The Project Gutenberg eBook of Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. II

This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.

Title: Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. II

Author: Pasquale Villari

Release date: March 30, 2020 [eBook #61705]
Most recently updated: October 17, 2024

Language: Italian

Credits: Produced by Barbara Magni and the Online Distributed
Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was
produced from images made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK NICCOLÒ MACHIAVELLI E I SUOI TEMPI, VOL. II ***

NICCOLÒ MACHIAVELLI
E I SUOI TEMPI VOLUME II


PASQUALE VILLARI

NICCOLÒ MACHIAVELLI
E
I SUOI TEMPI

ILLUSTRATI
CON NUOVI DOCUMENTI

3ª Edizione riveduta e corretta dall'Autore

Volume II

ULRICO HOEPLI
EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA
MILANO

1913


PROPRIETÀ LETTERARIA

65-912. — Firenze, Tipografia «L'Arte della Stampa», Succ. Landi

Via Santa Caterina, 14



INDICE


AVVERTENZA

Anche a questo secondo volume debbo premettere solamente, che ho tenuto conto dei principali lavori recentemente pubblicati sul Machiavelli. Questo ha fatto di necessità procedere lentamente la stampa.

Firenze, 11 ottobre 1912.

P. Villari.

[1]

LIBRO PRIMO

CAPITOLO IX.

Il Secolo di Giulio II. — Le Belle Arti. — Leonardo. — Michelangelo. — Raffaello. — La nuova letteratura. — Lodovico Ariosto. — Gli scritti giovanili di Francesco Guicciardini.

Il decennio in cui Giulio II sedette sulla sedia di San Pietro (1503-1513), fu un periodo memorabile nella storia della politica, memorabilissimo in quella della cultura italiana. Con una volontà indomabile, con un impeto più che giovanile, guidato sempre dal pensiero di riconquistare alla Chiesa le provincie che, secondo lui, le erano state usurpate; d'ingrandirne, di renderne forte e temuto lo Stato, questo Papa, che aveva già sessanta anni, agitò il mondo. Egli tenne in mano le fila della politica in tutta l'Europa, ora a vantaggio ora a danno d'Italia, che divenne il campo aperto alle grandi battaglie, le quali finirono coll'esserle cagione d'irreparabili sventure. Le proporzioni gigantesche, che questi fatti presero quasi istantaneamente, dovevano lasciare una profonda impressione nell'animo degli uomini, per poco che guardassero e meditassero su ciò che intorno ad essi seguiva. Certo è che si vide allora un grande incremento nella cultura, e nuovo splendore ne ebbero le opere letterarie, massime di politica e di storia, nelle quali gl'Italiani, con insuperabile originalità, riuscirono maestri all'Europa. In verità, quando, in mezzo a quel sanguinoso cataclisma, che, incominciato colle battaglie d'Agnadello, di Ravenna, di Pavia, finì col sacco di Roma e l'assedio di Firenze, noi vediamo che si scrivono le opere del Machiavelli e del Guicciardini, possiamo riconoscere una relazione naturale fra di esse ed [2] i grandi, sebbene dolorosi, tragici fatti, in mezzo ai quali furono composte. Ma quando vediamo che, nel medesimo tempo, si scrivono poemi come quello dell'Ariosto, commedie, novelle, satire, sonetti, poesie burlesche d'ogni sorta, allora chi può negare che tutto ciò abbia l'apparenza d'un singolare contrasto? Pure la verità è, che ora appunto il Rinascimento italiano si manifesta in tutta l'infinita varietà del suo splendore, il quale non solamente sfolgora nelle mille nuove forme della prosa e della poesia nazionale, ma ritrova la sua maggiore originalità nelle arti plastiche, che danno la propria impronta alla cultura di quel secolo, che travagliato da lotte feroci, fu pure essenzialmente artistico. Una nuova primavera intellettuale sembra ringiovanire la terra insanguinata, sulla quale spunta improvvisa una moltitudine di fiori non mai più visti, dalle cui foglie emana una misteriosa fragranza, che c'inebbria anche oggi: in essi è un'armonia di forme e di colori, che lascia estatico e rapito chiunque la contempla. Mentre le furie della rapina e della guerra si scatenano da un lato, si direbbe che dall'altro una musica divina annunzî che gli Dei discendono di nuovo a passeggiare fra i mortali.

I nomi di Leonardo, di Raffaello, di Michelangelo bastano certo alla gloria d'un popolo, alla grandezza d'un secolo. Con le loro mirabili opere l'Italia arriva, specialmente nella pittura, ad un'altezza cui nessun'altra nazione potè mai innalzarsi. È un'arte che, come quella della scultura greca, non nasce due volte nel mondo, perchè, divenuta immortale, non si ripete nè si riproduce. La culla e la scuola principale di questi artisti fu di certo Firenze; ma le loro opere più celebri vennero da essi compiute in Roma, e quindi il secolo, pigliando nome da un Papa, fu chiamato di Leone X. Sebbene però questo Papa fosse della famiglia dei Medici, cui tanto debbono le arti belle, e fosse anch'egli un gran mecenate, è certo che usurpò una gloria assai maggiore [3] di quella che veramente gli spetti. Raffaello e Michelangelo ricevettero da Giulio II le grandi commissioni, e sotto il suo papato compierono quelle pitture, quelle sculture, che fecero di Roma un santuario dell'arte, al quale da ogni angolo della terra muovono, in continuo pellegrinaggio, i popoli civili. E Giulio II non solamente ordinò e pagò quelle opere immortali, ma le volle, le promosse con un ardore di cui egli solo era capace; e quindi, non senza ragione, alcuni moderni da lui e non da Leone X vollero nominare quel secolo.[1]

Delle arti belle noi non abbiamo finora tenuto parola, perchè esse non ebbero sull'animo e sull'ingegno del Machiavelli un'azione visibile. In Roma egli non si fermò una sola volta a notare la grandezza dei monumenti antichi o contemporanei, che erano sotto i suoi occhi. Lo stesso silenzio serbò su quelli in mezzo ai quali visse in Firenze, dove non lo troviamo mai ricordato a proposito dei grandi avvenimenti artistici, che seguirono appunto nel primo decennio del secolo. Eppure essi erano dovuti in gran parte all'iniziativa del gonfaloniere Soderini, [4] ed il suo governo, di cui il Machiavelli fu di certo non ultima parte, dette un nuovo impulso alle arti, proteggendole con ardore, dopo che, sotto Piero de' Medici ed al tempo del Savonarola, erano state invece neglette. E non solamente alle nuove opere artistiche che si vanno ora compiendo a Firenze, in un modo o l'altro, pigliano parte, insieme col Gonfaloniere, tutto il governo, tutta la cittadinanza; ma queste opere ebbero un valore così grande ed universale nella cultura italiana, contribuirono tanto a formare il carattere intellettuale del secolo, esercitarono una così grande azione sulla letteratura italiana, che, indirettamente almeno, dovettero pure esercitarne una non piccola anche sulla mente del Machiavelli. Lo spirito che le animava era nell'aria stessa che si respirava. E se nelle belle arti tutto ciò piglia una forma più concreta e plastica, quindi più visibile e intelligibile, lo studio di esse appunto perciò ci apre la via a meglio comprendere e giudicare il valore e l'indole della letteratura del secolo XVI, nella quale il Machiavelli occupa un così gran posto. Per queste ragioni dobbiamo ora fermarci un momento a parlare delle arti belle.

Nel Medio Evo esse si trovarono come riunite in una sola arte. La pittura e la scultura infatti sembravano essere un complemento dell'architettura, di cui, perdendo la propria personalità, divenivano quasi un necessario complemento nelle grandi cattedrali. In esse tutti gli artisti, che lavoravano insieme a costruirle ed ornarle, sembravano voler nascondere il proprio nome e sparire agli occhi dei posteri. Con Nicola Pisano, Giotto e Arnolfo la loro individualità apparisce finalmente chiara e ben definita; e le arti, affermando la propria indipendenza, cominciano il nuovo e glorioso cammino al tempo stesso che la nuova letteratura apparisce già formata nella Divina Commedia: la figura colossale di Dante giganteggia su tutto. I mezzi principali con cui più tardi, nel secolo XV, [5] venne compiuta questa grande rivoluzione, furono lo studio del vero e dell'antichità, la quale rinacque allora fra noi potente così nelle arti come nelle lettere. Questa rivoluzione era stata già di lunga mano apparecchiata e resa inevitabile. Chi guarda infatti il duomo d'Arnolfo ed il campanile di Giotto, certo non ritrova ancora lo stile greco-romano del Rinascimento; ma non vede neppure quello stile gotico, che fiorì invece in Francia e sul Reno, ed apparisce fra di noi profondamente alterato. Si direbbe che in Italia si cercasse fin dal principio una più solida e simmetrica ossatura classica, la quale costringeva, trasformava sostanzialmente l'architettura medioevale. Infatti i molteplici ornati, rilievi e bassorilievi di scultura, che ne costituiscono uno dei caratteri fondamentali, si mutarono in quelle incrostazioni di marmo, che, secondo l'espressione d'un moderno,[2] sono il nemico capitale del gotico. La linea orizzontale predomina, le foreste di sottili colonne si riuniscono in fasci, le fantastiche curve si semplificano, lo slancio irresistibile che sembra spingere il tempio e l'animo dei credenti verso il cielo, si arresta: anche qui lo sguardo dell'uomo è ben presto richiamato dal cielo alla terra. Da questa fusione di forme classiche e gotiche, cui s'aggiungono ancora forme orientali, il tutto mirabilmente riunito in un solo stile, in un solo pensiero artistico, nasce un'arte affatto nuova, alla quale non si può dare che il nome d'italiana. In essa ancora non è visibile, ma già si trova in germe quello che sarà il carattere proprio del Rinascimento. Chi infatti, ponendosi a contemplare il duomo di Firenze, lo vede a un tratto incoronato dalla celebre [6] cupola del Brunelleschi, resta maravigliato, non tanto della grande diversità dei due stili, quanto del vedere come essi armonizzino mirabilmente fra di loro. Si direbbe che le forme pur tanto più romane e classiche della cupola, si svolgano naturalmente dal seno stesso del mirabile duomo medioevale, e che in esso si trovi sin dal principio nascosta un'altra arte, quella del Rinascimento, che prima o poi doveva di necessità venire alla luce.

È questa infatti che trionfa nel secolo XV, animata da uno spirito nuovo, che le dà una fisonomia, una forma che sembra contradire a quella delle precedenti scuole italiane; ma la contradizione è solo apparente. In realtà così nell'architettura come nella pittura e scultura un'arte si svolge, nasce dall'altra, seguendo sempre la stessa guida. Il principio che le costituisce ambedue è sempre lo studio del vero e dell'antico. È il fatto identico che notammo nella letteratura, quando anche nella Divina Commedia trovammo nascosto il primo germe della erudizione umanista. Ma in questa trasformazione le arti belle non ebbero, come la letteratura, un periodo di sosta, durante il quale il predominio eccessivo del latino parve che sospendesse lo svolgimento naturale dell'italiano. Esse mutarono indirizzo, seguendo sempre il loro cammino ascendente. La pittura specialmente, favorita più tardi anche dalla scoperta dei colori ad olio, venuti a noi dai Fiamminghi, acquistò ogni giorno forza, originalità, indipendenza sempre maggiori. Essa anzi prese fra le arti sorelle il primo posto, non solo per la moltiplicità e varietà infinita delle sue produzioni, non solo perchè il genio italiano riuscì in essa a manifestarsi più ampiamente e compiutamente; ma ancora perchè comunicò, quasi impose il suo proprio carattere alle altre arti, alla letteratura stessa.

L'architettura rinacque con le forme classiche, per opera del genio del Brunelleschi, che studiò a Roma i monumenti antichi, e per opera di Leon Battista Alberti, [7] che fu anche un erudito. Le chiese però ed i palazzi che questi innalzarono, come tutti gli edifizî del Rinascimento italiano, anche quando più s'avvicinavano all'antico, non ne furono mai una materiale riproduzione. Linee e forme, in apparenza identiche alle greche e romane, assumevano un'espressione ed un significato affatto diversi. L'ornato, con carattere sempre vario, nuovo, originale, prese un posto eminente, preponderante, perchè il carattere dell'arte doveva allora essere, sempre ed in tutto, il pittoresco. La scultura fiorentina con Donatello, coi della Robbia, col Ghiberti avanzò del pari, studiando l'antico, ritraendo il vero. Un'espressione di nuova giovinezza, un'insolita energia, una freschezza vergine di movimenti e di forme si moltiplicavano per tutto. Se il Brunelleschi sembra avere nei suoi ardimenti e nella severa semplicità delle linee, che sdegnano ogni gotico frastagliamento, un'anima di ferro, Donatello riesce a dare alle sue statue una forza, un'originalità e semplicità d'espressione tali, che i due artisti si possono dire fratelli in ispirito. E in Donatello si vede già quello che apparisce più chiaro ancora nella gentile vaghezza di Luca della Robbia, nei suoi varî e variopinti ornati, il predominio costante del pittoresco. I bassorilievi delle porte del Ghiberti paiono dei quadri dipinti a chiaroscuro, quelli di Donatello s'abbassano qualche volta fino ad aver tutta l'apparenza di lavori disegnati a contorno. Alcuni ritratti scolpiti da Mino da Fiesole si direbbero dipinti dai Fiamminghi, i quali ebbero pur la loro parte nello svolgimento dell'arte italiana, molte essendo allora le relazioni commerciali fra i due popoli. Non di rado è assai visibile l'azione esercitata sugli artisti fiorentini dalle opere immortali dei fratelli van Eyck. La mescolanza di tanti e così diversi elementi, sebbene in modo mirabile riuniti e fusi dal genio nazionale, che predomina sempre su tutto, toglie all'arte italiana quella severa unità organica, che troviamo [8] nella greca ed anche nella gotica; ma ne risulta invece una varietà infinita. E questo seguiva anche nelle lettere, e per le stesse ragioni, giacchè nel nostro spirito venivano come chiamati a raccolta tutti i più diversi sistemi di letteratura, di filosofia, di arte, di cultura, che in esso dovevano trovare unità nuova e più generale. Si direbbe che l'Italia avesse allora una forza assimilatrice, capace di armonizzare, sotto nuova forma, tutto ciò che l'Oriente e l'Occidente, il Paganesimo ed il Cristianesimo, erano stati capaci di produrre. Ma prima che, con così diversi elementi, si riuscisse a formare un vero organismo, animato da uno spirito nuovo, vi doveva essere, e vi fu, un periodo di preparazione, in cui essi rimanevano ancora assai visibili. A poco a poco s'avvicinarono, s'unirono, ed il primo legame che incominciò a fonderli insieme fu plastico, esteriore, essenzialmente artistico, descrittivo, pittorico. Sarà sempre un onore immortale per l'arte e la letteratura italiana in quel secolo, l'esser divenute l'espressione, la personificazione vivente e visibile d'un vero microcosmo intellettuale. L'armonia plastica, artistica era la manifestazione dell'armonia interiore già seguìta nello spirito, la quale, in mezzo a tante calamità, veniva ad illuminare il mondo di nuova luce, a confortare gli uomini, ad annunziare la fine ormai compiuta del Medio Evo, il principio di un'èra novella. Quest'arte tuttavia non potrà mai perdere del tutto la memoria della sua prima origine, dovrà anzi risentirne le inevitabili conseguenze. Infatti non appena la sua forza creatrice, col decadere della nazione, s'indebolisce, comincia subito a riapparire la diversità degli elementi che la costituiscono, ed il barocco, sempre più esagerato, è allora l'abisso in cui essa dovrà, prima o poi, inevitabilmente precipitare. Ad un tale destino sembrano sfuggire del pari l'arte greca e la gotica, le quali, più semplici, costituite da meno varî e molteplici elementi, morirono di morte naturale, per esaurimento [9] di forze, senza aver mai avuto un periodo di tumultuosa anarchia, come l'avemmo noi nel secolo del barocco.

L'arte fiorentina, specialmente la pittura del secolo XV, ci mostra chiaro l'unione, l'armonia dei diversi elementi, e la grande, ricca, infinita varietà che ne risulta. Dalla profonda espressione religiosa che ammiriamo nel Trecento, dalla classica bellezza greca, dallo studio accurato del vero, che s'incontrano e si mescolano, nasce una nuova eleganza di forme ideali, che si direbbero più che umane, se il loro fondamento, la loro visibile sorgente non fosse sempre la natura. Questo non mai più veduto tipo di bellezza è il vero fiore della nuova arte, è la prova maggiore della sua potenza creatrice. Il primo che si presenti a noi, fra gli artisti del nuovo stile, è Masaccio (1401-28), giovane le cui opere resero subito immortale, la cui vita ci rimane però quasi del tutto ignota. Egli scomparisce ben presto dal mondo, dopo avere aperto una via per la quale tutti debbono seguirlo. Accanto a teste che sembrano fotografie dal vero, troviamo figure maestose, nobilmente avvolte in abiti, le cui larghe pieghe ricordano la toga o la clamide delle antiche statue. Il paese, l'architettura, la natura intera entrano nel quadro, e vengono a coordinarsi fra di loro, a costituire finalmente la nuova arte. Ma per un gran pezzo ancora i pittori fiorentini si danno, ciascuno, ad una parte diversa dell'arte loro, quasi a risolvere speciali problemi. Chi è inteso alla prospettiva; chi alla notomia; chi ritrae il vero con fedeltà fotografica; altri studia l'antico o cerca nuovi tipi e nuove espressioni; altri pone tutta la sua cura nel comporre architetture o paesaggi, che debbono servire come fondo de' suoi quadri. Ma tutti hanno una finezza, una gentilezza, un'eleganza che dimostrano chiaro quale è il genio artistico della nazione. Fu una straordinaria fioritura di opere d'arte, che, incominciata da Firenze, s'allargò e diffuse rapidamente in tutta Italia, rianimando di novella [10] vita ogni cosa. E ben a ragione esclama il Gregorovius: se l'Italia del Rinascimento non avesse prodotto altro che la sua pittura, questa sola basterebbe a renderla immortale.[3]

L'ardore, l'energia con cui è condotto questo grande lavoro nazionale, appariscono di giorno in giorno più evidenti. Gli artisti vanno acquistando una libertà, una potenza sempre maggiore di tutto esprimere; le loro idee, le loro creazioni si sollevano e li sollevano sempre più in alto. L'ora solenne in cui deve nascere quella che sarà veramente la grande arte del Cinquecento è vicina, e, come segue sempre nei momenti decisivi della storia, sono già pronti e impazienti i Titani, che saranno gli autori dell'opera immortale, che l'Italia deve compiere. Tutto ora annunzia il loro rapido avvicinarsi nel mondo dell'arte, nel quale si direbbe che essi sono presenti già prima che arrivino. E, per citare qualche esempio, noi certo non possiam dire che fra Bartolommeo della Porta (1475-1517) sia un uomo di vero genio. Egli non ha la forza d'ingegno e di fantasia, nè l'originalità necessaria a ciò; ma la larghezza del suo dipingere, l'armonia grandiosa e multiforme delle sue composizioni, la dolcezza delle espressioni sono già tali, che chi guarda i suoi quadri, sente, come nel proprio spirito, l'arrivo inevitabile, fatale di Raffaello. E la grande energia con cui, nel duomo d'Orvieto, Luca Signorelli disegnò; l'audacia con cui aggruppò, librandole in aria, alcune delle sue figure, fanno presentire la cappella Sistina di Michelangelo. Par che l'arte incominci essa l'opera del genio, prima che questo sia ancora comparso sulla scena. V'è realmente nella storia un lavoro quasi inconsapevole di molti, che apparecchiano, spianano la via al grande uomo, il quale finalmente arriva [11] come un conquistatore, come un trionfatore, con tutta la piena consapevolezza della sua onnipotenza. Il tempio è finito, manca ancora il Dio che lo abiti e lo illumini; ma tutto ci dice che egli è vicino. Ben presto una luce improvvisa annunzierà la sua presenza.

Questa ultima, grande rivoluzione si compiè tra la fine del secolo XV ed il principio del XVI, per opera principalmente di tre sommi ingegni, che noi troviamo ora a Firenze, sotto il Gonfalonierato del Soderini, occupatissimi a trasformar l'arte di fiorentina in italiana. Fra poco, per opera dei Papi, il teatro delle loro maggiori imprese sarà Roma, che diverrà la capitale artistica dell'Italia. Il primo che si presenti come un vero genio, capace di dare unità organica, impronta propria ed originale al lavoro già apparecchiato dallo spirito nazionale, è Leonardo da Vinci (1452-1519). Il suo maestro, Andrea del Verrocchio, aveva una varietà maravigliosa di attitudini diverse: pittore, scultore, orefice valentissimo; amava la musica, i cavalli, la scienza, e fin dalla gioventù s'era occupato molto di geometria e di prospettiva. Nelle teste da lui dipinte s'ammira una grazia singolare ed uno studio d'espressione notevolissimo; ma appunto in ciò il suo discepolo, anche più di lui splendidamente dotato, lo lasciava subito di gran lunga indietro. È nota la storia dell'angelo che egli dipinse nel quadro del maestro, il quale ne restò scoraggiato. Leonardo, in vero, si presenta sin dal principio come uno di quegli uomini privilegiati dalla natura, che li manda nel mondo a compiere grandi cose. Le facoltà del suo spirito erano, come le membra del suo corpo, armonicamente, mirabilmente formate. Bello e forte della persona, vinceva tutti negli esercizi ginnastici, e la sua intelligenza universale riusciva con uguale eccellenza in ogni umana disciplina. Idraulico, naturalista, inventore di macchine, matematico, vero iniziatore del metodo sperimentale, osservatore e scopritore dei fenomeni della [12] natura,[4] scrittore di cose d'arte, artista valentissimo in tutto, ma nel dipingere sommo addirittura. La irrequietezza febbrile del suo genio gli faceva affrontar sempre nuovi e più difficili problemi d'arte o di scienza, dei quali proseguiva lo studio con ardore indefesso, finchè v'erano difficoltà da superare, per abbandonarli appena s'avvedeva di averle superate.[5] Così ci lasciò un gran numero di lavori incompiuti o anche appena cominciati; e spesso bisogna cercar le più belle idee, le maggiori scoperte di Leonardo ne' suoi numerosi taccuini d'appunti, parecchi dei quali pervennero fino a noi. Tuttavia i pochi quadri che condusse a termine, e i suoi molti disegni bastano non solo a rendere eterna la sua fama, ma anche ad accertare la grandissima azione che egli esercitò sui più celebrati artisti del suo secolo. Nello studio dell'anatomia cercò la sicura intelligenza di tutti i movimenti del corpo umano, come nel moto delle ali studiò il volo degli uccelli; lavorò con indicibile costanza a scoprire, ad immaginare, a ritrarre le più varie espressioni, comiche, tragiche, severe, serene, dell'umana fisonomia. Per opera sua il disegno divenne nella scuola fiorentina, meglio che in ogni altra, il mezzo potente e indipendente d'esprimere i più elevati pensieri, le più riposte passioni dell'animo. Ed in quella sua finezza del disegnare e dipingere, nella verità dei ritratti, nella vivezza e novità delle espressioni, arrivò a tale e tanta perizia, che il respiro sembra uscire dalla bocca de' suoi personaggi. La ricerca principale di tutta [13] la sua vita artistica fu quella d'un tipo ideale di bellezza sovrumana, la manifestazione d'un divino sorriso, che apparisce assai spesso nelle teste da lui dipinte, e si ammirava specialmente nella Gioconda, la moglie di Francesco del Giocondo.[6] Pretendono che nel ritrarla facesse sonare allegra musica,[7] per meglio promuovere in lei quel sentimento d'ideale felicità che egli andava ricercando. Nel guardarla, noi non sapevamo persuaderci che i suoi occhi non si movevano, che le sue labbra non cominciavano a parlare, tanta era la verità e la vita che l'artista era riuscito ad infonderle.

Chi esamina i taccuini di Leonardo, vi legge la storia della sua mente singolarissima. Accanto a teste ideali, che sorridono il loro ingenuo sorriso, che pur non è mai privo d'una certa ironica accortezza, si trovano le teste più comiche, più tragiche o più mostruose. Ma anche in questi fantastici e bizzarri capricci, le leggi della natura sono sempre rigorosamente rispettate. Dato il pensiero, data l'intenzione della prima linea, il resto segue come per logica conseguenza; il tipo più ideale o il più grottesco han sempre una mirabile unità e verità artistica. Ed accanto a siffatti lavori d'arte troviamo ora il disegno d'una macchina idraulica, ora le formole d'un problema matematico, ora uno studio anatomico, e massime filosofiche, spesso copiate dagli antichi, e nuove indagini sulle fortificazioni o sulle irrigazioni, e mirabili esperienze sulla caduta dei gravi, che fanno del grande artista il precursore di Galileo. Questo spirito di universale ricerca era in lui tale, che lo spingeva a concepire le più ardite, audaci imprese, come quella di sollevare, a forza di macchine [14] il battistero di San Giovanni in Firenze, e l'altra di deviare il corso dell'Arno. Spesso finiva col non vedere più confini alla potenza dell'umana ragione e della scienza, di che è prova singolare la ben nota lettera a Lodovico il Moro. La sua irrequietezza gli fece ricercare anche nuove composizioni di colori, i quali egli, come gli antichi usavano sempre, apparecchiava colle proprie mani. La chimica però essendo allora nella sua infanzia, più d'una volta Leonardo fallì lo scopo, e i suoi quadri ne restarono col tempo annebbiati, anneriti, come si vede nella Cena, che ora pur troppo è sciupata addirittura. Essa conserva ancora, sebbene assai poco visibili, alcune tracce della sua inarrivabile bellezza; ma solo coll'aiuto delle stampe si può capire anche oggi, che è un'opera la quale basta alla gloria d'un uomo, ed incomincia un'epoca nuova nell'arte. L'effetto prodotto dalle parole di Cristo, — Uno di voi mi tradirà, — è tale nella espressione diversa di tutti i dodici Apostoli, che forma per sè solo un vero poema psicologico. La composizione, divisa in gruppi, due da ciascun lato del Cristo, che siede in mezzo, con una calma inalterabile, ha, è ben vero, qualche cosa di troppo ordinato, quasi di uniforme, che ricorda ancora i Quattrocentisti. Ma, come giustamente osserva un moderno, il divino di quest'opera sta appunto in ciò, che tutto quello che è studiato e calcolato, apparisce come spontaneo, necessario, inevitabile. Un genio potente rivela in essa i suoi inesauribili tesori; armonizza fra loro i contrasti d'espressione che ha creati, riuscendo a dare varietà anche all'apparente monotonia delle linee. E così un soggetto, che per sì lungo tempo era divenuto quasi convenzionale, riuscì a un tratto originale per lo spirito potente che lo animava. La nuova pittura è ormai con questo capolavoro iniziata; essa non ha bisogno d'altro che di qualche maggiore libertà e varietà nel movimento delle figure, nell'aggruppamento della composizione. A ciò Leonardo stesso si provò felicemente [15] nell'Adorazione dei Magi, che trovasi a Firenze, e che egli lasciò incompiuta, forse quando s'avvide d'essere già riuscito a superare le difficoltà che s'era proposte.

Le medesime difficoltà affrontava, come fra poco vedremo, in un'altra sua celebre opera, che andò quasi affatto perduta, e che fu da lui intrapresa quando da Milano tornò a Firenze. Qui pareva allora che tutto fosse pronto per uno dei più grandi trionfi dell'arte. Raffaello d'Urbino era partito dal suo paese, per venire là dove Michelangelo Buonarroti (1475-1564) aveva già compiuto qualcuna delle sue opere più belle, le quali davano anch'esse all'arte nuova la sua vera e propria fisonomia. Dopo avere studiato pittura col Ghirlandaio, e scultura nel giardino dei Medici, presso San Marco, Michelangelo in età di 23 anni appena, rivelava tutta la forza del suo genio nel gruppo della Pietà, che si ammira in San Pietro a Roma. Compiuto negli anni stessi in cui Leonardo dipingeva la Cena, anch'esso ha qualche cosa che ricorda il Quattrocento, e rende visibile la parentela della nuova scuola con quella dei della Robbia, Donatello e Verrocchio, dalla quale infatti deriva. Nè ciò fu senza qualche vantaggio. L'unità della composizione, l'originalità del concetto, l'abbandono del Cristo morto, risplendono insieme colla nobile pietà della Madre, la cui espressione ha, nella sua severa mestizia, una delicatezza e gentilezza di forme, che Michelangelo non ritrovò mai più nelle sue opere posteriori, come non ritrovò la stessa finitezza e castigatezza di disegno. Quest'opera lo mise d'un tratto fra i primi artisti del secolo. La lettura di Dante, le prediche del Savonarola, lo studio dell'antico, l'incremento naturale dell'arte, la fantasia irrefrenabile, potente lo spinsero sempre più nella nuova via, nella quale col suo David, che i Fiorentini chiamarono il Gigante, egli decisamente entrava.

Tornato da Roma, dove aveva studiato assai l'arte antica, fu nel 1501 interrogato dagli Operai del duomo, [16] se gli bastasse l'animo di cavare una statua da certo grosso blocco di marmo, che essi possedevano, e col quale parecchi altri artisti s'erano più volte provati, senza riuscire ad altro che a correre il rischio di sciuparlo sempre più. Lungo nove braccia, e molto stretto in proporzione della lunghezza, era come un pilastro, dentro cui non pareva che fosse possibile dar naturale movimento alla figura che se ne voleva cavare. Michelangelo, senza esitare, assunse volenteroso l'ardita impresa, che gli venne affidata dalla Repubblica nell'agosto di quell'anno, e nel gennaio del 1504 la statua, già compiuta, aveva bisogno solamente d'essere alquanto ritoccata sul posto in cui doveva andare. Dopo lungo disputare fra i primi artisti di Firenze, che erano allora i primi del secolo, intorno al luogo dove metterla, fu accettata l'idea dell'artista, che il David cioè dovesse star dinanzi al Palazzo della Signoria, là dove trovavasi allora il gruppo della Giuditta che ammazza Oloferne, opera di Donatello. I Fiorentini nel 1495, cacciati i Medici, l'avevano portata fuori della Corte del Palazzo, ponendola sulla ringhiera, con la iscrizione: Exemplum sal. pub. cives posuere MCCCCXCV, a simboleggiare la libertà che ammazza la tirannide.[8] Nel 1504 la trasferirono sotto la Loggia dei Lanzi, dove si trova anch'oggi, e nel suo posto venne messo il David colla fionda, quasi a difesa del Palazzo e della Repubblica. Giuliano e Antonio da San Gallo trovarono un modo singolarmente ingegnoso per portarvelo. Infatti, anche ai nostri giorni, quando per riparare la statua dalle ingiurie crescenti del tempo, bisognò metterla altrove al coperto, le molte commissioni di scienziati e di artisti, che più e più volte si radunarono, dovettero finalmente decidersi, non ostante i nuovi trovati della meccanica, [17] a ricercare e seguire il vecchio metodo dei San Gallo, che ricomparve quasi come una singolare e felice scoperta, a cui nessuno dei moderni aveva saputo pensare.[9] Tenuto sospeso, in bilico, dentro un castello di legno, in modo da poter facilmente, nel muoverlo, ceder sempre, ondeggiando, alle scosse, il Gigante venne tirato sulle ruote, e senza difficoltà collocato sano e salvo al suo posto. Colà Michelangelo vi dette l'ultima mano, sotto gli occhi del Soderini, che spesso veniva ad ammirarlo, non senza presumere di dar consigli, che mettevano qualche volta a dura prova la pazienza dello scultore.

Il David posa fieramente in piedi, collo sguardo fisso al nemico che ha già colpito. È immobile ed in apparenza tranquillo; ma il respiro affannoso, ed il movimento convulso delle narici manifestano l'interna agitazione. La destra, che discende lungo il fianco, tiene ancora una pietra; la sinistra, col braccio piegato, s'innalza sulla spalla, stringendo la fionda, ed è pronta ad un secondo colpo, quando il primo non abbia raggiunto lo scopo. Così tutta la figura potè facilmente esser cavata dal lungo ed informe blocco. Affatto nudo sta dinanzi al nostro sguardo questo colossale giovanetto, che nella sua energica semplicità dà prova d'una potenza sino allora ignota nell'arte. Anche il San Giorgio di Donatello, chiuso nella sua armatura, guarda con una semplice fierezza, che fa paura. Ma esso riesce meschino accanto al Gigante, che bisogna contemplar lungamente prima che nelle sue forme grandiose, nel disegno già un po' troppo risentito, nella calma severa e maestosa, si riveli a noi tutta quanta la potenza del genio che lo ha creato. Con questa statua ogni tradizione medioevale è spezzata, ogni forma propria del Quattrocento è sorpassata. [18] L'antichità rinasce trasformata sostanzialmente nella nuova e spontanea creazione dell'artista moderno. Il dì 8 settembre 1504 il David era esposto al pubblico, che l'acclamava più che non fece mai per alcun'altra opera d'arte. Tutto cooperava a dargli favore agli occhi del popolo: le proporzioni colossali, la nuova via che essa apriva nella scultura, e l'esser come posta a guardia del Palazzo, a difesa della libertà.

Guardando le opere posteriori di Michelangelo, si direbbe che da questo momento la figura colossale del David si ponga in moto. In esse egli studiò le nuove attitudini, i movimenti artistici di quel popolo di Titani, che, sotto mille forme diverse, sembrava volesse uscire impetuoso dalla sua agitata fantasia. Michelangelo cercò assai spesso il soprannaturale, ma non più nella sola espressione del volto, principalmente anzi nella sovrabbondanza della vita, della forza, dell'azione di tutte le membra. Fece per tutto ciò un lungo, continuo, paziente studio dell'anatomia. E trascurando ora le altre commissioni, pose mano ad un'opera, che doveva essere un secondo avvenimento nella sua vita e nella storia dell'arte. Il Soderini aveva dato a lui ed a Leonardo incarico di dipingere sulle due opposte pareti principali della sala del Consiglio Grande, due affreschi. Leonardo aveva già messo mano al suo cartone, su cui disegnò la battaglia d'Anghiari, seguita il 29 giugno 1440, nella quale i Fiorentini ruppero l'esercito del duca di Milano, comandato da Niccolò Piccinini, e la celebrarono poi ogni anno colle corse dei barberi. Michelangelo scelse invece un episodio della lunga guerra di Pisa. Di questi due lavori che, condotti a gara dai due grandi artisti, riuscirono di somma eccellenza, poco o nulla c'è rimasto. Di quello di Leonardo, forse anzi d'una parte sola di esso[10], abbiamo una copia poco fedele, fatta dal Rubens. [19] Il cartone di Michelangelo, durante la rivoluzione dal 1512, fu messo in brani, che andarono anch'essi perduti; ci rimangono però antiche incisioni, abbastanza fedeli, della parte principale dell'opera grandiosa.[11] In ogni modo, a giudicare così l'uno come l'altro lavoro, bisogna aiutarsi con le descrizioni e le opinioni tramandateci dai contemporanei.

Il Buonarroti immaginò l'allarme della battaglia, dato quando i Fiorentini si bagnano nel fiume Arno. Sono veramente maravigliose di movimento e bellezza le attitudini diverse con cui tutti escono in fretta, per vestirsi, mettersi l'elmo e la corazza, correre in aiuto dei compagni, che si vedono in lontananza avere già cominciato a combattere. Il Vasari dice, che gli artisti, ammirando quest'opera condotta dalle divine mani di Michelangelo, giudicarono «non essersi mai più veduto cosa che della divinità dell'arte, nessun altro ingegno possa arrivarla mai.» E bisogna crederlo, egli prosegue, perchè «tutti coloro che su quel cartone studiarono, e tal cosa disegnarono..., diventarono persone in tale arte eccellenti.»[12] Il Cellini dice che questa fu la prima bella opera, in cui Michelangelo dimostrò tutte le maravigliose sue virtù, «con tanti bei gesti, che mai nè degli antichi nè d'altri moderni si vidde opera che arrivassi a così alto segno.» E la giudicava superiore perfino alla volta della cappella Sistina. Dell'altro cartone poi egli dice, che in esso «il mirabil Lionardo da Vinci aveva preso per elezione di mostrare una battaglia di cavalli, con certa presura di bandiere, tanto divinamente [20] fatti, quanto dir si possa.»[13] Anch'egli conclude che questi cartoni furono la scuola del mondo; e la tradizione conferma che su di essi studiarono moltissimi, fra cui Rodolfo Ghirlandaio, Andrea del Sarto, Francesco Granacci, Raffaello d'Urbino.[14] In essi noi non vediamo più la calma solenne ammirata nella Pietà, nel David e nella Cena; si manifestano, invece, in tutta la loro tumultuosa energia, l'azione, il movimento e la vita. Nel cartone di Leonardo era tale il furor della mischia, che non solo i cavalieri, ma i cavalli stessi combattevano, mordendosi fra di loro. In quello di Michelangelo non v'era, come si può anche dalle incisioni vedere, una figura che non fosse un capolavoro di unità e d'azione. Il disegno era finalmente riuscito a ritrarre non solo la forma e l'espressione umana; ma il tumulto delle passioni e della vita, nella loro infinita varietà. Le figure per sì lungo tempo, da tante generazioni d'artisti, così faticosamente studiate, sembrano staccarsi dalla tela per muoversi liberamente nello spazio. L'arte e l'artista hanno ritrovato tutta la loro indipendenza; Prometeo ha rapito la scintilla al sole, ed ha animato la sua statua.

Superate che ebbe le maggiori difficoltà, Leonardo abbandonò il suo lavoro, e si dette, secondo il solito, alla soluzione di nuovi problemi artistici. Michelangelo, invece, che pure risentì l'azione del genio di lui, ed in alcuni de' proprî disegni fece studio diligente d'espressioni leonardesche,[15] non ne imitava la irrequieta mutabilità. [21] Per tutta la vita continuò, invece, nella strada iniziata col cartone, nel quale aveva trovato finalmente la sua piena libertà artistica, non temendo d'incontrare più ostacoli nella forma di cui era divenuto padrone, nella materia che dominava, o nei sempre più difficili soggetti che imprendeva a trattare. Tutto sembrava uscire adesso spontaneamente dalla sua immaginazione, che obbediva solo alle leggi dell'arte, unica dominatrice del suo pensiero. Non mancavano certo anche a lui ogni giorno difficoltà nuove; ma egli era costantemente pronto a muovere assalto vittorioso contro di esse, e nella lotta trovava concepimenti e creazioni sempre più originali. Questa tumultuosa esuberanza di vita non gli fece mai raggiungere la calma olimpica della pittura di Leonardo, nè gli permise d'arrivar mai alla serena armonia della scultura greca. Anzi il germe della futura corruzione e decadenza dell'arte italiana trovasi già nelle sue opere più audaci, e divenne visibile negl'inesperti suoi imitatori.

Intanto era assai progredita l'educazione di Raffaello Sanzio d'Urbino (1483-1520), discepolo del Perugino, il principale rappresentante della scuola umbra. Promossa dai lavori di Giotto e de' suoi seguaci nel santuario di Assisi, non ostante le eminenti qualità proprie, essa è una derivazione dalla fiorentina, da cui ricevè continuo alimento. Ed anche Raffaello, sebbene restasse sino al finire del secolo XV in Perugia, venne subito in qualche comunicazione indiretta col mondo artistico di Firenze, in conseguenza delle gite e della dimora che vi fece più volte il suo maestro. Fin dai primi suoi lavori, Raffaello apparve poco disposto ai vincoli convenzionali del maestro, e con una delicatezza, una originalità sua propria, dimostrò di saper condurre la pittura a nuovi e non sperati destini. Quando venne a Firenze (1504-6), e vide che gran cammino l'arte aveva già fatto, sentì subito direttamente gli effetti del nuovo ambiente. Lo studio che allora intraprese di Masaccio, lo avvicinò al fare di Fra Bartolommeo della Porta [22] che lo spinse d'un tratto fuori del Quattrocento. Questi, che fu il primo a comunicargli alcuni pregi della maniera di Leonardo, sapeva armonizzare maestrevolmente larghe masse d'ombra e di luce; superava già tutti, come più sopra osservammo, nell'architettonico aggruppamento delle figure, e nell'unità della composizione; aveva una grande larghezza di dipingere, specie nelle pieghe; una singolare dolcezza d'espressione, che l'esempio di Leonardo aveva resa anco più soave. Migliorò più tardi il suo colorito, in conseguenza d'una gita che fece a Venezia, verso il 1508.

Gli effetti della dimora di Raffaello in Firenze si videro subito nelle sue Madonne, di cui dipinse allora un grandissimo numero, cercando in esse quell'espressione divina ed umana ad un tempo, che è uno dei pregi più belli, e dei caratteri più proprî della sua pittura. Chi lo guarda non solo nei dipinti, ma anche nei disegni, che sono più numerosi e spesso non meno belli, nè meno originali, vede come a poco a poco la Madonna del Quattrocento, che adora il divino bambino, si umanizzi e trasformi nella madre beata di contemplare il proprio figlio: esse costituiscono un vero ciclo dell'amore materno.[16] Guardandole si vede, si sente la vicinanza di fra Bartolommeo e di Leonardo, la cui maniera apparisce anche più chiara in alcuni ritratti, che furono con le Madonne la principale occupazione di Raffaello a Firenze: la sua Maddalena Doni ricorda la Gioconda. Quando manca davvero ogni reminiscenza di Leonardo, i ritratti che Raffaello dipinse in questo primo periodo, riescono più deboli ed incerti. Se Michelangelo s'apparecchiò alle sue grandi opere romane collo studio dell'anatomia, dell'azione e dei movimenti più arditi, Raffaello cominciò invece con quello dell'espressione e della [23] grazia, e continuando poi collo studio dei due celebri cartoni, dei dipinti di fra Bartolommeo, spinto sopra tutto dal proprio genio, si diè finalmente in Roma anch'egli alle grandi composizioni.

Certo è però che Leonardo, seguìto poi subito da fra Bartolommeo, era stato il primo ad aprire la nuova via, nella quale gli altri due grandi genî rivali entrarono, percorrendola in trionfo. Egli riprendeva adesso la via dell'alta Italia; Raffaello e Michelangelo venivano invece chiamati da Giulio II a Roma. Qui s'incontrano ora e si fondono insieme la cultura antica e la nuova, il Cristianesimo ed il Paganesimo, tutte le forme diverse delle arti belle e delle lettere. Fu un momento solenne, in cui lo spirito dell'uomo sentì la piena coscienza di sè stesso nella varietà infinita della vita intellettuale, nella derivazione del presente dal passato, nell'armonia del mondo antico e moderno. Nell'arte soprattutto si manifestò un'esuberanza crescente di grandiose creazioni, quali il mondo non aveva mai viste. Apparivano di continuo nuove forme, nuove immagini, nuovi caratteri, nei quali la mitologia greca ed il sentimento cristiano, l'erudizione e l'ispirazione, il reale e l'ideale si univano a formare quelle opere immortali, nelle quali si rivelava tutta l'anima di un popolo. L'Italia diveniva come il microcosmo della civiltà umana, il foco donde s'irradiava una luce che illuminava il mondo, illuminava l'avvenire. Nè è da maravigliarsi se in mezzo ai grandi, solenni monumenti di Roma, dinanzi alla sua Campagna, maestosa e misteriosa come il mare, che rendono meschina e intollerabile ogni cosa la quale non abbia vera grandezza, gli artisti venuti da Firenze divennero superiori a loro stessi, e manifestarono finalmente tutta quanta la loro potenza.

Raffaello era in Roma nel settembre del 1508. Egli aveva fatto le prime sue armi in alcune grandi composizioni; ma qui la fiamma già accesa del proprio genio, mandò [24] a un tratto tutto il più vivo splendore. Il suo fu uno spirito felice e quasi inconsapevole di sè, pieno d'una spontanea armonia, che si esplicò senza lotte, senza dolori, senza incertezze o ostacoli di sorta. Tutti lo amavano, tutti obbedivano al fascino della sua indole gentile. Prodigiosa era in lui la forza creatrice, ma non minore quella assimilatrice: tutto ciò che la pittura italiana aveva nelle sue varie scuole fino allora prodotto, si riuniva in lui formando un'arte che egli rivestiva d'una grazia e delicatezza inarrivabili. La sua vita non fu mai una battaglia, ma una continua e tranquilla evoluzione intellettuale. La sua pittura non apparisce mai come il prodotto di uno sforzo; sembra invece emanare da un'armonia interiore, che leva in alto lo spirito dell'artista e di chi lo ammira. Noi non possiamo qui fermarci a parlar lungamente dei più celebri dipinti di Raffaello; ma le migliori opere che da lui furono in questo decennio compiute, sono assai note, nè la sua pittura ha bisogno di commenti: basta contemplarla per comprenderla. Dal 1508 al 1511 venne condotta a termine la prima delle Stanze vaticane, quella che fu detta della Segnatura. Ivi è su tutte le mura dipinto un grandioso poema: la Scuola d'Atene, la Disputa del Sacramento, il Parnaso, la rappresentazione del Diritto canonico e civile. E gli accessori, in ogni parte della Stanza, rispondono al grandioso e sintetico concetto: la Teologia, la Filosofia, la Poesia e la Giurisprudenza sono dipinte sulla volta. Riesce difficile supporre che il pensiero filosofico d'una sì grande opera sia stato trovato, meditato solo da Raffaello, che allora sempre giovanissimo e tutto dato all'arte, non aveva potuto acquistar le cognizioni necessarie a determinarlo e svolgerlo così mirabilmente. Forse vi contribuì lo stesso Giulio II, che dette la commissione, ed è ritratto in uno degli affreschi; certo anche eruditi del tempo vi presero parte; ma un vero inventore non è facile trovarlo, perchè in sostanza era il pensiero del secolo, divenuto creazione [25] pittorica nella mente dell'artista. In ciò sta anzi la vera originalità e individualità dell'opera, della quale nessun altro sarebbe stato capace. I sostenitori della fede che disputano intorno al Sacramento sulla presenza reale di Dio; i filosofi della Grecia che disputano sui sommi veri della scienza; Apollo e le Muse; Giustiniano, Triboniano e papa Gregorio IX si trovano riuniti in quella Stanza da un solo concetto dominatore. Essi non si presentano a noi come personalità storiche o poetiche del passato, fedelmente riprodotte; risorgono, invece, rinascono come esseri viventi e reali, al pari degli uomini in mezzo a cui ritornano. Possiam dire veramente che tutto ciò che della Grecia vive e vivrà nel mondo, dopo essere stato nascosto e dimenticato fra gli oscuri sofismi della scolastica, ricomparisce nella sua immortale giovinezza, illuminato dai raggi del sole italiano, il quale, spazzando le nebbie medioevali, scopre di nuovo agli occhi dei mortali le cime dell'Olimpo, che risplendono nell'azzurro del nostro cielo. E se la potenza creatrice del genio di Raffaello dà a questo mondo, che egli evoca dai secoli trascorsi, e alle Divinità che richiama sulla terra, un colore proprio del suo tempo, quasi una nazionalità nuova, ciò li avvicina sempre più a noi. Così l'arte italiana, riunendo, meglio ancora che non seppe fare la letteratura, il passato al presente, e rendendone visibile l'armonia, ci scopre negli eroi e negli Dei dell'antichità ciò che essi hanno di veramente umano, e ci fa in essi trovare una parte di noi medesimi. In ciò sta appunto l'indole propria di quest'arte, ciò che ne determina la fisonomia ed il valore artistico.

Impossibile sarebbe descrivere colla penna tutte le opere di Raffaello, che specialmente ora si seguono con una rapidità vertiginosa. Egli è al culmine della sua altezza; si trova nel massimo vigore delle sue forze. La grandiosità delle composizioni, la nobiltà dei concetti, la naturale e facile larghezza del dipingere, la varietà dei [26] tipi, la perizia nel disegno, la grazia, l'armonia dei colori gareggiano fra loro con una rapidità, cui a fatica tien dietro l'immaginazione.

Alla Stanza della Segnatura seguirono quelle di Eliodoro, dell'Incendio di Borgo, di Costantino. E intanto nelle Logge annesse nuove composizioni, rapidamente disegnate dal maestro, furono dipinte sulle võlte dagli scolari; e sulle mura rabeschi fantastici, ispirati dagli antichi, vennero da essi riprodotti sotto forme sempre varie, nelle quali lo spirito del Rinascimento manifestava un altro de' suoi mille aspetti. E quando l'artista riposava dal faticoso lavorare a fresco, era solo per dipingere ad olio sulla tavola o sulla tela altri gioielli insuperabili. Chi può dire qual sorgente feconda d'ideale felicità sono state e saranno in eterno la Madonna della Seggiola e quella di San Sisto? In esse il tipo primitivo con tanta cura studiato, ingentilito da Raffaello a Firenze, senza nulla perdere della sua inenarrabile grazia, è divenuto più grandioso nella composizione, più largo nell'esecuzione.

Nel 1509 il banchiere Chigi, consigliere per le finanze di Giulio II, faceva da Baldassarre Peruzzi costruire la sua villa in Roma, e poco di poi (1514) venne Raffaello a dipingervi la Galatea, a disegnarvi la storia della Psiche, che i suoi discepoli colorirono. E la piccola villa, che oggi porta il nome di Farnesina, divenne un nuovo tempio dell'arte. Chi potè una volta rimanere lunghe ore estatico in presenza di quelle pitture, se ne allontana con un desiderio inestinguibile di rivederle, ed il solo rievocarle nella memoria sembra aver la misteriosa potenza di ristabilire in noi la turbata armonia dello spirito.

Raffaello non riposò mai finchè visse; il suo genio sembrava trovar nell'indefesso lavoro energia sempre maggiore. Ma ben si esaurirono le forze del corpo, ed a trentasette anni egli moriva lavorando alla Trasfigurazione, [27] la quale, sebbene poi condotta a termine da Giulio Romano, è pur sempre giudicata la sua opera maggiore, per la forza del disegno, l'ardire michelangiolesco delle figure, il loro vario e mirabile aggruppamento. A lungo andare egli subì l'azione prepotente del genio rivale, che spingeva l'arte ad imprese sempre più audaci, a più pericolose altezze, dalle quali essa doveva ben presto precipitare, quando mancò la forza di coloro che avevano saputo contenerla nei suoi necessarî confini.

A formarsi una giusta idea della inesauribile produttività artistica del genio italiano nei primi decenni del secolo XVI, basta ricordarsi che nel tempo stesso in cui Raffaello dipingeva le Stanze e le Logge vaticane, Michelangelo lavorava alla vôlta della Cappella Sistina. Questi aveva già prima avuto da Giulio II la commissione di fargli un monumento sepolcrale di gigantesche proporzioni, e concepì uno dei più colossali disegni che siano mai venuti nella mente umana. Doveva essere un'epopea scolpita; rappresentare lo spirito, la potenza del Papa, in tali proporzioni da oltrepassare i limiti di ogni cosa mortale. Circa quaranta statue in marmo o in bronzo sarebbero sorte sugli scalini dell'immensa mole, in cima della quale le statue del cielo e della terra avrebbero sostenuto il sarcofago, dentro cui doveva esser posta a giacer l'immagine scolpita del Papa addormentato. E tanto l'animo di Giulio II era invasato da questa grandiosa idea, che per avere un tempio adatto a contenere il monumento, egli deliberò di ricostruir dalle fondamenta San Pietro, in modo da farne la chiesa più vasta di tutta la Cristianità. Il 18 aprile 1506, vecchio com'era, discese, non senza pericolo, per una scala a pioli, ad una grande profondità, e pose la pietra fondamentale dell'immenso edifizio, pochi avendo osato accompagnarlo. L'invidia degli emuli, la stranezza e la impazienza del Papa, che gli commetteva sempre altri lavori, costrinsero il povero Michelangelo ad interrompere di continuo la grande [28] opera, e lo tormentarono per modo, che nelle sue lettere egli esclamava: «Sarebbe stato meglio che mi fossi messo a fare zolfanelli...; sono ogni dì lapidato come se avessi crocifisso Cristo...; mi truovo avere perduta tutta la mia gioventù legato a questa sepoltura.» Ma il peggio di tutto fu, che la grande opera non venne mai condotta a compimento, e non ce ne restano che le statue di due prigionieri legati ed il Mosè, nel quale però vive in eterno tutta l'anima dell'artista. Seduto, con una mano poggiata sulle tavole della legge, e l'altra fra la barba, che discende lunghissima, in larghi avvolgimenti, questo terribile domatore di popoli sembra guardare sdegnoso gli adoratori del vitello d'oro. La fronte bassa colle due corna simboliche, lo sguardo minaccioso, le forme colossali, tutta la figura son tali da persuadere, che se egli si leva solamente in piedi, la moltitudine spaventata si darà a fuga precipitosa: nessuno potrà resistere al suo irrefrenabile sdegno.

Invece di poter condurre a termine questo monumento, Michelangelo fu costretto dal Papa a dipingere la volta della cappella Sistina, e la stessa statua del Mosè solo più tardi fu finita. Egli pose mano alla volta nel 1508, e stimolato ogni giorno dalla impazienza di Giulio II, che minacciava perfino di gettarlo giù dal palco, se non s'affrettava, verso la fine del 1509 ne scopriva una parte non piccola, e nel 1512 tutto era finito. Nulla di simile s'era mai visto al mondo: nei movimenti, nelle forme grandiose e più che umane, nel motivo artistico di ciascuna figura v'è un tale rilievo, una tale energia, che la võlta sembra sfondarsi per dar modo ai personaggi di muoversi liberamente. Alcuni s'avanzano, avvicinandosi a noi, altri invece si levano ancora più in alto. La cappella sembra a poco a poco ingrandirsi, trasformarsi nello spazio infinito: noi non siamo più in presenza d'un dipinto; Michelangelo ha qui evocato un popolo di giganti, vivo e vero dinanzi ai nostri occhi. I personaggi [29] della Bibbia e della storia, dell'allegorìa e della tradizione sacra e pagana, rinacquero nella sua fantasia, formando quasi una nuova mitologia, un nuovo Olimpo, che, creato da un uomo, par creato da un popolo, e resta perciò immortale nel regno dell'arte.

Chi getta uno sguardo a tutto l'insieme delle varie scuole, cui abbiamo rapidamente accennato, s'accorge che, mentre esse sembrano obbedir solo alla libera e quasi capricciosa ispirazione degli artisti, si succedono invece con una logica e fatale relazione fra di loro. Tutte le forme che ciascuna di esse produsse, tutto quello a cui ciascuna aspirava, si riunì finalmente e si coordinò nella mente dei tre grandi, di cui abbiamo parlato; penetrò anche nello spirito di tutto il popolo italiano e del Papa stesso, il quale dava le grandi commissioni, animato dal comune pensiero, pigliando in quelle opere una parte vivissima, promovendole con ardore febbrile, con animo pieno di vera grandezza romana. Egli era sempre sul palco della Sistina, ed aveva fatto costruire un passaggio, che lo conduceva dal Vaticano allo studio di Michelangelo, dove si recava di continuo: pareva che fosse sua la grande responsabilità di condurre l'arte italiana a toccare la mèta altissima. Ed in verità gli uomini ed i mezzi opportuni al grande scopo sembravano sorgere allora spontanei da ogni parte. A Raffaello e Michelangelo s'aggiungeva in Roma Bramante, che, sebbene non si fosse in architettura allontanato ancora dalla scuola del Quattrocento, pur la portò alla sua maggiore perfezione. A lui fu da Giulio II affidata la costruzione delle Logge vaticane e del Museo, nel quale questi mandò dal proprio palazzo, presso la chiesa dei SS. Apostoli, prima l'Apollo di Belvedere e poi il Laocoonte, trovato l'anno 1506 in una vigna, fra le rovine delle Terme di Tito. Più tardi ancora si scoprirono il torso di Belvedere e l'Arianna dormente. Pareva che la terra stessa s'aprisse per far rinascere l'antichità. Al Sansovino Giulio II ordinò in [30] S. Maria del Popolo quelli che riuscirono i due più celebri monumenti sepolcrali di Roma, l'uno pel cardinal Girolamo Basso, l'altro pel cardinal Ascanio Sforza. Qual mecenate riuscì mai a fare altrettanto per l'arte, o può anche da lontano paragonarsi a lui?

Ammirando la maravigliosa bellezza che risplende nelle opere di tanti e così grandi artisti, si presenta continua, insistente la domanda: come mai questa potenza di elevare e purificare lo spirito umano, fu concessa ad uomini nati, educati in mezzo a tanta decadenza e corruzione morale? Noi potremmo innanzi tutto osservare come le relazioni che passano tra lo svolgimento intellettuale e morale dei popoli siano ancora troppo poco conosciute perchè riesca possibile dare una risposta soddisfacente. Ricorderemo in ogni modo d'avere già notato, che la corruzione, molto esagerata, ma pur grande ed innegabile, del Rinascimento italiano, s'era diffusa principalmente negli ordini superiori e più culti della società, massime negli uomini politici, ed anche in quelli di lettere; ma era penetrata assai meno che non credono gli scrittori moderni, negli ordini inferiori.[17] E ciò spiega perchè la storia, così prodiga narratrice delle colpe di quel secolo, [31] assai di rado possa ricordare fatti ingiuriosi davvero al carattere morale di coloro che arrivarono ad esser sommi nell'arte, i quali furon quasi tutti d'origine più o meno popolare. Michelangelo, che pur discendeva da antica famiglia, nacque assai povero. Come figlio, come fratello, come cittadino, ebbe molte rare e nobili qualità, di cui fan fede le sue lettere, i suoi versi, la vita intera. Le sue amicizie sono così fervide, che paiono innamoramenti. E chi può non ammirarlo quando lo vede abbandonar lo scalpello, per assistere il suo servo moribondo, che egli pianse poi amaramente, consigliandone, consultandone i parenti, che lo chiamarono secondo loro padre? Fra Bartolommeo figlio d'un mulattiere, ebbe un carattere pieno di dolcezza e di benevolenza, fido e devoto ammiratore del Savonarola, animato da sincero zelo religioso. Di Leonardo, che fu figlio naturale d'un notaio; di Raffaello, che fu figlio di un pittore non molto noto, la storia, salvo, in quest'ultimo, qualche amore troppo libero e non troppo ben conosciuto, può dir solo che li trova occupati sempre nella ricerca del bello e del vero, nella contemplazione dei più nobili ed elevati pensieri, il che certo non poteva recar danno al loro carattere morale, che ci apparisce gentile, equanime, sereno. Corruzione vi fu senza dubbio anche fra gli artisti; dissipatissimi erano i loro costumi, infinite le loro stranezze, e le loro invidiose gelosie spesso assai meschine. Certo nessuno vorrebbe prendere a modello di condotta morale Benvenuto Cellini. Pure se noi guardiamo alla generalità degli artisti, è certo che essi ritraggono dal popolo, il quale è assai meno corrotto dei letterati e dei politici; hanno minori relazioni con la vita pubblica, che fra noi era più guasta di tutto.[18]

[32]

Che poi la vera grandezza d'animo non fosse allora spenta fra di noi, basterebbe a provarlo Cristoforo Colombo, che nel 1504 appunto, vecchio di sessantaquattro anni, dopo aver traversato tante volte l'ignoto Oceano, sostenendo una serie di spaventose tempeste, animato da spirito religioso non meno che da passione di avventure, tornava dal suo ultimo viaggio, per chiudere gli occhi il 20 maggio del 1506. Ciò che v'ha di più grande nella sua vita, nel suo carattere veramente eroico, non è solo il coraggio che egli ebbe nell'affrontare i pericoli; la fermezza con cui seppe resistere alle derisioni, alle persecuzioni, alle calunnie, alla più nera ingratitudine. Non meno ammirabile fu certamente la sua fede inconcussa nelle induzioni della scienza; essa gl'infuse quello spirito d'osservazione, pel quale, in mezzo alle tempeste della natura, ed alle rivolte d'infidi compagni, continuava a registrare, con calma serena, con attenzione non mai interrotta, i nuovi fenomeni che gli si presentavano; esso alimentò quella forza che lo spinse con animo sicuro a navigar nell'ignoto. E questo era lo spirito vero del Rinascimento italiano, senza del quale un [33] tale uomo non sarebbe stato possibile. L'averlo potuto allora l'Italia produrre, dimostra che, nonostante la corruzione, essa avrebbe nella propria grandezza intellettuale saputo trovar la base naturale a ricostruire un nuovo mondo morale, se le invasioni straniere non l'avessero colpita nel momento stesso della sua trasformazione, spezzando a un tratto il corso naturale degli eventi.

Certo è però che, comunque si spieghi, questo contrasto fra il progresso intellettuale e la decadenza morale, si presenta continuo, costante nei secoli XV e XVI, e noi dobbiamo esaminarlo anche nella storia della letteratura, ora che di classica ed erudita, essa diviene nazionale e moderna. Ciò seguiva per opera specialmente del ferrarese Ariosto, il quale componeva in questi anni il suo Orlando Furioso, e più di tutti contribuì, secondo l'espressione del Capponi, a rendere «universale alla nazione la lingua toscana.»[19] Abbiamo già veduto come i romanzi cavallereschi del ciclo carolingio, divenuti, durante il secolo XV, popolarissimi in Toscana, ricevessero nel Morgante del Pulci la loro forma letteraria. Insieme con essi, e più di essi, i romanzi del ciclo brettone, gli eroi della Tavola rotonda divennero popolari fra i castelli della valle del Po, dove una volta s'era scritto e cantato in provenzale, più tardi si scrissero poesie in una forma ibrida di francese italianizzato o d'italiano infranciosato che voglia dirsi, la quale fu però ben presto eliminata dal rapido prevalere dell'italiano e del latino. Più tardi ancora gli eruditi fecero di Ferrara il gran centro da cui la cultura classica s'irradiò nell'Italia superiore. Contribuirono a ciò gli Este, l'Università, sopratutto Guarino Veronese colla sua febbrile attività, coi suoi molti alunni, che diffusero largamente lo studio del greco e del latino. Da questa doppia corrente, quasi mescolanza di classico e di romanzesco, come a Firenze era sorto il [34] Morgante del Pulci, così a Ferrara sorse l'Orlando Innamorato del Boiardo. Dotto nelle due lingue classiche; grande ammiratore dei romanzi cavallereschi; singolarmente, quasi stranamente fiducioso nel risorgimento della cavalleria, egli compose il suo poema, innestando il ciclo brettone sul carolingio, con vera fantasia ed originalità poetica. Tali furono gli antecedenti dell'Ariosto in Ferrara, divenuta emula di Firenze, nuova culla della poesia e cortesia cavalleresca.

Le vie, le case della città, specialmente il castello ducale, non eran però solo un tranquillo ricetto di pacifici studî, ma scene ancora di atroci delitti. Alfonso I, proclamato signore nel 1505, era un capitano esperto, che fondeva le migliori artiglierie d'Europa; protettore degli artisti e dei poeti, ma di un'indole cupa e feroce. Aveva menato in moglie Lucrezia Borgia, la quale, per paura o prudenza o per le mutate condizioni, sembrava divenuta adesso un'altra donna. Frequentava le chiese; donava ai poveri; promoveva pie fondazioni; viveva in mezzo ai letterati, che ne lodavano la bellezza, la castità, la santità e la dottrina. Ma, quasi fosse destino fatale del suo nome e del sangue che le scorreva nella vene, anche allora seguirono intorno a lei strane, orrende tragedie. Una sua damigella, Angiola Borgia, che ella aveva condotta da Roma, era corteggiata da due fratelli del Duca, l'uno il bastardo don Giulio, l'altro il cardinale Ippolito. Questi, che a sette anni era vescovo, a quattordici cardinale, invece della chiesa amava la caccia, la guerra, le donne ed il lauto banchettare, a segno tale che in età di quarantun'anno morì per avere, secondo si narra, mangiato troppi gamberi, e bevuto troppa vernaccia, vino che teneva sempre in fresco nella sua cantina. Era tanto impetuoso, che fece prendere a bastonate un messo il quale gli avea portato un monitorio di Giulio II. Quando l'Angiola Borgia disse ad un tale uomo, di non saper resistere al fascino che avevano gli occhi del rivale fratello, [35] egli lo aspettò, fra quattro sgherri, a Belriguardo, al ritorno dalla caccia, e colà, dopo averlo in sua presenza fatto stramazzar dal cavallo, gli fece cavar gli occhi. Il Duca andò in furore; ma ben presto si calmò, perdonando facilmente il delitto del fratello, essendo egli inesorabile solo coi parenti che aspiravano a levargli il potere, cosa impossibile ad un cardinale. Il bastardo don Giulio ardeva però del desiderio della vendetta. Aveva ricuperato un occhio che gli sgherri non erano del tutto riusciti a staccare dall'orbita; e si unì coll'altro fratello Ferrante, che aspirava alla signoria della città, accordandosi con lui per ammazzare il Cardinale ed il Duca (1506). La congiura però venne scoperta; don Giulio fuggì subito a Mantova, ma don Ferrante ebbe l'ingenuità di gettarsi ai piedi del Duca, che fu questa volta inesorabile. Con una bacchetta che aveva in mano, gli cavò subito un occhio, dicendo di volerlo render simile al complice fratello. Poi lo mise in carcere, dove morì, e dove più tardi fu messo anche don Giulio, che solo nel 1559 venne liberato da Alfonso II. Tre dei confidenti furono squartati; i brani dei loro corpi vennero attaccati alle porte del castello; le teste conficcate su tre lance, ed esposte al pubblico. Il prete Gianni, anch'egli della congiura, non fu ucciso, perchè prete, ma venne chiuso in una gabbia di ferro sospesa alla torre, e così abbandonato al disprezzo universale. Dopo sette giorni il Duca lo fece strozzare, sperando di far credere che si fosse invece suicidato. Il cadavere, dopo essere stato straziato, trascinato per le vie, venne appiccato per un piede ad un palo, e vi rimase fino al suo totale disfacimento.

E questa Corte era il ricovero, il richiamo di letterati, che in versi elegantissimi lodavano la magnanimità del Duca, la castità del cardinale, la mite pietà e la purità di Lucrezia! Vi primeggiava allora il Bembo, che più tardi fu anch'egli cardinale; ed era allora giovane, bello, elegante corteggiator di donne, grande ammiratore [36] di Lucrezia. Dotto in greco, forbitissimo poeta e prosatore latino, fu nello stesso tempo uno di quelli che contribuirono efficacemente a rimettere in credito lo scrivere italiano. Ma il più gentile, amabile cavalier di Ferrara, da tutti cercato, a tutti carissimo, era il poeta Ercole Strozzi. Molto venivano pregiati i suoi versi latini, alcuni dei quali indirizzati a madonna Lucrezia, celebravano le gesta sanguinose del Valentino. Incoraggiato dal Bembo, ispirato dall'amore per la Barbara Torello, egli scrisse anche alcuni pochi sonetti italiani. Ma in sull'alba del 6 giugno 1508, fu trovato cadavere sulla pubblica via, presso la chiesa di S. Francesco, con la gola segata, e ventidue ferite: ciocche de' suoi capelli, che aveva lunghissimi, inanellati, erano strappate dal cranio e sparse per terra, intorno a lui. Tutti lo piansero, ma nessuno trovò parole di vero dolore come la sua donna, che solo tredici giorni prima egli aveva sposata. — Perchè non posso, essa scriveva, entrar teco nella fossa?

Vorrei col foco mio quel freddo ghiaccio

Intorpidire, e rimpastar col pianto

La polve, e ravvivarla a nuova vita;

E vorrei poscia, baldanzosa e ardita,

Mostrarlo a lui che ruppe il caro laccio,

E dirgli: amor, mostro crudel, può tanto.[20]

In mezzo all'eterno cicalare dei Petrarchisti, alle interminabili freddure degli eruditi, l'affetto disperato di questa donna, che, senza nominarlo, sembra, come dice il Carducci, accennare col dito il potente assassino del marito, si fa sentire come una voce della natura, una ispirazione vera della poesia che ritorna italiana. Si disse che Lucrezia Borgia era stata gelosa della Barbara; ma tutto fa credere che fosse invece gelosia del Duca, il [37] quale vendicava nell'infelice e giovane poeta le ripulse avute dall'amante, poi moglie di lui.[21]

E se tale era la società in cui visse l'Ariosto, che fu segretario del fiero e dissoluto cardinal d'Este, neppure in casa sua egli aveva avuto buoni esempi. Non poteva certo ignorare che suo padre Niccolò era stato mandato a Mantova dal duca Ercole I, per avvelenare Niccolò d'Este, che con le armi gli aveva contrastata la signoria di Ferrara. L'assassinio era sul punto di riuscire, il veleno già pronto, quando fu invece scoperta la congiura. Il padre dell'Ariosto allora si salvò fuggendo; i suoi complici furono invece impiccati. Avidissimo di danaro, aveva ancora guadagnato rubando sul vitto dei poveri soldati a Reggio d'Emilia, dov'era capitano della cittadella, e dove suo figlio nacque nel 1474. Chiamato a Ferrara nel 1480, il popolo era quasi per insorgergli contro, ed uscirono poesie che ferocemente lo mordevano, dandogli di ladro, manigoldo, traditore. In una di esse la sua donna si duole di non potere uscir di casa, per non sentirsi chiamare la moglie del ladro, al che egli cinicamente risponde:

Io rubo e ruberò, che in fra le genti

Chi è senza roba matto dir si suole.[22]

A Lugo perdette nel 1496 l'ufficio di commissario, avendo ingiustamente torturato un gentiluomo. Per fortuna, suo figlio era così astratto, così assorto ne' suoi pensieri, che non s'avvedeva di quel che seguiva intorno a lui. Quando il padre lo rimproverava aspramente, perchè non studiava le leggi, egli lo ascoltava tranquillissimo, [38] ma solo per rappresentarlo poi nella Cassaria, commedia che appunto allora scriveva. Il poeta Strozzi ce lo descrive alla caccia, che sguinzaglia i cani, pensando alle sue elegie.[23] Un giorno, senza accorgersene, andò da Ferrara a Carpi in pianelle. Tutto immerso nell'arte sua, non lo toccavano neppure i più grandi avvenimenti del tempo. Quando Carlo VIII s'apparecchiava nel 1496 a tornare in Italia, egli scriveva un'ode latina, nella quale imitava Orazio: Me nulla tangat cura. «Che m'importa di Carlo e de suoi eserciti? Io me ne starò all'ombra, ascoltando il dolce mormorio delle acque, guardando i contadini che mietono. E tu, o Filiroe, stenderai la bianca mano tra i fiori smaglianti, e mi tesserai corone, soavemente cantando.»[24] La morte del poeta Michele Marullo gli pareva sventura maggiore che l'invasione straniera. Che importa l'essere sotto un re francese o latino, quando l'oppressione è la stessa?

Barbarico ne esse est peius sub nomine quam sub

Moribus?[25]

Dal 1495 al 1503 studiò con indicibile ardore i classici, e scrisse versi latini pieni di movimento, di calore, affinando il suo gusto, ripulendo e fortificando il suo stile, che in italiano gli riusciva ancora incerto e scolorito. Poco o punto conobbe il greco. Venuto a' servigi del cardinal d'Este, ne lodò in versi la bontà e la castità! Narrò il fatto atroce dell'accecamento di don Giulio, che chiama invido, ingordo, adultero, scolpando il suo padrone assassino, di cui non vuol riconoscere la parentela con la vittima.[26] Ben la riconobbe più tardi quando si [39] trattava d'esaltare la magnanimità di Alfonso, che non aveva ucciso, ma solo imprigionato i suoi fratelli, rei di cospirazione contro il proprio sangue.[27] Anche di Lucrezia Borgia lodò la castità e l'opere sante! Ma tutto ciò era il linguaggio convenzionale della Corte, qualche volta anche una semplice imitazione d'Orazio. Quando però l'Ariosto apre davvero l'animo suo, come nella satira al fratello Galasso, allora sembra un altro uomo, ed esprime sentimenti che paion quasi di Tacito. Pieno di sdegno, descrive la vita ambiziosa e licenziosa dei prelati, che voglion salire sempre più in alto, avidi solo di temporale dominio. «Che sarà mai se uno di costoro sederà sulla cattedra di San Pietro? Subito vorrà levare i figli e i nepoti dalla civil vita privata. Nè, per la manìa di dar loro regni, s'occuperà punto di muover guerra agl'infedeli, il che sarebbe assai più degno del suo ufficio.»

Ma spezzar la Colonna e spegner l'Orso,[28]

Per torgli Palestina[29] e Tagliacozzo,

E dargli a' suoi, sarà il primo discorso.

E qual strozzato, e qual col capo mozzo

Nella Marca lasciando ed in Romagna,[30]

Trionferà del cristian sangue sozzo.

Darà l'Italia in preda a Francia e Spagna,

Che sozzopra voltandola, una parte

Al suo bastardo sangue ne rimanga.[31]

Ma se così scriveva, l'Ariosto di certo non perdeva per tutto ciò il sonno. La sua vita era solo con le Muse, e da ogni cosa egli cavava argomento di poesia: [40] scriveva e riscriveva i suoi versi, nè mai si fermava fino a che non gli aveva portati alla desiderata perfezione. Non si esaltava troppo contro la corruzione; ma se da essa non lasciavasi turbare, neppure lasciavasi da essa corrompere. Quando il cardinal d'Este insisteva per menarlo in Ungheria, rispose che non voleva di poeta farsi cavallaro, ed abbandonò la Corte per tornare con più ardore che mai agli studî, serbando la sua libertà. Nè ciò gli costava sacrifizio veruno, perchè era così modesto e semplice nel vivere, da scriver egli stesso, che meritava d'esser nato quando gli uomini si cibavan di ghiande. «Piuttosto che arricchire io voglio quiete, per continuare quegli studî che danno cultura all'animo, e fanno sì che non m'incresca la povertà, nè per fuggirla voglio fuggire la libertà. Se il mio signore chiama qualcuno invece di me, io non ne ho invidia. Vado solo e a piedi quando mi occorre, e quando cavalco, lego di mia mano le bisacce alla schiena del cavallo.»[32] E così avvenne che, se ne' suoi scritti cedette spesso ai tempi, non per questo si lasciò mai da essi contaminare; onde non si può di lui citare un'azione disonesta, sebbene si debba desiderare che alcuni versi non fossero mai usciti dalla sua penna. Coi parenti fu sempre affettuoso, negli amori incostante fino a che l'Alessandra Benucci non lo legò per sempre a lei. Pare che la sposasse occultamente, per non perder alcuni beneficî di famiglia. Non era mai così felice come quando poteva passare la vita tra il suo studio ed il suo giardino. In questo, così scrive suo figlio Virginio, «teneva il modo medesimo che nel far de' versi, perchè mai non lasciava cosa alcuna che piantasse, più di tre mesi in un loco; e se piantava anime di persiche o semente di alcuna sorta, andava tante volte a vedere se germogliava, che finalmente rompeva il germoglio.,.. I' mi ricordo che, avendo seminato dei capperi, [41] ogni giorno andava a vederli, e stava con allegrezza grande di così bella nascione. Finalmente trovò ch'eran sambuchi, e che dei capperi non n'eran nati alcuni.»[33] Ad un tale uomo dovette pure riuscire di qualche utilità la dimora nella Corte, perchè l'obbligava ad uscir dalla solitudine, a venire in contatto col mondo. Egli ebbe infatti diverse commissioni diplomatiche a Roma ed altrove; andò governatore nella Garfagnana, dove trovò molte noie e molte faccende; seguì il Cardinale non solamente alla caccia e nei viaggi, ma anche nella guerra: si vuole anzi che l'anno 1510 riuscisse, nel fatto d'arme della Polesella, a prender sul Po una nave veneziana, contribuendo così alla vittoria del Duca.[34] Certo tutto questo dovette giovare al poeta, che fu poi un così mirabile descrittore della natura e degli uomini.

Sino al 1503 aveva continuato a scrivere versi latini; ma allora finalmente pose mano al poema dell'Orlando Furioso, e si cominciarono subito a vedere i maravigliosi effetti del lungo studio. Aveva acquistato un'eleganza, una sobrietà e dignità, un vigore singolarissimi, senza nulla perdere di naturalezza e spontaneità, cose tutte che mancavano prima ne' suoi scritti italiani. Il genio dell'Ariosto si manifestò, si formò a forza di perseveranza e di studio indefesso, correggendo e ricorreggendo mille volte i propri versi, cosa tanto più singolare in uno scrittore, il cui pregio principale è la spontanea semplicità ed eleganza. A questo egli giunse, infondendo vigoroso sangue latino nella poesia italiana del suo tempo, che così potè ringiovanire. L'innesto dei due [42] elementi, l'antico ed il moderno, riuscì nella poesia dell'Ariosto così perfetto ed armonioso, com'era riuscito a Raffaello negli affreschi della Galatea, della Scuola d'Atene e del Parnaso.

La materia epica dell'Orlando Furioso non è altro che la continuazione, lo svolgimento di quella dell'Orlando Innamorato del Boiardo. Ma il modo con cui s'andò formando il poema, le sue diverse sorgenti, i caratteri, l'ironia o non ironia di esso, sulla quale tanto s'è disputato, tutto ciò, se ha un gran valore per la storia e la critica letteraria, non è quello su cui possiamo o dobbiamo fermarci ora. A noi qui importa notar solo, che l'originalità dell'Ariosto sta principalmente nella nuova forma di poesia che egli ha creata. Apriamo a caso il volume, che non ha bisogno d'esser letto di seguito, ma piuttosto gustato con intensità, a brani staccati. Ascoltiamo, per esempio, le avventure di Cloridano e di Medoro nel campo nemico. Noi subito ammiriamo la loro amicizia, la loro fedeltà; il coraggio con cui Medoro difende il cadavere del suo re:

Come orsa che l'alpestre cacciatore

Nella pietrosa tana assalita abbia,

Sta sopra i figli con incerto core,

E freme in suono di pietà e di rabbia: ecc.[35]

Medoro era già prigionero, e Zerbino, adirato pei colpi che i suoi ricevevano dal non veduto Cloridano,

Stese la mano in quella chioma d'oro

E trascinollo a sè con violenza;

Ma come gli occhi a quel bel volto mise,

Gli ne venne pietade e non l'uccise.[36]

Prima però che troppo ci commoviamo, il poeta ci trasporta altrove sul cavallo alato della sua fantasia, e [43] troviamo il semivivo Medoro nelle braccia voluttuose della bella Angelica. Passiamo così sempre d'avventura in avventura, di descrizione in descrizione, ed anche gli oggetti da noi già mille volte veduti, riappariscono pieni di vita e di giovanezza, come se il mondo uscisse ora novamente sotto i nostri occhi dal nulla. La rosa, di cui tanto parlarono i poeti e tante descrizioni ci lasciarono, par che sbocci la prima volta dal suolo, rorida, fresca, piena di nuove bellezze e d'immortale poesia,

L'aura soave e l'alba rugiadosa,

L'aria, la terra al suo favor s'inchina.

Cavalli, cavalieri e dame, tempeste, foreste, paesi incantati, avvenimenti d'ogni sorta, personaggi possibili ed impossibili passano, come se fossero la realtà e la verità stessa, sotto i nostri occhi estatici. Leggendo questo poema ci pare qualche volta d'essere nella Farnesina o nelle Logge vaticane, dinanzi agli affreschi di Raffaello. La Galatea, la Psiche, i filosofi della Scuola d'Atene e gli abitatori del Parnaso si staccano dalle mura, muovon intorno a noi; respirano, ci sorridono come antiche conoscenze. Questa poesia infatti è uno specchio, in cui si riflette tutta la vita esteriore ed interiore, morale, estetica del secolo, con tutti i suoi splendori. Essa lo rende a noi visibile, intelligibile, sempre più chiaro; ne disegna, ne colorisce la fisonomia, ne fa rivivere lo spirito. Ma il poema cavalleresco, dopo avere nell'Orlando Furioso manifestato la sua potenza, la sua infinita varietà e ricchezza d'immagini, sembra che abbia ad un tratto esaurito le proprie forze; esso comincia infatti d'ora in poi a decadere, nè sa far altro che vivere della sua vita passata.[37]

[44]

È singolare davvero il vedere come nei due primi decenni del secolo XVI vennero alla luce quasi tutti i più grandi lavori dell'ingegno italiano, così nelle lettere come nelle arti, o si formarono e giunsero a maturità [45] la mente e la cultura di coloro che ne furono gli autori. In questo tempo vennero scritte tutte le principali opere del Machiavelli, e non poche del Guicciardini, il quale, perchè occupatissimo allora negli affari, pose mano solamente più tardi alla sua grande Storia d'Italia. Ma anch'egli aveva già nei primi del secolo scritto alcune delle sue Legazioni, la Storia Fiorentina e la più parte di quelle Opere inedite, che basterebbero sole a renderne immortale la fama, e ci fanno assai bene conoscere il carattere ed il valore d'un uomo, che certo è fra quelli che meglio ritraggono l'immagine vera del Rinascimento italiano. Più volte noi lo incontreremo in questa nostra storia, e quindi non sarà inutile, ora che egli incomincia a comparir sulla scena, fermarsi un momento a dirne qualche cosa coll'aiuto de' suoi Ricordi autobiografici e di famiglia. Sfortunatamente essi restarono ben presto interrotti, e ci danno perciò notizie dei suoi primi anni solamente.

Il Guicciardini discendeva da un'assai antica famiglia fiorentina. La più parte de' suoi antenati furono uomini operosi e d'ingegno, ma dati quasi tutti ai piaceri della vita, ambiziosi del potere, amanti del proprio interesse. Egli stesso ci racconta che messer Luigi fratello di [46] suo avo, più volte gonfaloniere della Repubblica, ebbe quattro mogli, ed era tanto amante delle donne, che perfino nella vecchiaia correva dietro alle serve, fermandole per via. Tra i figli legittimi non ebbe nessun maschio; una schiava[38] però gli dette un figlio naturale, cui lasciò la propria fortuna, e che divenne poi vescovo di Cortona. Costui fu come il padre, lussurioso sino alla vecchiaia, e «nella gola seguitò l'uso degli altri preti, che si stanno in Firenze a poltroneggiare, che il pensare a mangiare è una delle maggiori faccende che abbino.»[39] L'avo del Guicciardini poi, messer Iacopo, dato anch'egli alla gola ed alle donne, era uomo senza lettere, ma assai accorto ed ardito, partigiano dichiarato de' Medici: ottenne tutti i principali ufficî ed onori della Repubblica. Fu lui che, essendo gonfaloniere, compilò, per secondare le voglie di Lorenzo de' Medici, quella legge sui testamenti, che pur sapeva ingiusta e pericolosa, dalla quale venne poi provocata la terribile congiura dei Pazzi nel 1478; fu ancora quegli che tenne il popolo tranquillo, quando Lorenzo dovette andare a Napoli, per liberarsi dalla guerra mossagli in conseguenza della congiura. Piero suo figlio, e padre dello storico, ebbe una discreta cultura letteraria; conobbe il greco, il latino, la filosofia; tenne con onore diverse ambascerie ed altri ufficî politici; fu ammiratore del Savonarola, di cui ascoltava, compendiava le prediche, e ciò non ostante era avverso al Soderini, e fautore dei Medici, come tutti i Guicciardini, senza però mai lasciarsi trasportare dallo spirito di parte; fu anche onesto, amorevole ai poveri, mite nei consigli e nelle azioni. Il figlio, Francesco, fra molte lodi, gli rimprovera solo d'essere stato poco vivace e troppo riservato.

[47]

Questo figlio, che nacque nel 1482, accoppiò la prudenza del padre all'energia dell'avo, di gran lunga superando l'uno e l'altro nell'ingegno e negli studî. Temperato nei costumi, dignitoso nei modi, molto ambizioso del potere, egoista, era assai avido del danaro, non però mai a segno da appropriarselo indebitamente; che anzi egli e tutti i Guicciardini godevano in ciò reputazione d'aver sempre avuto le mani nette. Si diede subito con ardore agli studî; apprese assai bene il latino, e quelli che erano allora i primi rudimenti di matematica; studiò anche il greco, che però, secondo egli stesso ci dice, dimenticò affatto. Così i più grandi scrittori di quel secolo erudito, l'Ariosto, cioè, il Machiavelli ed il Guicciardini, o non conobbero punto il greco, o lo conobbero in modo da averlo ben presto affatto dimenticato. Nel 1498, quando fu bruciato il Savonarola, il Guicciardini aveva sedici anni, e cominciò a studiare diritto romano e civile, prima a Firenze nello Studio, poi dal 1500 al 1505, a Ferrara ed a Padova, aggiungendovi anche il diritto canonico. In questi anni, essendo molto turbate le cose di Firenze, il padre pensò di mandargli a Ferrara la somma allora grossissima di 2000 scudi, acciò la tenesse in salvo; ed egli, che era assai giovane, rese scrupoloso conto di tutto. Ciò dimostra la sua prudenza, e la grande fiducia che il padre aveva in lui. Nel medesimo tempo gli s'ammalò gravemente lo zio vescovo di Cortona, che poco dopo morì (1503). Ed egli ci racconta che pensò subito di lasciare gli studî, per farsi prete, chiedendo allo zio, che forse si sarebbe lasciato indurre, la immediata concessione dei benefici che godeva. «Nè ciò, egli aggiunge, per alcuna inclinazione che avessi alla vita religiosa, e neppure per poltronaggine, come allora solevano quelli che vestivano l'abito ecclesiastico; ma solo per farmi strada nel mondo, e riuscire un giorno ad essere cardinale.»[40] Questi fatti [48] dimostrano chiaro quali erano, fin da principio, le buone e le cattive qualità del giovane, quale doveva poi essere l'indole dell'uomo. Fortunatamente allora per lui, Piero Guicciardini, sebbene avesse cinque figli, rinunziò ad ogni idea di aver benefizî ecclesiastici nella famiglia, perchè non voleva che alcuno de' suoi divenisse prete, essendo la Chiesa, così egli diceva, «troppo trascorsa nel male.» Infatti erano i tempi d'Alessandro Borgia.

Finito il tirocinio universitario, Francesco Guicciardini venne a Firenze, dove fu chiamato ad insegnare il diritto: ivi si addottorò, e fu subito uno dei primi professori dello Studio. Questo però fu chiuso nel 1506, ed egli si diede allora ad esercitar con fortuna l'avvocatura. Avendo sempre gran voglia di far rapido cammino nel mondo, pensò ad un matrimonio conveniente e sposò nel 1508 Maria Salviati. Il padre di lui era stato contrario a questo matrimonio, non solo perchè avrebbe preferito e sperato pel figlio una maggior dote, ma ancora perchè non vedeva di buon occhio l'imparentarsi coi Salviati, troppo amanti del lusso, troppo avversi al gonfaloniere Soderini, e troppo partigiani. «Ma io,» così scrive il figlio, «pensavo che 500 scudi di più o di meno facevano poca differenza, e volli imparentarmi coi Salviati, appunto perchè, oltre ad esser ricchi, avanzavano tutti di aderenze e potenza, ed io ero vòlto a queste cose assai.»[41] Nè i suoi disegni andarono falliti, avendo subito avuto incarichi, ufficî onorevoli e lucrosi.

In quel medesimo anno pose mano ai suoi primi lavori, avendo il dì 13 d'aprile 1508 cominciato a scrivere i Ricordi[42] e circa il medesimo tempo, la Storia fiorentina, che nel febbraio del 1509 era giunta più che a metà.[43] [49] Di questi due scritti, il primo non ha gran valore letterario, perchè, composto più che altro d'appunti e frammenti staccati, rimase ben presto interrotto. Pure già vi si scorge quel mirabile spirito d'osservazione, e quella precisione d'indagine psicologica, che dovevano poi essere il pregio dominante dello scrittore divenuto più maturo. Vi si trova ancora quella forma semplice, schietta e spontanea che risplende in tutte le sue Opere inedite, ma che nella Storia d'Italia divenne più tardi essai artificiosa. C'è anche un sentimento, un bisogno della verità e della realtà, spinto qualche volta fino al cinismo, notando egli, come abbiam visto, di sè stesso e de' suoi antenati fatti poco lodevoli, con una calma e indifferenza singolarissime, quasi si trattasse di personaggi storici a lui affatto estranei.

La Storia fiorentina, invece, è già lavoro d'un gran merito letterario. Incominciando da Cosimo de' Medici, di cui parla brevemente, per venir subito a Lorenzo, finisce colla battaglia della Ghiara d'Adda, vinta dai Francesi contro i Veneziani il 14 maggio 1509; sicchè può dirsi una storia di fatti contemporanei o poco lontani dall'autore. In essa vediamo chiaramente il passaggio dalla cronica alla storia moderna, che qui apparisce la prima volta già formata. L'autore, è vero, procede ancora con la forma annalistica, cioè notando sempre il principio di ciascun anno, come se dovesse essere il principio di un nuovo periodo storico o di nuovi avvenimenti; ma lo fa in modo così fugace, che il lettore se ne avvede appena. La materia invece è divisa in capitoli, secondo la natura del soggetto e dei fatti narrati, i quali vengono svolti ed esposti con un ordine maraviglioso. V'è [50] una chiarezza, una eleganza, ma sopra tutto una penetrazione nel giudicare i fatti, ed una esperienza degli uomini singolari davvero in chi aveva solo ventisette anni, e non era stato ancora nelle pubbliche faccende. L'acume nel determinare i caratteri, nel descrivere l'avvicendarsi dei partiti, nello scoprire le cagioni personali, le passioni che producono e conducono gli avvenimenti, la sua imparzialità verso i Medici, l'entusiasmo con cui rende giustizia al Savonarola; in una parola, la sua obiettiva fedeltà e precisione storica sono superiori ad ogni elogio.

Egli non solo aveva visto ciò che narrava, o lo aveva appreso da testimonî oculari; ma è certo che ricercò anche i documenti originali, con l'aiuto dei quali espose le leggi, le riforme, le ambascerie della Repubblica, riportando qualche volta quasi le parole testuali dei documenti stessi. Ancora non si spingeva, come fece poi nella Storia d'Italia, in un campo più vasto di avvenimenti molteplici; e non di rado, come del resto in quel secolo seguiva quasi a tutti, gli sfuggiva la concatenazione impersonale degli avvenimenti, che egli voleva sempre e solo spiegare con le passioni, con la volontà individuale, con gl'intrighi diplomatici e politici. Certo, in questo suo lavoro giovanile, il Guicciardini ci ha lasciato non solo il primo esempio della storia civile moderna; ma anche uno dei primi e più splendidi modelli della nuova prosa italiana, semplice, chiara, elegante e spontanea, senza mai cadere nella volgarità, dignitosa e corretta, senza mai cadere nelle circonlocuzioni latine. Nè si lascia mai, come segue spesso al Machiavelli, trascinare dalla propria fantasia; non ama la poesia, non scrive Commedie o Decennali, non cerca teorie, non ha ideali che lo trasportino lungi dalla realtà. E perciò la sua precisione nel descrivere e narrare i fatti supera, come avremo più volte occasione di notare, quella del Machiavelli, al quale sotto altri aspetti riesce assai inferiore. Difficilmente si troverebbe [51] nella letteratura di altri popoli, certo non in quel secolo, un quadro storico così lucido, preciso, elegante, con una cognizione così sicura, profonda degli uomini e degli avvenimenti, quale abbiamo in questa Storia fiorentina. Essa, non ostante le sue divergenze, ha nella sostanza e più ancora nella forma, tale e tanta parentela con gli scritti del Machiavelli, da mostrar chiaramente che le opere di questi due grandi scrittori, pur essendo la creazione personale di due uomini di genio, sono anche un prodotto necessario di quel tempo, una manifestazione del pensiero nazionale.

CAPITOLO X.

Il Machiavelli provvede all'ordinamento della Milizia. — Sua gita a Siena. — Condizioni generali dell'Europa. — Massimiliano s'apparecchia a venire in Italia, per prendere la corona imperiale. — Legazione all'Imperatore. — Scritti sulla Germania e sulla Francia.

Il Machiavelli era adesso occupato in un gran numero di minute faccende. Gli anni 1506 e 1507 li passò di continuo organizzando la nuova Milizia, il cui peso cadde tutto sulle sue spalle, ed egli lo assunse con animo lieto e con grande ardore. Ogni giorno scriveva lettere ai Podestà, perchè formassero le liste degli uomini atti alle armi; ponessero le bandiere; provvedessero alle spese necessarie, per raccogliere ed istruire i fanti iscritti. Mandava le armi e le istruzioni; riceveva notizia dei più gravi disordini, e provvedeva, sia determinando il modo e la qualità della pena, sia inviando, nei casi più gravi, don Michele con la sua compagnia, perchè adoperasse la forza. Spesso la violenza brutale di don Michele era tale che, invece di spegnere, cresceva i disordini, e bisognava allora trovare altro rimedio. Tutto ciò il Machiavelli faceva [52] in nome dei Nove, di cui era segretario; ma di fatto essi lasciavano a lui ogni responsabilità. Onde i capitani a lui si rivolgevano con lettere infinite, delle quali anche oggi troviamo grandissimo numero.[44] Nè ciò bastava. Egli doveva di continuo girare pel territorio della Repubblica, a remuovere personalmente le mille difficoltà che nascevano, a fare egli stesso leve di fanti,[45] a scegliere i capitani delle compagnie, di cui mandava le liste a Firenze, dove venivano senz'altro nominati, come eletti e riveduti dal Machiavelli.[46] I primi esperimenti di queste fanterie si fecero inviandone qualche centinaio al campo di Pisa; ma quando appena esse acquistavano un po' di reputazione nell'armi, subito arrivavano agenti delle compagnie di ventura o degli Stati vicini, con larghe promesse per farle disertare. Quindi nuove cure, nuovi provvedimenti, per impedire che l'opera con tanto stento iniziata, andasse in fumo ad un tratto.[47]

[53]

Nè questo indefesso lavoro impediva che di tanto in tanto gli venissero affidate dai Dieci o dalla Signoria nuove commissioni militari nel campo di Pisa; o anche commissioni diplomatiche, più o meno importanti, essendo il Soderini sempre disposto a riporre in lui tutta la sua fiducia. Nell'agosto del 1507 fu spedito a Siena, per vedere che séguito accompagnava e che accoglienza riceveva colà il legato Bernardino Carvaial, cardinale di Santa Croce, che il Papa mandava incontro a Massimiliano,[48] nella supposizione che questi venisse davvero, come diceva, a prendere la corona imperiale. Egli doveva dar notizia di tutto, cercando ancora, se pur era possibile, d'indagare dai discorsi che si facevano qual fosse l'animo dell'Imperatore nelle gravi complicazioni politiche che si apparecchiavano.[49] E noi vediamo il Segretario fiorentino occupato nell'assai umile officio di ragguagliare da Siena sopra i centodieci cavalli, i trenta o quaranta muli che menava seco il legato; le vitelle e i castroni scorticati, le coppie di polli, di paperi e di pippioni, i fiaschi di vino e i poponi, di cui gli facevano presente i Senesi.[50] Aggiungeva d'aver sentito che Pandolfo Petrucci non [54] era contento della venuta dell'Imperatore, perchè la credeva utile solo ai Pisani, ma pur fingeva il contrario; e che il legato aveva commissione di dissuadere l'Imperatore dal venire innanzi, e perciò appunto aveva con un altro cardinale tedesco avuto facoltà di coronarlo fuori d'Italia. Ma anche queste poche e magre notizie non erano che voci raccolte a caso da terze persone.

Il viaggio dell'Imperatore teneva in Italia sospesi tutti gli animi; a Firenze se ne parlava molto in vario senso, e per esso il Machiavelli dovè fra poco abbandonare l'Italia. Non solamente si sapeva che dovunque l'Imperatore passava, chiedeva grosse somme di danari; ma erano tali e tante le cause di complicazioni europee, che ogni più piccolo incidente poteva avere gravissime conseguenze, non prevedibili da nessuno. La morte della regina Isabella ed il sollevamento della Castiglia in favore dell'arciduca Filippo e di Giovanna sua moglie, figlia ed erede legittima della regina, avevano costretto Ferdinando d'Aragona a seguire una politica più cauta e meno aggressiva. Perciò aveva fatto tregua colla Francia, firmato con essa il trattato di Blois nell'ottobre del 1505, ed era venuto in Italia a vedere da vicino lo stato delle cose. La morte dell'arciduca, seguìta in questo mezzo; la pazzia di Giovanna, e la reggenza della Castiglia, in conseguenza di ciò, affidata a lui, lo rendevano più tranquillo; ma gli davano pure abbastanza da fare a casa, dove non mancavano cagioni di turbolenze, nè molti scontenti. Questi potevano facilmente far capo al gran Capitano Gonsalvo, che se ne viveva allora ritirato a casa, per essere quel re venuto in gelosìa e diffidenza di lui, a cagione della grandissima popolarità che aveva nell'esercito ed in tutta la Spagna, le cui armi s'erano sotto il suo comando ricoperte di gloria. Questo nuovo stato di cose faceva subito risorgere la fortuna e la potenza irrequieta della Francia, alle cui armi diede pronta occasione di tornare in reputazione la violenta ribellione [55] di Genova, che Luigi XII, sottomise, con molto spargimento di sangue, alla testa del proprio esercito, nei primi del 1507.[51]

E la fortuna delle armi francesi spingeva subito ad avanzarsi sulla scena Massimiliano I, altro rivale della Francia, il quale, si trovava a comandare un paese che non mancava di forza, ma era reso debolissimo dai disordini politici che lo travagliavano. Il Sacro Romano Impero, d'universale che era stato in passato, si trovava mutato in germanico, per la formazione delle nazionalità, già costituitesi in Stati indipendenti da esso. Poco o nulla poteva più l'Impero in Italia; nulla addirittura nella Spagna, nella Francia, in Inghilterra, divenute invece sue potenti rivali. I principi, i vescovi, le città libere che lo costituivano, erano anch'essi animati da uno spirito d'indipendenza tale che rendeva debolissima l'autorità di Massimiliano, il quale comandava davvero solamente nell'arciducato d'Austria e negli altri Stati suoi proprî, e come signore feudale anche nell'Alsazia, nella Svevia ed altrove; ma contava assai poco come re dei Romani o Imperatore. S'andava, è vero, anche in Germania formando adesso uno spirito di nazionalità, che tendeva a riunire le sparse membra sotto un'autorità centrale, e ciò poteva di certo favorire chi rappresentava appunto l'unità dell'Impero. Se non che Massimiliano mirava a ricostituirla nell'interesse degli Asburgo, per mezzo di un Consiglio da lui nominato, da lui dipendente, e i patriotti tedeschi volevano invece un'oligarchia, che desse nelle loro mani il potere, o facesse da loro dipendere l'Imperatore stesso. Così erano contemporaneamente in moto e spesso in conflitto gl'interessi della casa di Asburgo e quelli degli Stati su cui essa voleva comandare; il bisogno [56] d'indipendenza locale; il sentimento crescente della nazionalità ed unità germanica; le tradizioni sempre potenti dell'Impero: tutto ciò costituiva un insieme di cose che non potevano nè armonizzarsi fra loro, nè separarsi.[52]

A capo d'un paese in condizioni politiche tanto complicate e difficili, trovavasi Imperatore non ancora coronato, e però col titolo di Re dei Romani, Massimiliano, il cui carattere era pieno anch'esso delle più singolari contradizioni. Piacevole con tutti nei modi, non bello, ma proporzionato e forte della persona; prodigo del suo; esperto nelle guerre, massime nel comandare le artiglierie, e però amato dai soldati. Nella sua mente brulicavano i più strani e fantastici disegni, che non poteva mai condurre a termine, perchè, mentre era per eseguirne uno, veniva trascinato a iniziarne un altro.[53] Pieno ancora delle idee medioevali, voleva rimettere il mondo sotto l'autorità dell'Impero; riconquistare l'Italia; andare a Costantinopoli contro i Turchi, e liberare il Sacro Sepolcro: qualche volta sognò addirittura di farsi papa, cosa che non sarebbe credibile, se alcune sue lettere non ne parlassero.[54] Se non che, quest'uomo che voleva sottomettere l'Oriente e l'Occidente, vedeva ogni giorno posto in discussione il numero dei soldati e il danaro dovuto all'Impero dai principi e dalle città [57] libere; nè riusciva sempre a farsi obbedire neppure dai sudditi degli Stati suoi proprî. Spesso non poteva pagare gli uomini che teneva sotto le armi, ed invano piativa e radunava Diete per aver danari. Si ridusse così ad impegnare le gioie della corona, e persino a pigliar servizio presso piccoli signori, stipendiato quasi come un capitano di ventura. Ma tutto ciò non gli faceva smettere i suoi vasti disegni, nei quali di volta in volta la Germania sembrava secondarlo, per poi abbandonarlo improvvisamente; il che nondimeno bastava, perchè egli ripetutamente vi s'ingolfasse, e ne concepisse sempre dei nuovi. Così egli ci apparisce come l'ultimo cavaliere d'un mondo destinato a perire, e, non ostante le sue buone e nobili qualità, si presenta spesso sotto un aspetto comico e grottesco.

Nella sua politica estera egli s'era sempre trovato in antagonismo colla Francia, la quale manteneva perciò segrete relazioni con molti principi dell'Impero, e cresceva di continuo difficoltà al suo avversario. Gl'interessi dei due Stati, se Stato può chiamarsi l'Impero, si trovavano in conflitto permanente così nei Paesi Bassi come in Italia; per il che Ferdinando ed Isabella di Spagna, volendo abbassare la Francia, avevano in quei luoghi secondato la Germania. Ma ora, dopo gli accordi di Blois, Luigi XII, sentendosi sicuro, prendeva animo, e Massimiliano, vedendo inevitabile la guerra, cercava raccogliere uomini e danari. A Carlo, nipote e poi successore nell'Impero, non fu dalla Francia mantenuta la promessa di dargli in moglie Claudia, figlia del Re; e Massimiliano negava alla Francia l'investitura del ducato di Milano, che voleva conquistare per sè. La sottomissione di Genova, che aveva cresciuto animo ai Francesi, lo indusse ad affrettare la sua calata in Italia, per prendervi la corona imperiale, farsi signore della Lombardia, ristabilire per tutto l'autorità dell'Impero. Giulio II seguiva con occhio inquieto questi movimenti, avendo egli sempre un [58] solo e medesimo fine: riprendere le provincie che egli credeva usurpate alla Chiesa, specialmente quelle occupate da Venezia, contro la quale sembrava avere perciò un odio inestinguibile. E già stendeva, per mezzo d'accorti legati, le fila della sua futura politica. Ma finora i suoi disegni non riuscivano, perchè non era possibile riconciliare la Germania colla Francia, che s'avvicinava invece a Venezia. Massimiliano persisteva intanto nel pensiero di venire a prendere la corona, anche se per avanzarsi avesse dovuto combattere i Francesi ed i Veneziani. E questo era ciò che teneva ora sollevati tutti gli animi in Italia, nè meno degli altri quello del Papa, cui non piaceva che gli avvenimenti minacciassero di sfuggire affatto all'azione della sua tenace volontà. Certamente poi, se gli erano giunte, non potevano riuscirgli gradite le voci corse della strana idea che Massimiliano aveva di farsi papa, per quanto la cosa dovesse sembrare a tutti incredibile e puerile.

In ogni modo a Massimiliano occorrevano, per venire in Italia, uomini e danari, quello appunto che ora come sempre gli mancava. Poteva pei primi rivolgersi alla Svizzera, che, dopo la fiera ed eroica resistenza contro Carlo il Temerario duca di Borgogna (1476-77), era divenuta una ricca miniera di soldati. Ma ormai anch'essa faceva parte dell'Impero solo di nome, ed egli stesso aveva, dopo una lotta ostinata (1499), dovuto riconoscere la indipendenza della Confederazione elvetica. A questa, dopo essersi ben presto aggiunti Basilea e Sciaffusa, si unì più tardi anche Appenzel, e furono così tredici Cantoni, cui erano legate, con vincoli più o meno forti, altre piccole repubbliche, fra le altre quella dei tre cantoni retici, che erano allora chiamati in Italia la Lega Grigia, e che poi col nome di Grigioni fecero anch'essi parte integrante della Confederazione. Tutte queste repubbliche eran pronte a mandare le loro eccellenti fanterie in qualsiasi guerra, a difesa od offesa di qualsiasi Stato; ma ci volevano molti [59] danari, che Luigi XII aveva, e Massimiliano cercava invano. Così anche sulle Alpi erano in conflitto la Germania e la Francia con vantaggio evidente di questa, in un paese che sino a pochi anni fa aveva riconosciuto la supremazia dell'Impero.

Nel 1507 Massimiliano chiese un esercito alla Dieta di Costanza, per andare a riconquistare il Milanese, prendere la corona, ristabilire l'autorità imperiale. E la Dieta si mostrò favorevole all'impresa; ma voleva che si facesse in suo nome, scegliendo essa anche i generali, e Massimiliano voleva dirigerla da sè in nome dell'Impero. Di qui le solite conseguenze, cioè provvedimenti temporanei ed insufficienti. Gli concessero 8000 cavalli e 22,000 fanti, ma per sei mesi solamente, cominciando dalla metà di ottobre, e 120,000 fiorini di Reno per le artiglierie e spese straordinarie.[55] Con le incertezze e la prodigalità di Massimiliano, c'era da aspettarsi di vederlo in sei mesi da capo senza danari e senza soldati, prima anche di aver cominciato l'impresa. Tuttavia pareva che, accorgendosi d'essere, come dice il Guicciardini, «in galea con poco biscotto,»[56] volesse questa volta operare con prontezza. Ordinò infatti, che l'esercito procedesse subito diviso in tre parti: una verso Besançon per minacciare la Borgogna; l'altra verso la Carintia per minacciare il Friuli; la terza verso Trento, dove s'avviò egli stesso, per minacciare Verona. E tutto ciò con grandissimo mistero, come soleva far sempre, tenendosi in disparte, ordinando agli ambasciatori presso di lui accreditati di non andare oltre Bolzano o Trento. Era sdegnatissimo contro Venezia, che non s'era voluta unire a lui, ed aveva fatto invece alleanza colla Francia, da cui gli erano stati guarentiti gli Stati di terraferma, ed a cui aveva in compenso guarentito il Milanese, [60] promettendo d'opporsi colle armi al passaggio degl'imperiali. Luigi XII, messosi perciò in difesa dalla parte della Borgogna, mandava G. G. Trivulzio con 400 lance e 4000 fanti a rafforzare l'esercito dei Veneziani, i quali avevano mandato il conte di Pitigliano con 400 uomini d'arme verso Verona, e Bartolommeo d'Alviano con altri 800 uomini d'arme nel Friuli.[57]

Tutto pareva dunque apparecchiato ad un grosso conflitto, che poteva avere gravissime conseguenze in Italia. Nessuna meraviglia perciò che gli animi fossero da per ogni dove agitati, massime in Firenze, a cui Massimiliano aveva in nome dell'Impero chiesto la somma di 500,000 ducati, come sussidio al suo viaggio per la incoronazione.[58] I Fiorentini questa somma eccessiva non potevano in modo alcuno pagarla; ma quando anche fosse stata diminuita di molto, si sarebbero trovati sempre in gravi difficoltà. Temevano di negare ogni sussidio, perchè si sarebbero esposti allo sdegno di Massimiliano, quando fosse davvero venuto a Roma; ed erano certi che una concessione qualunque gli avrebbe esposti a perdere l'amicizia della Francia, per la quale tanti sacrifizî avevano fatti. I nemici del Soderini, sapendolo amico dichiarato dell'alleanza francese, avevano in questa incertezza buon gioco a combatterlo; ed erano istigati a ciò anche dall'ambasciatore imperiale, il quale sparlava del «governo tirannico del Gonfaloniere,» e prometteva che il suo signore vi avrebbe messo rimedio.[59] Da ciò nacque un'animata discussione, che finì colla proposta di mandare un ambasciatore a Massimiliano, come facevano [61] gli altri Stati d'Italia, ma prima spedire qualcuno che s'accertasse se egli davvero s'avanzava, non essendo altrimenti necessario venire con lui a nessuna conclusione. Il Soderini deliberò subito di mandarvi il Machiavelli, come suo fidatissimo, e lo aveva già fatto eleggere dai magistrati. Ma le proteste furono allora così vive contro questo che venne chiamato atto d'indebito favore, che dovette decidersi a mandare invece Francesco Vettori, senza che con ciò si riuscisse a calmare gli animi più irritati.[60]

Ormai si cominciava a formare un partito avverso al Gonfaloniere, ed ogni pretesto era buono per combatterlo. Si diceva che Firenze non aveva la libertà che di nome, facendosi tutto ad arbitrio d'un solo, il quale cercava seguito nel popolo minuto e negli uomini da poco, per mettere da parte i cittadini più autorevoli, dei quali era geloso. S'aggiunse che appunto allora l'ufficiale preposto alla zecca, forse per adulazione, ebbe la strana idea di far coniare un nuovo fiorino, ponendovi da un lato, invece del giglio, il ritratto del Soderini, il quale disapprovò la cosa, e fece ritirar le monete; ma non evitò per questo rimproveri e scherni.[61] Più tardi fu necessario licenziare don Michele, il bargello delle fanterie, perchè i suoi disonesti portamenti e la sua violenza mostrarono chiaro a che cosa menava il prendere dei ribaldi a servizio della Repubblica. E anche da ciò si prese occasione a sparlare, non per difender don Michele, ma «approvandosi più presto essere stato opportuno torli segretamente la vita, perchè con troppa nostra inimicizia si partiva.» Egli veramente potè fare poco altro male, perchè nel febbraio del seguente anno, uscendo una sera di casa lo Chaumont, fu ucciso da alcuni degli Spagnuoli, che erano colà; e così «perdè la [62] vita, come già la aveva a molti tolta.»[62] In ogni modo il Soderini era dagli avversarî accusato, perchè non lo aveva, segretamente e senza processo, fatto ammazzare. Tale era la morale del tempo.

Ma le più ardenti discussioni nascevano dalle lettere di Francesco Vettori, il quale scriveva che Massimiliano era per adesso contento di soli 50,000 ducati; li voleva però subito, altrimenti l'oratore fiorentino non gli venisse più innanzi. E questi aggiungeva, che il decidersi era necessario davvero, perchè le cose di Germania sbandavano di giorno in giorno riscaldando. Bisognava dunque o pagare e [63] farsi nemica la Francia, o ricusare e farsi nemico l'Imperatore. E qui si riaccendeva la disputa in Firenze più viva che mai. Dopo lungo discorrere fu deciso nella Pratica di mandare nuovi ambasciatori, e gli Ottanta elessero Piero Guicciardini ed Alamanno Salviati. Ma nei Dieci e negli Ottanta si oppose all'ambasceria lo stesso Guicciardini, il quale ricusava l'ufficio, dicendo come il mandarli senza commissione di stringere l'alleanza era superfluo, ed andare a concluderla fra tante incertezze era pericoloso, perchè si perdeva l'amicizia della Francia senza esser sicuri dell'aiuto tedesco. Il 17 dicembre 1507 si discusse di nuovo lungamente nella Pratica in senso diverso, senza venire a nessuna conclusione. Fra tanti dispareri il Gonfaloniere credette rimediare a tutto portando l'affare nel Consiglio Grande, e lasciando a ciascuno facoltà di esprimere liberamente il proprio avviso. Era questo un procedimento allora così insolito, che parve una violazione della libertà, ed ognuno si tacque. L'uso voleva che il governo presentasse le sue proposte, e che i cittadini si raccogliessero poi a deliberare nelle pancate, ognuna delle quali eleggeva il suo rappresentante, il quale doveva o parlare per difendere la legge e votare in favore, o tacere, se voleva votar contro. Il dare ad ognuno assoluta libertà di parola, sembrò quindi, secondo la espressione del Parenti, un aver «perduto in facto la libertà, sotto dimostrazione di così largamente cederla.»[63] Finalmente, come meglio si potè, fu deliberato di stabilire gli ultimi termini d'un accordo possibile, e mandarli per lettera al Vettori, non per concludere subito, ma solo per trattare e scriverne poi a Firenze. Ed allora il Gonfaloniere, pigliando la palla al balzo, riuscì a persuadere i Dieci, che non era prudente mandare per mezzo dei soliti corrieri istruzioni tanto gravi e gelose, potendo le lettere venire intercette; essere [64] pertanto necessario spedire un uomo fidato, che, occorrendo, riferisse a bocca; e così gli riuscì d'inviare il Machiavelli, lasciandolo accanto al Vettori, come da molto tempo ardentemente desiderava. Si mormorò com'era naturale, e si disse che l'aveva mandato, perchè suo mannerino, e perchè gli faceva scrivere quel che voleva, «secondo il proposito dei loro fini e disegni.»[64] E veramente il Gonfaloniere fidava più nel Machiavelli che nel Vettori, e non voleva da questo essere trascinato in una politica di pericolose avventure.

Nel dicembre del 1507 il Machiavelli adunque partiva, apportatore delle istruzioni, le quali erano: che a Massimiliano si offrissero 30,000 ducati, per arrivare, in caso di estrema necessità anche fino ai 50,000 da lui chiesti. Si sarebbe però cominciato a pagarli solo quando s'avesse la certezza che egli veniva in Italia, continuando secondo che si avanzasse. Ed il Machiavelli dovè per via stracciare le lettere, temendo che non gli fossero trovate addosso nella Lombardia, dove, come aveva preveduto, venne minutamente esaminato.[65]

[65]

Questa legazione, di cui non si hanno che sedici lettere, tre delle quali firmate dal Machiavelli, le altre scritte da lui, ma firmate dal Vettori, che di rado v'aggiunse qualche parola di sua mano, non poteva avere grande importanza politica, trattandosi solo di portare in lungo Massimiliano, e, per ora almeno, non dargli nulla.[66] Ha però un valore non piccolo, per le osservazioni che il Machiavelli ebbe occasione di fare sugli Svizzeri e sui Tedeschi, e per le notizie che dette in essa dei fatti allora seguìti nell'alta Italia. Il 25 dicembre era di passaggio a Ginevra, il dì 11 gennaio 1508 arrivò a Bolzano, e di là scrisse il 17 due lettere. Nella seconda, firmata Vettori, racconta come l'offerta di 30 mila ducati non era punto piaciuta a Massimiliano, onde erano subito saliti a 40,000, il che lo aveva reso assai più benigno, sebbene sospettasse sempre che fossero arti dei Fiorentini, per tenerlo a bada. Trovavasi a sette leghe da Trento, e già era in grandissime strettezze di danaro; sarebbe quindi stato assai facile contentarlo con una somma non molto grande, purchè data senza indugio. Ma questo era quello appunto, che nè il Vettori nè il Machiavelli potevano consentire.[67]

La prima lettera, scritta lo stesso giorno, in nome proprio dal Machiavelli, dava un minuto ragguaglio del viaggio da lui fatto; e si vede subito con quanta attenzione, [66] con quanta cura aveva osservato i paesi pei quali era così rapidamente passato. «Da Ginevra a Costanza,» egli scrive, «mi sono fermato quattro volte sulle terre degli Svizzeri, ed ho ricercato con la diligenza che ho potuto maggiore di loro essere e qualità. Ho inteso che il corpo principale degli Svizzeri è composto di dodici Cantoni,[68] collegati insieme per modo, che quello è deliberato nelle loro Diete, viene da tutti osservato.[69] Perciò s'inganna chi dice, che quattro sono con la Francia ed otto con l'Impero. Il vero è che la Francia ha tenuto nella Svizzera uomini che hanno con danari, in pubblico ed in privato, avvelenato tutto il paese. Se l'Imperatore avesse danari potrebbe avere anche gli Svizzeri, i quali non vogliono averlo nemico, ma neppure vogliono servirlo contro la Francia, che ha troppi danari. Oltre i dodici Cantoni, vi sono anche altri Svizzeri, come i Vallesi e la Lega Grigia, i quali confinano coll'Italia, e non sono per modo collegati coi primi, da non poter fare diversamente da ciò che deliberano le Diete di questi. Nondimeno s'intendono tutti fra loro a difesa della libertà. I dodici Cantoni danno, per difendere il paese, quattromila uomini ciascuno, di cui [67] mille in mille cinquecento da mandar fuori. E questo perchè nel primo caso sono dalla legge forzati tutti a prendere le armi, nel secondo, cioè quando si tratta di andare a militare con altri, va solo chi vuole.»[70] Non è certo da meravigliarsi che il Machiavelli si fermasse subito a studiare, con gran cura, una Repubblica fondata sulle armi proprie, quale egli avrebbe voluto che divenisse Firenze, dandone perciò minuto ragguaglio ai Dieci. E per concludere anche questa seconda lettera con qualche cosa relativa alla sua commissione, dice che a Costanza aveva con insistenza interrogato un oratore del duca di Savoia circa il procedere o no della impresa di Massimiliano, e gli era stato risposto: «Tu vuoi in due ore sapere quello che in molti mesi io non ho potuto intendere. L'Imperatore procede con un gran segreto, la Germania è grande assai, le genti arrivano [68] in diversi luoghi, da provincie assai lontane; bisognerebbe avere troppe spie per tutto a sapere il certo.»[71]

Seguono quattro lettere, due delle quali, del 25 e 31 gennaio, sono quasi del tutto in cifra, e contengono notizie insignificanti e poco intelligibili, o anche allusioni oscene. Queste erano state scritte solo col proposito di farle cadere in mano del nemico, a fin di potere più facilmente salvare le altre due, che davano notizie riservate sulle persone che erano presso Massimiliano, e sulle arti da esse adoperate.[72] Il dì 8 febbraio il Machiavelli scriveva poi da Trento una lettera firmata Vettori, nella quale narrava come Massimiliano, arrivato colà, era il 4 del mese, colla spada sguainata, preceduto dagli araldi, andato nel duomo, dove il suo cancelliere Matteo Lang, vescovo di Gurk, arringando il popolo, aveva solennemente dichiarato che l'Imperatore scendeva in Italia. Ed è singolare che qui egli non si fermò punto a notare, che Massimiliano assunse allora il titolo d'Imperatore dei Romani eletto, facendo a meno della incoronazione in Roma, senza che Giulio II, il quale non lo voleva in Italia, protestasse. Il fatto era assai importante, perchè così l'Impero si rese indipendente dalla sanzione papale.[73]

[69]

Continuava la medesima lettera dando notizie sul modo molto singolare, con cui la impresa era cominciata. Il marchese di Brandeburgo era con 5000 fanti e 2000 cavalli andato verso Roveredo, per tornarsene poi improvvisamente. L'Imperatore con 1500 cavalli e 4000 fanti era andato alla volta di Vicenza, ed aveva preso e devastato i Sette Comuni, che si reggevano liberi sotto la protezione di Venezia. Parlavasi ancora d'un castello da lui assediato, quando si seppe invece che anch'egli era tornato indietro per Trento, ed alloggiava a dieci miglia dalla città, nella via di Bolzano. «Ora io vorrei domandare al più savio uomo del mondo, che avesse la commissione che le Signorie Vostre mi dànno, quello che farebbe. Se le vostre lettere[74] fossero arrivate tre giorni fa, io avrei subito pagato, credendo certa la venuta dell'Imperatore, e sarei stato approvato, per essere poi oggi, visto l'effetto, condannato. È difficile prevedere gli eventi. L'Imperatore ha molti e buoni soldati, ma non ha danari, nè si vede chi possa darglieli, ed è troppo liberale di quello che ha. Or, sebbene l'essere liberale sia una virtù nei principi, non basta soddisfare a mille, quando ve ne sono ventimila, e la liberalità non giova là dove non arriva. Egli è esperto nell'armi, duro alla fatica, ma è tanto credulo che molti dubitano della impresa; sicchè ci è da sperare e da temere. Quello che fa credere alla sua riuscita è che l'Italia è tutta esposta alle ribellioni e mutazioni, ed ha triste armi; onde ne sono seguiti i [70] miracolosi acquisti e le miracolose perdite. Vi sono è vero i Francesi che hanno buone armi; ma essendo senza gli Svizzeri, coi quali furono consueti vincere, e tremando loro il terreno sotto i piedi, fanno anch'essi dubitare. Considerando adunque tutte queste cose, io resto sospeso, perchè a volere che la vostra commissione abbia effetto, bisogna che l'Imperatore assalti e che vinca.» Questa lettera era scritta come le altre dal Machiavelli, e firmata dal Vettori, il quale di sua mano v'aggiungeva pochi versi, dicendo che non giudicava, «per cosa al mondo, opportuno richiamare il Machiavelli: lo star suo è necessario fino a che le cose non sono composte.»[75]

Tutta la legazione continua sullo stesso argomento. L'Imperatore insiste per aver danari subito, e i Fiorentini discutono per pigliar tempo e non dar nulla, profittando dello stato delle cose sempre più incerto e confuso. Un esercito di 400 cavalli e 5000 fanti entrò nel Cadore, che era devoto ai Veneziani, e raggiunto da Massimiliano con 6000 fanti percorse e devastò da quaranta miglia di paese nel Veneto. Ma ad un tratto l'Imperatore, trovandosi senza danari, tornò ad Innsbruck, per mettere in pegno le proprie gioie. Ivi lo seguirono i due oratori fiorentini, e seppero che, non avendo egli pagato gli Svizzeri, i Cantoni avevano permesso alla Francia d'assoldare fanti, e già essa ne aveva in Italia 5000, e 3000 ne avevano i Veneziani. Bartolommeo d'Alviano circondava intanto le genti restate nel Cadore, [71] e dopo averne uccise mille, faceva prigioniero il resto, pigliando le fortezze che erano colà. Andò poi oltre, ritirandosi il nemico, e prese Pordenone, che ebbe in feudo, Gorizia, Trieste e Fiume. Un assalto tentato dai Tedeschi fra Trento ed il lago di Garda, ebbe dapprima per essi qualche buon successo, che poi andò presto in fumo. I due eserciti nemici restarono di fronte nella valle dell'Adige, ma poco dopo i 2000 Grigioni, essendo male pagati dall'Imperatore, si ritirarono e furono seguiti dagli altri: arrivati a Trento si sciolsero tutti. Massimiliano non aveva potuto aver dall'Impero mai più di 4000 fanti per volta, e sempre per sei mesi solamente; sicchè gli uni arrivavano, quando gli altri partivano; ond'egli, per mettere insieme un esercito grosso, avrebbe dovuto spendere danari che non aveva. Intimò una Dieta in Ulm, per chiedere nuovi aiuti, e corse in Germania; ma ad un tratto nessuno sapeva più dove fosse, perchè se ne stava nascosto a Colonia, dove gli giunse notizia che la Dieta s'era prorogata senza concludere nulla.[76]

La lettera del 22 marzo 1508, scritta da Innsbruck, dopo aver dato alcune di queste notizie ai Dieci, concludeva: «Voi mi dite che paghi la somma fatta sperare, se credo, a quindici soldi per lira,[77] che l'Imperatore passerà. Ma io credo a ventidue soldi per lira che passerà; non posso però prevedere se vincerà e se potrà continuare; giacchè finora di due eserciti, composti di sei o sette mila uomini ciascuno, l'uno è stato battuto, l'altro non ha concluso nulla. Da un altro lato la Germania è assai potente e, se vuole, può vincere. Ma vorrà?» Il Vettori poi aggiungeva che, stando poco bene, aveva deliberato mandare il Machiavelli presso la [72] Dieta e l'Imperatore. Questa proposta venne subito accolta dai Dieci[78]; ma non potè essere recata ad effetto,[79] perchè coloro che erano vicini a Massimiliano e ne godevano la fiducia, fecero sapere che non conveniva nè andare, nè mandare. Onde i due oratori restarono a continuare la solita altalena, di che erano omai stanchi. «Vostre Signorie,» scrivevano essi il 30 maggio, «hanno filato questa tela sì sottile, che gli è impossibile tesserla. Se voi non cogliete l'Imperatore nella necessità, vorrà più che non gli offrite; e se lo cogliete nella necessità, allora non si può, come voi richiedete, prevedere la sua venuta a quindici soldi per lira. Bisogna decidersi; vedere dove è manco pericolo, e quivi entrare, fermando una volta l'animo in nome di Dio, perchè volendo queste cose grandi misurarle colle seste, gli uomini s'ingannano.»[80]

Gli eventi provarono tuttavia, che la tela non era stata poi tessuta così male, come gli oratori dicevano. Il dì 8 giugno essi davano la notizia, che tra Massimiliano e Venezia s'era venuto ad accordi, per una tregua da durare tre anni (6 giugno 1508). Vi si comprendevano da un lato il Papa, l'Inghilterra, l'Ungheria e l'Impero; dall'altro i governi d'Italia, la Spagna e la Francia. Questa però, non essendo stata nè consultata, nè avvisata di nulla, si mostrò scontentissima, e più tardi ne pigliò pretesto alla sua iniqua condotta contro Venezia, lasciandosi indurre dal Papa alla lega di Cambray conclusa [73] a sterminio di quella Repubblica. E intanto, fra tutti questi mutamenti, l'Imperatore non ricevè più nulla dai Fiorentini, che ottennero così il loro scopo. Il Vettori chiese congedo, dichiarando ormai inutile la sua dimora colà; e quanto al Machiavelli, che pareva minacciato dal mal della pietra, partì senz'altro. Il 10 giugno aveva lasciato Trento, il 14 era già a Bologna, donde scriveva le ultime notizie raccolte per via intorno alla tregua.[81]

Egli era stato assente da Firenze 183 giorni. Partito il 17 dicembre 1507, trovavasi a Ginevra il 25, e di là, il giorno seguente, s'era mosso per Costanza, viaggio che durava allora sette giorni, e nel quale potè rapidamente traversare da un estremo all'altro quasi tutta la Svizzera, non perdendo nessuna occasione per osservarla e conoscerla. Il 17 gennaio 1508 scriveva da Bolzano, e fino al dì 8 giugno, quando, per tornare a Firenze, partì da Trento, era restato sempre fra questa città, Bolzano ed Innsbruck.[82] Colà vide arrivare e partire [74] continuamente Tedeschi di ogni grado e condizione: soldati, generali, principi, vescovi, diplomatici; e così ebbe opportunità di studiare quei popoli, e lasciarcene una breve descrizione. Gli oratori fiorentini non avevano, come i Veneti, l'obbligo di fare, in fine della loro ambasceria, una relazione generale sullo stato del paese in cui erano andati. Pure di tanto in tanto si fermavano nei loro dispacci a fare osservazioni e considerazioni acutissime. Questa era anzi la parte, in cui primeggiavano gli uomini come il Guicciardini ed il Machiavelli, i quali, senza esservi obbligati, usavano, sia per proprio diletto, sia per utilità dei magistrati, scrivere non di rado anch'essi qualche loro relazione.

Noi abbiamo inoltre una Istruzione scritta dal Machiavelli nel 1522, quando da più tempo era fuori d'ogni ufficio, all'amico Raffaello Girolami, che andava ambasciatore nella Spagna appresso all'Imperatore.[83] Ed in essa, consigliandogli i modi che doveva tenere nella sua ambasceria, ci fa chiaramente vedere quale era il metodo che egli stesso aveva sempre seguito. «Voi dovete,» così scriveva, «attentamente osservare ogni cosa: il carattere del principe e di chi lo circonda, i nobili, il popolo, e dipoi darne una piena notizia.» Proseguiva dandogli norme su quello che più particolarmente doveva osservare nella Spagna, aggiungendo che un ambasciatore deve acquistarsi reputazione d'uomo da bene, il quale non pensi una cosa e ne dica un'altra. «Ne [75] ho conosciuti molti, che per essere tenuti sagaci e doppî, hanno in modo perduta la fede col principe, che è poi stato loro impossibile il poter negoziare seco.» Concludeva con alcuni suggerimenti sui piccoli artifizi del mestiere, osservando che, quando si tratta di fare induzioni generali, e cercare d'indovinare i fini cui mirano gli uomini, o l'andamento più riposto delle cose, è assai odioso l'esprimere in nome proprio l'avviso che uno si è formato da sè, e però riesce invece opportuno, anche per dare maggior peso alle proprie parole, metterle in bocca di autorevoli personaggi, dicendo: «considerato adunque tutto quello che si è scritto, gli uomini prudenti che si trovano qua, giudicano che ne abbia a seguire il tale effetto e il tale.»[84] Queste parole, [76] infatti, noi le troviamo di continuo nelle sue legazioni, e possiamo ora comprenderne tutto il valore. Ma per quanto minute e pratiche fossero tali avvertenze al Girolami, il Machiavelli faceva anche più e meglio che non consigliava. E massime in questa legazione all'Imperatore, non avendo affari molto gravi da trattare, si dette per suo proprio conto ad uno studio attento e coscienzioso del paese nel quale si trovava.

Noi abbiamo già visto con quanta cura avesse osservato e descritto nelle sue lettere le condizioni generali della Svizzera, che così rapidamente aveva traversata. Tornato che fu a Firenze, si pose subito, il 27 giugno 1508, cioè il giorno dopo il suo arrivo, a scrivere il Rapporto di cose della Magna, in cui diede un ritratto fedelissimo dell'Imperatore, ed un quadro generale del paese. Questo quadro egli cominciò a riscriverlo più tardi, verso la fine del 1512, in una forma più letteraria, col titolo di Ritratti delle cose dell'Alemagna. Sembra che dopo la battaglia di Ravenna (1512), la quale è in essi rammentata, avesse intenzione di comporre sulla Germania un nuovo lavoro, riassumendo ciò che aveva già scritto, per continuare a fare altre osservazioni; ma lo lasciò poi interrotto, non avendone scritto che un brano. Nè ha importanza di sorta il Discorso sopra le cose di Alemagna e sopra l'Imperatore, scritto nel 1509, quando Giovanni Soderini e Piero Guicciardini furono inviati a [77] Massimiliano, perchè è di sole due pagine, nelle quali non fa che rimettersi a quanto aveva già detto nel Rapporto. Questo, adunque, che in sostanza è una breve relazione fatta ai magistrati della Repubblica, è il solo lavoro veramente originale del Machiavelli sulla Germania, salvo qualche piccola osservazione aggiunta nel frammento dei Ritratti.[85]

Il Rapporto è stato dai Tedeschi variamente giudicato. Il Gervinus afferma che esso e l'altro simile scritto, dettato poco più tardi, sulla Francia, provano quanto acutamente il Machiavelli «sapesse indagare il carattere proprio dei popoli, e con quanta profondità giudicasse le condizioni politiche, lo stato interno dei paesi stranieri, la natura delle nazioni e dei governi. Le sue notizie statistiche sulla Francia, egli dice, sono eccellenti, e sul carattere dell'Imperatore Massimiliano e del governo tedesco in genere non si è forse mai detto nulla di meglio.»[86] E questa opinione è stata in Germania più volte ripetuta fino ai nostri giorni.[87] Ma con essa non vanno punto d'accordo alcuni moderni, tra i quali il professor Mundt, il cui libro, sebbene venuto alla luce parecchi [78] anni dopo, è pure assai inferiore a quello del Gervinus. Secondo lui, il giudizio del Machiavelli sui Tedeschi e sul loro paese è una fantasmagoria, ispirata in parte dalla Germania di Tacito, ma senza riscontro alcuno colla realtà delle cose nei primi del secolo XVI.[88] Lo stato delle finanze quale egli lo descrive, la purità di costumi, la libertà e l'eguaglianza che egli vuol farci ammirare, non son altro che un idillio della sua fantasia, non vedendosi donde mai abbia potuto cavare il ritratto che ci presenta.[89] Basta leggere le opere di Lutero, e gli scritti del contemporaneo Fischart, dice il Mundt, per esser subito persuasi che la virtuosa semplicità tedesca, al tempo in cui comincia la Riforma, è un sogno, che in alcune città il lusso era grande, e che la corruzione non mancava.

Noi abbiamo già osservato, e avremo più volte occasione d'osservarlo nuovamente, che quanto alla precisa esattezza nel determinare i fatti particolari, il Machiavelli è spesso poco esatto, e vien sempre superato dagli ambasciatori veneti, i quali lo vincono non di rado anche nel determinare il carattere vero dei personaggi, [79] con cui trattano, dei quali sanno meglio indovinare le più riposte intenzioni. Ed anche ora, se esaminiamo la relazione sulla Germania, che dall'ambasciatore veneto Quirini fu letta ai Pregadi nel dicembre del 1507,[90] troviamo una conoscenza assai più sicura del paese, che egli aveva lungamente percorso, attentamente esaminato, ed un numero assai maggiore di notizie, che sono anche più esatte. Il Machiavelli resta però senza rivali, quando si tratta di determinare l'indole ed il valore politico dei popoli o dei principi; l'azione che queste loro qualità esercitano sugli avvenimenti contemporanei; la natura propria delle istituzioni, e gli effetti che ne risultano. Se si deve indovinare che cosa faranno oggi o domani il re di Francia o l'Imperatore, che passioni o desiderî, in un dato momento, li muovono, il Segretario fiorentino può essere vinto dai Veneziani, ed anche da qualche Fiorentino assai pratico degli affari, come era per esempio il Guicciardini. Forse questa è anche una delle ragioni, per le quali il Machiavelli non riuscì mai ad avere il grado di ambasciatore. Ma se si tratta invece di determinare in che consista la forza politica della Francia o della Germania, del Re o dell'Imperatore, egli dimostra allora tutta la potenza del suo genio, e riesce superiore ad ogni altro. L'osservazione fedele, accurata dei fatti politici e sociali era antichissima in Italia, e ne abbiamo molti esempî così nei cronisti del secolo XIV, come negli eruditi ed ambasciatori del XV, i quali ci lasciarono nelle loro lettere ammirabili descrizioni dei paesi che visitarono e dei personaggi politici che conobbero. Ma il Machiavelli è il primo che veda i fatti sociali coordinarsi in una vera unità organica, e su di essa principalmente si fermi. Lo stesso Guicciardini, che nella sua legazione nella Spagna raccolse una moltitudine di preziose notizie, esponendole con una mirabile precisione e chiarezza, quando volle poi raccoglierle insieme, [80] per darci un giudizio generale sul carattere, sulla forza politica di quel paese e dei suoi ordinamenti, riescì, come vedremo in altro luogo, quasi inferiore a sè stesso. Si direbbe, che l'immenso materiale d'osservazioni, che l'Italia aveva in più secoli raccolto, e continuava a raccogliere, s'andasse la prima volta ordinando nella mente del Machiavelli, il quale cominciava così a porre la base della scienza politica. Di tutto ciò si vedono i primi segni così nel suo Rapporto sulla Germania come nell'altro simile, che scrisse poco dopo sulla Francia. In essi, ma specialmente nel primo, si ritrova anche un'altra qualità, che pochi riconobbero in lui, ma senza la quale molti de' suoi scritti resterebbero inesplicabili affatto. Egli andava dietro a certi proprî ideali, i quali s'impadronivano della sua fantasia per modo, che li vedeva spesso anche là dove non erano, ed essi lo conducevano allora a dare un colorito personale ai fatti che descriveva ed agli avvenimenti che narrava.[91]

Chi ricorda ciò che dicono della Germania il Bracciolini ed il Piccolomini, i quali, specialmente il secondo, dimorarono a lungo in quel paese, e minutamente lo descrissero, senza mai finir di lamentarne l'ignoranza, la rozzezza, la barbarie; chi legge il Viaggio in Alemagna[92] di quello stesso Francesco Vettori, che era stato col Machiavelli nel Tirolo, e non trova in esso quasi altro che una raccolta di novelle oscene, si sente come in un mondo nuovo, quando legge le poche, ma eloquenti pagine del Machiavelli, nelle quali è una così [81] grande ammirazione per quel medesimo paese. Non si può certo disconoscere l'acume col quale egli, ammirando la semplicità del vivere e l'educazione militare della Germania, ne pone in evidenza la forza reale, anche in mezzo all'anarchia ed alla impotenza politica presente, e spiega la debolezza di Massimiliano, nonostante le sue buone qualità, il suo valor militare, la molta popolarità, il vasto impero. E fin qui tutto conferma il giudizio dato dal Gervinus.

Bisogna però ricordarsi che il Machiavelli aveva assai rapidamente traversato la Svizzera, e s'era fermato nel Tirolo, arrivando fino ad Innsbruck, senza andare più oltre. Colà aveva, è vero, visto moltissimi Tedeschi, e ragionato con alcuni di essi, i quali parlavano il latino o l'italiano; ma il loro paese non lo aveva visitato, nè lo potè quindi conoscere per esperienza propria. E sebbene ne' suoi scritti egli distingua abbastanza la Svizzera dal Tirolo e dalla Germania, pure sembra che assai spesso li consideri più come parti d'un medesimo paese, che come regioni e popoli diversi. Già nella sua Commissione coll'Albizzi al campo di Pisa, notammo che egli, parlando degli Svizzeri, li chiamava quasi sempre Tedeschi. Ed in questo suo presente scritto si vede chiaro, non solo che, ragionando della Germania, v'include sempre la Svizzera ed il Tirolo; ma che anzi, essendo questi i soli paesi di parlare tedesco che aveva visitati, gli accade di attribuire a tutta la Germania i costumi e il vivere che in essi aveva osservati. Egli s'era esaltato alla vista di quelle popolazioni sobrie, armigere, fiere, e nella «libera libertà» delle repubbliche svizzere aveva ritrovato il suo ideale della nazione armata; quindi le presentava all'Italia come un esempio da imitarsi. L'arrivo di continue bande di Tedeschi, che partivano per dar luogo ad altre; la notizia da essi avuta delle molte repubbliche colà ancora fiorenti; il loro aspetto marziale, la loro reputazione militare colpirono la sua [82] immaginazione per modo che vide nella Germania un paese tutto dedito alle armi, sobrio, amante della libertà, e così la descrisse, attribuendole, troppo spesso, i costumi degli Svizzeri e dei Tirolesi, coi quali essa aveva ed ha certamente molta somiglianza e parentela, ma con i quali non si può confondere. Tutto questo può spiegare le inesattezze osservate dal Mundt, il quale non si occupò di rintracciarne le cagioni, e non riuscì a formarsi un chiaro concetto del molto valore che, non ostante i difetti, ha lo scritto del Machiavelli.

«Non si può,» questi dice, «dubitare della potenza della Germania, che abbonda d'uomini, di ricchezza e d'armi. Spendono i Tedeschi poco in amministrazione e nulla in soldati, perchè esercitano nelle armi i propri sudditi.[93] Invece di giuochi, nei giorni di festa la loro gioventù si occupa a maneggiare lo scoppietto, la picca, chi un'arme e chi un'altra. Sono parchi in tutto, perchè non edificano, non vestono con lusso, non hanno molte masserizie in casa. Basta loro lo abbondare di pane, di carne, ed avere una stufa dove rifuggire il freddo, e chi non ha dell'altre cose, fa senza esse, e non le cura. Quindi il loro paese vive di quello che produce, senza avere bisogno di comprar dagli altri; vendono le loro robe lavorate manualmente, di che condiscono quasi tutta Italia,[94] ed il guadagno è tanto maggiore, in quanto nasce [83] tutto dal lavoro con pochissimo capitale. Così si godono quella lor rozza vita e libertà, e per questa causa non vogliono ire alla guerra, se non soprappagati, nè ciò anche basterebbe, se non fossero comandati dalle loro comunità.» Qui par veramente di sentire come una rimembranza della Germania di Tacito. V'è quasi un accento di dolore, che rivela l'animo trafitto dal paragone, che il Machiavelli fa, senza esprimerlo, del paese che descrive con l'Italia. E par che, prorompendo, esclami ai Dieci: Ecco come dovreste voi ordinar la Repubblica, se veramente la volete libera e forte. Lo splendore delle arti, delle lettere, della ricchezza italiana, che aveva fatto velo al giudizio di tanti fra i nostri scrittori, i quali perciò disprezzavano gli stranieri, non offuscò mai quello del Machiavelli, il cui sguardo acutissimo andava diritto alla sorgente prima delle cose, e nella corruzione del suo paese vedeva la causa inevitabile delle future calamità.

C'è però un punto assai notevole e sostanziale su cui l'attenzione del Machiavelli sembra non essersi mai fermata. Egli, che pure aveva tante volte meditato sulla opportunità di riunire l'Italia, per costituire una forte nazione, non si fermò, nel traversare la Svizzera, sui vantaggi che essa ritraeva dalla Confederazione dei suoi Cantoni. Non si fece mai la domanda: perchè i Comuni italiani non si uniscono in Confederazione? E c'è un altro punto non meno sostanziale su cui non si fermò mai. Nella Svizzera, ed in parte anche nel Tirolo, le popolazioni rurali avevano una parte importantissima nella vita nazionale, e ne accrescevano grandemente la forza. Presso di noi invece erano state da essa affatto escluse, il che fu causa di debolezza dapprima, e più tardi anche della rapida decadenza dei nostri Comuni. Questi sono due punti sui quali i politici italiani non riuscirono mai a portare la loro attenzione.

Ed ora, continuando, il Machiavelli cerca avvicinarsi sempre meglio alla realtà delle cose, e descriverla anche [84] più fedelmente. «La Germania è tutta divisa fra i comuni ed i principi, che sono nemici fra di loro, ed insieme nemici dell'Imperatore, cui non vogliono dar troppa forza, perchè non domi il paese loro come in Francia hanno fatto i re. E questo si capisce da tutti; ma pochi capiscono per qual ragione le città libere della Svizzera si dimostrino così avverse, non solo ai principi ed all'Imperatore, ma anche alle comunità della Germania, con le quali hanno pur comune l'amore della libertà, ed il bisogno di difendersi dai principi. La ragione vera è che gli Svizzeri non sono nemici dei principi e dell'Imperatore solamente, ma anche dei nobili che sono in Germania, non però del loro paese, dove si gode, senza distinzione alcuna d'uomini, fuori di quelli che seggono nei magistrati, una libera libertà. Così avviene che questi gentiluomini fanno ogni opera per tenere le loro comunità divise dalle svizzere. Da un altro lato l'Imperatore, il quale è avversato dai principi, aiuta contro di loro le comunità, che sono il nerbo della Germania; e così essi si trovano deboli, perchè doppiamente combattuti, e perchè i loro Stati si dividono nelle successioni. Se a ciò si aggiungono le guerre dei principi e dei comuni fra loro, di questi con quelli, degli uni e degli altri coll'Imperatore, si capirà come, sebbene sia assai grande la forza di quel paese, venga poi assai indebolita nel fatto.»[95]

[85]

Tutte queste considerazioni trovansi, quasi con le stesse parole, così nei Ritratti,[96] che poco altro contengono, come nella seconda metà[97] del Rapporto. Esso però, che è, come vedemmo, quasi una relazione d'ufficio, incomincia col parlar delle condizioni presenti degli affari, e del carattere dell'Imperatore, di cui dice che, non ostante la sua apparente grandezza e potenza, trovavasi difatti poi debolissimo, perchè la Germania, divisa com'era e gelosa, non gli dava mai i danari necessari. «Dicono che i suoi Stati gli rendono 600,000 fiorini d'entrata netti, e che 100,000 gliene rende il suo ufficio imperiale. Ciò basterebbe a pagare molta gente; ma invece, per la sua grande liberalità, egli è sempre senza soldati e senza danari; nè si vede dove questi ne vadano. Prè Luca (il prete Luca dei Renaldi) che è sempre presso di lui, mi disse che l'Imperatore non chiede mai consiglio ad alcuno, ed è consigliato da tutti; vuole fare ogni cosa da sè, e nulla fa a suo modo, perchè quando, non ostante il misterioso segreto in cui sempre s'avvolge, l'andamento delle cose scopre i suoi disegni, egli è subito tirato da chi gli è vicino. Questa sua liberalità e questa facilità lo fanno lodare da molti, ma son poi la [86] sua rovina, perchè tutti ne profittano, tutti lo ingannano. E uno che gli è vicino mi disse che, sebbene una volta avvistosene, non si lascia ingannare di nuovo; pure son tanti gli uomini e tante le cose, che gli potrebbe toccar d'essere per tutta la vita ingannato ogni dì, quando anche se n'avvedesse sempre. Se non avesse questi difetti, sarebbe un ottimo principe, perchè è virtuoso, giusto ed ancora perfetto capitano.[98] La sua venuta in Italia è spaventosa a tutti, sapendosi che con la vittoria crescerebbero i suoi bisogni, quando non avesse addirittura mutato natura. E se le frondi degli alberi d'Italia gli fossero divenute ducati, non gli basterebbero. Notate poi che dagli spessi suoi disordini nascono gli spessi bisogni, dai bisogni le spesse domande, e da queste le spesse Diete, come dal suo poco giudizio le deboli risoluzioni e debolissime esecuzioni. Se però fosse venuto, voi non lo avreste potuto pagar di Diete.»[99]

I Ritratti delle cose di Francia[100] sono, più che altro, pensieri staccati, scritti dopo la sua ultima legazione in Francia nel 1510. In essi tuttavia egli nota subito la forza crescente di quel paese, in conseguenza del suo grande accentramento, che risulta dalla unione e sottomissione delle diverse provincie e dei baroni alla Corona. Di qui una forza politica nell'interno, una forza militare fuori, le quali sono maggiori della forza sociale e reale del paese: il contrario precisamente di quel che aveva notato in Germania. «La nobiltà è tutta data alla vita militare, e quindi gli uomini d'arme francesi sono fra i migliori d'Europa. Le fanterie invece sono cattive, [87] perchè composte d'ignobili e genti di mestiere, sottomessi ai baroni, e tanto in ogni loro azione depressi, che sono vili. Bisogna eccettuarne però i Guasconi, che, vicini alla Spagna, hanno dello spagnuolo, e sono un poco migliori degli altri, sebbene da qualche tempo in qua si siano mostrati più ladri che valenti.[101] Pure fanno buona prova nel difendere ed assaltare fortezze, ma cattiva in campagna aperta.[102] Anche in ciò sono il contrario dei Tedeschi e degli Svizzeri, i quali alla campagna non hanno pari, ma per offendere o difendere luoghi fortificati valgono poco. Queste son le ragioni per le quali i re di Francia, non fidandosi delle proprie fanterie, assoldano Svizzeri e lanzichenecchi. In sostanza sono più fieri che gagliardi o destri, e se si resiste al loro primo impeto, diventano così timidi che paiono femmine, come notò anche Cesare, il quale disse appunto, che in principio sono più che uomini, in fine meno che femmine. E però chi vuole superarli, deve intrattenerli e guardarsi dai primi loro impeti. Non sopportano i lunghi disagi; ed è facile, trovandoli in disordine, sopraffarli, come se n'è avuto esperienza nell'ultima guerra cogli Spagnuoli sul Garigliano.»

«Il paese è ricchissimo di prodotti dell'agricoltura, ma povero di danari, ogni cosa andando nelle mani dei gentiluomini e dei vescovi, i quali ultimi ritraggono due terzi delle ricchezze di quel regno, ed hanno un grandissimo potere politico, essendo assai numerosi nel consigliar [88] la Corona. Sono i popoli di Francia umili e ubbidientissimi, ed hanno in gran venerazione il loro re. Vivono con pochissima spesa, per l'abbondanza grande delle grasce, ed anche ognuno ha qualche cosa stabile per sè.[103] Vestono grossamente e di panni di poca spesa; non usano seta di alcuna sorta, nè loro, nè le donne loro, perchè sarebbero notati dai gentiluomini.»[104] Ed altrove in questi medesimi Ritratti, che procedono sempre a paragrafi staccati: «La natura dei Francesi è appetitosa di quello d'altri, di che insieme col suo e dell'altrui è poi prodiga. E però il Francese ruberìa con lo alito, per mangiarselo e mandarlo a male e goderselo con colui a chi lo ha rubato, natura contraria alla spagnuola, che di quello che ti ruba mai non ne vedi niente.»[105]

Evidentemente il Machiavelli non aveva nessuna simpatia pei Francesi nè per la Francia, che conosceva assai meglio della Germania; e di essi veramente la Repubblica non aveva nessuna ragione d'esser contenta. Di questa sua antipatìa abbiamo una riprova anche in alcuni pochi e brevi pensieri staccati, che nelle sue Opere vengono intitolati: Della Natura dei Francesi.[106] «Sono umilissimi nella cattiva fortuna, nella buona insolenti. Sono piuttosto taccagni che prudenti. Tessono bene i loro male orditi con la forza. Sono vani e leggieri. Degli [89] Italiani non ha buon tempo in Corte, se non chi non ha più che perdere e naviga per perduto.»

Nei Ritratti delle cose di Francia egli passa inoltre a rapida rassegna anche i varî Stati che la circondano, per dimostrare come essa non abbia molto a temere da nessuno. Accenna alle gabelle; alle entrate del paese; all'ordine del governo, dell'esercito, delle Università, della Corte, dell'amministrazione, e sopra tutto all'arbitrio e potere regio, che è quasi illimitato. Sono notizie rapide, brevi, staccate, come appunti presi in viaggio. Ma quello che sopra tutto richiama la nostra attenzione, qui come negli scritti sulla Germania, è la continua, quasi involontaria, irresistibile tendenza dell'autore a coordinar sempre le notizie particolari che ha raccolte, intorno a pochi fatti generali, quali sono la natura del paese, il carattere del popolo, l'indole del governo. Questi fatti generali divengono poi il centro da cui partono ed a cui tornano le sue osservazioni più speciali e minute, e spiegano così le condizioni sociali e politiche del paese che egli esamina. In Francia il Machiavelli si ferma ad osservare che tutti gli uomini, tutte le attività nazionali sono raccolte, accentrate sotto l'unità di un solo comando, e ne vede nascere aumento di forza politica e militare; ma non gli sfugge, che tutto ciò può a lungo andare essere pericoloso, perchè ne rimane sacrificata la libertà individuale, e le moltitudini ne restano oppresse. Dopo trascorsi più secoli, dopo tanti casi diversi e clamorosi, dopo tante rivoluzioni, questo suo giudizio resta sempre verissimo. Anche oggi la Francia soffre del suo accentramento, assai più antico che non si crede, come dimostrò il Tocqueville,[107] e come si vede qui nel Machiavelli; anche oggi dura tuttavia quella eccessiva potenza del clero che egli osservava allora. Perfino la grande estensione della piccola proprietà, su cui tanto s'è scritto, [90] che tanti han dichiarato conseguenza esclusiva della Rivoluzione, e però affatto moderna, ha, come notò lo stesso Tocqueville, origini assai più antiche, e neppur essa, come abbiam visto, sfuggì all'attenzione del Machiavelli. A lui in fatti non sfuggiva mai nulla che avesse una vera importanza politica e generale; era nei particolari che s'ingannava spesso, e qualche volta non li osservava addirittura.

Nel descrivere la Germania egli era invece partito dalla grande varietà dei costumi, degl'interessi, delle passioni e delle libertà locali, che, se generavano confusione, se toglievano unità d'azione, e quindi forza al governo, non spegnevano però la forza vera del paese, la quale veniva, in mezzo al disordine, alimentata dalla indipendenza individuale, dalla educazione militare. Ed anche questo è rimasto per secoli il fatto, il carattere predominante nella storia della Germania, che pur oggi mantiene la forma federativa, e dopo i tanti trionfi, dopo le tante guerre per costituire la sua unità nazionale, sostiene ancora una lotta interna a cagione dei diversi elementi che la costituiscono. V'è però un fatto assai importante, che al Machiavelli sfuggì del tutto, del quale non dice una sola parola, ed è la grande agitazione religiosa che già apparecchiava la Riforma. Ma ciò si spiega se ricordiamo che egli non dimorò mai nell'interno della Germania propriamente detta, di cui non conosceva neppure la lingua, e se ricordiamo la sua profonda indifferenza per tutte le quistioni religiose, la poca o nessuna cognizione che di esse aveva, difetto dei resto che fu comune alla maggior parte degl'italiani del suo tempo.[108]

[91]

CAPITOLO XI.

Nuovo guasto alle campagne pisane. — Trattative con la Francia e con la Spagna. — Pisa è stretta da ogni lato. — Il Machiavelli va a Piombino per trattare della resa. — Pisa s'arrende ed è occupata dai Fiorentini.

Quando scoppiò la rivoluzione di Genova, Luigi XII aveva promesso all'ambasciatore fiorentino, Francesco Pandolfini, che, dovendo venire in Italia con un esercito e domare quella città, si sarebbe fermato anche in Toscana, per sottomettere finalmente Pisa ai Fiorentini. E questo lo disse e fece dire con tale asseveranza, che si trattò anche della somma da doverglisi dare a cose finite. Ma quando ebbe sottomesso Genova, se ne tornò invece in Francia, non mantenendo, secondo il solito, nessuna delle sue promesse ai Fiorentini.[109] E però appena che essi furono liberi dalla paura di Massimiliano, il quale s'era ritirato dopo aver fatto tregua coi Veneziani, si credettero in grado e in diritto di pensare ai casi loro, facendo assegnamento solo sulle proprie forze. Deliberarono quindi di cominciar subito col dare il guasto alle campagne pisane, il che avevano tralasciato nello scorso anno. Non mancarono neppure ora vive opposizioni dei nemici del Gonfaloniere, ai quali si univano altri, che incominciavano a trovar questa guerra assai crudele, e sentivano rimordersi la coscienza, vedendo i contadini di Pisa ridotti ad una estrema miseria, e specialmente le donne rifinite per modo che molte ne morivano di stento o di fame.[110] Tuttavia il partito fu vinto, perchè s'era ormai deliberato [92] di farla una volta finita, ed il momento pareva opportuno.

I Pisani rimasero assai avviliti dal guasto subìto nel giugno. Ed a stringerli ancora più, i Fiorentini assoldarono, con 600 fiorini il mese, il Bardella corsaro genovese, acciò con tre navi tenesse chiusa la foce dell'Arno, impedendo che di là arrivassero vettovaglie all'assediata città.[111] Il Machiavelli, dopo essere stato nel marzo e nell'aprile mandato in giro pel territorio a raccogliere fanti, fu dall'agosto al novembre rimandato al campo. Colà egli pagava le fanterie; spingeva innanzi le operazioni di guerra; ordinava la continuazione del guasto; girava a raccogliere altri fanti; proponeva la elezione dei caporali di compagnia, dei quali in poco tempo ne troviamo, a sua proposta, nominati dai Nove quattrocento circa.[112] Pareva che i Dieci avessero a lui affidato la direzione di tutta l'impresa. In fatti, il 18 agosto gli scrivevano: «Tu se' prudente, e per avere el secreto di tutte le cose, non è necessario discorrerti altrimenti el desiderio nostro.[113]» Ed egli non solo fece nell'ottobre ripetere il [93] guasto già dato nell'agosto alle campagne pisane; ma lo dette ancora dalla parte di Viareggio, nelle terre dei Lucchesi, così che li obbligò ad un accordo per tre anni, con promessa solenne di non dare più alcun aiuto d'uomini, denari o vettovaglie ai Pisani.

Ma quando la Francia, s'avvide, che in questo modo i Fiorentini conducevano a fine la guerra di Pisa senza il suo aiuto, e senza che essa ne cavasse vantaggio di sorta, incominciò subito a protestare. Protestò pel guasto dato, senza prima chiederne il permesso a Sua Maestà, per le trattative d'accordo con l'Imperatore suo inimico; fece poi sapere di voler subito mandare nel Pisano il generale G. G. Trivulzio con 300 lance, e questo perchè la resa non avesse effetto senza il suo aiuto, ed essa potesse così prenderne occasione a nuove e sempre maggiori pretese. Ai Fiorentini sarebbe stato facile dimostrare, che la Francia non aveva diritto alcuno di muovere lamento; ma con ciò non si sarebbero liberati dalle domande insistenti del Re, che voleva danari in ogni modo. Sapevano però che Giulio II era finalmente riuscito nel disegno da lungo tempo meditato della lega di Cambray, con la quale, nel dicembre del 1508, egli, l'Imperatore, la Spagna e la Francia si univano a sterminio di Venezia. E così l'attenzione generale era deviata dalla Toscana, che trovandosi fuori di quella grossa guerra, poteva sentirsi più libera, ed osare di più. Ma da un altro lato l'obbligo che la Francia aveva assunto di scendere con un grosso esercito nell'Italia superiore, la rendeva maggiormente avida di danaro, più vicina e pericolosa.

[94]

Gli ambasciatori Alessandro Nasi e Giovanni Ridolfi si trovavano quindi già a Blois, con istruzione di venire ad un accordo, e pagare il meno possibile alla Francia ed alla Spagna, che subito aveva messo innanzi uguali pretese. Questa mercanteggiava con Firenze, adducendo l'antica amicizia, che affermava d'aver sempre avuta pei Pisani, e quella mercanteggiava, per concedere alla sua antica alleata il diritto che incontrastabilmente aveva di provvedere colle proprie forze ai proprî interessi. Pure bisognava piegarsi. Le trattative andavano in lungo, perchè si disputava non solo sulla somma da dare, ma anche sui modi di pagamento; ed intanto occorreva far donativi al Rubertet ed agli altri ministri di Francia e di Spagna, i quali, dopo aver graziosamente accettato, chiedevano sempre di più, e non dimostravano perciò nessuna fretta di concludere gli accordi. Finalmente il Nasi ed il Ridolfi scrivevano, che il 13 marzo 1509 era stato firmato il trattato, con cui Firenze s'obbligava a pagare in diverse rate 50,000 ducati al Re di Francia, ed altrettanti a quello di Spagna, al cui ambasciatore s'era dovuta promettere una mancia di 1500 ducati, non essendosi voluto contentare di mille. E non bastava. S'era dovuto firmare un secondo trattato con la Francia solamente, cui si promettevano altri 50,000 ducati con l'obbligo del più stretto segreto, che altrimenti la Spagna si sarebbe subito ingelosita, e avrebbe preteso altrettanto.[114] In sostanza la Città doveva pagare 150,000 ducati ai suoi amici, perchè le lasciassero quelli che sono i diritti naturali d'ogni Stato.

Intanto però essa spingeva innanzi la guerra, ed al Machiavelli che era sempre in campo, i Dieci scrivevano il 15 febbraio, che desse pure tutti gli ordini che occorrevano, «perchè noi abbiamo posto in sulle spalle [95] tue tutta cotesta cura.»[115] Era una responsabilità immensa per chi, come lui, non era uomo di guerra; ma egli faceva miracoli, provvedendo a tutto con un ardore febbrile, e le cose procedevano assai bene. I Genovesi avevano ordinato al corsaro Bardella di ritirarsi, e subito i loro mercanti erano arrivati con navi cariche di grano, a portare per Arno soccorso ai Pisani. Il 18 febbraio furono però respinti, essendosi mandati in tempo alcuni uomini d'arme, 800 fanti dell'Ordinanza e qualche pezzo d'artiglieria a San Piero in Grado, per guardare la foce.[116] Un altro uguale drappello di uomini fu mandato nella valle del Serchio, a guardare la foce del Fiume Morto, come chiamavasi un canale, pel quale le barche, passando nell'Osole o Oseri, soccorrevano Pisa. Ed arrivava poi il celebre architetto Antonio dan San Gallo, con maestri d'ascia e con sufficiente quantità di legname, per fare una palafitta la quale, traversando l'Arno, lo chiudesse del tutto ai nuovi soccorsi. Un simile lavoro ordinò subito il Machiavelli anche attraverso il Fiume Morto.

Per tutto ciò egli corrispondeva direttamente coi Dieci, lasciando un po' troppo da parte il commissario generale Niccolò Capponi, che se ne stava tranquillo, ma poco contento, a Cascina, tanto che il Soderini ne fece fare amichevole rimprovero al Machiavelli, affinchè cercasse di salvare almeno le apparenze.[117] Ed egli scrisse subito al commissario, avvertendolo che trovavasi alle mulina di Quosi, «per vedere se nuovo barchereccio venissi per entrare, per impedirlo come si è fatto dell'altro.»[118] Ma dopo ciò continuò come prima, mancandogli il tempo [96] per pensare alle convenienze. Corse a Lucca per muovere lamento dei soccorsi che sempre partivano di là, e ne ebbe promessa di buona guardia.[119] Il 7 marzo aveva finito la palafitta nel Fiume Morto, con tre ordini di pali fasciati di ferro, al di sotto dell'acqua, e trovavasi al campo di Quosi, dove faceva porre attraverso il fiume Oseri tre navicelli tolti ai Pisani, acciò i soldati fiorentini potessero passare. E lo stesso giorno scriveva ai Dieci, «che Iacopo Savelli era passato e ripassato due volte con otto cavalli; e quando dovessero passare le nostre genti e portassero seco 50 fascine, allora passerebbe anche l'esercito di Serse.» E dimostrandosi sempre più fiducioso, aggiungeva: «Le compagnie dell'Ordinanza sono bellissime, e non danno una briga al mondo. Io credo ancora che i Lucchesi terranno questa volta la promessa di non mandare soccorso, e d'impedire che i privati li portino, o che i Pisani vengano a prenderli. Altrimenti, come io ho detto loro, sarebbe stato inutile fare il trattato coi Fiorentini, ai quali bastava in ogni caso una sola corazza all'una briga ed all'altra.»[120] Cioè potevano con la stessa guardia impedire che i soccorsi fossero mandati da Lucca, o che i Pisani fossero venuti a prenderli.

Arrivate le cose a questo punto, essendo l'esercito diviso, e varie le operazioni da compiersi, pareva strano assai che tutto il peso della guerra dovesse continuare a ricadere sulle spalle del Machiavelli, il quale non era nè generale, nè commissario, ma solo un uomo di fiducia del Soderini. Il Consiglio degli Ottanta elesse perciò due nuovi commissari[121] nelle persone di Antonio da Filicaia [97] e Alamanno Salviati, essendosi, a quanto pare, ricusato il Giacomini, che era malato e disgustato. Essi s'adunarono il 10 marzo a Cascina col Machiavelli e col Capponi, per deliberare sui provvedimenti da prendere, acciò l'impresa fosse subito condotta a fine. Decisero di formare tre campi. Uno a San Piero in Grado, dove sarebbero restati il Machiavelli ed il Salviati, con Antonio Colonna, incaricati di guardare l'Arno ed il ponte, che era già quasi finito, attraverso il Fiume Morto, col bastione per difenderlo. Il secondo campo doveva formarsi a Sant'Iacopo, a fin d'impedire che da Lucca venissero aiuti per Val di Serchio a Pisa, ed ivi doveva stare il commissario Antonio da Filicaia. Rimaneva però sempre la via dei monti, per la quale i Pisani potevano da Lucca portare roba in sulle spalle, e quindi il terzo campo venne formato a Mezzana, chiudendo così tutte le altre strade ed ivi fu commissario il Capponi. In ciascuno di questi tre campi, coi quali era tolta a Pisa ogni speranza d'aiuto, dovevano stare mille uomini, due terzi dei quali dell'Ordinanza fiorentina.[122]

Prima però che siffatte deliberazioni fossero tutte recate ad effetto, il Machiavelli riceveva, con lettera del 10 marzo, ordine di recarsi a Piombino, dove arrivava con salvocondotto un'ambasceria pisana assai numerosa, per proporre le condizioni della resa.[123] Si temeva che [98] volessero solamente pigliar tempo, e però i Dieci lo mandavano a scrutare le loro intenzioni, con incarico di chiedere resa incondizionata, e ritirarsi subito, quando fossero venuti senza facoltà di concluderla.[124] La città di Pisa era veramente ridotta agli estremi. I Fiorentini le avevano, con la formazione dei tre campi, chiuso la via ad ogni speranza di soccorso esterno, così dalla parte di Lucca, come da quella del mare; e per le somme pagate alla Spagna ed alla Francia, avevano ora piena libertà di operare. La grossa guerra che si apparecchiava, in conseguenza della lega di Cambray, teneva l'attenzione e le armi dei grandi potentati, non escluso il Papa, occupate nell'Italia superiore: non restava quindi, neppure da questo lato, speranza d'aiuto ai Pisani. Essi avevano fatto sinora una lunga, eroica, fortunata difesa, e l'avrebbero di certo continuata, se a tutti i pericoli esterni non si fossero uniti ora gravi e non più evitabili disordini interni.

L'energia e l'ostinazione fortunata della loro difesa erano derivate principalmente dall'avere i Fiorentini finora combattuto quasi sempre con soldati mercenarî o ausiliarî, mentre essi avevano non solo armato tutti i proprî cittadini, ma anche gli abitanti stessi del contado, chiamandoli anche a parte del governo. Questa unione, della città e della campagna, nuova affatto nelle nostre repubbliche, aveva loro dato una forza grandissima, e fatto sorgere esempî di virtù, di abnegazione, d'eroismo, insoliti nella storia italiana di quel tempo, tali che gli avversarî stessi ne rimanevano ammirati, ed il Machiavelli ne traeva argomento a sperare sempre più nell'ordinamento delle milizie nazionali. Ma dalla lunga guerra erano in Pisa risultate ancora altre conseguenze. I contadini, primi ad essere ogni giorno assaliti, costretti perciò a fare i più [99] duri sacrifizî di sangue e d'averi, finirono col prendere necessariamente una parte sempre maggiore nel governo della città, divenuto in sostanza un governo militare di pubblica difesa, nel quale era naturale che fossero più potenti coloro che più erano esposti a combattere il nemico. Ciò non ostante, i cittadini, per la maggior pratica che avevano degli affari, e per la maggiore accortezza politica, riuscivano sempre a condurre le cose dove essi volevano. E così poco a poco nasceva un conflitto d'interessi, cui era difficile trovare rimedio.

Il contado era tutto guasto ed esausto, ed i Fiorentini, come già notammo, non dimostravano più nessun desiderio di vendetta; volevano resa incondizionata, ma promettevano di trattar tutti umanamente, come loro proprî e antichi sudditi. Queste condizioni convenivano agli abitanti del contado, i quali sapevano che, finita una volta la guerra, sarebbero stati trattati come sottoposti anche dai Pisani, secondo l'uso generale di tutte le repubbliche italiane; non convenivano però punto agli abitanti della città, i quali avrebbero, con la resa incondizionata, perduto quella indipendenza che apprezzavano sopra ogni altra cosa al mondo. Così incominciò la discordia. I contadini dicevano, che le loro campagne erano ridotte a tale, che il prolungare la difesa era divenuto ormai impossibile, stretti com'erano dal nemico e dalla fame; volevano quindi arrendersi. I cittadini, invece, sempre ostinati, temporeggiavano in mille modi, pur di pigliare tempo a continuare la guerra. Ora proponevano di cedere il solo contado, ora cercavano invece di spaventare i contadini, dicendo che su di essi sarebbero cadute le vendette maggiori dei Fiorentini; ma questi in mille modi facevano capir chiaro di essere veramente decisi alla clemenza con tutti. L'idea di cedere il solo contado non era poi accettabile da nessuno, perchè la guerra sarebbe continuata contro la città, il [100] che avrebbe reso inevitabile anche la devastazione delle campagne.[125]

L'ambasceria, in queste condizioni, mandata da Pisa a Piombino, era composta di contadini e di cittadini, i quali non potevano essere dello stesso animo, come il Machiavelli già sapeva, e come ebbe subito a sperimentare. Il 15 marzo infatti egli scriveva, rendendo conto ai Dieci della sua commissione, che i Pisani, venuti in gran numero, s'erano doluti che, invece di due o tre autorevoli cittadini, si fosse mandato un semplice segretario, il quale neppur veniva direttamente da Firenze. In ogni modo chiedevano la pace, salve le vite, la roba e gli onori; non avevano però mandato di concludere. A questo il Machiavelli, assai poco contento, si era, dopo poche parole, rivolto al Signore di Piombino, dicendo, «che non rispondeva nulla, perchè non avevano detto nulla. Se volevano qualche risposta, dicessero qualche cosa. Vostre Signorie volevano obbedienza, e non si curavano di lor vita, nè di lor roba, nè di loro onore, e avrebbero lasciato libertà ragionevole.» I Pisani fecero allora la proposta di cedere il contado, e di essere lasciati chiusi nelle mura della loro città. «Non vedete,» rispose il Machiavelli, rivolgendosi di nuovo al signor di Piombino, «che si ridono di voi? Se non si vuole rimettere Pisa in mano dei Signori fiorentini, è inutile di trattare; e quanto alla sicurtà, se non si vuole stare alla loro fede, non c'è altro rimedio.» E ai contadini poi disse, «che gl'incresceva della loro semplicità, perchè giocavano un giuoco in cui dovevano perdere in ogni modo. Se Pisa doveva essere sottomessa colla forza, essi avrebbero perduto la roba, la vita ed ogni cosa. Quando invece avessero vinto i Pisani allora i cittadini non li avrebbero voluti per compagni, ma per servi, e li avrebbero fatti tornare ad arare.» A questo punto uno dei cittadini [101] presenti cominciò a gridare, che quelli non erano termini convenienti, perchè si cercava dividerli; ma i contadini parevano invece consentire, e uno di essi, Giovanni da Vico, esclamò ad alta voce: «Noi vogliamo la pace, noi vogliamo la pace, imbasciatore.» Il Machiavelli non si occupò d'altro, ed il giorno seguente partì, sebbene due volte, anche quando era montato a cavallo, fossero tornati da lui per riannodare i discorsi.[126]

Egli dovè subito recarsi a Firenze, dove i Dieci lo chiamavano allora in grandissima fretta,[127] con tutti gli uomini che poteva menar seco. Pare che fossero in grave pensiero, perchè da ogni parte le genti del Papa e della Francia movevano già contro Venezia. Ben presto però lo troviamo di nuovo nel campo a Mezzana, donde, avendo da essi ricevuto invito d'andare a Cascina, per ivi fermarsi, rispondeva il 16 aprile. Dopo avere minutamente ragguagliato sullo stato dell'esercito, dicendo che le fanterie erano così buone come ogni altra che si potesse avere in Italia, concludeva raccomandandosi vivissimamente, che lo lasciassero dove si trovava, altrimenti [102] non avrebbe potuto occuparsi nè dei fanti nè del campo, ed a Cascina bastava mandassero un uomo qualunque. Capiva bene che l'andare colà sarebbe stato per lui meno faticoso e meno pericoloso; «ma se io non volessi nè pericolo nè fatica, non sarei uscito da Firenze; sicchè mi lascino Vostre Signorie stare infra questi campi, e travagliare fra questi commissari delle cose che corrono, dove io potrò essere buono a qualche cosa, perchè io non sarei quivi buono a nulla, e morrei disperato; e però di nuovo le prego disegnino sopra qualche altro.[128]» I Dieci gli risposero, che stesse pure là dove credeva più utile la sua presenza;[129] ed egli fu quindi in giro pei tre campi, a sorvegliare l'andamento delle cose, trovandosi sempre ov'era necessaria l'opera sua, perchè nulla mancasse ai soldati. Ora distribuiva le paghe, ora mandava le vettovaglie, ora consigliava e dirigeva le operazioni necessarie ad impedire che entrassero aiuti nella città.[130] Il 18 maggio era a Pistoia per sollecitare l'invio del pane che era stato ritardato, e dava ordini severi perchè non seguissero più simili inconvenienti.[131] E queste cure indefesse ebbero finalmente il desiderato effetto, perchè i Pisani si trovarono così stretti e vigilati da ogni lato, che dovettero ormai decidersi a cedere.

Il 20 di maggio, infatti, i tre commissari scrivevano ai Dieci,[132] annunziando che quattro Pisani erano venuti a chiedere salvocondotto, per mandare a Firenze ambasciatori [103] che trattassero della resa. Ed il 24 questi ambasciatori, con cinque cittadini e quattro contadini[133] si presentarono al campo e partirono subito con Alamanno Salviati e Niccolò Machiavelli, tanto che la sera stessa erano arrivati a San Miniato.[134] Il giorno 31 il Machiavelli si trovava di ritorno a Cascina, e gli ambasciatori, avendo concordato a Firenze i termini della resa, che in sostanza era incondizionata, con promessa però d'essere trattati con clemenza, rientrarono subito in Pisa. Non v'era tempo da perdere. Il 2 giugno erano uscite dalla misera città trecento persone, correndo affamate al campo di Mezzana, per chiedere pane, che fu loro dato. Il giorno seguente uscivano a frotte da ogni porta, tanto che fu necessario rimandarne indietro parecchie, altrimenti avrebbero riempito e disordinato il campo intero.[135] Il 6 tutto era concluso, perchè i Fiorentini entrassero il giorno seguente. I tre commissari s'adunarono a Mezzana col Machiavelli, che aveva ricevuto tremila ducati per le paghe. Venne anche l'ordine, che lasciassero scegliere a lui le genti che dovevano entrare in città, alle quali doveva dar prima un terzo delle paghe, acciò non vi fosse occasione o pretesto d'abbandonarsi al saccheggio o ad altri eccessi.[136] Si tardò ancora un giorno, per entrare il dì 8; non sappiamo il perchè. È probabile che, per determinare non solo il giorno, ma anche l'ora, [104] si consultassero, come allora usava, gli astrologi. Certo è che fra le molte lettere, mandate in quei giorni al Machiavelli, ne troviamo una dell'amico Lattanzio Tedaldi, il quale gli raccomandava vivamente di non cominciar l'entrata prima delle dodici e mezza, possibilmente qualche minuto poco dopo le tredici «che sarà hora felicissima per noi.»[137]

Secondo il giudizio concorde degli storici contemporanei, tutto procedette da questo momento con una grandissima umanità e benevolenza verso la infelice città, che con tanta energia aveva combattuto e sofferto.[138] I Fiorentini non solamente non usarono violenza; non solo portarono grande quantità di vettovaglie che distribuirono largamente tra la popolazione affamata; ma resero ai Pisani tutti i beni stabili, che avevano loro confiscati, computando scrupolosamente a vantaggio degli antichi possessori anche i frutti di quell'anno sino al giorno della pace. I conti vennero affidati a Iacopo Nardi, lo storico, il quale dice che furono fatti talmente a favore dei Pisani, che pareva quasi avessero essi dettato e non subìto le condizioni della pace.[139] Vennero confermati gli antichi privilegi, le antiche magistrature amministrative della città; rese le franchigie commerciali già godute in antico; concesso nelle liti un appello ai medesimi giudici che giudicavano i Fiorentini. Ma se tutto ciò faceva onore ai vincitori, massime al Soderini ed al Machiavelli, che avevano avuto la parte principale nel dare ed eseguire questi ordini, non poteva certo bastare [105] a soddisfare i vinti. La libertà, l'indipendenza, i diritti politici erano perduti per sempre! Nessun Pisano poteva più sperare di aver qualche parte nel decidere i destini della sua città, e però le principali famiglie esularono a Palermo, a Lucca, in Sardegna, altrove. Molti s'arrolarono nell'esercito francese, che combatteva allora in Lombardia contro Venezia, per cercare poi nella Francia meridionale un'immagine del bel clima toscano.[140] In questa occasione esularono anche i Sismondi, da cui discese lo storico illustre delle repubbliche italiane.

Allora, osserva il Nardi, non pochi pensarono ad Antonio Giacomini, il primo che aveva dato alla guerra pisana un indirizzo tale da poterla condurre a buon fine, ed era stato poi, per invidia, lasciato da parte; sicchè trovavasi vecchio, inabile, cieco e abbandonato. Per singolare capriccio della fortuna trionfava invece il Machiavelli, che non era uomo di guerra. Ma egli poteva avere la coscienza tranquilla, perchè non era stato mai di quelli che avevano disprezzato il Giacomini, anzi ebbe sempre per lui un'ammirazione sincera, nè tralasciò occasione di manifestarla, biasimando coloro che lo avevano trascurato, riconoscendo d'essere stato dall'esempio e dai buoni successi militari di lui incoraggiato ad ordinare quella Milizia, cui ora si attribuiva la resa di Pisa.

Tutto gli era riuscito a buon fine; e la clemenza usata nel prender possesso della città crebbe la reputazione della sua prudenza e l'autorità del suo nome. Da ogni parte gli arrivavano lettere di congratulazione. Una di Agostino Vespucci, suo coadiutore nella cancelleria di Firenze, gli diceva, in data appunto dell'8 giugno, che [106] i fuochi s'erano accesi nella Città sin dalle ore 21, nè era possibile descrivere la letizia universale: «ogni uomo quodammodo impazza di esultazione.... Prosit vobis lo esservi trovato presente ad una gloria di questa natura, et non minima portio rei.... Nisi crederem te nimis superbire, oserei dire che voi con li vostri battaglioni tam bonam navastis operam, ita ut, non cunctando sed accelerando, restitueritis rem florentinam. Non so quello mi dica. Giuro Dio, tanta è la esultazione aviamo, che ti farei una Tulliana, avendo tempo, sed deest penitus[141] Ed il 17 giugno, il commissario Filippo da Casavecchia, suo amico, gli scriveva da Barga: «Mille buon pro' vi faccia del grandissimo acquisto di cotesta nobile città, che veramente si può dire ne sia suto cagione la persona vostra in grandissima parte.... Ognindì vi scopro el maggior profeta che avessino mai li Ebrei o altra generazione.»[142]

Tutti questi trionfi non erano però senza qualche pericolo per l'avvenire del Machiavelli, ed anche della Repubblica. Da un lato era inevitabile che venisse fatto segno a nuove gelosie ed invidie un segretario, il quale aveva sorvegliato un assedio, con autorità quasi superiore a quella dei commissarî di guerra, e per giunta era stato fortunato in modo da ottenere il trionfo, ponendo fine ad una lotta ostinata, che per tanti anni aveva esaurito le forze delle due città. Da un altro lato questo fortunato successo fece a tutti concepire grandissima opinione della nuova Ordinanza. Infatti d'allora in poi il Machiavelli e gli altri riposero in essa una fiducia così illimitata, che poteva essere, e più tardi fu veramente, [107] cagione di grandi e crudeli disinganni. Pareva che nessuno s'avvedesse, che in sostanza allora tutto s'era per essa ridotto a dare il guasto, senza incontrar mai nemici da combattere; a far buona guardia, perchè non arrivassero soccorsi di vettovaglie ad una città affamata ed esausta, che non era più in grado di difendersi. Non si pensava, che assai diverso sarebbe stato il caso, quando si fosse trattato d'affrontare nemici agguerriti ed in forze. In fatti questa esperienza si dovè fare più tardi, ed allora a proprie spese s'imparò quanto sia in guerra pericoloso il pascersi di vane illusioni.

CAPITOLO XII.

La lega di Cambray e la battaglia d'Agnadello. — Umiliazione di Venezia. — Legazione a Mantova. — Decennale Secondo. — Piccole contrarietà del Machiavelli. — Il Papa alleato di Venezia, nemico della Francia. — Ricomincia la guerra — Terza legazione in Francia.

Il 10 dicembre 1508 s'era finalmente conclusa quella lega di Cambray, che Giulio II aveva con tante cure e tanto ardore promossa. L'Imperatore, la Spagna, la Francia ed il Papa s'univano, in apparenza a combattere il Turco, ma di fatto a vendetta, a sterminio di Venezia; ed erano già d'accordo sul come dividersene il territorio. Il Papa avrebbe avuto le agognate terre di Romagna; l'Imperatore, Padova, Vicenza, Verona, il Friuli; la Spagna, le terre napoletane sull'Adriatico; la Francia, cui toccava nella guerra la parte principale, Bergamo, Brescia, Crema, Cremona, la Ghiara d'Adda ed il Milanese. Le ostilità cominciarono subito, e sino dal principio pareva che gli uomini e la natura cospirassero a danno di Venezia. Il magazzino delle polveri saltò in [108] aria; il fulmine colpì la fortezza di Brescia; una barca, che portava a Ravenna 10,000 ducati, naufragò; alcuni degli Orsini e dei Colonna, che erano stati assoldati, con obbligo di condurre buon numero di fanti e cavalieri, e avevano già ricevuto 15,000 ducati, ritennero il danaro e ruppero il contratto, per ordine del Papa. Ma la indomabile repubblica non si perdè d'animo, e mise sull'Oglio un poderoso esercito di nazionali e stranieri, e sotto il comando di Niccolò Orsini conte di Pitigliano e di Bartolommeo d'Alviano. Il Pitigliano però era tutto prudenza, l'Alviano tutto impeto, e non volendo nessuno dei due cedere all'altro il comando supremo, la direzione della guerra ne rimaneva incerta.

I nemici della repubblica andavano invece concordi e deliberati al loro scopo. Il 15 d'aprile Giulio II pubblicò la bolla di scomunica contro i Veneziani e contro chiunque gli aiutasse, dando libera facoltà ad ognuno di derubarli e venderli poi anche schiavi. Il 14 maggio l'avanguardia francese, comandata da G. G. Trivulzio, passato l'Adda, incontrò la retroguardia dei Veneziani alla cui testa era l'Alviano. Questi, essendosi fermato, si trovava sempre più lontano dal grosso dell'esercito, che proseguiva il suo cammino; il nemico era invece continuamente rinforzato dal sopraggiungere de' suoi. Avvistosi di ciò l'Alviano, fece avvertire il conte di Pitigliano, perchè gli venisse in aiuto; ma questi, con la solita prudenza, rispose che il Senato non voleva si desse allora battaglia, e però consigliava anche a lui di continuare il suo cammino. L'Alviano invece attaccò il nemico e si condusse con valore; ma fu, come quasi sempre nella sua vita, sfortunato. Le fanterie italiane, specie quelle dei Brisighella, si condussero eroicamente, restando uccisi seimila dei loro uomini. Venti pezzi d'artiglieria furono perduti; l'Alviano stesso rimase ferito e prigioniero. La rotta fu generale, ma una parte della cavalleria si salvò, ed il grosso dell'esercito veneziano, avendo [109] continuato il suo cammino col Pitigliano, non prese parte alla mischia. Questa battaglia, nota col nome di Vailà o d'Agnadello, fu la prima delle grandi e sanguinose lotte, che d'allora in poi seguirono in Italia senza tregua, nelle quali i nostri soldati e capitani combatterono con valore nei due campi avversi, rendendo la loro patria sempre più serva dello straniero. I Francesi ebbero in loro potere Caravaggio, Bergamo, Brescia, Crema; presero anche Peschiera, e così in 15 giorni Luigi XII, venuto in Italia alla testa del suo esercito, era già padrone di tutte le terre che gli erano state promesse a Cambray; ed allora cominciò subito a raffreddarsi nella guerra. Il conte di Pitigliano si chiuse in Verona.

Ma intanto l'esercito pontificio, forte di 400 uomini d'armi, 400 cavalli leggieri ed 800 fanti, cui s'unirono più tardi 3000 Svizzeri, s'avanzava rapidamente in Romagna, senza più incontrare ostacoli di sorta, sotto il comando di Francesco Maria della Rovere, nipote del Papa, e ora duca d'Urbino per l'adozione che di lui aveva fatta Guidobaldo da Montefeltro, morto senza figli. Il duca Alfonso d'Este, che finora era sembrato neutrale, all'annunzio della battaglia di Vailà cacciò da Ferrara il Visdomino veneziano, mandò 32 de' suoi celebri cannoni all'esercito del Papa, e ripigliò alcune terre state già tolte agli Este dai Veneziani. Nemico si dichiarò anche il marchese di Mantova; ed alcuni vassalli dell'Impero, aspettando l'arrivo di Massimiliano, attaccavano intanto nel Friuli e nell'Istria la bersagliata repubblica di S. Marco, alla quale restava adesso solo la speranza che, col cedere a qualcuno dei nemici tutto quello che voleva, potesse farselo amico e separarlo dagli altri, che così avrebbe indeboliti.[143]

Alla Francia ormai non v'era più nulla da cedere, perchè essa aveva già preso tutto quel che voleva. Alla Spagna [110] i Veneziani resero le poche terre napoletane che avevano sull'Adriatico; ma ciò era, nel presente momento, ben poca cosa. Occorreva fare assai di più, per ottenere il desiderato intento. Gli storici dicono che la Repubblica veneta mandò allora Antonio Giustinian all'Imperatore col foglio bianco, con la commissione cioè di sottomettersi a lui, cedendo tutto quel che chiedeva. E si diffuse allora assai largamente una orazione latina. Ad divum Maximilianum Imperatorem, che il Giustinian avrebbe, dicevano, scritta e letta poi a quel sovrano. Essa è veramente una povera cosa, umile fino quasi all'abbiezione, indegna della Serenissima e del suo oratore, i cui dispacci eran sempre pieni di acume e di dignità. Pure fu dal Guicciardini tradotta nella sua Storia d'Italia; il Machiavelli ne conservò copia nelle sue carte,[144] e v'alluse nei Discorsi; il Ricci la trascrisse nel suo Priorista, ed il 7 luglio 1509 l'ambasciatore fiorentino Piero de' Pazzi, ne mandava da Roma copia ai Dieci, scrivendo che era «cosa miserabile vedere gli oratori veneti andar per la terra, tanto la loro superbia s'era mutata in umiltà.»[145]

Certo Venezia, dopo la disfatta subita, avendo contro di sè Papa, Impero e Francia, era assai sgomenta; ma non si abbandonò, non si avvilì mai quanto farebbe credere quella orazione. Oltre di ciò, noi abbiamo le istruzioni che la repubblica dette prima al Giustinian, poi ad altri suoi rappresentanti; sappiamo quindi con precisione quali proposte, nelle sue calamità, essa fece, e con quale scopo. Volendo far di tutto per indurre Massimiliano a venire in Italia a combattere la Francia e difendere Venezia, offriva di cedergli quelle terre [111] che nello scorso anno essa aveva tolte all'Impero. E sebbene sembrasse assai più restia per alcune altre città, che l'Imperatore presumeva fossero sue, pure anche su queste sembrava disposta a riconoscerne l'autorità, pagandogli un censo. E quando fosse per loro venuto davvero in Italia, i Veneziani lo avrebbero con tutte le loro forze aiutato, dandogli in diverse rate 200,000 fiorini. Più tardi, facendo altre minori proposte, si dichiaravano pronti a pagargli addirittura 50,000 fiorini l'anno per tutta la sua vita.[146] Ma l'Imperatore rispose di volere andare d'accordo con la Francia, di non voler trattare con chi era stato scomunicato dal Papa, e negò il salvocondotto al Giustinian, che non si potè quindi neppur presentare a lui. La sua pretesa orazione adunque, se non è un esercizio retorico di qualche nemico di Venezia, non fu di certo mai letta a Massimiliano, e quello che è più, non risponde alle istruzioni che l'oratore aveva ricevute dal Senato Veneto.[147]

Se però l'Imperatore si dimostrava così restìo, pareva invece che fosse già disposto a mutare animo il Papa, che era stato il promotore della lega. Avute le sue terre di Romagna, egli si dimostrava sempre sdegnato contro i Veneziani, dai quali richiedeva le entrate che essi avevano colà riscosse in passato; nemico sempre degli stranieri in genere, era adesso anche più sdegnato contro i Francesi, che, dopo aver preso per sè tutto quello [112] che volevano, non sembravano punto disposti a proseguire seriamente la guerra. Sembrava perciò assai inclinato ad unirsi contro di loro con l'Imperatore. Se non che questi, quantunque ora non gli mancassero i danari, quantunque parecchie terre del Veneto sembrassero pronte ad arrendersi a lui, non si moveva. I suoi rappresentanti però s'avanzarono per prenderne possesso, e Venezia, che voleva evitare ogni conflitto con lui, ordinò che si cedesse. Infatti il vescovo di Trento assai facilmente prese possesso di Verona e di Vicenza; anche Padova si arrese senza resistenza. A Treviso però le cose andarono assai diversamente. Colà, se i nobili, sempre avversi a Venezia in tutte le città da essa conquistate, si dimostravano pronti a sottomettersi senz'altro, il popolo invece, che dappertutto le era affezionatissimo, insorse al grido di Viva San Marco, saccheggiò le loro case, e cacciò i rappresentanti dell'Impero. E questa fu una scintilla, che s'andò facilmente propagando per tutto, tanto più che le forze di Massimiliano in Italia erano scarsissime. Si disse allora e si ripetè poi dagli storici, che Venezia, dando prova d'una grande sapienza politica e d'una grandissima fiducia nell'affezione dei propri sudditi, sciolse le città di terra ferma dal giuramento d'obbedienza, lasciandole libere d'arrendersi o difendersi, secondo che volevano, e che esse, per affezione a S. Marco, si difesero eroicamente. Tutto questo però è, in parte almeno, una leggenda, di cui facilmente si spiega l'origine, se si guarda alla realtà vera dei fatti.[148] Venezia voleva separare l'Imperatore dalla Francia, per attirarlo a sè, a questo fine era disposta, come abbiam visto, ad ogni sacrifizio di uomini e di [113] danaro, a cedere anche alcune delle sue città, e aveva dato perciò gli ordini opportuni. Ma quando vide che l'Imperatore non si moveva, e che il popolo insorgeva al grido di Viva San Marco, cominciò ben presto a mutare condotta.

Infatti, sebbene avesse in sul principio mostrato di rassegnarsi a cedere perfino Padova, il 17 luglio 1509 mutò improvvisamente, e rientrò per sorpresa nella città, che subito s'arrese insieme con la fortezza: il popolo intanto saccheggiava le case dei nobili. Tutto il territorio padovano seguì l'esempio della città, e Verona, dove l'arcivescovo di Trento si trovava con pochissime forze, era sul punto d'insorgere anch'essa, tanto più che, avendo gl'imperiali invocato l'aiuto del marchese di Mantova, e questi essendosi mosso, fu per via fatto prigioniero dagli Stradioti di Venezia. Luigi XII, invece di ricominciare la guerra per aiutare gli alleati, se ne tornava in Francia, lasciando ai confini veronesi il La Palisse con 500 lance e 200 gentiluomini. E ciò, dopo aver concluso col Papa un trattato a difesa comune dei propri Stati, abbandonando al loro destino i vassalli della Chiesa, fra i quali principalissimo il duca di Ferrara, suo alleato, che restava così esposto all'odio ed agli assalti di Giulio II.

Finalmente però Massimiliano si decise a muoversi, per venire all'assedio di Padova, dove i Veneziani fecero subito entrare tutte le forze che avevano disponibili. V'entrarono anche i due figli del doge Loredano con 100 fanti tenuti a loro proprie spese; li seguirono altri 176 gentiluomini veneziani, e poi vennero gli abitanti della campagna colle loro raccolte di viveri. L'Imperatore comandava il più poderoso esercito che da molti secoli si fosse visto in Italia. V'erano i Francesi del La Palisse, gli Spagnuoli educati alla guerra sotto Gonsalvo di Cordova, Italiani, Tedeschi, avventurieri d'ogni nazione, e 200 cannoni. In tutto da 80 a 100 mila [114] uomini.[149] Presto cominciarono le operazioni d'assedio, e la breccia fu aperta; ma quando si venne all'assalto, i Veneziani fecero scoppiare le mine già prima caricate, e la più parte degli assalitori, fra cui alcuni capitani di grido, saltarono in aria. Così l'assedio fu levato il 3 di ottobre, e ricominciarono le querele degli alleati, massime dell'Imperatore, che, trovandosi senza danari, ne cercava a tutti, e con più insistenza che mai ai Fiorentini, ai quali ricordava le somme già promesse per mezzo del Vettori, quando fosse venuto in Italia, dove ormai si trovava.

Essi dovettero quindi inviargli a Verona, dove sembrava che ora si recasse, sebbene tornasse poi indietro, due ambasciatori, Giovan Vittorio Soderini e Piero Guicciardini, il padre dello storico. Il Machiavelli, rimandandoli a ciò che esso aveva già scritto sulla Germania e sull'Imperatore, ricordava loro di essere accorti, perchè questi «assai spesso disfaceva la sera quello che concludeva la mattina.»[150] E gli ambasciatori arrivati a Verona, firmarono subito un trattato (24 ottobre 1509), col quale i Fiorentini s'obbligavano a pagare 40,000 ducati a Massimiliano, che prometteva loro amicizia e protezione.[151] Il pagamento doveva farsi in quattro rate: la prima subito, nel mese stesso d'ottobre, la seconda il 15 novembre,[152] la terza nel gennaio, e la quarta nel febbraio seguenti.

[115]

A portare la seconda rata fu, con deliberazione del 10 novembre, mandato il Machiavelli con ordine di trovarsi il 15 a Mantova, e, fatto il pagamento, recarsi a Verona o dove credesse più opportuno, per raccogliere notizie. Ed il Machiavelli adempiè la commissione, cominciando subito a cercar notizie in Mantova stessa, non senza avvertire, che quello era un «luogo dove nascono, anzi piovono le bugìe, e la Corte ne è più piena che la piazza.[153] Il 22 era a Verona, donde scriveva il 26, notando subito, secondo il suo solito, i fatti essenziali ad avere una giusta cognizione dello stato delle cose e degli animi colà. «I gentiluomini,» egli diceva, «non amano Venezia, inclinano agli alleati; ma il popolo, la plebe, i contadini sono tutti marcheschi.[154] Il vescovo di Trento si trova a Verona con poche migliaia di fanti e cavalli, Vicenza s'è già ribellata e data ai Veneziani: l'Imperatore trovasi a Roveredo, e non vuol ricevere oratori; i nobili di Verona guardano alla Francia, che finalmente ha mandato solo 200 Guasconi e 200 uomini d'arme. Ma questi aiuti non giovano a niente, perchè sono pochi, e intanto gli alleati devastano e rubano il paese in modo indescrivibile.» «E così negli animi di questi contadini è entrato un desiderio di morire e vendicarsi, che sono divenuti più ostinati e arrabbiati contro a' nemici de' Veneziani, che non erano i Giudei contro a' Romani; e tuttodì occorre che uno di loro, preso, si lascia ammazzare per non negare il nome veneziano. Eppure iersera ne fu uno innanzi a questo vescovo, che disse che era marchesco e marchesco voleva morire, e non voleva vivere altrimenti; in modo che il vescovo lo fece appiccare, nè promesse di camparlo, nè d'altro bene, lo poterono trarre di questa [116] opinione: di modo che, considerato tutto, è impossibile che questi re tenghino questi paesi con questi paesani vivi.»[155] La resistenza energica e qualche volta eroica di quei contadini ricorda quella assai simile dei contadini pisani contro Firenze, e ci conferma nella opinione già espressa sul vigore e l'energia morale ancora esistente negli ordini inferiori della società italiana, dei quali allora si faceva troppo poco conto, e di cui generalmente non s'occuparono gli storici.

«Le cose,» continuava il Machiavelli, «non possono in questi termini durare a lungo. Più la guerra va lenta e più crescerà l'amore verso Venezia, perchè le popolazioni sono in casa e fuori consumate dagli alleati, che le rubano e le rovinano, mentre i Veneziani, pur facendo continue scorrerie e prede, le rispettano e fanno trattare con ogni riguardo.[156] Intanto Luigi XII e Massimiliano non vanno punto d'accordo fra di loro, e si teme che alla fine questi si unirà coi Veneziani. Sono due re, che uno può fare la guerra ma non vuole, e quindi la va dondolando; l'altro vuole ma non può. Se però mantengono con questi modi a' paesani la disperazione, e a' Veneziani la vita, credesi, come ho detto altre volte, che in un'ora possa nascere cosa che farà pentire e re e papi e ciascuno di non aver fatto suo debito ne' debiti tempi.[157] I Veneziani in tutti questi luoghi dei quali s'insignoriscono, fanno dipingere un S. Marco che, in cambio di libro, ha una spada in mano; donde pare che si sieno avveduti a loro spese, che a tenere gli Stati non bastano gli studî e i libri»[158] Il 12 dicembre egli era a Mantova, di dove, essendo già vicina la guerra intorno a Verona, mandò una lunga ed esatta descrizione [117] di questa città;[159] e poco dopo, avutane licenza dai Dieci, se ne tornò a Firenze.

Nella sua breve gita, che pure durò poco meno di due mesi, il Machiavelli non ebbe molto da fare, e gli restò qualche tempo libero, che pare dedicasse a cominciare il secondo de' suoi Decennali, che poi restò interrotto. Il brano, infatti, che di esso abbiamo, narra gli avvenimenti seguiti dal 1504 al 1509 per l'appunto. Ed in una lettera, che in quei giorni medesimi scrisse a Luigi Guicciardini, e sulla quale torneremo fra poco, troviamo una poscritta che dice: «Aspecto la risposta di Gualtieri a la mia cantafavola.» Or questo era il nome che egli ed i suoi amici dettero più volte al Decennale.

Nel secondo il Machiavelli incomincia col dire, che oserà narrare i nuovi eventi, sebbene

Sia per dolor divenuto smarrito.[160]

Invocata la Musa, egli accenna alla rotta di Bartolommeo d'Alviano in Toscana, per opera principalmente del prode [118] Antonio Giacomini, del quale fa grandi elogi. Dopo accennati più brevemente ancora alcuni fatti generali d'Europa, rammenta come papa Giulio II, non potendo tenere «il feroce animo in freno,» cominciò la guerra contro i tiranni a Perugia, a Bologna. E così finalmente arriva con grande rapidità alla lega di Cambray. Questa egli sembra attribuire, più che altro, alle vittorie dei Veneziani contro l'Imperatore nel 1508, quando s'impadronirono d'alcune sue terre.

Le qual dipoi si furon quel pasto,

Quel rio boccon, quel venenoso cibo,

Che di San Marco ha lo stomaco guasto.

I Fiorentini allora, profittando dell'occasione, affamarono Pisa, circondandola in modo, che non vi poteva entrare «se non chi vola;» onde essa, che pur era stata assai ostinata nella difesa,

Tornò piangendo alla catena antica.

Ma non si potè nulla concludere, senza prima aver contentato le bramose voglie dei potentati, che cercavano sempre nuovi pretesti per aver danari:

Bisognò a ciascuno empier la gola

E quella bocca che teneva aperta.

Gli alleati fiaccarono poi la potenza dei Veneziani a Vailà, ed allora si vide chiaro quanto poco giovi la forza senza la prudenza, che a tempo prevede e ripara i mali.

Di quinci nasce che 'l voltar del cielo

Da quello a questo i vostri Stati volta

Più spesso che non muta il caldo e 'l gelo.

Che se vostra prudenzia fusse volta

A conoscere il male e rimediarvi,

Tanta potenzia al ciel sarebbe tolta.

E dopo questi versi, certo non eleganti nè armoniosi, ma nei quali si vede la fede illimitata che il Machiavelli [119] ebbe sempre nell'accortezza politica e nell'arte di governo, che a tutto, secondo lui, poteva sempre riuscire, arriva al momento in cui Massimiliano, fallito nell'assalto di Padova,

Levò le genti, affaticato e stanco;

E dalla Lega sendo derelitto,

Di ritornarsi nella Magna vago,

Perdè Vicenza per maggior despitto.[161]

E con questo fatto, seguìto nei giorni stessi, in cui il Machiavelli era a Verona ed a Mantova, rimane in tronco il secondo Decennale, che è solo un breve frammento, e letterariamente vale anche meno del primo.

La lettera cui più sopra abbiamo accennato, scritta dal Machiavelli in Verona, il dì 8 dicembre, a Luigi Guicciardini in Mantova, dimostra che se veramente, come noi supponiamo, egli scrisse allora il brano del secondo Decennale, le sue ore d'ozio pur troppo non furono occupate solamente nello scrivere quei versi abbastanza mediocri. Pare che Luigi Guicciardini, fratello dello storico, gli avesse narrato una sua oscena avventura. Rispondendo, egli ne racconta un'altra così ributtante, che noi vi alludiamo solo, perchè la lettera che ne parla fu data alle stampe, ond'è pur necessario dirne qualche cosa. Il Machiavelli adunque racconta d'essere a Verona entrato nello scuro tugurio d'una donna di mala vita, la quale era così sudicia, puzzolente e brutta, che quando, nell'accomiatarsi da lei, potè vederla al lume della lucerna, fu tanto disgustato d'esserle stato vicino, che dette di stomaco. La più fugace lettura di questo racconto, che del resto sarebbe preferibile ignorare affatto, dimostra chiaro che egli, per far ridere l'amico, esagerava anche più del solito, in modo da oltrepassare non poco i confini del verosimile. L'esagerazione stessa però è tale da [120] far deplorare che un uomo grave, il quale pur era padre di famiglia, non più giovane, marito di moglie affezionata, potesse, quando anche non fosse che per celia, raccogliere così disgustoso fango.[162] Nè qui basta a tutto giustificare la solita scusa dei tempi. Fortunatamente le molte faccende non gli lasciarono allora tempo da pensare e scrivere altre simili sconcezze.

I suoi amici, che spesso gareggiavano con lui nei più osceni discorsi, in questi giorni gli mandavano da Firenze lettere che discorrevano anche di private ed assai poco grate faccende. Francesco del Nero, suo parente, accennava, in data del 22 novembre 1509, ad una lite di famiglia, che non determinava, ma che doveva essere di qualche gravità, perchè egli diceva che molte persone autorevoli, tra cui lo stesso gonfaloniere Soderini e i fratelli di lui, erano stati consultati in proposito, e sembravano adoperarsi in favore del Machiavelli.[163] Di che cosa si tratti noi non sappiamo; è certo però che, in conseguenza di un accordo fatto col fratello Totto, il quale s'era dato alla vita ecclesiastica, e dovette perciò avere i benefizî spettanti alla famiglia, Niccolò era venuto in possesso di tutta l'eredità paterna, coi debiti non piccoli e le tasse che la gravavano. Nel 1511, infatti, gli ufficiali del Monte portarono a suo carico le Decime dovute, e fu poi obbligato anche a pagar grosse somme ai creditori.[164] Da tutto ciò è facile supporre che sorgessero [121] liti, e che ad una di esse il Del Nero accennasse. Poco dopo, altra e più grave lettera, in data del 28 dicembre, gli veniva dal fido Biagio Buonaccorsi. «Sette giorni fa,» egli scriveva, «un tale s'è presentato turato,[165] con due testimonî, al notaio dei Conservatori, con una protesta la quale diceva, che per essere voi nato di padre, ecc.,[166] non potete esercitare l'ufficio di segretario. E benchè la legge, già altre volte citata, sia quanto la può in vostro favore, pure c'è molti che strepitano, e se ne parla dovunque, perfino nei bordelli.» E dopo avergli consigliato, in nome degli amici, a non tornare ancora in Firenze, concludeva: «Io qui prego e ringrazio per voi, cose alle quali non siete punto adatto. Meglio adunque che lasciate passar questa tempesta, per la quale da più giorni non ho dormito, senza nulla tralasciare per voi, giacchè non so donde venga, ma ci avete ben pochi che vogliano aiutarvi.[167]

A che cosa alluda questa seconda lettera, è anche meno facile indovinarlo. Si trattava certo di un divieto che i nemici del Machiavelli volevano dal padre far ricadere sul figlio.[168] Il Passerini, che pubblicò la lettera [122] del Buonaccorsi, dice che «Bernardo, padre del nostro Niccolò, era nato illegittimo.» Non dà però nessuna prova della sua asserzione. Invece il Tommasini (II, 958-9) cita un manoscritto del Cerretani da lui posseduto, nel quale l'accusa di bastardo è ricordata. Nei Ricordi della famiglia Machiavelli, da noi già citati, i figli naturali sono menzionati, ma tra di essi non c'è Bernardo, del quale si dice solo che ereditò il patrimonio della famiglia. Nè dagli Statuti risulta che al figlio legittimo di padre illegittimo fosse vietato il far parte della Cancelleria.[169] Non è facile quindi dare una sicura interpetrazione della lettera del Buonaccorsi. Fu supposto da altri, che Bernardo Machiavelli fosse messo, come dicevano, a specchio, per non aver pagato le imposte dovute, e che da ciò risultasse il divieto anche al figlio. Infatti, secondo [123] una deliberazione del 1402, quando il padre era a specchio, veniva ritenuto come tale anche il figlio[170] Ma nella Riforma della Cancelleria deliberata il 14 febbraio 1498,[171] fu data facoltà al Consiglio dei Richiesti di nominare i cancellieri e coadiutori, senza tener conto alcuno dei divieti.[172] E questo farebbe comprendere le parole del Buonaccorsi, là dove nella sua lettera dice: «Sebbene la legge sia in favore quanto la può.»

Comunque sia di tutto ciò, o che la lettera del Buonaccorsi trovasse il Machiavelli già partito, o che egli, sicuro della benevolenza del Gonfaloniere e del favore della legge, non facesse gran caso delle tante paure degli amici, che gli consigliavano di non venire per ora a Firenze, certo è che il 2 gennaio egli era già di ritorno, occupato nelle solite faccende d'ufficio.[173] Il 13 marzo lo troviamo a San Savino, per una questione di confine tra Senesi e Fiorentini;[174] nel maggio, in Val di Nievole, a far la mostra delle bandiere, e poi sempre più occupato nell'ordinamento della Milizia a Firenze.[175]

Intanto i Veneziani, che erano rientrati in Vicenza, giunsero troppo tardi a Verona, dove gl'imperiali s'erano già fortificati. Presero varie terre nel Friuli e nel Polesine; ma le loro navi, che erano entrate nel Po per assalire Ferrara, vennero, per inesperienza e viltà di Angelo Trevisan, che le comandava, vinte e quasi distrutte. [124] Poco dipoi, cioè al principio del 1510, moriva il conte di Pitigliano; ed essendo già prigioniero l'Alviano, essi restavano addirittura senza un capitano di grido, che potesse comandare l'esercito, nè riuscirono a trovare altri che Giovan Paolo Baglioni di Perugia. In questo momento però l'aiuto venne donde meno era aspettato.

Il Papa ogni giorno più geloso della Francia, dopo avere, trascinato dalla sua natura irrequieta, chiamato in Italia un diluvio di stranieri per combattere Venezia, ora che questa s'era umiliata ai suoi piedi, cedendo a lui in ogni cosa, non solo inclinava manifestamente verso di essa; ma già le aveva dato l'assoluzione, e secondo che scriveva da Roma l'ambasciatore veneto Trevisan, s'era lasciato dire, che «se quella terra non fosse, bisogneria farne un'altra.»[176] Ed incominciò adesso a levare il suo ben noto grido di Fuori i barbari. L'oratore fiorentino in Francia, messer Alessandro Nasi, che da un pezzo aveva scritto, alludendo al Papa ed al Re: potersi credere, «che la sospizione fra loro non sia poca, e la fede non sia molta,» aggiungeva ora che lo sdegno dei Francesi era divenuto grandissimo.[177] Ma anche per Luigi XII era un assai grosso affare trovarsi in guerra col Papa, ed un Papa della tempra di Giulio II, che voleva essere, come scriveva il Trevisan, «il signore e maestro del giuoco del mondo.»[178] S'aggiungeva inoltre che gli Svizzeri, tenuti allora la prima fanteria in Europa, sapendo d'esser sempre più necessarî alla Francia, aumentarono tanto le loro domande di denaro, che il [125] Re ne fu irritato per modo, che si contentò di far solo qualche accordo separato coi Vallesi e coi Grigioni. Invece trovava fra tutti loro gran favore il cardinale Mattia Schinner, vescovo di Sitten o, come dicevano gl'Italiani, Sion, il quale girava, promettendo danari, per assoldar gente a servizio del Papa.

Ben presto la guerra ricominciò, sebbene assai fiaccamente, tra i Francesi uniti all'Imperatore da un lato, i Veneziani uniti al Papa dall'altro. Nè i Veneziani sarebbero stati, con un debole esercito, comandato da un capitano come il Baglioni, in grado di resistere alle forze dei nemici; ma l'Imperatore era sempre incerto, ed in Francia moriva (25 maggio 1510) il cardinal d'Amboise, che aveva sinora guidato la politica di Luigi XII. E questi lasciava gli affari in mano del Rubertet, o, ciò che era anche peggio, faceva di suo capo: tutti perciò ne prevedevano guai. Lo Chaumont, che doveva il suo alto ufficio all'essere nipote e creatura del morto cardinale, ricevette ordine di retrocedere verso Milano, lasciando all'Imperatore 400 lance e 1500 fanti spagnuoli.[179] In Francia, al clero ed a tutto il paese pareva gran cosa trovarsi in guerra col capo della religione, e questi non se ne stava con le mani alla cintola, ma già tentava di sollevare Genova, al qual fine Marcantonio Colonna, con finti pretesti, lasciava il servizio dei Fiorentini, partendo con 100 uomini d'arme e 700 fanti.[180] Di questa [126] inaspettata impresa si parlò molto, perchè nessuno capiva in sul principio, che scopo avesse la mossa del Colonna, nulla sapendosi de' suoi segreti accordi col Papa. Essa però non ebbe conseguenze di sorta, perchè rimase interrotta a mezzo. Ma l'esercito del Papa intanto s'avanzava, sotto il comando di Francesco Maria della Rovere, e già minacciava il duca di Ferrara, per modo che questi avrebbe dovuto cedere, se lo Chaumont non gli avesse mandato in tempo 200 uomini d'arme. Ad accrescere poi tutta questa confusione d'imprese iniziate e subito abbandonate, 6000 Svizzeri discesero allora le Alpi, per venire in aiuto del Papa; ma ad un tratto tornavano repentinamente ai loro monti, senza che se ne potesse indovinar la ragione. Chi disse che tornavano, perchè, non avendo nè cavalleria nè artiglieria, s'erano avvisti che non potevano sperarle dal Papa; chi disse invece che, avendo ricevuto da lui 70,000 scudi per questa spedizione, ne ebbero altrettanti dalla Francia per tornare indietro. La riputazione della loro lealtà era ormai da un pezzo divenuta assai dubbia, essendo noto a tutti che essi combattevano solo per danaro.[181]

Le condizioni della repubblica fiorentina erano, fra queste nuove complicazioni, divenute difficilissime. Antica alleata dei Papi e della Francia, non poteva separarsi nè da Luigi XII, nè da Giulio II, che erano adesso fra di loro in guerra, e non volevano permetterle di restar neutrale. Dividersi dalla Francia, alla cui alleanza aveva fatto tanti e così continui sacrifizî, ed alla quale il Soderini era affezionatissimo, significava restare isolata, ed in balìa di chiunque vincesse nelle grosse guerre, che ormai erano inevitabili. Dividersi dal Papa già in armi, col cui Stato confinava per così lungo tratto, significava esporsi ad immediato assalto, senza forze per [127] resistere. Intanto la Francia chiedeva con insistenza, che la Repubblica mandasse subito aiuti e pigliasse parte attiva nella guerra; il Papa era già pronto ed armato ai confini. Il Soderini allora, come era il suo solito, quando non sapeva a quale partito appigliarsi, pensò di mandare il Machiavelli in Francia, con lettere che lo incaricavano di raccogliere notizie, di far vaghe promesse al Re, assicurandolo che così il Gonfaloniere come il cardinale suo fratello gli erano sempre fedeli, e desideravano che fosse mantenuto il predominio francese in Italia. Doveva inoltre il Machiavelli persuadergli, che a questo fine era necessario o battere i Veneziani con una guerra pronta e risoluta, o consumarli, temporeggiando; tenersi inoltre amico l'Imperatore, acciò li assalisse di continuo, ed, occorrendo, dargli anche Verona; non inimicarsi però mai il Papa, che poteva riuscire assai pericoloso alla Francia.[182]

Il Machiavelli andò lento nel suo viaggio, perchè capiva che questi consigli non richiesti erano inutili, e perchè come scriveva da Lione il 7 luglio ai Dieci, vedeva chiaro che la sua gita non poteva riuscire ad altro scopo che a «tenere bene avvisate le SS. VV. di quello che alla giornata si ritrarrà, e ad occuparsi dei donativi da farsi al Rubertet ed allo Chaumont, i quali già facevano capir chiaro di volere per sè anche i diecimila ducati promessi al cardinale di Rouen, che era morto.[183] [128] La prima notizia che egli mandò da Blois il 18 luglio, fu che il Re si dichiarava pronto a difendere Firenze; ma che essa doveva decidersi ad essere amica o nemica, e nel primo caso mandar subito le sue genti in campo.[184] «Quanto al Papa,» aggiungeva il Machiavelli, «è facile immaginarsi quello che ne dicono, perchè torgli l'obbedienza e fargli un Concilio addosso, rovinarlo nello stato temporale e spirituale, è la minor rovina di cui lo minaccino.[185] Qui dispiace assai questo suo moto, sembrando che S. S. minacci con esso l'Italia e la Cristianità; tuttavia sperano che, non essendogli riuscito di sollevare Genova, le cose si fermeranno. Ma siccome nessuna più onesta cagione si può avere contro un principe, che mostrare, attaccandolo, di voler difendere la Chiesa, così Sua Maestà potrebbe in questa guerra tirarsi addosso tutto il mondo.[186] Il Re si tiene assai offeso dal Papa, e ne è sdegnatissimo. Le persone della Corte però, ed anche l'oratore di Roma cercano ogni modo d'evitar la guerra, promovendo invece un accordo, tanto che han finito quasi col piegare anco l'animo suo. Esso, infatti, all'oratore di Roma che gliene parlava, disse che non avrebbe mai mosso il primo passo, perchè era stato offeso: — ma, se il Papa farà verso me dimostrazione quanto è un nero d'ugna, io ne farò un braccio. —[187]» Da ciò animati, quelli della Corte e l'oratore di Roma s'adoperavano a tutt'uomo, e volevano che Firenze entrasse di mezzo nel promuovere l'accordo, anzi avevano a questo fine indotto a partire un Giovanni Girolamo fiorentino, che stava colà per affari. Il Machiavelli secondava con ardore queste pratiche; anzi prese allora un'iniziativa insolita, nelle sue [129] legazioni.[188] In parte ciò poteva essere conseguenza della maggiore esperienza, che ora aveva acquistata, e della gravità del pericolo che minacciava Firenze e l'Italia; in parte ancora dell'incoraggiamento che riceveva personalmente e privatamente dalle lettere del Soderini.[189] Pure, scrivendo ai Dieci, egli quasi se ne scusava, dicendo che aveva operato nell'interesse «della Città nostra, alla quale non potrebbe seguire il più pauroso infortunio che l'inimicizia e la guerra di questi due principi. Ed il tentar di promuovere fra di essi un accordo, può giovarci se riesce, e se non riesce, nessuno potrà dolersi di noi. Nè v'è tempo da perdere, perchè qui gli apparecchi di guerra continuano senza interruzione. Il Re ha ordinato in Orléans un Concilio dei prelati del Regno; ha assoldato il duca di Vittemberga, per aver fanti tedeschi; raccoglie soldati nel regno; cerca d'unirsi all'Imperatore, che vuole accompagnare con 2500 lance e 3000 fanti; e ha giurato sopra la sua anima, che farà di due cose l'una, o perdere il regno, o coronare l'Imperatore e fare [130] un Papa a suo modo.»[190] Il Papa dal suo lato s'apparecchiava del pari alla guerra, sicchè in fondo tutti gli sforzi d'accordo erano vani.[191]

Il giorno 9 di agosto il Machiavelli scriveva, che essendo andato col Rubertet a vedere il Re, e ragionando in genere delle cose d'Italia, s'era avvisto che i Francesi non si fidavano dei Fiorentini, se non li vedevano con le armi in mano, e tanto meno se ne fidavano, quanto più gli stimavano prudenti. E poi aggiungeva: «Credino le SS. VV. come le credono al Vangelo, che se fra il Papa e questa Maestà sarà guerra, quelle non potranno fare senza dichiararsi in favore d'una delle parti. E però si giudica da tutti coloro che vi amano, essere necessario che le SS. VV. considerino e decidano, senza aspettare che i tempi venghino loro addosso, e che la necessità gli stringa. Gl'Italiani che sono qui credono che bisogna cercare la pace; ma che, non potendola avere, sia necessario dimostrare al Re come, a volere tenere in freno un Papa, non occorrono tanti Imperatori, nè tanti romori. E discorrendo col Rubertet questa materia, io gli mostrai tutti i modelli che vi erano dentro, e come, se fanno la guerra soli, sanno quel che si tirano addosso; ma se la fanno accompagnati, debbono dividersi l'Italia, e quindi venire tra loro ad una guerra più grossa e pericolosa. Nè sarebbe da disperarsi di potere imprimer loro questi modelli nel capo, quando fosse qui più d'un Italiano di autorità, che ci si affaticasse.»[192]

Il 13 dello stesso mese, essendo il Re venuto a Blois, il cancelliere, con altri della Corte, fece chiamare il Machiavelli, e «dopo un grande esordio de' meriti di Francia verso Firenze, cominciando insino da Carlo Magno, e venendo al re Luigi presente, mi disse come [131] il Re intendeva che el Papa, mosso da uno diabolico spirito che li è entrato addosso, vuole di nuovo tentare l'impresa di Genova.» Volevano perciò che la Repubblica tenesse in ordine le sue genti, le quali potevano da un momento all'altro essere richieste; dal che il Machiavelli invano cercava schermirsi.[193] Il 9 egli aggiungeva, che il Re aveva ordinato il Concilio in Orléans, per vedere se poteva levar l'obbedienza al Papa, e crearne un altro; il che, «se VV. SS. fussino poste altrove, sarebbe da desiderare, acciocchè ancora a codesti preti toccasse di questo mondo qualche boccone amaro.»[194] Ma il Papa era troppo vicino, e i Francesi insistevano ogni giorno più nel volere che i Fiorentini pigliassero subito le armi senza esitare. Il Machiavelli tenne su di ciò lungo discorso col Rubertet, per fargli capire come, trovandosi la Repubblica esausta, e dappertutto circondata dagli Stati del Papa o de' suoi amici, poteva, pigliando parte alla guerra, essere da un momento all'altro assalita da più parti, nel qual caso il Re, invece di ricevere da essa aiuto, avrebbe dovuto mandar gente a difenderla,[195] quando gli era necessario provvedere anche a Genova, a Ferrara, al Friuli, alla Savoia.[196] E queste cose egli disse tante volte, ripetendole nel Consiglio stesso del Re, che finalmente lo Chaumont ebbe ordine di non più insistere, il che tuttavia non impedì che ben presto si tornasse da capo colla solita insolenza.[197]

[132]

Il Re s'era adesso rivolto tutto al pensiero della sua venuta in Italia, e pensando al futuro trascurava il presente. A Ferrara ed a Modena le cose andavan male per lui e per gli amici suoi. L'esercito del Papa era entrato nel Ferrarese, e Modena aveva aperto le porte al cardinal di Pavia; Reggio avrebbe fatto lo stesso, e metà del Ducato di Ferrara sarebbe già stata invasa, se lo Chaumont non avesse mandato 200 lance, che bastarono a fermar tutto.[198] E ciò, osservava giustamente il Machiavelli, dimostrava che, pensandoci a tempo, la Francia avrebbe potuto, senza nessuna difficoltà, tutelar l'interesse proprio anche colà. Ma questo generale abbandono degli affari era, come vedemmo, la conseguenza, da ognuno già preveduta, della morte del cardinale di Rouen, il quale s'era sempre occupato anche delle minori faccende, che ora restavano abbandonate al caso. «Così,» egli concludeva, «mentre che il Re non vi pensa, e i suoi le trascurano, il malato si muore.[199] Nondimeno qui sono tutti d'accordo che, venendo esso in Italia, gli sarà necessario cercare di far potenti le SS. VV. E però se viene, ed esse si manterranno nel loro essere presente, quando pure abbiano da dubitare di stropiccio e spesa, potranno tuttavia sperare di molto bene.»[200]

Sebbene in quei giorni il Machiavelli s'adoperasse a tutt'uomo, parlasse con tutti, di continuo scrivesse a Firenze, e ricevesse lettere dai Dieci, dagli amici, dal Soderini stesso, era pure urgente che la Repubblica mandasse in Francia un vero e proprio oratore, con proposte più definite, o almeno con danari da diffondere nella Corte, cosa allora in Francia assai necessaria. E quindi già era stato a questo fine eletto, e doveva fra [133] poco arrivare Roberto Acciaiuoli.[201] Il Machiavelli, che s'apparecchiava perciò a partire, trovavasi al solito senza danari, e ne chiedeva con insistenza,[202] avendone bisogno non solamente pel viaggio, ma anche per curarsi del suo malessere, venuto in conseguenza d'una tosse nervosa, che allora aveva fatto strage in Francia.[203] Il 10 di settembre trovavasi già in cammino a Tours, donde scriveva che i Francesi s'adoperavano molto per radunare il Concilio, ed avevano già fermi i capitoli, su cui volevano interrogarlo. Si voleva da esso sapere se il Papa aveva diritto di muover guerra al Cristianissimo, senza averlo neppure citato o interrogato; se questi aveva diritto di fargli guerra, per difendersi; se si doveva tener per vero Papa chi aveva comprato il papato, e commesso infiniti obbrobrî.[204]

Nel suo ritorno il Machiavelli dovette più volte fermarsi per via, giacchè non lo troviamo a Firenze prima del 19 ottobre, e dagli stanziamenti coi quali gli vien pagato il salario, risulta che la sua assenza si prolungò per 118 giorni.[205] Durante questo tempo, fra le molte lettere di amici che, secondo il solito, lo ragguagliavano [134] delle cose d'Italia, ben poche ne troviamo del suo fido Buonaccorsi. Questi era allora desolato, per una lunga e grave malattia della moglie. Il 22 agosto, infatti, scusandosi del suo silenzio, concludeva: «E sono condocto ad tal termine, che io desideri più la morte che la vita, non vedendo spiraglio alcuno alla salute mia, mancandomi lei.»[206]

CAPITOLO XIII.

Gli avversarî del Soderini prendono animo. — Il Cardinale de' Medici acquista favore. — Il Soderini rende conto della sua amministrazione. — Congiura di Prinzivalle della Stufa. — Presa della Mirandola. — Concilio di Pisa. — Commissione a Pisa. — Quarta legazione in Francia.

Ormai si vedeva chiaro che la tempesta s'addensava lentamente, ma inevitabilmente sulla repubblica fiorentina. Il Papa mirava, con un ardore e una tenacia irresistibile, ad isolare la Francia, unendosi, per combatterla, con la Spagna e con Venezia, possibilmente anche con l'Imperatore, il che non era facile. Gli eventi sembravano però secondarlo, e nulla di peggio poteva seguire alla Repubblica ed al gonfaloniere Soderini, la cui politica s'era fondata sempre sull'amicizia della Francia, dalla quale esso non voleva nè poteva più separarsi. Firenze correva quindi il pericolo di trovarsi da un momento [135] all'altro circondata da nemici; ed un tale stato di cose faceva, com'era naturale, crescere rapidamente gli avversarî del Gonfaloniere. Tutti coloro che erano scontenti o invidiosi, uniti al numero non piccolo di quelli che corrono sempre dietro alla buona fortuna, s'alienavano ogni giorno più da lui. Non potevano biasimare nè la sua rettitudine politica, nè la sua severa amministrazione; ma ripetevano ora ad alta voce l'accusa tante volte già fatta, che il suo era un governo personale, il quale allontanava gli uomini di maggior credito ed autorità, sollevando quelli di basso stato, per far tutto ciò che egli ed il segretario Machiavelli volevano. E questo naturalmente indeboliva il governo per modo, che gli effetti se ne vedevano persino nella diminuita autorità dei magistrati, nella poca sicurezza delle vie la notte. Il cronista Giovanni Cambi osserva, che crebbe in quei giorni anche il mal costume, e le donne di mal affare erano venute in tanta insolenza che, contro le leggi, giravano e abitavano dove volevano nella Città, e per mezzo dei loro aderenti facevano minacciar di ferite gli stessi Otto della Balìa, che ne restavano atterriti.[207]

Ma v'era assai di peggio. Il partito dei Medici, favorito dal Papa, guadagnava ogni giorno terreno. Fino a che era vissuto Piero, i suoi modi villani, la sua vita dissipata, l'indole vendicativa e dispotica, i tentativi più volte fatti di tornare in Firenze a mano armata, avevano alienato gli animi da lui e dalla sua famiglia. Ma quando, in sul finire del 1503, egli morì affogato nel Garigliano, le cose cominciarono subito a mutare aspetto, perchè restò capo della famiglia suo fratello il cardinal Giovanni, che aveva residenza in Roma, ed era d'indole assai diversa. Culto e gentile nei modi, amantissimo [136] delle arti e delle lettere, viveva sempre circondato da letterati e da artisti; seguiva in tutto le vecchie tradizioni di Cosimo e di Lorenzo, dei quali era, così nel bene come nel male, degno discendente. Con grandissima cura serbava tutte le apparenze di modesto e privato cittadino, mostrandosi alieno da ogni ambizione di dominar Firenze, sicuro per l'esperienza dei proprî antenati, che anche a lui ed ai suoi il potere sarebbe venuto tanto più facilmente nelle mani, quanto più avessero saputo serbar le apparenze di fuggirlo, pur cospirando in segreto per averlo. Chiunque ricorreva a lui, trovava pronto e generoso aiuto, in modo che ben presto egli divenne come il naturale rappresentante e protettore dei Fiorentini a Roma, dove s'adoperava per tutti, valendosi dell'autorità che aveva nella Curia, e del favore che godeva presso il Papa, il quale volentieri vedeva salire in alto un avversario del Soderini.[208] In questo modo il cardinale dei Medici, sebbene lontano, era in Firenze riconosciuto come il capo d'un partito, che ogni giorno s'ingrossava di tutti gli scontenti, di tutti i nemici del Gonfaloniere. E così quando egli si sentì forte abbastanza, cominciò lentamente ad uscire dalla sua apparente riserva.

Se ne era visto nel 1508 un primo segno, avendo egli fatto concludere il matrimonio tra Filippo Strozzi e Clarice figlia di Piero de' Medici; matrimonio che destò in Firenze grandissimo rumore, perchè si riteneva contrario alle leggi, trattandosi della figlia d'un ribelle, e perchè vivamente avversato dal Soderini e da' suoi amici. Pure, dopo tutto il gran rumore che se ne fece, Filippo Strozzi ne uscì con la condanna di 500 scudi d'oro, oltre ad essere [137] confinato per tre anni nel regno di Napoli.[209] Questa pena sembrò assai mite, trattandosi d'una violazione degli Statuti; ma par, nonostante, che fosse nella esecuzione attenuata di molto, giacchè prima che i tre anni fossero trascorsi, noi ritroviamo lo Strozzi a Firenze. Così il partito dei Medici s'agitava adesso, e diveniva sempre più audace.

Il Soderini s'impensierì di tutto ciò a segno, che il 22 dicembre 1510 volle in Consiglio render conto esatto e minuto della sua amministrazione negli otto anni che aveva tenuto il governo, durante i quali, come egli dimostrò, le uscite erano giunte alla somma totale di 908,300 scudi d'oro. Espose quali erano le economie fatte, quali le spese sostenute, mostrando i libri, che chiuse poi in una cassa di ferro.[210] Apparve a tutti evidente, che la Repubblica non aveva mai avuto un'amministrazione più regolata ed economica. Eppure subito dopo si seppe d'una congiura tramata contro la vita del Gonfaloniere, e correva la voce che il Papa stesso vi avesse tenuto mano. Un tal Prinzivalle della Stufa, il 23 dicembre, cioè il giorno seguente a quello in cui il Soderini aveva fatto il pubblico rendimento di conti, andò da Filippo Strozzi proponendogli d'uccidere il Gonfaloniere, e mutare il governo della Città, aggiungendo d'essere in ciò d'accordo col Papa, che gli aveva promesso in aiuto alcuni uomini di Marcantonio Colonna. Sia che lo Strozzi fosse veramente alieno, come disse, dal mescolarsi allora nelle cose di Stato; sia che non avesse fede in chi gli parlava, o non volesse pigliar parte a un delitto, certo è che respinse sdegnoso la proposta di Prinzivalle, e dopo avergli dato tempo a fuggire, rivelò la cosa al Gonfaloniere. Non si potè quindi fare altro che chiamare ed esaminare il padre [138] del fuggiasco, confinandolo, dopo il processo, per cinque anni.

L'animo del Soderini ne rimase però assai conturbato, e la sera del 29, dovendosi nominare i Gonfalonieri delle Compagnie, venne in Consiglio, e narrò come la congiura pareva che avesse molte radici nella Città, e potesse facilmente esser di nuovo tentata. Se avevano deliberato di uccider lui, egli disse, ciò era per poter subito dopo chiudere il Consiglio, e mutare il governo, convocando il popolo a Parlamento, contro le più esplicite prescrizioni di legge. Si estese poi molto in questo suo discorso, esponendo di nuovo e lungamente la sua condotta politica, i modi di governo che aveva tenuti, la sua imparzialità e giustizia. Più volte si commosse a segno che gli vennero le lacrime agli occhi, specialmente quando parlò delle ingiuste accuse che gli si facevano, e dei pericoli da cui era minacciata la libertà, la quale, egli concluse, sotto pretesto di odio a lui, i suoi nemici volevano in ogni modo distruggere.[211] Il Consiglio si dimostrò deciso a sostenere il governo, e lo dimostrò non solo con l'accoglienza fatta alle parole del Gonfaloniere, ma ancora col votare una legge intesa a difendere la libertà, legge che già più volte da lui presentata e difesa in Consiglio, era stata fin allora sempre respinta. Con essa si provvedeva al caso che, per qualche congiura o per altra ragione qualsiasi, venisse improvvisamente a mancare il numero legale in uno o più dei maggiori ufficî (Signori, Gonfalonieri delle Compagnie e Buoni Uomini), [139] e si fossero portate via le borse, per impedire una regolare estrazione di nomi, e così pigliarne pretesto a radunare il popolo a Parlamento, per poi mutare la forma del governo. La nuova legge voleva perciò che, se si potevano ritrovare le borse o almeno i registri dei nomi, coloro i quali restavano in ufficio facessero senz'altro procedere alla elezione, estraendo i nomi a sorte. Se invece le borse erano state distrutte o portate via insieme coi registri, allora si doveva adunare il Consiglio Grande, bastando nella seconda convocazione il numero dei presenti, qualunque esso fosse, per procedere all'immediata elezione. Quanto al Gonfaloniere, non si deliberò nulla di nuovo, ma si richiamarono in vigore le disposizioni già votate il 26 agosto dell'anno 1502, in cui l'ufficio era stato dichiarato perpetuo, e il modo dell'elezione minutamente determinato.[212]

[140]

Ma per quanto fosse cresciuto il numero degli scontenti in Firenze, essi restavano sempre una minoranza, alla quale non sarebbe riuscito mutare la forma del governo, se avesse dovuto fidar solamente in sè stessa. Il vero pericolo della Repubblica veniva di fuori, e non c'era tempo da perdere. Il Machiavelli s'occupava perciò a metterla in condizioni tali da potersi difendere, fidando solo nelle proprie armi. Persuaso sempre più della utilità ed efficacia della sua Ordinanza a piedi, lavorava con grande energia a formare anche una a cavallo, armata di balestra, di lancia o scoppietto. Per ora l'ordinava in modo provvisorio, sotto forma quasi d'esperimento, per venir poi, quando le prime mostre fossero ben riuscite, alla legge che doveva costituirla definitivamente, come s'era già proceduto coll'Ordinanza a piedi.

Nel novembre e nel dicembre del 1510 egli girava pel dominio a scrivere cavalli leggieri; andò poi a Pisa[213] ed Arezzo, per visitare le due fortezze, e riferire in quale stato si trovavano; nel febbraio del 1511 lo vediamo a Poggio Imperiale, dove esaminava in che condizioni era quel luogo. Nel marzo, invece, andava nel Valdarno di sopra e nella Valdichiana, girando con danari per arrolare cento cavalleggieri, che nell'aprile in fatti condusse a Firenze. Nell'agosto fece un'altra escursione, per arrolarne altri cento.[214] In questo mezzo andò anche due volte a Siena a disdir prima la tregua che scadeva il 1511,[215] e poi riconfermarla con un'altra di [141] 25 anni, mediante però la resa di Montepulciano ai Fiorentini da una parte, e la promessa dall'altra di sostenere in Siena il governo del Petrucci. Questa lega, che fu solennemente bandita a Siena nell'agosto, venne conclusa con la mediazione del Papa, il quale voleva evitare che i Fiorentini chiamassero i Francesi in Toscana;[216] ed il Petrucci stesso s'era rivolto a lui, perchè temeva il malcontento del popolo, cresciuto ora appunto, per la cessione che egli era costretto a fare di Montepulciano.[217] Il 5 maggio il Machiavelli partiva di nuovo, per andare presso Luciano Grimaldi signore di Monaco, che aveva sequestrato una nave fiorentina, e di là tornava il dì 11 giugno, dopo averne felicemente ottenuta la liberazione.[218]

Il Concilio radunato a Tours dava intanto a Luigi XII la risposta desiderata, che egli cioè sarebbe stato nel suo pieno diritto movendo guerra al Papa. Ma questi, senza aspettare nè risposta nè consiglio da alcuno, l'aveva già cominciata e la proseguiva con l'ardore d'un giovane conquistatore. Il 22 settembre 1510, con un esercito di Italiani e Spagnuoli, comandati dal duca d'Urbino, da [142] Marcantonio e Fabrizio Colonna, era entrato in Bologna, prima che lo Chaumont fosse stato in tempo a fare resistenza. Nè potè fermarlo il sopravvenire del verno, che anzi, pieno di sdegno contro il duca di Ferrara, s'avanzò e prese Concordia; poi assalì la Mirandola, tenuta dalla vedova di Luigi Pico, stato sino all'ultimo fedele alla Francia, quale aveva ora mandato colà appena qualche debole rinforzo. Il vecchio Papa s'era fatto ai primi del 1511 portare in lettiga da Bologna, e se ne stava ora, durante l'assalto, sotto il tiro del cannone. La neve cadeva in gran copia, le acque erano gelate, una palla di cannone entrò nel suo stesso alloggiamento, senza che egli se ne curasse punto. Essendosi una volta allontanato alquanto dal campo, fu per cadere in un'imboscata francese; sarebbe anzi rimasto certamente prigioniero, se le nevi non gli avessero impedito di tornare indietro all'ora stabilita. La Mirandola, sebbene validamente difesa da Alessandro nipote di G. G. Trivulzio, pure, non essendo stata, per gelosia, soccorsa dallo Chaumont, dovette il 20 gennaio 1511, appena fu aperta la breccia, arrendersi, pagando anche 6000 ducati, per evitare il sacco già promesso ai soldati dal Santo Padre. Questi era dominato da tale e tanta impazienza, che per non aspettare, si fece tirar su in una cassa di legno, ed entrò per la breccia; dette poi il possesso della terra a Giovanni Pico, che, sebbene cugino del defunto signore, era rimasto sempre nemico dei Francesi.

Per essi venne opportuna la morte del loro generale Chaumont, seguita il dì 11 febbraio. Egli aveva infatti lasciato prender Modena dal nemico, non era arrivato in tempo a Bologna, non aveva soccorso la Mirandola, e così tutto era per sua colpa andato in rovina. Ora che gli mancava la validissima protezione dello zio, non poteva sperare la medesima indulgenza che in passato, e quindi s'accorò tanto della sua mala ventura, almeno così si disse, che ne morì. Il comando dell'esercito fu [143] allora affidato di nuovo al vecchio G. G. Trivulzio, cui s'aggiunse il giovane Gastone di Foix, destinato, nei pochi mesi che ancora gli restavano di vita, a rendersi immortale. La fortuna della guerra infatti ben presto mutò. Nel maggio G. G. Trivulzio s'avvicinava coll'esercito a Bologna, ed il Papa, che prima aveva ricusato le offerte di pace, proposte da un congresso tenuto a Mantova, e raccomandate anche dall'Imperatore, se ne fuggì quasi spaventato a Ravenna, sperando che i Bolognesi difenderebbero essi la loro città. Colà egli aveva lasciato il cardinale Francesco Alidosi, già vescovo di Pavia, in qualità di legato della Romagna; e il duca d'Urbino era coll'esercito a poca distanza. Ma il Cardinale, gran protetto del Papa (su di che correvano allora strane dicerie, le quali non sarebbe possibile ripetere), era un uomo assai odiato, di cui nessuno si fidava.[219] E quindi appena giunse la notizia che il Trivulzio s'avvicinava coi Bentivoglio, i Bolognesi si sollevarono il 21 maggio; tirarono giù la statua di Giulio II, opera del Buonarroti, e la ridussero in pezzi, che il duca di Ferrara poi fuse, facendone un cannone. Il Cardinale fuggì a Castel del Rio; i Bentivoglio [144] ed i Francesi entrarono in città; il duca d'Urbino, sorpreso dall'improvviso tumulto, inseguito dai Francesi, si ritirò con tanta fretta, in tal disordine, che perdette le artiglierie e tutti i bagagli, che i nemici portaron via, caricandone molti asini; onde poi quella giornata fu detta degli asinai.[220] La Mirandola andò di nuovo perduta, e il duca di Ferrara riprese tutte le terre che gli erano state tolte.

Il Papa ebbe a Ravenna la notizia di quanto era accaduto; e sebbene la voce pubblica accusasse di tradimento il Cardinale, che certo non aveva fatto la resistenza dovuta, nè aveva di nulla avvertito il duca d'Urbino, pure solamente contro di questo si manifestò allora il suo sdegno, esclamando: Se mi capita fra le mani, lo farò squartare.[221] Preso animo da ciò, il Cardinale corse [145] da lui in Ravenna, ed inginocchiatosi ai suoi piedi, non contento d'aver perdono, cercò di gettar tutta la colpa sul Duca. Questi che, sebbene avesse solo ventun'anno, pure s'era già insanguinate le mani nel delitto, fu adesso per lo sdegno del Papa, pel disonore della disfatta, sopra tutto per la condotta sleale del Cardinale, preso da tanta ira che, incontratolo per via in Ravenna, lo uccise colle proprie mani a colpi di stocco, sfondandogli il cranio, che così forato conservasi ancora nel museo di quella città. Paride de' Grassi, il quale continuò il Diario del Burcardo, e odiava il Cardinale, che credeva traditore, ne lodò l'uccisione esclamando: — O buon Dio, quanto sono giusti i tuoi giudizî! Noi ti dobbiam render grazie della morte del traditore; giacchè, sebbene sia stato ucciso dalla mano d'un uomo, pure è opera tua, o almeno consentita da te, senza di cui non si muove foglia. —[222]Il Papa invece fu indicibilmente addolorato per questo nuovo delitto, commesso dal proprio nipote contro un cardinale di Santa Chiesa, da lui tanto amato e favorito. Minacciò di dare un esempio di grande severità; ed infatti ben presto privò d'ufficio il Duca, sottoponendolo poi al giudizio di quattro cardinali.

Ma v'erano altri eventi che lo angustiavano sempre più in questo anno per lui sfortunato. Lo tormentava la faccenda del Concilio, che sembravagli una continua minaccia alla sua autorità. E quantunque non vi fosse veramente da impensierirsene ancora, pure non era cosa che potesse disprezzarla affatto egli, che aveva tante volte minacciato [146] di adoperar quell'arme contro Alessandro VI, e che, al pari de' suoi predecessori, da lui aspramente di ciò biasimati, aveva mancato alla solenne promessa, fatta nell'assumere la tiara, di radunare il Concilio fra due anni. Nel settembre del 1510 egli aveva dimostrato grandissimo sdegno per la notizia giuntagli inaspettatamente in Bologna, che cinque de' suoi cardinali, mutando strada a un tratto, s'erano diretti a Firenze, per andar poi a Pisa, dove il Conciliabolo, come lo chiamava, era stato convocato dopo la riunione tenuta a Tours. Questo Concilio o Conciliabolo che fosse, era favorito anche da Massimiliano, il quale proponeva di tenerlo a Firenze, e ne pigliava occasione a chieder nuovo danaro alla Città, per l'onore che, secondo lui, veniva così a renderle.[223] Ma i Fiorentini erano invece tanto impensieriti di tutto ciò, che Luigi XII aveva direttamente dovuto chieder loro, che dessero almeno una prova di fedeltà alla Francia, consentendo la convocazione in Pisa. E la domanda del Re fu lungamente discussa nel Consiglio degli Ottanta, dove intervennero quel giorno più di cento persone. Non si voleva offendere il Papa, ma non si voleva neppure perdere l'alleanza francese, e questo secondo pensiero fu quello che prevalse, perchè favorito dal suffragio degli antichi seguaci del Savonarola, il quale era stato già primo a mettere innanzi, sostenendola con molto calore, l'idea di un Concilio da radunarsi d'accordo con la Francia contro papa Alessandro VI. Così fin dal maggio fu deliberato di consentire, ma fu del pari convenuto di tener segreta la deliberazione presa, il che valse a far sì che il Papa, in apparenza almeno, si dimostrasse, per qualche tempo ancora, temperato e mite verso la Repubblica, contro la quale era però sempre [147] deciso di vendicarsi a suo tempo.[224] Intanto l'invito di recarsi in Pisa, affisso alla porta di varie chiese in Italia e fuori, era stato già fatto dai cardinali di Santa Croce, San Malò e Cosenza, i quali affermavano d'avere la rappresentanza d'altri colleghi, ed invitavano a presentarsi il Papa stesso, che il 28 maggio, con maraviglia e sdegno grandissimo, vide coi propri occhi la lettera attaccata alla chiesa principale di Rimini.

La cosa procedeva lentamente, ma non si fermava; laonde egli si persuase che era pur necessario pigliare un qualche provvedimento. Nel marzo del 1511 nominò otto nuovi cardinali, due dei quali, Matteo Lang e il vescovo di Sitten, per ragioni politiche; ma gli altri, che pagarono in media da 10 a 12 mila ducati ognuno, li nominò in parte per trovare il danaro allora assai necessario alla guerra; ma in parte ancora, per colmare con gente a lui fedele il vuoto lasciato da quelli che lo avevano disertato, andando a Pisa. Si decise inoltre a radunare in Laterano un Concilio da opporre a quello di Pisa, ed il 18 luglio 1511 lo intimò pel 19 aprile 1512, minacciando di privare delle loro dignità i cardinali scismatici, se non si sottomettevano subito. Ciò non ostante la faccenda del Conciliabolo andava innanzi, perchè Luigi XII spingeva quanto più poteva alla riunione di esso, e nel settembre più che mai lo favoriva il sempre mutabile Massimiliano, il quale anzi, dopo averlo desiderato a Firenze, lo voleva ora anch'egli in Pisa: era tornato al suo fantastico sogno di farsi proclamare papa,[225] ed invitava, in nome dell'Impero, i vari Stati a mandar loro oratori colà.[226] [148] Giulio II invece spediva a Firenze il vescovo di Cortona, fiorentino, per dissuaderla dall'accogliere il Conciliabolo nel suo territorio, facendo prevedere le gravi calamità che altrimenti ne sarebbero ad essa seguite. Ma la Repubblica, che si trovava fra due fuochi, avendo già promesso a Luigi XII, non osava ora nè consentire nè rifiutare, e sperava solo di potere, temporeggiando, mandare le cose in lungo.

Tutto questo aveva però in modo agitato ed irritato il vecchio Papa, che se n'era due volte ammalato, prima nel giugno e poi nell'agosto, quando fu addirittura creduto morto. Già, secondo il costume, si cominciava a saccheggiar la sua abitazione, ed il duca d'Urbino, che si trovava a Roma, aspettando la sentenza dei quattro cardinali che dovevano giudicarlo, corse in Vaticano, dove con sua maraviglia trovò che lo zio era sempre vivo. La città s'era tutta levata a tumulto, e Pompeo nipote di Prospero Colonna, che i suoi parenti avevano costretto alla vita religiosa, quando si sentiva invece chiamato alle armi, assunse per un momento le parti di nuovo Stefano Porcari. Ma cominciava appena ad ordinar la forma del governo repubblicano, quando seppe che il terribile Papa era tornato nel suo pieno vigore; e così tutto andò in fumo.

Giulio II tornava ora ad operare con più ardore che mai. Interdisse Pisa e Firenze, che avevano tollerato le prime formalità del Conciliabolo, iniziate il giorno 1º settembre. Assolvè il duca d'Urbino, per valersene nella guerra, e concluse una lega, che chiamò santa, con Venezia e la Spagna contro la Francia, lasciando libero all'Imperatore l'aderirvi. Egli assumeva con essa l'obbligo di [149] mettere insieme 400 uomini d'arme, 500 cavalli leggieri, 6000 fanti; la Spagna doveva dare 1200 uomini d'arme, 1000 cavalli leggieri, 10,000 fanti; Venezia, 8000 uomini d'arme, 1000 cavalli leggieri, 800 fanti. Oltre di ciò il Papa s'obbligava a pagare 20,000 ducati il mese, ed altrettanti Venezia, la quale doveva anche dare 14 galee sottili, e altre 12 ne doveva dare la Spagna.[227] Capitano generale fu nominato il vicerè di Napoli, Raimondo di Cardona. Scopo di questa lega era: unione della Chiesa cattolica; soppressione del Conciliabolo; ricupero di Bologna, di Ferrara e di tutte le altre terre, che erano o si presumeva fossero del Papa; ricupero delle terre dei Veneziani nell'alta Italia; guerra a chi a ciò s'opponeva, ossia alla Francia. Il 5 di ottobre questa nuova Lega Santa venne solennemente pubblicata in Santa Maria del Popolo a Roma. Il 24 furono privati di loro dignità e benefizi i cardinali scismatici di Santa Croce, Cosenza, San Malò e Bayeux. San Severino fu pel momento risparmiato; ma ben presto venne anch'egli colpito dall'ira del Papa,[228] il quale, a sempre meglio far conoscere l'animo suo avverso alla Repubblica, nominò il cardinal dei Medici, legato prima a Perugia, poi a Bologna.

I Fiorentini sentivano la tempesta addensarsi sul loro capo, e cercavano perciò riparare come potevano. Erano riusciti a far partire da Pisa i tre procuratori, che avevano il 1º settembre eseguito gli atti iniziali del Concilio.[229] Con commissione del 10 settembre 1511 mandavano in giro il Machiavelli, perchè cercasse d'incontrare i cardinali che erano in via per Pisa, e persuaderli d'attendere. Doveva poi correre a Milano, per parlare al luogotenente [150] Gastone di Foix nel medesimo senso; recarsi finalmente in Francia, per esporre e far comprendere al Re lo stato vero delle cose. «Al Concilio,» diceva la istruzione, «nessuno mostra voglia d'andare, e serve perciò solamente ad irritare il Papa contro di noi: per queste ragioni chiediamo, che non si tenga in Pisa, o che si soprassegga per ora. Di Germania non si vede che venga nessun prelato, di Francia pochi e con gran lentezza. Ed è cosa di universale maraviglia il sentire un Concilio intimato da tre soli cardinali, quando i pochi altri, di cui essi dicono d'avere l'adesione, vanno dissimulando, e differiscono il venire. Ciò non ostante, si parla di volere in mano la fortezza, e riempiere la città d'uomini armati, per il che sono già seguiti disordini in Pisa, che è stata interdetta dal Papa, e i capi delle religioni si sono in essa dichiarati contro il Concilio. Se dunque non c'è modo di sperare accordo fra il Papa ed il Re, e se questi non s'induce a smettere, bisogna cercare d'indurlo almeno a soprassedere per due o tre mesi.»[230]

Il 13 di settembre il Machiavelli scriveva da San Donnino, dove aveva trovato i cardinali San Malò, Santa Croce, Cosenza e San Severino, i quali gli dissero che andavano a Pisa per Pontremoli, senza toccar Firenze. Prima di muoversi aspettavano però ancora un dieci o dodici giorni l'arrivo dei prelati di Francia. Il 15 scriveva da Milano l'ambasciatore Francesco Pandolfini, che il Machiavelli, già arrivato colà, era stato presentato a Gastone di Foix, cui aveva esposto la sua commissione. Gli aveva dichiarato come i Fiorentini non negavano punto il salvocondotto ai cardinali, come questi avevano mandato a dire; ma solo pregavano si considerassero i pericoli cui andavano esposti, per gli apparecchi [151] che faceva il Papa. E quel luogotenente, da soldato qual'era, aveva risposto che cinque o seicento lance sarebbero state il vero salvocondotto.[231] Da Milano il Machiavelli si recava subito in Francia. Ed il 24 dello stesso mese Roberto Acciaiuoli scriveva da Blois, ch'era andato con lui dal Re a leggergli una memoria concertata fra di loro. «Il Re,» egli aggiungeva, «desidera molto la pace, sarebbe tenuto a chi gliela facesse concludere, ed ha intimato il Concilio per arrivare più presto a questo fine. Non è stato possibile persuadergli che la paura del Concilio spinge il Papa alle armi e non all'accordo. Vuole cominciarlo là dove è stato convocato, aggiungendo che non si adunerà fino a tutti i Santi, e che presto poi lo tramuterà in altro luogo.»[232] Dopo di ciò il Machiavelli tornava subito a Firenze, dove era il 2 di novembre, e donde ripartiva per Pisa il giorno seguente.[233]

I Fiorentini con la loro incerta condotta non soddisfacevano la Francia, e scontentavano il Papa. Colpiti dall'interdetto, s'erano appellati al Concilio generale, senza dichiarare se con ciò intendevano riferirsi a quello di Pisa o di Roma. Costringevano intanto i sacerdoti d'alcune [152] chiese a celebrare i sacri riti, perchè potessero assistervi i fedeli. Nè si fermarono a ciò, che fu presentata e vinta una provvisione, validamente sostenuta in Consiglio dal Gonfaloniere, con la quale si dava facoltà d'imporre sui preti un prestito, che poteva in più volte arrivare fino a 120,000 fiorini, da riscuotersi però quando il Papa davvero movesse la guerra ai Fiorentini; da restituirsi dopo un anno, se guerra poi non vi fosse[234], ed in cinque, se vi fosse. Tutto questo dimostrava che in caso estremo si era deliberati a difendersi anche contro il Papa. Pandolfo Petrucci lo indusse perciò a muovere con l'esercito verso Bologna, la quale non era apparecchiata alla difesa, evitando ora di passar per la Toscana, dove avrebbe trovato un terreno montuoso, e sarebbe stato costretto ad affrontare nello stesso tempo i Fiorentini ed i Francesi. Egli insisteva assai vivamente in queste sue pratiche, non solo perchè una guerra in Toscana era, in ogni caso, dannosa a lui che in essa aveva il proprio Stato; ma anche perchè egli avrebbe allora dovuto, secondo la lega già fatta, prestare aiuto ai Fiorentini.[235] Faceva quindi notare al Papa, come essi di gran mala voglia si lasciassero tirare al Concilio, e ciò solamente per paura della Francia, nelle cui braccia si sarebbero certo dovuti gettare, se venivano da lui assaliti.[236] Ed era vero, com'era anche verissimo che il volere i Fiorentini sempre temporeggiare e destreggiarsi, in un momento nel quale un grande conflitto rapidamente s'avvicinava, poteva mettere a pericolo l'esistenza stessa della Repubblica. [153] In questa via nondimeno li tenevano il sentimento della propria debolezza, le discordie interne, ed anche l'incertezza dei ragguagli che venivano dai vari ambasciatori. Il Pandolfini che si trovava presso Gastone di Foix, scriveva nell'ottobre da Brescia: «I disegni del re dei Romani pigliano tanto tempo a colorirsi, che spesso, quando sono appena finiti di colorire, bisogna mutarli, per essere mutate le condizioni e i presupposti che li fecero immaginare. Quanto a lui bisogna dunque rimettersene a quello che seguirà.[237] Le cose dei Francesi poi sono qui governate per modo, che da un momento all'altro possono seguire sinistri effetti, perchè a lungo andare i cattivi governi degli uomini non partorirono mai nulla di buono. Il Re è assai caldo nel Concilio; ma se le SS. VV. potessero differirlo ancora un mese, saria facile fuggirlo, dovendo il fuoco inevitabilmente appiccarsi altrove. Anticipando, si tirerebbero forse il fuoco in casa, senza poternelo cavare, quando anche ne cavassero il Concilio.»[238]

I Fiorentini lo accolsero ma ponendovi ostacoli d'ogni sorta, e permettendo che fosse dileggiato. Quando infatti i cardinali volevano andare a Pisa, accompagnati da 300 o 400 lance francesi, sotto il comando di Odetto di Foix signore di Lautrech, essi mandarono subito Francesco Vettori, il quale disse chiaro al cardinale di San Malò, che se si avanzavano con le genti d'arme, sarebbero stati trattati da nemici. Ed i cardinali allora andarono accompagnati solo da Odetto e dallo Châtillon con pochi arcieri. Furono presi tutti i provvedimenti necessarî a mantenere la sicurezza e l'ordine tanto in Pisa, quanto nelle vicine città, ed il Papa se ne dimostrò [154] soddisfatto in modo che sospese l'interdetto fino alla metà di novembre.[239]

Il giorno 3 di questo mese il Machiavelli era, come dicemmo, partito da Firenze per Pisa, dove si trovavano già altri inviati fiorentini, e dove egli condusse alcuni soldati a guardia del Concilio, che il giorno 1º aveva tenuto la sua riunione preparatoria, alla quale assistevano solo quattro cardinali ed una quindicina di prelati. Era stato dai preti della cattedrale negato loro l'uso dei paramenti, e la facoltà d'ufficiare nella chiesa, di cui erano state addirittura chiuse le porte. I Fiorentini ordinarono che fosse concesso l'uso della chiesa e dei paramenti, senza però fare obbligo alcuno ai preti della città d'assistere al Concilio, se non volevano.[240] Così finalmente si potè tenere nella cattedrale la prima riunione il giorno 5 di novembre, e dopo la messa solenne, celebrata dal Santa Croce alla presenza degli altri tre cardinali, furono pubblicati quattro decreti. Con questi si dichiarava valido il Concilio di Pisa, nulle le censure del Papa contro di esso, nullo il Concilio lateranense, perchè non libero e non sicuro; e finalmente si decretava che sarebbero condannati e puniti tutti coloro che, essendo invitati a comparire, non si presentavano.[241] Il giorno seguente il [155] Machiavelli scriveva d'aver parlato col cardinale di Santa Croce, per indurlo, come di suo, a trasferire altrove il Concilio. «Portandolo in Francia o in Germania,» gli aveva detto, «farebbero il Papa più freddo a combatterlo, e troverebbero anche maggior seguito ed obbedienza, cosa da considerarla molto in una faccenda come questa, nella quale uno che andasse volontario varrebbe più che venti tirati per forza.»[242] La seconda sessione fu tenuta il 7 di novembre, e la terza, fissata pel 14, venne anticipata il 12, dopo di che fu deliberato tenere la quarta il 13 dicembre a Milano. La indifferenza, anzi la palese malavoglia della Repubblica; l'ostilità della popolazione; ed un grave tumulto seguìto, in conseguenza di ciò, fra il popolo pisano ed i soldati fiorentini da una parte, i Francesi e i servi dei cardinali dall'altra, tumulto a fatica fermato da Odetto di Foix e dallo Châtillon, che rimasero feriti, furono le cagioni che indussero a trasferire così presto il Concilio a Milano.

Ivi i cardinali sparlavano dei Fiorentini per ogni verso, cercando irritare contro di essi l'animo degli uffiziali francesi. Ma anche a Milano trovarono la stessa universale indifferenza, la stessa avversione del clero, che al loro arrivo non voleva più celebrare le messe. A mala pena i preti minori si piegarono agli ordini del Senato; i canonici e gli altri resisterono fino a che non vennero minacciati d'esilio, o non furono loro mandati Francesi in casa.[243] La verità era, osservò giustamente il Guicciardini, che tutti capivano come questi cardinali erano solo ambiziosi, mossi da interessi personali, e non avevano «minore bisogno d'essere riformati, che avessero coloro i quali si trattava di riformare.»[244] Il Concilio si [156] usava come un'arme di guerra nella grande contesa che doveva fra poco risolversi colle armi, e però solo a questa veniva adesso rivolta l'attenzione universale. Ma i Fiorentini, sebbene liberi adesso dalle noie del Concilio, non ne risentivano alcun sollievo, perchè ormai si trattava di vedere se, nella vicina catastrofe, poteva salvarsi l'esistenza stessa della Repubblica.

CAPITOLO XIV.

La battaglia di Ravenna. — I Francesi si ritirano. — Pericoli della Repubblica. — Il Machiavelli provvede alla difesa. — Ordinanza a cavallo. — Gli Spagnuoli prendono e saccheggiano Prato. — Tumulto in Firenze a favore dei Medici. — Il gonfaloniere Soderini è deposto, e lascia la Città.

I Francesi ingrossavano in Italia, e li comandava G. G. Trivulzio che, sebbene vecchio, era sempre capitano assai reputato, e Gastone di Foix. Questi, che aveva appena 23 anni, era figlio d'una sorella del Re, e fratello della moglie di Ferdinando il Cattolico, trovavasi a Milano come governatore, e doveva ora far maravigliare il mondo pel suo coraggio, pel suo genio militare. Il Trivulzio aveva cacciato i papalini dal Ferrarese, e rimesso i Bentivoglio in Bologna; ma l'esercito non era ancora in grado d'uscire in campagna, e però egli aspettava rinforzi dalla Francia, dove gli apparecchi di guerra andavano lenti. Il Re, sempre stretto nello spendere, ricusava d'aumentare la paga agli Svizzeri, che ora gli domandavano 40 invece di 30 mila ducati l'anno, e non avendoli avuti, si disponevano a scendere in Italia per aiutare invece il Papa. Questi infatti da un pezzo lavorava a tale scopo, per mezzo de' suoi agenti, e fin dall'ottobre del 1511, sentendo che il Re vantavasi ancora [157] d'aver seco gli Svizzeri, aveva risposto che «mentiva per la gola, che non li arìa mai.»[245] Luigi XII s'era illuso, perchè, sapendo che gli Svizzeri non avevano nè cavalleria, nè artiglieria, supponeva che non avrebbero osato separarsi da lui, ed operare per proprio conto. Ma essi, che si tenevano la prima fanteria del mondo, s'erano invece persuasi che la Francia, debole appunto nelle sue fanterie, non avrebbe potuto far nulla senza di loro, molto meno poi affrontarli in campo aperto.

Scesero adunque in numero di 10,000, ed aspettavano l'arrivo d'altri compagni per andar contro ai Francesi. La cosa fece grandissimo senso in Italia, tanto che il cardinal Soderini, il quale s'era finto ammalato per non obbedire al Papa, che lo chiamava in Roma, corse ora subito a lui, che esclamò: «Svizzeri essere buoni medici del mal francese, perchè hanno sì bene guarito monsignor di Volterra.»[246] Ma Gastone di Foix seppe tenerli a bada, temporeggiando; ed essi, quando erano già arrivati al numero di 16,000, si ritirarono senza aver fatto nulla, e senza che nessuno ne capisse il perchè. Forse erano stati anche ora riguadagnati dal danaro francese. I Fiorentini, in questo mezzo, s'adoperavano a tutt'uomo per mantenersi neutrali. Alla Francia che li richiedeva d'aiuto, rispondevano d'avere già mandato i 300 uomini d'arme cui erano tenuti, e non potere altro. E nella Spagna mandavano ambasciatore messer Francesco Guicciardini, che, sebbene non avesse ancora l'età legale di 30 anni, era già noto pel suo ingegno. Non gli dettero però nessuna commissione determinata, che potesse in qualche modo valere a calmare i confederati. [158] E così correvano sempre il grave pericolo di rimanere ugualmente invisi a tutti.[247]

Restavano adunque da una parte i Francesi, che erano assai aumentati di numero, ed avevano molti fanti tedeschi; dall'altra la Spagna, Venezia, il Papa, il quale scriveva lettere di fuoco al cardinal de' Medici, dicendo di non capire perchè non venissero alle mani, e non avessero già assalito Bologna. I confederati erano presso Imola con un esercito, tra Spagnuoli e papalini, di 16,000 fanti e 2400 cavalli, comandati dal vicerè Raimondo di Cardona, da Pietro Navarro, da Prospero e Marcantonio Colonna, ed altri. I Francesi avevano in Bologna 2000 fanti tedeschi e 200 lance solamente; sicchè i nemici cominciarono ad assalirla, e colle mine dirette dal Navarro, che era famosissimo ingegnere, mandarono in aria un pezzo di muro. Questo però, ricadendo, chiuse di nuovo la breccia, che parve un miracolo. E quasi nello stesso tempo Gastone di Foix, che aveva già introdotto nella città altri 1000 fanti e 180 lance, vi entrò il 4 febbraio con tutto l'esercito, che il Guicciardini fa ascendere a 1300 lance e 14,000 fanti, fra Italiani, Francesi e Tedeschi.[248] A questa notizia i confederati levarono l'assedio e s'allontanarono; ma non furono inseguiti, perchè Gastone, saputo che i Veneziani s'erano impadroniti di Brescia, partì immediatamente a quella volta il 9 di febbraio, lasciando in Bologna solo 300 lance e 4000 fanti.[249]

Per via incontrò un distaccamento dell'esercito veneziano [159] e lo ruppe; assalì poi Brescia, dove il castello si teneva sempre per lui. Il 19 egli era padrone della città, dopo un feroce assalto ed una difesa ostinatissima fatta dall'esercito veneziano, forte di 8000 fanti, 500 uomini d'arme e 800 cavalli leggieri, che perirono quasi tutti, parlandosi da alcuni di 8000, da altri perfino di 14,000 morti, fra soldati e cittadini. La povera Brescia ebbe a sopportare un saccheggio di circa sette giorni continui, avendo Gastone, che era tanto crudele quanto valoroso, lasciato libero ogni freno ai suoi. Dopo di ciò egli richiamò sotto le armi l'esercito, che aveva sofferto assai poco, era ricco di preda, pieno di baldanza, e s'avviarono di nuovo in Romagna. In un tempo nel quale le mosse degli eserciti erano lentissime, egli riuscì veramente a fare prodigi. Aveva in quindici giorni liberato Bologna dall'assedio, respinto per via un distaccamento nemico, assalito e preso Brescia; era pronto adesso a maggiori imprese. Arrivato al Finale, trovò nuovi rinforzi, coi quali portò l'esercito a 1500 lance, 1000 arcieri, 19,000 fanti tra Francesi, Italiani e Tedeschi, senza contar le artiglierie, che erano principalmente quelle del duca di Ferrara. Gli Spagnuoli avevano 1400 tra lance ed uomini d'arme, 1500 giannettieri, 13,500 fanti, oltre le artiglierie, e 50 carri falcati di nuova invenzione.[250]

I due eserciti campeggiarono un pezzo, non volendo i confederati venire alle mani con un nemico superiore di numero. Ma Gastone di Foix non aveva tempo da [160] perdere, perchè gl'inglesi minacciavano d'assalire la Francia, e l'Imperatore, poco sicuro alleato di Luigi XII, minacciava di richiamare i suoi 6000 Tedeschi. Per costringere adunque a battaglia il nemico che si ritirava, egli, dopo aver preso alcuni castelli, assalì Ravenna, città troppo importante perchè gliela lasciassero prendere senza opporsi con tutte le forze. Ivi infatti era entrato a difenderla Marcantonio Colonna, avendo avuto promessa solenne, che l'intero esercito dei confederati sarebbe venuto in suo aiuto, quando egli si fosse trovato in pericolo. Gastone di Foix venne a mettersi tra i due fiumi, Ronco e Montone, che si avvicinano sempre più fra di loro presso le mura della città. Piantate le artiglierie, aprì la breccia e diede l'assalto; ma la difesa fu così gagliarda che, dopo aver perduto 300 fanti ed alcuni uomini d'arme, con altrettanti feriti, dovè tornare agli alloggiamenti. Il giorno dipoi i cittadini mandarono al campo francese per trattare la resa, all'insaputa di Marcantonio Colonna, che, sicuro degli aiuti, s'apparecchiava a difendersi.[251] Ben presto infatti l'esercito dei confederati fu in vista, il duca di Nemours e Gastone diedero subito gli ordini per la battaglia, tanto più ardentemente da essi desiderata ora che giungeva una lettera, con la quale l'Imperatore richiamava le sue genti, e si fu appena in tempo a tenerla in quel momento celata.

L'esercito dei confederati entrò anch'esso fra i due fiumi, presso Forlì: ma poi, traversato il Ronco, si fermò a tre miglia da Ravenna. Ivi, avendo a sinistra il fiume, lavorarono il giorno e la notte per cavare, secondo il disegno di Pietro Navarro, un fosso che li circondasse dall'altro lato e di fronte, lasciando però libero uno spazio di venti braccia, percui potesse uscir prima la cavalleria, e poi, occorrendo, tutto l'esercito, alla testa del quale posero le artiglierie e i 50 carri falcati cui [161] accennammo. Erano questi un'imitazione dell'antico, immaginata dal Navarro: piccoli e bassi, con uno spiede che «co' rampi suoi apriva circa tre braccia, ed in ciascun carro era un lancione, messo nella stessa direzione, il quale feriva prima dello spiede:» nè mancava su di essi qualche piccola artiglieria. Si movevano facilmente, e parvero una grande invenzione; ma riuscirono poi nel fatto assai poco utili, perchè subito messi fuori d'uso dai cannoni nemici.[252] I Francesi lasciarono Yves d'Alègre con 400 lance presso Ravenna, e gettato un ponte sul Ronco, lo passarono anch'essi. Questo seguì l'11 di aprile 1512, giorno della Pasqua di Resurrezione e della grande battaglia. Si schierarono in forma di mezza luna, con le artiglierie comandate dal duca di Ferrara all'ala destra, in modo che ferivano la cavalleria spagnuola, la quale, sotto il comando di Fabrizio Colonna, era posta verso il fiume, a sinistra del proprio esercito.

Cominciato il fuoco, quando il Colonna s'avvide che le sue genti d'arme erano condannate all'immobilità, mentre venivano decimate dall'artiglieria nemica, andò in furore contro il Navarro, che gli aveva così rinchiusi nel campo, e lo accusò di tradimento per gelosia contro di lui. Finalmente, non potendo più stare alle mosse, dette ordine ai suoi, ed uscì fuori del campo. E così, seguendolo tutto l'esercito, cominciò una battaglia, che fu la più sanguinosa di quante allora s'avesse memoria, la prima grande battaglia moderna. La cavalleria dei confederati, già prima di muoversi fieramente battuta dalle artiglierie, male potette resistere all'impeto ed al notissimo valore degli uomini d'arme francesi, dai quali fu ben presto messa in fuga, restando [162] prigionieri lo stesso Fabrizio Colonna ed il Marchese di Pescara. La fanteria spagnuola si mostrò degna del suo gran nome, e con un'energia indomabile resistette agli assalti nemici; ma finalmente anch'essa dovè cedere agli uomini d'arme dei Francesi, al genio militare del loro capitano, ed in parte ancora al numero preponderante. Poco dopo, tutto l'esercito spagnuolo batteva in ritirata; ma con tale ordine, con tanta fermezza, che Gastone, mosso a grandissimo sdegno nel vedere il vinto nemico ritirarsi quasi come un vincitore, volle in persona dare un ultimo e più fiero assalto con la sua cavalleria. Sfortunatamente però gli cadde sotto ferito il cavallo, ed egli stesso morì con 14 o 15 ferite tutte nel viso e nel petto, essendosi, in tre mesi e così giovane, reso immortale, prima quasi generale che soldato. Ma perciò appunto la sua morte, seguìta nel momento stesso della vittoria, fu alla Francia una calamità irreparabile. I confederati si ritirarono allora con vera baldanza, quantunque la disfatta subìta fosse stata davvero generale e grandissima. Lasciarono infatti nelle mani del nemico carri, bandiere, artiglierie e moltissimi prigionieri, fra i quali Fabrizio Colonna, Pietro Navarro, i marchesi della Palude, di Bitonto, di Pescara, ed il cardinal de' Medici, che era legato del Papa. Il numero dei morti fu, come suole, assai diversamente valutato, portandolo alcuni a 10,000, altri fino a 20,000. Tutto computato, par che morissero 12,000 dei confederati, e solo 4000 dei Francesi, i quali però, oltre la perdita d'alcuni capitani, come Yves d'Alègre ed il figlio, ebbero quella di Gastone, che fu per essi più che una disfatta, come ben presto dovettero avvedersene.[253] Per qualche giorno ancora [163] continuarono però le conseguenze della loro vittoria. Ravenna fu presa e saccheggiata da essi, e subito s'arresero anche Imola, Forlì e Cesena.

All'annunzio della vittoria francese e delle città che si arrendevano, il Papa cadde in una grandissima costernazione, e voleva a qualunque costo fare la pace. Ma, fermato a tempo dagli Spagnuoli, ed avvistosi della piega assai diversa che stavano allora per pigliare le cose, finse di continuare a voler la pace, per meglio ingannare i nemici, che presto si trovarono a pessimo partito. L'Imperatore rinnovò ai suoi soldati l'ordine di ritirarsi; gli Svizzeri si mossero per venir davvero in aiuto dei confederati, e subito furono in Italia in numero di 20,000; l'Inghilterra mandava nella Spagna, soldati per assalire la Francia. In breve la pubblica opinione s'era mutata in modo che il nome dell'Impero veniva da tutti esaltato, ed il cardinal de' Medici, menato dai soldati francesi prigione in Lombardia, si trovava ogni giorno circondato da molti di essi, che gli chiedevano l'assoluzione. Poco dipoi venne per sorpresa liberato. I confederati, uniti agli Svizzeri, inseguivano i Francesi che fuggivano, secondo l'espressione d'un contemporaneo, «come fugge la nebbia dal vento.»[254] Ed in poco tempo questi non avevano in Italia altro che Brescia, Crema, [164] Legnago, il castello e la Lanterna di Genova, il castello di Milano. Contemporaneamente Parma, Piacenza, Bologna ed altre terre in Romagna s'arrendevano al Papa, che ne pigliava possesso, pieno ormai d'orgoglio e di grandi speranze. Pareva un sogno.

Male assai si trovavano i Fiorentini. Fedeli sino all'ultimo all'amicizia francese, quando fu scaduto il trattato che gli obbligava a dare 300 lance, lo rinnovarono per altri cinque anni, con l'obbligo di darne 400. Ma intanto le 300 che già erano coi Francesi, venivano svaligiate. La loro condotta non aveva punto contentato Luigi XII, il quale dicevasi tradito da essi, dichiarati invece suoi fidatissimi amici dai confederati, che discordi fra di loro in molte cose, si trovavano unanimi solamente nel non volere più tollerare il governo del Soderini a Firenze. E così la Repubblica, venendo da ogni parte tirata in opposte direzioni, non sapeva più a qual partito appigliarsi. Il Papa inviava ad essa il datario Lorenzo Pucci, perchè la invitasse ad entrare nella Lega, con obbligo di dar genti per aiutare la cacciata dei Francesi dall'Italia. Il rappresentante dell'Imperatore, cardinal Gurgense, presso cui era stato nel luglio 1502 inviato Giovan Vittorio Soderini, invitavali invece a mandar danari al suo signore, per averne amicizia e protezione. Ma da lui e dagli Spagnuoli in Mantova, dove l'ambasciatore si recò poco dopo, capì chiaramente che i collegati volevano ad ogni costo rimettere i Medici, e volevano danari. Il Papa era più di tutti avverso al governo del gonfaloniere Soderini. Sarebbe quindi stato necessario da parte dei Fiorentini che, senza lesinare sulle somme da pagare, fossero nello stesso tempo corsi risolutamente alle armi, dimostrandosi pronti ad una disperata difesa; ma di ciò appunto essi parevano allora del tutto incapaci. Nelle Consulte e Pratiche tenute nel luglio ed agosto, non si proponeva infatti altro che andare temporeggiando. Uno diceva: [165] «Non far nulla, ma intractenere.» Un altro ripeteva che «anderebbe differendo, mostrando la impossibilità di dar denari, tenendo el filo appiccato fino a tanto si vedesse le cose dei confederati ferme...; e così acquistare tempo.» Tutti ripetevano più o meno i medesimi discorsi, senza quasi accorgersi che erano già coll'acqua alla gola.[255]

Nella Dieta di Mantova intanto fu ben presto deliberato che Massimiliano Sforza, figlio di Lodovico il Moro, dovesse andare a governare Milano; che a Firenze si dovesse deporre il Soderini, e rimettere i Medici, i quali, senza punto farsi pregare, dettero subito 10,000 ducati, promettendo dar somme molto maggiori all'esercito che li avesse ricondotti nella loro nativa città. Giuliano de' Medici che trattava in nome suo e del cardinal Giovanni, era da tutti ascoltato, come se già fosse il rappresentante di una potenza; all'oratore della repubblica fiorentina nessuno invece dava ascolto, e cercavano solo pascerlo di parole, quasi deridendolo. Il vicerè spagnuolo era già andato a raggiungere il suo esercito in Bologna; ed a Firenze si discorreva ancora senza concludere nulla.

Il Soderini sentiva però che il terreno gli mancava sotto i piedi. E questo lo indusse allora a fare il suo testamento, nel quale si ricordava degli amici più cari, lasciando fra gli altri a ciascuno dei due cancellieri, l'Adriani ed il Machiavelli, quindici fiorini d'oro in oro.[256] Egli si vedeva ora abbandonato dagli uomini più autorevoli, che già manifestamente trattavano coi Medici, i quali ripetevano a tutti, che volevano solo cacciare il Gonfaloniere, e vivere poi come privati cittadini, rispettando [166] la libertà. Contro di lui si scatenavano adesso tutti gli odii, tutte le gelosie di coloro che credevano d'essere stati a torto lasciati in disparte. Questi speravano ora di poter pigliare una rivincita, assumendo di fatto nelle proprie mani il governo, quasi pigliando sotto tutela i Medici, tenendoli a freno coll'aiuto del popolo, che era sempre fautore del libero reggimento. Se però il Soderini non aveva la forza di fare una energica e disperata difesa, neppure si sgomentava del tutto. In parte s'illudeva nella fiducia che l'Ordinanza sarebbe stata capace di resistere con energia, in parte dava ascolto alle voci di coloro che volevano addormentarlo. Gli Spagnuoli gli facevano dire che il loro re non avrebbe mai voluto dar troppa forza al Papa, e molto meno lasciare il governo di Firenze in mano di un cardinale come Giovanni de' Medici, che era allora il capo della famiglia. Il Papa gli dava ad intendere che odiava gli Spagnuoli, e che neppur egli voleva render potente il Cardinale, il quale dipendeva da loro. Così veniva da ogni parte aggirato, e restava in sospeso.[257]

Solo il Machiavelli già da un pezzo non si faceva più nessuna illusione, anzi la sua attività cresceva a misura che il pericolo s'avvicinava. Il 22 di novembre 1511, egli aveva fatto il suo primo testamento, il che fa credere, che vedesse davvero assai buio l'avvenire.[258] Nel maggio dello stesso anno aveva scritto un Consulto per l'elezione del Comandante delle fanterie, nel quale raccomandava di fare eleggere dagli Ottanta un buon capitano, senza di che l'Ordinanza non avrebbe retto alla prova, e suggeriva Iacopo Savelli come uomo assai stimato da A. Giacomini, da Niccolò Capponi,[259] e superiore a tutte le [167] gelosie. Ma pur troppo non pare che i suoi consigli fossero ascoltati, e quindi l'Ordinanza restò, nel momento decisivo, senza un capo di reputazione. Nel dicembre del 1511 egli era stato in giro nella Romagna toscana a far leve di uomini per la cavalleria, che si doveva allora istituire;[260] poi tornò a Firenze, ed andò altrove, lavorando sempre allo stesso scopo.[261] Finalmente, nel marzo del 1512, venne prima negli Ottanta e poi nel Consiglio Maggiore deliberata l'Ordinanza a cavallo, con una provvisione da lui medesimo scritta. «Visto,» così presso a poco essa diceva, «come sia riuscita utile l'Ordinanza delle fanterie, volendo rendere sempre più sicuro il nostro dominio e la presente libertà nei pericoli che corrono, si concede ai Nove facoltà di scrivere sotto le bandiere, per tutto il 1512, non meno di 500 cavalli leggieri, con balestra o scoppietto, a volontà dei descritti: il dieci per cento di essi potranno portare la lancia.» A questi uomini era data, per mantenere il cavallo in tempo di pace, una paga, la quale doveva poi essere scontata su quella assai maggiore che in tempo di guerra avrebbero avuta, come s'usava cogli altri cavalli leggieri che erano stipendiati.[262] Anche la nuova Ordinanza doveva essere [168] formata di uomini scelti nel territorio della Repubblica, senza che neppure adesso che la patria era in pericolo, si osasse chiamare a farne parte gli abitanti delle grandi città, molto meno poi quelli di Firenze. Ed in verità chi avrebbe potuto consigliarlo quando si vedeva che tanti autorevoli cittadini cospiravano ora apertamente pel ritorno dei Medici?

Vinta la provvisione, il Machiavelli scrisse subito nell'aprile le lettere e gli ordini necessari a costituire la cavalleria.[263] Nel maggio andò a Pisa per fornire di uomini quella cittadella, poi a Fucecchio ed altrove per far nuove leve. Nei primi di giugno fu a Siena, dove era morto Pandolfo Petrucci, e la trovò sempre ben disposta verso Firenze; poi di nuovo a Pisa, ed il 20 giugno era a Firenze, donde spingeva innanzi i provvedimenti per la difesa.[264] E di nuovo correva in giro pel territorio ad infondere animo, a sorvegliare l'esecuzione degli ordini dati. Il 27 dello stesso mese Giovan Battista Ridolfi potestà e capitano di Montepulciano scriveva, che il Machiavelli era giunto colà molto a proposito, perchè, introdotto nel Consiglio radunato da quei Priori, era riuscito a [169] mettere coraggio nei cittadini, i quali aveva trovati pieni di spavento, e lasciava invece fiduciosi nella protezione di Firenze. La lettera continuava dicendo, che da più parti si vedevano correre alcune centinaia di cavalli pontifici, i quali poi scomparivano a un tratto, senza che si potesse capire che intenzione avevano. E diceva pure che il Machiavelli «era andato a Valiano, per vedere quel riparo; dipoi al Monte San Savino, perchè si potesse far testa fra lì e Foiano.»[265] Nel luglio tornava a Firenze;[266] ma nell'agosto, avvicinandosi il nemico, andava a Scarperia, poi a Firenzuola, ove dava un terzo di paga ai fanti, per tenerli ben disposti alla difesa. Di là Baldassare Carducci, che era in cerca del Vicerè, presso cui l'avevano inviato, scriveva che il nemico si avvicinava rapidamente, ma che si era pronti a resistere, avendo il Machiavelli ivi raccolto altri 2000 uomini, e si adoperava intanto per le artiglierie. Se non che a Barberino, altra via per la quale il nemico poteva venire, tutto era invece abbandonato, ed il commissario Tosinghi scriveva di non avere uomo da mandare da luogo a luogo; sperava che il Machiavelli avesse fornito bene Firenzuola, perchè almeno da quel lato i nemici venissero più lenti.[267] E da Appiano, il 23 e 24 agosto 1512, dopo aver parlato col Vicerè e col De Luca, scriveva[268] che ormai non c'era più nulla da sperare; che il nemico s'avanzava; che tutta la lega era d'accordo, e più di tutti il Papa, a voler mutare il Governo in Firenze, rimettendovi i Medici.

Mentre infatti si raccoglievano forze a Firenzuola, il vicerè Raimondo di Cardona s'era da Bologna avviato [170] per la via dello Stale a Barberino, insieme col cardinal de' Medici, che aveva portato due cannoni, altri non avendone l'esercito. Arrivati al confine, i rappresentanti della Repubblica chiesero loro, che cosa venissero a fare. Risposero che venivano ad eseguire le deliberazioni dei confederati, le quali erano: che fosse deposto il Soderini, stato sempre amico della Francia, istituito un nuovo governo a loro non sospetto, rimessi i Medici come privati cittadini. Il Vicerè chiedeva inoltre danari: 100,000 ducati, secondo il Buonaccorsi. Le stesse domande e risposte erano ripetute a Barberino. Certo, dando danari ed accogliendo i Medici, c'era anche in quel momento da venire ad un qualche accordo circa la forma del governo. Ma il Gonfaloniere capiva bene, che ritornando i Medici, egli sarebbe stato inevitabilmente cacciato, e più tardi sarebbe stata di certo distrutta la Repubblica. E però, non ostante la sua indole irresoluta, non voleva in nessun modo sottomettersi o venire a patti, tanto più che non gli pareva difficile resistere ad un esercito così poco numeroso com'era quello del Vicerè. E questa sua illusione era tenuta viva dal Machiavelli, il quale, sempre pieno di fiducia nell'Ordinanza, continuava ad apparecchiar la difesa, nè si sgomentava vedendo che, mentre egli fortificava un punto, i nemici passavano tranquillamente da un altro. S'era intanto deliberato di tener loro testa a Prato; ma giustamente osservava il Guicciardini a questo proposito, che i Fiorentini «avevano poche genti d'arme; non fanterie, se non o fatte tumultuosamente, o raccolte dalle loro Ordinanze, la maggior parte delle quali non era esperimentata alla guerra: non alcun capitano eccellente, nella virtù o autorità del quale potessero riposarsi; gli altri condottieri tali che mai alla memoria degli uomini erano stati di minore espettazione agli stipendî loro.»[269]

[171]

Il Gonfaloniere sembrava però che si fosse ora finalmente deciso davvero a far prova di qualche energia. Infatti egli mise in prigione venticinque dei più sospetti cittadini; e poi, raccolto il Consiglio Maggiore, espose in un lungo discorso lo stato vero delle cose, dichiarandosi pronto a deporre il suo ufficio, se i cittadini lo credevano opportuno. Faceva però loro considerare che ai nemici non sarebbe bastato il cacciar lui, perchè volevano distruggere la libertà, ed i Medici avrebbero ben presto mutato il governo e fatto le loro vendette. Che se la Città voleva essere unita con lui e sostenerlo, egli si sarebbe apparecchiato a difenderla energicamente, purchè si fosse disposti a fare i necessari sacrifizî. Il suo discorso riuscì assai efficace, e riunitisi secondo il costume, i cittadini, nelle pancate, si dichiararono concordi a voler mantenuto il governo popolare e difesa la libertà.[270] Questa era infatti l'opinione di gran lunga prevalente; giacchè solo i più ambiziosi combattevano per gelosia il Soderini, e neppure essi osavano ancora farlo apertamente in pubblico. Furono quindi votate senza indugio le somme domandate per la difesa, circa 50,000 ducati, e tutti parvero in quel momento d'un animo solo. Ben presto si vide però, che questa concordia era solo apparente.

Tenuto un Consiglio di condottieri, si raccolsero in sei giorni 9000 fanti e 300 uomini d'arme, fra i quali erano [172] compresi anche i pochi cavalli leggieri dell'Ordinanza; e fu deliberato di accamparli tutti fuori delle mura.[271] A Prato, dove s'aspettava il primo assalto, erano già 3000 fanti, in massima parte dell'Ordinanza, gli altri, raccolti in fretta dalla più bassa plebe. V'erano anche alcuni uomini d'arme,[272] ma di quelli stati poco prima svaligiati in Lombardia dai nemici, e li comandava Luca Savelli, vecchio e non esperto capitano. Poche erano le artiglierie, poche le munizioni e le vettovaglie; ma, quello che è peggio, già per tutto serpeggiava il tradimento, tanto che alcuni facevano a studio cadere per terra la polvere da sparo, che avrebbero dovuto portare a Prato,[273] dove gli scoppiettieri ne mancavano, ed erano costretti a portar via lamine di piombo dal tetto d'una chiesa, per farne palle.[274] Eppure il Soderini pareva pieno di speranza, affermando che, quando i nemici avessero tutti oltrepassato Barberino, egli avrebbe potuto mandare a Prato 18,000 uomini con le artiglierie. Ma intanto v'arrivava il Vicerè con 5000 fanti Spagnuoli e 200 uomini d'arme. E sebbene non avesse altri cannoni che i due del cardinal de' Medici, il quale seguiva [173] il campo; e sebbene l'esercito fosse affamato, senza paghe, sprovvisto di tutto, pure erano uomini stati alla battaglia di Ravenna, e si trovavano di fronte l'Ordinanza del Machiavelli, la quale ancora non aveva visto il fuoco. Il momento della prova era quindi per essa venuto.

Il primo assalto degli Spagnuoli fallì per mancanza di artiglierie, ed il Vicerè, che mancava anche di vettovaglie, si dichiarò allora pronto agli accordi, purchè s'accogliessero i Medici in Firenze, ed a lui si mandassero subito 3000 ducati, e 100 some di pane, per sfamare i suoi soldati. Sincere o no che fossero queste proposte, molti volevano accettarle; ma il Soderini le respinse sdegnosamente, ed il Vicerè allora, entrato per tradimento in Campi, dove trovò le necessarie vettovaglie, tornò a battere le mura di Prato da un altro lato. Dei due cannoni che aveva, il primo scoppiò, ed anche il secondo valeva poco, ma pur finalmente si riuscì con esso ad aprire una breccia,[275] ed allora si dette l'assalto. Da due porte si fece una qualche resistenza; ma l'Ordinanza che avrebbe dovuto difendere la breccia, abbandonò invece assai vilmente il suo posto. Così il 29 di agosto 1512 ad ore 16 gli Spagnuoli poterono facilmente entrare in Prato, e senza trovare altra resistenza cominciarono il sacco.[276]

[174]

Il numero dei morti nel saccheggio è diversamente valutato. Iacopo Guicciardini li porta a 4000, in gran parte soldati dell'Ordinanza, i quali, egli dice, vennero quasi tutti uccisi; furono inoltre «vituperate le donne e taglieggiate, mandando a bordello tutti i munisteri.» Altri scrittori, come il Modesti ed il Cambi, fanno salire i morti a 5000, ma Francesco Guicciardini li fa discendere a 2000. Questi però evidentemente attenua ogni cosa a vantaggio dei Medici, modificando le notizie che trae dal Buonaccorsi e dalle lettere ricevute da Firenze, le quali noi oggi possiamo leggere, perchè pubblicate nelle sue Opere inedite. Egli pretende, fra le altre cose, che il Cardinal Giovanni facesse fermare la strage, e salvare le donne, il che non è detto neppure dallo stesso Cardinale nella lettera da lui scritta allora al Papa. Secondo il Modesti, sembra invece che solo alcuni giorni dopo cominciato il sacco, egli facesse salvare quelle donne che si ridussero nel suo palazzo, «tali quali si possono immaginare.»[277] La strage fu in ogni modo grandissima, come affermano tutti gli scrittori contemporanei, come conferma nella sua lettera il Cardinale, ed alla strage s'unirono anche molte violenze all'onor delle donne.

Qui ogni monasterio è saccheggiato,

Qui ogni chiesa s'usa per bordello

Di meretrice che loro han menato.

Qui non giova a sirocchie aver fratello.[278]

Così dice ne' suoi cattivi versi un narratore contemporaneo, e così ripetono tutti. Il Nardi parla d'una giovinetta che si gettò dalla finestra per salvare il proprio onore, [175] e d'una donna portata via da uno Spagnuolo, che la tenne seco alcuni anni, fino a che ella non riuscì a segargli la gola ed a fuggirsene, tornando al suo marito in Prato, dove venne accolta trionfalmente, paragonata alle più illustri matrone di Roma, ed a Giuditta.[279] Si disse che fra i pochi cadaveri dei soldati nemici ne furono trovati alcuni circoncisi, il che fece affermare che nell'esercito spagnuolo vi fossero anche dei Musulmani, volendosi con ciò spiegare non solo le immani crudeltà, ma anche il grande disprezzo e le ingiurie alle chiese ed ai monasteri cristiani.[280]

Non v'è certo da maravigliarsi che il Vicerè crescesse ora le sue pretese. Se prima s'era indotto a far vaghe promesse di rispettare la libertà, e di far entrare i Medici come privati cittadini; ora dichiarava aperto non solo di volerli senz'altro rimettere, ma di volere anche mutare il governo, chiedendo inoltre che gli venissero subito pagati 150,000 ducati.[281] La Città da un altro lato non poteva più nulla negare, ed era perciò disposta a tutto; ma il disordine e la confusione eran tali, che essa non sapeva ormai venire a nessuna deliberazione. Temeva perfino degli stessi suoi soldati, i quali si dimostravano così avidi di preda e di saccheggio, che, sebbene alloggiassero fuori delle mura, le donne avevano subito cominciato a ricoverarsi nei monasteri.[282]

Il governo della Repubblica intanto pareva che già fosse venuto in mano dei Medici. Il cardinal Giovanni era dal campo in continua corrispondenza coi principali cittadini; Giulio suo cugino, bastardo, era andato a tener segreto colloquio con Anton Francesco degli Albizzi in una costui villa, per concertare il modo di mutar subito [176] il governo. Ed il giorno ultimo d'agosto l'Albizzi, Paolo Vettori, Gino Capponi, i figli di Bernardo Rucellai e Bartolommeo Valori, parente del Soderini, tutti giovani e audaci, irruppero nel Palazzo, dove insieme con la vecchia Signoria sedeva la nuova, che doveva entrare in ufficio il primo di luglio; penetrarono nelle stanze del Gonfaloniere, e subito gli chiesero con violenza che liberasse i venticinque amici de' Medici, da lui fatti imprigionare nei decorsi giorni; poi lo minacciarono nella vita, se non abbandonava il suo ufficio, promettendo invece di salvarlo, se tranquillamente se ne andava.[283] Il Soderini, convinto ormai che ogni resistenza sarebbe stata inutile, si dichiarò pronto a partire, e chiamato a sè il Machiavelli, di cui solo poteva in quell'ora di grave pericolo fidarsi, lo mandò a casa di Francesco Vettori, fratello di Paolo, per essere, sulla sua fede, accolto nelle loro case, dove egli credeva d'essere più sicuro che nella propria. Francesco consentì, dopo essersi prima dai suoi assicurato, che non avrebbero usato violenza.[284] Ed intanto anch'egli, sebbene amico del Soderini e del Machiavelli, lavorava insieme cogli altri al trionfo dei Medici. Andò alla nuova Signoria, per indurla a radunare i magistrati, ed a dare una qualche ipocrita apparenza di legalità al mutamento di governo, che già s'andava di fatto compiendo. Raccolto che fu alla meglio il numero legale dei magistrati e dei consiglieri, essi non volevano consentire alla deposizione del Gonfaloniere; ma il Vettori, che faceva allora una doppia parte in commedia, supplicò con le braccia in croce, che si risolvessero subito, altrimenti quei giovani che già lo avevano deposto, sarebbero corsi ad ammazzarlo. E così fu ottenuto [177] l'intento.[285] Dopo di che egli e Bartolommeo Valori con quaranta cavalli accompagnarono il Soderini fino a Siena. Questi disse d'andare a Loreto; ma, saputo dal fratello cardinale, che avrebbe corso pericolo per via, se ne andò invece a Ragusa; e neppure colà sentendosi sicuro, riparò a Castelnuovo, terra sottoposta al Turco.

Così caddero la potenza ed il governo di Piero Soderini da tutti gl'imparziali giudicato uomo politicamente onesto, ma assai debole. Lo stesso Francesco Vettori che, come abbiam visto, contribuì col proprio fratello a farlo cadere, dice che fu «certo buono e prudente ed utile; nè si lasciò mai trasportare fuora del giusto, nè da ambizione, nè da avarizia; ma la mala fortuna (non voglio dir sua, ma della misera Città) non permesse che egli o che altri vedesse il modo di ovviare alli insulti de' collegati.»[286] Questo è un linguaggio veramente singolare nella bocca di chi s'era adoperato al ritorno dei Medici; ma appunto perciò è assai credibile. Più sincero nell'esprimere il suo avviso è però lo storico Filippo dei Nerli, partigiano anch'egli zelantissimo dei Medici. Dopo d'aver biasimato il Soderini, perchè non tenne abbastanza conto dei potenti che lo avevano aiutato a salire, conchiude che, «non seppe mai esser principe nè cattivo nè buono, e credette troppo colla pazienza, godendo, come si dice, il benefizio del tempo, superare tutte le difficoltà.»[287] In sostanza è questo un giudizio non molto diverso da quello che ne fece il Machiavelli stesso, quando osservò nei Discorsi, che il Soderini [178] sperava «con la pazienza e con la bontà sua estinguere i mali umori; nè mai osò spegnerli colla forza, come i nemici gliene diedero occasione. Di ciò scusavasi col dire, che sarebbe stato necessario violare le leggi, il che avrebbe seminato odî, e dopo la sua morte messo a pericolo il governo d'un Gonfaloniere a vita, il quale egli credeva utile alla Città. Nondimeno e' non si debbe mai lasciar scorrere un male rispetto ad un bene, quando quel bene facilmente possa essere da quel male oppressato.»[288]

Intanto quei giovani che avevano cacciato il Soderini, insieme con altri «tutti di mal affare,»[289] si posero a guardia del Palazzo, e furono subito eletti venti cittadini, per deliberare quello che s'avesse a fare. Alcuni speravano ancora trovar modo di salvare la libertà;[290] ma ormai gli avvenimenti seguivano il loro corso inevitabile. Gli oratori inviati al Vicerè ed al Cardinale furono da questo ricevuti cortesemente e modestamente. A lui bastava, egli disse, d'essere, insieme coi suoi, accolti in Firenze come privati cittadini, con facoltà di ricuperare i loro averi, pagandoli. E veramente nessuna più onesta domanda poteva immaginarsi da parte di chi aveva appunto allora trionfato colle armi. Ma il Cardinale, a guarentigia delle modeste domande, della persona sua e de' suoi, chiedeva anche assicurazioni, le quali giustamente facevano osservare allo storico Nardi, che «chi domanda sicurtà di non essere offeso (volendo vivere civilmente nella Repubblica), e se ne vuole assicurare, chiede in patto e vuole infatti la libertà di offendere altrui.»[291] Intanto i Fiorentini furono costretti ad entrare nella lega, obbligandosi a pagare [179] 40,000 ducati all'Imperatore, 80,000 all'esercito che gli aveva vinti, e 20,000 al Vicerè in proprio, somme che coi donativi da fare, ascesero a 150,000 ducati. Si dovettero anche obbligare a prendere dalla Spagna 200 uomini d'arme.[292]

CAPITOLO XV.

Ritorno dei Medici in Firenze. — Nuova forma di governo. — Persecuzioni. — Scritti del Machiavelli ai Medici. — È deposto da tutti gli ufficî. — Morte di Giulio II. — Elezione di Leone X. — Congiura e morte di Pietro Paolo Boscoli e di Agostino Capponi. — Il Machiavelli è accusato d'aver preso parte alla congiura. — Messo in carcere dove riceve alcuni tratti di fune, è poi liberato. — Suoi sonetti.

La famiglia dei Medici si trovava adesso rappresentata dal cardinale Giovanni (1475-1521), che n'era capo ed anima, notissimo più tardi col nome di papa Leone X, e da Giuliano (1479-1516), fratelli di Piero affogato nel Garigliano, e figli di Lorenzo il Magnifico. Questi soleva dire che aveva tre figli, di cui il primo (Piero) era pazzo; il secondo (Giovanni) savio, ed il terzo (Giuliano) buono. Abbiamo infatti veduto quanto era stato vano, puerile ed ambizioso Piero; quanto il Cardinale era accorto ed esperto negli affari, intelligente e fedele seguace della vecchia politica de' Medici; come finalmente Giuliano fosse fantastico, ambizioso e mite nello stesso tempo. Era poi un altro assai autorevole membro della famiglia, Giulio (1478-1534) cavaliere di Rodi, priore di Capua, più tardi vescovo, cardinale, e papa Clemente VII, figlio naturale di quel Giuliano, che fu fratello minore di Lorenzo [180] il Magnifico, e restò nel 1478 vittima della congiura de' Pazzi. Seguivano ancora due giovanetti: un figlio di Piero per nome Lorenzo (1492-1519), che fu poi duca d'Urbino; un figlio naturale di Giuliano, per nome Ippolito (1511-1535), che fu poi cardinale. E con questi ultimi s'estinse il ramo principale dei Medici. Per ora si trovano in prima linea, sulla scena politica, il cardinal Giovanni, suo fratello Giuliano ed il cugino bastardo Giulio.

Francesco degli Albizzi andò a Prato, ed il primo di settembre condusse Giuliano nella sua casa in Firenze, dove senza indugio vennero a trovarlo i più fidi amici, fra i quali erano anche i figli di Piero Guicciardini, fratelli dello storico, che allora si trovava nella Spagna, ambasciatore della ormai caduta Repubblica. Subito una gran folla fu per le vie, al grido di palle! palle! correndo a casa Medici. Bernardo da Bibbiena, segretario del Cardinale, era in quel medesimo giorno partito in fretta da Prato per recarsi a Firenze, e non sapendo che Giuliano era andato a casa Albizzi, lo cercò con altri nell'antico palazzo dei Medici, in via Larga. Ivi, così racconta egli stesso, appena che fu arrivato, si trovò da tutti circondato, abbracciato, baciato, e non cessavano mai d'interrogarlo.[293] Giuliano, dimostrando subito in Firenze «animo civilissimo,» secondo l'espressione del Pitti, uscì per le vie in lucco senza alcun famiglio, come privato cittadino, e per secondare sempre più il gusto dei Fiorentini si rase anche la barba.[294]

[181]

Arrivava poi subito il Vicerè, che fu da Paolo Vettori menato in Consiglio e fatto sedere nel luogo del Gonfaloniere, donde parlò e raccomandò i Medici. Dopo di che fu raccolta una Pratica, in cui venne chiamato anche Giuliano, per decidere sul modo di riformare il governo, e si fecero proposte per quei momenti abbastanza temperate, alle quali egli subito consentì. Erano queste: il nuovo Gonfaloniere verrebbe eletto per un anno, verrebbe aumentato il numero degli Ottanta, si darebbe più largo stipendio ai magistrati;[295] e quanto al resto pareva che restassero le antiche forme repubblicane. Intanto, perchè s'arrivasse al termine della Signoria già in ufficio, fu sino a tutto ottobre eletto Gonfaloniere Giovan Battista Ridolfi. Questi era parente dei Medici, e da molti tenuto capo degli Ottimati; pure si dimostrò non solo savio ed animoso, ma ancora non punto nemico della libertà, che anzi pareva volesse salvare. In Firenze non poteva di certo essere a un tratto spento ogni amore per la Repubblica, nè scomparsa del tutto l'avversione ai Medici, che lo sapevano, e perciò volevano e dovevano procedere molto cauti. Ma essi avevano ora in mano la forza, e gli eventi piegavano sempre più in loro favore; la paura faceva sottomettere ognuno, sicchè non era a lungo andare possibile, anche volendo, il fermarsi sulla china, di che s'avvide ben presto lo stesso Ridolfi. Soldati e condottieri spadroneggiavano minacciosi per le vie; si sentivano ogni giorno discorsi di nuovi mutamenti di governo, proposti dal Cardinale e dagli Spagnuoli. Di ciò alcuni cittadini andarono allora ad interrogare il nuovo Gonfaloniere, il quale rispose: «Che volete che facciamo? Non vedete che i nemici ci hanno messi in una botte rifondata, e agevolmente ci possono offendere pel cocchiume?»[296]

[182]

Il disordine cresceva d'ora in ora, ed in piazza si vendevano le spoglie sanguinose dei Pratesi, il che aumentava lo sgomento di coloro che ancora amavano la libertà. Il 14 del mese entrava finalmente il Cardinale con 400 lance; seguivano con 1000 fanti Ranieri della Sassetta, Ramazzotto ed altri ben noti capi di bande, stati sempre fedeli ai Medici.[297] Ed il Cardinale venne accolto con così gran festa che, scrivendone a Pietro da Bibbiena in Venezia, gli diceva: «In questa parte la nostra opinione fuit re ipsa longe superata[298] Subito gli furono intorno i più decisi Palleschi, e si lamentarono che la troppa bontà di Giuliano facesse passare il tempo opportuno a un radicale mutamento, lasciando le cose a mezzo. Nè era appena entrato in Palazzo, dove Giuliano sedeva a consiglio con gli amici, che subito irruppe una moltitudine di cittadini e di soldati, i quali, saccheggiando gli argenti, al solito grido di palle! palle! chiesero che si radunasse il Parlamento, stato sempre mezzo sicuro per ottenere, sotto apparenza di libertà, tutto quello che si voleva con la forza.

Il 16, infatti, esso fu convocato in Piazza, dove vennero insieme col popolo i soldati ed i capitani così dei Medici come della Repubblica, essendo questi ultimi già quasi tutti passati ai nuovi padroni, per le grandi promesse avute. Fu creata una Balìa di 45 persone, portate poi a 65, e designate tutte dal Cardinale, alla quale venne dato l'incarico, con l'autorità stessa del popolo, di riformare il governo. E la riforma doveva consistere nel rimettere le cose allo stato medesimo in cui erano prima del 1494, restaurando cioè l'apparenza degli antichi ordini repubblicani; ma restringendo il governo effettivo e reale nelle mani della Balìa, che doveva dipendere dai [183] Medici. Questo era stato il modo tenuto da Cosimo il Vecchio e da Lorenzo il Magnifico, quando, sotto nome di privati cittadini, s'erano fatti padroni della Repubblica; questa era la via che si voleva seguire adesso. La Balìa infatti, nonostante tutte le altre riforme che si fecero, e le vecchie istituzioni repubblicane che si finse di lasciare in vita, fu anche ora quella che veramente governò sino al 1527. «In tal modo,» è lo stesso Guicciardini che lo dice, «fu oppressa con le armi la libertà dei Fiorentini.»[299] E Francesco Vettori, che non era meno ardente partigiano dei Medici, scriveva: «Si ridusse la Città che non si facea se non quanto volea il cardinal de' Medici. È chiamato questo modo di vera tirannide.»[300]

Piero Soderini fu subito confinato per cinque anni in Ragusa, e il suo ritratto venne tolto dalla SS. Annunziata; Giovan Vittorio fu confinato per tre anni a Perugia; tutti gli altri Soderini, ad eccezione del Cardinale, vennero per due anni confinati a Napoli, a Roma, a Milano. Non fu perdonato neppure a Francesco Vettori l'avere accompagnato l'ex-gonfaloniere, e contribuito così a salvargli la vita. Sebbene si fosse tanto adoperato pei Medici, sebbene suo fratello Paolo fosse stato uno dei più audaci promotori del tumulto che li richiamò, pure fu ritenuto qualche tempo in carcere, ed ebbe parecchi tratti di corda. Egli se ne stette ritirato alcuni giorni fuori di Firenze, esclamando: «Or questo per amor s'acquista!»[301] Ma ben presto tornò in grazia dei nuovi padroni. Anche un Antonio Segni, che il cardinal Soderini aveva mandato in gran fretta a raggiungere per via il fratello [184] Piero, ad avvertirlo che correva pericolo della vita, se capitava nelle mani del Papa, ebbe in Roma la fune, e tanta che ne morì.[302] Vennero licenziati e mutati alcuni ufficiali delle cancellerie, con altri ancora, che avevano avuto parte nel governo; l'Ordinanza fu sciolta, ristabilendone più tardi una vana e ridicola apparenza; s'impose ai cittadini un prestito di 80,000 ducati per pagare gli Spagnuoli. Intanto il Vicerè, riscosse le prime paghe, e sicuro omai del resto, aveva già fin dal 18 settembre lasciato Firenze e Prato. E qui finisce il primo periodo della rivoluzione fiorentina.

Se si riflette che era stato distrutto un governo per costituirne un altro; che i Medici erano tornati dopo l'esilio, la confisca e le persecuzioni di 18 anni, con l'aiuto delle armi straniere, deve convenirsi che, fatta eccezione del crudele ed iniquo saccheggio di Prato, opera dell'esercito spagnuolo, essi furono d'una grande mitezza. Sapevano che non si sarebbero potuti mantenere a lungo in Firenze con le vendette e col sangue; cominciarono perciò subito a cercare di farsi amici coi favori, di guadagnarsi il popolo colle feste. Ed a questo fine istituirono due compagnie, una delle quali chiamarono del Diamante, insegna di Giuliano, che ne fu il capo, e l'altra del Broncone,[303] insegna di Piero de' Medici, il padre del giovane Lorenzo, futuro duca d'Urbino, che fu capo della seconda compagnia. Così l'una come l'altra si posero subito all'opera, e cominciarono nel carnevale a rappresentar vari trionfi, fra cui quello del Secol d'oro. I versi che in questa occasione vennero cantati per le vie, si leggono nei Canti Carnascialeschi, e li compose Iacopo Nardi.[304] Il che merita di essere ricordato, [185] perchè questi fu anche nei tempi più difficili e pericolosi, un costante, schietto, immutabile repubblicano; uno dei pochi allora sul cui carattere politico non cadde mai dubbio di sorta. E però il suo prender parte alle feste iniziate dai Medici nei primi mesi del loro ritorno, dimostra che questo ritorno fu accettato con maggior favore e assai più universalmente che non si crederebbe. I Medici erano adesso potenti in Italia, e si aspettava di vederli potentissimi, per la probabile elezione del Cardinale a papa, elezione che di fatto seguì dopo pochi mesi. Non si poteva negare che essi amavano Firenze, la quale cominciava perciò ad essere orgogliosa della loro crescente fortuna. Si sperava che un'ombra più o meno visibile di repubblica restasse, che i più autorevoli cittadini fossero chiamati a partecipare al governo, che tornassero i tempi di Lorenzo il Magnifico. Ed è un fatto che, partiti gli Spagnuoli, il nuovo governo non incontrò difficoltà di sorta a reggersi, non facendogli aperta opposizione neppure coloro che più erano stati amici del Soderini. Non vi furono che pochi giovani inesperti ed entusiasti, i quali, illusi nella speranza di trovar seguito, cospirarono e furon lasciati soli, abbandonati da tutti. Che più? Lo stesso ex-gonfaloniere Soderini venne, come vedremo fra poco, a patti co' Medici, con i quali si trattò anche d'imparentarsi, e potè poi tornare a Roma, dove visse tranquillo fino alla morte.

Ma che cosa pensava, e che cosa faceva il Machiavelli in questi difficili momenti? Restato sino all'ultimo fedele al Soderini, egli lo difendeva ancora; però, a dirlo subito in brevi parole, desiderava e sperava anche conservare il proprio ufficio. Il suo posto di Segretario nella Cancelleria non era certo politico; ma tale lo avevano reso l'incarico avuto presso i Nove della Milizia, le commissioni diplomatiche, la parte grandissima da lui presa nel costituire l'Ordinanza e nell'indirizzo dato al governo. Nondimeno, al pari di quasi tutti gli altri che [186] quel governo avevano sostenuto, egli era rassegnato e disposto ad accomodarsi ai nuovi tempi coi nuovi padroni; pensava che si potesse escogitare una qualche forma di repubblica popolare sotto la protezione dei Medici, ed era pronto a servirli fedelmente, come dichiarò apertamente sin dal principio. Abbiamo infatti la copia d'una sua lettera senza data, ma che fu scritta certo poco dopo il 16 settembre, indirizzata ad una signora, di cui resta ignoto il nome, amica però, se non addirittura parente dei Medici. Secondo alcuni è la stessa Alfonsina Orsini,[305] vedova di Piero, secondo altri, invece, la figlia Clarice, moglie di Filippo Strozzi. Ma non se ne sa nulla di sicuro, e potrebbe anche essere la minuta d'una lettera non mai spedita al suo indirizzo.

In essa il Machiavelli comincia col dire che narrerà tutto quello che è seguito recentemente, per rispondere alla domanda che gli venne fatta, e perchè gli eventi hanno «onorato gli amici di Vostra Signoria Illustrissima e padroni miei, le quali due cagioni cancellano tutti gli altri dispiaceri avuti, che sono infiniti.» E qui accenna brevemente l'avanzarsi degli Spagnuoli, l'incertezze delle trattative e la condotta del Gonfaloniere, di cui parla con deferenza. Quando gli Spagnuoli mandarono a proporgli che si dimettesse, rispose, «che non era venuto a quel segno nè con inganno nè con forza, ma che vi era stato messo dal popolo; e però se tutti i re del mondo accozzati insieme gli comandassero che lo deponesse, mai lo deporrebbe. Se però il popolo voleva, avrebbe subito deposto il suo ufficio. Partito infatti che fu l'ambasciatore, [187] egli radunò il Consiglio per consultarlo, e ciascuno s'offerse allora pronto a mettere la vita per difenderlo.» Accenna poi alla presa ed al sacco di Prato, che non si ferma a descrivere, per «non le dare questa molestia di animo.» Dice che vi morirono più di 4000 persone, «non perdonando nè alle vergini, nè ai luoghi sacri, che gli Spagnuoli empirono di sacrilegi e di stragi. E neppure allora il Gonfaloniere si sbigottì, ma si mostrò disposto ad ogni accordo cogli Spagnuoli, salvo l'entrata dei Medici, che quelli dissero di volere in ogni modo. Allora tutto andò a rovina, e si cominciò a temere del sacco anche in Firenze, per la viltà che si era veduta in Prato ne' soldati nostri,» parole queste ultime che molto dovette costare al Machiavelli di pronunziare, dopo che aveva riposto in essi tante speranze. Prosegue, narrando brevemente e senza molta precisione i fatti, sino al Parlamento, che reintegrò i Medici in tutti quanti gli averi e gradi dei loro antenati. «E questa Città,» egli conclude, «resta quietissima, e spera non vivere meno onorata con l'aiuto loro, che si vivesse nei tempi passati, quando la felicissima memoria di Lorenzo loro padre governava.»[306]

Bisogna, nel leggere questa lettera, ricordarsi bene quale era il linguaggio tenuto allora coi potenti in genere, e quale fu il linguaggio tenuto da quasi tutti i repubblicani fiorentini, che ebbero in quei giorni occasione di scrivere ai Medici, o anche solo ragionar di loro. Se però tutto questo ci persuaderà che la lettera del Machiavelli non aveva pei tempi che correvano nulla di strano o d'insolito, riman sempre da essa, come anche da altri documenti, provato, che egli voleva salvare il suo ufficio, ed era pronto a servirli. Ma di ciò nessuno allora gli fece nè poteva far carico, quando lo stesso ex-gonfaloniere s'accomodava con essi. Nulla infatti perdè nella stima dei cittadini [188] Marcello Virgilio, che teneva nella cancelleria un ufficio superiore a quello del Machiavelli, e non lo lasciò, restando anzi in buonissimi termini coi nuovi padroni.

È certo però che, per la parte avuta, se non altro, nella difesa della Città, il Machiavelli sapeva bene di trovarsi in assai più difficili condizioni, e quindi s'adoperava a scongiurar la tempesta, che non senza ragione temeva. In questi medesimi giorni egli scrisse anche al cardinal de' Medici una lettera, di cui ci resta solamente un brano. «Pensando,» egli dice, «che la presunzione sia escusata dall'affezione, oserò darle un consiglio. Già sono stati nominati gli uffiziali per ritrovare le possessioni dei Medici, e restituirle ad essi. Questi beni sono ora in mano di chi li ha comperati e legittimamente li possiede; il riprenderli partorirà un odio inestinguibile, perchè gli uomini si dolgono più di un podere che sia loro tolto, che d'un fratello o padre che fosse loro morto, ognuno sapendo che per la mutazione d'uno Stato un fratello non può risuscitare, ma che e' può bene riavere il podere. Molto meglio sarebbe perciò farsi votar dalla Balìa, per qualche tempo, un sussidio annuo a risarcimento dei danni patiti. Io ricordo tutto con fede,» così conchiude la lettera, «la S.V.R. secondo la sua prudenza ne deliberi.»[307] Ed anche un altro scritto si crede che egli indirizzasse in questi medesimi giorni ai Medici, o piuttosto ai loro fautori, dando consigli di un'indole più generale, e indirettamente pigliando di nuovo le difese del Soderini. Coloro che erano stati gelosi di lui per non averli egli chiamati a parte del governo, e avevano perciò cospirato a favore dei Medici, ora lo accusavano e calunniavano in mille modi. Il Machiavelli faceva quindi osservare, che [189] quelle erano arti maligne, per acquistar grazia appresso i nuovi padroni ed il popolo, al quale volevano far credere d'essere stati indotti a mutare il governo solo per odio al Soderini, che dicevano perciò autore d'ogni male seguito alla Città. «Così cercano, acquistando il favore del popolo, rendersi necessari ai nuovi governanti, cui potrebbero, ad un momento dato, fare uno rimbocco addosso di tutto questo universale.[308] Il Soderini ormai è fuori d'Italia, e non può quindi fare nè bene nè male; restano di fronte il nuovo ed il passato governo, irreconciliabili fra di loro. Quelli che si sono messi ad adulare il popolo ed i Medici, non potrebbero vivere col Soderini, di cui sono naturali nemici; ma possono bene accomodarsi così con l'uno come con l'altro governo, pur d'essere potenti. Perciò s'adoperano, facendosi forti col popolo, a divenir come protettori dei Medici, i quali dovrebbero invece cercare di separarli dal popolo, perchè si gettassero, senz'altra speranza di salute, a servirli.»[309]

Quali occasioni il Machiavelli avesse veramente a comporre questi tre suoi scritti, noi non sappiamo. Non ci è possibile dire se fu davvero invitato, come egli afferma nel primo di essi, o se, profittando dell'ufficio che ancora teneva, mettesse le mani avanti per non perderlo, o finalmente se li componesse, come allora usava assai spesso, a sfogo del proprio animo, e come una specie d'esercizio retorico, pel caso che si presentasse l'occasione di valersene. Quest'ultima ipotesi acquista un maggior grado di credibilità pel fatto, che del primo di tali scritti abbiamo solo una copia senza data, senza indirizzo e senza [190] firma; del secondo e del terzo abbiamo gli autografi, ma sono più che altro abbozzi o frammenti. Comunque sia di ciò, lo scopo di così premurosi consigli, in qualunque modo li desse o cercasse darli, resta assai chiaro, com'è chiaro che la via da lui scelta era di molto difficile riuscita. Il Machiavelli ebbe sempre, come provano molte delle sue opere, tutta la sua vita, una gran fede nel popolo, grande diffidenza e antipatìa contro l'aristocrazia e contro ogni governo retto da un piccolo numero di potenti. E questi sentimenti manifestò anche quando trionfavano i Medici, i quali egli avrebbe voluto vedere appoggiarsi al popolo, e non cadere in balìa dei nemici del Soderini. Ma gli eventi erano, per ora almeno, in mano di chi li aveva apparecchiati, e i Medici non potevano affidarsi al popolo che non li voleva, allontanandosi da coloro che li avevano richiamati. Or questi erano appunto i nemici del Soderini, non meno che a lui avversi al Machiavelli, cui non potevano in nessun modo permettere che restasse in ufficio. Il combatterli adunque poteva riuscir solo a farseli sempre più nemici.

I Nove della Milizia, presso i quali il Machiavelli aveva avuto così gran parte, erano stati subito soppressi, licenziando tutti i conestabili dell'Ordinanza fin dal 19 settembre.[310] Restavano ancora i Dieci e la Signoria con la loro cancelleria, nella quale egli si trovava cogli altri alla dipendenza di Marcello Virgilio. Ma questi, sebbene fosse il primo segretario, non si era mai personalmente impacciato di politica, e nessuno pensò quindi a rimuoverlo d'ufficio. Il Machiavelli invece, intimo del Soderini, anima per qualche tempo della Repubblica, venne, con deliberazione presa alla unanimità [191] dai Signori, il 7 novembre 1512, privato di ogni ufficio: cassaverunt, privaverunt et totaliter amoverunt.[311] Il suo amico Buonaccorsi subì nel medesimo giorno la stessa sorte.[312] Nè ciò bastava. Infatti una nuova deliberazione confinava il Machiavelli per un anno nel territorio della Repubblica, senza che ne potesse uscire, con l'obbligo ancora di dare, come sicurtà d'obbedienza alla condanna, fideiussori per la somma di mille lire. Il 17 novembre veniva inoltre a lui ed al Buonaccorsi proibito di mettere per un anno piede in Palazzo, ordine però che, quanto al Machiavelli, fu più volte temporaneamente revocato,[313] dovendo egli rendere i conti della sua amministrazione, dare tutti i necessarî schiarimenti. E questo potè fare con tale e tanta regolarità da non lasciare pretesto alcuno a muovergli accusa di sorte. In suo luogo venne eletto segretario Niccolò Michelozzi, noto partigiano dei Medici, il quale, non essendovi ora più i Nove nè l'Ordinanza, ebbe solo l'incarico di scriver lettere d'ufficio per la cancelleria.[314]

Ed ora le pretese riforme (chè così le chiamavano) vennero bruscamente sospese da avvenimenti esterni ed interni, i quali ultimi peggiorarono anche più le già tristi condizioni del Machiavelli. Per la ritirata dei Francesi, Parma, Piacenza, Modena e Reggio s'erano date al Papa; Brescia era venuta nelle mani del Vicerè; Peschiera e Legnago s'erano arrese al Lang, vescovo di Gurk, che [192] era una specie di alter ego dell'Imperatore in Italia. Di tutto ciò molti, al solito, restarono allora scontenti e gli alleati sarebbero venuti fra di loro a contesa, se il Papa, facendo al Lang le più benevole accoglienze, e dandogli anche il cappello cardinalizio, non lo avesse guadagnato a sè. Questo portò subito ad una nuova alleanza, proclamata nel novembre in Santa Maria del Popolo, fra il Papa e l'Imperatore, che con la solita sua volubilità aderiva ora al Concilio vaticano. E così Massimiliano Sforza fu condotto a prender possesso del ducato di Milano, che era molto impiccolito, avendone più d'uno dei confederati preso qualche brano. Gli Spagnuoli aderirono ai nuovi accordi; vi si opponevano invece i Veneziani, perchè fieramente avversi alla cessione di Vicenza e Verona all'Imperatore; ma ciò valse a rendere ancora più salda l'alleanza di questo col Papa, il quale si poteva chiamar finalmente contento. Non aveva certo liberato dai barbari l'Italia, che invece, per opera sua, era occupata, calpestata da Tedeschi, Spagnuoli e Svizzeri; pure aveva cacciato i Francesi, sventato il Conciliabolo, radunato il Concilio lateranense, esteso e rafforzato il dominio temporale della Chiesa, data reputazione alle sue armi, fatto di Roma il centro principale degli affari d'Italia e del mondo. Ma allora appunto egli si ammalava, ed il 20 di febbraio 1513 moriva. Degno di molta gloria lo dice il Guicciardini, se invece di Papa fosse stato un principe secolare. Certo fu uomo di gran forza d'animo, di grande volontà, di grandi disegni pei quali mise a soqquadro l'Italia e il mondo. Tutti perciò erano stanchi adesso, e desideravano tempi più tranquilli.

Con questi intendimenti s'adunava il Conclave, nel quale il 6 marzo arrivò in lettiga il cardinal de' Medici, ammalato d'una fistola incurabile, che rendeva assai penoso lo stargli accanto. Avverso ai Francesi, stati la rovina di sua casa, levato a grande altezza dal Papa defunto, egli era largo del suo fino alla prodigalità, abilissimo [193] nel rendersi accetto a tutti, educato alle buone lettere, grande ammiratore delle arti belle, un vero mecenate di artisti e letterati; e sebbene all'occorrenza fosse pronto anche ad atti violenti, si dimostrava, nei casi ordinari, sempre e con tutti temperato e gentile nei modi, in ogni occasione prudentissimo. Queste qualità lo indicavano come l'uomo adatto ora al papato, salvo la sua età, non essendo egli ancora giunto ai quarant'anni. V'era però nel Conclave un partito di giovani cardinali, che molto lo favorivano. Avversario deciso si dimostrava invece il Cardinal Soderini; ma fu ben presto guadagnato il suo voto con la promessa di far tornare dall'esilio l'ex-gonfaloniere, di liberare dal confine gli altri della famiglia, e di dare la figlia di Giovan Vittorio Soderini in moglie a Lorenzo de' Medici.[315] Stipulati questi accordi, il cardinal Giovanni riuscì con grande maggioranza di voti eletto il giorno 11 marzo. Non essendo egli ancora prete, ma semplice diacono, bisognò ordinarlo prima, per consacrarlo poi. Il 15 ebbe gli ordini sacri, il 17 fu papa col nome di Leone X, il 19 venne coronato. La cerimonia e le feste superarono quanto s'era mai visto di splendore e di lusso, in un secolo tanto celebre pel suo splendore e pel suo lusso: si spesero in un sol giorno 100,000 ducati.[316] Vi furono archi, iscrizioni, processioni, statue di Deità pagane, profusione di danaro ovunque, in ogni modo: parevano tornati i tempi di Roma imperiale.

A Firenze questa elezione venne salutata con gioia universale, perchè dal nuovo Papa mecenate e fiorentino, tutti s'aspettavano grandi favori. Nessuno pensava che così i Medici mettevano in Italia sempre più profonde radici, divenivano più potenti e prepotenti, ed il cacciarli di Firenze sarebbe stato sempre più difficile. [194] La Città pareva invece orgogliosa di quello che seguiva. Ma un Genovese che si trovava presente a questa grande allegria dei Fiorentini, disse loro un giorno: «Voi vi rallegrate d'avere un papa fiorentino; prima però che ne abbiate quanti ne ebbe Genova, imparerete a vostre spese quello che può fare la grandezza dei papi nelle città libere.»[317] E non solo i fatti che seguirono più tardi gli dettero ragione; ma la gioia era stata già turbata da ciò che era avvenuto in quei giorni medesimi.

Poco prima che arrivasse a Firenze la nuova della infermità di Giulio II, un tal Bernardino Coccio, senese, trovò in casa dei Lenzi, parenti dei Soderini, un foglio caduto di tasca ad un giovane per nome Pietro Paolo Boscoli, notissimo avversario de' Medici. Raccoltolo e visto che v'erano scritti 18 o 20 nomi, fra cui quello di Niccolò Machiavelli, lo portò subito agli Otto, i quali, sospettando di congiura, imprigionarono il Boscoli insieme col suo intimo compagno Agostino di Luca Capponi. Sottoposti alla tortura, essi dichiararono francamente d'avere avuto in animo di rivendicare la patria in libertà; ma di non aver fatto congiura, nè comunicato ad altri i loro disegni: i nomi scritti sul foglio eran solo di persone nelle quali speravano di trovar favore, supponendole amiche del libero reggimento. La più parte di esse vennero nonostante, insieme con altre, condotte in prigione: e sebbene apparisse chiaro che la cosa non aveva avuto molta gravità, perchè senza seguito alcuno nei cittadini, pure il Boscoli ed il Capponi, dopo essere stati in carcere dal 18 al 22 febbraio, furono la sera decapitati. Il cardinal de' Medici era partito il giorno innanzi,[318] non prima però d'essersi assicurato dell'esito finale. Questo caso fu molto pietoso, perchè il Boscoli ed [195] il Capponi erano giovani inesperti ed entusiasti, ma culti e di nobili sentimenti. Ambedue affrontarono la morte con gran coraggio, il Capponi quasi con sdegnosa indifferenza, pur dichiarandosi innocente; il Boscoli di 32 anni, biondo, bello e di gentile aspetto, sebbene ugualmente intrepido, pareva nondimeno agitato da pensieri diversi. Un suo amico, Luca della Robbia, della famiglia stessa del grande scultore di cui portava il nome, venne ad assisterlo nelle ultime ore, e trascrisse, parola per parola, il colloquio avuto con lui. Noi già altra volta v'accennammo; ma dobbiamo ora riparlarne, perchè si tratta d'un documento singolarissimo, che è assai importante a conoscere le condizioni dello spirito italiano in quel tempo.

Quando, verso sera, arrivò la notizia della prossima esecuzione, il Boscoli fu assai agitato. Prese il Vangelo e lo leggeva, invocando lo spirito del Savonarola per interpetrarlo; chiese poi un confessore del convento di San Marco. Al Capponi che, quasi rimproverandolo, gli diceva: — O Pietro Paolo, voi dunque non morite contento! — non fece neppure attenzione. Egli non temeva la morte; ma gli pareva di trovar la forza di morire solamente nello stoicismo e nelle reminiscenze degli eroi pagani, che esaltavano le congiure ed ispiravano l'odio alla tirannide: non si sentiva perciò la coscienza tranquilla. Volgendosi al suo consolatore della Robbia, esclamò a un tratto: — Deh! Luca, cavatemi dalla testa Bruto, acciò che io faccia questo passo da buon cristiano. — E si disperava in un'angoscia tormentosa. Arrivato il confessore, il della Robbia, che aveva ancor egli i suoi scrupoli, gli andò subito incontro, chiedendo in segreto: — È proprio vero che San Tommaso condanna le congiure? — Ed alla risposta affermativa del frate, soggiunse: — Ebbene, diteglielo acciò non muoia in inganno. — Il confessore, vedendo la grande agitazione del misero giovane, si provò a fargli coraggio, perchè affrontasse la morte con [196] animo risoluto; ma il Boscoli gli rispose subito con vivacità: — Padre, non perdete tempo, che a ciò mi bastano i filosofi. Aiutatemi piuttosto a morire per amor di Cristo. — Quando fu condotto al luogo del supplizio, il carnefice, con singolare e toscana cortesia, gli chiese scusa nel bendarlo, e si offerse di pregare Dio per lui, — Fai pure il tuo ufficio, — disse il Boscoli; — messo però che m'avrai sul ceppo, lasciami stare un poco, e poi mi spaccia. Accetto che tu preghi Dio per me. — Voleva in quell'ultima ora fare l'estremo sforzo per unirsi a Dio. Il confessore restò ammirato del Boscoli, ed avendo più tardi incontrato a Prato il della Robbia, gli andò subito incontro, dicendo d'aver pianto otto giorni continui, tanto s'era affezionato all'animoso giovane. — Io lo credo un beato e martire, andato diritto in Paradiso senza fermarsi in Purgatorio. Quanto poi alle congiure, di cui tu mi chiedesti, debbo dirti che ho riscontrato San Tommaso, e trovo che fa una distinzione. Se i tiranni sono eletti dal popolo, non è lecito congiurar contro di essi; ma se invece s'impongono con la forza, il congiurare è anzi un merito. Non ripetere però le mie parole a nessuno, altrimenti diranno: questi frati tiran sempre le cose secondo gli affetti loro. — Il della Robbia aggiunge che, tornato a casa, riscontrò anch'egli le opere di San Tommaso, e vi trovò quello che aveva detto il frate.[319]

Da questa narrazione si vede chiaro come le idee cristiane e le pagane venissero allora assai spesso in conflitto. Ed in vero, quanto alla vita privata ed alla morale individuale, il Cristianesimo, massime dopo l'opera del Ficino, del Pico e del nuovo Platonismo, poteva più facilmente mettersi d'accordo colla risorta filosofia pagana. [197] Ma la vita pubblica costituiva un mondo a parte, le cui leggi, in continua opposizione con la morale evangelica, sembravano trovare il loro ideale solamente nell'antichità greca e romana. Certo i cospiratori, i patriotti, i politici, i capitani italiani del Rinascimento s'ispiravano a Bruto, a Cesare, a Licurgo, a Solone, ad Epaminonda, non mai al Vangelo. E ciò faceva nascere nel loro spirito un contrasto, di cui moltissimi sono gli esempi; ma nessuno forse così evidente, come è la confessione del Boscoli.

La condanna di quei due giovani, ed il trovarsi nella congiura mescolato il nome del Machiavelli, fecero dare ad essa un'importanza politica che veramente non ebbe, come si vede dalle lettere di Giuliano de' Medici. In fatti il 19 febbraio, cioè il giorno che seguì alle prime carcerazioni, egli scriveva a Pietro Dovizi da Bibbiena, in Venezia, dicendogli, che s'era scoperta «una congiura di far violenza a me ed a qualche cosa nostra; ma non s'è trovato che una mala intenzione senza fondamento o seguito.»[320] Aggiungeva poi una lista di 12 cittadini più o meno caduti in sospetto, fra i quali si legge anche il nome del Machiavelli. Un qualche spavento vi fu però di certo in quei primi momenti, perchè, oltre le condanne già menzionate, venne pubblicato un bando, col quale si ordinava a tutti i cittadini di consegnare le armi. Ed essi non solamente le consegnarono; ma s'affrettarono a correre alla casa di Giuliano, per dargli testimonianza della loro fedeltà, andandovi perfino alcuni parenti degli accusati a chiedere che si facesse giustizia.[321] Il 7 di marzo, quando i due giovani congiurati erano già morti, e gli altri processi condotti a termine, Giuliano scriveva [198] di nuovo al Bibbiena, dicendogli che la Città s'era mostrata affezionatissima ai Medici, ed aggiungeva: «Il Boscoli ed il Capponi giovani di buone famiglie, ma senza seguito, sono stati i capi della congiura. Volevano levarci la terra; avevano deputato il luogo e fatto una lista di persone in cui credevano incontrar favore; avevano parlato e trovato ascolto in Niccolò Valori e Giovanni Folchi. Per questa ragione i primi sono stati condannati a morte, i secondi chiusi per due anni nel forte di Volterra. Alcuni furono confinati nel contado, per avere avuto qualche partecipazione nella congiura; tutti gli altri accusati ed imprigionati sono stati messi in libertà come innocenti, dopo aver dato buon sodamento.[322]» E in tutto ciò neppure una parola del Machiavelli.

Questi sembra che, scoppiata la tempesta, avesse cercato di mettersi in salvo. Troviamo infatti un bando degli Otto di Guardia e Balìa, i quali, il giorno 19 febbraio, ordinavano che chiunque «sapessi o havessi o sapessi chi havessi o tenessi Nicolò di messer Bernardo Machiavelli,» dovesse fra un'ora denunziarlo, «sotto pena di bando di rubello et confiscatione.»[323] Certo è che egli venne subito imprigionato e messo alla tortura insieme cogli altri, per vedere se poteva cavarsene qualche cosa. Il suo nome s'era trovato nella lista portata agli Otto; il suo passato lo rendeva sospetto. Poco avevano a lui giovato le proteste d'ossequio ai Medici, e molto avevano invece nociuto le cose dette e scritte contro gli accusatori e calunniatori del Soderini. Certo se si fosse in lui scoperta [199] vera colpa, non lo avrebbero risparmiato; ma dopo alcuni tratti di corda,[324] e dopo le confessioni degli altri accusati, essendosi convinti che non v'era da cavarne nulla, lo lasciarono libero.[325] S'aggiunse che il Papa, essendo state già fatte le prime vendette, aveva subito dopo la sua elezione, dimostrato di volere che si usasse indulgenza; e però con deliberazione del 4 aprile, la Balìa fece grazia non solo a tutti coloro che eran sospetti d'aver preso parte nella congiura, senza che si fosse potuto provarlo; ma liberò dal confine anche i Soderini, compreso lo stesso ex-gonfaloniere.[326] È facile però capire, che il sospetto, la prigionia e la tortura affliggessero molto il Machiavelli, levandogli, per ora almeno, ogni speranza di conciliazione coi Medici. Il 13 marzo infatti egli scriveva a Francesco Vettori, ambasciatore in Roma, ed annunziandogli la sua liberazione, aggiungeva che tutto in questa occasione aveva cospirato a suo danno. Sperava però di non capitarci di nuovo, «sì perchè sarò più cauto, sì perchè i tempi saranno più liberali e non tanto sospettosi.» Avendo poi il Vettori risposto con proteste [200] d'amicizia, facendogli coraggio, il Machiavelli gli aggiungeva d'aver saputo volgere il viso alla fortuna, portando la sua sventura con tanta fermezza, «che io stesso me ne voglio bene, e parmi d'essere da più che io non credetti.»[327] Ed anche allora, con le mani ancor dolenti per la fune patita, esprimeva il desiderio d'essere adoperato dai Medici. Ma su di ciò torneremo più oltre.

Dinanzi alla realtà di questi fatti, scompariscono tutte le fantastiche considerazioni intorno all'avere il Machiavelli cospirato allora a favore della libertà, contro la vita di Giuliano de' Medici, e perciò sopportato la carcere e la tortura. Solo giovani inesperti potevano pensare ad una congiura, quando tutta la Città si mostrava così favorevole ai nuovi padroni, ed era orgogliosa di vedere uno di essi eletto papa. Il Machiavelli perciò pensava invece a mettersi in salvo, ed al suo solito andava escogitando disegni complicati, coi quali ottenere il proprio intento, che era sempre di guadagnarsi il favore dei Medici. Ma che cosa dobbiamo noi pensare dei tre sonetti, che furono da lui scritti appunto in questi giorni, e, come parrebbe, indirizzati anche a Giuliano de' Medici? Due di essi sarebbero anzi stati composti nella prigione stessa, per chieder grazia. Il primo ci descrive la Musa, che viene a trovare il poeta, e non lo riconosce, vedendolo trasfigurato in modo, che lo piglia per pazzo; ond'egli si raccomanda a Giuliano che faccia fede della sua identità. Nell'altro descrive la carcere in cui si trova, dopo aver ricevuto sei[328] tratti di corda. Il puzzo è orrendo, le pareti «menano pidocchi»

Grossi e paffuti che paion farfalle.

[201]

Si sente un rumore d'inferno. Uno è incatenato, un altro è sciolto, un terzo grida che è tenuto alla corda troppo alto da terra.

Quel che mi fe' più guerra

Fu che, dormendo, presso all'aurora,

Cantando sentii dire: Per voi s'ôra.

Or vadano in malora,

Purchè vostra pietà ver' me si voglia,

Buon padre, e questi rei lacciuol ne scioglia

È possibile che il Machiavelli abbia dalla carcere scritto questi versi a Giuliano? Che egli fosse capace di spingere il sarcasmo e la satira fino al cinismo, ridendo di cose e di persone che per lui stesso erano sacre, noi lo sappiamo. È noto l'epigramma da lui scritto più tardi sulla morte di Pier Soderini, che pure aveva sempre amato, ed a cui rimase sino all'ultimo fidato amico,

La notte che morì Pier Soderini,

L'alma n'andò dell'Inferno alla bocca;

E Pluto le gridò: Anima sciocca,

Che Inferno! va' nel Limbo dei bambini.

È ben vero che si volle dubitare dell'autore di questo epigramma; esso però non solo si trova da lungo tempo pubblicato ed attribuito al Machiavelli; ma anche il nipote Giuliano de' Ricci, nel Priorista più volte citato, lo attribuisce a lui senza punto dubitarne, scusandolo col dire che lo scrisse da poeta, avendo sempre avuto grande stima pel Soderini.[329] In sostanza però qui si tratta d'uno scherzo di cattivo genere, se si vuole; ma v'è pure un fondo di verità, avendo egli sempre [202] biasimato la troppa mitezza del Gonfaloniere, accusandolo d'avere anche nell'ora del pericolo fidato nelle vie di mezzo, senza mai osare di por mano alla forza, per assicurarsi dei nemici suoi e della Repubblica.

Ben diverso è il caso dei due sonetti. Che cosa mai bisognerebbe pensare del Machiavelli, se veramente avesse scritto a Giuliano, che egli, nel sentire le ultime preghiere che accompagnavano al patibolo gli amici della libertà, aveva esclamato: «Vadano pure in malora, purchè Vostra Magnificenza mi faccia grazia»? Sarebbe stato cinismo così basso da disgustare lo stesso Giuliano, che nelle sue lettere al Bibbiena discorreva con dignitoso riserbo de' due giovani condannati a morte. Nè è presumibile che i molti nemici del Machiavelli, i quali tante accuse false inventarono per calunniarlo, avessero poi serbato silenzio così generale sopra un fatto che sarebbe stato di certo assai poco onorevole. E se veramente fosse andato tant'oltre, egli non lo avrebbe taciuto affatto nelle sue lettere a Francesco Vettori, cui narrò tutto quello che fece e che disse in quei giorni, ed al quale si raccomandava per aver favore dai Medici. Da queste lettere invece si cava che egli allora nulla chiese, che sopportò con coraggio la tortura, e che non aveva con Giuliano relazioni tali da osare d'indirizzargli versi burleschi per ottenerne favore. A lui ed a Paolo Vettori egli dovette d'esser presto liberato dal carcere. E se veramente fosse disceso tanto basso da deridere i compagni che subivano l'estremo supplizio, chi crederà mai che avrebbe appunto allora avuto l'impudenza di scrivere ad un amico de' Medici, e suo, d'essersi condotto con tanta fermezza da acquistare maggiore stima di sè stesso!

È poi molto singolare che i due sonetti restarono ignoti affatto sino al principio del secolo XIX. Il Ricci che con tanta diligenza copiò e raccolse notizie d'ogni genere, onorevoli e biasimevoli, intorno agli scritti dello zio, non ne fa cenno. Essi compariscono a un tratto, in [203] un romanzo del Rosini, l'anno 1828, e poco dipoi in una biografia del Machiavelli pubblicata a Parigi l'anno 1833 dal francese Artaud.[330] Ambedue dicono che n'ebbero solo una copia dal signor Aiazzi di Firenze, che li trovò autografi su due fogli messi come segno in un libro, nel quale furono dimenticati per secoli. L'Aiazzi, che pur si fece più volte editore di cose antiche, non li illustrò, non li dette alla luce; ma ne ritenne copia per gli amici. Gli originali, così almeno si dice, sarebbero stati venduti ad un Inglese. La cosa par molto strana davvero, tanto che farebbe quasi dubitare dell'autenticità dei sonetti. Essi però non solo son dati come autentici dal Rosini e dall'Artaud, ma nelle Carte del Machiavelli si trovano copiati con una dichiarazione di Tommaso Gelli, già bibliotecario della Magliabechiana, il quale dice di averne veduto gli autografi.[331] Anche la lingua e lo stile furono da tutti giudicati, ed appaion veramente proprî del Machiavelli.[332] [204] Si può, volendo, sofisticare su qualche verso;[333] ma prove intrinseche e sicure per mettere in dubbio l'autore dei sonetti non ve ne sono.[334] La conclusione, adunque, cui bisogna, secondo noi, venire, è che essi non sono una vera domanda di grazia, nè furono mandati a Giuliano; ma sono invece uno scherzo, uno sfogo capriccioso, ironico, cinico, se si vuole, che il Machiavelli gettò sulla carta in un momento di cattivo umore, ridendo, esagerando, facendosi peggiore che non era; e poi li dimenticò, non pensando che, dopo molti secoli, sarebbero stati ritrovati, ed egli chiamato a render conto di parole usate, senza troppo riflettere, forse qualche volta solo per obbedire alla rima. Che i due sonetti siano poi da tenersi veramente per uno scherzo e non altro, ce lo farebbe credere anche un terzo, che fu trovato più tardi, e venne [205] pubblicato dal Trucchi nel 1847.[335] Con esso il Machiavelli manda a Giuliano un dono di tordi, pregandolo che li dia a mordere ai suoi nemici, onde non lo addentino più, come fanno, ferocemente. — Che se son magri, dirò che magro sono anch'io,

E spiccan pur di me de' buon bocconi.

Ora nessuno vorrà credere che il Machiavelli mandasse veramente un dono di tordi a Giuliano de' Medici. In un momento d'ira e di mal umore, adunque, egli che non aveva preso parte alla congiura, nè era così inesperto da sperarne allora nulla di bene, sfogò in segreto la sua bile contro l'avversità del fato, e contro chi lo aveva leggermente messo a così duro cimento. Nel ciò fare passò i limiti, ed il suo sarcasmo arrivò fino al cinismo; nè questo fu un caso unico nella sua vita, i suoi scritti dandocene pur troppo altri esempi; ma non giustificherebbe in modo alcuno il sospetto d'assai bassa viltà, in un momento nel quale il Machiavelli dette invece prova di coraggio.

CAPITOLO XVI.

Governo dei Medici in Firenze. — Strettezze del Machiavelli. Sua corrispondenza epistolare con Francesco Vettori.

La fortuna dei Medici aumentava con una maravigliosa rapidità non solo in Firenze, ma in tutta Italia. Già da ogni parte accorrevano gli uomini di lettere a Roma, per [206] circondare il novello Papa, da cui speravano il ritorno del secol d'oro. Fra di essi egli scelse subito a suoi segretari il Bembo ed il Sadoleto, letterati allora celebratissimi. I suoi primi atti annunziavano tolleranza e pace. A Firenze, come abbiam visto, furono per sua volontà assoluti i sospetti d'aver partecipato alla congiura. Il matrimonio patteggiato coi Soderini tra la figlia di Gian Vittorio e Lorenzo dei Medici, non si potè mandare ad effetto, per l'opposizione assai viva che fece l'Alfonsina, madre di questo. Il Papa credette però d'avere aggiustato la cosa, facendo sì che la fanciulla Soderini sposasse invece Luigi Bidolfi, suo nipote per parte di sorella.[336] Con ciò egli non riuscì nel suo intento pacifico, come pur troppo si vide più tardi; ma per allora nulla fu turbato, ed in apparenza tutti furono contenti. L'ex-gonfaloniere potè tornare in Italia, prender casa in Roma, ed anche i suoi parenti tornarono dal confine. I cardinali di San Malò, Santa Croce, San Severino furono reintegrati. Da Firenze, oltre i due oratori Iacopo Salviati e Francesco Vettori, già residenti in Roma, partiva un'ambascieria solenne di dodici cittadini per rallegrarsi della nuova elezione. Si moltiplicava poi ogni giorno il numero dei cittadini, che per conto loro andavano a rallegrarsi ed a chiedere favori, tanto che Leone X ebbe ad esclamare, che in così gran moltitudine ne aveva trovato due soli, uno dei quali, il Soderini, sommamente savio, l'altro, un tal Carafulla, sommamente pazzo, che gli avevano raccomandato la Città e non i loro personali interessi.[337]

Fra gli accorsi, com'è ben da credere, non mancarono i parenti del Papa. Giulio de' Medici, che arrivò tra i primi, fu fatto arcivescovo di Firenze, essendo morto Cosimo de' Pazzi, e più tardi, sebbene da tutti ritenuto figlio illegittimo, fu cardinale. Giuliano venne [207] eletto capitano e gonfaloniere di Santa Chiesa; feste grandi e solenni si fecero a Roma in suo onore; sposò poi Filiberta di Savoia, e fu così duca di Nemours, il che lo alienò sempre più dal governo di Firenze, al quale non parve mai molto inclinato. Dato oltre misura ai piaceri dei sensi, che lo avevano fisicamente indebolito, aveva un'indole fantastica, che gli faceva perdere gran tempo nella investigazione del futuro: non mancavano però in lui vaghe, qualche volta anche grandi ambizioni, e neppure impulsi generosi. Di questi s'ebbe una prova quando il Papa voleva dargli il ducato d'Urbino, levandolo colla forza a Francesco Maria della Rovere. Giuliano ricusò l'offerta, perchè nell'avversa fortuna era stato colà ospitato, più tardi anche beneficato dal Della Rovere, e non voleva pagarlo ora d'ingratitudine. A Lorenzo invece piaceva il governare Firenze; ma avrebbe voluto farla da padrone assoluto, il che non era possibile, onde anch'egli ben presto se ne stancò. Era stato qualche tempo a Roma, in compagnia di Iacopo Salviati suo parente, mandato colà ambasciatore per allontanarlo da Firenze, dove era tenuto troppo amico degli ordini liberi. Tuttavia non si osò contraddirgli, quando decisamente non volle più restare lontano, e così tornossene ora insieme con Lorenzo.[338] A questo il Papa credette opportuno dare alcune istruzioni, scritte di propria mano, sul modo di governare la Città con prudenza. «Tu devi,» gli diceva in esse, «introdurre in tutte le principali magistrature, quanto più potrai, uomini tuoi. Cerca di essere bene informato come vanno fra loro d'accordo i Signori, al che sarà buono strumento Niccolò Michelozzi.» Questi, che era il successore del Machiavelli, doveva dunque far quasi da confidente e da spia. «Quando ti sia necessario, per cedere alle raccomandazioni, [208] adoperare persone di cui tu non ti creda sicuro, fa' che almeno non sieno nè di molto animo, nè di molto ingegno. Sopra tutto poi devi assicurarti degli Otto e della Balìa, ed avere fra essi, come facevo io, chi ti riferisca ogni cosa minutamente.» Infatti agli Otto erano deferite le cause di Stato, e la Balìa era adesso come in passato lo strumento fidato e principalissimo con cui i Medici avevano potuto governar da padroni la Repubblica. «Bisogna,» così concludeva il Papa, «disarmare la Città; aver cura delle spie; soddisfare coi minori uffici le ambizioni di coloro che non possono essere dei Signori; usare molta giustizia ai poveri ed ai contadini; non impacciarsi d'alcuna causa civile di dare e avere. Importa molto eleggere negli uffici del Monte uomini sottili, segreti e fidati, che sieno tuoi, perchè esso è il cuore della Città.»[339] Più volte i Medici avevano nei casi di bisogno, senza scrupolo alcuno, messo le mani nel pubblico danaro, e quindi Leone X indicava e raccomandava il modo d'assicurarsi del Monte, in queste istruzioni che compendiano mirabilmente la politica tradizionale della famiglia.

La conseguenza ultima degli accorti consigli era sempre la stessa. Lorenzo doveva cercar di rimettere le cose come stavano prima del 1494, cioè con tutte le apparenze d'una forma repubblicana efimera, ma con una Balìa che gli desse modo di fare entrar nei magistrati chi egli voleva. Per ora lo squittinio generale degli eleggibili era già fatto e non occorreva rinnovarlo. Venne ricostituito il Consiglio dei Settanta, già ordinato nel 1482 da Lorenzo il Magnifico, come pure il vecchio Consiglio dei Cento, che si rinnovava di sei in sei mesi, e nel quale si deliberavano imposte, provvisioni di denaro ed altre leggi più gravi, cose tutte che dovevano prima essere [209] approvate dai Settanta. Per dare poi esca a tutte le ambizioni, si trassero di tanto in tanto dalle borse anche coloro che dovevano formare i Consigli del Popolo e del Comune, ai quali venivano portate le petizioni dei privati cittadini, sempre però dopo che le avevano discusse i Settanta. E finalmente, per sempre più tornare in tutto alla forma anteriore al 1494, si sostituirono gli Otto di Pratica ai Dieci della guerra. In sostanza però tutte queste non erano adesso, come seguì sempre sotto i Medici, altro che semplici lustre. Di fatto governarono la Balìa ed i Settanta.

Bisognava però navigare di continuo fra scogli infidi, ed essere molto cauti, massime perchè, dopo che fu eletto Papa il cardinal Giovanni, nessuno dei Medici restati in Firenze aveva l'autorità personale necessaria a mantenersi sicuro in condizioni così difficili ed incerte; e neppure avevano la voglia di darsi gran pena per riuscirvi. L'arcivescovo Giulio pensava ormai a grandezza ecclesiastica, e sognava anch'egli il papato, cui più tardi arrivò; Giuliano fantasticava grandi e nuovi disegni, ed i suoi cortigiani discorrevano persino di volerlo vedere, nelle prossime complicazioni politiche, re di Napoli. Lorenzo, assai giovane, era di natura ambizioso e prepotente; ma da una parte il Papa gl'imponeva prudenza, e dall'altra, quando appena mostrò qualche voglia di farla da vero padrone, fu subito da diverse parti, specialmente da Iacopo Salviati, avvertito che stesse attento, perchè quella non era via da potere, a lungo andare, riuscire in Firenze. Tutto ciò gli faceva preferire il tornarsene a fare il nipote del Papa, piuttosto che avere la sola apparenza del comando, con l'obbligo di usare a tutti ed in tutto mille rispetti, quando in Roma non «ne aveva uno al mondo.»[340] Leone X però voleva, che il dominio della Toscana rimanesse in mano de' suoi, perchè [210] così cresceva di molto la sua autorità appresso i principi italiani e stranieri. Quindi le cose continuarono in Firenze a dondolarsi un pezzo fra la repubblica e il dispotismo.

Questo era uno stato di cose attissimo a solleticare le speranze del Machiavelli, ed a porre in moto la sua fantasia. Una volta che i Medici, di buona o di mala voglia, accettavano il potere sotto forma d'un alto protettorato della Repubblica, e che ciò soddisfaceva il desiderio universale della Città, a lui pareva facile cosa escogitar combinazioni nuove, con le quali, contentando l'ambizione dei padroni, si potesse anche salvare la libertà per l'avvenire. Anzi, la maravigliosa fortuna del Papa poteva dar modo d'aggiustare una volta per sempre le cose d'Italia. E si sentiva quindi disposto a dar mille consigli opportuni; quasi anzi gli pareva strano che non si fosse già pensato di ricorrere a lui, il quale aveva a tempo del Soderini dimostrato quanto poteva e sapeva essere utile agli altri, quanta fede si poteva in lui riporre. Non vedeva come, appunto per essere egli l'uomo del caduto governo, non era facile che lo cercassero e lo accettassero coloro che quel governo avevano abbattuto. Se coi Soderini, ricchi e potenti, che avevano fra loro un cardinale, si doveva desiderare accordo, non c'era nessuna ragione da temere di un segretario ed usargli riguardo alcuno. Infatti il vuoto si faceva ora rapidamente intorno a lui, ed egli, a suo grande sconforto, si trovava abbandonato, costretto a marcire nell'ozio e nella miseria. Povero addirittura non possiam dire che fosse; ma il modesto patrimonio avito, che nel 1511[341] era, per accordo col fratello Totto, venuto a lui, non gli fu dato certo senza compenso, nè, come vedemmo, era libero da debiti. Nell'ottobre 1513 troviamo infatti la quietanza[342] d'un [211] pagamento, fatto in più rate, per la grossa somma di fiorini mille, data in nome suo e di Totto. In sostanza egli rimaneva appena col necessario alle primissime necessità d'una famiglia ormai non piccola, avendo allora moglie, una figlia e tre figli maschi: un altro ne ebbe nel settembre del 1514. «Povero e carico di figlioli,» lo dice anche suo nipote Giuliano de' Ricci.[343]

Usato a spendere piuttosto con larghezza, la improvvisa mancanza dello stipendio, ed il grosso pagamento che, come vedemmo, aveva quasi nello stesso tempo dovuto fare, lo costringevano a misurare ogni soldo, a molte privazioni, mancando qualche volta addirittura del necessario. Ciò gli era insopportabile; ma anche più duro riusciva a lui, uomo attivissimo, la forzata inerzia cui si vedeva condannato. Non aveva mai fatto la professione e la vita d'uomo di lettere; non aveva tutta quella dignitosa energia e morale fierezza di carattere, che fa quasi con gioia affrontare le avversità immeritate della fortuna. Quale speranza poteva avere per l'avvenire? Il suo stato era davvero infelice. Egli si dibatteva angosciosamente contro la sventura, e cercava invano un ufficio che gli desse guadagno ed occupazione. Ritiratosi nella sua villa a S. Casciano, sentiva da lontano le nuove dei grandi avvenimenti che seguivano in Italia, e la sua mente si esaltava febbrilmente a formulare audaci, profonde, strane meditazioni su quello che si faceva, che si sarebbe dovuto e potuto fare da veri uomini di Stato. Ma essendo tutto ciò un vano speculare, egli ricadeva poi subito nel suo abbandono desolato. S'immergeva allora nelle passioni [212] dei sensi; rideva di tutto e di tutti; invocava il suo pungente, mordace spirito satirico, per attutire il dolore della sua umiliazione; scriveva versi che manifestavano un freddo, ironico cinismo; immaginava commedie oscene. A un tratto ricorreva invece ai poeti, agli storici antichi; passeggiava leggendo, meditando sul passato e sul presente, nel solitario bosco della sua villa. Poi si chiudeva nello studio, dimenticava la sua miseria, e scriveva alcune di quelle pagine di scienza politica, che resero per tutti i secoli immortale il suo nome. Ma di nuovo il rumore degli avvenimenti esterni richiamava la sua attenzione; di nuovo si ridestavano inutilmente il desiderio e la speranza di migliore fortuna, di pratica attività. E così la sua vita si consumava sempre fra le stesse alternative.

In questo momento il Machiavelli ebbe la sorte di trovare un amico, o per meglio dire un confidente, cui aprire tutto l'animo suo; e noi abbiamo nelle sue lettere un'esatta, fedele, eloquentissima descrizione dello stato morale in cui si trovava. Esse sono davvero un monumento di grande importanza nella letteratura del secolo XVI; giacchè vi troviamo il primo esempio di un'analisi psicologica, intima, minuta, quasi una confessione ed un esame di coscienza che i due amici fanno l'uno all'altro. Il corrispondente del Machiavelli è dall'esempio trascinato per modo ad imitarlo, che qualche volta le lettere dell'uno si confonderebbero con quelle dell'altro.[344] Nelle lettere del Guicciardini e di molti altri [213] contemporanei, lo spirito dello scrittore ci apparisce ancora come circondato da un denso velo; essi esaminano e descrivono solo quello che fanno, non mai quello che sentono. Il Machiavelli dimostra invece una piena coscienza di sè, un più vivo bisogno di aprire tutto l'animo suo; e quindi in lui, che pur tanto di rado nelle sue opere parlò di sè stesso, troviamo la prima veramente chiara manifestazione dello spirito moderno. Tanto più strano apparisce perciò il vedere come, in queste sue espansioni, non s'incontri mai una sola parola sulla moglie e sui figli. È questo un vincolo che lo lega ancora ai suoi tempi, nei quali gli scrittori sembravano non ammetter giammai il lettore a guardare nella più profonda intimità della loro coscienza.

Il confidente del Machiavelli era, com'è noto, l'ambasciatore Francesco Vettori, che, sebbene per la partenza del Salviati fosse restato solo a Roma, pure aveva ben poco da fare, volendo il Papa dirigere egli il governo di Firenze. Scriveva di tanto in tanto lettere alla Signoria ed agli Otto di Pratica, cercava guadagnarsi la protezione dei Medici per sè ed anche per gli amici, fra cui era il Machiavelli; ma senza affaticarsi troppo, senza mai mettere a rischio il suo interesse personale. Uomo colto e d'ingegno, di costumi assai liberi, passava ora il suo tempo in parte leggendo i classici, in parte dandosi ai piaceri dei sensi, quantunque non fosse più giovane ed avesse moglie e figlie da marito. Nè la dignità del suo ufficio lo tratteneva dal parlare e scrivere liberamente d'ogni oscenità, anzi pareva che in ciò trovasse speciale diletto. Quello che più di tutto lo legava al Machiavelli, oltre l'antica consuetudine, era la stima che faceva dell'ingegno di lui, e un ardente bisogno che aveva perciò di sentirlo ragionare sui grandi avvenimenti che seguivano alla giornata, o che si prevedevano vicini, per aver poi occasione di parlarne col Papa. Ed il Machiavelli, che assai volentieri discorreva di politica, [214] gli rispondeva lungamente, sia per ammazzare il tempo, sia per guadagnarsi sempre più l'animo e la stima dell'ambasciatore, sperandone favore presso i potenti.

Così ebbe origine questa corrispondenza, che continuò non interrotta, specialmente negli anni 1513 e 14. Gli argomenti principali su cui essa versa, sono innanzi tutto la politica del giorno; di tanto in tanto il desiderio espresso dal Machiavelli d'avere un qualche ufficio, e le pratiche, non mai troppo calde, del Vettori per secondarlo; finalmente il racconto dei loro amori. Questo racconto, in verità, è spesso, troppo spesso, così volgarmente osceno da promuovere sdegnoso disgusto. Bisogna tuttavia ricordarsi, che i tempi erano specialmente in ciò assai diversi dai nostri. In fatto di costumi, oggi si fanno molte cose che non si dicono, ed allora se ne dicevano anche di quelle che non si facevano. Il fermarsi a parlare o scrivere d'ogni oscenità più scandalosa, massime da parte di coloro che, come il Vettori ed il Machiavelli, avevano passata la gioventù e ricevuta l'educazione fra gli eruditi, era poco meno che un lodevole esercizio letterario, un imitare gli antichi, un secondare la natura stessa. Giuliano de' Ricci, uomo timorato e vissuto più tardi, alla cui diligenza dobbiamo molte di queste lettere, dopo averle copiate, aggiungeva d'essersi con tal fatica voluto dimostrare «grato alle ossa di questi due uomini dabbene miei parenti.»[345]

Leggendole con moltissima attenzione, e paragonando quelle del Machiavelli con le edite e le inedite del Vettori, ci siamo persuasi che in questi suoi discorsi, il secondo è molto preciso e determinato, narrando fatti a lui veramente seguìti, con una cinica franchezza che non lascia dubbio di sorta. Il Machiavelli, invece, sia per capriccio di fantasia, sia per imitare l'amico, esagera [215] assai fatti che solo in parte son veri. Ogni volta che abbiamo potuto, con qualche sicurezza, seguire lo svolgimento delle sue pretese avventure amorose, le abbiamo vedute ridursi in proporzioni sempre minori e quasi sfumare, riuscendo in fine molto più innocenti che non parevano in sul principio. Ciò non toglie che vi resti un fondo di verità; giacchè egli non fu, nè pretese mai essere di costumi incorrotti. In quei giorni, all'Italia così infausti, pare che molti anche dei più autorevoli, cercassero, ubbriacandosi nei piaceri dei sensi, soffocare il dolore delle perdute speranze, delle illusioni svanite e delle maggiori calamità che prevedevano. Pur troppo il Machiavelli era fra questi, e cercò più d'una volta sollievo in una vita che lo degradava ai suoi, e lo degrada ai nostri occhi.

La corrispondenza incomincia il 13 marzo 1513, con la lettera in cui egli annunzia al Vettori la sua liberazione, e subito dopo, avendo ancora i segni della fune patita, aggiunge: «Tenetemi, se è possibile, nella memoria di Nostro Signore, che, se possibil fosse, mi cominciasse a adoperare o lui o i suoi a qualche cosa, perchè io crederei fare onore a voi e utile a me.»[346]

E dopo cinque giorni, ringraziato l'amico della buona disposizione mostrata in occasione della sua prigionia, e detto che doveva la propria salvezza al magnifico Giuliano ed a Paolo Vettori, si raccomanda, di nuovo, perchè, «questi miei padroni non mi lascino in terra. E quando così non paia, io mi vivrò come ci venni, che nacqui povero ed imparai prima a stentare che a godere.» Intanto egli se la passa cogli amici da una ad un'altra donna, «e così andiamo temporeggiando in su queste universali felicità, godendoci questo resto della vita che me la pare sognare.»[347] Ed il Vettori in risposta, [216] senza dargli mai troppo a sperare, lo invitava a casa sua, in Roma, «dove vedremo di poter tanto ciurmare che ci riesca qualcosa; altrimenti non mancherà una fanciulla che ho vicino a casa, per passar tempo con essa.»[348] Ma per quanto il Machiavelli cercasse di farsi animo, e si sforzasse di ridere con l'amico, non poteva nascondere il suo sgomento. La notizia ricevuta allora, che le pratiche tentate non riuscivano, lo aveva «sbigottito più che la fune.» Pure, egli aggiungeva, «se non si può rotolare, voltolisi, che io non ne piglierò passione alcuna.»[349] Ma non è appena il magnifico Giuliano arrivato a Roma, che egli si raccomanda di nuovo al Vettori, perchè o direttamente o per mezzo del Cardinal Soderini s'adoperi a suo favore. «L'occasione è ottima, e se la cosa vien condotta con destrezza, non è possibile che non si riesca a farmi adoperare, se non in Firenze, almeno per conto di Roma e del pontificato, nel qual caso io dovrei esser meno sospetto.» E nella stessa lettera dà ragguaglio della poco onesta brigata in mezzo a cui vive, la quale radunasi nella bottega di Donato del Corno, di cui parla in modo da far credere che tenesse un ridotto d'ogni vizio. Ad un tratto egli non sa più frenarsi, e come disperato esclama:

Però se alcuna volta io rido o canto,

Facciol, perchè non ho se non quest'una

Via da sfogare il mio angoscioso pianto.[350]

E di nuovo muta discorso.

Qui noi dobbiamo notare, che ci deve essere grande esagerazione anche nel modo in cui parla di questo Donato del Corno e della sua bottega. Il Ricci dice semplicemente, che era «uomo piacevole e facoltoso, e nella [217] sua bottega si riducevano molte persone, e particolarmente Niccolò Machiavelli, di cui egli era amicissimo.»[351] Doveva infatti essere ricco ed ambizioso, giacchè potè fare un prestito di 500 ducati allo stesso Giuliano de' Medici, quando venne in Firenze; e più tardi faceva, per mezzo del Machiavelli, sapere al Vettori, che avrebbe dato 100 ducati a chi lo avesse fatto eleggere dei Signori. Il Vettori non riuscì a nulla, ma il del Corno fu nel 1522 eletto, «forse,» osserva il Ricci, «con minor procaccio e spesa.»[352] Ora se tutto ciò prova che egli era anche un intrigante, è chiaro che, per riuscire ad essere dei Signori, doveva goder di qualche reputazione, e non poteva nella sua bottega tenere un ridotto dei più bassi vizî.

Dall'aprile sin quasi alla fine dell'anno, le lettere del Machiavelli sono assai più serie e gravi, perchè, salvo poche eccezioni, versano principalmente sulla politica. Egli s'era allora tutto immerso nello studio; scriveva, come vedremo, il Principe; lavorava anche ai Discorsi, e però non dava più ascolto al Vettori, che lo chiamava e lo spronava sempre agli osceni e burleschi racconti. Il 23 di novembre l'ambasciatore, narrandogli la vita che faceva in Roma, lo invitava da capo ad andare colà. «Ho fatto una raccolta di storici, Livio, Floro, Tacito, Svetonio ed altri molti, coi quali mi passo tempo. Considero che imperatori ha sopportato questa misera Roma, che già fece tremare il mondo, e non mi fa più maraviglia che abbia sopportato due pontefici come sono stati i passati. Ho qui nove servitori, e vedo pochissima gente; scrivo qualche lettera ai Dieci,[353] più per parere che altro, [218] non essendovi affari. Ho vissuto nella state molto sobrio, temendo della febbre; ma ho pur sempre avuto d'intorno alcune donne. A questa vita adunque io v'invito. Voi non avreste altra faccenda che girare e vedere, tornare a casa e darvi bel tempo.»[354] Il Machiavelli pare che non gli desse molta retta; ma il Vettori tornava alla carica, ed il 24 dicembre gli fece una lunga storia de' suoi amorazzi, delle tresche, delle scene seguìte in casa sua, che a lui parevan comiche, sebbene facesse le viste di vergognarsene, come sconvenienti al suo grado, alla sua età, e volesse aver l'aria di chiedere consiglio al Machiavelli.[355] Questi finalmente, dopo essere stato in tanti modi stuzzicato, s'abbandonò, e in due lettere del 5 gennaio e del 4 febbraio 1514, sciolse ogni freno alla lingua. Noi non possiam certo qui ripetere le sue parole. Egli ritorna sulle scene descritte dal Vettori; le vede dinanzi a sè; fa muovere, gestire e parlare tutti i personaggi con una vivacità veramente comica, degna proprio del Boccaccio, che qualche volta riesce a superare. Poi conchiude: «E poichè chiedete il mio avviso, come colui che attendo a femmine, e ho sofferto dalle frecce d'amore, io vi consiglio di levargli ogni freno, ed abbandonarvi a lui senza pensare a quel che dicono, come ho fatto io, che l'ho seguitato per valli, boschi, balze e campagne, ed ho trovato che mi ha fatto più vezzi, che se io lo avessi stranato.»[356] E così continuarono ancora.[357]

[219]

Ma le strettezze economiche in cui il Machiavelli si trovava, gli fecero di nuovo passare la voglia di ridere. «Io ho a capitare sotto gli uffiziali del Monte,» scriveva egli il 16 aprile 1514, «con nove fiorini di decima e quattro e mezzo d'arbitrio.[358] M'arrabatto il meglio che posso, e se voi potete scrivere una lettera, che faccia fede della impossibilità mia, me ne rimetto a voi.»[359] Ed il Vettori scrisse in favore dell'amico, affermando che esso era «povero e buono, e dica chi vuole altrimenti, chè in fatto è così, ed io ne posso far fede. Lui ed io abbiamo fatto in modo che ci siamo aggirati assai, senza metter mai un soldo in avanzo. Trovasi con grande gravezza, con poca entrata e senza un quattrino e carico di famiglia.»[360] E queste condizioni non migliorarono punto, giacchè il 10 giugno dello stesso anno il Machiavelli scriveva disperato al Vettori: «Starommi dunque così tra i miei cenci, senza trovare uomo che della mia servitù si ricordi, o che creda che io possa essere buono a nulla. Ma egli è impossibile che io possa star molto così, perchè io mi logoro, e veggo che sarò costretto, se Dio non mi aiuta, a pormi per ripetitore, o ficcarmi in qualche terra deserta a insegnare a leggere ai fanciulli, lasciando la mia brigata come se fossi morto, perchè essa starà meglio senza di me, che le sono d'aggravio, essendo avvezzo a spendere e non potendo far senza spendere. Spero che non vi scriverò più di questa materia, come odiosa quanto ella può.»[361] Pure vi tornò ancora, e tornò anche a parlare di qualche altro suo amore.[362] Ma ora lasciamo l'ingrato [220] tema per venire a quello che è il soggetto principale di queste lettere, cioè alle considerazioni e discussioni sugli avvenimenti politici del giorno.

Ferdinando il Cattolico, dopo la morte d'Isabella, non era restato senza inquietudini nella Spagna, dove egli manteneva l'ordine colla forza e coll'occupare di continuo i sudditi in imprese esterne. Recentemente aveva fatto uno de' suoi soliti colpi astuti ed arditi. Profittando dell'arrivo di 10,000 Inglesi, venuti per combattere insieme con lui la Francia, egli chiese il passaggio per la Navarra, col temporaneo possesso delle fortezze; e non essendo stata favorevolmente accolta una così strana domanda, s'impadronì addirittura del paese. Gl'Inglesi allora si ritirarono sdegnati; i Francesi volevano vendicare lo spodestato principe, ma poi finirono col ritirarsi anch'essi. Nell'aprile del 1513 questi conclusero colla Spagna una tregua, che doveva durare un anno, nei paesi al di là delle Alpi. Di siffatta tregua nessuno sembrava allora capire lo scopo, e nessuno era contento. Con essa Luigi XII abbandonava la Navarra, e lasciava a Ferdinando il tempo per consolidarne la conquista; ma nello stesso tempo restava libero a continuare la guerra in Italia, senza pericolo d'essere assalito alle spalle. E però gli alleati si dicevano traditi dalla Spagna; ed i loro malumori crebbero a dismisura quando, poco dopo l'elezione di Leone X, si seppe che la Francia s'era accordata con Venezia (21 marzo) per ricominciare la guerra in Lombardia. I Veneziani, i quali volevano ripigliare le terre che loro erano state tolte colà, misero l'esercito sotto il comando di Bartolommeo d'Alviano, liberato allora dalla sua prigionia in Francia, e questa che voleva riprendere la Lombardia, mandò un esercito sotto il comando del La Trémoille e del Trivulzio. Il Papa, scontentissimo della Spagna, era anche più scontento della Francia, che aveva fatto alleanza con Venezia, senza prima interrogar lui, che delle cose d'Italia [221] voleva essere tenuto Signore.[363] L'esercito francese passò subito le Alpi, e rapidamente s'impadronì del ducato di Milano; ma nello stesso tempo scendevano gli Svizzeri che, col favore del Papa, erano stati assoldati pel Duca dal suo accorto segretario Girolamo Morone. A Novara (6 giugno), con maraviglia universale, essi dettero una solenne disfatta ai Francesi, che, fuggendo, si ritirarono dall'Italia. E così gli Svizzeri, che erano venuti a difesa del Duca, di fatto si trovarono ora come padroni di Milano. La Spagna, l'Imperatore ed il Papa furono allora addosso a Venezia, di cui disfecero l'esercito, arrivando fino a Mestre; e la Francia fu, nello stesso tempo, assalita nel suo proprio territorio da Tedeschi, Inglesi e Svizzeri, che la ridussero a mal partito. Finalmente Luigi XII, trovandosi costretto a più miti consigli, accettò la pace che gli fu offerta dal Papa, disdisse il Conciliabolo, e si sottomise al Concilio laterano.

Questo fu il momento, in cui Leone X entrò a capofitto nei garbugli politici, e cominciò a far conoscere davvero il suo falso carattere. Eletto papa in età di 37 anni appena, aveva pei suoi modi cortesi, per la fama con molta accortezza guadagnata di bontà e d'ingegno, destato in tutti le più liete speranze. Quando però si vide che incominciava anch'egli, senza scrupoli, anzi in modo veramente scandaloso, a crear nuovi cardinali (ne creò allora quattro, fra i quali due suoi parenti ed il Bibbiena; più tardi, trentuno in una sola volta); che seguiva con tutti una politica d'altalena e di malafede; che non solo voleva ingrandire il territorio e l'autorità della Chiesa, ma anche formare in qualche parte d'Italia uno Stato nuovo per Giuliano, ed un altro per Lorenzo, allora l'opinione che di lui s'era formata, andò rapidamente mutando. E quando lo videro trattar contemporaneamente [222] con Francesi, Svizzeri, Spagnuoli e Tedeschi, pronto sempre ad ingannar tutti, ed allearsi con uno Stato nel tempo stesso che cercava d'allearsi con altri contro di esso, cominciò a manifestarsi una generale diffidenza. «Vedendosi,» così osserva il Vettori, «che il Papa rompeva i giuramenti, e faceva oggi una costituzione e domani vi derogava, cominciò a perdere il nome di buono; e benchè facesse molte orazioni e digiunasse spesso, non gli credevano più. E certo è gran fatica volere essere signore temporale e uomo di religione, perchè chi considera bene la legge evangelica, vedrà che i pontefici, pure tenendo il nome di vicari di Cristo, hanno indotto una nuova religione, che di Cristo ha solo il nome; perchè egli comandò la povertà e loro vogliono le ricchezze, comandò la umiltà e loro seguitano la superbia, comandò la ubbidienza e loro vogliono comandare a ciascuno.»[364] Si può bene immaginare che cosa dovessero pensare gli altri, se questo era il linguaggio dell'ambasciator fiorentino a Roma, dell'amico, del fautore dei Medici, che con tanta premura consultava il Machiavelli, sulle condizioni [223] politiche dell'Europa, per poter poi, valendosi delle considerazioni che egli faceva, entrare sempre più in grazia di Leone X.

Gli avvenimenti ai quali abbiamo qui sopra accennato, erano tali veramente da far girare ogni più fermo cervello. Il Vettori ed il Machiavelli li seguivano nelle loro lettere di passo in passo, e ne ragionavano minutamente. Il primo cominciava col dire di non volere più discorrere di politica, vedendo come tutto era ornai guidato dal caso e non dalla ragione. Ma il Machiavelli rispondevagli il 9 aprile 1513: «Lo stesso è avvenuto a me; pure se vi potessi parlare, non farei altro che empirvi la testa di castellucci, perchè la fortuna ha fatto che, non sapendo ragionare dell'arte della seta, nè dell'arte della lana, nè de' guadagni, nè delle perdite, e' mi conviene o star cheto o ragionare dello Stato.»[365] Fu sopra tutto la notizia della tregua inaspettata fra la Spagna e la Francia, quella che faceva almanaccare il Vettori, il quale scriveva d'essere una mattina restato a letto due ore più del solito, cercando e non trovando le ragioni che potevano avere indotto la Spagna a concluderla. Esponeva poi al Machiavelli i propri dubbi, chiedendo il giudizio di lui, «perchè a dirvi il vero, senza adulazione, l'ho trovato in queste cose più saldo che di altro uomo col quale abbia parlato. Se la tregua è vera, bisogna dire che il re di Spagna non è quel savio che si predica, o che gatta ci cova, o che vogliono dividersi fra loro questa povera Italia. Più io entro in questa girandola, e meno posso assettarmela in testa. Vorrei proprio che potessimo andare insieme dal Ponte Vecchio per la via dei Bardi insino a Castello, e discorrere che fantasia sia quella di Spagna. Ora appunto che ha avuto vantaggio sopra i Francesi, li lascia liberi di far la guerra in Italia, donde vorrebbe cacciarli. Se si sentiva troppo [224] debole, era meglio cedere loro addirittura Milano, piuttosto che metterli in grado di prendersela colle proprie armi.»[366]

Il Machiavelli era di diverso avviso, sebbene la lettera del Vettori gli fosse tanto piaciuta, da fargli, come egli scriveva, dimenticare le sue infelici condizioni. «Parmi esser tornato in quelli maneggi, dove ho invano tante fatiche durato e speso tanto tempo. Io penso che il re di Spagna sia stato sempre più astuto e fortunato che prudente. E come non voglio senza ragione lasciarmi muovere da nessuna autorità, e non bevo paesi, così non credo che nella tregua ci sia altro che quello ci si vede, e penso che la Spagna potrebbe avere errato, intesala male e conclusala peggio.[367] Ma nel caso presente la tregua si spiega anche ritenendo che il Re sia stato savio. Egli ha fatto l'accordo, perchè vide assai deboli in suo aiuto gli alleati, perchè il suo paese è stracco ed esausto, e i suoi migliori soldati si trovano in Italia. Se cedeva Milano, avrebbe reso potentissima la Francia sempre sua nemica, e irritato assai più gli alleati. Con la tregua, invece, apre loro gli occhi, si leva la guerra di casa, e mette in disputa ed in garbuglio le cose d'Italia, dove egli vede materia da disfare e osso da rodere; e spera che il mangiare insegni bere ad ognuno. I confederati, costretti alla guerra, basteranno di certo, se non ad impedire la conquista di Milano, a fermare la Francia. E secondo me, il fine che il re di Spagna s'è proposto, è stato appunto di costringere con la tregua l'Inghilterra e l'Imperatore a far guerra davvero, [225] o almeno ad aiutarlo efficacemente. Egli ha sempre comandato Stati nuovi e sudditi altrui. Ora uno dei mezzi coi quali questi Stati si tengono, e gli animi dubbi di questi sudditi si guadagnano o si lasciano almeno sospesi, è appunto il dare grande aspettazione di sè circa il fine cui mirano le nuove imprese. Così fece il Re nelle imprese di Granata, di Africa e di Napoli; giacchè il suo vero scopo non fu mai questa o quella vittoria, ma il darsi reputazione appresso ai popoli, e tenerli sospesi nella moltiplicità delle faccende. E però è animoso datore di principii, a' quali dà poi quel fine che gli mette innanzi la sorte, e che la necessità gl'insegna; e finora non s'è potuto dolere nè della sorte nè dell'animo.»[368]

Gli eventi dimostrarono che il Machiavelli aveva avuto ragione, e inteso mirabilmente quale scopo re Ferdinando s'era proposto colla tregua.[369] Il Vettori stesso lo riconobbe ben presto, scrivendogli che la lettera gli era molto piaciuta nel riceverla; ma assai più quando essa aveva dai fatti ricevuto sicura conferma. Non ostante ciò, egli non era anche tranquillo, nè vedeva chiaro a quale cammino andassero le cose. «Vinca pure chi vuole, o Francesi o Svizzeri, e se non basta questo, venga il Turco con tutta l'Asia, e colminsi a un tratto le profezie, che, a dirvi il vero, io vorrei che quello ha a essere fosse presto, e oltre a quello che ho visto vedrei volentieri più là. Nè mi maraviglierei se tra un anno il Turco avesse dato a questa Italia una gran bastonata, [226] e facesse uscire di passo questi preti, sopra di che non voglio dir altro per ora.»[370]

Il 12 luglio egli tornava da capo alla politica generale. «Vorrei proprio essere con voi, per vedere se potessimo nella nostra fantasia assettare questo mondo, il che mi pare assai difficile. Il Papa vuol mantenere la Chiesa e non diminuire lo Stato suo, salvo il caso di dar grandezza ai nipoti. E ciò si conferma osservando quanto poco essi pensino a Firenze, il che è segno che mirano a Stati che siano più fermi, e dove non abbino a pensare continuo a dondolare uomini. L'Imperatore non ha mai dimostrato molta forza; ma è pur sempre tanto stimato dai principi, che mi converrebbe dare il cervello a pigione per giudicare di lui come fanno gli altri. Egli muta di guerra in guerra, d'accordo in accordo, per arrivare al suo fine, che è di posseder Roma e tutto il territorio della Chiesa, come vero e legittimo Imperatore. Questo lo giudico dalle parole sue, le quali egli disse in mia presenza e di altri.[371] La Spagna vuol tenere Castiglia e Napoli; l'Inghilterra è gelosa della Francia; gli Svizzeri che io stimo più di tutti i re, vogliono avere Milano a posta loro. Stando così le cose, vorrei che voi mi assestassi colla penna una pace, dicendo chi e come dovrebbe cedere parte de' suoi desideri; giacchè ora la maggior faccenda che io abbia è lo starmi, essendomi venuto a noia anche il leggere.»[372]

Noi non abbiamo la risposta del Machiavelli a questa lettera; ma il 20 giugno egli aveva già scritto quale era il suo avviso sul quesito che ora gli veniva fatto. [227] Se fossi il Papa, egli diceva, avrei stretto accordo con Francia, Spagna e Venezia, dando alla prima il reame di Napoli, alla seconda il ducato di Milano, ed alla terza Vicenza, Verona, Padova e Treviso. «Così si leverebbe da Milano un duca posticcio, e resterebbero scontenti solo l'Imperatore e gli Svizzeri; ma questa comune paura dei Tedeschi sarebbe la mastice che terrebbe uniti gli alleati.»[373] Il Vettori voleva invece lasciare lo Sforza a Milano, per non far troppo potente la Francia, di cui era meno fautore che non fosse il Machiavelli, e restituire ai Veneziani le loro terre. Così, egli diceva, l'Italia sarebbe tutta unita contro gli Svizzeri, dei quali non temeva poi troppo la potenza, perchè non credeva come lui che volessero, a similitudine degli antichi Romani, far colonie e conquistare: «a loro basta dare una rastrellata, toccar danari e ritornarsi a casa. Se la Francia lascia la Lombardia, io veggo l'Italia in pace, ed alla morte del re Cattolico il reame andare ad un figlio del re Federigo,[374] e tutto tornare nei termini antichi. Altrimenti c'è il caso che per la discordia dei Cristiani ci venga addosso il Turco per terra e per mare, e faccia uscire questi preti di lezî, e gli altri uomini di delizie: e quanto più presto fosse, tanto meglio, che non potresti credere quanto mal volentieri mi accomodo alla sazievolezza di questi preti, non dico del Papa, il quale, se non fosse prete, sarebbe un gran principe.»[375]

Il Vettori aveva l'ubbìa del Turco, come il Machiavelli aveva quella degli Svizzeri, oltre di che questi non credeva punto che, allontanandosi la Francia, gl'Italiani s'unirebbero mai fra di loro. «Quanto all'unione degl'Italiani,» [228] egli scriveva, «voi mi fate ridere, primo perchè non ci fia mai unione veruna a fare bene veruno; e sebbene fossino uniti i capi, non sono per bastare, sì per non ci essere armi che vagliano un quattrino, dalle spagnuole in fuori, e quelle per esser poche non possono essere bastanti; secondo, per non essere le code unite coi capi.... Quanto al bastare agli Svizzeri dare rastrellata e andar via, vi dico che voi non vi riposiate, nè confortiate altri che si riposi in simili opinioni.» «Agli uomini, massime nelle repubbliche, basta prima difendersi; poi si sale all'offendere ed al voler dominare gli altri. Così agli Svizzeri bastò prima difendersi da chi voleva opprimerli; poi andarono agli stipendi, il che ha messo loro nell'animo uno spirito ambizioso di dominare per proprio conto. Ora sono entrati in Lombardia sotto colore di rimettervi il Duca, ed in fatto sono loro il Duca. Alla prima occasione saranno in sulle picche e faranno da padroni, e poi scorreranno l'Italia. Io so bene che gli uomini vogliono vivere dì per dì, e non credono che possa seguire quello che non è mai stato, e vogliono sempre far conto di uno a un modo. Pure, compare mio, questo fiume tedesco è sì grosso che ha bisogno di un argine grosso a tenerlo. Bisogna provvedere prima che s'abbarbichino, e comincino a gustare la dolcezza del dominare, che allora tutta Italia sarà spacciata.»[376]

Il Vettori gli rispondeva il 20 agosto, facendogli un quadro generale dello stato delle cose, per tornare a sostenere di nuovo la sua tesi: «L'Imperatore va, come suole, di guerra in guerra, e di pratica in pratica; il duca di Milano si lascia portare da quella sua fortuna a balzelloni, ed è come i re delle nostre feste, che pensano di dover la sera tornare quel che erano poco prima. Quanto alla Francia, io ne fui pel passato seguace, credendola [229] utile all'Italia ed a Firenze, che amo sopra ogni altra cosa al mondo: ne amo le case, le mura, le leggi, i costumi, tutto. I fatti poi mi hanno persuaso che il suo trionfo era a nostro danno, e quindi ho mutato opinione. Non credo che gl'Italiani siano da mettere addirittura, come voi fate, per ferri rotti, nè che gli Svizzeri possano mai divenire come i Romani, perchè se voi leggete bene la Politica, e considerate le repubbliche che sono state in passato, non troverete mai che una repubblica divulsa come quella degli Svizzeri possa fare progresso.»[377]

Ma su questo punto il Machiavelli non voleva cedere. Pieno com'era del suo entusiasmo per le repubbliche armate, convinto sempre che l'alleanza francese fosse anche ora necessaria all'Italia, non si lasciava certo imporre dall'autorità di Aristotele. «Noi abbiamo,» egli scriveva il 26 agosto, «un Papa savio, e questo grave e rispettato; un Imperatore instabile e vario, un re di Francia sdegnoso e pauroso; un re di Spagna taccagno e avaro; un re d'Inghilterra ricco, feroce e cupido di gloria; gli Svizzeri bestiali, vittoriosi e insolenti; noi altri d'Italia poveri, ambiziosi e vili: per gli altri re io non li conosco. In modo che, considerate queste qualità, con le cose che di presente covano, io credo al frate che diceva pax, pax, et non erit pax, e vedovi che ogni pace è difficile così la vostra come la mia....» Ma io dubito che «facciate questo re di Francia troppo presto un nulla, e questo re d'Inghilterra una gran cosa. E non posso assettarmi nel capo come questo Imperatore sia sì poco considerato, il resto della Magna così trascurato, che possan patire che gli Svizzeri vengano in tanta reputazione. E quando io veggo che gli è in fatto, io tremo a giudicare una cosa, perchè questo interviene contro ogni giudizio [230] che può fare un uomo.» Se però dubito, egli continuava, del vostro giudizio sulla Francia, son certo che v'ingannate nel giudicare gli Svizzeri. «Nè so quello che si dica Aristotele delle repubbliche divulse; ma io penso bene quello che ragionevolmente potrebbe essere, quello che è, e quello che è stato; e mi ricordo aver letto che i Lucomoni tennero tutta Italia insino all'Alpi, e insino che furono cacciati di Lombardia da' Galli.» «Nè vi fidate che gl'Italiani possano fare qualche cosa, perchè avrebbero sempre più capi e fra loro disuniti. Molto meno poi possono di fronte agli Svizzeri, perchè avete a intendere questo, che i migliori eserciti son quelli delle popolazioni armate, nè ad essi possono tener testa se non eserciti simili a loro. Io non credo già che gli Svizzeri possano fare un impero come i Romani, ma credo che possano diventare arbitri d'Italia, e perchè questo mi spaventa, ci vorrei rimediare.» «E se Francia non basta, io non ci veggo altro rimedio, e voglio cominciare ora a piangere con voi la rovina e servitù nostra, la quale se non sarà oggi nè domani, sarà a' nostri dì; e l'Italia avrà quest'obbligo con papa Giulio, e con quelli che non ci rimediano, se ora ci si può rimediare.»[378]

Queste considerazioni del Machiavelli piacquero tanto al Vettori che, sebbene fosse di diverso avviso, pure il 3 dicembre 1514 gli espose alcuni quesiti sulla politica contemporanea, facendo chiaramente capire, che sperava riuscirgli utile, ponendo le risposte sotto gli occhi del Papa o di chi gli era più vicino. «Supponete,» egli diceva, «che la Francia voglia riprendere Milano, e s'unisca perciò, come nello scorso anno, coi Veneziani; che dall'altro lato s'uniscano Imperatore, Spagna e Svizzeri. Che cosa dovrebbe, secondo voi, fare il Papa? Discorrete e giudicate i varî partiti e le loro conseguenze. Io [231] vi conosco di tale ingegno che, sebbene sien corsi due anni che vi levaste da bottega, non credo abbiate dimenticato l'arte.»[379] La risposta del Machiavelli, che nelle stampe è senza data, fu quale si può facilmente immaginare dalle lettere precedenti. «Nello stato presente delle cose,» egli diceva, «io credo che la Francia può vincere, anzi vincerà dicerto, se ad essa s'unisce il Papa, il quale avrebbe tutto da perdere, nulla da guadagnare, quando preferisse accordarsi colla Spagna e cogli Svizzeri. Se questi vincessero, egli resterebbe a discrezione di loro, che vogliono dominare l'Italia, e lo terrebbero schiavo: avrebbe dall'altro lato gli Spagnuoli in Napoli. Se poi, invece, perdessero, dovrebbe andare o in Svizzera a morirsi di fame, o in Alemagna a essere deriso, o in Spagna a essere espilato. Se finalmente il Papa si unisse alla Francia, e questa vincesse, io non credo che lo taglieggerebbe, perchè essa dovrebbe pensare a Svizzeri e Inglesi, sempre vivi e sempre nemici. E quando pure i Francesi perdessero, il Papa se ne potrebbe andare nel loro paese, dove ha sempre uno Stato, nel quale furono già molti de' suoi predecessori. Lo star neutrale sarebbe in ogni caso il peggior partito, perchè lo porrebbe a disposizione d'ognuno che vincesse.»[380] A questa lettera il Machiavelli ne aggiunge un'altra il 20 dicembre, dilucidando meglio qualche punto,[381] e poi, [232] quasi in forma di poscritti, una terza, lo stesso giorno, ricordando che questo era momento opportuno a tentare di farlo adoperare dal Papa in Firenze o fuori.[382] Le prime due furono dal Vettori messe sotto gli occhi di Leone X, dei cardinali Medici e Bibbiena, i quali le ammirarono; ma altro non se ne cavò.[383]

Tutto questo non valse a togliere il Machiavelli d'ogni speranza, anzi egli tornò di nuovo a chiedere, ma per allora sempre invano. Nei primi del 1515 la sua corrispondenza epistolare col Vettori sembra affatto sospesa, non restandoci che pochissime lettere degli anni posteriori. Si dovette forse stancare delle promesse d'un amico, che per lui aveva sempre avuto più parole che fatti. E da un altro lato le opere letterarie, cui nell'ozio forzato s'era finalmente dato, lo tenevano ormai molto occupato. Noi dobbiamo perciò chiudere adesso la prima parte di questa biografia per cominciare nella seconda a prendere in esame le dottrine e gli scritti del nostro autore. In essi è d'ora in poi quasi esclusivamente circoscritta la sua vita. Dopo avere conosciuto l'uomo d'azione, ci resta a conoscere più da vicino il pensatore e lo scrittore, che nei precedenti capitoli abbiam visto quasi di sfuggita e da lontano.

[233]

LIBRO SECONDO. DAL RITORNO ALLA VITA PRIVATA ED AGLI STUDI SINO ALLA MORTE DEL MACHIAVELLI.
(1513-1527)

CAPITOLO I.

Gli Scrittori politici nel Medio Evo. — Scuola guelfa e scuola ghibellina. — San Tommaso d'Aquino ed Egidio Colonna. — Dante Alighieri e Marsilio da Padova. — Il secolo XV. — Il Savonarola e il suo libro sul governo di Firenze. — Gli eruditi ed i loro scritti politici. — Gli ambasciatori italiani e le loro legazioni. — Francesco Guicciardini. — Sua legazione nella Spagna, suoi discorsi politici, suo trattato Del Reggimento di Firenze.

Prima di cominciare a prendere in esame le opere del Machiavelli, quelle specialmente che iniziarono, com'è noto, un nuovo periodo nella storia della scienza politica, e furono soggetto di tante e così prolungate controversie, dobbiamo gettare uno sguardo, sia pure rapidissimo, alle condizioni in cui questa scienza era stata nel Medio Evo, ed a quelle in cui si trovava nei secoli XV e XVI. Così risulterà chiaro il profondo mutamento che era già seguìto nelle idee e nei principi politici, quando il Machiavelli comparve sulla scena, e potremo assai meglio determinare le originalità ed il valore delle sue dottrine.

Il Medio Evo aveva avuto due grandi scuole di politici, la scuola guelfa e la scuola ghibellina, i sostenitori della Chiesa ed i sostenitori dell'Impero. Fra i primi risuonano più chiari i nomi di San Tommaso [234] d'Aquino e di Egidio Colonna, fra i secondi quelli di Dante Alighieri e di Marsilio da Padova, che vennero dopo. E come allora la scienza, esposta in lingua latina ed in forma scolastica, non aveva divisioni nazionali, così tutta l'Europa fu per lungo tempo dominata dalle medesime dottrine, e prima da quelle di San Tommaso[384], nel suo libro De Regimine principum, poi da quelle del suo discepolo Egidio Colonna,[385] nel libro De Ecclesiastica potestate. Essi sostennero che tutto deve essere sottoposto alla Chiesa ed ai suoi sacerdoti, ai quali debbono obbedire, e dai quali debbono dipendere l'autorità e la società laica. Ciò che si fa dall'uomo su questa terra non ha valore alcuno, se non in quanto apparecchia alla vita futura, di cui il segreto ed il mistero sono confidati alla Chiesa. La Città terrena deve essere sottoposta, sacrificata alla Città di Dio. La storia come la natura è opera di Dio, la cui mano guida, conduce i popoli al trionfo o alla rovina, senza che la volontà umana possa in nulla fermare o deviare il corso predestinato degli avvenimenti. Ciò che il corpo è verso l'anima, ciò che la materia è verso lo spirito, il potere temporale è di fronte allo spirituale. In sostanza le due spade, che simboleggiavano allora i due diversi poteri, dovevano essere impugnate dal vicario di Cristo, la cui autorità veniva direttamente da Dio, ed a cui doveva obbedire anche l'Imperatore, che era il rappresentante del diritto, della legge, della forza puramente umana e [235] terrena. Questi somiglia, essi dicevano, alla luna, che non ha luce propria, ma la riceve dal sole, a cui invece può essere paragonato il Papa. Ed in tutti gli scrittori del Medio Evo troviamo ripetuto questo singolar paragone, cui s'attribuiva quasi la forza d'un valido argomento, di una rigorosa dimostrazione.

In questa dottrina politica la morale ha di necessità un luogo principalissimo, e tutte le virtù sono esaltate e raccomandate, giacchè tutto deve mirare al trionfo della religione. Manca però ogni metodo, ogni carattere scientifico, nè è possibile introdurvelo. Lo scrittore sa già fin dalla prima pagina, il termine cui vuole arrivare; i suoi ragionamenti son sempre astratti, a priori, metafisici; le sue conclusioni non derivano mai da un esame dei fatti sociali e storici, dei quali egli fa poco o nessun conto. Ed è naturale, perchè qui ogni elemento umano è come soppresso. In Dio solo, nell'arcano della sua mente e della sua volontà bisogna cercare la causa di tutti gli avvenimenti storici, di tutte le trasformazioni sociali. Or quale è mai il metodo scientifico, con cui noi possiamo sottomettere ad analisi diretta la volontà divina? Il filosofo politico si trovava quindi nelle condizioni stesse di un naturatista, il quale, riconoscendo che Dio è l'autore del mondo, volesse cercare le leggi della natura, non già studiandone i fenomeni, ma solo contemplando e scrutando la mente divina. Questa scuola è poi logicamente costretta ad avere un profondo disprezzo, non solo per la società laica, ma ancora per tutta quanta la storia dell'antichità pagana, nelle cui religioni non sa, non può vedere altro che una moltitudine di favole, di errori da combattere.

Non è dunque da maravigliarsi, se contro di essa vediamo sorgere più tardi una anzi diverse scuole che la combattono. L'Impero si andava decomponendo, le nazionalità cominciavano a formarsi ed a staccarsene. Se ne era separata la Francia, il cui re, Filippo il Bello, [236] lo avversava, dimostrando una sconfinata ambizione. Pareva che volesse estendere la propria autorità oltre i confini francesi, in una parte della Germania, dell'Italia, perfino nello Stato della Chiesa. Era perciò venuto in fierissima lotta con Bonifazio VIII, non meno ambizioso, audace. Intorno a lui s'era formata una scuola di scrittori politici, difensori della società laica e del potere regio contro il Papa e contro l'Imperatore. Guglielmo di Nogaret, Pietro Dubois, Giovanni da Parigi, anche parecchi scrittori di opere anonime, secondavano l'ambizione del Re, proponendo in suo favore disegni che spesso erano fantastici. L'autorità laica, essi dicevano, esisteva prima ancora che sorgesse quella del Papa. Alcuni di questi combattevano l'unità dell'Impero, difendevano i diritti diversi delle diverse nazionalità, altri, ora che esso era vacante, suggerivano che il Re, come successore di Carlo Magno vi aspirasse, si facesse eleggere imperatore. In sostanza, più che veri uomini di Stato o di scienza politica, erano opportunisti, che secondavano l'ambizione della Francia e del suo sovrano. Dante Alighieri si presenta invece, col De Monarchia, come autore di un'opera veramente scientifica, come rappresentante della scuola ghibellina, opposta alla guelfa. Avverso alle ambiziose pretese della Francia, conscio dei pericoli cui l'Italia si trovava perciò esposta, ci dà un trattato organico e logico sull'Impero, nella cui utilità, necessità e permanente durata ha piena fede. Egli non è un opportunista; scrive con sincera, profonda convinzione. Un'autorità suprema, universale, che mantenga nel mondo la concordia, e sostenga la giustizia è, secondo lui, necessaria. Questa autorità è quella dell'Imperatore, erede di Roma, dove è la sua sede naturale.

Con vera e grande originalità egli pone il fondamento della società umana nel diritto, cui dà un valore proprio, indipendente, divino anch'esso, perchè la giustizia è voluta da Dio, è suo attributo. Così da Dio deriva [237] anche il potere dell'Imperatore, indipendente affatto da quello del Papa, che deve pensar solo alla religione, e solo nelle cose spirituali può comandare. Il carattere, l'autorità, la forza dell'Impero, che rappresenta l'indipendenza della società laica, son dimostrati chiaramente da tutta quanta la storia dell'antica Roma, che, invece di sprezzarla, come faceva la scuola teologica, Dante ammirava con entusiamo. Egli, anzi la dichiara un miracolo perenne, operato da Dio per far trionfare sulla terra una specie di nuovo popolo eletto. In tutto ciò si vede già da lontano il prossimo trionfo dell'erudizione classica, e la trasformazione che essa dovrà inevitabilmente portare nelle idee del Medio Evo. Se non che questi nuovi concetti, quantunque originali ed arditi, assai spesso si fondano ancora sopra argomenti affatto scolastici. — Non si può paragonare il Papa al sole, e l'Imperatore alla luna, dice Dante, perchè l'Impero e la Chiesa sono due fatti accidentali del genere umano, di cui perciò suppongono l'esistenza. Or siccome il sole e la luna furono creati nel quarto giorno, e l'uomo invece fu creato nel sesto, così, secondo quel paragone, Dio avrebbe nella creazione seguito un ordine illogico, contrario alla natura delle cose, provvedendo prima all'accidentale e poi al sostanziale. Ciò sarebbe assurdo. — Simile a questo sono molti degli altri argomenti, di cui l'autore si vale per combattere i suoi avversarî. Anzi assai spesso egli non fa che ripigliare uno ad uno tutti i loro sillogismi o sofismi scolastici, per ritorcerli con lo stesso metodo contro di loro, senza accorgersi che se i medesimi ragionamenti possono sostenere del pari il pro ed il contra, questo dimostra che non hanno alcun valore.

Ma oltre di ciò, quello che Dante vagheggia è sempre l'Impero universale del Medio Evo. L'Imperatore, secondo lui, rappresenta l'unità del genere umano, il diritto e la giustizia universale; deve essere padrone del mondo intero, perchè così, non potendo più nulla desiderare o ambire [238] sulla terra, non avrà nè ragione nè tentazione alcuna d'allontanarsi mai dalla giustizia verso tutti. Come fu osservato da un moderno, il De Monarchia che voleva essere una profezia dell'Impero, ne fu invece l'epitaffio. Infatti ciò che di più notevole la posterità potè trovare in essa furono appunto quei nuovi principî e quelle nuove tendenze, che, con la emancipazione della società laica, promuovevano, senza che l'autore se ne rendesse conto, la distruzione dell'Impero universale, la formazione dello Stato nazionale moderno. Arrigo VII, in cui favore egli scriveva, e nel quale tanto sperava, può dirsi veramente l'ultimo degl'Imperatori medioevali.[386]

Assai al disopra della stessa Monarchia dell'Alighieri s'innalza l'ardito spirito di Marsilio da Padova col suo Defensor Pacis, seguendo la medesima via, ma andando assai più oltre. Sembra quasi impossibile che un libro, scritto da un ecclesiastico, e già compiuto nel 1327, potesse contenere idee tanto ardite, che solo molti secoli dopo riuscirono ad essere intese ed attuate. Fattosi difensore di Lodovico il Bavaro, Marsilio entrò nella lotta con un ardore qualche volta eccessivo. A lui non basta assicurare l'indipendenza dell'Impero di fronte alla Chiesa, ma vuole addirittura sottomettere questa a quello. L'Imperatore deve, secondo lui, avere il diritto di radunare il Concilio, di deporre vescovi e papi, che da lui debbono giuridicamente dipendere.[387] Tutto questo si potrebbe, fino ad [239] un certo segno, supporre che fosse conseguenza dello spirito di parte, piuttosto che di profonde convinzioni scientifiche. Ma quando Marsilio, cominciando dall'esaminare i vari ordini dell'attività umana, cerca di determinare le diverse funzioni degli organi sociali; quando distingue chiaramente il potere legislativo dall'esecutivo, allontanandosi non poco dalle idee di Aristotele, che pure gli sta sempre dinanzi, e tenta d'innalzarsi fino quasi ad un concetto organico della società e dello Stato, la sua originalità risplende allora in modo incontrastabile.[388] Inoltre il potere legislativo risiede per lui unicamente nel popolo; giacchè, se a formulare le leggi occorre la sapienza dei pochi, l'opera di questi deve essere sanzionata dal suffragio universale, che è la base vera così dell'Impero come della Chiesa. La Monarchia di Marsilio non è in sostanza che una repubblica, quasi rappresentativa, con presidente eletto dal popolo, che può anche deporlo. L'autorità suprema della Chiesa risiede nella universalità dei credenti e nelle Sacre Scritture; ed ogni potere coercitivo, non solo verso i rappresentanti dello Stato, ma anche verso gli eretici, le è assolutamente negato. A questi essa può, con giusta autorità, dir solo, che saranno nell'altra vita dannati alle pene eterne dell'Inferno, se professano dottrine erronee. È ufficio del Monarca, o sia della suprema autorità laica, il punirli, quando riescano dannosi alla società.

Nè solo per queste idee ardite, ma anche per la chiarezza, l'ordine e la precisione del suo pensiero, egli s'innalza assai al di sopra di tutti i contemporanei, non escluso lo stesso Alighieri. Il suo linguaggio è ancora confuso e medioevale; ma i sillogismi ed i sofismi scolastici già cominciano per lui a perder valore; il paragone [240] col sole e con la luna, e gli altri simili, quando non sono affatto scomparsi dalle sue pagine, non riescono a confondere la sua intelligenza, nè ad alterare l'ordine logico del suo ragionamento. In lui si vede già chiaro il passaggio dalla Scolastica ad una scienza politica indipendente, promossa da una visibile tendenza umanistica del suo spirito. Più di una volta egli ci apparisce come colui, il quale apre la via che conduce dalla scienza politica del Medio Evo a quella del Machiavelli.

Nonostante tutto ciò, noi non possiamo nelle lodi arrivare al segno cui son giunti alcuni critici tedeschi, del resto autorevolissimi. A loro non è bastato di dichiarare che Marsilio da Padova, per le sue idee intorno alla Chiesa, fu un precursore della Riforma; pel suo concetto, che ripone la sorgente prima di ogni potere nel popolo, fu un precursore del secolo XVIII; e per l'assoluto predominio che volle dare allo Stato sulla Chiesa, fu il precursore di principii, pei quali combatte ancora la società moderna.[389] Si volle ancora trovare nel suo Defensor Pacis chiaramente espresso il concetto dello Stato moderno, non più universale, ma nazionale. È ben vero che egli domanda a sè stesso se la Monarchia deve essere universale o debbono esservi invece Stati diversi, secondo le varie condizioni geografiche ed etnografiche dei popoli. Ed in ciò si può ritenere che Marsilio abbia già una chiara visione del problema che si pone. Ma il fatto è che egli risponde semplicemente, che questa disputa è estranea al soggetto del suo libro. Ora non si può, a noi pare, in una reticenza trovare la scoperta di un nuovo principio. Nè bisogna dimenticare, che il libro fu scritto per sostenere le pretese di Lodovico il Bavaro, che veniva in Italia a far l'ultimo tentativo di ricostituire l'Impero medioevale.

[241]

In sostanza, sebbene Marsilio sia stato a giusta ragione chiamato profeta dei diritti del nuovo Stato, non credo si possa dire che egli abbia rotto ogni legame col Medio Evo. Non solo la lotta a cui piglia parte col suo libro è ancora medioevale, ma il suo metodo è sempre quello di un idealismo astratto, arido e metafisico. Le cognizioni che egli ha della storia non sono mai superiori, spesso sono anzi inferiori a quelle del suo tempo. A lui manca affatto il senso storico, il concetto della evoluzione naturale delle istituzioni, che nel suo libro sembrano messe fuori dello spazio e del tempo. La fonte principale della sua sapienza è Aristotele, coll'aiuto del quale e di altri greci o latini cerca di emanciparsi dalla Scolastica. Più che ricorrere alla storia, egli cerca di mettere in armonia Aristotele con le Sacre Carte, che sono le due autorità su cui anche la Scolastica si fondava. Le repubbliche italiane, già divenute piccoli Stati indipendenti dall'Impero, la cultura cui esse dettero origine, ebbero una gran parte nella formazione del suo pensiero. Ma tutto questo non bastò a fargli trovare un nuovo metodo scientifico, nè a condurlo ad un esame storico dei fatti. La sua è una Monarchia buona, necessaria in tutti i tempi, in tutti i luoghi; è, quasi direi, il trionfo astratto del diritto e della giustizia universale. Sebbene essa trovi la propria base nella coscienza popolare, nel che è di certo il pensiero originale dell'autore, pur tuttavia il popolo ed il monarca di Marsilio sono ancora due astrazioni. Non si sa mai se il popolo di cui ragiona, è quello di una città, di uno Stato o dell'Impero universale.

Per la scuola guelfa lo Stato è sottoposto alla Chiesa, per Marsilio invece la Chiesa divien quasi una funzione dello Stato, che riman sempre universale ed astratto, non ostante le sue reticenze. E così anche la scuola ghibellina, con tutta l'audacia e l'originalità dei propri sostenitori, andò sempre alla ricerca d'un governo ideale, metafisico; non si occupò mai di studiare nessuna società [242] in particolare, per vedere ciò che nel caso concreto fosse preferibile e pratico.[390]

Questo è appunto quello, a cui incominciarono a pensare gli scrittori politici italiani nel secolo XV. È singolare vedere come allora fosse sostanzialmente scomparsa quasi tutta quanta la scienza politica del Medio Evo, e ne fosse sorta un'altra, nella forma e nella sostanza, affatto diversa. Pure non c'è molto da maravigliarsi se si considera che erano mutate non solamente le idee degli uomini, ma la società stessa. Alla Scolastica era successa la erudizione; l'autorità politica d'una Chiesa e di un Impero universali sembrava divenuta appena una memoria del passato; le repubbliche italiane, per opera dei capi di parte, si andavano rapidamente alterando. Formate in origine da molte associazioni mal collegate fra di loro, esse che erano state sotto la dipendenza [243] della Chiesa o dell'Impero, a poco a poco s'andavano, in tutta la penisola, rendendo indipendenti. Più tardi sorsero i signori o tiranni, che, commettendo delitti d'ogni sorta, vi spensero la libertà. Ed in ciò si vedeva pur troppo assai chiaramente la mano dell'uomo, l'effetto dell'astuzia, dell'inganno e dell'audacia. Questi tiranni crearono anche il primo modello degli Stati moderni, che si vennero poi formando in Europa, cui l'Italia insegnò così la nuova politica, divenuta un fatto reale prima assai che la scienza riuscisse a formularla. Nello stesso tempo lo studio degli antichi poneva dinanzi alla mente degli uomini l'immagine dello Stato pagano, che, massime a Roma, sottoponeva a sè l'individuo, la religione, ogni cosa. E così l'esempio dell'antichità risorta aiutava a meglio comprendere ed attuare il concetto che dalla realtà delle cose naturalmente sorgeva, manifestandosi come una necessità storica e sociale.

Ciò nonostante la vecchia scienza medioevale non scomparve tutta ad un tratto; essa restò ancora lungamente nascosta nei chiostri, ed alcune delle sue idee si vedevano di tanto in tanto filtrare anche nelle opere più recenti. Così, ad esempio, troviamo quasi per tutto sopravvivere l'idea dell'ottimo principe, la quale, appoggiata all'autorità degli antichi e degli scolastici, arrivò, più o meno trasformata, quasi fino a noi. — Il governo di un solo, quando è buono, è l'ottimo dei governi, com'è il pessimo, quando è cattivo. — Questo, nel secolo XV, pareva ancora a molti un assioma incontrastabile. La perfezione sta nell'unità, aveva detto la Scolastica, e lo stesso ripeteva anche con maggiore enfasi il neo-platonismo del Ficino. Come vi è un Dio unico nel mondo, un sole unico nel sistema planetario, una testa sola nell'organismo umano ed animale, così la società ha bisogno di unità, e ritrova la sua perfezione nell'ottimo monarca, che è quasi l'immagine di Dio, e solo può darle l'ottimo governo.

Chi volesse mettere a contrasto queste idee, nella loro [244] pura forma medioevale, con le altre che, accanto ad esse, sorgevano allora per tutto, e s'imponevano a tutti, dovrebbe leggere il trattato Del Reggimento del Governo della città di Firenze, che scrisse il Savonarola, quando dirigeva la formazione della nuova repubblica. Egli espone il concetto dell'ottimo principe con tutte quante le forme scolastiche, e descrive la felicità umana sotto il suo governo. Passa poi a descrivere questo governo quando il principe è cattivo, e fa un eloquentissimo ritratto del tiranno; cerca di renderlo odioso quanto può, seguendo Aristotele e San Tommaso. Ma poi osserva a un tratto, che a Firenze, per essere gl'ingegni sottili, il tiranno sarebbe peggiore che altrove, e quindi solo la repubblica può essere adatta alla natura di quel popolo, e dar buoni frutti: essa è perciò voluta da Dio. Dinanzi ad una tal questione di pratica opportunità, svanisce la forza d'ogni teoria, d'ogni astratto ragionamento, e lo scrittore passa senz'altro a parlare del modo come fondare in Firenze la repubblica col Gonfaloniere, con la Signoria, con un Consiglio degli Ottanta, e soprattutto con un Consiglio Grande, simile a quello di Venezia, dove aveva dato così buoni frutti. Qui noi vediamo dunque una politica pratica, che risulta solo dall'esame delle condizioni reali in cui trovavasi la Città, e dall'indole del suo popolo; la vediamo messa accanto, quasi a contrasto colla politica astratta del Medio Evo, dalla quale resta affatto indipendente, anzi è in contradizione con essa. Questo avveniva però nel Savonarola, che era frate, e nel quale si trovavano in continua lotta il Medio Evo ed il Rinascimento. I suoi contemporanei procedevano invece più spediti nella nuova via, cercando quello che poteva praticamente effettuarsi, senza occuparsi d'altro.

Chi voglia davvero esaminare il passaggio naturale dall'una all'altra scuola, viene perciò necessariamente condotto a studiare gli scritti politici degli eruditi; ma è subito costretto a giudicarli inferiori così a quelli degli [245] scolastici, da cui furono preceduti, come a quelli dei cinquecentisti, da cui furono seguiti. Di certo la letteratura degli umanisti formò, coll'esempio degli antichi, una nuova educazione intellettuale, e condusse di necessità ad esaminare i fatti sociali come puramente umani e naturali. Nelle loro lettere, nei loro viaggi noi troviamo spesso mirabilmente descritti i costumi dei popoli e le loro istituzioni, come vi troviamo preziose osservazioni sulle cause della loro decadenza e del loro risorgimento. Non s'incontra più la eterna spiegazione della mano di Dio, che conduce i popoli come un abile cocchiere guida focosi cavalli, perchè lo scrittore cerca invece e trova la spiegazione dei fatti che osserva, nell'indole degli uomini, nei loro vizî e nelle loro virtù. Questa nuova tendenza del loro spirito può anzi dirsi il solo lato veramente originale degli eruditi, come scrittori politici. Se infatti noi leggiamo i pochi trattati che essi ci lasciarono in tale disciplina, sembrano piuttosto florilegi di classiche frasi intorno alle virtù ed ai vizî degli uomini in generale, e dei principi in particolare, che veri e proprî trattati scientifici. Tali sono alcuni lavori del Panormita, del Platina e di molti altri.

Gioviano Pontano era non solo un grande erudito ed un grande scrittore di versi latini; ma anche un politico ed un diplomatico accortissimo, uno dei principali ministri nella corte napoletana di Ferdinando d'Aragona, e s'era perciò trovato lungamente a condurre grandi affari. Eppure che cosa ci dice nel suo libro De Principe? Che il principe deve amar la giustizia e rispettare gli Dei: essere liberale, affabile, clemente, nemico degli adulatori, osservatore della fede, forte, prudente; esercitarsi alla caccia, alle armi; soprattutto poi essere amico e protettore dei letterati. E chi non s'avvede che si tratta proprio d'esercizio rettorico, quando egli ci racconta sul serio, che papa Calisto III, minacciato da Iacopo Piccinini, disse che non aveva nulla a temere, perchè v'erano in Roma da tremila [246] letterati, con i consigli e la prudenza dei quali poteva respingere qualunque più poderoso esercito? Che cosa ci insegna Poggio Bracciolini nel suo dialogo De infelicitate Principum? Che il potere e tutte le condizioni esteriori non possono dare all'uomo la vera felicità, la quale invece viene solamente dalla virtù; e però bisogna cercar questa, non la ricchezza nè la potenza. Egli percorre la storia, cercando esempî a provare come i più grandi monarchi non poterono evitare d'essere infelici. Se un principe è cattivo, non può certo esser felice; se è buono, deve essere infelice per la grande responsabilità, le cure, i fastidî infiniti che l'opprimono. La felicità adunque trovasi solo nelle case dei privati cittadini, che sanno avere il culto della vera filosofia. Chi vorrà supporre che tutto questo sia scienza politica? Eppure nei viaggi del Bracciolini appunto noi troviamo mirabili osservazioni sui costumi, le istituzioni inglesi e tedesche, e molte se ne trovano anche negli scritti del Piccolomini e di moltissimi altri eruditi. Nelle lettere diplomatiche del Pontano poi ognuno può riconoscere un gran senno pratico, una vera sapienza politica. Non si direbbe che siano scritte dall'autore del trattato.

Tale è nondimeno la via per la quale s'andò formando la nuova scienza politica. L'erudizione dette solo l'educazione intellettuale, necessaria a crearla; ma essa comparve davvero la prima volta nelle lettere e nelle relazioni degli ambasciatori e dei diplomatici, i quali negli ultimi decenni del secolo XV e nei primi del XVI s'andarono moltiplicando in modo veramente singolare. Nei dispacci di Ferdinando d'Aragona, che portano la firma del Pontano; in quelli degli ambasciatori fiorentini al tempo della venuta di Carlo VIII; in quelli dei Veneziani e nelle loro celebri relazioni, come più o meno in tutti gli scritti diplomatici dei governi e degli ambasciatori italiani, noi ci troviamo addirittura in un mondo [247] nuovo. Hanno abbandonato la lingua latina; non sanno più che cosa sia la Scolastica; osservano, studiano gli uomini, le istituzioni politiche con un acume meraviglioso, con la più consumata esperienza; indagano le cagioni degli avvenimenti e della condotta degli uomini di Stato con un vero metodo induttivo, sperimentale, che a un tratto si riscontra in tutti, senza che possa dirsi chi lo abbia primo inventato, perchè fu in realtà trovato da tutta la nazione. Di tanto in tanto incontriamo alcune considerazioni generali, che sono sempre d'una mirabile evidenza e penetrazione; ma si torna subito alla narrazione dei fatti presenti, alla discussione delle notizie più riposte, e tutto ciò forma costantemente il pensiero dominante di tali scritti. In sostanza può dirsi veramente che in queste legazioni già si trovi non solo la forma, ma anche il metodo della nuova scienza, sebbene tutto ciò apparisca a brani staccati, che sembrano invocare chi venga finalmente a riunirli. Era quindi impossibile che non si cominciassero a fare tentativi per raccogliere le fronde sparse d'una dottrina, la quale, nata già in mezzo agli affari ed alla realtà della vita, come conseguenza inevitabile delle nuove condizioni sociali, del nuovo modo di osservare e di conoscere il mondo, aspettava solo, per apparir visibile ad ognuno, e manifestar tutto quanto il suo valore, di essere scientificamente ordinata ed esposta. Così sembrò che sorgesse ad un tratto, già formata, e come Minerva uscita inaspettatamente dalla testa di Giove, quando invece s'era andata lungamente e laboriosamente preparando.

Chi voglia con precisione conoscere questa scuola e le sue dottrine, deve attentamente studiare le opere politiche di Francesco Guicciardini. In esse la vediamo meglio ancora che in quelle del Machiavelli, perchè questi, con la originalità creatrice del suo genio, v'introduce un elemento personale, le dà una propria impronta, quando invece la originalità, pure grandissima, del Guicciardini, [248] si manifesta nel dare una forma singolarmente limpida e precisa alle dottrine prevalenti al suo tempo, le quali egli svolge, ordina, arricchisce coi resultati della sua prodigiosa esperienza, con la sua grande conoscenza degli uomini e degli affari, con una esattezza nell'osservare, ricordare e ritrarre i fatti, alla quale non giunse neppure lo stesso Machiavelli, troppo occupato nella ricerca delle sue teorie, nel correr dietro ai suoi ideali.

Il Guicciardini, che era contemporaneo, ma più giovane del Machiavelli, cominciò, al pari di questo, i suoi scritti politici con le legazioni, e prima fu quella di Spagna, dove s'iniziò veramente alla pratica dei pubblici affari, e dove compose qualche altro brevissimo lavoro. Ivi andò nel 1511, quando ancora non aveva trent'anni; ma aveva già fatto buoni e lunghi studi, dato prova del suo mirabile ingegno nella Storia fiorentina, che fu pubblicata solo ai nostri giorni. La sua legazione ebbe poca importanza, perchè, come vedemmo, egli fu mandato solo a dissipare i sospetti del Re con proteste d'amicizia, nè potè fare altro che osservare, raccogliere e riferire notizie. A ciò s'aggiungeva che egli, accorto com'era, già presentiva i mutamenti che poco dopo seguirono in Firenze, e non voleva in nessun modo esporsi a qualche rischio, e perciò cercava di restar sempre sulle generali. Annunziò sin dal principio che Ferdinando il Cattolico era deciso a non operar nulla contro il Papa; descrisse i disegni iniziati e poi abbandonati di rimandare in Italia il Gran Capitano, quando le cose parevano disperate per la Spagna; narrò le venuta degl'inglesi e il loro scontento, quando il Re s'impadronì, a tradimento e per conto proprio, della Navarra; dette sul paese e sul governo molte notizie utili, chiare, precise, che dimostrarono subito qual maraviglioso osservatore egli fosse.[391] Queste [249] notizie restano però quasi sempre slegate, perchè raccolte alla rinfusa, di tempo in tempo, secondo l'occasione, senza che mai egli si sforzi di coordinarle per modo da dare un concetto generale e chiaro sull'insieme delle cose, sul carattere del popolo e del principe, il che era invece quello a cui il Machiavelli mirava costantemente nelle sue legazioni. E ciò fa subito distinguere l'indole dei due scrittori.

Il Guicciardini scrisse allora per proprio conto anche una Relazione di Spagna, nella quale volle riunire le principali osservazioni, che gli era occorso di fare nella sua dimora colà, seguendo però sempre il suo metodo analitico. Trova il paese poco popolato, senza terre, borghi o castelli fra una città grossa e l'altra, ma solo campagne deserte. Ha un'assai cattiva opinione degli Spagnuoli, che dice superbi di loro nazione, avidi del danaro, avari, poco amanti del lavoro, senza industria, senza cultura letteraria, e soprattutto astuti e falsi. «Sono,» egli dice, «per essere astuti, buoni ladri.... È proprio di questa nazione la simulazione,... e da questa simulazione nascono le cerimonie e ipocrisia grande.» Singolare deve certo parere una così acerba accusa di astuzia e simulazione, fatta da un politico italiano del secolo dei Borgia, il quale confessa d'essersi in tutta la vita, sopra ogni altra cosa, occupato del suo particolare, e che più tardi fu dai suoi concittadini accusato d'aver tradito la patria. Egli riconosce le grandi qualità militari degli Spagnuoli, che trova agilissimi e fieri; non ha grande opinione dei loro uomini d'arme, ma loda i loro cavalli leggieri, e dice eccellentissimi i fanti, che di fatto poi nella battaglia di Ravenna provarono d'essere uguali agli Svizzeri, giudicati sino allora i primi del mondo. Ma questo grande valore militare della Spagna non desta in lui verun entusiasmo, e non lo induce neppure a trarne conclusioni generali sullo stato presente e sull'avvenire probabile di quella nazione, sulla sua forza, sul suo inevitabile [250] destino nel mondo. Un giorno egli interrogò re Ferdinando: — Come mai un popolo così armigero era stato sempre conquistato in tutto o in parte «dai Galli, dai Romani, dai Cartaginesi, dai Vandali, dai Mori?» — La nazione, rispose il Re, è assai atta alle armi, ma disordinata,[392] laonde può farne gran cosa solo chi sappia tenerla unita ed in ordine. — E questo è infatti, osserva giustamente il Guicciardini, ciò che fecero Ferdinando ed Isabella: abbassarono i grandi, spensero le rivoluzioni, s'impadronirono dello straordinario potere che avevano colà i tre Ordini dei cavalieri, e così poterono spingere la Spagna alle grandi imprese militari. In esse Ferdinando ebbe la singolare fortuna di cominciar la guerra sempre con apparenza di giustizia, fatta solo eccezione della iniqua ripartizione del reame di Napoli, alla quale non vi fu mai scusa o pretesto di sorta.

Qui è chiaro che si fa strada, come da sè stesso, un concetto generale sulla forza reale che aveva allora la Spagna, e sul valore della politica nazionale di Ferdinando ed Isabella. Ma il Guicciardini non vi si ferma; anzi dopo avere mirabilmente osservato i fatti speciali, attribuisce i grandi successi ottenuti dal Re più alla fortuna che alla sua prudenza ed alle qualità militari del suo popolo.[393] Così anche qui tutto riman diviso in osservazioni slegate, al che contribuisce la forma stessa della Relazione, che è composta di paragrafi staccati. Qualche volta troviamo confinate nei Ricordi, che sono addirittura pensieri staccati, alcune considerazioni generali che, se fossero nella Relazione, avrebbero potuto darle maggiore [251] unità, facendo veder chiaro come il governo di Ferdinando d'Aragona ebbe non solo fortuna, ma ancora prudenza grande. Infatti il Guicciardini qui nota, che il Re, quando voleva intraprendere una guerra, la faceva prima desiderare da tutto il suo popolo, in modo da parer come forzato a farla,[394] e così persuadeva poi ognuno, che egli era mosso unicamente dal pubblico bene, anche quando operava per interesse suo personale, per sola ambizione di principe.[395] Ma questa e simili osservazioni, restando isolate e quasi abbandonate a sè stesse, perdono gran parte del valore scientifico e più generale che potrebbero avere. Così ad ogni passo noi abbiamo occasione di riconoscere la grande differenza che corre fra l'ingegno del Guicciardini e quello del Machiavelli, i quali pur sotto alcuni aspetti si somigliano tanto. Questi è un osservatore meno paziente, meno preciso, meno sicuro; ma ha il dono singolarissimo di ritrovare subito, tra mille fatti che gli cadono sotto gli occhi, quello che è veramente principale, e su di esso si ferma. Abbiamo già visto come, appena che si trovò fra gli Svizzeri, la loro «libera libertà» e il popolo armato e i costumi semplici furono subito il suo punto di partenza per misurare la forza e predire la fortuna di quelle piccole repubbliche. E quando ci parlò della Francia e della Germania, lo abbiamo veduto del pari cercar sempre nell'esame dei fatti principali, quasi diremmo, il peso specifico, così politico come militare, delle due nazioni, e nello studio del presente indagar le probabilità dell'avvenire. A queste ricerche, a queste predizioni il Guicciardini non si sentiva punto inclinato; le reputava anzi poco meno che oziose.

Il problema che egli proponeva costantemente a sè stesso, nella vita pubblica e nella privata, era l'utile immediato e la pratica soluzione delle difficoltà che via via [252] gli si presentavano, senza punto occuparsi d'un prima o d'un poi troppo lontani. I precetti, le massime lungamente meditate della sua scienza e della sua esperienza, li aveva cercati, e li metteva in pratica sopra tutto per ottenere i suoi fini personali. Nella Spagna seguiva da lontano con occhio vigile gli avvenimenti d'Italia, massime di Firenze, donde i parenti e gli amici con lettere lo ragguagliavano d'ogni cosa. Quando poi mutò il governo in Firenze, e coloro che avevano abbattuto la Repubblica, che egli era stato mandato colà a difendere, gli confermarono la legazione, egli con lieto animo accettò subito il nuovo incarico, e cercò dal padre e dal fratello di conoscere il nome dei nuovi potenti, per guadagnarsi il loro favore, come fece scrivendo a tutti i Medici, e più specialmente a Leone X, non appena questi fu eletto papa. Maestro singolare nell'arte di accomodarsi ai tempi, egli ci reca non poca maraviglia, quando lo vediamo, finito che ebbe il trentesimo anno, rivolgere a sè stesso, nelle sue Memorie (che non voleva fossero pubblicate) una specie di religioso sermone, col quale s'incitava a migliorare i propri costumi; a far buon uso dei doni ricevuti dalla Provvidenza, e degli alti uffici avuti da' suoi concittadini; a condursi nelle cose spirituali in modo, «che Dio per sua benignità ti abbi a dare quella parte in Paradiso, che tu medesimo desideri nel mondo.»[396] In sostanza il problema che egli costantemente si propone, è di condursi in modo e con tanta prudenza, da riuscire a godersi questa vita e l'altra, senza mai nulla sacrificare de' suoi interessi e de' suoi comodi.

Della sua facile mutabilità abbiamo una prova in due dei vari Discorsi, che scrisse nella Spagna. In uno di essi, che fu composto poco innanzi alla battaglia di Ravenna, egli discute il modo di riordinare e rafforzare il [253] governo popolare in Firenze; nell'altro, che scrisse subito dopo la battaglia, quando sapeva già tornati i Medici, consiglia invece i modi di rafforzare ed assicurare il loro potere. Incomincia nel primo[397] dall'osservare, che l'indole ed il vivere corrotto dei Fiorentini eran poco adatti ad una buona repubblica; e che a ridurli quale avrebbero dovuti essere, «bisognerebbe fare un cumulo d'ogni cosa, dando loro una forma affatto nuova, come si fa quando si lavorano cose da mangiare di pasta.»[398] Nondimeno, date le cose quali sono, egli cerca i provvedimenti più adatti. Vuole prima di tutto aver buona milizia, migliorando quell'Ordinanza che, dopo molte opposizioni, era stata deliberata e veniva universalmente lodata, ma sulla quale egli non ebbe mai le grandi illusioni del Machiavelli. «Il governo,» secondo lui, «è fondato sulla forza, e volerne uno senza armi, sarebbe come volere un esercizio senza il suo proprio strumento; giacchè non è altro lo Stato e lo imperio, che una violenza sopra i sudditi, palliata in alcuni con qualche titulo di onestà.»[399] La libertà non è altro che «un prevalere delle leggi e degli ordini pubblici sullo appetito degli uomini particolari;» e però deve esserne base il Consiglio Grande, in cui i cittadini riuniti approvino le leggi, ed eleggano agli uffici. Questa era allora per i politici italiani la vera ed unica salvaguardia d'ogni libero governo. Tutto si riduceva per essi a fare in modo che le elezioni dei magistrati fossero garantite a vantaggio del pubblico contro ogni possibile corruzione; che gli uffici politici girassero di continuo, affinchè il lungo esercizio del potere non facesse nascer la voglia e l'opportunità di farsi tiranno. E quindi si studiavano mille congegni, più o meno artificiosi, per ottenere l'intento. [254] Il Guicciardini proponeva, che s'ammettessero nel Consiglio anche alcuni di coloro ai quali, per l'età o per altra ragione, era dalle leggi vietato di occupare gli ufficî. Non potendo essi patteggiare per conto proprio, sarebbero stati, egli diceva, più disinteressati, e avrebbero votato, imparzialmente.[400]

Un altro principale fondamento della libertà si credeva allora che fosse la uguaglianza di tutti i cittadini nel pigliar parte al governo. Anche perciò, osservava il Guicciardini e con lui tutti i politici italiani del tempo, è necessario che gli uffici girino sempre e, salvo qualche rara eccezione, non siano mai perpetui. Varie essendo poi le faccende e varie le ambizioni, cui bisogna soddisfare, se si vuole che la Città resti tranquilla, vari ancora debbono essere gli uffici, la loro durata e la loro autorità. E prima di tutto egli vuole a capo del governo un Gonfaloniere a vita; «giacchè si vede anche nelle cose naturali, che il numero di uno ha perfezione.»[401] Qui noi abbiamo, è vero, un accenno alle vecchie teorie filosofiche ed astratte; ma il Guicciardini ne rifugge poi subito. Egli non conosce la scolastica; non ama la filosofia; è stato educato con la giurisprudenza, della quale però non parla mai nelle sue opere politiche, tornando invece di continuo alla questione pratica. Il momento che passa, l'ora che fugge, quello che è possibile, son le cose cui la sua attenzione è sempre rivolta. Vuole che il Gonfaloniere perpetuo abbia un freno nella Signoria, cui dà molta autorità, e nel Senato, che compone di 160 o 180 cittadini, parte a vita, parte a tempo: i primi perchè acquistino lunga esperienza, i secondi per impedire ogni eccesso di potere, e per far girare in molti anche la dignità di Senatore. E qui aggiunge una proposta, che s'innalza al di sopra dei pregiudizi e delle tradizioni più inveterate del [255] suo tempo. È noto che nei Consigli della repubblica fiorentina era severamente proibito il parlare contro le proposte di leggi, che venivan sempre fatte dalla Signoria. Si poteva votar contro, si poteva parlare e votare in favore; ma il parlar contro una legge era allora vietato persino colle pene d'esilio o di prigionia. Il Guicciardini invece afferma saviamente, che se era pericoloso ammettere una libera discussione nel Consiglio Grande, dove la moltitudine avrebbe potuto portar confusione; essa era necessaria non che utile nel Senato, e l'averla vietata in Firenze fu tirannia, non libertà. La discussione farebbe più maturamente deliberare, farebbe conoscere gli uomini esperti, e darebbe loro una meritata autorità. «E che cosa,» egli esclamava, abbandonandosi finalmente una volta all'entusiasmo, «che cosa può un animo generoso desiderare di meglio, che trovarsi a capo d'una città libera, portatovi solo dall'essere riconosciuto prudente e amatore della patria? Felici le repubbliche, che sono piene di queste ambizioni, perchè è necessario che in esse fioriscano quelle arti, che conducono a questi gradi, cioè la virtù e le opere buone.»[402]

In sostanza questo governo del Guicciardini non è altro che un meccanismo, col quale si cerca di fare in modo che tutte le ambizioni si bilancino, e i pregi della monarchia, dell'aristocrazia e della democrazia si contemperino a vicenda, mediante il Gonfaloniere, il Senato ed il Consiglio Grande. È il concetto del governo misto, che troviamo in tutti gli scrittori politici italiani, tramandato ad essi dall'antichità, massime coi frammenti del sesto libro di Polibio, allora già tradotti e molto diffusi tra noi. Questi scrittori però, specialmente in Firenze, s'ingegnavano di modificare un tale concetto, per adattarlo alle condizioni speciali della loro repubblica. Sebbene essi cercassero sempre nell'antichità un sostegno autorevole [256] a tutte le loro teorie politiche, anche a quelle suggerite dalla propria esperienza, era nondimeno divenuta una convinzione assai generale, che il governo dovesse adattarsi alla natura del popolo, cui si voleva dare. Ancora però non si vedeva che esso deve nascere spontaneo dalla storia e dalla coscienza popolare; che non basta averlo prima armonicamente formato nella testa dei pensatori, per presumere poi d'imporlo alla società. E neppure si capiva che era un concetto assai errato il ritenere la vita politica d'una nazione ed il suo governo, come un semplice gioco di passioni e d'interessi personali da frenare o soddisfare. Donato Giannotti, uno dei più intemerati patriotti fiorentini, uno degli ultimi rappresentanti di quella scuola, passò tutta la sua vita studiando il governo veneziano, per migliorare con tale esempio quello di Firenze, dandoci dell'uno e dell'altro una descrizione minutissima. Ma il suo costante criterio nello scegliere e nel correggere è sempre lo stesso: formare, ordinare le istituzioni in modo che soddisfino tutte le ambizioni, tutte le passioni dei cittadini, le quali sono per lui sempre e solo politiche. Alcuni, egli dice, vogliono primeggiare; altri, in maggior numero, sono contenti d'aver qualche parte al governo, per potere anch'essi comandare; i più vogliono uguaglianza, libertà e giustizia. Quindi il bisogno di temperare la democrazia con l'aristocrazia e con la monarchia, il che lo portava sempre a proporre un Gonfaloniere con la Signoria, il Senato ed il Consiglio Grande.[403] E questi erano i ragionamenti che di continuo si ripetevano allora da tutti in Firenze.

Ma il Guicciardini aveva una vista assai più lunga, una mente assai più larga del Giannotti e di molti altri; e però non poteva sfuggirgli del tutto il lato debole di queste teorie, la insufficienza di questo metodo artificioso. Di tanto in tanto egli rompeva perciò l'involucro [257] della scuola; ed abbiamo allora idee più elevate ed ardite, che sono lampi di luce inaspettata. Se non che, la sua indifferenza, il suo disgusto e quasi disprezzo per tutte le teorie, lo fanno sempre tornar nella via da lui sin dai primi anni battuta, che di rado assai egli abbandona, raccogliendo però sempre per via osservazioni vere e profonde sugli uomini e sulle istituzioni. Alla fine del suo Discorso egli ricorda di nuovo, che in sostanza tutto dipende dalla natura, dal carattere del popolo, e che perciò in Firenze ogni riforma riuscirà vana, se non sarà possibile migliorar prima radicalmente il popolo. Con i provvedimenti che propone, si farà, egli dice, una repubblica appena tollerabile; «a volerla far buona davvero, ci vorrebbe, il coltello di Licurgo, che estirpasse dalla radice la nostra mollezza, la nostra avidità di guadagno, la nostra vanagloria, come egli fece a Sparta. Ma questa è cosa che possiamo ammirare o desiderare, non mai sperare fra noi.» E torna di nuovo ai piccoli temperamenti, concludendo col proporre una legge contro il lusso delle donne, ed un'altra che diminuisca le doti, leggi tante volte e tanto inutilmente proposte e sanzionate nella repubblica fiorentina.[404]

Il secondo Discorso, da lui scritto nell'ottobre del 1512, ragiona sulle condizioni dei partiti in Firenze, e sul modo d'assicurare il governo dei Medici, che già avevano trionfato.[405] Questi, egli osserva, non possono ormai sperare di farsi amico il popolo, da lungo tempo affezionato alla libertà; debbono quindi pensar solo a formarsi un circolo ristretto d'amici sicuri e fidati, fra i quali dividere i principali uffici, favorendoli in ogni modo, per renderne la sorte inseparabile da quella del nuovo governo. Il Soderini era caduto, perchè aveva voluto condurre una repubblica coi mezzi e modi che sono contrari alla libertà, [258] restringendo cioè il governo nelle mani di pochi amici; lo stesso seguirebbe ai Medici, quando s'ostinassero a voler governare coi modi proprî della libertà, cioè allargando il governo nelle mani di molti, sperando così di trovar favore e sostegno nella universalità dei cittadini.

Nel leggere e paragonare questi due Discorsi vien fatto di chiedere: il Guicciardini era dunque repubblicano o amico dei Medici, fautore della libertà o della tirannide? Ma questa sarebbe stata per lui una domanda oziosa. La sua politica consisteva principalmente nel saper risolvere, secondo i proprî interessi, il problema che di giorno in giorno si presentava, qualunque esso fosse. Egli mirava a farsi strada sotto qualsivoglia governo, a trovare il modo più rapido e sicuro di salire in alto, e lo dice di continuo, senza ambagi. Di certo quando, chiuso nel suo studio, con la penna in mano, scriveva per sola soddisfazione del suo animo, allora, levandosi assai più in alto, dichiarava aperto, che la libertà era di gran lunga preferibile al dispotismo, e naturalmente desiderata dagli uomini. In Firenze, egli lo riconosceva, non era possibile, senza violenza, altro che una repubblica popolare; ma appunto perciò egli diceva ai Medici che, se volevano assicurarsi del potere, era loro necessario ricorrere alla forza. Per indole sua propria, per inclinazione e per educazione della sua mente, non aveva nessuna fiducia nel popolo: anche alla repubblica voleva perciò dare una forma ristretta, ponendola in mano di pochi ottimati. Ed è questo un altro punto, nel quale si allontanava assai dal Machiavelli, che era invece fautore del popolo.

Queste medesime tendenze del suo spirito si trovano nel suo trattato Del Reggimento di Firenze, che è d'indole assai più generale.[406] Ma il titolo del libro non deve farci supporre, che l'autore voglia in esso svolgere una teoria [259] scientifica di governo; egli dà solo una maggiore ampiezza, un ordine più logico a tutto ciò che abbiamo trovato nel primo dei Discorsi già menzionati. È un dialogo, che sebbene composto molto più tardi, si suppone tenuto nell'anno 1494, dopo la cacciata dei Medici, fra Bernardo del Nero loro ardente partigiano, Piero Guicciardini padre dello scrittore, Paolo Antonio Soderini e Piero Capponi. Nella prefazione l'autore comincia con lo scusarsi di scrivere in favore del governo libero, dopo aver servito Leone X e Clemente VII, dai quali era stato beneficato. Ma le volontà e i desiderî degli uomini sono, egli dice, diversi dalle considerazioni sulla natura delle cose; la verità sta per sè stessa, e gli obblighi verso la patria sono in ogni caso maggiori di quelli verso i privati. Anche quest'opera è una di quelle che restarono inedite sino ai nostri giorni. Ed è singolare davvero il vedere come in un uomo interessato ed ambizioso, quale era il Guicciardini, l'amor delle lettere potesse essere così vivo e disinteressato da fargli comporre tante opere, senza altro scopo che il proprio soddisfacimento. E questo dà ad esse un maggior valore, e fa conoscere con maggiore sicurezza le opinioni e convinzioni vere dello scrittore.

Il dialogo, adunque, incomincia col dire che il miglior governo è quello d'un solo, quando il principe è buono; ma poi si allontana subito da questa teoria, osservando qualcuno degl'interlocutori, che a Firenze non ci sarebbero che i Medici, nei quali non si poteva riporre speranza di bene, perchè essi si erano impadroniti del governo con l'inganno e la forza, contro la volontà popolare. A tal punto Bernardo del Nero, lo stesso che nel 1497 fu condannato a morte, per aver cospirato in loro favore, piglia le difese di essi e del principato in genere. Dice che a lui non importa sapere nè disputare di quale specie sia un governo; ma vuol sapere piuttosto che effetti porta là dove è introdotto, perchè i giovani sono destinati al bene dei cittadini, non a soddisfare le ambizioni di chi [260] comanda o vuol comandare. Le città furono istituite a comune utilità, ed il maggior vincolo sta nella mutua benevolenza dei cittadini, il cui primo e principale bisogno è la giustizia. Gli uomini sono per natura portati al bene, quando l'interesse non li faccia deviare, e se alcuni vanno al male senza ragione, meritano d'essere chiamati più presto bestie che uomini. Ora il governo popolare, continua Bernardo del Nero, non può essere il meglio adatto al sopra indicato fine, perchè è sempre debole, incerto e mutabile; il principato invece è più forte, più pronto, più segreto nel condurre i suoi affari, e anche più intelligente, trovandosi la prudenza nei pochi, non già nei molti. Altri interlocutori lo combattono, dicendo che così si riduce il governo al solo utile ed interesse privato; la giustizia, essi aggiungono, non basta, bisogna cercare anche l'onore e la gloria.

Ma su di ciò e sopra altri argomenti teorici si fermano poco, per ritornare invece a biasimare la condotta dei Medici, i molti mali che essi fecero a Firenze, e i maggiori che farebbero, quando vi tornassero dopo esserne stati cacciati. Ed in tale questione di opportunità la sola in cui veramente si riscaldino, vengono finalmente tutti d'accordo. Bernardo del Nero, infatti, conchiude dicendo: «Ormai i Medici sono cacciati, e non si può desiderarli, perchè se furono buoni, tornerebbero tristi. Si cerchi adunque la miglior forma di governo libero, il solo che sia ora opportuno e possibile in Firenze.» Dopo di che incomincia ad esporre e sostenere, con qualche lieve modificazione, la stessa forma di repubblica che vedemmo proposta nel primo dei Discorsi da noi esaminati. Ciò che principalmente bisogna aver di mira, egli dice, sono tre cose: giustizia per tutti, difesa della libertà, matura deliberazione nelle cose più importanti. E però un Consiglio Grande, che elegga ai principali ufficî, è quello che sopra tutto si richiede. E ad evitare poi che i più ambiziosi cerchino, con ogni mezzo onesto [261] o disonesto, il favore del popolo, non si lasci al Consiglio la elezione del Gonfaloniere; ma solo il diritto di proporre una terna al Senato, che farà la scelta definitiva. Questo sarà composto di 150 senatori savî e prudenti, i quali discuteranno con ogni libertà e maturamente tutte le deliberazioni. E così continua la esposizione, che noi non riferiamo, per non ripetere il già detto.

Seguono alcuni ragionamenti sulla storia di Roma e delle sue guerre civili, dai quali apparisce che il Guicciardini aveva lungamente e acutamente meditato l'arduo soggetto. In fine del dialogo troviamo di nuovo considerazioni, le quali tornano a farci vedere, ed anche più chiaramente, come nel fondo del suo animo restassero sempre gravi dubbî sulla base stessa su cui tutta la sua dottrina politica riposava, e come su questi dubbî egli non volesse fermarsi punto, perchè non vedeva nessuna pratica utilità nel discuterli, non sapendo scientificamente trovarvi un'uscita. Bernardo del Nero, entrando infatti a parlare con Piero Capponi della guerra di Pisa, osserva che ai Fiorentini non riuscirà mai di farsi amici i Pisani, e però dovrebbero, per indebolirli, uccidere tutti i prigionieri, o almeno tenerli in carcere sino a guerra finita, non spaventandosi punto se, per rappresaglia, la medesima sorte toccasse ai loro soldati. Questo consiglio, egli dice, può sembrare crudele e senza coscienza, anzi tale è veramente. Ma «chi vuole tenere oggidì i domìnî e gli Stati, debbe, dove si può, usare la pietà e la bontà; e dove non si può, fare altrimenti, è necessario che usi la crudeltà e la poca coscienza. E però scrisse Gino tuo bisavolo in quegli suoi ultimi Ricordi: che bisognava fare dei Dieci della guerra persone che amassero più la patria che la anima,[407] perchè è impossibile regolare i governi e gli [262] Stati, volendo tenerli nel modo che si tengono oggi, secondo i precetti della legge cristiana.» Certo, egli continua, non si può allegare qualche buona ragione «perchè nell'uno caso si abbia a osservare la coscienza, nell'altro non si abbia a tenerne conto. Il che io ho voluto dire, non per dare sentenza in queste difficultà, che sono grandissime, poichè chi vuol vivere totalmente secondo Dio, può mal fare di non si allontanare dal vivere del mondo, e male si può vivere secondo il mondo, senza offendere Dio; ma per parlare secondo che ricerca la natura delle cose in verità, poichè la occasione ci ha tirati in questo ragionamento, il quale si può comportare tra noi, ma non sarebbe però da usarlo con altri, nè dove fussino più persone.»[408]

Noi dunque siamo partiti dal Medio Evo, in cui tutto era in teoria sottomesso alla morale, alla giustizia ed alla religione; ma si restava nell'astratto, senza tener conto nè dei fatti reali, nè della storia, nè della natura dell'uomo e della società; e siamo arrivati ad un altro tempo, in cui la scienza politica si fonda invece sull'esame razionale dei fatti, ma si trova in contradizione colla religione e colla morale, lasciando un profondo dissidio nell'animo dell'uomo, il quale ha una coscienza e non può averne due. Questo dissidio, cominciato nel secolo XV, è continuato fino a' nostri giorni, nè siamo oggi riusciti a sopprimerlo del tutto nella pratica e neppure nella teorìa. Il Medio Evo aveva risoluto il problema, [263] sacrificando la patria terrena alla celeste; ma la sua dottrina era un'astrazione, che non ebbe mai nessuna pratica efficacia a guidare la condotta degli uomini e dei governi, i quali restavano infatti feroci e crudeli, quando i libri predicavano la mansuetudine ed il misticismo teologico. Il secolo XV volle invece seguire l'esperienza, e lasciarsi guidare dalla ragione, la quale allora pareva rappresentata dalla filosofia antica. Ma così il dissidio tra la politica ed il Cristianesimo diveniva sempre maggiore. L'antichità presentava l'idea dello Stato laico; esaltava la patria e la libertà; lodava lo sterminio, anche feroce, dei nemici di quella, e l'uccisione dei tiranni. Il Vangelo insegnava invece una religione universale; non parlava nè di Stato, nè di patria; inculcava una morale di carità, di modestia, di abnegazione, che nessuno seguiva nella vita pubblica, e che anzi, secondo la natura delle cose, così almeno diceva il Guicciardini, sarebbe riuscita pericolosissima alla patria ed a chi avesse voluto scrupolosamente adottarla nel governo degli Stati. Questo conflitto era sorto da lungo tempo, ed in mille modi si manifestò, non solo nella letteratura e nella scienza, ma anche nella vita. L'abbiamo visto in Girolamo Olgiati, quando eccitato dalla lettura dei classici all'odio contro l'oppressore di Milano, chiedeva perdono a Sant'Ambrogio, se fra poco avrebbe macchiato di sangue il suo altare, e lo pregava che non lasciasse fallire il colpo che doveva spegnere l'iniquità. Condotto a morte, egli invocava la Madonna, ed esaltava in distici latini gli uccisori dei tiranni. Lo abbiam visto in Pietro Paolo Boscoli, che si dichiarava pronto ad affrontare coraggiosamente la morte per amore della libertà, se s'ispirava ai filosofi greci e romani; ma incapace di morire per essa da buon cristiano. Sulle rovine del Medio Evo s'andava ricostituendo l'idea dello Stato e della patria coi frammenti dell'antichità risorta, e quest'idea pareva allora inevitabilmente destinata a mettersi in opposizione colla morale cristiana.

[264]

Il Guicciardini, trovando il conflitto, lo notava come un fatto, senza pretendere di spiegarlo, anzi dicendo che era meglio parlarne tra pochi ed a bassa voce. E però i suoi consigli, le sue massime politiche, per quanto accorte e pratiche, si riducevano a semplici osservazioni staccate, a temperamenti, a ripieghi per condurre innanzi le cose più o meno destramente, senza poter mai arrivare a proporre una radicale riforma, senza poter creare un nuovo sistema di scienza politica, molto meno poi aprire la via a formare un nuovo Stato o un nuovo popolo. Ma egli non mirava così alto. I sistemi non li cercava, le ardite ipotesi non gli piacevano: raccoglieva il frutto della esperienza quotidiana sua e degli altri, registrando di volta in volta le proprie idee, non cercando mai di coordinarle in unità organica, sotto qualche principio o anche massima più generale. Tutto ciò, se da un lato era un difetto, gli dava dall'altro il grandissimo vantaggio di poter esporre agli altri le sue osservazioni nella loro forma originale, genuina e pratica, colla stessa spontaneità con cui si presentavano a lui, senza portarvi alcuna alterazione, per coordinarle sistematicamente. E però nei Ricordi politici e civili, le qualità del suo ingegno risplendono con una invidiabile ed inarrivabile chiarezza. Difficilmente infatti si troverebbe nelle letterature moderne un'altra serie di massime e sentenze, che rivelino con uguale precisione il pensiero politico e morale di un uomo, di un secolo intero.

In questi suoi Ricordi l'autore ripete di continuo, che è un grande errore «il voler parlare delle cose del mondo in termini generali e per regole; giacchè quasi tutte le regole hanno eccezioni, le quali si possono scrivere solo nel libro della discrezione.[409] La teoria è assai diversa dalla pratica, e molti che intendono quella non sanno poi metterla in atto.[410] Nè giova il discorrere [265] per esempi, perchè ogni piccola varietà nel caso particolare, porta grandissima variazione nell'effetto.[411] S'ingannano quindi assai coloro (e qui evidentemente allude al Machiavelli) che allegano sempre i Romani. Bisognerebbe avere una città condizionata com'era la loro, e poi governarsi secondo quello esempio.»[412] Ma altrove afferma, senza pensare che imita appunto una di quelle sentenze generali, da lui tanto rimproverate al Machiavelli: «Che le cose passate fanno lume alle future, perchè il mondo fu sempre di una medesima sorte, e tutto quello che è e sarà, è stato in altro tempo, e le cose medesime ritornano, ma sotto diversi nomi e colori; però ognuno non le ricognosce, ma solo chi è savio le osserva e considera diligentemente.»[413] E ripete un'altra sentenza del Machiavelli quando, discorrendo del potere che ha la fortuna sulle cose umane, conclude che ognuno deve desiderare di «abbattersi in tempi nei quali le proprie qualità riescano opportune ed utili, siano intese e tenute in pregio universalmente. Chi potesse variare la sua natura secondo i tempi, il che è molto difficile, se non impossibile, sarebbe assai meno dominato dalla fortuna.[414]» Ma su queste osservazioni, suggerite in parte dagli antichi, in parte dall'esperienza propria, il Machiavelli si ferma e cerca una legge e costruisce norme generali, che servono di base ad una scienza nuova, il Guicciardini invece nota e passa oltre.

Anche in questi Ricordi egli ripete che «non si possono tenere gli Stati secondo coscienza, perchè, salvo le repubbliche nella patria loro (o sia nella città dominante), sono tutti violenti, non escluso l'Imperatore, e più ancora i preti, la violenza dei quali è doppia, perchè ci [266] sforzano con le armi temporali e con le spirituali.»[415] I sudditi d'una repubblica poi, cioè quelli che non sono cittadini della dominante, stanno peggio che quelli d'un principe, «perchè la repubblica non fa parte alcuna della sua grandezza, se non a' suoi cittadini, opprimendo gli altri; il principe è più comune a tutti, e ha ugualmente per suddito l'uno come l'altro; però ognuno può sperare d'essere beneficato e adoperato da lui.»[416] Qui noi abbiamo un'osservazione che è assai notevole, perchè ci scopre la debolezza delle repubbliche medioevali, la causa della loro inevitabile decadenza, e pone in chiaro la ragione per la quale non si poteva riescire a fondare lo Stato moderno, senza che prima esse fossero distrutte dal dispotismo. Ma l'autore, senza punto fermarsi ad esaminare, senza quasi accorgersi di tutto il valore di ciò che dice, passa subito ad altro argomento. Egli torna assai spesso a manifestare la sua poca, anzi nessuna simpatia per il popolo: «Chi disse popolo, disse veramente uno pazzo, perchè è uno mostro pieno di confusione e di errori, e le sue vane opinioni sono tanto lontane dalla verità, quanto è, secondo Tolomeo, la Spagna dalla India.»[417] Ma ciò non gl'impedisce punto di dir male [267] del dispotismo, di cui fu poi coi fatti più volte sostenitore. «La calcina con cui si murano gli Stati dei tiranni, è il sangue de' cittadini; però dovrebbe sforzarsi ognuno che nella città sua non s'avessero a murare tali palazzi.»[418]

Nè si creda per questo di coglierlo in contradizione. Il Guicciardini non pretende di fare altro che descrivere la società, sotto i mille e mutabili aspetti, in cui gli si presenta; i suoi studî sono principalmente diretti a conoscere la varia natura dell'uomo ed a trovare l'arte di dominarlo. Ma in sostanza qual'è quest'uomo che egli studia tanto, com'è, come dovrebbe, secondo lui, esser fatto? Il Guicciardini lo vuole virtuoso, perchè la virtù è bella, dà gloria, e tutti vi sono per natura inclinati, fino a che (bene inteso) non entra in gioco l'interesse personale, a cui ognuno necessariamente cede. «Piace ed è lodata la schiettezza, è biasimata e odiata la simulazione; la prima giova però più agli altri che a sè, e quindi io loderei chi ordinariamente avesse il traino del suo vivere libero e schietto, usando la simulazione solamente in alcune cose molto importanti, il che riesce tanto meglio, quanto più uno s'è saputo acquistare la reputazione di buono.»[419] Raccomanda il sentimento dell'amor proprio e dell'onore, che dice d'aver sempre vivamente sentito, dichiarando «morte le azioni che non hanno quello stimolo.»[420] Ma con la stessa calma osserva poi, che il vendicarsi è qualche volta raccomandabile, anche se non si ha rancore; «perchè con l'esempio gli altri imparino a non ti offendere; e sta molto bene questo, che uno si vendichi, e tanto non abbia rancore di animo contro colui di cui fa vendetta.»[421] Consiglia anche di «negare con persistenza quello che non si vuole far sapere, ed affermare [268] quello che si vuole far credere, perchè si finisce quasi sempre col riuscire, nonostante ogni prova in contrario.»[422] La sua è quindi una virtù di tornaconto, che serve solo a meglio nascondere il profondo egoismo. Nè il Guicciardini usa arte veruna per ingannare il lettore: anzi è difficile trovare chi ne' suoi scritti parli più chiaro di lui, o come lui si mostri davvero nella sua più schietta nudità: «Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie de' preti.... Nondimeno il grado che ho sempre avuto con più Pontefici, m'ha necessitato a amare per il particolare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, avrei amato Martino Lutero quanto me medesimo, non per liberarmi dalle leggi indotte dalla religione cristiana, come è interpetrata e intesa comunemente; ma per vedere ridurre questa caterva di scellerati ai termini debiti, cioè a restare o senza vizî o senza autorità.»[423] Lo stesso pensiero ed altri simili egli ripete più e più volte con uguale franchezza.[424]

Che cosa dunque si poteva fare con questo, che il De Sanctis chiamò giustamente l'uomo del Guicciardini, che era anche l'uomo del Rinascimento italiano, e pigliava per centro dell'universo il suo particolare?[425] [269] Quale società, quale Stato si può con esso formare? Solamente una società, in cui gl'interessi individuali s'equilibrino fra di loro, limitandosi a vicenda, e le varie ambizioni vengano, nel miglior modo possibile e con giusta moderazione, soddisfatte. Da ciò lo studio di meccanismi e congegni sempre più complicati, ed occorrendo, sostenuti anche con l'inganno o con la forza. Il concetto di un alto scopo sociale, di un vivente organismo dello Stato, non è possibile, come non è possibile quello di una vera virtù pubblica. Ma, ciò che è peggio, tutto questo doveva reagire e reagiva anche nella vita privata, e gli effetti già da un pezzo se ne vedevano nella coscienza, nei costumi, nella letteratura italiana, e c'era da prevedere d'andar per questo verso di male in peggio. A ricostruire sopra più solida base il mondo politico ed il mondo morale, sarebbe stato necessario innanzi tutto poter migliorare gli uomini, dando loro altra natura, altro carattere, «a uso di chi fa cose da mangiare di pasta, che dà ad esse quella forma che vuole.» Ma a ciò sarebbe stato necessario «il coltello di Licurgo che estirpasse la nostra mollizie, avidità e vanagloria.» Questo coltello di Licurgo per redimere stabilmente la patria, non poteva, secondo il Guicciardini, essere allora altro che un vano sogno, e fu invece la speranza continua, costante del Machiavelli, quella a cui, come ora vedremo, egli dedicò le sue più profonde meditazioni, gli studî migliori, tutta la sua vita letteraria.

[270]

CAPITOLO II.

Il Principe e i Discorsi. — La Riforma religiosa ed il nuovo Stato. — Paganesimo del Machiavelli. — Sua fede repubblicana. — Il Machiavelli ed Aristotele. — Lo Stato secondo il Machiavelli. — Suo metodo. — La Scienza politica in Grecia e nel Rinascimento. — I Discorsi.

L'anno 1513 il Machiavelli, per evitare sospetti e noie, di rado assai scendeva dalla sua villa in Città. Stanco della solitudine, dell'ozio forzato cui era condannato, del vano aspettare un ufficio che mai non veniva, si diede ben presto con grandissimo ardore allo studio. Questo fu infatti l'anno, in cui pose mano alle due opere sulle quali principalmente riposa la sua fama di scrittore politico: Il Principe, e i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. La prima era anzi già condotta a termine nel dicembre, quando lavorava a darvi l'ultima mano.[426] Ai Discorsi invece attese per molto tempo ancora, e poi li [271] lasciò incompiuti.[427] Tuttavia, anche nello stato in cui sono, formano un trattato generale di politica, diviso in tre libri. E si può dire, che unendoli al Principe, farebbero con esso come un'opera sola, in questo discorrendosi del principato, in quelli delle repubbliche. L'averle volute alcuni critici credere due opere senza relazione fra di loro, scritte anzi con intendimenti non solo diversi, ma anche opposti, fu causa di molti errori nel giudicarle. Ma basta un'attenta lettura per venire subito ad assai diversa conclusione. Infatti, non solamente esse rimandano più volte l'una all'altra;[428] ma il loro concetto fondamentale [272] è siffattamente identico, che se il Principe si fosse perduto, e se ne conoscessero solo il soggetto, lo scopo ed i limiti, sarebbe assai facile ricostruirlo quasi per intero, dando maggiore svolgimento ad alcune massime, che nei Discorsi sono appena accennate, ed in esso vengono invece largamente esposte.

Noi cominceremo dai Discorsi, sebbene il Principe fosse finito assai prima,[429] perchè questo, come dicemmo, si trova in germe già contenuto in quelli, dove si presenta come parte di tutto il sistema politico dell'autore. Del sistema, o per dir meglio, dei concetti fondamentali e dell'indirizzo generale che il Machiavelli segue, dobbiamo ora dir qualche cosa. Fin dalle prime pagine dei [273] Discorsi si vede chiarissimo, che egli entra in una via assai diversa da quella che seguirono il Guicciardini, il Giannotti e gli altri. Infatti non domanda a sè stesso: Qual'è la forma di governo più adatta a Firenze? Che attribuzioni debbono avere, come debbono essere eletti il Gonfaloniere, i Signori, i Dieci? Come debbono essere composti il Senato ed il Consiglio Grande; come si debbono queste istituzioni equilibrare in modo da soddisfare a tutte le ambizioni irrequiete dei Fiorentini? Il Machiavelli vuole invece sapere per quali ragioni sorgono e prosperano, per quali si corrompono e decadono le nazioni, come si debbono governare, e soprattutto come si fonda uno Stato forte e duraturo. Perfino nel linguaggio che adopera, vediamo chiarissima la grande distanza che lo separa dal Guicciardini. Negli scritti del Machiavelli noi incontriamo di continuo le parole: e debbesi questo avere per una regola generale; il Guicciardini, invece, come abbiam visto, ripete con altrettanta insistenza, che nelle umane faccende non vi sono regole generali che valgano; che esse son buone a scriversi nei libri, ma nella pratica giovano solo la lunga esperienza e la buona discrezione. Il Machiavelli mirava a creare una scienza nuova, ed aveva la fede necessaria a tentare l'ardua impresa, la quale era suggerita, quasi resa necessaria dalle condizioni in cui si trovavano allora lo spirito umano e la società. Il Guicciardini invece osservava mirabilmente, registrando le sue osservazioni senza occuparsi d'altro, e quanto a sè, pensava soprattutto a profittare degli eventi, a farsi strada nel mondo.

L'uomo del Rinascimento italiano, dominato com'era da un profondo egoismo, senza la guida morale d'un interesse generale, fra lo sfasciarsi di tutte le istituzioni medioevali, occupato sempre e solo del suo particolare, avrebbe ricondotto ogni cosa all'anarchia ed alla rovina, se il suo ingegno, la grande cultura, l'amore dell'arte e della scienza, lo studio obiettivo della realtà non lo [274] avessero, in parte almeno, salvato insieme con la società di cui faceva parte. Ma un tale stato di cose non poteva durare a lungo, se non si trovava un'uscita. Ed allora appunto due grandi avvenimenti seguirono nella storia del mondo: la Riforma religiosa da un lato, la costituzione degli Stati moderni e delle nazionalità dall'altro. Questi due avvenimenti, a prima vista, sembrano non avere fra di loro relazione di sorta; ma in verità partivano ambedue da un concetto comune, che l'individuo cioè sia di sua natura impotente al bene;[430] movevano ambedue dal bisogno di ricostituire il mondo morale, che minacciava rovina, e cercavano riuscirvi richiamando in vita interessi più generali, fini più ideali. La Riforma, iniziata da Martino Lutero in Germania, fece sentire il suo benefico effetto anche sul Cattolicesimo, trionfante nei paesi latini, obbligandolo a correggersi. Essa, ritenendo che l'uomo, senza un aiuto soprannaturale, sia atto solo al male, riponeva in Dio l'unica speranza di salute. Questa si ottiene dal credente solo in virtù della fede, infusa per grazia divina, non per merito alcuno di buone opere, delle quali l'uomo è per sè medesimo affatto incapace, essendo esse conseguenza necessaria, esclusiva della grazia e della fede. L'altro grande avvenimento, del quale lungamente s'occupò il Machiavelli, che alle questioni religiose non pensò mai, era la formazione dello Stato moderno. Esso, cominciato assai prima, veniva a ricostituire l'unità sociale, per far trionfare il pubblico bene al disopra del privato egoismo. Credevano allora molti, che questa unità sociale potesse, a cagione dell'umana malvagità, [275] essere attuata solamente con la forza. Non pareva che si potesse svolgere dalle antiche istituzioni, che essa veniva invece a distruggere; non dalla coscienza individuale, corrotta dall'egoismo; nè dalla coscienza nazionale, la quale esisteva allora appena in germe, e doveva invece dal nuovo Stato essere formata. Questa unità sociale, questo Stato apparivano quindi come l'opera personale del sovrano, del tiranno, il quale, credendo di non far trionfare altro che il suo privato interesse, vi riesciva solo facendo trionfare anche il pubblico. Fu una rivoluzione che, iniziata dai Signori e tiranni italiani, venne compiuta in Francia da Luigi XI e da' suoi successori; nella Spagna da Ferdinando ed Isabella; altrove da altri, i quali tutti, calpestando senza scrupoli interessi locali e personali, fondarono colla loro potenza, quella delle nazioni cui dettero unità e forza.

Ora, sebbene il concetto dello Stato nazionale venisse in realtà prodotto da cause che non eran senza relazione con quelle che promovevano la Riforma, e sebbene non fosse ne' suoi effetti in contradizione con essa, giacchè l'uno veniva a scomporre l'unità universale dell'Impero, l'altra, l'unità universale della Chiesa, pure sembrava sorgere in opposizione col pensiero religioso del secolo. Esso era infatti comparso nella letteratura degli eruditi sotto molte forme diverse, ma sempre, fin dai tempi del Petrarca, come il rinascimento d'una idea pagana, l'idea di Roma antica, che si trovava in tutti gli scrittori latini, e si ripresentava risorta, vivente nella sua solenne maestà di Repubblica o d'Impero, ispiratrice perenne di gloria e di libertà politica, sopra tutto d'amore alla patria. E ne seguiva che, mentre la Riforma ridestava lo spirito religioso, di esso i nostri politici a mala pena parlavano di sfuggita; sembravano anzi affatto pagani, risguardando il Cristianesimo qual guida della sola morale privata, via di salute all'individuo nell'altro mondo, non in questo, del quale unicamente s'occupavano; [276] indifferente verso la patria, che essi tenevano, come è di fatto, superiore ad ogni privato interesse.

E se i contemporanei del Machiavelli erano in politica pagani, egli era paganissimo, come trasparisce con grande evidenza in ogni pagina delle sue opere. Ne son prova la sua sconfinata ammirazione per l'antichità; la sua indifferenza religiosa; l'odio al Papato; il modo con cui discorre del Cristianesimo, specialmente quando lo paragona al Paganesimo; il bisogno ch'egli sente continuo di fondare ogni sua dottrina sull'autorità di qualche antico scrittore, su qualche esempio cavato dalla storia greca o romana, e finalmente un linguaggio nel quale si trova come scolpito questo suo proprio modo di sentire. Per citare un solo esempio, la parola virtù significa per lui quasi sempre coraggio, energia, abilmente adoperata così nel bene come nel male ad un fine determinato. Alla virtù cristiana, nel più comune significato, dà piuttosto il nome di bontà,[431] ed ha per essa un'ammirazione assai minore che per la virtù pagana, la quale è sempre apportatrice di gloria, e questa, secondo lui, gli uomini pregiano sopra ogni altra cosa al mondo, perchè essa sola li rende immortali e simili agli Dei. Preferiscono, egli dice, l'infamia [277] all'oblìo, pur che il loro nome venga tramandato ai posteri. A lui era molto piaciuta, e ripeteva con entusiasmo quella frase, con cui Gino Capponi aveva lodato coloro i quali amano «più la patria, che la salute dell'anima,» parole che ebbero allora in Italia grande fortuna. Questo modo di sentire e di esprimersi, cominciato cogli eruditi del secolo XV, fra i quali il Machiavelli era stato educato, doveva molto modificarsi nel secolo XVI, e lo troviamo già in parte modificato nel Guicciardini, sempre più temperato e prudente. Nel Machiavelli invece sopravvive e conserva tutto il suo primo vigore, che apparisce anche maggiore pel singolare contrasto in cui si trova con idee le quali sono un portato della società e cultura cristiana, con alcuni concetti politici suoi propri e più moderni, con la forma stessa del suo scrivere italiano. Quei sentimenti, infatti, ci appariscono assai più tollerabili nella lingua latina degli antichi o anche degli eruditi, che si sforzavano, scrivendo, di ricondursi alla società romana, allontanandosi da quella in mezzo a cui vivevano, alla quale invece il Machiavelli dedicava i suoi continui pensieri, per essa operando e scrivendo.

Nè bisogna dimenticare, se si voglion conoscere tutte le più generali tendenze e qualità del suo spirito, che essendo egli stato per quindici anni segretario della repubblica fiorentina, da lui servita con grandissimo zelo e costanza, era rimasto sempre più fermo in quella fede repubblicana, che la grande ammirazione per gli scrittori greci e romani, gli aveva sin dall'infanzia ispirato. Anche nelle lettere che scriveva al Vettori, per essere adoperato dal Papa o dai Medici, noi lo abbiam visto, quando appena s'accennava per caso agli Svizzeri, non potere nè volere contenere il suo grande entusiasmo per quel popolo armato, che nella purità e modestia de' suoi costumi, si godeva una sicura libertà. Il suo primo e supremo ideale era sempre Roma repubblicana, al di sopra della quale nulla sapeva immaginare di più grande, di [278] più glorioso. In che modo tutte queste idee, tendenze e sentimenti diversi si coordinassero nel suo spirito, nelle sue opere; fino a che punto riuscissero a formare un sol corpo di dottrine, è quello che dovremo vedere in appresso. Ci resta però ancora un'altra grave questione preliminare da prendere in esame.

Vi furono scrittori, i quali vollero nei Discorsi del Machiavelli, ma più specialmente nel Principe, vedere una imitazione della Politica di Aristotele. I tentativi fatti per dimostrare la verità di questa asserzione, riuscirono di certo, come era del resto naturale, a provare che molte idee, molte espressioni erano da Aristotele e da altri autori greci o romani trapassate nelle opere del Machiavelli. L'antichità era allora nell'aria stessa che si respirava. Non solamente tutti leggevano i classici latini,[432] molte e molto diffuse erano le traduzioni degli scrittori greci, molte le compilazioni in cui si trovavano raccolti brani degli uni e degli altri; ma spesso le epistole, le orazioni degli eruditi non erano altro che centoni d'antichi storici, filosofi o poeti sopra un soggetto determinato. Facile assai riusciva quindi il ripetere idee o frasi di classici, che non s'erano neppur letti, o solo a brani.[433] Ma [279] non bisogna dimenticare che, coi rottami dell'antichità, il Rinascimento italiano costruiva un mondo nuovo. E però, anche quando troviamo tracce dell'antico in ogni pietra dell'edifizio che noi andiamo esaminando, esso può essere affatto moderno, animato cioè da un concetto, da uno spirito, che ha la sua vera sorgente non in Grecia nè in Roma, ma nell'Italia dei secoli XV e XVI. Fu perciò assai giustamente osservato dal Ranke,[434] che se importa ricercar nelle opere del Machiavelli le tracce dell'antichità classica, importa molto più il ricercare quello che v'ha in esse di nuovo ed originale. Continuamente infatti egli, per dare autorità ad una osservazione sua propria, ispirata da avvenimenti contemporanei, la poggia sopra citazioni di antichi autori o sopra esempi cavati dalla storia greca e romana. Spesso ancora piglia un'antica dottrina, e senza quasi avvedersene, la trasforma in una affatto nuova. E ciò spiega come sia avvenuto [280] che su questo argomento le opinioni dei critici differiscano a segno tale, che mentre alcuni vorrebbero nel Principe trovar quasi una continua imitazione della Politica d'Aristotele, altri invece sostengono che egli allora non poteva averla neppur letta.[435] Ma su di ciò noi avremo occasione di tornare. Per ora importa sopra tutto osservare che, guardando alla sostanza delle cose, dobbiamo subito accorgerci che il concetto dello Stato, [281] quale lo troviamo nell'opere del Machiavelli, è evidentemente ispirato dai bisogni del suo tempo e dalla storia romana, non dalla greca, nè da Aristotele.

Per i Greci lo Stato abbracciava la società intera, tutta quanta l'attività individuale, e la Politica di Aristotele, che è certo uno dei più grandi monumenti della sapienza umana, tanto grande infatti che da essa bisogna arrivare sino al Machiavelli, per poter dare un altro passo innanzi, ci parla non solo di governi, ma d'istruzione, di educazione, di musica, ginnastica, poesia, religione, arte militare, economia politica, di tutta quanta l'umana attività. L'individuo secondo lui esisteva pel governo; ma questo doveva renderlo migliore in tutto, e quindi circondarlo da ogni lato.[436] I Romani, invece, sebbene nella scienza politica ripetessero le idee dei Greci, determinando poi nella pratica il concetto del diritto, che distinsero dalla morale, resero lo Stato anche più forte di fronte all'individuo, ma ne limitarono e circoscrissero i confini. Esso aumentò così la sua forza, divenendo sempre più rigorosamente giuridico e politico.[437] E chi da Aristotele passa al Machiavelli, si trova subito costretto a [282] notare una differenza enorme e sostanziale in questo appunto, che cioè pel secondo non sembra esistere altro che l'idea politica. Egli sacrifica, come gli antichi, l'individuo allo Stato; ma lo Stato è per lui indifferente ad ogni altra attività che non sia politica o militare, ed è occupato solo a mantener sicura la propria esistenza, a crescere la propria forza. Perfino nelle sue Storie, gli uomini del Machiavelli sembrano incapaci d'ogni altra ambizione o passione che non sia politica: di lettere, di arti, di cultura, di religione quasi non si parla. Tutto ciò è in opposizione coll'idea più vasta, più varia, più filosofica della cultura greca, la quale però, in questa sua maggiore larghezza, non riuscì mai a determinare con sicuro criterio i limiti del diritto e dello Stato. Gli eroi del Machiavelli sono quindi sul Campidoglio, la sua patria ideale è sempre Roma.

Sotto un altro aspetto ancora si è tentato collegarlo con Aristotele: il metodo dell'uno e dell'altro, si è detto, è lo stesso. Ed in vero anche qui il genio di Aristotele si dimostra gigante.[438] Egli è senza dubbio il fondatore del metodo induttivo nelle scienze naturali, e del metodo storico nelle scienze politiche. Secondo lui, ciò che i fenomeni della natura sono per le prime, i fatti storici e [283] sociali sono per le seconde. Questo fu anzi uno dei più grandi avvenimenti nella storia del pensiero umano, e forma una delle glorie maggiori, non solo di Aristotele, ma del genio immortale della Grecia. Ma quando si giunge fino a dire, che quella che parve l'opera propria del Rinascimento italiano, era stata già compiuta molti secoli prima dai Greci, allora si cade in manifesto errore. L'osservazione della natura ed il metodo induttivo erano stati trovati da Aristotele; ma questo metodo, risorto e assai più largamente diffuso nel Rinascimento, fu tra di noi, da Leonardo da Vinci a Galileo, sostanzialmente trasformato, e divenne il metodo sperimentale, causa vera dei grandi progressi delle scienze naturali, nelle quali operò una profonda rivoluzione. Esso è affatto moderno, e non si restringe all'osservazione della natura, alla induzione e deduzione, che ne sono invece il punto di partenza e la base, già nota agli antichi. Il suo nuovo e vero carattere sta in ciò, che i resultati dell'osservazione e della induzione sono accertati, riscontrandoli con la natura, la quale viene costretta a rispondere; ed essa, come diceva Aristotele, non mentisce mai. Nè basta. Il fenomeno studiato e spiegato è spesso artificialmente riprodotto, ed anche questa è una riprova affatto ignota agli antichi.

Naturalmente tutto ciò non era possibile nelle scienze politiche, nelle quali si dovette quindi ricorrere al metodo storico. Ma anche qui la differenza tra Aristotele ed il Machiavelli è immensa. Il problema che Aristotele si propone nella Politica è sempre, in sostanza, la ricerca dell'ottimo governo. Egli fa uno studio maraviglioso di tutti i governi della Grecia, per trovarvi come le sparse membra dell'ideale di cui va in traccia,e che vuol ricostruire. Lo Stato deve fondarsi sul diritto e sulla giustizia. Una repubblica, una monarchia realmente esistite, non hanno, secondo lui, un valore diverso da quello di altre, che siano state solo immaginate dai filosofi. Critica infatti nello [284] stesso modo la repubblica di Platone e quella di Sparta.[439] Tutta la differenza sta sempre e solo nell'avvicinarsi o allontanarsi più o meno dal suo ideale. Il valersi della storia per ritrovare e determinare questo ideale, è già un gran passo; ma lo scopo del Machiavelli è un altro. Per lui i governi immaginati dai filosofi non hanno valore alcuno. Se il sovrano riesce con l'inganno ad impadronirsi del potere, ed a spegnere la libertà, questo per Aristotele non è che un fatto; pel Machiavelli diviene invece un precetto a fondare la tirannide. Aristotele cerca in sostanza quali gli uomini ed i governi dovrebbero essere; il Machiavelli dichiara inutile questa ricerca, e vuole indagar solamente quali essi sono e quali in realtà possono essere. La storia antica e la storia contemporanea non sono per lui un semplice sussidio, ma la base unica, quasi la sostanza stessa della sua scienza, che indaga non quello che si dovrebbe fare, ma quello che si fa o che si può fare.

C'è però un aspetto secondo cui il paragone con Aristotele è possibile, senza molto allontanarsi dal vero. Lo Stato greco era in origine immedesimato con la religione, e quindi anche l'esistenza di esso era sacra e divina. Aristotele fu il primo ad esaminarlo come un fatto naturale, dichiarando che l'uomo è un essere essenzialmente politico. In ciò egli si trova pienamente d'accordo col Machiavelli e col Rinascimento italiano, il quale, svincolandosi dalla scuola teologica, cominciò anch'esso a considerare la storia e la società come fatti puramente umani e naturali. Se non che questa rivoluzione ebbe allora a lottare contro difficoltà ignote al mondo antico, in cui lo Stato non trovò contro di sè la forte costituzione della Chiesa universale. Ridurre la religione ad un puro strumento [285] di governo, come assai spesso aveva fatto l'antichità greca e romana, non era facile, quando s'aveva di fronte una Chiesa di cui era forza riconoscere l'indipendenza: in questo caso le conseguenze dovevano di necessità essere assai diverse. Ma anche lasciando da parte un tale aspetto della questione, è certo che la emancipazione della società laica e della ragione fu raggiunta nel Rinascimento italiano, con l'aiuto di tutta quanta l'antichità, e non del solo Aristotele. Egli anzi dovè prima essere combattuto, perchè era stato nel Medio Evo mal compreso, alterato e ridotto a docile strumento della teologia. Quello infatti che venne chiamato il vero Aristotele, restò lungamente assai poco conosciuto; e la Politica, che Palla Strozzi fece venire da Costantinopoli, che Francesco Filelfo dalla medesima città portò in Italia l'anno 1427, cominciò ad esser letta e largamente diffusa nella sua forma genuina, molto più tardi. Infatti la prima traduzione fedele e chiara fu compiuta da Leonardo Bruni d'Arezzo nel 1437, ma venne stampata solo nella seconda metà del secolo. Due edizioni se ne videro tra il 1470 e il 1480, dopo del quale anno molte altre ne vennero alla luce. Allora solamente gl'Italiani si trovarono apparecchiati a comprenderne tutto l'immenso valore, e la lessero perciò con una straordinaria avidità. Nondimeno il concetto politico del Rinascimento era assai diverso, ed aveva un'altra origine.[440]

Ma torniamo ora ai Discorsi. Essi sono divisi in tre libri, il primo dei quali ragiona dei modi con cui si fondano [286] gli Stati, e dell'interno loro ordinamento; il secondo dei modi d'ingrandirli e delle conquiste; il terzo espone considerazioni generali sul loro crescere e decadere, sul modo di trasformarli, sulle congiure, ecc. La distribuzione delle materie nei diversi libri non è sempre fatta con rigore scientifico, anzi di continuo avviene che uno tratti il soggetto proprio d'un altro. Noi invece esamineremo tutta l'opera, seguendo l'ordine logico dei varî argomenti in essa trattati. Lasceremo solo da parte ciò che l'autore dice, specialmente nel secondo libro, sul modo di fare la guerra, perchè questa è materia che egli espone assai più largamente in un trattato speciale, di cui dovremo a suo luogo occuparci.

I Discorsi sono dedicati a Zanobi Buondelmonti ed a Cosimo Rucellai, dei quali il Machiavelli fu intimo, e da essi venne, come vedremo, anche beneficato. «Io vi mando,» egli dice, «il dono che posso farvi maggiore, perchè qui ho raccolto quello che ho imparato da una lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo.»[441] E nel proemio, che vien dopo questa lettera, egli aggiunge che sa bene d'esporsi a molte critiche, per la grande novità dell'impresa cui si accinge; nondimeno, mosso dal desiderio che ha sempre avuto di rendersi utile agli altri, entra senza esitare «nella via da nessun altro percorsa.»[442] Quale è dunque questa via? «In ogni cosa noi vogliamo imitare gli antichi. I nostri giureconsulti imparano a giudicare collo studio delle antiche leggi, altro infatti non essendo la giurisprudenza; e così la medicina non è altro che esperienza fatta dagli antichi, sulla quale i moderni si fondano e la continuano. Pure, nell'ordinare e mantenere le repubbliche, i regni, gli eserciti; nell'arte di accrescere gl'imperi e governare i sudditi, nessuno ricorre all'esempio degli antichi. E questo nasce da mancanza [287] di vera conoscenza della storia, la quale tutti leggono pel solo piacere di udire la varietà dei casi in essa narrati, e non che pensare d'imitarli, credono impossibile ogni imitazione, quasi che il cielo, il sole, gli elementi, gli uomini non fossero sempre gli stessi. E però questi Discorsi sono scritti a dimostrare principalmente l'utilità che si può nell'arte dello Stato cavare dalla storia.»[443] Adunque, sin dal principio, apparisce assai chiaro che si tratta di fondare una nuova scienza politica sulla esperienza delle cose umane e sulla storia.

Il Machiavelli entra subito in materia colla scorta di Tito Livio, e dopo aver parlato dei vari modi di fondare le città, viene a ragionare delle origini e delle forme diverse dei governi. «Gli uomini incominciarono prima a vivere come bruti; pensarono poi a scegliersi un capo per meglio difendersi, ed elessero il più forte. Così sorsero le prime società; cominciò a nascere il sentimento del giusto e dell'onesto; si fecero le prime leggi, e s'imposero pene ai colpevoli. Allora non si scelse il più forte, ma il più savio e prudente, per affidargli il comando, che esso trasmise agli eredi, e si ebbe così la monarchia, che fu la prima forma di governo. Se non che, per la innata inclinazione degli uomini ad abusare di tutto, appena il monarca fu sicuro del potere, si trasformò prima o poi in tiranno. Allora sorsero a difesa propria e del popolo, di cui si fecero capi, gli ottimati, e ne seguì il governo aristocratico, che a sua volta, eccedendo, si trasformò in oligarchico. Si levò finalmente il popolo, e fondò il governo democratico, che, anch'esso, per le medesime ragioni, eccedendo, cadde nella demagogia. Questa rese di nuovo necessario [288] il principato, e l'umana società ripercorse allora da capo la medesima via, rigirandosi in essa all'infinito, quando, come pure avviene, non fu a mezzo del cammino fermata, divenendo preda degli Stati vicini. Ad evitare i pericoli di queste continue mutazioni e rivoluzioni, i prudenti trovarono il governo misto, che partecipa di tutte e tre le forme ad un tempo, giudicandolo più fermo e sicuro, perchè, essendo riuniti il principato, gli ottimati ed il governo popolare, l'uno sta a guardia dell'altro. È ciò che Licurgo fece a Sparta con resultato eccellente. Romolo, invece, fondò una monarchia; ma quello che a Roma non volle fare il legislatore, seguì per forza naturale delle cose e per buona fortuna. L'insolenza dei re fece sorgere il governo dei Consoli e degli ottimati, l'insolenza di questi ultimi fece sorgere il popolo, che, senza abbattere nè i Consoli nè gli ottimati, ebbe parte al potere. E così si formò naturalmente un governo misto, nel quale la forma monarchica, per mezzo dei Consoli, si contemperò con l'aristocrazia e col popolo.»[444]

Questa teoria della successione dei governi e dei loro ricorsi ricorda quella esposta più tardi dal Vico, e potrebbe dar luogo a molte considerazioni, se una sola non dovesse qui prevalere su tutte le altre.[445] Il brano di cui [289] abbiamo dato un sunto, salvo qualche nuovo ma fugace accenno alla storia di Roma, non è altro che una imitazione, e più spesso anche traduzione d'un frammento ben noto del sesto libro delle Storie di Polibio, sebbene il Machiavelli, che così spesso cita tanti altri, non faccia alcuna menzione di questo scrittore, di cui pur tanto si giovò. Noi esponemmo altrove le ragioni, per le quali egli potè conoscerlo solo in qualche versione latina; ma che nel luogo qui sopra citato, più che imitare lo copiasse addirittura, non vi può esser dubbio di sorta[446]. Tutto il secondo capitolo dei Discorsi è infatti uno di quei brani dell'antichità, dei quali egli si valse nel costruire il suo sistema politico. Nè ci fermeremo più oltre su di ciò, perchè la legge storica, che è qui da lui esposta, e par quasi un tentativo di filosofia della storia, può avere qualche originalità solamente nelle applicazioni che ne fa altrove. E quanto all'idea del governo misto, abbiamo già veduto che anch'essa s'era da lungo tempo molto diffusa [290] in Italia, per mezzo dell'antichità, specialmente di Polibio.[447]

Il Machiavelli continua le sue considerazioni sopra Roma. «Di certo,» egli dice, «se i Romani avessero mirato solo ad assicurare la loro interna tranquillità, avrebbero potuto fondare un'aristocrazia, escludendo il popolo dal governo. Ma, oltre al pericolo di sopra accennato, di cadere cioè nell'anarchia, avrebbero reso impossibili le loro conquiste, per le quali era necessario dare le armi al popolo, il quale, una volta armato, non si può escludere. Così essi arrivarono al governo misto, passando attraverso le guerre civili.[448] Appena infatti che furono morti i Tarquinî, i nobili cominciarono a sputare veleno contro il popolo, e sarebbero andati più oltre, se non li fermavano la violenza dei tumulti e le nuove leggi, perchè gli uomini non fanno mai nulla bene, se non per necessità. E però si dice che la fame e la povertà li rendono industriosi, e le leggi li rendono buoni. Dove infatti una cosa opera bene per sè, non occorre la legge, la quale invece è necessaria dove manca la buona consuetudine.[449]

La triste natura degli uomini rende ad un tempo necessaria e difficile, ma appunto perciò più degna di gloria, l'impresa di colui che si accinge a fondare uno Stato, istituzione trovata per rendere migliori gli uomini. Questa è l'opera del genio politico, del savio ordinatore e datore di leggi, il quale deve aver per fine il bene generale, non il suo proprio, e quindi, senza alcuno scrupolo o pietà, rimuovere ogni ostacolo che incontri per via. «Molti giudicheranno di pessimo esempio, che il fondatore [291] d'un vivere civile quale fu Romolo, ammazzasse prima il proprio fratello e poi consentisse alla morte di Tito Tazio Sabino, che si era scelto a compagno.» «La quale opinione sarebbe vera, quando non si considerasse qual fine l'avesse indotto a fare tale omicidio.» «E debbesi pigliare per una regola generale, che a fondare e riordinare uno Stato bisogna esser solo; tutto deve esser l'opera e la creazione d'una mente ordinatrice, senza di che non si avrà mai vera unità, nè si fonderà nulla di stabile. Però un prudente ordinatore, che voglia giovare non a sè o alla sua successione, ma alla patria ed al bene comune, deve ingegnarsi di aver esso solo l'autorità; nè sarà mai dai savi ripreso d'alcuna azione straordinaria, fatta per ordinare un regno o fondare una repubblica.» «Converrà bene che, accusandolo il fatto, l'effetto lo scusi, e quando sia buono come quello di Romolo, sempre lo scuserà; perchè colui che è violento per guastare, non quello che è per racconciare, si debbe riprendere.» «Fondato poi che sarà lo Stato, bisogna affidarlo alla cura ed alla guardia di molti, per mantenerlo lungamente in vita; giacchè se un solo è necessario a fondarlo, occorrono gl'interessi e le volontà riunite di molti a conservarlo. E questo fece Romolo, il quale lo affidò alle cure del Senato, dimostrando così col fatto, che non era stato mosso da ambizione di potere. E veramente se in sul principio egli non fosse stato solo, gli sarebbe seguìto come ad Agide, che, volendo ricondurre gli Spartani alle leggi di Licurgo, fu invece ammazzato dagli Efori. Più accorto di lui fu Cleomene, il quale, avendo capito che bisognava esser solo, presa occasione conveniente, fece ammazzare tutti gli Efori, dopo di che potè rimettere in vigore le leggi di Licurgo; e sarebbe riuscito a mantenerle, se non era la potenza dei Macedoni, e la debolezza delle altre repubbliche greche.»[450]

[292]

Qui noi vediamo già apparire la ben nota immagine del Principe. E sebbene la sua fisonomia sia in verità tutta propria del Rinascimento, pure esso incomincia a farsi strada, direi quasi violentemente, attraverso le prime considerazioni sulle origini di Roma. Si vede perciò quanto è falsa l'opinione di coloro, i quali sostennero che solo nel libro del Principe si trovino esposte e difese certe massime contrarie ad ogni umanità, ad ogni principio di morale cristiana, e che di ciò non vi sia traccia nei Discorsi.[451] È chiaro invece, che sin dai primi capitoli di essi, l'autore non solo assolve, ma loda Romolo d'avere, per più sicuramente fondare lo Stato, ucciso il proprio fratello, e lasciato uccidere il compagno di sua elezione; loda Cleomene d'avere, pigliando conveniente occasione, fatto ammazzare gli Efori. Avrebbe anzi biasimato l'uno e l'altro, se così non avessero operato. E proclama altamente e chiaramente anche l'altra dottrina, tanto combattuta come propria del Principe, che cioè il fine giustifica i mezzi. I savi, egli dice, scuseranno Romolo d'ogni più malvagia azione, pel fine che ebbe e per l'effetto che ottenne. E perchè Romolo rassomigli in tutto al suo Principe, il Machiavelli ci fa osservare che, dopo essersi crudelmente insanguinato, per fondare lo Stato, egli in fine si redime, affidandone la cura al Senato, che seppe assicurarne la prosperità.

Ma, a proposito di storia romana, dobbiamo osservare, una volta per sempre, che il Machiavelli la prende quale la trova in Livio, senza nessuna critica sua personale, senza nessun nuovo esame dei fatti che ivi sono narrati. [293] Accetta anzi, e senza far tra di essi distinzione di sorta, così i fatti storici come le tradizioni leggendarie, massime intorno alle origini di Roma. Sulla lotta dei partiti, sulle cause di alcune riforme politiche espone di certo osservazioni profonde ed originali; ma non è men vero, nè sarebbe stato allora possibile fare altrimenti, che spesso ancora fonda le sue teorie sopra presunti fatti di storia romana o greca, che mai non avvennero, o avvennero in modo assai diverso da quel che egli poteva allora supporre.[452] Questo però non toglie (come potrebbe sembrare) a quelle sue teorie il loro fondamento, perchè esse, massime le più importanti, non sono fondate sopra un solo fatto; ma, più volte e in diversi modi esposte, vengono dimostrate con molti esempi tratti così della storia antica come della moderna, spesso anche dalla esperienza sua personale. Qualche volta piglia addirittura le favole mitologiche, come quella, per esempio, di Achille educato dal centauro Chirone, per dare autorità ad una sua propria sentenza, giacchè nella favola, egli dice, noi troviamo ciò che vollero significare quelli che la inventarono. [294] E se un fondamento di verità si trova per lui nella favola, non potrà certo esservene meno nelle primitive tradizioni dei popoli. Quanto poi alla sua teoria prediletta, che abbiamo visto già fondata sulla vita di Romolo, di cui tanto poco sappiamo di certo, è una di quelle appunto che trovansi più spesso ripetute dal Machiavelli, che la poggia sopra tradizioni e sopra fatti storici diversissimi.

Nè solamente i fondatori dei regni o delle repubbliche; ma, per le medesime ragioni, debbono, egli dice, essere soli anche i fondatori delle religioni, che sono destinate del pari a frenare le malvage passioni degli uomini, a mantenere in vigore le buone leggi. «Il popolo romano fu assai fortunato nell'avere avuto, dopo un re legislatore e guerriero come Romolo, un re come Numa, il quale fondò la religione, necessaria sempre a tener salda una società, massime in un popolo feroce come erano allora i Romani. E per guadagnare maggiore autorità, egli simulò d'avere congresso con una ninfa, mezzo a cui Romolo non dovette ricorrere, ma del quale hanno fatto uso altri datori di leggi, e molto più i fondatori delle religioni, per essere meglio creduti dal popolo. La religione dei Romani fu causa precipua della loro grandezza, perchè fece osservare le leggi e mantenere i buoni costumi. Il savio politico rispetterà sempre la religione, quando anche non vi creda, perchè più volte s'è visto che inculcandola, sia pure con astuzia, se n'è ottenuto valorosa difesa della patria.[453] Il console Papirio, volendo attaccare la giornata coi Sanniti, ordinò gli auspicî, ed il capo dei Pollarî, vedendo l'esercito pronto alla zuffa, disse che i polli avevano beccato, sebbene ciò non fosse vero, come poi si seppe. Nondimeno il Console attaccò la giornata, dicendo che se v'era bugìa, sarebbe stata punita dagli Dei, e fece intanto mettere i Pollarî nella fronte dell'esercito. Così, [295] quando il loro capo fu ferito e morto, egli esclamò subito, che tutto andava bene, perchè la punizione era venuta. Sempre i Romani, o con fede o con astuzia, fecero rispettar la religione, e se ne trovarono bene.»[454] Ed anche questo concetto della religione, adoperata come mezzo di governo, assai diffuso nel secolo XV, e parte integrante nella dottrina del Machiavelli, trova un singolare riscontro nei Frammenti del VI libro di Polibio.

Invece sono affatto sue proprie le osservazioni che fa sul Cristianesimo e sulla Chiesa romana. «Se la religione cristiana si fosse mantenuta quale venne istituita dal suo fondatore, le cose sarebbero procedute altrimenti, e più felici assai sarebbero stati gli uomini. Ma quanto essa siasi invece alterata e corrotta può vedersi da questo, che i popoli i quali si trovano più vicini a Roma, sono quelli appunto che meno ci credono. E chi considerasse che uso fa della religione la Chiesa romana, e quali sono i suoi costumi, dovrebbe giudicare vicina la rovina ed il flagello. Tuttavia perchè vi sono alcuni, i quali credono [296] che il benessere d'Italia dipenda dalla Chiesa di Roma, voglio addurre contro di essa due ragioni principalissime.» «La prima è che per gli esempî rei di quella Corte, questa provincia ha perduto ogni divozione ed ogni religione.... Abbiamo, dunque, con la Chiesa e coi preti, noi Italiani questo primo obbligo d'esser diventati senza religione e cattivi; ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa nostra provincia divisa. E veramente alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d'una repubblica o d'un principe, come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna.» «Solo la Chiesa ha impedito siffatta unione in Italia, perchè avendoci abitato e tenuto il potere temporale, non è stata abbastanza forte per occuparla tutta, nè abbastanza debole da non potere, per paura di perdere il dominio temporale, chiamare in Italia un nuovo potente che la difendesse contro chi minacciava occuparla. Così essa è stata la vera cagione, per la quale l'Italia non si è mai potuta riunire sotto un capo, ma è restata sotto più principi e signori, dal che ne è nata tanta debolezza, che si è condotta ad essere preda del primo che l'assalta. E di ciò noi Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa e non con altri. Chi volesse poi vedere di che cosa essa è veramente capace, dovrebbe portarla fra gli Svizzeri, i soli che vivono ancora come gli antichi; e vedrebbe che in poco tempo farebbero più disordine i costumi tristi di quella Corte, che ogni altro accidente che potesse seguire.»[455]

Che negli scritti del Machiavelli si veda per la prima volta chiarissima la necessità di riunire l'Italia, e sia con una profondità maravigliosa d'osservazione da lui notato il grande ostacolo, che la Chiesa ed il suo potere temporale vi avevano sempre posto e vi ponevano, è stato già [297] da molti riconosciuto. La sua acrimonia contro i Papi fu sempre grandissima, appunto perchè, occupato com'era sopra ogni cosa del pensiero di costituire l'unità dello Stato, scopo supremo della politica e della società al suo tempo, egli avrebbe voluto distruggere o remuovere tutto ciò che vi si opponeva. E però sentiva un grandissimo disprezzo per quelle istituzioni medievali, che avevano rotto o impedito l'unità sociale, massime quando al suo tempo ritenevano ancora forza sufficiente per resistere. Infatti non si fermò mai dal biasimare le compagnie di ventura, e ciò non solo perchè avevano corrotto l'arte della guerra, impedendo la formazione degli eserciti nazionali; ma anche perchè formavano come un potere indipendente dentro lo Stato o di fronte ad esso. Voleva estirpare il feudalismo, perchè rendeva impossibile la civile uguaglianza, secondo lui e secondo le tradizioni fiorentine, necessaria alle repubbliche, e perchè nella monarchia s'opponeva alla forza ed alla unità del potere regio. Delle associazioni di arti e mestieri, che avevano diviso e suddiviso la società medievale, taceva come se non esistessero, avendo esse al suo tempo perduto l'antico vigore. Più grande che mai doveva essere ed era la sua avversione alla Chiesa, che col suo potere temporale aveva formato uno Stato, il quale a lui pareva contrario ad ogni principio di buon governo; ed aiutata dall'autorità religiosa, seminava disordine e confusione per tutto, impediva in Italia, e rendeva assai difficile in Europa la costituzione delle nazionalità.

A ciò s'aggiungeva quello che può veramente chiamarsi lo spirito pagano del Machiavelli, che lo rendeva poco ammiratore, se non addirittura avverso alla religione cristiana, non per sè medesima, ma per tutto ciò che si riferisce all'azione politica e sociale di essa. Indagando, infatti, come mai nell'antichità vi fosse stato un così gran numero di popoli liberi, tanta maggiore libertà che ai suoi tempi, egli credeva di trovarne la causa nella diversità che corre fra la religione pagana e la cristiana. [298] «Questa ci fa poco stimare l'amore del mondo, e ci rende perciò più miti. Gli antichi invece ponevano in esso il sommo bene, ed erano nelle loro azioni e nei loro sacrifizi più feroci. La religione antica beatificava solo gli uomini pieni di mondana gloria, come capitani di eserciti, fondatori di repubbliche; la nostra invece ha glorificato sempre più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi. Essa ha posto il sommo bene nella umiltà e nell'abiezione, nel disprezzo delle cose mondane, quando l'altra lo poneva nella grandezza d'animo, nella forza del corpo, ed in ciò che rende audaci gli uomini. La nostra li vuol forti nel patire più che nel fare una cosa forte. Così il mondo è venuto in preda agli scellerati, che han trovato gli uomini disposti, per andare in Paradiso, più a sopportare le battiture che a vendicarle. Ma,» e qui egli cerca temperare alquanto il suo giudizio troppo assoluto, «se così si è effeminato il mondo e disarmato il cielo, ciò dipende più dalla viltà di coloro che hanno interpetrato la religione, che da essa, la quale in sostanza vuole la difesa della patria, il che porterebbe a rendersi capaci di difenderla.»[456] In generale però il difetto del Machiavelli non era mai quello di temperare e raddolcir troppo i suoi giudizî, che anzi soleva andar sempre diritto, inesorabile al fine propostosi. Nella lotta fra la Chiesa e lo Stato, egli si schierò senza punto esitare in [299] favore di questo. E quando alla sua mente si presentava il conflitto tra le necessità politiche e la morale privata e cristiana, egli non diceva come il Guicciardini, che bisognava parlarne a bassa voce e fra amici, per non scandalizzare; ma scriveva invece parole come queste: «Dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione nè di giusto, nè d'ingiusto, nè di pietoso, nè di crudele, nè di laudabile, nè d'ignominioso; anzi posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che gli salvi la vita e mantengale la libertà.»[457]

Supporre che il Machiavelli sia nemico o indifferente alla virtù, alla libertà, lo abbiamo già notato, è un errore grandissimo. Nessuno anzi le esalta con più ardore di lui; ma al di sopra di tutto egli pone la virtù pubblica, la sola di cui si occupi di continuo; ad essa sottomette ed, occorrendo, sacrifica la privata. Più e più volte ripete che vanno lodati prima i fondatori di religioni, poi quelli di regni o di repubbliche, poi i capitani, finalmente gli scrittori. Diverso anche in ciò da tutti gli eruditi, e più di loro fedele non solo all'antichità, ma alla verità, pone sempre l'operare al di sopra del pensare e del dire. «Sono invece,» egli prosegue, «infami e detestabili i distruttori di religioni, di regni, di repubbliche; i nemici delle virtù, delle lettere e di ciò che reca utile a tutti. Nè vi sarà mai alcuno che, postagli la scelta delle due qualità di uomini, non lodi i primi e non biasimi i secondi. Pure molti preferiscono nel fatto essere tiranni, piuttosto che legislatori e fondatori di repubbliche o di regni, ingannati da false apparenze e da male intesa avidità di comando. Altrimenti capirebbero che gli Agesilai ed i Timoleoni non ebbero meno potere dei Dionisî e dei Falaridi, ma furono più [300] grandi ed onorati. Nè vi sia alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare, sentendolo lodare dagli scrittori che non potevano biasimarlo;[458] legga invece come essi esaltano Bruto. Pongasi innanzi i tempi di Tito, Nerva, Traiano, e conferiscali con quelli in cui governavano imperatori tristi. Da una parte vedrà sicuri i cittadini, autorevoli i magistrati; la pace, la giustizia, la virtù esaltate; ogni rancore, licenza e corruzione spenti; vedrà i tempi aurei, dove ciascuno può tenere e difendere quella opinione che vuole. E se considera dall'altro lato i tempi governati dagl'imperatori tristi, li vedrà crudeli, discordi e sediziosi.» «Vedrà Roma arsa, il Campidoglio dai suoi cittadini disfatto, desolati gli antichi templi, corrotte le cerimonie, ripiene le città di adulterii; vedrà il mare pieno di esilî, gli scogli pieni di sangue. Vedrà in Roma seguire innumerabili crudeltadi, e la nobiltà, le ricchezze, gli onori e sopra tutto la virtù essere imputata a peccato capitale.... E senza dubbio, se e' sarà nato d'uomo, si sbigottirà d'ogni imitazione de' tempi cattivi, e accenderassi d'uno immenso desiderio di seguire i buoni. E veramente, cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto come Cesare, ma per riordinarla come Romolo.»[459] — Quel Romolo che aveva fatto bene ad ammazzare il fratello Remo, ed a lasciare ammazzare il suo compagno Tizio Tazio Sabino!

Il Machiavelli, procedendo per la sua via si trova qui costretto ad entrare in un nuovo ordine d'idee. Finora ha ragionato, egli dice, supponendo sempre uomini che non sieno interamente corrotti. Quando però la corruzione [301] diviene generale, come era allora in Italia, le difficoltà da superare sono assai maggiori, occorrendo esaminare la infinita varietà delle condizioni, in cui i popoli e gli Stati si possono in questi casi trovare, e le diverse norme da seguire nel volerli guidare e governare. Ma a risolvere siffatto problema, sembrava opporsi un concetto, assai diffuso ai tempi del Machiavelli e comune anche all'antichità, del quale egli fece una teorìa fondamentale, che non abbandonò mai, anzi prese addirittura come punto di partenza per le sue ricerche. Gli uomini, esso dice, sono in sostanza sempre gli stessi, e i medesimi accidenti si ripetono perciò di continuo.[460] Questa è la ragione per la quale è possibile, con l'esame della storia, trovare nel passato la guida o la norma per il presente e per l'avvenire.[461] Ciò egli afferma nei Discorsi; ripete nel Principe, nelle commedie, nelle poesie,[462] in tutti i suoi scritti. Ma come dunque si spiega allora la continua varietà delle vicende nella storia e nelle società umane? Non vediamo noi, che gli uomini lodan sempre il passato al disopra del presente, il che prova dicerto che essi vedono tra l'uno e l'altro grande differenza? Veramente, risponde il Machiavelli, assai spesso si loda il passato, perchè non desta invidia, ed anche perchè lo troviamo esaltato dai grandi scrittori dell'antichità. «È certo però che le cose umane sono in continuo moto, e che o le salgono o le scendono; onde chi vive quando discendono, ha ben ragione di lodare il passato. Io credo che il mondo sia stato sempre ad un modo, e che abbia sempre avuto tanto di buono, quanto [302] di tristo, ma distribuito diversamente secondo i tempi.[463] La virtù passò dall'Assiria nella Media, di qui andò a Roma, e dopo la caduta dell'Impero non è rimasta più concentrata in un sol paese, ma si è diffusa in varî: nei Franchi, nei Turchi, oggi nella Magna, e prima in quella setta saracina che fece sì gran cose, e distrusse l'Impero orientale.[464] Onde ne segue, che chi è nato in Grecia o in Italia deve lodare il passato e biasimare i tempi presenti, nei quali non è cosa alcuna che li ricomperi d'ogni estrema miseria, infamia e vituperio; dove non è osservanza di religione, non di leggi, non di milizia. La cosa è più chiara che il sole; e io dirò manifestamente quello che ne intendo, acciocchè gli animi dei giovani possano fuggire questi tempi, e prepararsi ad imitare gli antichi, perchè gli è ufficio d'uomo buono quel bene che, per la malignità de' tempi e della fortuna, tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri.»[465] E così egli spiega la immutabilità dell'umana natura, il continuo ripetersi della storia, e la continua mutazione delle umane vicende.

Di qui poi nasce la necessità, che vedemmo osservata anche dal Guicciardini, di adattare ai tempi in cui si vive, i mezzi e l'ingegno proprio, altrimenti si va incontro a sicura rovina. «Manlio Capitolino, che pure aveva tanti meriti verso la patria, appena che si lasciò tirare dall'ambizione, ebbe tutti contro di sè, e dovette rovinare, perchè non s'avvide che i tempi erano per la libertà, essendo buoni i costumi e la repubblica bene costituita. [303] E però Tito Livio dice: Hunc exitum habuit vir, nisi in libera civitate natus esset, memorabilis. Egli sarebbe stato di certo non solo un uomo fortunato, ma raro e memorabile, se fosse nato in una città corrotta, come era Roma ai tempi di Mario e di Silla; e questi invece sarebbero rovinati subito, se fossero nati al suo tempo. Il sapersi, adunque, adattare alle condizioni diverse dei tempi e dei luoghi è necessario, perchè un uomo solo non riuscirà mai a mutare la natura di un popolo.[466] Siccome però egli non può neppure aver la forza di mutare sè stesso, così ne segue che la fortuna ha un grandissimo potere nelle cose umane, facendoti nascere in tempi adatti o contrarî alle tue qualità. Fabio Massimo, per natura temporeggiatore, fu fortunato nel trovarsi a comandare quando i Romani erano esausti, e quindi incapaci di risoluzioni ardite e pronte. Invece egli si oppose a torto, quando più tardi Scipione voleva andare in Africa, perchè allora erano mutati i tempi, non la sua indole; laonde se fosse dipeso da lui, Annibale starebbe ancora in Italia. Ma gli uomini sono così fatti che quando riuscirono per una certa via nei loro fini, non sanno persuadersi che, mutati i tempi, si possa riuscire, mutando i modi, e che le antiche vie non giovano più. Certo se sapessero adattarsi, variando a tempo, potrebbero anche riuscir sempre nelle loro imprese; ma non sapendo, o non volendo, ne aumenta sempre più il potere inevitabile della fortuna.[467] E contro questo suo potere è inutile ribellarsi, perchè tutte le istorie provano chiaro che gli uomini possono secondarla, ma non opporsi ad essa; possono tessere gli orditi suoi, ma non romperli. Debbono tuttavia non abbandonarsi mai, perchè, non conoscendosi il suo fine, e percorrendo essa [304] vie traverse ed ignote, hanno sempre da sperare in qualunque travaglio si trovino.»[468]

Queste idee portano finalmente il Machiavelli ad esaminare quale deve essere la condotta dell'uomo di Stato, quali mezzi deve adoperare, quando si trovi a governare un popolo universalmente corrotto, e massime se si tratti di mutare sostanzialmente la forma di governo, dalla tirannide passando alla libertà o viceversa. I mezzi da adoperare in simili casi debbono di necessità essere violenti. «Un popolo uso a vivere sotto la tirannide, con difficoltà grandissima si riduce a vivere in libertà, perchè esso è come un animale bruto e feroce, nutrito sempre in carcere; e il nuovo governo libero avrà nemici tutti i partigiani della tirannide.» «Non ci è allora più potente rimedio, nè più valido, nè più sano, nè più necessario, che ammazzare i figliuoli di Bruto.»[469] Per queste medesime ragioni «un principe che prenda nelle sue mani il governo, deve fondarsi sul popolo, senza il favore del quale non si potrà mai reggere a lungo. Quanto però agli ambiziosi che voglion comandare, egli deve o subito contentarli o spegnerli, come fece Clearco tiranno di Eraclea, il quale, messo tra il malumore del popolo e quello dei grandi odiati dal popolo, ammazzando questi, contentò quello.[470] Ed è una regola generale, che chi piglia la tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa uno Stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto, si mantiene poco tempo, come avvenne a Piero Soderini che rovinò, perchè credette colla pazienza vincere i figli di Bruto.[471] Ma, anche ammazzati che sieno i figli di Bruto, un popolo [305] usato a vivere in servitù non diviene per questo libero, se già non vi sia un uomo che lo mantenga tale, il che durerà solo finchè egli è vivo. Dove la materia non è corrotta, non nuocciono i tumulti; dove è corrotta, non giovano le buone leggi, se non sorge uno che con forza estrema le faccia osservare tanto, che gli uomini diventino buoni, il che non so se sia mai intervenuto, e se è possibile che intervenga.»[472]

«Discorrere questi casi poco probabili,» dice il Machiavelli, «può parere superfluo; pure, dovendosi d'ogni cosa ragionare, presupporrò una città corrottissima, donde verrò ad accrescere più tali difficoltà, perchè non si trovano nè leggi nè ordini che bastino a frenare una universale corruzione. Infatti, come i buoni costumi per mantenersi hanno bisogno delle leggi, così queste per essere osservate hanno bisogno di quelli. E se le leggi si possono mutare con facilità, non così gli ordini politici, e molto meno i costumi e l'ordinamento sociale di un popolo. La libertà suppone sempre uguaglianza, ed il principato, invece, disuguaglianza. Come dunque si potrebbe, per esempio, fondare la libertà in Milano o Napoli, dove manca ogni uguaglianza di cittadini; chi potrebbe sperar mai di mutar facilmente con le leggi un tale ordine di cose? A fare una lenta mutazione occorrerebbe un savio, che vedesse le cose assai di lontano; ma questi son sempre pochi, e non trovano quasi mai favore nella moltitudine. Per mutar le cose ad un tratto, bisognerebbe ricorrere alle armi, alla violenza, e innanzi tutto farsi principe della città, per disporne poi a suo modo.» «E perchè il riordinare una città al vivere politico presuppone un uomo buono, e il diventare per violenza principe di una repubblica presuppone un uomo cattivo, per questo si troverà che radissime volte accaggia, [306] che un uomo buono voglia diventare principe per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono, e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene, e che gli caggia mai nell'animo usare quella autorità bene, che egli ha male acquistata. Da tutte le soprascritte cose nasce la difficoltà o impossibilità, che è nelle città corrotte, a mantenervi una repubblica o a crearvela di nuovo. E quando pure la vi si avesse a creare o mantenere, sarebbe necessario ridurla più verso lo stato regio, che verso lo stato popolare; acciocchè quelli uomini i quali dalle leggi, per la loro insolenza, non possono essere corretti, fussero da una potestà quasi regia in qualche modo frenati.»[473]

«Da queste considerazioni generali passando ad esaminare le condizioni in cui trovasi l'Italia, si vedrà chiaro che in essa, a causa della sua corruzione, c'è poco o nulla da sperare, salvo la forza e la violenza di qualche uomo grande, che sappia e voglia renderla migliore. In Italia tutto è corrotto, come in parte sono corrotte la Spagna e la Francia; ma in queste due nazioni le cose vanno meglio assai, perchè vi sono già regni ordinati. Nella Germania invece sono repubbliche ben governate, e costumi incorrotti che fanno andar bene le cose.» E qui il Machiavelli s'esalta a farci di nuovo una pittura ideale delle repubbliche armate della Germania e della Svizzera, «dove la libertà è grande ed i costumi sono aurei. La quale bontà,» egli dice, «è tanto più da ammirare in questi tempi, quanto è più rara; anzi è rimasta solo in quella provincia, perchè essa non ha avuto molto commercio coi vicini, e così potè mantenersi semplice nel vivere, e non lasciò entrare fra i suoi abitanti i costumi francesi, spagnuoli e italiani, le quali nazioni tutte insieme sono la corruttela del mondo. Nelle repubbliche tedesche si ha inoltre il vantaggio grandissimo, che i nobili vengono [307] cacciati o spenti, e così è mantenuta quella uguaglianza civile che è base necessaria della libertà.»

«Di questi nobili,» prosegue il Machiavelli, «sono piene Napoli, Roma, la Romagna e la Lombardia; onde nasce che ivi non è mai stata alcuna vera repubblica, nè alcun vivere politico; perchè tali generazioni d'uomini sono al tutto nemiche d'ogni civiltà; ed a volerle riordinare, se alcuno ne fosse arbitro, non avrebbe altra via che farvi un regno, perchè solo la forza della mano regia, ed una potenza assoluta ed eccessiva possono metter freno alla eccessiva ambizione e corruttela dei potenti. In Toscana, invece, si hanno le repubbliche di Firenze, Siena e Lucca, e si vede che le altre città, se non l'hanno, vorrebbero avere la libertà. E tutto questo segue perchè non vi sono in esse signori di castella, ma tanta eguaglianza, che facilmente un uomo prudente e che delle antiche civiltà avesse cognizione, v'introdurrebbe un vivere libero. L'infortunio loro è stato però così grande, che insino a questi ultimi tempi non è sorto alcuno che abbia voluto o saputo farlo.»[474]

Si potrebbe addurre in contrario, continua il Machiavelli, l'esempio di Venezia, dove solo i gentiluomini hanno autorità; ma essi sono nobili solo di nome, perchè le loro ricchezze sono nella mercatanzia, e non hanno nè grandi possessi immobili, nè castelli, nè giurisdizione sugli uomini. E così la conclusione è sempre, che la libertà si fonda sulla civile uguaglianza, e che il feudalismo è assolutamente contrario ad ogni vera forma repubblicana. Dove esso esiste o bisogna istituire una monarchia, o addirittura soffocarlo nel sangue, ed estirparlo prima di potervi ordinare una repubblica. L'Italia si trovava allora in condizioni diversissime nelle sue varie provincie, alcune essendo adatte solo a formare un regno, altre solo una repubblica. E siccome senza riunirla, essa [308] non avrebbe mai potuto formare uno Stato forte e felice, così queste sue condizioni erano quasi disperate, riuscendo difficilissimo del pari il fondarvi per tutto una repubblica o una monarchia.

Chi vuole riformare uno Stato, sia con una repubblica, sia con un regno libero, deve, secondo il Machiavelli, conservare in esse almeno l'ombra dei modi antichi, tanto che nulla appaia mutato.[475] Chi invece vuol fondarvi un regno dispotico, deve tutto mutare: nuove leggi, nuovi modi, nuovi uomini; fare ricchi i poveri; edificare città nuove; disfare le vecchie, perchè tutto sia riconosciuto dal principe. Bisogna fare come Filippo di Macedonia, del quale si dice, «che tramutava gli uomini di provincia in provincia, come i mandriani tramutano le mandrie loro. Sono questi modi crudelissimi e nimici d'ogni vivere non solamente cristiano, ma umano, e debbegli qualunque uomo fuggire, e vivere piuttosto privato che re con tanta rovina degli uomini.» «Ma chi non vuol seguire la via del bene, deve, per mantenersi, entrare nel male, e non pigliar mai quelle vie del mezzo, che senza renderti buono, non sono utili nè a te nè agli altri.»[476]

Il Machiavelli combatteva con molta insistenza queste vie di mezzo, le quali esso diceva che gli uomini del suo tempo seguivano, incerti sempre fra i precetti della morale cristiana e le necessità della politica, senza obbedire del tutto nè all'una, nè all'altra. «I Romani le fuggirono come perniciosissime, perchè un governo altro non è che un tenere i sudditi in guisa che non ti possano offendere; e quindi bisogna o beneficarli in modo che ti siano amici, o assicurartene in modo che sia loro impossibile il nuocerti.[477] A governare adunque una città [309] sottomessa e divisa non ci sono che tre modi: ammazzare i capi dei tumulti, rimuoverli, o costringerli a fare la pace. L'ultimo modo è il più pericoloso, il primo è il più sicuro. Ma perchè siffatte esecuzioni hanno in sè il grande ed il generoso, una repubblica debole non le sa fare, e ne è tanto discosta, che a fatica la si conduce al rimedio secondo. Questi sono gli errori in cui cadono sempre i principi dei nostri tempi, per la debolezza dei presenti uomini, causata dalla fiacca educazione loro, e dalla poca notizia che hanno delle storie, il che fa giudicare i modi antichi parte inumani e parte impossibili. Essi hanno certe loro moderne opinioni assai discoste dal vero, come quella dei savî della nostra città, i quali dicevano: Che bisognava tener Pistoia con le parti e Pisa con le fortezze. Non si avvedevano che le fortezze non giovano, e che il governare con le parti è sempre pericoloso. Infatti, se con tali modi governa un principe, avrà sempre nemica una parte, la quale cercherà aiuto di fuori; e così, alla prima occasione, egli troverà nemici nella città e fuori di essa. Se poi governa una repubblica, non c'è il più bel modo a dividere sè stessa, come seguì ai Fiorentini, i quali, volendo con le parti riunire Pistoia, divisero invece la loro città.»[478]

«Pure, nonostante la esperienza presente e la passata, gli uomini de' nostri tempi preferiscono sempre le vie di mezzo. Se ne è visto un esempio recente e chiaro, quando Giulio II, solo e senza l'esercito, entrò in Perugia, per cacciarne Giovan Paolo Baglioni. Non capirono allora i prudenti, come mai questi non si fosse impadronito del Papa, dei cardinali e di tutte le loro delizie.» «Non potè essere per bontà o per coscienza che lo ritenesse, perchè in un petto d'un uomo facinoroso, che si teneva la sorella, ch'aveva morti i cugini e i nipoti per regnare, non poteva scendere alcuno pietoso rispetto; [310] ma si conchiuse che gli uomini non sanno essere onorevolmente tristi o perfettamente buoni, e come una tristizia ha in sè grandezza, o è in alcuna parte generosa, eglino non vi sanno entrare. Così Giovanpagolo, il quale non stimava essere incesto e pubblico parricida, non seppe o, a dir meglio, non ardì, avendone giusta occasione, fare una impresa, dove ciascuno avesse ammirato l'animo suo, e avesse di sè lasciato memoria eterna, sendo il primo che avesse dimostro ai prelati quanto sia da estimare poco chi vive e regna come loro, ed avesse fatto una cosa la cui grandezza avesse superato ogni infamia, ogni pericolo che da quella potesse dipendere.»[479]

E tuttavia, osserva il Machiavelli, la forza, il coraggio e la violenza non sempre bastano, specialmente per salire da piccola a grande fortuna. «Ci vogliono spesso anche la frode e l'inganno; anzi la sola frode può qualche volta bastare, ma non la sola forza. Mostra Senofonte, nella sua vita di Ciro, questa necessità d'ingannare; giacchè la prima spedizione che gli fa fare contro il re d'Armenia, è piena di frode, e riesce con l'inganno, non con la forza. Ed il tener questa via è necessario non solo ai principi, ma anche alle repubbliche, almeno fino a che esse non sono divenute potenti, come ne danno esempio i Romani.»[480] Altrove cerca spiegare, com'egli non intenda lodare la frode, incondizionatamente. «Sebbene, egli dice, la fraude sia per sua natura sempre detestabile, pure l'usarla può qualche volta essere necessario, ed anche, come per esempio nella guerra, glorioso. Infatti è parimente lodato colui che con fraude supera il nimico, come quello che lo supera con la forza. Di che, per leggersi assai esempî, non ne replicherò alcuno.» «Dirò solo questo, che io non intendo quella fraude esser gloriosa, [311] che ti fa romper la fede data ed i patti fatti, perchè questa, ancora che la ti acquisti qualche volta Stato e regno, come di sopra si discorse, la non ti acquisterà mai gloria. Ma parlo di quella fraude che si usa col nimico che non si fida di te, e che consiste proprio nel maneggiare la guerra.»[481]

Da quanto abbiamo sinora esposto, è ben chiaro che il concetto del Principe apparisce e ricomparisce di continuo, quantunque solo abbozzato, nei Discorsi, e che il Machiavelli non giudica in modo alcuno il valore morale delle azioni individuali, ma l'effetto reale di esse come azioni politiche. Questo è anzi il carattere che predomina sempre ne' suoi scritti, e ne abbiamo un altro esempio chiarissimo nel lungo capitolo Delle congiure.[482] Qui par di vedere proprio un fisiologo che faccia esperimenti di vivisezione, e cerchi col suo coltello anatomico distinguere gli organi, scoprirne le funzioni diverse. Le congiure si fanno contro quei principi che sono più generalmente odiati. Allora sogliono dare animo alla vendetta le ingiurie private, le quali possono essere nel sangue, nella roba, nell'onore. Quanto al sangue sono assai più pericolose le minacce che le esecuzioni, perchè chi è morto non può pensare alla vendetta, e quelli che restano vivi ne lasciano spesso il pensiero al morto. Pericolosissime sono poi le ingiurie nella roba e nell'onore, perchè il principe «non può mai spogliare uno tanto che non gli resti un coltello da vendicarsi; non può mai tanto disonorare uno che non gli resti un animo ostinato alla vendetta.»[483] Si congiura anche per solo desiderio di liberare la patria; ma allora i principi non hanno altro scampo che deporre la tirannide, il che non fanno, e però spesso capitano male.

[312]

I congiurati corrono pericolo in sul fatto, prima e dopo. Prima possono essere scoperti per denunzia, per congetture o per imprudenza. Unico rimedio sicuro è, in simili casi, comunicare la cosa ai compagni solo in sul fatto, costringendoli ad operare più presto che si può. Qualche volta questa sollecitudine è imposta dalla necessità, in cui ti trovi di fare al principe quello che egli sta per fare a te ed ai tuoi. Essa caccia allora gli uomini in modo che li fa riuscire, e però i principi debbono guardarsi dal far minacce, che sono sempre pericolosissime. I pericoli in sul fatto stesso della congiura, nascono o dal variar l'ordine già stabilito, o dal mancar l'animo, o da errore per imprudenza, o da lasciar parte della impresa incompiuta, quando si tratti di uccidere più persone. Una volta che s'è fermato il pensiero a un modo, è pericolosissimo mutarlo a un tratto; è meglio assai eseguire il primo disegno con qualche inconveniente o pericolo. Manca poi l'animo in sul fatto, per reverenza al principe o per viltà. Bisogna quindi scegliere sempre gente provata, «perchè dell'animo nelle cose grandi, senza aver fatto esperienza, non sia alcuno che se ne prometta cosa alcuna.[484] Possono anche sopravvenire pericoli improvvisi ed inaspettati; ma di questi si può solo ragionare con esempî, per fare gli uomini più cauti, e non altro. Di tutti i pericoli poi, quello da cui i congiurati non si salvano mai, è quando il popolo è amico del principe.» E così, distinguendo ed esaminando, continua sino alla fine questo capitolo singolare davvero per chiarezza, penetrazione e conoscenza del cuore umano.

Ma non dobbiamo dimenticare che l'argomento principale dell'opera, quello intorno a cui tutte le teorie del Machiavelli s'aggirano, riman sempre la fondazione dello Stato, la formazione stabile e duratura della sua unità [313] organica per opera del legislatore, sia che questi voglia o si trovi costretto a fondare una monarchia; sia che, più fortunato o più magnanimo, elegga, invece, fondare una repubblica, e fare in modo che, dopo la sua morte, essa possa reggersi da sè, affidata al popolo, che è sempre più atto a mantenerla che a fondarla. E qui si può chiedere: in che modo il Machiavelli pensava di costituire in Italia questa unità, e specialmente unità repubblicana, quando al suo tempo la libertà delle repubbliche era ristretta alla città dominante, che opprimeva le altre? Abbiamo visto come un tal fatto fosse stato già osservato dal Guicciardini, senza che egli ne cavasse altra conseguenza che l'affermare: essere in sostanza assai meglio cadere sotto una monarchia, che sotto una repubblica, perchè la prima tratta i sudditi suoi tutti allo stesso modo, mentre invece la seconda vuole i benefizi della libertà solo per i suoi proprî cittadini. Ed il Machiavelli aveva già fatto la stessa osservazione, quando scrisse che «di tutte le servitù più grave è quella che ti sottomette ad una repubblica, perchè più durevole, e perchè il fine della repubblica è di snervare e indebolire, per accrescere il corpo suo, tutti gli altri, il che non fa un principe, che non sia un barbaro distruttore di paesi, e dissipatore di tutte le civiltà degli uomini, come sono i principi orientali. Quando però egli abbia in sè ordini umani e normali, amerà del pari tutte le città a lui soggette.»[485]

Se non che il Machiavelli non si contenta, come il Guicciardini, di notare il fatto e passar oltre. Egli afferma ancora, che questo modo tenuto dalle repubbliche del Medio Evo era pessimo, pericoloso e rovinoso. «Le repubbliche,» egli dice, «hanno tre vie d'ampliare il loro Stato: 1ª Una confederazione fra di loro, come fecero gli Etruschi e gli Svizzeri. 2ª Farsi compagni i conquistati, [314] in modo però da ritenere per sè il grado del comandare, la sedia dell'imperio ed il titolo delle imprese, che è il modo tenuto dai Romani. 3ª Farsi sudditi e non compagni, come fecero gli Spartani e gli Ateniesi. Questo terzo modo è il peggiore di tutti, perchè pigliar cura d'avere a governare le città con violenza, massime quelle che sono consuete a viver libere, è una cosa difficile e faticosa. Bisogna per riuscirvi essere assai forte di armi, ed ingrossare le città, aumentandone la popolazione con forestieri. Questo non fecero Sparta ed Atene, e però rovinarono. Lo fecero invece i Romani, che in altri tempi presero anche la seconda via, e furono potenti. Essi dapprima si resero compagni i popoli italiani, unendoli a loro con leggi comuni, ma tenendo sempre l'imperio ed il comando per sè. Dipoi, con l'aiuto di questi compagni, fecero sudditi gli stranieri, i quali, essendo stati sotto i re, non erano usi a libertà. Così quando gl'Italiani si vollero ribellare, i Romani erano già assai forti, e poterono sottometterli, avendo saputo prima ingrossare la propria città coi forestieri, giacchè capivano che bisogna imitare la natura, e che mai un pedale sottile non sosterrà un albero grosso. Il primo modo poi, cioè della confederazione, è quello tenuto dagli Etruschi, i quali, mediante l'unione di dodici città, che si reggevano per via di lega, furono potentissimi nel commercio e nelle armi, e rispettati dal Tevere sino alle Alpi.»

«Queste confederazioni non fanno, è vero, grande imperio; mantengono però quello che acquistano, e non si tirano guerra addosso. La ragione per la quale non arrivano a grande potenza, è chiara. Una repubblica disgiunta e posta in varie sedi, non può con prontezza deliberare; non è ambiziosa di un dominio che deve esser diviso fra molti. E il fatto dimostra, che queste confederazioni non passano mai le dodici repubbliche, come quella degli Etruschi, o le quattordici, come quella degli Svizzeri, [315] e così hanno quasi un termine fisso.[486] Quando non si può o non si vuole seguire questa via, l'ingrandirsi col sottomettere ed opprimere i sudditi è un sistema che, se fu dannoso a repubbliche armate come Sparta ed Atene, sarà sempre rovinoso a quelle disarmate come le nostre. Il vero e miglior modo, adunque, riman sempre quello tenuto dai Romani, di farsi cioè compagni e non sudditi; ed è tanto più lodevole, in quanto che essi furono i primi ad adottarlo, e come non erano stati in ciò mai preceduti da alcuno, così non furono poi imitati da altri. Infatti se delle confederazioni ci danno oggi esempio gli Svizzeri e la lega di Svevia, gli ordini dei Romani non sono imitati da nessuno; anzi non se ne tien conto, perchè giudicati parte non veri, parte impossibili, parte non a proposito ed inutili. Tanto che, standoci con siffatta ignoranza, siamo preda di qualunque ha voluto correre questa provincia. Ma quando la imitazione dei Romani paresse difficile, non dovrebbe parer tale quella degli antichi Etruschi, massime a' presenti Toscani; perchè se quelli non poterono, per le cagioni dette, fare uno imperio simile al romano, poterono acquistare in Italia tutta quella potenza che è consentita dal procedere per via di leghe.»[487]

Bisogna richiamare alla memoria tutti i principali scrittori politici dei secoli XV e XVI in Italia, tutte le idee allora più universalmente accette, indubitabilmente ammesse, se si vuol capire lo sforzo gigantesco che faceva il Machiavelli, per liberarsene ed arrivare al chiaro concetto dello Stato. Egli certo non riesce a determinarlo scientificamente; non arriva a proclamare che tutti i sudditi debbono essere cittadini uguali innanzi alla legge, e tutti partecipare direttamente o indirettamente al governo. [316] Ma per arrivare a ciò bisogna aspettare il secolo XVIII e la rivoluzione francese. Il Machiavelli, come abbiam visto, mette da un lato e respinge il feudalismo, le compagnie di ventura, il potere politico delle Arti maggiori e minori, il dominio temporale dei papi e la loro ingerenza nello Stato, del quale cerca l'unità, l'indipendenza e la forza. Egli vede ancora, e per la prima volta, che questa unità organica non si può costituire, senza trattare i sudditi come compagni e non come sottoposti. A siffatte idee, che sono un vero avvenimento nella storia della scienza politica, egli torna di continuo, con minore o maggiore chiarezza, ma sempre con uguale costanza e fede. «La Francia molte volte ha preso Genova, l'ha tenuta colla forza e l'ha sempre perduta. Solo adesso, costretta dalla necessità, l'ha lasciata reggersi da sè, con un governatore genovese, e ne è assai più sicura. Gli uomini tanto più ti si gettano in grembo, quanto più tu pari alieno dall'occuparli, e tanto meno ti temono per conto della loro libertà, quanto più sei umano e domestico con loro.»[488] Cita poi l'esempio di Capua, che chiese spontanea il pretore ai Romani, e continua: «Ma che bisogno v'è d'andare a Capua o a Roma, quando abbiamo gli esempi in Toscana? Pistoia si dette volontaria ai Fiorentini; Lucca, Pisa, Siena furono sempre nemiche. E ciò non perchè i Pistoiesi non amassero la libertà come gli altri, o si tenessero da meno; ma per essersi i Fiorentini portati con loro sempre come fratelli, e con gli altri come nimici.» «E senza dubbio i Fiorentini, se o per via di leghe o di aiuto, avessero dimesticati e non insalvatichiti i suoi[489] vicini, a quest'ora sarebbero signori di Toscana. Non è per questo che io giudichi che non si abbia ad operare le armi e le forze; ma si debbono riservare in [317] ultimo luogo, dove e quando gli altri modi non bastino.»[490]

Certo non era possibile che, nei primi del secolo XVI, il Machiavelli arrivasse ad una determinazione scientifica, piena ed esatta della vera unità organica dello Stato, argomento su cui tanto si disputa anche oggi; e molto meno poi egli avrebbe potuto arrivare a determinarne con precisione l'origine e lo svolgimento storico. Pure anche di ciò ebbe coscienza, e vi tornò sopra più volte, sebbene in modo vago ed incerto. Nel principio del terzo libro si ferma a dire, che i governi e le istituzioni, per aver lunga vita, hanno bisogno di essere ordinati in maniera che possano spesso essere ricondotti ai loro principii. Questa sentenza fu da molti lodata senza essere pienamente intesa. Il Capponi, invece, la crede del tutto errata, accusando il Machiavelli di tener volti gli occhi indietro, e cercare rimedio alle cose fuori di loro medesime, cioè «in quel loro essere che è svanito.»[491] Ma chi esamini con attenzione quel capitolo, vedrà che il Machiavelli non cerca aiuto e forza alle istituzioni fuori di esse. Vuole ritirarle di continuo non al passato, ma ai principii, secondo cui e su cui vennero costituite. Essi ne furono come il germe, e se ebbero la forza di generarle, debbono secondo lui aver quella di ritemperarle e rinnovarle.[492] Gli esempi che adduce più volte chiariscono anche [318] meglio il suo pensiero. «Prima che Roma fosse presa dai Francesi, le sue istituzioni non erano rispettate, e i tre Fabî, che combatterono i Francesi contra jus gentium, non furono puniti, ma creati tribuni. Venuta poi la calamità, e sperimentato il pericolo, essi furono puniti, e la religione e le leggi rimesse in vigore. A Roma i tribuni, i censori e le leggi fatte contro gli ambiziosi, erano destinate a ritirare di continuo la repubblica verso i suoi principii. A ciò fare basta qualche volta la semplice virtù di un uomo grande, che riconduca gli uomini verso la libertà e verso i buoni costumi, sebbene più efficaci sieno sempre le buone istituzioni. La religione cristiana sarebbe forse stata al tutto spenta dalla sua corruzione, se da S. Francesco e da S. Domenico, fondatori di ordini nuovi, non fosse stata ricondotta ai suoi principii.» «Hanno ancora i regni bisogno di rinnovarsi e di ridurre le leggi di quelli verso il suo principio. E si vede quanto buono effetto fa questa parte nel regno di Francia, il quale regno vive sotto le leggi e sotto gli ordini più che alcun altro. Delle quali leggi e ordini ne sono mantenitori i Parlamenti, e massime quel di Parigi, le quali sono da lui rinnovate qualunque volta fa una esecuzione contro ad un principe di quel regno, e ch'ei condanna il Re nelle sue sentenze. Ed infino a qui si è mantenuto, per essere stato uno ostinato esecutore contro a quella nobiltà; ma qualunque volta e' ne lasciasse qualcuna impunita, e che le venissero a multiplicare, senza dubbio ne nascerebbe o che si arebbono a correggere con disordine grande, o che quel regno si risolverebbe.»[493] Ora si può disputare se questa idea del Machiavelli sia sempre espressa con molta chiarezza, e si può trovare qualche difficoltà nel determinarla con precisione; ma non si può dire, mi sembra, che egli cercasse il rimedio alle istituzioni pericolanti, fuori di loro stesse, in un passato che è [319] morto. Ritorno ai loro principii vuol dire per lui ritorno al concetto fondamentale di chi le creava; giacchè, come abbiam visto, leggi, religioni, governi sono pel Machiavelli l'opera e la creazione personale del legislatore, tale essendo l'unico modo con cui gli si presentava e diveniva intelligibile la loro organica unità. Mantener fermo il concetto fondamentale del legislatore, e farvi ritorno ogni volta che se ne deviava, era quindi il solo mezzo di ridonar la vita alle istituzioni, e promuoverne la naturale evoluzione.

Questa evoluzione è pel Machiavelli l'opera propria del popolo, cui il legislatore deve perciò affidare la difesa delle leggi, la salute della patria. Ma siccome il popolo può anch'esso deviare dal retto sentiero, così è necessario prevedere i modi per ricondurvelo, il che sarà sempre più facile che ricondurvi un principe, essendo i popoli sempre migliori. «I principi sono più ingrati dei popoli, le cui ingratitudini riescono anche meno pericolose, perchè muovono da errore, non da ambizione o da animo corrotto. Il popolo è inoltre più savio. E sebbene prevalga in molti la opinione contraria, che è sostenuta ancora da Tito Livio, io oserò affermare contro tutti, che il popolo è più costante, più giudizioso, più prudente che un principe.» «E non senza cagione si assomiglia la voce di un popolo a quella di un Dio, perchè si vede una opinione universale fare effetti maravigliosi ne' pronostichi suoi, talchè pare che, per occulta virtù, e' prevegga il suo male e il suo bene.» «Esso è capace della verità che ode, ed è superiore al principe nel fare la elezione dei magistrati. Nè mai si persuaderà ad un popolo, che sia bene tirare alle dignità un uomo infame e di corrotti costumi, il che facilmente e per mille vie si persuaderà invece ad un principe. Ad un popolo licenzioso si può parlare e persuaderlo; ma con un principe cattivo non ci è altro rimedio che il ferro. Si è sempre visto le città in cui i popoli comandano, fare in brevissimo tempo progressi [320] molto maggiori. E se i principi sono superiori ai popoli nel fare leggi, formare statuti e ordini nuovi, i popoli sono assai superiori nel mantenere le cose già ordinate.[494] Nè c'è punto da maravigliarsi, se le città libere fanno maggiori conquiste, e sono più prospere, «perchè non il bene particolare, ma il bene comune è quello che fa grandi le città. E senza dubbio questo bene comune non è osservato se non nelle repubbliche.... Al contrario interviene quando ci è un principe, dove il più delle volte quello che fa per lui, offende la città, e quello che fa per la città, offende lui. Di modo che subito che nasce una tirannide sopra un vivere libero, il meno male che ne risulti a questa città è non andare più innanzi.»[495]

Ogni volta che il Machiavelli entra in questo ordine d'idee, il suo entusiasmo si ridesta subito, ed egli esalta infino al cielo quelli antichi tempi repubblicani, che sono il suo costante ideale. «Quinzio Cincinnato,» egli dice in un altro luogo, «quando fu eletto console, lavorava di propria mano la sua piccola villa, e Marco Regolo, essendo a comandare eserciti in Africa, chiese licenza di tornare a casa per custodire una sua villa, che gli era guasta dai lavoratori. Quei cittadini facevano la guerra solo per trarne onore.» «Preposti ad uno esercito, saliva la grandezza dell'animo loro sopra ogni principe; non stimavano i re, non le repubbliche; non gli sbigottiva nè spaventava cosa alcuna; e tornati dipoi privati, diventavano parchi, umili, curatori delle piccole facoltà loro, ubbidienti ai magistrati, riverenti alli loro maggiori; talchè pare impossibile che uno medesimo animo patisca tanta mutazione.»[496] «Questi furono sempre gli effetti degli ordini liberi, e dei governi popolari, effetti che non seguono [321] mai nelle monarchie, massime nella monarchia assoluta, la quale è utile, anzi necessaria, solo quando si tratta di riunire una nazione, di fondare uno Stato, come fecero Romolo, Licurgo e Solone. Se però questo principato dura a lungo, e non lascia al popolo la cura del governo, o almeno il principe non la divide con esso, come fanno i re di Francia col Parlamento, allora subito se ne risente il danno. È ben vero che la Dittatura, sebbene fosse un potere assoluto, non nocque punto alla repubblica romana; ma essa era anche un potere legale ed a tempo, non usurpato nè perpetuo, che è quello che nuoce.[497] Fu invece dannoso a Roma il potere dei Decemviri, anch'esso legale, perchè allora si soppressero i Consoli, i Tribuni e l'autorità del popolo, che quasi abdicò. Un'autorità illimitata e senza freno nuoce sempre, anche se il popolo non è corrotto, perchè subito lo corrompe.[498] Infatti si vide crescere rapidamente la potenza di Appio Claudio col favore del popolo, e se con questo favore egli avesse spento i grandi, per poi dominare il popolo, avrebbe potuto addirittura fondare la tirannide. Ma, essendosi invece unito ai grandi contro il popolo, lo ebbe contrario, e dovette cadere, perchè chi sforza bisogna che sia più potente di chi è sforzato; e però a volere fondare la tirannide con l'aiuto di pochi all'interno, è necessario avere almeno aiuto di fuori.»[499]

E qui noi chiudiamo l'esposizione di questi Discorsi, ricordando che molti capitoli del secondo libro ed alcuni pochi del terzo si occupano dell'arte della guerra, che pel Machiavelli era parte sostanziale di quella dello Stato. Ma, come abbiamo già detto, noi avremo altrove migliore occasione a parlarne. Basti per ora ricordar solo due cose. Il disprezzo grandissimo e quasi l'odio che il Machiavelli [322] aveva per le compagnie e pei capitani di ventura, peste, secondo lui, e rovina d'Italia; la fede quasi illimitata nelle milizie nazionali, ad imitazione di quelle dei Romani. Ed anche in ciò egli, tornando come sempre all'antica Roma, percorreva i suoi tempi, e profetava l'avvenire. Assai scarsa fede aveva nelle armi da fuoco, nè molto maggiore nelle fortezze. Queste, egli dice, giovano poco, se sono destinate a difendere contro i nemici esterni, e riescono addirittura dannose, se destinate contro i proprî sudditi. Un principe ha bisogno delle fortezze solamente quando è odiato pel suo mal governo, e allora prende per esse animo a perseverare nel male, ma gli riescono poi inutili, quando il popolo sdegnato insorge davvero, o il nemico si presenta alle porte, massime ora che ci sono le artiglierie. A queste, non senza contradizione, dà qui un'importanza, che generalmente nega del tutto. «Un principe o deve fondarsi sull'amore dei sudditi, o deve tenere un forte esercito e cercare di disfare il popolo; ma non deve mai riporre la sua difesa nelle fortezze. Quella di Milano, fondata da Francesco Sforza, non salvò i suoi eredi dai nemici interni nè dai nemici esterni. Guidobaldo duca d'Urbino, quando tornò ne' suoi Stati, dopo che ne fu cacciato il Valentino, fatto accorto dalla esperienza, disfece le fortezze, che, inutili a difender lui, erano state utili invece al nemico, e fidò solo nell'amore dei propri sudditi. Più notevole ancora è l'esempio di Genova, seguìto ai nostri tempi. Ciascuno sa come essa nel 1507 si ribellò da Luigi XII di Francia, che vi costruì poi una formidabile fortezza, la quale non gli valse a nulla, quando nel 1512, cacciate d'Italia le genti francesi, la città si ribellò di nuovo. Allora Ottaviano Fregoso, dopo avere per fame espugnato la fortezza, come uomo prudente, la disfece, fondando la sua potenza non su di essa, ma sull'amore del popolo, sulla virtù e prudenza propria. Così ha tenuto e tiene quella città; e dove, a variare lo Stato di Genova, [323] solevano bastare mille fanti, gli avversari suoi l'hanno assalito con diecimila, e non l'hanno potuto offendere, Brescia fu presa, nonostante la fortezza. I Fiorentini fecero la fortezza in Pisa, e la videro giovar solo ai Pisani, neppur essi avendo capito che bisognava seguire l'esempio dei Romani, farsi cioè quella città compagna, o disfarla. Nelle terre che volevano tenere con la forza, i Romani smuravano e non muravano.»[500] Secondo il Machiavelli le piccole tirannidi italiane, fondate con inganni e per sorpresa, mantenute con l'aiuto di pochi amici e d'una fortezza, in cui il principe si chiudeva, erano fondate sulla rena, e dovevano perciò scomparire per sempre.

CAPITOLO III. Critica dei Discorsi. Le Considerazioni del Guicciardini su di essi.

L'esposizione dei Discorsi da noi fatta nel capitolo precedente, avrà forse, senza ancora rispondervi, risollevata nell'animo del lettore l'eterna domanda: Il Machiavelli voleva dunque il bene o il male? Era onesto o disonesto? E abbiamo da capo innanzi a noi la sfinge, di cui non si può spiegare l'enigma. Ma il problema resterà sempre insolubile, fino a quando sarà posto in tal modo. La questione vera non è qui psicologica e personale, ma generale e di scienza politica. Non si tratta di sapere se il Machiavelli voleva il bene o voleva il male; ma piuttosto se riuscì a trovare ed esporre il vero. La narrazione della vita ci fa conoscere il suo carattere; ma questo può spiegarci più la forma che la sostanza delle sue dottrine, la cui sorgente bisogna cercarla non già nell'indole [324] dell'uomo, ma nella mente del pensatore. È quindi necessario sopra tutto la critica delle opere. Che egli sia entrato per una via nuova è evidente. Che le sue considerazioni sulla storia, sul sorgere e decadere degli Stati, sulla connessione degli avvenimenti, sulla successione dei partiti in Roma ed in Firenze siano ammirabili, nessuno lo mette in dubbio. E così tutti riconoscono che il suo metodo è eccellente, la sua eloquenza grandissima, la sua psicologia politica superiore assai a quella de' suoi contemporanei, non escluso il Guicciardini; giacchè egli non si contenta, com'essi fanno, di considerare la società come un semplice aggregato d'individui, dei quali vogliono tenere in equilibrio le passioni. Il Machiavelli cerca l'unità dello Stato; studia le passioni del popolo, dell'aristocrazia, dei principi, riconoscendo che esse non sono passioni puramente individuali. Ma lo scopo ultimo delle sue indagini, il carattere fondamentale della sua scienza politica sta pur sempre nel dar precetti sulla condotta che debbono tenere gli uomini politici. Ed è appunto quando consiglia azioni che a noi paiono disoneste, qualche volta addirittura inique, che la nostra coscienza irresistibilmente reagisce, si ribella, ed allora noi mettiamo in dubbio la stessa ammirazione che abbiamo prima avuta pel suo genio. Dire che ha dato questi precetti, perchè era tristo e tristi erano i suoi tempi, che nei suoi libri egli ritrae, non spiega nulla. Perchè il Guicciardini, che non era migliore di lui, non arrivò mai fino alle stesse conseguenze? Perchè il Giannotti e tanti altri politici e storici, che vissero nello stesso tempo, non dettero mai consigli immorali? Il sollevare poi l'esempio di tempi corrotti a guida permanente dell'uomo di Stato, trasformando quasi la narrazione in precetto, non sarebbe forse un errore tale da togliere ogni solidità e fermezza alla base stessa su cui riposa un sistema generale di scienza politica? Il Machiavellismo non è un fatto capriccioso e accidentale [325] nella storia del pensiero umano. Per comprenderlo e giudicarlo bisogna, senza dimenticare le cagioni personali e psicologiche che ne determinarono la fisonomia, ritrovare le cagioni logiche e storiche che ne resero necessaria l'apparizione.

A riordinare una città corrotta, a fondare una nazione, uno Stato, occorre, secondo il Machiavelli, come più volte abbiamo già visto, un legislatore quali furono Romolo, Solone, Licurgo. Compiuta che essi hanno l'opera loro, ne affidano lo svolgimento e la difesa al popolo, rendendola così davvero benefica e duratura. Ad iniziarla però sarà sempre necessaria l'opera di un solo, che con la sapienza e la grandezza d'animo, abbia anche l'assoluto potere, e quindi la forza necessaria ad infondere nell'opera propria l'unità organica del suo intelletto. Un tale concetto si era andato in lui lentamente, logicamente formando, e si ripresentava ogni volta che egli esaminava, ricercava nella storia l'unità sociale. Questa a lui inevitabilmente appariva assai diversa da quella che il Medio Evo aveva concepito, e non meno diversa da quella che concepiamo noi. Per noi la società è come un organismo vivente, che nasce, cresce, si svolge, quasi prodotto naturale, conseguenza necessaria dell'indole d'un popolo e della sua storia: conseguenza in gran parte d'un lavoro impersonale, che l'opera del legislatore viene solo a coordinare e determinare. Al Machiavelli invece appariva come l'opera e la creazione dell'uomo di Stato, del genio politico, il quale non personifica in sè stesso la coscienza popolare, ma dà piuttosto al popolo l'impronta, la forma, quasi la coscienza che vuole. Quello che noi chiamiamo lavoro impersonale, inconsapevole eppur razionale, è un'idea essenzialmente moderna, ignota affatto al Rinascimento ed al Machiavelli. Egli vide bensì che l'opera del popolo si univa a quella del legislatore, e perciò appunto affermò che l'uno continua, conserva e compie l'opera dell'altro; ma la potenza d'iniziare, di [326] creare le istituzioni, resta per lui sempre al legislatore. Il potere che gli dà quindi nei Discorsi, nel Principe, nelle Storie, sembra quasi non avere confini. Ora gli fa trasmutare i popoli di luogo in luogo, «come si trasmutano le mandrie;» ora gli fa mutare una repubblica in una monarchia o viceversa. Altrove egli dice: «esser più vero che alcun'altra verità, che se un principe ha sudditi e non soldati, deve dolersi di sè e non della natura e viltà degli uomini.[501] I principi son sempre la colpevole cagione dei peccati e della corruzione dei popoli. Ai nostri giorni s'è vista la Romagna tutta piena di sangue e di vendette, per opera di principi affamati, i quali facevano leggi e spingevano a violarle, per arricchirsi poi colle taglie che imponevano. E solo colla morte loro, per opera del Valentino, fu riordinato quel paese.»[502]

Come abbiamo già osservato, il popolo, secondo il Machiavelli, è nelle mani del suo legislatore quasi come una creta molle nelle mani dello scultore. L'ordinarlo a repubblica o a monarchia, a democrazia o aristocrazia, non è, nei varî casi, una necessità storica, cui nessuno si può nè si deve opporre. Tutto dipende invece dalla forza, dal coraggio, dalla volontà dell'uomo di Stato, il quale riuscirà sempre a fare quello che vuole, se conosce l'arte e va diritto al suo scopo, senza mai perdersi nelle vie di mezzo.[503] Qualche volta si direbbe che il Dio personale della scuola teologica del Medio Evo, sia disceso sulla [327] terra a prendere figura umana in questo legislatore, che è poco meno onnipotente. Egli, è ben vero, non guida tutti i popoli della terra, al pari del Dio del Bossuet, che fu paragonato ad un cocchiere che guida focosi destrieri; egli forma, quasi crea il suo popolo, e lo conduce dove più gli piace. È posto in una condizione affatto eccezionale, quasi un Dio ad immagine del quale si direbbe formato, al di fuori, al di sopra della società, colla potenza di farne tutto ciò che vuole, e noi non abbiamo più un criterio morale per giudicare le sue azioni, che acquistano un valore indipendente, impersonale, obiettivo. Non sono più oneste o disoneste, nel vero senso della parola; ma utili o dannose, lodevoli o biasimevoli, secondo che ottengono o no il fine cui sono destinate, secondo che questo fine è o no a vantaggio non d'alcuni individui, ma della società intera. Se uno o più uomini riescono d'ostacolo all'onnipotenza del legislatore, e quindi al buono ordinamento dello Stato, egli deve, senza esitare, levarli di mezzo nel modo che sarà più adatto, anche colla violenza, coll'inganno o col tradimento, quando sia necessario. Se si spaventa di compiere queste azioni inumane e crudeli, meglio è che torni alla vita privata, nella quale solamente è possibile evitarle del tutto. La prima condizione, cui deve soddisfare il legislatore del Machiavelli, è appunto quella di spogliarsi affatto della sua privata persona, senza punto curarsi d'esser giudicato malvagio dagli uomini, purchè miri sempre alla grandezza dell'opera sua, al bene della patria, «dinanzi alla quale cade ogni altra considerazione, non solo di privata utilità, ma d'onesto o disonesto. E allora accusandolo il fatto, converrà bene che l'effetto lo scusi.» Domandare perciò se un atto politico sia morale o immorale, secondo il criterio con cui si giudicano le azioni private, non ha pel Machiavelli alcun significato, perchè siamo in un mondo sostanzialmente diverso. Sarebbe lo stesso che chiedere qual colore hanno i suoni.

[328]

Tuttavia è assai singolare l'effetto che producono sull'animo del lettore moderno queste considerazioni. Si passa continuamente dal più profondo disgusto, qualche volta anche orrore, alla più sincera ammirazione, senza potersi mai fermare, e senza potersi render chiaro conto di questa nostra continua alternativa, quasi patente contradizione. Si direbbe che a forza di contemplare la sfinge, invece di comprenderla, finiamo col divenire sfinge ed enigma a noi stessi.[504] Ci ripugna la immoralità de' suoi precetti, ci affascina e ci lascia ammirati la verità delle sue osservazioni. Quel suo legislatore, quel suo Principe che così spesso detestiamo, sembra sorgere spontaneo, inevitabile, inesorabile dalla realtà stessa delle cose, che sono intorno al Machiavelli, dai tempi in mezzo ai quali egli visse, e nei quali anche noi ci sentiamo trasportati. Chiaro apparisce che se da un lato lo scrittore lo ritrae dall'antichità e lo ricostruisce colla sua immaginazione, da un altro lato sembra copiarlo fedelmente dal vero, vederlo come una realtà vivente dinanzi ai proprî occhi. Il suo maraviglioso realismo pare che getti una luce improvvisa sui fatti della storia, rivelandoci verità nuove ed inaspettate; ma esse a un tratto divengono tanto più oscure e misteriose, quanto più violentemente si pongono in contrasto con la nostra coscienza, e pretendono di trasformare i fatti in precetti, che vogliono imporre a noi in nome della ragione.

[329]

Il Machiavelli vedeva le repubbliche italiane, cadute nell'anarchia, mutarsi rapidamente, fatalmente in tirannidi, per opera dei capi di parte. Ma quando il più audace, più intelligente o più ambizioso di essi si faceva innanzi per prendere in mano le redini del governo, ecco subito i pugnali appuntarsi contro di lui. Egli quindi o doveva ritirarsi, o non poteva seguire altra norma di morale, che la sola possibile in uno stato d'anarchia e di guerra. Bisognava opporre pugnali a pugnali, veleni a veleni; ingannare; tradire; saper essere a un tempo volpe e leone; usare gli uomini come strumenti, che si gettano via appena son divenuti inutili. Una volta padrone dello Stato, ogni cosa dipendeva dal suo arbitrio, e a tutto doveva egli provvedere, se non voleva perdere tutto. Pretendere di poter essere in queste condizioni leale, onesto, umano, significava volere, sin dai primi passi, affogare nel sangue o nel ridicolo, procurando a sè stesso una certa rovina, senza giovare a nessuno. Ma se egli, adoperando pure la violenza e l'inganno, riusciva ad afferrare con mano ferma il potere, ordinare lo Stato, dar sicurtà e giustizia ai cittadini, allora tutti erano d'accordo nel lodarlo. E se il Machiavelli domandava a sè stesso: chi erano, dove erano coloro che riuscivano a governare con la umanità e la bontà cristiana? certo non era allora facile, non era possibile trovarli. La storia dei Visconti, di Ezelino da Romano, degli Sforza, di Ferdinando d'Aragona, del Valentino era nota a tutti. Volgendo lo sguardo ai capi stessi della religione cristiana, vedeva le arti inique di governo adoperate da uomini come Sisto IV, Innocenzo VIII, Alessandro VI. Si poteva, è vero, obbiettare che ciò risultava dalla decadenza e corruzione morale dell'Italia, la quale non bisognava quindi prendere a modello di buon governo. Ma guardando di là dalle Alpi, trovava egli forse uno spettacolo diverso? Non erano note le arti crudeli e i tradimenti di Luigi XI, che tuttavia riuscì con esse ad iniziare l'unità e la grandezza della Francia? [330] Non era un maestro d'inganni Ferdinando il Cattolico, che con la regina Isabella aveva pure fondato la nuova monarchia di Spagna? Non era l'Inghilterra, non era l'Europa piena di tradimenti e di sangue?[505] E se si tornava indietro nel Medio Evo, non crescevano le barbarie, la ferocia e le iniquità d'ogni sorta? Roma e la Grecia non presentavano forse nei loro più illustri fondatori di Stati, uomini crudelissimi e violenti, che pure la tradizione e la leggenda ponevano quasi in cielo, accanto agli Dei? Gli antichi scrittori non esaltavano fino alle stelle i più atroci delitti, se tornavano utili alla grandezza della patria? A che giova dunque, concludeva il Machiavelli, immaginare governi ideali che non sono mai esistiti e non esisteranno mai? A che giova raccomandare una politica, che nessuno segue ora, nè ha mai seguita in passato, e che sarebbe la rovina di chi la seguisse?

A tutto questo però si risponde oggi: ma non doveva una mente come la sua comprendere la diversità dei tempi e degli uomini? Era chiaro che la morale pagana non poteva esser quella dei Cristiani nella vita pubblica, come non era nella privata. Il Medio Evo era stato un'epoca di barbarie, ed il Rinascimento era un periodo di transizione, di trasformazione e di corruzione. Non vedeva egli dunque che tempi migliori e normali potevano, dovevano seguire, e che in questi sarebbe stato possibile, anzi necessaria una condotta politica più onesta e morale, a cui la scienza doveva mirare, e che sola doveva prendere per norma? Ma qui appunto il Machiavelli trovava [331] un ostacolo insormontabile in un'altra delle sue teorie fondamentali, che noi abbiamo incontrata già nei Discorsi, e dalla quale non era possibile che, ai suoi tempi, egli si dipartisse. In tutte le sue opere, non solo nelle politiche e storiche, ma anche nelle letterarie, mille volte egli ripete, in prosa ed in verso, che gli uomini sono sempre gli stessi, che la natura non muta, e i medesimi accidenti si ripetono sempre nel mondo. Anzi, se così non fosse, non sarebbe, secondo lui, possibile una scienza dello Stato, giacchè non si potrebbe dal passato prender norma pel presente e per l'avvenire. Mutano le leggi, mutano le istituzioni ed i governi, la virtù ed i vizî sono diversamente distribuiti da una ad un'altra provincia, onde segue la continua varietà di casi; ma l'uomo riman sempre lo stesso. E perciò appunto, conoscendo quali sono le buone leggi e le buone istituzioni, specialmente quelle dei Romani, noi possiamo con certezza ricondurre gli Stati all'antica virtù.

A noi oggi è molto difficile farci un giusto concetto di questo modo di vedere, e misurarne tutte le conseguenze, essendo da un pezzo entrati in un ordine d'idee affatto diverso. Per noi l'uomo muta continuamente, e le leggi, le istituzioni, i governi, i costumi mutano con esso, perchè sono un resultato della sua attività, un prodotto del suo spirito, il quale se non mutasse, nulla muterebbe nella società. E com'esso è la sorgente principale di tutto ciò, così deve in parte almeno esserne responsabile; nè può nella vita pubblica e nella privata, che hanno nel suo spirito una comune origine, seguire due norme diverse di condotta: egli deve risponderne del pari alla sua coscienza, e mettersi d'accordo con essa. Così tutto per noi si coordina e si costituisce organicamente nella società, la quale è coll'uomo soggetta alla legge di evoluzione storica, ha una propria personalità e responsabilità, e diviene più morale, secondo che la morale individuale progredisce, non potendosi ammettere che l'una sia la negazione [332] dell'altra, o che sia da essa affatto indipendente. Per quanto diverse siano le norme della vita privata e della pubblica, della morale e della politica, vi sarà pur sempre una politica onesta ed una politica disonesta. Tutto quello che abbiam detto qui sopra e più volte è stato già ripetuto da altri non deve, non può impedirci di credere ai principii, in ogni tempo, in ogni luogo o condizione, immutabili della morale, nè alle leggi ed alla unità costante dell'umana coscienza. Ma questa non è una unità immobile, è anzi, per usare l'espressione dell'Hegel, in un continuo divenire, è organica, vivente, e la sua vita è la storia. Anche a noi, anzi a noi assai più che agli antichi, lo studio del passato è necessario a conoscere il presente. E ciò non perchè siano fra loro identici, ma perchè nel presente sono gli elementi del passato, da cui esso deriva. Così la psicologia, la politica, la giurisprudenza, la scienza sociale trovarono la loro base sicura e necessaria nello studio dello spirito umano; non furono più scienze astratte, a priori, di fenomeni immutabili; ma sperimentali e concrete di fenomeni in continua mutazione, della quale mutazione si cercano le leggi nella storia.

Non ci sarà certo da maravigliarsi che il Machiavelli si trovasse assai lontano da queste nostre idee, se per poco si pensi che esse non erano ancora penetrate nella scienza neppure durante il secolo XVIII. Perchè infatti si spiegava allora l'origine della società col contratto sociale; l'origine dei linguaggi con una specie d'accordo stipulato fra gli uomini; l'origine delle mitologie con le invenzioni artificiose di filosofi, che, ad uso del popolo, rivestivano verità astratte sotto forme concrete? Solamente perchè quegli scrittori non riuscivano a comprendere la profonda differenza che passava fra gli uomini primitivi e quelli del loro tempo. Anche per essi la natura umana era immutabile, e della evoluzione storica non avevano ancora alcuna idea. Come altrimenti si spiegherebbe [333] il loro preteso stato di natura? L'uomo, che uscito dalla società fosse tornato a vivere nelle foreste, si sarebbe, secondo le loro teorie, trovato in una specie di paradiso terrestre, in una innocenza e bontà primitiva, libero da ogni corruzione sociale, quasi che la società non fosse il solo stato naturale dell'uomo, e fuori di essa egli non tornasse un selvaggio abbrutito; quasi che la moralità e la civiltà non fossero conseguenza della società e della storia. Che cosa presumevano i filosofi della rivoluzione francese? Distruggere gli avanzi del passato, distruggere il presente, per ricostruire una società nuova, con nuovo governo, fondato sui principii immutabili della ragione. Non vedevano che la distruzione totale del passato e del presente avrebbe distrutto anche l'avvenire, che non può esistere senza il passato, e avrebbe perciò ricondotto alla barbarie. E si può aggiungere che in tutto ciò essi erano anche meno moderni del Machiavelli, il quale almeno a questi governi filosofici non credeva punto, e non si abbandonò mai alla oziosa contemplazione che cerca un uomo ideale fuori della società.

L'idea d'una storica evoluzione dell'uomo e della società, balenata la prima volta nella Scienza Nuova di G. B. Vico, e rimasta anche allora pensiero solitario di un filosofo, entrò nella scienza e nella coltura generale solamente dopo la rivoluzione filosofica iniziata dal Kant. E giustamente osservò a questo proposito il Bryce: «Non esservi nulla di più moderno di quello spirito critico, che si fonda sulla differenza che passa fra le menti degli uomini nelle diverse epoche della storia, e cerca di farsi il vero interpetre di tali epoche, giudicando con norme relative e proprie a ciascuna di esse, quello che ciascuna fece o produsse.»[506]

[334]

Il concetto di un'assoluta, immutabile uguaglianza degli uomini è assai antico, e cominciò, insieme col concetto d'uno stato di natura, ad essere formulato nel jus gentium dei Romani, e nel loro diritto di natura, secondo cui omnes homines natura aequales sunt. A poco a poco questo concetto entrò anche nella scienza politica. Cominciato, collo studio del diritto romano, a diffondersi nel Medio Evo, progredì ancora più nel Rinascimento; trionfò poi nella filosofia del secolo XVIII e nella rivoluzione francese, che proclamò l'uguaglianza degli uomini come suo domma fondamentale.[507] E la parentela che, sotto questo aspetto, corre fra la Rivoluzione ed i nostri Comuni, apparisce qualche volta in modo assai singolare in alcune leggi, che essi formularono con un linguaggio e con una dichiarazione di principii generali, che ricordano la Convenzione di Francia. Un esempio ne abbiamo nella legge con cui i Fiorentini abolirono la servitù nel 1289, ed in altre che poi, riunite insieme, formarono gli Ordinamenti di Giustizia del 1293. Molti se ne trovano anche negli storici, ed uno dei più evidenti lo abbiamo nelle parole che il Machiavelli pone in bocca d'un popolano, il quale nel tumulto dei Ciompi (1378) voleva sollevare la plebe contro i nobili: «Nè vi sbigottisca,» così gli fa dire, «quella nobiltà del sangue che ei ci rimproverano, perchè tutti gli uomini, avendo avuto un medesimo principio, sono ugualmente antichi, e dalla natura sono stati fatti a un modo. Spogliateci tutti ignudi, voi ci vedrete simili; rivestite noi delle vesti loro ed eglino delle nostre, noi senza dubbio nobili ed eglino ignobili parranno, perchè solo la povertà e la ricchezza ci disagguagliano.»[508]

Qualunque però sia la storia di questo concetto della [335] uguaglianza assoluta ed immutabile degli uomini, in esso certamente il Machiavelli aveva grandissima fede, e ne risultavano conseguenze notevoli nel suo modo di pensare. E prima di tutto ne risultava, che a lui era impossibile trovare un criterio relativo per giudicare diversamente le azioni e la condotta politica degli uomini di Stato, secondo i tempi, le società e la diversa moralità dei popoli. Ciò che era riuscito opportuno, necessario, utile in un tempo, diveniva per lui logicamente giustificato per sempre. Inoltre, se egli non trovava un criterio relativo di morale per giudicare le diverse epoche, non poteva trovarlo neppure quando, in una medesima società, vedeva gli stessi uomini costretti a seguire, nella vita pubblica e nella privata, norme diversissime di condotta. Non gli era però possibile nascondere questa differenza, questa apparente contradizione, o tacerne. Uno dei suoi meriti principali fu anzi quello d'averla veduta e studiata, senza rivolgere altrove lo sguardo inorridito, per scrupolo di coscienza o per prudenza. Ma non gli fu mai possibile di scoprire una vera relazione fra questi due ordini di fatti tanto diversi, e condurli a principii comuni, da essere solo diversamente applicati. E così, non potendo rinnegare la morale cristiana, che si presentava come assoluta, immutabile, eterna, e trovavasi in sostanza d'accordo anche coll'antica filosofia, non gli restava che o rinunziare addirittura allo studio dei fatti sociali e delle norme di condotta dell'uomo di Stato, o considerare la politica come un mondo del tutto separato e indipendente, regolato da principii sostanzialmente diversi.

A che cosa erano infatti riusciti gli scrittori politici del Medio Evo, che questa differenza non avevano riconosciuta, e dalla morale cristiana non s'erano mai voluti dipartire? Avevano composto lunghe dissertazioni sulla bontà, la virtù, la religione dei governanti, lette con avidità da uomini che continuavano poi a lacerarsi fra di loro, [336] dominati dalle più feroci passioni.[509] Era stata una scienza, che come non aveva tenuto conto alcuno della realtà, così su di essa non aveva esercitato mai la più lontana azione. E di certo se un qualche effetto essa poteva sperar d'ottenere, non sarebbe stato mai nel guidare la vita pubblica, ma piuttosto nel persuadere ad abbandonarla addirittura, per rinchiudersi in un convento. Tale non era evidentemente lo scopo del Machiavelli, che cercava invece nello studio della società l'arte di governare e di condurre gli uomini ad un fine pratico e determinato.

Questo non era però mai, secondo lui, un fine necessario e prestabilito, perchè la società non aveva ai suoi occhi uno scopo necessario, risultante dalle leggi dell'umana natura. Dipendeva invece, come abbiamo già visto, unicamente dall'arbitrio dell'uomo politico, del legislatore, le cui azioni divenivano così anch'esse arbitrarie. Infatti, dato il fine che egli si proponeva, qualunque esso fosse, la scienza doveva saper trovare i mezzi per raggiungerlo. Se era buono, se mirava alla grandezza della patria, il legislatore sarebbe stato glorioso; se invece mirava alla rovina di essa e della libertà, sarebbe stato infame, dell'un caso e nell'altro la scienza lo avrebbe del pari aiutato, senza perciò essere morale o immorale, ma solo vera o falsa, secondo che sapeva o no insegnare [337] a riuscire nell'intento. In ogni modo, era sempre il fine che giustificava o condannava, non i mezzi necessarî a raggiungerlo. Condannare un'azione che sembrasse iniqua o crudele, ma che pur fosse provata necessaria a salvare la patria, ad assicurare lo Stato, era un voler giudicare la condotta politica con i criteri della vita privata, e rendere impossibile una scienza dello Stato, fondata sulla realtà e non sulla immaginazione. Poste le premesse, egli traeva, come portava la natura del suo ingegno, inesorabilmente le conseguenze, e persuaso di rivelare al mondo nuove ed utili verità, non si spaventava d'essere giudicato malvagio da chi non lo capiva.

Per riuscire a ciò era di certo necessario trovar nella storia e nella società un qualche elemento razionale, senza di che esse non potevano formare oggetto di scienza. E così fu condotto a cercare, spesso a scoprire la connessione logica dei fatti, senza però mai occuparsi d'alcuna teoria filosofica a priori sullo spirito umano, senza quasi conoscerne alcuna. Quando questa connessione gli apparve chiara, e nella storia, nella società vide come un disegno segreto e nascosto, non potendo spiegarlo nel modo che faceva la scuola teologica, dichiarandone cioè solo autore Iddio; non avendo alcun concetto della operosità impersonale, che pur si manifesta nella società umana, e delle leggi che regolano questa operosità non sapendo ricondurre la evoluzione storica allo spirito umano, come a sua prima sorgente, trasportò e personificò tutto nel legislatore. Così questo divenne per lui come il creatore, l'arbitro della società, non guidato dalla coscienza popolare, non costretto di obbedire ad essa, non parte di essa, nè ad essa legato in modo alcuno. L'azione politica gli apparve come un fatto indipendente dalla coscienza stessa di colui che la compieva, quasi un fenomeno della natura, del quale si studiano impassibilmente le cause, la forza e gli effetti. [338] Non poteva infatti giudicarla nè secondo le norme della coscienza sociale che egli non vedeva, nè secondo le norme della privata coscienza, perchè egli aveva messo il legislatore al di fuori, al di sopra d'ogni legge della morale individuale. Poteva essere un uomo buono e nonostante, anzi appunto per la sua troppa bontà, tenere una condotta politica rovinosa alla società; poteva essere un tristo, e nondimeno riuscire a salvarla. Gli atti politici perdevano così il vero e proprio nome di azione, non pareva che avessero più nulla di umano e di personale. Il legislatore che li compie sembra ripetere con Amleto: — La coscienza ci rende codardi. — Egli cerca di soffocarne perciò la incomoda voce, abbandona le vie di mezzo, e, senza più esitare, cammina inesorabile al suo scopo.

Ma ciò appunto è quello che ci spaventa. Quando sentiamo freddamente enumerare i casi in cui il politico deve mentire, ingannare e tradire, un sentimento più forte di noi reagisce con violenza irresistibile, e ci obbliga ad esclamare, che col tradimento e la immoralità non si fanno, ma si disfanno gli Stati. A questa convinzione non possiamo in modo alcuno rinunziare; più facile ci sarebbe ammettere che il Machiavelli era un mostro. Se non che, per quanto un tale sentimento persista e sia giustificato, non basta di certo a farci giudicare le dottrine dello scrittore, e molto meno a ritrovare la sorgente de' suoi errori, per evitarli, dopo averne misurato l'estensione e le conseguenze. Questo sentimento poi, non solo non può divenire un criterio, ma ci fa troppo spesso uscire addirittura di strada, essendo noi indotti di continuo ad esagerarlo. E ciò perchè da una parte la moralità pubblica e privata dei nostri tempi è superiore assai a quella dei tempi del Machiavelli, e dall'altra perchè tra lui ed il lettore moderno nasce una serie di equivoci, che bisogna rimuovere, se vogliamo metterci in grado di giudicare imparzialmente. Questi equivoci, che il linguaggio assai spesso eccessivo dal Machiavelli adoperato, [339] rende anche maggiori, derivano da ciò, che di fronte agli errori suoi e del suo tempo si pongono i nostri, i quali sono di natura affatto diversa. Persuasi una volta che leggi, istituzioni, società, governi scaturiscono dallo spirito umano, e progrediscono, decadono, si corrompono con esso, la immoralità individuale non può per noi divenire moralità sociale, nè può in una sfera d'azione divenir bene quello che in un'altra è male, essendo una sola la nostra coscienza. Noi ammettiamo che la morale dei Pagani era diversa dalla morale dei Cristiani, quella del Medio Evo dalla nostra, perchè infatti riconosciamo che l'uomo era allora diverso. Non possiamo però con uguale facilità ammettere che in uno stesso popolo, in un medesimo tempo, la morale condotta possa e debba, nelle diverse sfere dell'umana attività, essere guidata da norme diverse, e che le medesime azioni abbiano in esse un diverso valore. L'inganno, la menzogna sono sempre immorali, e dobbiamo, vogliamo sempre condannarli. Pure nel fatto siamo costretti poi a contraddirci.

Nella guerra si può anche oggi ingannare il nemico, per meglio distruggerlo; diamo premî al disertore che tradisce la sua patria, e una fortunata imboscata è anche da noi lodata. Questa in un duello sarebbe un assassinio; ma una finta, che metta l'avversario fuori di guardia, e lo scopra per più facilmente ucciderlo, è ammessa dalle leggi della cavalleria, mentre nel corso ordinario della vita, ogni finzione è rigorosamente bandita dalla condotta d'un uomo onesto. Ripetiamo tutti i giorni, che la vera diplomazia, la vera politica dicono sempre lealmente il vero, si conducono con le norme stesse della vita privata; anzi è perciò appunto che siamo tanto severi col Machiavelli. Ma bisogna osservare se quello che diciamo e scriviamo risponde veramente a quello che facciamo, perchè delle azioni e non delle idee o delle parole egli s'occupava. Quando il Machiavelli afferma che il [340] Principe deve saper fare la volpe ed il leone, il nostro orrore non ha confini. Ma quando, sotto i nostri occhi, una potente nazione si costituisce, contribuendovi principalmente l'opera di chi sa essere appunto volpe e leone; schiacciare il nemico, ed occorrendo, anche ingannarlo; valersi di tutti gli uomini, e respingerli come inutili strumenti, appena che più non giovano al suo fine, che giudizio porta di lui allora la coscienza pubblica dell'Europa? Guarda ai mezzi o al fine? Lo chiama immorale, o lo chiama invece un grande politico, se tutto egli ha fatto a solo vantaggio della patria sua? Si narra che il nostro più grande uomo di Stato, in quei giorni medesimi nei quali più ardentemente ed efficacemente contribuiva alla redenzione della patria, fu sentito ansiosamente esclamare: — Io mi trovo qualche volta costretto di chiedere a me stesso: son sempre un galantuomo o sto divenendo un birbante? — E ciò nulla proverebbe contro la moralità del suo carattere, ma ben dimostrerebbe assai chiaro, che il conflitto da noi accennato esiste anche oggi, e sino al punto da assumere qualche volta tragiche proporzioni nella coscienza onesta del patriotta, che tutto sacrifica al bene del suo paese. «Vice n'est ce-pas,» osservò il Montaigne, accennando a questi casi appunto, in cui l'uomo di Stato spesso si ritrova, «car il a quitté sa raison à une plus universelle et puissante raison.»[510]

[341]

E che cosa è veramente che allora lo scusa, se non il fine che ha avuto, l'effetto che ha ottenuto? Il disgusto che noi proviamo nel sentir ripetere la frase, — il fine giustifica i mezzi, — deriva in parte dall'esser questa la massima funesta dei Gesuiti. Ma non bisogna dimenticare, che essi ammettevano l'uso d'ogni mezzo, per conseguire il fine che avevano di sottomettere lo Stato alla Chiesa, la Chiesa alla Compagnia, e che questo fine appunto non era in nessun modo giustificato nè giustificabile. Si respinga pure, se si vuole, la massima, giacchè è certo che dal male non nasce il bene, e che il mezzo non è indipendente dal fine che deve produrre, anzi l'uno partecipa sempre della natura dell'altro. Si dovrà però ammettere del pari che il valore d'una stessa azione riesce assai diverso nei vari ordini dell'attività sociale, in conseguenza del diverso fine a cui questi mirano, e del diverso effetto che quella produce. Nella vita privata noi dobbiamo cercare col nostro bene quello ancora del vicino; nella pubblica ogni privato interesse deve sottostare ed, occorrendo, essere sacrificato al generale. L'individuo perde così nella seconda una parte del valore che ha nella prima.

Del resto, che una reale e sostanziale differenza esista, è in termini generali ammesso da tutti, e lo tocca con mano chiunque passa repentinamente dalla vita privata alla pubblica, nella quale ciò che prima e più di tutto lo colpisce si è l'esistenza d'una logica morale affatto nuova per lui, perchè diversa, e qualche volta, apparentemente almeno, in contradizione con quella che fino allora aveva conosciuta e seguita. L'errore del Machiavelli consisteva nel risguardare l'una come affatto indipendente dall'altra, e nel non vedere alcuna relazione [342] fra di esse. Noi invece riconosciamo non solo che c'è una relazione, ma che ambedue dipendono dai medesimi principii; hanno un punto comune di partenza, un fine comune a cui tendono. Questa relazione però resta ancora assai confusa nella nostra mente; il determinarla scientificamente non è stato finora possibile, il che è anche oggi uno dei maggiori ostacoli alla fondazione d'una vera scienza della politica.[511] La conoscenza così imperfetta, così mal sicura d'una relazione che in nessun modo vogliamo mettere in dubbio, ci spinge, per uscire d'ogni difficoltà, a supporre troppo facilmente di poter sopprimere ogni reale differenza tra la pubblica e la privata morale, proclamandone la identità. E questo è il nostro errore. Così non solo noi viviamo in un mondo morale assai diverso da quello del Machiavelli, ma ci troviamo anche in mezzo a pregiudizi ed errori che sono in opposizione con i suoi; e la scienza politica non essendo ancora sicuramente formata, non ha canoni incontrastabili, che ci possano condurre fuori di questo laberinto. Ognuno vede da ciò le enormi difficoltà che dobbiamo incontrare, quando vogliamo imparzialmente giudicare il Machiavelli nel tempo in cui egli gettava, per la prima volta, i fondamenti di quella scienza, che dopo di lui ha così poco progredito. Di qui la lunga schiera d'interpetri, ammiratori e detrattori, i quali non riescono mai a mettersi d'accordo, per sapere che cosa [343] intendeva dire, che fini reconditi e misteriosi aveva uno scrittore, il quale disse sempre chiaramente tutto quello che pensava. Non vi fu infatti mai uomo meno machiavellico del Machiavelli; e più facilmente noi potremmo accusarlo di cinismo, che di reticenze premeditate o di secondi fini nascosti ne' suoi libri.

Quando lo poniamo davvero nel suo secolo, e lo seguiamo con attenzione, senza pregiudizî, allora ci avvediamo subito che egli, entrando in quella via che ci par così spesso pericolosa e precipitosa, fa uno sforzo audace e gigantesco, per arrivare all'esame della realtà vera delle cose, uscendo definitivamente dal Medio Evo. Questo aveva confuso il diritto con la morale, per mezzo della quale sottoponeva la politica alla religione, e finalmente lo Stato alla Chiesa; aveva confuso il diritto pubblico col privato, dando al supremo potere, ai pubblici uffici una forma feudale e quasi di privata proprietà, dal che era nato un caos inestricabile così nel fatto come nelle idee degli uomini.[512] E però, quando vediamo il Machiavelli guardare per la prima volta i fatti della società e della storia come fenomeni della natura; cercarne le [344] leggi, il legame reale; esaminare l'efficacia che può avere su di essi l'opera dell'uomo di Stato, senza occuparsi di giudizi o pregiudizi individuali, di condanne religiose o morali, allora, quasi dimenticando ad un tratto i nostri scrupoli, ci par di vedere la luce del genio, che illumina il mondo che stiamo esaminando; di assistere finalmente, come di fatti assistiamo, alla creazione della scienza politica. E dobbiamo riconoscere che la via per la quale egli audacemente si mise nel secolo XVI, rimane anche oggi, se ne correggiamo gli errori, la sola per cui si possa arrivare ad un resultato, che sia davvero pratico e scientifico nello stesso tempo. Ed in vero, fino a quando, pur ammettendo la costanza immutabile dei principii morali, non ammettiamo anche il valore obiettivo dell'azione politica, e la sua profonda differenza dalla privata, una vera scienza dello Stato sarà impossibile.

Ma non basta. Per quanto possa parere strano, un ritorno razionale alle dottrine e al metodo del Machiavelli, è necessario a trovare un fondamento e una guida sicura alla onestà politica. Se noi ci contentiamo di ripeter sempre, che una è la morale, e che gli affari pubblici si debbono condurre con le norme stesse dei privati, che la vera politica e la vera diplomazia stanno nella lealtà, quale sarà poi la conseguenza, quando nel fatto ci accorgeremo che, restando davvero fedeli a queste massime, restiamo isolati e condannati all'impotenza? O dobbiamo allora ritirarci o, dopo i primi scrupoli esagerati, che la forza reale delle cose contraddice e smentisce, incomincia quella serie di transazioni, di sottintesi e di ripieghi, i quali in sostanza sono maschere per nascondere la differenza reale sotto una uniformità puramente convenzionale ed ingannatrice. Ora è certo, che in mezzo a queste finzioni, i veri e sicuri criteri di ciò che in politica è onesto o disonesto, leale o sleale, si perdono. Non v'è più norma di sorta, tutto par che sia lecito, purchè si trovi la maschera e la forma conveniente; [345] e spesso si vedono quelli che erano in principio i più scrupolosi, divenire a un tratto scettici, e confondere anch'essi la verità, la sostanza delle cose coi più volgari artifizî della politica, la quale sembra anzi ridursi tutta a tali artifizî. Ed in questo lavoro di sottili finzioni, i tristi riescono assai meglio dei buoni e leali cittadini, i quali, fidenti nella rettitudine delle loro intenzioni, sanno assai meno nasconderle o mascherarle, e non ne sentono il bisogno. Spesso segue anzi che passano essi per disonesti, ed onesti appaion quelli solamente che meglio san fingere, e che, sotto mentite apparenze, provvedono solo al privato loro interesse. Di qui la porta aperta alla corruzione politica, pericolo che ai giorni nostri è assai più minaccioso che nel passato, e diverrà sempre maggiore. Una volta, infatti, i governi erano in mano d'un numero ristretto di persone, le quali non solamente nei paesi aristocratici come l'Inghilterra, ma anche in quasi tutte le repubbliche antiche o del Medio Evo, costituivano un ordine privilegiato di cittadini. Il suo interesse s'immedesimava con quello dello Stato, ed a poco a poco si formavano tradizioni che tenevano luogo di principii. Ma oggi che la democrazia invade tutto, ognuno può prima o poi salire al governo. Gli uomini si trovano perciò balestrati a un tratto dalla vita privata alla pubblica; e mancando ad essi le tradizioni secolari di una educazione politica ereditaria, se principii sicuri non danno norme costanti, facendo nella continua mutabilità prevaler sempre l'interesse dello Stato, la corruzione politica sarà la malattia delle nostre società democratiche, e ne metterà a repentaglio l'esistenza. Che se v'è una reale differenza tra la morale politica e la privata, ciò non vuol dire di certo che non vi sia una politica morale ed una politica immorale, e che questa non sia rovinosa agli Stati ed alle nazioni, quanto l'immoralità privata all'individuo ed alla famiglia.

Tutto ciò non deve peraltro impedirci di riconoscere [346] il cammino immenso che abbiamo fatto, e la distanza che ci separa dal Machiavelli. Per noi l'uomo di Stato deve essere immedesimato con la società che egli governa, la quale ha una sua personalità ed una coscienza, che è in relazione con la coscienza individuale da cui deriva, nè può quindi mettersi con essa in aperta contradizione. La società obbedisce ad alcune leggi sue proprie, ha fini e scopi determinati, il principale dei quali è il miglioramento morale dell'uomo. Se da questo fine il politico, il legislatore si allontanano, essi violano le leggi più sacre della natura e della storia. Guardare solo alla grandezza e potenza dello Stato, senza guardare all'uomo, quasi esso fosse creato per lo Stato, e non viceversa, fu un altro errore del Machiavelli. E l'azione politica, per quanto abbia un valore indipendente, è pure un atto compiuto da un uomo, nè può quindi da essa scomparire ogni elemento personale, umano. Se io soccorro i poveri, senza che la mano sinistra sappia quello che ha fatto la destra, la mia azione può certo essere buona, pur non avendo valore politico di sorta; se invece io, non per sentimento alcuno di cristiana carità, ma per compiere solo un atto di governo, dono ad essi in pubblico, e voglio che si sappia da tutti, la mia azione può essere politicamente buona, senza avere un alto valore morale. Ma dire che il primo sentimento, quando vi sia, nulla aggiunga all'azione politica, il cui valore anzi risulta solo dalla sua apparenza esteriore, senza relazione alcuna colla intrinseca sua realtà, è un uscire dai confini del vero. Ed il Machiavelli, nel distinguere i due ordini di fatti, trascinato dalla sua fantasia indomabile e dalla sua logica, esagera spesso oltre ogni giusta misura. Quando, per esempio, arriva a dire che in politica la sola apparenza del bene giova, e che la bontà della intenzione è inutile, anzi nuoce qualche volta all'uomo di Stato, allora il vero, a questo modo esagerato, divien falso. Se lo scopo della politica, com'egli stesso più volte afferma [347] con eloquenza, deve esser la grandezza della patria, a cui ogni privato interesse va sacrificato, nessuno negherà che solo un animo generoso e buono può veramente amarla, e con maggiore efficacia riuscire ad aiutarla.

Pure il Machiavelli, a dimostrarci che la bontà personale e la capacità politica son cose diverse, si diletta sopra modo di farci vedere quanto utile potè politicamente riuscire qualche volta uno scellerato; e, non avendo nè potendo al suo tempo avere un'idea chiara del progresso morale e civile delle società umane, ciò che trova una volta giustificabile, gli appar tale per sempre. Non vede allora differenza sostanziale tra i mezzi, con i quali un capo di tribù selvagge riesce a costituire un qualche ordine sociale, e quelli che è lecito adoperare ad un principe di uno Stato già progredito. Se la storia anche oggi può lodare il carattere politico di Guglielmo il Conquistatore, che pur cavava gli occhi ai prigionieri, e tagliava loro mani e piedi, senza mai dar segno alcuno di pietà,[513] al Machiavelli sarebbe stato difficile intendere che in altri tempi questi medesimi mezzi potrebbero essere adoperati solo da un mostro, e porterebbero la immediata rovina di chi li adoperasse, appunto perchè non vedeva, come noi vediamo, che la coscienza pubblica e la privata sono fra loro in relazione; che gli uomini non son sempre gli stessi, ma mutano di continuo. E perciò appunto, quando ammirava le azioni del Valentino quasi come un'opera d'arte, non s'avvedeva che questi aveva passato il segno, [348] scandalizzando perfino quel secolo scandaloso, e che prima o poi la sua impresa doveva rovinare, perchè esso ed il padre, nonostante l'accortezza, l'ingegno e la fortuna, calpestando l'umana coscienza, avevano di necessità fabbricato sulla rena. Tutto ciò riesce a noi anche più intollerabile, per quel suo linguaggio singolare che tanto spesso egli adopera. Le parole con le quali si lodano le più nobili azioni nella vita privata, il Machiavelli le usa di continuo per lodarne altre, che sarebbero in essa giudicate inique, se crede che possano riescire utili o necessarie nella vita pubblica. Egli lo fa a sempre meglio mettere in luce la differenza che passa fra l'una e l'altra, e senza scrupolo, senza esitare, anzi con vero entusiasmo, quando si tratta d'azioni compiute a difesa della patria. Ma nessuna spiegazione al mondo farà mai, che il nostro orecchio possa assuefarsi a sentir parlare di frodi onorevoli, di crudeltà generose, di scelleratezze gloriose. Eppure egli, trascinato da una logica irresistibile, spronato dal bisogno di dare efficacia alle sue parole, di trovar leggi e regole generali; convinto d'aprire una via sconosciuta, di fondare sopra solide basi una scienza nuova e praticamente utile alla società; portato dalla propria indole, dalla propria fantasia alle conclusioni assolute, traeva, inesorabile, le conseguenze dalle sue premesse, senza mai di nulla spaventarsi, senza occuparsi di quello che si sarebbe detto o pensato di lui.

Noi possiamo e dobbiamo spesso biasimarlo; ma il giusto biasimo non ci deve far chiudere gli occhi alla realtà delle cose, ed alla difficoltà del problema, che egli per la prima volta osò affrontare, e che noi ancora non abbiamo risoluto. Quando, anche oggi, entrando nel tempio cristiano, vediamo sulla tela quasi santificata Giuditta che presenta al popolo esultante la testa d'Oloferne; quando nella scuola cerchiamo ispirare ai nostri giovanetti ammirazione per l'Orazio che uccide la propria sorella, pensiamo mai al nome che dovremmo dare [349] a queste azioni, se le giudicassimo coi principii stessi con cui tante volte giudichiamo il Machiavelli? Esse sono fra quelle appunto che egli chiamava scelleratezze gloriose. Di certo, se i tempi fossero stati meno corrotti, il fenomeno del Machiavellismo avrebbe preso un'altra forma; e se il Machiavelli avesse avuto un animo più puro, più ideale, sdegnoso d'ogni cinismo, un amore della virtù più intenso, avrebbe anch'egli tenuto altro linguaggio, e anche senza vedere quello che allora nessuno poteva vedere, avrebbe qualche volta fatto almeno sentire la protesta, il dolore della propria coscienza. Ma nulla di meno razionale, che il non tener conto degli errori inevitabili d'un secolo, e delle loro necessarie conseguenze; nulla di più ingiusto, che il volere in lui solamente giudicare gli errori come colpe, e pretendere di tutto spiegare colla corruzione sua e del suo tempo. Aveva perciò ragione il Mohl, quando scrisse che, se il Machiavelli aveva peccato, molto più era stato contro di lui peccato.[514] La posterità deve ancora rendere giustizia a colui che certo non fu senza colpa, ma che pure osò affrontare la soluzione d'uno dei più ardui problemi che s'incontrino nelle scienze morali, e non temè di condannare per secoli il suo nome all'odio dei posteri, perchè si sentiva nello scrivere animato dall'amore della verità, della libertà e della patria, da un grande desiderio del pubblico bene.

A sempre meglio intendere il valore intrinseco del Machiavelli, e le sue vere relazioni coi tempi in cui visse, nulla giova quanto il porlo accanto al Guicciardini, esaminando le Considerazioni, che questi scrisse sui Discorsi del primo. Il Guicciardini era senza dubbio più pratico, aveva maggiore attitudine a comandare, maggiore conoscenza degli uomini e degli affari, specialmente dei grandi affari, dei quali ebbe un'assai più larga [350] esperienza. E, come abbiamo già visto, senza ferme convinzioni politiche, senza grandi ideali, occupato solo a farsi strada nel mondo, egli era un osservatore sempre esatto, sempre pratico, non mai fantastico. Messo accanto al Machiavelli, sembra il genio del buon senso, che, sicuro di sè, guarda sorridendo i voli troppo audaci, le creazioni troppo ardite d'un genio divinatore, di cui nota ogni inesattezza, biasima i passi precipitosi e pericolosi, con grande maestria e prudenza; ma del quale non comprende tutta la forza, nè l'altezza della mèta cui aspira. Il Machiavelli dal suo lato non ascolta i consigli della prudenza, perchè trova soddisfacimento solo quando s'avanza per sentieri sconosciuti, inesplorati, donde qualche volta precipita senza però mai perdere l'energia necessaria a salire nuovamente in alto.

Fin dalle prime parole, il Guicciardini fa presentire la disposizione del suo animo. Il Machiavelli discorrendo dell'origine delle città, fedele al suo principio, che gli uomini son cattivi per natura, e diventano buoni per forza, osserva che, quando le città si trovano in luoghi sterili, i cittadini riescono operosi ed energici; quando invece si trovano in luoghi fertili, si abbandonano all'ozio, se leggi e istituzioni severe non vi pongono efficace rimedio, stimolandoli al lavoro, educandoli alle armi. Ma la sterilità dei luoghi non offre agevole occasione alle conquiste; e però i Romani fondarono la loro città in un paese fertile, che apriva la via alle conquiste, e resero il popolo laborioso, armigero con leggi severissime, che il Machiavelli enumera. A questo punto il Guicciardini, che ammirava molto l'arte militare dei Romani, ma non del pari il loro governo e la loro politica, sembra che incominci subito a perdere la pazienza. Roma, egli dice, fu posta in un territorio fertile, ma senza contado, e circondata da popoli armigeri; onde fu costretta ad allargarsi con la virtù delle armi e della concordia. E questo è quello che segue, «non in una città che voglia vivere alla [351] filosofica, ma in quelle che vogliono governarsi secondo il comune uso del mondo, come è necessario fare.»[515]

Venendo poi ad esaminare ciò che i Discorsi dicono sulle varie forme di governo, approva la esposizione fatta in essi secondo le idee di Polibio. Arrivato però, nel capitolo nono, al punto decisivo, là dove si dice che a fondare una repubblica bisogna esser solo, e che perciò Romolo fece bene ad ammazzare il fratello, quale è la posizione che il Guicciardini prende di fronte al Machiavelli? «Non è dubbio,» egli dice, «che un solo può porre miglior ordine alle cose, che non fanno molti, e che uno in una città disordinata merita laude, se, non potendo riordinarla altrimenti, lo fa con la violenza e con la fraude e modi estraordinari.» «Ma si preghi Dio che non ci sia bisogno d'essere riordinati a questo modo, perchè gli uomini sono fallaci, e facilmente al riordinatore può venire la voglia di farsi tiranno. E quanto alla vita di Romolo bisogna considerarla bene, perchè pare che fosse ammazzato dal Senato appunto per volersi arrogare troppa autorità. Bisogna considerarla bene.»[516] Dove poi il Machiavelli, proseguendo il suo discorso, s'esalta con tanta eloquenza a descrivere la grandezza d'animo del vero legislatore, che, compiuta la sua opera, prova il suo disinteresse e l'altezza del suo scopo, non lasciando lo Stato agli eredi, ma affidandone la cura alle mani del popolo, perchè lo mantenga a lungo libero e forte, il Guicciardini con freddezza osserva, che questi sono pensieri, «che si dipingono più facilmente in su i libri e nelle immaginazioni degli uomini, che non se ne eseguiscano in fatto.»[517] [352] Egli dunque ammette, senza neppur discuterlo, il punto di partenza del Machiavelli, ed arriva fino a riconoscere che la frode, la violenza, l'inganno possano, nel caso di cui si ragiona, essere lodevoli. Riconosciuto però il fatto, quale era allora, almeno in pratica, ammesso da tutti, non vuole su di esso fondare una teoria, non tirarne conseguenze; ma cerca piuttosto attenuarlo, temperarlo con un linguaggio moderato, e coi suggerimenti del senso comune. Non ammette invece che sia possibile quella grande generosità del vero legislatore, nella quale il Machiavelli aveva così esplicita fede, e nondimeno lo accusa nello stesso tempo di credere gli uomini troppo cattivi.

In vero il Machiavelli non solo afferma che gli uomini, tristissimi di loro natura, tali rimarrebbero se le leggi non li correggessero e costringessero ad essere buoni; ma aggiunge ancora che, se fossero veramente buoni, non sarebbero necessarie le leggi. Secondo noi invece, queste essendo fatte dagli uomini, essendo espressione del loro modo di sentire e di pensare, ne risulta chiaro che, se in essi non fosse germe veruno di bontà, non si potrebbero avere nè le buone leggi, nè le virtù che ne derivano. Ma il Guicciardini, che non aveva le nostre idee, e non accettava quelle del Machiavelli, si contenta di osservargli semplicemente, che tutto è da lui detto in modo troppo assoluto, perchè gli uomini sono di loro natura portati al bene, da cui deviano solo per interesse personale. Chi preferisse, egli dice, il male per sè stesso, sarebbe un mostro. Le leggi si debbono quindi fare in modo, che chi voglia non possa compiere il male, e debbono con premi incoraggiare il bene.[518]

Ma il Machiavelli aveva anche con molta eloquenza scritto, che chi, messo da una parte il bene e dall'altra il male, preferisse questo a quello, dovrebbe non essere nato di uomo. Esaminando però la società, egli vedeva [353] che l'interesse privato si metteva di continuo in conflitto col pubblico, il quale non avrebbe trionfato davvero senza le leggi e la forza; e siccome questo trionfo egli voleva sopra ogni altra cosa assicurare, ed in esso vedeva la sorgente di tutte le civili virtù, così le faceva derivare dalle leggi e dalla forza. Il Guicciardini, invece, che ai privati e personali interessi dava, in teoria ed in pratica, assai maggior forza, voleva rimediare a tutto ponendoli fra di loro in equilibrio, facendo sì che gli uni servissero di freno agli altri, ed in ciò riponeva l'essenza del governo, e vedeva la via a formare lo Stato, che il Machiavelli concepiva invece come una unità superiore, alla quale dava il diritto, imponeva il dovere di sottomettere i privati interessi, vincendo ogni loro resistenza. Considerando poi tutta l'attività politica come personificata nel legislatore, nel Principe, il quale a forza si sovrapponeva alla società, ne seguiva necessariamente, che ogni impulso, ogni tendenza sociale, il governo stesso prendevano sempre l'aspetto di qualche cosa che veniva di fuori, che non nasceva da essa, ma aveva la sua sorgente in una volontà affatto estranea. Ed il Guicciardini anche qui non fa altro che esaminare sentenze ed osservazioni staccate, contentandosi di biasimare le esagerazioni del Machiavelli, temperandone, moderandone la forma eccessiva di linguaggio, lasciando da parte le quistioni generali, che gli paiono sempre teoriche ed oziose.

Nei Discorsi si legge ripetutamente: «Non esservi più sano nè più utile mezzo ad assicurare la libertà, che ammazzare i figli di Bruto.» Ed il Guicciardini scrive: «Assai difficilmente si educa alla libertà un popolo che mai non la conobbe. Il meglio è in questi casi fondare un governo temperato, e punir subito i nemici di esso, lasciando vivere gli altri in pace. Sebbene però allora sia spesso inevitabile metter le mani nel sangue, non desideri il nuovo governo che Bruto abbia figli, per acquistare reputazione ammazzandoli: meglio sarebbe che non [354] ne avesse. Se poi si tratta d'un principe odiato da un popolo che ami la libertà, non v'è davvero rimedio. Ed è puerile credere col Machiavelli, che Clearco ammazzasse gli Ottimati, per dar soddisfazione al popolo che gli era avverso; bisogna credere piuttosto che anch'essi gli erano nemici, e che però li spegnesse sotto finto colore. Il solo rimedio in simili casi sta nel farsi partigiani abbastanza potenti da opprimere il popolo, o batterlo ed annichilirlo in modo che non possa muoversi, introducendo nello Stato nuovi abitatori che non siano educati alla libertà.»[519] E dopo tali parole, che sembrano, pur combattendolo, concedere già molto alle idee del Machiavelli, egli cerca subito di temperare la sentenza troppo assoluta. «Bisogna però che il Principe abbia animo ad usare questi modi straordinari, quando siano necessari; ma abbia tanta prudenza da non tralasciare alcuna occasione che si presenti, per stabilire le cose con la umanità e coi benefici, non pigliando così per regola assoluta quello che dice lo scrittore, al quale sempre piacquono sopra modo i rimedi straordinari o violenti.»[520]

Lo stesso metodo di critica segue là dove il Machiavelli afferma che, quando si tratta di salire a grande fortuna, non basta la sola forza, ma occorre anche usare la frode. Il Guicciardini distingue: «Se si parla di simulazione e di astuzia, può esser vero che la sola forza, non dirò mai, che è vocabolo troppo risoluto, ma rarissime volte conduca gli uomini al potere. Se però s'intende addirittura inganno o mancamento di fede, vi furono molti, che senza la frode acquistarono regni, come Alessandro Magno e Cesare, che scoprì la sua ambizione. Può anche essere disputabile, se la frode sia sempre mezzo sicuro d'arrivare a grandezza, perchè con [355] l'inganno si fanno di bei colpi, ma la reputazione d'ingannatore ti toglie poi modo di conseguire l'intento.»[521] Se non che, la questione principale posta nei Discorsi era, che in politica l'inganno sia non di rado un mezzo necessario per riuscire ad un fine buono, e che perciò l'adoperarlo possa, in questi casi, essere un dovere. Il Guicciardini evidentemente è d'accordo col Machiavelli; ma non vuole ammetterlo senza riserve, nè vuole fermarsi a discutere una sentenza che gli par troppo ardita. E si contenta di esaminare, come cosa più pratica, quando la frode riesce e quando non riesce al fine proposto.

Abbiamo già visto, che il Machiavelli fa alcune giuste, profonde osservazioni sulla storia dei partiti in Roma ed in Firenze, concludendo che a questa le divisioni furono rovinose, perchè la vittoria del popolo portò alla distruzione dei grandi; a quella furono invece utili, perchè il popolo cominciò in essa a combattere pe' suoi giusti diritti, e, avuta la vittoria, si contentò di dividere il governo coi patrizi. Tali considerazioni furono poi il fondamento della sua Storia di Firenze, contribuendo non poco a determinarne la originalità ed il valore. Il Guicciardini, fermandosi al solito, unicamente sul modo troppo assoluto con cui sono esposte, dice: «Non fu certo la divisione che rese potente Roma, anzi assai meglio sarebbe stato se i patrizi avessero sin dal principio ammesso il popolo al governo. [356] Lodare le disunioni è come lodare in un infermo la sua infermità, per la bontà del rimedio che gli fu poi apprestato.[522] Appio Claudio non cadde perchè s'unì coi grandi a combattere il popolo, quando doveva fare il contrario, nè per altra ragione addotta dal Machiavelli; ma perchè voleva spegner la Repubblica, quando Roma aveva buone leggi, costumi santi, e ardente amore di libertà. Manlio Capitolino s'appoggiò al popolo per sforzare i grandi, e cadde del pari; Silla s'appoggiò ai grandi, e lo stesso fece in Firenze il Duca d'Atene, che per sua colpa perdette poi il loro favore. Le storie abbondano d'esempî diversi, e ciascuno ha le sue buone ragioni; sono partiti che non si possono pigliare con una regola ferma, perchè la conclusione si deve cavare dagli umori della città, dall'essere delle cose, che varia secondo la condizione dei tempi, e da altre occorrenze che girano.»[523]

Il punto però nel quale il Guicciardini esce dalla sua solita temperanza, per usare un linguaggio eccessivo o almeno assai deciso, è quello in cui si parla del popolo, che egli disprezza, quasi odia, ed il Machiavelli invece ama, ammira, esalta. «Io non so bene,» egli dice, «che cosa significhi l'affermare che bisogna confidare al popolo la guardia della libertà. Se s'intende parlare di chi deve aver parte al governo, ciò spetta, massime nei governi misti come quello di Roma, così al popolo come ai nobili, che ivi più volte salvarono la patria e la libertà di tutti. Quando poi si dovesse fare una scelta tra un governo tutto di nobili o tutto di popolo, io non starò a discutere se veramente il primo sia più atto a conservare, il secondo a conquistare; ma non esiterei punto nella scelta, perchè la plebe è ignorante, e non buona nè all'uno nè all'altro ufficio.»[524] «Dove è moltitudine quivi [357] è confusione, e in tanta dissonanza di cervelli dove sono varî giudizî, varî pensieri, varî fini, non può esservi nè discorso ragionevole, nè risoluzione fondata, nè azione ferma...; però non senza ragione è assomigliata la moltitudine alle onde del mare, le quali, secondo i venti che tirano, vanno ora in qua, ora in là, senza alcuna regola.» Il Machiavelli diceva che, non senza ragione, s'era assomigliata la voce d'un popolo a quella d'un Dio. Pel Guicciardini un popolo è «un'arca d'ignoranza,» e quindi i governi popolari son sempre ignoranti. Che se la repubblica romana fu savia, ciò dipese dall'essere stata sempre governata dai pochi, non dai molti. Nè vale a nulla, egli dice, il ricordare i vizî personali e privati dei principi, perchè qui si tratta solo della loro prudenza politica, ed un uomo di molti vizî può anche essere prudentissimo nel governare.[525] Questo era però quello appunto che diceva ancora il Machiavelli, che delle qualità private dei principi non s'occupava, o solo in quanto giovavano o nocevano allo Stato. I due grandi politici fiorentini erano, non ostante le loro somiglianze, così diversi, che spesso finivano col non intendersi fra loro.

Nel giudicare l'antica Roma, il Guicciardini stimava esagerata l'ammirazione del Machiavelli, e non voleva prendere a modello uno stato in cui trovava ammirabili solo gli ordini militari.[526] Ma neppure nel discuter della guerra andavano d'accordo. Nessuno dei due era uomo del mestiere; il Guicciardini però aveva avuto una più larga esperienza, essendo stato commissario presso eserciti ben più numerosi e poderosi di quello di Firenze al campo di Pisa, e s'era trovato più volte presente ad imprese di ben altra gravità. Ma, sembrandogli sempre inutile il troppo speculare, non era riuscito mai a formarsi [358] sull'arte della guerra in generale, nè sul modo di ordinare le milizie in particolare, nessuna delle idee originali cui arrivò il Machiavelli, che, nella sua più ristretta esperienza, aveva assai più da vicino esaminato le cose. E però anche qui il Guicciardini cerca solo di sorprenderlo in tutte le esagerazioni che gli sfuggono, e spesso lo trova veramente in fallo, come quando gli rimprovera il poco conto che fa delle armi da fuoco e delle fortezze, per volere al solito imitare e citar sempre l'esempio dei Romani. «Non bisogna poi tanto lodare l'antichità,» egli osserva giustamente, «da biasimare tutti gli ordini moderni, che non erano appresso i Romani, perchè la esperienza ha scoperto molte cose, le quali non furono considerate dagli antichi e per essere i fondamenti diversi, sono ora necessarie. Ed è troppo manifesto che le fortezze sono alcuna volta necessarie. La ragione addotta, che esse danno animo ai cattivi principi di perseverare nel male, è molto frivola, perchè allora non bisognerebbe avere guardia nè armi nè esercito. Non si debbono fuggire le cose utili per tema che la sicurtà ti dia animo a far male. Si deve forse biasimare la medicina, perchè la fiducia in essa ti può rendere meno cauto a riguardarti?»[527] Ed aveva ragione, perchè davvero, a questo proposito, il Machiavelli esagerava molto nei Discorsi, tanto che altrove egli stesso cercò, in parte almeno, di correggersi, e più tardi fu tra coloro che s'adoperarono a fortificare Firenze, per difenderla. Ma il Guicciardini non lo intese neppure quando sosteneva con molta ragione che i nuovi Stati dovevano fondarsi sull'amore del popolo e sui cittadini armati, non sulle fortezze, come avevano fatto e facevano i piccoli tiranni italiani, quasi sempre con loro rovina. Nè poteva intenderlo, perchè del popolo non voleva mai sentire dir bene, ed insisteva sempre che, «considerando come molte [359] volte e' popoli eziandio bene trattati, sono poco ragionevoli, e spesso desiderosi di cose nuove, è pur necessario fare qualche fondamento in sulla forza, in sul tenerli in qualche terrore.»[528]

Citiamo un ultimo esempio. Vedemmo già con quanta eloquenza il Machiavelli aveva notato, che la corruzione della Corte di Roma, ed il potere temporale dei Papi erano stati causa della divisione e rovina d'Italia. Il Guicciardini osserva a questo proposito: «Della Corte di Roma non si può dir tanto male che non meriti più, perchè è una infamia, un esempio di tutti i vituperî e obbrobrî del mondo. Ed è anche vero che la Chiesa abbia impedito l'unione d'Italia in un solo Stato; ma non so se ciò fu bene o male. Una sola repubblica poteva certo essere gloriosa al nome d'Italia, e di grande utilità per la città dominante; ma sarebbe stata la rovina delle altre. È vero che la divisione nostra ha portato molte calamità, sebbene sia da ricordare che le invasioni dei barbari cominciarono al tempo dei Romani, per l'appunto quando l'Italia era unita. Ma l'Italia divisa ha potuto avere tante città libere, che io reputo una repubblica sola le sarebbe riuscita più infelice che felice. Questo veramente non sarebbe seguìto sotto un regno, che è più comune verso tutti i sudditi; onde vediamo la Francia ed altri paesi vivere felici sotto un re. Pure, o sia fato o sia complessione degli uomini, questa provincia ha sempre voluto libertà, e però non s'è mai potuta unire sotto un imperio. I Romani vi riuscirono solo con grande virtù e violenza; ma appena si spense la Repubblica e mancò la virtù degl'imperatori, perderono facilmente il dominio. Laonde io credo che se la Chiesa ha impedito l'unione d'Italia, ciò non sia stato ad infelicità di questa, che ha potuto così vivere secondo la sua propria natura.»[529]

[360]

Chi non vede la verità di tali osservazioni, in ciò almeno che si riferisce alla storia vera, all'Italia reale del Medio Evo, ed in parte anche del Rinascimento? Ma il Machiavelli, guardando più oltre, vedeva pure che l'Europa e la società necessariamente mutavano, che si andavano formando le grandi nazioni e gli Stati moderni, i quali avevano bisogno di assai maggior forza, e di più vasto territorio. L'Italia sarebbe stata inevitabilmente oppressa dai vicini, se non si univa anch'essa. Questo era ciò che la Chiesa, come le aveva nel passato impedito di fare, così lo impediva al presente. È vero che nel Medio Evo una sola repubblica o una monarchia avrebbero reso impossibile la libertà di tanti Comuni, che pur fiorirono tra noi, e quindi la grande e varia cultura italiana. Ma il Machiavelli aveva pur fatto notare che v'erano le libere confederazioni di repubbliche, v'erano i grandi Stati repubblicani o monarchici, i quali sapevano estendersi, ingrandirsi, seguendo l'uso romano, che era d'avere «compagni, non sudditi;» e ricordava spesso anche i Parlamenti di Francia, che davano, egli diceva, prosperità a quella monarchia. Tutto ciò sfuggiva all'attenzione del Guicciardini, perchè fuori della realtà presente e circoscritta, in mezzo alla quale si trovava; ed egli non vedeva nè voleva veder altro.

Così da qualunque lato si esaminino questi due grandi scrittori, risulta sempre chiaro che, nelle questioni veramente pratiche, il buon senso, la natura dell'ingegno e l'esperienza del Guicciardini gli davano una vera superiorità sul Machiavelli. Le sue osservazioni, i suoi precetti possono più facilmente ed anche più utilmente servire di guida nella condotta giornaliera della vita e degli affari.[530] Le considerazioni del Machiavelli aprono [361] invece nuovi orizzonti allo studio della connessione logica tra i fatti della storia, allo studio della società umana e dell'azione che su di essa può esercitare l'uomo di Stato, cui danno norme più generali, ma non meno pratiche per l'indirizzo da seguire nei grandi avvenimenti politici, nei quali non bastano più i consigli della esperienza personale, fatta giorno per giorno. E quanto al conflitto, che allora sorgeva più visibile che mai fra le necessità inevitabili della vita politica, ed i principii sacrosanti della morale privata, se il Guicciardini ne parlava a bassa voce, senza volercisi fermare, il Machiavelli invece su di esso principalmente fissava il suo sguardo, e rivolgeva tutta la sua attenzione, tirandone, senza paura, quelle che gli sembravano conseguenze inesorabili. Fu primo a veder la grande importanza pratica e scientifica del problema, che anche oggi affatica la mente dei filosofi e di tutti coloro che meditano sul destino dell'uomo, primo perciò a fondare la nuova scienza dello Stato.

[362]

CAPITOLO IV. Il Principe.

Nel 1513, come abbiamo già visto, il Machiavelli, ritiratosi nella sua piccola villa presso San Casciano, a sette miglia circa da Firenze,[531] aveva già cominciato a scrivere [363] i Discorsi, ai quali interrottamente lavorò per lungo tempo. In essi il concetto fondamentale del Principe trovasi più volte accennato in germe, ed è parte d'un lavoro speciale che doveva contenere tutte le idee della politica pratica dell'autore. I Discorsi erano un'opera teorica, generale, scritta meditando sulla storia, specialmente sulla storia di Roma; e però il concetto assai più pratico del Principe, a misura che s'andava formando, doveva cominciare a staccarsi da essi, e finire di necessità col dare origine ad un altro lavoro.

In tutta l'Europa, per opera dei sovrani, s'andavano allora, sulle rovine del Medio Evo, rapidamente costituendo gli Stati nazionali e moderni. I mezzi poco scrupolosi, spesso immorali, coi quali questa trasformazione seguiva, coi quali solamente poteva allora seguire, sono quelli appunto che il Principe, secondo il Machiavelli, deve adoperare. Questo Principe infatti noi lo vediamo sorgere, formarsi nella mente dello scrittore, per le stesse ragioni, seguendo il medesimo processo, con cui si era andato formando, e sorse dalla realtà delle cose, in mezzo al vario, portentoso disordine politico del Rinascimento, dinanzi al caos medievale, che costituisce come il fondo del quadro, e si va lentamente sempre più allontanando. L'uno è come l'immagine, lo specchio fedele dell'altro. E della grande somiglianza che passa fra la creazione del pensatore, e la realtà dei fatti che seguono intorno [364] a lui, l'una e l'altra quasi prodotto necessario, fatale d'una legge inesorabile, il personaggio che egli ci descrive, per quanto possa ai nostri giorni sembrar detestabile, acquista una tragica verità, che ci riempie, nello stesso tempo, di stupore, di terrore e di ammirazione. Il libro assume perciò tutta quanta l'importanza, di un grande avvenimento storico; il pensiero del Machiavelli e la nuova società che si va contemporaneamente costituendo, appariscono come due facce d'una sola e medesima rivoluzione, che, leggendo il Principe, par che segua sotto i nostri occhi.

La politica che noi vediamo qui descritta, anzi drammaticamente individuata in un personaggio ideale, era prima che altrove cominciata in Italia, per opera dei nostri Signori e tiranni, i quali l'avevano insegnata ai sovrani dei grandi Stati, che per mezzo di essa s'andavano ora formando in Europa. Ma fra i tiranni italiani, i quali erano pur quelli che costantemente si trovavano sotto gli occhi dei Machiavelli, ed i sovrani come Luigi XI e XII, Ferdinando il Cattolico, Enrico VIII, Francesco I, correvano differenze non poche. Il tiranno italiano era un uomo assai spesso sorto dal nulla, un privato cittadino salito al potere, non per legame o tradizione di famiglia, ma per opera sua propria, del suo ingegno, della sua accortezza ed audacia. Egli perciò era essenzialmente quello che il Machiavelli chiamava Principe nuovo. Il suo Stato si poteva dir veramente sua creazione; di esso s'era in mezzo a mille pericoli impadronito; in mezzo a mille pericoli doveva mantenerlo, quasi ogni giorno riconquistandolo. E fra questi principi nuovi, che d'ogni dove circondavano il Machiavelli, quello che a lui appariva come il tipo più definito, quello che egli aveva potuto meglio, più da vicino conoscere ed osservare, era il Duca Valentino, che nella sua mente, a poco a poco, s'era andato, come noi vedemmo, idealizzando.

[365]

Questa si può dir la materia prima del Principe. In esso domina sempre una tendenza pratica, in relazione costante colla storia contemporanea, specialmente italiana, e ciò determina la vera e propria fisonomia del libro. Qui infatti, contro l'uso che serba nelle altre sue opere, il Machiavelli cerca di trarre quasi tutti gli esempî dagli avvenimenti seguìti al suo tempo. Ferdinando il Cattolico, Luigi XI, Francesco Sforza, Alessandro VI, Cesare Borgia ed altri simili sono di continuo citati e come interrogati. Qualche volta nel ricorrere all'antichità, par che senta quasi l'obbligo di scusarsene. «Io non mi volevo partire dagli esempî italiani e freschi; pure non voglio lasciare indietro Ierone Siracusano.»[532] Più il libro s'avvicina alla situazione politica in cui era allora l'Italia, più il calore, l'eloquenza, l'entusiasmo dello scrittore vanno crescendo.[533] Il soggetto essendo inoltre assai più circoscritto e determinato che nei Discorsi, scompariscono affatto le digressioni e ripetizioni che in questi si trovano assai spesso. Si procede di capitolo in capitolo con più stretto legame logico, con uno stile rapido vigoroso, chiarissimo. Ogni pagina risplende per nuove bellezze di forma; il libro par quasi un'opera d'arte, ha una potenza drammatica che affascina, che trascina il lettore fino all'ultimo capitolo, in cui il [366] Principe nuovo, divenuto finalmente, attraverso i pericoli ed il sangue, sicuro padrone dello Stato che è opera sua, può renderlo libero, affidandone la difesa, come fecero sempre i più grandi e gloriosi legislatori, alla guardia del popolo. Ed abbiamo allora l'apoteosi dell'Italia indipendente, unita e libera in quella celebre esortazione finale al tiranno, che si trasforma in redentore della patria, esortazione la quale è forse ciò che di più eloquente abbia la letteratura italiana.

Ma come mai, partendo da un concetto che, sia pure pratico e di politica contemporanea, è certo anche scientifico e generale, si finisce d'un tratto colla sola Italia, la quale sembra inaspettatamente divenire così lo scopo esclusivo di tutto il libro? Questo è ciò che ha messo a tortura il cervello di molti, ed alcuni han finito col vedere in quella che è la conclusione logica di tutta l'opera, un capitolo senza nessuna connessione col resto, artificialmente, forzatamente appiccicato. Per rispondere a una tale domanda, bisogna innanzi tutto notare quale fu veramente l'occasione prossima, che indusse il Machiavelli a scrivere il Principe. Noi abbiamo già detto che uno dei pensieri i quali dominaron sempre la mente di Leone X, fin dai primi anni del suo pontificato, fu quello di creare uno Stato così al fratello Giuliano come al nipote Lorenzo. Di ciò si parlava spessissimo a Firenze ed a Roma, come vediamo in tutti gli storici, in molte e molte lettere dei contemporanei. Da essi sappiamo, che s'era perfino pensato di poter dare un giorno a Giuliano il regno di Napoli, che il ducato d'Urbino gli era stato veramente proposto, ma che egli lo ricusò. Continuamente si discorreva poi di dargli Parma, Piacenza, Modena e Reggio. Un tale disegno non era molto diverso da quello concepito già da Alessandro VI per suo figlio il Duca Valentino, il quale, secondo il Machiavelli aveva saputo mirabilmente attuarlo, e se i tempi non gli fossero a un tratto, senza sua colpa, divenuti [367] avversissimi, si sarebbe forse allargato in Toscana e più oltre ancora. Le provincie di Parma e di Modena erano allora lacerate dalle fazioni poco meno della Romagna;[534] a riunirle e governarle occorrevano quindi provvedimenti non molto diversi. Si trattava d'un principe nuovo in uno Stato nuovo. Tutte le osservazioni già fatte dal Machiavelli nella sua legazione al Valentino; tutte le teorie da lui meditate leggendo Livio, e già cominciate ad esporre nei Discorsi; tutto il concetto del Principe, che da un pezzo s'era venuto formando nella sua mente, suggerito dalla realtà storica che lo circondava, e che ad esso dava, da esso riceveva luce; tutto ciò acquistava ora un valore pratico e immediato. Così le sparse idee, lungamente meditate, si riunivano, si coordinavano, come per forza intrinseca, e divenivano una persona vivente dinanzi ai suoi occhi attoniti: egli stesso si sentiva esaltato e maravigliato da questa sua improvvisa ispirazione. Se di Parma, di Modena e delle altre città un nuovo principe fosse riuscito, anche colla forza, colla violenza e con l'inganno, senza scrupoli di sorta, a formare un corpo solo, uno Stato armato, come aveva saputo fare il Valentino, allora gli sarebbe riuscito facile estendersi, allargarsi fino a Ferrara, a Bologna, forse a tutta Italia, e facendosi un nome immortale, essere annoverato tra i più grandi fondatori di Stati, come Romolo, come Licurgo. Che tutto ciò fosse nell'Italia corrotta di quel tempo un sogno, non v'ha dubbio di sorta, ed il Machiavelli stesso lo aveva più d'una volta detto; ma fu [368] pure il sogno di tutta la sua vita, e noi lo vedremo più tardi tentare di farne invaghire anche Leone X. I Medici erano allora potentissimi, la loro fortuna ogni giorno cresceva, ed a lui, trascinato dalla sua fantasia, tutto pareva oramai possibile. Non sapeva, non poteva egli stesso dominarsi. A riuscire bisognava di certo conoscer bene l'arte dello Stato; ed egli la conosceva a fondo quest'arte, perchè ad essa aveva dedicato l'esperienza e la meditazione di tutta la sua vita. Possibile mai che giovani come Giuliano, come Lorenzo, che il Papa stesso, una volta che egli avesse loro esposto un tale disegno, non ne vedrebbero la grandezza e la gloria, non capirebbero quanto utile egli poteva riuscir loro nell'attuarlo? Possibile mai che non capissero quale onore immortale ne sarebbe venuto alla famiglia, all'Italia, e personalmente ad essi medesimi, che erano pur figli di questa patria, e non potevano non amarla, non desiderare di vederla, con loro vantaggio grandissimo, libera dagli stranieri, che così crudelmente la calpestavano? Non aveva egli col Soderini dimostrato quanto utilmente e fedelmente sapeva nelle cose di Stato servire? Se una volta sola i Medici lo avessero adoperato, anche nel più modesto ufficio, fosse pure, come scriveva poco dopo al Vettori, «a voltolare un sasso,» si sarebbe doluto di sè e non della fortuna, quando non fosse riuscito a guadagnarsi l'animo loro. Così l'interesse privato ed il bisogno che aveva di operare, s'univano in lui all'entusiasmo del pensatore, del patriotta, e sempre più lo stimolavano, lo accendevano. Ma questo doppio, anzi triplice carattere, teorico, pratico e personale del Principe, se da una parte è quello che ne determina la fisonomia e ne costituisce il valore, da un'altra è quello che ha dato origine ai più disparati, opposti, contradditorî giudizî. A guardarlo, come molti han fatto, sotto l'uno o l'altro solamente de' suoi molteplici aspetti, si finisce col non comprenderne più nulla. Pure le lettere del Machiavelli più [369] d'una volta dimostrano, con la maggiore possibile evidenza, in che modo, con quale scopo egli meditò il libro, e donde ricevette la sua immediata ispirazione a scriverlo. Nei primi del 1515, quando cioè il Principe era già compiuto, affermavasi di nuovo e con assai maggiore insistenza, che Giuliano de' Medici sarebbe stato fatto signore di Parma, Piacenza, Modena, Reggio, e dicevasi ancora che nel nuovo Stato verrebbe inviato, come governatore, Paolo Vettori, fratello di Francesco. A quest'ultimo perciò il Machiavelli scriveva, il 15 gennaio di quell'anno stesso, una lettera in cui ragionava delle difficoltà che vi sono a governare un nuovo principato, massime se formato di parti diverse, appartenute a diversi Stati. «Bisogna,» egli diceva, «di queste varie parti formar membra d'un corpo solo, e dargli unità. A ciò si riesce o coll'andarvi ad abitare in persona, o col mandarvi un governatore solo, che si faccia obbedire da tutti i sudditi. Se Giuliano se ne starà a Roma, come par che voglia fare, e manderà in ogni terra il suo governatore, tutto resterà disunito e in aria.» «Il Duca Valentino, l'opere del quale io imiterei sempre, quando fossi principe nuovo, conosciuta questa necessità, fece messer Rimino[535] Presidente in Romagna, la qual deliberazione fece quei popoli uniti, timorosi dell'autorità sua, affezionati alla sua potenza, confidenti di quella; e tutto l'amore gli portavano, che era grande, considerata la novità sua, nacque da questa deliberazione. Io credo che questa cosa si potrebbe facilmente persuadere, perchè è vera; e quando toccassi a Paolo vostro, sarebbe questo un grado da farsi conoscere non solo al signore Magnifico, ma a tutta Italia.... Mi è parso scriverne a voi, acciò sappiate i ragionamenti nostri, e [370] possiate, dove bisognasse, lastricare la via a questa cosa.

«E nel cadere il superbo ghiottone

E' non dimenticò però Macone.»[536]

Da questa lettera, la quale dimostra la diretta applicazione delle teorie del Principe alla formazione del nuovo Stato, che si voleva creare per Giuliano, apparisce assai chiaro come un tale disegno fosse veramente quello che il Machiavelli aveva avuto di mira nello scrivere il suo libro, che da esso anzi era stato suggerito, ispirato, senza perciò perdere il suo primo carattere generale e scientifico.[537] I due versi citati in fine, alludono di nuovo alla speranza ch'egli aveva d'essere in qualche modo adoperato dai Medici. E che facesse allora di tutto per riuscirvi, nè senza qualche buona speranza, ne abbiamo una prova manifesta in ciò che pochi giorni dopo (14 febbraio) Piero Ardinghelli, segretario di papa Leone X, scriveva a Giuliano dei Medici. «Il Cardinal de' Medici,» egli diceva, «mi domandò ieri con premura, se io sapevo che V. E. aveva preso ai suoi servizi Niccolò Machiavelli. E rispondendogli io che non lo sapevo, nè lo credevo, mi disse queste formali parole: «Ancora io non lo credo, tamen, perchè da Firenze ce ne è [371] adviso, io li ricordo che non è il bisogno suo, nè il nostro. Questa deve essere invenzione di Paolo Vectori.... Scriveteli per mia parte, che io lo conforto a non si impacciare con Niccolò.»[538]

Un'altra lettera, la più bella ed eloquente forse che uscisse mai dalla penna del Machiavelli, era stata da lui, fin dal 10 dicembre 1513, indirizzata a Francesco Vettori. Descrive in essa la vita che menava allora nella solitudine della sua villetta, esponendo con una precisione e semplicità grandissima in che modo, con quale scopo era andato colà componendo il suo opuscolo, come lo chiama. «Dopo i miei ultimi casi, io me ne vivo ritirato in villa, e non sono stato, ad accozzarli tutti, venti dì a Firenze. Ho passato il settembre uccellando ai tordi; ma, finito il mese, questo badalucco, ancorchè dispettoso, è mancato. Mi levo la mattina col sole, e me ne vo in un bosco, dove resto due ore a rivedere l'opere del giorno innanzi, ed a passar tempo con quei tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mani o tra loro o coi vicini. Uscito dal bosco, vo ad una fonte, e di lì ad un mio uccellare, con un libro sotto, o Dante o Petrarca o uno di questi poeti minori, come dire Tibullo, Ovidio e simili.» «Leggo quelle loro amorose passioni e quelli loro amori, ricordomi de' mia, e godomi un pezzo in questo pensiero. Trasferiscomi poi in sulla strada, nell'osteria, parlo con quelli che passano, domando delle nuove de' paesi loro, intendo varie cose, e noto vari gusti e diverse fantasie di uomini. Viene in questo mentre l'ora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio quelli cibi, che questa [372] mia povera villa e paululo patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell'osteria. Qui è l'oste per l'ordinario, un beccaio, un mugnaio, due fornaciai. Con questi io m'ingaglioffo per tutto dì, giuocando a cricca, a tric trac,[539] e dove nascono mille contese e mille dispetti di parole ingiuriose, ed il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti nondimanco gridare da San Casciano. Così rinvolto in questa viltà traggo il cervello di muffa, e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne vergognasse.»

E fin qui abbiam sola dinanzi a noi, viva e parlante, l'immagine del Machiavelli, che in tutta la vita s'educò leggendo gli antichi, studiando gli uomini e meditando su di essi, non senza bisogno di dar qualche pascolo alla propria immaginazione colla poesia. Ma ora, mutando stile, egli entra in argomento più grave, e ci dice finalmente come compose il suo libro. «Venuta la sera, mi ritiro a casa ed entro nel mio scrittoio, ed in sull'uscio mi spoglio quella veste contadina, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito condecentemente, entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro azioni, e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte, tutto mi trasferisco in loro. E perchè Dante dice, — Che non fu scienza senza ritener lo inteso,[540] — io ho notato quello [373] di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto un opuscolo de Principatibus,[541] dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa è principato, di quali spezie sono, come e' si acquistano, come e' si mantengono, perchè e' si perdono. E se vi piacque mai alcun mio ghiribizzo, questo non vi dovrebbe dispiacere, e ad un principe, e massime ad un principe nuovo dovrebbe essere accetto; però io lo indirizzo alla Magnificenza di Giuliano. Filippo Casavecchia[542] l'ha visto; vi potrà ragguagliare della cosa in sè, e de' ragionamenti ho avuti seco, ancorchè tuttavolta lo ingrasso e ripulisco.»

L'evidenza di queste parole è tale che, dopo averle lette, non si capisce davvero come mai si sia potuto disputare intorno ai pretesi fini reconditi del Principe. Da esse risulta ben chiaro, che il Machiavelli non lo scrisse già come un opuscolo d'occasione, destinato ai Medici per guadagnarsi il loro favore, quasi una domanda per mendicare [374] un ufficio. Nessuna supplica, in nessuna letteratura, riuscì mai un'opera d'arte o una creazione scientifica. Egli lo concepì meditando sulla storia antica e contemporanea, sulla natura del soggetto che trattava, raccogliendo i resultati della sua lunga esperienza. E quando poi l'ebbe nella sua mente concepito e determinato, pensò che poteva cavarne partito scrivendolo e dedicandolo a Giuliano. La lettera continua dicendo, che egli non sapeva indursi ad accettare l'invito del Vettori, il quale gli aveva allora offerto la propria casa, perchè ne era impedito da alcune sue faccende, ed a Roma si trovavano i Soderini, che avrebbe dovuto visitare, nel qual caso temeva che, tornato a Firenze, invece di scavalcare a casa, sarebbe scavalcato al Bargello, giacchè il governo era nuovo e perciò sospettoso. Senza una tale paura sarebbe andato di certo. E qui torna da capo all'argomento della dedica. «Ho ragionato col Casavecchia, se era bene o pur no dare questo mio opuscolo a Messer Giuliano. E dandolo, se era meglio mandarlo o portarlo. Dubito da una parte che il Magnifico neppure lo legga, e che l'Ardinghelli[543] finisca col farsi onore di questa mia fatica. Da un altro lato mi spinge a darlo la necessità che mi caccia,» «perchè io mi logoro e lungo tempo non posso stare così, che io non diventi per povertà contennendo. Appresso il desiderio avrei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso; perchè se io poi non me li guadagnassi, io mi dorrei di me. E per questa cosa, quando la fossi letta, si vedrebbe che quindici anni che io sono stato a studio dell'arte dello Stato, non gli ho nè dormiti nè giuocati, e dovrebbe ciascuno aver caro servirsi di uno che alle spese d'altri fosse pieno [375] di esperienza. E della fede mia non si dovrebbe dubitare, perchè, avendo sempre osservato la fede, io non debbo imparare ora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatrè anni, che io ho, non debbe poter mutare natura: e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia.»[544]

Qui si vede che, solo dopo aver finito il libro, egli pensò veramente di dedicarlo a Giuliano, ma era incerto ancora sulla opportunità e convenienza di farlo, dubitando che questi forse neppur lo avrebbe letto, e quindi chiedeva su di ciò consiglio al Vettori. Infatti esitò tanto, che Giuliano morì (1516) prima che la dedica gli fosse offerta, e quindi la lettera, che era stata scritta per lui, fu invece indirizzata a Lorenzo, nè sappiamo se anche questi la vedesse mai e l'accettasse. Quanto all'opinione del Vettori, dalle sue lettere inedite apparisce solo, che egli allora non lesse che alcuni capitoli del libro, i quali gli piacquero «oltre a modo.»[545] Aspettava di poter leggere il resto, per dare poi un giudizio definitivo ed un consiglio sulla opportunità della dedica. Questo giudizio e questo consiglio non vennero però mai, sebbene il Vettori fosse stato anche degli altri capitoli ragguagliato dal Casavecchia, in quei giorni appunto arrivato a Roma, dopo aver letto il Principe in Firenze. Alle parole così nobili, così elevate ed eloquenti del Machiavelli, l'ambasciatore rispondeva tornando a ragionare de' suoi osceni amori, senza una sola frase d'incoraggiamento. Dal suo silenzio, dal suo contegno riservato, chiaramente apparisce, che egli non era punto favorevole alla proposta dedica, e molto meno era persuaso della utilità pratica che ne potesse venire al Machiavelli. Di certo ai [376] Medici non sarebbe stato conveniente l'accettarla, massime se avessero davvero voluto mettere in pratica i consigli dati nel libro. Il Vettori perciò girava largo, dicendo all'amico, che poteva venire a Roma a divertirsi, e che non doveva astenersene per riguardo ai Soderini. Nessuno gli avrebbe fatto carico di una visita, alla quale del resto non era tenuto, perchè l'ufficio di segretario l'aveva avuto tre anni prima della elezione di Piero a gonfaloniere perpetuo, e aveva servito con fede, senza altro premio che il salario ordinario. «Avendo discorso col Casavecchia, non abbiamo trovato che in Roma ci sia cosa alcuna per voi. Si dice che il cardinale dei Medici vada in Francia, nel qual caso gli parlerò di voi, che conoscete il paese per esserci stato.» E così continuava con altri simili discorsi a dar speranze vaghe, senza nulla determinare, senza mai mostrar di credere che si potesse far per lui il più lontano assegnamento sul Principe, che infatti non riuscì di alcun vantaggio al Machiavelli, il quale anzi fu per esso fatto bersaglio a calunnie infinite.[546]

Nella lettera dedicatoria indirizzata a Lorenzo, egli dice che, desiderando acquistar favore appresso di lui, gli offriva quello che aveva di più prezioso, cioè la conoscenza delle azioni degli uomini grandi, appresa con una lunga esperienza delle cose moderne, e una continua lezione delle antiche. Così in poco tempo farebbe a lui comprendere ciò che egli aveva imparato con infinite fatiche e disagio. Nè doveva parer presunzione la sua, perchè come dalle pianure si vedono e disegnano meglio i monti, e da questi le pianure, così a conoscere bene i popoli bisogna esser principe, ed a conoscere bene i principi bisogna esser popolare.[547]

[377]

È certo assai singolare il vedere, come anche in uno scritto così semplice e personale, quale è questa dedica, il Machiavelli tenga dinanzi a sè gli scrittori antichi. Il principio della lettera infatti, come dimostrò la prima volta il prof. Triantafillis, è certo imitato, se non vogliam dire copiato, dal principio del discorso d'Isocrate a Nicocle. È ben vero che, dopo aver riprodotto un paragone ed alcune frasi generiche, il Machiavelli, non appena s'avvicina di più al suo soggetto, riacquista l'originalità del proprio stile, la indipendenza del proprio pensiero. Tuttavia noi abbiamo qui un'altra prova, che egli non solamente prese dagli scrittori greci e romani qualche concetto ed i moltissimi fatti della storia antica, che adduceva in esempio; ma cercava, specialmente nelle opere politiche, di dare maggiore autorità anche alle idee che erano sue proprie, appoggiandole di continuo alle parole di qualcuno di essi. Infatti, tra quelli che nel Principe e nei Discorsi egli cita, e quelli di cui si vale senza citarli, il numero è veramente grande.[548] [378] Così grande, che non si può, io credo, respingere del tutto l'ipotesi di coloro, i quali dissero che fra i suoi libri dovette avere una qualche compilazione erudita,[549] a noi finora ignota, in cui più facilmente trovava quello che poteva servire al suo scopo.

Il Principe è diviso in ventisei brevi capitoli. Il Machiavelli comincia col dichiarare che, avendo altrove parlato delle repubbliche, intende ora occuparsi solo dei principati,[550] i quali distingue in ereditarî e nuovi. Suddivide poi questi in principati che sono nuovi in tutto o in parte. Nei primi il Principe fonda addirittura uno Stato nuovo, o nuovamente se ne impadronisce; nei secondi, invece, che l'autore chiama anche misti, ad uno Stato vecchio s'aggiunge una provincia nuova. Questi erano allora assai numerosi, perchè i grandi regni si andavano nel Rinascimento formando colle conquiste. Gli Stati nuovi, che sono in genere il soggetto principale del libro, e ne avevano suggerito la prima idea, presentano, ad essere ben governati, difficoltà assai maggiori degli ereditarî, e richiedono quindi più lungo studio a poterli conoscere davvero. «La conquista offende necessariamente molti, e quelli che aiuta, aspettano dal mutamento più che esso non può dare.»

«Quando, negli Stati misti, la provincia conquistata è simile a quella che si annette, le difficoltà sono minori, [379] perchè basta, per esserne sicuri, serbarvi gli antichi usi, e spegnere il sangue dell'antico principe. Ma quando tutto è in essa diverso, le difficoltà sono invece grandissime. Bisogna allora o andarvi ad abitare in persona, o mandare nei luoghi principali colonie di nuovi abitatori, il che, se danneggia quelli a cui si levano le case ed i campi, li rende impotenti ad offendere, e tiene gli altri tranquilli per paura della medesima sorte. Ed è una regola generale, che gli uomini bisogna o spegnerli o vezzeggiarli, perchè essi delle offese leggiere si vendicano, e delle gravi non possono; onde l'offesa deve esser tale che non tema la vendetta. È necessario inoltre aiutare e farsi amici i vicini deboli, perchè questi subito aderiscono al nuovo Stato, se è forte; ma occorre tener bassi i vicini potenti, e non aiutare nè introdurre mai in casa stranieri che sieno potenti; prevedere le cose da lontano e riparar subito. Ai Romani non piacque mai la massima dei nostri principi, cioè: godere i benefizî del tempo; ma vollero invece i benefizî della virtù e prudenza loro, perchè il tempo si caccia innanzi ogni cosa, e si porta il bene come il male. Il re Luigi XII, quando venne in Italia, andò contro a tutte queste regole, e commise cinque errori: spense i minori potenti; accrebbe forza ad un potente maggiore degli altri, cioè al Papa ed al Valentino; introdusse in Italia un potente straniero, cioè la Spagna; non venne ad abitarvi; non vi portò colonie. E però quando il cardinale di Roano mi disse, che gl'Italiani non s'intendevano della guerra, io gli risposi, che i Francesi non s'intendevano dello Stato, altrimenti non avrebbero mai lasciato venire la Chiesa in tanta potenza.[551] Quando però si conquista una città libera, allora non vi sono che tre modi soli di tenerla, nè sempre bastano: o rovinarla, o abitarla, o farvi un governo libero, ma di pochi, che te la conservino. Ed [380] in generale chi conquista una città libera, aspetti, se non riesce a disfarla, di essere disfatto da quella, perchè sempre si ribellerà, mossa dal grande amore alla libertà, che è inestinguibile negli animi, quando invece chi è servo cambia facilmente padrone.»[552]

Col capitolo sesto si entra in quello che è propriamente il soggetto principale del libro, incominciandosi a parlare del Principe nuovo in uno Stato nuovo. «Questi Stati,» dice il Machiavelli, «si reggono sopra tutto sulla virtù del Principe; e però colui è più sicuro, che si fonda più sulle proprie virtù che sulla fortuna, sebbene si richiedano l'una cosa e l'altra. Mosè, Romolo, Ciro, Teseo ebbero dalla fortuna l'occasione di adoperare la virtù che avevano; ma l'una senza l'altra sarebbe stata inutile. In ogni modo, non vi è impresa più difficile a trattare, nè più dubbia a riuscire, che quella di farsi capo per introdurre ordini nuovi. Bisogna innanzi tutto esaminare, se questi novatori dipendono dalle forze altrui, o si reggono sopra sè stessi, cioè se debbono rivolgersi per aiuto ad altri, o possono adoperare le proprie forze. Nel primo caso capitano sempre male, nel secondo quasi sempre riescono; e questa è anche la ragione perchè i profeti armati vinsero sempre, e i disarmati, come il Savonarola, rovinarono.[553] Quelli poi che ottengono il principato per fortuna, con poca difficoltà vi arrivano, quasi volando; ma con grandissima vi si mantengono, perchè restano a discrezione di chi gli aiutò a salire. Possono però, ottenuto lo Stato per fortuna, porvi per virtù propria il fondamento sicuro che mancava prima, il che riesce qualche volta, ma sempre con disagio dell'architetto e pericolo dell'edificio.»

E qui si ripresenta naturalmente la tragica figura del Valentino, il quale acquistò lo Stato per opera del padre, [381] e con esso lo perdette. «Egli però, non appena lo ebbe, fece, per gettare saldi fondamenti, tutte quelle cose che da un prudente e virtuoso uomo si dovevano fare; onde non si potrebbero ad un principe nuovo dare precetti migliori di quelli che suggerisce l'esempio delle azioni di lui. Che se tuttavia non bastarono, non fu sua colpa, ma nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna. Alessandro VI poteva con sicurezza formare uno Stato pel figlio solamente nella Romagna, dove tuttavia Faenza e Rimini erano sotto la protezione dei Veneziani, che perciò gli si opponevano. Dovette quindi profittare della venuta dei Francesi, che egli aveva già favorita. Ma il Valentino, appena che ebbe così acquistato la Romagna, s'avvide come, volendo procedere oltre, le forze che allora aveva in suo aiuto, potevano da un momento all'altro mancargli sotto. Quando infatti voleva assaltare Bologna, trovò il Re contrario, e gli Orsini, che pur erano suoi alleati, freddissimi; e quando, preso il ducato di Urbino, voleva entrare in Toscana, il Re lo fermò addirittura. Deliberò quindi di cominciare ad armarsi di armi proprie, e di levar seguaci agli Orsini, aspettando occasione di spegnerli, la quale gli venne bene, ed egli l'usò meglio. Essi infatti, congiurando alla Magione, gli ribellarono Urbino e la Romagna; ed egli sottomise prima lo Stato suo con l'aiuto dei Francesi, e poi, senza fidarsi più d'alcuno, si volse agl'inganni. E seppe così bene dissimulare l'animo suo, che gli Orsini si conciliarono con lui, tanto che la loro semplicità li condusse nelle sue mani a Sinigaglia, dove li spense. Così finalmente, sicuro dei capitani che gli restavano, e delle armi proprie da lui ordinate, aveva gettato assai buoni fondamenti alla potenza sua. Era infatti padrone di tutta la Romagna e del ducato d'Urbino; s'era guadagnata l'affezione di quei popoli, che avevano cominciato a gustare il benessere loro.»

«E perchè questa parte è degna di notizia, e da essere [382] imitata da altri, non la voglio,» dice il Machiavelli, «lasciare indietro. La Romagna era piena di latrocinî e delitti d'ogni specie, per colpa specialmente dei principi che la dominavano, i quali, essendo poveri e volendo vivere da ricchi, ricorrevano ad ogni sorta di rapine e di modi disonesti. E quelli che da tali violenze restavano impoveriti, si rifacevano con altre simili sui meno potenti di loro. Di qui il sangue e le vendette continue.[554] Bisognava perciò riordinarla e pacificarla. Il Duca vi mandò allora, con assoluto potere, messer Ramiro d'Orco, uomo crudelissimo e pronto, il quale in brevissimo tempo la ridusse pacifica ed unita. Dopo di che, questa sua autorità eccezionale ed eccessiva non pareva più a proposito, e le crudeltà con cui messer Ramiro ne aveva abusato e continuava sempre più ad abusarne, la resero pericolosa. Laonde il Duca, soppresse quell'ufficio, ed istituì invece un tribunale ordinario, nel quale ogni città di Romagna aveva un suo giudice sotto la presidenza d'un uomo eccellentissimo, savio e prudente. Ed a persuadere poi che le crudeltà non erano dipese da lui in modo alcuno, ma solo dalla trista natura del suo ministro, lo fe' trovare una mattina in due pezzi, sulla pubblica piazza di Cesena, con un coltello sanguinoso a lato. La ferocia del quale spettacolo fece quelli popoli in un tempo rimanere soddisfatti e stupidi. Ma torniamo donde noi partimmo.»[555] E così freddamente ripiglia il filo del suo discorso.

A migliore intelligenza però di questi fatti tante volte ricordati e lodati dal Machiavelli, dobbiamo notare che nuovi documenti, negli ultimi anni venuti alla luce, resero assai più chiara la ragione della costante sua ammirazione pel Valentino, e pel governo da lui fondato in Romagna. È ora provato ad evidenza, che questo [383] governo del Duca fu davvero migliore che non s'era creduto. Egli prese molti utili provvedimenti a vantaggio dei sudditi più poveri nelle città e nel contado. E quanto alla uccisione di messer Ramiro, questi fu prima ripetutamente avvertito, che non opprimesse le popolazioni; che smettesse l'illecito commercio di derrate, da lui fatto a proprio vantaggio, con grave danno dei miseri. E solo quando le reiterate avvertenze furono riuscite vane del tutto, il Duca, mediante un giudizio sommario, lo condannò a morte annunziando con una lettera, anch'essa recentemente pubblicata, il fatto alle popolazioni, come una buona novella ed un esempio di giustizia riparatrice, da lungo tempo universalmente desiderato.[556]

«Il Duca,» continua il Machiavelli, «doveva ora pensare a liberarsi dalla supremazia di Francia; cercava perciò nuove aderenze, e quando vennero gli Spagnuoli cominciò subito a raffreddarsi con essa, ed a vacillare. Egli sarebbe in tutto riuscito, se la morte d'Alessandro VI non avesse improvvisamente interrotto ogni cosa. Aveva infatti non solo preveduto la morte del Papa, ma anche la possibilità d'un successore nemico, e si era apparecchiato a potersi difendere contro di esso, avendo cercato di spegnere il sangue dei signori da lui spogliati, dei quali ammazzò quanti potè, e provveduto in modo che il Collegio dei Cardinali, già stremato di numero, era in gran parte suo, e lo Stato di Romagna si poteva dire formato e sicuro. Possedeva anche Perugia e Piombino, proteggeva Pisa, e non dovendo più avere rispetto ai Francesi, gli era facile saltare in questa città, pigliare Lucca e Siena, senza che i Fiorentini potessero impedirlo. Questo gli avrebbe dato di certo fermo e sicuro fondamento; ed era infatti per riuscire, quell'anno stesso, nell'intento d'assicurare l'opera sua, quando il Papa morì, lasciandolo colla Romagna solamente consolidata; tutto [384] il resto in aria, fra due potentissimi eserciti nemici, ed egli malato a morte. Ma era tanta la ferocia, la virtù e l'accortezza sua, che se non avesse avuto quegli eserciti addosso, e fosse stato sano, avrebbe retto ad ogni difficoltà. Egli stesso mi disse, che aveva ogni cosa previsto, ad ogni cosa pensato, salvo che al trovarsi per morire appunto in sulla morte del Papa.» «Raccolte adunque tutte queste azioni del Duca, non saprei riprenderlo, anzi mi pare, come ho detto, di proporlo ad imitare a tutti coloro che, per fortuna e con l'armi d'altri, sono saliti all'imperio, perchè egli avendo l'animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti.»[557]

E dopo di ciò, come se il Valentino non fosse stato abbastanza tristo, viene il Machiavelli a parlare di coloro che salgono al principato non per fortuna, ma solo per vie scellerate, e dice di volerlo fare con due esempi, bastando a chi trovisi necessitato, imitare quelli. Primo esempio è quello già tante volte da lui ricordato d'Agatocle siciliano, che «divenuto, per la sua virtù militare, pretore di Siracusa, e cercata subito l'amicizia dei Cartaginesi, raccolse poi il popolo ed il Senato, facendo dai suoi soldati ammazzare tutti i Senatori ed i capi del popolo. Così fu sicuro, ed in tutto riuscì per opera sua propria. Non si può di certo,» egli prosegue, «dire che sia virtù ammazzare i cittadini, tradire gli amici, essere senza fede; ma se poi si considera l'animo di Agatocle nell'entrare e nell'uscire dai pericoli, nel sopportare e superare le cose avverse, non si vede perchè abbia ad essere giudicato inferiore a qualunque eccellentissimo capitano. Nondimeno la sua efferata crudeltà ed inumanità, con infinite scelleratezze, non consentono che sia intra gli eccellentissimi uomini celebrato; nè si può attribuire alla fortuna o alla virtù quello che, senza l'una e [385] senza l'altra, fu da lui conseguito.»[558] Il secondo esempio è quello d'Oliverotto da Fermo, allevato da suo zio Giovanni Fogliani. «Si dette costui alla milizia e, riuscito valentissimo, pensò di occupare Fermo. Scrisse perciò allo zio, che voleva entrare in città con cento cavalieri, per dimostrare il suo splendore, e questi lo fece ricevere onorevolmente, alloggiandolo in casa propria. Oliverotto, ordinata la congiura co' suoi fedeli, invitò ad un pranzo lo zio con i primi uomini di Fermo, e quivi fece l'uno e gli altri tutti in una volta ammazzare. Dopo di che corse a cavallo la terra che fu sua, e sarebbe stato un uomo assai formidabile, se il Duca Valentino non lo avesse poi fatto strangolare. Si può qui domandare,» osserva il Machiavelli, «come è che Agatocle restò dopo le sue scelleratezze sicuro, mentre altri capitarono male. Ciò dipende,» egli risponde, «dalle crudeltà male o bene usate. Bene usate si possono chiamare quelle, se del male è lecito dir bene, che si fanno ad un tratto per necessità dello assicurarsi, e di poi non vi s'insiste dentro. Male usate son quelle invece, che si continuano anche dopo. Bisogna sin dal principio calcolare tutto ciò che è necessario, e farlo senza indugio, per quindi assicurare gli uomini; altrimenti si è costretti a star sempre col coltello in mano. Le ingiurie fatte ad un tratto, assaporandosi meno, offendono meno, e portano, nonostante, l'effetto che tu vuoi; i benefici bisogna farli invece a poco a poco, perchè si assaporino meglio.»[559]

Venendo ora a discorrere del principato civile, il Machiavelli ripete di nuovo, che esso deve reggersi sul popolo, senza il quale nessun governo può avere fondamento [386] sicuro, essendo pericolosissimo affidarsi ai nobili, i quali vogliono sempre signoreggiare.[560] In ogni caso però la forza principale degli Stati riposa sugli eserciti proprî,[561] giacchè bisogna sopra tutto aver modo di respingere i nemici e tener sotto i sudditi. Questo è l'ufficio principale d'ogni governo, secondo il Machiavelli, il quale trascura, anzi neppure esamina tutti i vari elementi che costituiscono lo Stato e la Società, come ad esempio la religione, la cultura, il commercio, l'industria. Qualche volta si direbbe, che per occuparsi esclusivamente dello Stato e della sua forza, voglia considerarlo come separato, isolato affatto dalla società e dall'individuo, che volentieri sacrifica alla prosperità di quello, senza accorgersi che così anderebbe ogni cosa a rovina. Armi e politica sono il suo unico, il suo costante pensiero. Senza di esse nessuno Stato può reggersi a lungo, ed esse bastano a tutto. «Nel mondo non vi sono che i principati ecclesiastici, i quali si acquistano per virtù o per fortuna, e si conservano senza l'una e senza l'altra, perchè retti e mantenuti dalla reverenza degli ordini antiquati della religione. Costoro soli hanno Stati e non li difendono, hanno sudditi e non li governano, e gli Stati non sono loro tolti, nè i sudditi si ribellano. Anche quando gli Orsini ed i Colonna furono disfatti da Alessandro VI, sebbene questi non mirasse che a fondare nel territorio della Chiesa un principato al Valentino, pure ne seguì da ultimo che essa divenne più forte che mai nel suo temporale dominio.»[562] Ma gli altri Stati non possono sperare tale fortuna, e però debbono pensare a reggersi colla prudenza, a difendersi colla forza.

E qui si viene, nei tre capitoli seguenti, a parlare delle armi che deve avere il Principe, soggetto questo [387] di somma importanza pel Machiavelli, il quale affermava che esse non solamente difendono lo Stato, ma rendono possibili anche le buone leggi, le quali sarebbe vano sperare senza le armi. «Queste sono mercenarie, ausiliarie e proprie. Le prime riescono sempre pericolosissime, perchè durano fino a che non si viene alla prova, come se ne è avuto chiara esperienza in Italia, non appena vennero tra noi i forestieri coi loro soldati. Solo le repubbliche e i principi che hanno eserciti proprî sono sicuri. Ed in vero con grande difficoltà una repubblica armata cade sotto l'obbedienza d'un suo cittadino, come se ne ha esempio negli Svizzeri armatissimi e liberissimi. Roma e Sparta stettero molti secoli armate e libere; Venezia e Firenze non hanno avuto che danni e pericoli continui dalle milizie mercenarie. I nostri principi ed i preti, ignari della guerra, ricorsero ad esse, che parvero dapprima gran cosa; ma il fine della loro virtù è stato poi che l'Italia venne corsa da Carlo, predata da Luigi, forzata da Ferrando, vituperata dagli Svizzeri. Le milizie mercenarie hanno fra noi distrutto le fanterie, che sono il nerbo degli eserciti. E ciò avvenne, perchè pochi fanti non bastano, e molti costano troppo, quando invece con un discreto numero d'uomini d'arme si forma subito una compagnia di ventura.[563] Anche le armi ausiliarie sono assai pericolose, perchè ti lasciano in balìa di chi ti aiuta, e sempre o le ti cascano di dosso e le ti pesano o le ti stringono.» E qui, tornando di nuovo al suo esempio prediletto, prosegue: «Io non dubiterò mai d'allegare Cesare Borgia e le sue azioni. Egli incominciò colle armi ausiliarie dei Francesi; ma, visto il pericolo, ricorse alle mercenarie, che almeno erano da lui pagate e dipendenti, e conosciuta la poca sicurezza anche di esse, si volse alle proprie. La differenza di queste dalle altre si vide subito nella reputazione che acquistò non appena rimase coi [388] suoi soldati, e sopra sè stesso. Egli difatti non fu mai stimato assai, se non quando ciascuno lo vide intero possessore delle proprie armi.[564] La milizia adunque vuole essere l'occupazione continua del Principe, il quale deve sempre pensarvi, ed anche nelle storie meditar sulle azioni dei grandi capitani, per imitarle.[565]

Ed ora il Machiavelli affronta una questione anche più grave. Volendo ragionare in generale di quel che può dar lode o biasimo al Principe, egli dice che deve parlare di ciò, sebbene molti altri già prima di lui lo abbiano fatto. E qui allude non tanto agli antichi, quanto agli scrittori del Medio Evo, come Egidio Colonna e Dante Alighieri; agli eruditi del secolo XV, come il Panormita, il Poggio, il Pontano ed altri molti, i quali avevano sostenuto che il sovrano deve aver tutte le virtù, e ne avevano fatto un ritratto ideale di religione, di modestia, di giustizia e di generosità. Ma egli osserva giustamente che, volendo far cosa utile a chi l'intende, è assai più conveniente «andare dietro alla verità effettuale della cosa, che all'immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti, nè conosciuti essere in vero, perchè egli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quel che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara piuttosto la rovina che la preservazione sua; perchè un uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene che rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario ad un principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, ed usarlo e non usarlo secondo la necessità.» «Sarebbe certo lodevolissimo che un principe avesse tutte le qualità buone e nessuna delle cattive; ma perchè le condizioni umane [389] non lo consentono, è necessario che egli sia tanto prudente da fuggire quei vizi che gli torrebbero lo Stato, e da quelli che non glielo torrebbero, guardarsi se è possibile; ma non potendo, vi si può con minor rispetto lasciare andare.» Ed insiste e ripete: «Non si curi d'incorrere nell'infamia di quelli vizi, senza i quali possa difficilmente salvare lo Stato, perchè se si considererà bene tutto, si troverà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola, sarebbe la rovina sua, e qualcun'altra che parrà vizio, e seguendola, ne riesce la sicurtà ed il benessere suo.[566]

Qui il lettore può cader facilmente in errore, come a molti è seguìto, se non ricorda che in questo scritto il carattere personale e privato del Principe scomparisce del tutto, perchè di lui il Machiavelli si occupa solo in quanto è il rappresentante, la personificazione dello Stato. Infatti egli dice indistintamente la rovina sua e la rovina dello Stato, per esprimere una sola e medesima idea. Il suo errore anzi sta in ciò, che troppo spesso egli dimentica come questo Principe dovendo pur essere un uomo, non si può ammettere che ogni carattere personale e privato possa mai scomparire del tutto dalle sue azioni. Qui, come nei Discorsi, l'autore, a sempre meglio manifestare il proprio pensiero, fa la più assoluta separazione della politica da ogni privata morale; ma nello stesso tempo, concretando, personificando l'idea dello Stato in un individuo, vede inevitabilmente ricomparire quel carattere privato, che egli cerca sopprimere del tutto, perchè farebbe risorgere la questione morale, di cui non vuole occuparsi. E così ne segue che in questa, direi quasi, persona impersonale, l'uomo pubblico finisce assai spesso coll'uccidere il privato. Quello poi che il Machiavelli dice dell'uno, facilmente s'attribuisce dal lettore anche all'altro, ed i precetti, i consigli che sono [390] dati solo a colui che personifica lo Stato, par che siano dati anche all'uomo privato. Di qui la confusione ed una serie di malintesi continui.

In ogni modo, quali sono le qualità che deve avere il Principe? La liberalità, che tanto gli eruditi raccomandavano allora, massime verso i letterati, non è, secondo il Machiavelli, lodevole in lui, perchè egli non spende il suo, ma quello d'altri; è quindi preferibile la parsimonia: solo di ciò che piglia nella guerra può essere larghissimo.[567] È meglio per lui essere crudele o clemente, amato o temuto? «Certo, in termini generali, è assai meglio essere stimato pietoso; ma non bisogna poi usar male la pietà. Cesare Borgia era tenuto crudele; nondimeno quella sua crudeltà aveva racconcio la Romagna, unitala e ridottala in pace ed in fede. Egli fu nel fatto più pietoso dei Fiorentini, i quali, per evitar l'accusa di crudeli, lasciarono distruggere Pistoia dalle fazioni. Sarebbe certo desiderabile poter essere in un medesimo tempo amato e temuto; ma questo non è possibile, e però sarà meglio, quando s'abbia a scegliere, essere temuto. L'amore infatti è formato da un vincolo d'obbligo, il quale, perchè gli uomini sono tristi, da ogni occasione di propria utilità vien rotto; il timore nasce invece da una paura di pena, che non ti abbandona mai. Gli uomini amano a loro arbitrio, e temono ad arbitrio del Principe, che deve fondarsi su quello che è suo, non su quello che è d'altri. Pure egli può essere temuto e non odiato, quando s'astenga dalla roba e dalle donne dei sudditi, nè venga mai al sangue, se non quando vi sia causa e giustificazione manifesta, perchè gli uomini dimenticano più facilmente la perdita del padre che della roba. Oltre di che, cominciando una volta a vivere della roba d'altri, non si finisce mai, quando invece le occasioni al sangue sono più rare assai.»[568]

[391]

Ed ora segue quel celebre e tanto bersagliato capitolo, che parla del mantenere o non mantenere la fede. Che sia bene, dice il Machiavelli, mantenere la fede, ognuno lo intende; «nondimanco si vede per esperienza nei nostri tempi, quelli principi aver fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l'astuzia aggirare i cervelli degli uomini, ed alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la lealtà.»[569] «Vi sono due modi di combattere, uno con le leggi, l'altro con la forza: il primo è proprio dell'uomo, il secondo della bestia, e come il primo non basta, così bisogna spesso ricorrere al secondo. Pertanto ad un Principe è necessario saper bene usare la bestia e l'uomo, il che vollero significare gli antichi con la favola di Achille educato da Chirone centauro. Un Principe deve però della bestia saper «pigliar la volpe ed il lione, perchè il lione non si difende da' lacci, la volpe non si difende da' lupi....[570] Coloro che stanno semplicemente [392] in sul lione, non se ne intendono. Non può pertanto un signore prudente, nè debbe osservare la fede, quando tale osservanzia gli torni contro, e che sono spente le cagioni che la fecero promettere. E se gli uomini fossero tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perchè sono tristi e non l'osserverebbero a te, tu ancora non l'hai da osservare a loro.» «È necessario tutto questo saperlo bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore, perchè gli uomini si lasciano facilmente ingannare. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò tutta la sua vita ad altro, nè vi fu mai uomo che con maggiori giuramenti affermasse quello che poi non osservava; nondimeno tutto gli riusciva, perchè conosceva bene questa parte del mondo.»

Ad un Principe non è necessario avere le buone qualità, di cui più sopra si è discorso; ma è bene necessario parere d'averle. «Anzi ardirò di dire questo, che, avendole ed osservandole sempre, sono dannose, e parendo d'averle sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, religioso, intiero, ed essere; ma stare in modo edificato con l'anima, che, bisognando non essere, tu possa e sappia mutare il contrario.» E si deve pure intendere che un Principe, massime un Principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, essendo spesso «necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia un animo disposto a volgersi. [393] secondo che i venti e le variazioni della fortuna gli comandano; e come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato. Deve adunque avere un Principe gran cura, che non gli esca mai di bocca una cosa, che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia a vederlo e udirlo tutto pietà, tutto fede, tutto umanità, tutto integrità, tutto religione. E non è cosa più necessaria a parere d'avere che quest'ultima qualità, perchè gli uomini in universale giudicano più agli occhi che alle mani, perchè tocca a vedere a ciascuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu sei, e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione de' molti, che abbiano la maestà dello Stato che li difenda.... Faccia adunque un Principe conto di vincere e mantenere lo Stato; i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli e da ciascuno lodati, perchè il vulgo ne va sempre preso con quello che pare, e con lo evento della cosa.... Alcuno principe dei presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell'una e dell'altra è inimicissimo, e l'una e l'altra, quando e' l'avesse osservata, gli arebbe più volte tolto o la reputazione o lo Stato.»[571]

Fu già osservato dal Ranke, che in questo capitolo si trovano reminiscenze della Politica d'Aristotele,[572] ed il Burd nel suo diligentissimo lavoro aggiunge, che ve ne sono anche maggiori del comento fatto ad essa da S. Tommaso.[573] Se non che è ben da notare, che così l'uno [394] come l'altro di questi scrittori parlano del tiranno, che mettono in opposizione al monarca, al re. Nel Principe invece una tale distinzione, sostanziale in Aristotele ed in S. Tommaso, è scomparsa del tutto. E quindi le parole del Machiavelli, sian pure imitate, hanno un significato essenzialmente diverso, se non vogliam dire opposto. Si avvera anche qui quello che abbiamo più volte notato, che cioè il momento della più fedele riproduzione è spesso ancora quello della più sostanziale divergenza. Il Machiavelli non discorre di ciò che fa il tiranno come tale, ma di ciò che il Principe, l'uomo di Stato, il legislatore deve fare.[574] Anzi questo appunto è ciò che dà alle sue parole [395] quel colorito loro proprio, che le rende ai nostri occhi funeste, detestabili. Eppure esse non sono altro che l'affermazione d'una verità profondamente osservata; ma che, per renderla più efficace e chiara, egli espone in una forma paradossale, che la fa parer colpevole errore. In sostanza il Machiavelli qui ripete che l'uomo politico, il diplomatico non possono sempre dire la verità; che, in alcuni casi anzi debbono nasconderla con arte, inducendo in errore quelli con cui trattano, se non vogliono mettere a pericolo sè stessi, il proprio partito, lo Stato stesso. Or si può discutere quanto si vuole; ma finchè la società e la politica restano quali erano allora, e quali sono in gran parte anche adesso, si dovrà riconoscere che così pur troppo stanno le cose. L'uomo politico non è un individuo che parla ad un altro individuo, è il rappresentante di un partito, di un governo, quasi un essere collettivo, le cui parole, dette in pubblico, hanno un valore, un significato, un effetto diversissimi da quel che hanno le parole dei privati fra di loro. Qualche volta, anche volendo dire il vero, egli può trovarsi nella impossibilità di farlo. E ciò non solamente perchè il dirlo può avere conseguenze disastrose; ma perchè, quando pure lo dicesse al pubblico, senza riserve e senza artifizi, sarebbe inteso in un senso affatto diverso da quel che le parole veramente esprimono. Il pubblico è anch'esso un essere collettivo, che sente e intende ogni cosa assai diversamente che non faccia un privato; vuole in altro modo essere guidato, e in altro modo bisogna parlargli. V'ha di certo una politica leale ed una politica sleale, una politica onesta ed una politica disonesta; ma di siffatta questione il Machiavelli, specialmente nel Principe, non si occupava e non poteva, perchè egli voleva prima di tutto determinare quel che la politica è veramente: questo è il suo fine costante. Continuando perciò la sua via, torna a ripetere, che supremo dovere del Principe è il mantenere lo Stato; tutti i mezzi a ciò veramente necessarî, [396] saranno sempre giustificati. Ed aggiunge inoltre, che l'azione dell'uomo di Stato diviene efficace, utile, non secondo la intenzione da cui muove, ma secondo la sua apparenza, la quale in politica ha un grandissimo valore, è spesso anzi quella che sola ha valore, sola produce un effetto reale. Essere buono, sincero, e non sapersi far riconoscer tale, non significa nulla; ma farsi creder sincero e buono, anche senza esserlo, può portar conseguenze efficaci, utili allo Stato ed a chi lo governa. Questo discorso provoca naturalmente indegnazione, perchè sembra che con inaudito cinismo inculchi l'ipocrisia. Quando infatti segue una grande, pubblica calamità, se un privato cittadino profonde la sua fortuna in aiuto dei miseri, e non vuole che si sappia, nasconde agli altri la sua generosità, noi siamo presi da entusiasmo, ammiriamo la sua virtù, che vuole essere e non parere. Questo è il criterio morale col quale giudichiamo. Come potremmo mai adottare il criterio opposto? Eppure se un Principe, in presenza della pubblica sventura, mosso da pietà, profondesse tesori, senza volere che si sapesse, che apparisse, noi invece di ammirarlo lo biasimeremmo. Non è la sua intenzione, ma la sua azione quella che dobbiamo giudicare, quella che ha valore. E questo valore essa lo avrà solo se è visibile, se apparisce. Meglio assai sarebbe se, senza esser mosso da alcuna pietà, soccorresse i miseri per semplice dovere di Stato, e sentisse l'obbligo di farlo vedere, di farlo sapere. Questo è ciò che il Machiavelli volle dire quando affermò che in politica il parere vale più che l'essere. Ed è ciò per cui fu tanto aspramente biasimato. Pure se un Principe, il quale non creda alla religione del suo popolo, ciò non ostante la rispetti, e lasci anche supporre al volgo di avere la stessa sua fede religiosa, sarà certo ritenuto più savio di colui che sembri non curarla, quando anche in realtà vi creda. Nessuno condannò Napoleone I pel rispetto mostrato in Egitto a Maometto [397] ed al Corano; nessuno condannò gl'Inglesi, quando fecero in India dimostrazioni di ossequio devoto a Brama ed a Budda. Il Principe rappresenta lo Stato, e come tale deve professarsi credente al pari del suo popolo. Tutto ciò non vuol dire di certo che la religione sia da ritenersi come un puro strumento di governo, opinione tante volte attribuita al Machiavelli. Egli, è ben vero, la studiò come un mezzo di governo, perchè la riconobbe una delle grandi forze sociali, di cui bisogna valersi; ma ciò dicendo, non espresse alcuna opinione sul valore intrinseco della religione stessa. Che l'uomo di Stato ci creda o non ci creda, è questione che riguarda la sua privata coscienza, e sulla quale perciò il Machiavelli non pensò di doversi come scrittore politico fermare. Ben si può asserire che egli non manifestò mai disprezzo verso la religione in generale; ma più volte disse che a fondare sicuramente la libertà, era necessario avere un popolo credente, aggiungendo che la mancanza di religione aveva corrotto l'Italia.

Al Machiavelli nocque sempre la forma troppo assoluta, con cui si esprimeva. Questa dette facile pretesto a giudicare come massime di morale assoluta, quelle che erano invece di convenienza e di opportunità politica. Di certo quando egli, avendo presente il Valentino, circondato dai suoi alleati, che lo tradivano, afferma che non vi è obbligo di mantenere la fede a coloro che sono già pronti a violarla, non si può dire che abbia torto. Ma quando invece scrive in termini generali: «Non può, nè debbe un Signore prudente mantenere la fede, spente che siano quelle ragioni che la fecero promettere,» chi non vede come egli esponga il fianco ai colpi de' suoi avversarî? Questi infatti ne profittarono non solo di buona, ma anche di mala fede. Il Machiavelli aveva esposto il concetto politico, facendo astrazione dal morale; ed essi pretesero di giudicarlo, esaminando il concetto morale, astrazion fatta dal politico: modo sicuro per non comprenderlo punto.

[398]

Nel capitolo XIX si riepiloga quanto l'autore ha detto sull'obbligo che ha il Principe di non rendersi odioso, ritornando sulle altre qualità che gli occorrono. Egli non deve levare ai cittadini la roba, nè offendere le loro donne; deve farsi tener sempre animoso e grave. Ma due cose sono a lui sopra tutte le altre pericolose: essere assalito fuori dai nemici esterni, e dentro dalle congiure. Su queste il Machiavelli espone in brevi parole quello che assai ampiamente scrisse più tardi nei Discorsi, che noi abbiamo già esaminati. Sono sempre le stesse idee, e le imitazioni da Aristotele vi appariscono visibilissime, oltre di che nei Discorsi molti esempî di cospirazioni sono cavati da storici greci e romani.[575] Ma anche qui le imitazioni provano tutt'altro che somiglianza d'idee. Infatti il capitolo che tratta delle congiure, si trova nella Politica d'Aristotele connesso al concetto assai più vasto di tutto il libro V, il quale ragiona delle rivoluzioni che mutano la forma dei governi. E dopo averne distinto le varie specie, le loro cause ed effetti, distingue del pari le congiure. A queste distinzioni il Machiavelli senza dubbio si attiene; ma se ne vale per fare un'altra ricerca, con uno scopo sostanzialmente diverso. Egli esamina con quali mezzi, per quali cause le congiure contro i re, contro i tiranni, contro la libertà della patria, riescono o falliscono; in che modo bisogna condurle per ottenere l'intento, quali pericoli si corrono e come si possono evitare; come il Principe può prevenirle, scoprirle, spegnerle in tempo. Il concetto d'Aristotele è teorico e scientifico, quello del Machiavelli pratico e di condotta politica. La differenza è, come si vede, grandissima.

[399]

Un Principe, continua il Machiavelli, ripetendo una sua costante opinione, non deve far disperare i grandi; gli è però necessario favorire il popolo, se non vuole capitar male. Ma perchè la storia degl'imperatori romani, molti de' quali si fondarono in tutto sui loro eserciti, può sembrare ad alcuno che contraddica a questa sentenza, egli fa osservare che la loro condizione era diversa assai da quella dei principi del suo tempo. «Se quegl'imperatori dipendevano dai loro soldati, i nostri principi, ad eccezione del Sultano, dipendono dal popolo; e però, quanto ai grandi, basta non disperarli, ma il popolo debbono soddisfarlo. Così fanno i regni bene ordinati, come è di certo quello di Francia. In esso si trovano infinite costituzioni buone, donde dipende la libertà e sicurtà del re, delle quali la prima è il Parlamento, perchè colui che ordinò quel regno, conoscendo l'ambizione e la insolenza de' potenti, giudicò necessario metter loro un freno in bocca, che li correggesse. Ma conoscendo anche l'opposizione del popolo contro i grandi, e volendo soddisfarla, senza dare questo ufficio al re, che voleva liberare dal carico che e' potesse avere con i grandi, favorendo i popolari, e con i popolari, favorendo i grandi, costituì un giudice terzo, che battesse questi e favorisse quelli.»[576] «Nè puote essere questo ordine migliore, nè più prudente, nè che sia maggior cagione della sicurtà del re e del regno.... Di nuovo concludo che un Principe debbe [400] stimare i grandi, ma non si far odiare dal popolo.»[577] E qui si può intendere anche la ragione per la quale, secondo il Machiavelli, s'ingannano assai coloro che, non considerando come il principato moderno si fondi sul popolo, non vogliono armare i propri sudditi, per paura d'averli nemici, e non comprendono che le milizie nazionali sono la sola difesa su cui si possa fare sicuro assegnamento.

«Quando s'acquista una provincia nuova, che sia come appendice dello Stato vecchio, bisogna governarla coi sudditi di questo, cercando, ove occorra, indebolire i nuovi. Ed in simili casi giova molto al Principe compiere qualche impresa, che gli dia modo di dimostrare la propria forza, e non avendo un'occasione pronta, suscitare qualche nemico che la faccia nascere. Falso è però l'antico sistema dei Fiorentini, i quali volevano tener Pisa con le fortezze e Pistoia con le parti.» Quest'ultimo modo riuscì funesto anche ai Veneziani. E quanto alle fortezze, sebbene l'autore non sembri qui così assoluto come altrove nel condannarle, pure dimostra sempre poca fede in esse, sia che si tratti di valersene a tenere sottomessi gli antichi sudditi, sia i nuovi, e ripete sempre, che nel primo caso occorre fare assegnamento sull'affetto del popolo, nel secondo, sulle proprie forze, cercando continua occasione a darne prova in nuove ed ardite imprese. «Così fece Ferdinando il Cattolico, il quale agguerrì prima l'esercito; assaltò poi Granata e ne cacciò i Mori; assaltò ancora l'Africa, la Francia, l'Italia. E si tenga bene a mente, che in tutti questi casi bisogna dichiararsi subito amico o nemico aperto, nè pretendere di voler pigliare partiti sicuri, perchè non ve ne sono, consistendo sempre la vera prudenza nel prendere il manco tristo per buono.»[578]

[401]

E qui il Machiavelli, per la prima ed unica volta, accenna, sebbene brevissimamente e come di passaggio, a qualche cosa che nella società umana non sia guerra o politica. Il Principe, egli dice, deve incoraggiare i suoi cittadini ad attendere tranquilli alle loro faccende ed occupazioni, alla mercanzia, all'agricoltura, ad ogni altro esercizio, «acciocchè quello non si astenga di ornare le sue possessioni per timore che le non gli siano tolte, e quell'altro di aprire un traffico per paura delle taglie; ma deve preparare premi a chi vuole fare queste cose, ed a qualunque pensa in qualunque modo di ampliare la sua città o il suo Stato.... Debbe, oltre a questo, ne' tempi convenienti dell'anno, tenere occupati i popoli con feste e spettacoli.»[579] E dopo aver messo insieme industria, commercio e feste, risguardando tutto ciò come un mezzo di governo, altro non dice intorno al progresso sociale ed alla necessità di promuoverlo. Così queste poche e fuggevoli parole valgono solo a mettere in sempre maggiore evidenza il fatto da noi già più volte notato, che egli s'occupa solo di politica, e non vede che lo Stato, le arti con cui esso si mantiene, le armi con cui si difende, e ad un tal fine sacrifica ogni cosa.[580]

[402]

Nel capitolo seguente si discorre della scelta del segretario, dalla quale, dice il Machiavelli, si può riconoscere l'accortezza del Principe. Vi sono è vero uomini che intendendo bene le cose, riescono eccellenti, senza bisogno che qualcuno li aiuti; ma altri non le intendono da sè, nè per dimostrazioni o consiglio altrui, e questi riescono affatto incapaci. Vi sono però molti, che senza intenderle da sè, sanno profittare dei consigli altrui, ed a questi il segretario riesce utilissimo, come fu Antonio da Venafro a Pandolfo Petrucci, il quale per la buona scelta che fece, e pel vantaggio che seppe cavarne, fu giudicato uomo eccellente. La bontà del segretario si riconosce dal vederlo pensare all'utile del Principe, non al suo proprio, perchè quegli che ne ha in mano lo Stato, non debbe occuparsi mai di sè stesso, ma sempre del Principe, il quale ha dal suo lato l'obbligo di pensare al segretario, dandogli ricchezze ed onori, sì che non possa desiderare altro.[581] Bisogna però fuggire gli adulatori, che sono la peste delle Corti. Lasciar dir tutto a tutti non deve il Principe permetterlo, ma neppure lasciarsi adulare. Elegga uomini savi e prudenti, che liberamente gli dicano il vero su tutto quello che domanderà loro; deliberi poi da sè, e stia fermo alla deliberazione presa. Nè si dica, che con ciò egli mostrerà di non aver prudenza propria, e volerla accattare dagli altri, perchè [403] è una regola generale che non falla mai, che un Principe il quale non sia savio per sè, non sarà mai consigliato bene da nessuno. E se anche il caso lo spingesse a rimettersi in uno, che al tutto lo governasse, e fosse prudentissimo, potrebbe di certo essere guidato bene, ma resterebbe interamente a discrezione di altri, e presto capiterebbe male. Se si consiglierà con più d'uno, potrà scegliere e coordinare i vari consigli; ma dovrà allora esser savio, altrimenti non avrà consigli uniti, nè saprà unirli.[582] — In questo capitolo il Machiavelli evidentemente ragionava alquanto pro domo sua.

«Quando le cose dette fin qui siano osservate,» così egli conclude, «faranno in breve parere antico un Principe nuovo, perchè le sue azioni, essendo molto più di quelle degli altri uomini guardate, una volta che sian riconosciute virtuose, guadagnano molto più l'animo dei sudditi, e molto più gli obbligano, che il sangue antico.» «E così arà duplicata gloria di aver dato principio a un principato nuovo, ed ornatolo e corroboratolo di buone leggi, di buone armi, di amici e di buoni esempi, come quello arà duplicata vergogna che, nato principe, lo ha per la sua poca prudenza perduto.» «E se ora si considerano i principi italiani che hanno perduto lo Stato ai nostri tempi, si troverà in tutti deficienza d'armi proprie; e si troverà oltre di ciò, che alcuni di essi non seppero tenersi amico il popolo, altri non seppero tenersi amici i grandi, perchè senza questi difetti non si perdono gli Stati. Si debbono quindi essi dolere di sè medesimi e non degli altri.[583] È vero che molti credono che le cose di questo mondo siano in modo governate dalla fortuna [404] e da Dio, che gli uomini non vi possano nulla, e che perciò non parrebbe utile pensarvi troppo, ma occorrerebbe lasciarsi piuttosto governare dalla sorte. Questa opinione s'è molto diffusa ai nostri tempi, per le grandi variazioni che sono seguite in Italia, fuori d'ogni umana congettura.» «Nondimanco, perchè il nostro libero arbitrio non sia spento, giudico potere esser vero, che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l'altra metà o poco meno a noi. Ed assomiglio quella ad uno di questi fiumi rovinosi, che quando si adirano, allagano i piani, rovinano gli arbori e gli edifici, lievano da questa parte terreno, lo pongono da quell'altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all'impeto loro senza potervi in alcuna parte ostare; e benchè siano così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessero fare provvedimenti, e con ripari ed argini, in modo che crescendo poi, o anderebbero per un canale, o l'impeto loro non sarebbe nè sì licenzioso nè sì dannoso. Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta i suoi impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini e ripari a tenerla. E se voi considererete l'Italia, che è la sede di queste variazioni, e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo. Che se la fusse riparata da conveniente virtù, come è la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non avrebbe fatto le variazioni grandi che l'ha, o la non ci sarebbe venuta.»

Le grandi e repentine mutazioni nel destino dei principi, dei generali e dei capi di parte, nascono, come s'è già visto nei Discorsi, dal non accordarsi sempre le qualità loro con la natura dei tempi, i quali variano di continuo, mentre che gli uomini non possono a loro arbitrio variare la propria natura, donde ne segue che coloro i [405] quali sono stati fortunati un tempo, o rovinano a un tratto, o nulla più ad essi riesce secondo i desideri. «Variando la fortuna, e stando gli uomini nei loro modi ostinati, sono felici, mentre concordano insieme, e come discordano, sono infelici. Io giudico ben questo, che sia meglio essere impetuoso che rispettivo, perchè la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tener sotto, batterla ed urtarla; e si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedono. E però sempre, come donna, è amica de' giovani, perchè sono meno rispettivi, più feroci, e con più audacia la comandano.»[584]

Ed ora siamo giunti all'ultimo capitolo, che finisce con la tanto celebrata esortazione ai Medici, perchè, dopo avere ordinato lo Stato nuovo, s'inducano a liberare la patria. A tutti coloro i quali non osservarono, come anche nei Discorsi il grande legislatore, fondato che ha colla violenza un regno, deve, affidandolo al popolo, renderlo libero e difenderlo, questa esortazione sembrò appiccicata, senza legame alcuno nè col resto del libro, nè colle idee dell'autore. In realtà essa è però l'ultima sintesi del Principe, che fu sempre il pensiero dominante del Machiavelli. Perfino quando egli serviva la Repubblica, lo vediamo rivolgersi ai Fiorentini, esclamando nei propri appunti, già da noi ricordati: «Manco male il tiranno, alla testa delle milizie nazionali, che stare come voi, senza difesa, in balìa del più tristo facchino che vesta armi in Italia.» Non deve quindi recar nessuna maraviglia il vederlo ora concludere: «Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se al presente in Italia correvano tempi da onorare un Principe nuovo, e se ci era materia che desse occasione a uno prudente e virtuoso d'introdurvi nuova forma, che facesse onore a lui, e bene alla universalità degli uomini di quella, [406] mi pare concorrano tante cose in beneficio di un Principe nuovo, che io non so qual mai tempo fusse più atto a questo.» «E se a provare la virtù di Mosè, di Ciro, di Teseo, era necessario che l'Egitto, la Persia e Atene venissero nelle misere condizioni che troviamo descritte; a provare la virtù d'uno spirito italiano,» «era necessario che l'Italia si riducesse nel termine ch'ell'è di presente, e che la fosse più schiava che gli Ebrei, più serva che i Persi, più dispersa che gli Ateniesi, senza capo, senz'ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, ed avesse sottoportato di ogni sorta rovine.» «E sebbene finora si sia visto qualcuno,[585] che ha dato un barlume di speranza d'essere mandato da Dio a redimerla, pure è stato poi dalla fortuna respinto, sì che s'aspetta sempre chi venga a sanar le sue ferite.» «Vedesi come la prega Dio, che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà ed insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, purchè ci sia uno che la pigli. Nè ci si vede al presente in quale la possa più sperare che nella illustre Casa vostra, la quale con la sua virtù e fortuna, favorita da Dio e dalla Chiesa, della quale ora è principe, possa farsi capo di questa redenzione.» «Qui è giustizia grande e disposizione negli animi; si sono visti prodigiosi segni che annunziano grandi mutamenti; tutto è concorso alla vostra grandezza; il rimanente fate voi, perchè Dio non vuol torre il libero arbitrio.»

«È necessario però non perdersi d'animo, per l'esempio di coloro che non riuscirono nell'impresa, perchè se voi fondate i nuovi ordini militari, questi troveranno subito la materia pronta. Qui è virtù grande negli individui, quando non manchino i capi, come si vede nei duelli e nei combattimenti di pochi, nei quali gl'italiani vincono sempre con le forze, con la destrezza e con l'ingegno. Bisogna armarsi di armi proprie, e fondarsi sulle [407] fanterie nazionali, che possono riuscire eccellenti. Sebbene le svizzere e le spagnuole sieno stimate terribili, esse non sono senza difetti, ed un terzo ordine potrebbe in Italia superarle. Gli Spagnuoli non possono sostenere i cavalli, e gli Svizzeri dovrebbero temere i fanti, quando li trovassero in guerra ostinati come loro; laonde si può ordinare una nuova fanteria, che resista ai cavalli e non tema i fanti, al che si riuscirà non con la nuova qualità delle armi, ma con la variazione degli ordini. E queste son quelle cose, che danno reputazione e grandezza ad un principe nuovo.» «Non si deve adunque lasciar passare questa occasione, acciocchè la Italia vegga, dopo tanto tempo, apparire un suo redentore. Nè posso esprimere con quale amore ei fusse ricevuto in tutte quelle provincie, che hanno patito per queste illuvioni esterne, con qual sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale insidia se gli opporrebbe? quale Italiano gli negherebbe l'ossequio? Ad ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli adunque la illustre casa vostra questo assunto, con quell'animo e quella speranza che si pigliano le cose giuste; acciocchè sotto la sua insegna e questa patria ne sia nobilitata, e sotto i suoi auspici, si verifichi quel detto del Petrarca:

«Virtù contro al furore

Prenderà l'arme, e fia il combatter corto;

Che l'antico valore

Negl'Italici cor non è ancor morto.»[586]

Così finisce questo piccolo volume, che restò per sempre un monumento immortale nella storia della letteratura. [408] Nei Discorsi, noi lo abbiamo già visto, i varî elementi da cui il pensiero politico del Machiavelli è formato, son messi gli uni accanto agli altri, senza troppo occuparsi di coordinarli organicamente fra di loro, sotto principii generali, senza neppur troppo occuparsi di vedere se vanno sempre d'accordo fra di loro. L'unità della sua scienza bisogna quindi cercarla nel suo modo di pensare e di osservare, nel suo metodo, nel modo di concepire la società, lo Stato, soprattutto il carattere dell'uomo politico, che può veramente dirsi il centro comune de' suoi pensieri, e che diviene il soggetto stesso del Principe, il quale da ciò acquista la fisonomia ed il valore suo proprio. Sebbene neanch'esso ci dia un vero sistema di filosofia politica, pure i concetti fondamentali vi sono più sicuramente scolpiti, e ritrovano la loro unità organica, personificandosi nel sovrano, che, costituendo lo Stato, redime la patria. E questo Principe redentore, che nei Discorsi apparisce e sparisce di continuo, restando in una forma ancora incerta, quasi astratta, si presenta finalmente come un personaggio reale, vivente. Tutto ciò nell'Italia d'allora non poteva essere, come noi vedemmo, che un sogno; ma il sogno del Machiavelli era talmente fondato sulla realtà, che ebbe l'importanza di un avvenimento storico. Il suo libro perciò è senza alcun dubbio quello che più di ogni altro, esercitò una vera, efficace azione sugli uomini di Stato e sugli avvenimenti, per mezzo dei quali l'Europa uscì fuori del Medio Evo. Ed è un grande errore il credere che egli non facesse altro che esporre, ripetere idee comuni a tutti nel suo tempo: troviamo invece che molti de' suoi contemporanei lo biasimarono o non lo capirono. Egli studiò la storia e la società del suo tempo; fu il solo allora che ne comprese davvero lo spirito; ed assai spesso venne tenuto responsabile, quasi autore dei fatti che andarono poi seguendo in Europa, unicamente perchè essi seguivano nel modo stesso che da lui era stato preveduto. Tutto ciò è ben altro che ripetere [409] quello che allora universalmente si diceva o pensava.

E se molti trovano strano, che, nella esortazione finale, quel Principe che pareva avesse voluto e saputo dare alla società, come a creta molle, la forma che più gli piaceva, a un tratto s'avvicina ad essa, s'immedesima col popolo, per rappresentarne le più nobili aspirazioni, personificarne la più intima coscienza, anche in ciò il libro ritrae fedelmente il processo storico, che le monarchie moderne dovevano necessariamente seguire. Esse infatti cominciarono con la tirannide a formare l'unità nazionale, per poi, appoggiandosi alla borghesia ed al popolo, contro l'aristocrazia, andarsi lentamente trasformando, ed arrivare al governo rappresentativo. Così fu che il Principe finì coll'essere davvero la profezia dell'avvenire. Che se poi si guardi solo all'Italia, l'esortazione sembra descrivere addirittura quello che, dopo tre secoli e mezzo, abbiam visto seguire sotto i nostri propri occhi. E però, a misura che i fatti andarono dimostrando la verità del sogno, si potè sempre meglio comprendere il pensiero del Machiavelli, e misurare tutta quanta la prodigiosa originalità della sua mente.

Nel tempo stesso in cui il Machiavelli correggeva ancora il Principe, Tommaso Moro scriveva la sua Utopia (1515), che fu pubblicata anche prima (1516). Vissuti ambedue pigliando parte non piccola agli affari del loro paese, erano stati l'uno e l'altro educati in mezzo alla erudizione classica. Ma questa erudizione, passando da Firenze in Inghilterra, massime in Oxford, s'andò subito profondamente trasformando. Fra di noi essa rimase solo e sempre un fatto letterario ed intellettuale, ivi invece, come in Germania, apparecchiò la Riforma, iniziando un rinnovamento della coscienza. L'Inghilterra cominciava allora a salire, l'Italia doveva fra poco rapidamente decadere. Nel carattere del Moro, non ostante i suoi difetti, v'era anche una grande altezza e nobiltà morale, che lo condusse [410] in fine al martirio, e che mancava nel Machiavelli. I due libri, sorti da uno stato di cose tanto diverso, si trovarono, come era naturale, l'uno agli antipodi dell'altro.

Tommaso Moro vide i mali, i pericoli, le ingiustizie della società in cui era nato e vissuto. Vide l'ignoranza delle moltitudini, e i potenti che nuotavano nelle ricchezze, vivendo nell'ozio, col sudore dei poveri, che lavoravano come bestie da soma, senza avere abbastanza da sfamarsi. — Perseguitati, egli scrive, quando si danno all'accattonaggio, sono subito messi a morte, se rubano qualche cosa, per soddisfare la fame che li opprime. E così noi ci occupiamo a formar dei ladri, per poi impiccarli. I principi pensano a raccogliere soldati stipendiati, a far guerre per accrescere il proprio Stato, occupati come sono esclusivamente del loro potere, del loro interesse personale. Non sembrano comprendere, non sembrano avvedersi, che la loro vera forza può venir solo dalla giustizia e dal benessere sociale; che essi sono fatti per lo Stato, non viceversa. Ma a che varrebbe il far loro un tale discorso? Qual sovrano, in qual paese del mondo, darebbe ascolto? — L'Utopia nel suo primo libro riusciva così un documento storico di grande importanza, perchè ci fa conoscere la società inglese di quel tempo, descrivendoci i mali che la travagliavano, per bocca d'un uomo, che la vide, la conobbe, e qualche tempo fu anche tra quelli che la diressero. Nel secondo libro il Moro cerca invece i rimedi, ponendoci sotto gli occhi una società ideale, ritrovata in un'isola sconosciuta, che egli suppone scoperta da un compagno d'Amerigo Vespucci. In essa non solamente la giustizia trionfa, ma l'autore, fra molte idee singolari e fantastiche, ha come una chiara visione dei grandi problemi sociali che agiteranno l'avvenire.[587] Ed in un tempo nel quale già [411] cominciavano feroci odii religiosi, che dovevano portare ad una cieca intolleranza, egli esponeva tutti i vantaggi della tolleranza. Nessun uomo, egli dice, deve esser punito per quello che crede, perchè nessuno è padrone di credere quello che vuole. Sulla pena di morte adopera un linguaggio, sostiene idee che preconizzano il Beccaria. La pena, egli dice, deve servire a migliorare l'uomo; ricondurlo al lavoro, alla virtù; non a pervertirlo o distruggerlo. Persino la questione delle otto ore di lavoro, si trova preveduta e risoluta nel modo stesso che si cerca di risolverla oggi. In Utopia l'ozio è severamente vietato, e tutti sono costretti a vivere lavorando. Anche molte questioni moderne d'igiene sulla costruzione delle case e delle città, sono prevedute e risolute. Ma dove propriamente si trova questa fortunata e felice società? Nel paese di Nowhere, cioè in nessun luogo. Chi, quando ed in che modo potrà mai iniziare una così grande riforma del vivere civile? Il Moro non si fa neppure una tale domanda, per lui affatto oziosa. I principi, padroni di tutto, non pensano che a sè, al loro male inteso interesse [412] personale, e sarebbe vano sperare di rimuoverli dalla loro via fallace.

Un tal libro non poteva di certo esercitare alcuna azione efficace sulla società, e fu in parte contradetto dallo stesso autore, che negli ultimi anni della sua vita tornò al cattolicismo, divenendo un persecutore religioso. Ma se molti eruditi, come il Pontano ed Erasmo, si contentarono di descrivere un principe filosofo, ideale, non riuscendo così a far altro che un esercizio di retorica, il Moro descrisse le più nobili aspirazioni dell'umana natura e della futura società, scrivendo un'opera, che ha un vero valore storico, filosofico e morale. Ma egli si allontanò dal presente, senza punto occuparsi d'indicarci la via, i mezzi coi quali si poteva camminare verso questo ideale; ed il suo libro restò quindi una nobile utopia e niente altro. Il Machiavelli prese invece la via opposta, proponendosi di studiare la società quale essa è realmente, e i modi per farla progredire verso la libertà. I principi, è vero, egli disse, non cercano che il loro proprio tornaconto; e supporre che vogliano mai fare altrimenti, sarebbe lo stesso che non conoscere l'uomo, fantasticare, non ricercare la verità. Ma facendo e sapendo fare il loro interesse, possono anche costituire l'unità dello Stato, assicurandone la prosperità. Occorre solo che imparino a condurre con prudenza l'opera loro, e chiamino poi il popolo a compierla, a difenderla colle armi proprie. Ma per riuscire a trovare ed insegnare questa via, bisogna cercare la verità effettuale delle cose; non dimenticare quello che si fa, per correr dietro a quello che si dovrebbe fare; non perdere il tempo, immaginando società e governi, che non sono esistiti, e non esisteranno mai. Questa è la ragione per la quale il Principe, e non l'Utopia, potè essere la guida politica di molti sovrani, di molti uomini di Stato; potè esercitare una efficace, potente azione sulla realtà storica.

[413]

CAPITOLO V.

I critici del Principe. — I contemporanei. — I Fiorentini dopo il 1530. — I difensori della Chiesa. — I gesuiti. — Carlo V e gli uomini di Stato. — I protestanti. — Cristina di Svezia, Federico di Prussia, Napoleone I, il principe di Metternich. — I filosofi ed i nuovi critici. — Il Ranke ed il Leo. — Il Macaulay. — Il Gervinus ed altri. — Il De Sanctis. — Il Baumgarten.

Sebbene il Machiavelli avesse sempre esposto le sue opinioni con una chiarezza, che può qualche volta sembrare eccessiva, pure non v'è nella storia di tutte le letterature un altro uomo che sia stato soggetto a tante e così diverse interpretazioni. Nel Principe soprattutto si sono voluti scoprire fini reconditi e misteriosi; e per meglio riuscirvi si è voluto metterlo in aperta contradizione coi Discorsi. Quando poi fu dimostrato, che questa contradizione era immaginaria; allora i sottili comenti, le artificiose ipotesi si fecero non solo sull'una e sull'altra opera ad un tempo, ma anche sulla condotta politica, sul carattere morale dell'autore. Queste interpetrazioni essendo in grandissimo numero e diversissime fra loro, spesso sostenute da uomini di molta dottrina ed ingegno, n'è finalmente avvenuto, che all'enigma del Machiavelli s'è aggiunto quello de' suoi critici. Noi siamo ben lontani dal voler compilare un elenco del numero veramente straordinario di tutti coloro che, in un modo o nell'altro, scrissero di lui. Dovremmo estenderci al di là d'ogni giusto limite, oltre di che, questo è un lavoro cominciato già da molto tempo, e mirabilmente compiuto poi dal Mohl, il cui scritto oggi avrebbe bisogno solamente d'essere condotto dall'anno 1858, in cui fu [414] pubblicato, fino ai nostri giorni.[588] Ma a noi qui importa ricordar solo i principali comentatori ed espositori, per determinare le diverse correnti che seguì la critica, ed indagare le cagioni di tanti e così opposti modi di giudicare uno stesso autore.

Finchè visse il Machiavelli non furono dati alla stampa nè i Discorsi, nè il Principe. Questo ben presto girò, per le mani di molti, in più copie manoscritte, alcune delle quali si trovano ancora oggi in varie biblioteche italiane e straniere.

La prima edizione del Principe è quella stampata dal Blado a Roma, cum Gratia et Privilegio di N. S. Clemente VII, nel gennaio del 1532, il che vuol dire cinque anni dopo la morte del Machiavelli.[589] Nel maggio dello stesso anno la medesima edizione fu riprodotta in Firenze da ser Bernardo di Giunta, e senza giusta ragione, come dimostrò il prof. Lisio, si credette che questa riproduzione fosse condotta sull'autografo, che sfortunatamente non si conosce. Uno studio assai diligente dei più [415] antichi manoscritti, confrontandoli fra loro e con le due antiche edizioni, fu fatto dallo stesso prof. Lisio, il quale si provò a darci una edizione critica del testo, avvicinandolo, per quanto era possibile, a quello che presumibilmente era stato l'autografo.[590] L'impresa doveva riuscire di una estrema difficoltà, perchè non solo le lezioni (spesso arbitrarie) dei codici più antichi e delle due prime edizioni differiscono fra loro; ma l'ortografia e le forme grammaticali usate dal Machiavelli nei suoi autografi variano continuamente. Una norma sicura da seguire costantemente non è quindi possibile trovarla, ed in ogni caso non varrebbe a darci una immagine fedele della spontanea mutabilità dell'originale. Non è perciò da maravigliarsi se, non ostante la sua molta diligenza ed il buon metodo, il prof. Lisio, pure avvicinandosi più degli altri a quello che dovette essere l'autografo, non riuscì sempre a contentare i critici. Non può infatti soddisfare l'avere egli adottato certe forme come, per esempio, preta per pietra, torgnene per toglierne, posserno, possuto e possè, per poterono, potuto e potè, specialmente quando anche alcuni degli antichi manoscritti e delle antiche edizioni adottarono le forme meno lontane dall'uso comune e più moderne.

Uno dei codici più autorevoli che abbiamo del Principe è quello che si trova nella Laurenziana (Pluteo XLIV, cod. 32), da alcuni ritenuto di mano del fido Buonaccorsi[591] e da lui indirizzato a Pandolfo Bellacci con [416] una lettera, nella quale dice che gli manda l'opera «nuovamente composta» dal Machiavelli, e che in essa troverà descritte «tutte le qualità de' principati, tutti i modi a conservarli, tutte le offese di essi, con una esatta notizia delle istorie antiche e moderne.» Lo prega poi di apparecchiarsi «acerrimo difensore contro a tutti quelli che, per malignità o invidia, lo volessino, secondo l'uso di questi tempi, mordere e lacerare.»[592] Tali parole dimostrano, che già si temevano critiche, non però uno scandalo; e provano ancora, che un uomo di mediocre ingegno, ma di animo onesto quale era il Buonaccorsi, aveva abbastanza chiaramente inteso il significato e lo scopo manifesto del libro, riconoscendone il valore. Il Vettori, come noi vedemmo, appena che ebbe letto i primi capitoli del libro, gli aveva assai lodati. Il Guicciardini, quando esaminò i Discorsi, s'era più volte fermato a quelle massime appunto, che si ritrovano anche nel Principe, e se spesso aveva dissentito dal Machiavelli, non s'era poi molto scandalizzato, nè aveva fatto cenno alcuno che altri avesse allora protestato. È difficile supporre, che se scandalo vi fosse stato davvero, non se ne trovasse almeno qualche ricordo nelle lettere del Machiavelli o in quelle a lui dirette. Leone X [417] non lo avrebbe consultato, come fece, sulla politica generale e sulle condizioni di Firenze; Clemente VII non gli avrebbe fatto aver la commissione di scriver le Storie, nè lo avrebbe più tardi adoperato, come vedremo, in ufficî di qualche importanza.

V'è un altro fatto, il quale conferma quello che noi diciamo, e dimostra ancora che il Principe, prima d'essere pubblicato, ciò che avvenne solo nel 1532, era assai conosciuto e diffuso in Italia. Agostino Nifo di Sessa, filosofo di mediocre ingegno, ma pur molto lodato allora, insegnò qualche tempo a Pisa, fino all'anno scolastico 1521-22. Tornato a Napoli, egli pubblicava nel 1523 un libro intitolato: De regnandi peritia,[593] il quale non è altro che una imitazione, anzi cattiva traduzione latina del Principe. Lo divise in quattro libri, sopprimendone l'ultimo capitolo, quello che conclude l'opera con la celebre esortazione a liberare l'Italia, aggiungendovi invece di suo un quinto libro, diviso in pochi capitoli, che trattano di quelli che egli chiama i modi onesti di governare, ripetendo in essi i soliti luoghi comuni sulle virtù del buon Sovrano. Evidentemente il Nifo pretendeva d'aver così compiuto, anzi corretto il Principe, di cui mostrava invece di non aver capito nè il significato, nè il valore. Questa cattiva copia egli dedicava, come suo lavoro originale, a Carlo V, dicendogli che in esso avrebbe trovato brevemente esposte le azioni dei tiranni e dei re, «come nei libri dei medici si trovano indicati i veleni e gli antidoti.» Il Machiavelli, fin da quando scriveva il suo libro nel 1513, aveva, come noi vedemmo, temuto che qualcuno si volesse far bello dell'opera sua. Pure della pretesa imitazione, che fu molto lodata dai letterati [418] napoletani,[594] non pare che s'accorgesse o desse molta importanza al plagio. Fu però ben presto notato da altri, ed ai giorni nostri molti se ne occuparono. Primo fra questi v'accennò il Ferrari.[595] Poi se ne occupò il Settembrini, il quale da principio credette che il Machiavelli avesse imitato il Nifo;[596] più tardi suppose che l'uno o l'altro avesse imitato Isocrate. Il Nourrisson, in un suo libro sul Machiavelli, pubblicato nel 1875, credendo d'essere il primo a notare le somiglianze, si fermò a dimostrare il plagio; e suppose che fosse rimasto lungamente inosservato, perchè il Nifo era poco conosciuto, e perchè le massime che i due scrittori sostenevano, non avevano allora nulla di singolare, essendo, come egli dice, la moneta corrente a quel tempo.[597] Bisogna però notare che il Nifo, professore nell'Università di Pisa, non era uno sconosciuto, e che il plagio, come vedremo, non era rimasto ignoto neppure ai contemporanei. [419] Egli pubblicò il suo libro quattro anni prima della morte del Machiavelli. Oltre di ciò, con le modificazioni e aggiunte fatte nel suo scritto, il Nifo aveva cercato di attenuare l'effetto che certe massime troppo audaci potevano produrre sull'animo dei lettori; e così modificato, aveva dedicato il suo lavoro a Carlo V. Il che sembra provare che quelle massime non erano poi interamente, secondo affermava il Nourrisson, la moneta corrente a quel tempo. E come questi aveva ignorato i suoi predecessori, così non li conobbe neppure il prof. Francesco Fiorentino, il quale credette anch'egli d'essere stato il primo a scoprire il plagio. Aggiunse però alcune utili notizie sulla vita del Nifo.[598]

Recentemente della stessa questione si è occupato a lungo e con diligenza il Tommasini. Egli non vuol credere ad un vero e proprio plagio (II, 137 e nota 2). Il Nifo, secondo lui, avrebbe pensato piuttosto ad un rifacimento in latino e con forma peripatetica, seguendo il gergo della scuola. — Il Machiavelli, egli dice, «se ne compiacque forse,» quantunque non amasse quel gergo scolastico. — Al plagio però, che a me parve evidente, credettero non solo i moderni, ma anche gli antichi. Bernardo di Giunta, nella sua lettera dedicata a Monsignor Gaddi, premessa alla prima edizione del Principe (1532), allude evidentemente al Nifo, quando dice: «Con ciò sia che di già, siano stati di quegli che in buona parte tradottala nella lingua latina, l'abbiano per sua mandata fuori in stampa come facilmente potrà vedere chiunque.»[599] E nella stessa lettera, ripetendo la raccomandazione [420] già fatta dal Buonaccorsi al Bellacci, prega Monsignor Gaddi di difendere il libro «da quelli che, per il suo soggetto, lo vanno ogni giorno lacerando sì aspramente, non sapendo che coloro i quali insegnano le medicine, insegnano del pari i veleni, acciò possano difendersene.»[600] Eran queste le parole stesse adoperate dal Nifo nella sua lettera a Carlo V, parole le quali pare che facessero fortuna, giacchè le troviamo ripetute fino ai nostri giorni.

Le condizioni politiche e la pubblica opinione s'andarono, dopo la morte del Machiavelli, rapidamente mutando in Firenze. Dopo l'assedio e la resa della Città nel 1530, i Medici tornarono colla forza, non più come timidi protettori d'una repubblica efimera, ma come tiranni assetati di vendetta; e ben presto cominciarono gli esilî, le persecuzioni, le condanne a morte. Se quindi al tempo di Giuliano e Lorenzo nessuno aveva biasimato il Machiavelli, perchè voleva servire i Medici, nè il Principe aveva dato origine a sospetti o calunnie, ora invece cominciarono a giudicarsi diversamente il libro ed il suo autore. Perchè un repubblicano aveva cercato di servire la famiglia di coloro che erano stati sempre tiranni della patria? Che scopo aveva egli avuto nel dare a Lorenzo, uomo di sua natura dispotico e crudele, consigli intorno al modo di conservare il principato e la tirannide? Così l'antica invidia e i nemici che lo spirito mordace del Machiavelli gli aveva suscitati, si ridestavano. E tanto è vero che il modo di vedere e di giudicar le cose politiche s'era in pochi anni sostanzialmente mutato, che coloro [421] stessi i quali volevano difenderlo, ricorrevano ora ad argomenti, ai quali nessuno aveva prima pensato. Si disse che, se aveva nel suo libro insegnato ai principi come farsi tiranni, aveva anche insegnato ai popoli come spegnerli. Si aggiunse da altri, che egli aveva dato quei consigli a Lorenzo, perchè seguendoli andasse ad inevitabile rovina. Si pretese ancora, che il Machiavelli stesso si fosse a questo modo difeso, nel rispondere agli amici che lo avevano accusato o interrogato;[601] ma di ciò non v'è traccia o memoria alcuna durante la sua vita, nè risponde punto alle intenzioni da lui realmente avute, e francamente manifestate.

Se si fosse tenuto conto di questo mutamento della [422] pubblica opinione in Firenze, non si sarebbe dato gran peso ad una lettera scritta l'anno 1549 dal Busini a Benedetto Varchi. In essa, riconoscendo pure che il Machiavelli «amava la libertà estraordinarissimamente,» aggiungeva che tutti l'odiavano. «Ai ricchi pareva che quel suo Principe fosse stato un documento da insegnare al Duca tor loro tutta la roba, ai poveri tutta la libertà. Ai Piagnoni pareva che e' fosse eretico, ai buoni disonesto, ai tristi più tristo e più valente di loro, talchè ognuno l'odiava.»[602] Ed il Varchi ripetè nella sua Storia le medesime accuse.[603] Ma se la lettera del Busini fu scritta ventidue anni dopo la morte del Machiavelli, e diciannove circa dopo il ritorno dei Medici, il Varchi, che se ne valse, compose più tardi ancora la sua opera, per ordine del duca Cosimo, quando tutto era mutato, non solo in Firenze, ma anche in Italia ed in Europa. La repubblica era spenta per sempre, il dominio assoluto dei Medici era costituito, gli stranieri percorrevano da padroni la Penisola. La riforma aveva ridestato il sentimento religioso in Germania, e la Chiesa cattolica costretta a reagire, a correggersi, si trovava in condizioni ben diverse da quelle del Rinascimento. Il Machiavelli l'aveva accusata d'essere stata sempre la rovina d'Italia, il principio della corruzione del mondo: queste ed altre sanguinose ingiurie non si potevano ora ascoltare o leggere con la quasi indifferenza con cui le avevano udite Leone X e Clemente VII. Coloro i quali lavoravano a ricostituirne l'autorità, a restituirle la direzione suprema delle coscienze, della condotta politica dei governanti, dovevano naturalmente vedere un nemico da [423] combattere, da distruggere in colui che aveva parlato di essa con tanto disprezzo, che aveva voluto sottometterla allo Stato, occupandosi della religione solo come un mezzo di governo. E così fu che il Machiavelli si trovò a un tratto circondato da mille nemici, esposto al fuoco incrociato delle loro armi. Gli esuli fiorentini non gli perdonavano il desiderio manifestato di voler servire i Medici e i consigli dati a Lorenzo; i sostenitori del nuovo Duca non gli perdonavano i suoi sentimenti repubblicani e l'odio ai tiranni, che egli aveva smascherati; i protestanti erano scandalizzati del suo indifferentismo religioso, e del modo in cui aveva parlato del Cristianesimo; la Chiesa cattolica vedeva in lui l'idra da calpestare.

Infatti i primi suoi fieri assalitori furono uomini di Chiesa. Incominciò il cardinal Reginaldo Polo, dicendo nella sua Apologia,[604] che le opere del Machiavelli erano state scritte col dito del diavolo, che egli aveva mirato alla rovina di coloro stessi cui aveva dato consigli, che la sua vita non poteva non essere stata trista e detestabile al pari de' suoi scritti. Seguirono il vescovo di Cosenza Catarino Politi,[605] il vescovo portoghese Osorio,[606] ripetendo le medesime ingiurie. Ma la battaglia regolare fu intrapresa dai gesuiti, i quali, lavorando a tutta possa per rimettere lo Stato sotto la Chiesa, e credendo giustificato, santificato ogni mezzo che conducesse a questo fine, divennero i nemici dichiarati di colui che aveva combattuto per l'indipendenza dello Stato. Incominciarono quindi col farlo bruciare in effigie ad Ingolstadt,[607] [424] ed indussero nel 1559 Paolo IV a metterne all'Indice le opere, con decreto che fu nel 1564 confermato dal Concilio di Trento.[608] Il Possevino, promotore di tutto ciò, fu anch'egli dei primi e più fieri ad assalire il Machiavelli. Non gli negava ingegno, ma gli negava religione, morale ed anche vera conoscenza del mondo. I suoi consigli, così diceva, porterebbero a sicura rovina chiunque li seguisse. Ma questa sua critica era fatta in modo, che subito si vide che egli non aveva neppur letto il Principe, che, fra le altre cose, supponeva diviso in varî libri, quando è solo diviso in capitoli.[609] In sostanza al Machiavelli si faceva allora una guerra di partito. Egli era divenuto per questi avversarî una specie di mito, che rappresentava l'opposizione dello Stato alla supremazia della Chiesa. Lo chiamavano autore della così detta Ragione di Stato, parole [425] che non furon mai da lui pronunziate nè scritte. Combattendolo, volevano sopra tutto sostenere, persuadere, che chiunque, privato cittadino o principe, non si fosse lasciato guidar dalla Chiesa, era un nemico di Dio e del genere umano. Qualunque arme a questo fine adoperata era buona, era santa.

E che tal fosse veramente lo scopo che avevano, apparisce assai chiaro dalle loro stesse parole. Il gesuita Ribadeneira pubblicò varie opere a difesa «delle virtù vere e non simulate dei principi,» contro il Machiavelli. E in una di esse,[610] rivolgendosi al principe ereditario di Spagna, che stava per succedere a Filippo II, dice che «l'infernal fuoco dei politici e machiavellisti va dilatandosi per tutto, e minaccia di bruciare il mondo.» Lo consigliava perciò d'imitare l'esempio di Ferdinando di Castiglia, il quale non si contentava di far condannare gli eretici; ma quando dovevano esser bruciati, «andava egli stesso a porvi di propria mano il fuoco e le legna, per fare il sacrificio.» Chi non fa a questo modo, egli aggiunge, va incontro a certa rovina. Infatti Enrico III di Francia, che invece di farsi regolare dalla legge del Signore, prese consiglio dai politici e machiavellisti, dovette, per giusto giudizio di Dio, «morire per mano d'un povero frate, giovine, semplice e pio, d'una ferita che li diede con un picciol coltello nella propria sua stanza.»[611]

Il frate Bozio da Gubbio, dell'Oratorio, assalì il Machiavelli, per ordine d'Innocenzo IX, usando un linguaggio molto più temperato; ma facendo comprender del pari, che il suo scopo finale era pur quello di ristabilire, al [426] di sopra delle repubbliche e dei principi, il papato di Gregorio VII e di Bonifacio VIII.[612] E così si continuò fino al Machiavellismo degollato[613] del gesuita spagnuolo Clemente, ed al Saggio della Sciocchezza di Niccolò Machiavelli,[614] che fu scritto dal gesuita italiano Lucchesini, e che i librai chiamarono Le sciocchezze del padre Lucchesini, solo titolo che davvero meritasse.

Chi ne abbia voglia, può trovare molte notizie sopra altri simili scrittori nel Cristio e nel Mohl. La loro critica è però sempre la stessa, accecata sempre dalle stesse passioni, senza mai alcun valore scientifico. Tutto il loro metodo si riduce a separare le sentenze del Machiavelli dalle condizioni in cui furono pensate ed esposte, dallo scopo che avevano, considerando e giudicando come massime di morale assoluta, quelle che sono norme di condotta politica, e così vengono alterate in modo da non poterle più riconoscere. Certo si può discutere, si può trovar modo di combattere uno scrittore, il quale dice: in politica, in diplomazia è lecito qualche volta mentire; in uno Stato gettato nel disordine dalla violenza dei partiti e delle ribellioni, si possono, debbono usar la forza, la violenza, anche l'inganno, per rimetterlo in condizioni normali; il Principe deve, se anche non crede alla religione, fingere di credervi e rispettarla. Ma se, per meglio combattere queste sentenze, si fa, in termini generali, dire allo scrittore, che bisogna mentire, ingannare, esser crudele, e finger di credere quello che non [427] si crede o si disprezza, allora cessa la possibilità d'ogni discussione, e si ha facile vittoria contro un mostro, che però esiste solo nella immaginazione del critico. Questo è quello che assai spesso si fece contro il Machiavelli, e non senza fortuna, riuscendosi a farlo passare presso i più per un nemico della morale, della religione e della giustizia, animato da una sola passione: l'odio del bene.

Mentre però si continuava questa facile e fortunata crociata, seguiva un fatto singolare, che obbligava a riflettere. Le edizioni e le traduzioni del Principe si moltiplicavano, ed il libro faceva grande cammino nel mondo. È certo che Carlo V lo studiava con diligenza, che i suoi cortigiani e suo figlio lo leggevano.[615] Il cardinal Polo lasciò scritto, che Tommaso Cromwell, l'accorto, audace e potente ministro di Enrico VIII d'Inghilterra, gli espresse la sua grande ammirazione pel Principe, dicendo d'averlo preso a guida della propria condotta politica. E sebbene la verità di questa asserzione sia stata recentemente negata, pure l'essere essa stata creduta e ripetuta da storici autorevolissimi, è un'altra prova della opinione universalmente accolta, che cioè i più celebri politici del secolo XVI studiassero e pigliassero a modello il Principe.[616] Certo è che il cardinale di Richelieu dette incarico [428] di scrivere un'apologia del Machiavelli a Luigi Machon, arcidiacono di Toul. Questi che, contro l'opinione de' suoi concittadini, era un dichiarato fautore della politica d'annessione della Lorena alla Francia, sostenuta dal Cardinale, non potè compiere la sua opera prima del 1643, quando cioè il suo protettore era già morto. Così essa restò non solo inedita, ma per molto tempo anche poco nota, ignorandosene perfino l'autore. Pure sembrò scritta con tanto calore, con tanta eloquenza, che alcuni vollero attribuirla perfino al Pascal. Ora però che è stata da molti esaminata, studiata, in parte anche pubblicata, si può affermare, che non ha nessun valore scientifico, essendo l'opera non di un critico, ma di un avvocato, il quale, difendendo il Machiavelli, voleva difendere la politica del Richelieu. Ed in ciò sta la sua storica importanza.[617] Caterina dei Medici, secondo uno scrittore moderno, fu quella che introdusse la prima volta il Principe in Francia, dove il Machiavelli acquistò una vera cittadinanza, esercitando, secondo l'espressione di un moderno, un'autorità quasi dinastica, nella Corte e nelle guerre di religione.[618] Si affermò ancora che Enrico III [429] ed Enrico IV avevano indosso il Principe quando furono uccisi. Sisto V ne fece di sua propria mano un sunto.[619] Il fatto certo è che gli uomini di Stato leggevano allora con avidità il Machiavelli, perchè in lui trovavano il solo scrittore, che parlasse un linguaggio che rispondeva alla realtà delle cose, e desse consigli i quali riuscivano davvero praticamente applicabili nella condotta generale dei grandi affari politici. Tutti coloro che, in un modo o nell'altro, consapevolmente o inconsapevolmente, lavoravano alla ferma costituzione ed alla durevole indipendenza del nuovo Stato, dovevano riconoscere che esso s'andava costituendo sulle rovine del Medio Evo, per opera di principi quali appunto il Machiavelli li aveva descritti. Chiara appariva allora l'altezza del suo genio politico, trovandosi in lui solamente la vera spiegazione, e fino ad un certo segno anche la storica giustificazione della realtà in mezzo alla quale si viveva. E quando a questa corrispondenza del libro colla realtà, anzi in conseguenza di essa, si aggiunse la continua lettura che ne facevano allora i più grandi uomini di Stato, e la esplicita ammirazione che perciò professavano al suo autore, si finì col credere che tutto quello che allora seguiva in Europa, era conseguenza delle dottrine esposte nel Principe. E ciò appunto doveva procurare al Machiavelli un'altra serie di non meno implacabili e più formidabili nemici.

Quando il potere regio fu assicurato e l'unità dello Stato consolidata in Europa, cominciò subito la lotta di coloro che volevano mettere un freno al dispotismo crescente, [430] per salvare la libertà politica e l'indipendenza delle coscienze. Il Machiavelli s'era nei Discorsi occupato solo della prima, lasciando sempre da parte il problema della libertà di coscienza, e nel Principe aveva soprattutto dimostrato la necessità di sospendere ogni franchigia per poter costituire lo Stato. Egli doveva quindi facilmente apparire allora, come il sostenitore del dispotismo; fu infatti odiato da tutti coloro che combattevano per le nuove libertà. E vediamo quindi entrare in lizza i protestanti, specialmente in Francia, dove allora si trovavano in lotta colla monarchia, cui domandavano la libertà di coscienza. Essi odiavano il Machiavelli, che era tenuto ispiratore della politica della Corte, e che sapevano poco fervido cristiano, indifferente verso la religione, di cui aveva parlato solo come mezzo di governo.

Primo di tutti fra costoro si presenta Innocenzo Gentillet, il quale, attribuendo alle dottrine del Principe le stragi della notte di San Bartolommeo, e scrivendo sotto l'azione di un tale convincimento, assaliva senza pietà il Machiavelli, che chiamava ce chien impur. Sebbene il Gentillet abbia uno scopo assai diverso, anzi contrario a quello dei gesuiti, pure egli in sostanza segue la loro stessa critica. Riduce cioè le parole del Machiavelli a sentenze generali di condotta morale, dopo di che gli è facile accusarlo d'immoralità, d'iniquità. E non basta, perchè gli nega anche l'ingegno. La sua politica, egli dice, non arriverebbe mai allo scopo che si propone: non conobbe che i piccoli Stati in dodicesimo dell'Italia, e gli mancò quindi una vera cognizione della storia e del mondo: De jugement naturel, ferme et solide, Machiavel n'en avait point.[620] Pure una critica così superficiale, [431] nè punto nuova, fece allora grande fortuna, perchè rispondeva ad un nuovo bisogno dei tempi. Essa, è vero, ripeteva cose vecchie, ma con uno scopo affatto diverso, a difesa cioè della libertà religiosa, non del dispotismo teocratico; e però il libro del Gentillet venne subito imitato, copiato da molti. Così il Machiavelli si trovò assalito con le stesse armi dai gesuiti e dai protestanti, dai sostenitori del dispotismo e dagli amici della libertà.

Ma il primo degli avversarî, che ebbe un ingegno veramente originale, fu Giovanni Bodino, il celebre autore del libro De Republica, in cui il Machiavelli è continuamente [432] preso di mira. Il Bodino non è un protestante; ma si connette con lo spirito della Riforma, sebbene da un altro lato sia ancora legato al Medio Evo. Egli oscilla fra il metodo storico ed il metodo scolastico-teologico, fra l'esperienza e le scienze occulte, con le quali ultime pretende qualche volta di spiegare le rivoluzioni politiche. In sostanza il Bodino si proponeva di far quello appunto che il Machiavelli aveva dichiarato inutile e puerile, costruire cioè uno Stato a priori; esaminare non quel che fanno gli uomini, ma quel che dovrebbero fare, e persisteva nelle sue teorie, che credeva sostenute dalla ragione, anche quando non poteva metterle d'accordo colla storia e colla realtà. Si credeva predestinato a fondare la politica sulla morale cristiana, facendo del sovrano un modello di virtù. Con tali idee egli doveva di necessità trovarsi in contradizione col Machiavelli; ed infatti egli continuamente assale «questo tristo uomo, che è venuto in voga fra i cortigiani, e mena vanto del suo ateismo. Coloro i quali sanno veramente ragionare degli affari di Stato, converranno però che egli non si addentrò mai nelle profondità della scienza politica, la quale non consiste in quelle furberie tiranniche, andate da lui cercando in tutti gli angoli d'Italia. Il suo Principe innalza fino al cielo, e prende a modello dei re il più sleale figlio di prete, che sia mai esistito al mondo, e che, non ostante tutta la sua accortezza, precipitò vergognosamente qual furfante che era. Così è sempre avvenuto ai principi che ne hanno seguito l'esempio, andando dietro ai precetti del Machiavelli, il quale pone a fondamento della sua repubblica l'empietà e l'ingiustizia.»[621]

[433]

Insieme col Bodino possiamo citare anche Tommaso Campanella, filosofo di molto ingegno, che cospirò in Calabria contro il dispotismo spagnuolo, e sopportò con eroismo una prigionia di molti anni, una tortura prolungata e crudelissima. Anch'egli ogni volta che incontra il Machiavelli, lo morde ferocemente. Il Campanella era frate domenicano, nemico degli eretici, che voleva estirpare; autore della Città del Sole, che è un'utopia filosofica, della Monarchia di Spagna e della Monarchia Messianica, altre due utopie, con la prima delle quali sosteneva il dominio universale della Spagna, che poi sottoponeva nella seconda alla Chiesa universale. Ci vuol quindi assai poco a capire che doveva essere nemico del Machiavelli: infatti lo chiama sempre tristissimo uomo, inventore della ragione di Stato, che sostituisce l'interesse del sovrano a quello del popolo, e segue l'egoismo invece d'uniformarsi alla schietta giustizia, la quale guarda alla ragione universale, eterna.[622]

Così la questione del Machiavelli era pei protestanti e pei cattolici, pei filosofi e pei teologi divenuta un caso di coscienza. Molti credevano che per assalirlo non fosse [434] neppur necessario leggerne le opere. Egli era il tristo, l'eretico, il cane impuro, l'ateo che conduceva a rovina la società e chiunque lo seguiva. E sebbene una tale critica non avesse ombra di carattere scientifico, continuò tuttavia a trovare seguaci fino ai nostri giorni. Citiamo un ultimo e più recente esempio. Il signor Barthélemy Saint-Hilaire ha premesso alla sua traduzione della Politica d'Aristotele una prefazione.[623] In essa si dichiara partigiano deciso di Platone, «che fondò la politica sulla morale,» e condanna Aristotele, «che volle invece fondarla sui fatti e sulla storia, la quale sollevò all'altezza d'un metodo. Polibio andò oltre per questa via, arrivando sino all'empirismo, col quale apparecchiò il terreno al Machiavelli, che merita addirittura l'obbrobrio universale. I personaggi che questi prende a modello, Alessandro VI e Cesare Borgia, sono dei mostri, ed egli approva senza esitare lo spergiuro, il veleno, l'assassinio. Pour peindre d'un mot tout cette politique, c'est le génie appliqué à la scélératesse.» Il dotto scrittore esalta lo stile del Machiavelli al di sopra d'ogni elogio, e conclude dicendo: «che se nelle opere di lui, alla parola succès si sostituisse le bien, allora veramente ci sarebbe molto da imparare intorno agli affari. Ma in sostanza, il metodo storico che aveva portato qualche conseguenza dannosa in Aristotele, che in Polibio viene esagerato, non ha più nel Machiavelli nè freno nè pudore. Ciò che principalmente a lui manca sono le idee generali. Del resto qualunque sieno i suoi meriti, la sua politica rimarrà per sempre disonorata. E di ciò due sono le cagioni: la perversità del cuore ed il cattivo metodo, che egli non ha neppure inventato, ma solo spinto agli estremi.»[624] Noi abbiamo già detto, che [435] il carattere d'un uomo non è stato, nè sarà mai un criterio sufficiente a spiegare e giudicare il suo sistema scientifico. Basta forse a condannare la filosofia di Bacone da Verulamio il suo carattere immorale? E quanto al metodo, il Barthélemy Saint-Hilaire è addirittura fuori di strada, essendo troppo manifesto che quello di Aristotele solamente, non quello di Platone, poteva riuscire, come riuscì di fatto, a creare la scienza politica, la quale se non si fonda sulla esperienza e sulla storia, rimane sospesa in aria. Così noi troviamo anche qui ripetute vecchie ed ormai insostenibili accuse, che rendono il dotto Francese del pari ingiusto verso Aristotele e verso il Machiavelli.

Ma a questo toccava di peggio. Finora i soli che abbiamo trovati a lui favorevoli, sono stati alcuni sovrani o i loro ministri. Ben presto anch'essi cominciarono a volgerglisi contro. Col cadere del secolo XVI le condizioni politiche dell'Europa mutavano di nuovo, ed il sovrano trovavasi nel proprio Stato in una posizione sostanzialmente diversa da quella tenuta nel Rinascimento. Non si trattava più di conquiste contro il feudalismo già domato, contro piccole repubbliche e governi locali già scomparsi; il potere sovrano non era più oscillante ed incerto, ma stabilmente assicurato alle dinastie regnanti. Intanto sorgeva nelle monarchie un popolo nuovo, a cui i re sentivano bisogno di avvicinarsi, per trovare aiuto nella lotta contro l'aristocrazia, nelle guerre che facevan tra loro; per ricever forza dal benessere, dall'incremento morale, civile, industriale di tutti. E così si apparecchiava la via a quelli che furono nel secolo XVIII chiamati principi illuminati e riformatori. Essi sentivano ora di dover essere il capo e la guida dello Stato, i rappresentanti del popolo, i sostenitori o promotori de' suoi veri interessi; non potevano, non volevano quindi più vedere nel Principe, la loro immagine. Questo sovrano che sembrava confondere lo Stato con la sua persona; occuparsi solo di consolidare [436] il proprio potere; presumer di dare al popolo la forma che più a lui piaceva, più a lui conveniva, si presentava ai loro sguardi come la negazione della vera e giusta politica, fatta a vantaggio delle moltitudini, secondo le norme della nuova filosofia. E così anche i re ed i loro ministri divennero finalmente nemici del Machiavelli.

C'è una traduzione francese del Principe, stampata in Amsterdam nel 1683, ed un esemplare di essa fu annotato di mano della ex-regina Cristina di Svezia. L'occhio corre avido a leggere queste note finora inedite, scritte in un francese assai svedese, da una donna culta e d'ingegno, che fu a capo d'uno Stato forte e d'un popolo valoroso; che menò una vita piena delle più singolari vicende; che abbandonò prima la corona, poi la religione de' suoi padri, e si fece cattolica; che non fu senza capacità politica, e non ebbe molti scrupoli; che si macchiò, quando non era più sovrana, del sangue d'un uomo che aveva amato, e finì ritirata in Roma fra gli artisti, meditando sul Principe del Machiavelli. La sola conseguenza che si possa però cavare dalla lettura di quelle note, è che la Regina viveva in un periodo di transizione, e che però la sua mente oscillava incerta fra quell'ammirazione che Carlo V e Richelieu avevano avuta pel Machiavelli, e l'avversione che dovevano fra poco avere per lui i principi riformatori. Ella senza dubbio ammira il Principe, e di continuo scrive nei margini: Que cela est bien dit! — Que ceci est beau et vrai! — Vérité incontestable! — Maxime admirable! — Spesso però respinge sdegnosa altre sentenze. Quando il Machiavelli scrive, che chi vuole esser leale fra molti tristi, trova la sua rovina, ella esclama: «Che importa? Non v'è interesse più grande, che quello di mantenere la propria parola.» Ed altrove: «Io dubito che l'impero del mondo valga un tal prezzo.» Ma poi si va di nuovo lentamente riavvicinando al Machiavelli, e quando questi racconta le uccisioni commesse dal Valentino in Romagna, ella riconosce che furono scelleraggini; [437] ma freddamente aggiunge: «Vi sono altre vie più nobili e più sicure per disfarsi di qualcuno.» Conviene che la forza e le armi sono i soli mezzi che in politica riescano sempre, e quando il Machiavelli loda in termini generali la capacità e l'ardire di Valentino, ella scrive subito: «Grandi qualità! Io non ne dubito punto.» Ha molta ammirazione anche per Alessandro VI, «che fu un gran papa, checchè se ne dica.» E queste oscillazioni continuano sino alla fine. Qualche volta afferma nobilmente: «Non v'è grandezza che meriti d'esser comprata a prezzo di delitti; non si è mai grandi nè felici a questo modo; di rado i malvagi godono della loro fortuna.» Ma quando il Machiavelli discorre delle crudeltà da lodarsi o da biasimarsi, secondo che sono bene o male usate, allora l'ex-regina non resiste, e scrive in margine — Cela n'est pas mal dit. — E poco dopo riconosce, che «senza dubbio vi sono, in politica come in chirurgia, mali che si guariscono solo col sangue e col fuoco.»[625]

Tutte queste incertezze scompariscono nel linguaggio d'un altro sovrano, venuto più tardi, ed assai superiore per ingegno e carattere politico alla regina di Svezia. Federigo il Grande di Prussia scrisse nella sua gioventù una Réfutation du Prince de Machiavel, pubblicata ai nostri giorni nella sua forma originale, ma che era già nota, per essere stata nel 1710 pubblicata dal Voltaire, riveduta e corretta da lui, col titolo: L'Antimachiavel. Il futuro Re si scaglia con tutto l'impeto del suo carattere, [438] contro il Machiavelli, e facendosi difensore dell'onore oltraggiato dei sovrani, dice che il libro del Principe può ritenersi come lo scritto d'uno che voglia insegnare ai ladri ed agli assassini. Esaminando una ad una le principali massime del Machiavelli, le isola, come fecero il Possevino, il Gentillet e tanti altri, dalle condizioni in cui furono scritte, dallo scopo che avevano, considerandole al solito come regole generali e incondizionate di condotta, come norme di morale, e così, al pari de' suoi predecessori, ne ha subito facile vittoria; nè si avvede che in questo modo combatte non il Machiavelli, ma un personaggio fantastico di sua creazione. Egli difende con calore la lealtà, la giustizia, l'onore, che debbono essere le virtù proprie dei sovrani, e conclude al solito, che una politica come quella consigliata nel Principe condurrebbe a certa rovina chiunque volesse seguirla. Una così esplicita condanna, pronunziata da un uomo che fu poi un grande genio politico e militare, il vero fondatore della monarchia prussiana e della sua potenza, doveva certo avere un grandissimo peso a danno del Machiavelli.[626]

Se non che si presentava molto naturale una domanda: quali norme seguì poi Federigo nella sua condotta politica, quelle del Machiavelli o quelle dell'Antimachiavelli? E la risposta non poteva essere dubbia. L'assalto inaspettato ed ingiustificato contro Maria Teresa; la conquista della Slesia; le alleanze tante volte fatte e disfatte, senza scrupoli e senza fede, provavano con ogni evidenza che egli fu nei suoi atti uno dei più fedeli seguaci [439] di quelle dottrine del Principe, che con tanta acrimonia aveva combattute a parole. La sua biografia dimostra con lampante evidenza che, sapendo seguire i consigli del Machiavelli, non si va poi necessariamente a rovina; si può anzi fondare la gloria e la grandezza del proprio Stato; essere ammirato, quasi idolatrato dal proprio popolo, durante la vita e dopo la morte. Perchè dunque aveva il gran Re tenuto un linguaggio da lui stesso così manifestamente smentito coi fatti? Si fecero al solito mille ipotesi. Si disse che il suo alto ingegno vedeva il bene, ed il suo tristo carattere seguiva il male; si disse che l'avere egli scritto L'Antimachiavelli fu un atto del più consumato machiavellismo, con cui voleva farsi credere diverso da quel che era, per poi potere sul trono riuscir meglio nei suoi intenti. Ma queste sottigliezze non erano del suo carattere, e sono smentite nelle sue lettere, dalle quali invece apparisce che il suo sdegno contro il Machiavelli era sincero. Noi crediamo che la vera spiegazione sia molto più semplice.

Il carattere, le condizioni morali e politiche dei sovrani nei loro propri Stati apparivano allora, come abbiamo già detto, assai mutate da quel che erano state al tempo del Machiavelli. Ciò che costituisce davvero la storica grandezza di Federigo di Prussia, e ne fa, nonostante le sue colpe, un grande uomo ed un gran re, è il profondo sentimento che lo immedesimava col suo popolo. Innanzi alla battaglia di Rossbach, egli scriveva al suo primo ministro: «Se venissi fatto prigioniero, ordino che, sotto il comando di mio fratello, sia continuata la guerra, come se io non fossi mai esistito a questo mondo. Egli ed i ministri saranno tenuti a rispondermi sul loro capo, che non si penserà a nulla concedere pel mio riscatto.» Un uomo animato da questo sentimento profondo di sacrificare tutto sè stesso alla grandezza, alla gloria del suo popolo, del suo Stato, della sua patria, sebbene ad ottenere un tale scopo non si fosse lasciato mai fermare da [440] veruno scrupolo di coscienza, doveva sentire uno sdegno invincibile contro uno scrittore, che a lui sembrava presentar come imitabile modello l'immagine d'un principe, che voleva sottomettere lo Stato, il popolo, ogni cosa al suo solo personale arbitrio. E se anche Federigo s'ingannò nel suo giudizio, ciò non esclude punto che il suo sdegno fosse sincero, quando diceva: «Il Machiavelli non ha compreso la vera natura del sovrano, il quale deve preferire a tutto la grandezza e la felicità del suo popolo. Invece di essere il padrone assoluto di coloro che son sotto il suo dominio, egli ne è il primo servitore, e deve essere lo strumento della loro felicità, come essi sono lo strumento della sua gloria. Che cosa divengono allora tutte le idee di ambizione personale e di dispotismo? Ecco quello che rovescia dalle fondamenta il libro del Principe, e ricopre di vergogna il Machiavelli. Secondo lui, le azioni più ingiuste e più atroci divengono legittime, quando hanno per iscopo l'interesse e l'ambizione. I sudditi sono schiavi, di cui la vita e la morte dipendono dalla volontà del sovrano, presso a poco come gli agnelli d'una mandra, il latte e la lana dei quali sono destinati all'utilità del padrone, che li fa anche scannare, quando gli torna comodo.»[627]

Educato dalla filosofia umanitaria del secolo XVIII, sebbene d'un carattere violento, ambizioso e niente scrupoloso; ignaro della storia e della letteratura italiana; non avendo neppur letto le altre opere del Machiavelli, a Federigo era impossibile capire il vero significato del Principe, sorto nella mente dell'autore a similitudine dei tiranni del Rinascimento, i quali costituivano l'unità dello Stato e del popolo, sottoponendoli colla violenza alla propria ambizione. Egli non si avvedeva, non capiva, si sarebbe anzi sdegnato e ribellato contro chi gli avesse [441] voluto dimostrare che Il Principe del Machiavelli era stato il precedente storico, necessario del sovrano del secolo XVIII. Pure in nessuno più che nel gran re di Prussia la stretta parentela dei due personaggi appariva evidente, e nessuno più di lui seppe cavar profitto dalle massime che aveva condannate. Nel suo proprio caso egli credeva di certo giustificate quelle massime dallo scopo che aveva, e dalla ineluttabile necessità di praticarle a benefizio dello Stato; ma questo era anche il modo con cui il Machiavelli le aveva giustificate nel Principe. Fin dai primi del secolo XVI questi aveva chiaramente compreso, che la nuova tirannide sarebbe stata un apparecchio alle nuove libertà, e dal Principe contemporaneo aveva profeticamente veduto discendere il futuro sovrano riformatore. Un tale concetto, è ben vero, egli lo accennò nei Discorsi assai più spesso che nel Principe; ma nell'ultimo capitolo di questo è tuttavia esposto chiarissimamente, in quella esortazione nella quale il pubblico bene sorge e s'innalza al di sopra di tutto, come fine ultimo dell'opera. Ma Federigo, arrivato a questo punto, sospende a un tratto il suo giudizio, e si tace, perchè l'esame della esortazione avrebbe anche a lui fatto capire, che la sua critica senza sicuro fondamento, cadeva per terra. In verità, date le cognizioni storiche e letterarie assai limitate del gran Re, che del Machiavelli aveva letto solo il Principe; dato il sentimento che egli aveva dei doveri del sovrano; date le premesse erronee da cui partiva, tutto il resto era una conseguenza logica, necessaria, che non deve recarci nessuna maraviglia. Così potè avvenire che, mentre la sua vita è il più chiaro comento, la più sicura conferma delle verità esposte nel Principe, l'Antimachiavelli n'è invece solamente una parodia superficiale. Ebbe perciò ragione il Mohl, quando disse, che lo scritto di Federigo «non è una critica, ma un malinteso, perchè egli combatte una sua propria creazione, e quindi non si è con lui molto severi se si dice, che il [442] suo è un lavoro da scuola sopra un argomento mal compreso.»[628] Si può aggiungere tuttavia che l'Antimachiavelli rimane, ciò nonostante, un documento storico di grandissimo valore, perchè, se fa poco onore allo scrittore, che non capì il Machiavelli, ne fa invece molto al sovrano, che fin dalla sua gioventù, sentiva l'altezza della propria missione nel mondo.

Nell'esame di questi così varî giudizî, non bisogna mai dimenticare, che se tutte le scienze che si chiamano morali, sono in una stretta relazione con la società in mezzo alla quale nascono e si svolgono, più di ogni altra è soggetta a questa legge la scienza politica. Rispetto ad essa infatti, mutano non solo le idee, le cognizioni e il modo di pensare di coloro che la trattano; ma muta ancora il soggetto di cui essa si occupa, che è per l'appunto la società umana. E quanto al Machiavelli, il fatto diviene anche più visibile, perchè, come vedemmo, i suoi scritti s'immedesimano per modo con la società e i tempi in cui egli visse, che le sue dottrine assumono qualche volta un valore così obiettivo, da apparire addirittura come un prodotto impersonale, fatale della storia. E questo [443] ci spiega perchè anche gli uomini di Stato lo giudicarono tanto diversamente, secondo la diversa condizione in cui si trovarono. Carlo V e Richelieu ammiravano molto il Principe, a cui si sentivano ancora assai vicini; Federigo II, che si trovava in una condizione sociale e politica affatto nuova, lo biasimava. Napoleone I, che era di un carattere ben diverso, si trovò in condizioni non molto lontane da quelle osservate, studiate dal Machiavelli, e lo ammirò. Egli fu veramente un principe nuovo, che tutto dovè alla fortuna, al proprio coraggio ed ingegno; un usurpatore sorto per storica necessità a levare la Francia dal caos in cui l'aveva gettata la Rivoluzione. Il sentimento dominante di Federigo, quello che ne determinava il carattere politico, era la sua immedesimazione con lo Stato e col popolo, in mezzo a cui era nato, per cui doveva e voleva vivere, e di cui diceva d'essere il primo servitore. Napoleone I, invece, comandava e guidava popolazioni alle quali spesso si sentiva affatto estraneo. Le sue stesse parole qualche volta dipingono mirabilmente questa sua condizione. — Mais après tout, un homme d'État est-il fait pour être sensible? N'est-ce pas un personnage complètement excentrique, toujours seul d'un côté, avec le monde de l'autre?[629] — Non solamente tutta la sua vita ci dimostra una continua applicazione delle teorie del Principe; ma spesso anche egli manifesta opinioni, sentimenti che sembrano imitati dal Machiavelli. Anche Napoleone aveva un'assai cattiva opinione degli uomini, ed era convintissimo che seguivano sempre e solo l'interesse personale.[630] Che poi la condotta dell'uomo di Stato dovesse essere giudicata con norme sue proprie, [444] diverse affatto da quelle della vita privata, era per lui un altro assioma. «Le sue azioni,» egli diceva, «che, considerate assolutamente, il mondo così spesso biasima, formano parte integrante della grande opera, che sarà poi ammirata, e che sola può farle giudicare. Innalzate la vostra immaginazione, guardate più avanti, e vedrete che quei personaggi, i quali vi paiono violenti, crudeli e che so io, non sono altro che uomini politici, i quali sanno rendersi padroni delle loro passioni, e calcolar meglio gli effetti delle loro azioni.»[631] Leggendo questo ed altri suoi simili discorsi, si vede assai chiaro come e perchè egli fosse così grande ammiratore di quel Machiavelli che Federigo tanto biasimava.[632]

Il principe di Metternich, che fu invece grande oppositore di Napoleone, rappresentante contro lui delle vecchie tradizioni e della reazione europea, fu anche un avversario dichiarato del Machiavelli, di cui parla con grande disprezzo nelle sue Memorie. Noi qui non vogliamo prendere in esame le poche parole che ne dice in una nota,[633] perchè sono le solite vecchie e vuote frasi senza valore. Tutto intento a descrivere sè stesso, non quale fu veramente, ma quale voleva esser tenuto dalla posterità, il Metternich insiste di continuo sulla indissolubile unione della morale con la vera politica, con la vera diplomazia, che debbono valersi solamente di mezzi leali ed onesti. Partendo da questi principii, ai quali noi sappiamo quanto poco si attenne nella pratica, egli muove guerra alla Rivoluzione, a Napoleone, al Machiavelli, ripetendo sempre [445] che la morale, la lealtà, la giustizia sono i soli criterî coi quali si possono sicuramente giudicare le azioni dei principi e dei popoli, il valore reale di ogni politica. Ma quando poi viene ad esaminare il carattere di Napoleone I, e domanda a sè stesso: fu egli sostanzialmente buono o cattivo? Quale è allora la sua risposta? «Ad un uomo come Napoleone,» egli dice, «non si può applicare nè l'uno nè l'altro epiteto, nel senso che generalmente si dà a queste parole. Occupato dalla sua grande impresa, avanzava sempre, schiacciando tutto quello che incontrava per via, senza poter mai fermare il suo carro. Egli aveva due facce: come uomo privato, era assai alla buona e molto trattabile; come uomo di Stato, non aveva alcun sentimento. Non v'è che un solo modo di giudicarne la grandezza, e sta tutto nel saper giudicare la sua opera, ed il secolo che egli riuscì a dominare. Se quest'opera fu veramente grande, tale deve esser giudicato anche Napoleone I; se invece fu effimera, tale è anche la sua gloria.»[634] Ma tutto questo ragionamento, che forma certo uno dei brani migliori nelle Memorie del Metternich, è una negazione della teoria, che egli pretende di darci come norma costante della sua condotta, e colla quale vuol combattere il Machiavelli, di cui, senza avvedersene, finisce poi coll'ammettere la dottrina fondamentale, che politica, cioè, e morale sono due cose assai diverse.

Il Machiavelli non era però restato lungamente senza difesa. Appena in fatti, colla nuova filosofia, cominciò nel secolo XVI una critica indipendente, sbalzarono subito voci autorevoli in favore di lui. Giusto Lipsio fu dei primi a dichiarare, che egli lo credeva superiore a quanti avevano mai scritto del principato. Gli doleva solamente che non avesse sempre condotto il suo Principe nella via della virtù e dell'onore, giacchè troppo spesso aberravit [446] a regia hac via. Questa dichiarazione per altro non bastò a salvarlo dagli assalti, che ben presto gli mossero i nemici del Machiavelli, dai quali dovette difendersi.[635] Poco dopo venne Bacone da Verulamio, il quale, pratico com'era degli affari, e promotore della filosofia sperimentale, si dichiarò aperto fautore del Machiavelli, dicendo che bisognava esser grati a lui ed a tutti coloro che come lui esaminarono ciò che gli uomini fanno, non ciò che dovrebbero fare.[636] Tali parole dimostrano chiaro, che egli aveva giustamente veduto un lato sostanziale, ma un lato solo del Machiavelli. Questi in vero esaminò ciò che gli uomini fanno, ma per indagar poi quello ancora che debbono fare in determinate condizioni, specialmente per riuscire nei loro fini. Le sue opere sono infatti piene di consigli e di precetti pratici. Ebbe quindi ragione Traiano Boccalini quando, nello stesso secolo, ci rappresentò, in una forma satirica e burlesca, il Machiavelli, che condotto innanzi ad Apollo, si difende contro la condanna del fuoco, cui volevano sottoporlo. «Io non capisco,» così gli fa dire, «perchè mi si voglia condannare, non avendo io fatto altro che descrivere la condotta e le azioni dei principi, quale ce la narrano tutte le storie. Se essi non sono puniti di ciò che fanno, debbo io esser condannato al fuoco per aver descritto le loro azioni?» Ed aggiunge che, dopo una tale difesa il Machiavelli stava per essere assoluto, quando l'avvocato fiscale affermò, che era stato veduto di notte in mezzo ad una mandra di pecore, alle quali cercava porre in bocca denti di cane. In questo modo, osservava, non sarebbe stato più possibile [447] farle governare come prima da un solo guardiano, col fischio e con la verga. Così fu pronunziata la condanna.[637] Nè è difficile capire il senso della favola.

Anche Alberigo Gentile, tanto celebrato pel suo libro De iure belli, s'era già nel secolo XVI chiaramente avvisto, che il Machiavelli non era un semplice descrittore di fatti, avendo colle sue opere desiderato e cercato di promuovere anche la libertà. Lo chiamava perciò democratiae laudator et assertor acerrimus, tyrannidis summe inimicus, aggiungendo che, sotto colore d'istruire i principi, aveva voluto svelare ai popoli gli arcani della tirannide.[638] E questa opinione trovò un numero sempre crescente di sostenitori. Il Rousseau scriveva nel suo Contratto sociale, che il Principe era il libro dei repubblicani, perchè, fingendo di dar lezioni ai re, ne aveva date invece ai popoli.[639] E l'Alfieri, che all'alto ingegno univa un nobile carattere, e non soleva nominare il Machiavelli senza chiamarlo anche divino, affermò: «Se nel Principe si trovano a mala pena sparse alcune poche massime tiranniche, esse sono esposte solo per svelare ai popoli le crudeltà dei re, non certo per insegnare a questi ciò che essi han sempre fatto e sempre faranno. Le Storie e i Discorsi, invece, spirano in ogni pagina grandezza d'animo, giustizia e libertà, nè si possono leggere senza [448] sentirsi ardere da questi sentimenti. Pure il Machiavelli fu creduto un precettore di tirannide, di vizî e di viltà; e così avvenne, che la moderna Italia, in ogni servire maestra, non riconobbe il solo vero filosofo politico che ella abbia avuto finora.»[640]

Sebbene questi scrittori parlassero del Machiavelli per incidenza, pure l'autorità della loro dottrina e del loro ingegno era di gran lunga superiore a quella di coloro che se n'erano fatti accusatori, ed ebbe perciò un peso assai maggiore. Se però vogliamo essere giusti, è forza notare che, pure andando per opposti sentieri, gli uni e gli altri cadevano in un medesimo errore. I detrattori del Machiavelli credevano che bastasse denigrare il suo carattere, per condannarne le dottrine; i suoi difensori credevano invece che, esaltandone il patriottismo, dimostrando l'amore che egli ebbe per la libertà, venivano nello stesso tempo a provare implicitamente il valore e la verità delle sue dottrine. E non si capiva che, se la questione del Machiavelli non era un caso di coscienza, non era neppure una disputa di patriottismo e di liberalismo. Il punto essenziale doveva essere: Aveva egli detto il vero o il falso? Che valore scientifico hanno le sue dottrine? Tutto il resto doveva venire in seconda linea. È evidente che, anche difendendo il dispotismo, si può essere un uomo di grande ingegno, come si può essere un retore ed un uomo tristo, pur difendendo la libertà. Nondimeno pareva che tutto questo non si volesse riconoscere, e si continuò un pezzo, specialmente in Italia, ad andar sempre per la medesima via. Quando infatti cominciarono fra di noi le aspirazioni nazionali, e la letteratura divenne il mezzo più efficace ad apparecchiare la nostra redenzione politica, tutto allora, anche la critica, volle avere un fine, una tendenza patriottica. Ed [449] il Machiavelli repubblicano, nemico dei Papi, sostenitore dell'unità e dell'indipendenza italiana, divenne per molti addirittura un idolo, senza che altro si richiedesse da lui. Il Foscolo che nei Sepolcri lo esaltò come un nemico dei tiranni[641], lo esaltava nelle Prose come un avversario dei Papi e degli stranieri, un fautore della repubblica e della indipendenza nazionale.[642] Il Ridolfi, nel suo libro sul Principe,[643] credè di assolvere il Machiavelli da ogni accusa, osservando che egli voleva liberare la patria dallo straniero, impresa per la quale tutto è permesso. E così i critici di questa scuola continuarono un pezzo fra noi, pubblicando lavori che erano sempre animati da sentimenti patriottici, e dimostravano uno studio, una ammirazione sincera pel Machiavelli; ma, salvo uno scritto dello Zambelli, per molti rispetti assai pregevole, e del quale parleremo fra poco, essi non facevano altro che ripetere, con maggiore o minore eloquenza, le medesime idee generali e indeterminate.

Una critica non molto diversa, sebbene con maggiore apparato di dottrina, si fece strada anche in Germania. Quando colà cominciarono a rendersi più vive le aspirazioni verso l'unità nazionale, sotto l'egemonia della Prussia, e l'attenzione si volse ad esaminare la realtà vera delle condizioni politiche del paese, si ebbe una più esatta idea delle difficoltà pratiche che si presentavano, dei mezzi coi quali solamente si potevano superare, e si comprese allora il gran valore che avevano le sentenze del [450] Machiavelli, il quale fu perciò studiato ed ammirato assai più di prima. L'avere egli invocato un principe liberatore, che riunisse la patria, e la liberasse dallo straniero, l'essere stato nemico del Papa, erano tutte condizioni che, come gli avevano cresciuto favore in Italia, quando essa mirava ad abbattere il potere temporale dei Papi, e liberarsi dallo straniero sotto l'egemonia del Piemonte, così gliene crescevano nella Germania protestante, che voleva costituirsi per una via non molto diversa. Ciò spiega il gran numero di libri, di opuscoli, di articoli di riviste e giornali tedeschi, che negli ultimi anni parlarono del Machiavelli con grande entusiasmo, pieni sempre di sentimenti patriottici. Citeremo un solo esempio, fra i molti che si potrebbero addurre. Il signor Bollmann, nella sua Difesa del Machiavellismo, pubblicata l'anno 1858, incomincia coll'osservare che la morale politica è profondamente diversa dalla privata; che l'una non ha quasi relazione con l'altra; che in mezzo alla malvagità degli uomini ed alle miserie della patria, il volerla salvare con una nobile e leale condotta sarebbe pazzia: ci vuole fermezza di volontà e chiarezza di mente, lasciando da parte ogni sentimentalismo. Il Machiavelli ebbe il gran merito di esporre francamente queste verità. Egli credette di trovare in Cesare Borgia le qualità necessarie, e lo propose a modello. A dimostrare poi che questa difesa non deriva da fantastica e teoretica ammirazione per uno straniero, il Bollmann si rivolgeva alla Germania, cercando dimostrarle, che allora nessuno de' suoi partiti politici poteva salvarla. Era quindi necessario che sorgesse in Prussia un principe riformatore ed armato, quale appunto era stato descritto dal Machiavelli. Questo principe, egli concludeva, potrà nell'interno seguire le norme della giustizia e della morale; ma di fronte allo straniero, seguendo i consigli del Machiavelli, non penserà nè a mitezza, nè a crudeltà, nè a fede, nè a onore, nè a vergogna, ma solo alla salute della patria. Quando sorgerai, [451] o principe dell'avvenire?[644] Siffatti scrittori apparivano in Germania quando già gli studi storici, massime sul nostro Rinascimento, avevano fatto gran cammino, e però non di rado or gli uni or gli altri scrittori s'allargavano a considerazioni generali più o meno notevoli. Pure in essi si faceva sempre strada un patriottismo che, per quanto si voglia lodare, riesciva spesso inopportuno, e finiva coll'attribuire al Machiavelli idee che questi non ebbe mai, specialmente poi nella forma tutta moderna, in cui gli venivano attribuite.

Era però da un pezzo cominciata anche una critica più scientifica, che lentamente, ma costantemente faceva il suo cammino. Il Raumer e lo Schlegel, per esempio, avevano creduto di trovare la sorgente degli errori del Machiavelli nell'aver egli avuto un concetto antico e pagano dello Stato, tale infatti che faceva scomparire ogni valore morale dell'individuo, non riconoscendo altro che l'intelligenza e la forza. Nello Stato del Machiavelli, aggiungeva lo Schlegel, non si sa nulla di Dio e de' suoi precetti; nè si vede che il male d'Italia veniva dalla corruzione del suo popolo, a cui bisognava innanzi tutto portare rimedio.[645] Il Matter trovava invece la sorgente degli errori nella separazione della politica dalla morale. Così, egli diceva, si dimenticarono i diritti del popolo; ed il principe cercò uno Stato per suo uso, che avesse uno [452] scopo indipendente dalla giustizia.[646] Questi non furono, è vero, che deboli ed incerti tentativi; ma pur si cominciava con essi a riconoscere, che il merito o demerito delle dottrine, bisognava cercarlo non nel carattere dell'autore, ma nei suoi scritti, ad essi applicando quei criteri scientifici che si credevano giusti. Il Franck, assai più recente, cercò di entrare anch'egli in questa nuova via. Secondo lui, il Machiavelli, dopo aver diviso la politica dalla morale, esaminando due sole forme di governo, la monarchia e la repubblica, non trovò nè cercò mai i vincoli che possono unire la monarchia alla libertà. I suoi errori non sono conseguenza del male che egli non voleva, ma delle false premesse, da cui logicamente li deduceva. I vari elementi sociali, l'individuo e la coscienza, sono sottomessi all'unità dello Stato; i vizî e le virtù sono considerati come qualità relative, che bisogna stimare o biasimare, non già per sè stesse, ma per gli effetti che ne derivano. E però il suo nome resta odioso anche quando vengono remosse tutte le ingiuste accuse. In conclusione però il Machiavelli era, secondo il Franck, un uomo senza principii, che nell'ordine politico non credeva alla distinzione fra il bene ed il male, non riconosceva una giustizia assoluta, nessun dovere inviolabile, e sottometteva i diritti più sacri dell'umanità alla ragione di Stato.[647]

Lasciando però da parte che così il Franck ritorna, sebbene in una forma assai più mite, a quella guerra personale contro il carattere del Machiavelli, che dapprima sembrava volesse evitare, due sono in genere i difetti principali di questi critici. Essi vogliono dedurre [453] l'intera dottrina del Machiavelli da alcune poche idee molto semplici e molto chiare, sulle quali rivolgono tutta quanta la loro attenzione. Ma il Machiavelli non ha mai una forma rigorosamente filosofica e sistematica; la sua mente, le sue opere sono molteplici e varie; le sue dottrine si formano di parti diversissime, nelle quali è qualche volta difficile trovare un nesso che le unisca. Se non si esaminano da ogni lato, sotto i loro mille mutabili aspetti, riesce impossibile comprenderle. La divisione della politica dalla morale è una sola delle molte questioni su cui deve fermarsi il critico. Ma da essa solamente non si può certo dedurre tutta la dottrina. Un altro errore di questa scuola è quello di voler esaminare gli scritti del Machiavelli, senza quasi occuparsi della sua vita e de' suoi tempi; onde le sfugge assai spesso lo scopo pratico che le dottrine avevano, e le riesce quindi impossibile determinarne il carattere ed il valore. Non si capirà mai il Principe, se prima non si conoscono i fatti che lo ispirarono, le condizioni in cui fu scritto, lo scopo pratico che si propose. È ben vero che così in esso come nei Discorsi v'è un'idea pagana dello Stato; ma se non si aggiunge che questa idea prese in Italia, durante il Rinascimento, una forma affatto nuova, tutta propria di quel tempo, e non si definisce quale era questa forma, non si capirà mai nulla del Machiavelli.

Fra questi critici va collocato anche P. S. Mancini, il quale, venuto più tardi, allargò i confini della scuola, non evitandone però gli errori. Egli incomincia col dichiarare di voler esaminare il valore intrinseco delle dottrine, cosa che non crede sia stata ancora fatta da nessuno. La questione principale anche per lui sta tutta nella separazione della politica dalla morale, separazione che egli condanna senza riserve. Aggiunge poi giustamente: il Machiavelli voleva liberare lo Stato dalla Chiesa, e perciò separava la politica dalla teologia, dalla religione, dalla morale, dall'astratta filosofia scolastica, applicando [454] ad essa il metodo storico e sperimentale.[648] Insiste ancora, e con ragione, nell'affermare che il Machiavelli non pensò mai a negare la virtù, la giustizia, la libertà, le quali anzi ammirò ed esaltò, come dimostrano chiaramente infiniti brani, alcuni dei quali vengono da lui citati e riprodotti. Siccome però il punto fondamentale riman sempre la separazione della politica dalla morale, il che è dal Mancini dichiarato un errore gravissimo, così tutte le citazioni fatte non valgono a salvare il Machiavelli dalla condanna. Questi proponendosi, sopra ogni cosa, di salvare l'indipendenza dello Stato, cercò i mezzi che conducono ad un tal fine, buoni o cattivi che fossero, e divenne perciò l'antesignano degli utilitari. «Così la politica, abbandonata a sè stessa, ed allevata in una selvaggia indipendenza, addiviene una teoria sistematica di mezzi senza presupposta rettitudine di volontà.»[649] L'aver creduto possibile di escludere dal campo proprio di essa il problema morale, lo fece cadere in «un errore fondamentale, che guasta e corrompe tutto il sistema,» il quale rimane affatto «destituito della salda base di cui abbisogna.»[650] È chiaro che il valore intrinseco di questa dottrina si deve ridurre a ben poca cosa, quando essa manca della necessaria base, quando è adulterata da un veleno intrinseco, che tutta la corrode e corrompe.

Secondo il Mancini, la parte meno originale nelle opere del Machiavelli è quella che parla del principato, perchè imitata da Aristotele e da San Tommaso,[651] il che, come abbiamo già visto, non è esatto. Suo merito sarebbe l'essere egli riuscito a dimostrare come il principato assoluto debba, per preservare la sua esistenza, adoperare, quali [455] mezzi ordinarî di governo, l'immoralità e l'ingiustizia; mirare sempre al fine dinastico, non al bene dello Stato e del popolo, dal che ne segue implicitamente «la condanna più sapiente, più perentoria della monarchia assoluta.»[652] — Sfortunatamente però questo merito indiretto non si può, secondo noi, attribuire al Machiavelli, che s'adoperò invece a dimostrare la storica necessità del dispotismo in alcune condizioni sociali, cosa di cui l'Europa de' suoi tempi gli offriva una dimostrazione incontrastabile. Egli era profondamente convinto, che solo il potere assoluto poteva colla forza riunire e salvare dall'anarchia un popolo corrotto, e lo disse chiaro. Anzi in ciò appunto, non già nella indiretta condanna dell'assolutismo, sta tutto il significato del Principe, che è un prodotto originale della mente e dei tempi del Machiavelli, non una imitazione d'Aristotele. È qui che bisogna giudicarlo e decidersi ad assolverlo o condannarlo. Così, sebbene il Mancini cercasse d'allargare le sue osservazioni, finì col restringersi anch'egli a voler dedurre tutta la dottrina del Machiavelli da poche e semplici premesse, nè s'occupò in modo alcuno dei tempi. Qualche volta infatti egli sembra esaminare il Principe e i Discorsi, come se si trattasse addirittura di opere composte ai nostri giorni, senza tener conto alcuno delle condizioni storiche, in cui furono scritte. E quando dà al Machiavelli lode meritata, per aver separato la politica dalla scolastica e dalla teologia, dimentica affatto così coloro da cui questi era stato preceduto, come coloro che avevano con lui lavorato al medesimo fine. Di tutto ciò il Mancini si sarebbe, col suo acuto ingegno, facilmente accorto, se avesse preso in più attento esame i critici che avevano scritto prima di lui.

Già da un pezzo s'era cominciato a mettere il Machiavelli in relazione coi tempi; qualche tentativo anzi s'era visto sin dal principio del nostro secolo. Il Rehberg, che [456] scrisse quando la Germania era oppressa dai Francesi, e non senza pensare a ciò, giudicava il Principe opera d'un ingegno grandissimo, ma privo di un alto ideale, e che perciò non pensava punto al vero benessere del genere umano. Essendo la repubblica divenuta allora impossibile in Italia, egli si rivolse a ciò che era pratico, immaginando un monarca forte e potente, che sperò di trovare in uno dei Medici. In tal modo pensava di poter cacciare i barbari dall'Italia, lasciando che il popolo aiutasse l'alta impresa, come e quanto poteva. I suoi consigli furono dati in queste condizioni politiche, e bisogna tenerne conto nel giudicarli. La immoralità di molti di essi non repugnava all'autore, perchè anch'egli era macchiato dai corrotti costumi del secolo.[653] Quasi contemporaneamente il Ginguené cercava di dare, nella sua Storia della letteratura italiana, un giudizio largo ed intero su tutte le opere del Machiavelli, tenendo conto dei tempi e dello scopo pratico, che l'autore aveva costantemente preso di mira.[654]

Ma questi ed altri lavori simili, sebbene dotti e lodevoli per nuove indagini, sebbene esaminassero il Machiavelli sotto vari aspetti, non potevano riuscire ad un resultato soddisfacente, perchè mancavano d'un metodo rigoroso. Erano osservazioni più o meno acute, più o meno originali, sempre però incompiute ed incerte. I primi tentativi d'un vero esame scientifico cominciarono con la nuova critica storica, e furono fatti dal Ranke e dal Leo, i quali ci lasciarono solo poche pagine sul Machiavelli; ma in esse una via più larga e sicura era indicata. Leopoldo Ranke, che sin dalla sua prima giovinezza s'annunziò come un uomo di straordinario ingegno, [457] e fondò poi una grande scuola storica in Germania, pubblicava nel 1824 le sue brevi considerazioni sul Machiavelli, insieme con altre su molti storici italiani del secolo XVI.[655] Nei Discorsi, egli dice, il Machiavelli ragiona sulla storia romana e su Tito Livio; ma in realtà si occupa poco di ciò, perchè il suo pensiero è rivolto all'avvenire d'Italia, in cui aiuto chiama l'esperienza del passato. La grandezza di Roma a lui non sembra derivare da una forza interiore del popolo romano, ma da alcune massime, da alcuni assiomi, che espone agl'Italiani, perchè, seguendoli, possano giungere alla medesima grandezza. Per riuscirvi però, sarebbe stato necessario un altro popolo, che avesse avuto forza e virtù, un'altra educazione morale. Egli andava quindi dietro all'impossibile, e dovette più volte accorgersene, e disperare, persuadendosi finalmente, che occorreva un principe assoluto, per rimediare colla violenza alla generale corruzione. Anche nell'Arte della Guerra, dopo avere escogitato le combinazioni diverse sui modi di formare in Italia un esercito a similitudine del romano, finiva col disperare, tornando all'idea che risulta dai Discorsi, cioè alla necessità [458] di uno Stato forte, con potere assoluto. Chi fonderà un tale Stato, sarà come Filippo di Macedonia, e s'impadronirà dell'Italia. Questa idea di riunire la patria, che forma il soggetto del Principe, v'era già nel Rinascimento, e molte volte gli scrittori l'avevano accennata.[656] Al tempo di Leone X erano grandi le speranze dei Medici su tutta o gran parte d'Italia, e i loro amici si lusingavano molto. In tali condizioni fu ideato il Principe.

Qui il Ranke viene ad esaminare quelle che chiama le fonti del libro, e cita la prima volta alcuni brani che sembrano davvero imitati da Aristotele, specialmente in ciò che si riferisce alla natura del tiranno. Questi brani però non solo si riducono a poca cosa, e descrizioni simili del tiranno si trovano anche in San Tommaso, nel Savonarola ed in molti scrittori del Medio Evo e del secolo XV; ma lo stesso professor Ranke, col suo inarrivabile acume, ammette subito che il Machiavelli dette ad essi un significato diverso, e che anzi in questa diversità sta appunto il valore de' suoi scritti.[657] Aristotele descrive i vizi del tiranno, aggiungendo che il vero sovrano deve sforzarsi di essere giusto e buono, perchè il fondamento [459] dello Stato e della politica deve essere la giustizia. Il Machiavelli sostiene invece, che il principe nuovo, se non vuole rovinare fra i tristi, deve serbar le apparenze di buono; ma esser pronto a divenire crudele, a violare la fede, quando la necessità lo imponga nell'interesse dello Stato. Così quello che per Aristotele è un fatto, diviene pel Machiavelli un precetto; e quindi la imitazione propriamente detta nei punti essenziali scomparisce del tutto, e la pretesa fonte non è più una fonte.[658] Ed il professor Ranke riconosce anch'egli, non ammette anzi ombra di dubbio, che il Principe sia sostanzialmente ispirato dai nuovi tempi, dei quali fa parte, e senza i quali non sarebbe intelligibile. Il suo scopo, così continua, è veramente immediato e pratico; se l'intitolazione dei capitoli è generale, il contenuto di essi è sempre speciale. Non è un trattato generale, sono consigli che il Machiavelli dette a Lorenzo, come più tardi ne dette a Leone X. Prese a modello Cesare Borgia, che aveva somiglianza con colui al quale il Principe venne dedicato, e per cui fu scritto. L'uno infatti era figlio, l'altro nipote d'un papa; ambedue speravano di poter fare grandi conquiste. Tutta la prima parte, cioè i primi dodici capitoli si riferiscono a Lorenzo, alle condizioni in cui egli si trovava, ed a quelle in cui trovavasi l'Italia. La seconda e la terza parte, cioè gli ultimi quindici capitoli, sono in istretta relazione colla prima. In conclusione, tre cose sono certe, secondo il Ranke: 1º Che il Machiavelli era persuaso della necessità di un principe per l'Italia; 2º Che i Medici, e massime Lorenzo, erano desiderosi e pronti ad assumere questo principato; 3º Che il libro non solo fu dedicato a Lorenzo, ma fu scritto per lui.[659] Chi perde di [460] vista questo suo scopo pratico, non ne comprende più nulla. Il suo vero significato è il seguente: Questa Italia corrotta, solo da un principe, con mezzi crudeli e violenti, può essere unita e riuscire a cacciar lo straniero. Fino a che il governo libero di Firenze si resse, il Machiavelli servì la repubblica, e fu contento della libertà fiorentina. Tornati i Medici, dimesso egli da ogni ufficio, si destò in lui l'Italiano, e pensò al modo di liberare la patria comune, anche sacrificando la libertà di Firenze. Ma i Medici furono cacciati, la repubblica ristabilita, ed il partito popolare non gli perdonò l'aver voluto sacrificare all'Italia la libertà di Firenze. In conclusione, il Machiavelli cercava la salute d'Italia, che era in condizioni disperate, e fu ardito abbastanza da prescriverle, come unica medicina, il veleno.[660]

Il Ranke adunque, col suo sguardo acuto e col suo ingegno superiore, riconobbe il patriottismo del Machiavelli, e l'ispirazione che aveva continuamente dato alle opere di lui. Mentre però da una parte ricordò appena che il Machiavelli, dopo avere scritto il Principe, pensò pure di cavarne qualche vantaggio personale, dall'altra lo ridusse un po' troppo ad un libro d'occasione, senza tuttavia negargli affatto ogni carattere generale e scientifico.[661] Nè è vero che il Principe fu scritto per Lorenzo esclusivamente, giacchè era stato prima indirizzato a Giuliano, e solo dopo la costui morte venne dedicato a Lorenzo. Eccessivo addirittura riesce poi l'applicare tutte queste considerazioni, nello stesso tempo, al Principe e ai Discorsi, quasi fossero un'opera sola, con uno scopo unico; e ciò perchè anche dai secondi risulta la necessità [461] del principato.[662] Il carattere assolutamente scientifico e generale dei Discorsi apparisce in ogni pagina troppo evidente per poterne dubitare. E se in essi, come afferma il professor Ranke, l'autore attribuisce tutta la grandezza dei Romani all'avere questi seguìto costantemente alcune savie massime di politica e di governo, era opportuno, ci sembra, prendere in esame il valore di tali massime, le quali di certo non possono essere un veleno prescritto come unico rimedio a salvare un popolo corrotto. Occupato a cercar la relazione che passa tra il Principe e le condizioni in cui fu scritto, egli trascurò troppo l'esame del valore intrinseco e del valore storico delle dottrine ivi esposte. Se però si considera, che il suo era un lavoro giovanile di poche pagine, il quale iniziò nondimeno una critica nuova del Machiavelli, allora il merito dell'autore apparirà grandissimo davvero.

Due anni dopo pubblicato lo scritto del Ranke, venne alla luce in Berlino la traduzione delle lettere del Machiavelli, fatta da Enrico Leo, e preceduta da una sua prefazione.[663] In questa erano combattute alcune idee del Ranke, ed in mezzo ad osservazioni di un valore assai disputabile, ve n'era pure qualcuna giusta ed originale. Il Leo fu tra i primi ad osservare, che il Principe, quale lo aveva descritto il Machiavelli, era stato un fatto storico ed inevitabile nel Rinascimento. Questo Principe e la sua condotta politica avevano quindi bisogno di essere spiegati e giustificati come storicamente necessarî, e ciò fece la prima volta il Machiavelli. Veleno o non veleno, diceva il Leo,[664] alludendo alle parole del Ranke, qui sta tutta la grande importanza del libro, ed il sentimento [462] confuso di ciò che esso veramente era, lo fece leggere e studiare con ammirazione. «Ma (ed è qui che il Leo entra, secondo noi, in un terreno assai disputabile), se il libro ebbe realmente un gran peso nel mondo, non è questa una ragione per concluderne, che un egual valore ebbe colui che lo scrisse. Il Machiavelli sperò di cavarne qualche utile per sè, e quanto al resto, che cosa importava a lui del genere umano? Egli spiegò e giustificò il Principe, per far piacere ai Medici, per avere un ufficio, e la sua spiegazione riuscì invece utile alla società. Che un Italiano si persuada, che un tale uomo volesse davvero scrivere un libro per salvare la patria, si può perdonare all'amor proprio nazionale; ma ci vuol troppa ingenuità, perchè se ne persuada uno straniero. Come poteva il Machiavelli, il quale parlava con tanto disprezzo de' suoi connazionali, pensare sul serio che essi fossero capaci di cacciar dall'Italia Spagnuoli, Francesi e Tedeschi? Egli non pensava a liberare l'Italia, pensava ad avere un ufficio. Indirizzò il libro a Giuliano, e quando da lui non potè sperare più nulla, lo dedicò invece a Lorenzo, aggiungendovi quell'ultimo capitolo, che risponde così poco al concetto generale di tutta l'opera.[665]»

In questo modo il patriottismo del Machiavelli, che il Ranke aveva con tanto acume veduto e posto in evidenza, è stranamente negato dal Leo, che, dopo aver riconosciuto tutta l'importanza e l'originalità del Principe, vorrebbe levarne ogni merito all'autore, dando al suo libro un gran valore storico, ma quasi accidentale e casuale, o almeno affatto impersonale. Egli non vede, non sospetta [463] neppure, che l'ultimo capitolo è la sintesi ultima di tutto il resto, che il concetto se ne trova in germe anche nei Discorsi. Nè qui ci fermeremo ad esaminare la teoria esposta dal Leo, d'una coscienza germanica e d'una coscienza latina. La prima, secondo lui, si modifica, si altera secondo le diverse relazioni in cui si trova con gli uomini e con la società; la seconda resta inalterabile al pari d'un cristallo, facendo col mondo esteriore quasi una partita a scacchi, come se il bene ed il male che va compiendo, non la toccassero punto. Tutto quello che possiam dire, senza entrare in una disputa, che sarebbe qui fuori di luogo, si è che il Leo da alcune osservazioni fatte sul Rinascimento, passa troppo presto, per non dir troppo leggermente, a determinare non già le condizioni in cui erano allora lo spirito umano e lo spirito italiano, ma il carattere dei popoli latini in generale, arrivando così a scoprir due coscienze, una germanica ed una latina.[666] E di ciò si vale poi, non a determinare o definire le colpe del Machiavelli, non a spiegarne il carattere, ma ad inveire sempre più contro di lui. Se avesse invece circoscritto i proprî giudizî al periodo del Rinascimento, sul quale faceva allora le sue osservazioni,, ne avrebbe cavato conseguenze meno generiche e più giuste. Sarebbe stato anche più cauto se, volendo condannare il cinismo dissoluto, come egli dice, e lo scetticismo del Machiavelli, non avesse citato a sostegno delle asserzioni la Descrizione della Peste, che nessun critico autorevole crede scritta da lui. Nè sappiamo capire, perchè mai neghi a Francesco Vettori quell'ingegno e quella coltura che pur tanto chiare appariscono dalle sue lettere, dalle sue opere, dalla sua vita. Ma se, lasciando da parte le divagazioni, le troppo acerbe e poco ponderate critiche, noi uniamo la molto giusta, quantunque breve e fugace osservazione del Leo sul valore storico del Principe, a [464] quelle fatte dal Ranke sul carattere politico del Machiavelli e de' suoi scritti, cominciamo a veder chiara quale è la via che bisogna percorrere, per arrivare a qualche risultato soddisfacente e sicuro. Crediamo quindi che si debba dar lode non piccola a questi due scrittori, specialmente al Ranke, sebbene non ci abbiano lasciato sul Machiavelli che poche pagine, nelle quali si contengono solo osservazioni staccate. Ma essi non si erano proposto di scrivere un libro, e neppure un opuscolo sul difficile tema.

Ad un lavoro più lungo si accinse il Macaulay col suo celebre Saggio, pubblicato nella Rivista d'Edimburgo (1827), un anno dopo il lavoro del Leo. Quel suo scritto ebbe in Inghilterra grandissima fortuna, pel merito letterario dell'autore, e perchè era veramente il primo tentativo d'un esame serio e compiuto del Machiavelli e delle sue opere. Il Macaulay era un uomo del secolo XIX con le idee del XVIII, scrittore elegante ed eloquentissimo, narratore impareggiabile, espositore lucidissimo, ma di un ingegno poco filosofico, e qualche volta anche superficiale. La sua critica scientifica era assai più debole del suo gusto e giudizio letterario. Volendo sempre ridur tutto a grande semplicità ed evidenza, evitava troppo spesso le maggiori difficoltà con uno sforzo d'eloquenza. Per lui il Machiavelli è un enigma, che si spiega assai facilmente coi tempi. Incomincia descrivendoci come nelle opere di lui si trovino sentenze, che esaltano la virtù col più puro entusiasmo, accanto ad altre, che il più corrotto diplomatico oserebbe appena comunicare in cifra a qualche sua spia. Procede poi, con molta eloquenza, con smaglianti colori, a ritrarci il carattere nazionale degl'italiani del Rinascimento, nei quali trova le stesse contradizioni che nel Machiavelli. In questo modo l'enigma è, secondo lui, risoluto; tutto divien chiaro. Ma, lasciando anche da parte, che egli ci pone dinanzi agli occhi un ritratto, che è solo la riproduzione vivace d'un tipo generico e convenzionale dell'Italia, quale fu per [465] molto tempo immaginata dagli stranieri, che cosa potrebbe mai cavarsene, quando anche il ritratto fosse così fedele com'è eloquente? Noi avremmo contradizione nel carattere degl'Italiani, contradizione nel carattere e nelle idee del Machiavelli; bisognerebbe spiegare un enigma con un altro: ecco tutto. Oltre di che, per spiegar l'uomo coi tempi, si finisce di nuovo col negare al Machiavelli ogni individualità ed originalità sua propria. Quanto poi al valore intrinseco delle dottrine politiche, esso rimane affatto oscuro al critico inglese, che non riesce nè a spiegarle nè a giudicarle. Ci dà invece osservazioni e giudizî molto precisi sulle opere letterarie, di cui esamina anche lo stile con una sicurezza singolare davvero in uno straniero. Da storico valente qual egli era, discorre con molta perizia ed acume delle Legazioni; è anzi fra i primi a notare il gran tesoro di notizie e di ritratti che in esse si trovano. E con esse alla mano, difende vittoriosamente il Machiavelli dalla strana e ridicola accusa, già fatta allora e ripetuta anche poi, d'avere consigliato Cesare Borgia e preso anche parte ai suoi delitti in Romagna. Pone in rilievo il patriottismo del Machiavelli, e gli sforzi costanti e generosi che fece, per dare all'Italia una milizia nazionale, fatto, egli osserva giustamente, che per sè solo basterebbe a rendere per sempre onorato il suo nome. E così, trasportati dalla sua affascinante parola, noi arriviamo ai quattro quinti del Saggio, senza che ancora sieno stati esaminati il Principe, i Discorsi e le Storie, cioè le opere su cui riposa principalmente la fama del Segretario fiorentino.

I Discorsi ed Il Principe, dice finalmente il Macaulay, sostengono una sola e medesima teoria; i primi ci espongono il progresso di un popolo conquistatore, il secondo, quello di un uomo ambizioso. In quanto alla immoralità di alcune massime, tutto, come abbiamo visto, si presume spiegato riferendosi ai tempi. Il Machiavelli fu immorale, perchè immorale era allora l'Italia, e fu non [466] ostante animato dal più puro patriottismo, spesso anche dal più puro entusiasmo per la virtù, perchè anche queste qualità si trovavano in molti degl'Italiani del Rinascimento. Volendo poi determinare in breve il valore intrinseco delle due opere, e darcene un'idea chiara e precisa, il Macaulay fa uno di quei ragionamenti che dimostrano subito quale è la vera natura della sua critica, scoprendone il lato più debole. Nulla a questo mondo, egli dice, è inutile quanto una massima generale. Se essa è vera, può tutto al più servire come esemplare da impararsi a mente o copiarsi in un asilo infantile. Il gran merito del Machiavelli sta nell'averci dato massime che sono, non più vere o più profonde, ma più applicabili alla realtà di quelle d'ogni altro scrittore. Se non che, lasciando anche da parte l'osservare, che una sentenza può essere nello stesso tempo pratica e di poco valore, di nessuna originalità, questo carattere non è proprio esclusivamente del Machiavelli, ma è comune a tutti gli scrittori politici, a tutti gli ambasciatori italiani del tempo; anzi appunto in questo carattere pratico, egli, come abbiam visto, è assai spesso vinto dal Guicciardini. Il suo merito principale sta invece nell'avere, con metodo sicuro, creato una nuova scienza politica, fondandola sulla storia e sulla esperienza. Ma che cosa potrebbe mai essere una scienza dello Stato, se, come pretende il Macaulay, le sentenze generali fossero prive d'ogni valore? Un ragionamento simile egli fece più tardi, anche nel suo celebre Saggio su Bacone da Verulamio, quando, volendo dimostrare che tutto il merito del grande filosofo stava nell'avere cercato sempre l'utile ed il pratico, conchiudeva affermando, che il primo inventore delle scarpe doveva essere preferito all'autore del libro sull'ira, perchè le scarpe salvarono molti dall'umidità e dai raffreddori, mentre assai probabilmente Seneca non salvò mai nessuno dall'ira. E non s'avvide che, ciò dicendo, negava ogni valore alla filosofia stessa ed a tutte quante [467] le scienze morali. Nondimeno così lo scritto sul Machiavelli come quello sul Bacone sono fra i migliori esempi della prosa inglese. Nel secondo di essi l'eloquenza risulta, scintilla dal contrasto che ci vien descritto fra la bassezza morale e l'altezza intellettuale di Bacone, senza farci capire che cosa è la sua filosofia. Nel primo risulta invece dalle descrizione delle molte contradizioni, che il Macaulay crede di vedere nel carattere degl'Italiani ed in quello del Machiavelli, non meno che negli scritti di lui. Ma così, invece di un'enigma, ne abbiamo due, ed il problema rimane affatto inesplicabile.

Nè più fortunato riesce il critico inglese, quando cerca di penetrare nel vero concetto delle dottrine del Machiavelli, per scoprirne gli errori. Secondo lui, la sorgente prima di questi errori sta tutta nel non aver l'autore saputo distinguere il bene pubblico dal privato; dal credere che uno Stato prospero e forte renda sempre felici i suoi sudditi. E ciò gli avvenne, perchè non aveva dinanzi a sè che i piccoli Stati dell'Italia medioevale e della Grecia antica, nei quali le pubbliche calamità o fortune divenivano subito calamità e fortune private. Una disfatta impoveriva, una vittoria arricchiva tutti i cittadini. Così egli die' sempre grandissimo valore a ciò che può rendere una nazione formidabile ai vicini; nessuno invece a ciò che può renderla prospera nell'interno. Certo in tutto questo vi ha del vero, ma l'ideale del Machiavelli non era nelle piccole repubbliche della Grecia e dell'Italia, era in quella di Roma e nell'Impero. Nelle repubbliche del Medio Evo le particolari associazioni e le individuali passioni si trovavano in continua ribellione contro il potere centrale dello Stato, che riducevano perciò all'impotenza. Il Machiavelli voleva invece uno Stato grande e forte, cui era disposto a sacrificare ogni cosa, anche la felicità e la prosperità interna. Non confondeva il pubblico col privato interesse; ma questo a quello eccessivamente sottoponeva, perchè altro modo allora non [468] vedeva per dare alle nazioni quell'unità e quella forza che, nell'anarchia de' suoi tempi, erano divenute la suprema necessità. Lungi dal credere che la prosperità pubblica portasse sempre ed inevitabilmente alla privata, non vedeva abbastanza che il benessere dell'individuo è necessario al benessere dello Stato, e lodava sempre le repubbliche della Germania, nelle quali, egli diceva, i privati eran poveri ed il pubblico era ricco; esaltava più di tutto quei tempi romani, nei quali i grandi capitani d'eserciti, dopo la guerra, se ne tornavano poveri a casa, dove vivevano coltivando colle proprie mani i loro campi.

Quando, dopo tutto ciò, il Macaulay, parlando nuovamente dello stile del Machiavelli, lo paragona a quello del Montesquieu, e ne dimostra la grande superiorità, noi ritroviamo da capo il merito eminente del critico letterario. Reca però non poca meraviglia il vedere, come uno storico tanto giustamente celebrato, si perda nell'esaminare qualità assai secondarie e di pura forma nelle Storie fiorentine, senza mai accorgersi, che il merito principale di esse, la loro vera originalità sta nello scoprire per la prima volta la logica e necessaria successione dei partiti che divisero la repubblica, le varie forme di governo che ne risultarono, e le cagioni di queste mutabili e continue vicende. Egli finisce tornando ad esaltare il patriottismo del Machiavelli, le cui opere, dice, saranno comprese dagl'Italiani solo quando per le vie delle loro città echeggierà di nuovo il grido: popolo, popolo, muoiano i tiranni! E veramente appena che l'Italia fu libera, ricominciarono con molto ardore gli studi sul Machiavelli, che fu sempre meglio inteso e giudicato. I difetti principali di questo Saggio derivano, non solo dall'essere troppo più letterario e descrittivo, che critico e scientifico, ma anche dall'avere esagerato quel metodo storico, il quale crede che si possa assai facilmente spiegare tutto un uomo, descrivendone i tempi. Ciò non ostante, [469] esso riman sempre il primo tentativo d'un lavoro abbastanza compiuto sul carattere e sulle opere del Machiavelli; e lo stile eloquente dell'autore lo farà continuare a leggere con avidità, anche quando molti altri di merito maggiore saranno dimenticati.[667]

Nel 1833 comparve un volume di scritti storici di G. Gervinus,[668] e la prima metà di esso ne conteneva uno intitolato, Florentinische Historiographie, il quale non era altro che un nuovo lavoro sul Machiavelli, preceduto da alcune considerazioni sugli storici fiorentini anteriori. Lo stile n'è monotono, confuso, senza colorito, e le ripetizioni sono continue. Il Gervinus però cercava di riparare al difetto principale del Macaulay, occupandosi poco o punto delle opere letterarie; fermandosi invece a prendere in attento e minuto esame le opere politiche, l'Arte della Guerra, le Legazioni e le Storie; cercando di scoprire il concetto fondamentale che le informa tutte. E fu il primo a dimostrare che il pensiero politico del Machiavelli trovasi anche nelle Storie, di cui riconobbe ed esaminò così il valore letterario, come il valore scientifico. Le studiò con molta diligenza, facendo utili osservazioni sulle fonti; e ciò lo condusse ad esaminare gli storici anteriori. Ad una grande e sincera ammirazione pel Machiavelli, egli univa il vantaggio d'essere stato educato alla scuola critica dei grandi storici tedeschi. Essendo però anche di coloro che più si adoperarono a ridestare, per mezzo della letteratura, lo spirito nazionale della Germania, fu spinto di nuovo nella via pericolosa d'introdurre troppa politica e troppo patriottismo moderno nella critica storica.

Secondo lui, una parte delle idee del Machiavelli deriva da considerazioni pratiche sulle condizioni del suo [470] tempo, e da una conoscenza dello stato reale del proprio paese; un'altra deriva da desideri ideali, da bisogni del suo spirito. Egli non si fermava punto, come molti hanno creduto, solamente alle cose materiali; cercava nell'antichità quella eccellenza che il suo intelletto ed il suo cuore desideravano, che mancava alla sua patria, ed alla quale il suo secolo non sapeva innalzarsi. Offrì il risultato di questo lungo e difficile lavoro all'Italia, di cui con grande ardore desiderò il rinascimento, per mezzo dei costumi romani. Nella sua mente c'era però, secondo il Gervinus, un grave difetto, e questo derivava dal non avere egli conosciuto la letteratura greca, ma formato il suo spirito, educato l'intelletto solamente colla storia e colla letteratura romana. Il non avere conosciuto l'epopea, la tragedia, la lirica greca; l'avere poco stimato e poco conosciuto il vero spirito del Cristianesimo e della Riforma, gli tolsero l'amore per ogni alta e vera idealità poetica, per tutte le arti e le scienze che uscivano fuori dei confini della politica. Da ciò nacque in lui anche la tendenza ad esaminare il lato esteriore delle cose e degli avvenimenti, più che l'interiore, e quindi a cercar le cause delle grandi rivoluzioni politiche, non già in una forza o bisogno interiore dei popoli, ma sempre in qualche causa esteriore e negativa. L'aristocrazia nasce, secondo il Machiavelli, per reazione contro l'oppressione esercitata dal tiranno; la democrazia, per reazione contro la potenza soverchiante e dispotica dell'aristocrazia. Così nulla vien mai da un intimo bisogno, da un irresistibile impulso verso la libertà. E qui il Gervinus s'accinge a ritrovare questo medesimo difetto nelle Storie, in tutte le opere del Machiavelli, anzi nella storia e nel carattere dei popoli latini in genere.

È però molto singolare, che non si sia avvisto, come questa teoria intorno alla successione dei governi, dalla quale tutta la sua critica prende le mosse, e che egli fa derivare originariamente da poca conoscenza degli scrittori [471] greci, non era una creazione del Machiavelli, il quale anzi l'aveva presa di pianta per l'appunto da uno di essi. Noi abbiamo infatti già osservato, che è quasi tradotta da Polibio, che la sua prima origine si trova in Aristotile. Di ciò il Gervinus avrebbe dovuto accorgersi, anche perchè il fatto era già stato notato da altri.[669] E avrebbe potuto anche osservare, che quell'alto idealismo, quella intimità, come la chiamano i Tedeschi, della quale tanto egli deplora la mancanza nel Machiavelli e negl'Italiani, si trovava pure in Dante, che non conosceva il greco; cominciò a mancare nel Petrarca, che fu dei primi a studiarlo; mancò sempre più nel Boccaccio e negli eruditi, quando appunto lo studio del greco andò progredendo. Il fatto non è certo conseguenza di questo studio, ma della storica evoluzione dello spirito italiano, e tutto proprio del nostro Rinascimento, che perciò appunto, anche nella letteratura e nell'antichità greca, cercava la bellezza della forma esteriore, una guida che l'aiutasse ad uscire dalla Scolastica, ad avvicinarsi alla natura, al mondo reale. Buona o cattiva che si giudichi siffatta tendenza, essa fu propria del secolo e dell'Italia d'allora, e contribuì non poco alla creazione della scienza politica, che delle umane azioni studia appunto il lato esteriore e le conseguenze pratiche.

Il Gervinus ammira grandemente il patriottismo e l'ingegno del Machiavelli, tanto da concludere il suo scritto dicendo, che in lui trovasi tutto ciò che pensarono e sentirono gl'Italiani in un tempo, che si può ritenere fra i più gloriosi nella storia del mondo, e durante il quale essi furono la prima delle nazioni civili. Se avesse, egli conchiude, conosciuto più da vicino il pensiero greco e la Riforma, iniziata allora da Martino Lutero, difficilmente l'Europa moderna potrebbe vantare un altro uomo degno di stargli accanto. Questa sincera ammirazione però qualche [472] volta lo tradisce. Infatti quando egli trova sentenze che offendono la sua coscienza, invece di pesarle e spiegarle, cerca troppo spesso di attenuarle. Ma a che giova affannarsi a provare che il Machiavelli poneva Teseo, Perseo e Mosè al disopra del Valentino? A che giova insistere a provare, che egli non accettava senza restrizioni la teoria che il fine giustifica i mezzi, quando, attenuando finchè si vuole, resta pur sempre molto che ha bisogno d'essere giustificato; riman sempre necessario trovare una spiegazione fondamentale del sistema, o rassegnarsi a non comprenderlo affatto? A tutto ciò il Gervinus crede troppo facilmente di rimediare, esaltando il patriottismo del suo autore. Ma questa è una deviazione, non è una soluzione del problema.

Il Machiavelli, continua il critico tedesco, esaminò solo il principato e la repubblica, perchè queste, secondo lui, sono le due sole forme veramente utili di governo. Era inoltre convinto, che un popolo guasto solo colla forza può essere corretto. Siccome poi le cose d'Italia andavano a rovina, ed il governo popolare v'era quasi per tutto divenuto impossibile, unico mezzo di salute alla patria si presentava allora il principato, che egli quindi raccomandò, sebbene facesse un'eccezione per Firenze, a cui voleva conservare la forma repubblicana, come apparisce dal suo discorso a Leone X. Il Gervinus si trova d'accordo col Machiavelli circa la successione dei governi, perchè al pari di lui riconosce nella storia una legge generale, secondo cui il governo dalle mani d'un solo passa in quelle di pochi, per arrivare ai molti, dai quali fa ritorno di nuovo ad un solo.[670] Ma in Italia, [473] dove la democrazia era profondamente corrotta, e l'aristocrazia formava il più grande ostacolo ad ogni miglioramento, altro non rimaneva possibile che il principato,[671] perchè, «una moltitudine può essere rigenerata solo colla forza, di che la storia moderna offre moltissimi esempî. Ed il Principe ci presenta l'immagine d'un legislatore armato, il quale non è veramente cattivo, ma non può neppure essere scrupoloso: gli basta evitare ciò che è scellerato, senza con questo potersi rigorosamente attenere alla morale ordinaria di tutti i giorni.[672] La necessità non conosce legge, e i grandi uomini si sono sempre creduti come piccole divinità. In tutto ciò il Machiavelli ha con grande acume esaminato, compreso le leggi della storia e della società, animato sempre dal più puro patriottismo.»

C'è però, secondo il Gervinus, una ragione evidente, per la quale gli scritti del Machiavelli non furono mai bene intesi, e questa è, che gli eventi seguìti dopo di lui dimostravano solamente in parte la verità delle sue dottrine. «I secoli posteriori combatterono con energia l'assolutismo risorto nel Rinascimento; ma non videro come e perchè esso era stato necessario, il che fu invece chiaramente compreso dal Machiavelli. E però le nuove generazioni capiranno tutta l'altezza del suo genio, solo quando, finita la guerra che noi oggi combattiamo ancora, potranno, in mezzo alla vittoria, accorgersi che esse non avrebbero mai ottenuto i benefizi delle moderne libertà, se la lotta non fosse stata provocata dalla esistenza del dispotismo. È certo che, quando si alza la voce per difendere i diritti del popolo, che combatte i tiranni, non si può comprendere, nè molto meno approvare un uomo i cui scritti dettero regole seguite da Carlo V, da Enrico III e da Sisto V. In tempi migliori però si potrà [474] ben esser favorevoli al gran pensatore, che osò profeticamente dire il vero, e riuscì davvero, ne abbia o non ne abbia egli stesso avuto l'intenzione, ad ammaestrare i principi come opprimere i popoli, e ad ammaestrare i popoli come spezzare il giogo ad essi imposto, o, per seguir le parole di Bernardo di Giunta, insegnò ad un tempo l'uso delle medicine e quello dei veleni. Io posso,» conchiude il Gervinus, «mirare ad un più alto ideale, a cui il Machiavelli non arrivò mai; quando però lo vedo così poco apprezzato in tutto quello appunto cui dedicò la vita ed il grande ingegno; quando vedo disconosciute le storiche e politiche verità dai lui trovate, messa in dubbio la integrità del suo carattere politico e morale, allora debbo deplorare con lui quei tempi nei quali non v'è forza per le magnanime imprese, nè perseveranza per gli studi profondi, nè intelligenza pei grandi esempi della storia.»[673]

In tutto questo v'è di certo un sincero entusiasmo, ma v'è anche un po' di retorica politica, e di politica del secolo XIX. Il patriotta si fa innanzi anche quando dovrebbe parlar solo il critico. Non fu quindi senza ragione nella stessa Germania osservato, che egli era appunto uno di coloro, che da un lato mettevano il Machiavelli troppo, e da un altro troppo poco nel suo tempo. Troppo poco, quando dimenticava che il pensatore politico, anche nel formulare in astratto leggi generali, è costretto a concepirle dentro i limiti della cultura nazionale del proprio tempo. Non poteva quindi il Machiavelli, in una età disordinata come la sua, conoscere ed invocare un principato legale, temperato, proprio de' nostri giorni. L'attribuirgli perciò quelle aspirazioni che ebbero la Germania e l'Italia negli anni che precedettero la loro nazionale ricostituzione, finisce col dargli una fisonomia moderna, che certamente non ebbe. [475] Il Machiavelli è poi messo troppo nel proprio tempo, quando anche le sue teorie più generali si vogliono presentare come conseguenza de' suoi personali sentimenti e del suo patriottismo: esse debbono avere anche un valore scientifico indipendente dall'uomo e dal suo secolo. Anzi è questo valore appunto, che il critico deve cercar di conoscere e di giudicare con esattezza.

In condizioni politiche non molto diverse da quelle in cui era allora la Germania, vennero fuori in Italia, l'anno 1840, Le Considerazioni sul libro del Principe, del prof. Andrea Zambelli.[674] Esse sono di certo il miglior lavoro che sul Principe fosse stato finallora pubblicato in Italia. Lo Zambelli aveva non comune ingegno e dottrina, conosceva la storia moderna e le letterature straniere, aveva studiato con intelligenza e con diligenza le opere del Machiavelli, di cui era grande ammiratore. Nelle sue Considerazioni egli disputava a lungo contro il Macaulay, per dimostrargli, che non solo l'Italia e la sua politica eran corrotte; ma che la corruzione era grandissima in tutta l'Europa dei secoli XV e XVI. E molte volte, a giudizio anche degli stranieri, riesce ad aver ragione. Sfortunatamente però cade egli stesso in esagerazioni opposte, quando vuole, per esempio, attenuare le colpe, le iniquità del Valentino, di Alessandro VI e di Lucrezia Borgia. Ciò non ostante, la descrizione che ci fa dei tempi e dell'insieme abbastanza fedele, e pone in chiaro le enormi difficoltà contro cui dovevano allora lottare i principi ed i tiranni italiani, i quali, in uno stato di guerra continua contro tutto e contro tutti, erano costretti a seguire quella morale che sola era possibile in una quasi anarchia.

L'accentramento necessario per uscire dal Medio Evo, la fondazione dei nuovi Stati e delle nazioni, si potevano, osserva lo Zambelli, ottenere solo per mezzo di quei tiranni. [476] I consigli che dà ad essi il Machiavelli, e le massime che espone nelle sue opere, sono le migliori che si potevano dare allora, le sole pratiche, quelle che infatti, quando furono seguite, condussero allo scopo. Ma egli cerca, esponendole, di attenuarle più che può, raccogliendo con gran cura tutte quelle che esaltano la virtù, la indipendenza e la libertà della patria. La mira costante del suo lavoro è sempre nel cercar di provare, che il Machiavelli voleva l'Italia unita, libera e indipendente; che indagò e propose quei mezzi che soli potevano riuscire nell'intento. Ma com'è che noi ora lo troviamo fautore di repubblica, ora di monarchia? Egli cercava il possibile. Conobbe il Valentino e questi fu il suo ideale. Morto il Valentino, tornò alla repubblica, che amava anche per intima convinzione; spenta la repubblica, si volse ai Medici, e scrisse il Principe, sperando l'unità d'Italia dalla monarchia. E quanto ai mezzi che il Machiavelli suggerisce a porre in atto questo suo disegno, lo Zambelli, come abbiam detto, ne attenua più che egli può la violenza e la crudeltà, andando sempre in traccia d'esempi che valgano in qualche modo a giustificarlo, ricorrendo perfino alle Sacre Carte, nelle quali, egli osserva, si trovano sentenze, che, se fossero nei Discorsi o nel Principe, sarebbero più delle altre biasimate.

Due in sostanza sono i punti su cui riposa la difesa, che questo autore fa del Machiavelli. — La politica consigliata nel Principe, sebbene impossibile oggi, perchè solleverebbe contro di sè la coscienza pubblica, era la sola possibile in quel tempo, la migliore che poteva seguirsi; il Machiavelli l'accettò e la consigliò per liberare la patria. — È però innegabile, che questi espose ancora alcuni principii generali di governo, per reggere gli Stati in tutti i tempi ed in tutti luoghi, repubbliche o monarchie che fossero. Di ciò lo Zambelli, che esaminava solo il Principe, non pare si avvedesse; e quindi cercò di spiegare tutto coi tempi e col patriottismo dell'autore, [477] dimostrandosi così anch'egli più dotto e patriottico apologista, che critico indipendente e giudice imparziale.

In conclusione dunque, esaminando i lavori del Macaulay, del Gervinus e dello Zambelli, dobbiamo riconoscere che un grandissimo cammino si è fatto, seguendo i precetti di quella critica storica, di cui il Ranke era stato in Germania uno dei principali iniziatori. Ma da un altro lato si è cercato di esagerare stranamente la pretesa di tutto spiegare coi tempi, e si è ceduto troppo all'altra pretesa non meno strana di tutto giustificare col patriottismo. Nel principio del suo lavoro bibliografico, il Mohl osservò giustamente, che in uno scritto sul Machiavelli occorre determinar bene, non solo che cosa si deve pensare dell'uomo, ma ancora che giudizio bisogna dare sulle dottrine, e farci inoltre capire come mai un così grande scrittore potè esporre e sostenere sentenze tanto contrarie al bene, alla virtù. Si può la questione morale spiegare colla corruzione dei tempi;[675] ma se i tempi ci fanno capire come il Machiavelli potè arrivare a dottrine immorali, ciò non prova punto che egli dovesse inevitabilmente arrivarvi, perchè un grande uomo s'innalza al di sopra del suo secolo, e lo trascina dietro di sè. Quindi è chiaro che, secondo il Mohl, la spiegazione storica risulta, per questo lato almeno, insufficiente: il suo giudizio finisce infatti non con una esposizione e giustificazione, ma con una condanna.

«Bisogna ricordarsi, egli dice, che il Machiavelli si propose nel Principe un problema speciale ai suoi tempi, e che anche nei Discorsi tenne sempre presente lo Stato libero italiano, mirò costantemente ad esso. Non si deve quindi giudicarlo, come se avesse voluto scrivere e parlare in astratto per tutti i tempi. Ma anche dopo di ciò, [478] riman sempre la domanda: Che valore intrinseco hanno le sue dottrine? Vi sono alcune sentenze del Machiavelli, che dimostrano certo una profonda conoscenza degli uomini e del mondo. Il suo metodo è eccellente, nè da Aristotele in poi si vide mai nulla di simile. Tutto ciò, se non è ancora la scienza, costituisce le condizioni o, se si vuole, le basi necessarie a crearla. Il Machiavelli ignora però la profonda differenza che passa fra lo Stato antico e il moderno, e così la sua dottrina riesce ad un vero anacronismo.[676] Egli disprezza troppo gli uomini, e crede che solo la forza possa correggerli. Questo è un secondo ed assai grave errore, da cui deriva una politica violenta, che non tien conto della parte più nobile dell'umana natura. Quando anche i suoi consigli si risguardano come dati solo in condizioni e per tempi speciali, riman sempre vero che l'astuzia e la mala fede, a lungo andare, non riescono mai. Per quanto sien tristi gli uomini, essi si spaventano di tali massime, ne diffidano, e finalmente le riducono all'impotenza. Ed è un altro errore il credere che un popolo corrotto possa colla violenza essere reso capace di libertà. Più facile sarebbe stato allora vedere gl'Italiani corrompersi sempre più, seguendo i consigli del Machiavelli, ed allontanarsi quindi sempre più dal fine proposto.» Così, in conclusione, il valore intrinseco delle dottrine si riduce a ben povera cosa. Sono frammenti d'un sistema che mal si regge insieme; anzi il Machiavelli stesso non è, secondo il Mohl, che un frammento, quasi il torso di un grande uomo, e rimane perciò come un esempio ed un avvertimento a tutti, contro la falsa via che egli aveva presa.[677]

[479]

In queste brevi osservazioni, come si vede, il Mohl ritorna, sebbene con molta moderazione e moltissima dottrina, in parte alla spiegazione puramente storica, in parte alla critica ed alla condanna morale del Machiavelli. E così, più o meno, s'è continuato sempre. Dopo tanti studi, adunque, dopo tante ricerche, che negli ultimi anni si moltiplicarono sempre di più,[678] si finiva col mettere in dubbio il valore intrinseco del pensiero, delle opere e del carattere del Machiavelli. Se alcuni si ostinarono a spiegar tutto coi tempi e tutto giustificare col patriottismo, altri persistettero a pronunziare, in nome della morale, una condanna temperata da molte considerazioni storiche e filosofiche, ma sempre severissima.

Il signor E. Feuerlein pubblicava, l'anno 1868, nella Rivista storica del prof. Sybel,[679] uno scritto che ha, su quella che esso chiamava la questione Machiavelli e sul modo di trattarla, alcune considerazioni assai opportune. La questione Machiavelli, egli dice, è ora mutata. Prima si trattava di sapere quali erano i sentimenti morali dell'autore; oggi si tratta innanzi tutto di sapere qual era il suo intendimento politico. Questo ha fatto sì che molte idee moderne, o almeno in una forma moderna, gli vennero attribuite. Ma il Machiavelli sarà assai meglio inteso, se una volta si distinguerà bene ciò che aveva pensato come dotto sulle leggi della politica in generale, da ciò che aveva pensato come cittadino e patriotta sul destino del proprio paese. Si vedrà allora, che, nel primo caso, egli non ci dà la logica e rigorosa esposizione dell'assolutismo storico, come noi oggi lo vediamo, e nel secondo, [480] non poteva pensare alla soluzione moderna del problema nazionale al modo germanico. Importa moltissimo distinguere ciò che in lui fu un prodotto del suo pensiero, e porta bensì l'impronta inevitabile del suo tempo, ma solo come un accessorio, dai desideri e dai sentimenti del patriotta, che sono un vero e proprio risultato sostanziale del tempo in cui e per cui egli visse.[680]

Dopo queste considerazioni, l'autore viene ad esaminare qual era lo scopo patriottico del Machiavelli. Ma qui non ci sembra che riesca felicemente, perchè egli vuol farne addirittura un federalista. Ed il Principe sarebbe il capo della supposta confederazione,[681] forma di governo per la quale noi abbiam visto invece, che il Machiavelli non ebbe mai simpatia di sorta; dichiarò anzi esplicitamente che la trovava accettabile solo in alcuni casi eccezionali, quando non era possibile sperare di meglio. Poteva consigliarla in uno Stato piccolo come la Toscana, ma non la propose mai all'Italia, che solo colla monarchia poteva, secondo lui, divenire unita e forte.

Il signor Feuerlein continua accennando, con quella brevità che i limiti del suo scritto richiedevano, qual è il valore delle dottrine, quale il loro merito di fronte alla scienza, che cosa esse dicono di nuovo. Il Machiavelli vide che lo Stato ha un suo proprio scopo, e che vi è unità nei vari scopi sociali. Lo Stato per lui non è mezzo, ma fine a sè stesso; è un organismo, che non ammette ostacoli al proprio svolgimento, cui tutto deve cedere. Per noi esso è invece una delle molte forme della vita che facciamo in comune; ma ve ne sono altre ancora, le quali hanno uguale diritto di esistere, e le molteplici loro relazioni vengono anch'esse regolate da leggi. Egli si accorse, che il Medio Evo era in un caos d'istituzioni [481] diverse, sempre in disordine, sempre in conflitto fra di loro, e fu il primo che osò dire; nella società, cui tutti apparteniamo, v'è un fine comune, e non possono esservene molti. Visse in un secolo nel quale le antiche divisioni medioevali di Chiesa ed Impero, di repubbliche, feudalismo, consorterie, associazioni d'arti e mestieri, compagnie di ventura erano scomparse o in via di scomparire, e respinse, condannò ad un tratto ed irremissibilmente tutto quello che impediva l'unità dello Stato. La formola infatti con la quale si passa dal caos medioevale all'ordine giuridico moderno, è appunto la riduzione dei vari scopi dello Stato ad uno solo, determinato e concreto, quello stesso che il Machiavelli vide ed annunziò la prima volta al mondo. È però una formola, un'astrazione, che ci conduce ad un meccanismo, non allo svolgimento ampio, naturale, organico e libero della varia cultura e della coscienza sociale. Ed egli fu indotto ad entrare in questa via, perchè aveva sempre in mente l'unità antica dello Stato romano, e voleva riprodurla. A lui tuttavia seguì come alla Riforma, che, volendo riprodurre il passato, iniziò invece l'avvenire. Il Principe parla della monarchia, i Discorsi della repubblica, di comune v'è però sempre l'autonomia dello Stato e lo scopo esclusivo di esso, che è il punto essenziale. Il Machiavelli studiò queste due forme di governo, come due fatti esistenti nel passato e nel presente; ma non conobbe i mezzi che uniscono, con la libertà, la monarchia al popolo, nè quelli che, separando il potere esecutivo dal legislativo, danno stabilità alla repubblica; e però il suo principato ha un'aspra e dispotica durezza, la sua repubblica abbandona troppo le redini al popolo.[682]

In tutta questa esposizione v'è un linguaggio filosofico ed astratto, che non ritrae punto il carattere degli scritti del Machiavelli, il quale vide e presentò ogni sua idea [482] sotto una forma personale, pratica, concreta. E ciò, sebbene egli sia, nello stesso tempo, come giustamente osserva il signor Feuerlein, il più obiettivo degli scrittori tale infatti che ne' suoi libri sembrano parlare gli avvenimenti stessi, donde viene la forza maravigliosa del suo stile. Questo doppio carattere, obiettivo e personale, che si trova nelle opere del Machiavelli, e ne determina la fisonomia, lo spinge di continuo ad esporre le sue teorie in forma di precetti, di consigli per regolare la condotta dell'uomo di Stato, e fa quindi ad ogni piè sospinto ricomparire, con la questione politica, anche la questione morale. Principalissima riman sempre la prima, ma la seconda non si può sopprimere del tutto, come pare che vorrebbe fare il signor Feuerlein.

Fra coloro, che recentemente hanno scritto del Machiavelli, va prima di tutti annoverato il De Sanctis. Già nel suo Saggio intitolato l'Uomo del Guicciardini, egli aveva esposto notevolissime considerazioni sul Cinquecento. In fine del capitolo XII della sua Storia della letteratura italiana,[683] ed in tutto il capitolo XV, discorre a lungo del Machiavelli, ed anche qui balenano a più riprese lampi di vera luce. De' suoi predecessori il De Sanctis non si occupa punto, forse neppure li lesse, per serbare più genuina la propria impressione. Della Biografia non dice verbo, nè ci dà una critica particolareggiata e distinta delle varie Opere. «Il Machiavelli, egli dice, è stato giudicato dal Principe, e questo libro è stato giudicato, non già nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. Hanno detto che è un codice della tirannia, fondato sulla turpe massima, che il fine giustifica i mezzi. Molte difese sonosi fatte, ed assai ingegnose, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione, più o meno lodevole.» «Così n'è uscita una discussione limitata, e un Machiavelli rimpiccinito. Questa critica [483] non è che una pedanteria. Ed è anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica, oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e cercare ivi i fondamenti della sua grandezza» (pagine 106-107).

Così noi abbiamo, in brevi parole, la condanna di quella critica, che d'una questione scientifica volle fare una questione di morale o di patriottismo. E si comprende anche la ragione per la quale le Opere non sono esaminate, ciascuna partitamente per sè, ma solo in quanto servono allo scopo, che il critico si è prefisso. Sul Machiavelli scrittore, sulla sua forma letteraria, sul suo stile, come si può facilmente immaginare, troviamo subito la solita originalità del valoroso critico. «Dove non pensò alla forma, riuscì maestro della forma. E senza cercarla, creò la prosa italiana (p. 104). — Nel secolo in cui la forma era la sola divinità riconosciuta, egli uccideva la forma come tale.» «Appunto perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto, e la forma è nulla. O per parlare più corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale e materiale» (p. 122). E queste ultime osservazioni acquistano un vigore ed una eloquenza singolari davvero, quando egli viene a parlar della Mandragola.

Naturalmente però lo scopo principale non è qui lo scrittore, ma il pensatore. E il De Sanctis s'accinge subito a descriverlo, a riprodurlo, a ricostruirne, come dice, la immagine ideale. Se non che, egli crede di poterlo fare, fermandosi poco o punto nell'esaminare e giudicare il valore intrinseco delle dottrine. «Non è il caso di disputare della verità o falsità delle dottrine. Non fo una storia, e meno un trattato di filosofia. Scrivo la storia della letteratura. Ed è mio obbligo notare ciò che si muove nel pensiero italiano, perchè quello solo è vivo nella letteratura, che è vivo nella coscienza» (p. 43). E [484] quindi, sebbene egli non resti sempre fermo a questo programma, che sarebbe davvero troppo ristretto, pure ne segue necessariamente, che assai spesso i pensieri, le contradizioni, che erano nello spirito del Machiavelli e nei suoi tempi, vengono riprodotti con una grande vivacità, ma senza occuparsi di distinguerli, di conciliarli o di giudicarli. «Passato il momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, il Machiavelli ha la forza di staccarsi dalla sua società, e interrogarla: cosa sei? dove vai? (p. 107). — Vide la malattia dove altri vedeva la più prospera salute (p. 108). — Riabilitare la vita terrena e darle uno scopo, rifare la coscienza, ricercare le forze interiori, restituire l'uomo nella sua serietà e nella sua attività, questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli» (p. 111). — Qui veramente noi abbiamo lo spirito, non del solo Machiavelli ma de' suoi tempi. Dal Boiardo in poi, il presentimento che l'Italia andava a rovina, era divenuto assai generale. Basta leggere le lettere del Vettori, per persuadersene. La riabilitazione della vita terrena era stata già opera degli eruditi. E quanto al rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, il Machiavelli ci pensò assai poco: questo si può dire piuttosto il lato debole delle sue dottrine. Per lui l'uomo era di sua natura cattivo, e non sperandone egli, come Lutero, la redenzione dalla fede infusa dalla grazia divina, la cercava in qualche cosa di esteriore, nelle buone leggi, nei buoni ordini, che con la forza e la minaccia della pena, lo avrebbero migliorato. Nè s'avvedeva che, a fare le buone leggi, ad eseguirle davvero, era necessario appunto un uomo migliore. «Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, ei mette a base l'immutabilità e l'immortabilità dello spirito umano, fattore della storia. Questa è già tutta una rivoluzione» (p. 120). Ma della immutabilità e immortabilità dello spirito umano, il Machiavelli non parlò, nè [485] vi pensò mai. Si occupò invece dell'uomo individuo, dei partiti, dei principi, dei nobili e del popolo, non dello spirito umano, che suppone qualche cosa di affatto impersonale, cui egli non giunse mai, nè vi giunse altri al suo tempo. Bisognava per ciò arrivare a G. B. Vico.

Una redenzione italica, dice assai giustamente il De Sanctis, non era allora possibile. E nello stesso Machiavelli non fu che un'idea; nè sappiamo che, per attuarla, abbia fatto altro di serio che scrivere un magnifico capitolo, il quale testimonia più le aspirazioni di un nobile cuore, che la calma persuasione di un uomo politico. «Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' attraverso dei suoi desideri. Il suo onore come cittadino è di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria come pensatore è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la verità del futuro» (p. 136-137). Non sarebbe possibile dir meglio.

«Il Dio di Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza è la regola della forza mondana: il risultato è scienza. Bisogna amare, dice Dante. Bisogna intendere, dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il cuore; l'anima del mondo machiavellico è il cervello. Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico, questo è essenzialmente umano e logico (p. 126). — L'uomo vi è come natura, sottoposto, nella sua azione, a leggi immutabili; non secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che gli si deve domandare, non è se quello che egli fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra i mezzi e lo scopo.... L'Italia non ti poteva dare più un mondo etico, ti dava un mondo logico (p. 129). — Proporsi uno scopo, quando non puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina. Essere uomo significa [486] marciare allo scopo.... Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o un tristo. Ciò è fuori dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò a che guarda Machiavelli è di vedere se è un uomo; ciò a che mira, è di rifare la pianta uomo in declinazione» (p. 149). Ma si può dir che sia veramente un uomo quegli in cui è scomparsa ogni distinzione fra il bene ed il male? Si può dir che sia mondo umano quello in cui manca ogni elemento etico? Non è questo un darla vinta agli avversarî, ai detrattori del Machiavelli, i quali mirano appunto a presentar come massime generali di condotta e di morale, quelle che sono invece di politica, per poterle così più facilmente condannare? «Il suo torto, comunissimo a tutti i grandi pensatori,» dice più volte il De Sanctis, «non è nel sistema, è nell'averlo esagerato, esprimendo tutto in modo assoluto, anche ciò che è essenzialmente relativo e mutabile.» «Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto e di sostanziale, è l'uomo considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua grandezza, della sua decadenza, come uomo e come società» (p. 152). Ma se una volta si ammette che le dottrine del Machiavelli si riferiscono non solamente allo Stato ed all'uomo politico in ispecie, ma alla società, all'uomo ed alle sue azioni in genere, allora il considerare le sue massime come generali ed assolute, non è più la esagerazione, è invece la conseguenza logica del sistema, che rimane senza possibile difesa.

Una cosa bisogna tenere ben ferma. Il Machiavelli s'è occupato dell'arte dello Stato e dell'uomo politico, avendo continuamente di mira l'Italia de' suoi tempi. Il problema dell'uomo in genere e del suo destino, non se lo è mai posto; lo ha anzi lasciato assolutamente da parte. In ciò sta tutta la sua difesa e la sua accusa. La difesa, perchè la condotta delle azioni politiche deve essere [487] guidata dalla ragione, dalla logica, non dal sentimento; deve mirare sopra tutto a raggiungere il fine propostosi. L'accusa, perchè, se nell'azione politica l'uomo non scomparisce del tutto, non potrà neppure scomparir mai del tutto il carattere, il valore morale di essa. E qui abbiamo non l'esagerazione, ma il lato intrinsecamente debole, erroneo del sistema. Su di ciò il De Sanctis non si è fermato abbastanza, e però la sua critica più di una volta oscilla incerta fra tendenze opposte. Un tale difetto però è assai diminuito dalle descrizioni vivaci, eloquenti, vere che egli fa dello spirito del Machiavelli, del suo pensiero. «La sua patria mi rassomiglia troppo all'antica divinità, e assorbe in sè religione, morale, individualità. Il suo Stato non è contento di essere autonomo esso, ma toglie l'autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i diritti dello Stato, mancano i diritti dell'uomo» (p. 150). Qui in poche parole noi abbiamo un concetto fedele del sistema, che ne contiene in germe anche la critica, perchè ne pone in luce il difetto fondamentale. Ma queste esposizioni e descrizioni veridiche, eloquenti, quasi divinatrici, che assai spesso ci fa il De Sanctis, sollevano una quantità di domande, di problemi che la sua critica lascia insoluti. E quindi il lettore, nello stesso tempo ammirato ed attonito, rimane dubbioso ed incerto.[684]

Anche il signor H. Baumgarten, di cui la scienza deplora la perdita recente, ha nella sua nuova e bella Storia di Carlo V, ripreso in esame il Principe.[685] In verità egli si occupa più di combattere le opinioni altrui, che di [488] esporre e sostenere la propria, la quale è un ritorno alla questione morale ed alla critica puramente storica. Abbiamo da capo il Machiavelli cinico, corrotto, senza fede, senza patriottismo, in mezzo ad un popolo più corrotto ancora. Si pensa più a condannare l'uomo che a giudicare il valore scientifico dello scrittore, che pur è riconosciuto come il primo pensatore politico del secolo.

Il Baumgarten comincia coll'attaccare il Ranke, quando afferma che il Principe scaturisce dalla situazione politica dell'Italia nel 1511, e ha di mira il disegno di formare uno Stato nuovo per Giuliano o Lorenzo dei Medici. Si rivolge poi contro di me e contro tutti quelli che sostengono la stessa opinione. Questa secondo lui è, almeno in parte, confutata dalla lettera del 10 dicembre 1513, nella quale il Machiavelli dice chiaro, che allora aveva già scritto il suo libro, e lo andava correggendo. È poi, egli aggiunge, una contradizione manifesta il supporre, che il libro abbia un carattere generale, e sia nello stesso tempo ispirato da un fatto particolare, che non perde di vista.

La disputa sulle date possiamo qui ritenerla superflua, tanto più che vi abbiamo altrove risposto.[686] Ma che il Principe sia in relazione con i disegni fatti per Giuliano e Lorenzo, risulta così manifesto dalle lettere del Machiavelli e dal libro stesso, che è veramente difficile capire come mai l'acuta intelligenza del Baumgarten non volesse riconoscerlo. Nè v'è poi bisogno di dimostrare, che un libro può essere ispirato da un fatto particolare, ed avere ciò nonostante un carattere generale. È forse assolutamente necessario che esso sia o tutto teorico e generale o tutto pratico e speciale? Il concetto del Principe era già nella mente del Machiavelli, quando i disegni fatti per Giuliano e Lorenzo lo indussero a scriverlo. Scrivendolo, era assai naturale che un uomo come lui [489] s'elevasse ad un'altezza scientifica. Quando l'ebbe finito, domandò a sè stesso ed agli amici, se era o no opportuno dedicarlo ai Medici.

Il Baumgarten però osserva: Quali erano i disegni fatti per Giuliano e per Lorenzo noi lo sappiamo. Si parlava di Parma e di Modena, di Ferrara, di Urbino; si mirava anche a Siena ed a Napoli. Per attuare uno qualunque di questi disegni, sopra tutto poi volendo anche riunire l'Italia, bisognava fare i conti con la Germania, con la Spagna, con la Francia, senza le quali non si poteva allora muovere un passo nella Penisola. Eppure il Machiavelli, che di ciò discorreva continuamente nelle sue lettere, non disse una sola parola nel Principe; non accennò neppure alla condotta che bisognava tenere verso Venezia e gli altri Stati italiani. La verità è che il libro non prese mai di mira una situazione politica determinata, e quindi non era necessario parlare di ciò che in casi determinati si sarebbe dovuto fare.

Ma i disegni discussi e proposti per Giuliano e per Lorenzo, come giustamente osserva lo stesso Baumgarten, erano molti, e variarono di continuo. La situazione politica dell'Italia e dell'Europa mutava anch'essa di giorno in giorno, d'ora in ora. Il Machiavelli poteva, doveva parlarne nelle lettere, le quali discutevano solo le questioni del momento che fuggiva; sarebbe stato superfluo, inopportuno parlarne in un libro, che, appena finito, avrebbe trovato già tutto mutato. Si fermò quindi in esso a discutere solamente di ciò che un Principe nuovo avrebbe, in ogni caso, dovuto fare: riunire, coordinare, formare lo Stato, armarlo di proprie armi. Dopo di ciò si sarebbe potuto pensare ad allargarlo, e sarebbero sorte le questioni internazionali, che non era possibile prevedere e determinare anticipatamente. Tutto ciò non esclude il doppio carattere del Principe, il quale certamente, pur dando precetti generali, mirava al caso speciale di Giuliano e di Lorenzo. Ed aveva ben ragione il [490] Ranke quando disse, che se questo non si riconosce, non è possibile capirne più nulla.

Quello che poi al Baumgarten pare assurdo addirittura, è il carattere di Principe liberatore, che, senza ombra di ragione secondo lui, si è voluto attribuire al personaggio ideato dal Machiavelli. Che volgare visionario, egli esclama, avrebbe questi dovuto essere, per credere Leone X, Giuliano e Lorenzo capaci d'innalzarsi fino ad un così grande, eroico disegno! E con che mezzi si doveva attuare? Nel capitolo V del Principe è scritto, che, a voler sottomettere le città libere, bisogna distruggerle. Ma allora quale ecatombe di repubbliche non sarebbe stata necessaria in Italia, per unirla? Poteva il Machiavelli voler distruggere anche Firenze? Questa sarebbe una enormità cui non arrivò lo stesso Cesare Borgia, il quale se uccise i suoi mal fidi alleati, non distrusse mai le città. Armare di proprie armi il nuovo Stato? Ma non aveva lo stesso Machiavelli, il 10 agosto 1513, scritto al Vettori, che sarebbe stata cosa da ridere, perchè, dalle spagnuole in fuori, «non sono in Italia armi che vagliano un quattrino»?

Sfortunatamente il Baumgarten credette di poter esaminare il Principe, senza metterlo in relazione con le altre opere del Machiavelli, con le quali è così strettamente connesso, che senza di esse non è possibile farsene un concetto chiaro. Egli quindi non si ricordò neppure che tutta l'Arte della Guerra è fondata sulla convinzione profonda, che se avessero adottato gli ordini militari di Roma, gl'italiani avrebbero riacquistato l'antico valore, ed avuto una fortuna simile alla romana. Ed il 10 marzo 1526 non scriveva egli allo stesso Vettori, dimostrando una grande fiducia che Giovanni delle Bande Nere potesse allora armare e riunire gl'Italiani sotto la sua bandiera? E quando, poco dopo, Firenze s'apparecchiò a difendersi contro l'esercito imperiale, non ritornava egli a sperare nella sua Ordinanza? Nè è poi vero che egli dica proprio [491] in modo assoluto, che a sottomettere le città libere, bisogna distruggerle. Nei Discorsi, ed anche nel capitolo V del Principe, citato dal Baumgarten, è scritto che bisogna: o distruggerle (e intende i cittadini potenti e liberi, non le città), o andarvi ad abitare, o porvi un governo di pochi. In ogni modo poi il Baumgarten ha avuto torto di non ricordarsi di ciò che assai giustamente osservò il Burckhardt, che cioè il difetto del Machiavelli non era un eccesso di logica e di coerenza, ma il lasciarsi troppo facilmente trascinare da una fantasia indomabile. Contradizioni in lui ve ne sono, e non bisogna pretendere di sopprimerle. Chi potrà mai supporre, osserva il Baumgarten, che il Machiavelli parlasse con tanto disprezzo, come fa nel Principe, degli Stati ecclesiastici, se il libro fosse stato davvero destinato ai Medici? Ma nelle Storie fiorentine, scritte per commissione di Clemente VII ed a lui dedicate, non dice egli ripetutamente, che i Papi furono la rovina d'Italia, avendole impedito sempre di riunirsi?

Dopo tutto ciò, non deve far nessuna maraviglia, se arrivato all'ultimo capitolo, in cui il concetto del Principe liberatore apparisce in modo da non poterlo più mettere in dubbio, il Baumgarten si trovi costretto a dire, che esso è una fantastica bizzarria, la quale apparisce improvvisamente, senza avere connessione alcuna col resto del libro. — Forse, egli aggiunge, questo è il solo capitolo destinato a Lorenzo, forse il Machiavelli lo scrisse sperando di potere con questa patetica esortazione guadagnarsene l'animo? — Eppure aveva detto poco prima, che sarebbe stato affatto puerile il supporre i Medici capaci di comprendere un così nobile ed eroico disegno, e commuoversi per esso. In conclusione tutto il male, secondo il Baumgarten, è venuto dall'aver voluto prendere sul serio la esortazione finale, e ciò s'è fatto perchè era il solo modo di redimere quanto v'ha di enorme, di crudele, d'immorale in tutto il libro. Una [492] tale interpetrazione, che non ha nessun serio fondamento, è divenuta popolare dopo che l'Italia fu liberata per opera della Casa di Savoia, il che sembrò confermare il preteso sogno eroico del Machiavelli. Ma questi in realtà non sentì mai nessun bisogno di giustificare la sua politica con un grande scopo patriottico e morale. E quando lo avesse sentito, non avrebbe di certo nascosto il proprio pensiero in modo, che ci vollero tre secoli per scoprirlo.

Lasciando qui da parte che la interpetrazione patriottica del Principe è assai più antica, che non suppone il Baumgarten, che cosa dunque, secondo lui, voleva il Machiavelli, che scopo, che valore ha il Principe? La politica del Rinascimento era senza morale, senza scrupoli, fatta nell'interesse dei principi, non dei popoli. Questa relazione artificiale del sovrano coi sudditi, parve al Machiavelli normale, e volle ridurla a sistema. Ma egli rese la politica del suo tempo anche peggiore che non era, con esempi cavati dall'antichità. Sperava così di trovar favore appresso i Medici, veri rappresentanti di quella politica iniqua, che egli cercava perciò di giustificare. «Uno Stato che abbia un fondamento etico, non esisteva pel Machiavelli, il quale nella vita pubblica e nella privata, non riconosceva l'impero della morale.» [«Einen auf sittlichen Grundsätzen gestützten Staat gab es auch für seine Gedanken nicht, da dieselben weder im privaten noch iim öffentlichen Leben von sittlichen Geboten wussten» (p. 635)]. «Si è detto che egli seppellì il Medio Evo, ed iniziò la politica moderna. Può darsi, ma è una politica, la quale fa astrazione da tutto ciò che è fondamento necessario della società moderna, il Cristianesimo cioè e le relazioni internazionali.»

Il Baumgarten vide assai chiara la stretta relazione che passa fra il Machiavelli ed i suoi tempi; ma lo confuse troppo con essi, tanto che la personalità ed originalità sua ne svanisce quasi del tutto. Se infatti i tiranni [493] di quel tempo, senza altra mira che il loro personale interesse, non ebbero nessuna grande importanza storica; se la politica d'allora fu solamente corrotta, senza nessun vero, reale valore; se il Machiavelli non fece altro che provarsi a giustificarla, per mero egoismo, senza nessun alto concetto scientifico, senza nessun principio di morale, di patriottismo, d'onore, quale può mai essere il significato, il merito d'una dottrina così priva d'ogni fondamento? A che si riduce il merito di questo grande pensatore politico, che lo stesso Baumgarten, a giusta ragione, chiama il primo del suo secolo? Perchè mai egli stesso ha creduto di doversi così a lungo occupare del Principe in una storia di Carlo V? Come mai questo libro ha potuto esercitare una così grande, continua azione nella politica e nella letteratura? L'enigma ricomparisce, senza trovare una risposta. Non ostante il suo ingegno e la sua dottrina, non ostante molte giuste osservazioni, il Baumgarten non è riuscito, come sembrò credere, a diminuire il valore delle osservazioni e dei giudizi del Ranke, nè ha dato, secondo noi, un passo innanzi nella critica del Machiavelli.

Noi possiamo ora concludere, che non v'è lato da cui il Machiavelli non sia stato, più o meno accuratamente, esaminato; ma le contradizioni non sono scomparse, nè siamo quindi arrivati ad un giudizio universalmente accolto come definitivo. La ragione principalissima di ciò è stata che gli scrittori, anche i più autorevoli, lo hanno troppo spesso esaminato da qualcuno solamente dei molti lati dai quali egli si presenta. Chi ha cercato la spiegazione dell'enigma nello studio dei tempi; chi nel carattere dell'uomo; chi, trascurando l'esame dell'uomo e della vita, s'è fermato invece alle opere, ed ha in esse voluto vedere o solo il repubblicano o solo il sostenitore del principato; chi non ha visto che la questione politica, e chi l'ha invece confusa colla questione morale. Ma sotto qualunque di questi aspetti esclusivi si guardi il Machiavelli, [494] la sua fisonomia, ne vien sempre alterata, ed il suo vero carattere riman sempre inesplicabile. Solo un esame fatto da tutti i lati, sotto tutti gli aspetti, non dimenticando mai di distinguere ciò che è principale da ciò che è secondario; in altri termini solo una vera e propria biografia può sperare di avvicinarci finalmente alla soluzione del difficile problema. Tentativi di questo genere non mancarono di certo. Ma le prime biografie furono semplici compilazioni, senza ricerche originali, senza neppure cercare di trar profitto da quelle indagini precedenti, che avevano messo in nuova luce qualche parte del soggetto. Il signor Périès pose innanzi alla sua traduzione di tutte le opere del Machiavelli (1823-26) una sua Histoire de Machiavel,[687] compilata semplicemente colle notizie raccolte nell'Elogio scritto dal Baldelli (1794), e nelle prefazioni alle edizioni delle Opere, venute alla luce nel 1782 e 1796 in Firenze, e nel 1813 colla data d'Italia. L'anno 1833 fu pubblicato a Parigi, in due grossi volumi, il lavoro da noi più volte citato del signor Artaud. Sebbene composto con grandissima perseveranza e pazienza, anch'esso è privo d'ogni originalità, così nelle ricerche storiche, come nei giudizi dati sulle opere. D'allora in poi, per lungo tempo, nessuno s'arrischiò più a scrivere una nuova biografia del Machiavelli, tale non potendosi dire neppure il libro del signor Mundt (1861), che ci dà piuttosto considerazioni sulle opere e sulle dottrine. Il centenario celebrato a Firenze l'anno 1869, ed un concorso bandito in quella occasione, dettero nuovo stimolo a moltissime pubblicazioni fatte in Italia sul Machiavelli, fra le quali vanno annoverate anche quattro nuove biografie. Ma di questi recentissimi lavori e specialmente delle biografie, scritte la più parte da amici o conoscenti, io non [495] credo di dover qui fermarmi a parlare, per ragioni che il lettore intenderà facilmente.[688]

[497]

APPENDICE DI DOCUMENTI

[499]

DOCUMENTI

DOCUMENTO I. (Pag. 52)

LETTERE AL MACHIAVELLI, SCRITTE DA COMMISSARI E DA AMICI NEGLI ANNI 1507-1509.

1 Lettera del Commissario Alessandro Nasi, 30 luglio 1507.[689]

Machiavel gentile et non sciagurato, che ne sei guarito interamente. Havendo per la tua de' xxiij dischorso in modo che sono inluminato di molte cose, alle quale non voglio fare replicha, perchè el tempo non serve, et anche chi scrive à preso pocho foglio; piacemi che ti chachassi la imperial commissione, poi che sei sanifichato in tutto. Et credo sia molto al proposito, maxime tuo, trovarti più presto a Firenze che in Thodescheria, come dischorreremo una volta quando saremo insieme.

Le cose si ristringhano, et interverrà a molti come a' fanciulli, che sono qualche volta lasciati fare corpacciate da' padri o dalle madre, di cose che loro ne hanno gran contento: et poi quello è il propio mezo a torli loro. Però, chi si trova d'uno buono animo, recto, et a Idio et al ben comune, ragionevolmente in tutti li eventi si può fare iuditio si habbia meglio a resolvere, et sia richo o povero, o di qualità o non qualità, come si voglia.

[500]

Lo Amicho Napoletano interpetra sì bene spesso le cose al contrario, che se comentò quella male, non fu gran facto. Ho molto charo, acciò che tu conoscha gli homini, che interpetrassi a quel modo, et tu lo habbi saputo.

Quando sarà piovuto et rinfreschato, vi aspetto a ogni modo, cioè Alexandro, Biagio et tu. Et se alle volte in questo mezo tu scrivessi, non sarebbe però pechato mortale. Se el battaglione non è in altro termine che tu mi dicha, posso farne buon iuditio et vero.

Nec alia. Racomandomi a te et al Zampa.

Cascinae, die xxx julii MDVII.

Alexander Nasius
Generalis Commissarius.

Spectabili viro Nicholao de Machiavellis

Secretario florentino......

precipuo, Flo[rentie].

2 Lettera del Commissario Filippo Casavecchia.[690] 30 luglio 1507.[691]

Se io mi dolsi, et hora mi ridolgo. Quando io pensavo che tre huomini della qualità vostra avessino ad esser le gruccie et il sostegno della vita mia, et de risolvermi e' mia dubbi, et che hora me usciate adosso con sì facte cose, le quali mi paiono come addimandare quale fu prima, ho la machina del cielo ho l'astrologia, ho quale sia più densa, ho l'aqua ho 'l globo della terra, ho qual sieno più perfette, ho le figure triangulate ho circuli tondi. Hor non sapete voi che poche poche amicitie sono state quelle che in prociesso di tempo non diventino il suo contrario? Et come l'omo i' nella sua giovanezza, ho per me' dire infantia, se deletta di mano in mano di mutare le vestimenta et di varii colori, così medesimamente si [501] mutano le amicitie: et venendo poi nell'età più matura, chi per defecto de compressione, et chi hopresso da una sordida et meschina povertà, così ancora da emulatione di stati et da varii sdengni, fanno tutte queste cose, con lungezza di tempo, diventare li uomini d'amici inimicissimi. Hor non sapete voi che lo inperio et grandezza di Roma fu disfacto, per conto dell'amicitie, infinitissime volte? Ho chi furono maggiori amici che Collatino et il figliuolo di Sesto Tarquineo? Per le qual cosa ne venne la ruina de' regi et totalmente di quella familglia. Et disciendendo poi a' tempi di Mario et Silla, la quale confederatone non fu mai pari, et finalmente ne seguitò la perturbatione di quel pacifico et populare governo di quella città. Ho non v'è elli noto la fratellanza et congiuntone di Julio Ciesare et il magnio Pompeo? et così ancora de el triumvirato, cioè Antonio et Hottavio et Lepido, che non solamente messono in ruina la patria loro, ma quasi tutto il circulo della terra? Et se non che l'ora è pure tarda, io empierei una lisima di folgli de esempri ebrei e greci e latini. Ma che bisongnia ricie[r]care le cose antiche, quando ne' tempi nostri moderni, et noi conlli nostri hochi abiamo più et più volte veduto per simili efetti la patria nostra in grandissima ruina e angustia? Dove fu maggiore familiarità et amicitia che in fra Dietisalvi et Piero di Cosimo, et così ancora poi in fra Giuliano et Francesco de' Pazi? Et vedete che icielerato fine ne seguitò.

Ma e' mi pare de continuo sentire qualcuno di voi che, legiendo questa letera, non isghingniazzi, et che non dichi: Ho! queste cose non seguitorno quando l'amicitia durava, ma dipoi che fatti furono inimici. Et io rispondo, che tutti li efectti sono generati dalle cause loro; et però si può dire iustificatamente, che quasi pro maiori parte tutte le ruine delle città sieno causate et generate dalle intrinseche et cotidiane amicitie, le quali genorono col tempo, et massime nelli homini grandi, pelle ragioni preallegate di sopra, simili e cotali efetti. Et però, carissimi amici, io ve esorto et conforto et imo priego ad volere usare in fra voi moderatamente et civilmente, prima perchè io giudico sieno più per durare, et etiam per evitare tutte le suspitioni et gelosie, le quali solgliono nasciare in simile città. Ma perchè questa mia lettera non diventassi cantafavola, farò fine al mio sermone, ricordandovi solamente una [502] cosa; e questo è a patientia circa al trionfo di Germania. Et chi si fa bello d'avervelo impedito, non à[692] e non trionferà però dell'Asia. Et di coteste cose non v'à mancare se non quelle non vorrete. Nec alia.

Ex Fivizana, die xxx iulii MDVII.

Io ve priego che e' non vi incresca racomandarmi al magnifico Gonfaloniere, quando capitate su. Ma questa parola bisongnierebbe fussi in sur uno prigetto,[693] che agiugnessi insino a costì, et a mala pena lo faciessi. Ma io sono chiaro d'una cosa: che voi metterete un dì inn'oblivione voi medesimo, e basti. Voi me avisate che state tutti coll'arco teso, che Gigi Mannelli non venga. Se voi l'avete a schochare, schochatelo nel forame a Masino Del Tovalglia. Fatevi con Dio, et atendete a stare lieti; e racomandatemi a Paolo, a Giovanbatista, a Luigi, a meser Francesco, a Tomaso Del Bene; et basti.

Vostro Philippo Casavetia
Commissario.

Spectabili domino Nicolao Macravello

dingnissimo Secretario apud

D.[Novem Mi]litie Reipublicae florentine.

3 Lettera di B. Buonaccorsi. — 20 febbraio 1509.[694]

Magnifice generalis Capitanee, etc. Io non vi scriverrò più, se voi non dite almanco della ricevuta, chè havendo costì 4 cancellieri, lo doverresti pure fare.

El Papa ha mandato per semila Svizeri, at anchora lui comincia ad spendere, et questo stoppino lavora da ogni lato. E' Vinitiani fanno il simile, et aiutonsi con le messe et paternostri; et hanno mandato costà, come harete visto per le lettere vi si mandorono, per Tarlatino et Romeo. Vedete dove si [503] fondano e' casi loro. L'Imperatore, per quanto si ritrahe di queste ultime lettere di Francia, non pare habbi ad passare questo anno in Italia: pure s'intende si prepara et di gente et di danari. Ma di questo con voi non bisogna troppo parlare, sapendo meglio di noi quello può fare. Spagna, come vi dissi, manda in Puglia gente et artiglierie per la impresa delle sua terre: vedreno che seguirà. Qui non si pensa ad altro che ad ultimare le cose di Pisa, et non si guarda ad spesa alcuna. Et el ponte, avanti passi 4 dì, sarà in opera; chè s'è mandato di qui Antonio da Sangallo con assai maestri per questo conto: così si è spinto in giù legname assai, et ogni cosa vola.

Habbiate cura costì, che a uno temporale tristo, ancorachè l'armata sia ritirata, non si mectessino ad intrare etc., chè tutta l'acqua d'Arno non vi laverebbe. Quello vento ch'i' vi dixi s'era levato et non haveva havuto forza, di nuovo cominciò ad trarre, et hebbe el medesimo fine, et harà, se altro non nasce. Et cicali chi vuole.[695]

El Commissario di Cascina scrive che quelli poveri scoppiettieri, così mal guidati da quel traditore ribaldo ubriaco come furono, amazorono 13 cavalli alli inimici et 5 homini, et perironne assai: che ha turato la bocca a chi si faceva huomo alle pancaccie; et hanno dimonstro essere homini come li altri. Qui s'ordina di riscattarli ad ogni modo, et far loro qualche altro bene per inanimire li altri per lo advenire.

Scrivete ad Niccolò Capponi, che bofonchia et duolsi non li havete mai scripto. Et dite a quel c.... di ser Battaglione che vadi adagio, et non si assicuri più, che la scusa del piè non varrà sempre; et ricordateli che facci fare prima la credenza alla mano, innanzi che vadi più là. Et raccomandatemi al Baldovino, che anchora elli è uno cazelloncello.

L'amico non ho visto da parechi dì in qua, perchè non ho potuto; et anche le faccende assai che li ha in questo carnesciale, non patiscono se li dia molta briga. Farenlo in questa quaresima. Advisate se volete facci altro.

[504]

Parlai al Fantone di quello vi scrissi hieri: dixemi che vi era surto 4 altre querele; et che non dubitassi, che vi harebbe advertentia.

Florentie, die carnescialis, 1508.[696]

Quem nosti etc.

Nicolao Maclavello Secretario florentino

suo plurimum honorando.

4 Lettera di B. Buonaccorsi. — 21 febbraio 1509.[697]

Niccolò mio honorando. Io vi rispondo poche parole alla parte toccante el caso del Commissario verso di voi: il che non è punto piaciuto allo ufitio. Pure e' più potenti sempre hanno ad haver ragione, et a loro si ha ad havere respecto. Voi solete pure essere patiente et sapervi governare in simili frangenti, benchè questo fia di poco momento, havendo ad stare discosto; et se una o dua lettere lo hanno ad contentare, sarà poca fatica. Et superius, con chi parlai hiersera lungamente di questo, mi commisse ve lo scrivesse, et che io vi confortassi per suo amore ad haver patientia, con altre parole da haverle chare et stimare assai. Della licentia non bisogna ragionare per hora, et questo monstra se satisfate o no: che pure stamani, nel ricercare che voi fate di tenere uno in Mutrone, qualcuno arebbe volsuto vi fussi transferito fino ad Lucca ad domandare questa cosa: tamen, la gelosia che costì non si stessi [505] sanza voi possè più; et si risolverono tentarla per altra via. Una cosa vi vo' ricordare, et questo è, quando scrivete, diciate ogni minimo accidente che segue, così costì come in Pisa; perchè questi particulari satisfanno et empiono la brigata assai, et sono quelli che vi porteranno in cielo. Quando vi paia altrimenti, me ne rimetto a voi. Stasera, da questa ultima in fuora, si leggeranno nelli 80 et Pratica tutte le vostre lettere, et così si seguiterà, sì che mandatecene qualcuna di quelle che voi solete. Se voi non volete rimandare ser Francesco, respondete di haverne bisognio, et farassene quello che voi vorrete.

El ponte si sollicita per tutti versi, nè si può fare più di quello si sia facto. Scrivete anchora qualche volta a' Nove, perchè ogniuno vuole essere dondolato et stimato; et pure bisogna farlo chi si truova dove voi; et quattro buone parole con dua ad vi si satisfaranno, et parrà sia tenuto conto di loro. Fatelo, ve ne prego. Di nuovo non ho da dirvi cosa alcuna, perchè da poi vi scrissi non è innovato nulla.

Hieri andai per visitare l'amico; non era in casa, se mi fu decto el vero, che ne dubito. Pure, sendo il dì che era, non me ne maraviglio. Spero che hora harà più agio. Qui si dice che a ser Battaglione è stato rotto el c.... et che 'l Baldovino è crepato. Advisate quello che ne sia, chè ne stiamo in gelosia grande, et amendua le donne loro fanno mille pazie. Quel matto di ser Antonio dalla Valle ha facto uno modello d'uno ponte, et vuol fare uno ponte levatoio sopr'Arno; et non se li può cavare del capo, in modo dubito non c'inpazi su. Rimediate se voi potete.

Florentiae, die prima quaresimae 1508.[698]

Quem nosti.

Confortate, vi prego, messer Gandino ad rendere quelle bestie sanza andare più oltre, chè non è cosa l'habbi ad richire, et faranne piacere a più d'uno.

Postscripta. Ho ricevuto la vostra de' 20; et circa li scoppiettieri io ho facto el debito in questo come nell'altre cose [506] vostre. Ma bisogna scriviate quanti ne sono presi, quanti morti, et come la cosa sta, chè qui si spasima. La mancia andrà domattina ad casa, et con lo amico farò il debito che fino ad qui non ho potuto. Et quell'altra faccenda non è anchora iudicata. Non so quello ne habbi ad essere.

Niccolao Maclavello Secretario fiorentino

suo plurime honorando in Castris.

DOCUMENTO II. (Pag. 53)

LETTERE DEI NOVE DELLA MILIZIA.

1 Al Vicario di Pescia, Berto da Filicaia. — 2 giugno 1507.[699]

Don Giliberto spagnolo, nostro conestabole, ci scripse per una sua lectera, come el Papa da Fordigla da Uzano, havendo abbassato dopo certe parole uno spiede per darli, et lui defendendosi colla spada, et correndo ad quel rumore un suo garzone, ferì decto Papa; donde noi ti commettemo, facessi d'averlo nelle mani. Venne di poi hieri al magistrato nostro un fratello del Papa, et ci ha referito questo caso al contrario, et dice in sustanza che 'l Papa fu assaltato dal conestabole et dal suo garzone; et facendoci intendere come decto garzone era in Firenze, parendoci approposito, infino che noi intendessino bene la cosa, di haverlo nelle mani, lo facemo pigliare. Et desiderando hora intendere la verità del caso, ti scriviamo la presente, et voliamo che tu intenda quello che dice l'una parte et l'altra, et che tu esamini dipoi e' testimoni che n'allegano, et veggha con ogni debita diligentia d'intendere la verità di [507] questo caso: et intesola, ci manderai per iscriptura tutto quello ne harai ritratto et quanto più presto potrai.

Manderaci le listre de' disubbidienti nell'ultima mostra, et serberatene copia, et da decti disubbidienti trarrai la pena di 20 soldi per ciascuno; et così finirai di risquotere da quelli disubbidienti che ti lasciò l'antecessore tuo, et ci farai rimettere e' danari riscossi infino ad qui.

2 Ad Agnolo da Ceterna. — 31 luglio 1507.[700]

Noi intendiamo quello che tu ci advisi per la tua de' 28; et circha alli accordi che tu hai facti costà, per le questione che vi sono nate. Te ne commendiamo assai, et così seguirai per lo advenire; et quando non potessi comporre alcuna cosa, ce ne adviserai, perchè sopra ad ogni altra cosa desideriamo che cotesti nostri stieno uniti et in pace. Quanto ad Andrea del Bororo preso per condannagione dal podestà del Monte, scriviamo al podestà che lo rilaxi, perchè presupponiamo che tu dica el vero, che fussi condannato avanti che tu li dessi l'armi. Et però farai fede per via di testimoni a decto podestà, del dì che tu li desti le armi, et guarderai di dire la verità, acciò che non potessi accusarti di fraude, perchè l'ordine nostro lo fa securo delle condannagioni che li haveva dal dì che prese le armi indreto. Et quanto ad quello che tu desideri d'intendere come ti habbi ad governare, ti significhiamo che gli scripti non hanno altro privilegio, se non che sono securi dalle condannagioni vechie, et possono portare l'armi. In tucte l'altre cose eglino ànno ad essere tractati da' rectori et da ogni altro magistrato come se non fussino scripti.

Dispiaceci che sieno adoperati da' rectori ad fare le executioni; et però quanto adpartiene ad te, lo prohibirai loro per parte nostra, et noi anche ne advertireno e rectori.

[508]

3 A Giovencho de' Medici, potestà di Prato. 3 novembre 1507.[701]

Havendoci facto constare et bene certificato Antonio di Zanobi del Papa, trombetto che fu di don Michele, havere impegnato una sua trombetta per dua ducati d'oro per li sua servitii, et parendoci ragionevole che si vaglia sopra la roba di decto don Michele, voliamo che del cavallo morello che è di don Michele, el quale detto trombetto ti ha facto staggire in mano, tu facci una delle dua cose, o che tu lo consegui a decto trombetto per stima, faccendoti pagare indreto quello più fussi stimato da due ducati in su, o veramente tu lo facci vendere allo incanto. Et del retracto ne darai dua ducati d'oro ad decto Antonio trombetto, et el restante serberai appresso di te per satisfare ad delli altri creditori di don Michele: et ad noi darai ad adviso di quello harai facto. Vale.

DOCUMENTO III. (Pag. 53)

Lettera dei Dieci a Giovanbattista Bartolini. 27 novembre 1506.[702]

Havendo noi inteso hieri per la tua de' 24 et per una del commissario di Libbrafacta in conformità della tua, come el Volterrano fu taglato ad pezi in casa quelli della Chiostra, poi che fu condocto prigione in Pisa; ci dette assai dispiacere tale caso, sì perchè noi amavamo el Volterrano, sì perchè e' ci dispiacque el modo della morte sua, parendoci apto crudele et [509] non conforme a' buoni tractamenti facti da noi alli prigioni che de' Pisani habbiàno et habbiamo hauto sempre in mano. Et perchè ogni huomo conosca che, come noi non siamo per incrudelire qua a' nostri nemici, così non siamo per lasciare impunite le crudeltà loro, facemo questa mattina impiccare alle finestre del palazzo del Capitano nostro Giovanni Orlandi et Miniato del Seppia. Diamoti questo adviso ad ciò lo pubblichi, et che s'intenda in Pisa come e' loro cittadini non sono stati morti da noi, ma da la crudeltà che è stata usata contro a' nostri; et che l'intendino, poichè li usono male la nostra humanità, che e' si diventerà della natura loro. Bene vale.

DOCUMENTO IV. (Pag. 62)

Lettera di Niccolò degli Alberti, Capitano e Commissario ai Signori. — Arezzo, 16 luglio 1507.[703]

Magnifici et excelsi domini, domini mei singularissimi, etc. Per cavallaro a posta di V. Excelse Signorie, cor una de' xiiij del presente, ho ricevuto fiorini cinquanta larghi d'oro in grossoni, a lire 6, soldi 18 per fiorino; et tanti questa mattina si sono pagati a don Michele Coreglia vinitiano, con promissione di partire lui di qui et trasferirsi a Firenzuola, come per le lettere di V. Excelse S. conmecte. Et da lui si è ricevuto la quetanza di detti fiorini 50 larghi d'oro in oro, rogata per mano del mio canceliere in valida forma.

Fece decto don Michele qualche resistentia nello acceptare detti denari, allegando non li essere abastanza per pagare e' debiti sua già facti qui et altrove. Tandem, presentatoli la lettera [510] di V. Excelse S. et le persuasioni che ci occorse mostratoli (sic), disse esser contento ubbidire alle prefate V. Excelse S. Alle quali e lui e me del continuo si rachomandano: que bene valeant.

Ex civitate Arezii, die xvi iulii MDVII.

Nicolaus de Albertis,
Capitaneus et Commissarius.

Magnificis et excelsis dominis domis

Prioribus libertatis et Vexillifero

iustitie perpetuo Populi Florentini

dominis meis singularissimis.

DOCUMENTO V. (Pag. 62)

1 Lettera di don Michele Coreglia al Machiavelli. Firenzuola, 15 settembre 1508.[704]

Magnifico messere Nicholò mio. Ho riceputo una lectera facta a' 10 di setenbre: del che sto el più spantato[705] homo del mondo, a dirmi che si dice che io sia diventato partigiano. È ben verro che io so' partigiano di quelli che serveno la excelsa Signoria vostra, et che sonno obidienti.

[511]

A la parte che V. S. mi scrive che vole intendere che io volevo pigliare uno di que' del Bello, che haverà caro sapere la cosa come passò; la cagione si hè questa che, asentato al palazo de la porta del capitano di Castrocara, viene a me una povera donna, dicemi: Signore, vi vorìa dire dieci parolle per l'amor di Dio. Di che io m'apartai con epsa da uno canto per intenderla. Come fu' apartato con epso lei, s'inginochiò et cominciò a piagnere cridando: — Misericordia, iustitia, iustitia. — Dimandai: — Che cossa ài bona donna? levati su, leva su. — Disce: — Signore, c'è uno magniano forestiere, che m'à tolto una mia figliola per forsa, vergine, et à facto quel ch'à voluto con lei: et mo' ricerca di portarmene una altra. — Io li dissi: — Bona donna, hè costui in la terra — ? — Disce: — Signiore sì; datemi due o tre fanti, che io insegnerò chi hè. — Allorra ci donai tre fanti, e epsa donna mandò uno suo parente con quelli fanti a insegnarcelo. Li dui fanti piglioro per una strada che furro bene informati, che veste portava costui, e l'altro andò con el garzon per una altra strada. Quello c'andò con el garzon si scontrò con questo magniano, et haveva commessione da me di pigliarlo et menarlo al palazo, dinanzi al capitano et a me, che l'aspetavamo al palazo.

In questo darli di picca per menarlo, che epso comincia a fare resistentia, per modo che stando apresso a una cassa di uno di questi del Bello, o di Pier Francesco, che io ho poca pratica in quelle casse, entrò dentro, et el fante dirieto, cridando l'uno et l'altro. Sentendo il romore, mi levai da sedere et corsi là. Entrai dentro la cassa, trovai lì Achille del Bello con uno mezo lancione in mano, adosso a quello fante mio, discendo che non lo meneria; che s'andase con Dio, si non, che faria e diria. Io in questo stante, dissemi el fante: — Signore, in questa canbera sta el magniano. — Allorra dissi: — Achille, damolo, sì non, ch'i' farò qualche patìa ogi. — Et mi disse che potía fare, che non era per darmello, et non volìa che si cavasse di là. Io allor li comandai, per quanto haveva car la gratia de' nostri excelsi Signori, c'andasse in palazo. Lui mi disse, che non ci voleva andare. Allor lo pressi per el pecto per menarlo via. In questo giunse el fratello et più di quaranta homini di Achugiano armati. Io allor vedendo questo, andai di fora, et pressi una rotella, et fei armare la compagnia, et ritornai a entrare [512] dentro, deliberando o di haver costui intro le mani o morir, per modo che el capitano medesimo di Castricara venne allì; et per tanta la furia che c'era, io non lo vidi mai et tornosene a iscire. Di poi tornò per me, et loro m'inpromisseno di menare quello magniano in palazo, et venire lorro ancorra. Et cossì m'iscii de la cassa, et andamene in palazo insieme con el capitano; et di poi a uno pocho menarro el malfactore, et loro ancora s'apresentorro dinanzi a la signoria del capitano et a me.

Quando furro allì, io dissi al capitano: — Ecco qua el malfactore —; et a costorro: — adesso che so' dinanzi a la signoria vostra, io non me ne voglio più inpaciare. Basta che io ho facto quello che ogni bon servitore della excelsa Signoria deve farre. — El capitano et uno ser Bacio et uno ser Giovani che mi sonno amici, et lorro ancora mi sonno amici, ma in quello stante mi tochava più la camiscia che il giubone, mi pregarro che fascesemo pace insieme, et che io non scrivessi di questa cossa a Fiorenza nè farne iscrivere; et così l'inpromissi di fare; et che io non erro costumato di scrivere nè fare iscrivere di queste frascarìe. Et così una matina c'invitorno a desinare a la signoria del capitano et a me, et desinamo tutti insieme.

Si ve par che io in questa parte habi pecato di Spirito Santo, prego la Signoria vostra che dicha a questi tali che v'aàno contato questo casso, che insieme con la Signoria vostra mi dièno quella penitentia che pare a lor Signorie; si li par che io habi peccato di Spirito Santo, como ho dicto di sopra: chè io doveva fare altra cossa che io non fei, che tutti son grandissimi servitor di Marzocho di parolle, et gra' merzè al capèllo,[706] di Castricar et di Modigliana et Maradi; chè vedreben la fedelità dove sta. Un dì serò con la Signoria vostra, et vi conterrò cosse e faròvi tocar con mano che vi farò spantare, che non le uso iscrivere; chè io ho servito in questo mondo qualche re et dui pontifici, come la Signoria vostra sa, et non li scripsi mai, che non si degniassen di farmi far la risposta, et maxime in cosse che fusse in servitio de lor Santitate et di lor Signorie. Et di quante volte ho scripto a la exelsa Signoria et al Confalonieri mai ho hauto risposta, di uno ano et mezo che io sto con lor Signorie. Ma credo che sia l'usanza del paese cossì; [513] perciò non mi maraviglio. Io havevo promisso di non scriver di questa cossa, ma m'è stato forza di darne ragione a la Signoria vostra, che so mi ama et volmi bene. Non n'averia scripto per cossa nissuna a persona del mondo. El capitan di Castricarra passato è meglio informato che non so' io, et epso potrà dire el tutto a la Signoria vostra. Et credo che lorro non habino scripto di questa cossa a Fiorenze, perchè io apria el sacheto poi quando credessi avessino scripto niente.

A la parte che dite che io so' diventato parzial de l'arciprete, non voglio altro testimon si non el capitan di Castricara, che per infin al primo giorno li dissi, che serìa el meglio che si levassi e l'arciprete et alcuno altro di Romagnia; de li quali ne mandai la lista per ser Apardo mio cancilier a la exelsa Signoria; et tutti li Retori si acardara con me, che 'l si levaseno di Romagnia per alcuno anno; et uno ce ne costà che non bisognia mandarlo, el quale hè l'arciprete. Guardate si io l'erro parziale, che dite che io vo con li suoi seguaci. Chi l'à dicto a la Signoria vostra, ne mente falsamente per la gola, che io non praticavo con altri si non con uno vechio che si domanda Giorgio de la Golfaia, che pageria la metà de la roba sua et stare in pace. Et esso mi prestò uno lecto in che io dormissi.

A la parte di Macteo Facenda, fo intendere a la Signoria vostra, che v'à dicto la magior falsità del mondo; che da poi so' stato in Castricara, non è mai stato in su el tenitorio de' Fiorentini. Et ci àno rotto la testa al capitan di Castricarra et a me, che lo volessemo fidare per venire a parlare con epso noi a dire la ragion soia. Noi non l'aviem mai volsuto fare nè sentito mentovare: et trovavassi allora a Vagnio a cavallo. Et di questo ne serà bon testimonio el capitan di Castricara. Et perchè cogniosciate voi le tristitie di quelli che vogliono macular l'onore d'uno gentilomo, per ben che di queste cosse non me ne curro niente, ne starò al paragon dinanzi a Dio, non tanto a li homini del mondo: chè dice il proverbio: Piscia chiaro et incacane el medico. Chè ho ancora le strutione che V. S. mi dè già uno ano et mezo fa, et olle in el core et entro la testa: cioè, che mi disse che io non volessi mangiare mai in cassa di capo di parte, et che non volessi pigliare amicitia con esbanditi che haveseno bando del capo, et ribelli della Signoria. È ben verro che in questo tempo ne ho parlato a dui [514] o a tre, che l'ò fidati, solamente che mi veniseno a parlare, perchè m'avevano promisso di farmi havere de li altri inele mane. De li tre me n'è riuscito uno bene.

Preterea. la nocte che arivai a la rocha che veni di Fiorenzola, subito el sepeno a Castricarro; donde c'andò questo Francisco del Bello, et havisò o fe' avisare a Macteo Facenda, che stava in la pieve de l'Arciprete, come io erra in paesse, che s'andassi con Dio. Donde colui subito cavalcò et misesi in via. Donde che 'l diavolo l'aitò, che in questo tenpo lui si scontrò con parechi cavalli di Bartolomeo Moratini inimico suo che sta in Forlì; de che li deno la cacia per infin a Bagnio a Cavallo; et scapò per ugnia di cavallo. De che non caveria del capo a Mateo Facenda che costui non l'avesse facto a posta: de che recercha el dicto Mateo Facenda de far dispiacere a Francesco del Bello, credendo habi facto ispia a Bartolomeo Moratini. Come hai saputo tute queste cosse, don Michele? Io vi dirò: Uno povero homo, parente di Mateo Facenda, parlando con epso meco, me dise questa cossa, come Mateo Facenda haveva questo malo animo verso di costui. Di che me n'andai al Capitano di Castricara, et conta'li questa cossa. Di che mi contò punto per punto come erra verro, che l'aveva saputo ancorra lui; et così avisàno che si guardassi el dicto Francesco Del Bello. Queste sono le parte che tengo io: si vi pare che sieno parte, giudichelo V. S.

A la parte che V. S. me avisa d'una vignia ch'è d'Anton Corsini, vi rispondo, che è ben vero che Feragan di Castricare viene uno balestier de li mei, solo lui et el figliolo, et pregollo che volesse venire con lui a vendemiar una vignia, la qual vignia erra d'Anton Iacomini; et che certi sbanditi non ce la lasavan vendemiar. De che questo balestier, esendo stato servitore d'Anton Iacomini, andò con el decto figliol de Feragano (Como sai tu questo don Michele?). Costor si partiro al serar de le porte, et la matina, come viene el giorno, viene uno compagnio del dicto balestrieri, et dicemi: — El tal se n'è fugito, che se n'andò iersera, et non hè più tornato qua. — Di che io mi levai con furia de lecto, venendo con meco molta gente; et così scontrai Feragan. Disemi: — Come andate così, Signore, infuriato? — Dico: — Ogni dì mi fa un tristo una burla. Me n'è fugito uno balestrieri de li mei. Giuradìo, si qualcun [515] me ne capita per le mani, le mecterò questa spada a mezo del core, a ciò che sia sperientia a li altri. — Disemi Feragan: — Non aviate malinconia, ch'è ito a vendemiar una vignia d'Anton Iacomini con el mio figliolo, che certi sbanditi non la volevan che la vendemiasse. — Dissi allora io: — Come andare di nocte di fora de la terra, senza licentia mia? Al nome di Dio sia. — Como tornò, ogni omo sa la penitentia ch'ebe di questo et de l'altre cose triste che lui à facto. Come dite che io cerchi di sadisfar questa cossa? Io ne so' inocente. Feragan viene ogni giorno in Fiorenze, fatelo pigliare et sadisfar a messer Anton Corsini; o vengami una lectera da li Signori Octo, et vederà se io li farò pagare più che non ha pigliato el vino due volte: chè di questa cossa io ne so' inocente, che non credo che habi condutiero la excelsa Signorìa, che li vogli meglio che io a messer Anton Corsini. Che si io l'avessi saputo allorra, ce l'averei caciato de li ochi: ma Feragan mi disse che era d'Anton Iacomini. Fatemi venire uno minimo cenno de li Signori Octo, et vederete si lo farò sadisfare. Io non voglio mandare la lectera a homo del mondo, si non quando sarò a Castricara, che ci serò presto. Manderò per don Nichola, et serà con epso meco; et io serò con el capitano di Castricara; et vederemo achetar questa cossa per modo ch'abi bon fine. Ma si doveria, quando Feragan viene in Fiorenze, che ci viene spesso, farlo pigliare et punirlo molto bene, a ciò che fusse exemplo a li altri, che non andasseno asasinare a questo modo. Et di quanto scrivo a la Signorìa vostra ne voglio esse' al paragon di Dio et delli homini del mondo, che io so' gentilomo et naqui gentilomo, che non fo cossa che non sia ben facta et chiarra. Et quando V. S. sa niente di queste cosse, prego a V. S. si degni iscrivermi et rispondermi a le lectere che io mando a V. S., che io li scriverìa d'ogni cossa quando credessi che la Signorìa vostra mi rispondessi.

Data in Fiorenzola à di 15 di setembre.

Di V. S. più che servo
don Michel de Orella
man propia.[707]

[516]

Non altro si no che Cristo conservia V. S. in quello stato che epsa medesima vole et che voria per la mia vita propio.

Al Magnifico messer Nicholò Machiavelli

secretario de li Magnifici

Signori Novi.... mio honorando

in Fiorenze.[708]

2 Lettera di Pietro Corella al Machiavelli. — Pisa.[709]

Yhs.

Mangificho singior mio. Già ripieno di molte et molte cose, et pure stavo a vedere altri avese a dirne et anche operarne, sequndo la ragione voleva, per esere io persona pocha disiderosa del malle di nissuno. Ora, forzato ad non potere più soportare, fastidioso di abundanzia d'ochasione, m'è parso scriverne alla Signoria vostra la vita del mio capitano di bandiera, et quello ultimamente à fato qui, sollo perlla frega et ribalderia di venirsene a chasa, ma al pigliare danari prontisimo per fare le sue vetine,[710] o volete orcie et enbrici, et non farsi un paio di calze per suo logoro. Et benchè di tuto saria fastidioso darvi ragualgio, non mi distenderò tropo oltre, se non in qualche coseta, et del tuto dal mio cancieliere sarete più a pieno informato.

La Signoria vostra sa che io veni a Firenze, et non fui partito [517] di qui di dua dì, lasandolli charicho della compangia, che lui andò da' comesari et domandolli licienzia per venirsene a chasa a vedere l'amorosa, sanza considerazione della mia partita o di nulla, come un bue sciagurato che lui è. Dove e' mia comesari li diseno tanta vilania che non si direbe a un asino, et chaciònnollo[711] via; trovando squsa aveva un angio,[712] che, quando fuse stato con la candella alla bocha, doveva aspetare a me. Et stetesi qui sbrachato, come credo vedrete che così va sempre, et scalzo come un proprio orciaio. Io gunsi qui da Firenze; subito giunto mi domandò licenzia che voleva venirsene a chasa. Io sì lli risposi, che servisi et poi se ne venise. Lui sì mi dise, che non lo farebe Dio, che lui non venise a chasa. Io sì mi isteti ceto. Et sanza dirmi altro si partì, et andosene 'Anziano[713] a una fornacie del fratello, et lì se stete tre dì, et tornosene ridendo. Quando io lo vidi, lo riprisi, et lui trovò la squsa del da pocho, et io me ne pasai di legiere. Ora, ogi che n'abiamo sedici del presente mese di lulgio, esendo io in casa, costui con uno altro da Santa Maria Inpruneta, se ne venne da me furioso, e contòmi aveva roto il viso et la testa a uno Pistolese sopra cierta merchatantia d'enbrici et d'orcie: che se mi desiderate fare grazia, fatevi contare la mocichoneria sua, et la poltroneria che usò et superchieria, che lui medesimo se ne aqusa come da pocho, contandollo. Et vene da me, et bravava che aveva fato arotare lo spiede per far malle, et che era usato stare sempre in costione[714] et in guerra, et che poi che ebe la bandiera era divenuto frate.[715] Et domandomi consilgio della ribalderia aveva fata; di modo li disi si ritraese et lasasi fare a me. Et subito e' comesari mandonno per me; et io con quelle parolle si convenivano risposi a loro Singiorie; et che loro Singiorie intendesino l'una parte et l'altra, che io non vole o se non quello era ragione; et che chi erava fusi punito. El pover omo con lla testa rota et col viso enfiato, et è una persona da bene. Così mi parti' da comisari, [518] et quasi mezo li plachai, aspetando riducere ongi cosa a buono fine.

El mio buono capitano di bandiera, senza dirmi altra cosa alcuna, la sera se n'era ito et aveva preso la bandiera, et aveva ordine, la matina, venirsene con Dio, con esa,[716] et lasarmi come una bestia. Et davami a intendere starsi in casa el singiore Bandino, tanto la cosa si pasasi. Ora, come la Singioria vostra sa, ci è chi acusa tuta via le cose. Io fui informato di tuto; et subito rinveni la bandiera et portamella a chasa, come quello che l'ò a tenere apreso di me, et che n'ò avere qustodia, et riputarmi onore et disonore a me più che a nisuno altro. El buon omo intendendo quisto, ebe a dire che io avevo saputo più che lui: et che volse fare la cosa el dì, et non aspetare la sera: et che el diavollo l'aveva inganato; et che la bandiera era sua, et che la bandiera era sua, et che la voleva portare dove li pareva sanza licenzia di Cristo et d'omo del mondo; et io ci ero per una bestia.

Insoma la sequente matina l'amico Calcangio, sanza altra licenzia o altro, et così el suo compangio et e' se n'è venuto costi. M'è parso darvene aviso, a ciò che, se costi verà, la Singioria vostra di tuto sia informata. Et se ragualgio più a minuto volesi dare a quella, come bisongiando darò a lui sciagurato, et dinanzi a' mia Singiori et di chi bisongierà, come sanza màqulla nisuna di malivolenza che con lui abia, ma per la verità, come in me sempre troverete et non altrimenti, come publicho sa tuta la conpangia: chè non è omo che non l'abia più in odio che el malle del capo, et che non li volgia malle di morte. Misero come un pidochio, che avendo a entrare in Pisa, entrò con uno paro di calze rote fracide; che più di venti ributi li feci di dete calze, ma lui la vinse che entrò con ese. Et parlate con eso lui, none stima Cristo; et che non laserebbe di dare et di fare. Per e' mia Singiori non è nè per Cristo. Publicho trenta volte l'à dito qui et in champo.

Sa bene lui, el ribaldo, che inanzi pigliasi danari, li disi a lui et a tuti, che chi non facieva pensiero di stare qui, non tochase danari. Ma lui, per lla codigia[717] ribalda di quelli denari [519] della paga intera che l'ebe, li parevano asai, la pigliò, la qualle non facendongiene ristituire, si farà gran malle, benchè quelle sono padroni. Et perchè quella a pieno sapia l'animo mio, arò caro, e' mia Singiori, parendo a quella, sentino la presente letera et siano informati di quello io scrivo: et fóne una a loro Singiorie, che, capitando costì el mio capitano di bandiera, loro intenderanno dalla Singioria vostra el tuto, none scrivendo a loro Singiorie tanto lungo, per non esere proliscio. Sì che, bisongiando o parendo a quella di darla a loro Singiorie, quella per mio amore lo farà.

Pregando la Singioria vostra si richordi di me, et quanto più bene mi farà, serà a uno suo bono servitore; et che di continovo farò pregare Idio per quella, alla mia brigata sopra tute l'altre. Dicendovi che molto milgiore omo et più da bene istante ci è, che potrà portare questa bandiera, quando quelli voranno. Et se a me non si darà fede, troverete et tocherete con mano che ciò che io dicho sarà l'Evangiellio; et al tempo lo vedrete et sarete informato quando a questo s'abia a venire. Et non per nimicizia ma per verità ciò che io parllo: se non Dio non mi aiuti a me. Altro non achade. Son sempre parato a ubidire quella come buono servitore, pregando Idio vi conservi in sanità.

In Pisa, die diciasete di lulgio. M. P.[718]

Della S.ia vostra ubidiente
Servo
Pietro Liberio Corella
conestavolle.

Se m'avesi ciesto licienzia lo lasavo venire, et con la bandiera et con ciò che voleva. Sapia quella, che de' compangi n'ò più che io non volgio; et ònne qui dieci de l'Ordinanza che aspetano d'avere lugo,[719] et sonsi molto ben vestiti.

Spectabilis (sic) viro Nicolò Machiavelli

patrone mio onorando, in

Fiorenza.

[520]

DOCUMENTO VI. (Pag. 106)

1 Lettera del Commissario Filippo Casavecchia al Machiavelli. Barga, 17 giugno 1509.[720]

Magnifice vir et maior frater honorande, salute, etc. — Io credo, carissimo mio, che adpresso di voi abbi adquistato nome di negrigente hovero stracurato ho di qualche altra cattiva cosaccia, respecto ad lo avermi voi scriptto più giorni sono quando le cose erono dubie, che in verità ne ebbi grandissimo piaciere. Et per due vi feci risposta: l'uno non vi trovò mai, l'altro dicie che vi vide al Ponte ad Era con Alamanno et con li imbasciadori pisani, et non li bastò l'animo di apresantarvi la mia. Pertanto mi rendo cierto, queste iustificationi doveranno esere ad bastanza nel cospecto vostro; et basti.

Mille buon pro vi faccia del grandissimo adquisto di cotesta nobile città, che veramente si può dire ne sia suto cagione la persona vostra in grandissima parte: non però per questo biasimando nessuno di cotesti nobilissimi comissari, nè di prudentia nè etiam di solecitudine. Et benchè io ne abia preso un conforto mirabile, et pianto et stramazato et factte tutte quelle cose che fanno li uomini composti et rifatti di pecore vechie, tamen, avendo dipoi ripreso vigore la ragione, ne sto con grandissima gelosia, et non posso per nesun modo pensare nè esermi capace che le cose gravi non corrino al centro, et le cose subtili ad la superficie.

Nicolò, questo è un tempo che, se mai si fu savio, bisongnia eser ora. La vostra filosofia non credo che abbi a eser mai capacie a' pazzi; e' savi non son tanti che bastino. Voi m'intendete, benchè non abbi sì bello porgere. Ongni indì vi scopro el maggiore profeta che avessino mai li Ebrei o altra generatione. Nicolò, Nicolò, in verità vi dico che io non posso dire [521] quello vorrei. Però siate contento, per quella buona amicitia auta insieme, non vi paia fatica per giorni quatro venirvi ad stare con esso meco. Oltre al ragionamento nostro, vi serbo un fossato pieno di trote et un vino no mai più beuto.[721] Questo mi sarà un piaciere che mi farà dimenticare tutti li altri. De! Nicolò mio, compiacietemi in questo utimo solamente per dì 4; significandovi che non venendo sarete cagione che viverò malcontento. Questa non è però sì gran cosa che io non meriti el non eser compiaciuto. O meriti honnò, io vi pongo questa talglia. E verete in un giorno, perchè non ci è se non 26 milglia piana. Et avisatemi del quando, et disponetevi di consolarmi, perchè non venendo, mi metterei ad venire ad trovar voi; et sarebbe la ruina mia, perchè le leggie non mi promettono[722] di potermi partire della provincia, sotto la pena di fiorini 500, et basti. Non vi dirò altro. Ricomandatemi a l'angelico comessario Nicolò Capponi; et diteli che non à facto quello li scripsi, ma che lui sarà el primo ad pentersene, e basti. Bene valete.

Ex Barga. die xvii iunii mdviiij.

Philippus de Casavet.
Comissarius.

Spectabili viro domino Nicolò Machiavelli

dignissimo Comessario in

Pisa honorando. In Pisa o in

Firenze.

[522]

2 Lettera di A. Salviati al Machiavelli. — Pisa, 4 ottobre 1509[723].

Yhs.

Carissimo Nicolò. Io ho la tua sutami carissima, maxime che vegho ti sono nel cuore, perchè spesso ti ricordi di me: di che ti resto obligatissimo. E per essa ho visto in che ordine si truova Padova e di dentro e di fuori, che assai m'è piaciuto. Il discorso tuo è bellissimo; quale io ho mostro a questi signori condottieri e signori Consoli, quia omnes homines scire desiderant; e da tutti è stato assai conmendato. Io non lo posso nè aprobare nè riprobare, perchè qui siamo suti abandonati dal padre e dalla madre e da tutti e' parenti et amici: perchè non intendiamo cosa alcuna, salvo da qualche smarrito che vengha al campo di 15 giorni o uno mese: e però male ne possiamo fare qui iuditio, non intendendo qualche particulare come voi costì qualche volta intendete. Io ho bene qualche volta domandato questi signori condottieri che iudicio faccino della expugniatione de Padova; quali unitamente s'achordono, che per forza Padova non si possa perdere, assegnandone buone ragioni. In modo che, prestando loro fede, io inclinerei a quella oppinione volentieri. Ma me ne ritrae alquanto lo essere fratescho, che volentieri mi haderischo a tale oppinione, maxime vedendone e' subcessi im buona parte. E ci s'arogie il vedere e' tempi disposti totalmente contro ad essi Venetiani, adeo che credo sia cosa miracolosa più presto che naturale. Quomodocunque sit, credo che l'officio nostro sia più presto ricorrere a Idio, e pregharlo che lasci seguire il meglio, che poterne fare altro iuditio; anchora che io non sappia come questa conclusione t'abbia molto a satisfare, non perchè io creda che tu manchi di fede, ma sono certo non te n'avanza molta. Ricordovi bene, fate ogni diligentia di mantenere insieme [523] il Cristianissimo, la Santità di Nostro Signore e il Cattolico; et advertite che una desperatione non facessi fare di quelle cose a qualcuno, di che nascessi la totale rovina di Italia; che quello exercito franzese non resti totalmente a discretione d'altri, che importerebbe troppo. Io harò caro haverti satisfatto, e in quello che io manchassi lascerò suplire al mio dottore. Ricordati sono tuo et a te mi rachomando. Idio ti guardi.

In Pisa a' dì iiijº d'ottobre 1509.

tuo Alamanno Salviati Capitano.

Al mio caro Nicolò Machiavelli in

Firenze.

DOCUMENTO VII. (Pag. 120)

LETTERE DI AMICI AL MACHIAVELLI, SCRITTE NEGLI ANNI 1509-1510.

1 Lettera di B. Buonaccorsi al Machiavelli. Firenze, 20 novembre 1509.[724]

Niccolò honorando. — Io riceve' la vostra de' 18 da Mantova, et intendo la suspensione dello animo vostro, etc.: di che mi maraviglio, havendo havuto alle mani altre cure di molto maggiore importantia, et ad pigliare partiti più periculosi che andare fino ad Verona. Bisogna, se mai usasti diligentia in advisare, lo facciate hora ad volere «turare la bocca a le pancaccie. Feci la anbasciata al Gonfaloniere: respose atendessi ad scrivere solecitamente.»[725] Hoggi andrò ad trovare l'amico [524] che ha mandato per me, et farò el bisogno. Nuove non ci sono, che tutte dependono di costà. Fecionsi tutti e' Nove, così quelli cinque che mancavono come li altri 4 che hanno ad intrare ad gennaio. Hanno di già casso Francesco da Cortona, che è stato buona spesa. Non altro.

Florentiae, die xx novembris 1509.

Quem nosti.

Nicolao Maclavello secretario florentino,

in Verona o dove sia.

2 Lettera di B. Buonaccorsi al Machiavelli. Firenze, 30 novembre 1509.[726]

Niccolò honorando. Io vi scripsi pochi dì sono brevemente, perchè non ci era cosa alcuna di nuovo da darvene adviso, et manco ci è di presente. Sì che, in questo caso, se alhora fu' breve, hora sarò brevissimo ec.[727].... Et benchè molti chiachieroni cavassino fuora che fusti stato..., non è vero nulla.... Dio voglia.... Dixivi anchora come havevo visitato l'amico et datoli uno ducato, el quale mi ha renduto Francesco del Nero, perchè ne havevo necessità. Et li dixi havervi mandato certe zachere mi havevi chiesto. Sonvi ritornato dipoi. Hollo trovato che il male di che dubitava era chiaro, et voleva ire ad Prato in casa lo amico. Havevasi tagliato e capelli. Non so come si farà che bisogna patientia, et qui non è punto: et chi ne vuol guarire presto ne guarisce più tardi. Èlli advenuto quello mi ho sempre pensato. Attendete ad scrivere nuove assai, et fareteci piacere. Non attro. A voi mi raccomando.

Florentiae, die 30 novembris 1509.

Quem nosti.

El libro riharò hoggi et renderollo ec.[728]

Nicolao Maclavello secretario florentino

tanquam fratri honorando,

in Verona.

[525]

3 Lettera di Francesco del Nero al Machiavelli. Firenze, 22 novembre 1509[729].

Al nome di Dio, addì xxii di novembre 1509.

Nicolò carissimo. Io ò la vostra de' dì xviij, et per quella intendo quanto dite che tutto si farà nel modo scrivete. A Totto Machiavelli scrissi apunto nel modo avixate. Messer Giovanvettorio non si risolveva, però ò fatto scrivere a messer Antonio [526] circha alla causa principale; et in la incompetentia scrisse anchora messer Antonio, et messer Giovanvettorio m'à promisso di soscrivere. Oggi ò avere da messer Giovanvettorio soscritta la incompetenzia, et da messer Antonio la cauxa principale; et subito la farò soscrivere a li altri advocati vostri, et manderolle a posta a messer Antonio, chome ne ordinasti. Da me non si mancha di sollecitarla, di modo sono più ripreso d'importunità che di negligentia; che ogni dì sono quatro volte almancho al palagio del potestà. Achordo non ci spero alchuno, perchè non ò mai intexo cosa alchuna. Andai al magnifico Gonfaloniere, richordandogli la causa vostra, et chome io era procuratore a potere obligarvi: quando gl'intendessi cosa alchuna, sua Magnificentia si degnassi farmelo intendere. Dissemi che Francesco del Pugliese gli aveva a rispondere; et che manderebbe per me quando avessi nulla. Io, chome v'ò detto, con ogni favore, diligentia et sollecitudine attendo a questa vostra causa; et oggi mando al giudice messer Francesco Nelli et Piero; et quando il giudice arà la causa principale, vi manderò e' parenti et amici vostri et ser Giuliano. Io scrissi in vostro nome et feci scrivere da Giovanbatista Soderini a Monsignore Reverendissimo; et detti a ser Filippo del Morello ducato uno, et di mano in mano lo terrò contento. Giovanni [527] Ughuccioni mi disse, il conto nostro esser del pari et che non aveva denari: però mi sono fatto servire de' denari ò auti di bixogno da L.º Machiavelli. À mostrato di farlo volentieri. Non giudicherei fussi fuori di proposito voi gli scrivessi un verso, ringratiandolo; et inoltre, perchè io non so chome mi bixognerà spendere, dirgli che quello m'achade me ne serva; lui ne à posto debitore voi. Se io potrò avere quelli da Giovanni Ughuccioni, non bixognerà gli dia noia. Col priore si farà quanto scrivete; et quanto io abbia da dirvi circha al piato, lo farò sempre. Sono a' chomandi vostri.

Franc.º del N.º in Firenze.

Egregio viro Nicolao Maclavello Segretario

dignissimo apud Maximianum.

DOCUMENTO VIII. (Pag. 125)

1 Lettera del Gonfaloniere Pietro Soderini al Machiavelli. Firenze, 27 giugno 1510.[730]

Niccolò carissimo, etc. Ci è parso farvi questi versi, per allargare più il [tem]po del signor Mar. Antonio,[731] il quale, come sapete, finì la condocta sua a dì XV di maggio; et essendo stato raffermo, non ha voluto acceptare, ma voleva crescere in condocta o in titolo; il che non è stato consentito, per non parere tempo adesso nè a l'una nè a l'altra cosa. Onde havendo lui forse qualche practica, existimando fare meglio e' facti suoi, dixe qua a noi, essersi acconcio con il Re de' Romani, [528] ma che haveva tempo ad ratificare tucto il mese di giugno presente: et domandò qui uno mese di tempo ad levarsi, et così li furono conceduti li alloggiamenti gratis. Doppo il quale tempo si ritirò in quello di Luccha, in sulla campagna; et pare sia stato alloggiato in uno castagneto. Hora, da due giorni in qua, si è levato voce, per lettere di Roma, lui essere acconcio colla Chiesa, «et che debbi fare cinquecento fanti, et altri cinquecento se ne truova facti a Roma, sotto due connestaboli; et si dice si coniungeranno con lui. Ove si habbi ad andare et quello si habbi ad fare non s'intende dicerto. Alcuni dicono, per la guardia di Bologna; alcuni altri per andare contro al Duca o ad Vinegia in favore de' Vinitiani. Puossi ancora dubitare che queste cose non si faccino per li affari di Genova; perchè si dice quella terra essere molto sospesa et sublevata, dopo la morte di messer Gian Luigi.»[732] Anchora è da considerare che «a Serazana si sono murati intorno a' fossi: dove si crede si sieno spesi quindici o 20 mila ducati; et vi è una forteza inexpugnabile. Et se detti fossi et fortificatione è fatta per ordine de Re, è da dubitare manco; ma se fussi facto per ordine de' Genovesi, è d'averne gran suspitione; perchè quello è uno ricetto inexpugnabile, et una porta da tenere il passo della Lombardia ad la Toscana, et havendo ad le spalle quali si vede che favoriscono tucte queste actioni et moti.»

Ci è parso significarvelo, «perchè ne advertiate Monsignore Aubertet, al quale di queste cose di Serezana facemo parlare più mesi sono d'Alexandro. Et ci pare questa cosa sia stata neglecta et straccurata. Recordateglielo per parte nostra et come cosa importantissima: che se v'entrassi messer Ottaviano Fregoso, non ne lo caverebbono per frecta.» Et vedete di porgere queste cose in maniera «che noi non ne riportiamo carico con altri,» come spesso suole intervenire. Et quando «conoscessi che fussi per resultarne carico d'altri, o le tacete o le fate intendere come da voi. Non mancate di ricordarli che tenghino bene le mani in capo a' Svizeri, et che intractenghino [529] lo 'mperadore.» Circa alle altre parte harete lettere dal publico; et a noi non occorre dire altro. Bene valete.

Ex Palatio Florentino, die xxx iunii 1510, raptim.[733]

Petrus de Soderinis
Vexillifer iustitiae perpetuus Populi Florentini.

Amico nostro carissimo [Nicolao]

Machiavello man[datario] Florentino

apud Christianissimam [Maiesta]tem

etc. [Incort]e del Re Christianissimo.

2 Lettera di Francesco Vettori al Machiavelli. Firenze, 3 agosto 1510.[734]

Compare mio charo. Io ho pregato Ruberto[735] che vi rimandi presto, perchè almeno, perdendo lui, rihabbia voi. E per questo siate chontento, poi che lui è giunto, tornarvene presto, che Filippo e io vi chiamiamo tutto dì, poi che vi partisti, chè fu il dì di San Giovanni, se bene ho inteso, che non c'ero. Sono stato del continuo malato, e ho creduto a ogni modo passare nell'altro mondo: pure, da 15 dì in quà, mi sono rihavuto in modo che hora sto bene. Ma intendo tante chose a un tratto, che m'agirano il cervello, perchè, havendo havuto male, non l'ho potute intendere dì per dì, chome hanno facto gl'altri. [530] E prima, Marchantonio Colonna, chon 150 chavalli e 500 fanti, esser ito, per ordine del Pontefice, a rivoltare Genova, et essersi chondocto là presso; et manchando di speranza, esser stato forzato a montare in su l'armata de' Venitiani, che girava là intorno, per questo medesimo effecto; havervi messo su qualche chavallo e parte della chompagnia, e 'l resto havere lasciato a discrezione. Io havevo Marcantonio, per relazione di molti, per huomo di gran iudicio e buon discorso, e molto cauto nelle imprese sue; nè mi posso persuadere qual sia stata sì potente causa che l'habbi chonstrecto chon sì pocha gente a mettere in pericolo la chompagnia, l'honore suo quale stimava tanto, e anchora la vita; perchè, se veniva in mano de' Franzesi, non credo l'havessino salvato. Lascerovi un pocho pensare anchora a voi, e alla tornata vostra ne parleremo.

Ma vegnamo al Pontefice, al quale non si può dire che, poi è in quel grado, il governo suo sia stato di matto; e in quello ha havuto a fare, pare sia ito anchora assai cautamente. Nondimeno pigla una guerra chol re di Francia, nè si vede per anchora che habbi in chompagnia altri che e' Venitiani, mezzi rovinati e disperati; e chomincia in modo a offendere il Re, da non doverne seguire pace presto. Perchè prima pigla come un ladro Monsignore d'Aus,[736] el quale el Re faceva dimostrazione stimare assai. Dipoi cercha, chon parole e chon fatti, farli ribellare Genova; e inanzi vi mandi armata o altro, publica per tutto che Genova si volterà, che non è se non dire al Re: Guardala. E poi che la prima volta non li è riuscito, dice volerla tentare la seconda. Assalta le chose del duca di Ferrara in Romagna, e per esser mal guardate, ne piglia parte. Restava la forteza di Luco che si bombardava: uscirono di Ferrara forse 605 chavalli franzesi, e al sol grido, tutte le gente del Papa si missono in fuga e lasciorono l'artiglerie; e' Franzesi ripresono tutte le terre che havevono prima tolto a Ferrara. In conclusione, io non intendo questo Papa, chome sia possibile che lui solo e' Venitiani voglin piglare la guerra contra a Francia. Dice G.i Chanacci che gli pare che 'l Papa habbi facto chome chi giuoca a fluxi o primiera, e vuole chacciare, e ha [531] facto del resto; et che il Re sta dubbio di tenerla, dicendo fra sè: Se lui non havessi buono, e' non legherebbe sì gran posta. Ma se il Re la tiene, che si chonoscerà, chome chomincia a muovere gaglardo contro a Bologna, el Papa alhora tenterà di farne achordo. E io vi dirò il vero: vorrei che il Re pigliassi Bologna, seguissi la victoria, chacciassi il Papa di Roma, e che uscissimo di lezii, e seguitassi poi quel che volessi.

Restaci hora a vedere, se il Papa ha lo Imperadore e Spagna chon lui, chome molti giudicono. Io mi potrei ingannare, ma credo di no. Credo bene che lo Imperadore, quando havessi e' pacti che lui volessi dal Papa, si volterebbe contro al Re, perchè ha il cervello chome sapete volto a non si fermare. Ma sarebbono tali et tanti, che il Papa rimarrebbe sanza denari, e dubiterebbe di non perdere la guerra chol Re, e se la vincessi, di non havere a temere più lo Imperadore che hora non fa il Re. Hispagna, sanza lo 'mperadore, li parrebbe esser debole chon esso: dubiterebbe che se vincessi, havere a perdere non solo il Reame ma la Chastigla e l'Aragonia, per le ragioni v'à su il nipote.

Compare, io ho facto conto parlare chon voi. E delle cose drento non vo' dir niente, perchè Ruberto vi raguaglerà. L'amico è nelle mani del bechaio, chome era alla partita vostra. Nè altro. A voi mi rachomando.

In F., a dì 3 d'agosto 1510.

Franc.º

Spectabili viro Nicolao de Maclavellis

Secretario florentino apud Christianissimum

Regem Francie.

DOCUMENTO IX. (Pag. 131)

Lettera di un amico a Niccolò Machiavelli. Firenze, 29 agosto 1510.[737]

Carissimo Nicolò. Questi di cancelleria non hanno paura d'una penna; ma l'harebbono bene d'un remo. Et se non ti hanno ragguagliato del termine in che si truovano tucte le cose [532] tue, è stato perchè nessuno vuole fare quello che non se li apartiene. Mogliata è qui, et è viva; e' figliuoli vanno al lor piede. Della casa non si è visto il fumo, et al Pertussino[738] sarà magra vindemia. Et questo è dove tu ti truovi. I'ò hoggi mandato duo volte per il nipote tuo. Non ci è venuto anchora: debbe forse essere fori alla villa. Domani farò di vederlo et li dirò il bisogno. La festa et questo subito spaccio ha facto che li 50 ducati non ti si sono potuti rimettere. Piglieronne il charico io. Et pensa che per la prima che si scriverrà a Lione, vi si scriverrà il bisogno. «Le tue lettere hanno facto di qua sbadigliare ogniuno, et pensa et ripensa, et poi non si fa nulla. Tu ci puoi vedere fino di costà, che si faccia et che si dica; et insomma noi siamo homini, che il caldo ci stempera et il freddo ci ranichia. Insomnia a noi ha a intervenire come a quelli di chi diceva Quintio[739] (sic): sine gratia, sine honore, premium victoris erimus. Questa chiesta delle genti ci conduce in loco dove forse ancora non si vede. Io per me la veglio farci scala a un altro apuntamento con grande iactura nostra, perchè noi manchiamo dell'obligo, et bisognerà ratoparlo forse con più panno che non saria stato tucta la vesta. Così interviene a chi non prevede. Et sare' bene che chi fu causa della partita di Marcantonio provedessi hora a questo disordine, il quale con molti altri nasce da quella lasciata. Ma gli è un bene, o per meglio dire, manco male, che se queste cose vanno avanti, noi faremo un brodecto d'ogni cosa. Io per me credo che gli arà a omni mo' a intervenire del Papa e della Chiesa, come intervenne di Venezia, che tanto pinse che vi entrò. Io non somiti dire altro.» Bene vale.

Florentie, die 29 augusti 1510.

Compater vester.[740]

«Non parlate con altri di questi mia ghiribizi.»

Spectabili viro Nicolò Machiavelli, ec.

[533]

DOCUMENTO X. (Pag. 131)

1 Lettera di Antonio della Valle al Machiavelli, Firenze, 5 agosto 1510.[741]

Egregie vir maior honorande, etc. Hiarsera vi si scripse in frecta, et non vi si potè significare quello che per la presente vi si dirà. Per altre havete inteso che la condotta di Marcantonio finì a mezzo maggio, et volendo lui o titolo o augumento di condocta, li fu negato, et per rispecto delli altri condoctieri, et «per i pagamenti che ne corrono ogni fiera a Lione, et per conto de' due Re, et per i donativi.» Essendoli denegato lo aumento et il titolo, lui, come quello che doveva havere prima practiche colla Santità del Papa, si gittò in quello di Luccha, nè mai s'intese di chi lui fussi soldato, se non quando il Papa ne richiese del passo per a Bologna, il quale passo per a Bologna fu conceduto. Volle di poi il Papa particolarmente intendere il cammino che aveva ad fare, et li fu risposto che era per la Valdinievole, per il contado di Pistoia, et per la via della Sambuca, che riescie ad Albergha et al Saxo, in quello di Bologna. Lui finxe di volere andare a campo a Massa de' Marchesi Malespini.

Questo secreto di volere andare alla impresa di Genova a noi non fu mai noto. «Ma dubitandone, lo amico nostro vi scripse et di questo et d'altro sino a' dì ventisei di giugno. Ma Lucchesi dovevano sapernelo intero, che ci feciono, avanti la partita di Marcantonio, minacciare dal Papa delle cose di Bargha; et bisognocci provedere quello luogho in buona forma.» Il cammino suo fu per il Lucchese, per le terre del Marchese di Massa, il quale non poteva obstare, et per i terreni di Serzana: dove, passato la Magra, se ne andò alla Spetie. Dipoi stemo più giorni non potemo havere lingua con verità del progresso suo. L'armata dei Vinitiani comparì in uno tracto, nè [534] mai se ne seppe niente, in modo che se noi non havamo provisto Livorno bene et Pisa, dove havamo messo per MD delle bandiere, il forte di Pescia et Sancto Miniato, non saremo stati senza grande pericolo. «Perchè, poichè l'armata fu passata, il Papa hebbe a dire che se non voltava Genova, verrebbono a Pisa et Livorno; et questo perchè, volendo mandare nuove fanterie drieto a Marcantonio, et richiedendone del passo (perchè venendo da Roma bisognava toccassino il dominio nostro), noi glielo negamo assolutamente, rispondendogli, che se noi havamo conceduto il passo a Marcantonio per a Bologna, lo havamo facto perchè reputavamo andassi per defensione delle cose della Chiesa; ma domandandolo per andare in Genovese, che era contro alle cose del re di Francia, nè per queste nè per altre gente non pensassi che noi havessimo a dare passo per quella via: et così li togliemo la facultà di potere rinfrescare Marcantonio di gente. Il quale Marcantonio se andava diricto alle porte di Genova senza fermarsi, et che l'armata si fussi presentata a una medesima hora,» vi diciamo «con certitudine che Genova voltava. Questo habbiamo da persona prudente, amicissimo nostro, che era in sul luogho.»

Questo vi si significa non per «esaltare le cose di Marcantonio o del Papa, ma perchè voi advertiate il re di Francia et Robertet del pericolo che si è portato; acciò che si provegha per una altra volta, confortandoli ad fare quelli provedimenti» che habbino ad «tenere ferma quella terra,» che bisognano «grandi, mentre che il Papa sta in questa fantasia.» Et il più «importante provedimento che si possa fare,» come per la agiunta hiarsera vi si scripse, «è mandarvi subito uno nuovo governatore, il quale sia» buono et prudente, et sia per tenervi le fanterie che sono pagate da quella terra, «et per non fare di quelle cose che» vi si fanno. Et se non fussi una singulare affectione che noi portiamo al re di Francia, non si metterebbe la falcie nella biada d'altri. Ma li vogliamo havere facto intendere quello che forse non hanno inteso da altri: del governatore passato Genovesi si laudano, «et vorrebbe essere» lui o uno altro simile a lui, che fussi per administrare iustitia. Et ricordate faccino presto. Se piace al Re di Francia et Roberthet, lo tenghino secreto, per [535] non nuocere ad altri sanza proficto alcuno. «Ma se ricercheranno, troveranno questa essere la verità.»

Nel ritornarsene, Marcantonio mandò qui a domandare il passo, et essendoli negato, si misse ad imbarcarsi. Di quelle poche gente haveva Marcantonio a cavallo, imbarchò cavalli buoni da 120 in 130; delli altri ne venderono una parte, 2 o 3 ducati l'uno. Et avendo cominciato ad amazzare quelli che avanzavano, domandandoli in dono alcuni fanti, li donò loro. De' quali, quelli che sono arrivati nel dominio nostro sono stati tucti isvaligiati; benchè fussino ronzini deboli et di pocha qualità. Èssi inteso che il signor Mutio ne ha recuperati qualche uno, come per altra vi si è scripto. Marcantonio per mare isboccò a Porto Baratto,[742] et alla vista della armata franzese, si levò et andossene in quello di Siena sotto Massa, a uno luogho decto Pecora vecchia. Lui per staffecta se n'è andato a Roma, «donde s'intende che il Papa sta in opinione volere rifare la impresa di Genova.»

Il capitano delle galee vinitiane che sono a Civitavecchia si trova a Roma, «et dice aspectare altri legni per decta impresa di Genova, dove dice che hanno ad calare e' Svizeri per la via di Savoia et di Savona, de' quali il Papa haveva chiesti semila. Loro hanno decto che volevano essere octo mila, et ultimamente hanno facto intendere che vogliono essere diecimila almeno. Et il Papa si dice havere mandato là il danaro per altanti.» Se è vero o no, di costà se ne debba havere più certa notitia. Questo è «quanto a Marcantonio et alle cose di Genova.» Quanto alla causa del non havere dato «notitia a buona hora» etc., quello che si potè indovinare si scripse sino al tempo di Alexandro Nasi et a Francesco Pandolfini, apresso il quale ne può essere testimone. Ma si scriveva per coniectura. Quando si sarebbe potuto, «il Papa non ha lasciato venire li advisi prima da Roma, et dipoi da Bologna.»

Circa alla causa perchè lo oratore non è stato in Corte, se ne può assegnare molte. Prima Alexandro era stato di costà più di due anni, et desiderava extremamente tornare; et se cotesta [536] Maestà non se ne contentava, stava a lei il dargli licentia. Lui, sanza licentia di costà, non sarebbe tornato. Et di qua si scontrarono le electioni qualificate ad non fare sì lungho viaggio. Venne di poi la electione di Ruberto Acciaiuoli, il quale per non essere di molto gagliarda complexione, non è potuto venire in questi caldi; ma infra due giorni partirà infallanter; «et non ci è stato artificio di alcuna ragione.» Questa cosa adunche «non debba ombreggiare,» essendovi «maxime stato voi che sete secretario della Signoria,» et per altri tempi «vi conoscono.» Qui non è stato «mai huomo che habbi pensato di partirsi dalle obligationi» etc., se non fussimo «in modo forzati che non havessimo rimedio.» Et quando questo si pensassi fare «da altri, doverrà Sua Maestà ancora lei provedere che noi possiamo persistere in fede,» come è «lo animo nostro. Et a' casi di Roberthet» si è pensato, et dato tale ordine «a Ruberto, che Sua Signoria vedrà» che non ha avuto «da dubitare della fede di qua di persona;» perchè noi «ci guardiamo dallo intromettere. Quando le promesse sono facte, non troverranno nel mondo una fede tanto stabile et tanto ferma quanto quella di qua.» Non si è differito di dare ordine «alli affari suoi per stare ad vedere quello che segue» etc. Perchè havendo una volta «fermo di stare in confederatione con il Re di Francia,» sappiamo molto bene quanto tempo è che «Roberthet è stato il primo secretario, et prima del Re Carlo, et dipoi di cotesta Maestà. Conosciamo la prudentia sua, la pratica grande che ha di cotesti maneggi, lo ingegno elevato che ha, et la cognitione che tiene delle cose di Italia;» et finaliter «quanto sia amato da cotesta Maestà.» Et però, non sia alcuno che existimi che noi habbiamo «immaginato o sognato non che pensato, che la auctorità sua non vengha a crescere in dies, perchè così meritano le sue virtù; et» così è desiderato grandemente da noi. Et però, chi havessi «pensato simile cose, si sarebbe partito molto dalla verità.» È parso di honorare Ruberto nel venire suo, che porti «la mente et ordine di quello che si ha ad fare verso Roberthet.» Et così seguirà et sarà cosa che «lui riconoscerà la fede di ciascheduno di qua, et basti.»

Restami ad farvi intendere che «indebitamente è stato dato carico a Monsignore di Volterra, che lui sia venuto dal canto [537] di qua per operare che la Città si dispongha alla voglia del Papa. Chiamiamo Idio in testimone che questa opinion è falsissima, perchè nè lui enterrebbe in maneggio che tornassi contro S. Maestà, et qui non ne sarebbe udito.» Certificandovi che «S. Santità nuovamente lo chiama, forse per dubio che lui non pigli qualche altro cammino» etc. Fate fede di costà della verità, «chè certo le opere sue non meritano queste sinistre opinioni. Lui partì da Roma indispostissimo, macilento che non si reggeva a cavallo, et però in lettiera venne dal canto di qua, dove si è sempre stato in Casentino et in Mugello, nè qui è mai comparso, per non trovarsi in dispositione da potere negotiare. Pure speriamo in Dio che il male terminerà presto.» Vorremo che di costà si credessi che «lui non pensò mai di fare cosa che tornassi dishonore o damno a S. Maestà, ma sì bene utilità et honore.» Et sempre che «lui lo possa fare sanza incorrere nella indignatione di S. Santità, non porta huomo cappello in testa che lo facci più francamente et più volentieri.» Se sarà creduto così, sarà creduto la verità, sin minus, «harà patientia, seguiterà di fare bene, sperando che se non lo conosceranno li huomini, non mancherà di conoscerlo quello che vede tucto.» Et quelle verità che non appariscono in uno tempo, non mancha che si manifestano in uno altro. Non «fu mai più bella cosa. Noi dal Papa siamo tenuti franzesi naturali et stiecti;» et per questo «si è pensato da S. Santità delle cose che non sono state nè belle nè buone per noi: et i Franzesi dubitano della fede nostra.»

Questo ho voluto scrivervi per satisfare a me medesimo; «et perchè ne diciate di costà tucto a parte, secondo vi parrà conveniente. Tucto reputate scriptovi dallo amico nostro et così l'usate.» La brigata vostra sta bene. Scrivetele che, bisognando cosa che io possi, facci mecho con ogni sicurtà. Et bene valete. In frecta.

Ex Florentia, die vta augusti mdx.

Vester Antonius Iohannis della Valle.
notarius etc.

[538]

2 Lettera di Roberto Acciaiuoli al Machiavelli. Blois, 10 ottobre 1510.[743]

Compare carissimo. Io vi scripsi vj giorni sono. Di poi, come per le publiche vedete, el favore che si chiese «al Re, per havere uno condoctiere si mette di qua a entrata, perchè solicitato da qualcheuno desidera si tolga messere Teodoro.[744] Et voi, hora che non havete più paura, non vi ricordate di quello si richiese al Re, che fu di potere trarre col suo favore uno condoctiere di Lombardia. Lui ve l'ha dato, et voi lo lasciate in secco. Et però non vi maravigliate se voi non siate adoperati ad nulla. Voi vorresti uno che non dependessi nè da Francia nè dal Papa nè da Spagna nè da' Vinitiani nè da lo Imperadore. Mandate pel Soffi o al Turco per un bascià, o pel Tamburlano: che vi venga,» dice Monsignore di Cattro foys, «el canchero.»[745] E vi ricordo messer Hercole, che 'l fare et non fare non sta insieme. Il volere consiglio et favore di qua, et chiederlo et non lo acceptare, non sta insieme. Io vi dico che se «voi non torrete qualche uno di Lombardia, voi resterete in mala gratia, perchè io so che 'l Re ha dato intentione che voi torrete messere Teodoro.»[746] Fatelo intendere a chi vi pare, et uscite di questa pratica, che non pare si possa far niente, senza mala gratia et dispiacere di tutto el mondo. Altro non accadendo, mi raccomanderete alla Excellentia del Gonfaloniere, et li amici. Valete.

Ex Blesis. Die x octobris mdx.

Manum agnoscis.

Spectabili viro Niccolao Maclavello,

Secretario excelsi Populi Fiorentini

[compatri] carissmo, in Florentia.

[539]

DOCUMENTO XI. (Pag. 134)

Lettera di Biagio Bonaccorsi a Niccolò Machiavelli. Firenze, 22 agosto 1510.[747]

Niccolò, io vi ho scritto hoggi uno verso, dictante D. Mar.,[748] come vedrete. Et se io non vi ho scripto et non vi scriverrò, non ve ne maravigliate, chè li tanti affanni in che mi truovo mi cavono del cervello. Come sapete, la mia donna era malata al partire vostro; et finalmente mi è stata lasciata per morta da ogniuno, et se Dio non mi porge la sua gratia, non la troverrete viva. Et sono condocto ad tal termine che io desidero più la morte che la vita, non vedendo spiraglio alcuno alla salute mia, mancandomi lei. Spendo ogni dì poco meno d'uno fiorino; et così rimarrò abandonato sanza compagnia et sanza roba. Non altro; raccontandomi a voi; et pregate Dio vi dia migliore fortuna che non fa a me, che forse lo merito più di voi.

Florentiae, die xxii augusti 1510.

Vester Blasius.

Nicolao Maclavello secretario florentino

suo plurime honorando. In

corte del Christianissimo Re.

DOCUMENTO XII.[749] (Pag. 137)

Sentenza degli Otto di Guardia e Balia contro Filippo Strozzi, per aver preso in moglie Clarice figlia di Piero de' Medici, ribelle.

Die 16 ianuarii 1508/9.

Magnifici Octo viri Custodie et balie civitatis Florentie, omnes simul in loco eorum solite audientie et residentie collegialiter [540] adunati, pro eorum officio exercendo, ut moris est, visa quadam notificatione, tempore eorum in officio precessorum reperta in tamburis, sub die xijª mensis decembris proxime preteriti, continenti in effectu quabiter Filippus alterius Filippi de Stroziis accepit in uxorem filiam Pieri de Medicis, rebellis huius Civitatis, et inimici huic bono et optimo regimini; et quod in predictis et circa predicta fiat ius et iustitia, prout latius constat et apparet in dicta notificatione, ad quam et contenta in ea dicti domini Octo se retulerunt et referunt;

item visa quadam alia notificatione, coram dicto Officio exibita, sub die secunda presentis mensis ianuarii, per quam continetur idem effectus contra eumdem Filippum, et qualiter dictus Filippus accepit in uxorem Claricem filiam olim Pieri Laurentii de Medicis, et narratis quam pluribus per dictum Pierum de Medicis attentatis contra Comune Florentie, et contra formam statutorum dicti Comunis, et ibidem concluditur quod filii tam masculi quam femine dicti Pieri de Medicis declarentur rebelles Comunis Florentie;

et visis etiam duabus aliis notificationibus eiusdem effectus, repertis in tamburis dicti Officii, sub die quindecima presentis mensis ianuarii, et una alia notificatione exibita dicto Officio, hac presenti die, effectus predicti; et omnibus et singulis in dictis notificationibus et qualibet earum contentis, et de quibus latius continetur in libro querelarum et notificationum dicti Officii, sub diebus predictis, ad quem quidem librum et ad quas notificationes in omnibus et per omnia dicti domini Octo se retulerunt et referunt, et hic pro expresse narratis, et de verbo ad verbum appositis haberi voluerunt et mandaverunt;

et visis citationibus factis de dicto Filippo de Strozziis et earum relationibus: et visa ipsius Filippi comparitione et responsione et confexione, et qui confexus est matrimonium predictum contraxisse cum dicta Clarice iam sunt menses duo proxime elapsi, non tamen animo et intentione turbandi pacificum statum civitatis Florentie, et prout latius in dicta eius comparitione et responsione, facta coram dicto Officio, sub die quinta presentis mensis ianuarii, continetur et apparet, ad quam dicti domini Octo se retulerunt et referunt;

et visa etiam alia comparitione responsione et exceptionibus, factis et oppositis per dictum Filippum de Strozziis, sub die [541] duodecima presentis mensis ianuarii, et omnibus et singulis in dicta comparitione contentis;

et visa etiam sententia rebellionis contra dictum Pierum de Medicis lata et data, de anno Domini millesimo quadringentesimo nonagesimo quinto et sub die vigesimaquinta mentis septembris dicti anni, vel alio veriori tempore, per quam in effectu tunc domini Octo Custodie et balie civitatis Florentie, servatis debitis servandis et obtento partito secundum ordinamenta, deliberaverunt et declaverunt dictum Pierum ac etiam Julianum fratres et filios Laurentii de Medicis de Florentia et quemlibet eorum fuisse et esse rebelles Comunis Florentie, et prout latius in dicta sententia continetur, ad quam ad infrascriptum effectum dicti domini Octo se retulerunt et referunt;

et visis omnibus et singulis statutis legibus provisionibus et ordinamentis Populi et Comunis Florentie, disponentibus tam contra rebelles Comunis Florentie et eorum filios et descendentes quam contra contrahentes matrimonium cum dictis rebellibus, et legibus provisionibus et ordinamentis quibuscumque, et maxime hiis de quibus in dictis notificationibus et qualibet vel altera earum fit mentio, et omnibus et singulis in eis contentis;

et visis omnibus et singulis legibus statutis provisionibus et ordinamentis circa predicta et infrascripta disponentibus, et omnibus et singulis in eis contentis;

et habito super predictis et infrascriptis dicti domini Octo inter eos maturo colloquio et consultatione;

Volentes in predictis, ut decet, ius et iustitiam ministrare, visis omnibus et singulis que in predictis et circa predicta videnda et consideranda fuerunt; vigore cuiuscumque eorum auctoritatis potestatis et balie, servatis servandis, et obtento partito secundum ordinamenta, et per omnes fabas nigras, amplectentes omnes notificationes predictas et de quibus supra fit mentio et qualibet earum, deliberaverunt et deliberando declaraverunt:

Filios masculos dicti Pieri Laurentii de Medicis, secundum formam statutorum et ordinamentorum Comunis Florentie, nec aliter nec alio modo, fuisse incursos et esse rebelles Populi et Comunis Florentie; dictam vero et infrascriptam

[542]

Claricem, filiam dicti olim Pieri Laurentii de Medicis, declaraverunt non fuisse nec esse rebelle in dicti Populi et Comunis Florentie; et propterea ipsam Claricem liberaverunt et obsolverunt a suprascriptis et supra narratis notificationibus et qualibet earum, et ab omnibus et singulis in eis et qualibet earum contentis, et pro absoluta et liberata haberi voluerunt et mandaverunt.

Quo vero ad dictum Filippum de Strozziis, pro eo quod contraxit matrimonium cum dicta Clarice, pro omnibus et singulis preiudiciis in quibus diceretur esse incursus, ex causis in notificationibus supra narratis et qualibet earum contentis; vigore cuiuscumque eorum auctoritatis potestatis et balie, servatis servandis, et obtento partito secundum ordinamenta et ut supra, deliberaverunt et deliberando relegaverunt et confinaverunt dictum et infrascriptum

Filippum alterius Filippi de Strozziis, civem florentinum, ad eundum, standum et permanendum in regno Neapolitano, pro tempore et termino trium annorum proxime futurorum, initiandorum die qua se ad dicta confinia presentaverit; ad que se presentare teneatur et debeat infra viginti dies proxime futuros a die notificationis sibi fiende de predictis;[750] et infra triginta dies postea subcessive post dictos viginti dies proxime et inmediate sequentes, teneatur et debeat misisse, presentari fecisse et dimisisse eorum Officio fidem, manu publici notarii, talis sue presentationis ad confinia predicta. Et teneatur et debeat predicta omnia et singula attendere et observare, sub pena rebellis Populi et Comunis Florentie. Et quod finitis dictis tribus annis, absque aliquo partito aut deliberatione desuper fienda, redire possit ad civitatem Florentie eiusque comitatum et districtum et ubi sibi libuerit et plaucerit, libere licite et inpune.

Ac etiam, ultra predicta, dictum Filippum condemnaverunt in florenis quingentis auri largis in auro, dandis et solvendis Provisori eorum Officii pro dicto Officio recipienti, secundum [543] ordinamenta, infra tres dies ab hodie proxime futuros, sub pena dupli quantitatis predicte dicto Officio solvende ut supra.

Et salvis predictis supra per dictos dominos Octo deliberatis iudicatis et declaratis et in suo robore permanentibus, eundem Filippum de Strozziis liberaverunt et absolverunt ab omnibus et singulis aliis penis et preiudiciis, in quibus modo aliquo diceretur et allegaretur incursum esse, ex narratis in supra narratis notificationibus et de quibus supra fit mentio et qualibet earum; et pro absoluto et liberato haberi voluerunt et mandaverunt in omnibus et per omnia. Mandantes etc.


Incamerata die 18 ianuarii 1508 per Joannem Malaspina famulum Rotellini dicti Officii; et ita retulit dicta die incamerasse condemnationem et relegationem suprascriptam.


Commissa fuerunt predicta notificare dicto Filippo, die 19 ianuarii 1508, Joanni Malaspine famulo Rotellini dicti Officii.

Qui dicta die retulit mihi notario infrascripto predicta notificasse dicto Filippo personaliter et in personam, dicta eadem die xviiij dicti mensis ianuarii, cum dimissione cedule notificationis predicte.

DOCUMENTO XIII.[751] (Pag. 141-2)

Niccolò Machiavelli disdice ai Senesi una tregua fatta con loro dai Fiorentini.

Die 5 decembris 1510 more florentino, indictione xiiii.

In Dei nomine amen etc. Pateat omnibus etc.: Come lo egregio homo Niccolò di messer Bernardo Machiavelli, cittadino fiorentino, facendo tucte le infrascritte cose come sindico et procuratore substituto in nome de la excelsa Republica Florentina [544] da li magnifici signori Dieci, come del principale sindicato et mandato di decti magnifici signori Dieci ed de la substitutione di poi di decto et in decto Nicolò facta per li decti magnifici signori Dieci appariscano publici instrumenti, per mano di ser Antonio Vespucci cittadino fiorentino, sotto il dì primo di dicembre; de' quali instrumenti di sindicato et mandato principale et substitutione di poi facta il prefato Nicolò attualmente ha monstro et offertone copia ad questi magnifici signori Officiali di Balìa de la magnifica Comunità di Siena: e constituto a la presentia delle Signorie loro et di voi testimoni, in questo loco de la loro solita residentia, in sufficiente numero coadunati, con ogni miglior modo che sa et può et ha saputo et potuto, ha disdecto et denegato disdice et deniega a la magnifica Comunità di Siena et a li presenti magnifici signori Officiali di Balìa, qui presenti et intelligenti, una triegua et securtà già facta et sequìta tra la prefata magnifica et excelsa Repubblica Fiorentina da una parte et la prefata magnifica Comunità di Siena da l'altra, o vero da li agenti di decte Signorie, in nome loro: de la qual triegua et securtà appare instrumento rogato per mano del prefato ser Antonio Vespucci et ser Pietro di Francesco Landini da Lucignano notaro et cittadino senese, sotto dì vinticinque del mese di aprile, l'anno mdvi: la qual triegua et securtà fu di poi, ciò è sotto dì xxi d'aprile l'anno mdviiii, prorogata per certo tempo; di che ancora apparisce instrumento, per mano de li sopradecti ser Antonio Vespucci et ser Piero Landini notari. Affermando et expressamente declarando intimando et protestando il decto Nicolò, in decto nome, a li prefati magnifici signori Officiali di Balìa presenti et intelligenti, come lo officio de' magnifici signori Dieci di Libertà et balìa de la Republica Fiorentina, et lui ne' modi et nomi sopradecti, non volere che decta triegua et securtà et prorogatione duri et habbi effecto più in futuro, se non per quello tempo et termine che si contiene et si è convenuto in decti instrumenti, ciò è di mesi sei o altro tempo più vero dal dì di tal facta disdecta et denegatione. Et per più effecto et forza di ragione, il decto Nicolò, in decto nome, ha intimato et notificato a li prefati magnifici signori Officiali di Balia la disdecta et denegatione di triegua et securtà per decti magnifici signori Dieci di Libertà et balìa facta, et tucte le sopradecte [545] cose, acciò che per alcuno tempo advenire la magnifica Comunità di Siena o vero decti magnifici signori Officiali di Balìa non possino dire et allegare non avere hauta notitia d'alcuna de le soprapredecte cose. Pregando noi, ser Giovanni di Salvatore notaro fiorentino infrascripto et ser Mariano di Pietro Barletti notaro senese infrascripto, che di tal cosa facciamo istrumento che di ragion vagla et tenga, distendendolo ad senno del savio nostro, non mutando lo effecto predecto.

Actum Senis et in palatio magnificorum dominorum Priorum gubernatorum Comunis et Capitanei populi dicte civitatis Senensis, et in residentia Balìe; coram et presentibus don Petro Tiberio de Corella connestabile ordinum et milicie Reipublice Florentine, Benedicto Mathei Zerini de Florentia tabellario Comunis Florentie, domino Dominico Nerii de Placidis equite et cancellario Reipublice Senensis, et ser Francisco Andree Duccij de Sancto Quirico, civibus senensibus; testibus ad predicta habitis vocatis et rogatis.

(L. S.) Ego Marianus olim Petri Andree de Barlettis civis senensis, publicus et imperiali auctoritate notarius ac iudex ordinarius, predictis omnibus et singulis dum sic agebantur, una cum supradicto et infrascripto ser Johanne olim Salvatoris, interfui; eaque rogatus scribere scripsi et publicavi, et in fidem premissorum propria manu me subscripsi, signumque meum cum nomine apposui consuetum. Laus Deo.

(L. S.) Ego Johannes olim Salvatoris Blasii de Puppio partium Casentini districtus Florentini, imperiali auctoritate notarius publicus florentinus, predictis omnibus et singulis dum sic agebantur, una cum suprascripto ser Mariano, interfui; eaque rogatus scribere scripsi legi et publicavi, et in fidem premissorum propria manu me subscripsi, signumque meum apposui solitum et consuetum.

[546]

DOCUMENTO XIV. (Pag. 147-8)

Una lettera di Papa Giulio II (7 settembre 1511) ed una dell'imperatore Massimiliano I (27 settembre 1511) intorno al Concilio di Pisa.

1[752]

Julius PP. II.

Dilecti filij salutem et apostolicam benedictionem. Nunquam putavimus fore, ut Dominium istum inclitum preter spem nobis ac nuntio nostro datam, Pisis locum conciliabulo Cardinalium scismaticorum concessurum esset: populumque istum semper chatolicum et apostolice Sancte Sedis observandissimum, animarum, corporumque et rerum externarum omnium periculis exponere vellet. Nam, quam grave hoc delictum sit, et quantis vos calamitatibus, ultra perpetuam infamiam, involvere possit, etsi pro prudentia vestra considerare potestis, tamen ex ven.li fr.e Guillelmo Ep.º Cortonensi prelato nostro domestico, cive vestro, quem dedita opera ad vos mittimus, latissime uberrimeque intelligetis: hortamur devotionem vestram ut ab hujusmodi errore (nunquam enim sera est ad benefaciendum via) resileatis: populumque in quo summa potestas vobis credita est, talibus calamitatibus, iacturis et erroribus liberetis. Episcopum vero ipsum oratorem et nuntium nostrum quam diligentissime audiatis; cuius verbis monitisque si parueritis, melius vobis et reipublice isti consuletis, cui fidem indubiam adhibeatis.

Dat. Rome apud Sanctum Petrum sub annulo Piscatoris. Die vii septembris Mº.D.XI. Pont. nostri anno octavo.

Sigismundus.

(A tergo) Dilectis filiis Prioribus Libertatis et Vexillifero Justitie populi Florentini.

[547]

2[753]

Maximilianus Divina Favente Clementia E.[electus] Romanorum Imperator semper Augustus.

Spectabiles, prudentes, fideles, dilecti. Cum (ut notum jam omnibus esse debet) superioribus mensibus a Nobis ut Ecclesiae Advocato, cum adhesione ser.mi Principis domini Ludovici Francorum Regis fratris n.ri chariss.i ac aliquorum S.cae Ro. Ecclesiae Cardinalium, sub spe etiam quod caeteri christiani Reges, Principes et status, et in primis summus Pontifex, adherere illi deberent, ob urgentissimas et maxime reipub.cae Christianae necessarias causas, Concilium generale universalis Ecclesiae ad civitatem Pisarum indici per Procuratores nostros fecerimus, iamque constitutum et ordinatum tempus ad illud inchoandum et celebrandum advenerit; Existimamus ad Nos pertinere omnia agere, quae ad illud rite fundandum, ac ad saluberrimum et optatum finem perducendum conferre possint. Et quoniam quod pro publico et communi totius Christianitatis bono agitur communi etiam omnium Christianorum consensu, favore et auxilio foveri debet; Ideo ne a tam sancto et pio opere separemini vos, quamvis primo a Procuratoribus nostris per literas indictionis Concilij in genere admonitos et requisitos, per has nostras iterum specialiter duximus hortandos, monendos et requirendos, ut nobiscum dicto Concilio Pisano velitis adherere, assistentiamque praestare, ad illud Oratores vestros destinando. Qui una cum caeteris patribus ibi congregatis, consulere et dirigere habeant, quae Dei honorem ac reipublicae Christianae commoda sint paritura. Quod etsi offitio vestro et debito erga Deum et Mundum conveniat, tamen rem facietis nobis gratissimam, et pro qua v.ram erga nos obedientiam dignam commendatione consebimus.

Dat. in Arce n.ra Hanifels, die vigesima septima mensis Septembris, anno Domini m.d.xi., Regni n.ri Romani vicesimosexto.

(A tergo) Spectabilibus prudentibus n.ris et Imperij sacri fidelibus, dilectis n. [nostris] Vexillifero Justitiae Bailiaeque Civitatis n.rae Imperialis Florentiae.

[548]

DOCUMENTO XV. (Pag. 177)

LETTERE DEL CARDINAL GIOVANNI E DI GIULIANO DE' MEDICI, SUL SACCO DI PRATO E SUL RITORNO DEI MEDICI IN FIRENZE NEL 1512.

1 Lettera del cardinal Giovanni de' Medici al Papa. Dal campo presso Prato, 29 agosto 1512.[754]

Sumario e copia de una letera scrita per il R.mo Cardinal di Medici al Summo Pontefice.

Sanctissime ac clementissime pater, post pedum oscula beatorum. Hoggi dandosi per gli Spagnoli su le mura di Prato lo assalto valorosamente, et per il muro roto et per le scale introrno drento circha ad sedici hore; hanno messo la terra ad sacco non senza qualche crudelità de occisione, de la quale non si è possuto far meno. Vi erano drento tre milia battaglioni, de li quali sono campati pochi: è stato preso Luca Savello et el figliolo. La presa di Prato così subita et cruda, quantunque io ne habbia preso dispiacere, pure harà portato seco questo bene, che serà exemplo et terrore a li altri; de modo mi persuado le cosse de qua haveranno ad exequire felice successo. Per essere io sforzato a mandare le lettere per la via de Bologna, son certo la Santità Vostra haverà adviso prima del mio; pure non ho voluto manchare del mio officio, et de le cose sequiranno sarà tuttavia advisata la Sanctità Vostra, alli cui sanctissimi piedi humilissimamente mi ricomando.

Ex felicissimis castris prope Pratum, die xxviii augusti 1512.

[549]

2 Lettera del cardinal Giovanni e di Giuliano de' Medici a Piero da Bibbiena in Venezia. — Prato, 31 agosto 1512.[755]

Copia de una letera scrita per il Cardinal et Zulian di Medici, drizzata a Piero di Bibiena; venuta eri per via di Mantoa, lecta ozi in Collegio.

Spectabilis dilectissime noster, salutem. Essendo certi che quella illustrissima Signoria piglierà contento et piacere grande de ogni nostro bene, vi mandiamo a posta Guglielmo di Bibiena, fidelissimo servitore nostro, in diligentia, perchè voi in nome nostro facciate intendere ad quella Illma Signoria, come noi domani, col nome de Dio et della sua gloriosissima Matre, ritorneremo in casa et ne la patria nostra con letitia et satisfatione di tuta quella cità. Et di già sono venuti qui lo Arzivescovo de Firenze, Iacopo Saluiati, et Paulo Vectori, ambasatori di quella Signoria ad questo effecto, per comporre le cose nostre. Infinitissimi citadini, tucti di principali et de' più nobili, sono qui venuti da affectionatissimi nostri ad congratularsi con noi, pieni di soma letizia et contenteza per questa nostra felicissima tornata, la quale per tuti li capi ne satisfa grandemente, come voi pensar potete, ma precipue per esser seguita tal novità senza sangue et senza scandolo alcuno de quella cità.

Hoggi, a le 16 hore, fu deposto da la Signoria et dal Consiglio el Gonfaloniero, et mandatone a casa sua, non senza pericolo de esser per via tagliato a pezi da molti inimici suoi: pur si condusse salvo in casa di Paulo Vectori, che li dete la fede di salvarlo. Molti particulari intenderete da Guglielmo preditto. Il tutto farete intendere a quella Illma Signoria in nome nostro, accertandola che di tanto più potrà valere et servisse, quanto noi più potremo in casa nostra che in esilio; et ad quella humilmente ce recomandate.

Semo ben certi che voi non men piacere di noi prenderete di questa ritornata nostra, come queli che non havete ad godere [550] il ben nostro punto mancho di noi tutti: et così li Magnifici nostri Lippomani,[756] a li quali ce offerirete et racomandate.

Ex Prato, die ultimo augusti 1512, hora 9ª noctis.

Io: Cardinalis et Iulianus De Medicis.

DOCUMENTO XVI. (Pag. 180)

Lettera di Bernardo da Bibbiena a Piero suo fratello in Venezia. — Roma, 6 settembre 1512.[757]

Copia de una letera di Bernardo da Bibiena, secretario dil R.mo Cardinale di Medici, scrita di Roma a dì 6 septembrio 1512 a domino Petro suo fratello, et recevuta a dì....[758] septembre, in Venecia.

Sit nomen Domini benedictum. Pur ha voluto Dio et la sua gloriosissima Matre che le cosse di' patroni nostri habbino quel felice successo che merita la bontà lhoro et che tutti havemo desiderato. Io non vi dirò li progressi de la impresa come siano passati, perchè da Guglielmo nostro, che da Prato vi si mandò per li patroni, harete inteso ogni particularità: quel che so io esser seguito dopo la partita sua, con poche parole vi dirò. Lui partì el martedì nocte da Prato, ove erano 6 oratori per la Cità, per comporre le cose tra la Republica et il signore Vicerè circa la partita di' danari: li tre oratori primi erano quelli che vi stavano al tempo del Gonfaloniero: messer Baldisare Carducci, messer Ormannozo Deti et Nicolò Valori. Questi el martedì havevano havuto il mandato ampio et il partito facto, che Medici et quelli che erano fuora per canto lhoro potessino liberamente tornare in Firenze con satisfactione di tucta la Cità, et praticavano che seguisse tal tornata con unione et acordo tra Medici et Soderini, contrahendo tra lhoro affinità, dando a Iuliano una nepote del Gonfaloniero per moglie. Et il Vicerè era per pigliare sopra di sè la cosa, havendo prima facti abracciare [551] et pacificare li Medici et li oratori, in nome di tucta la cità insieme, quando in gran pressa sopragiunse Gioane Ruzelai, figliolo di Bernardo, a notificare a Monsignore et Iuliano, che non facessino altro, sin che non arrivasino li novi tre altri oratori, Arziuescovo di Firenze, Iacopo Salviati e Paulo Victori, perchè venivano con nova commissione, attento ch'el Gonfaloniero era stato deposto et mandatone a casa, non senza periculo de essere morto tra via: onde la pratica del parentado fu del tutto reserata, stando a posta de' Medici et de' suoi lo entrare in Firenza. Et co li oratori vennero un numero infinito di cittadini quasi di tutta la nobiltà della Cità. Tutto questo fu martedì, nel qual dì et nell'altro poi ad altro non se atendeva, mentre vi stetti, che a comporre col Vicerè li partita de' danari.

Su le XX horre venne Antonio Francesco di Luca de li Albizi, et menorne Iuliano a Firenze. Io, desideroso de exequire presto el desiderio mio, me n'andai drieto a lui, ma non poteti mai arivarlo; onde ce ne entramo drento d'uno Antonio da Ricasoli, suo fratello, Grifone vostro et molti altri di casa sino in X o XII cavalli. Et ce ne andamo prima a' Servi per nostra devotione, e poi a casa de' Medici, credendo Iuliano esser lì, ma in loco suo trovamo tanto populo, et sentimo tante grida di Palle, et havemo tanti tochamenti di mano et tanti baci et abbraciamenti, che fu talhora che nui credemo rimanere suffocati da la calca; chè tirati fummo più volte da cavallo. El bello erra che noi da tutti eravamo conosciuti, et ci chiamavano per nome, et noi pochissimi et quasi nessuno conosciavamo da quelli in fuora che qua o altrove, for di Fiorenza, havevamo revisti. Nè per la molta et strectissima calca potemo mai entrare in casa, sì piene erano le due porte delle genti, oltre che alle finestre se vedevano persone infinite, et drento si sentivano voci grande di Palle, Palle, expetando che Iuliano devessi venir lì. Ma noi intendendo lui essere ito a smontare a casa del prefato Antonio Francesco, ce ne andamo là, et per via c'erano facti tanti motti che impossibil saria poter dir più. Trovammo Iuliano che si lavava la barba, et era piena piena la casa di citadini quasi tucti nobili, che tutti mi baciorono con tanta letitia et contenteza del mondo; et molti mi domandarono di voi, benchè io non li conoscessi, fra' quali [552] fu Poldo de Pazi, che tenerissimamente volse intendere de l'essere vostro. Nicolao non vidi, chè l'harei riconosciuto: la Lucretia vene a vedere Iuliano, et mi fece motto con assai bona ciera; ma molto migliore me la feciono la Contesina et la Clarice, le quali poco da poi trovai per via, che insieme andavano da Iuliano, commendandome con molto buone parole di quel che havevo facto per li lhoro fratelli et zii, mostrando conoscere ch'io mi ero affaticato assai: et invero posson bene haverlo inteso et dirlo liberamente, perchè ho facto per lhoro quanto ho conosciuto et saputo et potuto. Ad Iacomo Salviati nè alli altri suoi collegi non parlai a Prato, perchè non hebi a modo mio la commodità. Nicolao Valori mi parlò avanti si praticasse acordo tra li oratori et Medici, cegnandome sempre le cose nostre dovere passare bene. Stato adunque che io fui un pezo in casa Albizi, da Iuliano, chiesta licentia da lui, montai circa a due hore di note in poste, et me ne venni a la volta di Roma, ove penso vivere et morire: et questo è il desiderio mio che dico di sopra etc. El cardinal doveva intrare al.... che era il.... dil mexe....

DOCUMENTO XVII. (Pag. 182)

Lettera del cardinal Giovanni de' Medici a Piero da Bibbiena in Venezia. — Firenze, 16 settembre 1512.[759]

Di Fiorenza fo lettere di Vincenzo Guidoto secretario di 14, et in Piero di Bibiena dil cardinal Medici, de' 16: scrive il suo intrar in Fiorenza honoratamente; et meterano novo Governo tutto a beneficio de la sanctissima Liga et di questo Stato, sì chome per la copia di la dita letera qui soto scrita se intenderà.

Copia de una letera dil cardinal Medici a Pietro di Bibiena, data in Fiorenza.

Missier Pietro nostro carissimo. Questa per farvi intendere el felice successo, che continuamente le cose nostre sortiscano, quale è questo: martedì, 14 del presente, accompagnati da gran moltitudine de primarii citadini de questa Cità, intrassemo in [553] epsa honorificentissimamente, et non comune letitia del populo, usque adeo che in questa parte la nostra opinione fuit re ipsa longe superata. Hoggi, XVI del medesimo, questa excelsa Signoria, una con li nobili de la Cità et populo, hanno hauto comune Consiglio publicamente, nel quale hanno constituito certo numero de citadini, attribuendoli ampia facilità de ordinare el stato de la Città: da' quali se darà enixe opera ch'el Stato predicto se ordine et constituisca de sorte tale, che la Serma Lega se potrà accomodatamente servire di quello in le cose concernenti al proposito et stabilimento de epsa. Habiamo queste cose volute significare per questa nostra adligata ad quel Sermo Principe, a la cui Serenità ne recomanderete come se conviene, et comunicherete el tenore di sopra con quelli magnifici patri nostri, quali ve pareranno più accomodati alla participatione. Bene valete.

Florentie, die 16 septembris 1512.

Io: Cardinalis De Medicis legatus.

Spectabili Domino Petro de Bibiena,

Secretario nostro carissimo.

Io: Cardinalis De Medicis[760]

Bononie ac Romandiole, Tuscieque ligatus.

DOCUMENTO XVIII. (Pag. 197)

Lettera di Giuliano de' Medici a Piero da Bibbiena in Venezia. — Firenze, 19 febbraio 1513.[761]

Copia di una letera dil magnifico Iuliano di Medici drizata a Piero di Bibiena in Venezia.

Carissime domine Petre, salutem. Questa è per significarvi come, per gratia di Dio, essendomi pervenuto a notitia una certa praticha di alcuni maligni citadini che haveno, di far [554] violentia a me et a qualche cosa nostra; hieri dal magistrato de magnifici signor Octo furon presi e' capi et quasi tutti li altri sospecti, et per ancora non si è ritracto se non una mala intentione con poco ordine, senza fondamento o coda, et senza pericolo de lo Stato, quando fusse ben loro riusito el disegno, che haveno pensato fussi in su la morte di nostro Signor et ne la absentia del Rmo Legato. La qualità de li huomini di questa intelligentia sono, benchè nobili, di poco conto et men séguito, et le cose son procedute senza alteratione publica o privata, et più presto da poterne trar fructo che danno, atteso la universal unione et concorso de la Cità, et maxime de' primi parenti de' delinquenti. Procederassi con diligentia di intender bene tutto, et assicurare lo stato de la Cità et nostro, con la grafia de lo Altissimo: et di quello seguirà ne darò adviso. Interim mi raccomando a la Illma Signoria, et bene valete.

Florentie, die 19 februarii 1512.

Iulianus De Medicis.

Spectabili domino Petro de Bibiena

Venetiis.

[555]

DOCUMENTO XIX. (Pag. 198)

Lettera di Giuliano de' Medici a Piero da Bibbiena in Venezia. — Firenze, 7 marzo 1513.[763]

Copia de una letera dil magnifico Iuliano de Medici, data in Fiorenza, drizata a Piero Bibiena in Venecia: nara il sequito di retenuti citadini.

Domine Petre carissime. Io non ho vostre dopo l'ultima mia de' 19 del passato, per la quale vi significai la coniura scoperta et la nota de li huomini presi. Di poi si è aperta et purgata ben la piaga, et non si è per la gratia de Dio trovato alcuno fondamento ne la lhor malignità: habbia fuggito el pericolo et facto paragone de li amici et de la fede et benivolentia de la Cità, in forma che ne ho inmortale obligatione. Erono e' capi di questa intelligentia Agostino Capponi et Pietro Pagolo Boscoli giovani, benchè di buona casa, senza reputatione o séguito o facilità, et havién conferito più volte insieme di levarci da terra, consentito et deputato el luogo, et facto una lista di parecchi giovani che credevono fussin malcontenti di noi, et andaronli tentandoli. Riscontrorno in Nicolò Valori et Giovanni Folchi, e' quali prestorno orechie, et interogati più volte de' modi ad far novità, et aperto l'animo loro, vi si adviluporno drento. De' primi dua, Agostino et Pietro Paolo, suplicium capitis sumptum est. Nicolò et Giovanni son confinati nel fondo de la torre de la rocha de Volterra per due anni, et non ne possono ussire, se non col partito del magistrato de li Octo, con tutte le fave nere: di poi son relegati imperpetuo fuor del dominio fiorentino, in certi luoghi determinati: et tutto questo iuditio è facto con pratica et parere unito di buon numero di citadini de' primi ben qualificati. Alcuni altri per haver qualche participatione, come Francesco Seragli, Pandolpho Biliotti, Dutio Adimari, Ubertino Bonciani, son confinati per parechi anni nel contado, in diversi luogi: li altri che non erono in dolo, son relassati a buon sodamento. Noi staremo vigilanti, et con questa occasione, assicurando lo Stato [556] et benefitio publico et privato; et di quello achaderà a la giornata vi faremo advisato el più comodamente si potrà fare, aprendosi come io spero el passo di Ferara. Hora io harò caro che voi largamente mi discoriate quel che ne intendete; et quanto più sarete libero et più particulare, tanto ne harò magior piacere.

Di le nove di Roma penso che ne siate benissimo informati; così de Lombardia, che si intende ch'el Duca et Vicerè si voglino insignorire di Piacenza et Parma. Qui è sparso voce che lo Sor Io. Paulo Baglioni si è partito senza licentia de la Illma Signoria. Quando in simili accidenti possiate advisare, molto ci sarà grato intender e' progressi di costì. Nè per questa mi occore altro se non mi racomando a quella Illma Signoria et bene valete.

Florentie, die 7 martii 1512.

Iulianus De Medicis.

DOCUMENTO XX.[764] (Pag. 198)

Bando degli Otto contro Niccolò Machiavelli.

Die 19 februarii 1512.

Li spectabili e dignissimi Otto di Guardia et balìa della ciptà di Firenze fanno bandire, et pubicamente notificare a ogni et qualunque persona di qualunque stato, grado o conditione si sia, che sapessi o havessi o sapessi chi havessi o tenessi Nicolò di messer Bernardo Machiavegli, lo debba, intra una hora da l'ora del presente bando, haverlo notifichato a decti Signori Otto, sotto pena di bando di ribello et confischatione [557] de' loro beni: notifichando che, passato decto tempo, non se ne riceverà scusa alchuna. Bandito per Antonio di Chimenti sotto decto dì, soscripto, in filza.

DOCUMENTO XXI. (Lib. I, cap. XVI; lib. II, cap. II e IV)

LETTERE SCRITTE DA FRANCESCO VETTORI IN ROMA AL MACHIAVELLI IN FIRENZE O IN VILLA, DAL NOVEMBRE 1513 AL GENNAIO 1515.

1[765]

Compar mio charo. Io ho usato con voi tanta sobrietà chol chalamo, come dice Christofano Sernigi, che io non ho tenuto a mente dove io ero. Vuolmi bene ricordare, che l'ultima[766] hebbi da voi chominciava dalla novella del lione e della golpe, della quale ho ricercho un pocho tra le mie lettere, et non la trovando presto, ho pensato non ne cerchare più. Perchè, in verità, io non vi risposi alhora, perchè dubitai non intervenissi a voi e a me chome è intervenuto qualche volta a me e al Panzano, che habbiamo cominciato a giucare con carte vechie e triste, et mandato per le nuove, et quando el messo è tornato con esse, a l'un di noi dua sono manchati danari. Chosì noi parlavammo di comporre e' principi, e loro del continuo giucavano: in modo che dubitai che mentre consumavammo le lettere nel comporli, a qualcuno di loro non manchassino e' danari. E poi che fermammo lo scrivere, s'è visto qualchoxa. E anchora che la festa non sia finita, pure pare un pocho ferma; et io credo che sia bene, insino ch'ella non si strigne, non ne parlare.

E per questa lettera ho facto pensiero scrivervi qual sia la vita mia in Roma. Et mi par conveniente farvi noto, la prima choxa, dove habito, perchè mi sono tramutato, nè sono più vicino a tante cortigiane, quanto ero questa state. La stanza mia [558] si chiama San Michele in Borgo, che è molto vicina al Palazo e alla Piaza di San Pietro; ma è in luogo un pocho solitario, perchè è inverso il Monte chiamato dalli antiqui el Ianicolo. La casa è assai buona e ha molte habitationi, ma pichole; et è volta al vento oltramontano, in modo ci è una aria perfecta. Della chasa s'entra in chiesa, la quale, per essere io religioso come voi sapete, mi viene molto a proposito. È vero che la chiesa più presto s'adopera a passeggiare che altro, perchè non vi si dice mai messa nè altro divino uficio, se non una volta in tutto l'anno. Della chiesa s'entra in un orto, che soleva essere pulito et bello, ma hora in gran parte è guasto: pur si va del continuo rassettando. Dell'orto si sagle in sul monte Ianicolo, dove si può andare per viottoli e vigne a solazo, sanza esser veduto da nessuno; e in questo luogo, secondo li antiqui, erano li orti di Nerone, di che si vedono le vestigie. In questa chasa sto con nove servidori, e oltre a questi, il Brancaccio, un cappellano e uno scriptore, e sette chavalli, e spendo tutto il salario ho largamente. Nel principio ci venni, cominciai a volere vivere lauto e delicato, con invitare forestieri, dare 3 o 4 vivande, mangiare in argenti e simil choxe. Acorsimi poi che spendevo troppo, et non ero di meglo niente: in modo che feci pensiero non invitare nessuno, et vivere a un buono ordinario. Li argenti restitui' a chi me li haveva prestati, sì per non li havere a guardare, sì anchora perchè spesso mi richiedevono parlassi a N. S. per qualche loro bixogno. Facevolo, et non erono serviti: in modo diterminai di scaricarmi di questa faccenda, et non dare molestia nè charicho a nessuno, perchè non havessi a essere dato a me.

La mattina, in questo tempo, mi lievo a 16 hore, e vestito vo infino a Palazo, non però ogni mattina, ma delle due o tre una. Quivi, qualche volta, parlo venti parole al Papa, dieci al cardinale de' Medici, 6 al magnifico Iuliano; et se non posso parlare a lui, parlo a Piero Ardinghelli, poi a qualche imbasciatore che si truova