaide commetteva il giudizio a Roberto Avenel e ad altri nobili uomini; i quali andati su i luoghi co’ notabili e i litiganti, Eleazar proruppe ch’ei volea dividere i confini con la spada; ma ripreso da Roberto e da tutti si acquetò: onde fu proceduto alla prova testimoniale ed alla decisione, come in tempi civili.[9] Tal forza del governo venìa dall’assetto che avea dato alla feudalità il conquistatore; ed anco dal prudente ardire dell’Adelaide e de’ suoi consiglieri, i quali, facendo assegnamento in su i Musulmani, fermarono la sede del principato in Palermo.

Da Mileto nè da Traina non si potea reggere a lungo il nuovo Stato. Ragion volea che la capitale stesse in Sicilia e in sul mare. Sembra anzi che il primo Conte, finch’ei non ebbe signoria in Palermo, avesse eletta Messina; poichè non solamente ei rafforzolla e vi tramutò la sede vescovile di Traina;[10] ma va riferita al suo tempo, ovvero ai primordii della reggenza, la fondazione della zecca,[11] della reggia,[12] [350] e credo anco dell’arsenale, in quella città. Se non che acquistata (1093) la metà di Palermo e cominciato con gran lucro a maneggiare l’azienda della città per sè medesimo e per lo duca di Puglia,[13] Ruggiero trovò in Palermo le basi da rifabbricare tutta l’azienda dell’isola.

I diwani istituiti da’ primi emiri e riordinati da’ Kelbiti, non erano al certo distrutti quando i Normanni presero la città: rimaneano, fossero anco stati negletti per alcun tempo, i casamenti, gli archivii, la zecca, gli arsenali;[14] rimanea qualche segretario e computista: nè Roberto era uomo da lasciare inoperosa macchina così fatta, nè Ruggiero. I diwani, serbati e ristorati, attiravano la corte di Adelaide; l’attirava una città di due o trecentomila abitatori, con quei suoi maestosi edifizii, industrie fiorenti, lusso e ricchezze che la facean rivale di Cordova. L’esperienza dovea mostrare a’ governanti che se da Messina avrebbero tenuta meglio la Calabria, poteano all’incontro, da Palermo far sentire più pronta e più forte la mano in Sicilia; e che l’oro, il ferro e la necessaria fedeltà dei Musulmani di Palermo avrebbero rinforzato il principe contro i baroni: ch’era il gran problema di governo nel medio evo. D’altronde [351] quella corte latina non avea cagione d’amar meglio il soggiorno di Messina popolata di Greci, che di Palermo scarsissima di Cristiani. Adelaide, senza lasciar del tutto la sede di Messina, prese a stanziare in Palermo, e la rifece veramente capitale dell’isola. Ciò avvenne ne’ principii del secolo, e direi appunto il millecentododici; poichè la confermazione dei privilegi dell’arcivescovo e capitolo di Palermo, accordata solennemente il primo giugno di quell’anno, da «Adelaide contessa e dal suo figliuolo Ruggiero, ormai cavaliere e conte di Sicilia e di Calabria, sedenti in Palermo, nell’aula del palagio di sopra, con molti lor chierici, baroni e cavalieri,» mi sembra proprio il compimento d’una cerimonia inaugurale. Soscrissero questo diploma da testimonii, parecchi baroni italiani e francesi noti nelle carte del primo Conte e con essi un Cristoforo, ammiraglio.[15]

È qui il luogo di ricercare l’origine di cotesto ufizio, il quale per la prima volta comparve tra Cristiani alla corte di Palermo, e lì, mutando natura, divenne quel ch’oggi suona in tutte le lingue d’Europa. Ammiraglio è corruzione della voce arabica emîr, che i Bizantini trascrissero fedelmente al nominativo, ma ne fecero al genitivo ἀμήραδος;[16] onde passò con tal desinenza a’ Cristiani occidentali, sì com’egli [352] è avvenuto ad altre voci greche. E veramente gli scrittori della bassa latinità non altrimenti chiamarono gli emiri musulmani che amiratus; se non ch’e’ raddolcirono talvolta il suono in amiralius, talvolta lo resero più aspro in admirarius, o admiratus per dargli alcun significato in loro linguaggio.[17] Come già dicemmo, Roberto Guiscardo, assettando il reggimento in Palermo vi prepose un de’ suoi con titolo di ammiraglio.[18] A città musulmana ei lasciava magistrati musulmani, chè altrimenti non potea fare; tra i quali era primo l’emir di provincia, capo politico e militare, giudice sopra i reati di Stato:[19] e torna allo stesso ufizio ed allo stesso titolo ch’ebbero i governatori della Sicilia sotto gli Aghlabiti e i Fatemiti. E’ par che il conte Ruggiero, quand’ei prese a mezzeria la città di Palermo, v’abbia [353] fatto emir un suo segretario, greco di Calabria o di Sicilia, per nome Eugenio; del quale ritraggiam solo ch’egli ebbe quel titolo, ch’ei possedette beni in Palermo e che fondò un monastero in Traina.[20] Dopo lui, Cristoforo ammiraglio testè ricordato, soscrive, quasi ministro di Stato, una donazione data di Messina nel febbraio 1110;[21] e poi, con gli altri [354] grandi della corte, il citato diploma del giugno 1112;[22] si sa in fine ch’egli ebbe una casa in Messina, la quale tornò, dopo la sua morte, al regio demanio.[23] Segue un Cristodulo ammiraglio, nominato in varii diplomi dal 1123, o forse dal 1119, al 1139, qual ministro civile ed ufiziale di corte, onorato alfine col gonfio titolo di protonobilissimo.[24] Ma questo somiglia forte al benservito che suol darsi agli invalidi; perocchè ormai da parecchi anni primeggiava nel governo [355] dello Stato quel Giorgio di Antiochia, che fu ammiraglio di nome e di fatto, come s’intende oggidì. Lo veggiamo il 1123 aiutante o guida del capitano dell’armata siciliana, chiamato dagli Arabi Abd-er-Rahman-en-Nasrani, ossia il Cristiano; il quale potrebbe essere per avventura lo stesso Cristodulo testè nominato;[25] e l’identità della persona darebbe ragione di parecchi fatti, come or or si vedrà. Giorgio, secondo i diplomi, era a Corte il 1126, ammiraglio al par di Cristodulo o Crisiodoro e del proprio figliuolo Giovanni; il 1132 ei s’intitolava ammiraglio delli ammiragli e arconte degli arconti, e tal rimanea sino alla sua morte.[26] Egli esercitò, al par che i predecessori, atti di ministro di Stato e [356] delegato del principe in cause civili, e capitanò l’armata; ma non si ritrae quale uficio tenessero gli altri ammiragli soscritti in qualche carta insieme con lui,[27] se di capitani o di ministri subalterni, e se alcuno non ebbe altro che il titolo, sì come abbiam detto de’ kâid.[28] Sol veggiamo preposto alle navi del re nella guerra dell’Italia meridionale, Giovanni figliuolo di Giorgio.[29] Dopo la morte di Giorgio gli si ragguagliò di titoli e di ufizio Majone; il quale ebbe ammiragli contemporanei e fu quasi padrone del re e dello Stato, come gli emir-el-omrâ, ossia emir degli emiri, di Baghdad al declinare del califato; ma non capitanò mai il navilio in guerra.[30] E finì con Majone l’autorità ed il titolo d’ammiraglio [357] delli ammiragli. Divenuto primo ministro il cancelliere, o esercitato l’ufizio da un consiglio di tre famigliari del re, l’ammiraglio rimase ministro regio per le cose del mare;[31] ed entro un secolo passò quel vocabolo in altri paesi, col significato esclusivo di capitano del navilio;[32] talchè gli eruditi arabi del XIV secolo, trovando sì diverso il suono del vocabolo e la giurisdizione dell’ufizio, non riconobbero più l’emir loro, nell’ammiraglio degli Italiani o delli Spagnuoli.[33]

[358]

In Sicilia dunque ed alla metà del duodecimo secolo mutossi l’ufizio dell’emir, lungo tempo dopo che il vocabolo avea presa sembianza greca e latina. La quale trasformazione come avvenisse non risulta da documenti, non è detto da cronisti, ma sendo nata di certo dalle condizioni particolari dell’amministrazione pubblica in Sicilia, ne possiam noi rintracciare l’origine senza troppa audacia di conghietture. L’autorità dell’ammiraglio cristiano di Palermo, viceregia sotto Roberto e il primo Ruggiero, limitata pure alla città e al suo territorio, dovea necessariamente alterarsi quando la corte stanziò nella capitale e vi s’accrebbe la popolazione cristiana. Conforme all’assioma del diritto siciliano di quel tempo, che ogni gente si governasse con sua legge, dovea ristringersi l’autorità dell’ammiraglio da un lato, allargarsi dall’altro; lasciare agli altri ministri del principe le cose dei Cristiani della città; ed estendersi a quelle de’ Musulmani in tutta l’isola, secondo la propria sua natura, cioè di comando militare e di piena potestà civile, fuorchè nei giudizii riserbati ai cadì. Ma nel reggimento militare de’ vinti Musulmani di Sicilia era ormai di momento il solo navilio. I fanti e i cavalli non si chiamavano in arme se non che al bisogno, e in piccol numero al paragon delle milizie feudali; e finita l’impresa rimandavansi a lor case, eccetto qualche compagnia stanziale: possiam supporre inoltre che Palermo, come altre [359] città demaniali, fosse esente dal servizio militare di terra ed obbligata soltanto al marittimo. Con ciò egli è da riflettere che l’armata, unica forza permanente dello Stato, richiedea continua vigilanza su la disciplina de’ marinai e sul mantenimento di navi, attrezzi, armi, vettovaglie: e ch’essa era montata in parte da uomini musulmani[34] e le cose affidavansi alla cura de’ Musulmani di Palermo, essendo stato secondario di certo, infino alla metà del XII secolo, l’arsenale di Messina.[35] Indi l’ammiraglio, oltre il suo ufizio civile, tornava a quel ch’oggi sarebbe il ministro della marina e inoltre capitanava in guerra il navilio, quand’egli era uomo da ciò; e sempre esercitava giurisdizione civile e criminale sopra i soldati e’ marinai.[36] Nel regno intanto del secondo [360] Ruggiero, accentrandosi e ordinandosi ogni ramo di amministrazione pubblica, s’accrebbe il numero de’ funzionarii; gli affari della popolazione musulmana ne richiesero parecchi, ai quali fu dato anco il titolo di emir; e il ministro di Stato per gli affari musulmani, ch’era Giorgio d’Antiochia, come superiore agli altri, fu detto emir degli emiri. Abilissimo amministratore e fortunato capitano d’armata, Giorgio tenne veramente l’ufizio di primo ministro, il doppio visirato della spada e della penna come lo si chiamava in parecchi Stati musulmani, dell’undecimo e duodecimo secolo: nè sembra poi cosa tanto strana che un cristiano, ministro per gli affari musulmani, fosse quel ch’or diremmo presidente del Consiglio. Ma gli ufizii di grande ammiraglio e di Cancelliere urtavansi per la natura stessa e per lo incerto confine loro, variabile secondo l’arrivo di nuovi coloni e la conversione degli antichi. Il quale antagonismo, s’e’ non nocque al tempo di Ruggiero e di Giorgio, mandò sossopra lo Stato nel regno di Guglielmo primo e, spento Majone, gli sopravvisse quel disordine. Alfine par che il Cancelliere e poi il consiglio di Cancelleria, prendessero a trattar le faccende civili dei Musulmani, le quali scemavano insieme col numero e con la ricchezza loro. Scomparvero allora i meri ammiragli, sorgendo in vece loro altri ufiziali con titoli europei; e solo rimase in piè quel saldo reggimento delle cose del mare, insieme con l’ammiraglio che vi era preposto. Questa unione, poi, del comando, del ministero e del tribunale, come noi diremmo in oggi, questa [361] unica volontà che preparava nella pace, conduceva in guerra e presedeva a’ giudizii speciali su le persone e le cose appartenenti alla marina, parve buona agli altri Stati; ond’essi imitarono più o meno fedelmente il grande ufizio e gli dettero lo stesso nome che avea in Sicilia. Così io suppongo e ritorno al filo degli avvenimenti, nel quale occorre in primo luogo l’ammiraglio Giorgio.

Le memorie arabiche degli ultimi principi ziriti suonano molto diverse dagli annali siciliani su la origine di costui. Non si ritrae su quale autorità il Pirro l’abbia supposto figliuolo dell’ammiraglio Cristodoro o Cristoforo, ed abbia aggiunto il casato di Rozio, che mi par lezione erronea di qualche sigla veduta ne’ diplomi greci.[37] Secondo gli scrittori arabi, Giorgio fu di que’ ministri di ventura, giudei o cristiani, ai quali i principi orientali sovente commetteano l’amministrazione dell’erario, per difetto di sudditi musulmani versati in quelle materie. Egli e il suo padre per nome Michele, cristiani d’Antiochia, capitarono a corte di Temîm, principe di Mehdia (1062-1108), amante di così fatti avventurieri;[38] appo il quale Giorgio si fè strada, sapendo per bene l’arabico ed avendo con molta lode esercitata [362] in Siria la computisteria,[39] o, come io credo, la pratica dell’azienda pubblica di quella provincia. Temîm indi il prepose ad ufizio simile nello Stato di Mehdia: dove crebbero sua mercè le entrate. Ma alla morte di quel principe (marzo 1108), temendo la vendetta di Iehia che gli succedette, il quale odiava, come avvenir suole, il ministro favorito dal padre, Giorgio s’indettò con la corte di Ruggiero,[40] che ricercava di così fatti strumenti, avendo sudditi musulmani da mugnere e principi vicini da insidiare. Mandatagli apposta di Sicilia una nave, sotto specie di recare spacci alla corte di Mehdia, Giorgio, un venerdì, colse il tempo della preghiera solenne, e mentre i musulmani salmeggiavano, egli e tutti i suoi, travestiti da marinai, andarono sul legno siciliano sì destramente che i terrazzani s’accorsero della fuga quando e’ videro veleggiar quello in alto mare. Arrivati gli avventurieri antiocheni in Sicilia, Abd-er-Rahman il cristiano, ministro di finanza,[41] come noi diremmo, adoperolli nella riscossione [363] de’ tributi; nella quale guadagnaron fama di solerzia e probità. Occorrendo intanto al re di mandare uom fidato in Egitto, Abd-er-Rahman gli propose Giorgio; e questi compiè sì bene la commissione e riportonne tanto guadagno, ch’egli entrò subito in grazia del re.[42] Così il Tigiani: ond’e’ si vede che il negozio commesso a Giorgio fu mercatantesco, di que’ che fruttarono denari e potenza ai principi di Sicilia nel XII e XIII secolo.[43] Con la narrazione degli Arabi s’accordano i diplomi, assai meglio che coi supposti del Pirro. Giorgio d’Antiochia comparisce verso il 1111 nell’umile ufizio di stratigoto di Giattini;[44] il 1123 accompagna Abd-er-Rahman capitano dell’armata siciliana nella infelice impresa del Capo Dimas;[45] il 1126 è soscritto in un diploma col [364] titolo d’ammiraglio e nulla più; indi lo veggiamo per la prima volta il 1132[46] ammiraglio delli ammiragli. Da un’altra mano i supremi uficii d’azienda e di guerra che i cronisti musulmani attribuiscono al cristiano Abd-er-Rahman tra il 1108 e il 1123, non si adatterebbero in Sicilia ad altro personaggio notevole che all’ammiraglio Cristodulo, il qual nome anco torna con poco divario ad Abd-er-Rahman.[47] E parrebbe un de’ musulmani siciliani di schiatta italica o greca, ritornati al cristianesimo dopo il conquisto e adoperati dal principe negli ufizii pubblici.

La testimonianza degli scrittori arabi al par che de’ diplomi cristiani della Sicilia intorno Giorgio di Antiochia, conferma l’autorità civile delli ammiragli, che che si pensi de’ miei supposti su l’origine sua. Questa particolarità del diritto pubblico siciliano alla quale si è badato assai poco fin qui, ci aiuta a comprendere le vicissitudini dello Stato sotto i due Guglielmi, assai meglio che non faremmo col mero ordinamento dei sette grandi ufizii della Corona,[48] supponendo col Gregorio, che fosse stato fin da’ tempi di re Ruggiero qual si ritrae negli ultimi di Guglielmo [365] il Buono, e che l’autorità di quegli ufizii si fosse estesa a tutti i sudditi, cristiani o musulmani. Erano gli elementi dell’azienda musulmana che tornavano a galla quando fu ristorata l’antica capitale. E dico delle istituzioni ed anco degli uomini. Guerrieri che avessero seguito in Terraferma il primo conte, uomini di mare, giuristi, segretarii, mercatanti, pedagoghi, camerieri; qual più qual meno caritatevoli, dissoluti e picchiapetto; bilingui e trilingui, barcheggianti tra due o tre religioni, versati nella letteratura arabica e nella scienza greca, dilettanti dell’arte bizantina e delle forme che prese in Siria, in Egitto o in Spagna: tali mi sembrano que’ Musulmani e Greci di Sicilia che la novella corte attirava, senza volerlo, nel castel di sopra di Palermo, insieme co’ Levantini della tempra di Giorgio e coi prelati, i chierici e i nobili d’Italia e di Francia. Que’ costumi dissonanti s’armonizzaron pure un gran pezzo e produssero, nel corso del duodecimo secolo, due grandi Statisti: orfani entrambi, maturati precocemente tra le agitazioni della corte di Palermo, somiglianti anco l’uno all’altro per tempra e cultura dell’intelletto, legislatori, buon massai, vaghi d’ogni scienza e filosofi più che cristiani: Ruggiero primo re e Federigo secondo imperatore; i due sultani battezzati di Sicilia, a’ quali l’Italia dee non piccola parte dell’incivilimento suo.

L’educazione orientale del novello principe non giovò a’ vicini Stati musulmani. Mentr’egli in casa ordinava l’amministrazione, l’esercito e l’armata, e mantenea severamente la sicurezza pubblica;[49] [366] mentre attaccava briga col duca di Puglia, e maggior pericolo minacciavagli con l’amistà,[50] Ruggiero agognava in Affrica all’eredità d’un altro principato moribondo. I Ziriti di Mehdia s’erano sforzati invano, dallo scoglio loro, a ristorare l’antico dominio contro i Ziriti di Bugia, gli Arabi nomadi e i regoli di schiatta arabica o berbera che usurparono a volta a volta le città della costiera.[51] Temîm, invero, dopo l’assalto della Lega italiana (1087) avea ridotti, perduti e ripresi varii luoghi,[52] e perfino, mostrato il viso a’ Cristiani, non sappiamo di qual nazione, i quali del quattrocentonovantotto (22 sett. 1104 a 11 sett. 1105) riassaltarono Mehdia, chiusero la darsena con formidabile ordinanza di galee spalleggiate da ventitrè navi; ma l’armata zirita, rompendo la fila, non senza strage li rincacciò.[53] Iehia, figliuolo e successore di Temîm, racquistò anch’egli qualche pezzo del territorio; mandò l’armata in corso contro Cristiani, con vario successo;[54] [367] fornilla di fuoco greco;[55] e tanta molestia diè, o tanti comodi offerse al commercio bizantino, che Alessio Comneno, l’anno cinquecentonove dell’egira (1115-6) inviava ambasciatori in Mehdia [368] a presentare doni, e trattare un accordo.[56] Continuava intanto la pace che il primo conte di Sicilia fermò con Temîm:[57] s’accresceano i commerci al segno che, il millecendiciassette, Ruggiero secondo tenea parecchi fattori in Mehdia a maneggiar grosse somme di danaro, sì come vedrassi nel seguito della narrazione. Questa mostrerà anco gli effetti delle pratiche fatte dalla corte di Palermo appo gli Arabi occupatori dello Stato e’ governatori ribelli delle città marittime. E perchè gli Ziriti di Mehdia non avessero avversario che amico non fosse di Ruggiero, anco i Beni-Hammâd gareggiavano con essolui di cortesia. De’ monaci Benedettini, al dir di Pietro Diacono, tornando di Sardegna in Terraferma erano stati presi da corsari affricani, ed era stata la nave cacciata da’ venti in Sicilia, quando il conte, pregato di liberar que’ frati, in vece di strapparli a [369] dirittura dalle mani degli Infedeli, mandò ambasciatori al re della città Calamense detta da’ Saraceni Al-Chila; il quale immantinenti rilasciava i prigioni.[58] Indi gli è manifesto che un trattato legasse i principi normanni della Sicilia con quel ramo di casa zirita. Dopo la fuga degli Antiocheni, tutte queste mene di Ruggiero non poteano essere occulte alla corte di Mehdia: pur si manteneano, per interesse reciproco, le apparenze dell’amistà.[59]

Venuto a morte Iehia (aprile 1116), Alì, giovane d’alti spiriti, non imitò la prudenza del padre. Rafi’-ibn-Makkan-ibn-Kâmil, capo d’Arabi, mezzo governatore e mezzo usurpatore di Kâbes, avea fatta costruire una grossa nave mercatantesca, con assentimento di Iehia; il quale financo gli fornì legname e ferro: ed era in punto ogni cosa, quando il nuovo principe, arrogandosi il diritto privativo del commercio di mare,[60] fece intendere a Rafi’ che, se la nave uscisse dal porto, ei sì la farebbe pigliare. E mandò con questo in Kâbes sei harbiè e quattro [370] galee.[61] Rafi’ allora si volse a Ruggiero, fingendo, come ci dicono, ch’egli avesse allestita la nave per mandargli certi suoi presenti; ma più verisimile è che i ministri di Sicilia avessero già appiccate pratiche in Kâbes per condurvi i traffichi del fisco: e quali che fossero i particolari, ognun vede che Ruggiero stava lì alle vedette, come il potente quand’ei vuol entrare in casa de’ vicini. Promesse dunque aiuto a Rafi’ e tosto mandò una squadra di ventiquattro galee che, tolta seco la nave, scortassela in Sicilia. Correa l’anno cinquecentoundici dell’egira (4 maggio 1117 a’ 22 aprile 1118). Pareva a Ruggiero che il principe zirita non avrebbe osato di risentirsi. E veramente, quando fu vista da Mehdia l’armata siciliana veleggiare nel golfo, quando Alì toccò con mano la connivenza di Ruggiero che poc’anzi gli era parsa una fola, i grandi dello Stato, consultati, avvisarono si dissimulasse, piuttosto che spezzare i patti con la corte di Palermo. Alì die’ loro su la voce: comandò che il rimanente dell’armata corresse dietro a’ Siciliani per mantenere il divieto ad ogni costo. Seguinne, secondo il Tigiani, sanguinosa zuffa tra i marinai ziriti e que’ di Ruggiero, arrivati pria di loro e assisi già ad un banchetto, che Rafi’ loro aveva imbandito;[62] secondo [371] altri i due navigli entrarono insieme; onde Rafi’ non osò far salpare la sua nave, nè si venne altrimenti alle mani:[63] tutti affermano poi che i Siciliani, non potendo usare aperta violenza, scornati si ritrassero.[64] Indi i cortigiani d’Alì a lodare la sapienza e valore del principe; i poeti ad ammontar metafore sopra metafore, come veggiamo in una kasîda scritta allora dal siciliano Ibn-Hamdîs, irridendo agli Infedeli che non aveano saputo affrontare il taglio delle sciabole d’Alì, nè le lingue di fuoco lanciate dalle sue navi.[65] I brani di memorie contemporanee che troviamo qua e là nelle compilazioni musulmane più moderne, danno con evidenti interruzioni il seguito degli avvenimenti. Narrano che Rafi’, chiaritosi ribelle, condusse alcune tribù d’Arabi a campo a Mehdia; che Alì corruppe quegli Arabi; e che, dopo varie fazioni, i [372] due musulmani, spossati si rappattumarono.[66] Ruggiero, intanto, avea mandato il naviglio in aiuto di Rafi’, con ordine d’infestare la costiera e tenere in rispetto il naviglio zirita; ma questo gli diè una sconfitta; e par n’abbia anco toccate, aggiugnendosi dopo ciò che il signore di Mehdia riforniva l’armata.[67] La varia fortuna de’ combattimenti navali apparisce anco dalle pratiche delle quali abbiamo ragguaglio più particolare: che il principe di Sicilia mandò a richiedere imperiosamente la rinnovazione del trattato e la restituzione de’ danari staggiti in Mehdia a’ suoi fattori; che Alì assentivvi e liberò i fattori imprigionati; che Ruggiero, non soddisfatto, reiterò l’ambasciata, fuor d’ogni uso cancelleresco, con parole aspre e villane; che il musulmano sdegnò di rispondere, e che indi sfogaronsi a minacce; l’uno di venire con l’armata a Mehdia, l’altro di collegarsi con gli Almoravidi per assaltare la Sicilia.[68] Entrambi già si apparecchiavano a grossa guerra. Alì muniva sue fortezze, armava dieci navi harbîe e trenta corvette, le empiva d’uomini, di munizioni e di nafta; e tenne pratiche veramente con gli Almoravidi. Scorsero così quattro anni, tanto che l’audace zirita morì (10 luglio 1121), nè in guerra nè in pace con la Sicilia.[69]

[373]

La potenza che Alì incautamente stava per attirarsi in casa a fine d’allontanare i Siciliani, era surta come un turbine dalle profondità del Sahra: occupate in brev’ora le regioni ch’or diciamo del Marocco e dell’Algeria, avea passato il Mediterraneo e portati via, la più parte, i regoli musulmani della Spagna. Il nome attesta l’origine di quella dominazione. Alla metà dell’XI secolo, mentr’era venuta meno ogni forza vitale negli splendidi califati di Baghdad, del Cairo e di Cordova, l’islam ripullulò con l’antica violenza ne’ Berberi di Sanhagia, i quali si diceano musulmani perchè sapeano il nome del profeta e il precetto di rubare e ammazzare i Negri finitimi. Il capo de’ Lamtuna, tribù della nazione di Sanhagia, per dirozzare i suoi, chiamò (1039) un dottore di Segelmessa. Il quale, deriso e poi scacciato, in odio delle virtù ch’ei predicava e non delle favole religiose di che le condìa, si ritrasse con pochi proseliti in un isolotto del Senegal, per vivere a suo modo e adescar altri co’ prestigii della penitenza: [374] il qual eremo appellarono, all’uso arabico, ribât, e sè medesimi morâbit, ch’è derivato di quella voce: marabutti, come son detti in oggi i santocchi in Affrica; e gli Spagnuoli d’allora, premesso l’articolo e fatte le solite permutazioni di consonanti, pronunziarono Almoravidi. Ingrossata l’associazione e venuta in fama per miracoli, die’ mano alla guerra contro forastieri e connazionali che non intendessero l’islam al modo professato nel ribât (1042); nè andò guari che gli Infedeli, combattuti e spogliati, presero anch’essi l’utile mestiere di santi. Per la forza dell’ordinamento e della volontà, i pochi vinsero, al solito, i molti disgregati; le affinità di schiatta favorirono il movimento sociale vestito di religione; e la confederazione aggressiva fu pattuita agevolmente tra i barbari pastori del Sahra, che riferivano al Settentrione tutte le dolcezze e i comodi della vita, nè soleano veder pane se non quando n’avea seco un pezzo qualche mercatante di que’ paesi, venuto a comperare, credo io, schiavi negri. Una carestia spinse gli Almoravidi (1058) sopra Sus dell’Oceano. Rivoltisi, prima e poi, alla catena dell’Atlante, occuparono alfine (1061) Segelmessa; dove sottentrò ai primi un capo politico e guerriero, per nome Iûsuf-ibn-Tasciufin. Questi seppe stringere più fortemente i legami della confederazione; s’intitolò emiro dei Musulmani; vinse altre battaglie; gittò le prime fondamenta dalla città di Marocco (1062); si fece ubbidire da’ deserti al Mediterraneo, e dall’Atlantico a’ confini occidentali dell’odierna provincia di Costantina. I Musulmani di Spagna, incalzati [375] dalle armi di Alfonso di Castiglia, chiesero aiuto a Iûsuf; ond’ei, valicato lo Stretto, ruppe i Cristiani a Talavera (1086), ma poco stante spense ad uno ad uno que’ che l’avean chiamato (1090- 1100) e quand’ei morì (1106) si pregava a suo nome in mille e novecento moschee cattedrali: quasi tutto l’Occidente musulmano, del quale ei s’era fatta dar l’investitura dal povero califo di Baghdad. Alì figliuolo di Iûsuf, estese i confini a levante infino a Bugia; ed aggiunse all’impero le isolette che fecero suonare terribile in Italia questo nome di Almoravidi.[70]

Dico le isole Baleari, le quali, dopo la morte di Mogêhid,[71] ubbidirono, insieme con Denia, al suo figlio Alì e indi al nipote Abu-’Amir e rimasero solo retaggio della dinastia, quando fu Denia occupata da Moktadir di Saragozza.[72] I successori di Mogêhid scansarono dapprima il giogo almoravide, sia che Iûsuf non pensasse alla Baleari, sia ch’ei non avesse forze navali da affrontare que’ pirati. Ma, [376] provocati da loro correrie, i Pisani, il conte di Barcellona, quello di Montpellier, il visconte di Narbona ed altri signori cristiani, fatta lega tra loro, assalivano (1113) le Baleari, tenute allor dall’eunuco Mobascer, liberto dei Mogehiditi. Dopo ostinatissima difesa, morto l’eunuco, espugnavano il castello di Majorca (1115), prendeano il giovane Burabe (Abu-Rebi’a?) ultimo rampollo della dinastia, il quale fu condotto in Pisa, come il suo antenato Alì un secolo innanzi: se non che, ritornato a casa il navilio pisano, Alì-ibn-Iûsuf occupò le Baleari senza contrasto.[73] Il che par sia avvenuto per procaccio d’una valente famiglia di corsari di Denia, i Beni Meimûn, un uom della quale è ricordato tra i difensori di Majorca e dopo la morte di Mobascer fu mandato a Denia, per chiedere aiuto al principe almoravide.[74] I Beni Meimûn, pochi anni appresso, capitanavano l’armata di Alì-ibn-Iusuf, ordinata e forse creata da loro;[75] e nella precipitosa decadenza della dinastia, rifornirono l’esercito suo di giovani cristiani ch’essi [377] andavano rubando ne’ mari e su per le costiere di Spagna, d’Italia e de’dominii bizantini.[76] Quando nulla valse a cansare la caduta degli Almoravidi, i Beni Meimûn affrettaronla, qual gittandosi co’ ribelli spagnuoli[77] e qual passando (1145) con l’armata sotto la bandiera d’Abd-el-Mumen, capo degli Almohadi.[78] Tra coteste vicende, la casa loro salita era a tale potenza che, per gran tratto del duodecimo secolo, gli annali nostri ricordano i combattimenti o gli accordi dei Beni Meimûn con Siciliani, Genovesi e Pisani.[79]

[378]

Or nella state del millecentoventidue, un Ibn-Meimûn, suddito degli Almoravidi, piombò con sua armatetta sopra Nicotra di Calabria: saccheggiò, arse, uccise, rapì le donne e i bambini; assalì qualche altro [379] luogo e illeso tornossene in Ponente.[80] Gli scrittori musulmani da’ quali sappiamo i casi della guerra che Ruggiero portò incontanente in Affrica,[81] appongonla a dirittura a questa fazione di Nicotra; dicendo [380] che il conte di Sicilia la credè primo frutto delle istigazioni d’Ali, anzi della sua lega con gli Almoravidi.[82] E veramente cotesta guerra ci pare più tosto subita vendetta, che meditata impresa di conquisto; poichè i disegni di Ruggiero a tal effetto non sembrano ben maturi, ed all’incontro, in quel medesimo tempo, l’Italia meridionale lo chiamava a maggiori travagli e maggior premio.[83] Fors’egli sperò di fare, entro poche settimane, un colpo di mano sopra Mehdia, tramato con gli Arabi, e agevole in ogni modo contro Hasan, fanciullo di tredici anni, succeduto poc’anzi ad Ali.[84]

Affrettossi Ruggiero, adunò navi ed uomini di varie parti d’Italia,[85] ritenne entro i suoi porti i legni mercantili che caricavano per Affrica o Spagna; e nel mese di giumadi primo del cinquecento diciassette, (27 giugno a 26 luglio 1123) fece salpare dal porto di Marsala trecento legni, tra di carico e di battaglia, con trentamila uomini e mille cavalli.[86] De’ quali numeri è da accettare l’ultimo soltanto: l’altro significa [381] solo che l’armamento fu grosso. Capitanavano l’impresa, Abd-er-Rahman-en-Nasrani e Giorgio d’Antiochia, nominati di sopra.[87] La corte di Mehdia, dal suo canto, sapendo i preparamenti di Ruggiero, avea risarcite le fortezze della capitale, assoldata gente, raccolte armi e bandita la guerra sacra. Onde turbe infinite d’Affricani ed alcune tribù degli Arabi occupatori del paese, accorreano a Mehdia; attendavansi fuor le mura,[88] con gran sospetto de’ cittadini[89] che non si capacitavano come que’ ladroni veramente venissero a difender le loro vite e sostanze.

Così trepidavano gli animi, quando un legno siciliano gittato su la spiaggia da fortuna di mare, portò nuove dell’armata.[90] Battuta dalla tempesta e scema di assai legni che fecero naufragio, s’era l’armata siciliana ridotta alla spicciolata in Pantellaria,[91] com’avveniva il più delle volte, nelle spedizioni mosse dalla Sicilia contro l’Affrica o viceversa:[92] e però tanto uman sangue fu sparso in quella terra mezzo italiana e mezzo affricana, dove, alla fine dell’undecimo secolo, vedeansi biancheggiare ancora in una landa le ossa de’ Cristiani immolati dal furor musulmano.[93] Il furore crociato adesso ne prendea [382] la vendetta. I Siciliani sbarcati in Pantellaria davano di piglio nelle persone e nella roba degli abitatori; finchè ragunate le navi, agognando maggior preda, salparon di nuovo alla volta dell’Affrica. Il sabato venticinque[94] di giumadi primo (24 luglio 1123), al tramonto del dì, gittarono le ancore, una diecina di miglia a tramontana di Mehdia, nell’isolotto di sabbia or nominato “Le Sorelle” ed allor Ahâsi,[95] che un breve passo, guadoso a cavalli ed a fanti,[96] [383] disgiugnea dal Capo Dimas. Questo par abbia preso il nome da alcun antico edifizio che vi rimanesse; e s’appellava anco Dimas la terra murata che sorgea proprio in su lo Stretto, e racchiudeva in sè un castello fortissimo.[97]

Al dir degli Arabi, avea comandato Ruggiero che, occupata la terra e il castello, i cavalli e i fanti movessero in ordinanza sopra Mehdia, e le galee vi si appresentassero al tempo stesso; in guisa da assalirla a un tratto dalla terra e dal mare.[98] Chiaro egli è che i Siciliani fecero assegnamento sopra alcun capo d’Arabi, indettato da Abd-er-Rahman-en-Nasrani; che gli Arabi non poterono dare a’ Siciliani la terra di Dimas, perchè le milizie di Media li prevennero; e che, impedita perciò la mossa rapida di tutte le genti, il colpo di mano sopra Mehdia fallì. La notte stessa dello sbarco, piantate le tende de’ due capitani e de’ baroni dell’oste nell’isola di Ahâsi, un grosso di cavalli innoltrossi per parecchie miglia nel paese;[99] sorto poi il nuovo dì, i capitani con ventitrè galee[100] navigarono [384] verso Mehdia, sopravvidero la fortezza, corsero fino al lido di Zawila: e per ogni luogo lor si appresentavano formidabili difese e grosse schiere d’armati; ma non si vedeano spuntar le insegne di Sicilia. Frustrati dunque, se ne tornarono ad Ahâsi; e seppero, per giunta, che una mano di soldati di Mehdia e d’Arabi aveano osato assalire il campo, uccider gente e far bottino, mentre i cavalli cristiani scorazzavano indarno la Terraferma.[101] A questo, i capitani fanno mettere a terra gli altri cinquecento cavalli;[102] attendano tutta l’oste in Ahâsi. Il dì appresso, che fu il terzo dopo lo sbarco, ebbero, per tradimento di un capo d’Arabi, il castello di Dimas, dove posero presidio di cento uomini;[103] la terra no, perchè vi trassero d’ogni luogo le turbe degli Arabi fedeli all’islam, e da Mehdia vi andò anco un grosso di soldati, per condurre l’assedio del castello.[104] Mutate le veci, gli assalitori siciliani si difendeano nel castello e nell’isolotto di Ahâsi, dal quale al capo Dimas non si [385] passava senza fatica, sull’istmo inondato o Stretto guadoso che dir si voglia.

Quando una notte che fu la quarta dallo sbarco[105] e la trentesima[106] di giumadi primo (26 luglio), le turbe musulmane che occupavano Dimas, movendo assalto al castello, diedero a un tratto nel grido di Akbar Allah, che fece tremar tutte le piagge. Risentendosi a quel tuono, i Siciliani son presi da timor panico, si credono assaliti proprio nel campo; nè pensano allo Stretto, o lo tengono varcato già da tutta l’Affrica in arme. Gridano alle navi, alle navi; e corronvi senza guardare s’altri li insegua: i più valorosi arrestansi tanto da uccidere i proprii cavalli, perchè non se li abbia il nemico. Il quale, risaputa la rotta, passò in Ahâsi quando l’isolotto era pressochè sgombro; fece bottino di macchine da guerra, arnesi, armi, robe e di quattrocento cavalli, chè secento eran lì morti ed un solo n’era stato rimbarcato: due soli, disse un altro de’ retori che narrarono cotesto prospero successo dell’islam, gareggiando tra loro di tropi, arzigogoli, assonanze e ampollosità d’ogni maniera. Per otto dì, l’armata rimanea spettatrice degli assalti mossi contro il castello: ma non trovando modo di aiutare il valoroso presidio, nè potendo stare più lungamente tra quelle secche, diè le vele ai venti e man mano si allontanò, a vista di centomila pedoni e diecimila cavalieri, che le imprecavano da lungi:[107] il qual [386] numero non sembra troppo, quand’altra fatica non rimanea che gridare Akbar Allah, raccogliere il bottino e scannar poche vittime. Rifiniti dal combattere dì e notte scarseggiando d’acque e di vitto, i cento chiesero d’uscire salva la vita; alcun di loro profferse larghissimo riscatto;[108] e la corte di Mehdia, per umanità, o timore che avesse tuttavia della Sicilia, pendeva allo accordo;[109] ma le fu vietato dalla moltitudine, fanatica e sanguinaria, degli Arabi. Dopo sedici giorni, i cento, affamati, arsi di sete, irruppero fuor del castello con la spada alla mano, e furon morti dal primo all’ultimo. Cento navi sole ritornarono in Sicilia delle trecento che n’erano partite.[110]

Sappiam noi le allegrezze che allor si fecero nella corte di Mehdia; abbiamo squarci d’una delle relazioni in prosa rimata che Hasan mandò per tutti i paesi musulmani;[111] abbiamo una kasîda d’Ibn-Hamdîs, che chiama eroe il fanciullo assiso sul trono di Mehdia e gioisce della desolazione di que’ medesimi Rûm che avean desolata la patria sua.[112] Ma nessuno [387] scrittore nostrale ci descrive il lutto della Sicilia e dobbiam anco agli Arabi un racconto che dipinge al vivo l’onta e la rabbia della popolazione cristiana. Abu-s-Salt che poetava in quel tempo alla corte di Mehdia, dice essergli stato riferito da un Abd-er-Rahman-ibn-Abd-el-Azîz, che un dì, nelle sale di re Ruggiero, gli venne visto un cavaliere franco, il quale lisciando la lunga sua barba, dicea fieramente: “per la santa fè di Cristo non ne raderò un pelo, se prima non piglierò vendetta di que’ cani di Mehdia.” “Che ha costui?” domandò Abd-er-Rahman: e gli fu risposto che nella rotta di Ahâsi ei s’era strappati i baffi con tal furore, da insanguinarsi tutto il volto.[113] Maggiore sdegno ardeva in cuore al magnanimo principe, che vide finir con tanto danno la prima impresa grossa del suo regno. Ma il disastro, anzi che sgomentarlo e spuntarlo dai suoi propositi, gli insegnò a scansare gli errori: e sì felice conoscitore degli uomini fu Ruggiero, ch’ei non tenne da meno l’ammiraglio Giorgio d’Antiochia, dopo la sventura del capo Dimas.

La guerra continuò debolmente d’ambo le parti; poichè tacciono gli annali dell’una come dell’altra. Avvenne, sì, del luglio millecenventisette, che uno dei Beni Meimûn, ritornato con l’armata almoravide ne’ mari di Sicilia, assalì Patti, minacciò Catania e [388] sbarcato in Siracusa, appiccò fuoco alle case, ammazzò, prese roba, donne, fanciulli, e riportonne quanto capìano le navi; scampato a mala pena il vescovo con molti cittadini.[114] A questa impresa probabil è che avessero partecipato i Musulmani d’Affrica; poichè Guglielmo di Tiro l’attribuisce del tutto a loro, ancorchè le memorie siciliane e le musulmane faccian parola de’ soli Spagnuoli. Ruggiero uscì incontanente con l’armata ad affrontare gli assalitori della sua terra; sapendosi ch’ei, nelli ultimi giorni di luglio, avea ripresa Malta e poneva ogni studio a togliere altre isole e terre a’ Musulmani, quando conobbe per tardo avviso la morte di Guglielmo Duca di Puglia: ond’ei lasciata a mezzo l’impresa, navigò in furia alla volta di Salerno con sette galee.[115]

E, tra le fatiche della nuova guerra, ei pensò pure ai Musulmani della costiera orientale di Spagna. Un documento degnissimo di fede ci fa sapere che l’inverno seguente, posando Ruggiero in Palermo e riordinando le forze, trattò una lega con Raimondo III, conte di Barcellona; per la quale cinquanta galee siciliane doveano andare la prossima state a combattere contro i Saraceni spagnuoli, insieme con le genti di Raimondo, a patto che le terre conquistate e sì i prigioni e il bottino, fossero divisi in parti uguali tra i due principi. Il conte di Barcellona [389] avea mandati a questo effetto oratori in Palermo un Pietro Arcidiacono e un Raimondo; e Ruggiero, con lettere date dal palazzo di Palermo il diciassette gennaio millecenventotto, gli rinviava, ambasciatori suoi, Guglielmo di Pincinniaco e Sansone di Sordavalle; in man de’ quali il Barcellonese dovesse giurare le condizioni della lega, secondo una minuta che fu distesa lo stesso dì.[116] Se Raimondo III [390] abbia ratificato, non si ritrae. Di certo l’impresa non fu eseguita; nè potea, perchè Ruggiero, al tempo prefisso, fronteggiava ancora l’esercito papale.

[391]

CAPITOLO II.

«Siccome un tempo Iddio volle o permesse che la violenza de’ sopravvegnenti Normanni calcasse la dominante malvagità dei Longobardi, così ora è stato di lassù conceduto o sofferto a Ruggiero di abbattere con la spada l’immensa iniquità di cotesti nostri paesi. Quale scelleratezza qui ci mancava? Perpetravansi continuamente, senza ritegno di timore alcuno, omicidii, furti, rapine, sacrilegi, adulterii, spergiuri, oppressioni di chiese e di monasteri, dispregi a’ servi di Dio e cento altri misfatti: perfino i pellegrini che viaggiano per amor di Dio, erano svaligiati e talvolta uccisi, per nascondere il ladroneccio. Da’ quali eccessi gravemente offeso, Iddio ha tratto Ruggiero dall’isola di Sicilia, come tagliente spada dal fodero; e, impugnatala, ha percossi i prevaricatori a fine di reprimerli; ha ricondotti con quel terrore, alle vie della giustizia, gli incorreggibili, tollerati sì a lungo.» Così l’abate di Telese;[117] il cui criterio teologico non toglie fede alla testimonianza dei fatti. Ne’ principii del duodecimo secolo, il ducato di Puglia e tutta la terra che stendesi fino allo Stretto di Messina, era caduto in pretta anarchia. Tra il papa, il duca, i grandi suoi feudatarii e i principi o municipii rimasi indipendenti, non si sapea [392] pur chi fosse il sovrano; onde ognun volea fare a suo modo e nessuno ubbidire.

I signori della Sicilia ch’aveano tronca ormai da molti anni la quistione della sovranità,[118] entrarono in quelle brighe per cagion della Calabria; dove i baroni, imitando i lor vicini di Puglia, si provavano a chiamare il duca per sottrarsi al conte.[119] Ma il secondo Ruggiero non solamente domolli, ei colse anco il destro a ingrandirsi. Or passava in Calabria con grande esercito ad ardere le castella de’ contumaci (1121); ora, negoziando col duca Guglielmo, ricusava la mediazione del pontefice romano (1122) per fermare gli accordi da solo a solo (1123). Ne’ quali, parte con danari, parte con aiuti di milizie, fece rinunziare il duca ad ogni diritto su la Calabria: poscia comperò da lui l’altra metà di Palermo; e in fine la successione al ducato, se morisse Guglielmo senza figliuoli.[120]

Avverassi questo caso entro un anno. Ruggiero allora (agosto 1127) lasciata, come dicemmo, l’impresa navale contro i Musulmani, sopraccorse a Salerno, principale città del ducato; piaggiò municipii e feudatarii; combattè quei che non s’acconciavano; e fu riconosciuto duca di Puglia da tutti, fuorchè dal papa, che ambiva anch’egli quelle province. Indi le scomuniche; l’andata di Onorio II a Troia, dov’ei si fece dar dai baroni giuramento di cacciare o uccidere [393] Ruggiero;[121] e, seriamente, rimesse tutte le peccata a chi morisse in questa guerra e la metà delle peccata a chi n’uscisse vivo.[122] Divampando a tali incitamenti la guerra civile, Ruggiero andò a rifornirsi di gente in Sicilia e ripassò in Terraferma; Onorio mossegli incontro con più grosso esercito di Romani e dissidenti Pugliesi: ma tenuti a bada dal siciliano, si diradarono a poco a poco; e il gran sacerdote combattente miglior partito non ebbe che di concedere a Ruggiero l’investitura del ducato (agosto 1128). Ruggiero domò poi i baroni più ostinati; vide riconosciuta l’autorità sua dal principe di Capua e dal duca di Napoli: convocato un parlamento a Melfi, bandì la pace pubblica; che i baroni non guerreggiassero l’un contro l’altro; e non opprimessero, nè lasciassero opprimere i prelati, frati, pellegrini, mercatanti, artigiani, agricoltori (1129). Tenuto non guari dopo un convegno di ottimati pugliesi a Salerno e un parlamento generale in Palermo, Ruggiero si fece dar titolo di re, e ne prese la corona, con lusso orientale, nel duomo della metropoli siciliana, il venticinque dicembre del millecentotrenta.[123]

Atto audace, parso temerario a contemporanei in Italia e fuori, e pur consigliato da senno politico [394] e dalle idee di governo che prevaleano a corte di Palermo, tolte dal diritto pubblico bizantino, dal musulmano e dalla riforma degli ordini feudali che quella generazione stessa avea inaugurata in Inghilterra ed a Gerusalemme. Il principe della Sicilia gareggiava ormai per territorio e forze militari coi primari monarchi d’Europa e vinceali tutti di ricchezza: ond’era giusto si ragguagliasse in dignità a loro, ed al papa nel poter temporale, e s’innalzasse di molto sopra i baroni. A ciò s’aggiunga che l’opinione del secolo attribuiva singolari prerogative ai re unti e coronati; e tra quelle la suprema giurisdizione criminale, ch’era appunto il massimo bisogno dei popoli in Puglia e la più nobile ambizione di Ruggiero. Non volle egli forse costituire quel che or diremmo Stato unitario, ma vi si accostò di molto, creando un reame di Sicilia e di province annesse, alle quali poi dette il nome d’Italia, com’avean talvolta fatto i duchi di Puglia suoi predecessori. Attribuì il titolo regio alla Sicilia soltanto; e scusossi quasi dell’ardire, pretestando ch’egli, lungi dal far novità, ripigliasse l’antica prerogativa dell’isola: con che, s’io mal non mi appongo, si alluse agli emiri Kelbiti, piuttosto che ai tiranni greci. Del rimanente mancano molti particolari di questa transizione di diritto pubblico, perchè Ruggiero, studioso d’offendere la corte di Roma il men ch’ei potesse, mutò volentieri le parole, mantenendo sempre il fatto, il quale mandava a monte la pretesa sovranità feudale del papa su la Puglia e la Calabria.[124] E però le precauzioni cancelleresche, [395] nè l’arte di gittar questo dado mentre la Chiesa romana si travagliava in uno scisma, non tolsero che Innocenzo II, succeduto ad Onorio, ridestasse immantinenti la guerra civile contro Ruggiero, il quale seguì le parti di Anacleto antipapa. E sursero contro il re molti di que’ medesimi baroni e municipii di Terraferma che gli aveano testè assentita la corona.

Durò da nove anni la guerra, nella quale Ruggiero ebbe ad affrontare or le grandi città, or i baroni collegati, or i navilii pisani, or i grossi eserciti dell’imperatore Lotario, or le filippiche di san Bernardo [396] e sempre il braccio spirituale e temporale del papa. Combattè Ruggiero per mare e per terra; conseguì vittorie e toccò sanguinose sconfitte; s’aiutò con le arti non meno che con la forza, e con la strategia più che con l’impeto; spaventò i ribelli con atti crudeli e con la feroce licenza delle sue genti. Usava ogni anno svernare in Sicilia, raccogliervi forze e tornare in Terraferma all’entrar di primavera; e molto gli giovarono le numerose navi da guerra, e le compagnie stanziali; molto la fierezza de’ Musulmani di Sicilia e la perizia de’ loro ingegneri. Rimaso al re l’avvantaggio, papa Innocenzo volle ritentare per l’ultima volta la fortuna delle armi. E fu sconfitto e preso il ventidue luglio del millecentrentanove, presso San Germano: dove il vincitore e i suoi figli umilmente gli si gettarono a’ piedi; ma con ciò gli fecero soscrivere il dì venticinque la pace e il dì ventisette la bolla che investiva Ruggiero e i successori del regno di Sicilia, ducato di Puglia e principato di Capua; non senza ricordare i meriti dello zio, Roberto Guiscardo e del padre Ruggiero, e il grande amore che la sede apostolica avea sempre portato a lui stesso.[125]

Or l’argomento nostro richiede che si tratti più largamente della parte ch’ebbero i Musulmani in questa guerra. Scarse notizie se ne ritraggono, poichè [397] i narratori cristiani, amici o nemici di Ruggiero, ricordano più volentieri i vizii che le virtù di quegli Infedeli, i quali spargeano il sangue per rassodare un trono, fondato in parte con gli elementi stessi di loro civiltà. Ci si racconta che Bari stette una volta per ribellarsi, perchè gli ingegneri saraceni mandati dal re a murare novella fortezza, aveano ucciso in rissa il figliuolo d’un nobile cittadino; onde furono popolarmente ammazzati parecchi di loro e sospesa la costruzione.[126] Nè bastò ai Baresi questa vendetta; poichè, occupata la città dal papa e dall’imperatore Lotario ed espugnata la fortezza del re, impiccarono tutti i Saraceni del presidio.[127] Sappiamo che nell’assedio di Montepeloso (1133), celebre per valore e costanza d’ambo le parti, Ruggiero espugnò un bastione circondato di profondo fosso, facendovi appressare una torre mobile a ruote, dalla quale i Saraceni, giunti ch’e’ furono al ciglione del fosso, gittaron dentro travi ed assi per far ponte e s’ingegnavano a coprire il legname con terra tolta a’ ciglioni e sassi divelti dalle mura a forza d’uncini, quando gli assediati appiccarono il fuoco e i saraceni lo spensero con acqua condotta per un doccione di legno; sì che alla fine fu varcato il fosso, preso il bastione e con esso la città.[128] Romualdo Salernitano scrive che il medesimo anno si noveravano nell’esercito del re tremila cavalli e seimila tra fanti, arcieri e Saraceni;[129] e Falcone Beneventano rincalza che [398] furon tutti Saraceni, che fecero inorridire il paese con la crudeltà e libidine loro, e che Ruggiero, degno capitano di tal gente, commesse atti d’inaudita barbarie sopra i Cristiani.[130] Per vero i seguaci delle due religioni incrudeliano a vicenda. Nella prima guerra di Ruggiero, il presidio d’un castello assediato da Siciliani, Calabresi e Saraceni, fatta una sortita, al dir di Romualdo Salernitano, avea dilagato il campo nemico di sangue.[131] Il millecentrentadue, nella ritirata del re da Benevento a Salerno, fu colto da’ nemici un drappello di Saraceni, ne furono ammazzati non pochi e mandata a Capua la testa del più famoso; di che Ruggiero accorossi molto e ne giurò vendetta.[132] L’abate Guibaldo, che scrisse in quel tempo (1137) all’imperatore Lotario de’ guasti recati allo Stato di Monte Cassino da’ Musulmani di Sicilia e non men di loro da’ Normanni e dai Longobardi dello esercito, esagera al certo ma par non mentisca del tutto, quand’ei narra che dopo saccheggiate le case, tagliavano gli alberi, prendeano i frati e i contadini, li legavano con ritorte o metteanli a’ ceppi e alla tortura e li vendeano schiavi; ardean le chiese, e non contenti, atterravano le mura che fossero rimase in piè; mentre il Cancelliere del re, venuto al monastero, lo mutava in fortezza, cacciava i monaci e riportava in Sicilia tutto il tesoro e la suppellettile.[133]

[399]

Nella varia fortuna di coteste guerre, non dimenticò Ruggiero le cose dell’Affrica. Sette anni dopo la rotta del Capo Dimas, i vinti erano mutati in patroni. Hasan avea fermata la pace con Ruggiero a patti che in Affrica parvero disonorevoli; i quali dettero al principe di Bugia occasione o pretesto di muover contro Mehdia, chiamato da alcune tribù di Arabi e da cittadini sdegnati, che gli prometteano di aprir le porte. Correva il cinquecenventinove dell’egira (22 ottobre 1134 a 10 ottobre 1135). Hasan chiese aiuti a Ruggiero; e stretto per mare e per terra, fece ammenda della pusillanimità de’ consigli, con la prodezza della persona: finchè arrivate venti galee di Sicilia, alle quali il re avea data commissione di stare a’ comandi di Hasan, bloccarono immediatamente il navilio nemico e distruggeanlo, se non li riteneva il principe zirita, ripugnando, com’ei disse, allo spargimento di sangue musulmano e bramando per certo di fuggir l’odio che gli sarebbe venuto da quest’altro scandalo. Que’ di Bugia si ritrassero a precipizio; l’armata cristiana ritornò in Sicilia; ma ricomparve indi a poco innanzi le Gerbe.[134]

[400]

Fertilissim’isola del golfo di Kâbes, congiunta alla Terraferma per una tratta di seccagne che danno quasi non interrotto il guado a’ cavalli; celebre nell’antichità; coltivata d’ogni tempo coi prodotti del suolo europeo e dell’affricano; ricca anco d’industrie: ma gli abitatori, Berberi di varie famiglie e seguaci di due sette musulmane molto invise all’universale, s’erano, per giunta, dati alla pirateria in su la fine dell’undecimo secolo e ricusavano obbedienza a’ Ziriti quantunque volte non fosservi costretti con la forza. Bella era dunque la preda, indifesa e legittima agli occhi stessi de’ Musulmani.[135] Ruggiero mandovvi un’armata, montata da Musulmani e Cristiani di Sicilia, con un drappello di eletti cavalieri; la quale giunse in su lo scorcio di settembre o l’entrar d’ottobre del millecentrentacinque. Le navi circondarono l’isola per togliere ogni scampo. I Gerbini pugnarono valorosamente per le famiglie e la roba loro; ma, dopo varii scontri, furono sopraffatti, uccisi a migliaia; rapito ogni cosa; le donne e i bambini recati in Sicilia a vendere ai Musulmani. I superstiti ottennero l’amân da Ruggiero; ricomperarono le donne e’ figliuoli;[136] ma i più furon [401] fatti servi della gleba, e l’isola affidata ad un ’âmil[137] come le altre terre demaniali della Sicilia.

Sarà agevol cosa ritrovare a un di presso i patti che strinsero in questo tempo lo Stato di Mehdia al reame normanno d’Italia. È da supporre in primo luogo la permissione reciproca del commercio e la sicurtà delle persone ed averi de’ naviganti e de’ mercatanti [402] avventizii o residenti: precipua condizione de’ trattati che si fermarono tra Italiani e Musulmani per tutto il medio evo.[138] E n’abbiam prova positiva nel presente caso: i fattori di Ruggiero imprigionati e i capitali staggiti, nella briga del millecendiciassette.[139] Cotesti patti ed altri secondarii, duravano, com’egli è verosimile con mutazioni di poco momento, fin dal millesettantotto:[140] stipulati sempre per pochi anni e rinnovati; e par si ripigliassero dopo il millecendiciassette, fino alla guerra del Capo Dimas (1123). Il millecentrentacinque, non che la pace, occorre, com’abbiam testè accennato, una lega, quantunque non se ne conosca appunto la data, nè la cagione, nè i capitoli. Ibn-Abi-Dinâr scrive che “Hasan temendo la malvagità del re, mandògli be’ presenti e soscrisse tutti i patti che piacquero a quel Maledetto.”[141] Dopo l’assedio degli Hammaditi e l’aiuto navale, ripiglia il compilatore, che Hasan “ringrazionne il Maledetto e gli promesse di stare ormai ad ogni suo comando o divieto; onde i due principi divennero più intimi che mai e le faccende di Hasan si raddrizzarono:” e, narrato il caso delle Gerbe che seguì a capo di pochi mesi, ei viene a questa sentenza che “le Gerbe e lo Stato di Mehdia si sottomessero al re di Sicilia e tutta l’Affrica (propria) lo temè; onde il Maledetto insolentì peggio che [403] mai contro il povero Hasan, il quale si schermiva, com’ei potea, con le buone parole.”[142]

Fatta la tara, tuttociò vuol dire che tra il millecenventisette e il trentaquattro, mentre Ruggiero si rassodava sul trono dell’Italia meridionale, la povertà e i pericoli dello Stato di Mehdia e sopratutto la carestia, aveano condotto Hasan ad accettare, oltre i commerciali, de’ nuovi patti politici; tra i quali è da supporre una lega difensiva e un prestito di danari o di grani.[143] Debole Stato e debol principe, circondati di nemici, gittavansi in braccio del più lontano, più potente, e, come lor parea più generoso. Spirato poi o infranto quel trattato nel millecenquarantuno e rincrudita la fame, “il Maledetto, al dire d’Ibn-Abi-Dinâr, volle onninamente altri patti; i quali Hasan, avendo accettati, divenne suo vassallo, anzi un de’ suoi governatori di città, e il trattato veramente non fu che una solenne perfidia.”[144] La narrazione [404] proverà tantosto che, tra le altre cose, Hasan assentì fosse buono acquisto a Ruggiero ogni paese independente di fatto da Mehdia ed obbligossi ad aiutare il re di Sicilia contro i Musulmani che, disdetta la dominazione siciliana, volessero tornare a quella degli Ziriti. Il biasimo che Hasan si fosse fatto ’âmil di Ruggiero, mi porta a supporre che i patti economici furono tanto leonini quanto i politici e che il re di Sicilia pose commissarii sopra le dogane di Mehdia per sicurtà dei crediti suoi; i quali doveano montare a somme grossissime di danaro e proveniano, tutti o la più parte, da prezzo di grani forniti dal re: prezzo di carestia, fissato da un creditore padrone di eserciti e d’armate. A costui favore dovea traboccar anco la bilancia in ogni altra condizione accessoria risguardante il traffico; di che abbiamo vestigie certe nel numero delle chiese e de’ Cristiani ch’erano in Mehdia il millecenquarantotto. Fondata da Obeid-Allah il novecentoquindici, quella città non ebbe chiese, essendo vietato da legge musulmana di murarne delle nuove:[145] e se i bisogni commerciali e la coscenza larga de’ Fatemiti, dan luogo a supporne tollerate con l’andar del tempo ne’ fondachi cristiani, par non fossero gran cosa il milleottantasette; poichè non se ne fa parola dagli scrittori affricani, nè dai nostri, in quell’assalto di Mehdia. E posto pur che i fondaci italiani si fossero allargati pei trattati fermati con Genova e con Pisa dopo quel [405] caso, ognun vedo che l’ingrandimento del quartiere cristiano e l’edificazione delle chiese van riferiti piuttosto agli ultimi anni, quando Ruggiero comandava almeno quanto Hasan nel rimpiccolito territorio de’ Ziriti. Giorgio d’Antiochia, primo ministro di Sicilia, lo conoscea dentro e fuori; vi tenea suoi rapportatori;[146] facea partigiani tra gli Arabi della campagna e nella popolazione mista delle città e villaggi, e insieme col re aspettava che il frutto fosse ben maturo, per coglierlo comodamente.

Ed aiutavano a maturarlo. Il cinquecentrentasei dell’egira (6 agosto 1141 a 26 luglio 1142) la carestia s’era aggravata orribilmente in que’ paesi: una morìa le tenne dietro. Parve allor a Ruggiero proprio il caso di riscuotere i danari che Hasan avea tolti in prestito da’ suoi fattori in Mehdia: e rispondendo l’Affricano ch’ei non poteva, e chiedendo nuove dilazioni, il re mandò improvvisamente Giorgio con venticinque corvette; il quale prese e menò in Sicilia certi legni mercatanteschi venuti d’Egitto, ricaricati in Mehdia, e pronti a partire, come avvisavano le spie dello ammiraglio. Si cita in particolare la nave rifatta recentemente da Hasan co’ materiali d’una del califo fatimita d’Egitto testè naufragata:[147] [406] e cotesti episodii provano sempre più il traffico onde arricchivansi i principi musulmani d’Egitto e d’Affrica, e ad esempio loro i Normanni e gli Svevi di Sicilia. Giorgio, piombato un’altra volta entro il porto di Mehdia, presevi il Mezzo Mondo, com’addimandossi una nave che Hasan avea con molta cura allestita per l’Egitto e aveavi imbarcato, per farne dono al califo Hâfiz, gran copia di robe preziose, degne di un re.[148] Invano Hasan tentò di mitigare il re di Sicilia rimandandogli buon numero di prigioni cristiani.[149] S’ei volle torsi dinanzi gli occhi Giorgio d’Antiochia ed avere un po’ di grano dalla Sicilia, convenne far ogni voglia di Ruggiero, stipulando nuovo trattato, quello appunto che ai Musulmani sembrò vero atto di vassallaggio.[150]

Ecco l’anno seguente (27 luglio 1142 a 15 luglio 1143) l’armata siciliana appresentarsi a Tripoli di Barbaria; la quale città, sciolta dalla signoria di Hasan, si reggea per un senato della tribù de’ Beni-Matrûh. Il nove dsu-l-higgia (25 giugno 1143) sbarcarono i Siciliani, tentarono l’assalto e cominciarono a far breccia nel muro con gli uncini, come già nell’assedio di Montepiloso; e vincean la prova, se non che il dì appresso, accorsi gli Arabi dalla campagna, i cittadini ripigliaron cuore, fecero tutti insieme una sortita; nella quale ricacciarono gli assalitori alle navi, e lor presero armi, attrezzi e cavalli.[151] Ritornato [407] il navilio in Sicilia e rifornitosi, approdò alla piccola terra di Gigel, soggetta agli Hammaditi di Bugia. Gli abitatori, non aspettato lo sbarco, si rifuggirono ne’ monti e nelle campagne; la terra fu saccheggiata ed arsa; distrutta anco dall’incendio una villa de’ principi Hammaditi, che ben s’addimandava la Nozaha, e suona “Delizia” in nostro linguaggio.[152] Il cinquecentrentanove (4 luglio 1144 a 23 giugno 1145) l’armata corse la costiera d’Affrica, pigliò la terra di Bresk a ponente di Scerscell (Cherchell); uccisevi gli uomini, menò prigioni le donne per rivenderle a’ Musulmani in Sicilia.[153] Toccò la stessa sorte il cinquecenquaranta (24 giugno 1145 a 12 giugno 1146) all’isoletta di Kerkeni; la quale sendo vicina troppo alla capitale, Hasan osò lagnarsi con Ruggiero e ricordargli il trattato; ma quei gli rispose non averlo infranto, sendo que’ di Kerkeni ribelli come gli altri abitatori della costiera.[154]

Dov’era intanto l’armata di Mehdia? Le memorie musulmane non ne fanno ricordo dopo la morte di Ali-ibn-Iehia (1121) e, se uno scrittore cristiano le attribuisce il saccheggio di Siracusa (1127) par ch’ei prenda la parte pel tutto.[155] Rimanean forse [408] al principe zirita poche navi, le quali furono adoperate a’ traffici con la Sicilia e l’Egitto, piuttosto che alla guerra; eran qua e là ne’ porti, nelle cale e nelle isolette dell’antico Stato, fedeli o ribelli, molte barche grosse da potersi armare, e corsari anco di mestiere; ma tuttociò non facea navilio: la povertà dello Stato, fors’anco la trascuranza de’ reggenti di Hasan, avea sciupato quell’organo vitale della dinastia. Ormai da Barca a Tunis, gli abitatori della costiera s’ausavano a vedere il possente navilio siciliano, in vece delle poche harbîe zirite, ed a temer quello soltanto, a sperarne aiuto contro il principe disdetto o le fazioni cittadine.

Ruggiero non lasciò invendicata a lungo la sconfitta di Tripoli. Due anni appresso, un’armatetta siciliana avea dato il guasto ai dintorni e riportatone bottino e prigioni.[156] A capo d’altri due anni, uno sforzo di dugento vele portò a compimento l’impresa. L’oligarchia arabica dei Beni-Matrûh era stata di recente scacciata da una parte avversa. Berberi com’e’ sembra, i quali avean chiamato a reggere il paese un emir almoravide, capitato in Tripoli con piccolo stuolo che andava in pellegrinaggio alla Mecca. Ancorchè nol dicano i cronisti, gli è da supporre che Giorgio d’Antiochia, capitano dell’armata siciliana, si fosse indettato coi Beni-Matrûh. Il tre di moharrem del cinquecenquarantuno (15 giugno 1146) principiò Giorgio gli assalti; e combatteva [409] ancora il dì sei, quando d’un subito si videro scomparire i difensori d’in su le mura; perchè i Beni-Matrûh, avvisati da’ partigiani della città, erano rientrati con le armi alla mano e s’era appiccata la zuffa. I Siciliani allora, prese le scale, superavano le mura, occupavan la terra, co’ soliti effetti di strage, saccheggi, distruzione, cattività di donne; e gli uomini d’ambo le parti si rifuggiano nel contado, chi presso gli Arabi, chi presso i Berberi. Soddisfatto all’onor della bandiera e alla cupidigia de’ soldati, Giorgio non tardò a dimostrare che il governo siciliano volea veramente impadronirsi dell’Affrica. Bandisce amân generale, talchè tutti i fuggitivi ritornano a lor case; li ammonisce a stare in pace tra loro; promulga piena guarentigia de’ diritti civili, sol che si paghi la gezìa al re di Sicilia. Ristorò intanto le mura della città; circondolla d’un fosso: e lasciatovi forte presidio di Cristiani e Musulmani di Sicilia, presi statichi de’ Tripolitani e con essi portato via l’Almoravide e i Beni-Matrûh, ritornò con l’armata in Sicilia, sei mesi dopo l’espugnazione. Di lì a poco, la corte di Palermo rese gli statichi, fuorchè que’ dello sceikh Abu-Jehia-ibn-Matrûh, della tribù arabica di Temîm, eletto governator della terra; posevi cadì il berbero Abu-Heggiâg-Jûsuf-ibn-Ziri, autor di un’opera di giurisprudenza malekita, e pattuì, dice il Tigiani, che il capitan cristiano del presidio non potesse mai disdire i provvedimenti del governatore, nè del cadì. Ripiglia Ibn-el-Athîr che in tal modo il reggimento di Tripoli fu condotto egregiamente; che trasservi di Sicilia e di tutta Italia i mercatanti e le [410] merci. Aggiugnesi in un codice d’Ibn-Khaldûn che fu bandita in Sicilia una grida per la quale era invitato ad emigrare in Tripoli con franchige al certo, chiunque volesse: “onde la gente vi affluì, e la città fu ripopolata.” In breve la divenne prospera e ricca,[157] mentre il rimanente della Barbarìa e gran parte dell’Asia anteriore sentian le dure strette della fame.[158]

La quale, rincrudita, sì come abbiam detto, il millecenquarantuno, straziò que’ paesi affricani nell’inverno dal quarantasette al quarantotto. Dalle aperte lande, dalle ville e da’ villaggi traean pastori e contadini alle terre murate, dove si tenea in serbo un po’ di vivanda: ma i cittadini sbarravano le porte, ributtavano con l’arme le turbe affamate, onde quei miseri si uccideano e spesso mangiavansi tra loro, quando non li prevenia la morte di pestilenza o digiuno. La Barbarìa spopolossi; i benestanti fuggivano in altri paesi, la più parte in Sicilia, a cercar pane e sicurezza: ma anch’essi ebbero a patire orribili stenti.[159]

[411]

Tra tanta desolazione surse da un harem di Kâbes tal briga che fe’ cader di queto la città nelle mani di Ruggiero. Morto il cinquecenquarantadue (2 giugno 1147, 21 maggio 1148) Rescîd, successore di quel Rafi’-ibn-Kâmil del quale ci è occorso di far parola,[160] e diseredato il primogenito Mo’mir, fu retto lo Stato dal liberto Jûsuf, a nome del fanciullo Mohammed, minor figliuolo di Rescîd. Jûsuf usurpò anco le donne del suo signore: tra le quali una giovane de’ Beni-Korra, tribù d’Arabi, non soffrendo l’ingiuria, scrisse a’ suoi fratelli; i quali ridomandaron la donna, ma Jûsuf ricusolla. Chieserne giustizia ad Hasan, e questi, credendo ancora di regnare entro i confini antichi, comandò a Jûsuf di rendere la schiava; disubbidito minacciò; e deriso, apprestava le armi. Jûsuf allora profferse al re di Sicilia di tenere lo Stato di lui a nome di Mohammed-ibn-Rescîd, nei termini stessi con che Abu-Iehia reggea Tripoli: Ruggiero accettò; mandò al vil servo un diploma di nominazione e le solite vestimenta officiali, al dire d’Ibn-el-Athîr; un diploma e le decorazioni usate tra i Cristiani, scrive più precisamente Ibn-Abi-Dinâr. Jûsuf convocò solennemente gli ottimati; fe’ leggere in pubblico il diploma; indossò la divisa e cominciò a condurre il governo e riscuotere l’entrate a nome di re Ruggiero. “Scampami oh Dio, sclama qui il compilator tunisino del diciassettesimo secolo, scampami da tai maledizioni! Si hanno a chiamar Musulmani costoro, o Satanassi? Ahi, che precipitolli a tanta vergogna la cupidigia de’ beni mondani e della dominazione: [412] la cupidigia che rende l’uom cieco e sordo!” Invece di moralizzare, il soldato di Saladino che mette in carta, freddo e accurato, gli annali musulmani, allarga qui lo stile a narrar la punizione di Jûsuf e de’ suoi satelliti. In un capitolo apposta, intitolato: “Racconto di un caso dal quale convien si guardi chi ha giudizio,” ei narra che, trovatisi insieme a corte di Ruggiero un legato di quell’usurpatore ed uno di Hasan, e trascorsi a bisticciarsi tra loro, quel di Kâbes ne disse quante ei ne sapea contro il signor di Mehdia. L’altro se le serbò. Ripartito di Palermo ad un tempo con l’avversario, mandò ad Hasan uno spaccio a collo di colomba: onde legni armati uscirono di Mehdia, appostarono il legno di Kâbes, presero l’ambasciatore, lo condussero dinanzi Hasan; il quale, rinfacciatogli il tradimento e le ingiurie, lo fe’ condurre in giro per le strade di Mehdia, legato sopra un cammello, con un berrettone in capo guarnito di sonagli e il banditore allato che gridava “Ecco il guiderdone di chi da’ a’ Franchi i paesi dell’Islâm.” Arrivato nel bel mezzo della città, il popolaccio lapidò quello sciagurato e appese il cadavere a un palo. Si levò poi il popolo di Kâbes contro Jûsuf, al comparire d’un piccolo esercito ch’avea accozzato Hasan, insieme con Mo’mir, e con Mohriz-ibn-Ziâd, capo d’Arabi, il quale, afforzato ne’ ruderi di Cartagine, iva sognando gran cose.[161] Jûsuf, serrato nel castello, si difese quant’ei [413] potè; alfine ei fu preso e consegnato a Mo’mir, e da questi a ’Beni-Korra, i quali lo fecero perire di supplizio osceno ed atroce. Un Isa, fratello di Jûsuf, recò i figliuoli di lui, fors’anco il fanciullo Mohammed-ibn-Rescîd, in Sicilia, chiedendo vendetta.[162]

In questo tempo Giorgio d’Antiochia con l’armata infestava le isole Jonie e il Peloponneso.[163] Par dunque fossero state assai poche le navi siciliane che andarono immantinente ad assediare Kâbes e ritornarono senza frutto.[164] D’altronde a che affaticarsi intorno una bicocca? Ruggiero ormai dovea smettere l’impresa d’Affrica o compierla subito a Mehdia stessa; poichè Hasan già s’accostava a possenti capi Arabi: poc’anzi contro Kâbes, ed ora contro Tunis. Era forza, inoltre, che si risentisse in Affrica il contraccolpo della crociata di San Bernardo. Ruggiero, pacificato co’ fautori del papa, ma ad un tempo minacciato da’ due imperatori, entrò nelle pratiche della crociata, per assicurarsi da quello di Germania e volgere le armi della croce contro il bizantino; profferse aiuti, die’ consigli: e non ascoltato, volle far le viste di pugnar anch’egli per la Fede, mentre Tedeschi e [414] Francesi, passato il Bosforo (settembre ed ottobre 1147) travagliavansi indarno in Siria; e i Cristiani di Spagna, insieme con Inglesi e Normanni, combattevano gli Infedeli in Portogallo, e insieme coi Genovesi, lor prendeano Almeria e s’apprestavano ad espugnare Tortosa. Assaltando l’Affrica dunque nella state del quarantotto, il re di Sicilia comparia per la prima volta nel grande accordo cattolico; ne usava gli avvantaggi; e ci guadagnava anco di esercitare alla guerra e mantenere ad altrui spese il grosso navilio, armato l’anno avanti contro Manuele Comneno e necessario tra non guari a difendersi dall’impero bizantino, ovvero ad assalirlo nuovamente.[165] I compilatori musulmani, ignari di tuttociò, appongono a Ruggiero più crudele malizia: ch’ei volle usare la carestia ond’era afflitta l’Affrica, e che affrettossi, temendo non gli fuggisse l’occasione. Nè forse vanno errati del tutto. Dobbiam noi supporre nella più parte dell’Affrica propria quel che sappiamo di Mehdia: disordinate, cioè, per cagion della fame, le milizie, morta la più parte de loro cavalli, esausto l’erario, e prostrate tutte le forze sociali.[166] Que’ notabili, infine, venuti a cercare scampo in Sicilia, eran buoni strumenti in man d’uomini come Ruggiero e Giorgio, se non foss’altro, per dare ragguagli. Nè potea mancar la tradigione in quel manifesto precipizio di casa Zirita. Sappiamo che un kâid, venuto [415] negli ultimi tempi, messaggiere di Hasan in Palermo, se ne tornò a casa coll’amân di Ruggiero che gli assicurava la vita e la roba, per sè e’ suoi.[167]

Entrando la state, Giorgio salpò dai porti di Sicilia, con dugencinquanta legni carichi di uomini, d’armi e di vittuaglie. Approdato alla Pantellaria, fece prendere improvvisamente una barca mandata da Mehdia a sopravvedere le sue mosse; vi trovò le gabbie de’ colombi messaggeri; giuratogli dall’ufiziale di Hasan non essere stato spacciato altro avviso, costrinselo a scrivere di propria mano, come de’ legni testè arrivati di Sicilia portavano che l’armata degli Infedeli fosse partita per l’Arcipelago. Grande allegrezza destò in Mehdia cotesto annunzio; ma non durò oltre l’alba del lunedì, due sefer del cinquecenquarantatrè (22 giugno 1148) quando comparve all’orizzonte tutto il navilio siciliano, che a forza di remi penosamente s’avvicinava, contrastato da un gagliardo vento. Avea Giorgio misurato il cammino in guisa da por la gente su l’istmo innanzi giorno; talchè all’aprir le porte della città, le si trovassero guardate di fuori ed anima viva non ne scampasse. Ma fallito, per cagion del vento, cotesto disegno, l’Antiocheno cercò di tener a bada i cittadini finchè tutta l’armata potesse arrivare a terra. Gittata l’àncora lungi dal porto, mandò per un suo legnetto veloce a dire ad Hasan, non temesse; ei veniva amico e leale osservatore de’ trattati; chiedea soltanto gli desse in mano gli uccisori di Jûsuf e, non potendo, inviasse le sue genti per combattere insieme con quelle del re contro gli occupatori [416] di Kâbes. Convocati dal principe i dottori della legge e gli ottimati, non era chi non capisse che suonava l’ultim’ora di casa Zirita: nondimeno i più animosi consigliarono la difesa. Hasan, fosse abnegazione o sgomento, e ch’e’ si vedesse intorno visacci da traditori, troncò la disputa. Ricordò le milizie poche e lontane, a campo a Tunis; la città aver appena vivande per un mese; circonderebbela il nemico per mare e per terra e la prenderebbe inevitabilmente per battaglia o per fame: ed allor che avverrebbe? Più che il regno, più che i suoi palagi, egli amava i Musulmani; volea camparli dalle uccisioni, dal saccheggio, dalla cattività. “Io non manderò mai, conchiuse, i miei insieme coi Cristiani a combattere Musulmani: nè a prezzo di tanta infamia pur salverei la città, sol darei tempo al nemico di coglierci tutti alla rete. Non v’ha scampo che nella fuga. Io monto a cavallo e chi vuole mi segua.” E fatto un fascio delle cose più preziose e manesche, andò via in fretta, con la famiglia e gli intimi suoi. Molti cittadini gli tenner dietro; portando seco le donne, i figliuoli, il danaro e la roba di pregio, come ciascun potea. Molti si nascosero nelle case de’ Cristiani e nelle chiese.

Sbarcato Giorgio in su l’ora di vespro,[168] senza [417] trar colpo, fece da buon massaio, pratico de’ luoghi e delle usanze, e da statista savio ed umano. Corre difilato alla reggia; la quale trovando intatta, mette i suggelli alle porte de’ tesori, pieni di belli e preziosi arredi e d’ogni cosa più rara, accumulata per due secoli dalla schiatta di Zîri; fa serrare in una palazzina le donne dell’harem e alquanti bambini di Hasan, lasciati addietro nella fuga. Conservato così quanto il fisco poteva usare o vendere, Giorgio raffrenò i suoi che avean dato il sacco alla città per un paio d’ore: bandì si cessasse dal sangue e dalla rapina. Con maggior cura avea messi in salvo i Cristiani, facendoli uscir di Mehdia e di Zawila; e rizzò per loro le tende nel piano che dividea la fortezza dal sobborgo, o vogliam dire l’una dall’altra città, come le chiamano entrambe gli scrittori arabi di quel tempo.[169]

Al tramonto del sole era assettato ogni cosa; talchè la sventura di Mehdia principiò e finì con quella [418] giornata. La gente del paese chiamò questo il caso del lunedì, notando con altri giorni della settimana due o tre altre depredazioni de’ Rûm.[170] La dimane pensò l’ammiraglio ai fuggitivi. Mandò a ricercarli i lor concittadini stessi delle milizie rimasi in Mehdia; li provvide di giumenti, per riportar le donne e i bambini: e bandì, con questo, l’amân: che potesse chiunque ritornare in città, sicuro della persona e dell’avere. Furono salve così le migliaia che stavano per morir di fame e di sete in quelle lande, ancorchè fosse tra loro chi avea lasciato a casa, dicon le croniche, ogni ben di Dio. Giorgio chiamò anco in città gli Arabi che vagavano pe’ dintorni; li allettò con larghi doni e buoni trattamenti: dispensò denari e vittuaglie a’ poveri di Mehdia; prestò capitali a’ primarii mercatanti, perchè continuassero lor traffichi; pose a rendere giustizia un cadì accetto all’universale. Altro aggravio non ebbero i Musulmani che la gezìa. I bambini di Hasan, con le schiave emancipate[171] lor madri, furono ben trattati dal vincitore e mandati in Sicilia. A capo d’una settimana, tutti gli abitatori di Mehdia e di Zawila, rassettati ne’ loro focolari, attendeano alle industrie, queti e forse contenti. Parve a Giorgio che gran parte dell’armata si potesse allontanare senza pericolo.[172]

[419]

Mandò pertanto una squadra a Susa, un’altra a Sfax; delle quali la prima occupava di queto la città, il dodici sefer (2 luglio); poichè il governatore, Ali, figliuolo di Hasan, risaputa la fuga del padre, era andato a ritrovarlo con seguito di pochissimi cittadini e gli altri immantinenti si arresero. Viveano a Sfax uomini di tempra più dura, come si vedrà nel progresso degli avvenimenti. Accorse molte torme d’Arabi in aiuto di Sfax, i cittadini resistettero a’ Siciliani sbarcati dalla squadra; s’arrischiarono anzi ad una sortita. E i Cristiani a fuggire, tanto che li attirarono ben lungi dalle mura. Quivi rifan testa; si gittano di mezzo a’ disordinati; li sbaragliano, cacciando chi alla campagna, chi alla città; rinnovano la battaglia sotto le mura: alfine entrarono il ventitrè di sefer (13 luglio). Gran sangue indi fu sparso; poi si die’ mano a far prigioni e in ultimo si bandì l’amân, come a Tripoli ed a Mehdia: i fuggiti ritornarono, riscattarono le donne e i figliuoli. Fu lasciato anco un presidio cristiano nella fortezza; e posto un’âmil a reggere la città. Fu questi Omar-ibn-abi-l-Hasan-el [420] Foriani, il cui padre, con magnanimo intento, volle andare statico in Sicilia.[173] Stette saldo, con l’aiuto degli Arabi, il forte castello di Kalibia; anzi i Musulmani, usciti a combattere fecero strage degli assalitori, sicchè la squadra ritornò malconcia a Mehdia.[174] Ci sembra in vero che il re di Sicilia non abbia voluto stendersi troppo verso Ponente, dove i Beni-Hammâd, per l’asprezza de’ luoghi e l’amistà degli Arabi, stavano assai più saldi che i lor congiunti di Mehdia. Rattennerlo anco i pensieri della guerra bizantina, alla quale era uopo che presto o tardi ei si volgesse; nè ebbe ad aspettar più d’un anno. Il conquisto in Affrica limitossi, dunque, a quella parte della costiera che si stende da Tripoli di Barbaria al Capo Bon.[175] Fu compiuto entro un mese. Ruggiero approvò gli ordinamenti dell’ammiraglio; concedendo all’Affrica propria un amân, generale. Del quale atto, ancorchè manchi il tenore, la sostanza era quella che abbiamo esposta ne’ singoli casi: continuassero i Musulmani a vivere secondo lor leggi e con loro magistrati; pagassero la gezìa; governasseli a nome del re di Sicilia un ’âmil, il quale mandava statico in Palermo alcun suo stretto parente. Come fosse pagata la gezìa [421] non si ritrae, se immediatamente da ciascun musulmano o giudeo, ovvero dalle comunità, che mi sembra più verosimile. Credo inoltre fossero state mantenute le gabelle che solea riscuotere il fisco zirita, non però le più odiose ed apertamente illegali; poichè gli scrittori arabi lodan tutti la giustizia del governo cristiano sotto Ruggiero, ed affermano che le belle promesse date nel suo amân furono fedelmente osservate finch’ei visse. Leggiamo in particolare nella storia d’Ibn-Abi-Dinâr, che il kharâg, o vogliamo dire tributo fondiario, fu riscosso con benignità.[176]

Non isfuggì agli storici musulmani il fatto, che i conquisti siciliani in Affrica, sostarono per la guerra di Grecia. E di questa dicono essere stata aspra e lunga, e danno l’episodio, notissimo nelle croniche latine, che Giorgio d’Antiochia osò entrare nel porto di Costantinopoli, prendervi parecchie navi e trar saette alle finestre della reggia. Aggiungono che la vittoria sempre rimase al re di Sicilia, ancorchè il principe di Costantinopoli fosse di que’ tali “che niuno si scalda al medesimo fuoco con esso loro;” ch’è, come noi diremmo: era uomo da non lasciarsi posar mosca sul naso.

[422]

A Giorgio d’Antiochia dan merito gli scrittori musulmani d’ogni trionfo in Affrica e in Levante; notano che alla sua morte le armi siciliane si arrestarono, non sapendo il re a chi affidarle: ed a lui, sì come a Ruggiero, è aperto un capitolo apposta nelle biografie degli illustri Musulmani per Sefedi, autore del decimoterzo secolo. Il quale, al paro che Ibn-el-Athîr, intitola Giorgio “vizir del re Ruggiero, l’occupatore del regno di Sicilia:” dond’e’ si vede che i Musulmani di Sicilia, i quali davano ragguagli della corte di Palermo a’ loro correligionarii, teneano l’ufizio di grande ammiraglio identico a vizir, che torna in que’ tempi a primo ministro. Dobbiam anco a’ Musulmani le note necrologiche di questo valente cristiano; ritraendosi da loro soltanto ch’ei morì, con grande allegrezza de’ Credenti, l’anno cinquecenquarantaquattro dell’egira (11 maggio 1149 a 29 apr. 1150) straziato di tante infermità, massime le morìci e il mal di pietra.[177]

Già la fortuna voltava le spalle a Ruggiero. Non fermi per anco i suoi acquisti in Affrica, li minacciarono gli Almohadi; setta di Berberi, fieramente avversa agli Almoravidi, i quali or cadeano con la stessa prestezza con che eran surti mezzo secolo innanzi. Abd-el-Mumen, conquistata sopra gli Almoravidi la Spagna e gran parte dell’odierno impero di Marocco, s’avanzava alla volta di Levante, con trentamila Unitarii, [423] chè così suona Mowahhidi (Almohadi); occupava (maggio 1152) quelle che si chiaman oggidì le province d’Algeri e di Costantina, le quali rispondono a un di presso allo Stato dei Beni-Hammâd di Bugia: talchè questo cadde a un tempo con lo Stato de’ Ziriti. Jehia-ibn-el-Azîz, ultimo principe dei Beni Hammâd, avea tenuto quasi prigione l’infelice Hasan, che gli chiese ospitalità dopo la caduta di Mehdia.[178] Or l’hammadita ebbe a ventura d’imbarcarsi per la Sicilia, altri dice per Genova; e non guari dopo ei ritornò a Bona e, rincorato, fece prova a mantenersi nella inespugnabile rôcca di Costantina.[179] Ripararon anco in Sicilia Hareth ed Abd-Allah,[180] suoi fratelli.

In vero, s’egli rimanea scampo a que’ principi [424] ed ottimati della costiera settentrionale da Algeri a Tripoli, era nelle due genti straniere che ultime occuparono il paese: i Cristiani di Sicilia con loro trecento navi, e gli Arabi co’ cinquantamila cavalli. Tengo io certo, ancorchè nol dica alcun cronista, che que’ rifuggiti abbiano procacciata la lega tra Ruggiero e gli Arabi, che sola potea salvar la patria loro da nuovi barbari di Ponente. Perchè sappiamo che il re mandava a profferire agli emiri arabi il rinforzo di cinquemila suoi cavalieri, a condizione che le tribù gli dessero statichi, com’era costume; ma ch’essi lo ringraziarono e ricusarono, dicendo non aver uopo d’ausiliarii, nè poterne accettare che Musulmani non fossero. Quei masnadieri fidavano nel numero loro e nella santità del legame con che s’erano testè confederati; avendo tutte le tribù dell’Affrica Settentrionale, da Tripoli a Costantina,[181] fatta la giura di combattere quella che chiamano la guerra della famiglia: onde portaron seco loro le donne, i figli, il bestiame ed ogni cosa che possedeano, risoluti a difenderli fino all’ultimo soffio di vita. E scontratisi con gli Almohadi nelle montagne di Setif, il primo sefer del cinquecenquarantotto (28 aprile 1153), pugnarono per tre giorni; finchè, mietuti i più, fu preso il campo. Allora Abd-el-Mumen fe’ condurre le donne e i bambini, illesi da tutt’oltraggio, a Marocco, e poi li rese agli Arabi; e questa fu vera vittoria che domò quegli animi feroci.[182]

[425]

Dileguata così ogni speranza di collegarsi con le tribù, Ruggiero pensò ad assicurare il nuovo dominio contro gli Almohadi, mandando in Ponente l’armata, condotta da un Filippo di Mehdia, apostata musulmano, del quale occorrerà dire largamente nel capitol che segue. Il quale assalì Bona, testè abbandonata dal governatore hammadita, ma non occupata per anco dagli Almohadi; espugnolla di regeb del medesimo anno dell’egira (4 novembre a 3 dicembre 1153) con l’aiuto degli Arabi del contado, e fecevi prigioni e bottino; ma chiuse gli occhi alla fuga degli ’ulemâ e di altri uomini di nota: sì che uscirono illesi dalla città con lor sostanze e famiglie. Dopo una diecina di giorni, partiva l’armata per Mehdia, con un po’ di prigioni; e non guari dopo tornava in Sicilia,[183] lasciando Bona assai malconcia, sotto uno de’ Beni-Hammâd, che non isdegnò farsi ’âmil di Ruggiero.[184] S’erano sollevati, il medesimo anno, alle nuove, com’ei pare, della irruzione degli Almohadi, gli abitatori delle Gerbe e aveano fatta strage de’ Cristiani. L’armata andovvi, credo io, avanti l’impresa di Bona; vendicò il sangue col sangue; mandò prigioni in Palermo quanti potè; lasciando nel paese un pugno di gente da nulla, per coltivar la terra tanto o quanto e servir nelle case i padroni cristiani.[185] Fu ripresa [426] anco l’isoletta di Kerkeni, com’e’ sembra, con lo stesso effetto.[186] Troviamo in Ibn-el-Athîr che quel medesim’anno cinquecenquarantotto (29 marzo 1153 a 17 marzo 1154) l’armata siciliana abbia saccheggiata Tinnis in Egitto.[187] Io leggerei più volentieri Tenes, città vicina al mare, sul confine dell’odierna provincia di Algeri con quella d’Orano. La prima cosa, e’ non sembra verosimile che il re di Sicilia abbia attaccata quest’altra briga in Levante, oltre quella coll’impero bizantino e col reame di Gerusalemme, mentre gli rimanea tanto da fare contro gli Almohadi. Sappiamo, al contrario, da Romualdo Salernitano che Ruggiero, a suo proprio utile ed onore, così il cronista, avea allora fermata la pace col califo fatemita.[188] Il Makrizi tace quell’assalto, nella diligentissima descrizione dell’Egitto, dov’ei nota con l’anno cinquecencinquanta (7 marzo 1155, 24 febbraio 1156) il guasto dato dal navilio siciliano a Tinnis, Damiata, Rosetta ed Alessandria,[189] quando Ruggiero era morto [427] e la saviezza politica fuggita per sempre dalla corte normanna di Palermo. Mancando per l’appunto questa ultima scorreria in Ibn-el-Athîr, parmi verosimile ch’ei, nell’acconciare a forma d’annali i fatti che trovava in tante storie particolari, abbia sbagliata qui la data; ovvero abbia letto Tinnis in luogo di Tenes e per soverchia diligenza, v’abbia aggiunto “in terra d’Egitto.” Per vero Tenes e Tennis rassomigliansi nella scrittura arabica quanto nella nostrale; onde facilmente si poteano scambiar que’ due nomi da’ copisti ed anco dai più accurati compilatori. Che che ne sia, l’armata siciliana in quegli ultimi tempi del gran re normanno, infestava ogni anno la costiera dello Stato di Bugia, occupata oramai la più parte dagli Almohadi. Edrîsi, che scrisse il millecencinquantaquattro a corte di Palermo, narra che gli abitatori di Gigel e di Collo, allo scorcio dell’inverno, “quando vien la stagione che salpa l’armata,” soleano abbandonar le case della marina ed emigrare nei monti, portando seco ogni cosa.[190]

Coteste frequenti scorrerie a ponente del capo Bon e la procellosa anarchia nella quale vissero per molti anni que’ popoli, abbandonati dai Beni Hammâd, divisi tra loro, e minacciati a un tempo dagli [428] Arabi, da’ Siciliani e dagli Almohadi, m’inducono a creder vera una pratica di Ruggiero con Tunis, della quale troviamo vestigie molto incerte nelle memorie cristiane, al par che nelle musulmane. Dei contemporanei, il solo Roberto, abate del Monte di San Michele, registrò nella cronica essere stata quella città occupata dalle armi del re di Sicilia, il millecencinquantadue: e potrebbe essere un altro sbaglio del nome di Tenes.[191] Abd-el-Wahid da Marocco scrivea il milledugenventiquattro, nella storia degli Almohadi, che quand’essi presero Tunis (1159) vi regnava Ruggiero, il quale aveala affidata a un ’âmil, per nome Abd-Allah-ibn-Khorasân.[192] Un secolo appresso, il Dandolo, nell’accennare a’ conquisti affricani del millecenquarantotto, aggiungea che Ruggiero si fe’ tributario il re di Tunis.[193] E ciò mi sembra che più s’accosti al vero. Tunis non fu mai occupata dall’armata siciliana. Secondo le notizie ben connesse e precise che ne dà l’autore del Baiân e Ibn-Khaldûn, quella città, popolosa, ricca e piena d’alti spiriti, [429] ma torbidi e parteggianti, avea disdetta da lungo tempo la sovranità zirita, e riconosciuta di nome quella degli Hammaditi, e di fatto il governo di uno sceikh del paese, il quale chiamerei volentieri presidente della gemâ’. Rimase per molti anni cotesta autorità nella casa de’ Beni-abi-Khorasân; poi cadde in altre mani, e del tutto dileguossi in que’ frangenti di carestia e vicin romore di Cristiani. Il popolo che s’apparecchiava con molto ardore a respingerli, tumultuò un giorno, vedendo caricar del grano sur una barca che si sospettò partisse per luoghi occupati da Giorgio d’Antiochia; ond’e’ si venne a pretta anarchia ed a guerra civile, tra la fazione della Soweika (il mercatino) e quella della Gezîra (l’isola), che mi sembrerebbero popolani e nobili: alfine la plebe richiamò i Beni-abi-Khorasân, pria che fosse corso un anno dal conquisto di Mehdia. Abd-Allah-ibn Abd-el-Azîz, che si può dire l’ultimo di quella famiglia, regnò per dieci anni da tiranno; respinse gli Almohadi in un primo assedio (1157); e la città, poco appresso la sua morte, cadde sotto il pondo dell’oste d’Abd-el-Mumen.[194] Come ognun vede, tra questi fatti che si ritraggono con certezza storica, non entra la [430] supposta signoria del re di Sicilia. Ma poichè il tiranno di Tunis, nelle ricordate condizioni di quei paesi, non potea sperar aiuto da altra banda, mi par verosimile ch’egli abbia segretamente fermato con Ruggiero qualche accordo non dissimile da quello dell’ultimo Zirita di Mehdia, promettendo di spesare forze ausiliari o di pagar la tratta de’ grani di Sicilia. Se le passioni umane allora non operavan diverso da ciò che veggiamo nella storia prima e poi e fin oggi, la corte di Palermo per vanità, il popol di Tunisi per sospetto geloso, quando trapelò quel trattato, gridarono a una voce che l’Ibn-abi-Khorasân s’inginocchiava, tributario e vassallo, a’ piè di Ruggiero; non altrimenti di quel che dissero di Hasan gli scrittori seguiti da Ibn-abi-Dinâr. E più incerta dovea rimanere la memoria del fatto, dopo il mutamento di regno, che di lì a poco spezzò tutte le fila ordite in Palermo e dopo la terribile reazione che seguì in Affrica contro i Cristiani e lor fautori, della quale noi diremo nel regno di Guglielmo il Malo.

CAPITOLO III.

Ritornando un po’ addietro ne’ tempi, egli è da ricordare che il riconoscimento del novello reame non tolse a Ruggiero l’ambizione, nè alla corte di Roma la voglia di molestarlo; donde or il papa ricusò di consacrare i vescovi[195] e cavillò su le prerogative [431] della corona;[196] ora il re mandò eserciti ad occupare i dominii papali. Ma quando Corrado III, imperatore eletto, parlò di calare in Italia, e Arnaldo da Brescia infiammò i Romani a ristorare il Senato sotto il trono d’un Cesare tedesco, allora, quell’altalena fatale che tolse per mille anni ogni assetto e riposo alla patria nostra, spinse il papato ad accostarsi al regno, guelfo per sua natura. Udiasi allora per la prima volta cotesto nome di parte, sendosi levato in arme contro l’imperatore il duca Welf: al quale il papa e Ruggiero dettero aiuto per alimentar la guerra civile in Germania. Le ricchezze guadagnate sopra i Musulmani d’Affrica, l’industria della Sicilia, l’ubertà della Puglia, fornirono i danari che Ruggiero somministrava ai ribelli:[197] e porgeane anco al papa, per corrompere o combattere i Romani, promettendogli inoltre rinforzi di gente. E tra quelle tenerezze il papa a confermare il privilegio della Legazione apostolica di Sicilia;[198] a favorir le pratiche di Ruggiero in Germania. Nel corso delle quali avvenne che i partigiani del papa in Roma ricettassero occultamente i messaggi del re e che il Senato li catturasse con le lettere ch’e’ recavano e con loro famigli saraceni; [432] ma poi lasciolli andare.[199] Possedendo in grazia di Ruggiero il nervo della guerra, il papa e i cardinali si vantavano di serrare in un canile “come veltri e mastini, gli imperiali e i Greci di Venezia, sì che non potessero mordere il Siciliano, ausiliare di Santa Chiesa.”[200]

Intanto i veri capi della Chiesa annidati, come già abbiam detto, ne’ monasteri di Francia, aiutavano con lo ingegno e co’ raggiri la fuggitiva corte di Roma e favorivano di rimbalzo il re di Sicilia. San Bernardo, barattando le carte, come soglion far sempre, e mutando in caso di teologia la quistione politica, si messe a fulminare Arnaldo per tutte le scuole e le corti d’Europa; tanto che l’imperatore Corrado non osò accostarglisi. La crociata, poi, predicata dall’apostolo cattolico, venìa sì bene in acconcio alla corte di Roma, da far credere ch’egli avesse voluto a un tempo stender la mano a’ travagliati Cristiani di Siria e mandare Corrado a coglier allori, e fors’anco la palma del martirio, lì verso l’Eufrate, in vece di calare in Italia a’ danni del papa. Dopo la rotta e il ritorno de’ Crociati, s’interpose tra Corrado e Ruggiero un altro prelato francese di gran fama, Pietro, detto il Venerabile, Abate di Cluny, negoziatore volontario di faccende politiche in tutta Europa, assiduo viaggiatore in Italia e Spagna, scrittore di polemica contro l’islamismo ed auspice della prima traduzion latina del Corano.[201] Costui, [433] ragguagliando di sue pratiche il re e domandandogli intanto qualche larghezza a prò de’ monaci, gli sciorinava quante lodi ei sapesse accozzare in suo latino e diceagli bramar “che fosse unita al felice reame di Sicilia la misera Toscana e qualche provincia finitima.”[202] Così Ruggiero usava gli amici ecclesiastici ed essi lui. Che se adoperolli invano nelle trame contro Ramondo principe d’Antiochia, il cui stato ei pretendea com’erede del cugino Boemondo,[203] conseguì pure l’intento suo principale, ch’era di trattener Corrado di là dalle Alpi. La costui morte, succeduta a tempo (1152) fu attribuita a veleno ed apposta a Ruggiero[204] dai Ghibellini più ardenti; i quali sel trovavano sempre in mezzo a’ piedi, col suo danaro, con le sue arti di regno, con la sua fama di adetto in ogni scienza umana o infernale.

Giovò l’impedimento di Corrado a render vani gli sforzi di Manuele Comneno, che s’era collegato con lui contro la nuova potenza surta nell’Italia meridionale. Ruggiero non aspettò l’assalto de’ Bizantini. Affidato, com’e’ pare, nei novelli amici ch’eran sì possenti in Francia, ei volle tirar Lodovico VII a una lega contro Manuele: e pensando che cosa fatta capo ha, ruppe la guerra appunto quando i Crociati passavano nell’Asia minore; onde il bizantino si trovava impacciato; il francese vicino, adirato [434] e disposto a punire la perfidia di quello. Mandò Ruggiero dunque in Levante Giorgio d’Antiochia; il quale, salpando da Brindisi (settembre 1147?) occupava Corfù; correa fino alla punta meridionale del Peloponneso; dava il guasto a Monembasia. Ma non assentendo Lodovico alla lega contro il Comneno, tornò addietro d’un subito l’armata siciliana, in guisa da fare scorger nella ritirata il dispetto dell’occasione fallita. Giorgio si messe a depredar le costiere dell’Etolia e dell’Acarnania; entrò nel golfo di Corinto; mandò le gualdane infino a Tebe; prese Corinto stessa e la sua rôcca; per ogni luogo frugò i ricchi con piglio da masnadiere, fece fardello d’ogni roba preziosa, menò cattivi gli Ebrei e i benestanti, uomini e donne; rapì anco l’industria, portando via gli operai della seta. Quindi altri opinò che i prigioni di Tebe e di Corinto avessero primi recato il setificio in Palermo, non sapendo che quivi da molto tempo l’esercitavano i Musulmani.

Correndo la state del quarantotto, l’armata siciliana andò all’impresa d’ Affrica. Ma allo scorcio dell’anno, Manuele, libero dalla paura de’ Crociati, s’apparecchiava alla vendetta. Acconciatosi co’ Veneziani, sì che gli fornirono possente navilio; vinti i Patzinaci, Manuele assediava Corfù, difesa da mille uomini dello esercito siciliano; respingea l’armata vegnente all’aiuto, e dopo due anni riducea per fame l’inespugnabile fortezza (1150). Seguì durante l’assedio quell’arrisicata fazione delle quaranta galee siciliane ch’entrarono nel porto di Costantinopoli, sbarcarono ne’ giardini imperiali e tirarono saette affocate nelle [435] finestre della reggia; di che la fama giunse ne’ paesi musulmani.[205] In uno degli scontri del navilio siciliano col bizantino trovossi avvolto il re di Francia che mesto ritornava dalla crociata; il quale fu preso da’ Greci, liberato da’ Siciliani e condotto a Ruggiero, che gli fece grandissimo onore (agosto 1149). Le guerre poi sul Danubio, le fortune di mare, la dappocaggine delli ammiragli e la morte di Corrado, ritardarono la impresa di Manuele Comneno fino alla morte di Ruggiero.[206]

Il quale terminò il glorioso regno con un auto [436] da fe’. Qual che fosse l’origine di Filippo di Mehdia, sia musulmano dell’isola detto Mehdiano dalla patria de’ suoi maggiori, o sia nato veramente nella capitale zirita, era egli battezzato, come gli altri paggi del re, nè cristiani nè musulmani, nè uomini nè donne. Cresciuto a corte, mostratosi buon massaio, il re l’avea preposto all’azienda del palagio, indi creato ammiraglio alla morte di Giorgio e mandato all’impresa di Bona; il che mi conduce a crederlo creatura dell’Antiocheno e suo compagno nelle guerre d’Affrica. Leggiamo il caso negli annali d’Ibn-el-Athîr, che forse il togliea dagli scritti del contemporaneo Ibn-Sceddâd; e più largamente ne tratta un luogo di Romualdo Salernitano, interpolato com’è parso ad autorevoli critici, ma contemporaneo in ogni modo, e degno di fede. L’un racconto come l’altro fa scoppiare improvvisa la collera del re contro Filippo, al suo ritorno da Bona: non ostante il trionfo e la riportata preda, al dire del latino; e al dire dell’arabo, appunto per aver chiusi gli occhi tanto che i notabili musulmani si messero in salvo. Fu accusato di simular la fede; e davano gli amminicoli: che entrasse in chiesa per apparenza, ma frequentasse occulto le moschee, fornissevi l’olio alle lampadi, inviasse offerte al sepolcro di Maometto, si raccomandasse ai sacerdoti del luogo e non rifuggisse dal cibarsi di carne il venerdì e ne’ giorni della quaresima. Così il narratore latino. L’arabo compendia l’accusa in questo che Filippo e gli altri paggi convertiti mangiassero lietamente quando il re digiunava. E non occorre dire che [437] testimonii provarono il delitto, ancorchè l’accusato negasse ostinatamente. Fu tradotto, secondo il narratore musulmano, dinanzi i vescovi, i preti e i cavalieri; secondo il cristiano, dinanzi i conti, i giustizieri, i baroni e i giudici. Abbiam dalla stessa fonte cristiana ch’egli implorò grazia, e che Ruggiero, tanto più adirato, piangendo di collera, esortò il tribunale a severissima giustizia, dicendo: aver allevato in corte questo ribaldo, amatolo come fedel servitore; il quale se avesse offeso lui medesimo, se avesse rubato mezzo il tesoro regio, ei gli perdonerebbe; ma volea vendicare l’oltraggiata religione; sapesse bene il mondo che per questa santa causa egli farebbe pur cascare il capo del suo proprio figliuolo. Trattisi in disparte, dopo lunga deliberazione, dettarono questa sentenza: “che Filippo, delusore del nome cristiano, dedito all’opera della infedeltà sotto il velame della fede, sia arso da ultrici fiamme; affinchè, non avendo eletto il fuoco della carità, senta quello del rogo; nè rimanga alcuno avanzo di cotesto scellerato, ma, fatto cenere, ei passi dal fuoco temporale all’eterno, dove per sempre arderà.” Ho tradotte le parole della cronica, la quale par abbia copiata la sentenza del magistrato laico, passando sotto silenzio il giudizio ecclesiastico che dovea precedere. Di questo riman vestigia nella narrazione musulmana la quale nomina insieme i due ordini di giudici, quasi avessero composto un sol tribunale. Il Gregorio riconobbe nel caso di Filippo la giurisdizione dell’alta corte de’ Pari;[207] ma non volle [438] rimestare di troppo quella prima gesta del Tribunal della Santa Inquisizione, il quale, quando scrisse il gran pubblicista, dava ancora i brividi all’onesta gente in Palermo, essendovi stato abbattuto appena da venti anni.

Alzarono il rogo di faccia al palagio stesso del re; presedette al supplizio il giustiziere. L’eunuco, legato a un cavallo indomito, fu strascinato infino al rogo, e quivi disciolto e gittato semivivo nelle fiamme. I complici e consorti, puniti anco di morte, aggiugne laconicamente la narrazione cristiana e finisce esclamando, con la stesse parole con che principia: ecco quant’era cristiano il buon re Ruggiero! Porta la narrazione arabica che Filippo fu arso del mese di ramadhan, il qual mese sacro dei Musulmani tornava nel 1153 tra il novembre e il dicembre; che Iddio non fece sopravvivere Ruggiero a lungo e che questo supplizio fu il primo tracollo de’ Musulmani di Sicilia.[208] S’io ben m’appongo, questo detto, confermando [439] le altre condannagioni alle quali accenna la narrazione cristiana, prova esser seguita in Sicilia, allo scorcio del millecencinquantatrè, una vera e grave persecuzione religiosa.

Perchè la mosse Ruggiero? Di certo le vittorie degli Almohadi in Affrica, gli armamenti di Manuele Comneno nell’Adriatico, la morte di tre figliuoli e di due mogli entro nove anni, la malattia che consumava la sua propria persona in quell’inverno, non poteano non agitar profondamente il suo spirito, nudrito di credenze soprannaturali, tra ortodosse, astrologiche e musulmane. Ci si dice inoltre che in quegli ultimi tempi, allontanatosi alquanto dalle cure mondane, egli s’adoprò “in tutti i modi” a convertire musulmani e giudei e profuse più che mai danari nel culto.[209] Potremmo supporlo dunque diventato bacchettone per indebolimento di cervello, siccom’è avvenuto a tanti altri dotti e forti uomini. Ma più verosimile è che Ruggiero abbia voluto dar uno esempio e riformare a suo modo la corte, dove i vinti guadagnavan la mano a’ Cristiani. Egli mandò al rogo Filippo un mese dopo quell’impresa di Bona sciupata, come parve, per contemplazione verso i Credenti: onde non occorre ch’altri ci narri le querele che ne sursero nell’armata, nel baronaggio, nel clero, contro [440] i favoriti musulmani del re. E questi era avvolto oramai nelle fila della diplomazia ecclesiastica, niente amica, al certo, di ministri così fatti. Un monarca d’oggi li avrebbe congedati; un del secolo decimosettimo, gittati in fondo d’un carcere; Ruggiero, che visse nel duodecimo e ch’era tenuto crudelissimo anche allora, arse il principale, mozzò il capo agli altri e si rallegrò forse di avere assettata la corte, soddisfatto al popolo, a’ grandi, a’ potentati amici e guadagnato, chi sa? il paradiso.

Morì a capo di due mesi, il ventisette febbraio millecencinquantaquattro, all’età di cinquantotto anni,[210] sospinto alla tomba dalle voluttà, come notarono i prelati della corte. Delle sue virtù, de’ vizii e delle cose operate al di fuori abbiam già detto quanto basta al nostro argomento. Ci riman ora a trattar con la stessa misura l’interno reggimento del paese e la tempra e coltura dell’ingegno di questo gran principe; di che noi caverem le notizie dagli scrittori musulmani al par che da’ cristiani; poich’egli lasciò orma di sè in ambo le civiltà del tempo suo. Ed entrambe lo dipinsero in loro stile. L’una per man dello Abate di Telese, di Romualdo arcivescovo di Salerno, d’Ugo Falcando, di Pietro il Venerabile: prelati italiani e francesi, nutriti di letteratura latina. L’altra, or con l’asiatico lusso delle immagini, nella Prefazione dell’Edrîsi, letterato, scienziato e rampollo di principi; or con le secche note di cronaca [441] raccolte da Ibn-el-Athîr negli Annali, e dal Sefedi nell’articolo biografico, intitolato appunto a Ruggiero.[211]

Il Falcando loda in lui l’abbondanza degli spiriti vitali, il pronto ingegno, l’operosità, la vigilanza, la maturità di consiglio nelle faccende pubbliche.[212] Edrîsi, dopo lunga parafrasi di queste medesime idee, le stringe nell’epigramma che Ruggiero fea più dormendo che ogni altr’uomo vegghiando.[213] Parco allo spendere, fuorchè nelle cose della guerra, nelle scienze e ne’ monumenti, studiosissimo ei fu di accrescere le entrate dello erario[214] e sì diligente nell’amministrarle, che ne’ ritagli di tempo metteasi a frugare i conti.[215] La sicurezza, la pace e la prosperità di che si godea ne’ suoi dominii, recarono stupore all’Europa in quell’età di violenze feudali:[216] onde non esagera Edrîsi, là dov’ei dice, che Ruggiero fe’ piegare il collo ai tiranni[217] e che, inalberando [442] il vessillo della giustizia e dando al popolo quiete e buon governo, ei costrinse i regoli a ubbidirlo, a vestire la sua divisa, a consegnargli le chiavi di ciascun paese.[218] Riformò gli ordini giudiziali; fece osservare le leggi con rigore, anzi crudeltà, di che il Falcando lo scusa con la necessità del regno nuovo. Nell’opera di perfezionare il civil governo in Sicilia e d’assuefar a quello i baroni e le città di Terraferma, egli studiò gli esempii di fuori e chiamò in aiuto valenti uomini d’ogni linguaggio e d’ogni setta.[219] Donde un francese vanta la predilezione del re pei Francesi;[220] un musulmano gli dà lode di proteggere ed amare particolarmente i Musulmani;[221] similmente un bizantino avrebbe potuto affermare il privilegio della schiatta greca, nominando Giorgio d’Antiochia; ed un italiano avrebbe forse vinta la gara, ricordando che Arrigo de’ marchesi Aleramidi fu quel desso che fabbricò la corona al nipote.[222]

Abbozzato già nel quinto libro il reggimento normanno, io vo’ ricordar qui di volo quelle istituzioni che riferisconsi con certezza a re Ruggiero, anzi che al padre. Delle quali gravissima parmi l’ordinamento de’ magistrati provinciali, ignoto sotto il primo conte, necessario a far sentire da presso una mano assai più forte ch’esser non potea quella degli [443] ufiziali del principe in ciascun comune, sopraffatti per avventura da’ vicini feudatarii e da’ prelati. Seguendo l’uso di tenere unita l’autorità che noi distinguiamo in amministrativa e giudiziale, Ruggiero sostituì ai vicecomiti i baiuli, delegati generali del governo nella città e primi giudici in materia civile e correzionale.[223] Egli istituì primo i camerarii e i giustizieri, magistrati provinciali: preposti gli uni all’azienda, con giurisdizione d’appello nelle cause civili e di prima istanza in quelle concernenti i feudi secondarii e in ciò ch’or diciamo il contenzioso amministrativo; giudici gli altri delle liti civili relative ai feudi principali e delle cause criminali ch’eccedessero la competenza dei baiuli e delle curie baronali.[224] Certo al pari e’ mi sembra che re Ruggiero abbia data migliore forma ad un tribunale supremo preseduto dal principe, simile a quello de’ Bizantini nelle materie civili[225] e de’ Musulmani pei delitti di maestà.[226] E veramente la tradizione arabica afferma che Ruggiero, succeduto al padre, imitò i principi musulmani con creare i giânib, [444] gli hâgib, i selâhia, i giandâr e altri simili ufiziali; ch’egli scostossi dagli usi de’ Franchi, i quali non aveano idea d’ordini così fatti; e che pose il Diwân-el-mozâlim, (noi diremmo, la Corte de Soprusi) al quale si recavano le querele degli offesi; e il re facea giustizia a costoro, foss’anco contro il proprio suo figlio.”[227] Degli altri ufizii diremo or ora. Ravvisò il Gregorio in questa Corte de’ Soprusi la Magna Curia, che i pubblicisti siciliani solean prima di lui riferire a Federigo imperatore; ed ei tirolla su ai tempi di Ruggiero, la distinse dall’alta corte de’ Pari, la paragonò alla corte del Banco del re, ch’ei suppose istituita in Inghilterra da Guglielmo il conquistatore.[228] Ma i pubblicisti inglesi confessano in oggi non veder chiaro nell’XI secolo quel sistema di giurisdizione suprema che comparisce appo loro al principio del XIII; ond’essi pensano che, ne’ primi tempi de’ re normanni, l’Inghilterra non abbia avuta altra corte di giustizia che quella de’ Pari, talvolta piena e più sovente ristretta; non essendo stato in quella età agevol cosa ragunare i feudatarii ad ogni uopo della giustizia ordinaria. Nè più di questo parmi si possa affermare della Sicilia nel XII secolo; se non che aggiugnerei avere Ruggiero composta regolarmente la corte de’ Pari ristretta, facendovi sedere i giustizieri ed anco de’ giudici, e adoperandola come magistrato ordinario e supremo, senza [445] restringere la sua giurisdizione ai grandi feudatarii. E parmi sia stata questa in Sicilia la corte che condannò al fuoco Filippo di Mehdia: innanzi alla quale dicea Ruggiero, secondo la narrazione cristiana, che non gli sarebbe rifuggito l’animo dal punire il proprio figlio:[229] le medesime parole per l’appunto, con che la tradizione musulmana esprime l’alto impero e severa giustizia del Diwân-el-mozâlim, preseduto dal re.

Lascio indietro gli ordinamenti proprii della popolazione cristiana, sempre più cresciuta nell’isola al tempo di Ruggiero; la colonia e il vescovado ch’ei fondava in Cefalù; l’archimandritato istituito in Messina per ordinare i monasteri greci e forse le popolazioni; le sue leggi che ci venga fatto di spigolare;[230] i grandi ufizii della corona ch’egli imitò dalle corti occidentali: cancelliere, giustiziere, camerario, protonotaio, connestabile; qualificati di grandi per significar l’autorità superiore.[231] Delli ammiragli ho discorso a lungo.[232] Ho toccato anco dei servigi della corte affidati la più parte a’ [446] paggi.[233] Secondo uno scrittore che allegammo poc’anzi,[234] Ruggiero ordinò ad esempio delle corti musulmane quegli ufizii domestici, le cui denominazioni, arabiche o persiane, attestano la origine, che torna sovente ai Fatemiti d’Egitto. Erano gli hâgib, propriamente uscieri, spogli bensì del gran potere ch’ebbero a Cordova e altrove;[235] i giânib, come sarebbe a dire aiutanti di campo;[236] i selâhia che torna a scudieri;[237] i giandâr o forse giamdâr, vestiarii;[238] ed altri, dice [447] il testo, alludendo a note denominazioni:[239] a quella gerarchia di servitori intrecciata con le dignità dello Stato, la quale i Bizantini tolsero da’ despoti persiani e detterla ai Musulmani ed ai re dell’Occidente. Il più delle volte non era divario che nel nome. Il gran siniscalco non potea mancare in Sicilia; ancorchè si vegga al tempo stesso di quello il magister latino, che risponde all’uficio e sembra testo o traduzione dell’orientale ostadâr.[240] Son qui da ricordare i kâid de’ quali si è trattato a lungo, or capitani propriamente detti di pretoriani, or segretarii, computisti e per fin camerieri,[241] come un ferrâsc che appo noi suona “rifa’ letti.”[242] V’era anco un paggio musulmano ispettore della cucina,[243] ed uno preposto al tirâz.

Con tal voce persiana chiamaronsi le vestimenta [448] di seta ricamate e l’opificio in cui le si lavoravano: parte essenziale d’una corte musulmana, poichè soleano i principi donar que’ pallii in segno di favore, o mandarne a’ grandi oficiali nel dar loro l’investitura,[244] come appunto si disse in cristianità, per cagion di usanza non dissimile. Ci è occorso di narrar come Ruggiero avesse inviati di tali abbigliamenti al traditore che gli fece omaggio di Kâbes.[245] E rimane del tirâz di Palermo un lavorio sontuoso, il pallio semicircolare, trapunto nell’area ad oro e perle con figura d’un lione che abbatte un camelo, e in giro con bellissime lettere cufiche, portanti il nome e le qualità di Ruggiero e la data della capitale di Sicilia e dell’anno cinquecentoventotto (1133); il qual regio manto, per dono di alcun re di Sicilia o rapina di Arrigo VI, andò in Germania; ed è serbato ora a Vienna tra le reliquie del defunto impero di Carlomagno.[246] Sappiamo dalla storia come quell’opificio fosse stato rifornito il millecenquarantasette di belle corinzie e tebane,[247] e durasse in fiore nel centottanta, quando l’eunuco prepostovi diceva all’orecchio a Ibn-Giobair che le giovani musulmane del [449] suo ovile tiravano spesso all’islam lor compagne di nazione franca. Sembra da ciò che Ruggiero abbia voluto onestare con quel nome l’harem della reggia.[248] Da lui o da’ successori fu anco usato l’ombrello di gala, ad imitazione dei califi fatemiti.[249]

Alla corte musulmana rispondean gli usi orientali della cancelleria arabica, distinta, com’e’ mi sembra, dalla cancelleria latina, e addetta a trattar le faccende degli antichi abitatori, sì come la latina quelle de’ coloni. Mentre quest’ultima usava il linguaggio latino, la data dell’èra volgare, e il suggello co’ titoli occidentali, l’altra cancelleria adoperava or il greco or l’arabico, secondo le genti, e talvolta l’una e l’altra lingua insieme. In testa de’ rescritti arabici o bilingui non soscritti di propria man di Ruggiero, si ponea all’uso musulmano lo ’alâma, ossia il motto trascelto da ciascun principe e scritto della man di segretario apposito, con che si dava autenticità al diploma. Lo ’alâma di Ruggiero fu El hamd lilaah sciakran linia’mih ossia “Lode a Dio per riconoscenza de’ suoi benefizii.”[250] Copiando un po’ i principi Musulmani e un [450] po’ i Bizantini, Ruggiero si fece intitolare ne’ diplomi El malek el mo’adzdzam el kadîs o diremmo noi “Il re venerando e santo”[251] e nelle monete, or El malek el mo’adzdzam el mo’tazz billah, ossia “Il re venerando, esaltato per favor di Dio”[252] ora Nâsir en nasrâniah che suona “Difensor del Cristianesimo”[253] Nè altrimenti par lo addimandassero in corte; sendo detto egli da Edrîsi “il re venerando, Ruggiero, esaltato da Dio, possente per divina virtù,[254] re di Sicilia, Italia, Lombardia, Calabria, (sostegno dello) imâm di Roma, difensore della religione cristiana”[255]; e chiamata El-mo’tazzia, dal poeta Abd-er-Rahman da Trapani, la regia villa di Mare-dolce presso [451] Palermo.[256] Nei diplomi della cancelleria bilingue soscrisse Ruggiero sempre in greco, rendendo que’ titoli di conio orientale con la formola “Ruggiero in Cristo Dio, religioso e possente re, difensore dei Cristiani”[257] e quest’ultimo attributo si ritrova anco tradotto nell intitolazione di alcun diploma latino.[258] Si scorge infine dalle monete e dall’uso degli scrittori arabi contemporanei, che Ruggiero, intitolatosi secondo di tal nome pria ch’ei prendesse la corona reale, continuò sempre a distinguersi dal padre con quella appellazione, ancorchè ei fosse stato il primo re.[259]

[452]

Non pensava forse Ruggiero che il passatempo della scienza gli avesse a fruttar tanta gloria, quanto le assidue cure dello Stato e le fatiche della guerra. E pur l’Europa civile, se in oggi non ha scordato del tutto il fondatore della monarchia siciliana, onora assai più il dotto principe al quale è dovuta la maggiore opera geografica del medio evo. Differendo a trattare il pregio di cotesta opera nella rassegna scientifica e letteraria del presente periodo, noi qui toccheremo della parte che torni a ciascuno de’ due creduti autori: Edrîsi, sotto il cui nome corre in oggi il libro, e il re al quale l’attribuirono gli eruditi musulmani chiamandolo “Il libro di Ruggiero” oltre il titolo proprio, ch’è “Il sollazzo di chi ama a girare il mondo.”

Taccion le memorie cristiane di questa vaghezza del re per gli studii geografici, male interpretata [453] da Falcone Beneventano, là dove ei racconta l’aneddoto, ch’entrato Ruggiero trionfante in Napoli, allo scorcio di settembre millecenquaranta, fece una notte misurare l’ambito delle mura; e la dimane, ragionando co’ principali cittadini intorno le franchige da confermare, per mostrarsi tenero assai delle cose loro, “Ma sapete voi, lor domandò, quanto giri la città vostra?” e rispostogli di no, “ecco ch’io vel dico, replicò: son dumila trecensessantatrè passi, per l’appunto.”[260]

Edrîsi descrive la formazione dell’opera con particolari di gran momento.[261] Ei dice dottissimo il re nelle scienze “astruse e nelle operative”[262] ossia le matematiche e le dottrine dell’amministrazione pubblica; e che in cotesti due rami di sapere “egli creò modi novelli maravigliosi e inventò peregrini trovati.” Allargato il regno, “ei volle sapere con precisione e certezza le condizioni di ciascun paese soggetto: quali fosserne i confini e le vie di comunicazione per terra e per mare; a qual clima appartenesse, quali mari lo bagnassero, quai golfi vi si aprissero. Volle conoscere, altresì, ogni altro paese e regione de’ sette climi ideati da’ filosofi e determinati da’ narratori e [454] da’ compilatori in loro pergamene[263] e ricercar volle quanta parte di ciascuno Stato entrasse in ciascun clima.” Nominati poi dodici trattati geografici, tra d’antichi e d’arabi, che furono raccolti per comando di Ruggiero, continua Edrîsi “che in tutti si notarono discrepanze, omissioni ed errori; e che i geografi, chiamati apposta e interrogati dal re, non ne sapeano più che i libri. Egli allor fece venire da ogni parte de’ suoi dominii uomini esperti ed usi a’ viaggi, e ordinò che interrogati per un suo ministro,[264] tutti insieme e poi spicciolati, si tenesser buoni i ragguagli ne’ quali ciascun s’accordava e si rigettassero gli altri. Durò quindici anni cotesta esamina; nel qual tempo non passò giorno che il re non vegliasse sul lavoro, non pigliasse conto de’ ragguagli raccolti e non facesse opera ad appurarli. Indi [455] ei volle vedere se tornassero precisamente le distanze su le quali s’erano accordate le relazioni.[265] Fe’ recar dunque una tavola graduata[266] e trasportarvi col compasso, ad una ad una, quelle distanze; tenendo anco sott’occhio i libri citati dianzi e ponderando le opinioni diverse: e tanto studiò sul complesso di quei dati, ch’egli arrivò a determinare le vere posizioni. Fe’ allor gittare, di puro argento, un gran disco diviso in segmenti,[267] che pesò quattrocento rotl italici, di cento dodici dirhem ciascuno,[268] e fevvi incidere i sette climi [456] con le loro regioni e paesi, le marine e gli altipiani, i golfi, i mari, le fonti, i fiumi, le terre abitate e le disabitate, le strade battute, con lor misure in miglia, le distanze (marittime) e i porti: nella quale incisione fu copiato per filo e per segno il planisfero delineato già nella tavola. Ordinò in ultimo si compilasse una descrizione corrispondente alle figure della mappa, aggiuntovi le condizioni di ciascun paese e contado: la natura organica,[269] il suolo, la postura, la configurazione, i mari, i monti, i fiumi, le terre infruttifere, i cólti, i prodotti agrarii, le varie maniere di edifizii, i monumenti, gli esercizii degli uomini, le arti che fiorissero, le merci che si introducessero o si traesser fuori, le maraviglie raccontate e le supposte; e in qual clima giacesse il paese ed ogni qualità degli abitatori: sembiante, indole, religioni, ornamenti, vestire, lingua.” I manoscritti che ci han dato il testo fin qui con poco divario, si discostano venendo alla intitolazione di Nozhat el Mosctâk, la quale, secondo un codice, fu messa da Edrîsi, ma gli altri due, e tra questi il più prossimo all’originale, riferisconla a Ruggiero stesso;[270] poscia tutti d’accordo [457] notano quella che noi diremmo pubblicazione, fatta nella prima metà di gennaio millecencinquantaquattro, che è a dir cinque o sei settimane innanzi la morte del re.

La quale sendo avvenuta dopo lunga infermità, possiamo supporre che Edrîsi abbia affrettato [458] ed anco precipitato il lavoro da presentare, e che per tal cagione quello sia venuto fuori men corretto, che non portasse il disegno e non permettessero i mezzi del re. Ma di ciò meglio a suo luogo. Fatta intanto nelle parole d’Edrîsi la tara dell’adulazione e della rettorica, ognun vi legge che il dotto affricano stese la descrizione, dopo avere raccolte e coordinate le relazioni orali e confrontatele, se si voglia, coi trattati di geografia; ch’ei forse die’ consigli su gli studii da fare e sul metodo; ma che il concetto, l’impulso, l’ordinamento e perchè no? un’assidua cooperazione, si deve a Ruggiero, nella cui mente le tradizioni musulmane si univano alle bizantine ed alle latine, al genio cosmopolita dei Normanni ed alla curiosità statistica del principe e del capitano.[271] Tornano anco a ciò i ragguagli del Sefedi. Ruggiero o Uggiero, egli dice, amando le dottrine filosofiche dell’antichità, fece venir dall’’Adwa[272] lo sceriffo Edrîsi; indusselo a stanziare appo di lui e fuggir i pericoli che la sua nascita regia gli attirava ne’ paesi musulmani d’Occidente; Ruggiero gli assegnò entrate da principe; l’onorò tanto che solea levarsi quand’egli veniva a corte e andargli incontro e metterselo a sedere allato. La prima cosa, costruì Edrîsi pel re una grande sfera armillare d’argento e n’ebbe in guiderdone de’ milioni.[273] “Ruggiero poscia si consultò [459] con Edrîsi intorno i migliori modi d’appurare i ragguagli geografici con certezza, non già copiando libri; ed entrambi consentirono in questo, che si avesse a mandare apposta per tutti i paesi di levante e di ponente, uomini sagaci e dotti, accompagnati da disegnatori, a fin di ritrarre la figura d’ogni cosa notevole. E il re mandolli di fatto: i quali come riportavano lor disegni, così Edrîsi li verificava; e compiuta che fu la raccolta, ei distese la compilazione intitolata il Nozhat.”[274] Opera collettiva questa fu dunque, lavoro d’una specie d’accademia istituita da Ruggiero nella corte di Palermo, preseduta da lui stesso; e il rampollo degli ultimi califi di Cordova n’era il Segretario perpetuo, se ci sia permesso dar nomi nuovi e precisi a un abbozzo del medio evo. Ognun poi vede che appo i letterati musulmani, Edrîsi dovea a poco a poco ecclissare Ruggiero, ancorchè di questi rimanesse pure onorato ricordo.[275] Non essendo stato il libro, per la intempestiva morte del re, tradotto in latino, l’Europa l’ha riavuto dopo cinque, anzi sette secoli, col nome del [460] compilatore che forse gli rimarrà per sempre. E così è avvenuta al regio autore fortuna contraria a quella de’ Grandi d’oggidì che fan lavorare altrui e voglion per sè la lode.

Quando verremo a trattare particolarmente la storia letteraria di cotesto periodo, noteremo altre vestigie dell’accademia rogeriana e delle dotte elucubrazioni del re, bastandoci qui far cenno degli uomini e delle opere che vi si riferiscono. Oltre l’Edrîsi, veggiamo nella reggia di Palermo Abu-s-Salt-Omeia da Denia, medico, meccanico, astronomo, dotto nella scienza che gli antichi addimandavan la musica, poeta e cronista; il quale girando, come soleano i letterati Musulmani, per tutte le corti amiche agli studii, passò dal Cairo in Palermo e indi a Mehdia, prima che la fosse occupata da’ Siciliani. Diverso da costui par sia stato l’autore dell’orologio ad acqua, congegnato per comando di Ruggiero, come attesta una lapida trilingue della Cappella palatina di Palermo e una notizia trasmessaci dal cosmografo Kazwini. Credo si debba a incoraggiamento del re la versione latina dell’Ottica di Tolomeo, fatta dall’ammiraglio Eugenio, sopra una versione arabica del testo greco e sì la versione delle Profezie della Sibilla Eritrea, tradotte, come dissero, dal caldaico in greco per opera di un Doxopatro, e lo stesso Eugenio voltolle dal greco in latino. Il quale Doxopatro, sembra il Nilo venuto a corte di Ruggiero da Costantinopoli, autore del famoso libro su le sedi patriarcali; molestissimo al papa, come quello che dimostrò aver la sede di Roma preso il primato in [461] Cristianità perchè la città era capital dell’impero e averlo perduto di diritto con la traslazione a Costantinopoli; e i vescovi di Sicilia essere stati soggetti al patriarca bizantino, fino al conquisto del Conte Ruggiero.

Non affermeremmo noi che il re avesse onorato Nilo Doxopatro per cagion di questa opera istorica e canonica, più tosto che per la versione della Sibilla Eritrea. Come certe malattie, così corrono in ciascun secolo certe aberrazioni di mente, dalle quali raro avvien che campino i sommi ingegni: di che abbiam cento esempii antichi e odierni. Ruggiero, tra gli altri, credette alle scienze occulte. Narra il Dandolo che un famigerato astrologo inglese, richiesto dal re, gli facea trovare le ossa di Virgilio nel masso della collina presso Napoli e ch’ei comandava di riporle nel Castel dell’Uovo, sperando costringere a suo bell’agio con gli scongiuri l’ombra del Mantovano, sì che gli rivelasse tutta l’arte della negromanzia.[276] Attesta del paro Ibn-el-Athîr cotesti vaneggiamenti del re, con tal racconto che ritrae al vivo una scena della reggia palermitana. Sedendo un giorno il re co’ suoi intimi in una loggia che guardava il mare, fu visto entrare un legnetto reduce dalla costiera d’Affrica; dal quale si seppe che l’armata del re avea fatta sanguinosa scorreria ne’ dintorni di Tripoli. Sedeva allato a Ruggiero un dotto e pio musulmano, onorato da lui sopra ogni altro uom della corte e preferito a’ suoi preti ed a’ suoi monaci, tanto che bucinavano essere il re nè [462] più nè men che musulmano.[277] Or parendo che il barbassoro non avesse posta mente alle nuove di Tripoli, “hai tu inteso?” interrogollo Ruggiero; e saputo che no, ricontò il fatto e domandò per celia “dove era dunque Maometto quando i Cristiani acconciarono così il popol suo?” — “Vuoi ch’io tel dica davvero? rispose il musulmano: egli era alla presa di Edessa, dove in quell’ora medesima e in quel punto irrompeano i Credenti.” E i Cristiani a scoppiar dalle risa. Ma Ruggiero, rifatto serio in volto, li ammonì non pigliasser la cosa a gabbo, chè quel savio non avea mai fatta predizione che non si avverasse. Ed a capo di alquanti giorni si riseppe che Zengui, il padre di Norandino, aveva occupata Edessa.[278] Mi viene in mente che quel savio sia stato forse lo stesso Edrîsi.

Non poteano mancare, in corte così fatta, i poeti arabi. Ancorchè i bacchettoni musulmani, compilatori d’antologie, abbiano soppressi di molti versi, massime que’ che più ci premerebbe di leggere, abbiam pure alcuni frammenti di kasìde, presentate a Ruggiero da Abd-er-Rahman-ibn-Ramadhan di Malta, dal filologo Abu-Hafs-Omar, da ’Isa-ibn-Abd-el-Moni’m, da Abd-er-Rahman di Butera, da Ibn-Bescirûn di Mehdia e da ’Abd-er-Rahman di Trapani; de’ quali i primi due, perseguitati, imploravano la clemenza del re; il terzo volea consolarlo [463] della morte del figliuolo; e gli ultimi lodavan il regio Mecenate, descrivendo il sontuoso palagio, le ville e il viver lieto della corte, dove solean girare, colme di biondo vino, le coppe, e il suono della lira accompagnar la voce di cantori, paragonati ai più celebri della corte omeiade di Damasco.

Il genio di civiltà che risplende nella vita tutta di re Ruggiero, si scerne ancora in que’ monumenti suoi che il tempo ha rispettati: la cattedrale di Cefalù, la Cappella palatina di Palermo, il Monastero di San Giovanni degli Eremiti nella stessa città, i sepolcri di porfido del Duomo palermitano e qualche iscrizione arabica dove occorre il suo nome. D’altri edifizii ch’egli innalzò abbiam qualche avanzo da poterne argomentare la eleganza o la magnificenza: voglio dire la villa della Favara, ossia Maredolce, e quella dell’Altarello di Baida: entrambe alle porte di Palermo. I cronisti finalmente e i diplomi ci ragguagliano di parecchi altri monumenti edificati per suo comando; come sarebbe una parte della reggia di Palermo e il Monastero del Salvatore di Messina, de’ quali non è agevole scorgere ora i vestigii tra le costruzioni sovrapposte. Di certo Ruggiero non creò tutte le arti che fiorivano in Sicilia fin da’ tempi musulmani, ma le ristorò dopo le vicende della guerra, ed altre ne promosse per lo primo: v’ha di certo nei monumenti siciliani della prima metà del secolo l’impronta d’un intelletto superiore che raccolse, dispose e riformò. La mole, le graziose e nuove proporzioni, la leggiadria e ricchezza degli ornamenti, rivelano [464] unità di concetto, sentimento del bello, altezza d’animo e profusione di danaro, da confermare che il primo re di Sicilia fu possente e grande in ogni cosa.

CAPITOLO IV.

Nell’operoso e lungo regno di Ruggiero le condizioni sociali dell’isola mutaron da quelle dei primi anni del secolo XII. Verso la metà del secolo era già la Sicilia ripiena di coloni cristiani, arricchita coi traffichi d’Affrica e delle Crociate; il conquisto inoltre della Terraferma, reagendo sul centro del governo, recava elementi novelli nella corte, la quale era divenuta già primario corpo dello Stato per cagion degli ufici pubblici che vi s’accentravano: corpo di gran mole, vario di origine, reso omogeneo dallo interesse; onde, salvo le gelosie, fraternizzavan quivi gli arcivescovi coi liberti musulmani, i chierici d’oltremonti coi borghesi delle Puglie, i condottieri francesi coi corsari greci di Messina. Mancata quella man ferma del re, le nuove parti sbrigliaronsi. Il baronaggio, provocato o no, cercò di ripigliare lo Stato in Terraferma e di far novità anco in Sicilia. La corte volle possedere, sotto il nome di Guglielmo, l’autorità ch’essa avea esercitata sotto il comando di Ruggiero. Per lei teneano i Musulmani e fors’anco le schiatte più antiche dell’isola; per lei, in tutto il [465] reame, i cittadini, bramosi di sicurezza e di franchige: se non che i baroni avean sèguito anch’essi nelle città e talvolta prevaleanvi per l’invidia che desta sempre il governo e gli interessi ch’egli offende. Avveniva ancora nell’isola che il popolo delle grandi città e i coloni lombardi delle montagne, si accostassero al baronaggio per odio de’ Musulmani e cupidigia dell’aver loro. Coteste parti che talvolta, com’egli avviene, mutavano sembianze, compariscono chiaramente nelle tragedie di Guglielmo il Malo; nelle commedie delle quali fu spettatore il Buono; anzi l’azione è da riferirsi a loro più tosto che ai personaggi aulici, descritti dalla mano maestra del Falcando, con le bellezze e la imperfezione dell’arte antica.

Al di fuori, la monarchia siciliana si travagliava contro i soliti tre nemici; con questo avvantaggio che tutti non si poteano collegare, nè pur durava a lungo l’accordo tra due. Il papa, incorreggibile, colse immantinenti l’occasione del nuovo regno, per ritentare l’Italia meridionale. Federigo Barbarossa ambì anch’egli quelle estreme province; richiese le forze navali a Genova ed a Pisa, nemiche del regno per gare di mercatanti; ma nulla ei conchiuse. I Bizantini all’incontro aveano in punto ogni cosa per assaltare la Puglia. Da lungi, gli Almohadi minacciavano gli acquisti d’Affrica. E rompeasi di presente la guerra contro i Fatimiti d’Egitto, non sappiamo appunto l’anno nè il perchè; dopo la morte di Ruggiero, credo io, e per cagion di commercio; potendo supporsi che i Pisani, ben visti allora a corte del [466] Cairo, avessero fatto disdire i privilegi stipulati poc’anzi con la Corona di Sicilia.[279]

Guglielmo era indolente, feroce, superbo, avaro. Majone da Bari, promosso dal padre ai maggiori ufizi pubblici, fatto ammiraglio alla esaltazione del nuovo re, non torna nè quel valente e savio statista che dice l’Arcivescovo di Salerno, nè quel forsennato malfattore che vuole il Falcando. Parmi si personificasse in costui la corte con tutti i suoi vizii: e la testimonianza non sospetta de’ Musulmani ci assicura che la voce pubblica attribuì alla malvagità sua e del re tutti gli sconvolgimenti che inaugurarono il regno.[280] Divampò la ribellione feudale in Terraferma (1155); s’apprese in Sicilia; il re in persona domolla quivi con le armi e con la clemenza; la represse con immanità (1156) in Calabria e in Puglia, dov’era aggravata dall’invasione de’ Bizantini, dall’aggressione del papa e dalle mene del Barbarossa. E furono scacciati i Bizantini; poi sconfitti di nuovo in grande battaglia navale[281] a Negroponto (estate [467] del 1157): dopo la quale Guglielmo fermò la pace col Comneno (1158). Aveala già ottenuta dal papa in grazia delle sue vittorie (luglio 1156). E pria l’armata, di giumadi secondo del cinquecencinquanta (agosto 1155) avea dato il guasto a Damiata, Tennis, Rosetta, Alessandria e riportatone gran preda d’oro, argento e vesti preziose.[282] In quel torno i Masmudi, dice una Cronica, saccheggiarono il castel di Pozzuoli; ma sopraccorse le navi regie, furono presi e tagliati a pezzi.[283] Così le armi di Guglielmo trionfarono per ogni luogo. Nè par ch’egli abbia [468] gittato via il danaro con che volle tagliare i passi a Federigo, che veniva a incoronarsi in Roma. Narra Ottone di Frisingen che nel tumulto surto il dì stesso dell’incoronamento (18 giugno 1155) i soldati imperiali dando addosso ai Romani, gridavano: «Prendete questo ferro tedesco in cambio dell’oro arabico! Questa mancia vi dà il Signor vostro. Ed ecco come i Franchi accattan l’impero!»[284] S’io ben m’appongo, l’oro arabico che i soldati imperiali maledicean tanto e lo cercavano sì avidamente nelle tasche dei Romani, erano i tarì d’oro coniati da’ principi di Sicilia di quel tempo con leggende arabiche: bella e comoda moneta comunissima allora nell’Italia meridionale. Il fatto è che, tra il movimento di Roma, la scarsezza delle vittuaglie e la morìa, l’esercito imperiale, anzi che calare in Puglia, fu costretto a ritornare frettoloso in Germania.

Mentre Guglielmo per tal modo si assodava sul trono, perdette i conquisti del padre in Affrica. Comparvero immediatamente in quelle province gli effetti del mal governo: i presidii cristiani cominciarono ad aggravare i Musulmani. Vivea da otto anni in Palermo Abu-l-Hasan-Hosein-el-Forriâni dotto e religioso sceikh di Sfax, del quale abbiam detto[285] che [469] designato a governar la sua terra per lo re di Sicilia, avea chiesto lo scambio in persona del figliuolo Omar, e si era dato statico egli stesso in man de’ Cristiani. Ei sapeva il figlio uom di grande animo e risoluto. Nel partire di Sfax per la Sicilia, «Vedi, io son vecchio, gli disse; io m’avvicino alla tomba: questo fiato di vita che m’avanza, lo vo’ consacrar tutto ai Musulmani. Quando ti si offra il destro, sorgi tu contro il nemico cristiano; distruggilo senza badare ad altro; e fa conto ch’io sia già morto.» Risaputi i soprusi de’ Cristiani a Sfax, viste da presso le cose in Palermo, il Forriâni scrive al figliuolo che l’ora è suonata; che si affidi in Dio e rivendichi i diritti dei Musulmani.

Omar convocava una notte i cittadini; esortavali a pigliar l’arme: ch’altri si mettesse a guardia delle mura, altri corresse alle case de’ Franchi e di tutti i Cristiani e sì li trucidassero. «E lo sceikh, domandarongli, il signor nostro e padre tuo, che sarà di lui?» — «Egli stesso me l’ha comandato, rispose Omar. Se cadranno insieme con lo sceikh mille e mille cristiani, ei no, non morrà.»[286] Levandosi il sole, era consumata la strage, dalla quale nessun cristiano campò. Era il primo giorno dell’anno cinquecencinquantuno dell’egira (25 febb. 1156).

Risaputo il caso in Palermo, il re chiamava il Forriâni; gli intimava di scrivere ad Omar che ritornasse all’obbedienza, se volea salvar la vita al padre. Il vecchio rispose tranquillamente: «Chi è corso [470] tant’oltre non tornerà addietro per forza d’una lettera.» E fu chiuso in prigione coi ceppi ai piè; e mandato a’ ribelli un messaggio con minacce e promesse. Il quale arrivato a Sfax, non gli permessero di sbarcare quel dì. Venuta la dimane, dalla nave ei sentì gran clamore in città; vide aprir la porta di mare e uscirne la gente in processione, salmeggiando: «Iddio è grande. Non v’ha dio che il Dio; Maometto è l’apostol suo:» e recavan sulle spalle una bara. La messer giù; Omar si fece innanzi; recitò la preghiera; fe’ sotterrar la bara: e tutti gli furono attorno, com’era uso ne’ funerali, poi dileguaronsi a poco a poco. Instando l’ambasciatore presso le guardie perchè lo conducessero ad Omar, dissergli: «Lo sceikh è occupato nella cerimonia del duolo, sendo stato sepolto poc’anzi il padre, quel desso di Sicilia. Riferisci ciò ch’hai veduto e non occorre altra risposta.» Nè tardò guari in Palermo il supplizio dell’Attilio Regolo musulmano. Alzaron la forca su le sponde del Wadi-’Abbâs, come s’addimandava l’Oreto appo i Musulmani, e torna appunto alla pianura di Sant’Erasmo, or tutta ingombra di fabbriche e di giardini, nella quale un tempo si eseguivano le sentenze capitali e fuvvi acceso nel secol decimottavo l’ultimo rogo dell’Inquisizione. Malmenato da’ carnefici, strascinato al patibolo, Abu-l-Hasan recitava impavido e posato il Corano; e con le sacre parole in bocca morì.[287]

All’esempio di Sfax sollevaronsi le popolazioni [471] delle Gerbe e di Kerkeni, dissanguate com’elle erano.[288] Tripoli tardò alquanto; sia che il presidio sapesse guardarsi meglio, sia che le due fazioni da noi già citate mal si potessero accordare insieme. Si trattò dapprima un caso legale. Per comando, com’egli è verosimile, della corte di Palermo, il capitano del presidio volea che da’ pulpiti delle moschee fosse recitato un sermone contro gli Almohadi, eretici, usurpatori, e quel ch’era peggio, possenti, vicini, e sospetti di pratiche in Tripoli. Rispondeano i cittadini che, secondo la capitolazione, nessun potea costringerli a cosa contraria all’islâm; e che tal sarebbe stato il detrarre pubblicamente ad altri Musulmani, fosser pure di rito diverso. Il giureconsulto che tenea la magistratura[289] allegò coteste ragioni al capitano; e conchiuse che s’ei non fosse persuaso, il popolo di Tripoli gli lascerebbe la città e andrebbe con Dio. Il Siciliano accettò, buona o trista, la scusa e stette in guardia; i Musulmani passaron dalle parole ai fatti. Fu il governator della terra, Jehia-ibn-Matrûh, quel desso che ordì coi notabili del paese la congiura di dar addosso al presidio, una notte di luna piena, per attirarli fuor della fortezza e avvilupparli in lor trappole. Venuta l’ora, congegnano per le strade legname e funi e levan quindi il romore. I soldati del presidio prendono incontanente le armi, montano in sella e spronano addosso alla turba: quand’ecco i cavalli incespano, s’avviluppano; [472] i cavalieri son presi senza potersi difendere. Così del cinquantatrè (2 febb. 1158 a 22 genn. 1159) la città di Tripoli scosse il giogo e rimasene capo lo stesso Jehia-ibn-Matrûh.[290] Come a Sfax ed a Tripoli, così anco a Kâbes rivoltavasi il governatore del re di Sicilia, per nome Mohammed-ibn-Rescîd.[291] Gli Almohadi intanto, occupata Bona, stendeansi verso levante fin presso Tunis.[292] Rimanea soltanto alla corona di Sicilia la città di Mehdia, col borgo di Zawila e con Susa.[293]

Nel primo impeto della riscossa, Oraar-el-Forriâni avea mandata gente a sollevare Zawila, sì che i Cristiani fossero minacciati nel centro delle forze loro. Gli Arabi del vicinato eran pronti a correre ad ogni odor di preda; de’ Cristiani in Zawila par vivessero pochi o nessuno. Agevol cosa fu dunque a gridar nel borgo “morte ai Rûm” e tentare un colpo a Mehdia stessa, nel mese di scewâl del cinquantuno (17 novembre a 15 dicembre 1156). Il qual colpo ancorchè fosse fallito, i sollevati con l’aiuto di que’ di Sfax e d’altre terre e anco degli Arabi, si mantennero in Zawila, intercettando dalla parte di [473] terra le vittuaglie alla fortezza. Guglielmo inviò allora venti galee con rinforzo d’uomini, armi e provigioni; onde si ripigliò l’offensiva. Dicono i Musulmani che il capitan di Sicilia corruppe gli Arabi e che uscito il presidio a combattere, essi presero la fuga, lasciando nella mischia quei di Zawila e di Sfax. Che che ne sia, furono i Musulmani circondati e rotti con molto sangue. Que’ di Sfax fuggirono a’ legni che avean pronti alla spiaggia, onde ne campò di molti; ma gli uomini di Zawila stessa non trovaron asilo nel borgo, del quale furon chiuse le porte. Cadder essi lì combattendo; mentre i vecchi, le donne, i fanciulli cercavano di salvarsi, qual per mare, qual per terra, come ciascun potea. Ma non bastò il tempo a tutti. I vincitori, superato ch’ebbero il debil muro, non perdonarono a sesso nè ad età; rapirono o distrussero ogni cosa. Avvenne cotesto strazio il cinquantadue (13 febbraio 1157 a 1 febbraio 1158). Par che la penisola da Mehdia a Susa e forse più a ponente verso il Capo Bon, sia tornata allora in poter di Guglielmo; poichè gli annalisti musulmani dicono che i Siciliani stetter saldi in Mehdia d’allora infino all’assedio d’Abd-el-Mumen;[294] e Roberto dal Monte scrive che il millecentocinquantasette presa dall’armata di Guglielmo Sibilla, capitale dell’isola di Gerx, il re vi fece stanziare i Cristiani [474] e lor prepose un arcivescovo.[295] Parrebbe da questo cenno che fossero stati accolti in quel territorio, e principalmente in Zawila, gli abitatori cristiani che la ribellione avea cacciati dalla costiera di levante, e la dominazione almohade da quella di ponente. S’ignora in vero il nome dell’arcivescovo, e se il cronista riferisca esattamente la dignità: ma non mi sembra punto inverosimile che la corte di Palermo abbia voluto nominare un metropolitano nelle sue possessioni d’Affrica; la quale dignità e le contese che nascer ne doveano tra il re e il papa, siansi dileguate insieme con la dominazione siciliana in quelle parti.[296]

[475]

Gli Almohadi in questo tempo non si erano risentiti, attendendo Abd-el-Mumen a mutar la costituzione dello Stato; farsi, di capo elettivo dell’aristocrazia masmuda, monarca assoluto ed ereditario, egli straniero alla tribù; togliere i governi delle province ai capi masmudi e affidarli a’ proprii figliuoli. Il colpo gli venne fatto di queto, senza immediato spargimento di sangue.[297] Nè era ch’ei non pensasse all’Affrica propria. Ricettò nella sua corte Hasan, il signor di Mehdia; per dieci anni potè ragionare con lui delle condizioni di que’ paesi; e narrasi che quando i miseri sopravissuti al caso di Zawila andarono a Marocco a chiedergli vendetta, ei li sovvenne di danari, li ascoltò con gli occhi pieni di lagrime, tacque un pezzo e poi, levando il capo, «Fate cuore, lor disse, io vi aiuterò; ma convien aspettare.» Ordinato intanto l’impero sì com’ei volle, si apparecchiò per tre anni alla guerra, grossa e lontana, ch’era necessaria a cacciare non solamente i Cristiani di Mehdia, ma a domare tutti que’ regoli o capi Berberi, quelle tribù d’Arabi ladroni che da un secolo [476] e più viveano senza alcun freno tra Tunis e Barca. Dei quali preparamenti gli annalisti ci danno molti particolari, cavati com’e’ pare da Ibn-Sceddâd, il quale si trovò (1159) al campo almohade sotto Mehdia ed era stato tre anni innanzi in Palermo.[298]

Ci narrano dunque che Abd-el-Mumen fece far numero infinito di grandi sacca di cuoio per l’acqua e di otri e di truogoli; fece scavar pozzi lungo il cammino disegnato per l’esercito; che d’ordine suo per tre anni furono in quelle province segate le messi senza trebbiare e ammontati i covoni e ricoperti di creta, che parean tante colline; che fu messa insieme, tra Spagna ed Affrica, un’armata di settanta galee, senza contar le teride nè le salandre, e affidata a Mohammed-ibn-Abd-el-Azîz-ibn-Meimûn, di quella celebre casa di guerrieri di mare, scrisse Ibn-Sceddâd;[299] che noveravansi nell’esercito centomila combattenti e altrettanti saccardi; che nella marcia, passando pe’ luoghi cólti, nessun osava coglier pure una spiga di grano; e che facendo la preghiera sotto l’imâm, tutti intonavano l’”Akbar Allah” come un sol uomo. Cotesti racconti provano la maraviglia che recò nell’Affrica propria quello spettacol nuovo d’un’oste immensa, disciplinata e ben provveduta. [477] La vanguardia mosse di Marocco allo scorcio del cinquecencinquantatrè (gennaio 1159): e nel sefer del cinquantaquattro (22 febbraio a 22 marzo dello stesso anno) era passato quasi tutto l’esercito.[300]

Abd-el-Mumen prima assalì Tunis (mag. 1159); dove trovando resistenza e non essendogli pur giunte le forze navali, andò a Kairewân ed a Susa, entrò in Sfax; poi ritornò sotto Tunis (13 luglio), dielle un assalto che la sforzò ad arrendersi: e quindi perdonò a tutti la vita, cacciò Ahmed-ibn-Abi-Khorasân, lasciò l’avere a pochissimi cittadini, agli altri tolse la metà de’ beni mobili o stabili; a’ Giudei ed a’ Cristiani diè la eletta tra l’islamismo e la morte: e chi non rinnegò fu trucidato. Quel terribil nembo dopo tre giorni piombò sopra Mehdia: la quale fu stretta per mare e per terra.[301]

Sgomberata Zawila all’appressar di tant’oste, i Cristiani si chiusero nella fortezza, con alquanti Musulmani, com’ei pare, leggendosi che vi fosse il principe zirita Jehia-ibn-Hasan-ibn-Tamîm.[302] Militava nel presidio la più eletta gioventù del regno, per nobiltà e valore;[303] sommavano i combattenti a [478] tremila, secondo un compilatore che mi par bene informato.[304] Del sito e fortezza di Mehdia abbiam detto altrove: grossissime le mura da potervi correr due cavalli di fronte e altri scrisse anco sei; accessibile dalla parte di terra per una porta sola e un istmo stretto e ben munito; formidabile dalla parte di mare per le difese e per la prontezza all’offendere, poichè niun di fuori vedea le galee surte nell’arsenale che belle e armate usciano improvvisamente dalla bocca del porto.[305] Spaventevole all’incontro il numero degli assedianti. Al primo arrivo, Zawila deserta divenne come una gran capitale, scrivono maravigliati i Musulmani; pur non bastò a tutti i soldati, ribaldi e mercatanti, e fu forza che parte s’attendassero di fuori: poi trasservi anco Arabi de’ dintorni e Berberi della tribù di Sanhagia, ai quali Abd-el-Mumen non potea vietar di combattere la guerra sacra. Furono piantati i mangani e le ’arrâde;[306] a muta a muta i Musulmani davano l’assalto dì e [479] notte: ma gli assediati se ne rideano; anzi con frequenti sortite batteano aspramente i nemici; sì che Abd-el-Mumen per difesa de’ suoi, fe’ tirare un muro a ponente della città:[307] e stava egli tutto il dì al campo, sotto una tenda, dormiva la notte in un palagio di Zawila.[308] Montata poi una galea con quell’Hasan ch’era stato signor della città, fecero il giro della fortezza; guardarono; discorsero e si persuasero che non vi era modo a dar la battaglia. “Or come fu che l’abbandonasti al nemico?” sclamò Abd-el-Mumen: ed Hasan “Mancavano le vittuaglie, io non avea di chi fidarmi: e poi così volle il destino!” “Ben dici,” replicò Abd-el-Mumen. Smesso il pensiero d’un assalto per mare, ordinò il blocco; dispose l’esercito a svernare a Zawila; onde, fattovi trasportare tutto il grano e l’orzo che si potè, ne fecero due masse tanto alte, che gli scrittori tornano al facile paragon delle colline, dicendo che quanti non avevan visto il campo da parecchi giorni, domandavano come fossero venuti su que’ due monticelli. Nè bastaron questi a prevenire il caro del vitto; onde s’arrivò a vendere sette fave per un dirhem mumenino, che tornava a mezzo dirhem legale, e però a trenta centesimi della nostra lira.[309] Ma il presidio era minacciato di pretta fame. Si argomenta dalle narrazioni musulmane che l’armata almohade avesse già chiuso il mare del tutto: onde ormai la sorte della fortezza dipendea da una battaglia navale.

[480]

L’armata siciliana il millecencinquantasei avea cooperato possentemente a cacciare i Bizantini dalle costiere di Puglia. Nel cinquantasette, capitanata da Stefano fratel di Majone, essa avea prese cittadi e fortezze in Romania, desolate province e distrutta quasi del tutto a Negroponto l’armata greca: vittoria assai più gloriosa che niun’altra di Giorgio d’Antiochia. Perchè non mandarono immediatamente quest’armata a Mehdia con lo stesso Stefano? Era ita, in vece, alle Baleari; condotta da un eunuco Pietro, forse per intercettare le navi dei Beni-Meimun; ma altro non avea fatto che dare il guasto all’isola di Ivisa. Avea pieni gli scafi di prigioni e di preda, quando un ordine del re chiamolla a soccorrere Mehdia.[310]

Dove il lunedì ventidue di scia’bân (8 settembre) comparvero in lunghissima fila cencinquanta galee siciliane, oltre le teride e altri legni:[311] accennaron poi ad entrare nel porto: sì che alcune galee calavan le vele, ed una degli assediati uscì loro all’incontro. Le settanta galee almohadi, se non eran tirate a terra, come dice il Falcando, sorgeano in luogo sicuro e di certo non presentavan battaglia. Sospettando forse uno sbarco fuori la fortezza, Abd-el-Mumen schierò tutto l’esercito su la spiaggia: e stava a guardar le mosse del nemico, quando Ibn-Meimun viene in fretta; gli mostra le galee siciliane che s’avanzano sparpagliate per cagion del vento;[312] [481] dice potersi tentar la battaglia, non ostante il disavvantaggio del numero. Abd-el-Mumen non rispose. Il marinaio spagnuolo, prendendo quel silenzio per assentimento, corre alle navi; fa montare le ciurme; esce e dà di fianco nella fila del nemico. Spezzatala, ricaccia nel porto di Mehdia le galee più vicine a terra; volta le prore contro le altre; le quali combattono un poco, poi, sbigottite le ciurme, dicono i Musulmani, dalla immensa moltitudine d’armati che vedeano a terra, prendono il largo, spiegan le vele: il navilio musulmano che non ne avea, rimase addietro nella caccia; talchè ghermite sette galee siciliane fu costretto a tornare. Abd-el-Mumen fin dal principio della battaglia, prostrato a terra, si spargea polvere sul capo, fervorosamente pregava: “Grande Iddio, non fiaccar tu i sostegni dell’islam.” Così Ibn-Sceddâd, ch’era presente. Gli scrittori musulmani che attinser in parte da lui, narrano questa giornata con poco divario l’un dall’altro. De’ cristiani, il Falcando afferma a dirittura che l’eunuco Pietro per tradimento, fuggì senza combattere, e Romualdo salernitano scrive ch’ei pugnò, fu vinto e perdette molte galee. Ma pochi anni appresso veggiamo Romualdo compagno o complice dell’eunuco Pietro nelle fazioni di corte.

Con aulica serenità, prosegue l’arcivescovo a dir che il presidio, scarseggiando di vittuaglie e non avendo speranza di soccorsi, fe’ pace coi Masmudi; lasciò loro la città e tornò in Sicilia, ciascuno con la sua roba. Il Falcando, all’incontro, rincalza le accuse in quest’ultimo tempo dell’assedio: che gli eunuchi [482] della corte assicuravano per lettere Abd-el-Mumen non si manderebbero aiuti; ch’egli offerì ai Cristiani di prenderli a’ suoi soldi o rinviarli in Sicilia; che stretti dalla fame promessero di lasciare la fortezza se chiesto soccorso l’ultima volta non l’ottenessero entro pochi dì; e che giunto il messaggio loro a corte, Majone diè ad intendere al re non mancar punto le vittuaglie in Mehdia; onde que’ prodi alfine, delusi e affamati, la consegnarono al nemico. Non parmi punto verosimile quell’ultimo messaggio in Sicilia. Al dir degli scrittori musulmani, quando il presidio ebbe mangiati tutti i cavalli e stava per morir di fame, che fu in su la fine di dsu-l-higgia (primi di gennaio), dieci gentiluomini scesero dalla fortezza a domandar salva la vita, la roba e la libertà. Rispondendo loro Abd-el-Mumen che più tosto abiurassero, replicarono: non esser venuti per questo, ma per implorare la magnanimità sua; che nulla aggiugnerebbe alla sua gloria il far perire di fame tanti cavalieri; che al contrario, s’ei li rimandasse alle case loro, gli sarebbero obbligati per tutta la vita. Andaron e ritornarono più d’una volta, finchè il monarca almohade, ammirando la fortezza dell’animo loro, il signorile sembiante e le oneste parole, o temendo, com’altri dice, che re Guglielmo non si vendicasse della morte loro sopra i Musulmani di Sicilia, accettò la resa e fece traghettare con navi tutto il presidio in Sicilia. Entravano i Musulmani nella fortezza la mattina del dieci di moharrem del cinquecencinquantacinque (21 gennaio 1160). Aggiungono gli scrittori arabi, ma il silenzio del [483] Falcando mi distoglie dal crederlo, che la più parte dei reduci periva per naufragio. Intanto aveano gli Almohadi ridotte altre terre dell’Affrica settentrionale; sì che l’impero di Abd-el-Mumen si misurò da Sus dell’Oceano infino a Barca; da’ confini settentrionali dell’Andalusia alle estremità meridionali del Sahra.[313]

La cronologia, trascurata pur troppo da’ due cronisti di Guglielmo, ci mostra che il caso di Mehdia rinfocò le ire nel regno. Già da parecchi anni la parte feudale, per onestar la rivoluzione, movea di strane accuse contro Majone: ch’egli ambisse il trono, attentasse alla vita di Guglielmo, lo spingesse agli atti più crudeli per farlo comparire tiranno: or aggiunsero, [484] troppo sottilmente, che avesse fatta cader Mehdia a bella posta per gittar novello odio sopra il re.[314] Ma non mancavano forti sospetti contro la corte tutta quanta: la connivenza degli eunuchi co’ Musulmani e di Majone con gli eunuchi; la nimistà del ministro e del re contro i nobili, che tanti ve n’era in Mehdia; e la voglia di liberar l’erario di quella dispendiosa e disutile dominazione.[315] Perchè non avean arso l’eunuco Pietro come Filippo di Mehdia?[316] Perchè non aveano rimandato il navilio in Affrica con un ammiraglio, uomo e cristiano, che sapesse vendicar la bandiera di Sicilia e liberar dalla fame il presidio? I cronisti scrivon poco o nulla di tai querele e notan secco il grave fatto che, il medesim’anno sessanta, Majone avea disarmati i Musulmani di Palermo.[317] Di che non ci si dice la cagione: se per punire i soldati musulmani dell’armata che fuggì nelle acque di Mehdia, o per reprimere la baldanza mostrata dopo le vittorie di Abd-el-Mumen, o per pratiche scoperte, o per querele dei Cristiani sbigottiti e umiliati. Di certo Abd-el-Mumen in quella stagione riordinava la costiera d’Affrica in guisa da dar molto pensiero ai vicini.

Pochi mesi eran corsi dalla dedizione di Mehdia e già, in Terraferma, città e baroni facean la giura [485] che non si ubbidisse più a comandi sottoscritti da Majone: nè andò guari ch’egli stesso cadde una notte (10 novembre 1160) presso le case dell’arcivescovo di Palermo, intrattenuto a bella posta dal reo prelato che gli s’era giurato fratello, trafitto da Matteo Bonello, nobil giovane, creatura sua, confidente e satellite, il quale infingendosi più fedele che mai, tramava coi baroni malcontenti; e dopo il misfatto divenne l’eroe popolare di Palermo e di tutto il reame. E Guglielmo dapprima l’ebbe a ringraziare che gli avesse morto il primo ministro. Dissipato lo spavento, la combriccola dei prelati e degl’eunuchi di corte, incominciò a minacciare Matteo: indi parve ai malcontenti di affrettare il gran colpo, ch’era, deporre il re, esaltare il fanciullo Ruggiero suo figliuolo e regnar essi.

Non riuscì della congiura se non che l’esordio. Principi del sangue legittimi e bastardi e baroni e cavalieri, ai quali diè mano un capitan di guardie e prestaron forza soldati mercenari e uomini della plebe, presero Guglielmo nelle stanze del consiglio; si spartirono i tesori accumulati dal gran Ruggiero e le donne dell’harem; saccheggiarono la reggia; (9 marzo 1161) condussero per le strade della città il successore designato.[318] Non versarono i congiurati altro sangue che di Musulmani: e ciò mostra quali fossero i loro principali nemici. Quanti eunuchi trovarono, li messero a morte nella reggia e fuori, mentre andavano a nascondersi a casa gli amici; ucciser anco i Musulmani che stavano negli ufizi a riscuotere [486] le gabelle, o ne’ fondachi a vendere lor merci; e spogliarono i cadaveri. Al qual romore i Musulmani del Cassaro, ch’era il quartiere più ricco della città, si ridussero nel borgo occidentale, asserragliarono le viuzze che vi mettean capo, e così, sprovveduti pur d’armi, fecero testa agli assalitori. Non picciol numero di Musulmani perì in questa sedizione.[319] Tra gli altri, il poeta Jehia-ibn-Tifasci, oriundo di Kafsa, cittadino di Kâbes, il quale forse, spazzate ch’ebbe Abd-el-Mumen le piccole corti d’Affrica, era venuto a tentar la fortuna in quella di Palermo.[320] Possiam supporre che fosse andato via dopo quell’eccidio l’Edrîsi, il quale era rimaso dapprima a corte di Guglielmo; poichè sappiamo da un contemporaneo ch’egli avea dedicata al nuovo re una edizione ampliata del Nozhat, la quale non è pervenuta infino a noi.[321]

Matteo Bonello era assente; tra i congiurati entrò subito la discordia; il popolo di Palermo che avea guardata la scena curioso e perplesso aspettando che vi comparisse Matteo, cominciò a mormorare che non si potea lasciar lo Stato a un’accozzaglia di facinorosi, buoni a saccheggiare il palazzo, scannare gli inermi e nulla più. I prelati ch’aveano tentennato [487] e i più erano stati quatti, presero animo a questo, eccitarono il popolo a liberar il re: dai pochi, dice il Falcando, passò la voce alla moltitudine; come al comando di capitano audacissimo, come sospinti da una voce del Cielo, corsero alle armi: che ci par leggere i principii stessi di tutti i tumulti di Palermo, dal Vespro siciliano infino ai nostri dì. Il popolo circonda la reggia; e i congiurati, non bastando a difender quel vasto ricinto di mura, patteggiano col re, vanno via perdonati ed ei riman padrone (11 marzo); concede nuove franchige ai Palermitani; si assicura col navilio chiamato da Messina e con le forze che vengono a lui spontanee da varie parti dell’isola; e rimette su la sconquassata macchina del governo. Uscì allora in persona a combattere i baroni chiaritisi ribelli nella Sicilia orientale; li vinse (estate del 1161); e domò con pari fortuna e crudeltà maggiore i moti delle province di Terraferma (1162). Fece poi prendere a tradimento Bonello, accecarlo e sgarettarlo. Una seconda sollevazione tentata in palagio, finì con la morte di tutti i congiurati (1173). Come ognun vede, le città maggiori dell’isola teneano pel re contro i baroni, che lor pareano tiranni assai più molesti.[322]

Parteggiarono al contrario pei baroni ribelli le popolazioni lombarde, delle quali abbiam già notati gli umori e ordini municipali. La causa del divario mi sembra questa, che nella regione lombarda i comuni eran frammisti a feudatarii della stessa origine; onde l’umor della schiatta prevalea sopra quello del ceto; ed anco l’interesse, sendo negli uni come [488] negli altri contrario a’ diritti degli antichi abitatori che la corte sempre difendea. E sappiamo dal Falcando che Ruggiero Schiavo, un de’ capi ribelli, tirate a sè Piazza, Butera e “altre terre di Lombardi” lor diè, gratissimo premio, il sangue, ed io correggo, la roba, de’ Musulmani; i quali, al dir di Falcando, in quelle regioni abitavano alcune terre insieme coi Cristiani e parte soggiornavano soli in lor case rurali. I Lombardi dando addosso improvvisi a quelle popolazioni agricole (primavera del 1161), ne uccisero moltitudine innumerevole; non perdonarono ad età nè a sesso. Camparono pochi dalla strage, chi fuggendo per boschi e monti, chi sgusciando travestito da cristiano; e ripararono nelle castella della Sicilia meridionale abitate da’ correligionarii loro: dove soggiornavano ancora quando scrisse il Falcando (1188), e tanta paura aveano del nome lombardo, che non solo non voleano ritornare alle case loro, ma non c’era modo di farli passar dal contado.[323]

L’odio di religione sopito per due o tre generazioni, ridesto dalle guerre civili, operava poi, come cieco e furibondo ch’egli è, senza distinguer parte, nè interessi. Militando nell’esercito di Guglielmo Cristiani e Musulmani, surse tra loro sanguinosissima zuffa, mentre insieme distruggeano la città di Piazza, nè valse a raffrenarli la voce de’ capitani, [489] nè il comando del re, pria che cadessero uccise centinaia di Musulmani.[324] Tornati su intanto gli eunuchi, incominciò la reazione musulmana. Un gaito Martino, rimaso al governo della reggia e della capitale mentre il re osteggiava i ribelli, si messe a vendicare sopra i veri o supposti rei di maestà, un fratello suo ucciso dai congiurati: faceva accusar questo e quello; facea sostener l’accusa da accoltellatori ne’ giudizii di Dio e da testimonii infami ne’ giudizii secondo legge romana; e i condannati erano impiccati per la gola, straziati di battiture, al cospetto dei Saraceni che se ne facean beffe, scrive il Falcando.[325] Il gaito Pietro, quello stesso eunuco, traditore dell’armata a Mehdia,[326] ritornato a galla dopo la ristorazione di Guglielmo, facea sue vendette per man di un carceriere o boja cristiano, reo di mille turpitudini, cagnotto e mezzano dei Musulmani. S’egli è da credere senza limite all’onesta ira del Falcando, tutti i magistrati dello Stato, giustizieri, camerarii, stratigoti, catapani, creati dalla fazione de’ paggi di corte, servivano a quella ed alle proprie passioni, taglieggiavano ed opprimevano a man salva.[327]

La morte intanto di Abd-el-Mumen, (26 maggio 1163), la quale sciolse da gran timore i Cristiani di Spagna,[328] par abbia desta a speranze la corte di [490] Palermo, o datole animo ad una dimostrazione contro gli Almohadi: con che i prelati della corte pare abbian voluto ostentare zelo per la religione e la patria; nè gli eunuchi, Pietro sopra tutti, poteano senza scortesia ricusar loro questo bel giuoco. Perchè leggiamo negli annali musulmani d’Occidente, che il cinquecencinquattotto (10 dic. 1162, 29 nov. 1163) i Rûm sbarcati a Mehdia, o credo io a Zawila, recarono spavento e danno; che quindi il navilio improvvisamente piombò sopra Susa, tenuta allora a nome degli Almohadi da un Abd-el-Hakk-ibn-Alennas; che i Cristiani fecero di molti prigioni, ammazzarono gente, distrussero il paese e portarono via in Sicilia il governatore co’ suoi figliuoli, i quali poi furono riscattati; ma Susa non era per anco ripopolata nel decimo quarto secolo.[329]

[491]

Guglielmo, stanco di quel secondo suo sforzo contro i ribelli, aveva abbandonato il governo alle mani dei ministri, non volea più sentir parlare di guai. Rivaleggiando col padre ne’ passatempi soli, ei si messe a fabbricare tal palagio che fosse più splendido e sontuoso di que’ lasciatigli da Ruggiero. Fu murato in brevissimo tempo, con grande spesa, il nuovo palagio e postogli il nome di El-’Aziz, che in bocche italiane diventò “La Zisa” e così diciamo fin oggi.[330] Il qual nome suona “il Glorioso,” sottintendendo palagio o castello; ed è arabico, come le iscrizioni di che rimangono deboli vestigie nella cornice e lunghi squarci nella sala terrena, come i rabeschi, le colonnine, gli ornamenti; anzi come la struttura stessa e com’era forse la più parte degli artefici e quasi tutta la corte, con quella mistura, sì, d’incivilimento cristiano che abbiam notata altrove; la quale mescolanza con l’andar del tempo, riuscì più [492] leggiadra nell’arte che non fosse proficua nel reggimento della cosa pubblica. Circondavano il castello ridenti giardini ed orti, acque correnti e vivai.[331]

Pria che si desse l’ultima mano alla Zisa, morì Guglielmo di quarantasei anni, il quindici maggio millecensessantasei;[332] nelle esequie del quale, che duraron tre dì, trasse immensa folla di cortigiani e cittadini, vestiti di gramaglie; ma tra tutti, nota il Falcando, e ben glielo crediamo, le sole donne musulmane piangeano davvero, mentre vestite di sacco, scarmigliate le chiome, giravano per le strade dietro una brigata di ancelle, mettendo lamenti e rispondendo con flebil canto al suono dei cembali.[333]

[493]

CAPITOLO V.

Singolare fortuna ebbe Guglielmo II a raccogliere della tirannide paterna i frutti buoni, scansare l’odio, e tra la saviezza de’ tutori e la giustizia e mansuetudine dell’animo suo, guadagnar l’amore de’ contemporanei e le lodi dalla storia, in casa e fuori. Sia virtù o vizio del popolo, l’affetto in lui prevale sempre alla ragione; onde i posteri hanno perdonato a Guglielmo il Buono quella debolezza e levità di consiglio che alla sua morte fe’ aprire un abisso: la corte divisa, il reame insanguinato, l’Italia in preda all’impero, nonostante la vittoria di Legnago e la pace di Venezia. Il padre, al contrario, avea fiaccato in ogni modo il baronaggio, nemico massimo dello Stato; mantenuta l’amministrazione di Ruggiero, se non che vi mancava il re, e dopo la morte di Majone anco il primo ministro; poichè fu partita l’autorità tra un vescovo, un segretario ed un gaito, i quali personificavano le sole tre classi di sudditi favoriti a corte.

A que’ medesimi Guglielmo I aveva affidata la tutela del figliuolo; preposta loro la regina Margherita, la navarrese, nè inetta donna, nè debole, amica de’ ministri operosi: onde la dissero amante di Majone, poi di Stefano, e per poco non messero in lista l’eunuco Pietro. La reggenza fece opera, la prima cosa, a rabbonire le classi più offese: creò nuovi conti; die’ in feudo terre e villaggi; condonò debiti; [494] abolì la tassa della “redenzione” che aggravava, com’e’ pare, i ribelli perdonati o i sospetti; concesse franchige ai cittadini; liberò schiavi della corte o del demanio.[334] Guglielmo II, biondo e soave in viso, giovanetto di quattordici anni, ben avviato alle lettere, fu coronato in Palermo tra speranze ch’ei non ismentì giammai volontariamente.

Posando dunque gli umori di ribellione, e perfino di scontento, scoppiò la discordia in corte: e tra le gare delle persone venne fuori l’antagonismo degli indigeni contro gli stranieri. Abbiam noi mostrato fin dal regno di Ruggiero, come la fazione cattolica d’occidente, monastica, francese e papalina, stendesse le trame fino alla corte musulmana di Palermo.[335] La provvedea di avventurieri ecclesiastici, dei quali non solamente veggiamo i nomi tra gli arcivescovi, i vescovi, i grossi prelati e i precettori dei re, ma scopriamo anco il linguaggio ne’ segretarii o copisti; poich’essi, ne’ diplomi, trascriveano il più delle volte i vocaboli arabici conforme alla pronunzia francese.[336] [495] Le mandava anco avventurieri di spada, i quali occorrendo chiappassero qualche feudo.

Un parente, così, della regina Margherita, divenuto conte di Gravina, congiurò insieme con Riccardo Palmer inglese, vescovo eletto di Siracusa, contro l’eunuco Pietro, ch’era primo tra i ministri e forte nel favore della regina, nel seguito de’ cortigiani e de’ pretoriani e nella pratica dell’amministrazione. La briga si riscaldò tanto, che l’eunuco, uomo di poco animo, dice il Falcando, temendo per la propria vita, fuggì dalla corte e dal reame. Munita una buona saettia di marinai, d’armi e d’ogni cosa, e fattovi portar nottetempo gran copia di danaro, Pietro, la sera appresso, montò a cavallo con pochi eunuchi suoi fidati, pretestando di andare ad un nuovo palagio ch’egli avea fatto murare nel quartier della Kemonia;[337] e voltosi al porto, entrato in legno, riparò in Affrica, appo il re de’ Masmudi. Così il Falcando e, con poco divario, l’arcivescovo di Salerno.[338]

Scrive Ibn-Khaldûn che un Ahmed detto il Siciliano, nato nelle Gerbe della famiglia di Sadghiân ch’era ramo della tribù berbera di Seduikisc, preso dall’armata siciliana sulle costiere di quell’isola, educato in Sicilia, entrato al servigio particolare del [496] re e fatto suo intimo, cadde in disgrazia appo il successore per suggestioni de’ suoi rivali; ond’egli, sentendosi in pericolo, fuggiva in Tunis, governata allora da un figliuolo di Abd-el-Mumen e passava indi in Marocco, appo il califo Jûsuf. Dal quale ei fu accolto con grande onoranza, arricchito di doni e preposto all’ordinamento dell’armata. E Ahmed la rese grande e possente, qual non era mai stata, nè fu poi; e con quella segnalossi contro i Cristiani per splendide fazioni e famose vittorie.[339] Ora Jusuf regnò dal millecensessantatrè al centottantaquattro. Al par che il tempo, coincidono le condizioni riferite al gaito Pietro e all’Ahmed Sikilli: l’uno ammiraglio siciliano dinanzi Mehdia e primo ministro alla corte di Palermo, accusato di pratiche con gli Almohadi; l’altro rifuggitosi appo quelli con gran tesoro, accolto a braccia aperte a Tunis e Marocco e immediatamente adoperato nelle cose navali; entrambi schiavi, saliti ad alto grado nella corte di Palermo e cacciati per nimistà di parte. E notisi che a Pietro apponeasi piuttosto tradimento che viltà pel fatto di Mehdia.[340]

[497]

Perduto appena il gaito Pietro o Ahmed Sikilli ch’ei fosse, la combriccola degli indigeni fortuneggiò gravemente, per novella irruzione di avventurieri che la fazione cattolica di Francia e d’Inghilterra mandava al conquisto della corte di Palermo: una trentina d’uomini, capitanati da un bel giovane congiunto della regina, Stefano Des Rotrous,[341] dei conti di Perche (1167). Premeva ai tutori oltramontani del papato che il governo di Sicilia fosse in mani sicure, mentre si decidea la gran lite d’Italia; nella quale il reame di Sicilia, co’ suoi tesori e le sue armi, avrebbe fatta piegare la bilancia, s’e’ si fosse gittato risolutamente alla parte d’Alessandro III, invece di baloccarsi, come fece la corte di Palermo per opera de’ consiglieri indigeni, sospettosi al par dell’imperatore e del papa. Con questa occasione si tentava anco un bel colpo di rimbalzo a pro del Becket, il celebre arcivescovo di Canterbury, il quale avendo attaccata briga col suo signore ed aspettandosene la decisione da Roma, la corte e il clero francese voleano che la corona di Sicilia proteggesse il turbolento arcivescovo appo il papa e i cardinali. Provan ciò le epistole di Pietro da Blois, Giovanni da Salisbury, [498] Luigi VII re di Francia e del Becket stesso; il quale una volta scrisse alla regina Margherita, mandarle a nome suo proprio e del monastero di Cluny, un tale che le avrebbe palesata a voce “la mente di tutta la Chiesa occidentale.”[342] E bastin tai parole a svelare la sètta.

Il nobil giovane, audace e amante della giustizia, venne in Sicilia in compagnia d’uomini dotti, di satelliti valorosi ed anco di faccendieri affamati: accolto dalla regina come parente e campione e dicono più di questo; creato immantinente gran cancelliere del regno e non guari dopo arcivescovo di Palermo, con grande allegrezza del papa. Stefano si messe incontanente a ripulire i tribunali e gli ufizii pubblici, dove lo esercitato comando avea lasciate di molte sozzure. La giustizia allora diede occasioni e pretesti di vendetta contro i paggi e lor fautori, tanto più che, con le leggi giuste, si adoperaron anco le inique, condannando per apostasia, a sollecitazione de’ Cristiani di Palermo, parecchi Musulmani accusati di mentir la fede.[343] L’esempio di quegli sventurati [499] incoraggiò la cittadinanza a domandare il supplizio d’uno scellerato protetto a corte, Roberto di Calatabiano, incolpato di brutti eccessi e, tra quelli, d’avere ristorata una moschea nel Castello a mare e di tener bettole, dove fanciulle e giovanetti cristiani erano prostituiti a’ Musulmani. Poco mancò che per cagion di costui non si sfasciasse tutta la macchina del Becket; poichè i paggi s’eran gittati a’ pie’ della regina, scongiurandola non abbandonasse il fedel servidore ed ella avea resistito per la prima volta a Stefano e vietatogli di procedere. Il giovane di buona scuola, smesse allora le accuse capitali appartenenti alla giurisdizione laica; indossò i panni arcivescovili e tirò innanzi per le materie che la Chiesa avocava a sè nella confusione del medio evo. Adunata pubblicamente, con gran rumore, la curia ecclesiastica, Roberto fu convinto di spergiuro, incesto, adulterio e condannato alle verghe, al carcere ed alla confiscazione de’ beni; ond’ei morì negli stessi ergastoli dove solea tormentare altrui. Esempii di giustizia non meno strepitosi die’ Stefano a Messina: per ogni luogo ei soddisfece a’ clamori del popolo e ne cattò il favore. Benedivanlo i Lombardi di Randazzo, Vicari, Capizzi, Nicosia, Maniaci e d’altre castella di montagna; e poco appresso, quando fu uopo, gli offriano ventimila uomini in arme, per combattere le città e i baroni sollevati contro di lui.

Perchè i cortigiani, acquattatisi ai primi romori di giustizia, aveano cominciato pian piano a malignare, [500] calunniare, mormorare contro l’insolenza straniera, contro la rapacità dei famigliari, contro gli aggravii de’ cavalieri francesi, ai quali Stefano concedea qualche feudo per attirarli in Sicilia e ingrossar le schiere sue fidate, necessarie ogni dì più che l’altro a mantenergli il comando. Sospettavasi che il vicecancelliere Matteo d’Ajello, l’eunuco Riccardo e Gentile, vescovo di Girgenti, praticassero di farlo uccidere da sicarii; e più certo è che parecchi baroni di Terraferma, mettendo su un Arrigo fratello della regina, concertarono contro Stefano drammi parlamentarii, prepararono armi feudali, suscitarono sedizioni di plebe in Messina. Già, tra gli errori de’ Francesi e le arti degli indigeni, l’aura popolare per ogni luogo avea girato contro il Cancelliere. Ond’egli, ritornato in Palermo (marzo 1168), s’apprestava alla guerra civile, quando fu messo giù con un colpo di mano.

Al quale ajutarono i Musulmani. Scrive il Falcando[344] ch’essi, ne’ primi tempi, amarono il Cancelliere; nei primissimi forse, quando non s’era incominciato a lavorare co’ giudizii d’apostasia. Ed Abu-l-Kâsim, nobilissimo e potentissimo uomo, del quale or ora diremo più largamente, fattosi amico del Cancelliere, continua il Falcando, e presentatolo di molti doni, s’era poi dato a suscitare i Musulmani contr’esso, tenendosi ingiuriato perchè Stefano usava familiarmente con un gaito Sedicto (Siddîk?) musulmano ricchissimo, privato nemico d’Abu-l-Kâsim. Il Falcando ripete qui, come ognun vede, le parole di Stefano [501] o de’ suoi satelliti e scorda le principali cagioni, dico le persecuzioni religiose e le usurpazioni de’ feudatarii francesi sopra i vassalli.[345]

Tra queste disposizioni de’ Siciliani d’ogni origine e religione, Matteo e il gaito Riccardo, l’un prigione, l’altro confinato in palagio, tentarono di rapire o uccidere il primo ministro, proprio sotto gli occhi della regina e del re. Adoperarono i servi e gli arcieri stanziali della reggia, i quali, non potendo cogliere il Cancelliere entro lor mura, corrono a cercarlo fuori; si tiran dietro, con promessa di bottino, i facinorosi abitatori di via Coperta e della parte superiore di via Marmorea;[346] assalgono il palagio arcivescovile; e mentre i Francesi difendeansi col solito valore, i trombetti e i tamburini del re suonavano la chiamata contro il capo del governo. Trasse in arme tutto il popolo; Cristiani e Musulmani irruppero nel palagio. Rifuggito nel campanile, Stefano pattuì d’uscire di Sicilia con tutti i suoi seguaci (1168) e andò a Gerusalemme, dove non guari dopo morì.[347]

[502]

La regina senza partigiani, il re sempre fanciullo, non potean far che gli autori dell’attentato e i loro amici venuti di Messina con forze militari, non si appropriassero i frutti della vittoria. A nome di Guglielmo II, un decemvirato, se tal può dirsi, prese il reggimento della cosa pubblica; e furono: l’inglese Riccardo vescovo eletto di Siracusa, Gentile vescovo di Girgenti, Romualdo arcivescovo di Salerno, Giovanni vescovo di Malta, Ruggiero conte di Geraci, Riccardo conte di Molise, Arrigo conte di Montescaglioso fratello della Regina, Matteo d’Ajello salernitano, il gaito Riccardo e l’inglese Gualtiero Offamilio, decano di Girgenti e precettore del re. Ma poco appresso, avendo Guglielmo compiuto il diciottesim’anno, Gualtiero che in questo mezzo con pessime arti s’era fatto eleggere da’ canonici arcivescovo di Palermo, si fe’ fare dal re primo ministro; prese a compagni del governo Matteo e il Palmer, e congedò ogni altro. Il Falcando termina la storia con tali fatti e con queste gravissime parole: “che allora la potestà del regno e la somma degli affari cadde nelle mani di Gualtiero, attaccatosi al re con dimestichezza assai sospetta, sì che parea governasse non tanto la corte, quanto lo stesso monarca.”[348]

Pur Guglielmo fuggia talvolta di mano all’arcivescovo; al quale non venne fatto mai di allontanare il cancelliere Matteo, espertissimo nell’amministrazione pubblica e terribile maestro d’inganni. Era Matteo a corte capo della parte nazionale, nella quale noveravansi principi del sangue e nobili, con tutti i [503] gaiti, con l’arcivescovo di Salerno ed altri prelati. Cotesta parte avean seguita i due inglesi Offamilio e Palmer contro Stefano e i suoi Francesi; e nella divisione delle spoglie s’eran prese le due sedi arcivescovili della Sicilia. Ma separandosi i complici quand’ebbero fatto il colpo, si trovò dall’un de’ lati Matteo con gli indigeni; stettero dall’altro, capitanati oramai da Gualterio, gli oltramontani d’ogni linguaggio e qualche barone: e le parti rimasero quali erano state nei primi anni del regno; rinsavite pur tanto che non proruppero a sedizioni, nè a scandali fuor della reggia. La quale moderazione venne, com’io penso, dalla bassa estrazione dei capi, uomini nuovi e cortigiani entrambi; dalle disposizioni del popolo che non avrebbe sofferta sedizione contro il buon re; e dall’indole stessa di Guglielmo, il quale contentava a vicenda i due ministri e maneggiava bene le fazioni ch’ei non sapea reprimere: savio nelle piccole cose e insufficiente alle grandi. Dopo il suo matrimonio (1177) vedendo ch’ei non avea prole, studiossi ciascuna delle due parti a designar il successore: gli indigeni cercarono di tirar su il principe Tancredi, non ostante la nascita illegittima; gli oltramontani vollero assicurare i diritti della Costanza, maritandola a un gran principe, e piombasse poi il diluvio su l’Italia meridionale. Si scorgono vestigie di quel piato in alcuni avvenimenti che noi narreremo; poche o nessuna nell’amministrazione interna, la quale era sì ordinata e salda che le discordie della corte non la turbarono. E veramente del regno di Guglielmo il Buono si posson dare due giudizii al [504] tutto diversi, secondo che si consideri il governo in casa, o l’azione politica al di fuori. L’un comparisce giusto senza debolezza; ordinato senza avarizia nè severità; condotto secondo le leggi fondamentali, fuorchè nelle materie ecclesiastiche; sollecito della sicurezza de’ cittadini in casa e fuori: la quale fu piena e maravigliosa, come ai tempi di re Ruggiero, favorita anco ed accompagnata dalla prosperità economica. Al di fuori non si può chiamar Guglielmo nè pacifico, nè guerriero; poich’ei fece tante guerre che non dovea; scansò la sola che occorreagli, grande e necessaria; e vivendo ne’ suoi palagi e giardini, tra studii gentili e passatempi onesti, sciupò in imprese lontane forse più vite d’uomini e più tesori che non avessero mai consumati l’avolo e il bisavolo nei loro conquisti.

Continuando il disegno di narrar quelle sole azioni esteriori, che toccarono Stati musulmani, dobbiamo ricordar che Guglielmo il Buono, per bocca degli oratori mandati al congresso di Venezia (1177) si vantò di non aver mai fatta guerra a principi cristiani; e che tra quelli, ei solo ormai perseguitasse per terra e per mare i nemici di Cristo, sì che ogni anno, senza perdonare a spesa, mandava “sue triremi” con milizie a combattere gli Infedeli e assicurar il mare a’ Pellegrini de’ Luoghi Santi.[349] Le quali protestazioni se dovessero tenersi fronde oratorie e se lo scopo delle imprese fosse stato di favorire il commercio del reame in Affrica e in Levante, parrebbe assai più savia la corte di Palermo. Il vero è [505] che Guglielmo prendea sul serio le Crociate, ancorch’ei fosse in sua schiatta il primo che fuggì i pericoli e le fatiche del campo e che vide il più delle volte ritornare malconci i suoi soldati. I Musulmani, a lor volta, risero dell’insolito zelo della corte di Palermo. Abbiamo una epistola di Saladino, il quale, scrivendo al califo di Bagdad per man di un retore arabo, compiangea quel ragazzo di quindici anni che avea dato fondo al suo tesoro nella spedizione contro Alessandria, per mera vanagloria e ticchio di mostrare al mondo ch’ei pur sapesse provarsi contro un nemico il quale avea respinte poc’anzi da Damiata le prime spade di cristianità.[350]

Nè le armi di Guglielmo eran rimase addietro in questa impresa di Damiata, con la quale Manuele Comneno ed Amerigo re di Gerusalemme aveano sperato aprirsi la via al conquisto dell’Egitto, nel primo scompiglio della usurpazione di Saladino. Ritraggiamo dagli storici musulmani che i collegati, venuti con mille dugento legni, assediarono Damiata per cinquantacinque giorni, nei mesi di novembre e dicembre del millecensessantanove; ch’ebbero ajuti di Sicilia e d’altre terre cristiane; ma ch’e’ si ritrassero con perdita di trecento legni, essendo stata soccorsa la città da Saladino con uomini, danari e vittuaglie, e da Norandino con una impetuosa diversione in Siria.[351]

[506]

Il quale esempio non bastò ad ammonire la corte di Palermo che non si gittasse ad un’impresa assai più temeraria, quando Saladino avea già spento l’ultimo califo fatemita, rinnalzato in Egitto il pontificato degli Abbasidi, spartiti i beneficii militari a’ suoi Curdi e Turchi e mostrato al mondo che sorgeva tra i Musulmani un nuovo conquistatore. Uomini d’alto stato, mossi da un ardente sciita del Jemen, per nome Omâra-îbn-Abi-l-Hasan, giurista e poeta di nome in quel tempo, cospirarono a ristorare la dinastia fatemita; trovaron seguaci tra i cortigiani, e le milizie d’Egitto, tra i Negri mercenarii e tra gli emiri stessi di Saladino; e pur non fidando nelle proprie forze, chiamarono in aiuto il re di Gerusalemme e quel di Sicilia, profferendo e danari e cessione di territorii. Omâra intanto, sendosi insinuato nella corte di Saladino, spinse Turan-Sciah fratello di lui ad una impresa nel Jemen, per allontanarlo dall’Egitto; ma il perfido consiglio tornò a gloria di casa ajubita, poichè quegli insignorissi di Zobeir, di Aden e di tutto il paese.[352] L’ordine della congiura in Egitto era che, sbarcati i Cristiani, se il Saladino correva a combatterli con l’esercito, i partigiani al Cairo sollevassero il popolo e rimettessero in trono i Fatemiti; e s’egli, mandate le genti contro il nemico, rimanea con pochi soldati al Cairo, s’impadronissero i congiurati della sua persona. Designato il nuovo califo [507] e gli ufiziali della corte fuorchè il primo ministro, altro non s’aspettava che l’assalto de’ Cristiani, quando Alì-ibn-Nagia, predicatore d’una moschea, scoprì la trama a Saladino e rimase, per costui comando, tra’ congiurati a far la spia. Saladino poi seppe da’ suoi rapportatori in Gerusalemme che dovea venir un ambasciatore di Amerigo a negoziare in apparenza con lui e in realtà con Omâra e i consorti; onde arrivato l’ambasciatore, gli pose addosso un cristiano suo fidato ed ebbe i nomi de’ congiurati. Dissimulò il tradimento degli emiri suoi, allora e sempre; mandò gli altri capi al supplizio, il due di ramadhan del cinquecensessantanove (6 aprile 1174) e gli parve finita ogni cosa.[353]

E veramente il re di Gerusalemme abbandonò l’impresa. Ma quel di Sicilia tirò innanzi ed apprestò sì grande armamento, che tenne in sospetto il califo almohade, e l’imperatore bizantino. I reggitori soli d’Alessandria non ci badarono, nè seppero il pericolo pria che il nemico s’affacciasse al porto, il ventisette dsu-l-higgia[354] del cinquecensessantanove (28 luglio 1174). Erano dugento sessanta galee, montate da cencinquanta uomini ciascuna, trentasei teride pei cavalli, sei grosse navi per gli ordegni da guerra e quaranta legni da carico per le vittuaglie: e recavano cinquantamila uomini, dei quali trentamila combattenti, [508] tra fanti e marinai, mille uomini d’arme, cinquecento cavalleggieri Turcopoli[355] ch’erano, com’io penso, musulmani di Sicilia; e il resto gente di servigio, mozzi di stalla, carpentieri navali e manifattori d’artiglierie.[356] Tra queste notarono gli Alessandrini tre mangani di mole non più vista, che lanciavano con gran forza di tiro immani massi di pietra negra recati a bella posta dalla Sicilia, e tre torri mobili, piene d’armati e munite in piè d’un ariete, come si chiamava la ponderosa testa di ferro messa al capo d’una trave.[357] Delle macchine minori, si ricorda il [509] gerkh, da trar grossi dardi.[358] Capitanava l’oste, dice Ibn-el-Athîr, un cugino del re: forse quel Tancredi conte di Lecce, che salì sul trono alla morte di Guglielmo.

Approdate le prime navi poco appresso mezzodì, cominciarono a sbarcare le genti presso il faro;[359] e nelle ultime ore del giorno i Siciliani caricavano gli Alessandrini, usciti a impedire lo sbarco, contro il divieto del wâli della città che ammonivali a combattere dalle mura. E veramente e’ furono respinti, con perdita, a’ ripari. L’armata intanto sforzò l’entrata del porto, ch’era pieno di navi mercantesche e da guerra e appiccovvi il fuoco; se non che i Musulmani, accorgendosi della mossa, corsero per terra e arrivati a tempo, affondarono la più parte dei legni loro. Fatto buio tra coteste scaramucce, i Siciliani rimasero sul terreno occupato, dove rizzarono trecento tende.

Al nuovo giorno avean già piantati i mangani; messe su le torri, appressatole alle forti mura della città,[360] le quali furono fortemente difese dal popolo e da’ pochissimi soldati del presidio. Respinti anco gli assalitori il martedì trenta luglio, ricominciavano il mercoledì la tempesta di lor tiri co’ mangani, riconduceano le torri verso il muro; ed erano arrivati a una [510] gittata d’arco, quando si videro piombare addosso i Musulmani, rinforzati dalle milizie de’ contorni le quali, il secondo giorno, erano accorse in città da lor terre di beneficio militare e ne vennero anco dal Cairo. Chetamente aveano gli Alessandrini disserrate le porte più vicine alle macchine nemiche, lasciando chiuse le imposte di fuori;[361] gli emiri delle milizie aveano ordinati lor cavalli dentro dalle porte e il popolo armato s’affollava a tergo. Spalancate d’un subito le imposte, si gettarono disperatamente d’ogni lato cavalli e fanti, sopra i Siciliani; irruppero infino alle macchine; vi poser fuoco e sostennero il combattimento tanto che le videro consumate. Lieti rientravano in città a far la preghiera del vespro, quando trovarono tal nunzio che li risospinse immediatamente alle armi.[362]

Fin dallo sbarco de’ Siciliani, il wâli d’Alessandria avea mandato a Saladino uno spaccio per colombi. Era egli attendato con l’esercito a Fâkûs, su i confini orientali del Basso Egitto; dove ricapitato lo spaccio il martedì, ei mandava immantinenti una [511] schiera a rinforzare il presidio di Damiata, temendo anco per questa; partiva ei medesimo col grosso delle genti alla volta d’Alessandria e spacciava innanzi, a dar l’avviso, un fido schiavo con tre cavalli menati a guinzaglio, da ricambiarsi via via. Il quale giunse il mercoledì a vespro, percorsi in men di ventiquattr’ore, a un di presso dugento chilometri.[363] Assembrato il popolo, si bandisce il prossimo arrivo di Saladino: ed ecco, scrive Ibn-el-Athîr, che dimenticandosi la fatica e le ferite, parendo ad ognuno di avere allato, testimone del proprio valore, il gran capitano, riaprono le porte e tornano addosso a’ Cristiani.

Stracchi dalla prima battaglia, colti quando men se l’aspettavano, in sull’imbrunire del giorno, sentendo quel frastuono d’un popolo impazzato e gridare il nome di Saladino, i Siciliani mal difesero il campo. Entrovvi il nemico; fe’ macello dei fanti; fece bottino d’ogni maniera d’armi e ricche suppellettili: mentre nobili e vassalli, capitani e soldati correano confusamente al mare; accostavano a terra le galee; montavano come ciascun potea: chi trattasi l’armatura gittasi a nuoto, chi arrampicandosi casca in mare. E i Musulmani a’ fianchi loro, inseguonli entro le stesse galee, o tuffan sotto con ferri a sfondarle, o v’appiccano il fuoco; sì che più d’una perì. Il navilio, riordinato alla meglio la notte, salpava la dimane, primo agosto, recando in Sicilia i miseri avanzi dell’esercito. Trecento cavalieri che [512] nella rotta si erano ritratti in un’altura, pugnaron tutta la notte e la mattina appresso, contro le turbe musulmane crescenti di numero e di furore; ma infine la moltitudine sgomenò quel nodo di prodi: tutti li uccise o fe’ prigionieri, che non ne campò un solo. Così dalle sorgenti musulmane. Le pisane che qui son tronche, riferiscono con poco divario il numero delle navi, senza dir l’esito dell’impresa. Vi accenna un po’ Guglielmo di Tiro, cronista delle crociate. Il Falcando e Romualdo Salernitano avean tronco il racconto pria di quell’anno. Un anonimo contemporaneo suppone sbarcato Guglielmo in persona ad Alessandria e dopo sette dì tornato addietro con vergogna. E la magra cronica di Monte Cassino dice che il 1174 l’armata del re andava in Alessandria e nulla più.[364] Ciò nondimeno alcuni moderni, volendo [513] dare al buon re anco gli onori del trionfo, han fatta espugnare Alessandria e riportarne in Sicilia preda ricchissima.[365]

[514]

Abbandonati da’ proprii testimonii, cotesti scrittori trovano insperato soccorso ne’ musulmani. Dai quali sappiamo che un anno appresso la sconfitta, ossia il cinquecensettantuno (22 luglio 1175 a 9 luglio 1176), quaranta galee di Sicilia assediavano Tinnis per due giorni e andavan via. Del settantatrè (30 giugno 1177 a 18 giugno 1178) l’armata siciliana combattè più gloriosa fazione. Una quarantina di navi riassalirono Tinnis e dopo due giorni di combattimenti se ne insignorirono. L’ammiraglio musulmano, Mohammed-ibn-Ishak, al quale il nemico avea tagliata la via di ritornare al navilio, si ritrasse allora chetamente con una sua schiera al mosalla, o vogliam dire pianura aperta dove si fa la preghiera; e al cader della notte piombò in città sopra i Siciliani, che non s’aspettavano assalti; prese centoventi uomini e lor mozzò il capo. Ricacciato al mosalla e combattuto aspramente, lasciò sul terreno settanta de’ suoi: col rimanente ei si rifuggì a Damiata. I Siciliani rientrati in città, la saccheggiavano, ardeanla e cariche le navi di preda, zeppe di prigioni, ripartiano alla volta d’Alessandria. Durò quattro giorni cotesta fazione di Tinnis.[366] Che facesse l’armata ad Alessandria non sappiam punto.

[515]

Nelle note frettolose con che si chiude la prima parte del Baiân-el-Moghrib, leggiamo che il medesimo anno cinquecensettantatrè (1177-8) Mehdia era afflitta da un’irruzione di Cristiani, la quale fu detta il caso del venerdì: sì come i cittadini aveano designati con altri giorni della settimana gli assalti del milleottantasette, del cenquarantotto e del censessantatrè.[367] Questo del settantotto è da apporre a Genovesi o Pisani, non essendo verosimile che l’armata di Sicilia tentasse a un tempo una grossa fazione nel golfo di Kâbes ed una alle bocche del Nilo.[368] Pare al contrario che la corte di Palermo bramasse la pace con gli Almohadi, a fin di ristorare il commercio dell’Affrica propria, decaduto o spento dopo i fatti del cinquantasei. Nè poteva la Sicilia aspettar altro che male da’ novelli turbamenti nati in que’ paesi: nella parte orientale, dico, le imprese de’ masnadieri turchi venuti d’Egitto a tentar la sorte a nome di Saladino;[369] e qua e là capi berberi e tribù arabiche immansuete che disdiceano la signoria almohade, vedendo il nuovo califo Abu-Iakûb troppo avviluppato nelle [516] guerre di Spagna. Pure, quando la rivolta messe radice in Kafsa, Abu Iakûb mosse di Marocco con l’esercito; sostò a Bugia, sede del suo luogotenente nell’Affrica propria; andò poi a Kafsa e se ne insignorì, il primo giorno del cinquecensettantasei (28 maggio 1180) dopo tre mesi di assedio.[370] Nel ritorno, soffermatosi a Mehdia, ei vi trovò ambasciatori di Guglielmo II.

Se meritasse piena fede Roberto abate del Monte a San Michele, si direbbe che Abu Iakûb fu vinto dalla cortesia del re Guglielmo, il quale gli avea rimandata libera una sua figliuola, presa dall’armata siciliana sopra un legno almohade che la conducea sposa a certo re saraceno. Ma il fine del racconto scema autorità al cominciamento, portando che l’Almohade alla sua volta restituisse al re di Sicilia le due città di Affrica e Zawila; il che non fu, nè poteva essere.[371] Secondo il Marrekosci, Guglielmo chiese la pace ad Abu-Iakûb per la gran paura ch’avea di lui e si obbligò a pagargli tributo, oltre i doni ricchissimi che gli fece e, tra gli altri, un rubino detto l’unghia di cavallo, per la forma e la grandezza; il quale gioiello, trascendente ogni prezzo, si vedea fino alla prima metà del decimoterzo secolo spiccare [517] sopra tante altre gemme incastonate nella rilegatura d’un corano, di que’ che il califo Othman mandò nelle province quand’ei promulgò il testo ortodosso.[372] Ed anco in questo racconto è manifesto errore, poichè i Normanni di Sicilia non si abbassarono di certo a comprar la pace; si può supporre anzi che alcuna città dell’Affrica propria abbia pagato tributo a loro, sì come sarà detto a suo luogo.

Il fatto certo è che una tregua per dieci anni fu fermata tra Abu-Iakûb e Guglielmo II, il millecentottanta, stipulata a Mehdia dagli ambasciatori di Sicilia nel giugno o luglio, e ratificata da Guglielmo in Palermo, nell’agosto.[373] Della quale tregua fa menzione Ibn-Giobair, quattro anni appresso, nel diario del suo viaggio.[374] Gli interessi commerciali de’ due paesi danno il motivo del trattato, senza che s’abbia ricorso alle vaghe voci raccolte dall’abate Roberto in Francia, e dal Marrekosci nel Maghreb. Tanto più che in quella state l’Affrica propria avea mestieri più che mai de’ frumenti di Sicilia; sapendosi che [518] mancassero le vittuaglie e lo strame perfino nell’esercito almohade, onde Abu-Iakûb, come prima e’ fermò l’accordo, ritornò frettoloso in Marocco.[375]

E’ fu di certo a protezione dei naviganti siciliani, che Guglielmo, nell’inverno dal millecentottanta al centottantuno, mandò l’armata alle Baleari; le quali per mutar signori non ismettevano la pirateria. Dopo i discendenti di Mugeto e l’effimera dominazione messa su dai Pisani (1115), aveano occupate quelle isole gli Almoravidi; e cadendo tal dinastia, se n’erano insignoriti i Beni-Ghania, della tribù berbera di Mussufa. Un valente scellerato di quella famiglia, per nome Ishak-ibn Mohammed, usurpato lo Stato (1151), seppe ordinar sì bene il corso contro Cristiani, ch’egli arricchissi e divenne potente come un re, scrive il Marrekosci.[376] L’armamento siciliano, fortissimo di galee e di uscieri per la cavalleria che doveva occupare Majorca, andato prima a Genova con Gualtiero di Modica grande ammiraglio del reame, passò tutto l’inverno a Vado: così gli Annali genovesi e più non ne dicono; ma aggiungono che la città in quella stagione fu afflitta fieramente da una morìa.[377] Forse fu questa che distolse i Genovesi [519] dal mandare lor navi insieme con le siciliane, come par fosse già fermato tra le due parti, poichè l’armata siciliana entrò nel porto di Genova e svernò nel dominio. Sembra che il morbo stesso abbia sforzato Gualtiero a ritrarsi in Vado. Ma non andò guari che l’arcivescovo e i Consoli di Genova, seguendo l’esempio dei Pisani,[378] nel mese di sefer del cinquecensettantasette (17 giugno a 15 luglio 1181) stipulavano tregua per dieci anni col signore di Majorca.[379] Guglielmo, l’anno appresso, reiterò la spedizione con tanto strepito che mentre la s’apparecchiava, Saladino, temendo nuovo insulto in Egitto, vi sopraccorse dalle parti orientali di Siria, non ostante la brama ch’egli avea di soggiogar tutti que’ regoli. Le navi siciliane non arrivarono poi alle Baleari; disperse da una tempesta; affondate, quali a Savona, quali ad Albenga, quali a Ventimiglia, alcune forse su la costiera di Spagna: e fu scritto che ne perì quaranta all’incirca.[380] Ritraggiamo che pochi anni [520] appresso, quando Alì-Ibn-Ghania assalì l’Affrica settentrionale con una mano di Almoravidi, avendo saputo in Tripoli che i partigiani degli Almohadi gli avessero ritolte le Baleari, ei mandò in Sicilia il fratello Abd-allah; il quale imbarcatosi per Majorca, ripigliò lo Stato.[381] Non dicono i cronisti, nè mi par verosimile, che la corte di Palermo abbialo aiutato in questa seconda impresa. Forse niun seppe che costui fosse venuto tra’ molti Musulmani che dall’Affrica riparavano continuamente in Sicilia, fuggendo la fame rincrudita e la rapacità dei ladroni arabi, turchi e berberi, messi insieme da’ Beni Ghania.[382]

Ferveano allora in Sicilia preparamenti di gran guerra, dei quali fu testimone Ibn-Giobair e da lui sappiamo le voci che corsero in Trapani nel gennaio millecentottantacinque, quando si riteneano nei porti tutte le navi mercantesche, per adoperarle al servigio dello Stato: chè cento onerarie volea re Guglielmo aggiugnere alle trecento galee e teride dell’armata. La quale, altri dicea dovesse osteggiare Alessandria, altri Majorca ed altri l’Affrica propria, dond’era testè giunta la nuova dello sbarco di Alì-ibn-Ghania a Bugia. Ma pensava Ibn-Giobair che il re volesse mantenere [521] la tregua con gli Almohadi e ch’ei piuttosto disegnasse di rimettere sul trono di Costantinopoli Alessio II, campato, come si favoleggiò, da’ sicarii di Andronico.[383] E veramente piombava, non guari dopo, su la Grecia questo sforzo di guerra, condotto in apparenza dal principe Tancredi. Cinquemila cavalli, dugento legni di corso, ottantamila uomini, scrivea con esagerazione un testimonio oculare, salparono l’undici giugno millecentottantacinque; occuparono Durazzo (24 giugno); presero per assedio Tessalonica (24 agosto); se non che i capitani indugiarono a muover sopra la capitale dell’impero; e rotti a Monopoli, poi traditi (7 novembre), si ritrassero in Italia, scemati di diecimila morti e quattromila prigioni. I Musulmani di Sicilia militarono in questa infelice impresa come diremo più innanzi.[384]

Saladino intanto stendea l’impero su tutti i paesi musulmani dal Nilo al Tigri, dove signore immediato, [522] dove protettore o sovrano feudale; lasciando pure al misero califo di Bagdad i vani onori di pontefice e imperatore. Così accentrate le forze, ei prese a compier l’opera di Norandino contro i Cristiani. Occupata Gerusalemme (23 ottobre 1187) e tutta la Palestina, fuorchè quattro castella; provatosi indarno contro le fortezze di Tiro e il valore italiano che difendeale, Saladino ripigliò la guerra in primavera del millecentottantotto; e trovò, tra i primi, su la costiera, il navilio siciliano.

Perchè il caso di Gerusalemme avea commossa l’Europa: mentre la Germania, la Francia e l’Inghilterra apparecchiavano eserciti, l’Italia, avendo pronte le armate e aperto il mare, die’ principio alla terza Crociata. A secondare l’audace proposito di Corrado di Monferrato, correano gli Italiani sobrii, disciplinati, liberi e forti, scrisse allora l’abate di Ursperg.[385] Nella epistola indirizzata pochi anni innanzi al califo di Bagdad in nome di Saladino, si legge che i Veneziani, i Genovesi e i Pisani soleano bazzicare assidui in Levante; ove or accendeano un fuoco da non si spegnere di leggieri, or offrivano presenti, recavano le merci più elette de’ loro paesi e vendeano perfino le armi ed ogni altra cosa necessaria alla guerra; stringeano amistà, dice l’epistola, del tutto a comodo nostro e danno di cristianità.[386]

[523]

Parteciparono i popoli meridionali in quello sforzo comune dell’Italia. Guglielmo, disposto pur troppo a così fatte imprese, fu sollecitato a viva voce dall’arcivescovo di Tiro, e rampognato del danno ch’egli avea recato ai Latini di Terrasanta, trattenendo per la sua sciagurata impresa di Grecia i pellegrini e le navi che facean sosta in Sicilia. Per ammenda, egli ora fornì a Corrado di Monferrato copia di vittuaglie, con cinquanta galee, dicono i cronisti occidentali, e cinquecento uomini d’arme, capitanati da due conti; le quali forze rincoravano Antiochia, difendeano Tripoli, mantenean Tiro. Giovò, sopra ogni altro, all’eroico presidio di questa città, l’armata che fece sgomberare i corsari musulmani e assicurò la via a’ soccorsi spicciolati d’uomini e di vivanda. L’ammiraglio di Sicilia, per nome Margarito da Brindisi, impadronitosi di alcune isole, tenne sì ostinatamente le acque di Siria, ad onta delle tempeste e de’ nemici, che maraviglionne la Cristianità tutta e chi chiamollo Nettuno, chi re o lione del Mare. Corrado di Monferrato lo mandò con gente da Tiro a Tripoli; dove i Cristiani, credendolo nemico, s’apprestavano alla difesa, ma poi distinsero le insegne della croce e l’armamento europeo; e la città ne fu talmente rinforzata che Saladino non osò assalirla.[387]

[524]

Gli scrittori musulmani giudicano altrimenti questo “tiranno Margarit, preposto al navilio del tiranno di Sicilia:[388] sessanta galee, ciascuna delle quali pareva una rôcca o una roccia[389], montate da diecimila uomini avvezzi a scorazzare e desolare i paesi. Ma questo famigeratissimo tra i più fieri oppressori e i più brutti demonii, entrato con gran fracasso nel porto di Tripoli, non seppe di miele nè di fiele, non giovò nè nocque, e com’egli aprì bottega di sue vittuaglie, così rinacque in Tripoli la carestia. Tirò verso Tiro e tornò a Tripoli; guazzò per quelle acque, avanti e dietro, a dritta e a manca per parecchi mesi, senza saper che si facesse; finchè il suo navilio si sparpagliò, il suo valore tramutossi in codardia, la sua gente fuggì alla sfilata ed ei se ne tornò a casa, con poca gente e molte miserie.” Così un contemporaneo, prendendo a celebrare i fatti di Saladino, straziava la rettorica ed anco un po’ la storia, narrando dell’ammiraglio [525] siciliano le imprese fallite, non quelle compiute e tacendo sopratutto la cacciata de’ corsari musulmani.[390] Del rimanente, l’autore attesta la fama di Margarito; il nome di tiranno ch’ei gli dà, s’accorda con quel di potente principe che leggiamo in Marino Sanudo;[391] e il predicato di pessimo demonio non differisce tanto da’ titoli di pirata, archipirata e principe de’ pirati, con che lo chiamano gli scrittori bizantini, gli italiani e’ tedeschi.[392] Par che la corte di Palermo, dopo le sventure dell’impresa di Grecia, abbia affidata l’armata a questo valente uomo di mare, il quale prese in Cipro settanta galee bizantine andate a soggiogar quell’isola.[393] Sappiamo da scrittori inglesi contemporanei ch’egli possedea le isole di Scarpanto, Cefalonia e Zante;[394] nè sembra inverosimile [526] ch’egli abbia lasciato col mestiere anco un soprannome datogli dapprima e che Margarito, conte di Malta, sia lo stesso Sifanto, corsaro ausiliare del re di Sicilia, entrato innanzi ogni altro per la breccia di Tessalonica (24 agosto 1185), ricordato con gratitudine dall’arcivescovo Eustazio che fu suo prigione.[395]

Nei due episodii nei quali Margarito si trovò a fronte di Saladino, meritano fede ’Imad-ed-dîn e Ibn-el-Athîr, i quali militavano entrambi nell’esercito musulmano. Il sultano, ragunato l’esercito presso Emesa, andò con una gualdana a far la scoperta a Tripoli, guastò il contado, differì l’assedio e tornando addietro, si volse al principato di Antiochia. Occupata Tortosa il sei giumadi primo (3 luglio 1188), indi Marakia, movea alla volta di Gebala, costretto a passare a randa a randa del mare, per iscansar la montagna e il fortissimo castello di Markab, ch’era tenuto dagli Spedalieri. Angustissima con ciò e malagevole la via; talch’era forza valicarla ad uno ad uno. L’armata siciliana allora salpando da Tripoli, attelossi lungo la spiaggia: con catapulte e balestre[396] facea grandinare dardi e saette sulla strada. Saladino a questo, fatti recare i mantelletti e altri ordegni d’assedio,[397] dispose dietro quelli le catapulte e gli [527] arcieri; sì che a lor volta le navi siciliane furono costrette ad allontanarsi e tutto lo esercito passò. Presa Gebala senza contrasto a’ diciotto del mese (15 luglio), egli entrò a capo di due settimane in Laodicea; dove trovò abbandonate le case, rifuggiti i Franchi in due castella, e surto di faccia al porto il navilio siciliano.

Il quale, venuto ad ajutare e trovato perduta ogni cosa, cominciava a prender chiunque fuggisse per mare. Erano i Siciliani adirati contro i cittadini per la viltà di sgomberare sì presto la terra, non aspettando gli amici, nè i nemici. Ma l’effetto dei mali trattamenti fu che que’ di Laodicea si affrettarono a scendere dalle castella e ritornare a lor case, stipulando di pagare la gezîa. Saladino, ordinato il reggimento della terra, era già in su le mosse con tutto l’esercito, quando l’ammiraglio siciliano, volendo abboccarsi con lui, mandò a chiedergli salvocondotto ed ei lo diè. Sopraffatto, dice un testimone oculare, dall’aspetto del principe, s’inchinò Margarito, all’uso orientale, in atto di baciar la [528] terra; raccolse gli spiriti, pensò, e alfin prese a parlare per mezzo del turcimanno. Fatto un esordio di lodi, egli ammonì Saladino a dar piena sicurtà a’ Cristiani, tanto gli indigeni, com’e’ parmi, quanto gli europei, mostrandogli che, se il principe li ascrivesse al suo giund, lo aiuterebbero a conquistare i paesi vicini e i lontani. E finì con la minaccia che se, al contrario, fossero maltrattati i Cristiani di Siria, verrebbero di là dal mare le migliaia di guerrieri congregati d’ogni terra di cristianità, con tanto sforzo di guerra, che niuno lor potrebbe far testa. Saladino rispondeagli, avere Iddio comandato ai Musulmani di ridurre tutto l’orbe alla vera fede; ch’egli combattea per osservare questo precetto; che Iddio l’aveva aiutato e l’aiuterebbe: onde se tutto il resto del genere umano, dagli estremi gradi di longitudine e di latitudine, si adunasse contro i Musulmani, ei non conterebbe i nemici, sì li combatterebbe; e forse che lor farebbe provar di nuovo le sciabole e le catene de’ Musulmani. Vedendo accolti in tal modo i suoi consigli, Margarito si fe’ il segno della croce e andò via. Così, con parole poco diverse, ’Imad-ed-dîn e Ibn-el-Athîr, testimoni oculari forse entrambi, il primo di certo.[398] Nè parrà inverosimile la somma del dialogo, quando si consideri che Margarito non poteva ignorare le ambizioni di Saladino contro varii principi musulmani, nè le disposizioni d’animo che [529] i Crociati attribuivano al formidabile nemico loro; onde i cronisti affermarono ch’egli, del millecentonovantadue, avesse proposta ai re di Francia e d’Inghilterra una lega contro gli eredi di Norandino.[399]

Guglielmo venne a morte (18 novembre 1189) mentre apparecchiava assai maggiore armamento, per mandarlo o menarlo egli stesso in Levante, insieme con Filippo Augusto e Riccardo cuor di Leone; avendo già stipulato con Arrigo II di fornire gran copia di vino, orzo e frumento e cento galee armate e provvedute per due anni.[400] Pria di quel funesto evento che par abbia costretta l’armata a tornare immantinente in Sicilia, Margarito avea cominciato a sciogliere le promesse di Laodicea. Uno scrittore anonimo, contemporaneo sì e benissimo informato, narra che l’ammiraglio siciliano avea, da vero maestro dell’arte, chiuse le vie del mare a’ presidii musulmani di San Giovanni d’Acri e d’altre fortezze di Palestina; e che un giorno, colte le navi di Saladino che recavano armi e vivanda in Acri, ei le combattè e vinse e messe a morte quanti le montavano.[401] Van riferiti questi avvenimenti allo autunno [530] dell’ottantanove, sendo cominciato l’assedio d’Acri ne’ primi di settembre.

Guglielmo secondo, voglio io qui replicarlo, merita tanto biasimo nelle cose di fuori, quanta lode nell’interna amministrazione dello Stato. Fuorchè la pace con gli Almohadi e il gastigo dato a quando a quando ai pirati musulmani, non va commendato nel suo regno alcun atto di politica esteriore. Fece Guglielmo sempre guerre disutili e infelici; nelle vicende della Lega Lombarda ei non seguì consigli nè savii, nè generosi, nè coerenti; ed annullò gli effetti della Lega per quanto uomo il poteva, con un partito pessimo e stoltissimo: il matrimonio della Costanza nella casa di Svevia, nemica naturale degli Hauteville, del papato e dell’Italia tutta. Quand’anco non cel affermassero i contemporanei, vedremmo ad ogni respiro di Guglielmo ch’ei tentennò sempre tra i due ministri Gualtiero Offamilio e Matteo d’Ajello. [531] Matteo per far dispetto, come dicono, al rivale, avea consigliato Guglielmo a fondare l’arcivescovato di Morreale, alle porte proprio di Palermo (1182). Pria di ciò, l’impresa d’Alessandria, affidata al principe Tancredi (1174) era stata, com’e’ sembra, opera del Cancelliere, bramoso di dare riputazione e potenza di capitano al candidato ch’ei destinava al trono. Con minor dubbio il diciamo della spedizione di Grecia, la quale sappiam fatta contro l’avviso di Gualtiero e di Riccardo Palmer.[402] E fu appunto nella catastrofe di quello esercito (autunno del 1185) che riuscì Gualtiero a fermare il parentado con casa di Hohenstaufen, celebrato indi in gran fretta (27 gennaio 1186); nel quale alcuni contemporanei ravvisarono la vendetta del metropolitano di Palermo per la mutilata diocesi.[403]

Sotto un principe sì mansueto e benigno, i Musulmani di Sicilia non durarono aspre persecuzioni, ma non furon sicuri dalle occulte e lente. Conferma questo fatto Ibn-Giobair, il dotto pellegrino spagnuolo, capitato in Sicilia con molta riputazione di pietà, il quale solea scrivere ogni dì le cose viste, o udite, e in quattro mesi di soggiorno, visitò i centri principali delle popolazioni musulmane, conversò con uomini d’ogni ordine, dai servitori di corte infino al primo nobile dell’isola, rampollo della sacra schiatta d’Alì. Ne’ principii, quand’egli non avea visti se non che gli eunuchi della corte, Ibn-Giobair loda il giovane [532] re, tollerante, amico anzi de’ Musulmani. Dice ch’ei parlava l’arabico, che usava ne’ rescritti l’alâma, che vivea tra’ Musulmani, convertiti in apparenza; e che, non ignorando la occulta fede loro, solea chiudere gli occhi quando, all’ora della preghiera, li vedea scantonare ad uno ad uno. Racconta Ibn-Giobair che nel tremuoto di febbraio millecensessantanove, Guglielmo giovanetto, girando attonito per la reggia, udì le donne e i paggi invocare Allah e il Profeta, e vedendoli sbigottiti al suo arrivo, li confortò con queste auree parole: «Che ciascuno preghi il Dio ch’egli adora! Chi avrà fede nel suo Dio, sentirà la pace in cuore.» Intenerito della gran bontà del principe, Ibn-Giobair prega Iddio che lo serbi in vita per lunghissimi anni. Ma a capo di due mesi, risaputa meglio la condizione de’ suoi correligionarii, il viaggiatore dà del tiranno a Guglielmo; l’accusa d’avere afflitto e umiliato Ibn-Hammûd, d’avere sforzato all’apostasia il giureconsulto Ibn-Zura’; e raccapricciando narra che costui, fatto giudice, rendea ragione, or secondo il vangelo, or secondo il Corano e perfino avea mutata in chiesa una sua moschea.[404] In quel torno (1179) veggiam anco una moschea di Catania destinata al culto cristiano da un Giovanni da Messina e consacrata con la invocazione del novello santo, Tommaso di Canterbury.[405]

Ancorchè l’indole di Guglielmo non renda inverosimili [533] le contraddizioni, ognun vede come quel molesto proselitismo piuttosto che a lui, sia da apporre al clero, impaziente di stendere l’autorità sopra tanta parte della popolazione, di accrescere le decime, i casuali, i lasciti. Era imbaldanzito il clero per la potenza dell’arcivescovo di Palermo; e armavasi già dei fasci della giustizia, se non delle scuri. Perchè Guglielmo, tirato alle dottrine oltramontane, cominciava ad abbandonar quelle seguite da’ suoi maggiori; ponea le cause de’ chierici sotto la giurisdizione delle curie ecclesiastiche;[406] facea tradurre dinanzi a queste i Musulmani accusati di ratto in persona di donne cristiane. Contro i quali egli è vero che i vescovi non pronunziavano sentenze di morte, nè mutilazione; ma poteano condannar sì a multe e battiture, com’è detto in un rescritto di papa Alessandro III, indirizzato all’arcivescovo di Palermo.[407] Ed egli è da supporre assai frequenti le condanne, per la interpretazione larghissima che si dava a quel capo d’accusa e per lo guadagno che ne tornava ai giudici. Ma i Cristiani impunemente strappavano i figliuoli, maschi e femmine, alle famiglie musulmane, sotto specie di convertirli; aggravavan di multe i ricchi; rendeano loro insopportabile il soggiorno in Sicilia: talchè i più timorati pensavano a vendere ogni cosa e andar via; i padri davano le figliuole a’ pellegrini di Spagna o d’Affrica senza richiedere dotario; e i savii già prevedeano che l’islamismo [534] tra non guari sarebbe stato spento in Sicilia, sì com’era testè avvenuto in Candia.

E pur l’universale della popolazione non aborriva per anco dai Musulmani. In viaggio erano salutati cortesemente; la voce del muezzin non facea ribrezzo nelle grandi città; i Cristiani di Trapani tranquillamente vedeano passare le turbe de’ Musulmani, che al suon di corni e taballe, preceduti dall’hâkim, andavano al mosalla a far la preghiera pubblica del Beiram.[408] Che se guardiamo alla reggia, vi troviam l’una accanto all’altra, le sorgenti della persecuzione e del favore: da una parte le sollecitazioni de’ prelati oltramontani; dall’altra le consuetudini, spesso più forti che la volontà, onde gli eunuchi, gaiti o paggi che dir si vogliano, esercitavano gli uffici di corte sotto quel velo sottilissimo d’ipocrisia che li facea parere cristiani.[409] Splendean costoro per lusso di vestimenta e di cavalli. Guglielmo accogliea con onore i Musulmani stranieri, medici e astrologhi[410] e largìa danaro a’ poeti.[411] Afferma altresì Ibn-Giobair che le donne musulmane della reggia talvolta guadagnassero a Maometto alcuna lor compagna cristiana. E le dame franche o italiane di Palermo, riconosceano tacitamente la superiorità dell’incivilimento orientale, vestendo a foggia delle musulmane.[412]

Nè era mica rallentato il legame morale tra gli [535] abitatori musulmani dell’isola. I cittadini, egli è vero, aiutavan poco o nulla i correligionarii loro servi della gleba, uomini di varie schiatte, lontani dall’occhio e dal cuore; ma nel grembo delle popolazioni urbane fervea la carità musulmana e ne davano l’esempio, non senza rischio loro, i finti cristiani della corte. La quale carità di setta, di stirpe e di patria, che ormai tornava ad un sentimento solo, si mantenea tanto più calda in Palermo, la città, come chiamavanla per antonomasia i Musulmani di Sicilia. Quivi i Musulmani soggiornavano in alcuni sobborghi senza compagnia di Cristiani; un cadì amministrava loro la giustizia; frequentavan essi le moschee e ciascuna era anco scuola; fiorivano i loro mercati ne’ quali, come fu uso generale nel medio evo e dell’Oriente in tutti i tempi, dimoravano gli artigiani, divisi per contrade, secondo i mestieri. Dalle parole d’Ibn-Giobair possiamo argomentare che i mercatanti della città fossero, la più parte, musulmani. Il culto pubblico era tuttavia liberissimo in Palermo; se non che la preghiera solenne si faceva nella moschea cattedrale con la invocazione pei califi abbasidi, vietata solamente l’adunanza del piano aperto o vogliam dire il mosalla;[413] parendo pericoloso, com’io penso, di mettere insieme le migliaia degli Infedeli.

Le quali migliaia quante fossero nella capitale e nelle province, non sappiamo; ma tutta insieme la popolazione musulmana, uomini e donne, passava di certo il numero di centomila che dà uno scrittore contemporaneo, come si vedrà in quest’altro capitolo. Il seguito [536] dei fatti anco mostrerà come, allo scorcio del duodecimo secolo, i Musulmani di Sicilia fossero ridotti in Val di Mazara, e come gran parte di loro coltivassero il suolo in quelle cento miglia quadrate di territorio che l’improvvido Guglielmo donò, insieme con gli abitatori, al Monastero di Morreale, chiudendo gli occhi alle conseguenze politiche, non meno che al danno economico dello Stato.[414] I nomi delle città e villaggi recati da Ibn-Giobair occorrono, eccetto sol Siracusa, nella costiera da Messina a Palermo, e su la strada dalla capitale a Trapani. Un pugno di Musulmani in Messina; maggior numero in Cefalù; in Termini un borgo abitato al tutto da loro; un paesello intero a Kasr-Sa’d, il quale parmi risponda al monticciuolo che or si addimanda la Cannita, presso Villabate; gran popolazione in Palermo; tutti gli abitanti in Alcamo e ne’ villaggi e ville ond’eran gremiti i fertili terreni, e allora ben coltivati, che si stendono dalla capitale a Trapani: e in questa, gran parte della popolazione, professava l’islamismo.[415] Professavanlo forse alcuni abitatori di Catania.[416] Al dir di Burchardo, vescovo di Strasburgo, ambasciatore del Barbarossa appo Saladino, Malta e Pantellaria erano in questo tempo abitate al tutto da Musulmani; e ubbidia la prima al re di Sicilia, a nessuno la seconda, la quale producea poco grano; talchè gli uomini viveano di pastorizia, mezzo selvatichi, pronti a rintanarsi nelle caverne, quando sbarcasse gente più forte di loro.[417]

[537]

Partecipavano tuttavia i Musulmani degli ufizii civili e militari, come abbiam già detto trattando dei gaiti, poichè le testimonianze citate tornano la più parte al regno di Guglielmo il Buono.[418] Alle quali è da aggiugner quella di Eustazio, arcivescovo di Tessalonica, studiosissimo a descrivere le genti che disertarono il suo paese (1185), le quali eran chiamate siciliane, dice egli, perchè le accozzò Guglielmo, conte, re, o tiranno della Sicilia, e votò l’erario per fornire la spesa, maggiore assai delle scarse entrate dell’isola.[419] Erano in quell’oste uomini d’arme e arcieri a cavallo, fanti leggieri e di grave armatura e compagnie franche, dette del rizico, le quali senza caposoldo nè stipendio, combatteano per la sola preda.[420] I Musulmani di Sicilia, noverati forse tra gli arcieri a cavallo, facean l’ufizio ch’or è dato a carabinieri o gendarmi negli eserciti europei. Perocchè narra Eustazio che nella prima licenza del saccheggio, mentre una mano di soldati insanguinava e profanava sozzamente la chiesa di San Demetrio e commetteva ogni maniera di oltraggio sopra i Greci che vi s’erano [538] rifuggiti, un eunuco, ammiraglio[421] del re, entrò a cavallo nel tempio, brandendo una mazza di ferro, seguito da prodi sergenti, e fece sgombrar que’ masnadieri.[422] Ma durante l’occupazione della città, continuando i Latini a sfogar l’odio su i vinti, i Saraceni di Sicilia giravano per le strade la notte a far la scolta; entravano nelle case ov’era acceso, contro il divieto, lume o fuoco; sforzavan le porte; menavan via le donne e le fanciulle adocchiate nel giorno; e prendean talvolta i danari per dote.[423] In una orazione recitata dopo quel gran flagello, Eustazio, prorompendo contro un sacrilego, dicea che gli atti suoi somigliassero a que’ degli Affricani di Sicilia.[424] A’ Musulmani io riferirei volentieri l’artifizio dei due mangani smisurati, chiamati da lui “le figlie del tremuoto” i quali aprirono la breccia nel muro di Tessalonica:[425] ond’e’ si vede che facean tiri diretti, come le artiglierie moderne; e vanno per conseguenza identificati con quelli che abbiamo descritti nell’assedio di Siracusa dell’ottocentosettantotto e testè nell’impresa di Alessandria,[426] e fors’anco con gli altri che Carlo d’Angiò apparecchiava (1284) contro la Sicilia, maneggiati da’ Saraceni di Lucera.[427] Dopo [539] li artiglieri de’ mangani, Eustazio fa menzione “di quelli che lavoravano a riempir di polveraccio le insidiose fosse, per iscuoter e abbattere i muri”: nel qual luogo la voce insolita greca ch’io rendo a bella posta con una voce oscura del nostro linguaggio, se la non denotasse i minuzzoli di combustibili da appiccar fuoco a’ sostegni de cuniculi, sarebbe forse da riferire a quella composizione di fuochi da guerra che condusse alla invenzione della polvere, ma non essendo per anco sì perfetta, in vece di scoppiare, schizzava, operando con la sola forza del rincalcio. Il quale ingegno tornerebbe anco ai Musulmani di Sicilia, poichè simili fuochi, in questo tempo, erano in uso appo i lor fratelli d’Affrica e di Levante.[428]

Il numero dunque, le ricchezze, la cultura intellettuale, la ingerenza ne’ servigii pubblici, il favore [540] della corte, davano forze a’ Musulmani di Sicilia, molestati com’essi erano dal clero e da qualche ministro del re, e persuasi che loro sovrastassero gravi calamità. Con ciò le bandiere almohadi sventolavano a vista quasi della Sicilia; nè mancavano nell’isola i capi d’un movimento. Le vestigia che scopronsi negli scrittori cristiani e ne’ musulmani, conducono a un gran personaggio di casa Edrisita, del ramo de’ Beni Hammûd, e com’io credo della stessa famiglia di quello sciagurato signore che die’ Castrogiovanni al conte Ruggiero. Era chiamato dai più, secondo l’uso arabo, col keniet o diremmo noi nomignolo, Abu-l-Kâsim e talvolta col keniet d’uno de’ suoi progenitori, Ibn-abi-l-Kâsim, o infine, col nome del casato, Ibn-Hammûd. Ai tempi di Guglielmo il Buono primeggiava costui nell’aristocrazia ereditaria;[429] e della sua ricchezza e seguito tra i Musulmani di Sicilia ci ragguaglia anco il Falcando, che lo nota tra i più possenti nemici del cancelliere Stefano, come s’è detto.[430] Similmente Ibn-Giobair, pochi anni appresso, narrò ch’egli era stato perseguitato per supposte pratiche con gli Almohadi; confiscatigli i beni ed espilati trentamila dinar; condotto indi alla povertà ed a vivere d’uno stipendio a corte: uomo per nascita, liberalità, beneficenza, [541] ingegno e costumi, sì riverito appo i Musulmani di Sicilia, che s’egli avesse abiurato, tutti si sarebber fatti cristiani, dice il viaggiatore spagnuolo.[431] Ritraggiamo che Ibn-Kalakis d’Alessandria, giureconsulto e poeta di nome, venuto a corte di Guglielmo nel cinquecentosessantacinque (25 settembre 1169-13 sett. 1170), dopo aver lodato il re in un poemetto e averne ottenuto alcun dono, dedicò a questo Hammûdita un’opera intitolata «Il fior che sorride mirando le virtù d’Ibn-el-Kâsim» e n’ebbe splendido guiderdone e sì grato rimase al Mecenate siciliano, che ripartendo per l’Egitto gli indirizzò altri versi. Per la liberalità sua, com’e’ sembra, gli avean dato il nome d’Ibn-el-hagiar.[432] Ritornò in Sicilia nello stesso tempo Ibn-Zafer, nato nell’isola, emigrato in Oriente, erudito, poeta, filologo ed elegante scrittore; il quale nella sua povertà, sovvenuto e consolato da quel nobil uomo, gli dedicava tre opere inedite e la seconda edizione della più popolare di tutte le sue compilazioni, il Solwân-el-Motâ’.[433] Nella cui prefazione, tramezzate a luoghi comuni, leggiam parole che non sembrano gittate a caso: l’augurio «che Iddio conduca questo signor de’ signori e condottiero dei condottieri, a compiere i proponimenti ispiratigli da Lui stesso.... che [542] lo esalti sempre nei seggi del potere e renda vane le frodi de’ suoi nemici;» la lode che «l’animo suo bastava ad ogni fortuna.... che i popoli non avean da temere disastri seguendo uom di proposito così saldo.»[434] Costui non potea vivere tranquillo in quelle condizioni de’ compatriotti suoi musulmani. Com’egli parteggiò contro il cancelliere Stefano, così è da supporlo favorito da Matteo, e tanto più sospetto a Gualtiero Offamilio, quando questi prese la bandiera di parte oltramontana. Abu-l-Kâsim, o altri della famiglia dicerto, si trovò avvolto nelle rivoluzioni contro il principato cristiano, ritraendosi che i suoi beni fossero stati confiscati. Abbiamo infatti nel milledugento un diploma della reggenza per lo quale, compiendo al comune di Genova la promessa falsata da Arrigo VI, gli erano fatte concessioni larghissime, e tra le altre cose gli si donava il palagio posseduto un tempo in Trapani dal Gaito Bulcasimo.[435] E sedici anni appresso, Federigo già emancipato, concedeva alla chiesa di Palermo certi beni di Ruggiero Hamuto, che par sia stato, nell’undecimo secolo, lo stipite di quella nobil casa in Sicilia.[436]

[543]

CAPITOLO VI.

Avea Falcando, per disdegno o lontananza, interrotta la grave sua storia al principio del governo personale di Guglielmo II. Ripigliando la penna dopo venti anni per deplorare le calamità piombate su la Sicilia alla morte del re, ei notava tra i maggiori pericoli la reazione de’ Musulmani. “Se i popoli della Sicilia, dice Falcando, esaltassero al trono uom di provato valore, e se i Cristiani non discordassero dai Saraceni, potrebbe il re eletto respingere le armi straniere e ristorar la cosa pubblica che or sembra perduta.... Ma tra tanto scompiglio, mancato il timore dell’autorità regia, difficil è che i Cristiani si trattengano dall’opprimere i Saraceni, e che questi, diffidando di loro e stanchi altresì di tanti torti, non si levino in armi, non prendano qua un castello su la marina, là una rôcca tra i monti. Il che se avvenisse, come potrebbero i Siciliani difendersi con una mano dalle scorrerie de’ Saraceni e con l’altra combattere dure battaglie contro i Teutoni?... Oh piaccia al cielo che nobili e plebe, Cristiani e Saraceni, accordinsi unanimi nella elezione d’un re; e con tutte le forze, con estremi conati s’adoprino a stornare l’irruzione de’ Barbari!” Con ciò, l’autore va rampognando i Pugliesi, i Messinesi, la regina Costanza, tutti fuorchè i due veri colpevoli: Guglielmo e l’arcivescovo. E tocca i pregi [544] delle primarie città della Sicilia; e assai più largamente descrive Palermo, ch’egli amava quasi cittadino e premeagli di salvar quivi le bellezze della natura e l’opera della civiltà.[437]

Cotesto appassionato discorso politico su i principali eventi che seguirono in Sicilia e in Puglia dall’autunno dell’ottantanove alla primavera del novanta, racchiude, a creder mio, un racconto sotto specie di vaticinii, timori e speranze; perocchè l’epistola fu dettata in primavera, se non all’entrar della state, e allor l’autore vivea fuor di Sicilia e forse oltremonti.[438] Or non avvenne mai a profeti di predire i fatti per filo e per segno; nè egli è verosimile che il Falcando abbia, per cagion d’esempio, ignorata dopo tre o quattro mesi la esaltazione di Tancredi, quando in tutta Europa, massime in Ponente, [545] gli appresti della Crociata rendeano frequenti le comunicazioni co’ porti meridionali, e la gente ansiosamente procacciava le nuove di que’ paesi. Più che un caso di avventurata sagacità, è qui da supporre un artifizio oratorio. Se il Falcando avesse voluto ammonire l’arcivescovo di Palermo a secondare ormai i voti dell’universale e salvar la sua patria adottiva, ei non avrebbe potuto usare forma più discreta, nè più arguta che quella; nè avrebbe potuto indirizzare meglio il sermone che ad un famigliare dell’arcivescovo. Or ei l’intitola per l’appunto a Pietro, tesoriere della Chiesa palermitana; onde si direbbe col proverbio moderno che la soprascritta andava a costui; la lettera a Gualtiero Offamilio.

Presagiti o narrati, i fatti pur avvennero così. Il giuramento prestato a Costanza per comando di re Guglielmo, non valse a far accettare di queto, dai baroni e da’ grandi, la dominazione tedesca. Seguirono giorni d’anarchia, ne’ quali molti Cristiani di Palermo, sì com’era avvenuto nella sedizione del millecensessanta,[439] dettero addosso ai Musulmani. La città fu allagata di sangue. Gli scampati alla strage rifuggironsi nelle montagne, dicono i cronisti:[440] e [546] deve intendersi del centro occidentale dell’isola, poichè dall’orientale aveanli già cacciati i Lombardi[441] e d’altronde, i ricordi che abbiamo de’ Musulmani nella seconda metà del duodecimo secolo tornan tutti al val di Mazara. A quelle montagne trassero, al dir di un altro cronista, con le famiglie loro e con le greggi, i Pagani servi di re Guglielmo, sperando sottrarsi al giogo di Tancredi e sommavano a centomila tra uomini e donne:[442] il qual numero, dato così in arcata, mi par troppo scarso. Erano i villani del demanio e quei, credo anco, de’ poderi che Guglielmo avea testè donati al Monistero di Morreale appunto in que’ luoghi. Capitanavano la sollevata popolazione musulmana cinque suoi regoli, dice Riccardo da San Germano.[443] Dopo aver fatti danni gravissimi a’ Cristiani, i ribelli si sottomessero, quando la pace fermata con Riccardo Cuor di Leone in Messina, die’ forza e riputazione a Tancredi.[444] Durò dunque la rivolta de’ Musulmani dallo scorcio dell’ottantanove [547] all’ottobre del novanta, o in quel torno. Sforzati dalle persuasioni piuttosto che dalle armi e pure riluttanti per rancore e sospetto, i capi ritornavano a lor case in Palermo; i villani a lor glebe e davano statichi.[445] I guasti di tal guerra civile non sono ricordati particolarmente nelle frettolose e scarse memorie del tempo; ma si possono misurare dal caso di alcuni poderi di mano morta in val di Mazara. Arrigo VI, appena salito sul trono, per diploma dato di Palermo il trenta dicembre millecentonovantaquattro, in favor del monastero di Santa Maria De Latina in Messina, tra le altre cose permetteagli “di riedificare i suoi casali, distrutti nella guerra che avea divampato alla morte di re Guglielmo.[446]” Il giardino che Ibn-Giobair vide in quei luoghi pochi anni innanzi, cominciava dunque a diventare foresta.

La fuga de’ Musulmani dalla capitale, la sollevazione de’ contadini, i cinque regoli che vuol dir uomini di nobil sangue, non marabutti fanatici surti nello scompiglio, mostrano la gravità di questo movimento sociale, che finì di corto con la dispersione delle schiatte musulmane dell’isola. Prevedeanla i savi loro, come dicemmo; pur non si aspettavano sì vicino il martirio. Primi a tirar la spada i Cristiani; accaniti al resistere e forse preparati i Musulmani: e sembra che que’ delle campagne fossero stati spinti [548] a disperazione dalle avanie de’ nuovi lor signori tonsurati, più ingordi e più duri al certo che gli ufiziali, mezzo musulmani, della corte. Provaronsi a ripigliare le lance e gli archi de’ lor padri, ed una sembianza dell’aristocratico reggimento della tribù; vissero di preda; si volsero forse ai lor fratelli dell’Affrica propria, che non li poteano aiutare: ed a capo di parecchi mesi, la vita nomade venne a noia a que’ cittadini e agricoltori. Dileguata ogni speranza; vedendo rassodato re Tancredi e pronte le armi sue e quelle de’ Crociati che fean sosta a Messina, i Musulmani s’affidarono piuttosto nella protezione delle leggi normanne, e ripigliarono il vivere consueto. Li mansuefece altresì, com’io penso, la riputazione e l’arte del Cancelliere Matteo, ch’era stato sempre amico de’ Musulmani e ch’or trionfava della fazione oltramontana. La quale, per vero, non sarebbe calunniata da chi la facesse promotrice immediata della sedizione; poichè, chiarito il popolo a favor di Tancredi, giovava a lei sola il partito d’istigare i Cristiani di Palermo contro i Musulmani; di gittar la fiaccola della guerra civile, che ritenesse in Sicilia le forze del nuovo principe, mentre i Tedeschi assalivano la Puglia: appunto il caso al quale allude il Falcando. Così io mi raffiguro il principio e la fine della ribellione musulmana.

Agli altri eventi accennerò appena, sendo notissimi e rischiarati ora dalla critica moderna.[447] Tancredi [549] fu eletto per opera del cancelliere Matteo, pur con assentimento della maggior parte de’ regnicoli e con gran plauso della corte di Roma. Educato un po’ nel regno e un po’ ne’ paesi bizantini, uom colto secondo i tempi, ma pusillanime o almeno irresoluto, e disgraziatissimo capitano, fe’ prova pure di saviezza politica, egli o il cancelliere Matteo. S’acconciò a forza di danari con Riccardo d’Inghilterra, ospite pericolosissimo;[448] racchetò in Sicilia i Musulmani; si difese in Terraferma da’ nemici di dentro e di fuori; ma venuto a morte dopo quattro anni (20 febbraio 1194), lasciò la corona a un bambino; la reggenza a una donna che non va noverata tra le illustri. Era morto, con ciò, il cancelliere; all’incontro, Arrigo VI, divenuto imperatore, strigatosi da’ suoi avversarii in Germania, impinguatosi col riscatto di Riccardo Cuor di Leone, armava mercenarii; conducea vassalli tedeschi e italiani; si [550] facea prestare con bugiarde promesse le armate di Genova e di Pisa; assicuravasi il passo nell’Italia centrale, dando in preda al popol di Roma il sangue, l’avere e perfin le mura de’ Tusculani, affidatisi in un presidio imperiale. La corte romana che avea favorito Tancredi, or s’avvilì dinanzi ad Arrigo. Il quale in tre mesi occupò il regno con lieve resistenza, e non fu men crudele per questo.

Tra’ pochi fatti d’arme di quella guerra, seguì in Catania uno scontro di maggior momento che non sembri a prima vista nelle memorie del tempo. I Catanesi avean gridato il nome di Arrigo; onde la vedova di Tancredi avea mandate a domar quella città le sue genti, tra le quali si notavano delle schiere di Musulmani. Tanto narrano gli Annali genovesi e aggiungono che il navilio della repubblica andò da Messina in aiuto degli assediati e ruppe i Musulmani con molta strage.[449] Un annalista tedesco, senza far menzione di Musulmani nè di Genovesi, attribuisce la vittoria ad Arrigo di Kallindin; dice raccolti in Catania tutti i baroni con esercito innumerevole; fattane grande strage; entrati i vincitori insieme coi fuggiaschi in Catania; arsa la città; arsa la chiesa di Sant’Agata, col popolo che avevavi cercato asilo; preso anco il vescovo e tutti recati prigioni ad Arrigo.[450] Donde si vede che ciascuno de’ due scrittori trascelse [551] i fatti che gli andavano più a genio: ma le due mezze narrazioni s’attagliano bene una all’altra, e messe insieme, bastano a mostrare che le ultime forze della dinastia normanna in Sicilia, piuttosto disordinate che poche, si provarono contro il nemico fuor di tempo e di luogo; talchè la guerra fu precocemente decisa allo scorcio d’ottobre del novantaquattro, sì com’io credo. Tanto più sicuro allor mosse l’imperatore sopra Palermo.

Da’ versi di Pietro d’Eboli, brutto adulatore ma scrittor vivace,[451] dalla ingenua parola di Ottone di [552] San Biagio, si ritrae lo stupore onde furon presi i capi dell’esercito imperiale allo scoprir quel mondo nuovo, ch’era per essi la Sicilia del duodecimo secolo: la Sicilia feracissima di preziosi metalli;[452] Palermo, città felice, dotata di popolo trilingue, paradiso irrigato di miele.[453] Appressandosi ostilmente alla capitale, avea già Arrigo ammirata la magnificenza del suocero nella regia villa della Favara.[454] Il parco regio che stendeasi fino alle mura della città, avea fornita cacciagione all’esercito. Crebbe la maraviglia quando, fermato l’accordo, entrando Arrigo solennemente in Palermo, (30 novembre 1194) uscirongli incontro i cittadini a ceto a ceto, preceduti da bande di musica, vestiti a festa e i ricchi montati su bei destrieri.[455] In città, l’esercito trionfante trovò i palagi adorni di tappeti e ghirlande, le contrade olezzanti di profumi orientali. Parve strano a’ fieri Germani che il popolo, i soli Musulmani credo io, facessero omaggio all’imperatore prostrandosi con la fronte al suolo.[456] Venuto alfine Arrigo alla reggia, gli eunuchi presentavangli le chiavi dei tesori; e quale apriva i forzieri pieni di moneta, gemme e robe preziose; qual mostrava i libri delle [553] entrate regie in Calabria, Puglia e Sicilia, e perfino in Affrica.[457] Delle preziose spoglie, parte fu dispensata a’ nobili ed a’ capitani e parte mandata al malauguroso castello di Trifels, insieme co’ prigioni da mutilare o serrar nelle mude.[458] Sembrano avanzi di quella gran rapina i più bei drappi delle insegne imperiali, serbate in oggi a Vienna, dico il mantello di Ruggiero, la tunica e le gambiere di Guglielmo II, ricamati tutti d’oro e di perle, a caratteri arabici di varie forme, con figure e rabeschi; i guanti, i sandali rabescati con la stessa maniera di disegni, e parecchi tessuti di seta o d’oro, anch’essi di fattura siciliana del duodecimo secolo.[459]

[554]

Le memorie di questo soggiorno di Arrigo VI in Palermo, dànno a veder la civiltà orientale, non solamente nelle suppellettili e nelle usanze, ma perfino ne’ nomi di luogo. Leggiamo negli Annali di Genova che i deputati di quel Comune, compiuta felicemente, come lor parea, l’impresa, andarono a trovar l’imperatore in una palazzina del giardino regio detto Giloloardo, chiedendo il guiderdone pattuito; e ch’ei prima differì la risposta e alfine ricusò con ingiurie, e con la minaccia di spiantare Genova e di ritorle anco i privilegii commerciali goduti in Sicilia sotto i Normanni.[460] Dall’altra mano, un documento contemporaneo dice del campo che messe lo esercito della reggenza (luglio 1200), nel giardino regio di Januardo:[461] ed una cronica siciliana del decimoquarto secolo riferisce la tradizione, vera o falsa, che Arrigo avesse fatto arder gente nel piano di Genoardo, fuor le mura del palagio di Palermo, presso il giardin della Cuba dalla parte di Ainisindi.[462] I quali nomi riferendosi evidentemente ad unico [555] luogo, è da ritenere erronea una sola lettera della prima lezione, e le altre due tornano ad una denominazione piuttosto pronunziata in fretta che veramente alterata. Sarebbe a creder mio «Gennolard» apocope di Gennet-ol-Ardh, che suona «il paradiso della Terra» e si legge, col solo divario d’un sinonimo, nell’ultimo verso della iscrizione arabica ond’è adorna la sala terrena della Zisa.[463] I Musulmani e i Giudei dell’isola si sottomessero ad Arrigo e rimasero ne’ luoghi e nelle condizioni di prima;[464] nè si fa menzione di essi nelle atroci vendette dell’imperatore. Andato in Germania e ritornato quindi in Sicilia (1196), Arrigo rassettò l’amministrazione, mandò l’armata nelle isole adiacenti, per ridurle all’obbedienza e riscuotere i tributi. Fors’anco ne levò nelle isole della costiera africana;[465] al qual fatto par che alluda un verso di Pietro d’Eboli.[466]

Debbo far qui una digressione, perchè autorevoli critici tedeschi, invaghiti d’Arrigo VI per la potenza ch’egli accrebbe all’impero e per la monarchia [556] universale ch’ei sognò, hanno impreso in questi ultimi anni a scolparlo delle gravi accuse accumulate dalla storia sopra il suo nome. E bene hanno essi cancellato qualche episodio che scrittori moderni cavaron già da guaste tradizioni orali e li esagerarono per le passioni dell’animo loro; bene han fatto a rassegnare le testimonianze contemporanee e pesarne sottilmente il valore;[467] ma poi, quando la critica dee levarsi a indovinare il passato e ricomporre il quadro degli avvenimenti con tanti brani sparsi, sovente inorpellati da’ contemporanei stessi, allora, io dico, gli odierni partigiani di casa sveva son caduti in falli molto simili a que’ ch’e’ rinfacciano a’ compilatori del decimosesto secolo e de’ seguenti. Un eruditissimo scrittore vivente, non ostile all’Italia, ma disposto a far plauso, ad ogni costo, al Cesare che la flagellò allo scorcio del duodecimo secolo, volendo provare che Arrigo non fu poi quel perfido tiranno che ognuno ha detto, pon mano alle recriminazioni, allega che i suoi nemici erano cento volte più tristi di lui; che gli abitatori della Sicilia, figli di astuti Normanni, di perfidi Greci e di feroci Musulmani, erano genìa sanguinaria e traditora; che se l’imperatore non li avesse trattati com’ei fece, i Tedeschi tutti che soggiornavano in Sicilia il millecentonovantasette, avrebbero incontrata la sorte che toccò, ottantacinque anni appresso, ai Francesi.[468]

[557]

Non essendo disposto, com’io credo, chi ha scritte queste parole a condannare i Tedeschi, che cospirarono contro i Francesi ne’ principii del secolo XIX, gli si potrebbe domandare qual assioma di giustizia obbligava i Siciliani, nel XII e nel XIII secolo, a lasciarsi calpestare da’ conquistatori stranieri, e se, in tesi generale, i popoli datisi con certe condizioni, sieno tenuti in coscenza ad ubbidir il vincitore, anche nel caso ch’egli infranga i patti o trapassi ogni limite. Noterò inoltre che i popoli men civili non sono sempre i più virtuosi; che non vanno presi per oro schietto nè i regni Saturnii della favola, nè i costumi de’ Germani secondo Tacito; che il reame di Sicilia, da’ tempi di Ruggiero a que’ di Guglielmo II, fu invidiato da tutta Europa, per la sicurezza pubblica e l’osservanza delle leggi; che quivi, pochi anni appresso la morte di Guglielmo, la rapina, la violenza e la crudeltà furon chiamati costumi tedeschi; e che quando si volesse compilare, sulle cronache e i diplomi, la statistica penale dell’Europa nel Medio Evo, non si vedrebbe tra la Germania e l’Italia quel gran divario ch’ei suppone. Il vero è che la morale pubblica, per ogni parte di Europa, allor fu quale poteva essere avanti la ristorazione del dritto romano, avanti la riforma di Lutero, la caduta della feudalità, la filosofia del decimottavo secolo e la rivoluzione francese. Sforzandomi a trattare questo argomento senza preoccupazioni patriottiche, esporrò il concetto ch’io traggo dalle diverse testimonianze contemporanee; dalla natura degli uomini in tutti i tempi e in tutti i luoghi; dalle peculiari condizioni di quelli che si [558] disputarono il terreno e le ricchezze dell’Italia meridionale allo scorcio del duodecimo secolo, e dalla indole stessa d’Arrigo, la quale nessuno disconosce: indole ambiziosa, violenta, astuta, avara, necessaria, mi si dirà forse, ad abbattere la potenza de’ papi, ad unificare la Germania e ad assoggettarle il mondo; ma capace d’infrangere i più ovvii principii della giustizia; di tradire, per cagion d’esempio, i Tusculani e di fare una truffa da mariuolo ai Genovesi ed ai Pisani.

I principali capi d’accusa da esaminare son due: l’ingiustizia delle persecuzioni e la immanità delle pene; e nel primo è da distinguere due serie di fatti; nel secondo è da risguardare a’ costumi del tempo. Incominciando da ciò che avvenne in Palermo negli ultimi giorni del novantaquattro e primi del novantacinque, i ricordi tedeschi, che son molti e uniformi da due all’infuori,[469] o fan parola appena della cattura [559] e deportazione de’ grandi, senza aggiugnerne la causa, o notano brevemente una congiura contro Arrigo, rivelata pochi dì appresso il suo coronamento; alla quale si accenna, pressochè con le loro stesse parole, in una lettera scritta da Arrigo all’arcivescovo di Rouen, pochi giorni dopo il fatto.[470] Venendo alle testimonianze particolareggiate, noi lasceremo addietro, come ogni giudice farebbe, quella di Pietro d’Eboli, la quale val quanto le parole del suo monaco rivelator della congiura, e prova soltanto la notizia officiale data in corte a quei giorni.[471] Ci occorre quindi in una cronica italiana che «Arrigo, ricapitate certe lettere fittizie e bugiarde contro la regina Sibilla, il figliuolo Guglielmo ed altri personaggi, ai quali egli e i grandi della corte avean data sicurtà, tutti li prese, e avviolli in Germania ed alcuni anco accecò.[472] Un altro italiano aggiugne che Arrigo ingannò, con falso giuramento, il re fanciullo e i conti del reame, e che, messili in ceppi e preso tutto l’oro e l’argento che potea, mandò ogni cosa in Germania.[473] Similmente è scritto nelle Gesta d’Innocenzo III che l’imperatore, dopo avere stipulato a favor della [560] vedova e del fanciullo la concessione degli Stati di Lecce e Taranto, “còlta una occasione,” imprigionò l’una e l’altro e parecchi ottimati, de’ quali molti accecò; e tenne in carcere duro la Regina, i figli e l’arcivescovo di Salerno.[474] Ma cotesti scrittori son guelfi.

I fautori della parte contraria, tanto più autorevoli, confermano il medesimo sospetto; se non che essi non fanno distinzione tra la prima persecuzione e la seconda. Così Riccardo da San Germano, ufiziale di casa sveva, una ventina d’anni appresso, scrivea che convocato il parlamento in Palermo, Arrigo fece condannare il re, la regina e parecchi vescovi e conti «apponendo loro alto tradimento;» de’ quali, altri accecò, altri bruciò, altri impiccò, altri mandò in Germania.[475] Nè men grave l’attestato di Ottone di San Biagio, monaco tedesco, quel desso che loda tanto Arrigo «per l’arte e il valore con che avea ristorata l’antica potenza dell’impero.» Ottone ristrinse il conquisto del regno in due capitoli; nel primo dei quali egli accennò ai casi di Terraferma e della Sicilia orientale; e nel secondo narrò con molti particolari la occupazione di Palermo e terminolla dicendo della famiglia di Tancredi, menata in prigionìa di là dai monti. Ma nel primo di que’ capitoli si legge, che gli ottimati siciliani presi da Arrigo di Kallindin, nel combattimento di Catania (1194) e condotti all’imperatore, «per disperazione si proposero [561] di ucciderlo; che a fin di conseguire lo scopo, gli prestarono ubbidienza;[476] ch’ei, volendoli vincere d’astuzia, li ammesse a corte; e che poi, chiamati alla sua presenza, quando men se l’aspettavano, andarono senza sospetto e furon còlti tutti a una rete. Brutta cosa gli è a vendicare la perfidia, con la perfidia.» sciama qui lo scrittore, e seguita narrando «la studiata crudeltà dei supplizii.»[477] Dond’egli è chiaro che Ottone volle seguir la connessione de fatti più tosto che l’ordine rigoroso de’ tempi, o il fece senza volere: poichè gli uomini d’arme, e i cortigiani d’Arrigo, i quali dopo la sua morte, cacciati da Costanza, ritornavano dispettosamente in Germania, doveano raccontar tutti, in un fascio, i casi avvenuti in Sicilia dal novantaquattro al novantasette e doveansi allargare sui più recenti, come quelli ne’ quali il signor loro era stato provocato alla vendetta e i loro nemici erano stati calpestati e straziati.[478] In ogni modo e’ non è da maravigliare che i cronisti abbian gittato il peso delle congiure e delle vendette tutto in un posto, chi sul principio del regno d’Arrigo e chi su la fine; poichè niun contemporaneo potea vantarsi di veder chiaro ne’ labirinti della reggia di Palermo o nelle mude del castello di Trifels.

[562]

Noi diciamo dunque che i critici odierni a ragione distinguono le due proscrizioni; e lor concediamo volentieri che Arrigo abbia sparso men sangue nella prima, e che, in quel tempo, i grandi laici ed ecclesiastici della Sicilia, sottomettendosi alla forza, abbiano serbata la speranza, o il proponimento di liberarsi, e fors’anco n’abbiano parlato tra loro. Ma una grande cospirazione, contro l’esercito vincitore, non si può supporre incominciata e compiuta in quattro settimane. Arrigo riseppe i pensieri, acconciò i rapporti delle spie in disegno di congiura bella e fatta, e avvolsevi tutti i grandi che gli davan ombra o gli faceano impaccio, incominciando dalla sventurata famiglia di Tancredi, la quale ei volea frodare del compenso pattuito. Adunò il parlamento, cioè gli ottimati partigiani suoi; poichè gli avversari eran lì ammanettati, condotti a funate, come li veggiamo nelle figure del codice di Pietro d’Eboli. Il parlamento condannolli per lesa maestà; chi potea dir contro? E Arrigo perdonò loro la vita, poich’era più sicuro partito farli maturare ne’ ferri di Trifels, che immolarli pubblicamente sì presto. Tale mi sembra il vero aspetto della persecuzione, con la quale Arrigo inaugurò in Sicilia il suo regno e l’anno millecentonovantacinque.

Ma, come avviene ne’ profondi movimenti de’ popoli, tolta di mezzo con le prigioni e co’ patiboli una prima fila, due o tre nuove si rannodavano: partigiani malcontenti, uomini dabbene spaventati che ripiglian animo, sangui tiepidi che si riscaldano per interessi offesi, per novelle speranze, per l’orgoglio [563] nazionale calpestato, per la pietà stessa dei proscritti. I feudi conceduti a’ Tedeschi erano di certo tanti stecchi negli occhi a tutti i regnicoli. Quando Arrigo poi, racchetati i suoi nemici di Germania, con la riputazione e coi guadagni delle vittorie meridionali, chiamò la nazione a nuove imprese in Costantinopoli e in Palestina, e ritornò in riva al Mediterraneo con l’esercito, ei s’accorse che il suolo gli tremava sotto i piè. Già in Puglia la gente, conversando coi Crociati alemanni, dicea loro a viso aperto ritornassero a casa, per l’amor del cielo, e non servissero, per troppa bonarietà, di sgherri a un tiranno.[479] Costanza stessa, donna d’alto animo e innocente causa di tanta ruina, mal soffrì lo strazio de’ compatriotti, la ingorda rapina dei tesori aviti, l’avvilimento del paese e il suo proprio. Arrigo, assai più giovane di lei, l’avea quasi abbandonata; l’avea lasciata in Palermo a comandar di nome, mentre i grandi ufiziali dell’impero comandavan di fatto. Fors’ella rimostrò contro alcun provvedimento, o biasimò la condotta dell’imperatore e de’ ministri; nè ci volle altro perchè i Sejani d’Arrigo allor la dicessero partecipe delle trame e poi ne spacciassero tante altre favole suggerite dall’odio grandissimo che le portavano.[480] In tale [564] condizione di cose fu scoperta una congiura; il che si ritrae con certezza storica, ma ignoriamo i particolari, e quel po’ che ne sappiamo fa supporre tentata più tosto la ribellione che il regicidio.

Nè la natura poi di quella trama, nè la ferocia stessa de’ tempi, basta a scolpare Arrigo de’ supplizii che allora parvero sì atroci in Germania, in Francia e in Inghilterra, sì come in Italia. I critici tedeschi de’ nostri giorni cancellano que’ supplizii con un filosofico frego di penna, per la sola ragione che lor sembrano troppo insoliti e crudeli; ma n’abbiam noi tante e tali testimonianze che non s’arriverà mai a smentirle. In Italia la voce pubblica ripetea, come si ritrae dalle epistole d’Innocenzo III, de’ casi d’uomini e donne, laici e sacerdoti, mutilati, annegati, arsi, o bolliti nello strutto;[481] e tre annalisti tedeschi ed un bizantino s’accordano per lo appunto nel dir che Arrigo fece inchiodare una corona in capo a Giordano, uomo di schiatta normanna, com’e’ parmi dal nome, designato da’ congiurati al trono e alla man di Costanza.[482] Io non veggo perchè la invenzione di sì [565] barbari supplizii s’abbia da riferire ai cronisti italiani, francesi, inglesi, bizantini e tedeschi più tosto che ai carnefici d’Arrigo!

Da coteste orribilità all’infuori, è molto oscuro l’ultimo periodo della vita dell’imperatore in Sicilia. Venuto a minacciare la moglie e punire i congiurati, trovò tra costoro chi volle vender cara la vita. I fratelli d’Aquino s’eran difesi in Roccasecca di Puglia; un Guglielmo Monaco, feudatario o castellano di Castrogiovanni, si ribellò, e afforzossi in quel sito inespugnabile. Andò l’imperatore in persona all’assedio,[483] il quale par si prolungasse: ed egli intanto, per fazione di guerra, o caso di caccia o di viaggio, fu còlto di freddo su quelle alture, una notte d’agosto, e ritornò in Messina infermo di dissenteria. Parve poi migliorasse, tanto che fece partire i Crociati tedeschi adoprati nel pericolo della ribellione, ed ei medesimo si messe in via alla volta di Palermo; ma una ricrudescenza della malattia lo tolse di vita, il ventotto settembre del novantasette.[484] Fu sepolto in [566] Palermo, nell’arca sontuosa dove giacciono ancora le sue ossa, dalla quale si legge ch’egli avea fatto gittar fuori i cadaveri di Tancredi e del suo figliuolo.[485]

[567]

CAPITOLO VII.

Padrona ormai del suo regno, Costanza messe da canto il testamento del marito che chiamava alla reggenza il gran siniscalco imperiale Marcualdo de Anweiler; accomiatò i condottieri tedeschi; fe’ venire in Palermo Federigo, bambino di quattro anni; domandò per lui l’investitura papale; e, senza aspettar quella, fecelo incoronare re di Sicilia (17 maggio 1198).[486] Dell’affrettarsi ella avea ben donde. Sendo morto Celestino poco appresso l’imperatore, e rifatto pontefice Innocenzo III (8 gennaio 1198), apparve fin dai primi istanti quel genio dominatore, del quale noi riconosciamo la possanza, ma dobbiamo condannare talvolta gli intenti e le vie; mentre gli scrittori papalini ed anco alcuni acattolici levanlo al cielo, invaghiti del dispotismo religioso e politico ch’egli esercitò a tutta possa. Innocenzo gridò: fuori i Tedeschi; ma volle stender la mano su i territorii occupati da loro nell’Italia di mezzo; ei fece plauso alla regina di Sicilia iniziatrice di quella riscossa nazionale, ma volle dar corpo all’ombra dell’alta sovranità pontificia su la Puglia e cancellare le regalìe ecclesiastiche in Sicilia.[487] Morì [568] Costanza (27 novembre 1498) mentre si schermiva come potea contro quel molesto amico; e per manco male, chiamò lui stesso tutore di Federigo e del reame, affidando, con tutto ciò, il governo a quattro ministri: che fu buona cautela e salvò la corona, ma sprofondò il paese per dieci anni nella guerra civile.

Dei ministri reggenti, l’arcivescovo di Capua venne presto a morte;[488] il gran cancelliere Gualtiero de Palearia, vescovo di Troja, diffidava forte del papa; al contrario, Caro arcivescovo di Morreale parteggiava per lui; e Bartolomeo Offamilio arcivescovo di Palermo, fratello di quel Gualtiero che fu sì malaugurato consigliere di Guglielmo II, pendeva a parte tedesca. La quale rinacque per timor dell’ambizione romana, che i regnicoli non poteano dimenticare e non sapeano rintuzzare da sè soli. I condottieri d’Arrigo creati feudatarii nel reame, i quali s’erano rannicchiati alla morte del signor loro, levarono il capo alla morte di Costanza, perchè nel regno parvero assai comodi ausiliari: buone spade contro i partigiani del papa e pur sì poche da non portare pericolo al paese. Crebbe la parte tedesca quando Innocenzo, nel furor della lotta, adoprò stranieri contro stranieri; favorì il conte di Brienne, il quale, sposata una figliuola dell’ultimo re normanno, venìa di Francia, pretendente armato, facendo le viste di [569] rivendicare i soli feudi di Taranto e Lecce.[489] Ma chi mai si sarebbe fidato di trattenerlo nel corso delle vittorie, se una morte immatura non l’avesse tolto di mezzo? E chi sapea se Innocenzo, viste le noie ch’eran venute per sessant’anni alla corte di Roma da quel re di Sicilia mezzo vassallo e mezzo indipendente, non volesse or porre uno o parecchi grandi feudatarii in Terraferma ed un regolo nell’isola? Certo egli è che questo o simile disegno trasparisce nella condotta del papa, da’ principii del milledugento, quand’egli accolse Brienne in Roma, infino alla metà del dugento otto, quand’ei tenne un parlamento a San Germano, esercitando atti da signore diretto piuttosto che sovrano feudale.

Le quali cose io ho voluto avvertire, quantunque non siano immediatamente connesse col mio subietto, affinchè si rifletta meglio su la storia di questo [570] periodo. Il prestigio d’un gran nome, la materia degli avvenimenti fornita la più parte dalle epistole d’Innocenzo o dall’anonimo biografo suo, la moda religiosa del nostro secolo, han fatta pendere troppo la bilancia a favor del papa. Secondo me, un’esamina imparziale fa comparire men reo il cancelliere, meno candido il papa e niente sciocca la cittadinanza di Palermo e di Messina, la quale seguì i consigli del cancelliere e fu vero sostegno del trono, pria con Innocenzo contro Marcualdo e poi con questo ed altri condottieri contro Innocenzo. Con gli altri errori va cancellata la generosità cavalleresca, che suolsi in oggi attribuire ad Innocenzo per avere educato Federigo alle scienze e alle lettere, contro l’interesse della corte di Roma. Se vero fosse il fatto e dimostrato l’interesse, Innocenzo meriterebbe soltanto la lode che, potendo, ei non avesse tradito il suo pupillo. Ma certo è che nè il figlio di Arrigo VI, nè la reggia di Palermo dov’egli fu educato, nè il governo della Sicilia, non caddero mai nelle mani di Innocenzo, nè de’ suoi partigiani. Se il papa scrisse lettere paternali, se talvolta mandò in Palermo uomini di garbo a visitare il fanciullo e tentare il passo, ei trovò sempre chi gli rispose con parole, inchini e niente altro: e n’abbiamo la confessione nelle epistole sue stesse.[490]

[571]

In questo interregno, come va chiamato per essere stata tanto disputata l’autorità pubblica, tre uomini vi stendean la mano, cioè il papa, Marcualdo e il cancelliere, il quale sbarazzossi presto de’ ministri compagni. I pretendenti, scarsi di forze tutti e tre, prevalsero a volta a volta in grazia de’ corpi secondarii dello Stato, i quali secondo le proprie passioni e gli interessi veri o supposti, si aggregavano or con l’uno or con l’altro. Voglio dire le città, i feudi, le Chiese vescovili, i ricchi monasteri e perfino i capitoli di alcune Chiese nell’assenza del vescovo e in Sicilia anco i Musulmani; i quali seguendo interessi più chiari e durevoli che que’ d’ogni altro corpo, operarono con senno, fortezza e concordia.

Al principio dell’interregno era consumato un gran fatto, del quale non abbiamo ricordi espressi, nè sappiamo per l’appunto come nè quando fosse avvenuto: i Musulmani erano scomparsi di Palermo e teneano le montagne del val di Mazara. Perchè nel luglio del milledugento li veggiamo assediar la capitale con Marcualdo, senza che si faccia parola di [572] correligionarii loro che rimanessero dentro le mura. La prova negativa risalisce anco a’ primi tempi dopo la morte di Costanza; nel quale scompiglio se i Cristiani di Palermo non rinnovarono le stragi del sessantuno e dell’ottantanove, convien che loro ne fosse mancata la materia. Dopo il dugento, i diplomi e le cronache danno notizie de’ soli Musulmani di provincia, e se qualche nome avanza nella capitale, rassomiglia a que’ rottami che attestano il naufragio: qua un ricordo che l’imperatrice Costanza avea donato al cancelliere il giardino d’uno Scedîd entro le mura di Palermo;[491] lì un diploma del cancelliere che, in nome del re bambino, rimeritava i servigi d’Elia canonico del Duomo, concedendogli la metà d’una vigna del trapassato notaio saraceno Buccahar.[492]

Agevol cosa è a comprendere come sia seguito cotesto gran mutamento sociale entro i dieci anni che corsero sotto Tancredi, Arrigo e Costanza. La condizione legale de’ Musulmani rimanea forse la stessa; ma la riputazione a corte, la sicurezza delle persone, de’ beni, delle industrie, era ita per sempre. Possiamo tener certo che i fuggitivi dell’ottantanove non ritornaron tutti in Palermo l’anno appresso, e che de’ ritornati, molti non rimasero a lungo; [573] quand’era sì facile ai mercatanti e agli artigiani delle città di emigrare in Affrica alla sfilata. I Musulmani poi delle terre e delle ville, doveano andarsene molto volentieri alla montagna, quando i lor poderi passavano dal demanio a feudatari laici o ecclesiastici, e però i vassalli avean che fare con padroni uggiosi ed avari, anzichè coi lontani e condiscendenti eunuchi della corte. Nè le concessioni a preti e soldati scarseggiavano tra que’ tempestosi mutamenti di dominio. Ci avanza, per attestare il fatto, qualche titolo di proprietà ecclesiastica che risguarda villaggi musulmani ed appartiene appunto a questo periodo.[493]

Innocenzo aggravò il male per imprudenza, come spesso avveniagli. Mettendo sossopra l’Europa per adunar uomini e sopratutto danari che servissero, come diceasi, al racquisto di Terrasanta, ei mandò in Sicilia a bandire la Crociata (luglio 1198) due commissarii; i quali non cavarono un quattrino dai ricchi prelati dell’isola. Indi il papa a capo di sei mesi, quand’era già morta la imperatrice, rincalzava con un rescritto (5 gennaio 1199) che si pigliassero tutte le entrate ecclesiastiche, toltone appena le spese del vitto e del culto: onde si vede qual terribile aggravio cadea su i preti e i frati, i quali ben s’intende che lo scaricavano su i loro vassalli, la [574] più parte musulmani.[494] Come se ciò non bastasse, Innocenzo scrivea lo stesso giorno al vescovo di Siracusa, primo commissario della Crociata: già in Sicilia i Pagani convertiti ricader nello errore; gli eretici risentirsi: scomunichi, dunque, gli apostati ed ogni lor fautore; bandisca la maledizione per tutta la provincia, ogni giorno festivo, a lumi accesi e suon di campane; faccia confiscare dal principe i beni degli scomunicati; badi che gli altri Saraceni battezzati non seguano lo esempio; li esorti a ciò; anzi li costringa e li faccia costringere dall’autorità pubblica.[495] La data di questo scritto prova che alla morte di Costanza i Musulmani, sentendo venire i tempi grossi, gittarono la maschera e si messero in parata; poichè supponendo somma celerità negli spacci di Sicilia e nella risposta di Roma, si dee ritenere [575] corso un mese da’ primi segni del movimento alla data della lettera pontificia. Il movimento senza dubbio fu che i Musulmani, i quali s’erano già infinti cristiani nelle città, per amore del queto vivere e nelle campagne per trovare grazia presso i nuovi signori, s’accorgeano che oramai l’ipocrisia non valesse a salvar la pelle nè la borsa; ovvero vedeano giunta l’occasione di spezzare il giogo, onde correano alla montagna, alle forti castella tenute da’ correligionarii loro. Parecchi diplomi degli anni seguenti certificano la fuga de’ villani che pare incominciata, innanzi il milledugento.[496] Possiamo dunque immaginarci il rimescolamento di popolazione e di proprietà che avvenne in Val di Mazara. Qua gli abitatori Musulmani delle castella e ville cacciavano i fattori de’ signori cristiani laici ed ecclesiastici: là i contadini musulmani lasciavano la gleba per andare a coltivare i territorii rivendicati, pascolare le greggi in que’ monti o guadagnar la vita depredando e saccheggiando.

I due brevi del papa potean destare un terribile [576] incendio. E’ si vede che Innocenzo volle mandare ad effetto, dopo la morte di Costanza, la solita sua minaccia di bandire la croce contro i Musulmani di Sicilia: chè altro non significa quel raccogliere tutto il danaro delle chiese, quel ripetere sì spesso i riti della scomunica per tutta l’isola; quel chiamare il braccio secolare contro i neofiti che tentennassero. Era il segnale d’una persecuzione, anzi d’una proscrizione non meno sanguinosa di quella che lo stesso uomo eccitò a capo di pochi anni contro gli Albigesi. Ma in Sicilia le istigazioni papali valser poco appo i Cristiani; e i Musulmani se ne risero in loro forti recessi. Nè andò guari che il papa fu costretto a piaggiar que’ nemici della fede, con lettere infiorate di filosofia e di tolleranza.

Com’egli è dimostrato dai fatti susseguenti, i Musulmani si strinsero tra loro, si chiusero nelle fortezze e, su le prime, stettero a vedere. In qual si potean fidare dei tre aspiranti alla reggenza? Nell’imâm dei Nazareni no al certo; e poco meno nei ministri, tutti vescovi, e, per giunta incapaci di raffrenare, se pur l’avessero voluto, il clero e i baroni, e niente disposti ad usare verso i Musulmani quella moderazione che Innocenzo cominciò a raccomandare quando non era più tempo. Si volsero dunque i Musulmani a Marcualdo che lor dovea parere il vero reggente, vindice delle leggi, nemico di quel clero che aveva usurpato il patrimonio de’ lor maggiori, e chiamato dal buono imperatore Arrigo alla tutela di Federigo legittimo principe loro. Com’e’ s’ordinassero, non sappiamo: se ubbidirono a quel capo che fu poi [577] morto nella battaglia di Morreale, ovvero se fecero una lega di sceikh delle castella e villaggi, come sembra dalla epistola che Innocenzo loro indirizzò poco appresso. Il territorio occupato prendea gran parte delle odierne province di Palermo, Trapani e Girgenti.

Marcualdo, cacciato dalla Marca d’Ancona, incalzato tuttavia in Puglia dalle armi e dalle pratiche del papa, ribenedetto e nuovamente scomunicato con tanto maggior furore, prese l’audace partito di passare in Sicilia per impadronirsi della capitale e del re. Aiutato di navi e genti dai Pisani, ei s’imbarcò in Salerno; pose a terra a Trapani,[497] in su lo scorcio d’ottobre del centonovantanove. Sperava di certo ne’ Musulmani e nella perturbazione del paese; ma in quelle prime scene della tragedia, i comuni e la più parte dei feudatarii, non che i reggenti, abborrirono dal satellite d’Arrigo VI. Come prima si seppe ch’egli era arrivato, i ministri reggenti chiesero aiuti al papa.

E Innocenzo immantinenti (20 novembre 1199) a suscitare i conti, baroni, cittadini e gli abitatori tutti della Sicilia contro questo nemico di Dio, della Chiesa e del re; questo ribaldo che adesca i Saraceni, dando lor a bere sangue cristiano e abbandonando a lor voglie le rapite donne cristiane: donde [578] il sommo pastore concede indulgenze di crociata a chiunque prenda le armi contro Marcualdo; sendo certo che, s’egli coi Saraceni arrivi a insignorirsi della Sicilia, sarà chiusa la via di Terrasanta.[498] Pochi giorni appresso il papa accarezza quegli stessi infedeli contro i quali ha bandita la croce: ei scrive “a tutti i Saraceni di Sicilia, con augurio di serbarsi fedeli alla Chiesa ed al re.” Loda la inconcussa lealtà di lor gente; dice, romaneggiando, esser nota a chiunque “la mansuetudine della Sede apostolica, usa a resistere a’ superbi e favorire gli umili e i soggetti;” s’allarga su la tirannide e perfidia di Marcualdo; avverte i Saraceni che un giorno costui li tradirà a fine di riscattarsi col sangue loro, quando tutta la Cristianità armata piomberà in Sicilia, pria d’andare al riscatto del Santo Sepolcro. Li esorta dunque il papa a star saldi sotto il principato, loro antico sostegno; mentre il Legato e i capitani della Chiesa portano contro Marcualdo le armi temporali, con espresso comando di astenersi da tutta offesa contro i Saraceni e di proteggerli, all’incontro, e contentarli di nuove franchige.[499] Ognun vede da coteste parole che il papa sperava ancora di spiccare da Marcualdo i Musulmani, non chiaritisi punto ribelli. E chi ha in pratica l’eloquenza ecclesiastica di tutti i tempi, capirà bene che que’ Saraceni propiziati, com’avea testè scritto il papa ai Siciliani, con vittime cristiane d’ambo i sessi, non erano il grosso della nazione, ma qualche mano di servi della gleba fuggitivi, corsi all’odor [579] della preda e mandati da Marcualdo a dare il guasto ai paesi che non voleano riconoscere l’autorità sua.

Se non che a poco a poco la più parte degli abitatori del val di Mazara, Musulmani e Cristiani, seguirono Marcualdo; ond’egli, nella state del milledugento, avea accozzate tante forze da muover sopra la capitale. I reggenti, munitala come potean meglio, recarono Federigo per maggiore sicurezza, in Messina. Il papa mandò loro un po di danari, un Jacopo suo congiunto, maresciallo della Chiesa, alla testa di dugento cavalli, un cardinale legato e i due arcivescovi di Taranto e di Napoli, l’ultimo de’ quali conducea genti e navi. Accozzatevi in Messina le milizie siciliane, l’esercito mosse alla volta di Palermo, parte per terra e parte su le navi.

Con buono augurio giunsero gli uni e gli altri alla stessa ora, il diciassette luglio, quando la città, assediata per venti giorni, cominciava a patire penuria. Alloggiò l’esercito negli orti regii detti Genuardo:[500] ed apprestavasi a combattere la dimane; quando Marcualdo mandò un Ranieri di Manente, pisano, a trattare accordo o piuttosto a spiare e menare per le lunghe, tanto che gli assedianti raccogliessero nuove forze e che gli assediati consumassero quel po’ di danaro e di vittuaglie che rimanea loro. Così argomentava Anselmo arcivescovo di Napoli, caldo partigiano d’Innocenzo e narratore del fatto; il quale aggiugne ch’egli stesso e gli arcivescovi di Morreale e di Taranto s’opposero all’accordo e ch’eran quasi sopraffatti da’ fautori, il cancelliere, cioè, [580] l’arcivescovo di Messina e il vescovo di Cefalù, quando un Bartolommeo, segretario d’Innocenzo, troncò i dubbii leggendo un breve che proibiva assolutamente di patteggiare con Marcualdo. Rincalzavano i soldati e il popolo, gridando morte allo scomunicato. Talchè dopo quattro giorni perduti, si venne alle mani, il ventuno luglio del milledugento.

Marcualdo era sceso in pianura per la valle dell’Oreto, il cui asse, prolungato a monte fino al pendio che guarda il mare Affricano, riesce a Giato ed alle altre fortezze de’ Musulmani ch’erano manifestamente la base della guerra. Aveva egli occupate a sinistra, con cinquecento Pisani e grandissimo numero di Saraceni, le alture di Morreale e posti gli alloggiamenti, com’e’ pare, tra i due luoghi chiamati in oggi la Rocca e il Ponte della Grazia, cioè tra il piè del monte e la sponda del fiume. L’esercito regio gli s’attelò di faccia, capitanando la destra il conte Gentile, fratello del cancelliere, coi fanti; la sinistra il maresciallo pontificio coi cavalli: il quale afforzavasi in un castello, che io credo la Cuba e stava a riscontro di Marcualdo. S’appiccò la zuffa alle nove del mattino, quando Gentile, Malgerio ed altri nobili salirono l’erta di Morreale, occuparono la terra, tagliarono a pezzi i Musulmani, uccisero, tra gli altri, Magded condottiero di quelli e di tutta l’ala sinistra;[501] campando appena, con un [581] pugno d’uomini, Benedetto capitano de’ Pisani. Nel piano intanto Marcualdo co’ cavalli tedeschi e saraceni avea respinto per ben due volte gli assalti; ma al terzo scontro, il maresciallo si fece innanzi co’ suoi, sì che tutta l’ala sinistra de’ regii caricò il nemico, lo sbaragliò, irruppe nel campo: ch’eran le tre dopo mezzogiorno. Marcualdo fuggì; Ranieri, pisano, fu preso con molti altri uomini di nota; si sparpagliarono i vinti fuggendo pei monti e per le valli. Grande la strage; grandissima la preda; chè non bastò il rimanente della giornata a riportare in città tante ricchezze, tra le quali fu preso uno scrigno che conteneva proprio il testamento di Arrigo VI.[502]

[582]

La quale vittoria giovò poco, perchè il cancelliere, sempre più sospettando del papa, tagliò i passi al maresciallo e al legato, sì che frustati si tornarono a Roma; ed egli, arbitro del governo in Sicilia, ruppe una seconda fiata Marcualdo a Randazzo;[503] ma poi s’accordò con lui, per far contrappeso a Brienne: e per lo stesso motivo, credo io, tutta la Sicilia,[504] fuorchè Palermo e Messina, parteggiò pel condottiero ghibellino. Continuò infino all’emancipazione di Federigo quella tenzone tra il pastor della Chiesa universale e il vescovo di Troja, il quale alla fine fu sgarato dal possente avversario, o piuttosto l’uno prevalse in Terraferma, l’altro nell’isola; onde avvenne che non potendo conseguire intero, nè l’uno nè l’altro, il proprio intento, s’accordarono entrambi a favor del pupillo; secondati anco dalla fortuna che fe’ morire immaturamente i loro campioni, Brienne e Marcualdo. Tralasciando i particolari che son brutti, noiosi e intralciati, noi toccheremo soltanto la condizione [583] in cui rimase Federigo, e diremo più largamente dei Musulmani.

Il re fanciullo fu ricondotto dopo la sconfitta di Marcualdo in Palermo;[505] dove presero cura di lui amorevolmente i cittadini e in particolare i canonici della cattedrale i quali par abbiano avuto molto seguito nel paese. Ebber Federigo in custodia successivamente il cancelliere, il conte Gentile suo fratello, Marcualdo, Guglielmo Capparrone condottiero tedesco, Diopoldo uom della stessa nazione, famigerato in tutta la guerra civile, e poi nuovamente il cancelliere; il quale, assentendo il papa, emancipò il giovanetto a quattordici anni e l’ammogliò con Costanza, sorella di Pietro II re di Aragona, vedova di Emmerico re d’Ungheria. Così dall’agosto del milledugento a’ primi di gennaio dugento otto, si educava alla scuola dell’avversità il re filosofo del decimoterzo secolo; chiuso nella città e forse nell’ambito della reggia e de’ giardini reali, per maggiore sicurezza della sua persona o gelosia di coloro che comandavano. Quand’egli uscì all’aperto, menato per mano dalla moglie, trovò usurpato, scompigliato, dissipato il reame. Nulla diremo della Terraferma, dove il papa mal potea domare l’anarchia feudale e pur usurpava egli stesso alcuni diritti del re e concedea feudi al proprio fratello e ad altri suoi congiunti. In Sicilia era distratta la più parte del demanio regio, tra usurpazioni e concessioni fatte da’ reggenti per abuso o necessità; Siracusa inoltre e parte della provincia [584] teneasi da’ Genovesi, a’ quali la reggenza avea compiute finalmente le promesse di Arrigo VI sperando aver da loro qualche aiuto contro Pisa. Serbò fede il popolo e il clero delle altre città primarie, Palermo, Messina, Catania, Caltagirone, Nicosia, come Federigo stesso riconobbe con le parole e con le opere:[506] le quali città se valsero a difenderlo e fornire le spese della corte quand’egli fu emancipato, i loro fanti non bastavano a ridurre all’obbedienza il rimanente dell’isola. Donde la regina fu costretta a far venire il conte di Provenza, congiunto suo, con cinquecento cavalli assoldati, i quali condussero Federigo da Palermo a Catania e Messina (1209) e l’aiutarono tanto o quanto a farsi riconoscere da’ feudatarii ed a riscuotere un po’ di danaro; ma una epidemia decimò cotesti ausiliarii e la povertà della corte non permesse di rifornirli.[507] Molto meno poteva il re con forze sì scarse reprimere i Musulmani, che fin dal milledugentotto s’erano chiariti ribelli.

Il movimento de’ Musulmani a pro di Marcualdo (1200) non ebbe taccia di ribellione, poichè la più parte dell’isola riconoscea reggente il gran Siniscalco a preferenza del papa e del cancelliere. Quando il cancelliere poi s’acconciò con Marcualdo e questi entrò nella reggia di Palermo, i Musulmani andavan chiamati fedeli a tutta prova; [585] nè smentironsi nelle vicende successive della corte. Il papa stesso, sapendoli forti e leali, avea data licenza al cancelliere, nell’ottobre, com’e’ pare, del milledugento, di far accordo con essi, mentre lo vietava con Marcualdo.[508] Qualche anno appresso Innocenzo li tenea sudditi incolpabili, poichè ficcatisi certi monaci di Morreale nelle castella di Giato e Calatrasi, feudi del monastero, ch’erano abitati senza il menomo dubbio da’ Musulmani, il papa scrisse aspre rampogne a que’ ribaldi, rinfacciò loro i patti fermati con Marcualdo, le pratiche fatte col Capparrone contro l’arcivescovo, ma non fece motto della società coi Musulmani, che sarebbe stata pure un bel capo d’accusa.[509] E v’ha più di questo. Nel settembre del [586] milledugentosei, quando Innocenzo credea d’avere ridotto all’obbedienza il cancelliere e i condottieri tedeschi di Sicilia, egli scrivea benignamente «al cadì e a tutti i kâid di Entella, Platani, Giato e Celsi e agli altri kâid e Saraceni tutti della Sicilia, con augurio di comprendere e amare la verità, ch’è Dio stesso.» Dopo questa definizione, più musulmana che cristiana e più filosofica che musulmana, il tollerante pontefice si rallegrava con que’ capi, che la misericordia divina li avesse difesi dalle tentazioni di tante maniere, con che altri avea cerco di trarli fuor dalla via dritta e li avesse mantenuti fedeli al signor loro, il re di Sicilia: e infine li esortava a continuare in quel partito onesto ed anco savio, poichè il re, prossimo alla età del discernimento, avrebbe saputo rimeritarli.[510]

Pur cotesta ammonizione, chiesta al papa, com’egli è evidente, da’ reggitori di Palermo, fa supporre ch’e’ già sapessero malcontenti i Musulmani e si studiassero a prevenire la ribellione loro. Della quale era apparecchiato il motivo. I capi guelfi e ghibellini del regno accordatisi alfine, come abbiam detto, [587] a corte di Palermo, trovavano appunto esaurita, la comoda sorgente de’ beni demaniali, quando facea mestieri di attingervi nuovamente per soddisfare a tutte le cupidigie de’ loro partigiani e degli avversarii, pria dell’emancipazione del re. Ed appunto e’ sembra che gli ultimi territorii rimasi in demanio fossero abitati da Musulmani. Erano abitate di certo da loro le castella e le ville che Guglielmo II e i successori aveano concedute a varii corpi ecclesiastici, come la mensa vescovile di Girgenti, il monastero di Morreale e il clero di Palermo, sì benemerito a corte e sì potente nella capitale. Cotesti beni, tenuti ora da’ Musulmani si dovean rendere, poichè altro non v’era da dare in cambio; cioè a dire che i Musulmani doveano pagare lo scotto della reggenza. Così è bell’e fatto il comento d’un capitoletto delle Geste d’Innocenzo, che senza ciò mal si comprenderebbe. Scrive l’anonimo autore, tra varii avvenimenti da riferire al milledugentotto, che mentre il cancelliere soggiornava col re in Palermo e tentava ogni modo di togliere il palazzo regio al Capparrone, si trattò un accordo tra i costui partigiani e que’ del cancelliere; e che i Saraceni rifuggiti nelle montagne, avendone sentore, non solo si chiarirono ribelli, ma calati giù da’ loro recessi, dettersi a infestare i Cristiani, presero il castello di Corleone e minacciavano di far peggio.[511] Corleone era appunto la maggiore delle terre concedute da [588] Guglielmo II al monastero di Morreale. A chiarir meglio il motivo di questa aperta ribellione, noi troviamo due anni appresso un diploma di Federigo, per lo quale sono rinnovate a favore della chiesa di Palermo larghissime concessioni del tempo di Arrigo o piuttosto di Costanza; e tra gli altri beni sono nominati de’ villaggi musulmani ed anco il tenimento di Platani,[512] dove i Musulmani fecero testa poi per tanti anni, a Federigo salito all’apice della sua possanza.

Federigo, quand’egli uscì di tutela più tosto che di fanciullezza, non pensava al certo di andar a trovare i Musulmani entro i lor monti. Molto meno poteagli venire in capo di racchetare que’ ribelli, stracciando i diplomi pei quali i beni or tenuti da loro erano stati conceduti alle Chiese o a’ baroni della sua corte. Pertanto ei lasciò stare questi, come tanti altri occupatori dei demanii dello Stato o de’ feudatarii, in Terraferma e nell’isola. E la ribellione dei Saraceni, durava ancora, anzi facean essi uno Stato dentro lo Stato, quando Ottone, eletto imperatore, venuto a Roma a prender la corona, si volse al conquisto del regno, favorito al par da’ Guelfi e da’ Ghibellini. Per procaccio allor de’ Pisani e di Diopoldo che si chiarì per lui, Ottone, occupate ch’egli ebbe Napoli e Aversa (1210), appiccò pratiche in Sicilia: onde corse la voce ch’ei fosse stato invitato da’ Musulmani e da alcuni feudatarii dell’isola a passar quivi con l’esercito, al quale [589] si prometteano validi aiuti per cacciar Federigo.[513] Perfin si disse che questi, sentendosi in pericolo, tenea bella e pronta sotto la reggia una galea per fuggire in Affrica.[514]

CAPITOLO VIII.

Ma Federigo prese via più sicura assai che la fuga. Il papa cercava un anti-imperatore ghibellino per abbattere l’imperatore guelfo, sua propria fattura: avea pertanto scomunicato Ottone; sciolti i sudditi dal giuramento; disseppellita la elezione del figliuolo d’Arrigo VI; accesa la guerra civile in Germania; e procacciata in un’adunanza a Nuremberg [590] la deposizione dell’uno e la elezione dell’altro, ch’indi fu detto da’ Guelfi “il re de’ preti” e talora “il ragazzo di Puglia.”[515] Questo animoso giovane di diciotto anni, fastidito di regnar senza governare nell’anarchia dell’Italia meridionale, gittossi a capo chino nella rivoluzione di Germania. Chiamato in fretta dagli elettori, diede a Innocenzo tutte le guarentigie di sommissione ch’ei richiedeva; e lasciati in Sicilia la moglie e il figliuolo Arrigo, navigò di Messina a Gaeta (marzo 1212); trovò il papa a Roma; andò per mare a Genova; e cavalcando per Pavia, Cremona e Trento, arrivò a Basilea (26 settembre), scansate a mala pena le poste de’ Guelfi. Ottone, ritornando addietro, lo inseguì invano. La guerra ingrossò, per la lega d’Ottone con l’Inghilterra e con altri nemici e ribelli della Francia; onde Filippo Augusto si fece tanto più volentieri paladino del papa. Ottone, vinto dal valor francese alla battaglia di Bouvines (27 luglio 1214), abbandonato da tutti, morì a capo di pochi anni (1218). E Federigo necessariamente gli sottentrò nella tenzone contro il papato; al quale era mancato in quel tempo Innocenzo (1216), ma avea lasciati dietro di sè funesti esempi d’ambizione e di violenza.

Dopo otto anni, Federigo, composte le cose in Germania, ritornò in Italia: incoronato imperatore in Roma (22 novembre 1220), calò nel regno a ristorare l’autorità ch’era tanto cascata abbasso in quegli ultimi trent’anni. Al quale effetto, in Terraferma [591] ei convocò parlamenti, promulgò rigorose leggi, sforzò con le armi i baroni ricalcitranti. Passato nell’isola, gli bastò la riputazione a ridurre i Cristiani. Ma i Musulmani gli detter travaglio.

Perchè tra loro e i Cristiani tutti insieme, governanti e governati, baroni e clero e cittadinanza, era divenuto impossibile ogni accordo. Non esacerbava gli animi qui, come avvenne poi in Spagna, l’intolleranza religiosa del principe, nè del popolo: anco a considerare il clero solo, e’ ci sembra più cupido che fanatico fin dal regno di Guglielmo II;[516] anzi abbiam visto che Innocenzo, nel cento novantotto, tentò invano d’aizzare i Siciliani alla caccia degli Infedeli.[517] Ma del sangue se n’era sparso, della roba depredata e distrutta d’ambo le parti: e il maggior ostacolo era la condizione sociale de’ Musulmani e la condizione politica de’ Cristiani. Vivendo da più di venti anni nelle terre occupate, o come pensavan essi, rivendicate, del Val di Mazara, i Musulmani non si poteano sottomettere senza accettare la povertà e il servaggio; poichè il principe doveva onninamente restituire beni e villani ai concessionarii, la più parte dignitarii ecclesiastici. I quali essendo i veri partigiani del trono, convenia che Federigo se li tenesse amici nella lotta alla quale ei s’apprestava, contro il papa e [592] i baroni del regno. Veggiamo in fatti che l’imperatore, (luglio 1220) a domanda di Caro arcivescovo di Morreale, confermò la concessione di tutte le città, castella, casali, ville, chiese, possessioni, villani e diritti di quella Chiesa, i quali nel turbamento erano stati occupati, e tuttavia si tenevano illecitamente, da Saraceni o da Cristiani.[518] A comprender meglio l’importanza della cosa, notisi che cotesto diploma fu replicato dopo otto mesi a Brindisi (marzo 1221) e fuvvi aggiunto che gli affidati e i villani allontanatisi dal territorio, ritornasservi con tutte le robe; e s’e’ fossero morti, si prendessero i beni de’ figli.[519] Per somigliante concessione erano stati donati all’Ordine teutonico, nel dugento diciannove, il casale di Miserella, i villani di Polizzi dovunque e’ si trovassero, il podere di Artilgidia presso Palermo ed altri possedimenti e diritti in varii luoghi.[520] Occorrendo nel medesimo tempo di pagare debiti vecchi o nuovi, Federigo dava de’ casali, abitati, com’e’ sembra, da Musulmani; dei quali atti, due soli ci sono pervenuti: la concessione di Scopello alla chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio in Palermo, per prezzo del vasellame d’oro e di argento, preso all’uopo della guerra;[521] e la donazione di Mussaro e Minzaro [593] al vescovo di Girgenti, in compenso di settemila tarì d’oro forniti un tempo alla corte.[522]

Nè Federigo dovea tanto assicurare il possedimento de’ concessionarii, quanto difender mezza l’isola dalle scorrerie di gente ormai straniera. Minacciati, i Musulmani aveano risposto come li portava lor indole fiera e rapace. Oltre i fatti raccontati poc’anzi,[523] sappiamo che il milledugentodiciannove “i nemici della Croce” avean già dato il guasto allo Spedale di San Giovanni de’ Leprosi, proprio alle porte di Palermo.[524] Ritraggiamo ancora che Orso vescovo di Girgenti, fu preso da’ Saraceni e tenuto prigione per quattordici mesi nella rôcca di Guastanella, dalla quale ei si riscattò per danaro; e che intanto i beni del vescovato erano occupati, impedito l’esercizio dei diritti, e stanziavano i Saraceni nel campanile della cattedrale e nella casa attigua, sì che i Fedeli non osavan pur andare in chiesa a far battezzare i figliuoli: il qual fatto si dice avvenuto a’ tempi di [594] Federigo imperatore e torna al dugentoventuno.[525] Nella Sicilia occidentale le scorrerie, o almeno i [595] pericoli, arrivavano dall’uno all’altro mare, da Girgenti a Cefalù: essendo stato provato non guari appresso, dinanzi a commissarii papali, che il fisco levò danaro in Cefalù e in Pollina, dominii del vescovo, per difenderli contro i Saraceni; e che mandò presidio nella rôcca di Cefalù, non meno per diritto di regalìa, che per assicurar la città, situata nella Marca de’ Saraceni.[526]

La quale denominazione, transitoria com’e’ pare e pervenuta a noi in questo luogo solo, non può significare altro che contrada di popolazione mescolata, esposta agli assalti, sì per la vicinanza alle sedi dei ribelli, e sì per la frequenza de’ villani musulmani in varie terre.[527] La Marca dunque tornava, su per giù, alle odierne province di Palermo, Trapani e Girgenti; al val di Mazara del secolo scorso; alla Sicilia di là dal Salso del periodo svevo; alla provincia lilibetana de Romani. E par che quella divisione in due province partite dal Salso, sia stata principalmente consigliata a Federigo dalla diversità degli ordini sociali e dei costumi. Da’ fatti che precedono e da que’ che seguono, parmi che i Musulmani occupassero [596] sempre il centro montuoso di codesta regione, dove s’erano afforzati all’entrare del secolo; se non che or li veggiamo ingrossare alle foci del Drago e del Platani, sia per novello movimento loro, sia perchè i bricioli di lor memorie che il caso ci ha serbati, si riferiscono a questo periodo ed a questi luoghi.

In vece de’ centomila Saraceni di Ruggiero De Hoveden,[528] abbiam ora i ventimila combattenti di Lucera, secondo Giovanni Villani,[529] e più autorevole attestato, quel di Riccardo da San Germano, cioè che diecimila soldati Saraceni moveano di Lucera a’ comandi dell’imperatore il milledugentrentasette,[530] quando non erano stati per anco deportati tutti i Musulmani di Sicilia. Possiamo dunque supporre in quella sola terra di Puglia, atteso le circostanze peculiari, un cinquanta o sessanta migliaia di coloni. Ed altrettanti, per lo meno, è da credere siano rimasti nell’isola, senza contare gli artigiani e i servi delle città, dei quali abbiam qualche ricordo, nè i villani che l’interesse o la carità dei padroni ritenne, com’egli è probabile, nelle campagne. Del resto verosimil sembra che il numero de’ ribelli variasse da stagione a stagione, per causa de’ villani che dalle parti centrali e dalle orientali dell’isola corressero alla montagna del val di Mazara, o al contrario fuggissero dalle bandiere de’ ribelli, per andare a vivere tranquilli.[531] Si può supporre, secondo me, nel periodo [597] culminante della rivoluzione, un venticinque o trenta migliaia di combattenti musulmani.

Le consuetudini immobili di quei popoli e i cenni che veggiamo nelle memorie contemporanee,[532] ne fanno certi che i ribelli si ressero, anche in questo movimento, per Kaid e Sceikhi. Ebber essi un capo militare famigerato, morto nel primo anno della guerra, il cui nome si legge in una cronica Benavert, per falsa correzione, cred’io, del copista che si ricordava troppo d’aver letti i casi dell’ultimo signore musulmano di Siracusa.[533] Le copie di Riccardo da San Germano, scrittore di tanta autorità, hanno Mirabetto; la qual voce parmi guasta dalle bocche de’ Cristiani che la ripeteano: e andrebbe corretta Morabit o, diremmo noi, frate guerriero, Marabutto, Almoravida.[534] Possiamo anco supporre chiamato con tal denominazione un uomo il cui casato, aggiunto ad un titolo notissimo, suonava Emir-Ibn-’Abs, e indi Mir-’Abs. Ibn-Khaldûn racconta, nella storia degli Hafsiti di Tunis, che morto il sultano Abu-Zakaria-Jehia, (2 ottobre 1249) i Cristiani di Palermo dettero addosso a’ Musulmani, in favor de’ quali egli avea stipulato col signore dell’isola la sicurtà delle persone e de’ beni urbani e rurali; che i Musulmani, rifuggitisi nelle fortezze e [598] nelle rupi, presero per capo un fuoruscito della schiatta de’ Beni-’Abs e resistettero al tiranno cristiano; che assediati, circondati e costretti ad arrendersi, furono tramutati a Lugêrah, popolosa terra d’Italia; e che indi il tiranno andò a Malta, caccionne i Musulmani, mandolli insieme con quegli altri, e impadronitosi di tutte le isole adiacenti, cancellò il nome musulmano in Sicilia.[535] L’identità del qual fatto è evidente, al par che l’anacronismo di mezzo secolo nel principio della ribellione, e al par che l’errore su la causa di quella; le quali mende, del resto, non debbono rimandare dubbio sul nome del condottiero. La possente tribù arabica, di ’Abs, dalla quale nacque Antar, il famoso poeta classico ed eroe da romanzo, sembra stanziata, fin dai primi tempi del conquisto musulmano dell’Affrica, nella penisola di Scerîk, detta oggi Dakhel, la quale termina col capo Bon, di faccia al Lilibeo.[536] Verosimil’è che i [599] Beni-’Abs siano venuti in Sicilia coi conquistatori; oppure che, rimanendo la tribù nel Dakhel, un uomo facinoroso di quella, forse un pirata, si fosse gittato in Sicilia al rumor della guerra; poichè il predicato che gli dà Ibn-Khaldûn torna qui a masnadiere, facinoroso, o ribelle.[537]

Federigo passò nell’isola, di maggio del ventuno; tenne un parlamento a Messina;[538] fece il giro delle città principali fino allo scorcio dell anno;[539] ed attese di certo a preparare gli animi e le cose alla guerra, con provvedimenti di maggiore rilievo che non ne veggiamo nelle cronache e ne’ diplomi.[540] Talchè, sperando facile vittoria o dicendolo, egli andò [600] a trovare (febbraio 1222) Onorio III a Veroli; gli promesse di bandire quanto prima la Croce a Verona; e ritornato nel regno, messosi a strignere il ribelle conte di Celano, fu necessitato a lasciar quello e sopraccorrere in Sicilia contro Mirabetto, che infestava fieramente il paese.[541] Io penso che il caso fosse di maggiore momento che nol dicano i cronisti; poichè Federigo avea fin dall’anno innanzi offesi gravemente i Genovesi, a’ quali non mancava nè l’animo nè il modo di vendicarsi: e in fatti veggiamo avvolto in questa ribellione un de’ più valorosi marinai di lor gente.

I luoghi, i tempi, le fazioni della guerra capitanata da Federigo, sono pressochè ignoti: sappiamo soltanto che l’imperatore, dalla metà di luglio fin oltre la metà di agosto, stette all’assedio di Giato;[542] che quivi o in altro luogo ei prese Mirabetto e due suoi figliuoli, con Guglielmo Porco da Genova, poc’anzi capitano d’armata in Sicilia, ed Ugo Fer da Marsiglia, il quale avea, molti anni prima accalappiati a migliaia de’ fanciulli francesi e tedeschi, col pretesto di recarli alla Crociata, ma li avea venduti schiavi in Affrica e in Egitto, e dopo lunghe vicende s’era gittato, insieme col genovese, in Sicilia. Federigo fece impiccare in Palermo Mirabetto e compagni; ma con ciò non pose fine alla guerra.[543]

[601]

A ripigliarla con maggiori forze, ripassava l’imperatore in Puglia, spegneavi altre faville di ribellione feudale, muniva le città e le castella e nella state [602] del ventitrè,[544] veniva in Sicilia, per incalzare da presso i ribelli Musulmani. Leggiamo senz’altro che parte gli s’arresero; i quali ei fece trasportare a Lucera; parte, fidandosi nella fortezza de’ luoghi, tennero fermo.[545] Argomentiamo da due documenti che i primi fossero abitatori dell’odierna provincia di Girgenti;[546] e sappiamo che si arresero all’entrar della state, poichè Federigo, in una lettera scritta allora a Corrado vescovo di Hildesheim, si rallegrava che ogni cosa accadesse secondo i suoi voti, “chè perfino egli avea fatti scendere alla pianura tutti i Saraceni afforzatisi pria ne’ gioghi de’ monti e [603] in altri luoghi inespugnabili.[547]” Le quali parole, riscontrate con quelle che l’imperatore scriveva un anno appresso a papa Onorio, ci mostrano che smessi i combattimenti e gli assedii, ei s’era appigliato al disegno, lento sì ma sicuro, di stringere i Musulmani con la fame, guastando le ricolte loro ne’ monti e intercettando ogni altra vittuaglia. Così avea dunque costretti alla resa i deportati di Lucera; così sperava trionfare degli altri: e, sendo necessaria a quella maniera di guerra molta gente e ben disciplinata, l’imperatore, come si ritrae da Riccardo di San Germano, lo stesso anno ventitrè e i due seguenti, chiamò i baroni al servizio militare e levò danaro per assoldare stanziali.[548] La guerra de’ Saraceni era cagione e talvolta anco pretesto; come sembra nel caso de’ quattro conti di Terraferma, i quali, venuti in Sicilia a prestare il servigio feudale (1223), furon presi e confiscati loro i beni.[549] Similmente l’epistola di Federigo ad Onorio, alla quale abbiamo testè accennato, ricorda un fatto vero: e pur non sarebbe calunnia ad affermare che l’imperatore l’usò per differire la crociata, alla quale Onorio lo sforzava con animo di tagliargli i passi in Lombardia. Scrisse Federigo, dunque, al papa da Catania, il cinque marzo del ventiquattro, che allestiansi ne’ porti del reame, da poter salpare nella prossima state, cento galee, [604] cinquanta uscieri pe’ cavalli, e navi e legni senza fine e ch’egli stava già per partire alla volta di Germania a fin di chiamare alle armi i Crociati, quand’ecco il capitan generale dell’esercito che osteggiava i Saraceni, gli avea menati in Catania i Kaid e gli Anziani, i quali a nome di tutti i Saraceni della montagna, venivano a trattare di sottomissione. Federigo continuò che, convocato il consiglio di Stato, era parso a tutti non doversi il principe allontanare in quell’incontro, per timore che i ribelli si pentissero e che, prolungata la negoziazione, arrivassero a segare i grani, e addio pace per quell’anno! Conchiuse pertanto l’imperatore ch’ei rimarrebbe in Sicilia tanto che ultimasse l’accordo; che manderebbe Hermann, gran maestro de’ cavalieri teutonici, a bandir la Croce di là dei monti e che nella state, a Dio piacendo, ogni cosa sarebbe in punto ed ei scioglierebbe il voto della Crociata.[550] Il fatto andò allora per le bocche di tutti in Germania, leggendosi con poco divario negli annali di Colonia; i quali aggiungono essere stata profferta la sottomissione da’ Saraceni del monte Platano;[551] ma non sappiamo se s’abbia a intendere del forte castello di tal nome che sorgea sulla sponda del Platani a sette miglia dalla foce, o se piuttosto si volea significare tutta la regione montuosa, bagnata da [605] quel fiume.[552] Il fatto fu che nè Federigo partì allora per Terrasanta, nè i Musulmani furono altrimenti sottomessi o rappacificati in Sicilia. La sola impresa del dugentoventiquattro par sia stata di cacciarli di Malta, tutti o parte; poichè, oltre il cenno d’Ibn-Khaldûn, ritraggiamo che Federigo mandava in quell’isola gli abitatori di Celano di Puglia, espulsi di lor terra quando l’avean presa le forze del re, e poi richiamati in patria, per coglierli alla rete e tramutarli in Sicilia.[553] Il bando de’ Musulmani da Malta sembra tanto più verosimile, quanto in quel tempo le genti di Federigo avean dato il guasto all’isola delle Gerbe e fattavi gran copia di schiavi.[554] L’occupazione [606] delle isolette adiacenti alla Sicilia, attestata da autori arabi e da latini, è da riferire al medesimo tempo.[555] Coteste imprese marittime, compiute in una o due stagioni, sembrano le prime prove dell’ammiraglio, forse genovese, sostituito ad Arrigo conte di Malta, il quale era stato deposto e privato del feudo, per l’oscitanza appostagli nella guerra contro i Musulmani d’Egitto, o, com’altri scrisse, di Sicilia;[556] se pur Federigo non colse il destro di liberarsi dal fiero marinaio, la cui prepotenza e ambizione egli avea temuta di certo nei primi anni del suo regno ed or gli dava sospetto la vecchia amistà di lui co’ Genovesi, o faceva ombra a’ Pisani parteggianti per l’impero.[557]

[607]

Secondo Riccardo da San Germano, Federigo nel dugentoventicinque chiamava alle armi tutti i baroni regnicoli, per dar l’ultimo crollo a’ Saraceni di Sicilia, e andava egli stesso in Puglia a ragunare l’esercito;[558] secondo un monaco tedesco, assiduo raccoglitor di nuove, ei riportò nobile trionfo de’ Saraceni che tenean le montagne di Sicilia:[559] un anonimo poi, che par sia vissuto in Sicilia ed abbia scritto poco oltre la metà del decimoterzo secolo, mette insieme que’ due fatti quasi con le stesse parole, nella decimaterza indizione, da riferirsi, com’io credo, al dugentoventicinque, ed aggiugne che le genti dell’imperatore davano il guasto ogni anno alle terre dei Saraceni, ond’essi furono costretti con gran vergogna [608] a scendere di lor monti e Federigo li fe’ dimorare ne’ casali della pianura.[560] Poi per diciott’anni nè gli scrittori, nè i documenti fanno parola di popolazioni musulmane ribelli: danno bensì notizie di singoli musulmani ubbidienti nell’isola e de’ grossi stuoli che la colonia di Lucera forniva agli eserciti ghibellini tra il Garigliano e le Alpi. Si può inferir da cotesti indizii che, l’anno venticinque, quel grande armamento abbia portato l’effetto che l’imperatore si proponeva; cioè che i ribelli abbiano piegato il collo senza combattere. Plausibile anco il supposto che que’ della provincia di Girgenti fossero stati mandati in Terraferma come i vinti di due anni innanzi;[561] e che que’ delle altre due province fossero stati lasciati nel possedimento di terre o nell’esercizio d’industrie, dati pria gli ostaggi secondo i costumi di lor gente. Certo egli è che i Musulmani di Sicilia non molestaron punto nè poco lo imperatore, infino al dugentoquarantadue, mentr’ei si travagliò nelle guerre di Palestina, del Regno, di Lombardia e della Sicilia orientale.

Nelle prime caldezze della esaltazione all’impero, Federigo fe’ voto di prender la Croce;[562] lo rinnovò il giorno dell’incoronamento e più volte giurò o promesse d’andare, sforzato da’ papi; i quali non sognavano forse la ricuperazione del Santo Sepolcro, [609] ma lor premea che l’imperatore, in vece di signoreggiare l’Italia, ne toccasse in Levante come Corrado, o vi morisse come il Barbarossa. Il cui nipote, non potendo disfare il cappio ch’ei s’era messo al collo, domandò respitto al papa che il tirava duro; ed allegò sovente la guerra de’ Saraceni di Sicilia.[563] Furbo contro furbi, ei passò tutto l’anno ventiquattro e i primi mesi del seguente in Sicilia, fermo la più parte in Catania,[564] come s’egli avesse voluto stare in bilico tra la Crociata e la guerra de’ Musulmani indigeni, guardando da un lato Otranto e Brindisi, ritrovo delle armate e degli eserciti crocesegnati, e dall’altro la via di Girgenti, più sicura di lì che da Palermo e più facile e breve che da Messina. Privo alfine della scusa de’ Saraceni, incalzato dal violento Gregorio IX, s’imbarcò a Brindisi, nonostante la morìa che mieteva i Crociati (8 settembre 1227); tornò a terra infermo; fu scomunicato dal papa e assalito anche con la spada; e partì di nuovo (28 giugno 1228) con poche forze, fidandosi nella divisione de’ principi aiubiti che occupavano la Siria e nelle negoziazioni intavolate col più possente tra loro. L’ira studiata di Gregorio lo perseguitò mentr’egli liberava il Santo Sepolcro; i Cristiani di quelle parti pretestarono le scomuniche per attraversargli l’esaltazione al trono di Gerusalemme, recatogli in dote dalla nuova sua sposa: contuttociò, savio ed ardito, ei condusse a termine il trattato, come sarà detto nel capitolo seguente.

[610]

Ritornò Federigo in Italia dopo undici mesi, a cacciare i papalini da’ suoi dominii e gastigare i sudditi che s’eran gittati dalla parte loro. Sforzò il papa a giurar la pace e s’avvolse nelle guerre della seconda Lega Lombarda, nelle persecuzioni de’ Paterini d’Italia e di Germania: la maledizione del falso impero romano, trascinava quest’uom sì civile a combattere ciecamente contro la libertà e ad accendere i roghi dell’Inquisizione. Gli umori di libertà municipale, ridesti in Sicilia tra le popolazioni greche e un po’ tra le lombarde, per gli esempii guelfi di Terraferma, per le istigazioni dei frati e, come io credo, anche de’ Genovesi, portarono i moti che Federigo represse co’ supplizii a Messina,[565] Siracusa[566] e Nicosia; e ch’ei punì a Centorbi, Capizzi, Traina e Montalbano con la distruzione delle case e il bando dei cittadini, sforzati a dimorare in altre città.[567] Ma cedendo un poco all’opinione pubblica, Federigo nello stesso tempo rese ordinarie le tornate de’ parlamenti regionali e chiamovvi espressamente i Comuni.[568]

[611]

Rinforzaronlo nelle guerre di Terraferma le colonie di Musulmani siciliani, stanziate dapprima a Lucera, come si è detto; ma poi ne veggiamo un’altra a Girofalco ed anco ritraggiamo che l’imperatore adoperasse spicciolati gli uomini di quella gente, in Puglia e in Calabria a’ servigi suoi:[569] de’ quali il più profittevol era di tenere a mezzeria delle mandrie di buoi, tra domi e salvatici.[570] Pur traeva i Musulmani sì forte l’amor del luogo natìo, che quando n’aveano il destro, tentavano di ripassare clandestinamente in Sicilia:[571] onde Federigo comandò nel trentanove fosser tutti raccolti a Lucera.[572] E quivi rimase infino al milletrecentotrè, quella celebre colonia militare; quivi si notano tuttavia gli avanzi delle fortificazioni, con le quali i principi svevi assicurarono il soggiorno de’ lor fidi pretoriani.[573] Che se negli scritti contemporanei il nome geografico si legge spesse volte Nocera, l’è stato errore ed è nato dall’uso, che suol sempre sostituire le parole comunali alle insolite; onde si preferì il derivato d’un [612] vocabolo familiare al nome d’un’antica città, la quale era molto scaduta ne’ principii del secolo decimoterzo. Si confermò l’errore per due circostanze fortuite, cioè che Nocera s’addimandava De’ Pagani ed anco, per antitesi, De’ Cristiani e Lucera fu detta de’ Saraceni; e che entrambe erano da lunghissimo tempo sedi vescovili. Del resto quelle due città giacciono molto lungi l’una dall’altra, divise dall’Appennino: Lucera in Capitanata, Nocera in Principato, o, per usare i nomi odierni, quella in provincia di Foggia, questa di Salerno; nè alcun documento prova, nè egli è verosimile, che Federigo abbia raccolta una seconda colonia di Musulmani in Nocera, come alcuni compilatori hanno scritto e come si dice anch’oggi in que’ paesi.[574]

Gli ordinamenti di cotesta colonia e la fama [613] ch’essa ebbe in guerra per tutto il rimanente della dominazione sveva e nei primordii dell’angioina, son degno argomento d’una storia particolare; per la quale anzi tutto occorre di esaminare di pagina in pagina i registri angioini e le molte pergamene contemporanee che serbansi nell’archivio di Napoli. Secondo il proposito annunziato parecchi anni addietro, io mi rimarrò da cotesto lavoro, al quale allor mi mancava il comodo di ricercare le sorgenti, ed ora mi par troppo tardi.[575] Contuttociò, portato dal mio subietto a investigare l’origine di quella popolazione, dico crederla al tutto siciliana. E se or non fosse sospetta da capo a fondo la Cronaca di Matteo Spinelli, io metterei sempre in forse quel luogo nel quale si afferma che del dugentrentaquattro Federigo facea venire in Calabria diciassette compagnie di Saraceni di Barbarìa. Sì grave fatto, taciuto dai contemporanei, e incompatibile con le condizioni dei Musulmani dell’Affrica settentrionale in quella età, sembra foggiato in un tempo in cui gli eruditi, ignorando la storia de’ Musulmani di Sicilia, non sapevano spiegare altrimenti quel gran numero d’Infedeli che conduceva in sue guerre l’imperator Federigo.[576]

Mentre gli esuli di là dal Faro s’acconciavano nella nuova patria, i rimasi in Sicilia erano in parte allontanati da lor sedi. Il volume che ci avanza de’ registri di Federigo, scritto nell’indizione che [614] corse tra il trentanove e il quaranta, ci fa fede che de’ Musulmani erano stati mandati a servire, non sappiam se da soldati o da manovali, ne’ castelli regii di Siracusa e di Lentini,[577] ch’è a dire all’altra estremità dell’isola. Nello stesso anno gli abitatori di parecchi casali, della provincia, credo io, di Palermo, non ribellatisi o perdonati, veniano alla capitale, nel quartiere di Seralcadi, che nel decimo secolo era stato detto degli Schiavoni, ed or s’addimanda parte il Capo e parte la Bandiera. I quali non parendo ben deliberati a farvi stanza come bramava lo imperatore, scrivea questi a’ suoi ufficiali che efficacemente li esortassero a ciò e lor promettessero favore e grazia, ed allo stesso fine mandava lettere regie indirizzate a que’ Saraceni.[578] Un altro rescritto di Federigo, spacciato prima o dopo di questo, ci fa sapere che il Segreto della provincia oltre il Salso, avea con soddisfazione dello imperatore, persuasi i Saraceni a migliorar loro abituri; provvede siano affittate le bajulazioni di cotesti Saraceni; e mostra anco esser lieto l’imperatore che que’ “della provincia, usi ed occulti misfatti, già smettano, e già temano d’essere malvagi.”[579] Non sappiam di che nazione fossero, nel dugenquaranta, gli uomini de’ casali di Arcuraci e Andrani, a’ quali si comandava di passare ne’ nuovi casali fondati a levante e a ponente di Girgenti.[580] [615] Abbiamo bensì valido argomento di credere che nel dugentoquarantadue, il territorio di Cefalà in provincia di Palermo, fosse stato ancora abitato, tutto o parte, da contadini musulmani. Un Goffredo, chierico della Cappella Palatina di Palermo, non sapendo precisamente i limiti di un podere appartenente allo Spedale di San Lorenzo di Cefalà, ch’egli teneva in beneficio dalla Chiesa di Girgenti, domandò al Segreto di Sicilia che fossero determinati da’ magistrati della vicina terra di Vicari, su la testimonianza de’ Buoni uomini e degli Anziani. E il Segreto, per nome Uberto Fallamonaca, fatti appurare que’ confini come gli era stato richiesto, ne spedì un attestato in lingua arabica e latina, ed appose il suo suggello in pie’ della pergamena, aggiugnendo in lingua arabica la formola, “Scritto d’ordine nostro.” Il qual documento non essendo estratto da antichi defetarii compilati in quella lingua, ma bensì atto nuovo, e’ mi sembra manifesto che la spedizione arabica fu fatta ad uso degli abitatori del luogo.[581] Che poi [616] de’ Musulmani vivessero ancora in Val di Mazara la vita di pastori, lo provano i rescritti del novembre del trentanove e del marzo del quaranta, per lo primo dei quali è provveduto alla riscossione del fitto da’ Saraceni che prendano a mezzeria le greggi del demanio[582] e nel secondo si fa menzione di settecento pecore consegnate dal saraceno Gufulone (Khalfûn?), le quali insieme con altre si davano in gabella, per conto della corte.[583]

Despota, mercatante e gran proprietario di terreni rivendicati o confiscati, Federigo, col suo genio novatore e audace, spesso usò quel violento rimedio di tramutare le popolazioni; il quale d’altronde nel decimoterzo secolo riusciva meno difficoltoso e forse men crudele, che non sarebbe nella società moderna, per cagion della proprietà sicura e suddivisa e de’ comodi maggiori ai quali or son avvezzi gli uomini. Ci è occorso testè di ricordare alcuna delle città che l’imperatore distrusse e di quelle ch’ei fondò, portandovi di peso la popolazione delle prime.[584] [617] Io credo inoltre che la ribellione musulmana abbia turbato l’equilibrio della popolazione in un altro modo che nessun ricordo contemporaneo fin qui ci attesta; cioè che fece emigrare in Affrica gli abitatori ricchi o industri delle città. Poichè veggiamo appunto in quel tempo assottigliati due grossi nuclei di borghesi musulmani: Trapani, dove all’entrar del dugenquaranta si distribuivan terre a nuovi abitatori;[585] e Palermo dove nel dicembre del trentanove furono concedute a novelli abitatori alcune terre presso il palagio della Zisa, a fine di piantar vigne. Si scorge dallo stesso diploma che delle casipole erano state abbandonate nel bel mezzo della città; che mancavano gli agricoltori ad una vasta piantagione di palme nel regio podere della Favara, e che non era più in Palermo chi sapesse estrarre lo zucchero. Allora una colonia di Giudei del Garbo, cioè di Spagna o dello Stato di Marocco, dissidenti da’ Giudei di Palermo e sì grossi che volean fabbricare una sinagoga per sè soli, domandarono certi casalini nel Cassaro; ma l’imperatore, per antivenir, com’e’ pare, le querele de’ Cristiani, permesse di conceder loro uno stabile in altro luogo della città e che rifabbricasser pure qualche antica sinagoga, ma non volle ne innalzassero una di pianta. Questo diploma infine ci fa sapere che i Giudei del Garbo, oltre il palmeto della Favara dato loro a mezzerìa, avean ottenuta nello stesso podere la concessione d’altre [618] terre per seminare l’indago e l’henna, non coltivati allora in Sicilia.[586]

Improvvisamente comparisce in una cronica questo cenno: che in luglio della terza indizione, l’anno dugentoquarantatrè, tutti i Saraceni di Sicilia ribellati salirono alle montagne e presero Giato ed Entella,[587] castelli fortissimi per natura e lontani l’un dall’altro una ventina di miglia, de’ quali ci è occorso far parola.[588] Si argomenta dal fatto stesso che le popolazioni musulmane in questo tempo non erano rimaste se non che in piccola parte del Val di Mazara. Ancorchè i cronisti taccian la causa di questa sollevazione, noi sappiamo che, quattro anni innanzi, i pastori saraceni che avean prese in affitto le greggi della Corte, doveano al fisco da lungo tempo, delle grandi somme di danaro. Federigo comandava al Segreto che pigliasse l’aver loro e, non bastando, le persone e li facesse lavorare in servigio della corte, badando sì ad aggravarli di fatiche durissime, affinchè gli altri apprendessero che col re non si scherza, e chi non può soddisfare l’affitto, nol chiegga.[589] Disperati dunque, maltrattati, avvezzi com’essi erano [619] a’ delitti, e risapendo forse le prodezze che faceano i lor fratelli di Lucera sotto le insegne imperiali, si rituffarono nella ribellione o guerra, come dir si voglia, contro tutti i padroni di questo mondo: il qual moto, principiato in un luogo, dovea comunicarsi con prodigiosa rapidità a tutti gli altri, nel sospetto continuo, nell’odio crescente ogni dì, nello stato permanente di violenza in cui viveano ormai Cristiani e Musulmani. Gli iloti siciliani del decimoterzo secolo si riconosceano al viso, a’ panni, al linguaggio, al simbolo della fede, alla miseria: se un branco irrompea, doveano seguirlo tutti gli altri. Quantunque la povertà non sia buon ausiliare in guerra, par che gli ultimi avanzi di quel fiero popolo abbiano resistito più di tre anni alle armi imperiali. Dice la cronica che l’imperatore, nella quinta indizione, anno dugenquarantacinque, mandò con l’esercito il conte Riccardo di Caserta, il quale li cacciò di Sicilia; ma va aggiunto un anno alla data, leggendosi nel quarantasei, verso l’agosto, una sdegnosa epistola di Federigo, per la quale è detto ai ribelli che, s’e’ fosser uomini, non starebbero con quella bestiale fidanza, ad aspettare che lor calasse sul capo la spada della vendetta, e conchiudea che s’e’ non smettessero entro un mese, vedrebbero sì gli effetti di queste minacce.[590] E del novembre, com’e’ par, di quest’anno, l’imperatore scriveva al terribile Ezzelino, esser ormai libero dalle brighe che l’avevano impedito fin qui di soccorrere gli amici: tra le altre, la temerità di cotesti [620] Saraceni, i quali ostinatamente resisteano, afforzati nelle montagne, ed alfine sono scesi a chiedere misericordia.[591] Ciò prova che non furono vinti per battaglia, ma presi per fame. Federigo li fe’ tramutare in Lucera.[592] Manca d’allora in poi ogni notizia di Musulmani in Sicilia: ond’egli è manifesto che se alcuni ve ne rimasero, abbracciarono la religione de’ vincitori e, com’avean fatto tanti altri uomini di lor gente in un secolo e mezzo dal conquisto, si confuser essi nel novello popolo, nel quale già si andavano dileguando le distinzioni di origine.

Come l’Oreste della favola greca, Federigo sembra spinto dal Destino a immolare gli educatori suoi, fossero personificazioni come le municipalità, il baronaggio e il papato, o fossero persone come il Cancelliere Gualtiero De Palear, il conte di Malta e Pietro Della Vigna. E veramente il nipote di Barbarossa, venuto al mondo in Italia, cresciuto tra i nemici naturali del suo nome, dovea sforzarsi a ritor loro quella possanza che pareagli rubata alla sua casa: ond’ei si disfece delle persone quando potè; assalì le personificazioni, volgendo la spada contro [621] gli uomini che le sosteneano, e combattendo le idee ostili con le armi della ragione. Le quali si spuntarono su l’eterna tempra della libertà ond’erano cinti i municipii, e valsero un poco a intaccare il triregno, fabbricato di teocrazia giudaica, dispotismo romano, e barbarie settentrionale. I Musulmani di Sicilia subirono la stessa sorte d’ogni altro maestro del lioncello svevo, non già per sua rabbia, ma perch’ei non ebbe tanta forza che li salvasse da’ nemici loro, com’ei forse bramava e il provò mutando i ribelli in pretoriani. Chè del resto, le consuetudini dell’adolescenza, il genio dell’incivilimento, l’amore degli studi e l’antagonismo filosofico e politico contro Roma, portavano l’imperatore, meglio che niun altro uomo europeo del suo secolo, ad onorarli e favorirli.

CAPITOLO IX.

Il genio dell’incivilimento, l’utilità politica e più assai gli interessi commerciali della Sicilia e i suoi proprii, portarono Federigo a frequenti accordi coi principi musulmani. Abbiano noi accennato ai patti fermati con esso loro dalle nostre repubbliche marittime ed abbiamo descritti quei del conte Ruggiero e del re suo figliuolo coi Ziriti, e di Guglielmo II, col novello impero degli Almohadi.[593] A’ tempi di Federigo, questo [622] era già dimezzato, rimanendogli, a un dipresso, l’attuale Stato di Marocco e parte della Spagna; nè v’ha ricordo allora di ostilità tra quello impero e la Sicilia, nè se ne vede cagione: anzi sembra continuata la pace de’ tempi normanni. Perchè sappiamo che Uberto Fallamonaca che fu de’ primarii magistrati di Federigo in Sicilia[594] andava il dugenquarantuno ambasciatore a Marocco.[595] Alla quale missione, od altra che l’abbia preceduta o seguìta, si accenna nel trattato delle “Tesi siciliane” d’Ibn-Sab’în, leggendovisi che l’imperatore signor della Sicilia, avea mandati per nave apposta, con un suo ambasciatore, al califo almohade i quesiti di logica e metafisica; de’ quali noi diremo nel capitol seguente.

Intanto la decadenza della dinastia almohade avea fatto rinascere lo Stato dell’Affrica propria, più forte sì che al tempo degli Ziriti e chiamato ormai da’ Cristiani il reame di Tunis, perchè gli Almohadi avean fatta capitale della provincia quella città, primaria per popolo e commercio e più aperta alle armi loro che non fosse la malaugurosa fortezza di Mehdia. Seguì allora la necessaria vicenda delle grandi province musulmane. Il terzo califo almohade En-Nâsir, non sapendo come tener la provincia, ne fe’ governatore (1207) un uomo fidatissimo della dinastia: Abu-Mohammed, figliuolo di Abu-Hafs-Omar, ch’era stato sceikh della tribù berbera di Masmuda, primo per valore e consiglio tra i capi della confederazione almohade, braccio dritto d’Abd-el-Mumen [623] e sostegno de’ suoi figliuoli. Ma nella generazione seguente, i Beni-Hafs, come si chiamarono dal nome familiare del capo di lor casa, avean messe radici profonde nella provincia; i califi, lontani, peggiorati di padre in figlio, non aveano riputazione nè forza da cacciar via cotesti prefetti: onde Abu-Zakaria, figliuolo d’Abu-Mohammed, colta un’occasione, disdisse (1228) l’obbedienza al califo El-Mamûn, com’empio e tiranno. Non guari dopo (1236), tolto l’equivoco, ei fece fare a suo proprio nome la preghiera del venerdì, con qualità di Emir, lasciando a’ cortigiani il vanto d’aggiugnervi “de’ Credenti” per compiere il sacro titolo, onde fregiaronsi Abd-el-Mumen, Harûn-Rascîd e il grande Omar, che gli Hafsiti falsamente vantavano lor progenitore.[596] Notisi che gli Hafsiti usarono sempre chiamarsi col Keniet, o diremmo noi soprannome familiare, e che il padre e l’avolo di Abu-Zakaria s’addimandarono meramente sceikh, ch’era il titolo della dignità loro nella tribù, e però il vero fondamento della loro potenza.[597]

Cotesti particolari ho io notati a rischiarare il trattato dello imperatore Federigo, del quale abbiam solo una traduzione latina molto arruffata, ma non tanto che non trasparisca spesso il genuino testo arabico e talvolta gli errori di chi interpretollo. È dato del quindici giumadi secondo dell’anno secentoventotto (20 aprile 1231), quando Abu-Zakaria [624] avea già ricusato d’ubbidire al califo Mamùn, senza per anco chiarirsi independente dal califato; del quale stadio d’usurpazione rendono testimonianza alcune parole del trattato. Se questo poi non è stipulato a nome dell’emîr Abu-Zakaria, ma dello «illustre e magnifico sceikh[598] Abu-Ishak, figliuolo del defunto sceikh Abu-Ibrahim, figliuolo dello sceikh Abu-Hafs,» non dobbiamo noi mettere in forse l’autenticilà del documento. Si può spiegar bene con due supposti plausibili e compatibili tra loro: che Abu-Zakaria abbia avuto quest’altro cugino, ignoto ne’ nostri ricordi[599] e che l’abbia lasciato luogotenente in Tunis, quand’egli avventurossi infino a Wergla, dando la caccia a quell’Ibn-Ghania che avea sì fieramente molestato il paese per quarantacinque anni.[600]

Del resto le forme del trattato rispondono a quelle che conosciamo in atti somiglianti, autentici di certo; [625] e le condizioni parte si riscontrano con quelle solite a stipular tra i Musulmani di Ponente e le repubbliche italiane del Mediterraneo, parte si adattano alle relazioni particolari dello Stato di Tunis, con la Sicilia. Noveransi tra le prime la tregua fermata per dieci anni, la reciproca restituzione dei prigioni non convertiti alla religione del paese; che mercatanti e viaggiatori di Sicilia, Calabria, Principato e Puglia siano liberi di tutta esazione e vessazione in Affrica e, reciprocamente gli affricani in quelle province; che rendansi le prede fatte da corsari sudditi di Federigo, esclusi espressamente Genovesi, Pisani, Marsigliesi e Veneziani, i quali aveano stipulati patti apposta col califo almohade.[601] La mancanza di reciprocità in questo patto, se non venisse da dimenticanza del traduttore, mostrerebbe che, soverchiati dalle forze navali italiane, gli Affricani aveano smessa in quel tempo la piraterìa. Che i Cristiani, al contrario, la esercitassero nelle parti meridionali del Mediterraneo e fin dentro terra, si scorge da’ capitoli successivi, pei quali Federigo assicura dalle offese de’ mercatanti e militi suoi, i Musulmani che viaggino da un luogo d’Affrica all’altro, o d’Affrica in Egitto, sì in nave, e sì in caravane; ed anco promette che i suoi sudditi non parteggino nelle fazioni civili dell’Affrica, non vi facciano rapine, nè menin cattivi per seduzione [626] nè per forza; e perfino che, riparati per fortuna di mare su le spiagge d’Affrica, non offendano gli abitatori: nei quali casi tutti è stipulato il risarcimento dei danni. Per un capitolo aggiunto in fine, Federigo permetteva a’ Musulmani di recare e trarre merci dal suo reame, pagando la decima del valore.

L’ignoranza de’ copisti, non corretta infino al tempo nostro da critici, ha affibbiato alla Corsica un importante capitolo di questo trattato, risguardante, senza alcun dubbio Cossira, o, com’oggi si chiama, Pantelleria. Per questa isoletta gli Stati contraenti fecero a mezzo: stipularono che i Cristiani, non avessero alcuna giurisdizione sopra i Musulmani, ma che un prefetto musulmano eletto dal re di Sicilia reggesse gli Unitarii, o, com’io tradurrei più volentieri, i Wahabiti, e che l’entrata pubblica del paese andasse divisa tra i due Stati, metà e metà.[602] Cotesti [627] patti di Pantellaria rispondono su per giù a quelli che Ibn-Khaldûn suppone stipulati tra gli stessi due principi a favor di tutti i Musulmani di Sicilia; onde la tradizione storica di certo aggiugne fede al documento.[603] Ma il documento, secondo me, serve a correggere la tradizione più tosto che a convalidarla, sendo evidente che quelle condizioni poteano star bene per un’isoletta gittata tra l’Europa e l’Affrica, non già per tutte le colonie musulmane rimaste in Sicilia dopo le deportazioni del ventitrè e del venticinque. Penso doversi leggere Wahabiti perchè, da una mano, non sappiamo, nè ci pare verosimile che fosse stata trapiantata in Pantellaria una colonia di “Unitarii”, che in quel tempo significherebbe Almohadi, e molto meno possiam credere che tal colonia della tribù dominante, fosse stata lasciata sotto un prefetto siciliano e quindi inferiore agli altri musulmani del paese.[604] Dall’altra mano sappiamo che Pantellaria non aveva abitatori cristiani nella seconda [628] metà del duodecimo secolo;[605] che i geografi musulmani del decimoterzo tenean tutta la popolazione come wahabita,[606] seguace, cioè, d’una setta che appigliatasi tra’ Berberi nel nono secolo, rimase nell’isola delle Gerbe[607] almen fino al decimoquarto; e che i Pantellereschi eran chiamati da’ Musulmani contemporanei con l’odioso nome posto a’ Credenti che subissero il giogo cristiano.[608] Non mi sembra verosimile il supposto che Musulmani di Sicilia si fossero, al tempo della ribellione, rifuggiti in Pantelleria e che alludesse a loro il capitolo di cui ragioniamo.

Il trattato del milledugentrentuno, come ognun vede, suppone antecedenti ostilità, o per lo meno lunga desuetudine degli accordi di Guglielmo II; e ciò si riscontra con le imprese dell’armata siciliana nel dugenventiquattro.[609] Ma il patto fu mantenuto e forse rinnovato, non ostante i dissapori che a quando a quando sorgeano; come nel caso, credo io, di ’Abd-el-Azîz, nipote del re di Tunis, il quale, per accusa di maestà, rifuggissi in Puglia pria della state del trentasei; e l’imperatore l’accolse e spesollo almen fino alla primavera del quaranta, allorchè lo vediamo soggiornare in Lucera con tre scudieri e con un Perrono da [629] Palermo, addetto a servirlo o guardarlo. Federigo n’ebbe che dire col papa, il quale volea gli fosse mandato quel gran personaggio a Roma, pretendendo che costui era venuto in Italia apposta per farsi cristiano e che l’imperatore lo ritenea. Ma questi negò e la vocazione e l’impedimento; nè volle ad alcun patto levarsi di mano tal pegno, per darlo al papa ed a’ suoi amici guelfi.[610]

I quali in vero non se ne stavano oziosi in Tunis. In su lo scorcio del trentanove, l’imperatore s’accorse del favore che godeano in Tunis i Genovesi e’ Veneziani suoi nemici; ond’ei si dispose a mandar ambasciatore Arrigo Abate appo l’emiro Abu-Zakaria e avvertì il grande ammiraglio Niccolino Spinola, che stesse pronto, e intanto osservasse la tregua conceduta per imperiale clemenza a quel principe.[611] La quistione, qual che fosse la origine, finì con un bel colpo da mercatante. Sendo afflitto lo Stato di Tunis dalla solita carestia, i Genovesi veniano in Sicilia a incettare grano per conto d’Abu-Zakaria, e ci faceano grossi guadagni. Ecco che allo scorcio di febbraio del quaranta, l’imperatore fa chiudere i porti; fa caricare su le sue navi cinquantamila salme di frumento e commette all’ammiraglio che mandi a venderle in Tunis.[612]

[630]

Ciò conferma, s’io non erro, il detto di Saba Malaspina, che al tempo della seconda crociata di san Luigi, il re di Tunis pagava al re di Sicilia una prestazione o censo (redditum sive censum) annuale, per ottenere che dall’isola si recassero liberamente le vittuaglie in quello Stato e che le sue navi fossero salve da’ corsari siciliani.[613] Tornava dunque ad una composizione o transatto, com’oggi si dice, per la uscita de’ grani. E veramente il fatto de’ Genovesi venuti a comperare a nome del re di Tunis e l’espediente al quale si appigliò Federigo per frustrarli, ci conducono necessariamente a supporre un patto che assicurava a quel re la tratta libera ovvero soggetta a dazio fisso e moderato. Poco monta che in qualche documento il transatto si chiami tributo, e che il Malespini aggiunga all’avvantaggio della tratta quello della sicura navigazione; potendo supporsi ch’ei non fosse bene informato de’ particolari e che la voce pubblica confondesse le condizioni pecuniarie della tratta, con le politiche della tregua del dugentrentuno, della quale si è fatta menzione. Che che ne sia, la prestazione montava, negli ultimi trent’anni del secolo decimoterzo, a trecento trentatremila trecento trentatrè bizantini, ed un terzo, i quali valgon oggi, secondo il peso dell’oro, trecenventicinque mila lire nostrali ed a quel tempo tornavano in mercato a più d’un milione de’ nostri, per quanto si possano ragguagliar [631] le valute alla distanza di sei secoli, con le mutate condizioni economiche e sociali. Venendo in giù dal tempo di Federigo, noi veggiamo intermesso il pagamento della prestazione nel dugensessantacinque, alla caduta di casa sveva; ripigliato nel settanta, per lo trattato di Monstanser con Filippo l’Ardito e con Carlo d’Angiò, al quale si stipulò di soddisfare i decorsi e raddoppiar la somma annuale in avvenire; sospeso di nuovo nell’ottantadue, per la guerra del Vespro; indi promesso da Abu-Hafs a Pier d’Aragona, nella somma primitiva e coi decorsi di tre anni, per lo trattato stipulato a Paniças l’ottantacinque; finchè nel trecento le case d’Angiò e d’Aragona si disputano il tributo, ma non si ritrae che gli Hafsiti lo soddisfacciano.[614] E non parmi verosimile [632] che il pagamento fosse incominciato al tempo di Federigo. Nei capitoli ch’ei dettò per l’ammiragliato di Sicilia pria del dugentrentanove, concedendo a Niccolino Spinola larghissima potestà e guadagni senza limite, gli diè, tra le altre cose, il dieci per cento di ciò che “con la sua prudenza ed arte arrivi a riscuotere da Saraceni qualunque, sia de’ tributi soliti a pagarsi ai re di Sicilia, sia degli insoliti e novelli imposti da lui stesso.”[615] Or lo Stato di Tunis non sembra sì piccolo, nè sì scompigliato in quel tempo, da assoggettarsi a tributo per caso tanto lieve da non rimanerne vestigia negli annali suoi o della Sicilia. Pertanto il tributo va noverato più tosto tra i soliti. E veramente, da Federigo in su, occorre l’imperatore Arrigo VI ch’ebbe da Marocco, l’anno mille centonovantacinque, de’ carichi d’oro e di robe preziose,[616] ne’ quali par si ascondesse la prestazione dell’Affrica propria, non chiarita per anco ribelle a gli Almohadi. E in cima si scorge il trattato di Guglielmo secondo col califo Abu-Ja’kub: onde si può ritenere che la composizione per la tratta de’ grani, o prestazione, censo o tributo che dir vogliamo, si fosse cominciato a riscuotere sopra [633] i califi almohadi nel millecentottanta, per cagione della carestia; e si può supporre che qualche città dell’Affrica propria l’avesse pagato fin da tempo più antico. Nè è da maravigliare che il trattato del milledugentrentuno non ne faccia menzione, poichè non era necessario scrivere la consuetudine di quel transatto in un pubblico strumento politico e commerciale; e quand’anco fosse stata scritta nel testo latino, potea mancar nell’arabico, sola sorgente alla quale noi attingiamo il fatto, per mezzo di una traduzione assai più recente. Confrontando il testo arabico e il testo latino di parecchi trattati stipulati nel medio evo tra Musulmani e Cristiani, avviene talvolta che si trovi mutilo l’uno o l’altro, perchè ciascuno solea sopprimere nel testo da pubblicare in casa propria, le condizioni delle quali egli arrossiva. A un dipresso han fatto così i principi d’Europa nei trattati segreti o negli articoli segreti di trattato solenne.[617]

Adescato dal commercio onde arricchiansi Venezia, Pisa e Genova, e trascinato contro sua voglia dalle ultime onde della Crociata, Federigo tenne frequenti pratiche coi principi musulmani di Levante, delle quali ci son rimasi non pochi ricordi e dobbiamo tenerne perduti assai più. Ma il supposto ch’egli abbia mandati ambasciatori al califo abbasida, è nato da un errore, cioè che il classico nome di Babilonia [634] col quale gli scrittori cristiani del medio evo designavano il Cairo vecchio,[618] significasse, in vece, Bagdad. Poco verosimile parrà d’altronde quel supposto, quando si pensi che i successori di Harûn-Rascîd contavano ormai poco o nulla nel mondo. Fin dallo scorcio del duodecimo secolo, la frontiera settentrionale del territorio musulmano da Barca alla foce dell’Oronte ed all’Eufrate, era occupata da’ figliuoli, fratelli e cugini di Saladino. Vasto impero feudale o federale che dir si voglia, discorde al certo e lacerato da cupidigia, violenza e slealtà; nel quale disputaronsi per poco il primato due figliuoli del conquistatore, che avea lasciata (1193), all’uno la Siria e all’altro l’Egitto: ma non andò guari che Malek Adel, fratello di Saladino, raccolse il frutto di quella discordia. Insignoritosi di Damasco (1196) e del Cairo (1200), Malek-Adel lasciò ai suoi proprii figli l’esempio e il comodo della usurpazione, facendo Malek-Mo’azzam erede della Siria e Malek-Kâmil dell’Egitto.

[635]

Insolito documento ci attesta aver Federigo mandata un’ambasceria a cotesti due sultani, credo io nel dugendiciassette, quando Malek-Adel avea già divisi i dominii a’ suoi figliuoli, prima di venire a morte (31 agosto 1218). Dico d’un compartimento a mosaico, rimaso infino al decimoquarto e fors’anco al decimosesto secolo, nel portico della cattedrale di Cefalù, dov’era effigiato Federigo in atto di accomiatare Giovanni Cicala detto il Veneziano, vescovo di Cefalù, con questo scritto: “Va in Babilonia e in Damasco; trova i figli di Paladino (Safadino?) e parla ad essi audacemente in mio nome....”[619] La recente esaltazione di papa Onorio; la ressa ch’ei facea per la [636] crociata e il bisogno che avea di lui Federigo, disponendosi a venire in Italia e quasi a riconquistare i proprii suoi Stati, danno la ragione di cotesta ambascerìa, o piuttosto vana minaccia; alla quale par che il sultano di Damasco abbia risposto per le rime, nella forma che or or si dirà.

A capo di pochi anni, quando Kâmîl s’innalzò su tutti i principi aiubiti e l’imperatore, sposata la erede del reame di Gerusalemme, cominciò a considerare quell’impresa con altro intento che di sciorre il voto sul Santo Sepolcro, ei diessi a coltivare in particolar modo l’amistà del sultano d’Egitto. E poichè coteste pratiche in breve tempo condussero alla restituzione di Gerusalemme, che parve calamità pubblica a’ Musulmani, gli scrittori arabi ce ne danno tanti particolari da confermare, e in parte raddrizzare e allargare, le narrazioni di origine cristiana.[620]

[637]

Corse voce in Levante che Federigo avesse ridomandata Gerusalemme a Malek-Mo’azzam, e che il valoroso e dotto principe avesse risposto all’ambasciatore: “Di’ al signor tuo che per lui io ho la spada e niente altro.” Questa sentenza, a dir vero, si potrebbe supporre foggiata in odio di Kâmil, dopo l’abbandono di Gerusalemme e la morte di Mo’azzam: pur non sembra inverosimile nè la pratica di Federigo, nè lo sdegnoso rifiuto, s’e’ si riferisse al dugendiciassette, com’abbiamo notato poc’anzi.[621] Più certo è che Mo’azzam, mal soffrendo la supremazia del fratello (1226) tentò di muovergli contro tutti i principi aiubiti e infine collegossi con Gelâl-ed-dîn, principe dei barbari Kharezmii, i quali, cacciati da orde più feroci di loro, venian ora dalle rive del Caspio a desolare l’Armenia e la Mesopotamia. Kâmil in tal frangente, per guastare i disegni del fratello, chiamò Federigo promettendogli Gerusalemme[622] e [638] gli altri acquisti di Saladino.[623] S’appiccò la pratica, com’e’ pare, il milledugenventisette, quando, venuto al Cairo l’arcivescovo di Palermo, legato dell’imperatore, il sultano fece immediatamente ripartire con esso lui Fakhr-ed-dîn, gran personaggio a corte d’Egitto;[624] il quale poi piacque tanto a Federigo, ch’ei gli concedè lo stemma di casa sveva, poichè i Musulmani s’erano già invaghiti di coteste vanità occidentali, nelle prime Crociate.[625] L’arcivescovo e Fakhr-ed-dîn, ritornavano l’anno appresso in Egitto; insieme coi quali andò un cavaliere, portatore di splendidi presenti:[626] il proprio destrier di battaglia dell’imperatore, con sella d’oro tempestata di gemme preziosissime,[627] ed altri nobili cavalli, vestimenta, minuterie d’oro, falconi e tante rarità.[628] Il Sultano fece spesare gli inviati siciliani fin [639] dallo sbarco in Alessandria; uscì egli stesso fuor del Cairo a incontrarli; die’ loro sontuoso ospizio; lor fece ogni maniera d’onoranza[629] e ricambiò Federigo con molte preziosità d’India, Jemen, Persia, Mesopotamia, Siria ed Egitto, che valeano, come si dice, tanti doppi de’ doni suoi.[630]

E tantosto ei mosse con le genti (agosto 1228);[631] occupò Gerusalemme ed altre terre de’ dominii di Mo’azzam,[632] il quale era morto da nove mesi (11 novembre 1227) ed eragli succeduto il figliuolo Dawûd, col titolo di Malek-Nâsir.[633] Seguendo le pratiche iniziate dal padre,[634] avea questi intanto chiamato lo zio Malek-Ascraf, principe di Khelât in Armenia; il quale s’affrettò a venire a Damasco con le forze che aveva in pronto.[635] Onde, sbarcato l’imperatore ad Acri (7 settembre 1228), tre eserciti si trovarono a fronte, nessuno de’ quali sapeva con chi avesse ad azzuffarsi; se non che i furbi capitani avean poca voglia di venire alle mani, quand’era lì in mezzo il povero Dawûd per pagar lo scotto a tutti. E in vero Kâmil ed Ascraf, dopo breve carteggio pien di belle sentenze sopra l’onore di casa aiubita e la gloria [640] dell’islam,[636] abboccaronsi (10 novembre 1228) presso Ascalona, ridendo sotto i baffi; divisero a lor modo i dominii del nipote,[637] e stettero insieme un gran pezzo a veder come acconciare la cosa con Federigo.[638] Il quale ridomandava Gerusalemme e la costiera tutta di Siria e chiedea con ciò la franchigia d’ogni gabella in Alessandria. Tanto ei diceva essere stato profferto al suo luogotenente in Palestina durante la guerra di Damiata; ond’egli or non voleva accettar meno di ciò che era stato concesso all’ultimo de’ suoi paggi.[639] Rincrebbe a Kâmil di trovarsi addosso[640] quest’ausiliare, contro il quale ei non potea tirar la spada, perchè l’avea chiamato egli stesso e perchè la guerra avrebbe sciupati i suoi disegni, appunto quand’ei stava per compierli, scrive un cronista,[641] alludendo di certo al partaggio dello Stato di Dawûd, ch’era lo scopo di tutti que’ raggiri. Ma Federigo, accorgendosene, afforzava Sidone,[642] Cesarea, Giaffa[643] e racchetava alla meglio, come sappiamo dagli scrittori occidentali, i [641] Crociati, ippocriti o bacchettoni e turbolenti tutti. Le negoziazioni dunque si prolungarono e con esse le cortesie tra il campo crociato e l’egiziano.[644] Giunto appena ad Acri, Federigo avea mandati oratori a Kâmil, con doni da re, Balian signor di Sidone e Tommaso conte di Acerra suo vicario in Terrasanta; i quali furono accolti a grandissimo onore.[645] Seguì un continuo andirivieni di ambasciatori.[646] Kâmil adoprava a tal uficio degli uomini di scienze e di lettere sì accetti all’imperatore: Fakhr-ed-din, già nominato;[647] il poeta Selâh’-ed-dîn di Arbela[648] e lo sceriffo Scems-ed-dîn da Ormeia, cadì dell’esercito:[649] mandava in dono gioielli, preziose vestimenta ed utili animali, dromedarii, cavalle, muli;[650] e un’altra volta fe’ venire apposta d’Egitto il solo elefante che rimanea vivo di que’ donatigli da Malek-Mes’ûd, principe d’Arabia.[651] Federigo poi, non avendo al campo altri tesori, proponeva al Sultano problemi di filosofia o di matematica [642] e quegli li facea risolvere dal celebre scrittore ’Alem-ed-dîn, giurista di scuola hanefita.[652]

Corsero per tal modo sei mesi, allo scorcio dei quali è da supporre Federigo stanco di soffrire gli insolenti Cristiani armati o disarmati della Palestina, ed impaziente di star lungi dal suo reame, ch’era commosso e osteggiato dalle armi papali. E sembra ch’egli abbia abbassate alquanto le pretensioni; ma di certo seppe mostrarsi a’ Musulmani più tranquillo e forte che mai. Disse chiaro a Fâkhr-ed-dîn, che gli premea poco di regnare in Terrasanta, ma che volea mantenere il credito suo in Europa; e se non fosse per questo, non infastidirebbe il Sultano con tanta pertinacia.[653] Nè egli fece, secondo le circostanze, un magro accordo. Tutti gli scrittori arabi narrano che Kâmil fuvvi sforzato da lui: e, chi scrive che il Sultano comprese non potersi cavare altrimenti dal mal terreno in che avea messo il pie’;[654] chi afferma ch’ei non potea resistere in verun modo alle armi di Federigo;[655] chi l’accusa di avere scansata la guerra, perchè lo avrebbe frustrato nello intento per lo quale ei s’era mosso d’Egitto e stava ormai per conseguirlo,[656] che vuol dire la usurpazione di mezzo lo Stato di Damasco. Quando poi Federigo fermò quel patto, il legato Salâh-ed-dîn d’Arbela, affrettossi a scrivere al suo signore, scherzando in versi, come s’egli avesse fatto un bel tiro, che “l’imperatore s’immaginava di [643] conchiuder la pace a suo modo; ma or ha stesa la destra a giurare; ch’ei se la roda, quando si pentirà di ciò che ha fatto.”[657]

Gli assentì anco il Sultano d’includere nel patto, per la signoria di Thoron, una principessa che gli scrittori arabi chiamano la figlia d’Umfredo.[658] Kâmil poi si vantò coi suoi, che, rimanendo in mano loro i santuarii musulmani di Gerusalemme, si veniva a ceder poco o nulla all’imperatore: de’ mucchi di case e chiese cadenti, circondate di terre musulmane, sì che ad un cenno si potrebbero ripigliare senza contrasto.[659] Così fu fermata tra i due monarchi la tregua [644] per dieci anni, cinque mesi e quaranta giorni,[660] contati dal ventotto di rebi’ primo del secenventisei (24 febbraio 1229), e i capitoli principali furono: che si rendesse a Federigo la città di Gerusalemme, con Nazareth, Betlemme, Ludd, Ramla e gli altri villaggi su la via d’Acri e di Giaffa e inoltre il territorio di Thoron e la città di Sidone; che la moschea d’Omar e la cappella della Sakhra, o diremmo noi del Sasso e s’intenda di quello nel quale Maometto lasciò l’orma del piede nello spiccare il volo alle regioni di lassù, fossero custodite da Musulmani e vi si officiasse secondo loro legge, ma potessero i Cristiani visitar que’ santuarii; che i poderi del territorio rimanessero ai possessori musulmani governati da un prefetto di loro nazione.[661] Aggiungono i Musulmani una clausola data ad intender loro da Kâmil, per la quale era vietato di rifabbricare le mura di Gerusalemme; ma Federigo affermò espressamente il contrario all’Europa e scrisse poter anco fortificare [645] Giaffa, Cesarea, Sidone ed un castello dei Templari presso Acri.[662] Del resto avvenne tra’ Musulmani lo stesso che in Cristianità: che il volgo dei fanatici maledisse Kâmil e la ignominiosa sua pace;[663] e il papa di Bagdad se ne crucciò come quel di Roma, ma s’acquetò assai più facilmente.[664]

Federigo andò a prender possesso di Gerusalemme, accompagnato da un commissario di Kâmil,[665] ammirato da’ Musulmani per dottrina, arguzia, tolleranza o, come dicean essi, inclinazione all’islamismo, e irrisione del cristianesimo; onde altri lo definì dahri che oggidì suonerebbe panteista:[666] e tutti maravigliarono di questo imperatore, filosofo e guerriero, calvo, losco, rossigno, che al mercato degli schiavi non n’avresti dati dugento dirhem.[667] Tra i molti aneddoti che se ne legge, noteremo sol quello ch’ei menò seco a Gerusalemme il suo maestro di dialettica, e paggi e guardie, tutti Musulmani di Sicilia, i quali si prosternavano alla preghiera sentendo far l’appello del muezzin da’ minareti della moschea di Omar; ed anco l’imperatore avea a grado quella cantilena, nè s’adirava che si recitassero i versetti del Corano dove i Cristiani son chiamati politeisti.[668] [646] Sepper poco i Musulmani di quella scandalosa nimistà del papa, del patriarca Gerosolimitano, de’ frati guerrieri e di quanti s’affaticavano a tagliare i passi di Federigo in questa Crociata:[669] delle quali brighe trapelò negli annali arabici sol quella, riferita anco da’ latini, cioè che avendo alcuni Crociati profferto a Kâmil di uccidere Federigo, il sultano mandò a lui stesso le lettere de traditori.[670] Del resto gli Arabi ci danno con precisione tutti i particolari dell’impresa, perfino il giorno che l’imperatore sbarcò, reduce, in Italia.[671]

La possessione precaria di Gerusalemme condusse l’imperatore a più strette pratiche nelle province che stendonsi dall’Istmo di Suez all’Eufrate, nelle quali, frati e baroni cristiani e principi musulmani, grandi e piccini, attendevano or più che mai a svaligiarsi tra loro, collegandosi a viso aperto coi [647] nemici della propria fede, contro i fratelli in Cristo o in Maometto. Spregiatori dell’uno e dell’altro, e però maledetti, perseguitati, ridotti allo stremo e pur temuti per le inespugnabili fortezze e pe’ sicarii audacissimi, rimaneano ancora gli Ismaeliani, detti in Cristianità Assassini, e il loro sceikh, o capo setta, chiamato, con versione troppo letterale, il Vecchio della Montagna.[672] E su quel brulichìo di feudi dominavano le due potenze del Cairo e di Damasco, finchè l’una inghiottì l’altra.

Ascraf, insignoritosi di Damasco (1229) mentre Kâmil cedea Gerusalemme, collegato con lui contro i Kharezmii, quindi inimicatosi, e morto il seicentrentacinque (1237), avea lasciata la sua parte di Siria al fratello Ismaele; e Kâmil non avea tardato a spogliare quest’altro ed a farsi, tra signoria diretta e signoria feudale, sovrano di tutti i dominii aiubiti. Ma trapassato egli stesso sei mesi dopo Ascraf (marzo 1238), e lasciata la Siria ad un figliuolo e l’Egitto ad un altro, si ripigliò l’usanza di famiglia; onde l’un fu morto, l’altro, intitolato Malek-Sâleh, occupò tutto il dominio (giugno 1240). Intanto nuovi Crociati, non curando gli accordi di Federigo, ruppero la guerra; afforzarono a modo loro Gerusalemme; ritentarono l’Egitto, e toccarono quivi una sconfitta. In que’ trambusti, Nâsir, che i due fratelli del padre avean già spogliato (1229) di Damasco e lasciatogli il principato [648] di Karak, volle ripigliare la roba sua; onde saputa la rotta de’ Cristiani, piombò sopra Gerusalemme, uccise o fece schiavi quanti v’eran dentro, e demolì le fortezze (1241). Nello stesso tempo Ismaele, nominato dianzi, riprese Damasco, e si collegò con chi potè, senza distinguere religione: onde seguirono nuovi scontri e stragi, e guasti, e tregue fino al dugenquarantaquattro; quando i Kharezmii piombarono addosso a tutti.[673]

Molte vestigia ci rimangono delle negoziazioni di Federigo in quel periodo. Sappiamo venuti a lui in Puglia, del dugentrentadue, ambasciatori del sultano di Damasco;[674] ch’era in quell’anno Ascraf, il quale, soverchiato da’ Kharezmii in Armenia, avea perfin chiesto aiuto al suo fratello Kâmil.[675] In questo, o in altro incontro, Federigo donò ad Ascraf un orso bianco; del quale i Musulmani scrissero con maraviglia ch’e’ rassomigliava il lione per la qualità del pelo e che tuffava in mare a prender pesci. Si notò anco il dono d’un pavone bianco.[676] A’ dì ventidue luglio del medesimo anno, Federigo imbandiva a Melfi un gran convito agli ambasciatori del sultano d’Egitto e del Vecchio della Montagna, dov’ebbe a mensa parecchi vescovi e molti cavalieri tedeschi;[677] spettacolo di tolleranza assai più strano a corte imperiale che [649] l’orso bianco a Damasco. Ma non si ignoravano in Germania coteste relazioni con gli Ismaeliani; e s’era perfin detto l’anno innanzi che gli Assassini avessero pugnalato il duca di Baviera per pratica dell’imperatore, suo nemico mortale.[678] Così fatta calunnia, ripetuta volentieri tra i clericali di quell’età, die’ origine ad una delle nostre Cento novelle antiche, nella quale si legge che andato Federigo alla “Montagna del Veglio,” volendo costui mostrargli la sua possanza, “vide in su la torre due Assassini: presesi per la gran barba: quelli se ne gittaro in terra e moriro incontanente.”[679]

Il legame col sultano d’Egitto si ristrinse dopo la resa di Gerusalemme e divenne schietta amistade al dir d’uno scrittore musulmano,[680] confermato dalla espressa accusa di papa Innocenzo IV.[681] Pare anco siasi fermato tra Federigo e Kâmil, lo stesso anno dugenventinove, o poco appresso, com’egli è più verosimile, un trattato politico e commerciale, sì civile, che si potrebbe rifare con poco divario nel secolo decimonono. Dico una lega offensiva e difensiva e reciproche sicurtà e franchige pei sudditi, poco diverse da quelle che furono stipulate il milledugentottantanove [650] tra il sultano Kelaun e il suo erede presuntivo da una parte, e re Alfonso d’Aragona, re Giacomo di Sicilia con due loro fratelli dall’altra; i quali capitoli, afferma il cronista della corte del Cairo in quel tempo, essere stati proposti da casa di Aragona secondo la pace che avea fatta un tempo Malek-Kâmil coll’imperatore.[682] Di certo nelle negoziazioni di Gerusalemme s’era discorso di franchigia doganale nel porto d’Alessandria:[683] e il genio de’ due principi e delle due corti portava ad allargare e concretare quelle idee, anzi che lasciarle svanire. E se la splendidezza de’ doni fosse argomento della importanza del patto, quello di cui diciamo si potrebbe riferire allo stesso anno trentadue, quando gli ambasciatori d’Egitto, festeggiati nel convito di Melfi, avean recato all’imperatore un capo lavoro d’arte e di scienza, ricchissimo dono apprezzato ventimila marchi di Colonia: un padiglione la cui vôlta fingeva il firmamento, dove il sole e la luna, movendosi per occulto congegno, notavan le ore del giorno e della notte; la qual macchina lo imperatore fe’ serbare a Venosa.[684] Degli ambasciatori egiziani di questa o d’altra legazione sappiam che uno, per nome Makhlûf, morì in Messina e fu sepolto nella spiaggia di Mosella, dove la sua tomba si vedea sino allo scorcio del secol decimoterzo.[685] E forse de’ cavalieri venuti in [651] somiglianti missioni del sultano, furono notati nel campo dello imperatore sotto Brescia (1238).[686]

Non mancò con la vita di Kâmil l’amistà delle due corti. L’anno novecencinquantotto de’ Martiri (29 agosto 1241, a 28 agosto 1242) approdava in Alessandria una nave siciliana, ben chiamata il Mezzomondo,[687] poichè recava, come si disse, novecento uomini e merci senza fine e con esse i doni che mandava l’imperatore al novello sultano, affidati a due ambasciatori, de’ quali il maggiore in dignità, alla descrizione che ne fa il cronista copto, parrebbe alcun frate fatto arcivescovo, se noi non sapessimo ch’ei fu Ruggiero degli Amici.[688] I due legati aspettarono lunga pezza la licenza di presentarsi al sultano; avutala, essi e il seguito, che montava ad un centinaio di persone, furono menati alla capitale, con lungo giro per [652] Faium, le piramidi, e Giza; trovarono il nuovo e il vecchio Cairo parati a festa, l’esercito schierato in mostra, la cittadinanza uscita loro all’incontro. Il sultano avea lor mandati due cavalli di Nubia e fornita di palafreni la famiglia: ei li fece alloggiare in due palagi principeschi, li colmò di doni, provvide in abbondanza ad ogni lor comodo. Si rinnovò la festa il giorno della presentazione solenne al castello del sultano, e durò questa larga ospitalità tutto l’inverno ch’e’ rimasero al Cairo, in liete brigate, conviti e feste e cacce, e tiri a segno con le balestre.[689] Un altro ambasciatore arrivò l’anno appresso ad Alessandria con un buzzo che s’addimandava anch’esso il Mezzomondo, della cui mole la gente maravigliò. Si dicea portasse un immenso carico di olio, vino, caci, miele ed altre derrate e con ciò trecento marinai, senza contare i passeggieri.[690] Altri fatti provano le strette relazioni tra la Sicilia e l’Egitto. Del dugenquarantacinque o quarantasei, l’affermava il Sultano stesso al papa, il quale non avea sdegnato di scrivergli chiedendo una tregua pe’ Cristiani di Palestina.[691] Una nave approdata in Alessandria il secenquarantaquattro (19 maggio 1246 a 7 maggio 1247) recò, svisate alquanto ma vere in fondo, le nuove della gran lite che ardeva in Europa: il papa perseguitar l’imperatore com’apostata e mezzo musulmano; avere perciò stigati tre baroni regnicoli ad ucciderlo, promettendo [653] all’uno la Sicilia, all’altro la Puglia, al terzo la Toscana; ma che l’imperatore, saputo dalle spie che i congiurati doveano assalirlo mentr’ei dormiva, fe’ coricare nel proprio letto uno schiavo, s’appostò con cento cavalieri, e mentre gli assassini pugnalavano il servo, ei li trucidò tutti di sua mano, fece scorticare i cadaveri e le pelli piene di paglia appese alla porta d’un suo castello. Come ognun vede, cotesta favola raffigurava, direi quasi, a scorcio le congiure scoperte allora nel napoletano. La novella, ritornando alla pura verità, conchiudea che, fallito quel colpo, il papa mandò un esercito contro l’imperatore.[692] Scrivon anco i Musulmani che Malek-Sâleh fu avvertito da lui della mossa di San Luigi contro l’Egitto:[693] e veramente il trattato di Kelaun, dianzi citato, porterebbe a creder questo racconto, poichè Alfonso d’Aragona e Giacomo di Sicilia, tra le altre cose, s’obbligarono a dar somiglianti avvisi al Sultano.[694] Abbiamo infine nelle memorie musulmane di questo periodo, il titolo che usava la cancelleria del Cairo scrivendo a Federigo, cioè: “il gran re, illustre, eccelso, potentissimo, re di Alemagna, di Lombardia e di Sicilia, custode della santa città (di Gerusalemme), sostegno dell’imâm di Roma, re dei re cristiani, difensore de’ reami franchi, duce degli eserciti crociati.”[695]

[654]

Che così fatta amistà co’ sultani d’Egitto non sia stata interrotta sino al fine della dominazione sveva, si argomenta dal dono del sultano Bibars il quale mandò a Manfredi una giraffa.[696] Più espressamente l’attestava ad Abulfeda il suo maestro Gemâl-ed-dîn, cadì supremo di scuola sciafeita in Hama, storico, matematico, giurista, autore di varie opere e, tra le altre, d’un trattato di dialettica, dedicato a re Manfredi e intitolato l’(epistola) imperatoria; poichè i Musulmani chiamarono anco imperatori i figliuoli di Federigo II. Narrava Gemâl-ed-dîn che Bibars mandollo ambasciatore a Manfredi il secencinquantanove (dal 6 dicembre 1260, al 25 novembre 1261) e ch’ei ripartì dalla corte sveva quando il papa stava per concedere il reame a Carlo d’Angiò. Raccontava essersi abboccato parecchie volte col re, in una città di Puglia distante cinque giornale da Roma e vicina assai alla terra di Lucera, i cui abitatori eran tutti Musulmani, oriundi di Sicilia; che in Lucera osservavasi il rituale musulmano, anco la preghiera solenne del venerdì; che nella gente di Manfredi molti erano di quella schiatta e che nel campo si facea pubblicamente l’appello alle cinque preghiere quotidiane. Affermava che Federigo e i successori Corrado e Manfredi, ai quali e’ dava anco il titolo d’imperatori, erano stati tutti scomunicati dal papa per la benevolenza loro verso i Musulmani, e [655] narrava su la elezione di Federigo all’impero una novelletta che gli avean data ad intendere a corte: la solita magagna del candidato che raccoglie tutte le voci, promettendo la sua propria a ciascuno elettore.[697]

Tanto si ritrae delle relazioni politiche della corte di Palermo con quella del Cairo e con altre di Musulmani, nella prima metà del secolo decimoterzo. Del commercio tra i popoli, il quale a volta a volta fu causa ed effetto di quelle consuetudini de’ principi, toccheremo nei capitoli seguenti, passando a rassegna le parti di civiltà che si notano in quest’ultimo periodo delle colonie musulmane della Sicilia.

CAPITOLO X.

Dagli emiri Kelbiti la storia letteraria di Sicilia passa a re Ruggiero, saltando pressochè un secolo, che cominciò con la guerra civile de’ Musulmani e terminò con l’assetto de’ conquistatori cristiani d’oltre il Faro e d’oltre le Alpi: nel qual tempo molti Credenti cultori delle scienze e delle lettere, lasciata l’isola, s’illustravano in altre terre musulmane; ed [656] all’incontro i germi della civiltà occidentale, parte indigeni e parte stranieri, penavano a fiorire in sì profondo mutamento di religione, di lingua, d’ordini politici e sociali. I germi indigeni non eran morti. Que’ trecento codici che il Prete Scholaro legava al nascente suo monastero di Messina, l’ultim’anno appunto dell’undecimo secolo,[698] attestano che gli studii non fossero dimenticati; nè parmi inverosimile che tra le omelìe, i canoni e i breviali, si fosse intruso nella biblioteca del fondatore qualche classico, qualche libro di storia o di matematica. A capo di mezzo secolo, Giorgio d’Antiochia, uomo d’altra origine e d’altra tempra, fondando in Palermo la chiesa di Santa Maria che in oggi s’addimanda della Martorana, le donò tra tante ricchezze «non pochi libri.»[699] Dond’ei si argomenta che coteste collezioni [657] erano già tenute bell’ornamento ne’ palagi de’ grandi siciliani, e suppellettile necessaria negli stabilimenti ecclesiastici: i quali sendo tanto cresciuti nella prima metà del XII secolo, doveva aumentarsi anco il numero de codici raccolti e la tentazione di guardarci dentro.

Ma pervenuti alla emancipazione di Ruggiero, secondo conte e non guari dopo re di Sicilia, smettiamo le induzioni, possedendo testimonianze espresse e fatti permanenti. Abbiamo già notato il grande ingegno di quel principe, lo zelo per la scienza, la lode meritata nella compilazione della Geografia che ebbe nome da lui: abbiamo altresì fatta menzione dei dotti della corte di Palermo, tra i quali ei primeggia sempre per l’altezza della mente, come per la dignità del grado. Or diremo di que’ valentuomini e delle opere loro, secondo le poche notizie pervenute infino a noi.

Gli Arabi salvarono dal naufragio della scienza antica, tra tante altre opere, quelle di Tolomeo; le tradussero in loro linguaggio, nel nono secolo dell’èra volgare: e così l’Europa, assai prima di possedere il testo greco, studiò l’«Almagesto» ritradotto dallo arabico in latino. La «Geografia» che veniva per la stessa via, s’arrestò in Sicilia, come or sarà detto. Ma perduto è il testo dell’«Ottica,» nè altro or ne abbiamo che la traduzione latina, elaborata dall’ammiraglio siciliano Eugenio sopra una versione arabica. Questo scritto che fu ecclissato dalle altre due compilazioni dello stesso autore, le quali abbagliavan la gente con la vastità del subietto, vale assai più che [658] quelle, secondo il giudizio della scienza moderna. Qui Tolomeo, invece di sviare con grosse ipotesi le menti degli studiosi, fonda la teoria su gli sperimenti e su le verità matematiche. Donde i dotti del medioevo che aspiravano a scoprir le leggi fisiche, tra gli altri Ruggiero Bacone e Regiomontano, usarono come libro classico l’Ottica di Tolomeo: la quale se in oggi può servire solamente alla storia della scienza, vi segna pure un gran progresso, svolgendo per bene la teoria della refrazione, alla quale gli altri scrittori antichi aveano appena accennato. Così pensava Alessandro Humboldt.[700] L’ammiraglio Eugenio, in brevissimo proemio, tocca la importanza di quel trattato, il diverso genio delle lingue, onde tornava sì difficoltoso a voltare l’arabico in greco o in latino, e protesta che in alcuni luoghi, anzichè tradurre [659] verbalmente, ei cercherà di cogliere il pensier dell’autore e renderlo quanto più concisamente per lui si possa. Avverte con ciò che nella versione arabica mancava il primo de’ cinque discorsi ond’è composto il trattato, e che de’ due codici ch’egli aveva alle mani, uno era buono sì, ma non vi si trovava nè anco il primo discorso.[701] Dond’e’ si vede che Eugenio [660] sentiva molto innanzi in fisica e in filologia; oltrechè scrivea molto bene, secondo i suoi tempi, il latino. Pertanto lo direi siciliano di nazione, non già greco di Levante come Giorgio d’Antiochia. L’opera non è stampata finora, ma spero esca alla luce tra non guari in Italia, sette secoli dopo che fu fatta la traduzione nel nostro suolo stesso. Basti qui aggiungnere, che il nome e il titolo officiale del traduttore si leggono in tutti i testi a penna quasi senza varianti; tal non sembrando a chiunque abbia pratica d’antiche scritture, lo scambio d’una lettera, onde alcuni codici hanno ammiraco in luogo d’ammirato. E che l’autore sia stato contemporaneo di re Ruggiero, si argomenta dalla qualità stessa dell’opera; si prova coi diplomi; e lo conferma, secondo me, un’altra versione latina che si attribuisce a questo medesimo ammiraglio.

Dico le profezie della Sibilla Eritrea, scritte in caldaico in forma di epistola ai Greci, quand’essi andavano alla guerra di Troja; voltate in greco da un Doxopatro e quindi in latino da Eugenio, ammiraglio del reame di Sicilia, dove capitò il libro greco, sottratto dal tesoro di Manuele imperatore. Veramente il nome dell’ultimo traduttore potrebbe esser falso quanto quello dell’autrice ispirata, e l’epoca di Manuele Comneno potrebbe essere supposta come quella di Priamo: tanto più che gli avvenimenti ai quali si allude sotto strano velame di leoni, serpenti, aquile, vulcani, tremuoti, tempeste del cielo e misfatti degli uomini, sono evidentemente quei che commossero l’Italia e l’Europa nel duodecimo e decimoterzo secolo. [661] Pur egli è da riflettere che cotesti libri profetici, dall’antichità fino agli ultimi tempi del medioevo, sono stati piuttosto copiati e interpolati che rifatti di pianta. Onde non parmi inverosimile che qualche barattiere abbia venduto a re Ruggiero, a peso d’oro, alcun manoscritto greco, lacero e insudiciato, vantandosi d’averlo rubato proprio al rivale Comneno; ovvero che l’impostore, vissuto nel secolo seguente, abbia scritto a dirittura in latino, fingendo al paro i nomi dell’imperiale possessore e dello ammiraglio siciliano, i quali ognun sapeva essere stati contemporanei, e l’uno perduto nell’astrologia, l’altro famoso per traduzioni d’opere scientifiche dalle lingue del Levante.[702] Nel primo caso, il Doxopatro, supposto traduttore dal caldaico, sarebbe forse il retore Giovanni, autore dei Comentarii d’Aphthontio e d’altre opere che sembran dettate allo scorcio dell’undecimo secolo.[703] Nell’altra ipotesi, potrebbe dirsi che il falsario volle mettere innanzi quel Nilo Doxopatro [662] venuto di Grecia alla corte di Ruggiero, e ch’ei finse anco il nome del traduttore latino, per allontanare sempre più dal secolo decimoterzo le favole ch’ei spacciava.

Avendo esaminato altrove[704] qual parte ebbe Ruggiero nella composizione della geografia che in oggi corre sotto il nome d’Edrîsi, e avendo toccato il soggiorno di questo dotto musulmano a corte di Palermo, convien or dire quant’altro sappiamo della sua vita, e provarci a dar giudizio dell’opera.

Sua Eccellenza Edrîsi, chè a ciò torna il titolo di Scerîf dato a lui come ad ogni rampollo d’Alì e di Fatima, esciva della linea di un Edrîs, discendente in quarto grado dalla figliuola del Profeta; il quale, cercato a morte per ribellione contro il califo di Bagdad, era fuggito l’anno centrentanove (786) dallo Hegiâz fino all’odierno impero di Marocco, dove i Berberi lo gridarono califo (789) e dove il suo figliuolo fondò poi Fez (807). Cadde la dinastia di Edrîs nel decimo secolo; e toccata la stessa sorte, ne’ principii dell’undecimo, a’ califi omeiadi di Spagna, salì al trono loro Alì, figliuolo d’un edrisita per nome Hammûd: onde questo novello ramo fu appellato de’ Beni-Hammûd. I quali non tennero a lungo il califato di Cordova. Quando si sfasciò, essi detter di piglio a Malaga e ad Algeziras (1035-1038), e perdute anche queste, signoreggiarono qualche altra terra dell’Affrica settentrionale. Un uomo di lor gente venuto in Sicilia, ebbe Castrogiovanni e consegnolla [663] al conte Ruggiero.[705] Il geografo, nato nei Beni-Hammûd di Malaga, par abbia preso questo nome d’edrisita più tosto che hammudita, per distinguere il suo casato da quello di Sicilia, ovvero per ricordare insieme il glorioso capo della dinastia in Occidente e l’Edrîs bisavol suo, primo principe di Malaga.[706]

Nè il nobil sangue nè la dottrina bastarono ad ottenere in onor dell’Edrîsi una biografia, tra le mille e mille che compilavano assiduamente gli autori arabi del medio evo.[707] Leone Affricano che ci si provò nel secolo decimosesto, per troppa brama di soddisfare la curiosità letteraria degli Italiani, scrisse di memoria e in parte di fantasia; oltrechè il suo abbozzo ci è pervenuto per lo mezzo, niente diafano, di una doppia traduzione.[708] Frugando qua e là, pur [664] si è raccolta, in questi ultimi anni, qualche notizia degna di fede. Edrîsi ebbe nome Abu-Abd-Allah-Mohammed, figlio di Mohammed, figlio di Abd-Allah, figlio di quell’Edrîs che prese a Malaga (1035) il titolo di Principe de’ Credenti e il soprannome di El’-âli biamr-illah.[709] Dicesi che il geografo fosse nato in Ceuta il quattrocennovantatrè dell’Egira (1100) e avesse fatti gli studi a Cordova:[710] di certo ei viaggiò nella penisola spagnuola fino alle rive dell’Atlantico; vide in Affrica Costantina e le regioni meridionali del Marocco; e in Levante arrivò per lo meno infino a Nicea, poichè egli scrive essere entrato l’anno cinquecentodieci (1116) nella grotta de’ Sette Dormienti, sì celebri nell’agiografia musulmana.[711]

[665]

Men oscuro il periodo ch’ei visse in Sicilia, onde fu chiamato siciliano; com’era uso di trarre i nomi etnici da’ luoghi, sia della nascita, sia dell’educazione o del soggiorno. E però abbiam detto ne’ capitoli terzo e quarto di questo libro come, allettato dalla munificenza di Ruggiero, venne Edrîsi dalla costiera d’Affrica in Palermo, dove il sangue hammudita gli portava onore senza pericolo, e com’egli rimase alla corte di Guglielmo primo.[712] In qual paese poi fosse andato e quando fosse morto, non si ritrae;[713] poichè le ultime notizie che abbiam di lui vengono da Ibn-Bescirûn, autore del Mokhtar-el-Andalusiin, ossia «Scelta di [poeti] Spagnuoli,» il quale incontrò Edrîsi in Palermo, e dice ch’egli avea compilato il Nozhat per Ruggiero e che scrisse per Guglielmo primo, su lo stesso argomento, il Rûdh-el-Uns wa nozhat-en-nefs ossia «Giardino del diletto e sollazzo dell’intelletto.» Imâd-ed-dîn Ispahani trascrive questo e molti altri squarci dell’Antologia d’Ibn-Bescirûn, nella Kharida, fonte principale delle nostre notizie su i poeti arabi in Sicilia. Ed ambo gli antologisti, senza dir altro delle opere geografiche di Edrîsi, mettonsi a lodare con [666] iperboli e bisticci le poesie, che il primo dice aver avute dall’autore stesso e il secondo ce ne serba varii squarci, che sommano a trentacinque versi.[714] I quali potrebbero stare nella raccolta degli Arcadi nostri. Immagini copiate per la millesima volta, sonvi espresse con grazia e lindura. La lingua stessa in coteste poesie non è tanto leccata quanto nella geografia; dove Edrîsi intarsiò tanti pezzi di rettorica e ricami d’arcaismi che, invece d’infiorare la descrizione, la rendono monotona e talvolta anche ambigua.

Passando dalla forma alla sostanza, è da rammentare in primo luogo qual fosse la condizione degli studii geografici alla metà del secol duodecimo. L’antichità greca e romana aveva insegnato a misurar [667] la terra con le osservazioni del cielo; avea cominciato a notare le distanze delle città, il corso dei fiumi, la configurazione de’ mari; a descrivere la natura organica e le schiatte ed opere degli uomini; avea lasciati abbozzi di carte e d’itinerarii figurati: i quai lavori, ancorchè fossero imperfetti per vizio degli strumenti, scarsezza di osservazioni e abuso delle ipotesi, pur mostrano che la scienza era fondata. Il trattato di Tolomeo la ricapitolava tutta insieme, coordinandovi gli errori proprii del compilatore. Sopravvenute le tenebre della barbarie, la geografia rimbambì in Europa, come ogni altra scienza; si ridusse a scarabocchi informi, a compendii di compendii; peggiorando sempre in Occidente, dal quinto all’undecimo secolo dell’èra cristiana:[715] e appena v’incominciava col duodecimo una ristorazione, promossa dalle Crociate. De’ Bizantini si potrebbe dir ch’e’ serbarono i libri di geografia, senza studiarli giammai. Ma entrati gli Arabi nel consorzio de’ popoli, ricercarono con impeto giovanile le scienze geografiche. Alle quali erano predisposti dalla vita nomade, da’ viaggi di carovana, dalla curiosità dei segni celesti, fors’anco da’ commerci con gli abitatori della Mesopotamia che almanaccarono ab antico sul firmamento. Allettò poi gli Arabi all’astrologia, quella continua vicenda di loro società riottosa; e da un altro canto, il culto li obbligò [668] a sciogliere problemi di cosmografia, richiedendo, in paesi lontanissimi del Settentrione e dell’Occidente, qual fosse la kibla, ossia dirittura della Mecca, e quali le cinque ore della preghiera, variabili secondo la lunghezza de’ giorni.

Si stese l’ordito della geografia generale co’ lavori della Persia sassanide, dell’India e della Grecia, soprattutto co’ libri di Marin da Tiro e di Tolomeo, tradotti in arabico da’ testi greci o da versioni siriache. La geografia descrittiva, iniziata con le relazioni de’ capitani che reggeano i reami conquistati, con gli itinerarii postali, coi catasti, e con ogni altro ritratto ufiziale di loro sottile azienda, s’impinguò coi frequentissimi viaggi che i pellegrini, i mercatanti, i letterati vagabondi, faceano nell’immenso territorio musulmano.[716] Dalla fine così dell’ottavo secolo alla prima metà del duodecimo, i Musulmani rimisurarono il grado del meridiano terrestre; rifecero a poco a poco le tavole delle latitudini e longitudini; allargarono la cognizione dell’abitato fino alle estreme costiere orientali dell’Asia e, in Affrica, fino all’equatore; compilarono itinerarii, descrizioni, abbozzi statistici; rinnovarono il planisfero e delinearono carte parziali.[717] Quantunque e’ non fossero arrivati a dileguare alcune favole geografiche, anzi ne avessero aggiunte delle proprie loro; quantunque non si fossero [669] liberati al tutto dal giogo di Tolomeo ed avessero conosciuta molto imperfettamente l’Europa, gli Arabi pur batteano le vere vie della scienza, mentre in Occidente la feudalità chiudeva in angusti limiti i corpi e le menti.

S’accinse Ruggiero in questo, a compilare la geografia universale, usando insieme le cognizioni dell’Oriente e dell’Occidente e il ritratto di nuovi studii: la qual opera, nella prima metà del duodecimo secolo, il solo re di Sicilia e dell’Italia meridionale poteva intraprendere. Nella prefazione d’Edrîsi già riferita[718] leggonsi i nomi di dodici geografi, studiati, come si dice, dal re; de’ quali, dieci son arabi, Tolomeo greco e l’ultimo sembra Orosio, il celebre compendiatore latino de’ bassi tempi.[719] Degli arabi, sei ci son noti: Mas’ûdi, Geihani, Ibn-Khordabeh, Ibn-Haukal, Ja’kûbi, Kodama, ottimi compilatori di geografia descrittiva;[720] ma gli altri quattro, cioè Ahmed-ibn-el-’Odsri (ovvero el-’Adsari), Giânâkh-ibn-Khakân-el-Kîmâki,[721] Musa-ibn-Kasim-el-K..r..di, ed Ishak-ibn-el-Hasan, detto l’astronomo, non sono noti, nè sappiam qual ramo abbian trattato; se non che l’ultimo, [670] dalla qualità attribuitagli, si può supporre autore di geografia matematica, o forse compilator di tavole delle latitudini e longitudini.[722] Mancano dunque tra le autorità di Edrîsi i più celebri scrittori arabi di questo ramo della geografia, vissuti prima di lui, come sarebbero Albateni, Abu-l-Wefa, Ibn-Iûnis, Albiruni;[723] ma può darsi che Ishak-ibn-el-Hasan abbia raccolti i dati, almen dei primi tre. In geografia descrittiva mancano Mokaddesi[724] e Bekri, lodatissimi autori dell’undecimo secolo.[725] Se cotesti libri veramente rimasero ignoti a corte di Palermo, si comprende tanto meglio che Ruggiero gittò via quegli altri, accomiatò gli pseudo-geografi viventi ch’egli avea chiamati in soccorso, e deliberossi a rifare di pianta il disegno della superficie terraquea, secondo le relazioni d’uomini pratici. Ognuno intende che Ruggiero prese questa via, inorridito del mostruoso parto ch’esser doveva un planisfero a modo di Tolomeo e de’ suoi correttori arabi, le proporzioni del quale, senza dubbio, erano smentite, chiaro e tondo, dagli itinerarii terrestri e sopratutto dalle carte di navigare del Mediterraneo.

Quando avverrà che si appuri meglio il testo di [671] Edrîsi e la nomenclatura delle carte ond’è fornito, si scopriranno forse altre sorgenti dell’opera, non confessate nella prefazione; poichè alcuni dati che veggiamo qua e là, non vengono da quelli che noi conosciamo tra gli autori testè citati, nè par si possan trovare appo gli ignoti, che son tutti arabi, eccetto Orosio o quel ch’e’ sia. Così è da trovare l’origine d’una misura nuova o antichissima dell’equatore, la quale torna a settantacinque miglia al grado,[726] non miglia arabiche, ma romane, quelle medesime che Edrîsi adopera nel capitolo della Sicilia e che rispondono, quasi a capello, alle odierne miglia siciliane.[727] Alcuni nomi topografici della Sicilia stessa ci sembrano presi da antiche carte greche o romane, anzichè da carte arabiche, o dall’uso volgare del duodecimo secolo.[728] Similmente in Grecia, nell’Italia [672] di sopra e in qualche parte della Francia, i nomi spesso hanno sembianza antica; mentre in altre regioni della Francia, in Germania e in Inghilterra prevale la forma degli idiomi novelli e si vede chiara l’origine da relazioni o itinerarii del XII secolo.[729]

[673]

Ripigliando il racconto sotto la scorta di Edrîsi, veggiamo che furono interrogati e confrontati assiduamente, per lo spazio di quindici anni, gli uomini pratici, che vuol dire, secondo me, i navigatori italiani, e i viaggiatori d’altre parti d’Europa[730] i quali capitavano in Sicilia, chi per cagion di commercio, chi nell’andare alla Crociata; e con essi anco de’ Musulmani pellegrini, mercatanti e girovaghi.[731] Dopo tre lustri d’investigazioni, l’ufizio geografico della corte pose mano a rettificare il mappamondo, come si scorge dal passo d’Edrîsi che abbiam noi tradotto. Ed or comentandolo diciamo, che si delineò una carta geografica,[732] nella quale si cominciò a trasportar col [674] compasso, ad una ad una, le linee itinerarie orientate,[733] ritratte dalle relazioni; che si riscontrarono via via cotesti dati con quelli de’ libri geografici; che si sciolsero o si troncarono i dubbii surti nel confronto, e che, fissate in tal guisa le posizioni de’ paesi e le figure della terra e delle acque, furono incise in un planisfero d’argento, ch’avea per raggio un metro o poco meno ed era diviso in segmenti, per maneggiarsi più comodamente.[734] Così mi sembra eseguìto il mappamondo, il quale mal si può giudicare dalle figure che ne abbiamo in due antichi manoscritti alquanto dissimili tra loro, ridotte alla quinta o alla sesta parte [675] e delineate senza proporzioni più precise, che quelle che dar potesse la mano e l’occhio del copista.[735] Possiam noi supporre adoprata nel primo abbozzo una carta generale o un sistema di carte parziali: possiamo immaginare l’una o le altre, copiate da esemplari antichi o arabi, ovvero costruite appositamente su le tavole di latitudine e longitudine de’ Greci, corrette dagli Arabi; sempre la base dell’operazione si riduce alla figura che raccapezzavasi dalla scienza di quel secolo; e gli elementi della correzione sempre tornano alle distanze itinerarie appurate di recente. Non si può interpretare altrimenti il detto di Edrîsi; nè immaginare altrimenti l’uso de’ dati novelli che avea procacciati il re; i quali dati non poteano venire da una rimisurazione di tutte le latitudini e longitudini del globo, ma doveano consistere in itinerarii moderni di terra e di mare, carte nautiche e forse immagini latine, come quella d’Alfredo il Grande e l’altra che abbiamo nella Biblioteca dell’Università di Torino.[736] [676] Veggiam noi la riprova di tal dimostrazione, nel libro stesso d’Edrîsi, il quale rimanda a Tolomeo per le favolose terre settentrionali di Gog e Magog;[737] la veggiamo nelle carte parziali del codice parigino, le quali dànno soltanto delle latitudini e longitudini per le regioni dell’Affrica sotto i Tropici,[738] per le quali è da supporre che la corte di Palermo non avesse trovati itinerarii recenti. Gli itinerarii, accompagnati dalla direzione di ciascuna linea secondo i punti cardinali del globo, potean servire a verificar le carte terrestri in un modo analogo a quello che usarono ab antico i marinai del Mediterraneo per abbozzare lor carte marittime, fissando le posizioni con l’osservazione dei corpi celesti. Che se le buone carte da navigare, italiane e catalane, che si sono ritrovate fin oggi, risalgono appena al principio del decimoquarto secolo, quand’era già comune l’uso dell’ago magnetico, e se quell’uso non si può tirar su alla prima metà del duodecimo secolo, quando si compilava la geografia in Palermo, questo non vuol dir che mancassero a Ruggiero delle [677] carte nautiche abbastanza esatte da ispirargli diffidenza contro i geografi dotti, e da suggerire la verificazione pratica degli schemi immaginati da costoro.[739]

Passando alle sessantanove carte particolari, o, per dir meglio, itinerarii figurati, un de’ quali sta a capo di ciascun de’ dieci compartimenti d’ ogni clima nel prezioso codice d’Assoliti,[740] cominceremo da quella ch’esser doveva, ed è, la migliore di tutte, la carta, dico, della Sicilia. Basta metterla allato ad una mappa costruita secondo Tolomeo, per vedere la enorme differenza delle figure: l’una quasi uguale a quella delle nostre carte d’oggidì; l’altra sì scontraffatta, quanto apparrebbe per avventura il [678] mappamondo di Edrîsi a paragon di quello di Mercator.[741] Si dee pensar dunque che Ruggiero abbia profittato degli studii de’ Musulmani di Sicilia del decimo e undecimo secolo[742], ed anco fatte determinare astronomicamente alcune posizioni;[743] onde, con relazioni esatte e con la minuta esplorazione della costiera, si compose nell’ufizio geografico di Palermo una figura, la quale il copista non potè guastar tanto che non sembri maravigliosa pel suo tempo.

Delle rimanenti son pubblicate finora tre sole per intero, e si è stampata anco la riduzione di tutte in piccolo. Per quanto si può giudicare da copie cosiffatte, coteste carte non erano proporzionali alle figure del mappamondo; nè la differenza veniva da studio di projezione: poche d’altronde sembrano costruite secondo le latitudini e le longitudini. Vi si nota sempre, come in tutte le carte primitive, l’errore d’ingrandire le regioni meglio conosciute e rimpiccolire le altre, per farle pur entrare nei limiti che assegnava lo schema generale dei climi, de’ continenti e de’ mari. Così la figura dell’Italia dal Tevere in giù, dove Ruggiero comandava, torna assai meno erronea della mezza Italia di su, rattratta e rimpicciolita sconciamente. Lo stesso dicasi della Sardegna, della Corsica e di tutto il Mediterraneo [679] occidentale, di cui la Sicilia usurpa gran parte. L’ecclettico lavoro de’ geografi siciliani sparse luce in certe regioni, altre lasciò nelle tenebre delle ipotesi. Cavaron essi, per esempio, dai sogni di Tolomeo il continente africano sotto l’equatore, allungato verso Levante, sì che correa parallelo alle costiere meridionali dell’India e della Persia, e chiudea l’Oceano Pacifico quasi un altro Mediterraneo. All’incontro, le Isole Britanniche, il Baltico, la Polonia, sembrano illustrati da recenti relazioni; non vedendosi in quelle carte i grandi errori delle geografie antiche o degli Arabi.[744] Gli itinerarii della Grecia mostrano che Ruggiero sapea per benino come stessero in casa i suoi nemici;[745] nè fa maraviglia che fosse ben conosciuta l’Asia minore e il rimanente de’ paesi musulmani.

Da coteste figure passando alle descrizioni, veggiamo le stesse disuguaglianze: dove copiosi e genuini ragguagli; dove le favole orientali del paese di Gog e Magog; le isole fantastiche dalla leggenda di San Brandano;[746] le maraviglie di Roma, inventate da qualche giudeo errante, o nate da equivoci di traduzione.[747] Nè possiamo scusare Edrîsi allegando che [680] egli qui non descrivea già le carte delineate dai geografi, ma compilava su libri e racconti. Il vero è che non s’ha a pretender critica sottile da un letterato, sia musulmano o sia cristiano, del duodecimo secolo. Ci sembra di più ch’Edrîsi abbia fatto d’ogni erba fascio, per fretta di presentare l’opera al re, pria che la consunzione, già manifesta, lo portasse alla tomba.

La morte del re non avrebbe forse attraversato il compimento del suo libro, se a capo di sette anni non fosse avvenuto in Palermo quel sanguinoso tumulto nel quale andò a ruba la reggia e si gridò morte ai Musulmani. Edrîsi era rimasto a corte, come dicemmo; avea presentata a Guglielmo primo una nuova edizione della geografia; nè ci pare inverosimile che si fosse compiuta, o almeno incominciata per uso della corte, una traduzione latina di opera sì utile e dilettevole. Perì forse la traduzione nel sacco della reggia; nel quale è cosa molto verosimile che sia andato a male il gran planisfero d’argento, frutto di tante fatiche, condannato, in grazia del prezioso metallo, a durar poco, com’era già accaduto alle tavole geografiche di Carlomagno. I geografi e scrittori arabi che non furon uccisi, fuggirono al certo: ed è ventura che Edrîsi abbia potuto recar seco, o mandare [681] in Affrica pria della fuga, la copia del suo libro; il quale sortì gran fama appo i Musulmani e servì di guida a Ibn-Sa’id, Abulfeda ed altri. L’Europa, ridesta a’ buoni studii, non n’ebbe sentore fino allo scorcio del decimosesto secolo, quando uscì a Roma, co’ tipi medicei, il testo arabico di un compendio anonimo, o direi meglio mutilazione, di quest’opera. Del quale compendio fu poi pubblicata a Parigi una traduzione latina, e le fu dato il titolo di Geographia Nubiensis, perchè in principio della seconda sezione del primo clima, citandosi la Nubia, si leggea per errore di copia «terra nostra» invece di «terra di essa» (Nubia);[748] onde i traduttori Maroniti [682] credettero avere scoperta la patria dell’anonimo autore. Adesso abbiam noi, del testo compiuto, alcuni codici, alcuni capitoli stampati ed una mediocre traduzione francese di tutta l’opera. Si aspetta un orientalista, pratico di geografia comparata e disposto a consacrare molti anni di lavoro, sì ch’egli appuri il testo co’ suoi mille e mille nomi di luogo e ne dia una edizione critica ed una buona traduzione,[749] come han fatto non è guari due dotti olandesi per l’Affrica e per la Spagna.[750] La nostra storia civile sarà illustrata al certo dalla pubblicazione dei capitoli che risguardano l’Italia, dei quali un solo è uscito alla luce e fin oggi senza traduzione, quello cioè che contiene la descrizione della Sicilia. Perchè se questa è la più particolareggiata di tutta l’opera, pure gli squarci che trattano delle altre province italiane, racchiudono nomi, itinerarii e notizie topografiche, civili e commerciali, tanto più pregevoli quanto ci manca ogni opera di tal fatta, nella prima metà del duodecimo secolo.

Il libro di re Ruggiero, poichè convien che gli si renda il vero titolo, entrerà nei fasti della nostra storia scientifica. Compilato nella più civile delle nostre capitali del duodecimo secolo, opera collettiva del monarca di mezza Italia e di uomini forse la più [683] parte italiani, si smarrì nella letteratura arabica. Rivendicato dall’europea, gli eruditi l’accolsero con gran plauso.[751] Vennero poi le appuntature: trascuratavi la geografia matematica,[752] accettatevi delle favole ch’altri avea già contraddette, copiati i ragguagli d’altri autori.[753] Mal fondata mi sembra la prima di coteste accuse, perchè la geografia matematica non si avrebbe a cercare nella descrizione d’Edrîsi, ma nelle carte genuine che noi non abbiamo; e perchè il metodo conche i geografi di Palermo delinearono l’orbe conosciuto, fu veramente il migliore che allor si potesse adoperare, anzi quel medesimo che produsse la riforma delle carte geografiche nel decimosesto secolo.[754] Del plagio non parlo, quando una compilazione di geografia descrittiva non si può fare altrimenti che con le compilazioni antecedenti e le relazioni di chi è stato sui luoghi. E quanto alla critica de’ fatti, io lo replico, qual sommo uomo dell’antichità o del medio evo rimarrebbe in piedi, se avessimo a buttar giù tutti [684] quelli che ripetean favole di fisica o di storia naturale? Non è giusto qui il biasimo. Un dei critici più severi di questo libro lo disse pur monumento di scienza da stare allato all’opera di Strabone:[755] ma chi meglio lo approfondisca e tutte imberci le lezioni del testo originale, lo riconoscerà meco, ottimo de’ trattati geografici del medio evo.[756]

Nè la geografia fu la sola scienza applicata a’ comodi civili, che allor si coltivasse nella splendida corte di Palermo. L’epigrafe trilingue d’una lapida incastrata nel muro esteriore della Cappella Palatina, ci attesta avere il re, l’anno millecenquarantadue, fatto costruire «un orologio,» dice il testo latino; «uno strumento da notar le ore,» dice l’arabico: e il testo greco celebra «questo miracol nuovo, che il possente sovrano Ruggiero, re scettrato da Dio, raffrena il corso del liquido elemento, dispensando infallibile cognizione delle ore del tempo.»[757] Mercè la rettorica bizantina, sappiam noi dunque che l’era una clepsidra: la stessa forse, o compagna, di quella che «un meccanico di Malta avea fabbricata per comando del suo re, in effigie d’una donzella che battea le ore, gittando una pallina nel seng,» o bacin di metallo che noi diremmo, [685] di che ci ragguaglia il cosmografo Kazwini, nella sua descrizione di Malta. Abu-l-Kasem-ibn-Ramadhan, dice egli, vista quella macchinetta, improvvisò un emistichio, sfidando Abd-Allah-ibn-Sementi a fornire il verso. E quegli, quasi recitando, aggiunse di botto il secondo emistichio e due altri versi, con questo concetto: che la gentil suonatrice incalzava il tempo; e che il maestro che la fece, era salito prima in cielo, ad osservar le sfere, i segni dello zodiaco e i gradi dell’eclittica.[758] Or noi troviamo nella Kharida, de’ versi che questo medesimo Ibn-Ramadhan dettò a lode di Ruggiero, implorando licenza di ritornare a Malta: onde par si provi che la clepsidra fu opera appunto di quel secolo, e probabilmente fatta apposta per quel re.[759] Delle macchine costruite allo stesso effetto, ognun sa che Harûn Rascîd ne mandò in dono a Carlomagno una che suonava le ore con palle buttate in un bacino, da automi in figura di cavalieri che, aprendo uno sportello,[760] usciano di lor finestrini al punto dato: il quale ingegno taluno erroneamente credette orologio a ruote. Ibn-Giobair, nella seconda metà del secolo di Ruggiero, descrisse la mangana, come la chiamarono gli Arabi con vocabolo greco, mossa dall’acqua in un edifizio attiguo alla moschea cattedrale di Damasco. [686] Dove, sopra un verone, vedeasi quel che noi diciamo il quadrante: un grand’arco tondo che abbracciava dodici coppie di finestrini arcuati, da ciascuna delle quali venian fuori, ogni ora del giorno, due falconi d’ottone, ed aprendo il becco facean cascar palline ne’ sottoposti piattelli d’ottone. Per la notte poi erano apparecchiati nel muro dodici forami tondi, chiusi con vetri ed accerchiati di rame, de’ quali uno in ciascun’ora s’illuminava di luce rosseggiante.[761] E che gli Arabi usassero così fatti orologi, si conferma col titolo di un trattato che Zuzeni, nella istoria de’ filosofi, attribuisce ad Archimede: “Il libro delle ore, ossia (descrizione) dello strumento idraulico che butta le palline.”[762]

Illustrossi allo scorcio di quel secolo, l’ingegnere siciliano Abu-l-Leith, educato, com’ei sembra, alla scuola che produsse i monumenti normanni di Sicilia, e costretto, al par di tanti altri, ad emigrare, quando quel soggiorno divenne incomportabile a’ Musulmani. Aveva allora il califo almohade Abu-Ja’kûb-ibn-Jûsuf, gittate in Siviglia le fondamenta d’una sontuosa moschea cattedrale; alla quale ei die’ l’ultima mano correndo il millecentonovantasette dell’èra volgare, come ricordano gli annali musulmani di Ponente, ed aggiungono essere stati messi in cima del minaretto, che si chiama oggidì la torre Giralda, [687] de’ globi di metallo dorato sovrapposti l’uno all’altro e scalati a piramide, i quali fabbricò e levò sull’altissima torre, questo Abu-l-Leith, mo’allem, o vogliam dire maestro. A comprendere la grandezza dell’opera, basti che per far uscire sul ballatoio del minaretto un di cotesti globi, e pur non era il più grande, convenne tagliare gli stipiti dalla porta praticata ad uso del muezzin; che l’asta di ferro che reggea gli immensi pomi, pesò quaranta roba’, ossia più di censessanta chilogrammi; e che la doratura prese tanto metallo da valere centomila dinâr, o diremmo noi, più che un milione e mezzo di lire.[763] Così gli scritti musulmani. La cronica di San Ferdinando narra che quel pinacolo d’oro fece sbalordire i conquistatori cristiani; che i globi eran quattro; e che il più basso teneasi unico al mondo, sì per la bellezza del lavoro e sì per la mole: sul quale quando ferivano i primi raggi, parea che splendesse un altro Sole.[764]

[688]

Nè la meccanica stette inoperosa nelle guerre che i Musulmani di Sicilia combatteano sotto i vessilli normanni. Raccogliendo i cenni che ne fanno le cronache, abbiam noi già notata l’efficacia delle torri mobili, condotte (1133) da ingegneri musulmani all’assedio dì Montepeloso;[765] le quali nella medesima guerra, drizzate appena sotto Nocera, costringeano alla resa quella terra, fortissima di sito e di munizione.[766] Le torri di legno sono ricordate dagli scrittori musulmani nell’infelice impresa di Guglielmo secondo sopra Alessandria di Egitto (1174): da’ quali sappiamo ch’eran armate di possenti arieti e che l’oste siciliana usò anche de’ mangani smisurati, i quali scagliavano massi, com’e’ sembra, di lava, recati a bella posta dalla Sicilia.[767] E dieci anni appresso (1185), cotesti mangani, che l’arcivescovo Eustazio chiama «le figlie del tremuoto,» aprian la breccia nelle mura di Tessalonica.[768] A capo d’un secolo, i Saraceni di Lucera furon tratti con lor mangani alla seconda guerra che Carlo d’Angiò volle portare in Sicilia; nel quale incontro sappiamo da’ diplomi napoletani del milledugentottantaquattro, che si richiedeano cento uomini a maneggiar quattro di cotesti strumenti;[769] onde possiamo supporli analoghi a’ testè ricordati dell’impresa di Alessandria, ed a [689] quelli forse che avean aperta a’ Musulmani (878) la torre del porto grande di Siracusa, i quali, a quanto ei sembra, operavano per tiri orizzontali.[770] Se mal non ci apponghiamo, è da tenere che l’uso di questa maniera di mangani fu serbato in Sicilia; non vedendosi, per quanto sappiamo, negli altri ricordi del medio evo. Al quale supposto si aggiunga quell’altro de’ fuochi da guerra adoperati alla espugnazione di Tessalonica.[771] Quanto all’architettura militare, sappiamo noi dal fatto di Bari che re Ruggiero vi adoperava ingegneri musulmani:[772] ed è molto verosimile che la cittadella di Lucera, fondata dall’imperatore Federigo quando vi tramutò i Musulmani di Sicilia, sia stata opera anch’essa de’ loro ingegneri.[773]

Onoravasi in que’ tempi, assai più che l’arte militare, l’astrologia, confusa com’essa fu per tutto il medio evo, con l’astronomia: e poichè re Ruggiero si travagliò molto nelle vanità di quella scienza,[774] lice supporre che le verità fossero state anco studiate a corte di Palermo. Fiorì in quel secolo, verso la metà com’ei sembra e in Palermo, Mohammed-ibn-Isa-ibn-Abd-el-Mon’im, musulmano di Sicilia, il quale, al dire del Zuzeni, esercitò con gran lode la geometria e l’astronomia e con le sue teorie faceva autorità tra i dotti del paese.[775] Possiamo supporre [690] dunque ch’egli attendesse anco alla applicazione di quelle scienze, alla architettura cioè o meccanica, da una parte, ed all’astrologia dall’altra.

Prevaleano le vanità nella scienza del cielo al tempo di Guglielmo il Buono,[776] di Federigo ed anco di Manfredi, poichè Stefano da Messina dedicò a questo principe la traduzione latina dei Fiori di astrologia, attribuiti da un impostore arabo al gran savio Hermes, padre dell’arcana scienza e della medicina.[777] Che la vera scienza poi fosse stata coltivata ancora nel paese, lo prova il comento delle tavole d’Arzachele, compilato in Parigi allo scorcio del decimoterzo secolo, da un Giovanni di Sicilia, del quale non abbiamo altra notizia che questa;[778] ma se la forma del [691] nome lo dà a vedere cristiano, la vocazione lo fa supporre piuttosto musulmano o giudeo mezzo convertito. Duolmi non poter ammettere le conghietture di coloro che hanno attribuiti alla Sicilia due di que’ non pochi astrolabii arabi che rimangono ne’ musei pubblici o privati:[779] ma non mi farebbe maraviglia, che un dì o l’altro se ne trovasse alcuno di fattura siciliana, atteso le condizioni generali della cultura del paese infino al secolo decimoterzo, e il grand’uso che astrologhi, astronomi e piloti allor faceano dell’astrolabio.

Non volendo interrompere l’abbozzo della cultura scientifica sotto re Ruggiero, io ho lasciata addietro, nel cominciar questo capitolo, la matematica pura, del cui studio non tratta alcuna memoria di quell’età; quantunque e’ non si possa dar che sia stata negletta in Sicilia, quando vi fioriano sì felicemente i rami di scienza applicata. Ma se il caso mutilò in questa parte, come in tante altre, la storia letteraria, il dotto zelo della presente generazione ha provato che l’aritmetica e la geometria furono onorate alla corte di Federigo, degno erede dell’avol materno. Abbiam [692] noi fatto cenno de’ problemi di geometria ch’egli mandò a Malek-Kâmil mentre negoziava per l’acquisto di Gerusalemme.[780] Altri ei ne indirizzò al dotto ebreo spagnuolo, Giuda Cohen ben Salomon, che venne poi a stanziare in Italia.[781] Gli scritti di Leonardo Fibonacci, dati non è guari alla luce, attestano che questi, nel dugenventicinque o pochi anni appresso, dedicò all’imperatore il libro de’ quadrati; che Federigo leggea volentieri il suo Liber Abbaci; e che «dilettavasi, son proprio le parole dell’autore, di apprendere certe sottilità appartenenti alla geometria ed ai numeri.»[782] Ritraggiamo da un altro opuscolo del Fibonacci intitolato a modo arabico «Il Fiore,» che a Pisa, in presenza di Federigo, ei sciolse certi problemi proposti da un maestro Giovanni da Palermo, filosofo della corte;[783] che maestro Teodoro, filosofo palatino anch’egli, avea presentate in altra occasione al Fibonacci delle tesi intorno i numeri quadrati;[784] che il pisano fece sapere per epistola a Teodoro i suoi trovati recenti su le regole di società;[785] e ch’ei mandò all’imperatore, per un Robertino donzello della corte, alcuni corollarii della teoria delle frazioni.[786]

[693]

Dei quali nomi proprii i due primi ci sono noti d’altronde; e similmente l’ufizio di filosofo che comparisce nella corte bizantina fin dal quarto secolo, e ritorna in alcune chiese di Sicilia all’epoca normanna.[787] Giovanni da Palermo era de’ notai, o diremmo oggi segretarii, di Federigo; il quale lo mandò ambasciatore a Tunis il dugenquaranta: onde argomentasi ch’ei sapesse l’arabico e forse fosse di schiatta musulmana.[788] Maestro Teodoro comparisce in corte, se non tra i grandi, certo tra i più intimi dell’imperatore: mandatogli apposta il dugentrentanove un legnetto per ritornare nel reame, dond’erasi allontanato con licenza e forse con missione del principe;[789] spacciatogli non guari dopo un foglio bianco col sigillo regio, [694] affinch’ei vi scrivesse in arabico le credenziali degli ambasciatori di Tunis;[790] richiestogli di manipolare per uso della corte degli sciroppi e dello zucchero di viola;[791] e quel ch’è più, affidatogli il geloso ufizio di spiare negli astri il momento propizio alle fazioni di guerra:[792] nè sappiamo s’ei fu «de’ negromanti astrologi e vati, ministri di Belzebù e d’Astarotte» che Federigo perdea (1248) nella strepitosa sconfitta di Parma.[793] Siciliano o antiocheno di nascita, arabo o greco di stirpe,[794] questo Teodoro, al par che Giovanni da Palermo, ben simboleggia la scienza [695] arabica rimasta in Sicilia nella prima metà del decimoterzo secolo: un po’ di tutte le dottrine matematiche e naturali; sogni misteriosi e germi di verità, e tra i più proficui, l’aritmetica e la geometria. Nelle quali Giovanni e Teodoro doveano pur sentire molto innanzi, s’e’ proposero de’ problemi a quel gran concittadino di Galileo, quando, studiata la scienza in Barbaria, la perfezionò e venne a promuoverla in Italia.

Ed ecco la mia navicella a vista della prima restaurazione degli studii in Italia, anzi in Europa; ond’è forza arrestarmi, sì perchè non basterebbero le mie forze a continuare il viaggio, e sì perchè quell’incivilimento si debbe a tanti altri fattori, non meno efficaci che la tradizione scientifica e letteraria de’ Musulmani di Sicilia. La qual nazione, estinguendosi, lasciava sì il picciolo suo peculio a’ Latini che l’avean morta; ma essi già s’erano arricchiti d’altre parti, come si dimostra per l’esempio di Gerardo da Cremona, Leonardo Fibonacci, Guido Bonatti, Gerardo da Sabbionetta, Brunetto Latini, Simone da Genova e tanti altri.

Pertanto io mi rimango a pochi cenni, e, passando dalle matematiche alle scienze naturali, debbo ricordare in primo luogo, che la fama accusò l’imperatore di profana curiosità ne’ misteri della creazione. I Frati minori, suoi nemici accaniti, andavano buccinando quelle che il Salimbeni chiama le superstizioni di Federigo: or ch’egli avea fatti sventrare due uomini per indagare la fisiologia della digestione.; or che dava ad allattar de’ bambini, vietando alle balie [696] di vezzeggiarli con parole, sì che lo sperimento mostrasse qual idioma balbetta l’uomo dassè solo, se l’ebraico, come dice la Scrittura, ovvero il latino, il greco, l’arabico; ma aggiugneano i Frati che le povere creaturine n’eran morte di tristezza.[795] I dotti israeliti intanto lodavano il genio di Federigo per la Storia naturale.[796] E questo è provato in vero da fatti notissimi: gli animali esotici ch’ei raccolse;[797] la storia degli animali d’Aristotile compendiata da Avicenna e, per commissione dell’imperatore, tradotta in latino da Michele Scoto,[798] indi in ebraico non si sa da chi nè [697] nè quando;[799] il libro della fisionomia, composto per lui dal medesimo Scoto;[800] il trattato della caccia co’ falconi, opera propria di Federigo;[801] il libro d’ippiatrìa, compilato secondo i suoi dettami da Giordano Ruffo di Calabria[802] e tradotto in ebraico da un anonimo;[803] il trattato di veterinaria attribuito ad Ippocrate, e tradotto dall’arabico in latino per maestro Mosè da Palermo.[804]

Non è questo il luogo di toccare la scuola medica di Salerno, nella quale i dotti latini gareggiarono co’ giudei[805] e co’ musulmani; e i medici di Sicilia vi recarono il tributo di lor dottrina, come si argomenta dal nome di Pietro Siciliano che comparisce nella seconda metà dello undecimo secolo, seguito da un Giovanni figlio di Costantino siciliano.[806] Sappiam noi come Guglielmo secondo onorasse di molto, al par che gli astrologhi, i medici musulmani che capitavano in Sicilia;[807] come Federigo non solo [698] provvide con le leggi allo studio della medicina, ma par abbia promossa la pubblicazione di alcuna opera medica e la traduzione d’alcun’altra;[808] sappiamo l’accoglienza che trovò a corte di Palermo, verso la metà del decimoterzo secolo, il medico Taki-ed-dîn, il quale venendo a Bugia da’ paesi di Levante, soffermossi in Sicilia.[809] E visse nell’isola infino alla seconda metà del secolo decimoterzo chi seppe sì bene la lingua arabica e la medicina, da poter voltare dal testo in lingua latina, la grande opera medica di Razi, intitolata El-Hawi, ossia «Il Comprensivo,» della quale Carlo primo d’Angiò avea domandato ed ottenuto un codice dal re di Tunis. Il traduttore, per nome Farag, figliuolo di Salem, ebreo di Girgenti, portò a compimento, nel febbraio del milledugentosettantanove, questo lavoro; il quale sendo stato approvato da eletti medici di Napoli e di Salerno, ne fu fatta per uso della corte una bellissima copia in pergamena, divisa in cinque grossi volumi; la quale dopo quattro secoli capitò nella collezione di Colbert, ed or è serbata ne’ tesori della Biblioteca nazionale di Parigi.[810] Cotesto lavoro non solamente [699] è pregevole per la storia letteraria, ma potrà servire tuttavia agli scienziati ed a’ filologi, terminando con un indice ed un ampio glossario di medicamenti semplici, al quale è messo a riscontro il nome latino con l’arabico e spesso anco col greco, scritti in caratteri nostrali.[811]

Quantunque gli Arabi, togliendo, come noi, dai Greci il vocabolo filosofia, l’abbian usato in senso diverso da quel ch’ebbe in Europa nel medio evo, e l’abbiano ristretto alle speculazioni metafisiche e fisiche dell’antichità, pure io non credo che re Ruggiero siasi mai dato a così fatta disciplina, sì come affermano Sefedi ed Omari da me citati.[812] Edrîsi, nella dedica della geografia, gli dà lode soltanto per le scienze delle due classi che noi chiameremmo politica e matematica:[813] e da tutto quel che sappiamo di [700] questo gran principe, ei ci sembra inclinato alle scienze pratiche e positive, più tosto che alle astrattezze su la natura e le relazioni degli esseri. Quindi è verosimile che que’ due scrittori arabi del decimoquarto secolo, indotti in errore dalla fama che tuttavia predicava la corte sveva di Sicilia com’emporio d’ogni bel sapere, abbiano attribuita a Ruggiero una lode che andava piuttosto al figliuolo della sua figlia. Pure nella seconda metà del duodecimo secolo, gli studii filosofici propriamente detti eran già progrediti di molto in Italia e particolarmente nelle regioni meridionali. A quegli studi par che accenni, e non alla scienza e alla coltura in generale, il dotto fiorentino, Arrigo da Settimello, nel carme latino dettato allo scorcio del secolo, là dov’ei dice che la filosofia tenea corte bandita in Sicilia.[814]

Il genio dunque dei tempi, l’adolescenza passata a corte di Palermo, la quotidiana provocazione di papi ambiziosi e tracotanti, ed anco la sottigliezza del cervello germanico, disponeano Federigo alla metafisica. Si potrebbe supporre a priori ch’ei fosse stato educato alla scuola peripatetica degli Arabi, poichè [701] l’Europa cristiana in quel tempo non soleva attingere ad altre fonti che a quella. Cresce l’argomento col noto fatto ch’ei menò seco alla Crociata un musulmano di Sicilia, col quale avea studiata già la dialettica.[815] Ed abbiamo per prima prova l’opinione generale del secolo, quando la Corte papale e i frati, e i nemici dell’impero e la turba infinita de’ ciechi di quella età, più arrabbiati assai che i ciechi d’oggidì, accusavano Federigo di miscredenza e gittavangli addosso le più sciocche calunnie;[816] e, quel ch’è più, i Cristiani mormoranti contro Roma in Italia e fuori, lo biasimavano di liberi pensieri, e persino il Poeta che avea messi in inferno tanti papi, lo chiuse entro un’arca ardente della città di Dite. Ma da pochi anni in qua son venute fuori notizie dirette e precise intorno la scuola ch’ei seguì.

Un codice arabico della Biblioteca bodlejana d’Oxford, intitolato «I Quesiti siciliani» racchiude le quistioni filosofiche «mandate a’ dotti di Levante e di Ponente dal re de’ Romani, imperatore e principe della Sicilia, e le risposte che fecevi in Ceuta, [702] per volere di Rascid califo almohade, il dottissimo sceikh ’Abd-el-Hakk-ibn-Sab’in.» Cotesto re de’ Romani era ben Federigo, poichè il riscontro delle date, conduce per l’appunto al suo regno. Ed ecco il tenor de’ quesiti:

Primo. «Il filosofo (Aristotile) in tutte le opere sue dice espresso esistere il Mondo ab aeterno: ei così pensava di certo. Or, s’ei lo dimostrò, quali furon le prove; e se no, in che maniera ei ne discorre?»

Secondo. «Qual è lo scopo della scienza teologica e quali sono i suoi postulati preliminari, se postulati essa ha?»

Terzo. «Che cosa sono le categorie? E come quelle dieci che ne conosciamo servon di chiave ad ogni maniera di scienza? Ma le son veramente dieci; e perchè non se ne può togliere nè aggiugnere alcuna? Come poi si prova tuttociò?»

Della quarta tesi non è trascritto il testo, ma si ritrae che risguardava la natura dell’anima, la sua immortalità e la contraddizione che appariva in questo subietto tra Aristotile ed Alessandro d’Afrodisia.

Quinto, «Come vanno spiegate queste parole di Maometto: «Il cuor del Credente sta tra due dita del (Dio) Misericordioso?»

Bastano così fatte domande a svelare lo scettico. Ibn-Sab’în che non l’era meno di Federigo, rispose pure in tutti i capi da specchiato ortodosso musulmano, pratico dell’arsenale della scienza e bene informato della storia de’ filosofi greci; poichè oltre i molti peripatetici, ei cita a proposito dalla immortalità [703] dell’anima, «il divino Piatone e Socrate suo maestro,» non che il Corano, il Vangelo, il Pentateuco, i Salmi e i Fogli (Sohof), antichissima rivelazione, com’e’ pare, de’ Sabii. Ma di sotto il casto ammanto uscìa la zampa di Satan. Discorrendo della teologia e de’ suoi fondamenti scientifici, Ibn-Sab’în scrivea che, se l’imperatore pur volesse chiarirsene meglio, venisse in persona a parlargli o mandassegli alcun suo scolastico (motekallim) o almeno un uom fidato al quale consegnare sicuramente lo scritto: tanto più che coteste sospette proposizioni eran già note a tutti in quel paese, come fuoco che s’accenda in alto: e v’era di molti barbassori ignoranti e maligni, che al solo odore di quesiti così fatti, davano dell’asino al proponente e di matto all’interrogato. Leggiamo nel preambolo di questo dotto squarcio peripatetico, che il messaggier dell’imperatore, avuto lo scritto, offrì grossa somma di danaro per mani del governatore di Ceuta; che Ibn-Sab’în la rifiutò, e ch’ei ricusò al paro i ricchi doni mandatigli da Federigo, quand’ebbe sotto gli occhi la risposta. La proposizione de’ Quesiti Siciliani va riferita, su per giù, al milledugenquaranta.[817]

Noi non ritraggiamo se Federigo abbia soddisfatta [704] la curiosità filosofica, al modo che gli proponeva Ibn-Sab’în. Questo sapiente, che allor avea forse venticinque anni, e s’era già, di Murcia sua patria, rifuggito in Ceuta per una prima persecuzione religiosa, fu costretto nuovamente a mutare soggiorno, da’ teologi Musulmani che non gli perdonavano l’audacia, nè il sapere. Passò da Ceuta a Bugia, indi a Tunis e al Cairo, e infine alla Mecca; precorso e avviluppato sempre dalla fama di zindik e panteista, ancorchè ei cercasse di nascondersi sotto il mantello del sufismo e delle scienze mistiche. Ebbe, come gli antichi filosofi, gran seguito di discepoli e di gente che ammirava la sua dottrina ed eloquenza, o gli era grata per la inesauribile carità. Ma prevalendo i nemici, ei, con esempio singolare appo i Musulmani, si fe’ segar le vene e morì da stoico: onde crebbe l’ammirazione de’ suoi discepoli e il trionfo de’ nemici.[818] Se non fallisce un cronista anonimo trascritto dal Makkari, la fama di questo filosofo arrivò in Italia. Abd-Allah signore di Murcia, della dinastia de’ Beni Hûd, spogliato improvvisamente da Alfonso di Castiglia che avea accettato da lui l’omaggio feudale, tentò un appello al papa pel falsato giuramento, com’io credo. Mandò a quest’effetto [705] in Roma un fratello d’Ibn-Sab’în, per nome Abu-Taleb; il quale presentatosi al papa, s’accorse che questi al vederlo si messe a parlare di lui “in lingua barbara” co’ suoi cortigiani; onde informatosi arrivò a sapere aver detto il papa che il suo fratello era in vero il principe de’ teologi musulmani. Tornando l’ambasceria al dugenquarantatrè, perchè allora i Castigliani occuparono Murcia; si dee riferire quel giudizio ad Innocenzo IV, uomo di molta dottrina e testè amico dell’Imperatore. E sembra cosa molto verosimile che Innocenzo avesse anco lette le risposte ai Quesiti Siciliani, le quali di certo levarono gran romore tra gli adètti della scienza.[819]

In tal frequenza di commerci intellettuali, non poteano rimanere ignote a corte di Sicilia le opere del gran filosofo israelita di Spagna morto nei primi anni di quel secolo, Musa-ibn-Meimûn, chiamato dagli scrittori cristiani Maimonide. E già l’erudizione moderna, frugando gli scritti degli Israeliti italiani, ha scoperte vestigia dell’abboccamento di Federigo con un dotto, non sappiamo se ebreo o musulmano, col quale lo imperatore si maravigliò che Maimonide non avesse spiegato nella «Guida de’ Dubbiosi» nè tra le «Ragioni de Precetti» l’origine del rito mosaico di purificazione con le ceneri della giovenca rossa (Numeri, cap. XIX); e soggiunse parergli che quell’uso fosse nato per vero dall’olocausto del lione fulvo, ch’egli ritraea dal «Libro [706] de’ Sapienti indiani»[820] Da cotesto cenno si è conchiuso a ragione, che Federigo ebbe alle mani la versione ebraica, o piuttosto l’originale arabico, della famosa «Guida;» e si è supposto con verosimiglianza ch’egli stesso n’abbia fatta far la prima traduzione latina.[821] Speriamo che ulteriori indagini rischiarino cotesti particolari di Storia letteraria. Intanto non è da porre in dubbio tal aneddoto, che allarga sempre più il campo delle cognizioni da attribuirsi a Federigo.

Nè egli coltivò la filosofia sol per utile e diletto proprio, ma sì la promosse ne’ suoi domimi e in tutta Cristianità. Accenneremo appena alla Università fondata in Napoli; a’ sussidii assegnati per gli studenti poveri; ai “dottori chiamati da ogni parte del mondo, come dice il Jamsilla, con liberali premii e provvisioni.”[822] Raccolti nella sua biblioteca moltissimi codici arabici e greci, Federigo li facea tradurre in latino, per comodo pubblico. Ci rimane la nobile epistola con la quale ei mandava in dono ai professori ed agli studenti di Bologna la versione di «certi scritti di Aristotile e d’altri filosofi su la dialettica e la cosmologia,» affinchè giovassero a propagare la [707] scienza, «senza la quale, ei dicea, la vita dei mortali non si conduce liberalmente.» Impossibile e’ sembra che Federigo non abbia arricchita, di quelli e d’altri trattati, la sua cara Università di Napoli; e si ritrae che Manfredi, imitando l’esempio del padre, inviò all’Università di Parigi, forse le stesse opere e di certo la stessa epistola, ricopiata e mutatovi il nome.[823] Pensano gli eruditi che coteste versioni siano state, tutte o parte, opera di Michele Scoto.[824] Non guari dopo, Bartolomeo da Messina, per commissione di Manfredi, tradusse dal greco in latino l’Etica d’Aristotile;[825] e un tedesco per nome Hermann voltò in latino, per voler dello stesso principe, le parafrasi arabiche, o compendii del medesimo e [708] d’altri libri d’Aristotile.[826] Aggiungansi le altre versioni d’opere di matematica, di medicina, di storia naturale, d’astronomia o astrologia, dovute al patrocinio di Federigo o del figliuolo, delle quali abbiam già fatta menzione. Come poi i Giudei furono in Occidente, per tutto il medio evo, gli interpreti più assidui della dottrina araba, così Federigo favorì, insieme con le latine, le traduzioni o compilazioni ebraiche degli scritti arabi di scienza. Oltre i supposti che abbiamo riferiti poc’anzi intorno la versione della «Guida de’ Dubbiosi,» si ritrae per positive testimonianze che Giacobbe figlio di Abba Mari, medico di Marsiglia, stipendiato largamente dall’imperatore, e venuto a Napoli, compì quivi il dugentrentuno la versione ebraica dell’Almagesto, e il trentadue, quella del comento di quattro libri d’Aristotile per Averroes.[827] Similmente si ritrae che Giuda Cohen figlio di Salomone, ebreo spagnuolo, compilatore di una grande enciclopedia scientifica ch’ei dettò in arabo e tradusse in ebraico, passò in Italia del quarantasette, dopo avere risposto per ben due volte ai quesiti scientifici di Federigo:[828] onde possiamo argomentare che questi l’abbia chiamato di qua dalle Alpi, allettandolo con quella savia liberalità che usò verso ogni altro scienziato.

[709]

Quindi si è creduto che Federigo intendea l’ebraico; ed altri ha aggiunto, con maggiore verosimiglianza, il greco, poichè v’ha una versione greca delle sue costituzioni,[829] e si sa che al suo tempo questo idioma prevaleva in alcune città della Sicilia e del Napoletano. Per buoni argomenti si ritiene che Federigo seppe il provenzale e il francese;[830] nè è da mettere in forse ch’ei parlò, qual meno e qual più spedito, l’italiano, il latino, l’arabico e il tedesco.[831] Dubbio è che in latino e in provenzale,[832] certo ch’egli abbia verseggiato in italiano, al par che alcuni suoi figliuoli e cortigiani: il che non vuol dir che Federigo inventò la nostra poesia, nè che fondò, propriamente parlando, un’Arcadia in Palermo, come sognavano gli eruditi del secol passato; ma che primo, o tra i primi, egli introdusse in Italia la moda arabica e provenzale di recitare a corte, de’ versi dettati nella lingua che ciascun parlava. La quale usanza aulica, promosse la nostra letteratura assai più ch’e’ non sembri a prima vista. Federigo rese popolari le novelle rime, con le attrattive del canto e dei suoni.[833] E se ben mi appongo, suscitossi nell’animo de’ contemporanei una [710] indefinita ma irresistibile brama di civiltà, a veder il nipote di Barbarossa, che scendea dal trono per conversare co’ dotti e mescolarsi negli esercizii delle arti liberali e ne’ sollazzi: gentile, piacevole di tratto, arguto, tollerante degli altrui detti,[834] vivace e versatile ingegno, ed a volte profondo, nudrito e non soffocato dalla erudizione, splendido ed elegante negli arredi e negli edifizii ch’ei fece costruire.[835] Con la potenza, la ricchezza e l’alto animo, egli cooperò quanto niun altro uomo del medio evo, a’ progredimenti dell’intelletto umano in Europa.

Noi non abbiamo qui a giudicar Federigo statista, nè legislatore; non abbiamo a biasimar, nè a scusare i vizii che lo macchiarono, l’avarizia, la crudeltà, la dissolutezza, la perfidia: vizii di tutti i tempi e maggiori assai nel medio evo che in oggi. A considerar la sola tempra dello intelletto, Federigo ci sembra uom del secolo decimottavo, venuto su nei principii del decimoterzo, come quelle piante che per singolar caso di natura o per arte dell’uomo, fioriscono fuor di clima e di stagione. Così fatti fenomeni morali, la Storia non arriva a spiegare pienamente, poichè la più parte delle cause si sottraggono alla critica: può nulladimeno, investigare le condizioni di cose che abbiano favorito lo sviluppo d’un buon germe. Or l’intelletto di Federigo prese forma e vigore tra due serie di fatti non ordinarii, alle quali noi abbiamo accennato; cioè il turbine politico [711] che l’aggirò fin dai suoi primi anni e l’ambiente di civiltà nel quale ei fu educato. Il nostro subietto ne conduce a ricapitolare quanto su quest’ultimo punto si è detto da altri e da noi stessi.

All’entrar del secolo decimoterzo, la civiltà musulmana, con le sue parti buone e triste, s’era infiltrata un poco in tutta Europa, molto nella terraferma italiana e moltissimo in Sicilia; dove, oltre i frequenti commerci con le rive meridionali del Mediterraneo, rimaneano avanzi degli ordini e delle schiatte musulmane. Tra gli avanzi di quelle schiatte, ci sono occorsi nella infanzia di Federigo de’ famigliari della corte di Palermo e n’abbiamo visti nel suo seguito a Gerusalemme e per tutta Italia, in pace, in viaggio, in guerra; maestri o collaboratori di studio, essi e i Giudei e i Musulmani avventizii d’altri paesi, cortigiani, ufiziali, ministri di passatempi onesti, o di lusso e talvolta di non lodevol costume. Giovanni detto il Moro, celebre per misfatti nei regni di Corrado e di Manfredi, nato d’una schiava di corte, segretario dell’imperatore, tesorier generale del reame, quel desso ch’ebbe feudi da Innocenzo IV e volle tradire Manfredi a Lucera, Giovanni somiglia, così d’origine come di vita e di costumi, ad un liberto di reggia musulmana di Spagna, Affrica o Egitto.[836]

La corte sveva d’Italia parve musulmana a tutti i buoni Cristiani dell’Occidente, secondo l’attestato di [712] Carlo di Angiò, che appellava Manfredi il Sultano di Lucera. Avendo largamente discorso in questo capitolo e nei precedenti del patrimonio intellettuale che Federigo prese da’ Musulmani, accenneremo qui ai costumi e alle usanze passate per la medesima via. Gregorio IX denunziò all’orbe cattolico l’imperatore che in Acri avea fatte venir ballerine per offrire spettacolo o peggio, a’ suoi ospiti Saraceni:[837] e si ritrae da testimonianze autorevoli che anco in Europa ei si sollazzava con le pantomime, i giochi di equilibrio, i suoni e i canti di quelle saltatrici.[838] Innocenzo IV, accagionandolo ingiustamente per le relazioni politiche col Cairo, gli rinfacciava di tenere paggi saraceni e di far custodire la sua moglie da eunuchi.[839] E ch’egli s’era acconcio un serraglio a Lucera e n’aveva un altro da campo nelle guerre d’Italia, lo provano documenti e scrittori contemporanei.[840] Così i vizii avean preso a corte di Federigo le sembianze musulmane; non ch’e’ mancassero o fossero men laidi nelle reggie cristiane del medio evo. Musulmano anco il lusso. Parrebbe che Federigo volesse imitar qualche sultano Gaznevida dell’India, quand’egli all’assedio di [713] Pontevico (1237) fece menare da Saraceni un elefante, che portava sul dosso una torricciuola con le bandiere imperiali.[841] Parrebbe ch’egli avesse voluto recare in Europa le apparenze tutte dell’Oriente, quando si legge il rescritto, col quale comandava a’ suoi ufiziali in Palermo di trascegliere subito nella famiglia della corte alquanti schiavi negri in su i venti anni, e comperarli al bisogno, i quali apprendessero a suonare, chi la tromba e chi la trombetta, e fossero subito mandati allo imperatore.[842] E sia caso, o che i più be’ paramenti della corte uscissero ancora dal tirâz di Palermo, si è perfin vista una iscrizione arabica, trapunta in oro, su i paramani della tunica nella quale fu composto nell’avello il grande imperatore del secolo decimoterzo.[843]

CAPITOLO XI.

Mentre le scienze fisiche e filosofiche manteneansi in onore appo i soggiogati Musulmani di Sicilia, e la poesia arabica suonava gradita nella reggia cristiana di Palermo, gli studii religiosi e legali decaddero e con essi la filologia. Nè dovea succedere altrimenti, [714] quando si dileguavano a mano a mano gli uomini eletti per educazione e virtù, lasciando nell’isola que’ delle infime classi e gli ufiziali e servitori di corte. L’emigrazione de’ migliori, attestata negli annali arabici dell’undecimo secolo, taciuta in que’ del duodecimo che dimenticavano già la Sicilia, comparisce ormai dalle biografie.

Secondo l’ordine posto ne’ libri precedenti, farem di principiare la rassegna con le scienze coraniche. Delle quali troviam solo cultore un letterato, diremmo quasi, enciclopedico, rinomato appo i Musulmani infino ad oggi. In luogo di scompartire i ragguagli per tutto il capitolo, ritornando a questo valentuomo in ciascuna delle classi cui vanno ascritte le svariate opere sue, discorrerem di tutte insieme; e daremo per primo la biografia, che si ritrae da ’Imâd-ed-dîn d’Ispahan, contemporaneo; da Ibn-Khallikân, scrittore del secolo decimoterzo e da quattro eruditi compilatori del decimoquarto e decimoquinto.[844]

L’autore, per nome proprio Mohammed, per patronimico ibn-abi-Mohammed-ibn-Mohammed-ibn-Zafer, ebbe il nome familiare d’Abu-Hascim,[845] i titoli [715] onorifici di Hogget-ed-dîn e Borhân-el-islâm (Dimostrazione della fede e argomento dell’islamismo) e gli veggiam dati i nomi etnici di Sikilli e Mekki, or l’uno, or l’altro, ed or entrambi; il quale raddoppiamento accade spesso appo i Musulmani, com’altrove abbiam detto.[846]

Ibn-Khallikân afferma a drittura ch’ei nacque in Sicilia e fu educato alla Mecca; il che ripete Abulfeda; e il Makrizi dice di più che il nostro autore, oriundo della Mecca, fu educato in Maghreb e stanziò in Hama, dopo breve fermata in Egitto. Da un’altra mano ’Imâd-ed-dîn, che lo conobbe di persona ad Hama, lo novera tra i poeti dell’Arabia propria; lo dice meccano “d’origine”, maghrebino di educazione, vissuto in Siria: e notisi che la voce asl, usata da questo scrittore, risponde appunto alla nostra “origine,” e si adopera più propriamente per designare la patria del padre. All’incontro il Fasi, che compilò nel decimoquinto secolo gli annali della Mecca sua patria, lo fa oriundo del Maghreb, ma nato e cresciuto nella santa città. Egli cita il Katifi, annalista di Bagdad; il quale alla sua volta allega un discepolo d’Ibn-Zafer, che avea sentito dalla propria bocca di lui, esser nato alla Mecca, di scia’bân quattrocennovantasette (maggio 1104): e il discepolo aggiugnea che una volta ch’ei giunse ad Hama di rebi primo del cinquecensessantasette (novembre 1171), domandando d’Ibn-Zafer, seppe esser morto [716] pochi dì innanzi. Secondo la raccolta di biografie dei dottori Malekiti, dalla quale cavò notizie un cronista d’Egitto citato dallo stesso Fasi, Ibn-Zafer partì fanciullo dalla Mecca; studiò con varii dottori in Alessandria, Affrica e Spagna; tenne conferenze pubbliche nelle moschee; dal Maghreb poi passò in Sicilia; andò a Damasco e stanziò alfine in Hama. I quali dati non accordandosi tra loro e molto meno con quei d’Ibn-Khallikân, il Fasi se ne cava fuori con la formola di critica musulmana, che il vero lo sa Iddio. Il Soiuti par abbia avuti alle mani questi ed altri ricordi. Ei nota la nascita alla Mecca, l’andata in Egitto; poi fa vivere Ibn-Zafer lunga pezza in Affrica e soggiornare per l’appunto in Mehdia quando la fu presa da’ Cristiani (1148); indi lo fa vagare in Sicilia, Egitto, Aleppo e gli fa scrivere la più parte delle opere in Hama. Infine la nota anonima di un antico codice del Solwân, dice l’autore nato in Sicilia e rimasovi nella prima gioventù.[847]

Io non vo’ sciorre la quistione con la sola autorità degli scrittori, la quale pende pur da un lato: poichè, se Imâd-ed-dîn è dubbio, sta per la Sicilia il gran biografo de’ Musulmani, con Abulfeda signore di Hama dove Ibn-Zafer fu sepolto e lasciò più ricordi che altrove, e con Makrizi, sì avveduto e diligente; e al contrario sta per la Mecca un contemporaneo citato dal Katifi e notato di contraddizione in alcuni particolari;[848] il Fasi alquanto incerto e il Soiuti, [717] fecondissimo tra tutti gli scrittori del mondo, e però frettoloso, oltrechè egli die’ queste notizie in un’opera giovanile e senza citazioni.

Considerata dunque la incertezza dell’uno e le due opposte sentenze degli altri, occorre il sospetto che sien corsi falsi o equivoci ragguagli fin dal tempo dell’autore stesso. Nè mancherebbe il perchè. Il nome siciliano dovea suonar male in Siria nella seconda metà del duodecimo secolo, quando ardea quivi tanto fanatismo religioso, e Ibn-Zafer ritornava in quel paese con animo di rimanervi: onde non sarebbe inverosimile che l’autore medesimo, o gli amici, anzi che ripetere il nome della Sicilia, avessero vantata ed allargata nel significato l’origine meccana. Se tuttavia rimase ad Ibn-Zafer l’appellazione etnica di Siciliano, è da supporre ch’ei non se la potè levare d’addosso, sia ch’egli fosse nato propriamente in Sicilia, o che vi fosse stato educato.

Parmi inoltre che l’errore potè sorgere o confermarsi per date mal appurate; le date io dico che talvolta pongonsi nei codici musulmani per affermare che tal testo fu, in tal mese ed anno e in tal paese, consegnato dall’autore al rawi, ossia ripetitore, con licenza di leggerlo altrui e darne copie. Occorre anco nelle notizie biografiche dei dotti, e specialmente de’ tradizionisti, che segnisi la data in cui il tale «ascoltò» da un tal altro, come chiamano tecnicamente il prendere lezioni della tradizione profetica. All’una o all’altra sorgente mi sembra ch’abbia attinto il Soiuti. Ma documenti analoghi ci abilitano a correggere alcuni errori suoi ed a provare un fatto, ignoto finora a tutti [718] i biografi, cioè che Ibn-Zafer dimorò in Siria ben due volte in tempi diversi; il qual fatto rende poco verosimile il racconto di chi dice quel dotto andato nella sua fanciullezza in Maghreb e ritornato in Levante dopo il breve soggiorno di Sicilia. Cotesto itinerario par fondato sul supposto che Ibn-Zafer abbia dato in Sicilia la prima, anzichè la seconda edizione del Solwân: ma si prova appunto il contrario.

Il primo documento del soggiorno in Siria si trova nel Kheir-el-biscer, dedicato da Ibn-Zafer a un Sefi-ed-dîn-Ahmed-ibn-Kornâs, direttore, com’io credo, di qualche medresa, o vogliam dir liceo, in Aleppo o in Hama.[849] L’autore, fraseggiando nella prefazione, racconta come partito da’ “remoti paesi occidentali” per cercare asilo nel possente reame di Norandino, quel che abbatte con la sua grandezza gli animi di tutti i re di Levante e di Ponente e copre i suoi nemici con la polvere della distruzione, ec. «il destino l’avea balestrato ne’ precipizii, l’avea ricolmo di affanni e gli avea fatto vedere in pien meriggio la stella Soha;»[850] se non che Iddio gli mandò nel maggior uopo questo suo fratello ed amico, Sefi-ed-dîn, al quale, volendo mostrare gratitudine e rimeritarlo con la celebrità, gli presentava quel libro. Qui possiam segnare la data: poco più o poco meno il [719] millecenquarantotto; poichè Nur-ed-dîn-ibn-Zengui si impadronì d’Aleppo alla morte del padre (1146), ed entro pochi anni allargò il dominio e la fama; mentre Mehdia cadea nelle mani di re Ruggiero.

Ci occorre, non guari dopo, quella che abbiam chiamata, a modo nostro, la prima edizione del Solwân, in fondo della quale l’autore pone il catalogo de’ libri compilati da lui, che incomincia così:[851] “Or ch’esce quest’opera dal mio scrittoio e passa nelle mani de’ rawi (ripetitori), sendo questo l’ultimo de’ miei libri, miei per tesnif (composizione) e talîf (dettato), nei quali mi sono studiato a dilettare i lettori con l’eleganza e ad ammonirli co’ precetti, ragion vuole ch’io conchiuda il volume, notandovi i titoli e gli argomenti di que’ miei lavori, quantunque i ribaldi abbiano fatta rapina di molti tra’ volumi così intitolati.” E seguono diciannove trattati, tra i quali si legge il Kheir-el-biscer, ond’è manifesto che era stato già scritto; ed all’incontro mancano, le tre opere dedicate ad Abu-l-Kasim in Sicilia, dond’è certo al pari che non erano state composte e che perciò la prima edizione del Solwân non è quella che porta il nome del nobile siciliano. Comparisce in capo del catalogo il Janbû’, gran comento del Corano, il quale l’autore avverte avere scritto per la seconda volta, sendogli stata rubata la copia: onde par che egli alluda con questo e col cenno precedente, al fatto narrato dal Soiuti, cioè che gli Sciiti d’Aleppo, dando addosso un giorno ai Sunniti, saccheggiarono la medresa [720] ortodossa d’Ibn-Abi-’Asrûn e quivi rapiron tutti i libri d’Ibn-Zafer.[852]

Cotesta edizione del Solwân è preceduta da tale dedica che allude, senza dubbio, ad un fatto politico nel quale l’autore trovossi avvolto. Un re suo benefattore ed amico intimo e palese, dice egli senza dare il nome, principe savio, illustre, ed amante della scienza, viveasi in grandi angosce, minacciato e stretto da un ribelle, il quale avea a volta a volta assaliti e sedotti i suoi sudditi; e, arrivato a guadagnare tutti gli ottimati, stava già per cacciarlo dal trono. Bramando conforto a’ suoi mali, il tradito principe avea chiesto all’autore (oh beati tempi!) un libro di filosofia e d’erudizione, che fosse composto ad imitazione delle favole di Kalila e Dimna; e Ibn-Zafer, non sapendogli ricusar nulla, gli offria cotesto libro, scritto a bella posta per lui.[853] E veramente nel Solwân, gli squarci del Corano, le tradizioni, i fatti storici, le novelle, gli apologhi, ogni pagina, ogni linea, accenna a que’ termini estremi d’un principato, e tende a consolar il signore che precipiti giù dal trono. Di certo non son rari cotesti casi nelle storie musulmane del duodecimo secolo; pur nessun principe cadente somiglia tanto a quello d’Ibn-Zafer, quanto Mogir-ed-dîn, che tenea Damasco alla morte di Zengui. I costui figli incontanente si messero attorno a Mogir-ed-dîn, sotto specie di aiutarlo contro [721] i Crociati; e Norandino entro pochi anni il finì. Gli s’infinse amicissimo; gli imbeccò tante trame da fargli spegnere ad uno ad uno tutti que’ capitani che non potè indettare per sè medesimo. E quando Mogir-ed-dîn si trovò senz’armi nè amici, il conquistatore appresentossi sotto Damasco; guadagnò il tratto ai Crociati, chiamati in aiuto: e i traditori gli aprirono le porte; il tradito venne a’ patti e, ingannato anche in questi, andò a finir la vita in un collegio fondato a Bagdad. Entrava Norandino in Damasco di sefer del cinquecenquarantanove (maggio 1154).[854] Cotesta data sta bene con le altre due che abbiam certe delle vicende d’Ibn-Zafer, cioè la dedica del Keir-el-biscer verso il millecenquarantotto e quella della seconda edizione del Solwân, nel cinquantanove. Ognun poi vede come, supponendo che il re innominato fosse Mogir-ed-dîn, l’amico e generoso scrittore non potea rimaner in Siria dopo l’occupazione di Damasco. Chi ha pratica delle biografie de’ letterati musulmani del medio-evo e conosce lor vivere irrequieto e vagabondo, la vanità e il bisogno che li spingeano da una corte all’altra, non ripugnerà a supporre che il gran monarca del Keir-el-biscer fosse divenuto entro cinque o sei anni il ribelle del Solwân.

Ma del cinquecencinquantaquattro (1159) il Solwân si volta al nome dello splendido kâid siciliano Abu-l-Kasim, preceduto da tre compilazioni che hanno per titoli: Asâlib-el-Ghaiat, El-Mosanni, e [722] Dorer-el-Ghorer e accompagnato da caldi attestati di gratitudine, i quali compongono un’altra prefazione, messa in vece di quella che alludea già ai casi del re innominato.[855] Breve tempo dimorò poi Ibn-Zafer in Sicilia: allontanatosi forse nella sedizione de’ Cristiani di Palermo contro il re Guglielmo I e contro i Musulmani. Ei ricomparisce ad Hama, stentando la vita al dire d’Ibn-Khallikân, con una piccola provvisione che gli procacciarono, di professore, credo io, in qualche medresa. In Hama ei divulga, tra le altre opere, il Solwân della seconda edizione e il Kheir-el-biscer, mutilato della dedica a Sefi-ed-dîn. E veramente la copia del Solwân stampata non è guari a Tunis (1862), è tolta da un testo che l’autore stesso avea comunicato al ripetitore in Hama, del mese di regeb del sessantacinque (aprile 1170);[856] il qual testo, al par del maggior numero de’ codici che abbiamo in Europa, confronta con quello dedicato ad Abu-l-Kasim. E ciò prova che l’autore avea messo da parte l’altro del re innominato. La prima edizione corse per pochi anni, come si argomenta dal picciol numero delle copie che ne rimangono, in confronto delle molte della seconda edizione.[857] Nè altrimenti dovea succedere [723] nel supposto che il nemico di quel re troppo buono fosse stato il gran Norandino; perocchè splendendo sempre più in Levante la gloria militare e la virtù religiosa del conquistatore, i Musulmani non avrebbero sopportata una voce che ricordasse le sue perfidie, nè l’autore stesso avrebbe affrontato il pericolo di uscir nuovamente dalla Siria.

Comunque sia, l’indigenza accompagnò Ibn-Zafer fino alla tomba, e poco prima l’avea sforzato a maritar la figliuola ad uom di condizione inferiore alla propria, ch’è peccato in legge musulmana. Il genero, per giunta, portò via la giovane e la vendè schiava in altro paese. Morì Ibn-Zafer in Hama, come abbiam detto: ei fu piccino e mal complesso della persona; ma bello in volto,[858] generoso d’animo, pio, onesto, lodato per chiaro ingegno, vasta erudizione e delicato gusto letterario. Donde possiam pensare che quest’ultimo scrittore della Sicilia musulmana avrebbe lasciate opere più grandi, se la povertà non l’avesse obbligato a filarne una trentina.

A capo delle quali ei pose nel citato catalogo il Janbû’, ec. (Sorgente d’eterna felicità nell’esegesi del Savio Ricordo) dettato due volte, come s’è detto, con lo stesso titolo[859] e chiamato anche il Gran comento [724] letterale del Corano.[860] Abbiamo in Europa, per quanto io sappia, un solo volume del Janbû’, che torna forse ad una ottava parte dell’opera e che ne dà bel saggio, s’io giudico dirittamente.[861] Va noverato anco tra gli studii coranici il Fewâid-el-Wahi, ec. (Brevi ed utili cenni su le gemme della miracolosa Rivelazione) che racchiude la definizione de’ nomi dati alla divinità nel Corano; de’ quali alcuni differiscono di forma e di significato, come Kerîm e ’Azîm; altri, al contrario, derivano da unica radice, come Rahmân e Rahîm, ovvero possono usarsi indistintamente come Khabîr e ’Alîm.[862] Nella medesima classe è da porre l’Asâlib-el-Ghaiât, ec. (Vie che portano a spiegar bene un versetto) ch’è appunto l’ottavo della sura quinta e risguarda le abluzioni;[863] l’Iksir-Kimia-et-tefsîr (Elixir della chimica dell’esegesi);[864] il Kitâb-el-Borhaniat, ec. (Libro degli Argomenti che conducono alla spiegazione de’ nomi di Dio).[865] Non si cita d’Ibn-Zafer alcun trattato di tradizione musulmana propriamente detta. Pur non è dubbio ch’egli abbia studiata quella prima sorgente delle scienze [725] dell’islam, poichè i biografi fanno menzione della sua presenza nelle scuole di tradizione,[866] e d’altronde lo provan le opere sue, come innanzi diremo.

Delle due opere giuridiche notate nel catalogo autentico, noi sappiam poco più che i titoli: e sembrano l’una e l’altra compendii. S’addimanda una il Mosanni (La Manoduzione), trattato di scuola malekita, nel quale avverte l’autore ogni tesi essere seguìta dalla sua dimostrazione: e parmi questo il medesimo libro che l’autore dedicò ad Abul-Kasim in Sicilia, allungando un po’ il titolo: “Manoduzione per chi vuole imbeversi della Ma’ona e dell’Iscraf“, delle quali l’una è compilazione classica di dritto malekita, e l’altra pare opera di confronto tra le dottrine delle varie scuole ortodosse.[867] Il secondo lavoro giuridico d’Ibn-Zafer è poemetto didascalico sul partaggio delle eredità e su i diritti di clientela.[868] Non presto fede alla notizia, al medesimo tempo riferita e messa in forse dal Fasi, che [726] Ibn-Za-fer avesse date lezioni di dritto sciafeita;[869] sembrandomi che s’egli studiò quella scienza, non l’approfondì tanto da poter insegnare in altra scuola che la malekita. L’errore nacque forse da somiglianza di nome, e questa sarebbe per avventura una delle cagioni che han resa dubbia la patria del letterato siciliano e fatta notare da alcuni nel cinquecensessantacinque la sua morte, che seguì per vero due anni appresso.

Da’ titoli delle opere di teologia, chè que’ soli abbiamo e qualche cenno nel catalogo autentico, sembra che Ibn-Zafer siasi gittato nelle contese degli scolastici musulmani dell’età sua. Messo da canto il Teskhir (La Connessione) del quale non sappiamo altro che la classe,[870] ci occorre il Mo’adat (I luoghi sacri), libro ortodosso, scrive l’autore medesimo, pien di salutari avvertimenti ed atto a chiarire ogni dubbio.[871] Segue il Mo’atibat-el-Giari, ec. (Riprensione all’audace che condanna l’innocente), il quale trattava, se dobbiam credere al Makrizi, delle dottrine teologiche di Abu-Hanifa e di El-’Asciari; onde par che l’autore abbia assunta la difesa del primo contro il secondo.[872] Svela ira più acerba il titolo del Kescf-el-Kescf (Smascheramento dello Smascheramento), confutazione d’un’opera ch’era uscita col titolo di Kescf, contro la famosa “Risurrezione delle scienze [727] teologiche” per Ghazali.[873] Abbiamo infine con un titolo che parla dassè, il Gennet fi ittikâd-ahl-es-sunneh (Il Paradiso nella Ortodossia de’ Sunniti).[874]

Ma più che a combattere ne’ deserti della scolastica, s’adattava il delicato intelletto d’Ibn-Zafer alla filosofia morale. Si leggono nel catalogo i titoli di quattro opere, con l’avvertenza che fossero parenetiche, cioè: El-Khowads-el-wakiat, ec. (Gli elmetti sicuri e gli amuleti degli incantesimi);[875] Riâdh-ed-dsikra (I Giardini dell’Ammonizione);[876] En-nesâih (I buoni consigli);[877] Mâlek-el-idskâr, ec. (L’angelo che ricorda le vie delle Riflessioni).[878] Delle quali opere nè conosciamo codici, nè troviamo ragguagli; pur la tendenza morale si può argomentare con sicurezza dalle opere istoriche e dalle pseudo-istoriche del medesimo autore.

Delle prime ci rimane il Kheir-el-biscer, ec. (I migliori annunzii sul miglior dei mortali) dianzi citato, nel quale si discorrono le predizioni ch’ebbe il mondo dell’apostolato di Maometto.[879] Il trattato si divide in quattro capitoli, secondo la diversa origine de’ vaticinii; cioè a dire, que’ contenuti nei libri sacri [728] degli Ebrei e de’ Cristiani e quelli usciti di bocca dei dottori, dei Kahin (arioli arabi) e dei ginn (genii o demoni). Nei primi due capitoli l’autore cita ad ogni passo il Pentateuco, i Salmi, il libro d’Ezechiele e i Vangeli, con le diverse opinioni degli espositori; talvolta ei confronta col testo la versione siriaca del Vecchio Testamento; esamina con erudizione il cammino percorso dai libri che compongono il Nuovo, e sostiene pertinacemente il paradosso musulmano che il Paracleto della Scrittura simboleggi Maometto. Parmi che cotesti due primi capitoli possan giovare in qualche modo alla storia degli studii biblici. Nel terzo e nel quarto si possono spigolare, per quel che valgano, degli aneddoti di storia preislamitica, e v’ha sempre da raccogliere note filologiche tra le sentenze sibilline conservate bene o male dalla tradizione. La fama che ha goduta e gode questo libro in Oriente, è provata dai molti codici che ne avanzano, dalle citazioni che ne fanno gli scrittori,[880] e dalla recente edizione del Cairo.[881] Sembra compendio del Kheir-el-biscer lo ’Alâm-en-nobowah (Segni della Missione profetica) che manca nel catalogo autentico, e dee perciò riferirsi agli ultimi anni dell’autore.[882]

Si allarga alquanto il campo storico nell’Anbâ-nogiabâ-el-ebnâ (Notizie dei giovanetti illustri),[883] al quale non manca il suo compendio, chiamato [729] Dorer-el-Ghorer (Le perle frontali).[884] Caso raro nella letteratura arabica, il titolo del primo di cotesti libri espone chiaramente il subietto. Dividonsi quelle biografie in cinque capitoli, ciascun de’ quali ha intitolazione particolare e il primo, detto “La gemma solitaria ed unica,” racchiude gli aneddoti di Maometto fanciullo. I tre seguenti trattano dell’infanzia di tre generazioni diverse di Musulmani; il quinto de’ fanciulli celebri degli antichi Arabi e de’ Persiani. È libro di adâb, come si chiama l’erudizione miscellanea; e contiene esempii di bella memoria, sagacità precoce, predestinazione alla grandezza religiosa o mondana. Cotesto libro, al paro che il Kheir-el-biscer, potrà giovare tuttavia a’ lessicografi ed a’ ricercatori della storia orientale del medio evo.

Com’ogni altro letterato arabo, scrisse Ibn-Zafer di grammatica. Leggiamo nel suo catalogo un El-Kawâ’id wal-biân, ec. (Le basi e la spiegazione della grammatica): ma egli stesso lo chiama compendio.[885] E’ sembra invero che Ibn-Zafer poco siasi curato della scienza grammaticale, ancorch’egli dicerto non l’abbia trasgredita nello scrivere, perocchè le sue opere pervenute infino a noi scarseggiano di note grammaticali, quanto abbondano delle lessicografiche. I biografi poi ci hanno tramandato un pettegolezzo che attesterebbe i rimorsi d’Ibn-Zafer; cioè, che trovandosi ad Hama in una tornata accademica con [730] Tag-ed-dîn-el Kendi, questi gli propose una difficoltà grammaticale e poi un dubbio filologico: ai quali Ibn-Zafer rispose e in sul fine della tornata sclamò: “Il dottore Tag-ed-dîn è più valente di me in grammatica, ma io lo vinco in filologia.” — “Oibò, rispose il pedante, conceduta la prima tesi; controversa la seconda.”[886]

Lasciato da canto El Gewd-el-wasib (La pioggia continua),[887] al quale non sapremmo assegnar classe e il Kitab-el-isciarât, ec. (Cenni su la scienza dell’interpretazione) che par tratti d’oneirocritica,[888] entriamo nella filologia, che dopo la filosofia morale, fu in vero la disciplina prediletta del nostro autore. Come già dicemmo,[889] spirava allora nella letteratura arabica il secento e lucea, stella polare de’ filologi, l’arguto e vivacissimo Harîri. Ibn-Zafer lo comentò, sforzato dal genio de’ tempi; ma lo combattè anco. Nel Sefr (Il sentiero) ei dichiarò le voci insolite e rare e i proverbii che occorrono nelle Mekamet o “Tornate” di Harîri, come suona in italiano;[890] la stessa cosa par abbia fatto, su per giù, nel Nakîb, ec. (Lo scrutatore delle espressioni peregrine delle Tornate) e non sappiamo se il comento di Harîri, attribuito a Ibn-Zafer, sia copia di quelle due opere messe insieme, ovvero nuova compilazione.[891] Con l’Awhâm-el-Ghawwâs, ec. (Errori del Marangone che taccia [731] d’errore i Sommi) ei rifà il verso all’Harîri, il quale nella Dorret-el-Ghawwâs, ossia “Perla del Marangone,” avea sindacati i più celebri scrittori.[892] Fuor dall’agone della critica, ci occorre il Mulah-el-loghat (Sali di filologia), glossario alfabetico de’ vocaboli suscettivi di parecchi significati;[893] l’Isctirak-el-loghewi, ec. (Consorzio filologico e genesi de’ significati)[894] e il Nogiob-el-amthâl (Proverbii eletti).[895]

Assai brevemente dirò del Solwân, ch’è pur il capo lavoro d’Ibn-Zafer ed ha mantenuta per sette secoli, e manterrà ancora per lungo tempo, la fama dell’autore presso i popoli musulmani. Venti anni or sono, io tradussi questo libro in italiano, rividi una bella versione inglese fatta su quella mia, e nella Introduzione trattai le sorgenti istoriche e letterarie alle quali l’autore avea attinto. Detti altresì tutte le notizie bibliografiche venutemi fin allora alle mani e v’aggiunsi molti, forse troppi, schiarimenti, per far comprender meglio il libro a’ lettori che non avessero studiate di proposito le cose dell’Oriente. Mi basti, dunque, di ricapitolare quella Introduzione, della [732] quale confermo tuttociò che non correggerò espressamente.

Solwân-el-Motâ fi ’odwân-el-etbâ vuol dire “Rimedii del principe, quand’egli è nimicato da’ suoi seguaci.” Propone l’autore cinque rimedii, che danno argomento ad altrettanti capitoli: e son l’Abbandono in Dio, ossia l’affidarsi alla giustizia della causa; il Conforto, ossia non sbigottire nei pericoli; la Costanza, ossia perseverare; il Contentamento nella propria sorte; e l’Abnegazione, o piuttosto il disprezzo delle cose del mondo. Ciascun rimedio è esposto per sintesi e per analisi: da una mano i precetti del Corano, le tradizioni di Maometto, le sentenze de’ savii ed alcune massime dell’autore in prosa e in verso; dall’altra mano, squarci di storia, novelle fabbricate su fatti storici e prette favole ed apologhi. Gli argomenti storici son tolti per lo più da’ tempi classici dell’Arabia, da’ primi secoli dell’islamismo, dalla Persia sassanida e talvolta dalle agiografie cristiane dell’Oriente; le narrazioni favolose sono imitate, copiate non già, da’ modelli indiani. Troviamo testualmente una novella delle Mille ed una Notte:[896] ond’è da supporre che alcuno degli ultimi compilatori di quel dilettevolissimo libro, l’abbia tolta dal Solwân, non già il contrario. Del resto, non pochi altri squarci sembrano parafrasi o forse traduzioni di testi pehlewi, ch’è a dire, frammenti tolti dal naufragio della letteratura persiana nell’epoca de’ Sassanidi. Nelle massime [733] morali s’alterna, come nella più parte de’ libri pervenutici dall’Oriente, la fierezza dello stoicismo e la pieghevolezza cristiana: savii sono del resto i consigli politici; ingenuo e vivace il dettato e la lingua arabica pura e scorrevole, se non che a volte s’inciampa in un pezzo di secento. Le due edizioni citate dianzi, le quali chiamerem l’una di Siria e l’altra di Sicilia, si distinguono non meno per le prefazioni diverse, che per la pulitura. Nella seconda son tolte via quelle citazioni continue, è semplificato l’intreccio; ma qualche bel racconto è soppresso e v’è passata, s’io non erro, la lima di una censura volontaria.[897]

Pregio principale del Solwân mi sembra la via nuova che l’autore tentò, nuova pei Musulmani, cioè d’inculcare massime morali con l’esempio di fatti immaginarii. Perchè pria di lui la letteratura arabica possedea sì delle versioni e delle imitazioni di favole persiane e indiane, ma non si ritrae che alcuno scrittore le abbia usate in opera di serio e grave argomento:[898] ond’è che Ibn-Zafer si sforza nella prima edizione a mostrar come i santi dell’islam non rifuggivano da arte oratoria così fatta, e nella seconda replica che legge non vieta il suo dettato, nè orecchio dee rifuggir da quello. E per vero, non ostante gli scrupoli del tetro genio semitico, parecchi orientali hanno tradotto questo libro, imitatolo o fattone parafrasi,[899] [734] o presone squarci,[900] ed altri scrittori il citano.[901] In somma, il Solwân è stato sempre in voga appo i Musulmani, come lo provan anco le molte copie che n’abbiamo nelle biblioteche europee e la recente edizione di Tunis.

Tra i lavori d’Ibn-Zafer io non ho notate le poesie, perchè poche ne conosciamo oltre i versi intessuti nel Solwân; i quali d’altronde non differiscono dalle sue prose rimate, se non che per la misura e per la rima più rigorosa. Ciò non ha ritenuti i biografi dal chiamar belle le poesie d’Ibn-Zafer, giudicandole sopra un tipo di bellezza diverso dal nostro. Imâd-ed-dîn, ch’era penetrato infino all’osso del gusto letterario di quel secolo, dice che Ibn-Zafer, “passando in Siria gli ultimi anni della sua vita, irrigò con la eloquenza le Accademie de’ bramosi di sapere. Ei fu principe, al suo tempo, nell’esegesi del Corano e nella erudizione. Lo vidi io in Hama, che gli amatori della Scienza pendevano attoniti dal suo labbro. Lasciò eleganti composizioni e ben ordinate [735] compilazioni: tra le altre opere il Solwân, ch’io ho percorso e trovatolo utile libro, come quello che unisce le due bellezze, delle idee e della lingua, e ti ammaestra or accennando, or esortando; il quale libro fu composto da lui in Sicilia, ec.” Arriva il biografo a dire che questo uom valentissimo sorpassò nella scienza tutti i dotti suoi contemporanei.[902] Che se non vogliamo fidarci di Imâd, ampolloso scrittore, facile a lasciarsi trasportar dalle antitesi e dalle consonanze, staremo al giudizio di Ibn-Khallikân, il quale, educato com’egli era in una scuola storica aridissima, pur novera Ibn-Zafer tra i principali eruditi e i più valenti uomini del tempo, e lo dice autore di pregevoli compilazioni.

Il doppio nome etnico non ha cagionati dispareri su la patria del tradizionista Abu-Ali-Hasan-ibn-Abd-el-Bâki, droghiere e dottore malekita, noto sotto nome d’Ibn-el-Bâgi,[903] detto Siciliano e Medinese, e morto il cinquecennovantotto (1201-2).[904] Al quale va aggiunto un Abd-el-Kerîm-ibn-Iehia-ibn-Othman, soprannominato “L’onor de’ Grammatici,” perch’ei fu maestro del precedente e discepolo di Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Mosallem, da Mazara; onde sembra anch’egli nato, o domiciliato in Sicilia.[905] Siciliano per nascita l’altro emigrato e tradizionista Abu-Zakaria-Jehia-ibn-Abd-er-Rahman-ibn Abd-el-Mo’nim, oriundo di Fez, discendente della tribù [736] araba di Kais; il quale chiamossi anco Dimiski e Isfahani, dalle due città ov’ebbe soggiorno, e nella seconda delle quali morì, il secentotto (1211-12). Sappiamo ch’ei vagò per molti paesi, che seguì la scuola sciafeita, lasciando, com’e’ pare, la malekita, perchè non prevaleva in quelle regioni di levante. Si conosce di lui l’Er-raudat-el-anîkah (Il dilettoso giardino), che sembra raccolta di tradizioni; ma egli non passava per fedel raccontatore.[906] Visse nel medesimo tempo e fu maestro di tradizione, il giurista Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Abi-l-Kasim, siciliano, della tribù di Koreisc.[907] Il cieco Abu-Abd-Allah Mohammed-ibn-Abi-Bekr-ibn-Abd-er-Rezzâk, soprannominato Scerf-ed-dîn (Gloria della religione), par sia uscito di Sicilia con le ultime famiglie ch’emigravano; leggendosi ch’ei nacque il secenventuno (1224), che studiò e insegnò in Egitto e morì al Cairo. Uomo di molta dottrina, carità e religione, venuto in fama di santo che portasse benedizione altrui con le preghiere, ei professò tradizioni e lettura del Corano.[908] Parmi che Mohammed-ibn-Mekki-ibn-Abi-d-dsikr abbia preso il nome di Siciliano dal villaggio presso Damasco che si addomandava Le Siciliane; poichè lo dicono nato in Damasco, di regeb secenquattordici [737] (ottobre 1217): il quale fu noto come lettor del Corano e tradizionista, ancorchè addetto al mestier di ricamatore a Damasco e poi nell’opificio del tirâz al Cairo, dove morì il secennovantanove (gennaio 1300).[909] Furon poi detti entrambi Ibn-es-Sikilli, come egli è probabile dalla nazione dei padri loro rifuggiti in Egitto, due giureconsulti egiziani di scuola sciafeita; il primo de’ quali, Mohammed-ibn-abî-l-Fadhl, della tribù di Rebî’a, soprannominato Scerf-ed-dîn (Gloria della religione), nacque in Misr il secentotto (1211), fu magistrato di polizia urbana e morì il secennovantadue (1293);[910] l’altro, Mohammed-ibn-Mohammed-ibn-Mohammed, soprannominato Fakhr-ed-dîn (Vanto della religione), scrisse un trattato giuridico, fu cadi di Damiata, indi magistrato al Cairo e morì il settecenventisette (1327).[911]

Ritornando ai Siciliani propriamente detti e alla classe della filologia nella quale ci è occorso il ramingo Ibn-Zafer, troviam ora un Abu-l-Hasan-Ali-ibn-Ibrahîm-ibn-Ali, chiamato Ibn-el-Mo’allim (Il figliuol del maestro di scuola), che al dire di Dsehebi segnalossi molto in grammatica e in lessicografia, ebbe scrittura bellissima, studiò la medicina, interpretò i sogni, e morì il cinquecentrentadue (1137-38). Mettendolo il Dsehebi, l’ho messo anche [738] io:[912] e più alacremente prendo a dir degli scrittori in prosa e in verso.

Giova qui ripetere che le notizie e gli squarci sui quali abbiamo a giudicare, derivano la più parte dall’antologia d’Imâd-ed-dîn; il quale trascelse secondo il gusto e l’intento suo, e non secondo il nostro. Indi è che tra le opere degli Arabi siciliani di quest’ultimo periodo, ei ci dà tre soli esempii di poesie che, in significato assai largo, chiameremo popolari. I due primi son versi da cantare, dettati da un buon letterato e poeta, senza tanto artifizio, ma senza scostarsi da’ metri soliti: onde ne tratteremo in appresso. L’altro esempio muove la sete e ne lascia a bocca arsa. Sono stanze, proprio stanze, con versi brevi e rime intrecciate: ond’io penso che scopriremmo per avventura più intimi legami tra queste e le prime poesie italiane della Sicilia, se il secentista pedante che fè la raccolta, ci avesse serbato qualche altro componimento di tal fatta. Ma di certo gli parve strano e barbarico il metro, del quale ei perfino ignorava il nome o sdegnò di ripeterlo, poichè ci trascrive i versi con la intitolazione “Di que’ che si recitano con cinque misure.”[913]

[739]

Gli scrittori arabi di Ponente ci ragguagliano dell’origine e progresso di cotesto novello uso di verseggiare, il quale non differiva nel metro soltanto della genuina poesia arabica. I componimenti furon chiamati propriamente Mowascehât, o Azgiâl. De’ quai vocaboli il primo è plurale dell’aggettivo femminino mowascehah, che vuol dire “ornata di wisciâh,” sorta di bustino di pelle, trapunto a fili [740] alterni di perle e d’altre gioie. Forse chi primo usò tal nome, volle paragonar la nuova canzone ad una cantatrice abbigliata per andare a corte, o volle accennare alla gaiezza delle rime, avvicendate come que’ fili paralelli che si incrocicchiavano sotto il petto, nelle due punte del wisciâh. E veramente in linguaggio tecnico appellano simt, ossia filo, il verso la cui rima rilega tutte le stanze, e ghosn, ossia ramo, i versi di ciascuna. La voce zegel, al plurale azgiâl, rende l’idea di suono ripetuto, significando nella lingua classica: grido, chiasso, gorgheggio ed anco susurro come di venticello.

Le mowascehe s’intesero dapprima a corte di Cordova, allo scorcio del nono secolo; furon molto in voga in Affrica e Spagna dall’undecimo in giù; e quella moda occidentale trovò favore anco in Egitto e in Siria e dura finoggi.[914] Sia fioritura d’un germe [741] che s’ascondea nella stessa poesia nazionale degli Arabi,[915] sia novità tolta in prestito dalla Persia, sia pure imitazione delle strofe e rime di bassa latinità che correano per avventura nel clero e nel popolo di Spagna al tempo del conquisto, la mowasceha alleggerì ogni maniera di peso della poesia classica: i versi lunghi, divisi per emistichii; l’unica rima de’ componimenti maggiori; i vocaboli insoliti o vieti messi lì per forza della rima o lusso di lingua; e nelle kaside, la macchina della bella che ha mutato il campo, dell’amante che visita le vestigie di quello e simili cose.

I versi brevi, scompartiti a stanze, costruiti più spesso con gli accenti a modo nostro che con le regole della prosodia arabica,[916] rimano con leggi svariate, or alternati come nelle nostre terzine, ora con rima intermittente come nelle canzoni e in molti altri antichi metri nostri; e così anche si tramezzano versi di varie misure, per esempio di quattro o cinque sillabe, con que’ d’otto o dieci. Secondo Ibn-Khaldûn, i zegel non si distingueano altrimenti da quell’altro metro, che per la lingua, volgare del tutto:[917] ma par che vi si usassero stanze più piccole e versi più corti; ed a ciò menava di certo la soppressione [742] delle vocali finali nella più parte de’ vocaboli, ch’è proprio dell’arabo volgare; e l’uso di accompagnare i versi col canto e talvolta col ballo.[918] E però gli eruditi han chiamate le mowascehe, odi o canzoni e i zegel, ballate e sonetti; la quale ultima denominazione parrebbe più propria se si riferisse all’antico sonetto nostro.[919] Del resto richieggonsi altri studii pria di ammettere la parentela, che comparirebbe a primo aspetto dalla somiglianza di qualche metro e di qualche denominazione. Se pur si trovassero compagne le fogge del vestito, le muse neo-arabiche avranno sempre altro temperamento e altra indole che le neo-latine. Le prime, soprattutto quand’esse abbandonansi nei zegel, si allontanan sì dall’Arcadia del deserto, ma non s’avvicinano per questo alla scuola de’ Trovatori di qua nè di là dalle Alpi; e più spesso, ne’ loro nuovi metri, le immagini, il colorito, le transizioni, l’adulazione, il biasimo, i vanti, i monotoni piagnistei dell’amore, son gittati sulla forma arabica, quella, già s’intende, dei tempi di decadenza.

L’unica poesia di tal fatta, riferita a Siciliani nella Kharîda, è opera del segretario Abu-l-Hasan-Ali-ibn-Abd-er-Rahmân-ibn-abi-l-Biscir, es-Sikilli, el-Ansari, cioè siciliano di stirpe medinese, messo in [743] primo luogo nel capitolo de’ Siciliani contemporanei d’Imâd-ed-dîn, onde tornerebbe alla metà del sesto secolo dell’egira e duodecimo dell’èra cristiana. Più precisamente parmi da collocare Abu-l-Hasan tra lo scorcio dell’undecimo e i principii del duodecimo, poichè il raccoglitore cavò questa notizia dall’epistola di Abu-s-Salt su i poeti della età sua propria (1067-1134). Il componimento è di sei stanze, ciascuna di tre versi d’otto sillabe, ed ogni verso rima col suo simmetrico in ciascuna stanza, il primo cioè col primo e così il secondo e il terzo: e però lo chiamerei zegel, più tosto che mowasceha.[920]

[744]

Io mi ristringo al metro, ch’è la sola parte notevole di questo squarcio, e nulla dico de’ concetti e dello stile; parendomi gli uni volgari e l’altro pesantuccio, quando Abu-l-Hasan ne’ componimenti ordinarii tratta più vivacemente il subietto dell’amore mal corrisposto,[921] e le sue parole una volta si direbber anco tenere e spontanee.[922] Lasciato da canto [745] Abu-s-Salt, che si dilettava di paragonare co’ suoi proprii versi e con gli altrui, un distico d’Abu-l-Hasan su i raggi di luce ripercossi dalle acque,[923] noi dobbiamo notar con lode gli epigrammi scherzevoli di questo autore[924] ed uno serio, dove spira l’orgoglio serbato da nobile e forte gente tra le amarezze che non mancavano ai vinti Musulmani di Sicilia.[925]

Par che Abu-s-Salt non abbia scritti in lista altri poeti siciliani, poichè Imâd-ed-dîn, senza citarlo altrimenti, continua questo capitolo con la scorta d’un anonimo che ne avea messi parecchi in una [746] raccolta compilata di recente in Mehdia.[926] Tornano essi dunque alla prima metà del duodecimo secolo, com’anco s’argomenta dalle poesie dedicate a re Ruggiero.

Primo ci occorre in questa raccolta Abu-Musa-’Isa-ibn-Abd-el-Mo’nim, es-Sikilli, lodato dall’anonimo antologista, come “giureconsulto di gran seguito, valoroso nelle allegazioni e negli argomenti, l’avvocato principe del suo paese, (lo scrittore) dai concetti nuovi, elevatissimi e dal linguaggio (fiorito come) i giardini cui rigan piogge continue.” ’Imâd-ed-dîn, sopraccaricando figure, continua che “a sentire i suoi dettati, ogni ferita risana; che il fulgore di quel bello stile dissipa le angosce; che le parole rassembran perle cavate dalle conchiglie e stelle raggianti. Ed ecco, conchiude Imâd, una delle sue peregrine poesie d’amore, la quale è più dolce che un desiderio soddisfatto.[927]” Ma al nostro palato sanno meno salvatichi i versi dettati per una bella ragazza bionda[928] e per una bruna [747] vezzosa.[929] Oltre varii epigrammi, un de’ quali indirizzato ad Abu-s-Salt per chiedergli in prestito un libro,[930] abbiam di lui il principio della kasida funebre scritta per un Abu-Ali-Abd-Allah, e sembranmi nobili versi.[931] È meraviglia che uom sì grave abbia dettate, nello stesso metro solenne, delle poesie oscene, come ben le definisce Imâd e ne reca in esempio una kasida intera ed un verso tolto da un’altra, del quale non oso pur dare la traduzione latina: e il laido concetto è espresso in termini astrologici che lo rendono più disgustoso.[932] I trentacinque versi ond’è composta l’altra, cominciano con la imitazione servile d’Imro-l-kais; arrivano ai vocaboli sudici e finiscono con una apologia insipida e impertinente.[933] Pur non si può negare il pregio della lingua in cotesti componimenti, nè in quelli di futile argomento, [748] ammessi al par nella Kharîda: un’epistola in prosa a lode d’un bel saggio di calligrafia;[934] una in versi, nella quale sono evitate le due lettere elif e lam, sì frequenti nella lingua arabica.[935]

Abu-Abd-Allah-Mohammed, figliuolo del precedente e giureconsulto, segretario e poeta, ebbe gran fama, a quanto ci si dice, come geometra e astronomo o astrologo.[936] Più solenne giudizio troviamo intorno le sue opere letterarie. Scrivono i biografi “ch’ei passeggiava su le vette dell’eleganza; lo chiamano campione rinomato ne’ tornei de’ dotti; scoprono nelle sue poesie tale virtù da esilarare gli animi, e inebriare gli astanti come se si facessero girar tra loro delle tazze di vin prelibato.”[937] ’Imâd, accennando alle elegie di Mohammed-ibn-’Isa, esclama che, se ascoltassero di tai versi, si metterebbero sulla buona strada anco i malvagi.[938] E per vero una lunga kasida, scritta, com’e’ sembra, in morte d’alcun de’ Beni Labbana, procede maestosa e patetica: e comprendiam che dovesse parer capolavoro a chi possedea la lingua, a chi tenea sovrane bellezze i tropi, le metafore, le antitesi, che or ci muovono a riso.[939] La buona gente [749] ascoltò, fors’anco tutta commossa, un’altra elegia che esordisce col pianto dei cavalli.[940] Perdonati i difetti del secolo, Mohammed-Ibn-Isa può dirsi buon poeta; migliore al certo del padre, poichè seppe scansarne la scurrilità. Ne’ suoi versi d’amore ci occorre, tra i luoghi comuni, qualche immagine graziosa.[941] Il [750] componimento che ho citato dianzi come poesia popolare, ha concetti semplici, linguaggio facilissimo, versi non tanto lunghi e adatti al canto; del resto corron tutti sopra unica rima a modo antico.[942] Abbiamo di questo poeta gli squarci di due altre kaside, d’una epistola in rima, di due in prosa e di due tramezzate dell’una e dell’altra, onde veggiamo che lo stile familiare non gli facea smetter sempre le ampollosità.[943]

Seppe scansarle, quanto allor poteasi, un altro [751] siciliano contemporaneo, del quale ’Imad-ed-dîn ci dà soltanto otto versi, tolti in parte dal principio e in parte dal seguito di lunga kasida che fu scritta in morte d’un nobil capo musulmano di Sicilia. E duolci che ’Imâd non abbia serbato il nome di costui, nè il rimanente dell’elegia, nel quale si sarebbero trovati per avventura de’ cenni storici e de’ versi più belli; poichè l’antologista trascelse di certo quelli che a noi possono piacer meno. Pur ci si veggono sentimenti vigorosi, concetti poetici e nobiltà di forma; in grazia anche del maestoso metro ch’è il tawîl, ossia “lungo.”[944] Il poeta chiamossi Othman-ibn-Abd-er-Rahman, soprannominato Ibn-es-Susi, dice ’Imad-ed-dîn; ma questo a me pare piuttosto soprannome di qualche antenato, oriundo di Susa in Affrica, il quale abbia fatto stanza e lasciata progenie in Malta; poichè si ammira tuttavia in quell’isola la lapida sepolcrale di Meimuna, figliuola di un Hassân-ibn-Ali, della tribù di Hodseil, detto [752] Ibn-es-Susi.[945] Il poeta appartenne di certo alla stessa famiglia, poichè l’antologista continua dicendo che “Malta fu il luogo della sua nascita,[946] la stanza di sua gente e la produttrice del suo vino; quivi fu coltivato il suo ingegno, quivi egli apprese lettere umane dal proprio padre. Abitò quindi Palermo; elessela a (seconda) patria e vi trovò riposo. Ei visse oltre i settant’anni, procreò figliuoli; le sue poesie (lodansi per) sano concetto, bella struttura e buon gusto. Avea recitata egli stesso, pochi giorni pria di morire, quella elegia all’autore della raccolta.”[947]

Siciliano parmi senza dubbio un Abu-d-Dhaw-Serrâg-ibn-Ahmed-ibn Regiâ, del quale ’Imad-ed-dîn non dà cenno biografico, ma il cita a proposito del carteggio ch’ei tenne con Abu-s-Salt.[948] Parmi siciliano, perchè nella seconda metà del duodecimo secolo abbiamo di quel casato un cadì di Palermo, il cui padre e l’avolo aveano esercitata la stessa magistratura;[949] e d’altronde l’elegia dettata in morte d’un figliuolo di Ruggiero, prova ch’egli ebbe [753] grazia a corte di Sicilia o ne cercò. Al dire di Imâd-ed-dîn, faceasi menzione di questo poeta nell’opera d’Ibn-Bescrûn, della quale tra non guari tratteremo. Si lodavano ampiamente i suoi rari pregi e le sue risplendenti qualità: sobrietà di descrizioni, possente immaginativa, intuizione sicura, acume d’intelletto, poesia ben tessuta e indirizzata ad alto scopo.[950] E sì che la fantasia non venne meno ad [754] Abu-d-Daw tra questo turbine d’immagini orientali, evocate in mezzo al profondo lutto del re.

Altri poeti celebrarono la magnificenza di Ruggiero con carmi i quali, quantunque scorciati da Imâd-ed-dîn “perchè, dice egli, suonan lode degli Infedeli ed io dal mio canto non la vo’ confermare,” han pure singolar pregio appo noi, provando che così fatti omaggi erano graditi a corte di Palermo, e valendo anco a illustrare luoghi di delizia che da gran pezza han mutato aspetto. Così l’antica reggia di Palermo, oltraggiata dal tempo e dai vicerè spagnuoli, l’anfiteatro romano, chiamato nel medio evo la Sala verde e adeguato al suolo più di tre secoli addietro, i giardini e il castello di Maredolce o della Favara, le vestigie dei quali non sono dileguate del tutto, ci tornano alla memoria ne’ versi di Abd-er-Rahman-ibn-Mohammed-ibn-Omar, della città di Butera in Sicilia.

Fu questi, come leggiamo nella Kharîda, “recitator del Corano non inferiore a nessuno al suo tempo, dottissimo nelle varianti del sacro libro: e verseggiò [755] con mirabile originalità di pensiero. Egli stesso recitò all’anonimo mitologista una kasida, nella quale lodando Ruggiero il Franco, principe della Sicilia, descrisse gli eccelsi edifizii di quel re. Nel qual poema si legge tra le altre cose:[951]

“Su, fa girare il (vin) vecchio[952] di color d’oro; e attacca la bevuta mattutina con quella della sera.

Bevi al suon della lira bicorne e de’ canti ma’bediani.[953]

Non si vive davvero, se non che nel beato soggiorno di Sicilia,

(All’ombra) d’un principato che s’innalza sopra quello de’ Cesari.[954]

(Vedi) i palagi vittoriosi, dinanzi a’ quali la gioia arresta il ronzino:

Ammira questo soggiorno che Iddio ha colmo d’abbondanza,

Il circo che superbisce sopra tutti gli edifizii (innalzati) dall’arte;[955]

[756]

I giardini della Rupe,[956] ne’ quali torna ridente il mondo,

E i lioni della fonte che buttan acque di paradiso.

La primavera con le sue bellezze veste quei giardini di splendidi ammanti;

Il mattino li incorona con colori di gemme.

E imbalsaman essi le aurette de’ zefiri, dall’alba ed al tramonto.”

Descrisse più particolarmente i giardini della Favara Abd-er-Rahman-ibn-Abi-l-’Abbâs, da Trapani, il Segretario:[957]

“Favara da due mari[958] tu contenti ogni brama di vita dilettosa e di magnifica apparenza.

Le tue acque diramansi in nove ruscelli: oh bello il corso delle acque così spartito!

Là dove si congiungono i due mari, là s’affollano le delizie.

[757]

E sul canal maggiore s’accampa l’ardente desiderio.

Oh quanto è bello il mare dalle due palme e la (pen)isola[959] nella quale s’estolle il gran palagio!

L’acqua limpidissima delle due polle somiglia a liquide perle e il bacino a un pelago.[960]

Par che i rami degli alberi si allunghino per contemplare il pesce nell’acqua e gli sorridano.

Nuota il grosso pesce in quelle chiare onde, e gli uccelli tra que’ giardini modulano il canto;

Le arance mature dell’isola sembran fuoco che arda su rami di smeraldo;

Il limone giallo rassomiglia all’amante che abbia passata la notte piangendo per l’assenza (della sua bella);

Le due palme hanno l’aspetto di due amanti che siansi riparati in asilo inaccessibile, per guardarsi da’ nemici,

Ovvero, sentendosi caduti in sospetto, s’ergan lì ritti per confondere i susurroni e lor ma’ pensieri.

O palme de’ due mari di Palermo! che vi rinfreschino continue, non interrotte mai, copiose rugiade!

Godete la presente fortuna, conseguite ogni desio: e che dorman sempre le avversità!

Prosperate con l’aiuto di Dio; date asilo a’ cuori teneri e che nella fida ombra vostra l’amor viva in pace!

[758]

Quest’è genuina (descrizione) da non mettere in dubbio. Ma s’io sentissi (raccontare) cose simili, mi parrebbero proprio favole.”[961]

Abu-Hafs-Omar-ibn-Hasan, il grammatico Siciliano, al dir dell’anonimo citato nella Kharîda, “fu principe in lessicografia e in grammatica; rinomato per le sane e sobrie dottrine filologiche; lodato per l’orditura giusta e l’andamento scorrevole e ben ordinato de’ suoi versi. Messo in carcere da’ Franchi di Sicilia, continua l’autore, e travagliato con ogni maniera di angherìe, dalla sua prigione ei dettò una kasida a lode di re Ruggiero.” Della quale Imâd-ed-dîn dà il principio e due squarci, ma poi tronca netto la citazione, mormorando che quantunque gli piaccia la poesia, quelli augurii gli danno noia, nè vuol ratificare le lodi degli Infedeli, che Iddio si affretti a precipitarli nel più cocente ardore del suo fuoco.[962] Pur ei conchiude che il poeta è scusabile, come prigione.[963] Il quale, quasi a smentire il critico che dovea lodarlo del felice disegno, sbalza con transizione spropositata dal classico amante di So’àd[964] al magnifico re di Sicilia; ma, tra le esagerazioni, sbozza pur qualche bella immagine e sempre esprime i concetti con rara eleganza.[965]

[759]

Per incontinenza poetica, o perchè volle anch’egli adular il vincitore dell’Affrica, ripetea le lodi di Ruggiero un letterato di Mehdia, il cui nome ci è già occorso: Othman-ibn-Abd-er-Rahîm-ibn-Abd-er-Rezzâk-ibn-Gia’far-ibn-Bescrûn-ibn-Scebîb, della tribù di Azd, il quale par abbia fatta lunga dimora in Sicilia, poichè porta anche il nome di Sikilli. Dà notizia di lui Imâd-ed-dîn, trascrivendo nella Kharîda molte poesie, tolte dal libro che die’ fuori questo Ibn-Bescrûn nel cinquecensessantuno (1165-6) col titolo di El Mokhtar, ec. ossia “Scelta di poesie e di prose rimate degli egregii contemporanei.”[966] Quivi dice [760] l’autore che, avendogli Abd-er-Rahman da Butera mostrata la kasida a lode di Ruggiero e avendolo richiesto di un componimento compagno di metro e rima, ei cantò:[967]

“Evviva la Mansuria, tutta splendente di bellezza;

Col suo castello saldissimo di struttura, elegante di forma; con le eccelse logge;[968]

Con le sue belve,[969] con le acque copiose e le fonti che potrebbero stare nel Paradiso.

Quivi i giardini lussureggianti veston ricchi drappi,

Chè tutto il suolo è coperto di broccato[970] del Sind.

Il zeffiro (che vi passa) ti arreca la fragranza dell’ambra.

[761]

Qui vedi gli alberi carichi d’ogni più squisita sorta di frutta;

Qui gli uccelli, senza posa, dalla mattina alla sera si ricambiano (il canto).

Che qui s’innalzi (sempre) in sua gloria Ruggiero, re de’ re cesarei,

E (goda) lungamente le dolcezze della vita, ne’ ritrovi che fan suo diletto.”[971]

Dopo i poeti cesarei, Imâd-ed-dîn registra El Gâun-es-Sikilli, ossia il “Ribelle siciliano,” come fu chiamato Abu-Ali-Hasan-ibn-Wadd: e nulla ci dice su l’origine di quel terribil nome, ma sol nota aver trovati di molti sbagli ne’ versi. E dà uno squarcio di kasida; poi de’ versi d’amore, accozzati di luoghi comuni, senza alcuno di que’ bizzarri concetti ed espressioni ricercate ch’eran tanto in pregio. I quattro versi che ci rimangono della kasida, odorano di apologia; poichè l’autore si lagna delle vicende della fortuna e de’ partigiani che l’hanno abbandonato. Ingenuo lo stile anche qui, non vela il dispetto nè l’orgoglio, e mostra che il Ribelle non verseggiava per far versi, ma per isfogare la passione dell’animo.[972]

[762]

Visse sotto re Ruggiero Abd-er-Rahman-ibn-Ramadhan da Malta, detto il cadi, ancorchè non si fosse mai dato alla giurisprudenza, ma solo alla poesia; nella quale i critici del tempo in loro stile sentenziavano che “egli ebbe un mar di pensieri ed una scaturigine bollente d’estro,” e aggiugneano che moltissimi versi ei scrisse a lode di Ruggiero, chiedendo licenza di ritornare in Malta, ma non ne cavò altro che aspre ripulse.[973] Imâd-ed-dîn non trascrive pur un di que’ versi e mal ce ne compensa con due epigrammi, l’uno fredduccio, l’altro bello ma amaro.[974] La coincidenza del nome patronimico, [763] della patria e della età, mi fa credere sia questi il medesimo Abu-l-Kasim-ibn-Ramadhan, del quale il cosmografo Kazwini ci ha serbato l’emistichio ch’egli improvvisò vedendo una clepsidra. E starebbe bene, del resto, che Imâd l’avesse notato col nome proprio Abd-er-Rahman, e il Kazwini col soprannome familiare Abu-l-Kâsim. In ogni modo va aggiunto ai poeti siciliani Ibn-es-Sementi, che compiè il verso e il madrigale, sì come abbiam detto.[975]

E così venuti alle poesie minori, ci occorre Abd-el-Halîm-ibn-Abd-el-Wâhid, il quale, educato nell’Affrica propria, Siciliano, dice Imâd-ed-dîn, per soggiorno, come quegli che stanziò in Palermo, “apprese ogni bel sapere da’ letterati di quella città, e dettò versi che rassembrano a’ grappoli dell’uva ed orazioni che sembran collane.” Affettuoso il suo distico su la terra che gli die’ ospizio:

“Amai la Sicilia nella prima gioventù. Essa parea giardino d’eterna felicità.

E non m’incomincian per anco a biancheggiare i capelli, che eccola, già divenuta gehenna ardente!”[976]

Anche i suoi versi d’amore son eleganti ed arguti.[977]

[764]

Un altro musulmano di Mehdia, venuto in Sicilia qualche mezzo secolo dopo Abd-el-Halîm, dettò alcuni versi sopra un giovanetto cristiano, garzon di bettola in Palermo, i quali vo’ tradurre come ricordo dei costumi, non che io ci vegga tante bellezze. Il poeta si addimandò lo sceikh Abu-l-Hosein-ibn-es-Sebân; e sappiamo ch’ei passò di Sicilia in Damasco, dove morì il cinquecensessanta (1164-5), dopo il soggiorno di più di dieci anni.[978]

Credo nato in Sicilia Abu-l-Fadhl-Gia’far-ibn-el-Barûn, [765] non solo perch’egli è detto Siciliano nell’antologia, ma altresì perchè una iscrizione arabica di Termini ricorda un Barûn, paggio della corte siciliana, fondatore di non so qual monumento.[979] Forse Barûn fu soprannome e divenne casato in persona de’ figli. Tra quali si può noverare questo Gia’far “uno degli unici nell’arte di far ottimi versi,” scrive Imâd-ed-dîn, e accenna particolarmente ad alcuni in lode del vino, ma non li dà. I versi d’amore, dei quali ci rimangono quattro squarci, sembrano eleganti e non senza originalità.[980] Que’ di metro più breve corrono sopra unica rima come gli altri.[981] Gareggiano i due antologisti nelle lodi del giureconsulto siciliano [766] Abu-Mohammed-ibn-Semna; del quale l’anonimo dice ch’ei seppe unire l’arte poetica alla scienza del diritto; ch’ebbe indole vivace, pronta e arguta risposta, conversazione amena e scherzevole. Imâd-ed-dîn rincalza: parergli le costui poesie, lavoro sublime e frutto maturo. Ma si avverta che la critica è scritta in prosa rimata, con vocaboli contrapposti, assonanze e bisticci, che l’è una maraviglia. Piacque soprattutto un battibecco tra questo Ibn-Semna e ’Isa-ibn-Abd-el-Mo’nim, e la cortese risposta, fatta in otto versi, ai rimbrotti, che ’Isa, punto da parole riportategli, avea scritti in tre versi[982] dello stesso metro e rima.

Visse in Egitto, uscito di Sicilia non sappiam quando, e fu primo segretario del califo fatemita Fâiz-billah (1155-60), un Abd-el-Aziz-ibn-el-Hosein, di sangue aghlabita, detto Sikilli e Sa’di,[983] e soprannominato El-kadhi-el-Gialîs (Il cadi compagnevole); il quale morì d’oltre settant’anni, il cinquecensessantuno (1165-6). Parecchi squarci delle sue poesie, [767] serbati da un biografo del secolo decimoquarto, cel mostrano poco diverso da’ poeti minori contemporanei; chè al par d’ogni altro ei sciorina le pupille omicide, le fonti di lagrime e tutto il resto.[984] Pur v’ha di lui qualche grazioso epigramma,[985] e il principio dell’elegia dettata per un suo figliuolo, che morì per naufragio, ci sembra pien d’affetto.[986] L’era forse tutta la kasida e per questo appunto parve sì scipita al biografo; il quale ne dà un solo verso, confermando con ciò che, da ’Imad-ed-din a lui, il gusto de’ letterati arabi di cattivo era fatto pessimo.

Son questi gli ultimi poeti arabi che verseggiarono in Sicilia. Agli stranieri è da aggiugnere Jehia-ibn-et-Teifasci da Kâbes, ucciso in Sicilia da’ Franchi, dice Imad-ed-dîn, dopo il cinquecencinquanta (1155) quand’e’ fecero la carnificina de’ Musulmani:[987] ch’è da riferirsi, secondo me, alla rivoluzione del millecensessantuno. Scrittore e poeta di maggior fama, [768] venne in Sicilia (1168), com’abbiamo detto,[988] il cadi Ibn-Kalâkis d’Alessandria, il quale ripartì con un ambasciatore egiziano che di Palermo tornavasi al Cairo. Par che Ibn-Kalâkis abbia soggiornato parecchi mesi nell’isola, poich’egli vide Palermo, Termini, Cefalù, Patti, Lipari, Caronia, Messina, Siracusa. Oltre il libro dedicato ad Abu-l-Kasim e i versi che gli scrisse quand’ebbe a toccar l’isola di nuovo per fortuna di mare, sappiam ch’ei lodò re Guglielmo in una kasida e abbiamo i versi ch’ei dettò, a proposito delle mentovate città di Sicilia, trovando sempre a ridire: qua sul nome, là sul clima o su le acque; ed or lamentando i disagi della navigazione, or le molestie degli uomini, or l’uggia del veder cavalieri cristiani serrati in fila con le spade sguainate, come i denti di qualche belva che stèsse per avventarsi addosso a’ Musulmani.[989] Al contrario lodava l’umanità della corte siciliana un de’ Beni-Rowaha, il quale, preso dall’armata mentr’ei navigava, chiese grazia con versi non tanto studiati, dicendo aver lasciati a casa una madre vecchia e de’ figliuoli piccini in grandi strettezze, i quali, volesse Iddio, conchiuse il poeta, che fossero qui prigioni, “poichè appo voi non ci manca vitto nè vestito.” E si narra che il re liberò costui, gli donò mille dirhem, e lo rimandò appo i suoi, spesato di tutto. Ma non sappiamo a chi si debba riferire il beneficio, poichè Scehâb-ed-dîn-’Omari, che trascrive cotesti versi, non [769] dà il nome del re, nè il tempo, nè altro particolare che il casato del poeta.[990]

CAPITOLO XII.

Ormai tra il libro di re Ruggiero e i diplomi suoi e de’ successori; tra Falcando, Ibn-Giobair e gli altri cronisti e geografi, si può delineare un prospetto delle condizioni topografiche ed economiche della Sicilia nell’ultimo periodo delle colonie Musulmane. Si posson anco particolareggiare alcuni compartimenti del quadro. A chi abbia sotto gli occhi la descrizione dell’Edrîsi, accurata com’essa è in alcune parti, viene in mente la prima cosa di cercare quali mutamenti siano accaduti nella geografia fisica dell’isola. E la curiosità delusa ci ricorda qual breve spazio siano sette secoli nella cronologia del globo. All’infuori di Panaria, la quale manca di certo per dimenticanza,[991] noi troviamo intorno la Sicilia le stesse isolette; delle quali, allora appunto com’oggi, ardean sole Stromboli e [770] Vulcano, e quest’ultima con rarissimi intervalli.[992] Sarebbe sì da notare, come vestigia d’antichi fatti geologici, la diversità di certi quadrupedi in diverse isolette; poichè Edrîsi dice che viveano in Pantellaria capre domestiche rinsalvatichite,[993] in Vulcano, capre selvatiche, e in Marettimo, capre e antilopi.[994] Ma non sappiamo quanta fede meritino così fatte distinzioni, nè se meglio sarebbe aggiugnere a quegli animali i cervi di Favignana che ricordansi nel decimottavo secolo,[995] e raccoglierli tutti quanti in unica specie, quella per lo appunto onde par sia venuto il nome di Egadi alle isole vicine a Trapani e quello di Capri, Caprera, Capraia ad altre più settentrionali.

Abbiam toccato in uno dei precedenti libri la quistione del menomato volume delle acque fluviali in Sicilia.[996] A quella or si rannoda la deteriorazione che parrebbe avvenuta in alcuni porti: ma è da ricordare che Edrîsi estende l’appellazione di marsa, ossia porto, a’ piccoli scali; e che in quella età, ancorchè non mancassero navi capaci al par delle nostre fregate, pure si adoperavano ordinariamente piccoli legni e soprattutto men cavi che i nostri. Contuttociò non è da negare assolutamente la differenza di [771] profondità che comparisce nel fiume di Lentini e nelle foci di que’ che prendono il nome da Mazara e da Ragusa, quando Edrîsi scrive che le navi arrivavano con tutto il carico entro la prima di quelle città, posta a sei miglia dentro terra;[997] che legni addetti al traffico con Calabria, Affrica ed altri paesi, caricavano e scaricavano alla imboccatura del fiume di Ragusa;[998] e che navi salpavano e barche svernavano presso la città, nel fiume Mazaro.[999] Indi possiamo supporre avvenuto in cotesti luoghi un interrimento o un sollevamento del suolo, di che abbiamo tanti esempii in Sicilia e fuori. Possiamo creder anco rimpiccioliti per simili cagioni i porti di Catania, Girgenti e Trapani, i quali or si lavora a ristorare, quando sappiam che al tempo di re Ruggiero erano i due primi gremiti sempre di navi;[1000] il terzo sicurissimo da tutti i venti e immune della risacca, onde vi si svernava.[1001] Dei due porti di Siracusa leggiamo che il piccolo fosse più frequentato che l’altro.[1002]

Edrîsi fa menzione della fonte intermittente, detta Donna Lucata,[1003] presso Scicli e dell’Amenano che scorre sotterraneo in Catania e talvolta irrompe [772] nelle strade.[1004] Dobbiam altresì, a chi raccolse le notizie topografiche, un abbozzo di statistica archeologica dell’isola, leggendosi col predicato di azali, che appo noi suonerebbe “aborigene,” le castella di Termini, Tusa, Kala’t-el-Kewârib (Santo Stefano), Caronia, Taormina, Noto, Ragusa, Girgenti, Marsala, Trapani, Kala’t-et-Tirâzi (Calatrasi presso Corleone), Battelari (presso Bisacquino) e Calatafimi; oltrechè son chiamati kadîm, ossia «antico» il castel di San Marco e Noto or or nominata: e si dice a Termini del teatro e de’ bagni; a Girgenti degli antichi avanzi che dimostrano la possanza alla quale arrivò un tempo il paese; a Taormina del ponte, del teatro romano, testimone della grandezza di chi edificollo, e di un colle che addimandavasi Tûr, celeberrimo per miracoli e pratiche di devozione.[1005]

Passando alla geografia politica, novello studio sul testo di Edrîsi e su le altre memorie di quei tempi, mi sforza a confessare che mancano ne’ documenti del duodecimo secolo le prove della tripartizione amministrativa della Sicilia, ch’io, seguendo il Gregorio, supponea ristorata da re Ruggiero.[1006] Se altre carte non [773] ci daranno ragguagli più precisi, è da ritenere che sotto i Normanni la Sicilia sia stata divisa in varie [774] province o distretti, di estensione assai disuguale e fors’anco mutabile.[1007]

Con maggiore certezza ritraggiamo da Edrîsi la distribuzione degli abitatori sul territorio dell’isola. Noveravansi in questa centrenta grossi paesi, escluse, com’espressamente ci avverte il compilatore, le ville, i casali e le terre minori. Percorrendo i centrenta, veggiamo che trentuno, posti la più parte su la marina, aveano de’ mercati, ossia, secondo l’uso dell’Oriente e dell’Europa del medio evo, delle contrade abitate da artigiani dello stesso mestiere o venditori della stessa merce. Undici paesi, de’ quali un solo dentro terra, vanta van de’ bagni;[1008] Palermo avea de’ magazzini di grandi mercatanti;[1009] Palermo stessa, Lentini e Marsala, de’ fondachi;[1010] Catania, Siracusa, Mazara e Marsala, de’ khân:[1011] ed oltre Palermo, Messina, Catania e Siracusa, segnalavansi, per palagi e grandi edifizii, Castrogiovanni, Noto, Butera, Girgenti, Carini: e notavansi le larghe vie di Mazara, e le villette di [775] delizia intorno i bagni Segestani.[1012] Delle isolette adjacenti, erano abitate per tutto l’anno Malta e Pantellaria; Lipari soltanto in certe stagioni, ma avea pure un castello:[1013] disabitate sembrano le altre, non facendovisi ricordo di popolazione nè di agricoltura, ancorchè quelle isolette fossero state esplorate diligentemente, come si argomenta dalla descrizione dei porti loro, delle acque dolci, della legna che vi si trovava, e della frequenza de’ navigli che soleano cercarvi asilo nelle fortune di mare.[1014] Leggiamo con maraviglia essere abbandonata, senza guardia d’armati nè pur d’un custode, la inespugnabile fortezza dell’Erice, chiamato allora Gebel-Hâmid;[1015] quando Ibn-Giobair, trent’anni appresso, la dicea vegliata sì gelosamente.[1016] Il libro di Ruggiero pone entro la fortezza di Giato una segreta pe’ rei di maestà;[1017] dice tramutata in Sciacca la popolazione di Caltabellotta, fuorchè un piccol presidio;[1018] e ci fa saper che la ròcca di Kala’t-es-Sirût, che torna al Golisano del medio evo, o Collesano, com’è piaciuto poi di scrivere, era stata spiantata, per comando del re, e tramutati i terrazzani in sito men difendevole.[1019] Del qual episodio non fanno menzione le croniche; ma sta bene nella tragedia che si travagliò per tanti anni tra re Ruggiero [776] e Rainolfo conte d’Avellino, marito d’una sua sorella e nemico implacabile del cognato. De’ centrenta grossi paesi, poi, una trentina sono scomparsi oggidì dal novero de’ comuni, e ne riman appena il nome in qualche villa o in qualche castello abbandonato e sovente rovinoso. Giacciono, la più parte, nelle province di Palermo, Trapani, Girgenti, o vogliam dire in quello che fu val di Mazara.[1020] Guardando una carta geografica, si vede ancora la cicatrice della gran piaga che vi fu aperta alla fine del duodecimo e prima metà del secolo seguente.

Il qual fatto mi conduce a chiarirne un altro, assai più grande e funesto. Raccogliendo tutti i nomi de’ luoghi abitati che occorrono negli scritti geografici o storici e ne’ diplomi, dal principio dell’ottavo al principio del decimoquinto secolo, si notano in Sicilia più di mille nodi di popolazione, tra piccoli e grandi; dal qual numero si può togliere forse una dozzina per nomi raddoppiati, ma vanno aggiunte parecchie centinaia di nomi ignoti finadesso, o [777] perduti del tutto con tanti diplomi pubblici e privati. A fronte dei mille luoghi e più, che si debbono supporre abitati nel tempo più florido della Sicilia del medio evo, ossia nel regno di Guglielmo il Buono, mettiamo le cinquecensessanta abitazioni che si contavano, tra comuni e villaggi, alla fine della dinastia borbonica, e si vedrà la enorme mancanza d’una metà per lo meno.[1021] Or supponendo l’attuale popolazione della Sicilia uguale a quella del duodecimo secolo, e tale io la credo senza timor di grosso sbaglio, perchè il numero è cresciuto rapidamente da cento anni in qua, egli è evidente che gli uomini sparsi una volta nelle campagne si sono raccolti nelle grosse terre; il che vuol dir che l’agricoltura è andata a male. Notissima cosa ella è [778] veramente che in Sicilia la più parte de’ contadini abita lungi dal suolo da coltivare, ossia che si sciupano molte ore della giornata o molti giorni della stagione propizia, e che la più parte delle terre di Sicilia rende assai meno di quel che potrebbe, serbate d’altronde tutte le altre condizioni attuali, che non sono al certo le migliori. Cotesta rovina economica principiò, a creder mio, con le molestie suscitate contro i Musulmani fin dagli ultimi anni di Guglielmo II; si accrebbe a volta a volta nelle vicende successive, e Federigo II, filosofo e buon massaio quant’ei si fosse, dievvi pure una dura spinta. Le guerre del Vespro siciliano non eran fatte al certo per guarir quella piaga; la quale squarciossi vieppiù nell’anarchia feudale del decimoquarto secolo, e gangrenì sotto la dominazione spagnuola, sotto le giurisdizioni baronali e la possessione di tante manimorte. Giova sperare che i cresciuti commerci dell’età nostra, lo aumentato valor delle terre, e con ciò il vigor di novella vita nazionale, l’aria libera che respiriamo, le savie leggi civili, gli studii promossi, e la sicurezza pubblica, s’e’ verrà fatto di ristorarla, riconducano a’ campi le popolazioni che ora stentan la vita nelle città.

La mutata proporzione tra cittadini e contadini che, certissima in fondo, ma senza particolari, abbiamo ritratta dal riscontro de’ nomi topografici, comparisce molto precisa ne’ territorii di Giato, Corleone e Calatrasi, che noveransi tra le centrenta città e castella descritte nel libro di Ruggiero. I quali essendo stati donati da Guglielmo II al monastero di Morreale (1182), ne abbiam noi ne’ diplomi di concessione [779] le note catastali, onde si scorge che que’ tre territorii contigui conteneano cinquanta tra castella e casali. La superficie, la quale su per giù prende mille chilometri quadrati, è in oggi suddivisa ne’ territorii di dodici comuni, de’ quali il solo Corleone serba l’antico nome:[1022] il che basti a mostrare i rivolgimenti sociali di quelle parti dell’isola. La proporzione, poi, di tre grossi paesi a cinquanta piccoli nel duodecimo secolo, e de’ cinquanta castelli o casali d’allora, a’ dodici comuni della nostra età, non si può di certo applicare a tutte le altre regioni dell’isola: contuttociò si badi che, a quella stregua, tornerebbe scarso il numero de’ mille paesi abitati che abbiam trovati nelle memorie del medio evo, e dovrebbe raddoppiarsi, o accrescere almeno d’una metà.[1023]

[780]

Venendo in particolare alle sorgenti della pubblica ricchezza, e prima ai minerali, ci accorgiamo di non pochi mancamenti nel libro di Ruggiero. Il quale accenna al ferro cavato dalle montagne di Messina ed esportato ne’ paesi vicini,[1024] alle saline di Trapani,[1025] alle pietre molari del territorio di Calatubo;[1026] ma dimentica molti altri simili capi di commercio, che noi abbiamo ricordati nel periodo precedente, nè egli è verosimile, fossero mancati:[1027] e, quel ch’è più, tace dello zolfo e del petrolio. E qui si potrebbe credere studiato il silenzio della relazione ufiziale, per celare quanto più si potesse gli ingredienti del fuoco greco;[1028] perchè l’estrazione di quelle due produzioni minerali era stata descritta da Ahmed-ibn-Omar-el-’Odsri, o el-’Adsari, uno appunto degli autori di geografia citati nella Prefazione di Edrîsi.[1029]

[781]

Secondo il luogo di Ahmed, che raccattiamo dalle citazioni di due autori più moderni, lo zolfo giallo di Sicilia, miglior di quello di tutt’altro paese, trovavasi nell’Etna, ovvero, se preferiamo un’altra lezione, nell’isola di Vulcano; lo cavavano picconieri pratici in così fatto lavoro, ai quali talvolta accadea che lo zolfo scorresse liquefatto, onde lor bastava scavare de’ fossatelli, e quand’era rappreso lo tagliavano con le accette. A’ picconieri, aggiugne Ahmed, che solean cascare i capelli e le unghie, per la natura calda e secca di quel minerale, dice egli, con le idee fisiche del suo tempo.[1030] Più precise notizie dava Ahmed dell’”olio di nafta:” che questo sgorgava nel mese di scebbât[1031] e ne’ due seguenti, entro certi pozzi vicini a Siracusa; che scendeasi in quei pozzi per gradini; che l’uomo si cammuffava il volto e turava ben le narici, perchè se mai avesse respirato laggiù sarebbe morto all’istante; che raccolto da costui il liquido, lo si metteva a riposare in truogoli, e poscia l’olio che rimaneva a galla era riposto in [782] fiaschi e quindi adoperato.[1032] E parmi stia bene tal descrizione. Ma nel cavamento dello zolfo manca forse il principio, e si confonde la liquefazione col caso d’incendio d’alcuna miniera; oltrechè è corso, a creder mio, qualche errore nel designare la regione solforifera. Accenna Ibn-Ghalanda generalmente alle acque minerali della Sicilia;[1033] Edrîsi dice soltanto delle termali di Segesta[1034] e di Termini.[1035]

Alla scarsa industria delle miniere, possiamo contrapporre la grande prosperità dell’agricoltura, attestata da tutti gli scrittori e, meglio di loro, dal gran commercio che la Sicilia esercitò nel duodecimo e decimoterzo secolo. Nè Edrîsi è parco di frasi quand’ei tocca la fertilità dell’isola; nè sdegna i particolari, poichè, in ottanta dei centrenta contadi ch’ei rassegna, fa menzione espressamente degli estesi terreni da seminare. Vero egli è che non distingue la specie del raccolto, se frumento, o altre granaglie, o civaie; e che in alcuni luoghi rimane al tutto ne’ generali, ed usa, tra gli altri, un vocabolo tanto vago, quanto sarebbe appo noi a dir derrate. Ei nota che nelle campagne di Aci “il caldo temperamento del terreno” portava a mieter, pria che nel rimanente [783] della Sicilia.[1036] In più di trenta luoghi sparsi per tutta l’isola ei dice di orti, o giardini, e dell’abbondanza delle frutte. Fa menzione di vigne in cinque soli, Caronia, Oliveri, Hisn-el-Medârig (Castellamare), Paternò e Capizzi; il che mi par confermi che le piantagioni di vite fossero scarse anzi che no in Sicilia nel corso di quel secolo; ma non mi farà mai credere che si limitassero a’ luoghi nominati.[1037] Forse il compilatore intese dir anco della vite, quand’e’ ricordava genericamente i giardini: e lo stesso parmi dell’ulivo, poich’Edrîsi non ne fa ricordo se non che nella descrizione di Pantellaria.[1038]

D’altronde la coltura della vite e dell’ulivo, ricordata espressamente dal Falcando,[1039] si può ben supporre accresciuta, ma non incominciata appena nel mezzo secolo che separò quei due scrittori. Il Falcando ricorda anco gli ortaggi dell’agro [784] palermitano e le macchine da adacquarli;[1040] e non contento al dir che i giardini “davano ogni maniera di frutte,” nomina singolarmente quelle che pareano più rare a un transalpino[1041] e non l’erano punto agli occhi di Edrîsi. Il quale, rimanendosi, com’io penso, a particoleggiare le specie preferite dal commercio, fa ricordo soltanto di Carini, dalla quale si esportavano per tanti paesi delle frutta secche: mandorle, fichi, carrube.[1042] Il territorio di San Marco producea della seta in abbondanza;[1043] s’imbarcava da Milazzo gran copia d’ottimo lino,[1044] e assai se ne coltivava in terre irrigue a Galati,[1045] al qual territorio noi possiamo aggiugnere quel di Ragusa.[1046] Frequentissime, dice Edrîsi, in quel di Partinico le piantagioni del cotone, della henna, pianta tintoria molto usata dagli Arabi, e di altre leguminose:[1047] e da un diploma si argomenta che il cotone sia stato coltivato anco nelle vicinanze di Catania al tempo di re Ruggiero.[1048] Della henna e dell’indago poi [785] sappiamo che al tempo dell’imperator Federigo si pensava di piantarne alla Favara presso Palermo.[1049] E forse Edrîsi, avvezzo a’ viaggi d’Affrica e di Levante, sdegnò di ricordare le palme dell’agro palermitano; ma supplisce al suo silenzio Ugo Falcando:[1050] e noi ben sappiamo che nel secolo decimoterzo si diè opera a far fruttare il palmeto, il quale dalla Favara stendeasi fino alla sponda dell’Oreto,[1051] e che il milletrecentosedici i soldati angioini venuti all’assedio della città tagliaron quel bosco,[1052] del quale avanza tuttora qua e là qualche pianta.

A dimenticanza manifesta è da apporre il silenzio del compilatore su le piantagioni di cannamele e sull’opificio dello zucchero. Perchè lo zucchero di Sicilia si consumava nella capitale dell’Affrica propria fin dalla prima metà del decimo secolo;[1053] [786] e, nella seconda del duodecimo, il Falcando fa menzione non sol delle cannamele, ma anche della cottura del melazzo e del raffinamento dello zucchero.[1054] Un diploma del secolo duodecimo fa ricordo dei frantoi o strettoi da cannamele;[1055] uno del decimoterzo mostra la sollecitudine che si prendea l’imperator Federigo per ristorare le raffinerie di zucchero in Palermo.[1056] La coltivazione poi delle cannamele e la manipolazione dello zucchero continuarono in Sicilia fino alle età più malaugurate della sua storia economica;[1057] e non è punto verosimile che così fatte industrie sieno state intermesse al tempo di Ruggiero. Poco dice Edrîsi de’ boschi: nomina la binît di Buccheri, e spiega come torni in arabico a [787] pineta;[1058] fa menzione del catrame e della pece che si esportava da Aci,[1059] del gran traffico di legname che faceasi a Randazzo,[1060] delle navi che costruivansi a San Marco con gli alberi tagliati in quei monti.[1061] Vi si può aggiungere, secondo un geografo del duodecimo secolo ed uno del decimoterzo, il mastice di Pantellaria cavato da’ lentischi e lo storace odorifero.[1062] La coltura degli aranci e altri agrumi, della quale non fa motto Edrîsi, è attestata ampiamente dal Falcando, da un diploma dell’undecimo secolo e dai poeti arabi che cantarono le lodi di re Ruggiero.[1063]

Della pastorizia, come dell’agricoltura, è forza confessare che quel compilatore, o trascurò le notizie, o gli bastò accennarvi da lungi; poichè non fa menzione di pascoli nè di greggi nè d’armenti, se non che nei capitoli di Malta,[1064] Rahl-el-Merat,[1065] Mineo,[1066] [788] Golesano,[1067] Montalbano, Mangiaba[1068] e Galati.[1069] Ma parmi superfluo dimostrare che questo ramo d’industria agraria sia stato importante in Sicilia nel duodecimo secolo: basti ricordare il diploma dell’imperator Federigo che attesta come, ai tempi di Guglielmo II, il fisco dava in fitto a’ Musulmani grandissimo numero di buoi, tra indomiti e mansi.[1070] Da un’altra mano supplisce Pietro d’Eboli al libro di Ruggiero, lodando nel suo carme i cavalli trinacrii, montati in una grande solennità da’ nobili di Salerno:[1071] onde veggiamo nel duodecimo secolo la continuazione delle razze lodate già nell’undecimo.[1072] E la cura che prendea l’imperator Federigo per mantenere de’ cameli in Malta, ci conduce a supporre che quegli animali v’attecchissero ancora.[1073] Si facea del miele, a detta di Edrîsi, in Malta, Caltagirone e Montalbano.[1074]

Tra i prodotti del mare primeggiava l’ottimo corallo di Trapani, e notavasi l’abbondante, anzi, dice Edrîsi, “strabocchevole copia di pesci che si prendeano [789] in quelle acque,” non escluso il tonno grande, così lo chiama, al quale si tendean ampie reti.[1075] E similmente ei fa ricordo delle reti da tonno nella marina dei Bagni Segestani;[1076] delli ordegni con che lo si pescava a Milazzo;[1077] della quantità grande che se ne prendea ad Oliveri;[1078] della rete messa in mare dinanzi Caronia,[1079] e del tonno che si pescava anco nel porto, non so se di Termini o di Trabìa.[1080] Ei non fa menzione di tonnare su la costiera di Levante nè di mezzogiorno, nè della pescagione minuta in altri mari che di Trapani e Catania. Dice pur del rei, il quale compariva in primavera nel fiume di Termini;[1081] de’ pesci [790] grossi e squisiti che dava il Simeto;[1082] degli svariati e copiosissimi che si prendeano nel fiume di Lentini e si mandavano per ogni luogo,[1083] e di quei del fiume Salso, pingui e saporosi.[1084] Il povero Oreto anch’esso par sia stato più pescoso che in oggi, quando l’imperator Federigo rivendicava al demanio regio una pescaia che v’avean fatta, cheti cheti, i monaci della Trinità di Palermo.[1085]

Tarbi’a, che suona la “quadrangolare” e noi n’abbiam fatto Trabìa, era amena villa, al dire di Edrîsi: le grosse polle d’acqua, che sgorgan quivi a piè della roccia, movean di molti molini; e vasti casamenti erano addetti a lavorare l’itria, o vogliam dir le paste e particolarmente i vermicelli,[1086] de’ quali si caricavano bastimenti e spedivansi in Calabria e in tanti altri paesi di Cristiani e di Musulmani:[1087] onde si vede come l’industria cittadina raddoppiava il valore prodotto dall’industria agraria, e apprestava materia di nuovi guadagni alla navigazione e al commercio.

[791]

Pochi altri ragguagli possiam cavare da Edrîsi intorno l’industria cittadina, appartenendo tanto agli artigiani quanto a’ bottegai, i mercati ch’egli va notando in varie città e terre.[1088] Fa menzione poi, in Girgenti, Mazara, Alcamo, Naro, Castrogiovanni e Randazzo, d’altri artefici, tra i quali credo sian di quelli che in oggi chiameremmo artisti:[1089] e ognuno intende che se il compilatore non ne parla nella descrizione delle città primarie, è forse che gli parea superfluo; nè dobbiamo dimenticare ch’egli non bramava già di tirar con regola e compasso degli specchietti statistici a modo nostro, ma volea soprattutto fare sfoggio d’eleganza nella lingua e nello stile. Donde noi cercheremo i particolari in altri scritti, o in qualche avanzo di manifatture che è pervenuto per buona ventura infino all’età nostra. Al punto stesso in cui i Musulmani sgombravano dalla Sicilia, noi veggiamo in Melfi, Canosa e Lucera, legnaioli, intarsiatori, armaiuoli, magnani ed “altri maestri” saraceni, salariati dall’imperator Federigo, insieme col fattore d’un suo vivaio, e co’ famigli addetti ai cameli, alla lonza da caccia ed ai mangani, s’io ben leggo.[1090] Di cotesti o [792] altri intarsiatori abbiamo anco i nomi proprii e sembran tutti siciliani.[1091] Il vocabolo stesso di tarsîa, arabico puro, sembra passato di Sicilia nella Terraferma italiana, e prova meglio che il dir di qualunque scrittore come quell’arte sia fiorita dapprima nell’isola. S’altro attestato occorresse, avremmo delli scrigni intarsiati con epigrafi arabiche che si conservano tuttavia in Sicilia;[1092] e se dubbio rimanesse ancora, mostrar potremmo gli avanzi di due grandi e magnifiche iscrizioni, intarsiate su marmo bianco, in pietre dure di colore, a quel modo che in oggi si chiama mosaico fiorentino,[1093] tra il quale e l’intarsiatura in legno o avorio non è altra differenza che la materia. Si ritrova in Sicilia nel duodecimo secolo, come ognun sa, l’arte di lavorare il porfido, attestata non [793] solamente dagli avelli regii del duomo di Palermo, ma altresì dagli ornati sì frequenti nelle chiese normanne, ai quali si deve aggiungere un lavorìo minuto e difficilissimo: una profonda coppa da bere, fornita di anse, che serbavasi nella Cappella Palatina di Palermo infino a’ principii del decimoquarto secolo.[1094]

Chi sa quanto sia moderno il gusto di far collezioni delle stoviglie del medio evo, mi condonerà se in questo capitolo dell’industria siciliana io tocco, semino dubbii e passo. Palermitani e senza alcun dubbio siciliani sono gli orci e le brocche di terra cotta, varii per la grandezza e per la forma, grossolani di fattura, e alcuni con tappo fisso, bucherato, e la più parte sciupati al forno, dei quali si trovò, com’io ritraggo, un piccol numero nel demolire la chiesa di San Giacomo la Marina in Palermo (1864), e poi se n’è cavato parecchie centinaia sopra le vòlte della Martorana, ponendo mano (1870) alla ristorazione di questo prezioso edifizio, che torna alla prima metà del secolo duodecimo. Credono i periti che questo insolito materiale s’abbia a tenere contemporaneo delle prime fabbriche. Che che ne sia, si scorge in quel vasellame una grossiera imitazione di motti e ornati arabi; onde non andrebbe riferito a’ tempi in cui le colonie musulmane serbavan la [794] lingua loro, e potrebbe scendere alla seconda metà del duodecimo o fors’anco del decimoterzo secolo.[1095]

Ammetto io volentieri, coi trattatisti di ceramica medievale e moderna, che sia stata in Sicilia, fin dai tempi musulmani, una scuola di maioliche; ancorchè io non mi affidi del tutto alla pratica di quegli antiquarii che battezzano, con data e patria, questo o quell’altro lavoro.[1096] Pur oso dir che i più preziosi ch’io abbia mai visti, i due stupendi vasi di Mazara, mi sembrano spagnuoli, sia delle isole o della terraferma.[1097] È forza poi che io ricusi la cittadinanza di certi [795] elegantissimi orcioletti arabi da armadio e da salotto, i quali a prima giunta si potrebbero dir siciliani, essendo frequentissimi nelle collezioni della Sicilia e rari nelle altre d’Europa. Ma la data segnata nella più parte di siffatte stoviglie par che torni a’ principii del decimoquarto secolo, quando gli ultimi residui de’ Musulmani erano usciti di Sicilia fin da tre o quattro generazioni, e se rimaneano le tradizioni delle industrie ed arti loro, la lingua era perduta e dimentica o celata la origine.[1098]

[796]

Si veggono ne’ musei di Sicilia, come in tutti gli altri d’Europa, delle ciotole di bronzo o rame, di quelle che i Musulmani usano per bere, e alcune grandi catinelle o dischi degli stessi metalli, ma nessuno indizio ci porta a rivendicarli all’industria siciliana; anzi, tornando comunemente così fatti lavori al decimoterzo, decimoquarto o decimoquinto secolo, e somigliando perfettamente a quei notissimi di Siria e di Egitto, è da supporre che li abbia recati in Sicilia il commercio, sì come fece in altre parti d’Italia, e più che ogni altra in Toscana.[1099] Pur si ritrae che i Musulmani di Sicilia lavoravano egregiamente i metalli. Il museo del Louvre possiede un piccolo mesciacqua di rame, in forma d’un pavone, in petto al quale si legge, preceduto da una croce, il motto Opus Salomonis erat, e sotto quello in arabico, Fattura di Abd-el-Melik-en Nasrâni, ossia il Cristiano. Il dotto archeologo, che ha illustrato cotesto vaso, lo riferisce al duodecimo secolo ed alla Sicilia, sì per la forma de’ caratteri, per la coincidenza de’ due idiomi e per [797] l’apostasia dell’artefice musulmano, e sì per la somiglianza di quest’opera con altre dell’arte arabo-sicula. Dimostra inoltre l’autore con molti esempii, che “opera di Salomone” significava allora “sottil congegno;” e sostiene che un cannellino, del quale rimane ancora vestigia, era adattato sul dorso del pavone affinchè, mescendosi l’acqua dal becco, l’aria entrata dal cannellino rendesse un sibilo.[1100] Nel gabinetto poi delle antichità in Parigi è esposta una coppa di bronzo, ageminata in argento con figure d’animali e rabeschi di stile arabico, la quale, ne’ tre soliti cartelli tondi, invece di motti arabi, porta lo stemma d’un arcivescovo di Morreale del decimoquarto secolo; onde l’erudito autore del catalogo ha ben’aggiudicata quest’altra opera alla scuola arabica di Sicilia.[1101] Abbiamo in cotesti bronzi parigini il simbolo de’ due ultimi stadii dell’industria arabo-siciliana: l’uno, cioè, quando i Musulmani si convertirono alla religione de’ vincitori e appresero la loro lingua oficiale, senza smettere la propria; e l’altro quando, mutata lingua e religione, ritenner pure le tradizioni di lor arte: finchè nel decimosesto secolo furono attirati dal maggior astro che risorgea nella terraferma d’Italia.

Abbiam già fatta menzione del tirâz regio di Palermo,[1102] nel quale, si tesseano e ricamavansi i drappi [798] di seta, come afferma precisamente il Falcando.[1103] E però non ne daremmo or che un cenno, se non fosse uscita alla luce, dopo il secondo volume della presente istoria, una erudita e sontuosa illustrazione delle insegne dell’antico Impero germanico, serbate in Vienna; la qual collezione è composta in gran parte di ricami e drappi siciliani.[1104] L’abbondante materia vuol che si tratti separatamente di quelle due manifatture, e si torni anco addietro al periodo al quale arrivammo nel quarto libro.

Poichè ci sembra con molta verosimiglianza lavoro del tirâz di Palermo, il pallio che il gran ribelle di Puglia donò all’imperatore Arrigo II; il qual cimelio si ammira oggidì nel duomo di Bamberg.[1105] E veramente il disegno somiglia in generale a quello del manto di re Ruggiero; e il planisfero celeste, ch’evvi raffigurato con qualche nota astrologica, torna per l’appunto agli studii ed a’ gusti musulmani di quel secolo, non ostante le figure di santi, tramezzati alle costellazioni in grazia del pio personaggio pel quale era fatto il pallio. Si scorge anco la mano straniera nelle iscrizioni latine con lettere trasposte e alcuna capovolta.[1106] Oltre a ciò manca ogni [799] fondamento a supporre un tirâz in altra città d’Italia;[1107] nè è mestieri andarlo a cercare in Affrica o Spagna, quando l’abbiamo in Sicilia e sappiam la lega di que’ Musulmani (1011) con Melo o Ismaele, come or non si può esitare a chiamarlo, leggendo il nome nel pallio.[1108] Seguono nell’ordine de’ tempi il notissimo pallio di re Ruggiero,[1109] con la data del cinquecenventotto dell’egira (1133); il camice di seta bianca, ornato con larga fimbria di porpora e d’oro e con lunga iscrizione bilingue, che porta in latino e in arabico i titoli di Guglielmo II e l’anno millecentottantuno;[1110] le gambiere col nome e i titoli dello stesso principe ricamati in [800] lettere arabiche.[1111] L’editore, il quale ha studiati, meglio che niun altro erudito europeo, i paramenti ecclesiastici del medio evo, attribuisce anco agli artefici musulmani di Sicilia i guanti di seta rossa trapunti in oro; due cinti da spada; un paio di ricchi sandali; il manto chiamato d’Ottone IV, e altri lavori che non hanno data nè lettere arabiche, ma gli ornamenti e lo stile di essi confrontano con que’ del tirâz palermitano[1112]. Contro il qual giudizio non abbiam che dire: se non che il merito del lavoro va scompartito tra’ Musulmani di Sicilia e i Greci, quando si sa dalle croniche il fatto de’ lavoranti di Tebe e Corinto, uomini e donne, menati prigioni in Palermo; i quali di certo non dettero principio a quell’opificio, ma non si può ammettere neanco che non abbiano giovato nulla a perfezionare i lavori.[1113] Vanno ricordati infine i ricami in lettere e disegni arabici della veste con la quale fu sepolto l’imperator Federigo: onde le prove materiali di quell’arte arrivano infino alla metà del decimoterzo secolo.[1114]

Circa i drappi fabbricati in Palermo, le prove [801] materiali e gli attestati scritti forniscono particolari sì copiosi da convenire più tosto ad apposito e tecnico trattato, che alla presente rassegna. Basti dunque citare i drappi de’ pallii ricamati, de’ quali testè abbiamo discorso e i soppanni di quelli, tutti opera siciliana, a giudizio dell’autore della descrizione; i quali sono tessuti con bell’artifizio a figure di animali e di piante, rilevati ad oro ed a colori diversi; e rassomigliano per la fattura agli scampoli rimasi nelle cattedrali di Palermo e di Cefalù, dei quali l’autore pubblica qualche disegno.[1115] Vengon poi i vestiti che si osservarono nelle tombe regie del duomo di Palermo, quando la ristorazione del monumento die’ occasione ad aprirle.[1116] Leggiamo nella cronica dell’Abate di Telese che, nelle feste dell’incoronazione di re Ruggiero, le mura del palagio eran parate di pallii e per fino gli infimi servitori vestiti di seta.[1117] Nella seconda metà del medesimo secolo, il Falcando attesta la varietà de’ drappi di seta tessuti nel palazzo reale e ricamati ad oro e perle, e la copia altresì de’ drappi stranieri e de’ pannilani che vendeansi nel vico degli Amalfitani entro il Cassaro di Palermo;[1118] e Ibn-Giobair nota il lusso di vestimenta delle dame cristiane di quella capitale ed anco delle musulmane che davano, com’or direbbesi, il figurino.[1119] V’ha memoria d’un gran padiglione di seta da sedervi a mensa dugento persone, che [802] Riccardo Cuor di Leone pretese da re Tancredi, insieme con altri tesori, dopo la baruffa di Messina.[1120] Le antiche poesie francesi ricordano lo sciamito e il zendado di Palermo.[1121] I diplomi siciliani, citando quelle e tante altre maniere di drappi operati o ricamati, mostrano la grande attività del commercio e dell’industria indigena.[1122] Danno simile testimonianza le denominazioni de’ dazii ordinati dai re normanni e svevi;[1123] e perfino il dialetto siciliano attesta l’origine e la importanza di quella industria, chiamando i tessitori in generale col vocabolo arabico careri.[1124] Gli opificii della seta decaddero in Sicilia, al par che tante altre sorgenti [803] di pubblica ricchezza, nella seconda metà del decimoterzo secolo, per le varie cagioni a che abbiamo accennato; tra le quali non è da dimenticare la emigrazione de’ Musulmani. Delle città di Terraferma, Lucca fu la prima a raccogliere la eredità della Sicilia. Rivaleggiarono poi con quella città, Firenze, Venezia, Genova: e artisti italiani recarono tal ricca industria a Lione, a Tours e in altre città della Francia. Pur la esportazione de’ drappi di seta rimase bel capo di commercio in Sicilia infino al decimosesto secolo.[1125]

E nessuna maniera d’opificii, necessarii al vestire ed anco al lusso, potea mancare in Sicilia nel duodecimo e decimoterzo secolo, s’egli è vero che le industrie si rannodan tra loro, e che una ne favorisce un’altra e sovente la porta con seco necessariamente. Così, in un paese celebrato pe’ drappi di seta, la [804] gabella su l’arco del cotone,[1126] che parmi voglia dire la battitura de’ bocciuoli per cavar la bambagia, fa supporre i telai da tesserne il filo. Abbiamo precise testimonianze per le tintorie[1127] e per gli opificii di pelli dorate, che si adopravano in varie manifatture e segnatamente negli stivaletti da donna.[1128] I guanti di seta tessuti a maglia, che si rinvennero nell’avello di Arrigo VI, sono da riferire anch’essi all’industria siciliana.[1129] Nè può dubitarsi che i fermagli smaltati e gli ornamenti gittati in oro, che furon cuciti in alcune delle vestimenta imperiali, non siano opera degli orefici palermitani; que’ medesimi a’ quali sono da attribuir le corone dell’imperator Federigo e della sua prima moglie Costanza d’Aragona.[1130]

Verosimil cosa è, ma punto provata, che nel [805] periodo, del quale trattiamo, si fosse lavorata in Sicilia della carta da scrivere. Furon gli Arabi, come ognun sa, que’ che recarono in Occidente la carta di cotone, fabbricata nel Khorasân ad imitazione di quella della Cina, ch’era fatta di seta o d’erbe;[1131] nè cade in dubbio che opificii di carta siano surti in Spagna e particolarmente a Xativa, donde, nella prima metà del duodecimo secolo, se ne mandava in Levante e in Ponente, al dir di Edrîsi.[1132] Il silenzio del quale, nella descrizione della Sicilia, sarebbe grave argomento contro il mio supposto, se in questo medesimo capitolo non avessimo trovate più volte fallaci le prove negative fondate su quel libro. Ritraggiam noi che, allo scorcio dell’undecimo secolo, i diplomi normanni di Sicilia, perfino que’ che portavano concessioni territoriali, furono scritti in carta di cotone; onde, in men di mezzo secolo, re Ruggiero volle rinnovare tutti i titoli di proprietà, con l’occasione o il pretesto che molti [806] originali fossero logori, cancellati o corrosi dalle tarme.[1133] Continuossi, ciò nonostante, a copiare in carta di cotone gli atti privati ed anco i pubblici, finchè, a capo d’un secolo, l’imperator Federigo dichiarò nulli que’ di certe classi che non fossero scritti in cartapecora;[1134] ma la sua cancelleria, in Sicilia e nella [807] terraferma d’Italia, usò tuttavia la carta negli atti che parea non dovessero passare alla posterità.[1135] Il basso prezzo della materia, provato da cotesti fatti, fa credere più tosto a fabbricazione indigena che ad importazione dalla Spagna o dall’Oriente.[1136] S’aggiunga che la denominazione di carta di papiro, occorrendo per la prima volta nelle Costituzioni di Federigo, sembra nata in Sicilia, per essere questo il solo paese d’Europa che produce quella pianta, e che l’usò comunemente nella cancelleria dello Stato fino alla seconda metà del decimo secolo;[1137] quando egli è probabile che la carta di cotone a poco a poco sia stata surrogata al papiro, e con l’ufizio ne abbia preso anco il nome.[1138]

[808]

La narrazione de’ fatti politici in questo e nel precedente libro, e la rassegna delle produzioni del suolo nel presente capitolo, ci ha condotti a toccare le notizie commerciali, in guisa che, volendo or trattarne appositamente, basterà di accennare alle cose già dette, le quali sono confermate da’ trattati di commercio[1139] dalle generalità che affermano alcuni scrittori.[1140] Hanno avuta i lettori occasione di riflettere che i principi della Sicilia, massime re Ruggiero e Federigo, indirizzarono spesso le pratiche e imprese loro a scopo di utilità mercantile; e che poservi zelo tanto maggiore, quanto eran essi i primi mercatanti del paese. E veramente le vaste possessioni demaniali, la riscossione delle gabelle in derrate, l’esempio degli Ziriti di Mehdia, e da un’altra mano la forma del principato feudale, sospingeano a quell’errore economico, il quale pur fruttava gran parte dell’entrata dello Stato, o della Corte che dir si voglia.

Principalissimo capo del commercio siciliano furono i grani, nel duodecimo secolo,[1141] al par che ne’ [809] seguenti infino al decimottavo, e continuo sbocco di quelli fino al secolo decimosesto, fu la costiera di Barbaria, travagliata sempre dalla fame.[1142] Mandava la Sicilia in Venezia de’ grani ed altre vittuaglie e, con rammarico d’un uomo di Stato di que’ tempi, ne traeva gran copia di merci e poco denaro.[1143] Si è già detto delle paste lavorate della Trabia, imbarcate per varii paesi cristiani e musulmani.[1144] Dopo le granaglie, erano capi d’esportazione, importanti nel duodecimo secolo, ed, a quanto parrebbe, assai più nel seguente, le frutte secche e il cotone;[1145] il quale ritraggiamo che sino ai principii del decimosesto secolo si mandava perfino in Inghilterra grezzo e filato:[1146] ed è anco da mettere in conto il corallo, il mastice di Pantellaria e lo storace odorifero.[1147] Nè possiam supporre scarso a’ tempi normanni il traffico dello zucchero, poichè quello di prima coltura e le frutte giulebbate andarono sino al decimoquinto secolo dalla Sicilia in Costantinopoli, Alessandria d’Egitto e Inghilterra, non che ne’ mercati della nostra Penisola[1148]. Da un’altra mano [810] esportavansi dei drappi di seta per le regioni occidentali d’Europa.[1149] Documenti del duodecimo secolo attestano l’associazione di mercatanti genovesi e siciliani per intraprese commerciali in varii paesi.[1150] Sappiamo delle navi siciliane ancorate ne’ porti di Barcellona e di Alessandria d’Egitto:[1151] e ritraggiamo da altre sorgenti il traffico della Sicilia in que’ due grandi emporii[1152] e in quelli di Pisa,[1153] Marsiglia[1154] Amalfi,[1155] Calabria e Malta.[1156] Di certo le navi genovesi conduceano gran parte di que’ commerci in Sicilia come in tutto il Mediterraneo;[1157] pure gli altri navigatori italiani rivaleggiavano sempre con essi, ed anco i Siciliani; poichè sappiamo delle costruzioni navali di San Marco e del gran traffico di legname che faceasi a Randazzo, per trasportarlo, com’e’ sembra verosimile, nel [811] porto di Messina.[1158] Il quale ritolse a Palermo il primato della navigazione, in quel gran movimento che per tutto il duodecimo secolo spinse l’Occidente, a traverso il Faro, in Palestina e in Siria: onde Messina nella seconda metà del secolo divenne la stazione principale del navilio da guerra, in vece di Palermo.[1159] Nè son pochi gli emporii minori nominati da Edrîsi: Termini, Cefalù, Kala’t-el-Kewâreb (Santo Stefano), Milazzo, Taormina (ossia Giardini), Aci, Catania, Siracusa, Scicli, Ragusa, Olimpiade (Licata), Girgenti, Sciacca, Mazara, Marsala, Trapani, Kala’t-el-Hamma, Calatubo, Carini, San Marco.[1160]

Continuando a ciò che abbiam detto intorno le monete del primo conte di Sicilia,[1161] è da notare che sotto Ruggiero e i due Guglielmi furono coniati in grandissima copia dei quartigli d’oro, volgarmente detti Tarì, e citati con tal denominazione negli atti pubblici di quel tempo. De’ quali son pieni i musei pubblici e privati d’Europa, e se ne trova sempre qualcuno presso gli orafi e i rivenduglioli in Sicilia ed anche fuori; oltrechè sappiamo come e’ corsero per le contrade in due grandi rapine, una volta in Palermo e una volta in Roma.[1162]

[812]

L’ampia collezione pubblicata dal principe di San Giorgio Spinelli ci aiuta a conoscere le monete normanne di cotesto periodo, meglio che la non abbia fatto per quelle dell’undecimo secolo; quantunque non ci spiri, nè anche qui, piena fiducia per le date ed altri amminicoli.[1163] Userò io, dunque, cotesto libro per quel ch’e’ vale, col sussidio di altre opere e delle monete che ho vedute con gli occhi miei.[1164]

Lascio addietro, perchè non battuta in Sicilia, nè, a quanto parmi, col fine di soddisfare a bisogno economico, la moneta di rame, che ha da una faccia la protome di San Niccolò con iscrizione greca e dall’altra, in caratteri cufici, la data di Bari, anno cinquecenquarantaquattro dell’egira (1149).[1165] Le altre monete arabiche de’ Normanni di Sicilia coniavansi in Palermo e in Messina, talvolta con leggende [813] bilingui, cioè arabico e latino, ovvero arabico e greco. Quelle di Ruggiero secondo hanno, la più parte, nel rovescio un segno, che altri ha creduto figura della croce tronca in cima, altri iniziale del classico nome di Trinacria. E per vero l’è sigla, secondo l’uso dei tempi e delle dinastie normanne d’Italia; ma compendia, a creder mio, il nome di Tancredi, padre di Roberto Guiscardo e del primo conte Ruggiero: Tancredi di Hauteville, ceppo della dinastia, della quale i due rami sovrani regnarono insieme in Palermo dal millenovantuno al millecenventitrè, e governarono la città con unica amministrazione.[1166] Ognuno intende che non vi tenean essi al certo due zecche, nè poteano trovare miglior simbolo, per l’unica moneta loro, che la sigla di Tancredi. Ciò non togliea che il vecchio conte Ruggiero e i due successori immediati battessero moneta per conto proprio loro in Messina, nè che Ruggiero duca di Puglia tenesse in opera la zecca di Salerno.[1167] E si ricordi che la T di varie forme, e variamente rabescata e ornata di puntini, comparisce più sovente nelle monete d’oro, quelle cioè che doveano avere corso più largo ne’ dominii normanni e fuori.[1168] Noi sappiam che allo scorcio [814] dell’undecimo secolo i grandi della corte di Sicilia invocarono talvolta la buona fortuna della progenie di Tancredi,[1169] e che re Ruggiero si vantò sempre erede non men del padre che dello zio; ond’e’ par ch’abbia potuto usare molto volentieri la sigla di Tancredi. Mi conferma in tal concetto l’ornato bizzarro, dato ai due rami della T in alcune monete e nel gran pallio di Nuremberg: il quale è diviso in due quadranti dalla medesima lettera, se non che l’asta perpendicolare, grossa e rabescata, rassomiglia ad un tronco di palma.

Afferma lo Spinelli[1170] che Ruggiero, assunto il titol di re, abbia mutato cotesto tipo monetario, prendendo quello che fu serbato da’ due Guglielmi, nel quale rimase da una faccia il nome del principe, ma fu sostituito nell’altra alla formola musulmana il noto motto greco “Gesù Cristo vince.” Ma l’autore stesso ci fa veder pure l’antico tipo dopo il millecentrenta:[1171] e il vero è che un fatto di sì gran momento non si potrà accertare se pria non saranno rivedute da occhi più pratici tutte le date e le leggende. Aggiungo aver osservata io stesso nel Museo di Napoli una moneta che ha da una faccia la formola musulmana e dall’altra la T rabescata, con la leggenda arabica “Per comando — del re — Ruggiero.” Io ritengo che la formola musulmana era già disusata negli ultimi anni di Ruggiero; ma che l’aveano abbandonata a poco a poco, e adoperata per molti anni promiscuamente col tipo che portava la croce e il [815] motto bizantino. Chi voglia, poi, applicarsi all’iconografia delle varie monete arabiche dell’epoca normanna e sveva, e soprattutto di quelle figurate con immagini sacre, o d’animali e di piante, troverà campo larghissimo nell’opera dello Spinelli.

Non si alterò sotto i tre primi re normanni la forma, nè, a quel che parmi, il valore intrinseco de’ tarì o robâ’i fatemiti. Di raro par si fossero coniati de’ dînâr o mezzi dinar,[1172] nè ci avanza gran copia di monete d’argento con iscrizioni arabe o bilingui; ma si rinvengono spesso delle monete di rame. Per cagion del breve regno e delle popolazioni musulmane, che sempre più si dileguavano, coniò poche monete arabiche Tancredi, poche Arrigo VI; e scarseggiano similmente quelle di Federigo, il quale mutò il sistema monetario, surrogando coll’agostale le frazioni del dinar. Ma ancorchè sieno estranee al nostro argomento le monete latine dei re di Sicilia, non vogliam passare sotto silenzio che i Guelfi, tra le altre singolarità attribuite all’imperator Federigo, narrarono ch’egli avesse data fuori della moneta di cuoio,[1173] [816] come la tradizione popolare di Sicilia dice di Guglielmo il Malo. Ed ancorchè nessuno antiquario n’abbia vista fin qui la prova materiale, non ripugna al vero la imitazione di tal trovato, quando noi sappiam che i Cinesi, precorrendoci anche nelle teorie del credito, adoperaron moneta di cartone fin dal settimo secolo dell’èra volgare. La corte di Roma, nella gran salmeria de’ motivi che accompagnavano la scomunica del milledugentrentanove, chiamò Federigo “falsario di nuovo genere,” apponendogli d’aver fatto coniare del rame coperto di sottile foglia d’argento:[1174] e io debbo dire che, non ostante la nota audacia di tali accusatori, mi sembra anco verosimile questo fatto, perchè n’abbiamo esempii nella numismatica antica ed anco nella musulmana,[1175] e perchè l’imputazione è di quelle che niun osa fare quando manca il corpo del delitto.

[817]

CAPITOLO XIII.

Ho differito fin qui il ragionamento su l’architettura e le arti ausiliari, perchè mi è parso bene toccarne in quest’ultimo capitolo, ordinato a notare i vestigii che le colonie musulmane lasciarono in Sicilia; de’ quali nessun altro è più splendido e più certo di que’ che scorgonsi ne’ monumenti del duodecimo secolo. Io non dico de’ secoli precedenti, non sapendo, in vero, se in tutta l’isola rimanga oggi in piè alcun edifizio surto nella dominazione musulmana. Que’ che i padri nostri le riferivano con piena fede, ormai scendono ai tempi normanni. Sognarono alcuni eruditi del secento che l’Annunziata de’ Catalani in Messina fosse stata, in origine, mausoleo d’un supposto Messala, re di supposti Alamidi; del quale essi leggean proprio l’epitaffio nelle tavole di marmo bianco, spezzate in parte e capovolte, onde sono rivestiti gli stipiti della porta maggiore di quella chiesa.[1176] Ed ecco che, deciferando senza tanta fatica l’elegante [818] scrittura neskhi intarsiata in quelle tavole a caratteri di serpentino e rabeschi di porfido, se ne raccapezza de’ versi, pei quali re Ruggiero invitava i grandi della corte ad entrar nel suo paradiso terrestre: senza dubbio la reggia di Messina, dove l’iscrizione adornò qualche vestibolo o corse su le pareti di qualche sala.[1177] Per errore meno indegno di scusa furon credute, e da taluno credonsi ancora, opera saracenica i palagi della Zisa e della Cuba e le rovine di Mimnerno, o meglio direbbesi Menâni, presso Palermo. Ma la Cuba mal nascose l’età sua agli occhi di Girault de Prangey; e infine è stata tradita da quella medesima iscrizione arabica che parea documento dell’origine musulmana, poich’evvi intagliato a caratteri cubitali il nome di Guglielmo II e l’anno millecentottanta del Messia.[1178] La Zisa anch’essa dopo [819] averci tenuti tutti in rispetto con quel suo sembiante arcaico, giudicata or che abbiamo migliori lezioni d’una cronica e d’una epigrafe e che sappiam l’età della Cuba, torna a Guglielmo il Malo e in parte anco al figliuolo.[1179] Menâni poi è attribuito da una cronica a re Ruggiero; nè le sue rovine danno indizio che ci porti a mettere in forse quell’attestato.[1180]

[820]

Si può assegnare, sì, origine più antica al castello di Maredolce[1181] ed ai Bagni di Cefalà;[1182] se non che [821] la forma primitiva di que’ due monumenti è mutata, tra pei guasti del tempo e per fabbriche sovrapposte. Diciam lo stesso della Porta della Vittoria[1183] e dell’edifizio di San Giovanni de’ Lebbrosi.[1184] Poco poi è da sperare in certi castelli d’aspetto saracinesco, abbandonati, anzi mezzo distrutti, come que’ del [822] monte Bonifato,[1185] d’Entella e di Calatamauro in val di Mazara[1186] e qualche altro in val di Noto,[1187] non parendo che dalle ruine di fortilizii si possa ritrarre un compiuto sistema d’architettura. Io non ho fatta menzione delle chiese che chiamiamo normanne, perchè le son tutte evidentemente del duodecimo secolo, e se in una o due si potesse scoprire qualche lavoro degli ultimi lustri dell’undecimo, non porterebbe divario nell’epoca.

Del rimanente bastano gli edifizii del duodecimo [823] secolo per determinare l’indole dell’arte che fiorì in Sicilia in tutto il periodo delle colonie musulmane. Gli autori moderni, ai quali è occorso quest’argomento, notan tutti nell’architettura siciliana de’ tempi normanni uno stile peculiare, molto diverso da quello delle nazioni europee contemporanee e perfin della Spagna musulmana;[1188] onde lo dicono misto di varii elementi, bizantino, normanno, moresco, e che so io; ai quali ogni scrittore pur attribuisce proporzioni diverse. Altri sostiene che l’architettura volgarmente chiamata gotica, della quale par che i Goti non abbian saputo mai nulla, venne dal Levante e pria di passare nel Settentrione, dov’era destinata a produrre tanti miracoli d’immaginazione, fe’ sosta in [824] Sicilia. Allargandosi per tal modo la quistione, io sono costretto ad entrarvi, male armato com’io mi sento: onde chiederò aiuto ai maestri dell’arte, innanzi tutti al Coste, il quale studiò lungamente gli edifizii del Cairo e si valse dell’erudizione musulmana. A questa fonte attingerò anch’io qualche notizia su l’origine e i progressi dell’architettura appo gli Arabi: e sarà gran fatica, poichè non è trattato quest’argomento da nessun de’ loro scrittori ch’io m’abbia letti. Ibn-Khaldûn, nei Prolegomeni, lo tocca con alte considerazioni di filosofia storica; egli scende fino alle pratiche de’ muratori e de’ legnaioli; ma, proprio su l’origine, dice una volta che gli Arabi appresero l’architettura da’ Persiani e par lo neghi in un altro capitolo.[1189]

Gli Arabi, come ognun sa, non aveano altra parte d’incivilimento da recar seco loro fuor della Penisola, se non che un linguaggio copiosissimo, rigoglioso e ben coltivato. Meno che ogni altr’arte [825] avea potuto svilupparsi l’architettura in quella nazione, il cui corpo era nomade e le estremità, se possedeano edifizii, li doveano a’ popoli finitimi: a settentrione Petra e Palmira piene di monumenti romani; a levante Hira con le fabbriche de’ tempi sassanidi e il famoso castello di Khawarnak, edificato ne’ principii del quinto secolo dall’architetto greco Sinimmar per comando del re arabo Nomân;[1190] a mezzogiorno il Iemen, con quell’architettura che gli potean recare i Persiani, ovvero i Cristiani d’Abissinia imitatori de’ Bizantini. La ragione storica, dunque, portava che, emigrando gli Arabi nella Mesopotamia, nella Persia, in Siria, in Egitto, nell’Affrica propria e nella Spagna, ed occorrendo loro di fondare cittadi, edificare moschee, castella, palagi, e adattare agli usi proprii gli edifizii sacri e profani de’ popoli vinti, dovessero cercare architetti nelle schiatte straniere; sia tra i vinti medesimi, schiavi, liberti, tributarii, ovvero fatti musulmani e concittadini; sia tra i sudditi dell’impero romano o degli usurpatori delle sue province. E le memorie musulmane provano che l’architettura penetrò appunto per coteste vie nella nazione arabica, ringiovanita e ingrandita prodigiosamente per numero e territorio. Le medesime vie, diciamo, per le quali i Musulmani appresero gli ordini di pubblica amministrazione de’ Sassanidi e de’ Bizantini e la medicina, le matematiche, la geografia, la chimica, la logica, la metafisica; le quali scienze tutte essi tolsero in prestito dall’antichità e le tramandarono alla rozza Europa del medio evo, più sollecitamente [826] che non abbian fatto i Greci, eredi del gran nome romano. Pur sembra che, tra gli abitatori dell’impero musulmano, que’ di schiatta ariana abbian tanto superati i padroni loro nell’esercizio dell’architettura, quanto nelle scienze e nella pratica della pubblica amministrazione; nelle quali discipline gli uomini più notevoli erano d’origine straniera, ancorchè la lode di tutte lor fatiche fosse stata usurpata dagli Arabi, che loro aveano imposta la religione e donata la propria lingua.

Fin da’ primissimi conquisti, i Musulmani adoperarono nella costruzione l’ingegno e la mano dei nuovi sudditi. Arde, entro un anno forse dalla fondazione (638), il misero aggregato di baracche che era allor Cufa, ed ecco i coloni arabi pensano a fabbricar case di mattoni e calce; il califo Omar assente, a condizione che non le faccian tanto alte;[1191] ma commette a un gentiluomo di Hamdân (Ecbatane), per nome Ruzabeh, di disegnare un grande edifizio da porvi insieme la moschea e il tesoro pubblico: e per la moschea si tolgono colonne da’ tempii sassanidi[1192] e altri materiali dai palagi di Hira.[1193] Ruzabeh costruiva [827] anco i mercati di Cufa a mo’ di portici;[1194] ed a capo di un secolo furono fabbricate in quella gran città delle botteghe con vòlte di mattoni e gesso, per comando di Khaled-ibn-Abd-Allah-el-Kasri,[1195] governatore dell’Irâk (725-739), celebre pei canali, i ponti ed altri pubblici lavori, di cui arricchì la provincia, per le grosse entrate che ne cavò, e pel favore che dette agl’Infedeli.[1196] Ma già a quel tempo l’architettura era progredita appo i Musulmani. Sappiamo che, occorrendo rifare più spaziosa la moschea cattedrale di Cufa, Ziad, ufiziale del califo Moawia (661-680), consultossene con architetti persiani, ai quali sforzossi di significare il concetto ch’egli avea in mente, ma non lo sapea spiegare. Pure un vecchio ingegnere dei re sassanidi lo capì; gli rispose che si doveano alzare colonne di trenta braccia, tutte di pietra di Ahwaz, assicurata con arpioni di ferro e saldature di piombo; che poi s’avea a costruire il tetto, murar le navi laterali e l’abside in fine. “Ecco per l’appunto ciò ch’io pensava,” ripigliò Ziad: e così fu fatta l’opera.[1197]

[828]

Più audace e maestosa comparisce l’arte sotto il califato di Walîd (705-715), il quale rizzò di pianta molti edifizii e molti ingrandì e decorò. Era già surta a Wâset di Mesopotamia (703) una fabbrica detta El-Kubbet-el-Khadrâ, ossia la Cupola Verde.[1198] Walîd ne fece innalzare un’altra nel maggior tempio di Damasco; della quale si narra che quando il severo Omar-ibn-Abd-el-’Azîz (717-720) si proponea di rimuovere dalla moschea tutti i vani ornamenti accumulati con molta spesa dal predecessore, venne a Damasco un ambasciatore bizantino, il quale, entrato nella moschea con parecchi mercatanti di sua nazione, alzando gli occhi alla cupola si turbò fieramente, e richiesto del perchè, rispose avere già sperato che la fortuna degli Arabi durasse poco, ma or che vedea quali edifizii sapessero fabbricare, si aspettava diuturna la possanza loro.[1199] Grande opera sembra anch’essa, alla metà dell’ottavo secolo, la [829] cupola che edificò sul palagio di Khawarnâk, testè ricordato, un partigiano degli Abbasidi, persiano d’origine, quand’egli ebbe in dono il palagio, all’esaltazione della nuova dinastia.[1200] Nella prima metà del nono secolo, l’emir aghlabita Ziadet-Allah, sotto il cui regno fu conquistata la Sicilia, rifabbricando tutta di mattoni e di pietra la vecchia moschea cattedrale del Kairewân, fece innalzare una cupola sul mihrâb, ossia nicchia che designa la dirittura della Mecca.[1201] Allo scorcio del medesimo secolo se ne vide sorger anco nelle loggette dei giardini, dove posavano mollemente gli emiri d’Egitto;[1202] mentre il feroce Ibrahim-ibn-Ahmed alzava nella moschea del Kairewân un’altra bella e maestosa cupola, sostenuta da trentasei eleganti colonne di marmo.[1203]

Ma ritornando a Walîd, è da notare che in particolar modo ei promosse l’ornato. L’anno ottantotto dell’egira (707), quand’egli volle ampliare la moschea del Profeta a Medina, Giustiniano secondo gli mandò centomila dinar, cento artefici e quaranta [830] some di materiali da mosaico; le quali non bastando, il bizantino ne fe’ cercare, terribile accusa della Storia, per tutte le città abbandonate dell’impero.[1204] Walîd fu anco il primo che ornasse la moschea di Damasco con mosaico a ramoscelli e fogliame, disegnati in varii colori su fondo d’oro.[1205] In quella della Kaaba alla Mecca egli aggiunse degli archi con iscrizioni a mosaico bianco e nero, e rivestì i pilastri di marmi a due colori alternati, e talvolta anco a tre, bianco, rosso e verde.[1206] Due secoli appresso, la corte di Costantinopoli donava similmente del materiale da mosaico al califo omeiade di Spagna, Abd-er-Rahman, quand’egli diè l’ultima mano alla moschea cattedrale di Cordova. Tra gli altri ce l’attesta Edrîsi, dicendo che gli archi del mihrâb «eran tutti vestiti di mosaico, da parere smaltati come tanti orecchini, e che ci si ammirava un lavorìo, sì pari, sì elegante e sì fine, che nè Musulmani nè Rûm arrivarono mai a tanta perfezione.»[1207] Notevoli parole in uno [831] scrittore che avea forse sotto gli occhi i mosaici della Cappella Palatina di Palermo!

Su lo stesso argomento degli ornati è da ricordare che nell’Affrica propria Ziadet-Allah rivestì il mihrâb di marmi da capo a piè; ornollo di iscrizioni e rabeschi; vi pose intorno intorno delle colonne picchiettate di nero e bianco (granito?) e n’alzò di faccia al mihrâb due di splendido rosso (porfido?), che non se n’era mai viste più belle in Ponente nè in Levante; per le quali l’imperatore di Costantinopoli profferì tant’oro quanto elle pesavano, ma Ziadet sdegnò di venderle.[1208] La favola di tal profferta attesta, secondo me, il commercio con architetti bizantini di Costantinopoli, del Napoletano o piuttosto della Sicilia. E poichè l’arte bizantina si estese talvolta, insieme con la protezione politica, infino all’Abbissinia, va ricordata qui la tradizione che Abd-Allah-ibn-Sa’d, governatore d’Egitto (645-656), abbia avuto in dono da quel re il bel pulpito di legno intagliato, che fu collocato nella moschea cattedrale [832] dal legnaiolo B..kt..r di Dendera, mandato a bella posta dall’Abbissinia.[1209]

Molto ci aiuta in coteste ricerche l’Egitto, sì per le profonde radici che vi messe la schiatta arabica fin da’ primi principii del conquisto; sì per la inesauribile ricchezza, nutrice delle arti, e infine perchè quivi i monumenti del medio evo sono stati, meglio che in tutt’altro paese musulmano, illustrati dagli scrittori indigeni e studiati dagli europei. Il Makrizi, diligentissimo raccoglitore delle notizie sparse negli annali del suo paese, fa la cronaca di ciascun monumento. Sappiam da lui le vicende della moschea cattedrale di Amru, o meglio si scriva ’Amr, al Cairo vecchio,[1210] ristorata varie volte e riedificata al tempo di Walîd; per cui comando fu abbattuto (710) il tetto che parve troppo basso, e ricominciato il nuovo edifizio (maggio e giugno 711), fu terminato a capo di tredici mesi per opera di un Ichia-ibn-Henzela, liberto de’ Beni ’Amir-ibn-Liwâ,[1211] onde sembra anch’egli di schiatta persiana e forse di Hamdan stessa.[1212] In vero, nei disegni che noi abbiamo della moschea di ’Amr, l’arco dei portici, formato di due curve che s’incontrano, ritondato bensì al vertice e un poco rientrante nel pièritto, par che racchiuda gli elementi dell’arco aguzzo e di quello a ferro di cavallo, che [833] poi svilupparono l’uno nelle parti orientali e l’altro nelle occidentali dello impero musulmano. Vi si scorge anco la costruzione con pietra di due colori alternati; e verosimil sembra che quegli archi rimangano in piè fin dall’ottavo secolo.[1213] Ma non ragioneremo su le probabilità, quando abbiamo la certezza nella moschea d’Ibn-Tulûn. Il Makrizi ci dà ampii ragguagli e precisi di questo monumento, edificato proprio nel secol d’oro della civiltà musulmana: che anzi la schiatta araba già declinava, già prendeva a nolo spade straniere per godersi meglio i piaceri dell’intelletto e de’ sensi, e già le province spiccavansi dall’impero, del quale restava il nocciolo spolpato a Bagdad. Allora Ibn-Tulûn, soldato di schiatta turca, mandato a governare l’Egitto e fattosene padrone, edificava, in quel ch’oggi chiamasi il vecchio Cairo, stanze di soldati, palagi, acquidotti, spedali; e tra gli altri monumenti immaginò una nuova moschea cattedrale. Narrasi com’avendo flagellato e messo nel carcere di polizia l’architetto cristiano che poco prima gli avea costruito un acquidotto, Ibn-Tulûn chiamò altro architetto per la moschea; ma che sentendosi chiedere trecento colonne da raccattare nelle chiese cristiane per tutto l’Egitto, ei ripugnava a tal partito e non sapea che si fare. Il cristiano allor gli scrive dalla prigione che ei fidasi di murar la moschea senz’altre colonne che le due del mihrâb: chiamato dal principe, gli [834] abbozza il disegno sopra una pelle, e quegli approva il partito; fa rivestire l’architetto d’un pallio, com’or sarebbe attaccare al petto una decorazione; gli fa noverare centomila dinar e dà carta bianca per lo rimanente della spesa: onde l’opera fu fornita a capo di due anni, il dugensessantacinque dell’egira (878- 879). La moschea d’Ibn-Tulûn abbandonata, ristorata, ma non mai mutata sostanzialmente,[1214] è stata osservata dal Marcel,[1215] studiata dal Coste ed ammirata da tutti gli Europei, com’uno dei più bei monumenti del medio evo e come il più antico edifizio costruito con archi acuti.[1216] E veramente i disegni che ne dà il Coste, ci mostrano in quegli archi sostenuti da robusti pilastri il sesto acuto poco allungato e similissimo a quello degli edifizii siciliani del duodecimo secolo[1217] ed anco a quello del Nilometro di Raudha,[1218] il quale era stato fabbricato il dugenquarantasette dell’egira (861), al dir di Makrizi.[1219] Questo scrittore poi ci attesta il gran lusso d’architettura, di che sfoggiarono i successori d’Ibn-Tulûn, allo scorcio dello stesso secolo, e più di loro i Fatemiti [835] nel decimo e nell’undecimo.[1220] E s’egli non ci sa dir la patria di tutti gli architetti, nè anco del cristiano d’Ibn-Tulûn, pur ci narra che tre porte del Cairo, innalzate verso il millenovanta dell’èra volgare, furon opera di tre fratelli nati in Edessa.[1221]

Non occorre particolareggiare altrimenti le memorie de’ monumenti egiziani del secolo decimo e dell’undecimo, poichè l’arte rimanea la medesima, ancorchè il gusto forestiero si fosse insinuato negli ornamenti.[1222] Lo stesso Ibn-Tulûn, dotto e pio musulmano, non rifuggì dal porre due leoni di stucco dinanzi una porta del suo castello.[1223] Il figliuolo Khamaruweih, che gli succedette, fece ritrarre sè e le sue cantatrici in una palazzina de’ sontuosissimi suoi giardini, le mura della quale eran tutte d’oro e d’azzurro, e le figure dipinte in una larga fascia e ornate di corone, orecchini e altri gioielli di gran valore.[1224] Conquistato poi l’Egitto da’ Fatemiti per mano di Giawher, liberto siciliano di schiatta greca o latina, l’uso delle immagini si fece più frequente; e perfino nella celebre moschea dell’Azhar (972) furono scolpite sui capitelli certe figure di volatili e si spacciò fossero talismani da tener lungi dal tempio le passere, le tortore e le colombe.[1225] II vero è che gli architetti dei principi egiziani dal decimo [836] secolo in poi s’erano invaghiti de’ capricci e de’ complicati ornamenti; sì come avvenìa già nella letteratura arabica, com’avvien sempre nelle arti dopo un’epoca di bella semplicità.[1226] Contuttociò non fu abbandonato l’arco aguzzo, se non che comparisce insieme con esso qualche arco tondo o trilobato; ma non si mutò essenzialmente lo stile, nè si può dir che sia succeduta a’ be’ tempi del Nilometro e della moschea tolunida una età barocca, come quella che ingombrò l’Europa nel decimosettimo secolo. Anzi e’ parmi che dopo le Crociate l’arte arabica d’Egitto siasi ritemprata nell’antica severità. I monumenti di Kelaûn, di Berkûk, di Kaitbai, surti nel decimoterzo, decimoquarto e decimoquinto secolo, ci danno argomento di meraviglia e di riflessione, per la somiglianza loro con gli squisiti edifizii fiorentini di quelle medesime età.

Da un’altra mano ci rimarrem noi dall’esame dell’arte arabica in altri paesi; poichè a levante dell’istmo di Suez i monumenti musulmani anteriori al duodecimo secolo, per quel po’ che se n’è studiato, non mostrano forme diverse da quelle d’Egitto; e se guardiamo a ponente di Barka, non troviamo nell’Affrica propria altri edifizii di quella età che la inesplorata moschea del Kairewân. Lasciam anco da parte la Spagna, dove gli Arabi esordirono seguendo da presso l’arte romana dell’Europa occidentale e di Bizanzio, e poi continuarono con lo stile, bene o mal chiamato, moresco: ma nè questo nè il primo [837] rassomiglian allo stile siciliano del duodecimo secolo, se non che nell’ornato.

Limitandoci dunque all’Egitto, noi chiameremo col Coste architettura arabica pura quella che vi si ammira ne’ monumenti del nono e del decimo secolo:[1227] e conchiuderemo che cotesta forma d’arte nacque su le due sponde del Tigri, e fu esercitata per lungo tempo dalle schiatte de’ vinti. Nel qual giudizio ci conferma l’esempio d’un’arte affine, quando sappiamo che, devastata la Mecca da una inondazione, il califo Abd-el-Melik, l’anno ottanta (700), mandava un ingegnere cristiano a costruire gli argini che difendessero in avvenire la città e il tempio; il qual cristiano aveva appresa l’arte, com’egli è verosimile, nelle irrigate pianure della Mesopotamia.[1228] Non dico io già che l’arte arabica sia stata creata dal nulla. Si formò al certo di antiche tradizioni della Mesopotamia, della Media e della Persia e di tradizioni bizantine, miste a lor volta di stile romano e d’orientale e pervenute nel centro del novello impero arabico per doppia via; cioè a dirittura dalle province che ubbidivano a Costantinopoli, e, di rimbalzo, dall’abbattuto reame sassanida, il quale aveva apprese tante arti e scienze dalla Grecia e dalla nuova Roma. E sì che questa gran sede di civiltà sparse luce al paro su l’Europa e su l’Asia: e in Santa Sofia diè splendido esempio delle cupole e delle iscrizioni cubitali messe a ricordo e insieme ad ornamento; le [838] quali furon poi sì largamente usate da’ Musulmani di ogni regione. Ma con tutta la parentela e la rassomiglianza di molte parti, non si può al certo chiamare bizantino lo stile arabico, nel quale nessuno negherà lo elemento persiano. La storia ci dice l’origine dei primi architetti dei Musulmani; i monumenti sassanidi son lì ancora, con lor vòlte ovoidi per ogni luogo, e con l’arco ellittico del Taki-Kesra, per attestare che nel quinto e sesto secolo dell’èra nostra[1229] le curve descritte da unico centro non bastavano più al gusto orientale, ancorchè i Bizantini non le avessero barattate giammai.[1230]

[839]

Dove e quando sia stato per la prima volta appuntato l’arco dello stile arabico, non si ritrae da quei pochi studii che gli Europei han fatti fin qui nelle regioni adiacenti al Tigri ed all’Eufrate. Mi s’affaccia l’ipotesi che sia avvenuto nell’ottavo secolo alla Mecca. Noi sappiamo che i Musulmani, quando fabbricavan di pianta le moschee, copiavano il disegno di quella che cinge la Kaaba.[1231] Sappiam che questo santuario dell’islam era circondato di case; in modo che, ingrandito il ricinto, avvenne che da varie parti rimanessero tra l’una e l’altra angusti passaggi per aprire novelle porte al tempio. Abbiam anco, da un autore meccano del nono secolo, il numero delle porte, ciascuna delle quali era costruita ad uno, due, o parecchi archi, e sappiamo la dimensione di ciascun arco,[1232] la quale il più delle volte si [840] adatta meglio che al tondo, al sesto acuto, che realmente si osserva oggidì nelle nuove strutture di quel tempio.[1233] Verosimile egli è dunque che cotesta forma d’arco, la quale si sparse rapidamente per tutto l’impero musulmano, eccetto l’estremo Occidente, siasi vista assai per tempo alla Mecca. L’arco ellittico della Persia ne dava il principio; lo spazio angusto consigliò forse di ravvicinare i due rami della curva sì che si tagliarono; o forse l’idea venne dall’intersezione di due o tre archi tondi nelle porte divise da quattro o cinque colonne. Ed ho messo nell’ipotesi l’ottavo secolo, perchè nel corso di quello la moschea della Kaaba fu ingrandita tre volte, e perchè l’arco aguzzo, non per anco sviluppato nelle fabbriche della moschea di ’Amr che vanno riferite a Walîd (714), si vede già bello e compiuto nel tempio d’Ibn-Tulûn (879).

Ignoriam noi come e quando siasi cominciato in Sicilia a smettere lo stile romano o bizantino. Le nuove costruzioni cominciarono di certo nel nono secolo, allorchè gli emiri aghlabiti ristoravano e ingrandivano Palermo;[1234] al qual tempo è da riferire la [841] prima origine della strada maggiore del Cassaro, copiata forse dal mercato centrale di Kairewân, ch’era lungo quasi due miglia.[1235] Può darsi ancora che l’impulso fosse venuto da Mehdia, allorchè i Fatemiti, venti anni appresso lor nuova capitale, fabbricarono la Khâlesa (937) nella capitale della Sicilia;[1236] ovvero a capo di trent’anni, nel rinnovamento degli ordini pubblici intrapreso da’ Kelbiti,[1237] del qual periodo abbiamo i frammenti dell’iscrizione monumentale di Termini[1238] e sì, in rozzi disegni, gli avanzi di quella che coronava Bab-el-Bahr,[1239] com’or veggiamo nella Zisa e nella Cuba; oltrechè Ibn-Haukal fa menzione d’altre fabbriche nuove ch’ei notò (872).[1240] Un secolo appresso viene il conte Ruggiero ad affermarci lo splendore degli edifizii ch’avea trovati e distruttane gran parte:[1241] e di que’ che rimanevano in piè nella prima metà del duodecimo secolo ci fa fede il libro di re Ruggiero, o di Edrîsi. Questi accenna, tra gli altri, all’antico tempio di Palermo, sacro al culto cristiano, poi fatto moschea e infine cattedrale cristiana di nuovo, nella quale si ammiravano “sì peregrini lavori ed opere di dipintura, doratura e calligrafia, sì eleganti ed originali da vincere ogni [842] immaginativa.”[1242] In ogni modo egli è certo che prima del conquisto normanno l’architettura fioriva in Palermo e in altre città della Sicilia; nè men certo che continuò a fiorire. Lo stesso Edrîsi descrive la cittadella normanna, della quale or non rimane che la cappella palatina e parte d’una gran torre. “S’erge, dice egli, nel più elevato luogo del Cassaro la nuova cittadella del gran re Ruggiero, edificata con ciottoloni[1243] e massi di pietra da taglio: fortezza ben complessa, munita d’alte torri, di saldi minaretti e robusti propugnacoli che difendono i palagi e le sale.”[1244] Si confronti cotesto ragguaglio con que’ d’Ibn-Giobair, di Romualdo Salernitano e di Ugo Falcando, i quali non occorre replicar qui; ricordinsi gli edifizii suburbani, de’ quali abbiam detto in principio di [843] questo capitolo; vi si aggiungano le molte chiese e monasteri e gli edifizii privati di che veggiam qualche avanzo, o ne fanno menzione le antiche scritture, e si comprenderà quanto e quale sia stato il lusso architettonico della Sicilia nel duodecimo secolo.

Ma lo stile degli edifizii che rimangono di quel tempo torna all’arabico dell’Egitto. Ecco gli archi, moderatamente acuti, delle chiese in Palermo, in Cefalù, in Morreale; que’ della Badiazza presso Messina,[1245] del monastero di Maniaci,[1246] del ponte dello Ammiraglio, di Maredolce, della Zisa, della Cuba, simili, diciamo con rigore geometrico, a que’ del Nilometro e della Moschea d’Ibn-Tulûn! Ecco nelle fabbriche esteriori della Martorana, del chiostro di Morreale e in un muro anco di quel Duomo gli spigoli delle vòlte e varii membri degli ornati alternarsi bianchi e neri come nell’Azhar del Cairo! Ecco le cupole di San Giovanni degli Eremiti, della Cappella Palatina, della Martorana, di San Cataldo, di San Giovanni de’ Lebbrosi, e quella che copre la loggetta del giardino di casa Napoli presso la Cuba, e l’altra più piccina, vera sebîl che disseta ancora i viandanti nello stradale tra Villabate e Misilmeri![1247] [844] Tornan tutte queste cupole ad una sezione di sfera, sostenuta sopra spazio quadrilatero con bel congegno di archetti pensili che s’aggruppano a ciascun angolo in forma di pina scavata, e tutte discostansi dalla costruzione delle cupole bizantine, in guisa da doversi riferire piuttosto a quella che par sia passata dalla Mesopotamia in Egitto[1248] e in Affrica. Cotesti riscontri notansi nelle parti essenziali della struttura, con tanti altri che gli uomini dell’arte hanno descritti più particolarmente.[1249]

Nè il comune legnaggio arabico apparisce men [845] chiaramente negli ornati, ancorch’essi appartengano ad arte accessoria, capricciosa per natura e per vezzo particolare degli Arabi, e derivata anch’essa dalle province bizantine. Un fino conoscitore nota la somiglianza degli ornati siciliani con que’ de’ monumenti musulmani più antichi, per esempio della cattedrale di Cordova.[1250] Il palco di legno della moschea di Cordova, come cel descrive Edrîsi, era compagno di quel ch’ora veggiamo nella Cappella Palatina di Palermo, se non che i cassettoni, o canestri che voglian chiamarsi, erano parte circolari e parte esagoni a Cordova[1251] e in Palermo han figura di ottagono inscritto in una stella. A chi guardi il fregio di mosaico che corona le tavole di marmo bianco della Cappella Palatina di Palermo e del Duomo di Morreale, par che l’abbiano disegnato le stesse mani che fecero il modello de’ merli e de’ parapetti straforati delle moschee d’Ibn-Tulûn, di Hâkem, di Hasan o di quella detta l’Azhar. Gli arabeschi che ammiransi ne’ pulpiti di quelle moschee sembran originali o copie di quei che rendon sì vaghi i pavimenti e i troni regii della Palatina o di Morreale.[1252] E perchè nulla manchi al [846] paragone, l’iscrizione arabica cristiana, che si è scoperta non è guari dentro la cupola della Martorana, è dipinta su assi, appunto come quelle del Cairo. Da un’altra mano lo stile di Maredolce, della Zisa e della Cuba, ch’è pur manifesto nelle rovine del palagio di re Ruggiero all’Altarello di Baida, s’accompagna quivi ad un altro elemento, offrendo ne’ pochi avanzi della gran sala terrena una reminiscenza dell’arte sassanida: una nicchia grande, o piccola abside che voglia dirsi, la quale s’innalza da un’area rettangolare e chiudesi al vertice in sezione ellittica con l’asse maggiore perpendicolare, in guisa da ritrarre uno spaccato di cupola ovoide.[1253] Ritornano in campo per tal modo negli edifizii siciliani del duodecimo secolo alcune delle prime fattezze dell’arte arabica ch’erano rimase latenti negli anelli intermedii della catena, sì come avviene nella generazione degli animali per quella legge che i naturalisti or chiamano atavismo. Non reca minor maraviglia il vedere in alcuni capitelli dei monumenti sassanidi la medesima forma di quelli, de’ quali abbiam tanta copia ne’ monumenti normanni di Sicilia.[1254]

Va notata altresì la rassomiglianza de’ giardini di sollazzo. A legger quelle pagine che si direbbero tolte da’ racconti arabi, nelle quali il prosaico e diligente Makrizi, su la fede di autori più antichi, descrive i palagi suburbani, le peschiere, i canali, le loggette, [847] i verzieri degli emiri tolunidi e de’ califi fatemiti,[1255] ci par di vedere, un poco più particolareggiati, i medesimi ragguagli che danno gli scrittori del duodecimo secolo, cristiani, musulmani ed ebrei, intorno le delizie dei re normanni di Sicilia. Come il Cairo, Palermo ebbe quella che Ibn-Giobair chiama collana di ville regie:[1256] la Zisa, Menâni, la Cuba e Maredolce, le quali giravano quasi a semicerchio intorno la città da ponente a libeccio e scirocco. Non traviarono dal gusto orientale i fondatori della Zisa, quando la gran sala terrena, splendidamente ornata come una Ka’ah moderna d’Egitto,[1257] ha in fondo una fonte ed è tagliata in mezzo dall’aperto canale di marmo, pel quale l’acqua va a raccogliersi fuori il castello in una gran vasca, nel cui centro surse elegante loggetta fino allo scorcio del decimosesto secolo.[1258] Nella Cuba, la base del prospetto rivestita di cemento idraulico, la porta più alta del suolo, e gli avanzi degli argini, attestano che il castello rispondea sopra un laghetto artificiale;[1259] e le vestigie del medesimo cemento si scorgono nelle rovine di Menâni.[1260] Più lunga la cronica di Maredolce, [848] o Favara che vogliam dire. Sappiamo che fu villa regia di sollazzo fino al principio del secolo decimoquarto;[1261] che Arrigo imperatore, allo scorcio del duodecimo, dimorò nel castello e trovò il parco pien di cacciagione.[1262] Pochi anni innanzi, Beniamino da Tudela, o il viaggiatore copiato da lui, faceva andare a diporto sul lago il re normanno con le sue femmine;[1263] del quale lago, disseccato in oggi, possiam noi misurare il circuito lungo la radice del monte e gli avanzi degli argini; e l’altezza si scorge dall’intonaco idraulico ond’è rivestito in alcune parti il muro del castello.[1264] I poeti di re Ruggiero, nella prima metà del secolo stesso, aveano descritti i nove canali scavati alle acque, e i pesci, gli uccelli, i boschetti di aranci e le due palme che s’innalzavan come vessillo su que’ giardini d’Armida.[1265] I quali già nel secolo precedente avean mosso a maraviglia il conte Ruggiero, quand’egli irruppe (1071) nella pianura di Palermo;[1266] ed erano stati acconci forse in sul principio del secolo, poichè il castello, fino al tempo d’Ibn-Giobair (1184), si addimandò Kasr-Gia’far;[1267] [849] dond’egli è verosimile che l’abbia edificato l’emir Kelbita di quel nome (998-1019). L’attiguo bosco di palme, che stendeasi fino all’Oreto,[1268] va noverato forse tra i luoghi di sollazzo che Ibn-Haukal avea visti in riva al fiume, verso la metà del decimo secolo[1269] e che i Pisani aveano depredati il millesessantatrè.[1270] Dobbiamo far menzione ancora della vasta bandita che, al dire di Romualdo Salernitano, avea creata re Ruggiero in alcuni boschi e monti presso Palermo, circondatili a quest’effetto d’un muro di pietra, piantatovi nuovi alberi, e messavi gran copia di daini, caprioli e cinghiali; il qual parco dalla reggia stendeasi per parecchie miglia a libeccio oltre i gioghi de’ monti e chiamavasi, com’io credo, Menâni, col nome stesso del castello.[1271] Romualdo aggiugne [850] che il re passava l’inverno alla Favara e l’estate a cacciare ne’ boschi del Parco. La loggetta sormontata [851] di cupola che rimane intatta tra Menâni e la Cuba, torna sempre, qual che fosse l’età sua, al gusto dei giardini regii dell’Egitto.[1272]

Se i principi normanni seguirono gli usi dei Kelbiti, questi a lor volta aveano imitati i califi del Cairo. E la storia ce ne mostra il perchè. La casa kelbita dei Beni-abi-Hosein, mandata da Moezz a mettere, se possibil fosse, un morso in bocca a’ riottosi Musulmani di Sicilia, avea gran seguito a corte di quel califo. Sotto i degeneri successori di Moezz crebbe la possanza de’ Kelbiti, al segno ch’e’ prevalsero ne’ consigli del Cairo più facilmente che lor non avvenisse di comandare nella capitale della Sicilia.[1273] Dalla intima relazione delle due corti, seguì naturalmente maggiore frequenza di commerci tra’ due paesi: il qual fatto, se occorre nelle memorie del duodecimo secolo, del decimoterzo e fino al decimoquarto,[1274] era nato al certo avanti le Crociate e avanti il conquisto normanno dell’isola.

Dopo il detto fin qui, noi possiamo senza ambagi chiamare arabica l’architettura siciliana del duodecimo secolo; e possiamo conchiudere che quest’arte seguì il corso di ogni altra appartenente all’incivilimento esteriore che rimase in Sicilia fino alla caduta della dinastia normanna. Quello che alcuni eruditi [852] supponeano stile ibride, nato al contatto de’ nuovi con gli antichi abitatori del paese, mi sembra mera specie dello stile arabico d’Oriente; poichè io non veggo nel siciliano quel profondo divario che porta a far genere novello. Anzi, parendomi che i confini tra il genere e la specie non sieno meno incerti in architettura che in zoologia, mi rimarrei da una quistione di parole, se non pensassi che l’altrui giudizio è fondato sopra erronei dati storici intorno i tempi e i luoghi. Io credo che altri abbia errato, considerando l’arte arabica più tosto nel tramonto del medio evo, che nel pien meriggio dell’incivilimento musulmano; più tosto a Granata, che al Cairo. Parmi altresì che quella influenza bizantina, che tutti i maestri dell’arte hanno notata negli edifizii siciliani del duodecimo secolo, non sia mica peculiare del paese nè del tempo, ma si scorga medesimamente in ogni stile architettonico del medio evo; nell’arabico di Egitto, come in quello di Spagna; nel sassanida, come nel lombardo e in tutt’altro che prevalse fino a’ principii del decimoterzo secolo nella Terraferma d’Italia ed oltremonti, non esclusa la Spagna dei Visigoti. Anzi ne’ monumenti sassanidi occorrono più frequenti e più schiette le linee bizantine. L’arte siciliana le ereditò dall’arabica. E ne sia prova il gran divario di stile che corse nel duodecimo secolo tra la Sicilia e l’Italia meridionale, soggette entrambe a’ principi normanni: delle quali regioni la prima contava tre secoli di dominazione arabica, la seconda era uscita da poco di man de’ Bizantini e, se ripugnava alla dominazione, seguiva la civiltà loro e talvolta chiamava artisti da [853] Costantinopoli.[1275] Or l’arco acuto usato ordinariamente, anzi esclusivamente, in Sicilia, non passò lo stretto di Messina pria della metà del decimoterzo secolo. Una sola eccezione che ve n’ha conferma la regola: ed è da maravigliare che non se ne trovino assai più all’entrar del duodecimo secolo, quando i principi non solo, ma anco molti baroni d’ambo i lati dello Stretto discendeano dalle stesse famiglie.[1276] Io non ho fatto parola d’arte normanna, parendomi non si possa mettere in campo ne’ primi principii del secolo, quando i Normanni, sia di Francia, sia d’Inghilterra, usavano ancora lo stile dell’uno o dell’altro paese, il quale non somiglia per nulla a quello della Bassa Italia, nè della Sicilia, signoreggiate, nol dimentichiamo giammai, da guerrieri di ventura di tante nazioni, ai quali fu dato il nome [854] di Normanni, perch’era questa la gente che primeggiò tra loro.

È da avvertire che ci limitiamo nel giudizio nostro all’arte predominante in Sicilia nel duodecimo secolo, quella, cioè, che si ritrae da’ monumenti delle regioni occidentali e da quelli che furono innalzati nelle orientali da’ principi normanni. Noi non supponghiamo già che si fosse dileguata al tutto in Valdemone un’arte indigena più antica, sorella dell’arte dell’Italia meridionale e molto vicina a quella di Costantinopoli; ma pochi monumenti ne avanzano nella Sicilia orientale, e tutti poco più o poco meno alterati da successive costruzioni. Pertanto noi non ragioneremo di quest’arte che non appartiene propriamente alla Sicilia musulmana, e in ogni modo non se ne vede grande effetto nell’architettura del duodecimo secolo; e sol possiamo supporre che nel decimo e nell’undecimo abbia dato in prestito qualche accessorio agli architetti musulmani della Sicilia. La ragione è che entrati i Greci di Sicilia e di Calabria nella corte normanna di Palermo, insieme coi vincitori Oltramontani o italiani di Terraferma, tutte quelle genti cristiane cominciarono a dar nuovo indirizzo alle lettere, alle scienze morali e ad alcuna delle arti figurative: ma l’opera fu lenta al par che l’aumento della popolazione cristiana.[1277] Avvertiamo ancora che, chiamando arabica l’architettura siciliana, intendiamo dire delle fattezze principali; non potendosi tenere diversità di stile que’ lievi mutamenti [855] che richiede or il subietto dell’edifizio, ora il comodo o il capriccio del padrone. L’arte arabica, sì ricca e versatile, potea soddisfar appieno a coteste modificazioni senza necessità di trasnaturarsi. Basta osservare la pianta delle principali chiese normanne di Sicilia che han forma di basilica (diversa bensì da quella della Terraferma d’Italia, al par che dalla chiesa bizantina e dalla moschea),[1278] e ve n’ha alcuna costruita precisamente a croce greca; onde ognun vede che gli architetti seguivano i dettami de’ prelati e de’ principi fondatori, a un dipresso come i due architetti persiani abbozzarono successivamente il disegno della giâmi’ di Cufa secondo i cenni di Omar e di Ziad, e come l’architetto cristiano d’Ibn-Tulûn delineò la moschea senza colonne. E mi sembra che gli architetti musulmani di Palermo ben serbassero l’integrità dell’arte loro, dando alle chiese, ch’e’ fabbricavano, talvolta una forma di mezzo tra l’occidentale e l’orientale e talvolta la forma greca a dirittura. Si può ammettere similmente che artisti siciliani abbian delineato qua e là, per voler dei principi e de’ baroni, il fregio ad angoli salienti e rientranti usato in Francia e in Inghilterra col nome di chevron o zigzag, e lo stesso diciamo di alcun’altra parte accessoria; ma nessuno ne inferirà che l’arte arabica rimanesse alterata per questo, nè tributaria delle arti settentrionali. Credo anch’io che re Ruggiero, vago delle matematiche applicate e capace d’altissimi [856] concetti, abbia dato indirizzo agli artisti che gli fabbricarono San Giovanni degli Eremiti, la Cappella Palatina, il Duomo di Cefalù, i palagi e le ville: e pur non dirassi ch’egli abbia rinnovata con ciò l’arte arabica in Sicilia.

La quale par sia stata allora esercitata quasi esclusivamente da’ Siciliani, sia di schiatta arabica o berbera, sia di schiatte indigene, fatti musulmani e alcun di loro già riconvertito al Cristianesimo, da senno o per gabbo. E veramente la moda d’intagliare iscrizioni arabiche negli edifizii de’ principi normanni, come alla Cuba, alla Zisa, e perfino nella torre della distrutta chiesa di San Giacomo la Màzara,[1279] fa necessariamente supporre artisti la più parte di linguaggio arabico. Il qual uso d’intagliare le iscrizioni nelle mura esteriori de’ monumenti accettò anco le due altre lingue che si parlavano in Palermo, la greca cioè nella chiesa della Martorana,[1280] e la latina in quella contigua detta di San Cataldo; ma l’arabico non cedè il luogo ne’ castelli della Cuba e della Zisa, ancorchè più moderni.[1281] L’arabico entrò ne’ santuarii cristiani, come ognun vede nel palco della [857] Cappella Palatina e nella chiesa della Martorana, nella quale, astrazion fatta delle due colonne con iscrizioni, tolte evidentemente da moschee, la cupola di mosaico con epigrafi greche è fasciata alla base, com’abbiamo testè accennato, d’una iscrizione che comincia col simbolo greco bizantino e continua sino alla fine in arabico, con formole cristiane tradotte da inni antichissimi della Chiesa orientale.[1282] Convien dire anzi che gli architetti fossero rimasi, se non musulmani, per lo meno arabizzanti fino alla seconda metà del duodecimo secolo, poichè nel soffitto della chiesa della Magione, che fu edificata in quel torno, si veggono ancora, su le correnti del comignolo, le voci Vittoria, Salute, Possanza, Contentezza ed altri augurii scritti in arabico, or a caratteri neri su fondo bianco, or il contrario, ed ora in rosso con fili gialli su fondo nero; e coteste correnti alternansi tra loro e con altre che portan figure, le une di pesci e le altre di uccelli.[1283] Era capriccio degli artefici, o [858] piuttosto superstizione d’astrologia; ma pur sempre la lingua pura e i caratteri netti e franchi provan la nazione degli autori principali di quell’opera.

Spero io che questa definizione della architettura siciliana del duodecimo secolo, messa innanzi dall’Hittorf, confortata da’ lavori del Coste e, se mal non mi avviso, anche dal dotto giudizio dello Springer e corredata delle notizie ch’io ho aggiunte qui, sia decisa inappellabilmente, quando lo studio di nuovi testi arabi e di altri monumenti della Siria e della Mesopotamia designerà precisamente il tipo ch’ebbe l’architettura arabica orientale dall’ottavo all’undecimo secolo. Coi quali studii troncherassi fors’anco quell’altra lite su l’origine dell’architettura, impropriamente detta gotica, del Settentrione. Uno de’ più eletti ingegni del secol nostro[1284] ha trattato questo argomento, sostenendo, con molta erudizione e molto amor patrio, come lo stile gotico non consista nell’arco acuto e come sia nato dalle idee filosofiche, politiche e religiose che nella prima metà del duodecimo secolo andavano germogliando entro le congreghe ecclesiastiche dell’Isola di Francia. Ma s’egli ha dimostrata la novità dello stile settentrionale e il merito di coloro che primi l’usarono in Francia, o, com’altri vuole, in [859] Germania o in Inghilterra, non si potrà negare da un altro canto che l’arco acuto è pur parte principale dell’arte del Settentrione; che si vedea già bello e compiuto nella moschea d’Ibn-Tulûn nel nono secolo, e che s’ammirava anco in Sicilia alla fine dell’undecimo e nella prima metà del seguente. Non va rigettata dunque l’opinione del Coste e dell’Hittorf.[1285] I pellegrini normanni e tedeschi che visitavano Gerusalemme e il Sinai avanti la prima Crociata; i guerrieri dell’Occidente, nobili e plebei, laici e chierici, che ritornavano a lor case dopo sciolto il voto della liberazione, riportarono, com’egli è verosimile, l’idea dell’arco acuto ed altre movenze dell’arte arabica; la quale con la sua vaghezza e grandezza non potea non abbagliare gli inculti popoli dell’Europa. Nè parmi supposto temerario che, sostando in Sicilia, alcun de’ reduci abbia vista l’arte medesima fiorir sotto lo scettro cristiano e servire agli edifizii sacri. Senza dubbio que’ concetti germogliarono in menti preparate dalle tradizioni dell’architettura romana e da un cupo sentimento religioso ignoto nell’Europa meridionale; senza dubbio la qualità de’ materiali di costruzione e i bisogni del clima, per esempio i tetti acuminati, richiesero delle modificazioni e suggerirono di tentare un arco assai più aguzzo che non si fosse mai veduto in Egitto, nè in Sicilia; e spesso, com’egli avviene, la necessità parve virtù, e la bizzarrìa, volo del genio o sublimità dell’affetto. Spuntò [860] per tal modo quello stile che non è romano, nè lombardo, e neanco arabico, nè bizantino, quantunque abbia preso di questo e di quello, ma pur costituisce una forma nuova dell’arte e va noverato tra le poche creazioni felici del medio evo.

Ritornando al mio argomento e toccando delle arti accessorie all’architettura, io non sosterrò che tutti i be’ mosaici siciliani del duodecimo secolo sien opera della schiatta musulmana. I soggetti cristiani delle immagini poteano esser comandati anco a Musulmani; ma i tipi immutabili della Chiesa bizantina copiati fedelmente, il disegno, i colori, le epigrafi in greco, rivelan la mano di artisti di quella schiatta, sia che fossero venuti apposta da Levante, come quei che avea testè chiamati l’abate Desiderio a Monte Cassino, sia degli indigeni di Sicilia e della Bassa Italia. Nè ripugno al supposto che uomini nati di schiatte italiche nell’una o nell’altra regione abbian presa parte al lavoro e lasciatovi per segno le epigrafi latine. Non escluderò nè anco gli Arabi, quando Edrîsi, nel paragrafo della cattedrale di Cordova testè citato,[1286] disse che nè Musulmani nè Rum avean mai fatti mosaici più belli. Oramai non si può allegare, e reggerebbe poco nel caso nostro, il supposto orrore d’ogni fedel musulmano contro le immagini d’uomini o d’animali: contuttociò egli è probabile che i Musulmani, più tosto che alle istorie bibliche ed alle rappresentazioni de’ santi, abbiano lavorato a quello che soleano far più sovente, cioè nelle chiese agli ornamenti e negli edifizii profani alle immagini di fantasia, come quelle della [861] sala terrena della Zisa e della stanza normanna del palazzo reale. Del resto egli è noto che valenti critici hanno studiati i mosaici di Sicilia e li hanno giudicati superiori a que’ contemporanei della nostra Terraferma.[1287]

Accennerò appena alle dipinture su legno che rimangono ne’ cassettoni ottagoni del palco della Cappella Palatina di Palermo, tutti intagliati, divisi da lunghe aguglie capovolte a mo’ di stalattiti, ornati d’oro, d’azzurro, di bianco e d’iscrizioni arabiche. Le dipinture son da riferire alla prima metà del duodecimo secolo, come la più parte de’ cassettoni; sapendosi da scrittori contemporanei che il palco era ornato per l’appunto con que’ disegni e que’ colori, e rimanendovi intatte, la più parte, le iscrizioni arabiche. Ma a quell’altezza arriva poca e trista luce dalle finestre sottoposte, sì che le iscrizioni furono ignote fino al principio di questo secolo, e le figure e i rabeschi dipinti entro i cassettoni non si conoscono altrimenti che per le piccole fotografie fatte due anni addietro a luce riflessa da uno specchio, quand’io mi accinsi a pubblicare le iscrizioni. Nessuno ha osato poi di giudicar le dipinture senza osservarle da presso: onde convien tacerne per ora ed aspettare qualche occasione, che permetta ai conoscitori di studiare a loro bell’agio questi avanzi di un’arte siciliana del duodecimo secolo.[1288]

[862]

Venendo alla scultura, non veggo alcuna ragione di negar ai Musulmani di Sicilia il lavorìo degli ornati in alto e basso rilievo e in particolare de’ capitelli elegantemente scolpiti, che ammiriamo in varii monumenti dell’epoca normanna, massime nel chiostro di Morreale. Perocchè il grande numero e la forma de’ capitelli esclude il supposto che fossero tolti da più antichi edifizii, e, come dicemmo pocanzi trattando de’ mosaici, non regge il vecchio canone che là, dove si veggono effigie, sia da escludere l’origine musulmana. Buoni giudici spassionati hanno notata la eccellenza di così fatta opera di scultura.[1289] De’ fonditori di bronzo abbiamo toccato nel capitolo precedente. Passando dal mestiere a quella che in oggi si chiama propriamente arte, noi non rivendicheremo alla scuola musulmana le due porte di bronzo del Duomo di Morreale, contemporanee e pur di stile molto diverso, nell’una delle quali si legge il nome di Bonanno da Pisa, nell’altra quel di Barisano da Trani.[1290] Pure la [863] imitazione degli ornati arabi è notabile in alcuni compartimenti della porta di Bonanno: e più assidua, dico anzi servile, si scorge in un lavoro anteriore almen di ottant’anni, cioè le porte di bronzo della camera sepolcrale di Boemondo a Canosa, ch’erano una volta ageminate in argento. Nelle quali non solamente i fregi e il campo son tutti arabeschi finissimi e complicati, ma l’artista perfin copiò delle lettere cufiche nei tre cerchi che occupano il campo del battente sinistro; talchè si direbbe opera orientale, se non vi si leggessero allato in latino le lodi di Boemondo e se la soscrizione, parimente latina, non portasse il nome di Ruggiero campanaio di Amalfi, autore delle porte e d’un candelabro.[1291] Possiam noi supporre questo Ruggiero musulmano di Sicilia, battezzato col nome del padrone normanno che l’emancipò; [864] possiamo supporre che, nato in Amalfi, avesse appresa l’arte, com’altri suoi concittadini ed altri Italiani, in Costantinopoli, oppure in Sicilia o nel Levante musulmano; ch’egli avesse gittato il bronzo ed altri disegnati i modelli: ma in nessun caso è dubbia la scuola, alla quale appartiene questo lavoro. A ciò s’aggiunga che i Musulmani di quella età, con opera diversa e assai meno agevole, fabbricavan porte di ferro istoriate a figure di animali. Noi lo sappiamo precisamente delle porte di Mehdia,[1292] della qual città si è visto ch’ebbe fin dalla sua fondazione strette relazioni con la Sicilia. E non sembra inverosimile che fossero state della stessa fattura le porte di ferro che Roberto Guiscardo riportò di Palermo in Troja di Puglia, insieme con varie colonne e capitelli di pregio:[1293] il qual fatto spiana la via all’ipotesi che artisti musulmani di Palermo abbiano partecipato al disegno dei lavori di bronzo gittati un secolo appresso pel Duomo di Morreale.

Ma ritornando alle costruzioni dopo il lungo discorso su le arti ausiliari, ci occorre un ramo d’ingegnerìa assai coltivato in Palermo, per l’abbondanza delle acque che sgorgano alle radici de’ monti vicini. Il biasimo che fa Ibn-Haukal a’ Palermitani, perchè la più parte bevesser acqua di pozzo, ci ha [865] condotti, contro l’opinion comune, a conchiudere che la vasta ramificazione di acquedotti e condotti minori, che in oggi recano l’acqua infino a’ piani più elevati delle case, non si dovesse riferire alla dominazione musulmana. Ma da un altro canto quel congegno non può esser nato dopo il duodecimo secolo. Arabica è la voce giarra, che designa in Sicilia una parte principale del sistema, cioè i pilastri, ne’ quali si fa montar di tratto in tratto l’acqua per lasciarla ricadere giù e renderle in parte la forza perduta nel cammino: le quali costruzioni furono usate allo stesso effetto in Ispagna e lo sono tuttora nell’Affrica settentrionale.[1294] Che se il vocabolo catusu, il quale in Sicilia vuol dire doccia di terra cotta, ha etimologia greca e latina, noi veggiamo che gli Arabi, toltolo in prestito, come tanti altri vocaboli, da’ popoli civili, mutarono alquanto il significato da “urna o brocca” in “secchia,” e in Occidente vi aggiunsero il significato di “condotto o doccia;” onde questa voce siciliana si deve immediatamente agli Arabi.[1295] Infine è arabica di [866] pianta la voce darbu, misura d’acqua corrente, usata fino ai nostri giorni in Palermo e scritta in un diploma arabico del duodecimo secolo.[1296]

Dalle cose passando agli uomini, sarebbe da investigare per lo primo quali avanzi di sangue arabo e berbero fossero rimasi negli odierni Siciliani. A tal quesito parmi non sappia rispondere l’anatomia nè la fisiologia, dopo sette secoli, nel corso de’ quali la schiatta italica, di gran lunga predominante, ha avuto agio di assorbire ogni altra. E là dove mancano i rigorosi metodi scientifici, dobbiamo diffidare delle apparenze, delle opinioni preconcette, delle osservazioni parziali e de’ subiti giudizii. Per la medesima ragione mettiamo da canto le conghietture che suggerisce qua e là una diversa sembianza e indole degli uomini in qualche regione o città dell’isola, e ci ristringiamo ai fatti storici e linguistici.[1297]

[867]

Abbiamo notate a lor luogo le crisi della popolazione musulmana. La quale, oltre le stragi della guerra e delle proscrizioni, scemò per la emigrazione in Affrica, incominciata il millesessantotto e non cessata al certo fino al compimento del conquisto; cresciuta dopo breve sosta, pei supplizii del cencinquantatrè, e per le stragi del censessantuno; continuata pian piano sotto Guglielmo il Buono; accelerata dalle sedizioni del centottantanove, e dai terrori del cennovantanove, fino alle ribellioni del dugenventuno e dugenquarantatrè, per le quali, altri si rifuggì in Affrica o in Egitto, ed altri cercò scampo nella religione de’ vincitori; mentre il grosso de’ ribelli era deportato in Puglia e scompariva, tra per apostasia e per emigrazione, ne’ principii del secolo decimoquarto. Verosimil sembra che, in tutte queste vicende, la più parte degli usciti fossero oriundi di schiatte straniere, più tosto che antichi abitatori dell’isola. In tale opinione mi conferma il fatto che i Saraceni di Lucera parlavano, o per lo meno intendean bene, l’italiano;[1298] il che conviene per l’appunto alla popolazione rurale sottomessa dai Musulmani e lasciata sotto il giogo dai Normanni, nelle platee dei [868] quali ci occorrono tanti villani musulmani di origine italica o greca.[1299] Ma dopo la seconda deportazione in Puglia scomparisce nell’isola, sì come abbiam detto di sopra, ogni notizia di abitatori musulmani;[1300] si veggono famiglie siciliane in Egitto e in Affrica;[1301] il linguaggio arabico si spegne d’un subito in Palermo stessa: sì che ne avanza appena, nella seconda metà del decimoterzo secolo, una soscrizione in atto pubblico[1302] e il ricordo di traduttori dall’arabico in latino, tra i quali veggiamo degli Israeliti.[1303] Mancano [869] in Sicilia nella stessa generazione le iscrizioni sepolcrali arabiche:[1304] e se i nomi di città, villaggi e grandi tenute duran la prova del mutato linguaggio, quei delle strade in città e de’ piccoli poderi cambiano o si corrompono,[1305] sì che pochi ne avanzan [870] oggi.[1306] Potrebbe supporsi, in vero, da’ capitoli di Federigo l’Aragonese, che fosse rimaso qualche avanzo di popolazione musulmana infino alla prima metà del secolo decimoquarto;[1307] ma quando si riflette al silenzio di [871] ogni altra memoria per sessant’anni, sembra più verosimile che quelle leggi abbian avuto di mira i mercatanti musulmani stanziati o passeggieri nelle città marittime, e gli schiavi recati dalla costiera d’Affrica, e soprattutto dall’isola delle Gerbe, dopo il milledugentottantaquattro.[1308]

La somma de’ ricordi storici dunque è, che nei primi del trecento rimanea nella Sicilia propriamente detta poco o punto di quelle schiatte orientali ed affricane. Delle isole adiacenti, al contrario, Pantellaria, secondo l’attestato degli scrittori musulmani del decimoterzo secolo,[1309] non avea mutata schiatta nè religione, se non ch’era soggetta ai re di Sicilia, e che poi fu occupata temporaneamente da avventurieri genovesi; ma fino al decimosesto secolo, ancorchè gli abitatori professassero già il Cristianesimo, “avean comune co’ Saraceni l’abito e la favella,” al dir del Fazzello.[1310] Non sappiamo se in Malta la dominazione romana abbia spento del tutto il linguaggio punico, nè se v’abbiano fatto stanza, come a me par verosimile,[1311] degli antichi abitatori insieme coi Musulmani che se ne insignorirono e furono soggiogati a lor volta dal conte Ruggiero. Il quale, avendo istituito immantinente un vescovado, non cade in [872] dubbio che soggiornassero allora in Malta de’ Cristiani, e sembra assai verosimile che la schiatta italiana fosse penetrata o piuttosto cresciuta con la dominazione siciliana in quell’isola.[1312] Meglio che co’ barlumi delle croniche, la mescolanza della schiatta si prova con l’idioma maltese, il cui dizionario e, quel ch’è più, la grammatica, è mezzo italiano e mezzo arabo; onde gli abitatori, senza avere appresa mai altra lingua, agevolmente conversano coi Barbareschi.[1313]

Qual dialetto dell’idioma arabico abbiano usato i Musulmani di Sicilia non è agevol cosa a determinare, quando del parlar volgare altro non resta che un oscuro esempio in tre diplomi del duodecimo secolo,[1314] ed al contrario gli altri documenti son dettati nell’inelegante, ma corretto stile degli atti pubblici;[1315] [873] nè le opere de’ poeti e de’ prosatori disconvengono alla lingua dotta di quell’età. Il significato preso da alcuni vocaboli conferma bensì il plausibile supposto che fosse prevalso in Sicilia l’arabo occidentale o maghrebino che voglia dirsi: e meglio si farà il paragone quando uscirà alla luce il gran dizionario maghrebino che apparecchia il Dozy. Per dar qualche esempio noteremo che wed in Sicilia, come in Spagna, suonò “fiume,” non “valle,” come nella patria della lingua; che marg, passando nel dialetto siciliano, piegò la significazione originale di “prato” in quella di “padule;” che rahl, “stazione,” designò in Sicilia assolutamente un “casale;” sciarr, “mala opera,” si ristrinse a “rissa:” e molte altre differenze di tal fatta potremmo notare riscontrando i dizionarii classici, sia che le voci abbiano veramente mutato di valore, sia che i lessicografi, come lor avviene in tutte le lingue, abbiano ignorati molti significati ammessi in alcune regioni e presso alcune tribù.

Meno male possiam noi discorrere della pronunzia, della quale ci fanno testimonianza, fin dall’undecimo e duodecimo secolo, moltissimi nomi proprii trascritti in greco o in latino, e la sentiamo ancora nei nomi topografici e ne’ vocaboli siciliani derivati dall’arabico; se non che nel primo caso avvien talvolta che il mal noto s’abbia a spiegare con l’ignoto, e nelle parole viventi il suono può essere alterato. [874] Aggiungasi che in uno de’ diplomi di maggior momento, dico la gran pergamena arabo-latina di Morreale, la versione è opera di un chierico francese, di que’ che trassero a corte di Palermo ne’ primi anni di Guglielmo il Buono; onde alcune lettere latine notan suono diverso da quel che rendono in bocca nostra.[1316] Contuttociò la materia non manca. Uscito che sia alla luce l’egregio lavoro del professor Cusa intorno i diplomi arabi e greci di Sicilia, si ricaveranno con maggiore certezza le leggi che i suoni del parlare arabico seguivano passando nel greco e nel volgare della Sicilia: il quale studio renderà più agevole il gran lavoro d’un glossario di vocaboli siciliani derivati dall’arabico. Intanto ecco quanto ritraggo dalle ricerche fatte fin qui intorno l’influenza che quell’idioma esercitò sul volgare siciliano.

Com’io ho detto a suo luogo,[1317] la Sicilia, al punto del conquisto musulmano, era bilingue, parlandovisi il greco e il latino, o per dir meglio un idioma italico, il quale negli atti pubblici vestiva i panni del latino e pur non gli riusciva di celare al tutto le umili sembianze native. A provar ciò mancano per vero in Sicilia delle scritture del settecento, ottocento e novecento, come quelle che abbiamo in varii luoghi della Penisola;[1318] ma nei primi diplomi latini, [875] greci ed arabi di Sicilia che tornano allo scorcio dell’undecimo secolo, è manifesta la forma volgare di alcuni nomi proprii o topografici, che non erano nati al certo in quella medesima generazione. Tra i primi abbiam già notati Bambace, Diosallo, Mesciti, Notari, La Luce, Saputi, Caru, Francu, Fartutto, Pacione, Pitittu, Strambo ed altri di antichi abitatori.[1319] De’ secondi, un diploma greco del milleottantotto ricorda il fiume dei Torti;[1320] uno del millenovantaquattro conduce i confini d’un podere ad serram dello Conte e quindi ad petram serratam quae vocatur La Castellana;[1321] uno del millecento cita La Schala di Lampheri e il monte de Cavallo, ed accenna al corso di una valle per ostro sive Xirocco.[1322] Il latino notarile del medio evo, che torna ordinariamente a traduzione mentale dal volgare, comparisce già in un diploma del conte Ruggiero dato il millenovantuno, nel quale, oltre il fraseggiare tutto italiano, ci occorre verbo accrescere:[1323] e più apertamente si mostra in un altro diploma dello stesso principe, datato del millenovantatrè e contrassegnato dal suo notaio, o, diremmo noi, segretario, Antonio della Mensa, il quale se fosse siciliano o calabrese io non so, ma di certo scriveva in una lingua [876] ch’egli credea latina in grazia delle sole desinenze e di qualche preposizione.[1324]

A cotesti avanzi del siciliano anteriore al conquisto, ne aggiugnerò altri del duodecimo secolo. Non dimenticando che in quella età la Sicilia s’empiva a poco a poco di colonie della Terraferma, io metto da canto l’attestato del bando latino di Patti (1133) spiegato in volgare,[1325] e lascio indietro molti altri esempii di vocaboli che si potrebbero riferire tanto al siciliano, quanto al pugliese, al toscano, al genovese, al monferrino o che so io,[1326] e noto in un [877] diploma del millecentrentatrè il campo Lu Marge,[1327] ch’è bello e buono vocabolo arabico, vivente oggidì in Sicilia. Ci occorrono in un’altra carta i nomi topografici Luhrostico e Tremula,[1328] de’ quali il secondo è certamente siciliano; in un’altra del cencinquantasei, il sostantivo Olivastro;[1329] nel centottantadue Scuteri;[1330] nel dugenventisei Gabbaturi;[1331] nel dugenquaranta Ienchi e Ceramiti.[1332] E qui fo sosta, poichè non mette conto a spigolare qua e là dei vocaboli nel decimoterzo secolo, che ci ha lasciati degli scritti [878] interi in siciliano. Anzi mi sarei già fermato alla metà del duodecimo, se avessi potuto credere contemporanei all’originale i transunti di due carte greche pubblicate per lo primo dal Morso;[1333] delle quali l’una è data il millecencinquantatrè, e l’altra, che ha soltanto la indizione, è stata ben collocata nel millecenquarantatrè.[1334] Ma non avendo esaminati i testi, e sorgendo gravi difficoltà su l’epoca de’ transunti, mi convien rinunziare a prova sì comoda e lesta.[1335] In ogni modo son persuaso che il volgare siciliano avea già presa nel duodecimo secolo una forma assai somigliante all’attuale: e che già aspirasse a divenir lingua cortigiana lo provano le prime poesie [879] italiane dettate in Sicilia. Le leggende della maggiore porta del Duomo di Morreale, gittata in bronzo da Bonanno pisano, sendo latine con abbreviature e con qualche parola prettamente toscana, non danno esempio, a creder mio, del linguaggio parlato in Sicilia allo scorcio del duodecimo secolo;[1336] dimostrano piuttosto, che l’uso della corte di Palermo rincorava gl’Italiani delle altre province a farsi innanzi con lor volgari, somiglianti l’uno all’altro e tutti al latino. E mi pare molto verosimile che in quel primo assetto delle colonie continentali in Sicilia fossero stati più disformi l’un dell’altro i dialetti di varie regioni dell’isola, i quali ritengono fino ai nostri giorni tanti vocaboli e modi di dire diversi.

La robusta pianta del parlare italico resistè meglio che ogni altra lingua all’invasione dell’arabico. Dalla Siria, dalla Mesopotamia, dall’Egitto, scomparvero gli antichi idiomi entro breve tempo dal conquisto degli Arabi, rimanendo nella sola liturgia cristiana; dileguaronsi in un baleno nell’Affrica settentrionale, insieme con la religione, gli idiomi trapiantati ne’ tempi istorici; perfin l’aspro berbero autoctono fu respinto dal parlare arabico verso mezzodì e verso [880] ponente. Ma in Spagna l’esotico latino cedè poco terreno e ripigliò tosto il perduto, serbando inviolata la grammatica. La qual diversa fortuna, se va apposta precipuamente ad altre cagioni, come sarebbero la distanza dall’Arabia, il numero de’ conquistatori stanziali e la durata del dominio loro, pure è da riferire in parte all’indole della lingua e al gran tesoro di civiltà che Roma avea profuso in Occidente insieme con quella. Le cagioni della corruzione dovean operare in Sicilia più debolmente assai che in Spagna; ed a quelle dovean anco resistere i Siciliani per la remotissima antichità di lor idioma italico e per la parentela di esso col greco, che gli avea disputata l’isola fin dall’ottavo secolo avanti l’èra volgare.

L’arabico pertanto ha lasciati nel parlare siciliano minori vestigi che non si creda comunemente: veruno nella grammatica,[1337] un’ombra nella pronunzia, poche centinaia di vocaboli nel dizionario, e qualche modo di dire. Io non posso entrare ne’ particolari, poichè richiederebbero il glossario accennato dianzi, il quale alla sua volta dovrebbe fondarsi sopra un dizionario etimologico, che niuno fin qui ha compilato con gli aiuti della linguistica moderna. Dirò dunque per sommi capi, che ne’ derivati siciliani l’accento rimane quasi sempre al posto [881] dov’è ne’ vocaboli arabi corrispondenti, sia che la vocale si prolunghi nella lettera analoga, sia che le s’attacchi la consonante che segue. Delle tre vocali arabiche, la prima suona in siciliano or a, or e; la seconda sempre i; e la terza quasi sempre u. Delle consonanti la b (2ª lettera dell’alfabeto arabico) rimane per lo più inalterata come in “balata, burgiu, burnìa;” talvolta, soggiacendo alla legge della pronunzia greca, si muta in v come nelle voci “vava, vattali.” La th (4ª lettera) divien sempre t come in “Butera, tumminu.” La g (5ª lettera) serba il suono, come in “giarra, giubba,” o l’addolcisce in c, come Muncibeddu, e raddoppiata nel vocabolo hâggem, suona alla greca ng nel casato “Cangemi:” ma la voce “zubbiu” (fosso profondo) è esempio della permutazione in z, che il Dozy ha notata in molte voci spagnuole. L’h (6ª lettera) si aggrava in c, come nel detto nome Cangemi e in “coma, camiari,” o sparisce, per esempio nel nome topografico Mars-el-Hamâm, divenuto Marzamemi. Similmente la kha (7ª lettera) si muta in g, per esempio “Gausa, gasena,” e può quasi scomparire come in “maasenu” (magazzino). La d araba (8ª lettera), ch’era molto vicina al t, come si vede in tanti esempii di vocaboli tolti dal greco, s’identificò alcuna volta con la d nostra come in “darbu, Dittainu” (Wadi-t-Tîn), o mutossi in t come in “Targia, tarzanà (Dar-es-sena’h, darsena, arzanà, arsenale). La ds (9ª lettera) non occorre in derivati certi; la z (11ª lettera) ha il suono italiano in “Zisa, zizzu,” o prende quello della s, come in “magasenu” citato dianzi. Al contrario, la [882] s (12ª lettera) inalterata in “Sutera, senia,” si muta in z nelle voci “zicca, zuccu (suk, tronco d’albero), zotta” (frusta). Frequentissima nei derivati dell’arabico, la sc (13ª lettera) rende il suono arabico in “Sciacca, sciabica,” che un tempo si scriveano con la x. L’altra s (14ª lettera), che c’è già occorsa in “darsena,” fa ora s, ora z, e suona aspra di molto in “zabara” e “zurriari” (stridere de’ denti). Come la d, la dh (15ª lettera) fa d nel siciliano “dagala, dica” (ambascia), e diviene t in “reticu,” derivato da radhi’ (bambino lattante). La z (17ª lettera), che altri trascrive dh, par abbia preso l’uno e l’altro suono in Sicilia, rimanendo l’attestato del secondo nell’antico vocabolo “annadarari” (invigilare su i pesi e le misure) e argomentandosi il primo dal nome topografico “Zaèra,” del quale diremo più innanzi. L’ain (18ª lettera dell’alfabeto), sola tra le arabe che non si possa rendere con l’alfabeto romano e però notata dagli orientalisti con un’apostrofe, mi par si pronunzii arabicamente da’ Siciliani in un verbo d’uso frequentissimo.[1338] E suona cotesta lettera nell’accento di “tarzanà,”[1339] citato or ora; ovvero si muta in consonante italiana, come nello allegato esempio di reticu; al che risponde la trascrizione dell’ain seguita ne’ diplomi arabo-greci di [883] Sicilia, ne’ quali quella consonante, o si perde nella vocale, come in Ὀθουμέν e in Ἄβδ (’Othman, ’Abd), o la si muta in γ, per esempio in Νίγμε, Σεγίτ, (Ni’ma, Sa’îd); ed altri nel duodecimo secolo tentò di notarla con l’h, come poi fece nel decimosesto Leone affricano, poichè leggiamo in un diploma il nome di Habes, invece di (Wed-)’Abbâs, ch’era l’Oreto. Il gh (19ª lettera) o rimane g forte come in “gana,” o si muta anche in c come in “Cutranu,” che si scrive, e forse un tempo si pronunziò, “Godrano.” La k (21ª lettera) suona in Sicilia c, come in “Calata, cammisa, coffa;” ma par abbia avuto un tempo anco il suono della g che le danno gli Egiziani, poichè leggiamo “caitus,” e “gaitus” negli scritti latini del duodecimo. Nè altrimenti l’altra k (22ª lettera) che ricorre in “gaffa, mingara, cuscusu” e nell’avverbio “a cuncumeddu.” E quando il parlare arabico si sparse in Sicilia, la pertinace d che i Sardi e i Siciliani sostituiscono alla l della nostra Terraferma, si trovava radicata sì profondamente, che trasformò anco la l (23ª lettera arabica) in alcuni vocaboli tolti dall’arabico, come gebel in Mongibello, pronunziato “Muncibeddu” e il verbo “sciddicari” (sdrucciolare), che viene da zeleg e zelek. L’ultima h (26ª lettera), al par che le sue sorelle, si rende talvolta con una g, come in “zagara;” talvolta svanisce, poichè altri pronunzia lo stesso vocabolo “zaara:” ed abbiamo in Zaèra, nome d’un sobborgo di Messina, un altro esempio di questa attenuazion di suono; ma l’origine arabica non si può dimostrare, se non con l’omonimo palagio degli Omeiadi in Cordova. Il w (27ª [884] lettera) suona v come in “Favara;” ma, se iniziale, par sia stato pronunziato u, ovvero o, come “Odesuer” (Wadi-es-Sewâri), ed anche sia scomparso al tutto come supposto articolo, il che si argomenta da Dittaino (Wadi-el-Tîn), che un tempo suonò di certo “Udittain.” Le altre lettere t, r, t, f, m, n, j (3, 10, 16, 20, 24, 25, 28 dell’alfabeto) non hanno suono diverso dall’italiano, nè mutan mai.

Chi compilerà il glossario delle voci arabiche passate nella nostra lingua illustre e nei dialetti,[1340] dovrà resistere a tentazioni frequenti; poichè i suoni dell’arabo sono sì svariati e il dizionario sì prodigiosamente ricco, che col metodo de’ vecchi etimologisti, la cui schiatta non è spenta del tutto, si potrebbe rannodare all’arabo ogni vocabolo dell’italiano e di altre lingue ancora. Da un’altra mano, le leggi fonetiche ricavate fin qui non imperano assolutamente in tutti i tempi e i luoghi; e chi non ammettesse eccezioni e talvolta non osasse scostarsi dal fil della [885] sinopia, non avanzerebbe mai in un lavoro etimologico. Ho voluto dir questo per iscusarmi se non presento qui una lista de’ vocaboli siciliani che sono evidentemente, o mi sembrano, derivati dall’arabico; e se differisco ad altro tempo, o rimetto a’ posteri, un lavoro che richiede anzi tutto più diligente ricerca de’ vocaboli siciliani per ogni luogo dell’isola e, in quanto si possa, per ogni tempo. Perocchè leggendo nel dizionario del Pasqualino le voci disusate al suo tempo, le quali ei prese da antichi glossarii, ne veggo bandite di tempo in tempo molte di vero conio arabico. Ed è ben ragione che l’elemento straniero si elimini a poco a poco: ma questo fatto per lo appunto va notato in una esamina storica della lingua.

Rimanendo sempre su i generali, dirò che i vocaboli siciliani di origine arabica si riferiscono la più parte alle cose rurali, alle industrie cittadinesche, alle vestimenta, ai cibi, ed a qualche istituzione di polizia urbana. Come nello spagnuolo e nel portoghese che ne son ricchi, così nel siciliano che n’è povero, occorrono voci arabiche, assai più sovente ne’ sostantivi che negli aggettivi: ed al contrario i verbi, scarsi in quelle due lingue al segno che si è dubitato se alcuno se ne trovasse,[1341] non mancano nel siciliano.[1342] Sono da notar anco de’ [886] traslati o modi di dire tradotti litteralmente dall’arabico;[1343] e come per contrapposto i proverbi arabi si contano a dito nelle raccolte de’ siciliani.

Non voglio pretermettere che buon numero dei vocaboli arabi passati nel siciliano si trova anco nella lingua illustre; anzi che occorrono in questa e in qualche altro dialetto delle voci arabiche ignote in Sicilia, per esempio nel genovese, camâlo, mésaro, macrama; in Arezzo cáida;[1344] a Pisa un tempo calega;[1345] in Liguria e in Toscana, maona o magona[1346] [887] e nella lingua illustre acciacco, azzurro, butteri, carciofo, collare (per salpare), petronciana, scialbo, tarsia. Altri son comuni al siciliano: ammiraglio, barda (siciliano varda), camicia (siciliano più correttamente cammisa), canfora, cifra e zero (trascrizioni diverse dello stesso vocabolo), dogana, gabella, garbo, gelsomino, fondaco, liuto, magazzino, sensale, tariffa, vasca: oltrechè i termini scientifici, come alambicco, alcali, almanacco, giulebbe, taccuino, zenit, corrono nella più parte delle lingue viventi d’Europa. La Terraferma d’Italia, di certo, li ebbe or dalla Sicilia, or dalla Spagna, or direttamente dalle costiere meridionali del Mediteraneo.

Senza disputare altrimenti delle origini del parlare siciliano, su le quali hanno lavorato e lavorano ancora i letterati dell’isola,[1347] e senza gittarmi nella [888] mischia che ferve intorno a Ciullo d’Alcamo,[1348] io ammetto che verso la metà del duodecimo secolo il siciliano parlavasi tanto o quanto in tutta l’isola e tendeva alla forma attuale, senza essere giunto però, non dico già alla mèta, chè le lingue vive non si congelano, ma a quel tratto del corso che soglion varcare quetamente senza notabili alterazioni. Così dovea succedere per la presenza delle colonie testè venute da varie parti della Terraferma, unite da commerci tra loro e molto più strettamente col grosso dell’antica popolazione di linguaggio italico, o, per dir meglio, siciliano. Nella quale condizione di cose dovea nascere un idioma cortigiano o legionario che chiamar si voglia, non altrimenti che quello che s’ode da dieci anni in qua nel nostro esercito; e quel parlare dovea, con l’andar del tempo, sempre più accostarsi al dialetto indigeno, prendendone molto più che non gli desse.

Da cotesta vena di linguaggio, torbida ancora per la sospensione delle parti che duravano fatica a compenetrarvisi, emerse la poesia italiana propriamente detta. Se ciò sia avvenuto alla metà del duodecimo secolo o nei principii del seguente non si potrà sapere per l’appunto, se il caso non ci farà trovar prove più chiare di quelle allegate fin qui. Ma parendo assai verosimile che il linguaggio più comune a corte di Federigo imperatore, de’ Guglielmi e fors’anco di re Ruggiero, sia [889] stato un dialetto italiano, e concorrendovi la espressa testimonianza di Dante, per non citare tutti gli altri, possiamo tener certo il fatto. E per vero nessun altro luogo d’Italia si può immaginare più adatto che la Sicilia al nascimento delle muse italiane. Lo studio della poesia araba, approfondito da mezzo secolo in qua, ha dissipati gli errori di chi la credea madre della poesia spagnuola, provenzale ed italiana. Nè la ragion poetica, nè la macchina, nè la rima delle poesie neolatine può riferirsi in alcun modo alle arabiche. La moda sola, credo io, delle splendide corti musulmane della Spagna fece entrare ne’ castelli cristiani dell’Occidente, insieme con altri argomenti di lusso, il sollazzo di ascoltare poesie in lingua volgare del paese: i premii e gli onori incoraggiarono i poeti nazionali a recitare nelle brigate principesche i versi che si sentiano per lo innanzi negli oscuri crocchi delle città e delle campagne; talchè la poesia volgare, meglio che nata, si dee dir emancipata e nobilitata in quel tempo. Lo stesso è da supporre nella corte musulmana dei re normanni e svevi di Sicilia; a’ quali forse avvenne d’ascoltare lo stesso giorno de’ poeti arabi e de’ poeti siciliani e di largire agli uni come agli altri una manata di tarì d’oro. Solo legame tra le poesie neolatine e le arabiche mi sembrano i metri delle mowascehe e de’ zegel, dei quali ho fatta parola nel capitolo undecimo di questo libro.[1349] Io spero che nuove ricerche in tal campo riescano a rischiarare quel periodo della nostra storia letteraria: ma si può ritenere fin d’ora [890] che la Sicilia debba agli Arabi, e la Terraferma italiana debba alla Sicilia, chè del primato dell’altra grande isola io dubito forte, la inaugurazione della poesia nazionale.

Si possono spigolare qua e là altri bricioli del patrimonio che la popolazione musulmana legò alla Sicilia. Il nome arabico di Sciorta o Xurta, com’è scritto nei Capitoli de re Aragonesi di Sicilia,[1350] prova come l’istituzione d’una guardia cittadina, che vegliasse alla pubblica sicurezza nelle città, risaliva fino alla dominazione musulmana. Venìa da quella parimente il sistema metrico che fu in uso nell’isola fino alla fondazione del reame d’Italia; chè non solo alcuni nomi delle misure d’acque correnti, da noi citati già in questo capitolo, e il verbo stesso testè ricordato che significa la vigilanza della pubblica autorità su’ pesi e le misure di piazza, derivano manifestamente dall’arabico, ma altresì alcune denominazioni in varie parti del sistema: la canna nelle misure lineari;[1351] la salma e il tumolo nelle misure di superficie e nelle cubiche per gli aridi;[1352] il cafiso in quelle de’ liquidi;[1353] il rotolo e il cantaro ne’ pesi.[1354] Che [891] se ne’ multipli e nelle suddivisioni troviamo vocaboli latini, gli è naturale effetto della mescolanza dei popoli e si può supporre che que’ nomi fossero entrati dopo la dominazione musulmana o durante quella. Le denominazioni metriche della Sicilia passarono, com’e’ sembra, nella Bassa Italia quando soggiacque alla dominazione de’ Normanni in Sicilia; e forse alcuna v’era stata recata prima dal commercio, come abbiam provato per le monete.[1355] Il rubbio di Roma, Lombardia, Piemonte e Genova, anch’esso d’origine arabica; il rotolo, ch’era in uso a Genova, sì come a Napoli; il carato, peso usato dagli orafi anche nelle altre province che non ebber colonie musulmane, furono evidentemente recati dal commercio.[1356]

Quando si riflette su la catastrofe delle popolazioni musulmane di Sicilia, seguìta più tosto per fatto delle genti cristiane che del governo, si noterà con minore maraviglia che non sia durata nell’isola alcuna foggia di vestire de’ Musulmani. De’ nomi stessi di quelle fogge pochi sono arabi e questi comuni alla Sicilia ed alla Terraferma.[1357] Altri ha [892] riferito a’ Musulmani i manti neri, di che nel secolo passato e ne’ principii del corrente soleano avvolgersi le donne siciliane andando a messa, ed anche a diporto, i quali non sono scomparsi del tutto in alcuni paesi di Sicilia; ma tal supposto mi sembra fondato piuttosto su l’analogia de’ costumi gelosi, che su la rassomiglianza di quella foggia siciliana a’ camicioni ed a’ veli delle donne musulmane.

Direbbesi che all’incontro i Cristiani di Sicilia avessero prese volentieri da’ loro concittadini circoncisi quelle usanze che soddisfacean meglio alla gola. Più che le vivande, sono rimasi arabi di nome e di fatto in Sicilia i camangiari,[1358] massime i dolciumi, antica manifattura del paese; poichè ritroviamo in Affrica, fin dallo scorcio del nono secolo, delle torte condite con lo zucchero di Sicilia.[1359] Un Ducange arabo, se mai l’avremo, ci spiegherà molti vocaboli [893] di tal fatta che or leggiamo inutilmente nelle istorie e nei racconti; e per tal modo ci svelerà tutte le rassomiglianze de’ buon gustai siciliani con que’ dell’Egitto: gli uni e gli altri grandi consumatori dello zucchero prodotto ne’ due paesi e scambiato assiduamente tra loro infino al decimoquinto secolo, in grazia forse della qualità diversa o delle raffinerie, mantenute in Egitto, mancate presto in Sicilia.[1360] Perocchè nelle descrizioni del prodigioso lusso della corte fatemita, serbateci dal Makrizi, le feste del ramadhan al Cairo, per la quantità e qualità della roba che si mangiava, somigliano perfettamente alla novena del Natale, al Carnovale e alla Pasqua in Palermo. A casa de’ grandi officiali dello Stato, e con maggiore profusione a corte, solean imbandirsi delle figurine e de’ castelli di zucchero e panforti finissimi e varie maniere di paste dolci, delle quali e d’altre vivande più sostanziali, acconciate con vaghi colori, ed ammonticchiate in vassoi d’argento, d’oro e di porcellana della Cina, si facea come una cuccagna.[1361] Allo scorcio del medio evo, e infino a’ nostri tempi, si veggon usati in Egitto de’ canditi simili alla zuccata di Sicilia[1362] ed una specie di gelatina dolce estratta dal [894] pollo pesto:[1363] e la cuccìa di Sicilia, pasta di grano immollato, mescolato con latte, si mangiava e si mangia in Egitto e si chiama ancora kesc.[1364] Perfin si rassomigliano le frasi, con le quali vanno gridando per le strade i venditori di frutte del Cairo e que’ di Palermo.[1365]

Maraviglierà taluno ch’io scenda a tai piccolezze, tenute a vile dagli storici delle passate generazioni, e non tocchi di quella eredità di vizii e di virtù, ch’altri credea lasciata da’ Saraceni al popolo della Sicilia. E sì che talvolta è parso anche a me di scoprirne qualche avanzo, ma poi mi sono accorto della incertezza di così fatte induzioni. Una matura riflessione su l’indole e i costumi de’ Siciliani paragonati a quei degli altri popoli italiani non mostra tal divario che non si possa spiegare con la geografia e con la storia e s’abbia quindi a ricercare negli arcani delle schiatte. Per altro, quando la storia e la lingua ci hanno mostrata identica la massima parte della schiatta, sarebbe temeraria quella critica che s’accignesse a inforsare il fatto con cagioni, le quali è più facile immaginare che provarle. Assai più che l’incerta mescolanza di un fil di sangue straniero, sarebbe da valutare l’esempio de’ costumi che le colonie arabe o berbere abbian [895] lasciato per avventura alle popolazioni della Sicilia occidentale, più pronte in vero alla violenza che quelle della regione di levante: ma anche in questo fatto le cagioni son dubbie e diverse, e chi sa se non v’abbiano operato più che ogni altro le condizioni topografiche e sociali? La sola conchiusione certa è che il conquisto musulmano recò in Sicilia nel nono secolo, e mantennevi fino all’undecimo, uno incivilimento ed una prosperità ignoti allora alle altre regioni italiane, i quali nel duodecimo e per gran parte del decimoterzo rifluirono su la Penisola e contribuirono allo splendore della patria comune.

Compio nella patria unita e libera un lavoro, al quale m’accinsi nell’esilio, trent’anni addietro, mosso da brama irresistibile di guardar nelle tenebre che avvolgeano la Storia di Sicilia avanti i Normanni, ed allettato dall’agevolezza che mi offriano le scuole e le biblioteche di Parigi. Incominciai l’arduo lavoro con animo di siciliano che bramava la libertà d’un piccolo Stato e desiderava l’unione dell’Italia, senza sperarla vicina: lo termino confidando che tutti gli Italiani sempre più si affratellino; che veggano nella unità e nella libertà la salvezza e l’onore di tutti e di ciascuno; che quindi il paese cresca di sapienza, di saviezza, di possanza, di ricchezza, e che la nuova Roma, per ammenda dell’oppressione armata dell’antichità e delle male arti de’ tempi appresso, promuova ormai nel mondo la giusta libertà dell’opera e la illimitata libertà del pensiero.

[897]

INDICE DE’ NOMI DI PERSONE.

(L’articolo el e i vocaboli abu e ibn non contano nell’ordine alfabetico, fuorchè nei capoversi.)

A

Aaroun el-Khams (?), 426.

Abate Arrigo, III, 629.

Abba Mari, III, 708.

’Abbad (Mohammed-ibn), principe di Siviglia, soprannominato Mo’tadhedbillah, II, 501, 502, 523, 544.

Abbadidi, II, 523, 544.

Abbàs, zio di Maometto, 65.

Abbasidi, 65, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 149, 225, 371; II, 50, 97, 111, 112, 114, 118, 120, 133, 150, 182, 240, 255, 281, 457, 458; III, 446, 506, 829.

Abbâs-ibn-Amr (Abu-Fadhl), II, 481.

Abbâs-ibn-Fadhl (Abu Aghlab), 315, 316, 321, 322, 325, 326, 327, 328, 329, 331, 333, 334, 335, 338, 342, 349, 370, 371.

Abda, II, 448.

Abdallah, supposto ammiraglio, 101.

Abdallah, servo di Federigo II, III, 792.

Abd-Allah-ibn-el-Abbâs, 343, 344.

Abd-Allah-ibn-Abd-el-Azîz-ibn-abi-Khorasân, III, 429, 430.

Abd-Allah I (Abu-’l-Abbâs), emir aghlabita, 152, 153, 155, 226, 228; II, 12.

Abd-Allah (Abu-Ali), III, 747.

Abd-Allah-el-Ansari, III, 325.

Abd-Allah-ibn-el-Azîz, III, 423.

Abd-Allah-ibn-Bera, II, 511.

Abd-Allah-ibn-Ghania, III, 520.

Abd-Allah, padre di Giawher, II, 283.

Abd-Allah-ibn-Habib, 175.

Abd-Allah-ibn-Ja’kûb-ibn-Fezara, 353, 385, 386, 388.

Abd-Allah II, ibn-Ibrahim-ibn-Ahmed (Abu-l-Abbâs), emir aghlabita, 52, 53, 58, 59, 64, 65, 66, 67, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 77, 124, 125, 126, 127, 128.

Abd-Allah-ibn-Iehia-ibn-Hammûd, Hazimi (Abu-Mohammed), XLIII; II, 522.

Abd-Allah-ibn-Iehia, da Sciakatis, XLV.

Abd-Allah-ibn-Kaddâh, II, 118; corr. el-Kaddâh e v. Abd-Allah-ibn-Meimûn.

Abd-Allah-ibn-Kais, 84, 86, 98, 99, 100.

Abd-Allah-ibn-Khorasân, III, 428.

Abd-Allah-ibn-abi-Malek-Mo’sîb, II, 512, 542.

Abd-Allah-ibn-Meimûn, detto el-Kaddâh, II, 114, 115, 116, 118.

Abd-Allah-ibn-Mekhlûf (Abu-Mohammed), II, 541.

Abd-Allah-ibn-Menkût, II, 420, 425, 504, 505, 547; III, 308.

Abd-Allah-ibn-Mo’ezz-ibn-Badis, II, 377, 378, 385, 387, 388, 390, 391, 396, 418, 419, 421, 424, 426; III, 79.

Abd-Allah-ibn-Mohammed, emir Kelbita, II, 331.

Abd-Allah-ibn-Mohammed-ibn-Abd-Allah (Abu-l-Abbâs), emir di Sicilia, 391.

Abd-Allah-ibn-Mohammed-ibn-Ibrahim-ibn-Aghlab, 392.

Abd-Allah-ibn-Mohammed, el-Maleki, (Abu-Bekr), XLII.

Abd-Allah, signore di Murcia, III, 704.

Abd-Allah-ibn-Musa, 124, 169.

Abd-Allah, Othmani, XLIII.

Abd-Allah-ibn-Saba, II, 106.

Abd-Allah-ibn-Sa’d, 88, 92, 93, 109, 206; III, 831.

Abd-Allah-es-Saffâh, 141.

Abd-Allah-ibn-Sâigh, II, 142.

Abd-Allah-ibn-Selmân (Abu-l-Kasim), II, 538.

Abd-Allah-ibn-Sementi, III, 685.

Abd-Allah-ibn-Sofian, 352.

Abd-Allah-ibn-Tâher, 163.

Abd-Allah, Tonûkhi, II, 335.

Abd-Allah-ibn-Ziâd-ibn-An’am, 106, 173.

Abd-Allah-ibn-Zobeir, 109, 110, 119.

Abdelali, II, 434.

Abd-el-Azîz-ibn-Ahmed (Abu-Fares), XLVIII.

Abd-el-Azîz-Bellanobi, II, 541; III, 628.

[898]

Abd-el-Azîz-ibn-Hâkem — ibn-Omar (Abu-Mohammed), II, 541.

Abd-el-Azîz-ibn-Hosein, III, 766.

Abd-el-Azîz-ibn-Sceddâd-ibn-Tamîm (Abu-Mohammed), soprannominato ’Izz-ed-dîn, v. Ibn-Sceddâd.

Abdelbach (corr. Abd-el-Hakk), 436.

Abd-el-Gebbâr-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Sirîn, II, 516.

Abd-el-Gebbâr-ibn-Mohammed-ibn-Hamdîs, XLIII, LV; 406, II, 308, 517, 519, 525, 526, 527, 528, 530, 532, 533, 534, 543, 544, 547; III, 367, 368, 371, 377, 381, 384, 386.

Abdelguaiti, III, 264.

Abd-el-Hakk, 436.

Abd-el-Hakk-ibn-Alennas, III, 490.

Abd-el-Hakk-ibn-Harûn (Abu-Mohammed), II, 478, 487.

Abd-el-Hakk-ibn-Sab’in, III, 702, 703, 704, 705.

Abd-el-Halîm-ibn-Abd-er-Wâhid, III, 763, 764.

Abd-el-Hamîd-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Scio’aîb, II, 453.

Abd-el-Kerîm-ibn-Iehia-ibn-Othmân, III, 735.

Abd-el-Kerîm (Abu-Mohammed), II, 463.

Abd-el-Melik, califo, 133, 166; III, 837.

Abd-el-Melik, condottiero, 387.

Abd-el-Melik, gaito, III, 256.

Abd-el-Melik-ibn-Katân, 166, 172.

Abd-el-Melik-en-Nasiâni, III, 796.

Abd-el-Mumen, III, 236, 377, 379, 422, 423, 424, 429, 473, 475, 476, 477, 478, 479, 480, 481, 482, 483, 484, 486, 489, 490, 496, 622, 623.

Abd-er-Rahîm-ibn-Mohammed-ibn-Nobâla, II, 513.

Abd-er-Rahman-ibn-Abi-l-Abbâs, da Trapani, III, 450, 462, 756.

Abd-er-Rahman-ibn-Abd-Allah-ibn-Zeidûn, el-Karawi (Abu-Tâher), III, 214.

Abd-er-Rahman-ibn-Abd-el-Aziz, III, 363, 387.

Abd-er-Rahman-ibn-Abd-el-Ghanî (Abu-l-Kâsim), II, 477, 494, 540.

Abd-er-Rahmân-ibn-Abi-Bekr-ibn-’Auk-ibn-Khelef, detto Ibn-Fehhâm, II, 474, 476, 488, 511, 540.

Abd-er-Rahman, da Butera, III, 462.

Abd-er-Rahman-ibn-Francu, III, 206.

Abd-er-Rahman-ibn-Habib-ibn-abi-Obeida-el-Fihri, 174, 175; III, 6.

Abd-er-Rahman-ibn-Habib-es-Sikilli (es-Saklabi), 144.

Abd-er-Rahman-ibn-el-Hâkem, califo di Spagna, 462.

Abd-er-Rahman-ibn-Hasan, detto Mostakhles-ed-dawla, II, 537.

Abd-er-Rahman-el-Lewâti, III, 256.

Abd-er-Rahman-ibn-Lûlû, soprannominato Sceikh-ed-dawla, II, 427, 539.

Abd-er-Rahman-ibn-Mohammed (Abu-Mohammed), il Siciliano, XLIV; II, 495.

Abd-er-Rahman-ibn-Mohammed-ibn-Omar, III, 754, 760.

Abd-er-Rahman-en-Naser-Iidin-illah, II, 219, 249, 250; III, 830.

Abd-er-Rahman-en-Nasrani, v. Cristodulo, III, 362, 363, 364, 381, 383.

Abd-er-Rahman-ibn-Omar-ibn....-el-Lewâti, II, 37.

Abd-er-Rahman-ibn-Ramadhan, di Malta (Abu-l-Kasem), III, 462, 685, 762, 763, 768.

Abd-er-Rahman-ibn-Ziâd, 173.

Abd-es-Selâm-ibn-Abd-el-Wehâb, 306.

Abd-es-Selâm-ibn-Sa’îd, soprannominato Sehnûn, giurista, 277; II, 220, 222, 223.

Abd-el-Wâhid Marrekosci, xlvi; III, 428, 739.

Abd-el-Wehâb-ibn-Abd-Allah-ibn-Mobârek, II, 541.

Abdi Malach, gaito, III, 264.

Abela Gian Francesco, III, 872, 884.

Abelardo, principe normanno, III, 148.

Abissinio, v. Ahmed-ibn-Ja’kub, 392.

Abramo, 45, 47, 50.

Abramo Halbi (Ibrahim-ibn-Aghlab), 233.

’Abs, tribù, III, 598.

Abu-l-Abbâs-ibn-Ali, 425.

Abu-l-Abbâs-ibn-Ja’kûb-ibn-Abd-Allah, 390.

Abu-l-Abbâs-Kalawri, II, 479.

Abu-l-Abbâs-ibn-Mohammed-ibn-Kâf, II, 540.

Abu-Abd-Allah (il kaid), soprannominato Mamûn, II, 523.

Abu-Abd-Allah, maestro di scuola in Affrica, II, 196.

Abu-Abd-Allah-ibn-Meimûn, III, 377.

Abu-Abd-Allah-el-Mo’aiti, III, 4, 5.

Abu-Abd-Allah-es-Sci’i, II, 120, 121, 123, 127, 128, 131, 132, 133, 134, 136, 137, 138, 141, 142, 144.

Abu-Abd-Allah-ibn-Seffâr, II, 500.

Abu-Abd-Allah, siciliano, XLIX; II, 219.

Abu-Abd-Allah-ibn-Zorâm o (Rigâm), II, 115.

Abu-l-Aghlab-ibn-Ibrahim-ibn-Ahmed, II, 58.

Abu-l-Aghlab-ibn-Ibrahim-ibn-Ahmed (diverso dal precedente?), II, 85.

Abu-l-’Ala, da Mearra, II, 101.

Abu-l-’Ala-Sâ’id, II, 497.

Abu-Ali, 430, 431.

Abu-Ali, Ghassâni, II, 488.

Abu-Ali-ibn-Hasan-ibn-Khâlid, II, 540.

[899]

Abu-Ali-ibn-Hosein-ibn-Khâlid, II, 515.

Abu-Ali, da Tanger, II, 226, 230.

Abu-l-Arab, v. Mohammed-ibn-Ahmed e Mos’ab-ibn-Mohammed.

Abu-Bekr, v. Beco.

Abu-Bekr, il califo, 55, 60, 62, 64, 70, 105, 123; II, 359, 360, 453.

Abu-Bekr, conciatore, III, 256.

Abu-Bekr-ibn-Nebt-el-’Orûk, II, 477.

Abu-Bekr, Sikilli, v. Mohammed-ibn-Ibrahim-ibn-Musa.

Abu-Bekr-ibn-Soweid, 173.

Abu-Bekr-ibn-Zohr, III, 739.

Abu-Dekâk, II, 185.

Abu-’Einan, principe merinita, III, 868.

Abu-l-Fadhl, giurista, III, 785.

Abu-l-Fadhl, scrittore, II, 430, 431, 455.

Abu-l-Farag, II, 522, v. Mawkifi.

Abulfaragi, xlvii; 247.

Abulfeda, VIII, XXXVIII, XXXIX, XLI, XLII, XLIV, XLVI, XLVII, XLIX, LI, LII, LIII.

Abu-l-Forûh-ibn-Bodeir, Meklati, soprannominato Sind-ed-dawla, II, 539.

Abu-l-Geisc, v. Mogêhid-ibn-Abd-Allah.

Abu-Gia’far, 375; II, 345, v. Ahmed-ibn-Jûsuf.

Abu-Gia’far, II, 287, v. Abu-Kharz.

Abu-Gia’far-ibn-’Awn-Allah, II, 481.

Abu-Ghofâr, II, 154.

Abu-Hafs, v. Omar-ibn-Scio’aib, el-Balluti; Omar-ibn-Iehia-ibn-Mohammed, e Omar-ibn-Iehia-ibn-Abd-el-Wâhid.

Abu-Hâmid, da Granata, XLIV; 85, 86; II, 440.

Abu-Hanifa, 149, 151, 254; III, 726.

Abu-Harûn, Andalosi, II, 225.

Abu-Hasan-ibn-Abd-Allah, da Tripoli o da Trapani, II, 541.

Abu-Hasan, da Gerusalemme, II, 491.

Abu-Hasan-Hariri, 420; II, 226, 230, 231.

Abu-Hasan, Lakhmi, II, 488.

Abu-Hasan, Sikilli, II, 541.

Abu-Hâscim, sufita, II, 493.

Abu-Hâscim, v. Mohammed-ibn-abi-Mohammed-ibn-Mohammed-ibn-Zafer.

Abu-Hodseifa, Coreiscita, II, 496.

Abu-Hogir-ibn-Ibraim-ibn-Ahmed, II, 85, 86.

Abu-l-Hokm-ibn-Ghalanda, III, 781.

Abu-Hosein-ibn-Jezîd, 429, II, 62, 63.

Abu-Hosein-ibn-es-Sebân, II, 764.

Abu-Ja’kûb, xlvi, v. Ja’kûb-ibn-Abd-el-Mumen.

Abu-Iehia-ibn-Matrûh, III, 409, 411, 471, 472.

Abu-Jezîd, v. Mokhalled-ibn-Keidâd.

Abu-’Isa-ibn-Mohammed-ibn-Kohrob, 399, 400.

Abu-Ishak, Hadhrami, II, 479.

Abu-Ishak-ibn-Abi-Ibrahim-ibn-Abi-Hafs, III, 624.

Abu-Junis-ibn-Noseir, II, 226.

Abu-Ka’b, II, 376, 379.

Abu-l-Kâsim, v. Ali-ibn-Hasan-ibn-Ali-ibn-Hammûd.

Abu-l-Kâsim-Gioneid, da Bagdad, II, 480.

Abu-l-Kâsim-ibn-Hâkim, II, 440, 494.

Abu-l-Kâsim, Tirazi, II, 141.

Abu-Kelef-ibn-Harûn, II, 194.

Abu-Kharz o Abu-Khereg, II, 287.

Abu-l-Leith, III, 686, 687.

Abu-Ma’d, II, 77.

Abu-l-Mehâsin, II, 448.

Abu-Mehell, II, 247.

Abu-Modhar, v. Ziadet-Allah-ibn-Abd-Allah.

Abu-Moh’âgir, 115, 116, 117.

Abu-Mohammed-ibn-’Atusc, III, 496.

Abu-Mohammed, Dami’a, II, 512, 542.

Abu-Mohammed, da Kafsa, II, 306.

Abu-Mohammed-ibn-Omar-ibn-Menkût, II, 539.

Abu-Mohammed-ibn-abi-Hafs-Omar, II, 622.

Abu-Mohammed-ibn-Semna, III, 767.

Abu-Moslim, 140, 141, 142; II, 111, 112.

Abumoslimiti, II, 112.

Abu-Musa-el-Ascia’ri, 56.

Abu-Nasr, II, 514.

Abu-Nottâr, detto il Negro, II, 187.

Abu-Râti’, II, 354.

Abu-Sa’id-ibn-Ibrahim, XLVIII; II, 467, 469, 470.

Abu-s-Salt-Omeia, XXXVIII, XLV; II, 535; III, 363, 371, 387, 460, 743, 745, 747, 752.

Abu-Scerîf (famiglia), II, 868.

Abu-Sciâma-Mokaddesi, XLIX; III, 670.

Abu-Sewâb, da Castrogiovanni, II, 515.

Abu-Taib, figliuolo di Stefano, III, 262, 316.

Abu-Taleb, 49.

Abu-Taleb-ibn-Sab’in, III, 705.

Abu-Târ, II, 187.

Abu-Thûr, 419.

Abu-l-Wefa, III, 670.

Abu-Zakaria, v. Iehia-ibn-Abd-el-Wahid.

Abu-Zarmuna, II, 230.

Abu-Zeid, el-Gomari, XXXVII; II, 517.

Abu-Zeki, 269.

Acosimo, 203.

Adalberto, marchese, 451.

Adelaide o Adelasia, moglie di Ruggiero, conte di Sicilia, I; 460; III, 195, 196, 197, 198, 200, 221, 225, 226, 268, 275, 301, 302, 335, 345, 346, 347, 348, 349, 350, 351, 806.

Adelaide, di Susa, III, 199.

[900]

Adelasia, v. Adelaide.

Adelchi, 185, 187, 188, 189, 382, 384, 387, 388, 436.

Adelicia, III, 290.

Ademaro (monaco), III, 26.

Adeodata, 205.

Adler, XXIV, LI, LIII; II, 6; III, 450.

Adnân, 32, 40, 47, 64, 69, 135, 136, 137; II, 32, 33, 37, 233.

Adriano, 199.

Adriano, ammiraglio, 399.

Adriano I, papa, 21, 184, 185, 186, 187, 188, 190, 212, 389, 443; II, 169.

Afârik e Afârika, 105; II, 361; III, 6.

Afdhal, II, 463, 489, 506, 510.

Affrica (Chiesa di), 108, 157; III, 417, 475.

Affricani (Musulmani detti), 429.

Afrina, II, 253.

Afrodisia (d’) Alessandro, III, 702.

Agar, 75.

Agareni, II, 164, 407, 414.

Agata, madre di Giuseppe Innografo, 502.

Aghlab, 144, 284, 340, 391; II, 227, 233, 300.

Aghlab-ibn-Ahmed (Abu-’Ikal), 410.

Aghlab-ibn-Ibrahim (Abu-Ikâl), 309.

Aghlab-ibn-Mohammed-ibn-Aghlab, 410.

Aghlabiti, XLV, XLIX, LIV; 84, 147, 206, 225, 226, 229, 236, 253, 278, 295, 314, 332, 337, 340, 353, 375; II, 4, 5, 6, 7, 10, 24, 32, 38, 40, 46, 49, 58, 61, 74, 75, 76, 88, 124, 126, 128, 129, 131, 132, 133, 135, 137, 138, 139, 141, 142, 143, 146, 148, 151, 162, 218, 221, 224, 227, 235, 238, 352, 361, 369, 371, 456, 506.

Agisa, tribù berbera, III, 212.

Agnese, monaca, III, 353.

Ahmed-ibn-Abd-es-Selâm, XLVIII; II, 470, 471.

Ahmed-ibn-Ali (Abu-Fadhl), Coreiscita, II, 539.

Ahmed-ibn-Ali, es-Sciâmi (Abu-l-Feth), II, 541.

Ahmed, conciatore, III, 256.

Ahmed Gabrini, III, 698.

Ahmed-ibn-Hasan-ibn-Ali-ibn-Abi-Hosein (Abu-l-Hasan), emir Kelbita, di Sicilia, II, 249, 254, 256 a 263, 266, 271, 272, 274, 276, 290 a 294, 319, 372, 537, 538.

Ahmed-ibn-abi-Hosein-ibn-Ribbâh, II, 140, 141, 143.

Ahmed-ibn-Ja’kûb-ibn-Abd-Allah’, 390.

Ahmed-ibn-Ja’kûb-ibn-Fezara, 342, 343, 353, 391.

Ahmed-ibn-Ja’kûb-ibn-Modhâ-ibn-Selma, 391.

Ahmed-ibn-Ja’kûb-ibn-Omar-ibn-Abd-Allah-ibn-Ibrahim-ibn-Ahglab (Abu-Malek), detto l’Abbissinio (390, 391?), 392; II, 63.

Ahmed-ibn-Ibrahim, Razi, II, 485.

Ahmed-ibn-Ibrahim, Waddâni (Abu-l-Kâsim), II, 540.

Ahmed-ibn-Iehia (Abu-l-Abbas), detto Ibn-Fadhl-Allah ed Omari, soprannominato Scehab-ed-dîn, VIII, XIX, XXXVIII, LII, LIII; III, 699.

Ahmed, emiro Ikhscidita, d’Egitto, II, 281.

Ahmed-ibn-Jûsuf (Abu-Gia’far?), soprannominato Akhal e Teaîd-ed-dawla, II, 345, 351, 354, 364, 366, 368, 369, 370, 371, 374, 375, 376, 377, 378, 379, 393, 418, 419, 423, 424, 426, 519, 551; III, 80.

Ahmed-ibn-Kâsim, II, 489, 539.

Ahmed-el-Kasri, II, 221.

Ahmed-ibn-abi-Khorasân, III, 477.

Ahmed-ibn-Korhob, II, 145, 146, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 167, 173, 182, 185.

Ahmed-ibn-Kornâs, soprannominato Seti-ed-dîn, III, 718, 722.

Ahmed Marwazi, II, 482.

Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Aghlab, 341, 400.

Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Iehia (Abu-Bekr), II, 220, 225, 226, 359, 360.

Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Kâf (Abu-Ali), II, 515, 540.

Ahmed-ibn-Mohammed, Nuri (Abu-Hosein), II, 480.

Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Rafi’, III, 868.

Ahmed-ibn-Omar-ibn-Abd-Allah (Abu-Malek), II, 63, 64.

Ahmed-ibn-Omar-ibn-Obeid-Allah-ibn-el-Aghlab, 352.

Ahmed-ibn-Omar, el-’Odsri o el-’Adsari, III, 669, 780, 781.

Ahmed-ibn-Roma o Romea, III, 206.

Ahmed-ibn-Sa’d-ibn-Mâlek(-Ibn-Abd?-) el-’Azîz, II, 453.

Ahmed, detto il Siciliano, III, 495, 496, 497.

Ahmed-ibn-Sofian-ibn-Sewâda, 340.

Ahmed-ibn-Soleiman, 262.

Ahmed-et-Temimi (Abu-l-Abbas), III, 256.

Ahmed-ibn-Ziadet-Allah-ibn-Korhob, II, 145, 148, 150.

Ahwâl, II, 125, 127.

Aiello (Matteo di), III, 500, 501, 502, 503, 530, 531, 542, 548, 549.

A’ilâsci-ibn-Akhial, 169.

Aione, principe di Benevento, 462, 463.

Aione, vescovo, 447.

[901]

Airoldi Alfonso, XII, XXIV, XXXVIII, LI.

Airoldi Cesare, XIII, XXXV.

Aiûb-ibn-abi-Jezîd, II, 202.

Aiûb-ibn-Kheirân, II, 199.

Aiûb-ibn-Têmim-ibn-Mo’ezz-ibn-Badîs, III, 94, 109, 110, 111.

Aix (Alberto d’), III, 106, 107.

Akhal, v. Ahmed-ibn-Jûsuf.

Akiprando, di Rieti, II, 165.

Alamidi, III, 817.

Alamondar, v. Mondsir.

Alarico, II, 11, 44.

Albalbuni, II, 522.

Albateni, III, 670.

Alberico, duca di Camerino, II, 166.

Alberico, frate, III, 701.

Alberto, patriarca d’Antiochia, III, 694.

Albigesi, III, 576.

Albiruni, III, 670.

Alduino, vescovo di Cefalù, III, 635.

’Alem-ed-dîn, III, 642.

Aleramidi, III, 196, segg., 225, 227.

Aleramo, conte, III, 198.

Alessandro il Grande, III, 154.

Alessandro II, papa, III, 101, 123.

Alessandro III, papa, III, 497, 533.

Alessio Comneno, III, 144, 367, 508.

Alessio II, III, 521.

Alessio Muscegh, 297, 298.

Alfano, abate, 356.

Alfieri, III, 221.

Alfonso III, d’Aragona, LVI; III, 650, 653.

Alfonso III, re delle Asturie, 457.

Alfonso VI, di Castiglia, III, 375, 704.

Alfonso I, di Sicilia, III, 291.

Alfredo il Grande, III, 675.

Ali-ibn-Abd-Allah, di Giattini, III, 512.

Ali-ibn-Abd-Allah-ibn-Sciami, II, 536.

Ali-ibn-Abd-el-Gebbâr-ibn-Abdûn, II, 507.

Ali-ibn-Abd-el-Gebbâr-ibn-Waddâni (Abu-Hasan), II, 477, 512.

Ali-ibn-Abd-el-Ghani, el-Husri, II, 525.

Ali-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-abi-l-Biscir, (Abu-l-Hasan), II, 520.

Ali-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-abi-l-Biscir, es-Sikilli, el-Ansari (Abu-l-Hasan), III, 742, 743, 744, 745.

Ali-ibn-Abd-er-Rahman, il Siciliano (Abu-l-Hasan), II, 497, 512, 513, 521.

Ali-ibn-abi-Bekr, II, 436.

Ali-ibn-Badîs (Abu-l-Hasan), II, 429.

Ali-ibn-Abi-l-Geisc-Mogêhid-ibn-Abd-Allah, III, 4, 5, 9.

Ali-ibn-Fadhl, 326, 328.

Ali-ibn-abi-Fadhl-ibn-Mohammed-ibn-Taher (Abu-l-Hasan), II, 455.

Ali-ibn-Fartutto, III, 206.

Ali-ibn-Ghania, III, 520.

Ali-ibn-Gia’far-ibn-Ali-ibn-Mohammed-ibn-....Kattâ’ (Abu-l-Kasim), VII, XXVII, XLV; 113; II, 429, 482, 506 a 511, 513 a 516, 518, 522, 536, 538, 541, 542, 544.

Ali, Haiûli, II, 499.

Ali-ibn-Hammûd, III, 662.

Ali-ibn-Hamza (Abu-l-Hasan), II, 491, 492, 493.

Ali-ibn-Hasan-ibn-Ali, emir Kelbita, di Sicilia, soprannominato il Martire (Abu-l-Kâsim), II, 290, 291, 293, 294, 314, 315, 316, 322, 323, 324, 327 a 329, 330, 350, 372, 414.

Ali-ibn-Hasan-ibn-Ali, di casa zirita, III, 419.

Ali-ibn-Hasan-ibn-Habîb (Abu-Fadhl), II, 512, 542.

Ali-ibn-Hasan-ibn-Tûbi (Abu-l-Hasan), II, 516, 518, 525, 543.

Ali, Hodseilita, III, 213.

Ali-ibn-Homeila, 255.

Ali-ibn-abi-Hosein, II, 191, 234.

Ali-ibn-Ibrahim-ibn-Ali (Abu-l-Hasan), chiamato Ibn-Mo’allim, III, 737.

Ali-ibn-Ibrahim-ibn-Waddâni (Abu-l-Hasan), II, 501.

Ali-ibn-Iehia, principe zirita, II, 529; III, 367, 369, 370, 371, 372, 373, 407.

Ali-ibn-Isa-ibn-Meimûn, III, 377.

Ali-ibn-abi-Ishâk-Ibrahim-ibn-Waddâni (Abu-l-Hasan), II, 515.

Ali-ibn-Jûsuf, Kelbita, II, 350, 351, 352, 376.

Ali-ibn-Jûsuf-ibn-Tasciufin, III, 375, 376.

Ali-ibn-abi-Khinzir, II, 143, 147.

Ali, Kifti (Abu-l-Hassan), LII.

Ali, Kifti, intitolato Gemâl-ed-din, XLVIII.

Ali-ibn-Korhob, II, 149.

Ali-ibn-Meimûn, III, 378.

Ali-ibn-Moferreg (Abu-l-Hasan), II, 481.

Ali-ibn-Môgehid, III, 375.

Ali-ibn-Mohammed-ibn-abi-Fewâres, II, 140, 141, 142.

Ali-ibn-Mohammed, di Kerkûda (Abu-l-Hasan), II, 512.

Ali-ibn-Nagia, III, 507.

Ali-ibn-Ni’ma, soprannominato Ibn-Hawwâsci, Hawâs o Giawâs, II, 420, 421, 425, 547, 548, 551; III, 66, 71, 72, 73, 79, 80, 81, 84, 85, 94, 109, 110, 111, 308.

Ali-ibn-Omar, Bellewi, II, 145, 147.

Ali-ibn-Othmân-ibn-Hosein, Rebe’i, II, 488.

Ali Strambo, III, 206.

Ali-ibn-Tabari, II, 206, 210.

Ali-ibn-Tâher, II, 455, 512, 517, 542.

Ali-ibn-abi-Taleb, il Grande, 55, 60, 62, 69, 71, 127, 129, 140; II, 57, 103 a 108, 115, 121, 132 a 136, 139, [902] 155, 486, 493, 494, 546; III, 173, 176, 263, 380, 531, 662.

Ali-ibn-Temîm-ibn-Mo’ezz-ibn-Badîs, III, 94, 109, 110.

Ali, Waddâni, II, 540.

Ali-ibn-Zera’ (Abu-l-Hasan), L.

Ali (El-) biamr-illah, v. Edrîsi.

Alice, regina di Cipro, III, 643.

Alidi, XLIII; II, 119, 120.

’Alkama-ibn-Jezîd, 93.

Alliku, II, 164.

Almanzor, v. Ibn-Abi-’Amir.

Almohadi, XLIV; III, 81, 158, 377, 379, 422, 423, 424, 425, 426, 427, 428, 429, 439, 465, 467, 471, 472, 475, 481, 483, 490, 495, 496, 497, 505, 520, 521, 530, 540, 553, 621, 622, 627, 632.

Almoravidi, II, 528, 529; III, 372, 374, 375, 377, 378, 379, 380, 422, 518, 520.

Al-Sanhaj, XXXVIII, v. Ibn-Sceddâd, Abd-el-Azîz.

Alvares Lodovico, III, 260.

Alvaro, III, 288.

Alverada, III, 49.

Aly-el-Bonifati, III, 264.

Aly-el-Petruliti, III, 264.

Amalfitani (console degli), III, 219.

Amato, monaco, XXVIII; III, 21, 24, 31, 33.

Ambrogio, vescovo di Patti, III, 221.

Amer, califo fatimita, II, 463.

Amerigo, re di Gerusalemme, III, 505, 506, 507, 643.

Ami, figlio di Gualtiero, III, 62.

Amici (degli) Ruggiero, III, 651.

Amico Antonino (di), VIII.

Amilcare Barca, 318, 319.

Amîn (soprannome di Maometto), 50.

Amîn, califo abbasida, 303.

Amîn-ed-dawla, II, 331.

’Amir-ibn-Liwa (tribù), III, 832.

’Amir-ibn-Nafi’, 156, 157.

Abu-’Amir, III, 375.

’Ammâr, II, 251, 252.

’Ammâr-ibn-Mansûr (Abu-Mohammed), II, 481, 488, 538.

’Ammâr, paggio, II, 263.

Ammiano Marcellino, 75; III, 443.

’Amr-ibn ’Asi, 80, 109, 112; III, 832, 840.

’Amr-ibn-Mo’âwia, 155.

’Amrân, II, 147.

’Amrân-ibn-Mogiâled (o Mokhalled), 254.

Anacleto, antipapa, III, 393, 395.

Anastasio, consolare, 213.

Anatolio, conte, 213.

Andalusi, cognome, III, 212.

Andalusi, v. Iehia-ibn-Omar-ibn-Jûsuf.

Andara, tribù berbera, II, 35.

Andrani o Andarani, II, 35; III, 614.

Andrea, consolare, 213.

Andrea, console di Napoli, 312.

Andrea, figliuolo di Troilo, 95.

Andrea, martire, 511.

Andronico Comneno, III, 223, 521.

Angioini, II, 86; III, 531, 808.

Anna Comnena, III, 41.

Anquetil (Drengot?), III, 25.

Ansâri, II, 521.

Anselmo, de’ marchesi Aleramidi, III, 199.

Anselmo, arcivescovo di Napoli, III, 579, 581.

Ansgerio, III, 307.

Anspach, III, 828, 830.

Ansruna (da) Bartolommeo, III, 288.

Antar, III, 598.

Antimo, duca di Napoli, 227.

Antioco, governatore di Sicilia, 220.

Antonini (gli), 10, 199.

Antonino, 289; II, 109

Antonio Veneziano, III, 128.

Anweiler (de) Marqualdo, III, 566, 567, 570, 571, 576, 577, 578, 579, 580, 581, 582, 583, 584, 585, 586.

Apocapso, 162, v. Omar-ibn-Scio’aib (Abu-Hafs).

Apolofar, 361, 362, 363, 370, corr. Abu-Gia’far.

Apolafar Muchumet, II, 375, 377, 393, 394.

Aragonesi, II, 86; III, 631, 650, 807.

Arcadio, 211; III, 57, 59.

Arcario, 240.

Archifredo, III, 124.

Archimede, XLVIII; II, 272, 463, 686.

Arderico, 241.

Ardoino, II, 380, 389, 390, 392, 423; III, 24, 29, 30, 31, 33, 35, 52, 219.

Argiro, figlio di Melo, II, 30, 35, 36, 38, 41, 42, 44, 48, 114.

Argivi, III, 125.

Ariani (setta), 24.

’Arîb, XLI, l.

Arigiso, 185, 187, 188, 189; II, 377.

Arisgoto di Pozzuoli, III, 99, 133, 134, 156, 300.

Aristotile, II, 100, 101, 301, 308, 462; III, 696, 702, 706, 707, 708.

Arnaldo, da Brescia, III, 431, 432.

Arnoldo, II, 325.

Aroldo dalla bella chioma, III, 17.

Aroldo il Severo, II, 383, 384, 385, 386; III, 22.

Arone (Harûn), II, 342.

Arran, condottiero, 462.

Arrane (Harrani?), 383.

Arri, da Asti, LIV.

Arrigo, conte di Montescaglioso, III, 502.

Arrigo, de’ conti di Champagne, III, 643, 649.

[903]

Arrigo, figliuolo di Federigo II, III, 590, 601.

Arrigo, figliuolo d’Ugo, re di Cipro, III, 643.

Arrigo I, imp., III, 29.

Arrigo II, imp., III, 7, 26, 27, 28, 42, 47, 529, 798.

Arrigo III, imp., III, 40.

Arrigo IV, imp., III, 143, 144, 145, 199.

Arrigo VI, imp., III, 294, 296, 448, 542, 544, 547, 549, 550, 551, 552, 554, 555, 556, 558, 559, 560, 561, 562, 563, 564, 565, 566, 568, 570, 572, 573, 577, 581, 584, 588, 589, 594, 632, 804, 815, 848.

Arrigo, dei marchesi Aleramidi, III, 200, 221, 225, 226, 239, 268, 301, 302, 442, 488.

Arrigo, di Navarra, III, 216, 500.

Arrigo il Pescatore, conte di Malta, III, 601, 606, 607, 620.

Arrigo, vescovo di Augsburg, II, 325.

Arrigo, vescovo di Leocastro, III, 814.

Arsiccio, v. Catacalone.

Arzachele, XXX; III, 690.

Asbagh-ibn-Wekîl, 286, 287, 288, 289, 290, 291; II, 35.

Asbesta Gregorio, 30.

Ascanagius (Es-Sanhagi), XXXVIII, XLI.

Ascari, II, 467.

’Asciari (El-), III, 726.

Asdani, XLII.

Ased-ibn-Ali-ibn-Mo’mir, Hoseini, II, 507.

Ased-ibn-Forât, 151, 153, 231, 234, 235, 236, 253, 254, 255, 256, 257, 258, 259, 260, 261, 262, 263, 265, 266, 267, 269, 271, 272, 273, 274, 275, 287, 288, 291, 320, 354, 394, 395; II, 35, 220, 436.

Asillio, 6.

Askar Niccolò, III, 256, 325.

Assassini, II, 102, 117; III, 647, 649.

Asselîn, III, 677, 678.

Assemani, XLI, XLIII.

Assemani G. S., II, 453.

Assiropulo, II, 250.

Astari, casato, III, 221.

Atanasio, vescovo di Modone, 507, 508, 509.

Atanasio, vescovo di Napoli, 448, 450, 452, 453, 456, 457, 458, 461, 462, 463; II, 175.

Atenolfo, 462: II, 163, 170, 325; III, 35.

’Atik-ibn-Abd-Allah-ibn-Rahmûn (Abu-Bekr), II, 477, 478, 540.

Atîk-ibn-Ali-ibn-Dâwûd (Abu-Bekr), II, 490.

Attâ-ibn-Rafî, 168.

Atto, conte, II, 340.

Atto, da Spoleto, II, 312.

Augusto, 7, 8, 9, 10.

Augustolo, II, 90.

Avari, 94.

Avenel, casato, III, 347.

Avenel Adamo, III, 290.

Avenel Rinaldo, III, 363.

Avenel Roberto, III, 347, 349.

Averroès, II, 469; III, 708.

Avicenna, II, 469; III, 696.

Awa (o Uwa)-es-Seâ’ri, II, 158.

Azd tribù, II, 195, 488, 499, 525, 526; III, 210, 211, 212, 759.

’Azîz-billah, II, 330, 331, 355.

Azrâkiti, II, 104, 105.

B

Babek, II, 113, 114, 115, 520, 521.

Bacchilo, 15.

Bacone Ruggiero, III, 658.

Badîs-ibn Mansûr, principe zirita, soprannominato Nasr-ed-dawla, II, 356, 357, 358, 359.

Balalardo, III, 62.

Balchaot, III, 7, v. Ibn-Hawwasci.

Baldovino, re di Gerusalemme, III, 189, 335, 346.

Balian, III, 641.

Bambace, cognome, III, 205, 875.

Banqueri, XLII.

Barbaricini, 18, 108.

Barcellona (conte di), III, 376.

Barda, 338, 500, 503.

Bardesane, v. Ibn-Daisân.

Bargawata, tribù berbera, III, 212.

Baribavaira, toscano, III, 288.

Barisano, da Trani, III, 862.

Barmek, II, 100.

Barrani, III, 211.

Barsamio, 418.

Barthélemy, LI.

Bartolomeo, da Neocastro, VII.

Bartolomeo, segretario di Innocenzo III, III, 580.

Basile Gian Battista, III, 819, 846.

Basiliani (monaci), 19.

Basilio, di Gerace, III, 88.

Basilio il Macedone, 341, 342, 346, 348, 349, 378, 379, 380, 381, 393, 399, 411, 414, 416, 425, 432, 433, 437, 438, 439, 440, 441, 445, 447, 454, 471, 501, 509, 510, 512, 515; II, 70. Suo Menologio, III, 838.

Basilio II, II, 313, 365, 366.

Basilio Pediadite, II, 392, 393.

Basilio, protocarebo, II, 251, 252, 263.

Basilio, stratego, II, 320.

Bàteni, II, 101, 102.

Bavari, II, 322.

Baviera (duca di), III, 649.

Becelino, II, 325.

Becket Tommaso, III, 497, 498, 499, 532.

[904]

Beco (Abu-Bekr?), III, 156.

Bedîr o Bodeir, II, 421.

Bedr-ibn-’Ammâr, II, 334.

Beduini, 34, 36, 37, 145; II, 144, 221, 542.

Begiawi, III, 211.

Behrnauer, III, 799.

Bek’ai, II, 381.

Bekkari, III, 213.

Bekri, XLII, 85, 105, 112, 147, 157, 166; II, 429; III, 670.

Beladori, XI.

Bulbas (de) Raoul, III, 347.

Belcamuer, v. Ibn-Hawwasci, III, 76.

Belezmi, II, 182.

Belisario, 12, 13, 104, 212, 291; III, 178.

Bellanôbi, XLIII; II, 433, 521, 522, 541, 543.

Bencimino o Bentimino, III, 162, 163, v. Ibn-Thimna.

Benedettini (monaci), 19, 100, 102, 293; III, 22, 84, 468.

Benedetto, diacono, 20.

Benedetto, monaco, XXIX.

Benedetto, notaio, III, 868.

Benedetto III, papa, 500.

Benedetto VIII, III, 7, 8, 11, 26.

Benedetto, pisano, III, 581.

Beni-Genâ, II, 212.

Beni-l-Asfar, III, 746.

Beni-’Abs, III, 598, 599.

Beni-Ghania, III, 518, 520.

Beni-abi-Hafs o Beni-Hafs, v. Hafsiti.

Beni-Hammâd, II, 363; III, 173, 368, 369, 420, 423, 425, 427, 540.

Beni-Hammûd, di Malaga, III, 662, 663.

Beni-Hassân, II, 527.

Beni-Hûd, III, 704.

Beni-abi-Khorasân o Beni-Khorasân, II, 224; III, 429, 430, 540.

Beni-Korra, III, 411, 413.

Beni-Labbana, III, 748.

Beni-Malrûh, III. 406, 408, 409.

Beni-Mawkifi, II, 521.

Beni-Meimûn, signori di Cadice, III, 376, 377, 379, 387, 480.

Beni-Menkût, II, 549.

Beni-Midrâr, II, 133.

Beni-Rowaha, III, 768, 769.

Ben-Soleim, 253.

Beni-Somâdik, II, 535.

Beni-Tabari, II, 33, 206, 207, 208, 211, 212.

Beni-Talût, II, 22.

Beni-Tolûn, v. Tolunidi.

Beniamino, da Tudela, III, 484.

Berberi, LIV; 18, 105, 106, 107, 113, 114, 115, 118, 119, 120, 121, 123, 125, 126, 127, 128, 129, 132, 133, 135, 136, 138, 142, 143, 144, 147, 156, 174, 264, 288, 309, 340, 363, 369, 424, 429, 431, 432; II, 12, 21, 32, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 62, 63, 75, 121, 122, 123, 128, 131, 133, 135, 136, 138, 139, 142, 143, 146, 148, 149, 150, 151, 154, 157, 168, 183, 184, 191, 192, 197, 198, 200, 207, 217, 263, 267, 283, 287, 288, 292, 350, 351, 355, 358, 361, 372, 373, 383, 393, 418, 424, 434, 462, 496, 547; III, 6, 73, 81, 92, 209, 211, 373, 381, 400, 408, 409, 422, 475, 479, 599, 628, 662, 879.

Berdwil, supposto re franco, II, 328; III, 62, 189.

Berengario, conte di Barcellona, III, 12.

Berengario, de’ conti di Lucca, 277.

Berengario, duca del Friuli, II, 166, 167.

Berillo, 15.

Berkûk, III, 836.

Berlais Roberto, III, 347.

Bernardino, conte, III, 594.

Bernardo Michele, III, 390.

Bernardo, figlio di Pipino, 227.

Bertario, abate, 365, 444, 460.

Bertoldo, II, 325.

Bertolotti, XV.

Besciâr-ibn-Bord, II, 113.

Bibars, XXXVIII, XLVIII; III, 654.

Biscir-ibn-Sefwân, 135, 171; II, 233.

Bizantini, XLI, XLII; 72, 74, 75, 118, 125, 173, 241, 278, 283, 290, 309, 313, 316, 318, 319, 323, 329, 331, 338, 349, 352, 364, 376, 380, 413, 415, 418; II, 34, 48, 70, 71, 80, 81, 83, 100, 155, 166, 168, 171, 172, 176, 179, 193, 204, 213, 241, 243, 244, 246, 247, 250, 251, 252, 253, 263, 266, 267, 269, 271, 272, 291, 311, 312, 313, 317, 322, 333, 338, 340, 357, 364, 365, 372, 376, 378, 379, 389, 390, 393, 394, 396, 399, 415, 417, 421, 422, 423, 426, 459, 460, 501, 519; III, 1, 14, 25, 26, 30, 31, 53, 194, 217, 218, 223, 351, 366, 433, 443, 447, 450, 465, 466, 480, 666, 746, 825, 836, 838, 839, 852, 860.

Bizantino Impero, II, 141, 166, 168, 169, 172, 176, 183, 215, 242, 243, 255, 260, 274, 278, 308, 310, 311, 367, 375, 379, 383, 386; III, 5, 26, 50, 114, 282, 413, 508.

Blettiva, III, 51.

Blois (di) Pietro, III, 216, 497.

Boch (dott. Franz), III, 798, 800.

Bochlor, III, 329.

Bodeir-ibn-el-Meklâti, II, 539.

Boemondo, principe d’Antiochia, III, 144, 146, 165, 183, 184, 186, 188, 433, 863.

Boha-ed-dîn, XLVIII.

B’ht’’r, di Dendera, III, 832.

[905]

Boioanni, II, 365, 366; III, 34.

Bolukkin-ibn Ziri, II. 238, 288, 289, 290, 355, 358.

Bonaini Francesco, III, 376.

Bonanno, da Pisa, III, 862, 863.

Bonaparte (de) Luciano, III, 594.

Bonatti Guido, III, 695.

Boncompagni Baldassarre, III, 658.

Bonelli, casato, III, 221, 233.

Bonello Matteo, III, 232, 485, 486, 487.

Bonello Ruggiero, III, 221.

Bonifazio, conte di Lucca, 276.

Bonifazio del Vasto, III, 199.

Bonifazio, marchese d’Incisa, III, 199.

Bonifazio, marchese degli Italiani, III, 196.

Bonifazio, marchese di Monferrato, III, 197.

Bonincontri Lorenzo, III, 11.

Bonnella Riccardo, III, 221.

Bono Odone, marchese, III, 221, 226.

Borboni di Napoli, III, 101, 279, 309.

Borello Goffredo, III, 312, 340.

Borello Roberto, III, 221.

Borgogna (duca di), III, 347.

Bosaisa, 93.

Boscera, II, 199, 200, 228.

Bosco (marchesi del), III, 199.

Bosone, 446.

Botayctor Niccolò, III, 288.

Botoniate Niceforo, III, 144.

Bouillon (casa di), III, 189.

Bourquelot, 311.

Boweidi, II, 278.

Brachimo (Ibrahim-ibn-Ahmed), II, 81, 96.

Brahim, gaito (Ibrahim), III, 264.

Brancaleone, II, 247.

Brienne (conte di), III, 568, 569, 582, 585.

Brioschi Francesco, III, 456.

Broch, II, 383, 384, 386; III, 39.

Bruno, III, 288.

Bruzii, III, 196.

Buatère Gilberto, v. Drengot.

Buccahar, III, 572.

Bucoboli, II, 312.

Buddisti, II, 108.

Buidi, v. Bowiedi.

Bulcassimo, II, 328, v. Ali-ibn-Hasan-ibn-Ali (Abu-l-Kasim), e Ibn-Hammûd, III, 512.

Bulgari, 193, 510; II, 153, 173, 365.

Burabe (Abu-Rebi’a?), III, 376, 377.

Burcardo, II, 325.

Burcardo, vescovo di Strasburgo, III, 536.

Burgi o Bergi, III, 211.

Burgio, casato, III, 174.

Burgio Giovanni, III, 794.

Busca (marchesi di), III, 199.

Buscemi Niccolò, 469, 488, 489.

Busilla, III, 194.

Busito (Abu-Sa’îd), II, 340.

C

Cahtân, II, 233 (corr. Kahtàn).

Calatabiano (di) Roberto, III, 499.

Calatabutur (de) Sir Ricalinus, III, 215.

Calatafimi (di) Simone, III, 225.

Caligola, 9; II, 550.

Callinico, 303.

Callisto II, papa, II, 396; III, 314.

Calonimo, II, 326.

Calzola, casato, II, 453.

Camerano (da) Bonifacio, III, 224.

Cammarata (di) Lucia, III, 250.

Campalla, casato, III, 205.

Camulio Niccolò, III, 57.

Cangemi, casato, III, 881.

Canna (de) Gualterius, III, 221.

Canterbury (di) Tommaso, v. Becket.

Capeti, III, 18.

Capialbi, III, 344.

Capizzi (da) Adamo, III, 288.

Capparone Guglielmo, III, 583, 585, 586, 587, 594.

Caraccioli, LI.

Cardonne, LI.

Carini Isidoro, III, 594, 635.

Carli G. Rinaldo, LV.

Carlo d’Angiò, 396; II, 45; III, 538, 631, 654, 688, 698, 712, 820, 868.

Carlo II, d’Angiò, III, 612, 627, 631.

Carlo il Calvo, 414, 415, 437, 443, 444, 445, 446, 448, 451, 462; II, 299.

Carlo il Grosso, 453.

Carlo Magno, 147, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 194, 192, 212, 224, 226, 227, 230, 312, 389, 433; II, 169, 278, 338; III, 17, 189, 196, 198, 448, 680, 685.

Carlomanno, 451, 453.

Carlo Martello, 158.

Carlo il Semplice, III, 18.

Carlo lo Zoppo, v. Carlo II, d’Angiò.

Caro, arcivescovo di Morreale, III, 568, 592.

Carpi, XXXV.

Carretto (marchesi del), III, 199.

Carsianiti, 440.

Cartaginesi, II, 203, 357, 382, 393.

Cartomi Elia, III, 156, 162, 184.

Caru- (ibn-) Jûsuf, III, 206, 875.

Caruso Gian Battista, VII, VIII, XLI, LII, LV; 15, 18.

Caruso Giuseppe, XVI, XXIII.

Casiri, XIX, XXXIX, XLVIII, LIII.

Cassidoro, 12.

Castellani, casato, III, 212.

Castello (da) Roberto, III, 288.

Castiglia Benedetto, II, 13.

[906]

Castigliani, III, 188, 705.

Castiglioni, XXIV; 108; II, 6; III, 450.

Catacalone, II, 393, 394; III, 56.

Catania (vescovo e Chiesa di), III, 212, 238, 239, 245, 246, 264, 301, 308, 320, 323, 330, 450, 451, 597, 806.

Caterina, da Demona, II, 409.

Catrobarba Riccardo, III, 291.

Caussin J. J., LI, LII; II, 204, 206.

Caussin de Perceval, LI, LV; 57, 63, 76, 108, 246; III, 322.

Cavallari Francesco Saverio, XXXIV; 311; II, 452, 454; III, 821, 844.

Cave Guglielmo, XLI; 488.

Cedreno, XXVIII; 242, 506.

Cefalù (vescovo e Chiesa di), III, 215, 236, 250, 262, 316, 451, 474, 575, 580, 806, 872.

Celano (conte di), III, 600.

Celestino III, papa, III, 566, 567.

Cerameo Teofane, 488; III, 695.

Ceriani Antonio, III, 659.

Cesario, 365, 366, 367.

Ceva (marchesi della), III, 499.

Champollion-Figeac, XXVIII.

Chamut, v. Ibn-Hammûd.

Chapzis (Hamza), III, 262.

Cherbonneau, XXXIV, XLV, XLVI, LVI; III, 704.

Chrisione, II, 81.

Cibo Andreuccio, III, 260.

Cicala Giovanni, III, 635.

Cicerone, 7.

Ciclopi, II, 86.

Cincimo, 377.

Cirenaici, II, 203.

Citeron, LII.

Ciullo d’Alcamo, III, 888.

Clavesana (marchesi di), III, 499.

Cohen Giuda, III, 692, 708.

Colbert, IIII, 698.

Coloman, re d’Ungheria, III, 194.

Colombo, calabrese, 548.

Comparetti, III, 539.

Conde, 129, 136, 144, 161, 163.

Conone, 29, 195, 203.

Copti, 167; II, 496.

Corace, II, 463.

Coreish, v. Marisc.

Corrado..., II, 325.

Corrado, frate, VII; II, 415.

Corrado III, imp., III, 431, 432, 433, 609.

Corrado IV, III, 225, 711.

Corrado, di Monferrato, III, 522, 523, 643.

Corrado, re d’Italia, III, 192, 195, 199.

Corrado il Salico, III, 28, 29.

Corrado, vescovo di Hildesheim, III, 602.

Cortemiglia (marchesi di), III, 199.

Cosimo III, de’ Medici, ix.

Cosimo, monaco, 177, 178.

Cosroe Nuscirewan, 40.

Costantino Caramalo, II, 79, 80, 87.

Costantino, diacono, 29.

Costantino Duca, III, 144.

Costantino Gongile, II, 260.

Costantino I, imp., 18, 182, 198, 200, 201, 208, 211, 212, 303; III, 47, 305.

Costantino III, 99.

Costantino IV, 220.

Costantino V, 189, 222.

Costantino VI, 73, 196, 212, 145, 242, 245, 250, 252, 282, 316, 382; II, 153, 204, 215, 242, 243, 246, 250; III, 283.

Costantino VIII, II, 313, 367.

Costantino IX, II, 386, 395; III, 42, 44.

Costantino X, II, 416.

Costantino, corr. Costanzo, II, 97, 98.

Costantino, patrizio dell’Italia meridionale, 463.

Costantino, patrizio di Sicilia, 225, 246, 247.

Costantino, di Sicilia, poeta, 506.

Costanza, d’Aragona, moglie di Federigo II, imp., III, 583, 590, 804.

Costanza, moglie di Arrigo VI, III, 503, 530, 543, 544, 545, 547, 552, 561, 564, 565, 566, 567, 568, 572, 573, 574, 576, 588, 601.

Costanza, figliuola di Ruggiero, conte di Sicilia, III, 195.

Costanza, figliuola di Abu-l-Fadhl, III, 256.

Costanzo o Costante, XXXIX; II, 13, 77, 78, 84, 86, 90, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 99, 113, 180, 207.

Coste, III, 824, 834, 837, 858, 859.

Crambéa, II, 251.

Cremona (da) Gerardo, III, 695.

Crinite, II, 203, 204.

Crisafi, 411.

Crisonica, II, 406.

Crispi Francesco, III, 213.

Cristiani, XLII; 51, 53, 150; II, 42, 43, 44, 56, 57, 61, 69, 73, 74, 77, 80, 82, 83, 87, 92, 101, 106, 107, 108, 109, 141, 143, 148, 152, 162, 163, 165, 167, 183, 206, 210, 212, 238, 239, 240, 245, 248, 255, 262, 267, 269, 273, 276, 278, 293, 343, 345, 353, 362, 371, 373, 377, 395, 396, 397, 398, 399, 400, 401, 403, 405, 412, 414, 415, 422, 443, 460, 461, 466, 471, 494, 528, 551; III, 1, 8, 10, 12, 13, 14, 54, 56, 58, 65, 68, 71, 77, 80, 83, 93, 95, 96, 100, 132, 162, 167, 170, 171, 175, 176, 181, 487, 189, 210, 248, 249, 253, 254, 262, 281, 285, 303, 319, 327, 334, 338, 345, 349, 351, 358, 366, 375, 379, 381, 383, 384, 398, 400, 404, 409, 411, [907] 416, 417, 419, 421, 424, 425, 429, 430, 451, 462, 469, 472, 473, 475, 477, 487, 489, 490, 496, 498, 506, 507, 508, 513, 515, 518, 522, 523, 526, 528, 530, 533, 534, 535, 543, 545, 546, 547, 572, 576, 578, 579, 587, 591, 592, 594, 595, 597, 609, 612, 617, 619, 622, 625, 626, 633, 642, 645, 647, 648, 652, 701, 706, 711, 716, 722, 728, 763, 780, 790, 816.

Cristodulo o Crisiodoro, III, 354, 355, 361, 364.

Cristoforo, III, 351, 353, 361.

Croati, 380; II, 169.

Crociati. II, 328, 386; III, 99, 107, 188, 193, 214, 299, 421, 432, 433, 434, 435, 464, 505, 522, 529, 545, 548, 565, 566, 573, 574, 585, 600, 604, 609, 633, 636, 637, 638, 640, 641, 643, 646, 647, 667, 673, 704, 721.

Curdi, III, 506.

Curopalata, viii.

Currucani, cognome, III, 205.

Cusa Salvatore, III, 204, 262, 316, 325, 450, 451, 494, 806, 850, 874.

Custasin (de) Sir Bonom, III, 214.

Cutzaniti Leone, III, 291.

Cuvier, III, 789.

D

Daher o Zâhir, califo fatimita, II, 241.

Dahmân, tribù arabica, III, 384.

Daisaniti, II, 109.

Dami’a, v. Abu-Mohammed.

Damiano, II, 88.

Dani, III, 15.

Daniele, profeta, II, 262.

Daniele, da Taormina, 516; II, 80.

Danielis, 442.

Dante Alighieri, III, 889.

D’Aquino, casato, III, 565.

Dato, II, 21.

D’Auceto Roberto, III, 876.

Daumas, II, 38, 39.

Dawûd, III, 639, 640.

D’Azeglio Massimo, XXXV.

Dedone, II, 325.

De Fraehn, XXIV.

De Frémery, XX, XLVII.

De Grossis, XXIX.

De Guignes, LI; 108.

De Hammer, II, 13.

Del Giudice Giuseppe, III, 202.

Della Mensa Antonio, III, 875, 876.

Della Noce Ruggiero, III, 288.

Della Vigna Piero, III, 620, 634, 707.

De Longuerue, II, 453.

De Meo, III, 33.

De Maramma Luca, III, 868.

Dennis Giorgio, III, 857.

Derenbourg, XL; 63; II, 172.

De Riedesel, barone, LII.

Derràg, II, 481.

Dervis, 52.

De Sacy, XXXVIII, XXXIX, XLVI, XLIX, LIV; 63; II, 13, 20.

Desiderio, re, 185.

Desiderio Abate, III, 22, 169, 853, 860.

De Simoni Cornelio, III, 197.

De Slane, XXXIII, XXXVII, XXXVIII, XXXIX, XL, XLI, XLIII, XLV, XLVIII, L, LI, LII, LIV; 63, 108, 110, 113, 142, 152, 430; III, 872.

Des Noyers, XVII, XVIII.

D’Este Ugo, III, 141.

Des Vergers, XVIII, XIX, XXIV, XLVII, LII, LIV; 430.

Dhaif. v. Musa-ibn-Ahmed.

Dhobbi, 161.

D’Herbelot, XXXVIII.

Diama-ibn-Mohammed, II, 224.

Di Biondo Leone, III, 868.

Di Fiore Giuseppe, XXXIV.

Di Giovanni Bono Giorgio, III, 868.

Di Giovanni Giovanni, 15, 18, 19, 20, 21, 27, 28, 96, 102, 103, 489.

Di Giovanni Vincenzo, III, 878, 887, 888.

Di Gregorio, v. Gregorio (Rosario).

Dihà, v. Kàhina, 119.

Dimiscki (Scems-ed-din), LI, LIII.

Dimiscki, v. Iehia-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Abd-el-Mo’nim.

Diocleziano, 10.

Diodoro Siculo, 4, 6, 194, 197; II, 406.

Diogene Laerzio, II, 101.

Dionisio, giudice, III, 868.

Diopoldo, III, 587, 588.

Diosallo, cognome, III, 205, 875.

Dioscoride, II, 218, 219.

Ditmar, conte, II, 325.

Doceano, catepano, II, 388.

Docibile, 458.

D’Ohsson, 452.

Domairi (corr. Demiri), LIII.

Dombay, L.

Dominic (de) Raffaello, III, 390.

Donas o Donus, III, 205.

Donolo, II, 171, 172.

Dorn B., III, 691.

Doxopatro, v. Nilo Doxopatro, III, 660, 661.

Dozy, XXXIII, XXXVII, XXXVIII, XXXIX, XL, XLI, XLII, XLIII, XLIV, XLVI, XLVII, XLVIII, L, LI, LII, LIV, LV; 142, 162; III, 4, 873.

Drengol Gilberto, o Buatere, Rainolfo, Anquetil e Ormondo, III, 25.

Drogone, III, 39, 40, 42, 46, 48.

Drusi, II, 102, 117, 137.

Drusiana (da) Ruggiero, III, 287, 288.

Dsehebi, LII; 88; II, 514.

[908]

Dsimari, III, 211.

Dualisti, II, 98.

Du Caurroi, II, 13.

Ducezio, 278, 279.

Duchesne Andrea, III, 56, 58, 59.

Dudone, di S. Quintino, III, 20, 22.

Dugat, LV.

Du Meril, XXIX.

E

Eadmero, III, 187, 188, 271.

Eberwin, abate, II, 413.

Ebrei, 27, 40, 51, 57, 150, 195, 203, 218, 219, 408, 478; II, 32, 56, 101, 106, 307; III, 209, 234, 249, 252, 253, 254, 291, 296, 297, 328, 330, 434, 477, 555, 617, 618, 697, 708, 711, 728, 764, 870.

Eccelino (Azo), II, 325.

Edrîs, III, 662.

Edrîs, figlio del precedente, 226; III, 662.

Edrîs, principe di Malaga, III, 663, 664.

Edrîsi Mohammed, figlio di Mohammed, di Abd-Allah, di Edrîs (Abu-Abd-Allah), X, XXIII, XXVII, XXXIX, XLIII, XLIV, LI, LIII, LV; 236, 318; II, 67; III, 452 segg., 662, 663, 664, 666, 670, 671, 672, 680, 699, 830, 841, 842, 845, 860.

Edrisiti, 129, 225, 226, 229; II, 135; III, 173, 540, 662.

Eduardo I, d’Inghilterra, III, 40.

Einhardo, 147, 277.

Eleazar, III, 348, 349.

Elena, figlia di Niccolò, figlio d’Eugenio, ammiraglio, III, 353.

Elia, canonico, III, 572.

Elia (il Giovane), da Castrogiovanni, 412, 418, 512, 515, 516, 517, 518, 619.

Elia, profeta, III, 84.

Elia, romito, II, 407, 408.

Eliodoro, 219.

Elisabetta, di Norvegia, II, 384.

Eliseo, di Segelmessa, II, 134, 135.

Elmacin, XLVII.

Elpidio, 217, 218.

Emir-Ibn-’Abs, Mir-’Abs, v. Mirabetto.

Emma, figliuola del conte d’Evreux, III, 84.

Emma, figliuola del conte Ruggiero, III, 195.

Emmanuele, casato, III, 454, 505.

Emmanuele Comneno, III, 413, 414, 433, 434, 435, 439, 467, 660, 661.

Emerico, re d’Ungheria, III, 583.

Empedocle, XLVIII, XLIX; II, 100, 101, 302, 463.

Enger, XXVIII.

Epaminonda, II, 80.

Eraclio, VII; 58, 76, 77, 94, 97, 108.

Erastotene, III, 671.

Erberto Braosense, III, 220.

Erchemperto, 232, 233, 361, 369, 384, 442, 445, 447, 448, 454, 459.

Eremberga, 85, 195.

Ermanno Contratto, III, 40.

Ermenseda, contessa, III, 12.

Ermogene, 507.

Erpenio, XIII, XLI.

Eruli, 12.

Essaconte, II, 271.

Esseriph (Es-Scerîf), III, 267.

Etiopi, II, 317.

Euclide, II, 462.

Eufemio, XLVII; 233, 241, 243, 244, 245, 246, 247, 248, 249, 250, 251, 252, 258, 259, 262, 264, 265, 269, 279, 281, 282, 286, 291; III, 86.

Eugenio, ammiraglio, XXX; III, 347, 460, 657, 658, 659, 660, 661.

Eugenio, detto il Bello, III, 316.

Eugenio, emiro, v. Eugenio, ammiraglio, III, 353.

Euplio, 17.

Euprassio, 416.

Eusebio, consolare, 211.

Eustazio, arcivescovo di Tessalonica, XXVIII; III, 351, 521, 537, 538, 539, 688.

Eustazio, drungario, II, 80, 88.

Eustazio, stratego di Calabria, II, 153.

Euthimio, 240, 249.

Eutichio, patriarca d’Alessandria, XL, XLI.

Eutropio, lombardo, 443.

Evagrio, 76.

Evisando, III, 157.

Evreux (conte di), III, 84.

Ezzelino (Azo), III, 619.

F

Fabricius, XXXIX.

Fadhl (per errore in luogo di Fatemita?), II, 174.

Fadhl-ibn-Gia’far, 313, 314, 317; II, 32.

Fadhl-ibn-Ia’kûb, 300, 301, 305.

Fadhl-ibn-abi-Iezîd, II, 202, 203, 207.

Faiz-billah, califo fatimita, III, 766.

Fakhr-ed-dîn, III, 638, 641, 642.

Fakri, III, 212.

Falcando Ugo, III, 216, 251, 440, 481, 492, 543 a 545, 842; II, 308.

Falco (di) Roberto, III, 288.

Fallamonaca Uberto, III, 615, 622.

Famin, XVIII; 170.

Farag-Mohammed, II, 243.

Farag-ibn-Salem, III, 698, 868.

[909]

Farangia (I Vandali), 121.

Farich (?), figlio di Said, 170.

Faresi, II, 475.

Fartutto, cognome, III, 206, 875.

Fasi, III, 715, 716.

Fatima, II, 115, 132, 662.

Fatimiti, XLI, XLII, LIV; II, 6, 39, 53, 118, 120, 122, 132, 133, 135, 137, 140, 144, 151, 152, 154, 158, 162, 167, 176, 179, 182, 188, 192, 195, 197, 198, 199, 218, 227, 228, 233, 240, 254, 257, 280, 285, 286, 287, 289, 312, 313, 332, 356, 361, 372, 426, 451, 458, 459, 523, 547; III, 157, 260, 322, 352, 404, 449, 454, 465, 506, 834, 835, 844, 847.

Fazzello, VIII; 233, 234, 236, 237.

Federico, d’Aragona, re di Sicilia, III, 631, 870, 890.

Federigo Barbarossa, III, 11, 12, 219, 222, 465, 468, 508, 536, 620, 710.

Federico II, imperatore, XXXVIII, XLIX; 389; II, 193, 345, 347, 433, 463, 471; III, 86, 173, 224, 234, 240, 253, 265, 266, 288, 294, 297, 298, 318, 328, 357, 359, 363, 365, 406, 444, 445, 491, 542, 567, 568, 569, 570, 571, 575, 576, 579, 582, 583, 584, 588, 589, 590, 691, 592, 593, 594, 695, 596, 598, 599, 600, 601, 602, 603, 604, 605, 606, 607, 608, 609, 610, 611, 612, 613, 614, 616, 618, 619, 620, 621, 622, 623, 625, 626, 629, 630, 631, 632, 633, 635, 636, 637, 638, 639, 640, 641, 642, 643, 644, 646, 647, 648, 649, 650, 651, 652, 653, 654, 655, 689, 690, 691, 692, 693, 694, 695, 696, 697, 700, 701, 702, 703, 705, 706, 707, 708, 709, 710, 711, 712, 773, 778, 785, 786, 788, 790, 791, 800, 804, 806, 807, 808, 815, 816, 820, 867, 888.

Fendaniti, 333.

Fenicii, 31, 104, 291; III, 3, 6.

Fer Ugo, III, 600, 601.

Ferdinando il Cattolico, 234.

Ferghalûsc, v. Asbagh-ibn-Wekil.

Ferran-love, III, 260.

Fezara, tribù arabica, II, 32.

Fibonacci Leonardo, III, 692, 695.

Fichi Raimondo, III, 868.

Filagato, monaco, III, 695.

Filargato, II, 318.

Filippico, 180.

Filippo, arabo, monaco, III, 208.

Filippo, di Gregorio, III, 166.

Filippo, di Mehdia, III, 425, 436, 437, 438, 439, 445, 484.

Filippo, monaco, 488.

Filippo I, re di Francia, III, 195.

Filippo II, di Francia, III, 524, 529, 590.

Filippo III, di Francia, III, 631.

Filippo II, re di Spagna, II, 282.

Finni, II, 169; III, 15.

Fiorelli Giuseppe, III, 452.

Fleischer, XXII; II, 271, 504; III, 743, 755, 762, 782.

Florenti, supposto re di Palermo, II, 338.

Fluegel, XXXVII, XXXIX, XLII, LI, LV.

Fluro, 383.

Foca, condottiero, II, 192, 193.

Fodhûl, 41, 49.

Furiani, L; III, 420, corr. Forriani, e v. Omar e Hosein.

Fortia, d’Urban, 10.

Fotino, 245, 250, 251.

Fozio, 338, 434, 454, 485, 489, 499, 500, 501, 505, 517, 518; III, 49.

Francesco II, di Francia, 690.

Francesi, II, 144, 442; III, 218, 367, 414, 442, 500, 501, 557, 558, 758.

Franchi, 11, 104, 182, 183, 184, 186, 190, 222, 312, 365, 374, 380, 438, 447; II, 72, 89, 322, 337, 372, 552; III, 79, 81, 82, 188, 189, 218, 319, 412, 420, 444, 468, 469, 512, 527, 767.

Francu, cognome, III, 206, 875.

Fredesenda, III, 42, 45.

Friddani (barone di), XXXV; III, 230.

Fridleif, re di Danimarca, II, 385.

Frode I, re di Danimarca, II, 386.

Fulci Innocenzo, III, 887.

Fusaiolo, v. Michele Doceano.

Fusco, III, 344.

G

Gabriele, 51, 55.

Gaetani Ottavio, XXIX; 18, 28, 29, 103.

Gafiki, III, 212.

Gaietani Costantino, III, 3, 11.

Gaitane Giovanni, III, 208.

Gala Niccolò, III, 208.

Galabeta Roberto, III, 291.

Galileo, III, 295.

Galli, 372.

Gallo, imperatore, II, 109.

Gallo Agostino, II, 454.

Gallo Niceta, III, 208.

Gambro Riccardo, III, 291.

Gargallo Tommaso, XXXV.

Garibaldi Giuseppe, III, 97.

Gaun-es-Sikilli (el), v. Hasan-ibn-Wadd.

Gauthier, III, 107.

Gayangos Pasquale, XXXIV, XXXIX, XL, CLIII, XLIX, LV; 81; III, 626.

Gazeli (corr. Gazàli), II, 493.

Gaznevidi, 264.

Gazolin de la Blace, III, 62.

Geberiti, II, 99.

Geihani, III, 669.

Gelâl-ed-dîn, III, 637.

[910]

Gemâl-ed-dîn, III, 654, 655.

Gembloux (di) Guglielmo, III, 85.

Gemmellaro G. G, III, 780, 795.

Genova (da) Simone, III, 695.

Genserico, 11.

Gentile, conte, III, 580, 581, 583.

Gentile, vescovo di Girgenti, III, 500, 502.

Gerâwa, tribù, 119.

Gerberto, v. Silvestro II, papa.

Gerlando, vescovo di Girgenti, III, 307.

Germani antichi, III, 557.

Gerusalemme (patriarca di), III, 644, 645, 646.

Gesù Cristo, 51, 76, 77; II, 86; III, 701, 814.

Gesuiti, 101; III, 191, 414.

Gevehardo, II, 325.

Gewara, tribù berbera, III, 627.

Gewhari, II, 504.

Gezîra (fazione della) in Tunis, III, 429.

Ghâli. v. Ghôla.

Ghassan, tribù arabica, 32, 39, 58; II, 222.

Ghibellini, III, 433, 588, 601.

Gholâ, II, 106.

Giâber-ibn-Ali-ibn-Hasan, II, 329, 330.

Giacobbe, III, 186.

Giacobbe, figlio di Abba Mari, III, 708.

Giacobiti, II, 302.

Giacomo, re di Sicilia, lvi; III, 650, 654.

Gia’far-ibn-Ahmed-ibn-Jûsuf, emir kelbita di Sicilia, soprannominato Thiket-ed-dawla, II, 345, 368, 538.

Gia’far-ibn-Ali, II, 237, 238.

Gia’far-ibn-Ali-ibn-Kattâ’, II, 505, 542.

Gia’far-ibn-el-Barûn (Abu-l-Fadhl), III, 764, 765.

Gia’far-ibn-Habîb, II, 336, 337.

Gia’far-ibn-Jûsuf, emir kelbita di Sicilia, soprannominato Tag-ed-dawla, II, 335, 336, 342, 348 a 355, 374, 376, 538; III, 820, 849.

Gia’far-ibn-Mohammed, emir di Sicilia, 394, 400, 410.

Gia’far-ibn-Mohammed, emir kelbita di Sicilia, II, 330, e forse lo stesso a pag. 536.

Gia’far-ibn-Obeid (Abu-Ahmed), II, 171, 172, 173, 290, 291.

Gia’far, condottiero, II, 345.

Gia’far-ibn-Taib, II. 538.

Gia’far-ibn-abi-Taleb, 59.

Gia’far, detto il Verace, II, 116.

Giânâkh-ibn-Khakân-el-Kimâki, III, 669.

Giândewân, II, 113.

Giannizzeri, II, 169.

Giawâs, v. Ali-ibn-Ni’ma.

Giawher il Siciliano, XLII; 235; II, 137, 282, 283, 284, 285, 286, 288, 290, 291; III, 260, 835.

Giggei, IX.

Giobbe, 32.

Giodsami, III, 211.

Gioneîd (Abu-I-Kâsim), II, 480.

Giordano, III, 564.

Giordano, figliuolo di Riccardo, principe di Capua, III, 123, 142, 151, 152, 155, 156, 161, 162, 163, 164, 166, 167, 177, 178, 181, 195.

Giordano, figliuolo di Ruggiero, conte di Sicilia, III, 315.

Giorgio, d’Antiochia, L, LIII; III, 262, 354 segg., 360 segg., 381, 387, 405 a 422, 429, 434, 436, 442, 449, 480, 607, 656, 660.

Giorgio Probato, II, 368, 376.

Giorgio, stratego, 379.

Giovanna, d’Inghilterra, moglie di Guglielmo I, III, 357.

Giovanna, papessa, 434.

Giovanni, ammiraglio, III, 262, 355, 356.

Giovanni Cerameo, 488, 496.

Giovanni il Cretese, 328.

Giovanni, diacono (IX secolo), 505.

Giovanni, diacono caloense, XXIX.

Giovanni, diacono di Napoli, 239, 240, 249, 292, 355, 366, 430, 434; II, 64, 70, 71.

Giovanni, diacono di Venezia, XXVIII; 96, 99.

Giovanni, duca di Napoli, II, 164.

Giovanni, eunuco, II, 379, 390.

Giovanni, figlio di Costantino, siciliano, III, 697.

Giovanni, figlio d’Eugenio, ammiraglio, III, 353.

Giovanni, gaito, III, 263.

Giovanni, nipote d’Eugenio, ammiraglio, III, 353.

Giovanni, intarsiatore, III, 792.

Giovanni Lecanomante, 498.

Giovanni Logoteta, III, 83.

Giovanni Longobardo, III, 294.

Giovanni il Lungo, v. Macrojoanni.

Giovanni, martire, 511.

Giovanni, detto il Moro, III, 711.

Giovanni Orseolo, II, 366, 367.

Giovanni II, papa, 12.

Giovanni VIII, papa, 415, 433, 434, 443, 444, 445, 446, 447, 448, 449, 450, 451, 452, 453, 454, 456, 457, 458, 517; III, 161, 299.

Giovanni X, papa, 161, 165, 166, 170.

Giovanni, padre di San Luca di Demona, II, 408.

Giovanni Patriano, 402.

Giovanni, patrizio, 119, 120, 213.

Giovanni, patrizio e protospatario, 213.

Giovanni Pilato, II, 246.

Giovanni Rachetta, v. Sant’Elia il Giovane, 512, 513, 514.

[911]

Giovanni, retore, III, 664.

Giovanni Romeo, III, 256.

Giovanni, sacellario, 189.

Giovanni, di Sicilia, XXX; 506, 507.

Giovanni, vescovo di Malta, III, 502.

Girault de Prangey, III, 818, 819, 831.

Girgenti (vescovo e Chiesa di), III, 247, 256, 264, 573, 587, 593, 594, 615, 872.

Girgir, v. Maniace Giorgio.

Gisulfo, principe di Salerno, II, 459; III, 142, 143, 144, 148.

Giuditta, d’Evreux, III, 84, 91.

Giulio..., cristiano. III, 256.

Giustiniano, 40, 101, 195, 198, 200, 212.

Giustiniano, secondo, 203, 215; III, 829.

Giustiniano Partecipazio, 274, 287.

Giustino, 28.

Glycas Michele, 507.

Goffredo, III, 62.

Goffredo, di Buglione, III, 207.

Goffredo, chierico, III, 615.

Goffredo, figliuolo del conte Ruggiero, III, 195.

Goffredo, di Hauteville, III, 45, 51, 57, 59.

Goffredo Ridelle, o Rindelle, III, 59, 63, 65, 69.

Goffredo, vescovo di Messina, III, 346.

Golio, XIV, L.

Gordiano, 101.

Goti, 12, 22, 104, 121; III, 159, 823.

Gorresio Gaspare, III, 676.

Graffeo, III, 257, 258.

Granatelli, XXXIV, XXXV; II, 455.

Grantimesnil (di) Guglielmo, III, 185.

Grantimesnil (di) Roberto, II, 84, 192.

Gravina (conte di), III, 489, 495, 496.

Gravina (don Dom. Benedetto), III, 862.

Greci, 194, 196; II, 32, 85, 99, 137, 169, 170, 174, 175, 244, 262, 268, 270, 299, 301, 312, 321, 322, 326, 329, 382, 385, 390, 398, 399, 405, 415, 416, 450, 461, 503, 515, 542, 660; III, 23, 24, 27, 33, 36, 41, 42, 53, 58, 90, 102, 142, 205, 206, 207, 208, 228, 251, 254, 267, 270, 280, 293, 296, 297, 299, 303, 306, 324, 351, 365, 432, 435, 467, 537, 539, 556, 675, 699, 800, 811, 826, 837, 854, 870.

Greco, intarsiatore, III, 792.

Gregora, patrizio, 240, 251.

Gregorio, supposto arcivescovo di Taormina, 489.

Gregorio Asbesta, 499, 500, 501, 502, 521.

Gregorio, capitano Bizantino, 446, 447.

Gregorio, catapano, II, 341.

Gregorio Cerameo, 488.

Gregorio, consolare e protonotaro, 213.

Gregorio, console, II, 90, 95.

Gregorio Decapolita, 502.

Gregorio, duca di Napoli, II, 163.

Gregorio II, papa, 96, 181.

Gregorio IV, 365.

Gregorio V, II, 318.

Gregorio VII, 389; II, 348: III, 42, 48, 143, 144, 145, 146, 191, 199, 303, 304.

Gregorio IX, III, 609, 612, 701, 712, 867.

Gregorio, patrizio d’Affrica, 79, 108, 109.

Gregorio, patrizio di Sicilia, 192, 213, 228.

Gregorio Rosario, VII, XIII, XIV, XVII, XVIII, XXI, XXIII, XXIV, XXXVIII, XLI, XLIX, LI, LII, LV; 15, 247.

Gregorio, stratego, 437.

Grillo Tommaso, III, 868.

Grimualdo, 188, 189, 190.

Grion, III, 888.

Guaiferio, 383, 385, 387, 461, 463.

Guaimario, principe di Salerno, III, 36, 37, 116, 124.

Gualtiero de Moac, ammiraglio, III, 357.

Gualtiero, vescovo di Girgenti, III, 210.

Gualtiero, arcivescovo di Palermo, III, 275.

Guarino, cancelliere, III, 356.

Guebri, 150.

Guelfi, III, 588, 590, 815.

Gufulône (Khalfûn?), III, 646.

Guglielmo Appulo, III, 22, 23, 24, 31, 33.

Guglielmo, di Castrogiovanni, III, 565.

Guglielmo, duca di Puglia, III, 388, 392.

Guglielmo, figliuolo di Tancredi, re di Sicilia, III, 559.

Guglielmo il Grosso, III, 607.

Guglielmo, di Hauteville, II, 380, 382, 386, 387, 389; III, 24, 29, 31, 35, 37, 38, 39.

Guglielmo, fratello del precedente, III, 38, 39, 45, 50.

Guglielmo, di Malmesbury, III, 39.

Guglielmo Malo Spatario, III, 236.

Guglielmo Orfanino, III, 565.

Guglielmo I, re d’Inghilterra, III, 20, 326, 364, 444.

Guglielmo II, d’Inghilterra, III, 187, 213, 216.

Guglielmo I, di Sicilia, III, 58, 78, 217, 218, 223, 226, 228, 229, 262, 339, 360, 364, 430, 445, 464, 465, 466, 467, 468, 473, 482, 483, 485, 486, 488, 489, 491, 492, 493, 494, 497, 591, 665, 680, 722, 768, 811, 814, 816, 819, 888.

[912]

Guglielmo II, di Sicilia, XLIX; II, 335, 429, 451; III, 159, 173, 218, 232, 235, 243, 246, 253, 262, 263, 265, 299, 308, 318, 325, 339, 357, 364, 435, 450, 465, 489, 493, 494, 498, 502, 503, 504, 505, 512, 513, 514, 516, 517, 518, 519, 520, 523, 529, 530, 531, 532, 533, 534, 535, 537, 540, 541, 543, 545, 546, 547, 553, 557, 568, 587, 591, 594, 611, 621, 628, 632, 688, 690, 697, 777, 778, 788, 799, 811, 814, 818, 819, 867, 874, 888.

Gugliotta (da) Pietro Francesco Paolo, III, 288.

Guibaldo, abate. III, 398.

Guidi Ignazio, III, 857.

Guido di Sessa, II, 325.

Guido, duca di Spoleto, 369, 445, 447.

Guido III, duca di Spoleto, 455, 461.

Guglielm (Sir), banchiere in Cefalù, III, 215.

Guntar, 387.

Guntero, II, 325.

Gurmund, II, 385.

H

Habib-ibn-Obeida, 173.

Habib-ibn-abi-Obeida, 172, 174.

Hadding, re di Danimarca, II, 385.

Hadi, califo abbasida, II, 112.

Hadhrami, II, 62, 63.

Hadhramaut (tribù dell’), II, 63; III, 210.

Hâfiz, califo fatemita, III, 406.

Hafs-ibn-Hamîd, 152.

Hafsiti, XLIX, LV; II, 471; III, 599, 623, 631.

Haftariri, II, 142.

Haggi-Abu-l-Fadhl, III, 256.

Haggi Khalfa, LV.

Haià, 359.

Hâkem-biamr-Illah, califo fatimita (Mansur), II, 40, 137, 331, 348, 356, 360, 364, 448.

Hâkem-ibn-Hesciâm, califo omeiade, di Spagna, 160, 161, 162.

Halcamo, 233, 234, 236.

Haldor, II, 386.

Hamaker, XL; 85.

Hamar, III, 264.

Hamadân, dinastia, II, 278, 365.

Hamdân-ibn-Asci’ath, II, 116, 117.

Hamdis, 146, II, 525.

Hamdûn, II, 536.

Hâmid-ibn-Ali, da Wâset, XXV, XXVI.

Hamilton, 152.

Hammâd-ibn-Bolukkîn, II, 358, 359.

Hammaditi, III, 402, 407, 429.

Hamûd, corr. Hammûd, III, 662.

Hamuto Ruggiero, III, 542, v. Ibn-Hammûd.

Hamza, kaid, III, 264.

Hanefia, II, 115.

Hanzala-ibn-Sefwân, 128, 136, 137.

Hareth, fratello di Iehia-ibn-el-Azix, III, 423.

Hariri, scrittore, II, 495, 514; III, 730.

Harrani, 383.

Hartwig Ottone, III, 299.

Harûn-Rascîd, 144, 145, 149, 150, 255; II, 279, 462, 623, 634, 685, 704, 705, 805, 816.

Hasan-ibn-Abbâs, 417, 421.

Hasan-ibn-Abd-el-Bâki (Abu-Ali), detto Ibn-el-Bâgi, III, 735.

Hasan-ibn-Ahmed-ibn-Ali-ibn-Koleib, soprannominato Ibn-abi-Khinzîr, II, 142 a 145, 147, 150, 151, 156, 191.

Hasan-ibn-Ali-ibn-Ge’d (Abu-Mohammed), II, 489.

Hasan-ibn-Ali, grammatico, II, 496.

Hisan-ibn-Ali, Hodseilita, soprannominato Ibn-es-Susi, III, 213, 751.

Hasan-ibn-Ali-ibn-abi-Hosem (Abu-l-Kasim), primo emiro kelbita in Sicilia, II, 202 a 204, 206, 207, 208, 209, 210, 211, 212, 234, 235, 238, 242, 243, 244, 245, 246, 247, 248, 249, 250, 251, 252, 253, 254, 255, 263, 269, 270, 372, 373, 414, 449.

Hasan-ibn-Ali, principe zirita, di Mehdia, II, 529; III, 367, 380, 386, 399, 402, 403, 404, 405, 406, 407, 408, 411, 412, 413, 415, 416, 417, 418, 419, 421, 423, 429, 430, 475, 479.

Hasan-ibn-Ali-ibn-abi-Taleb, II, 107, 115.

Hasan-ibn-’Ammar, II, 257, 259, 266, 267, 270, 271, 331, 332.

Hasan-ibn-Ibrabim-ibn-Sciâmi (Abu-Fadhl), II, 539.

Hasan-ibn-Iehia (Abu-Ali), XXXVII; II, 429, 516, 517.

Hasan-ibn-Jûsuf, soprannominato Simsâm-ed-dawla, emir kelbita, II, 375, 379, 393, 419 a 422, 424, 425, 427, 548, 551; III, 66.

Hasan-ibn-Mohammed, di Bâghâia, II, 352, 354.

Hasan-ibn-Nâkid, 429, 430; II, 53.

Hasan-ibn-Omar-ibn-Menkûd (Abu-Mohammed), II, 420, 539.

Hasan-ibn-Rescîk (Abu-Ali), v. Ibn-Rescik.

Hasan-ibn-Sabbah, II, 117.

Hasan-ibn-Wadd (Abu-Ali), detto El-Gaun-es-Sikilh, III, 761.

Hâscem, 49, 56, 64.

Hâscem-ibn-Jûnis (Abu-l-Kâsim), II, 514, 536.

Hasdai-ibn-Bescrût, II, 219.

[913]

Hase Carlo Benedetto, XXIX, XXXIII, XXXVII, XXXIX, LII; 84; II, 416.

Hassân-ibn-No’man, 119, 120, 122, 131, 165, 166.

Hauteville (casa di), III, 23, 31, 39, 40, 45, 52, 53, 111, 119, 122, 131, 133, 143, 146, 258, 274, 304, 332, 530.

Hawwâs, v. Ali-ibn-Nima.

Hazima, tribù arabica, II, 522.

Heggiâg-ibn-Jûsuf, II, 4.

Hegiazi, III, 212.

Herawi, XLVI; II, 436, 441.

Hermann, III, 604.

Hermes, III, 690.

Hesciâm, califo omeiade, 128, 135, 136.

Hilâl, tribù arabica, II, 547; III, 93.

Himiariti, II, 233, 336, 520.

Hittorf, III, 858, 859.

Hobwart, XLI.

Hodseil, tribù arabica, II, 213, 751.

Hohenstaufen, III, 531.

Holwâni, II, 120.

Homaidi, XLII; II, 491.

Honnegar, XXXIV, XLV, LIV, LVI.

Hosein-ibn-Ahmed-ibn-Ja’kûb, 391, 423.

Hosein-ibn-Ali-el-Kindi, III, 256.

Hosein-ibn-Ahmed, da Sana’, detto lo Sciita, v. Abu-Abd-allah-es-Sci’i.

Hosein-el-Forriâni (Abu-l-Hasan), III, 420, 468, 469, 470.

Hosein-ibn-Ali-ibn-abi-Taleb, II, 107, 115.

Hosein, da Cassaro, III, 264.

Hosein, gaito e stratego, III, 316.

Hosein-ibn-Giawher, II, 288.

Hosein-ibn-Homâm, II, 267.

Hosein, di Palermo, III, 256.

Hosein-ibn-Ribbah-ibn-Ja’kûb-ibn-Fezâra, 391, 410, 417.

Hosein-ibn-Sentir, III, 206.

Howâra, tribù berbera, 264, 286, 351; II, 52, 198; III, 211.

Huillard-Bréholles, XXX.

Humboldt, XXX; III, 658.

Humur, di Michiken, III, 264.

Hurter, III, 570.

I

Iacopo, congiunto di Innocenzo III, III, 579, 581.

Ia’kûb, califo almohade, III, 496.

Ia’kûb-ibn-Ahmed, emir aghlabita, 426.

Ia’kûb-ibn-Ali-Roneidi, II, 512, 542.

Ia’kûb-ibn-Fezâra, II, 140.

Ia’kûb-ibn-Ishâk, II, 180.

Ia’kub-ibn-Jûsuf, califo almohade, III, 686.

Ia’kub-ibn-Modhâ-ibn-Sewâda-ibn-Sofiân-ibn-Sàlem, 391.

Ia’kûbi, III, 669.

Ia’kûbia, famiglia, 391.

Iakût, XXVII, XLVI; 87; II, 429, 510, 515, 517, 522.

Ia’isc, II, 291, 292, 293.

Iamsilla (de) Niccolò, III, 706.

Iânis il Siciliano, II, 356, 357.

Iaroslaw I, II, 384.

Jaubert, XLIV.

Iazuri, II, 547.

Ibaditi, 127; II, 120, 197.

Ibelin (principe d’), III, 643.

Ibn-el-Abbâr, XXXVII, XLII, XLIX; 144, 145, 154.

Ibn-Abd-el-Berr, II, 482, 503, 542.

Ibn-Abd-el-Hakem, XXXIX; 88, 89, 93, 96, 105, 112, 113.

Ibn-Abd-Rabbih, xxviii; 35, 73; III, 133.

Ibn-Adsâri, XXXVII, L.

Ibn-Aiâs, LV.

Ibn-Ali, II, 158.

Ibn-abi-’Amir, detto Almanzor, II, 472, 497, 521; III, 4.

Ibn-’Ammâr, II, 291.

Ibn-’Amrân, II, 185.

Ibn-Asciath, II, 204, 205.

Ibn-Abi-’Asrûn, III, 720.

Ibn-el-Athîr, XIX, XXVII, XXVIII, XLVII.

Ibn-’Attâf, II, 195, 204, 205, 206.

Ibn-el-Awwâm, XLII; II, 447.

Ibn-Ba’ba’, II, 552.

Ibn-el-Bâgi, v. Hasan-ibn-Abd-el-Baki.

Ibn-Baruki, III, 256.

Ibn-Baskowâl, XLIII; II, 475, 476.

Ibn-Baslûs, II, 253.

Ibn-Bassâm, XLIII; II, 500, 524, 525, 535.

Ibn-Batuta, XLVI.

Ibn-Besâl, II, 447.

Ibn-Bescirûn, XXXVIII, XLV; II, 535; III, 462.

Ibn-el-Bessâr, III, 509.

Ibn-Dâia, II, 183.

Ibn-Dhaisân, o Bardesane, II, 109.

Ibn-abi-Dinâr, LV.

Ibn-Fadhl-Allah, v. Ahmed-ibn-Iehia.

Ibn-Abi-l-Fadhl, 268.

Ibn-Fassâl, II, 447.

Ibn-Fehhâm, v. Abd-er-Rahmân-ibn-Abi-Bekr.

Ibn-Fûregia, II, 512, 513.

Ibn-Ghalanda, v. Abu-l-Hokm.

Ibn-Ghania, III, 496, 599, 624.

Ibn-Ghazi, da Susa, II, 225.

Ibn-Giâbir, II, 487.

Ibn-Giobair, XXVII, XLVI; II, 308; III, 520, 685, 842, 844, 847, 848.

Ibn-Giolgiol, XLIX; II, 219.

Ibn-el-Giuzi, XLVIII; II, 552.

Ibn-el-Hagiar, v. Ibn-Hammûd (Abu-l-Kâsim).

Ibn-Hamdîs, v. Abd-el-Gebbâr.

[914]

Ibn-Hamdûn, III, 377.

Ibn-Hammâd, XLVI.

Ibn-Hammûd, signor di Castrogiovanni, v. Chamut e Hamutus, III, 173, 175, 176.

Ibn-Hammûd (Abu-l-Kâsim, o Ibn-abi-l-Kâsim detto) ed anche Ibn-el-Hagiar, e v. Bulcassimo, III, 173, 263, 500, 532, 540 a 542, 719, 721, 722, 725.

Ibn-Hammûd, Hazimi, v. Abd-Allah-ibn-Iehia.

Ibn-Hanbal, 150.

Ibn-Hâtim-Adsrei, o Adserbi, II, 488.

Ibn-Haukal, XL, XLI; II, 158, 216, 239, 294, 295, 305, 306, 308; III, 669, 841, 849, 864.

Ibn-Hausceb, II, 120.

Ibn-Hawwasci, v. Ali-ibn-Ni’ma.

Ibn-Hazm, 141.

Ibn-Herawi, II, 429, 436.

Ibn-Homeidi, XLI.

Ibn-Hosein, citato da Leone Affricano, XXXIX.

Ibn-Hosein, Rebe’i (?), Fâresi, II, 454.

Ibn-Ia’kûb, 391.

Ibn-Iehia, v. Hasan-ibn-Iehia.

Ibn-abi-Ifren, III, 214.

Ibn-Iûnis, II, 484; III, 670.

Ibn-Kaddâh, II, 116, 117, 119.

Ibn-Kâdim, 273.

Ibn-Kalakis, II, 429; III, 541, 768.

Ibn-Kattâ’, famiglia siciliana, v. Gia’far-ibn-Ali e Ali-ibn-Gia’far, II, 503.

Ibn-Kelbi, 35.

Ibn-Kellas, II, 330.

Ibn-Kereni, II, 516.

Ibn-Kerkûdi, II, 541.

Ibn-Khaldûn, XVIII, XIX, XXVII, XXVIII, LIII.

Ibn-Khallikân, XIX, XLIX.

Ibn-Khami, II, 153.

Ihn-abi-Khinzîr, v. Hasan-ibn-Ahmed.

Ibn-Khordabeh, III, 669.

Ibn-Konfûd, LVI.

Ibn-Korhob, v. Ahmed.

Ibn-Koteiba, XXXIX.

Ibn-Kufi, II, 195, 204.

Ibn-Kûni, II, 498, 516, 536.

Ibn-Kutia, XXVIII.

Ibn-Labbâna, II, 529.

Ibn-Meimûn, III. 378, 480.

Ibn-Mekki, II, 482, 488, 540.

Ibn-Meklâti, II, 37, 421, 425, 547, 549; III, 64, 308.

Ibn-Menkûd, v. Abd-Allah-ibn-Menkût.

Ibn-Mo’allim, teologo, II, 484.

Ibn-Mo’allim, v. Ali-ibn-Ibrahim.

Ibn-Modebbir, II, 521.

Ibn-Modû, II, 191.

Ibn-Mogêhid, III, 581.

Ibn-Moweddib, da Mehdia, II, 333, 334.

Ibn-abi-Oseib’ia, XXXVIII, XLIX.

Ibn-Rekîk, XXXVII, XXXVIII, XLII, XLV, LI; II, 44.

Ibn-Rescîk, VII, XXXVII, XXXVIII, XLIII, XLV, LI; II, 490, 499, 500 a 503, 505, 515, 517, 519, 520, 522.

Ibn-Saba, II, 107.

Ibn-Sab’în, XLIX, da aggiugnere ad Abd-el-Hakk-ibn-Sab’în.

Ibn-Sâhib-es-Selât, XLIV.

Ibn-Sahl, II, 113.

Ibn-Sa’îd, XXXVIII, XXXIX, XLIX; II, 508, 510; III, 681.

Ibn-Scebbât, XL, XLV; 85, 87, 124, 169; II, 509.

Ibn-Sceddâd (Abd-el-’Azîz), XXXVIII, LI; III, 441.

Ibn-Sceddâd (Jûsuf), v. Boha-ed-dîn.

Ibn-Scerf, II, 501.

Ibn-Sebâia, II, 187.

Ibn-Selma, II, 183.

Ibn-es-Sementi, III, 763.

Ibn-Semsâma, 430; II, 59.

Ibn-Sir’în, II, 541.

Ibn-Soliân, II, 120.

Ibn-es-Susi, v. Sid-es-Sarkusi, Hasan-ibn-Ali, e Othman-ibn-Abd-er-Rahmân.

Ibn-Tazi, II, 494, 513, 536, 543, 544.

Ibn-et-Theiri, v. Edrîsi, III, 664.

Ibn-Thimna, v. Mohammed-ibn-Ibrahim.

Ibn-Tulûn, III, 833, 834, 835, 840, 843, 845, 853, 859.

Ibn-Wahb, II, 145.

Ibn-el-Wardi, LIII.

Ibn-Wuedrân, XXXVII, XLIV, XLV; 154.

Ibn-Zafer, v. Mohammed-ibn-abi-Mohammed.

Ibn-Zura’, III, 532.

Ibrahim-ibn-Abd-Allah-ibn-el-Aghlab (Abu-’l-Aghlab), 300, 304, 305, 320, 354.

Ibrahim-ibn-el-Aghlab, 144, 145, 146, 147, 152, 156, 223, 226, 233, 254. 340; II. 4, 22, 525; III, 599.

Ibrahim-ibn-abi-l-Aghlab, II, 129, 130, 131.

Ibrahim-ibn-Ahmed, 102, 393, 400, 427, 428, 429, 431, 464, 511, 512; II, 5, 22, 23, 30, 42 a 47, 49 a 54, 56 a 65, 69, 73, 74, 75, 76 a 87, 88, 89, 90, 92, 93, 95, 97, 121, 123, 124, 126, 128, 146, 148, 161, 163, 169, 212, 213, 215, 217, 227, 237, 400, 404; III, 352, 829, 851.

Ibrahim, figliuolo di Buccahar, III, 572.

Ibrahim, di Castrogiovanni, III, 134, 135.

Ibrahim-ibn-Khelef, Dibâgi, II, 453.

[915]

Ibrahim-ibn-Mohammed-ibn-Ibrahim-ibn-Thimna, II, 550.

Ibrahim-ibn-Mohammed, Koresci, III, 256.

Ibrahim-ibn-abi-Sa’îd, Magrebi, XLVIII.

Ibrahim-ibn-Selâma, III, 829.

Ibrahim-ibn-Sofiân, 427.

Iconoclasti, 176, 181, 218, 491, 498, 504, 521.

Iectan, 31.

Iehia-ibn-el-Azîz, principe hammadita, III, 423.

Iehia-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Abd-el-Mo’nim, detto Dimiski e Isfahani (Abu-Zakaria), III, 735.

Iehia-ibn-Abd-el-Wâhid (Abu-Zakaria), principe hafsita di Tunis, III, 597, 623, 624, 629.

Iehia-ibn-Hasan-ibn-Temîm, principe zirita, III, 477.

Iehia-ibn-Henzela, III, 832.

Iehia-ibn-Omar-ibn-Jûsuf, Andalosi, II, 188, 220, 221, 225.

Iehia-ibn-Sa’îd, XLI.

Iehia-ibn-Temîm, principe zirita, II, 529, 530; III, 362, 366, 367, 368, 369.

Iehia-ibn-et-Tifasci, III, 486, 767.

Jersey (di) Ugo, III, 151, 152.

Ie’isc-ibn-Gelasia, III, 206.

Iemen (le tribù del), II, 490, 526; III, 210, 211, 506, 639.

Iezdegerd, 60, 68.

Iezîd-ibn-Hàtem, 134, 171.

Iezid-ibn-Moslim, 172.

Ignazio, patriarca di Costantinopoli, 338, 420, 498, 499, 500, 501, 505.

Ikhscid (dinastia di), II, 278, 279, 281.

Ifren, tribù berbera, II, 198, 202.

Iften, III, 212.

Iknizi, III, 212.

Ildebrando, lombardo, III, 221, 223.

Ildebrando, v. Gregorio VII.

Ildebrando, duca di Spoleto, 189, 190.

Imâd-ed-dîn, da Ispahan, XXVII, XLV.

Imamîa, II, 118.

Imro-’l-Kais, 42; II, 535, 747.

Incisa (D’) Aloisio, III, 226.

Incisa (D’) Arrigo, III, 226.

Incisa (D’) Bonifazio, III, 226.

Incisa (D’) Giovanni, III, 226.

Incisa (marchesi di), III, 199, 226.

Incisa (D’) Simone, III, 226.

Ingulfo, II, 325.

Innocenzo II, III, 395, 396.

Innocenzo III, III, 266, 564, 566, 567, 568, 570, 573, 574, 576, 577, 579, 580, 581, 585, 586, 587, 589, 590, 591, 603, 610, 629.

Innocenzo IV, III, 649, 705, 711, 712.

Inveges, VIII, LI, LII.

Jomard, III, 677.

Iosfré (Jeoffroi), III, 291.

Ippocrate, II, 462; III, 697.

Ippolito, vescovo di Sicilia, II, 214, 262, 263, 402, 412.

Irene, 191, 217, 222.

Irmfrido, II, 325.

’Isa-ibn-Abd-el-Mo’nim, es-Sikilli (Abu-Musa), III, 462, 746, 766.

’Isa-ibn-Giàber, III, 804.

’Isa-ibn-Giorgir, III, 206.

’Isa, da Kâbes, III, 413.

Isabella, di Lusignano, III, 643.

Isernia (da) Andrea, III, 328, 330.

Ishâk Bostâni, II, 187.

Ishak-ibn-Hasan, III, 669, 670.

Ishak-ibn-Mâhili (Abu-Ibrahim), II, 306.

Ishak-ibn-Minhâl, II, 143.

Ishak-ibn-Mohammed, III, 518.

Ismaele, 32, 45.

Ismaele, v. Melo.

Ismaele, condottiero, II, 313.

Ismaele, fratello di Malek-Ascraf, III, 647.

Ismaeliani, II, 97, 102, 115, 116, 117, 118, 133, 198, 225, 234, 254, 647, 649.

Isma’il-ibn-Ali-ibn-Miksciar, II, 506.

Isma’il-ibn-Gia’far, alida, II, 116, 119, 132.

Ismail-ibn-Kelef-ibn-Sa’id-ibn-’Amrân (Abu-Tâher), II, 475, 476.

Isma’il-ibn-Mohammed, soprannominato Mansûr-biamr-Illah, califo fatimita, II, 201, 202, 205, 206, 207, 210, 234, 235, 237, 238, 243, 248.

Isma’il-ibn-Tabari, II, 208, 209, 211.

Israeliti, III, 291.

Istachael, v. Michele, re degli Slavi, II, 176.

Istakhri, XL, XLI.

Italiani, II, 137, 160, 175, 322, 328, 340, 380, 394, 398, 460; III, 30, 33, 34, 37, 41, 43, 52, 53, 145, 188, 217, 218, 259, 323, 357, 402, 522, 803.

Italia (d’) Giuseppe, III, 287, 288.

Italinski, XII.

Iûsuf-ibn-Abd-Allah (Abu-l-Fotûh), emir kelbita di Sicilia, soprannominato Thiket-ed-dawla, XXXVII; II, 331, 332, 333, 334, 335, 336, 337, 342, 348, 350, 353, 354, 355, 376, 417, 421, 502, 518.

Iûsuf-ibn-Abd-el-Mumen, califo almohade (Abu-Ja’kûb), XLVI; III, 496, 515 a 518, 632.

Iûsuf-ibn-Ahmed-ibn-Debbâgh (Abu-Jakûb), II, 497.

Iûsuf-abu-l-Fotûh, soprannominato Seif-ed-dawla, v. Bolukkin-ibn-Ziri, II, 288.

Iûsuf-ibn-Caru, III, 206.

Iûsuf-ibn-Gennaro, III, 206.

Iûsuf, da Kâbes, III, 411, 412, 413, 415.

[916]

Iûsuf-ibn-Tasciufin, principe almoravide, III, 374, 375.

Iûsuf-ibn-Ziri (Abu-Heggiâg), III, 409.

K

Kabili, II, 292.

Ka’b-ibn-Zoheir, III, 758.

Kaddàh (el), II, 133, e v. Abd-Allah-ibn-Meimûn.

Kaderiti, II, 99.

Kafûr, II, 281, 284.

Kâhina, 119, 120, 126.

Kahtân, 31, 32, 40, 64, 66, 69, 135; II, 32, 37, 522, 526.

Kâim (el) -biamr-Illah, v. Mohammed-ibn-Obeid-Allah.

Kairouani, v. Ibn-abi-Dinâr.

Kais, tribù arabica, 128, 155; II, 52; III, 210, 212, 736.

Kaisân, II, 106.

Kaisaniti, II, 106.

Kaitbai, III, 836.

Kalesciani, II, 182.

Kallindin (di) Arrigo, III, 550, 561.

Karîma, figliuola di Ahmed-Marwazi, II, 482.

Karmati, II, 102, 116, 117, 118, 205, 278, 281, 286, 293, 312.

Kâsim-ibn-Hasan, kelbita, II, 314.

Kâsim-ibn-Nizâr (Abu-Mohammed), II, 538.

Kâsim-ibn-Thâbit, di Saragozza, II, 481.

Katifi, III, 715.

Kattâni, v. Mohammed-ibn-abi-Fereg.

Kazwini, L.

Kelaûn, LVI; III, 323, 650, 653, 807, 836.

Kelb, tribù arabica, 135; II, 32, 191, 202, 233, 234, 290, 366, 364, 488.

Kelbiti, dinastia di Sicilia, II, 37, 226, 227, 234, 235, 238, 239, 240, 290 a 292, 308, 330 a 332, 338, 343, 351, 369, 372, 374, 400, 420, 421, 424, 427, 428, 456, 476, 481, 497, 502, 516, 519, 520, 537, 538; III, 85, 350, 394, 665, 841, 849, 851.

Kerni, o Kereni, II, 464.

Khadigia, 50.

Khafâgia-ibn-Sofian, 340, 341, 343, 344, 345, 346, 347, 348, 349, 350, 351, 360.

Khaira (?), supposto avolo del conte Ruggiero (Ugo, Geir, Haby, Habwu?), III, 39.

Khâled-ibn-Abd-Allah-el-Kasri, III, 827.

Khâled-ibn-Iezîd-ibn-Moa’wia, II, 99.

Khâled-ibn-Walîd, 60, 73, 122.

Khalf (corr. Khelef) -ibn-Ahmed-ibn-Ali-ibn-Koleib, II, 142.

Khalfûn, liberto di Rebi’a, 360, 361.

Khalfûn-ibn-Ziâd, 351, 360.

Khalîl-ibn-Ishak, il giurista, III, 484.

Khalîl-ibn-Ishâk-ibn-Werd (Abu-l-Abbâs), II, 188, 189, 190, 191, 194, 195, 196, 197, 199, 203, 204, 205, 213, 216, 351, 400.

Khalîl, preposto della “Quinta,” II, 145, 148.

Khalîl, sultano d’Egitto, III, 264.

Khamaruweih, III, 829, 835.

Khâregi, 127; II, 39, 102, 103, 104, 105, 113, 117, 139, 184, 197, 198, 201, 287, 546.

Kharezmii, III, 637, 638, 639, 647, 648.

Khattâb, II, 127.

Khorramii, II, 110, 114.

Kharsianiti, 333.

Khaulân, tribù arabica, II, 477.

Khawâf, II, 111.

Khelef-ibn-Ibrahim-ibn-Khelef, soprannominato Ibn-Hassâr, II, 478, 487.

Khidhr, il cadi, II, 455.

Kholûf-ibn-Abd-Allah, II, 477, 497, 542.

Khorassâni, II, 264.

Khorassaniti, II, 369.

Khozari, II, 365.

Kimâri, LIV.

Kinàna, tribù arabica, XLVI; 269, II, 32, 160, 539.

Kinda, tribù arabica, 84; II, 32, 526; III, 210.

Kirmani, III, 212.

Kirmit, v. Hamdân-ibn-Asci’ath.

Kirmiti, v. Karmati.

Kodama, III, 669.

Kodhâ’a, tribù arabica, XLII; II, 233, 336.

Kodhâ’i, XLII.

Kolthûm, 136.

Koreisc, tribù arabica, 47, 49, 50, 64; III, 211, 736.

Kos, XLV; 40, II, 513.

Kosegarten, 63.

Koseila, 115, 116, 117, 118, 126.

Kossai, 48, 49.

Kotâma, o Kutâma, tribù berbera, II, 36, 39, 40, 52, 53, 75, 76, 120 a 124, 128, 130 a 139, 142, 157, 159, 160, 168, 182, 183, 186, 202, 207, 233, 234, 281, 287, 289, 292, 293, 331, 332, 355, 421; III, 157, 211.

Krehl, LV.

Kutâma, v. Kotâma.

L

La Farina Martino, XLI.

Lakhm, tribù arabica, II, 516, 539; III, 210.

La Luce, III, 205, 875.

La Lumia Isidoro, III, 286, 287, 290, 299, 635, 774.

[917]

Lamberto, di Spoleto, 445, 447, 448, 451.

Lamtuna, tribù berbera, III, 373, 379.

Lanci Michelangelo, XXIV.

Lancias, cognome, III, 205.

Landemaro, 386.

Landolfo, calabrese, II, 408.

Landolfo, figliuolo d’Atenolfo, principe di Capua, II, 163, 164, 165, 166, 168, 170.

Landolfo, figliuolo di Pandolfo Capo di ferro, II, 313.

Landolfo, fratello di Pandolfo Capo di ferro, II, 312.

Landolfo, principe di Benevento, II, 153.

Landolfo, principe di Capua (982), II, 325.

Landolfo, vescovo di Capua, 435, 443, 462.

Landolfo II, vescovo di Napoli, 456.

Landone, figliuolo di Landone I, 452, 464.

Landone, figliuolo di Landonolfo, 452.

Landonolfo, 452.

Lane, III, 329.

Lascari, III, 203.

Lanza Pietro, XV, XXXV.

Lasinio Fausto, III, 706.

Latini, 42; II, 465; III, 142, 283, 296, 523, 538.

Latini Brunetto, III, 695.

Lavardino (di) Giovanni, III, 251.

Lebidi, 277.

Lee John, XXXVII, LV; II, 224, 510.

Lee Samuel, XXXV, XL, XLI, XLVI.

Lega Lombarda, III, 530, 610.

Legiati, III, 212.

Lello (Michele Del Giudice), xxix.

Le Monnier, XXXVI.

Leone Affricano, VIII, XXXVII, XXXIX; 104, 107, 121, 234, 235, 236; II, 267, 883.

Leone Apostippi, 439, 440.

Leone, arcivescovo di Tessalonica, II, 48.

Leone Foca, II, 262.

Leone III, imperatore, detto l’Isaurico, 96, 174, 180, 184, 207, 217, 220, 224, 250, 350, 491; II. 184.

Leone V (l’Armeno), 192, 193, 231, 491, 497, 502.

Leone VI (il Sapiente), 73, 243, 406, 415, 425, 471, 486, 518; II, 70, 79, 80, 86, 88, 163; III, 279.

Leone, logoteta, III, 347.

Leone Opo, II, 377, 381.

Leone, d’Ostia, 233, 458; III, 24, 31, 33.

Leone II, papa, 29.

Leone III, papa, 184, 190, 194, 192, 224, 230, 231.

Leone IV, papa, 366, 367, 389.

Leone IX, papa, III, 41, 42, 43, 44, 46, 47.

Leone X, papa, 234.

Leone, schiavo, figlio di Malacrino, III, 234.

Leone, spatario, 191.

Leone, spatario e logoteta, 213.

Leone, da Tripoli di Siria, II, 88, 89.

Leone, vescovo di Catania, II, 402.

Leone, vescovo di Sicilia, II, 172, 214, 402, 405.

Leone, vescovo di Tessalonica, 503.

Leonzio, prefetto, 243.

Letronne, 8.

Lewâta, tribù berbera, II, 32, 37, 52; III, 211.

Lewati, III, 211.

Libertino, 15, 28.

Liguri, 196; III, 423.

Lipari (abate e vescovo di), III, 276, 356, 363.

Liutprando, re, 158, 182.

Liutprando, scrittore, II, 214, 262.

Lodovico I, imperatore, 232; III, 47.

Lodovico II, imperatore, 365, 367, 369, 370, 373, 376, 377, 378, 379, 380, 381, 382, 383, 384, 387, 388, 389, 393, 433, 435, 436, 437; III, 107.

Lodovico II, re di Francia, detto il Balbo, 451, 453.

Lodovico VII, re di Francia, III, 433, 434, 435, 498.

Lodovico IX, re di Francia, III, 630, 631, 638, 653.

Lokmàn-ibn-Jûsuf (Abu-Sa’îd), II, 222.

Longobardi, 12, 22, 23, 24, 26, 76, 94, 178, 184, 185, 217, 313, 355, 369, 374, 380, 381, 393, 408, 438; II, 32, 162, 163, 168, 169, 240, 251, 322, 337, 372, 385; III, 5, 23, 183, 223, 319, 391, 398.

Longpérier (de) Adriano, III, 792, 797, 812.

Loreto (marchese di), III, 199.

Loria Ruggiero, III, 357, 358, 831.

Lotario I, imperatore, 238, 368.

Lotario II, imperatore, III, 395, 397, 398.

Luca, vescovo, 292.

Luce, casato, III, 205.

Lucio, governatore di Sicilia, 219.

Lucrezio, 42; II, 101.

Lucullo, II, 90.

Lupino, III, 167.

Lupo, II, 565.

Lupo, protospatario, III, 24, 33.

Lutero, III, 559.

Luynes (duca di), XXII, XXX; 311; III, 202.

M

Ma’ad-ibn-Isma’il (Abu-Tamim), v. Mo’ezz-li-dîn-illah.

Mabillon, 102, 103.

[918]

Macedoni, dinastia bizantina, II, 41, 153.

Machiavelli, LIV; II, 52, 176.

Macri Domenico, X, XLIV.

Macrojoanni, II, 244.

Madiûna, tribù berbera, II, 36.

Madonna dello Naupactitesse, confraternita, II, 298.

Maffei Annibale, II, 453.

Maffei Scipione, II, 453.

Magadèo (Ibn-Mogêhid?), III, 580.

Magded (Ibn-Mogêhid?), III, 580.

Maggio Francesco Maria, IX.

Maghâga, tribù berbera, II, 36.

Magi, II, 106, 108, 109, 112, 115, 261.

Magiari, II, 162, 169.

Magonza (arcivescovo di), III, 544.

Mahdi, califo abbasida, II, 112, 113; III, 816.

Mahmûd-ibn-Khafâgia, 344.

Mai, XXIII, XLIII.

Maimon, gaito, III, 264, 378, 379.

Maimonide, v. Musa-ibn-Meimûn.

Mainieri, di Acerenza, III, 177, 178.

Majone, III, 217, 232, 356, 360, 466, 482, 483, 484, 485, 493, 607.

Maisar, 127.

Makhlûf, III, 650.

Mâkkâri, LV.

Makrizi, LIV; III, 832, 833, 834, 846, 893.

Malaceno, II, 245.

Malacrino, III, 234.

Malaterra Goffredo, III, 23, 24, 33.

Malati, III, 212.

Maleditto Guglielmo, III, 291.

Maledotto, casato, III, 221.

Malek-Adel, III, 634, 635.

Malek-ibn-Anas, 149, 150, 151, 253, 256, 474; II, 12, 23, 220, 222, 371.

Malek-Ascraf, III, 639, 640, 647, 648, 649.

Malek-Kâmil, III, 634, 636, 637, 638, 639, 640, 641, 642, 643, 644, 645, 646, 647, 648, 649, 650, 651, 692.

Malek-Mansûr, XLVI; II, 521.

Malek-Mes’ûd, III, 641.

Malek-Mo’azzam, III, 634, 637, 638, 639.

Malek-Nâsir, III, 639, 647.

Malek-Salih, III, 492, 647, 653.

Malek-Sciah, III, 520.

Malekiti, giuristi, II, 335; III, 716.

Malgerio, conte di Capitanata, III, 45.

Malgerio, figliuolo del conte Ruggiero, III, 195.

Malgerio, nobile siciliano, III, 580, 581.

Maloto, III, 7, 9.

Malta (da) Paólino, III, 788.

Maltzan (barone di), III, 831.

Mamuca, 101, 102, 103.

Mamûn, califo abbasida, LIV; 226; II, 100, 466, 505, 623, 624, 674.

Manca Filippo, III, 208.

Mandralisca (barone di) III, 822.

Manfredi, re di Sicilia, XXXVIII: II, 347; III, 266, 594, 654, 690, 698, 707, 711, 712.

Manfredo, marchese aleramida, III, 199, 200.

Mani, 138; II, 109.

Maniace Giorgio, VII; II, 346, 376, 378, 379, 380, 381, 382, 383, 384, 385, 386, 387, 388, 389, 390, 391, 392, 395, 410, 415, 416, 417, 418, 422, 423, 487, 517; III, 30, 31, 34, 39, 56, 327, 843.

Manichei, 27, 510; II, 109, 110, 111, 113, 117.

Mansûr, v. Isma’il-ibn-Mohammed.

Mansûr. v. San Giovanni Damasceno, II, 100.

Mansûr, califo abbasida, II, 112; III, 840.

Mansûr, figliuolo di Bolukkin, II, 355, 356, 362.

Mansûr, v. Hâkem-biamr-illah.

Mansûr-ibn-Nâsir-ibn-’Alennâs, II, 529, 530.

Mansûr Tonbodsi 155, 156, 257, 295.

Manuele Foca, II, 213, 214, 262, 264, 266, 267, 271, 273, 382, 413; III, 56.

Maometto, XLI, XLV, XLVII, LI; 30, 43, 44, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 62, 63, 68, 70, 81, 101, 472, 482, 483; II, 13, 14, 15, 16, 74, 105, 107, 117, 132, 136, 229, 231, 233, 235, 269, 280, 436, 453, 454, 456, 460, 461, 478, 484, 492, 493, 495; III, 1, 49, 436, 462, 470, 532, 534, 644, 647, 701, 702, 724, 727, 729, 732, 758.

Marabuti, II, 38; III, 374.

Maracava Niccolò, III, 288.

Maraldo, III, 196.

Marangone, XXIX.

Marano, gaito, III, 447.

Marcel, III, 834.

Marchia (de) Angelo, III, 688.

Marchisi, casato, III, 221.

Marcioniti, II, 109.

Marcualdo, o Marqualdo, v. Anweiler (de).

Mardaiti, 401, 413, 414.

Margam-ibn-Sabir, III, 627.

Mario, II, 90.

Margarito, da Brindisi, detto Margaritone, XLVI; III, 523 a 529, 534, 558, 607.

Margherita, regina di Sicilia, III, 256, 493, 495, 498.

Mari (de) Ansaldo, III, 357.

Maria, martire, 45.

Maria, figliuola di Teofilo, 297.

Mariano Argino, II, 250, 251, 252.

Maringo Giambattista, II, 298.

[919]

Marino, duca d’Amalfi, 386.

Maris, Marisc o Marîsh, II, 211.

Marocco (re di), III, 379.

Maroniti, XLIV; II, 405, 681.

Marozia, II, 160.

Marrekosci, v. Abd-el-Wàhid.

Marsden, XXIV; III, 450, 816

Marilnez Marco Antonio, II, 303, 304.

Martino, gaito, III. 263, 489.

Martino I, papa, 77, 78, 79, 84, 89, 91, 94, 96.

Masmuda, tribù berbera, III, 622.

Masmudi, v. Almohadi.

Massar, 368, 370.

Mas’ûdi, XL; III, 669.

Matilde (la contessa), III, 143, 191.

Matilde, figliuola del conte Ruggiero, III, 195.

Matranga, XXXIV, XLIII; 489.

Matteo, arcivescovo di Capua, III, 568.

Matteo, notaro, III, 324.

Matthews, 63.

Maugerio, III, 38.

Maurizio, imperatore, 76.

Maurolico, 495; II, 59.

Mawerdi, XXVIII.

Mawkifi, Mohammed e Abu-l-Farag, II, 521, 522.

Mazari, v. Mohammed-ibn-Ali-ibn-Omar-ibn-Mohammed, e Mohammed-ibn-Mosallim.

Mazdak, 74, 138; II, 109, 110, 111, 112, 113.

Mazdakiani, II, 110, 112, 117.

Me’àfir, tribù arabica, II, 541; III, 210.

Medini, casato, III, 212.

Medkur, II, 420, v. Abd-Allah-ibn-Menkut.

Megber-ibn-Mohammed-ibn-Megber, II, 522, 523.

Mehdi, almohade, v. Mohammed-ibn-Tumert.

Mehdi, fatimita, v. Obeid-Allah.

Meimûn-ibn-Amr (Abu-’Amr), cadi, II, 222, 225.

Meimûn, capitano d’Ibrahim-ibn-Ahmed, II, 53, 54.

Meimûn, carnefice d’Ibrahim-ibn-Ahmed, II, 60, 61.

Meimûn-ibn-Ghania, II, 415.

Meimûn. figlio di Hosein, da Palermo, III, 256.

Meimûn(Abu-Mohammed), III, 377.

Meimûn-ibn-Mohammed-ibn-Meimûn, III, 378.

Meimûn-ibn-Musa, II, 185, 186.

Meimuna, figlia d’Hassân-ibn-Ali, Hodseilita, III, 213, 751.

Meimuna, figlia di Hawwasci, II, 418, 549, 550.

Meklata, tribù berbera, II, 37, 421; III, 212.

Meledio, III, 97, 101.

Meles, III, 291.

Melfi (casato), III, 211.

Meli, XII.

Melo (Ismaele), II, 342; HII, 22, 25, 26, 27, 29, 30, 53, 799.

Menelao supposto re di Sicilia, VII.

Menkûr, II, 420, v. Abd-Allah-ibn-Menkût.

Mercator, III, 678.

Merinidi, LIII

Merlo Giovanni, XXXV.

Merwan, II, 99.

Mesciti, casato, III, 205, 875.

Mesrata, tribù berbera, III, 212.

Messala, III. 817.

Messia, II, 106, 128.

Messina (archimandrita di), III, 309, 337, 525.

Messina (arcivescovo di), III, 245, 256, 286, 308, 321, 441, 580.

Messina (da) Bartolommeo, III, 707.

Messina (da) Giovanni, III, 532.

Messina (da) Stefano, III, 690.

Mes’ûd, II, 171.

Mes’ûd Bâgi, II, 66.

Mes’ûd Koresci, III, 256.

Mes’ûdi, III, 212.

Metkud, II, 420, v. Abd-Allah-ibn-Menkût.

Metodio, 20, 220, 496, 497, 498, 499, 502, 503.

Meursius, 73.

Meziza, tribù berbera, II, 35.

Miceli Dionisio, III, 605.

Michele, ammiraglio, 428.

Michele, capitano in Calabria, 517.

Michele Characto, II, 79.

Michele Doceano, il Fusaiolo, II, 381, 390, 392, 393; III, 30, 31, 32, 33.

Michele, governatore di Palermo, 248.

Michele I, imperatore, detto Rangabe, 192, 227, 498.

Michele II, detto il Balbo, 164, 193, 194, 220, 239, 242, 243, 245, 250, 251, 252, 274, 281, 287, 288, 494, 497.

Michele III, imperatore, 332, 338, 341, 501, 503, 506; II, 48.

Michele IV, imperatore, detto il Paflagone, II, 379, 384, 393.

Michele V, imperatore, detto Calafato, II, 384, 394.

Michele VII. imperatore. III, 144.

Michele, medico, III, 868.

Michele, padre di Giorgio, d’Antiochia, III, 361.

Michele, patrizio di Sicilia, 190.

Michele, re degli Slavi, II, 176. Per errore Istachael, ivi.

Micheret de Iatino, III, 264.

Midrariti, 129.

Miknas o Miknasa, tribù berbera, II, 36.

[920]

Milanesi Carlo, III, 700.

Minimi di San Francesco di Paola. III, 120.

Miniscalchi, XXXIV, XLIII; III, 368.

Minoartino, casato, III, 221.

Mirabetto, III, 597, 600.

Mir-’Abs, v. Mirabetto.

Mizize, 96, 98.

Mo’aiti, v. Abu-Abd-Allah-el-Mo’aiti.

Mo’àwia-ibn-abi-Sofiân, califo omeiade, 62, 69, 80, 81, 84, 85, 86, 87, 88, 90, 99, 113, 127, 473; II, 103; III, 827.

Mo’âwia-ibn-Hodeig, 84, 88, 90, 99, 113.

Mobascer, III, 376.

Modhar, ceppo di tribù arabiche, 109, 143, 158, 340; II, 233.

Modica (di) Gualtiero, III, 518, 519.

Moëller, XXIV, XL.

Mo’ezz-ibn-Badîs, II, 39, 359, 360, 363, 364, 366, 368, 374, 376, 378, 385, 397, 417, 418, 419, 423, 492, 500, 501, 518, 519, 547, 548, 550, 551; III, 13, 79, 80, 81, 82, 92, 93.

Mo’ezz-li-dîn-illah (Ma’ad-ibn-Isma’il, Abu-Tamim), califo fatimita, II, 39, 237, 238, 249, 254, 256, 257, 258, 259, 260, 262, 263, 267, 269, 272, 274, 275, 277, 278, 279, 280, 281, 282, 283, 284, 286, 287, 288, 289, 290, 291, 292, 293, 294, 310, 312, 313, 322, 330, 355, 364, 456, 459; III, 851.

Moferreg-ibn-Sâlem, 371, 372, 373, 374, 375, 377, 380, 436.

Moferreg (Abu-Abd-Selem), 420, 421; II, 226, 229.

Mogber-ibn-Ibrahim-ibn-Sofiân, 426, 427, 428.

Mogêhid-ibn-Abd-Allah (Abu-l-Geisc), soprann. Amiri (Musetto), III, 2, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 169, 375, 518.

Mogêhid, v. Magadeo.

Mogehiditi, III, 376.

Mogheira, 61.

Mogir-ed-dîn, III, 720, 721.

Mohammed..., II, 211.

Mohammed..., II, 522.

Mohammed (Abu-Bekr), II, 511.

Mohammed-ibn-Abd-Allah (VII secolo), 100.

Mohammed-ibn-Abd-Allah (XII secolo), III, 371.

Mohammed-ibn-Abd-Allah (Abu-Abd-Allah), II, 488.

Mohammed-ibn-Abd-Allah(Abu-Bekr), II, 478, 542.

Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Aghlab (Abu-Fihr), 231, 232, 292, 295, 296, 299, 301, 320.

Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Iûnis (Abu-Bekr), II. 486, 487, 499.

Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Mesarra-ibn-Nagîh, II, 101.

Mohammed-ibn-Abd-el-Aziz-ibn-Meimûn, III, 379, 476.

Mohammed-ibn-Abd-el-Gebbâr-ibn-Mohammed-ibn-Hamdis (Abu-Hascim), II, 528, 535.

Mohammed-ibn-Abdûn, II, 210.

Mohammed-ibn-’Abdûn, da Susa, II, 334, 335.

Mohammed-ibn-Aghlab, 340, 341, 391.

Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Aghlab, 372, 384, 389, 390, 393; II, 46.

Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Ibrahim, detto il Siciliano, II, 226.

Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Korhob, II, 150, 151, 156.

Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Temîm (Abu-l-Arab), XLII.

Mohammed-ibn-Ali-ibn-Abd-el-Gebbâr (Abu-Bekr), II, 540.

Mohammed-ibn-Ali-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Regiâ, III, 752.

Mohammed-ibn-Ali-ibn-Hasan-ibn-Abd-el-Berr (Abu-Bekr), II, 504, 505, 506, 507.

Mohammed-ibn-Ali-ibn-Omar-ibn-Mohammed, detto Mazari e Temîmi (Abu-Abd-Allah), II, 483, 484, 485, 486, 488.

Mohammed-ibn-Ali, Sciarfi, 168.

Muhammed-ibn-Ali-ibn-Sebbâgh (Abu-Abd-Allah), il Segretario, II, 501, 515, 519.

Mohammed-ibn-Ali (Abu-Tâher), da Bagdad, II, 492.

Mohaiumed-ibn-Ali-ibn-abi-Taleb, II, 115.

Mohammed-ibn-Asci’ath, II, 204.

Mohammed-ibn-Attar (Abu-Abd-Allah), II, 516, 541.

Mohammed-ibn-Aus, 171.

Mohammed-ibn-abi-Bekr-ibn-Abd-er-Rezzâk (Abu-Abd-Allah), III, 736.

Mohammed-ibn-abi-Edrîs, 171.

Mohammed-ibn-Fadhl, 421, 422, 423, 429, 431.

Mohammed-ibn-abi-l-Fadhl, III, 737.

Muhammed-ibn-Fâs, II, 454.

Mohammed-ibn-abi-Fereg-ibn-Fereg-ibn-abi-l-Kâsim, Kattâni (Abu-Abd-Allah), II, 498, 499.

Mohammed Gebasût, III, 206.

Mohammed-ibn-Genâ, II, 210.

Mohammed-ibn-el-Gewari, 276, 284, 297.

Mohammed-ibn-Haiûn (Abu-Abd-Allah), II, 476.

Mohammed-ibn-Hasan-ibn-Ali, di casa kelbita, II, 191, 330, 333.

[921]

Mohammed-ibn-Hasan-ibn-Ali-Rebe’i (Abu-Bekr), II, 488.

Mohammed-ibn-Hasan — ibn-Kereni (Abu-Abd-Allah), II, 464, 542.

Mohammed-ibn-Hasan-ibn-Tazi(Abu-Abd-Allah), II, 471, 511.

Mohammed-ibn-Hamw, II, 187.

Mohammed-ibn-Haukal (Abu-l-Kasim), II, 294, 295, v. Ibn-Haukal.

Mohammed-ibn-Hosein-ibn-Kerkudi (Abu-l-Feth), II, 515.

Mohammed-ibn-Hosein-Marwazi (Abu-Gia’far), II, 224.

Mohammed-ihn-abi-Hosein, 353, 390.

Mohammed-ibn-Ibrahim-ibn-Musa (Abu-Bekr), II, 480, 493.

Mohammed-ibn-Ibrahim-ibn-Thimna, soprannominato El-Kâdir-billah, II, 418, 420, 421, 422, 548 a 552; III, 60, 62, 63, 65, 70, 71, 72, 73, 74, 76, 77, 78, 79, 80, 82, 86, 87, 93, 109, 117, 162, 218, 266, 308, 326.

Mohammed, cugino d’Ibrahim-ibn-Ahmed, II, 75.

Mohammed-ibn-Iezid, 171.

Mohammed-ibn-Isa-ibn-Abd-el-Mon’im (Abu-Abd-Allah), III, 689, 690, 748.

Mohammed-ibn-Ishak, III, 514.

Mohammed-ibn-abi-Ishak-ibn-Giâmi’, III, 496.

Mohammed-ibn-Isma’il-ibn-Gia’far, alida, II, 116.

Mohammed-ibn-Kâsim-ibn-Zeid (Abu-Abd-Allah), II, 516, 539.

Mohammed-ibn-abi-l-Kâsim (Abu-Abd-Allah), III, 736.

Mohammed-ibn-Khafâgia, 345, 347, 349, 350, 352, 353, 378, 390, 391.

Mohammed-ibn-Khorassân (Abu-Abd-Allah), II, 224, 225, 496.

Mohammed-ibn-Korhob, II, 52.

Mohammed-ibn-Mansûr, Sem’àni, II, 498, 499.

Mohammed-ibn.... v. Mawkifi.

Mohammed-ibn-Meimûn, III, 378.

Mohammed-ibn-Mekki-ibn-abi-d-Dsikr, III, 736.

Mohammed-ibn-Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Edrîs (Abu-Abd-Allah), v. Edrîsi.

Mohammed-ibn-Mohammed-ibn-Mohammed, soprannominato Fakhr-ed-din, III, 737.

Mohammed-ibn-abi-Mohammed-ibn-Mohammed-ibn-Zafer (Abu-Hascim), XLIV; III, 541, 714, 715, 716, 717, 718, 720, 721, 722, 723, 724, 725, 726, 727, 729, 730, 731, 733, 734, 735, 737.

Mohammed (Abu-Mohriz), 154, 255, 256, 259, 296.

Mohammed-ibn-Mokâtil, 145.

Mohammed-ibn-Mosallim, Mazari (Abu-Abd-Allah), II, 486; III, 735.

Mohammed-ibn-Obeid-Allah (Abu-l-Kàsim), soprannominato El-Kaimbiamr-illah, 235; II, 133, 135, 179, 180, 181, 188, 195, 196, 199, 200, 201, 202, 205, 234, 237; III, 260.

Mohammed Pacione, III, 206.

Mohammed-ibn-Rescîd, III, 414, 413, 472.

Mohammed-ibn-Sâbik (Abu-Bekr), II, 482, 494.

Mohammed-ibn-Sados (Abu-Abd-Allah), II, 512, 542.

Mohammed-ibn-Sahl (Abu-Bekr), detto Rozaik, II, 515, 537.

Mohammed-ibn-Sâlem, 299.

Mohammed-ibn-Sâlem, soprannominato Gemàl-ed-dîn, XXXVIII.

Mohammed-ibn-Sarcusi, II, 140, 146.

Mohammed Scîli, II, 493.

Mohammed-ibn-abi-Se àda, II, 453.

Mohammed-ibn-Sehnûn, 277.

Mohammed-ibn-Sindi, 302; II, 34.

Mohammed-ibn-Sirîn, 56.

Mohammed-ibn-Tûmert, detto il Mehdi, II, 485.

Mohammed-ibn-Ziadet-Allah, II, 58.

Mohibb-ed-dîn-ibn-Niggiâr, II, 491.

Mohl, XLVI.

Mohriz-ibn-Ziâd, III, 412.

Moisè, maestro, III, 868.

Moisè, III, 701.

Moisè, di Corene, 105.

Mokaddesi, v. Abu-Sciâma.

Mokanna, II, 112, 115.

Mokhalled-ibn-Keidâd (Abu-Iezîd), II, 196, 197, 198, 199, 200, 201, 202, 203, 205, 206, 207, 229, 237, 287.

Moktader-billah, califo abbasida, II, 149, 150.

Moktader-billah, principe di Saragozza, III, 375.

Moloch, 101.

Mombeilard (conte di), III, 199.

Mombrai (di) Ruggiero, III, 347.

Mo’mir, figliuolo di Rescîd, III, 411, 412, 413.

Mondsir, re di Hira, 76.

Mongitore, XXIX.

Monoteliti, 76, 77, 95, 96, 180.

Montano, schiavo di San Gregorio, 202.

Monti Vincenzo. III, 884.

Montpellier (conte di), III, 376.

Morgii, II, 99.

Mori o Mauri, 104, 106, 228; III, 40, 57, 58.

Moriella, III, 39, 270.

Moroleone, II, 251.

Morra, tribù arabica, II, 267.

Morso, XIII, XIV, XVII, XXIII, XXIV; III, 878.

[922]

Mortain (di) Pietro, III, 178.

Mortillaro, XV, XVI, XXIII, XXIV, XXV; 284, 321; II, 6, 456 segg.; III, 343, 812.

Mos’ab-ibn-Mohammed-ibn-abi-Forât (Abu-l-Arab), II, 524, 525, 543.

Moscerif-ibn-Râscid (Abu-l-Fadhl), II, 520, 544.

Moslim, il Tradizionista, II, 483.

Mostanîr-ibn-Habbâb, 172.

Mostanser-billah (Abu-Temîm), califo fatimita, II, 456.

Mostanser-billah, principe hafsita di Tunis (Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Iehia-ibn-Abd-el-Wâhid, soprannominato), XLIX; III, 631.

Mo’tamid-ibn-Abbâd, II, 524, 525, 527, 528, 529, 530, 535.

Mo’tasem, principe d’Almeria, II, 535.

Mo’tadhed-billah, califo abbasida, II, 58, 74, 75, 76.

Mo’tadhed-billah, di Siviglia, v. Abbâd-ibn-Mohammed.

Motazeliti, II, 98, 99, 105.

Motenebbi, II, 334, 365, 509, 512, 513, 535.

Mowahhidi, v. Almohadi.

Motewakkel, califo abbasida, XL; 327, 360.

Moura, LI.

Mowalled, spagnuoli, II, 371.

Mozaffer, II, 488.

Mukhlûf, III, 262.

Munch P. A., II, 383.

Muratori, XXVIII, XXIX, XLVII, LV.

Muriella, III, 39.

Musa-ibn-Giâfar, alida, II, 116.

Musa-ibn-Abd-Allah, II, 494.

Musa-ibn-Ahmed (Abu-Sa’îd) soprannominato Dhaif, II, 156, 157, 159, 160, 182, 190.

Musa-ibn-Asbagh, Morâdi, II, 496.

Musa-ibn-Kasim-el-K..r..di, III, 669.

Musa-ibn-Meimûn, detto Maimonide, III, 705.

Musa-ibn-Noseir, 122, 123, 124, 125, 131, 166, 167, 168, 169, 170, 178; II, 4.

Musa Santagat, III, 246.

Musetto e Mugeto, v. Mogêhid-ibn-Abd-Allah.

Mussufa, tribù berbera, III, 518.

Musulice, stratego, 416, 420.

Musulmani, XL, XLV, L, LIV; 52, 53, 54, 56, 59, 63, 64, 70, 73, 75, 78, 80, 81, 82, 87, 88, 89, 90, 92, 95, 96, 97, 98, 99, 101, 102, 129, 139; II, 41, 42, 48, 53, 61, 65, 67, 70, 71, 74, 75, 78, 81, 82, 85, 89, 91, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 111, 117, 118, 119, 120, 144, 146, 149, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 170, 171, 175, 180, 193, 205, 206, 213, 216, 217, 228, 229, 236, 238, 239, 240, 242, 245, 247, 248, 250, 251, 252, 253, 256, 257, 258, 259, 260, 261, 263, 264, 266, 268, 269, 271, 273, 276, 286, 290, 295, 299, 300, 301, 302, 305, 309, 310, 312, 314, 315, 316, 319, 322, 323, 327, 328, 330, 335, 336, 338, 339, 340, 341, 342, 347, 353, 364, 365, 367, 370, 371, 372, 377, 378, 382, 387, 388, 392, 393, 396, 397, 398, 399, 400, 401, 402, 404, 406, 407, 409, 412, 415, 417, 419, 422, 423, 427, 435, 436, 443, 445, 449, 450, 452, 455, 461, 477, 479, 484, 485, 492, 493, 494, 496, 505, 521, 527, 544, 545; III, 1, 2, 3, 4, 6, 7, 9, 12, 13, 14, 25, 28, 54, 55, 58, 60, 64, 65, 67, 68, 70, 71, 72, 73, 74, 80, 85, 86, 90, 91, 92, 93, 95, 97, 102, 105, 106, 109, 112, 113, 117, 121, 122, 125, 127, 129, 132, 135, 136, 147, 148, 149, 150, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 159, 162, 163, 164, 167, 169, 170, 172, 176, 178, 180, 181, 182, 186, 187, 188, 189, 190, 194, 200, 208, 217, 218, 228, 236, 242, 248, 253, 254, 255, 256, 262, 265, 267, 269, 270, 281, 285, 291, 293, 297, 298, 300, 303, 305, 308, 318, 324, 329, 334, 335, 338, 345, 348, 349, 350, 358, 359, 360, 365, 367, 374, 377, 382, 383, 388, 392, 396, 400, 402, 409, 411, 416, 417, 418, 420, 424, 431, 434, 438, 442, 443, 446, 447, 464, 465, 468, 469, 472, 473, 477, 478, 482, 484, 485, 486, 487, 488, 498, 499, 500, 501, 505, 506, 508, 509, 510, 511, 520, 523, 528, 531, 532, 533, 534, 535, 536, 537, 538, 543, 546, 547, 550, 551, 553, 555, 557, 572, 573, 574, 575, 576, 577, 578, 579, 580, 583, 584, 585, 586, 587, 588, 591, 592, 593, 595, 597, 598, 602, 603, 606, 609, 613, 614, 616, 919, 925, 626, 628, 633, 638, 642, 644, 645, 646, 648, 654, 655, 668, 673, 681, 686, 689, 704, 711, 714, 715, 716, 722, 723, 729, 733, 734, 754, 767, 768, 778, 779, 780, 788, 790, 795, 796, 797, 799, 803, 816.

Musulmano Impero, II, 100, 105, 106, 108, 110, 118, 462.

Muzaito, III, 12, Musetto, v. Mogêhid.

Muzalone Giovanni, II, 153.

N

Nabatei, II, 447.

Nabili, III, 212.

[923]

Nahd, tribù arabica, II, 522.

Napoli (casato), III, 843, 849.

Napoli (duca di), III, 393.

Narbona (visconte di), III, 376.

Narducci Enrico, III, 884.

Nasar, 393, 413, 414, 415, 416, 422, 439, 516.

Nâsir, califo almohade, III, 622.

Nâsir-ed-dawla-ibn-Hamadân, II, 521.

Nasr-ibn-Ibrahim (Abu-l-Feth), II, 100.

Nasrûn-ibn-Fotûh-ibn-Hosein, Kherezi, II, 506.

Nazardino o Zefedino, III, 634.

Nazareni, III, 576.

Nefûsa, tribù berbera, II, 57.

Nefzâwa, tribù berbera, 156; III, 212.

Negri, 408; II, 32, 137, 168, 196, 217, 292, 351, 362, 385; III, 373, 447, 506.

Negro, v. Abu-Nottâr.

Nekkariti, II, 139, 197, 198, 200, 202, 287.

Nerone, 16.

Nessel (de) Daniele, 507.

Newâwi, XLIX.

Niccolò, ambasciatore bizantino, II, 279, 280, 313.

Niccolò, ammiraglio, III, 356.

Niccolò, camarlingo, III, 347.

Niccolò, figliuolo di Eugenio, ammiraglio, III, 353.

Niccolò, detto Farrâsc, III, 262.

Niccolò, di Filippo, III, 208.

Niccolò Logoteta, III, 262.

Niccolò, monaco, II, 219.

Niccolò I, papa, 500, 501.

Niccolò II, papa, III, 44, 47, 48, 49.

Niccolò, protonotario, III, 416.

Niccolò, di Vitale, III, 209.

Niceforo Callistio, 76.

Niceforo Foca, 424, 425, 440, 441, 461; II, 42.

Niceforo, governatore di Nauplia, II, 367.

Niceforo I. imp., 191; II, 403.

Niceforo (Foca) II, imp., II, 174, 253, 259, 260, 261, 262, 263, 268, 273, 278, 279, 280, 281, 310, 311, 312, 313, 322, 323.

Niceforo, maestro, II, 313.

Niceforo, patriarca, 497.

Niceforo, vescovo di Mileto, II, 264.

Niceta, 350.

Niceta Davidde, 420.

Niceta, eunuco, II, 279.

Niceta, moglie di Niccolò, figliuolo d’Eugenio, ammiraglio, III, 353.

Niceta Orifa (an. 871-880), 378, 379, 380, 413, 425, v. Orifa.

Niceta, patriarca, v. Ignazio, 498.

Niceta, patrizio di Sicilia, 190; II, 184.

Niceta, protospatario, II, 261, 264, 271, 272.

Niceta, da Tarso, 405.

Nicholson, XLI.

Nicodemo, arcivescovo di Palermo, II, 396, 402; III, 130, 131.

Nicola-ibn-Leo, III, 205.

Nicola Nomothetis, III, 205.

Nilo Doxopatro, III, 460, 461, 661.

Nilo, monaco, II, 391, 411, 444, 446.

Ninfa, madre di Giorgio, d’Antiochia, III, 255.

Nizâr, tribù arabica, II, 488.

Nizâmiti, II, 99.

No’man, re di Hira, III, 893.

Norandino, XLV, XLIX; III, 462, 505, 520, 522, 529, 718 a 721, 723, 764.

Nordbrikt, II, 384.

Normanni, II, 64, 193, 300, 301, 344, 372, 380, 382, 388, 389, 392, 394, 395, 396, 398, 399, 401, 402, 403, 416, 417, 421, 422, 428, 436, 451, 452, 458, 460, 488, 513, 524, 527; III, 12, 15, 16, 18, 19, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 33, 34, 35, 36, 38, 39, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 48, 49, 52, 53, 54, 55, 56, 61, 62, 63, 64, 65, 68, 69, 73, 75, 77, 78, 79, 81, 83, 84, 86, 87, 90, 91, 93, 94, 96, 98, 99, 100, 104, 107, 108, 109, 110, 111, 113, 114, 115, 116, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 124, 125, 127, 128, 129, 130, 133, 136, 145, 148, 149, 152, 155, 162, 163, 164, 165, 174, 177, 200, 207, 209, 213, 222, 233, 253, 254, 268, 276, 299, 309, 326, 327, 328, 335, 339, 341, 350, 367, 394, 398, 406, 414, 458, 517, 554, 656, 772, 780, 812, 821, 853, 854.

Normanni, dinastia di Sicilia, XXXI, L, LIV; 443; III, 298, 335, 381, 460, 867, 889.

Notari, casato, III, 205, 875.

Nowairi, XIV, XIX, XX, XXVII, LI.

Nûr-ed-dîn (Mahmûd-ibn-Zengui, soprannominato), v. Norandino.

Nûri, sufita, II, 480.

O

Obeid-Allah-ibn-Habâb, 172, 173.

Obeid-Allah, detto il Mehdi, primo califo fatimita, v. Sa’îd-ibn-Hosein, II, 118, 120, 132 a 139, 141 a 146, 150, 151, 154 a 156, 159, 160, 168, 170, 173, 174, 176, 179, 182, 183, 188, 225, 234, 237, 242, 456; III, 404.

’Obeida-ibn-Abd-er-Rahman, 135, 171 a 173.

Obeiditi, v. Fatimiti, II, 132.

[924]

Oca Filadelfo, II, 291.

Occidente (impero di), III, 5, 26, 40, 144.

Occimiano (marchesi di), III, 199.

Oddone, lombardo, III, 224, v. Odone e Otone.

Odenato, 31.

Odilone, abate di Cluny, III, 13.

Odin, II, 512; III, 15, 16, 18.

Odoacre, 11, 12; II, 90.

Odone, duca, II, 325.

Offamilio Bartolommeo, III, 568.

Offamilio Gualtiero, III, 256, 502, 503, 530, 531, 542, 545, 563.

’Okba-ibn-Heggiâg, 174

’Okba-ibn-Nafi’, 100, 113, 114, 116, 117, 123, 129, 137, 173.

Okley, 85.

Olaf, re di Norvegia, II, 384, 385, 386.

Olga, II, 385.

Olimpio, esarco, 78, 79, 84, 89, 90.

Oma-er-Rahman, II, 454.

Omar-ibn-Scio’aib-el-Belluti (Abu-Hafs), 162.

Omar il Grande, LII; 56, 57, 60, 62, 64, 65, 66, 67, 68, 70, 71, 79, 80, 81, 109, 134, 476, 477, 478; II, 17, 18, 26, 30, 105, 123, 279, 359, 360, 623, 645; III, 826, 855.

Omar-ibn-Abd-Allah (Abu-Hafs), II, 516, 536.

Omar-ibn-Abd-el-’Azîz, califo omeiade, III, 828.

Omar-ibn-Ali, da Siracusa, II, 511, v. Othman-ibn-Ali.

Omar-el-Bellûti (Abu-Hafs), 162, 163, 164.

Omar-ibn-Crisobolli, III, 206.

Omar-ibn-Fulfûl (Abu-Hafs), III, 423.

Omar-ibn-Hasan (Abu-Hafs), contemporaneo di re Ruggiero, III, 462, 758.

Omar-ibn-Hasan-ibn-Setabrîk (Abu-Hafs), II, 540.

Omar-ibn-Hasan (Abu-Hafs), spagnuolo, II, 523.

Omar-ibn-Hasan (Abu-Hafs), (Ibn-Kuni?), II, 498.

Omar-ibn-Hasan-ibn-Kûni (Abu-Hafs), II, 464, 511.

Omar-ibn-abi-l-Hasan-Hosein-el-Forriâni, III, 419, 469, 470, 472, 473.

Omar-ibn-Hosein-et-Tamîmi, III, 256.

Omar-ibn-Iehia-ibn-Abd-el-Wâhid (Abu-Hafs), principe hafsita di Tunis, III, 631.

Omar-ibn-Iebia-ibn-Mohammed (Abu-Hafs), ceppo della dinastia hafsita, III, 622.

Omar-ibn-Ieîsc, da Susa, II, 498, 521.

Omar-ibn-Khelef-ibn-Mekki (Abu-Hafs), XLIX; II, 509, 513, 514.

Omar-ibn-Madî-Karîb, 73.

Omar-ibn-Scio’aib (Abu-Hafs), II, 376, 377.

Omâra-ibn-abi-l-Hasan, III, 506, 507.

Omeia, v. Abu-s-Salt.

Omeiadi, 62, 65, 69, 71, 119, 136, 138, 139, 140, 141, 144, 159, 226, 229; II, 97, 99, 107, 200, 210, 219, 283, 355, 358; III, 5, 337, 446, 662, 883.

Omero, 42; III, 207.

Omoniza, 240.

Onorio, imperatore, 200, 211.

Onorio I, papa, 77.

Onorio II, papa, III, 392, 393, 395.

Onorio III, papa, III, 600, 603, 635.

Orazio, II, 519.

Oreste, eunuco, II, 365, 367, 377.

Oriente (impero di), II, 338; III, 36, 40, 144, 162.

Orifa (an. 825), 164, 242, 243, v. Hiceta Orifa.

Orlando Diego, III, 300.

Ormondo, v. Drengot.

Orsello, di Baliol, III, 98, 99.

Orseolo Pietro, doge di Venezia, II, 341, 377.

Orso, figliuolo di Radelchi, 361, 379.

Orso, vescovo di Girgenti, III, 593, 594.

Ostrogoti, 12.

Othman-ibn-Abd-er-Rahîm-ibn-Abder-Rezzâk-ibn-Gia’far-ibn-Bescrûn-ibn-Scebîb, III, 759.

Othman-ibn-Abd-er-Rahman, soprannominato Ibn-es-Susi, III, 751.

Othman-ibn-Affân, califo, 62, 69, 86, 87, 90, 109; II, 103, 453, 472, 473; III, 517.

Othman-ibn-Ali-ibn-Omar, da Siracusa (Abu-Amr), II, 476, 511, 542.

Othman-ibn-’Atik (Abu-Sa’îd), II, 535.

Othman, di Bari, 436.

Othman-ibn-Harrâr, II, 306.

Othman-ibn-Heggiâg (Abu-Omar), II, 489.

Othman-ibn-Jûsuf, Howari, III, 256.

Othman-ibn-Korhob, 295.

Othman-ibn-abi-Obeida, 172.

Othman, pellegrino, III, 236.

Otone o Oddone, capitano del conte Ruggiero, III, 156, 225.

Otone I, imperatore, II, 262, 263, 278, 311, 312, 321, 409; III, 199.

Otone II, imperatore, II, 308, 321, 322, 323, 324, 325, 326, 327, 328, 329, 344; III, 62.

Otone III, imperatore, II, 318, 338, 339; III, 47.

Otone IV, imperatore, III, 588, 589, 590, 800.

Otone, marchese aleramide, III, 199.

Ottomani, 264.

[925]

P

Pacione, cognome, III, 206, 875.

Pagani, 26; II, 442; 66, 101, 123, 131, 207, 574, 612.

Paladino, III, 635, v. Saladino e Malek-Adel.

Palata, 248, 258, 259, 266, 267, 268; II, 269.

Palear (de) Gualtiero, vescovo di Troja, III, 568, 569, 571, 572, 620.

Palermitani, II, 65, 66, 120, 121, 122, 124, 126, 130, 131, 140, 141, 142, 147, 158, 186, 190, 223, 306, III, 487, 793.

Palermo (arcivescovo di), III, 128, 137, 304, 474, 498, 502, 533, 543, 545, 565, 638, 641.

Palermo (Chiesa di), III, 238, 239, 247, 256, 275, 310, 312, 325, 328, 542, 565, 573, 588.

Palermo (clero di), III, 587.

Palermo (da) Giovanni, III, 692, 693, 694, 695.

Palermo (da) maestro Mosè, III, 697.

Palermo (da) Perrono, III, 628.

Palmer Riccardo, III, 217, 495, 502, 503, 531.

Panciroli Guido, III, 803.

Pandolfo Capo di ferro, II, 311.

Pandone, 360, 452.

Pandonolfo, 452, 455.

Panteisti, II, 98.

Paolo, diacono, 96, 99.

Paolo, ministro di Leone Isaurico, 217.

Paolo Orosio, II, 219; III, 659, 671.

Pari (corte de’) in Sicilia, III, 444.

Parti, 138.

Pasquale II, papa, III, 193.

Pasquale, stratego, II, 245.

Pasqualino Francesco, III, 203, 884, 885.

Paterini, III; 610.

Patricola Giuseppe, III, 794, 848, 856.

Patti (Chiesa di), III, 221, 305, 308, 338, 876.

Patti (di) Ansaldo, III, 57.

Patzinaci, 351; III, 434.

Pauliciani, 338, 440, 510, 511; II, 261, 392 394.

Pellegrino Cammillo, III, 46.

Pellissier et Rémusat, LVI.

Pepoli, di Trapani, III, 795.

Peranni Domenico, XXXV.

Perron, 152.

Pertz, XXVIII, XXIX.

Pharos, XLI.

Picingli Niccolò, II, 166.

Picone Giuseppe, III, 614, 884.

Pierio, 12.

Pier l’Eremita, III, 223.

Pietraszewschi, III, 450.

Pietro II, re d’Aragona, III, 583, 631.

Pietro, arcidiacono, III, 389.

Pietro, arcivescovo di Lipari, III, 276.

Pietro, diacono, 102; III, 76.

Pietro, eunuco, III, 481, 484, 489, 490, 493, 494, 495, 496, 497.

Pietro, gaito, III, 480, 481, 493 a 497.

Pietro, martire, 511.

Pietro, prete..., III, 256.

Pietro, siciliano, III, 697.

Pietro Siculo, vescovo degli Argivi, 507, 508, 509, 510, 511, 521.

Pietro, tesoriere della Chiesa di Palermo, III, 545.

Pietro il Venerabile, abate di Cluny, III, 414, 432, 440.

Pietro, vescovo di Tauriano, 231.

Pincinniaco (di) Guglielmo, III, 389.

Pipino, 182.

Pirro Rocco, XXIX; 18, 23, 28, 29.

Pisa (da) Adaleta, III, 796.

Pistona (da) Vitale, III, 288.

Pitittu, casato, III, 205, 875.

Pitrè, III, 887.

Platone, III, 703.

Plinio, 9, 10, 75, 199.

Plotino, 502; III, 90, 91, 92.

Plutarco, 199.

Pococke, 63, 108.

Poli, XXIV.

Police Andrea, III, 208.

Ponzone (marchesato di), III, 199.

Porco Guglielmo, III, 600, 601, 607.

Portirio, 17, 196; II, 438.

Potho, catapano, II, 346.

Power J., XXXV, XLI; II, 64.

Prassinachio, II, 214, 264, 405, 412.

Pratilli Francesco, XXIX.

Probo, filosofo, 17.

Probo, imperatore, 10.

Procopio, 75, 105, 106; III, 478.

Procopio, protovestiario, 439.

Procopio, vescovo di Taormina, II, 84.

Provenza (conte di), III, 584.

Provenzali, III, 13.

Pugliesi, II, 166; III, 31, 42, 116, 120, 145, 182, 347, 393, 543.

Putheolis (de) Ugo, III, 221.

Q

Quatremère Etienne, XXXVIII, XLII, XLIX, LI, LIV, LV; 142.

R

Radalgiso, II, 338.

Radelchi, 354, 357, 360, 361, 362, 363, 368, 369, 370, 372.

Rader, 499.

[926]

Rafi’-ibn-Makkân-ibn-Kâmil, III, 369, 370, 371, 372, 373, 411.

Râik, tradizionista, II, 481.

Raimondo, principe d’Antiochia, III, 433.

Raimondo III, conte di Barcellona, III, 388, 389, 390.

Raimondo, conte di Tolosa, III, 195.

Raimondo, oratore di Raimondo III, conte di Barcellona, III, 389.

Raimondo, vescovo, III, 594.

Rainolfo, conte d’Avellino, III, 776.

Rainolfo, v. Drengot.

Rainolfo, conte d’Aversa, III, 28, 29, 30, 277.

Rakamuwêih, II, 33, 65, 69.

Rampoldi, XIX, XX, XXI; 100, 119, 171, 346.

Ramun, di Michiken, III, 264.

Ranieri, di Manente, pisano, III, 579, 581.

Raoul, prete, III, 256.

Rascida, figliuola di Mo’ezz-li-dîn-illah, II, 448.

Rawendi, II, 112.

Raxdis (Rascîd), governatore di Messina, III, 56, 60.

Rayca, II, 345; III, 30.

Razi, III, 698.

Razionalisti, II, 98.

Read Thomas, XXXIX.

Reb’a, tribù arabica, III, 211.

Rebâb, tribù arabica, III, 829.

Rebî’ (Abu-Soleiman), II, 230.

Rebi’a, tribù arabica, 360; III, 211, 737.

Redhwân, II, 521.

Regiâ-ibn-Genâ, II, 211.

Regiâ-ibn-abi-l-Hasan-Ali-ibn-abi-l-Kasim-Abd-er-Rahman-ibn-Regiâ (Abu-l-Fadhl), III, 752.

Reginaldo, 374.

Reginone, 377.

Regiomontano, III, 658.

Reidân, II, 357.

Reinaud, XXXIII, XXXVIII, XL, XLI, XLII, XLIV, XLVI, XLVII, XLVIII, XLIX, L, LI; III, 202.

Reiske, XXXVIII, LI, LV.

Reland Adriano, II, 453.

Renan, III, 858.

Renaudot, IX; III, 681.

Rendacium, v. Sisinnio.

Rendasc, II, 184.

Rendâsci, 351.

Renò (Reinault?), canonico, III, 291.

Repostel Guglielmo, III, 25.

Rescîd-ibn-Mo’tamid-ibn-’Abbâd, II, 528.

Rescîd, schiavo d’Ibrahim, II, 53.

Rescîd, signore di Kàbes, III, 411.

Rhentacios, 351.

Riâh, tribù arabica, III, 384.

Ribbah-ibn-Ia’kûb-ibn-Fezara, 330, 331, 343, 353, 385, 390; II, 140.

Riccardo, conte d’Aversa, III, 43, 45, 49, 53.

Riccardo, conte di Caserta, III, 619.

Riccardo, conte di Molise, III, 502.

Riccardo Cuor di Leone, III, 529, 546, 549, 802.

Riccardo I, duca di Normandia, III, 39.

Riccardo II, duca di Normandia, II, 413; III, 26.

Riccardo, gaito, III, 263, 500, 501, 502.

Riccardo, principe di Capua, II, 23, 47, 116, 122, 123, 142, 143, 144, 146, 186.

Richar, II, 325.

Ricimero, 11.

Ricon (?), gaito, III, 263.

Righa, tribù berbera, III, 211.

Righi, III, 211.

Robaldo, III, 288.

Robertino, III, 692.

Roberto, abate del Monte di San Michele, III, 428.

Roberto, arcivescovo di Messina, III, 317, 346.

Roberto, conte di Clermont, III, 195.

Roberto, duca di Normandia, III, 13, 25.

Roberto, figliuolo del duca di Borgogna, III, 347.

Roberto Guiscardo, II, 349, 386, 397, 412, 416; III, 21, 22, 23, 27, 38, 42, 43, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 57, 59, 60, 62, 63, 65, 67, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 87, 88, 89, 102, 104, 105, 106, 107, 108, 112, 114, 115, 116, 117, 120, 121, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 131, 133, 134, 136, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 146, 147, 148, 150, 158, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 182, 183, 184, 191, 196, 207, 214, 265, 266, 271, 273, 274, 298, 299, 300, 301, 302, 303, 326, 331, 335, 338, 339, 342, 350, 352, 358, 396, 451, 813, 864.

Roberto, vescovo di Traina, III, 192, 193.

Roberto, vescovo di Tricarico, II, 407.

Roctè (?) Giovanni, III, 288.

Rodeina, II, 336.

Rodofilo, II, 89.

Rodolfo, v. Drengot, III, 25, 26.

Rodolfo, conte d’Ivry, III, 20.

Rodolfo Glabro, III, 12.

Rodrigo, 476.

Roll, III, 17, 18, 53, 213.

Roma (corte e Chiesa di), 15, 19, 21, 22, 29, 77, 84, 91, 95, 96, 179, 183, 192, 197, 202, 218, 221, 444, 485, 498, 500, 502, 515, 518; II, 402; III, 11, 45, 46, 48, 49, 192, 193, 205, 207, 217, 274, [927] 304, 348, 389, 394, 395, 430, 432, 468, 549, 569, 570, 574, 595, 701, 816.

Roma (da) Paolo, arcivescovo di Morreale III, 797

Romani, 39, 76, 78, 87, 96, 104, 118, 206, 417; II, 165, 203, 204, 264, 321, 328, 329, 348, 337, 443; III, 58, 145, 393, 431, 468, 550, 566, 593, 746.

Romano I, imperatore (Lecapeno), II, 153, 154, 174, 175, 184, 219.

Romano II, imperatore, II, 259.

Romano III, imperatore (Argirio), II, 366, 367, 379.

Romualdo, arcivescovo di Salerno, III, 438, 440, 466, 481, 495, 502, 503, 558, 560, 842, 849.

Romualdo, principe di Salerno, II, 338.

Rostemidi, 130.

Rotrou (di) Stefano, dei conti di Perche, III, 224, 497, 498, 499, 500, 501, 503, 540, 542.

Rouen (arcivescovodi), III, 49, 217, 559.

Rouen (da) Stefano, vescovo di Mazara, III, 307.

Rozaik, II, 515, v. Mohammed-ibn-Sahl.

Rousseau Alphonse, XXXIV, XXXVIII, XXXIX, XLV, L, LV; II, 429.

Ruffo, casato, III, 221.

Ruffo Giordano, III, 697.

Ruffo Guglielmo, III, 288.

Ruffo, marchese, XXXV.

Ruggiero, di Amalfi, III, 863.

Ruggiero, conte di Geraci, III, 502.

Ruggiero I, conte di Sicilia, XXXIX, XLVII; 236, 417, 469: II, 383, 396, 397, 401, 403, 404, 450, 552; III, 23, 44, 45, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 75, 78, 79, 82, 83, 84, 85, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 101, 103, 104, 105, 106, 111, 112, 113, 114, 115, 116, 117, 119, 120, 124, 125, 126, 127, 128, 130, 131, 133, 134, 136, 139, 140, 146, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 156, 158, 159, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 174, 175, 176, 177, 178, 179, 180, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 191, 192, 193, 194, 195, 196, 201, 207, 214, 217, 218, 225, 229, 230, 233, 236, 238, 241, 245, 247, 254, 255, 257, 258, 261, 266, 267, 269, 271, 272, 273, 274, 275, 276, 277, 284, 291, 298, 300, 301, 302, 303, 304, 305, 306, 307, 309, 310, 311, 312, 313, 315, 324, 326, 327, 329, 331, 332, 333, 334, 335, 339, 340, 343, 345, 348, 349, 350, 351, 352, 353, 358, 368, 396, 446, 451, 485, 540, 621, 662, 794, 806, 813, 820, 821, 841, 848, 871.

Ruggiero I, duca di Puglia, III, 22, 146, 165, 178, 183, 184, 185, 186, 187, 239, 271, 272, 274, 343, 813.

Ruggiero, figliuolo di Guglielmo I, di Sicilia, III, 485.

Ruggiero Guiscardo, personaggio supposto, II, 412.

Ruggiero Nanainà, II, 416.

Ruggiero, re di Sicilia, XXXIX, XLI, XLIII, XLV, XLVII, L, LIII; 236, 466, 469, 470, 488, 492, 494; II, 414, 429, 445; III. 48, 58, 153, 190, 195, 196, 198, 200, 215, 223, 226, 228, 234, 252, 255, 262, 267, 275, 276, 277, 284, 290, 294, 295, 296, 308, 309, 314, 323, 326, 332, 333, 339, 343, 344, 345, 346, 348, 350, 351, 359, 360, 362, 363, 364, 365, 366, 368, 369, 370, 371, 372, 373, 376, 378, 379, 380, 381, 383, 387, 388, 389, 390, 391, 392, 393, 394, 395, 396, 397, 398, 399, 400, 402, 403, 404, 405, 406, 411, 412, 413, 414, 415, 417, 420, 421, 422, 423, 424, 425, 426, 428, 430, 431, 432, 433, 434, 433, 437, 438, 439, 440, 441, 442, 443, 444, 445, 446, 447, 448, 449, 450, 451, 452, 453, 454, 456, 458, 459, 460, 461, 462, 463, 464, 465, 468, 474, 491, 493, 494, 504, 552, 557, 621, 655, 657, 660, 661, 662, 663, 665, 669, 670, 673, 677, 678, 679, 680, 681, 682, 684, 685, 689, 691, 693, 699, 700, 719, 746, 752, 754, 755, 758, 759, 760, 762, 769, 771, 772, 773, 775, 778, 780, 781, 784, 786, 787, 798, 799, 801, 805, 806, 808, 811, 813, 814, 818, 819, 841, 842, 846, 848, 849, 855, 888.

Ruggiero Schiavo, III, 223, 226, 448.

Ruggiero, di Traina, III, 290, 291.

Ruggiero, vescovo di Siracusa, III, 307.

Rûm, 86, 104, 206, 247, 329; II, 73, 194, 242, 251, 269, 273, 310, 362, 439, 501, 532; III, 6, 218, 325, 366, 367, 382, 386, 418, 472, 490, 830, 860.

Rûm-Afarika, II, 6.

Rumâniùn, III, 366.

Ruzabeh, III, 826.

Ruzaik-ibn-Abd-Allah, II, 541.

S

Saba, 359.

Sabatier Francesco, III, 861.

Sabato, III, 209.

Sabbatio, 491.

Sabbioneta (da) Gerardo, III, 695.

Sâber, v. Sareb, II, 179.

Sabii, III, 703, 764.

[928]

Saccano Iacopo, III, 57.

Sa’d, tribù arabica, II, 33; III, 766.

Sa’d-ibn-abi-Wakkâs, 60.

Sa’d-ibn-Zeid-Monat, tribù, II, 505.

Sadr-ed-dîn, Kunewi, II, 493.

Safadino, v. Malek-Adel.

Safi, capitano, II, 341.

Sahl-ibn-Mohammed, Segestani (Abu-Hâtim), xxv.

Sa’îd-ibn..., II, 299.

Sa’îd-ibn-Heddâd, II, 217.

Sa’îd-ibn-Fethûn-ibn-Mokram, da Cordova, II, 472.

Sa’îd-ibn-Jûsuf, da Calatayud, II, 481.

Sa’îd-ibn-Hosein, v. Obeid-Allah, II, 118, 120, 132.

Sa’îd-ibn-Othman, II, 222, 225.

Sâih, XLVI.

Sâin, v. Saber e Sareb, II, 176, 177, 178, 179.

Sakhr, tribù arabica, III, 384.

Saklab, II, 433.

Saladino, XLV, XLVI, XLVII, XLVIII, XLIX, LI; 267, 396; II, 240; III, 264, 412, 505, 506, 507, 508, 509, 510, 511, 512, 513, 515, 519, 521, 522, 523, 524, 526, 527, 528, 529, 530, 536, 634, 637, 638, 649.

Sâlem, 340.

Sâlem-ibn-Ased-ibn-Râscid-el-Kenâni (Kotami?), II, 160, 170, 181, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 191, 195, 204.

Sâlem-ibn-Râscid, v. Sâlem-ibn-Ased, ec., II, 160.

Salinas Antonio, III, 129, 795, 856.

Salisbury (da) Giovanni, III, 496.

Salomone, 125.

Salomone Marino, III, 887.

Sallustio, 105.

Sambucino (abate di), III, 574.

Sammartino (duca di), XXXV.

Samuele, maestro, III, 868.

Samuele-ibn-Tibbon, III, 706.

Sanâb o Sebâb, II, 362.

Sant’Adriano (cardinale di), III, 571.

Sant’Agatone, 29.

Sant’Agrippina, 279.

Sant’Agrippino, II, 253.

Sant’Ambrogio, II, 389.

Sant’Anseimo, arcivescovo di Canterbury, III, 187, 188.

Sant’Antonio, siciliano, II, 409.

Sant’Antonio, eremita, II, 317.

San Bartolommeo, 356, 503.

San Benedetto, 101, 366.

San Bernardo, III, 395, 413, 432.

San Brandano, III, 679.

Sant’Elia, da Castrogiovanni, II, 70, 80, 81, 96, 441.

Sant’Elia, da Reggio, II, 410.

San Fantino, 230, 231.

San Filareto, 293, 487, 490.

San Filippo, 45.

San Gennaro, II, 253.

San Gerlando, III, 210, 339.

San Geronimo, 75.

San Giacomo, vescovo, 220.

San Giorgio, II, 385; III, 99.

San Giorgio (principe di), v. Spinelli Domenico, III, 812.

San Giovanni Damasceno, 177.

San Giovanni Therista, II, 346, 412.

San Giuseppe Innografo, 30, 219, 221, 231, 502, 503, 505, 521.

San Gregorio, 12, 18, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 85, 196, 202, 203, 204, 205, 207, 291, 293, 482, 520; II, 403, 433, 490.

Sanhâgia, Senhâgia e Sinhâgia, tribù berbera, VIII, XXX; II, 36, 202, 287, 288, 355, 358; III, 92, 373, 478.

Sant’Ignazio, patriarca di Costantinopoli, 420; II, 385.

Sant’Ilarione, II, 317.

San Leoluca, 519.

San Leone, di Ravenna, 218, 219, 220.

San Luca, 492, II, 92.

San Luca, di Demona, II, 346, 403, 407, 408, 409, 410, 412.

San Marciano, 15, 16.

San Massimo, 91, 96.

San Niccolò, di Bari, III, 812.

San Niceforo, vescovo, II, 213, 214.

San Nilo il Giovane, II, 313, 317, 318, 319, 320, 321, 346.

Santa Oliva, 520.

San Pancrazio, 15, 18, 493; II, 80.

San Pantaleone, 494.

San Paolo, 15, 16; II, 167.

San Pietro, 15; II, 90, 95, 167.

San Placido, 101, 103.

San Procopio, vescovo di Taormina, 520; II, 59, 402.

San Quintino (Giulio, dei conti di), III, 197.

San Ranieri, III, 796.

San Saba, abate, II, 410; III, 258.

Sari Severino, II, 91, 92, 95.

San Simeone, II, 412, 413.

San Teodoro, siciliano, III, 409.

San Teodoro (cardinale di), III, 571.

San Vitale, di Castronovo, II, 403, 406, 407, 412.

Sant’Agata, 17, 508.

Santa Lucia, 17; II, 391.

Santa Lucia (abate di), III, 309.

Santa Ninfa, 17.

Santa Venera, da Gala, 520.

Saluti Pietro, II, 205, 875.

Sara, 75.

Saraceni, 75, 76, 84, 85; II, 87, 88, 153, 165, 170, 171, 181, 215, 312, 319, 321, 322, 328, 329, 338, 342, [929] 343, 385, 408; III, 2, 8, 13, 41, 58, 65, 83, 102, 105, 108, 120, 123, 132, 138, 142, 145, 159, 184, 185, 186, 192, 194, 206, 251, 264, 266, 296, 321, 326, 344, 368, 388, 389, 397, 398, 489, 498, 530, 538, 543, 545, 574, 575, 577, 580, 585, 586, 587, 588, 592, 593, 594, 595, 596, 601, 602, 603, 604, 607, 609, 611, 612, 613, 614, 616, 618, 620, 632, 641, 688, 712, 713, 788, 792, 870, 891.

Sardegna (giudici di), III, 7.

Sâreb, v. Sâin e Saber, II, 179.

Sassanidi, 40, 76, 142; II, 109, 110; III, 732, 825, 837.

Sassoni, II, 322, 372; III, 40.

Sato (Sa’îd?), II, 342.

Saudan (sultano), 436.

Savoia (casa di), III, 803.

Savonarola, II, 485.

Scaldi, II, 380.

Scandinavi, II, 380; III, 15, 16, 17, 20.

Sceaboddino, v. Abmed-ibn-Iehia.

Scedîd, III, 572.

Scehâb-ed-dîn-ibn-Abi-l-Damm, LIII.

Scehâb-ed-din ’Omari, v. Ahmed-ibn-Iehia.

Sceikh-ed-dawla, v. Abd-er-Rahman-ibn-Lûlû.

Scekr, detto il Siciliano, II, 228.

Scems-ed-dîn, da Ormeia, III, 641.

Scerf-ed-dawla, 359.

Scerf-ed-dîn-Ahmed, Zenkeluni, XXVI.

Scherif-Elidris, v. Edrîsi.

Schiavi, 4, 5, 10, 28.

Schiavo Domenico, XLIV; III, 286.

Schiavoni, 380; II, 88, 129, 158, 169, 297, 298, 299, 362.

Scolaro, prete, II, 400; III, 234, 257, 258, 338, 656.

Schultens, XLVIII.

Sciabtai Donolo, II, 319.

Sciafe’i, 474; II, 507.

Sciahuan, III, 368, 371.

Sciami, III, 211.

Scî’i, v. Sciiti.

Sciiti o Scî’i, II, 102, 105, 108, 115, 119, 124, 125, 128, 131, 136, 359, 360, 361; III, 719.

Scilitze, VIII.

Scinà Domenico, XII, LI; 15.

Scipione, 60; II, 80.

Sclavi, II, 174, v. Slavi.

Scorso, 488, 489.

Scoto Michele, III, 696, 697, 707.

Scrofani Saverio, XV.

Sedicto (Siddik?), gaito, III, 263, 500.

Sédillot, 57.

Seduikisc, tribù berbera, III, 495.

Sefedi, lii; 154; III, 699.

Sefetiti, II, 99.

Sehnûn, v. Abd-es-Selâm-ibn-Sa’îd.

Sehnûn-ibn-Kâdim, 264.

Seif-ed-dawla, della dinastia di Hamadan, II, 365.

Seif-ed-dawla, v. Jûsuf-abu-l-Fotûh

Seif-el-islam, principe aiubita, III, 264.

Sekhawi, XXXVII.

Selâh-ed-din, di Arbela, III, 641, 642.

Seleuro, 8.

Sema’ûn?, 404.

Sementari, II, 482, 490, 491, 493.

Semiti, II, 496.

Semnoen v. Sema’ûn, 403.

Semoul (di) Gualtiero, III, 105.

Seneca, 199.

Senhâgi, XXXVIII, XLI.

Senhâgia, v. Sanhâgia.

Serbi, II, 169.

Sergio, da Castronovo, II, 406.

Sergio, consolare, 213.

Sergio, console di Napoli, 364.

Sergio, duca di Napoli, 448, 450.

Sergio, monaco, 505, 521.

Sergio, papa, 29, 195.

Sergio, patrizio di Sicilia, 213, 217, 250.

Serlone, III, 64, 95, 98, 99, 101, 133, 134, 135, 136, 300.

Serradifalco (duca di), XXXIV, XLIII; III, 819.

Serrâg-ibn-Ahmed-ibn-Regiâ (Abu-d-Dhaw), III, 752, 753.

Settimello (da) Arrigo, III, 700.

Sewâda, II, 56.

Sewâda-ibn-Mohammed-ibn-Khafagia, 423, 424, 425, 428.

Sibilla Eritrea, XXX; III, 460, 461, 660.

Sibilla, regina, III, 559, 560.

Sicani, II, 31.

Sicardi, vescovo di Cremona, III, 352.

Sicardo, 312, 354, 355, 357.

Sichaimo, v. Soheim, 456.

Sichelgaita, III, 146.

Sicilia (di) Giovanni, III, 690, 691, 693.

Siciliani a Damasco, 84.

Siciliani, appellazione di coloni musulmani, 429.

Siconolfo, 354, 357, 360, 361, 362, 369, 370.

Siculi, 194, 196.

Sid-es-Sarkusi, soprannominato Ibn-es-Susi, III, 213.

Sifanto, III, 526.

Sifriti, 127, 133; II, 287.

Sikilli, casato, III, 212.

Silefi, tradizionista, II, 476, 489.

Silvestro II, papa, III, 3.

Silvestro, conte di Marsico, III, 784.

Silvia, 23.

Simeone, re dei Bulgari, II, 173, 174.

Simmaco, 12.

Simone, maestro, 242, 243, 249.

Simone, figliuolo d’Arrigo, dei marchesi Aleramidi, III, 226, 488.

[930]

Simone, figliuolo del conte Ruggiero, III, 183, 195, 345, 346, 347, 806.

Simsàm-ed-dawla, v. Hasan-ibn-Jûsuf.

Sinagia, v. Sanhâgia.

Sinan, detto il Vecchio della Montagna, III, 649.

Sind-ed-dawla, v. Abu-l-Fotûh-ibn-Bodeir.

Sinhagia, v. Sanhâgia.

Sinimmar, III, 825.

Siracusa (Leopoldo, conte di), XXXIV, XXXV, XLIII; II, 522.

Siracusa (vescovo di), III, 304, 574.

Sicelioli, 196.

Sisinnio, 350; II, 184.

Sisto V, papa, 101, 103.

Sittelkiul, figlia del Kaid-Se’ûd, III, 256.

Slavi, II, 50, 169, 170, 176, 177, 179, 199, 217, 218, 292, 366; III, 15, 157.

Smagardo, II, 340, 342; III, 25.

So’àd. III, 758, 759.

Società Orientale di Germania, XXII.

Socrate, 509; III, 703.

Socrate, legato bizantino, II, 253.

Sofian-ibu-Sewàda, 340, 427.

Sofronio, 403.

Soheim?, 456.

Soiûti, XXVI, XXXVII, LV; III, 716.

Soleim, tribù arabica, 135; II, 547.

Soleiman-ibn-Afia, 288.

Soleiman-ibn-Amran, 230, 260.

Soleiman(Abu-Dàwûd), II, 479.

Soleiman-ibn-Hasan, II, 116.

Soleiman, Kurdi, II, 484.

Soleiman-ibn-Iehia-ibn-Othmàn-ibn-Abi-Duma, II, 487.

Soleiman-ibn-Mohammed, da Trapani, II, 535.

Solimano, califo omeiade, 125; II, 28.

Sordavalle (di) Guglielmo, III, 221.

Sordavalle (di) Roberto, III, 162, 221.

Sordavalle (di) Sansone, III, 389.

Soret, XXIV.

Soweika (fazione della), III, 429.

Spedalieri, frati. III, 646.

Spelecte (Sant’Elia, di Reggio), v. Sant’Elia.

Spinelli Domenico, XVII, XXIV; III, 343, 344, 812 a 815.

Spinola Niccolò, III, 357, 359, 629, 632.

Spinola Oberto, III, 379.

Spoto, barone. III, 605.

Sprenger, XL.

Springer, III, 858, 862, 879.

Stabile Mariano, XXXV.

Stefano, ammiraglio greco, II, 379, 391, 392, 393.

Stefano, ammiraglio, figliuolo di Majone, III, 356.

Stefano Aniciese, 102.

Stefano Bizantino, 9.

Stefano, consolare, 213.

Stefano, dei conti di Perche, III, 215, 216, 493.

Stefano, figliuolo di Niccolò, d’Eugenio, ammiraglio, III, 353.

Stefano, fratello di Majone, III, 356, 480.

Stefano Massenzio, 440.

Stefano IV, papa, 29.

Stefano V, papa, 517.

Stefano IX, papa, III, 45.

Stefano, patrizio, II, 366.

Stefano, di Siria, II, 218.

Stefano, vescovo, II, 90.

Steinschneider, III, 706.

Stesicoro, III, 542.

Strabone, 7, 8, 9; III, 684.

Strambo, cognome, III, 206, 875.

Strato, cognome, III, 221.

Struppa Salvatore, III, 816.

Subula, casato, III, 205.

Sufiti, II, 492, 536.

Sultano, supposto nome proprio, 359, 360.

Sultano o Soldano di Bari, v. Moferreg-ibn-Sàlem, 372, 380, 382, 383, 436.

Sultano di Sicilia, II, 233, 240.

Sunniti, II, 98, 108, 131, 136; II, 719, 727.

Svevi (dinastia), XXXI; II, 300; III, 406, 530, 889.

Symeon, magister, 164.

T

Tabat, abate, III, 246.

Tabari, XXXIX, XLI; 60.

Tacito, 73; III, 557.

Tafuri Michele, II, 459; III, 344.

Tag-ed-dawla, v. Gia’far-ibn-Jûsuf.

Tag-ed-dîn, Abu-Abd-Allah-es-Singiàri, III, 734.

Tag-ed-dîn, el-Kendi, III, 730.

Taghleb, tribù arabica II, 511.

Tàher-ibn-Mohammed-ibn-Rokbâni, II, 511, 342

Taheriti, dinastia, II, 4.

Taki-ed-dîn, III, 698.

Tamerlano, LIII.

Tarmîm, v. Temîm.

Tancredi, conte di Lecce, III, 509.

Tancredi, conte di Siracusa, II, 396.

Tancredi, di Hauteville, III, 38, 39, 42, 45, 49, 112, 451, 813, 814, 815.

Tancredi, re di Sicilia, III, 342, 503, 521, 531, 544, 546, 548, 550, 555, 558, 560, 562, 566, 568, 592, 594, 802.

Tantawi, XLVI.

[931]

Taormina (di) Timeo, III, 671.

Taranto (arcivescovo di), III, 579.

Tardia, X, XVII, XLIV; III, 203.

Tarik, 125.

Tâwâli, 429.

Teaîd-ed-dawla, v. Ahmed-ibn-Jûsuf, II, 364.

Tedeschi, 247, 248, 282; II, 322, 348; III, 43, 46, 298, 413, 543, 544, 548, 552, 557, 558, 563, 564, 567.

Teja, martire, 15.

Telemsen (re di), III, 379.

Telese (abate di), III, 347, 440.

Temîm-ibn-Mo’ezz-ibn-Badîs, principe Zirita, XXXVIII; II, 92, 93; III, 92, 93, 94, 109, 110, 136, 150, 158, 167, 168, 169, 170, 172, 173, 189, 361, 362, 366, 368.

Temîm (tribù di), II, 480, 488, 504, 505, 506; III, 211, 409.

Temistocle, II, 272.

Temmâm, 145.

Templari, III, 645, 646.

Teobaldo, priore di Crepy, III, 498.

Teocrito, II, 542.

Teoctisto, 190, 193.

Teodicio, figliuolo d’Eugenio, ammiraglio, III, 353.

Teodora, 492.

Teodora, di Roma, II, 160.

Teodora, imperatrice, 315, 338, 498, 510.

Teodorico, 12, 211.

Teodoro, ammiraglio, figliuolo di Niccolò, d’Eugenio, ammiraglio, III, 353, 356.

Teodoro, consigliere in Roma, 203.

Teodoro, consolare, 213.

Teodoro Crethino, 298.

Teodoro, filosofo, III, 692, 693, 694, 695.

Teodoro, spatario e cartulario, 213.

Teodoro, patrizio, 180, 188, 189.

Teodosio, 17, 200.

Teodosio, monaco, 394, 398, 401, 403, 404, 405, 406, 408, 409, 521; II, 32.

Teodosio, patrizio, 357.

Teodoto, 185, 188, 248, 282, 283, 285, 288, 289, 290.

Teofane, abate, 29.

Teofane Cerameo, 486, 487, 488, 489, 490, 491, 493, 495, 496, 503, 521; II, 439.

Teofane, discepolo di San Giuseppe Innografo, 505.

Teofane, istorico, 21, 84, 86, 91, 93, 96, 98, 121, 223.

Teofania, imperatrice, moglie di Ottone II, II, 326, 327.

Teofano, principessa greca, II, 311, 312.

Teofilatto, 462.

Teofilo, imperatore, 220, 291, 297, 298, 315, 357, 492, 494, 497, 498, 503, 505.

Teofilo, prefetto imperiale, 213, 287, 288.

Teognosto, 241, 242, 244.

Teopisto, 229.

Tessaracontarii, 164.

Thâbit il Siciliano, II, 487.

Tharec, 170, v. Tarik.

Thâbit-ibn-Hathîm, 172.

Thedibia, II, 408.

Thelgi, II, 111.

Thierry, vescovo di Metz, II, 326.

Thiket-ed-dawla, II, 332, 336, v. Jûsuf-ibn-Abd-Allah.

Tiberio, 9.

Tiberio II, imperatore, 121.

Tiberio, usurpatore, 217.

Tigiani, XXVII, l.

Togibiti, II, 472.

Tolomeo, XXX; 9, 10, 75; II, 432, 433, 437, 469; III, 178, 657, 658, 669, 670, 671, 679, 707.

Tolunidi, II, 4, 50, 76, 77; III, 847.

Tommaso, schiavo di San Gregorio, 202.

Tommaso, conte d’Acerra, III, 641.

Tommaso, di Cappadocia, 164, 193, 240, 242, 250.

Tommaso, conte di Savoia, III, 810.

Tonûkh, tribù arabica, II, 220, 335.

Torceto (de) Rogerius Acquinus, III, 221, 223.

Tornberg, XLVII, L, LI, LIII.

Toscana (marchese di), II, 2.

Toscana (granduchi di), III, 681, 682.

Traina (vescovo e Chiesa di), III, 341, 349, 353.

Traina Antonino, III, 884, 887.

Traina (da) Viviano, III, 288.

Traci (di) Pietro, III, 116.

Trani (conte di), III, 123.

Trasimondo, marchese di Spoleto, II, 312.

Tribellio Pollione, 10.

Tricari Basilio, III, 281.

Troia (vescovo di), III, 582.

Trostaino, III, 29.

Troysi, XXXV.

Tunis (re di), III, 630.

Tûra, supposto re di Taormina, II, 439.

Turan-Sciah, fratello di Saladino, III, 506.

Turchi, 123; II, 371, 462; III, 282, 506.

Turcopoli, III, 508.

Turungi, III, 212.

Tusculani, III, 550, 558.

Tychsen, X, XXIV; 283, 296, 321; II, 6; III, 342.

[932]

U

Ugo I, re di Cipro, III, 643.

Ula, III, 258.

Ulf-Ospaksson, II, 386.

Umberto, di Savoia, III, 199.

Umberto, monaco, III, 402.

Unfredo, conte di Puglia, III, 38, 39, 40, 43, 45, 46, 47, 48, 142.

Unfredo, signore di Thoron, III, 643.

Unger Fr. W., III, 862, 879.

Ungheri, II, 161.

Unitarii, II, 98; III, 626, 627.

Urbano II, II, 414; III, 22, 177, 185, 187, 191, 192, 193, 194, 274, 304, 305, 306, 567.

Urdin, tribù berbera, III, 212.

Ursperg (abate di), III, 523.

V

Vadiperto, II, 325.

Valentino, imperatore, 210.

Vallachi, II, 365.

Vandali, 11, 104, 121, 519, 520; II, 357, 365.

Varangi, II, 365, 380, 383, 384, 385, 386; III, 34.

Vasto (marchesi del), III, 199.

Vecchio della Montagna, III, 647, 648, 649, v. Sinan.

Vella, abate, X, XXXVIII, LI; 284, 297; III, 202, 342.

Venere Ericina, 17.

Venezia (congresso di), III, 504.

Veneziani, II, 169, 341; III, 144, 172, 260, 434, 513, 522, 625, 629, 774.

Venuti Vincenzo, III, 176.

Vernese Lorenzo, III, 376.

Verre, 7.

Vico Giovan Battista, LIV; II, 270.

Vigo Leonardo, III, 878, 887.

Vigo Salvatore, XXXV.

Vinisauf, III, 107.

Virgilio, III, 461.

Visconti Pietro, III, 677.

Visigoti, III, 852.

Vitale Odorico, III, 85.

Vitaliano, papa, 102.

Vittore III, papa, III, 169.

Vlatto, arcivescovo, II, 320.

Vulcano, catapano, II, 366.

W

Waldemaro, re di Danimarca, III, 603.

Wahabiti, III, 626, 627.

Wakîdi (falso), XLV; 84 e segg.

Waldeck (conti di), II, 328.

Walîd I, califo omeiade, II, 110; III, 824, 828, 829, 830, 832, 840.

Walla, 227.

Waring, III, 845.

Wasâmâ, II, 191.

Wâsil (Abu-Sari), II, 226.

Weil, XXXIV, XLI; III, 4.

Welf, duca, III, 431.

Wenrich, XII, XVIII, XIX, XXVIII, XXX, XLI, XLVIII, LIII; 90, 100, 233; III, 884.

Werner, abate di Fulda, II, 325.

Werrû, tribù berbera, III, 212.

Wezdâgia, tribù berbera, II, 36.

Weberto, arcidiacono di Toul, III, 44.

Wiccardo, famigliare, III, 792.

Wilmans Ruggiero, III, 22.

Witiza, 476.

Wright William, XXXIV, XLVI, LV.

Wuezdâgia, tribù berbera, II, 52.

Wüstenfeld Ferdinando, XLVI, XLIX, L.

Wüstenfeld Teodoro, III, 197, 224, 227.

X

Ximenes, cardinale, VI.

Z

Zaccaria, condottiero, II, 313.

Zaccaria, papa, II, 169.

Zaccaria, vescovo, 499.

Zàhir, v. Daher.

Zakaria (Abu-Iehia), emir hafsita, L.

Zanetti, XXVIII.

Zefedino, v. Nazardino.

Zegawa, tribù berbera, III, 211.

Zeid, liberto di Maometto, 55.

Zeid, tribù arabica, III, 384.

Zeidân, II, 357.

Zeinab-bent-Abd-Allah-Ansari, III, 256, 325.

Zenata, tribù berbera, 36, 39, 198; II, 287, 293, 355, 358; III, 92, 211.

Zengui, padre di Norandino, III, 408, 462.

Zenobia, 31.

Zerkesci, LV.

Ziâd..., III, 827, 855.

Ziâd-ibn-Sahl-ibn-es-Sikillîa (o Sakalîba), 155.

Ziadet-Allah, emir aghlabita d’Affrica, 115, 153, 154, 155, 156, 231, 254, 255, 256, 257, 259, 260, 261, 262, 276, 278, 284, 287, 288, 295, 300, 301, 309, 337; III, 829, 831.

Ziadet-Allah II, emir aghlabita, 345.

Ziadet-Allah-ibn-Abd-Allah [933] (Abu-Modhar), ultimo emir aghlabita d’Affrica, II, 77, 85, 126, 127, 128, 129, 130, 134, 140, 141, 142, 456.

Ziân (Abu-l-Feth) il Siciliano, II, 228.

Ziero, III, 209.

Zimisce, II, 312, 313.

Zîri-ibn-Menâd, II, 202; III, 417.

Ziriti, dinastia, XXXVII, XXXVIII; II, 238, 241, 287, 288, 289, 355, 358, 360, 362, 363, 372, 378, 379, 421, 448, 529, 550; III, 73, 80, 81, 92, 93, 109, 150, 158, 169, 332, 366, 367, 368, 371, 373, 400, 404, 405, 414, 416, 423, 621, 622, 780, 808.

Zobeir, II, 524; III, 506.

Zoe, figliuola di Teodicio, d’Eugenio, ammiraglio, III, 353.

Zoe, imperatrice, 245, 250, 518; II, 153, 166, 174, 379, 384, 385, 386, 393, 394.

Zogba, tribù arabica, III, 212.

Zoheir-ibn-Ghauth, 285; II, 32.

Zoheir-ibn-Kais, 118.

Zohri, LIV.

Zonara, 242.

Zoroastro, 139.

Zotico e Zotica, casato, III, 205.

Zowâwa-ibn-Ne’am-el-Half, 264.

Zupano, II, 176.

Zuzeni (Mohammed-ibn-Ali), XLVIII.

[935]

INDICE TOPOGRAFICO.

A

Abal, III, 664.

Abbâsia, 146, 147, 156.

Abissinia, 40, 46, 58; III, 825, 831, 832.

Abragia, III, 311.

Abu-’l-Feth (torre di), II, 49, 50.

Abu-Himâz (contrada di), II, 297.

Acaba, 122.

Acarnania, III, 434.

Acerenza, III, 178.

Achareth, 469, v. Alcara.

Aci, II, 73, 85, 86, 433; III, 205, 208, 212, 213, 238, 245, 261, 311, 320, 326, 782, 783, 787, 811.

Acireale, II, 86; III, 309.

Acquaviva, II, 35; III, 219.

Acradina, II, 258.

Acri, 269, 270, 272; III, 529, 530, 639, 641, 644, 645, 646, 712.

Adana, 401.

Aden, III, 506.

Aderbaigian, II, 110, 113, 488.

Adernò, II, 431; III, 96, 285, 311, 312, 774.

Adgabia, corr. Agdabia, II, 290.

Adîna, II, 503, 504.

Adramito, II, 368.

Adrano (bosco di), II, 443.

Adria, 358.

Adriatico, 315, 328, 354, 357, 358, 378, 436; II, 164, 169, 170, 179, 263, 341; III, 162, 232, 315, 439, 467, 675.

’Adwa, III, 458.

Affrica propria, Affricani, XXXI, XXXIX, XLI, XLII, XLIV, XLV, XLVI, XLIX, L, LI, LII, LIII, LVI; 12, 79, 85, 86, 88, 91, 94, 95, 98, 103, 104, 109, 112, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 126, 136, 137, 138, 143, 144, 148, 157, 158, 161, 162, 165, 168, 174, 175, 176, 205, 206, 218, 224, 225, 227, 229, 232, 234, 240, 241, 248, 252, 253, 258, 261, 264, 272, 273, 274, 276, 287, 291, 296, 304, 309, 321, 322, 332, 337, 340, 343, 351, 352, 353, 359, 364, 365, 366, 379, 383, 384, 390, 391, 392, 397, 412, 413, 415, 427, 513, 514; II, 4, 6, 10, 12, 21, 22, 31, 32, 36, 37, 38, 39, 43, 45, 48, 51, 61, 62, 63, 64, 66, 67, 72, 74, 75, 77, 78, 86, 92, 105, 108, 120, 121, 126, 127, 128, 131, 132, 133, 134, 135, 137, 139, 141, 142, 147, 150, 151, 152, 159, 161, 165, 168, 170, 173, 175, 176, 177, 182, 183, 184, 188, 191, 194, 195, 198, 200, 201, 202, 203, 204, 205, 206, 207, 210, 216, 217, 218, 220, 221, 223, 225, 226, 227, 228, 229, 233, 235, 236, 237, 238, 240, 241, 246, 247, 248, 249, 250, 251, 255, 257, 259, 263, 267, 272, 275, 282, 283, 286, 287, 288, 289, 290, 292, 293, 295, 320, 322, 332, 335, 338, 343, 348, 349, 351, 355, 356, 358, 359, 360, 361, 362, 363, 366, 367, 368, 369, 370, 371, 372, 373, 377, 383, 384, 385, 387, 388, 391, 405, 418, 419, 420, 424, 427, 428, 432, 444, 445, 446, 448, 450, 453, 465, 477, 478, 479, 484, 486, 488, 495, 496, 499, 513, 519, 525, 526, 527, 528, 530, 533, 534, 535, 540, 547, 548; III, 2, 3, 6, 12, 13, 14, 72, 73, 80, 82, 92, 93, 94, 95, 104, 109, 110, 111, 122, 124, 125, 136, 150, 151, 158, 167, 173, 177, 188, 189, 190, 196, 211, 212, 213, 260, 261, 303, 310, 332, 333, 334, 337, 352, 359, 362, 363, 366, 367, 369, 374, 378, 379, 380, 381, 382, 385, 388, 399, 402, 403, 406, 407, 409, 410, 414, 417, 419, 420, 421, 422, 424, 430, 431, 434, 436, 438, 439, 461, 464, 465, 467, 468, 474, 475, 476, 478, 483, 484, 486, 489, 490, 495, 504, 515, 516, 517, 518, 520, 533, 538, 539, 548, 553, 573, 589, 598, 599, 600, 613, 617, 622, 624, 625, 626, 627, 632, 633, 651, 662, 663, 664, 665, 668, 676, 678, 681, 682, 684, 711, 716, 735, 740, 751, 759, 763, 771, 783, 785, 787, 799, 810, 811, 825, 831, 836, 844, 867, 868, 879, 892.

[936]

Affrica, città, 379, 387, v. Mehdia.

Affricano, mare, 417.

Agdabia, II, 290, 362.

Aghmat, II, 528, 665.

Agiàs, II, 356.

Agosta, III, 166, 213, 338.

Agri, II, 408.

Agrigento, 8; III, 210, v. Girgenti.

Agropoli, 457, 459, 465, 463; II, 161, 344.

Aguglia, III, 264.

Ahâsi, v. Le Sorelle.

Ahmar, monte, III, 865.

Ahwàz, II, 114; III, 827.

Aidone, III, 224, 225, 227, 269.

’Ain-el-Bottiah, III, 820.

’Ain-el-Farkh, III, 820.

’Ain-Liel, III, 312.

’Ain-el-Meginuna, III, 844.

’Ain-el-Menâni, III, 820.

’Ain-Abi-Sa’îd, II, 300.

’Ain-Scindi, II, 33, Dannisinni, cf. Ainisindi.

Ainisindi, III, 554, 555, 870, cf. Ain-Scindi.

Ainuni, III, 212.

’Akabet-et-Tûr, III, 869.

Akdam (moschea dell’), II, 522.

Alamût, II, 117.

Alba (porto di), III, 315.

Albenga, III, 199, 519.

Albergaria (quartiere dell’), III, 495.

Albergo de’ Poveri in Palermo, III, 555.

Alcamo, 234, 235; II, 278, 431, 432, 434; III, 159, 312, 536, 780, 791.

Alcantara, II, 387.

Alcara di Val Demone, o delli Fusi, 270, 469; III, 208, 286, 288, 295, v. Acharet e Alcharet.

Alcharet, 270.

Al-Chila, III, 369.

Aleppo, XLVI, XLVIII; II, 279, 441, 487; III, 455, 691, 716, 718, 719.

Alesa, 8, 485; II, 402.

Alessandretta, 515.

Alessandria d’Egitto, Alessandrini, XLIII, XLIX; 56, 81, 96, 98, 99, 112, 122, 162, 163, 164, 396, 515; II, 48, 182, 250, 276, 325, 402, 474, 485, 486, 488, 489, 522; III, 352, 406, 426, 467, 505, 507, 508, 509, 510, 511, 512, 513, 514, 520, 527, 531, 538, 639, 650, 651, 652, 688, 716, 809, 810, 845.

Alga, v. Halka.

Algeri, LIV; 116; II, 190, 292, 358; III, 423, 424, 426, 455.

Algeria, 104; II, 38, 292, 535; III, 373.

Algeziras, XLIII; II, 517, 529; III, 173, 662.

Alhambra, II, 452, 794, 795.

Alicante, II, 186.

Alife, 374; II, 164.

Alimena, 315.

Alitea, III, 616.

Almadia, III, 172, v. Mehdia.

Almeria, II, 250, 535; III, 377, 379, 414.

Alpi, 287; II, 167, 278, 394, 408; III, 25, 27, 28, 34, 214, 433, 608, 654, 708, 742.

Alsazia, III, 696.

Altarello di Baida, v. Menani.

Altavilla, III, 219.

Alunzio o Calacta, III, 77.

Alvernia, III, 672.

Amalfi, Amalfitani, 183, 212, 227, 312, 354, 356, 357, 364, 367, 376, 396, 435, 437, 444, 449, 450, 451, 453, 455, 518; II, 81, 96, 163, 175, 227, 338, 449, 450, 458, 459; III, 51, 52, 140, 142, 158, 169, 182, 185, 211, 232, 277, 289, 297, 810, 863, 864.

Amalfitani (vico degli), in Palermo, III, 218, 801, 810.

Amantea, 377, 440; II, 42.

Amendolara, II, 347.

Amenano, fiume, II, 437; III, 771.

Ammiraglio (ponte dell’), III, 118, 843.

Amorium, III, 665.

Amru (moschea di), II, 476; III, 832.

Anapo, III, 180.

Anatolia, 440.

Anattor, III, 95.

Ancona, 358.

Andalusia, III, 483.

Angoulême, III, 672.

Annisinni, v. Ainisindi.

Annunziata de’ Catalani (chiesa dell’), III, 792, 817, 818.

Antigono (isolotto di), 497.

Antiochia, 15, 29, 197, 515; II, 279, 495; III, 188, 361, 523, 526, 784, 839.

Anversa, III, 235.

Appennini, 465, 468; II, 339; III, 50, 55, 97, 147, 158, 433, 612.

Aquino, 368.

Aquisgrana, 190; III, 16.

Arabia, Arabi, XLIII, XLV, XLVII, LIV; 30, 31, 32, 36, 37, 38, 39, 41, 44, 45, 49, 50, 53, 54, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 63, 66, 68, 71, 72, 73, 75, 76, 79, 80, 82, 88, 92, 93, 94, 96, 97, 98, 112, 125, 128, 130, 131, 141, 142, 143, 264, 288, 363, 369, 408, 424, 431, 432, 480; II, 10, 16, 26, 32, 34, 35, 37, 38, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 47, 48, 52, 53, 59, 62, 63, 65, 68, 75, 85, 92, 98, 99, 101, 106, 112, 113, 114, 115, 116, 118, 123, 126, 127, 128, 130, 131, 132, 136, 138, 139, [937] 141, 142, 143, 144, 146, 148, 149, 150, 151, 154, 160, 168, 173, 184, 192, 193, 200, 207, 217, 221, 233, 246, 256, 260, 265, 266, 267, 268, 272, 275, 278, 282, 287, 292, 299, 345, 349, 355, 357, 361, 362, 371, 372, 383, 404, 418, 420, 427, 430, 431, 432, 434, 437, 438, 439, 441, 442, 443, 445, 446, 449, 450, 451, 452, 459, 460, 461, 462, 463, 465, 466, 468, 469, 470, 471, 472, 473, 477, 478, 483, 491, 496, 500, 503, 504, 505, 506, 510, 512, 513, 514, 515, 517, 521, 527, 530, 531, 532, 533, 536, 542, 544, 547, 548; III, 73, 80, 81, 82, 92, 93, 94, 95, 100, 104, 109, 111, 122, 171, 172, 231, 320, 324, 330, 332, 349, 355, 363, 366, 367, 368, 369, 371, 380, 381, 383, 384, 386, 387, 399, 405, 406, 409, 412, 413, 418, 419, 420, 424, 425, 428, 458, 472, 473, 474, 475, 478, 490, 599, 644, 646, 657, 667, 668, 669, 672, 675, 679, 685, 686, 699, 701, 715, 718, 724, 729, 732, 738, 739, 741, 742, 746, 770, 784, 805, 809, 812, 824, 826.

Arabi cristiani, 40, 43; II, 291, 292.

Arado, isola, 81, 85, 87.

Arafat, monte, II, 245.

Aragigun, III, 212.

Arbela, L.

Arce, 368.

Arcipelago, 91; II, 364, 384, 413.

Arcuraci, III, 614.

Arena, fiume, II, 445.

Arezzo, 443.

Argira, II, 399, 403, 406; III, 286.

Argo, II, 133.

Arîn (cupola di), II, 437.

Arles, III, 16.

Armeni (castello degli), 195, 343.

Armenia, Armeni, 223, 247, 282, 510; II, 110, 114, 203, 260, 269, 365, 379, 393; III, 637, 639.

Armento (monastero di), 469; II, 407, 408, 409.

Artalia, II, 85.

Artesino, monte, 326.

Artilgidia, III, 592.

Asaro, II, 185.

Ascalona, III, 335, 383, 640.

Ascîr, II, 275, 362.

Ascoli, di Capitanata, II, 244, 344; III, 32.

Asia, II, 97, 108, 110, 229, 368; III, 212, 668.

Asia Minore, XLV; 94, 195, 218, 413, 425, 441, 510; II, 77, 240, 250, 262, 279; III, 38, 410, 433, 679.

Asnâm, d’Affrica, 129, 133.

Asnâm, di Sicilia, III, 776.

’Asra, II, 185.

Assiria, II, 250.

Assorus, II, 185.

Asti, III, 199, 277.

Asturie, 153.

Atene, 48; II, 503, 504; III, 167.

Atlante, 103, 129; II, 133, 355, 363; III, 374.

Atlantico, 122, 173; II, 284; III, 374, 664.

Attica, II, 184.

Augsburg, II, 325; III, 673.

Augusta, di Sicilia, III, 616.

Aulina (monastero di), II, 410.

Aumale, II, 38.

Aurès, 116, 117, 119, 120; II, 52, 122, 198, 201, 352.

Avellino, II, 164.

Aversa, 463; II, 172; III, 28, 29, 30, 31, 34, 35, 37, 47, 52, 133, 186, 196, 277, 588.

Avignone, 158.

Avola, 311, 334.

Azhar (moschea di), II, 283, 286; III, 835, 843, 845.

B

Bâbel (Babilonia), II, 110.

Bab-el-Bahr, II, 302; III, 841.

Bab-el-Ebnâ, II, 302.

Bab-el-Hadîd, II, 302.

Bab-er-Riâdh, II, 302.

Bab-es-Scefà, II, 302.

Bab-es-Sudân, III, 325.

Bab-Ibn-Korhob, II, 302.

Bab-Rûtah, II, 302.

Bab-Sciantaghàth, II, 302.

Babilonia (Bagdàd?), 232; II, 87, 338.

Babilonia (il Cairo Vecchio), III, 352, 633, 635, 651.

Baccani (campo di), II, 165.

Badiazza (monastero di Santa Maria della Scala o della Valle, detto La), III, 843, 844.

Baghaia, 119; II, 122.

Bagdàd, XXXVIII, XL, XLVII; 85, 86, 141, 145, 150, 303, 322, 326, 332, 337, 371; II, 75, 77, 110, 114, 120, 149, 150, 218, 224, 278, 279, 280, 281, 295, 309, 402, 403, 438, 440, 454, 464, 480, 492, 494, 497, 498, 504, 547, 549; III, 264, 356, 373, 375, 423, 505, 522, 634, 638, 645, 662, 715, 721, 816, 833.

Bàgia, Begia, o Beja, II, 66, 199.

Bagni Segestani, III, 789.

Bahrein, II, 117, 336.

Baich (torre di), II, 303, 452, 453.

Baida, II, 67, 68, 208, 297, 434.

Balata, 266.

[938]

Baleari, isole, 124, 162; III, 3, 5, 10, 12, 14, 375, 376, 377, 480, 518, 519, 520.

Bâles, II, 186.

Balharâ, II, 34, 300.

Bâlîs, II, 186.

Ballarò, mercato in Palermo, II, 34, 300; III, 870.

Bâlmi, III, 795.

Baltah, isolotto, III, 382.

Baltico, II, 380, 383, 386; III, 15, 679.

Bamberg, II, 92; III, 26, 42.

Bamberg (duomo di), III, 798.

Bandiera, contrada in Palermo, III, 614

Barbarìa, III, 410, 613, 695, 809.

Barca, 109, 113, 117, 118, 119, 122, 165, 319; II, 284, 356, 477, 497; III, 212, 408, 420, 476, 483, 515, 634, 836.

Barcellona, 159; III, 12, 389, 459, 810.

Bardhali (?) (monastero di), III, 256.

Bari, Baresi, 359, 360, 361, 363, 371, 372, 373, 374, 375, 376, 377, 378, 379, 380, 384, 390, 436, 437, 438, 462, 463; II, 162, 244, 311, 339, 340, 341, 342, 344, 345, 350, 392, 416; III, 25, 26, 30, 35, 36, 41, 45, 102, 114, 115, 116, 124, 125, 139, 143, 232, 280, 297, 335, 397, 689, 812.

Bartanobûa, II, 72.

Bartibûa e Bartibû, II, 72, 73.

Basciu, v. Dakhel.

Basente, II, 329.

Basentello, II, 328.

Basilea, III, 590.

Basilicata, II, 247, 329, 407.

Bassora, 56, 84; II, 33, 116, 522.

Battelari, III, 316, 772.

Baviera, II, 325.

Bayeux, III, 19.

Bebelagerin, III, 869.

Bebilbachal, v. Bab-el-Bahr.

Bec (monastero del), III, 190.

Beccheria Vecchia di Palermo, II, 69.

Bedd o Bedsds, II, 113, 114.

Bedr, 66.

Begiaia, II, 186.

Beirût, II, 312: III, 107.

Beja, XLIV; II, 66.

Bekâra, 418, v. Vicari.

Belezma, 132; II, 52, 53, 122, 123.

Belgia, 237; II, 33.

Belich, 237; II, 33, v. Belici.

Belici, 337; II, 33, 35; III, 86.

Bellût, II, 433, v. Caltabellotta.

Benarvet o Benavert, III, 149, 151, 152, 153, 154, 162, 163, 165, 166, 167, 172, 177, 230, 269, 597.

Benevento, Beneventani, 94, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 193, 212, 312, 355, 356, 357, 362, 363, 365, 368, 369, 370, 371, 373, 374, 376, 377, 380, 381, 383, 385, 387, 388, 393, 435, 436, 437, 438, 439, 443, 447, 448, 452, 454; II, 153, 163, 164, 166, 168, 247, 278, 311, 321, 329, 340, 344, 377; III, 25, 27, 35, 42, 44, 52, 183, 289, 398, 616.

Benfesc, v. Mico.

Benfratelli (monastero dei), II, 69.

Berolais, 452.

Berry, III, 673.

Betlem, II, 413; III, 644.

Bibbona, III, 219.

Biccari, III, 219. v. Vicari.

Biccarum, 418, 419. v. Vicari.

Bico, II, 86.

Bifara, III, 174.

Bikesc, v. Mico.

Biled-el-Bargoth, 234, 236, 237.

Bileka, II, 33.

Bisacquino, III, 772.

Biscari, 269; III, 795.

Bisignano, II, 319, 342, 345; III, 220.

Bitonto, II, 313, 344.

Bivona, II, 443; III, 219.

Blaland, II, 385.

Bocchigliero, II, 347.

Bocca di Falco, II, 67; III, 582.

Boiano, 374, 455.

Bokhara, II, 34; III, 211.

Bologna, III, 673, 706.

Bologna (biblioteca di San Salvadore in), III, 707.

Bona, II, 122, 199, 501; III, 13, 212, 421, 423, 425, 436, 438, 439, 472.

Bonifato, II, 431, 432; III, 822.

Bordeaux, III, 16.

Borgetto, III, 779.

Borgio, III, 219.

Bosforo, II, 77; III, 414.

Bosolbi, III, 175.

Botranto, 516.

Bouvines, III, 590.

Bova, II, 315.

Bovino, II, 311, 315, 316.

Brescia, 388; III, 651.

Bresk, III, 407.

Brettagna, III, 17.

Briatico, III, 257.

Briga (Santo Stefano di), III, 219.

Brindisi, 355, 441; III, 434, 592, 609.

Broccato, III, 776, v. Brucato e Burkâd.

Broglio, III, 219.

Brolo, II, 404; III, 219.

Brolpasino, III, 219.

Bronte, 311, 336.

B....rtûn, II, 231.

Brucato, v. Broccato e Burkâd, III, 103, 104, 301, 311.

Bruges, III, 696.

Bruzzano, II, 171, 246, 247; III, 672.

[939]

Buccheri, II, 443, 786.

Bucello, III, 340.

Bufurera, III, 341.

Bugamo o Buagimo, III, 107, 111, 236, 270.

Bugia, 122; II, 38, 122, 359, 465, 529, 530; III, 80, 81, 92, 211, 366, 369, 375, 399, 407, 421, 423, 427, 467, 496, 516, 520, 698, 704.

Bulâk, III, 329.

Bulchar, II, 300.

Burgimilluso, III, 602.

Burgio, III, 219.

Burkâd, v. Broccato e Brucato, 212; III, 776.

Busento, II, 93.

Butera, 316, 323, 324; II, 95, 96, 97, 158, 175, 176, 177, 192; III, 223, 226, 269, 301, 302, 306, 488, 754, 760, 774, 881.

C

Caaba, 45, 46, 58, 118; III, 830, 839, 840.

Cabés, corr. e v. Kâbes.

Cáccamo, III, 232, 233, 251, 301, 311.

Cadara, v. Chadra.

Cadesia, 60.

Cadice, III, 377.

Cafsa, XLV; II, 275, 306; III, 421.

Cagliari, III, 7, 10.

Caiazzo, 452.

Cairo, L, LII, LIII, LIV, LV; 112; II, 40, 66, 238, 241, 279, 280, 283, 286, 287, 291, 330, 331, 356, 357, 402, 463, 465, 476, 484, 488, 489, 507, 511, 521, 522, 547; III, 330, 352, 373, 447, 460, 466, 492, 506, 510, 634, 638, 639, 647, 650, 651, 652, 653, 655, 677, 704, 712, 718, 728, 736, 737, 768, 804, 824, 833, 835, 845, 846, 847, 851, 852, 893, 894.

Cala (La), porto minore di Palermo, II, 157, 158, 298; III, 118, 672.

Calabria e Calabresi, LII; 21, 24, 91, 95, 165, 176, 183, 189, 193, 203, 207, 212, 214, 222, 230, 268, 293, 297, 336, 357, 359, 360, 371, 372, 377, 380, 381, 384, 388, 412, 422, 424, 425, 426, 428, 431, 434, 435, 436, 437, 439, 441, 442, 443, 445, 461, 469, 517, 518, 519; II, 41, 42, 44, 69, 70, 71, 80, 87, 89, 90, 91, 148, 152, 153, 161, 166, 168, 171, 172, 173, 175, 176, 178, 179, 192, 203, 213, 215, 217, 242, 244, 245, 246, 247, 248, 249, 251, 252, 263, 272, 278, 308, 311, 312, 313, 314, 315, 318, 319 a 322, 323, 328, 329, 339, 343, 344, 345, 346, 347, 365, 367, 374, 375, 377, 386, 392, 394, 398, 401, 402, 403, 405, 406, 407, 408, 410, 411, 439, 479, 480, 551; III, 14, 22, 23, 25, 31, 42, 43, 44, 45, 47, 48, 49, 50, 51, 53, 54, 57, 65, 68, 75, 78, 79, 83, 84, 85, 86, 89, 94, 100, 106, 107, 116, 120, 123, 125, 145, 146, 147, 150, 151, 153, 156, 160, 164, 165, 176, 177, 183, 184, 185, 192, 193, 194, 196, 204, 232, 233, 235, 237, 238, 248, 250, 258, 272, 273, 274, 275, 280, 281, 282, 299, 302, 303, 317, 318, 346, 347, 350, 353, 378, 392, 394, 395, 398, 450, 466, 553, 611, 613, 616, 625, 697, 701, 771, 790, 803, 810, 854.

Calacta, v. Alunzio.

Calascibetta, III, 75, 150.

Calata (La), II, 193; III, 605.

Calatafimi, II, 278; III, 772, 780.

Calatalfano e Catalfano, II, 49.

Calatamauro, III, 773, 776, 822.

Calatayud, II, 481.

Calathammeth, v. Kala’t-el-Hamma.

Calatrasi, v. Kalat-et-Tirazi, III, 325, 585, 776, 778.

Calatubo, III, 773, 780, 811.

Calbo, Calvus (monte), III, 876.

Calcare (Le), III, 67.

Caldia, v. Chaldia.

Calinio, 452.

Calle (La), v. Marsa-Kharez.

Calloniana, 289.

Caltabellotta, 310, 311, 334; II, 33, 185, 193, 194, 275, 433; III, 313, 775.

Caltagirone, 311, 336; III, 153, 225, 228, 229, 230, 231, 268, 269, 278, 296, 309, 338, 584, 599, 788.

Caltanissetta, 290, 330; II, 435; III, 78, 109, 174, 309, 311, 776.

Caltavuturo, 315, 322, 330, 334, 419, 421; II, 192, 385; III, 95, 96, 285.

Calvo, 452.

Cambray, III, 673.

Cambridge, II, 64.

Camelo (battaglia del), II, 103.

Camerata e Cammarata, II, 433; III, 209, 212, 219, 285.

Camerina, 323, 324; II, 402; III, 229, 230.

Camerino, 455; II, 72, 89, 166, 402.

Campagna di Roma, II, 164.

Campania, 98.

Campofelice, III, 776.

Campofiorito, III, 779.

Camporeale, III, 159, 779.

Camuka (La), III, 876.

Cancelliere (monastero del), III, 256.

Candia, 164; III, 534.

Canne, 361, 436; III, 21, 27, 28, 29.

Cannita, III, 536.

[940]

Canosa, 361, 374, 377; II, 164; III, 143, 791, 863.

Cansaria, Chanzaria, Ganzaria e Cancheria, III, 231.

Cantariddoheb, III, 870.

Capaccio, II, 344.

Capitanata, II, 316; III, 37, 45, 51, 612, 788.

Capizzi, III, 97, 224, 282, 285, 293, 499, 610, 616, 783.

Capo (quartiere del), III, 614.

Capo d’Anzio, II, 170.

Capo dell’Armi, 576; III, 50.

Capo Boèo, II, 431, 433.

Capo Bon, 430; II, 465; III, 420, 429. 473, 598.

Capo Circeo, II, 449; III, 672.

Capo di Gallo, III, 309.

Capo Granitola, II, 435.

Capo Miseno, II, 90.

Capo dei Molini, II, 86.

Capo Passaro, II, 127.

Capo Sant’Alessio, III, 795.

Capo San Marco, II, 192, 193.

Capo di Santa Croce, III, 166.

Capo Scalambri, III, 178.

Capo Scaletta, II, 85; III, 795.

Capo Spartel, III, 458.

Cappadocia, 333, 335, 440.

Capraia, III, 770.

Caprera, III, 770.

Capri, III, 770.

Captedi, III, 573.

Capua, città e principato, 188, 212, 357, 361, 369, 373, 374, 376, 385, 387, 388, 393, 435, 437, 443, 444, 445, 447, 450, 452, 453, 454, 455, 457, 458, 461, 462, 463; II, 161, 163, 166, 168, 311, 318, 327, 340, 344; III, 25, 27, 28, 39, 49, 52, 133, 142, 143, 183, 186, 187, 192, 193, 195, 306, 393, 395, 396, 398, 451.

Capuana, porta, 373.

Caputo, III, 582, 849.

Carcassonne, 159.

Cariati, III, 48.

Cariddi, II, 271.

Carini, II, 67; III, 301, 575, 774, 784, 811.

Carnello, fiume, 365.

Carona, III, 219.

Caronia, 455, 459, 470; II, 275, 388, 390, 433; III, 102, 147, 219, 313, 768, 772, 783, 789.

Cartagena, II, 186.

Cartagine, 4, 104, 106, 116, 119, 120, 123, 147, 165, 166, 167, 277; II, 139, 444, 501; III, 13, 412.

Cartama, III, 157.

Casa del Rifugio, II, 119.

Casa della Sapienza, II, 119.

Casale Butont, v. Rahl-Butont.

Casal Monferrato, III, 198.

Casalino, v. Ghirân-ed-dekîk.

Casba, III, 285.

Caserta, 452; II, 453.

Caserta Vecchia, III, 853.

Casilino (ponte del), 361.

Caspio, III, 637.

Cassano, II, 244, 346, 407.

Cassaro di Palermo, II, 68, 69, 274, 296, 298, 300, 301, 302, 303, 304; II, 118, 298, 617, 801, 841, 842.

Cassaro, casale, III, 264, 285.

Cassibari, III, 776.

Castana, III, 219.

Castania, III, 219.

Castelbuono, 346; II, 391; III, 776.

Castel d’Aci, II, 86.

Castel di Mola, II, 82.

Castel Giovanni, III, 118, 120, v. Castello di Iehia.

Castellammare del Golfo, II, 432, 783.

Castelmarre (fortezza di), in Palermo, III, 136, 139, 499, 565.

Castellana (La), III, 875.

Castel dell’Uovo, III, 461.

Castello, III, 257.

Castello di Iehia, III, 821, v. Castel Giovanni.

Castello di Sopra, v. Halka.

Castelluccio, 305.

Castel Lucullano, II, 90, 92.

Castelnormando, III, 215.

Castelnuovo, 346

Castel Pilano, 455.

Castel Sant’Angelo, II, 344; III, 145.

Castel Vecchio, II, 46, 49, 52, 142, 221.

Castelvetrano, II, 35.

Castiglione, II, 191.

Castilia, in Affrica, 156.

Castrogiovanni, 268, 270, 280, 281, 283, 284, 289, 290, 291, 299, 300, 306, 307, 308, 310, 311, 317, 319, 322, 323, 326, 328, 329, 330, 332, 335, 337, 342, 345, 346, 349, 471, 518; II, 31, 275, 411, 420, 424, 425, 432, 433, 436, 437, 521, 548, 549, 551; III, 71, 72, 73, 75, 76, 77, 79, 81, 82, 93, 94, 95, 96, 112, 134, 135, 136, 150, 156, 164, 172, 173, 174, 175, 176, 177, 224, 225, 256, 257, 269, 285, 311, 327, 540, 565, 662, 773, 774, 791.

Castrogiovanni (val di), 467.

Castronovo, 327, 346; II, 400, 403, 406, 412, 420; III, 156, 301, 315, 340, 341.

Castroreale, 416.

Castrovillari, II, 347; III, 185.

Catalfano, v. Calatalfano.

Catalogna, III, 389.

Catania, 7, 13, 15, 18, 21, 26, 218, 219, 241, 247, 323, 348, 394, 417, [941] 421, 422, 423, 465, 485, 486, 508; II, 71, 73, 86, 387, 402, 421, 425, 432, 433, 435, 436, 438, 448, 549, 554; III, 62, 64, 65, 78, 84, 85, 109, 110, 116, 117, 174, 149, 152, 153, 162, 163, 166, 205, 208, 209, 212, 228, 231, 234, 261, 268, 269, 285, 296, 297, 303, 307, 308, 309, 310, 311, 312, 317, 320, 326, 327, 331, 338, 378, 387, 532, 536, 546, 550, 560, 595, 599, 603, 604, 609, 771, 774, 776, 784, 789, 795, 811.

Catanzaro, II, 316.

Catena (chiesa della), II, 158.

Catona, II, 450; III, 66.

Cattolica, III, 605.

Caucana, 336; III, 178.

Caudine (Forche), 362, 492.

Caucaso, 79.

Cava (monastero della), II, 458.

Cavallo (De), monte, III, 875.

Cefalà, II, 275, 451, 452; III, 314, 615, 821.

Cefalà (bagni di), III, 820.

Cefalonia, 414; III, 525.

Cefalù, 8, 307, 308, 309, 327, 328, 335, 416, 469, 485; II, 390, 402, 432, 435, 436, 443; III, 94, 103, 104, 147, 205, 208, 211, 231, 235, 279, 291, 296, 308, 309, 310, 338, 445, 463, 536, 595, 768, 773, 774, 776, 800, 811.

Cefalù (cattedrale di), III, 463, 843, 856.

Celano, III, 605.

Celsi o Celso, III, 266, 586.

Celso (contrada del), II, 69.

Centorbi, 8; III, 284, 285, 286, 314, 317, 348, 610, 616.

Cerami II, 385; III, 96, 97, 98, 101, 104, 105, 108, 109, 134, 135, 284.

Cesarea, 86, 87, 510; II, 180, 640, 645.

Cetara (Cetrara?), 455.

Cetaria, II, 433.

Ceuta, XLIX; 132; II, 48, 362, 476, 477; III, 664, 701, 703, 704.

Ceylan, III, 681.

Chadra e Cadara, II 434.

Chalces, v. Halka.

Chaldia o Caldia, II, 203.

Cherchell, III, 407.

Cherso, isola, 358.

Cherson, 91, 505.

Chersoneso, di Taurica, 316.

Chiaramonte, 269; III, 219.

Chinzica, III, 2.

Chiusi, 443.

Chrysas, II, 435.

Ciambra, III, 215.

Cianciana, III, 605.

Cicladi, 242; II, 367.

Ciculi, II, 164, 165.

Cilicia, II, 88.

Ciminna, III, 284, 285, 776.

Cina e Cinesi, II, 306; III, 762, 805, 816.

Cinisello, III, 219.

Cinisi, II. 433; III, 160, 219.

Cipro, 80, 81, 85, 182, 124, 483; II, 309, 466; III, 525, 530, 606.

Circia (punta della), v. Marsa-s-Scegira.

Cirenaica, 104.

Città del re, 416, 422, v. Polizzi.

Civita, sul Fortore, III, 43, 44, 45.

Civitavecchia, 227, 228, 450; III, 672.

Civitella, III, 22.

Clermont, III, 673.

Cluny (monastero di), III, 13, 190, 191, 498.

Clypea, 111; II, 77, 465.

Coblentz, III, 46.

Collegio Nuovo, in Palermo, III, 501.

Collesano, v. Golisano, II, 33, 192; III, 103, 104, 246, 289, 290, 775.

Collo, III, 427.

Colonia, III, 46, 604, 650.

Colonne (Le), 92, 93, 96, 109.

Comacchio, 436.

Conte (Dello). III, 875.

Contessa comune, III, 779.

Conza, 373, 374.

Copenhagen, LI; II, 383.

Coperta (Via), III, 501.

Cordova, XLIII, XLIX, LV; 160, 161, 162, 276, 287; II, 6, 33, 101, 190, 219, 302, 305, 454, 482, 481, 487, 488, 496, 508, 521; III, 4, 160, 161, 173, 350, 373, 459, 662, 664, 830, 845, 883.

Coreglia, III, 219.

Corfù, 516; II, 367; III, 146, 434, 435.

Corinto, 413, 414; III, 434, 435, 800.

Corleone, 310; II, 34, 36, 432, 433, 449; III, 86, 160, 211, 219, 224, 225, 226, 247, 309, 310, 311, 325, 341, 587, 772, 778, 779.

Corsica, XXXI; 28, 183, 184, 201, 207, 226, 276, 277; II, 180; III, 626, 627, 678.

Cosentini (quartiere de’), III, 219.

Cosenza, 11; II, 44, 90, 92, 95, 96, 314, 339, 342; III, 106, 178, 184, 257.

Cossira, v. Pantelleria.

Costantina, XLV, LVI; 119, 121; II, 52, 122, 233, 358; III, 374, 423, 424, 496, 664, 665.

Costantinopoli, XLIII, XLVIII; 10, 14, 24, 28, 29, 39, 46, 58, 76, 78, 86, 87, 91, 92, 93, 94, 98, 102, 119, 164, 185, 189, 191, 192, 193, 217, 220, 221, 222, 227, 231, 240, 250, 252, 282, 287, 297, 298, 303, 337, 338, 346, 349, 380, 397, 399, 407, 425, 428, 434, 437, 438, 439, 441, 454, 468, [942] 472, 485, 492, 497, 498, 499, 501, 502, 504, 509, 518; II, 48, 69, 70, 72, 73, 77, 79, 87, 88, 90, 96, 100, 141, 153, 154, 171, 173, 174, 175, 192, 193, 214, 215, 219, 242, 246, 252, 253, 255, 262, 263, 271, 272, 278, 279, 281, 305, 306, 312, 318, 321, 326, 332, 376, 379, 380, 384, 385, 386, 391, 392, 393, 394, 395, 402, 403, 413, 416, 422; III, 26, 27, 30, 34, 36, 41, 114, 144, 192, 194, 284, 303, 368, 421, 434, 435, 460, 521, 524, 530, 563, 809, 824, 830, 831, 837, 864.

Cotentino, III, 38.

Cotrone, II, 324.

Coutances, III, 19, 38.

Crati, II, 92, 347.

Crati (val di), III, 43, 89.

Cremano, 457.

Cremona, II, 263; III, 590, 696.

Creta, Cretesi, 163, 164, 193, 221, 245, 246, 251, 252, 274, 237, 328, 359, 361, 362, 363, 378, 379, 413, 436, 502; II, 162, 247, 260, 261, 309, 376, 466, 480; III, 530.

Crimea, 316.

Cristiania, II, 383.

Cronio, 486.

Cuba, palagio, II, 451; III, 554, 555, 580, 582, 818, 819, 841, 843, 846, 847, 856.

Cuba, piccola fonte, III, 843, 844.

Cufa, 141; II, 116, 494; III, 826, 827, 855.

Cuma, 373.

Cumìa, II, 36.

Cuscasin o Custasin, III, 285.

Cutemi, Cutema, Gudemi, II, 36.

Cyaxo, III, 175.

D

Dafne (bagno di), 95.

Dakhel (Ed-), II, 275; III, 474, 599, e v. Scerîk.

Dalmazia, 319, 378, 379; II, 176; III, 315.

Damasco, XLV, L, LI, LII, LIII; 84, 87, 90, 125, 134, 139, 141, 177, 302; II, 486, 503; III, 463, 634, 635, 636, 639, 647, 648, 649, 685, 716, 720, 721, 736, 737, 764, 824, 828, 830.

Damiata, II, 276; III, 426, 467, 505, 511, 514, 606, 638, 640, 737.

Daniele (museo di casa), II, 453, 488.

Danimarca, II, 385, 386; III, 14, 15, 19, 124.

Danubio, III, 435.

Deilem, II, 110.

Delfinato, III, 307.

Dellys, II, 38.

Demona, città, 468, 469, 470; II, 71, 73, 85, 86, 143, 144, 148, 265, 266, 275, 400, 404, 407, 412, 432; III, 282, 313, 317, 772, 773.

Demona (val di), 417, 465, 466, 467, 469, 470, 471, 484, 495; II, 24, 69, 85, 141, 148, 149, 213, 216, 255, 275, 276, 396, 397, 398, 401, 403, 435; III, 71, 77, 78, 79, 102, 109, 133, 134, 147, 161, 164, 208, 210, 233, 267, 274, 308, 313, 773, 854.

Dendera, III, 832.

Denia, III, 4, 5, 9, 10, 12, 375, 376, 377, 379.

Dennisinni e Dannisinni, II, 33, 300, v. ’Ain-Scindi e Ainisindi.

Desisa, III, 316.

Dîmâs (Capo), XXXVIII; II, 226; III, 363, 384, 385, 386, 387, 399, 402.

Dîmâs, castello, II, 226.

Dinnamare, II, 264.

Dittaino, 351; II, 435; III, 72, 881, 884.

Divriki, v. Tefrica.

Donna Lucata (Ain-el-Aukât), III, 771.

Dordona, in Puglia, III, 616.

Drago, fiume, III, 596.

Dublino, III, 16.

Durazzo, III, 144, 145, 521.

E

Ecbatane, v. Ilamadân.

Edessa, III, 408, 462, 835.

Efeso, III, 665.

Egadi, III, 770.

Egitto, Egiziani, XXXVIII, XLI, XLII, LI, LII, LIII, LV, LVI; 62, 64, 79, 80, 85, 88, 91, 103, 104, 109, 113, 119, 123, 138, 143, 147, 162, 163, 166, 167, 234, 254, 371, 477, 514; II, 4, 13, 33, 39, 50, 76, 77, 88, 89, 118, 121, 129, 131, 133, 137, 150, 151, 169, 182, 183, 200, 227, 234, 235, 237, 238, 239, 240, 249, 275, 276, 278, 280, 281, 282, 284, 285, 286, 287, 288, 289, 290, 291, 293, 294, 299, 302, 322, 325, 330, 331, 332, 333, 348, 349, 354, 355, 360, 362, 363, 364, 369, 393, 404, 427, 428, 445, 446, 448, 450, 458, 474, 477, 480, 482, 487, 489, 496, 506, 507, 508, 521, 522, 523, 527, 538, 547, 552; III, 211, 212, 260, 321, 322, 328, 332, 336, 363, 365, 405, 406, 408, 421, 426, 446, 454, 455, 465, 466, 467, 505, 506, 508, 510, 513, 515, 519, 541, 600, 608, 625, 634, 636, 638, 639, 641, 642, 647, 648, 649, 650, 652, 653, 654, 711, 716, 736, 737, 740, 766, 773, 789, 796, 796, [943] 804, 807, 825, 829, 831, 832, 833, 836, 837, 843, 844, 847, 851, 852, 859, 867, 868, 879, 893.

El-Bâgi, v. Aci.

Elettorale (biblioteca Palatina), 507.

Ellade, 414; II, 367.

Emesa, II, 116; III, 526.

Emmelesio, III, 72.

Enna, 5, 8; II, 85, v. Castrogiovanni.

Entella, 334; III, 86, 266, 586, 618, 822.

Eolie (Isole), 304, 305, 306; III, 769.

Epte, III, 20.

Eraclea, II, 401; III, 338, 616.

Erice, 8; III, 775.

Escuriale, VIII, LI, LIII; II, 476, 477, 522.

Etna, XL, XLIV, XLVI, L, LIV; 8, 17, 85, 86, 305, 347, 422, 465, 467, 468, 508; II, 79, 86, 216, 387, 403, 406, 438, 440, 441, 442, 443; III, 55, 92, 150, 158, 215, 268, 544, 781, 783.

Etna, città, 8.

Etolia, III, 434.

Eufrate, xlv; 39, 60, 138, 176, 510; II, 33, 186, 286, 404, 432, 634, 646; III, 839.

Eure et Loir, III, 497.

Europa, II, 37, 169, 429, 430, 462, 465, 476, 495, 533, 542, 543; III, 182, 185, 190, 191, 198, 207, 227, 237, 239, 264, 276, 289, 323, 342, 351, 394, 432, 441, 452, 459, 522, 544, 557, 573, 627, 633, 642, 644, 652, 657, 660, 667, 669, 673, 681, 695, 699, 701, 710, 711, 712, 713, 722, 724, 773, 789, 795, 796, 805, 807, 810, 811.

Evonymos, III, 769.

F

Faenza, III, 815.

Fahsimeria, III, 869.

Fahs-Maria, III, 869.

Faium, II, 284; III, 652.

Fâkûs, III, 510, 511.

Falconara, III, 822.

Faraglioni, II, 86.

Farfa, II, 164.

Faro di Messina, 425; II, 90, 152, 214, 243, 244, 264, 272, 327, 346, 365, 377, 381, 390, 423, 432, 465, 552; III, 30, 31, 61, 63, 64, 67, 76, 82, 106, 116, 123, 179, 257, 391, 613, 655, 811, 853.

Fars, II, 110; III, 824.

Fatanasino, III, 153, 228.

Favara o Mare dolce, II, 300, 335, 350, 445, 451; III, 120, 450, 463, 552, 617, 618, 754, 756, 785, 820, 821, 843, 846, 847, 848, 850, 853, 884.

Favignana, III, 770.

Fenicio, monte, 92.

Fergana, II, 34.

Ferla, 311; III, 257.

Ferro (isola del), II, 437.

Fez, 129, 147, 226, 234; II, 284, 355, 662; III, 735.

Fiandra, III, 17.

Ficana, II, 193.

Ficarazzi, III, 844.

Ficuzza, III, 159, 341.

Finzia, 269.

Fiorentini (rua de’), III, 218.

Fitalia, III, 282, 284, 286.

Firenze, III, 46, 63, 130, 688, 796, 803, 816.

Firenze (biblioteca Laurenziana di), III, 707.

Fiume Salso, 417; III, 95, 773.

Fiume Grande, 417, 465; III, 95, 104, 112, 147, 773.

Flagella, III, 616.

Fleury (monastero di), III, 190.

Floresta, III, 776.

Foggia, III, 612.

Fondi, 365, 458.

Fontane (piano delle), III, 75.

Formiani (colli), 458.

Forriana, III, 468.

Fortore, II, 346; III, 43.

Fostât, 112; II, 284, 285.

Fragalà, III, 257.

Francavilla, III, 215.

Francescani (convento dei), in Trapani, II, 454.

Francia, 287, 369, 447, 451; II, 167, 257, 299, 372, 381, 384; III, 15, 16, 17, 18, 19, 26, 39, 106, 190, 214, 216, 217, 218, 252, 259, 279, 290, 365, 432, 433, 497, 517, 522, 529, 544, 564, 568, 590, 672, 803, 855, 858.

Francia (Istituto di), XVII.

Francoforte, II, 64, 174.

Frassineto, II, 162, 167.

Frazzanò, III, 71, 73.

Frigento, II, 164; III, 35.

Friuli, II, 166.

Fulda, II, 325.

Furno o Furnari, III, 63.

G

Gabbaturi (via del), III, 877.

Gabriele, fonte, II, 300; III, 870.

Gaeta, Gaetini, XL; 183, 187, 227, 312, 364, 365, 366, 367, 378, 435, 437, 444, 449, 450, 453, 455, 458, 461; II, 162, 163, 166, 458; III, 52, 277, 590.

[944]

Gagliano, 326, 327, 337; II, 152, 285, 286; III, 219.

Galati, III, 71, 282, 784.

Galcula, v. Halka.

Galea, v. Halka.

Galga, v. Halka.

Gallico, v. Leuca.

Gallipoli, 183, 316.

Gallizia, 158.

Gancia (convento della), III, 128.

Gange, II, 461.

Gangi, 418, 419.

Garbo (Ponente), II, 420, 617.

Garbyumara, III, 869.

Gardsuta, III, 776.

Gargano, 377; II, 35, 170, 247, 347; III, 22, 27.

Garigliano, 447, 459, 460, 461, 462, 463; II, 155, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 170, 171, 175, 338, 347, 459; III, 53, 183, 205, 314, 608.

Garopoli, II, 316.

Garraffu e Garraffeddu, II, 300; III, 870.

Gausa, v. Khâlesa.

Gavarrello, fiume, III, 789.

Gebâl, II, 110; III, 524, 526, 527.

Gebel-Hâmid, III, 775.

Gebel-Sindi, II, 34.

Gefîra (capo di), II, 247.

Gela, III, 231.

Geloi (campi), 323.

Gelso, fiume, II, 432, 445.

Genoardo, Genovardo, Ianuardo (giardino regio); III, 554, 555, 579.

Genova, Genovesi, 364; II, 179, 180, 181, 297, 500, 501; III, 1, 4, 7, 8, 9, 10, 11, 15, 13, 14, 158, 169, 170, 171, 190, 198, 219, 223, 229, 230, 232, 260, 277, 290, 297, 357, 367, 377, 379, 404, 414, 453, 465, 513, 515, 518, 519, 522, 523, 530, 542, 550, 554, 558, 584, 590, 600, 601, 606, 607, 610, 625, 629, 630, 633, 774, 803.

Genovese (podere del), III, 219.

Geraci, Gerace, 310; II, 243, 244, 245, 246, 248, 249, 339, 391, 398; III, 83, 87, 88, 89, 219, 257, 280, 301.

Gerbe, Gerbini, LVI, 234; II, 197; III, 399, 400, 401, 402, 425, 471, 474, 495, 605, 628, 871.

Gerîd, tunisino, II, 198.

Germania, 447; II, 169, 322, 323, 327, 384, 413; III, 8, 15, 26, 190, 413, 431, 448, 468, 522, 549, 555, 557, 558, 559, 560, 561, 563, 564, 565, 566, 589, 590, 601, 604, 610, 649, 672, 859.

Gerusalemme, XLV, XLVIII, XLIX; 77, 412, 478, 515; II, 100, 343, 386, 413, 491, 503; III, 3, 26, 139, 189, 212, 394, 426, 501, 507, 522, 530, 578, 608, 609, 634, 635, 636, 637, 639, 640, 643, 644, 645, 646, 648, 649, 650, 651, 653, 692, 711, 824, 859.

Gerx, III, 473, 474, v. Scerîk e Dakhel.

Gezira, XLVII.

Geziret-el-Kerrâth, II, 127.

Ghadîr-el-Kuk, III, 869.

Ghalûlia, 289, 290.

Ghirân, 348, v. Grotte.

Ghirân-ed-Dekîk, II, 388.

Ghirbâl, v. Gabriele.

Ghûta, di Damasco, 87.

Giaffa, III, 524, 640, 644, 645.

Giampileri, II, 85.

Giardinello, III, 159.

Giardini (marina di), II, 81, 811.

Giato, Ieta o Iato, II, 36, 277, 278; III, 159, 160, 211, 247, 266, 286, 292, 310, 312, 316, 317, 580, 585, 586, 600, 618, 773, 775, 776, 778, 859.

Giattini, II, 433, 444, 512; III, 285, 292, 293, 317, 363.

Giawher (bagni di), III, 330.

Gibellina, II, 33.

Gibilterra, 62, 103; II, 461, 466.

Gigel, III, 407, 427.

Giordano, 515; II, 386, 413; III, 646.

Giorgio Antiocheno (chiesa di), III, 749, v. Martorana.

Giralda, torre, III, 686, 687.

Girgenti, 11, 15, 21, 205, 269, 311, 348, 467, 485; II, 34, 35, 36, 43, 64, 65, 66, 86, 142, 143, 147, 154, 157, 158, 160, 184 a 186, 189, 190, 191, 193, 194, 195, 234, 242, 273, 397, 398, 420, 433, 435, 488, 548; III, 75, 78, 82, 94, 104, 107, 109, 110, 111, 112, 164, 172, 174, 175, 176, 210, 211, 220, 231, 305, 308, 309, 310, 327, 330, 577, 594, 595, 599, 602, 608, 609, 614, 615, 698, 771, 772, 774, 776, 791, 795, 811.

Girgenti (provincia di), 334.

Girgenti (val di), 466; III, 773.

Girio, II, 416.

Girofalco, III, 611.

Giudei (borgo de’), II, 217, 297, 298.

Giza, III, 652.

Godrano, II, 434; III, 311, 779, 833.

Gog e Magog, III, 676, 679.

Golisano, II, 33; III, 775, 788, v. Collesano.

Gozzo, III, 179.

Grado, 436.

Granata, XXXVIII, XLIV; 234; II, 440, 482, 488; III, 787, 852.

Granitola, 266.

Gran-Terra (La) (l’Italia), 353.

Gravina, II, 314, 315, 316; III, 219.

[945]

Grecia, 42, 45, 76, 214, 412, 471; II, 194, 362, 367, 384, 395, 400, 416, 518; III, 144, 146, 164, 169, 214, 257, 273, 279, 319, 335, 337, 421, 521, 523, 525, 531, 662, 668, 671, 679.

Grottaferrata, II, 318.

Grotte (Le quaranta), 310; III, 72.

Grotte, fortezza, 310, 311, 348; II, 177.

Guadalquivir, 160.

Gualtieri, III, 219.

Guastanella, III, 174, 593, 594.

Gudemi, v. Cutemi.

Guidda (bagni della), III, 330.

Guiscardo, ponte, III, 89.

Gurfa, III, 264, 285.

H

Habes (Wadi-l-’Abbâs), v. Oreto.

Hager-ez-Zenati, II, 36.

Hakem-biamr-Illah (moschea di), III, 845.

Halka (El-), III, 137, 138, 139, 298, 323, 325.

Hama, XLVI, LI, LIII; II, 521, 654, 715, 716, 718, 722, 723, 729, 734.

Hamadân, II, 110; III, 826, 832.

Hammamet (golfo di), 109; II, 139, 200; III, 474, 485.

Harran, 141, 253.

Hasan (moschea di), III, 845.

Hasserinorum, contrada, III, 869.

Hastings, III, 16, 20, 22, 53, 673.

Hauteville, terra, III, 38.

Hegiâz, 39; II, 490, 662.

Herat, II, 436.

Herkla, II, 200.

Hicesia, III, 769.

Hira, 31, 39, 58, 59, 76; III, 825, 826.

Hisn-el-Genûn, ossia Kala’t-el-Khinzâria, III, 230, 231.

Hisn-el-Medârig, III, 783.

Hybla Haerea, 324.

Hybla Major, 319.

I

Iaci, v. Aci.

Iali, III, 285.

Iâlis (?), II, 186.

Iartinûa (?), II, 72.

Iathrib, II, 504, v. Medina.

Iato, v. Giato.

Ibla, 334.

Ibn-Khalfûn (via di), III, 869.

Ibn-Menkûd (castello di), II, 420.

Iccara, II, 86.

Iemen, 31, 32, 40, 58, 109, 125, 143, 158, 340; II, 63, 120; III, 825.

Ieta, v. Giato, III, 159.

Ifrikia, v. Affrica propria.

Ifscîn, II, 520.

Ikgiân, II, 122, 123, 132.

Iklibia, II, 77, v. Clypea.

Illiria, II, 367.

Imachara, 315, 418.

Imera, v. Fiume Grande (Imera settentrionale) e Fiume Salso (Imera meridionale), 417.

Imera, città, II, 264.

India, 80, 84, 85, 88, 108, 109; II, 445; III, 639, 668, 679, 712.

Indo, 62; II, 295.

Inghilterra, Inglesi, II, 372; III, 15, 16, 17, 20, 124, 290, 394, 414, 444, 497, 522, 529, 544, 564, 590, 672, 673, 809, 855, 859.

Ionie (Isole), III, 413.

Ionio, 364; II, 264, 347.

Irâk, XLV; 143, 254; II, 4, 336, 480, 349; III, 827.

Ischia, 228.

Isernia, 374, 459.

Islanda, II, 380.

Isola dei Porri, v. Geziret-el-Kerrâth.

Isole Britanniche, III, 679.

Ispahan, II, 66, 499, 508; III, 211.

Ispica, 311.

Istakhr, XL.

Istria, 358.

Itala, III, 876.

Italia, XXX, XXXI; II, 44, 73, 77, 90, 91, 160, 162, 166, 167, 170, 175, 176, 194, 240, 243, 244, 250, 257, 278, 295, 328, 338, 344, 346, 362, 367, 370, 372, 377, 381, 384, 390, 394, 395, 480, 545; III, 1, 14, 21, 22, 23, 25, 26, 28, 35, 39, 40, 41, 46, 49, 53, 114, 115, 143, 146, 182, 193, 198, 201, 218, 222, 227, 259, 272, 273, 280, 289, 297, 312, 347, 365, 367, 375, 377, 393, 394, 401, 409, 431, 432, 433, 450, 454, 493, 497, 521, 523, 530, 556, 557, 564, 609, 610, 620, 636, 646, 660, 672, 678, 682, 692, 695, 700, 701, 704, 711, 786, 796, 797, 799, 807, 809, 824.

Italia centrale, III, 550.

Italia meridionale, II, 28, 71, 72, 176, 179, 311, 321; III, 20, 26, 42, 48, 54, 62, 87, 114, 132, 133, 222, 223, 240, 277, 280, 380, 465, 468, 503, 590, 669.

Italia superiore, II, 327; III, 215, 222, 225, 268, 307, 671.

Itri, 458.

Iudica, III, 153, 154, 228, 230, v. Zotica.

Ivisa, III, 480.

[946]

K

Kaaba, v. Caaba.

Kâbes, 128, 131; II, 139, 290, 356, 362; III, 80, 369, 370, 371, 373, 399, 410, 411, 412, 413, 416, 448, 472, 486, 515.

Kabilia grande, II, 38.

Kafsa, II, 362, 486, 515, 516, 517.

Kairewân, XXXVII, XXXVIII, XXXIX, XLII; 113, 114, 115, 117, 121, 122, 123, 127, 128, 131, 133, 134, 136, 137, 144, 145, 146, 148, 154, 155, 156, 172, 230, 236, 253, 254, 255, 257, 258, 262, 277, 296, 343, 379, 385, 392, 393, 428; II, 10, 46, 47, 48, 49, 50, 54, 55, 61, 76, 122, 125, 129, 131, 135, 138, 139, 141, 142, 147, 162, 182, 190, 196, 197, 199, 200, 201, 207, 217, 221, 222, 230, 289, 334, 358, 359, 360, 362, 426, 432, 465, 499, 500, 501, 502, 548; III, 80, 211, 420, 477, 785, 829, 836, 841.

Kala’t-Abd-el-Mumin, 334.

Kala’t-beni-Hammâd, LIV.

Kala’t-el-Bellût, II, 33.

Kala’t-el-Fâr, III, 776.

Kala’t-el-Hamma (Calathammeth), III, 782, 811.

Kala’t-el-Kewârib, III, 772, 811.

Kala’t-el-Khesceb, v. Rocca del Legno.

Kala’t-el-Khinzâria, v. Hisn-el-Genûn.

Kalat-er-Rum, 336.

Kalat-es-Sirât, II, 192; III, 775.

Kalat-et-Tarîk, III, 776.

Kalat-et-Tirazi, v. Calatrasi, II, 449, 772.

Kalatubi, III, 776.

Kalbara, II, 192.

Kalbi, III, 330.

Kalesciana, II, 182.

Kalibia, v. Clypea.

Kalsa, v. Khâlesa.

Kâmil (borgo di), II, 361.

Kamûna, II, 540.

Kamunia, 114, 115.

Kanbâr, II, 107.

Karâfa, II, 489, 522.

Karak, III, 648.

Karches, II, 35.

Karkana (grotte di), 335.

Karkesia (errato per Corsica), II, 180.

Kasr, v. Cassaro.

Kasr-el-Gedid (El), 326, 327.

Kasr-Giâ’far, II, 335; III, 120, 848.

Kasr-el-Hamma, II, 31.

Kasr-el-Hedîd, 326, 327.

Kasr-el-Kadim (El), v. Abbâsia.

Kasr-ibn-Menkûd, III, 776.

Kasr-Sa’d, II, 33; III, 312, 536, 766, 844.

Kasr-Sâlem, II, 184.

Kasr-Tur, 277.

Kastilia, III, 515.

Keitonat-el-Arab, v. Capo Circeo.

Keitun, v. Catona.

Kelâl, XL.

Kemonia, III, 495.

Keneh, III, 796.

Kerkeni, III, 407, 426, 471.

Kerkent, v. Girgenti, II, 35.

Kerkûd, II, 35, 433, 512; III, 776.

Kerkûr, II, 433. v. Kerkûd.

Khaibar, II, 107.

Khâlesa, II, 158, 184, 190, 191, 274, 292, 296, 298, 301, 304, 354, 375, 378, 426, 432, 434; III, 118, 122, 126, 127, 128, 129, 130, 138, 298, 821, 841, 870, 881.

Khandak (Candia), 164.

Kharadja (corr. Reggio), II, 248.

Kharsiano, 316, 333.

Khassu, III, 776.

Khawarnak, III, 825, 829.

Khazân, III, 776.

Khelât, III, 639.

Khorassân, 139, 140, 142, 143, 253, 264; II, 33, 110, 111, 112, 224, 369, 490, 498, 507, 805; III, 829.

Kiâna, II, 201.

Kosîra, v. Pantelleria.

Kubbet-el-Hawâ, III, 829.

Kubbet-el-Khadrâ (El), III, 828.

Kuzeh, II, 114.

Kuzistân, II, 114.

L

Lampedusa, 228.

Lamta, II, 150, 152, 156.

Laodicea, II, 279; III, 527, 529.

Laribus, 427; II, 275.

Laterano, 77, 96; III, 145, 807.

Lattarini, III, 870.

Lavello, III, 31.

Latomie, di Siracusa, 394.

Lauricio, 20.

Lazio, III, 47.

Lecce, III, 560, 569, 672.

Legnano, II, 328; II, 493.

Lenno, II, 88.

Lentini, 8, 17, 311, 316, 317, 337, 364, 485, 486; II, 49, 213, 263, 443; III, 219, 614, 618, 771, 774, 790, 822.

Leonforte, II, 185.

Lepanto, II, 298; III, 672.

Leuca o Gallico, II, 152.

Levante, II, 240, 372, 461, 508; III, 340, 422, 426, 434, 435, 504, 522, 524, 529, 539, 609, 633, 637, 660, [947] 661, 664, 679, 698, 701, 718, 723, 785, 789, 805, 823.

Leyda, XXXIII, XLIV, XLV, XLVI, XLVII, XLVIII, L, LI, LII, LIV, LV; II, 370, 470.

Li Aci, v. Aci.

Liâgi, v. Aci.

Libia, III, 421.

Libica, provincia, 104.

Librizzi, III, 206, 208.

Liburia, 373.

Licata, 269; II, 35; III, 94, 174, 330, 338, 602, 672, 773, 811.

Licia, 92; II, 368.

Lico, fiume, II, 193.

Licodia, 311.

Licosa, 364.

Li Gresti, torre, III, 822.

Liguria (riviera di), II, 180.

Lilibeo, 8, 11, 94, 169, 205, 265, 467, 485; II, 431; III, 314, 339, 598.

Lilibetana, provincia, 417, 466, 467.

Limona, III, 247.

Linario, monte. II, 443.

Linguadoca, 125, 158.

Lione, III, 803.

Lipari, 356, 485, 486; II, 170, 305, 308, 338, 768, 775.

Liporaco, II, 407.

Lipsia, LI.

Lisbona, III, 16, 664.

Lo False, III, 71.

Lognina, III, 166.

Loira, 158; III, 16, 17.

Lombardia, Lombardi, 462; II, 161; III, 28, 34, 196, 216, 222, 223, 224, 225, 226, 252, 297, 325, 450, 486, 487, 499, 530, 546, 603, 608, 654.

Londra, XLV; III, 16.

Longobardia, 212; III, 8, 223.

Longobardo (porto di), III, 178.

Longobuco, II, 347.

Lorena, 377; II, 402.

Loristan, II, 31.

Louvre (museo del) III, 796.

Lucca, III, 803.

Lucera, XXXI, XXXVIII; 396; III, 253, 318, 538, 596, 598, 602, 603, 608, 611, 612, 616, 619, 620, 628, 654, 688, 689, 712, 791, 792, 867.

Ludd, III, 644.

Lugêrah, III, 598, v. Lucera.

Luhrostico, III, 877.

Luni, III, 4, 7, 8, 9, 13, 16, 22.

Luoghi Santi, III, 185, 189.

M

Macara (grotte di), 336.

Macasoli, fiume, II, 193.

Macedonia, 440; II, 250, 365, 367, 392, 394.

Madonie, 315, 322, 417; II, 192.

Madonna del Paradiso, chiesa, III, 794.

Madrid, 489.

Magagi e Maghâghi, II, 36.

Maghreb, 122, 127, 128; II, 535; III, 420, 517, 715, 716, 718.

Magione (chiesa della), III, 238, 857.

Magione (commenda della), II, 434.

Magnaura, 503, 504, 508, 509; II, 48.

Magnisi (penisola di), III, 213.

Maine, III, 151.

Majorca, XLIII; 125, 127; II, 529; III, 5, 10, 376, 377, 518, 519, 520, 530, 821.

Makara, III, 776.

Malaga, III, 173, 662, 663, 664.

Maletto, 311, 336.

Malfiteri, III, 330.

Màlis, II, 186.

Malta, XL, L; 12, 352, 408, 485; II, 208, 260, 329, 422, 448, 516; III, 116, 117, 177, 178, 179, 180, 213, 269, 296, 309, 318, 388, 536, 553, 598, 605, 606, 607, 684, 685, 751, 752, 762, 775, 787, 788, 810, 871, 872.

Mandanici, II, 85; III, 776.

Manfredonia, II, 164.

Mangiaba, III, 788.

Maniace, terra, II, 388; III, 71, 73, 77, 224, 257, 499, 776, 843.

Mansuria, II, 362, 432; III, 606, 760.

Marakia, III, 526.

Marca e Marka, 98, 99.

Marca Aleramica, III, 200, 225, 228, 230, 289.

Marca d’Ancona, III, 577.

Marca de’ Saraceni, III, 595.

Mare dolce, v. Favara.

Mare Rosso, 39; II, 413.

Marettimo, III, 770.

Margana, III, 311, 776.

Marge (Lu), III, 877.

Marigny, III, 38.

Marineo, 310; II, 186; III, 311.

Markab, castello, III, 526.

Marmara (mar di), 497.

Marmarica, 104.

Marmorea (Via) III, 501.

Mar Nero, 91, 510.

Marocco, XLVI, L; II, 36, 133, 137, 283, 363, 437; III, 373, 374, 422, 424, 475, 477, 483, 495, 496, 498, 516, 518, 553, 617, 622, 632, 662, 664, 739.

Marsala, 171, 467; II, 275, 420, 427, 431, 432, 434, 453; III, 339, 380, 772, 773, 774, 811.

Marsa-l-Kharez, II, 362, 465.

Marsa-s-Scegira, II, 435.

Marsa-s-Sceluk, 269.

Marsa-t-tin, 318, 319.

[948]

Marsa-z-Zeitûna, III, 427.

Marsiglia, Marsigliesi, III, 625, 671, 708, 810.

Martorana (chiesa e monastero della), XV, XVI, XVIII, XIX, XXVIII; 90, 100, 233, II, 13; III, 351, 353, 355, 592, 593, 656, 793, 843, 846, 856, 857.

Marzamemi, III, 881.

Mascali, II, 433, 438; III, 356.

Ma’skar, III, 137.

Massa, III, 257.

Matera, 377; II, 340.

Mattorium, 324.

Maurienne (contea di), III, 676.

Mauritanie, 104.

Mawkif, II, 522.

Mazar, II, 31.

Mazara, XXXVII, XLVII; 233, 265, 266, 267, 269, 274, 285, 286, 289, 294, 467; II, 35, 62, 143, 191, 192, 193, 207, 208, 212, 252, 275, 278, 420, 421, 427, 432, 433, 445, 455, 486, 501, 502, 504, 520, 539; III, 94, 133, 139, 147, 149, 150, 151, 164, 232, 269, 276, 291, 292, 305, 308, 309, 310, 312, 320, 341, 663, 771, 774, 791, 794, 795, 811.

Mazara (val di), 290, 311, 325, 334, 417, 465, 466, 467, 484; II, 24, 25, 35, 192, 216, 217, 239, 276, 277, 396, 397, 400, 403, 419, 420, 435; III, 109, 210, 264, 265, 266, 267, 536, 546, 547, 571, 575, 579, 591, 594, 595, 596, 616, 618, 773, 776, 787, 822.

Mazaro, fiume, II, 36; III, 771.

Me’arra, II, 101.

Mecca, XLIX; 39, 41, 46, 47, 49, 51, 55, 56, 57, 58, 65; II, 77, 117, 118, 120, 245, 286, 335, 477, 482, 487, 496; III, 264, 408, 668, 703, 704, 715, 716, 722, 829, 830, 837, 839, 840.

Mechinesi, II, 35.

Media, Medi, II, 308; III, 837.

Medina, 39, 56, 57, 59, 109, 110, 134, 253; II, 286, 475, 476, 504, 521; III, 210, 824, 829.

Mediterraneo, XLIV, LI, LIV; 75, 79, 80, 82, 95; II, 169, 170, 231, 295, 309, 332, 357, 362, 363, 386, 445, 450, 466, 501; III, 2, 12, 13, 109, 169, 323, 336, 337, 373, 374, 563, 625, 670, 675, 676, 678, 679.

Megara, 418.

Mehdia, XXIX, XXXVII, XXXVIII, XLIV, LIV, LVI; 379; II, 33, 139, 150, 171, 173, 179, 180, 190, 196, 199, 200, 201, 202, 203, 206, 207, 239, 241, 247, 249, 250, 254, 272, 278, 279, 280, 290, 291, 356, 360, 361, 362, 364, 420, 432, 449, 485, 499, 501, 528, 529, 530, 535, 546; III, 14, 24, 80, 81, 93, 136, 158, 168, 169, 170, 171, 172, 174, 190, 332, 361, 362, 366, 367, 368, 369, 370, 371, 372, 373, 379, 380, 381, 382, 383, 384, 386, 387, 399, 401, 402, 403, 404, 405, 406, 407, 410, 412, 413, 414, 415, 416, 417, 418, 419, 420, 421, 423, 425, 429, 430, 460, 472, 473, 474, 475, 476, 477, 478, 480, 481, 482, 483, 484, 489, 490, 496, 515, 516, 517, 622, 651, 716, 719, 746, 759, 764, 780, 802, 808, 841, 864.

Melfi, Melfitani, II, 389; III, 24, 27, 30, 31, 32, 34, 35, 37, 40, 46, 51, 141, 192, 211, 240, 393, 598, 648, 650, 696, 791.

Melgia-Khalîl, III, 776.

Melicocca, II, 410.

Melîla, v. Melilli.

Melilli, Melila, Melili e Melîla, II, 36; III, 212.

Melitene, III, 212.

Menâni, III, 463, 819, 820, 846, 847, 849, 850, 851.

Menasciin, corr. Monastir, II, 485.

Menfi, di Sicilia, III, 790.

Mengiaba, III, 776.

Mersebourg, II, 328; III, 8.

Mentana, III, 367.

Menzaleh, lago, III, 511.

Menzil-Jûsuf, III, 246, 311.

Menzil-Sindi, II, 34; III, 776.

Merhela Gulielm, III, 215.

Mernak, presso Tunis, II, 485.

Mertu, III, 285.

Merw, II, 33, 224, 498.

Mesîd-Bâlîs, II, 186.

Mesisino, II, 35.

Meskân, 314.

Mesopotamia, XLV, XLVI, XLVII; 31, 141; II, 33, 98, 278, 310, 513; III, 637, 639, 667, 825, 837, 844, 858, 879.

Messina, XXXI; 7, 15, 18, 19, 24, 91, 94, 100, 101, 280, 304, 305, 313, 314, 336, 363, 426, 427, 428, 465, 469, 485, 486, 489, 517; II, 35, 36, 70, 71, 72, 73, 89, 213, 214, 243, 244, 259, 263, 264, 266, 271, 313, 314, 315, 327, 382, 383, 390, 393, 394, 396, 397, 398, 400, 402, 421, 424, 432, 433, 435, 437, 443, 450, 453, 466, 467, 552; III, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 63, 64, 65, 66, 68, 69, 70, 71, 73, 75, 76, 78, 85, 86, 102, 109, 132, 133, 147, 161, 162, 166, 180, 192, 201, 202, 208, 209, 216, 218, 219, 220, 228, 229, 232, 233, 235, 254, 257, 269, 274, 275, 286, 288, 289, 290, 291, 295, 297, 298, 305, 308, 309, 310, 320, 330, [949] 333, 339, 340, 346, 349, 350, 351, 353, 354, 359, 445, 463, 464, 487, 499, 500, 502, 536, 543, 544, 546, 547, 548, 550, 559, 564, 565, 566, 569, 570, 579, 582, 584, 590, 599, 609, 610, 627, 650, 656, 678, 696, 768, 776, 780, 792, 802, 811, 812, 813, 818, 843, 853, 883.

Messina (duomo di), III, 817.

Messina (museo di), II, 454.

Mezzoiuso, v. Menzil-Jûsuf.

Mezzomondo, nave, III, 651.

Mezzo Morreale, III, 554.

Michiken, 315; III, 264, 285.

Mico o Vico (Bikesc, Benfesc, Tifosc, Minisc, Minis, Mikosc, Mikos), II, 85, 265, 266; III, 776.

Micolufa, III, 174, 175.

Migeti (terra di), III, 278.

Mihkàn, 315, v. Michiken.

Mikosc e Mikos, v. Mico.

Mîla, II, 123, 233, 335.

Milano, 20; II, 389; III, 672.

Milazzo, 21, 425, 426, 469; II, 432; III, 63, 64, 102, 338, 340, 784, 789, 811.

Milazzo (val di), 466, 467; III, 301, 312.

Mileto, II, 214, 261, 322, 552; III, 51, 57, 59, 60, 62, 78, 84, 87, 88, 151, 176, 177, 235, 273, 305, 314, 315, 349.

Milga, III, 286.

Mili, II, 265, 432, 433.

Militello, III, 822.

Millaga, monte, III, 605.

Mimnerno, v. Menàni.

Mineo, 278, 279, 280, 285, 286, 287, 288, 289, 291, 337; II, 432, III, 787.

Minisc e Minis, v. Mico.

Minorca, 125.

Minsciàr, II, 36; III, 573, 592.

Minzaro, v. Minsciàr.

Minzecio, III, 573.

Mirabella, III, 219.

Miragia, III, 776.

Mirto, III, 208, 282, 284, 286.

Misanelli, II, 408.

Miseno, 364.

Miserella, III, 592.

Misilmeri, II, 186; III, 108, 111, 113, 285, 292, 302, 311, 592, 843.

Mismar, III, 213.

Misr, II, 182, 488, 538; III, 737, v. Egitto.

Mistretta, II, 161, 229, 232, 233, 286.

Modica, 315.

Modiuni, fiume, II, 35.

Modone, 414, 508, 509; III, 435.

Moezzia, II, 259.

Mojo, II, 191.

Mola, 223.

Molise (contea di), III, 497.

Monakh-el-Bakar, II, 315.

Monastir, II, 474, 484, 485.

Mondello, 317, 318, 319.

Monembasia, 399; III, 434.

Monferrato, III, 197, 199.

Monforte e Monteforte, 470; II, 85, 265; III, 71.

Mongibello, II, 442; III, 881, 883.

Monopoli, III, 35, 521.

Monpileri, III, 215.

Montalbano, III, 71, 610, 788.

Monte di Abu-Malek, città, 343.

Monte Aperto, 311; III, 107.

Monte Cassino, 101, 102, 365, 368, 369, 373, 374, 376, 460; II, 87, 318, 392; III, 21, 24, 27, 28, 41, 45, 52, 123, 140, 141, 190, 398, 440, 853, 860.

Monte Cuccio, II, 67.

Monteleone, III, 616.

Monte Maggiore, III, 34.

Monte Negro, presso Antiochia, III, 784.

Monte Pellegrino, II, 443

Montepeloso, II, 342; III, 34, 35, 40, 397, 406, 688.

Monte San Girolamo, III, 210.

Monte di San Pietro, III, 340.

Monte Saraceno, II, 347.

Montescaglioso, II, 341.

Monte Scuderi, II, 85.

Monte delle Tarantole, III, 107.

Morreale, II, 34, 36, 300, 432, 434, 120; III, 215, 219, 251, 309, 312, 322, 324, 325, 494, 577, 580, 581, 582, 585, 595, 843, 849.

Morreale (monastero e arcivescovato di), III, 237, 238, 213, 246, 250, 310, 311, 322, 324, 341, 450, 451, 531, 536, 546, 574, 579, 587, 588, 778, 806, 874.

Morreale (duomo di), III, 514, 815, 862, 864, 870, 879.

Mortelleto, III, 152.

Mosa, III, 17.

Moschea (regione della), II, 297, 298.

Mosciàrra, 343.

Mosella, III, 650.

Mosul, XLVI, XLVII; II, 497.

Motta, III, 220.

Msila, II, 362, 444, 499; III, 212.

Mueli (monastero di), II, 282.

Muluia, III, 212.

Murcia, XLIX; III, 703, 704, 705.

Mussaro, III, 592, v. Muxaro.

Muta, 59.

Mutata, III, 340.

Muxaro, III, 174, v. Mussaro.

Muxaro (Sant’Angelo di), II, 36.

N

Nàiis, II, 186.

Napoli, XXXI, XXXII, XL; 183, 186, 187, [950] 189, 193, 212, 216, 227, 239, 311, 312, 313, 314, 354, 355, 357, 364, 367, 369, 373, 375, 376, 379, 381, 385, 389, 413, 435, 437, 438, 443, 444, 445, 447, 448, 449, 450, 451, 452, 453, 454, 455, 457, 458, 459, 461, 462, 463; II, 90, 91, 92, 95, 161, 162, 163, 164, 166, 167, 175, 178, 236, 251, 253, 295, 299, 312, 315, 316, 340, 344, 376, 377, 445, 449, 450, 453, 458, 459, 460, 488; III, 28, 52, 112, 186, 196, 212, 235, 237, 238, 453, 461, 566, 579, 588, 608, 631, 698, 706, 708, 709.

Napoli, d’Affrica, III, 212.

Napoli (archivio di), III, 201, 202, 241, 613.

Napoli (museo di), III, 452, 814.

Napoli (università di), III, 707.

Nardò, II, 72; III, 672.

Narni, II, 164, 165.

Naro, III, 174, 791.

Naso, III, 282, 284, 286.

Naupactitesse (monastero detto delle), II, 298, 415, 416.

Nauplia, II, 367.

Nazareth, III, 644.

Nè (comune di), III, 221.

Negroponte, 414; III, 466, 467, 480, 679.

Nepi, II, 164, 165.

Neritinû, v. Nardò.

Neritum, v. Nardò.

Nesterawa, II, 275, 276.

Nettunii (monti), II, 264.

Nicea, 501; III, 664, 665.

Nicosia, III, 90, 135, 224, 225, 227, 229, 268, 278, 287, 288, 294, 295, 309, 338, 499, 584, 610.

Nicotra, III, 150, 151, 165, 257, 378, 379.

Nilo (Il), II, 122, 284, 418, 463, 500, 530, 548; III, 73, 80, 82, 92, 511, 515, 521.

Nini, fiume, 119.

Ninive, XXVII.

Nisapur, 253; II, 111, 507.

Nizza, 227.

Nocera, 462, 463; III, 611, 612, 620, 688.

Noja, II, 408.

Normandia, II, 343, 380, 413; III, 18, 20, 23, 27, 29, 37, 38, 39, 213, 214.

Norvegia, II, 380, 383, 384; III, 14, 15, 17, 19, 39.

Noto, 323, 324, 345, 346, 348, 467; II, 275, 433, 435; III, 167, 175, 176, 177, 269, 301, 306, 309, 314, 774.

Noto (val di), 315, 319, 323, 363, 417, 465, 466, 467, 484; II, 24, 213, 216, 255, 276, 396, 397, 435, 526; III, 85, 109, 149, 151, 153, 154, 210, 267, 314, 773, 822.

Novara, III, 220, 225.

Nozaba, III, 407.

Nûba, II, 77, 78.

Nubia, III, 681.

Numidia, 104.

Nuova Regione, II, 297, 298.

Nurembergh, III, 448, 589, 814.

N»zh»r»d, III, 316.

O

Obbiano, II, 345.

Occidente, II, 120, 140, 221, 231, 233, 282, 286, 309, 404, 461, 462, 499, 522, 528, 535; III, 13, 25, 303, 447, 454, 458, 490, 663, 664, 668, 669, 708, 711, 805, 811.

Oceano, II, 284; III, 16, 337, 374, 679.

Odesuer (Wadi-es-Sewâri), III, 884.

Ofanto, III, 34.

Oiûn-’Abbâs, II, 435.

Okâz, 41, 42.

Olivella (monastero dell’), III, 869.

Olivento, III, 31.

Oliveri, II, 433; 111, 102, 774, 783.

Oppido, III, 251, 282, 284.

Orano, 116, 122, 292; II, 362; III, 426.

Ordona, II, 312.

Oreto, fiume, L; II, 68, 299, 300, 301; III, 103, 118, 470, 580, 582, 785, 790, 849, 883.

Oria, II, 170, 171, 172, 175, 316.

Oriente, II, 100, 101, 102, 104, 134, 178, 221, 227, 255, 269, 278, 282, 286, 361, 362, 365, 404, 446, 474, 481, 495, 496, 498, 504, 518, 519, 522, 533; III, 14, 25, 315, 324, 328, 447, 513, 535, 541, 669, 694, 713, 728, 731, 732, 733, 774, 802, 807.

Orne (dipartimento dell’), III, 497.

Oronte, III, 634.

Orta, II, 164.

Ortigia, 7, 394, 395, 397; II, 259, 391.

Osero, 358.

Ostia, 365, 366, 367, 368, 444, 445, 446, 453, 454.

Osra (?), II. 185.

Otranto, 183, 185, 437; II, 171, 172, 177, 243, 244, 252, 316, 431; III, 108, 116, 609.

Oxford, XLIII, XLIV, XLV, XLVI, XLVIII, XLIX, LIII; II, 467.

Oxford (biblioteca Bodlejana di), III, 701.

P

Pace (porta della), II, 156.

Pachino, 100; II, 435, 448.

Padova, III, 803.

[951]

Paesi Bassi, III, 1.

Paflagonia, III, 672.

Palagio comunale di Palermo, II, 69.

Palagio nuovo, v. Halka.

Palagio reale di Palermo, III, 138.

Palagonia, 311.

Palasciano, II, 345.

Palazzolo, di Sicilia, 269, 336; III, 220.

Palazzuolo, presso Firenze, III, 220.

Palermo, XL, XLI, XLIV, L; 8, 11, 13, 15, 21, 94, 205, 206, 232, 240, 248, 271, 274, 290, 291, 293, 294, 299, 302, 304, 305, 307, 308, 309, 315, 317, 318, 319, 320, 323, 324, 325, 326, 327, 328, 329, 330, 333, 335, 336, 337, 344, 345, 348, 349, 350, 351, 352, 354, 359, 364, 371, 378, 379, 392, 399, 407, 412, 413, 414, 417, 422, 423, 424, 425, 426, 440, 465, 467, 485, 486, 487, 489, 493, 516; II, 5, 12, 24, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 43, 48, 64, 65, 67, 68, 70, 71, 72, 77, 78, 79, 96, 140, 141, 144, 145, 147, 150, 151, 152, 155, 157, 158, 159, 160, 172, 177, 178, 179, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 191, 192, 193, 195, 204, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 212, 214, 215, 216, 222, 225, 236, 239, 240, 241, 242, 243, 244, 250, 251, 252, 257, 263, 266, 269, 270, 272, 274, 278, 292, 293, 295, 296, 297, 298, 299, 300, 301, 302, 303, 304, 305, 306, 307, 308, 309, 320, 329, 333, 335, 337, 338, 349, 350, 373, 375, 387, 388, 390, 391, 392, 394, 396, 402, 403, 412, 414, 415, 416, 418, 419, 420, 421, 422, 425, 426, 427, 428, 431, 432, 433, 434, 435, 436, 437, 442, 443, 449, 452, 454, 455, 465, 467, 481, 486, 498, 501, 506, 513, 516, 518, 524, 535, 547, 548, 549, 551, 552; III, 14, 66, 69, 73, 75, 76, 78, 79, 80, 92, 93, 94, 96, 97, 100, 101, 102, 103, 106, 108, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 125, 128, 129, 132, 133, 134, 136, 137, 138, 139, 140, 141, 142, 147, 148, 149, 150, 153, 159, 160, 164, 173, 176, 185, 204, 205, 207, 209, 210, 212, 214, 216, 217, 218, 219, 225, 226, 228, 229, 230, 232, 233, 236, 237, 245, 248, 251, 253, 254, 256, 257, 261, 262, 263, 266, 267, 269, 275, 277, 285, 286, 287, 290, 292, 297, 298, 299, 300, 308, 309, 310, 311, 315, 316, 317, 320, 321, 322, 323, 324, 327, 330, 331, 334, 335, 339, 340, 341, 343, 349, 350, 351, 353, 358, 359, 365, 368, 370, 388, 389, 390, 392, 393, 394, 395, 401, 409, 415, 420, 422, 423, 425, 426, 427, 430, 434, 438, 439, 448, 450, 451, 459, 460, 468, 469, 470, 471, 474, 475, 476, 484, 485, 486, 487, 490, 494, 496, 497, 500, 504, 505, 506, 515, 517, 520, 525, 531, 534, 535, 536, 544, 545, 547, 548, 551, 552, 558, 560, 561, 564, 565, 566, 567, 570, 571, 572, 577, 579, 581, 582, 583, 584, 586, 587, 589, 592, 594, 595, 597, 599, 600, 609, 610, 614, 615, 617, 618, 655, 656, 657, 662, 665, 670, 672, 676, 678, 680, 683, 684, 689, 690, 698, 700, 709, 711, 713, 722, 752, 754, 756, 757, 763, 764, 766, 768, 773, 774, 776, 785, 786, 797, 798, 800, 801, 802, 811, 812, 813, 815, 816, 818, 819, 820, 840, 841, 842, 843, 855, 856, 864, 866, 868, 874, 893, 894.

Palermo (archivio di), III, 203, 215, 234, 246, 291, 318, 635, 806, 872.

Palermo (cappella Palatina di), III, 463, 475, 492, 684, 792, 793, 831, 842, 843, 845, 847, 848, 856, 857, 861.

Palermo (duomo di), III, 463, 793, 801.

Palermo (museo di), III, 792, 795, 869.

Palermo (università degli studi di), II, 69; III, 869.

Palestina, III, 346, 522, 529, 530, 563, 608, 640, 652, 811.

Palici (lago dei), 5, 279.

Palma, di Calabria (corr. Palmi), II, 317.

Palma (spiaggia di) sotto Roccalumera, in provincia di Messina, III, 795.

Palma, in Majorca, III, 821.

Palmi, 517; II, 410; III, 57.

Palmira, 31; III, 825.

Paludi Meotidi, 221.

Panaria, III, 769.

Paniças, III, 631.

Pantalica, 311; III, 180, 181.

Pantelleria, 111, 112, 165, 166, 304; II, 367, 448, 508; III, 81, 82, 169, 381, 382, 415, 536, 553, 598, 626, 627, 628, 631, 632, 770, 774, 783, 787, 809, 870.

Panteon di Roma, 94.

Paola, di Calabria, II, 314.

Paolotti (chiesa de’), in Palermo, III, 121.

Papireto, III, 138.

Papireto, fiume, II, 158, 299, 501.

Parco, III, 779, 849, 850.

Parigi, XVII, XXI, XXV, XXX, XXXIII, XXXIV, XXXV, XXXVI, XLI, XLII, XLIII, XLIV, XLV, XLVI, XLVII, XLVIII, XLIX, L, LI, LII, LIV, LV; II, 51, 272, 467, 484; III, 16, 17, 213, 230, 700, 797.

Parigi (biblioteca nazionale di), II, 272; III, 698. [952] Parigi (museo di), II, 456, 457, 458.

Parigi (università di), III, 707.

Parma, III. 694.

Partanna, III, 776.

Partinico, II, 86, 432; III, 460, 301, 317, 784.

Patané, II, 86.

Paterno, III, 220.

Paternò, III, 72, 73, 150, 152, 220, 226, 268, 301, 311, 312, 783.

Patitelli (porta dei), II, 303.

Patrasso, 508, 547.

Patria (lago di), 373.

Patti. 469; II, 432; III, 56, 220, 221, 225, 232, 236, 278, 296, 308, 309, 331, 340, 356, 378, 387, 768.

Pavia, 212; III, 590.

Pellegrino, monte, 318.

Peloponneso, 176, 328, 401, 414, 442, 502, 508; II, 169; III, 413, 434.

Peloriade, 422; II, 79.

Pentapoli, 91, 180.

Pentidattolo, 516.

Perche (contea di), III, 497.

Pergusa, lago, 311, 330; III, 75.

Persepoli, XL.

Persia, Persiani, XLV, XLVI; 31, 39, 53, 56, 58, 59, 60, 62, 64, 72, 74, 77, 94, 138, 142, 515, 517; II, 4, 17, 31, 32, 33, 37, 66, 98, 99, 100, 105, 108, 109, 110, 111, 114, 115, 116, 117, 118, 140, 173, 269, 278, 490, 492, 493, 544; III, 36, 639, 649, 668, 679, 729, 732, 741, 824, 825, 837, 840.

Persico (golfo), 80.

Petra, III, 825.

Petra de Zineth, II, 36.

Petracucca, II, 246, 247.

Petralia, II, 397; III, 85, 86, 112, 281, 285, 315, 340, 341.

Petralia Soprana, III, 85.

Petralia Sottana, III, 85.

Petrazzi, II, 67.

Pettinengo, III, 220.

Pettineo, III, 220.

Phinthia, 269.

Piana de’ Greci, III, 159, 779, 850.

Piazza, 311, 336; III, 220, 223, 225, 226, 227, 229, 268, 269, 309, 488, 822.

Piazza della Marina, in Palermo, II, 158.

Piemonte, II, 167, 225.

Pietà (monastero della), in Palermo, III, 128.

Pietrapennata, II, 247.

Pietraperzia, 330; II, 275; III, 311.

Pietra di Roseto, II, 407.

Pietra di Serlone, III, 135.

Pietroburgo, XXXIV, XXXIX, XLIII; II, 383.

Piramitana (Massa), 12.

Pirenei, 125, 158, 159.

Pisa, Pisani, 364; II, 311, 313, 500, 504; III, 1, 2, 3, 4, 7, 8, 9, 10, 11, 13, 14, 16, 97, 101, 102, 103, 158, 168, 169, 170, 171, 172, 190, 223, 232, 260, 277, 341, 367, 376, 377, 379, 404, 429, 465, 466, 467, 513, 515, 518, 519, 522, 523, 530, 550, 558, 577, 580, 581, 584, 588, 601, 606, 625, 633, 692, 774, 810, 849.

Pisana (torre), in Palermo, III, 218.

Pitirrana, III, 262, 270, 311, 776.

Pizzuto (contrada del), II, 158.

Platanella, II, 193.

Platani, 310, 334, 335, 337; II, 193, 194, 195; III, 174, 266, 573, 586, 588.

Platani, fiume, III. 174, 596, 604, 605.

Platano, monte, III, 604, 605, 776.

Po, 358; II, 394; III, 34, 198, 222, 672.

Poitiers, 158.

Policastro (golfo di), II, 339.

Polizzi, 416, 417, 419, 422; II, 33, 285; III, 275, 592.

Pollina, III, 595.

Polluce (torre di), 237.

Polonia, II, 384, 679.

Pommersfeld, III, 696.

Ponente, v. Occidente, III, 379, 420, 424, 425, 544, 625, 686, 701, 718, 739, 805.

Ponte dell’Ammiraglio, III, 785.

Ponte della Grazia, III, 580.

Pontevico, III, 641, 712.

Ponza, 228, 364; III, 226.

Porri (isola dei), 270.

Porta Negra, torre, II, 413.

Porta Nuova, in Palermo, III, 120, 121, 128, 137.

Portella di Mare, III, 844.

Portici, 457.

Porto di Ali, 467; II, 431, v. Marsala.

Portoferraio, III, 672.

Portogallo, II, 505; III, 414, 735.

Porto Palo, III, 790.

Potenza, III, 221.

Pozzolo Superiore, II, 85.

Pozzuoli, 373; II, 453; III. 467.

Praroli, o Tre Laghi, III, 63.

Principato, III, 612, 625.

Principato Ulteriore, III, 37, 45.

Prizzi, II, 443, III, 311.

Puglia, e Puglia (ducato di), XXXI; 165, 328, 336, 359, 360, 371, 372, 373, 435, 437, 438, 441, 442, 443, 468; II, 153, 168, 175, 176, 244, 245, 311, 313, 314, 345, 316, 345, 346, 365, 380, 389, 392, 416, 784, 798; III, 14, 22, 23, 25, 26, 27, 30, 31, 33, 35, 36, 37, 40, 41, 43, 45, 46, 47, 48, 53, 61, 63, 66, 69, 78, 94, 100, 102, 104, 106, 112, 123, 136, [953] 146, 147, 162, 165, 183, 185, 214, 226, 233, 237, 271, 272, 274, 277, 302, 309, 315, 338, 342, 348, 351, 366, 391, 392, 394, 395, 396, 431, 451, 464, 465, 466, 468, 481, 544, 548, 553, 563, 565, 567, 577, 590, 596, 601, 606, 611, 612, 616, 620, 625, 628, 648, 653, 654, 701, 867, 868.

Punta Saracena, II, 347.

Q

Quarnero, 359.

R

Raalginet e Ragalzinet, II, 36.

Racalmuto, II, 36.

Raccamo (via del), III, 870.

Raffadali, III, 594

Ragusa, di Dalmazia, 378; II, 367.

Ragusa (fiume di), II, 443.

Ragusa, di Sicilia, 319, 323, 337, 344, 346, 348; III, 212, 301, 771, 772, 784, 811.

Rahl, III, 174.

Rahl-el-Armel, III, 776.

Rahl-el-Asnâm, 237.

Rahl-Butont, III, 850.

Rahl-el-Kâid, III, 776.

Rahl-el-Mara, III, 776, corr. Merat.

Rahl-Menkûd, II, 275.

Rahl-el-Merat, III, 787, v. Rahl-el-Mara.

Rahl-es-Scia’rani, III, 312.

Rahl-ez-Zenati, II, 36.

Raia, II, 45, 370; III, 311, 776.

Rakal Stephani (corr. Rahl), III, 573.

Rakka, II, 33.

Rakkâda, 236; II, 49, 52, 53, 54, 55, 68, 129, 131, 134, 135, 136, 139, 141, 142, 151, 156, 285.

Ramelia, III, 575.

Rametta, 394, 423, 426, 470; II, 85, 86, 242, 247, 259, 260, 293, 265, 266, 269, 270, 271, 280, 290, 291, 308, 315, 322, 331, 382, 383, 400, 401, 414; III, 63, 64, 65, 70, 71, 206, 208, 284.

Ramla, di Siria, III, 644.

Ramla (Er-), presso Mehdia, III, 418.

Randazzo, 350; II, 184, 191, 433; III, 223, 224, 252, 269, 296, 499, 567, 582, 787, 791.

Rappaco, II, 408.

Rapolla, II, 407, 408.

Râs-el-Belât, 266; II, 435.

Rasigelbi, II, 435.

Raudha (nilometro di), III, 834, 836, 843.

Ravanusa, III, 174.

Ravello, 396.

Ravenna, 20, 78, 98, 180, 449; III, 696.

Rebî’ (porta di), 154; II, 197.

Rebuttone, III, 849.

Regalbuto, III, 285, 312, 321, 349.

Regensburg, III, 673.

Reggio, 230, 412, 415, 425, 426, 516, 517; II, 70, 71, 72, 73, 152, 154, 170, 171, 243, 246, 248, 251, 252, 271, 315, 329, 338, 339, 341, 346, 350, 365, 366, 381, 408, 410, 414, 449, 453; III, 2, 3, 31, 46, 47, 48, 50, 51, 52, 54, 55, 57, 61, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 116, 165, 257.

Reggio, dell’Emilia, III, 803.

Rekka-Basili, III, 776.

Rendag, v. Randazzo.

Resina, 457.

Ribât degli Almoravidi, III, 374.

Ribât, di Susa, 154.

Ribera, III, 605.

Rieti, II, 165.

Rif, del Marocco, II, 36, 285.

Rimini, III, 672.

Rocca (La), presso Morreale, III, 580.

Rocca d’Asino, III, 165.

Rocca Imperiale, II, 347.

Rocca del Legno, II, 177.

Roccamena, III, 779, 787.

Rocca Monte, 462.

Rocca di San Martino, III, 43.

Roccasecca, III, 565.

Roccella, 327; III, 776.

Rodano, 158; III, 16.

Rodi, 88, 85; III, 530.

Roma, XLI, XLIV, LI; 4, 6, 8, 14, 16, 22, 23, 24, 29, 71, 78, 86, 89, 94, 99, 179, 180, 183, 187, 191, 208, 230, 235, 318, 365, 366, 367, 368, 369, 389, 412, 435, 438, 443, 444, 445, 446, 448, 450, 451, 453, 454, 456, 457, 458, 497, 498, 516, 517, 519; II, 90, 161, 164, 165, 166, 169, 175, 278, 318, 327, 338, 399, 403, 406; III, 2, 16, 26, 31, 41, 44, 46, 143, 145, 146, 182, 184, 193, 417, 431, 450, 497, 530, 559, 569, 582, 588, 590, 621, 629, 645, 653, 654, 679, 680, 681, 701, 705, 811, 881.

Romania, III, 480.

Roseto, II, 247.

Rosetta, II, 182, 276; III, 426, 427.

Rossano, 183; II, 313, 315, 317, 319, 320, 322, 323, 326, 329, 336.

Rostoch, II, 455.

Rouen, II, 413; III, 17, 18, 21.

Ruga Keleb, III, 369.

Russia, Russi, XXXIV; 77; II, 261, 269, 365, 380, 383, 384, 385; III, 26.

[954]

S

Sabina, II, 164, 165.

Sabra, II, 362.

Sabratha, 109.

Ságana, II, 34, 277.

Saghâniân, II, 34.

Sâhel, III, 212.

Sahra, 130; III, 373, 374, 483.

Sa’îd, II, 285.

Saint-Clair sur Epte, III, 18.

Saint-Evrault (monastero di), III, 84.

Sakhra (cappella della), III, 644.

Sakhrat-el-Harîr, 327; III, 776.

Sala, III, 220.

Salemi, II, 36; III, 575.

Salerno, XL; 189, 240, 241, 354, 355, 356, 357, 362, 369, 370, 373, 375, 376, 381, 383, 385, 387, 388, 396, 397, 435, 436, 437, 438, 439, 444, 445, 448, 450, 452, 454, 455, 457, 461, 463, 464; II, 166, 168, 178, 241, 311, 312, 317, 321, 322, 329, 343, 344, 377, 380, 449, 450, 459, 488; III, 25, 27, 28, 29, 37, 38, 39, 45, 46, 47, 49, 52, 122, 142, 146, 193, 232, 274, 275, 280, 388, 392, 393, 398, 552, 554, 555, 577, 612, 697, 698, 788, 813.

Saline (valle delle), 516; III, 50, 51.

Salso, fiume, 269, 290, 315, 323, 417, 466; II, 192, 216, 427; III, 311, 595, 614, 773, 790.

Salvatore (braccio del), III, 57, 64, v. San Giacinto.

Salvatore (monastero del), in Messina, 489, 490; II, 400; III, 234, 463, 783.

Salvatore (chiesa del), III, 287, 288.

Salvezza (vicolo della), III, 128.

Samanteria, II, 433, v. Sementara.

Samarkand, II, 34.

Sambuca, III, 220.

Sambuco, III, 220.

Sambughetto, III, 220.

Sanâ, 46; II, 120.

Sanagi o Sinagia, II, 36.

Sant’Adriano (monastero di), presso Basidia, II, 407, 408.

Sant’Andrea degli Amalfitani, II, 297; III, 138.

Sant’Andrea, isola, 497.

Sant’Andronico (chiesa di), III, 65.

Santangelo (museo di casa), III, 344.

Sant’Angelo di Brolo (monastero di), III, 305.

Sant’Angelo de Lisico (monastero di), 469; II, 404.

Sant’Antonio (parrocchia di), II, 69.

Sant’Apollinare (chiesa di), in Bari, III, 36.

Santarem, XLIII; II, 505, 506.

San Barbaro di Demona (monastero di), 470; III, 208, 234, 313.

San Bartolommeo, di Capitanata, II, 347.

San Bertario (chiesa di), II, 92.

San Brunone (monastero di), III, 187, 196, 235, 241.

San Calogero (monastero di), 505.

San Carlo, comune, II, 431.

San Cataldo (chiesa di), III, 843, 856.

Santo Ciro (rupe di), III, 756.

San Cono (grotte di), 311.

Santo Carzio, presso Aversa, 462.

San Domenico (chiesa di), II, 158.

Sant’Elia d’Ambola o d’Eubulo (monastero di), III, 83, 340.

Sant’Elia, monte, 517.

Sant’Erasmo (piano di), III, 470.

San Felice (grotte di), II, 72; III, 95, 96.

San Filareto (monastero di), II, 317, 395, 410, 411, 412, 442.

San Filippo, d’Argira, 519; II, 399, 403, 406, 408, 410; III, 224, 269, 284, 301.

San Filippo di Demona (monastero di), 469, 470; II, 404; III, 282, 313.

San Filippo di Fragalà (monastero di), 505; III, 206, 208, 305.

San Francesco d’Assisi (chiesa di), in Palermo, II, 454.

San Francesco di Paola (monastero di), III, 120.

San Fratello, comune, III, 224, 227.

San Gennaro, comune, III, 396, 569.

San Giacinto (isola di), III, 57, 58, 64, v. Salvatore.

San Giacomo (quartiere di), III, 137.

San Giacomo la Marina (chiesa di), III, 793.

San Giacomo la Màzara (chiesa di), III, 856.

San Giorgio (chiesa di), III, 230.

San Giorgio dei Genovesi (chiesa di), II, 297.

San Giovanni, d’Acri, III, 508, 529.

San Giovanni degli Eremiti (monastero di), III, 138, 463, 594, 843, 856.

San Giovanni dei Lebbrosi, ospizio, II, 445; III, 118, 119, 593, 783, 821, 843.

San Giuliano (monastero di), II, 408.

San Giuseppe li Mortilli, in oggi San Giuseppe Jato, II, 36; III, 159, 779, 849.

San Gregorio (chiesa di), III, 117.

San Leonardo (fiume di), III, 147, v. Termini.

San Lorenzo di Cefalà, spedale, III, 615.

San Marco, comune, II, 445; III, 71, 75, 77, 78, 94, 102, 161, 164, 186, 206, 208, 221, 282, 284, 286, 293, 773, 774, 784, 787, 811.

[955]

San Marco di Venezia (campanile di), III, 687.

San Martino, presso Capua, 387.

San Martino, in Marsico, 462.

San Martino de Scalis (monastero di), 293; II, 413; III, 792, 795, 869.

San Matteo (chiesa di), III, 193.

Santo Mauro, comune, III, 776.

San Mercurio (monastero di), II, 317, 318, 319.

San Michele (chiesa di), II, 92, 95, 415.

San Michele (monastero di), III, 575.

San Michele Arcangelo (monastero di), II, 404; III, 305, 324.

San Nazario (monastero di), II, 317, 318.

San Niccolò (chiesa di), in Messina, III, 58, 161.

San Niccolò (chiesa di), in Reggio, III, 165.

Sannio, 443.

San Pancrazio (chiesa di), II, 92.

San Pietro e Paolo (monastero di), III, 305, 306.

San Pietro e Paolo (chiesa di), III, 139.

San Quirico, II, 408.

San Remo, III, 277.

Sansego, isolotto, 359.

Sanseverino, III, 148.

San Severo, di Puglia, III, 616.

Santo Stefano (chiesa di), 489.

San Vincenzo in Volturno (monastero di), 374, 375, 459, 460.

San Vito, presso Isernia, 368.

Sant’Agata (monastero di), III, 254, 550.

Sant’Agata la Guilla, II, 69.

Sant’Agata, di Reggio, II, 315.

Sant’Agata (ròcca di), II, 171.

Sant’Anastasia, III, 212, 311.

Santa Caterina (monastero di), II, 69, 415.

Santa Chiara (monastero di), II, 69.

Santa Ciriaca, III, 130, 339.

Santa Cristina, III, 779.

Santa Croce, di Firenze, III, 707.

Sant’Eufemia (monastero di), III, 84, 307.

Santa Lucia (chiesa di), III, 291.

Santa Lucia, comune, III, 223, 252, 296.

Santa Margherita, comune, II, 33.

Santa Maria dell’Ammiraglio, III, 592, v. Martorana.

Santa Maria, castello in Sicilia, 512, 513.

Santa Maria di Cammarata, terra, III, 251.

Santa Maria in Cingla, 368.

Santa Maria del Faro, III, 66.

Santa Maria della Grotta (chiesa di), III, 131, 138, 139, 355.

Santa Maria de Gurguro (monastero di), III, 324.

Santa Maria in Josaphat (monastero di), III, 239.

Santa Maria de Latina (monastero di), III, 547.

Santa Maria di Mili (monastero di), III, 305.

Santa Maria Vergine (chiesa di), III, 139.

Santa Maria di Rifesi (chiesa di), III, 594.

Santa Maria di Roccamadore (badia di), III, 67.

Santa Maria di Vicari (monastero di), II, 397, 403; III, 305.

Santa Maria Maddalena de Galca (via di), III, 138.

Santa Severina, 440, 451; II, 42, 406.

Santa Sofia (tempio di), III, 837.

Saponara, III, 220.

Sara, monte, III, 605.

Saracena, presso Castrovillari, II, 347.

Saraceno (monte), II, 347.

Saracinesco, presso Tivoli, II, 347.

Saragozza, II, 475, 476, 481; III, 450.

Sardegna, Sardi, XXXI; 18, 28, 95, 98, 124, 125, 168, 173, 175, 183, 184, 201, 204, 207, 226, 227, 366; II, 180, 181, 287, 433, 449; III, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 367, 368, 679.

Sardegna, villa in Affrica, II, 287.

Sassonia Gotha, XLI.

Savona, III, 198, 199, 230, 288, 673.

Scalea, III, 87.

Scaletta, III, 220.

Scarpanto, III, 525.

Sceliata, III, 776.

Scerîk (penisola di), 111, 430, 431; III, 474, 598, v. Dakhel.

Schala di Lampheri, III, 875.

Schiavoni (quartiere degli), II, 158, 297, 298; III, 298, 614.

Sciacca, 505, 506; II, 35, 275, 420, 432, 434, 489; III, 176, 211, 301, 310, 313, 330, 338, 341, 602, 773, 775, 795, 811, 882.

Sciakâtis, XLV.

Sciarabbu, fonte, III, 870.

Sciarra (Butera?), 316.

Scicli, 345; III, 771, 811.

Scilla, II, 73, 271.

Sclafani, II, 192.

Scopa, III, 220.

Scopello, II, 432, 433; III, 220, 224, 592.

Scrible (castello di), III, 43, 107.

Scuteri (grotta dei), III, 877.

Sebeto, 373, 454.

[956]

Seffein, II, 103.

Segeballarath, II, 300, v. Ballarò.

Segelmessa, 129; II, 133, 134, 135, 136, 284, 363, 369.

Segesta, II, 31, 86; III, 775, 782.

Segestan, II, 31, 186.

Segestano (emporio), 8.

Selamîa, II, 116, 120, 132, 134.

Selinunte, 233, 236, 237; II, 33, 36, 435; III, 776.

Selinus, II, 36, v. Modiuni.

Sementara, II, 433, 490; III, 212.

Seminara, 231, 517; II, 317, 410; III, 257.

Senegal, III, 373.

Senem, II, 184.

Senna, III, 16, 18.

Sepiano, 455.

Sepino, 374.

Seracino, fiumicello, II, 347.

Seralcadi, quartiere, III, 298, 614, v. Schiavoni.

Serkland, II, 385.

Sessa, 452.

Setfura, II, 275.

Setif, II, 38, 121; III, 424.

Setra, II, 163.

Sette Dormienti (grotta dei), III, 664, 665.

Settentrione, III, 668, 823.

Sewâd, II, 17.

Sfax, 806; II, 151, 152, 362, 433, 449; III, 80, 92, 410, 419, 420, 421, 468, 469, 470, 472, 473, 477.

Sibilla, v. Zawila.

Sibkha, di Tunis, II, 75.

Sicchiaria, fonte, III, 870.

Sicilia (archivio regio di), III, 774.

Sicilia di qua e di là dal Salso, 417; III, 595.

Siciliane (Le), villa presso Damasco, 87; III, 736.

Sidone, III, 107, 640, 644, 645.

Simeto, v. Wadi-Musa, II, 387, 435, 448; III, 71, 72, 95, 96, 135, 790.

Sinagra, III, 250, 251.

Sinai, 515; II, 413; III, 859.

Sind, II, 186; III, 760, 762.

Sinopoli, II, 410.

Siponto, 362; II, 164, 176.

Siracusa, 7, 11, 12, 13, 15, 16, 21, 26, 86, 94, 95, 99, 100, 169, 174, 201, 212, 217, 230, 240, 247, 248, 252, 269, 271, 272, 274, 275, 278, 290, 291, 299, 300, 317, 323, 326, 328, 329, 333, 335, 344, 345, 346, 347, 348, 349, 351, 352, 392, 393, 394, 395, 397, 401, 404, 406, 410, 411, 432, 465, 471, 485, 486, 496, 499, 500, 501 a 513; II, 32, 35, 146, 216, 258, 263, 275, 293, 299, 382, 383, 387, 391, 396, 412, 413, 425, 433, 436, 437, 453, 474, 476, 525, 549; III, 56, 109, 151, 152, 163, 165, 166, 167, 168, 169, 174, 181, 208, 209, 213, 231, 251, 264, 269, 291, 297, 301, 305, 308, 309, 310, 312, 317, 318, 327, 338, 378, 388, 407, 536, 538, 574, 578, 583, 597, 601, 610, 614, 618, 689, 768, 771, 774, 776, 780, 781, 811.

Siracusana (provincia), 417, 466, 467.

Siria, Siri, XLV, XLVI; 31, 49, 62, 64, 66, 69, 79, 81, 82, 85, 86, 87, 88, 90, 128, 136, 138, 143, 477; II, 33, 88, 89, 100, 118, 131, 132, 133, 170, 180, 218, 278, 279, 281, 286, 301, 310, 312, 349, 369, 379, 404, 405, 406, 445, 450, 477, 490, 496; III, 211, 212, 362, 365, 414, 508, 523, 528, 609, 634, 639, 640, 643, 647, 649, 715, 717, 718, 721, 723, 732, 734, 740, 796, 811, 825, 858, 879.

Siviglia, XLII: II, 501, 508, 523, 524, 527, 529, 530; III, 16, 172, 686.

Slavi (quartiere degli), II, 179, v. Schiavoni.

Soiût, LV.

Solûk, in Affrica, III, 212.

Solunto, II, 48, 86.

Sommatino, III, 776.

Sordivolo, III, 221.

Sorelle (Le), isolotto, III, 382, 383, 384, 385, 387.

Sorrento, 183, 312, 357, 364, 367.

Sort, II, 284, 290.

Sortino, 311.

Spaccaforno, 311.

Spadafora, II, 265, 266, 267.

Spagna, Spagnuoli, XXXI, XXXIX, XLIII, XLIV, XLV, XLIX, L, LIII; 118, 119, 124, 125, 128, 135, 136, 137, 141, 144, 158, 159, 160, 161, 162, 165, 171, 226, 227, 228, 229, 230, 264, 286, 288, 290, 291, 295, 296, 304, 340; II, 4, 6, 10, 21, 22, 33, 97, 100, 101, 155, 167, 170, 186, 200, 210, 219, 220, 227, 233, 249, 250, 282, 283, 295, 302, 309, 355, 362, 369, 371, 405, 428, 442, 445, 447, 450, 453, 462, 471, 472, 476, 477, 481, 487, 491, 494, 496, 497, 499, 502, 508, 522, 523, 528, 530, 533, 535, 547, 548; III, 2, 3, 4, 5, 7, 11, 12, 16, 20, 75, 76, 78, 80, 106, 157, 169, 172, 173, 188, 211, 212, 217, 260; III, 261, 310, 337, 357, 365, 367, 373, 374, 377, 378, 379, 380, 388, 389, 390, 414, 432, 476, 490, 516, 517, 533, 591, 617, 622, 626, 662, 682, 684, 687, 705, 711, 712, 716, 738, 740, 741, 799, 805, 807, 810, 811, 823, 825, 830, 836, 852, 880, 889.

[957]

Spartivento (capo di), II, 246.

Spasimo (piazza dello), III, 821.

Spasimo (bastione dello), in Palermo, III, 128.

Spedal grande di Palermo, II, 69.

Spoleto, 187, 189, 369, 370, 388, 447, 454, 455, 462; II, 72, 89, 166, 312.

Squillaci, III, 52.

Squillaci (vescovado di), III, 245, 275.

Stiklestad, II, 384.

Stilo, 439; II, 324, 329, 372; III, 235, 241, 317.

Strobilo, II, 368.

Stromboli, II, 440, 441, 448; III, 769.

Sudân, 173; II, 363.

Suez, II, 286; III, 511, 836.

Suez (istmo di), III, 646.

Sufetula, 109.

Sus, 115; III, 374, 483.

Susa, 113, 154, 168, 262, 264, 277, 287; II, 48, 73, 77, 154, 188, 199, 200, 222, 223, 275, 280, 281, 334, 362, 421, 442, 449, 498, 550; III, 92, 212, 213, 419, 421, 472, 473, 474, 477, 490, 491, 751.

Sutera, 334, 337; III, 174, 882.

Sutri, II, 165.

Svezia, III, 14, 15.

Svizzera, II, 167.

T

Tabarca, II, 66, 465, 466.

Taberistân, II, 33; III, 212.

Tabor, 515.

Tâgi (Et), v. Aci.

Tahuda, 117, 118.

Taiort (Tahert, Tuggurt), 130; II, 135.

Taki-Kesra, III, 838.

Talavera, II, 528; III, 375.

Tâlis, II, 186.

Tanaro, III, 198.

Tanger, XXXIX; 115, 123, 127, 128, 129, 132; II, 226, 230.

Taormina, 7, 15, 299, 326, 347, 349, 350, 351, 394, 411, 412, 418, 422, 428, 432, 469, 485, 486, 487, 488, 491, 492, 495, 499, 516, 518; II, 69, 70, 73, 78, 80, 81, 82, 83, 85, 86, 87, 88, 148, 183, 184, 215, 216, 242, 255, 257, 258, 259, 263, 290, 291, 387, 400, 402, 414, 433, 438, 439; III, 56, 94, 147, 157, 159, 166, 269, 338, 772, 811.

Taranto, LII; 357, 358, 359, 360, 361, 362, 363, 364, 371, 377, 378, 379, 380, 385, 435, 436, 440, 451; II, 162, 172, 176, 177, 312, 315, 322, 323, 329, 340, 341, 433; III, 140, 560, 569, 579.

Targia, III, 881.

Tarso, 431, 438; II, 48.

Tartaria e Tartari, XXXVIII, LIII; 62; II, 32, 34, 109.

Taurasi, II, 164.

Taurga, II, 84.

Tauzer, XLV; II, 198, 515.

Tavi, III, 213, 776.

Teano, 374, 444, 452, 461, 462.

Tebaide, II, 406.

Tebala, 42.

Tebe, III, 434, 800.

Tefrica, 510.

Telal, XL, v. Kelâl.

Telemsen, LV; 128, 132, 175, 228.

Telese, 368, 374, 455.

Tenes, II, 362; III, 426, 427, 428.

Termini, 416, 485; II, 252, 263, 264, 266, 274, 275, 433, 452; III, 104, 112, 211, 263, 276, 310, 311, 315, 536, 765, 768, 772, 774, 783, 789, 811, 841.

Termini (fiume di), 111, 147, v. San Leonardo.

Termoli, II, 179.

Terra di Bari, III, 37.

Terracina, 187, 189; II, 406.

Terra di Lavoro, 373, 435, 459; III, 616, 701.

Terraferma d’Italia, II, 72, 160, 182, 292, 315, 316, 338, 346, 350, 365, 388, 390, 394, 396, 400, 406, 410, 415, 449; III, 9, 77, 92, 104, 108, 112, 119, 122, 123, 133, 141, 146, 147, 148, 163, 165, 176, 178, 184, 191, 192, 205, 206, 214, 218, 219, 222, 232, 234, 254, 259, 268, 273, 276, 279, 293, 303, 308, 323, 331, 365, 368, 384, 393, 395, 396, 400, 441, 464, 466, 484, 487, 500, 549, 560, 569, 582, 583, 588, 590, 603, 608, 610, 611, 792, 803.

Terranova, di Sicilia, 269; III, 616.

Terra d’Otranto, 183, 434; II, 171, 172, 316.

Terrasanta, II, 338, 386, 413, 523, 573, 578, 605, 635, 637, 641, 642.

Tessaglia, 502.

Tessalonica, 396, 414, 502, 578; II, 88, 89; III, 57, 223, 521, 526, 538, 688, 689.

Tevere, XXXI; 91, 389, 445; II, 164, 278, 346, 449; III, 182, 678, 680.

Teverone, 445.

Thoron, III, 643, 644.

Tîfesc, v. Mico.

Tigri, 79, 138, 176; II, 301, 404; III, 521, 837, 839.

Tindaro, 8, 18, 211, 305, 485; II, 86; III, 56, 63.

Tinnis, III, 426, 427, 467, 514.

Tiracia, 350.

Tiro, III, 107, 378, 522, 523, 524.

[958]

Tirreno, 364, 378, 417, 445; II, 162, 177, 264, 449; III, 3, 30, 71.

Titeri (montagne di), II, 362.

Tivoli, II, 347.

Tobna, 132; II, 128.

Tolceto, III, 221.

Toledo, 161; II, 303; III, 188.

Tolosa, III, 16.

Torino, 496; III, 199, 675.

Torino (università di), III, 803.

Torolts, III, 816.

Torre del Greco, 457.

Torre Saracena, II, 347.

Torretta, II, 67.

Torri (Le), II, 315.

Torto, fiume, I, 469; III, 309, 315, 340, 773.

Torti (dei), fiume, III, 875.

Tortona, III, 199.

Tortorici, III, 776.

Tortosa, 288; III, 414, 526.

Toscana, Toscani, 183, 187, 277, 443, 451; II, 371; III, 223, 433, 539, 544, 566, 653, 796.

Tournus (abbadia di), II, 299.

Tours, III, 16, 803.

Trabia, III, 311, 789, 790, 795, 809.

Trabla, v. Trapani, III, 154.

Tracia, Traci, 440; II, 250, 261, 367, 368; III, 33.

Traietto, 450, 458; II, 163, 164.

Traina, Trainesi, 347, 471; II, 385, 387, 388, 390, 391, 395, 396, 398, 404, 410, 418, 419; III, 82, 83, 85, 86, 89, 90, 92, 95, 96, 97, 100, 103, 104, 105, 117, 152, 158, 161, 164, 177, 186, 192, 208, 257, 269, 281, 282, 284, 285, 286, 289, 290, 291, 304, 305, 309, 311, 314, 315, 340, 348, 349, 353, 610, 616.

Trani, III, 36, 141.

Transoxiana, II, 110.

Trapani, 337, 485, 486; II, 35, 64, 66, 67, 78, 86, 157, 160, 275, 420, 421, 427, 433, 435, 454, 466, 467, 535, 541; III, 53, 56, 57, 78, 109, 133, 147, 154, 155, 159, 164, 210, 211, 213, 232, 269, 309, 318, 338, 520, 534, 536, 542, 577, 595, 599, 617, 770, 771, 772, 773, 776, 780, 788, 789, 795, 811.

Trebisonda, 510, 203.

Tre Fontane, II, 435.

Tre Laghi, v. Praroli.

Tremestieri, terra, III, 68.

Tremiti, II, 247.

Trento, III, 590.

Treveri, II, 412, 413; III, 16.

Trevi, II, 165.

Tribunali (palazzo de’), in Palermo, II, 158.

Tricarico, II, 407.

Trifels, III, 553, 561, 562.

Trinacria, Trinacrii, 174; III, 813.

Trinità (monastero della), III, 790.

Triocala, 485, 486.

Tripi, III, 71.

Tripoli, di Barbaria, 104, 109, 121, 131, 172, 225, 391; II, 57, 78, 84, 129, 130, 133, 141, 151, 152, 182, 188, 200, 228, 290, 294, 355 a 357, 362, 465, 466, 541; III, 24, 154, 408 a 411, 419 a 421, 424, 461, 462, 471, 472, 520, 526.

Tripoli, di Sicilia, II, 433.

Tripoli, di Siria, 88; II, 80, 327, 312; III, 523, 524, 526.

Troia, di Puglia, III, 62, 140, 392, 864.

Tronto, II, 339; III, 183.

Tropea, 441.

Tropici, II, 357; III, 676.

Tûb, castello, II, 518.

Tunis, VII, XXXIX, XLV, XLIX, L, LIII, LIV, LV, LVI; 104, 121, 124, 131, 132, 137, 145, 146, 155, 156, 157, 167, 168, 173, 225, 253, 287, 429, 520; II, 48, 53, 54, 57, 58, 66, 67, 74, 75, 123, 126, 127, 198, 199, 222, 224, 359, 465, 471, 484, 485, 513, 547; III, 80, 132, 158, 172, 212, 260, 332, 333, 408, 413, 416, 421, 428, 429, 430, 458, 472, 474, 476, 477, 496, 498, 553, 599, 622, 624, 625, 627, 628, 629, 631, 632, 693, 694, 698, 704, 722, 734, 774.

Tûr, III, 772.

Turi, II, 407, 408.

Tusa, II, 433; III, 94, 772.

Tusciano, fiume, 362.

U

Umbria, III, 672.

Ungheria, III, 315.

Upsal, LI, LIII.

Utica, 277.

Utrecht, III, 16, 673.

V

Vaccarizzo, II, 315.

Vado, III, 518, 519.

Valdemone, v. Demona (val di).

Valenza, XLVI, XLIX.

Valenza, sul Rodano, III, 16.

Valguarnera Ragali, presso Partinico, III, 779.

Valguarnera Caropipi, 270.

Valledolmo, III, 215.

Varano (lago di), II, 347.

Vaticana (biblioteca), 507; III, 838.

Velez Blanco, II, 186.

Velletri, 445.

[959]

Venafro (castel di), 374.

Venezia, 183, 216, 229, 278, 287, 357, 358, 376, 377, 379, 389, 438; III, 432, 493, 504, 523, 530, 633, 803, 809.

Venosa, 377; II, 164; III, 31, 650.

Ventimiglia, III, 519.

Vergine Maria (spiaggia detta la), 319.

Vergini (monastero e chiesa delle), in Palermo, II, 69, 454.

Veroli, III, 600.

Verona, II, 326, 600, 602.

Verona (museo di), II, 453.

Verrua, III, 198.

Vesuvio, 458; II, 366.

Vicari, 418, 419; II, 36, 397, 403; III, 209, 213, 219, 224, 285, 292, 309, 311, 315, 340, 499, 573, 615, 616.

Vico, v. Mico.

Vienna, 496, 507; III, 448, 553, 798.

Viesti, II, 347.

Viilabate, III, 536, 843.

Villafranca, III, 179.

Villanuova, XLIII; II, 433.

Vindicari, 336.

Vittoria (chiesa della), III, 120, 126, 128, 129, 821.

Vittoria (piazza della), III, 128.

Vittoria (porta della), III, 128, 821.

Vizzini, 311; III, 822.

Volturno, 387, 447; II, 170, 186.

Vulcano, isola, 12; II, 438, 441; III, 770, 781.

W

Wadi-l-’Abbâs, v. Oreto.

Wadi-Musa, II, 435, v. Simeto.

Wadi-t-tîn, v. Dittaino.

Walhalla, III, 15.

Waset, II, 480; III, 383, 826, 828.

Wergla, III, 624.

Worms, 152, 153; II, 13, 20, 21.

X

Xalces, v. Halka.

Y

Yhale, III, 264.

Z

Zab, 144; II, 36.

Zaèra, III, 882, 883.

Zandewend, III, 826.

Zante, 414; III, 525.

Zânzûr, II, 357.

Zarchante, casale, III, 575.

Zarniwah (erronea lezione di Otranto?), II, 177.

Zawila, II, 432; III, 170, 172, 384, 416, 418, 472, 473, 474, 475, 477, 478, 479, 490, 516.

Zecca di Palermo, II, 158.

Zemzem, 49.

Zisa (palagio della), II, 451, 452; III, 491, 492, 555, 617, 818, 819, 841, 843, 845, 846, 847, 849, 856, 861, 881.

Zotica, v. Iudica.

Zuagha, 109.

Zucac Almucassem, vicolo, III, 870.

Zucac Germes, vicolo, III, 869.

[961]

INDICE DE’ VOCABOLI.

A

Abbacari sicil., III, 886.

Abd-Allah ar. (uso di questo nome), II, 219.

Abuged ar., II, 468, 469.

Accanzari sicil., III, 885.

Acciacco, III, 887.

Adab ar., II, 483.

Addijri sicil., III, 885.

Agem ar., II, 269.

Aggibbari sicil., III, 886.

Ahl ar., II, 276.

Akbar-Allah ar., 73; II, 83.

Akila ar., 68.

Alâma ar., III, 449.

Alambicco, III, 887.

Alcali, III, 887.

Alliffari sicil., III, 886.

Almanacco, III, 887.

Almugaveri, II, 165.

Amân ar., II, 64, 72, 131, 258, 285, 400, 401, 415, 418, 420, 421.

’Amil ar., II, 185, 189.

Amira lat., II, 320, v. Emîr ed Ammiraglio.

’Aml ar., II, 275, 276.

Amlak ar., II, 371.

Ammiraglio, III, 351, segg., 887.

Annacari sicil., III, 886.

Annadarari sicil., III, 882, 886.

Arcon gr., III, 281.

Arcontia gr., III, 283.

Arcontichia gr., III, 283.

Arrâda ar., II, 260.

Arruciari sicil., III, 886.

Arsenale, III, 881, 882.

’Asr ar., II, 268.

Assammarari sicil., III, 886.

Awagi ar., II, 532.

Azeg ar., III, 827.

Azizzari sicil., III, 886.

Azzannari sicil., III, 886.

Azzeccare e Azziccari sicil., III, 886.

Azzurro, III, 887.

B

Balata sicil., 266; III, 881.

Barda, III, 887.

Bardadâr pers., II, 185.

Beiram turco, III, 534.

Beit-el-Mal-el-Ma’mur ar., III, 323.

Burgiu sicil., III, 881.

Burnîa sicil., III, 881.

Butteri, III, 887.

C

Cabella bueberie, III, 330.

Cadi, v. Kâdhi, 296; II, 7, 8.

Cafisu sicil., v. Kafiz, III, 890.

Cáida tosc., III, 886.

Cálega tosc., III, 886.

Cália sicil., III, 892.

Camálo genov., III, 886.

Camellotto, III, 892.

Camicia e Cammisa sicil., III, 887.

Canfora, III, 887.

Cangemia (diritto di), III, 330.

Canna sicil., e Kamah ar., III, 890.

Cantàro e Kintâr ar., III, 890.

Carato, III, 891.

Carcariari sicil., III, 886.

Carciofo, III, 887.

Cassata sicil., e Kas’at ar., III, 892.

Catusu sicil., III, 865.

Caudu di testa sicil., III, 886.

Ciaramiti sicil., III, 877.

Cifra, III, 887.

Collare (salpare), III, 887.

Cubbaita sicil., e Kobbeit ar., III, 892.

Cuccía sicil., e Kesc ar., III, 894.

Cuntari in aria sicil., III, 886.

Cuscusu sicil., III, 892.

[962]

D

Dagala sicil., III, 882.

Dâ’i ar., 140; II, 116, 118, 119, 120, 136.

Darâri ar. (?), sing. Dorrâ’ah (giubbone), II, 360.

Darbu sicil., III, 866, 881.

Darsena, v. Arsenale.

Dekka ar., III, 829.

Dewadâr ar. pers., III, 447.

Dhia’ ar., II, 22, 25.

Dica sicil., III, 882.

Difter, plur. Defêtir ar., III, 324.

Difter-el-Hodûd ar., III, 324.

Dinâr ar., 169; II, 50, 51, 334, 458.

Dirhem o Dirhim, ar., 65; II, 50, 256, 459, 460; III, 455.

Diwân-el-Khazânat-el-Ma’mûrah ar., III, 323.

Diwân-el-Mozâlim ar., III, 444.

Diwân-et-Tahkîk-el-Ma’mûr ar., III, 322, 323.

Dogana, III, 887.

Dhohâ ar., II, 245.

Dohana de Secretis lat., III, 323.

Dra, v. Dsira’.

Dsimmi ar., 292; II, 56, 255, 258, 276, 285, 397.

Dsira’ o Dra’ ar., II, 178; III, 828.

Dsui-l-Mekena ar., II, 10.

E

Elepoli, gr., 396.

Emîr ar., 147, 296; II, 2, 5, 6, 7, 8, 235, 236, v. Ammiraglio.

Emîr-el-Mumenîn ar., 70; II, 457.

Emîr-el-Omrâ ar., II, 331, 521.

F

Fakih ar., 149; II, 10.

Fei ar., 121; II, 27, 28, 30, 41, 152, 257, 292, 293, 370.

Ferrâsc ar., III, 447.

Fesifisâ ar., III, 830.

Fondaco, III, 887.

Fosus, sing. Fass ar., III, 842.

G

Gabella, III, 887.

Gaito o Caito, III, 262, 883.

Ganghi di lu sennu sicil., III, 886.

Garbo (bel modo), III, 887.

Gasena sicil., III, 881.

Gebda ar., 153.

Gelsomino, III, 887.

Gemâ’ ar., 148, 262; II, 9, 10, 11, 12, 38, 208, 296, 426, 427, 547, 549; III, 111, 130.

Gerâid ar., III, 246.

Gesia, v. Gezîa.

Gezîa ar., II, 27, 86, 255, 276; III, 132, 330.

Ghosn ar., III, 740.

Giâmi’ ar., XX: II, 190, 201, 228, 274, 275, 277, 301; III, 131, 855.

Giandâr pers., III, 444, 446.

Giânib ar., III, 443, 446.

Giarra sicil., III, 865, 881.

Ginn ar., 45.

Giubba, III, 881, 891, 892.

Giukandâr pers., III, 447.

Giulebbe, III, 887.

Giund ar., 132; II, 17, 25, 26, 27, 29, 62, 63, 128, 131, 132, 188, 256, 258, 267, 361, 369, 370, 423, 424, 546; III, 528.

H

Haggiâm o Haggêm ar., III, 330, 881.

Hâgib ar., III, 444, 446.

Hâkim ar., II, 7, 8, 208.

Hârat ar., II, 296.

Harbia ar., III, 369.

Harrâka ar., 302, 304; III, 776.

I

Idsân ar., II, 131.

Ienchi sicil., III, 877.

Iklîm ar., II, 274, 275, 277; III, 309.

Iktâ’ ar., 132; II, 28, 29, 276.

’Ilg, plur. ’Olûg ar., II. 269; III, 361.

Imâm ar., 149, 151; II, 117, 121.

Imâm mestûr ar., II, 116.

’Irâb ar., II, 475.

Islam ar., II, 58, 97, 111, 117, 119, 220, 2