Title: Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I
Author: Pasquale Villari
Release date: March 30, 2020 [eBook #61704]
Most recently updated: October 17, 2024
Language: Italian
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PASQUALE VILLARI
NICCOLÒ MACHIAVELLI
E
I SUOI TEMPI
ILLUSTRATI
CON NUOVI DOCUMENTI
3ª Edizione riveduta e corretta dall'Autore
Volume I
ULRICO HOEPLI
EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA
MILANO
—
1912
PROPRIETÀ LETTERARIA
169-911. — Firenze, Tipografia di S. Landi, Via Santa Caterina, 14
[vii]
A
LINDA VILLARI
A te, che mi sei compagna diletta negli studî, nelle gioie e nei dolori della vita, dedico questo libro con un affetto che invano cercherei parole a descrivere.
P. Villari.
[ix]
Nel dare alle stampe la terza edizione di questa mia opera, debbo solo dire al lettore, che ho cercato di tener conto delle pubblicazioni fatte, in questi ultimi anni, intorno al Machiavelli.
Firenze, ottobre 1911.
[xi]
Nel presentare al lettore una nuova edizione di questo libro, non ho bisogno di aggiungere molte parole. Mi basta dir solamente, che l'ho riveduto con quella maggiore diligenza che ho saputo, correggendo gli errori di cui mi sono avvisto, tenendo conto di tutte le osservazioni che mi furono fatte dai critici, e dei nuovi scritti che vennero alla luce sul Machiavelli. Sento però il dovere di ringraziar sinceramente i miei amici professor Cesare Paoli e cav. Alessandro Gherardi. Il primo di essi mi ha aiutato rileggendo tutte le bozze di stampa, il secondo, facendo per me nell'Archivio fiorentino i moltissimi riscontri di cui l'ho continuamente pregato.
Firenze, 1895.
[xiii]
Si è scritto e si scrive tanto sul Machiavelli, che nel pubblicare una nuova biografia di lui, mi par necessaria qualche spiegazione.
Per lungo tempo sembrava che egli fosse una sfinge, di cui niuno poteva comprendere l'enigma. Chi lo dipingeva come un mostro di perfidia, e chi lo diceva animato dal più puro e nobile patriottismo. Secondo alcuni, i suoi scritti davano iniqui consigli, per rendere sicura la tirannide; secondo altri, il Principe era una satira sanguinosa dei despoti, fatta per affilare i pugnali contro di essi, ed istigare i popoli a ribellione. A coloro che esaltavano il merito letterario e scientifico delle sue opere, rispondevano altri affermando che erano un ammasso di dottrine erronee e pericolose, capaci solo di corrompere e di mandare a rovina qualunque società stolta abbastanza per accettarle. E così il nome stesso del Machiavelli divenne nel linguaggio popolare un'ingiuria.
Non poche di queste esagerazioni, è vero, sono coll'andare del tempo, e per opera di critici autorevoli [xiv] scomparse; ma s'ingannerebbe di certo chi credesse, che almeno sui punti di capitale importanza vi sia oggi un giudizio universalmente accettato. Molti ricorderanno le grida d'indignazione che alcuni sollevarono, specialmente in Francia, contro il Governo Provvisorio della Toscana, quando sin dai primi giorni della rivoluzione del 1859, esso decretava una nuova edizione di tutte le opere del Segretario fiorentino. Alle ingiurie che allora furono scagliate contro gl'italiani in generale, e contro il Machiavelli in particolare, risposero altri esaltandone il genio politico e l'animo incorrotto. È scorso appena qualche anno dacchè vide la luce una nuova Storia della Repubblica di Firenze, scritta da uno degli uomini più amati e venerati in Italia. In essa troviamo un paragone molto eloquente, pieno di acute e giuste osservazioni, fra il Guicciardini ed il Machiavelli, nel quale, dopo aver manifestato una preferenza decisa pel primo dei due scrittori, si afferma che il Machiavelli ebbe malvagio l'ingegno, l'anima corrotta dalla disperazione del bene.[1] Questo giudizio non è certo improvvisato; è anzi il resultato di molti studî e di lungo meditare, ed è dato da uno storico fra noi autorevolissimo. I due eruditi toscani, che incominciarono nel 1873 la più recente edizione delle opere del Machiavelli, alludono più volte all'intima e cordiale amicizia che, [xv] secondo essi, egli avrebbe avuta col Valentino, di cui lo fanno consigliere, anche quando questi insanguinava le sue mani nei più atroci delitti; e pubblicano qualche documento inedito a conferma della loro asserzione. Da un altro lato i più recenti biografi, sebbene non vadano sempre fra di loro d'accordo, pure esaltano di nuovo il patriottismo non meno che l'ingegno del Machiavelli, e qualcuno, dopo accurate indagini sulle opere di lui e su documenti inediti, ne loda la generosità, la nobiltà e squisita delicatezza d'animo, tanto da farne un modello impareggiabile di virtù pubbliche e private. Tutto questo prova, mi sembra, che siamo assai lontani da un giudizio, da un'opinione concorde, e che però nuove ricerche e nuovi studî non sono del tutto superflui.
Le cagioni di un così grande e continuo dissenso furono varie. I tempi in cui il Machiavelli visse, sono per lo storico pieni di difficoltà e contradizioni, che in lui si personificano e moltiplicano in modo da farlo qualche volta sembrare addirittura un mistero inesplicabile. Vedere un uomo che in alcune pagine esalta la libertà e la virtù con eloquenza inarrivabile; in altre insegna come ingannare e tradire, come opprimere i popoli e render sicuri i tiranni, deve far nascere certamente molti dubbî. Vederlo quindici anni servire fedelmente la Repubblica, sostenere poi miseria e persecuzioni pel suo amore alla libertà, e vederlo più tardi ancora raccomandarsi per essere adoperato a servire i Medici, [xvi] fosse pure a voltolare un sasso, non può certo dissipare questi dubbî. Pure le contradizioni nella storia e nell'umana natura sono molte, e nel caso presente si sarebbero assai più facilmente spiegate, se la maggior parte degli scrittori non avessero in ogni modo voluto essere accusatori o difensori del Machiavelli, facendosi giudici non sempre imparziali della moralità e del patriottismo di lui, piuttosto che veri biografi. A molti sembrava, specialmente in Italia, che bastasse aver provato che egli amò la libertà, l'unità e l'indipendenza della patria, per essere indulgenti su tutto il resto, esaltarne le dottrine ed il carattere morale, anche prima d'averli con diligenza e con critica esaminati, quasi che il patriottismo fosse una prova sicura del genio politico e letterario, nè venisse mai accompagnato da vizî e da colpe nella vita privata. Questo doveva inevitabilmente promuovere opinioni contrarie, cui dettero facile alimento le contradizioni più sopra notate. Così fu che, a poco a poco, tutta la questione parve ridotta a sapere se il Principe e i Discorsi erano stati scritti da un uomo onesto o disonesto, da un repubblicano o da un cortigiano, quando invece si doveva cercar di sapere che valore scientifico avevano le teorie in essi sostenute: erano vere o erano false, contenevano o no verità nuove, facevano o no avanzare la scienza? Nessuno vorrà negare che se le dottrine fossero false, le virtù dello scrittore non le muterebbero in vere; come, se fossero vere, non potrebbero i suoi vizî renderle false.
[xvii]
Certo non mancarono scrittori autorevoli, i quali intrapresero un esame imparziale e razionale delle opere del Machiavelli; ma essi ci dettero quasi sempre opuscoli storici o dissertazioni critiche, non vere e proprie biografie. Occupati nell'esame filosofico delle dottrine, si fermarono troppo poco ad esaminare i tempi ed il carattere dell'autore, o ne parlarono solo, come se ogni disputa si potesse comporre dicendo, che il Machiavelli ebbe la sua indole dal secolo in cui visse, e che fedelmente ritrasse nei proprî scritti. Ma in un secolo v'è luogo per molti uomini, molte idee, vizî e virtù diverse; nè possono i tempi per sè soli spiegare tutto ciò che è opera, creazione personale del genio. Lo studio di essi è tuttavia sempre necessario a chi vuol conoscere e giudicare le dottrine di un pensatore, massime quando si tratta d'un uomo come il Machiavelli, che tanto ricevette dalla società in cui nacque, e tanta parte di sè pose ne' suoi libri. Ma io non voglio qui prendere in esame i biografi ed i critici, dei quali dovrò parlare altrove, assai spesso citandoli e valendomi delle loro opere. Il mio scopo è ora solamente di dichiarare che non intendo essere nè l'apologista, nè l'accusatore del Segretario fiorentino. Mi accinsi a studiarne la vita, i tempi e gli scritti, per tentare di conoscerlo e descriverlo quale fu veramente, con tutti i suoi meriti e demeriti, i suoi vizî e le sue virtù.
Questo, è vero, può sembrare una strana presunzione, dopo i tentativi fatti da uomini assai più [xviii] autorevoli di me. Se non che i materiali storici di recente pubblicati, e quelli che solamente ora son divenuti accessibili a tutti, rendono oggi molto più agevole il risolvere parecchi di quei dubbî che prima sembravano presentare difficoltà insormontabili. È certo che pubblicazioni come, ad esempio, i dieci volumi delle Opere inedite del Guicciardini, i carteggi diplomatici di quasi ogni provincia italiana, un numero infinito d'altri documenti, per non parlare dei tanti scritti originali d'Italiani e stranieri, hanno dissipato molte oscurità e contradizioni nella storia letteraria e politica del Rinascimento italiano. Anche i rapidi progressi fatti ai nostri giorni dalle scienze sociali, debbono rendere assai più agevole determinare il valore intrinseco ed il carattere storico di quello che molti chiamarono il Machiavellismo. E quanto alla persona stessa del Segretario fiorentino, non poca luce posson dare le carte che, dopo la sua morte, andarono alla famiglia Ricci, poi alla Biblioteca Palatina di Firenze, dove per molto tempo vennero assai gelosamente custodite, ed oggi sono nella Nazionale visibili a tutti, in parte anzi già pubblicate. I signori Passerini e Milanesi, nei cinque volumi[2] finora usciti alla luce della nuova edizione delle Opere, da essi cominciata in Firenze, sono andati stampando dagli archivî e dalle biblioteche fiorentine molti utili documenti. Restava nondimeno ancora inesplorata una mole non piccola di [xix] carte preziosissime. Posso, ad esempio, affermare che ascendono a parecchie migliaia le lettere d'ufficio scritte di propria mano del Machiavelli, tuttavia inedite, e, per quanto io sappia, da nessun biografo esaminate. In tali condizioni adunque non mi parve addirittura presuntuoso l'accingersi a ritentare la prova.
Se tutte le biografie dovessero aver sempre la medesima forma, io di certo potrei meritar severo biasimo, per essermi, in alcune parti di quest'opera, fermato assai lungamente a parlar dei tempi. Ma ho creduto di dover preferire quella forma che meglio s'adattava alla natura del soggetto. Si conosce così poco del Machiavelli in tutti gli anni nei quali egli compiva i suoi studî giovanili, e s'andava formando la sua propria indole, che io ho cercato di colmare, in qualche parte almeno, la grave lacuna con un minuto esame della società e dei tempi in cui egli visse. Mi sono quindi sforzato di esaminare come nel secolo XV andasse sorgendo lo spirito del Machiavellismo, prima che egli comparisse sulla scena a dargli l'impronta originale del suo genio, a formularlo scientificamente. E dopo di avere, se così posso esprimermi, studiato il Machiavelli prima del Machiavelli, mi sono finalmente avvicinato a lui, quando egli comincia personalmente a divenir visibile nella storia, ed ho cercato di studiarne, di conoscerne le passioni, i pensieri, per quanto ho saputo e potuto, nei suoi proprî scritti, in quelli degli amici più intimi e degli altri contemporanei. Non ho mai tralasciato d'esaminare gli scrittori moderni, ma ho preferito sempre fondarmi [xx] sull'autorità di coloro che più erano vicini ai fatti che dovevo narrare.
Ma anche ciò ha contribuito non poco a dare una forma del tutto speciale a questa biografia. Uno dei documenti più importanti a conoscere la vita del Machiavelli sono di certo le Legazioni, trovandosi in esse non solamente la storia fedele delle sue ambascerìe, ma anche i primi germi delle sue dottrine politiche. Nondimeno, sebbene tutto ciò fosse stato già da altri, specialmente dal Gervinus, più volte avvertito, pure continuarono sempre ad esser poco lette, perchè in esse l'autore è necessariamente costretto a ripetere assai spesso le medesime cose, fermandosi di continuo sopra minuti particolari, e perchè a farle universalmente intendere e gustare occorrerebbe un comentario perpetuo sugli avvenimenti di cui ragionano o a cui alludono. Io quindi, affinchè il lettore potesse assistere da sè, e quasi vedere coi proprî occhi come nacquero e come s'andarono formando le idee del nostro autore, ho dovuto riportare letteralmente od in sunto molti de' suoi dispacci,[3] assai più che non avrei voluto e che non giovi alla rapidità della narrazione, ma non più di quello che mi parve necessario alla piena conoscenza del soggetto.
[xxi]
Complemento opportunissimo alle Legazioni sono le lettere d'ufficio, che il Machiavelli scrisse nella Cancelleria. Se le prime ci fanno conoscere la sua vita politica fuori, le seconde ce la fanno conoscere dentro la Repubblica. Moltissime di certo non hanno valore alcuno, essendo semplici ordini dati ad uno o un altro Commissario, ripetendo fino alla sazietà in fretta e furia le medesime cose. In altre però rifulgono di tanto in tanto lo stile, il pensiero, l'originalità del grande scrittore. La massima parte di esse restando, come abbiamo già detto, ancora inedite, era pur necessario percorrerle ed esaminarle. E però m'accinsi al lungo e spesso ingrato lavoro, copiandone o facendone copiare qualche migliaio, molte citandone nelle note, di altre riportando notevoli brani; solo alcune poche dètti integralmente nell'Appendice, affinchè si potesse avere una chiara idea di ciò che veramente sono. Ed anche questo fece procedere più lenta la narrazione. Ma, per quanto io vi riflettessi e stessi in guardia contro me stesso, non vi potei trovare rimedio alcuno. Passare sotto silenzio quello che per tanti anni era stato il lavoro principale del Machiavelli, non mi sembrava possibile; nè potevo parlare d'una sì vasta mole di lettere inedite senza spesso citarle e darne qualche saggio, tanto più non essendo sperabile che qualcuno mai s'accingesse a pubblicarle tutte. Non starò qui ad enumerare i molti altri documenti che cercai e che lessi: si vedrà facilmente dalle note. Ricorderò nondimeno che, durante queste indagini, potei dare alla [xxii] luce i tre volumi di Dispacci d'Antonio Giustinian,[4] i quali raccolsi e studiai, non solamente perchè recavano nuova luce sui tempi di cui m'occupavo, ma ancora perchè mi davano modo di porre accanto al Segretario ed Oratore fiorentino uno dei principali ambasciatori della repubblica veneta, e così paragonarli fra loro.
Quando nel 1512, dopo la battaglia di Ravenna, i Medici tornarono a Firenze, la libertà fu spenta, ed il Machiavelli, uscito d'ufficio, ricadde nell'oscurità della vita privata. La sua biografia allora muta aspetto, dovendosi ridurre quasi esclusivamente all'esame delle opere che scrisse, ed al racconto degli avvenimenti in mezzo ai quali le compose. Ma tutto ciò formerà il soggetto del secondo volume, il quale, mi duole di doverlo dire, si farà aspettare più lungamente che non vorrei, essendo ancora lontano dal suo compimento.[5] Avrei certo preferito di ritardare la stampa fino a quando avessi potuto dare alla luce tutta l'opera. Ma nei lunghi anni nei quali andavo continuando i miei studî, vidi pubblicar di continuo non solamente nuove dissertazioni e biografie del Machiavelli, ma anche documenti spesso da me già trovati e copiati, ed altri lavori già s'annunziano ora; sicchè, arrivato alla fine di questo primo volume, deliberai di darlo alla luce, senza più aspettare. [xxiii] È questa del resto un'usanza divenuta ormai così generale, che spero di non dover esser biasimato, se anch'io me ne giovo.
Debbo qui avvertire che per gli scritti del Machiavelli, mi sono valso dell'edizione che porta la data d'Italia 1813, una delle migliori fra quelle finora compiute. Ho però tenuto sempre a riscontro l'altra più recente, incominciata in Firenze l'anno 1873, ma ancora lontana dal suo compimento, e che ora ha perduto nel conte Passerini il principale suo collaboratore. In questa si cercò di riprodurre più fedelmente l'antica ortografia del Machiavelli, il che fu certo lodevole pensiero. Ma nel riportare, come spesso dovetti fare, brani de' suoi scritti, io ho creduto che certe forme puramente convenzionali e notissime si potessero, senza danno, purchè con molta cautela e parsimonia, tralasciare in un libro moderno, anche per non mutare troppo spesso e troppo rapidamente la forma materiale dello scrivere. Nell'Appendice mi sono invece attenuto sempre scrupolosamente all'antica ortografia. Il lettore vedrà che ho dovuto più volte dissentire dai due eruditi, i quali curarono la nuova edizione, massime per la importanza e pel significato che vollero attribuire ad alcuni dei documenti da essi pubblicati. Ma di ciò altrove; qui non intendo menomamente porre in dubbio il merito che ebbero per la molta diligenza usata nel darli alla luce, tanto più che, in ogni modo, sono documenti utilissimi al biografo, ed io stesso me ne giovai di frequente.
[xxiv]
V'è però una notizia errata, che essi dettero, e della quale debbo qui necessariamente parlare. Nella Prefazione al terzo volume, venuto alla luce nel 1875, dopo aver deplorato la perdita di molte lettere del Machiavelli, i nuovi editori aggiungevano: «È noto infatti che andarono fuori d'Italia e per sempre i molti volumi delle sue lettere familiari, che erano nelle case dei Vettori, venduti per fraudolento inganno d'un prete a lord Guildford, e poi passati nelle mani di un signor Phillipps inglese, il quale tenne, finchè visse, con grandissima gelosia quelle ed altre rare cose che possedeva, tantochè si rifiutò di farle esaminare, non che copiare, anche per la nuova edizione delle Opere del Machiavelli, decretata nel 1859 dal Governo Toscano, il quale per il marchese di Laiatico suo ambasciatore straordinario a Londra, ne lo aveva fatto richiedere. Nè ora che egli, morendo, ha per testamento lasciato quelle ed altre sue cose al Museo Britannico, possiamo profittarne, perchè sono saltati fuori i suoi creditori, ed impediscono che quel lascito abbia il suo effetto.» — Scrivere una biografia del Machiavelli, senza prima cercare in ogni modo di vedere i molti volumi di lettere familiari, delle quali con tanta certezza s'affermava l'esistenza, non era possibile. Fatte dunque alcune indagini, trovai che realmente erano da Firenze venuti nelle mani di lord Guildford tre volumi di lettere manoscritte, date nel suo Catalogo a stampa per lettere inedite del Machiavelli, e dichiarate anche un tesoro letterario d'inestimabile valore. [xxv] Le aveva comprate poi il gran collettore inglese di manoscritti d'ogni genere, sir Thomas Phillipps, che le lasciò, con tutta la sua ricchissima biblioteca,[6] alla propria figlia, la quale, maritata al reverendo signor E. Fenwick, trovasi ora in Cheltenham, dove io andai, e così finalmente ebbi nelle mani i tre preziosi volumi. Il lettore capirà certo la mia maraviglia, quando gli dirò che nell'aprirli dovetti quasi istantaneamente accorgermi, che una sola di quelle lettere, sebbene neppur essa autografa, poteva ritenersi del Machiavelli; tutte le altre certamente non eran di lui.
Questi tre volumi di antica scrittura, segnati nel Catalogo Phillipps col numero 8238, hanno per titolo: Carteggio originale di Niccolò Machiavelli, al tempo che fu segretario della Repubblica fiorentina. Inedito. La prima lettera, senza nessuna importanza, è del 20 ottobre 1508, scritta in nome dei Dieci, ed a piè di pagina vi si trova il nome Nic.s Maclavello, messovi, secondo il solito, dal coadiutore che copiava nei registri della Cancelleria. È la sola di cui si possa credere che la minuta sia stata scritta dal Machiavelli, senza però neppure averne l'assoluta certezza. Tutte le altre, a cominciare dalla seconda del primo volume, vanno dal 1513, quando già il Machiavelli era uscito d'ufficio, e i Medici erano tornati a Firenze, sino [xxvi] al 1526, quando di certo egli non era stato ancora richiamato agli affari. Esse sono tutte indirizzate a Francesco Vettori, che in quegli anni fu ambasciatore a Roma ed altrove; sono scritte sempre in nome degli Otto di Pratica, che successero ai Dieci di Libertà nel 1512, quando il Machiavelli venne destituito. A piedi di molte pagine del registro si leggono le iniziali N. M. Qualche volta invece vi si legge, più o meno abbreviato, in modo però da non lasciare nessun dubbio, il nome di Niccolò Michelozzi, che allora appunto era il Cancelliere degli Otto di Pratica. La prima lettera adunque, cavata da un più antico registro della Repubblica, fu messa in fronte a questi volumi, per ingannare il troppo credulo compratore, il quale perciò le credette tutte di Niccolò Machiavelli, sebbene, anche senza conoscerne la scrittura, avrebbe assai facilmente, guardando solo alle date, potuto capire che non erano di lui. E così, dopo aver fatto invano il lungo viaggio, esaminato che ebbi il Catalogo della ricca biblioteca, preso qualche appunto da altri manoscritti italiani, dovetti tornarmene a Firenze con la certezza che il supposto epistolario del Machiavelli era un sogno.
Ed ora non mi resta che un'ultima parola. Assai spesso chi scrive un libro ha, nello scegliere il soggetto, un segreto pensiero che lo muove. Io sono stato mosso principalmente dal pensiero, che il Rinascimento italiano, di cui il Machiavelli fu certo uno dei più illustri rappresentanti, è il tempo in cui il nostro spirito nazionale ebbe la sua ultima manifestazione, [xxvii] la sua ultima forma veramente originali. Seguì poi un lungo sonno, da cui appena ci siamo svegliati. Lo studio d'un tale periodo storico può quindi, se non m'inganno, riuscire a noi doppiamente utile, facendoci non solo conoscere una parte assai splendida della nostra antica cultura, ma dandoci ancora più d'una spiegazione così dei vizî, contro i quali combattiamo oggi, come delle virtù che ci aiutarono a risorgere. E la lezione potrà essere ancora più utile, se lo storico non dimenticherà, che il suo ufficio non è di bandire precetti di politica o di morale, ma solo di sforzarsi a far rivivere il passato, dal quale è venuto il presente, che da esso riceve lume ed ammaestramento continuo anche per l'avvenire. Un tale pensiero in ogni modo è quello che più volte m'infuse lena e mi diè coraggio, mantenendo in me sempre viva la fede che, pure restando lontano dal mondo e chiuso fra i libri, io non dimenticavo il debito che tutti noi, ciascuno secondo le sue forze, oggi più che mai, abbiamo verso la patria.
Firenze, 1877.
[1]
È difficile trovare nella storia dell'Europa moderna un periodo che abbia l'importanza di quello cui suol darsi, nella storia italiana, il nome di Rinascimento. Posto fra il cadere del Medio Evo ed il costituirsi delle società moderne, può dirsi che già cominci con Dante Alighieri, il quale nelle sue opere immortali ci lasciò la sintesi d'una età che muore, e ci annunziò il sorgere d'un'èra novella. Questa, che è appunto il Rinascimento, s'iniziò davvero con Francesco Petrarca e con gli eruditi, finì con Martino Lutero e la Riforma, la quale alterò profondamente la storia anche dei popoli che restarono cattolici, e portò di là dalle Alpi il centro di gravità della cultura europea. Durante il periodo di cui ragioniamo, vedesi in Italia una rapida trasformazione sociale, una grandissima operosità intellettuale. Da per tutto tradizioni, forme, istituzioni antiche, che crollano dinanzi alle nuove che sorgono. La scolastica cede il luogo alla filosofia, il principio d'autorità cade innanzi alla libera ragione ed al libero esame, che s'avanzano. Comincia lo studio delle scienze naturali: con Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci si danno i primi passi alla ricerca del metodo sperimentale; progrediscono il commercio e l'industria; si moltiplicano i viaggi, e Cristoforo [2] Colombo scopre l'America. La stampa, trovata in Germania, diviene subito un'industria italiana. L'erudizione classica si diffonde per tutto, e l'uso della lingua latina, che sembra, per qualche tempo, tornata la lingua universale dei popoli civili, pone l'Italia in stretta relazione con l'Europa, che l'accetta a guida e maestra del sapere. Si creano la scienza politica e l'arte della guerra; la cronaca cede il luogo alla storia civile del Guicciardini e del Machiavelli; la cultura antica rinasce, ed il poema cavalleresco sorge in mezzo ad altre ed altre nuove forme di componimenti letterarî. Il Brunelleschi crea un'architettura nuova, Donatello fa risorgere la scultura, Masaccio ed una miriade di pittori toscani ed umbri apparecchiano, collo studio della natura, la via a Raffaello ed a Michelangelo. Il mondo sembra rinnovarsi e ringiovanirsi, illuminato dal sole della cultura italiana.
Ma in mezzo a così grande splendore si osservano strane ed inesplicabili contradizioni. Questo popolo tanto ricco, industrioso, intelligente, innanzi a cui l'Europa resta come estatica d'ammirazione, va corrompendosi rapidamente. La libertà scomparisce e sorgono tiranni per tutto; i vincoli della famiglia sembrano indebolirsi, e il focolare domestico profanarsi: nessuno si fida più della fede italiana. La nazione diviene politicamente e moralmente così debole, che non può resistere ad alcun urto di potenza straniera; il primo esercito che passa le Alpi, percorre la Penisola senza quasi colpo ferire, e seguono altri, che vengono con uguale facilità a lacerarla e calpestarla. Usi a sentire ogni giorno ripetere, che l'istruzione e la cultura costituiscono la grandezza e misurano la forza dei popoli, siamo naturalmente indotti a domandarci: come dunque l'Italia, in mezzo a tanto splendore di lettere e di arti, s'indebolisce, si corrompe e decade? È facile il dire: colpa degl'italiani, che, invece d'unirsi a difesa comune, si lacerano fra loro. Ma perchè sono essi a un tratto divenuti così colpevoli? L'Italia del [3] Medio Evo non era stata più divisa e più forte ad un tempo, le vendette e le guerre civili non erano state più cieche e più sanguinose? Nè vale il dire che essa s'era esaurita nelle lotte e nella grandezza raggiunta nel Medio Evo. Può dirsi veramente esaurita una nazione nel momento in cui, con la sua intelligenza ed operosità, trasforma la faccia del mondo? Invece d'affaticarsi a formulare giudizî e sentenze generali, val meglio fermarsi ad osservare e descrivere i fatti. Ed il fatto principale nel secolo XV è questo: che le istituzioni medievali avevano in Italia prodotto una società nuova ed un progresso civile tale, che esse si trovarono a un tratto divenute insufficienti o anche dannose. Una radicale trasformazione e rivoluzione era quindi inevitabile. Or fu nel momento appunto, in cui questo generale sconvolgimento sociale seguiva nella Penisola, che gli stranieri le piombarono addosso, e le resero impossibile l'andare innanzi.
Il Medio Evo non conosceva quell'organismo politico che noi chiamiamo Stato, che riunisce e coordina con norme precise le forze sociali. La società era invece divisa in feudi e sotto-feudi, in Comuni grossi e piccoli, ed il Comune non era altro che un fascio di associazioni minori, malamente legate insieme. Al di sopra di sì vasta ed incomposta mole stavano il Papato e l'Impero, che sebbene, essendo spesso in guerra fra loro, crescessero il generale scompiglio, pur costituivano allora la informe unità del mondo civile. Tutto ciò era mutato affatto nel secolo XV. Da un lato le grandi nazioni cominciavano a formarsi, da un altro l'autorità dell'Impero, circoscritta in Germania, era in Italia poco più che una memoria del passato; ed i papi, occupati a costituire un vero e proprio principato temporale, restando pur capi della Chiesa universale, non potevano più pretendere al dominio politico del mondo, e cercavano perciò divenire sovrani come gli altri. In questo stato di cose il Comune, che aveva costituito la passata grandezza d'Italia, si [4] trovò in una condizione sostanzialmente nuova, che fu troppo poco esaminata dagli storici.
Esso aveva ora ottenuto la tanto sospirata indipendenza, e non doveva contare che sulle proprie forze; nelle sue guerre coi vicini non v'era più da sperare o temere che s'interponesse un'autorità superiore. Era quindi necessario estendere il proprio territorio, e rendersi più forte, specialmente se, volgendo intorno lo sguardo, si osservava che in tutta Europa s'andavano formando i grandi Stati e le monarchie militari. Ma la costituzione politica del Comune era tale, che ogni estensione del suo territorio faceva sorgere pericoli nuovi e così gravi che ne mettevano a repentaglio l'esistenza. Poteva dirsi giunta per esso un'ora funesta, nella quale ciò che più gli era necessario, più lo minacciava. Il Comune medievale non conosceva il governo rappresentativo, ma solo il governo diretto de' suoi liberi cittadini, i quali era perciò necessario ridurre ad un numero assai ristretto, se non si voleva cadere nell'anarchia. Il diritto di cittadinanza era quindi un privilegio concesso solo ad alcuni di coloro che abitavano dentro la cerchia delle mura. Firenze, che era la repubblica più democratica dell'Italia, e che nel 1494 ebbe la sua più libera costituzione, contava allora circa 90,000 abitanti, di cui solo 3200 erano veri e proprî cittadini.[7] Neppure i Ciompi, nel loro incomposto tumulto, avevano preteso di dare la cittadinanza a tutti. E quanto al contado, pareva già molto l'avere abolito la servitù; a nessuno sarebbe mai venuto in mente di chiamarlo a parte del governo.
Questo stato di cose trovava la sua sanzione non solo negli statuti, nelle leggi e nelle consuetudini esistenti, ma nelle convinzioni radicate e profonde degli uomini più illustri. Dante Alighieri, che aveva preso non piccola [5] parte alla legge tanto democratica degli Ordinamenti di Giustizia, al tempo di Giano della Bella, rimpiange nel suo poema i tempi nei quali il territorio del Comune si stendeva solo fino a pochi passi oltre le mura, e gli abitanti delle vicine terre di Campi, Figline e Signa non s'erano venuti a mescolare con quelli di Firenze; perchè
Sempre la confusion delle persone
Principio fu del mal della Cittade.[8]
Ed il Petrarca, che sognava anch'egli l'antico Impero, ed era tanto entusiasta di Cola di Rienzo, raccomandava che, nel riordinare la repubblica romana, se ne affidasse il governo ai soli cittadini, escludendone come stranieri gli abitanti del Lazio, ed anche gli Orsini ed i Colonna, perchè, sebbene romani, discendevano, secondo lui, da stranieri.[9]
Quando adunque il Comune ingrandiva il suo territorio, sottomettendo un altro Comune, questo, anche se governato con mitezza, si trovava d'un tratto escluso da ogni vita politica, ed i suoi principali cittadini se ne andavano esuli e raminghi per il mondo. Vedere un Pisano, un Pistoiese nei Consigli della repubblica fiorentina, sarebbe stato allora come il vedere oggi un cittadino di Parigi o Berlino sedere fra i deputati del Parlamento italiano. Si preferiva quindi cadere sotto una monarchia, perchè in essa almeno tutti i sudditi erano nelle medesime condizioni, ed agli ufficî pubblici poteva ogni abitante, di qualunque provincia, partecipare. Il Guicciardini infatti osservava al Machiavelli, quando questi immaginava una grande repubblica italiana, che ciò sarebbe stato tutto a vantaggio d'una sola città, ed a rovina delle altre; perchè la repubblica non concede il benefizio della sua libertà [6] «a altri che a' suoi cittadini proprî;» la monarchia invece «è più comune a tutti.»[10] E non v'era spavento che potesse uguagliare quello provato dalle repubbliche italiane, quando Venezia, che pur governava i sudditi suoi con maggiore libertà, volgendosi alla terraferma, sembrò aspirare al dominio della Penisola. Avrebbero preferito non solo la monarchia, ma ancora lo straniero, che poteva lasciar qualche locale indipendenza, cosa allora non sperabile in Italia da una repubblica. Cosimo dei Medici, quando aiutò Francesco Sforza a divenir signore di Milano, salvò, secondo il Guicciardini, la libertà di tutta Italia, che sarebbe altrimenti caduta sotto Venezia.[11] E Niccolò Machiavelli, che pur sospirava così spesso la repubblica, in tutte le sue lettere d'ufficio, in tutte le sue legazioni, parla sempre di Venezia come del maggior nemico che avesse la libertà d'Italia.
Fra queste condizioni e queste convinzioni, era impossibile sperare che il Comune potesse, formando una forte repubblica, riunire l'Italia. Si poteva sperare in una confederazione o in una monarchia; ma la prima supponeva già un governo centrale diverso da quello dei Comuni, nel quale la città non fosse più lo Stato, e aveva contro di sè i papi ed i re di Napoli. La monarchia, invece, trovava contro di sè, da un lato l'antico amore di libertà, che aveva reso gloriosa l'Italia, e da un altro i papi, che, messi nel centro della Penisola, troppo deboli per poterla riunire, abbastanza forti per impedire che altri la riunisse, di tanto in tanto chiamavano gli stranieri, i quali venivano a sovvertire ogni cosa. Per tutte queste ragioni il Comune, [7] che aveva formato l'antica forza e grandezza d'Italia, sopravvisse come a sè stesso, in presenza dei nuovi problemi sociali, che sorgevano ad ogni piè sospinto; fra i mille pericoli, che scaturivano come dal suo proprio seno.
Esso aveva proclamato la libertà e l'uguaglianza; era quindi naturale che il basso popolo, il quale trovavasi escluso dal governo, dopo avere coi ricchi mercanti combattuto e vinto il feudalismo, non potesse rimanere contento. Nè gli abitanti del contado, che pure erano colle armi chiamati a difendere la patria, tolleravano più di buon animo d'essere esclusi da ogni ufficio pubblico, da ogni diritto di cittadinanza. E quando il territorio si estendeva, e nuove città venivano conquistate, la moltitudine degli oppressi cresceva, e le passioni s'infiammavano, perchè la sproporzione fra il piccolo numero dei governanti e quello sempre maggiore dei governati aumentava, ed ogni equilibrio riusciva affatto impossibile. Un abile tiranno, che fosse sorto allora, avrebbe trovato in suo appoggio la moltitudine infinita degli scontenti, ai quali sarebbe apparso come un liberatore o almeno come un vendicatore.
Se poi dalle condizioni politiche volgiamo lo sguardo alle sociali, osserveremo una trasformazione non meno grave, nè meno pericolosa. I Comuni del Medio Evo, chi li guarda da lontano, appariscono già come un piccolo Stato, nel senso moderno della parola; ma erano invece un agglomerato di mille associazioni diverse: Arti maggiori ed Arti minori, Società delle torri, Consorterie, Leghe, ordinate tutte come altrettante repubbliche, con le loro assemblee, statuti, tribunali, ambasciatori. Esse erano qualche volta più forti dello stesso governo centrale, di cui facevano le veci, quando, fra le continue rivoluzioni, questo si trovava come momentaneamente soppresso, il che di tanto in tanto avveniva. Si direbbe quasi che la forza del Comune fosse tutta nelle associazioni, che lo [8] dividevano e lo governavano. I cittadini erano ad esse così tenacemente legati, che spesso sembravano combattere a difesa della repubblica, solo perchè tutelava l'esistenza dell'associazione cui essi appartenevano, ed impediva che venisse oppressa dalle altre.
Il Medio Evo è stato perciò a giusta ragione chiamato un'età di consorterie e di caste. Il numero e la varietà grande di esse produssero una varietà infinita di caratteri e di passioni, ignota al mondo antico; ma l'indipendenza dell'uomo moderno non era anche nata, perchè l'individuo restava come assorbito nella casta, in cui e per cui viveva. Infatti, per lunghissimo tempo la storia italiana ci tace quasi del tutto i nomi dei politici, dei soldati, degli artisti e dei poeti, che fondarono e difesero i Comuni; crearono le istituzioni, le lettere, le arti. Sono Guelfi e Ghibellini, Arti maggiori e minori, poeti vaganti, maestri comacini, sempre associazioni o partiti, non mai individui. Le stesse grandi figure dei papi e degl'imperatori ricevono la loro importanza, meno dal proprio carattere personale, che dal sistema e dalla istituzione cui appartengono e che rappresentano.
Tutto ciò scomparisce rapidamente nel secolo XIV. La figura colossale di Dante si stacca dal fondo medievale, in mezzo a cui vive ancora, ed egli si vanta orgogliosamente d'essersi fatta parte per sè stesso. I nomi dei poeti, dei pittori, dei capi di parte si moltiplicano d'ora in ora, e i caratteri individuali si determinano, si disegnano nettamente, e si separano dalla folla. Noi assistiamo ad una generale trasformazione di tutta la società italiana, la quale, dopo avere distrutto il feudalismo e proclamata l'uguaglianza, si trova obbligata a decomporre le associazioni che l'avevano costituita. E ciò si vede assai più chiaro che altrove in Firenze, dove gli Ordinamenti di Giustizia (1293) abbattono i nobili e li cacciano dal governo; sopprimono alcune delle associazioni e rendono impossibili le consorterie; pongono per la prima volta [9] alla testa del Comune un gonfaloniere.[12] La necessità di cominciare a costituire l'unità dello Stato moderno scaturiva naturalmente dalla forma sempre più democratica che aveva preso il Comune; questo era anzi il grande problema che doveva risolvere l'Italia del secolo XV. Ma il periodo di passaggio e di trasformazione era pieno di mille pericoli, perchè le antiche istituzioni si decomponevano prima che le nuove sorgessero; l'individuo, abbandonato a sè stesso, si trovava dominato solo dall'interesse personale e dall'egoismo: la corruzione dei costumi diveniva inevitabile.
La moralità del Medio Evo era fondata principalmente sugli stretti vincoli della famiglia e della casta cui si apparteneva. Di questi vincoli le leggi e le consuetudini erano state in mille modi gelose custodi: mantenevano la eredità nelle famiglie; impedivano che i matrimonî la portassero fuori del Comune; rendevano difficilissimi quelli fra persone non solo di diverso Comune, ma di diverso partito o consorteria. Di qui una grande comunanza d'interessi, le affezioni tenaci e i forti sacrifizî nel seno della casta, le gelosie e spesso gli odî, le vendette contro i vicini. A poco a poco tutto questo scomparve per le riforme politiche, che spezzarono i vecchi legami, per la cresciuta uguaglianza, pel continuo prevalere del diritto romano imperiale, che rendeva la donna meno sottoposta alla tutela de' suoi. E nel medesimo modo in cui il Comune s'era a un tratto trovato abbandonato a sè stesso, per la cessata supremazia dell'Imperatore e del Papa, il cittadino, sciolto da ogni vincolo, si trovò isolato e costretto a fare assegnamento sulle sole sue forze. Esso quindi non poteva più sentire l'antico interesse nel destino [10] de' suoi vicini, che non s'occupavano più di lui; il suo avvenire, il suo stato nel mondo dipendeva unicamente dalle sue qualità individuali. Così si vide, in un medesimo tempo, l'egoismo impadronirsi rapidamente degli animi, e la personalità umana svolgersi sotto forme sempre più varie e nuove. Non solo si moltiplicano ora i nomi degl'individui, e ambiziosi capi di parte sorgono per tutto; ma le guerre intestine dei Comuni sembrano mutarsi in guerre personali; le città si dividono secondo i nomi dei più potenti e turbolenti; le famiglie stesse si scindono e si lacerano, perchè gli uomini non sanno sottostare più a nessun vincolo. I pregiudizi, le tradizioni, le virtù e i vizî del Medio Evo scompariscono affatto, per dar luogo ad un'altra società, ad altri uomini.
Chi osserva ora la doppia mutazione che han subita le nostre repubbliche, s'accorge come da un lato, secondo che esse ingrandivano il proprio territorio, divenivano internamente più deboli, e sentivano sempre maggiore bisogno d'un governo centrale più forte e più uguale verso tutti; e come da un altro lato, secondo che le consorterie si scioglievano, aumentava il numero degli ambiziosi e degli audaci, i quali non avevano altro scopo, che d'essere primi e soli a comandare. Queste ambizioni, manifestandosi nel tempo appunto in cui il Comune era portato naturalmente verso la forma monarchica, costituivano un pericolo gravissimo; e così, come v'era stato un giorno nel quale si videro in Italia sorgere per tutto i Comuni, era adesso giunta l'ora in cui si vedevano per tutto sorgere i tiranni.
Il tiranno italiano però, con molti vizi, aveva una propria originalità di carattere, una vera importanza storica. A lui non era necessario discendere di nobile o potente famiglia, e neppure essere primogenito della sua casa. Un mercante, un bastardo, un venturiero qualunque potevano comandare un esercito, fare una rivoluzione, divenire tiranni, se avevano l'audacia e l'arte necessarie [11] a riuscire. Le storie ci raccontano, a questo proposito, strane avventure, ed i novellieri italiani, che sì fedelmente descrivono i costumi del tempo, ridono spesso d'uomini da nulla, i quali si ponevano in mente di farsi tiranni, come quel calzolaio che, invece di fare scarpe, voleva, secondo narra il Sacchetti, «tor la terra a messer Ridolfo da Camerino.»[13]
Il secolo XV fu giustamente chiamato il secolo degli avventurieri e dei bastardi: Borso d'Este a Ferrara, Sigismondo Malatesta a Rimini, Francesco Sforza a Milano, Ferdinando d'Aragona a Napoli, molti e molti altri signori o principi erano bastardi. Nessuno di essi si sentiva più legato da alcuna convenzione o tradizione; tutto dipendeva dalle qualità personali di coloro che osavano tentare la fortuna, dagli amici e aderenti che sapevano guadagnarsi. Costretti ad impadronirsi del potere in mezzo a mille pericoli, contro mille emuli, si trovavano come in uno stato di guerra continua, nel quale tutto era permesso: nessuno scrupolo vietava la violenza, il tradimento ed il sangue. Il male, per questi tiranni, non aveva altri limiti se non quelli imposti dalla opportunità e dalla utilità personale; doveva essere un mezzo adatto a conseguire il fine desiderato. Di là da questi confini era non una colpa, ma una follìa indegna d'un uomo politico, perchè non portava alcun vantaggio. La loro coscienza non conosceva rimorsi, la loro ragione calcolava e misurava tutto. Ma una volta superate le difficoltà, e riusciti nell'intento, i pericoli non cessavano per questo. Bisognava lottare contro lo scontento fierissimo di coloro che, per lunga consuetudine, s'erano usati a non saper vivere senza partecipare al governo; contro le ire feroci di coloro che avevano anch'essi aspirato alla tirannide, ed erano stati prevenuti o vinti. Se colla forza si vinceva un tumulto popolare, i pugnali s'appuntavano [12] nelle tenebre da ogni lato. E le congiure erano allora più crudeli, perchè assumevano il carattere di vendette personali; s'ordivano fra gli amici, nella famiglia stessa: si vedevano i più stretti parenti, anche i fratelli, contendersi il trono col ferro o col veleno. Così il tiranno italiano poteva dirsi condannato a riconquistare ogni giorno il suo regno; e pur di ottenere questo fine, esso credeva giustificato ogni mezzo.
In sì misero stato di cose, non bastavano il coraggio personale, il valor militare e una coscienza senza rimorsi; bisognava avere anche una grande accortezza, una fine astuzia, una profonda conoscenza degli uomini e delle cose, sopra tutto un perfetto dominio delle proprie passioni. Bisognava studiare i fenomeni sociali come si studiano i fenomeni della natura, non avere alcuna illusione, fondarsi solo sulla realtà delle cose. Bisognava conoscere a fondo il proprio Stato e gli uomini in mezzo ai quali si viveva, per poterli dominare; trovare la nuova forma di governo; riordinare, in mezzo alle rovine del passato, l'amministrazione, la giustizia, la polizia, le opere pubbliche, ogni cosa. Il potere, in sostanza, si concentrò allora tutto nel tiranno, e l'unità del nuovo Stato nacque come una creazione personale di lui. E con lui nascevano la scienza e l'arte di governo; ma si cominciava ancora a diffondere quella opinione, che divenne poi un errore assai generale e funesto, che cioè le leggi e le istituzioni siano un trovato dell'uomo politico, non già un resultato naturale della storia, dello svolgimento sociale e civile dei popoli. Pel Medio Evo lo Stato e la storia erano un'opera della Provvidenza, in cui nulla potevano la ragione e la volontà dell'uomo; pel Rinascimento, invece, tutto era opera dell'uomo, che se non riusciva, doveva dolersi prima di se stesso, e poi della fortuna, a cui si dava allora grandissima parte nel destino delle cose umane.
In un paese diviso e suddiviso come l'Italia, queste vicende si moltiplicavano e ripetevano per tutto; ed è [13] facile immaginarsi quanto dovessero contribuire alla corruzione del paese, e in quanti modi diversi. Sorgevano i tiranni in mezzo alle repubbliche, ai papi, ai re di Napoli; e gelosi tutti gli uni degli altri, ricorrevano all'amicizia dei vicini o degli stranieri, cercando indebolire o dividere i nemici. Così le trame e gl'intrighi crescevano all'infinito; e nello stesso tempo si formava un intreccio singolare d'interessi politici, che moltiplicava le relazioni fra i diversi Stati; faceva sorgere in Italia la prima idea d'un equilibrio politico; dava alla nostra diplomazia un'attività, una intelligenza, un'accortezza meravigliose. Fu allora un tempo in cui ogni Italiano sembrava un diplomatico nato: il mercante, il letterato, il capitano di ventura sapevano presentarsi e discorrere ai re ed agl'imperatori con tutta la conoscenza delle forme convenzionali, con un acume ed una penetrazione che facevano restare ammirati. I dispacci dei nostri ambasciatori furono uno dei più grandi monumenti della storia e letteratura di quel tempo. Primeggiavano i Veneziani pel senno pratico e l'osservazione dei fatti, i Fiorentini per la eleganza del dire e l'acume con cui esaminavano, intendevano i caratteri; ma tutti gli altri erano emuli non indegni di quelli. L'arte del dire e dello scrivere divenne così una potenza formidabile, acquistò una importanza nuova fra gl'italiani.
Si videro allora dei soldati di ventura, che non si movevano per minacce, per preghiere o pietà, cedere ai versi di un erudito. Lorenzo dei Medici, andando a Napoli, persuadeva coi suoi ragionamenti Ferrante d'Aragona a smettere la guerra e fare alleanza con lui. Alfonso il Magnanimo, prigioniero di Filippo Maria Visconti, quando tutti lo credevano morto, fu invece liberato con onore, perchè, secondo il Machiavelli, aveva saputo persuadere a quel tiranno cupo e crudele, che gli tornava più conto avere gli Aragonesi che gli Angioini a Napoli, concludendo: Vuoi tu piuttosto soddisfare ad un tuo appetito [14] che assicurarti lo Stato?[14] Nella rivoluzione promossa a Prato da Bernardo Nardi, questi aveva, secondo lo stesso Machiavelli, già messo il capestro al Podestà fiorentino per impiccarlo, quando si lasciò dagli accorti ragionamenti di lui persuadere a desistere, e così nulla più gli potè riuscire.[15] Simili fatti possono essere qualche volta esagerati o anche inventati; ma il vederli tante volte ripetuti e creduti, prova quali erano le idee e l'indole di quegli uomini.
Non è perciò da meravigliarsi, se anche i tiranni studiavano e proteggevano con sì grande ardore le arti, le lettere, la cultura sotto ogni sua forma. Non era solo un sottile accorgimento di governo, un mezzo per deviare dalla politica l'attenzione del popolo; era una necessità della loro condizione, un bisogno vero e reale del loro spirito. Una nota diplomatica abilmente scritta, un discorso accorto solevano risolvere le più gravi questioni politiche. A chi il tiranno italiano doveva il proprio Stato, se non al suo ingegno? E come poteva essere indifferente alle arti che lo educano e lo accrescono? Le più felici ore di riposo dagli affari di Stato, le passava tra i libri, i letterati e gli artisti. Il museo e la biblioteca tenevano per lui il posto che presso molti signori feudali del settentrione, tenevano la scuderia e la cantina; tutto ciò che poteva coltivare o ingentilire lo spirito era un elemento necessario alla sua esistenza; nel suo palazzo si formavano il perfetto cortigiano, la raffinatezza dei modi del gentiluomo moderno.
V'era però un singolare contrasto negli uomini di quel tempo, un contrasto che ci sembra spesso un enimma inesplicabile. Noi possiamo perdonare al Medio Evo, [15] tanto diverso da noi, le sue selvagge passioni ed i suoi delitti, o almeno possiamo comprenderli; ma vedere degli uomini, che discorrono e pensano come noi; che sono rapiti con la più spontanea sincerità innanzi ad una Madonna del Beato Angelico o di Luca della Robbia, innanzi alle aeree curve dell'architettura dell'Alberti e del Brunelleschi; che si mostrano disgustati da ogni atto appena grossolano, da un gesto che non sia della più perfetta eleganza; e vederli abbandonarsi ai più atroci delitti, ai più osceni vizî; apparecchiare il veleno per cacciar dal mondo un rivale o un parente pericoloso, questo è quello che non comprendiamo. Era un periodo di transizione, in cui si direbbe che le passioni ed i caratteri di due età diverse si trovavano fra loro come innestati, per formare innanzi ai nostri sguardi una sfinge misteriosa, che ci maraviglia e quasi ci spaventa. Verso di essa noi siamo troppo severi, quando dimentichiamo che un secolo non può essere giudicato colle norme e i criterî di un altro.
Ovunque noi rivolgiamo lo sguardo, vediamo sotto forme diverse riprodursi i medesimi fatti. La milizia del secolo XV anch'essa non è più quella del Medio Evo, ma inizia la moderna, da cui pur tanto differisce. Al tempo dei Comuni, le guerre s'erano fatte con fanti leggermente armati: il mercante e l'artigiano ogni primavera indossavano la corazza, ed uscivano fuori delle mura a combattere i castelli baronali e le terre vicine, per poi tornare alle loro officine. Pochissima importanza aveva la cavalleria, formata il più dai nobili. Ma col tempo le cose mutarono affatto. Le guerre divennero assai più complicate, e la forza degli eserciti passò nella cavalleria pesante o, come dicevano allora, negli uomini d'arme. Ognuno di essi era seguito da due o tre cavalieri, che portavano la sua grave armatura, di cui egli ed il cavallo di battaglia si coprivano solo nel momento dell'azione, perchè era così pesante, che, se con essa cadevano [16] a terra, non si rialzavano più senza aiuto. E questa specie di torre corazzata spingeva innanzi una lunghissima lancia, colla quale atterrava il fantaccino prima che esso, coll'alabarda o la spada, potesse recare alcuna offesa. Uno squadrone di tale cavalleria bastava a sbaragliare un esercito di fanti, fino a che la invenzione della polvere e il perfezionamento delle armi da fuoco non vennero più tardi a trasformar di nuovo l'arte della guerra. I Fiorentini se ne avvidero a Montaperti (1260), quando pochi cavalieri tedeschi uniti agli esuli ghibellini, posero in rotta il più forte esercito di fanti che si fosse mai visto in Toscana. Ed a Campaldino (1289) i fanti, per abbattere gli uomini d'arme, dovettero avanzarsi sotto i loro cavalli e sventrarli. Questo nuovo modo di guerreggiare riuscì funesto alle nostre repubbliche. L'uomo d'arme doveva educarsi con un lungo tirocinio, un esercizio continuo; come potevano l'artigiano ed il mercante avere il tempo da ciò? Eserciti stanziali non v'erano allora, e l'aristocrazia, che sola poteva educarsi a vivere nelle armi, era stata nei Comuni italiani distrutta. Che fare adunque? Si ricorse agli stranieri, e cominciarono i soldati mercenarî.
Fuori d'Italia l'aristocrazia era sempre potentissima, e però gli uomini che vivevano nelle armi, abbondavano: erano appunto nobili seguìti dai loro vassalli. Ogni volta che gli Angioini ritentavano la loro eterna impresa di Napoli, o gli Spagnuoli facevano qualche nuova scorrerìa, restavano, dopo la guerra, soldati e drappelli sbandati, che, vaghi d'avventure, cercavano e trovavano servizio presso i signori o le repubbliche. I primi arrivati furono subito di richiamo agli altri, perchè le paghe erano grosse, e lo straniero trovava più facile preda e vittoria, per la mancanza fra noi d'uomini d'arme. E cominciarono a formarsi le compagnie di ventura, che mettevano a prezzo la propria spada al maggiore offerente. Esse divennero subito minacciose, insolenti, e dettarono leggi ad amici [17] ed a nemici. Ma gl'Italiani più tardi s'arrolarono alla spicciolata sotto queste bandiere, ed allettati da questo nuovo genere di vita, crebbero tanto di numero, e così bene riuscirono, che si provarono poi a costituire compagnie nazionali. Non mancava invero fra noi la materia per formare capitani e soldati. Che cosa dovevano fare tutti quei capi di parte, che erano stati vinti nei loro ambiziosi disegni da più ambiziosi o fortunati rivali? Essi correvano là dove trovavano rizzata una bandiera di ventura, e s'educavano alle armi, per comandare poi una squadra o una compagnia. I più piccoli tiranni, servendo sotto un capo di reputazione, o formando una compagnia, trovavano modo di difendere il proprio Stato e d'ingrandirlo. Quando una repubblica era vinta e sottomessa da un'altra, i cittadini che l'avevano governata e poi difesa invano, emigravano qualche volta in massa, per correre il mondo come soldati di ventura, e cercavano nell'armi quella libertà che avevano perduta in casa. Così fecero i Pisani, quando la loro repubblica cadde sotto i Fiorentini; così altri moltissimi. Il contado dava buon numero di soldati; ed alcune provincie, come la Romagna, le Marche e l'Umbria, dove il disordine era tale che gli uomini sembravano vivere di rapine, di vendette e di brigantaggio, furono addirittura un vivaio e mercato di capitani e soldati di ventura.
Queste compagnie non si possono dire una istituzione del Medio Evo, e neppure una istituzione moderna. Proprie d'un periodo di transizione, si compongono dei rottami di tutte le vecchie istituzioni, ora distrutte o cadenti, e sono una grande calamità; ma lo spirito del Rinascimento italiano si manifesta anche in esse, che ne ricevono e ne determinano sempre più il carattere. Le nostre, che subito cominciarono ad aver vittoria contro le straniere, specialmente quando Alberico da Barbiano creò la nuova arte della guerra, presero una forma, ebbero un carattere proprio e diverso dalle straniere. Queste, [18] infatti, erano comandate da un Consiglio di capi, ognuno dei quali aveva molta autorità sopra i suoi uomini, che solevano essere, in parte almeno, suoi vassalli, i quali all'occorrenza lo seguivano, quand'egli voleva separarsi dagli altri. In Italia, invece, l'importanza e la forza della compagnia dipesero affatto dal valore e dal genio militare di chi la comandava e quasi la personificava; i soldati obbedivano alla volontà suprema del capo, senza però essere legati a lui da alcuna fedeltà o sottomissione personale, pronti ad abbandonarlo per un capitano più famoso o per una paga maggiore. La guerra divenne l'opera d'una mente direttrice, l'esercito fu unito dal nome e dal valore del capitano, la battaglia fu come una sua creazione militare.
Così si formò la scuola d'Alberico da Barbiano, cui tennero dietro quelle di Braccio da Montone, degli Sforza, dei Piccinini e di molti altri, gli uni formandosi sotto la guida e disciplina degli altri. Il capitano italiano creava la scienza e l'arte militare, come il principe creava la scienza e l'arte di governare. Nell'uno e nell'altro l'ingegno e la personalità si manifestavano in altissimo grado; nell'uno e nell'altro mancava quella forza morale, che sola può dare stabilità vera alle opere dell'uomo. Nella compagnia, più che altrove, il capitano era sciolto da tutti i vincoli convenzionali del Medio Evo; la sua fama e la sua potenza dipendevano unicamente dal suo valore e dal suo ingegno. Muzio Attendolo Sforza, uno dei più temuti capitani del suo tempo, divenuto anche gran contestabile del regno di Napoli, aveva in origine coltivato i campi, e cominciò la sua vita militare col custodire e condurre i cavalli. Il suo bastardo Francesco fu duca di Milano. Il Carmagnola, che comandò i più formidabili eserciti di Venezia, e fu signore di molte terre, era stato in origine guardiano di vacche. Niccolò Piccinini, prima di diventare capitano famoso, era stato ascritto all'arte dei macellai in Perugia. Nè ciò recava la più piccola maraviglia [19] ad alcuno. La compagnia era il campo aperto all'attività individuale; in essa comandavano solo la forza, la fortuna e l'ingegno; non v'erano vincoli tradizionali nè morali di sorta. La guerra si faceva senza servire ad alcun principio, ad alcuna patria, passando, per danari o promesse, dall'amico al nemico. L'onor militare, la fede ai patti giurati, la fedeltà alla propria bandiera, tutto ciò era ignoto al capitano di ventura, che avrebbe trovato puerile e ridicolo il lasciarsi da questi ostacoli fermare nel cammino intrapreso a costituire la propria fortuna e potenza, unico scopo alla vita.
Sotto molti aspetti la sua sorte ed il suo carattere somigliavano a quelli del tiranno italiano. Alla testa di un'amministrazione complicata e difficile, doveva ogni giorno pensare a raccogliere nuovi soldati, per riempire i vuoti che facevano nelle sue file, non tanto il ferro nemico, quanto la continua diserzione, e trovare ogni giorno i danari, coi quali pagare, nella pace e nella guerra, i suoi uomini. Egli era in continua relazione cogli Stati italiani, per cercare condotte, avere danari colle minacce o colle promesse, dare ascolto a coloro che, con maggiori offerte, volevano levarlo al nemico. Pareva in sostanza quasi principe d'una città che si moveva di paese in paese, il che non la rendeva di certo più facile ad amministrare o governare; ed al pari del tiranno, viveva in continui pericoli, nella pace non meno che nella guerra. Egli era minacciato dalle gelosie degli altri capi di bande o compagnie; dalle ambizioni dei sottoposti, che spesso tramavano congiure contro di lui; dalla mancanza di condotte, che, lasciandolo senza danari, poteva sciogliere il suo esercito. La nessuna sicurezza della sua fede teneva gli Stati che serviva sempre in sospetto, e dal sospetto facilmente si passava alle vie di fatto, testimonî il Carmagnola e Paolo Vitelli, improvvisamente presi e decapitati, l'uno dai Veneziani, l'altro dai Fiorentini, alla testa dei cui eserciti combattevano. Singolare era poi [20] vedere questi uomini, il più delle volte di bassa origine e senza cultura, circondati in campo da ambasciatori, e da poeti, da eruditi, che leggevano loro Livio e Cicerone, e nei propri versi li paragonavano sempre a Scipione, ad Annibale, a Cesare o Alessandro. Quando conquistavano per proprio conto una terra, o la ricevevano in cambio di servigi prestati, il che pur seguiva qualche volta, erano addirittura capitani e principi ad un tempo.
La guerra divenne allora per gli Stati italiani una specie di operazione diplomatica e finanziaria: vinceva chi sapeva trovare più danari, procurarsi più amici, meglio lusingare e pagare i capitani più reputati, la cui fedeltà si alimentava solo con nuovi danari o nuove speranze. Ma il vero spirito militare andò presto decadendo in questi soldati, che avevano oggi di fronte i compagni di ieri, coi quali potevano essere domani nuovamente uniti. Il loro scopo non era più la vittoria, ma la preda. Più tardi le compagnie di ventura scomparvero affatto cedendo il luogo agli eserciti stanziali, cui avevano apparecchiato la via; ma esse lasciarono dietro di loro la memoria di grandi calamità, durante le quali gl'Italiani dettero prova di molto ingegno e molto coraggio; fondarono la nuova arte della guerra; manifestarono una varietà infinita di attitudini e di qualità militari; produssero una gran moltitudine di capitani, e pure sbandarono indebolendo e corrompendo sempre di più.
Nelle lettere, meglio che altrove, si vede chiara la generale trasformazione che seguiva in quel tempo. Gli storici deplorano generalmente, e sembrano non comprendere per qual ragione gl'Italiani, dopo avere creata una così splendida letteratura nazionale con la Divina Commedia, il Decamerone ed il Canzoniere, deviassero dal cammino gloriosamente percorso, volgendosi alla imitazione degli antichi, disprezzando quasi la propria lingua, e rimettendo in onore l'uso del latino. Ma leggendo le opere di Dante, del Boccaccio, del Petrarca, si vede [21] subito che aprirono essi la via per cui il secolo XV entrò. Nella Divina Commedia l'antichità riceve continuamente un posto d'onore, ed è quasi santificata da un'ammirazione senza limiti; nel Decamerone il periodo latino già trasforma e sconvolge il periodo italiano; il Petrarca è addirittura il primo degli eruditi. Chi poi paragona gli scrittori italiani del Trecento con quelli che compariscono sul finire del secolo XV e sul cominciare del XVI, s'accorge subito, che il tempo speso in questo mezzo sui classici, non è andato perduto. Leggendo infatti, non dirò i Fioretti di San Francesco e le Vite del Cavalca, ma il De Monarchia ed il Convivio di Dante, anche alcuni canti della Divina Commedia, noi dobbiamo come trasportarci in un altro mondo: l'autore assai di frequente ragiona ancora al modo scolastico, non osserva e non vede il mondo come lo vediamo noi. Se invece apriamo le opere del Guicciardini, del Machiavelli e dei loro contemporanei, troviamo degli uomini che, anche avendo opinioni diverse dalle nostre, pensano o ragionano come noi. La scolastica, il misticismo, l'allegoria del Medio Evo sono scomparsi per modo che sembra quasi se ne sia perduta la memoria. Siamo sulla terra, in mezzo alla realtà, con uomini che non guardano il mondo attraverso alcun velo fantastico di mistiche illusioni, ma con i propri occhi, con la propria ragione, senza essere schiavi d'alcuna autorità. E così vien fatto di chiedere: in che modo gli eruditi del secolo XV, tornando verso gli antichi, poterono scoprire un mondo nuovo, simili quasi, come fu detto, al Colombo che trovò l'America, cercando d'arrivare alle Indie per un'altra strada?
Il Medio Evo, per ridestare nell'uomo una nuova vita dello spirito, aveva disprezzato la vita terrena e la società civile; sottomesso la filosofia alla teologia, lo Stato alla Chiesa. Il reale gli sembrava utile solo come simbolo o allegorìa per esprimere l'ideale, la Città terrena solo come un apparecchio alla Città di Dio: si reagiva contro [22] tutto ciò che era stata l'essenza del Paganesimo, l'ispirazione dell'arte antica. E così lo spirito umano restò chiuso nei sillogismi della scolastica, nelle nebbie del misticismo, nelle fantastiche e intricate creazioni della poesia cavalleresca e delle canzoni provenzali. Ma quando, come per uno slancio improvviso di nuova ispirazione, in mezzo alle libertà comunali, sorsero la poesia e la prosa italiana a descrivere gli affetti, le passioni reali e vere dell'uomo, il mondo del Medio Evo fu condannato a perire. Le vecchie forme, incerte e fantastiche, non resistettero più di fronte a quelle nuove analisi così precise, a quelle immagini così splendide e chiare, a quello stile, a quel linguaggio, in cui il pensiero trasparisce come attraverso purissimo cristallo. Ma questa letteratura, dando un nuovo indirizzo allo spirito umano, fece ben presto nascere anche bisogni nuovi, che essa non poteva tutti soddisfare. Il linguaggio poetico s'era già trovato, e s'erano avuti, in una forma ammirabile, la novella, il sonetto, la canzone ed il poema; ma il nuovo stile filosofico, epistolare, oratorio, storico mancavano affatto: il bisogno di trovarli diveniva irresistibile.
Lo scrittore del Trecento somigliava perciò assai spesso ad un uomo che, pure avendo buone gambe, si trovi in una via così piena di ostacoli e di pericoli, che non può camminar senza aiuto: di tanto in tanto egli s'appoggia novamente alle grucce della scolastica. Quando lo stesso Alighieri, nella sua Monarchia, discute se il Papa debba essere paragonato al sole, e l'Imperatore alla luna; se il fatto di Samuele che depose Saul, e l'offerta dei re Magi a Cristo bambino possano provare la dipendenza dell'Impero dalla Chiesa, chi non vede che egli ha ancora un piede nel Medio Evo? Leggendo la Cronica di Giovanni Villani, troviamo non solo uno scrittore molto chiaro, ma un osservatore acutissimo, cui nulla sfugge; un uomo pratico del mondo e degli affari. Tutto egli vede e registra: battaglie, rivoluzioni politiche e sociali, forme [23] di governo, nuovi edifizî, quadri, opere letterarie, industria, commercio, tasse, entrate ed uscite della Repubblica, perchè egli comprende che di tutto ciò si compone la società umana, e che da ciò risulta la potenza e la prosperità degli Stati. Ma egli ci dà ancora come storie le più favolose e fantastiche leggende sull'origine di Firenze. E neppure una volta sola gli riesce di trovare la logica unità della narrazione storica, che connette i vari avvenimenti, e ne rende visibile il legame; il suo lavoro non esce perciò mai dai modesti confini della cronica. Ogni volta che lo scrittore del Trecento scrive di filosofia o di politica, ogni volta che compone una orazione o una lettera, egli è condannato a tornare fra quelle pastoie, che poco prima sembrava avere spezzate per sempre.
Bisognava dunque allargare lo stile; diffondere la lingua; renderla più universale, più duttile; trovare le nuove forme letterarie, che ancora mancavano ed erano divenute necessarie. Ma questo bisogno cominciava a sentirsi nel momento stesso in cui ogni giovanile e vigoroso incremento delle forze nazionali veniva contrastato dalle complicazioni politiche e sociali, che abbiamo più sopra accennate. Cominciava perciò a mancare quella forza creatrice che già aveva dato origine alla nostra letteratura, e sola poteva portarla al suo naturale compimento, facendole trovare le altre forme che essa cercava. Se non che, queste forme non sono mutabili a capriccio, sono determinate dalle leggi stesse del pensiero e della natura, ed erano state trovate la prima volta dai Greci e dai Romani, negli scritti dei quali serbano in eterno tutto il vigore, lo splendore e la originalità, che le opere dell'arte raggiungono solo nel momento della prima creazione. Il ritorno al passato si presentava quindi come un progresso naturale, necessario, e la grande relazione della cultura latina con la italiana lo faceva sembrare come un ritemprarsi alle prime sorgenti, un ritorno all'antica grandezza nazionale. [24] I Greci ed i Latini presentavano inoltre agl'Italiani una letteratura ispirata alla natura ed alla realtà, guidata dalla ragione, non sottoposta ad alcuna autorità, non circondata da nessun velo allegorico, da nessun misticismo: imitarla era quindi un liberarsi affatto dal Medio Evo. E così tutto spingeva ora verso il mondo antico. La pittura e la scultura vi trovavano lo studio perfezionato delle forme umane, un disegno insuperabile; l'architettura vi trovava una costruzione più solida e meglio pieghevole ai varî bisogni della vita sociale; l'uomo di lettere, quel magistero di stile, di cui andava in cerca; il filosofo, l'indipendenza della ragione e l'osservazione della natura; il politico trovava nel concetto di Roma antica quella unità dello Stato, che non solo la scienza, ma la società stessa cercavano allora come un loro fine necessario. La imitazione dei Greci e dei Romani divenne perciò come una manìa, che s'impadronì rapidamente di tutti gli animi: i tiranni vollero imitare Cesare ed Augusto; i repubblicani, Bruto; i capitani di ventura, Scipione ed Annibale; i filosofi, Aristotele e Platone; i letterati, Virgilio e Cicerone; perfino i nomi stessi delle persone e dei paesi si mutarono in greci e romani.
Il Medio Evo conosceva certo molti degli antichi scrittori; per alcuni di essi ebbe anzi come un ossequio religioso. Ma la sua erudizione, salvo alcune eccezioni, era ben diversa da quel rinascimento che cominciava ora. Essa restringevasi ad un piccolo numero di scrittori latini, dei più recenti, i quali, meno lontani dalle idee cristiane, e vissuti sotto l'Impero, che sembrava dominare ancora la società umana, essere anzi immutabile ed immortale, erano quasi letti come scrittori contemporanei, e le loro opere venivano forzate, piegate a sostenere i concetti stessi del Cristianesimo. Virgilio profetizzava la venuta di Cristo; l'etica di Cicerone doveva essere identica a quella del Vangelo; ed Aristotele, conosciuto solo nelle traduzioni latine, alterato dai comentatori, era [25] costretto a sostenere l'immortalità e spiritualità dell'anima, cui non aveva creduto. Ben diversi erano i desideri e i gusti del secolo XV. Esso non voleva trasformare in cristiano il mondo pagano; voleva anzi tornare a questo, che lo riconduceva dalla Città di Dio a quella degli uomini, dal cielo alla terra. Non gli bastava perciò la conoscenza di pochi scrittori più recenti; li voleva leggere tutti, ed i più lontani con più ardore, perchè obbligavano ad uno sforzo maggiore della mente, e facevano fare un più lungo viaggio intellettuale. Si cercarono, quindi, si disseppellirono ed illustrarono gli antichi codici, gli antichi monumenti con una febbrile attività, di cui non v'è altro esempio nella storia. Sembrava che gl'Italiani volessero non solo imitare il mondo antico, ma evocarlo dalla tomba, farlo rivivere, perchè in esso sentivano di ritrovare sè stessi, entrando come in una seconda vita: era un vero e proprio rinascimento. E non s'accorgevano punto che le loro imitazioni e riproduzioni venivano animate da uno spirito nuovo, che si andava svolgendo, dapprima invisibile e nascosto, per liberarsi poi a un tratto dalla sua crisalide, uscendo alla luce in una forma nazionale e moderna.
Così l'erudizione fu il mezzo con cui gl'Italiani seppero liberare sè stessi e l'Europa dalle pastoie del Medio Evo, non interrompendo, ma continuando e compiendo, sotto diversa forma, l'opera iniziata dagli scrittori del Trecento. Ma le nuove opere letterarie ed artistiche non furono il risultato d'una giovane e vigorosa ispirazione, sorta in una società come quella in cui visse Dante, piena d'ardore e di fede, tra forti caratteri e fiere passioni. Formate in un tempo, nel quale continuava una febbrile attività della mente, ma si spegnevano le più nobili aspirazioni del cuore umano, risentirono le conseguenze di un tale stato di cose. Si riescì mirabilmente in tutti quei generi nei quali la natura visibile, lo studio esteriore dell'uomo e delle sue azioni hanno parte principale. [26] Le arti belle, plastiche sempre di loro natura, perderono l'epica grandezza di Giotto e dell'Orcagna, quella ispirazione religiosa che tanto si ammira nelle antiche cattedrali cristiane; ma, assimilando le forme classiche, che modificarono inconsapevolmente, s'ispirarono al genio greco, imitarono la natura, e la riprodussero nelle loro nuove e spontanee creazioni, circondate d'un velo etereo, con colori che hanno uno smalto, una freschezza, una fragranza inarrivabili. È un'arte che, innestando le forme cristiane e pagane, acquista una spontaneità e verginità nuova; resta una gloria immortale del secolo e dell'Italia, la manifestazione più compiuta del Rinascimento, da cui riceve ed a cui comunica il proprio carattere. La poesia fu del pari inarrivabile nelle descrizioni e riproduzioni del vero, che apparisce chiaro e preciso anche in mezzo alle più fantastiche creazioni del poema cavalleresco ed eroicomico. La scienza politica, che esamina le azioni umane nel loro valore obbiettivo ed esteriore, nelle loro pratiche conseguenze, quasi astraendo dal carattere morale che acquistano nella coscienza dell'uomo, e dalle intenzioni con cui vengono compiute, non solo fiorì del pari, ma fu la creazione più originale nella letteratura dei secoli XV e XVI.
Si lavorò con energia irrefrenabile; si cercarono e si trovarono tutte le forme letterarie; si ottenne una grande verità e facilità nella prosa e nella poesia; si crearono il linguaggio e lo stile oratorio, diplomatico, storico, filosofico; ma svaniva il sentimento religioso; s'infiacchiva il senso morale, ed il culto della forma cresceva spesso a scapito della sostanza, difetto che rimase per molti secoli nella letteratura italiana. Nel vedere questa prodigiosa attività intellettuale, che sotto mille forme diverse si riproduce sempre più ricca e più splendida, eppur sempre accompagnata da una sociale e morale decadenza, lo storico che studia quei tempi, resta sgomento, sentendosi come in presenza di una misteriosa contradizione, [27] che fa presagire futuri guai. Quando il male che travaglia internamente questo popolo, verrà alla superficie, una catastrofe sarà inevitabile. Il lento e continuo avanzarsi di essa, in mezzo a tanto progresso intellettuale, è appunto la storia del Rinascimento. Per meglio comprenderla bisogna esaminare le cose anche più da vicino.
La prima trasformazione del Comune italiano che, per mezzo della tirannide, aprì la via alla costituzione dello Stato moderno, noi la troviamo a Milano. Divenuta centro d'una vasta agglomerazione di repubbliche e signorie, che interessi e gelosie diverse ora riunivano ed ora separavano, vide sorgere nel suo seno il dominio della famiglia Visconti, lacerata anch'essa da interni e sanguinosi dissidî. Nel 1378 si trovano di fronte Bernabò ed il nipote Giovan Galeazzo, più noto col nome di conte di Virtù. Ambedue ambiziosi e malvagi del pari, il primo era ciecamente dominato dalle sue passioni, e fu quindi preda del nipote, che sapeva dirigerle ad un fine premeditato. Questi riuscì nel 1385 a farlo con i figli mettere in prigione, donde non uscirono più vivi; e restato così solo, si pose con ardore all'opera di riordinare lo Stato, per liberarlo dall'anarchia.
In mezzo a mille nemici, egli non aveva un esercito, ed era anche privo di valor militare; ma accoppiava ad una grandissima astuzia una profonda conoscenza degli uomini ed un vero ingegno politico. Chiuso nel suo castello [28] di Pavia, prese a stipendio i primi capitani d'Italia, ed i più accorti diplomatici, distendendo con questi le fila della sua tenebrosa politica in tutta la Penisola, che subito riempì d'intrighi e di guerre, dirigendo le operazioni militari dal suo gabinetto. Con un occhio sicuro ed una volontà pronta, egli riuscì a fare una vera ecatombe di piccoli tiranni nella Lombardia, unendosi con gli uni ad abbattere gli altri, per poi rivolgersi contro quelli che lo avevano aiutato, e impadronirsi dei loro Stati. Così formò il Ducato di Milano, di cui ebbe l'investitura dall'Imperatore. Estese poi il suo dominio sino a Genova, a Bologna, alla Toscana, e vagheggiava mettersi sul capo la corona d'Italia, dopo aver vinto Firenze, che già aveva esaurita con le continue guerre. Ma il 3 dicembre 1402 la morte venne a troncare tutti gli ambiziosi disegni.
Mirabile fu vederlo chiuso nelle mura del suo castello, gettarsi in tante guerre, che di là seppe dirigere e vincere fortunatamente. Nello stesso tempo egli creò ed ordinò un nuovo Stato. Occupazione principale del suo governo fu veramente imporre tasse, per alimentare le guerre incessanti; ma la giustizia veniva nei casi ordinarî bene amministrata, le finanze procedevano con ordine, e la prosperità cresceva. Le libere assemblee furono mutate in Consigli amministrativi e di polizia; ogni città ebbe un Podestà, eletto dal Duca, non più dal popolo; il Comune non fu più uno Stato, ma un organo amministrativo, come nelle società moderne; ed un collegio d'uomini autorevoli nella capitale rendeva già immagine dei nostri ministeri. Circondato da letterati ed artisti, iniziatore di molte opere pubbliche, fra cui i due più grandi monumenti della Lombardia, il duomo di Milano e la certosa di Pavia, ove dètte anche nuova vita e splendore alla università, egli fu uno dei primi principi moderni. Con lui le istituzioni del Medio Evo scompariscono affatto, e sorge l'unità del nuovo Stato. Questo fu però una creazione tutta personale del principe, che [29] ebbe di mira solamente il suo interesse personale; e quindi con la sua morte la società ricadde ben presto nell'anarchia, lacerata dalle ambizioni dei capitani di ventura.
Più tardi Filippo Maria, figlio di Giovan Galeazzo, ripigliò in mano le redini del governo, per camminare sulle orme del padre. Egli aveva dovuto dividere il Ducato col fratello Giovanni Maria, uomo feroce, che faceva sbranare le sue vittime dai cani, di cui teneva perciò gran moltitudine; ma il pugnale dei congiurati venne a far vendetta, ed il 12 maggio 1412 Giovanni fu pugnalato in chiesa. Filippo era una copia peggiorata del padre, di cui non aveva l'ingegno politico; astuto, falso, traditore e crudele univa ad una grande conoscenza degli uomini un perfetto dominio delle sue passioni. Timido fino alla viltà, aveva la strana passione di gettarsi in guerre continue e pericolose, le quali conduceva scegliendo, con mirabile accortezza, i primi capitani d'Italia, che poneva gli uni in sospetto degli altri, per essere sicuro dalle loro ambizioni. Circondato di spie, chiuso nel suo castello di Milano, da cui non usciva mai, ingannò sempre e trovò sempre da ingannare; visse in continua guerra con tutti, e si salvò sempre dalle disfatte con l'astuzia. I Fiorentini furono da lui rotti a Zagonara nel 1424; dai Veneziani, che sempre combattè, fu più e più volte vinto; ma dopo paci non sempre accorte ed onorevoli, raccoglieva danari e ripigliava la guerra. Si gettò perfino nella contesa napoletana fra gli Angioini e gli Aragonesi, e riuscì a prendere prigioniero Alfonso d'Aragona, che poi liberò per non lasciar piena vittoria agli Angioini. In mezzo a questo grande turbinìo d'eventi e di nemici da lui provocati, riconquistò e riordinò lo Stato paterno, che tenne sicuro fino alla morte (1447), unicamente per mezzo della sua infernale astuzia.
Egli non aveva eredi legittimi, ma solo una figlia naturale, Bianca, il che aveva reso assai più pericolosa la [30] sua condizione, essendo molti coloro che aspiravano a succedergli. Fra di essi v'era Francesco Sforza, tenuto in Italia il primo capitano del secolo, al cui aiuto il Visconti dovette di continuo ricorrere, trovandosi perciò inevitabilmente in balìa di lui. Questi era un leone che sapeva far la volpe, e Filippo Maria era una volpe che amava mettersi la pelle del leone. Così vissero ambedue lunghi anni, tendendosi a vicenda agguati, e conoscendo ognuno assai bene le intenzioni segrete dell'altro. Lo Sforza fu più e più volte sull'orlo d'una totale rovina, circondato dalle trame del Visconti, che poi invece lo aiutava. Nel 1441 davagli in isposa la propria figlia, e ne alimentava così le ambiziose speranze, per meglio valersene nelle guerre, salvo poi a ordir nuove trame contro di lui, che pur sapeva scamparne senza mai lasciarsi vincere dal desiderio della vendetta. Ed in questo modo, quando, dopo quasi mezzo secolo di regno, il Visconti moriva di morte naturale, lo Sforza si trovò abbastanza potente per riuscire nel disegno lungamente meditato d'impadronirsi del Ducato.
A una dinastia ne succede ora un'altra, ed il principato italiano si presenta a noi sotto un aspetto totalmente diverso. I Visconti erano stati una grande famiglia, e coll'astuzia, l'ardire e l'ingegno politico s'erano impadroniti del Ducato che avevano costituito; gli Sforza, invece, uomini nuovi, usciti di assai basso stato, s'aprirono la via colla spada. Muzio Attendolo, il padre di Francesco Sforza, era nato d'una famiglia romagnola, che viveva in Cotignola una vita di semi-brigantaggio e d'ereditarie vendette. Dicesi che la cucina della loro casa pareva un arsenale di guerra: tra i piatti e le padelle affumicate pendevano le corazze, i pugnali e le spade, che uomini, donne e bambini maneggiavano con uguale ardire. Ancora giovanetto, Muzio fu menato via da una banda di ventura, ed in breve tempo, raggiunto dai suoi, si pose alla testa d'una propria compagnia, e fu noto col nome di Sforza, datogli in campo. D'un coraggio, d'una [31] forza e d'una volontà indomabili, più che un generale fu un soldato che si gettava nella mischia, e scannava i nemici colle proprie mani. D'indole assai impetuosa, commise spesso azioni da brigante, come quando trapassò con la spada Ottobuono III di Parma, mentre questi parlamentava col marchese d'Este. Eppure, sebbene andasse sempre da uno ad un altro padrone, portando scompiglio e desolazione per tutto, riuscì ad esser signore di molte terre, le quali tenne per sè e per coloro che lo avevano seguìto. Nel regno di Napoli, ai servigi della capricciosa regina Giovanna II, ebbe le sue maggiori e più strane vicende: prima generale, poi prigioniero, poi gran contestabile del regno, poi di nuovo in carcere, era per finire i suoi giorni miseramente, quando a Tricarico la sorella Margherita, con la spada in pugno e l'elmo in testa, spaventò per modo i messi reali, che ne ottenne la salvezza del fratello. Fu di nuovo comandante delle forze reali, e poi morì presso Aquila, affogando nel fiume Pescara, quando lo passava a nuoto, per incoraggiare i suoi a seguirlo nella vittoria, che pareva assicurata. E così compiè la vita, non meno agitata del mare, in cui il suo corpo andò finalmente a trovar sepoltura (1424).
Francesco suo figlio naturale, che aveva 23 anni, prese subito il comando delle schiere paterne, e le condusse di vittoria in vittoria, dimostrando un vero genio militare, una grandissima accortezza politica. Sempre padrone di sè, scatenava l'impeto indomito delle sue passioni solamente quando voleva. Servì il Visconti contro i Veneziani, i Veneziani contro il Visconti; attaccò il Papa, togliendogli la Romagna, ed emanando colà i suoi ordini: invitis Petro et Paulo; poi lo difese. Pel suo valor militare divenne l'uomo che tutti volevano a loro servigio, perchè pareva che senza di lui nessuno in Italia potesse vincere, sebbene vi fossero allora capitani come i Piccinini ed il Carmagnola. Ma in mezzo a tutte queste vicende, egli seppe tener sempre fermo l'occhio alla [32] sua mira costante; e quando Filippo Maria morì, si vide subito in che modo il capitano di ventura sapeva mutarsi in uomo di Stato.
Milano aveva proclamato la repubblica; le città sottoposte s'eran ribellate; Venezia minacciava; i partiti interni si scatenavano. Egli offrì la sua spada in servigio della pericolante città, che credette d'aver trovato un'àncora di salvezza, ed invece fu poco di poi assediata dal suo stesso capitano, che il 25 marzo 1450 vi faceva l'ingresso trionfale, avendo già ordinata la propria corte. Il suo primo atto fu d'interrogare il popolo se, a difesa contro i Veneziani, volevano ricostruire la fortezza di porta Giovia, o mantenere piuttosto un esercito permanente in città. Votarono per la fortezza, che fu invece valido baluardo della tirannide contro il popolo. Amici e nemici, se temibili, furono subito imprigionati, spogliati di tutto, ed anche spenti senza esitare. Il territorio dello Stato fu riconquistato; i ribelli furono sottomessi; l'ordine, l'amministrazione, la giustizia dei tribunali ordinarî ristabiliti con maravigliosa rapidità. E in tutto ciò lo Sforza procedeva con la calma dell'uomo che si sente forte, e che vuole aver nome d'imparziale e giusto. Pure quando gli pareva opportuno, nessuno più di lui sapeva, per disfarsi d'amici o nemici, essere perfido e crudele.
La rivolta di Piacenza fu soffocata nel sangue dal suo fido capitano Brandolini. Arrivate le stragi al colmo, e pacificata ogni cosa, si vide con generale maraviglia il Brandolini messo in carcere come sospetto; poi fu trovato con la gola tagliata, e una spada spuntata e sanguinosa accanto. Si disse dal volgo, che il Duca aveva voluto disapprovare e punire le crudeltà eccessive del suo capitano; si disse invece dai più accorti che, dopo essersene servito, gettava via l'inutile strumento, perchè su di esso solamente cadesse l'odio del sangue versato. Nato e vissuto nella guerra, egli voleva ora essere un uomo [33] di pace, e mirava unicamente a consolidare il proprio Ducato ne' suoi naturali confini, abbandonando del tutto gli ambiziosi e pericolosi disegni dei Visconti. E quando, dopo una guerra quasi generale, ma di nessuna importanza, i potentati italiani vennero l'anno 1454 ad una pace comune, egli seppe fare in modo da essere implicitamente riconosciuto da tutti, restando a lui anche il Bergamasco, la Ghiara d'Adda ed il Bresciano. Noto fra i più audaci e tumultuosi capitani di ventura, conosceva meglio d'ogni altro di che grande calamità essi erano agli Stati ordinati e pacifici; quindi fu tra coloro che più contribuirono, se non a farli scomparire del tutto, a far loro perdere assai della passata importanza, come già per forza naturale delle cose cominciava a seguire. Uno solo della vecchia scuola sopravviveva allora, Iacopo Piccinini, ed era veramente di quelli che, rizzando una bandiera, potevano mettere insieme un esercito pericoloso. Costui se ne viveva tranquillo a Milano, quando gli venne voglia d'andare a vedere le sue terre nel reame di Napoli, e fu dal Duca assai incoraggiato, sebbene ognuno sapesse quanto era inviso a Ferrante d'Aragona. Arrivato colà, venne accolto a braccia aperte dal Re, che lo condusse a vedere la reggia e poi lo mise in prigione, dove presto morì. Lo Sforza protestò, strepitò contro la violata fede; ma tutti credettero che, d'accordo con Ferrante, egli si fosse voluto liberare d'un incomodo vicino.
Francesco Sforza, dice felicemente uno storico moderno, era proprio l'uomo secondo il cuore del secolo XV.[16] [34] Grande capitano ed accorto politico, egli sapeva fare a tempo la volpe ed il leone; sapeva, occorrendo, metter le mani nel sangue: ma quando ciò non era necessario, voleva invece giustizia imparziale, e si dimostrava anche generoso e pietoso. Fondò una dinastia; conquistò uno Stato, che lasciò sicuro e bene amministrato; costruì grandi opere pubbliche, come il canale della Martesana e l'ospedale maggiore di Milano. Si circondò d'esuli greci e d'eruditi italiani, e così la corte del già capitano di ventura divenne subito una delle più splendide d'Italia. Sua figlia Ippolita fu celebre pei discorsi latini, che tutti lodavano, esaltavano. Il famoso Cicco (Francesco) Simonetta, calabrese, uomo dottissimo e d'una fedeltà a tutta prova, fu il segretario del Duca; il fratello Giovanni ne fu lo storiografo; Francesco Filelfo, il poeta cortigiano, ne cantò le lodi nella Sforziade. Celebrato così in verso ed in prosa, col nome di giusto, di grande, di magnanimo, moriva il giorno 8 marzo 1466. Tutto aveva tentato ed in tutto era riuscito; i contemporanei lo credettero perciò il più grande uomo del secolo. Ma che cosa era lo Stato da lui definitivamente costituito? Una società in cui tutte le forze s'andavano rapidamente esaurendo; un popolo di cui il sovrano credeva poter fare tutto quello che voleva, materia plastica nelle mani d'un nuovo artista, il cui valore stava solo nel conseguire il fine propostosi, qualunque esso fosse. Nè i Visconti nè lo Sforza ebbero mai alcuna idea politica veramente grande e feconda, perchè essi non s'immedesimarono mai col popolo, ma lo fecero solo servire ai loro propri interessi. Furono maestri nel trovar l'arte di governo; ma non riuscirono a fondare un vero governo, perchè ne avevano colla tirannide disfatti gli elementi essenziali. Le funeste conseguenze di questa politica, che fu pur troppo la politica italiana del secolo XV, si dovevano ben presto vedere in tutta la Penisola, come si cominciarono a vedere in Milano dopo la morte del Duca.
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Il figlio Galeazzo Maria, dissoluto e crudele, era di un'indole così triste, che fu perfino accusato d'avere avvelenato la propria madre. Credendo che al principe tutto fosse lecito e possibile, egli, in un secolo che omai si poteva dir civile, fece seppellir vivi alcuni de' suoi sudditi; altri condannò a morir fra torture crudeli, per frivoli pretesti, perdonando solo a coloro che si riscattavano con danaro. Dissipava tesori nelle feste in Milano e nelle cavalcate che faceva per tutta Italia, portando corruzione dovunque andava. Nè gli bastava corrompere le donne delle più nobili famiglie milanesi, che le esponeva egli stesso anche al pubblico disprezzo. Le istituzioni o la volontà popolare non potevano allora metter freno a questo cieco furore, perchè un popolo più non esisteva, e le istituzioni eran tutte divenute congegni atti solo a servir la tirannide. Ben vi pose fine una congiura delle più singolari e notevoli, in quello che può veramente dirsi il secolo delle congiure.
Girolamo Olgiati e Giannandrea Lampugnani, discepoli di Niccola Montano, che li aveva coi classici educati all'amore della libertà e all'odio della tirannide, ingiuriati dal Duca, deliberarono di vendicarsi, e trovarono in Carlo Visconti, per le stesse ragioni, un terzo compagno. S'infiammarono all'impresa colla lettura di Sallustio e di Tacito, si esercitarono tra loro a ferire colle guaine dei pugnali; e quando ebbero fissato ogni cosa pel 26 dicembre 1476, l'Olgiati, entrato nella chiesa di Sant'Ambrogio, si gettò ai piedi della immagine del Santo, pregandolo che non facesse fallire il colpo. Il mattino del giorno stabilito assistevano alle funzioni religiose nella chiesa di Santo Stefano, recitando una preghiera latina, espressamente composta dal Visconti: — Se tu ami la giustizia e odii l'iniquità, — dicevano al Santo, — sii favorevole alla magnanima impresa, e non ti adirare quando fra poco dovremo insanguinare i tuoi altari, per liberare il mondo da un mostro. — Il Duca fu ucciso, ma il Visconti [36] ed il Lampugnani restarono vittime del furore del popolo, che volle vendicare il proprio oppressore. L'Olgiati fuggì e si nascose, ma fu di poi anch'egli preso e condannato all'estremo supplizio. Lacerato dalla tortura, evocava in suo aiuto le ombre dei Romani, e si raccomandava alla Vergine Maria; incitato a pentirsi, dichiarava che, se avesse dieci volte dovuto spirare fra quei tormenti, avrebbe dieci volte consacrato il sangue all'eroica impresa. Vicino a morire, componeva ancora epigrammi latini, rallegrandosi che riuscissero bene; e quando il carnefice gli era già accanto, le sue ultime parole furono: Collige te, Hieronyme, stabit vetus memoria facti. Mors acerba, fama perpetua.[17] Qui si vede che, se era spenta nel popolo ogni vera passione politica, in alcuni individui si mescolavano, nel modo più strano, sentimenti pagani e cristiani; l'amore della libertà con un odio personale, irrefrenabile e feroce; un'eroica rassegnazione alla morte con una sete inestinguibile di sangue, di vendetta e di gloria. I rottami di vecchi sistemi, gli avanzi di civiltà diverse si trovano mescolati insieme nello spirito italiano, e con essi s'apparecchia e si feconda il germe d'una nuova forma individuale e sociale, che ancora non è visibile ai nostri occhi. Poco di poi Lodovico il Moro, fratello del morto Duca, ambizioso, timido, irrequieto, usurpò il dominio al nipote Galeazzo, e per mantenere la male acquistata signoria, mise a soqquadro l'Italia intera, come avremo occasione di vedere, quando, dopo esaminate le condizioni dei varî Stati italiani, daremo uno sguardo generale a tutta la Penisola.
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La storia di Firenze ci conduce in mezzo a condizioni sostanzialmente diverse da quelle di Milano. A prima vista sembra che noi siamo in un gran caos di avvenimenti disordinati, dei quali non si possa comprendere nè la ragione nè il fine. Ma, esaminando poi le cose più da vicino, si ritrova un filo conduttore, e si vede come quella repubblica, attraverso una serie infinita di rivoluzioni, percorrendo tutte le forme politiche che il Medio Evo poteva conoscere, mirò costantemente al trionfo della democrazia, alla distruzione totale del feudalismo, scopo che conseguì cogli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella, l'anno 1293. Da quell'anno Firenze, divenuta una città di soli mercanti, non è più divisa in Grandi e popolani; ma in popolo grasso e popolo minuto, in Arti maggiori ed Arti minori. Le prime s'occupano della grande industria e del grande commercio d'importazione e di esportazione; le seconde s'occupano della piccola industria e del commercio interno della Città. Nasce da ciò una divisione, e spesso ancora una collisione d'interessi, da cui scaturisce la nuova formazione dei partiti politici. Quando si tratta d'ingrandire il territorio della repubblica; di combattere Pisa per tenersi aperta la via del mare, o Siena per assicurarsi il commercio con Roma; di respingere gli assalti continui e minacciosi dei Visconti di Milano, il governo cade inevitabilmente in mano delle Arti maggiori, più ricche, più intraprendenti, più audaci e capaci d'intendere e tutelare i grandi interessi dello Stato fuori de' suoi confini. Ma quando posano le armi e comincia la pace, allora subito le Arti minori, sospinte anche dall'infima plebe, insorgono contro la nuova aristocrazia del danaro, che, con le guerre e le tasse continue, le opprime, e chiedono maggiori libertà, più generale uguaglianza. Questo continuo avvicendarsi dura per [38] più di un secolo, fino al tempo, cioè, in cui il territorio della repubblica si è costituito, e le interminabili guerre con Milano hanno termine. Allora diviene inevitabile il trionfo definitivo delle Arti minori, ed esse con la loro inesperienza, colle loro intemperanze, spianano la via alla tirannide dei Medici.
Ben s'illuderebbe, però, chi s'aspettasse di vederli salire al potere con le arti ed i mezzi adoperati dai Visconti e dagli Sforza. Colui che avesse in Firenze cominciato a torturare arbitrariamente i cittadini, a seppellirne vivo qualcuno, a farne sbranare qualche altro dai cani, come fecero i signori di Milano, sarebbe stato subito cacciato a furore di popolo dalle Arti maggiori e dalle minori unite insieme. L'importanza e l'originalità politica tutta propria dei Medici sta anzi in questo, che il loro trionfo è la conseguenza d'una condotta tradizionale, seguita da quella famiglia, per più di un secolo, con una costanza ed un'accortezza impareggiabili, per arrivare ad impadronirsi del potere senza ricorrere alla violenza. E l'essere a ciò riusciti in una città così accorta, così inquieta, così gelosa delle sue antiche libertà, è prova di un vero genio politico.
Sin del 1378, in mezzo all'incomposto tumulto dei Ciompi, noi troviamo la mano di Salvestro dei Medici, che, quantunque delle Arti maggiori, aiuta, eccita le minori a rovesciarne il potere, e acquista così una grande popolarità. Fallito quel tumulto, ricominciata la guerra, e quindi tornate le Arti maggiori e gli Albizzi al potere, noi vediamo Vieri de' Medici rimanersene tranquillo, pensando solo a far danari. Non cessò tuttavia di mostrarsi favorevole sempre al partito popolare, nel quale seppe acquistarsi tanta autorità da far dire al Machiavelli, «che se fosse stato più ambizioso che buono, poteva, senza alcuno impedimento, farsi principe della città.»[18] Vieri [39] però conosceva meglio il suo tempo, e si contentò d'aspettare, agevolando la via a Giovanni di Bicci, che fu il vero fondatore politico della casa. Questi vide chiaramente, che trasformare colla violenza il governo non era possibile in Firenze, e che non avrebbe giovato gran fatto il salire, anche più volte, al potere, in una repubblica che mutava ogni due mesi i suoi principali magistrati. Non v'era che un mezzo solo per ottenere un predominio reale e sicuro: costituire e guidare un partito che avesse la prudenza e la forza di far continuamente entrare nei più importanti uffici della Repubblica i propri aderenti. E gli Albizzi s'avvidero subito che questo disegno cominciava a riuscire, perchè i loro avversari, nonostante il continuo ammonirli ed esiliarli, risultavano eletti in numero sempre maggiore. Invano cercarono di controminare l'opera di Giovanni de' Medici, col proporre inopportunamente leggi intese ad indebolire le Arti minori, perchè essi non potevano farle approvare nei Consigli senza l'aiuto del loro avversario, che invece le combatteva apertamente, e ne diveniva così sempre più potente appresso il popolo (1426). Egli, come afferma il Machiavelli, sostenne la legge del Catasto,[19] con la quale si ordinava che fosse riconosciuta [40] e scritta la fortuna di ciascun cittadino, il che impediva che i potenti, tassando ad arbitrio, gravassero senza misura i più deboli. La legge fu vinta, l'autorità dei Medici ne crebbe sempre di più, e mentre essi salivano volando al principato, pareva invece che dessero solo una forma più popolare alla Repubblica. Questa fu allora e sempre la loro arte.
Quando nel 1429 Cosimo dei Medici, in età di quarant'anni, succedeva al padre, egli, che era per sè stesso uomo di grande autorità e fortuna, trovava la via già spianata dinanzi a sè. Aveva col commercio aumentato assai il ricco patrimonio avìto, e ne usava così largamente, imprestando o donando, che non v'era quasi uomo autorevole in Firenze, che, nei suoi bisogni, non ricorresse a lui e non lo trovasse pronto. Onde è che, senza mai uscire, in apparenza almeno, dalla modestia di privato cittadino, vedeva ogni giorno aumentare la sua potenza, e se ne valeva a demolire gli ultimi avanzi del potere degli Albizzi e de' loro amici. Il che li fece montare in tanto furore, che, levatisi a tumulto, lo cacciarono in esilio, non osando fare di peggio (1433). Ma Cosimo neppure allora perdette la sua calma prudente. Se ne andò a Venezia come un benefattore ripagato d'ingratitudine, e fu da per tutto accolto come un principe. L'anno seguente un tumulto popolare, favorito dal numero infinito di coloro che aveva beneficati o che speravano benefizi, cacciati gli Albizzi, lo richiamò a Firenze, dove essendo partito potente, tornò potentissimo, coll'animo irritato dal desiderio della vendetta. Abbandonò allora l'antica riserva, per mettere a profitto il momento opportuno. Senza [41] spargere molto sangue, colle persecuzioni e gli esilî disfece addirittura il partito avverso, abbassando i potenti, tirando su uomini «bassi e di vile condizione.»[20] Ed a chi lo accusava di trascendere, rovinando troppi cittadini, soleva rispondere: coi paternostri non si governano gli Stati, e con poche canne di panno rosato si fanno nuovi cittadini e uomini da bene.[21]
Cosimo de' Medici era adesso di fatto il padrone della Città; ma legalmente restava sempre un privato, il cui potere, fondato tutto e solo sulla propria autorità personale, poteva da un momento all'altro svanire. Si pose quindi a consolidarlo, dando un passo nuovo e assai accorto. Fece creare una Balìa con facoltà d'eleggere per cinque anni i principali magistrati. Composta di cittadini a lui devoti, essa lo rendeva sicuro per lungo tempo; e facendola ogni quinquennio rinnovare nel medesimo modo, Cosimo potè risolvere questo singolare problema: essere, per tutto il resto della sua vita, principe e padrone assoluto in una repubblica, senza mai entrare negli ufficî, conservando anzi le apparenze di privato cittadino. Ciò per altro non gl'impedì, a suo tempo, di ricorrere anche al sangue. Quando vide sorgere ogni giorno più potente nella Città Neri di Gino Capponi, che, politico accorto e valoroso soldato, aveva anche l'aiuto di Baldaccio d'Anghiari capitano delle fanterie, non potendo assalirlo di fronte, pensò disfarlo, abbattendone gli amici. Infatti, appena che fu eletto gonfaloniere un nemico personale di Baldaccio, questi venne in un improvviso tumulto gettato dalle finestre di Palazzo Vecchio; e molti sospettarono, sebbene nessuno potesse provarlo, che Cosimo fosse stato il principale istigatore del [42] delitto.[22] Ma dopo uno di tali fatti, egli tornava subito a governare con quelli che chiamavano allora i modi civili, e che costituirono sempre l'arte dei Medici. Questo accorto e poco dotto mercante, che non lasciò mai il banco; questo politico senza scrupoli, si circondò di letterati ed artisti: parchissimo nello spendere per sè, profuse tesori nel proteggere le arti belle, costruire chiese, biblioteche ed altri pubblici edificii; passò le ore più felici della sua vita facendosi leggere e comentare i Dialoghi di Platone; fondò l'Accademia Platonica. Così in parte non piccola si deve a lui, se Firenze divenne allora il centro principale della cultura in Europa. Egli aveva capito che le arti, le lettere e le scienze divenivano nella nuova società una potenza, su cui ogni governo doveva fare assegnamento.
Nè fu meno accorto nella politica estera. Avendo protetto e soccorso di danari Niccolò V, quando era cardinale, lo ebbe amicissimo quando fu papa; e così gli affari della Curia vennero affidati al banco de' Medici in Roma, con loro grande guadagno. Aveva anche prima di tutti presentito il futuro destino di Francesco Sforza, e gli s'era perciò fatto amicissimo; onde questi, divenuto signore di Milano, gli fu alleato potente e fido. Cessarono allora le guerre continue fra Milano e Firenze, che si tenne debitrice a Cosimo della lunga pace. Non è quindi da maravigliare se, dopo la morte, continuando sempre a governare i Medici, lo chiamarono Padre della patria. Il Machiavelli dice, che egli fu il più riputato cittadino «d'uomo disarmato,» che avesse mai non solo Firenze, ma qualunque altra città. Secondo lui, nessuno lo raggiunse nella intelligenza delle cose politiche, perchè vedeva i mali discosto, e vi provvedeva [43] in tempo; e solo così potè tenere lo Stato trentun anno, «in tanta varietà di fortuna, in sì varia città e volubile cittadinanza.»[23] Nè diversa è in ciò l'opinione, del pari autorevole, del Guicciardini. Pure, con questa politica, tutte le antiche istituzioni della Città furono ridotte ad un nome vano, senza che si riuscisse a crearne delle nuove; ed una continua accortezza, una serie inesauribile di sempre nuovi ripieghi fu necessaria a reggere il timone dello Stato.
Gli ultimi anni della vita di Cosimo furono assai tristi per Firenze, perchè i partigiani dei Medici, non moderati più dalla prudenza del loro capo, divenuto per l'età impotente, si diedero a parteggiare, e così crebbero a dismisura le persecuzioni e gli esilî. Nè mutarono le cose quando, per breve tempo, gli successe il figlio Piero. Alla costui morte però (1469) compaiono sulla scena Lorenzo e Giuliano, il primo dei quali, sebbene avesse solo ventun anno, era già assai autorevole. Educato dai principali letterati del secolo, s'era dimostrato uguale a molti di essi per ingegno e dottrina; viaggiando l'Italia, per conoscere le Corti ed acquistare esperienza degli uomini, aveva dovunque lasciato grande opinione di sè. Egli afferrò subito con animo deliberato le redini del governo, ed avvistosi che la elezione della nuova Balìa non era d'esito sicuro nel Consiglio dei Cento, fece, con l'aiuto dei più fidi, e come per sorpresa, votare che i Signori in ufficio, insieme con la vecchia Balìa, eleggessero la nuova. Assicuratosi così il potere per cinque anni, si mise all'opera assai più tranquillo.
Lorenzo, simile all'avo per accortezza politica, lo superava di gran lunga per ingegno e cultura letteraria. In molte cose era però assai diverso da lui. Cosimo non lasciò mai il suo banco; Lorenzo lo trascurava, ed era così poco adatto al commercio, che dovette ritirarsi dagli [44] affari, per non mandare a rovina il ricco patrimonio avìto. Cosimo era parco nello spendere per sè, ed imprestava largamente agli altri; Lorenzo amava il vivere splendido, e fu perciò chiamato il Magnifico; spendeva fuor di misura nel proteggere i letterati; si perdeva negli amori più che la sua debole salute non comportasse, tanto che abbreviò i suoi giorni. Questo suo vivere lo ridusse a tali strettezze, che dovette vendere alcuni de' suoi possessi, e ricorrere agli amici per danari. Nè ciò bastando, s'indusse anche a mettere la mani nel pubblico danaro, cosa che non era seguìta mai a Cosimo. Più volte, per avidità d'illeciti guadagni, fece pagare gli eserciti fiorentini dal suo proprio banco; profittò ancora delle somme raccolte nel Monte Comune o cassa del debito pubblico, e di quelle raccolte nel Monte delle Fanciulle, dove erano le doti accumulate dai privati risparmî, danari fino allora rispettati da tutti come sacri. Fu opinione assai generale de' suoi contemporanei, che egli, mosso sempre dalla stessa avidità di guadagno, entrasse l'anno 1471 a parte dei guadagni delle ricche miniere d'allume in Volterra, nel momento in cui quel Comune voleva sciogliersi da un contratto tenuto eccessivamente oneroso. Ed avrebbe allora, colla sua autorità, spinto le cose a tale, che ne seguì nel 1472 prima la guerra, e poi il sacco crudelissimo dell'infelice città, cosa affatto insolita in Toscana.[24] Di tutto ciò fu sempre [45] universalmente biasimato in Firenze. Ma egli era oltre misura superbo, e non si curava d'alcuno; non tollerava uguali; voleva essere il primo sempre ed in tutto, anche nei giuochi. Nell'abbattere i potenti e nel sollevare gli uomini di bassa condizione, non usava nessuno di quei riguardi, di quelle cautele tanto osservate da Cosimo.
Non è quindi da far maraviglia, se i nemici crebbero a segno tale che ne scoppiò la terribile Congiura dei Pazzi, il 26 aprile del 1478. Tramata nel Vaticano stesso, dove Sisto IV era nemico di Lorenzo, vi presero parte molti delle più potenti famiglie fiorentine. In duomo, nel momento in cui s'elevava l'ostia consacrata, si sguainarono i pugnali, e Giuliano de' Medici venne ucciso; ma Lorenzo si difese colla spada, e potè salvarsi. Fu un tumulto tale che pareva ne crollasse il tempio. La plebe si sollevò al grido di palle, palle; i nemici de' Medici furono scannati per le vie, o impiccati alle finestre di Palazzo Vecchio. Ivi si videro fra gli altri sospesi i cadaveri dell'arcivescovo Salviati e di Francesco de' Pazzi, che nella convulsione della morte, s'erano addentati fra loro, e così restarono un pezzo. Da settanta persone perirono in quel giorno, e Lorenzo, profittando del momento, spinse le cose agli estremi con le confische, gli esilî, le condanne. La sua potenza ne sarebbe stata infinitamente accresciuta, se papa Sisto IV, accecato dall'ira, non si fosse indotto a scomunicare la Città, ed a muoverle guerra insieme con Ferdinando d'Aragona. Ma Lorenzo allora, senza esitare, andò a Napoli, e fece capire al Re, come a lui convenisse molto meglio avere in Firenze il governo d'un solo, piuttosto che una repubblica, mutabile sempre, e che certo non gli sarebbe stata mai amica. Così tornò con la pace conclusa, e con un'autorità e popolarità senza limiti. Ora egli poteva dirsi davvero signore della Città, e facile doveva sembrargli distruggere affatto il governo repubblicano. Ambizioso e superbo come era, il desiderio di rendersi uguale [46] agli altri principi e tiranni italiani fu certo in lui vivissimo, tanto più che il riuscirvi pareva allora dipendere solo da lui. Ma Lorenzo mostrò invece che la sua accortezza politica non si lasciava accecare dai prosperi successi, e conoscendo bene la sua Città, non deviò dalla politica tradizionale dei Medici: dominare la Repubblica di fatto, rispettandola in apparenza. Pensò bene a rendere saldo e duraturo il suo potere; ma per ciò fare ricorse ad una riforma accortissima, con cui, senza abbandonare la vecchia strada, ottenne mirabilmente lo scopo.
Invece della solita Balìa quinquennale, istituì nel 1480 il Consiglio dei Settanta, che si rinnovava da sè, e fu come una Balìa permanente con poteri ancora più larghi. Composto d'uomini tutti a lui devoti, gli assicurò per sempre il governo. Con esso, dicono i cronisti del tempo, la libertà fu in tutto sotterrata e perduta;[25] ma con esso ancora gli affari più importanti dello Stato furono condotti da uomini intelligenti e colti, che ne promossero grandemente la prosperità materiale. Firenze si chiamava ancora una repubblica, i nomi delle antiche istituzioni duravano ancora; ma tutto ciò sembrava ed era solo un'ironia. Lorenzo, padrone assoluto di tutto, si poteva veramente dire un tiranno: circondato da staffieri e da cortigiani, che spesso ricompensava coll'affidar loro l'amministrazione delle opere pie; scandaloso pe' suoi amori, teneva uno spionaggio generale e continuo, ingerendosi anche negli affari privati; non permetteva i matrimonî di qualche importanza, se non gli piacevano; e gli uomini più vili, saliti ai maggiori uffici, erano, come dice il Guicciardini, divenuti i «signori del giuoco.»[26] [47] Pure abbagliava tutti col suo ingegno, collo splendore del suo governo; onde lo stesso scrittore osserva, che era un tiranno, ma sarebbe stato impossibile immaginare «un tiranno migliore e più piacevole.»
L'industria, il commercio, le opere pubbliche erano fiorenti. L'uguaglianza civile, propria degli Stati moderni, non aveva allora in alcuna città del mondo raggiunto il grado, a cui era pervenuta non solo in Firenze, ma nel suo contado ed in quasi tutta la Toscana. L'amministrazione, la giustizia civile procedevano nei casi ordinarî assai regolarmente; i delitti comuni scemavano. Soprattutto poi la cultura letteraria era divenuta un elemento sostanziale del nuovo Stato; gli uomini dotti entravano facilmente nei pubblici ufficî, e da Firenze irradiava una luce che illuminava il mondo. Lorenzo, che aveva un intelletto vario ed universale, con una grande penetrazione, un giusto criterio in tutte le parti dello scibile, era un Mecenate che proteggeva, ed era anche egli stesso fra i primi letterati del secolo; partecipava attivamente al lavoro che promoveva non solo per arte di governo, ma anche per un bisogno sincero e reale del proprio spirito. Tuttavia, per far servire le lettere a scopo politico, cercò co' suoi Canti carnascialeschi e colle feste d'infiacchire, corrompere il popolo, e pur troppo vi riuscì. Così senza un esercito, senza un ufficio con cui potesse legalmente comandare, era di fatto non solo il padrone di Firenze e di gran parte della Toscana, ma esercitava un predominio immenso su tutti i potentati italiani. Morto il suo nemico Sisto IV, papa Innocenzo VIII che successe, non solo gli fu amico ma s'imparentò con lui, ne nominò cardinale il figlio Giovanni ancora fanciullo, e si volgeva sempre a lui per consiglio. L'antagonismo che era nato tra Lodovico il Moro e Ferdinando d'Aragona, e minacciava di porre a soqquadro tutta Italia, fu raffrenato da Lorenzo, il quale venne perciò giustamente chiamato l'ago della bilancia d'Italia, e [48] solo dopo la morte di lui si videro le funeste conseguenze di quell'odio. Le sue lettere politiche, che sono spesso monumenti di politica sapienza e d'eleganza, vennero dallo storico Guicciardini dichiarate fra le più eloquenti del secolo.
Ma neppure questa politica poteva riuscire a fondar nulla di stabile. Modello impareggiabile d'accortezza e prudenza, essa promosse e svolse in Firenze tutti quanti i nuovi elementi, di cui la società moderna doveva comporsi, senza riuscir mai a costituirla definitivamente, perchè era una politica di equivoco e d'inganno, diretta da un uomo di molto ingegno, che in sostanza aveva di mira il suo interesse personale e quello della propria famiglia, ai quali era sempre disposto a sacrificare i veri interessi del popolo e dello Stato.
La storia di Venezia sembra essere in diretta contradizione con quella di Firenze. Questa, infatti, ci presenta una serie di rivoluzioni che, partendo da un governo aristocratico, arrivano alla più grande uguaglianza democratica, per cadere poi nel dispotismo d'un solo; Venezia, invece, procede con ordine e fermezza alla costituzione di un'aristocrazia sempre più forte. Firenze cerca invano salvare la libertà, mutando sempre più spesso i suoi magistrati; Venezia crea il Doge a vita, rende ereditario il Maggior Consiglio, consolida la repubblica, diviene potentissima e riman libera per molti secoli. Una così grande divergenza però, non solamente si spiega, ma apparisce ai nostri occhi assai minore, se esaminiamo le speciali condizioni, tra cui s'andò formando la repubblica veneta.
Fondata dai rifugiati italiani che popolarono la laguna, sulla quale non arrivarono le invasioni barbariche, [49] non ebbe, o assai poco, il feudalismo nè le altre istituzioni e leggi germaniche, che penetrarono largamente nel resto d'Italia. Così a Venezia, fin dal principio si trovarono di fronte il popolo dato all'industria ed al commercio, e le antiche famiglie italiane, che, non avendo l'aiuto dell'Impero, nè la forza dell'ordinamento feudale, vennero facilmente domate e vinte. E si formò subito l'aristocrazia del danaro o del popolo grasso, cui fu molto facile impadronirsi del governo e tenerlo per secoli. Questo trionfo, che a Firenze fu lento, che seguì dopo molte lotte, dopo lunghe interruzioni, e condusse poi alla signoria de' Medici, fu invece a Venezia rapidissimo e permanente. Sin dal principio la prosperità della laguna venne dalle lontane imprese, dai lontani commerci, che, più o meno dappertutto in Italia, costituirono la forza del popolo grasso. A ciò si aggiungeva da un lato, che il popolo minuto era occupato molti mesi dell'anno in lunghe navigazioni, e dall'altro, che il governo delle colonie dava modo ai più ambiziosi cittadini di comandare senza mettere a repentaglio la Repubblica.
Così la costituzione veneta, cominciata con forme non molto dissimili da quelle degli altri Comuni italiani, s'andò alterando per le condizioni affatto diverse, in mezzo a cui si trovava. Sin dal principio s'ebbe il Doge a vita, perchè la città, divisa in isole che tendevano a rendersi indipendenti l'una dall'altra, sentì assai presto il bisogno d'un accentramento maggiore che altrove. Il Doge era circondato da nove cittadini, coi quali formava la Signoria, e v'erano, come negli altri Comuni, due Consigli, i Pregati o Senato, ed il Maggior Consiglio. Nei casi più solenni si faceva appello al popolo radunato in pubblica assemblea, che chiamavasi Arrengo, come a Firenze era detta Parlamento. Se le cose fossero restate in questi termini, la costituzione di Venezia, salvo il Doge a vita, non sarebbe stata gran fatto diversa da quella di Firenze. Ma la forza assai maggiore che, per [50] le condizioni da noi accennate, prese subito l'aristocrazia del denaro, a poco a poco concentrò quasi tutti i poteri dello Stato nel Maggior Consiglio, che, abolito l'Arrengo e limitata l'autorità del Doge, fu il vero sovrano, e divenne ereditario, mercè una serie di lente riforme (1297-1319), che portarono a quella che si chiamò la Serrata del Maggior Consiglio. Il cerchio fu così chiuso, e si ebbe il governo d'una potente aristocrazia, che più tardi volle il suo Libro d'oro. Sebbene però non s'avesse a lottare contro il feudalismo, tutte queste riforme non seguirono senza forte resistenza delle antiche famiglie, che, vedendosi escluse dal governo, cercarono e trovarono seguito nel popolo minuto. La congiura di Baiamonte Tiepolo (1310) fu tale che, per alcuni giorni, mise a grave repentaglio l'esistenza stessa della Repubblica. Ma, dopo un ostinato combattimento nelle vie della città e fuori, venne anch'essa soffocata nel sangue; e fu creato il terribile Consiglio dei Dieci, tribunale, che con processi sommarî, ma sempre assai bene determinati dalle leggi, puniva di morte qualunque tentativo di rivolta. Allora finalmente non vi furono più pericoli pel governo aristocratico, che acquistò una forza ogni giorno maggiore. La fermezza delle istituzioni aiutò la prosperità del commercio, e le cresciute ricchezze dettero animo a sempre nuove imprese in Oriente, che era il campo dei guadagni e delle glorie veneziane.
Colà aveva la Repubblica incontrato due potenti rivali, Pisa e Genova; ma la potenza marittima dei Pisani venne disfatta alla Meloria (1284) dai Genovesi, che alla loro volta, dopo lunga e sanguinosa lotta, furono irreparabilmente sconfitti dai Veneziani a Chioggia (1380). E così, alla fine del secolo XIV, Venezia si trovò senza rivali, signora dei mari, sicura nell'interno, prosperissima nel commercio. Rivolse allora le sue mire anche alle conquiste di terraferma, ed entrò in un nuovo periodo della sua storia, durante il quale si trovò trascinata fra tutti [51] gl'intrighi della politica italiana; perdette il suo primo carattere di potenza esclusivamente marittima, e cominciò a corrompersi. Di ciò le venne mossa grave accusa dai contemporanei e dai posteri; ma Venezia era spinta nella nuova via da cause irresistibili. Infatti, quando si andavano formando intorno ad essa Stati più grossi assai dei piccoli Municipî d'una volta, il dominio delle lagune non era più sicuro, e non le bastava a tutelare il proprio commercio sulla terraferma. Gli Scaligeri, i Visconti, i Carrara, gli Este odiavano la fiorente repubblica, la minacciavano e cercavano d'isolarla, nel momento appunto in cui essa aveva un bisogno sempre maggiore di trovare nuovi sbocchi alle sue progredite industrie, al suo commercio d'Oriente, che s'alimentava con quello d'Occidente. E quando i Turchi s'avanzarono e cominciarono a fermarla nelle sue conquiste orientali, a minacciare le sue colonie, quella necessità divenne per un altro verso anche più stringente. Certo Venezia, spingendosi nella terraferma, si trovò d'ambo i lati circondata da mille pericoli; ma erano inevitabili, ed essa li affrontò, combattendo per mare e per terra, con un ardimento eroico, e sulle prime con non sperata fortuna.
A promuovere questi suoi nuovi interessi non ebbe di certo molti scrupoli: costretta più volte a combattere in Italia nemici sleali, usò anch'essa la violenza e l'inganno. Pure non era mai il capriccio personale d'un solo, che sottoponeva tutto al proprio volere; ma un'aristocrazia, che aveva il sentimento della patria, e la difendeva colle armi. Primi nel secolo XV a sentire in Italia le unghie del Leone di San Marco furono i Carrara, signori di Padova, che finirono strangolati (1406). Dopo di ciò fu mandato a Padova un rettore pel civile, un capitano pel militare, lasciando intatte le antiche leggi ed istituzioni locali. Lo stesso seguì o era già seguìto altrove, nel Friuli, nell'Istria, a Vicenza, Verona, Treviso. Questa era una politica assai intelligente e liberale per quel [52] tempo; ma i nuovi sudditi perdevano pur sempre, colla indipendenza, ogni speranza di libertà. I paesi conquistati traevano certo grande vantaggio dall'essere sotto un governo forte e giusto, e dal partecipare all'immenso commercio di Venezia; ma se il benessere materiale faceva nelle moltitudini dimenticare l'amore della libertà e della indipendenza, nelle famiglie potenti che avevano governato o sperato di poter governare, restava invece un odio inestinguibile contro la nuova dominatrice, che, invidiata per l'ordine e la forza del suo governo, era giudicata il nemico più temibile di tutti gli altri Stati italiani.
Essa procedeva tuttavia sicura nelle sue conquiste, ed il secolo XV, in cui l'Italia cominciava rapidamente a decadere, sembrava invece aprire a Venezia un'êra di crescente prosperità. La sua aristocrazia, coi grandi sacrifizî fatti per la patria, col coraggio dimostrato nelle battaglie navali che essa comandava, aveva fatto dimenticare la violenza della propria origine. Occupata nella politica, lasciava liberamente partecipare il popolo al commercio ed all'industria, che, tutelati dalla fermezza delle istituzioni e dalle armi, prosperavano maravigliosamente. Lo stesso avanzarsi dei Turchi, che pur doveva recare tanti danni alla Repubblica, sembrava tornarle ora quasi di vantaggio. Infatti molte isole dell'Arcipelago, molte terre, trovandosi in gran pericolo per l'impotenza dell'Impero greco a difenderle dal terribile uragano che s'avanzava, invocarono la protezione di Venezia, e si abbandonarono ad essa, che così cresceva il proprio dominio, ed acquistava nuovi sudditi, pronti a versare il sangue combattendo il comune nemico, che nei primi scontri subì gravissime perdite. Tutto ciò rialzava moltissimo l'animo della Repubblica, che in quel momento si sentiva come destinata ad essere la difesa dei Cristiani e la dominatrice d'Italia. Nella sua condotta politica, nelle relazioni de' suoi ambasciatori, nelle guerre continue per terra e [53] per mare, il sentimento della patria dominava su tutto, ed ispirava una balda fierezza al linguaggio di quei cittadini, che erano sempre pronti a sacrificarsi per essa. L'onore, la gloria di Venezia erano in cima dei loro pensieri, e nella lotta col Turco che s'avanzava, dettero prove di vero eroismo. Quando nel maggio 1416 l'armata veneta s'affrontò col formidabile nemico presso Gallipoli, Pietro Loredano, che l'aveva comandata, scriveva al suo governo: «Virilmente io capitano investii nella prima galera nemica, piena di Turchi che combattevano come draghi. Circondato da ogni lato, ferito da una freccia che mi passò la mascella sotto l'occhio, da una che mi passò la mano, e da altre molte, non mi restai punto, nè mi sarei restato fino alla morte: presi la prima galera e misi la mia bandiera su quella. I Turchi che vi erano sopra furono tagliati a pezzi, il resto della flotta sconfitto.»[27] Di queste ardite imprese, di questo franco linguaggio, solo Venezia era capace in Italia nel secolo XV. La piccola repubblica delle lagune era divenuta uno dei grandi potentati d'Europa, e pareva sorgere a nuova altezza, quando tutti gli altri Comuni decadevano. Ma i pericoli che s'accumulavano intorno ad essa erano immensi e crescevano da ogni lato.
Il doge Tommaso Mocenigo li prevedeva, e dal suo letto di morte, nell'aprile del 1423, pregava, scongiurava i suoi amici, perchè non si lasciassero spingere più oltre alle guerre ed alle conquiste; sopra tutto non eleggessero a suo successore Francesco Foscari, la cui smodata ambizione li avrebbe trascinati in mezzo alle più audaci e pericolose imprese. Ma questi consigli di prudenza erano vani adesso. Filippo Maria Visconti minacciava tutta l'Italia superiore e la centrale; il Turco s'avanzava; [54] Francesco Foscari venne eletto, ed egli non era certamente uomo da voler ricondurre in porto la nave già lanciata in alto mare. E quando i Fiorentini chiesero a Venezia aiuto contro il Visconti, egli esclamò in Senato: Se mi trovassi in capo al mondo, e vedessi un popolo in pericolo di perdere la sua libertà, io lo aiuterei. «Nu patiremo che Filippo tuoga la libertà ai Fiorentini? Sto furibondo tiran scorrerà per tutta Italia, la struggerà e conquasserà senza gastigo?»[28] Così nel 1426 incominciò quella formidabile lotta che, interrotta e ripresa più volte, finì solo colla morte del Visconti l'anno 1447. In questi ventun anno il Foscari dimostrò un patriottismo ed un'energia veramente romani, combattendo contro pericoli esterni ed interni d'ogni sorta. Coi suoi tesori il Visconti metteva ogni anno in campo nuovi eserciti, e la Repubblica era sempre pronta ad affrontarli. Il Carmagnola, che lo aveva disertato per servire Venezia, parve, subito dopo le prime vittorie, divenire a questa infido, e fu perciò, senza esitazione, con regolare processo condannato a morte. Il 5 maggio 1432, cum una sprangha in bucha, et cum manibus ligatis de retro, iuxta solitum,[29] venne condotto fra le colonne della Piazzetta, e decapitato. Nel 1430 vi fu un attentato contro la vita stessa del Doge, e nel 1433 una congiura contro il suo governo; ma i Dieci fecero di tutto pronta ed esemplare giustizia. Più tardi, istigato dal Visconti, l'ultimo dei Carrara tentò di ripigliare i suoi dominî, e fece anche ribellare Ostasio da Polenta, signore di Ravenna, che era sotto la protezione di Venezia. E allora al Carrara fu tagliata la testa fra le colonne della Piazzetta (1435); il Polentano finì esule in Creta, e Ravenna fece parte del dominio veneto. Morto il Visconti, e posata da poco la guerra di Venezia con Milano, seguì la caduta di Costantinopoli (1453), nella quale tanti Italiani, [55] massime Veneti, perderono la vita. Questo fatto, che incominciò un'epoca nuova nella storia dell'Europa, fu un colpo mortale a Venezia. Pure essa riuscì nel 1454 a fare un trattato, che assicurò libero commercio ai proprî sudditi, e le dètte il tempo d'apparecchiarsi a nuove battaglie.
Ma il pericolo maggiore alla Repubblica venne dai nuovi germi di corruzione interna, che cominciarono a minacciare di dividerla. I nemici del Foscari, dopo avere invano cospirato contro la sua vita ed il suo governo, si volsero ora a tormentarlo col perseguitare il figlio Iacopo, unico superstite dei maschi, di carattere leggerissimo, ma pur ciecamente amato dal padre. Esiliato nel 1445, per avere accettato donativi, il che le leggi vietavano severamente al figlio del Doge, fu, dopo ottenuta la grazia, esiliato di nuovo nel 1451 alla Canea, perchè accusato di connivenza nell'uccisione d'uno di coloro che erano stati suoi giudici. Richiamato di là nel 1456, venne sottoposto a nuovo processo, per aver tenuto segreta corrispondenza col duca di Milano, e fu condannato a più lungo esilio. Entrato nella prigione, il vecchio Doge disse, impassibile, al figlio che cercava grazia ai suoi piedi: «Va, obbedisci a quel che vuol la terra, e non cercar più altro.» Ma uscito dal carcere, appoggiato al suo bastone, Francesco Foscari tramortì.[30] Poco dopo Iacopo morì nell'esilio (12 gennaio 1457), ed il cuore paterno di colui che aveva sostenuto con una volontà di ferro una lotta titanica in difesa della repubblica, si spezzò per le persecuzioni patite dal figlio. Invecchiato, abbattuto, prostrato, non aveva più la forza necessaria a condurre gli affari e a difendersi dai nemici. Allora, invitato a dimettersi e non volendo, fu deposto. Spezzatogli l'anello e toltogli il berretto ducale, egli discese, [56] franco e sereno, per la scala medesima per cui era salito all'alto ufficio, discorrendo tranquillo con chi gli era accanto, senza volersi appoggiare ad alcuno. Il suo successore fu eletto il 30 ottobre, ed egli morì di crepacuore il dì 1º novembre, dopo trentaquattro anni di dogato. Francesco Foscari è certo uno dei più grandi caratteri politici del suo tempo.[31] Con lui Venezia giunse al colmo della sua potenza; dopo di lui cominciò subito a decadere, ma fu una decadenza eroica.
Abbandonata da tutti gl'Italiani, si trovò sola di fronte al Turco, che s'avanzava con forze formidabili. Il sopracomito Girolamo Longo scriveva nel 1468, che la flotta turca con cui doveva affrontarsi, era di 400 vele, le quali occupavano sei miglia di lunghezza. «Il mare pareva un bosco: questa a sentirla dire pare cosa incredibile, ma a vederla è cosa stupenda...; or vedete se sia possibile con astuzia aver vantaggio. Ci vogliono forze e non parole.»[32] Sembrano quasi un linguaggio di paura accanto a quello da noi riportato più sopra del Loredano. Infatti i tempi erano mutati: la Repubblica armava sempre altre navi, che combattevano con eroismo; organizzava la resistenza di tutte le popolazioni cristiane, che versavano generosamente il proprio sangue; mandava armi e danari ai Persiani, perchè anch'essi attaccassero Maometto II, che s'avanzava minaccioso; ma tutto ciò era inutile. Negroponte, Caffa, Scutari, altre città e terre cadevano l'una dopo l'altra, sebbene si difendessero con gran valore. E finalmente Venezia, stanca di trovarsi sempre sola a combattere il nemico della Cristianità, [57] venne nel gennaio 1479 ad una pace che le assicurava il proprio commercio, e che nelle tristi condizioni a cui era ridotta, poteva dirsi onorevole. Allora tutti gl'Italiani, che nulla avevano fatto per aiutarla, furono pronti a gridare unanimi contro di essa, specialmente nel 1480, quando il loro spavento giunse al colmo, per avere i Turchi preso la città di Otranto. Ma questi poco dopo si ritirarono per la morte di Maometto II, e per le discordie seguite nel suo impero: allora gl'Italiani non pensaroro più ad altro.
Da questo momento l'orizzonte della Repubblica si va restringendo sempre di più. Occupata solo de' suoi interessi materiali, avviluppata negl'intrighi della politica italiana, essa non pretese più d'essere la guardiana della Penisola e della Cristianità contro gl'infedeli. Tutto allora sembrava seguire a suo danno nella storia del mondo. La scoperta d'America e quella del Capo di Buona Speranza la posero fuori delle principali vie del commercio. Ristretta da ogni lato, perdette a poco a poco con i grandi guadagni la sua storica importanza, che le veniva dall'essere stata l'anello di congiunzione fra l'Oriente e l'Occidente. Ora tutto si ridusse a strappar qualche terra ai vicini; imporre ad essi il proprio commercio, sempre grande e potente. Avanzatasi fino all'Adda da un lato, occupava dall'altro Ravenna, Cervia, Rimini, Faenza, Cesena ed Imola nelle Romagne; nel Trentino teneva Roveredo e le sue dipendenze; aveva anche portate le sue armi sulla costa adriatica del Napoletano, dove si era impadronita di alcune terre. Ma l'aver tolto a tutti qualche cosa, faceva sì che tutti la temessero e l'odiassero.
Da un altro lato questo Stato così vasto era dominato tutto da una sola città, nella quale comandava per diritto ereditario una piccola parte dei cittadini. Neppure in Venezia era quindi possibile aspettarsi il grande ed organico svolgimento dello Stato moderno; essa anzi rimase esempio [58] vivente dell'antica forma repubblicana, sopravvissuta quasi a sè stessa, destinata ad esaurirsi come per mancanza d'alimento. Ma intanto essa era sempre il governo più forte, più morale che vi fosse in Italia. A misura però che si restringeva la cerchia della sua attività, cessavano le magnanime virtù e gli eroici caratteri, sorti fra i grandi pericoli, contro cui avevano dovuto combattere, e i continui sacrifizî che erano stati chiamati a fare. Crebbero invece l'egoismo, l'amore del lusso e del danaro negli ordini dominanti dei cittadini. Le mogli dei patrizî veneti, coperte di gioie, vestite di stoffe preziose, abitavano nel secolo XV quartieri di tanta ricchezza, che non si trovavano neppure nei palazzi dei principi italiani. Gli uomini però, dice il milanese Pietro da Casola, erano sempre assai più modesti e severi che altrove; «parevano a vederli tanti dottori di legge, e chi trattava con essi doveva tener bene aperti gli occhi e le orecchie.»[33] Tuttavia la loro politica, se non era quella dell'egoismo personale, che dominava nel resto d'Italia; se ebbe ancora giorni di grandi sacrifizî e d'eroismo, era anch'essa guidata da un ristretto patriottismo locale e quasi di casta. Guardavano con piacere alla rovina d'Italia, perchè speravano così di riuscire più facilmente a dominarla. E quando gli stranieri s'avvicinarono alle Alpi, li lasciarono passare, credendo di poterli poi cacciare per succedere ad essi. Invece, questo egoismo che non giovava a nessuno e minacciava tutti, portò alla Lega di Cambray, in cui l'Europa s'alleò ai danni della piccola Repubblica, la quale potè qualche tempo ancora resistere con valore, ma non già salvarsi, come aveva presunto, in mezzo alla rovina generale della patria comune.
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Fra l'infinita varietà di caratteri e d'istituzioni che ci presenta l'Italia nel secolo XV, la storia di Roma forma quasi un mondo a parte. Centro principale degli interessi di tutti i paesi cristiani, la Città Eterna risentiva, più d'ogni altra, le grandi trasformazioni che seguivano in Europa. La costituzione di Stati grandi e indipendenti aveva spezzata e resa impossibile per sempre quella universale unità, che il Medio Evo in parte aveva conseguita, in parte sognata. L'Impero s'andava sempre più restringendo nei confini della Germania, e l'Imperatore cercava rendersi forte con un dominio più sicuro e diretto ne' suoi Stati proprî e personali. Così i Papi, dovendo omai rinunziare ad ogni pretensione di universale dominio civile nel mondo, sentivano più urgente la necessità di costituire davvero un loro regno temporale. Se non che il trasferimento della sede in Avignone, ed il lungo scisma avevano gettato nel disordine e fatto cadere nell'anarchia lo Stato della Chiesa. Roma era dicerto un Comune libero, con una costituzione simile a quella delle altre città italiane; ma, trovandosi in mezzo ad una campagna deserta, il commercio e l'industria non vi erano mai progrediti, ed il suo organismo politico non s'era mai potuto svolgere con vigore, a cagione anche della eccezionale supremazia esercitata dal Papa, dall'Imperatore, e dalla strapotenza dei nobili, che, favoriti dai Papi, mettevano tutto a soqquadro. Gli Orsini, i Colonna, i Prefetti di Vico erano veri e propri principi nei loro immensi dominî, nei quali tenevano armi ed armati, nominavano giudici e notai, qualche volta coniavano anche moneta. Il territorio di Roma era abbastanza vasto, perchè andava dal Garigliano ai confini della Toscana; ma molte delle città che ne facevano parte erano o cercavano continuamente di rendersi indipendenti.
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A che cosa fosse poi ridotto allora il dominio dei Papi in città come Bologna, Urbino, Faenza, Ancona, le quali facevano parte dello Stato della Chiesa, ma erano costituite in repubbliche o signorie affatto indipendenti, può immaginarselo ognuno. Per fondare il dominio temporale, bisognava quindi fare una vera e propria conquista. Innocenzo VI (1352-62) aveva iniziato l'opera, mandando in Italia il cardinale d'Albornoz, che col ferro e col fuoco sottomise una gran parte dello Stato della Chiesa. Ma questa vantata sottomissione si ridusse, in fondo, a costruire nelle principali città, fortezze tenute in nome del Papa; a trasformare i tiranni in vicarî del Papa, e far prestare dalle repubbliche atto d'obbedienza, riconoscendo però i loro Statuti. Così gli Este, i Montefeltro, i Malatesta, gli Alidosi, i Manfredi, gli Ordelaffi furono legittimi signori di Ferrara, Urbino, Imola, Rimini, Faenza, Forlì. Invece Bologna, Fermo, Ascoli ed altre città restarono repubbliche, sebbene riconoscessero anch'esse la supremazia del Papa. La costituzione politica del Comune di Roma cominciò allora ad essere trasformata. I Papi da lungo tempo cercavano mutare in amministrative le sue magistrature politiche, e per questa medesima via continuarono sempre fino a che non riuscirono a distruggere del tutto le libertà comunali della Città Eterna. Un tale lavoro, già molto avanzato, fu alla fine del secolo XIV interrotto dallo scisma che lacerò lungamente la Chiesa, gettò di nuovo ogni cosa nell'anarchia, e impedì la formazione d'ogni forte governo, d'ogni ferma autorità.
L'anno 1417 finalmente il Concilio di Costanza fece cessare lo scisma, deponendo tre Papi, ed eleggendo Ottone Colonna, che prese il nome di Martino V. Così incominciò nella storia del Papato un nuovo periodo, che durò sino al principio del secolo seguente, ed in esso i successori di San Pietro sembrarono deporre ogni pensiero della religione, per occuparsi solo di costituire il loro regno temporale. Divenuti simili affatto agli altri tiranni [61] italiani, adoperarono le stesse arti di governo. Se non che la grande diversità della loro condizione nel mondo, e l'indole propria dello Stato che dovevano governare, dava alle loro azioni un carattere affatto speciale. Eletti generalmente in età avanzata, i Papi si trovavano ad un tratto, in mezzo ad una nobiltà riottosa e potente, alla testa d'uno Stato disordinato, scomposto, in una città tumultuosa, nella quale erano spesso senza parenti o amici, qualche volta stranieri affatto. Quindi, per cercar forza, chiamavano e si davano a proteggere i fratelli, i nipoti che spesso invece erano figli; e così ebbe origine quello scandalo nella Chiesa, che fu noto col nome di nepotismo, e che è proprio più specialmente di questo secolo. Entrati una volta nel turbinoso vortice della politica italiana, i Papi si trovarono costretti a promuovere nel medesimo tempo due interessi, che non di rado erano in collisione fra loro, il politico cioè ed il religioso. Assai spesso la religione divenne il mezzo di cui si valsero per conseguire i loro fini politici, e quindi, sebbene sovrani di uno Stato piccolo e disordinato, poterono, con l'autorità della Chiesa, mettere l'intera Italia a soqquadro; e quantunque non riuscissero mai a dominarla tutta, la tennero divisa, debole e sempre più facile preda degli stranieri, che essi continuamente chiamarono. Da un altro lato cercavano valersi della loro autorità politica, per tener viva quella forza religiosa che s'andava spegnendo negli animi. Uno stato di cose tanto anormale sembrò turbare stranamente la coscienza stessa di coloro che avrebbero dovuti essere i rappresentanti di Dio sulla terra, e che, a poco a poco, perduto ogni pudore, caddero in tali oscenità e delitti, che il Vaticano parve qualche volta essere divenuto un'orgia di avvelenamenti, di congiure e di stupri. Si correva così il rischio di estirpare ogni sentimento religioso dal cuore dell'uomo, di scalzare per sempre le basi stesse della morale.
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I primi germi di questa funesta corruzione pur troppo nascevano fatalmente dalle condizioni in cui si trovava allora il Papato, e quindi cominciarono a portare i loro frutti anche sotto Martino V, che fu forse il migliore dei Papi in quel secolo. Egli s'avanzò da Costanza, secondo l'espressione d'un moderno, come un signore senza terra, sì che a Firenze i fanciulli gli cantavano dietro canzoni di scherno. Quando entrò in Roma il 28 settembre 1420, cogli aiuti della regina Giovanna di Napoli, il popolo romano, perdute ormai le libere istituzioni, si presentava a lui come una folla di poveri. La peste, la fame, la guerra avevano per molti anni desolata la Città Eterna; i monumenti, le chiese e le case erano in rovina; le strade piene di macerie e di pantani; i ladri assalivano di giorno e di notte. Nella Campagna era scomparsa l'agricoltura, e immense estensioni di terre erano divenute deserti; le città del territorio combattevano fra loro, e i nobili, chiusi nei loro castelli, che parevano nidi di ladri, sprezzanti d'ogni autorità, intolleranti d'ogni freno e d'ogni legge, facevano una vita da briganti. Martino V si pose all'opera con fermezza, e prima di tutto compiè la distruzione del libero reggimento di Roma, mutandolo addirittura in un municipio amministrativo. Molte terre ribelli furono poi sottomesse, molti capi di bande armate furono presi ed impiccati: cominciò così a ristabilirsi l'ordine, e ad aversi finalmente una forma di regolare governo. Questo fu però ottenuto coi mezzi che abbiamo qui sopra accennati. Il Papa, per trovare fautori ed amici, si gettò addirittura in braccio ai Colonna, suoi parenti, e fece loro concludere ricchi matrimonî, concesse loro nello Stato della Chiesa o fece concedere nel regno di Napoli vasti feudi. Così di potenti li rese strapotenti, ed iniziò il nepotismo. Per mantenere la supremazia pretesa sempre dai Papi nel reame, e per cavarne in ogni modo vantaggio ai suoi, sostenne prima Giovanna II, che lo aveva aiutato ad entrare in Roma; poi Luigi d'Angiò, che la [63] combatteva; poi Alfonso d'Aragona, che trionfò di tutti. E questa funesta politica, continuata anche da' suoi successori, fu precipua cagione della totale rovina del Napoletano, ed in parte anche della rimanente Italia. Pure in Roma si vedeva finalmente un'apparenza almeno di ordine e di regolare governo. Le vie, le case, i monumenti si cominciavano a restaurare; per la città e per molte miglia nella campagna si poteva, dopo tanti anni, camminare senza tema d'esser rubati o assassinati. E però, dopo la morte di Martino V (20 febbraio 1431), fu scritto sulla sua tomba: Temporum suorum felicitas. Nè la iscrizione può dirsi del tutto immeritata, tanto più che le sue colpe vennero ben presto fatte dimenticare da quelle assai maggiori de' successori, ai quali mancarono le sue virtù.
Eugenio IV che s'appoggiò agli Orsini, ed ebbe quindi fieramente avversi i Colonna, venne subito cacciato da una rivoluzione, ed inseguíto a colpi di pietre, quando se ne fuggiva pel Tevere, a mala pena riuscendo a ripararsi in una barca (giugno 1434). Giunto a Firenze, egli dovette rifarsi da capo, e mandò a Roma il patriarca Vitelleschi, più tardi cardinale, che alla testa di bande armate, cominciò col ferro e col fuoco un vero sterminio. La famiglia dei Prefetti di Vico s'estinse in Giovanni, cui fu mozzato il capo; quella dei Colonna fu in parte distrutta dal fiero prelato; la medesima sorte subirono i Savelli. Molti castelli vennero spianati, molte città distrutte, e gli abitanti correvano la Campagna affamati, cercando qualche volta di vendersi come schiavi. Quando finalmente il Vitelleschi, alla testa d'un piccolo esercito, entrava come un trionfatore nella Città Eterna, che tremava ai suoi piedi, il Papa insospettito gli mandò per successore lo Scarampo, altro prelato della stessa tempra; ed il Vitelleschi, che voleva allora resistere, fu subito circondato, ferito, preso e messo in Castel Sant'Angelo, dove morì. Eugenio IV potè finalmente tornare tranquillo e sicuro in Roma; e dopo tre anni anch'egli morì (1447).
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Il destino di questo Papa, che sottomise definitivamente la Città Eterna, fu singolare. Quando il Vitelleschi e lo Scarampo facevano correre il sangue a fiumi, egli se ne stava a Firenze tra le feste e gli eruditi. Senza aver grande cultura, nè sentir molto amore per le lettere, trovandosi al Concilio fiorentino, ed avendo bisogno d'interpetri per discutere e trattare coi rappresentanti della Chiesa greca, si vide costretto ad ammettere gli eruditi nella Curia, la quale ben presto ne fu inondata, il che portò poi un notevole mutamento nella storia del Papato. Accanto al suo feretro venne recitato un solenne elogio funebre, in latino classico, dal celebre umanista Tommaso Parentucelli, il quale fu eletto a succedergli unicamente per la gran fama della sua erudizione. Prese il nome di Niccolò V, e si disse allora da tutti, che con lui era salita sulla cattedra di San Pietro l'erudizione stessa. Trovando lo Stato abbastanza sicuro e tranquillo, egli che non aveva un ingegno originale, nè conosceva il greco (gravissima mancanza per un dotto del secolo XV), ma che era il più grande raccoglitore ed ordinatore di antichi codici, portò questa passione sulla sedia apostolica, facendone quasi unico scopo del suo Papato. Il sogno principale della sua vita fu di trasformare Roma in un gran centro di letterati, in una grande città monumentale, con la prima biblioteca del mondo. Potendo, egli avrebbe trasportato tutta Firenze sulle rive del Tevere. Mandò suoi messi in giro per l'Europa, a raccogliere o copiare codici antichi; eccitò molti eruditi a tradurre, con lauti stipendî, classici greci, senza occuparsi delle loro opinioni religiose o politiche. Il Valla, che aveva con gran clamore scritto contro la donazione di Costantino ed il potere temporale dei Papi, fu dei primi ad essere chiamato da lui. Stefano Porcari, che con la lettura dei classici s'era, come Cola di Rienzo, infatuato della repubblica, fu pure colmato di onori. Costui però, avendo addirittura cospirato [65] per sovvertire il Governo e restaurare gli ordini repubblicani, fece finalmente perdere la pazienza al Papa, e venne condannato a morte. Ma nulla poteva intiepidire la passione erudita di Niccolò V: a tutto egli rimediava con qualche discorso latino, come fece per la caduta di Costantinopoli; e continuava sempre a comprare codici, a chiamare eruditi. La Curia divenne un'officina di truduttori e di copiatori; la biblioteca Vaticana s'andò accrescendo con rapidità, e fu arricchita di molti volumi splendidamente legati. Nello stesso tempo s'aprivano strade, si costruivano fortezze, sorgevano chiese e monumenti d'ogni sorta. Era una febbrile attività, perchè il Papa, coll'aiuto dei primi architetti del mondo, fra cui Leon Battista Alberti, ideava un disegno, secondo cui Roma avrebbe vinto lo splendore di Firenze. La città leonina doveva essere trasformata in una grande fortezza papale, in cui San Pietro e il Vaticano dovevano essere ricostruiti dalle fondamenta. Sebbene Niccolò V non riuscisse a compiere questa impresa veramente grandiosa, alla quale sarebbero bastate appena molte generazioni; pure la iniziò con tanto ardore, che sotto di lui Roma mutò totalmente aspetto, ed i lavori immortali, eseguiti al tempo di Giulio II e di Leone X, continuarono l'attuazione del suo medesimo disegno.
Il 24 marzo 1455 Niccolò V moriva da vero erudito, dopo aver fatto cioè un discorso latino ai cardinali ed agli amici. Successe a lui, col nome di Calisto III, uno Spagnuolo, abile giurista, venuto in Italia come avventuriero politico, accompagnando Alfonso d'Aragona. Costui aveva settantasette anni; apparteneva al clero allora corrottissimo della Spagna, non ancora disciplinato e domato dalla politica di Ferdinando e d'Isabella; portava il nome, divenuto poi assai infausto, dei Borgia: il suo breve papato fu come una meteora annunziatrice di futuri guai. Di codici e di eruditi non s'occupò punto nè poco. Con una cieca avidità, senza riguardi e senza pudore, [66] colmò di onori, di possessi e di danari i suoi nipoti, uno dei quali doveva poi prender la tiara col nome ben noto d'Alessandro VI. Riempì la città d'avventurieri spagnuoli, affidando loro l'amministrazione e la polizia, il che fece crescere a dismisura i delitti. Il sangue scorreva, l'anarchia minacciava di tornare in Roma, quando il vecchio Calisto morì (6 agosto 1458), ed allora uno scoppio improvviso di furor popolare mise in fuga gli Spagnuoli, e gli stessi nipoti del Papa a fatica scamparono la vita.
Successe un altro Papa erudito, Enea Silvio Piccolomini senese, uomo vario, versatile d'ingegno e di carattere. Dopo una vita passata prima nei piaceri, poi nelle discussioni di Basilea, dove sostenne l'autorità di quel Concilio contro il Papa; più tardi tra gli affari della cancelleria imperiale in Germania, dove fu primo a propagare la erudizione italiana, egli rinnegò finalmente le sue ardite dottrine, condannò i trascorsi giovanili, e così potè salire di grado in grado negli ordini ecclesiastici fino al Papato (19 agosto 1458), pigliando il nome di Pio II. Continuò sempre a studiare ed a scrivere pregevoli opere; ma non protesse i dotti, come tutti avevano sperato, occupandosi invece di dare ufficî e protezione a' suoi parenti ed a' suoi Senesi. Roma era caduta nuovamente in preda all'anarchia, in conseguenza della pazza politica di Calisto III, il quale, sebbene creatura degli Aragonesi, aveva favorito gli Angioini; ma Pio II, più accorto, favorì gli Aragonesi, e potè col loro aiuto sottomettere i ribelli. Il pensiero dominante di questo Papa, fu la Crociata contro il Turco; ma, uomo del suo secolo, ed umanista, egli era mosso più da entusiasmo retorico che da zelo religioso. In Mantova, dove invitò a solenne congresso i principi cristiani (1459), s'udirono molti discorsi latini; ma fu più che altro un'accademia letteraria, con grandi promesse, che restarono senza effetto. Perseverando nella stessa idea, il Papa erudito scrisse una lettera [67] latina al sultano Maometto II, con la strana pretensione di convertirlo. Invece arrivavano sempre nuovi esuli greci, fuggendo dinanzi ai Turchi, che avevano invaso la Morea; e Tommaso Paleologo, che ne era stato il despota, portava ora in Roma la testa dell'apostolo Andrea. Tutta la città parve allora trasformata in una chiesa in festa, per ricevere la sacra reliquia, che venne accompagnata da 30,000 fiaccole; e Pio II ne pigliò occasione a fare un altro solenne discorso latino in favore della Crociata, ad un popolo scettico, nel quale molti ammiravano la nuova reliquia cristiana solo perchè era portata da gente che parlava la lingua d'Omero.
Nel 1462 il Papa aveva raccolto buona somma di danaro, per l'improvvisa scoperta di ricche miniere d'allume a Tolfa, e tornò da capo all'idea della Crociata, invitando i principi a partire subito per l'Oriente. Vecchio e malato com'era, si fece portare in lettiga ad Ancona, dove s'aspettava di trovar navi ed eserciti, che voleva accompagnare per benedire egli stesso la battaglia, come fece Mosè quando Israele combatteva contro Amalech. Invece il porto era vuoto, e quando arrivarono finalmente poche galee veneziane, Pio II spirò guardando l'Oriente, e raccomandando la Crociata (15 agosto 1464). Questa vita, che a primo aspetto può sembrare soggetto degno di romanzo o anche d'epico racconto, fu in sostanza priva d'ogni vera gloria o santità religiosa. Pio II fu un erudito di molto ingegno, che voleva compiere qualche cosa d'eroico, senza avere in sè stesso nessuna eccezionale grandezza morale. Sebbene fosse, tra i Papi di quel secolo, il più notevole certo per ingegno, non ebbe profonde convinzioni; rifletteva le opinioni e le velleità degli uomini fra cui viveva, mutando sempre, secondo i tempi e secondo le condizioni, in cui si trovava. Il suo regno sembrò avere un certo splendore, e dar molte speranze; ma in fatto poi non lasciò nulla di durabile dietro di sè. Dopo che v'erano stati Papi che avevano colla forza fondato [68] il temporale dominio, e Papi che avevano fatto fiorire a Roma le lettere e le arti; dopo che egli, mantenendo l'ordine, aveva col predicare la Crociata, dato anche l'apparenza d'un risveglio religioso in Italia, poteva aspettarsi un'èra migliore di pace sicura. Invece ora appunto si scatenano le passioni, e sono vicine le più grandi oscenità, i più terribili delitti nella Corte di Roma.
Paolo II, consacrato il 16 settembre 1464, s'avvicinò a questo nuovo e più funesto periodo, senza averlo però ancora cominciato davvero; può anzi dirsi migliore della sua fama. Tuttavia, non curante delle lettere, egli era invece dato ai piaceri della vita, e sebbene non privo di qualità politiche, reputò arte di governo corrompere il popolo colle feste, che promosse profondendo tesori. Il suo nome passò odiato appresso i posteri, perchè, senza riguardi, cacciò gli eruditi dalla segreteria apostolica, per mettervi invece i suoi fidi. E quando gli scacciati levarono i più alti clamori, e nell'Accademia Romana di Pomponio Leto cominciarono a tenere discorsi che ricordavano Cola di Rienzo e Stefano Porcari, sciolse l'Accademia e ne imprigionò i membri. Il Platina allora, chiuso e torturato in Castel Sant'Angelo, giurò vendetta, e la fece nelle sue ben note Vite dei Papi, le quali ebbero una grande diffusione. In esse egli descrisse il suo persecutore come un mostro di crudeltà. Il vero è però che Paolo II, senza punto essere un buon Papa, non fu privo di meriti. Riordinò la giustizia, punendo severamente molti di quei manigoldi, che, a servizio dei magnati, empivano Roma di delitti; fece fare una nuova compilazione degli Statuti romani; combattè con energia i Malatesta di Rimini, e distrusse l'oltracotanza degli Anguillara, che possedevano gran parte della Campagna e del territorio di San Pietro. Nè si può troppo fermarsi a biasimare le sue colpe, quando si pensa ai tempi ed a coloro che gli successero.
I tre Papi che seguono adesso, Sisto IV, Innocenzo VIII [69] ed Alessandro VI, sono quelli che riempiono il più triste periodo nella storia del Papato, e ci mostrano davvero a quali condizioni fosse ridotta allora l'Italia. Il primo di essi era un frate genovese, che, appena eletto (9 agosto 1471), si mostrò subito un tiranno violento, senza scrupoli di sorta. Aveva bisogno di danari, e mise in vendita ufficî, benefizî, indulgenze. Proteggeva con indomabile ardore i nipoti, alcuni dei quali si credeva, invece, che fossero suoi figli. Uno di essi, Pietro Riario, fatto cardinale, ebbe 60,000 scudi di rendita, e s'abbandonò al lusso, alle feste, alle dissolutezze, così perdutamente che ne morì subito, esausto di forze e carico di debiti. Il fratello Girolamo, ugualmente favorito, faceva la medesima vita. Tutta la politica del Papa era diretta dall'avidità d'acquistare o conquistare pei nipoti e pei figli. L'avere Lorenzo dei Medici attraversato questi disegni, fu cagione che la congiura dei Pazzi venisse tramata nel Vaticano stesso; e non essendo riuscita, il Papa mosse guerra a Firenze, e la scomunicò. Più tardi s'unì coi Veneti contro Ferrara, sempre col medesimo intento di strappare qualche provincia pe' suoi, e ne seguì una guerra generale, pigliandovi parte ancora i Napoletani, che assalirono Roma, dove subito si scatenarono le fazioni dei nobili. Roberto Malatesta da Rimini fu chiamato a difendere la Città Eterna, ed essendo morto di febbre malarica, presa nella guerra, il Papa voleva profittarne, spogliando dello Stato l'erede di lui, disegno però che i Fiorentini mandarono a vuoto.
Vedendosi in pericolo, mutò bandiera, e s'unì coi Napoletani contro Ferrara e contro i Veneti, i quali ultimi sembrava a lui che volessero condurre la guerra solo a proprio vantaggio. Si volse inoltre a far vendette contro i nobili, a lui avversi, specialmente i Colonna. Girolamo Riario, avido di sangue, comandava le artiglierie che furono benedette dal Papa stesso, e prese a tradimento il castello di Marino, con la promessa di salvare la vita [70] al protonotario Lorenzo Colonna, che fu invece decapitato. Al funerale in SS. Apostoli, la madre, accecata dal dolore, prese pei capelli la testa del figlio, e mostrandola al popolo esclamò: Ecco la fede del Papa! Tutte queste scene di sangue non turbarono punto nè poco l'animo di Sisto IV. Quando però gli giunse improvvisa la notizia che i Veneti, da lui abbandonati, avevano, senza consultarlo e senza tener conto di lui nè de' suoi, fatto la pace di Bagnolo (7 agosto 1484); allora, assalito da febbre violenta, morì (12 agosto), come si disse da tutti, pel dolore della pace.
Nulla vis saevum potuit extinguere Sixtum;
Audito tantum nomine pacis, obit.[34]
Le case del Riario andavano a sacco, gli Orsini e i Colonna erano in armi, quando i cardinali, accorsi in fretta al Conclave, riuscirono a stabilire una tregua. Ed allora cominciò il più scandaloso mercato di voti per la elezione alla sede apostolica, che si vendeva al maggiore offerente. Il fortunato compratore fu allora il cardinale Cibo, che venne proclamato il 29 agosto 1484 col nome d'Innocenzo VIII. Nemico degli Aragonesi, entrò subito nella congiura dei baroni napoletani, promettendo loro uomini, armi, danari, e la chiamata d'un nuovo pretendente angioino. La città d'Aquila cominciò la ribellione, sollevando la bandiera della Chiesa (ottobre 1485); Firenze e Milano si dichiararono per gli Aragonesi; Venezia e Genova furono, invece, col Papa e coi baroni, i quali erano aiutati dai Colonna: gli Orsini, armati nella Campagna, vennero fin sotto le mura stesse di Roma. La confusione giunse al colmo; il Papa, disperato d'aiuto, armò anche i condannati per delitti comuni; i cardinali erano divisi, il popolo impaurito, e solo il cardinale Giuliano della Rovere passeggiava sulle mura, pronto alla difesa. [71] Da un momento all'altro s'aspettava l'assalto del Duca di Calabria. Se non che, l'invito fatto dal Papa a Renato II di Lorena fece concludere la pace, obbligandosi Ferrante ad un annuo tributo, ed a dare amnistia ai baroni, che invece poi furono uccisi.
L'anarchia s'era, fra tanta confusione, di nuovo scatenata in Roma, nè si vedeva modo di contenerla: ogni mattina si trovavano cadaveri per le vie. Chi pagava, otteneva un salvocondotto; chi non pagava, era impiccato a Tor di Nona. Ogni delitto aveva la sua tariffa, e le somme maggiori di 150 ducati andavano a Franceschetto Cibo figlio del Papa, le minori alla Camera. Il parricidio, lo stupro, tutto poteva essere assoluto per danaro. Il Vice-Camerlengo diceva ridendo: Il Signore non vuole la morte del peccatore, ma che viva e paghi. Le case dei cardinali erano piene di armi, di bravi e di malfattori, cui davano asilo. Nè era molto diverso lo stato delle cose in provincia. A Forlì fu assassinato Girolamo Riario (1488), dicevasi, perchè il Papa voleva dare quello Stato a Franceschetto Cibo; a Faenza Galeotto Manfredi fu ucciso dalla moglie. Il pugnale ed il veleno lavoravano per tutto; le più diaboliche passioni s'erano scatenate in Italia, e Roma era la fucina principale dei delitti.
Intanto Innocenzo VIII si divertiva colle feste. Egli fu il primo dei Papi che riconoscesse apertamente i proprî figli, e ne celebrasse le nozze. Franceschetto sposò Maddalena di Lorenzo de' Medici (1487), ed il fratello di lei, Giovanni, fu in compenso fatto cardinale all'età di 14 anni. In mezzo a queste ed altre splendide feste di famiglia, arrivava un singolare personaggio, il quale veniva a compiere lo strano spettacolo che offeriva Roma in quel tempo. Djem o, come lo chiamavano gl'Italiani, Gemme, era stato vinto e messo in fuga quando contrastava al fratello Bajazet la successione al trono di Maometto II. Capitato a Rodi, i cavalieri di quell'Ordine [72] lo avevano fatto prigioniero, ricevendo da Bajazet 35,000 ducati l'anno, a condizione che non lo lasciassero fuggire. Più tardi Innocenzo riuscì ad avere per sè la ricca preda, ottenendo 40,000 ducati annui da Bajazet, il quale prometteva una somma assai maggiore, quando gli fosse stato mandato il cadavere del fratello, cosa che però al Papa non metteva conto. E così il 13 marzo 1489 Gemme, vestito del suo abito nazionale, immobile sul suo cavallo, impassibile nella sua severa malinconia orientale, entrava solennemente in Roma, ed alloggiava nel Vaticano, dove s'occupava di musica e di poesia. La presa di Granata, ultimo asilo dei Mori nella Spagna, l'arrivo di sacre reliquie dall'Oriente, tutto dava luogo a feste, a processioni, a baccanali romani. Memorabile fu anche l'arrivo del giovane cardinale Giovanni dei Medici, che aveva allora soli diciassette anni. A lui il padre Lorenzo, fra molti savî consigli, scriveva: si ricordasse che entrava nella sentina di ogni male. E così era veramente. I figli ed i nipoti del Papa facevano tutti parlare della loro vita scandalosa. Franceschetto Cibo in una sola notte perdeva 14,000 fiorini, giocando col cardinal Riario, che accusò al Papa come giocatore falso; ma i danari erano già pagati. La Città Eterna era divenuta un gran mercato d'ufficî, che spesso venivano creati a bella posta per essere venduti; nè solo ufficî, ma si vendevano ancora bolle false, indulgenze ai peccatori, impunità agli assassini. L'Infessura afferma che un padre fu con 800 ducati assoluto dell'uccisione di due figlie. Ogni sera si gettavano nel Tevere i cadaveri trovati nelle vie.
In mezzo a queste orgie infernali, il Papa di tanto in tanto cadeva in un sopore che lo faceva creder morto; ed allora i cardinali, i parenti correvano ad assicurarsi di Gemme, dei tesori, e la città era in tumulto. Il Papa si risvegliava, e di nuovo cominciavano le feste, continuavano gli assassinî. Finalmente un altro accesso del [73] male non dava più nessuna speranza. I parenti circondavano ansiosi il letto del moribondo, che pigliava solo latte di donna: si disse ancora che fu tentata la trasfusione del sangue, nel quale esperimento sarebbero morti tre bambini. Ma tutto fu vano, chè il 25 luglio 1492, l'anno stesso in cui chiudeva gli occhi Lorenzo de' Medici, Innocenzo VIII cessava di vivere in età di sessanta anni. Quando era morto Sisto IV, l'Infessura benediceva il giorno in cui Iddio aveva liberato il mondo da un tal mostro; e fu eletto invece un Papa peggiore. Nessuno supponeva ora che fosse possibile peggiorare ancora; eppure venne eletto Alessandro VI, che seppe, colle sue scelleratezze, far dimenticare tutte quelle dei suoi predecessori. Noi ne parleremo quando dovremo narrare la catastrofe che, sotto il suo pontificato e in parte per opera sua, colpì tutta l'Italia.[35]
Il regno di Napoli somiglia ad un mare sempre in burrasca, che però, nella immutabile uniformità de' suoi movimenti, ci presenta una continua monotonia. Glorioso senza dubbio era stato il periodo degli Hohenstaufen; ma esso si chiuse colla nobile morte di Manfredi, e colla tragica fine di Corradino (29 ottobre 1268), dramma il cui lugubre eco riempie tutto il Medio Evo. Il trionfo degli Angioini, chiamati dai Papi, stati sempre acerrimi [74] nemici del grande Federigo II e de' suoi successori, fu il principio d'infinite calamità. La mala signoria di Carlo I d'Angiò fece ben presto ribellare i popoli; onde per domarli fu giuocoforza appoggiarsi ai baroni, che divennero potentissimi, si divisero in fazioni, lacerarono quel misero paese, e divennero spesso un'arme potentissima in mano dei Papi, i quali vi chiamarono sempre nuovi pretendenti, ogni volta che videro un principe farsi colà troppo potente. Con questi mezzi cercarono acquistar terre ai loro nipoti, e mantenere la loro supremazia nel Reame, che di continuo desolarono, gettandolo nell'anarchia con danno infinito di tutta Italia. Pagarono nondimeno il fio di questa iniqua politica, perchè i nobili romani, avendo esteso i loro dominî anche colà, divennero sudditi dei due sovrani, e furono così una leva adoperata vicendevolmente dall'uno a danno dell'altro, con inevitabile rovina d'ambedue. Intanto il Napoletano fu sottoposto ad un vero e lungo processo di dissoluzione. Ogni giorno sorgevano nuovi pretendenti, il popolo era sempre oppresso, i baroni sempre in rivolta, nessuna istituzione poteva acquistare stabilità e fermezza, nessun carattere riesciva lungamente a dominare e guidare gli altri. Sotto Giovanna I, che ebbe quattro mariti e morì soffocata con un piumaccio, il Reame era già caduto nell'anarchia, e la corte era un ridotto di avventurieri dissoluti. Più tardi re Ladislao pareva che dovesse iniziare un'èra novella: domati i baroni, vinti i nemici interni, poneva guarnigione in Roma stessa, e s'avanzava alla testa di un forte esercito, facendo credere di volere ed anche di sapere divenire re d'Italia, quando improvvisamente morì a Perugia di veleno, secondo che generalmente fu detto e creduto (1414). Con Giovanna II, sorella di Ladislao, si fu di nuovo tra le oscenità e l'anarchia. Vedova, vecchia, dissoluta, innamorata del suo scalco, fece cadere lo Stato in preda dei nobili, dei capitani di ventura e dei più bassi cortigiani. [75] Martino V, che l'aveva fatta incoronare nel 1419, chiamò l'anno seguente Luigi III di Angiò a combatterla qual nuovo pretendente; ed essa invitò di Spagna Alfonso d'Aragona, che proclamò suo successore, per poi nominare invece Renato di Lorena, il quale ebbe l'aiuto di Eugenio IV e del duca di Milano. Ne seguì una guerra lunga e rovinosa, che finì solo quando Alfonso d'Aragona, vittorioso in molte battaglie, entrò nella capitale pei condotti d'acqua di Porta Capuana, il 2 giugno 1442, e fu finalmente signore del Reame con grandi fatiche e guerre conquistato. Così venne fondata la dinastia aragonese.
In che misere condizioni si trovasse quello Stato, e quanto universalmente fosse allora desiderata la pace, non occorre dirlo. Il trionfo d'Alfonso fu salutato come il principio d'un'èra novella. Egli aveva lasciato la Spagna per venire a fare tra noi una guerra avventurosa, con la quale, sostenendo fatiche e pericoli d'ogni sorta, aveva conquistato un vasto regno combattendo e vincendo i primi capitani del secolo, un numero assai grande di nemici. Straniero all'Italia, comandava ora provincie da lungo tempo lacerate e dominate da stranieri; mutò assai rapidamente il suo carattere nazionale, per divenire in tutto simile ai nostri principi, con uno spirito militare e cavalleresco, però, che essi avevano di rado. Passeggiava disarmato e senza guardie in mezzo al suo popolo, dicendo che un padre non deve temere de' suoi figli. La sua corte era piena di eruditi, e mille aneddoti si raccontavano a provare la sua straordinaria ammirazione per gli antichi.
Passando coll'esercito accanto alle città, in cui qualche scrittore latino era nato, si fermava come dinanzi ad un santuario; viaggiava sempre con un esemplare di Livio o di Cesare. Il suo panegirista Panormita pretendeva di averlo guarito da una malattia, leggendogli alcune pagine di Quinto Curzio; e si diceva che Cosimo de' Medici [76] aveva concluso con lui la pace, inviandogli un codice di Livio. Uomo di guerra e d'animo spregiudicato, spesso in lotta coi Papi, accoglieva tutti quei dotti che altrove erano perseguitati. Così fu del Valla, quando dovè fuggire da Roma per l'opuscolo contro la donazione di Costantino ed il potere temporale dei Papi; così del Panormita, quando il suo Ermafrodito, tanto lodato per la facile eleganza del verseggiare, scandalizzò per la oscenità che allora non erano anche divenute familiari tra gli eruditi, e fu anatemizzato dai pergami. Questi ed altri molti letterati venivano amichevolmente accolti, e splendidamente remunerati con stipendî, anche con case e con ville. Portato a cielo dai dotti, Alfonso ebbe il nome di Magnanimo per la sua generosità e pel suo spirito cavalleresco. Ma come uomo politico, come fondatore d'una dinastia e riordinatore d'un regno, non gli si può dare gran merito. Dopo avere desolate colla guerra le infelici provincie del Mezzogiorno, le dissanguò colle imposte, per pagare i soldati e premiare i nobili suoi fautori, sui quali accumulò immensi favori, rendendoli sempre più prepotenti. Dato ai piaceri della vita, non seppe, in sedici anni di un regno non contrastato, fondare nulla di stabile; nulla che sollevasse il popolo dalla estrema miseria in cui l'aveva colla guerra trascinato; nulla che, consolidando lo Stato, assicurasse la dinastia. Morto in età di 63 anni compiuti (1458), lasciò i suoi dominii ereditarî nella Spagna, con la Sicilia e la Sardegna, al fratello; il regno di Napoli, frutto della conquista, al figlio naturale Ferdinando, la cui origine materna era avvolta nel mistero.
Erede d'un vasto regno conquistato e pacificato dal padre, poteva Ferdinando o Ferrante, come lo chiamavano, sperare di possederlo tranquillamente; ma dovè invece riconquistarlo colle armi, perchè il disordine latente portò subito i suoi frutti. La prima scintilla fu accesa da papa Calisto, il quale doveva tutto ad Alfonso, [77] ed aveva legittimato Ferrante. Invece ora dichiarava estinta la discendenza aragonese, ed il Reame devoluto alla Chiesa come feudo. I baroni angioini furono in armi; Renato di Lorena sbarcò tra le foci del Volturno e del Garigliano; la rivoluzione scoppiò in Calabria ed altrove. Pure, combattendo continuamente, Ferrante riuscì nel 1464 a sottomettere di nuovo tutto il Regno; ed allora non pensò a riordinarlo, ma solo a fare le sue vendette. Egli preferiva spegnere i proprî nemici a tradimento. Con una crudeltà ributtante davvero li abbracciava, li carezzava e li cibava lautamente prima di mandarli a morte. Uomo di singolare ingegno, di grande penetrazione politica e di coraggio, ma pieno di vizî e di contradizioni, mantenne nel Regno un'amministrazione rovinosa, facendo anche commercio per proprio conto. Raccoglieva derrate, ed obbligava i sudditi a non vender le loro, se prima egli non aveva venduto le sue al prezzo che voleva. Tutto era fondato sopra un sistema artificioso, falso, che finiva col distruggere le forze dello Stato, sebbene il re avesse scelto a ministri uomini abilissimi. Fra questi sono noti il segretario Antonello Petrucci ed il Pontano, che era non solamente uno dei più grandi eruditi del secolo, ma anche un accortissimo diplomatico. Egli fu il principale ministro di Ferrante, conduceva le relazioni cogli Stati italiani, scriveva i dispacci diplomatici, concludeva i trattati. Francesco Coppola conte di Sarno, ricchissimo e potente, dirigeva l'amministrazione e le operazioni commerciali per trovare danari, senza alcun rispetto umano o divino. Ma questi abili ministri non erano che strumenti della falsa politica d'un tiranno accorto e d'ingegno, il quale trattava il popolo e lo Stato come una tenuta, da cui voleva, durante la sua vita, cavare più danaro che poteva, lasciando ai posteri la cura del poi. A ciò s'aggiungeva che il Duca di Calabria, Alfonso, più crudele, superbo e tiranno del padre, senza averne l'ingegno nè il coraggio, disgustava chiunque [78] lo avvicinava. Quando i Turchi, che avevano occupato Otranto, si ritirarono per la morte di Maometto II, parve al volgo che fuggissero dinanzi alle armi d'Alfonso, e ciò lo rese più superbo ed insopportabile che mai, in modo che lo stesso Antonello Petrucci ed il conte di Sarno, disgustatissimi del presente, e temendo più ancora dell'avvenire, pel carattere di colui che sarebbe successo al trono, si gettarono a capo degli scontenti, decisi a tentare la rivolta. Papa Innocenzo soffiò nel fuoco, e ne venne la congiura dei baroni, la quale mise in fiamme il Reame, e minacciò di portare una guerra generale in Italia (1485). Ma Ferrante seppe, colla sua astuzia e col suo coraggio, sedare anche questa tempesta; concluse la pace e fece poi le sue vendette.
Questa politica era tale da poter riuscire solamente finchè si trattava di domare un regno esausto e disordinato, esaurendolo ancora di più. Quando invece fosse sorto un pericolo esterno, essa non poteva più trovarsi in grado di riparare. Ed un tale pericolo allora appunto era vicino, perchè Carlo VIII di Francia s'apparecchiava a quella funesta impresa, che doveva ricominciare le invasioni straniere nella Penisola. Ferrante, già vecchio, se ne avvide subito, ed annunziò le vicine calamità a tutti i principi d'Italia, pregandoli d'unirsi a difesa comune. Le lettere che scrisse allora hanno un accento di dolore, un'eloquenza passionata che sembra sollevare e nobilitare il suo animo, e dimostrano un acume politico, che par quasi profetico.[36] Egli ora prevedeva e descriveva mirabilmente tutte le sventure che s'apparecchiavano alla patria ed a quei principi che, come lui accecati dalla propria furberia, avevano reso inevitabile la comune sciagura. Ma era troppo tardi. L'Italia non poteva più salvarsi [79] dall'abisso in cui cominciava a rovinare; Ferrante doveva morire colla coscienza torturata dinanzi alla caduta del suo regno e della sua dinastia, già visibile quando egli chiudeva gli occhi (25 gennaio 1494).
Tutto il lungo dramma che abbiamo esaminato, è un apparecchio alla generale catastrofe che s'avvicina. E se dai più grossi Stati, in cui è divisa la Penisola, ci volgessimo ai minori, troveremmo a Ferrara, Faenza, Rimini, Urbino, dappertutto la stessa serie di delitti, la stessa corruzione. I piccoli principi, anzi, essendo più deboli e fra maggiori pericoli, commettevano spesso più numerose e crudeli violenze, per salvare il minacciato potere. Non tralasciavano però neppur essi di promuovere la cultura delle lettere, delle arti, d'ogni più squisita gentilezza del vivere civile, rendendo sempre più evidente quel singolare contrasto, che è uno dei caratteri propri del Rinascimento italiano, e forma per noi una delle difficoltà principali a ben comprenderlo.
Non pochi scrittori italiani, animati da un patriottismo che non è sempre guida sicura nel giudicare i fatti della storia, vollero dimostrare che la condizione politica e sociale dell'Italia nel secolo XV era simile a quella di tutta l'Europa, e non ha perciò nulla che possa maravigliarci. Luigi XI, si disse, fu un mostro crudele, autore dei più fraudolenti intrighi; i veneficî di Riccardo III non sono ignoti; Ferdinando il Cattolico si vantava di avere più di dieci volte ingannato Luigi XII; il gran capitano Consalvo era un famoso spergiuro, ecc.[37] Pur troppo i grandi Stati s'andavano formando in Europa, distruggendo coll'inganno e con la violenza i governi e le istituzioni locali. In tali condizioni di guerra i più [80] neri delitti, le più atroci vendette avevano luogo dappertutto; e se nella barbarie del Medio Evo ci sembrano fatti quasi naturali, in mezzo alla cultura rinascente per ogni dove, ci appaiono enormi ed inescusabili. Ma più inescusabili assai appaiono in Italia, dove tanto maggiore era la cultura, e quindi più visibile la contradizione che ci presenta questa mescolanza di civiltà e di barbarie, riunite in un medesimo secolo. Nè si deve dimenticare che i principi come Luigi XI e Ferdinando il Cattolico compierono pure, nonostante i loro delitti, un'opera nazionale, facendo della Francia e della Spagna due grandi e potenti Stati, quando i nostri mille tiranni mantennero sempre divisa la patria coll'unico scopo personale di restare sui loro deboli troni. E se la iniqua politica del secolo XV riuscì triste da per tutto, essa venne pure iniziata in Italia, che ne fu maestra alle altre nazioni; e fra di noi il numero di coloro che vi presero parte fu anche infinitamente maggiore che altrove. Ad ogni piè sospinto s'incontravano tiranni, capi di parte, cospiratori, politici, diplomatici; ogni Italiano pareva anzi un politico ed un diplomatico nato. Così la corruzione ebbe modo di diffondersi assai più che altrove, penetrando largamente dal governo nella società. E questa politica italiana, che mise in moto tante e così prodigiose forze intellettuali, e produsse una sì grande varietà di caratteri, finì poi col fabbricar solamente sull'arena.
Certo, discendendo assai basso negli ordini sociali, si trovano sempre saldi i vincoli della famiglia, ancora intatti i costumi antichi, un'assai migliore atmosfera morale. E quando usciamo da quelle regioni in cui, come a Napoli, a Roma, nelle Romagne, una serie continua di rivoluzioni aveva disordinato e sovvertito ogni cosa, noi troviamo in Toscana, nel Veneto, altrove, un popolo più civile, più mite, più culto assai che nel resto d'Europa, ed un assai minor numero di delitti comuni. Di questo gli storici, specialmente gli stranieri, non tennero [81] conto; e giudicando tutta la nazione dagli ordini superiori della società, che erano i più corrotti, furono indotti in errore nel giudicare le condizioni morali dell'Italia, la quale sarebbe caduta assai più basso e non avrebbe potuto sopravvivere a sè stessa, se fosse stata veramente quale essi la descrissero. Ma non si può negare che nella Francia, nella Spagna, nella Germania, appunto perchè la vita politica era serbata a pochi, la corruzione che ne seguiva era assai meno diffusa; e vi erano pur sempre istituzioni e tradizioni ancora salde, opinioni non soggette a discussione, autorità rispettate. Questo creava naturalmente una forza ed una moralità pubblica, che mancava fra noi, dove tutto era sottomesso alla più minuta analisi dall'irrequieto spirito italiano, che cercava gli elementi d'un mondo nuovo, distruggendo quello in cui si trovava. Gli ambasciatori veneti e fiorentini, quando vanno alla corte di Carlo VIII o di Luigi XII, sembrano ridere di tutto. Trovano il principe senza ingegno, i diplomatici rozzi, l'amministrazione confusa, le faccende abbandonate al caso; ma sono maravigliati ancora nel vedere l'autorità immensa che gode il re: quando egli si muove, essi dicono, tutti lo seguono e l'obbediscono. E questo formava la grande forza del paese. Il Guicciardini, nei suoi dispacci dalla Spagna, dimostrava chiaro di odiare e disprezzare quella nazione; pure non si poteva astenere dal notare che gl'interessi personali di Ferdinando il Cattolico, trovandosi d'accordo con l'interesse generale del paese, la politica di quel re traeva da ciò una forza ed un valore grandissimi. I costumi della Germania e della Svizzera sembravano al Machiavelli simili a quelli degli antichi Romani, ch'egli tanto ammirava. Se il disordine e la corruzione morale delle altre nazioni fossero stati in tutto identici a quelli in cui si trovava l'Italia, come si spiegherebbero questi giudizî d'uomini pure assai competenti? Come si spiegherebbe che l'Italia decadeva già prima d'essere invasa [82] dagli stranieri, quando le altre nazioni sorgevano a nuova vita? Ma bisogna, come abbiamo già detto, guardarsi dall'esagerare, perchè altrimenti resterebbe inesplicabile ancora la grande vitalità che pur ebbe la nazione italiana, e più di tutto il suo meraviglioso progresso nelle arti e nelle lettere. Di questo passiamo ora a dare un cenno.
Fra Dante Alighieri (1265-1321) e Francesco Petrarca (1304-74) non passa una gran distanza di tempo; ma chi studia la vita e gli scritti loro crederebbe quasi che essi appartengano a due secoli diversi. Dante apre colle sue opere immortali un'èra novella; resta però sempre con [83] un piede nel Medio Evo. Egli si è fatta «parte per sè stesso,» ed ha un supremo disdegno per la compagnia «malvagia e scempia» che lo circonda;[39] ma è anche un partigiano fierissimo, che lotta tra le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini; impugna la spada a Campaldino. L'Impero che vagheggia ed invoca è sempre l'Impero medievale, che egli difende con ragioni prese parte dalla scolastica, che penetra anche nel suo divino poema, in parte però ispirate ad un senso quasi profetico dell'avvenire. La sua anima è piena di fede religiosa e d'energia morale; la sua immagine ci apparisce come scolpita dalla mano di Michelangelo, in mezzo al tumulto delle passioni del secolo contro cui combatte, ma dal quale non è ancora uscito del tutto.
Il Petrarca invece fa parte d'un altro mondo, e quando si pensa che con lui s'inizia un periodo affatto nuovo dello spirito e della cultura nazionale, riesce assai difficile comprendere, come mai in sì breve periodo di tempo, l'Italia abbia potuto tanto e così rapidamente mutare. D'un carattere più debole, d'un genio poetico meno originale, e, sebbene vesta l'abito ecclesiastico e goda parecchi benefizî, d'una fede religiosa assai più fiacca, egli non è nè guelfo, nè ghibellino; disprezza la scolastica; [84] sente che la letteratura diviene una nuova potenza nel mondo, che egli deve tutta la sua forza al proprio ingegno e valore letterario; ha quasi dimenticato il Medio Evo, e si presenta a noi come il primo uomo moderno. Singolare è però il vedere come tutto questo s'unisca in lui ad un amore, quasi ad un fanatismo per gli scrittori latini, che studiò ed imitò in tutta la sua vita, non sapendo immaginare nè desiderare nulla di meglio, che far rinascere la loro cultura, le loro idee. Spiegare come in questo sforzo costante e continuo per tornare all'antico, si scoprisse invece un mondo nuovo, è, noi lo abbiamo già notato, il problema che deve risolvere lo storico della erudizione del secolo XV. Questo singolare fenomeno assai più chiaramente che in altri si può osservare nel Petrarca, perchè in lui trovasi come in germe tutto il secolo che segue, e i molti eruditi che gli succedono sembrano non fare altro che prendere, ciascuno per sè, una parte sola del molteplice lavoro che egli abbracciò nel suo insieme, se facciamo eccezione dello studio del greco, che egli potè solo promuovere co' suoi consigli.
Fin dai primi anni il Petrarca abbandonò la legge e la scolastica per Cicerone e Virgilio; percorse il mondo; scrisse agli amici per avere antichi codici, di cui formò una preziosa raccolta. Ne copiò di sua mano; cercò autori sconosciuti o dimenticati, sopra tutto opere di Cicerone, che era il suo idolo, e di lui scoprì due orazioni a Liegi, le lettere familiari a Verona.[40] Questo fu un vero [85] avvenimento letterario, perchè la facile ed alquanto pomposa eloquenza di Cicerone divenne il modello costante del Petrarca e degli eruditi, come le sue epistole furono il componimento letterario più diffuso, più ammirato, imitato tra loro, che ne scrissero un gran numero. Quelle del Petrarca incominciano la lunga serie, formano la sua migliore biografia, sono un monumento di grandissima importanza storica e letteraria. Ne scrisse agli amici, ai principi, ai posteri, ai grandi scrittori dell'antichità. In esse v'è luogo per ogni affetto, per ogni pensiero, e l'autore si esercita, sotto la fida scorta di Cicerone, in ogni stile letterario. Da un lato v'entrano la storia, l'archeologia, la filosofia, e formano così come un manuale enciclopedico, adattatissimo a raccogliere e diffondere una cultura nuova, che, incominciata appena, non è capace ancora d'una più scientifica trattazione. Da un altro lato l'autore può manifestare in esse tutto il proprio spirito, dare libero corso ai suoi affetti, descrivere popoli e principi, caratteri e paesi diversi. L'erudito e l'osservatore del mondo reale si trovano in esse uniti; anzi noi vediamo come il secondo nasca del primo, e come l'antichità, conducendo per mano l'uomo del Medio Evo, lo guidi dal misticismo alla realtà, dalla Città di Dio a quella degli uomini, e gli faccia acquistare la indipendenza del proprio spirito.
Se guardiamo alla forma di queste epistole del Petrarca, troviamo che il suo latino non manca d'ineleganze, nè di errori; nessuno oserebbe metterlo accanto a quello dei classici; è inferiore anche a quello che usarono più tardi il Poliziano, il Fracastoro, il Sannazzaro. [86] Bisogna paragonarlo con quello del Medio Evo, per vedere l'immenso cammino che ha fatto, e come esso superi di gran lunga anche il latino di Dante. Ma il merito principale del Petrarca non sta tanto in questa nuova eleganza classica, quanto nell'essere egli il primo che scriva di tutto liberamente, come un uomo che parli una lingua vivente. Egli ha gettato dietro di sè le grucce della scolastica, e dimostra come si possa camminare speditamente, senza appoggiarsi. Inorgoglito di ciò, fa qualche volta abuso della sua facilità, e cade in artifizî nei quali sembra voler dar prova di agilità e di forza, o s'abbandona, osserva giustamente il Voigt, al bisogno di chiacchierare, come un fanciullo, il quale, avendo scoperto che può colla voce esprimere i suoi pensieri, parla anche quando non ha nulla da dire. Qualche volta si vede in lui apparire anche un primo germe di ciò che fu chiamato il Secentismo del Quattrocento. Il Petrarca, in sostanza, ha spezzato la rete medievale, in cui trovavasi allora incatenata l'intelligenza, ed ha col suo nuovo stile trovato il modo di parlar d'ogni cosa, manifestando chiaramente, spontaneamente tutto sè stesso.
Nel leggere le sue epistole, assai spesso ci reca maraviglia il vedere quanto era ardente in lui un amore quasi pagano della gloria. Pare qualche volta che esso sia il movente principale delle sue azioni, lo scopo della vita, e che si sostituisca al vero ideale cristiano. Dante s'era già fatto insegnare da Brunetto Latini come l'uom s'eterni; ma se nell'Inferno del suo poema i dannati si curano molto della loro fama nel mondo, ciò segue assai meno nel Purgatorio, dove Oderisi da Gubbio è condannato «per lo gran desio dell'eccellenza,» e scomparisce affatto nel Paradiso, in cui la terra è quasi dimenticata. Il Medio Evo cercava l'eternità in un altro mondo, il Rinascimento la cercava in questo, ed il Petrarca era già entrato nel nuovo ordine d'idee. La gloria, secondo lui, ispira l'eloquenza, le imprese magnanime, la virtù; [87] ed egli non si stanca mai di cercarla, non ne è mai sazio, sebbene nessun uomo ne ottenesse in vita quanta ne ebbe lui. I Signori della repubblica fiorentina gli scrivevano «ossequenti e riverenti,» come ad un uomo, di cui «nè i passati videro, nè i posteri vedranno mai l'uguale.»[41] Papi, cardinali, principi e re si tenevano onorati d'accoglierlo in casa.[42] Un vecchio cieco, cadente, viaggiò tutta l'Italia, appoggiato a suo figlio e ad un suo discepolo, per abbracciare le ginocchia dell'uomo immortale, baciare la fronte che aveva pensato cose tanto sublimi; ed il Petrarca ci racconta tutto ciò con soddisfazione.[43] Il giorno che ricevette la corona poetica in Campidoglio (8 aprile 1341) fu il più solenne, il più felice della sua vita: non per me, egli dice, ma per eccitare altri alla virtù. Questo sentimento diviene qualche volta come il demone del Rinascimento. Cola di Rienzo, Stefano Porcari, Girolamo Olgiati e tanti altri furono mossi, meno da un vero amore della libertà, che dal desiderio d'emulare Bruto. Vicini al patibolo, non era più la fede in un altro mondo, ma solo la speranza della gloria in questo, ciò che dava loro animo ad affrontare la morte. Ed il Machiavelli esprime il pensiero del suo secolo, quando dice che gli uomini se non possono aver la gloria con opere lodevoli, la cercano con opere vituperevoli, pur che sopravviva la propria fama.[44] Quanto è diverso questo stato d'animo da quello del Medio Evo, e con quale straordinaria rapidità questo mutamento è avvenuto!
Tutto spinge il Petrarca, che trascina con sè i contemporanei [88] ed i posteri, verso il mondo reale; egli ha un grandissimo bisogno di viaggiare, per vedere e descrivere: multa videndi amor ac studium.[45] Corre a Parigi, per riscontrare se son vere le maraviglie che si raccontano di quella città; a Napoli si pone a visitare minutamente gl'incantevoli dintorni della città con l'Eneide in mano, per guida; cerca i laghi d'Averno, d'Acheronte, di Lucrino, la grotta della Sibilla, Baia, Pozzuoli, e descrive tutto minutamente, rapito ad un tempo dalla bellezza della natura e dalle classiche memorie.[46] Virgilio era stato la guida di Dante nei tre regni dell'altro mondo, Virgilio è in questo la guida del Petrarca allo studio della natura. Una spaventosa tempesta scoppia di notte nel golfo di Napoli, ed egli salta dal letto; percorre la città; va alla marina; guarda i naufraghi; osserva il mare, il cielo, tutti i fenomeni: entra nelle chiese dove si prega, e scrive poi una lettera divenuta celebre.[47] Tutto ciò non ha più alcuna novità per noi, che siamo nati nel realismo moderno; ma bisogna ricordarsi che il Petrarca era primo ad abbandonare il misticismo del Medio Evo. Il singolare è che, per uscirne, si avvolgeva nella toga romana. Dante, è ben vero, ha qualche volta con tocchi maravigliosi descritto la natura; ma sono paragoni o sono accessorî che servono a mettere in rilievo le sue idee, i suoi personaggi; nel Petrarca, per la prima volta, la natura acquista un proprio valore, come nei quadri dei Quattrocentisti. Nelle sue descrizioni di caratteri v'è un realismo che ricorda i ritratti che fecero più tardi Masaccio, il Lippi e Mino da Fiesole; anch'egli disegna e colorisce il vero qual'è, solo perchè vero, senza altro scopo. Sente d'una certa Maria di Pozzuoli, donna di straordinaria forza, che vive sempre nelle armi, combattendo una guerra ereditaria, [89] e fa una gita per vederla, parlarle e descriverla.[48] Vivissima è la descrizione dell'osceno disordine in cui era caduta la corte di Giovanna I, e del dominio che vi esercitava il francescano Roberto d'Ungheria. «Piccolo, calvo, rubicondo, colle gambe gonfie, marcio pei vizî, curvo sul suo bastone per ipocrisia e non per vecchiezza, avvolto in un lurido saio, che lascia scoperta metà della persona, per far pompa d'una mentita povertà, percorre silenzioso la reggia in aria di comando, sprezzando tutti, calpestando la giustizia, contaminando ogni cosa. Quasi nuovo Tifi o Palinuro, egli regge in mezzo alla tempesta il timone di questa nave che dovrà presto affondare.»[49] Altrove ci viene dinanzi, con una singolare evidenza, il fiero aspetto di Stefano Colonna, dicendo che, «sebbene la vecchiezza abbia raffreddato l'animo nel suo feroce petto, pure, cercando la pace, egli trova sempre la guerra, perchè deciso piuttosto a scendere nella tomba combattendo, che piegare l'indomito suo capo.»[50] Questi profili evidenti e parlanti, si presentano fra continue citazioni classiche; son come esseri viventi in mezzo a rottami dell'antichità, ed acquistano pel contrasto maggiore evidenza; ci fanno vedere, toccare con mano, come un nuovo mondo vada sorgendo insieme al rinascimento dell'antichità.
Se poi nel Petrarca cerchiamo non il letterato, ma l'uomo, allora troviamo che, per quanto egli fosse buono ed ammiratore sincero della virtù, v'era già in lui quella fiacca mutabilità di carattere, quella eccitabile vanità, quel dare alle parole quasi l'importanza stessa che ai fatti ed alle azioni, che formò più tardi l'indole generale degli eruditi nel secolo XV. Egli è uno di coloro [90] che più hanno esaltato l'amicizia, a tutti prodigando tesori d'affetto nelle sue epistole; ma non sarebbe molto facile trovare nella sua vita esempî d'un'amicizia ideale e profonda come quella, per esempio, che trasparisce dalle parole di Dante per Guido Cavalcanti. Gran parte di quelle effusioni s'esauriva nell'esercizio letterario cui davano luogo. Si potrebbe dire che a ciò contradica la passione costante che il Petrarca ebbe per madonna Laura, la quale gl'ispirò quei versi immortali che egli disprezzò troppo, ma che pur formarono la sua gloria maggiore. Certo nel Canzoniere si trova la più vera, la più fine analisi del cuore umano; una lingua in cui i pensieri traspariscono come in purissimo cristallo, libera da ogni forma antiquata, più moderna della lingua stessa di molti scrittori del Cinquecento. Certo non può dubitarsi d'una passione vera e sincera; ma questo canonico che annunzia il suo amore ai quattro venti, che per ogni sospiro pubblica un sonetto, che fa sapere a tutti come egli sia disperato se la sua Laura non lo guarda, e intanto fa all'amore con un'altra donna, per la quale non scrive sonetti, ma da cui ha figli, a chi farà credere che la sua passione sia nel fatto qual'egli la descrive, eterna, purissima e sola dominatrice del suo pensiero?[51] Ed anche [91] qui sorge dinanzi a noi, e risplende di nuovo la nobile immagine di Dante, che si nascondeva, per tema che altri s'accorgesse del suo amore, e scriveva solo quando la passione, divenuta più forte di lui, erompeva dal suo petto, sotto forma di poesia immortale. La Beatrice di Dante è ancora avvolta in un velo aereo di misticismo, e finisce col trasfigurarsi nella teologia, allontanandosi da noi; la Laura del Petrarca, invece, è sempre una donna vera e reale, di carne e d'ossa, che vediamo vicino a noi, che affascina col suo sguardo voluttuoso il poeta, il quale, anche nel suo maggiore esaltamento, resta sulla terra. Una terra dalla quale, il divino dovrà fra poco essere inesorabilmente escluso.
Nella condotta politica si vede assai chiara la mutabilità, per non dir peggio, del Petrarca. Amico dei Colonna, ai quali diceva di dover tutto, «la fortuna, il corpo, l'anima;»[52] amato da essi come figlio, accolto come fratello, li colmò sempre delle lodi più esaltate, abbandonandoli poi nel momento del pericolo. Quando infatti Cola di Rienzo cominciò in Roma lo sterminio di quella famiglia, il Petrarca, che era pieno d'una sconfinata ammirazione letteraria pel classico tribuno, lo incoraggiò a continuare nella distruzione dei nobili: «Verso di essi ogni severità è pia, ogni misericordia inumana. Inseguili con le armi in mano, quando anche tu dovessi [92] raggiungerli nell'inferno.»[53] Ma ciò non gli impediva di scrivere, quasi nello stesso tempo, pompose lettere di condoglianza al cardinale Colonna: «Se la casa ha perduto alcune colonne, che monta? Resta sempre con te un saldo fondamento. Giulio Cesare era solo e bastò.»[54] Più tardi i Colonna furono per lui di nuovo Massimi e Metelli;[55] ma non cessò tuttavia di rimproverare al tribuno la sua debolezza, per non essersi disfatto dei nemici quando poteva.[56] È ben vero che si scusava dicendo, che egli non mancava di riconoscenza; sed carior Respublica, carior Roma, carior Italia.[57] Chi gl'impediva però di tacere? E questo repubblicano così ardente ammiratore del terzo Bruto, «che riunisce in sè, e supera la gloria dei due precedenti,»[58] poco dopo invitava l'imperatore Carlo IV a venire in Italia, «la quale invoca il suo sposo, il suo liberatore, e non vede l'ora che l'orma de' tuoi piedi si stampi su di essa.»[59] Non molto prima aveva esaltato anche Roberto di Napoli, dichiarando che la monarchia era l'unico mezzo per salvare l'Italia.[60] È noto poi quanti rimproveri facesse ai Papi, perchè avevano abbandonato Roma, che senza di essi non poteva vivere. Eppure il nostro giudizio viene assai temperato, quando vediamo che egli non s'accorgeva punto di queste contradizioni, perchè [93] in sostanza tutti questi discorsi erano più che altro un esercizio letterario, non già l'espressione d'una vera e profonda passione politica, che volesse manifestarsi in atto. Dato il soggetto, la penna correva rapidissima dietro le traccie di Cicerone, seguendo l'armoniosa cadenza del periodo. Ma, e qui ricomparisce di nuovo la grande originalità del Petrarca, che parli di repubblica, di monarchia o d'impero, non è più fiorentino, ma italiano. L'Italia che egli vagheggia, si confonde, è vero, sempre col concetto dell'antica Roma, che vorrebbe ripristinare; ma in tutto questo suo sogno erudito, egli è il primo a vedere l'unità dello Stato e della patria. L'Italia di Dante è ancora medievale; quella del Petrarca, quantunque s'avvolga maestosamente nella toga degli Scipioni e dei Gracchi, è finalmente un'Italia unita e moderna. Così qui, come da per tutto, noi vediamo che il nostro autore, anche in ciò vero rappresentante del suo tempo, volendo tornare al passato, s'apre una via nuova all'avvenire. Veste sempre all'antica, alla romana, ma è sempre moderno. Non dobbiamo però mai dimenticare che la sorgente prima della sua ispirazione è letteraria, altrimenti cadremo in continui errori ed in giudizî fallaci.
Il Petrarca assale fieramente la giurisprudenza, la medicina, la filosofia, tutte le scienze del suo tempo, perchè non dànno mai quel che promettono, e tengono invece la mente inceppata tra mille sofismi. I suoi scritti sono spesso rivolti contro la scolastica, l'alchimia, l'astrologia, ed egli è ancora il primo che osi apertamente rivolgersi contro l'illimitata autorità di Aristotele, l'idolo del Medio Evo. Tutto ciò fa un grandissimo onore al buon senso, che lo sollevò al disopra dei pregiudizî del suo secolo. Ma s'ingannerebbe a partito chi volesse per ciò trovare in lui un ardito novatore scientifico. Il Petrarca non combatte in nome d'un principio o d'un metodo nuovo, ma in nome della bella forma e della vera eloquenza, che non ritrova nei cultori di quelle discipline, [94] come non la ritrova nell'Aristotele mal tradotto e raffazzonato del suo tempo. La scolastica ed il suo barbaro linguaggio s'erano immedesimati con tutto lo scibile del Medio Evo, ed era questo barbaro linguaggio che il Petrarca combatteva in tutto lo scibile. Il Rinascimento italiano è una rivoluzione prodotta nello spirito umano e nella cultura dallo studio della bella forma, ispirata dai classici antichi. Questa rivoluzione, con tutti quanti i pericoli che doveva recare il cominciar dalla forma per arrivar poi alla sostanza, si manifesta la prima volta chiara e ben definita nel Petrarca erudito, che perciò fu a ragione chiamato da alcuni, non solo il precursore, ma il profeta del secolo seguente.
L'opera iniziata dal Petrarca trovò subito in Firenze un grandissimo numero di seguaci, e di qui si diffuse rapidamente in tutta Italia. A Firenze, però, essa era il portato naturale delle condizioni politiche e sociali di quel popolo, in mezzo a cui anche i dotti d'altre provincie [95] venivano ad istruirsi, a perfezionarsi, e v'acquistavano come una seconda cittadinanza. Nelle nostre antiche storie letterarie, che spesso si occupano troppo di aneddoti biografici e di fatti esteriori, si presentano alla rinfusa i nomi di questi eruditi, che sembrano essere tutti uomini sommi, avere la stessa fisonomia ed il medesimo merito, mirare a un identico scopo. Ma a noi importa conoscere solo quelli, cui si può attribuire una vera originalità in mezzo al lavoro febbrile che migliaia di altri, i quali già sono caduti o meritano di cadere in oblio, ripetevano meccanicamente. Il nostro scopo non è di dare un catalogo esatto dei dotti e dei loro scritti, ma di studiare la trasformazione letteraria ed intellettuale, che per opera loro si compiè in Italia.
I primi eruditi che si presentano sono amici, discepoli o copisti del Petrarca. Il Boccaccio fu dei più operosi nel secondarlo, raccolse molti codici, ammirò i classici latini e li imitò, promosse lo studio del greco, che fu dei primi a conoscere. Con tutto ciò l'opera sua, come erudito, manca di una vera originalità. I suoi scritti latini sulla Genealogia degli Dei; sulle Donne illustri; sui Nomi dei Monti, delle Selve, dei Laghi, ecc., sono più che altro, una vasta raccolta di antichi frammenti, senza grande valore filologico o filosofico. Ma lo spirito dell'antichità è penetrato in lui per modo, che si manifesta in tutte le sue opere, anche nelle italiane. La sua prosa volgare, infatti, se ne risente per la soverchia imitazione del periodo ciceroniano, e sembra annunziare anch'essa che il trionfo del latino sarà fra poco universale.
Dopo che due uomini come il Petrarca ed il Boccaccio [96] s'erano messi per questa via, Firenze sembrò subito divenire come una grande officina d'eruditi. Discussioni e riunioni di dotti si facevano dappertutto, nei palazzi, nei conventi, nelle ville,[62] fra i ricchi, fra i mercanti, fra gli uomini di Stato: si scriveva; si viaggiava; si mandavano messi per cercare, comprare o copiare codici antichi. Tutto ciò non costituiva ancora un lavoro originale; ma pure si raccoglievano grandi materiali, e s'apparecchiavano i mezzi necessarî ad una vera rivoluzione nel campo delle lettere. L'importanza di questa attività non stava finora nei risultati immediati che si ottenevano; ma nell'energia e nelle forze che s'adoperavano e svolgevano per ottenerli. La città delle associazioni d'arti e mestieri era divenuta la città delle associazioni di letterati.
La prima di queste riunioni si formò nel convento di Santo Spirito, intorno a Luigi Marsigli o Marsili, agostiniano e dottore in teologia, che visse nella seconda metà del secolo XIV. Stato già amico del Petrarca, egli era uomo di mediocre ingegno; ma univa ad una grande ammirazione per gli antichi, una straordinaria memoria, il che lo rendeva adattissimo al conversare erudito: per lungo tempo i dotti fiorentini ricordarono nelle loro lettere il profitto cavato da quelle discussioni. Il Comento fatto dal Marsigli sulla canzone del Petrarca all'Italia, dimostra che egli non s'era ancora separato affatto dalla letteratura del Trecento.[63] I due più noti frequentatori [97] della sua cella, Coluccio Salutati[64] e Niccolo Niccoli,[65] erano però entrati addirittura nella nuova via.
Il Salutati, nato in Val di Nievole l'anno 1331, fu anch'egli amico ed ammiratore del Petrarca; grande promotore dell'erudizione e grande raccoglitore di codici; autore di orazioni, dissertazioni, trattati latini in gran numero, pei quali venne a titolo d'onore, chiamato da Filippo Villani vera «scimmia di Cicerone.» Ma il suo stile poco semplice e non sempre corretto, la confusa erudizione non lo avrebbero fatto passare alla posterità, se le qualità morali non avessero dato anche alla sua opera letteraria una impronta originale. Di un carattere esemplare, amante della libertà, fu nel 1375 eletto segretario della Repubblica, che servì con fede ed ardore grandissimi sino alla morte. Animato dall'amore della patria e delle lettere, liberò lo stile della cancelleria fiorentina da tutte le forme scolastiche, sforzandosi di renderlo classico, ciceroniano, e fu così il primo che si provasse a scrivere le lettere diplomatiche e di affari come opere d'arte, ottenendo a' suoi tempi un successo grandissimo. Si narra che Galeazzo Maria Visconti dicesse di temere più una lettera del Salutati, che mille cavalieri fiorentini; certo è in ogni modo, che quando la Repubblica fu in guerra col Papa, le lettere scritte dal Salutati, il quale col suo stile magniloquente evocava le antiche memorie di Roma, contribuirono assai a far sollevare in nome della libertà molte terre della Chiesa. L'entusiasmo che destavano allora nell'animo degl'Italiani [98] i nomi, le reminiscenze, le forme classiche era davvero singolare.
Ma l'opera del Salutati ebbe anche per l'avvenire conseguenze notevoli. L'aver messo la letteratura a servigio della politica contribuì molto a dare alla prima una importanza sempre maggiore, e ad affrettare quella radicale trasformazione della seconda, che ben presto doveva manifestarsi in Firenze. Alle convenzioni e formole antiche s'andò sostituendo una forma sempre più vera e precisa, la quale, come aveva forzato i letterati a passare dal misticismo alla realtà, così esercitò la sua azione anche sulla condotta degli uomini di Stato, e li indusse a trattar gli affari pigliando norma dalla natura delle cose, a dominare principi e popoli studiandone le passioni, senza lasciarsi vincolare da pregiudizi o tradizioni. In questo modo s'arrivò finalmente alla scienza politica del Machiavelli e del Guicciardini, che dovette alla erudizione più d'uno de' suoi maggiori pregi e difetti. L'uso ed abuso della eloquenza, della logica e della sottigliezza, per ottenere i proprî fini politici, condotto sino alla furberìa ed all'inganno, incominciò ben presto a divenire generale. Il Salutati restò però sempre d'animo sincero ed aperto.[66]
Sino all'ultimo giorno della sua vita egli continuò a studiare, ed a promuovere nella gioventù l'amore dei classici.[67] Aveva 65 anni, quando la voce corsa che Emanuele [99] Crisolora di Costantinopoli sarebbe venuto in Firenze ad insegnare il greco, lo mise fuori di sè per la gioia, e parve ringiovanirlo. Nel 1406 morì in età di 76 anni, e fu sepolto in Duomo con solenni esequie, dopo [100] che la sua vita venne celebrata in un discorso latino, alla fine del quale sul suo cadavere fu messa la corona poetica. D'allora in poi la Repubblica elesse a suoi segretarî quasi sempre uomini celebrati nelle lettere. La lunga serie, incominciata col Salutati, continuò fino a Marcello Virgilio, al Machiavelli, al Giannotti,[68] e l'esempio venne imitato anche nelle altre città italiane.
Niccolò Niccoli ebbe al suo tempo una gran fama, sebbene non fosse punto uno scrittore, ma un semplice raccoglitore intelligente di codici, i quali spesso copiava e correggeva di sua mano. Le cure che spese e i sacrifizî che fece per gli studî classici furono infiniti. Le sue ricerche di codici s'estesero in Oriente ed in Occidente, per mezzo di lettere e commissioni date a chiunque partiva da Firenze, o risiedeva per affari lungi dalla patria. Parco nel vivere, spese tutta la sua fortuna, caricandosi poi anche di debiti, per acquistar codici. La sua attività, la sua perizia eran tali, che da ogni parte si ricorreva a lui per aver notizia di antichi manoscritti; ed a lui devesi, in gran parte, se Firenze divenne allora il gran centro librario del mondo; se potè avere librai intelligenti come Vespasiano da Bisticci, che fu pure il biografo di tutti gli eruditi del suo tempo. Infaticabile si dimostrò il Niccoli anche nel chiamare a Firenze i dotti più reputati d'Italia, perchè venissero adoperati nello Studio o altrove. Leonardo Bruni, Carlo Marsuppini, Poggio Bracciolini, il Traversari, il Crisolora, il Guarino, il Filelfo, l'Aurispa furono per opera sua invitati. Essendo però molto irritabile, la sua amicizia si mutava facilmente in avversione, ed allora egli perseguitava [101] coloro che aveva protetti, e le sue persecuzioni, pel favore che godeva appo i Medici, erano molto pericolose. A lui ed a Palla Strozzi devesi la riforma dello Studio fiorentino, in cui promossero l'insegnamento del greco. Era così invasato dall'amore degli studî, che, quasi fosse un missionario religioso, fermava per via i ricchi giovani di Firenze, esortandoli a darsi alla virtù, cioè alle lettere latine e greche. Piero de' Pazzi che viveva solamente, come egli diceva, per «darsi bel tempo,» fu uno appunto dei convertiti alla nuova vita dell'erudito.[69]
La casa del Niccoli era un museo ed una biblioteca classica; egli stesso pareva una enciclopedia bibliografica vivente. Aveva raccolto 800 codici, valutati 6000 fiorini.[70] Nè deve oggi esser molto difficile immaginarsi la straordinaria importanza che aveva per gli studî una buona biblioteca, in un tempo nel quale la stampa non era trovata, ed il prezzo d'un codice superava assai spesso le forze degli studiosi, oltre di che non sempre si sapeva dove cercarlo. In tali condizioni, essendo la biblioteca del Niccoli liberamente aperta ad ognuno, tutti accorrevano da lui a studiare, a riscontrare, a copiare, a chiedere aiuti e consigli non mai negati. Circondato d'oggetti greci o romani anche nella sua parca mensa, «a vederlo così antico,» dice Vespasiano, «era una gentilezza.» Le puerilità del suo carattere, e gli scandali alquanto ridicoli della sua vita privata, a causa d'una serva che lo dominava, furono dimenticati per l'ammirazione che destava in tutti il suo zelo sincero, costante e disinteressato per le lettere. Morendo nel 1437, in età di 73 anni, l'unico pensiero che ebbe fu quello d'assicurare al pubblico l'uso de' suoi libri, che infatti [102] formarono la prima pubblica biblioteca in Europa, mercè le cure de' suoi esecutori testamentarî, e la munificenza di Cosimo de' Medici, che rinunziò al credito che aveva di 500 fiorini, pagò altri debiti del Niccoli, e, ritenendo per sè una parte dei codici, ne pose in San Marco, ad uso del pubblico, quattrocento i quali aumentò poi a sue spese.[71]
Una terza riunione di dotti tenevasi nel convento degli Angioli, dove era Ambrogio Traversari, nato in Portico di Romagna l'anno 1386, e nominato generale dei Camaldolesi nel 1431. Uomo accorto ed ambizioso, amicissimo dei Medici, che insieme col Niccoli, col Marsuppini, col Bruni ed altri non pochi frequentavano la sua cella, aveva un gran tatto per conservare le amicizie anche dei più permalosi, e per tener viva la discussione, ma ben poca originalità letteraria. Fece traduzioni dal greco; scrisse un'opera intitolata Hodaeporicon, in cui si trovano varie notizie letterarie e le descrizioni de' suoi viaggi; ma le Epistolae sono l'opera sua principale, perchè le molte relazioni che ebbe con i dotti del suo tempo, ne fanno un monumento importante per la storia di quel secolo. Tutto questo però non basta a giustificare la gran fama che ebbe allora, la quale si mantenne viva anche più tardi, perchè il Mehus, pubblicandone le Epistolae, cercò, nella prefazione e nella biografia che le precede, di raccogliere intorno a lui la storia letteraria di quel secolo.
Infinito sarebbe il numero delle riunioni di dotti, se volessimo ricordarle tutte; in ogni modo però non è possibile dimenticare la casa dei Medici, ove ognuno di essi trovava accoglienza, protezione, ufficî. Colà si riunivano anche gli artisti e gli stranieri di qualche fama. Quasi tutti i più ricchi Fiorentini erano allora cultori o [103] protettori delle lettere. Roberto dei Rossi, conoscitore del greco, passò la vita celibe nel suo studio, ed insegnò a Cosimo de' Medici, Luca degli Albizzi, Alessandro degli Alessandri, Domenico Buoninsegni. Il Nestore poi di questi aristocratici eruditi era Palla Strozzi, colui che col Niccoli riformò lo Studio fiorentino; che pagò di suo [104] buona parte della somma necessaria per farvi venire ad insegnar greco il Crisolora, e spese moltissimo per avere codici antichi da Costantinopoli. Esiliato, senza giuste ragioni, si può dire anche iniquamente, da Cosimo dei Medici, all'età di 62 anni, si fece animo a sopportare questa sventura, e la perdita che ebbe poi della moglie e di tutti i figli, studiando a Padova sugli antichi autori fino all'età di 92 anni, quando scese nella tomba.[72]
E finalmente bisogna ricordar lo Studio fiorentino. In generale le Università italiane erano state sedi della cultura medievale e scolastica; l'erudizione era cominciata fuori di esse, spesso anche contro di esse. Ma a Firenze può dirsi invece che lo Studio fiorì e decadde con la erudizione. Fondato nel dicembre del 1321, languì, ora chiuso ed ora riaperto, fino al 1397, quando il Crisolora, coll'insegnamento del greco, iniziò da Firenze l'ellenismo in Italia. Più tardi decadde di nuovo, ma fu poi nel 1414 riformato per opera del Niccoli e dello Strozzi, i quali, valendosi d'un'antica legge, secondo cui gl'insegnanti non dovevano essere Fiorentini, vi chiamarono i più celebri uomini d'Italia e di Grecia, il che valse sempre più ad unire la cultura latina con la greca, e l'erudizione fiorentina con l'italiana. Nel 1473 lo Studio venne da Lorenzo de' Medici trasferito a Pisa, dove fu riaperta la celebre Università; ma a Firenze restarono alcune cattedre di lettere e di filosofia, occupate sempre da uomini celebri.[73]
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Questo gran moto di studî, che abbiamo finora esaminato, non aveva prodotto, dopo del Petrarca e del Boccaccio, nessun uomo di grande ingegno. Tutto era stato un raccogliere, copiare, correggere codici; si erano apparecchiati i materiali per un nuovo progresso letterario, che però non era cominciato. Lo scrivere italiano era decaduto, ed il latino non aveva acquistato ancora qualità originali: abbiamo visto grammatici, bibliofili e bibliografi, non veri scrittori. Ma a poco a poco cominciò una nuova generazione d'eruditi, che manifestavano un vero e fino allora insolito valore. Questo era il resultato d'un processo naturale. Gli scrittori, sentendosi finalmente padroni della lingua latina, si cominciavano ad esprimere con una libertà e spontaneità, che dètte origine a nuove qualità letterarie ed anche filosofiche, ad una nuova letteratura. Le questioni grammaticali, esaminate e discusse da uomini di così acuto ingegno e di gusto così fine, com'erano allora gl'italiani, si trasformavano inevitabilmente in questioni filosofiche, il che fu principio di un nuovo progresso scientifico.
Ma vi furono ancora cause estrinseche, le quali affrettarono e provocarono una così notevole trasformazione, e prima fra queste fu lo studio del greco. Con esso vennero a contatto non solo due lingue, ma due letterature, due filosofie, due civiltà diverse. S'allargò ad un tratto l'orizzonte intellettuale, giovando a ciò non solo la maggiore originalità del pensiero e della lingua greca, ma ancora l'essere l'uno e l'altra molto diversi dalla lingua e dal pensiero latino. La mente italiana era così costretta ad uno sforzo maggiore, quasi ad un più lungo e difficile viaggio ideale, che richiedeva e svolgeva una maggiore energia intellettuale. Nel Medio Evo la lingua greca era stata assai poco nota in Italia; e molto fu esagerata la cognizione che n'ebbero in Calabria i monaci di San Basilio. I due Calabresi, Barlaam e Leonzio Pilato, l'avevano empiricamente appresa a Costantinopoli, [106] ed il primo di essi ne insegnò i rudimenti al Petrarca, che, nonostante il grande ardore d'apprenderla, restò sempre col suo Omero dinanzi, senza capirlo.[74] Il secondo fu tre anni professore a Firenze, per opera del Boccaccio, che fece così istituire la prima cattedra di greco in Italia. Ma dal 1363 al 1396 questo insegnamento, che era stato abbastanza povero, tacque di nuovo. Gl'Italiani che volevano averlo, si trovarono, come il Guarino ed il Filelfo, costretti ad andare fino a Costantinopoli. E i primi profughi greci venuti fra noi giovarono meno assai che non si crede, perchè essi, ignorando l'italiano, conoscendo poco il latino, e molto spesso non essendo neppure uomini di lettere, non erano punto in istato di soddisfare una passione che pure stimolavano vivamente colla loro presenza. L'elezione di Emanuele Crisolora a professore dello Studio nel 1396 incominciò veramente un'èra nuova per l'ellenismo in Italia. Già professore a Costantinopoli, e vero uomo di lettere, egli potè dare un efficace insegnamento, ed ebbe per alunni i primi letterati di Firenze. Roberto de' Rossi, Palla Strozzi, Poggio Bracciolini, Giannozzo Manetti, Carlo Marsuppini andarono subito a seguire le sue lezioni. Leonardo Bruni, che allora studiava legge, nel sentire che si poteva finalmente apprendere la lingua d'Omero, e bere alla prima sorgente del sapere, lasciò tutto per poter divenire, come divenne, uno dei più celebri ellenisti del suo tempo.[75] Da quel momento chi non sapeva il greco, fu in Firenze un dotto a metà. E lo studio di questa lingua fece subito rapidi progressi, per l'arrivo di nuovi profughi, i quali erano in generale più colti dei primi, e trovavano il terreno meglio [107] apparecchiato.[76] A tutto ciò s'aggiunse nel 1439 il Concilio fiorentino, che doveva riunire la Chiesa greca e la latina, ma valse invece ad unire lo spirito letterario di Roma e di Grecia. Il Papa ebbe bisogno d'interpetri italiani per capire i rappresentanti della Grecia, e così gli uni come gli altri, indifferenti del pari alle questioni religiose, quando s'avvicinarono, passarono subito dalla teologia alla filosofia, che in generale soleva essere anche più delle lettere coltivata dai Greci. Giorgio Gemisto Pletone il più dotto fra quelli che allora vennero in Italia, ammiratore entusiasta di Platone, seppe infondere la sua ammirazione in Cosimo de' Medici, e così ebbe origine l'istituzione dell'Accademia Platonica. Un grande ardore, una singolare operosità intellettuale cominciarono allora in Firenze, e noi vediamo finalmente da un lato apparire la nuova originalità letteraria, da un altro il principio d'un risorgimento filosofico.[77]
L'erudito che prima di tutti si dimostra adesso scrittore originale, è Poggio Bracciolini, nato a Terranuova presso Arezzo, l'anno 1380. Studiato il greco col Crisolora, andò con Giovanni XXIII al Concilio di Costanza, facendo parte della Curia, e vestendo l'abito ecclesiastico, senza aver preso gli ordini sacri, il che era assai comune fra gli eruditi, i quali, purchè non avessero moglie, si assicuravano così molti dei vantaggi serbati ai preti, di cui solevano dir pure un grandissimo male. Annoiato ben presto delle dispute e contese religiose, il Bracciolini si pose a viaggiare, ed in una sua lettera descrisse mirabilmente la cascata del Reno e i bagni di Baden, facendo di tutto ciò una pittura così viva da potersene anche oggi riconoscere la [108] fedeltà.[78] Il suo latino, quantunque assai più corretto di quello dei predecessori, non manca di molti italianismi e neologismi; ma ha una spontaneità e vivacità tale che sembra una lingua viva: non è una semplice riproduzione, ma un vero e proprio rinascimento. E di certo il fiore dell'umanesimo dobbiamo cercarlo nel Poggio ed in altri suoi contemporanei, non già in coloro che, come il Bembo ed il Casa, ci dettero una imitazione più fedele, ma anche più meccanica e materiale. Dimenticando dizionarî e grammatiche, egli sente il bisogno di scrivere come parla; s'esalta in presenza della natura; cerca il vero e ride dell'autorità; ma resta pur sempre un erudito, il che non bisogna mai dimenticare. L'anno 1416 assisteva al processo ed al supplizio di Girolamo da Praga, descrivendo poi tutto in una sua lettera notissima al Bruni. È singolare l'indipendenza di spirito, con cui questo erudito della Curia papale ammirava l'eroismo del precursore di Lutero, proclamandolo degno della immortalità. Ma che cosa ammirava in lui? Non il martire, non il riformatore; dichiarava anzi che, se Girolamo aveva detto qualche cosa contro la fede cattolica, meritava il supplizio che ebbe. Ammirava in lui il coraggio d'un Catone e d'un Muzio Scevola; ammirava «la voce chiara, dolce, sonora; il gesto dignitoso e bene adatto ad esprimere lo sdegno o a muovere la compassione; l'eloquenza e la dottrina, con cui vicino al rogo citava Socrate, Anassagora, Platone, i Santi Padri.»[79]
Ben presto noi lo vediamo allontanarsi da Costanza per fare lunghi viaggi. Percorse la Svizzera e la Germania, cercando nei conventi antichi manoscritti, dei [109] quali fu il più fortunato scopritore in quel secolo. A lui si debbono opere di Quintiliano, Valerio Flacco, Cicerone, Silio Italico, Ammiano Marcellino, Lucrezio, Tertulliano, Plauto, Petronio, ecc. Quando la notizia di queste scoperte arrivava a Firenze, la Città tutta era in gioia. Il Bruni gli scriveva, a proposito specialmente della scoperta di Quintiliano: «Tu sei ora divenuto il secondo padre dell'eloquenza romana. Tutti i popoli d'Italia dovrebbero muoversi per venire incontro al grande scrittore, che hai liberato dalle mani dei barbari.»[80] Molti altri lo imitavano allora in queste ricerche di codici. Dell'Aurispa s'affermava che ne aveva portati da Costantinopoli 238; del Guarino si ripeteva la favola che lo diceva incanutito ad un tratto, per avere in un naufragio perduti i molti codici che portava d'Oriente.[81] Ma nessuno fu mai operoso e fortunato quanto il Bracciolini.
In Inghilterra, presso il cardinale di Beaufort, egli trovossi come isolato, in una società di ricchi aristocratici senza cultura, che passavano gran parte della vita mangiando e bevendo.[82] In quei desinari, che lo tenevano a tavola perfino quattro ore di seguito, egli era costretto ad alzarsi e lavarsi gli occhi con acqua fresca, per non addormentarsi.[83] Pure il paese offeriva, per la sua novità, vasto campo alle osservazioni del Bracciolini, il quale fin d'allora assai acutamente, fra le altre cose, scorgeva il carattere proprio dell'aristocrazia inglese.[84] Infatti, sebbene venisse da Firenze, già tutta democratica, egli notava con sua grande maraviglia, che colà i [110] mercanti arricchiti, i quali si ritiravano in campagna, a vivere delle loro rendite nelle proprie ville, erano dai nobili accolti e trattati alla pari. E così all'accorto viaggiatore del secolo XV non sfuggiva sin d'allora ciò che solamente parecchi secoli dopo notarono gli storici, che cioè l'aristocrazia inglese assai più facilmente delle altre si mescola con la borghesia e col popolo, di cui sostiene gl'interessi, a differenza di quanto avvenne nei paesi latini, dove essa rimase sempre separata ed ostile al popolo, che perciò ne volle la rovina. Ma la novità del paese, la varietà dei costumi e dei caratteri, le quali a Poggio Bracciolini mai non sfuggivano, che occupavano anzi di continuo la sua attenzione, non bastavano a compensarlo del poco conto in cui erano colà tenuti i dotti, e quindi sospirava l'Italia.
Ben presto, infatti, lo troviamo a Roma segretario della Curia romana, al tempo di Martino V. Ivi egli era di nuovo nel suo elemento. Passava le lunghe serate d'inverno coi suoi colleghi in una stanza della Cancelleria, che chiamavano il Bugiale, sive mendaciorum officina, perchè in essa raccontavano aneddoti veri o falsi, più o meno osceni, coi quali ridevano del Papa, dei cardinali, dei dommi stessi della religione, in difesa della quale scrivevano i Brevi. La mattina attendeva al suo ufficio che gli dava poco da fare, e poi componeva opere letterarie, fra cui furono allora i dialoghi sull'Avarizia e sull'Ipocrisia, vizî che egli diceva proprî del clero, che perciò flagellava a morte. Ma in questa specie di satire non si trova mai una seria intenzione; è invece lo stesso spirito mordace e scettico dei nostri comici e novellieri, che come lui ridevano della religione che professavano. Questi cercavano dipingere i costumi del tempo; gli eruditi volevano principalmente far prova di possedere il latino in modo da saper trattare argomenti sacri e profani, serî, comici ed osceni. Ecco tutto. Non c'era mai da sperare nessun alto scopo morale.
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Il Bracciolini, infatti, che flagellava i corrotti costumi del clero, menava poi una vita tutt'altro che morigerata. E quando il cardinale di Sant'Angelo, scrivendo, gli faceva il rimprovero d'aver figli, il che non conveniva ad un ecclesiastico, e di averli poi da una concubina, il che non conveniva ad un laico, egli, senza punto sgomentarsi, rispondeva: «Ho figli, il che conviene ad un laico; li ho da una concubina, il che è antico costume del clero.» E, continuando la lettera, raccontava d'un abate il quale presentò a Martino V un suo figlio, ed essendone da lui biasimato, gli diceva, fra le risa della Curia, che ne aveva ben altri quattro, prontissimi sempre a prendere le armi per sua Santità.[85]
Venuto a Firenze con papa Eugenio IV, si trovò in mezzo ai dotti qui radunati, e fu subito in dispute assai violenti coll'irrequieto Filelfo, che insegnava allora nello Studio. Questi, essendo stato a Costantinopoli dove aveva preso una moglie greca, era quasi il solo in Italia che allora parlasse e scrivesse la lingua di Platone e d'Aristotele. Colla sua sconfinata vanità, col suo carattere irrequieto non dava pace a nessuno: attaccò i Medici e finì col doversi allontanare da Firenze. Allora cominciò a scrivere satire contro i dotti già stati suoi amici e colleghi, ed il Bracciolini gli rispose colle sue Invettive. Fu una guerra d'accuse indecenti, nella quale i due eruditi, ingiuriandosi crudelmente, facevano gara di abilità retorica e di maestria nella conoscenza del latino. Il Filelfo aveva il vantaggio di scrivere in versi, e quindi le sue ingiurie si ritenevano più facilmente a memoria; ma il Bracciolini, avendo maggiore ingegno e brio, scrivendo in prosa, poteva più facilmente dire tutto quello che voleva. Egli respingeva le ingiurie che «il Filelfo aveva vomitate dalla fetida cloaca della sua bocca,» ed attribuiva l'indecenza del linguaggio di lui alla educazione [112] che aveva ricevuto dalla madre, «il cui mestiere era stato, diceva, di vuotar budella d'animali: così il fetore di lei emanava ora dal figlio.»[86] Lo accusava d'aver sedotto la figlia del proprio maestro, per sposarla e poi venderne l'onore, e finiva offrendogli una corona degna di tanta laidezza.[87] Nè ciò bastava, chè essi s'accusavano anco di vizî che il pudore impedisce oggi di nominare, e di cui i dotti parlavano allora senza ritegno, quasi ridendo, istigati dall'esempio degli scrittori greci e romani.
L'animo rifugge dal pensare che grande rovina morale tutto ciò dovesse portare nello spirito italiano. Ma Poggio scriveva le sue lodate Invettive in una deliziosa villa, dove aveva raccolto statue, busti, monete antiche, di cui si valeva a meglio comprendere l'antichità, ed iniziava così l'archeologia, come aveva già fatto a Roma descrivendone i monumenti. A lui pareva che questo fosse il paradiso dovuto ad uno spirito eletto, ad un letterato enciclopedico, destinato all'immortalità. Aveva allora 55 anni, e per sposare una giovanetta di cospicua famiglia, abbandonò la donna con cui aveva sino allora vissuto, da cui gli erano venuti quattordici figli, quattro dei quali, vivi e legittimati, restarono poi senza averi. Ma rimediò scrivendo un dialogo: An seni sit uxor ducenda, in cui difese la propria causa. Bastava uno scritto in latino elegante a risolvere i più difficili problemi della vita, ed a [113] mettere in pace la coscienza. Per l'erudito del secolo XV, già lo dicemmo, le parole valevano quanto e più dei fatti: lodare con eloquenza la virtù era lo stesso che essere virtuoso. I più grandi uomini della Grecia e di Roma non dovevano forse la immortalità alla eloquenza con cui la loro vita era stata narrata da sommi scrittori? Che sarebbe della fama di Annibale, di Scipione, d'Alessandro, d'Alcibiade senza Livio, senza Plutarco? Chi sapeva scrivere con eloquenza il latino, non solo era sicuro della propria immortalità, ma poteva a suo arbitrio concederla anche agli altri.
Dalla Toscana Poggio tornò a Roma, e sotto il pontificato di Niccolò V, valendosi della grande libertà concessa agli eruditi, pubblicò scritti contro i preti, contro i frati, ed il Liber Facetiarum, in cui raccolse tutte le satire e le oscenità altra volta raccontate nel Bugiale, dicendo chiaro nella prefazione, che il suo scopo era di mostrare come il latino potesse e dovesse essere adoperato a dir tutto. Invano i rigoristi biasimarono questo vecchio che aveva ora settanta anni, e contaminava così la sua canizie: dopo che il Panormita aveva pubblicato l'Hermaphroditus, l'orecchio italiano s'era usato a tutto, e Poggio passava tranquillo il suo tempo nello scrivere oscenità, e nelle dispute letterarie. Una disputa l'ebbe allora col Trapezunzio, e finì a pugni; l'altra l'ebbe col Valla, e questa dètte origine da una parte all'Antidoto contro il Poggio, dall'altra a nuove Invettive. La questione versava sulle proprietà del latino e sui precetti grammaticali sostenuti nelle Elegantiae del Valla, il quale, essendo di un acume critico superiore, ebbe il vantaggio nella controversia. Ma anche qui la gara di oscenità fu scandalosa. Accusato d'ogni più disonesto vizio, il Valla rese pan per focaccia, senza gran fatto occuparsi di difendere sè stesso, anzi spesso dando prova d'un singolare cinismo. Così a Poggio che lo accusava d'aver sedotto la fantesca della propria sorella, rispondeva ridendo d'aver voluto provar [114] falsa l'accusa fattagli dal cognato, che la sua morigeratezza, cioè, non derivasse da virtù dell'animo.[88] S'ingannerebbe però assai chi volesse dalla violenza delle ingiurie misurare la forza delle passioni. Le Invettive erano quasi sempre semplici esercizî retorici; i due contendenti scendevano nell'arena come istrioni venuti a dare spettacolo della loro destrezza e della loro nudità. Se però le passioni non erano reali, reale era pur troppo il danno morale che risultava da sì misero spettacolo.
Abbandoniamo dunque questo terreno fangoso e passiamo ad altro, giacche siamo ancora lontani dall'avere descritta tutta la prodigiosa attività del nostro autore. Le orazioni erano, dopo le epistole, il genere più popolare fra gli eruditi. In esse raccoglievano tutte quante le reminiscenze dell'antichità, e tutte quante le figure retoriche. La memoria era spesso la sola facoltà veramente necessaria al buon successo: — aveva una memoria eterna, citava tutti quanti gli autori antichi, — era l'elogio che Vespasiano soleva fare ai più celebri di questi oratori, i quali sembravano aver dei florilegi, cui ricorrere per ispirare la propria eloquenza. Si trattava d'un generale, e ricordavano tutte le grandi battaglie; si trattava d'un poeta, e si sciorinavano precetti di Orazio o di Quintiliano. Il soggetto principale svaniva dinanzi al bisogno di far servire tutto come un'occasione a render sempre più familiare l'antichità: lo stile era falso, l'artifizio continuo, le esagerazioni innumerevoli, e le orazioni funebri riuscivan sempre apoteosi. Un giorno che il Filelfo voleva accusare un suo persecutore, salì la cattedra, e cominciò in italiano: «Chi è cagione di tanti suspecti? Chi è principio di tante ingiurie? Chi è autore di tanti oltraggi? Chi è costui, chi è? Nominerò [115] io tal mostro? Manifesterò io tal Cerbero? Dirollo io? Io certo il debbo dire, io il dico, io il dirò, se la vita n'andasse. Egli è il maledico ed il prodigioso, il detestabile ed abominevole.... Ahi! Filelfo, taci, non dire per Dio! Abbi pazienza. Chi sè medesimo contenere non può, male potrà alcun altro d'intolleranza e d'incostanza ammaestrare.»[89] Ecco ciò che allora sembrava modello d'eloquenza; e però non aveva torto Pio II, quando diceva che un'orazione fatta con arte poteva commovere solo gente di volgare intelligenza.[90] Il cardinale di Estouteville, francese di buon gusto, ascoltando l'elogio di S. Tommaso d'Aquino fatto dal Valla, ebbe ad esclamare: ma quest'uomo è impazzato![91] Eppure quelle orazioni erano allora talmente in voga, che nelle paci, nelle ambascerie, in tutte le solennità pubbliche o private, non poteva farsene a meno. Ogni corte, ogni governo, qualche volta anche le ricche famiglie, avevano il loro oratore ufficiale. E come oggi di rado v'è festa senza musica, così allora un discorso latino in versi o in prosa era il migliore trattenimento d'una società culta. Molti ne furono dati alle stampe, ma sono la parte minore; le biblioteche italiane ne contengono centinaia ancora inediti. Eppure in tutta questa abbondanza non si trovano mai esempi di vera eloquenza, se facciamo eccezione d'alcune fra le orazioni di Pio II, il quale non parlava sempre per mero esercizio letterario, ma spesso anche per giungere ad un fine determinato, ed allora non affogava nella retorica. Poggio Bracciolini era tenuto uno dei gran maestri del genere, e non mancò anch'egli di fare molte orazioni, specialmente in lode dei letterati amici che morivano. La facilità dello stile che pur cadeva spesso in verbose lungaggini, il brio, [116] la disinvoltura ed il buon senso lo rendono più leggibile degli altri, ma non eloquente.
Gli ultimi anni della sua vita li passò a Firenze, dove, per la morte di Carlo Marsuppini (24 aprile 1453), fu nominato segretario della Repubblica, e scrisse il suo ultimo lavoro, che fu la Storia di Firenze dal 1350 al 1455. In quest'opera egli, come aveva già fatto Leonardo Bruni, abbandonò la via tenuta dai cronisti fiorentini, e non ebbe la vivacità ed evidenza di cui essi avevano dato così splendide prove. Non vi si trova mai un aneddoto, non un racconto ritratto dal vero; non si scopre mai una conoscenza personale degli avvenimenti, in mezzo ai quali l'autore era pure vissuto, partecipandovi. Egli sembra narrare fatti greci e romani; non parla mai delle interne vicende della Repubblica, e noi assistiamo solo a grandi battaglie, a lunghi e solenni discorsi latini di Fiorentini vestiti sempre alla romana. Poggio in sostanza mira principalmente ad imitare l'epica narrazione di Livio, e se questo gli fa perdere le spontanee qualità dei cronisti, l'obbliga pure a cercare un legame, se non scientifico e logico, almeno letterario tra i fatti, e la cronaca così comincia a trasformarsi nella storia. Il Bruni è assai superiore per critica storica, il Bracciolini per facilità di stile, spesso però diviene verboso. Questi fu dal Sannazzaro accusato di soverchia parzialità per la sua patria;[92] ma ciò dipende in gran parte dall'attitudine che assume, parlando sempre di Firenze come se fosse la repubblica romana.
Se Poggio Bracciolini fu il principale rappresentante di questo secondo periodo della erudizione italiana, non fu il solo; si trovò anzi in mezzo ad una schiera numerosa d'altri dotti, e fra questi il più celebre era Leonardo [117] Bruni, nato nel 1369 in Arezzo, e chiamato perciò l'Aretino. Noi lo abbiam visto già all'arrivo del Crisolora in Firenze, abbandonare lo studio del diritto, per darsi tutto al greco; ed il profitto che fece fu tale da poter ben presto tradurre non solo i principali storici ed oratori, ma anche i filosofi greci. Con ciò egli rese un immenso servigio alle lettere, perchè le sue versioni furono le prime in cui i classici greci vennero fedelmente tradotti dall'originale, nè solo in un latino elegante, ma senza essere alterati dalle idee del traduttore; e perchè comparivano nel momento appunto in cui il bisogno di averle era universale. Le versioni dell'Apologia di Socrate, del Fedone, del Critone, del Gorgia, del Fedro di Platone, e quelle dell'Etica, dell'Economica, della Politica d'Aristotele, furono un vero e proprio avvenimento letterario. Da un lato veniva rivelata la filosofia platonica, fino allora quasi sconosciuta in Italia; da un altro compariva finalmente quello che fa chiamato il vero Aristotele, ignoto al Medio Evo. Gli eruditi potevano adesso ammirare quella eloquenza, che il Petrarca aveva cercata invano nell'Aristotele travestito e quasi barbaro de' suoi tempi; non erano più costretti a studiare uno scolastico invece del filosofo greco. Così il Bruni dètte un impulso grandissimo alla filosofia ed alla critica. Il suo era infatti un ingegno critico, come apparisce anche dalle Epistole, nelle quali troviamo per la prima volta sostenuta l'opinione che l'italiano sia derivato dal latino parlato, diverso dallo scritto, e ciò con argomenti tali, che l'umanista del secolo XV sembra qualche volta un vero precursore della filologia moderna.[93]
Queste qualità si vedono anche meglio ne' suoi lavori storici, primo dei quali è la Storia di Firenze dalle [118] origini sino al 1401. Di essa noi dobbiamo dare giudizio diverso di quello già espresso sulla Storia del Bracciolini, che ne è la continuazione. Questi, come dicemmo è superiore per la grande facilità dello stile, ma è vinto di gran lunga per lo spirito critico, e per l'esame delle fonti. Il Bruni ricorre anche, il che è notevolissimo, ai documenti d'Archivio, e si occupa assai più dei fatti interni della Repubblica.[94] Più di una volta, come avremo occasione di vedere, egli ci apparisce come un precursore delle Storie del Machiavelli. Tuttavia anche in lui troviamo la stessa tendenza a vestire i Fiorentini alla romana, la stessa mancanza di colorito locale, gli stessi lunghi discorsi retorici, messi in bocca dei personaggi storici per la irresistibile passione d'imitare gli antichi.[95]
Leonardo Aretino era uomo di grandissima autorità personale in Firenze, dove ebbe molti ed importantissimi uffici, fra i quali tenne lungamente quello di segretario della Repubblica.[96] Morto nel 1444, gli successe Carlo Marsuppini d'Arezzo, chiamato perciò Carlo Aretino. Costui scrisse assai poco, e nulla d'importante; pure fu un insegnante di grido, emulo fortunato del Filelfo nello Studio fiorentino, ed ebbe una gran fama, dovuta principalmente alla sua memoria, che gli faceva fare gran [119] figura nei pubblici discorsi. La sua prima Prolusione fu applauditissima, perchè, secondo dice Vespasiano, «non ebbono i Greci nè i Latini scrittore ignuno, che messer Carlo non allegasse quella mattina.»[97] Egli ostentava un gran disprezzo pel Cristianesimo, ed una grande ammirazione per la religione pagana.[98] A lui come al Bruni furono dalla Repubblica decretati solenni onori funebri. Ambedue ebbero sulla bara la corona poetica; ambedue riposano, l'uno di fronte all'altro, in Santa Croce, sotto due monumenti del pari eleganti, con due iscrizioni del pari pompose, quasi seicentistiche, sebbene grande fosse la distanza che passava dall'ingegno dell'uno a quello dell'altro. L'elogio funebre del Marsuppini venne letto dal suo scolare Matteo Palmieri, quello del Bruni, invece, da un altro letterato di sommo grido, e riuscì un avvenimento solenne. In mezzo alla pubblica piazza, accanto alla bara, su cui era il cadavere del Bruni col volume della sua Storia Fiorentina sul petto, in presenza dei magistrati della Repubblica, incominciò a leggere Giannozzo Manetti, che da molti era tenuto, massime per le orazioni, il primo letterato allora vivente. Eppure chi legge adesso questa Orazione, resta maravigliato, e non sa comprendere come in un secolo tanto culto e tanto ammiratore dei classici, si potesse, con un gusto così barocco, riscuotere così universali applausi. Egli incomincia col dire che, se le Muse immortali (immortales Musae divinaeque Camoenae) avessero potuto fare un discorso latino o greco, e piangere in pubblico, non avrebbero lasciato fare a lui quella solenne orazione. Viene poi a parlar della vita del Bruni, ed, arrivato al tempo in cui fu segretario della Repubblica, percorre la storia di Firenze. Tocca delle opere di lui, e poi si distende [120] a ragionare degli scrittori greci e latini, specialmente di Cicerone e di Livio, al di sopra dei quali pone il Bruni, per la gran ragione, che questi non solo traduceva dal greco come il primo, ma scriveva anche storie come il secondo, così riunendo in sè i pregi dell'uno e dell'altro. Avvicinatosi il momento, in cui doveva mettere la corona sulla testa del morto amico, parlò dell'antichità di questo uso e delle varie corone: civica, muralis, obsidionalis, castrensis, navalis, continuando la descrizione per cinque grosse pagine di fittissimo carattere. Affermò che il Bruni meritava la corona come vero poeta, e subito s'abbandonò ad una serie di vuote frasi, per spiegare che significhi la parola poeta, che sia la poesia, e finalmente conchiudeva con una pomposa apostrofe, coronando «il felice ed immortale sonno della maravigliosa stella dei Latini.»[99] Strana è veramente questa gonfiezza di stile in coloro che passavano la vita studiando, imitando i classici!
Il Manetti era nato a Firenze nel 1396, ed in età di 25 anni, morto il padre, lasciò il banco per darsi allo studio con tanto ardore, che dormiva solo cinque ore. Dalla sua casa aprì un uscio che dava nel giardino del convento di Santo Spirito, ove andava a studiare, e per nove anni non passò l'Arno.[100] Imparò il latino, il greco, l'ebraico; aveva una grande facilità di scrivere, una memoria «eterna, immortale,» secondo la solita espressione di Vespasiano. Ma il pregio di quest'uomo era più che altro nel suo carattere morale. Pratico degli affari, religioso, fermo, onestissimo, gli studi lo condussero a formarsi un alto ideale della vita, al quale si mantenne sempre fedele nei molti uffici che gli furono affidati. Vicario o Capitano della Repubblica in più città lacerate dalle fazioni, riuscì a dare sentenze severissime, a porre gravi [121] tasse, senza mai essere accusato di parzialità. Ricusava anche i donativi d'uso, dando invece del suo a chi ne abbisognava, portando la concordia e la pace per tutto. Le ore d'ozio passava scrivendo la vita di Socrate e di Seneca, De dignitate et excellentia hominis, la storia delle città in cui si trovava. Ma il suo caval di battaglia, come erudito, furono le orazioni, che fece nelle molte ambascerìe, cui venne inviato appunto per la grandissima fama d'oratore che s'era guadagnata. A Roma, a Napoli, a Genova, a Venezia venne accolto come un principe; e la sua reputazione era tale, che solo a lui riescì, con una lettera latina, di farsi rendere dal capitano Piccinini otto cavalli che i soldati di lui gli avevano rubati. Essendo andato a rallegrarsi in nome della repubblica fiorentina per la elezione di Niccolò V, la gente accorse dalle città vicine, ed il Papa lo ascoltò con tale attenzione, che un prelato accanto gli toccò più volte il gomito, credendolo addormentato. «Finita l'orazione, a tutti i Fiorentini fu tocca la mano, come se avessino acquistato Pisa e il suo dominio;»[101] e i cardinali veneziani scrissero subito al loro governo, che bisognava mandare a Roma un oratore simile al Manetti, altrimenti ne andava il decoro della Serenissima. A Napoli il re Alfonso sembrava «una statua sul trono,» quando parlò il Manetti. Eppure questi era un oratore senza originalità: i suoi discorsi, d'uno stile gonfio e falso, sono centoni di notizie diverse, florilegi di frasi latine. Ma ciò appunto era quello che piaceva allora, perchè dimostrava la sua vasta lettura, la sua grande memoria, la sua prodigiosa facilità di cucire insieme periodi sonori. Scrisse molte storie e biografie che, senza la vivacità dei cronisti antichi, non hanno neppure i pregi dell'Aretino e del Bracciolini. I suoi trattati filosofici sono vuote dissertazioni; le sue molte traduzioni dal latino e dal greco non hanno la importanza [122] di quelle dell'Aretino, che lo aveva preceduto; le sue versioni del Salterio dall'ebraico e del Nuovo Testamento dal greco mostrano che era poco contento della Volgata; ma s'ingannarono coloro che vollero in ciò vedere un ardimento religioso, di cui egli era incapace. Gli ultimi anni della sua vita furono amareggiati dall'invidia che l'obbligò a lasciare Firenze; ma trovò protezione a Roma ed a Napoli, dove morì, stipendiato da Alfonso d'Aragona, il 26 ottobre 1459.
Sebbene la grande reputazione del Manetti sia oggi assai decaduta, pure egli merita un posto d'onore nella storia del secolo XV, perchè la sua vita dimostra chiaramente come non vi sia professione nè secolo corrotto in modo da impedire ad un uomo di serbare una vera nobiltà di animo. Quella stessa erudizione pagana, che lasciava dietro di sè tante rovine morali in Italia, a lui valse invece per levare in alto il proprio spirito. Ed invero è un grande errore, quantunque assai comune, il condannare con una sentenza generale il carattere di tutti gli eruditi. Noi abbiamo già dovuto ammirare Coluccio Salutati e Palla Strozzi; molti altri potremmo citare anche fra i meno noti. Basta leggere il biografo Vespasiano, di cui si può biasimare la troppa ingenuità, ma non si può mettere in dubbio l'ammirazione sincera per la virtù. Egli ci parla di messer Zembrino da Pistoia, che insegnava «non solo lettere, ma costumi,» e, lasciato ogni altro ufficio, «per vivere alla filosofia,» parco e morigerato, dava tutto il suo ai poveri, cibandosi come un eremita; ed era «di un animo interissimo, libero, senza dolo e fraude ignuna, come vogliono esser fatti gli uomini.» Parlando di maestro Paolo fiorentino, dotto in greco, in latino e nelle sette arti liberali, dato anche all'astrologia, aggiunge, che non conobbe mai donna; dormiva vestito sopra un'asse, accanto allo scrittoio; nutrivasi di erbe e di frutta; «solo era volto alla virtù, e quivi aveva posto ogni sua speranza.... Quando non [123] istudiava, andava alla cura di qualche suo amico.»[102] Tutto ciò per altro non può far dimenticare, che la maggior parte di essi erano bensì uomini dati con ardore allo studio, ma pur troppo senza carattere. Il perenne esercizio della mente in questioni assai spesso di pura forma; la vita vagabonda di cortigiani costretti a guadagnarsi il pane con elogi venduti; le continue gare; la mancanza d'ogni sentimento di fratellanza o di casta nel lavoro e nell'ufficio comune che adempivano, e la demolizione che cinicamente facevano di ogni cosa più sacra, non potevano certo contribuire a nobilitare il loro carattere. Se si aggiunge poi, che tutto ciò seguiva in un momento nel quale la libertà era già spenta, la società decadeva, la religione veniva scandalosamente profanata dai Papi stessi, allora solamente si capirà che profonda corruzione morale dovesse ritrovarsi in Italia, quando questi eruditi erano i predicatori della virtù, i distributori della gloria, i rappresentanti della pubblica opinione. Ma ciò non deve impedirci di riconoscere gli onesti, che si salvarono dal generale naufragio. Se non si tien conto di tutti gli elementi di cultura e della diversa indole degli uomini che vissero in quel secolo, si corre pericolo di non poter mai più intendere come lo spirito italiano sapesse allora, fra tanti pericoli, trovare in sè stesso la forza necessaria a promuovere uno straordinario progresso intellettuale, evitando una totale rovina morale, a cui forse ogni altro popolo in simili condizioni sarebbe andato soggetto.
Dopo Firenze, la città di maggiore importanza per le lettere è di certo Roma. I Papi sin dai tempi del Petrarca cominciarono a sentire il bisogno di far scrivere i loro [124] Brevi da qualche dotto in latino. E sotto Martino V gli eruditi della Curia già pretendevano nelle pubbliche funzioni d'aver la precedenza sugli avvocati concistoriali, di cui parlavano con disprezzo.[103] Fra di essi, come già vedemmo, Poggio Bracciolini primeggiava, e con lui si trovavano altri di minor fama, come Antonio Lusco, scrittore di epistole in versi e di epigrammi, che aveva cavato dalle Orazioni di Cicerone le regole della retorica, e composto così un formulario da servirsene per trattare in linguaggio classico gli affari della Curia.[104] Gli eruditi però, che a Firenze avevano una vera importanza sociale, ed una grande indipendenza, a Roma invece erano in ufficî subordinati, nei quali spesso guadagnavano bene, ma in sostanza potevano solo aspirare alla condizione di cortigiani favoriti. Tuttavia ogni giorno crescevano di numero, entrando nell'Abbreviatura, dove si trovarono sino a cento scrittori di Brevi, o nella privata segreteria del Papa, dove si portava l'abito ecclesiastico senza obbligo di prendere gli ordini sacri. L'ufficio di abbreviatore era stabile, quello di segretario durava generalmente quanto la vita del Papa; dava però molti incerti guadagni, e la speranza di farsi strada coi possibili favori: ambedue si comperavano a caro prezzo (chè a Roma tutto allora si vendeva), ma il primo era preferito e si pagava di più.[105]
L'età dell'oro per gli eruditi in Roma fu quella di Niccolò V, il quale, potendo, avrebbe portato nella Città Eterna tutti i codici del mondo, tutti i dotti e tutti i monumenti di Firenze. Le economie che fece, e i danari del giubileo nel 1450 gli dettero modo di mettersi all'opera. [125] La Curia e la Segreteria furono subito piene di eruditi che il Papa, il quale conosceva poco o punto il greco, occupava a far traduzioni, pagandole lautamente. Al Valla fu affidata la traduzione di Tucidide, finita la quale ebbe 500 scudi e l'incarico di tradurre Erodoto; al Bracciolini quella di Diodoro Siculo; a Guarino Veronese, che era in Ferrara, quella di Strabone con la promessa di 500 scudi per ogni parte dell'opera; altri ebbero altre commissioni. Solo per una traduzione in versi latini d'Omero, Niccolò V non potè trovare l'uomo adatto, quantunque avesse cercato per tutto, e fatte al Filelfo le più larghe offerte. Anche gli esuli greci Teodoro Gaza, Giorgio Trapezunzio, il Bessarione e molti altri accorsero a Roma, e parecchi di essi ricevettero gli stessi ufficî e le medesime commissioni. La più parte di questi erano però specie d'avventurieri irrequieti, che avevano mutato religione per la speranza di guadagni. Il Bessarione, convertito anch'egli, era invece uomo assai autorevole e sincero, dotto e conoscitore del latino più de' suoi connazionali, cardinale, ricco, gran raccoglitore di codici,[106] e la pretendeva inoltre a Mecenate. Niccolò V lo mandò coll'ufficio di Legato a Bologna, probabilmente, così almeno si disse, per non vederlo quasi suo emulo in Roma.
Tutta questa grande società di traduttori ed emigrati, riuniti dai danari del Papa, si poteva dire un'accozzaglia d'elementi eterogenei. Essa di certo valse assai a diffondere i risultati del lavoro iniziato in Firenze, ma era incapace di opere veramente originali; fece molte utili traduzioni, ma si può anche osservare, che se quelle del Bruni a Firenze avevano aperto una via nuova agli studî, ed erano fatte da un uomo che le [126] aveva intraprese di sua iniziativa, quelle pagate da Niccolò V erano invece lavori di commissione, eseguiti assai spesso da dotti, il cui merito principale non era la cognizione del greco, o da emigrati greci che conoscevano poco il latino. Ciò che di più notevole ed originale produsse questa società romana di dotti, furono opere come le Facezie del Bracciolini, le Invettive dello stesso o l'Antidoto del Valla, con le quali opere abbiam visto che basse ingiurie quegli eruditi si scagliassero fra di loro. Il Papa avrebbe potuto facilmente mettere un freno al poco edificante spettacolo, ma sembrava invece compiacersene. Sotto il suo pontificato però, è necessario notarlo, vennero da coloro che egli proteggeva pubblicate anche opere di argomento grave, e di grandissima importanza; ma queste appunto o non furono scritte in Roma, o non furono incoraggiate da lui.
Era assai naturale che chi aveva formato una così grande officina di traduttori, fondasse ancora una grande biblioteca. Ed infatti, se prima di lui Martino V aveva già cominciato a raccogliere codici; se dopo di lui Sisto IV aprì al pubblico la famosa biblioteca Vaticana, il vero fondatore di essa, come abbiamo altrove accennato, fu Niccolò V. Enoch di Ascoli corse il mondo cercando codici nei conventi, con Brevi che lo raccomandavano, perchè potesse copiare o comprare;[107] Giovanni Tortello, autore d'un Manuale d'ortografia pei copisti,[108] fu il bibliotecario di questo Papa che, secondo Vespasiano, raccolse 5000 volumi, li legò con grandissimo lusso, e spese per essi 40,000 scudi.[109] Oltre di che egli incominciò un grande [127] restauro delle strade, dei ponti, delle mura aureliane; pose le fondamenta d'un nuovo Vaticano; fortificò il Campidoglio e Sant'Angelo; restaurò o costruì di pianta un gran numero di chiese in Roma, Viterbo, Assisi, altrove, e nuove fortezze in molte città dello Stato. Insomma coi consigli dell'Alberti, coll'opera di Bernardo e Antonio Rosselli, Niccolò V seppe trasformare Roma in una grande città monumentale, emulando non solo i Medici, ma i più grandi imperatori antichi.[110]
Da tutto ciò si può facilmente comprendere come senza avere un grande ingegno, egli riuscisse a far passare il suo nome ai posteri. S'aggiunge ancora che il suo pontificato fu illustrato dalla presenza di tre uomini d'ingegno assai singolare, due dei quali adoperati da lui. E sebbene le loro opere più originali o non fossero, come dicemmo, scritte in Roma, o appunto di esse il Papa non sembrasse curarsi affatto, pure gliene venne indirettamente un onore che non meritava.
Il primo di essi fu Lorenzo Valla, che abbiamo veduto tra i segretarî e traduttori, e che aveva per lo innanzi avuto una vita assai avventurosa. Di famiglia piacentina, nato a Roma (1407), si vantava romano. Fino a 24 anni restò in patria dove fu discepolo dell'Aurispa e del Rinucci, ed ebbe anche soccorso di buoni consigli da Leonardo Bruni.[111] Andò poi professore a Pavia, dove subito manifestò il suo carattere irrequieto ed il suo ingegno originale. In quel gran centro di studî [128] legali attaccò fieramente la dottrina del celebre Bartolo, a cagione dello stile barbaro e scolastico di lui. Ignorando, egli diceva, il classico linguaggio dell'antichità, col quale la giurisprudenza romana era e doveva essere scritta, ignorando anche la storia, non poteva Bartolo intendere il vero significato delle leggi di Roma, nè commentarle a dovere. Questa audacia parve un'eresia, e destò tale rumore fra gli studenti di legge, che il povero Valla dovè fuggire da Pavia, ed andare insegnando in altre città.[112]
Pure in mezzo a queste inquietudini, egli dètte alla luce la sua prima opera, De voluptate et vero bono,[113] nella quale troviamo subito un vero pensatore, e vediamo come dall'erudizione nascesse allora lo spirito nuovo del Rinascimento. Ponendo a confronto le dottrine degli stoici e degli epicurei, esaltava il trionfo dei sensi, ribellandosi contro ogni mortificazione della carne. — Scopo della vita, egli dice francamente, sono la felicità, il piacere, e noi dobbiamo cercarli, perchè la natura ce lo impone. La virtù stessa, che deriva dalla volontà e non dall'intelletto, è un mezzo per giungere alla beatitudine, che è la felicità vera, sempre incompiuta su questa terra. Noi non possiamo colla ragione spiegar tutto: i dommi della religione restano spesso un mistero, e la filosofia cerca solo, se può, di esporli razionalmente; non è possibile neppure conciliare il libero arbitrio colla preveggenza divina. La scienza si fonda sulla ragione, che è in armonia colla realtà delle cose; sulla natura, che è Dio stesso. La verità si manifesta in una forma semplice, precisa, vera; la logica e la retorica son quasi una sola [129] e medesima cosa; uno stile confuso e scorretto accusa verità mal comprese, una scienza falsa o incompiuta. — E quindi egli attaccava fieramente la scolastica, Aristotele, Boezio, facendo continuo appello dall'autorità al sano uso della ragione, alla realtà, alla natura, che veniva da lui esaltata in mille modi. Questo bisogno del reale, questa redenzione dei sensi e della natura, formano il concetto dominante e l'anima di tutto il libro; costituiscono l'indole propria degli scritti del Valla: è in sostanza lo spirito stesso del Rinascimento, che viene con lui alla luce. Non si tratta qui di un nuovo sistema filosofico; ma si vede che la natura ed il buon senso trionfano; e l'indipendenza della ragione si presenta a noi come una conseguenza logica dell'antichità risorta, come una conquista ormai compiuta.
Quest'opera avrebbe ottenuto assai migliore successo, se il Valla, spirito irrequieto e battagliero, che amava qualche volta il paradosso, non si fosse lasciato trascinar troppo dalla sua penna. Pigliando la difesa dei sensi, egli dichiara che la verginità è contro natura, e fa dire al Panormita, che se le leggi di questa debbono essere rispettate, le cortigiane sono più utili al genere umano che le monache. Esponendo e difendendo la dottrina di Epicuro contro gli stoici, condannando tutto ciò che significa disprezzo del mondo, si lascia andare a molte espressioni contrarie allo spirito ed alla lettera delle dottrine cattoliche, anzi cristiane. E quantunque dichiarasse di voler rispettare l'autorità della Chiesa, i suoi attacchi contro il clero erano fierissimi, e più pericolosi assai di quelli di Poggio e degli altri eruditi, perchè questi si valevano del frizzo, il Valla, invece, della critica. Per tutte queste ragioni si levò un gran rumore contro di lui, e fu subito accusato d'eretico, d'epicureo e profanatore d'ogni cosa sacra. Nè gli valse difendersi col dire che il vero piacere, la vera felicità eran per lui la beatitudine divina; perchè gli venivan gettate in viso [130] le frasi più aggressive e audaci della sua opera, ricordati i fatti più immorali della sua vita, che prestava il fianco a molti attacchi.
Dopo aver insegnato in varie città, il Valla si trova dal 1435 al '42 presso Alfonso d'Aragona, ne è fatto segretario nel '37, e lo accompagnò nelle imprese militari, che poi portarono quel principe al trono di Napoli.[114] Nel '44 egli era a Roma, ma dovette fuggirne, ricoverandosi di nuovo a Napoli, per le persecuzioni minacciategli a causa d'uno scritto da lui composto nel 1440: De falso credita et ementita Constantini donatione.[115] Il Valla sosteneva in esso che la donazione di Costantino non era stata mai fatta, non poteva farsi, e che l'originale del preteso documento non fu mai visto. Esaminando poi con la critica il linguaggio del documento, ne provava la falsità, dimostrando che non aveva il carattere del latino del tempo. Dopo di che attaccava fieramente la simonia del clero, osando dichiarare che il Papa non aveva il diritto di governare nè il mondo, nè Roma; che il dominio temporale aveva rovinato la Chiesa e privato della libertà i Romani; minacciava poi d'incitarli anche a sollevarsi contro la tirannìa d'Eugenio IV e contro i Papi in genere, che di pastori s'eran fatti ladri e lupi. Quando pure, egli concludeva, la donazione fosse vera, sarebbe nulla, perchè Costantino non poteva farla: in ogni caso i delitti dei Papi l'avrebbero già annullata. E sperava, egli concludeva, di vivere abbastanza per vederli costretti a tornare pastori col solo potere spirituale. — Veramente, già durante il Concilio di Basilea, il Cusano ed il Piccolomini avevano sostenuta la falsità della donazione, [131] con argomenti che si trovano anche nel Valla.[116] Ma a lui più che ad altri si deve la demolizione del falso documento, il che potè fare con la sua critica mordace, e con l'impeto della sua eloquenza ciceroniana. Inoltre, come abbiam detto, egli non si fermava ad un esame letterario e teoretico del documento, ma voleva addirittura abbattere il potere temporale, minacciando di invitare le popolazioni ad insorgere. Non si trattava più d'una semplice disputa teologica o storica; ma era la prima volta che un erudito già celebre, dopo avere ampiamente esposta la questione critica, la rendeva popolare e le dava una pratica applicazione. Allora Alfonso d'Aragona trovavasi in guerra con Eugenio IV, ed il Valla, pigliando le parti del suo protettore, poteva dare libero corso alla sua eloquenza. Attaccato da preti e da frati, egli che combatteva come sotto una fortezza, raddoppiò i colpi con altri scritti. In questi sostenne non esser vera la lettera di Abgaro a Gesù Cristo, pubblicata da Eusebio; che il Simbolo non era stato composto dagli Apostoli, ma dal Concilio di Nicea. E prima aveva già notati molti errori della Volgata, raccogliendoli in un libro d'annotazioni, che Erasmo di Rotterdam ripubblicò più tardi con una lettera di elogio e difesa.[117] Questi scritti e queste dispute lo fecero chiamare dinanzi all'Inquisizione in Napoli; ma egli, sicuro dell'appoggio del Re, si difese in parte col sarcasmo, in parte dichiarando che rispettava i domini della Chiesa, i quali non avevano da far nulla colla storia, colla filosofia e la filologia. Quanto alla donazione di Costantino, non ne fu parlato, per non risollevare una questione troppo spinosa.
[132]
Liberato da tale pericolo, continuò le sue lezioni all'Università, e attaccò dispute letterarie con Bartolommeo Fazio e Antonio Panormita, contro i quali scrisse quattro libri d'invettive.[118] Ma insieme con questi lavori pubblicò altre opere storiche, filosofiche e filologiche, dettate sempre col medesimo spirito critico ed indipendente, e fra di esse vanno principalmente notate le Elegantiae e la Dialectica. Le prime[119] ebbero subito una grande popolarità, perchè il Valla in esse fece prova di tutta la sua maestria nel latino classico, che scriveva con eleganza e vigore. Dimostrò anche una conoscenza assai profonda, per quel tempo, delle teorie grammaticali; ma, quel che è più, passava insensibilmente dalle questioni filologiche alle filosofiche. Il linguaggio, egli diceva, è formato secondo le leggi del pensiero, per il che la grammatica e la retorica si basano sulla dialettica, di cui sono il complemento e l'applicazione. Anche di quest'opera si occupò Erasmo di Rotterdam, facendone un sunto che pubblicò.[120] In essa ed in quella De Voluptate et vero bono, si vede tutta quanta l'originalità dell'autore, ed il passaggio dalla erudizione alla critica ed alla filosofia. La Dialectica, lavoro esclusivamente filosofico, ha un merito assai inferiore alle Elegantiae, ma sostiene anch'essa il medesimo concetto, che il vero studio del pensiero si debba, cioè, fare collo studio del linguaggio.[121]
[133]
In mezzo a queste battaglie ed a questa attività letteraria, protetto da un re splendido come Alfonso, in una città che per gli studî filosofici ebbe sempre singolare attitudine, il Valla poteva esser contento. Pure egli mirava a Roma, perchè colà era il gran centro dei letterati, e perchè il suo stato presente non era punto sicuro. Il Re poteva conciliarsi col Papa, poteva succedergli il figlio, e le cose sarebbero subito mutate. Infatti, non andò guari che gli Aragonesi tornarono d'accordo coi Papi, ed il Valla dovè pensare ai casi suoi. Colla disinvoltura propria degli eruditi, si decise allora a mutare strada. Cominciò collo scrivere lettere ad alcuni cardinali, dicendo che non era stato mosso da odio ai Papi; ma da amore alla verità, alla religione, alla gloria. Se la sua opera veniva dagli uomini, sarebbe caduta da sè stessa; se veniva da Dio, nessuno avrebbe potuto abbatterla. Del resto, e qui era per lui il punto importante, se con qualche opuscolo aveva potuto far molto male alla Chiesa, dovevano riconoscere che egli era in grado di fare ad essa altrettanto bene. Ma tutto ciò non bastava ancora a calmare Eugenio IV, ed il Valla scrisse addirittura la sua Apologia, indirizzandola al Papa, cui prometteva di ritrattarsi.[122] [134] In essa respingeva le accuse d'eresia, che «l'invidia dei nemici gli aveva scagliate contro,» e conchiudeva: «Se non peccai, restituisci la mia fama nel pristino suo stato; se peccai, perdonami.»
Ma neppure con ciò ottenne il resultato voluto. Solamente dopo la elezione di Niccolò V, egli venne chiamato a Borna (1448), dove fu adoperato a far traduzioni dal greco. Più tardi insegnò nella Università romana, e così fra le lezioni, le traduzioni e le dispute letterarie col Trapezunzio e con Poggio, passò la sua vita, senza occuparsi punto di questioni religiose. Sotto Calisto III arrivò ad essere segretario nella Curia ed anche canonico di San Giovanni Laterano, dove venne finalmente sepolto quest'uomo, che era stato di poco carattere e di costumi corrotti, ma di grandissimo ingegno letterario, critico e filosofico, il novatore e pensatore più originale fra tutti gli eruditi. Cessò di vivere il dì 1º agosto 1457.[123]
Trovavasi allora in Roma un altro erudito di molto ingegno, e questi era Flavio Biondo o Biondo Flavio, secondo altri. Nato a Forlì nel 1388, segretario di Eugenio IV, di Niccolò V, di Calisto III e di Pio II, fu da tutti adoperato e da tutti trascurato, a segno tale che qualche volta indagò se poteva altrove provveder meglio [135] alla sua miseria. Eppure aveva servito Eugenio IV, nella prospera e nell'avversa fortuna, con una fedeltà a tutta prova, e gli dedicò qualcuno de' suoi importanti lavori. Lo stesso fece con Niccolò V, che era il Mecenate di tutti gli eruditi; con Pio II, che si valse delle opere di lui, anzi ne compendiò una, per aggiungervi il bello stile che vi mancava. Questa era la gran colpa del Biondo, e questa lo fece restar quasi oscuro in mezzo agli umanisti, molti dei quali non erano degni neppure di stargli accanto. Egli non conosceva il greco, non era elegante latinista, non era adulatore, non scriveva invettive: una sola disputa ebbe col Bruni, che fu tutta letteraria e scientifica, sull'origine della lingua italiana, senza alcuna personalità. Le sue Epistole non contengono motti nè frasi eleganti, non furono quindi mai raccolte, e nessuno scrisse la biografia di lui. Pure fu uno dei più intemerati caratteri, dei più nobili ingegni in quel secolo, e le sue opere hanno un acume di critica storica, che non si trova in alcuno de' contemporanei, eccettuato forse Leonardo Aretino. Il primo lavoro del Biondo, dedicato ad Eugenio IV, ed intitolato Roma instaurata, è una descrizione di Roma pagana e cristiana, e de' suoi monumenti. In essa abbiamo il primo tentativo serio d'una topografia compiuta della Città Eterna: l'autore apre la via ad una scientifica restaurazione dei monumenti, valendosi degli scrittori con critica singolarissima. Ma, quel che è anche più notevole in un umanista, l'antichità classica non gli fa punto dimenticare i tempi cristiani: io non sono, egli dice, di coloro che, per la Roma dei Consoli, dimenticano la Roma di S. Pietro. E così la sua erudizione fu più universale e profonda, s'estese al Medio Evo ed al suo tempo. La seconda sua opera fu l'Italia illustrata, scritta ad istanza d'Alfonso d'Aragona, e dedicata a Niccolò V. In essa egli descrive l'Italia antica, determinandone le varie regioni, dando una enumerazione delle principali città, con ricerche sui [136] loro monumenti, sulla loro storia antica e moderna, sugli uomini più famosi. La terza opera, dedicata a Pio II, fu la Roma triumphans, in cui propose di esporre la costituzione, i costumi, la religione dei Romani antichi, e fece così il primo Manuale di antichità. Finalmente, oltre ad un libro De Origine et gestis Venetorum, egli scrisse una storia della decadenza dell'Impero romano, Historiarum ab inclinatione Romanorum, etc., lavoro di vasta mole, del quale però abbiamo solamente le tre prime Decadi, ed il principio della quarta. Essa doveva arrivare fino ai tempi dell'autore; ma nello stato in cui si trova, è pure la prima storia universale del Medio Evo, che sia degna d'un tal nome. Ed è singolare il vedere come il Biondo ricorra alle sorgenti, e distingua i narratori contemporanei dai posteriori, paragonandoli fra di loro. Con quest'opera la storia comincia a divenire una scienza, e la critica storica è già nata. Noi avremo occasione di riparlarne, quando dovremo osservare che il Machiavelli se ne valse molto nel primo libro delle sue Istorie, qualche volta traducendo addirittura. Ed anche Pio II ne riconobbe tutta l'importanza, facendo di essa un compendio, per cercare di darle la forma classica. E si valse molto anche d'altre opere del Biondo, che pur lasciò morire povero e quasi oscuro (1463).[124]
Il terzo erudito di cui dobbiamo parlare, è appunto Enea Silvio de' Piccolomini, che successe a Niccolò V col nome di Pio II (1458-64). Noi lo vedemmo già al Concilio di Basilea, dove sostenne l'elezione dell'antipapa Felice V, di cui fu segretario; più tardi lo vedemmo nella cancelleria imperiale, dove restò lunghi anni, e mutò le [137] sue opinioni, divenendo sostenitore dell'autorità papale contro le idee del Concilio, già prima difese da lui. Nella giovinezza s'era abbandonato al suo carattere leggiero, al suo ingegno vario, e aveva scritto poesie, commedie, novelle oscene, lettere in cui parlava con cinico sarcasmo della vita dissoluta che faceva. Come erudito, anche a lui mancava la conoscenza del greco e degli autori greci, dei quali aveva letto solo qualcuno nelle traduzioni fatte in Italia; dei latini però, massime di Cicerone, fece assai lungo studio: mirava alla facilità e semplicità, seguiva l'esempio di Poggio Bracciolini, che era in ciò quasi il suo ideale. Gli scritti del Piccolomini avevano una spontanea disinvoltura che risultava principalmente dalle qualità pratiche del suo ingegno, dalla conoscenza degli uomini e del mondo. Diverso in ciò da tutti gli eruditi, scrivendo, cercava sempre di andare al pratico ed al reale, senza farsi dominare troppo dalle classiche reminiscenze dell'antichità. Perfino nelle sue opere oscene, invece di fermarsi a far prova di stile, ed a citare esempî cavati dagli antichi, raccontava fatti veri seguiti nella sua vita ed in quella degli amici. Le sue Orazioni al Concilio non erano certo saggi di grande eloquenza, ma avevano uno scopo chiaro, volevano ottenere un fine determinato. Nelle Epistole, o si occupava d'affari o descriveva i paesi in cui era; e così vediamo spesso il segretario della cancelleria imperiale, disperato di trovarsi in mezzo a Tedeschi che bevevano birra da mattina a sera. Gli studenti, egli dice, ne tracannano quantità enorme; un padre svegliava i suoi bimbi la notte, per far loro a forza bere del vino. Intanto egli diffondeva l'umanesimo italiano in Germania, e le sue lettere formarono per molti anni l'anello di congiunzione fra i due paesi, ricevendo da ciò la loro principale importanza storica.
Al Piccolomini mancavano il valore d'un pensatore indipendente, l'erudizione del vero umanista e la pazienza del raccoglitore; ma la vivacità, prontezza e spontaneità [138] dell'uomo di lettere e di mondo arrivavano in lui ad un tal grado da fargli giustamente, per questo lato, attribuire una propria originalità. Egli non era un filosofo che avesse un proprio sistema, era anzi talmente pieno dell'antichità, che voleva confondere la filosofia greca e romana con la cristiana. In ciò per altro non sta la vera indole del suo ingegno, la quale si manifesta invece quando egli parla di materie affini alla filosofia, ma più pratiche, come, per esempio, di educazione. Allora cita assai poco Aristotele e Platone; nota invece osservazioni suggerite dalla propria esperienza. Non riuscì mai a scrivere veri trattati scientifici, ma ciò che in tutte le sue opere più ferma la nostra attenzione, è sempre la descrizione dei paesi e dei costumi. Così, se scrive De curialium miseriis,[125] la parte più notevole del libro è quella che narra la vita infelice che faceva egli stesso, insieme coi minori curiali della cancelleria imperiale, i loro viaggi, i loro alloggi in comune, i cattivi alberghi, il pessimo desinare, la nessuna quiete.[126] In altre delle sue opere troviamo descritti i paesi nei quali aveva viaggiato, scene della natura, costumi, istituzioni. Questo è ciò che si presenta a lui con maggiore evidenza, e che con maggiore evidenza egli presenta a noi. Non è un viaggiatore che cerca regioni ignote; ma la natura è sempre nuova per lui, sempre ammirabile, sempre gli parla. Anche quando fu Papa, vecchio e malato, si faceva trasportare per monti e per valli, a Tivoli, ad Albano, a Tuscolo, per contemplare la bellezza di quella campagna, che tanto ammirava, e così bene descriveva. La forma e la varietà della vegetazione, il sistema dei monti e dei fiumi, l'origine filologica dei nomi, la diversità dei costumi, nulla gli sfugge, tutto vede coordinato in unità. Genova, Basilea, Londra, [139] la Scozia sono da lui descritte, notando la estensione del paese, il clima, i costumi, i cibi, il vivere, la costruzione delle case, le opinioni politiche degli abitanti. La descrizione di Vienna è tanto vera, che qualche volta se ne trovano anche oggi dei brani ristampati nelle Guide più recenti di quella città.[127] La sua grandezza, il numero degli abitanti, la vita dei professori e degli studenti, la costituzione politica e amministrativa, il modo di vivere, gli scandali nelle vie, la condizione dei nobili e dei borghesi, la giustizia, la polizia, tutto sembra che avesse quello stesso carattere generale che Vienna serba ancora oggi.[128] Qui non è un dotto che scrive, è un semplice viaggiatore costretto dalla propria curiosità ad osservare e fare osservar tutto. Il Piccolomini è l'uomo del suo tempo; le sue qualità sono nell'atmosfera stessa che egli respira, e le manifesta tanto più facilmente, quanto minore è la sua individuale originalità. Egli visse, è ben vero, nel secolo degli eruditi; ma questo fu anche il secolo in cui nascevano Leonardo da Vinci, Paolo Toscanelli, Cristoforo Colombo, e si educava, si formava il loro genio collo spirito d'osservazione, col metodo sperimentale.
È facile comprendere che le opere storiche e geografiche del Piccolomini sono le più importanti; che in esse il merito principale si trova là dove descrive cose ed uomini da lui veduti, e quando storia, geografia, etnografia si presentano come una sola scienza. La storia greca e romana egli conosceva solamente a brani; quella del Medio Evo trattava leggermente, cavando molto dal Biondo e da altri, esaminando però con acume gli scrittori di cui si serviva, il tempo, il valore, la credibilità delle opere loro, perchè la critica era penetrata nel sangue stesso [140] degli uomini di quel tempo. Tuttavia non giunse mai ad una forma, ad un rigore veramente scientifico; raccoglieva alla rinfusa dalla memoria e da appunti in cui registrava ciò che vedeva, leggeva o sentiva. Questo modo di comporre, unito alla sua mobilità e mutabilità di carattere, gli fece in tempi diversi esprimere giudizî diversissimi sopra lo stesso soggetto, perchè scriveva sempre sotto l'impressione del momento. Ma ciò appunto cresce la spontaneità de' suoi scritti, e ci permette di leggere nella mutabilità delle opinioni, la storia del suo spirito.
Meditò lungamente una specie di Cosmos, in cui voleva scrivere la geografia delle varie regioni allora conosciute, e la loro storia dal principio del secolo fino ai suoi giorni. La sua Europa è un frammento di quest'opera colossale, non mai compiuta, ed in essa la geografia è come il sostrato della storia. Egli ragionò con disordine e senza proporzione dei popoli diversi, scrivendo assai spesso di memoria, come era suo costume. Più tardi scrisse la geografia dell'Asia, valendosi delle tradizioni dei geografi greci, e dei viaggi del veneziano Conti, stato 25 anni in Persia, dei quali Poggio aveva lasciata un'assai minuta narrazione nelle sue opere, raccolta dalla bocca dello stesso viaggiatore.[129] L'ultima e più importante opera del Piccolomini è la sua autobiografia, [141] che egli scrisse quando era già Papa, chiamandola Commentarii, ad imitazione di Giulio Cesare. Usava dettarli quando gli affari lasciavano a lui tempo: sono è ben vero dei brani mal cuciti fra loro; ma forse appunto perciò dànno una più giusta idea delle qualità intellettuali dell'autore, e manifestano, insieme riuniti, i varî e diversi pregi, che si trovano sparsi nelle altre sue opere. Qui infatti egli si mostra qual era veramente come erudito, poeta, descrittore di paesi, ammiratore della natura, pittore di genere, con uno spirito tutto pieno del realismo moderno.[130] Qui sono quelle descrizioni, cui accennammo più sopra, della Campagna romana, di Tivoli, della Valle dell'Anio, di Ostia, di Monte Amiata, dei Monti Albano, che possono anche oggi servire di guida al forestiero, e fanno sentir quasi il soffio della fresca aura dei monti; e qui ancora l'immagine di tutto un secolo si specchia, senza ordine prestabilito, ma fedelmente, nell'animo dello scrittore, il quale appunto perchè non ha un carattere ed una personalità propria, non impone mai un colore subiettivo alle cose ed agli uomini di cui parla. Questi Commentarii vanno dall'anno 1405 fino al luglio del 1464.[131]
Ciò che abbiam detto del Valla, del Biondo e del Piccolomini dimostra chiaro che, sebbene gli eruditi di Roma non avessero l'importanza ed il carattere proprio di quelli di Firenze, pure la Città Eterna fu sempre un gran centro, [142] a cui i dotti accorrevano da ogni parte d'Italia, e fra poco potrà dirsi anche d'Europa. Quando i tre dotti di cui abbiamo parlato, non vivevano più, noi troviamo che vi fiorivano Pomponio Leto, il Platina e l'Accademia Romana. Il primo di essi era noto assai meno pel suo ingegno che per la singolarità del suo carattere, ed era generalmente tenuto figlio naturale dei principi Sanseverino di Salerno. Discepolo del Valla, cui successe nell'insegnamento, era venuto a Roma, lasciando i suoi, ai quali dicesi che rispondesse, quando lo chiamarono, con questa laconica lettera: Pomponius Laetus cognatis et propinquis suis salutem. Quod petitis fieri non potest. Valete. Preso d'un amore entusiasta per l'antichità romana, menava una vita da eremita, coltivando una sua vigna secondo i precetti di Varrone e Columella; andava innanzi giorno alla Università, dove l'aspettava un uditorio immenso; leggendo i classici, e abbandonandosi intere ore a contemplare i monumenti romani, era qualche volta in presenza di essi così esaltato che piangeva. Faceva rappresentare le Commedie di Plauto e di Terenzio, e divenne il capo di molti eruditi che raccolse nell'Accademia Romana da lui fondata. In essa ognuno dei membri si ribattezzava pigliando un nome pagano; e nelle ricorrenze dei fasti di Roma, specialmente l'anniversario dei natali di essa, si radunavano ad un desinare, nel quale venivano letti componimenti in verso ed in prosa.[132] Qui si parlava di repubblica e di paganesimo; qui vennero il Platina e molti altri degli eruditi che Paolo II aveva cacciati dalla Segreteria, e davano nei loro discorsi sfogo all'ira contro il Papa. Questi, che era un uomo energico ed impaziente, sciolse l'Accademia: molti degli accademici furono imprigionati, alcuni anche torturati, altri [143] fuggirono (1468). Pomponio Leto era a Venezia, e fu rimandato a Roma, dove si salvò, sottomettendosi e chiedendo perdono, cosa sempre facile agli eruditi, nei quali tutto ciò che pensavano e sentivano prendeva forma e carattere semplicemente letterario.[133] E così potè sotto Sisto IV, in forma alquanto diversa, riaprire l'Accademia, che durò fino al sacco di Roma nel 1527.[134] Morì nel 1498, in età di 70 anni, e i suoi funerali furono solenni. Pubblicò varie edizioni dei classici, qualche lavoro sulle antichità di Roma; ma la sua vera importanza veniva dal suo insegnamento, dall'entusiasmo pagano che seppe infondere negli altri, dalla vita semplice e tutta data allo studio.
Un altro membro dell'Accademia, e di maggiore ingegno, era Bartolommeo Sacchi di Piadena nel Cremonese, soprannominato il Platina. Imprigionato la prima volta, quando protestava contro la perdita del suo ufficio, fu di nuovo chiuso in Castel Sant'Angelo, quando l'Accademia venne sciolta. Posto alla tortura, egli non solo piegò, ma si sottomise al Papa con parole basse, promettendo di obbedirgli, di celebrarlo con altissime lodi, di denunziargli[135] chiunque sparlasse di lui, e tutto [144] ciò avendo l'animo sempre pieno d'un gran desiderio di vendetta. Uscito di carcere, e nominato bibliotecario della Vaticana da Sisto IV, con l'incarico di raccogliere documenti sulla storia del potere temporale, egli si vendicò nelle sue Vite dei Papi, descrivendo Paolo II, come il più crudele dei tiranni, che si dilettava a torturare e straziare gli eruditi in Castel Sant'Angelo, divenuto perciò un vero «toro di Falaride». Avendo le biografie del Platina avuto una grande popolarità, Paolo II passò ai posteri come un mostro, e l'erudito ottenne per qualche tempo il suo scopo. Ma il merito principale del libro e la ragione della sua fortuna stavano sopra tutto nello stile: la critica storica dell'autore era assai debole. Bisogna però convenire che egli tentò un'impresa difficilissima, alla quale neppure oggi basterebbero le forze d'un uomo solo, per quanto dotto e d'ingegno, e riuscì la prima volta a cavare dalle favolose cronache del Medio Evo un compendio storico assai chiaro, nel quale sono molti modelli della biografia erudita del secolo XV, che si leggono volentieri, perchè l'autore cercava sinceramente la verità storica, quantunque non sempre la ritrovasse. Avvicinandosi ai suoi tempi, l'importanza ed il valore delle biografie crescono, quando però non lo acceca la passione. Gli altri suoi lavori storici hanno minor pregio. Egli morì nel 1481, in età di 61 anno.[136]
A Roma, accorrevano anche allora, come già notammo, non solo Italiani, ma stranieri, specialmente Tedeschi, e fra questi meritano una particolar menzione tre giovani, Conrad Schweinheim, Arnold Pannartz, Ulrich Hahn, i quali avevano nel loro paese lasciato le officine di Faust e Schöffer, e verso il 1464 portarono l'arte della stampa in mezzo a noi. Essi dovettero combattere con la fame, e vincere immense difficoltà, perchè in Italia la passione [145] degli antichi codici era tale, che molti, fra cui, come vedemmo, lo stesso duca d'Urbino, preferivano i volumi manoscritti agli stampati. Pure la nuova industria si diffuse rapidamente, e prima del 1490 si stampava già in più di trenta delle nostre città.
Nel 1469 moriva ed era poi sepolto in San Piero in Vincoli il celebre cardinale Niccola di Cusa, chiamato il Cusano, che, nato da un pescatore della Mosella, aveva studiato a Padova, ed era divenuto uno dei pensatori più illustri del secolo. Egli precedette il Piccolomini ed il Valla nel porre in dubbio l'autenticità della donazione di Costantino, ma non combattè il potere temporale dei Papi. Più tardi mutò alquanto le sue opinioni, e venne poi fatto cardinale; ma il suo carattere si mantenne sempre integro. Avverso all'autorità d'Aristotele, ingegno filosofico di grandissima originalità, panteista, ed in ciò vero precursore di Giordano Bruno, più che erudito fu un vero pensatore.[137] Nel 1461 venne la prima volta a Roma un altro straniero, Giovanni Müller o sia il celebre Regiomontanus, dotto nel greco, sommo per quei tempi nelle matematiche e nell'astronomia; egli fu da Sisto IV incaricato della riforma del Calendario, e morì a Roma nel 1475. Nell'82 venne Giovanni Reuchlin, il quale fece più tardi esclamare all'Argiropulo, professore nell'Università di Roma, che le Muse della Grecia [146] passavano le Alpi per emigrare in Germania.[138] Colà infatti l'erudizione s'era allora propagata, e portava già i suoi frutti. Il sole della nuova cultura italiana, levatosi in alto, illuminava tutta l'Europa; ma sorgeva sempre dall'Italia, che era più che mai l'antica madre del sapere.
Dalla morte di Paolo II a quella d'Alessandro VI, le cose in Roma peggiorarono assai, e i Papi pensarono a ben'altro che agli eruditi, all'erudizione o alle arti belle. Pure Sisto IV aprì la Vaticana al pubblico, e compiè molte costruzioni importanti nella Città. Nè, per lungo tempo ancora, l'ammirazione a tutto ciò che era antico, si spense nel popolo, come prova un fatto seguìto appunto in quegli anni. Nell'aprile del 1485 si sparse la voce che alcuni muratori, scavando nella via Appia, presso il sepolcro di Cecilia Metella, avevano in un sarcofago romano trovato il cadavere d'una «formosa e pulita giovane,» Julia filia Claudi, secondo l'iscrizione, che alcuni pretendevano avervi letta: «era adornata sua trezza bionda da molte e ricchissime pietre preziose.... e erano suoi chiome d'oro ligate cum una bendella di seta verde.»[139] Altri scrivevano invece che [147] i capelli erano neri, che iscrizione nel sarcofago non v'era; ma che Pomponio Leto credeva fosse il cadavere d'una figlia di Cicerone. Certo lettere e cronache del tempo sono piene del fatto, e vanno d'accordo nel ripetere, che il cadavere era maravigliosamente conservato; che gli occhi, la bocca si potevano aprire e chiudere, le membra muovere; la bellezza del volto superava ogni immaginazione. Tutto ciò provava «quanto li antiqui nostri studiavano li animi gentili farli inmortali, ma ancora li corpi, neli quali la natura per farli belli havea posto ogni suo inzegno.»[140] Si disse che i muratori erano fuggiti con le gioie ritrovate; certo è che, quando il cadavere venne portato in Campidoglio, una moltitudine, che qualcuno fece ascendere fino a ventimila persone, andò in pellegrinaggio a vederlo. Vi fu chi suppose ai nostri giorni, che il cadavere avesse una maschera in cera, come se ne trovarono a Cuma ed altrove. Ma dagli scrittori contemporanei apparisce invece, che esso era stato artificialmente conservato, con qualche processo simile a quelli adoperati dagli Egizi. In ogni modo, ciò che destava così grande entusiasmo era la convinzione allora universale, che una bellezza antica dovesse essere immortale e superiore ad ogni bellezza vivente. Tale sembrava davvero il pensiero o meglio l'illusione del secolo. Ma tutto questo mondo erudito era adesso assai vicino a crollare, e ben presto doveva sembrare come l'eco d'una società che s'andava allontanando. Una dura realtà apparecchiava nuove e ben più tristi esperienze: sotto Innocenzo VIII ed Alessandro VI ogni cosa doveva andare a rovina in Italia.
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Dopo di Firenze e Roma, le altre città italiane hanno assai minore importanza per la storia delle lettere. Anche nelle repubbliche come Genova e Venezia, esse fiorirono più tardi assai che in Toscana. Napoli era stata troppo lungamente in una quasi anarchia, ed a Milano poco si poteva sperare sotto un mostro come Filippo Maria Visconti, un capitano di ventura come Francesco Sforza, o un giovane dissoluto e crudele come il figlio di lui, Galeazzo Maria. Eppure tali erano allora le condizioni dello spirito italiano, che nessuno poteva o sapeva allontanarsi affatto dagli studi, e dal proteggere gli studiosi. Lo stesso Visconti sentiva il bisogno di leggere Dante ed il Petrarca, e cercava d'avere intorno a sè alcuni dotti. Era però difficile trovare chi a lungo volesse rimanere presso di lui. Il Panormita, uomo assai poco scrupoloso, non fu trattenuto neppure da un soldo di 800 zecchini, ed andò via a cercare fortuna altrove. L'uomo fatto proprio per quella Corte era solo Francesco Filelfo da Tolentino, che vi trovò un sicuro asilo donde insultare da lontano i suoi nemici, e vivere adulando o vendendo la propria penna. Costui si credeva ed era generalmente creduto uno dei più grandi ingegni del secolo; ma, privo invece d'ogni vera originalità, aveva una dottrina assai confusa ed incerta. Mandato dalla repubblica veneziana ambasciatore a Costantinopoli, dove sposò la figlia del suo maestro di greco, Emanuele Crisolora, tornò in Italia nel 1427, in età di 29 anni. Portò molti manoscritti, parlava e scriveva greco, aveva una grande facilità nel compor versi latini, e ciò bastava allora a farlo subito giudicare uomo straordinario. La sua immensa vanità, il suo carattere irrequieto fecero il resto. Chiamato ad insegnare nello Studio fiorentino, scrisse subito [149] a tutti che aveva avuto felicissimo successo: «perfino le nobili matrone, egli diceva, mi cedono il passo nella via!» Ben presto però fu in guerra con tutti; divenne aspro nemico dei Medici, e si unì a coloro che volevano uccidere Cosimo, quando era ancora prigioniero in Palazzo Vecchio;[141] finalmente dovette fuggirsene a Siena, dove corse pericolo d'essere ammazzato da uno che egli credè sicario dei Medici. Intanto a Firenze era processato e condannato come cospiratore contro la vita di Cosimo, di Carlo Marsuppini e d'altri.
A Siena scrisse le sue Satire oscene contro Poggio; più tardi lo troviamo a Milano, dove riceve uno stipendio di 700 zecchini l'anno, e la casa; esalta la virtù e sopra tutto la liberalità del suo «divino principe,» Filippo Maria Visconti, quel tiranno cui non sarebbe facile trovar l'eguale in perfidia e crudeltà. Morto il Visconti e proclamata la Repubblica Ambrosiana a Milano, lodò i nuovi Padri Coscritti; poi fece parte della deputazione che andò a portare le chiavi di Milano a Francesco Sforza, in onore del quale scrisse il suo gran poema, La Sforziade.
Autore fecondo di biografie, satire, epistole, la sua eloquenza somigliava, come disse il Giovio, ad un fiume non contenuto da argini, che straripa ed intorbida ogni cosa. Pure egli si teneva il dispensatore della immortalità, della fama e dell'infamia. Quando dovè scrivere in [150] italiano un comento al Petrarca, deplorava l'avvilimento cui era condotta la sua epica musa. A vendere però i suoi versi latini e le sue lodi al maggiore offerente era sempre pronto, e non si vergognava.
Le sue opere principali, oltre le Satire, furono due, e restarono inedite, senza gran danno delle lettere. La prima, intitolata De Iocis et seriis, è una raccolta d'epigrammi, divisa in dieci libri, ognuno di mille versi, secondo la retorica, artificiosa sempre, dell'autore. Piena di facezie, d'insulti osceni e poco poetici, sembra avere per unico scopo dimostrare la facilità dell'autore nello scrivere versi, e guadagnar danari con basse adulazioni o più basse ingiurie. Ora è la figlia che non ha dote, o le vesti di lei sono lacere; ora la musa del Filelfo tace per mancanza di danari, ed egli supplica, tra minaccioso ed umile, per averne.[142] Il 18 giugno 1459, quando lavorava [151] a quest'opera, egli scrisse al cardinal Bessarione: «Ora che sono libero dalla febbre, vengo a soddisfare il mio debito verso di voi e verso il Santo Padre Pio II, cioè a scriver dei versi ricevendo in cambio danaro.»[143]
Nè diversamente si condusse, quando scriveva l'altra sua opera, del pari inedita, La Sforziade, in 24 canti, dei quali si trovano nelle biblioteche solo dieci. Essa pretende di essere un poema epico sulle imprese dello Sforza, a cominciare dalla morte di Filippo Maria Visconti. In versi sempre facili, che imitano Virgilio e più spesso Ovidio, l'autore esalta fino alle stelle tutte le azioni, le perfidie stesse del suo eroe. Gli Dei dell'Olimpo, qualche volta anche Sant'Ambrogio o altri santi cristiani, sono i veri attori di questo dramma; ma essi restano sempre mere astrazioni, e riescono solo a togliere ogni personalità all'eroe del poema. La vera poesia manca sempre, ed il Filelfo ha più ragione che non crede, quando dichiara che la musa davvero ispiratrice è per lui il danaro. Quando doveva chiamar sulla scena qualche nuovo personaggio allora vivente, cominciava subito a patteggiare. Guai a chi non lo pagava! E così riceveva danari, commestibili, cavalli, vesti, ogni cosa. Diceva di esser povero e di aver fame, quando [152] viveva nel lusso con sei persone di servizio e sei cavalli. Deplorava la miseria in cui era, secondo lui, tenuta la sua musa immortale; si vergognava di stentare, ma non di pitoccare. E tutti gli davano ascolto, perchè temevano i suoi versi. Perfino Maometto II liberò dalla prigionìa la suocera e la cognata del Filelfo, quando questi gli mandò un'ode ed una lettera in greco, che diceva: «Io sono uno di coloro i quali, celebrando con la eloquenza i fatti illustri, rendono immortali coloro che di natura sono mortali, ed ho intrapreso a narrare le vostre gesta gloriose, che, per le colpe dei Latini e la volontà di Dio, vi hanno dato la vittoria.»[144] Una eguale condotta tenne nello scrivere le Satire, che furono cento, divise in dieci decadi, e ogni satira essendo di 100 versi, era da lui chiamata Hecatostica.
Di Roma non fu molto contento il Filelfo. Ebbe da Niccolò V, è ben vero, un dono di 500 ducati d'oro, quando gli lesse le Satire; fu colmato di gentilezze; gli fu dato l'incarico di tradurre Omero con l'offerta di lauto stipendio, di donativi, casa e altro ancora, se accettava. Ma egli ricusò tutto, avendo altre mire. Dopo la morte della sua prima moglie aveva fatto capire che sarebbe andato a Roma, quando gli avessero dato prima o poi un cappello cardinalizio, e ripetette la stessa dichiarazione dopo la morte della seconda moglie. Non essendo riuscito nell'intento, prese una terza moglie, e respinse per sempre ogni invito. Morto lo Sforza, però, tutto mutò per lui; egli cadde nella miseria, e dovè raccomandarsi a Lorenzo dei Medici, che lo richiamò allo Studio in Firenze, dove, arrivato in età di 83 anni, nel 1481, esausto di danari e di forze, dopo poco morì. Il Filelfo fu un esempio di quel che potevano allora una grande memoria, una grande facilità nello scrivere [153] o parlare varie lingue, una grandissima petulanza e superbia, senza carattere, senza moralità e senza originalità.[145]
Egli non fu certamente il solo erudito a Milano. Al tempo di Francesco Sforza vi troviamo, come già si disse, Cicco Simonetta, segretario dottissimo; Giovanni fratello di lui e storiografo del Duca, di cui narrò le vicende dal 1423 al '66, in una storia che non è senza pregio, perchè egli descriveva ciò che aveva veduto; Guiniforte Barsizza, maestro dei due figli del Duca, Galeazzo Maria e Ippolita divenuta celebre pei suoi discorsi latini.[146] Battista Sforza, figlia d'Alessandro, signore di Pesaro e fratello di Francesco, anch'ella celebre pei suoi discorsi latini,[147] fu del pari educata in questa Corte. Ma tutto ciò non basta per dare a Milano un valore suo proprio nella storia dell'erudizione.
Alfonso d'Aragona, uomo di guerra, ma anche d'ingegno non comune, seppe dare alla sua Corte una importanza maggiore. Egli abbandonò con singolare rapidità il suo carattere nazionale, per divenire affatto italiano, e gareggiare coi nostri principi nel proteggere le arti; cercare codici antichi; studiare i classici; circondarsi di letterati, pei quali, secondo Vespasiano, spendeva 20,000 [154] ducati l'anno.[148] Tito Livio era il suo idolo, tanto che raccontavano come Cosimo dei Medici, volendo pacificarlo, gl'inviasse un codice prezioso delle opere di quello storico. Ai Veneziani scrisse pregandoli che gli ottenessero da Padova un osso del braccio di Livio, quasi fosse sacra reliquia. Camminando col suo esercito, gli fu un giorno indicata Sulmona, patria di Ovidio, e subito si fermò abbandonandosi ad esclamazioni di gioia: il suo solenne ingresso in Napoli lo fece passando per la breccia, ed imitando in tutto un trionfo romano.
Il Trapezunzio, il Valla, il Fazio, il Beccadelli, Porcellio de' Pandoni furono lungamente alla sua Corte, e per breve tempo vi furono anche il Filelfo, il Gaza, il Manetti, il Piccolomini. Tutti erano trattati con splendore e con gentilezza. Quando il Fazio ebbe finito la sua Historia Alphonsi, il Re, che pur gli dava 500 ducati l'anno, fecegli il dono di altri 1500, dicendo: «con ciò non intendo pagare la vostra opera, che non potrebbe aver prezzo.»[149] Quando invitò il Manetti che fuggiva da Firenze, gli disse: «dividerò con voi il mio ultimo pane.»
Uomo senza pregiudizî, in guerra continua coi Papi, egli dava asilo e protezione ai dotti, quali che si fossero le loro opinioni, e garantiva ad essi piena libertà di parola, difendendoli dall'Inquisizione e da ogni pericolo. Così il Valla, che fu l'erudito più celebre nella Corte, potè scrivere contro i preti, contro i Papi, ed esporre liberamente negli scritti, dalla cattedra, le sue opinioni religiose e filosofiche. Tutto ciò dava una fisonomia propria, una importanza speciale alla società erudita in Napoli. Lo stesso fu di Antonio Beccadelli più noto col nome di Panormita. Nato a Palermo nel 1394, egli dopo avere [155] studiato a Padova, aveva ad un tratto acquistata una clamorosa celebrità, scrivendo un libro che fece grandissimo scandalo per le sue indecenze, allora non anche molto in uso negli scritti degli eruditi. Quest'opera che porta il titolo di Hermaphroditus, è una raccolta d'epigrammi, i quali per arguzie spudorate, per frivolità indecenti, superarono quanto s'era scritto fino allora ad imitazione dei satirici romani. Non solo il mal costume in genere, ma oscenità e vizî d'ogni sorta formavano l'argomento continuo de' suoi versi, i quali non essendo privi d'eleganza, e molte difficoltà di stile o di lingua avendo superate, ottennero grandissimo favore. Ma gli attacchi contro di lui furono pure assai vivi. Egli però, senza punto perdersi d'animo, menò vanto del suo libro, perchè aveva imitato gli antichi, e dimostrato che il latino poteva adoperarsi a dire ogni cosa. Si difese citando Tibullo, Catullo, Properzio, Giovenale, ed anche filosofi o politici greci e romani che, pure essendo virtuosi, avevano scritto simili oscenità, ed aggiungeva che se tali erano le sue poesie, la sua vita era invece senza macchia.[150] Il rumore continuò tuttavia assai grande. Poggio, che non era certo scrupoloso, lo biasimò; i frati Minori lo fulminarono dal pergamo, e secondo il Valla lo bruciarono anche in effigie. Ma Guarino Veronese, dotto assai celebrato, vecchio allora di 63 anni, padre di molti figli, carattere intemerato, incapace egli stesso d'imitarlo, pur lo difese arditamente, deridendone i detrattori, i quali «non sanno, egli diceva, che la vita ha uno scopo, la poesia un altro.» E queste erano veramente le idee del secolo. Sigismondo re dei Romani coronò il Panormita in Siena [156] poeta laureato, e l'Ermafrodito fece scuola, tanto che lo scrivere indecenze latine fu d'allora in poi quasi un pregio per l'erudito italiano. Alfonso, non curandosi punto delle accuse lanciate contro il poeta, fermo nel voler dare asilo a tutti coloro che gli altri perseguitavano, tenne sempre il Panormita in grande onore. E questi scrisse i suoi Dicta et facta Alphonsi, ricevendone in premio mille ducati; poi, Alphonsi regis triumphus, lettere, orazioni, poesie latine, tutte opere che lo dimostrano facile scrittore senza merito singolare. Leggeva e commentava al Re Livio, Virgilio, Seneca; venne dichiarato nobile; ebbe una villa e molti danari. Bartolommeo Fazio e gli altri erano uomini anche di minor valore. Ma l'ingegno veramente originale della Corte restò sempre il Valla, che contribuì non poco ad alimentare in Napoli lo spirito critico e filosofico, cui per natura quel popolo è inclinato. Un altro uomo eminente era colà Giovanni Gioviano Pontano; ma questi fiorì più tardi, ed appartiene ad un periodo successivo nella storia delle nostre lettere.
Se noi ci volgiamo alle piccole città ed ai minori Stati d'Italia, vi troviamo la società sottoposta ad un numero così grande di scosse continue e violenti, lacerata da tanti e così sanguinosi delitti, che riesce impossibile immaginare come le arti e le lettere vi potessero mai fiorire. I piccoli tiranni erano di continuo esposti agli assalti dei vicini, o alle congiure che scoppiavano ogni giorno nei loro Stati. Quando si trattava di città come Ferrara o Bologna, la posizione strategica della prima, l'importanza del territorio che aveva la seconda, davano certo occasione a sempre nuove e mutabili vicende. Quando si trattava di principi come Alessandro Sforza [157] di Pesaro, che aveva il sostegno del fratello a Milano, o di Federico d'Urbino, che era valoroso capitano di ventura, e poteva difendersi col suo proprio esercito, allora, se non s'evitavano sempre i pericoli, si riusciva almeno più facilmente a salvare lo Stato. Ma là dove simili aiuti mancavano, noi abbiamo una serie non interrotta di fatti sanguinosi, simili a quelli dei Baglioni in Perugia. Questi non arrivarono mai nella città ad una signoria sicura: era il predominio d'una famiglia, con un capo non sempre riconosciuto in essa, e un forte partito avverso, alla testa del quale si trovavano gli Oddi. Tutto era pieno d'armi e di bravi, e da un momento all'altro scoppiavano tumulti violenti. Verso la fine del secolo XV gli scontri dentro e fuori della città furono tanti e tali, che le case del contado ne cadevano in rovina, i campi erano devastati, i contadini facevano gli assassini, i cittadini si davano alle bande di ventura, e i lupi mangiavano «carne di cristiani.»[151] Eppure era questo il tempo, in cui fioriva a Perugia la più nobile, ideale e delicata pittura della scuola umbra: era sempre il contrasto medesimo che allora s'osservava per tutto in Italia.
Sigismondo Pandolfo Malatesta di Rimini fu un altro dei piccoli tiranni, e fra i più singolari. Capitano di ventura rinomato, quantunque non avesse mai comandato grossi eserciti, si dimostrò più volte un vero mostro di crudeltà. Respinse la sua prima sposa, dopo averne ricevuta la dote; la seconda e la terza ammazzò per gelosia o vendetta; amò per altro con ardore fino alla morte la sua concubina Isotta. Insanguinato in mille delitti, era irreligioso e cinico oltre misura. Sulla sua tomba volle che si ponesse questa iscrizione:
Porto le corna ch'ogn'uno le vede,
E tal le porta che non se lo crede.
[158]
Negava Iddio, negava l'immortalità dell'anima, e quando arrivavano le scomuniche del Papa, domandava se gli scomunicati continuassero a gustare il buon vino ed i buoni pranzi. In occasione d'una gran festa, fece empire d'inchiostro la pila dell'acqua benedetta, per ridere dei fedeli che, senza avvedersene, si tingevano il volto.[152] Eppure anch'egli era circondato di letterati, ad alcuni dei quali donò terre, ad altri assegnò stipendî; e nel suo castello, Arx Sismundea, essi lodavano il principe e il suo amore per la bella Isotta, a cui fu innalzato nella chiesa di San Francesco un monumento, Divae Isottae sacrum, accanto a quello del suo amante. La chiesa stessa, a cui lavorò Leon Battista Alberti dal 1445 al 50, e che riuscì uno dei più eleganti, dei più belli edifizî del Rinascimento, porta in fronte il nome di Sigismondo, e nei fregi le lettere S(igismundus) ed I(sotta). Nei due lati esteriori si trovano nicchie destinate a servir di tomba ai soldati ed agli eruditi della Corte. E tutto questo non era in lui affettazione; rispondeva invece ad un bisogno reale del suo spirito culto ed artistico. Pio II che fu in aspra guerra con lui, e lo bruciò in effigie, scrisse, che egli «conosceva le istorie, aveva una grande cognizione della filosofia, e sembrava nato a tutto ciò che intraprendeva.»[153]
A Ferrara, a Mantova, Urbino, le cose pigliavano ben diverso aspetto. Senza essere grandi centri, come Roma e Firenze, esse riuscirono ad avere una fisonomia ed importanza propria nella storia delle lettere. Più di tutte fu celebre Ferrara. La sua posizione strategica la rese in [159] mezzo alle sue varie vicende, indipendente, non potendo nessuno dei grandi Stati italiani permettere che altri se ne impadronisse. I Signori d'Este che la dominarono e fortificarono, furono uomini d'ingegno e spesso anche di molto valor militare. Nell'interno del palazzo ducale seguirono spesso scene di sangue. Parisina, moglie del bastardo Niccolò III, innamoratasi d'un figlio naturale del marito, ebbe con l'amante tronca la testa (1425). E il Duca dovette poi consolidare il suo regno, combattendo l'avversa nobiltà, con ogni arte di guerra, con ogni sorta di tradimento. Succedono due bastardi di questo bastardo, Lionello e Borso. Più tardi Ercole, figlio legittimo di Niccolò III, strappa colle armi il dominio di mano al figlio di Lionello, facendo sanguinosa strage dei nemici. E così si continuò anche nel secolo XVI, quando il cardinale Ippolito fece cavare gli occhi al fratello Giulio, altro bastardo, perchè lodati dalla donna che corteggiavano insieme, e che ne adduceva al Cardinale la irresistibile bellezza, come causa della sua preferenza. L'operazione fu male eseguita, e dètte occasione ad altre tragedie nella infausta Corte, perchè Giulio, che era restato con un occhio solo, cospirò insieme con don Ferrante contro il comune fratello, il duca Alfonso I,[154] marito di Lucrezia Borgia. Il Cardinale rivelò la trama (1506), e i due fratelli furono condannati al carcere perpetuo, in cui don Ferrante morì, e donde Giulio fu liberato solo quando successe il duca Alfonso II (1559).
Pure questa appunto fu la Corte tanto celebrata per lo splendore di lettere e di arti fino ai tempi del Boiardo, dell'Ariosto e del Tasso, che la illustrarono coi loro nomi, colle loro opere immortali. Nel Medio Evo essa era stata città longobarda, feudale e cavalleresca, e non aveva nei secoli XIII e XIV partecipato al gran moto [160] letterario che s'era visto a Firenze. Nel secolo XV fu invece una delle città d'Italia per lettere e cultura più fiorenti. I disordini della Corte, circoscritti principalmente dentro le mura del palazzo ducale, sembrava che di rado turbassero la città. Costruita secondo un disegno prestabilito, amministrata con ordine, v'accorrevano esuli da Firenze e da altre parti d'Italia; vi si fermavano, v'edificavano palazzi. Le vie, le case ora deserte, bastavano allora appena a contenere la popolazione. I suoi duchi provvedevano a tutto, e vi chiamavano dotti, fra i quali tiene il primo posto Guarino Veronese, che portando l'erudizione a Ferrara, dove così vive erano le tradizioni feudali e cavalleresche, vi promosse quel rinascimento letterario che ci dètte poi l'Orlando Innamorato, l'Orlando Furioso e tanti altri lavori, di cui la fama non perirà mai.[155]
Nato nel 1370 imparò il greco a Costantinopoli, di dove tornò con una ricca mèsse di codici, che gli erano così cari da far generalmente prestar fede alla favola, che egli incanutisse a un tratto, per averne perduto buona parte in un naufragio.[156] Insegnò prima a Firenze, poi a Venezia, dove ebbe a discepolo Vittorino da Feltre, nel quale infuse la sua dottrina e i suoi principî educativi. Chiamato nel 1424 da Niccolò III, per esser maestro di Lionello e professore nell'Università, dandosi con febbrile ardore al doppio ufficio, scrisse un numero assai grande di opere: traduzioni di Plutarco, Platone, Strabone e Luciano; biografie, grammatiche e più di cinquanta orazioni. Il merito principale di lui sta più che altro nel suo nobile carattere e nel suo insegnamento, nel quale ebbe grande originalità, e da cui ottenne resultati singolarissimi. Buon [161] padre di famiglia, temperato e sobrio nel vivere, non mai maldicente, viveva fra i suoi scolari, dei quali aveva sempre piena la casa. Si diceva che erano usciti più dotti dalla sua scuola che Greci dal cavallo troiano. E veramente più di trenta de' suoi alunni furono celebrati come eruditi,[157] sebbene Vittorino da Feltre fosse il solo che arrivasse ad una fama duratura. Ma l'opera di Guarino va misurata dall'impulso che dètte agli studî in Ferrara, la quale fu dal suo insegnamento e dal governo di Lionello e Borso d'Este, suoi alunni, trasformata in una piccola Atene italiana. Egli continuò a lavorare con lo stesso zelo fino alla sua morte, avvenuta il 4 dicembre 1460, novantesimo della sua età, quando spirò fra le braccia de' suoi, amato e venerato da tutti.
I Gonzaga di Mantova, alcuni dei quali comandarono poderosi eserciti, non commisero mai quei delitti che resero così sanguinosa la storia degli Este. La loro Corte, è vero, fu assai splendida solamente nel secolo XVI, ai tempi del Bembo, del Bandello, dell'Ariosto e del Tasso, massime quando viveva la buona marchesa Isabella. Pure nel secolo XV Mantova fu illustrata dalla dimora colà di Vittorino Rambaldoni da Feltre (n. 1378, m. 1446), il primo educatore moderno, ed il più illustre discepolo di Guarino. Chiamato (1423) da Gio. Francesco Gonzaga, che gli dètte un lauto stipendio ed un locale, fondò in esso il suo celebre convitto, che prese il nome di Casa gioiosa, o semplicemente Gioiosa. Secondo alcuni avrebbe avuto questo nome per l'allegria che vi dominava in conseguenza dei buoni principî pedagogici; ma il vero è che l'edilizio in cui fu messo il convitto aveva già prima il nome di Zoiosa.[158] Vi s'insegnavano le lingue classiche, per [162] le quali furono chiamati Greci assai rinomati, come il Gaza ed il Trapezunzio. A queste e ad altre discipline comuni alle scuole di quel tempo, s'aggiungevano la musica, la danza, il disegno, la ginnastica, l'equitazione. Il principio su cui si fondava la scuola di Vittorino, era: educare con la mente il corpo, per formare il carattere. E ciò potette riuscirgli principalmente perchè egli era un uomo d'animo elevato e nobilissimo, che spendeva tutto il suo stipendio per dare educazione gratuita ai poveri, i quali si trovavano nella sua scuola accanto ai figli del marchese di Mantova ed al giovane Federico da Montefeltro, che fu poi il celebre duca d'Urbino. Ed anche questa comunanza ed uguaglianza d'ogni ordine di cittadini nella scuola, era voluta dai principii pedagogici di Vittorino, che fu il primo a condurre l'istruzione e l'educazione secondo norme scientifiche.[159] I buoni frutti della Casa gioiosa si videro non solo a Mantova, ma anche altrove, giacchè per lungo tempo si riconobbero gli alunni di Vittorino da una lealtà di carattere, che faceva singolare contrasto con la generale corruzione di quei tempi.
Ed a questa educazione si dovette in gran parte, se la Corte d'Urbino divenne un modello fra quelle d'Italia; se il duca Federico fu buono, leale e fedele, sebbene capitano di ventura. Celebrato universalmente per la sua capacità strategica, per la disciplina de' suoi soldati, e per essere allora il solo capitano, che non mancasse mai alla fede giurata o alla parola data: conosceva il latino, la filosofia, la storia; leggeva i classici e disputava assai volentieri di teologia. Queste cognizioni unite a quelle acquistate nel campo e nel governo, lo condussero a possedere, o almeno ad intendere quasi tutto lo scibile [163] de' suoi tempi. La sua vita procedeva con ordine, come un orologio, e dei ritagli di tempo profittava sempre per disputare ed istruirsi. Accompagnando Pio II a Tivoli, sotto la sferza del sole, fra la polvere sollevata dai cavalli, al luccicare degli elmi e delle spade, discorreva col dotto Papa sulle armi degli antichi, sulla guerra troiana, e non riuscivano a mettersi d'accordo intorno ai confini dell'Asia Minore.[160] Il danaro raccolto dalle ricche paghe avute come capitano di ventura, spendeva nella pace a rendere più splendida la città e la Corte d'Urbino. Sembrava che del suo Stato volesse fare quasi un'opera d'arte. Il palazzo da lui costruito fu dei più celebri in Italia, non per ricchezza o sfoggio d'architettura, ma per gusto squisito. Vi teneva più centinaia di persone, a ciascuna delle quali affidava un ufficio determinato, con orario preciso e istruzioni scritte. Era come una grande scuola militare, alla quale molti signori mandavano i loro figli, per educarli alla disciplina delle armi ed alla eleganza dei modi. Il suo tesoro principalissimo era la ricca biblioteca, nella quale spese 30,000 ducati,[161] occupando per quattordici anni da trenta a quaranta copisti, in Urbino, Firenze ed altrove.[162] Procedette nel comporla con [164] ordine grandissimo, seguendo in parte il concetto del Parentucelli,[163] ma cercando d'abbracciare tutto quanto lo scibile antico e moderno.[164] Così riuscì allora una cosa unica al mondo. Circondato da artisti italiani e stranieri, da soldati, non aveva seco gran numero d'eruditi; ma molti di essi corrispondevano con lui, e gli dedicavano le loro opere. Passeggiava disarmato in mezzo al popolo; desinava frugalmente all'aperto, ascoltando la lettura di Livio o d'altri antichi. Verso sera assisteva agli esercizî militari e ginnastici, che facevano i giovani sul prato di San Francesco. Il popolo amava il suo Duca, e i successori di lui ne seguirono le tradizioni.[165] Non si può dire che Urbino dèsse uno straordinario impulso alla cultura letteraria in Italia; ma si può ben dire che fu come uno splendido gioiello in mezzo agli Appennini, una città esemplare, la patria di molti uomini grandi, e di Raffaello che vale per tutti.
[165]
Gli scrittori fino ad ora notati vissero, lo abbiamo già detto, in mezzo ad una moltitudine di altri, i cui nomi, celebri al loro tempo, andarono a poco a poco più o meno dimenticati. Non v'è stato invero un secolo che abbia dato luogo nella storia ad una così grande ecatombe di supposte celebrità, come il secolo XV. E ciò si spiega facilmente, perchè allora vi fu un doppio lavoro. Da un lato, volendo far rinascere l'antichità, sì dètte opera ad una imitazione e riproduzione assai spesso meccanica del passato, alla quale cooperarono coloro che sono stati poi dimenticati; dall'altro si ottenne un resultato nuovo ed inaspettato, che fu l'opera d'un numero assai minore di dotti, i cui nomi la storia deve più specialmente ricordare. E questo doppio ordine di fatti e di uomini si ritrova in quasi tutta la cultura del Rinascimento, nella filosofia non meno che nelle lettere. La filosofia sembra avere una grandissima e generale importanza fra gli eruditi; ma la più parte di essi avevano solo cavato dagli antichi scrittori un florilegio di frasi sulla gloria, sull'amicizia, sul disprezzo della morte, sul Sommo Bene, sulla felicità, la virtù, e le ripetevano sempre, senza che valessero mai a dirigere in qualche modo le loro azioni, nè a formare le loro convinzioni. In quelle frasi noi vediamo di continuo una strana mescolanza di Paganesimo e di Cristianesimo, che si trovano accanto ed in contradizione fra loro, senza che di ciò lo scrittore si occupi punto. Ben presto però si manifesta il bisogno di trovare alla vita umana un fondamento razionale, filosofico, il quale valga a spiegare ad un tempo la virtù pagana e la cristiana, facendo scomparire la troppo visibile contradizione. Allora incominciò il lavoro più o meno originale, iniziato dai neoplatonici e dall'Accademia che essi fondarono in Firenze.
[166]
Gli esuli greci non contribuirono tanto alla diffusione fra noi della loro lingua, che già s'era cominciata a studiare in Italia, e molto meno poi della erudizione letteraria assai fiorente prima del loro arrivo, quanto a rivolgere l'erudizione stessa verso lo studio dei filosofi antichi. La prima origine del platonismo o, per meglio dire, del neoplatonismo in Italia, si deve infatti a Giorgio Gemisto, soprannominato Pletone, per l'ammirazione che professava a Platone. Nato nel Peloponneso, secondo alcuni, secondo altri solo rifugiato colà da Costantinopoli, egli era il più dotto e autorevole di quanti Greci vennero al Concilio fiorentino. Ed era poi così convinto, anzi entusiasta del platonismo, che s'aspettava da esso anche un rinnovamento religioso. Ciò fece dire ai detrattori di lui, che voleva far rivivere il Paganesimo; ma stando ai suoi scritti, a quelli dei seguaci, ed a ciò che risultò veramente dalle sue dottrine, è più giusto il dire, essere egli convinto che il Cristianesimo avrebbe trovato nuova conferma nella filosofia di Platone, e poteva perciò, sotto altra forma e, secondo lui, più razionale, essere rinnovato. Esaminando le differenze che passano tra la filosofia platonica e l'aristotelica, in un opuscolo che divenne assai celebre,[166] egli dava, come è facile immaginare, la preferenza alla prima, e riduceva tutta la controversia ad una sola questione. I due grandi filosofi ammettono, egli diceva, che la natura operi, non a caso, ma secondo un fine. Aristotele però sostiene che a questo fine si giunge inconsapevolmente, non consulto; Platone invece sostiene più giustamente, che la natura è razionale, è consapevole, consulto agit: la sua è un'arte divina, perchè è Dio che opera in essa.[167] [167] Un'ardentissima disputa sorse intorno a siffatta questione, la quale può sembrare a noi di nessuna importanza, ma ne aveva allora una grandissima. Per essa infatti s'apriva la via al panteismo, ed il concetto del Dio personale, che presso gli Ebrei era stato solo un Dio onnipotente, che nel Cristianesimo era divenuto il Dio padre dei credenti, si trasformava fra noi nel concetto dell'Assoluto filosofico.[168] Gli eruditi greci e italiani, senza rendersi chiara ragione di ciò che facevano, presentivano pure l'importanza grandissima della questione, e però si fermavano tanto intorno ad essa.
Giorgio Scolario e Teodoro Gaza, ambedue greci ed aristotelici, attaccarono fieramente Pletone col solito linguaggio plateale degli eruditi d'allora. Il cardinale Bessarione, volendo metter pace, si lasciò sfuggire che giudicava Teodoro Gaza più dotto di Giorgio Trapezunzio, il quale con più furore che mai si scagliò contro tutti, attaccando lo stesso Platone. Il Bessarione pubblicò allora un'opera voluminosa, In Calumniatorem Platonis, nella quale, pur respingendo gli attacchi di G. Trapezunzio, [168] cercava colla sua facile e molto diffusa eloquenza latina, priva d'ogni originalità letteraria o filosofica, di conciliare tutte le opposte sentenze. Secondo lui Aristotele e Platone dicevano, in sostanza, la medesima cosa. Questa disputa agitata fra i Greci non ebbe una vera importanza filosofica, restando là dove l'aveva lasciata G. G. Pletone; ma richiamò la mente degl'italiani ad una parte dell'erudizione che avevano fin allora troppo trascurata, essendo stato lo studio da essi fatto sui filosofi greci più che altro letterario. G. G. Pletone intanto, senza perder tempo nel rispondere alle ingiurie, prima di tornarsene in patria, seppe infondere nell'animo di Cosimo de' Medici tanta ammirazione per le dottrine platoniche, che lo lasciò deliberato a dare ogni opera per propagarle in Italia, e ripristinare in essa l'antica Accademia.
Ad ottenere questo scopo, Cosimo col suo pratico buon senso, capì che bisognava cercare prima di tutto un uomo adatto, e credè di averlo trovato in un giovinetto che, nato nel 1433 da un medico di Figline, s'era dato a seguir con ardore gli studî del padre. — Tuo figlio, disse Cosimo, è nato a curare gli animi, non i corpi; — e lo accolse, in età di 18 anni, nella propria casa, destinandolo ad essere il futuro campione del platonismo. Questo giovane era Marsilio Ficino, il quale, messosi all'opera con grandissimo zelo, dopo cinque anni di studio, presentò un lavoro sulla filosofia platonica, fatto però solo con le traduzioni. Cosimo lodò molto l'operosità del suo protetto, e gli regalò una villetta presso Careggi, ma gli consigliò di studiare il greco per lavorare sulle fonti. E da quel tempo sino alla fine di sua vita, il Ficino non fece altro che studiare Platone ed i neoplatonici, scrivendo un gran numero di traduzioni e di trattati originali aggiungendo a ciò l'insegnamento che dava ai figli ed ai nipoti di Cosimo, più tardi anche ad una numerosa scolaresca nello Studio fiorentino.
[169]
Chi espone le opere del Ficino fa la storia del platonismo in Italia; chi narra la vita di lui fa la storia dell'Accademia Platonica. I suoi seguaci si contentarono di ripeterne le idee, e l'Accademia nacque e morì con lui. Essa non era veramente altro che, una riunione di amici e discepoli, i quali, protetti dai Medici, si radunavano intorno a lui, per discutere di filosofia platonica. Somigliava alle riunioni tenute già nella cella del Marsigli o del Traversari; se non che alle adunanze dell'Accademia, i Medici, specialmente Lorenzo, assistevano più spesso, con più ardore le promovevano, e le materie filosofiche che in esse si disputavano, ebbero un'eco assai più clamorosa in tutta Italia. Alcune delle adunanze si tennero di state nella foresta di Camaldoli; altre più solenni si tenevano ogni anno in Firenze, e nella villa dei Medici a Careggi, il giorno sette di novembre, che, secondo la tradizione alessandrina, era il giorno della nascita e della morte di Platone.[169] L'uso di celebrarlo con solennità, osservato fino ai tempi di Plotino e di Porfirio, veniva ora, dopo 1200 anni, così diceva il Ficino,[170] ripreso. Si cominciava con un desinare, a cui seguiva una disputa filosofica, che finiva generalmente con un'apoteosi e quasi un inno religioso al sommo maestro. Riunioni e dispute meno solenni si tenevano in molte occasioni diverse, ma sempre nello stesso modo familiare e libero.
Il nome di Accademia veniva solo dalle dottrine professate ad imitazione di quelle di Platone. Non aveva, per quanto sappiamo, proprî statuti o regolamenti. S'adunava di solito nella villetta del Ficino presso Careggi; la tenevano [170] unita la sua persona, la sua dottrina, l'ardore de' suoi amici e discepoli.[171] Il che se da un lato la riduce a poca cosa come istituzione, da un altro ne accresce l'importanza storica, perchè la dimostra un prodotto naturale e spontaneo della società in cui nacque. Infatti, mutate appena le condizioni intellettuali e sociali che l'avevano creata, non fu più possibile mantenerla in vita. Essa procedette assai regolarmente fino al 1478; scoppiata allora la sanguinosa congiura dei Pazzi, e incominciate le persecuzioni, gli animi restarono turbati; mancò la tranquillità necessaria alle contemplazioni filosofiche, e le riunioni, già molto diradate, cessarono del tutto colla morte del Ficino. Quelle che si tennero dipoi negli Orti Oricellarî, alle quali assisteva anche il Machiavelli, avevano ben poco da fare col Platonismo, come dimostrano chiaro i suoi dialoghi Dell'Arte della Guerra, e le congiure che ivi si tramarono. Il nome di platoniche, che pure ebbero queste adunanze, si direbbe qualche volta un pretesto per nascondere il loro vero scopo. I tentativi fatti nel secolo XVII da Leopoldo de' Medici per ripristinare l'Accademia, appartengono ad un altro tempo, hanno altro significato, e ben poca importanza nella storia della scienza.[172]
Quasi tutti coloro che scrissero dell'Accademia Platonica e del Ficino, si fermarono a raccogliere minutamente aneddoti biografici e letterarî, cose tutte che hanno [171] un valore assai secondario.[173] Importa invece moltissimo conoscere quale è il merito intrinseco delle dottrine, quale la ragione della grandissima popolarità che ebbero nel secolo XV, quale l'ingegno di coloro che le trovarono o propagarono. In verità, quando si guarda il numeroso elenco dei platonici che si raccolsero intorno al Ficino, reca meraviglia l'osservare che due soli meritano davvero qualche lode come scrittori di opere filosofiche. Uno di essi è Cristoforo Landino, il celebre commentatore di Dante e del Petrarca, ellenista reputato, professore nello Studio, autore delle Disputationes Camaldulenses,[174] nelle [172] quali si dà lungo e minuto ragguaglio delle platoniche discussioni. L'altro è Leon Battista Alberti, sommo artista, poeta, prosatore, erudito, scienziato, uomo universale, precursore di Leonardo da Vinci per la prodigiosa varietà delle sue doti intellettuali. Ad essi s'univano altri minori: Donato Acciaioli, Antonio Canigiani, Naldo Naldi, Peregrino Agli, Alamanno Rinuccini, Giovanni Cavalcanti, che era l'amico più intimo del Ficino, ed altri molti. Pure fra tutti costoro, senza eccettuare neppure il Landino e l'Alberti non se ne trova uno solo che sia vero filosofo: ripetono sempre le stesse idee, e sono le idee del Ficino. Ben si può ricordare che Angelo Poliziano e Lorenzo de' Medici, ingegni certo eminenti, furono anch'essi dell'Accademia Platonica; ma tutti i loro scritti li dimostrano letterati e non filosofi. Pico della Mirandola venne solamente più tardi, neppur lui con originalità filosofica, a farsi propagatore delle idee del Ficino. Ma, pochi o molti, di che cosa parlavano, quali erano e che valore avevano queste dottrine, che trovavano tanti e così ardenti sostenitori?
La nostra meraviglia in vero cresce quanto più noi ci avviciniamo ad essi. Nelle sue Disputationes Camaldulenses il Landino ci rappresenta gli Accademici, durante la state del 1468[175] nel delizioso convento di Camaldoli, adunati colà per godere il fresco, e disputare di filosofia. V'erano Lorenzo e Giuliano de' Medici, Cristoforo Landino e suo [173] fratello, Alamanno Rinuccini, Leon Battista Alberti allora venuto di Roma e Marsilio Ficino. Dopo aver sentito la messa, andavano all'ombra, sotto gli alberi della foresta, ed ivi il primo giorno disputarono sulla vita contemplativa e sulla vita attiva, l'Alberti sostenendo con argomenti assai poco originali, doversi preferire la prima; Lorenzo de' Medici invece opponendogli che l'una e l'altra sono del pari necessarie. Nel secondo giorno si parlò del Sommo Bene, ed abbiamo una serie di vuote frasi e di citazioni classiche. Nel terzo e quarto l'Alberti dimostrò la sua platonica sapienza con un lungo comento su Virgilio, sforzandosi colle più strane allegorie di provare, che nell'Eneide si trova nascosta tutta quanta la dottrina platonica e tutta la dottrina cristiana, le quali in fondo sono per lui una sola e medesima cosa. E queste allegorie, le quali facevano dire ad Angelo Maria Bandini, nel riferirle, che i platonici gli sembravano spesso aver perduto la testa,[176] sono ciò su cui essi più di tutto insistono, quasi fosse parte sostanziale della filosofia.
Noi ci volgiamo ora a cercare i discorsi tenuti in uno dei più solenni desinari dell'Accademia, che fu dato nella villa di Careggi, il 7 novembre 1474,[177] per ordine di Lorenzo il Magnifico, sotto la presidenza di messer Francesco Bandini. Qui è lo stesso Ficino che ne stende la minuta narrazione.[178] Gl'invitati al banchetto, scelti dal [174] Bandini furono nove, perchè nove erano le Muse: Antonio degli Agli vescovo di Fiesole, Marsilio Ficino e suo padre, C. Landino, Bernardo Nuzi, Giovanni Cavalcanti, Tommaso Benci, Carlo e Cristoforo Marsuppini. Finito il desinare, cominciò la lettura del Simposio di Platone, e i discorsi tenuti in casa di Agatone furono stranamente esposti dai convitati. Fedro dice nel Simposio, che l'amore ispira l'eroismo, è nato subito dopo del Caos e prima degli altri Dei, è ammirato da chiunque ammira la bellezza. E il Cavalcanti comenta: Iddio principio e fine di tutti i mondi crea gli angeli, che a loro volta formano per mezzo dell'anima universale, creata da Dio, le terze essenze. Queste sono le anime di tutte le cose, e quindi anche dei varî mondi, ai quali [175] dànno vita, perchè il corpo è formato dall'anima. Quando il Caos incomincia a pigliar forma, sente appetito di bellezza, cioè amore; e perciò appunto, secondo Platone, l'amore precede gli altri Dei, i quali sono una cosa stessa cogli angeli. E qui il Cavalcanti comincia a dimostrare come gli angeli sono la stessa cosa che gli Dei antichi, e come le terze essenze sono le idee di Platone e le forme di Aristotele ad un tempo. Ma non si contenta di ciò, e continua dicendo che le terze essenze, create dagli angeli, divengono a loro volta anch'esse identiche agii antichi Dei; e neppure basta, anzi segue una tal confusione da non potere più tener dietro all'autore. Giove è il cielo, Saturno e Venere sono i due pianeti di questo nome; ma essi sono anche le terze essenze o le anime del cielo e dei due pianeti; sono le tre Divinità degli antichi, ed anche tre angeli; sono finalmente l'anima del mondo in quanto essa intende, muove e genera.[179] Ciò che risulta di più chiaro in mezzo a tanta confusione, si è che per gli accademici, Cristianesimo e Paganesimo debbono formare una sola e medesima cosa col Platonismo. L'allegoria è la chiave di vôlta di questo edifizio, o meglio artifizio, nel quale le cose non significano mai sè stesse, ma divengono geroglifici e simboli di altre; e siccome tutto ciò è arbitrario, così esse possono sempre significar tutto quel che si vuole.
Aristofane, uno degl'interlocutori, dice nel Simposio, che in origine v'erano tre sessi, uomini, donne e promiscui, cioè individui che, uomini e donne ad un tempo, avevano due teste, quattro mani, ecc. Questi esseri promiscui vollero lottare cogli Dei, e furono perciò divisi in due metà, una delle quali cerca sempre l'altra; quindi è che solo nella loro riunione possono gli amanti essere felici. Se però i mortali continuano nel proprio orgoglio, saranno puniti con una nuova divisione; e sarà curioso [176] allora, prosegue Aristofane, vederli girare pel mondo come basso-rilievi, con mezza testa, con un occhio, una mano, un piede solamente. Il Landino, cui tocca comentare questo singolare discorso, non cerca l'origine della leggenda, nè la spiegazione mitologica di essa. L'anima, egli dice, fu creata da Dio integra, ornata di lume divino che guarda alle cose superiori, di lume naturale, ingenito che guarda alle inferiori. Ma l'uomo peccò di superbia, volle uguagliarsi a Dio, credendo che potesse bastargli il lume naturale, ingenito; il suo pensiero restò allora rivolto alle sole cose corporali, e la prima unità fu spezzata. Se continuerà nel suo orgoglio, affidandosi tutto al lume naturale, sarà punito di nuovo col perdere anche questo.[180] Ecco la facile spiegazione di tutto.
Ultimo a parlare fu Cristoforo Marsuppini, il quale concluse comentando il bellissimo discorso di Alcibiade, e le parole che questi, in fine del Simposio, rivolge a Socrate. Il comento è fatto dall'oratore, esponendo le idee di Guido Cavalcanti sull'amore, e parlando del divino furore, pel quale l'uomo, sorgendo al disopra della propria natura, in Deum transit. Per esso Iddio trae l'anima caduta nelle cose inferiori, nuovamente alle superiori. E tutto finisce con un elogio dell'amor socratico, ed un inno al divino Amore o sia allo Spirito Santo, che ha ispirato la discussione ed illuminato gli oratori platonici.[181]
Questi filosofi che vogliono avvicinare il Paganesimo ed il Cristianesimo, lo spirito e la materia, il divino e l'umano, Dio e il mondo, non riuscendo a trovare l'unità razionale di tutto ciò, riducono ogni cosa a simboli, a [177] geroglifici. Eppure la grande popolarità e la immensa efficacia di questa filosofia sulla letteratura e sulla cultura del secolo, non può mettersi in dubbio da nessuno; non le si può quindi negare una grande importanza storica. E questa nasce da un nuovo modo di concepire il mondo, che apparisce chiaro abbastanza, anche in mezzo alla nebbia delle più strane allegorie. Pei platonici il mondo è divenuto il gran Cosmo fisico e morale, creato dall'amor divino, immagine del Dio che l'abita, e che essi risguardano non già come una persona vivente, ma come l'Unità suprema del tutto, lo Spirito universale, l'Assoluto. E questo concetto, per opera loro, penetra nella letteratura della seconda metà del secolo XV, la informa e ne determina il carattere. Quindi è chiaro che il Platonismo italiano, senza nessun grande valore scientifico, è pure un elemento importantissimo della nuova cultura.
Ma, per conoscerlo pienamente, è pur necessario fermarsi sulle opere di colui che seppe meglio formularlo ed insegnarlo. Marsilio Ficino ebbe una sconfinata ammirazione per tutta quanta la filosofia antica; lesse e volle assimilarsi Platone, Aristotele, i neoplatonici, ogni brano che trovava citato di Confucio, Zoroastro, ecc. Tutto ciò che essi dicono è sacro per lui, solamente perchè antico; e così i suoi scritti diventano una vasta congerie di elementi diversi, senza che egli ritrovi un vero principio dominatore ed organico, che possa valere a costituire un sistema, e dargli diritto al nome di filosofo originale. Le allegorie neoplatoniche, che G. Pletone e gli altri suoi connazionali portarono fra noi, sono il solo mezzo con cui egli sappia riunire i diversi elementi. Pure il Ficino si propose uno scopo assai notevole, che comincia a farci intravedere la sua importanza filosofica. In mezzo al trionfo dell'antichità pagana, egli vide che il Cristianesimo non poteva cadere; ma vide del pari che la sola autorità dei profeti, della Bibbia, della rivelazione [178] non bastava più allora a sostenerlo e mantenerlo vivo negli animi. Bisognava dunque ricorrere alla ragione, a quella che era per lui la vera filosofia, cioè alla filosofia antica; ora fra i varî sistemi, quello che meglio di tutti si prestava allo scopo, era senza dubbio il Platonismo. Così nacque in lui il pensiero, e lo dichiara egli stesso, di fondare il Cristianesimo sulla dottrina platonica, di provare anzi che sono una sola e medesima cosa, e che l'uno è la conseguenza logica dell'altra. Questa dottrina parve allora una nuova rivelazione, ed è per essa che egli accendeva le candele innanzi a Platone, e lo adorava come santo. Nel suo libro Della Religione Cristiana, infatti, i più solidi argomenti che egli trovi a sostegno di essa, sono i responsi delle Sibille, i vaticinî che della venuta di Gesù Cristo fecero Virgilio, Platone, Plotino, Porfirio. La vita di Socrate è per lui un simbolo continuo della vita di Gesù, le dottrine dell'uno e dell'altro sono identiche. Così l'antichità veniva ribenedetta dal Cristianesimo, che a sua volta era dimostrato vero dall'antichità. Che cosa poteva avere maggiore importanza per gli eruditi del secolo XV? Il Ficino era così pieno, così entusiasta di queste sue idee, che qualche volta, più che l'inventore d'un nuovo sistema, sembrava credersi il fondatore d'una nuova religione.
Scrisse un gran numero di epistole, traduzioni e trattati in latino; ma il più grande e solido monumento alla sua fama fu la prima e, per molto tempo, la sola buona traduzione di tutte le opere di Platone. A questa lavorò indefessamente gran parte della vita, meditando anche un'opera che doveva raccogliere sistematicamente, in organica unità, le sue dottrine. Al quale proposito egli ci dice, che fu lungamente incerto se quest'opera dovesse essere una esposizione filosofica dell'antica religione pagana, ovvero una dimostrazione del Cristianesimo, fatta coll'aiuto dell'antica filosofia. Prevalse il secondo concetto; ma la nuova opera fu tuttavia [179] intitolata Theologia Platonica, il che ben dimostra qual fosse l'ordine delle idee, in cui era entrato l'autore. Essa riuscì una vasta ed incomposta enciclopedia erudita, scritta con uno stile confuso e scolorito, difetto che si trova in tutte quante le sue opere, perchè, sebbene egli avesse consumata la vita intera sui classici, la incertezza delle idee gli rendeva impossibile acquistare una vera originalità e vigorìa di stile.
Nel leggere attentamente la Theologia Platonica, si direbbe più di una volta, che i materiali ivi accumulati comincino come a fermentare, e che seguano fra loro assimilazioni spontanee, di cui l'autore stesso non si rende conto. Vi è in fatti qualche cosa che può dirsi un resultato del pensiero del secolo, un progresso impersonale della scienza, di cui il Ficino sembra più lo strumento che l'autore. La quistione del consulto o non consulto agit nella natura, diviene, sin dal principio, quella intorno a cui tutte le altre s'aggruppano, ed è da lui risoluta nel modo stesso che aveva fatto Gemisto Pletone. Egli distingue nel mondo due diverse categorie di anime. Le une sono intellettuali ed universali; le altre sensibili, mortali, ma anch'esse razionali. Queste, che chiama le terze essenze delle cose, si trovano in tutta la natura, e l'animano. La terra, la luce, l'aria, i pianeti hanno, ciascuno, la loro terza essenza, e ciò spiega come la terra produca le piante, nell'acqua si generino animali, ecc. Le terze essenze inoltre sono divise in dodici ordini, secondo le dodici costellazioni del zodiaco; ma s'uniscono e confondono fra loro, formando anime o terze essenze più generali. Così nel nostro pianeta vi sono l'acqua, la terra, l'aria, che hanno, ciascuna, la loro terza essenza; ma questo pianeta ha anche la sua propria e più generale, che tutte le comprende.
L'uomo poi ha due anime, l'una razionale e sensibile, che è la terza essenza del corpo, col quale essa muore; l'altra, intellettuale, immortale, infusa direttamente da [180] Dio. Per mezzo di questa, la creatura si trova in relazione, e può venire in contatto col Creatore: in essa si specchiano tutte le altre, che infondono vita nell'universo. Così l'uomo è un microcosmo; può discendere fino agli animali, alla natura inanimata, e salire agli angeli, a Dio che gli parla e lo guida. Gli astri, le piante, le pietre stesse hanno poi colle loro terze essenze diretta influenza sulle passioni, sul destino di lui. E con ciò si viene a dimostrare la verità delle scienze occulte, a cui il Ficino prestava una fede quasi puerile. Attribuiva a Saturno la sua continua malinconia; ogni giorno mutava con scrupolosa diligenza i suoi amuleti, dai quali mai non si separava. Su tutte queste cose egli scrisse un trattato, De vita coelitus comparanda,[182] che bisogna leggere per vedere fino a qual punto arrivassero i pregiudizî d'un uomo così dotto, e d'un secolo tanto progredito. La fede che ebbero nelle scienze occulte gli uomini più notevoli del Rinascimento, è un'altra delle non poche contradizioni che noi osserviamo in quel tempo. Pure, chi bene la esamina, s'accorge che essa era alimentata dal bisogno di sostituir sempre alle spiegazioni soprannaturali una naturale, anche quando la scienza non era in grado di trovarla.
Se ora guardiamo questa filosofia del Ficino nella sua generale unità, apparisce assai chiara la tendenza irresistibile a cercare un'anima universale e razionale, la quale sembra infatti, ne' suoi scritti, confondersi col mondo e con Dio stesso. Le sue terze essenze, che sono una cosa sola colle idee di Platone, colle forme d'Aristotele, e s'uniscono poi fra loro in anime più generali, come potrebbero non riunirsi tutte in un'anima sola? Il mondo non è, secondo le stesse parole del Ficino, un grande animale vivente? La natura non ha essa un'anima razionale che consulto agit? Se non che, innanzi a queste [181] che pur sono le conseguenze naturali, inevitabili delle sue premesse, il nostro autore s'arresta quasi spaventato, perchè egli deve accettare e spiegare la creazione dal nulla, e non può rinunziare al Dio personale del Cristianesimo.
Quando però viene ad esporre filosoficamente la creazione, torna sempre alle stesse idee, e s'avvicina di nuovo alle conseguenze da cui rifugge. Iddio concepisce (ed il concepire nella mente divina equivale al creare) l'anima sensibile delle cose, e l'anima immortale, angelica. Con questa Esso forma gli angeli, per mezzo dei quali crea le terze essenze, che sono a lui tanto inferiori che non può degnarsi di crearle direttamente. In noi, però, come vedemmo, oltre l'anima del corpo, ve n'è una immortale, creata, infusa da Dio, e per mezzo di essa la debole creatura umana può ascendere fino al divino ed eterno. A bene esaminarla, la creazione del Ficino è una emanazione; il suo Dio è l'anima e l'unità del mondo, anzi la sola definizione che egli sappia darne è: l'Unità assoluta di tutte le cose. Il Panteismo, conseguenza logica di questo concetto, è nell'aria stessa del secolo XV, che non trova altro modo di conciliare Dio e la natura, il divino e l'umano. Già scientificamente abbozzato dal Cusano, reso popolare dal Ficino, venne poi esplicitamente formulato e sostenuto dal Bruno. Se non che il Cusano ed il Bruno sono veri pensatori e filosofi, il Ficino è invece un erudito che filosofeggia senza vera originalità. Il concetto panteistico si manifesta nelle sue opere in un modo indistinto e confuso, quasi inconsapevole; ma ciò appunto lo dimostra un resultato dei bisogni generali del tempo, lo rende subito popolare, e lo fa penetrare largamente nella letteratura. Nelle poesie di Lorenzo il Magnifico, del Poliziano, dell'Alberti, in molti anche dei prosatori contemporanei, il Dio personale s'è mutato nell'Assoluto, il mondo è il gran Cosmo da esso abitato ed animato, la natura [182] lungi dall'essere disprezzata, è quasi divina anch'essa. Questa trasformazione, come dicemmo, si deve appunto al Ficino ed all'Accademia Platonica, che scompariscono senza lasciare un nuovo sistema, ma lasciano invece un nuovo modo di vedere il mondo, e di concepire Iddio.
L'ardore entusiasta del Ficino, nello spiegare le nuove dottrine, trovò un'eco grandissima in Italia e fuori. Alle lezioni che dava nello Studio, accorrevano uditori d'ogni parte del mondo. Molti Inglesi tornarono in patria, portandovi l'ellenismo italiano; anche il Reuchlin, quando passò per Firenze, fu più che mai convertito alle nuove idee, le quali già trovavano grande favore in Germania, dove aiutarono la Riforma religiosa, che cominciò colla interpetrazione individuale delle Sacre Scritture, e col mettere il credente in diretta comunicazione col suo Creatore, senza bisogno di alcun intermediario: in Italia invece le conseguenze dell'erudizione restarono sempre letterarie e scientifiche.
Giovanni Pico della Mirandola, tanto celebre in tutta Europa, era chiamato fra noi la Fenice degl'ingegni, per la conoscenza che si diceva avesse di ventidue lingue, per la grande erudizione, la straordinaria memoria, al che si aggiungeva la bontà del suo carattere, l'amabile e gentile aspetto, l'avere egli, di famiglia principesca, abbandonato tutto pei suoi studî. Esaltato dalle lodi che gli facevano, e da una filosofia che colle sue allegorie pretendeva di abbracciare l'universo, propose una specie di singolare torneo scientifico, che doveva darsi in Roma. Aveva ridotto lo scibile in 900 conclusioni, su ciascuna delle quali si offeriva pronto a dare risposta a tutti i dotti, che invitava promettendo di pagare il viaggio ai più poveri. L'esperimento non si fece, per le difficoltà frapposte dal Papa, all'autorità del quale Giovanni Pico fu sempre ossequentissimo. Pure anche quest'uomo che levò allora così gran fama di sè, fu in sostanza un ingegno non molto diverso dagli altri seguaci del Ficino. [183] Le sue cognizioni erano estese, ma superficiali; i suoi giudizî, guidati più dall'entusiasmo che dalla critica. Egli trovava le poesie di Lorenzo de' Medici superiori a quelle di Dante e del Petrarca. Della più parte delle ventidue lingue che pretendeva avere studiate, conosceva poco più che l'alfabeto e gli elementi grammaticali. Tuttavia, ellenista e latinista fra i valenti, fu ancora dei primi a promuovere gli studî orientali. Ma nè i suoi scritti italiani o latini, e molto meno la sua filosofia, hanno alcuna originalità. Voleva conciliare Averroè ed Avicenna, Scoto e San Tommaso, Platone ed Aristotele, per combattere i nemici della Chiesa. Ciò doveva portarlo di necessità ad unirsi col Ficino, che voleva appunto combattere «la religione dell'ignoranza e la filosofia della miscredenza.» Amico dei Medici, egli finì ammiratore entusiasta del Savonarola, e fu sepolto in San Marco, dopo che lo ebbero, secondo la sua ultima volontà, vestito dell'abito dei Domenicani.[183] Cessò di vivere nel 1494, anno memorabile nella storia dell'Italia e di tutta l'Europa.
I Platonici e gli eruditi scompariscono ora assai rapidamente dalla scena, e la letteratura nazionale che s'è andata per sì lungo tempo apparecchiando, comincia a manifestarsi in tutto il suo nuovo splendore.
Nel secolo XV il nostro volgare era assai decaduto, per colpa principalmente degli eruditi, che o scrivevano latino, o forzavano l'italiano ad una artificiosa imitazione del latino. L'anno 1441 fu fatto nel Duomo, in occasione della dimora in Firenze d'Eugenio IV, un solenne esperimento letterario, chiamato Accademia Coronaria, perchè si prometteva una corona d'argento a chi leggesse [184] i migliori versi italiani sull'amicizia. Ed il premio non fu potuto concedere, tanto riuscirono miserabili quelle poesie, che anche oggi nessuno può leggere senza restar maravigliato del gusto corrotto e del puerile artificio. S'ingannerebbe però chi credesse che lo scrivere in volgare fosse stato allora abbandonato del tutto. Canzoni italiane, composte da scrittori poco noti, ma non poco numerosi, venivano cantate dal popolo delle città e delle campagne, e in italiano si scrivevano le lettere familiari, molti racconti, novelle, cronache. Era una letteratura in gran parte fatta pel popolo, ed a cui il popolo in più modi pigliava parte, senza che si potesse dire popolare nel vero senso della parola. Ed andò, col procedere del secolo XV, crescendo sempre d'importanza, fino a che i dotti, abbandonato il latino, tornarono anch'essi all'italiano, iniziando così un secondo grande periodo nella storia delle nostre lettere.
I Platonici vanno messi appunto fra coloro che primi tornarono alla lingua volgare. Cristoforo Landino aveva molto aiutato a ciò, promovendo coi suoi Commenti lo studio di Dante e del Petrarca. Ma a Leon Battista Alberti spetta un luogo ancora più onorevole. Nato (l'anno preciso è incerto) circa il 1404 a Venezia, dove la sua famiglia era esiliata, si dimostrò subito uomo singolarissimo. D'una gran forza e bellezza, egli riusciva mirabilmente in tutti gli esercizî del corpo, in tutte le opere d'ingegno. Era valente nella musica, nel canto, nelle arti del disegno, nelle lettere e nelle scienze, tanto le morali, quanto le matematiche o naturali, nelle quali molte scoperte sono a lui attribuite.[184] Il Landino, il [185] Poliziano[185] ed altri esaltarono, non solo la universalità di questo singolare ingegno, ma, quello che ora più importa notare, anche i suoi meriti nel promuovere lo studio e l'uso dell'italiano, cosa che risulta assai chiara anche dalla lettura delle sue opere, sebbene intorno ad alcune di esse si siano fatte e si facciano molte dispute. Alcune poesie dell'Alberti hanno di certo una freschezza e spontaneità grande;[186] ma ciò potrebbe far meraviglia se il Poliziano e Lorenzo de' Medici non ci dimostrassero che la Musa italiana già si ridestava allora animata da uno spirito nuovo, quasi rinascendo per seconda giovinezza. La sua prosa è veramente molto artificiosa per la continua imitazione del latino; pure merita una particolar menzione l'opera intitolata: La cura della famiglia, e specialmente il terzo libro di essa, L'Economico o Il Padre di famiglia, in cui si descrive appunto il buon padre, ed il miglior modo di governare la casa. Questo è quasi un lavoro a parte, e nella prefazione che lo precede, l'Alberti piglia le difese della lingua italiana, che dichiara non punto inferiore alla latina, ed aggiunge di voler fare uso d'uno stile «nudo e semplice.[187]» Infatti la sua prosa qui è assai più spontanea del solito, tanto che egli sembra voler fare uno sforzo per tornare all'aurea semplicità del Trecento.
L'Economico è generalmente noto nella forma assai più disinvolta e popolare che ricevette da Agnolo Pandolfini, [186] col titolo: Del governo della famiglia; ed è in questa forma uno dei più bei monumenti della nostra letteratura. Si è da alcuni sostenuto che il Pandolfini avesse copiato e migliorato l'Alberti, da altri invece il contrario. Certo è però che il primo scrive in una lingua parlata, molto ricca ed evidente, sebbene non sempre irreprensibile affatto nella grammatica, mentre l'Alberti è più corretto grammaticalmente, ma è più pesante, non ba di certo la semplicità del Pandolfini. Nel suo linguaggio si vede l'innesto della forma popolare con la erudita, le quali non sono ancora ben fuse insieme, rimanendone offuscato il nativo splendore della prima. Non è ancora accertato pienamente quale dei due libri sia l'originale, quale il rifacimento; ma il trovarlo diffuso sotto due forme diverse, prova certo che esso esprime i sentimenti e le opinioni del tempo, il che lo rende importante non solo nella storia della lingua e della letteratura, ma ancora in quella della società italiana.[188]
Quest'opera, massime nella forma che gli ha dato il Pandolfini, sembra scritta da un uomo vissuto tra la fine del secolo XIV e il principio del XV, il quale, dopo aver preso parte al governo della città, si ritira disgustato in villa, per darsi al comporre. Così abbiamo in essa una fedele descrizione dello stato sociale, morale e [187] intellettuale degl'Italiani nel secolo XV, quale vanamente cercheremmo negli storici. Qui v'è sopratutto un profondo disgusto della vita politica, «vita d'ingiurie, d'invidia, di sdegni e di sospetti.[189]» Lo spirito italiano già si sente condannato a rinchiudersi in sè stesso, senza trovare nella sua coscienza il conforto della vita religiosa. La virtù gli sembra risultare unicamente dal bisogno d'un benessere quasi artistico, «è tutta lieta e graziosa.[190]» Ciò che si vuole è solo: non aver l'animo alterato da alcuna cupidigia, pentimento o dolore;[191] mantenere non mai disturbata l'armonia interiore. L'onestà è il più bello ornamento della donna, che il vizio rende volgare e brutta.[192] Trasparisce anche assai chiara la nuova tendenza infusa nello spirito italiano dal Platonismo. In questo libro infatti la virtù risulta da una legge necessaria della nostra natura, non da alcun comando di autorità superiore. Quando il capo della famiglia prende moglie, la conduce innanzi al domestico tabernacolo della Madonna, e là pregano inginocchiati, non la Vergine o i Santi, ma il Sommo Iddio. Nè si raccomandano per avere la felicità di un'altra vita, ma solo perchè sia loro dato di godere i beni di questo mondo. La moglie deve saper governare la casa con l'accortezza e la gentilezza, per mantenere sempre l'armonia generale, e perchè tutti siano felici. Noi siamo come dinanzi a un quadro di Masaccio o del Lippi. Non v'è nessuno slancio, nessuna aspirazione verso l'infinito, v'è un'armonia che si contenta di sè, che è come il principio universale della vita, quale l'intendevano allora gl'italiani. Ogni piccolo accessorio di questo quadro ci [188] pone dinanzi agli occhi la democrazia fiorentina, con la sua raffinatezza e la sua civile uguaglianza. In quasi tutta Europa il contadino era ancora attaccato alla gleba, in una condizione servile; egli qui è già divenuto il tormento del suo padrone. Vuole che gli sia comperato il bue, la giumenta, le pecore; vuole che gli sian pagati i debiti, gli sia data la dote per la figliuola, fatta la casa e fornite le masserizie: nè mai si contenta.[193]
Ma fra le sorgenti della nuova letteratura, specialmente della prosa, che sono pur molte, dobbiamo qui menzionare le corrispondenze politiche e diplomatiche, che in questo secolo divengono davvero uno dei più notevoli monumenti letterarî, che abbia non solo l'Italia, ma l'Europa. Esse non erano scritte per esercizi di retorica erudita, ma per condurre gli affari ad un fine determinato, e giunsero perciò subito ad una semplicità, spontaneità e lucidezza veramente singolari.
Nelle Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, recentemente pubblicate,[194] si vede ancora lo sforzo con cui lo scrittore cercava innestare l'incolto, ma ingenuo linguaggio popolare col periodo latino degli eruditi; si vede il processo di formazione della nuova prosa. Questo sforzo è cessato, e la prosa politica italiana ha superato ogni incertezza, senza però ancora nascondere del tutto i due elementi da cui risulta, nelle lettere di Lorenzo dei Medici, delle quali il Guicciardini stesso fece i più alti elogi.[195] In esse si scorge da un lato la popolare disinvoltura con cui scriveva questo discepolo del Ficino e amico del Poliziano, e da un altro quella mirabile prudenza con cui egli cercava mantenere l'equilibrio fra gli Stati italiani, [189] la grande autorità che esercitava su di essi, in tutta la Penisola. Quando Ferdinando di Napoli vuol fare una lega particolare col Papa, Lorenzo subito s'adopera, perchè si levi «questa scintilla d'alterazione in Italia,»[196] e si faccia invece una pace generale. Quando sua figlia Maddalena sposa Franceschetto Cibo, figlio naturale del Papa, egli subito avverte, che non intende stringere legami a danno della pace generale d'Italia, nè fare lontani disegni per l'avvenire, a cui bisogna, invece, «pensare dì per dì, e secondo che si troverà il suono ballare.»[197] Quando il Papa vuol chiamare in Italia il duca di Lorena, egli s'adopera a tutt'uomo per impedirlo, ponendo innanzi i molti pericoli, cui essi sarebbero andati incontro, e ricordando «che non è in mano degli uomini tenere la briglia alla fortuna.» Il duca di Milano, Lodovico il Moro, sempre vario e mutabile ed ambizioso, che ogni ora fa nascere nuove complicazioni, va trattato, egli dice, come porta la sua natura, secondandolo, cioè, fino a che è possibile senza pericolo; ma in modo da «restare a cavallo,» quando egli volesse mutare.[198] È quindi tanto più necessario tenersi amici i Veneziani, «per aver sempre qualche àncora in «mare.»[199] E quando suo figlio Giovanni, a 17 anni già da un pezzo cardinale, parte per Roma, Lorenzo lo avverte dei pericoli, cui va incontro in una città così corrotta, e gli ricorda che a Firenze giova l'unione colla Chiesa, e che «l'interesse della casa nostra ne va con «quello della Città; sicchè voi dovete essere in ciò buona [190] catena, e non vi debbono, in ogni caso, mancare modi di salvare, come si dice, la capra e i cavoli.»[200] — Questa prosa disinvolta, popolare, efficace, divenne subito generalissima in Toscana, e Lorenzo de' Medici fu dei primi ad usarla, come fu dei primi ancora a scrivere poesie volgari.
Nel Trecento era seguìto fra noi un innesto di due poesie, che facilmente si possono distinguere anche oggi nei sonetti, nelle canzoni, nella stessa Divina Commedia. Una era semplice, chiara, spontanea; ispirazione, se non del tutto, certo assai più popolare dell'altra, che era artificiosa, allegorica, scolastica, cortigiana, imitazione francese o provenzale. Da questa unione d'elementi diversi, il genio nazionale aveva, aiutandosi sin d'allora collo studio dei classici, cavata una letteratura nuova. Ed essa discese assai facilmente nel popolo, che, rapìto, dominato da un'arte a lui superiore, e pur da lui intesa e gustata, sembrava non aver quasi più bisogno d'altre canzoni o d'altri racconti suoi proprî. Ma in sul finire del secolo XIV i letterati scrivevano latino, ed il popolo, che in mezzo alle lotte della libertà, aveva assai progredito anche nella cultura, dovette altrimenti provvedere ai bisogni del suo spirito. Per tutta la campagna toscana[201] s'udirono allora nuove canzoni, rispetti, strambotti; [191] e nelle città si moltiplicarono prodigiosamente le novelle, i racconti d'avventure cavalleresche, che dalla Francia s'erano diffusi tra noi, e le sacre rappresentazioni. Tutto ciò naturalmente in lingua volgare.
Alcuni rispetti, alcuni strambotti e qualche canzone sgorgarono veramente dal cuore del popolo. Essi risuonano ancora oggi fra le valli toscane, dove, osserva il D'Ancona, sono come l'eco dell'ultima creazione d'un popolo che perdeva allora la sua libertà.[202] Ma altri non pochi, e i racconti cavallereschi, e le sacre o profane rappresentazioni non si possono dire creazione impersonale del popolo, perchè erano invece composti da una specie di cantastorie, che, sorti dal popolo per il quale scrivevano, non mancavano d'una qualche cultura, sebbene assai imperfetta. Noi vi troviamo spesso reminiscenze classiche ed artificî retorici, ben di rado vera spontaneità popolare. V'è però una certa semplicità ed anche una certa ingenua delicatezza di sentire, che attestano l'origine di questi lavori, e ricordano come il popolo fosse allora assai meno corrotto degli uomini culti e di tutti gli ordini superiori della società. Gli eruditi scrivevano l'Ermafrodito, le Invettive, oscenità d'ogni sorta: i cantastorie narravano le fantastiche prodezze dei cavalieri erranti; gli amori infelici d'Ippolito e Dianora, e la loro eroica abnegazione;[203] le sventure di Ginevra degli Almieri, che, uscita dalla tomba in cui fu sepolta viva, non è riconosciuta nè dal marito nè dalla madre [192] che la fuggono, ma solo dal primo amante, da cui era stata per forza separata, e che ora la salva,
Mischiando la letizia col dolore.[204]
La poesia italiana del secolo XV fu dai letterati fondata in gran parte su questa poesia che spesso è chiamata popolare, quantunque tale propriamente non sia. Ed in verità i canti dei letterati e quelli del popolo s'intrecciano fra noi per modo, e tanta azione e reazione esercitano gli uni sugli altri, che il distinguerli è spesso impresa molto malagevole anche alla critica dei più acuti ed intelligenti. Comunque sia di ciò, uno dei primi, non solo a proteggere, ma a promuovere e coltivare la nuova poesia, fu Lorenzo de' Medici. A lui che fondava la tirannide, appoggiandosi sul popolo contro i Grandi, conveniva molto farsi conoscere anche come poeta del popolo, massime in una città come Firenze, dove il dominio intellettuale era la base più solida al dominio politico. Le stampe del tempo ce lo rappresentano, di fatti, in mezzo alla moltitudine, occupato a cantar poesie.
Per render giustizia al valore letterario di Lorenzo, non è necessario in modo alcuno seguire i ditirambi del Roscoe e del Ruth, che vorrebbero farne addirittura un genio.[205] Egli fu in poesia ciò che era stato in tutto il resto, conoscitore degli uomini, osservatore accorto, di gusto finissimo, senza però un animo abbastanza elevato per giungere alle somme altezze dell'arte. Ne è una prova la storia che ci fa egli stesso delle sue prime ispirazioni. [193] Quando morì la bella Simonetta, amata da Giuliano dei Medici, molti poeti, fra cui il Poliziano,[206] ne scrissero le lodi. Lorenzo, per fare anch'egli qualcosa di simile, s'immaginò d'aver perduto la sua amata; ma poi ne cercò una addirittura, la trovò in Lucrezia Donati,[207] giovane bella e d'ingegno, e si diè subito a scrivere versi d'amore. Tutto ciò non gl'impediva di far trattare pel suo matrimonio con Clarice Orsini a Roma. E la madre Lucrezia Tornabuoni scriveva allora al marito Piero dei Medici, così ragionando della fidanzata: «È di recipiente grandezza, e bianca, et ha sì dolce maniera, non però sì gentile come le nostre; ma è di gran modestia, e da ridulla presto a nostri costumi. Il capo non ha biondo, perchè non se n'ha di qua; pendono i suoi capegli in rosso, e n'ha assai. La faccia del viso pende un poco tondetta, ma non mi dispiace. La gola è isvelta confacientemente, ma mi pare un po' sotiletta. Il petto non potemo vedere, perchè usano ire tutte turate; ma mostra di buona qualità.... La mano ha lunga e isvelta. E tutto raccolto, giudichiamo la fanciulla assai più che comunale.[208]» E dopo una così minuta descrizione del corpo, non una parola sola dell'animo, dell'ingegno e del carattere. Lorenzo poi che il 4 giugno 1469, in età di ventun'anno, si fidanzava con questa fanciulla, scriveva nei suoi Ricordi: «Tolsi donna,... ovvero mi fu data.»[209]
[194]
E le sue poesie, che pure han molto valore, lo dimostrano degno figlio di questa madre. A diciassette anni descriveva le labbra, gli occhi, i capelli dell'amata; lodava i monti, il praticello fiorito, il fiume, la solitudine campestre, in cui poteva contemplare l'immagine di lei, lungi dal rumore della città. Fin d'allora troviamo in esse gusto finissimo, disinvoltura, forma spontanea e qualche volta anche troppo popolare: egli descriveva la natura ed il mondo reale con una evidenza propria d'osservatore acutissimo. Queste qualità vanno più tardi risplendendo sempre di più nei varî componimenti di Lorenzo, giacchè egli sinceramente ammirava il bello, amava la vita campestre, ed era un vero artista, un pittore del mondo esteriore. Alla potenza descrittiva s'aggiunge nei Beoni uno spirito mordace e satirico; ma l'indole propria della sua poesia apparisce principalmente nelle Canzoni a ballo, che egli prese dal popolo, dando ad esse la loro vera forma, e nei Canti Carnascialeschi, che esistevano appena in germe, e che egli sollevò a dignità letteraria, divenendo così il creatore del genere.
Il pensiero dominante in queste poesie è: godete oggi della vita, abbandonatevi ai piaceri, e non pensate al domani. Non esitate, o giovanetti, colle donne, e voi
L'accorto politico, che voleva addormentare il popolo nei sensi, ai quali egli medesimo s'abbandonava, qui manifesta tutto sè stesso, ritrovando la sua massima spontaneità di stile e freschezza di forma. Ma qui ancora si [195] vede, che la sua è un'arte corruttrice, la quale in ciò appunto trova la propria condanna. Se nelle Canzoni a ballo è contento del dolce far niente e d'una vita sensuale, nei Canti Carnascialeschi va ancora più oltre. Alcuni di essi ci pongono innanzi, con molto brio, figure mitologiche, piene di vita; altri invece descrivono oscenità tali, che oggi non si potrebbero neppure accennare, e che allora venivano senza ritegno cantate nelle pubbliche vie, ed erano opera d'un principe ammirato in tutto il mondo civile. Egli dirigeva le feste e le mascherate carnevalesche, chiamando in suo aiuto scultori e pittori,[211] per renderle più allegre, e per fare colla eleganza del gusto penetrare più addentro la corruzione dei costumi; faceva comporre la musica che doveva accompagnare le sue oscene canzoni, e mescolandosi coi letterati, cogli artisti e col popolo, era l'anima e la guida di tutti questi baccanali. Non si può tuttavia negare che Lorenzo, trattando varî generi di poesia, che trovò diffusi nel popolo, e sollevandoli a vera dignità di arte, fu promotore d'una rivoluzione letteraria, nella quale, se alcuni dei contemporanei lo superarono, egli ebbe pure una parte che gli torna a sommo onore.[212]
Il vero rinnovatore della poesia italiana nel secolo XV fu però Angelo Ambrogini da Monte Pulciano, chiamato il Poliziano. Nato il 14 luglio 1454, fu sino al 1474 discepolo nello Studio Fiorentino, dove ascoltò il Ficino, l'Andronico, l'Argiropulo, il Landino. A sedici anni aveva cominciato una traduzione d'Omero, che lo fece chiamare dal Ficino l'omerico fanciullo, e gli assicurò per sempre [196] la protezione di Lorenzo, il quale l'accolse nella propria casa, e lo volle maestro di suo figlio Piero.[213] A 29 anni era professore d'eloquenza greca e latina nello Studio, ed alle sue lezioni accorrevano non solo Italiani, come Pico della Mirandola e i Medici stessi, ma stranieri d'ogni nazione. Poco di poi, nel 1486, fu nominato canonico della Cattedrale. In breve tempo la sua fama aveva riempito tutta Italia e passato anche le Alpi. Dimostrò un grande acume critico, specialmente paragonando i testi antichi, nelle sue Miscellanee; collazionando poi l'edizione delle Pandette, pubblicata a Venezia nel 1485, sul codice Laurenziano, conosciuto col nome di Pandette d'Amalfi, fece osservazioni che forse furono troppo lodate, ma che pur dimostravano di che grande aiuto la filologia poteva essere alla giurisprudenza.[214]
Il merito principale del Poliziano sta però nelle poesie, e spesso anche le più belle prolusioni che leggeva dalla cattedra non erano che versi latini, nei quali restò senza rivali fin dalla prima giovinezza. A diciotto anni i suoi versi greci erano stati molto lodati; ma egli aveva addirittura fatto maravigliare il mondo colla sua elegia latina in morte di Albiera degli Albizzi. In essa pare che il sentimento pagano per la bella forma, e l'eterea gentilezza dei pittori del Quattrocento si siano riuniti; che la lingua italiana si sia fusa con la latina, la quale, pur essendo morta, pareva ritornata ad essere lingua parlata e viva, tante erano la sua vivacità, la sua freschezza. Si direbbe che il soffio della poesia popolare [197] italiana rianimi adesso di nuova vita l'erudito, e lo renda capace di ricondurre il suo latino alla primitiva spontaneità greca. In questa elegia troviamo la medesima inarrivabile eleganza, lo stesso lusso di descrizioni, ed anche la stessa composizione, qualche volta alquanto artificiosa, delle immortali Stanze italiane. Bellissime sono le ultime parole della moribonda al marito, che osserva, atterrito, il pallore crescere di momento in momento sul volto dell'amata, la quale
Illius aspectu morientia lumina pascit,
e già si sente come rapire nell'altra vita:
.... Heu! nostro torpet in ore sonus;
Heu rapior! Tu vive mihi, tibi mortua vivam.
Caligant oculi iam mihi morte graves.
Questi pregi che il Poliziano ebbe sin dal principio, aumentarono sempre, come può vedersi, fra le molte altre, nella poesia in morte della bella Simonetta, e in quella stupenda sulle viole.[215] Leggendo questi versi, che sono più classici di quanti se ne scrissero prima dagli eruditi, il lettore qualche volta, quasi obliando sè stesso, crede di vedere il latino trasformarsi nel nuovo e più bel fiore della poesia italiana, la quale rinasce davvero sotto i suoi occhi. È ora infatti che la crisalide italiana rompe l'involucro [198] latino, dentro cui s'era lungo tempo nascosta, e comparisce finalmente alla luce del sole.
Il Poliziano resta immortale nella storia della letteratura italiana, come autore delle Stanze per la Giostra di Giuliano de' Medici, perchè esse incominciano addirittura il secondo e non meno splendido periodo della nostra poesia. Formano il principio d'un poema che non va oltre la quarantesimasesta ottava del secondo libro, restando interrotto, assai probabilmente, per la morte di Giuliano nella congiura dei Pazzi.[216] Esse sono però un lavoro di tal natura, che soffre assai poco da questa interruzione, mancandovi ogni unità, ogni materia epica, a segno tale che riesce in vero assai difficile argomentare come il poeta avrebbe potuto continuarlo e come finirlo. Il suo gran pregio sta tutto in una forma limpida, elegante, cristallina, d'una freschezza impareggiabile. L'ottava, osserva giustamente il Carducci, che era stata diffusa nel Boccaccio, stemperata nel Pulci, aspra ed ineguale in Lorenzo, acquista nel Poliziano unità, armonia, colore, varietà, quel carattere che poi ha sempre serbato. [199] Posto fra la letteratura originale, primitiva del Trecento, e quella più varia, raffinata, e pur sempre d'imitazione, che fiorisce nel Cinquecento, egli riunisce le grazie dell'una col vigore dell'altra, somigliando in ciò ai pittori del Quattrocento, che resero assai più gentile la pittura di Giotto, più perfetta la tecnica dell'arte, senza ancora cadere nel convenzionale, che comincia ben presto nel Cinquecento. Tutto questo però, non bisogna dimenticarlo, è vero solo per la forma; giacchè quanto alla sostanza il Poliziano non ha certo nè l'altezza o il vigore di Dante, nè la fantasia dell'Ariosto. Ma è una forma che può dirsi poesia essa stessa, e riproduce la natura con una eleganza inarrivabile. Le donne del Poliziano non sono così mistiche ed aeree come quelle di Dante, non così sensuali come quelle dell'Ariosto; hanno una delicatezza e dolcezza che innamora; ricordano il Lippi ed il Ghirlandaio. La bella Simonetta è nelle Stanze sensibile e visibile, ma non manca di bellezza ideale:
Ridegli attorno tutta la foresta,
. . . . . . . . . . . . . .
L'aer d'intorno si fa tutto ameno,
Ovunque gira le luci amorose.[217]
Il poeta non cerca che il vero, ma è un vero elegante, gentile sempre. Le immagini, liberate dal misticismo medievale, sembrano giovarsi della veste mitologica, in cui spesso le vediamo avvolte, per meglio fare indovinare le forme del corpo, dal quale non vogliono mai separarsi. La loro nudità apparisce di tratto in tratto splendida, quasi luminosa, per un classico smalto, ed una pagana freschezza tutta propria del Rinascimento. Ed invero, per citare anche un esempio d'altro autore, chi, dopo aver letto, nella Vita Nuova o nella Divina Commedia, la descrizione della Beatrice, sempre vicina [200] a trasformarsi nella teologia, legge la ben nota ballata d'Olimpo da Sassoferrato:
s'accorge subito della distanza, e capisce il mutamento che è seguito nello spirito italiano.
Il Poliziano sollevò i Rispetti o gli Strambotti del popolo a dignità nuova, con tal gusto e tale eleganza, «che primo forse in poesia,» dice il Carducci, «dette l'impronta dell'atticità ai fiorentinismi, e la finitezza dell'arte all'espressione famigliare.[219]» La ballata poi, che già nel Trecento aveva ricevuto una forma letteraria, e, così ingentilita, era rimasta nel popolo; che servì di modello alle molte laudi spirituali composte in tutto il secolo XV, ed anche a Lorenzo de' Medici, che seppe darle nuova forma letteraria, venne dal Poliziano sollevata fin quasi all'altezza dell'ode, senza che con ciò perdesse la sua primitiva semplicità.[220] Non mancano in queste liriche, allusioni sensuali, le quali ricordano che egli era compagno di Lorenzo: il Poliziano però non perdè mai il pudore, come spesso seguì al suo Mecenate. [201] Coll'Orfeo il Poliziano si provò anche nel dramma; ma è un dialogo che riesce qualche volta lirico, senza arrivar mai ad un vero conflitto di passioni. La poesia drammatica nasce tardi assai nella vita d'un popolo, quando cioè il suo spirito e la sua lingua sono arrivati ad una sana e vigorosa maturità. L'Italia v'era appena giunta, quando divenne preda degli stranieri, che distrussero le sue istituzioni e la sua indipendenza, la oppressero e travagliarono per modo, che le impedirono di trovar la via d'uscire, in questo genere essenzialmente nazionale, da quella imitazione latina, da cui s'era altre volte liberata.
Il Poliziano, poi che aveva un gusto assai fine e quasi greco, non poteva in nessun caso essere l'uomo capace di elevarsi alla vera altezza drammatica, creando il teatro che a noi mancava. Si capirà facilmente perchè il suo genio non potesse volare troppo alto, quando si pensi alla vita di cortigiano e d'adulatore che menava. Fa qualche volta sdegno il vedere come l'autore di versi tanto gentili, ne scrivesse altri pieni delle più basse adulazioni. Ciò non può scusarsi neppur col ricordare che pel suo Mecenate egli aveva un affetto veramente sincero e profondo. Era accanto a Lorenzo il giorno che scoppiò la celebre congiura dei Pazzi, e fu primo a chiudere la porta della sagrestia appena lo vide là dentro ricoverato. Quando Lorenzo tornò dal suo pericoloso viaggio di Napoli, egli lo salutò con bellissimi versi latini, che paiono d'un amante all'amata; e quando morì, lo pianse con parole di grandissimo dolore, seguendolo poco dopo nella tomba. Ma ciò non toglie che quando il poeta s'umilia dinanzi al suo protettore, chiedendo perfino abiti vecchi, si senta una profonda compassione, e si capisca che così non si sale mai alle maggiori altezze dell'arte.
La letteratura del Trecento era stata, può dirsi, esclusivamente toscana; quella del Rinascimento fu invece [202] nazionale. Gli eruditi infatti si trovano, come vedemmo, in ogni parte della Penisola, ed ora anche gli scrittori in lingua volgare cominciano a sorgere contemporaneamente e coi medesimi caratteri in diverse provincie. Così se dal Poliziano e da Firenze andiamo verso il Mezzogiorno, incontriamo Giovanni Gioviano Pontano. Nato a Cerreto (1426) nell'Umbria, si recò ben presto a Napoli, dove fu ministro ed ambasciatore di Ferdinando d'Aragona; lo accompagnò per tutto; lo consigliò negli affari più gravi di Stato, nei quali ebbe sempre parte principalissima; fu maestro di Alfonso II. A poco a poco divenne napoletano affatto, e può dirsi che meglio d'ogni altro rappresenti lo stato della cultura in quella Corte ed in quel tempo. Uomo d'affari, diplomatico accorto, ed uno dei più celebri eruditi, istituì l'Accademia Pontaniana, trasformando quella già fondata da Antonio Panormita col titolo di Porticus Antoniana. Scrisse un numero infinito di opere filosofiche, fisiche, astrologiche, politiche, storiche, sempre in latino. Ma in tutte queste opere si vede chiaro che l'erudizione era già vicina a subire una trasformazione. I trattati della Fortezza, della Liberalità, della Beneficenza, ecc., come pure quello del Principe, non sono altro che dissertazioni senza alcuna originalità, raccolte diffuse di sentenze morali. Le sue varie opere astrologiche riuniscono tutti quanti i pregiudizî del tempo, senza neppur tentare di fondarli su qualche pretesa teoria filosofica, come presumeva di fare il Ficino. — Il sole, cuore del cielo e dell'universo, è principio generatore delle cose. La costellazione del Cancro, che influisce sui corpi freddi, si dice casa della luna, perchè quando questo pianeta, di sua natura umido e freddo, si trova in quella costellazione, acquista maggiore efficacia. — Anche la sua storia della Guerra Napoletana tra Giovanni d'Angiò e Ferdinando d'Aragona, sebbene abbia una certa importanza, per essere scritta da un contemporaneo, è piena di digressioni inutili, si perde in [203] considerazioni astrologiche, e manca di critica.[221] Ma chi vuol conoscere davvero il Pontano, e scoprire dove è il valore de' suoi scritti, un valore tutto letterario, deve leggere i Dialoghi e le poesie latine, specialmente le liriche.
Qui si osserva subito lo stesso fenomeno che nel Poliziano: un gusto classico finissimo; uno stile lucido, evidente, spontaneo come di chi usa una lingua viva, perchè anche qui la nuova vita del latino nasce dall'innesto di esso col linguaggio parlato dall'autore, che però non è il fiorentino, ma un italiano napoletanizzato. Dal che deriva, per quanto sia grandissimo l'ingegno poetico del Pontano, una innegabile inferiorità di forma ne' suoi scritti, di fronte a quelli del Poliziano; l'atticismo toscano dà al latino di questo una greca eleganza che non si può del pari ritrovare nell'altro. Tuttavia è certo che anch'egli riesce mirabilmente nell'adoperare il latino ad esprimere il pensiero moderno, e dove non gli basta, latinizza parole italiane o napoletane, e va innanzi spedito come uno che parli la lingua imparata sin dalla cuna. Nei dialoghi, il Caronte, l'Antonio, l'Asino, che sono tutti lavori d'immaginazione, in elegante prosa latina, spesso interrotta da poesie bellissime, v'è una dipintura dei costumi napoletani, di feste popolari, di scene campestri e d'amore; una serie d'aneddoti pieni di brio tale, che par di leggere le pagine più belle del Boccaccio. La [204] festa del porcello a Napoli, l'indole delle città italiane, la corruzione dei preti a Roma, le dispute ridicole dei pedanti, e l'accanimento con cui perseguitano la gente, per una particella o un ablativo non adoperati secondo le loro regole, spesso fallaci, hanno una potenza descrittiva, una freschezza, una vis comica tali da far mettere il Pontano fra gli uomini di vero genio letterario. Egli scrive in latino, ma il suo spirito, il suo ingegno sono moderni, e le sue opere sono perciò un vero gioiello della letteratura italiana. Nel suo Antonius vediamo i Napoletani seduti all'ombra, motteggiare chi passa; il Pontano vivo parlante; un figlio che racconta le querele di casa; un poeta che, preceduto da un trombetto, sale, secondo l'uso napoletano del tempo, sopra un poggio a recitare la descrizione d'una battaglia, di tanto in tanto abboccando il fiasco di vino. Poi leggiamo l'ode di Galatea inseguìta da Polifemo, una delle sue più belle:
Dulce dum ludit Galatea in unda,
Et movet nudos agilis lacertos,
Dum latus versat, fluitantque nudae
Aequore mammae, etc.;
ed in mezzo a tutto ciò sempre un gusto squisito, uno spirito che s'inebbria, anche nella vecchiezza, in una voluttà sensuale ed artistica, uno scetticismo profondo che ride d'ogni cosa.
Nelle liriche si manifesta veramente tutto quanto il genio letterario dell'autore, e si vede più chiaro ancora che in quelle del Poliziano, l'immagine del Rinascimento. Le sue donne, dice il Carducci, denudano ridenti ogni loro bellezza in cospetto del sole e dell'amore. «E con quel suo riposato senso di voluttà e di sincero godimento della vita, il Pontano, in latino, è il poeta più moderno e più vero del suo tempo e del suo paese.»[222] [205] Leggendo le odi, è davvero mirabile il vedere come in quel suo latino egli si muova agile e felice, quasi navighi a seconda d'un fiume; e come il suo italiano napoletano cerchi infondere giovane sangue nel vecchio idioma, anche quando lo altera un po' troppo:
Amabo mea chara Fanniella,
Ocellus Veneris, decusque amoris,
Iube isthaec tibi basiem labella
Succiplena, tenella, mollicella,
Amabo, mea vita, suaviumque,
Face istam mihi gratiam petenti, etc.[223]
Egli ride e motteggia; canta la ninna nanna; s'inebria nella voluttuosa bellezza, fra le molli braccia delle Ninfe, che l'accolgono in riva al mare, in presenza della natura, in mezzo ai fiori. E questo è il suo mondo, il mondo del Rinascimento. Tutte le città, le ville, le isole dei dintorni di Napoli, le strade, le fontane, personificate in esseri fantastici, camminano, danzano intorno al poeta. Le Ninfe Posilipo, Mergellina, Afragola, Acerra, Panicocolis studiosa lupini, e Marianella che canta accompagnando Capodimonte,
et cognita bucellatis
Ulmia, et intortis tantum laudata torallis:[224]
tutte si muovono e vivono nella sua Lepidina.[225] Il Vesuvio, in forma di vecchio, discende dal monte sopra un asino per venire alla festa, e le donne lo circondano. A chi dà un anello da cucire, a chi un fusaiuolo, a chi [206] dice un motto, e tutte fanno a gara intorno a lui ed all'asino, per salutarli con alte e festose grida,
Plebs plaudit, varioque asinum clamore salutant,
Brasiculisque apioque ferum nucibusque coronant.
I medesimi pregi possono notarsi nei due libri degli Amori, negli Endecasillabi, nella Buccolica, e nel poema didascalico, L'Urania, in cui sono mirabili descrizioni della natura. Vi troviamo sempre un singolare impasto di due lingue, l'una viva e l'altra morta, nel quale ambedue sembrano rinascere; e questa varia e ricca unione d'immagini classiche, di bizzarrìe fantastiche, di splendide descrizioni della natura, di sentimenti moderni, tutto mescolato e tutto in fermento nella fantasia dell'erudito, che si trasforma in poeta, ci fa capire come la nuova letteratura nasca dall'antica, e come, in mezzo al mondo classico, con tanta cura evocato, possa sorgere il poema cavalleresco, che pare e non è una contradizione nel secolo degli eruditi.
Qui dovremmo accennare alle lettere politiche di Ferrante d'Aragona, che portano la firma anche del Pontano suo primo ministro, il quale ebbe certo una parte non piccola nel compilarle. Ma, oltre che è ben difficile il determinare con precisione qual fosse veramente questa parte, ci sarà data occasione di parlarne in luogo più opportuno. Per ora ci basti ricordare che anch'esse hanno rarissimi pregi: scritte con verità ed eloquenza, potrebbero stare fra le migliori nostre prose letterarie, se la loro forma italiana non fosse troppo alterata dal dialetto napoletano, che spesso aggiunge forza e naturalezza, ma non può giovare alla unità, nè alla eleganza della lingua.
Accanto al Pontano viveva un altro scrittore, che era nato nel Napoletano, che morì nella seconda metà del secolo XV, e del quale abbiamo un volume di novelle assai notevoli, massime se ricordiamo che quel genere, dopo [207] il Sacchetti, pareva quasi abbandonato. Uomo di mondo e non erudito, ma vissuto in mezzo alla erudizione, egli ci dice di aver voluto imitare, «il vetusto satiro Giovenale, e l'ornatissimo idioma e stile del famoso commendato poeta Boccaccio.»[226] Spesso invoca gli Dei immortali; e Mercurio eloquentissimo Dio gli ragiona degl'inganni fatti dalle donne «al sommo nostro padre Giove, e al radiante Apollo, a noi e agli altri Dei.»[227] Egli, come il Sacchetti, dichiara che vuol raccontare novelle «per autentiche istorie approbate, e certi moderni e altri non molto antichi travenuti fatti.»[228] La sua lingua è molto artificiosa, per la imitazione visibile del latino e del Decamerone; vi si mescolano in buona copia il dialetto napoletano ed il salernitano, che dànno grande vivacità, ma alterano l'italiano, e rendono sconnessa la grammatica di Masuccio, che era nato a Salerno. Il suo brio spontaneo, la sua verità ed evidenza sono tali, che egli sarebbe uno dei nostri classici, se la forma fosse meno scorretta. Tuttavia il suo Novellino, così com'è, ci dà una immagine fedele dei tempi e della Corte di Napoli. Con una grande conoscenza degli uomini e delle cose, con un animo che sembra assai schietto e buono, l'autore sa infondere vita ne' suoi personaggi; sa raccontare con la disinvoltura, la naturalezza ed il sorriso d'un vero scrittore del Rinascimento. Domina in lui un odio profondo [208] contro le immoralità dei preti, i quali egli sferza sanguinosamente, senza perciò essere punto avverso alla religione. Nell'Esordio alla terza novella, che è dedicata al Pontano, di cui esalta le virtù, le quali egli dice macchiate solo dal conversare che esso fa continuo con preti, frati e monache, «atteso che con loro non altro che usurai e fornicatori e omini di mala sorte conversare se vedono.» Tutto ciò non ci maraviglia molto in uno scrittore che viveva nella Corte degli Aragonesi, la quale fu di continuo in guerra coi Papi, ed aveva accolto e protetto Antonio Panormita e Lorenzo Valla. Il vedere però dedicato ad Ippolita, figlia di Francesco Sforza e giovane sposa d'Alfonso II d'Aragona, un libro di novelle assai spesso molto oscene, alcune delle quali sono anche dedicate in particolare a qualche nobile donna, reca certo grande maraviglia, ma è pure un altro segno dei tempi.
Dai Dialoghi del Pontano e dalle Novelle di Masuccio non occorre un gran salto per passare ai poemi cavallereschi, un altro dei generi di letteratura proprî di questo secolo. Veramente erano nati in Francia, e parrebbero in tutto contrarî al genio nazionale dell'Italia. La Cavalleria s'era infatti poco o punto diffusa tra noi; il feudalismo era stato combattuto ed in grandissima parte distrutto; alle Crociate avevamo preso una parte secondaria; Carlo Magno, eroe nazionale della Francia, era fra noi un principe straniero e conquistatore. E questi sono tutti elementi sostanziali, per la formazione del poema cavalleresco. Lo scetticismo religioso, cominciato assai presto in Italia, contrastava anch'esso coll'indole di poemi fondati principalmente sulla guerra dei Cristiani contro gl'Infedeli. Ed il maraviglioso che ne costituisce l'essenza, neppure era adatto all'indole degl'italiani, ammiratori sempre della bellezza classica. Passati da uno stato di decadenza ad una nuova forma di civiltà, essi non avevano avuto la selvaggia e vigorosa [209] giovanezza, in mezzo alla quale era stato creato quel mondo d'eroi, le cui avventure impossibili, i cui caratteri fantastici si mutano e confondono continuamente fra loro. Tuttavia questi poemi francesi, come si diffusero rapidamente in tutta l'Europa feudale, così vennero anche fra noi, e si propagarono assai più largamente che non si crederebbe.
Prima ancora che sorgesse la nostra letteratura, quando nel Settentrione d'Italia molti scrivevano provenzale o francese, avemmo una serie di poemi cavallereschi, compilati da Italiani in un francese italianizzato o in un italiano infranciosato. Nel Mezzogiorno, invece, quei racconti furono portati dai Normanni, e nel Centro della Penisola si diffusero per mezzo di scritti italiani e di poeti vaganti. Ma quegli eroi, nati e cresciuti in una nebbia fantastica, che non era punto adatta alla nostra indole, trovarono fra noi, specialmente nell'Italia centrale, un terreno poco favorevole, e quasi si dileguarono dalla nostra letteratura, per rifugiarsi nelle capanne del contado o nei tugurî del popolo, quando sorse sull'orizzonte il sole della poesia di Dante. In molti lavori del Boccaccio, nei Trionfi del Petrarca, anche nella Divina Commedia, troviamo spesso reminiscenze, che riconfermano come quei poemi fossero sempre assai diffusi nel popolo. Paolo e Francesca ricordano nell'Inferno la lettura che, nei tempi felici, avevano fatta insieme degli amori di Lancillotto; e quando il Sacchetti racconta del fabbro che sciupava, nel recitarli, i versi di Dante, dal quale veniva perciò aspramente rimproverato, egli aggiunge: e così, se volle, dovè invece cantare di Tristano e di Lancillotto: segno evidente che questi racconti erano allora giudicati più adatti alla fantasia popolare anche in Firenze. Quando poi i dotti cominciarono a scrivere in latino, i poemi cavallereschi sembrarono risorgere fra noi da un temporaneo letargo, ed insieme coi Rispetti, gli Strambotti, le Canzoni, le Laudi e le Rappresentazioni, [210] fecero parte di quella letteratura che, come già vedemmo, fu chiamata popolare. Così largamente e così profondamente infatti si diffusero, che ancora oggi il cantastorie napoletano racconta d'Orlando e di Rinaldo ad un popolo estatico, e nella campagna toscana i Maggi, che si rappresentano la primavera, dinanzi ai contadini, pigliano dai medesimi poemi i loro soggetti. Alcuni di questi Maggi e di questi racconti sono composizioni recenti; ma altri non pochi sono addirittura del secolo XV. Allora se ne scrisse un numero sterminato, ed erano letti con l'avidità stessa, con cui oggi si leggono i romanzi. Gl'Italiani non creavano nuovi poemi, nè ripetevano materialmente gli antichi; ma di questi facevano compilazioni in verso o in prosa, e più in prosa che in verso, spesso molti riunendone in uno, e formando così come grandi repertorî di novelle fantastiche, che i cantastorie, il più delle volte essi stessi autori, andavano leggendo al popolo delle città e delle campagne, che li ascoltava con insaziabile avidità. La così detta Cronaca di Turpino, ed in generale il ciclo di Carlo Magno forniscono la materia principale dei racconti italiani; ma il ciclo del re Arturo e della Tavola Rotonda vi ha pure una grandissima parte.
Il più grande di questi compilatori, che può bastare a darci un'idea degli altri, visse nella seconda metà del secolo XIV e nella prima del XV. Egli è Andrea dei Mangabotti da Barberino in Val d'Elsa, che chiama Firenze la mia città, perchè colà visse e fu educato. Di un'attività senza pari, scrisse non solo i famosi Reali di Francia in sei libri, ma ancora l'Aspromonte in tre libri, la Storia di Rinaldo in sette, la Spagna in uno, la Seconda Spagna in uno, le Storie Narbonesi in sette, Aiolfo in un libro lunghissimo, Ugone d'Avernia in tre, e finalmente Guerino il Meschino, che, sebbene continui i fatti narrati nell'Aspromonte, forma un lavoro a sè, la cui popolarità, di poco inferiore a quella dei Reali, dura [211] anch'oggi. Tutti questi lavori sono scritti in prosa, salvo alcune parti dell'Ugone d'Avernia.
L'autore s'era proposto di raccogliere e coordinare la gran moltitudine dei racconti, che fanno parte del ciclo di Carlo Magno. E così nei Reali, che son sempre la sua opera principale, compilò la storia della stirpe del grande Imperatore, senza però fare nè una vera storia, nè un vero romanzo cavalleresco. Egli vuol mettere nesso e precisione là dove era confusione deplorabile, corregge la geografia, ordina le genealogie, ma perde con ciò la ingenuità popolare e l'originalità poetica. Sembra che quel realismo italiano tanto ammirato nelle novelle, che restan sempre il racconto più proprio e nazionale della nostra letteratura, predomini anche qui, ed alteri il poema, formando un lavoro che non è certo senza merito, ma di un genere ibrido. Noi qui non abbiamo veramente nè poesia popolare, nè poesia letteraria, ma piuttosto una materia epica, che si va trasformando, e cerca una forma nuova, senza ancora trovarla. Il linguaggio parlato si mescola colle reminiscenze classiche, familiari allora a tutti gl'Italiani; la narrazione ha una riposata solennità quasi liviana, e l'autore vuol riunire dentro i confini d'una macchina ideale ben disegnata e determinata, una miriade di racconti originariamente germogliati con la ricchezza esuberante e disordinata d'una foresta vergine.[229] Queste qualità degli scritti del Mangabotti sono [212] comuni a quelli di centinaia d'altri compilatori in verso o in prosa.
Da quanto abbiamo detto fin qui risulta chiaro, che il giorno in cui i nostri letterati ricominciarono a scrivere in italiano, e, stanchi della retorica di poemi come la Sforziade e la Borseide, s'avvicinarono al popolo, trovarono in mezzo ad esso diffusi, insieme coi Rispetti e le Ballate, racconti come i Reali di Francia, in verso o in prosa. Si diedero allora a rifare anche questi, provandosi a renderli vere opere d'arte. Lasciarono inalterata la macchina generale della narrazione; la divisione in canti; le ricapitolazioni in principio d'ognuno di essi, indirizzate agli «amici e buona gente» dal poeta del popolo, che di ogni canto era costretto a far come un lavoro indipendente. Anche questi nuovi scrittori usavano leggere a brani i loro racconti, non in piazza, ma nelle Corti, nei desinari dei signori, a gente culta, che però voleva divertirsi, ed era stanca della vuota solennità degli eruditi. Spesso i cambiamenti che portavano nel riscrivere quelli che ora chiameremo anche noi poemi popolari, si restringevano solo a ritoccarli, correggerli, ravvivarli nella forma, aggiungendovi nuovi episodî, nuove descrizioni, qualche volta interi canti. In questo ritoccarli però stava l'arte, che infondeva vita là dove mancava, ed arrivava così ad una creazione nuova ed originale.
I personaggi si staccavano dal fondo ancora fantastico e nebuloso, nel quale erano confusi, per divenire vivi e veri; le descrizioni della natura spiravano come un'aura di primavera, avevano un'insolita fragranza; e quelle [213] parti che restavano inalterate nella loro prima e più rozza forma, facevano meglio risaltare la verità, quasi direi, la giovinezza di tutto ciò che veniva presentato sotto nuovo aspetto, animato di nuova vita. Era quasi una improvvisa ribellione contro ogni retorica convenzionale, contro ogni vincolo artificiale; lo spirito italiano si sentiva come chi ritorna a respirar l'aura fresca dei campi e dei monti, dopo essere stato lungamente rinchiuso in un'atmosfera divenuta insalubre. Cercare in questi poemi profondità di sentimenti, uno svolgimento logico di caratteri, un disegno generale e filosofico, è cercarvi quello che non può e non deve esserci. L'autore anzi disordina a bella posta la narrazione monotona de' racconti che trova già compilati, confonde e ricompone a capriccio le fila intricate della vasta tela, per meglio tener desta la curiosità del lettore. L'importante per lui è che egli sia padrone de' suoi eroi, e che essi appariscano sempre ben definiti e vivi nel momento in cui li chiama sulla scena. Egli cerca un ideale diverso dal nostro; non vuole scendere nelle profondità del cuore umano; vuole ritrarre la mutabile realtà di tutto ciò che fugge, passa e si vede. Se torna di continuo a nascondere nel fantastico fondo del quadro i suoi personaggi, ciò è solo per meglio illuderci, per farcene meglio ammirare la verità e realtà, quando di nuovo li avvicina a noi, presentandoli quasi come quei putti del Correggio, che spingono innanzi la testa di sotto a un bosco di fiori, o come quelli che sulle pareti del Vaticano sembrano muoversi fra un laberinto d'eleganti rabeschi. Così segue che, sebbene ci parli continuo di mostri, di fate, d'incantesimi, di bevande prodigiose, la sua narrazione ha pur tale verità, che crediamo leggere la storia d'avvenimenti reali. È però ben naturale, che in questo stato di cose, un perenne sorriso apparisca sulle labbra dell'autore, rallegrato egli stesso dalla illusione e dalla maraviglia che desta ne' suoi lettori, dei quali sembra pigliarsi giuoco, per poi dominarli [214] e commuoverli ancora più profondamente. S'ingannano coloro che vogliono in tutto ciò vedere una satira o una ironia profonda. Credere sul serio a questi personaggi il poeta stesso non può; a lui basta d'esprimere nel suo racconto tutta la varia vicenda della vita, tutte le contradizioni che sono nel suo spirito, in un secolo così pieno d'elementi diversi e cozzanti fra loro; di rapire e di essere rapito dalle proprie creazioni. La sua fantasia, uscita dalle convenzioni classiche ed artificiali, ha finalmente ritrovato tutta la propria libertà nel mondo fantastico in cui sola comanda. Si richiede quindi un temperamento artistico, per gustare tutto il valore di questi poemi, che si godono anche meglio leggendoli a brani, come li avevano letti al popolo i cantastorie, e come li lessero ai loro protettori o amici il Pulci, il Boiardo e l'Ariosto.
Il primo che fra questi poemi possa veramente chiamarsi un'opera d'arte, è il Morgante Maggiore del fiorentino Luigi Pulci, nato nel 1431. Questo lavoro è un rifacimento d'altri più antichi. I primi ventitrè canti riproducono, ora più ora meno fedelmente, uno di quei poemi che i cantastorie leggevano al popolo, ed in esso si narravano le avventure d'Orlando. Gli ultimi cinque raccontano, invece, la rotta di Roncisvalle, e sono rifacimenti di altre due compilazioni popolari, intitolate La Spagna. Tra l'una e l'altra parte del Morgante passano venticinque o trenta anni; sicchè i personaggi che nella prima erano giovani, sono nella seconda divenuti vecchi, cosa della quale l'autore non si dà gran pensiero.[230] Nè egli si perita punto, specialmente nella prima parte, di [215] andare così fedelmente dietro al suo modello, correggendone o modificandone appena le ottave, da sembrare un vero plagiario.[231] Tuttavia sono questi semplici e leggerissimi tocchi di mano maestra, quelli che mutano un'opera volgare in un'opera d'arte, dànno ai personaggi vita e rilievo, lasciano da parte gli artifizî retorici, per condurci [216] in presenza della natura. Di tanto in tanto però egli abbandona affatto il suo originale, e abbiamo, per esempio, le 275 ottave che narrano l'episodio di Morgante e di Margutte, in cui risplendono tutto lo spensierato scetticismo e la ricca fantasia e la mordace ironia del Pulci.[232] Questo poema, che ad ogni passo rompe il filo principale della narrazione, sembra ritrovare la propria unità solo nella sempre chiara, definita, evidente precisione de' suoi varî ed inesauribili episodî. È un singolare turbinìo d'eventi: scene pietose, ridicole, maravigliose, allegre. Gli elementi che formavano la cultura di quel secolo, Paganesimo e Cristianesimo, scetticismo e superstizione, ironia ed entusiasmo artistico per le bellezze della natura, coesistono tutti, e senza bisogno di sforzo per mettersi d'accordo, sembrano essere in armonia fra loro, perchè il solo scopo del poeta sta nel riprodurre la irrequieta mutabilità degli eventi nella natura e nella realtà della vita. Il Pulci è un impareggiabile novellatore; la sua ironia cade, come quella dei novellieri, sui preti e sui frati, qualche volta anche sulla religione stessa,[233] ma sempre in modo da far poi capire che egli non vuol punto rinnegarla, intende anzi rispettarla. L'antichità non gli è ignota, e penetra nel suo lavoro, quantunque [217] manchi nell'originale che egli imita; la sua musa è, nonostante, essenzialmente popolare:
Infino a qui l'aiuto del Parnaso
Non ho chiesto nè chieggo....
Io mi starò tra faggi e tra bifulci,
Che non dispregin le muse del Pulci.
La sua forma è difatti così popolare, che spesso manca di lima, e quando si scolorisce, non cade mai nel retorico, ma piuttosto nel volgare. La spontaneità di questa forma ha più di tutto contribuito alla fama del Morgante, scritto a richiesta di Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo dei Medici, alla cui tavola veniva letto, nelle fuggevoli ore dei lieti desinari.
Il Pulci, che rideva sempre, passò pure giorni molto tristi, perchè il fallimento di suo fratello Luca involse anche lui. Nè gran fatto gli valse l'amicizia di Lorenzo, di cui era intimo ed affezionatissimo, perchè restò sempre, anche nella più grande familiarità, un cortigiano protetto. L'aiutava invece un'indole allegra che mai non si smentiva. Lontano da Firenze, per non cadere in balìa di creditori ai quali egli personalmente nulla doveva, nelle sue lettere a Lorenzo si doleva dell'infausta stella, che lo aveva destinato ad esser sempre preda degli altri. «Pure i ribelli, ladri, assassini ho visto a' miei giorni venire costì, essere uditi, avere qualche termine al morire.» Solo a me tutto è negato, nulla concesso. «Se mi sforzeranno a questo modo, senza udire la mia ragione, io verrò costì in su la fonte a sbattezzarmi, dove [218] fui in maledetta ora e punto e fato et augurio indegnamente battezzato, che certo io ero più tosto destinato al turbante che al cappuccio.»[234] E prometteva che quando sarebbe nella Mecca, manderebbe a Lorenzo versi in lingua moresca, e dall'inferno gliene manderebbe altri per mezzo di qualche spirito.[235] «Non permettere,» gli diceva poi, «nel colmo della tua felicità, che i tuoi amici siano come cani ributtati e straziati. Io però ho paura che quando non mando versi, tutto quello che ti scrivo in prosa, venga da te mal volentieri letto e subito gettato via.»[236] Lorenzo era sempre lo stesso uomo, proteggeva tutti, ma non aveva gran cuore per nessuno, neppure per quelli che come il Pulci erano stati suoi compagni d'infanzia, e lo amavano quale fratello. Più tardi però l'autore del Morgante fu da lui inviato a trattare presso le Corti d'Italia faccende di qualche gravità, ed anche allora le sue lettere non smentiscono punto l'indole propria dell'autore, paiono anzi più di una volta brani del suo poema ridotti in prosa.
Il 20 maggio 1472 scriveva da Fuligno, come era stato in Roma «a visitare la figliuola del dispoto della Maremma, volsi dire della Morea.... Descriverò adunque brevemente questa cupola di Norcia, anzi questa montagna di sugna, che noi visitammo, che non credevo ne fussi tanta nella Magna, non che in Sardigna. Noi entramo in una camera, dove era parato in sedia questo berlingaccio, et avea con che sedere! almeno ti prometto.... Due naccheroni turcheschi nel petto, un mentozzo, un visozzo compariscente, un paio di gote di scrofa, il collo tralle nacchere. Due occhi che sono [219] per quattro, con tanta ciccia intorno e grasso e lardo e sugna, che 'l Po non ha sì grandi argini.»[237] Questa forma tutta popolare è nelle poesie del Pulci assai più ne' suoi sonetti, che correggono la maniera troppo volgare e spesso anche plateale del povero barbiere Burchiello, nella cui bottega, secondo che egli stesso ci dice,
La poesia combatte col rasoio.
Il Pulci scriveva allora gareggiando con Matteo Franco, col quale scambiava ogni sorta di piacevolezze, di oscenità, d'insolenze, per mero passatempo, riducendo i sonetti ad una specie di dialogo in versi, cercando e trovando quella spontanea semplicità, divenuta ora il bisogno irresistibile della nuova letteratura.[238]
A questi facili scrittori di sonetti popolari, che al loro carattere comico, buffo e satirico univano quel gergo toscano [220] proprio del Burchiello, se ne potrebbero aggiungere altri non pochi. Ricorderemo solo il più noto fra di essi, Tommaso Cammelli, che fu chiamato il Pistoia, dalla città dove nacque (1440), in assai umile condizione. A lui disse la musa:
Di tutto quel che vedi fai sonetti.
E continuamente ne scrisse, continuamente tutti gliene chiedevano, in ogni più futile occasione,
Come s'io avessi i versi in un sacchetto.
In questi sonetti il Pistoia descrive i particolari più minuti, più insignificanti, spesso anche più indecorosi della sua vita vagabonda e misera. Noi lo vediamo percorrere le varie Corti d'Italia, andare da Ferrara a Mantova, da Mantova a Milano, altrove, facendo più o meno il poeta cortigiano e buffone, attaccando gli emuli, ridendo di tutto e di tutti, lamentando la sua miseria, questuando, lodando coloro da cui spera danaro o protezione, per schernirli poi quando la ruota della fortuna gira contro di essi. Quello che dà a lui una speciale importanza, e costituisce l'indole propria de' suoi sonetti, è che egli ci ha in essi lasciato quasi un gazzettino politico dei tempi in cui visse, ricordando, giorno per giorno, tutto ciò che avveniva in quegli anni fortunosi davvero per l'Italia. Il Papa e i Cardinali, Carlo VIII e i Francesi, Firenze, il Savonarola, i Medici, Pisa, Venezia, i re di Napoli, tutti sono ricordati, per essere lodati quando si trovano in alto, derisi, sferzati quando cadono in basso. E sebbene queste sue descrizioni o piuttosto rapidi accenni [221] riescano qualche volta assai vivi, sì che la desolante miseria d'Italia, che egli pur freddamente deplora, apparisce evidente, tuttavia, in mezzo a tante sventure, ad una catastrofe che avvolge e trascina la intera Penisola, di rado esce dal suo petto un accento di vero, profondo dolore, una scintilla di nobile, alta poesia. Egli è stato definito quale anello di congiunzione fra il Burchiello ed il Berni. Se però il suo riso è la manifestazione d'uno spirito arguto e satirico, che vede sempre il lato comico della vita, quel ridere continuo, anche quando vi sarebbe materia di pianto, disgusta. Troppo spesso v'è nei suoi versi qualche cosa di cinico e degradante, che opprime. Il Pistoia è un poeta popolare, che frequentando le Corti, ne ha preso tutta la corruzione, senza quella raffinatezza di modi e di forme, che, esteriormente almeno, la correggeva.[239]
Per comprendere quanto più basso da quel che era stato una volta, fosse moralmente e politicamente disceso lo spirito italiano, basterebbe paragonare i versi del Pistoia con quelli d'Antonio Pucci, il poeta popolare del secolo XIV. Animato sempre dalla speranza che 'l giglio di Fiorenza avanzi, questi cantava,
A morte e struggimento de' tiranni,
Che consumati ci hanno già è più anni.
E quando il Duca d'Atene venne a furor di popolo cacciato, egli scriveva una sua ballata, in cui, pieno di gioia, esclamava:
Viva la libertà
Ch'ha rinfrancato il Comun di Fiorenza![240]
[222]
Di questa libertà, che andava ad irreparabile rovina, importava assai poco al poeta cortigiano Pistoia.
Ma anche nel secolo XV assai diverso da lui fu Matteo Maria Boiardo, che nacque poco dopo di Luigi Pulci, e del quale tre città si contesero l'onore d'essere state la culla. Questa disputa sorse probabilmente perchè egli, di famiglia reggiana, nacque a Scandiano, e fu educato a Ferrara.[241] Scrittore erudito di egloghe latine, di liriche italiane affettuose e gentili, traduttore dal greco, era un nobile signore ed un nobile carattere; viveva presso gli Este, ma non amava punto la vita di Corte, perchè, come egli stesso scriveva,
Ogni servir di cortigiano
La sera è grato e la mattina è vano.
Fu governatore di Modena e poi di Reggio-Emilia; ebbe altri ufficî importanti; ma sebbene li adempiesse tutti con onore, la sua testa, più che alla politica o all'amministrazione, era vòlta a pensare, a fantasticare di eroi e di racconti cavallereschi. Narrano che, vagando un giorno pei campi, si stillasse il cervello cercando il nome da dare ad uno de' suoi eroi, quando a un tratto gli venne in pensiero di chiamarlo Rodomonte, e la sua allegrezza allora fu tale, che tornò correndo a Scandiano, per farvi sonare a distesa tutte le campane. Credeva sinceramente nella cavalleria, e sperava vederla di nuovo fiorire in Italia. Compose la tela del suo poema, valendosi di racconti che appartenevano a cicli diversi. Grande ammiratore della Tavola Rotonda, cogli eroi di Carlo Magno mescolò quelli di Artù, che secondo il Boiardo, era più grande, perchè non aveva come Carlo il cuore chiuso alla passione d'amore, sorgente d'ogni grandezza. Il suo Orlando [223] infatti è l'eroe d'una virtù che trova nell'amore la prima origine e l'ultimo compenso. Molti episodi sono di sana pianta creati da lui, che ingenuamente credeva e viveva nel mondo evocato dalla propria fantasia, il che forma ad un tempo il suo pregio ed il suo difetto. Egli riesce più sincero e più affettuoso; ma il raccontare seriamente e senza alcuna ironia, avventure impossibili, lo rende necessariamente meno moderno del Pulci. Questi scolpisce assai meglio la individualità de' suoi personaggi; il Boiardo invece descrive meglio il turbinìo generale dei fantastici eventi, con i quali però i suoi eroi s'immedesimano per modo da annebbiare qualche volta la precisione de' loro lineamenti. Troppo spesso bevande incantate ridestano o spengono l'amore, armi incantate dànno la vittoria o la morte. Il Pulci cerca la realtà psicologica anche in mezzo agl'incantesimi; il Boiardo anche in mezzo alla realtà invoca il fantastico ed il soprannaturale. Ma in compenso di ciò v'è sempre ne' suoi eroi e nel suo poema qualche cosa di nobile e di generoso, che manca negli altri. Egli loda ed ammira sinceramente la virtù, esalta il conforto che viene agli animi nobili dall'amicizia:
Potendo palesar l'un l'altro il core,
E ogni dubbio che accada raro o spesso,
Poterlo ad altrui dir come a sè stesso.[242]
Non mancano certo neppur qui sensualità e scherzi osceni; son cose che si trovano nel poema, perchè sono nella vita. E il dare una importanza eccessiva all'amore, come sorgente d'ogni virtù, è prova del secolo in cui il poema fu scritto. In questo è però sempre un fondo di serietà morale, che dà una singolare elevatezza alla nobile parola del Boiardo, massime se si pone a confronto col continuo ridere e sorridere di tutto, che domina [224] negli altri. È un mondo pieno di varietà, d'immaginazione, di affetto; ed in esso il poeta vive e s'illude. Ma pur troppo questa illusione doveva durar poco. Invano egli diceva:
E torna il mondo di virtù fiorito;
chè invece ogni cosa precipitava a rovina. Ben presto dovette avvedersene egli stesso; ed alla fine del secondo libro, la sua malinconia si tradisce:
Sentendo Italia di lamenti piena,
Non che ora canti, ma sospiro appena.
Ripigliò di nuovo il lavoro, e giunse al punto in cui per l'arrivo d'Orlando viene impedito ai Saraceni d'entrare in Parigi. Allora, poco prima della sua morte, che seguì la notte dal 20 al 21 dicembre 1491, i Francesi passarono le Alpi, e la penna gli cadde per sempre di mano, restando interrotto il filo del racconto con quella celebre ottava che comincia:
Mentre ch'io canto, oh Dio redentore!
Vedo la Italia tutta a fiamma, a foco.
Per questi Galli che con gran furore
Vengon per disertar non so che loco....
Sebbene i pregi dell'Orlando Innamorato sieno molti, tali in fatti che il Berni si pose a riscriverlo sotto altra forma, e l'Ariosto lo continuò nel suo Orlando Furioso; pure la mancanza di lima, e quindi una lingua non sempre correttissima, spesso troppo ferrarese, impedirono che divenisse popolare davvero, ed acquistasse quella fama che pur meritavano l'ingegno ed il carattere dell'autore, a cui faceva difetto l'atticismo toscano. Egli era un erudito così profondamente immerso nel suo mondo fantastico, che quando si presentavano a lui le immagini e gli eroi dell'antichità, per renderli più evidenti, li paragonava [225] a quelli della Cavalleria, nella quale si sentiva come più a casa sua.
L'Ariosto, nato a Ferrara dove il Bojardo era stato educato, fu il primo che sapesse superare tutte quante le difficoltà del non essere toscano, e con lui la nostra lingua potò dirsi finalmente italiana. Con una lima paziente, dotato veramente del genio della forma, giunse con l'arte ad una spontaneità meravigliosa, ed aprì la via a coloro che lo seguirono. Non erudito com'era il Boiardo, ignaro del greco, aveva però molto più vivo il sentimento della bellezza classica. Al contrario di ciò che soleva fare il suo predecessore, aveva bisogno di paragonare gli eroi cavallereschi ai personaggi del mondo pagano. I suoi cavalieri erranti hanno il senno di Nestore, l'astuzia d'Ulisse, il coraggio d'Achille; le loro donne son belle come se Fidia le avesse scolpite, hanno la voluttà di Venere, il senno di Minerva. Egli torna di continuo al suo Virgilio ed al suo Ovidio; ma, come osserva il Ranke, sembra tornarvi per ricondurli, colla potenza della sua fantasia, al primitivo Omero. Simile assai più al Pulci che al Boiardo, non si occupa molto di cercare l'intreccio, l'insieme, l'unità degli avvenimenti; ma vuol ritrarre invece i fuggevoli momenti della mutabile realtà, e descrivere le passioni individuali. I fatti della sua vita e del suo tempo s'introducono nel poema sotto forme abbastanza visibili, e qualche volta si crede vederli anche là dove non sono, tale e tanta è l'evidenza che il poeta sa ritrovare. Perciò se l'Orlando Furioso continua il racconto dell'Orlando Innamorato, letterariamente si connette invece col Morgante del Pulci, che si può chiamare il creatore del genere, quantunque tanto si giovasse de' suoi precursori.
Ma l'Ariosto è già fuori del periodo di cui ci siamo finora occupati: dobbiamo dunque fermarci. Osserveremo tuttavia per concludere, che sino dai tempi della Divina Commedia e del Decamerone, la letteratura italiana aveva [226] cominciato col liberare lo spirito umano dalle nebbie medievali, riconducendolo alla realtà. Nella poesia e nella prosa aveva sempre cercato l'uomo e la natura. Fermatasi nel suo cammino, a cagione del disordine politico e della decadenza sociale, che sovvertì ogni cosa nel secolo XIV, essa chiese aiuto all'antichità, per poter continuare nell'antica sua strada. E così, dopo la metà del secolo XV, noi vediamo ricomparire anche più chiaro lo stesso realismo, non solamente nelle lettere, ma nelle scienze, nella società, nell'uomo. Il bisogno infatti di studiare e conoscere il mondo, liberandosi dai vincoli di ogni autorità, di ogni pregiudizio, creò la nuova letteratura e la nuova scienza, iniziò il metodo sperimentale, spinse ai più arditi viaggi, rianimò quasi di una seconda vita tutto quanto lo spirito italiano. Fatto meraviglioso, perchè seguiva in mezzo al più profondo sconvolgimento della società, la quale, corrompendosi e decadendo, faceva germogliare i grandi elementi della cultura moderna.
Allora, come fu giustamente osservato, sembrava che fosse nella società italiana scomparso ogni distinzione di classe e di sesso: i Mecenati e i loro cortigiani, discorrendo di lettere o di scienze, si trattavano come uguali, e si davano del tu; la donna studiava il latino, il greco, la filosofia, e qualche volta governava gli Stati, accompagnava, armata, in campo i capitani di ventura. A noi oggi reca grande meraviglia, quasi profondo disgusto, quando sentiamo i più osceni discorsi fatti in quel secolo alla presenza, non solo di culte matrone, ma anche d'ingenue fanciulle; quando sentiamo ragionar di politica come se la coscienza non esistesse. Ma l'uomo del Rinascimento credeva che si potesse dire, esaminare e descrivere senza scrupoli, tutto quello che si osava fare. E ciò non era sempre effetto della sua corruzione, ma spesso invece conseguenza del suo realismo, bisogno di uno spirito osservatore ed indagatore. Egli sembrava vivere [227] in una calma olimpica, sempre padrone di sè, sempre col sorriso ironico sulle labbra; ma era una calma apparente. Egli in realtà soffriva per la disarmonia interiore del suo animo, per la mancanza d'ogni equilibrio fra il vuoto del cuore e l'attività febbrile della mente, la quale pareva qualche volta che delirasse come in una ebbrezza inconsapevole. I rottami del mondo medievale che l'uomo del Rinascimento aveva distrutto, e quelli dell'antichità che aveva disseppellita, cadevano intorno a lui e su di lui prima che egli avesse trovato il principio generatore d'un mondo nuovo, e potesse convertire in propria ed organica sostanza tutti gli avanzi del passato.
Sia che gl'Italiani, dopo aver create le grandi unità dell'Impero romano e del Cattolicismo, fossero divenuti incapaci di creare una società nuova, fondata solo sul libero individualismo moderno, a cui pure avevano aperto la via, anzi lo avevano con l'opera loro formato; sia che le invasioni straniere li avessero fermati nel mezzo del cammino, certo è che paiono spesso come smarriti e incerti di loro medesimi. Abbandonano ogni fede in Dio, ma credono nel fato e nella fortuna;[243] disprezzano la religione, e studiano con ardore le scienze occulte. Quasi ogni repubblica, ogni principe, ogni capitano di ventura aveva il suo astrologo, a cui chiedeva l'ora propizia per firmare un trattato, cominciare una battaglia. Cristoforo Landino e Battista Mantovano tiravano l'oroscopo delle religioni; il Guicciardini ed il Machiavelli credevano negli spiriti aerei; Lodovico il Moro, che aveva una fede [228] illimitata nella propria prudenza, non osava muovere passo senza consultare l'astrologo. La ragione che voleva tutto spiegare, si trovava invece di fronte alla propria impotenza.
Il sentimento del bello si direbbe che fosse allora l'unica e più sicura guida della vita umana, la quale sembrava cercasse immedesimarsi coll'arte. Nel Cortegiano del Castiglione vediamo fino a qual punto il gentiluomo del secolo XVI poteva, per questa via, ingentilire e nobilitare sè stesso; ma vediamo ancora che debole fondamento aveva la sua morale coscienza. La virtù, quando non risulta in lui da un felice temperamento, viene cercata solo perchè gentile e graziosa ed elegante, come dice il Pandolfini. Grandi, invero, dovettero essere le qualità dell'ingegno e anche del carattere degl'Italiani, se in mezzo a così profonda incertezza, essi non solamente non rovinarono affatto, ma spinsero poderosamente innanzi la scienza, l'arte, la società umana. Del resto, fu quello un periodo di transizione, che mal si può giudicare nella sua irrequieta mutabilità, se non si esamina come conseguenza del passato, e preparazione necessaria dell'avvenire. Ad un tratto le invasioni straniere soffocarono ogni vita politica fra noi, ed il Rinascimento italiano restò come istantaneamente petrificato dinanzi ai nostri occhi, con tutte le sue incertezze, le sue contradizioni. E forse perciò appunto riesce materia di grande insegnamento per noi. In esso vediamo infatti assai chiara la notomia del passato che si trasforma, scorgiamo le origini della società moderna, impariamo a conoscere i primi germi di molti fra i nostri presenti difetti nazionali.
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Più il secolo XV s'avvicinava alla sua fine, e più si vedeva inevitabile la catastrofe da molti anni già preveduta. Quando Galeazzo Maria Sforza fu pugnalato a Milano (1476), il figlio Giovan Galeazzo non aveva che otto anni, e però la madre Bona di Savoia assunse la reggenza. Ma i fratelli del marito defunto cospiravano contro di lei, e finalmente Lodovico il Moro, che aveva titolo di duca di Bari, ed era il più furbo ed ambizioso di essi, s'impadronì del governo. Prima separò la Duchessa dal suo fedel consigliere Cicco Simonetta, che fu messo a morte;[244] poi separò la madre dal figlio, che aveva solo 12 anni, e che s'indusse ad eleggere per suo tutore, con pubblico strumento, il proprio usurpatore (1480). La Duchessa andò via, ed il Moro restò di fatto signore di Milano; ma sempre in mezzo a mille pericoli, perchè non riconosciuto da nessuno. Nel 1485 sfuggì a mala pena al pericolo minacciato di una congiura ordita contro di lui. Nel 1489 Giovan Galeazzo, che aveva già ventun anno, sposò Isabella d'Aragona, figlia d'Alfonso duca di Calabria; e così in parte per la cresciuta età, in parte [230] per le impazienze della moglie, che cercava e sperava aiuti dal re di Napoli suo avo, lo stato delle cose diveniva assai pericoloso. Nel 1491 Lodovico il Moro sposava Beatrice d'Este, ed allora le gelosie donnesche inasprirono sempre più gli animi, alimentando i rancori. Tormentato dalla paura, non è dicibile quanti disegni mulinasse l'irrequieto animo di lui, pronto sempre a mettere l'Italia intera a soqquadro, pur di conservare la male usurpata signoria. Il pensiero su cui da un pezzo ritornava, era quello di chiamare i Francesi contro il re di Napoli, sperando così di sollevare una guerra generale, in mezzo alla quale, con la sua accortezza, nella quale, come dicemmo, riponeva una fede illimitata, sperava d'aggiustare le proprie cose a danno di nemici e di amici. Che tutto ciò gli riuscisse, era molto difficile; ma invece era assai facile che scoppiasse una guerra generale e venissero gli stranieri a danno comune. Infatti solamente Lorenzo dei Medici, con una grandissima accortezza e perseveranza, sapeva tenere le cose in equilibrio, ed impedire l'irrompere improvviso della catastrofe.
Per queste ragioni l'anno 1492 fu un anno infausto all'Italia. Il dì 8 aprile Lorenzo moriva, ed a lui succedeva il figlio Piero, assai presuntuoso, leggero e vano, che perdeva il tempo nel giuoco della palla e del calcio, incapacissimo a governare la Toscana, nonchè ad esercitare alcuna autorità in Italia. E come se ciò non bastasse, il 25 luglio moriva Innocenzo VIII, e gli succedeva il più tristo di quanti pontefici sedessero mai sulla cattedra di San Pietro, un uomo tale da sconvolgere co' suoi delitti qualunque umana società.
Radunato appena che fu il Conclave (6 agosto), pareva non si trattasse già dell'elezione d'un Papa; ma d'un giuoco di borsa, tale e così manifesto era il mercato che si faceva dei voti. Il danaro era accorso presso i banchieri di Roma da ogni parte d'Europa, per favorire l'uno o l'altro dei tre candidati alla tiara. La Francia [231] favoriva Giuliano della Rovere, Lodovico il Moro favoriva suo fratello Ascanio, e questi due parevano i più vicini a toccare la mèta. Ma Roderigo Borgia, valendosi delle sue grandi ricchezze e delle sue più grandi promesse, potè, quando Ascanio parve messo fuori di combattimento, guadagnare per sè anche i voti promessi a questo, che era stato dapprima il più temibile competitore, e che ora votò anch'egli pel Borgia, il quale così riuscì finalmente eletto. La notte dal 10 all'11 agosto, egli gridava fuori di sè per la gioia: «Io son Papa, Pontefice, Vicario di Cristo!» Ed il cardinale Giovanni dei Medici, accostandosi all'orecchio del suo vicino, il Cardinal Cibo, diceva: «Siamo in bocca al lupo, che ci mangerà, se non fuggiamo in tempo.» Il giorno dopo tutta Roma ripeteva che s'erano visti quattro muli carichi d'oro portare a casa del cardinale Ascanio il prezzo del voto. Certo è che nel giorno stesso della consacrazione (26 agosto), il nuovo Papa, preso il nome di Alessandro VI, lo nominava vice-cancelliere della Chiesa, ufficio ricchissimo, e gli dava anche il proprio palazzo, ora Sforza-Cesarini, con ciò che vi si trovava. Feudi, ufficî, rendite ragguardevoli dètte agli altri cardinali; giacchè tutti i voti del Conclave, meno cinque, erano stati da lui comprati.
Alessandro VI ha una così gran parte nella storia d'Italia; il nome dei Borgia desta tanto orrore, ricorda tante tragedie, si trova così spesso mescolato col soggetto principale di questo libro, che dobbiamo qui fermarci a parlare di lui e de' suoi figli. Ora i figli dei Papi non si chiamano più nipoti. Roderigo Borgia, nato il 1º gennaio 1431 in Xativa presso Valenza, era nipote di Calisto III, che lo aveva nominato vescovo, cardinale, vice-cancelliere della Chiesa con 8000 fiorini l'anno. Egli aveva studiato legge a Bologna, era pratico degli affari, e sebbene non riuscisse sempre a dominare le sue passioni, lasciando troppo facilmente vedere quel che pensava, [232] sapeva pure a tempo essere simulatore e dissimulatore impenetrabile. Non era uomo di molta energia, nè di propositi deliberati; tergiversava per natura e per sistema, e gli ambasciatori italiani più d'una volta lo dicono «di natura vile.»[245] La fermezza e l'energia che mancavano al suo carattere, venivano però supplite spesso dalla costanza delle sue cattive passioni, che quasi lo accecavano. Sorridente e tranquillo sempre, con l'aria d'un uomo espansivo ed ingenuo, amava il lieto vivere, era sobrio, anzi frugale a tavola, e forse perciò coll'andare degli anni si mantenne sempre assai vegeto. Avidissimo del danaro, lo cercava con ogni mezzo e lo spendeva con ogni profusa larghezza. La passione per le donne era quella che lo dominava sopra tutto; i figli che ebbe da esse amava perdutamente, e voleva in ogni modo fare potentissimi. Di qui la sorgente prima de' suoi delitti, che commetteva con animo tranquillo, senza scrupoli, senza rimorsi, facendone quasi pompa, non perdendo un'ora sola la calma, nè cessando mai di godere la vita. Era già cardinale, sebbene assai giovane, quando Pio II dovette a Siena, con una lettera molto severa, rimproverarlo, perchè passava le notti nelle feste, ballando colle signore, come un laico o peggio. Ma non valse a nulla, chè egli non sapeva, nè voleva vivere altrimenti.[246]
Fra i molti amori del Cardinale, durò assai costante [233] quello che ebbe per Giovanna, chiamata Vannozza de' Cattani (de Cataneis), la quale, nata nel 1442, era fin dal 1470 in relazione con lui, e gli diè molti figli. Per nascondere lo scandalo, il Borgia più volte le trovò marito, ed ai mariti dette ufficî e danari. L'ultimo di essi fu un erudito, Carlo Canale, mantovano, cui il Poliziano dedicò il suo Orfeo.[247] Non faceva però alcun mistero circa i figli, che anzi pubblicamente riconosceva. Erano senza dubbio figli della Vannozza e di lui Giovanni, poi duca di Gandia (n. 1474); Cesare, ben noto col nome di Duca Valentino (n. 1476); Lucrezia (n. 1480); Goffredo o Giuffrè (n. 1481 o 82).[248] Oltre di questi aveva ancora altri tre figli di maggiore età, Girolamo, Isabella e Pier Luigi, dei quali si sa assai poco, e solo può dirsi molto probabile, che l'ultimo di essi fosse figlio della Vannozza. Comunque sia di ciò, dopo la nascita di Giuffrè, cioè poco prima della propria elezione, papa Alessandro, avendo la Vannozza già passato i quaranta anni, sentì raffreddare l'antica [234] passione per lei, trattandola però sempre come madre de' suoi figli, sui quali accumulava danari, ufficî, benefizî quanti poteva. Così ella resta d'ora in poi nel fondo del quadro, e non piglierà parte ai tragici eventi che avverranno fra non molto. Il Papa aveva affidato la figlia prediletta, Lucrezia, alle cure di Adriana De Mila, sua parente,[249] che era anche la più intima confidente de' suoi intrighi scandalosi. Sino dal 1489 vedova di Lodovico Orsini, ella aveva circa il medesimo tempo sposato suo figlio Orsino Orsini con la famosa Giulia Farnese, bionda come la Lucrezia, e per la grande bellezza chiamata Giulia Bella. Questa aveva appena quindici anni, ed era già ammirata dal cardinale Borgia, che ne divenne poi l'amante riconosciuto, quando s'allontanò dalla Vannozza. Ed anche in ciò egli veniva secondato dall'Adriana.[250]
Tale era lo stato delle cose, quando egli fu eletto. Il 26 agosto venne celebrata con insolita festa la sua consacrazione, e la Città Eterna fu piena di fiori, di arazzi, archi di trionfo, statue allegoriche e mitologiche, iscrizioni, una delle quali diceva:
Caesare magna fuit, nunc Roma est maxima, Sextus
Regnat Alexander, ille vir, iste Deus.
Di questa elezione si spaventarono solamente coloro che avevano conosciuto personalmente e da vicino il Borgia, come il cardinale dei Medici e Ferrante d'Aragona, principe accortissimo, che rammentava l'ingratitudine di Calisto III verso gli Aragonesi:[251] gli altri non [235] temevano o anche speravano. La vita scandalosa del nuovo Papa era nota in parte; ma quali erano allora i prelati che non avessero intrighi amorosi e figli? I primi giorni non annunziavano male, giacchè le paghe cominciarono a correre regolarmente; l'amministrazione pareva avviarsi con ordine; il prezzo delle derrate scemava; anche nella giustizia si dimostrò un rigore, di cui eravi sommo bisogno, perchè nel breve tempo corso dalla malattia d'Innocenzo VIII alla incoronazione d'Alessandro VI, erano, si afferma, seguìte 220 uccisioni.
Ben presto però la fiera cominciò a metter fuori le unghie. La passione d'ingrandire i parenti, specialmente i figli, alcuni dei quali il Papa amava con delirio, divenne quasi cieco furore, e non si poteva più prevedere dove dovesse trascinarlo. Nel primo concistoro (1º settembre) il nipote Giovanni Borgia, vescovo di Monreale, fu nominato cardinale di Santa Susanna. Il figlio prediletto Cesare, di 16 anni, che studiava a Pisa ed era già corso a Roma, aveva avuto nel giorno stesso della consacrazione l'arcivescovado di Valenza. Quanto a Giovanni, duca di Gandia, ed a Giuffrè, più giovane di tutti, il Papa faceva vasti disegni nel reame di Napoli, e voleva dare al primo i feudi di Cervetri e d'Anguillara. Ma qui incominciarono subito gravissime complicazioni, le quali inasprirono fieramente l'animo d'Alessandro VI.
Non era appena morto Innocenzo VIII, che il figlio Franceschetto Cibo, conoscendo la sua mutata condizione, se n'era fuggito a Firenze, presso il cognato Piero de' Medici, [236] ed aveva per 40,000 ducati venduto appunto i feudi di Cervetri e d'Anguillara a Gentil Virginio Orsini, capo della famiglia, potentissimo e superbo a segno che aveva minacciato una volta di gettare lo stesso Innocenzo VIII nel Tevere. Asserivasi inoltre che Ferrante d'Aragona aveva anticipato il danaro. Di qui un odio inestinguibile del Papa contro Ferrante, e più ancora contro l'Orsini. In mezzo a tutti questi pericolosi disordini, Lodovico il Moro, per conoscer meglio chi gli era amico e chi gli era nemico, propose che i suoi ambasciatori andassero a congratularsi col nuovo Papa, insieme con quelli di Napoli, Firenze e Venezia. La proposta non fu accettata, perchè Piero de' Medici, così almeno dicevasi, per la vanità di mandare un'ambasciata in suo proprio nome, indusse Ferrante a mettere innanzi dei pretesti. Al Moro parve allora d'essere isolato in Italia, e si volse disperatamente al partito di chiamare i Francesi.
Mentre così l'orizzonte già nero, diveniva ancora più tetro, il Santo Padre non pigliava alcun partito, ma tergiversava con tutti, aspettando a decidersi quando fosse possibile farlo con sicuro vantaggio per sè e per i figli. E intanto profittava del tempo per darsi tutto, vecchio com'era, ai piaceri. La Vannozza era ormai lontana dal Vaticano, ed il Papa si abbandonava sempre più all'amore, cominciato già fin dal 1491, con la Giulia Bella, che aveva allora 17 anni. La figlia Lucrezia, più giovane di quattro anni, continuava a vivere in casa dell'Adriana, ed in mezzo a questi scandali riceveva la sua prima educazione. Può ognuno immaginar facilmente, se le era possibile ricevere quella coltura, che alcuni pretesero attribuirle perchè imparò facilmente a parlar molte lingue.[252] Ella, infatti, conosceva non solo l'italiano, [237] il francese e lo spagnuolo, che era la lingua propria dei Borgia; ma capiva il latino, e qualche cosa pare che avesse praticamente appreso anche del greco, forse dagli emigrati di Costantinopoli che frequentavano il Vaticano. Pure le lettere che abbiamo di lei, le quali sono quasi tutte di poca importanza, non valgono a dar prova di questa vantata cultura. Quanto al suo misterioso carattere sarà meglio aspettare a giudicarlo dai fatti; per ora l'aria che ella respira è avvelenata non meno del sangue che scorre nelle sue vene.
Nel 1491, in età di soli undici anni, era stata con regolare contratto promessa sposa ad uno Spagnuolo, e poi, sciolto il contratto, promessa contemporaneamente a due altri Spagnuoli, con uno dei quali, don Gasparo conte d'Aversa, tutto fu concluso. Ma salito sulla cattedra di San Pietro Alessandro VI, la figlia del Papa non poteva più contentarsi di un tal matrimonio. Difatti venne sciolto il contratto con danaro, ed il 2 febbraio 1493 Lucrezia Borgia, virgo incorrupta, aetatis iam nubilis existens, sposò Giovanni Sforza, signore di Pesaro.[253] Le nozze [238] furono celebrate il 12 giugno in Vaticano, con grandi e ricchi donativi alla sposa, che portava una dote di 31,000 ducati; con splendida festa, cui intervennero da 150 signore; con una cena data agli sposi dal Papa, alla quale presero parte Ascanio Sforza, parecchi cardinali e alcune signore, fra cui primeggiavano, come racconta l'ambasciatore di Ferrara, «Madonna Iulia Farnese de qua est tantus sermo...,[254] e Madonna Adriana Ursina, la quale è socera de la dicta madonna Iulia.» Si attese l'intera notte a danzare, a recitar commedie con canti e suoni, e furono presentati ricchi donativi. Il Papa, conchiude l'ambasciatore, assistè a tutto, e sarebbe troppo lungo descrivere ogni cosa: Totam noctem consunpsimus, indicet modo Exc. Dominatio Vestra si bene o male.[255]
Il duca di Gandia s'apparecchiava ad andare nella Spagna, per contrarre un ricco matrimonio. L'altro figlio del Papa, Cesare, sebbene, giovane come era, avesse un vescovado col benefizio di 16,000 ducati l'anno, pure si mostrava assai insofferente della vita ecclesiastica; andavasene a caccia vestito da laico; aveva passioni violenti ed irrefrenabili; esercitava sull'animo del padre un ascendente quasi magnetico. Quanto a Giuffrè, si facevano sempre nuovi disegni di matrimonio.[256] Roma era intanto piena di assassini e di delitti, di preti, di Spagnuoli e di donne perdute. Ogni giorno arrivavano Musulmani ed Ebrei cacciati dalla Spagna, i quali trovavano facile accoglienza, perchè il Papa, imponendo loro [239] gravi tasse, si faceva largamente pagare la sua cristiana tolleranza. Egli stesso andava a caccia o al passeggio, circondato d'armati, in mezzo a Gemme ed al duca di Gandia, vestiti ambedue alla turca. Qualche volta fu visto ancora fra le sue donne, con abiti alla spagnuola, con stivali, pugnale ed un berretto di velluto assai elegante.[257]
Da un pezzo i Papi del Rinascimento s'erano abbandonati alla vita mondana ed ai vizî: ma solo il Borgia, perduto ogni pudore, ne menava vanto e ne faceva pompa cinicamente. Fino allora non s'era visto, nè poi si vide mai, la religione tanto profanata dal Santo Padre, in mezzo al sorriso ironico ed ai più spudorati baccanali, tutto ciò accompagnato da un'aria d'ingenua bonarietà![258]
Carlo VIII, educato colla lettura di romanzi cavallereschi e di storie delle Crociate, senza alcuna serietà di carattere, aveva la testa piena di fantastici disegni, e si lasciava dominare da due ambiziosi che gli erano sempre dintorno. Il primo di essi, Stefano di Vesc, di cameriere fatto ciambellano e siniscalco di Beaucaire, divenuto assai ricco, era avido di sempre nuovi guadagni. L'altro, Guglielmo Briçonnet, ricco signore della Touraine, dopo aver perduto la moglie, era stato nel 1493 nominato vescovo di San Malò; aspirava al cappello cardinalizio, [240] e conduceva intanto le faccende principali dello Stato. Su questi due uomini operava con promesse e con danari Lodovico il Moro. Egli, dopo il matrimonio di Lucrezia Borgia col signore di Pesaro, che era degli Sforza, sentiva crescere in Roma il proprio potere, sostenuto dalla presenza colà di suo fratello il cardinale Ascanio. Ora trattava contemporaneamente con tutti i potentati d'Italia, perchè il suo più segreto pensiero era di far venire i Francesi, e formare poi una lega per cacciarli, sperando così di restare solo arbitro d'ogni cosa. Intanto gli esuli italiani, e specialmente i napoletani, lo secondavano, spingendo con ogni lor possa il re Carlo a partire; ma gli uomini di Stato e i capitani più reputati in Francia disapprovavano altamente questa impresa. Il domani non era quindi più certo per nessuno, e gli animi erano pieni d'una straordinaria trepidazione.
In questo stato di cose ambasciatori italiani percorrevano la Penisola e l'Europa intera, in mille direzioni diverse. Un'operosità simile a questa non fu mai veduta al mondo: ogni altro lavoro intellettuale dell'Italia sembrava che dovesse sospendersi, per dar luogo ad un nuovo, grande lavoro diplomatico; e l'infinita moltitudine di dispacci che si scriveva adesso, divenne un monumento storico e letterario di capitale importanza, che ci rivela mirabilmente il vero stato della società e degli animi in quei giorni così infausti per noi. Gli ambasciatori veneti, ora come sempre, primeggiano per senno pratico e politica prudenza; i fiorentini invece per forza d'analisi psicologica, studio di caratteri e di passioni, evidenza nelle descrizioni, eleganza impareggiabile nella forma sempre disinvolta e spontanea. I medesimi pregi si trovano più o meno in tutti gli altri: è questo il momento in cui si forma la nuova educazione politica degl'italiani, e si crea finalmente la moderna scienza di Stato.
Sin dal 1492 l'ambasciatore veneto Zaccaria Contarini aveva mandato un ragguaglio minutissimo delle condizioni [241] commerciali, politiche, amministrative della Francia. A lui pareva impossibile che quel paese potesse mai risolversi alla spedizione d'Italia, circondato com'era da ogni lato di pericoli e di nemici, con un Re che, secondo lui, valeva assai poco d'animo e di corpo.[259] Se non che, nello stesso anno, il Re s'accordava con l'Inghilterra mediante danaro, con la Spagna cedendo il Rossiglione ed altre terre sulla frontiera dei Pirenei, con Massimiliano facendo un trattato che prometteva altre cessioni importanti.[260] Lodovico il Moro s'obbligava a dare uomini e denari, lasciando libero in Lombardia il passo all'esercito francese. Continuava intanto i segreti accordi con alcuni degli Stati italiani; prometteva sua figlia Bianca con ricca dote a Massimiliano, per aver in cambio l'investitura di Milano.[261] Tuttavia le cose erano ancora lontane da una conclusione definitiva. L'ambasciatore fiorentino scriveva da Napoli: «il duca di Bari» (così, a suo grande dispetto, soleva esser chiamato Lodovico il Moro) «ha gran piacere di tenere le cose in travaglio, e sa fare mille disegni, che riescono per ora solo in mente. Pure bisogna stare in guardia.»[262]
Il Casa, oratore fiorentino in Francia, nel giugno del 1493 giudicava ancora impossibile l'impresa, perchè grandissima era la confusione, il Re lasciavasi tirare da ogni lato, e si dimostrava tanto incapace da vergognarsene [242] a dirlo.[263] Ma poi, vedendolo deciso contro l'opinione dei più autorevoli, e vedendo che gli apparecchi continuavano contro tutti i ragionamenti, disperato quasi del suo proprio giudizio, scriveva: «a capire le cose di qui bisognerebbe essere magico o indovino, che prudente non basta. Questa faccenda aiuterà secondo che la si butterà.»[264] E Gentile Becchi, altro oratore sopraggiunto nel settembre, scriveva a Piero de' Medici, che la cosa era tanto innanzi da non «potersi sperare di svolgere capi di bronzo come i Francesi.[265] Questa serpe ha la sua coda in Italia. Sono gl'italiani che spingono a più potere; Lodovico avrebbe voluto solamente sbattere Napoli, e restar egli padrone del gioco; ma la rabbia l'ha condotto nella trappola apparecchiata ad altri.[266] Il meglio perciò è starsene sulle àncore fra Napoli e Milano: loro che se hanno appiccata questa rogna, lor se la grattino.[267] Per fermare tutto occorrerebbe spendere più danari che non ne spende Lodovico; sicchè ormai l'impresa anderà, e se il Be vince, actum est de omni Italia, tutta a bordello: se perde, si vendicherà sui mercanti italiani in Francia, massime sui vostri.»[268] Piero de' Medici sperava sempre di poter persuadere Lodovico, ma il Becchi che lo aveva conosciuto bambino, quasi lo sgridava, scrivendogli: «attendete ai casi vostri, che avete briga un mondo. Credete voi che Lodovico non sappia a che pericolo mette sè e gli altri? Coi vostri consigli lo farete solo più ostinato.»[269] Sopravvennero nuovi ambasciatori, fra i quali Piero Capponi, che allora pareva amico de' Medici, e [243] scrissero chiaro non esservi ormai altro da fare, che apparecchiarsi alla difesa.
A Milano invece gli ambasciatori fiorentini cavavano assai poco dal Moro. Agnolo Pandolfini, stato colà nel 1492 e 93, l'aveva trovato occupato a mulinare disegni ed a consultare gli astrologi, cui prestava fede grandissima: diceva di voler mettere una briglia in bocca a Ferrante, troppo vago di novità. Nel 1494 il dado era tratto, ma neppure allora l'ambasciatore Piero Alamanni poteva cavar nulla da lui. «Voi mi parlate pure di questa Italia,» egli diceva, «ed io non la vidi mai in viso. Nessuno s'è mai dato pensiero delle cose mie; ho dovuto quindi assicurarle in qualche modo.»[270] E quando l'ambasciatore gli faceva notare il pericolo in cui s'era messo, rispondeva, che lo vedeva bene, ma che il peggior pericolo era d'essere «tenuto una bestia.» Poi, quasi pigliandosi gioco di lui, aggiungeva: «Parlate pure. Che cosa suggeriscono i Fiorentini? Non vi adirate, aiutatemi a pensare.»[271] Nè altro v'era da cavarne.
Da Venezia gli ambasciatori scrivevano, che quei patrizî s'erano chiusi in un estremo riserbo, e tagliavano i discorsi quando si parlava dei Francesi. «Credono che lo stare in pace essi, e vedere li altri potentati d'Italia spendere e patire, non possa essere se non a proposito loro.[272] Diffidano di tutti, e sono persuasi d'aver tanti danari da potere in ogni momento assoldare quanti uomini d'arme vogliono, e così essere sempre padroni di condur le cose dove parrà a loro.»[273]
[244]
A Napoli, invece, quel Re era in preda alla più grande agitazione, e coll'aiuto del Pontano scriveva lettere, che parevano qualche volta profetizzare i vicini guai del Regno e dell'Italia. Il Papa non sapeva perdonargli l'opposizione fatta alla propria elezione, nè l'avere secondato la vendita di Cervetri e d'Anguillara all'Orsini. Sua nipote Isabella, moglie di Galeazzo Sforza, era tenuta come prigioniera dal Moro, che agitava l'Italia co' suoi tenebrosi disegni; sua figlia Eleonora, moglie d'Ercole d'Este, la sola che riuscisse a moderare l'animo del Moro, era morta nel 1493; l'altra figlia, Beatrice, era ripudiata dal re d'Ungheria, ed il Papa favoriva lo scioglimento del matrimonio.[274] Intanto tutti parlavano della prossima venuta dei Francesi. Vi fu un momento di speranza, quando il Papa trattò di sposare uno de' suoi figli con una figlia naturale del Re; ma poi si ritirò, quasi [245] avesse voluto canzonarlo. Ferrante scrisse allora al suo ambasciatore in Roma, amaramente dolendosi di questa condotta del Papa, nel momento in cui stavano «per mestecare insieme il loro sangue. Si ricordi,» egli concludeva, «che non siamo giovani, nè da lasciarci condur per il naso da lui.»[275]
Di tutto ciò Alessandro VI si curava poco, e andava innanzi negli accordi coi Veneziani e con Milano; onde il Re scriveva: «Da chi si vuol difendere quando nessuno lo assale? Pare proprio destinato che i Papi non debbano lasciare in pace nessuno, per mettere a rovina l'Italia. Noi ora siamo forzati alle armi; ma il duca di Bari deve pensare a quello che può seguire dal tumulto che suscita. Chi muove questa procella non sarà in grado di fermarla a sua posta. Consideri bene il passato, e vedrà come ogni volta che per le interne dissensioni si sono chiamate e condotte in Italia potenze ultramontane, esse l'hanno oppressa e tiranneggiata, che ancora se ne vedono i vestigi.»[276]
E poco dipoi scriveva al suo ambasciatore in Spagna addirittura come un uomo disperato: «Questo Papa vuol proprio mettere a soqquadro l'Italia. Per far danari s'accinge a nominare tredici cardinali a un tratto, dai quali caverà non meno di 300,000 ducati. Trovò tutto tranquillo, e si diè subito a far leghe e cercare tumulti.» — «Fa tale vita che da tutti è abominata, senza respecto de la sedia dove sta, nè cura de altro che, ad dericto e reverso, fare grandi li figliuoli, e questo è solo il suo desiderio; e li pareno mille anni intrare in guerra, che da principio del suo papato non ha [246] facto altro, si non ponerse in affanno, e molestarne quando per una via e quando per un'altra.... E Roma è tutta piena de soldati più che de preiti, e quando va per Roma, va con le squatre de le gente d'arme avanti, con li armetti[277] in testa, e lance a la cossa, per forma che tutti motivi soi sono ad la guerra, et in pernitie nostra, nè mai obmictere cosa che possa machinare contra de noi, sublevando non solamente in Francia el principe de Salerno et alcuni altri nostri rubelli, ma per Italia omne cancello rotto, lo qual senta essere adverso: et in tutte cose va con frode e simulatione, come è sua natura, e per fare danari vende omne minimo officio e beneficio.»[278]
Pure nell'agosto Virginio Orsini s'obbligava a pagare al Papa, per aver liberi i feudi contrastati, 25,000 ducati colla garanzia di Ferrante e di Piero dei Medici;[279] e nel medesimo giorno veniva finalmente segnato il contratto di matrimonio fra don Giuffrè Borgia, figlio del Papa, in età di dodici anni, e donna Sancia, figlia di Alfonso d'Aragona. Ella era rappresentata da don Federigo[280] suo zio, che ricevette per lei l'anello nuziale fra le risa degli astanti, specialmente del Papa che lo abbracciò.[281] Ferrante era fuori di sè per la gioia di questo [247] matrimonio, che doveva restar segreto fino a Natale. Egli allora s'abbandonò tanto alla speranza, che il 5 dicembre propose al Papa una lega italiana.[282] Ma questi, prima che s'arrivasse a Natale, aveva già mutato parere, e s'era avvicinato al Moro. «Noi e nostro padre,» scriveva allora il Re all'ambasciatore, «abbiamo sempre obbedito ai Papi; eppure non ve n'è stato uno solo che non abbia cercato farci il peggio che ha potuto. Con questo Papa poi, che pure è della nostra patria, non c'è stato possibile avere un sol giorno di riposo. Non sappiamo davvero perchè vuole stare in travaglio con noi, se non sia per influenza dei cieli, e per seguire l'esempio degli altri, che pare destino che tutti i Papi ci debbano tormentare. Esso ci vuol tenere sempre sospesi, mentre noi»....«non avimo pilo adosso, che mai abbia pensato di darline una minima causa.»[283]
Il Re sente adesso vicina ed inevitabile la catastrofe; sente che le forze gli mancano, che la morte s'avanza, e che il suo regno anderà in frantumi. L'angoscia traspare [248] da ogni linea delle sue lettere, nelle quali egli dice e ripete, si adira e si umilia. Il 17 gennaio 1494 scriveva quella che può dirsi la sua ultima lettera. «Il signor Lodovico consiglia al Papa di tenerci in parole, perchè se i Francesi non vengono, potrà sempre accomodarsi con noi, che, secondo egli dice, non lo vorremmo, non che per parente, neppure per cappellano. Se poi vengono, sarà liberato dalla servitù nostra, degli Orsini e degli altri baroni, i cui beni potrà dare ai suoi figli; e così i Pontefici potranno in avvenire dominare lo Stato loro con la bacchetta in mano. In questo modo va mettendo l'Italia a fuoco, di che conviene egli stesso; ma aggiunge che il Papa deve postergare i danni d'Italia, perchè a schifare la febbre continua si deve comportare la terzana. Ed il Papa, essendo pur acuto e timido, si lascia tutto dominare da Ascanio e guidare da Lodovico; onde invano cerchiamo indurlo a godersi tranquillo il papato, senza entrare in affanni e partiti da capitani di ventura, come lo ricerca il duca di Bari. Questi asserisce che noi facciamo solo mostra d'armare, e che in estremo caso ricorreremmo anche all'aiuto del Turco. Ma noi siamo parati a difenderci, e saremo pronti ad ogni partito più disperato, quando non si ha da altri rispetto nè alla fede, nè alla patria, nè alla religione. Ci ricordiamo che lo stesso papa Innocenzo scrisse:
Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo.»
Finalmente, quasi vedesse dinanzi a sè il nemico temuto, concludeva con parole che possono dirsi profetiche: «Francesi mai vennero in Italia, che non la ponessero in ruina, e questa venuta è de natura che quando sia ben considerata, che porterà ruina universale, perbenchè se minacci solo a noi.»[284]
[249]
E con l'animo lacerato da questo tormentoso pensiero, dopo una malattia di soli tre giorni, il 25 gennaio 1494 cessava finalmente di vivere.[285] Gli successe Alfonso che, più impetuoso, più crudele, e d'ingegno inferiore al padre, capiva pure in che pessime condizioni si trovava, e cercava aiuto al Papa, a Lodovico, al Turco; ma invano, perchè la venuta dei Francesi era inevitabile, e con essa la fine degli Aragonesi in Napoli.
Piero de' Medici non si curava di nulla a Firenze, inclinava verso gli Aragonesi, e si divertiva nella giostra, che allora s'apparecchiava;[286] i Veneziani stavano a vedere; Ferrara si dichiarava amica di Francia; Bologna s'alleava col Moro; il Papa, sempre uguale a sè stesso, spaventato dalla minaccia di un conciliabolo, che Carlo VIII diceva di voler radunare, dichiarava che lo avrebbe ricevuto in Roma da amico,[287] e nel medesimo tempo mandava in Napoli un suo nipote ad incoronare il re Alfonso. La confusione era al colmo, e gli esuli italiani spingevano più che mai i Francesi a partire, sperando ognuno di poter così fare le proprie vendette contro i governi esistenti.
Ai primi di marzo Carlo VIII faceva il suo solenne ingresso a Lione, per assumere il comando dell'impresa; un'avanguardia sotto lo scozzese d'Aubigny s'avanzava già verso la frontiera napoletana, e il duca d'Orléans era a Genova. I Napoletani dall'altro lato mandavano [250] il principe d'Altamura con trenta galere verso Genova, nel tempo stesso in cui il duca di Calabria, giovinetto inesperto, sotto la guida di provetti generali, tra cui era G. G. Trivulzio, valoroso esule milanese, entrava nello Stato pontificio. Il Papa sembrava aver perduta la testa, e non sapeva più a qual partito appigliarsi. Pure, profittando del momento, chiedeva al Sultano l'anticipazione dei 40,000 ducati dovutigli ogni anno per tenere in custodia Gemme. A mettergli poi spavento, aggiungeva che i Francesi venivano a liberare il prigioniero, volendo col suo aiuto portar guerra in Oriente. E i danari sarebbero arrivati, se a Sinigaglia l'ambasciatore che li recava, non fosse stato nel settembre preso e svaligiato dal prefetto Giovanni della Rovere, fratello del cardinale di San Piero in Vincoli.[288]
Ai primi di settembre Carlo VIII, passato il Monginevra, entrava in Asti. E presto gli arrivava la notizia, che don Federico, col naviglio napoletano, era stato respinto da Porto Venere con gravi perdite, e il duca d'Orléans, entrato cogli Svizzeri a Rapallo, aveva saccheggiato [251] il paese, mettendo gli abitanti a fil di spada, anche i malati nell'ospedale, con universale spavento di tutti gl'Italiani, non usi allora a questo genere di guerra. Arrivato a Piacenza, il Re seppe che Gio. Galeazzo, poco prima da lui veduto a Pavia, era colà morto avvelenato, almeno così dicevasi universalmente, dal Moro, il quale, fatte celebrare le esequie in Milano, entrava subito in Sant'Ambrogio, all'ora indicatagli dall'astrologo, per consacrare l'investitura già prima concessagli da Massimiliano re dei Romani. Tutto questo metteva sospetto e quasi terrore nell'animo dei Francesi, che comprendevano ora quale era la fede del più stretto alleato del Re in Italia. Il Moro infatti da un lato raccoglieva uomini e danari per aiutarli, dall'altro lavorava a stender le fila d'una lega, per poterli a suo tempo cacciare. Perrone de' Baschi, di origine italiana, era venuto nel 1493 a visitare le Corti della Penisola, e ne aveva, come scriveva Piero de' Medici, «riportato vento;»[289] ed ora Filippo di Commines, uomo di grande accortezza ed ingegno, ma di pessima fede, che conosceva bene l'Italia, dove già era stato altre volte, non trovava in nessuna delle Corti speranza d'amicizia sicura, e meno ancora d'aiuti efficaci, sebbene molti desiderassero l'arrivo degli stranieri, per secondare i proprî disegni. Egli che nelle sue Memorie scrisse intorno agli uomini del suo tempo: «Nous sommes affoiblis de toute foy et loyaulté, les uns envers les aultres, et ne sçauroye dire par quel lien on se pouisse asseurer les uns des aultres,»[290] sperimentava ora in Italia la verità della sua osservazione, e s'accorgeva d'essere in mezzo a gente anche più accorta e più furba di lui.[291]
[252]
Ma la fortuna di Francia camminava nonostante a gran passi. Il duca di Calabria, giunto in Romagna, si ritirava nel Napoletano al solo apparire del d'Aubigny, ed il grosso dell'esercito francese, col Re alla testa, s'avanzava per la Lunigiana senza incontrare ostacoli di sorta. Dopo aver preso e saccheggiato Fivizzano, ponendo a fil di spada i cento soldati che v'erano a guardia, e parte degli abitanti, i Francesi si spinsero verso Sarzana, sopra un terreno sterile, fra i monti ed il mare, dove ogni lieve resistenza avrebbe potuto riuscir loro funesta. Ma invece i piccoli castelli, che erano posti a guardia di quei luoghi, cedettero l'un dopo l'altro, senza neppur tentare la difesa, e non era appena l'assedio di Sarzana cominciato, che Piero dei Medici arrivò tutto spaventato, e si arrese a discrezione, promettendo anche di pagare 200,000 ducati.
Se non che, tornato a Firenze il dì 8 novembre, trovò che la Città s'era ribellata, e aveva mandato per suo conto ambasciatori al Re, con incarico di riceverlo onorevolmente; ma nello stesso tempo s'apparecchiava a difendersi, occorrendo. Lo sdegno era così universale, che Piero se ne fuggì a Venezia, dove il suo ambasciatore Soderini a mala pena lo guardò, essendosi già dichiarato per il governo repubblicano,[292] in questo mezzo proclamato a Firenze, dove tutto era rapidamente mutato. Il giardino dei Medici a San Marco, e le loro case erano andati a sacco; gli esuli erano stati richiamati ed assoluti; una taglia era stata messa su Piero e sul suo fratello cardinale. Nel medesimo tempo però Pisa s'era ribellata sotto gli occhi stessi di re Carlo, gettando in [253] Arno il Marzocco;[293] Arezzo e Montepulciano ne avevano imitato l'esempio. L'opera dei Medici, con tante cure e in sì lungo tempo condotta a termine, andava ora quasi istantaneamente in fumo.
Il 17 novembre Carlo VIII, alla testa del suo formidabile esercito, entrava in Firenze colla lancia in resta, credendosi per questo atto padrone della Città. Ma i Fiorentini s'erano armati, avevano raccolto seimila uomini dalla campagna, e sapevano bene che dalle torri e dalle case potevano mettere a grave pericolo un esercito diviso nelle strade. Respinsero quindi le eccessive domande del Re, e quando egli minacciò di far sonare le trombe, Piero Capponi, stracciando i capitoli che venivano insolentemente proposti, rispose che i Fiorentini avrebbero sonato le loro campane. Così si venne a patti più equi. Là Repubblica pagherebbe in tre rate 120,000 fiorini; le fortezze però le sarebbero state rese in breve. Il 28 novembre i Francesi lasciavano la Città, non senza aver prima rubato quella parte ancora rimasta intatta del tesoro di antichità, raccolte nel palazzo dei Medici. Fecero a chi più poteva, dice lo stesso Commines, e gli alti uffiziali rubarono più degli altri. Pure i cittadini erano contenti d'essere finalmente liberi dagli antichi tiranni e dai nuovi stranieri.
Arrivato a Roma Carlo VIII, per farla finita col Papa,[294] [254] che ora si mostrava deciso a resistere, puntò i cannoni contro Castel Sant'Angelo, e così tutto fu subito aggiustato. Il 16 gennaio 1495 il Briçonnet venne nominato cardinale di San Malò, ed il Re assistette il giorno 20 ad una messa solenne, celebrata dal Santo Padre, il quale, o per distrazione o per preoccupazione, commise, nei riti e nelle forme prescritte, molti errori, che il Burcardo, maestro delle cerimonie, in parte osservò troppo tardi, in parte lasciò correre per non richiamare su di essi l'attenzione degli altri.[295]
Secondo l'accordo firmato a Roma, Carlo VIII, s'avanzò verso Napoli, accompagnato dal cardinal di Valenza come ostaggio, insieme con Gemme. Arrivati però a Velletri, il Cardinale scomparve: le sue argenterie s'erano già fermate a mezza via; i bauli che, caricati sopra diciassette muli, contenevano gli abiti e le masserizie, furono trovati vuoti; Gemme s'era ammalato così gravemente, che giunto a Napoli morì. Tutti dissero che era stato veleno dei Borgia; ma i Veneziani, sempre benissimo informati dai loro ambasciatori, affermavano invece che era stata morte naturale.[296] Pure il Re fu molto sdegnato [255] della fuga, ed esclamò: «Malvas Lombard, e lo primiero lo Santo Padre.»[297] Ogni ricerca fu però vana. Egli continuò con l'esercito il suo cammino, senza quasi incontrare ostacoli di sorta fino a Napoli. Alfonso d'Aragona rinunziò al trono, e fuggì in Sicilia; Ferdinando II o, come dicevano, Ferrandino, dopo aver cercato invano aiuto da tutti, anche dal Turco, fece una resistenza inutile a Monte San Giovanni, che fu preso e distrutto: gli abitanti andarono a fil di spada.[298] Gian Giacomo Trivulzio disertò gli Aragonesi, e passò al nemico; Virginio Orsini s'apparecchiava a far lo stesso; Napoli tumultuò in favore dei Francesi, che vi entrarono il 22 febbraio. Il giorno seguente Ferrandino fuggì ad Ischia, poi a Messina. E subito arrivarono gli ambasciatori degli altri Stati italiani a congratularsi col vincitore.
Ma adesso finalmente i Veneziani s'erano svegliati, ed avendo mandato i loro ambasciatori a Milano, per sapere se il Moro era disposto ad armarsi per cacciare i Francesi, lo avevano trovato non solo prontissimo, ma ancora pieno di sdegno. «Il Re non ha testa,» aveva egli detto; «è in mano di gente che pensa solo a guadagnar danaro, e tutti insieme non farìano mezz'uomo savio.» Ricordava l'alterigia con cui era stato trattato da essi, e si dichiarava deciso ad entrare in ogni lega per cacciarli. Consigliava di mandar danari alla Spagna ed a Massimiliano, perchè assalissero la Francia; ma aggiungeva, che bisognava guardarsi bene dal chiamarli in Italia: «chè dove ora abbiamo una febbre, allora ne avremmo due.»[299]
[256]
La lega fu infatti conclusa tra i Veneziani, il Moro, il Papa, la Spagna e Massimiliano. E l'ambasciatore Filippo di Commines, che ora si trovava a Venezia, dove alla notizia dell'entrata del suo Re in Napoli aveva visto i Senatori abbattuti per modo che i Romani, dopo la disfatta di Canne, non potevano essere «plus esbahis, ne plus espouvantés,»[300] adesso li trovava invece colla testa alta e pieni di fierezza. I Napoletani già stanchi della mala signoria, s'erano sollevati, e Carlo VIII, dopo soli cinquanta giorni di dimora fra di loro, partiva più che in fretta, per non trovar tagliata ogni ritirata; lasciava nel Regno poco più di 6000 uomini, menando seco un esercito numeroso, nel quale però si trovavano solo 10,000 veri e proprî combattenti. Il 6 di luglio si venne a giornata, a Fornuovo presso il Taro. Gli alleati avevano messo insieme circa 30,000 uomini, tre quarti dei quali erano dei Veneziani, il resto del Moro, con alcuni Tedeschi mandati da Massimiliano. Nel momento dell'assalto avevano pronti a combattere un numero d'uomini doppio dei Francesi; ma una metà di essi restò inoperosa per errore di Rodolfo Gonzaga, ed i nemici invece furono tutti al loro posto, con l'avanguardia sotto gli ordini di G. G. Trivulzio, il quale era adesso coi Francesi, e sebbene combattesse contro la patria sua, dimostrò pure grandissimo valore e capacità militare. La battaglia fu sanguinosa, e si disputò molto di chi fosse veramente la vittoria; ma se gl'Italiani non furono respinti, anzi restarono padroni del campo, i Francesi volevano passare e passarono; ottennero quindi essi lo scopo cui miravano.
Ad Asti il Re si fermò alquanto, e ricevette gli ambasciatori fiorentini, ai quali promise nuovamente di render loro così le fortezze occupate dai suoi, come la città [257] di Pisa, e ne ebbe 30,000 ducati a saldo dei 120,000 promessi in Firenze, dando però in pegno gioie d'egual valore, da restituirsi appena rese le fortezze. Oltre di ciò i Fiorentini promisero 250 uomini d'armi per aiutare il Re a Napoli, ed un prestito di 70,000 ducati, che poi non dettero, perchè non riebbero le fortezze.[301] Il Moro, profittando dell'occasione, venne subito ad accordo coi Francesi, senza occuparsi dei Veneziani, credendo così d'essersi liberato dagli uni e dagli altri, mentre invece s'esponeva all'odio d'ambedue, come dovette ben presto accorgersene.
La fortuna dei Francesi continuava ora a decadere rapidamente in Italia, e contribuiva a renderla peggiore non solamente la loro mala signoria nel Reame, ma la pessima condotta che tenevano verso i pochi amici restati loro fedeli nella Penisola. Il capitano d'Entrangues, infatti, violando tutte le promesse del Re, cedeva ai Pisani, per danaro, la fortezza della loro città, ed essi v'entrarono a gran dispetto dei Fiorentini, il primo di gennaio 1496. Più tardi cedeva, per altra somma, Pietrasanta ai Lucchesi; altri capitani, imitando l'esempio, cedettero Sarzana e Sarzanello.[302] Ferdinando II intanto, coll'aiuto degli Spagnuoli comandati da Consalvo di Cordova, s'avanzava vittorioso nelle Calabrie, ed entrava in Napoli il 7 luglio 1496. In breve tutte le fortezze napoletane capitolarono, ed i Francesi che le guardavano, tornarono in patria più che decimati ed in pessime condizioni. Il 6 di ottobre Ferdinando II moriva esausto dalle agitazioni e fatiche della guerra, e gli succedeva lo zio don Federico, che in tre anni fu il quinto re di Napoli,[303] e venne incoronato dal cardinal di Valenza.
[258]
L'Italia poteva dirsi ora nuovamente libera dagli stranieri. Vi fu, è vero, in quell'anno stesso, una breve corsa di Massimiliano che, istigato dal Moro, venne ad aiutare Pisa, per non farla cadere in mano dei Fiorentini, nè dei Veneziani; ma egli, arrivato con poche genti e non trovando nessun aiuto, partì senza aver nulla concluso. Napoli era in realtà venuta sotto l'assoluto predominio degli Spagnuoli, i quali già maturavano sul Reame tenebrosi disegni; ma questi vennero in luce solo più tardi. Carlo VIII diceva d'essere pentito, di voler mutar vita, di voler punire il Papa, e tornare all'impresa d'Italia; ma intanto se ne restava in Francia, abbandonato ai piaceri. Così, in apparenza almeno, tutto era tranquillo. Se non che il giorno 7 aprile 1498, il Re moriva d'apoplessia, estinguendosi con lui il ramo primogenito dei Valois, e gli succedeva il duca d'Orléans col nome di Luigi XII. Questi, pei suoi legami di sangue coi Visconti, aveva sempre preteso d'avere diritti sul Ducato di Milano. Ponendosi ora in capo la corona di Francia, aggiungeva a ciò la presunzione di altri diritti sull'Italia, e la forza per farli valere. Con lui infatti ricominciano e continuano lungamente nuove invasioni e calamità nella Penisola.
Mentre però la pace apparente durava ancora, l'attenzione generale era richiamata sui fatti che seguivano in Roma e nella Campagna. Alessandro VI aveva profittato della cattiva fortuna dei Francesi, confiscando i beni degli Orsini, i quali avevano disertato gli Aragonesi per darsi a Carlo VIII, e dopo averlo abbandonato, quando ne videro mutate le sorti, erano più tardi tornati nuovamente a lui. Virginio Orsini cadde allora prigioniero nelle mani degli Spagnuoli venuti a rimettere sul trono di [259] Napoli Ferdinando II. Essi dovevano, secondo i patti, ricondurlo al confine; ma a ciò si oppose fieramente il Papa, minacciando la scomunica, perchè egli voleva lo sterminio di quella famiglia. E così fu invece chiuso nel Castello dell'Uovo a Napoli, dove morì. Le sue genti vennero intanto svaligiate negli Abruzzi, restando prigionieri l'Alviano e Giovan Giordano Orsini.
Fu questo il momento scelto dal Papa per muovere guerra a que' suoi eterni nemici, sempre numerosi e potenti. Le genti di lui, comandate dal duca d'Urbino e da Fabrizio Colonna, uscirono in campo il 27 d'ottobre contro gli Orsini, che s'erano ritirati a Bracciano. Sebbene i principali di essi fossero allora prigioni, e molte battiture crudeli avesse d'anno in anno ricevute tutta la famiglia, pure erano sempre in grado di misurarsi col nemico. E le loro speranze crebbero poi moltissimo, quando Bartolommeo d'Alviano,[304] fuggito dal carcere, giunse in Bracciano con alcuni de' suoi. Ben presto si venne fieramente alle mani, combattendo con valore non solo l'Alviano, ma anche sua moglie, sorella di Virginio Orsini. I primi scontri furono tutti a danno dei papalini. Arrivarono poi di Francia Carlo Orsini e Vitellozzo Vitelli, ma gli avversarî si ripresentarono anch'essi aumentati d'armi e d'armati, onde si venne il 23 gennaio 1497 ad una vera battaglia, che finì con una segnalata vittoria degli Orsini. Negli scontri antecedenti il cardinale di Valenza era stato inseguìto fin sotto le mura di Roma; ora poi il duca di Gandia fu ferito, il duca d'Urbino venne fatto prigioniero, il cardinale Lunate fuggì con tanta fretta e spavento che ne morì. I nemici dei Borgia esultarono; gli Orsini furono di nuovo padroni della Campagna. Il Papa, fuori di sè per lo sdegno, faceva nuovi apparecchi di guerra, e chiamava in aiuto lo stesso Consalvo di Cordova, quando i Veneziani entrarono di mezzo, e la pace fu fatta. [260] Pagarono gli Orsini 50,000 ducati, ma tornarono padroni delle proprie terre, e vennero liberati quelli fra di loro che erano prigioni nel Napoletano, salvo Virginio, morto prima ancora che gli giungesse la nuova della vittoria. Il duca d'Urbino, su cui avevano posto la taglia di 40,000 ducati, fu da essi consegnato al Papa in conto della somma che gli dovevano, ed il Papa non liberò il Duca, che era stato suo proprio capitano, se prima non pagò a lui la taglia imposta dai nemici. Questo figlio del celebre Federico, era senza prole, e i Borgia dopo essersi fatti difendere da lui, lo spogliavano ora de' suoi danari, per poi più iniquamente ancora spogliarlo dello Stato.
Nonostante la pace gravosa, gli Orsini avevano un potere immenso; il Papa, odiato da tutti, non poteva più fidare in altri che ne' suoi 3000 Spagnuoli e nell'amicizia dimostratagli da Consalvo di Cordova, che ripigliò per lui la fortezza di Ostia. Non potevano dunque i Borgia pensare a nuove imprese di guerra, ed allora subito sembrò che volessero adoperare le proprie armi per sterminarsi fra di loro, con non credibile malvagità. La notte del 14 giugno 1497 il duca di Gandia non tornò a casa. Il giorno di poi il suo staffiere fu trovato ferito, senza che sapesse dir nulla del padrone; la mula che il Duca aveva cavalcata, girava per le vie con una staffa sola, pendente dalla sella; l'altra era stata tagliata. Tutto pareva un mistero. Aveva la sera innanzi cenato con suo fratello il cardinale di Valenza presso la madre Vannozza. Erano usciti insieme a cavallo, separandosi poco dopo, il Duca seguìto da un uomo in maschera, che da molto tempo lo accompagnava sempre, e dallo staffiere che lasciò in Piazza dei Giudei. Null'altro si potè sapere. In sulle prime il Santo Padre rise, credendo che suo figlio si fosse nascosto con qualche donna.[305] Non vedendolo [261] però tornare a casa la seconda notte, fu preso da uno spavento e da un'agitazione grandissima. A un tratto, senza saper come, si sparse in Città la voce, che il Duca era stato gettato nel Tevere. Interrogato uno degli Schiavoni, che facevano a Ripetta commercio di carbone, rispose come, dormendo in barca la notte del 14, aveva visto arrivare un cavaliere con un cadavere in groppa, accompagnato da due pedoni, e gettato nel fiume il cadavere, erano tutti scomparsi. Interrogato perchè non ne avesse parlato prima, rispose, che di continuo aveva visto la notte, in quel medesimo luogo, seguir centinaia di simili fatti, senza che mai vi si facesse caso.[306] Un gran numero di marinari fu mandato a cercar nel fiume, e pescarono il figlio del Papa ancora con gli stivali, sproni e mantello. Aveva le mani legate; nove ferite alla testa, alle braccia, al corpo, una delle quali mortale alla gola; trenta ducati nella borsa,[307] segno evidente che non lo avevano ucciso per derubarlo.[308] Il cadavere fu solennemente sepolto in Santa Maria del Popolo. I più erano contenti dell'accaduto; gli Spagnuoli bestemmiavano e piangevano; il Papa, quando fu certo che suo figlio era stato a Ripetta gettato nel Tevere come la spazzatura, s'abbandonò ad un profondo dolore, di cui nessuno lo credeva capace.[309] Si chiuse nel Castel [262] Sant'Angelo, inseguìto, dicevano molti, dallo spirito del Duca, e pianse. Non volle prendere cibo per più giorni, e le sue grida si sentivano di lontano. Il 19 giugno tenne un concistoro, in cui disse, che non mai aveva provato così grande dolore: «Se avessimo sette papati, li daremmo tutti per aver la vita del Duca.»[310] Mostrò un pentimento, che parve sincero, della sua vita passata, e annunziò a tutti i potentati, che aveva affidato la riforma della Chiesa a sei cardinali: ad altro ormai non voleva più pensare. Tutti questi proponimenti cristiani andarono però subito in fumo.
Chi era l'autore dell'assassinio, da quali ragioni era stato mosso? Si sospettò degli Orsini;[311] si sospettò del cardinale Ascanio Sforza, che aveva recentemente avuta qualche contesa col Duca, e questi sospetti furon tali, che il cardinale, anche dopo le esplicite dichiarazioni del Papa, di non aver mai prestato alcuna fede a simili dicerìe, non si presentò a lui senza essere accompagnato da amici sicuri e con armi nascoste.[312] Si fecero mille ricerche, che poi a un tratto vennero sospese,[313] e corse [263] la voce da tutti creduta, che l'assassino del Duca era stato suo fratello il cardinal Cesare Borgia. «E certamente,» scriveva l'ambasciatore fiorentino, sin dal principio, «chi ha governato la cosa ha avuto e cervello e buono coraggio, et in ogni modo si crede sia stato gran maestro.»[314] A poco a poco i dubbi non caddero più sull'autore dell'assassinio; ma sulle ragioni che aveva avute, per giungere a tale misfatto.
Si parlò di gelosia tra il Cardinale e il Duca per la cognata donna Sancia, moglie di don Giuffrè, la quale menava una vita assai scandolosa. Si disse di peggio ancora, osandosi pubblicamente parlare di gelosia tra i due fratelli, che si disputavano col padre la sorella Lucrezia.[315] E queste voci orrende venivano registrate e credute [264] da storici gravissimi, ricordate da poeti illustri. Pure, sebbene tutto ciò si ripetesse pubblicamente da ognuno, e tutti chiamassero autore dell'assassinio Cesare Borgia, questi allora appunto divenne l'uomo più potente in Roma e più temuto, anche dal Papa, che pareva subisse come il fascino misterioso del proprio figlio. Questi s'era omai deciso a lasciar la vita ecclesiastica, e già si parlava di fare in sua vece cardinale il fratello don Giuffrè, separandolo dalla moglie, la quale avrebbe sposato Cesare, appena fosse tornato laico.[316]
Alessandro VI continuava intanto le sue tresche con la Giulia Bella e con alcune Spagnuole. Egli aveva ancora, secondo la pubblica voce, avuto un figlio da una Romana, il cui marito si vendicò uccidendone il padre, che l'aveva prostituita al Sommo Pontefice.[317] La Lucrezia, che nel giugno 1497, quando cioè il duca di Gandia veniva assassinato dal fratello, trovavasi confinata in un convento, senza che se ne sapesse la ragione, fu per volontà del padre separata nel decembre dal marito Giovanni Sforza, che venne a tal fine dichiarato impotente.[318] Nel marzo 1498, secondo notizie riferite anche da ambasciatori, essa partoriva un figlio illegittimo, intorno al quale si avvolse un gran mistero. Da un lato nessuno più parla di lui, da un altro comparisce alcuni anni dopo un Giovanni Borgia, che per la sua età dovè esser nato appunto [265] verso il 1498.[319] Il Papa lo legittimò prima con un Breve del 1º settembre 1501, come figlio naturale di Cesare, dicendolo di tre anni circa;[320] e con un secondo Breve, in data dello stesso giorno, lo riconobbe invece come suo proprio figlio, dichiarando però che doveva, nonostante,[321] sussistere la precedente legittimazione, la quale in sostanza fu fatta, perchè il misterioso fanciullo potesse legalmente ereditare. Tutti i documenti che lo risguardano, sono nell'archivio privato di Lucrezia, che fu portato a Modena. E presso di lei abbiamo notizie che si trovava una volta in Ferrara lo stesso Giovanni, di cui questo solo possiam dire, che la sua nascita misteriosa è quella certamente che dette origine alle sinistre voci che correvano intorno alle relazioni del Papa con la propria figlia. Queste voci vennero propagate dallo Sforza marito di lei, il quale a Milano disse chiaro, che questa era la ragione, per cui il Papa lo aveva voluto dividere dalla propria moglie.[322]
[266]
Nel luglio 1497 Cesare Borgia andò a Napoli per incoronare re Federico, e per chiedere danari, favori, feudi, con tale insistenza, che l'ambasciatore fiorentino scriveva: «Non sarebbe da maravigliarsi se, per liberarsi da tante angherìe, il povero Re si gettasse disperato al Turco.»[323] Il 4 settembre era di ritorno in Roma, dove fu notato che baciò il Papa senza che l'uno all'altro dicesse verbo. Cesare allora parlava poco e faceva paura a tutti.[324] A lui occorrevano danari per supplire alle entrate che perdeva lasciando il cappello cardinalizio, e per attuare i suoi nuovi e vasti disegni. Il Papa, che in tutto lo secondava, si diede perciò, senza scrupoli, a cercar nuove vittime. Il segretario Florido fu accusato come autore di falsi Brevi, e subito venne saccheggiata la sua casa, e si portarono in Vaticano i danari, i tappeti e le argenterie che v'erano. L'infelice, gettato in un carcere perpetuo, vi restò solo con pane, acqua ed una lucerna. Il Papa di tanto in tanto vi mandava qualche prelato, perchè, giocando con lui a scacchi, s'adoperasse a cavarne confessioni, che déssero modo di porre le mani addosso ad altri, fino a che nel luglio 1498 quel disgraziato cessò di vivere.[325]
Nel medesimo tempo si trattava col re di Napoli per sposare la figlia di lui, Carlotta, con Cesare ancora cardinale. Ed il Re, disperato di tante vessazioni, dopo aver dichiarato di voler piuttosto perdere il regno che dare la sua figlia leggittima ad un «prete bastardo di prete,»[326] [267] dovette nondimeno, per salvarsi dalle gravi minacce del Papa, quando già correvano le voci, di cui più sopra parlammo, consentire invece al matrimonio di Lucrezia Borgia con don Alfonso duca di Bisceglie,[327] giovane di appena 17 anni, figlio naturale di Alfonso II. Le nozze furono celebrate il 20 giugno 1498, «et il Papa,» scriveva l'ambasciatore veneziano, «stete fino a zonzo (giorno) alla festa, adeo fece cosse da zovene.»[328]
Il 13 agosto 1498 finalmente Cesare dichiarò in concistoro, che aveva accettato il cappello per far piacere al Papa; ma che la vita ecclesiastica non era per lui, e voleva ormai lasciarla. I cardinali consentirono, Alessandro VI soggiunse cinicamente, che dava il proprio assenso pel bene dell'anima di Cesare, pro salute animae suae;[329] e questi, spogliato l'abito, venne subito inviato in Francia, dove portò una Bolla di divorzio a Luigi XII, che voleva separarsi dalla moglie, e sposare la vedova di Carlo VIII, la quale recava in dote la Brettagna. Il Re aveva già promesso a Cesare il ducato di Valentinois ed alcuni soldati, che con la bandiera di Francia [268] dovevano aiutarlo grandemente nell'impresa di Romagna. Per trovare le molte migliaia di scudi necessarie a questo viaggio, che doveva superare in splendore ogni immaginazione, furono venduti ufficî, vennero accusati come Marrani e poi assoluti per danaro trecento individui. Il maestro di casa del Papa, col medesimo pretesto, venne messo in carcere, portandogli via da 20,000 ducati, che aveva in casa e nelle banche.[330] Il 1º di ottobre 1498 Cesare partì per la Francia, con la Bolla del divorzio, con un cappello cardinalizio per monsignor d'Amboise, ed una lettera con cui il Papa diceva al Re: «destinamus Maiestati tuae cor nostrum, videlicet dilectum filium Ducem Valentinensem, quo nihil carius habemus.»[331] Lo splendore del viaggio fece davvero sbalordire i Francesi; l'abito del Duca Valentino, ormai è questo il suo nome, era tempestato di gioie, ed egli gettava danaro per le vie. Anche adesso però fallirono i nuovi tentativi da lui fatti per ottenere la mano di Carlotta d'Aragona, che allora trovavasi in Francia. Invano il cardinale di San Pietro in Vincoli, altra volta nemico del Papa, s'adoperò a tutt'uomo.[332] Il Duca la desiderava con ardore, per la speranza di potersene un giorno valere a impadronirsi del regno di Napoli; ma quella [269] principessa aveva per lui un vero orrore, e trovavasi in ciò d'accordo col proprio padre.
Così Cesare, avuto il ducato di Valentinois e cento lance francesi, si dovè contentare di sposare Carlotta, sorella di Giovanni d'Albrét, re di Navarra, e parente di Luigi XII. Questi prometteva al Duca nuovi aiuti, quando la Francia avesse conquistato Milano, al qual fine metteva insieme un esercito, e s'era già alleato con Venezia (15 aprile 1499), aderendovi anche il Papa, che secondo il suo solito aveva mutato bandiera. Da ciò era seguìto un alterco vivissimo fra lui e l'ambasciatore spagnuolo. Questi minacciò di provargli che egli non era vero Papa, e l'altro di rimando minacciò di farlo gettare nel Tevere, e dimostrare che la regina Isabella non era poi «quella casta donna si predicava»[333] Ne restò tuttavia il Santo Padre assai sgomento, perchè, sebbene si fosse dato alla Francia, aveva pur sempre molte speranze sul regno di Napoli, e queste riuscivano vane senza l'aiuto di Spagna. Egli, è ben vero, diceva e ripeteva ora di voler fare Italia «tutta de uno pezzo;»[334] ma gli ambasciatori veneti, che lo conoscevano a fondo, avvertivano sempre che quest'uomo simulatore e dissimulatore, a 69 anni floridissimo di salute, e abbandonato sempre ai piaceri, mutava ogni giorno politica, e cercava garbugli solo per dare il Reame al figlio: intanto aveva ridotto Roma ad una «sentina di tutto il mondo.»[335]
Il 6 di ottobre 1499 Luigi XII entrava in Milano, alla testa del suo esercito comandato da G. G. Trivulzio, e Lodovico il Moro, che s'era apparecchiato alla difesa, vedendo ora che aveva contro di sè Francesi e Veneziani, [270] e che i suoi lo abbandonavano, se ne fuggì invece a cercare aiuti in Germania. Gli ambasciatori italiani accorrevano intanto a Milano per ossequiare il Re, che ricevette fra gli altri anche il Valentino, venuto in persona con piccolo seguito e con la bandiera di Francia. Assicuratosi della buona amicizia del vittorioso monarca, avuta promessa di nuovi aiuti per condurre innanzi le sue sanguinose imprese, e fatto a Milano un prestito di 45,000 ducati, egli se ne tornò a Roma, dove il Papa raccoglieva danari allo stesso fine, valendosi d'ogni mezzo, onesto e disonesto, anche di nuovi assassinii. Il protonotario Caetani messo in prigione vi morì, e i suoi beni furono confiscati; il suo nipote Bernardino venne ucciso dai birri del Valentino presso Sermoneta, feudo di cui subito s'impossessarono i Borgia.[336] Intanto il Valentino venne nominato gonfaloniere della Chiesa, ed essendo già stata pubblicata la sentenza che dichiarava decaduti i signori della Romagna e delle Marche, col pretesto che non avevano pagato al Papa la somma dovuta, se ne partì per Imola, dove aveva inviato le sue genti, fra le quali un migliaio di Svizzeri, sotto il comando del Baglì di Dijon: era in tutto un esercito di circa 8000 uomini. Ai primi di dicembre cadde Imola e poi Forlì, dove Caterina Sforza, che vi comandava, si difese con gran valore nella fortezza fino al 12 gennaio 1500, cedendo solo ad un assalto dei Francesi, i quali, ammirati del coraggio virile di lei, la salvarono dai soldati del Valentino e dall'ira del Papa, che voleva fosse subito ammazzata, perchè, secondo lui, casa Sforzesca era «semenza di la serpe indiavolata.»[337] In questo modo potè invece finire i suoi giorni a Firenze, ritirata nelle Murate.
Dopo di Forlì, il Valentino prese anche Cesena; ma [271] si dovette allora fermare, perchè, tornato in Francia Luigi XII, il generale Trivulzio scontentò per modo Milano e la Lombardia, di cui era restato governatore, che il Moro, sostenuto da un esercito di Svizzeri, secondato dalle popolazioni, potè ripigliare il suo Stato, entrando vittorioso nella capitale il giorno 5 di febbraio. Questo fece sì che i Francesi del Duca Valentino furono in fretta richiamati, per raggiungere i compagni già in ritirata, ed egli dovette sospendere la guerra. Pensò allora d'andare a Roma, dove il Giubileo già incominciato portava molti danari, che venivano raccolti con l'usata avidità per i soliti fini. Vestito di velluto nero, con una catena d'oro al collo, severo e tragico nell'aspetto, alla testa del proprio esercito, fece il suo solenne ingresso trionfale nella Città Eterna, dove fu ricevuto dai cardinali a capo scoperto. Si gettò poi ai piedi del Papa, che, dopo scambiate alcune parole in spagnuolo, lacrimavit et rixit a un trato.[338] E subito, ricorrendo allora il Carnevale, s'apparecchiarono grandi feste. Una figura rappresentante Victoria Iulii Caesaris, condotta sopra un carro a bella posta costruito, fece il giro della Piazza Navona, dove servatae sunt fatuitates Romanorum, more solito.[339] E le feste crebbero assai più, quando arrivò la notizia che Luigi XII era tornato in Italia alla testa d'un nuovo esercito; che il Moro, abbandonato e tradito da' suoi Svizzeri, era il 10 aprile caduto in mano dei Francesi col fratello Ascanio. Questi fu messo nella torre di Bourges nel Berry, donde più tardi venne liberato; il Moro stette invece dieci anni prigione a Loches, dove finì i suoi giorni.
Al primo annunzio di sì liete novelle, il Duca Valentino, sicuro di poter ripigliare ormai subito la sanguinosa [272] impresa di Romagna, non sapeva più frenare la sua gioia. Presso la chiesa di San Pietro fu dato un solenne torneo, in cui egli ammazzò sei tori selvaggi, «combattendo a cavallo, alla giannetta; et a uno tagliò la testa alla prima botta, cosa che a tutta Roma parve grande.»[340] Continuava intanto l'arrivo dei pellegrini del Giubileo; crescevano le cerimonie religiose, e con esse le indulgenze e le rendite. Ogni mattina si trovavano per le vie cadaveri di gente ammazzata la notte, fra cui spesso erano prelati. Un giorno (27 maggio) se ne videro diciotto impiccati sul Ponte Sant'Angelo. Erano ladri condannati dal Papa, tra i quali fu anche il medico dell'ospedale di San Giovanni in Laterano, che la mattina di buon'ora rubava ed ammazzava.[341] Il confessore dei malati quando sapeva di qualcuno che avesse danari, lo rivelava subito a lui, qui dabat ei recipe, e poi dividevano fra loro la preda.[342] L'esempio di severa e pronta giustizia fu ora dato, perchè 13 degl'impiccati avevano rubato l'ambasciatore della Francia, che il Papa voleva tenersi amica.[343]
Nel luglio di quel medesimo anno seguiva un'altra di quelle tragedie che erano proprie dei Borgia. Il duca di Bisceglie, marito della Lucrezia, s'era avvisto che, per l'amicizia coi Francesi, l'animo del Papa e del Valentino s'era subito alienato da lui, che per ciò non si sentiva più sicuro in Roma. Già nel 1499 aveva veduto [273] che sua sorella donna Sancia era stata esiliata, minacciando il Santo Padre di cacciarla a forza di casa, se non se ne andava.[344] Da questi e da altri segni restò sempre più insospettito, e però, dopo avere esitato alquanto, fuggì a un tratto presso i Colonna in Gennazzano, per andar poi nel Napoletano, lasciando la Lucrezia incinta, che piangeva o fingeva di piangere. Ma nell'agosto egli si lasciò persuadere, e venne a Spoleto, dove ella era stata nominata reggente della città. Di là tornarono insieme a Roma.[345] La sera del 15 luglio 1500, il duca di Bisceglie venne sulle scale di San Pietro improvvisamente assalito da sicarî che lo ferirono al capo, alle braccia, e poi fuggirono. Egli corse in Vaticano, e raccontò come e da chi era stato ferito, al Papa, che al solito si trovava con la Lucrezia, la quale prima svenne, e poi condusse il marito in una camera del Vaticano, per curarlo. Si mandò a Napoli per medici, temendosi a Roma di veleno. Il malato era assistito dalla moglie e dalla sorella donna Sancia, che gli cucinavano «in una pignatella,» non fidandosi d'alcuno. Ma il Valentino disse: «quello che non s'è fatto a desinare, si farà a cena;» e tenne la parola. Vedendo infatti che quel disgraziato non voleva morire, quantunque fosse pur grave assai la ferita alla testa, entrò una sera improvvisamente in camera, e mandate via le due donne, che senza resistenza obbedirono, lo fece nel letto strangolare da don Micheletto.[346] Nè questa volta si fece gran mistero [274] dell'accaduto. Il Papa stesso, dopo il ferimento, disse tranquillamente all'ambasciatore veneto, Paolo Cappello: «il Duca (Valentino) dice di non lo aver ferito; ma se l'avesse ferito, lo meriterìa.» Il Valentino invece scusavasi solamente dicendo che il duca di Bisceglie voleva ammazzar lui.
Egli aveva allora ventisette anni; era nel fiore della salute e della forza; si sentiva padrone di Roma e del Papa stesso, il quale lo temeva a segno da non osar quasi di parlare il giorno in cui vide il suo fidato cameriere Pietro Caldes, o Pierotto, scannato fra le proprie braccia dal Duca, e sentì il sangue di lui schizzargli sulla faccia. Alessandro VI, del resto, non si turbava punto di tutto ciò, e non perdeva i sonni. «Ha anni settanta,» scriveva l'ambasciatore Cappello, «ogni dì si ringiovanisce, i suoi pensieri non passano mai [275] una notte, è di natura allegra, e fa quello che gli torna utile.»[347]
Il 28 settembre, per far danari, nominò a un tratto dodici cardinali, fra cui sei Spagnuoli, il che gli fruttò 120,000 ducati, che andarono subito al Valentino. Il quale con essi, con le entrate del Giubileo, e cogli aiuti francesi, uniti alle sue genti capitanate dagli Orsini, Savelli, Baglioni e Vitelli, s'impadronì di Pesaro, cacciandone (ottobre 1500) il già suo cognato Giovanni Sforza; quindi di Rimini, cacciandone Pandolfo Malatesta; e finalmente si fermò a Faenza, dove Astorre Manfredi di 16 anni era tanto amato dal suo popolo, che fu difeso valorosamente fino a che la fame non costrinse tutti a capitolare il 25 aprile 1501. Cesare Borgia dovette nondimeno, per aver la città, giurare di risparmiar gli abitanti e salvare la vita al Manfredi; ma invece poi, violando ogni fede, lo chiuse in Castel Sant'Angelo, e dopo averlo sottoposto ai più osceni oltraggi, lo fece strangolare e gettar nel Tevere il 9 giugno 1502.[348] Dopo di ciò venne [276] dal Papa nominato duca di Romagna. Imola, Faenza, Forlì, Rimini, Pesaro e Fano facevano già parte del suo Stato, di cui Bologna doveva più tardi esser la capitale, e che doveva poi allargarsi verso Sinigaglia ed Urbino, sperandosi di potervi annettere anche la Toscana. Ma per ora la Francia mise il suo veto al procedere verso Bologna o verso la Toscana, che a loro volta s'armavano per difendersi. Intanto seguivano segretissimi accordi tra la Spagna e la Francia, per dividersi fra loro il regno di Napoli: il Papa vi prendeva parte, sempre con l'usata, avida speranza di potere anche colà allargare la potenza del figlio.
Mentre queste cose avvenivano in Roma, i Borgia avevano ordito un'altra tragedia in Firenze, dove erano seguìti mutamenti gravissimi, dei quali dobbiamo ora parlare.[349]
Sin dalla venuta di Carlo VIII, un frate domenicano, Priore del convento di San Marco, uomo singolarissimo, era divenuto quasi padrone della Città, ed in essa nulla più si faceva senza prima avere dal pergamo i suoi consigli. Nato a Ferrara, venuto a Firenze sotto i Medici, aveva predicato contro il mal costume, contro la corruzione della Chiesa, attaccando più o meno copertamente papa Alessandro, e dimostrandosi fautore di libertà. In molte cose egli non pareva e non era uomo del suo tempo. Privo d'una vera cultura classica, odiava quel paganesimo [277] letterario che allora invadeva tutto. Educato colla Bibbia, i Santi Padri e la filosofia scolastica, era animato da un vivissimo entusiasmo religioso. Dotto d'una dottrina allora poco stimata, scriveva versi non molto eleganti, nè sempre corretti, ma pieni d'ardore cristiano; aveva una grande indipendenza di carattere e d'ingegno, nè mancava di accortezza e buon senso, sebbene assai spesso parlasse come un uomo ispirato, perchè si credeva veramente privilegiato del dono profetico, e mandato da Dio a correggere la Chiesa, a salvare l'Italia. L'essere così diverso dagli altri, il non avere le qualità e le doti che allora erano in tutti, mentre a tutti mancavano quelle appunto che egli aveva, dava a questo Frate un prodigioso ascendente non solo sulle moltitudini, ma ancora sugli uomini più culti. Lorenzo de' Medici lo fece chiamare presso al suo letto di morte, chiedendo assoluzione de' suoi peccati, assoluzione che fu negata, per essere egli stato tiranno della sua patria. Angelo Poliziano, Pico della Mirandola, seguaci di quella erudizione pagana tanto condannata dal Savonarola, vollero avere sepoltura in San Marco, vestiti dell'abito domenicano. Molti altri letterati, moltissimi artisti pendevano estatici dalle labbra del Frate.
Trasportato dalla sua fantasia, ed ancora da un singolare presentimento, che spesso sembrava fargli davvero leggere nell'avvenire, non solo annunziava in genere futuri guai all'Italia; ma, determinando, aveva profetato la venuta d'eserciti stranieri, guidati da un nuovo Ciro. E la profezia parve miracolosamente avverarsi nel 1494, con la discesa di Carlo VIII. E però il Frate divenne addirittura il primo uomo di Firenze, la quale ricorreva a lui nei più difficili momenti, per le più gravi faccende di Stato. Così, insieme con Piero Capponi ed altri, egli fu mandato ambasciatore al Re, quando Piero de' Medici aveva vilmente ceduto ogni cosa. Ed il Re, che s'era mostrato assai burbero con tutti, divenne umile dinanzi a colui che [278] gli minacciava l'ira di Dio. Quando poi furono in Firenze firmati gli accordi, e l'esercito alloggiato dentro le mura non si moveva, con pericolo grandissimo della Città, solo il Savonarola osò presentarsi a Carlo VIII, invitandolo severamente a partire, e fu obbedito. Non è quindi da far maraviglia, se ponendosi allora mano alla formazione d'un nuovo governo, tutti si rivolgessero al Frate, e nulla più si facesse in Firenze senza prima sentir lui, che diè prova non solo di vero e disinteressato amore del pubblico bene, ma anche di un senno politico veramente singolare.
Il 2 dicembre la campana di Palazzo Vecchio chiamava a generale Parlamento il popolo, che accorse ordinato e condotto dai Gonfalonieri delle Compagnie. Fu subito data Balìa a venti Accoppiatori di nominare i magistrati, e fare le necessarie proposte di riforma. Così in breve si venne ad un nuovo ordinamento della Repubblica, col quale le antiche istituzioni, dai Medici profondamente falsate o distrutte, vennero richiamate in vita, modificandole però in molte parti. Il Gonfaloniere cogli otto Priori, che costituivano la Signoria, da rinnovarsi ogni due mesi, furono conservati; e così pure gli Otto, che vegliavano all'ordine interno della Città, ed erano un tribunale pei delitti criminali, più specialmente ancora per quelli di Stato. L'antico magistrato dei Dieci, che provvedeva alle cose della guerra, fu del pari conservato. I Gonfalonieri delle Compagnie e i dodici Buoni Uomini, residuo di antiche istituzioni, i quali formavano i così detti Collegi, che assistevano la Signoria, sebbene non avessero più una vera importanza, pure restarono. Sorse però una grave disputa intorno ai Consigli o sia assemblee della Repubblica. Il Consiglio dei Settanta, organo del dispotismo mediceo, fu subito abolito; ma non era possibile ricostituire quelli del Popolo e del Comune, perchè rispondevano nell'antica Repubblica ad uno stato di cose, ad una divisione della cittadinanza, che più non esisteva, nè potevasi rinnovare. Cominciarono [279] quindi le discussioni. Alcuni, alla testa dei quali trovavasi Paolo Antonio Soderini, tornato allora da Venezia, proponevano addirittura un Consiglio Maggiore, in cui entrassero tutti i cittadini, ed un Consiglio, meno numeroso, di Ottimati, a similitudine appunto del Gran Consiglio e dei Pregadi in Venezia. Ma a questa proposta si opponevano coloro che, capitanati da Guidantonio Vespucci, volevano un governo più ristretto, e combattevano perciò l'istituzione del Consiglio Maggiore, che dicevano utile a Venezia, dove erano i Patrizi, che soli ne facevano parte; pericolosissimo invece a Firenze, dove, mancando i Patrizi, bisognava ammettervi tutti i cittadini. Il pericolo, in tanta divisione degli animi, stava, secondo ciò che ne scrive anche il Guicciardini, in questo, che prevalendo un governo ristretto invece di uno temperatamente libero, si sarebbe poi, per reazione, venuto ad un governo di eccessiva larghezza, il quale avrebbe messo a repentaglio la Repubblica. Ed è perciò che quel grande storico ed accorto politico esaltò il Savonarola,[350] come colui che, entrato di mezzo, salvò ogni cosa, predicando una forma di governo universale con un Consiglio Maggiore al modo veneziano, adattato però ai bisogni e costumi fiorentini. L'autorità della sua parola fece subito vincere questo partito già proposto dal Soderini, ed il Frate ne guadagnò tale ascendente sul popolo, che d'allora in poi le discussioni fatte in Palazzo, e le leggi che ne seguirono, sembrano spesso copiate dalle sue prediche.
Il 22 e 23 dicembre 1494 fu deliberato il Consiglio Maggiore, di cui vennero chiamati a far parte tutti i cittadini di ventinove anni, che erano beneficiati, che godevano cioè il beneficio dello Stato, o sia che, secondo le antiche leggi della Repubblica, avevano il diritto di prender [280] parte al governo. Quando costoro avessero passato il numero di 1500, un terzo di essi solamente, alternandosi cogli altri due, avrebbero di sei in sei mesi formato il Consiglio.[351] La Città aveva allora circa 90,000 abitanti; i cittadini beneficiati dell'età di ventinove anni erano 3200, sicchè il Consiglio Maggiore veniva ad essere formato di poco più che mille persone.[352] Ogni tre anni si sceglievano inoltre sessanta cittadini senza il beneficio, e ventiquattro giovani di ventiquattro anni, con facoltà di partecipare al Consiglio, e ciò si faceva «per dare animo ai giovani ed incitarli a virtù.» L'ufficio principale del Consiglio era quello d'eleggere i magistrati, nel che si riponeva allora la garanzia della libertà, e di votare le leggi, senza però discuterle. Esso doveva inoltre eleggere subito ottanta cittadini di quarant'anni almeno, per formare il Consiglio degli Ottanta, specie di Senato, che si rinnovava ogni sei mesi, e del quale facevano parte di diritto alcuni dei principali magistrati. Esso radunavasi ogni settimana, per deliberare, insieme colla Signoria, gli affari più gravi e gelosi, che non si potevano esporre a molti. Vi pigliavano parte anche i Collegi, quando trattavasi di nominare gli ambasciatori e i capitani, o deliberare condotte di genti d'arme.
In tal modo venne costituita la nuova Repubblica. La divisione dei poteri non era allora conosciuta, e le attribuzioni dei magistrati erano quindi assai confuse. Nondimeno, quando si voleva sanzionare una nuova legge, il procedimento ordinario era questo: la proposta toccava alla Signoria, che poteva, se la cosa lo richiedeva, radunar prima una Pratica o una Consulta, composte dei [281] Collegi, dei principali magistrati e di Arroti, o sieno cittadini richiesti a quello scopo determinato, domandando il loro avviso. Quando tutto ciò non si reputava necessario, s'andava addirittura agli Ottanta, e poi al Consiglio Maggiore. Nella Pratica e nella Consulta[353] soleva farsi una qualche discussione; ma nei Consigli si votava e non si discuteva. Lo stesso procedimento si seguiva ancora, quando trattavasi non di leggi, ma di affari molto gravi, come sarebbe stato il dichiarare la guerra, il fare qualche alleanza, che potesse aver gravi conseguenze, e simili.
Questa nuova costituzione cominciò subito ad operare regolarmente, ed il Savonarola, che ne era stato uno dei principali autori, contribuì colle sue prediche a consigliare e promuovere altre riforme importanti. Fu istituita la Decima, cioè l'imposta del 10% sui beni stabili, fino allora tassati ad arbitrio; fu abolito il Parlamento, il quale, approvando sempre per acclamazione tutte le proposte della Signoria, era stato più volte docile strumento d'inconsulte mutazioni e di tirannide; fu istituito il Monte di Pietà. Venne poi votata una nuova legge che, nelle cause di Stato, concedeva l'appello dagli Otto al Consiglio Maggiore, cosa di certo assai poco prudente, perchè affidava la giustizia alle passioni popolari. Il Savonarola, che pur desiderava l'appello, ma ad un assai minor numero di persone, non riuscì questa volta a fermare il popolo, istigato dagli avversari, i quali volevano cogli eccessi mettere a pericolo la Repubblica, o almeno levarla, come essi dicevano, dalle mani del Frate. Infatti ben presto si vide che quella legge era stata imprudentissima.
Tuttavia le cose cominciarono a procedere assai regolarmente, nè altri disturbi vi furono in sul principio, se [282] non quelli che nascevano dalla guerra contro i Pisani, la quale però, senza essere ancora di molta gravità, contribuiva a tenere in Firenze gli animi uniti. Gli alleati, è vero, chiamarono in Italia Massimiliano re dei Romani, perchè recasse aiuto a Pisa; ma quando egli venne senza un proprio esercito, non gli dettero nè uomini nè denari, sicchè dovette tornarsene a casa senza aver concluso nulla.
V'erano tuttavia in Firenze i germi di un gravissimo pericolo. Il Savonarola predicava con crescente ardore la riforma dei costumi e la difesa della libertà, suggeriva utili provvedimenti, faceva una dipintura vivacissima dei mali che portava la tirannide, ma non si fermava a ciò. Egli predicava ancora la necessità d'una riforma della Chiesa, caduta, come tutti sapevano e vedevano, nella più triste corruzione. Non toccava il domma e neppure il principio dell'autorità papale, restò infatti sempre cattolico; ma accennava pure alla necessità di un Concilio per attuare la riforma, ed alludeva assai spesso alla vita scandalosa di papa Alessandro VI. Questi cominciò quindi ad impensierirsi vivissimamente d'uno stato di cose tanto nuovo in Italia, tanto pericoloso per lui che era, come altra volta aveva scritto Piero Capponi, «di natura vile e conscius criminis sui.[354]» Dapprima invitò a Roma, con parole assai benevole, il Savonarola, il quale si scusò. Allora invece lo sospese dalla predicazione; ma i Dieci scrissero subito con tanto favore in difesa di lui, che il Breve, per paura di peggio, venne revocato. Si tornò alle lusinghe, lasciando sperare al Frate perfino il cappello cardinalizio; ma egli nuovamente ricusò di partire, e nella quaresima dal 1496 tuonò più che mai dal pergamo. Annunziava future calamità, tornava a proporre [283] la riforma della Chiesa, e conchiudeva che Firenze doveva fermar bene il suo governo popolare, affine di promuovere in Italia e fuori il rinnovamento ed il trionfo della religione, purificata da ogni corruzione. La cosa assunse allora una così straordinaria gravità, che da ogni parte d'Italia gli occhi si rivolsero sopra di lui con intenzioni assai diverse. Si sentiva da tutti che la corruzione della Chiesa era spaventosa, e si capiva che, nonostante il profondo e generale scetticismo religioso degl'Italiani, non si poteva così durare a lungo. I segni precursori di una riforma, già manifestatisi a Costanza, a Basilea, altrove, non si potevano dimenticare. La grande attenzione, l'entusiasmo con cui una città indifferente e scettica come Firenze, ascoltava ora il Savonarola, ispirava una confusa paura in moltissimi, ed uno sdegno feroce in Alessandro VI, che si vedeva attaccato personalmente da un frate, senza poter far nulla, egli che pure così facilmente aveva saputo mandare all'altro mondo tanti prelati e cardinali.
Il pericolo temuto non era però senza qualche speranza di rimedio pel Papa. Il Savonarola era certo un oratore rozzo, ma potente; aveva un'attività prodigiosa; scriveva un numero grandissimo di opere, di opuscoli, di lettere; non si fermava mai; predicava ogni giorno, più volte al giorno, in diverse chiese; il suo amore pel bene era grande; il suo religioso entusiasmo ardentissimo; la sua autorità immensa. Pure, noi lo abbiamo già notato, egli non era in tutto uomo del suo tempo; la sua cultura era in parte scolastica, e il suo entusiasmo arrivava spesso fino quasi al fanatismo; aveva visioni e si credeva profeta; qualche volta anche gli pareva che il Signore, per mezzo di lui, volesse operare miracoli. Amava ardentemente la libertà; ma era pur sempre un frate, che la cercava come mezzo a promuovere la riforma religiosa; non di rado pareva che volesse proprio ridurre Firenze ad un convento, il che doveva a [284] molti sembrare una puerile illusione. Egli era circondato da artisti e da eruditi, sui quali aveva come sul popolo e sugli uomini politici un ascendente straordinario; ma se amava la cultura e promoveva le arti, era pure acerrimo nemico di quello spirito pagano che allora invadeva e, secondo lui, corrompeva tutto. Tra i suoi frati, come tra i suoi seguaci fuori del convento, si trovavano uomini di nobile carattere e di grande energia; ma non mancavano neppure spiriti deboli e superstiziosi, che esageravano le idee del maestro, il quale non era senza esagerazioni egli stesso. L'immenso potere da lui acquistato in Firenze pei savi consigli politici che aveva dati, per le nobilissime doti del suo animo, per la sua irresistibile eloquenza, veniva cresciuto più dalla maraviglia che recava la singolarità del suo carattere, che dall'essere egli riuscito a risvegliare in Firenze un vero ardore religioso, il che non era invece avvenuto. Questo era anzi il punto su cui il Savonarola s'illudeva assai, e non s'avvedeva perciò che, in parte almeno, egli fabbricava sull'arena: voleva il governo libero per promuovere la riforma religiosa, ed i Fiorentini accettavano la riforma religiosa, solo per meglio rafforzare il libero governo. La base del suo potere era quindi meno solida di quel che pareva, e non dovevano al Papa mancar modi di formare o di alimentare i partiti avversi.
Un buon numero di giovani amanti del lieto vivere, già tanto favorito dai Medici, ed ora così aspramente biasimato e combattuto dal Frate, si raccolsero pigliando nome di Compagnacci, combattendo, col ridicolo e con ogni arte, lui e i suoi amici, che chiamavano Piagnoni, Frateschi e simili. Tutto questo fece sì che nel 1497, da un lato si tentò di ripristinare l'antico carnevale mediceo co' suoi baccanali e le sue oscenità; dall'altro, invece, per opera del Savonarola e de' suoi seguaci, i fanciulli giravano le vie e le case di Firenze, cercando le vanità, o sia libri, scritture, disegni e statue oscene, abiti e maschere carnovalesche. [285] Il 7 febbraio, ultimo giorno di carnovale, fu fatta una solenne processione, la quale ebbe fine col famoso bruciamento delle vanità, raccolte in Piazza della Signoria, sopra gli scalini d'una grande piramide di legno, a tal'uopo costruita. Come è ben naturale, tutto ciò fu soggetto di molte accuse e di ridicolo da parte dei Compagnacci, quantunque i magistrati stessi avessero non solo permessa, ma quasi diretta la singolare solennità, affinchè procedesse ordinata e dignitosa. I Compagnacci biasimavano aspramente che il governo s'andasse mescolando di processioni fratesche. E ad essi s'univano poi gli Arrabbiati, i quali volevano un governo più ristretto di Ottimati, ed i Bigi, chiamati così perchè non osavano manifestare il loro segreto pensiero, che era di tornare ad una pura e semplice restaurazione medicea. Ma tutto ciò non bastava ancora a mettere in pericolo nè la Repubblica, nè il Savonarola. I Compagnacci non erano un partito politico; gli Ottimati avevano poco séguito in Firenze, stata sempre città popolare; i Bigi, con aderenze potenti in città e fuori, avevano in Piero de' Medici un capo così odiato e disprezzato, da non poter esser desiderato da molti. Un primo tentativo da lui fatto, per rientrare in Firenze, dove si lusingava di trovar grandissimo favore, riuscì solo a fargli con disprezzo chiudere le porte in faccia. Una congiura tentata allo stesso effetto da Bernardo del Nero e da altri, finì con la loro condanna a morte.
Questo è ciò che formava uno stato di cose, in cui Alessandro VI facilmente poteva trovare quell'occasione di vendetta, che con tanto ardore cercava da un pezzo. Il Savonarola ogni giorno lanciava nuove accuse contro gli scandali di Roma, accennava sempre più apertamente alla necessaria riunione del Concilio, alludeva dal pergamo alle oscenità ed ai delitti del Papa. Invitato più volte a tacere, aveva invece parlato più forte. Giunse finalmente una scomunica contro di lui, ed egli la dichiarò [286] nulla, aggiungendo che parlava in nome di Dio, ed era pronto a sostenere la propria innocenza al cospetto del mondo; rinunziava però a convincere Alessandro VI, il quale, eletto simoniacamente, autore di tanti scandali e delitti, non poteva dirsi vero Papa. Era allora seguìta l'uccisione del duca di Gandia; correvano per tutto le voci d'incesto tra il Papa e la figlia Lucrezia; il Savonarola s'era esaltato per modo che non sapeva, nè voleva più frenarsi. Indirizzò lettere ai principi d'Europa, incitandoli a radunare un Concilio, per salvare da totale rovina la Chiesa, la quale, come egli avrebbe pubblicamente dimostrato, era senza capo vero e legittimo. Una di queste lettere venne sfortunatamente nelle mani di Alessandro VI. S'aggiunse poi che Carlo VIII, il quale pareva pentito de' suoi peccati, e deciso a metter mano alla riforma consigliata dal Savonarola, che vedeva in lui appunto il suo più valido sostegno, morì improvvisamente nei primi mesi del 1498. E quantunque ciò ancora non fosse noto in Italia, pure si vedeva già che tutto cospirava ai danni del povero Frate. Fu questo il momento in cui inaspettatamente si presentò al Papa un'occasione favorevole, che egli colse senza punto esitare.
La Signoria in ufficio era avversa al Savonarola; gli Arrabbiati ed i Compagnacci erano audacissimi per i continui incoraggiamenti che ricevevano di fuori; i Bigi erano pronti sempre a tutto ciò che poteva riuscire in danno della Repubblica; perfino alcuni dei Piagnoni erano impensieriti della fiera lotta col Papa, quando seguì un fatto stranissimo, di cui nessuno avrebbe potuto mai prevedere le gravi conseguenze. Un frate francescano, chiamato Francesco di Puglia, predicando in Santa Croce aspramente contro il Savonarola, venne fuori con la dichiarazione che era pronto ad entrare nel fuoco con lui, per provargli la falsità delle dottrine che sosteneva. Al Savonarola la cosa parve assai strana, e si tacque: ma non fu così del suo discepolo frate Domenico Buonvicini [287] da Pescia. Uomo di poca testa, ma d'una grande energia e buona fede, d'uno zelo ardentissimo, accettò la sfida, e si dichiarò senz'altro prontissimo a tentare l'esperimento del fuoco, per provare la verità delle dottrine sostenute dal suo maestro. Francesco di Puglia rispose, che aveva sfidato il Savonarola, e con lui solamente sarebbe entrato nel fuoco; ma con fra Domenico Buonvicini da Pescia si sarebbe provato invece Giuliano Rondinelli, anch'egli francescano. La cosa sfortunatamente andò innanzi, ed al Savonarola non riuscì di fermarla, quantunque lo tentasse, perchè fra Domenico era già caduto nella rete che gli avevano tesa, e perchè egli stesso non sembrava punto alieno dal prestar fede alla buona riuscita dell'esperimento, convinto com'era d'essere mandato da Dio, e da lui ispirato nel predicare le dottrine che venivano ora combattute. Gli Arrabbiati e i Compagnacci spingevano a tutta possa, perchè speravano di poter seppellire i Piagnoni nel ridicolo, e uccidere il Savonarola nel tumulto che apparecchiavano. Teneva loro mano la Signoria stessa, che si trovava allora in segreti accordi con Roma.
In conseguenza di tutto ciò lo stranissimo esperimento, che nel secolo XV era un vero e proprio anacronismo, fu fissato pel giorno 7 aprile 1498. All'ora indicata i frati vennero nella Piazza, davanti al Palazzo, dove tutto era stato dalla Signoria ordinato, e dove un popolo immenso era impaziente di vedere uno spettacolo che ricordava il Medio Evo. Il Savonarola, persuaso anch'egli che lo zelo impaziente di fra Domenico, contro cui aveva invano resistito, fosse veramente ispirato da Dio, aveva consentito a dirigere i suoi frati. Quando però tutto era pronto da parte loro, e fra Domenico da Pescia aspettava il segnale per muoversi, i Francescani, i quali avevano mirato solo a tendere una rete agli avversarî, esitavano, ed il Rondinelli non pareva che avesse nessuna voglia di cimentarsi. Si cercarono mille pretesti per far [288] nascere un tumulto desiderato, ma invano, perchè l'ardita figura di fra Domenico era lì, sempre pronta a muoversi, e questo contegno disarmava ogni avversario. Se non che, le continue dispute e i nuovi pretesti dei Francescani fecero consumare il giorno, e finalmente una pioggia improvvisa e dirotta diè modo alla Signoria, già scoraggiata, di dichiarare che l'esperimento non poteva ormai più farsi.
Secondo ogni ragione, la disfatta doveva essere dei nemici del Savonarola; ma accadde invece il contrario. Il popolo era scontentissimo di non aver avuto il desiderato spettacolo, e molti ne davano la colpa al Savonarola, dicendo che se veramente fosse stato persuaso del suo lume divino, sarebbe, senza altre discussioni, egli stesso, anche solo, entrato nel fuoco, il che avrebbe d'un tratto e per sempre fatto tacere gli avversari. I suoi seguaci erano in buona parte o fanatici credenti, o uomini politici che vedevano in lui solamente il sostenitore del libero reggimento. I primi restarono addolorati che l'esperimento non si fosse fatto, i secondi deploravano che egli vi avesse consentito, e così lo scontento parve a un tratto universale. Allora riuscì agevole agli Arrabbiati ed ai Compagnacci, secondati dai Bigi, aiutati dalla Signoria, sollevare un vero e proprio tumulto contro i Piagnoni, alcuni dei quali vennero infatti ammazzati o feriti per le vie, gli altri furono per ogni dove insultati, inseguiti. Cominciata una volta la reazione, s'andò, armata mano, ad assaltare addirittura il convento di San Marco, che, dopo la gagliarda resistenza d'alcuni frati e di pochi amici ivi radunati, fu preso. Il Savonarola, fra Domenico, che mai non lo lasciò, e fra Salvestro Maruffi, altro de' suoi più noti seguaci, ma superstizioso e di carattere debolissimo, vennero condotti in prigione, e s'iniziò subito il processo.
Il Papa voleva ad ogni costo aver nelle mani il Frate, e faceva perciò grandi promesse; ma la Signoria, sebbene [289] composta d'Arrabbiati dispostissimi a consentirne la morte, non volle, per la dignità della Repubblica, permettere che il processo si facesse altrove. Lo fece però a Firenze secondo le istruzioni e gli ordini venuti da Roma. Si adoperò ripetutamente la tortura, ed al Savonarola si strapparono confessioni nel delirio del dolore. Ma sebbene in quello stato egli non fosse più padrone di sè, e non avesse più la forza di sostenere che la sua dottrina e la sua opera erano ispirate da Dio, pure negò recisamente d'aver mai avuto un fine personale, o d'essere stato di mala fede; confermò anzi d'aver solo e sempre operato pel pubblico bene. A tutto questo s'aggiunse, che se fra Salvestro, debolissimo e vanissimo sempre, rinnegò il maestro, e disse tutto quello che gli vollero far dire, fra Domenico, invece, sprezzando le minacce e la tortura, restò uguale a sè stesso, riconfermando coraggiosamente l'indomita fede nel suo maestro. Si ricorse quindi all'antico e facile espediente d'alterare, nel miglior modo che si poteva, anche le confessioni strappate colla tortura, senza tuttavia riuscire, neppure con questo artifizio, a trovare giusta materia di condanna. E intanto il Papa minacciava ferocemente da Roma, perchè o gli dessero in mano i tre frati, che avrebbe egli pensato al resto, o li mettessero subito a morte. Nè la Signoria voleva o poteva ormai più tornare indietro. Siccome però due mesi erano già trascorsi, ed essa doveva quindi, secondo le leggi fiorentine, uscire d'uffizio, così s'occupò solo a fare in maniera che le nuove elezioni risultassero favorevoli agli Arrabbiati, il che ottenne facilmente. E i nuovi eletti convennero subito col Papa, che egli avrebbe inviato a Firenze due commissarî apostolici, per condurre a termine il processo, e trovar materia di condanna capitale, specialmente in ciò che si riferiva all'accusa d'eresia. Il Savonarola intanto, lasciato qualche tempo tranquillo in carcere, aveva scritto altri opuscoli religiosi, nei quali, riconfermando le sue [290] dottrine, dichiaravasi nuovamente in tutto e per tutto cattolico fedelissimo ed incrollabile, quale era sempre stato. Ma ciò non voleva dir nulla, la sua morte era stata irremissibilmente decisa.
Il 19 maggio arrivarono i due commissarî apostolici, con ordine di condannarlo, fosse pure un San Giovanni Battista. Essi lo processarono e torturarono da capo più fieramente; e quantunque egli, indebolito com'era, resistesse al dolore anche meglio di prima, e non si potesse quindi trovare alcun giusto pretesto di condanna, pure, senza esitare, sentenziarono a morte lui ed i suoi compagni, e li consegnarono al braccio secolare, non usando indulgenza neanco al Maruffi, che aveva vilmente calunniato, rinnegato il maestro, ed affermato tutto quello che avevano voluto. — Un frataccio di più o di meno poco monta, — così essi esclamarono. Ed in verità non era per loro prudente salvare la vita d'un uomo così debole e vano, che avrebbe potuto, anche senza volerlo, rivelare la falsificazione dei processi. Il giorno 23 maggio 1498 si vide in Piazza della Signoria costruito un lungo palco, alla estremità del quale sorgeva una gran croce, alle cui braccia furono impiccati i tre frati, il Savonarola nel mezzo, gli altri due dai lati. Quando essi furono spirati, i loro cadaveri vennero subito bruciati, e le loro ceneri gettate in Arno, in mezzo a una folla di monelli che applaudivano.
In tutto questo dramma v'era stato qualche cosa di eroico, e qualche cosa d'effimero. Eroici erano stati la fede, l'amore del bene universale, l'abnegazione del Savonarola; grande la sua eloquenza, il suo senno politico; effimero era stato invece lo zelo religioso che egli credette aver destato nel popolo fiorentino. Questo s'era esaltato solo per l'amore della libertà, ed aveva ascoltato con entusiasmo la parola religiosa del Frate fino a che essa aveva dato forza al governo popolare. Ma appena vide in lui un pericolo per la Repubblica, senza molto [291] esitare lo abbandonò al Papa. Ed invero, quando il povero Frate cessò di respirare, parve un momento che i pericoli da ogni parte minacciati al governo da lui fondato, scomparissero del tutto. Gli alleati non parlavano più di voler rimettere Piero de' Medici; il Papa, contentissimo, mandava elogi e dava speranze; il Valentino non minacciava più d'invadere la Toscana, e Firenze credette perciò di potersi occupare solo della guerra contro Pisa, senza pensare ad altro. Pur troppo non andò molto e si vide che queste erano speranze vane, che ben altro ci voleva a saziare la inestinguibile avidità dei Borgia. Ma non v'era allora più rimedio. Bisognò invano pentirsi d'aver soffocato una voce che aveva sempre sostenuto la libertà; di avere spento ingiustamente, iniquamente un uomo che tanto bene aveva fatto e poteva ancora fare allo Stato, alla morale, alla religione. La sua morte lo rese per molti un santo ed un martire, e per più di un secolo gli mantenne in Firenze ammiratori ed adoratori, i quali nei nuovi pericoli della patria si dimostrarono degni seguaci del loro maestro, illustrando con eroismo la fine della Repubblica. Comunque sia di ciò, nel maggio del 1498 gli Arrabbiati avevano trionfato; ma non osarono per questo di mutar la forma di governo consigliata dal Savonarola, la quale fu invece consolidata. I Piagnoni continuarono tuttavia ad essere perseguitati, e molti di essi vennero cacciati dagli uffici, nei quali entrarono i loro avversarî più dichiarati. In questo momento appunto comparisce sulla scena, ed ottiene ufficio politico un uomo che fu certo più grande del Savonarola, ma di una grandezza assai diversa. Di lui dobbiamo ora esclusivamente occuparci.
[293]
Famiglia, nascita e primi studî di Niccolò Machiavelli. Viene eletto segretario dei Dieci.
(1469-1498)
Niccolò Machiavelli comparisce la prima volta nella storia l'anno 1498, ventinovesimo di sua età. Allora era già arrivata in Firenze la scomunica contro il Savonarola, cui la Signoria era avversa, e intorno a lui s'addensava da ogni lato la tempesta, che doveva tra qualche mese condurlo al patibolo. Per evitare maggiori scandali, egli aveva ordinato al suo fido discepolo fra Domenico da Pescia di predicare in San Lorenzo alle donne, e, lasciato il Duomo, s'era ritirato in San Marco, dove rivolgeva la sua parola agli uomini solamente. Colà venne il Machiavelli ad ascoltare due prediche, delle quali dètte poi ragguaglio ad un amico in Roma, con una lettera del giorno 8 marzo di quell'anno medesimo. In essa appariscono già evidenti alcune qualità più notevoli della sua indole, tanto diversa, anzi contraria affatto a quella del Savonarola. Egli non riesce a capir nulla di ciò che v'è di grande e di nobile nel Frate. Ascolta con un sorriso d'ironia e di scherno lo strano linguaggio di questo che chiamerà più tardi profeta disarmato. Lo [294] sente «squadernare i libri vostri, o preti, e trattarvi in modo che non ne mangerebbero i cani;» lo sente dire del Papa quello «che di quale vi vogliate scelleratissimo uomo dire si puote;» gli sembra che questo Frate venga «secondando i tempi e le sue bugìe colorendo:»[355] ma non sa capire come abbia preso un così gran potere in Firenze, nè come debba andare a finire la faccenda, e quindi prega l'amico che, se può, lo illumini.
Chi era, in mezzo a tanto bollore di passioni, questo indagatore a freddo? Ricordando la parte non piccola che egli ebbe dipoi negli affari della Repubblica, e quella grandissima che ebbe nella storia del pensiero moderno, ogni particolare intorno ai suoi studî, alla sua giovinezza, riuscirebbe prezioso. Invece i primi anni del Machiavelli sono e forse resteranno per sempre avvolti nelle tenebre. I suoi contemporanei non parlarono quasi mai di lui; dopo la sua morte nessuno degli amici o conoscenti pensò di scriverne la vita. Ed egli, occupato continuamente ad osservare gli uomini e le cose che lo circondano, non si ferma mai sopra sè stesso, non torna mai sul suo passato. Come uomo, come carattere, non pare che abbia un gran peso fra coloro che gli son vicini; le sue azioni o non ebbero molta importanza, o non furono molto avvertite. La stessa sua prodigiosa attività negli affari si manifesta principalmente colla penna; la sua vita si può dire che sia quasi tutta ne' suoi scritti, quantunque egli si trovasse in mezzo a molte e varie [295] vicende. In ciò è assai diverso dal Guicciardini, cui pur somiglia in tante cose. Questi, infatti, salito ad alti ufficî, fa ben sentire il potere e l'autorità della sua persona. Assalito dai contemporanei, si difende nell'Apologia, nei Ricordi biografici ed in altri scritti, nei quali spesso ed a lungo parla di sè. Comunque sia, noi ci sforzeremo di raccogliere tutte le notizie che ci fu dato trovare sulla famiglia e sui primi anni del Machiavelli. Sfortunatamente però sono assai poche.
La famiglia dei Machiavelli era antichissima in Toscana, e veniva da Montespertoli, piccolo Comune fra la val d'Elsa e la val di Pesa, poco lungi da Firenze. Nei loro antichi Quaderni di ricordanze, qualcuno dei quali trovasi anche oggi nelle biblioteche fiorentine, si legge che essi erano consorti dei signori di Montespertoli, anzi discendevano da un medesimo stipite. Buoninsegna di Dono dei Machiavelli, secondo queste Ricordanze, avrebbe, circa il 1120, avuto due figli, Castellano e Dono. Dal primo sarebbero venuti i Castellani signori di Montespertoli, dal secondo quelli che ebbero il nome di Machiavelli.[356] L'arme dei primi fu un'aquila ad ali spiegate in campo azzurro; l'arme dei secondi fu una croce azzurra in campo d'argento, con quattro chiodi (chiovi, chiavelli) del pari azzurri, ai quattro angoli della croce. Nel 1393 Ciango dei Castellani di Montespertoli lasciò a Buoninsegna e Lorenzo di Filippo Machiavelli, trisavolo del grande scrittore, il castello di Montespertoli con diritti di giuspatronato sopra molte chiese. Questa eredità, che non aveva gran valore, essendo allora aboliti i diritti feudali, portò ai Machiavelli alcuni privilegi, come, per esempio, la privativa del peso e della misura pubblica, l'omaggio di alcuni ceri offerti ogni anno, e permise loro di mettere [296] la propria arme sulla gola del pozzo, nella piazza del mercato, alla quale s'è ora dato il loro nome. Il resto della non pingue eredità s'andò dividendo fra i molti rami della numerosa famiglia. Assai poco ne venne quindi al padre di Niccolò Machiavelli, i cui beni erano nel vicino Comune di San Casciano. Aveva però sempre sul castello alcuni diritti, che non gli rendevano nulla, e diritti di patronato su varie chiese, parte dei quali venivano anch'essi dalla eredità di Montespertoli. I Machiavelli avevano le loro case[357] nel quartiere di Santo Spirito, tra Santa Felicita e il Ponte Vecchio in Firenze: colà si erano stabiliti da tempi assai remoti, e furono poi tra i più notabili popolani.[358] Infatti noi li troviamo [297] fra coloro che dovettero nel 1260,[359] dopo la rotta a Montaperti, esulare. Ben presto però rimpatriarono cogli altri Guelfi, e sono assai spesso ricordati nelle storie della Repubblica, al cui governo presero parte, vantando un gran numero di Priori e di Gonfalonieri.[360]
Bernardo di Niccolò Machiavelli, nato nel 1428, fu giureconsulto, esercitò qualche tempo l'ufficio di tesoriere nella Marca,[361] e nel 1450 ereditò ancora i beni di [298] suo zio Totto di Boninsegna Machiavelli.[362] Nel 1458 sposò Bartolommea vedova di Niccolò Benizzi, e figlia di Stefano dei Nelli, antica famiglia fiorentina. Non si può supporre che questo matrimonio aumentasse la sua privata fortuna, giacchè le donne portavano allora meschinissime doti. In ogni modo, nel catasto del 1498 la sua entrata, che poi, come vedremo, passò tutta, mediante un accordo di famiglia stipulato nel 1511, al figlio Niccolò, era valutata a fiorini larghi 110 e soldi 14,[363] il che lo rendeva non ricco, ma certo neppur povero. È impossibile fare un calcolo esatto; ma, tenuto conto del valore assai maggiore che aveva l'oro in quel tempo, non si va forse molto lungi dal vero, affermando che era una rendita corrispondente a quel che sarebbero oggi quattro o cinquemila lire italiane.[364] Se Bernardo era uomo dato agli studî, Bartolommea era donna religiosa e non priva di cultura, avendo scritto alcuni Capitoli e Laudi alla Beata Vergine, indirizzati, secondo che troviamo [299] affermato, appunto al figlio Niccolò.[365] Dal loro matrimonio nacquero quattro figli: Totto, Niccolò, Primerana e Ginevra. Delle donne, la prima sposò messer Francesco Vernacci, la seconda messer Bernardo Minerbetti. Dei maschi, Totto, nato nel 1463, non si sa che prendesse moglie, e cadde ben presto in oscurità; Niccolò, invece, nato il 3 di maggio 1469, divenne subito, come vedremo, il personaggio più autorevole della famiglia, così pe' suoi studî come pel suo ingegno. Il giorno 11 d'ottobre 1496 moriva la madre del Machiavelli; e neppure su questo fatto, che nella vita d'ogni uomo ebbe sempre un'importanza grandissima, troviamo una sola parola che ci possa, anche da lontano, far sapere quello che il figlio sentisse allora. Tutto rimane per noi interamente oscuro. Egli aveva già ventisette anni, e sino a quel tempo non ci resta di lui un sol verso, una qualche parola di scrittori antichi, che ce lo facciano conoscere poco o molto.[366]
[300]
I più antichi scritti che abbiamo di lui, sono una lettera italiana ed un brano di lettera latina, ambedue del dicembre 1497, che trattano il medesimo argomento.[367] Sin da tempi antichi, non però antichissimi, i Machiavelli avevano avuto il diritto di giuspatronato sulla chiesa di Santa Maria della Fagna in Mugello. Questo diritto era poi stato ad essi tolto, e volevano ora usurparlo i Pazzi. Laonde tutta la famiglia, sebbene fosse ancora vivo Bernardo, commise al figlio di lui, Niccolò, che scrivesse in favore dei comuni diritti. Così abbiamo le sue due prime lettere, che sono dirette A un prelato romano, che probabilmente era il cardinal Perugino, giacchè a lui scriveva con calore sul medesimo argomento anche la Repubblica.[368] In esse il Machiavelli, con molta [301] accortezza, con molte lusinghe e promesse, con un linguaggio altisonante, sostenne i giusti diritti, che Maclavellorum famiglia aveva alla sua difesa affidati, e che difatti finalmente trionfarono.
Due cose risultano chiare da tutto ciò: che egli conosceva allora il latino e lo scriveva, il che era stato messo in dubbio da qualcuno; che tutti i Machiavelli facevano gran conto di lui, avendolo eletto come loro rappresentante e difensore. In mezzo alle poche notizie pervenuteci, le quali spesso anche si contradicono, non sarà inopportuno cercare di fermar bene quelle almeno che sono sicure. Non può di certo far maraviglia, che avesse già una sufficiente istruzione letteraria un uomo così singolarmente dotato dalla natura, nato in una famiglia non priva di fortuna, nè di cultura; che passò la sua giovanezza ai tempi di Lorenzo il Magnifico, quando abbondavano le scuole e le pubbliche lezioni nello Studio, quando le lettere italiane e le latine s'imparavano quasi senza accorgersene, anche conversando, e le reminiscenze dell'antichità erano nell'atmosfera stessa che si respirava. Strano sarebbe stato invece quello che pretesero alcuni, seguendo le poco sicure affermazioni del Giovio, che cioè il Machiavelli fosse allora quasi privo d'ogni cultura, e solo più tardi apprendesse da Marcello Virgilio Adriani tutte quelle cognizioni, che troviamo nelle sue opere, d'autori greci o latini.[369] Da un altro lato, [302] sebbene egli avesse fin dalla sua gioventù una discreta cultura, e col tempo progredisse molto nello studio dei classici latini, ed in ciò gli giovasse non poco il conversare frequente con Marcello Virgilio, non si può neppure prestar fede all'affermazione di coloro che vorrebbero farne un erudito, un profondo conoscitore del greco.[370] Che abbia o no conosciuto i primi elementi del greco, non si può nè affermare nè negare, ed è cosa in sè stessa di nessuna importanza; che molto leggesse le traduzioni di autori greci, e se ne valesse ne' suoi scritti, non si può mettere in dubbio; ma che fosse in grado di leggerli nell'originale, il che avrebbe certo molta importanza a sapersi, non vi è nessun sicuro argomento per poterlo credere. In mezzo a tante citazioni latine, non se ne trova una sola in greco; abbiamo di lui qualche traduzione dal latino, non una sola pagina che egli dica di aver tradotta dal greco, nè un solo autore che egli affermi di aver letto in quella lingua. Da un altro lato è certo che i suoi contemporanei non lo ponevano fra gli eruditi; il Varchi anzi lo dice «più tosto non senza lettere che letterato.»[371] Giuliano de' Ricci, che pur era figlio d'una figlia del Machiavelli, combattendo il Giovio, dimostra che il suo illustre antenato conosceva il latino, ma del greco non dice neppure una sola parola.[372] In conclusione, da tutto quel che sappiamo con [303] certezza, si può dedurre che il Machiavelli ebbe nella sua gioventù la più generale istruzione letteraria de' suoi tempi, non quella d'un erudito, e gli scrittori greci studiò assai, ma solo nelle traduzioni; nè pare che si addentrasse gran fatto nello studio della giurisprudenza, di cui dovette però aver qualche cognizione.[373] Il resto fece più [304] tardi da sè con la lettura, con la meditazione, più di tutto con la esperienza degli affari e la conoscenza degli uomini. Certo egli dovè da una cultura comparativamente ristretta sentir qualche danno; ma ne ebbe anche l'inestimabile vantaggio di serbare più viva la spontanea originalità del suo ingegno e del suo stile, i quali non furono perciò, come a tanti seguiva allora, soffocati sotto il peso della erudizione.
Grande era tuttavia il suo entusiasmo per gli antichi, specialmente pei Romani; ma questa sua ammirazione aveva qualche cosa che ricordava Cola di Rienzo e Stefano Porcari, piuttosto che il semplice erudito. Vivendo poi in quel secolo di lettere, di arti, di congiure, di scandali papali e d'invasioni straniere, egli aveva passato il suo tempo non solo coi libri, ma anche con gli uomini, conversando e meditando di continuo sugli avvenimenti che seguivano assai rapidi intorno a lui. E fra questi, dovè fargli una profonda e penosa impressione la venuta [305] dei Francesi nel 1494, impressione mitigata solo in parte dalla cacciata dei Medici e dalla proclamazione della repubblica in Firenze. Se non che, pieno di reminiscenze pagane e d'una grande avversione per tutto ciò che sentiva di preti o di frati, gli andò assai poco ai versi, che la Repubblica fosse dominata dalla eloquenza di un frate, ed inclinò piuttosto verso coloro che lo menarono al supplizio, sebbene più tardi si lasciasse ne' suoi scritti sfuggire parole di ammirazione, neppure queste però libere affatto da ogni ironia. Ma quando le ceneri del Savonarola vennero gettate in Arno, ed i Piagnoni furono perseguitati, le cose pigliarono un aspetto meno contrario alle sue idee. Allora, come è naturale, seguirono anche diversi mutamenti nei pubblici ufficî, ed il Machiavelli, che a ventinove anni si trovava senza una professione e senza una fortuna propria, pensò di cercare qualche occupazione, che gli désse col proprio lavoro onesto guadagno. La cosa non doveva essere molto difficile, perchè egli non mirava troppo [306] alto, e la Repubblica soleva già da molto tempo adoperare in ufficî retribuiti, massime nelle sue segreterie, uomini di lettere.
La prima di esse era quella dei Signori, a capo della quale stava il primo Segretario o Cancelliere della Repubblica. Questo era un ufficio assai onorevole, affidato ad uomini come Leonardo Aretino, Bartolommeo Scala e simili. Veniva poi la seconda segreteria o cancelleria, che, sebbene avesse una sua propria importanza, e forse anche maggior lavoro, dovendo trattare gli affari interni dello Stato, pure dipendeva dalla prima. V'erano inoltre due, più specialmente chiamati i Segretarî della Signoria, ai quali s'assegnavano uffici diversi. Spesso li mandavano in giro pel territorio o fuori, con speciali commissioni; qualche volta affidavano ad uno di essi la direzione della seconda cancelleria, o lo ponevano a servigio dei Dieci. Questi, come è noto, provvedevano alle cose della guerra; nominavano o proponevano i commissarî nel territorio della Repubblica; inviavano anche ambasciatori all'estero, e tenevano con essi corrispondenza, ma allora si trovavano come alla dipendenza dei Signori, i quali con la loro prima cancelleria trattavano di regola gli affari esterni. Così la seconda cancelleria, della quale i Dieci si valevano pei loro affari, riceveva spesso ordini dalla prima, e quando, cosa che seguì più volte, essi non venivano eletti, ne facevano le veci i Signori.[374]
[307]
Verso la fine del 1497 era morto Bartolommeo Scala, celebre erudito, il quale, salvo una breve interruzione, era stato fin dal 1465 Segretario della Repubblica, ed in sua vece fu, nel febbraio del 1498, nominato Marcello Virgilio Adriani.[375] Più tardi fu privato d'ufficio Alessandro Braccesi, che era uno dei due Segretari della Signoria, messo a capo della seconda cancelleria, ed allora, [308] il 15 giugno, vennero messi a partito quattro nomi, nel Consiglio degli Ottanta, e dopo quattro giorni, cioè il 19 dello stesso mese, nel Consiglio Maggiore. Fra questi nomi trovavasi appunto quello di Niccolò di Bernardo Machiavelli, il quale ebbe il maggior numero di voti, e restò quindi eletto. Fu così il primo dei due Segretari della Signoria, con l'incarico di reggere la seconda cancelleria.[376] Il 14 luglio seguente venne dai Signori rinominato, con incarico di servire anche i Dieci; ed in questo doppio ufficio cui era stato eletto allora per un anno, fu di tempo in tempo riconfermato, fino a che non cadde il governo repubblicano nel 1512.[377] Dopo la riforma delle segreterie, fatta nel 1498, al cancelliere della seconda spettava lo stipendio di fiorini 200 l'anno, al primo dei due Segretarî della Signoria ne spettavano invece 192, ma il Machiavelli, per le riduzioni recentemente fatte, ne riceveva solamente 100.[378] Egli aveva circa ventinove anni, quando si trovò la prima volta in ufficio accanto a Marcello Virgilio, il quale potè essere perciò il suo dotto amico, non il suo maestro come da alcuni si pretese.
[309]
Marcello Virgilio era nato nel 1464, aveva quindi soli cinque anni più del Machiavelli. Era stato discepolo del Landino e del Poliziano; conosceva il greco ed il latino, la medicina e le scienze naturali; aveva una grande facilità di parlare improvviso, anche in latino. E queste qualità oratorie venivano favorite dalla sua apparenza esteriore; giacchè egli era alto della persona, di un portamento dignitoso, con una fronte spaziosa, un viso aperto. Nominato nello Studio professore di lettere nel 1497, continuò per alcuni anni, certamente fino al 1502, a dar lezione, cumulando, dopo il 1498, l'ufficio di professore con quello di segretario. Egli in realtà continuò ad esser sempre un erudito, ed anche come segretario della Repubblica si occupò più che altro di dar forma classica alle lettere che scriveva, secondo gli ordini ricevuti, e non tralasciò mai i suoi studi. Nelle biblioteche fiorentine si trova un gran numero di suoi lavori manoscritti. Molte sono le sue orazioni latine di ogni genere, filosofiche, letterarie, politiche, sempre erudite e retoriche. Egli fece, come vedremo fra poco, la solenne orazione, quando fu dato a Paolo Vitelli il bastone del comando dell'esercito, e fece anche l'elogio funebre di Marsilio Ficino. Non pochi sono gli scritti letterari che lasciò: poesie latine, traduzioni, comenti di autori greci o latini. Ma l'opera sua più nota, cominciata sin dai primi anni del suo ufficio di professore, fu la traduzione dell'Ars Medica di Dioscoride, pubblicata a Basilea nel 1518 e dedicata a Leone X. Nel 1515, per una caduta da cavallo, ebbe a soffrir molto degli occhi e restò balbuziente per tutta la vita.[379] Morì nel 1521 in età di 56 anni.
[310]
Diverso assai appariva il Machiavelli. Di media statura, magro, con occhi vivacissimi, capelli scuri, naso piuttosto piccolo; la sua testa non era grossa, la fronte era larga, e la bocca soleva tenere sempre stretta: tutto aveva in lui l'espressione di un accortissimo osservatore e di un pensatore, non però d'un uomo molto autorevole, che s'imponesse agli altri.[380] Nè poteva facilmente liberarsi [311] da un sarcasmo che stava continuo sulle sue labbra, e scintillava da' suoi occhi, dandogli tutta l'apparenza d'uno spirito calcolatore, impassibile e mordace. Pure la sua fantasia aveva su di lui un gran potere, e facilmente lo dominava, qualche volta anzi lo trasportava a segno da farlo inaspettatamente sembrare un visionario. Cominciò subito a servire la Repubblica fedelmente, con tutto l'ardore d'un antico Fiorentino, esaltato com'era dalle reminiscenze di Roma pagana e repubblicana. Se egli non era [312] in tutto contento del presente governo, era però contentissimo che fossero cessati la tirannide dei Medici, e il predominio di un frate. Certo il conversare con Marcello Virgilio fu utile ai suoi studî, ed è credibile che egli assistesse ancora ad alcune lezioni del suo superiore di ufficio; ma non gli poteva restare molto tempo libero, perchè era occupato da mattina a sera a scrivere lettere d'affari, delle quali si trovano anche oggi molte migliaia nell'Archivio fiorentino. Oltre di ciò, egli fu [313] di continuo mandato dai Dieci in giro pel territorio dello Stato, e ben presto gli vennero affidate anche importanti legazioni all'estero. In queste faccende poneva tutto sè stesso, perchè erano di suo gusto, e perchè ebbe sempre una febbrile attività. Le poche ore che gli restavano libere dedicava alla lettura, al conversare, ed anche ai piaceri della vita. Di allegra compagnia, si trovava in buoni termini coi colleghi delle due cancellerie, e più assai che con Marcello Virgilio, fece lega con quelli che avevano un grado inferiore al suo, sopra tutto con Biagio Buonaccorsi, il quale, sebbene di non grande ingegno, era assai buon uomo e amico fedele. Quando il Machiavelli si trovava lontano, il Buonaccorsi gli scriveva lettere lunghe e affettuose, dalle quali trasparisce una vera amicizia; ma si vede ancora che il capo della seconda cancelleria e segretario dei Dieci era molto dato al vivere allegro, ai mutabili e poco casti amori, dei quali discorrevano fra loro con un linguaggio tutt'altro che edificante.
Niccolò Machiavelli comincia ad esercitare l'ufficio di Segretario dei Dieci. — Sua legazione a Forlì. — Condanna e morte di Paolo Vitelli. — Discorso sopra le cose di Pisa.
(1498-1499)
La principale faccenda che la Repubblica avesse ora alle mani era la guerra di Pisa, e pareva che gli altri Stati dovessero finalmente permetterle che si misurasse coll'antica sua avversaria, senza altrimenti mescolarsene. Il Papa e gli alleati si dichiaravano, infatti, contenti di Firenze per il supplizio del Savonarola, e non chiedevano altro; l'amicizia di Firenze colla Francia si sperava che dovesse tenere in freno gli altri potentati italiani. È [314] vero che Luigi XII, salendo sul trono di Francia, aveva assunto ancora i titoli di re di Gerusalemme e di Sicilia, di duca di Milano, alle antiche pretese sul Napoletano aggiungendo così quelle sulla Lombardia, da lui vantate a cagione della sua avola Valentina Visconti; ed è vero del pari che ciò faceva prevedere nuovi guai all'Italia, aveva anzi già messo Milano e Napoli in una grandissima paura. Ma da un altro lato tutto ciò procurava ai Fiorentini i segreti aiuti del Moro, che cercava d'averli amici; e così crescevano le loro speranze. Se non che i Veneziani continuavano apertamente a favorire Pisa; i Lucchesi, come più deboli, si contentavano d'aiutarla di nascosto, ed essa con animo risoluto, con mirabile energia, si teneva sempre pronta alla difesa. Aveva armato non solo tutti i suoi cittadini, ma anche gli uomini del contado, che nelle continue scaramucce s'erano agguerriti. I Veneziani le avevano mandato trecento Stradiotti, o sia Albanesi a cavallo, armati alla leggera, abilissimi nelle scorrerie e negli assalti improvvisi; parecchi soldati francesi erano, fin dalla venuta di Carlo VIII, rimasti nelle sue mura a difenderla. A questo s'aggiungeva che, negli ultimi tempi, a causa delle interne dissensioni, i Fiorentini avevano trascurato assai le cose della guerra, ed il loro capitano generale, conte Rinuccio da Marciano, insieme col commissario Guglielmo de' Pazzi, avevano in uno scontro di qualche importanza ricevuto tale rotta, che a fatica ne erano essi stessi scampati vivi.[381] E fu questo appunto il momento scelto dai Veneziani, per minacciare d'avanzarsi nel Casentino, a fin di richiamare colà l'esercito assediante. Occorrevano adunque nuovi e sempre più energici provvedimenti.
Si cominciò collo scrivere lettere urgenti al re di Francia, perchè impedisse ai Veneziani suoi alleati di penetrare nel Casentino; si chiese e s'ottenne dal Moro buona somma in prestito; si deliberò ancora di far venire [315] di Francia, col consenso del Re, Paolo e Vitellozzo Vitelli, al primo dei quali, che aveva reputazione di gran capitano, venne offerto addirittura il comando dell'esercito.[382] Arrivato egli a Firenze, vi fu subito, ai primi del giugno 1498, una grande solennità. In piazza della Signoria, dinanzi al Palazzo, erano il popolo affollato e i magistrati della Repubblica; Marcello Virgilio leggeva un'orazione latina, in cui, celebrando le battaglie e le virtù del nuovo capitano, ivi presente, le paragonava a quelle dei più grandi dell'antichità.[383] E nello stesso tempo, l'astrologo che il Vitelli menava seco, era con quelli della Signoria dentro la corte del Palazzo, osservando ed «aspettando l'avvenimento del felice punto.»[384] Non appena che essi fecero il cenno convenuto, fu dato nelle trombe, e venne sospesa l'orazione, affrettandosi il Gonfaloniere a consegnare il bastone del comando, con la speranza di prosperi successi. Dopo di che, finita l'orazione, s'andò in duomo a sentire la messa, ed il 6 di giugno 1498 il celebrato capitano partì per il campo. Allora cominciò subito l'attività dei Dieci per dare impulso alla guerra, e cominciarono le molte e gravi faccende del Machiavelli.
È appena credibile quante brighe, noie e pericoli questa piccola impresa désse alla Repubblica. Si principiò subito con le gelosie tra il vecchio ed il nuovo capitano, [316] per le quali fu necessario dare al conte Rinuccio la paga stessa che al Vitelli, lasciandogli il titolo di governatore generale, mentre a questo, col nome di capitano, veniva affidata la direzione principale della guerra. Le cose parevano cominciar prosperamente con la presa di varie terre, quando s'intese a un tratto che i Veneziani s'avanzavano già verso il Casentino. Bisognò quindi assoldare in fretta nuove genti e nuovi capitani, indebolire la guerra nel Pisano, per portare lo sforzo maggiore contro di questi, che nel settembre, passando per Val di Lamone, presero Marradi. Ivi trovarono però i Fiorentini comandati dal conte Rinuccio, ed ingrossati da genti mandate in aiuto dal Moro. Retrocessero perciò alquanto, ma s'inoltrarono invece per la via del Casentino, occupando la badìa di Camaldoli; passato poi il Monte Alvernia, pigliarono per sorpresa Bibbiena. Questi fatti costrinsero i Fiorentini a sospendere addirittura la guerra di Pisa, e, lasciati colà pochi uomini a guardia delle terre più importanti, a mandare tutto l'esercito col Vitelli contro il nuovo nemico. L'abate don Basilio dei Camaldolesi era corso intanto nella montagna a sollevare e comandare i contadini di quei luoghi alpestri, che a lui erano devoti, e riuscì a fermare i Veneziani, recando loro gravissimi danni.[385] In questo momento il duca d'Urbino, che comandava nel campo nemico, trovandosi ammalato, chiese un salvocondotto per sè e pei suoi al Vitelli, che subito glielo concesse. La qual cosa produsse uno sdegno, e destò un gravissimo sospetto nell'animo dei Fiorentini, i quali allora seppero anche come il loro capitano si era pubblicamente fatto vedere in colloquio con Piero e Giuliano de' Medici, che seguivano il campo nemico.
[317]
Sopraggiunse intanto il verno, e la guerra con difficoltà si poteva continuare nei monti, sebbene nessuno volesse ritirarsi, quando il duca Ercole di Ferrara s'offerse mediatore di pace tra Firenze, Pisa e Venezia. Accettata che fu la mediazione, egli pronunziò il suo lodo ai primi del 1499. Secondo il quale, pel 24 di aprile i Veneziani dovevano ritirarsi dal Casentino e dal Pisano; i Fiorentini dovevano pagar loro la somma di 100,000 ducati in dodici anni; i Pisani, restando padroni della fortezza e liberi nel loro commercio, dovevano tornare sotto Firenze. Nessuno fu contento; pure i Fiorentini accettarono il lodo, ed i Veneziani ritirarono le loro genti; ma i Pisani s'apparecchiarono invece, con più ardore che mai, a combattere.[386] Il segreto di tutta la faccenda era, che s'aspettavano altrove nuovi e maggiori avvenimenti, essendosi Luigi XII accordato col Papa e coi Veneziani, per venire in Italia contro il Moro. Quindi ognuno ritirava le sue genti dalla Toscana, dove Firenze e Pisa erano perciò lasciate sole, l'una di fronte all'altra.
Per questi eventi il Machiavelli aveva avuto moltissimo da fare, giacchè da lui dipendeva tutto il lavoro dell'ufficio dei Dieci. Scriveva un numero infinito di lettere; mandava ordini; spediva danari, armi, e qualche volta doveva egli stesso muoversi per andare a parlare ai capitani. Così il 24 marzo del 1499 fu mandato a Pontedera, presso Jacopo IV d'Appiano signore di Piombino, che essendo a servizio della Repubblica, [318] chiedeva maggiore condotta ed una paga uguale a quella del conte Rinuccio. Potè indurlo a contentarsi d'un aumento della condotta;[387] ma gli altri capitani erano più insistenti; le loro pretese e lamenti non avevano mai fine. Paolo Vitelli, non volendo stare alla pari col conte Rinuccio, chiese maggiore paga e l'ottenne, il che subito destò la gelosia del Conte, che a sua volta cominciò a strepitare. Tutte queste cose avevano portato le spese della guerra, e quindi le gravezze, a tale che erano divenute proprio incomportabili. I libri delle provvisioni della Repubblica in questi anni non ci presentano altro che una serie di sempre nuovi e più ingegnosi trovati, per cavar danari dai cittadini. Lo scontento popolare veniva cresciuto dal vedere che i Dieci, chiamati perciò i Dieci spendenti, avevano largheggiato non solo per poca prudenza, ma ancora per indebiti favori ai loro amici, cui davano commissioni o condotte inutili;[388] e si minacciava [319] quasi di prorompere in aperto tumulto. Così fu che, quando nel maggio doveva procedersi alle nuove elezioni, si sentì il popolo gridare: nè Dieci nè danari non fanno pei nostri pari; e non vi fu modo alcuno di indurlo a votare.[389] La Signoria dovette quindi, per qualche mese piegarsi a dirigere essa le cose della guerra, coll'aiuto d'alcuni fra i più autorevoli cittadini. Tutte le accuse fatte ai Dieci non toccavano però, nè direttamente nè indirettamente, il Machiavelli loro segretario, il quale aveva anzi in questo breve tempo guadagnato assai di autorità e di reputazione. La seconda cancelleria a lui affidata, si trovò allora, insieme colla prima, alla dipendenza esclusiva dei Signori; ma questo modificò poco o punto la sua condizione, e solo potè crescergli le faccende.
[320]
Il 12 luglio 1499 egli ebbe la prima commissione di qualche importanza, essendo stato inviato con lettera dei Signori, firmata Marcello Virgilio, presso Caterina Sforza, contessa d'Imola e Forlì. Era questo un piccolo Stato, la cui amicizia veniva con grande premura ricercata dalla Repubblica, perchè trovavasi non solo sulla via che dall'Italia superiore conduce alla inferiore, ma anche su quella che per Val di Lamone conduce in Toscana. Di là s'erano avanzati i Veneziani, di là aveva minacciato il duca Valentino. Il paese era inoltre armigero, e forniva soldati di ventura a chi ne chiedeva alla Contessa, la quale ne faceva quasi commercio. Suo figlio primogenito, Ottaviano Riario, sebbene giovanissimo, per guadagnar danari cercava condotte, e nel 1498 ne aveva ottenuta dai Fiorentini, che volevano tenersi amica sua madre, una di quindicimila ducati, da durare sino a tutto giugno, ma che poteva essere rinnovata, a beneplacito dei Signori, per un secondo anno. Il primo termine era scorso con assai poca soddisfazione del Riario, il quale diceva che non gli erano stati mantenuti tutti i patti, e però non voleva saperne altro. Ma la Contessa, più prudente assai, vedendo che i Fiorentini desideravano esserle amici, e che il Valentino faceva sempre grandi disegni sulla Romagna, si dimostrava disposta invece a confermare il beneplacito, aggiungendo che aveva richiesta d'uomini d'arme da suo zio il Moro, e voleva quindi pronta risposta, per sapere come regolarsi. Da ciò la commissione data al Machiavelli.
La Contessa era una donna singolarissima, e ben capace di tenergli testa. Nata nel 1462 da illegittimi amori di Galeazzo Maria Sforza[390] con Lucrezia, moglie d'un Landriani milanese, di forme regolari e belle, forte di [321] corpo, d'animo più che virile, ebbe molte e strane avventure, nelle quali aveva sempre fatto prova di un'accortezza e prontezza ammirabili davvero, di una energia e d'un coraggio, che l'avevano resa celebre in tutta Italia. Giovanissima fu sposata al dissoluto figlio di Sisto IV, Girolamo Riario, il quale, per la violenza del suo carattere e del suo governo, si trovò sempre sotto il pugnale de' congiurati. Nel 1487, già vicina a partorire, lo assisteva malato in Imola, quando arrivò la nuova, che la fortezza di Forlì era stata presa dal maestro di palazzo Innocenzo Codronchi, il quale aveva ucciso il castellano. E Caterina partì la notte stessa, entrò nel castello, vi lasciò a guardia Tommaso Feo, e ne uscì menando seco il Codronchi ad Imola, dove il giorno di poi partorì. Il 14 aprile 1488 scoppiò in Forlì una congiura contro Girolamo Riario, che fu pugnalato; ed ella, restata a 26 anni vedova con sei figli, si trovò prigioniera degli Orsi capi della rivolta. Ma neppure allora si perdette d'animo. Entrò nel castello, che si teneva per lei, facendo credere che ne avrebbe ordinato la resa al popolo, nelle cui mani lasciava perciò in ostaggio i suoi figli. Invece aveva già mandato a chiedere aiuti a Milano, e quando fu al sicuro nel castello, s'apparecchiò a difendersi sino all'arrivo dei soccorsi. A chi voleva spaventarla, minacciando d'uccidere i figli, rispose che avrebbe avuto modo di farne degli altri. La città fu ripresa, e la ribellione venne da lei punita col sangue. Più tardi la Contessa fece a un tratto disarmare il fido castellano che l'aveva salvata, sostituendogli il fratello, Giacomo Feo, bellissimo giovane che poi sposò. Anche questo secondo marito fu assassinato nel 1495, un giorno che seguiva a cavallo la Contessa, la quale era in carrozza, e tornavano insieme dalla caccia. Ella montò subito a cavallo, ed entrò in Forlì, dove fece aspra, sanguinosa, quasi furibonda vendetta. Quaranta persone andarono a morte fra strazi atroci, e cinquanta vennero imprigionate o perseguitate. Pure fu detto e ripetuto, [322] che ella aveva prezzolato gli uccisori del marito, e che ora ne pigliava pretesto a disfarsi dei propri nemici. Ma a ciò rispose, che, grazie a Dio, nè essa nè altri di casa Sforza avevano mai avuto bisogno di ricorrere a così volgari assassini, quando si erano voluti disfare di qualcuno. Nel 1497 sposò la terza volta, e fu moglie di Giovanni di Pier Francesco, del ramo cadetto de' Medici, che era stato mandato colà ambasciatore della Repubblica fiorentina.[391] E allora fu fatta cittadina di Firenze, in parte perchè si cercava occasione di lusingarla e tenersela amica; in parte perchè le antiche leggi, che vietavano i matrimoni di cittadini, massime cittadini potenti, con stranieri, erano state rimesse in vigore dopo che il parentado dei Medici cogli Orsini di Roma aveva fatto salire i primi in grande superbia. Nell'aprile del 1498 ella ebbe un altro figlio, assai noto più tardi col nome di Giovanni delle Bande Nere, soldato valorosissimo e padre di Cosimo, primo granduca di Toscana. Verso la fine di quel medesimo anno, anche il suo terzo marito cessò di vivere. La Contessa dunque aveva 36 anni, era vedova di tre mariti, madre di molti figli, padrona assoluta del suo piccolo Stato, e nota come donna piena d'accortezza, d'ingegno e di grandissima energia, quando le si presentò Niccolò Machiavelli.[392]
[323]
I Fiorentini erano disposti a riconfermare il beneplacito al signor Ottaviano, ma con una condotta che non superasse i 10,000 ducati, il loro scopo essendo solo d'avere la Contessa amica. Incaricavano il Machiavelli di ciò, e anche di comperare da lei, se ne aveva, polvere, salnitro e palle, perchè le richieste non cessavano mai dal campo di Pisa.[393] Ed egli, dopo essersi fermato a Castrocaro, donde ragguagliò i Signori intorno ai partiti che dividevano quel paese, arrivato a Forlì, il giorno 16 luglio, si presentò subito alla Contessa, che trovò con l'agente del Moro, in presenza del quale espose lo scopo della sua legazione, l'animo della Repubblica e il desiderio che essa aveva di buona amicizia con lei. E questa, dopo avere ascoltato con attenzione, disse che le parole dei Fiorentini «l'avevano sempre soddisfatta, ma che le erano bene dispiaciuti sempre i fatti;»[394] e pigliò tempo a pensare. Più tardi gli fece sapere che da Milano le erano offerti migliori patti, e poi cominciarono le trattative. Di polvere o altro non potè dar nulla, perchè ne mancava ella stessa. Invece abbondava di fanti, che raccoglieva, passava ogni giorno in rivista, e mandava poi a Milano. Il Machiavelli, invitato da Marcello Virgilio, trattò per averne subito e spedirli a Pisa; ma non furono d'accordo nè sulla somma da pagare, nè sul tempo in cui si potevano avere.[395] Il 22 luglio egli credeva d'aver concluso la condotta, avendo offerto fino [324] a 12,000 ducati; pure aggiungeva di non essere certo, perchè la Contessa «era stata sempre sull'onorevole,» ed a lui non era riuscito di capire se inclinava verso Firenze o verso Milano. «Io vedo bene,» egli scriveva, «la Corte piena di Fiorentini, i quali sembrano avere in mano lo Stato; inoltre, ed è quello che più importa, la Contessa vede pure il duca di Milano assalito, senza sapere che sicurezza vi sia in lui; ma da un altro lato l'agente del Moro par che comandi, e di continuo partono fanti per Milano.» Infatti, sebbene il 23 luglio tutto paresse che fosse concluso, e che si dovesse il giorno di poi sottoscrivere l'accordo, pure quando il Machiavelli si ripresentò per la firma, la Contessa, ricevutolo in presenza del solito agente milanese, gli disse: «Avere ripensato la notte, che a lei conveniva meglio aderire ai patti, solo quando i Fiorentini si dichiarassero obbligati a difenderle lo Stato. Che se essa gli mandò a dire altrimenti il giorno innanzi, non doveva maravigliarsene, perchè le cose quanto più si discutono, meglio s'intendono.»[396] Ma i Signori avevano già fatto sapere al Machiavelli, che erano decisi a non assumere un tale obbligo; a lui dunque non restava altro che tornarsene a Firenze, come fece.[397]
Tutta l'apparenza di questa legazione farebbe credere, che la Contessa fosse stata più furba del Machiavelli, il quale sembrerebbe essersi lasciato aggirare da una donna. Nè, se ciò fosse, vi sarebbe da maravigliarsene punto, pensando che Caterina Sforza era una donna d'animo virile, che da più tempo governava sola il suo Stato, ed aveva [325] molta pratica degli affari, quando il Segretario fiorentino, invece, con tutto il suo grande ingegno, era un semplice letterato, che faceva ora le sue prime armi nella diplomazia. In sostanza però i Fiorentini non avevano nessuna ragione d'essere scontenti. Il loro scopo non era stato di concludere la condotta, bensì d'avere amica la Contessa, senza spendere danari; e ciò era riuscito a maraviglia, perchè le trattative non furono rotte, ma venne da Forlì un uomo fidato di lei a continuarle in Firenze.[398] Al Machiavelli poi la legazione fu utilissima, perchè le sue lettere erano state da tutti molto lodate in Palazzo. Il suo sempre fido amico e collega Biagio Buonaccorsi, che era un repubblicano ammiratore del Savonarola, del Benivieni, di Pico della Mirandola; amante degli studi, sebbene mediocre letterato; autore di poesie e d'un Diario che narra assai fedelmente i fatti di Firenze dal 1498 al 1512, gli scriveva continuamente e lo ragguagliava di tutto. «A mio giudizio,» diceva una sua lettera del 19 luglio, «voi avete eseguito insino a ora con grande onore la commissione ingiuntavi, di che io ho preso piacere grandissimo, e di continuo piglio...: sì che seguitate, che infino ad ora ci avete fatto grande onore.» Lo stesso ripeteva in altre lettere, in una delle quali gli chiedeva un ritratto della Contessa, pregandolo che ne facesse «uno ruotolo, acciò le pieghe non la guastino.» E gli faceva anche vivissima istanza che tornasse subito, perchè senza di lui la cancelleria era caduta in un gran disordine, e l'invidia e la gelosia lavoravano assai; onde «lo star costì non fa per voi, e qui è un trabocco di faccende quanto fussi mai.»[399] [326] Questi furono pel Machiavelli anni di dolori domestici. Nell'ottobre del 1496 gli era morta la madre, nel maggio del 1500 gli moriva il padre.
Prima di partire per la sua legazione a Forlì, il Machiavelli era stato, come dicemmo, occupato a scrivere lettere per calmare le gelosie dei capitani, e spingerli [327] concordi alla guerra, cercando con ogni argomento di far nascere in essi quell'amore alla Repubblica, che non sentivano. Il Vitelli aveva proposto d'assaltare Cascina, ed essendogli stato consentito, la prese il 26 giugno, cosa che riempì di gioia e di speranza i Fiorentini, i quali cominciarono subito ad aver grande opinione del suo valore. Ma invece da questo momento ogni cosa restò ferma, mentre le spese crescevano smisuratamente; sicchè, quando il Machiavelli fece ritorno da Forlì trovò i Signori sgomenti, il popolo irritato, e i capitani che chiedevano danari che non v'erano. Nei primi d'agosto egli faceva loro scrivere, in nome dei Signori, che le difficoltà, per indurre i Consigli a votar nuove spese erano grandissime; che se si andava ancora in lungo così, «sarebbe impossibile a mezza Italia sopperire a queste artiglierie.»[400] [328] E poco di poi aggiungeva, «come, avendo infino a oggi per cotesta espedizione speso fra costì e qui circa sessantaquattro mila ducati, si è munto ogni uno; e per fare questi vi mandiamo al presente (2000 ducati), si sono vôte tutte le casse....» Se non fate presto, «senza dubbio noi resteremo a piè, perchè sei mila ducati che bisognassino ancora, ci farebbero desperare al tutto di codesta vittoria.»[401]
Allora però vi fu un momento di grandissima speranza, perchè giunse la nuova che era stata presa la torre di Stampace, e che da 25 a 30 braccia delle mura di Pisa erano già a terra; sicchè d'ora in ora s'aspettava il corriere con la desiderata notizia che gli assalitori erano entrati per la breccia. Invece si seppe che il giorno 10, data la battaglia, e giunti fino alla chiesa di San Paolo, quando tutto l'esercito, e specialmente i giovani fiorentini andati come volontarî al campo, si mostravano pieni d'indomabile ardore, sopravvenne a un tratto, non desiderato nè aspettato da nessuno, l'ordine della ritirata. Anzi Paolo Vitelli, vedendo che i soldati volevano andar oltre in ogni modo, corse con suo fratello Vitellozzo a ributtarli indietro a colpi di stocco.[402]
Queste notizie portarono al colmo lo sdegno dei Fiorentini, e fecero nascere gravi sospetti di tradimento a carico del Vitelli. Si ricordava da tutti il salvocondotto da [329] lui dato in Casentino al duca d'Urbino, quando s'era lasciato anche vedere dai suoi soldati parlare con Piero e Giuliano dei Medici. Poco prima della presa di Cascina, aveva fatto prigioniero un tal Ranieri della Sassetta, che, dopo essere stato a soldo dei Fiorentini, aveva disertato ai Pisani, pigliando parte in mille intrighi contro la Repubblica. I Signori lo volevano subito a Firenze, per condannarlo, ed egli invece lo lasciò fuggire, dicendo «non volersi render bargello d'un soldato valente e da bene.»[403] Ed ora fermava l'esercito, quando appunto la vittoria era certa, e la città stessa di Pisa sembrava già presa, adducendo esser sicuro d'averla a patti! Tutto ciò era più che sufficiente a distruggere ogni fede in lui, ed a far perdere la pazienza. I Signori infatti dissero chiaro, che non volevano essere più «menati al buio;»[404] ed il 20 agosto fecero dal Machiavelli scrivere ai commissarî nel campo: Noi abbiamo dato al capitano tutto quello che ha voluto, eppure vediamo, «con varie cavillazioni ed aggiramenti, tornare in vano ogni nostra fatica.»[405] Due di noi sarebbero perciò venuti costà in persona, se le leggi lo consentissero, per cercar di scoprire le origini di codesti aggiramenti, «poi che voi o non ce li volete scrivere o in fatto non ve li pare conoscere.»[406] Ma tutto era vano. Intanto le febbri facevano stragi nel campo, che s'andava così assottigliando, mentre i Pisani ricevevano aiuti. I due commissarî s'ammalarono di febbre anch'essi, ed uno ne morì. Ai nuovi che furono subito mandati, il Machiavelli scriveva in nome dei Signori: Noi avremmo preferito una disfatta al non tentare nulla in un momento così decisivo. «Non sappiamo [330] nè che ci dire, nè con qual ragione escusarci in cospetto di tutto questo popolo, il quale ci parrà aver pasciuto di favole, tenendolo di dì in dì con vana promessa di certa vittoria.»[407]
Un partito in ogni modo bisognava prendere, e siccome non v'era altro rimedio, nella totale mancanza di danaro, dopo la condotta del Vitelli ed i gravi sospetti che di lui s'erano concepiti, così fu dato ordine di levare addirittura il campo, lasciando fortificati e guardati solo alcuni luoghi di maggiore importanza. Ma anche allora tutto andò male, giacchè, fra le altre cose, affondarono in Arno dieci barche, che portavano munizioni ed artiglierie, parte delle quali vennero in mano dei Pisani, che le ripescarono.[408] Ma questa faccenda non poteva passar liscia pel Vitelli. Dopo quel che era seguìto, e quando già tutti in Firenze lo credevano traditore, s'era anche sparsa la voce, che nella fuga del Moro da Milano, erano in mano dei Francesi venute delle carte dalle quali s'aveva la certezza, che egli trovavasi in [331] segreti accordi per tirare in lungo la guerra.[409] Braccio Martelli e Antonio Canigiani erano già partiti come commissarî di guerra, incaricati in apparenza di fornire il danaro necessario a levare il campo, ma in realtà mandati ad impadronirsi della persona di Paolo e di Vitellozzo Vitelli, il secondo dei quali, per fuggirsene, aveva allora chiesto un congedo, che gli era stato negato.
Le lettere scritte dal Machiavelli in questa occasione dimostrano che il segreto dell'affare era nelle sue mani, e che egli, persuaso della perfidia e tradimento del Vitelli, lavorava con zelo ed ardore grandissimi ad ottenere lo scopo desiderato. Il 27 settembre era assai vicino lo scioglimento del dramma, ed egli raccomandava ai commissarî che procedessero con energia contro i «nemici e ribelli» della Repubblica, trattandosi di salvarne l'onore, e di mostrare anche alla Francia, che si aveva il coraggio di provvedere alla propria sicurezza, e che si voleva essere rispettati non meno d'ogni altro potentato d'Italia. Poi conchiudeva, raccomandando che alla sollecitudine s'unisse tale circospezione e prudenza, «che nè il troppo animo, nè i troppi rispetti vi faccino errare, accelerando per l'una cagione più che non bisognerebbe, e per l'altra più che non patissi la occasione.»[410]
I due commissarî eseguirono gli ordini con prudenza. Il Vitelli alloggiava un miglio lontano da Cascina, dove arrivavano le artiglierie del campo. Lo invitarono colà il giorno 28, sotto colore di volerlo consultare sulle cose della guerra; ma dopo avere desinato insieme, si ritirarono con lui in una stanza segreta, ed ivi lo ritennero prigione. Avevano nel medesimo tempo mandato a pigliar Vitellozzo, che era ammalato in letto; questi però, avvedutosene, chiese tempo a vestirsi, ed invece fuggì [332] verso Pisa.[411] Portato a Firenze, Paolo fu esaminato l'ultimo di settembre, e sebbene non avesse confessato nulla, pure il giorno appresso venne decapitato. Di questo fatto si parlò molto nella Città e fuori, essendo il Vitelli un soldato di reputazione, che aveva anche l'amicizia di Francia. Il Guicciardini lo giudica innocente, spiegandone la inesplicabile condotta con la natura e le consuetudini dei capitani di ventura; il Nardi invece lo dichiara colpevole e giustamente condannato; il Buonaccorsi, che si trovava nella cancelleria, racconta la cosa senza comenti, conchiudendo: «e questo fu il fine di Pagolo Vitegli, uomo eccellentissimo.» Quanto al Machiavelli, sebbene non avesse occasione di parlare del fatto nelle Storie o nei Frammenti, i quali non vanno oltre la metà del 99, pure la opinione di lui è manifesta dai suoi Decennali,[412] dalle lettere che scrisse, e dall'ardore che mise nel condurre l'affare. Non sappiamo se il tradimento vero e proprio venisse allora provato; ma dalle deliberazioni e lettere del Consiglio dei Dieci in Venezia si vede chiaro che il Vitelli era disposto a tradire. Si tratta in esse di rimettere Piero de' Medici in Firenze con l'aiuto del Vitelli, cui si sarebbe data una condotta di quarantamila ducati, quale aveva già dai Fiorentini, o anche di più se egli insisteva.[413] Sia che di ciò i Fiorentini fossero [333] avvertiti o no, certo ad essi parve dimostrato abbastanza, che il Vitelli non aveva nessuna voglia di pigliar Pisa fino a che non si vedesse chiaro il resultato della guerra che i Francesi facevano contro Lodovico il Moro, col quale i Fiorentini temporeggiavano ancora.[414] Seguìta che fu la vittoria dei Francesi, pare che il Vitelli si fosse deciso, secondo afferma anche il Nardi,[415] ad operare per davvero; ma ormai era troppo tardi, aveva perduto ogni riputazione.[416]
[334]
Un'altra prova, se pur ve ne fosse bisogno, della parte grandissima che il Machiavelli prendeva in tutte le faccende della guerra, e del conto in cui l'opera sua era tenuta, la troviamo nel suo breve Discorso fatto al Magistrato de' Dieci sopra le cose di Pisa, che non ha data, ma che dalla lettura apparisce scritto in quest'anno o poco dopo.[417] È uno dei molti lavori, cui era dal suo ufficio obbligato, ed in esso, dopo avere con diversi e giusti ragionamenti dimostrata vana ogni speranza di sottomettere Pisa altrimenti che con la forza, ragguagliava intorno alle varie opinioni espresse dai capitani, circa il modo [335] di distribuire in due o tre campi le genti fiorentine, ed alle operazioni di guerra che essi proponevano. Il Machiavelli esponeva questi pareri e proposte con tanta esattezza, con tanta minuzia, da mostrare come sin d'allora la sua mente ed il suo studio si fossero rivolti non solo alle cose politiche, ma anche alle militari. O per meglio dire, si vede assai chiaro che la cognizione dell'arte della guerra già era divenuta per lui una parte essenziale della scienza di Stato.
Luigi XII in Italia. — Disfatta e prigionia del Moro. — Niccolò Machiavelli al campo di Pisa. — Prima legazione in Francia.
(1499-1500)
I Fiorentini s'erano affrettati a condannare il Vitelli, anche perchè non volevano che i nuovi e prosperi successi della Francia in Lombardia ponessero ostacolo alla esecuzione della sentenza. Questi eventi, infatti, portarono non piccola alterazione nelle cose di Toscana, e però dobbiamo ora parlarne.
Dopo la battaglia di Fornuovo, il Moro pareva divenuto davvero, secondo il suo antico desiderio, arbitro delle cose d'Italia. E per Firenze si ripeteva:
Cristo in cielo e il Moro in terra
Solo sa il fine di questa guerra.[418]
[336]
Egli stesso aveva fatto coniare una medaglia d'argento, con un vaso d'acqua da un lato, e il fuoco dall'altro, a simboleggiare che si teneva padrone della pace e della guerra. Aveva anche sopra una parete del suo palazzo fatto disegnare la carta d'Italia con molti galli, galletti e pulcini, ed un moro che li spazzava tutti con la granata in mano. Quando però chiese all'ambasciatore fiorentino, Francesco Gualterotti, che cosa pensasse del quadro, questi rispose che l'invenzione era bella, ma gli sembrava che quel moro, volendo spazzare i galli fuori d'Italia, si tirasse addosso tutta la spazzatura.[419] E così fu veramente.
Luigi XII pretese sempre d'aver diritti sul Ducato di Milano. Salito che fu sul trono di Francia, cominciò subito col provvedere alla sicurezza interna dello Stato, diminuì le imposte, ordinò l'amministrazione, nominò ministro dirigente Giorgio d'Amboise arcivescovo di Rouen, rispettò le autorità costituite, e non deliberò mai senza consultarle, mantenne l'indipendenza delle Corti di giustizia, incoraggiò le libertà gallicane, fu economo. Quando con questo nuovo indirizzo egli ebbe assicurato l'ordine allo Stato, e molto favore a sè stesso, rivolse l'animo alla guerra d'Italia, che ormai non era più impopolare in Francia, per la maggiore fiducia che s'aveva nel nuovo Re, e pel desiderio di vendicare le umiliazioni sofferte. Il 9 febbraio del 1499 egli concluse coi Veneziani una lega offensiva e difensiva, per la conquista del Ducato di Milano, di cui s'obbligava a ceder loro una parte. Così il Moro si trovò tra due fuochi, senza speranza di soccorso, giacchè i Fiorentini erano stati sempre amici della Francia, ed il Papa, dopo le promesse di aiuti al Valentino, la secondava anch'egli. L'esercito francese, comandato da G. G. Trivulzio milanese, che dopo la battaglia di Fornuovo aveva acquistato un gran nome, e [337] da altri capitani di grido, forte di molti Svizzeri, si avanzò con una grande rapidità senza trovare ostacoli. I capitani del Moro parte lo tradirono, parte furono incapaci, ed il popolo si sollevò contro di lui; sicchè egli dovè pensare alla fuga, prima ancora che si fosse riavuto da questi inaspettati rovesci.[420] Si fece precedere dai due figli, accompagnati da suo fratello, il cardinale Ascanio, cui affidò la somma di 240,000 ducati. Il 2 settembre li seguì egli stesso in Germania.
Il dì 11 di quel mese l'esercito francese entrò in Milano, e poco dipoi fece il suo solenne ingresso Luigi XII, cui subito si presentarono gli ambasciatori dei vari Stati italiani, tra i quali ricevettero migliore accoglienza quelli di Firenze, per essersi la Repubblica, nonostante qualche oscillazione, serbata sempre fedele alla Francia così nella prospera, come nell'avversa fortuna.
I Fiorentini avevano però molte ragioni d'essere scontenti dei capitani francesi restati in Toscana, ai quali attribuivano la resistenza dei Pisani, e in parte l'esito sfortunato dell'assedio, il che li aveva appunto allora costretti a levare il campo ed a decapitare Paolo Vitelli. Ma invece di perdersi in vani lamenti, conchiusero in Milano un nuovo trattato col Re (19 ottobre 1499). Questi si obbligò ad aiutarli a sottomettere Pisa in ogni modo; essi dovevano tener pronti, per mandarli a Milano, 400 uomini d'arme e 3000 fanti, aiutare l'impresa di Napoli con 500 uomini d'arme e 50,000 scudi. La resa di Pisa doveva seguire prima che i Francesi tornassero nel Napoletano, e i Fiorentini dovevano intanto restituire al Re le somme imprestate loro dal Moro, secondo [338] che verrebbero determinate da G. G. Trivulzio, dopo avere esaminato le carte trovate a Milano.[421] E promettevano inoltre pigliare a loro soldo il prefetto Giovanni della Rovere, fratello del cardinale di San Piero in Vincoli, cui la Francia voleva far cosa grata.[422]
Ma tutto ciò rimase sospeso a cagione di nuovi eventi. I Francesi, specialmente il loro generale Trivulzio, che era stato nominato governatore di Milano, scontentarono per modo le popolazioni, che il Moro, presentatosi alla testa di 8000 Svizzeri da lui nuovamente assoldati, e 500 uomini d'arme, venne acclamato da coloro stessi che poco prima lo avevano cacciato, ed entrò in Milano il giorno 5 di febbraio. Il Trivulzio ne era già prima uscito, lasciando però ben guardato il castello; a Novara lasciò altri 400 uomini, e s'avanzò verso Mortara, dove stette ad aspettare rinforzi, mentre parecchi de' suoi Svizzeri lo abbandonavano per servire anch'essi il Moro, che dava paghe migliori. Se non che, nell'aprile, scesero in Italia, sotto il comando del La Trémoille, 10,000 Svizzeri, i quali combattevano agli stipendi della Francia. Ben presto i due eserciti si trovarono di fronte, già in ordine di battaglia, quando gli Svizzeri del Moro dichiararono che essi erano stati assoldati individualmente, e però non potevano combattere contro la bandiera elvetica, portata dai loro connazionali, che Luigi XII aveva avuti mediante trattato concluso direttamente con la Confederazione. E così lo tradirono in faccia al nemico, chiedendo ancora, con mille pretesti e senza indugio, le paghe scadute, non volendo neppure aspettare fino a che [339] arrivassero a lui aiuti italiani. Tutto quello che il misero Duca potè ottenere, fu di nascondersi nelle loro file, travestito da frate per salvarsi. Ma, fosse la sua paura o il nuovo tradimento d'alcuni soldati, egli fu riconosciuto e preso prigioniero il 10 di aprile 1500. La stessa sorte toccò a parecchi de' suoi capitani ed al fratello Ascanio, che, fuggito da Milano, fu da un falso amico tradito ai Veneziani, e da essi ceduto ai Francesi. Così, secondo la profezia del Gualterotti, il Moro s'era veramente «tirata addosso tutta la spazzatura,» e la sua fortuna cadde per sempre. Quando entrò prigioniero a Lione, accorse a vederlo una tal moltitudine, che bisognò difenderlo colle armi. Chiuso nel castello di Loches in Turena, vi morì dopo 10 anni di dura prigionìa. Il cardinale Ascanio fu condotto invece nella torre di Bourges, ma venne dopo qualche tempo rimesso in libertà.
Il Re, fatto accorto dalla passata esperienza, mandò a governare la Lombardia Giorgio d'Amboise, il quale era adesso cardinale, e lo chiamavano in Italia il cardinale di Roano (Rouen). Egli, pensando che valeva meglio «taglieggiare che saccheggiare,» condannò Milano a pagare per le spese di guerra 300,000 ducati, e così, in proporzione, le altre città, promovendo assai minore scontento di quel che aveva fatto il Trivulzio. Dopo di ciò fece il suo ingresso nella capitale lombarda, precedendo di poco il Re, che subito fu colà raggiunto dall'ambasciatore fiorentino, Tommaso Soderini, venuto a congratularsi ed a trattare circa il numero dei soldati da mandare a Pisa, secondo i patti già prima fermati. Fu giudicato che bastassero 500 lance, 4000 Svizzeri e 2000 Guasconi, le prime a spese della Francia, gli altri invece, con le artiglierie e carriaggi, pagati dai Fiorentini, a ragione di 24,000 ducati il mese.[423] Questi patti erano onerosissimi per la [340] Repubblica, che già aveva assunto tanti altri obblighi verso la Francia; pure si piegò a tutto, per la speranza di potere con un valido esercito venir subito a termine dell'impresa, sborsando solo due o tre paghe.
Invece dovette fare adesso una nuova e più dura esperienza dei Francesi. Il cardinale di Rouen, nelle cui mani era la somma delle cose, cercava di far mantenere da altri l'esercito del Re, e quindi volle non solo che le paghe cominciassero a decorrere dal maggio, assai prima cioè che le genti fossero in Toscana, ma ancora che se ne promettesse una pel ritorno. E bisognò consentire. Ai 22 di giugno finalmente gli Svizzeri ed i Guasconi partirono da Piacenza con 22 falconetti e 6 cannoni, sotto il comando del Beaumont, chiesto dai Fiorentini stessi, invece d'Ives d'Alègre, che il Re voleva mandar loro. Il Beaumont o Belmonte, come lo chiamavano tra noi, era il solo dei capitani francesi rimasti in Toscana, che avesse serbato la fede. Messo al comando di Livorno, l'aveva, secondo i patti, ceduta ai Fiorentini, i quali per ciò appunto di lui solamente si fidavano. I nuovi mercenarî svizzeri e guasconi s'avanzarono con lentezza, taglieggiando e saccheggiando le terre per cui passavano, a benefizio proprio o del Re, sebbene avessero già riscosso le paghe. Anzi, quando a Piacenza furono numerati, se ne trovarono 1200 più del fissato, e bisognò, per una volta almeno, pagare anch'essi.[424] La condotta di tutta questa gente sarebbe davvero inesplicabile, se [341] non si sapesse che cosa erano allora i soldati mercenarî, e se non si sapesse che il cardinale di Rouen mirava sopratutto a cavar danari da amici e da nemici. Si fermarono quindi a Bologna per averne dal Bentivoglio; ed in Lunigiana, contro ogni volontà dei Fiorentini, spogliarono Alberigo Malaspina di parte del suo proprio Stato, istigati a ciò dal fratello Gabriello, cui lo cedettero. Pigliarono Pietrasanta, e non la resero ai Fiorentini, come avrebbero dovuto. Le grida, i tumulti e le minacce che facevano per avere le vettovaglie, di cui parevano sempre scontenti, erano poi qualche cosa d'incredibile.
La Repubblica aveva già mandato Giovan Battista Bartolini commissario al campo, perchè apparecchiasse tutto; ma conoscendo che cosa era la petulante insolenza dei soldati stranieri, aveva mandato anche presso di loro due commissarî speciali, Luca degli Albizzi e Giovan Battista Ridolfi, con Niccolò Machiavelli in qualità di loro segretario. Questi avevano assai difficile faccenda alle mani, perchè dovevano accompagnare l'esercito e provvedere alle insaziabili voglie di quelle orde affamate, che dopo il pasto avevano più fame che prima. Presero la via di Pistoia e Pescia, ragguagliando i Signori con brevi lettere del loro cammino. Il 18 giugno, arrivati a Camaiore, incontrarono l'esercito che accompagnarono a Cascina, dove giunsero il 23. Qui si cominciarono subito a sentire più forti i minacciosi lamenti, per la pretesa mancanza di vettovaglie, specialmente del vino.[425] Giovan Battista Ridolfi, che sin dal principio era stato contrario al chiedere o accettare gli aiuti di Francia, dai quali non si aspettava nulla di bene, appena seguirono [342] i primi disordini, se ne partì col pretesto di far conoscere ai Signori lo stato delle cose, e sollecitare pronti rimedî. Ma Luca degli Albizzi, uomo d'un coraggio quasi temerario, restò invece col Machiavelli in mezzo alle orde minacciose, senza mai perdersi d'animo. A qualcuno che lo consigliava di starsene alquanto lontano dal campo, rispose: chi ha paura, torni a Firenze,[426] e andò oltre con l'esercito. Vennero ambasciatori pisani, offerendo di cedere la città in mano dei Francesi, con la condizione però che la tenessero un 25 o 30 giorni prima di darla ai Fiorentini. Il Beaumont voleva accettare; ma l'Albizzi, in nome dei Signori, ricusò, dicendo che in un mese potevano seguire mutamenti impreveduti, e che ormai, essendo armati era necessario usare la forza.[427]
Il 29 giugno l'esercito era finalmente sotto le mura di Pisa, in numero di 8000 uomini, sempre lamentando la mancanza di vettovaglie; pure la notte si piantarono le tende, e poi si puntarono le artiglierie. L'Albizzi, sempre in mezzo a loro, faceva quanto era in lui perchè nulla mancasse, e non si sgomentava, sebbene vedesse [343] molto chiaro che da un momento all'altro poteva trovarsi a gravissimo pericolo. «S'egli è possibile mandarci del pane, voi ci rimetterete l'anima in corpo,» scriveva il 30 di giugno al commissario Bartolini, che si trovava in Cascina.[428] Quello stesso giorno si cominciò a far fuoco, e si durò fino alle ore 21, quando furono gettate a terra da quaranta braccia di mura. Era il momento di dare l'assalto e farla finita; ma s'avvidero, invece, che i Pisani avevano cavato un fosso dietro al muro, e dietro al fosso fatto ripari, dai quali si difendevano; sicchè non fu possibile andar oltre. E così anche questa volta, nel momento in cui la città pareva presa, tutto andò in fumo. L'esercito invilito cominciò a ritirarsi ed a tumultuare di nuovo, per la mancanza o la cattiva qualità delle vettovaglie, e subito fu in un così gran disordine, che il Beaumont disse all'Albizzi di non poter più rispondere della impresa, dando la colpa di tutto ai cattivi provvedimenti de' Fiorentini. Nè valsero proteste o assicurazioni in contrario.[429]
Il 7 luglio i soldati guasconi se ne erano senz'altro partiti, tanto che l'Albizzi scriveva al Bartolini, che li trattasse addirittura da nemici. Ma il giorno seguente scriveva ai Signori, che gli Svizzeri erano entrati nella sua camera, chiedendo danari e minacciando pagarsi del suo sangue. «I Francesi sembrano spaventati, scusansi e confortansi con l'acqua fresca; lo stesso capitano Beaumont è smarrito, ma insiste sempre per aver le paghe. Io non volli prima annoiare invano le Signorie Vostre; ma ora bisogna in ogni modo risolvere che partito si [344] vuol prendere con questa gente, e provvedere. Sarebbe bene pensare anche se si vuole salvare la mia vita.» «Non reputino le Signorie Vostre che viltà muova a questo, che io intendo a ogni modo non fuggire il pericolo, quando sia giudicato a proposito della Città.»[430]
Le previsioni dell'Albizzi s'erano il giorno dopo già avverate. Il Machiavelli, della cui mano sono la più parte di queste lettere, scriveva dal campo, in suo proprio nome, che verso le tre ore s'erano presentati un centinaio di Svizzeri, chiedendo danari, e non ottenendoli, avevano menato prigioniero l'Albizzi.[431] Questi venne trascinato a piedi fino all'alloggiamento del baglì di Dijon, e di là scriveva lo stesso giorno, che trovavasi d'ora in ora a disputare la vita, in mezzo ai soldati che lo minacciavano con le alabarde in sul viso. Volevano che désse le paghe anche ad una compagnia di circa 500 Svizzeri arrivati da Roma, alla qual cosa, non avendo essa alcun fondamento di ragione, s'era opposto energicamente. Neppure in quei difficili momenti egli perdette la calma, anzi nella stessa lettera dava utili consigli; si doleva però amaramente d'essere stato abbandonato «come persona rifiutata e perduta.... Che Dio mi conforti almeno, se non con altro, con la morte.»[432] Non ci fu però verso d'essere liberato fino a che non sottoscrisse, obbligandosi personalmente a pagare 1300 [345] ducati per gli Svizzeri venuti da Roma.[433] L'esercito allora si sciolse, ultimi a partire essendo stati gli uomini d'arme. Dopo tante spese e tanti sacrifizi, i Fiorentini si trovavano ora col campo sfornito di gente, e coi Pisani divenuti più audaci di prima.[434] Mandarono subito Piero Vespucci e Francesco Della Casa, nuovi commissari, a provvedere, per quanto si poteva, così alle paghe, come a raccogliere dai luoghi vicini nuove genti. Il Re scrisse lettere, dolendosi dell'accaduto, rimproverando i capitani, minacciando i soldati, promettendo di sottomettere Pisa in ogni modo.[435] Ma erano parole, cui non [346] tenevano dietro i fatti. Mandò il Duplessis, signore di Courçon, che a Firenze chiamavano Corcu o Corco, perchè esaminasse sul luogo quanto era accaduto, e riferisse.
Intanto però i Pisani uscivano dalle mura, e pigliavano prima Librafatta, poi il bastione detto della Ventura, che con molta spesa era stato costruito dal Vitelli. In questo modo aprivano le loro comunicazioni con Lucca, di dove ricevevano aiuti continui. Il Courçon, è vero, offeriva ai Fiorentini nuove genti del Re, con le quali potevano, egli diceva, fare continue scorrerìe, e stancare nel verno i Pisani, per sottometterli poi, al sopravvenire della buona stagione. Ma essi non vollero ormai più sapere nè di Francesi nè di Svizzeri, cosa che irritò moltissimo il Re, il quale, scontento dell'esito dell'impresa, perchè vergognoso alle sue armi, ne dava colpa ai Fiorentini, che avevano voluto a loro capitano il Beaumont e non Ives d'Alègre, da lui offerto; non avevano provveduto alle vettovaglie, nè dato in tempo le paghe richieste. Ma la principale ragione del suo scontento, era il vedere svanita la speranza di potere più a lungo addossare a Firenze la spesa d'una parte del suo esercito. Questi lamenti, non senza minacce, [347] erano assai gravi, ed i nemici della Repubblica soffiavano tanto nel fuoco, che si credette necessario mandare in Francia messer Francesco Della Casa e Niccolò Machiavelli, come quelli che essendosi trovati ambedue al campo, potevano ragguagliare de visu il Re, e smentire le ingiuste e calunniose accuse, annunziando anche l'arrivo sollecito di nuovi ambasciatori, per trattare accordi.[436]
Fino all'anno 1498 Niccolò Machiavelli aveva assai poco conosciuto gli uomini ed il mondo; il suo spirito s'era formato principalmente coi libri, massime cogli scrittori latini e la storia di Roma. Ma nei due anni trascorsi dipoi aveva con molta rapidità cominciato a fare esperienza della vita reale e delle faccende di Stato. La legazione a Forlì gli aveva dato una prima idea degl'intrighi diplomatici; l'affare del Vitelli e la condotta degli Svizzeri gli avevano ispirato un profondo disprezzo, quasi un odio contro i soldati mercenarî. La morte di suo padre, seguìta il 19 maggio 1500, quattro anni dopo quella della madre, e pochi mesi prima che morisse la sorella sposata al Vernacci, lo costrinse a far da capo della famiglia, sebbene non ne fosse il primogenito, e gli aumentò quindi cure e pensieri. La gita in Francia apriva adesso un nuovo campo di osservazione ed un largo orizzonte dinanzi al suo spirito, tanto più che, dopo i primi mesi, essendosi ammalato il suo collega, egli restò solo incaricato della modesta, ma pure importante legazione.[437]
[348]
Il 18 luglio 1500 fu fatta la deliberazione, che mandava il Della Casa ed il Machiavelli al Re, e vennero scritte le istruzioni con cui erano incaricati di persuadergli, che tutti i disordini del campo erano seguiti per colpa solamente de' suoi soldati, e cercare d'indurlo a diminuire le ingiuste ed esorbitanti pretese di denari, che egli voleva prima d'aver sottomesso Pisa. Dovevano far capo dal cardinale di Rouen, e guardarsi bene dallo sparlargli del capitano Beaumont, suo protetto. «Se però,» dicevano i Signori, «voi trovaste disposizione a sentirne dir male, allora fatelo vivamente e dategli imputazione di viltà e di corruzione.»[438] Lorenzo Lenzi, che era stato già da più tempo con Francesco Gualterotti ambasciatore fiorentino in Francia, sebbene fosse per andar via,[439] ripeteva loro presso a poco le stesse cose. Potevano essi sparlare quanto volevano degl'Italiani al campo; ma, «solo come in un trascorso di lingua,» lasciarsi andare ad accusare i veri colpevoli.[440]
Bisognava dunque navigare tra Scilla e Cariddi, per non offendere l'insolenza francese. Ed a queste difficoltà s'aggiungeva ancora l'essere i due inviati uomini di [349] assai modesta condizione sociale,[441] non ricchi e male retribuiti. A Francesco Della Casa era assegnato lo stipendio di lire otto di fiorini piccoli al giorno, ed al Machiavelli, che aveva grado inferiore, solo dopo molti lamenti da lui fatti per le spese incomportabili che sosteneva,[442] non punto minori di quelle del suo collega, fu dato uguale stipendio:[443] ma l'uscita restò sempre superiore all'entrata. Ben presto egli aveva già speso di suo quaranta ducati, ed ordinato al fratello Totto di far nuovo debito per altri settanta. Dovendo seguire il Re di città in città, era stato necessario fornirsi di servi e di cavalli, e sebbene in sul partire avessero avuto 80 fiorini ciascuno, avevano subito speso 100 ducati; il vivere e mantenersi decentemente costava loro uno scudo e mezzo al giorno, cioè più di quello che ricevevano. Così ambedue se ne lamentavano,[444] massime il Machiavelli, che non era ricco, ma di sua natura facile allo spendere.
Comunque sia di ciò, il 28 di luglio essi erano a Lione, dove trovarono il Re partito. Lo raggiunsero a Nevers, e dopo aver parlato col cardinale di Rouen, furono ricevuti il 7 agosto, presente esso cardinale, il Rubertet, il Trivulzio ed altri. Gl'Italiani formavano un terzo della Corte, erano tutti scontentissimi e desiderosi che l'esercito [350] francese tornasse presto a rivalicare le Alpi.[445] Esposti i fatti, appena che si accennava ad accusare i soldati di Francia, il Re ed i suoi «tagliavano i discorsi.» Tutto doveva essere colpa dei Fiorentini. Luigi XII voleva pel suo decoro condurre a termine l'impresa di Pisa, e però bisognava dar subito i danari necessarî. Gli oratori risposero che alla Repubblica, esausta come era, col popolo scontento per gli ultimi fatti, sarebbe stato impossibile trovarli. Si poteva bene sperare di averli ad impresa finita, quando la città di Pisa fosse stata consegnata. Ma qui subito esclamarono tutti ad una voce, che questa era una sconvenientissima proposta, perchè il Re non poteva fare le spese ai Fiorentini.[446] E così si continuò per molti giorni sempre allo stesso modo. Luigi XII vuol mandare i soldati, che i Fiorentini non vogliono; lamenta che gli Svizzeri non abbiano avuto il danaro fissato, e non dà ascolto quando gli si osserva che neppure avevano prestato il servizio promesso. Il cardinale insiste vivamente,[447] ed il Courçon,[448] tornato di Toscana, aggrava lo stato delle cose, che finisce col [351] divenire minaccioso davvero. «I Francesi,» scrivevano i due oratori, «sono accecati dalla loro potenza, e stimano solo chi è armato o è pronto a dar danari. Vedono in voi mancare queste due qualità, e però reputanvi ser Nichilo, battezzando l'impossibilità vostra, disunione, e la disonestà dell'esercito loro, cattivo governo vostro. Gli ambasciatori qui residenti sono partiti, nè si sente che arrivino i nuovi. Il grado e la qualità nostra, senza commissione grata, non sono per ripescare una cosa che sommerga.[449] Il Re è quindi scontentissimo, lamenta sempre d'aver dovuto pagare agli Svizzeri 38,000 franchi, i quali, secondo la convenzione di Milano, dovevate pagar voi, e minaccia fare di Pisa e d'altre terre vicine uno Stato indipendente.»[450] Per dar poi un utile consiglio, i due oratori suggerivano alla Repubblica «di farsi, mediante danaro, alcuni amici in Francia, mossi da altro che da affezione naturale; giacchè così fa chiunque ha da trattare qualche faccenda in questa Corte. E chi non fa così, crede di vincere il piato senza pagare il procuratore»[451].
Fino al 14 settembre le lettere erano state firmate sempre dai due inviati, ma erano quasi tutte scritte di mano del Machiavelli. Quel giorno poi il Re partiva da Melun, e il Della Casa, ammalato, andava per curarsi a Parigi; sicchè il Machiavelli restava solo a continuare il viaggio e la legazione, che dal 26 settembre in poi prende subito maggiore importanza, e s'estende in un più vasto campo. Egli non si ferma più al solo affare, pel quale era stato inviato; ma interroga, discorre sulle varie questioni attinenti alla politica italiana; di tutto ragguaglia i Signori, e poco dopo, invece, ragguaglia i Dieci, che furono allora rieletti, e tutto ciò fa con tale e tanta [352] premura, con tanto ardore, che qualche volta sembra quasi perdere di vista lo scopo particolare, molto limitato, della sua commissione. Valendosi ora del latino ed ora del francese, giacchè nella stessa Corte ben pochi parlavano l'italiano, egli ragionava con tutti, interrogava ognuno. E per la prima volta vediamo incominciare a manifestarsi tutta la penetrazione e l'originalità del suo ingegno, la potenza e la forza maravigliosa del suo stile. Viaggiando col cardinale di Rouen, e trovandolo sempre duro sull'altare del danaro, volse il discorso sull'esercito che il Papa raccoglieva cogli aiuti di Francia, per secondare i disegni del Valentino. E potè capire, «che se il Re aveva concesso tutto per l'impresa di Romagna, era stato mosso più dal non saper resistere alle sfrenate voglie del Papa, che dal desiderare veramente un esito favorevole.[452] Pure,» continuava il Machiavelli, «quanto più teme di Germania tanto più favorisce Roma, perchè ivi è il capo della religione, che è bene armato, ed ancora ve lo spinge il Cardinale, il quale, sentendosi qui invidiato da molti per avere in mano la somma delle cose, spera ricevere di là protezione efficace.» E appena si tornò a parlar di danari, subito il Cardinale s'infuriò di nuovo, e minacciò dicendo «che i Fiorentini sapevano far molto buone le loro ragioni, ma finirebbero col pentirsi della loro ostinazione.»[453]
Fortunatamente allora appunto l'aspetto delle cose cominciò a migliorare assai, essendo stato in Firenze eletto il nuovo ambasciatore Pier Francesco Tosinghi con più ampi poteri, ed avendo i Signori ottenuto dai Consigli facoltà di dare nuova somma di danari. Così al Machiavelli riuscì meno arduo calmare i furori dei Francesi, e continuare con essi ragionamenti di politica più generale: [353] egli ottenne anche la esplicita assicurazione, che il Valentino non avrebbe danneggiato la Toscana.[454] Ma il 21 novembre gli veniva da un amico affermato, che il Papa faceva ogni opera per metter male, assicurando che a lui sarebbe bastato l'animo, con l'aiuto che sperava dai Veneziani, di rimettere in Firenze Piero de' Medici, il quale avrebbe subito pagato al Re tutti i danari che voleva. Prometteva inoltre di tòrre lo Stato al Bentivoglio, e quanto a Ferrara ed a Mantova, che si mostravano pur sempre amiche di Firenze, farle «venire con la correggia al collo.» Il Machiavelli cercò allora di veder subito il Cardinale, e trovatolo ozioso, potè parlargli a lungo. Per combattere le calunnie del Papa contro i Fiorentini, addusse «non la loro fede, ma il loro interesse a stare uniti con la Francia. Il Papa cerca con ogni arte la distruzione degli amici del Re, per cavargli più facilmente l'Italia dalle mani.» «Ma Sua Maestà dovrebbe seguire l'ordine di coloro che hanno per lo addietro voluto possedere una provincia esterna, che è: diminuire i potenti, vezzeggiare i sudditi, mantenere gli amici, e guardarsi da' compagni, cioè da coloro che vogliono in tale luogo avere uguale autorità.» «E certo non sono i Fiorentini, nè Bologna o Ferrara che vogliono essere compagni del Re; ma piuttosto coloro che sempre pretesero dominare l'Italia, cioè i Veneziani e sopra tutti il Papa.» Il Cardinale prestò benigno ascolto a queste teorìe, che il modesto Segretario, esaltandosi sempre più nel parlare, esponeva in tòno quasi di maestro, e rispose che il Re «aveva gli orecchi lunghi ed il creder corto; ascoltava cioè tutti ma credeva solo a ciò che toccava con mano.»[455] E forse fu questa l'occasione [354] in cui, avendo il Cardinale detto che gl'Italiani non s'intendevano della guerra, il Machiavelli gli rispose che i Francesi non s'intendevano dello Stato, «perchè intendendosene, non avrebbero lasciato venire la Chiesa in tanta grandezza.»[456]
Il 24 novembre scrisse le due ultime lettere di questa legazione. Il Valentino aveva fatto allora minacciosi progressi, e i Fiorentini, impensieriti di ciò, avevano non solo sollecitata la partenza del nuovo ambasciatore, ma promesso ai rappresentanti della Francia, che in breve tempo avrebbero mandato danari al Re. Questi aspettava quindi più tranquillo, e mandò ordini precisi al Valentino, che non osasse assalire Bologna nè Firenze. Ed il Machiavelli, data con una prima lettera questa notizia, scriveva lo stesso giorno la seconda ed ultima, con cui raccomandava la lite di un tal Giulio De Scruciatis[457] napoletano, contro gli eredi Bandini in Firenze. «Aveva il De Scruciatis reso, e poteva rendere ancora utili servigi alla Repubblica. Io non so nulla,» egli continuava, «di questa sua causa; ma so bene che, mentre lo essere vostro con questa Maestà è tenero e in aria, pochi vi possono giovare, e ciascuno vi può nuocere. Perciò è necessario intrattenerlo almeno con buone parole, altrimenti alla prima vostra lettera che arriva qui, egli sarà [355] come una folgore in questa Corte;» «e fiegli creduto il male più facilmente che non gli è stato creduto il bene; e lui è uomo di qualche credito, loquace, audacissimo, importuno, terribile e senza mezzo nelle sue passioni, e per questo da fare qualche effetto in ogni sua impresa.» Dopo di ciò s'apparecchiava a partire.
Il lettore si sarà accorto come in alcuni punti di questa legazione, paia già quasi veder balenare da lontano, sebbene ancora in nube, lo scrittore dei Discorsi e del Principe. Quelle massime che più tardi il Machiavelli esporrà in una forma scientifica, vengono ora con mano ancora incerta abbozzate alla sfuggita, e come per caso: nelle successive legazioni vedremo che egli andrà sempre più chiaramente determinando e formulando gli stessi concetti. Anche il suo stile già comincia a prendere quel vigore, col quale ben presto egli riescirà a scolpire, con pochi tocchi di penna, uomini veri e vivi, a dare una straordinaria lucidità al proprio pensiero, e quindi a meritare d'essere universalmente giudicato il primo prosatore italiano. Non recherà quindi maraviglia il sentire come questa legazione facesse in Firenze un grandissimo onore al Machiavelli, e come il Buonaccorsi, fin dal 23 agosto, gli scrivesse con vero compiacimento, che le lettere da lui inviate venivano molto lodate dai più autorevoli cittadini[458]. E nell'agosto egli era ancora col Della Casa, che poneva la firma prima di lui, come principale incaricato. Possiamo dunque supporre facilmente che la Repubblica restasse poi sempre più soddisfatta del suo Segretario.
Tornato in patria, il Machiavelli si rimise con l'usato ardore al proprio ufficio, e i registri della Cancelleria son di nuovo ogni giorno pieni delle sue lettere. Gli affari [356] procedettero subito con ordine maggiore, sia perchè egli esercitava molta autorità sui suoi sottoposti, sia perchè erano stati rieletti i Dieci, i quali venivano scelti fra le persone più pratiche di cose militari, erano meno distratti da altre cure, duravano in ufficio sei mesi e non due solamente come i Signori. Le loro attribuzioni inoltre erano state, con la Provvisione del 18 settembre 1500, che li ristabiliva, meglio definite e limitate, non potendo più di loro autorità far paci o leghe, nè condotte per più di otto giorni, e dovendo in tutte le cose d'importanza avere l'approvazione degli Ottanta, prima che fossero definitivamente deliberate.[459]
Tumulti in Pistoia, dove è inviato il Machiavelli. — Il Valentino in Toscana; Condotta da lui stipulata coi Fiorentini. — Nuovo esercito francese in Italia. — Nuovi tumulti in Pistoia, e nuova gita del Machiavelli colà. — Continua la guerra di Pisa. — Ribellione di Arezzo e della Val di Chiana. — Il Machiavelli ed il vescovo Soderini inviati presso il Valentino in Urbino. — I Francesi vengono in aiuto per sedare i disordini d'Arezzo. — Del modo di trattare i popoli della Val di Chiana ribellati. — Creazione del Gonfaloniere a vita.
(1501-1502)
E le faccende non mancavano davvero, sebbene la guerra di Pisa fosse alquanto sedata. A Pistoia s'erano gravemente rincrudeliti i sanguinosi tumulti tra i Cancellieri ed i Panciatichi, i quali ultimi erano stati cacciati [357] dalla città, che restava sempre sottomessa a Firenze, ma con pericolo continuo di ribellione. Fu quindi necessario inviare a rimetter l'ordine, commissari speciali, uomini ed armi. Il Machiavelli non solo teneva la corrispondenza, dava ordini, veniva dai Signori e dai Dieci richiesto del suo avviso; ma fu più volte mandato colà. Ivi infatti lo troviamo nel febbraio, nel luglio e nell'ottobre, andato a vedere coi proprî occhi per poi riferire.
Molti dell'una e dell'altra parte furono confinati in Firenze; tutti i rimanenti invitati a rientrare in Pistoia, con obbligo a quel Comune di difenderli e di risarcirli largamente d'ogni nuovo danno che potessero patire, dandogli facoltà di rivalersene sugli offensori; e tutto ciò con una deliberazione dei Signori e dei Dieci fiorentini, in data del 28 aprile 1501.[460] Volevano i Pistoiesi lasciar fuori della loro città i Panciatichi, perchè avversi a Firenze; ma il Machiavelli scriveva ai Commissari, in nome dei Signori, il 4 maggio, che il tenere i Cancellieri dentro e i Panciatichi fuori era assai pericoloso, potendosi così a un tratto «perdere tutta la città o tutto il contado, e forse questo e quella insieme, trovandosi l'uno malcontento, l'altra piena di sospetto.» Concludeva che si eseguissero senz'altro gli ordini dati, valendosi delle forze che erano colà, perchè i Panciatichi rientrassero disarmati e fossero tenuti sotto buona guardia.[461]
[358]
Ben presto cominciavano più gravi pensieri da un altro lato. Il Valentino, impedito dagli ordini di Francia d'assalire Bologna, si rivolgeva verso la Toscana, ed insignoritosi di Brisighella, chiave della Val di Lamone, s'era, con l'aiuto di Dionigi Naldi,[462] uomo d'armi e di gran parentado colà, messo in grado di disporre di tutto quel paese. Egli chiedeva, minaccioso, libero passaggio attraverso il territorio della Repubblica, dicendo di volersene coi suoi tornare a Roma. Ed i Fiorentini, che sapevano con chi avevano da fare, mandarono a lui Piero Del Bene suo amico privato, mandarono un commissario di guerra sul confine a Castrocaro, ed uno speciale inviato a Roma, per informare di tutto l'ambasciatore francese: apparecchiarono nello stesso tempo 20,000 ducati[463] da spedirsi a Luigi XII, per averlo, come l'ebbero difatti, più decisamente favorevole. Intanto mille voci diverse correvano per tutto. I Senesi ed i Lucchesi mandavano continui aiuti a Pisa, dove Oliverotto da Fermo, soldato del Valentino, era entrato con alcuni cavalieri; i Vitelli aiutavano i Panciatichi a vendicarsi dei loro nemici. Da ogni parte erano noie e pericoli. Bisognava subito provvedere, ed il Machiavelli sembrava moltiplicarsi, scrivendo lettere, dando ordini ai capitani, ai commissari, ai magistrati.[464] Fortunatamente però arrivarono [359] avvisi di Francia, che promettevano sicuro aiuto, e così la Repubblica fu nel maggio assai più tranquilla.
Ma il Valentino non si fermava. A Firenze infatti venne la nuova che gli Orsini ed i Vitelli minacciavano già al confine; che un tal Ramazzotto, vecchio amico dei Medici, s'era presentato a Firenzuola, chiedendo la terra in nome del Duca e di Piero de' Medici.[465] E per questi fatti gli animi si sollevarono in modo, che si parlava perfino di creare una Balìa con pieni poteri,[466] cosa che poi non si fece; pure si pigliarono i necessarî provvedimenti a difendere la Città da un improvviso assalto. Si posero nei dintorni alcuni comandati, fatti venire dal Mugello e dal Casentino, sotto l'abate don Basilio; ne vennero anche dalla Romagna; altre genti furono messe dentro le mura. Il Machiavelli era l'anima di questi movimenti d'armati, e se ne occupava con un ardore singolarissimo in un uomo di lettere. Ma egli aveva, contro l'opinione prevalente allora, perduto ogni fede nelle armi mercenarie; questi comandati gli parevano il germe d'una milizia nazionale, chiamata a difendere la patria nel modo stesso che facevano gli antichi Romani, e ciò bastava a tener viva la sua fede, il suo entusiasmo.
Dopo di ciò si mandarono ambasciatori al Duca, invitandolo a passar pure se voleva; ma alla spicciolata, senza gli Orsini ed i Vitelli. Egli s'avanzò sdegnato pel Mugello, dove i suoi soldati venivano insultando e saccheggiando le terre; onde l'irritazione popolare andò sempre più crescendo nella Città e nella campagna, gridandosi per tutto contro la «pazienza asinina» dei magistrati, [360] i quali dovettero durare grandissima fatica ad impedire una sollevazione generale contro quell'esercito di predoni.[467] Il Duca finalmente, vedendo la mala parata, e sapendo che i Fiorentini adesso erano davvero protetti dalla Francia, dichiarò di volere stringere con essi sincera amicizia, mediante una condotta in qualità di loro capitano. Aggiungeva però che dovevano lasciargli libero il passo per andare alla sua impresa contro Piombino, e dovevano anche mutare la forma del governo, richiamando Piero dei Medici, affinchè si potesse esser sicuri delle loro promesse. Di fronte a queste pretese, i Fiorentini prima di tutto armarono altri mille uomini in Città, ordinando maggiore diligenza e buona guardia per ogni dove; risposero poi che, quanto all'impresa di Piombino, continuasse pure il suo viaggio; ma quanto al dovere essi mutare governo, non ne ragionasse neppure, che non era affar suo, e dei Medici nessuno voleva più sapere in Firenze. Il Valentino allora, non aggiungendo altro, arrivato che fu a Campi, fece sentire che si contentava d'una condotta di 36,000 ducati l'anno per un triennio, senza obbligo d'effettivo servizio, pronto però ad ogni richiesta, con 300 uomini d'arme, in caso di bisogno. In sostanza, non potendo ormai sperare altro, voleva almeno, secondo il solito, danari. Ed i Fiorentini, per farlo una volta partire, firmarono il 15 maggio 1501 la convenzione con cui gli concedevano la condotta, e fermavano alleanza perpetua fra le due parti.[468] Essi in [361] verità speravano di non dargli neppure un soldo, ed il Duca, che se n'era avvisto, accettava nonostante i patti, perchè, non avendo il danaro, avrebbe, in tempo più opportuno, trovato facile pretesto a nuove aggressioni. Intanto continuava il suo cammino saccheggiando, e giungeva a Piombino il 4 giugno. Ivi non potè far altro che pigliare qualche terra vicina e l'isola di Pianosa; passò poi, sopra alcune navi mandate dal Papa, nell'isola d'Elba.[469] Ma di là fu subito richiamato, per accompagnare i Francesi, che tornavano alla guerra nel Napoletano; e così, lasciate ben difese le poche terre conquistate, se ne andò in fretta a Roma, dove entrò come un trionfatore, sebbene le sue imprese fossero state più di predatore che di capitano.
Ma se la guerra nel Reame liberava la Repubblica dalla presenza del Valentino, essa le recava pure altri danni e pensieri. L'esercito francese forte di 1000 lance e 10,000 fanti, di cui 4000 erano Svizzeri, senza tener conto di più che 6000 uomini, i quali venivano per mare, s'avanzava diviso in due parti, l'una delle quali passava, col maggior numero delle artiglierie, per Pontremoli e Pisa; l'altra, discendendo da Castrocaro, doveva traversare quasi tutta la Toscana. Al che s'aggiungeva, che soldati spicciolati del Valentino con Oliverotto da Fermo, Vitellozzo Vitelli ed altri capitani, venendo alla coda, sarebbero andati al solito predando, o entrati in Pisa, avrebbero aiutato i ribelli. Bisognò dunque scrivere ai Commissarî e Podestà, perchè apparecchiassero [362] vettovaglie agli uni, si difendessero dagli altri; bisognò con 12,000 ducati soddisfare alle continue domande dei Francesi, fatte sempre col pretesto delle paghe dovute agli Svizzeri, che tanto male avevano servito la Repubblica.[470] Il Machiavelli s'adoperò a tutt'uomo in queste faccende, e finalmente, come Dio volle, l'esercito abbandonò la Toscana ed entrò nello Stato del Papa. A questo allora solamente fu reso noto il trattato segreto concluso in Granata fra i re di Spagna e di Francia, ed egli col suo solito cinismo promise l'investitura ai due sovrani.
[363]
Arrivati i Francesi al confine napoletano, l'infelice Federico raccoglieva le sue poche genti, avendo già messo ogni speranza d'aiuto nella Spagna, il cui esercito era comandato dal valoroso Consalvo di Cordova. Ma questi allora appunto dichiarò che doveva ricusare i feudi nel Napoletano, perchè i suoi doveri di capitano di Spagna non si conciliavano più con quelli di vassallo di Federico. Così il misero Re si trovò senza aiuti, ed il Reame fu in breve tempo tutto occupato da stranieri. Solo Capua resistette ai Francesi, e fu presa d'assalto nel mese di luglio, messa crudelmente a sacco, perdendovi la vita da settemila persone. Il Guicciardini afferma, che neppure le vergini nei chiostri poterono sfuggire alla libidine dei soldati, che molte donne si gettarono disperate nel Volturno, altre si ricoverarono in una torre. Colà il Valentino, che aveva seguìto l'esercito colla sua guardia, ma senza comando effettivo, e s'era nel saccheggio abbandonato ad ogni eccesso, avrebbe, secondo lo stesso scrittore, voluto vederle per sceglierne quaranta delle più belle. Il 19 agosto i Francesi entrarono in Napoli, e poco dopo Federico cedette interamente al loro Re, che gli diè in Francia il Ducato d'Angiò con 30,000 scudi di rendita. Ivi egli morì il 9 settembre 1504; i suoi figli lo seguirono ben presto nella tomba l'un dopo l'altro, e con essi s'estinse la casa aragonese di Napoli. Consalvo aveva intanto, senza trovare resistenza, preso la parte del Reame che spettava alla Spagna. Se non che, il trattato di Granata era stato, forse non a caso, scritto in maniera da dar luogo, nella divisione, a diverse interpretazioni. Ben presto fu chiaro infatti che l'uno o l'altro dei due sovrani doveva restare padrone di tutto, e che la decisione finale spettava alle armi. Nondimeno fra gli eserciti si venne allora ad un temporaneo accordo, amministrando in comune le province soggette a disputa.
Ed ora le genti del Valentino entravano il 3 di settembre in Piombino, donde l'Appiano fuggiva, e dove [364] nel febbraio veniva il Papa stesso col figlio a vedere i disegni delle fortezze, che questi voleva costruire colà.[471] Così i Fiorentini si trovavano da capo col temuto nemico alle porte, mentre che i Lucchesi ed i Pisani si mostravano sempre più audaci, e la Francia tornava a dimostrarsi poco benevola, sebbene, dopo averle pagato 30,000 ducati per gli Svizzeri, si trattasse ora di pagargliene ancora da 120 a 150 mila, in tre o quattro anni, sempre con la solita vana promessa di restituire Pisa.[472] Mentre tutto ciò teneva la Repubblica in sempre maggiori strettezze, e rendeva sempre più impopolari i Dieci, da Pistoia si chiedevano nell'ottobre pronti aiuti, perchè la città era di nuovo lacerata dal furore delle parti, e nessun ordine di governo vi era possibile. Il Machiavelli, che già era stato ripetutamente inviato colà, vi fu ora, nel mese d'ottobre, mandato altre due volte, per portare ordini, e suggerire, tornando, i necessari provvedimenti così ai Dieci come alla Signoria.[473] E questa faceva poi da lui stesso scrivere, che unico rimedio era pensare adesso a riordinare il governo e l'amministrazione della città, facendovi subito tornare i Panciatichi, per pensare più tardi al contado, ove i guai erano anche maggiori.[474] In questi mesi, tra le molte lettere, ordini ed istruzioni, egli scrisse ancora, nella sua qualità [365] di segretario, una breve relazione dei fatti seguìti in Pistoia, per dare ai magistrati una più chiara idea di tutto.[475] Di siffatte relazioni o narrazioni di quello che avveniva nel territorio della Repubblica, se ne compilavano allora molte nella cancelleria dei Dieci e della Signoria, e questa del Machiavelli, scrittura d'ufficio come le altre, non ha neppur essa maggiore importanza.
Calmati appena i torbidi di Pistoia, si sentiva nel maggio 1502 che Vitellozzo e gli Orsini s'avanzavano nella Val di Chiana, seguìti a poca distanza dal Valentino. E Massimiliano, volendo venire in Italia a prendere la corona, chiedeva ai Fiorentini, col solito pretesto di far guerra al Turco, 100,000 ducati, di cui 60,000 subito. Questi danari non furono dati; ma colla Francia bisognò bene obbligarsi a pagarle in tre anni 120,000 ducati, secondo un trattato d'alleanza, concluso il 12 aprile 1502, col quale il Re prometteva di difendere la Repubblica e mandarle 400 lance ad ogni richiesta.[476] Tutto questo però non bastava punto a fermare il Valentino, che invece lentamente s'avanzava, e intanto s'era talmente esausta di danari la Repubblica, che non si poteva più ricorrere a nuove gravezze, essendosi già messa perfino la Decima scalata, che differisce poco da quella che noi oggi chiamiamo imposta progressiva.[477] Così la guerra di Pisa dovè restare come sospesa, e restringersi solo a dare il guasto nel contado. I cittadini perciò furono da capo tanto scontenti dei Dieci, che di nuovo tornarono a non eleggerli, affidando le cose della guerra ad una commissione scelta dalla Signoria, il che le fece subito andare [366] di male in peggio.[478] I Pisani infatti s'avanzarono impadronendosi di Vico Pisano, e continuarono le trattative iniziate nello scorso dicembre col Papa e col Valentino, per formare uno Stato indipendente, che arrivasse fino al mare, e ripigliasse dall'altro lato le terre occupate dai Fiorentini, coi quali non volevano in nessun modo far mai pace o tregua. Il Valentino avrebbe avuto il titolo di duca di Pisa, e il Ducato sarebbe stato ereditario; verrebbe conservato l'antico magistrato degli Anziani, e uno dei Borgia sarebbe nominato arcivescovo della città.[479] Questi disegni restarono senza effetto, ma bastavano a mettere in pensiero i Fiorentini, a danno dei quali i Borgia cercavano sollevare nemici in tutta Italia, dicendo ora di volerla unire in lega contro gli stranieri in genere ed i Francesi in particolare.
Intanto Vitellozzo era già presso Arezzo, con manifesta intenzione di sollevarla, ed il Valentino se ne stava a poca distanza, con la simulata apparenza di non pigliar nessuna parte a ciò che uno dei suoi proprî capitani faceva.[480] Firenze, non potendo ora disporre di nessuna forza, spedì in gran fretta, come commissario di guerra, Guglielmo dei Pazzi, che era padre del vescovo d'Arezzo. Ma il commissario non era appena giunto colà, che il popolo si levò a tumulto (4 giugno), e dovettero, padre e figlio, chiudersi nella fortezza insieme col capitano fiorentino. Vitellozzo allora entrò con centoventi uomini d'arme e buon numero di fanti, seguìti subito da Giovan Paolo Baglioni, altro capitano del Valentino, con cinquanta [367] uomini d'arme e cinquecento fanti. Per riparare a questi pericoli, Firenze richiese dalla Francia le 400 lance promesse, anzi mandò Piero Soderini a Milano, per farle addirittura partire. Le genti del campo di Pisa ebbero intanto ordine d'avanzarsi per la Val di Chiana, dove fu mandato commissario, con ufficio di capitano, Antonio Giacomini Tebalducci, il quale, datosi da qualche tempo al mestiere dell'armi, aveva già cominciato a provare alla Repubblica quanto i capitani proprî valessero più dei mercenarî.[481] Ed il Machiavelli, che a lui continuamente doveva scrivere, ne seguiva i passi, e continuava le sue osservazioni, maturando le proprie idee sulla milizia nazionale. Ma le cose precipitavano, perchè la cittadella d'Arezzo, dopo una resistenza di 14 giorni, dovette arrendersi prima di poter ricevere aiuto dagli uomini partiti dal campo di Pisa, i quali perciò ebbero dai Dieci, nuovamente eletti, ordine di ritirarsi a Montevarchi, ora che i nemici, ingrossati in Arezzo, occupavano tutta la Val di Chiana, e Piero dei Medici col fratello s'era già unito ad essi.[482]
I Fiorentini, com'è facile immaginarlo, aspettavano ansiosissimi gli aiuti di Francia, per uscire dall'imminente pericolo, quando il Valentino (19 giugno) chiese che gl'inviassero persona con cui conferire; ed essi mandarono subito Francesco Soderini vescovo di Volterra, accompagnato dal Machiavelli. Il Duca trovavasi in Urbino, di cui s'era a tradimento impadronito; e l'infelice Guidobaldo di Montefeltro aveva potuto appena, con una fuga precipitosa su pei monti, salvare la propria vita, dopo che s'era creduto amico dei Borgia, e li aveva aiutati colle sue genti, il che era valso invece a fargli torre [368] improvvisamente lo Stato. Il Machiavelli restò in compagnia del Soderini qualche giorno solamente, per tornare subito in Firenze, a ragguagliare a voce i Signori. E però solo i due primi dispacci di questa legazione sono scritti da lui, sebbene anch'essi firmati dal vescovo Soderini. Nel secondo, che ha la data di Urbino 26 giugno, ante lucem, si trova descritto un ritratto del Valentino, che dimostra chiaro come questi avesse già lasciato una profonda impressione sull'animo del Segretario fiorentino. Furono ricevuti la sera del 24, a due ore di notte, nel palazzo in cui il Duca si trovava con pochi de' suoi, tenendo la porta sempre serrata e ben guardata. Egli disse di volere ormai uscire da ogni incertezza coi Fiorentini, ed essere loro amico o nemico vero. Quando non accettassero la sua amicizia, sarebbe scusato con Dio e cogli uomini, se avesse cercato d'assicurare in qualunque modo il proprio Stato, che confinava col loro per sì lungo tratto. «Io voglio avere esplicita sicurtà, chè troppo bene conosco come la città vostra non ha buono animo verso di me, anzi mi lascerà come un assassino, ed ha cerco già di darmi grandissimi carichi con il Papa e col re di Francia. Questo governo non mi piace, e dovete mutarlo, altrimenti se non mi volete amico, mi proverete nemico.» Gl'inviati risposero che Firenze aveva il governo che desiderava, e nessuno poteva in Italia vantarsi di serbar meglio la fede. Che se il Duca voleva davvero esserle amico, poteva provarlo subito, facendo ritirare Vitellozzo, che in fine era suo uomo. A questo egli disse, che Vitellozzo e gli altri operavano per proprio conto, sebbene a lui non dispiacesse punto che i Fiorentini ricevessero, senza sua colpa, una buona e meritata lezione. Nè altro fu possibile cavarne, onde gli ambasciatori scrissero subito, parendo loro che importasse assai far conoscere con quale intenzione erano stati dal Duca invitati, tanto più che «il modo del procedere di costoro è di essere altrui prima in casa che se ne [369] sia alcuno avveduto, come è intervenuto a questo Signore passato,[483] del quale si è prima sentito la morte che la malattia.»
Il Duca aveva detto ancora che della Francia era sicuro, e lo stesso fece ripetere loro dagli Orsini, i quali non solo lasciarono capire che l'impresa di Vitellozzo era fatta di comune accordo, ma aggiunsero che tutto era in ordine per invadere subito la Toscana con 20 o 25 mila uomini, che gli oratori però valutavano a 16 mila solamente. «Questo Signore,» concludeva la lettera, «è tanto animoso, che non è sì gran cosa che non li paia piccola, e per gloria e per acquistare Stato mai si riposa, nè conosce fatica o pericolo; giugne prima in un luogo, che se ne possa intendere la partita donde si lieva; fassi ben volere a' suoi soldati; ha cappati i migliori uomini d'Italia, le quali cose lo fanno vittorioso e formidabile, aggiunto con una perpetua fortuna.» Ma il fatto era, che egli sapeva che i Francesi venivano in aiuto de' Fiorentini, che voleva perciò stringere subito in ogni modo. Infatti a tre ore della notte dal 25 al 26, quando gli oratori avevano già parlato cogli Orsini, li fece chiamare di nuovo, per dire loro che voleva una pronta risposta dalla Signoria, nè fu possibile ottenere un indugio maggiore di quattro giorni. E però la lettera,[484] finita all'alba, partì subito con un corriere espresso, cui teneva dietro il Machiavelli stesso, che altro non aveva ora da fare colà. Egli se ne tornava con l'animo pieno d'una strana ammirazione per questo nemico della sua patria, ammirazione che era stata in lui alimentata da quella che già aveva pei Borgia anche il vescovo Soderini.[485] Questi restò [370] presso il Duca, che faceva ogni giorno maggiori premure e minacce, a cui però i Fiorentini davano assai poca retta, perchè sapevano che già erano in via gli aiuti francesi.
E per la medesima ragione, al Giacomini, che aveva dato prova d'un coraggio, d'un'attività maravigliosa, e scriveva che, se gli mandavano 3000 fanti e mille comandati, sentivasi in grado d'assalire i nemici, rispondevano, ai primi di luglio, che si contentasse di stare sulla difensiva; giacchè erano in via le artiglierie e 4000 Svizzeri mandati dalla Francia; che bisognava subito dar loro le paghe, e non era perciò prudente impegnare la Repubblica in nuove spese, tanto più che il Valentino già abbassava le ali.[486] E lo stesso ripetevano nei giorni successivi.[487] Il 24 luglio il Re scriveva da Asti, che sarebbero arrivati uomini a piè ed a cavallo, con sufficienti artiglierie, capitano La Trémoille: si tenessero pronte le paghe e le vettovaglie.[488] E ben presto il capitano Imbault presentavasi con pochi soldati ad Arezzo, dove Vitellozzo venne subito a patti, che furono di rendere tutte le terre, eccetto la città stessa, nella quale egli si trovava, e dove gli fu concesso di restare con Piero dei Medici fino al ritorno del cardinale Orsini, andato a trattar direttamente col Re. Ma anche questa concessione, che ai Fiorentini parve giustamente indecorosa,[489] venne poi ritirata, perchè il Papa stesso e il Duca, gettando la colpa d'ogni cosa su Vitellozzo e sugli Orsini, che odiavano a morte, li abbandonarono; nè dei Medici in sostanza si curavano molto, appunto perchè amici e [371] parenti degli Orsini.[490] S'impegnarono inoltre ad aiutare la Francia nella impresa di Napoli.[491] E i Fiorentini, ottenuto che al capitano Imbault, il quale li aveva scontentati, succedesse il De Langres,[492] riebbero subito dopo tutte le loro terre, come annunziavano ai sudditi con lettera del 28 agosto, ordinando ancora pubbliche feste.[493]
Il Machiavelli fu mandato, verso la metà d'agosto, al campo francese, per accompagnare il De Langres e raccogliere notizie a carico dell'Imbault; ma tornò subito al suo ufficio, essendo stati mandati in Arezzo Piero Soderini e Luca degli Albizzi, uomini autorevolissimi, con incarico di riordinare la terra appena sedata la ribellione, e fare che il De Langres non partisse troppo presto, non potendo i Fiorentini disporre delle loro forze, occupate contro i Pisani che s'avanzavano dall'altro lato.[494] Dalla cancelleria intanto egli scriveva al Soderini, che si affrettasse a mandare in Firenze, prima che i Francesi partissero, tutti quegli Aretini, «che tu giudicherai, o per cervello o per animo o per bestialità o per ricchezza, potere trarsi dreto alcuno, e penderai più presto in mandarne più venti che manco uno, senza [372] avere rispetto nè al numero nè a rimanere vota la terra.»[495] L'11 ed il 17 settembre lasciò di nuovo l'ufficio per far due corse ad Arezzo, a fin di vedere da sè lo stato delle cose, e provvedere alla partenza dei Francesi, che erano ormai decisi ad andarsene.[496]
Per fortuna tutto riuscì discretamente bene, ed egli che già da un pezzo meditava sulle faccende politiche, non solo come semplice segretario, ma più ancora come uomo di studio e di scienza, cercando sempre indagar le cagioni dei fatti, che raccoglieva e coordinava poi nella sua mente, sotto norme e principî generali, compose, dopo l'esperienza avuta delle cose d'Arezzo, il suo breve scritto: Del modo di trattare i popoli della Val di Chiana ribellati.[497] È un discorso che l'autore suppone di fare ai magistrati della Repubblica, ma non fu compilato per obbligo d'ufficio nella segreteria; è anzi addirittura il primo tentativo per sollevarsi dalla pratica burocratica di tutti i giorni, alle sommità della scienza. E noi possiamo fin d'ora cominciare a vedere in germe i grandi pregi e i difetti che più tardi ritroveremo nelle opere maggiori del Machiavelli. Ciò che prima di tutto qui ferma la nostra attenzione, è il modo singolare con cui nella mente dello scrittore si trovano fra loro innestati l'esperienza dei fatti veduti, i giudizî che si era andato formando sulle azioni degli uomini da lui conosciuti, tra cui non ultimo il Valentino, con una straordinaria ammirazione dell'antichità romana, la quale sembra essere per lui quasi l'unico anello che congiunga le osservazioni raccolte di giorno in giorno con le generalità della [373] sua scienza ancora incerta. — Paragonando, egli dice, quello che oggi succede con quello che in simili casi è seguito e s'è fatto a Roma, possiamo arrivare a capire quello che dovremmo fare noi, giacchè gli uomini in sostanza sono sempre gli stessi, hanno le medesime passioni, e però quando le condizioni sono identiche, le medesime cagioni portano i medesimi effetti, e quindi gli stessi fatti debbono suggerire le stesse regole di condotta.
Certo il ricorrere all'antichità ed alla storia per cercare, paragonandole coll'esperienza del presente, i principii che regolano l'andamento delle azioni umane, e debbono guidare i governi, era a quei tempi un pensiero ardito ed originale. Ma se la storia ci espone la successione delle umane vicende, essa anche ci dimostra che l'uomo e la società mutano di continuo, e però norme assolute ed immutabili difficilmente si possono trovare. Ed in verità, se bene si osserva, quantunque essa sia l'esemplare, il modello a cui di continuo ricorre il Machiavelli, pure assai spesso gli serve solo a dare maggiore autorità, o a fornirgli la dimostrazione di quelle massime che a lui, in sostanza, erano state già suggerite dalla esperienza. Ed in ciò si può trovare la prima sorgente di molti suoi pregi e difetti. Non essendo ancora riuscito a veder chiaro il processo, secondo cui dal passato risulta un presente sempre diverso, e pure ad esso intrinsecamente unito; non essendo ancora abbastanza sicuro del suo metodo, per cavare con rigore scientifico principii generali dai fatti particolari, tra gli uni e gli altri poneva l'antichità, la quale doveva riuscire un legame artificiale, ogni volta che era chiamata solo a dimostrare ciò, di cui egli s'era già innanzi persuaso. Tuttavia in questo suo primo tentativo noi vediamo assai chiaro, come solo salendo, direi quasi, sulle spalle di essa, a lui riuscisse, stanco com'era delle minute faccende di tutti i giorni e d'una politica di piccoli [374] ripieghi, sollevarsi in un mondo superiore. Ivi portato e sospinto dalla potenza della sua analisi, dal suo genio, da una fantasia irrequieta, tentava creare una scienza nuova, non senza cadere qualche volta in eccessi, che nei suoi scritti non scomparvero mai del tutto, e che più tardi gli furono rimproverati anche dal Guicciardini, il quale lo accusò di amare troppo «le cose e modi estraordinarî.»
Ecco adunque come egli incomincia il suo discorso. «Lucio Furio Camillo, dopo aver vinto i popoli ribelli del Lazio, entrò in Senato e disse: Io ho fatto quello che si poteva colla guerra; ora tocca a voi, Padri Coscritti, sapervi stabilmente assicurare per l'avvenire dei ribelli. Ed il Senato perdonò generosamente ai vinti, facendo solo eccezione per le città di Veliterno e di Anzio. La prima fu demolita, e gli abitatori mandati a Roma; nella seconda si mandarono invece abitatori nuovi e fedeli, dopo aver distrutto le sue navi, proibito di costruirne altre. E ciò perchè i Romani sapevano che bisogna sempre fuggire le vie di mezzo, e guadagnarsi i popoli coi benefizî, o metterli nella impossibilità di offendere.» «Io ho sentito dire che la istoria è la maestra delle azioni nostre, e massime de' principi,[498] e il mondo fu sempre ad un modo abitato da uomini che hanno avuto le medesime passioni, e sempre fu chi serve e chi comanda, e chi serve mal volentieri e chi serve volentieri, e che si ribella ed è ripreso.» «Si può dunque approvare la condotta da voi tenuta coi popoli della Val di Chiana in generale; ma non quella tenuta in particolare cogli Aretini, che si sono sempre ribellati, e che voi non avete saputo nè beneficare nè spegnere, secondo l'esempio romano. Non avete infatti beneficato gli Aretini, ma li avete tormentati col chiamarli a Firenze, toglier loro gli onori, vendere i loro possessi; nè ve ne [375] siete assicurati, perchè avete lasciato in piedi le loro mura, lasciato in città i cinque sesti degli abitatori, non mandato altri che li tengano sotto. E così Arezzo sarà sempre pronta a ribellarsi di nuovo, il che non è cosa di poco momento, perchè Cesare Borgia è vicino, e cerca formarsi uno Stato forte col pigliare anche la Toscana. E i Borgia non vanno coi rispetti e colle vie di mezzo. Il cardinal Soderini, che li conobbe assai, più volte mi ha detto che fra le altre lodi di grande uomo, che si posson dare al Papa ed al figlio, vi è questa, che sono conoscitori della occasione e la sanno usare benissimo, il che viene confermato dalla esperienza di ciò che han fatto.»[499] E qui si ferma in tronco questo discorso, di cui non abbiamo la fine.
Il Machiavelli che aveva messo tanto ardore nel condurre a fine l'affare della presa e condanna del Vitelli, ed il dì 8 settembre aveva scritto ai commissari fiorentini che, nel mandar via gli uomini pericolosi da Arezzo, preferissero inviarne piuttosto «venti di più che uno di meno, non temendo neppure di lasciar vuota la terra,» non aveva bisogno di dimostrare che a lui non piacevano in politica i mezzi termini, che credeva solo in una condotta risoluta e pronta, e non era punto contento del misero e continuo tergiversare dei Fiorentini. Ma non bisogna neppur credere, che in questi suoi discorsi teoretici egli volesse addirittura biasimare, senza riserve, la condotta dei magistrati. Sapeva bene che questi dovevano tener conto delle passioni e dell'indole degli uomini fra cui e su cui governavano; scriveva per indagare quale avrebbe dovuto essere la vera politica di un gran popolo, formato come lo immaginava, dopo aver letto e meditato la storia di Roma.
Certo è però che le cose della Repubblica procedevano allora così fiacche ed incerte, che tutti vedevano [376] la necessità di qualche riforma. Una nuova legge s'era fatta nell'aprile di quell'anno, con la quale s'erano aboliti il Podestà ed il Capitano del popolo, antichi magistrati che avevano avuto in origine un ufficio politico e giudiziario; ma perduta da un pezzo la prima delle due loro attribuzioni, male adempivano ora anche la seconda, che pure era importantissima. Fu quindi istituita, secondo un antico suggerimento del Savonarola, la Ruota, composta di cinque dottori in legge, di cui ognuno presiedeva a turno per sei mesi, durante i quali teneva il luogo del Podestà. Essa, che doveva giudicar le cause civili e criminali, fu iniziata, con una provvisione del 15 aprile 1502, per soli tre anni, termine che venne poi prorogato.[500] Con altra del 21 aprile fu riformata la Corte della Mercanzia, destinata a trattare i soli affari commerciali.[501] Ma tutto ciò, come è ben facile immaginare, non rimediava punto all'andamento generale delle cose d'un governo, la cui debolezza nasceva principalmente dal mutare ogni due mesi il Gonfaloniere e la Signoria.[502] In esso non si formavano tradizioni, nè vi potevano essere segreti di Stato; tutto si trattava in pubblico, e solamente il primo cancelliere, Marcello Virgilio, per la sua molta fede ed autorità, poteva mantenere una qualche coerenza ed uniformità nella condotta degli affari.[503] I provvedimenti erano sempre lenti ed incerti, i danari si profondevano, i cittadini, gravati d'imposte, erano scontentissimi, e non potevano rivolgersi contro alcuno, perchè i magistrati scomparivano dalla scena quando appena s'erano seduti in ufficio. Così si finiva col non votare [377] il danaro che era richiesto, e i soldati non si pagavano, e i cittadini autorevoli ricusavano di accettare le ambascerìe o gli uffici più onorevoli, che erano invece occupati da uomini leggieri e di poco conto, gente che, secondo la espressione del Guicciardini, avevano «più lingua che persona,» si facevano avanti, ed erano eletti perchè sempre pronti.[504]
Per tutte queste ragioni si pensò di portare addirittura qualche mutamento nella forma stessa del governo. Fu dapprima proposto un Senato a vita, a similitudine dei Pregadi di Venezia, che era sempre il modello cui si guardava; ma temendo poi di restringere con ciò lo Stato in mano di pochi, si pensò invece di creare un Gonfaloniere a vita come il Doge,[505] ed il 26 agosto 1502 fu votata la Provvisione.[506] Il carattere e l'ufficio del nuovo Gonfaloniere non furono molto diversi da ciò che era stato in passato: egli era capo della Signoria e non altro. Se non che poteva sempre prendere in essa l'iniziativa delle proposte di legge; poteva ancora intervenire e votare coi giudici nelle sentenze criminali, il che già gli dava un aumento di potere. L'essere poi eletto non più per due mesi, ma a vita, fra magistrati politici che mutavano tutti così spesso (i Signori ogni due mesi, i Dieci ogni sei), era quello che gli dava ora un'autorità ed una forza assai maggiori. Doveva avere cinquant'anni almeno, e non poteva esercitare altri ufficî: i figli, fratelli e nipoti avevano divieto dall'ufficio dei Signori; a lui ed ai figli era vietato d'esercitare il commercio; [378] lo stipendio era di 1200 fiorini l'anno. Il numero degli eleggibili era grande, essendovi ammessi anche i cittadini che appartenevano alle Arti Minori; la elezione doveva farsi dal Consiglio Maggiore, potendovi allora intervenire e votare tutti coloro che erano abilitati a sedervi. Ogni consigliere era chiamato a dare il nome del cittadino che voleva eleggere, e quelli che ottenevano la metà più uno dei voti, venivano sottomessi a nuovo scrutinio per tre volte, intendendosi la terza volta eletto colui che aveva raccolto più voti, tra coloro che ne avevano ottenuti più della metà. I Signori, i Collegi, i Dieci, i Capitani di Parte Guelfa e gli Otto, riuniti insieme, potevano con tre quarti di voti privarlo dell'ufficio, quando avesse violato le leggi. Questa Provvisione portata due volte negli Ottanta e due nel Consiglio Maggiore, dopo che molti l'ebbero difesa,[507] fu finalmente vinta con 68 voti contro 31 negli Ottanta, e 818 contro 372 nel Consiglio Maggiore. Il 22 settembre venne poi con grandissimo favore eletto Piero Soderini, che, fratello del vescovo, era stato poco prima Gonfaloniere, aveva tenuto molti altri uffici politici, e sebbene fosse di antica e ricca famiglia, era tenuto amatore del popolo e del governo libero. Egli era inoltre facile parlatore, buon cittadino; non aveva figli, non aveva nè grande energia nè grandi doti da potere suscitare troppi odî o [379] troppi amori, il che non fu tra le ultime cause della sua elezione.[508] Il 23 dello stesso mese, il Machiavelli, in nome dei Dieci, gli faceva scrivere e mandare in Arezzo, dove era commissario, la lettera di partecipazione, esprimendogli la speranza che riuscisse a dare alla Repubblica quella felicità, per cui il nuovo ufficio era stato creato.[509] Questa elezione fu un fatto assai importante, non solo nella storia di Firenze, ma anche nella vita del Machiavelli, perchè egli conosceva da più tempo la famiglia Soderini, alla quale subito scrisse rallegrandosi,[510] e ben presto seppe guadagnarsi tutta quanta la fiducia del nuovo Gonfaloniere, che, come vedremo, si valse di lui continuamente ed in affari di molta importanza.
Legazione al duca Valentino in Romagna. — Ciò che nel medesimo tempo fa il Papa in Roma. — Il Machiavelli compone la Descrizione dei fatti di Romagna.
(1502-1503)
E qui son di nuovo i Borgia che richiamano l'attenzione di tutta Italia. La Lucrezia per sua fortuna scompariva adesso dalla scena di Roma, dove aveva continuato ad essere il soggetto principale dei più scandalosi [380] e turpi racconti, dei quali sembrava curarsi assai poco. Infatti si era lasciata vedere col padre e col fratello assistere ridendo a mascherate, a balli così osceni, che erano veramente orgie, e sarebbe a noi impossibile descriverli.[511] Ma nel gennaio del 1502 finalmente partiva per Ferrara, con un grandissimo séguito, con un lusso che passava ogni misura; e qualche volta promuove addirittura disgusto vedere i cronisti del tempo occuparsi minutamente a darcene eterne descrizioni. Andava in moglie al duca Alfonso d'Este in Ferrara, e colà per molti giorni continuavano da capo le feste col medesimo lusso.[512] Ma la sua vita entrò allora in un periodo assai più tranquillo e riservato, perchè aveva da fare con un marito, il quale non avrebbe esitato molto a valersi delle arti stesse dei Borgia, per mandarla via dal mondo. I pochi fatti che potevano ricordare ancora la vita passata, restarono perciò avvolti sempre nel più gran mistero.[513] Ella si circondò di letterati che l'adularono, si dètte anche ad opere di pietà; ed a ciò si deve la reputazione migliore che godette allora, e la difesa che fecero di lei molti scrittori.
A Roma, dove era il Papa, ed in Romagna, dove si trovava il Valentino, la scena invece mutava solo per [381] divenire sempre più tragica e sanguinosa. Nella Città Eterna comparivano libelli, epigrammi atroci; ma il Papa non se ne curava punto, occupato com'era d'altri pensieri. Di tanto in tanto qualche cardinale, divenuto assai ricco, s'ammalava e moriva a un tratto, o sotto falso pretesto gli era fatto un processo sommario, per metterlo poi in Castel Sant'Angelo, donde non usciva più vivo. Mobili, tappezzerie, argenti e danari andavano subito in Vaticano. I loro uffici e benefizi venivano concessi ad altri, che, appena arricchiti, erano assai spesso destinati a fare la medesima fine. «Nostro Signore,» scriveva l'ambasciatore veneto, «suole prima ingrassarli, per far poi loro la festa.» Così avvenne nel luglio di quell'anno al datario Battista Ferrari, cardinale di Modena, che era stato il suo più fido strumento nell'aiutarlo a cavar danari da tutto e da tutti. Divenuto ricchissimo, s'ammalò improvvisamente; il Papa lo visitò nell'ultima ora, e poi al solito spogliò la casa e prese i danari. La più parte de' suoi benefizi andò a Sebastiano Pinzon, intimo segretario del defunto, a cui, secondo la comune opinione, aveva, per ordine del Santo Padre, amministrato il veleno.[514]
In quei giorni la città era illuminata; il governatore di Roma e le guardie palatine, seguite da una gran turba, andavano per le vie gridando: Duca, Duca.[515] Cesare Borgia era entrato in Camerino, ed aveva preso prigioniero il signor Giulio Cesare da Varano coi figli. Il Papa era per ciò pieno di tanta gioia, che gli riusciva impossibile frenarsi. Radunato il Concistoro con l'intendimento d'annunziare una vittoria degli Ungheresi contro [382] i Turchi, parlò invece di Camerino e del Duca. Avvertito dal cardinale di Santa Prassede dello scopo che li aveva fatti radunare, mandò subito a pigliare la lettera; ma poi, continuando nel primo discorso, dimenticò di farla leggere.[516] Parlando coll'ambasciatore veneto e collo spagnuolo, non poteva tenersi sulla sedia, e girava per la stanza; faceva leggere invece la lettera, in cui il Duca, dopo aver tutto narrato, concludeva: «che buon pro faccia alla Santità Sua;» ne esaltava la grandezza d'animo e la prudenza, «laudandolo ab omni parte.»[517] Egli vedeva già le future conquiste del figlio, lo vedeva col pensiero signore di tutta l'Italia centrale. Non sapeva però che cosa avrebbe detto o fatto Venezia, in presenza di così rapidi progressi. Chiamato quindi l'ambasciatore veneto, aveva subito cominciato a fare grandi proteste d'amicizia, tanto per sentire che cosa dicesse. Ma Antonio Giustinian era una volpe vecchia, e scriveva al Doge: «In risposta di quanto è soprascritto, Principe Serenissimo, ambulavi super generalissimis, se il Pontefice andò super generalibus.»[518]
Il Valentino intanto assumeva i titoli di Cesare Borgia di Francia, per la grazia di Dio, Duca di Romagna, di Valenza e d'Urbino, Principe di Andria, Signore di Piombino, Gonfaloniere e Capitano generale della Chiesa; e senza perdere tempo s'avanzava verso Bologna. Se non che, in questo punto arrivò il veto della Francia, la quale fece sentire, come non avrebbe mai permesso che i Borgia s'andassero così insignorendo d'Italia: smettessero dunque di pensare a Bologna ed alla Toscana.[519] E nel [383] medesimo tempo i principali capitani del Duca, la più parte piccoli tiranni dell'Italia centrale, vedendo come egli andasse, a uno per volta, distruggendo tutti i loro compagni, capirono che sarebbe ben presto sonata l'ora anche per essi. Seppero, in questo mezzo, che egli aveva già deliberato d'insignorirsi prima di Perugia e Città di Castello, di metter poi le mani sugli Orsini; onde, «per non essere a uno a uno devorati dal dragone,»[520] si riunirono, deliberando di prendere le armi e ribellarsi contro di lui, sembrando opportuno il farlo ora che la Francia lo abbandonava. Il primo resultato di questo accordo fu, che il giorno 8 di ottobre alcuni de' congiurati s'impadronirono per sorpresa della rôcca di San Leo nel ducato d'Urbino, dove la cosa produsse una straordinaria impressione, come segno e principio [384] di nuovi eventi. Il giorno 9 di ottobre,[521] infatti, tutti i congiurati convennero alla Magione presso Perugia, per stipulare solennemente i patti della lega. V'erano molti degli Orsini, cioè il cardinale, il duca di Gravina, Paolo e Frangiotto; inoltre Ermes, figlio di Giovanni Bentivoglio, con pieno mandato del padre; Antonio da Venafro con pieno mandato di Pandolfo Petrucci; messer Gentile e Giovan Paolo Baglioni, e Vitellozzo Vitelli che, essendo ammalato, si fece portare in letto.[522] Si obbligarono a difesa comune, a non muovere guerra senza mutuo accordo, ed a mettere insieme un esercito di 700 uomini d'arme in bianco,[523] 100 cavalli leggieri, 9000 fanti e più, occorrendo; pena 50,000 ducati e la taccia di traditore a chi non osservasse questi patti legalmente stipulati. Si cercarono subito aiuti ai Fiorentini; ma si corse senz'altro aspettare alle armi, e il ducato d'Urbino fu da Paolo Vitelli, che il 15 ottobre prese d'assalto anche la rôcca della città, sollevato tutto, restando colà al Valentino qualcuna solamente delle molte fortezze che v'erano.
Questi capì bene la gravità di siffatta ribellione. Ma, senza perdersi d'animo, mandò contro i nemici quella parte dell'esercito che gli restava fedele, sotto il comando di don Michele Coriglia, crudelissimo spagnuolo,[524] suo capitano [385] e suo strangolatore, più noto col nome di don Micheletto. Questi entrò subito nella rocca della Pergola, che si teneva ancora pel Duca, e di là fece impeto nella terra che saccheggiò. Si racconta che allora scannasse Giulio da Varano con la moglie e due dei figli tenuti prigioni colà, mentre che un altro di loro veniva prima straziato in Pesaro, e poi menato semivivo in una chiesa, dove era trucidato da un prete spagnuolo, che a sua volta fu più tardi, a furore di popolo, fatto in pezzi a Cagli. Dalla Pergola l'esercito andò a Fossombrone, e allora molte donne, per scampare al furore dei soldati, si gettarono coi propri bimbi nel fiume.[525] Se non che l'esercito dei ribelli, essendo già arrivato il Baglioni co' suoi, s'era ingrossato fino a 12,000 uomini, ed a tre miglia da Fossombrone venne a giornata con quello del Valentino, comandato ora da don Micheletto e da don Ugo di Moncada, anche questi spagnuolo. La disfatta dei ducheschi fu intera; don Ugo cadde prigioniero, don Micheletto scampò a stento, e la gioia dei ribelli fu al colmo. Il fuggitivo Guidobaldo di Montefeltro tornò di nuovo nel suo Stato, e venne accolto trionfalmente in Urbino; Giovan Maria da Varano, unico superstite della stirpe infelice, tornò a Camerino. Così pareva che ad un tratto la faticosa e sanguinosa opera dei Borgia andasse in fumo. Tuttavia seguivano ancora scontri abbastanza importanti: don Micheletto si difendeva sempre in Pesaro; il Duca era in Imola con buon numero di armati, che cercava aumentare. I ribelli avevano chiesto aiuto a Venezia, la quale se ne stava invece a guardare, ed a Firenze che, ricordando sempre le imprese degli Orsini [386] e dei Vitelli in Toscana, nè volendo entrare in guerra coi Borgia, temporeggiò prima, poi ricusò addirittura. Il Duca invece ricorse ai Francesi, che gli mandarono subito alcune lance, sotto il comando di Carlo d'Amboise, signore di Chaumont. Questo atto, di cui furono universalmente biasimati, mutò a un tratto lo stato delle cose, perchè mise un timor panico nei nemici del Valentino, i quali, non avendo potuto o saputo profittar del momento, vedevano ormai nella bandiera di Francia la salvezza di lui e la loro rovina.
Fin dal momento in cui la rottura cogli Orsini divenne manifesta, il Valentino ed il Papa avevano con premura chiesto a Firenze, che mandasse ambasciatori presso di loro, volendo assicurarsi l'amicizia di uno Stato che, confinando così largamente colla Romagna, poteva molto giovare e molto nuocere. Quanto al Papa, i Fiorentini deliberarono subito di mandare Gian Vittorio Soderini, che per indisposizione di salute, partì solo il 7 dicembre, e intanto v'andò invece Alessandro Bracci. Ma quanto al Duca, vi fu lunga discussione, perchè, se non lo desideravano nemico, neanche volevano stringere con lui un'amicizia che li obbligasse ad aiutarlo. Certo a loro non metteva conto irritarlo, ma neppure tirarsi addosso l'ira dei ribelli, così numerosi ed in armi; non potevano poi, nè volevano decidersi a nulla senza previo accordo colla Francia. Sicchè dopo molto disputare non si potè vincere l'elezione, e fu deliberato invece, che i Dieci mandassero un inviato speciale.[526] La loro scelta cadde su Niccolò Machiavelli, che non aveva nè il grado, [387] nè la reputazione necessaria ad un ambasciatore; ma aveva fatto buona prova in altre legazioni, e, secondo osserva il Cerretani, era «uomo da servire bene alla voglia di pochi,»[527] cioè da guadagnarsi la fiducia di coloro coi quali veniva in relazione diretta, come fece più tardi col gonfaloniere Soderini.[528]
Essendo segretario dei Dieci, egli non poteva ricusare l'onorevole commissione; pure sembra che l'accettasse con grande rincrescimento, e partisse di malissima voglia. Ognuno di questi incarichi l'obbligava a far nuovi debiti, perchè era sempre assai poco retribuito, ed a lui piaceva lo spendere ed il tenere la dignità del suo ufficio. Sentiva ancora di non avere nè il grado nè l'autorità necessaria a trattare onorevolmente col Valentino. A tutto ciò si aggiungeva che da breve tempo aveva preso per moglie Marietta di Lodovico Corsini, la quale era a lui affezionata molto, e dolentissima perciò di una così pronta separazione.[529] Veramente anche di questo fatto, certo importante nella vita privata del Machiavelli, conosciamo assai poco. Pure tutto ciò che si è scritto contro la povera Marietta, affermando che a lei avesse alluso il marito nella sua famosa novella di Belfagor, sappiamo che non ha ombra di fondamento. Alcune lettere di lei, [388] e molte scritte da amici al Machiavelli, provano invece che ella era affezionata ai figli ed al marito.[530] Questi pur troppo della moglie parla assai poco, nè pare che le scrivesse di frequente valendosi invece spesso di altri per farle arrivare le sue nuove. Anzi neppure il recente matrimonio gli fece smettere del tutto un abito di vivere assai poco morigerato, di che parlava e scriveva, ridendo, a molti, e fra gli altri al Buonaccorsi stesso, di cui appunto si valeva per ricevere notizie della Marietta, e mandarle le sue. Ma senza volergli attribuire, in fatto di costumi, una delicatezza raffinata di sentimenti, la quale egli certo non ebbe, non possiamo neppure concludere punto, che non sentisse molta affezione per la moglie e per la famiglia. Questo sarebbe un errore smentito dai fatti. Nella sua condotta, nei suoi discorsi dobbiamo invece vedere la conseguenza di quel poco rispetto, per non dire disprezzo della donna, cominciato in Italia con la decadenza morale della nazione, e di quel cinismo nel parlare di tutto ciò che s'attiene al costume, cinismo che largamente introdotto fra noi dagli eruditi, era divenuto allora un abito anche negli uomini più buoni ed affettuosi. Da quanto noi sappiamo infatti del Buonaccorsi, questi era d'un animo sotto ogni rispetto eccellente; eppure le sue lettere al Machiavelli ci forniscono un'altra prova assai chiara di quanto abbiam detto qui sopra, e nel pubblicarle bisogna spesso sopprimere molte parole ed anche molti periodi, per non disgustare troppo il lettore moderno. Comunque sia di ciò, il Machiavelli, non potendo ricusare la commissione che vollero dargli, ed avendo ogni ragione di credere che la sua assenza sarebbe stata assai breve, la fece credere alla moglie brevissima, e s'apparecchiò a partire.
[389]
Il 4 di ottobre fu firmato il salvocondotto; il dì seguente, la commissione che gli ordinava di partire senza indugio, per recarsi dal Duca, a fargli ogni più larga protesta di buona amicizia, e a dichiarargli che la Repubblica aveva esplicitamente negato ogni aiuto ai congiurati, i quali già ne avevano fatto richiesta. «Ed in questa parte ti allargherai quanto ti parrà a proposito; ma di quanto Sua Eccellenza ti ricercasse più oltre, ti rimetterai a darcene avviso, ed aspettarne risposta.» Gli veniva inoltre commesso di chiedere un salvocondotto pei mercanti fiorentini che, andando o venendo d'Oriente, passavano per gli Stati del Duca, raccomandando assai vivamente una tal cosa come quella «che è lo stomaco di questa città.»[531] Ognuno capisce che ardua impresa dovesse essere pel modesto Segretario fiorentino, l'andare in sostanza a vender parole ad un uomo come il Valentino, che di parole ne faceva poche e dagli altri ne voleva meno, e che ora si trovava coll'animo assetato di vendetta. Pure, appunto in questa legazione così mal volentieri accettata, il Machiavelli cominciò la prima volta a manifestare tutto il suo genio di scrittore politico.
Ancora inesperto della vita pratica, e per natura più facile assai a scrutare e capire che ad operare, egli si trovò di fronte ad un uomo che non parlava, ma operava; che non discuteva, ma accennava il suo pensiero con un gesto, un atto, i quali indicassero la risoluzione già presa o eseguita. Sentendo tutta la superiorità del suo ingegno su quello del Duca, il Machiavelli sentiva del pari la sua inferiorità come uomo d'azione, e vedeva quanto poco giovasse, in mezzo all'urto delle passioni e nella realtà della vita, il troppo riflettere e troppo ponderare. Tutto questo cominciò subito a crescere in lui quell'ammirazione, [390] di cui i primi segni vedemmo già nella sua andata col cardinal Soderini ad Urbino. Il Valentino non era, come già notammo, nè un gran politico, nè un gran capitano; ma una specie di capitano brigante, la cui forza veniva principalmente dal Papa e dalla Francia. Aveva però saputo creare uno Stato dal nulla, ispirando terrore a tutti, perfino al Papa stesso. Circondato a un tratto da gran numero di nemici potenti e armati, seppe liberarsene e disfarsene con un'audacia grande ed un'arte infernale. Quest'audacia e quest'arte erano ciò che tanti allora ammiravano, ed il Machiavelli anche più degli altri. Considerandole in sè stesse, e senza troppi scrupoli, egli si domandava: dove non potrebbero esse arrivare, quando fossero adoperate ad un diverso e più nobile fine? E così la sua mente cominciò ad esaltarsi. Il Duca, dall'altro lato, trovandosi di fronte ad un uomo educato sui libri e nella cancelleria di Firenze, sentiva di fronte a lui tutta la superiorità della propria forza, e lo mostrava chiaro ne' suoi discorsi. Quest'uomo era però Niccolò Machiavelli, il cui occhio penetrava assai addentro, e se non aveva sempre quell'istinto che suggerisce la pronta risposta e l'immediata azione, nessuno poteva al pari di lui, dopo il fatto, arrivare ad una più sicura analisi delle azioni altrui. Il Machiavelli non poteva nè voleva prendere nessuna parte a quel che seguiva sotto i suoi occhi; ma nella sua mente ora per la prima volta si cominciava a formulare preciso e chiaro il concetto, che lo dominò poi sempre, e che mirava a dare alla scienza politica una base scientifica e sicura, dandole un suo proprio valore indipendente, separato affatto da ogni valore morale, quasi un'arte di trovare i mezzi per ottenere il fine, qualunque esso fosse. E sebbene nella Repubblica che egli serviva si fosse tutt'altro che scrupolosi e teneri della morale, pure quest'arte egli la vedeva ora per la prima volta personificata, vivente nel Valentino, chiara dinanzi ai suoi occhi. Di lui fece perciò il tipo rappresentativo di [391] essa, ed esaltandosi sempre di più, finì con l'ammirarlo quasi fosse la creatura della sua propria mente. Ma su di ciò torneremo più oltre.
Il Machiavelli partì subito a cavallo, e giunto a Scarperia, si mise in vettura, continuando fino ad Imola, dove arrivò il 7 ottobre, e ad ore 18, senza neppure mutare abiti, si presentò al Duca (scrive egli ai Dieci) così cavalchereccio com'ero. Allora la ribellione era appena cominciata, e non se ne poteva misurare l'importanza. Il Duca ascoltò le proteste d'amicizia fatte dal Machiavelli in nome della Repubblica, senza rispondere, tenendole come semplici formole d'uso. Disse volergli confidare dei segreti, che non aveva mai rivelati ad uomo vivo; e cominciò a raccontare come gli Orsini s'erano altra volta quasi gettati ai suoi piedi, perchè assalisse Firenze, ed egli non aveva mai voluto consentirvi. Della loro andata in Arezzo non aveva saputo nulla, ma non gli era dispiaciuta, perchè i Fiorentini non gli avevano mantenuto la fede. Venute poi le lettere di Francia e del Papa, dovè ordinare che si ritirassero. Da ciò gli odî che li avevano portati a questa «dieta di falliti;»[532] ma erano pazzi, perchè l'essere il Papa vivo e il Re di Francia in Italia, gli facevano «tanto fuoco sotto, che ci voleva altra acqua che coloro a spegnerlo.» La conclusione di tutto il discorso fu, che questo era pei Fiorentini il momento di fare una stretta alleanza con lui. Se aspettavano che egli si fosse «rimpiastrato cogli Orsini,» tornavano i medesimi rispetti e le stesse difficoltà di prima. Bisognava quindi dichiararsi e venire subito ai patti. Il Machiavelli dovè rispondere che avrebbe scritto a Firenze, il che subito annoiò per modo il Duca, che non volle aggiungere altro, quando fu pregato che determinasse [392] in qualche modo, che specie d'accordo voleva. «E non ostante che io gli entrassi sotto, per trarre da lui qualche particolare, sempre girò largo.»[533]
Il giorno 9, quello in cui i ribelli firmarono i patti alla Magione, il Duca chiamò il Machiavelli, colmandolo di tali gentilezze, che questi diceva di non saper come fare a descriverle. Gli fece sentire alcune lettere favorevoli, venute di Francia, volendo che leggesse la firma al Machiavelli già nota, e insisteva da capo sulla necessità di pronti accordi. «Si vede chiaro,» concludeva il Machiavelli, dopo aver dato molti altri ragguagli, «che il Duca è pronto ora ad ogni mercato; ma sarebbe necessario mandare un ambasciatore con patti definiti e precisi.»[534] Il segretario e gli agenti del Duca gli ripetevano le medesime cose, stringendolo da ogni lato. Arrivava intanto la nuova della rotta data a don Ugo e don Micheletto dagli Orsini e Vitelli, ed il Machiavelli trovava una difficoltà grandissima a conoscerne i particolari, «perchè in questa Corte tutto si governa con un segreto mirabile, e le cose che sono da tacere non si dicono mai.» Il Duca, sempre impenetrabile, affettava un sommo disprezzo pe' suoi nemici e pel numero delle genti d'arme, che pretendevano di avere, dicendo, che facevano bene a chiamarle «uomini d'arme in bianco, che vuol dire in nulla.» Vitellozzo fra gli altri non s'era mai visto fare «una cosa da uomo di cuore, scusandosi col mal francioso. Solo è buono a guastare i paesi che non hanno difesa, e a rubare chi non gli mostra il volto, e a fare di questi tradimenti.» In ciò dire si diffuse assai, «parlando così pianamente senza mostrarsi punto alterato.»[535] Il pericolo lo aveva reso più mite, ed il Machiavelli potè allora ottenere il salvocondotto pei mercanti fiorentini, [393] che mandò subito ai Dieci,[536] aggiungendo sempre tutte le notizie che poteva raccogliere.
Il 23 ottobre ebbe un'altra lunga conferenza col Duca, che gli lesse una lettera assai amichevole del Re di Francia, aggiungendo che le lance francesi erano per arrivare subito, e così i fanti forestieri. Poi parlò con grandissimo sdegno del tradimento degli Orsini, i quali ragionavano d'accordo. «Ora fanno,» egli disse, «gli amici, e scrivonmi buone lettere. Oggi deve venire a trovarmi il signor Paolo, domani il Cardinale, e così mi scoccoveggiano a loro modo. Io dall'altro canto temporeggio, porgo orecchio ad ogni cosa, ed aspetto il tempo mio.» E tornò a ripetere, che i Fiorentini avrebbero dovuto fare con lui amicizia esplicita.[537] Era sempre la stessa conclusione, alla quale l'oratore non poteva mai dare risposta. A tutto ciò s'aggiungeva, per crescere la sua confusione, che egli non riusciva a capire qual risultato potessero avere gli accordi iniziati coi ribelli. Il 27 ottobre arrivava Paolo Orsini, travestito da corriere, per trattare; «ma quale animo sia ora quello del Duca, io non lo giudicherei: non vedo come egli possa perdonare l'offesa, nè come gli Orsini possano lasciare la paura.»[538] Il segretario Agapito lo avvertiva che non si era anche concluso nulla, perchè il Duca voleva nei patti aggiungere una clausola, «la quale, se è accettata, gli apre una finestra, se ricusata, una porta per uscire di questi capitoli, dei quali infino alli putti se ne debbono ridere.»[539] Altri agenti tornavano a ripetergli, che quello era il momento per Firenze di stringere amicizia col Duca, dandogli la condotta promessa, senza perdere un tempo prezioso. «Quanto agli accordi coi ribelli, dicevano, non [394] erano anche conclusi, e in ogni caso non doveva darsene pensiero, perchè dove è uomini è modo. Una parte sola degli Orsini sarà salva; ma di Vitellozzo, che è il vero nemico di Firenze, il Duca non vuol neppure sentir parlare, per essere un serpente avvelenato, il fuoco di Toscana e d'Italia.»[540]
Finalmente i capitoli dell'accordo furono conclusi colla data del 28 ottobre, firmati dal Duca e da Paolo Orsini; ed il Machiavelli con la lettera del 10 novembre ne mandava ai Dieci una copia ottenuta segretamente.[541] Si giurava pace e lega offensiva e difensiva tra il Duca e i ribelli, con l'obbligo di rimettere in obbedienza Urbino e Camerino. Il Duca prometteva tenere ai suoi stipendi gli Orsini ed i Vitelli, come prima, con questo che essi non erano obbligati a stare in campo più d'uno alla volta, ed il Cardinale non era tenuto a stare in Roma se non quando a lui piacesse. Il Papa avrebbe, come fece, confermato i capitoli. Quanto al Bentivoglio, non venne incluso in questi patti, e ciò perchè, avendo la protezione di Francia, non sarebbe stato possibile ai Borgia violarli. Era chiara la diffidenza con cui veniva da una parte e dall'altra fatto l'accordo, nè si può capire come mai gli Orsini ed i Vitelli si lasciassero così miseramente tirare nella rete, se non fosse che l'aiuto delle lance francesi al Duca li aveva atterriti, e la mancanza di danaro rendeva loro impossibile continuare la guerra con un avversario potente, sostenuto dal Papa e dalla Francia. Speravano prendere tempo, per tornare da capo alle cospirazioni; ma il Duca era in sull'avviso, e sebbene circondato da molti nemici, doveva riuscirgli facile sbrancarne qualcuno, e indebolirli, cosa che non potevano essi, avendo da fare con un uomo solo.[542] Il Machiavelli [395] descriveva ai Dieci con la più grande evidenza, passo per passo, tutto il procedere di questi eventi; e quando il dì 11 novembre essi si dolevano con lui di non avere per otto giorni ricevuto alcuna sua lettera[543] rispondeva: «Le SS. VV. mi abbino per scusato, e pensino che le cose non s'indovinano, e intendino che si ha a fare qui con un principe che si governa da sè, e che chi non vuole scrivere ghiribizzi e sogni, bisogna che riscontri le cose, e nel riscontrarle va tempo, e io m'ingegno di spenderlo e non lo gittare via.»[544] Egli infatti osserva, esamina, studia il dramma che si svolge sotto i suoi occhi, con tutto l'ardore di chi, con uno spirito ed un metodo scientifico, va dietro alla ricerca del vero. Qualche volta par proprio di vedere un anatomico che sezioni un cadavere, nel quale è sicuro di scoprire il germe d'un male ignoto. Racconta con una fedeltà ed una evidenza non mai uguagliata, ed il suo stile acquista un vigore, una originalità, di cui la prosa moderna non aveva ancora dato esempio. Qui, sotto i nostri occhi, si cominciano a formare ed a formulare le dottrine politiche, il rigore metodico, e si manifesta finalmente tutta quanta l'eloquenza, di cui è capace il Machiavelli.
Eppure, strano a dirsi, egli era scontentissimo, e chiedeva ogni giorno con maggiore insistenza d'essere richiamato. [396] Alcune ragioni di questa sua scontentezza le abbiamo già notate. Di natura irrequieto, non gli piaceva il restar lungamente fermo in un luogo;[545] in questa come in tutte le sue legazioni non trovava modo di vivere con quel poco che la Repubblica gli dava, e non volendo, come altri facevano, starsene a spese del Duca nella Corte, nè mancare in nulla alla dignità del proprio grado, gli toccava spendere e far debiti. La moglie, trovandosi, appena sposata, priva del marito, che le aveva promesso di rimanere assente soli otto giorni, ed invece non tornava e di rado le scriveva, lasciandola anche in domestiche strettezze, era ogni giorno nella cancelleria a chiedere nuove di lui, a dolersi, a strepitare col Buonaccorsi e cogli altri amici, che di continuo gli scrivevano di ciò.[546] A queste ragioni se ne aggiungevano però altre, anche di maggior peso per lui. Era certo un ufficio penosissimo stare a temporeggiar col Duca, senza nulla poter concludere, trovarlo ogni giorno più impaziente, e sentirsi con derisione ripetere dagli agenti di lui, «che chi aspetta tempo ed hallo, cerca miglior pane [397] che di grano.»[547] A concludere ci voleva in ogni modo un ambasciatore, che venisse con proposte chiare e decise. Era stato, secondo lui, un errore mandarne uno a Roma invece che ad Imola, perchè dell'accordo doveva contentarsi il Duca e non il Papa, il quale non avrebbe mai potuto disfare ciò che il Duca faceva, mentre l'opposto poteva facilmente seguire.[548] Ma sebbene, per queste inquietudini e travagli, la sua stessa salute ne soffrisse, ed egli se ne dolesse, i suoi lamenti non approdavano a nulla,[549] avendo i Fiorentini assai buone ragioni per voler temporeggiare.
Nè dei Borgia, nè degli Orsini e Vitelli potevasi la Repubblica in modo alcuno fidare, perchè gli accordi fatti con essi valevano solo finchè tornava loro il conto. La base della sua politica in Italia era l'alleanza colla Francia, non certo sicura, ma non così mal fida come quella dei Borgia. A questi dunque non si volevano dare che parole, e però un ambasciatore poteva bene mandarsi per ossequio al Papa, ma non al Duca che voleva subito stringere. Per inviarlo anche a lui, era necessario aspettare avvisi ed istruzioni di Francia. Questo i Dieci scrivevano di continuo al Machiavelli, che non se ne contentava, [398] giacchè la sua condizione restava sempre la stessa. Da un altro lato a Firenze v'era bisogno grandissimo d'informazioni esatte sui movimenti non solo, ma ancora sulle intenzioni del Duca, e per questo verso la importanza delle lettere del Machiavelli era ormai così universalmente riconosciuta da tutti, che nessuno voleva sentir parlare di richiamarlo, non potendosi trovare uomo più di lui adatto al suo ufficio presente. Niccolò Valori gli scriveva il 21 ottobre: «E veramente queste due ultime (lettere) ci avete mandate, v'è suto tanto nervo, e vi si mostra sì buono iudicio vostro, che non le potrebbano essere sute più aprovate. Ed in spezie ne parlai a lungo a Piero Soderini, che non iudica si possa a nessun modo rimuovervi di costì.»[550] Più tardi gli scrissero il Buonaccorsi, Marcello Virgilio ed il Gonfaloniere stesso, ripetendogli che non era possibile richiamarlo, perchè bisognava pure che uno stésse presso il Valentino, e più adatto di lui non si sapeva trovarlo.[551] Il Gonfaloniere e i Dieci aggiungevano a ciò l'invio di 25 ducati d'oro e 16 braccia di damasco, i primi affinchè egli si potesse mantenere più convenientemente colà, il drappo per donativi da farsi.[552]
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Ma a tutte le ragioni sinora accennate del suo scontento, bisogna aggiungerne un'altra. Sebbene il Machiavelli trovasse grandissima materia di studio nell'osservare le azioni del Valentino e di coloro che lo circondavano,[553] pure, per quanto egli astraesse la politica dalla morale, e non avesse una coscienza troppo tenera e troppo scrupolosa nelle faccende di Stato, il vivere in mezzo a una rete così continua e fitta d'infamie; fra uomini così pieni di delitti, così pronti al tradimento ed al sangue, i quali tutti non rispettavano altro che la forza, senza potere egli nè impedire, nè moderare le loro azioni in modo alcuno, era più assai di ciò che la sua indole potesse comportare. Non c'è un'opinione più erronea di quella di coloro i quali vollero supporre, che in questo momento le azioni del Valentino fossero consigliate e guidate dal Machiavelli.[554] Da tutte le lettere che questi scrisse, si vede chiaro come egli durasse invece una gran fatica a [400] scoprire le intenzioni e i segreti disegni del Duca, assai spesso non riuscendovi e restando al buio di tutto. Il Duca non aveva bisogno dei consigli del Segretario fiorentino, di cui qualche volta sembrava quasi prendersi gioco. Il Machiavelli non era punto sanguinario e crudele, anzi quando si trovava proprio in presenza ed in contatto del male, anche per mitezza d'indole ne rifuggiva. Più volte, difatti, in questa legazione cadono dalla sua penna parole che, sotto l'apparente cinismo, tradiscono un certo angoscioso terrore. Ed allora, per allontanarsi dal tristo spettacolo, scriveva lettere oscene e facete ai compagni d'ufficio, i quali rispondevano che, leggendole, smascellavano dalle risa,[555] e poi gli raccontavano a loro volta i pettegolezzi e le baruffe seguite nella cancelleria, dove in sua assenza il disordine era sempre grande, o pure i loro stravizî e le loro oscenità. Altra volta, stanco di tutto ciò, si chiudeva in sè stesso a meditare sugli antichi scrittori, e lo vediamo chiedere con febbrile insistenza le Vite di Plutarco al suo Buonaccorsi, cui ricorreva di continuo per libri, per danari e per mille altre faccende, trovandolo sempre pronto e servizievole. Questi in una lettera del 21 ottobre gli scriveva: «Habbiamo fatto cercare delle Vite di Plutarco, e non se ne truova in Firenze da vendere. Abbiate pazienza, che bisogna scrivere a Venezia; ed a dirvi il vero, voi siete lo 'nfracida a chiedere tante cose.»[556] [401] Singolare spettacolo è questo del Machiavelli che, contemplando gli eroi di Plutarco da un lato e le azioni del Valentino dall'altro, comincia a creare quella scienza politica che deve fondarsi sulla storia del passato e sull'esperienza del presente. La scolastica aveva cercato le origini prime e la base della società umana, partendo dal concetto di Dio e del Sommo Bene, perdendosi in considerazioni che non avevano nessun valore nella pratica della vita. Lo stesso Dante Alighieri non s'era potuto nella sua Monarchia liberare dalle troppo artificiali e astratte teorie. Il Machiavelli non aveva nè tempo, nè opportunità, nè voglia da ciò. Trovandosi dinanzi alla realtà delle cose, indagava secondo quali leggi seguivano i fatti umani, per cavarne precetti utili a governare gli uomini. Voleva sapere donde tragga la sua forza l'uomo di Stato, e come debba adoperarla per ottenere il fine propostosi, e quando non rispondevano i moderni, interrogava gli antichi.
Intanto gli riusciva sempre più difficile vedere il Duca, il quale, quando lo riceveva, tornava sempre sulla necessità di stringere alleanza, di confermargli la condotta già stipulata, e quando sentiva nuove proteste d'amicizia, senza che si venisse a proposte determinate, prorompeva sdegnato: «ecco che qui non si stringe nulla.»[557] Pure di tanto in tanto lo chiamava e cercava di scoprire terreno, sotto colore di far nuove confidenze. Un giorno gli disse che Giovan Paolo Baglioni aveva nel passato chiesto una lettera, con cui gli si ordinasse di seguire Vitellozzo, per aiutarlo a rimettere i Medici in Firenze, ed egli l'aveva scritta. «Ora non so,» seguì egli, guardando a un tratto il Machiavelli, «se se ne sarà fatto [402] bello, per darmi carico.» Al che questi rispose di non averne notizia.[558] Un altro giorno cominciò con molta gravità a confidargli, come Paolo Orsini dicesse d'avere allora appunto avuto dai Fiorentini offerta d'una condotta, per andare al campo di Pisa, offerta che fu ricusata. Al che il Machiavelli chiese se l'Orsini aveva pronunziato il nome di chi gli portò l'offerta, o fatto vedere le lettere, e se aveva mai detto bugìe. Il Duca, accorgendosi che il Segretario non cadeva nella rete, rispose che l'Orsini non aveva detto i nomi, nè mostrato le lettere; ma che delle bugìe gliene aveva dette assai. «E così si risolvè questa cosa ridendo, nonostante che nel principio lui ne parlasse turbato, mostrando di crederla e che la gli dolesse.»[559] Raccontò poi d'un segreto accordo fatto dai Veneziani in Rimini, per mezzo d'un Veneto che abitava colà, aggiungendo che egli, «per l'onor loro, lo aveva fatto impiccare.» Dato questo avvertimento, come di passaggio, venne a parlare della espugnazione di Pisa, ed osservò che sarebbe la più gloriosa impresa che potesse fare un capitano. «Di qui saltò in Lucca, dicendo che era la più ricca terra, e che era un boccone da ghiotti. Poi aggiunse che se egli, Firenze e Ferrara fossero d'accordo, non avrebbero avuto a temere di nulla.»[560] Pareva proprio il gatto che volesse pigliarsi gioco del topo, se non che il topo era Niccolò Machiavelli.
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In questo mezzo le trattative già iniziate continuavano, per tirarvi dentro quanti più si poteva. Vitellozzo era ancora restìo e temporeggiava, sicchè di lui parlavasi con grande sdegno nella Corte. «Questo traditore ci ha data una coltellata, e ora crede guarirla con le parole.»[561] Pure anch'egli fu preso finalmente al laccio. Tutto essendo ormai concluso, il Duca d'Urbino si trovò da capo abbandonato; laonde dovè subito pensare ai casi suoi, e quindi, demolite alcune delle fortezze, altre lasciate in mano di gente fida, se ne fuggì sopra una muletta, piangendo, ed era fatto cercare a morte, con furore indescrivibile, dal Papa e dal Valentino. L'angoscia e la fatica furono tali, che a Castel Durante si svenne. Pure riuscì a salvarsi.[562] Nel suo Stato fu dal Borgia mandato ad amministrare giustizia Antonio da San Savino, il quale procedette con qualche moderazione; in Romagna invece adempiva lo stesso ufficio, con crudeltà inaudita, un tal messer Ramiro.[563] Nel medesimo tempo il Valentino partiva con l'esercito per Forlì; il Machiavelli lo seguiva, ed il 14 dicembre scriveva da Cesena, pieno d'incertezza, che tutti erano sospesi, vedendo che non licenziava neppure una lancia: e però, sebbene ci fosse l'accordo, il passato faceva giudicare dell'avvenire, e costringeva a creder che volesse ora assicurarsi de' suoi nemici. Tornava poi sulla necessità di concludere accordo per mezzo di un ambasciatore, e chiedeva nuovamente d'essere richiamato.[564] Ma la Repubblica meno che mai lo ascoltava ora che le cose si avvicinavano ad una soluzione, e che [404] la Francia faceva capire di non voler più lasciare la briglia sciolta ai Borgia.
Infatti le 450 lance francesi, che avevano dato al Duca tanta riputazione, furono a un tratto richiamate, e partirono il 22 dicembre: cosa, scriveva il Machiavelli, che ha mandato il cervello sossopra a questa Corte....; e «ognuno fa sua castellucci.» La ragione di così subito mutamento non si capiva allora, e le conseguenze di un tal procedere non si potevano prevedere.[565] Certo è però, che questo fatto, l'essere ancora tutte le fortezze d'Urbino o smantellate o tenute sempre in nome di Guidobaldo, il non aversi nè potersi avere nessuna fiducia negli accordi conclusi, «avevano subito tolto metà delle forze e due terzi della riputazione al Duca.»[566] Pure le sue artiglierie andavano innanzi, come se nulla fosse. Mille Svizzeri erano arrivati a Faenza, altri 1500 ne aveva già tra Svizzeri e Guasconi. Nessuno sapeva indovinare lo scopo di tali mosse, tutto era mistero, perchè «questo signore non comunica mai cosa alcuna, se non quando e' la commette, e commettela quando la necessità strigne, e in sul fatto e non altrimenti; donde io prego VV. SS. mi scusino, nè m'imputino a negligenza, quando io non satisfaccia alle SS. VV. con gli avvisi, perchè il più delle volte io non satisfo etiam a me medesimo.»[567] E ad accrescere il mistero seguiva, in quei giorni appunto, un caso strano. Messer Rimino o Ramiro, il fidato strumento del Duca in Romagna, autore delle più nefande crudeltà per sottomettere quel paese, da cui era perciò odiatissimo, arrivato da Pesaro in Cesena, fu, con generale maraviglia di tutti, preso il 22 dicembre e messo in fondo d'una torre.[568] Dopo [405] quattro giorni il Machiavelli scriveva ai Dieci: «Messer Rimino questa mattina è stato trovato in dua pezzi, in sulla piazza dove è ancora, e tutto questo popolo lo ha possuto vedere: non si sa bene la cagione della sua morte, se non che li è piaciuto così al principe, il quale mostra di saper fare e disfare gli uomini a sua posta, secondo i meriti loro.»[569]
Ma ora le cose procedevano rapidamente al loro fine; tutto era diretto alla presa di Sinigaglia. Questa terra, fino dai tempi di Sisto IV appartenuta a Giovanni della Rovere, marito di Giovanna sorella di Guidobaldo d'Urbino, era per la morte di quel Signore, pervenuta nel 1501 al figlio suo Francesco Maria, di anni 11, che Alessandro VI nominò prefetto di Roma, come era stato il padre. Nella sua prima fuga Guidobaldo aveva menato seco il nipote, che trovavasi ora di nuovo in Sinigaglia con la madre, la quale governava pel figlio, aiutata dai consigli del celebre Andrea Doria tutore di lui, ed era chiamata la prefettessa. Vedendo che l'esercito del Valentino s'avvicinava in gran fretta, e innanzi a lui erano già le genti di Vitellozzo e degli Orsini, disposte ad assalir la città, il Doria salvò la madre ed il figlio alle sue cure [406] affidati, e poi, ordinato ai suoi di difendere la fortezza più che potevano, se n'andò egli stesso a Firenze.[570] Il 29 dicembre, il Machiavelli scriveva da Pesaro una lettera che andò smarrita, nella quale narrava minutamente ciò che compendiò poi in altre, cioè come Vitellozzo e gli Orsini erano entrati in Sinigaglia, e come il Duca, avutone notizia, ordinò subito che ponessero le loro genti nel borgo, fuori delle mura, e s'avanzò col suo esercito verso la terra, in cui entrò la mattina del 31. Primo a farglisi incontro fu Vitellozzo, colui appunto che più di tutti aveva resistito all'accordo, il quale, sapendo d'essere perciò il più odiato, veniva sopra una muletta, disarmato, dimesso, con la berretta in mano. Seguivano il duca di Gravina, Paolo Orsini, Oliverotto da Fermo, e tutti quattro accompagnarono il Duca per le vie della città, nella casa in cui alloggiò. Egli che già aveva fatto cenno a chi doveva guardarli, entrato che fu con essi in una stanza, li fece subito prendere prigioni; dette ordine che fossero svaligiate le loro fanterie nel borgo, ed inviò una metà del suo esercito per fare lo stesso alle genti d'arme, che erano alloggiate nelle vicine castella, a sei o sette miglia da Sinigaglia. Quel medesimo giorno il Machiavelli dava immediata notizia del fatto ai Dieci, aggiungendo: «La terra va tuttavia a sacco, e siamo a ore 23. Sono in un travaglio grandissimo; non so se i' mi potrò spedire la lettera, per non avere chi venga. Scriverò a lungo per altra; e secondo la mia opinione, non fieno vivi domattina.»[571]
Un'altra lettera, più lunga e più importante assai, scritta quel medesimo giorno, andò perduta. Abbiamo però quella del primo di gennaio 1503, in cui egli racconta come verso un'ora della notte innanzi era stato chiamato dal Duca, il quale «colla miglior cera del mondo [407] si rallegrò meco di questo successo, aggiungendo parole savie e affezionatissime sopra modo verso cotesta Città. Disse che questo era il servigio che aveva promesso di rendervi a tempo opportuno. E come aveva dichiarato, che vi offrirebbe la sua amicizia con istanza tanto maggiore, quanto più fosse stato sicuro di sè, così ora teneva la promessa; e venne esponendo tutte le ragioni che l'inducono a desiderare questa amicizia, con parole che mi fecero restare ammirato. M'invitò ancora a scrivervi che, avendo spento i capitali nemici suoi, di Firenze e di Francia, e levata quella zizzania che minacciava guastare l'Italia, dovevate dargli segno manifesto d'amicizia, col mandar gente verso Perugia dove s'avviava ora, e col ritenere per lui il duca Guidobaldo, se nella sua nuova fuga entrasse in Toscana. È seguìto poi che questa notte passata, a ore dieci, fece strangolare Vitellozzo e messer Oliverotto da Fermo;»[572] «gli [408] altri due sono rimasi ancora vivi, credesi, per vedere se il Papa arà avuti nelle mani il cardinale[573] e gli altri che erano a Roma, che si crede di sì, e dipoi ne delibereranno tutti di bella brigata.» La rôcca s'era già arresa; l'esercito era partito quel giorno stesso alla volta di Perugia, per continuare verso Siena; il Machiavelli lo seguiva, ed essendo inverno, erano grandissimi gli stenti dei soldati e di chiunque andava con essi.[574]
Il disordine, il trambusto divennero universali, ed all'avvicinarsi del Duca tutti i piccoli tiranni del paese fuggivano come dinanzi all'idra.[575] Ben si può credere che, in tanta confusione, corrieri per portar le lettere non se ne trovassero, o non fossero sicuri, e però non poche di quelle scritte allora dal Machiavelli andarono perdute. Il 4 gennaio 1503, egli avvisò che le genti vitellesche ed orsine erano riuscite a scampare. Intanto s'andava innanzi, e i Baglioni fuggivano da Perugia, che il giorno 6 si arrese. Le loro sorelle, arrivate al confine, donde il Commissario fiorentino Piero Ardinghelli aveva, per gli ordini ricevuti, respinto tutti i profughi, vestirono due figlie giovinette da uomo, abbandonandole per forza alla compassione di lui, piuttosto che vederle cadere nelle mani dei nemici. Sicchè quegli scriveva il 19 gennaio al [409] gonfaloniere Soderini: «Ora io non ho potuto far che la pietà di questa fortuna, di questa età non mi abbia commosso.... Ho eletto scriverne in proprio all'E. V., per intendere se le persone sole delle quattro donne o almeno le due pulzelle io possi qui receptare.... Quando non fussi contro la pubblica intenzione, io che naturalmente ho compassione agli afflitti, me ne terrò obbligatissimo.»[576] E gli fu permesso.
Il giorno 8 Niccolò Machiavelli scriveva da Assisi, che tutti si maravigliavano come ancora non fosse venuto da Firenze alcuno a congratularsi col Duca, il quale ripeteva d'avere cogli ultimi fatti reso gran servigio alla Repubblica, perchè «alle SS. VV. sarebbe costo lo spegnere Vitellozzo e gli Orsini dugento mila ducati, e poi non sarebbe riuscito loro sì netto.» E intanto continuava il suo cammino, procedendo sempre «con una fortuna inaudita, un animo e una speranza più che umana,»[577] risoluto a cacciare di Siena il tiranno Pandolfo Petrucci, e, potendo, anche impadronirsi della sua persona, al qual fine il Papa cercava «addormentarlo coi Brevi,» perchè è bene, diceva il Duca, «ingannare costoro che sono suti li maestri dei tradimenti.» Non si attentava d'impadronirsi della città stessa, non permettendolo la Francia; ma quanto a Pandolfo, che era stato «il cervello» dei congiurati, voleva levarlo di mezzo.[578]
Il 13 gennaio si trovavano a Castello della Pieve, ed essendo finalmente per arrivare il nuovo ambasciatore fiorentino, Iacopo Salviati, il Machiavelli s'apparecchiava a partire, come fece poi il 20. Ma prima, per sopperire alle molte lettere perdute, si pose a scriverne una che riepiloga tutti i fatti seguìti, della quale sfortunatamente [410] non abbiamo che il primo foglio. In essa egli incomincia con grandissima cura ed amore a fare un quadro generale dell'impresa che, sin dalle prime parole, dichiara veramente «rara e memorabile.» Non accenna nel Duca alcun disegno premeditato di tradire, ma piuttosto un animo risoluto a vendicarsi in tempo, quando s'avvide che, per la partenza delle lance francesi, volevano tradirlo. Descrive la somma accortezza che egli usò per tener celato agli Orsini ed ai Vitelli il numero delle genti che ancora gli rimanevano, facendole credere minori che non erano. Con uguale ammirazione descrive minutamente gli ordini dati per dividere in piccoli drappelli tutto l'esercito, e condurlo poi unito a Sinigaglia, in modo da arrivare inaspettato con forze preponderanti, trovando disseminate lungi dalla città quelle dei falsi amici, i quali così non avrebbero potuto disobbedirgli, senza scoprirsi traditori prima del tempo. Ma appunto quando si è per descrivere l'entrata in Sinigaglia, finisce il brano di questa lettera,[579] in cui lo scrittore, cercando pure di restar fedele alla verità storica, sembra quasi esaltarsi a descrivere un eroe, cosa di cui qualche rimprovero gli era stato già fatto da Firenze, come apparisce dalle lettere stesse del Buonaccorsi.[580]
Il Machiavelli trovavasi ancora il giorno 18 gennaio a Castello della Pieve, quando il Valentino, ricevuta la notizia lungamente aspettata, che il Papa aveva cioè preso prigioniero il cardinale Orsini e gli altri in Roma, fece strangolare anche Paolo e il duca di Gravina Orsini, che aveva menati seco da Sinigaglia, sotto buona [411] guardia. Il Duca procedette saccheggiando le terre del Senese, e minacciando di assalire la città stessa, se non ne cacciavano subito il Petrucci; ma si contentò poi di lasciarlo partire, quando questi chiese un salvocondotto, perchè la Francia gli vietava d'assalire la terra, ed il Papa lo chiamava in fretta a Roma. Ciò per altro non impedì punto che, dopo avergli concesso il salvocondotto e raccomandatolo con lettera ai Lucchesi, gli mandasse dietro cinquanta uomini armati, per averlo, morto o vivo, nelle mani. E veramente il tiranno di Siena scampò questa volta per miracolo. Il 28 gennaio, infatti, aveva lasciato la sua città, e fuggiva più che in fretta con Giovan Paolo Baglioni verso Lucca, perchè, sebbene non sapessero di essere inseguiti, pure nessuno si fidava dei Borgia. E gli sgherri erano sul punto di raggiungerlo, se non che, durando sempre la guerra tra Firenze e Pisa, il commissario fiorentino, ignaro di tutto, non volle permettere che uomini armati corressero liberamente un paese guerreggiato, e li fermò chiedendo istruzioni a Firenze. Questo bastò perchè la desiderata preda avesse il tempo necessario a sfuggire dagli artigli avvelenati del Duca. Ed egli dovette ora finalmente decidersi ad andar subito verso Roma, chiamatovi con febbrile istanza dal Papa, il quale non si sentiva punto sicuro, essendo la Campagna piena d'armati che lo minacciavano. La Francia da un altro lato aveva di nuovo e severamente vietato che si procedesse oltre nelle conquiste.
Mentre in Romagna e nell'Italia centrale vediamo il Duca, e Niccolò Machiavelli che con tanta evidenza ci fa assistere a tutto quello che seguiva colà; a Roma possiamo osservare il rovescio, non meno tragico, della medaglia. Ivi si trovavano di fronte il Papa, che sapeva dominarsi assai meno del figlio, e Antonio Giustinian che, senza avere nè l'ingegno nè la cultura del Machiavelli, aveva assai maggiore autorità, maggiore esperienza del mondo, straordinaria conoscenza degli uomini, e, come [412] ambasciatore veneto, molti mezzi che mancavano al Segretario fiorentino, per conoscere il segreto delle cose. Fin dal 6 agosto egli aveva scritto al Doge, che Vitellozzo andava «scantonando» il Duca, e che tutto faceva prevedere che questi ed il Papa fossero decisi a «mozzar le ali» agli Orsini. Quando vennero le nuove della ribellione, e della rotta di don Ugo e don Micheletto, il Papa si scagliò in Concistoro con un furore forsennato contro gli Orsini, ma poi subito, a poco a poco, abbassò la voce in modo da mostrarsi, scrive l'oratore, quasi umile ed avvilito. Alle prime notizie dei favori di Francia la sua gioia era di nuovo tale, che i cardinali sogghignavano fra loro, vedendo che il Santo Padre sapeva così poco frenarsi.[581] Cominciarono poi le trattative per gli accordi, e subito l'ambasciatore veneto, senza avere i dubbi e le incertezze del fiorentino, notava che erano condotti in modo da non farvi entrare di mezzo persone potenti, per non trovare poi ostacoli a violarli, venendo al sangue.[582]
Intanto non si perdeva tempo. Il Papa confessava d'avere in pochi giorni mandato al Duca 36,000 ducati;[583] e raccoglieva artiglierie, armava come se i nemici fossero alle porte, pigliando danari «cusì da amici come da nemici, non avendo respetto che sieno nè Orsini, nè Colonnesi: e fa come chi se aniega, che se attacca alle frasche.»[584] Senza punto occuparsi di cercare i principî o teorie d'una nuova scienza dello Stato, il Giustinian era, quanto e più del Machiavelli, intento a dare una fotografia di quel che vedeva; e sin dai primi di novembre, notando che la mala fede grandissima con cui procedevano gli accordi, traspariva dalle parole stesse del Papa, le riferiva al Doge de verbo ad verbum, aggiungendo: [413] «E se possibile fosse, vorìa depenzerli la cosa inanti li occhi, perchè el modo fa molte fiate vegnir li uomini in cognizion dell'intrinseco più che le parole:» ognuno è persuaso che sia un finto accordo.[585] Infatti quando si lessero i nomi degli Orsini che lo avevano firmato, il Papa disse ridendo all'ambasciatore fiorentino: «Non vi pare che questa sia una compagnia di tristi e di falliti? Non vedete dai patti, come diffidano e si confessano traditori, non escluso il cardinale stesso, che ci fa l'amico, e intanto vuol mettere per condizione di stare a Roma solo quando gli pare?» Al quale proposito, il Giustinian scriveva: Gli Orsini possono essere ben certi d'aver preso il «tossego a termene.»[586] Nessuno invero capiva la cecità loro, massime del cardinale, che era sempre intorno al Papa, quasi volesse da sè medesimo entrare nella rete.
A misura che Alessandro VI credeva più vicini e sicuri i nuovi trionfi del Duca in Romagna, faceva ogni opera per cattivarsi l'amicizia della repubblica veneziana. Egli chiamava a parte l'ambasciatore, ed incrociando le braccia, stringendole al petto, deplorava che la gelosia dei governi d'Italia avesse dato il paese in mano a stranieri, che stavano con la bocca aperta per pigliarsi il resto. «Finora ci ha salvati solo la gelosia tra Francia e Spagna, altrimenti saremmo già rovinati. Ma non vi pensate esser figli dell'oca bianca. Ce ne sarebbe stato anche per voi. Noi siamo vecchi e dobbiamo pensare alla nostra posterità, onde non possiamo sperare in altri che nella serenissima Repubblica, che è eterna. Per amor di Dio, uniamoci insieme e provvediamo alla salute d'Italia. Sapete che cosa si dice? Che volete esser troppo savî. Contentatevi d'esser savî e lasciate quel troppo. [414] E nel dir queste cose (aggiunge l'ambasciatore) pareva quasi gli si aprisse il petto, e che le parole gli uscissero dal core e non dalla bocca.»[587] Ma chi poteva prestar fede ai Borgia? E però gli disse in risposta brevissime parole; «e solum rengraziai la Santità Sua del bon volere dimostrato verso la Eccellentissima Signoria Vostra.» Del resto neppur Venezia era allora capace di seguire una politica veramente nazionale, e tale da cavar partito dalle giuste idee che, per suo proprio interesse e per fini malamente mascherati, esponeva il Papa, pronto il giorno dopo a fare il contrario di quel che con tanta passione diceva allora.
Comunque sia di ciò, il 24 novembre, quando il Machiavelli in Romagna era ancora al buio dei disegni del Valentino, e invano si stillava il cervello, il Giustinian scriveva da Roma: «La prima botta sarà a Sinigaglia, per impedire che la Prefettessa aiuti il duca d'Urbino, che il Papa ha una passione sfrenata d'aver nelle mani.»[588] Raccoglieva e mandava di continuo danari al figlio, che spendeva da 1000 ducati al giorno,[589] e s'aiutava perciò col saccheggiare e rubare. Aspettava con straordinaria impazienza le nuove dei progressi di lui, a segno tale che quando lo seppe per qualche tempo fermo a Cesena, andava gridando, fuori di sè per la stizza: Non sappiamo che diavolo stia a fare colà; gli abbiamo scritto che si spicci in sua buon'ora. E ad alta voce, per ben tre volte ripeteva, sì che tutti l'udirono: «Al fio de putta bastardo!» e simili parole e bestemmie in spagnuolo.[590] Per riposarsi poi da questi pensieri, e deviare la pubblica attenzione da' suoi segreti maneggi, promuoveva in [415] Roma feste e mascherate popolari, che percorrevano le strade, e divenivano più oscene, quando arrivavano sotto le sue finestre, donde egli guardava ridendo il suo solito riso di vecchio dissoluto.[591] La sera la passava in Vaticano, continuando spesso fino a giorno «ne li consueti solazzi,» non mancandovi mai le solite belle donne, senza le quali «non se ne fa festa che diletti,» e giocavansi qualche volta centinaia di ducati. A questi sollazzi interveniva anche il cardinale Orsini, con maraviglia di tutta la Corte, la quale non capiva come egli si andasse così da se stesso «intrapolando.»[592]
Il 31 dicembre il Papa girava per le stanze del Vaticano, dicendo di non saper capire che cosa facesse il Duca, consumando invano mille ducati al giorno; ma poi non poteva celare il suo buon umore, e ridendo aggiungeva: «Vuol far sempre cose nuove, ha troppo grande animo.» Ed i cardinali gli dicevano che stesse contento, perchè il Duca sapeva spender con profitto il danaro. « — Noi tutti, essi aggiungevano, lo aspettiamo presto qui di ritorno per fare un bel carnevale. — Lo sappiamo bene, lo sappiamo, diceva il Papa, continuando a ridere, che voi non pensate ad altro. — » Era quello il giorno stesso, in cui Niccolò Machiavelli annunziava ai Dieci la presa di Sinigaglia e dei nemici del Duca. Il giorno dipoi il Santo Padre, finita la messa, chiamò gli ambasciatori presenti, e dètte loro la grande notizia, mostrandosi quasi maravigliato; ed aggiungeva che il Duca non perdonava mai a chi gli faceva ingiuria, e la vendetta non la lasciava ad altri, e minacciò quelli che l'avevano offeso, [416] ed in particolare Oliverotto, «el qual el Duca aveva giurato in ogni modo di appiccar con le soe proprie mane.» I cardinali lo circondavano, e con varî rallegramenti «li grattavan le orecchie,»[593] mentre che esso «entrò in un gran cantar della virtù e magnanimità del Duca.» Poi si guardavano in viso, e stringendosi nelle spalle, pensavano a quello che presto sarebbe seguito.»[594]
Infatti il giorno 3 di gennaio 1503, essendo arrivata al Papa, sebbene ancora tenuta segreta, la notizia certa che Oliverotto e Vitellozzo erano stati strangolati, egli fece in gran fretta chiamare in Vaticano il cardinale Orsini, che venne col Governatore e con Iacopo da Santa Croce, i quali pare avessero ordine d'accompagnarlo, sebbene fingessero di venir con lui a caso. Non era anche arrivato, che fu preso e messo, come tutti prevedevano, in Castel Sant'Angelo, per non uscirne mai più vivo. La casa fu subito svaligiata, e la madre con due giovinette che le tenevano compagnia, cacciate senza poter portare seco altro che quello avevano in dosso. Le tre donne andaron raminghe per Roma, non trovando chi volesse riceverle, perchè ognuno temeva. Seguirono senza indugi moltissimi altri arresti. L'auditor della Camera, vescovo di Cesena, fu portato via dal letto con la febbre, e la sua casa del pari svaligiata; lo stesso fu fatto al protonotario Andrea de Spiritibus,[595] e così ad altri ed altri ancora. Chiunque aveva danari tremava per la sua vita, perchè ora «non par che il Pontefice pensi ad altro che a recuperar denari. Si afferma che abbia, tra robe, ufficî e beneficî, raccolto non meno di 100,000 ducati; e dice che quel che è fatto è nulla a quello che [417] farà.»[596] I Medici stessi a Roma erano assai sbigottiti, ed il vescovo di Chiusi morì di spavento. Quelli che fuggirono erano già tanti, che il Papa credè necessario chiamare i Conservatori della Città, per dir loro che ormai erano presi tutti quelli che avevano commesso male: attendessero dunque gli altri a fare un bel carnevale.[597] Ed egli stesso, pure continuando la sua opera di sterminio, passò i due mesi di gennaio e febbraio tra le feste carnevalesche. L'ambasciatore veneto, andato a parlargli d'affari, lo trovò al balcone che rideva guardando il popolo mascherato buffoneggiare sotto le sue finestre.[598] Invitato poi a veglia una sera, lo trovò che assisteva, dopo aver passato il giorno a veder correre palii, alla recita di commedie, delle quali fu sempre amantissimo, in presenza d'altri diplomatici, in mezzo ai cardinali, «alcuni con l'abito cardinalesco, ed alcuni anco da maschera, con quelle compagnie che soleno gradir al Pontefice, e qualcuna ne era a' piedi del Santo Padre.»[599]
Il giorno che seguì a quella festa, il cardinale Orsini spirava nella prigione di Castel Sant'Angelo, dove, secondo che tutti dicevano, era stato avvelenato. Invano i cardinali avevano supplicato per la sua vita, invano i parenti avevano offerto 25 mila ducati per salvarlo. La madre, cui prima era stato concesso di mandar cibo al figlio, e poi vietato, inviò una donna amata dal cardinale, con l'offerta d'una grossa perla al Papa, che da più tempo la desiderava, sperando così di muoverlo a pietà. Prese la perla, ma non fece la grazia. Solo concesse che si mandasse di nuovo il desinare. Allora però il cardinale cominciava a dar «segni di frenesia,» e secondo [418] la comune opinione, aveva già bevuto alla tazza avvelenata: quasi per ironia si ordinò poi ai medici lo curassero con ogni diligenza.[600] Il 15 si disse che lo avevano trovato con la febbre: il 22 era morto; il 24 quelli che lo avevano assistito furono chiamati a giurare che era stata morte naturale. Vennero poi, per ordine di Sua Santità, celebrate pubbliche esequie.[601]
Ed ora s'aspettava il Duca. Il cardinale d'Este era già fuggito da Roma a tale annunzio, temendo per la propria vita. Tra le mille voci che correvano, dicevasi anche che egli amasse donna Sancia cognata del Duca, e da questo pure amata.[602] Quelli fra gli Orsini che erano avanzati alla strage, i Savelli, i Colonna, corsi alle armi, s'erano fortificati in Ceri, Bracciano, altrove, ed avevano il 23 gennaio assalito il ponte Nomentano. Sebbene fossero stati respinti, pure il Papa aveva armato il Palazzo; era fuori di sè per la rabbia e la paura; andava gridando che voleva sradicar casa Orsini, e chiedeva al suo Duca, che non perdesse tempo, s'affrettasse a venire. Ed egli s'era avanzato, portando sterminio dovunque arrivava. A San Quirico, non trovò che due vecchi e nove vecchie, essendo fuggiti tutti gli altri. Li fece sospendere per le braccia, ponendo il fuoco sotto i loro piedi, perchè rivelassero dove erano nascosti i tesori; e non potendo nè sapendo essi rispondere nulla, dovettero morire. Simili atrocità commise a Montefiascone, Acquapendente, Viterbo, ecc.[603] Ma quantunque tutto cedesse dinanzi a lui, e molti dei nemici si fossero ritirati, pure Ceri e Bracciano resistevano, non bastando a sottometterli le artiglierie mandate dal Papa, nè il Duca osando secondarlo [419] ora con troppo zelo, a cagione degli ordini ricevuti di Francia, dei quali l'altro non si curava punto. In questo modo le cose andarono per le lunghe; e però il Valentino, lasciati in una villa vicina 50 uomini armati, coi quali era venuto, entrò il 26 febbraio in Roma, insieme con il cardinale Borgia, il cardinale d'Alibret e tre servitori, tutti in maschera. La sera assisteva mascherato alla rappresentazione d'una delle solite commedie in Vaticano, sebbene ognuno lo riconoscesse.[604]
Il Machiavelli intanto, con la fantasia esaltata, piena la mente di tutto quello che aveva veduto e sentito del Valentino e dei Borgia, era tornato a Firenze, dove continuava nella cancelleria a leggere ed a scriver lettere che parlavan di loro. Ma chi credesse che egli si fosse addirittura illuso nel giudicare il vero carattere del Papa e del figlio, dovrebbe rileggere la sua prima Legazione a Roma, ed il suo primo Decennale, per convincersi facilmente del contrario. In questo egli chiama il Duca uomo senza pietà, ribellante a Cristo, l'idra, il basilisco, degno della più trista fine, e parla in termini non molto diversi del Papa.[605] Pure fu, come dicemmo, accanto al [420] Valentino, che nella sua mente sorse la prima volta e cominciò a formularsi assai chiaro il pensiero, che doveva poi occupare tutta la sua vita, d'una scienza dello Stato, separata, indipendente da ogni concetto morale. In questa separazione egli credette di vedere l'unico mezzo per concepire chiaramente, e fondare su nuova base la vera arte di governare. Si trovò in uno stato d'animo e di mente non molto diverso da quello di chi si fosse la prima volta messo a ricercare le leggi, secondo cui si aumenta o si diminuisce la ricchezza delle nazioni, ed avesse esaminato il fenomeno economico così nel mercante, nell'industriale e nell'agricoltore che producono, come nel soldato che saccheggia, nel brigante e nel pirata che rubano. Da questa separazione, più o meno astratta e forzata, di uno solo dei fenomeni sociali da tutti gli altri, cominciò infatti la scienza economica a formarsi, ed a ciò dovette così il suo rapido progresso come anche alcuni di quegli errori che più tardi cercò di correggere. E da una separazione non molto diversa partiva il Machiavelli, quando cominciò ad esaminare, a studiare le azioni del Valentino: in esse l'assoluta distinzione della politica dalla morale non appariva come un'ipotesi o un'astrazione, perchè era invece un fatto reale. Se non che, allora il Machiavelli riusciva solo a formulare alcune massime generali, senza innalzarsi ad un concepimento teoretico di principî, e molto meno poteva riuscire ad esser tanto sicuro del suo metodo, da tentar di raccoglierli in un corpo di dottrine. Le sue idee, quasi inconsapevolmente, lo conducevano piuttosto a formar nella sua mente un personaggio ideale, che rappresentava l'uomo politico, accorto, abile, audace, non trattenuto da nessuno scrupolo di coscienza, da nessuna autorità morale, pur di giungere, superando ogni ostacolo, anche attraverso il sangue ed i tradimenti, allo scopo che s'era prefisso. In sostanza, esaminando le azioni del Valentino, egli aveva finito col concepire un Valentino immaginario, al quale ritornò [421] continuamente più tardi. È la nota figura che così spesso ricomparisce in mezzo alle considerazioni dei Discorsi e del Principe, come a ricordare la loro prima sorgente, ed a testimoniare di nuovo che l'autore ha cercato il fondamento della sua politica, non già risalendo al Sommo Bene, o movendo da qualche metafisica astrazione, ma solo esaminando la realtà della vita. Ad un simile impulso egli obbediva, quando più tardi scrisse la Vita di Castruccio Castracani, la quale, come tutti sanno, non è storia, ma è invece un tentativo per cavare dalla storia il suo proprio ideale politico. Tutto questo ci spiega com'egli potesse tanto lodare e tanto biasimare il Valentino. Le lodi vanno generalmente al personaggio della sua mente, il biasimo a quello della storia. L'uno però non è così diverso dall'altro, che non ci accada qualche volta di confonderli insieme, tanto più che ciò segue anche all'autore, trasportato come è da una fantasia, che spesso lo domina con forza tanto maggiore, quanto più egli crede di ragionare a freddo. Nè è veramente raro il caso di vedere appunto gli uomini che più riflettono e ponderano, cadere a un tratto in assoluta balìa della propria immaginazione.
Qualunque del resto fosse lo stato del suo animo e delle sue idee, il Machiavelli non aveva allora il tempo necessario alle scientifiche meditazioni, ed a scrivere lavori di lunga lena. Si provò quindi solamente a narrare in breve tutto quel che aveva veduto in Romagna, non per darne un esatto ragguaglio storico, che già trovavasi nelle molte lettere della sua legazione, sebbene più d'una ne fosse andata perduta; ma per mettere, invece, anche meglio in chiaro la prudenza e l'arte, secondo lui maravigliose, del Duca. Compose perciò la ben nota Descrizione,[606] in cui il modo da questo tenuto nell'uccidere [422] i suoi nemici, vien dipinto in quella forma che meglio rispondeva allo scopo che lo scrittore aveva preso di mira. Così e non altrimenti si può spiegare perchè il Machiavelli ora descriva i fatti tanto diversamente da quel che vedemmo nella Legazione, quando egli era sul luogo, e ragguagliava i Dieci per dovere d'ufficio.
Nella Descrizione comincia col presentarci il Duca che ritorna di Lombardia, dove era stato a scusarsi col Re di Francia «di molte calunnie gli erano state date da' Fiorentini per la ribellione d'Arezzo.» Il che non è vero, perchè i Fiorentini non lo avevano calunniato, e ciò dovrebbe in ogni caso bastare a far ricredere tutti coloro che in questa Descrizione non vollero vedere altro che una delle sue solite lettere ai Dieci o ai Signori. Certo il Segretario non avrebbe potuto, scrivendo ad essi, parlare delle calunnie de' Fiorentini. Continuando poi, egli narra con molta brevità la congiura alla Magione, e l'accordo più tardi seguìto fra i ribelli e il Duca, del quale fa in ogni maniera risaltare l'astuzia. Qui il Duca parte da Imola alla «uscita di novembre,» e nella Legazione il 10 dicembre; parte da Cesena «intorno a mezzo dicembre,» e nella Legazione, invece, era il 26 dicembre ancora «in sul partire.» Si procede poi narrando come, presa Sinigaglia dai Vitelli e dagli Orsini, la fortezza non si volle arrendere, avendo il castellano dichiarato di cederla solo «alla persona del Duca,» che fu perciò invitato a venire. A lui, osserva il Machiavelli, parve la occasione buona e da non dare ombra, e per meglio colorire la cosa licenziò i Francesi.[607] Nella Legazione invece aveva detto, come del resto da tutti gli storici ed ambasciatori del tempo risulta chiaro, che i Francesi partirono [423] improvvisamente il 22 dicembre, perchè furono richiamati senza che se ne sapesse la ragione, e in ogni modo con grande dispiacere e pericolo del Duca.[608] Anzi il 20 dicembre scriveva che la cosa aveva «mandato il cervello sottosopra a questa Corte,» ed il 23, che al Duca erano così «mancate più che la metà delle forze e a due terzi della reputazione.» Nella Descrizione, invece, tutto ciò si muta in un tratto di fina accortezza del Valentino. Anche la strada che da Fano mena a Sinigaglia, apparisce qui assai diversa da quella minutamente descritta nel brano che ci resta della citata lettera, in cui si epiloga il racconto dei fatti. E sino alla fine si continua sempre allo stesso modo. Il Duca comunica il suo disegno a otto de' suoi fidi, di alcuni dei quali sono dati i nomi della Descrizione, sebbene nella Legazione di ciò non si faccia parola. Si racconta diversamente anche la presa dei quattro capitani, e si danno le parole dette da Oliverotto e Vitellozzo in sul morire, parole di cui nessuno può confermare o negare la verità storica, non avendone l'autore accennato nulla altrove, nè essendo presumibile che le conoscesse di certa scienza. Come si spiegherebbero mai così patenti contradizioni, se non si ammettesse che qui non si tratta di storia vera e propria? Il Valentino che il Machiavelli ci descrive ora, calunniato dai Fiorentini, abile ed accorto anche più di quel che appaia nella Legazione, non è altro che il precursore del suo Principe, nel quale ci sarà più tardi esposto in [424] una forma teoretica ciò che ora vediamo invece in una forma individuale e concreta. Il concetto scientifico, sebbene ancora non apparisca molto chiaro, è però già nascosto nel personaggio ideale che ci sta dinanzi.
Necessità di nuove imposte. — Discorso sulla provvisione del danaro. — Provvedimenti contro i Borgia. — Guerra di Pisa. — Nuovi misfatti del Papa. — Prevalenza degli Spagnuoli nel Reame. — Morte di Alessandro VI. — Elezione di Pio III e di Giulio II.
(1503)
La Repubblica trovavasi ora molto angustiata dall'urgente bisogno di danari necessarî ad assoldare nuove genti; giacchè non solo i Borgia minacciavano da un lato e i Pisani dall'altro, ma un nuovo esercito francese era in via per Napoli, ed a nessuno era dato prevedere le complicazioni e i pericoli che da ciò potevano nascere. Pure fu questo il momento, in cui il gonfaloniere Soderini, che finora aveva governato con grandissimo favore, e tutto gli era riuscito, trovò la prima forte opposizione nei cittadini. Sette proposte diverse furono nel febbraio e nel marzo 1503 presentate al Consiglio Maggiore, per ottenere il danaro necessario, e nessuna fu vinta. Nè si sapeva più a quale partito appigliarsi, perchè se la imposta che si proponeva era grossa, non poteva essere accettata da un popolo già tanto gravato; se piccola, non soddisfaceva al bisogno. A queste ragioni di scontento se ne univano altre, che rendevano la presente opposizione assai viva. I cittadini più ricchi avevano non solo pagato le ordinarie gravezze; ma erano stati costretti ad imprestare non piccole somme di danaro [425] al Comune, il quale perciò aveva con essi un debito di 400,000 fiorini, di cui 18,000 erano dovuti al Soderini ed ai suoi nipoti. Non volevano adunque i ricchi sentir parlare di provvedimenti straordinarî; ma chiedevano una imposta ordinaria e generale che, cadendo del pari su tutti, desse alla Repubblica modo di pagare qualche parte de' suoi debiti a chi essa aveva finora più aggravato. Questa norma s'era appunto seguìta nelle varie proposte sostenute dal Gonfaloniere, e respinte dal Consiglio, in cui prevalevano i meno ricchi, i quali si dolevano che egli, eletto dal popolo, favorisse invece i potenti. Ed aggiungevano che tutto ciò seguiva, perchè voleva ora farsi pagare i crediti che aveva egli verso lo Stato, dal quale riscoteva pure così grosso stipendio. Nè bastando, si univano a questi lamenti anche le grida di coloro che erano stati colpiti dai molti risparmî introdotti nella nuova amministrazione; e si faceva perfino un gran brontolare, perchè la moglie del Gonfaloniere, che era dei marchesi Malaspina, «bellissima, benchè attempata, e savia con modi regî,» secondo l'espressione del Cerretani, avesse allora preso alloggio in Palazzo, e quindi si vedesse per quelle scale un gran salire e scendere di signore, cosa fino allora insolita a Firenze.
La conseguenza naturale di tutto ciò fu, che il credito della Repubblica, rapidamente salito per la elezione del nuovo Gonfaloniere, e per la ordinata amministrazione di lui, discese ora con uguale rapidità, e i luoghi del Monte Comune e del Monte delle Fanciulle si tornavano a negoziare a bassissimo prezzo come in passato. Onde egli, stanco ormai di più temporeggiare, radunò il Consiglio Maggiore, e fece un solenne discorso, in cui, esposti gl'imminenti pericoli, rimise nei cittadini stessi la forma da dare alla nuova gravezza, pur che il danaro necessario a conservare e difendere la Repubblica, fosse una volta deliberato. E così finalmente si vinse una Decima universale su tutti i beni immobili, compresi gli [426] ecclesiastici, quando se ne avesse il permesso da Roma, consentendo anche «un poco d'arbitrio.» Era l'arbitrio una tassa sull'esercizio delle professioni, e questo nome derivava forse dal mettersi senza regole molto determinate, massime poi nel caso presente, in cui veniva affidata del tutto alla discrezione dei magistrati. In ogni modo le cose tornarono subito nel loro stato normale, essendosi così superate le difficoltà assai più facilmente che non si sarebbe potuto supporre.[609]
Il Machiavelli si provò allora a mettere sulla carta il discorso che, secondo lui, avrebbe dovuto essere fatto in quella occasione. Se lo scrivesse per ordine del Soderini, e se veramente sia lo stesso che questi lesse o recitò in Consiglio, noi non possiamo affermarlo. Certo egli lo compose come se a ciò fosse destinato. Scritto in modo da poter essere, nel pronunziarlo, ancora più ampliato e svolto, ha una forza e concisione di stile singolarissime, e vi si trovano molte di quelle massime, di quelle sentenze generali e reminiscenze storiche, che, quasi direi, galleggiavano ancora non bene coordinate fra loro nella mente del Segretario fiorentino, ma venivano pur sempre da lui esposte e ripetute con una lucidità inarrivabile.[610] Egli [427] incomincia col notare che tutti gli Stati hanno bisogno d'unire la forza alla prudenza. I Fiorentini avevano fatto prova di prudenza, nel dare unità e capo al governo; mancarono però subito al debito loro, non volendo provvedere alle armi, quando pochi mesi prima erano stati, per opera del Valentino, vicini all'ultima rovina. Nè valeva il dire che ora egli non aveva più ragione di offendere, «perchè bisogna sempre tenere che sia nemico chiunque può levarci il nostro, senza che noi siamo in grado di difenderci. E voi non potete ora difendere i vostri sudditi, e siete fra due o tre città, che desiderano più la vostra morte che la loro vita. Se andate poi fuori di Toscana, troverete che l'Italia gira tutta sotto i Veneziani, il Papa e il Re di Francia. I primi vi odiano e vi chiedono danari, per farvi guerra: meglio spenderli voi, per farla ad essi. Ognuno conosce che fede si può avere nel Papa e nel Duca, coi quali finora non vi è [428] stato possibile concludere alleanza di sorta, e quando pure vi riuscisse, io vi ripeto che quei signori solamente vi saranno amici, che non vi potranno offendere, perchè fra gli uomini privati le leggi, le scritte, i patti fanno osservare la fede, e fra i Signori le armi. Quanto al Re di Francia, ci vuol proprio chi osi dirvi il vero, e quest'uno son io. O egli non troverà altro ostacolo che voi in Italia, e allora siete perduti, o vi saranno anche altri, e la salute vostra dipenderà solo dal sapervi fare rispettare in modo, che non si pensi d'abbandonarvi in preda a lui, e che egli non creda potervi lasciare fra i perduti. Pensate, in ogni caso, che non sempre si può mettere mano sulla spada di altri, e però gli è bene averla allato e cingersela, quando il nemico è discosto. Molti di voi debbono ricordare che, quando Costantinopoli fu per esser presa dal Turco, l'Imperatore previde la rovina, e non potendo provvedere colle sue entrate, chiamò i cittadini, ed espose quali erano i pericoli ed i rimedî; e se ne feciono beffe.» «La ossidione venne. Quelli cittadini che aveano prima poco stimato i ricordi del loro Signore, come sentirono suonare le artiglierie nelle loro mura, e fremere lo esercito de' nemici, corsono piangendo all'Imperadore con grembi pieni di danari, i quali lui cacciò via, dicendo: andate a morire con codesti danari, poi che voi non avete voluto vivere senz'essi.... Se però gli altri diventano savi per li pericoli dei vicini, voi non rinsavite per li vostri.... Perch'io vi dico, che la fortuna non muta sentenza dove non si muta ordine; nè i cieli vogliono o possono sostenere una cosa che voglia ruinare ad ogni modo. Il che io non posso credere, veggendovi Fiorentini liberi, ed essere nelle mani vostre la vostra libertà. Alla quale credo che voi avrete quei rispetti, che ha avuto chi è nato libero e desidera viver libero.» Quello che noi dobbiamo per ora notare si è la tendenza, che apparisce sempre più chiara nel Machiavelli, a formulare [429] massime di politica generale, anche parlando di un affare così semplice come era il raccomandare una nuova imposta.
Le trattative intanto iniziate dai Borgia, per fare alleanza coi Fiorentini, continuavano senza speranza d'alcun resultato, perchè questi volevano procedere in tutto col consenso della Francia, la quale ora s'allontanava dal Papa, che dimostrava favore agli Spagnuoli. Essa cercava di favorire una lega tra Siena, Firenze, Lucca e Bologna, il che era finora riuscito solo ad aiutare il Petrucci a tornare in Siena. Colà i Fiorentini mandarono nell'aprile il Machiavelli, per comunicare a quel Signore le pratiche e le premure fatte dal Papa; e ciò per dargli una prova d'amicizia, più che per speranza o desiderio avessero di venire a qualche pratico resultato.[611] E però vinta che fu la provvisione del danaro, pensarono seriamente a mettersi in difesa contro inaspettati assalti dei Borgia, ed il Machiavelli era di nuovo al suo banco a scrivere lettere. Ad un commissario scriveva di tener d'occhio i nemici, ad un altro d'armare la fortezza, un terzo veniva rimproverato aspramente di mollezza e pigrizia. Nel maggio avvertiva che il Valentino licenziava le sue genti, le quali potevano fare qualche colpo di mano per proprio conto, o anche tentar, sotto queste mentite apparenze, di meglio servire il loro signore. Intanto esse erano verso Perugia, e minacciavano il confine. «Laonde, sebbene il divieto della Francia non ci faccia credere possibile un assalto, nè abbiamo pelo addosso che pensi quella Maestà essere per consentirgliene;[612] pure non bisogna punto addormentarsi, ma stare in guardia come se ci si credesse, visto il modo con cui procedono [430] ora le cose, riuscendo quasi sempre dove nessuno immagina. Più adunque le vedi rannugolarsi e le conosci pericolose, e più terrai gli occhi aperti.»[613] I Dieci invero temevano poco un assalto manifesto, ma dubitavano molto di furti, di rapine, di saccheggi o anche di ribellione provocata in qualche terra, per poi scusarsene. «Se si ha a dubitare di assalto manifesto a 12 soldi per lira, e' se n'ha a dubitare a 18 soldi di furto.»[614] Forse ancora tutti questi segni di minacce avevano per unico scopo d'impedire che si désse il solito guasto ai Pisani, richiamando altrove l'attenzione e le forze della Repubblica. Ma quanto a ciò, essa era fermamente decisa a profittar della buona stagione.
Infatti s'erano già inviati al campo, come commissarî di guerra, Antonio Giacomini, che faceva anche l'ufficio di capitano con ardore sempre maggiore, e Tommaso Tosinghi. Nell'aprile una circolare dei Dieci ordinava che s'arrolassero nel territorio alcune migliaia di marraiuoli per dare il guasto, e nel maggio si mandavano al campo travi, bombarde, maestri d'ascia, e si annunziavano pronti a partire fanti, uomini d'arme e guastatori, tanto che i Pisani si spaventarono e dettero segno di voler venire ad accordi. Ma nè il Giacomini nè il Tosinghi si lasciarono prendere a questa pania, dichiarando di volere stare ai fatti, non alle parole, e ne furono molto lodati dai Dieci, in nome dei quali Niccolò Machiavelli scriveva loro il 22 maggio, confortandoli «a seguire co' medesimi termini in ogni vostra azione, mostrando sempre dall'una mano la spada e dall'altra l'unguento, in modo che conoscano essere in loro arbitrio pigliare [431] quale e' vogliano.»[615] E il 23 del mese uscirono in campagna 300 uomini d'arme, 200 cavalli leggeri, 3000 fanti e 2000 guastatori, che per l'energia del Giacomini, in due giorni, dettero dalla parte dell'Arno un guasto così generale, che i Dieci stessi ne restarono assai soddisfatti, anzi maravigliati, e incoraggiavano a continuare in Val di Serchio.[616] Il Machiavelli, nello scrivere tutte queste lettere, non solo trasmetteva gli ordini avuti; ma qualche volta si distendeva a dare consigli, direzioni, suggerimenti, entrando nei più minuti particolari, quasi fosse un uomo di guerra, e che si trovasse in sul posto, pure ripetendo sempre che la Repubblica si rimetteva del tutto ai giudizî dei commissarî e capitani.[617]
Ai primi di giugno era finito il guasto anche nella Valle del Serchio, ed arrivava il balì di Caen, il quale, portando poco più che la bandiera di Francia, e qualche uomo d'arme, cominciava subito coi soliti lamenti e le solite pretese. Tuttavia la sua presenza e quella dei suoi, senza poter fare nè gran male nè gran bene, toglievano animo ai Pisani e ne davano ai Fiorentini, i quali subito presero Vico Pisano e la Verruca, di che i Dieci molto si rallegrarono,[618] ed il 18 giugno ordinarono che si espugnassero Librafatta e la Torre di Foce.[619] Ma la notizia che i Francesi comandati dal La Trémoille s'avanzavano verso Napoli, fece sospendere queste operazioni, essendo ora necessario d'avere l'esercito libero ad ogni occorrenza imprevista; e però fu dato invece ordine di limitarsi a pigliar solo la Torre di Foce, «perchè si lievi [432] questo riceptacolo ai Pisani, e che non possino più rifarci nidio alcuno.»[620] Dopo di ciò la guerra fu da quel lato sospesa, ed il Giacomini richiamato per mandarlo ai confini.
Le cose del Reame avevano preso una piega assai contraria alla Francia, di cui i Borgia perciò cominciavano a curarsi assai poco, e quindi i Fiorentini si sentivano ora meno sicuri che mai. Alcune genti del Valentino scorrevano già nel Senese, di che il commissario Giovanni Ridolfi era in grandissimo pensiero, e però, con lettera del 4 agosto, il Machiavelli cercava fargli animo, scrivendo: «Gaeta non è poi all'olio santo come tu supponi, gli Spagnuoli cominciano a ritirarsi, i Francesi s'avanzano. Ed è falsa la tua opinione che l'esercito loro resti in Lombardia per paura dei Veneziani;» «e' quali non sono meglio in su le staffe, che si sieno stati tutto questo anno, nè si sente che tramutino un cavallo, nè che muovino un uomo d'arme, tale che, per tornare al proposito, noi non veggiamo come el Duca in su el traino di queste cose, abbi a cominciare una guerra e turbare apertamente le cose di Toscana, possendo in mille modi esserli, colla metà di questi favori, messo fuoco sino sotto el letto.»[621] Tuttavia, non ostante questa fiducia apparente, si davano gli ordini per la difesa, e si mandavano al Ridolfi 250 lance francesi. Così fra questo ondeggiare passò buona parte dell'anno, quando nuovi eventi in Roma mutarono affatto le condizioni della politica italiana.
Colà, dopo che le genti del Duca avevano finalmente preso Ceri, pareva che fosse nato dissenso fra lui ed il Papa, non volendo quegli procedere risoluto contro Bracciano e gli Orsini, per rispetto della Francia, quando [433] l'altro si mostrava per ciò pieno di così gran furore, che minacciava scomunicare il figlio; e corse perfino la voce che una sera erano tra loro venuti alle mani.[622] Ma tutto questo, secondo l'ambasciatore veneziano, era una commedia. Nella presente incertezza intorno ai prossimi eventi del Reame, il Papa dimostrava d'inclinare a Spagna, il Duca a Francia. Pure, «buttandosela un all'altro, continuava il Giustinian, non restano di far li soi disegni.»[623] La verità era che adesso più che mai speravano poterli finalmente, fra i prossimi ed inevitabili disordini, porre in atto, e perciò con ogni mezzo davano opera a far danari. Il dì 29 marzo lo stesso ambasciatore scriveva che erano stati con una Bolla creati ottanta nuovi ufficî nella Curia, venduti subito a 760 ducati l'uno. «La Sublimità Vostra fazi el conto, e vedrà quanti denari ha toccato el Pontefice.»[624] E nel maggio aggiungeva, che erano stati nominati nove cardinali, uomini della peggior sorte, pagando tutti buona somma di danaro, alcuni da 20,000 ducati in su, tanto che s'erano messi insieme da 120 a 130 mila ducati. Così Alessandro aveva fatto vedere al mondo, che le entrate d'un Papa possono esser quali e quante esso vuole.[625]
Ma tutto ciò non bastava, e si ricorreva quindi ad altri mezzi. La notte dal 10 all'11 aprile, il cardinale Michiel, dopo due giorni di vomito, moriva, e prima dell'alba la sua casa era svaligiata, per ordine del Papa, che, secondo il Giustinian, tra danari, argenti, tappezzerie, prese più di 150,000 ducati. Infatti, andato questi in Vaticano, trovò tutte le porte serrate, e non fu ricevuto, [434] perchè erano occupati a contar danari, e continuavano ancora nella sala, in cui fu condotto la mattina del 13, quando v'andò perchè invitato dal Papa. Questi gli disse: «Vedete, non sono che 23,832 ducati, e pure tutta la terra è piena della notizia che abbiamo avuto in contanti da 80 a 100 mila ducati.» E domandava la testimonianza di quelli che erano presenti, «quasi,» osservava l'ambasciatore, «ch'el fosse gran cosa che loro el dovessero servire di busìa.» E tuttavia il Papa gli faceva vivissime premure, perchè si ricercasse nel Veneto dove erano gli altri danari del cardinale, parendogli pochi quelli che aveva trovati.[626] Non andò guari, e Iacopo da Santa Croce, colui che lo aveva aiutato ad impadronirsi del cardinale Orsini, accompagnandolo in Vaticano, fu fatto prigioniero anch'egli, e dopo pattuito con lui di lasciarlo vivo, mediante buona somma di danari, gli fu invece il dì 8 giugno tagliata la testa. Il suo cadavere venne lasciato per terra sul ponte Sant'Angelo fino a sera, i suoi beni mobili e immobili confiscati, la moglie ed il figlio mandati raminghi.[627]
Intanto il 19 maggio era a un tratto fuggito di Roma il Troches o Troccio, uno dei più fidati strumenti degli assassinii de' Borgia, i quali ora lo cercavano a morte.[628] Il Valentino, con lettera dello stesso giorno, pregava gli amici, ed ordinava «a tucti nostri vaxalli,» sotto pena di ribellione, che lo ritenessero prigioniero, fuggendo egli per cose che erano «contro l'onore del Re di Francia.»[629] Altri però affermavano, che causa della fuga di [435] questo assassino era stata lo sdegno di non esser messo nella lista dei nuovi cardinali, sdegno da lui manifestato al Papa, il quale gli avrebbe risposto che tacesse, se non voleva essere ammazzato dal Duca; e ciò lo aveva, come si affermava, indotto a rivelare alla Francia i loro segreti maneggi colla Spagna. Quindi il furore dei Borgia, [436] e la brama ardente d'averlo nelle mani. Comunque sia, fu preso in una nave che lo menava in Corsica, e portato subito a Roma, venne chiuso in una torre nel Trastevere. Colà, dopo poche ore, comparve il Duca che gli parlò brevemente, e poi, ritiratosi in luogo donde lo vedeva e non era visto, mandò don Micheletto a strangolarlo. La sua roba, che era stata già inventariata, fu distribuita secondo gli ordini del Papa. E così, osservava il Giustinian, di tutti i più sicuri e fedeli strumenti dei Borgia restavano ora vivi solo don Micheletto e Romolino, ai quali era forse tra poco serbata la medesima sorte degli altri.[630] Veramente pareva che non vi dovesse essere più fine alle persecuzioni ed alle morti. Molti vennero imprigionati come ebrei, altri in maggior numero come marrani: con questi pretesti s'entrava nelle loro case, svaligiandole d'ogni cosa; poi si pattuiva con ciascuno di essi di lasciar solo salva la vita, mediante una somma più o meno grossa. «Sono tutte invenzioni da far danari,» scriveva l'ambasciatore fiorentino Vittorio Soderini, e lo stesso diceva presso a poco il veneto.[631] Questi annunziava più tardi che il dì 1º agosto, verso l'Ave Maria, dopo due soli giorni di malattia, era improvvisamente morto il cardinal di Monreale, Giovanni Borgia, «per la morte del quale el Pontefice ha abuto una bona [437] zera, benchè li fosse nepote.» Andato l'ambasciatore in Vaticano, non fu ricevuto, scusandosi il Papa col dire d'esser fastidito per la morte del cardinale nepote; «et el fastidio doveva esser in contar danari e manizar zogie.» Infatti, tutto computato, si trovò, fra contanti ed altro, pel valore di 100,000 ducati; e pubblicamente si affermava, «che lui etiam sia sta' mandato per la via che sono tutti gli altri, da poi che sono bene ingrassati; e dassi di questo la colpa al Duca.»[632] Le cose erano ormai arrivate a tal punto, che chi aveva danari o fama d'averne, tremava per la sua vita, parendogli da tutta ora aver el barisello alle spalle.»[633]
I Borgia facevano ora ogni sforzo, per trovarsi pronti a nuove imprese, in mezzo al disordine generale che s'aspettava pei rapidi mutamenti che seguivano nel Napoletano. Il D'Aubigny era stato disfatto in Calabria dagli Spagnuoli sopravvenuti di Sicilia; il Nemours alla Cerignola da Consalvo di Cordova, che era uscito di Barletta, e dopo una splendida vittoria entrò nel maggio trionfante in Napoli. In breve ai Francesi non restò che la fortezza di Gaeta, dove si rifugiò il maggior numero dei loro soldati avanzati alla rotta; Venosa, dove era Luigi d'Ars; Santa Severina, dove era assediato il principe di Rossano. Luigi XII si dovette quindi rifar da capo, assalendo direttamente la Spagna, ed inviando in Italia un nuovo esercito sotto Luigi La Trémoille e Francesco Gonzaga, esercito che doveva essere poi accresciuto cogli aiuti promessi da Firenze, Siena, Mantova, Bologna, Ferrara. Questa spedizione procedeva però con una lentezza incredibile, a causa della sospetta neutralità di Venezia, e della sempre più mutabile e meno comprensibile politica del Papa. Egli manifestamente inclinava a Spagna, cui permetteva fare pubblici arrolamenti in [438] Roma; ma faceva poi sentire ai Francesi, che gli avrebbe aiutati nella loro impresa, pagando sino a due terzi della spesa, quando però dessero il Reame o la Sicilia al Valentino, rifacendosi nell'Italia superiore a loro piacere.[634] Nello stesso tempo faceva le più grandi profferte d'amicizia e d'alleanza ai Veneziani, perchè s'unissero con lui contro la Francia e contro la Spagna, a difesa comune dell'Italia dagli stranieri.[635] A Massimiliano re dei Romani, che pensava sempre di venire in Italia a pigliar la corona imperiale, chiedeva invece con grande istanza la investitura di Pisa pel Duca, dicendo che altrimenti sarebbe obbligato d'abbandonarsi alla Francia, che gli prometteva il Reame in cambio della Romagna.[636] Che riuscita potesse avere una così stolta condotta, lo lasceremo giudicare a coloro che esaltarono l'accortezza e il senno politico dei Borgia. Trattando con tutti contro tutti, dopo tanto agitarsi, il Papa si trovava condannato alla immobilità, senza poter contare sull'amicizia di alcuno. E il Duca, che s'armava con animo d'andar contro Siena, di unirsi a Pisa, e, fattosene padrone, spingersi contro Firenze, non poteva neppur egli muovere ora un passo; giacchè avrebbe per via incontrato l'esercito francese, e gli sarebbe stato necessario dichiararsi amico o nemico, cioè combatterlo o unirsi con esso e seguirlo nel Reame. Volendo invece serbarsi pronto a tutti i possibili eventi, a lui non conveniva nè l'uno nè l'altro partito, e quindi il resultato di tanto agitarsi, di tante astuzie, di tanti assassinii, era anche per lui l'immobilità e l'incertezza.
Ma un fatto inaspettato venne a mutare improvvisamente lo stato delle cose. Il 5 agosto verso sera, il Papa andò col Duca a cena nella vigna del cardinale Adriano [439] da Corneto, in Vaticano, e stettero colà fino a notte. Il mese di agosto, sempre cattivo per le febbri romane, era quell'anno pessimo. Alcuni degli ambasciatori, moltissimi della Curia, specialmente coloro che abitavano in Palazzo, s'erano ammalati; e però tutti quelli che erano stati alla cena, se ne risentirono più o meno gravemente. Il giorno 7 il Giustinian andò dal Papa che, rinchiuso e rimbacuccato, gli disse volersi aver cura, perchè gli facevano paura le tante febbri e morti che allora seguivano in Roma.[637] Il giorno 11 il cardinale Adriano era a letto colla febbre; il 12 il Papa fu preso da un assalto di febbre e di vomito; il Duca s'ammalò anch'egli dello stesso male.[638] Il Papa aveva allora 73 anni, e quindi era evidente la gravità del suo stato. Infatti cominciarono subito minacce di congestione cerebrale, cui si cercò riparare con abbondanti salassi, i quali, indebolendo il malato, rendevano più forte la febbre.[639] Sopravvenne un sopore minaccioso, che pareva quasi di morte. Il 17 la febbre, che l'ambasciatore di Ferrara chiama tertiana nota,[640] tornò con parossismi così violenti, che il medico dichiarò il caso disperato. Il disordine fu subito grandissimo in Vaticano, molti cominciavano già a mettere in salvo le loro robe. Alessandro VI, che durante tutto questo tempo non aveva neppur chiesto notizia del Duca [440] o della Lucrezia,[641] il giorno 18 si confessò e comunicò. Verso le ore 6 si svenne in modo che parve spirare, e si rinvenne solamente per dar subito dopo l'estremo respiro, verso l'ora di vespro, in presenza del vescovo di Carinola, del Datario e di alcuni camerieri.[642]
Allora la confusione fu al colmo. Il Duca, sebbene stésse sempre assai male, tanto che pareva in pericolo di vita, aveva fatto trasportare in Castello buona parte delle proprie robe, e dato ordine alle sue genti di venire in Roma. Don Michele era con alcuni armati entrato nelle stanze del Papa, e, chiuse le porte, aveva fatto puntare un pugnale alla gola del cardinal Casanova, minacciando di ucciderlo e gettarlo dalle finestre, se non dava subito le chiavi e i danari del Papa. Così furono presi pel Valentino da 100,000 ducati in contanti, oltre le argenterie e le gioie, in tutto un valore di più che 300,000 ducati.[643] Fu però dimenticata la stanza accanto a quella, in cui era spirato Alessandro, nella quale erano le mitrie preziose, anelli e vasi d'argento da empirne molte casse.[644] I servitori pigliarono ogni altra cosa che trovarono nelle camere già saccheggiate. Da ultimo si spalancarono gli usci e fu pubblicata la morte.
Tutto ebbe un aspetto lugubre e sinistro fino alla sepoltura. Lavato e vestito il cadavere, fu abbandonato con due soli ceri accesi. I cardinali chiamati non vennero, e neppure i penitenzieri che dovevano dire l'ufficio [441] dei morti. Il giorno seguente il cadavere s'era, per la corruzione del sangue, alterato in modo che aveva perduto ogni forma umana. Nerissimo, gonfio, quasi altrettanto largo che lungo; la lingua s'era ingrossata così che riempiva tutta la bocca, la quale rimaneva aperta.[645] In sul mezzogiorno del 19 agosto fu esposto, secondo il costume, in San Pietro; «tamen per esser el più brutto, mostruoso et orrendo corpo di morto che si vedesse mai, senza alcuna forma nè figura de omo, da vergogna lo tennero un pezzo coperto, e poi avanti el sol a monte, lo sepelite, adstantibus duobus cardinalibus de' suoi di Palazzo.»[646] In San Pietro mancava il libro per leggere le preci, e poi seguì un tafferuglio tra preti e soldati, in conseguenza del quale il clero, smesso il canto, fuggì verso la sagrestia, ed il cadavere del Papa restò quasi abbandonato. Portatolo all'altar maggiore, si dubitò d'insulti per l'ira popolare, e lo posero perciò con quattro ceri dietro un'inferriata che venne chiusa: così restò tutto il giorno. Dopo 24 ore fu portato nella cappella de febribus, dove sei facchini, beffando ed insultando la sua memoria, cavarono la fossa per seppellirlo, mentre che due falegnami, i quali avevano fatto la cassa troppo corta e stretta per lui, messa la mitria per parte, copertolo con un vecchio tappeto, ve lo introdussero pestandolo a forza di pugni.[647] La sepoltura fu tale, che il [442] marchese di Mantova, il quale nel settembre trovavasi coll'esercito francese presso Roma, scriveva a sua moglie, la marchesa Isabella: «Fugli fatto un deposito tanto misero, che la nana, moglie del zoppo, l'ha lì a Mantova più onorevole.»[648]
La rapida decomposizione del cadavere per la corruzione del sangue, e l'essersi nello stesso tempo ammalati il Papa, il Valentino ed il cardinale Adriano, fecero spargere la voce, e credere universalmente, che vi fosse stato veleno, opinione che veniva suggerita dal nome stesso dei Borgia. Si disse che il Papa e il Duca volevano disfarsi del cardinale; ma che per errore, il vino, già prima avvelenato per lui, era stato dato invece ad essi. Senza qui osservare che i Borgia non erano nel proprio mestiere tanto inesperti da lasciar facilmente commettere, a proprio danno, simili errori, non si capirebbe in questo caso, come mai anche il cardinale si fosse ammalato.[649] Da altri si affermava che questi si salvò, perchè, avvedutosi a tempo del pericolo, corruppe con 10,000 ducati il coppiere, che dètte perciò il veleno solo ai Borgia. Ma tutte queste voci pèrdono ogni valore dinanzi ai dispacci degli ambasciatori, massime del Giustinian, il quale descrisse, giorno per giorno, l'origine ed il progresso della malattia; parlò continuamente col medico del Papa, e così [443] seppe che la congestione cerebrale, sopravvenuta alla febbre, aveva prodotto la morte. Lo stesso ambasciatore ferrarese Beltrando Costabili, che il 19, dopo la rapida corruzione del cadavere, annunziava la voce per questa ragione diffusa e creduta di avvelenamento, aveva il 14 dichiarato esplicito, che era febbre terzana, di che nessuno poteva maravigliarsi, perchè quasi tutti della Corte erano stati presi dallo stesso male, che allora infieriva in Roma, «per la mala conditione de aere.» Sarebbe in ogni caso assai strano, per non dire di più, che il veleno dato la sera della cena avesse cominciato a produrre i suoi effetti visibili solo dopo sette giorni, quando infatti cominciò la febbre.[650] Anche l'oratore ufficiale, che [444] dinanzi ai Cardinali radunati prima del Conclave, pronunziò la orazione funebre sopra Alessandro VI, dice che fu quadriduana febris quella che lui e medio abstulit.
Noi risparmieremo al lettore tutti gli altri racconti che furono allora ripetuti, di diavoli visti presso al letto del Papa, con cui avevano pattuito sin dal principio del pontificato, per avere la sua anima, e simili altre favole, tanto più credute, quanto più incredulo era il secolo. Il 19 agosto anche il Duca sembrava vicino a morte, le botteghe si chiudevano, gli Spagnuoli si nascondevano, e correva voce che Fabio Orsini era entrato in Roma coll'Alviano e cogli altri di sua casa, pieni d'un furore indescrivibile di vendetta. Cesare Borgia lo sapeva; ma egli che, come disse al Machiavelli più tardi, aveva pensato a tutto meno che al caso di trovarsi moribondo quando il Papa era morto, sembrava che ora si fosse perciò affatto smarrito.[651] I suoi soldati tumultuavano e mettevano fuoco alle case degli Orsini, bruciandone una parte. Finalmente il Conclave, per mezzo degli ambasciatori, riuscì a persuadere tutti ad una specie di tregua. Gli Orsini ed i Colonna si allontanarono quindi da Roma; il Duca, essendo migliorato, mandò innanzi le sue artiglierie, ed il 2 settembre uscì anch'egli da Roma in portantina, per andarsene al castello di Nepi ancora suo. Colà si trovava vicino all'esercito francese, già in via per Napoli, e da [445] esso sperava aiuto, essendosi a un tratto dichiarato per la Francia, sebbene ponesse sempre tutta la sua fiducia nei cardinali spagnuoli, dai quali era circondato e favorito.
Arrivarono a Roma il cardinale Giuliano Della Rovere, dopo un esilio di dieci anni; il cardinale Ascanio Sforza, liberato dalla prigionìa per opera del cardinale di Rouen, che aspirava al papato, ed altri molti. Il 3 di settembre furono fatte le esequie solenni e di rito al Papa morto; il 22 fu eletto finalmente Francesco Todeschini dei Piccolomini, nipote di Pio II, e prese il nome di Pio III. Aveva allora 64 anni, ed era così malato, che saliva sul trono come un'ombra passeggera, quasi destinato solamente a lasciar continuare le trame che d'ogni parte si ordivano, e dar tempo di misurarsi ai varî partiti, che già erano in moto per la prossima elezione. L'esercito francese che s'era fermato, proclamato che fu il nuovo Papa, continuò il suo cammino; ed allora il Duca, trovandosi solo co' suoi a Nepi, dove s'avvicinava l'Alviano assetato di sangue e di vendetta, tornò subito a Roma. Ivi seppe che le città, già sue una volta, richiamavano i loro antichi signori, i quali tornavano ed erano festosamente accolti. La Romagna però, essendo stata da lui assai meglio governata, gli restava ancora fedele, e le sue fortezze colà, occupate da comandanti spagnuoli, si mantenevano sempre per lui. Pure non gli venne mai l'idea di mettersi alla testa del suo piccolo esercito, per aprirsi la via fra i nemici, riconquistare e difendere il proprio Stato colle armi. Sperava sempre e solo negli intrighi orditi, acciò la prossima elezione riuscisse a lui favorevole. Intanto il nuovo Papa, d'indole mitissima, gli dimostrava per ora compassione. Ma gli Orsini, sentito che egli s'era volto a Francia ed era stato accettato, ne furono sdegnatissimi, e fecero subito alleanza coi Colonna, con Consalvo e la Spagna. Una parte di essi assalirono Borgo, misero fuoco a porta Torrione, per [446] entrare in Vaticano ed ivi impadronirsi del Borgia, che essi cercavano a morte. A fatica ed in fretta egli potè essere salvato da alcuni cardinali, i quali lo menarono pel corridoio in Castel Sant'Angelo. E così là dove tante vittime di lui e del padre erano spirate nelle tenebre, fra i tormenti, consumati dal veleno, si trovò finalmente anch'egli per un momento quasi prigioniero. Seppe allora che Pio III, il quale non s'era potuto tenere in piedi il giorno 8 ottobre, quando fu incoronato, dopo dieci giorni era morto.[652]
Il resultato della nuova elezione non poteva ormai essere più dubbio, perchè tutto era stato apparecchiato con danari, concertato con promesse, con intrighi fatti per ogni verso, anche coi cardinali spagnuoli, per mezzo del Valentino, il quale credeva così d'essersi assicurata valida protezione. Il 31 ottobre trentacinque cardinali entrarono in Conclave. S'erano a mala pena radunati, e quasi non s'era ancora, secondo il costume, chiusa la porta, che già il nuovo Papa veniva proclamato nella persona di Giuliano Della Rovere, che prese il nome di Giulio II. Questo acerrimo nemico dei Borgia, il quale pure seppe a tempo favorirli, nato presso Savona, di bassa origine, aveva allora 60 anni; ma della forte stirpe di [447] Sisto IV, di cui era nipote, cardinale dal 1471 e per molti vescovadi ricchissimo, aveva una tempra di ferro. Sebbene la sua gioventù non fosse stata molto diversa da quella dei prelati d'allora, e sebbene non fosse uomo di molti scrupoli, pure egli mirava alla potenza e grandezza politica della Chiesa con un ardore ed un ardire maravigliosi alla sua età. Senza abbandonare i suoi, non voleva sacrificare ad essi gl'interessi dello Stato e della Chiesa, e però non trasmodò mai troppo nel nepotismo. Le sue vie, le sue mire, il suo carattere impetuoso, violento, erano affatto contrari a quelli dei Borgia. Pure sapeva a tempo simulare e dissimulare, e non aveva avuto scrupolo alcuno di trattare col Valentino per la propria elezione, promettendo di farlo Gonfaloniere della Chiesa, lasciargli governar la Romagna, far sposare la figlia di lui con Francesco Della Rovere, prefetto di Roma. Sebbene però egli non fosse proprio deliberato a violare queste promesse, era ben altro che deciso a mantenerle. Tutto dipendeva dal vedere se il Duca poteva, per un po' di tempo almeno, essere utile strumento ai disegni del Papa, che erano di respingere i Veneziani dalla Romagna, dove s'avanzavano. Prima o poi doveva consegnare le fortezze che ancora si tenevano per lui, qualunque fossero le promesse fatte o le speranze date; giacchè l'interesse generale della Chiesa non poteva cedere dinanzi ad alcun riguardo umano. In questi propositi Giulio II era saldo e deliberato, ed il suo carattere era tale, che nulla poteva ormai farlo deviare. Lo stato delle cose s'andò quindi rapidissimamente complicando; con questo Papa anzi cominciò addirittura un'epoca nuova, non solamente in Italia, ma in Europa. Ha perciò tanto maggiore importanza la nuova legazione del Machiavelli, che allora appunto fu spedito a Roma.
[448]
I Fiorentini si dimostrano avversi ai Veneziani. — Legazione a Roma. — Gli Spagnuoli trionfano nel Reame. — Seconda legazione in Francia. — Si ripiglia la guerra di Pisa. — Vani tentativi per deviare l'Arno. — Decennale Primo. — Uno scritto perduto.
(1503-1504)
Quando a Roma seguivano i fatti da noi ora descritti, Firenze teneva l'occhio rivolto a quello che accadeva negli Stati già appartenuti al Valentino, coi quali essa confinava. Ciò che più di tutto voleva evitare era l'avanzarsi dei Veneziani, che aspiravano sempre alla Monarchia d'Italia. E però il Machiavelli, per ordine e in nome dei Dieci, scriveva ai commissarî e podestà, che favorissero la Chiesa o il ritorno degli antichi Signori o quello del Duca stesso, secondo la piega che gli avvenimenti pigliavano, pur di chiudere la porta a Venezia.[653] Nè si tralasciasse di considerare, se non fosse possibile profittare del generale trambusto, impadronendosi per conto proprio di qualche terra vicina: si raccomandava però sempre di farlo con molta prudenza, e senza esporre la Repubblica a conseguenze pericolose. In questo senso i Dieci scrivevano al commissario Ridolfi per Citerna, Faenza, Forlì, dichiarandosi pronti a spendere, per avere quest'ultima terra, sino a 10,000 ducati. Ma aggiungevano al solito che, non avendo la Repubblica forze sufficienti a fare imprese ardite, bisognava, ad eccezione dei [449] Veneziani, favorire in ogni caso chiunque avesse maggiore probabilità di fortunato successo.[654] Mentre però si discuteva se conveniva impadronirsi di Forlì, v'entrò invece il signor Antonio Ordelaffi, il quale fu bene accolto dalle popolazioni, e dichiarò subito di rimettersi tutto alla protezione dei Fiorentini. Questi allora non seppero più come regolarsi. Non potevano convenientemente ricusargli protezione; ma non si sentivano in forze da difenderlo contro la Chiesa e contro il Valentino, che facilmente lo avrebbero assalito. Ricorsero quindi al ripiego d'invitarlo a Firenze, dicendo che ivi starebbe più sicuro, e che avevano da trattare con lui faccende di importanza. Nello stesso tempo il Machiavelli scriveva al commissario in Castrocaro: «Questa venuta farà sollevare gli animi dei Forlivesi, e insospettire le genti del Duca. Ai primi dirai che lo abbiamo fatto venire per aiutarlo meglio; ai secondi, invece, che lo abbiamo chiamato per vantaggio del Duca, e per chiudere quella porta aperta ai Veneziani, togliendo loro di mano uno strumento. E così verrai bilanciando la cosa per farci guadagnare tempo. Bisogna però governare con destrezza e segretamente questo maneggio, e colorirlo in modo che nessuna delle parti s'avvegga d'essere aggirata o tenuta in pratica.»[655] Un così continuo e misero tergiversare era ciò che più di tutto disgustava il Machiavelli, che vi si trovava, per obbligo d'ufficio, costretto, e lo spingeva sempre più ad un'esagerata ammirazione per la condotta di uomini come il Valentino, i quali, senza riguardi umani nè divini, andavano diritti al loro fine.
Per buona fortuna egli fu presto levato da siffatta tortura, giacchè il 23 ottobre ebbe le istruzioni e l'ordine [450] di recarsi a Roma, con lettere di raccomandazione a molti cardinali che doveva visitare, specialmente al cardinal Soderini, che trattava colà i principali affari della Repubblica, e dal quale egli doveva dipendere.[656] Era mandato a far condoglianze per la morte di Pio III; a raccogliere tutte le notizie che poteva, durante il Conclave, ed ancora a concludere, mediante il cardinale di Rouen, una condotta con G. P. Baglioni. Questa si faceva in nome dei Fiorentini, ma tutta nell'interesse ed a servizio della Francia, per bilanciare il danno da essa risentito a causa dell'abbandono degli Orsini, che insieme coi Colonna s'erano uniti a Consalvo di Cordova, appena che l'amicizia del Valentino era stata accettata dai Francesi. Come era naturale, la condotta fu subito conclusa, ed il Baglioni s'apparecchiò senza indugio a partire, per riscuotere il danaro in Firenze, che s'era impegnata a pagarlo coi 60,000 ducati dovuti alla Francia «per conto della protezione.»[657] Al quale proposito il Machiavelli scriveva di lui, «che anch'egli era come gli altri che saccheggiano Roma, i quali sono più ladruncoli che soldati, e vengono cercati più pel nome e le amicizie che hanno, che pel loro valore o per gli uomini di cui dispongono. Obbligati come sono alle proprie passioni, le alleanze fatte con essi durano fino a quando non torna loro l'occasione d'offendere, e però chi li conosce cerca solo di temporeggiarli.»[658]
Del resto gli avvenimenti mutarono subito lo scopo e l'indole di questa legazione. Al giungere del Machiavelli in Roma, già erano in sul finire quegli scandalosi [451] maneggi coi quali, secondo che scriveva l'ambasciatore veneto, i voti s'erano contrattati non a migliaia, ma a diecine di migliaia di ducati, chè «ormai non è differenzia dal papato al soldanato, perchè plus offerenti dabitur.»[659] Il cardinale Giuliano Della Rovere aveva così guadagnato rapidissimamente terreno, ed essendogli, come già dicemmo, riuscito, mercè le promesse fatte al Valentino, di avere il favore dei cardinali spagnuoli, era sicuro del fatto suo. Gli animi erano però sempre assai agitati, e grandissimo il disordine nella città, a segno tale che un servitore di quel cardinale, la sera del 31 ottobre, fu accompagnato da venti uomini armati, nell'andare a casa del Machiavelli. Tuttavia questi scriveva la sera stessa, che l'elezione era omai sicura. Il giorno seguente, infatti, radunatosi il Conclave, veniva proclamato il nuovo Papa, che prese subito il nome di Giulio II, e senza esitare strinse con mano fermissima le redini del governo. Così ora non si trattava più di pensare a raccogliere e trasmettere notizie intorno al Conclave; ma sorgevano invece due altre questioni assai più gravi. Che cosa il Papa intendeva fare del Valentino, cui aveva tanto promesso? Che condotta voleva tenere di fronte a Venezia, la quale già si dimostrava deliberata ad avanzarsi in Romagna?
E due erano gli uomini, che con maggiore diligenza e penetrazione le esaminavano: il Machiavelli ed il Giustinian. Questi però, come era naturale, s'occupava assai meno dell'affare del Valentino, di cui la sua Repubblica poco temeva. Fin da quando sentì parlare delle promesse, che gli faceva colui che stava per essere eletto Papa, era andato con grande accortezza a scrutarne l'animo. E gli fu risposto: «Fate che l'elezione riesca, e non dubitate. Voi vedete la miseria, in cui ci ha condotto la carogna che dopo sè ha lasciato papa Alessandro, con [452] questo gran numero di cardinali. La necessità costringe gli uomini a fare quello che non vogliono, finchè dipendono da altri; ma, una volta liberati, fanno poi in diverso modo.»[660] Il Giustinian non ebbe dopo ciò bisogno d'altre spiegazioni, nè più si occupò del Valentino, anzi ripetutamente da lui pregato che venisse a trovarlo, non volle andare, per non crescergli importanza.[661] Invece scrutava, con una riserva e costanza maravigliose, i più segreti pensieri del Papa circa l'avanzarsi dei Veneziani, e ne ragguagliava il suo Governo con una diligenza insuperabile. Egli si era subito avvisto che i primi segni di benevolenza e le prime incertezze del Papa erano solo apparenti ed illusorie, essendo questi deciso a mettere a repentaglio la tiara e la pace d'Europa, per riprendere le terre, che, secondo lui, appartenevano alla Chiesa. E così, prima che si manifestino ad altro occhio umano, noi vediamo i germi della Lega di Cambray nei dispacci del veneto ambasciatore, che invano dava consigli di prudenza al suo Governo, ed invano cercava calmare l'animo irritato e fiero del Papa. Diversa assai apparisce di fronte a questi fatti la condizione del Machiavelli. I Fiorentini erano sopra ogni altra cosa impazientissimi di vedere Giulio II dichiararsi nemico dei Veneziani. Le necessarie riserve da lui usate alle prime notizie dell'avanzarsi di costoro, venivano da essi interpetrate non solo come segni d'imperdonabile freddezza; ma quasi come una prova che egli fosse contento, e forse andasse d'accordo, per impedire così il ritorno del Valentino. Il Machiavelli perciò veniva dai Dieci spronato a destare con ogni arte gelosia e odio contro Venezia; ma ben presto egli si dovette avvedere che la cosa era assai facile, perchè i primi accenni del passionato e deliberato sdegno del Papa non tardarono a manifestarsi. Invece [453] doveva tener d'occhio il Valentino, il quale, quando fosse andato in Romagna, avrebbe dovuto passare per la Toscana, il che non sarebbe stato un piccolo malanno per la Repubblica. Egli poi non aveva come il Giustinian molto frequenti occasioni d'avvicinare il Papa, e quindi non sapeva quale fosse veramente l'animo di lui verso un uomo che aveva molto odiato, ma a cui aveva pure molto promesso.
L'importanza di questa legazione, per quel che risguarda la vita del Machiavelli, viene dal trovarsi egli, dopo breve tempo, nuovamente in presenza del Valentino, caduto dal potere e dalla fortuna in cui lo aveva la prima volta veduto. Infatti ora ne scrive e ragiona con una indifferenza ed un freddo disprezzo, che ha scandalezzato moltissimi, i quali vollero in ciò vedere non solo una flagrante contradizione con quanto aveva scritto di lui altra volta; ma anche la prova di un animo basso, che sapeva ammirare solo il prospero successo e la buona fortuna, pronto a calpestare il proprio eroe appena lo vedeva caduto. Questo falso giudizio però non è altro che la conseguenza naturale del precedente errore, commesso nel voler dare all'ammirazione del Machiavelli pel Valentino un significato ed un valore che non potevano avere. Anche presso un capo di briganti, che fosse stato assai audace ed accorto, tale da saper mettere a soqquadro tutto un paese e dominarlo, il Machiavelli ne avrebbe ammirato l'accortezza ed il coraggio, senza lasciarsi spaventare da qualsiasi azione più sanguinosa e crudele. Ne avrebbe anzi potuto formare nella propria fantasia una specie d'eroe immaginario, lodandone la prudenza e la virtù, nel senso che a questa parola dava il Rinascimento italiano. E tutto ciò per la natura del suo ingegno, per l'indole dei tempi, ed anche, se vuolsi, per la freddezza del suo cuore, non punto cattivo, ma neppur sempre riscaldato da troppo ardenti entusiasmi pel bene. Se però avesse più tardi ritrovato il medesimo brigante, caduto [454] dalla prima fortuna, ritornato nella vita privata, e si fosse visto dinanzi l'uomo, avvilito ed abbietto, nella sua ributtante ed immorale mostruosità, egli, seguendo sempre lo stesso esame impassibile della realtà, senza punto esitare e senza punto temere di contradirsi, lo avrebbe descritto e giudicato quale veramente lo vedeva ed era. Non molto diverso dobbiam credere che fosse allora lo stato del suo animo di fronte al Valentino; e la contradizione non è perciò ne' suoi giudizî, ma in quelli di chi volle attribuirgli opinioni, virtù o vizi che non ebbe mai.
Intanto molte e molto varie erano le voci che correvano sulle intenzioni del Papa, a proposito delle promesse fatte. Non voleva mantenerle, e non voleva passare per violatore della fede, accusa da lui tante volte lanciata ai Borgia. E il Duca dall'altro lato, scriveva il Machiavelli, trasportato sempre «da quella sua animosa confidenza, crede che le parole d'altri sieno per essere più ferme che non sono sute le sue, e che la fede data de' parentadi debba tenere.»[662] Il 5 novembre le lettere dei Dieci narravano come Imola s'era ribellata dal Valentino, e i Veneziani s'avanzavano verso Faenza. Il Machiavelli recò queste notizie prima al Papa, che le ascoltò senza turbarsi, e poi ad alcuni cardinali, cui disse che, andando di questo passo, Sua Santità si ridurrebbe ad essere il cappellano dei Veneziani. Si presentò quindi al Duca, che subito si turbò sopra modo, e si dolse amaramente dei Fiorentini, i quali, egli diceva, con cento uomini avrebbero potuto assicurargli quegli Stati, e non lo avevano fatto. «Giacchè Imola è perduta, Faenza assalita, egli dice che non vuol più raccogliere gente, nè essere uccellato da voi: metterà tutto quello che gli resta, in mano dei Veneziani. Così crede che vedrà presto rovinato lo Stato vostro, e sarà per ridersene, avendo [455] i Francesi tanto da fare nel Reame, che non potranno aiutarvi.» «E qui si distese con parole piene di veleno e di passione. A me non mancava materia di rispondergli, nè anco mi sarebbe mancato parole; pure presi partito di andarlo addolcendo, e più destramente ch'io posse' mi spiccai da lui, che mi parve mill'anni.»[663] Lo stato delle cose era adesso totalmente mutato da quello d'una volta; il Duca non aveva più la forza a suo comando; si trattava solo di ragionare e discutere, ed in ciò il Machiavelli sentiva tutta la propria superiorità sul suo interlocutore, che altra volta gli era apparso tanto maggiore.
A Roma si trattavano adesso i più grandi affari diplomatici e politici del mondo: quelli della Francia e della Spagna, che erano i più importanti in Europa; le faccende della Romagna; le fazioni dei baroni nel Reame e nello Stato della Chiesa. Ma il Papa, obbligato a tutti per la sua elezione, non avendo ancora raccolto proprie forze o danari, non poteva decidersi a favorire alcuno. «Conviene di necessità che giocoli di mezzo, infino a tanto che i tempi e la variazione delle cose lo sforzino a dichiararsi, o che sia in modo rassettato a sedere, che possa, secondo lo animo suo, aderire a fare imprese.» «Nessuno capisce che cosa voglia fare col Valentino: lo spinge a partire, ha scritto e fatto scrivere a VV. SS. che gli diate il salvocondotto, ma non si cura poi che lo abbia davvero.[664] Questi s'apparecchia a prendere la via di Porto Venere o Spezia, e di là per la Garfagnana e Modena, in Romagna. Le sue genti, che sono 300 cavalli leggieri e 400 fanti, passerebbero per la Toscana, avuto il salvocondotto da VV. SS., verso cui si dimostra ora tutto benigno. Ma chi si può fidare della [456] sua amicizia, massime ora che egli stesso non sembra sapere che cosa voglia? Il cardinal di Volterra lo ha trovato» «vario, inresoluto e sospettoso, e non stare fermo in alcuna conclusione, o che sia così per sua natura, o perchè questi colpi di fortuna lo abbino stupefatto, e lui, insolito ad assaggiarli, vi si aggiri drento.» Il cardinal d'Elna[665] ha detto che «gli pareva uscito di cervello, perchè non sapeva lui stesso quello si volesse fare, sì era avviluppato e irresoluto.»[666]
Il nome del Valentino poi era così odiato dalla generalità dei cittadini in Firenze, che, nonostante le raccomandazioni, certo non molto calde, del cardinal Soderini e del cardinal di Roano,[667] portata nel Consiglio degli Ottanta la proposta del suo salvocondotto, sopra 110 votanti ve ne furono 90 contrarî.[668] Ed al ricevere questa notizia, Sua Santità, alzando il capo, disse al Machiavelli, che andava bene così e che era contento; laonde questi scriveva: «si vede chiaro che vuol levarselo dinanzi, senza parere di mancare alla fede, e quindi non si cura punto di quel che altri faccia contro di lui.»[669] Ben diversa naturalmente doveva essere l'impressione prodotta nell'animo del Duca, il quale, appena vide il [457] Machiavelli, andò in furore, dicendo che aveva già inviato le sue genti, che era per montare in acqua, e non voleva più aspettare. L'oratore cercò calmarlo col promettergli di scrivere a Firenze, dove anche il Duca poteva spedire un suo uomo, e qualcosa di buono si sarebbe certo concluso. Ma ai Dieci scriveva invece d'aver parlato così per calmarlo, e perchè esso minacciava che, ove non si concludesse subito, si sarebbe gettato ai Pisani, ai Veneziani, al diavolo, pur di far loro male. «Venendo il suo uomo, VV. SS. potranno trascurarlo e governarsene come parrà loro. Quanto alle genti che sono già partite, 100 uomini d'arme e 250 cavalli leggieri, cercheranno intendere di loro essere, e, quando paia a proposito, opereranno che le si svaligino in qualche modo.»[670] Il Valentino partiva per Ostia con 400 o 500 persone, secondo la pubblica voce, la quale faceva ascendere a 700 i cavalli in via per la Toscana,[671] e il vescovo di Veroli li aveva preceduti, recandosi a Firenze con una lettera di raccomandazione, firmata dal cardinal Soderini, e scritta di mano del Machiavelli,[672] che subito ne inviava direttamente un'altra, con cui avvertiva che erano lustre per addormentare e mandar via il Duca. Potevano regolarsi come volevano.[673]
Ora però le cose si complicavano, perchè arrivava la notizia che i Veneziani avevano preso Faenza, e non molto dopo che avevano acquistato Rimini, per accordo col Malatesta. Il Machiavelli allora, con un linguaggio veramente profetico, scriveva che questa impresa dei Veneziani «o la sarà una porta che aprirà loro tutta Italia, o la fia la ruina loro.»[674] Infatti qui è il germe della [458] futura lega di Cambray. Il cardinal di Rouen, fieramente alterato, giurava sull'anima sua che, se i Veneziani minacciavano Firenze, il Re lascerebbe tutto per soccorrerla; il Papa dichiarava che, se non mutavano consiglio e non si fermavano, s'accozzerebbe con la Francia, con l'Imperatore, con chiunque, per pensare solo alla loro rovina, come difatti poi fece.[675]
E non potendo più stare alle mosse, se prima aveva tollerato che il Valentino se ne andasse ad Ostia, senza lasciare i contrassegni delle fortezze di Cesena e Forlì, che ancora si tenevano per lui, mandava ora il cardinal di Volterra ed il cardinal di Sorrento, perchè se li facessero dare in ogni modo, avvertendolo che altrimenti Sua Santità lo avrebbe fatto arrestare, e dato ordine che fossero svaligiate le genti di lui. Infatti, essendo essi tornati senza aver potuto nulla concludere, spedì subito l'ordine al comandante delle navi in Ostia, che s'impadronisse del Duca; e scrisse a Siena ed a Perugia, perchè ne svaligiassero le genti, e, potendo, gli mandassero [459] prigioniero don Michele che le comandava.[676] Tutto ciò fece correr la voce che Cesare Borgia era stato gettato addirittura nel Tevere, cosa a cui il Machiavelli non prestava piena fede, aggiungendo però: «Credo bene che quando non sia, che sarà.... Questo Papa comincia a pagare i debiti suoi assai onorevolmente, e li cancella con la bambagia del calamaio; e poichè gli è preso (il Duca), o vivo o morto che sia, si può fare senza pensare più al caso suo....[677] Vedesi che i peccati sua lo hanno a poco a poco condotto alla penitenza: che Iddio lasci seguire il meglio.»[678] Ecco un esempio di quel linguaggio che tanto scandalezza coloro i quali, dopo aver fatto del Machiavelli non solo un cieco ammiratore, ma quasi un consigliere ed un agente segreto del Valentino, si debbono maravigliare, non possono comprendere che ne parli ora con così freddo disprezzo, e trovano quindi in ciò materia di nuove accuse contro di lui. Ma la condotta del Valentino in questi giorni apparve a tutti, quale veramente era, bassa, inconseguente, spregevole. Invece di difendere colla spada i male acquistati dominî, divenuto umile ed incerto, fidava solo nei più volgari intrighi. Non è questi più l'uomo che il Machiavelli aveva ammirato e lodato. E per quanto il suo presente linguaggio paia cinico a coloro che lo vogliono, in ogni modo, o troppo lodare o troppo biasimare, assai diverso era il giudizio dei contemporanei. A Firenze egli veniva invece accusato di voler sempre fare gran caso del Duca, al che i meno benevoli aggiungevano ancora la derisione e perfino la calunnia. «Voi,» dice una lettera del Buonaccorsi, «nell'universale ne siete uccellato, scrivendo di lui gagliardo; nè è chi manchi di credere, [460] che voi ancora vogliate cercare di qualche mancia, che non è per riuscirvi.»[679]
Cesare Borgia intanto, accompagnato dalla guardia del Papa, arrivava il 29 novembre per il Tevere, sopra un galeone, fino a San Paolo, donde la sera entrò in Roma. «Le SS. VV.,» scriveva il Machiavelli, «non hanno a pensare per ora dove possa spelagare. Le genti partite con lui son tornate alla sfilata, quelle venute con don Michele in costà, non la faranno molto bene.»[680] Il primo dicembre infatti arrivava la notizia che esse, inseguite dai Baglioni e dai Senesi, erano state disfatte e svaligiate, e don Michele, preso dalle genti di Castiglion Fiorentino, mandato prigioniero a Firenze. Il Papa ne fu lietissimo, e voleva averlo nelle mani, per «scoprire tutte le crudeltà di ruberìe, omicidî, sacrilegi e altri infiniti mali, che da undici anni in qua si sono fatti a Roma contro Dio e gli uomini. A me disse sorridendo, che voleva parlargli, per imparare qualche tratto da lui, per saper meglio governare la Chiesa. Spera che voi glielo mandiate, ed il cardinal di Volterra gliene ha dato ferma speranza, e conforta quanto e' può le SS. VV. a fargliene un presente, come di uomo spogliatore della Chiesa.»[681] Il Duca, come era naturale, ne restò sempre più avvilito nelle stanze del cardinal di Sorrento, dove alloggiava. [461] Non per questo però mutava modo. Aveva finalmente dato i contrassegni a Pietro d'Oviedo, che doveva partire con essi, per far cedere le fortezze; ma chiedeva dal Papa assicurazioni per le terre di Romagna, e che il cardinal di Rouen gli guarentisse in iscritto queste assicurazioni. Ma mentre che egli «sta così in sul tirato,» scriveva il Machiavelli, «e pretende guardarla pel sottile, il Papa, sicuro del fatto suo, lascia correre e non vuole sforzarlo. Credesi però che, senza altra assicurazione, il D'Oviedo parta domani;» «e così pare che a poco a poco questo Duca sdruccioli nello avello.»[682]
È inutile ora fermarsi a raccontare come il D'Oviedo partisse; come venisse in Romagna impiccato da uno dei comandanti delle fortezze, che non volle cedere, perchè il suo signore era sempre in potere del Papa, e come questi avesse finalmente le fortezze, ed il Valentino, da tutti abbandonato, andasse a Napoli, dove Consalvo di Cordova lo prese prigioniero, e lo mandò nella Spagna. Sono cose molto note, ed estranee al soggetto di questa narrazione. Importa invece ricordare un ultimo fatto, che illustra assai bene la condotta del Valentino in questi giorni, gettando una luce sinistra sul suo carattere. Egli, che aveva così iniquamente tradito il povero duca Guidobaldo d'Urbino, inseguendolo, cercandolo a morte, volendolo costringere a sciogliere il matrimonio come impotente, a rinunziare al proprio Stato di cui già lo aveva spogliato, ed a farsi prete, come più volte ripetè, aggiungendo che senza questo non li darìa uno suspiro,[683] adesso invece chiedeva, supplicava, come «una grazia speciale,» d'essere ricevuto dal duca Guidobaldo, che da Urbino era venuto a Roma, dove trovavasi in assai [462] buoni termini col Papa. Guidobaldo, sdegnato e disgustato, come era naturale, ricusava di vederlo; ma pure cedè finalmente alle intercessioni di Sua Santità. Il Valentino, scrive un testimone oculare, entrò con la berretta in mano, e s'avanzò facendo due volte umile riverenza, trascinandosi con le ginocchia per terra, fino al duca d'Urbino, che sedeva nell'anticamera dei pontefici sopra una specie di letto. Questi, al vederlo in tale posizione, mosso da un sentimento di dignità e quasi di rispetto per sè stesso, si levò e lo fece con le proprie mani alzare e sedere accanto a sè. Chiese il Valentino umilmente perdono del passato, «incolpando la gioventù sua, li mali consigli suoi, le triste pratiche, la pessima natura del Pontefice, e qualche uno altro che l'haveva spinto a tale impresa, dilatandosi sopra el Pontefice, e maledicendo l'anima sua.» Promise di restituirgli la roba rubata, salvo alcuni «panni troiani» dati al cardinale di Rouen, e qualche altra cosa che più non aveva. Guidobaldo rispose poche parole cortesi, ma tali che l'altro «remase pauroso assai e bene chiarito.»[684] Nonostante, continuò con tutti nella stessa petulante e bassa umiltà, come apparisce dal seguito della citata lettera e dai dispacci dei varî ambasciatori italiani a Roma. Possiamo noi dunque maravigliarci, che il Machiavelli sentisse ora per la persona del Valentino un freddo disprezzo, e cercasse quasi cancellar dalla sua memoria il presente spettacolo, per non perdere la reminiscenza delle osservazioni già fatte, e delle idee che altra volta gli erano state suggerite dallo stesso individuo in condizioni ben diverse?
La legazione può dirsi adesso quasi finita. Il Machiavelli si trattenne qualche giorno di più in Roma, impedito [463] di partire da una tosse allora prevalente colà, e dalle premure del cardinal Soderini, che mal volentieri si separava da lui. In questo mezzo continuò a trasmettere le notizie che raccoglieva alla giornata. Annunziò la presa d'un segretario, che si riteneva avesse, per ordine di Alessandro VI, avvelenato il cardinale Michiel, e che si diceva ora sarebbe perciò stato pubblicamente arso;[685] continuò, come aveva fatto sempre, a dare le notizie che correvano sulla guerra nel Reame, e scritta qualche altra cosa del Valentino, che ormai era come prigione, mandava la sua ultima lettera in data del 16 dicembre, e partiva per Firenze con una del cardinal Soderini, la quale faceva di lui i più alti elogi alla Repubblica, come uomo di fede, diligenza e prudenza senza pari.[686]
Durante la sua dimora in Roma, il Machiavelli aveva mandato sempre notizie incerte e contradittorie sulla [464] guerra che seguiva allora fra gli Spagnuoli ed i Francesi, i quali si trovavano accampati da una parte e dall'altra del Garigliano, su terreni paludosi, sotto piogge continue. Fino alla sua partenza, infatti, non era seguìto nulla di veramente decisivo, e non v'erano che voci sempre diverse. Ma egli non era appena giunto a Firenze, che arrivò la notizia di quella che si chiamò la rotta del Garigliano, seguìta nella fine del dicembre, e che fu pei Francesi una vera catastrofe. Il loro esercito venne disperso e distrutto; i loro migliori capitani uccisi, prigionieri o fuggiaschi; il Reame ormai fu tutto nelle mani degli Spagnuoli. Fra le tante notizie arrivate allora a Firenze, ve ne fu una che rallegrò assai la Città: Piero de' Medici, che seguiva l'esercito francese, era rimasto, come altri non pochi, affogato nel Garigliano, mentre cercava passarlo in una barca. L'essere finalmente liberati da questo tiranno odioso e spregiato, era però un piccolo compenso di fronte alla gravità dei nuovi pericoli che ora appunto minacciavano la Repubblica. A molti pareva già di vedere il gran capitano Consalvo, alla testa del suo esercito vittorioso, avanzarsi fino in Lombardia, per cacciare addirittura dall'Italia i Francesi. Che sarebbe stato allora di Firenze? Sape vasi che Consalvo favoriva i Pisani. E quale animo poteva mai essere il suo verso la più fida alleata di Francia nella Penisola?
Per tutte queste ragioni il Machiavelli, quasi non aveva ancora ripreso il suo ufficio in Firenze, che fu per la seconda volta, spedito in Francia, dove era già ambasciatore residente Niccolò Valori. Le istruzioni, in data 19 gennaio 1501, firmate da Marcello Virgilio, dicevano: «Anderai a Lione presso il nostro oratore Niccolò Valori e presso la Maestà del Re, per far loro conoscere lo stato delle cose di qua; vedere in viso le provvisioni che fanno i Francesi, e scrivercene subito, dando il giudizio tuo. E quando non ti paiano sufficienti, farai bene intendere, che noi non siamo in grado di mettere insieme tante [465] forze da poterci difendere; e però saremmo costretti di volgerci altrove, per cercare la salute nostra donde si può averla, non ci restando altro che questa piccola libertà, la quale ci conviene salvare con ogni industria. Nè ti contenterai di grandi promesse e disegni, ma farai capire che occorrono aiuti effettivi ed immediati.»[687] Oltre di ciò, essendo stata rotta la condotta del Baglioni, doveva sollecitar qualche provvedimento anche per questo verso.
Il Machiavelli partì subito, ed il 22 gennaio 1504 scriveva da Milano, che il signore di Chaumont non credeva che Consalvo fosse per venire innanzi, e affermava che in ogni caso il Re avrebbe saputo difendere i suoi amici, ed egli stesso gli avrebbe scritto, perchè si fermasse la condotta col Baglioni, e s'aiutasse la Repubblica a fare amicizia «con questi spicciolati d'Italia;» quanto ai Veneziani «li farebbero attendere a pescare.» Altri gli assicuravano invece che il re di Francia si trovava senza danari, con poche genti e sparse in più luoghi, mentre «i nemici erano in sulla sella, freschi e «in sulla vittoria.»[688] Il 26 il Machiavelli arrivava a Lione, ed il 27 si presentava col Valori al cardinale di Rouen, cui parlò assai vivamente, esponendo lo stato delle cose e la necessità d'immediati provvedimenti. Le risposte erano sempre vaghe e tali da non soddisfare; ma ad un tratto si vide che l'orizzonte abbuiato rapidamente si rischiarava. La Spagna, sebbene avesse ottenuto una straordinaria vittoria, non s'era lasciata ubriacare dalla prospera fortuna, e cercava consolidare quello [466] che aveva conquistato, piuttosto che slanciarsi in nuove e pericolose imprese. Essa prestava perciò facile ascolto alle proposte di tregua fatte dalla Francia, la quale non poteva negli accordi dimenticare i Fiorentini, che così vedevano inaspettatamente dileguarsi i temuti pericoli. Una tregua di tre anni fu infatti firmata a Lione il dì 11 febbraio. Gli Spagnuoli restavano per ora padroni del Reame, le buone relazioni venivano ristabilite temporaneamente fra i due potentati, e i Fiorentini erano inclusi nella tregua come amici della Francia. Subito il Valori ne dava notizia ai Dieci; ed ora al Machiavelli non restava da fare altro che apparecchiarsi a partire. Il 25 febbraio, infatti, egli scriveva che, appena giunta la notizia della tregua, era stato in sulle staffe per tornarsene, come fece dopo qualche giorno, essendo trattenuto solo per affari di poco momento dal Valori. Questi faceva di lui moltissimo conto; ne lodava ai Dieci lo zelo e l'intelligenza; si valse molto de' suoi consigli; ma pure continuò sempre a tenere da sè la corrispondenza diplomatica, e così in tutta questa Legazione non troviamo che tre lettere del Machiavelli, fra le quali solo quella scritta da Milano è notevole.[689]
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Tornato questi a Firenze, venne il 2 di aprile mandato a Piombino, per dare a quel Signore assicurazioni di sincera amicizia da parte della Repubblica, e metterlo in diffidenza contro i Senesi.[690] Al solito gli ordinavano di esaminare attentamente quale fosse l'animo di lui e di chi lo avvicinava, per poi riferirne, come fece, quando fu di nuovo in Firenze. E dopo ciò ricominciarono più fitti che mai gli affari della cancelleria, ripigliandosi con nuovo zelo la guerra di Pisa.
Il Soderini aveva ora preso animo, e cominciava un poco a fare di sua testa; il Machiavelli, che aveva gran potere su di lui, lo secondava per meglio dominarlo. L'ufficio di Gonfaloniere perpetuo toglieva naturalmente importanza a tutti gli altri, nei quali si rimaneva assai poco, e vi entravano perciò uomini di minore autorità, che lasciavano mano sempre più libera a colui che era il capo effettivo dello Stato, ed al quale un'amministrazione assai economica dava, dopo il tanto profonder danari, sempre maggior credito appresso gli uomini prudenti. Per il che egli otteneva facilmente dalla Pratica, dagli Ottanta e anche dal Consiglio Maggiore quello che voleva, sebbene non mancassero già le gelosie contro di lui, ed anche [468] contro del Machiavelli, nel quale egli aveva riposto pienissima fiducia.[691] In ogni modo si fermarono le condotte con G. P. Baglioni, Marcantonio Colonna e con altri capitani più o meno reputati, per 50, per 100 o più uomini d'arme ognuno. Si assoldarono 3000 fanti per dare il guasto.[692] Era allora commissario di guerra il Giacomini, che incominciò subito le operazioni militari. Nel maggio uscì a dare il guasto a San Rossore, e tutto fu compiuto in quattro giorni; lo stesso fece in val di Serchio, e poi subito prese Librafatta. Si assoldarono tre galee, che furono assai utili ad impedire l'arrivo di vettovaglie ai nemici, ed intanto egli eseguì varie scorrerìe nel Lucchese, per fare vendetta degli aiuti che di là venivano sempre ai Pisani. A lui scrivevano il dì 1º luglio i Dieci, per mezzo del Machiavelli, rallegrandosi di ciò che aveva compiuto, ed invitandolo a far ben capire, essere egli deliberato ad operare in modo che i Lucchesi «non presumino rinfrescare di un bicchiere d'acqua i Pisani; e perchè sai che da essi li è mantenuto loro la vita in corpo, hai fatto fermo pensiero che non vada più così, e sarai per andarli a trovare fin dentro in Lucca.»[693]
Ma tutto ciò non aveva nulla d'insolito. Se non che era entrata ora nella testa del Soderini un'idea assai infelice, nella quale egli ed il Machiavelli s'erano riscaldati stranamente, contro il parere delle persone più competenti. Trattavasi nientemeno che di deviare l'Arno presso Pisa, gettandolo in uno stagno vicino a Livorno, per lasciare a secco quella città, e toglierle ogni comunicazione col mare. Consultati i maestri d'acqua, dissero che con 2000 operai e certa quantità di legname, poteva farsi una pescaia, la quale avrebbe fermato il corso del fiume, deviandolo e gettandolo nello stagno, per mezzo [469] di due fossi a questo fine cavati, e di là poi nel mare. Bastavano 30,000 o 40,000 giornate di lavoro. Portata la cosa dai Dieci nella Pratica, non fu consentita, parendo «più tosto ghiribizzo che altro.»[694] Ma il Gonfaloniere allora la girò per tante vie che ne venne a capo, e fu deliberata. Il 20 agosto Niccolò Machiavelli scriveva una lunga lettera al Giacomini, comunicandogli la risoluzione presa, ed ordinandogli di metter mano ai necessari provvedimenti per eseguirla, d'accordo con Giuliano Lapi e Colombino, mandati espressamente.[695] La cosa non persuadeva punto nè al Bentivoglio, nè al Giacomini. Il primo con la penna in mano dimostrava che, avendosi in tutto a cavare 800,000 braccia quadre di terreno, occorrevano 200,000 opere almeno, e poi non si sarebbe concluso nulla.[696] Il Giacomini, pur dichiarandosi, come doveva, pronto ad eseguire gli ordini avuti, scriveva: «Vedranno VV. SS. che ci nascerà grandissime difficultà ogni giorno, e che la tanta facilità monstrasi, resterà inferiore.»[697] Anch'egli in tutto ciò non vedeva altro che una perdita di danaro e di tempo, con l'obbligo di [470] stare a guardare gli operai, senza poter fare intanto altre fazioni di guerra. Ed essendo uomo di poca pazienza, ben presto, tolta occasione dalle febbri che davvero lo avevano ridotto a mal partito, chiese con lettera del 15 settembre licenza, che gli fu concessa il giorno seguente, inviando i Dieci a succedergli Tommaso Tosinghi.[698]
Il Machiavelli intanto scriveva una serie interminabile di lettere per dirigere i lavori. Si ordinava a tutti i Comuni l'invio al campo di zappatori per fare i fossi; si ordinava il mettere soldati a guardia per difendere i lavori; si mandavano maestri d'ascia per la pescaia; si facevano venire maestri d'acqua da Ferrara: non si posava mai.[699] Il lavoro dei due canali che dovevano essere profondi sette braccia, e larghi, l'uno 20, l'altro 30, procedeva rapidamente; ma più rapida ancora procedeva la spesa, non essendosi con 80,000 opere anche a mezzo dell'impresa. E quel che era peggio, ben presto cominciarono gravi dubbi sulla possibile riuscita; giacchè, fatta, durante una piena, entrar l'acqua nel primo dei fossi che era già compiuto, ritornò tutta in Arno cessata che fu la piena.[700] Si affermava che la pescaia, fermando il corso del fiume, ne avrebbe rialzato il letto; ma si vide poi che, dovendola costruire a poco per volta, si restringeva il corso delle acque, che subito procedevano più rapide, e quindi invece lo abbassavano. Si rispondeva che l'inconveniente sarebbe cessato una volta compiuto il lavoro, e intanto i soldati restavano oziosi a far guardia agli operai.
[471]
Il Soderini tuttavia non si dava per vinto, ma, portata la cosa prima nella Pratica e poi nel Consiglio degli Ottanta, fece deliberare che si continuasse, e così fu scritto al Tosinghi il 28 e 29 settembre.[701] Tuttavia ben presto si cominciò a desiderar solamente, che la spesa già fatta di 7000 ducati non riuscisse del tutto inutile, operando in modo che i fossi, allagando il paese, servissero almeno ad impedire l'avanzarsi dei Pisani.[702] Si mandò poi fuori un bando, che fu letto sotto le mura di Pisa, e diceva che i Signori avevano dal Consiglio Maggiore ottenuto di poter perdonare coloro che, uscendo da quella città, si dichiarassero obbedienti alla Repubblica.[703] Ma anche questo riuscì male, perchè i Fiorentini speravano così di levar forze ai Pisani, e questi ne profittarono invece per scaricarsi delle bocche inutili, durante la carestìa. Altri si fecero, uscendo, reintegrare nei loro beni, e tornavano poi di nascosto. Fu quindi necessario riscrivere subito a fin di provvedere in modo, che le intenzioni benevole del bando non ne facessero frodare lo scopo.[704] Ma tutto andò rapidamente a rovina in questi giorni. Le navi noleggiate per guardare il mare, erano già naufragate con la morte di 80 uomini; le genti d'arme si dimostravano sempre più scontente; gli operai al sopravvenire delle pioggie andavano via.[705] E sebbene nuovi maestri d'acqua, venuti da Ferrara, uniti con quelli che erano al campo, non dessero la impresa per disperata affatto, pure il 12 ottobre si commetteva al Tosinghi che decidesse egli se bisognava andar oltre, o licenziare l'esercito [472] e sospendere tutto, il che significava che in Firenze ormai mancava ogni fiducia per continuare. Infatti il Tosinghi poco dopo fu richiamato, inviandogli un successore; l'esercito fu licenziato, e i fossi con tanta spesa e fatica condotti, vennero in fretta ripieni dai Pisani. Così ebbe fine la mal consigliata impresa.[706]
In questo momento appunto il Machiavelli si mise a scrivere i primi versi che abbiamo di lui, ed in quindici giorni compose il suo Decennale Primo,[707] che con lettera del 9 novembre 1504[708] dedicò ad Alamanno Salviati, uno degli uomini più autorevoli in Firenze, e del quale si fanno nel Decennale medesimo grandi lodi, sebbene più tardi egli si dimostrasse molto avverso al Machiavelli.[709] In questo breve lavoro noi non possiamo dire di trovar poesia vera, perchè si tratta d'una semplice narrazione storica dei fatti seguìti in Italia nel decennio che incominciò coll'anno 1494. Il racconto procede assai rapido, in terzine semplici e disinvolte, accennando solo i principalissimi avvenimenti, senza tralasciarne alcuno d'importanza, massime in tutto quel che risguarda la storia di Firenze. Di tanto in tanto però scoppia una pungente ironìa, che ravviva coi suoi frizzi la narrazione, e fa singolare contrasto colle espressioni di vero dolore, che non meno spesso sfuggono all'autore.
Egli invoca la Musa, perchè l'aiuti a descrivere le sventure d'Italia, incominciate quando questa si lasciò [473] nuovamente calpestare dalle genti barbariche, così chiama sempre gli stranieri. I Francesi invitati dalle nostre discordie nazionali, percorrono la Penisola, senza che alcuno osi far loro fronte. Solo in Firenze resiste il coraggio di Piero Capponi:
Lo strepito dell'armi e de' cavalli
Non potè far che non fosse sentita
La voce d'un Cappon fra cento Galli.
Ma quando essi si debbono ritirare dall'Italia, ed al Taro passano, respingendo l'esercito della Lega, Firenze non sa più separarsi dalla loro alleanza, e «col becco aperto aspetta sempre che qualcuno venga d'oltr'Alpe a portarle la manna nel deserto.» Invece fu ingannata, e per tutto le si levarono contro nemici, che ne misero a pericolo l'esistenza, specialmente quando essa si lasciò «dominare e dividere dalle dottrine di quel gran Savonarola, che, afflato da virtù divina, l'avvolse colla sua parola.» Nè vi sarebbe stato più modo a riunirla, conclude egli cinicamente:
Se non cresceva o se non era spento
Il suo lume divin con maggior foco.
Seguono i guai della guerra nel Casentino, della guerra di Pisa, ed il Machiavelli accenna chiaro al tradimento di Paolo Vitelli «cagion di tanto danno.» Egli continua ricordando le guerre di Lombardia e la ribellione di Arezzo, al quale proposito esalta anche più del dovere la virtù e prudenza di Piero Soderini, che trovavasi allora Gonfaloniere, non però ancora a vita. Descrive poi i fatti di Romagna, rappresentando il Valentino e i suoi capitani come serpenti avvelenati che si lacerano, rivolgendo l'un contro l'altro i denti e gli ugnoni. Il Duca è fra essi il basilisco che, soavemente fischiando, li attira nella sua tana e li uccide. E mentre di nuovo i Francesi scendono in Italia, per tornare all'impresa di Napoli, [474] «lo spirito glorioso di papa Alessandro è portato fra l'anime dei beati, e ne seguono i passi tre sue indivisibili ancelle: lussuria, crudeltà e simonìa.» Giulio II venne allora eletto «portinar di Paradiso;» i Francesi furono disfatti, ed il Valentino ebbe finalmente dal Papa e da Consalvo la punizione
Che meritava un ribellante a Cristo.
Per dieci anni, conchiude il Machiavelli, tornando di nuovo serio e grave, il sole ha girato su questi eventi crudeli, che tinsero il mondo di sangue. Ora esso raddoppia l'orzo ai suoi corsieri, perchè presto seguiranno altri fatti, in paragone dei quali parrà nulla tutto ciò che è avvenuto sinora. La fortuna non è ancora contenta; la fine delle italiche guerre non è ancora vicina. Il Papa vuol ripigliare le terre della Chiesa; l'Imperatore vuole essere coronato; la Francia si duole del colpo avuto; la Spagna tende lacci ai vicini, per assicurarsi quello che ha preso; Firenze vuole Pisa; Venezia ondeggia fra la paura e l'ambizione di nuove conquiste; onde facilmente si vede che la nuova fiamma, una volta riaccesa, arriverà fino al cielo. Il mio animo resta tra la speranza ed il timore,
Tanto che si consuma a dramma a dramma,
perchè vorrei sapere dove anderà a riparare la navicella della nostra Repubblica. Io m'affido tutto al suo accorto nocchiero; ma il cammino sarebbe assai più facile e certo, se i Fiorentini riaprissero il tempio di Marte.
In tutto questo lavoro troviamo un continuo e singolare contrasto. Non solo, come già notammo, una pungente e qualche volta cinica ironìa trovasi accanto al più profondo dolore per le sventure d'Italia; ma un sentimento assai vivo della unità nazionale, sta di fronte all'amore anche più vivo per la piccola patria fiorentina. L'autore incomincia col deplorare le crudeli ferite [475] che l'Italia riceve dagli stranieri, e vorrebbe saperle guarire; ma l'odio contro Pisa, Venezia e gli altri Stati vicini prorompe subito. Spesso egli ritorna al suo primo e nobile dolore; ma il pensiero con cui il canto si chiude, è rivolto a Firenze, non all'Italia. L'ultimo verso accenna poi all'idea, che da un pezzo agitava la sua mente, di salvare cioè la Repubblica, armandola di proprie armi. Del resto questa lotta di scetticismo e di fede politica, d'ironìa e di dolore sincero, di sentimento nazionale e di municipalismo, trovasi in tutto il Rinascimento italiano; è però meglio che in altri personificata nel Machiavelli, massime in questi anni, nei quali, non potendo egli darsi a studî più serî e prolungati, gettava sulla carta i più intimi suoi pensieri così come venivano.
Questo Decennale Primo fu dato alle stampe solo nel principio del 1506, per opera d'uno dei coadiutori della cancelleria;[710] ne venne poi subito fatta una ristampa illegale, [476] ad insaputa dell'autore, e così circolò subito largamente fra gli amici, letto con grande avidità, a causa delle allusioni contemporanee, senza però esser tale da poter crescere di molto la fama dell'autore. È tuttavia notevole una lettera che il dì 25 febbraio del 1506, gli scrisse da Cascina, dove era a servizio della Repubblica, il signor Ercole Bentivoglio, cui il Machiavelli aveva inviato un esemplare del proprio scritto. Ringraziandolo, lodava prima di tutto l'arte, con la quale in sì piccolo spazio erano raccolti i principali eventi del decennio, senza tralasciarne alcuno che fosse notevole davvero. Lo confortava poi a continuare, «perchè, sebbene questi tempi sono stati e sono tanto infelici, che il ricordarli rinnuova ed accresce a noi altri dolori non pochi, pure ci è gratissimo che queste cose scritte in verità pervenghino a chi verrà dopo noi, sì che conoscendo la mala sorte nostra di questi tempi, non c'imputino che [477] siamo stati cattivi preservatori dell'onore e riputazione italiana.» «Chi non legge la storia di questi anni,» conchiude il Bentivoglio, «non potrà mai credere, come in sì breve tempo l'Italia sia da tanta prosperità precipitata a così grande rovina, alla quale pur troppo sembra correre, come a cosa desiderata, anche tutto il poco che resta, se non ci salva inopinatamente Colui che salvò dai Faraoni il popolo d'Israele.»[711] È certo singolare assai questo serio e severo linguaggio in un capitano di ventura; ma tali erano i tempi, e tale era il presentimento che tormentava allora tutti coloro che pensavano in Italia.
Pare che il Machiavelli si dilettasse in quegli anni d'accoppiare spesso l'ironìa e la satira al quotidiano lavoro degli affari, ed alle severe meditazioni politiche; giacchè è assai probabile che allora appunto componesse anche un secondo lavoro letterario, il quale sfortunatamente andò perduto. Era un'imitazione delle Nuvole e di altre commedie d'Aristofane, intitolata Le Maschere. Tutto quello che ne sappiamo è che la scrisse ad istigazione di Marcello Virgilio, e che pervenne con altre sue carte e lavori nelle mani di Giuliano de' Ricci, il quale non volle copiarla, come aveva fatto di tante altre cose inedite del suo illustre antenato, perchè era ridotta in frammenti appena leggibili, e perchè l'autore «sotto nomi finti va lacerando e maltrattando molti di quelli cittadini, che nel 1504 vivevano.» Dopo di che lo stesso scrittore aggiunge: «Fu Niccolò in tutte quante le sue composizioni assai licenzioso, si nel tassare persone grandi, ecclesiastiche e secolari, come anche nel ridurre tutte le cose a cause naturali o fortuite.» E veramente questo spirito satirico e mordace fu quello che gli procurò molti nemici, molti dispiaceri nella vita; ma l'ostinarsi [478] a ridurre tutti i fatti, massime della storia, a cause naturali, se fu, come osserva con dolore il Ricci, la cagione che ne fece proibire le opere da Paolo IV e dal Concilio di Trento,[712] fu quella ancora che lo condusse ad iniziare la scienza della storia e la scienza politica.
Tristi condizioni dell'Umbria. — Legazione a Perugia. — Pericoli di guerra. — Nuova Legazione a Siena. — Rotta dell'Alviano. — I Fiorentini assaltano Pisa e sono respinti. — Legazione presso Giulio II. — Istituzione della milizia fiorentina.
(1505-1507)
Verso la fine del 1504 le cose sembravano avviarsi assai male per la Repubblica. Bartolommeo d'Alviano s'era partito scontento da Consalvo di Cordova, e dicevasi volesse tentare qualche impresa per suo conto nell'Italia centrale. I Vitelli, gli Orsini, il signore di Piombino e quello di Siena lo secondavano; ma quel che era peggio, pareva che anche G. P. Baglioni, sebbene capitano dei Fiorentini, fosse con lui d'accordo. Questi se ne stava a Perugia, senza rinnovare la condotta scaduta, ed alle lettere che essi gli scrivevano,[713] rispondeva evasivamente, o non rispondeva affatto. Le cose non procedevano bene nè a Livorno nè a Pisa,[714] ed alla fine del [479] marzo 1505, incontrandosi sul fiume Osole, al ponte a Cappellese, e venuti fra loro alle mani buon numero di Pisani e di Fiorentini, questi ebbero una vera disfatta, dovuta quasi esclusivamente alla negligenza dei loro capi. Di tale rotta, com'è naturale, la Repubblica si dolse amaramente,[715] e dopo aver mandato danari al campo per riordinarlo, pensò ad assicurarsi per l'avvenire. Ma prima di tutto fu mandato Niccolò Machiavelli a Perugia, a fin d'indagare quale fosse veramente l'animo del Baglioni.
È difficile farsi un'idea dello stato d'anarchia in cui trovavasi allora tutta l'Umbria, specialmente Perugia, e del modo con cui in questa dominavano i Baglioni. Era uno stato di guerra continua. Le città vicine erano tutte piene de' suoi esuli, fra i quali primeggiavano gli Oddi, che di tanto in tanto tornavano per sorpresa, ed insanguinavano ferocemente le strade. Quando Alessandro VI, cacciato dalla paura di Carlo VIII, andò a Perugia nel 1495, pensò profittare dell'occasione, e propose ai Baglioni che facessero qualche gran festa, col segreto intendimento di pigliarli nella rete tutti in una volta. Ma Guido Baglioni rispose, che la più bella festa sarebbe stata di fargli vedere il popolo armato sotto il comando de' suoi parenti, che ne erano i condottieri. Allora, dice il cronista Matarazzo, Sua Beatitudine capì che Guido «aveva sale in testa,» e non insistè più oltre. Non era appena partito il Papa, che i Baglioni combattevano per le vie di Perugia, alcuni di essi ancora in camicia, per essere stati improvvisamente assaliti dagli Oddi, i quali, entrati di notte in città, li avevano cercati a morte nelle case, fin dentro i proprî letti. Più di cento furono i cadaveri sparsi per le vie o impiccati alle finestre: il sangue corse a fiumi, e ne bevvero, secondo che afferma il medesimo cronista, i cani ed anche un orso domestico, che girava [480] per le strade.[716] Finalmente i Baglioni restarono vittoriosi.
Dopo due anni venne il cardinale Borgia, mandato da Roma a mettere ordine nell'Umbria. Tutti si dichiaravano obbedienti all'autorità del Sommo Pontefice; ma aggiungevano essere pronti piuttosto a spianare al suolo la loro città, che rinunziare alle vendette. Laonde il cardinale scriveva essergli impossibile concludere nulla, se non gli mandavano genti d'arme per combattere «contra questi demonii, che non fugono per acqua santa.»[717] Partito il cardinale, senza aver nulla concluso, seguì una guerra tra i Baglioni stessi, divisi per gli odii di Guido e Ridolfo fratelli. I giorni della state del 1500, nei quali si celebravano le feste per le nozze di Astorre figlio di Guido, furono quelli appunto in cui si venne alle mani. I Varano di Camerino cominciarono la strage, uccidendo molti dei Baglioni, prima che avessero tempo di svegliarsi. Giovan Paolo che fuggì, dopo essersi difeso colla spada, fu creduto morto, e Grifone Baglioni trionfava pel sangue sparso de' suoi parenti. La madre lo maledisse e lo respinse dalla casa, in cui s'era ritirata coi figli di Giovan Paolo. Ma dopo poco, questi entrò in città, alla testa d'uomini armati, che aveva raccolti fuori delle mura, e [481] si sentirono le grida di Grifone pugnalato nella piazza. A mala pena la desolata madre fu in tempo per accorrere colla moglie a vederlo spirare. Gli assassini si ritirarono, compresi di rispetto, ed il figlio, obbedendo, strinse «la bianca mano de la sua giovanile matre,» in segno di perdono ai nemici, e spirò. Il suo cadavere fu messo nella stessa bara, in cui era stato ventiquattro ore innanzi Astorre da lui fatto uccidere, in quei giorni in cui se ne celebravano le nozze. Così G. P. Baglioni rimase signore di Perugia per la distruzione dei suoi, e passò trionfante davanti all'arco innalzato a celebrare gli sponsali del cugino, e su di esso si leggeva l'iscrizione poco prima composta dal Matarazzo. Questi, dopo averci data la minuta narrazione dei fatti sanguinosi, conclude dicendo, che «Perugia non si potrà più chiamare augusta, ma angusta, et, quod peius est, combusta.» Pure egli va in estasi quando parla dei Baglioni, quando descrive il terrore che ispiravano a tutti, e la fama che di loro correva nel mondo. Ogni volta che uno di essi comparisce coll'elmo in testa e la spada in pugno, è sempre per lui un nuovo San Giorgio, un nuovo Marte, e la città doveva essere superba delle loro prodezze.[718] Questi erano i tempi!
G. Paolo Baglioni non era però contento di viversene tranquillo a Perugia; ma cercava sempre agguati, guerre ed avventure dentro e fuori della città, lasciando governare i suoi parenti superstiti. Unitosi con Vitellozzo, noi lo vediamo andare alla caccia di un tale Altobello da Todi, contro del quale l'odio popolare si scatenò così ferocemente, che molti si ferirono colle proprie armi, per volere ognuno essere primo ad ucciderlo. I Perugini mangiarono la sua carne, secondo che afferma il cronista, il quale aggiunge che uno di essi ne morì d'indigestione; che altri la cercavano invano ad altissimo prezzo, [482] e non potendola avere, per furore di vendetta ponevano nelle vie carboni accesi sul suo sangue.[719] Dopo di ciò il Baglioni si trovò fra i congiurati della Magione; ma questa volta, meno fortunato, dovè presto fuggire innanzi all'idra che s'avanzava. Allora fu capitano di ventura a servizio dei Francesi e dei Fiorentini, e Carlo Baglioni governò pel Valentino in Perugia. Quando però si seppe, nell'agosto del 1503, la morte del Papa, Giovan Paolo lasciò subito il soldo dei Fiorentini, ed insieme con Gentile, che era cugino di Carlo Baglioni, corse armato a ripigliare il proprio Stato. Il dì 8 di settembre fu dato l'assalto; i due cugini Carlo e Gentile vennero alle mani inferociti come due leoni, «mostrandosi la virtù di ciascheduno, e quanta sia la virtù e fortezza che Marte concesse a questa magnifica casa Baglioni, la cui fama per Italia resona.»[720] Il 9 settembre Giovan Paolo era di nuovo signore di Perugia, e tornò al soldo di Firenze; ma con uno o un altro pretesto non prestava effettivo servizio. Chiamato con più insistenza che mai, quando si cominciò a diffidare di lui, propose che dessero a suo figlio una condotta con qualche lancia, sperando così di far credere ad essi che restava fedele alla Repubblica, senza compromettersi coi loro nemici. Ed anche in ciò i Fiorentini s'erano indotti a contentarlo; ma ora che l'Alviano s'avanzava, e sopra tutto dopo la rotta che essi avevano avuta dai Pisani, al ponte a Cappellese, non volevano più restare in questa incertezza. Mandarono quindi parte della prestanza o anticipazione che soleva darsi a chi veniva in campo, ordinandogli d'inviar subito i cavalli leggieri, e seguire senza indugio egli stesso colle genti d'arme, che avrebbe trovato il resto della prestanza. Vedendo che non pigliava il danaro e non partiva, si decisero a mandare [483] il Machiavelli, perchè venisse in chiaro di tutto, se poteva.
Le istruzioni, in data 8 aprile, dicevano, che egli doveva far le viste di prestar fede alle pretese ragioni che avrebbe addotte il Baglioni per scusarsi; ma, «pungendolo poi in qualche parte,» cercare di scoprir le vere, e indagare se operava così solo per migliorare i patti, o perchè s'era addirittura collegato coll'Alviano e cogli altri nemici di Firenze. Il giorno 11 il Machiavelli scriveva, che G. P. Baglioni adduceva, per non muoversi, le macchinazioni fatte contro di lui in Perugia, e l'essere a servizio della Repubblica i Colonna ed i Savelli suoi capitali nemici, aggiungendo, che aveva fatto esaminare da molti dottori perugini i capitoli della condotta, e che gli era stato assicurato non doversi per essi tenere obbligato a servire i Fiorentini. Io gli risposi, continuava il Machiavelli, che da ciò poteva venire più danno a lui che a voi, giacchè se per colpa sua «voi rimanete ora allo scoperto ex improvviso di 130 uomini d'arme, egli era tanti cavalli in Italia fuora della stalla, che voi non eri per rimanere a piè, a nessun modo.» «Ma il suo male invece non era curabile, perchè, se anche voi non vi dolevate di lui, chiunque conosce il suo procedere, e sa la condotta data al figlio a sua richiesta, e la prestanza portata a lui infino a casa,» «lo accuserà d'ingratitudine e d'infedeltà, e sarà tenuto un cavallo che inciampa, che non trova persona che lo cavalchi, perchè non facci fiaccare il collo a chi vi è su, e che queste cose non hanno a essere giudicate da dottori, ma da' signori, e che chi fa conto della corazza e vuolvisi onorare drento, non fa perdita veruna che la stimi tanto quanto quella della fede, e che mi pareva che a questa volta e' se la giuocasse.» «Gli uomini debbono far di tutto per non aversi mai a giustificare; ma a lui seguiva invece di doversi giustificare troppo spesso.» «E così lo punsi per ritto e per il traverso, dicendogli [484] molte cose come ad amico e da me; e benchè più volte li vedessi mutare il viso, mai fece col parlare segno da potere sperare che mutassi opinione.» Il risultato di tutto ciò fu, che il Machiavelli si convinse esservi accordo fra l'Alviano, gli Orsini ed il Baglioni, per tòrre Pisa a' Fiorentini, e fare anche peggio potendo; che il Petrucci di Siena secondava queste trame, e che se tutti in parole professavano amicizia per Firenze, in fatto si armavano. Laonde, ripetuto anche una volta al Baglioni, che pensasse bene a quel che faceva, perchè «questa cosa pesava più che non pesava Perugia,» se ne tornò a casa. Questa Legazione è composta d'una sola lettera, scritta però con molto vigore, con una singolare evidenza, ravvivando col linguaggio più domestico e familiare la dignità diplomatica, il che forma uno dei grandi pregi nella prosa del Segretario fiorentino, aggiunge vivo colorito alla originalità sua propria.[721]
In Firenze ora si spingevano innanzi, a tutta possa, le cose della guerra, per essere pronti alla difesa contro i minacciati pericoli. Si sparse in quei mesi la voce che Luigi XII era morto, e subito si diceva che l'Alviano, aiutato non solo dagli Orsini e dai Vitelli, ma dai Veneziani, dallo stesso Consalvo di Cordova e dal cardinale Ascanio Sforza, si sarebbe avanzato per rimettere i Medici in Toscana, e poi cacciare i Francesi da Milano, dove avrebbe nella persona del cardinale ristabilito il dominio degli Sforza.[722] Tutte queste voci però svanirono [485] qual fumo al vento, quando si seppe che il re di Francia non era morto, e che nel maggio moriva invece Ascanio. Non per questo l'Alviano si fermava; ma i suoi disegni si restringevano alla Toscana, come s'era sin dal principio sospettato, tanto che alcuni in Firenze fecero persino la strana proposta di dargli una condotta, e così farla finita. Quantunque non pochi cercassero di sostenere un tale partito, esso non poteva riuscire accetto a nessun uomo prudente, perchè contrario alla dignità della Repubblica, ed anche assai pericoloso, sapendo ognuno che l'Alviano e gli Orsini desideravano il ritorno dei Medici. E quindi, colla elezione dei nuovi Dieci, tutti gl'intrighi andarono a monte, prevalendo invece la proposta di fare una condotta di 300 uomini d'arme col marchese di Mantova, come capitano generale. Ma anche qui le trattative andarono in lungo, e sebbene il 4 maggio si spedisse il Machiavelli per concludere, non si venne a capo di nulla, affacciando il Marchese sempre nuove difficoltà.[723]
Le gravi cure dei Fiorentini perciò non diminuivano, ma invece crescevano ogni giorno. Anche il signore di Piombino sembrava ora unirsi ai nemici di Firenze, e si parlava del prossimo arrivo colà di 1000 fanti spagnuoli; laonde al commissario Pier Antonio Carnesecchi fu dato ordine d'andare a vedere un poco quale fosse il vero stato delle cose.[724] Ranieri della Sassetta, altro [486] venturiero nemico di Firenze, si recava in Piombino, ed il Machiavelli, in data del 28 giugno, scriveva di nuovo al Carnesecchi, che sembra fosse alquanto incerto e prosuntuoso, che si tenesse in forze da quel lato, e se la intendesse bene col governatore Ercole Bentivoglio. «Il che non ti si è ricordato per diffidarsi di te, nè per parerci che' e' panni tuoi non sieno finissimi, e per questo volere che tu ti vesta con quelli d'altri;» «ma perchè egli è prudente, ha ai suoi ordini tutte le nostre forze, e quindi bisogna pure in ogni modo intendersela con lui.»[725] Lo stesso giorno fu scritto al Bentivoglio, esponendogli i dubbî che avevano i Dieci sul procedere del signore di Piombino, incerto sempre tra Pandolfo Petrucci e i Fiorentini, diffidente di questi e di quello. «Si era rivolto a Consalvo, il quale dicevasi avesse mandato 800 fanti spagnuoli per farli pagare agli altri, e intanto sbigottire con essi Firenze. Se tutte queste notizie,» concludeva la lettera, «non sono certe, è certo l'arrivo degli Spagnuoli, onde bisogna in ogni modo stare in guardia.»[726] Si pensò quindi d'inviare un ambasciatore a Consalvo stesso, e sebbene il Soderini desiderasse mandarvi Niccolò Machiavelli, trovò ne' Consigli tale opposizione, che fu eletto invece Roberto Acciaiuoli. Il Machiavelli ebbe allora un'assai più modesta commissione presso il Petrucci in Siena, il quale era noto avversario dei Fiorentini; eppure avvertiva ora delle mene dell'Alviano contro di essi, coi quali proponeva di fare alleanza, offerendo 100 uomini d'arme per l'impresa di Pisa, e 50 di più l'anno seguente. La cosa pareva assai strana, e si voleva quindi indagare che intenzione egli veramente avesse.
[487]
Se il Baglioni era un tiranno della scuola del Valentino, il Petrucci non era uomo di guerra, ma uno di quelli che s'impadronivano allora del potere quasi unicamente con l'accortezza e l'astuzia, come i Medici, non senza di tanto in tanto ricorrere al sangue. Era suo consigliere e segretario Antonio da Venafro, che di poco conosciuti natali, fu prima professore nello Studio di Siena, e giudice delle Riformagioni; poi, mescolandosi nella politica, s'arricchì, e co' suoi consigli aiutò assai efficacemente il Petrucci a farsi tiranno. La potenza di costui, cominciata a consolidarsi nel 1495, quando, tornando Carlo VIII da Napoli, lasciava a Siena alcune lance francesi, si andò rafforzando negli anni successivi colla morte de' suoi più temuti rivali, i quali furono in un modo o nell'altro assassinati, aiutandolo sempre il Venafro co' suoi consigli. Cacciato dal Valentino, che lo chiamava il cervello dei congiurati della Magione, dove infatti aveva inviato il Venafro come uno dei più abili ad ordire la trama, era tornato coll'aiuto francese e col favore di tutto il popolo. Questo gli si era affezionato, perchè lo vedeva uomo d'ingegno, e perchè gli oppositori erano peggiori di lui, il quale, una volta sicuro di sè, cercò d'esser mite e giusto nel governare. A ciò si aggiungeva, che l'odio universale contro il Valentino destava nel popolo una simpatia assai naturale verso un uomo che, quasi per miracolo, era scampato vivo dalle mani di lui. Il Petrucci non ostante continuò sempre ad aver mano in tutti gl'intrighi, desiderando esserne stimato come l'autore principale. In mezzo alle nuove complicazioni che nascevano ora, si destreggiava con grandissima accortezza, e mentre si dimostrava amico di Firenze, da cui certo poteva ricevere molti danni, cercava avvicinarsi anche ai nemici di essa, vedendo che la cattiva fortuna di Francia aumentava la loro forza, e rendeva sempre più potenti gli amici di Spagna.
[488]
Le istruzioni, in data 16 luglio 1505, dicevano al Machiavelli: «Tu chiederai consiglio sul da fare, e allargandoti su questa materia, la rivolterai per tutti i versi, regolandoti, secondo che procederà il discorso, con quella prudenza che fu sempre tua, per arrivare a conoscere quale sia l'animo di quel signore.»[727] Ed il 17 egli scriveva da Siena, che il Petrucci voleva stringere accordo con Firenze, senza punto impegnarsi a far desistere l'Alviano dalla sua impresa, proponendo che si dovesse prima indebolirlo, isolandolo dai Vitelli, «perchè, essendo di natura fiera e senza rispetti, trovandosi ora armato e senza Stato, poteva far qualche colpo disperato; e l'Italia era piena di ladri, usi a vivere di quel d'altri, onde molti per predare gli sarebbero corsi dietro.»[728] Da più lati però l'oratore veniva messo in diffidenza, ed assicurato che Pandolfo Petrucci era nemico di Firenze e del Gonfaloniere, andava d'accordo con Consalvo e con l'Alviano, era l'autore di tutti i movimenti che ora seguivano, «e teneva il piè sempre in mille staffe, in modo da poternelo trarre a sua posta.»[729] Sicchè, quando egli e Antonio da Venafro, «che è il cuore suo e il caffo degli altri uomini,» tornarono a proporre che si facesse prima l'accordo, per pensar poi ad isolare l'Alviano dagli altri, il Machiavelli, temendo che volessero così compromettere sempre più la Repubblica, chiedeva invece che si venisse prima ai fatti, cominciando «a por piè in su queste faville.»[730]
Il 21 luglio si venne ancora più alle strette, dichiarando il Petrucci con lungo ragionamento, che, nonostante il suo buon volere, non poteva solo e senza previo accordo opporsi all'Alviano, e fermare quei movimenti. «Non era [489] già vero che lui avesse in questo caso la briglia e gli sproni; perchè gli sproni non ci ebbe mai, e la briglia tira quanto può.» Invano il Machiavelli replicava tutte le ragioni suggerite dal suo ingegno, chè l'altro, ben fermo nel suo proposito, cercava aggirarlo con strani consigli e notizie contradittorie. E però egli scrisse ai Dieci: «Per fargli capire che intendevo bene quegli aggiramenti, dissi che queste pratiche mi facevano in modo confuso, che io dubitavo non dare la volta avanti me ne ritornassi. Ora si sentiva che Bartolommeo d'Alviano veniva coi danari e fanti di Spagna, ed ora invece che Consalvo gli era contrario e l'avrebbe fermato; ora che era pronto a passare, ed ora che limosinava aiuto; ora che era d'accordo col Papa, ed ora che erano nemici; ora che era d'accordo con Siena, ed ora che i suoi soldati predavano i cittadini senesi. Pertanto io desideravo che Sua Signoria mi rilevasse questa ragione.» E Pandolfo, senza punto confondersi, rispose: «Io ti dirò come disse il re Federico ad un mio mandato in un simil quesito, e questo fu, che io mi governassi dì per dì, e giudicassi le cose ora per ora, volendo meno errare, perchè questi tempi sono superiori a' cervelli,» aggiungendo che l'Alviano li secondava, perchè «uomo da dare in un tratto speranza e timore ai suoi vicini, mentre che sarà così armato.»[731] Ed in questo tenore continuò fino all'ultimo il Petrucci, il quale era tale, dice il Machiavelli, «che per guardarlo in viso non si guadagna nulla o poco.» La sera del 23 il Petrucci gli fece leggere una lettera, che avvisava avere Consalvo ordinato all'Alviano di non alterare le cose di Toscana; e chiedendogli l'oratore che cosa ne pensasse, rispose: «La ragione vorrebbe che l'Alviano obbedisse e restasse fermo; pure gli uomini non sempre seguono la ragione, quindi potrebbe invece muoverlo la disperazione.» «E benchè [490] di quelli che si muovono per disperati, de' quattro, tre capitino male, tamen sarebbe bene che questa disperazione egli non l'usasse, perchè non si può muovere una cosa, non se ne muova mille, e gli eventi sono varî.» Perciò era bene che i Fiorentini provvedessero.[732] Nè ci fu verso di cavarne mai nulla; sicchè, dopo un colloquio avuto col Venafro, cui disse di avere da un pezzo in qua veduti molti «ridere la state e piangere il verno,»[733] il Machiavelli se ne tornò a Firenze più confuso di quel che ne fosse partito.
Non c'era dunque che apparecchiarsi alla guerra, e i Dieci richiamarono in ufficio il prode commissario Giacomini, inviandogli la patente il 30 luglio, con ordine di mettersi subito d'accordo col governatore sul da fare; e nello stesso tempo davano coraggio al commissario Carnesecchi in Maremma, assicurandolo che non v'era immediato pericolo.[734] Ben presto però dovettero ricredersi, dolendosi con lui stesso che già l'Alviano fosse presso a Campiglia, e cominciasse ad assalire «avanti che la testa nostra sia fatta. Ma ci pare che la tela sia ordinata in modo che, per la prudenza vostra, si potrà rassettare ogni cosa.» E promettevano solleciti rinforzi.[735] L'Alviano sapeva di non poter far nulla contro la voglia di Consalvo, il quale non voleva che i Fiorentini pigliassero Pisa, ma neppure che fossero direttamente assaliti, perchè erano compresi nella tregua firmata in Francia, e aveva mandato pochi fanti spagnuoli in Piombino, solo acciò si tenessero pronti ad ogni possibile evento. L'altro adunque, sebbene avesse con sè il favore ed i segreti aiuti del Baglioni e del Petrucci, non [491] aveva ancora potuto deliberare un disegno di guerra. Avrebbe bene accettata una condotta dai Fiorentini, per far poi a suo modo; ma questo non sembrando ormai possibile, restò fino al 17 luglio in Vignale, luogo del signore di Piombino, ed ora s'apparecchiava ad entrare in Pisa, donde poteva assai danneggiarli. Circa la metà di agosto, infatti, il Giacomini faceva sapere che i nemici s'avanzavano, e che egli era deciso di venire a giornata; al che i Dieci rispondevano, rimettendo il giudizio di tutto in lui e nel governatore: «Osservassero però che se l'entrata dell'Alviano in Pisa era pericolosa, più pericolosa assai poteva essere una zuffa, in cui si dovesse tutto vincere o tutto perdere.»[736]
I Fiorentini avevano in campo 550 uomini d'arme e 320 cavalli leggieri, oltre poca artiglieria, e qualche migliaio di fanti. Di questi un cento uomini d'armi erano a Cascina, gli altri a Campiglia ed a Bibbona, centro principale delle loro forze. Quelle dell'Alviano non erano minori, e quindi lo scontro poteva essere aspro e decisivo. Il 14 venne al Giacomini l'avviso che il nemico s'avanzava, ed il mattino del 17, in sul far del giorno, che già era vicino, ordinato a battaglia: i Fiorentini lo affrontarono alla Torre di San Vincenzo, e cominciò subito la zuffa. Le fanterie che erano, a quanto si diceva, pagate coi denari del Petrucci, furono rotte al primo scontro, e poi subito detter l'assalto gli squadroni di Iacopo Savello e Marcantonio Colonna, di fronte ai quali cominciarono a piegare tutte le genti dell'Alviano. Questi allora si fece innanzi coi suoi 100 uomini d'arme, e guadagnò terreno; ma sopravvenuto dall'altro lato Ercole Bentivoglio col grosso delle forze fiorentine, la vittoria fu sua, e l'artiglieria finì di sbaragliare il nemico. Il combattimento non durò più di due ore, nel qual tempo l'Alviano, assai abile capitano, ma quasi sempre sfortunato, [492] dopo la totale disfatta de' suoi, ferito nel viso, a mala pena scampò con 8 o 10 cavalli nel Senese. I Fiorentini presero da 1000 cavalli, grandissimo numero di carri, di prigionieri, e videro l'esercito che li minacciava, come per incanto scomparso: la gioia fu universale nella Città.[737]
Ma questa vittoria riuscì a loro assai poco utile, per la troppa fiducia in cui vennero delle proprie forze. Il Giacomini aveva reso conto della rotta data al nemico, senza aggiungere altro; il Bentivoglio, invece, che era tenuto generalmente più capace a far disegni di battaglie che ad eseguirli, proponeva d'assaltare Pisa senza metter tempo in mezzo, dando poi ancora qualche colpo a Siena ed a Lucca.[738] Il Gonfaloniere allora s'infatuò appunto nel pensiero d'assaltare e prendere subito Pisa, profittando del caldo della vittoria. Invano s'opposero i cittadini più prudenti e i Dieci, facendo osservare che non si avevano forze, e che si correva un gran rischio, essendo gli Spagnuoli in Piombino. Questi erano pochi, è vero, ma altri ne potevano d'ora in ora arrivare, imbarcandosi, se non s'erano già imbarcati, a Napoli. Alcuni parlavano pure d'un campo formato o da formarsi in Livorno. Certo il Gran Capitano s'era assai adirato, e chiamato a sè l'Acciaiuoli, aveva fatto grandissime minacce ai Fiorentini, i quali avevano, diceva egli, promesso di lasciar stare per ora almeno la città di Pisa, la quale egli farebbe in ogni modo difendere da' suoi soldati. Ma il Soderini rideva di ciò, affermando che in otto giorni l'impresa sarebbe compiuta.[739] Tenuta dai Dieci una Pratica [493] assai numerosa, la sua proposta non fu approvata; ma egli portò la cosa negli Ottanta e nel Consiglio Maggiore, dove volle spuntarla e la spuntò, riuscendo il 19 agosto a far votare 100,000 fiorini per correre senza indugio all'assalto.
Il Machiavelli venne spedito in campo a portare gli ordini al Giacomini ed al Bentivoglio, che fu nominato capitano generale.[740] Il 24 egli era di ritorno a Firenze, dove faceva conoscere quello che occorreva al campo, e ponevasi con ardore a spingere innanzi i necessarî provvedimenti. Si ordinarono fanti in tutto il territorio; se ne assoldarono in Bologna, in Romagna, e perfino in Roma, dove vennero pagati 575 Spagnuoli, che erano liberi, non per servirsene, ma solo per impedire che andassero in aiuto dei Pisani. Si comandarono marraiuoli; si spedirono armi, munizioni, tutte le artiglierie.
Il 7 di settembre il campo si trovava a poche ore da Pisa, e il giorno dipoi 11 cannoni furono piantati dinanzi alla porta Calcesana. Cominciato il fuoco al levare del sole, verso le 22 ore s'erano buttate a terra 36 braccia di mura; ma, dato l'assalto, venne subito respinto. Tuttavia, essendosi adoperato solo un terzo delle forze fiorentine, il cattivo successo non aveva importanza. Se non che, in quel mezzo entravano per la Porta a Mare 300 fanti spagnuoli, partiti da Piombino per ordine di Consalvo, e questo era un pessimo segno. Pure, mutata la posizione delle artiglierie, si ricominciò a far fuoco, continuando nei giorni 10, 11 e parte del 12. A ore 18 cadevano a terra 136 braccia di mura, e si diè un secondo e più generale assalto, che riuscì assai peggio del primo, non avendo voluto le fanterie fiorentine combattere [494] in modo alcuno, preferendo piuttosto farsi ammazzare dai loro capi che presentarsi davanti alla breccia. E allora cominciarono le mille voci che provano il disordine e la dissoluzione morale di un esercito. Si parlava di 2000 Spagnuoli entrati in Pisa, di altri partiti da Napoli per Livorno, e si affermava già formato colà un campo che nessuno vide mai. A Firenze poi, dove tanti avevano biasimata l'impresa, e dove alcuni erano perfino accusati d'essersi intesi col nemico per non farla riuscire, la notizia dell'esercito per la seconda volta respinto, e del campo in pieno disordine, produsse tale effetto, che fu subito deciso di abbandonare l'impresa. In breve, alla mezzanotte del 14, si levarono le artiglierie; il 15 fu portato il campo a Ripoli, poi a Cascina, donde le genti d'arme andarono alle loro stanze.
L'autorità del Soderini per questo fatto ne scapitò assai; ma, non potendo tutti pigliarsela con lui, le ire si rivolsero assai ingiustamente contro il Giacomini, che aveva eseguito gli ordini avuti con indomita energia e mirabile coraggio. Egli fu assai sdegnato di questa ingratitudine, e mandò la sua rinunzia, che venne subito accettata, inviandogli anche il successore. Da quel giorno, dopo aver reso tanti servigi alla patria, la sua fortuna cadde per sempre, e la sua vita militare può dirsi finita.[741] Il Machiavelli fu dei pochi che gli restarono sempre fedeli, e nel Decennale Secondo ne esaltò la virtù, biasimando l'ingratitudine dei Fiorentini, che lasciarono morire il loro generoso concittadino, cieco, povero e vecchio, senza aiutarlo, e lo fece con un linguaggio che onora del pari l'uno e l'altro. Iacopo Nardi lo pose accanto a Francesco Ferrucci, nè meno largo di lodi gli fu il Pitti; e tutto ciò aumenta non poco la vergogna di coloro che così vilmente lo abbandonarono finchè visse.
[495]
Il deplorabile resultato che ebbe l'assalto di Pisa, fece nel 1506 rivolgere l'animo del Machiavelli, con più ardore che mai, ad un suo antico disegno, l'istituzione cioè d'una milizia propria della Repubblica fiorentina. A questo pensiero egli rivolse ora per molti anni tutte le sue forze. Ma prima di cominciare a parlarne, noi dobbiamo accennare alla legazione presso Giulio II, che fu un episodio importante della sua vita, in questo medesimo anno. Il nuovo Papa non trascurò i parenti, ma provvide subito ai casi loro, per darsi poi tutto all'impresa di riconquistare alla Chiesa le provincie che le appartenevano. Ora che gli Spagnuoli dominavano nel Napoletano, era più che mai necessario distendersi verso il settentrione, per non restare in balìa dei vicini. Cacciare i Veneziani dalla Romagna, distruggere i piccoli tiranni ritornati ivi potenti per la caduta dei Borgia, e tutto ciò a benefizio della Chiesa, non dei nipoti, ecco lo scopo che si propose, ed a cui questo vecchio di 63 anni dedicò il resto della sua vita, con una volontà di ferro, con un ardore giovanile, con un coraggio da soldato e non da sacerdote. Già nel trattato firmato a Blois, tra la Francia e la Spagna, il 22 settembre del 1504, s'era per opera sua convenuto, che Luigi XII, l'Imperatore e l'arciduca Filippo assalirebbero i Veneziani. Ciò non ebbe effetto; ma la pace definitivamente conclusa nella medesima città, il 26 ottobre del 1505, tra i Francesi e gli Spagnuoli, che dovettero sottomettersi a molti sacrifizî per restare padroni del Reame, lasciava l'Italia tranquilla; ed il Papa si decise allora a cominciare da sè quello che gli altri non volevano fare per lui. E prima di tutto, per esser sicuro della quiete in Roma, reintegrò molti dei nobili negli averi tolti loro da Alessandro VI, che nelle sue Bolle egli chiamava fraudolento, ingannatore ed usurpatore. Strinse ancora parentado cogli Orsini e coi Colonna, dando una sua figlia in moglie a Giovan Giordano Orsini, ed una nipote al giovane Marcantonio Colonna. Dopo [496] di ciò, il 26 agosto, con ventiquattro cardinali, alla testa di 400 uomini d'arme, e della sua poca guardia di Svizzeri, partì per andare alla conquista di Perugia e di Bologna, due città fortissime e ben difese da armati. Aspettava da Napoli 100 Stradiotti; altre genti dai Gonzaga, dagli Este, dai Montefeltro, dalla Francia e dai Fiorentini, che tutti erano amici. Questi ultimi, ai quali aveva chiesto il loro capitano Marcantonio Colonna con la sua compagnia, spedivano il 25 agosto Niccolò Machiavelli, per dirgli che erano pronti a favorire la sua «santa opera;» ma non potevano in sul momento mandare il Colonna, per non lasciare senza comando il campo di Pisa; promettevano però dargli tutto quel che voleva, quando la sua impresa fosse «in sul fatto.»[742]
Il Machiavelli andò subito, ed il 28 agosto scriveva da Civita Castellana, che a Nepi aveva trovato il Papa già pronto a partire, pieno di buona speranza. Era contento delle promesse dei Fiorentini, aspettava 400 o 500 lance dai Francesi, oltre i 100 Stradiotti da Napoli, «e de' fanti aveva piena la scarsella.» Cavalcava in persona, alla testa delle sue genti comandate dal duca d'Urbino. L'ambasciatore veneto gli prometteva aiuti dai Veneziani, se lasciava loro tenere Faenza e Rimini; ma egli se ne faceva beffe, e andava innanzi sicuro.[743] Il 5 settembre già il Baglioni, spaventato dal fatto insolito di vedere il capo stesso della Chiesa venirgli contro in persona, s'era presentato ad Orvieto, per trattare della resa. Ed il 9 il Machiavelli scriveva da Castel della Pieve, che l'accordo era concluso: già erano cedute le porte e le fortezze della città. Quel signore servirebbe nella impresa come capitano del Papa, il quale dichiarava perdonargli il passato; ma se peccasse poi anco venialmente, lo avrebbe [497] impiccato. Giulio II aveva deliberato di porre 500 fanti nella piazza di Perugia, e 50 a ciascuna delle porte, per poi entrare in città;[744] ma tale e tanta era la sua furia, che il 13 settembre entrava coi cardinali, senza lasciare al duca d'Urbino il tempo necessario per eseguire gli ordini ricevuti. Questi aveva condotto le sue genti presso alle porte, e poco discosto si trovavano quelle del Baglioni, in modo che il Papa e i cardinali erano a disposizione di costui. «Se non farà male,» scriveva il Machiavelli, «a chi è venuto a tòrgli lo Stato, sarà per sua buona natura e umanità. Che termine si abbi ad avere questa cosa io non lo so; doverassi vedere fra 6 o 8 dì che 'l Papa sarà qui.»[745] Giovan Paolo diceva di avere preferito allora salvare lo Stato con la umiltà, piuttosto che con la forza, affidandosi perciò al duca d'Urbino. Ma il Papa, senza curarsi d'altro, occupata che ebbe la città, vi fece entrare i fuorusciti vecchi, non però i nuovi, giudicandoli troppo pericolosi all'ormai spodestato signore: intanto arrivarono da Napoli i cento Stradiotti che aspettava.[746]
È noto che, nei Discorsi sulla Prima Deca di Tito Livio,[747] il Machiavelli biasimò la condotta del Baglioni, accusandolo di viltà, per non avere osato impadronirsi della persona del Papa e dei cardinali, levandoli addirittura dal mondo, e dimostrando il primo ai prelati «quanto sia da stimare poco chi vive e regna come loro.» Ma noi non dobbiamo qui fermarci, ad esaminare ciò che egli disse assai più tardi in opere di un'indole affatto teoretica e scientifica. Questa Legazione ci obbliga invece a fare un'altra osservazione. Colui il quale s'era potuto esaltare accanto al Valentino, ammirandone l'astuzia e le arti assai poco oneste, rimane ora quasi indifferente [498] dinanzi a Giulio II, che, nonostante molti difetti e molte colpe, aveva pure alcune parti di vera grandezza. È certo che non solamente egli restò maravigliato assai, vedendo che il Baglioni non osava resistere, profittando della occasione propizia; ma la sua indifferenza verso il Papa fu tale, che questa Legazione riesce una delle meno importanti, quantunque ci sarebbe stato da aspettarsi appunto il contrario. Adempì strettamente il dovere d'ufficio, senza trovare materia particolare di studio, senza abbandonarsi a nessuna considerazione generale o estranea allo scopo pratico del momento.
Il suo pensiero era in verità rivolto altrove, alla istituzione cioè della milizia fiorentina da lui già iniziata; e però egli ardeva del desiderio di tornare a casa per condurla a termine: ne chiedeva infatti e riceveva continue notizie dal Buonaccorsi.[748] Inoltre il Machiavelli aveva un disprezzo, quasi un odio singolare contro i preti, e più specialmente contro i Papi, che secondo lui erano stati sempre la rovina d'Italia. Era poi persuaso che l'uomo politico poteva apprendere ben poco dallo studio fatto sui principati ecclesiastici, perchè la loro forza, egli diceva, viene tutta dalla religione, ed essi sono i soli che si mantengano sempre, comunque siano governati.[749] Se l'autorità della religione e la potenza della Chiesa erano ancora tali che un uomo perfido, accorto, audace come il Baglioni, si sentiva spaventato dalla sola presenza del Papa, il Machiavelli non credeva che da questo fatto potesse molto apprendere colui che cercava indagare l'arte dell'uomo di Stato, e voleva nel fenomeno politico ritrovare le cause naturali, le passioni umane che lo producono. Ciò che era o pretendeva essere divino usciva dalla sfera de' suoi studî prediletti, e però non se ne occupava. Il fato, i capricci stessi della [499] fortuna potevano secondo lui essere soggetto di studio, non la volontà di Dio, che, comunque si consideri, trascende sempre il nostro intelletto. Quanto poi al generoso ardimento di Giulio II, che a 63 anni, nel fitto della state, s'avanzava senza curarsi se cadeva in balìa del nemico, questo non gli sembrava che fosse prova di vero accorgimento politico. La prudenza e l'astuzia infernale del Valentino potevano essere studiate come modelli dell'arte; ma la cieca audacia del Papa, se poteva essere una sua virtù personale, non dimostrava le qualità vere di un uomo di Stato, e quindi egli se ne occupava assai poco. Come aveva separato il fenomeno politico dal morale, così separava anche l'arte politica dal carattere individuale, privato di colui che la esercitava, cercando in esso solamente le qualità utili o necessarie a bene adoperarla.
E non si fermò neppure a descrivere come venisse allora ordinato il nuovo governo in Perugia. Il 25 settembre scriveva da Urbino, che il Papa era più caldo che mai nel voler compiere la sua impresa, la quale era difficile prevedere dove e come andasse a finire, potendo egli, se mancavano gli aiuti francesi, colla sua furia precipitare.[750] I Veneziani lo aspettavano a qualche stretta, per farlo, con l'aiuto del Re, venire alla voglia loro; altri affermavano invece che il Papa avrebbe saputo condurre il Re, «tali sproni gli metterà ai fianchi...; ma che sproni si abbino ad essere questi, io non li so.»[751] Certo il 3 di ottobre Luigi XII s'era già chiarito pel Papa contro Venezia e Bologna, e sei oratori di questa città erano in Cesena per trattare della resa. Quando però essi gli ricordarono i capitoli firmati già da più Papi, Giulio II rispose che non se ne curava punto, e non voleva sapere neppur di quelli che avesse egli stesso firmati. S'era [500] mosso per liberare quel popolo dai tiranni, e sottomettere alla Chiesa tutto ciò che le spettava; non facendolo, gli sarebbe sembrato di non poter trovare scusa appresso Dio.
Sicuro ormai degli aiuti francesi, fatta in Cesena una mostra delle sue genti, 600 uomini d'arme, 1600 fanti e 300 Svizzeri, chiese ai Fiorentini che mandassero senz'altro indugio il Colonna co' suoi 100 uomini d'arme, essendo egli vicino a partire per Bologna.[752] Giovanni Bentivoglio già cominciava a parlare di resa; ma quando propose che il Papa entrasse in città colla sola sua guardia svizzera, questi, in risposta, pubblicò una Bolla contro di lui e de' suoi seguaci, dichiarandoli ribelli di Santa Chiesa, dando le loro robe in preda a chiunque le pigliasse, concedendo indulgenza a chiunque operasse contro di loro o anche li ammazzasse, e continuò il suo cammino.[753] Non volendo ora toccar le terre usurpate dai Veneziani, andò da Forlì ad Imola, passando pel territorio dei Fiorentini, di che dette loro avviso, quando già era per passare il confine. Essi fecero nondimeno tutto quello che potevano per dimostrargli amicizia ed ossequio. Marcantonio Colonna ebbe da loro ordine di partire in ogni modo il 17 per raggiungerlo; Niccolò Machiavelli s'avanzò, perchè in un viaggio così rapido ed improvviso non mancassero al Papa le cose più necessarie. I Dieci scrivevano poi in fretta a Piero Guicciardini, commissario in Mugello, che Sua Santità s'avanzava: «Gli spedisse incontro quattro o sei some del vino di Puliciano, e del migliore che vi si trovava, qualche poco di trebbiano, qualche soma di caci raviggiuoli buoni, e una soma almeno di belle pere camille.»[754] Il Papa passò rapidamente per Marradi e Palazzuolo, dove tutto fu pronto; il 21 era [501] ad Imola e vi pose il suo quartier generale. Di là il Machiavelli scriveva lo stesso giorno, che Sua Santità voleva dal Bentivoglio resa incondizionata, e tutto faceva prevedere che l'avrebbe. Se non che, divenendo ora lo stato delle cose assai più grave, e dovendosi trattare delle condizioni generali d'Italia, era necessario che fosse mandato al campo un ambasciatore. Il Papa lo aveva chiesto, ed i Fiorentini gl'inviarono Francesco Pepi, che arrivò il 26 ad Imola, donde partì il Machiavelli per tornar subito a Firenze.
Il Bentivoglio avrebbe potuto respingere l'assalto, quando non fosse stato in odio al suo popolo, che già s'era sollevato all'arrivo delle Bolle papali, e non fosse stato abbandonato dalla Francia, che mandò in aiuto di Giulio II 8000 uomini comandati da Carlo d'Amboise, il quale s'impadronì subito di Castelfranco. I Bolognesi, temendo il saccheggio, obbligarono il loro Signore ad andarsene il giorno 2 di novembre, e poi inviarono messi ad Imola, per sottomettersi addirittura al Papa. Quando però i Francesi volevano entrare, il popolo si levò a tumulto, andò contro il campo nemico, mostrandosi parato alla difesa; e così obbligò il Papa a licenziare l'Amboise, mediante buona somma di danaro, oltre la promessa del cappello cardinalizio al fratello di lui. Giulio II potè allora, il dì 11 novembre, entrare in Bologna trionfante come un Cesare, in mezzo a cardinali, vescovi, prelati e signori delle vicine città. Egli mutò subito il governo, istituendo un Senato di quaranta cittadini, il quale durò poi lunghissimo tempo; rispettò gli Statuti municipali; fece costruire una fortezza, e finalmente il 22 di febbraio 1507 se ne partì contentissimo d'essere così riuscito in tutto quello che aveva voluto. Il 27 marzo arrivava pel Tevere a Ponte Molle, e faceva poi la sua entrata solenne nella Città eterna. Questa impresa lo aveva già innalzato, con maravigliosa rapidità, ad una grande altezza dinanzi agli occhi de' suoi contemporanei.
Il Machiavelli intanto, giunto a Firenze, s'era già dato [502] al suo lavoro prediletto per la milizia. Da un gran pezzo egli s'era persuaso, che la rovina degli Stati italiani veniva dal non avere essi armi proprie, dal dovere perciò sempre ricorrere a soldati mercenarî. E si confermò in questa sua idea ogni volta che, costretto ad andare in campo, potè coi proprî occhi osservare il disordine, l'insolenza e la mala fede di quei venturieri, nella cui balìa i magistrati si trovavano costretti a rimettere la salute della patria. Aveva visto la forza acquistata dal Valentino, quando «comandò un uomo per casa nelle sue terre,»[755] formando così un grosso nucleo di soldati proprî. Tutti gli Stati d'Europa che si facevano rispettare, come la Spagna, la Germania, la Francia, avevano proprî eserciti, che fedelmente li servivano; la Svizzera stessa, così piccolo paese, ma con libere istituzioni, era riuscita ad aver la prima fanteria del mondo; perchè non potevano gl'Italiani, i Fiorentini fare lo stesso? Non lo avevano fatto i Comuni del Medio Evo; non se ne vedeva ora un debole esempio nella pertinace difesa dei Pisani, dalla necessità educati alle armi; non lo avevano sopra tutto fatto i Romani, maestri al mondo nelle arti della pace e della guerra? Perchè non si potevano i loro ordini e quelli degli Svizzeri imitare in Firenze; ed imitandoli, che dubbio poteva esserci, che identici ne sarebbero stati gli effetti? Così pensava il Machiavelli, e l'animo suo era a tali idee singolarmente esaltato. Dare a Firenze, e più tardi forse all'Italia, armi proprie, e con esse quella forza che loro mancava, quella dignità politica che gli Stati deboli non hanno mai, fu d'ora in poi il sogno della sua vita. A questo si dedicò con un ardore così disinteressato, con un entusiasmo così giovanile, che il suo carattere desta adesso in noi una simpatia, un'ammirazione che ancora non avevamo potuto [503] provare per lui. Il cinico sorriso del freddo diplomatico scomparisce dalle sue labbra; la sua fisonomia si colorisce a un tratto, dinanzi ai nostri occhi, di una seria e severa solennità, che ci rivela la fiamma d'un sincero patriottismo, la quale arde nel suo cuore e nobilita la sua esistenza. Come padre, come marito e come figlio, se poco abbiamo trovato da biasimare in lui, poco abbiamo anche trovato da ammirare. I suoi costumi non erano liberi dalle colpe del secolo. Come cittadino, finora egli non ha fatto che servire fedelmente la Repubblica, con quell'ingegno che la natura gli aveva così prodigamente largito. Ma ciò non bastava a sollevare in alto il suo carattere. Lo abbiam visto, è vero, nelle molte legazioni che gli furono affidate, non pensar mai a valersi della opportunità, per farsi strada nel mondo; abbandonarsi invece a cercare i principî d'una nuova scienza, con un ardore che gli faceva dimenticare i suoi interessi personali, e qualche volta trascurare anche i più piccoli affari che di giorno in giorno gli venivano raccomandati. Ma questo era un disinteresse scientifico, di cui infiniti esempî troviamo in mezzo alla corruzione del Rinascimento italiano. Quando però il Machiavelli cerca di esaltare l'animo del Gonfaloniere, per indurlo a fondare la nuova milizia, e scrive al cardinale Soderini, perchè lo aiuti a persuadere di ciò il fratello, e corre tutto il territorio della Repubblica, portando armi, arrolando fanti, scrivendo migliaia di lettere, e si raccomanda che non lo levino di mezzo ai campi ed agli armati, noi non possiamo in tutto ciò non vedere la prova d'una sincera, d'una profonda abnegazione in favore del pubblico bene. Come segretario e come uomo di lettere, che non seguì mai il mestiere delle armi, non poteva da questo suo lavoro aspettarsi alcun grande vantaggio personale, avanzare di grado nel proprio ufficio. Suo unico movente fu quindi allora quel patriottismo, di cui gli esempî cominciavano già a divenir troppo rari in Italia; ed esso circonda perciò la [504] sua immagine di un'aureola, che invano ricerchiamo intorno a quella degli altri più illustri letterati del secolo.
Da quanto abbiam detto non segue però che sia opportuno esaltarsi qui a segno da dimenticare gli errori o i difetti del Machiavelli, e neppure da farne, come alcuni han preteso, un genio militare. La grandezza e la originalità del suo pensiero furono in ciò quali possiamo aspettarci da un patriotta e da un uomo politico, che aveva amministrato le cose della guerra, e che, quando essa era molto più semplice che non è oggi, s'era trovato spesso in campo, ne aveva a lungo ragionato col Giacomini e con altri capitani del tempo; ma non aveva in nessun caso comandato mai una compagnia. Il suo medesimo libro dell'Arte della guerra, in cui sono tante osservazioni giuste, e tante idee originali, più di una volta ci obbliga a ricordarci, che egli non era un capitano, nè un soldato. Basterebbe la poca o nessuna fede che ebbe nei grandi effetti delle armi da fuoco, che pur distrussero l'antica e crearono la nuova tattica. Matteo Bandello, in uno dei proemî che pone alle sue Novelle, racconta d'essersi un giorno trovato sotto le mura di Milano con Giovanni dei Medici, il celebre capitano, più noto col nome di Giovanni delle Bande Nere, e col Machiavelli. Questi, volendo dar loro un'idea dell'ordinanza da lui tante volte così bene descritta, li tenne al sole per più di due ore, senza poter mai venire a capo di mettere in ordine 3000 uomini, tanto che, essendo già passata l'ora del desinare, Giovanni, perduta la pazienza, lo mise da parte, ed in un batter d'occhio, coll'aiuto dei tamburini, li ordinò mirabilmente in più modi. Dopo di che il Machiavelli, a sdebitarsi del tempo che aveva fatto loro perdere, raccontò a tavola una novella, che si legge appunto fra quelle del Bandello.[756] L'aneddoto [505] non si trova, è vero, ricordato nelle storie; ma pur non ha nulla d'improbabile, ed in ogni caso può valere a riconfermare, che ai suoi tempi l'autore dell'Arte della guerra, da tutti ammirato come scrittore di cose militari, non era del pari riconosciuto veramente pratico delle armi.
L'idea d'istituire una milizia propria c'era nella Repubblica da più tempo; mancava però la fede nella riuscita, e questa fede ebbe il Machiavelli. La pessima prova che facevano quasi sempre i comandati; la viltà delle fanterie fiorentine che, nell'ultimo assalto alle mura di Pisa, s'erano ricusate di presentarsi dinanzi alla breccia aperta, avevano persuaso i più che ormai si dovesse contar solo sui soldati di mestiere; ed era questa un'opinione che il Machiavelli combattè sempre, sforzandosi di mostrare che tutto il male veniva solo da mancanza di buoni ordini e di disciplina. Cercò innanzi tutto persuaderne il Gonfaloniere, «e veduto che gli era capace, cominciò a distinguergli particolarmente i modi.»[757] Ma quando l'ebbe persuaso, si presentarono subito le mille difficoltà dell'attuazione, e prima la diffidenza di coloro i quali temevano che il Soderini potesse o volesse in questo modo farsi tiranno. Si ricorse quindi al prudente consiglio di cominciare qualche parziale esperimento della nuova ordinanza, sperando che i cittadini, vedendola alla prova, si convincerebbero della sua utilità, e voterebbero [506] i provvedimenti legislativi, necessarî a renderla stabile e più generale, come di fatto avvenne più tardi.
Noi abbiamo uno scritto del Machiavelli, che ci espone per filo e per segno le norme seguite in questo primo tentativo, norme che furono poi approvate per legge. E da esse impariamo sempre più a conoscere quanto diverse dalle nostre fossero le idee di quel tempo, e contro quali enormi e spesso insuperabili difficoltà si dovesse combattere. Prima di tutto egli afferma, come cosa la quale non meriti d'essere discussa, che, volendo la Repubblica avere un esercito proprio (salvo il comandante in capo, che doveva essere straniero, come poteva essere ancora qualche altro ufficiale), era necessario che fosse comandato solo dai Fiorentini, i quali soli dovevano formarne la cavalleria. Non potendosi subito metter mano a questa, che era la parte più difficile della nuova ordinanza, bisognava cominciare intanto col far le leve di fanti fuori della Città. Ma il territorio si divideva in contado propriamente detto, ed in distretti, cioè quelle parti che contenevano grosse città, cui avevano obbedito prima che queste fossero, per la forza delle armi o per libera dedizione, divenute suddite della Repubblica. Sarebbe stato sommamente pericoloso dare le armi ai distretti, appunto perchè in essi erano le città; e «li umori di Toscana sono tali, che come uno conoscessi potere vivere sopra di sè, non vorrebbe più padrone.»[758] Bisognava quindi contentarsi per ora di armare solo il contado. [507] Nè ciò bastava. La generale diffidenza era tale e tanta, che ancora i conestabili eletti a comandare i drappelli formati sotto le bandiere, non dovevano mai, secondo il Machiavelli, essere dello stesso luogo dei fanti, e ogni anno bisognava mutarli, perchè si temeva che altrimenti, affezionandosi troppo ai loro uomini, avrebbero preso più autorità che non conveniva, e sarebbero divenuti pericolosi.[759]
Or chi non s'avvede che dovevano mancare i primi e i più essenziali elementi della forza ad uno Stato, nel quale tutte le città tendevano a separarsi da quella che le comandava, e che, serbando per sè sola la libertà politica, era di necessità condannata ad una grandissima diffidenza verso quei medesimi sudditi, cui voleva poi affidare la propria difesa? Ma il Segretario fiorentino alcune di queste difficoltà non le valutava neppure, perchè secondo le idee del tempo non v'era in esse nulla di anormale o d'insolito; altre sperava che si sarebbero a poco a poco superate. Così, per esempio, egli scriveva che, dopo avere armato il contado, si poteva forse, con qualche cautela, armare una parte almeno del distretto. Nondimeno la sua fiducia in questi nuovi ordini militari era illimitata, ed egli concludeva dicendo ai suoi cittadini: «Vi avvedrete ancora a' vostri dì, che differenza è avere de' vostri cittadini soldati per elezione e non per corruzione, come avete al presente, perchè se alcuno non ha voluto ubbidire al padre, allevatosi su per li bordelli, diverrà soldato; ma uscendo dalle scuole oneste e dalle buone educazioni, potranno onorare sè e la patria loro.»[760]
[508]
Animato da queste idee, egli non solo cercava infonderle direttamente nell'animo del Gonfaloniere; ma si valeva anche dell'opera di coloro che su di esso avevano autorità. Nel principio dell'anno 1506 scriveva al cardinal Soderini in Roma, perchè persuadesse il fratello che solo una severa giustizia nella Città e nel contado poteva essere la salda e sicura base della nuova Ordinanza. Ed il cardinale rispondevagli il 4 marzo: «Essere più che mai convinto che i fatti confermavano la speranza nostra, pro salute et dignitate patriae; non potersi dubitare che le altre nazioni siano divenute superiori a noi solamente perchè ritengono la disciplina, la quale già da gran tempo è sbandita d'Italia; nè debbe esser poca la contentezza vostra, che per vostra mano sia dato principio a sì degna cosa.» E, secondando la domanda del Machiavelli, il giorno stesso scriveva al Gonfaloniere, rallegrandosi per la fede universalmente riposta nella nuova milizia, da cui ognuno s'aspettava il rinnovamento delle antiche glorie, e ripetevagli appunto che tutto dipendeva dalla buona disciplina, quae plurimum consistit in obedientia, maximeque fundatur in iustitia. Concludeva poi, proponendo che, per mantenere questa giustizia, si nominasse «qualche ministro simile a Manlio Torquato, rigido e severo, el quale ne le cose liquide proceda alla esecuzione de fatto, nelle altre lassi la cura alli officiali.»[761]
La nuova milizia, essendo appena in formazione, non richiedeva [509] ancora un comando generale, e potevano gl'iscritti istruirsi sotto i loro conestabili, di cui si fece qualcuno venire anche di fuori; ma v'era pur bisogno di uno che comandasse con maggiore autorità, non foss'altro per mantener ferma la disciplina generale, ed, occorrendo, punir severamente i colpevoli. A questo fine si deliberò di eleggere, secondo il consiglio dato o meglio fatto dare dal cardinale al Gonfaloniere, un uomo pratico delle armi, e di reputazione. Ora chi crederebbe mai che appunto il Gonfaloniere ed il Machiavelli, animati allora da un così puro e nobile patriottismo, da tanta ammirazione per Manlio Torquato, gli Scipioni ed i Camilli dell'antica Roma, pensassero d'eleggere ad un tale ufficio lo spagnuolo don Micheletto, l'assassino, lo strangolatore, il confidente del Valentino, colui che poco prima la Repubblica aveva fatto prigioniero e mandato a Giulio II, come un mostro d'iniquità, nemico di Dio e degli uomini? Eppure così fu. Il fatto destò in sul principio qualche contrarietà nei magistrati e nei cittadini, non per alcuna repugnanza morale, ma pel titolo di bargello che si voleva dare ad un tale uomo,[762] e per tema che il Soderini volesse farne un pericoloso strumento di tirannide. Il Machiavelli, che ebbe incarico di tentare destramente l'animo di Francesco Gualterotti, G. B. Ridolfi e Piero Guicciardini, che erano dei Dieci, per sentire se volevano consentire a nominare don Michele, con 100 provvigionati e 50 balestrieri a cavallo, li trovò infatti assai poco favorevoli; ma quando, mutato il titolo di bargello in quello di capitano, la proposta venne portata negli Ottanta, essa fu vinta dopo essere stata messa tre volte a partito.[763]
[510]
In Romagna ed in Roma il Machiavelli aveva avuto occasione di conoscere molto bene chi era don Michele. Lo aveva visto sotto il Valentino comandare uomini raccolti dal contado, i quali non essendo soldati di ventura nè di mestiere, avevano pur fatto assai buona prova nelle fazioni; lo credeva perciò adatto a mantenere l'ordine e la disciplina nella nuova milizia fiorentina. Non gli erano ignoti i delitti e le iniquità da lui commessi, come non erano ignoti a nessuno; ma la reputazione di sanguinario e di crudele gli pareva che giovasse anzi che nuocere nel caso presente. Voleva che don Michele si facesse rispettare e temere dai soldati; che, occorrendo, li conducesse dinanzi al nemico, e col suo esempio, unito al nome della sua crudele severità, li rendesse arditi e temuti nelle fazioni. Infatti, quando nel giugno di quell'anno alcuni de' nuovi fanti, inviati al campo di Pisa, non pareva che facessero buona prova, egli scriveva al commissario generale Giovanni Ridolfi in Cascina, che «gli si mandava don Michele con la sua compagnia di 100 uomini, per servirsene contro i Pisani, i quali fanno poco conto di questi nostri fanti, di che vorremmo farli ridire.» «Ed essendo dall'altro canto uso, mentre fu con il Duca, a comandare e maneggiare simili uomini, pensiamo, quando si potessi, che sarebbe da alloggiarlo costì con loro, acciò prima lui li praticassi, e dipoi, bisognando correre in un subito in qualche luogo, fossi pur presto con li suoi fanti insieme con loro, i quali, per averli veduti e maneggiati in su le mostre, possono etiam meglio convenire costà nelle fazioni.»[764] Questo era dunque il pensiero del Machiavelli; don Michele doveva infondere il nuovo spirito militare nel giovane esercito fiorentino! — Ma perchè, si può assai ragionevolmente qui domandare, non chiamarono invece il Giacomini [511] sempre fedele alla patria e valoroso soldato? Come potevano mai credere un assassino capace d'infondere in altri la vera disciplina, cioè l'onor militare? — Quando anche il Giacomini non fosse allora caduto in disgrazia, assai difficilmente avrebbero i Fiorentini dato mai ad uno solo dei loro cittadini grande autorità sul nuovo esercito, e ciò sempre per la paura che non si facesse poi tiranno. Come in altri tempi il Podestà, così ora volevano che il capitano della guardia nel contado fosse uno straniero.
Questa milizia doveva dunque, secondo il Machiavelli, essere animata da un vero patriottismo, e perciò composta d'uomini onesti e bene educati; ma a chi era chiamato ad istruirla e comandarla bastava aver solo l'arte a ciò necessaria, la quale non aveva nulla che fare col carattere morale di lui. Spesso anzi la bontà dell'animo poteva riuscire d'ostacolo a quegli atti severi o crudeli, che il capitano come l'uomo di Stato sono pure costretti a compiere. Quella unità tanto desiderabile fra chi guida e chi è guidato, quasi siano un corpo solo con un'anima sola, la quale personifichi in colui che comanda la coscienza di tutti, e faccia della sua condotta come la manifestazione più intelligente ed elevata del pensiero comune, e della sua severità stessa un atto di giustizia, il Machiavelli non la vide negli eserciti, come non la vide nei governi. Anche il popolo della sua Repubblica deve essere buono; ma esso poi perde quasi la propria coscienza, per divenire nelle mani dell'uomo di Stato come una creta molle, cui questi può dare la forma che più gli piace, se sa quello che vuole, e conosce il modo di recarlo in atto, senza arrestarsi dinanzi ad alcuno scrupolo. Calunnia atrocemente il Machiavelli o non lo conosce punto chi dice che egli non ama, non ammira la virtù. Non bisognerebbe esser nato d'uomo, ripete egli più volte, per non amarla, non ammirarla; e le parole con cui la esalta hanno spesso tanta eloquenza, che nessuna [512] retorica potrebbe mai suggerirle, se non venissero veramente da una profonda convinzione. Ma la morale era per lui, come per quel secolo in generale, un affare del tutto individuale e personale; l'arte di governare, di comandare, di dominare non era in opposizione, ma indipendente affatto da essa. L'idea d'una coscienza e moralità pubblica, intelligibile solo quando s'abbia già il concetto della unità e personalità sociale, che ci fanno comprendere chiaramente come non solo per gl'individui, ma anche per le nazioni, il vero governo sia il governo di sè stessi, e come esso porti inevitabilmente seco una propria responsabilità, questa idea mancava affatto al secolo XV, e non si presentò mai chiara neppure alla mente del Machiavelli. Pel Medio Evo gli eventi della storia, le trasformazioni della società erano effetto della volontà divina, e l'uomo non ci poteva nulla; pel Machiavelli invece il fatto sociale è divenuto un fatto umano, razionale, che egli studia per conoscerne le leggi; e per lui le vicende della storia son quasi sempre opera esclusiva dei principi o dei capitani. La forza perciò che egli attribuisce all'arte dell'uomo di Stato, alla volontà e prudenza di lui, alle istituzioni ed alle leggi che può escogitare, se ha l'ingegno e l'energia necessarie, si direbbe quasi che non abbia limiti.
E così potè facilmente persuadersi, che la nuova Ordinanza militare, immaginata da lui secondo l'esempio degli Svizzeri[765] e dei Romani, dovesse produrre infallibili resultati, purchè ne fossero fedelmente e severamente seguite, rispettate le norme. Quando egli ebbe di ciò persuaso il Gonfaloniere, si pose, fin dal dicembre del 1505, in moto per la Toscana, con regolare patente, e cominciò [513] ad iscrivere fanti sotto le bandiere. Nel gennaio e febbraio la sua attività si moltiplica, trovandolo noi ogni giorno in un luogo diverso[766] anche alla metà di marzo, quando tornò a Firenze, donde, scrivendo infinite lettere, continuò la medesima opera.[767] Come fu prima possibile, cioè nel febbraio di quell'anno stesso, si fece una mostra di 400 uomini, i quali condotti in piazza della Signoria, vestiti con colori diversi e bene armati, piacquero moltissimo alla cittadinanza; e ripetendosi l'esperimento di tanto in tanto, la nuova milizia divenne sempre più popolare.[768] Alcuni di questi fanti furono, come dicemmo, mandati anche al campo di Pisa, dove in verità non fecero prodezze, e don Michele ebbe perciò ordine di raggiungerli con la sua compagnia.[769] Sebbene neanche con ciò s'ottenessero grandi risultati, pure nell'agosto si riuscì a qualche scaramuccia con successo non del tutto infelice.[770]
In ogni modo, essendo l'Ordinanza ormai istituita di fatto, e già venuta in favore del popolo, era necessario sanzionarla definitivamente con una legge. Per questa ragione il Machiavelli scrisse la relazione, cui abbiamo più sopra accennato. In essa espose come s'era nel contado messo una bandiera in ogni podesterìa, nominando un conestabile per ogni tre, quattro o cinque bandiere. V'erano in tutto già 30 bandiere ed 11 conestabili, con più di 5000 uomini iscritti, che potevano ridursi a minor numero, rinviando a casa i meno abili: di 1200 s'era [514] già fatta mostra in Firenze.[771] Dopo di ciò egli veniva col suo scritto a provare la necessità d'istituire un nuovo magistrato, cui fosse affidato l'ordinamento regolare della milizia. Il 6 dicembre 1506 fu nel Consiglio Maggiore approvata, con 841 fave nere contro 317 bianche, la Provvisione che creava i Nove ufficiali dell'Ordinanza e milizia fiorentina, chiamati più comunemente i Nove della milizia; e questa Provvisione non fece altro che sanzionare tutte quante le proposte presentate dal Machiavelli. Eletti dal Consiglio Maggiore, i Nove duravano in ufficio otto mesi, e dovevano iscrivere i fanti, armarli, ordinarli, educarli alla disciplina, punirli, nominare i conestabili, ecc.; appena però che fosse dichiarata la guerra, l'Ordinanza doveva venire sotto la dipendenza dei Dieci.[772] La stessa Provvisione istituiva il Capitano di guardia del contado e distretto di Firenze, cui si davano ora solo 30 balestrieri a cavallo e 50 provvigionati. Esso doveva stare sotto il comando dei Nove, ed essere eletto come gli altri condottieri, con questo però, che la elezione non poteva cadere sopra «alcuno della Città, contado o distretto di Firenze, nè di terra propinqua al dominio fiorentino, a quaranta miglia.»[773] I Nove vennero eletti il 10 gennaio 1507, prestarono giuramento il 12, ed il 13 presero possesso dell'ufficio. La Provvisione dava loro facoltà d'avere uno o più cancellieri, e come era naturale, essi pigliarono subito a loro servizio il Machiavelli. Con deliberazioni dei 9 e dei 27 febbraio rinominarono [515] poi don Michele capitano di guardia del contado e distretto, con i 30 balestrieri a cavallo e i 50 fanti concessi dalla legge.[774]
Ed ora incomincia nella vita del Machiavelli un nuovo periodo, nel quale egli entra sempre più convinto d'essere chiamato a restituire non solo a Firenze, ma a tutta Italia l'antica gloria delle armi e l'antica virtù. Una tale speranza egli era stato il primo, ma non era adesso più solo ad averla. Il cardinale Soderini esprimeva la opinione di molti, quando gli scriveva da Bologna il 15 dicembre 1506: «Parci veramente che cotesta Ordinanza sit a Deo, perchè ogni dì cresce, non ostante la malignità;» e continuando aggiungeva, che la Repubblica da lungo tempo non aveva fatto cosa tanto onorevole come questa, che si doveva tutta a lui.[775] E se ormai tale era l'opinione dei più autorevoli suoi concittadini, non deve farci maraviglia il vedere che l'uomo, cui tutti riconoscevano il merito della grande riforma, guardasse l'avvenire pieno di speranza. Questa speranza di certo non si poteva in tutto avverare, in parte anzi doveva esser solo una nobile e grande illusione; nondimeno l'opera del Machiavelli riuscì più tardi di non dimenticabile gloria [516] alla Repubblica. Quando infatti nel 1527 Firenze si trovò circondata ed assediata da innumerevoli nemici, allora il suo amore di libertà venne riacceso dai seguaci del Savonarola, e la Repubblica rinacque e fu eroicamente difesa da quella milizia, che era stata consigliata ed istituita da Niccolò Machiavelli.
[517]
Lettera di Piero Alamanni a Piero de' Medici, nella quale si discorre della prossima venuta dei Francesi in Italia, e di ciò che a questo proposito diceva Lodovico il Moro. — 30 e 31 marzo 1494.[776]
Magnifico Piero....[777] Stamani andai a Castello um poco innanzi agl'altri, et lexi la lectera tua de xxiiij al sig. Lodovico, presente il Chalcho,[778] la quale S. E. stette a udire con grande attentione. Poi mi rispose: — Io non ho manco desiderio della amicitia vostra, come altre volte vi ho decto, che voi diciate desiderare la mia, per le ragioni altre volte narrate; et se io intendessi liberamente quello che desiderate, come etiam più volte vi ho decto, non mancherei dello offitio mio. Ma voi mi parlate pure di questa Italia, et io non la vidi mai in viso; et non sento che di noi altri si faccia pensiero, il che dà anchora a me confusione d'animo; et quando voi parlerete liberamente con me, et che vi lasciate intendere, sempre troverrete [520] correspondentia. — Io li risposi: — Quanto al parlare delle cose d'Italia, mi parea che si potessi intendere e' beneficii nostri, benchè non si dicessi per expresso; a il lasciarsi intendere, che noi li haviamo parlato molto liberamente: prima, che desiderando la pace et quiete, la venuta de Franzesi per niente non ci piaceva, et più preghavamo la Excellentia Sua che, come l'havea dato principio a dare favore in Francia, che non havessimo a essere astretti a declaratione, seguitassi. Ma ci dava bene grandissima molestia d'animo havere veduto la Excellentia Sua dar principio a tante buone cose, et da poi in uno subito mutarsi come ha facto, non ci conoscendo maxime alcuna nuova cagione. —
La S. E. dixe, che poichè non era chi pensassi a' facti suoi, era necessario che vi pensassi lui, et se non basteranno i Franzesi, sarà necessitato aiutarsi et con Franzesi et con Tedeschi; et saltò a dire: — Questi regii hanno usato dire, che il re Alfonso si farà innanzi insino qua con la gente dell'arme; et che[779] havea scripto una lettera che faceva intendere alla Maestà Sua, che, volendo muovere la gente d'arme, facessi pensiero di non passare le terre della Chiesa, perchè, quando volessi venire più avanti, li andrebbe all'opposito con tucte le sue forze, et rimanderebbeli la figliuola a casa. — Ad questo io risposi, che credevo che in questa proposta il Re farebbe pocha perdita, perchè si stima che, venendo e' Franzesi con le spalle di S. E., l'harebbe per nimica in ogni modo. — Replicò che non era obbligato a' Franzesi, se non a cinquecento huomini d'arme. — Io li subiunsi, che la E. S. havessi rispecto di non mettersi Franzesi in casa, perchè, quando fussi imbarcato, li bisognerebbe andare a 500 et a 1000, et a quella somma che paressi a loro. Et in su questo mi parve di toccarlo umpoco più avanti, et dixi: Signore, io vi voglio parlare liberamente come servitore, et ho caro ci sia presente messere Bartolommeo. Io vi affermo quello che altre volte vi ho decto, che della città nostra et di Piero in specie, la E. V. si può promettere come delle prime cose che abbi, andando con quelli termini che ragionevolmente si conviene alli amici. Dipoi le voglio ricordare amorevolmente, che consideri bene in che termine [521] si truovano le cose; et havendo quella autorictà che ha di poterle posare, se è bene lasciarle schorrerle; perchè, quando pure si venissi all'arme in Italia, o per mezo di Franzesi o altrimenti, potrebbe accadere che non sarebbe poi in sua facultà poterle posare quando li paresse, et ch'io ero certo, per la sua prudentia, ne intendeva più di me. — Dixe: — A questa parte non voglio rispondere. Ma che vorresti voi da me? Domandatemi liberamente ciò che voi vorresti, et io vi responderò. — Dixi: — Che la E. V. mi chiarisca, che cagione l'ha facto fare tanta mutazione: acciò che noi possiamo remediarvi, se e' nascessi da noi. — Risposemi, la cagione essere che avendoci richiesto d'uno scripto per la sicurtà,[780] etc., tu li havevi renduto solamente buone parole; et che, veduto non era havuto consideratione a' facti suoi, era constrecto pensarvi ut supra; accennando che non li basterebbe anche starne alla sicurtà vostra sola; che si vede volle ritornare a quello ti scripsi per l'ultime mie, che questi Signori non li erano venuti a particulare alcuno, etc. Et subiunse: — Et anche vi ricerchai per mio fratello della sicurtà delli Orsini, come sapete, che benchè io sia disposto di queste cose di Roma non me ne travagliare, pure tuttavolta non posso lasciare mio fratello.[781] — Io domandai di nuovo: — Sono queste le cagioni che hanno facto mutare la E. V.? — Dixe: — Sì veramente. — Risposili, parermi che la E. S. havessi torto, concio sia che le lettere tue, dal mandare lo scripto infuora, parlavano in modo che gli haveva molto bene potuto comprehendere lo animo tuo buono; et intorno a questo m'ingegnai quanto potei farli intendere la tua buona disposizione, nientedimeno con parole di natura che non obligassino, et non togliessino speranza. Alla parte delli Orsini: che la S. E. medesimamente haveva inteso, che tucta la autorità che tu havevi con loro, la opereresti più volentieri per monsignore Ascanio, che non faresti pel Cardinale tuo. Et compresi che, o per le parole li haveva prima decte el Conte,[782] [522] aggiunte quelle gli havevo decte io, che furono più non ti scrivo per brevità, et delle brusche et delle dolci, o perchè così fussi disposto, che gl'era volto di cominciare a parlarmi liberamente, et per tornare in su quelli ragionamenti buoni che ti scripsi. Et sopragiugnendo li ambasciatori regii et venetiano, dixe: — Io voglio che ci riserbiamo a oggi a finire questo ragionamento. — E diemmi la posta alle xx hore.
Non voglio lasciare di dirti, che nel sopradecto discorso egli toccò pure qualche paroletta di quelle ha altra volta facto, se e' ti piaceva tanta grandezza del Re;[783] et mostrando lui che 'l Papa se n'andava alla volta di Sua Maestà, subiunse, che, non li bisognando più le gente d'arme di questo Stato, le richiamerebbe, con dire che un altro li farebbe forse un Concilio adosso come potrebbe lui; ma che essendo in quella sede per loro, et havendolo beneficato (come hanno), non si potevono sì presto ridire, et che se la Santità Sua non farà verso di loro quello che è conveniente, non sarà per questo che li vogli fare altro che bene.
Desinando, arrivò la tua de' xxviij con li advisi da Roma de' 26. Andai a Castello alle xx hore, secondo l'ordine datomi; trovai el signore Lodovico essendo con tucti e' consiglieri, che erono gran numero; et per quanto ritrahessi da uno amico, erono in sull'accordo di Roma, che ne haveva lettere di là, de xxiij, che gliene davono qualche fiuto, ma non particolarmente, come intesi poi per la tua. Stette poco et licenziolli, et fecemi chiamare, et trova' lo assai di buona cera. Quando li lexi le particolarità dello achordo, si vide manifestamente et mutarsi et risentirsi, et poi mi disse: — Ambasciatore, havetemi voi a dire altro? — Risposi, che ero venuto per finire quello ragionamento, come eravamo rimasti stamani. Dixemi, che era in sulla medesima sententia di stamane, ciò è che s'era mutato per le cagioni predecte. Quanto alle cose di Ascanio, ciò è delli Orsini, etc., non ne dixe parola; ma che bene era xv o xx dì, che haveva scripto ad Ascanio, che e' farebbe bene a venirsene di qua sotto ombra di venire ad visitarlo, che riscontra che Ascanio si partirà di Roma. Entramo dipoi nelle cose nostre di Francia, et promise più liberamente che havessi [523] ancora facto mai, di aiutarci sanza exceptione alchuna, et che non era per fare a voi in queste occorrentie mercantìa, sì come non vorrebbe che voi pensassi di volerla fare seco.... Mi tochò quest'altra corda: che non li mancherà riconoscere el re Alfonso per cognato, et il Duca di Calabria per nipote, et che dalla sera alla mattina lo potrebbe fare....[784] Et vedesi manifestamente che lo adviso da Roma li ha entorbidato in modo el cervello, che e' restò tucto confuso e con grandissima suspensione, che mi persuado fussi cagione che non seguitassi el ragionamento. Sarò domattina con la E. S., et farò quel bene che potrò, et di tucto ti darò adviso. Et io non mi sono molto curato che la sia ita per hoggi così, perchè non ho giudicato fuora di proposito lasciarlo stare in questa concia, tanto che habbi resposta da te come mi habbi a governare....
Come io ti ho tocho di sopra, costui si vede in tanta confusione di animo, quanta io non credo che fussi mai alla vita sua; et per bene che vedessi che il Papa era per accordarsi col Re, non stimò però mai che l'accordo venissi con tanta securtà et reputatione del Re quanto ha facto. Nè harebbe creduto che el Re si fusse lasciato andare a sì gran partito col Papa, ciò è di dare Stati et sì gran provisioni al figliuolo; et èccisi aggiunta la venuta subita del Vincula a Roma, che interamente li ha tocho il cuore, et parli, quello che è il vero, che ci sia andato assai della reputatione sua. Et per la sua natura fumosa, et per havere parlato in sua gloria quanto ha facto a questi tempi, questa bastonata è stata molto maggiore, e più li è doluta. Et perchè tu intenda, qua, in fra e' suoi medesimi, ci ha tanto perso, che non te lo potrei mai dire, benchè ci sieno molti che ne fanno fuoco ne l'orcio. Et in effecto costui è tristo come una starna, et non credo sia cosa alcuna, et fussi di che natura si vuole, vedendo fussi a suo proposito, che e' non tentasse, che è pure da haverci qualche consideratione. Et parmi ancora essere certo che buona parte del grado tocchi a noi; et quando voi fussi in proposito di costà di non lasciare andare le cose a totale disperatione, et [524] di mantenervi costui, non so se sia da lasciare transcorrere più in là, perchè, secondo el mio poco iuditio, egli è in luogo che potrà molto bene conoscere, che quello che si facessi procederebbe da altro che da paura et da minaccia, ma da buona natura d'altri. Se noi giriamo tucta la buxula, si vedrà che costui è necessitato o rimettersi nelli Ultramontani, et séguiti quello che vuole, o reconciliarsi col Re nel modo che potrà, et temporeggiare quanto potrà (et el Re per la natura sua et per posarsi, la doverìa fare), o tentare qualch'altra via scandalosa, o veramente rassettarsi et ritornare in fede et amicitia con voi, il che io credo senza dubio nessuno, quando non havessi vergognosamente a mendicare, che sarebbe volto a farlo, et sommamente lo desideri. Io col mio poco iuditio sono nella sententia medesima che ti scripsi nell'altra, et crederrei quello si aprovassi essere bene da farlo presto, in uno tempo a farlo in un altro sarebbe grande differentia nell'averne o più o manco grado. Voi siate prudenti, et in tutto vi resolverete bene, et super omnia è necessario che spesso spesso mi advisiate delle deliberationi vostre, a fine che io possa di mano in mano accordarmi con quelle; chè vedi a che termini strecti ci riduciamo.
Non lascerò di dirti che el signor Lodovico considerò molto bene tucti quelli capi dello accordo, ad uno ad uno, più d'una volta; et in su quella parola che dice, il Papa s'obliga difendere il Re contra Franciosi et quoscumque alios, si fermò et replicò più volte quello quoscumque alios, et mostrò considerarlo molto bene.
Tenuta a stamani a dì 31, che hiersera tornai tardi da Castello....
Postcripta. Deliberai, poi che tanto era soprastato il cavallaro, di tenerla tanto che parlassi col sig. Lodovico. Et dixemi havere advisi di Francia, che le cose procedono nel modo che advisano li ambasciatori nostri, con quella caldezza, et che il Re insiste in voler venire in persona. Dipoi mi dice, che Monsignore di Obignì era partito, et con lui Perone di Baccie,[785] et già erano cominciate ad adviarsi le genti d'arme, che sarebbono insino in cccto lancie....
[525]
Di sopra ti dico, che il sig. Lodovico mi aveva toccho di reconciliarsi col Re, etc.; stamani ha decto a messere Ferrante, che in ogni modo vuole aconciare le cose della Maestà del Re, et che li farà un servitio el più relevato che si sia facto gran tempo fa a huomo in Italia. Ulterius li vuole dire un secreto con iuramento di grandissima importantia, con promissione che la Maestà del Re non li faccia risposta se non di sua mano o di mano del Duca di Calabria, perchè non vuole che cancelliere nessuno l'habbi ad intendere. Questa è la substantia di molte buone parole et liberalissime offerte ha facto stamani a costoro, che sono molte più che insino ad hora habbi mai facto: tucto non replico per non essere sì lungo....
Servitor devotus Petrus Alamanni.
Lettera di Alessandro Bracci, ambasciatore fiorentino in Roma, ai Dieci, relativa all'uccisione del Duca di Gandia. — 17 giugno 1497.[786]
Magnifici Domini mei observandissimi. Hieri diedi notitia alle S. V. del miserando caso del Duca di Candia,[787] el quale fu sepellito a ore 24 in Santa Maria del Popolo, et andò scoperto in sulla bara, con non molta cerimonia di pompa funebre, et fu acchompagnato solamente dalli oratori della Legha, excepto il Venitiano, et dalla famiglia sua et del Papa, la cui Santità non resta di affliggersi, et non dà anchora audentia a persona. Et per li ministri suoi di iustitia, et per tucti li modi possibili di coniecture, di inditii et d'altro non si attende se non [526] a ricercare et investigare li auctori del male, nè per anchora truovono cosa di fondamento: et se bene hanno varie opinioni, non le riscontrano poi. El Ghovernatore et così el Bargello sono entrati in più case, non solum dove il Duca havea qualche consuetudine manifesta, ma anchora occulta, non senza nota di qualche persona da bene, con examinare famigli et fantesche, intra li quali è suto il conte Antonio Maria Dalla Mirandola, per havere una figliuola molto formosa, ma di buonissima fama: et questo perchè è certissimo che el Duca fu morto non molto dischosto dalla casa sua, la quale è poco lontana da luogho donde il Duca fu buttato in fiume. Et è comune opinione, che chi ha voluto condurre alla rete il povero signore, li habbi gittato innanzi questo logoro, et datoli ad intendere che l'ordine fusse dato per quella sera, perchè colui che li parlò stravestito, et che li montò in groppa, li ha parlato altra volta in simile habito, et sempre di nocte per monstrarli bene el secreto. Et stimasi che lo habbi pasciuto con vana speranza d'una simile impresa, tanto che chi lo voleva giugnere al bocchone, havessi l'esca bene preparata. Et certamente chi ha governata la cosa ha havuto cervello et buono coraggio, et in ogni modo si crede sia stato gran maestro. La Santità del Papa è immodo accesa alla vendecta, per quanto si può intendere, che non è per lassare alcuno pensiero indietro, per ritrovare li malfactori, et per valersi della iniuria, la quale non li poteva essere facta nè più intollerabile nè maggiore, per le circumstantie che la aggravono....
Et io mi rachomando humilmente alle S. V.
Rome, xvij iunii 1497.
Servitor Ser Alexander Braccius.
[527]
Traduzione assai libera, fatta dal Machiavelli, d'un brano dell'Historia persecutionis vandalicae di Vittore Vitense.
Libro delle persecutione d'Africa per Henrico re dei Vandali, l'anno di Cristo 500, et composto per San Victore vescovo d'Utica. — Già sono sexanta anni da questo tempo, che quello crudele popolo de' Vandali entrò ne' confini d'Affrica, passando per lo stretto del mare, quale è intra l'Africa et la Spagna. Venendo adunque questa generatione di huomini, che erano fra piccoli et grandi, giovani et vecchi, più che octocento mila, secondo che loro medesimi affermavano, acciò che li huomini sbigottiti da tale numero pensassino meno a difendersi; et trovando l'Affrica pacifica et quieta, piena di richeze et d'ogni bene abbundante, non mancorno di alcuna ragione d'iniuria, così contro alli huomini come contro al paese, perchè questo arsono et ruinorno dovunche passavano, et li huomini rubavano, ammazavano, pigliavano ad prigioni, et li facevono morire in carcere, con ogni ragione suplitio. Nè perdonò la loro crudeltà alli arbori et ad le piante, et, che è peggio, non lasciorno indreto le chiese, nè le sepulture de' sancti, che tucte le arsono et disfeciono. Nè valeva ad li huomini nascondere loro et loro cose per le valli o selve o caverne, perchè in ogni loco erano ritrovati, et dipoi rubati et morti, et con maggiori odii et maggiori persecutioni guastavano e' templi di Dio che le case de' privati, et trovandole serrate, con le scure le assaltavono, come si fa le querce ne' boschi, acciò che si potesse dire quel verso della Scriptura: Quasi in silva lignorum, securibus conscinderunt ianuas eius; in securi et ascia deiecerunt eam, incenderunt igni sanctuarium tuum.[789]
[528]
Quanti preclari[790] vescovi et prelati et nobili sacerdoti furono morti con diversa ragione di suplicio, acciò che palesassino[791] s'egli havevono o oro o ariento apresso di loro. Et non bastava che dessino loro quello ch'egli havevono, perchè semple (sic) estimando che ne potessino dare più, quanta maggior somma ne davono, tanto più li tormentavano, mettendo ad alcuno del fango puzolente giù per la gola, ad alcuni facevono bere acqua di mare, ad alcuni aceto, ad alcuno altro sterco o feccia di vino, o qualunque altra cosa liquida et puzolente, et di quelle li riempievono come otri, senza havere di loro alcuna misericordia: nè perdonavano anchora alle donne o alle fanciulle. Quivi non era consideratione di nobiltà nè di doctrina, non reverentia di sacerdotio; ma queste cose facevano li animi loro più efferati; et dove era più nobiltà et più grado, quivi si vedeva il loro furore più esercitarsi. Quanti sacerdoti egregii, quanti huomini inllustri (sic) si vedevono con pesi adosso, ad uso di cammegli et d'asini, e' quali erano da loro con certi pungenti, come e' buoi, punzechiati, ad ciò ch'eglino accelerassino el passo, de' quali molti socto la graveza di detti pesi morivano. Non gli moveva ad misericordia la vechiaia, non la pueritia; et infiniti fanciulli erano da' pecti delle madri divelti o[792] mandati in captività, o presi per li piedi et bactuti in el conspecto delle madri in terra, o veramente presi per le gambe, et divisi infino al capo in due parti. Et potevasi in ogni loco dire questo verso: Dixit inimicus incendere se fines meos, interficere infantes meos, et parvulos meos se elisurum ad terram.[793]
Quelli edifitii che per lo splendore et grandeza loro non potevono essere offesi dal fuoco, li distruggevono con la ruina, in modo che l'antiqua belleza di molte città non apparisce niente come la era già; et molte terre o da nessuno o da pochi sono habitate, et in Cartagine si vede come e' teatri, le chiese, la via che si chiamava celeste, et molti altri belli edifitii essere [529] ruinati. Oltra di questo, molte chiese che non destruxono, come la basilica dove sono e' corpi di Sancta Perpetua et di Sancta Felicita, li accomodorno ad templi della loro religione; et dove e' trovavano qualche ròcca o sito forte che loro non potessino expugnare, e' vi ammazavono intorno di molti huomini,[794] et conducevonvi di molti huomini morti, acciò che quelli di drento fussin constrecti per il puzo o morire o arrendersi.
Quanti sancti sacerdoti fussino da costoro cruciati et morti non si potrebbe explicare, infra e' quali el venerabile Pampinia[795] (sic), vescovo della nostra città, con lame di ferro ardenti fu tucto dibruciato, et similmente Mansueto fu arso in su la porta decta Fornitana. Et in quel medesimo tempo la città di Ippona era assediata, della quale era vescovo sancto Agostino, huomo degno di ogni laude, perchè el fiume della sua eloquentia correva per tucti e' campi della Chiesa; ma in quel tempo adverso si veniva ad sechare, et la dolceza del suo parlare era convertita in amaro absentio, et verificavasi quel detto di Davit: Dum consisteret peccator adversum me, obmutui.[796] Infino a quel tempo lui haveva scripto dugento trentadue libri, oltre alle innumerabili Epistole ch'egli haveva facte, insieme con la expositione di tucto el Saltero et de' Vangelii,[797] le quali sono decte ordinariamente Omelìe; el numero delle quali non si potrebbe appena comprendere.
Che bisogna dire tante cose? Dopo molte crudeli impietà, Gisserico expugnò et obtenue la bella et grande città di Cartagine, et quella antiqua, ingenua et nobile libertà riduxe in servitù, perchè fece servi tucti e' Senatori d'essa, et propose uno decreto, che ciascuno dovessi portagli tucto l'oro, pietre [530] pretiose et vestimenti richi ch'egli havessi: et così in breve tempo li huomini si privorno delle robe che 'l padre et l'avolo havieno loro lasciate; perchè e' divise infra sua soldati tucte le provincie, riservandosi ad sè le principali, anchora che Valentiniano imperadore ne difendessi alcuna, le quali poi furno medesimamente occupate da Gisserico dopo la sua morte. Nel quale tempo egli occupò tucta l'Affrica insieme con l'isole che sono tra quella et l'Italia, come la Sicilia, la Sardigna, Maiorca et Minorica, le quali occupò et difese con la sua consueta superbia; nondimanco poi la Sicilia a Clodoacro re d'Italia, con reservo di certo tributo.[798] Facta che Gisserico hebbe questa distributione, comandò ad tucti e' Vandali, che cacciassino tucti e' vescovi e tucti e' nobili de' luoghi et terre loro, il che fu facto in dimolti lati: et noi conoscemo et vedemo essere servi de' Vandali molti nobili vescovi et honorati et clarissimi huomini.
In quel medesimo tempo el vescovo della detta cictà di Cartagine, chiamato Quodvultdeus, insieme con una gran turba di cherici furono spogliati et posti sopra certi navilii, et cacciati d'Affrica, e' quali per miseratione di Dio si conduxono ad Napoli in Italia, e' quali, cacciati di facto, la chiesa loro nominata Restituta, nella quale sempre facevono residenza e' vescovi, la consacrò alla sua religione. Et tucte l'altre chiese, così drento alla città come fuori, spogliò, et in particulare due grandi et belle chiese, di San Cipriano martire, l'una, dove lui sparse el sangue, l'altra dove fu sepolto, el quale luogo si chiama Mappalia. Chi potrebbe sanza lacrime ricordarsi, come questo crudele tiranno comandava, ch'e' corpi de' nostri sancti, sanza solennità di salmi o altre cerimonie ecclesiastiche, fussino sepelliti?
Et mentre che queste cose si facevano, quelli sacerdoti delle decte provincie che lui haveva divise, e' quali ancora non erano iti in exilio, deliberorno d'andare ad trovare il Re, et suplicare che dovessi havere compassione di loro. Et così, sendo tucti convenuti, andorno ad Re, che era questo al lito Maxilitano, suplicandolo che per consolare el popolo di Dio, e' dovessi [531] essere loro dato solamente facilità di potere habitare in Affrica, et mendicare la vita loro. A' quali dixe el Re: — Io ho deliberato del nome et generatione vostra non ne lasciare alcuno, et voi havete ardire di domandarmi gratia? — Et voleva farli in quel medesimo punto gittarli tucti in mare, se non fussi suto da' suoi baroni lungamente pregato, che non volessi fare questo male. Fattisi loro maninconosi et afflicti, cominciorno, come potevano et dove potevano, administrare e' divini misterii.
Lettera che non ha firma, nè indirizzo, nè data; trascritta dal Machiavelli, ma non sua; accenna ad affari di famiglia.[799]
Carissime frater. Sabato fece 8 dì, ti scripse,[800] dandoti notizia come e' ci pareva da pensare di far San Piero in Mercato litigioso,[801] come hanto da messer Baldassarre per simonìa, perchè 'l piovano vechio non volle mai cedere alla renuntia, se non haveva cento ducati da Pèro, et di questo ce ne è tanti testimoni et sì autentici et sì disposti al provare, che se questa cosa si dà in accomandita ad chi voglia la golpe, el priore ci ha una speranza grandissima, et crede che sia costì chi ci [532] attenderà. Messesi innanzi messer Pº. Accolti o el Cardinal di San Piero in Vincula o messer Ferrando Puccietti.
Ad me pare che tu ti ingegni di tòrre huomo che non solum sia atto ad favorire la causa, ma anchora ad spendere di suo, et che dal canto nostro non corra spesa; et più tosto convenire collui grassamente, purchè e' titoli una volta rimanghino: dell'altre cose.... mettile ad tuo modo, perchè la spesa si lievi da dosso ad noi, et che altri....[802] colli favori et con la industria et con danari. Dal canto nostro puoi offerire la simonìa certa, la contenteza de' 2⁄3 de' padroni, la possessione facile, le pruove della simonìa vera et autenticha, le quali son tucte cose da farci correre un di cotesti cortigiani, che non sogliono attendere ad altro che ad simile imprese, quando e' ne possono havere. Et tu sai che per la soddomia, che è causa più ingiusta, sono molti che hanno e' benifitii litigiosi, et assai li hanno perduti. È costì messer Giovanni delli Albizi, che è huomo d'animo: penserai se ad questo tu potessi valertene in cosa alcuna. Nicholò nostro ci farà tucti quelli favori che saranno possibili, et parli mill'anni vedere el fummo di questo fuoco. Le altre letere si mandorno per la via dello 'mbasciatore, et harai ricevuto la cifera, con la quale hora ti scrivo. Di nuovo ti ricordo el mettere in questa impresa huomo che spenda et habbi favori da sè. Vale.[803]
[533]
Lettera del professore Enea Piccolomini intorno a due scritti del professore Triantafillis, nei quali si sostiene che N. Machiavelli conosceva la lingua greca.[804]
Pregiatissimo sig. Professore,
Fino da quando Ella mi fece conoscere lo scritto del professor Triantafillis intitolato: Niccolò Machiavelli e gli scrittori greci (Venezia, 1875), nel quale è provato con tutta evidenza che il Segretario fiorentino si valse di Polibio nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, della Orazione d'Isocrate a Nicocle nella dedica del Principe, e dell'opuscolo di Plutarco Del non adirarsi nel Dialogo Dell'ira e dei modi di curarla; mentre mi parve importante che per siffatte indagini fosse posta in chiaro la cognizione e l'uso che il Machiavelli ebbe della materia trattata dagli scrittori greci, non seppi liberarmi da un certo sentimento di meraviglia, accorgendomi come il prof. Triantafillis ne inferiva che esso avesse attinto direttamente ai testi greci, e che per conseguenza ben conoscesse la lingua greca. A chiunque ponga mente alle condizioni degli studî classici in Italia nei secoli XV e XVI, non può sfuggire che fu principale opera degli ellenisti italiani di quel tempo di propagare per mezzo di traduzioni latine i monumenti della letteratura greca; come ancora, che una gran parte di quelle versioni che allora andavano manoscritte per le mani di molti, o non fu mai stampata e rimase obliata nelle biblioteche, o andò perduta dal momento che si spense in Italia il fervore per gli studî classici. Conseguentemente, le prove addotte dal prof. Triantafillis, che cioè i frammenti del VI libro di Polibio [534] non fossero tradotti in latino prima del 1557, nè l'opuscolo di Plutarco prima del 1525, non essendo appoggiate ad altra autorità che a quella del Lexicon Bibliographicum dell'Hoffmann, mi parvero affatto prive di valore rispetto all'asserto, per il quale l'autore se ne serviva. Questa convinzione che io mi era formata a priori, trovò piena conferma appena ebbi agio di far qualche ricerca nelle biblioteche fiorentine.
Rispetto dunque al Polibio, posso affermare che anche i frammenti del libro VI erano tradotti in latino fino dal principio del secolo XVI; essendosi occupato della versione del brano sulla milizia dei Romani Giovanni Lascaris, come attestano Filippo Strozzi e Bartolomeo Cavalcanti, che poco appresso volgarizzarono quel medesimo brano; e leggendosi anc'oggi nel Cod. Laur. 40 del Plut. 89 inf. una traduzione latina di Francesco Zefi del frammento sulle forme degli Stati. Alcune notizie intorno allo Zefi sono date dal Bandini, Catalogo dei Mss. latini della Laurenziana, vol. III, pag. 401, nota.
Egualmente una traduzione latina antichissima dell'opuscolo di Plutarco, corretta e raffazzonata nello stile da Coluccio Salutati, si trova nel Cod. 125 della biblioteca del Convento di Santo Spirito, ora Laurenziano. Nel Cod. 40 tra quelli provenienti dal Convento di Ognissanti questa versione è attribuita senz'altro al Salutati.
Del discorso di Isocrate a Nicocle non ho trovato una versione più antica di quella che da Giovanni Brevio fu intitolata al duca Alessandro de' Medici, e che si trova nel Cod. 67 Mediceo-Palatino, oggi Laurenziano.
Una seconda pubblicazione del prof. Triantafillis (Sulla vita di Castruccio Castracani descritta da Niccolò Machiavelli: Venezia, 1875) è intesa a provare come il Machiavelli si valesse eziandio di Diodoro Siculo e di Diogene Laerzio.
Quanto alle Vite di Diogene Laerzio, è ben noto che Ambrogio Traversari le tradusse in latino. Le biblioteche di Firenze hanno esemplari manoscritti a dovizia di questa traduzione, che del resto fu messa a stampa già nella fine del secolo XV.
Dei libri XIX e XX delle Storie di Diodoro, che contengono la narrazione verace dei fatti di Agatocle, sopra la quale dimostrò [535] il Triantafillis essere stata composta dal Machiavelli quella favolosa dei fatti di Castruccio, una versione latina che potesse essere adoperata dal Machiavelli non mi è nota. Poggio Bracciolini non voltò in latino che i primi cinque libri di Diodoro. Un'altra versione di anonimo dedicata a Pio II (non già fatta da lui, come erroneamente fu creduto da alcuni, perchè egli stesso si lagna nelle epistole di non sapere di greco) si trova nel Cod. Laur. 10 del Plut. 67; ma non va oltre il libro XIV. Nondimeno questa versione inedita e poco conosciuta basterebbe a provare che siffatte ricerche, se non condurrebbero ad un risultato definitivo quando pur comprendessero le collezioni dei manoscritti (niuna delle quali è pervenuta sino a noi nella sua integrità), riescono poi affatto illusorie quando non si estendano oltre le cose messe a stampa.
Certo è pertanto che al tempo del Machiavelli erano già voltati in latino i frammenti del VI libro di Polibio, le Vite di Diogene Laerzio e l'opuscolo di Plutarco: nè è inverosimile che a quel tempo già esistessero traduzioni del discorso d'Isocrate e dei due libri di Diodoro. Non è dunque da escludere la possibilità che il Machiavelli attingesse alle traduzioni latine anzichè ai testi greci, restando però intatta la questione se e quanto egli sapesse di greco; per risolvere la quale non mi sembra che abbiamo dati sufficenti. Positivo e pratico parve a me di ricercare, mettendo a confronto i luoghi del Machiavelli dal Triantafillis indicati, con il testo greco e con le antiche versioni latine, se egli si valse di quello o di queste. E tralasciato il confronto del dialogo, sull'autenticità del quale cade qualche dubbio, presi infatti ad esaminare quelli tra i detti memorabili della vita di Castruccio, che sono foggiati sopra gli apoftegmi da Diogene Laerzio attribuiti al filosofo Aristippo, e il frammento di Polibio, del quale il Machiavelli fece suo pro nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Sennonchè nè rispetto al Diogene Laerzio, nè rispetto al Polibio, mi fu dato di giungere ad un risultato per me soddisfacente, cioè sicuro e definitivo. Nè ciò è da far meraviglia se si considera che il Machiavelli, piuttosto che tradurre, imita liberamente i due scrittori greci, di rado gli segue da vicino; mentre le interpretazioni del Traversari e dello Zefi sono così letterali, [536] che difficilissimo è decidere se l'imitatore attinse, come io suppongo, sia da quelle sia da altre versioni latine, oppure dal testo greco, come crede il professor Triantafillis.
Mi creda con distinto ossequio.
Pisa, 11 novembre 1876.
Suo devotissimo
E. Piccolomini.
Lettere di Biagio Buonaccorsi a Niccolò Machiavelli in Forlì. — Luglio 1499.
Chiarissimo Niccolò. Benchè dopo la partita vostra di qui non sia accaduto cosa di molto momento, nè che io reputi degnia di vostra notitia, tamen non voglio obmectere darvi notitia come le cose vadino circa la impresa nostra di Pisa, le quali sono cominciate immodo ad riscaldare, che indubitatamente si può dire habbino ad havere quello fine che merita una impresa tanto iusta quanta è questa; perchè, come sapete, Giovanni di Dino tornò di campo, il quale era ito per intendere a punto l'animo et intentione di quelli Signori, dove si risolveranno, et circa il danaio volevono loro, et la somma de' fanti et il numero delle artiglierie et altre cose necessarie a simile expeditione; et tornò al tucto instructo et benissimo resoluto, et le cose chiese per parte del Capitano et Governatore sono state tucte approbate, perchè in vero sono state tanto giuste et tanto honeste, che ciascuno ne è rimaso contentissimo. Et perchè intendiate ad punto la somma del danaio, vogliono fra amendua di presente, cioè innanzi alla expugniatione di Pisa, e' ducati dodicimila di grossi, il che sapete quanto è stato fuora della intentione di omni uno, che si stimava [537] molto maggiore somma. Hora la principale cosa era questa, la quale è ferma, le altre cose sono ordinarie; et di già si è incominciato ad fare li fanti, et mectere ad ordine tucte le altre cose necessarie, le quali il signore Capitano vuole che omnino sieno in campo a dì 28 del presente, che vuole il primo dì d'agosto senza manco accamparsi; et se al dì disegniato de 28 dì, non saranno le cose ad ordine, che possa uscire ad campo il dì dallui disegniato, dice non si moverà poi, se non a dì 13 di agosto: sì che qui con omni sollicitudine si attende sieno expedite il sopradecto dì 28, etc., le quali io stimo certamente saranno, in modo si sollicitano, che a Dio piaccia.
Qui ci è di nuovo come il Duca di Milano ha richiamato da Roma Monsignore Ascanio che vadia ad stare in Milano, perchè lui vuole cavalcare a' confini, et in persona trovarsi in campo. Et benchè noi non habbiamo più lettere di Francia, per esserci intercepte, etc., tamen per le private si intende il Re a dì X di questo essere arrivato a Lione, et con pompa grandissima: et il transferirsi la persona del Duca in campo è segnio che la cosa riscalda troppo, come etiam è da credere.
Da Roma ci è come lo agente del Re Federigo residente quivi, dicendo al Papa, che bisognava che Sua Santità pensassi ad rimediare alli disordini di Italia, etc., li espose, lo haveva facto et farebbe; et decto agente replicò che bisognava uscire de' generali, et che il suo Re non voleva essere giunto al sonno, et che pareva che Sua Santità più tosto cercassi la ruina d'Italia che la salute di quella, con altre parole più ingiuriose. Lui respose reprehendendolo della poca reverentia che elli usava a Sua Santità, et più oltre che il Re passerebbe in Italia, in modo sarebbe per opporsi et al Turco et a omni altro, et expugniare Milano, etc.
Da Vinegia non ci è altro: accadendo, ve ne farò parte, etc.
Scrivendo, sono comparse lettere di là, et in effecto del Turco non si intende altro, se non grande scorrerìe et prede, per non essere anchora giunta l'armata, la quale dicono è cosa grandissima, etc.
Io vi conforto ad tornare più presto potete, che lo stare costì non fa per voi, et qui è uno trabocho di faccende tanto grande, quanto fussi mai.
[538]
Tra lo havere ad scrivere fugiasco, et essere impedito quanto è possibile, non posso fare mio debito, et altro non mi accade, se non recomandarmivi, et di nuovo dirvi come le cose di Pisa si sollicitano quanto più è possibile, ad ciò sieno ad ordine a dì 28, etc. Bene valete.
Ex Palatio, die xviiij iulii MCCCCLXXXXVIIII.
Servitor Blasius.
Al suo honorando Niccolò Machiavelli,
Dominationis Florentinae Secretario
dignissimo.
Forlivii.
Che io non sia adirato, et che sempre mantenga la fede mia, ve ne faranno buona testimonianza li advisi et de' Turchi et Franzesi, li quali saranno inclusi nella publica;[807] chè, benchè sia stato un poco dificile, pure mi parse meglio farlo per via publica che privata, benchè anchora io private vi advisi di qualche cosetta, et così mi sforzerò, Niccolò mio, di fare mentre sarete costì. Ma vi fo fede che se qui fu mai faccende, hora trabochano; sì che, se non fussino scripte le mia lettere come si richiederebbe, harete patientia, et voi con la industria et ingegno vostro ne caverete più constructo vi fia possibile; et quando harò punto di tempo, più vi scriverrò, et più ad pieno et più distincto, benchè io non credo habbiate ad soprastare costì molto tempo, che qui è nicistà de' casi vostri.
Et quanto al fuggirmi et venire costà, se havessi voluto fussi venuto, non bisogniava mi indugiassi ad hora, chè farei fare uno viso a ser Antonio della Valle,[808] che parrebbe non havessi ritenuto l'argomento; che se farete a mio modo, recherete [539] assai acqua rosa per rinvenirlo, che qui non si sente altri che lui; et di già ci ha facto lavare il capo a' nostri Magnifici Padroni, et da maledecto senno: che li venga il cacasangue nel forame! Pure la cosa è qui, et quattro fregagioni hanno assettato omni cosa. In effecto tucti vi desideriamo, et sopra omni altro il vostro Biagio, il quale a omni hora vi ha in bocha, et parli omni hora un anno, come non pareva a voi quando lui era fuori, il che credo habbia ad essere il riscontro di quelli stratiò lui, etc.[809]
Io non dubito punto che la Ex.tia di Madonna[810] vi faccia quello honore, et vi vegga lietamente, come ne scrivete, maxime per più respecti, li quali al presente non replicherò per non essere tedioso, chè presto vi verrei ad noia.
A mio iudicio voi havete exequito insino a hora con grande vostro honore la commissione iniunctavi, di che io ho preso piacere grandissimo, et di continuo piglio; ad ciò si vegga ci è altri anchora, che benchè non sia così pratico, non è inferiore a ser Antonio, etc., che gonfiava così; sì che seguitate, chè insino ad hora ci havete facto grande onore.
Io vorrei per il primo,[811] mi mandassi in su uno foglio ritracta la testa di Madonna, che costì se ne fa pure assai; et se la mandate, fatene uno ruotolo ad ciò le pieghe non la guastino. Et altro al presente non mi occorre, se non recomandarmi et offerirmi a voi, etc. Bene valete.
Florentie, die xxvij iulii MCCCCLXXXXVIIII.
Servitor Blasius Bona: Cancel.
Al suo honorando Niccolò Machiavelli,
Dominationis Florentinae dignissimo
Secretario.
Forlivii.
[540]
Spectabilis vir et honorande patrone, etc. Per le mani di messer Marcello mi fu presentata una vostra, la quale mi fu nel numero delle altre cose vostre oltre ad modo grata, come di quello che io amo sopra tucti li altri di, etc. Et perchè intendiate in che modo ci fu lavato il capo da' nostri padroni, ad ciò siate anchora advisato de' casi della Cancelleria, brevibus accipite. Ser Antonio, come sapete, è in omni minima cosa impedito, et non ci sendo noi la mattina così ad buona hora, et la sera non stando insino alle 3 hore, ne fe' querela grandissima; donde la mattina, chiamati al conspecto de' Signori, fumo pure honestamente admoniti, etc. A che fu resposto prima per lo Alphano, dipoi per il grande ser Raphaello,[813] tanto bestialmente quanto fussi possibile, benchè fussi lasciato dire ad suo modo. Et prima dixe,[814] che Loro Signorie havevono preposto a quello officio uno che haveva poco obligo con la natura, et che non sapeva dove si era, et che quando fussi conmesso a lui farebbe cose grande, maggiore di lui; et così molte altre cose et parole più iniuriose, etc., immodo che lo essere prosumptuoso li è giovato, che a omni hora è chiamato da' padroni, etc. Et io sono et da Marcello et da omniuno sbattuto, et stomi continue ad pregare et sollicitare che ne vegniate, chè ce n'è di bisognio; et tandem io ho voluto giucare il resto con lo amico, et dectoli lo servirò infino alla tornata vostra, et poi voglio ritornare al mio luogo, cioè ad scrivere con voi. Et così mi sto da me, et se non mi è decto, non parlo a persona; in modo s'è adveduto già lo amico, che mi ha iniuriato et non poco; et questo fu che a una certa lettera mi vagliò,[815] et comandò non mi fussi decto cosa alcuna, il che sarà l'ultima volta, perchè mi chiama sei volte inanzi responda; ma io ho disposto l'animo, et così voglio seguire mentre ci [541] starò. Et voi conforto ad expedirvi con quanta più presteza si può, chè non è il facto vostro ad stare costì, di che a bocha vi raguaglierò; così di molte altre cose, et di Marco anchora, il quale ha sentito molto lodare le vostre lettere, et omni dì viene ad fiutare et sbottoneggiare; ma vi possete presummere per certo, li resposi in modo non me ne parla più, nè me ne parlerà per lo advenire: et credo conoscerete nel fine chi è stato et è Biagio, et basti. Alla tornata saremo insieme, et potremovi conferire di quelle cose, pure nostre, che ad scriverle sarebbe lungo, etc.
Con messer Marcello, circa il respondervi presto, etc., non vi sono più buono nè voglio essere, sì che cercate altro mezo, et quello potrò fare io, sapete non sono nè sarò mai per mancare, come a quello al quale sono sommamente obligato.
Qui ci è di nuovo come il Re ha rotto a Milano, et messer Gianiacopo ha facto certe scorrerìe, ma non di danno, secondo habbiamo; et il Re, quanto più vede il Duca[816] prepararsi, tanto più si accende alla impresa.
Li Svizeri et Alamanni sono venuti a questi dì alle mani, et chi se ne habbia havuto il meglio, non si può sapere il vero, come vi è noto, perchè donde viene, se è amico, la fa grassa, et e converso: pure stimiamo per più riscontri li Svizeri havere havuto il meglio.
L'armata del Turco uscì fuora dello strecto, et stimasi vadia ad ferire ad Napoli di Romanìa: è cosa grande, secondo si intende. Così quella Signoria[817] ha facto grande preparationi per defendersi, et anchora ha cominciato ad dare danari alle gente d'arme vuole adoperare in Lombardia, ad rompere a Milano, che dicono vogliono servare le promesse al Re, etc. Dio lasci seguire il meglio.
La impresa nostra di Pisa va di bene in meglio, et questi M.ci S.ri non restono nè dì nè nocte di fare le provisioni necessarie et di danari et di omni altra cosa, et di già hanno ad ordine quasi tucti li fanti, in modo si stima certo Pisa essere presso che in potestà di questa M.ca S.ria, benchè loro sieno per ancora durissimi, etc. [542] Ben sapete che ser Philippo Radichi monstrò tanti disegni, che elli andò Commissario in Lunigiana ad sgallinare,[818] et sovi dire farà il dovere. Nec alia. A voi mi recomando et offero, etc.
Florentie, die xxvij iulii MCCCCLXXXXVIIII.
Servitor B., etc.
Al suo honorando Niccolò Machiavelli,
D. F.tie Secretario dig.
Forlivii.
Lettera dei Dieci di Balìa a Paolo Vitelli, per esortarlo all'espugnazione di Pisa. — 15 agosto 1499.
Illustri Capitaneo Paulo Vytello. Die xv augusti 1499. — Anchorchè la Signoria Vostra, per mezo de nostri Comissarii, habbi più volte inteso lo animo et desiderio nostro, et che quella, per la sua innata affectione verso della nostra Excelsa Repubblica, non habbi bisogno di essere altrimenti pregata et exortata ad expedire quelle chose che ci habbino a tornare in utilità et honore maximo; tamen per lo offitio et debito nostro non vogliamo omettere di scrivere alla Signoria Vostra, et monstrarle come li infiniti oblighi habbiamo con seco, e' quali, [543] non sendo necessarii, non rianderemo altrimenti, richieghono di corroborarsi con questo ultimo della recuperatione di Pisa, per la quale potissimum li fu concesso lo arbitrio delli exerciti nostri. Et veramente quando noi pensiamo con noi medesimi la somma sua virtù, et quanto felice exito habbino auto e' preteriti sua conati, noi non dubitiamo in alcuno modo di conseguire questa desiderata victoria. Dall'altra parte, el desiderio che habbiamo di conseguirla, ci fa stare dubbii assai che la dilatione del tempo non rechi tale incomodità et disordine seco, che non sia in nostro potere el ripararvi; nè ci darebbe mancho dispiacere quando tal cosa seguissi (quod absit), l'honore di che si priverrebbe Vostra Illustrissima Signoria, che lo utile, commodo et sicurtà dello Stato nostro, di che saremo privati noi, perchè non mancho habbiamo a core la grandeza sua che la preservatione nostra, di che sappiamo non bisognare farle altra fede che le opere che si sono facte sino a qui, le quali sempre si accresceranno con li meriti suoi. Sia adunque Vostra Signoria contenta et pregata volere prima coronare sè di cotanta victoria quale è cotesta, con admiratione non solo di tutta Italia, ma di tutto el mondo; et dipoi, con satisfactione et nostra e di tutto questo popolo, preso supplicio di cotesti nostri ribelli, ed reintegrati delle cose nostre, possiamo voltarci a chosa che facci la città nostra felicissima, et la Signoria Vostra non seconda ad alcuno altro, benchè antico et famosissimo capitano. A la quale del continuo ci offeriamo.
Lettera dei Dieci ai Commissarî fiorentini, presso il capitano Paolo Vitelli. — 20 agosto 1499.
Comissariis in Castris contra Pisanos. Die xx augusti 1499. — Noi veggiamo, et con tanto dispiacere nostro quanto si possi [544] mai sentire per alcun tempo, differirsi in modo cotesta giornata, che noi non sapiamo più che ci sperare di bene; perchè, nonobstante che voi scriviate che per tutta stanocte futura saranno ad ordine tutte le cose disegnate; tamen per le parole del Capitano, non ci pare ancora vedere terra, nè ad che porto noi habbiamo ad applicare questa barchetta. Et se Sua Signoria dice che è per fare quello di bene può, et che elli è necessario che ancor noi lo aiutiamo, etc.; noi non veggiamo in che cosa noi li siamo mancati, perchè e' ci pare havere infino a qui et concedutoli ogni cosa che Sua Signoria ci ha adomandata in sua particolarità, et provistolo in tutto quello ci ha richiesto a benefitio della impresa; et per ultimo con quanta celerità ci è stato possibile, vi habbiamo provisto delle balle della lana, delle palle, del fuocho lavorato, et della polvere in quella quantità si è possuto; et questa mattina, per non mancare del consueto, vi habbiamo mandato le lame del ferro stagnato, secondo ne richiedete; et e' danari per rinfrescare e' soldati vi si sono promessi ogni volta ci advisavi il dì della giornata. Ma veggiendo con varie cavillationi et agiramenti tornare invano ogni nostra fatica, et ogni nostra diligentia usatasi annihilarsi,[821] sentiamo dolore infinito; et se la honestà o le leggi el permettessino, egli è più giorni che due di noi sarebbono venuti costì, per vedere con gli occhi et personalmente intendere la origine di cotanti aggiramenti, poi che voi o non ce li volete scrivere o in facto non ve li pare conoscere. Et veramente noi credevamo, et ancora non possiamo se non crederlo, che cotesti Signori volessino più presto tentare la fortuna, et essere ributtati per forza da cotesta expeditione, che per socordia et inertia, consumando il tempo, essere necessitati, per la diminutione della reputatione et delle forze, partirsi di costì con una inhonesta fuga. Il che succederà ad ogni modo, se passa due giorni da oggi che la forza non si sia tentata; perchè, venuta la pagha nuova, cotesti pochi soldati vi restano, haranno iuxta causa di partirsi, et e' nostri cittadini, per parere loro essere dondolati, non saranno per volersi più votare le borse, veggendo non essere del passato suto alcuno utile alla loro città. Noi vi parliamo liberamente [545] a ciò che con la prudentia vostra possiate tocchare fondo, et a noi fare intendere apertamente come ci habbiamo a governare, se hora non succeda la cosa secondo l'ordine dato.[822] Parendoci non havere mancato in nulla, saremo in ferma opinione di essere trastullati, et faremo tutta quella provisione per la salute et honore nostro che ci occorrerà. Et perchè dal canto nostro, come insino ad hora si è facto, non resti ad fare alcuna chosa, siamo contenti che il Capitano facci venire costì a' soldi sua messer Piero Ghambacorti,[823] et riceva etiam e' balestrieri a cavallo sono in Pisa, secondo che voi ne scrivete. Il che facciamo contro a nostra voglia, per molte ragioni, le quali noi vi habbiamo per l'adrieto significate: pure il desiderio habbiamo fare piacere a Sua Signoria ci fa non pensare se non satisfarli; et così confortate Sua Signoria satisfare a noi di questo unico et singulare benefitio, di fare questa benedecta giornata, della quale voi, per nostra parte, con quelle parole vi occorreranno più efficaci il pregherrete, et con ogni instantia graverrete.
Le genti del Signore di Piombino si potranno in parte satisfare alla giunta de' danari vi manderemo, et con questa speranza li intracterrete.
Habbiamo questa mattina lettere da Milano, come e' Franzesi hanno expugnato Annone,[824] castello populato assai, forte di sito, di munitioni et di presidio, in uno dì, et noi siamo già con cotesta obsidione a dì 20, et non sapiamo qual successo seguirà.
Da Lucha intendiamo come Rinieri della Saxetta è tornato in Pisa, sì che vedete quello possiamo sperare, poi che luy vi creda stare sicuro hora, et per lo adrieto ne dubîtava. Valete.
[546]
Altra lettera dei Dieci ai Commissarî fiorentini, presso Paolo Vitelli. — 25 agosto 1499.
Comissariis in Castris contra Pisanos. Die xxv augusti 1499.[825] — Se voi vedessi in quanta mala contenteza et afflictione di animo è tutta questa Città, non che a voi che siete membri di quella, ma a qualunque altro verrebbe istupore et admirazione grande; ma chi sapessi come le cose fino a qui sieno procedute, et con quale spendio conducte, et di che speranza nutriti, non se ne maraviglierebbe, perchè conoscerebbe noy et questa città dopo una lunga fatica et dispendio, quando aspectava indubitata victoria, essere minacciati di manifesta ruina; et sì de repente la vedrebbe menare da uno extremo all'altro, che più tosto la indicherebbe animosa per non si prostèrnere et invilire in tanta angustia, che altrimenti. Et veramente e' ci dorrebbe manco ogni damno che di cotesta impresa fussi resultato a la Città nostra, quando e' si fussi un tracto secondo el desiderio nostro tentato animosamente la forza; perchè, se ne fussino suti ributtati, si sarebbe da' nostri cittadini con più prompteza reparata tanta forza che si fussi al nemico superiore. Ma sendosi consumata tanta fanteria, et preparata con tanti danni, in otio et sanza farne alcuno experimento in favore della nostra città, non sapiamo nè che ci dire nè con qual ragioni exscusarci in cospecto di tutto questo popolo, el quale ci parrà havere pasciuto di favole, tenendolo di dì in dì con vana promessa di certa victoria. Il che tanto più ci duole quanto più ce lo pare havere conosciuto, et con ogni efficacia ricordato alli antecessori vostri.[826] Pure, [547] poi che Dio o la fortuna e qual si fussi altra causa ha condocto le cose in termine che bisogna o soldare di nuovo fanteria, o perdere con perpetua infamia coteste artiglierie, ci sforzeremo di non mancare di fare quanto ci fia possibile.
Et perchè nel fare nuovi danari, per havere a fare nuovi provvedimenti, andrà più tempo; et desiderando che in questo mezo coteste cose si salvino, habbiamo scripto per tutto el territorio nostro, per numero di comandati, de' quali buona parte dovevano essere costì subito, et noi seguiremo col provedimento, per poterci valere di buon numero di fanti freschi e pratichi come ci scrivete....
Siamo a hore 3, et habbiamo differito la staffetta, perchè desideravamo pure con quella mandarvi somma di danari. Ma per essere hoggi domenica, et tutto il giorno suti occupati nella pratica, non ne habbiamo possuto expedire alcuna somma; ma domattina di buon'ora vi se ne manderà quelli ci fia possibile.
Lettera di Paolo Vitelli a Messer Cerbone. 28 settembre 1499.[827]
Cerbone. Questa sera, a hore 24, questi Signori Commissarii, essendo in casa del Governatore, me retennoro, et hannome messo, a petitione di testa Signoria, nella roccha di Cascina. Io ve ne do notitia, aciò che siate con testi Signori et con testi cittadini, et faciateli intendere come, se non m'è fatto torto, in me non trovaranno errore di natura che meriti [548] minima penitentia. Voi sete prudente; pigliate in questa cosa quello riparo che vi pare expediente, per giustificare la innocentia mia.
Ex Cascina, die 28 settembris 1499.
Paulus Vitellus, etc.
Al mio Cerbone dei Cerboni
de Castello, in Firenze, etc.
Lettere approvate nel Consiglio dei Dieci sulle pratiche dei Venetiani, per rimettere Piero de' Medici in Firenze, coll'aiuto di Paolo Vitelli.
1498 (s. n. 1499) Die XXX Januarij. — In Cons.º X cum additione.
Quod Magnifico Petro de Medicis, respondeatur in hunc modum:
Nuij habbiamo ben intesa la relatione et propositione factane per Vostra Magnificentia, et hane molto piaciuto intender el bon animo et la oblatione del Magnifico Paulo Vitellio, sì verso la Magnificentia Vostra, come verso l'assetamento de le presente dissensione. Et ricercando la importantia de la materia celere resolutione, non habiamo voluto interponer puncto de dilatione a la resposta. Dicemovi adunque ad questo modo: Nuij haver grandemente desiderà et desiderar el ritorno vostro et dei fratelli vostri ne la patria, sicome per experientia habiamo dimonstrato et tutavia demonstramo. Et pero, quando [549] el. Mag.co Paulo sia per far questo effecto, nuij siamo per vederlo tanto volentiera, quanto dir se possi, et maxime, essendo accompagnato cum la compositione de le cosse pisane, sicome ne havete proposto. Et per dirvj in particulari la nostra opinione, circa el desyderio et oblatione del Mag.co Paulo, siamo ben contenti attender al partito el ne propone. Et promettendovi luij el remettervj in casa, cum assetar le cosse de Pisa per quelle vie et modi che siano convenienti, et che ne ha toccato la Mag.tia Vostra, ex nunc nuij volemo concorrer a la conducta soa insieme cum Sig.r Fiorentini, perchè serà via et forma ben rasonevele; et intrando Vostra Magnificentia in casa, come se presupone, potria esser certissima Sua Mag.tia de esser non solum secura de quello li serà promesso, ma etiam cum perpetuo honor et stabilità de le cosse sue. Diremo anche questo altro particulare, per stringersi più a la conclusione, che 'l stipendio del prefato Magnifico Paulo ne pararia conveniente dover esser quello ne ha dichiarito Vostra Mag.tia Luij al presente haver cum Fiorentini, zoè ducati XL/m., de li quali nuij contribuissamo la portione nostra. Questo è quanto ne occorre.
Ben havessamo grato che Vostra Magnificentia subito se transferisse personalmente ad stringer la practica, et veder de condurla ad votivo fine, come ben la saperà far per la prudentia sua, et dielo far gagliardamente, intervenendo principaliter el suo interesse. Li mezi non tocheremo altramente, remettendosi a quella; a la qual etiam volemo affirmar questo per conclusione: che quantunque ne sia sta et sia necessario, per honor nostro, non manchar a Pisanj de le promesse nostre, pur sempre habiamo havuto bon animo verso Sig. Fiorentini, sì per la conformità de l'uno et l'altro Stato, come etiam per la antiqua benivolentia et mutui beneficij che in diversi tempi sono stati fra nuij.
De parte | 30 |
De non | 0 |
Non sincere | 0 |
[550]
1498 (s. n. 1499) Die ultimo Januarij, in Cons.º X cum additione.
Ser Jacobo Venerio Provisori nostro.[830]
Non ve replicheremo altramente la propositione factane dal Magnifico Petro de Medici circa Paulo Vitellio, sì per esser sta prima da vui particolarmente significata, si etiam perchè la resposta nostra ve la farà manifesta; la copia de la qual ve mandamo qui introclusa, non perchè la participiate cum alcuno, ma solum per instructione vostra. Vederete per essa nostra resposta tutto el sentimento et resolutione nostra, et anche el desiderio habiamo de vederne presto alcuno effecto, et perhò habiamo deliberato cum el Conseglio nostro di Dieci, cum la Zonta, scrivervi le presente. Et volemo che, zonto el Magnifico Pietro, de lì insieme cum lui vui intrate in questa pratica, cum quella più secreta et cauta via vi apparerà esser cum decoro de la Signoria nostra, forzandovi vederne, senza interpositione de tempo, l'exito de la cosa, cum tal fundamento, che intendiamo subito, et vediamo la ultimatione de tal practica; et se cum Nui se prociede cum quella rectitudine, che Nui procediamo cum altri. Et perchè potria occorrer che sopra doi articoli Paulo Vitellio fusse renitente, et movesse difficultà, come anche de qui ha cegnato el Mag.co Pietro, habiamo deliberato in chadauno de loro resolverne et dechiarirve la mente nostra, per trunchar ogni forma de dilatione che per questo potesse esser introducta.
Primo el potria esser che Paulo Vitellio non se contentasse del solo titulo de Capitanio de' Fiorentini, nel qual caso el M.co Pietro ha proposto che per nui se li desse titulo de Vicario nostro. Ad questo ve dicemo che, occorrendo tale difficultà, vui promettiate tal titulo, et dagate speranza che per questo la cossa non resterà de recever bon fine. Preterea, se [551] dicto Paulo omnino volesse, ultra la conducta de cavalli, per li quali l'ha el stipendio de ducati XL,[831] alcuno numero de fanti, come se affirma lui haver da Fiorentini, etiam in questo affirmerete che nui seremo contenti contribuir insieme cum Fiorentini la portion nostra de la spesa de dicti fanti, in caso che i se habino adoperar. Queste sono le doe particularità ve habiamo voluto far intender resolutamente, per remover ogni termino de dilatione. Vui però non procederete a la promissione de quelle, nisi vedendo, che altramente far non potesti, et che la conclusione se differisse, over se rompesse per esse difficultà, over alcuna de quelle. Et però, in tal caso, semo contenti vui li possiate prometter cum le altre condicion contenute et expresse ne la resposta nostra. Sollicitate adunque cum ogni vostro studio et diligentia stringer questa pratica a la fine; et venendo Paulo Vitellio ad alcuna resolutione, lo farete confortar ad mandarne subito suo nuncio, cum pieno et sufficiente mandato, azò se possi far la sigillatione. Et tutto questo ordine tenerete apresso vui secretissimo, quanto recercha la importantia sua, dandone hora per hora diligentissimo adviso de ogni successo.
De parte | 29 | |
De non | 1 | Facte et misse littere cum incluso exemplo. |
Non sincere | 0 |
Lettera, senza firma e senza indirizzo, che discorre della cattura di P. Vitelli.[832]
Sendo pervenuta nelle mani d'un mio amico una lettera sopradscripta ad m. Jacobo Corbino canonico pisano, me la portò, [552] et io per lo officio mio apertola, non mi maravigliai tanto del subbiecto di epsa, quanto io mi maravigliai di voi che lo havessi scripto, perchè io mi persuadevo che ad uno huomo grave, quale sete voi, et ad una persona publica, quale voi tenete, si aspectassi scrivere cose non disforme alla professione sua. Hora come e' sia conveniente ad un secretario di cotesti magnifici Signori notare d'infamia una tanta Republica, quale è questa, ne voglio lasciare fare iuditio ad voi, perchè di quello che dite contro ad qualunque pontentato di Italia, se ne ha più ad risentire e' Signori vostri che alcuno altro; perchè, sendo voi la lingua loro, si crederrà sempre che quelli ne sieno contenti, et così venite ad partorire loro odio sanza [553] loro colpa. Nè io mi sono mosso ad scrivere tanto per purghare le calunnie, di che voi notate questa Città, quanto per advertire voi adciò per lo advenire siate più savio, il che mi pare essere tenuto ad fare, sendo noi sotto una medesima fortuna. Fra molte cose che dimostrono[833] li (sic) huomo quale e' sia,[834] non è di poco momento el vedere, o come egli è facile ad credere quello che li è decto, o cauto ad fingere quello che vuole persuadere ad altri; in modo che ogni volta che un crede quello che non debbe, o male finge quello che vuole persuadere, si può chiamare et leggiere et di nessuna prudentia.
Io voglio lasciare indirieto la malignità dello animo vostro, demostrato per queste vostre lettere; ma solo mi distenderò in demostrarvi quanto ineptamente o voi avete creduto quello vi è suto referito, o fincto quello desideravi si disseminassi in infamia di questo Stato. Io vi ringratio prima della congratulatione fate col Pisano, per la gloria che ad vostro iuditio hanno adquistata, et per la infamia ne haviamo reportato noi, condonando tucto alla affectione ci portate. Di poi vi domando, come può stare insieme, che questa Città habbi speso un tesoro da non poterlo extimare, et li Pisani si sieno difesi sanza fraude di Pagolo Vitelli, come voi volete inferire.[835] Appresso vi domando, quale sana mente o quale bene edificato ingegno si persuaderà o che Pagolo Vitelli ci habbi prestati danari, o [554] che la cagione dello haverlo preso[836] sia per non pagharlo. Nè vi advedete, povero huomo, che questo totalmente excusa la Città nostra et accusa Pagolo; perchè ogni volta che un crederrà che Pagolo ci habbi prestati danari, crederrà de necessitate che Pagolo sia tristo, non potendo haver avanzato danari, come ognun sa, se non o per corruptione factegli, perchè c'inghannassi, o per non havere tenuta ad un pezo[837] la conpagnia. Donde ne nascie che, o per non havere voluto, sendo corropto, o per non [hav]ere potuto, non havendo la conpagnia, ne sono nati per sua colpa infiniti mali ad la nostra [Città; et] merita l'uno o l'altro errore o tucta dua insieme (che possono stare), infinito [castigo].[838] Alle altre parti della lettera vostra, per essere fondate tucte in su questi due [errori],[839] non mi occorre rispondere; nè mi schade etiam iustificarvi la captura, come cosa che non mi si aspecta ad farla; et quando mi si aspectassi, ad voi non si richiede lo intenderla. Solum vi ricorderò che non vi rallegriate molto delle pratiche, che voi dite andare attorno, non sapiendo maxime le contrappratiche che si fanno; et admunirodvi, fraterno amore, che quando pure voi vogliate per lo advenire seguitare nella vostra captiva natura di offendere sanza alcuna vostra utilità, voi offendiate in modo che ne siate tenuto più prudente.
[555]
Lettera di Biagio Buonaccorsi a Niccolò Machiavelli in Francia. — 23 agosto 1500.
Honorando et charo mio Niccolò. Se io vi ho ad confessare la verità, questa vostra lettera ricevuta stamani mi ha facto un poco gonfiare et levare in superbia, vedendo che tra li Stradiotti[841] di Cancelleria pure tenete un poco più conto di me; et per non calare di questa mia opinione, non ho voluto ricercare se ci è vostre lettere in altri. Io ne ho preso piacere grandissimo, parendomi parlare con voi proprio et familiarmente, come eravamo usati; et ne havevo preso qualche poco di passione, havendo visto la prima volta vostre lettere, et non esser facto da voi mentione alcuna di me, dubitando che il proverbio che si dice vulgarmente — dilungi da ochio, dilungi da quore — non si verificassi in voi, il che questa vostra lettera ha cancellato: et così vi prego seguitiate quando vi avanza tempo, chè io per me non mancherò mai di fare mio debito verso di voi.
Io non voglio mancare di significarvi quanto le vostre lettere satisfanno a omniuno; et crediatemi, Niccolò, chè sapete che l'adulare non è mia arte, che trovandomi io ad leggere quelle vostre prime a certi cittadini et de' primi, ne fusti sommamente commendato; di che io presi piacere grandissimo, et mi sforzai con qualche parola dextramente confermare tale oppinione, mostrando con quanta facilità lo faciavate.[842] Et così [556] dove io veggo potere giovare, lo fo, parendomi farlo per me proprio, come certamente fo; et pure stamani fui con Luca delli Albizi, col quale era di già stato Totto vostro fratello, et facto il bisognio: fece lo officio dello amico, come sempre è usato fare. Così messer Marcello, insieme con Totto vostro, fa omni cosa obtegniate il desiderio vostro;[843] et credo per adventura, avanti il serrare di questa, harà effecto; et non lo havendo così hora, lo harà un'altra volta. Scrivete pure a Totto che non la stachi, perchè stamani mi dixe: — Se io non la fo hoggi, io me ne andrò in villa, etc. — Voi sete savio, et basti.
La vostra lettera mi dètte il nostro messer Marcello, et seco era Totto, al quale havea date le altre vostre fidelissimamente. Così havea mandate quelle di Francesco[844] ad casa sua per huomo ad posta, chè per non mi sentire bene non ero in Cancelleria: basta che hanno havuto optimo ricapito, et così haranno tutte le altre.
Io ho messo da uno canto tutt'i piaceri che io ho, sendo qui, et tutti li altri che io harei, sendo costì; et certamente lo essere insieme con voi dà il tracollo alla bilancia; pure bisognia havere patientia, da che non si può: et se voi continuerete nello scrivermi anchora, mi sarà manco grave questa vostra absentia, di che io vi prego quanto più posso.
Io feci la ambasciata del parcatis a messer Cristophano. Mi respose che alla tornata vostra facessi motto a Lione al Rosso Buondelmonti, che da lui sarete informato di tutto, per essere pratico, etc.
Dapoi la partita vostra habbiamo perso Libbrafacta et il bastione della Ventura, et per anchora Pisani sono signori della campagnia.
Pistoia ha facto grandi movimenti, et la parte Cancelliera ha cacciato la parte Panciatica con grande arsione di case et botteghe, et morte di qualche huomo; pure la parte restata superiore si dimostra fidelissima et observantissima di questa Excelsa Signoria. Dio ne aiuti, chè ce n'è bisogno.
[557]
Niccolò, io vi prego che a mia contemplatione spendiate uno scudo in guanti et dua scarselle di tela, delle più piccole trovate, et qualche altra zachera, che ve ne rimborserò a chi mi ordinerete. Così vi prego mi mandiate uno stocco, ma lo voglio in dono, poichè non ho havuto quello mi promectesti alla partita. E raccomandatemi quanto più possete al nostro Francesco Della Casa, et me li offerirete in tutto quello li accaggia di qua, et che lui stimi si possa fare per me. Nec plura. A voi mi raccomando quanto più posso, et prego Dio vi guardi dalle mani di Svizeri.
Florentie, die xxiij augusti M. D.
Vester Blas. Bo. Cancellarius.[845]
Spectabili viro Nicolao de Maclavellis,
mandatario fiorentino
apud Christianissimam Maiestatem,
amico honorando.
Alla Corte.
Due lettere di Agostino Vespucci da Terranova, scritte da Roma nel luglio e agosto 1501, al Machiavelli. Ragguagliano di fatti seguìti in Roma.[846]
Spectabilis vir, honorande, etc. È sul mezo dì, et io spiro del gran chaldo è a Roma, et per non dormire fo questi pochi [558] versi, et etiam mosso da Raffaello Pulci che si trastulla con le muse. Spesso alle vigne di questi gran maestri et mercanti dice improviso, et comprendo dica con uno ser Francesco da Puligha di costà, che non so che si faccia a Roma. Et costui a' dì passati fe' uno sonetto per contro a Francesco Cei nostro, che mi pare un poco troppo dishonesto; et ho facto ogni cosa di haverlo scripto, et non ho possuto; et questo ser Francesco non lo ha dato a persona, ma sì bene lecto o vero recitato: potendolo havere ve lo manderò. El Pulcio si trastulla, et sempre è in mezo di quattro p....; et emmi decto lui havere qualche dubio, che sendo di lui opinione et certeza di esser poeta, et che l'Academia di Roma lo vuole coronare ad sua posta, non vorrìa venire in qualche pericolo circa pedicationem, perchè è qui Pacifico Phoedro, et delli altri poeti, qui nisi haberent refugium in asylum nunc huius, nunc illius Cardinalis, combusti iam essent.
Evenit etiam che in questi proximi dì in Campo di Fiore fu abrusciata viva una femina, et assai di grado, venitiana, per havere lei pedicato una puctina di 11 in 12 anni, che la si teneva in casa, et factole etiam altro che taccio, per esser troppo dishonesto, et simile alle cose di Nerone romano. Il che etiam conferma decto Raffaello in dovere stare continue per li giardini fra donne, et altri simili ad sè, dove con la lyra loro suscitent musam tacentem, diensi piacere, et si trastullino. Ma, bone Deus, che pasti fanno loro, secondo intendo, et quantum vini ingurgitant poy che li hanno poetizato! Vitellio romano, et apud hesternos Sardanapalo, si reviviscerent, non ci sarìano per nulla. Hanno li sonatori di varii instrumenti, et con quelle damigelle dansono et saltono in morem Salium, vel potius Bacchantium. Honne loro invidia, et mi bisogna rodere la cathena in camera mia, che è ad tecto, chalda, et con qualche tarantola spesse volte: et moro di chaldo, ut vix possim ferre estum; che se non fussi uno respecto, il quale sa Biagio, mene verrei in costà. Vogliovi pregare che rispondiate a Raffaello o ad me, et traheteci mattana del capo, che so lo saprete fare.
El Papa mi pare entrato nel pensatoio in su questo romore de' Turchi, che già risuona forte; et comincia sospirando a dire: Heu quae me tellus, que me equora possunt accipere! Dupplica le guardie al Palazo, dì et nocte, prebet se quibuscumque difficillimum, [559] et tamen animus eius sullaturit[848] et proscripturit in dies magis, che, omnibus videntibus, ad chi toglie la roba, ad chi la vita, et chi manda in exilio, chi in galea ad forza, ad chi toglie la casa et mettevi entro qualche marrano: et haec nulla aut levi de causa. Lascia oltre ad questo fare ad di questi baroni et sua amici molti oltraggi, et torre roba et votare fondachi, et huiusmodi 1000. Sono qui più venali li beneficii che non sono costì e' poponi o qui le cyambelle et acqua.[849] Non si seguita più la Ruota,[850] perchè omne ius stat in armis et in questi marrani, adeo che pare necessario il Turcho, poi li Christiani non si muovono ad extirpare questa carogna del consortio humano: ita omnes qui bene sentiunt, uno ore locuntur. Restavami dire, che si nota per qualcheuno, che, dal Papa in fuori, che vi ha del continuo il suo greggie illecito, ogni sera XXV femine et più, da l'Avemaria ad una hora, sono portate in Palazo, in groppa di qualcheuno, adeo che manifestamente di tutto il Palazo è factosi postribulo d'ogni spurcitie. Altra nuova non vi voglio dare hora di qua, ma se mi rispondete vene darò delle più belle. Godete et valete.
Ex Roma, 16 julii 1501.
Augustinus vester.
Spectabili viro Nicolao domini Bernardi
de Maclauellis, secundo Cancellario
florentino, Secretario honorando.
Florentie.
[560]
Spectabilis vir, etc. Nicolò Machiavello mio amatissimo, sommi spogliato in pitoccho, sarei in giubbone, nisi austrum nocentem per auctumnos corporibus metuerem. Sendo il desiderio vostro di volere intendere utrum la heredità del Cardinale di Capua sia restata al Papa, o vero instituerit alios heredes, in risposta vi dico, serio loquens (nam secus (sic) fortasse quam claudam istas): il Papa non permettere ad alcuno Cardinale che loro faccino herede, immo circa il testamento la vuol vedere molto pel sottile, il che testifica il caso del Cardinale di Lysbona, quale ne' dì passati, sentendosi grave, non possendo lasciare de' danari che si trovava, che furono 14 mila, ad chi harìa desiderato, più tosto se ne volle spotestare vivente, che il Papa, se mortuo, li havessi ad godere luy. Et chiamando tutta la sua famiglia a giumelle in sul suo lecto, ad vista, tutti li spartì in dono per li sua di casa; et così rinuntiò tutti li sua beneficii veramente, in modo che non si truova nulla in questo mondo, se non la grazia grande, non solo della sua famiglia, ma di tutta Roma. È dipoi sanato, benchè sia vecchio, et hieri parlò con lo ambasciatore, me presente, una hora o più sempre in latino, et constabat sibi in omnibus. Onde il Papa decte l'arcyvescovado di Capua, che vale VI mila ducati l'anno, al cardinale di Modena, il quale, benchè sia o vero pare in gratia del Papa, sborsò 15 mila ducati per la Santità di N. S.; uno altro suo arciveschovado che è in Hispania diè a Monreale, con questo che lasciassi al cardinale da Esty il vescovado di Ferrara. Delli altri beneficij non dico nulla, sennonchè il Papa (quod pace sua dixerim) ne ha di pretio numerato hauto insino in XXV mila o più, perchè era il prefato molto richo. Se volessi intendere quo genere mortis obierit, quì vulgo tenetur ch'è veneno, per esser lui poco amico al gran Vexillifero, che di simil morte si intende spessissimo in Roma: et omnia ex fonte, nec non ex primo rivo emanant. Habes, puto, plus quam petieras; et però resta che [561] ser Antonio, Biagio, ser Luca, et ser Octaviano faccino quanto mi scrivete.
Circa al Pulcio lo trouerrò, et leggerolli la vostra, credo haremo poi materia da rispondere, et piacevole: è un mal muscione, fa più facti che parole, et non pare quel desso.
Hoggi, benchè siamo a dì 25, qui si celebra la festa di San Bartholommeo, et dicesi è per honorare più la festa di San Ludovico re di Francia, che è questo medesmo dì. È in Roma una chiesecta di questo Santo, ignobile, et che mai non vide 50 persone insieme, et questo anno, per havere facto la invitata lo Re di Francia a tutti li cardinali, oratori, prelati et baroni di Roma, stamattina vi è stato ogniuno, videlicet 16 cardinali, tutti l'imbasciatori si truovono in Roma, tutti li baroni et altri signori, e tutti stati a la Messa, che durò 3 hore di lungo. Fuvi la Capella del Papa, che è cosa mirabile: li sua pifferi che ad ogni cardinale, arrivando, li faceano lor dovere; tutti li trombecti; altri delicatissimi istrumenti, id est l'armonia papale, che è cosa dulcisona e quasi divina; non so per ora nominare nissuno de' sei instrumenti per nome, di che non credo Boetio facci mentione, quia ex Hispania. Fu etiam ad meza la Messa per uno doctissimo huomo recitato una oratione latina, contenente breviter la somma della vita di San Ludovico. Dipoi latissime fatta in transgressu aliqua mentione de regibus Gallorum, della grandeza, sublimità et maestà del presente Re, in cuius virtutibus recensendis, videlicet in dotibus corporis et animi, quantumque adversam fortunam egerit sub pedibus prosperae vero quam bene moderetur frenis, consumò circa una grossa hora. Et veramente, Nicolò mio, qui è l'arte dell'oratore, perchè costui è uno ignobile, et non più visto, nè udito circulare o poco; et nondimeno per esser Romano è piaciuto più che o il Fedra o il Marso o il Sabellico o el Lippo, che habentur optimi, et ha dimonstro havere auto in primis memoria grande, sapere bene distinguere et apte narrare; monstrò quantum valeat pronuntiatio, quantum verborum copia et gestus, qui et ipsi voci consentit et animo, cum ea simul paret, ut equidem affirmare ausim, che spessissimo, non solum manus sed nutus ipsius, haria dimonstro alli auditori la sua volontà. Et non so come tam feliciter costui mai avessi potuto orare nisi imitatus Demosthenem, qui actionem [562] solebat componere, grande quoddam speculum intuens. Et lassando la doctrina, la eloquentia, i colori infiniti, molti flosculi et aculei quibus inspersa sua oratio est, illud mehercule prestitit, ut sibi conciliaret, persuaderet, moveret, ac denique delectaret. Et in calce orationis tantam eloquentiae procellam effudit, ut omnes admirarentur ac stupescerent; obque factum est, ut plausus ei quasi theatralis, quamvis in templo, a multis datus sit. Credono molti che, sendo suto alla presentia il Re, che lo harìa facto in quello instanti grande homo appresso di sè.
Una sol cosa mi resta, che alli dì passati, sendo il Papa in fregola di voler ire a spasso, et sendo in camera del Pappagallo uno circulo di 5 in 6 docti, che invero ce ne è assai, benchè anche delli scelerati et ignoranti, ragionando et di poesia et astrologia, etc., uno di loro fu che dixe esser solo uno a Roma, ad che il Papa prestava fede in astrologia, et costui havere male, et è in miseria et povertà per la gran liberalità di questo Principe. Et il Fedra dicendomi costui havere predicto al Papa che sarìa pontefice, sendo ancora cardinale, li mossi che si vorría fare qualche procnostico sine auctore, et lasciarselo cadere, et ita factum est. Prima ci partissimo di lì, questi 3 versolini furon facti, videlicet:
Praedixi tibi papa, bos, quod esses,
Praedico moriere, hinc abibis,
Succedet rota, consequens bubulcum.
La rota è insignia di Lysbona, el bubulco è lui. Questo effecto se ne è visto, che mai poy ha ragionato di partirsi, se bene ci è opinione, che se si scuopre il parentado con Ferrara, lui vorrà ire là, et vagare per la Romagna. Vedreno quello seguirà; et se Valentino tornerà qui, che ce ne è varie opinioni, tornando assai delle sua genti alla sfilata, et etiam havendo mandato Vytellozo e fare quello che vorrìa ragionevolmente poter fare presentialmente da sè. Et venendo la beatitudine del Papa in costà, voi et altri che volessi qualche dispensa o di tòrre o di lasciare la mogliera, la harete benignamente, modo gravis aere sit manus. In questo mezo Camerino teme, Urbino fila, perchè dubita delle relliquie di casa [563] Sforzesca, et di Piombino non dico nulla. Bene vale et excusatum me habe, se io non vi scrivo lungo, perchè non ho tempo. Alias.
Roma, XXV augusti 1501.
Deditissimus Augustinus.
Spectabili uiro Nicolao de Maclauellis,
Secretario, Maiori honorando.
Alli Signori Dieci.
In Firenze.
Lettera dei Dieci al Vicario di Scarperia. 7 maggio 1502.
Iuliano Caffino, Vicario Scarperie. Die vij maii. — Tu ci hai scripto più lettere piene di tante exclamationi et tante paure, che le sarebbono sute troppe havendo el campo intorno, et in terra cento braccia di muro. Et perchè sappia da quello che tu ti hai ad guardarti, et quanto habbino ad ire in su e' tuoi sospecti, el campo del Valentinese è ad Medecina, e' Franzesi se ne sono iti verso Lombardia, et noi teniamo buona amicitia con el Duca et col Papa. Ma tucti e' sospetti che si hanno, sono perchè, sendo nel campo del Valentinese Orsini et Vitegli, pensiamo che, sendo inimici nostri, potrebbero di furto fare qualche insulto ad qualche nostro luogo, nè si crede che per altri conti o per altra via possiamo essere offesi. Et sta' di buona voglia, che non ha ad venire costì campo ordinato et con artiglierie et altri instrumenti atti ad expugnare una terra come è cotesta; et se pure e' vi havessino ad venire, l'artiglierie non volano, hanno ad passare li [564] monti, et per certo noi el doverremo intendere, et intendendolo, vi provederemo; sì che non è necessario sbigottire a cotesto modo li subditi nostri, ma confortarli ad stare alla vista et a' passi, et ricorrere così quando tu li chiamerai, et fare la nocte qualche guardia, per guardarsi da' facti; et mostrare di essere huomo, et conoscere di essere in una terra che habbi bisogno del campo ad perdersi, et non ne andare preso alle grida. Noi ti haviamo voluto dire questo, acciò che tu ti conforti et conforti e' sudditi nostri, perchè noi non siamo per abbandonarli, quando tu et loro faranno loro debito, come speriamo....
Lettera dei Dieci al Commissario Giacomini Tebalducci. 1º luglio 1502.
Commissario generali, Antonio Iacomino. Die prima iulii 1502. — Hiarsera ti si scripse quello ci occorreva in risposta di più tua; haviamo dipoi ricevute l'ultime di hieri, et per quelle inteso cosa che ci satisfa, et questo è come Anghiari si tiene, et come e' nemici non lo possono molto sforzare per mancamento di palle, etc. Et havendo dipoi ricevuto una lettera da M.re di Volterra,[854] el quale pochi dì sono mandamo ad Urbino ad el Duca Valentinese, della quale ti mandamo copia, et per quella intenderai quello che lui giudicha et advisa delle genti di quello Duca. El quale adviso, quando fussi vero, ci renderebbe più sicuri, et più facile ci farebbe la recuperatione delle cose nostre. Ma desidereremmo bene che la perdita di quelle non fussi maggiore che la si sia suta infino ad qui, ad ciò che si cominciassi dipoi più facilmente ad racquistare la [565] reputatione, et non si continuassi in perderla. Et per questo, se si possessi soccorre