The Project Gutenberg eBook of Pompei e le sue rovine, Vol. 2 (of 3)

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Title: Pompei e le sue rovine, Vol. 2 (of 3)

Author: Pier Ambrogio Curti

Release date: December 5, 2023 [eBook #72322]

Language: Italian

Original publication: Milano: Sanvito

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK POMPEI E LE SUE ROVINE, VOL. 2 (OF 3) ***

POMPEI
E LE SUE ROVINE VOL. II


POMPEI
E LE
SUE ROVINE

PER L’AVVOCATO
PIER AMBROGIO CURTI

GIÀ DEPUTATO AL PARLAMENTO NAZIONALE
DIRETTORE DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI ARCHEOLOGIA
E DI BELLE LETTERE DI MILANO

VOLUME SECONDO

1873
MILANO — F. SANVITO, EDITORE.
NAPOLI — DETKEN E ROCHOLL.


Proprietà letteraria.

Legge 25 Giugno 1865. Tip. Guglielmini.



INDICE


[5]

CAPITOLO XII. I Teatri — Teatro Comico.

Passione degli antichi pel teatro — Cause — Istrioni — Teatro Comico od Odeum di Pompei — Descrizione — Cavea, præcinctiones, scalæ, vomitoria — Posti assegnati alle varie classi — Orchestra — Podii o tribune — Scena, proscenio, pulpitum — Il sipario — Chi tirasse il sipario — Postscenium — Capacità dell’Odeum pompejano — Echea o vasi sonori — Tessere d’ingresso al teatro — Origine del nome piccionaja al luogo destinato alla plebe — Se gli spettacoli fossero sempre gratuiti — Origine de’ teatri, teatri di legno, teatri di pietra — Il teatro Comico latino — Origini — Sature e Atellane — Arlecchino e Pulcinella — Rintone, Andronico ed Ennio — Plauto e Terenzio — Giudizio contemporaneo dei poeti comici — Diversi generi di commedia: togatæ, palliatæ, trabeatæ, tunicatæ, tabernariæ — Le commedie di Plauto e di Terenzio materiali di storia — Se in Pompei si recitassero commedie greche — Mimi e Mimiambi — Le maschere, origine e scopo — Introduzione in Roma — Pregiudizj contro le persone da teatro — Leggi teatrali repressive — Dimostrazioni politiche in teatro — Talia musa della Commedia.

Gran parte della vita publica erano nell’orbe romano, massime al tempo de’ Cesari, i Teatri.

Quando si consideri che solo in questa, elegante sì, ma piccola città di Pompei vi fossero due teatri, il comico e il tragico ed un anfiteatro, tutti di tanta capacità, [6] si può avere una prova abbastanza conveniente di questa asserzione, ed un’altra poi se ne avrà ancora nel fatto che non si fosse paghi di uno spettacolo solo al giorno, ma se ne volesse a tutte l’ore di esso, e s’egli è vero quel che taluni pretesero e che io ho pur riferito, che i Pompejani fossero stati sopraggiunti dal loro estremo disastro nell’anfiteatro, sappiamo allora che dovesse essere circa l’ora meridiana.

Non fu detto però a torto che il popolo non vivesse che di pane e di spettacoli, panem et circenses, e ognun s’avvede che qui sotto il generico nome di giuochi del circo s’abbiano ad intendere ben anco gli scenici ludi.

Una ragione più alta aveva contribuito a radicare profondamente nell’animo di tutti la passione e nelle consuetudini generali la frequenza de’ teatrali spettacoli, — la religione: — perocchè rimontandosene alle origini si trovi, per testimonianza di Tito Livio, che nella epidemia, onde fu Roma afflitta nel 390 di sua fondazione, la collera celeste serbandosi inesorabile alle continue supplicazioni, si fosse ricorso alle sceniche rappresentazioni, in cui attori erano commedianti etruschi, detti nella loro lingua istrioni, i quali trattavano artifiziosamente a suon di flauto e gestendo senza parole[1]. Fra i Romani stessi sorsero subito dopo imitatori; i giuochi scenici attecchirono e vennero per [7] ciò considerati non come un semplice passatempo soltanto, chè per tali non si ebbero che gli spettacoli del circo, ma come una vera istituzione civile e sacerdotale.

Noi medesimi, se avessimo in oggi a restringere il teatro in que’ confini che lo fecero definire la morale in azione, e se la coscienza degli scrittori non escisse dai limiti assegnati dai veri intenti dell’arte, per libidine di facili e funesti plausi, non potremmo ricusarci dall’averlo tuttavia per una vera istituzione civile.

Nel desiderio di abozzare alla meglio anche questa parte della vita romana, di cui Pompei fornisce a noi ne’ suoi monumenti le più ineccepibili prove, converrà che prima m’intrattenga del Teatro Comico, detto altrimenti Odeum, nel quale poi c’intratterremo, giusta i richiami, della sua storia, delle sue produzioni; poscia del Teatro Tragico e della sua storia; riserbando all’ultimo il discorso intorno all’Anfiteatro e a’ suoi ludi; quantunque a vero dire si dovrebbe premettere di questi ultimi, se noi pure, come gli antichi, ritenessimo che gli spettacoli scenici non siano che appendici meno importanti di quelli del Circo.

Fin dal 13 maggio 1769 veniva scoperta sulla muraglia del Gran Teatro, o Teatro Tragico che si voglia dire e del quale sarà l’argomento nel capitolo venturo, la iscrizione seguente:

[8]

C . QVINCTVS C . F . VALG .
M . PORCIVS M . F .
DVO VIR . DEC . DECR .
THEATRVM TECTVM
FAC . LOCAR ; EIDEMQVE PROBARVNT[2].

Tale scoperta confermava la designazione, che fin dal 23 marzo precedente era stata fatta, che quivi esister dovesse l’Odeo, o Teatro Comico, avvalorata altresì da ciò che contiguo vi fosse il Teatro Tragico, pur in questo avendo i Pompejani seguito la comune consuetudine in congenere materia, e che noi troviamo consegnata nelle seguenti parole del capo IX, libro V di Vitruvio: exeuntibus e theatro sinistra parte Odeum[3].

L’Odeo, in greco Ωδεῖον, che in questo passo medesimo ci fa sapere Vitruvio essere per la prima volta stato eretto in Atene, ornato da Pericle di colonne, di pietre e coperto di alberi e antenne di navi, spoglie riportate in guerra contro de’ Persiani, vogliono tutti che fosse stato un piccolo teatro; ove si facessero le prove e le disfide musicali, come derivatone l’appellativo dalla voce greca ωδή, che significa canto.

[9]

In Pompei l’Odeum era destinato alla recitazione delle commedie, ai concorsi poetici, alle rappresentazioni mimiche e satiriche, e se si vuole argomentare dall’uso generale di tali ritrovi, alle dispute filosofiche ed anche agli spettacoli d’inverno, e per ciò coperto; onde, per dirla con Tertulliano, l’impudico divertimento non fosse dal rigore della stagione turbato[4]. Il severo giudizio di questo padre della Chiesa cristiana era giustificato dalla licenziosa libertà sempre esistita nei ludi scenici e circensi, ma fatta ancor più sfrenata negli ultimi tempi dell’Impero.

Dal 1793 al 1796 venne questo teatro sgombro dalle macerie, messo nelle condizioni nelle quali trovasi di presente e in guisa da prestarsi alla sua intera descrizione.

Esso è fabbricato, egualmente che il Teatro Tragico e il Foro, sopra uno strato di lava vulcanica antichissima, che porge a questi edifizj il più solido fondamento; ma la sua costruzione è di tufo di Nocera, all’infuori delle scale che separavano le gradinate che son di durissima lava. Sopra l’estremità del muro semicircolare, ossia sul cornicione, ancor si veggono i luoghi ove stavano le colonne su cui il tetto poggiava, il quale si apriva tra l’una e l’altra colonna uno spazio vacuo, pel quale s’intromettevano [10] la luce e l’aria. Tali colonne si rinvennero rovesciate, onde anche per la certa quantità di tegole numerizzate con carbone e là ordinatamente disposte, si argomentò che rovinato il teatro dal tremuoto del 63, si ritrovasse poi nel 79 in istato di restaurazione. Dyer crede rimonti la sua prima costruzione a poco tempo dopo la Guerra Sociale, così forse ottant’anni avanti Cristo.

Come di consueto, e come Vitruvio ne fa regola generale de’ teatri, la forma della cavea è d’un emiciclo, e sotto il nome di cavea designavasi quella porzione dell’interno di un teatro od anfiteatro, che conteneva i sedili sui quali stavano gli spettatori, e che era formata da un numero di ordini concentrici di gradini sopra più ordini di arcate, quando essi non fossero praticati in qualche parte, od addossati a montuosità di terreno. Secondo la dimensione dell’edificio, questi giri di sedili erano divisi d’ordinario in uno, due o tre scompartimenti, distinti, separati l’uno dall’altro da un muricciolo detto præcinctio, abbastanza alto per impedire la comunicazione fra essi; cosicchè i diversi scompartimenti assumevano i qualificativi di prima, seconda, terza ed anche più spesso di ima, media e summa cavea, cioè ordine inferiore, di mezzo e superiore. E così era dell’Odeum pompejano.

Il pavimento per nove passi di diametro tocca l’uno e l’altro corno dell’emiciclo terminato in due zampe [11] di leone di tufo vulcanico. Quindi incomincia la prima cavea in quattro ordini di gradini più grandi e spaziosi degli altri, ove sedevano i magistrati ed ivi erano collocati i bisellii e le sedie curuli. Indi seguono quattordici gradini in cui l’ordine equestre aveva il suo posto: vi tengono poi dietro diciotto altri ordini, ognun dei quali sempre più si va allargando nei lati per formare il diametro dell’emiciclo e stretto pel contrario nell’orchestra, della quale dirò fra poco.

Dopo i primi quattro gradini si vede un parapetto di separazione con un ripiano, o gradino più largo. Si riconosce da ciò subito una delle precinzioni, che i Greci chiamavano δίαζωματα, con cui, come dissi testè, precingeva, o separava il primo dal secondo, ordine della cavea, dove stava la gente più distinta.

V’era poscia una seconda precinzione, che separava la media, o seconda cavea, dall’ultima, dove sedevano la plebe e le donne. I gradini della media cavea, sono intersecati da sei piccole scale per linea retta dall’alto al basso, chiamate viæ, itinera, scalæ e scalaria, che hanno principio da sei vomitoria, o porte superiori corrispondenti al corritojo coperto, donde arrivavasi alla prima precinzione. Da essi entravano gli spettatori per prendere il rispettivo posto, e da essi, a spettacolo ultimato, uscivano.

Quelle scalarie, intersecando i gradini circolari, [12] costituivano cinque cunei o scomparti, ciascun dei quali veniva poi assegnato a determinata classe di spettatori; onde vi fosse quello de’ magistrati, quello de’ mariti, quello de’ giovani pretestati, quello de’ conjugati, e vie via degli efebi, oratori, legali, pedagoghi, soldati, che giammai si confondevano colla plebe, e le altre distinzioni del popolo, le quali venivano osservate, da che un decreto d’Augusto, secondo lasciò ricordato Svetonio nella vita di questo Cesare, le avesse a prescrivere, a ciò indotto dalle ingiurie che un senatore aveva ricevuto nel teatro di Pozzuoli.

«Egli, Augusto, scrisse quello storico, rimediò alla confusione ed al disordine estremi che regnavano negli spettacoli, mosso dall’ingiuria ricevuta da un senatore, che nella occasione di celeberrimi ludi in Pozzoli, che avevano attirato immenso concorso, non aveva trovato posto, ordinando con un senato consulto, che in tutte le rappresentazioni publiche il primo ordine spettasse a’ senatori. Vietò ai deputati delle nazioni libere e alleate di sedere nell’orchestra, perchè avesse sorpreso che molti fra di essi fossero del genere de’ liberti. Separò dal popolo il soldato. Assegnò posti particolari a’ mariti, speciali gradini a coloro che portavano ancor la pretesta, collocandone i precettori appresso. Agli abbigliati in bruno (pullatorum) interdisse il centro della cavea. Alle femmine, già confuse cogli uomini, non concesse assistere che dal posto superiore alle lotte de’ gladiatori. Destinò [13] alle sole Vergini Vestali un separato posto nel teatro di contro alla tribuna del pretore»[5].

Petronio nel suo Satyricon, ci ha lasciato alla sua volta memoria che l’ordine più alto ne’ teatri fosse quello riserbato agli schiavi, alle cortigiane ed all’infima plebe, in quel passo in cui Criside, l’ancella della dissoluta Circe e mezzana de’ suoi amori, accostando Encolpo e invitandolo da parte della sua padrona, alla maraviglia di costui che schiavo di Eumolpione s’era infinto e mutato il nome in quello di Polieno, così risponde: «Quanto al dirti schiavo ed abbietto, questo è lo stesso che accendere il desiderio di colei che ti aspetta; perchè hannovi alcune donne che dilettansi di sucidume, o non sentonsi brulichio se non alla vista di schiavi, o di sergenti ben infiancati: ad altre un mulattiere coperto di polvere, ad altre un attore che figura su per le scene. Insigne fra queste è la padrona mia: ella sale dall’orchestra al quattordicesimo ordine, e in mezzo all’ultima plebe rintraccia chi più le piace»[6].

Eravi poi l’orchestra, che occupava, rispetto al rimanente dell’edificio, un posto corrispondente alla platea de’ nostri teatri e consisteva in uno spazio aperto, in piano, nel centro dell’edificio sul fondo, circoscritto di dietro dalle più basse file de’ sedili [14] degli spettatori e dinanzi dal muricciuolo della scena. Il pavimento di questa parte è di marmi greci disposti in varii quadrati, e nel mezzo sopra una larga fascia di marmo cipollino, che ne occupa tutto il diametro, si legge in grandi lettere di bronzo incastonata questa iscrizione:

M . OCVLATIVS M . F . VERVS .
VIR PRO LVDIS[7].

Dalla quale iscrizione apprendiamo il nome d’uno de’ due sovrintendenti dei giuochi o spettacoli in Marco Oculazio Vero.

Ai lati della scena ed al disotto de’ vomitorii o porte che mettevano all’orchestra, sonvi due podii o tribune, a cui si giunge per quattro gradini praticati di dietro. Il podium in un anfiteatro o circo o teatro, era un basamento alto circa sei metri dal suolo dell’arena destinato ad essere occupato dall’imperatore, da’ magistrati curuli e dalle Vestali, che sedevano quivi sopra i loro seggi d’avorio. Svetonio e Giovenale ne fanno menzione[8].

La scena poi, misurata da Bréton di 17.m 50, è assai bene conservata, è formata di mattoni e di [15] opera reticolata di tufo rivestita di marmo bianco.

Il proscenium, o intero spazio del palco rialzato, chiuso fra il muro permanente della scena di dietro e l’orchestra di fronte, e che con moderno vocabolo diremmo palcoscenico, non appare così profondo come ne’ moderni teatri; nel mezzo di esso, in sito più elevato, sorgeva il pulpitum, o alta e lunga predella su cui gli attori stavano quando recitavano i loro dialoghi, o discorsi.

Vitruvio, parlando dei pulpito, che i Greci appellano λογεῖον, avverte essersi esso usato già ristretto in Grecia, meno altrove, e però colà i tragici e comici recitavan sulla scena, gli altri attori tutti nell’orchestra; onde hanno in greco diverso nome, gli uni di scenici, gli altri di timelici[9], forse sonatori codesti ultimi, se decomponendo la parola, troviamo che essa significhi sollevar l’animo annojato, dove pur non derivi da Hymele, con che si designava l’inno di Bacco.

In questo primo senso avrei avuto ragione anch’io, se imitando l’esempio greco, ebbi a chiamare orchestra il luogo che è destinato nei nostri teatri a’ suonatori.

Davanti al pulpitum, scorgasi ancora nell’ammattonato, al posto che ne’ moderni teatri serba la ribalta dei lumi, un incavo correre tutto lungo la scena, nel [16] quale stava il cilindro a cui s’avvolgeva l’Aulæa od Aulæum, che era la tappezzeria o cortina, che faceva le veci dell’odierno sipario, ornata di figure ricamate su di essa, il più spesso rappresentanti storici fatti e paesane vittorie, come raccogliesi dal seguente passo delle Metamorfosi d’Ovidio:

Sic ubi tolluntur festis aulæa theatris,

Surgere signa solent, primumqne ostendere vultus,

Cætera paulatim; placidoque educta tenore

Tota patent, imoque pedes in margine ponunt[10].

Tal cortina veniva adoperata nei teatri greci e romani per lo stesso uso che i nostri siparii, a fine di nascondere il palco scenico prima del principio della rappresentazione e negli intermezzi. Questa cortina, scrive De Rich[11], non era però sospesa come i siparii e non scendeva giù dall’alto; ma tutt’al contrario, quando cominciava la rappresentazione, si lasciava cadere la cortina entro l’incavo suddescritto, e per conseguenza, finito l’atto, si tirava su dallo [17] stesso; quindi l’espressione aulæa premuntur[12] di Orazio, cala il sipario, significa che la rappresentazione sta per incominciare ed aulæa tolluntur di Ovidio[13], il sipario si alza, che l’atto o la rappresentazione è finita. Questo incavo entro cui scendeva l’aulæum, per essere sotto il proscenium, appellavasi con altro nome hyposcenium.

Del resto v’han di coloro che l’aulæum pretendono fosse proprio del teatro tragico soltanto, e che la commedia si servisse del siparium, che il succitato De Rich definisce una scena o paravento, adoperato nei teatri, e consistente in più spicchi, che potevano essere aperti o ripiegati l’uno sull’altro, come si fa ne’ paraventi che usiamo ora. Se non che Apulejo ha questo passo: Aulæo subducto et complicatis sipariis scena disponetur[14]; e si vede così usar egli de’ due vocaboli promiscuamente; quantunque il suo linguaggio implichi che l’aulæum era fatto calare (subductum) sotto la scena, quando lo spettacolo principiava, e il siparium era invece ripiegato in su (complicatum) nello stesso momento. Pare poi che questo ufficio di abbassare gli aulei, o siparii, de’ teatri spettasse specialmente a’ Britanni, [18] cioè agli schiavi fatti nelle guerre della Britannia e condotti, secondo il costume, a Roma, se questi versi Virgilio pose in una sua Georgica, che vi fanno non dubbia allusione:

Vel scena ut versis discedat frontibus, utque

Purpurea intexti tollant aulæa Britanni[15].

Finalmente le due lunghe camere dietro la scena, di cui l’una doveva essere coperta, l’altra scoperta, e servivano alla preparazione degli attori, si chiamava il postscenium, o dietroscena, al quale ha tratto Lucrezio nel suo Poema al libro IV[16].

Il teatro Comico od Odeum di Pompei era della capacità di forse millecinquecento spettatori: quindi abbastanza grande per tale città, pur calcolando che alle rappresentazioni tanto sceniche che circensi traessero molti dalle città vicine e borgate. Perocchè s’egli è vero che il Teatro Tragico ne contenesse quasi quattro volte di più e l’anfiteatro molte migliaja, come a suo [19] luogo dirò, è altresì vero che la minore importanza degli spettacoli dell’Odeum voglia essere considerata; vedendo noi pure oggidì anche nelle più vaste e popolose città esservi diversi teatri, e secondo l’entità degli spettacoli che vi si offrono, avere anche la capacità.

Compirà la descrizione materiale di questo teatro pompejano, quale fu rinvenuto cogli scavi, l’accennare come presso all’ingresso siensi vedute molte iscrizioni graffite, evidentemente da schiavi, liberti e gladiatori, taluna recante spavalde imprese, tal altra oscenità, di cui non giova tener conto; ove si eccettui d’una di quest’ultimo genere publicata dal De Clarac, che portando la data dei 13 delle calende di dicembre dell’anno del consolato di M. Messala e L. Lentulo, cioè l’anno 731 di Roma, prova l’esistenza dell’Odeum a tre anni avanti Cristo, quindi più di ottant’anni prima della catastrofe della città.

Finalmente a tutto dire di quelle particolarità che sono attinenti al teatro antico, e che possono altresì riuscire a noi di non dubbio interesse e studio, per quelle applicazioni che nella costruzione di congeneri edifizj si potrebbero fare, ricorderò che nella parte superiore di esso dov’erano le carrucole e gli altri congegni del velarium, del quale non ho a dire in questo capitolo, non occorrendo di esso perchè l’Odeo era coperto, ma me ne riserbo nel venturo, sospendevansi specie di campane di bronzo o [20] di terra cotta chiamate echea, la cui apertura era rivolta in basso verso la scena, sicchè la voce ferendone la cavità, ne produceva il suono più chiaro e più armonioso, come si legge in Vitruvio[17]. Queste campane, o vasi di bronzo o di terra cotta, erano proporzionatamente una più piccola dell’altra, acciocchè producesse l’una il suono più acuto dell’altra, e servivano solo, come chiaramente leggesi nel detto autore, per aumentare le voci corrispondenti, non per sonarsi con de’ martelli, come taluno si è avvisato di dire.

Una particolarità che non vuol essere a questo punto negletta, sono le tessere state ritrovate negli scavi dell’Odeum, e le quali servivano, come ora servono i biglietti, per avere ingresso al teatro. Esse sono di figura circolare e di un pollice di diametro ed è a presumersi che fossero in uso anche in tutti gli altri di Roma ed altrove in quel tempo, per quanto eziandio sto adesso per dire.

La dichiarazione di esse importa venga qui fatta, perchè mi aprirà l’adito a intrattenermi più avanti del genere delle rappresentazioni.

Teatro Comico od Odeum di Pompei. Vol. II, Cap. XII.

Di tre tessere si hanno esemplari, rinvenuti negli scavi pompejani, senza tener tuttavia conto di quelle altre a forma di mandorle o di piccioni, le quali [21] ultime credesi valessero per i posti destinati alla plebe; ragione forse codesta per la quale anche oggidì a siffatti posti si suol dare da noi il nome di piccionaja, scambiato per sinonimo di loggione, o di quel posto che è destinato alla plebe; o, dirò meglio, ai paganti prezzi minori.

La prima di quelle tre tessere rappresenta da un lato una specie di edificio e nel rovescio sono malamente incise queste parole:

XII
AICX-YAOY
IB

che si vollero interpretare, nella supposizione che nelle città della Campania si rappresentassero ancora le tragedie del più antico tra i sommi tragici greci, per XII d’Eschilo e le parole IB come la ripetizione in greco della cifra XII.

Nella seconda è rappresentato in rilievo come una cinta di mura con porte rozzamente indicate, e che però si vuol indurre rappresentassero l’anfiteatro, e nel mezzo più alta una torre o pegma, specie appunto di torre eretta col mezzo di macchine, sulla quale collocavansi nel circo i gladiatori combattenti. Nel rovescio leggesi:

XI
EMIK-KAIA
IA

cioè undecimo Emiciclo: le lettere di sotto, IA, significano in greco ancora la cifra XI. Pretendesi poi che sia questa la tessera per lo spettacolo diurno; ma io [22] confesso che non so argomentarne la ragione; perochè il dir solo che il disegno rappresenti l’anfiteatro, non significa che dunque si accenni a spettacoli diurni di combattimenti; mentre il fatto stesso d’esserci rinvenuta la tessera in luogo destinato a rappresentazioni musicali o comiche spiegherebbe tutt’altro; e d’altronde chi oserebbe affermare con asseveranza che un’identica tessera d’ingresso valesse e per spettacoli diurni e per rappresentazioni notturne, per scenici ludi e per esperimenti gladiatorj, se pur a’ dì nostri veggiamo che un identico biglietto, portante al bisogno emblemi musicali, o maschere di commedia, vale promiscuamente per rappresentazioni d’ogni genere, non escluse serate magiche od esercizj equestri?

La terza tessera reca un’iscrizione latina più completa delle altre, recinta da un serpe che stringendo nella bocca l’estremità della coda forma un circolo, e suona così:

CAV . II
CVN . III
GRAD . VIII
CASINA
PLAVTI

cioè cavea II, cuneo III, gradino VIII, La Casina di Plauto.

Io non mi inframmetterò alla quistione agitatasi da Giusto Lipsio, dal Casaubono, dal Bolangero, dal Pitisco e da altri antichi, e rinvergate pur da’ moderni, [23] se, cioè, queste tessere rappresentassero il prezzo d’ingresso, o il posto di favore, e se in teatro si andasse gratuitamente o contro pagamento.

Credo che tutti possano avere ragione. — Quando erano duumviri, edili ed altri supremi magistrati, che all’entrare in carica, o per taluna speciale solennità largivano spettacoli, questi naturalmente, come portava il costume, dovevano essere gratuiti a tutti, sostenendone la spesa chi con essi voleva solennizzare il proprio avvenimento al potere e ingraziarsi la plebe: quando invece venivano offerti da uno speculatore, come in Pompei poteva essere stato Livinejo Regolo allorchè accadde nell’anfiteatro la gravissima contesa tra Pompejani e Nocerini, allora l’entrata ai medesimi avrà dovuto essere certamente onerosa.

Si comprende in tal guisa come, quando fossero gratuiti gli spettacoli, la plebe tumultuasse fin a mezzo della notte davanti al circo od a’ teatri per occuparne i posti, a un di presso come veggiamo accadere avanti a’ nostri teatri all’evenienza di straordinari spettacoli cui prendano parte celebrati artisti, e Caligola però in Roma se ne dicesse assai disturbato, giusta quel passo di Svetonio nella vita di quel Cesare: inquietatus fremitu gratuita in Circo loca occupantium[18]; mentre poi nel Pœnulus di Plauto si legge:

[24]

Servi ne obsideant, liberis ut sit locus,

Vel as pro capite dent: si id facere non queunt,

Domum abeant;[19]

lo che vuol dire che quella rappresentazione non fosse gratuitamente data.

Descritto il Teatro Comico pompejano, che abbiam trovato già al livello dei più celebrati di quell’epoca, male da esso ci faremmo ad argomentare del come fossero i primi teatri. Nondimeno mi studierò di racimolare quelle notizie che si hanno e di restringerle a breve dettato, a beneficio di chi le brami.

Lasciando in disparte il carro di Tespi, del quale mi riserbo a tener parola nel capitolo vegnente, e che segna il primo progresso dell’arte drammatica, che dal suolo ascese in luogo più elevato per isvolgere la sua qualunque azione, i primi teatri che questo nome assunsero desumendolo dal vocabolo greco Θέατρον, che significa spettacolo, erano fabbricati di legno, alla opportunità, posticci e duravano il tempo assegnato alla festa per cui si celebravano que’ ludi scenici a’ quali servivano: comunque venissero dipinti, argentati, dorati, decorati di statue, adorni d’opime spoglie di vinti popoli. Scauro ne alzò uno in Roma [25] capace persino di ottantamila spettatori, ricco di tremila statue e trecentosessanta colonne di marmo, di vetro e di legno dorato, 479 anni avanti Gesù Cristo.

Ma già in Grecia erasi da Temistocle assai prima provveduto, nella 75.ª olimpiade, a sostituire al teatro di legno di Atene, crollato circa vent’anni prima, uno di pietra; se pure anteriori adesso non furono quelli di Sicilia, fra cui il teatro di Segeste, le cui rovine appajono della più vetusta antichità, e quello di Adria, colonia degli Etruschi, eretti assai e assai più in là de’ teatri in pietra di Roma.

Pompeo, dopo vinto Mitridate, ne fabbricò uno stabile in Roma capace di quarantamila spettatori con quindici ordini che salivan dall’orchestra fino alla galleria superiore; uno, e fu quel di Marcello, fatto fare da Augusto fra il colle Capitolino e il Tevere, fu più vasto ancora; e Statilio Tauro ne eresse un altro fra la porta Nevia e Celimontana: Ovidio alluse a questi tre teatri in quel verso del libro III De Arte:

Visite conspicuis terna theatra locis[20].

Cajo Curione volendo sorpassare i predecessori in bizzarria, nei funerali di suo padre, costruì due teatri semicircolari, tali che potessero girare sopra un pernio con tutti gli spettatori; sicchè, compite le [26] rappresentazioni sceniche, venivano riuniti, e gli spettatori si trovavano trasportati in un anfiteatro; ma di questa stranezza, feconda di conseguenze maggiori di quelle avvertite dal suo autore, tornerò a parlare in un capitolo successivo.

L’architettura dei teatri in pietra fu suppergiù eguale a quella che vedemmo nel teatro di Pompei: qualche variante tuttavia si ha fra i teatri greci e i romani, massime nell’ordinamento della scena e si vuol dire che i teatri di Pompei si accostassero più al fare dei primi. Dentro, erano ordinariamente scoperti, sì che fosse mestieri agli attori di forzare ancor più la voce, che già dovevasi emettere tutta intera per la vastità della cavea, se, come or vedemmo, i teatri poterono capire fino ottantamila spettatori.

Or brevemente dirò della storia del teatro comico latino, perchè con essa si verranno a conoscere le produzioni che avranno pur dovuto rappresentarsi sulle scene dell’Odeo Pompejano.

E prima di tutto, delle origini, importandone l’argomento, massime a rivendicarle a favore della Italia nostra.

I Poeti le rinvengono alla campagna, tra i pacifici e allegri agricoltori, e Lucrezio infatti ne fa così non dubbia menzione:

Sæpe itaque inter se prostrati in gramine molli

Propter aquæ rivum sub ramis arboris altæ

Non magnis opibus jucunde corpore habebant,

[27]

Tum joca, tum sermo, tum dulces esse cachinni

Consuerunt, agrestis enim tum musa rigebat[21].

Virgilio alla sua volta nella seconda Georgica volea accennare a questa allegra costumanza del villaggio; comunque appaja le creda egli dedotte dall’Attica in Italia, constatando singolarmente essere ciò avvenuto all’occasione delle vendemmie ed in onore di Bacco:

Non aliam ob culpam Baccho caper omnibus aris

Cœditur et veteres ineunt proscenia ludi,

Præmiaque ingentes pagos, et compita circum

Thesidæ posuere, atque inter pocula læti

Mollibus in pratis unctos saliere per utres.

Nec non Ausonia Troja gens missa, Coloni

Versibus incomptis ludunt, risuque soluto

Oraque corticibus, sumunt horrenda cavatis,

Et te Bacche vocant per carmina læta, tibique

Oscilla ex alta suspendunt mollia pinu[22].

Dai quali versi si raccoglie altresì di qual modo [28] traessero origine le maschere, dalle corteccie d’albero, cioè, non che dal tingersi della faccia colle vinaccie che facevano nella vendemmia i campagnuoli; primo cenno tuttociò alle teatrali rappresentazioni, come Servio avverte: Primi ludi theatrales ex Liberalibus nati sunt[24].

Nè dissimile fu l’opinione del Venosino, che di arti vuole affatto ignaro il Lazio fin dopo l’occupazione della Grecia, se potè dire:

Græcia capta, ferum victorem cœpit et artes

Intulit agresti Latio: sic horridus ille

Defluxit numerus Saturnius, et grave virus.

Munditiæ pepulere; sed in longum tamen ævum

Manserunt, hodieque manent vestigia ruris

Serus enim Græcis admovit acumina chartis etc.[25]

[29]

Con che per altro, in certo modo, smentisce sè stesso, perocchè pur rammenti in questi versi che un’arte già vi fosse in Italia sussistente. Infatti era già gran pezza che in Sicilia esisteva: recite si facevano pur altrove in versi saturnici, o fescennini così chiamati da Fescennia, città dove molto erano invalse le Sature, mescolanza di musica, recita e danza, ed anco i ludi scenici già esistenti in Etruria e dedotti in Roma, come superiormente riferii, fin dall’anno 380 di Roma, provano che l’Italia non attese che Grecia le apprendesse l’arte drammatica.

E prima ancora della importazione dell’arte greca, sono le Atellane, così nomate da Atella, città antica della Campania fra Capua e Napoli, favole esse, o specie di commedie che furono del pari introdotte in Roma, e vi ottennero largo favore sotto il nome di ludi osci, perchè scritte in lingua osca e dagli Osci inventate. Taluno vorrebbe perfino somigliare le atellane alle nostre commedie a soggetto; certo, recitate da’ giovani [30] bennati, allettavano grandemente il popolo per lo scherzo continuamente vivace e per la loro originalità.

Il Macco o Sannio, progenitore del nostro Zanni o Arlecchino, era già allora in voga ed era un buffone, raso il capo, vestito di cenci a vario colore ed anche negli scavi di Pompei si trovò il Pulcinella, maschera atellana, pervenuta insino a noi, ed alla quale in Napoli è specialmente destinato pur a’ dì nostri un teatro, quello detto di San Carlino, frequentatissimo dal popolo e da chi ama alle facezie di lui esilararsi.

Aristotele e Solino riconobbero l’arte drammatica anch’essi come nata in Sicilia e trasportata in Atene da Epicarmo e Formione, ovvero dalla Magna Grecia, ove molti Pitagorici avevano scritto commedie, e tra essi il tarantino Rintone, che inventò una commedia che in Roma designavasi appunto dal suo nome Rintonica.

Ma chi è dato generalmente pel più antico de’ scrittori comici romani, che introdusse la favola teatrale, che compose drammi con unità di azione, fu Livio Andronico, nativo, credesi, egli pure di Taranto, schiavo e poi fatto libero. Egli rappresentò il suo primo dramma nell’anno 240 avanti l’era volgare, sotto il consolato di C. Claudio e di M. Tuditano, secondo leggesi in Cicerone. Recitando egli medesimo, perdè la voce, ed introdusse allora a rimedio d’avere davanti a sè un giovane, il quale cantasse i suoi versi, mentr’egli [31] faceva i corrispondenti gesti, vieppiù questi espressivi, perchè non distratto dalla cura della voce; d’onde venne poi l’uso agli istrioni di accompagnare col gesto ciò che un altro cantava, non parlando essi che nel dialogo.

Di tre parti si fe’ constare la commedia: dialogo, cantico, coro. Nella prima comprendevasi l’atteggiare di più persone, nella seconda parlava una sola, o se ve n’era un’altra, udiva di nascosto e parlava da sè; nella terza poi era indeterminato il numero dei personaggi. Distinguevansi le commedie in palliatæ o togatæ, secondo che fossero di soggetto greco o romano; nelle prætextatæ s’introducevano persone di grande affare, vestite della pretesta; inferiori erano le tabernariæ e i mimi che agivano in esse. La recitazione veniva poi sempre accompagnata dal suon della tibia, come più avanti verrò meglio notando.

Dopo Andronico, de’ cui diciannove drammi non sopravvivono che frammenti, venne Quinto Ennio di Calabria, di cui son raccolti i frammenti nel Teatro dei Latini di Levêe, quindi Tito Accio Plauto, o Maccio, come Martino Herz vuole si legga, il quale nato 227 anni prima di Cristo, scrisse molte commedie, di cui venti sopravvanzano, fra le quali l’Anfitrione, in cui si burla degli Dei, l’Aulularia incompleta, il Trinummus e i Captivi di savio e morale intreccio, non che la Casina, che sappiamo dalla tessera, di che ho già intrattenuto il lettore, recitata nel teatro comico di Pompei.

[32]

Ma tutti costoro trattarono soltanto soggetti greci, nè di meglio seppe fare egualmente Publio Terenzio Africano, che tutti i predecessori superò; comunque a Plauto ed a Terenzio stesso si anteponesse a quei giorni Cecilio Stazio. Delle centotto commedie che Terenzio tradusse da Menandro, perdute in un naufragio, non ci vennero che sei tramandate, le quali per altro ne fanno sentir gravemente la jattura delle naufragate per la loro purezza ed eleganza di stile. Nondimeno l’Eunuco sembra originale, sebbene i caratteri di Gnatone e Trasone sieno desunti dall’Adulatore di Menandro; e tanto piacque che fu replicato fin due volte al giorno, e guadagnò all’autore la cospicua somma di ottomila sesterzj.

Plauto, sentenzia Cesare Cantù[26], coll’asprezza e la facezia palesasi famigliare col vulgo, Terenzio ritrae dalla società signorile: quello esagera l’allegria, questo la tempora e i caratteri e le descrizioni esprime al vivo. Orazio, che giudicando solo dall’espressione, vilipende tutti i comici della prima maniera, chiama grossolano Plauto e lo taccia d’aver abborracciato per toccare più presto la mercede. Alle commedie di Terenzio fu asserito mettesser mano i coltissimi fra i Romani d’allora, Scipione Emiliano e Lelio: l’un e l’altro però son troppo lontani dalla finezza dei comici greci, vuoi nel senso, vuoi nell’esposizione.

[33]

La bagascia, il lenone, il servo che tiene il sacco al padroncino scapestrato, il ligio parassito, il padre avaro, il soldato millantatore, ricorrono in ciascuna commedia di Plauto, fin coi nomi stessi, come la maschera del vecchio nostro teatro; e si ricambiano improperj a gola, o fanno eterni soliloquj, o rivolgonsi agli spettatori, o scapestransi ad oscenità da bordello. Egli stesso professa in qualche commedia di non seguire l’attica eleganza, ma la siciliana rusticità, come nel prologo dei Menechmi:

Atque ideo hoc argumentum græcissat, tamen

Non atticissat, verum at sicilissat[27].

Grossolano e licenzioso il frizzo, il dialogo da plebe, verso talmente trascurato che si dubita se verso sia, lo che per altro imputar si può anche a Terenzio, onde vi fu chi pretese avesse scritto in prosa; tante sono le licenze a cui bisogna ricorrere per ridurlo a versi giambi trimetri.

Meno che pei letterati, ha lo scrivere di Plauto importanza pei filologi che vi riscontrano idiotismi ancor viventi sulle bocche nostre e ripudiati dagli autori forbiti: altra prova che il parlare del vulgo si scostasse da quello dei letterati, e forse vie più nell’Umbria.

[34]

Meglio si splebejò Terenzio. Neppur egli poteva produrre altre donne che cortigiane, ma le fa involate da bambine, e consueta soluzione della commedia è il riconoscimento loro per mezzi miracolosi: anche all’uomo dabbene trova un luogo fra i suoi: più corretto nella morale, men procace nel motteggio, eletto e spontaneo nel dialogo, pittorescamente semplice nei racconti, attraente nelle situazioni, resta inferiore in vivezza comica e gaje fantasie; quanto all’invenzione, e’ si scusa col dire che non è possibile più atteggiar cosa nuova:

Quod si personis iisdem uti aliis non licet,

Qui magis licet currentes servos scribere,

Bonas matronas facere, meretrices malas,

Parasitum edacem, gloriosum militem,

Puerum supponi, falli per servum senem,

Amare, odisse, suspicari? Denique

Nullum est jam dictum quod non dictum sit prius[28].

Nè Plauto, nè Terenzio conobbero l’ammaestrare ridendo, proponendosi unicamente di recare sollazzo al publico.

[35]

Del resto qual giudizio si portasse de’ poeti comici, del loro vivente, ed a chi se ne aggiudicasse la palma, non è sì presto detto e valga a ciò persuadere quel che ne lasciò scritto Volcazio Sedigito, vissuto sotto gli imperatori, ne’ seguenti poco poetici versi:

Multos incertos certare hanc rem vidimus

Palmam poetæ comico cui deferant.

Eum, meo judicio, errorem dissolvam tibi,

Ut, contra si quis sentiat, nihil sentiat.

Cæcilio palmam Statio do comico;

Plautus secundus facile exsuperat ceteros:

Dein Nævius qui fervet, pretio, in tertio est:

Si erit quod quarto detur, dabitur Licinio:

Attilium post Licinium facio insequi;

In sexto sequitur hos loco Terentius

Turpilius septimum, Trabea octavum obtinet;

Nono loco esse facile facio Luscium;

Decimum addo causa antiquitatis Ennium[29].

[36]

Pare che questo critico abbia obbliato Afranio, a meno che non essendosi accontentato di tener conto che degli autori di commedie palliatæ, lo dimenticasse avvertitamente, come quello che illustre fosse sì, ma solo nelle togatæ.

Di qui vede il lettore una prima distinzione della commedia in togata e palliata, derivante per avventura dal valore che alle due parole veniva più comunemente assegnato. «Palliatus, dice De Rich a questa voce, chi porta il pallium greco, sorta di coperta di lana di forma quadra e bislunga, fissato intorno al collo e sulle spalle con una fibbia; quindi per induzione vestito come un greco; giacchè gli si contrappone in latino togatus, che vuol dire un Romano, di cui l’abito nazionale era la toga.» Così stando, palliatæ dovrebbonsi ritenere le commedie, come quelle di Plauto e di Terenzio, i cui soggetti ed anzi gli originali essendo greci, importar dovevano per necessità che gli attori fossero abbigliati alla greca, e viceversa togatæ quelle che avevano argomento e personaggi romani.

E così m’accade altresì di rammentare diversi altri generi della commedia romana. — Era la condizione dei personaggi che qualificava la favola; onde distinguevansi eziandio le commedie in togatæ, perchè di personaggi da toga, trabeatæ, perchè di attori fregiati della trabea, decorazione dell’ordine equestre, tunicatæ, dalla tonaca propria del basso popolo, e tabernariæ, cioè da gente di bottega.

[37]

Dopo tutto, è a lamentare che le opere di Plauto e di Terenzio sieno le sole a noi pervenute del teatro comico de’ Latini. Esse nondimeno stanno come non irrilevanti monumenti storici, atti a renderci l’immagine morale della loro nazione. Nè ciò mi si contrasti, per averci essi medesimi avvertito ne’ prologhi delle loro commedie di non aver fatto che tradurre i greci.

Imperocchè se Terenzio ritrasse più dilicatamente l’atticismo de’ suoi modelli e ne fu anche un discepolo più timido e servile; Plauto di rincontro si rese più padrone della materia che toglieva a prestanza e la foggiava poscia a propria fantasia. Ei poneva molto del proprio nelle sue imitazioni. Si scorge alla vena della sua poesia, alle irregolarità e bizzarrie stesse com’egli si abbandoni alla propria immaginazione, e come sia spesso originale. Puossi insomma affermare senza essere tacciati di temerità, che sotto nomi e costumi greci e particolarmente nel suo dialogo ed in talune parti dell’azione delle sue commedie, egli presenti spesso uno schizzo fedelissimo del costume romano.

Infatti, a parte anche delle frequenti volte che già m’avvenne in quest’opera di citarlo nel dire della romana società e di quello che mi sarà necessità di fare nel seguito, nulla certo di grave vi ha nell’itinerario che il choragus, o direttore della compagnia comica, viene a sciorinarvi nell’intermedio dei Curculio [38] all’atto IV Scena I. — Sono bene i quartieri di Roma che ci fa percorrere, quando lo stesso choragus nella I scena dell’atto III del Cartaginese, ci consiglia, se vogliamo incontrare de’ falsarj o degli spergiuri, di andare al comizio, nel luogo delle assemblee legislative, politiche e giudiziarie, in cui si mercanteggiano i suffragi dei cittadini e le deposizioni dei testimonj. Così ci mostra i mariti libertini che si rovinano in folli e scandalose spese presso la Basilica e presso il tempio di Leocadia-Oppia: nella Via Toscana ci fa fare la conoscenza di spavaldi oziosi, e nel foro piscatorio de’ crapuloni; come sul confine del gran foro degli uomini di credito e d’affari, e prima del lago Curtius de’ ciarloni impertinenti e maldicenti.

Egualmente, sia che v’introduca nelle case de’ privati, sia che v’accompagni nelle piazze, ne’ mercati, nelle vie, voi avrete sempre davanti gli occhi i Romani trasvestiti, di forma che quando ei finge un’azione contraria agli usi di Roma, ve ne avverta nel prologo, o nel corso della scena.

E poichè nella tessera teatrale rinvenuta negli scavi di Pompei è ricordata la Casina di Plauto, essa pure può tornare di storico documento. L’intrigo di questa commedia volge intorno al matrimonio d’una giovine schiava con un uomo della medesima condizione. Questa era cosa che allora poteva sembrar inverosimile a spettatori romani e urtare nelle loro [39] idee: ebbene l’esposizione del soggetto previene questo cattivo effetto:

Sunt hic, quos credo nunc inter se dicere;

Quæso, hercle, quid istuc est? serviles nuptiæ

Servine uxorem ducent, aut poscent sibi?

Novum attulerunt, quod sit nusquam gentium.

At ego ajo hoc fieri in Græcia et Carthagini,

Et hic in nostra terra, in Apulia.

Majoreque opera ibi serviles nuptiæ,

Quam liberales etiam curari solent[30].

Plauto è senza dubbio più geloso di conformarsi al gusto ed alla conoscenza del publico, che di osservare la convenienza della scena: dimentica spesso, ed io penso lo faccia espressamente, che i suoi personaggi son greci, perchè frequentemente ci parla degli edili, dei questori, del pretore, nomina il Campidoglio, la Porta Mezia ed altri luoghi celebri di Roma. I suoi attori, quantunque vestiti del pallium, affettano un gran disprezzo per la mollezza dei Greci; la parola pergræcari usa spesso per significare abbandonarsi ad orgie, mentre adula il suo publico, lodando la romana frugalità.

[40]

Non finirei sì presto se tutte volessi in Plauto raccogliere le costumanze, gli usi e le leggi di Roma: solo piacemi conchiudere che una ricca sorgente di istruzione troverà sempre colui che nelle di lui commedie vorrà attingere e che un prezioso supplemento può somministrare questo poeta alle indagini ed agli scritti degli storici.

Quantunque esso morisse l’anno 570 di Roma, nondimeno dalla summentovata tessera conosciamo che sulle scene del teatro comico di Pompei si rappresentassero tuttavia le di lui commedie, cioè negli anni di Roma 832: or bene, si può egli dire con altrettanta sicurezza, per le altre due tessere aventi lettere greche, che veramente si rappresentassero in Pompei drammi e tragedie greche e nel greco idioma?

Può presumersi; perchè famigliare la lingua greca a’ più colti; come avviene a un di presso tra noi, che abbiamo altresì rappresentazioni in lingua francese: ma meglio ne dirò nel capitolo venturo, trattando del teatro tragico di Pompei.

Di un genere affine alla commedia mi corre debito ancora, a compimento del soggetto che ho tra mano, di mentovare: di quello intendo de’ Mimi o Mimiambi che dir si vogliano, perocchè questi nomi si scambiassero anche per sinonimi. Ad averne una certa idea, è bene mettere sull’avviso il lettore, acciò non abbia a confonderli nè colla pantomima, in cui la danza e i gesti rappresentavano soli una serie di quadri staccati, [41] nè coi mimi greci, piccole rappresentazioni in verso, i cui subbietti importavan meglio del gesticolar degli attori. I mimiambi de’ Romani, da’ quali la danza si venne mano mano escludendo, consistevano dapprima in burleschi atteggiamenti, in farse grossolane e il più spesso licenziose, avanzo delle antiche atellane, alle quali erano venute succedendo, più gradevoli alla moltitudine che non lo fossero quelle regolarmente imitate dal greco, e più acconcie d’altronde ad essere rappresentate in teatri aperti ed assai grandi, ne’ quali s’avevano perfino, siccome ho già avvertito, ottantamila spettatori.

Scopo de’ Mimiambi era quello anzi tutto di muovere all’allegria ed al riso, parodiando il più spesso negli abiti, nel portamento, in determinate e spiccate pose e in consuete e notorie frasi e maniere di dire, personaggi celebri e popolari, cogliendoli nel loro ridicolo, o ne’ più saglienti loro atti, o nelle viziose locazioni e solecismi.

Gli attori di essi chiamavansi mimi, come i versi, e mimografi i soli compositori de’ mimiambi, quando pure non ne fossero costoro a un tempo stesso gli attori.

Si assegna ad inventore di questo genere di rappresentazioni, che die’ tanto nel genio del popolo romano, Decimo Giunio Laberio, cavaliere romano, non come attore ma come scrittore; finchè giunto a’ suoi sessant’anni, Giulio Cesare, nell’occasione dei ludi d’ogni [42] maniera dati da lui per cinque giorni in Roma a festeggiare la sua seconda dittatura, e ne’ quali superò le pompe e le spese di quelli precedentemente offerti da Pompeo suo rivale, come verrò a ricordare in altro capitolo, così seppe pregarlo, che parve un comando, egli montò sulla scena a lottar di bravura con Publio Siro, mimo e mimografo del cui valore, percorrendola, egli aveva già riempita l’Italia tutta.

Laberio aveva avvicinati a’ suoi Mimiambi morali sentenze ed apoftegmi che nobilitavano lo scorretto vezzo fin allora seguito di una soverchia licenza ne’ medesimi; onde Ovidio potesse giustamente così appuntarli nel suo libro Dei Tristi:

Quodque libet, mimis scena licere dedit[31];

Publio Siro, che vide il merito della innovazione, lo superò nell’egual via e di costui sono però superstiti tuttora presso che un migliaio di massime da disgradarne il più severo scrittore gnomico. Laonde e Seneca se ne fe’ bello ne’ suoi filosofici scritti, e gli educatori a que’ giorni le posero nelle mani de’ giovanetti scolari a studiare, con miglior senno di quello si adoperi a’ dì nostri con certi catechismi e libercoli didattici con cui vengono ribadite la superstizione e l’ignoranza.

È meraviglia allora più grande che, possedendo [43] l’Italia ripetute traduzioni di tutti i classici dell’aurea latinità, non abbia finora avuto un volgarizzatore nel suo idioma de’ Mimiambi di Publio Siro, mentre n’ebbe una ghiribizzosa in greco dallo Scaligero; nè credo però aver io fatta opera ingrata elaborandola, come l’originale, in versi, e mandandola alla luce.

Nella lotta fra Laberio e P. Siro succennata, Cesare aggiudicò la palma al secondo: non si sa tuttavia se mosso da giustizia o da dispetto per avere Laberio scagliato sanguinosi giambi al di lui indirizzo. Nondimeno, siccome in un dignitoso prologo che la storia ci ha conservato, con qualche altro mimiambo appena, e che io do tradotto coi Mimiambi di P. Siro nell’edizione che ho fatta, s’era fieramente espresso sull’usatagli violenza di dover vecchio salire la scena, onde ne fosse venuto, a lui cavaliere romano, sfregio nella sua dignità, tal che i suoi pari lo avessero poi a disdegnare; generosamente Cesare il regalava d’un anello d’oro, e di cinquecentomila sesterzi, che si vorrebbero eguali a lire centomila nostrali.

Nè questi due egregi soltanto andavano celebrati come Mimografi e Mimi nell’antica Roma: altri si ricordano, di ottima rinomanza, come Filistione Niceno, Gneo Mattio, Lentulo, Marco Marullo e Virginio Romano, vissuto ai tempi della catastrofe di Pompei e ricordato con parole di miglior lode in una lettera di Plinio il Giovane; quantunque di tutti costoro nulla in vero ci sia rimasto.

[44]

Io ricordando questi nomi, a cagione d’onore, comunque non l’abbia detto espressamente, ho lasciato supporre, molto più ricordando l’ultimo mimografo, che non breve stagione corresse fra gli uni e gli altri; e s’anco si volesse prendere a dato di partenza i due sommi, Laberio e Publio Siro, per giungere insino a Virginio Romano, percorreremmo uno spazio di oltre un secolo. Or bene, la voga de’ mimiambi non durò sempre in tal tempo. Venne la nausea e fu ripresa l’Atellana, per merito di Mummio, regnando Tiberio; poi si alternarono atellane e mimi, che diventarono entrambi la commedia dell’Impero, la quale ritraeva il colore del suo tempo, che si andava facendo di più in più licenzioso.

Mimi ed atellane aggiunsero anzi alla primitiva oscenità un eccesso di licenza empia; onde si tollerarono non solo, ma piacquero scellerati subbietti, come Diana flagellata, Il Testamento di Giove, Gli Amori di Cibele, I Tre Ercoli affamati, che sollevarono giustamente l’indegnazione di Tertulliano[32].

Se di tutte le prostituzioni infami della musa comica antica dovessi qui tener conto non la finirei sì presto: giustizia vuol nondimeno che non le si neghi il merito d’essere stata più d’una volta coraggiosa, sollevando, tanto nell’atellana che nel mimiambo, la propria voce contro la tirannide trionfante.

[45]

Poichè così ho finito di trattare de’ varj generi di comiche composizioni, mi rimane a toccare d’una importante particolarità del teatro antico: intendo del costume degli attori comici di portar, recitando, applicata al volto la maschera; onde poi dalle diverse qualità di essa si argomentasse tuttavia ne’ fregi architettonici ed emblemi teatrali, la indicazione della tragedia e quella della commedia.

Se l’origine della maschera, vuolsi, come vedemmo più sopra, derivata dal tingersi, nelle gazzarre del contado, la faccia di mosto e dalle corteccie d’albero ritagliate e foggiate che applicavansi i villani alla faccia, venutasi poscia migliorando e formando d’altre più convenienti materie; non pare che l’uso di essa venisse subito introdotto in Roma e nelle altre parti d’Italia; dove, al dir del Pitisco, prima di Livio Andronico si usasse dagli attori portar cappello od elmo, non maschera. Roscio Gallo fu il primo a servirsene, secondo la più generale opinione, e vuolsi ne fosse causa l’aver egli avuto gli occhi torti.

«Il fine però della maschera, scrive Francesco De Ficoroni, non fu propriamente il coprire qualche difetto del volto, fu piuttosto un capriccio, e il diletto degli spettatori, che nasce dall’inganno, preso dagli occhi; ma ben scoperto dall’intelletto nel vedere un travisato o più terribile, o più ridicolo del suo essere naturale. Fu anche la maggior libertà, che si prendevano gli attori così travestiti in dire e fare [46] ciò che volevano. Le maschere antiche non velavano solamente la faccia, come le nostrali, ma coprivano una parte almeno del capo, secondo Gellio al 7, che dice: Caput et os cooperimento persona tectum[33]. Che se alcun vuol che la voce Persona, significhi l’abito tutto mutato a maschera, non ripugno, purchè conceda che significhi ancora la sola maschera del volto, conforme il detto di Fedro, lib. 17:

Personam tragicam forte vulpes viderat,

O quanta species, inquit, cerebrum non habet»[34].

Poscia oltre che si formarono, come notai, le maschere di pelli e d’altre materie, vennero altresì ridotte a caricature di ridicolo o di terribile, spesso poi foggiandole al naturale ed in sembianza de’ personaggi che si volevano rappresentare.

Generalmente erano schiavi o liberti greci, che per virtù di studio avevano appreso la pronunzia del latino, quelli che davansi al recitare, e le parti di donna erano il più delle volte sostenute dagli uomini. Istrioni e mimi erano nel disprezzo pubblico, [47] poichè si tenesse infame chi per denaro fingesse affetti e si esponesse spettacolo e mira ai possibili insulti. I mimi però privavansi delle civili prerogative, i censori potevano degradarli di tribù, i magistrati farli staffilare a capriccio; un marchio impresso sul loro capo gli escludeva da ogni magistratura e fin dal servire nelle legioni.

Questo pregiudizio contro i comici, i mimi, i danzatori, i cantanti e in genere gli artisti tutti da teatro, quantunque non così spinto come in addietro, durò fino a dì nostri; ne’ quali peraltro furon visti dalle disonoranti tavole del palcoscenico passare artiste, per merito di leggiadria o di loro perizia, a talami blasonati, ed anche troppo spesso più mediocri cantanti, attori e saltatori onorati perfino dell’abusato nastro di cavaliere.

Ultimo tema in questo capitolo, sia la vigilanza delle leggi e de’ magistrati sugli spettacoli teatrali.

Fin dalle XII Tavole era statuito:

Si quis populo occentessit, carmenve condisit, quod infamiam faxit flagitiumve alteri, fuste ferito[35], e siccome era invalso il costume di vituperare la nobiltà dalla scena; così quella terribil legge richiamavasi in vigore, massime dagli oppressori, come avvenne al [48] tempio di Silla. Vedemmo già di Nevio che per aver biasimato i maggiorenti e massime i Metelli, venne tratto ne’ ceppi; e Cicerone, che pur avea scritto ad Attico che nessuno osando chiarire in iscritto il proprio parere, nè apertamente riprovare i grandi, unica via non fosse rimasta che il far ripetere in teatro versi e passi che paressero alludere ai publici affari; tuttavolta, nel Libro De Republica loda la severità delle XII Tavole, perchè infatti il viver nostro dev’essere sottoposto alle sentenze de’ magistrati ed alle dispute legittime, non al capriccio de’ poeti, nè dobbiamo udir villania, se non a patto che ci sia lecito il rispondere e difenderci in giudizio.

Ed Orazio del pari se ne lagnava nell’epistola I, del Libro II:

Libertasque recurrentes accepta per annos

Lusit amabiliter, donec jam sœvus apertam

In rabiem verti cœpit jocus, et per honestas

Ire domos impune minax. Doluere cruento

Dente lacessiti: fuit intactis quoque crura

Conditione super communi: quin etiam lex

Pœnaque lata, malo quæ nollet carmine quemquam

Describi. Vertere modum, formidine fustis

Ad bene dicendum, delectandumque redacti[36]

[49]

A un di presso come vedemmo accadere e lagnarsi a dì nostri della stampa per le intemperanze di qualche libercolo, o giornale.

Le repressioni ad ogni modo delle leggi e de’ magistrati resero meno che in Grecia deplorevole questa licenza teatrale.

Piuttosto si valse del teatro la coscienza pubblica per proprie manifestazioni, che altrimenti non le sarebbero state concesse all’indirizzo di grandi oppressori. Ne’ giuochi Apollinari, a cagion d’esempio avendo Difilo recitato questi versi:

Nostra miseria tu es magnus....

Tandem virtutem istam veniet tempus cum graviter gemes....

Si neque lusus, neque mores cogunt[37],

[50] gli applausi del popolo non ebbero più modo, chè pretese vedere in essi fatta allusione a Pompeo, e Cicerone attesta che se ne volle pur migliaja di volte la replica: millies coactus est dicere[38].

Nè all’indirizzo di Cesare mancò il succitato mimografo Laberio di frizzare. Nella gara con P. Siro, egli esclama ad un tratto:

Porro, Quirites, libertatem perdimus[39],

e poco dopo:

Necesse est multos timeat quem multi timent[40].

Cicerone invece richiamato in patria, s’ebbe così da Esopo tragico il benvenuto, recitando il Telamone di Azzio: Quid enim? Qui rempublicam certo animo adjuverit, statuerit cum Argivis..... re dubia nec dubitari vitam offerre, nec capiti pepercerit.... summum animum summo in bello.... summo ingenio præditum.... o pater!... hæc omnia vidi inflammari.... O ingratifici Argivi, inanes Graji, immemores beneficii!... Exulare sinitis, sinitis pelli, pulsum patimini[41].

[51]

Sotto Nerone, un attore dovendo pronunziare: Addio, padre mio; mia madre, addio, accompagnò il primo coll’atto del bere, il secondo coll’atto del nuotare, per alludere al genere di morte dei genitori di Nerone. Poi in un’atellana, proferendo L’Orco vi tira pei piedi (Orcus vobis ducit pedes), voltavasi verso i senatori.

Si pensava con Orazio essere lecito dire scherzando la verità: ridendo dicere verum quid vetat? — Ma nondimeno tutte le verità non si possono pur troppo dire.

Del resto attribuivasi, fin dalle origini, principale scopo alla commedia la censura del vizio, e la Musa Talia, che dai Greci e dai Romani si volle far presiedere ad essa, così di sè medesima si fa in un epigramma dell’Antologia a parlare:

Κωμιχὸν ἀμφιέπω Θαλὶη μέλος, ἔργα δε φωτῶν

Οὺχ σίων θυμελησι φιλοκροτάλοισιν αθύρω[42].

Questa allegra Musa veniva rappresentata con una maschera comica alla mano e in caricatura, con un bastone pastorale e della corona d’erica recinta le tempia. Questa corona conviene a Talia, comunque consacrata d’ordinario a Bacco, divinità tutelare delle rappresentazioni teatrali, perchè nata la Commedia [52] fra le gioje della vendemmia, e le convenga perchè ella fosse che in siffatta occasione avesse a istituire questo genere di spettacolo.

Il ricurvo bastone, — attributo di Talia, che si faceva presiedere altresì ai lavori campestri, e d’ogni coltura, giusta il valor del suo nome che significa Fiorita, onde Virgilio cantò nell’Egloga X:

Nostra nec erubuit silvas habitare Thalia[43],

— era particolarmente adoperato dagli antichi attori, come gli scrittori intorno alle pitture d’Ercolano hanno provato[44].

Una Musa era sempre l’ispiratrice degli antichi poeti, e le Muse eran sempre da essi invocate; e se Esiodo potè chiamar Calliope la più degna delle nove muse e colei che accompagna i re rispettabili; non può negarsi a Talia ch’essa invece sia la più gradita per chi cerchi conforti e gioje e l’obblio delle angoscie di quaggiù.

[53]

CAPITOLO XIII. I Teatri — Teatro Tragico.

Origini del teatro tragico — Tespi ed Eraclide Pontico — Etimologia di tragedia e ragioni del nome — Caratteri — Epigene, Eschilo e Cherillo — Della maschera tragica — L’attor tragico Polo — Venticinque specie di maschere — Maschere trovate in Pompei — Palla o Syrma — Coturno — Istrioni — Accompagnamento musicale — Le tibie e i tibicini — Melpomene, musa della Tragedia — Il teatro tragico in Pompei — L’architetto Martorio Primo — Invenzione del velario — Biasimata in Roma — Ricchissimi velarii di Cesare e di Nerone — Sparsiones o pioggie artificiali in teatro — Adacquamento delle vie — Le lacernæ, o mantelli da teatro — Descrizione del Teatro Tragico — Gli Olconj — ThimeleAulæum — La Porta regia e le porte hospitalia della scena — Tragici latini: Andronico, Pacuvio, Accio, Nevio, Cassio Severo, Varo, Turanno Graccula, Asinio Pollione — Ovidio tragico — Vario, Lucio Anneo Seneca, Mecenate — Perchè Roma non abbia avuto tragedie — Tragedie greche in Pompei — Tessera teatrale — Attori e Attrici — Batillo, Pilade, Esopo e Roscio — Dionisia — Stipendj esorbitanti — Un manicaretto di perle — Applausi e fischi — La claque, la clique e la Consorteria — Il suggeritore — Se l’Odeo di Pompei fosse attinenza del Gran Teatro.

Le origini del Teatro Tragico, facile è argomentarlo, sono comuni con quelle del Teatro Comico: i due generi si vennero solo col progresso di tempo separando, divisione poi compiutamente operata allorquando [54] il trovato de’ scenici ludi si sollevò all’onore dell’arte, mercè le composizioni de’ poeti che si vennero sul teatro rappresentando.

Tuttavia per taluni assegnare si vuole speciale carattere agli incunaboli della tragedia, e se a’ principj della commedia satirica si prestarono i cavalletti di Susarione, il primo arringo a quelli della Tragedia si pretese riconoscerlo nell’Attica, nel carro di Tespi, forse quello stesso carro, che i medesimi abitatori della campagna valevansi ne’ giorni della vendemmia a portar uve e vasi vinarj.

La vecchia tradizione è consacrata ne’ seguenti versi del libro, o epistola De Arte Poetica di Orazio, indirizzata a’ Pisoni:

Ignotum tragicæ genus invenisse Camœnæ

Dicitur et plaustris vexisse poemata Thespis;

Quæ canerent agerentque peruncti fœcibus ora[45].

Tespi era poeta dell’Attica, non dell’Icaria, come altri sostiene; quando pure egli non sia che un pseudonimo, sotto il quale Eraclide di Ponto[46], al riferire [55] di Aristofane, fece comparire diversi suoi componimenti. Tespi visse nella 51.ª Olimpiade, vale a dire 534 anni prima dell’Era Volgare, ai tempi di Solone; e vuolsi infatti che fosse il primo degli ultimi suoi drammi — de’ quali però non si ha pur un frammento superstite, e che andava di villaggio in villaggio rappresentando — che gittasse le fondamenta del Teatro Tragico.

D’onde il nome, variano, come per tutte le antiche e più celebrate cose, gli etimologisti. Lo dicono i più venuto dalle due voci greche τράγος, capro, e ὠδῄ, cauto, perchè colui che nella tragedia avesse vinto, conseguisse in premio un capro, che poi il vincitore sagrificava a Bacco, come lo stesso Orazio ricordò nella succitata Arte Poetica in questo esametro:

Carmine qui tragico vilem certavit ob hircum[47].

Altri al contrario, tenendo conto del tingersi che gli attori facevano del volto col mosto o feccia, la quale in greco è detta τρυζ, e nel dorico dialetto τραξ, γὸς, fanno originato da tal pristino costume il nome a questo genere di composizione.

[56]

A differenza della commedia, che assai spesso da seri, torbidi a complicati eventi trae principio e si chiude poi con lieto e tranquillo esito: la tragedia ha tutto luttuoso il subbietto e tristissima catastrofe per fine. Laonde Ovidio, personificandola, la fa camminare violenta, a grandi passi, colla fronte torva per la scomposta chioma e col cascante peplo:

Venti et ingenti violenta Tragœdia passu:

Fronte comæ torva, palla jacebat humi[48].

Differenzia altresì la Tragedia nella natura e qualità de’ personaggi; spesso ridicoli, del popolo, o di servil condizione quelli della commedia: la tragedia li richiede invece gravissimi, re, principi e tali da versar nelle corti, come il più spesso i subbietti svolgonsi infatti nelle reggie, o nelle aule dei grandi, trattandovisi calamità, delitti e luttuosi fatti.

Dopo di Tespi, al quale il Lambino, nel commento d’Orazio, afferma che sianvi di coloro che credono anteporre Epigene come inventor del teatro ed anzi esservi chi prima di lui pretenda che fossero sedici altri a precederlo in simil genere di ludi; Orazio indica essere stato Eschilo ad avantaggiar la tragedia prestandole la maschera, il peplo, il coturno, a valersi della scena ed a far uso di più perfetta parola:

[57]

Post hunc, personæ, pallæque repertor honestæ

Æschilus, et modicis instravit pulpita tignis

Et docuit magnumque loqui, nitique cothurno[49].

Aristotele non dà ad Eschilo questo vanto, dicendo ignorarsene l’inventore: Quis autem, scrive egli, personas introduxerit, vel prologos, vel multitudinem actorum et alia hujusmodi, ignoratur[50]. Suida ed Ateneo lo concedono, in quanto alla maschera, al poeta Cherillo, contemporaneo di Tespi.

Vedemmo già delle maschere nel capitolo antecedente e notai la diversità della maschera della commedia da quella della tragedia: or mi piace d’aggiungere nell’argomento maggiori particolarità per quella speciale importanza che nella tragedia la maschera vi aveva.

Il volto, sotto del quale presentavasi sul teatro l’attore, era sempre corrispondente alla parte ch’ei sosteneva, nè si vedeva giammai un commediante rappresentare la parte d’un uomo dabbene colla fisonomia d’un briccone. — I compositori, scrive Quintiliano, allorchè pongono sul teatro un loro [58] componimento, sanno dalle maschere trarre eziandio il patetico. Nelle tragedie, Niobe appare con riso melanconico, e Medea coll’aria atroce della sua fisonomia, ci annuncia il suo carattere. Sulla maschera d’Ercole sono dipinte e la forza e la fierezza. La maschera di Ajace mostra il sembiante di un uomo fuor di sè stesso. Per mezzo della maschera si distingue il vecchio austero dall’indulgente, i giovani saggi dai dissoluti, una giovinetta da una matrona. Se il padre i cui interessi formano lo scopo principale della commedia, deve essere ora contento, ora disgustato, mostra aggrottato l’uno de’ sopraccigli della sua maschera, oppur l’altro abbassato, ed è attentissimo nel volgere agli spettatori quel lato della sua maschera che più si addice alla sua situazione. Si può quindi congetturare, che il commediante il quale portava quella maschera, si volgesse ora da una parte, ora dall’altra, onde mostrar sempre il lato del viso che era alla propria situazione più conveniente, allorchè rappresentavansi le scene in cui egli doveva cangiar d’affetto, senza poter cambiare di maschera in iscena. Se quel padre, a cagion d’esempio, compariva lieto sulla scena, presentava il lato della sua maschera, il cui sopracciglio era abbassato; e allorquando gli avveniva di cangiar d’affetto, camminava sul palco e con tanta maestria, che presentava in un istante allo spettatore il lato della maschera col sopracciglio aggrottato, avendo cura, tanto nell’una, come nell’altra situazione, di volgersi sempre di profilo.

[59]

Giulio Polluce, parlando delle maschere di carattere, dice che quella del vegliardo il quale sostiene la prima parte nella commedia deve essere afflitta da una parte e serena dall’altra e trattando delle maschere delle tragedie, le quali debbon essere adattate al carattere, dice altresì che quella di Tamiri, quel rinomato temerario il quale fu reso cieco dalle Muse per avere osato di sfidarle, doveva avere un occhio cilestro e l’altro nero.

Le maschere permettevano inoltre agli uomini di rappresentare le parti di donna, le quali esigendo, per l’ordinaria vastità dei teatri e, per sopraggiunta, scoperti, non altrimenti che i circhi, robustezza di voce, mal vi avrebbero veraci donne sopperito. Aulo Gellio racconta infatti un aneddoto dell’attor tragico Polo, cui nella tragedia di Sofocle venne affidata la parte di Elettra e ricorda come nella situazione in cui Elettra doveva comparire tenendo in mano l’urna ov’ella crede raccolte le ceneri del fratello Oreste, vi venisse stringendo al petto l’urna in cui erano veramente rinchiuse le ceneri di un fanciullo che egli aveva da poco tempo perduto; e che nel volgere, come voleva l’azione, le sue parole all’urna, sommamente si intenerì, non minore emozione destando nell’uditorio.

La necessità della maschera, per la suavvertita ragione della vastità dei teatri, è constatata dall’autorità di Prudenzio: «Quelli che recitano, dice questo [60] scrittore, nelle tragedie, si coprono il capo d’una maschera di legno e per mezzo dell’apertura fattavi fanno sentir da lungi la loro declamazione.»

Servivano da ultimo le maschere a rendere più formidabile l’aspetto dell’attor tragico, ciò che era uno degli studj più accurati nell’antica tragedia; onde Giovenale nella Satira terza:

Ipsa dierum

Festorum herboso colitur si quando theatro

Majestas tandemque redit ad pulpita notum

Exodium, cum personæ pallentis hiatum

In gremio matris formidat rusticus infans[51].

Di venticinque specie almeno si contavano le maschere della tragedia: sei di vecchi, sette di giovani, nove di donne e tre di schiavi, distinte tutte da una peculiare diversità di lineamenti, di colore, di capellatura e barba.

[61]

Eravi poi la persona muta, sorta di maschera portata dall’attore, che, pur figurando nel dramma, non parlava mai, come le comparse del teatro moderno. Questa maschera aveva dunque la bocca chiusa e non aveva espressione al pari delle altre.

Tanto negli scavi di Pompei che in quelli di Ercolano, si rinvennero nelle pitture esempi di personæ, o maschere tanto comiche, che tragiche, e che di semplici comparse e rispondono perfettamente a quei cenni che son venuto adesso fornendo.

Ho accennato più sopra che la maschera aggiungeva altresì valore alla voce: infatti essa la rendeva più sonora, quasi raccogliendola nell’emissione, come faremmo noi al bisogno di più grande clamore, che portiamo le mani intorno alla bocca. Un attore tragico domandava una forte e tonante voce, perchè dice Apulejo, il commediante recita e l’attor tragico grida a tutta possa. Nè diversamente intese dire Cicerone, quando nella enumerazione delle doti necessarie all’oratore, chiede ch’egli abbia la voce d’attor tragico: In oratore autem acumen dialecticorum, sententiæ philosophorum, verba prope poetarum, memoria juriconsultorum, vox tragœdorum, gestus pene summorum actorum est requirendus[53]. — Vedrà facilmente [62] il lettore quanta modificazione avesse in progresso, e massime a’ tempi nostri codesto requisito; il quale or vuolsi risponda alla vera naturalezza.

Seconda invenzione di Eschilo, al dire di Orazio, fu la palla, o con più proprio vocabolo greco, pur serbato dai Romani, la sirma, Συρμα, ed era la tunica che l’attor tragico portava lunga sino ai talloni, sostenendo le parti di personaggi eroici o divini. Era essa intesa a dare grandezza e dignità alla persona, e nascondeva la sconveniente apparenza dello stivale tragico, cothurnus, ad alta suola. Giovenale vi accenna nella Satira VIII, quando così apostrofa Nerone:

Hæc opera atque hæ sunt generosi principis artes,

Gaudentis fœdo peregrina ad pulpita saltu

Prostitui, Graiægue apium meruisse coronæ.

Majorum effigies habeant insignia vocis:

Ante pedes Domiti longum tu pone Thiestæ

Syrma vel Antigones, seu personam Menalippes,

Et de marmoreo citharam suspende colosso[54].

[63]

Questo coturno poi era uno stivale portato dagli attori tragici sulle scene, il quale aveva una suola di sughero alta parecchi pollici, all’intento di far comparire, egualmente che la sirma, più grande la loro statura ed aggiungere loro un più imponente aspetto. Da siffatta consuetudine originò la frase sumere cothurnum, calzare il coturno, per indicare tanto l’attore tragico, che il poeta che componeva tragedie. Questa promiscuità d’indicazione fu motivata allora, come fino a’ tempi moderni, da ciò che più spesso il poeta era anche l’attore. Già, pur allora, ne accennai implicitamente nel parlare di Livio Andronico; come dei tempi moderni può recarsene ad esempio Shakespeare.

L’uso del coturno nella recitazione della tragedia vuolsi generalmente introdotto da quell’altro sommo poeta tragico greco che fu Sofocle; onde scambiasi, per metonimia, fin nel linguaggio d’oggidì, coturno sofocleo bene spesso par tragica composizione.

Virgilio l’usò in un’egloga ad esprimere la severità o sublimità dello stile, parlando de’ versi di Cornelio Gallo, al quale quel componimento è diretto:

Sola Sophocleo tua carmina digna cothurno[56].

[64]

Nè la dignità maggiore dell’attor tragico, poteva tuttavia differenziarlo, nella designazione, dalla classe dell’attor comico. Entrambi detti istrioni, histriones, parola derivata dagli Etruschi, che l’adoperavano a significare un attore pantomimico ed un ballerino sulla scena, come ne fa fede l’autorità di Tito Livio[57]. — I Romani accolsero la voce, ma ne estesero il significato, con tal nome designando qualunque attore drammatico, che recitasse il dialogo del dramma con gesto appropriato, e quindi l’attor tragico come l’attor comico.

Plinio infatti chiamò M. Ofilio Hilaro istrione di commedie[58], come Esopo istrione di tragedie[59]. Non fu del resto che più tardi che si usò del nome stesso ad indicar uomo vanaglorioso e spavaldo ed anche il vil cerretano.

E fu ciò tanto vero, che Macrobio, a dimostrare come gl’istrioni fossero anzi stimati, cita l’amicizia intima di Cicerone con Esopo e con Roscio istrioni: la dilezione avuta da Lucio Silla per quest’ultimo, così che, dittatore, il regalasse di anello d’oro: il fatto che ad Appio Claudio, uomo trionfale, fosse attribuito ad onore fra’ colleghi di saper ottimamente danzare: pro gloria obtinuerit, quod inter [65] collegas optime saltitabat e chi tra nobilissimi cittadini, Gabinio uom consolare, M. Celio e Licinio Crasso si recassero a sommo di onore non solo lo studio, ma la perizia nella danza[60]. Io piuttosto dirò che i ludi e le ludiæ recitando e danzando sulle pubbliche vie fossero nel generale disprezzo, come lo sono tra noi i saltimbanchi e suonatori di strada.

Ovidio è di questa sorta di ludi che parla nel Lib. I. Artis amatoriæ:

Dum quæ, rudem prœbente modum tibicine Thusco,

Ludius æquatam ter pede pulsat humum[61]

Fin da’ loro primordii, tanto la commedia che la tragedia ebbero, nella loro recitazione, accompagnamento di musica, volendosi con questa sostenere la voce degli attori e massime del coro, che figurava impreteribilmente nelle tragiche composizioni, secondo ne ammonisce in questi versi Orazio:

Tibia non, ut nunc, orichalco vincta, tubæque

Æmula, sed tenuis simplexque foramine pauco

Aspirare et adesse choris erat utilis, atque

Nondum spissa nimis complere sedilia flatu[62].

[66]

Gli istrumenti erano le tibie, le quali apprendiamo dalle notizie che si leggono in molte edizioni in fronte alle commedie di Terenzio, che fossero di più specie.

Erano esse fatte di canna, di bosso, di corno, di metallo, o stinco di alcuni uccelli e animali, d’onde il nome ebbe origine. Alcune erano simili al moderno zufolo, altre al flauto, altre eran curve, altre s’accoppiavano ed eran pari, altre impari, ambe suonate ad un tempo da un medesimo suonatore, altre dicevansi destre ed altre sinistre, a seconda dovevansi tenere da una mano o dall’altra, e le prime producevano le note gravi e basse, le seconde ottenevano le acute.

L’Ecira di Terenzio, a mo’ d’esempio, fu accompagnata da due tibie pari: modos fecit Flaccus Claudi tibiis paribus[63]: il Formione dello stesso dalle tibie impari o disuguali: modos fecit Flaccus Gaudi tibiis imparibus; l’Andria con doppio pajo di tibie; gli Adelfi dalle tibie dette Sarranæ, che erano dell’egual lunghezza e diametro interno, come le pari, in guisa che tutte e due si trovassero alla medesima altezza di suono. Così dicasi delle altre commedie di lui, in molte edizioni delle quali leggesi, come dissi, in fronte alle stesse la nota: Acta tibiis dextris, vel sinistris, paribus vel imparibus.

[67]

I musici che suonavano le tibie nel teatro e che venivano altresì adoperati nelle feste e solennità religiose e ne’ funerali, chiamavansi Tibicines, e in Roma costituivano, come ne fa fede Valerio Massimo, una speciale corporazione. — Una pittura pompejana ci rappresenta un tibicen, seduto sul thymele nell’orchestra in atto di battere il tempo col suo piede sinistro e coperto dalla lunga veste.

Nè ufficio di tibicini era solo accompagnare del loro suono gli attori ed il coro durante la rappresentazione, ma ben anco di suonar negli intermezzi e fra gli atti, come usasi modernamente e come Plauto, chiudendo il primo atto del Pseudolus, informa con queste parole: Tibicen vos interea hic delectaverit[64]: ma già fin d’allora avvertivasi da molti alla inconvenienza di turbare con suoni le scene più interessanti e poetiche della tragedia, se Cicerone colla finezza della sua ironia avesse a scrivere: Non intelligo quid metuat cum tam bonos septenarios fundat ad tibiam[65].

E in Grecia e in Italia, preponendosi, per gentile e religiosa costumanza, alle scienze e alle arti quelle amabili divinità che sono le Muse; se Talia, come abbiamo veduto, era musa assegnata alla Commedia, Melpomene fu la musa della Tragedia.

[68]

Indarno lo scoliaste d’Apollonio e quello dell’Antologia[66] pretesero a questa Musa attribuir l’ode, forse a ciò indotti dal valore del suo nome, che significa cantante, senza riflettere che questo nome meglio convenga alla musica, che, come testè ho esposto, usavasi dagli antichi durante l’azione tragica teatrale; perocchè la maggior parte degli scrittori e poeti, greci e latini, s’accordino nel dire Melpomene la Musa della Tragedia e tra gli altri Petronio Afranio nell’Elogio delle Muse lo affermi chiaramente:

Melpomene reboans tragicis fervescit iambis[67];

e Le Pitture d’Ercolano portano scritto ΜΕΛΠΟΜΕΝΗ ΤΡΑΓΩΔΙΑΝ, Melpomene tragœdiam.

Il vestimento, che si assegna ordinariamente a questa Musa severa, è una tunica lunga, appellata talaris, le cui maniche giungono a’ polsi, al di sopra di essa un peplum o tunica più corta, e da ultimo la syrma teatrale, col pugnale e la maschera tragica alla mano, calzata del coturno, austera nella figura ed ombreggiata da’ capelli la fronte, fronte comæ torva, come ebbe a cantare Ovidio, che ho già citato.

Venendo ora alla materialità o forma e disposizione [69] delle parti architettoniche di un teatro tragico, non potrei che riferirmi a quanto mi accadde di dire nel capitolo precedente, perocchè teatro comico e teatro tragico si somigliassero quasi in tutto. Le differenze ho già del pari notate, e son minime; l’Odeum più spesso, il qual era d’origine greca, soleva esser coperto. Laonde vengo difilato al Teatro Tragico pompejano.

Anche quella descrizione che particolarmente ho fatta del teatro Comico, mi abbrevia il còmpito della descrizione del gran Teatro, o Teatro Tragico di Pompei; perocchè suppergiù si avrebbero a dire le medesime cose, da che e la distribuzione delle parti e l’ordinamento e i locali si rassomiglino, come anche molto simili gli scopi.

Non noterò adunque che quelle specialità che lo differenziano, a scanso d’inutili ripetizioni, non lasciando anzi tutto di prender atto del nome del suo architetto, quale ci fu tramandato da un’iscrizione ch’era in una muraglia attinente al teatro ed oggi trasferita al Museo Nazionale e che suona così:

MARTORIUS M . L . PRIMUS ARCHITECTUS[68].

Il teatro Tragico era situato sul declivio di una collina, sulla sommità della quale si trova il lungo e vasto portico accommodato a ricevere gli spettatori in caso di pioggia, potendo all’uopo anche servire [70] di passeggio, e di lizza per gli esercizi ginnastici. A differenza del Comico, era esso scoperto al pari dell’anfiteatro e della più parte dei teatri d’allora, massime di Roma; onde notai come particolarità quella dell’Odeum pompejano d’essere stato coperto, riferendo anzi a prova l’iscrizione che l’attesta, ma che d’altronde non può dirsi che fosse l’unico nella Campania, avvertendoci Stazio che pur in Napoli, dei due teatri, l’uno fosse coperto e l’altro no, in quel verso:

Et geminam molem nudi, tectique theatri[69].

Non è però che il Teatro Tragico esponesse così gli spettatori all’incommodo, non lieve in quella parte d’Italia, in cui l’estate è precoce, de’ vivi raggi del sole; avvegnachè si fosse presto ricorso alla invenzione di un mezzo per ovviare al grave inconveniente, nel velarium, che vi veniva disteso al disopra; lo che praticar solevasi anche ne’ giuochi dell’anfiteatro, come a suo luogo vedremo, riportando anzi, come farò, il tenore di alcuni affissi che annunziando al popolo gli spettacoli, lo avvisavano, a maggior eccitamento di concorso, che sarebbe tirato sull’anfiteatro il velario.

Nei teatri della Campania, prima che altrove e per conseguenza pur in questo di Pompei consacrato [71] alla tragedia, secondo la testimonianza di Plinio, venne introdotto l’uso del velarium a coprir il teatro e difendere per tal modo gli spettatori dagli ardori del sole; e come che esso richiedesse servizio di cordami e si componesse di tele quali si usavano per le vele de’ navigli, e che anzi se ne conservasse perciò loro il nome, così a distenderlo servivansi d’ordinario di marinaj.

Questa commodità, che avrebbe dovuto essere come salutare universalmente accolta, venne invece biasimata in Roma, chiamandola effeminatezza campana, quando Quinto Catulo ve l’importò, siccome leggiamo in Valerio Massimo: Quintus Catulus imitatus lasciviam primus spectantium concessum velorum umbraculis texit[70], e quello stupido mostro di Caligola, al dir di Svetonio, recavasi a diletto di far ritirare improvvisamente il velario e costringere gli spettatori a rimanere a capo scoperto esposti alla più cocente sferza canicolare[71].

Ma se nella Campania s’era ritrovato questo eccellente, quantunque calunniato, espediente contro la sferza canicolare, sappiam però da Marziale, che assai spesso esso tornasse inutile affatto in Roma al [72] teatro di Pompeo, per l’imperversare del vento. Ma se così in Roma, che sarà stato allora in Pompei? Sedendo la città in riva al mare, era più che mai esposta alla furia di esso. Il Poeta che protestava, nell’epigramma dal titolo Causia, cioè il cappellino usato nel teatro di Pompeo, ch’ei conserverebbe il suo cappello in testa:

In Pompejano tectus spectabo theatro

Nam populo ventus vela negare solet[72],

senza volerlo, ci lasciò ricordato che a’ quei giorni anche in teatri scoperti fosse della buona creanza lo starsene a capo nudo.

Giulio Cesare spinse la propria prodigalità fino al punto di volere in una festa magnifica data al popolo romano, che disteso fosse il velario di seta sull’anfiteatro e si sa che la seta si vendesse allora a peso d’oro. Anche Nerone ordinò un velario di porpora, i cui ricami d’oro rappresentavano il carro del Sole, circondato dalla Luna e dalle Stelle.

Pare del resto che un certo lusso fosse entrato poi sempre ne’ teatrali velarj, nè più si componessero, come nelle origini, di semplici e grezze tele di navi, se Lucrezio, nel suo poema De Rerum Natura, ingegnosamente descrive a lungo il giuoco dell’ombra [73] colorata prodotta dai variopinti velarj, così che non mi so trattenere dal qui riferirne il brano ch’io dispicco al IV libro:

Nam certe iaci, atque emergere multa videmus

Non solum ex alto, penitusque, ut diximus ante;

Verum de summis ipsum quoque sæpe colorem:

Et vulgo faciunt id lutea, russaque vela,

Et ferrugina, cum magnis intenta Theatris,

Per malos volgata, trabeisque, trementia flutant.

Namque ibi consessum caveæ subter, et omnem

Scenæ speciem, Patrum, Matrumque, Deorumque

Inficiunt; coguntque suo fluitare colore:

Et quanto circum mage sunt inclusa Theatri

Mœnia tam magis hæc intus perfusa lepore

Omnia conrident, conrepta luce diei[73].

Nè, a temprare l’ardore della stagione, usavasi nel teatro tragico di Pompei del velario soltanto: ma ben anco d’altro curioso trovato, che scaltrirà il lettore del quanto fossero innanzi i nostri maggiori negli artifizj dilicati.

[74]

Nella parte superiore del teatro, oltre l’emiciclo, evvi una specie di torre che figura tonda nel teatro e quadra al di fuori, in cui stava un serbatojo d’acqua derivata dal Sarno, che serviva ad inaffiare e rinfrescare teatro e spettatori, facendola scendere in minutissima pioggerella, o spruzzaglia, a mo’ di rugiada.

Stando a Valerio Massimo che lasciò scritto: Cnejus Pompejus ante omnes aquæ per semitas decursu æstivum minuit fervorem[74], sarebbe stato questo valoroso capitano il primo che avesse ad introdurre l’anaffiamento delle vie a diminuzion di caldura e di polverio ed additasse così il bene dell’evaporazione: facile ne era allora l’applicazione a’ luoghi di trattenimento, massime ne’ teatri, ne’ quali, per esservi rappresentazioni mattutine e nel pomeriggio, vi si rimaneva tanta parte del giorno.

La ricercatezza venne spinta dipoi a mescere a quell’acqua, onde rinfrescavansi i teatri, anche odorose essenze, e massime di zafferano allora in voga ed a mezzo di tubi, disposti dentro de’ muri. Esse venivano quindi sprizzate fuori, giusta quanto si legge nella nonagesima epistola di Seneca: Hodie utrum tandem sapientiorem putas qui invenit quemadmodum in immensam multitudinem crocum latentibus fistulis exprimat[75]. [75] Queste pioggie d’essenze, che Antonio Musa, il celebre liberto e medico di Augusto e amico di Virgilio, presso Seneca, appella odoratos imbres, pioggie odorose, e Marziale nimbos, nimbi; più comunemente chiamavansi sparsiones, nome anche comune alle liberalità che facevano i principi al popolo; ma come già erano stati di molti che austeramente avevano rimproverato di mollezza campana l’invenzion del velario, pur furono a più ragione di quelli che a ricordo di virtù e sobrietà antica, rinfacciassero alla loro età queste effeminate invenzioni.

E Properzio fra gli altri, nella sua Elegia, in cui accenna a un grandioso tentativo poetico sui fasti di Roma antica sventato dai consigli di un indovino forestiero, che lo ricondusse ai suoi canti d’amore, ha questo distico:

Nec sinuosa cavo pendebant vela theatro,

Pulpita solemni non oluere croco[76].

Egual concetto modulava Ovidio nell’Ars amandi in questo distico:

Tunc neque marmoreo pondebant vela theatro,

Nec fuerant liquida pulpita rubra croco[77].

[76]

Ma poichè sono a dire delle varie costumanze del teatro, non ommetterò quella che ci rivela Marziale, nel deridere in un suo epigramma un cotale che ei noma Orazio, solito a comparire vestito indecentemente il giorno degli spettacoli.

Ecco l’epigramma:

Spectabat modo solus inter omnes

Nigris munus Horatius lacernis,

Cum plebs, et minor ordo, maximusque

Sancto cum duce candidus sederet,

Toto nix cecidit repente coelo,

Albis spectat Horatius lacernis[78].

Quando adunque l’inverno, o l’inclemenza della stagione lo consigliava, essendo i teatri scoperti, non si lasciava tuttavia di andarvi, ma s’avea cura di avvolgersi in bianchi mantelli di grossa lana denominati lacernæ, e quest’Orazio il Poeta mette in canzone perchè fosse andato al teatro con una lacerna nera; ma la neve inopinatamente fioccata in copia aveala resa bianca siccome le altre.

Ora i bianchi mantelli di finissimo cascemiro ricoprono soltanto le nivee spalle delle nostre eleganti [77] signore allorchè traggono a’ teatri principali, od anche a serate di gala.

Se non che può credersi un abuso questo di portar mantello in teatro, se un senso lato vuolsi dare al seguente passo di Svetonio nella Vita d’Augusto: Ac visa quondam pro concione pullatorum turba, indignabundus et clamitans: En, ait,

Romanos, rerum dominos, gentemque togatam?

Negotium ædilibus dedit, ne quem posthac paterentur in foro circove nisi positis lacernis, togatum consistere[79]; ma credo che il divieto d’Augusto non riguardasse che i soli mantelli neri.

Io ho detto emiciclo, parlando del corpo dell’edificio ov’erano gli spettatori, ossia della cavea, oltre la quale eravi la torre del serbatojo d’acqua; ma più propriamente la cavea del teatro tragico non aveva la figura d’emiciclo, ma piuttosto di ferro da cavallo ed era del diametro di 68 metri e si calcola aver potuto contenere da cinquemila spettatori.

Gli scaglioni della cavea, gradus, e che noi diremmo gradinata, erano in numero di ventinove, tutti [78] di marmo bianco divisi in tre piani, moeniana, da due precinzioni o intervalli, detti anche baltei o cingoli, dal loro scopo, e questi pure divisi in cinque scale, scalæ, itinera, di cui ciascuno scaglione formava due gradini, ripartiti in cinque cunei; oltre due altre parti, le quali non sono ordinarie ne’ teatri, ma varietà speciale di questo e che sono di forma rettangolare, una per fianco e terminanti in due tribune riservate, nell’una delle quali si trovarono anche gli avanzi di una sedia curule.

Queste tribune, o spartimenti, hanno ciascuna un ingresso particolare, che mette sul portico di dietro, per una scala separata.

Il primo ordine della cavea aveva cinque scaglioni, venti ne aveva il secondo e quattro il terzo. Sul primo scaglione del secondo ordine eranvi incastonate lettere di bronzo formanti questa iscrizione:

M . HOLCONIO . M . F . RVFO
II . VIR . I . D . QVINQVIENS
ITER . QVINQ . TRIB . M . A . P .
FLAMINI . AVG . PATR . COL . D . D .[80]

Al medesimo personaggio, cioè a Marco Olconio Rufo figlio di Marco, ed a Celere Olconio esiste altra iscrizione sulla scena, da cui è manifesta [79] come a loro spesa fossero stati eretti a decoro della colonia una cripta, che è la summentovata torre quadrata onde conservare l’acqua pel teatro, un tribunale, che è quello sulla via del tempio di Iside in seguito a’ propilei del Foro Triangolare, di cui ho già parlato a suo luogo, e questo teatro:

MM . HOLCONI RVFVS ET CELER
CRYPTAM TRIBVNAL THEATRVM
S . P .
AD DECVS COLONIÆ[81].

Benemerita la famiglia degli Olconj di Pompei e della colonia per tante publiche opere, terrò conto pur di questa iscrizione ritrovata in questo teatro, allo stesso M. Olconio Celere dedicata e scolpita in marmo:

M . HOLCONIO CELERI
D . V . S . D . QVINQ . DESIGNATO
AVGVSTI SACERDOTI[82].

Sotto la seconda cavea dovevano trovarsi tre statue, delle quali due esser dovevano indubbiamente degli Olconii, Celere e Rufo, alla cui spesa erasi eretto il teatro.

Una particolarità poi offre l’orchestra del teatro tragico in un piedistallo, o piuttosto altare, su cui, a norma della costumanza greca, — e della Grecia molti usi osservavansi, più che altrove dell’orbe [80] romano, in Pompei, — sacrificavasi a Bacco prima di dar principio allo spettacolo. Chiamavasi con greco vocabolo thymele o thimela, θυμελη, e serviva altresì ad altri usi, come anche di monumento funebre, o di qualunque altro oggetto richiesto nella rappresentazione drammatica, nascondeva il suggeritore che stava di dietro, mentre il suonatore di flauto (tibicen) e qualche volta il capo del coro prendevan posto su quello. In un teatro strettamente romano non v’era thymele, perchè ivi l’orchestra fosse interamente destinata ad accogliere gli spettatori, al pari della nostra platea[83].

Al sommo di ciascuna sala eranvi le porte, vomitoria, cui si giungeva per mezzo di corridoi e scale praticate internamente.

Il proscenio presenta sette nicchie semicircolari per i tibicini e nella parte anteriore corre tutto per il lungo quella cavità dell’hyposcenium, da cui sorgeva l’aulæum, o sipario della tragedia.

Altre particolarità non si notano che il Gran Teatro distinguano dall’Odeum, ove non s’eccettui la prospettiva della scena ch’era costituita da tre ordini di colonne, l’uno sull’altro, con eleganti basi e capitelli di marmo e sei statue saviamente collocate. Sembra che anche questo publico edificio fosse stato ben danneggiato dal tremuoto del 63 e che si trovasse [81] nel momento della catastrofe del 79 in istato di riparazione, perocchè la scena che evidentemente doveva essere rivestita di marmi ed altre decorazioni, se ne presenti ora affatto spoglia. Delle tre porte ordinarie che la scena si aveva, e che qui sono maestose, aperta quella di mezzo, secondo l’uso, nel fondo di un emiciclo, chiamavasi regia, perchè di là uscivano i principali personaggi della tragedia: le due laterali appellavansi hospitalia. Fiancheggiano la porta di mezzo due nicchie che contenevano le statue di Nerone e di Agrippina.

Piacemi finalmente tener conto di ciò che afferma il Rosmini nella sua Dissertatio Isagogica, altre volte da me citata, che cioè questo teatro fosse stato aperto al publico, od almeno dedicato ad Augusto nell’anno vigesimosecondo del tribunato di questo imperatore[84].

Frammenti di statue di marmo, lapidi con iscrizioni, tegole ed embrici, e pezzi di legno carbonizzati si rinvennero dalla parte del Foro Triangolare, e il complessivo giudizio che dalle interessanti reliquie è dato di formulare, può sicuramente mettere in sodo che a questo loro teatro avessero i Pompejani ad aggiungere grande importanza, se gli Olconj vi credettero portare enormi dispendj; tanta vi pare la magnificenza e la perfezione dell’arte.

[82]

Quali fossero le tragiche composizioni che a questo teatro venissero rappresentate cerchiamo ora coll’usata rapidità d’indagare.

Se ci fosse lecito di mettere il teatro pompejano a fascio cogli altri teatri d’Italia, mi trarrei presto e facilmente d’impegno, dicendo che a siffatto teatro si rappresentassero, nè più nè meno che ai teatri di Roma, le tragedie de’ latini scrittori, e mi avverrebbe allora di ricordare i nomi de’ più celebrati poeti; ma gli scavi ed oggetti teatrali rinvenuti mi impongono obblighi maggiori.

Sappiamo che Andronico lasciò diciannove tragedie, comunque appena qualche frammento sia rimasto superstite e giunto fino a noi, e di questo autore ho già parlato altrove abbastanza: egual numero ne lasciò Marco Pacuvio, e Quintiliano le loda per profondità di sentenze, nerbo di stile, varietà di caratteri, sebbene la critica moderna più severa, nel poco che ci è pervenuto, giudichi non esser concesso ravvisare che liberissime imitazioni in istile oscuro e senza armonia. Lucio Accio alla sua volta ne compose e raffazzonò di molte, fra cui il Bruto e il Decio, soggetti patrizi che recitavansi ancora ai tempi di Cicerone e più volontieri venivano lette, e dell’Atreo, che Gellio scrisse aver Accio, giovanetto ancora, letto in Taranto a Pacuvio, pur lodandolo di grandiose e solenni cose scritte, non gli tacque di altre sembrargli dure alquanto ed acerbe; al che avesse [83] a rispondergli: non dolere ciò a lui, e trarne anzi auspicio di buon avvenire, per accader degli ingegni quello che delle mele, che, se nate agre e dure, divengono poscia tenere e succose; ma se spuntino tenere e succose, col tempo, non mature ma vizze si rendano e corrotte[85].

Di Gneo Nevio campano già dissi nel precedente capitolo del pari; ora ricorderò Quinto Ennio Calabrese, che scrisse tragedie e commedie non poche, che predicava di sè aver ereditato l’anima di Omero, Cassio Severo, Varo da Cremona e C. Turrano Graecula rammentati, a cagion d’onore, da Ovidio, come autori di buone tragedie[86]; ma più vorrei intrattenermi di Asinio Pollione, che fu riconosciuto siccome il più celebre tragico latino: ma che dirne, se nulla di lui, come degli altri sunnominati, sopravisse? Istessamente della Medea, che si sa avere scritto Ovidio stesso, della quale egli nel libro secondo Dei Tristi, dopo avere ricordato i libri dei Fasti, i sei ultimi dei quali o non iscrisse, come crede il Masson, o andarono perduti, soggiunge:

Et dedimus tragicis scriptum regale cothurnis:

Quæque gravis debet verba cothurnus habet[87].

Di questa tragedia non sussistono infatti che il seguente verso riferito da Quintiliano:

[84]

Servare potui, perdere num possim rogas?[88].

e l’emistichio seguente ricordato da Seneca il Vecchio, nella terza Suasoria:

Feror huc illuc, ut plena Deo[89].

Se non che, oltre la Medea, più altri lavori sembra che Ovidio abbia scritto pel romano teatro; fra i quali certo la Guerra de’ Giganti, com’ei ce ne avverte nell’elegia I degli Amori:

Ausus eram, memini, cœlestia dicere bella

Centimanumque Gygen; et satis oris erat[90].

Si gloria egli stesso che molte volte fossero rappresentate anche alla presenza d’Augusto[91], e continuassero a rappresentarsi con grande concorso anche dopo il suo bando[92].

Nè di più posso dire del Tieste di Vario, che a giudizio di Quintiliano cuilibet Græcorum comparari potest[93], e che Orazio nell’Arte Poetica mette con Virgilio a paro.

[85]

Alcune tragedie, gonfie di declamazioni e mancanti di quel che appunto costituisce il dramma, che è l’azione, raccolte in volume, vengono tuttavia spacciate sotto il nome di Lucio Anneo Seneca da Cordova. Esagerazioni, passion falsa, caratteri atroci, furori, situazioni improbabili sono difetti comuni a queste composizioni, alle quali non ponno tuttavia negarsi ben coloriti racconti, spesso maschii concetti e qualche buona sentenza, laconiche e concettose parole. Nella Medea, a cagion d’esempio, quando la nutrice la compiange perchè più nulla le sia rimasto:

Abiere Colchi; conjugis nulla est fides;

Nihilque superest opibus e tantis tibi,

Medea fieramente risponde:

Medea superest[94].

Nell’Ippolito, Teseo chiede a Fedra qual delitto creda dover ella colla morte espiare:

Quod sit luendum morte delictum, indica.

Fedra risponde:

Quod vivo[95].

[86]

Curioso è poi nel Coro de’ Corintj della Medea trovar vaticinata la scoperta di un nuovo mondo, quattordici secoli, cioè, prima che Cristoforo Colombo facesse quella dell’America:

Venient annis

Sæcuta seris, quibus Oceanus

Vincula rerum laxet, et ingens

Pateat tellus, Tethysque novos

Delegat orbes; nec sit terris ultima Thule[96].

Nè qui tutti furono i tragici romani, tra i quali si vuol perfino annoverare Mecenate, l’amico e protettore di Virgilio e d’Orazio, ed abbenchè si persista dai dotti a ritenere che Roma non abbia avuto tragedie; pure io reputo che tale sentenza unicamente debba intendersi nel senso che la romana storia non abbia prestato forse i subbietti eroici come la greca, alla quale pur tolsero per la più parte i proprj coloro che scrissero tragedie nella lingua del Lazio, e che però non sia riuscita a lasciare, come la greca, traccie luminose. Ma io non torrò, a tale riguardo, la mano al Nisard, che le cause ne indagò ne’ suoi Études sur les moeurs et les poètes de la decadence, trattando [87] appunto di Seneca. — I subbietti di questo poeta, noterò ad ogni modo, ed a rincalzo di questa osservazione, che all’infuori dell’Octavia, sono tutti eroici greci, che tali sono appunto la Medea e l’Hippolitus succitati, l’Hercules furens, Thiestes, Thebais, Œdipus, Troas, Agamemnon ed Hercules Œtæus.

Ecco come il sullodato Nisard riassume le cause per le quali Roma non ebbe tragedie:

«Nè il dramma per altro motivo è l’opera letteraria più indigena e più originale d’esso paese, se non perchè non può essere fatto senza il popolo, e perchè il popolo deve discuterlo in pieno teatro. Roma non ebbe dunque drammi, perchè non ebbe vero popolo. Senza il popolò può esser creata una bella letteratura d’imitazione, ma non il dramma, e questo lo provò appunto la Roma aristocratica. Seminando il suo vero popolo su tutti i campi di battaglia, essa perdette una delle più belle glorie dello spirito umano, quella del dramma, ma ebbe in compenso la gloria di vincere il mondo, e qui ebbe assai di che compensarsene. — In conclusione, un dramma nazionale era impossibile a Roma; e quanto alla bella e patetica tragedia di Atene, che sarebbe venuta a fare in mezzo ad un popolo di usuraj e di soldati, con tutte quelle delicatezze d’arte che inebbriavano la colta popolazione di Atene? Che interesse potevano prendere quelle turbe ardenti, e senza gusto, per uomini della leggenda omerica, per la caduta [88] delle antiche monarchie, per quegli incesti, per quegli assassinj, che eccedettero le forze umane, delitti comuni agli Dei ed agli uomini, che le giurisdizioni della terra non possono punire? Che pietà potevano esse sentire per que’ figli maledetti, per que’ sovrani ciechi ed erranti, per quelle vergini sospese alle braccia de’ vecchi, o chinate come statue sull’urne funerarie, o di loro mano componenti nel sepolcro il corpo d’un fratello, e sempre conservando in mezzo delle più dolorose prove la grazia e la bellezza, senza aver mai quelle lagrime moderne che solcano le guancie ed insanguinano gli occhi, nè quelle smorfie di dolori la cui invenzione risale a Seneca? E se la tragedia trapiantata così dalla Grecia sul teatro di Roma, avesse saputo, come l’epopea, imitata da Virgilio, e come l’ode imitata da Orazio, riprodurre nella bella lingua latina tutte le armonie e le grazie della lingua d’Atene, che noja non avrebbe dato questa musica dell’anima a’ sensi avvezzi al pugilato ed ai combattimenti di bestie, abbrutiti dalla vista del sangue grondante sotto i colpi del cesto o dei corpi lividi per le ammaccature, e che prestava l’orecchio assai più volontieri agli urli degli orsi che al ritmo delle strofe alate che rapivano il popolo di Atene e l’aristocrazia di Roma?»

Lance, nelle sue Vindiciæ romanæ tragediæ[97], raccolse, ciò malgrado, frammenti di ben quaranta tragici. [89] Otto Ribbeck[98] publicò del pari Tragicorum romanorum reliquiæ: ma nondimeno la tragedia latina, come dissi testè, restò di molto addietro dalla greca, i cui capolavori, che noi italiani abbiamo egregiamente tradotti da Felice Bellotti, rimarranno sempre, infin che vivrà ombra di letterario gusto, meritamente ammirati.

Queste tragedie tutte del teatro latino, è più che naturale che al Teatro di Pompei venissero rappresentate; ma pare altresì che a’ greci autori chiedessero colà le opere e si rappresentassero sulle scene pompejane e nel loro originale le tragedie più cospicue de’ greci poeti.

Già una delle tre tessere teatrali d’avorio che furono rinvenute negli scavi, quella, cioè, che offre da un lato l’immagine in rilievo di un anfiteatro con il pegma nel centro, vedemmo come nel rovescio portasse l’indicazione del posto, a cui apriva l’ingresso, in caratteri greci, e forse una tale particolarità potrebbe essere un indizio che quella tessera, diversa dall’altra che porta caratteri latini e che annunzia la commedia di Plauto, fosse in caratteri greci perchè greco lo spettacolo; non altrimenti che si usa da noi, lorchè si rappresenta la commedia francese, che affissi, programmi e biglietti sono nella stessa lingua composti e distribuiti. Ma più che questa, valse di prova ad altri la tessera portante pure [90] nel rovescio parole greche, che si pretesero leggere per Αῖςκυλο, cioè di Eschilo; con che si volle inferire che nelle città della Campania si rappresentassero ancora le tragedie del più antico tra i sommi tragici greci nel loro nativo idioma.

Ora, poichè sono a dire di quella tessera, credo fornire la diversa interpretazione di chi, esaminate altrimenti le parole del rovescio greche ed indagato il disegno del gettone, volle conchiudere significar esso invece la tessera dell’infimo posto. Negli oggetti confusi che vi son rappresentati si può distinguere una porticella alla quale si giunge per una scaletta ed alquante barriere a croce, ciò che parve a Barré, continuatore di Mazois[99], indicare la galleria di legno, od altrimenti l’impalcato che erigevasi sulla sommità delle mura degli anfiteatri o teatri, pari al loggione dei teatri moderni. Ciò ritenuto e considerando che le parole greche del rovescio sono scritte testualmente così: ΑΙCΧ . ΥΛΟΥ, vale a dire con un punto nel mezzo, mal si potrebbe allora sostenere che si debba ravvisarvi il nome di Eschilo. Forse ΑΙCΧ potrebbe essere l’abbreviatura di αίςκροῦ, posto cattivo, ΥΛΟΥ potrebbe essere la forma scorretta di ὔλης, di legno, ed indicare allora l’ultimo banco destinato agli schiavi, alle cortigiane ed alla plebe.

[91]

Ma per tornare all’argomento delle rappresentazioni greche, è assai verisimile che esse potessero aver luogo massime ne’ teatri della Campania, dove la lingua greca invece rimase, più che in Roma, conosciuta e più popolare; nè è rado che pur oggidì nelle città e paesi dell’antica Magna Grecia si oda tuttavia l’antico linguaggio materno. E notisi che nelle agiate famiglie romane la lingua greca costituiva la base della educazione, come il latino e il greco furono della nostra. I giovani si esercitavano a composizioni nel greco idioma ed erano incamminamento a maggiori. Han tratto a quest’uso i seguenti versi di Persio:

Ecce modo heroas sensus afferre videmus

Nugari solitos græce[100].

La forma da ultimo de’ teatri pompejani che ho descritto s’accosta meglio al modello greco che al romano: prova questa eziandio che le antiche tradizioni vi si mantennero e si rivelarono in tutto.

Questi cenni, comunque specialmente riguardino il teatro tragico di Pompei, riassumono a un di presso le condizioni pure generali del teatro romano.

Mancherebbe di dire ora qualcosa intorno agli attori e vi soddisfarò con brevi parole.

[92]

Ho già detto, parlando del Teatro Comico, a qual classe essi per lo più appartenessero e in che sprezzo dalle leggi e dalla società fossero tenuti: ma non fu sempre così. L’arte drammatica progredì; spesso autore ed attore non furono che una persona sola, e l’ingegno seppe anche vincere spesso i pregiudizj. Batillo e Pilade, Esopo e Roscio conseguirono, come attori, celebrità; dal nome di quest’ultimo è anzi ancora designata l’arte dell’agire sulle scene: arte di Roscio, egli avendo pel primo abbandonata la maschera; onde l’effetto e l’espressione divennero di lunga mano maggiori. Fu a riguardo di questi nomi e dell’eccellenza loro, che a distinguerli dagli altri, non vennero più detti istrioni, e fu per avventura mercè codesta, che direi riabilitazione, che, scostandosi dal greco costume, il quale inibiva alle donne il prodursi sulle scene, Roma ebbe anche attrici, e celebrata fra tutte andò meritamente Dionisia.

Fu agli insegnamenti di Roscio che l’Oratore Romano apprese il gesto a secondare più efficacemente l’arringa, e, divenuti poi entrambi amici, gareggiarono tra loro a chi meglio sapesse esprimere un pensiero, questi colla parola, quegli col gesto. Anche Esopo, il quale volle essere attore unicamente tragico, fu nell’intimità di Cicerone, e già rammentai come egli salutasse dalla scena il richiamo in patria di questo gran cittadino ed insuperato oratore. Ed Esopo e Roscio alla lor volta non mancavano poi d’intervenire [93] al loro ogni qualvolta si fosse agitata alcuna causa interessante per istudiarvi i movimenti dell’oratore, del reo e degli astanti.

Non fu per questo che Giulio Cesare credesse di compiere atto di tirannide inqualificabile, come noi giudichiamo adesso, quando costringeva Siro e Laberio di patrizio casato a montar sulle scene. Laberio, è vero, si lagnò della violenza in un suo prologo che Macrobio ci ha conservato; ma tenutosi conto delle condizioni della società d’allora, forse fu incentivo al despota la particolare attitudine alle scene di questi uomini, che infatti si resero famosi nell’arte imposta loro.

Anche di Siro, come già notai nell’antecedente capitolo, ci vennero conservate alquante sentenze morali, che teneva in serbo per intromettere all’occasione in quelle composizioni, nelle quali, se comiche, assai spesso sapevano improvvisare felicemente il dialogo[101].

Così alle sceniche rappresentazioni il publico appassionandosi, si poterono vedere attori e attrici venire retribuiti largamente e montare in ricchezza e possanza. Sappiam di Roscio che ricevesse all’anno cinquecento sesterzi grossi, che vorrebbero dire centomila lire de’ nostri tempi; di Esopo che lasciò, morendo, a suo figlio, il pingue gruzzolo di quattro milioni di [94] lire, in onta ch’egli avesse menata splendidissima vita, e permettergli il bizzarro capriccio di ammanire a sè ed agli amici suoi un manicaretto di perle. Perocchè rammenti Plinio, che questo Clodio, figlio di Esopo, prima di Cleopatra, avesse voluto un giorno esperimentare qual gusto avessero le perle, e in un festino ne mangiò parecchie di eccessivo prezzo. Il gusto gli andò maravigliosamente a genio e per non essere solo ad assaporarne le delizie, ne fece stemprare altre a’ suoi convitati, fra le quali la grossa perla strappata all’orecchia di Metella, l’amante sua[102].

Anche la summentovata Dionisia, per una sola stagione, ottenne mila sesterzj grossi, o dugentomila lire. Non facciamo noi dunque le meraviglie de’ lucri ingenti della Rachel e della Ristori, le somme attrici del nostro tempo, nè delle favolose somme concesse alle agili gole delle nostre prime donne di canto.

I lauti emolumenti, che si pagavano a’ migliori artisti, son già prova di per sè che dovessero essere determinati dal favore che si godevano nel pubblico; ma questo aveva altri modi ad estrinsecarlo, quelli stessi, cioè, che abbiam pur di presente. Eran essi gli applausi ed i viva, il gitto di fiori e di corone, e i doni; come i sibili, i gesti di scorno, gli urli ed altre violenze notavano la disapprovazione.

Quest’argomento ch’io non tocco, per l’economia della mia opera, che di volo, suggerì materia a Francesco [95] Bernardino Ferrario ad un volume in quarto di oltre quattrocento pagine, che tolto il titolo De Acclamationibus et plausu vide la luce in Milano il 1627. Nicola Alianelli, buon letterato napoletano, ne spigolò quanto a lui parve per adornarne alcuni articoli interessanti ch’ei diede in luce nella Rivista Teatrale L’Arte (riputato giornale napoletano), nel passato anno 1870 sotto il titolo Dell’Antico Teatro Romano e che, sciente forse del come io incombessi a quest’opera su Pompei, volle cortesemente regalarmi, di che son lieto di rendergliene pubblicamente i dovuti ringraziamenti. Ed io di taluna di queste notizie, più che del volume del Ferrario, mi varrò alla mia volta per quel poco che ne devo qui dire.

Fra Plauto e Terenzio, sappiamo che il popolo accordasse le sue predilezioni al primo, spesso anzi al secondo riserbando le sue disapprovazioni, od almeno non concedendo quella larghezza di plausi che pur avrebbe dovuto meritarsi. N’è una causa certissima che Plauto si avvantaggiasse meglio dell’idioma popolare e però ne fosse meglio dal suo uditorio capito: Terenzio, di latinità più castigata, s’aveva l’approvazione dell’aristocrazia, e il popolo, che poco intendeva, gli era anche poco propizio e gli volgeva sovente le spalle.

Ad ogni modo vediamo, sia ne’ prologhi, che nei congedi delle loro commedie, da entrambi fatto appello all’attenzione indulgente ed agli applausi. Plauto, a [96] cagion d’esempio, nella Cistellaria, prega gli spettatori di applaudire secondo le costumanze degli antichi, more majorum. Nella Casina, si raccomanda agli stessi di dargli colle mani la debita mercede, manibus meritis debitam mercedem. Terenzio pure chiude l’Andria, l’Eunuco, l’Ecira, e tutte insomma le sue commedie col solito plaudite.

In quanto a’ Tragici, Cicerone nel libro De Amicitia ci ha lasciato memoria delle voci di plauso clamores, con cui fu accolta la nobile gara di Oreste e Pilade nella tragedia di Marco Pacuvio.

Il gridar euge equivaleva al bravo de’ nostri giorni: quella parola troviamo usata in diverse commedie di Plauto; i maggiori entusiasmi, più facili per altro nel circo e nell’anfiteatro, nelle corse, e nei ludi gladiatorj, si esprimevano, come dissi più sopra, co’ fiori e coi doni, e coll’agitar delle vesti e delle pezzuole, od anche alzando i pugni con particolare atteggiamento dei pollici, come raccogliesi nel seguente passo di Orazio:

Fautor utroque tuum laudabit pollice ludum[103].

Nè sempre di buona lega erano gli applausi e le altre dimostrazioni d’aggradimento, nè creda però la [97] Francia, esser’ella l’inventrice della claque teatrale. Pur troppo l’origine di essa è nostra, e rimonta ai tempi de’ quali parlo. Chi vuol credere, a mo’ d’esempio, che fossero giusti e ben meritati i plausi dati a Nerone citaredo e cantante? Per lui eran la paura, l’adulazione e la speranza dell’imperatorio favore che li suscitavano: come anche quelli dati agli altri istrioni, al par di lui mediocri o cattivi, avevano la lor ragione nel prezzo ch’era stato da essi sborsato. Udiamo Marziale:

Vendere nec vocem Siculis plausumque theatris[104].

Questo giambo del Poeta era per Cinnamo fatto cavaliere per intrighi dell’amante, da barbiere ch’egli era, e che non potendo comparir nel foro, era passato in Sicilia, dove gli dice: non potendo più vendere il suo plauso nel teatro, sarà costretto ritornare barbiere.

Cicerone poi racconta al suo Attico d’aver udito in Roma un Antifonte attore, di cui nessuno più meschino e sfiatato, nihil tam pusillum, nihil tam sine voce[105], che tuttavia palmam tulit, fece furore; come molto piacque, valde placuit, certa Arbuscula, attrice d’un merito non superiore. Costoro di certo avevano mercanteggiato quel plauso, che lo stesso Oratore [98] Romano, nell’arringa Pro Publio Sextio, afferma si comperasse nei teatri e nei comizj.

Plauto poi nella Cistellaria ci fa sapere che il choragus, finita la commedia, dava a bere agli attori che avevano fatto il loro dovere, e saranno stati vino e bevande calde.

Vediamo ora il rovescio della medaglia.

Lo stesso Cicerone summentovato, parlando di Oreste, attore, dice che fu cacciato dal teatro non modo sibilis, sed etiam convicio, non coi sibili soltanto, ma benanco colle ingiurie, e che se un attore avesse fatto un movimento in aria non in corrispondenza della musica, od avesse peccato di una sola sillaba, lo si fischiava e copriva di urli, exibilatur, esploditur, theatra reclament[106].

Così non mancava ciò che or diremmo, col vocabolo consacrato, la clique, e Terenzio esperimentò l’opera d’un partito contrario comitum conventus, l’odierna consorteria, massime nell’Ecira, stata a lui fischiata per ben due volte; ciò che per altro non impedì che piacesse alla terza volta.

Ai cattivi attori poi si gettavano, a segno di sfregio maggiore, e pomi e noci e talvolta anche pietre, la quale ultima dimostrazione fu poi dagli edili con ispeciale editto interdetta. Siccome poi gli attori [99] erano per lo più schiavi, così come si apprende dalla suddetta Cistellaria e dall’Asinaria di Plauto, quando cattivi o svogliati, venivano a spettacolo finito battuti.

«Ma non bisogna dimenticare, scrive il sullodato Alianelli, un personaggio umile, modesto, stretto in una buca, che niuno plaudisce, di cui niuna rivista teatrale parla mai, e che non pertanto è necessario, che deve sempre stare presente a sè stesso, sempre attento. Il lettore ha già capito che parlo del suggeritore. Nei teatri romani gli attori imparavano le parti, nè più nè meno che si fa ai tempi nostri, e perciò vi era il suggeritore e si chiamava Monitor.» Pompeo Festo ricorda il monitor come quegli che avverte, monet, l’istrione sulla scena, ed in questo senso è ricordato anche da un’iscrizione antica riportata dal Morcelli nella sua Dissertazione sulle tessere con annotazioni del dottor Giovanni Labus[107].

Dopo tutto, nel chiudere questo capitolo e quanto interessa il teatro tragico e l’argomento delle sceniche rappresentazioni, a non perdere di vista il principal subbietto del mio libro, accennerò appena della questione largamente agitatasi fra i dotti che un solo veramente fosse il teatro in Pompei, e questo fosse quello che ho finito di descrivere, sotto la denominazione di teatro tragico, e che l’altro teatro non [100] fosse già destinato alla commedia e all’egloga e a musicali rappresentazioni, ma unicamente l’Odeum nella più stretta sua significazione, o quanto dire una semplice pertinenza del Gran Teatro, ove si sperimentavano non solo i componimenti, ma gli attori, i suonatori, tibicini e fidicini, o suonatori di tibia, di lira e di cetra, i danzatori, i coristi e quante persone insomma dovevano prendere parte in tali spettacoli, prima di esporsi nel gran teatro. Trovo ricordato che siffatto argomento sia stato molto illustrato dal signor Mario Musamesi, erudito architetto di Catania, nella sua Esposizione dell’Odeo Greco tuttora esistente nella di lui città, e che un estratto di quest’opera con savie osservazioni ed aggiunte sia comparso nel Giornale de’ Letterati Pisani dell’anno 1823; ma nè l’opera del Musamesi, nè questo giornale non essendomi stato possibile di procacciarmi, nè d’altronde presumendo io, come ho già più d’una volta in quest’opera protestato, di entrare in polemiche archeologiche, che lascio volontieri ai dotti, ben diverso essendo l’intento del mio libro, mi parve di non dovermi discostare dalla opinione più generalmente accettata che il minor teatro designa come esistente a sè e col nome di Teatro Comico.

Anfiteatro di Pompei. Vol. II, Cap. XIV.

D’altronde, sempre rispettando le ragioni, che potranno essere eccellenti e che sono sostenitrici di diversa sentenza, sembrami che se il minor teatro non avesse dovuto servire che ai soli bisogni ed alle prove del [101] Gran Teatro, non vi sarebbe stato mestieri, nella costruzione, di praticarvi tutte le parti, sia per gli spettatori, che per gli attori; perocchè, come più d’una volta ho in queste pagine osservato, non escluse le altre minori particolarità attinenti l’assistenza de’ magistrati e de’ maggiorenti, i due teatri non differiscono che leggermente tra loro nella forma, e sensibilmente solo nella capacità e nella magnificenza. La scena allora e l’orchestra avrebbero bastato: della cavea, delle tribune e degli altri accessorj, evidentemente, destinati al concorso del pubblico, se ne sarebbe fatto senza.

Del resto io pure non ricusai al minor teatro pompejano il nome di Odeum, congiuntamente a quello di Teatro Comico, perchè non ignorassi, ed avessi anzi a dire, che se dapprima per Odeum si intendesse quel piccolo teatro con un tetto convesso costruito da Pericle in Atene per gli spettacoli di musica, stando a quanto ne scrissero Plutarco[108] e Vitruvio[109]. Ed ebbi a notare altresì come in progresso di tempo questo nome si avesse ad estendere anche in Italia, per designare ogni piccolo teatro coperto di un tetto (tectum), come in questo senso l’usò Svetonio, quando nella vita di Domiziano assicurò aver questo Cesare restaurato un Odeum[110]: Item Flaviæ templum gentis, et stadium et [102] odeum, et naumachiam, e cujus postea lapida maximus circus, deustis utrimque lateribus, extructus est[111]. D’altra parte io ebbi ad ammettere pure che l’Odeum pompejano potesse servire non alla commedia soltanto, ma alle musicali rappresentazioni benanco, ai concorsi poetici, alle filosofiche disfide ed agli spettacoli d’inverno.

[103]

CAPITOLO XIV. I Teatri. — L’Anfiteatro.

Introduzione in Italia dei giochi circensi — Giochi trojani — Panem et circenses — Un circo romano — Origine romana degli Anfiteatri — Cajo Curione fabbrica il primo in legno — Altro di Giulio Cesare — Statilio Tauro erige il primo di pietra — Il Colosseo — Data dell’Anfiteatro pompejano — Architettura sua — I Pansa — Criptoportico — Arena — Eco — Le iscrizioni del Podio — Prima Cavea — I locarii — Seconda Cavea — Somma Cavea — Cattedre femminili — I Velarii — Porta Libitinense — Lo Spoliario — I cataboli — Il triclinio e il banchetto libero — Corse di cocchi e di cavalli — Giuochi olimpici in Grecia — Quando introdotti in Roma — Le fazioni degli Auriganti — Giuochi Gladiatorj — Ludo Gladiatorio in Pompei — Ludi gladiatorj in Roma — Origine dei Gladiatori — Impiegati nei funerali — Estesi a divertimento — I Gladiatori al Lago Fùcino — Gladiatori forzati — Gladiatori volontarj — Giuramento de’ gladiatori auctoratiLorarii — Classi gladiatorie: secutores, retiarii, myrmillones, thraces, samnites, hoplomachi, essedarii, andabati, dimachari, laquearii, supposititii, pegmares, meridiani — Gladiatori Cavalieri e Senatori, nani e pigmei, donne e matrone — Il Gladiatore di Ravenna di Halm — Il polpo e il diritto di grazia — Deludia — Il Gladiatore morente di Ctesilao e Byron — Lo Spoliario e la Porta Libitinense — Premj ai Gladiatori — Le ambubaje — Le Ludie — I giuochi Floreali e Catone — Naumachie — Le Venationes o caccie — Di quante sorta fossero — Caccia data da Pompeo — Caccie di leoni ed elefanti — Proteste degli elefanti contro la mancata fede — Caccia data da Giulio Cesare — Un elefante funambolo — L’Aquila e il fanciullo — I Bestiarii e le donne bestiariæ — La legge Petronia — Il supplizio di Laureolo — Prostituzione negli anfiteatri — Meretrici appaltatrici di spettacoli — Il Cristianesimo abolisce i ludi gladiatorj — Telemaco monaco — Missilia e Sparsiones.

Io credo avesse ragione davvero il grande Oratore Romano, quando, scrivendo ad Attico, gli dicesse che [104] delle ventiquattro ville che possedeva quelle di Tusculo e di Pompei, gli andassero meglio a genio: Tusculanum et Pompejanum valde me delectant; e l’avesse Fedro, lo scrittor di favole, di rifugiarsi in Pompei dalle ire e persecuzioni di Tiberio e di Sejano; e Seneca di rammentare a Lucilio, come una delle più care e sorridenti reminiscenze della sua vita il soggiorno fatto nella sua giovinezza, in questa bella ed allegra città campana.

Che avreste voluto infatti di più? qui alla salubrità ed alla purezza dell’aere, alla mitezza e mollezza del clima, alla feracità della terra, alla verzura dei monti, al bell’azzurro del cielo e del mare, si aggiungevano ricreazioni e diletti d’ogni maniera, sì che nulla si avesse a invidiare per ciò alle delizie dell’Urbe, senza per avventura contare gli inconvenienti di essa. Noi vi abbiam trovato un Odeum o teatro per la commedia e per i musicali concerti; vi abbiam visitato il teatro maggiore per la tragedia: meco invito ora il lettore ad ammirarvi l’anfiteatro destinato a que’ giorni ai ludi gladiatorii ed alle cacce delle belve feroci.

Gli è uno de’ più bei monumenti antichi del genere e se per vastità non da mettersi in concorrenza coll’anfiteatro Flavio o Colosseo di Roma, nè con quelli di Verona e di Pola nell’Istria che ci rimangono; poteva tuttavia ben esser capace di ventimila spettatori, considerevole ampiezza certamente, se non si perda di vista ch’esso servisse ad una città che [105] sappiam di terz’ordine e la cui popolazione non poteva eccedere il numero de’ trentamila abitanti.

Prima d’entrarvi meco, investighiamo, amico lettore, insieme le origini di siffatti pubblici e grandiosi ritrovi e dei ludi a cui giovavano essi: è così buona la storia alla tua lodevole curiosità e all’indole degli studj nostri!

Io già avvertii, sulla fede dello storico padovano, del come seguisse l’introduzione in Roma dei ludi scenici: i circensi erano già allora in uso; eranvi anzi venuti co’ fondatori della città stessa, portati da Enea e da’ suoi compagni, o se si vuol questa una favola, da que’ guerrieri che, superstiti dall’eccidio di Troja, navigarono ai lidi tirreni.

Romolo infatti eresse pei medesimi un circo presso al foro; Tarquinio Prisco murò il Circo Massimo sul Palatino, lungo tre stadj e mezzo, largo quattro jugeri e capace di cencinquantamila persone.

Ne è altro documento e prova il fatto che pur a’ tempi di Augusto e di Claudio si celebrassero giuochi in Roma che venivan detti trojani. Virgilio così li ricorda, dopo aver descritto ad imitazione d’Omero per la morte di Patroclo[112], quelli celebrati in onore di Palinuro, il timoniero della nave d’Enea caduto dormendo in mare:

[106]

Hunc morem cursus, atque hæc certamina primus

Ascanius, longam muris cum cingeret Albam,

Retulit, et priscos docuit celebrare Latinos.

Quo puer ipse modo, secum quo Troja pubes,

Albani docuere suos; hinc maxima porro

Accepit Roma, et patrium servavit honorem;

Trojaque nunc, pueri, Trojanum dicitur agmen[113].

E Tacito, ne’ tempi appunto di Claudio, fa egli pure menzione, negli Annali, del Giuoco di Troja, equestre giostra che rappresentavano nobili donzelli a cavallo[114], come traduce il Davanzati.

Questi giuochi del circo, essendo altresì parte di cerimonie religiose, attecchir dovevano nelle popolari abitudini di Roma e la vita guerresca de’ suoi cittadini e l’animo temprato a spettacoli efferati, avevano agevolmente que’ giuochi posti in cima d’ogni altro divertimento; sì che si suolesse, come ho rammentato nel duodecimo capitolo, dir che la plebe romana si pascesse di pane e di ludi circensi: panem et circenses.

Per circo, secondo l’uso romano, intendevasi quello [107] spazio di terreno destinato alla corsa. Ne’ primissimi tempi consisteva esso in una spianata aperta, intorno alla quale si erigevano de’ palchi provvisori in legno per commodo degli spettatori, a un di presso come possono essere que’ tratti di pianura ne’ parchi, nei giardini, in altre vaste campagne che in Inghilterra, in Francia e pure in Italia, su cui si fanno oggidì le corse de’ cavalli. Non si tardò guari a costruire un edificio permanente su d’una pianta acconcia, che però assunse la forma oblunga, da una parte chiusa da un semicircolo e dall’altra da una costruzione detto oppidum, o castelletto, sotto cui erano le carceri, pel servizio de’ cavalli e de’ cocchi, nome serbato tuttavia nelle congeneri costruzioni odierne degli anfiteatri, che si aprirono eziandio a quegli ippici divertimenti.

Rich così descrive quello tuttavia superstite vicino a Roma, assai ben conservato, sulla via Appia e comunemente conosciuto sotto il nome di Circo di Caracalla.

«Un lungo muro basso (spina) era costruito in senso longitudinale per mezzo al campo della corsa, così da dividerlo come una barriera, in due parti separate, ed a ciascheduna delle due estremità era posta una meta (meta), intorno a cui i carri giravano; quella più vicina alla stalla pigliando nome di meta prima, la più lontana di meta secunda. I due lati del circo non sono affatto paralleli l’uno all’altro e la spina non è esattamente equidistante da’ due lati. [108] Forse questo è un caso eccezionale: ed una tale norma di costruzione era seguita solo quando s’aveva un terreno, come questo, limitato ad oggetto di fornire il maggiore spazio ai carri a principio della corsa, quando pigliavano le mosse tutti in riga; ma quando la meta in fondo era stata girata, si dovevano trovare schierati piuttosto in colonna che in riga; e quindi una minore larghezza bastava lungo questo lato del terreno di corsa. Per una simile ragione l’ala destra del circo è più lunga della sinistra, e le stalle sono disposte su un segmento di circolo, di cui il centro cade esattamente al punto intermedio fra la prima meta e il lato dell’edificio da cui la corsa principiava. L’oggetto di ciò era che tutti i carri, secondo uscivano dalle loro stalle, potessero avere la stessa distanza da percorrere prima di raggiungere il posto di dove aveva luogo la mossa, ch’era all’entrata del terreno della corsa, dove una corda imbiancata (alba linea) era tesa a traverso raccomandata a due piccoli pilastri di marmo (hermulae), e poi lasciata libera da un lato, appena i cavalli vi si erano tutti egualmente accostati, ed il segnale della partenza era stato spiegato. Eravi il palco dell’imperatore (pulvinar) e quello dal lato opposto si suppone che fosse stato destinato al magistrato (editor spectaculorum), a cui spesa i giuochi si davano. Nel centro dell’estremità occupata dalle stalle vi era una grande porta, chiamata porta pompæ, per la quale [109] la processione circense entrava nel circo prima che le corse principiassero, un’altra era costruita all’estremità circolare chiamata porta triumphalis, per la quale i vincitori escivano dal circo in una specie di trionfo; una terza è situata sul lato destro chiamata porta libitinensis, e per essa i cadaveri degli auriga uccisi o feriti erano portati via e due altre erano lasciate proprio vicino ai carceres, che davano l’ingresso nel circo ai carri.»

Tutti i circhi erano modellati su questo e fu per l’appunto la ragione per la quale ne riportai la descrizione particolareggiata, perchè se ne potesse avere l’idea precisa.

Quanto all’elevazione interna ed esterna dell’edificio, un circo nell’esterno era costruito sopra un disegno simile a un di presso a quello de’ teatri, a gradinate di sedili, divisi in file separate da scale e da pianerottoli.

Quando si immaginarono gli Anfiteatri, de’ quali or vado a dire, i circhi si compenetrarono per lo più in essi: corse, cacce e giuochi gladiatorj vi si trasportarono, trovandosi più proprio ed opportuno arringo, come più sopra dissi, tal che si scambiassero quasi sinonimi i rispettivi nomi. Ecco perchè io pure li verrò quind’innanzi promiscuamente adoperando.

Entrati i ludi circensi, siccome ebbi del pari a notare diggià, nelle abitudini e nei gusti della vita romana, è meraviglia perfino come pel migliore servizio [110] dei medesimi non avessero gli Anfiteatri a sorgere che negli ultimi tempi della Repubblica e fossero anche questi dapprincipio temporanei e costruiti di legno come erano stati prima i circhi, venendo cioè eretti solo all’evenienza di straordinarie solennità per vittorie riportate, o trionfi di capitani, le quali festeggiate, si disfacevano incontanente.

L’origine ad ogni modo, ad onta del greco nome che esprime l’idea di due teatri riuniti aventi quindi gradinate e sedili disposti tutti all’intorno[115], vuol essere attribuita a Roma, e Plinio, comunque additi il fatto a ragione di biasimo, così lo narra:

«Io passo, scrive egli, a trattare del lusso degli edifici di legno, lo che porge esempio della più completa demenza. Cajo Curione, che morì nella guerra civile, seguendo la fazione di Cesare, in occasione dei funerali del padre, volle dare al popolo uno spettacolo così straordinario, da lasciarsi addietro Scauro e di far ciò che questi fatto non avesse. Ma come avrebbe egli potuto per opulenza misurarsi col genero di Silla e col figlio d’una Metella, il qual s’era fatto aggiudicare a vil prezzo i beni de’ proscritti, e aveva avuto a padre quel Marco Scauro, tante volte a capo della città e che pel sodalizio suo con Mario aveva potuto rapinar le provincie? Scauro stesso s’era già sorpassato, traendo partito dall’incendio della sua [111] casa, per riunire in un sol luogo le più peregrine cose dell’universo, sì che nessuno potesse in demenza sopravvanzarlo. Fu dunque a Curione mestieri di dar le spese al proprio ingegno; ed è prezzo dell’opera esporre quanto ebbe a immaginare, onde felicitarci de’ costumi presenti e chiamarci, come usiamo di fronte agli andati, noi piuttosto che essi di tempra antica.

«Fece egli costruire in legno due eguali e grandissimi teatri, girevoli entrambi su pernii, così che nelle ore antimeridiane si trovassero a dosso rivolti in modo che l’uno non nuocesse alla schiena dell’altro, poi d’un tratto i teatri girando sovra sè stessi, si volgevan di fronte, congiungendosene le estremità e fornivano un anfiteatro per gli spettacoli de’ gladiatori, movendo con esso il popolo romano che vi si trovava.

«Ma che è più a maravigliarsi in tutto ciò? dell’inventore, o del trovato, dell’artefice o dell’autore, di chi questo escogitò, o di chi l’accolse, di chi comandò, o di chi obbedì? ecc.»[116]

In Dione poi leggesi altro anfiteatro essere stato fabbricato di legno; ma essendosi sfasciato e rovinato, aver tratto con sè molta uccisione di gente. Giulio Cesare stesso, già dittatore, ne eresse alla sua volta uno in campo di Marte; onde chiaro si vede che [112] molti e frequenti fossero tali costruzioni in legno, come frequenti erano gli spettacoli gladiatorii o di fiere, che per feste religiose, per gloriosi politici avvenimenti, ed anco per elezioni di magistrati o di capitani si venivano offerendo.

Ma sotto Augusto la smania dei ludi circensi e massime delle caccie, venationes, venne fuor misura aumentando, ed importanza pur s’accrebbe alla loro degnità. Fosse eccesso di ricchezza, o inclinazione di principe, a istigazione d’Augusto, nell’anno 725 di Roma, Statilio Tauro, amico di lui, costruì a propria spesa il primo anfiteatro di pietra, i cui ruderi, nella sua distruzione, hanno poscia formata quella piccola eminenza, su cui poggia di presente la piazza di Monte Citorio, ove fu eretta adesso la Camera dei Deputati.

In molta fama ed in uso durò tale anfiteatro, finchè sotto Nerone divampò in fiamme e sebbene si fosse procacciato di ristaurarlo; così non lo fu che non venisse a Vespasiano in pensiero d’altro erigerne più degno. E vi pose mano infatti nell’ottavo suo consolato; nondimeno solo compiuto da Tito figliuol suo e da lui dedicato. Venne la ingente mole denominata Flavia, perchè della famiglia Flavia questi due imperatori: ma più comunemente è noto sotto il nome di Colosseo o di Coliseo, a cagione d’una statua colossale, che la volgar diceria esagerò di certo dicendola dell’altezza di cento venti piedi, la quale fu [113] ritrovata nelle vicinanze e per alcun tempo stata nella casa aurea di Nerone. E dura esso tuttavia ne’ pur suoi maestosi avanzi, avendo resistito alle ingiurie del tempo e degli uomini; abbenchè, rispettato da’ Barbari che invasero l’Italia e devastarono più volte l’immortale città, patisse gli oltraggi d’un cardinal Barberini, che, a sfruttarne il molto bronzo che ne teneva unita la gigante costruzione, contribuì alla demolizione di tanta parte, sì che avesse a meritare che del vandalismo suo si dicesse: Quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barbarini[117]. — Ma corre antico il vaticinio, riferito da Vida, che finchè duri il Colosseo, abbia a durare anche Roma.

Dell’altezza di questo gigantesco monumento, scrisse Ammiano Marcellino, essere stata tanta che l’occhio umano vi giungesse a mala pena alla sommità; e circa la vastità, Publio Vittore afferma contenesse commodamente seduti ottantasette mila spettatori, e nell’àmbito superiore, e sotto i portici altri dieci o dodici mila ancora.

Ma prima assai dell’Anfiteatro Flavio di Roma, esisteva quello di Pozzuoli, dove già riferii aver Augusto trovata occasione di far leggi per distinzioni delle classi nei teatri, per irriverenza usata a un Senatore, e dove Nerone festeggiò Tiridate, re dell’Armenia, con giuochi gladiatorj, ed apparato [114] grandissimo[118]; ed esisteva pur quello di Pompei, edificato in pietra.

Il lettore che mi ha seguito ne’ capitoli della storia deve rammentare come io abbia coll’autorità di Tacito narrato della festa degli accoltellanti datasi da Livinejo Regolo a quest’ultimo anfiteatro, e nella quale Pompejani e Nocerini vennero fieramente alle mani, nè avrà dimenticato allora che ciò avvenisse a’ tempi di Nerone, il quale a punir quel sanguinoso fatto ebbe ad inibir per dieci anni gli spettacoli dell’anfiteatro in quella città. Ciò accadde nell’anno 812 di Roma e 59 dell’era cristiana; ma le due lapidi rinvenute, l’una presso la principal porta meridionale dell’anfiteatro, e l’altra presso l’uno de’ vomitori respicienti la città dal lato occidentale e recanti una medesima iscrizione, forniscono i dati per farne rimontare la fabbrica ad assai tempo anteriore.

Ecco l’iscrizione:

[115]

C . QVINCTIVS . C . F. VALGVS
M. PORCIVS . M. F. DVO VIR .
QUINQ . COLONIÆ HONORIS
CASSA SPECTACVLA DE SVA
PEQ. AG. COER . ET COLONEIS
LOCVM IN PERPETVVM DEDER[119].

Questa iscrizione attribuisce la fondazione dell’anfiteatro a Cajo Quinzio Valgo e Marco Porcio; gli stessi che avevano fatto edificar e collaudato l’Odeum e i quali necessariamente non potevano aver concesso il luogo alla stessa che dopo l’invio della colonia per parte di Silla; ma dove poi si ponga mente alle altre iscrizioni rinvenute nell’anfiteatro stesso e che più innanzi riferirò, e per le quali si veggono costruiti de’ nuovi cunei o scomparti di gradinate da altri magistrati e da maestri, magistri, del sobborgo, pagus, Augusto Felice e una contribuzione per parte di costoro alle spese, è allora concesso d’inferirne che la completa costruzione dell’anfiteatro pompeiano seguisse intorno al tempo in cui venne mandata da Augusto una compagnia di Veterani, che vi costruì appunto il Pagus Augustus Felix, cioè verso l’anno 747 di Roma, e il P. Garrucci infatti nelle sue Questioni Pompejane stabilì con irrecusabili argomenti che essa fu di poco posteriore ad un tal tempo.

[116]

L’anfiteatro fu costruito nella parte meridionale della città presso le mura che guardavano a Stabia, ed anche oggidì, appare meglio conservato che tutti gli anfiteatri che ho superiormente ricordati, quelli di Roma, cioè, di Verona, e di Pola; tanto esso venne solidamente fabbricato, che neppure il tremuoto e gli altri cataclismi, onde fu desolata Pompei, non poterono nuocerne le fondamenta, poco la muraglia che lo recingono, poco la gradinata della cavea, e solo vedesi danneggiato nella parte superiore; conservate per altro la prima e la seconda precinzione, benchè spogliate de’ marmi ond’erano rivestite.

L’architettura esteriore, semplice e senza alcun ornamento, non presentando che più ordini d’arcate l’una all’altra sovrapposte, come si vede praticato negli altri congeneri edificj, e non senza un certo effetto nel suo complesso, è di pietra vesuviana.

Pur esternamente si osservano cinque grandi scalinate, per le quali si ascendeva ad un deambulacrum, o gran terrazza scoperta, che corrisponde al giro esterno della seconda cavea, donde si saliva alle logge superiori di archi laterizii, destinate per le donne e per la plebe. Da questo deambulacrum, non è superfluo al visitatore delle rovine di Pompei il sapere come si goda del più delizioso orizzonte, poichè rimpetto si abbia il Vesuvio, a settentrione i monti Irpini, ad oriente i monti Lattarj, sulla china dei quali posa Sorrento, e a mezzodì Napoli e le sue isole avvolte come da una rosea nebbia trasparente.

[117]

Forse a diminuzione di spesa, e forse anche a renderlo proprio agli spettacoli di naumachia, se si avessero voluti offrire, ma che però il fatto d’essere città marittima esclude che vi si avessero a dare, perchè certo sarebbero riusciti inferiori ad ogni aspettazione ed a quelli che offerir si potevano sul mare stesso, l’edificio era stato costruito in una specie di bacino, scavato in parte artificialmente, per modo che l’arena si trovasse tanto al di sotto del livello del suolo per quanto le mura si elevavano al disopra.

Vien misurato il più gran diametro dell’anfiteatro di 130 metri, il più piccolo di 102. La direzione dell’ovale è da N. a S.: alle sue estremità si trovano i due principali ingressi, i quali mettono all’arena di forma elittica.

Appunto per la suindicata ragione, che l’arena era incavata nella terra, l’ingresso settentrionale che riesce a quella e che forma un breve porticato a vôlta, ha il pavimento lastricato di pietra vulcanica in declivio, ed ha nei lati l’incanalatura per ricevere le acque.

Due grandi nicchie sono a destra ed a sinistra di tale ingresso, le quali dovevano contenere le statue di due benemeriti cittadini, e di chi fossero ce lo rivelano le opportune iscrizioni che sotto di esse si leggono.

Quella a destra è così concepita:

[118]

C . CVSPIVS C . F . PANSA PONTIF
D . VIR . I . D .[120]

Quella a sinistra, così:

C. CVSPIVS . C . F . PANSA PATER D . V . I . D .
IIII QVINQ . PRAEF ID . EX D . D . LEGE PETRON .[121]

Più avanti fornirò gli schiarimenti intorno a questa legge Petronia, della quale si fa nella iscrizione cenno, riservandoli essi all’argomento degli spettacoli gladiatorii.

Il marchese Arditi, nel trattare della legge Petronia, saviamente opina che l’iscrizione e la statua del prefetto Cuspio Pansa siano state collocate nell’anfiteatro prima del tremuoto dell’anno 63, ed anche prima della sospensione degli spettacoli ordinata da Nerone nel 59.

Avanti d’entrare nell’arena, o sia nella gran piazza de’ combattimenti e delle caccie, detta appunto arena, dalla sabbia che vi era sempre sparsa, onde il sangue che si versava dagli uomini e dalle fiere, a scanso di ribrezzo, avesse presto a iscomparire, trovasi a destra e a manca l’entrata in un criptoportico, o corridojo circolare sotterraneo rischiarato da numerosi spiragli, da cui per diversi vomitorj si ascendeva a’ [119] gradini della prima e seconda cavea, dove sedevano i magistrati e i più cospicui cittadini e i collegi. Questo sotterraneo, che girava tutt’all’intorno dell’anfiteatro, è degno di considerazione per la sua forma intatta e per non riscontrarsi in alcun altro anfiteatro. Le pareti di questo portico hanno tuttavia iscrizioni scritte in rosso ed in nero, che accennano a nomi de’ magistrati, forse benemeriti dei ludi al circo, e leggonsene altre contenenti officiosità pel loro indirizzo e tal altra eziandio che suona ingiuria, o lode a talun combattente. Ho già notato come fosse insito nel costume de’ Pompejani di dare sfogo ai sentimenti proprj, esprimendoli sui muri delle case o di qualunque altro edificio.

Ma eccoci nell’elissi dell’anfiteatro. Appena entrato, io sperimentai, alzando la voce, l’eco che vi regna, e che già rammentai al lettore quando dipingendogli l’estrema catastrofe, affermai, come essa avesse contribuito a rendere maggiore l’orrore della situazione. L’arena, tutta recinta d’un parapetto, o podio dell’altezza di circa due metri, sul quale alzavasi eziandio un graticcio di ferro, per tutelare gli spettatori dal furore delle fiere che, istigate dal combattimento, avrebbero potuto gittarsi su di essi. Siffatto parapetto era tutto dipinto a soggetti convenienti al luogo; ma l’azione dell’aria ve li ha fatti tutti sparire. Si rammenta da chi si trovò all’epoca della scoperta di questo monumento, che fu il 16 novembre [120] 1748[122], che fra tali dipinture una vi fosse che raffigurava un lanista o maestro de’ gladiatori, che in mezzo a questi, armato di bacchetta (rudis) era in atto di giudicare cui spettasse colla vittoria nella lotta il premio del vincitore, sul quale svolazzavano due genii alati recanti corone nelle mani.

Ma non si smarrirono le iscrizioni, che nel parapetto stesso si lessero, dedicate a memorare i nomi di que’ magistrati che meglio avevano contribuito alla restaurazione dell’anfiteatro, rifacendo i cunei e riparando le altre rovine, che erano stati altresì i sovrintendenti, o prefetti degli spettacoli.

Eccole, quali sono riferite dalle Guide e dagli illustratori di Pompei.

MAG . PAG . AVG . F . S . PRO . LVD . EX . D . D .
T . ATVLLIVS . C . F . CELER . II . VIR . PRO . LVD . LV . CVN
C . F . C . EX . D . D
L . SAGINIVS . II . VIR . I . D . PRO . LV . LV . EX . D . D . CVN
N . ISTACIDIVS . N . F . CILIX . II . VIR . PRO . LVD. LVM
A . AVDIVS A . F . . RVFVS . II . VIR . PRO . LVD .
P . CAESETIVS . SEX . F . CAPITO . II . VIR . PRO . LVD . LVM
M. CANTRIVS. M F. MARCELLVS. II. VIR. LVD LVM CVNEOS. III F. C.
EX. D D.[123]

[121]

Importa che io qui traduca una nota che Bréton appone a queste interessanti iscrizioni.

«Queste iscrizioni, scrive egli, presentano un enigma assai difficile a sciogliere. Che vogliono esse dire queste parole PRO LVD, pro ludis? Si è creduto dover tradurre per i giuochi, e scorgere quindi nell’iscrizione la menzione dei giuochi che venivan celebrati nell’anfiteatro[124] da certi magistrati. Questa interpretazione sarebbe stata accettabile, se nella terza iscrizione non si trovassero le parole PRO LVD . LVM . che il P. Garrucci legge pro ludorum luminatione, per l’illuminazione dei giuochi, e Mommsen pro ludorum luminibus; per i lumi dei giuochi. Questa spiegazione non essendoci sembrata in tutto soddisfacente noi abbiamo consultato uno de’ nostri dotti colleghi, il signor Léon Rénier, noto per gli studj speciali che ha fatti dell’epigrafia antica. I nostri lettori saran lieti di trovar qui le sue risposte, delle [122] quali abbiamo creduto adottare le conclusioni così ben motivate.

«L’interpretazione del P. Garrucci, e quella di Mommsen, dice Léon Rénier, proverebbero, se si fosse costretti d’attenervisi, che si davan dei giuochi con illuminazione nell’anfiteatro di Pompei, ciò che non mi pare da ammettere. Ecco come io interpreto il passo dell’iscrizione: Marcus CANTRIVS, Marci Filius MARCELLVS duum VIR PRO LVDis LVMinatione, CVNEOS III Faciendos Curavit EX Decreto Decurionum. PRO LUDis, LVMinatione, cioè in luogo dei giuochi e dell’illuminazione, ch’ei doveva dare nell’occasione della sua elezione alle funzioni di Duumviro. L’elissi della congiunzione et non ha nulla che debba sorprenderci: era essa di regola nello stile epigrafico. (Ved. Morcelli, De Stylo inscr. p. 4486 ed. Rom.) Gli onori municipali si pagavano ordinariamente con giuochi, spettacoli, distribuzioni di sparsioni, ecc.: spese improduttive che si scontravano talvolta come qui, con altre spese equivalenti il cui effetto era più durevole. In una iscrizione di Djemilah (l’antica Colonia Cuiculitanorum), che io ho pubblicato in una memoria che fa parte dell’ultimo volume della Società degli Antiquari di Francia, si vede un magistrato di questa città erigere una basilica, in luogo d’uno spettacolo di gladiatori ch’ei doveva dare. Si potrebbero citare molti esempi analoghi.

«Le interpretazioni del P. Garrucci e di Mommsen [123] sono affatto congetturali; la mia si appoggia sopra esempj che mi sembrano concludenti. Il primo ne è fornito da un’iscrizione di Roma edita dal Fabretti Inscript. Domestic. p. 243 n. 556, e da Orelli p. 3324, la quale termina così: POPVLO VISCERATIonem GLADIATORES DEDIT LVMINAtionem LVDOS Junoni Sospitæ Magnæ Reginæ SOLIS FECIT.

«Il secondo si trova in un’iscrizione della raccolta di Muratori pl. 652. n. 6, nella quale si legge:

..... VS . SPORTVLAS ITEM FIERI ET
..... PVERIS NVCES SPARGI DIE Suprascripto ET
LVMINATIONE

«Quest’ultima iscrizione è un’iscrizione funeraria, nella quale non v’ha questione nè di giuochi nè di spettacoli, ciò che mi fa pensare che in quella dell’anfiteatro di Pompei non vi sia connessità fra le parole LVD e LUM; queste parole designano due spettacoli differenti, che i nuovi magistrati dovevano dare al popolo e da cui un decreto dei decurioni gli aveva dispensati, loro imponendo l’obbligo di applicare alla costruzione dell’anfiteatro una somma almeno equivalente a quella ch’essi avevano così economizzata»[125].

Per quanto ragionate codeste conclusioni, non mi so risolvere ad accettarle; perocchè fin quando io trovi, come in questa iscrizione di Marco Cantrio, che cuneos [124] tres faciendos curavit, che, cioè, veggo menzionata un’opera, allora ben posso spiegarmi il pro ludis del modo che interpretò Rénier, vale a dire in sostituzione dei giuochi; ma quando trovo il pro ludis come nell’iscrizione

M . OCULATIUS M . F . VERVS II VIR PRO LUDIS

che ho riferita nel Capitolo precedente del Teatro Comico e che stava sulla soglia del medesimo in lettere di bronzo, senz’altra indicazione che m’additi cosa siasi dato o fatto in luogo dei giuochi, allora mi è permesso di dubitare che l’interpretazione di Rénier abbia sciolto l’enigma e di credere piuttosto che possa intendersi il pro ludis, come magistrato sopra i giuochi, cioè sovrintendente degli spettacoli.

E tanto più mi confermo in ciò, in quanto io non abbia rinvenuto autorità che mi convinca che gli spettacoli dati dai nuovi magistrati, fossero un verace obbligo inerente alla loro nomina; anzi che una liberalità, quantunque forzata, e che però potesse intervenire decreto di decurioni a sostituire ad una spesa obbligatoria un’altra spesa.

Ritornando ora alla difesa del podio, vuolsi osservare come anche un canal d’acqua vi corresse lungh’esso; onde così non fosse permesso alle fiere di accostarvisi di troppo.

La cavea era regolata e distribuita del modo stesso che accennai, parlando de’ teatri, nei capitoli antecedenti, partita cioè in tre zone col mezzo di due gallerie. [125] La più bassa riserbata, come pur testè ho detto, ai principali magistrati, ai capi della colonia, a’ sacerdoti e sacerdotesse ed il posto che ognun d’essi occupava sopra i gradini era circoscritto in due linee col corrispondente numero distinto in rosso; e quel numero doveva corrispondere alla tessera che si presentava entrando all’impiegato denominato Locarius, o pigionante di sedili. Il quale occupava prima i posti negli spettacoli, o li accaparrava per cederli poi a chi giungesse tardi, contro determinato prezzo.

L’affaccendarsi di costui era singolarmente per le dame, imitate pur dalle moderne, che ultime sempre giungevano allo spettacolo, trattenute dalle lunghe e studiate toelette; onde il nostro Savioli, facendo allusione nella sua Ode Il Teatro a siffatta consuetudine, cantava:

Tardi ai roman’ spettacoli

L’altera Giulia venne,

Ma i primi onor del Lazio

Su l’altre belle ottenne.

Marziale, ne’ suoi epigrammi, parla di questi locarii nel verso:

Hermes divitiæ locariorum[126];

ed io, tenendo conto di tali inservienti de’ pubblici trattenimenti, addito origini di pratiche pur oggidì [126] sussistenti, e riconfermo il concetto del Savio, che disse nulla essere nuovo sotto il sole.

Questa prima cavea dell’anfiteatro era divisa da una precinzione di pietre di tufo dall’altra cavea superiore e conteneva diversi muri traversali che ripartivano il podio stesso. Così aveva quattro ripartimenti, due verso le porte di cinque gradini, e due altri nel mezzo del giro di quattro gradini assai più larghi e spaziosi, aventi poi ognuno le proprie porte separate.

La media, o seconda cavea era assegnata ai cittadini distinti, e più agiati, ai diversi collegi e ai militari ed aveva trenta gradini.

Termina finalmente colla summa cavea costituita di diciotto fila di gradini ed era riserbata al popolo e dietro di esso si collocava la plebe, dopo la quale, in bell’ordine di archi sorgevano le logge per le donne, che si formavano degli archi stessi sorretti da colonne, alle quali logge, per essere coperte, Calpurnio chiamò col nome di cattedre ne’ versi in cui rammenta di aver dovuto ascendere fin su su nell’ultima fila dell’Anfiteatro, per essere la infima e media cavea occupate da magistrati e cavalieri:

Venimus ad sedes, ubi pulla sordida veste

Inter femineas spectabat turba cathedras,

Nam quæcumque patent sub aperta libera cœlo,

Aut eques aut nivei loca densavere tribuni[127].

[127]

Tutta la cavea ha quaranta scaglioni con altrettanti vomitorj per i quali gli spettatori entravano ed uscivano ordinatamente; solo le donne avevano una separata gradinata onde accedere ai loro posti; lo che dinota ancora un riguardo che a’ dì nostri non si serba al gentil sesso ne’ teatri, e ciò malgrado che allora fosse dal diritto romano considerata la donna poco più di cosa, e adesso si pretenda che i costumi illeggiadriti ne abbiano senza confronti migliorate le condizioni.

Abbiamo già veduto nel precedente capitolo, come a temprare agli spettatori del Teatro Tragico gli ardori canicolari, fosse stato in Pompei e nelle altre città della Campania, prima che altrove, immaginato il velario, cagione di tanto scandalo a’ puritani scrittori di allora: or bene l’Anfiteatro pompeiano usava esso pure il più sovente di questa salutare costumanza. Dirò di più: la distesa del velario era tanto desiderata e voluta, che il Theatropola, od impresario di teatro, o chi dava le feste, si affrettava, nel pubblico annunzio che scrivevasi sui muri delle principali vie o de’ luoghi più affluiti di gente ad indicare che le vele e le tende non sarebbero mancate. Ho già recato nel [128] capitolo nel quale parlai delle vie e degli affissi, quello in cui Valente Flamine perpetuo di Nerone, avvertendo che ai 28 marzo (V. Kal. aprilis) si darebbe una caccia, si dà premura di soggiungere che vi sarebbero i velarii, et vela erunt: ora, a meglio constatare la buona usanza, ne recherò due altri.

Un Ottavio, od un Onesimo, procuratore, poichè gli scrittori non sanno leggere che questi due nomi sotto la lettera O della seguente iscrizione, così annunzia una caccia, venatio, che darebbe a’ 29 di ottobre la famiglia gladiatoria di Numerio Popidio Rufo, che a’ 20 Aprile si alzerebbero le antenne, mala, ed i velarii, vela, nell’anfiteatro.

N . POPIDI
RVFI . FAM . GLAD . IV . K . NOV . POMPEIS
VENATIONE ET . XII . K . MAI
MALA . ET . VELA . ERVNT
Q . PROCVRATOR . FELICITAS .[128]

Si argomenta da tale avviso che i velarii si rizzassero nell’anfiteatro appena che il caldo incominciasse vivamente a farsi sentire e a dar fastidio la sferza del sole e che, se si credeva avvertire una caccia gladiatoria, ancorchè lontana, perchè più spettacolosa, non toglieva che prima si facessero altri minori divertimenti nell’anfiteatro; senza di che non avrebbe [129] senso il dirsi che si rizzerebbero antenne a vele nell’aprile, per una caccia che dovesse seguire sei mesi nell’ottobre.

L’altro manifesto che si lesse su d’un muro della Basilica si esprime così:

N . FESTI AMPLIATI
FAMILIA . GLADIATORIA . PVGNA . ITERVM
PUGNA . XVI . X IVN VENAT . VELA.[129]

Or bene, nel cornicione dell’anfiteatro sì avvisano ancora alcune pietre aventi dei fori, ne’ quali si infliggevano le aste od antenne (mali, o mala come è scritto nella surriferita iscrizione) a cui venivano raccomandati i capi del velario e le funi che lo sostenevano.

Abbiam veduto superiormente come alle due estremità della elissi dell’anfiteatro vi fossero due porte: noterò ora che un’altra più piccola ve ne fosse, la quale era detta Libitinense, il cui scopo avverrà di conoscere più avanti, parlando de’ gladiatori.

Per questa porticina entravano poi le bestie feroci, le quali, per l’angustia di essa, non avrebbero potuto ritornare indietro o volgersi dai lati. Una cameretta vi è presso, forse lo spoliario, luogo nel quale i gladiatori uccisi venivano spogliati delle loro armi e delle loro vestimenta, come troviam ricordato in [130] Seneca ed in Lampridio[130]: in essa si trovarono le ossa d’un leone. Questa circostanza e l’altra che già ricordai di eguali avanzi di leoni rinvenuti nelle vicinanze avvalorano l’affermazione di chi scrisse che il cataclisma sorprendesse i Pompejani intenti ai giuochi dell’anfiteatro. Per lo meno ci provano che recenti ne dovessero essere stati i divertimenti.

In quanto a me, non sono alieno del dividere l’opinione di coloro che osservarono che il novissimo giorno fosse pure un dì a’ ludi circensi destinato, confermandone altresì il fatto d’essersi trovati verso l’ingresso e ne’ corridoi dell’anfiteatro sei scheletri, a fianco di essi due braccialetti, due anelli, una moneta ed altri frammenti d’oro, quattro belle monete di bronzo, un involto di drappi ed una lampada. Perchè avrebbero dovuto rinvenirsi questi scheletri e questi oggetti in luogo ordinariamente chiuso, oltre che all’estremità della città, se non per essere stato in quel giorno aperto a pubblico divertimento? Non si potranno ad ogni modo per questi dati abbastanza significanti, avere per sognatori coloro che la detta opinione sostennero.

Altre piccole camere vi sono ai lati delle due porte principali ed erano i cataboli, o stalle in cui le belve attendevano d’essere lanciate nell’anfiteatro.

[131]

Finalmente chiuderò la descrizione dell’anfiteatro pompejano col far cenno del triclinio, che di contro al principale ingresso di esso si vede. Era uso presso gli antichi che il giorno innanzi l’esecuzione dei condannati a morte si imbandisse loro un publico banchetto, chiamato libero. In cotale occasione si largheggiava ad essi di ogni ricercata vivanda. Chateaubriand, che di tal costume favella ne’ suoi Martyrs, non può trattenersi dallo scagliarsi contro di esso, come di raffinamento della legge e come brutale clemenza del paganesimo; l’una, perchè voleva rendere la vita cara a quelli che dovevano perderla; l’altra, che non considerando l’uomo che fatto per i piaceri, ne lo voleva colmare nel mentre che spirava. Anche i gladiatori, devoti a morte, poichè non avvenisse mai che talun d’essi non restasse sull’arena, avevan diritto, prima del giorno dello spettacolo, a questo publico pasto. Era poi nella piazza cinta di muro, in prossimità al triclinio, che i gladiatori attendevano l’ora di entrare alla lotta nell’anfiteatro.

Ora poichè conosciamo il luogo che in Pompei serviva d’arringo a’ giuochi circensi, e coll’anfiteatro di questa città, possiam dire di conoscere quelli pure delle altre e anche quello più famoso di Roma; passiamo a trattare de’ ludi, che più frequentemente solevano celebrarsi in essi, e delle persone che vi pigliavano parte.

I più consueti e desiderati spettacoli dell’Anfiteatro [132] erano le corse, che prima si facevano, come già vedemmo, nel Circo; i ludi gladiatorj e le cacce, che son le venationes che abbiamo in più affissi veduto annunziate in Pompei. Le danze, le pantomime, i canti e i suoni dei tibicini e dei fidicini erano divertimenti minori a’ quali prestavasi bensì l’anfiteatro, ma piuttosto a riempire gli intermezzi e ad illudere l’impazienza del publico che stava attendendo i principali spettacoli annunziati, anzi che a costituire di per sè un vero trattenimento.

Le Corse, o fazioni degli Auriga, il lettore s’è accorto essere state introdotte fin dai primordj di Roma, per aver io al principio ricordato il giuoco de’ Trojani: il qual non fosse infatti che un armeggiamento a cavallo. Molto più in onore in Grecia erano tenute le Corse, dove i vincitori ne’ giuochi olimpici vennero consegnati alla immortalità dagli inni di Pindaro. Colà, per responso della Pizia, a’ siffatti giuochi annettevasi la salute della Grecia. Furono perfino misurate le epoche dalle olimpiadi, ogni olimpiade essendo lo spazio de’ quattro anni che scorrevano fra due celebrazioni de’ giuochi olimpici. Dall’una all’altra olimpiade si contavano cinque anni, benchè non fossero se non se quattro compiuti. Presso gli storici la prima olimpiade comincia nel 776 prima di G. C. e 24 avanti la fondazione di Roma. Dopo la 340.ª olimpiade, che finì coll’anno 440 dell’Era Volgare, più non si trovano gli anni calcolati per mezzo delle olimpiadi.

[133]

Or si fu nella vigesima quinta olimpiade che presso quella nazione ebbe luogo la corsa del carro a due cavalli; nella ventottesima quella dei cavalli da sella; nella novantottesima corse con due cavalli da maneggio nello stadio, e nella susseguente si attaccarono ad un carro due giovani puledri condotti a mano ed un’altra corsa di un puledro montato a guisa d’un cavallo da sella.

In Roma e nelle città italiane, dove massime negli ultimi tempi della republica ed in quelli dell’impero si grecizzava, era più che ovvio che que’ giuochi si importassero con quelle discipline e seguissero nel circo dapprima e poi nell’anfiteatro e s’introducessero le corse dei cocchi o de’ carri, currus, detti anche bighe se tirate da una coppia di cavalli, quadrighe se da quattro. Dione nel lib. XXIX, cap. 28, parla delle corse dei cavalli che fecero parte dei giuochi famosi che diede Pompeo e de’ quali dirò ancora più avanti.

Le fazioni degli auriganti che si vennero presto istituendo e le quali aspiravano alla palma nei ludi circensi, erano quattro in Roma, distinte dal vario colore delle vestimenta loro, cioè verde, ceruleo, rosso o bianco, onde appellavansi Prasinæ, Venetæ, Russatæ, Albatæ. Svetonio ne fa sapere essersene di poi aggiunte altre due, l’una di stoffa aurata, e l’altra di panno porporino. I principi perfino si onoravano d’esserne i capi; così Caligola della Prasina, Vitellio [134] della Veneta. I guidatori (agitatores) montarono in prezzo e i poeti li celebrarono, come ne fanno fede, oltre que’ di Marziale, anche i vecchi epigrammi di M. Aurelio Dione, di Diocle, di Pompeo Eusceno e di Fuseo. Così rimasero ricordati i nomi di Incitato caro a Caligola, di Prasino caro a Nerone, di Passerino e Tigri diletti a Domiziano e di Scorpo a Nerva; del quale Scorpo dettò Marziale il seguente pomposo epitaffio:

Ille ego sum Scorpus, clamosi gloria Circi

Plausus, Roma tui deliciæque breves:

Invida quam Lachesis raptum trieteride nona,

Dum numerat palmas, credidit esse senem[131].

L’interessamento generale, la division delle opinioni, il parteggiar di tutti per questa o quella fazione d’auriganti, e le scommesse furon tali e tante, che parve fino un delirio. Giovenale così della fazion Prasina attesta la propria simpatia e predilezione:

Totam hodie Romam circus capit et fragor aurem

Percutit, eventum viridis quo colligo, panni[132];

[135] e più tardi a’ tempi di Giustiniano, per la contenzione delle fazioni Prasina e Veneta, tanta nacque sedizione in Bisanzio che il monaco Zonara, nel suo libro Degli Imperatori Greci, scrisse essersene occasionata la strage di quasi quarantamila uomini; d’onde poi si avesse ad abolire la designazione delle fazioni.

I vincitori nelle corse de’ giuochi circensi, proclamati per tali dal Pretore, come ne ammonisce Giovenale in que’ versi:

. . . . similisque triumpho

Præda caballorum Prætor sedet[133],

uscendo dalla porta trionfale del circo fra le ovazioni frenetiche del popolo, colle palme raccolte e della corona di lentischio recinta la fronte, spesso assisero conviva alla mensa imperiale.

Passo rapido ora da questo subbietto, perocchè fosse, a mio sentimento, mal propria l’arena dell’anfiteatro pompeiano a siffatto genere di ludi, e vengo invece più distesamente a dire de’ gladiatorj, che tutto attesta essere stati assai frequenti in Pompei.

Ed è a questo punto ch’io pongo dapprima la descrizione del Ludo Gladiatorio che esisteva e che venne discoperta dagli scavi in Pompei.

Ma non pensi il lettore ch’io m’intenda parlare di quella taberna, che da parecchie Guide vien detta la [136] Scola dei Gladiatori, la quale fu scoperta il 12 aprile 1847 ed a cui valse un tale titolo unicamente perchè nell’esterno di essa si trovò un’insegna dipinta che rappresentava un combattimento di gladiatori. L’angustia di questa esclude assolutamente ch’essa potesse servire allo scopo al quale si vorrebbe destinata, poichè la scuola de’ gladiatori suppone che abbia un locale atto all’esercizio della scherma e capace di contenere, oltre i duellanti, anche il lanista, o loro maestro. Ora una tale taberna non era atta a tanto. Più probabile è invece ch’essa appartenesse a qualche theatropola, o impresario di pubblici spettacoli, il quale vi tenesse ricapito per la vendita delle tessere teatrali, o per l’allestimento dei ludi o per l’ingaggio dei gladiatori. Tale insegna, comunque difesa da un piccolo tetto, è pressochè tutta omai cancellata: sotto di essa vi si lesse in addietro la seguente iscrizione:

ABIAT (HABEAT) VENERE (VENEREM) POMPEIIANA (M) IRADAM (IRATA)
QVI HOC LAESERIT[134].

Queste scorrezioni di dizione ci rivelano però il linguaggio volgare e l’approssimazione fin d’allora all’italiano.

Ma del resto farò osservare che il soggetto dell’insegna non può in alcun modo forzarci a ritenere a qualunque costo che la taberna dovesse aver un’attinenza [137] coll’arte gladiatoria e con ispettacoli, da che sembri che il combattimento di due gladiatori fosse tema assai frequente delle insegne, se Orazio, nella satira settima del Lib. 11, potè lasciare scritto:

. . . . . atque ego, cum Fulvi, Rutubæque,

Aut Placideiani contento poplite miror

Prœlia, rubrica picta aut carbone: velut si

Re vera pugnent, ferient, vitentque moventes

Arma viri[135].

Il Ludo Gladiatorio piuttosto e veramente, a quante le ricerche diligenti fatte hanno condotto a ritenere, è quell’edificio al fianco orientale del Foro triangolare, del quale parlando, ho già mentovato, che per tanto tempo si continuasse a designare per quartiere di soldati. Tale designazione non era stata, siccome avvenne di tanti altri edifici di Pompei, determinata dal capriccio, ma sì dall’esservisi trovate alcune armature e ceppi entro i quali costrette ancora le ossa dei piedi di varii scheletri, che s’era supposto essere stati di soldati in punizione, i quali erano stati sorpresi dalla estrema eruzione del Vesuvio e dalla finale catastrofe [138] senza potersi svincolare da essi. Questi ceppi si conservano al Museo Nazionale di Napoli e costituisconsi di una lunga e duplice barra di ferro, avente ad eguali intervalli venti perni rialzati che sulla cima finiscono in anelli. Tra l’uno e l’altro di questi perni il colpevole doveva collocare i piedi, che vi venivano serrati da un ferro traversale, che passava per quegli anelli, ed a fianco stava la serratura a chiave che assicurava un tal ferro.

In tutto questo edificio, scoperto nel 1766 e completamente sbarazzato nel 1794, si contarono al momento delle prime indagini, non meno di sessantatrè scheletri e si è questo considerevole numero di scheletri che farebbe persistere taluno scrittore, — cui pare improbabile che una città di non molta importanza per popolazione come Pompei potesse contare un numero sì forte di gladiatori, — a voler ravvisare in questo edificio una caserma di soldati; tanto più che una piazza forte come questa dovesse invece avere una guarnigione e per conseguenza una appropriata caserma.

Ma il P. Garrucci stabilì in una sua memoria, inserita nel tredicesimo numero del Bollettino Archeologico Napoletano del gennaio 1823, che quest’edificio non potesse essere che un Ludo de’ gladiatori. Nè del resto può sembrare improbabile in Pompei il numero suddetto di gladiatori, da che si avverta, e noi l’apprendemmo dalle iscrizioni che riprodussi, come [139] l’epoca dell’ultima eruzione che seppellì Pompei coincidesse colla stagione ordinaria degli spettacoli più strepitosi dell’anfiteatro, e che doveva pur esser quella in cui i più doviziosi romani, che possedevan ville nel delizioso golfo napolitano, solevano ritrovarsi nelle loro villeggiature. D’altronde se la questione numerica della popolazione dovesse essere non solo un irrecusabile argomento, ma ben anco un semplice argomento od una seria congettura, non si saprebbe, per egual titolo, trovar la ragione d’essere del vasto anfiteatro. Ma ho già notato invece che agli spettacoli di Pompei intervenissero pure dalle vicine terre e castella e, i fatti storici alla mano, ciò si è incontrovertibilmente da me stabilito.

Questo Ludo adunque è un vasto parallelogramma, nel quale i gladiatori venivano istruiti a combattere da un lanista o maestro di scherma. Era questi o il proprietario d’una compagnia di tali uomini, che li locava a chi volesse offrire uno spettacolo gladiatorio; od anche solo l’istruttore de’ gladiatori appartenenti allo stato, e perciò detti cæsarei. Tale parallelogramma era tutto circondato di portici e d’architettura dorica a due piani, sostenuti da sessantaquattro colonne di tufo rivestite di stucco e scannellate nella parte inferiore.

Nel giro del portico terreno vi sono molte camere, ed in quelle verso il lato occidentale si trovarono i suddetti istrumenti di punizione. Nell’interno del [140] portico, sulle colonne e nelle camere erano graffite parecchie iscrizioni, fra le quali è riportata da tutti e non per anco decifrata con soddisfazione, e per me affatto di colore oscuro, la seguente:

VHI . K . FEBR .
TABVLAS POSITAS
IN MVSCARIO
CCC . VIIII . SS . CCCC . XXX .

Dal pianterreno si ascendeva per mezzo d’una scala in angolo presso le camere ad uso di prigione al piano superiore. Non fa ora all’argomento mio di tener conto degli oggetti, fra’ quali molti muliebri, qui rinvenuti negli scavi: perocchè debba affrettarmi ad entrare più spiccio nel tema di questi gladiatori.

Roma aveva parecchi di questi ludi, e furon noti il Ludus Gallicus, il Dacicus, il Magnus, il Mamertinus, l’Æmilius. A questi non eran preposti soltanto i lanista ma de’ procuratores, tratti dalle classi cittadine più distinte, ed avevano inoltre proprj medici e chirurghi per curarne l’esistenza e la prestanza, come farebbesi di polli che si vengano nutricando per le delizie de’ banchetti. Tacito però non a torto chiamò il ludo sagina gladiatoria[136], ingrassamento gladiatorio. Nè meno celebri furono i ludi di Capua e di Ravenna; dal primo eruppe Spartaco e sappiam com’egli fosse il capo della rivoluzion servile: al secondo, di proprietà [141] dello stato, appartiene il Gladiatore che è il protagonista della bella tragedia dell’Halm, tradotta dall’egregio prof. dott. Giuseppe Rota, d’alcun brano della quale, a chiarimento del mio soggetto, infiorerò tra poco queste pagine.

Quale si avessero origine i Gladiatori, esporrò sotto brevità.

I funerali e la religione li produssero. Gli Etruschi gli usarono ne’ funerali, essendo loro credenza che l’anime de’ morti coll’uman sangue si propiziassero. Epperò i captivi di guerra, gli schiavi tristi e colpevoli, comperati, si immolavano nelle funebri pompe. Dagli Etruschi venne il costume a’ Romani, prima però che a questi, passò con determinate modificazioni ne’ riti, a’ popoli della Campania.

Fu nell’anno 490 della fondazione di Roma, che Marco e Decimo Bruto offersero pubblicamente in Roma nel Foro Boario spettacolo di gladiatori, in occasione della morte di Giunio, loro padre: i tre figli di Emilio Lepido, augure, ne fecero lottare undici coppie nel foro per tre giorni, poi venticinque i figliuoli di Valerio Levino; indi crebbero vieppiù. Già vedemmo di Lucio Silla, come i ludi gladiatorii ordinasse per testamento nelle sue esequie. Cesare, in memoria della figlia, ne presentò seicentoquaranta; Tito, delizia del genere umano, continuò tali conflitti per cento giorni; il buon Trajano, l’amico di Plinio, per centoventitrè, offerendo duemila combattenti.

[142]

Nè fu più ragione il funerale o la religione soltanto a siffatti spettacoli; ma i gladiatori si diedero ben anco a semplice titolo di divertimento, e i magistrati primarj entrando in carica, a ingrazianarsi il popolo, glieli offrivano a spettacolo; onde perfino tale divertimento stesso gladiatorio si appellasse munus, sia che intender si volesse dato gratuitamente, sia perchè dato per l’officio.

È fatto menzione da Svetonio, nella vita di Claudio, come questo Cesare, prima di disseccare il lago Fùcino, vi volesse dare uno spettacolo di naumachia, e che i gladiatori che vi dovevano combattere, passando prima d’innanzi all’imperatore gridando: Ave, Imperator, morituri te salutant:Salve, o Imperatore, que’ che vanno a morire ti salutano, — Claudio lor rispondesse: Avete vos, — state sani; ond’essi, il saluto interpretando come un perdono e una dispensa dal battersi, più non volessero infatti pugnare; tal che Claudio, indegnato, rimanesse in forse se farli tutti perire di ferro e di fuoco; ma poi lanciandosi dal suo seggio e girando intorno il lago d’un passo tremante e ridicolo, un po’ con minacce, un po’ con promesse, li obbligasse a combattere.

Era dunque una vera frenesia per codesti giuochi e così fu spinta, che tali combattimenti diventarono presto un mestiere, e il popolo sovrano a pagarli e fin le dame a carezzarne i campioni.

Or chi erano questi sciagurati che mettevano a prezzo il loro sangue, la loro vita?

[143]

Due specie vi avevano di gladiatori: la prima di coloro che venivano astretti ad assumere siffatto mestiere; l’altra di coloro che volontariamente lo esercitavano. Venivano essi, cioè, della prima specie, trascelti fra diverse classi della società, o erano schiavi che a tal uopo vendevansi o prigionieri di guerra, che dopo aver servito a decorare i trionfi de’ comandanti vittoriosi, riservavansi ai pubblici giuochi; o finalmente colpevoli di crimini o condannati per causa di ribellione.

Tuttavia accadde, — ed ecco come avvenisse che vi fossero atleti della seconda specie, — che si vedessero scendere ne’ circhi a combattere co’ gladiatori anche liberi cittadini, sia che fossero spinti a così degradarsi dall’ingordigia del danaro, ed appellavansi auctorati, sia che fossero mossi da una stolta ambizione.

La degradazione era necessaria conseguenza della professione da chiunque venisse essa abbracciata; perocchè, comunque liberi, questi auctorati erano tenuti ad un solenne giuramento, che ben valeva una verace schiavitù. La formula di tal giuramento si può leggere nei frammenti di Petronio Arbitro: In verba juravimus, uri, vinciri, verberari, ferroque necari, et quidquid aliud Eumolpus jussisset: tanquam legitimi gladiatores, domino corpora animosque religiosissime addicimus[137]. Essere uccisi dal ferro, cioè, quando cadevano [144] vinti che dovevano allora sommettersi all’ultimo e mortale colpo del vincitore; abbruciati o flagellati, quando avessero timidamente pugnato o si fossero vilmente sottratti al ferro. A questo fine nell’arena e sulla scena erano sempre i Lorarii, o Mastigofori altramente detti, schiavi destinati ad infliggere loro le summentovate pene.

Erano inoltre diverse le classi de’ gladiatori. V’erano i secutores, inseguitori addestrati a combattere coi retiarii, prendendo il nome dal modo onde inseguivano l’avversario, che avendo tentato di gittar su di essi la sua rete, senza esservi riuscito, era costretto fuggire, finchè gli fosse dato di ricuperar la rete, di cui si valeva. Così sappiamo de’ retiarii, altri gladiatori che, oltre la rete colla quale cercavano avvolgere i secutores, erano pure armati d’un forcone a tre rebbi, tridentes. — Myrmillones chiamavansi que’ gladiatori che ponevansi a pugnare contro i retiarii o contro i Traci, thraces, gladiatori pur questi armati di coltello con arma ricurva, come Spartaco che vuolsi appunto nativo di Tracia, che combattevano alla foggia del loro paese. I Myrmillones portavano l’elmetto gallico con l’immagine d’un pesce per cresta. In una tomba presso la porta Ercolano in Pompei si trovò scolpita una figura di [145] essi. Giovenale così delle prime tre sorta di gladiatori fa cenno, staffilando i nobili degenerati del suo tempo, che spudoratamente a questo infame mestiere si erano dati.

. . . hæc ultra quid erit nisi ludus? Et illud

Dedecus Urbis habes: nec mirmillonis in armis

Nec clypeo Gracchum pugnantem, aut falce supina

(Damnat enim tales habitus; sed damnat et odit):

Nec galea frontem abscondit: movet ecce tridentem,

Postquam librata pendentia retia dextra

Nequidquam effudit, nudum ad spectacula vultum

Erigit et tota fugit agnoscendus arena.

Credamus tunicæ, de faucibus aurea quum se

Porrigat, et longo jactetur spira Galero.

Ergo ignominiam graviorem pertulit omni

Vulnere, cum Graccho jussus pugnare secutor[138].

[146]

Gli scavi di Pompei offersero del pari, in un basso rilievo in istucco su d’una tomba, la figura d’un’altra specie di gladiatori, detti Samnites, la cui origine ci è svelata da Tito Livio in quel passo cui già accennai nel capitolo della Storia: Campani odio Samnitium gladiatores eo ornatu armarunt, samniticumque nomina appellarunt[139].

Questi Sanniti credesi anche si chiamassero col nome di hoplomachi, se pure non fossero designati con questo nome altri differenti atleti: ed erano essi gladiatori codesti che pugnavano armati da capo a’ piedi.

Essedarii dicevansi coloro che combattevano dall’essedo, veicolo da me già spiegato nel capitolo Le Vie; Andabati quelli che battevansi sui cavalli; Dimachœri che usavano di due gladii, o spade; Laquearii che cercavano abbattere il proprio competitore col laccio; Supposititii o surrogati, che subentravano al gladiator vinto, misurandosi col vincitore per contendergli la definitiva vittoria; Pegmares quelli che servivano nell’anfiteatro a subitanee trasformazioni, da pegma ch’erano appunto macchinismi scenici; Postulatitii coloro ch’erano dati nello spettacolo in soprappiù del numero regolare indicato nell’annuncio, a fine di soddisfare la richiesta (postulata) del publico; e [147] Meridiani, finalmente, certi gladiatori armati alla leggiera, che combattevano per modo d’interludio, a mezzo giorno, dopo terminati i combattimenti colle fiere.

Nè certo ho con questi menzionati i nomi tutti delle tante specie di gladiatori, che nella frenesia di que’ spettacoli si vennero studiosamente immaginando.

Più tardi adunque, come già ci avvertirono i succitati versi di Giovenale, superando ogni ritegno e pregiudizio, scesero nell’arena cavalieri perfino e senatori. Come s’è veduto avvenire che uomini dell’ordine equestre montassero la scena sotto di Giulio Cesare; fu pur sotto di esso che in Roma primi obliassero il decoro del loro ordine Furio Leptino e Aulo Caleno, senatori; ma rotto il freno e precipitando ognor più la pubblica moralità in basso, si vedevano offerirsi a indecente e brutto spettacolo di nudità e di degradazione nel circo nani e pigmei, donne e fra queste anche matrone.

Il perchè Giovenale così flagella l’inverecondo costume:

Endromidas Tyrias et femineum ceroma

Quis nescit? vel quis non vidit vulnera pali?

Quem cavat assiduis sudibus scutoque lacessit,

Atque omnes implet numeros, dignissima prorsus

Florali matrona tuba; nisi si quid in illo

Pectore plus agitat, veræque paratur arenæ.

Quem præstare potest mulier galeata pudorem

Quæ fugit a sexu? Vires amat[140].

[148]

Pare, ed a ragione, così di troppo conculcata la dignità umana; ma che si dirà dinanzi il fatto di Nerone che fe’ pugnare in un giorno nell’Anfiteatro 40 senatori e 60 cavalieri? Dopo l’umiliazion della donna, succedeva quella dell’autorità. Che rimaneva omai di venerando e sacro?

Quelli nondimeno che fra tutti costoro destavano maggior pietà, erano indubbiamente i prigionieri di guerra, ai quali Tertulliano concede l’epiteto d’innocenti, per distinguerli da’ gladiatori di mestiere.

Nessuna guerra, dice Giusto Lipsio, non fu giammai più distruttiva pel genere umano quanto i giuochi del circo. Infatti si sa da Plinio il Giovane che fin da’ suoi tempi e da lui e da altri prestantissimi uomini se ne gridasse all’abolizione.

L’universale delirio per questi giuochi giadiatorj, l’affluenza del pubblico, l’intervento del principe e [149] de’ magistrati, la descrizione di queste pugne e l’interessamento dovunque ad esse per parte d’ogni classe di persone, non escluso il sesso che suolsi appellare gentile, io dirò meglio colla viva dipintura che ne fa l’illustre poeta tedesco Federico Halm, ossia, per togliergli il velo della pseudonimia lacerato non ha guari da morte, il barone Münch Bellinghausen, nella sua tragedia Il Gladiatore di Ravenna, la quale abbiamo la fortuna d’avere egregiamente recata in italiani versi da quel chiarissimo letterato che è il prof. dottor Giuseppe Rota:

Allor che Roma pompeggiando lieta

Come a festivo dì tutta s’adorna,

E Cesare e il Senato e i cavalieri

In solenne corteo traggono al circo,

Onde gli spazii smisurati occupa

Di figure e di voci all’ondeggiante

Pelago fragoroso; allor che al cenno

Aspettato di Cesare le sbarre

S’aprono ai combattenti e un tal silenzio

Sorge improvviso che nessun più vedi

Trar fiato, bocca aprire, o batter occhio;

Ed ecco il segno squilla, i colpi cadono,

L’uno innanzi si fa, l’altro retrogrado

Gitta all’elmetto del rival con rapido

Moto la rete, cotestui districasi,

Poi di nuovo s’intrica, i colpi accumula,

Poi percosso egli pur vacilla e sanguina,

Presenta il petto, anche cadendo, all’emulo,

Riceve il colpo e muore; e allor che i soniti

D’immensi plausi a quella vista scoppiano

Simile a folgor che scoscende nuvola,

E par la terra vacillar dai cardini,

Sull’ebbro capo al vincitore piovono

[150]

Rose e lauri a gran nembo, accenna Cesare

Del viva il segno e mille bocche il suonano

Al vincitor sì che vi echeggia l’aere....[141]

Quando un gladiatore aveva ferito il suo avversario, gridava: habet, cioè l’ha tocco. Il ferito, gettando l’arme allora, si portava presso gli spettatori, alzando il dito per supplicare la grazia. Dov’egli avesse ben combattuto, il popolo l’accordava premendo il pollice e lo salvava: in caso diverso, od anche dove gli spettatori non si sentisser disposti a di lui favore, essi abbassavano il pollice e il gladiatore vittorioso imponeva senz’altro al vinto: recipe ferrum, ricevi il pugnale, e questi veniva immolato. A tale barbarico uso del popolo di abbassar il pollice perchè valesse d’ordine al gladiatore vincitore di dar il colpo di grazia, segando la gola al vinto, han tratto questi versi dello stesso Giovenale nella satira terza:

Quondam hi cornicines et municipalis arenæ

Perpetui comites, notæque per oppida buccæ,

Munera nunc edunt, et verso pollice vulgi

Quem libet occidunt populariter[142]

Questo crudel decreto di morte osava, — tanta era [151] l’efferatezza dei tempi — la vergine vestale stessa bene spesso pronunciarlo, come Prudenzio, De Vestalibus, ce lo attesta:

. . . . . . . pectusque jacentis

Virgo modesta jubet, converso pollice, rumpi[143]

Stava tuttavia ne’ precetti dell’arte gladiatoria il saper cader bene ed atteggiarsi pittorescamente nel presentare la gola o il petto ond’essere trafitto dal vincitore; e cosiffatto artificio poteva conciliar talvolta al gladiatore il perdono della vita. Nella succitata tragedia di Halm, ecco come Glabrione, rettore della scuola gladiatoria in Ravenna, ciò rammenti a Tumelico, il protagonista del componimento, insieme ad altri consigli.

GLABRIONE.

Non io di sferza

Nè di buone parole a te mi parco:

Tu dunque bada a farmi onor: m’intendi?

Impassibile mostrati e sicuro:

La coscïenza di vittoria è mezza

Già la vittoria: tieni gli occhi agli occhi

Del tuo rivale e dove intenda avverti

Pria ch’ei muova la man.

TUMELICO.

Lo so, il so bene,

GLABRIONE.

Un altro avviso ancora.

[152]

TUMELICO.

E qual?

GLABRIONE.

Nel caso....

Intendi ben.... ciò non sarà, ma pure

Esser potria.... nel caso che abbattuto,

Gravemente ferito.... egli è un supposto...

Tu ti sentissi, allor fa di cadere

Sovra il manco ginocchio e fuor protesa

La destra gamba e del sinistro braccio

Fatto puntello, declinato indietro,

Grazïoso a vedersi e pittoresco,

Statti aspettando il colpo estremo[144].

Talvolta il popolo era tanto feroce che dava tumultuosi segni d’impazienza quando il combattimento durava un po’ più dell’usato, senza che alcuno dei due campioni fosse rimasto ucciso o ferito.

V’eran tuttavia degli intervalli di riposo in queste lotte di gladiatori e si chiamavano deludia: Orazio usò nell’Epistola XIX la frase deludia posco, per dire chieggo un armistizio, togliendola a prestanza dallo stile gladiatorio e dall’anfiteatro.

La presenza dell’imperatore faceva d’ordinario accordare la vita al vinto, e fu ricordato come un esempio di crudeltà il fatto di Caracalla, che a Nicomedia, in uno spettacolo gladiatorio, avesse licenziato coloro che eran venuti ad implorarne la vita, sotto pretesto d’interrogarne il popolo; lo che si ritenne quanto l’ordine di trucidarli.

[153]

Byron, l’immortale poeta del Corsaro, di Lara e di Don Juan, nel Pellegrinaggio di Childe-Harold, dinnanzi al capo d’opera di Ctesilao, il Gladiatore morente, da lui veduto in Roma, e del quale Plinio il Vecchio aveva detto che l’artefice vulneratum deficientem fecit in quo possit intelligi quantum restat animæ[145], così lo descrisse e gli prestò tal sentimento da sembrare che le barbare orde settentrionali e le sventure tutte piombate poi sull’Italia e Roma, non altro fossero che la giusta espiazione del sangue sparso da’ poveri e innocenti prigionieri di guerra condannati in sollazzo pubblico a’ cruenti spettacoli dell’Anfiteatro.

Così alla meglio tento di rendere in italiano i bellissimi versi inglesi:

Ecco il vegg’io prostrato in sul terreno,

Colla man regge il capo il gladiatore:

Col guardo esprime, di fierezza pieno,

Ch’ei frena l’ineffabile dolore;

La testa piega e il lacerato seno

Geme l’ultime stille del suo core,

Che ad una ad una cadon lentamente

Come le prime di uragan fremente.

Romba l’arena intorno a lui..... ma spira

Prima che il plauso al vincitor suo cessi:

Egli lo intende e non per ciò sospira;

L’occhio ed il cor lungi di qui son essi;

[154]

La vittoria o la vita non l’attira,

Ma come avanti a lui li abbiano messi,

Vede il Danubio, la capanna e i suoi

Presso la madre folleggiar figliuoi.

Ed ei frattanto, a rallegrar le feste

Della superba Roma, è presso a morte....

Questo pensier si mesce a le funeste

Strette dell’agonia orrendo e forte....

— Ma non avran vendetta mai codeste

Supreme angosce?.... Or su, genti del Norte,

Su levatevi tutte e qui correte

Del furor vostro a soddisfar la sete.[146]

Nè la morte dell’infelice gladiatore bastava a calmare bene spesso l’immane ferità del pubblico, perocchè fosse accaduto che esso ingiungesse senza pietà la ripetizione de’ colpi sui vinti e l’inferocir contro i cadaveri, per tema di essere frodato dall’artificio di simulata morte, come ce lo attesta Seneca: injuriam putat quod non libenter pereunt[147]; nè mancò talvolta chi osasse mettere la mano dentro la ferita e perfino ne bevesse il sangue ancora caldo e fumante, tratto da superstizioso pensiero che fosse a certi mali, come l’epilessia, farmaco salutare e certo.

Il cadavere del gladiatore veniva tratto di poi, come ricorda Lampridio nella Vita di Commodo, col mezzo d’un gancio nella camera, che pur si vede nell’anfiteatro [155] di Pompei, la quale veniva detta lo spoliario: gladiatoris cadaver unco trahatur et in spoliario ponatur[148].

Ogni anfiteatro poi aveva la porta Libitinense, dalla dea Libitina, nel cui tempio custodivansi gli apparati funebri, e da cui, collocati dentro la sandapila, o bara, escivano, a spettacolo compiuto, i morti corpi per trasportarsi al carnajo.

I gladiatori invece ch’erano riusciti vittoriosi nell’arena ottenevano duplice premio: la palma e il denaro: altri ne avevano pur dai privati, massime per le vinte scommesse, e a tale crebbero che dovette il principe intervenire a moderare le donazioni.

Ai veterani concedevasi la bacchetta, rudis, quasi in segno di magistero: anche a’ nuovi era essa accordata per alcun fatto cospicuo e per acclamazione di popolo, impetrata spesso dal gladiatore medesimo. Effetto della stessa era d’essere liberati nello avvenire dall’obbligo della arena, e gli auctorati d’essere restituiti alla prima libertà. Questi privilegiati della bacchetta denominavansi Rudiarii; ed assolti da’ combattimenti ulteriori, sospendevano le loro armi nel tempio di Ercole, che si reputava essere il nume che presiedeva ai gladiatori.

Un’altra razza di gente che offerivasi in ispettacolo [156] nel circo erano le Ambubaje. Oriunde queste della Siria, o come qualche altro scrittore pretende, derivate da Baja nel golfo di Napoli, onde avessero dedotto il nome, perchè le donne di quel luogo, — celebre per le sue terme, a cui nella state affluivano le eleganti e lussuriose femmine dell’Urbe e gli uomini più rotti alla scostumatezza, — solevano pur concorrere in Roma ad esercitarvi la lascivia e sonando e cantando[149] campavano la errabonda vita, suonando cioè le tibie, e cantando ballate. La bellezza e procacità loro, cui lo spettacolo aggiungeva rilievo e prestigio maggiori, del modo stesso che ballerine e mime pur oggidì sono meglio appetite da’ nostri ricchi fanulloni, le rendeva ambite dalla libidine de’ facoltosi, cui e nel circo e in posti di pubblico ritrovo si concedevano, ed a questa passione per esse allude il seguente passo della Satira III di Giovenale, che già ne occorse di conoscere come il pittore più accentuato dei costumi romani del proprio tempo:

Quæ nunc divitibus gens acceptissima nostris,

Et quos præcipue fugiam, properabo fateri;

Nec pudor ostabit. Non possum ferre qui vites,

Græcam urbem: quamvis quota portio faecis Achei?

Iam pridem Syrus in Tiberim defluxit Orontes,

Et linguam et mores et eum tibicine cordas

[157]

Obliquas, nec non gentilia tympana secum

Vexit et ad Circum jussas prostare puellas.

Ite, quibus grata est picta lupa barbara mitra.[150]

Orazio, prima ancora di Giovenale, aveva le ambubaje ravvolte tra la spregevole canaglia, nella Satira II del Lib. 1.

Ambubajarum collegia, pharmacopolæ,

Mendici, mimi, balatrones; hoc genus omne

Mœstum ac sollicitum est cantoris morte Tigelli.

Quippe benignus erat[151].

[158]

Le quali Ambubaje vogliono essere distinte dalle Ludie, che erano bensì donne che ballavano e recitavano in pubblico, ma non nei circhi e anfiteatri, sibbene nei teatri, come l’uomo ludius, che vedemmo nell’antecedente capitolo. Ricordo per altro qui ancora le ludie in altro senso, perchè più tardi infatti esse significassero le mogli de’ gladiatori, essendo che la scuola di costoro si appellasse, come ho già più d’una volta notato, ludus. Giovenale ancora in questo senso parla della ludia, nella Satira VI.

Dicite vos neptes Lepidi, coecive Metelli,

Gurgitis aut Fabii, quæ ludia sumserit umquam

Hos habitus?[153]

Un breve cenno or debbo fare dei giuochi Florali, i quali si celebravano in Roma nelle Calende di marzo di ciascun anno. Se può esser vero che non egualmente si festeggiassero in Pompei, nondimeno, siccome ho detto che lo studio di questa città ci trae a conoscere la vita romana, parmi così non dover passare sotto silenzio questi giuochi speciali, che nel quadro dei giuochi circensi reclamano indubbiamente un posto, per il forte rilievo che danno al degenere costume di quel popolo.

I Sabini, da cui tanto dedussero di costumanze e di [159] riti i primi Romani, ebbero in onore il culto di Flora, questa ninfa che, sposa a Zeffiro, ebbe da lui in dote l’impero de’ fiori. Essi lo trasmisero ai Romani a’ tempi di Tazio loro re, e se la gentilezza e purità del regno di questa Dea avrebbe dovuto informare i suoi adoratori a leggiadri riti, vuol esser detto perchè invece fossero essi in Roma non meno impudici ed osceni de’ Lupercali, che per le sue vie in altro tempo venivano celebrati in onore della Lupa, ossia della cortigiana Acca Larenzia, con quel nome designata per cagione de’ suoi sfrenati costumi, la qual raccolse ed allattò Romolo e Remo.

Una cortigiana venuta di poi, denominata Flora, che volle appropriarsi il nome d’Acca Larenzia, in memoria della prima, chiamava erede de’ molti suoi beni, frutto di sua vita sciupata, il popolo romano, il quale riconoscente la collocò nel novero delle sue divinità, e le eresse un tempio rimpetto al Campidoglio; onde avvenne che, istituendosi a suo onore de’ pubblici giuochi quali si dissero florali, venissero facilmente confusi con quelli innocenti della prima Flora.

Invocata nelle intemperie delle stagioni, o quando lo imponevano i libri sibillini, se ne celebravano i giuochi, i quali poi nel 580 di Roma, in occasione di calamitosa sterilità durata per molti anni, diventarono annuali, per decreto del Senato.

Come i Lupercali, che ho testè ricordati, celebravansi pure i Florali dapprima a notte al chiaror [160] delle faci, nella strada Patrizia, ove trovavasi un circo di sufficiente grandezza. Quivi erano cantate le più oscene canzoni; quivi cori di ignude cortigiane, che con procaci movimenti compivano svergognate le più ributtanti lascivie e si prostituivano, plaudente il popolo, a uomini brutali che, parimenti ignudi, si erano a suon di trombe precipitati nell’arena.

Narrano le storie come un giorno Catone, l’austero, fosse comparso nel circo in occasione appunto che stavano i giuochi florali per incominciare, perocchè gli edili avessero già fatto dare il segno. La presenza del gran cittadino impedì che l’orgia scoppiasse: le meretrici, per reverenza si strinsero nelle vesti loro, tacquero le trombe, il popolo ammutì. Chiedea Catone onde sì improvvisa sospensione, e avutone in risposta esserne causa la sua presenza, egli alzatosi prontamente allora e recatosi alla fronte il lembo della toga, uscì dal circo. Il popolo applaudì, caddero subito le vesti alle sciupate, squillarono le trombe e lo spettacolo ebbe il suo corso.

Fu per avventura ad una di queste feste, che, regnando Nerone, venne offerto l’infame spettacolo nel circo, che Svetonio ricorda e che Marziale fe’ subbietto al sesto Epigramma del Lib. I. che basterà di per sè a stigmatizzare il costume di quel tempo.

Iunctam Pasiphaën Dictaeo credite tauro,

Vidimus: accepit fabula prisca fidem.

[161]

Nec se miratur, Cæsar, longaeva vetustas:

Quidquid fama canit, donat arena tibi[154].

Per l’eguale ragione che mi parve dover intrattenere il lettore de’ Giuochi Florali, credo qualche parola consacrare eziandio agli spettacoli di Naumachia.

La circostanza d’essere Pompei città in riva al mare, siffatti spettacoli davanti all’imponente maestà della pianura equorea sarebbero apparsi così meschini, da non eccitare interesse di sorta; e però non posso ritenere che naumachie si tentassero mai nell’anfiteatro pompeiano. La misura della sua elissi non credo fosse tampoco propria a congeneri ludi. Se tal sorta quindi di divertimento da magistrati o doviziosi si fosse voluto dare, siccome d’altronde per lo più gli spettacoli dati da costoro erano, come vedemmo, gratuiti, avrebbero a teatro eletto il mare stesso e con sicurezza di miglior effetto.

Non era così altrove e massime in Roma. Che le naumachie fossero nei gusti de’ maggiorenti e del popolo non può recarsi in dubbio; superiormente trattando de’ Gladiatori, menzionai quella offerta da [162] Claudio sul lago Fùcino. Svetonio, nel dire di essa, ricorda la particolarità che si vedessero l’una contro l’altra urtarsi una flotta di Sicilia ed un’altra di Rodi, composta ciascuna di dodici triremi, fra lo strepito della tromba d’un tritone d’argento che un congegno praticato nel mezzo del lago faceva a un tratto scattar fuori[155].

Naumachia, derivanda dalle due voci greche ναῦς, nave, e μαχη, pugna, esprime già di per sè il proprio significato. A questi navali combattimenti si trovò modo di dar luogo, facendo entrare ne’ teatri, a mezzo di celati condotti, le acque, e così vi si poterono far figurare mostri marini, flotte e simulate battaglie di navi.

Lo Storico de’ Cesari summentovato fa cenno della naumachia data da Nerone in Roma, dove pare si fosse all’uopo eretto apposito luogo, ed anzi, se si vuole stare a Frontino, nell’opera sua sugli Acquedotti, sin cinque o sei naumachie si sarebbero contate nel circondario di Roma. In quella adunque offerta da Nerone si videro appunto nuotare nell’acqua marina de’ mostri: exhibuit naumachiam, marina aqua innantibus belluis[156]. Un’altra battaglia navale ne rammenta, data nella vecchia naumachia da Tito, con intervento di Gladiatori[157] ed una ancora offerta da [163] Domiziano[158]. Era forse di quest’ultima che Marziale intese parlare nel 31 Epigramma del lib. degli spettacoli, e la quale egli chiamò superiore a tutte le antecedenti:

Quidquid et in Circo spectatur et Amphiteatro

Dives Caesarea præstitit unda tibi.

Fucinus et pigri taceantur signa Neronis:

Hanc norint unam sæcula Naumachiam[159].

Il suddetto storico Svetonio attribuir vorrebbe ad Ottaviano Augusto il vanto d’essere stato il primo a dare ai Romani spettacolo di un finto combattimento navale in un bacino scavato appresso al Tevere[160]; ma Servio, scoliaste di Virgilio, ne ammonisce avere i Romani, al tempo della prima guerra Punica, istituita la naumachia, dappoichè si fossero accorti che le nazioni straniere avessero nelle pugne navali non leggiero valore[161].

Ma forse prima d’Augusto queste naumachie potevano limitarsi ad esercitazioni de’ classiarii, o militi appartenenti alle flotte, nell’intento appunto di addestrarli [164] a’ navali combattimenti, e solo averli poi questo Cesare ordinati a pubblico divertimento.

Ma basti intorno ad esse.

Or mi resta a parlare delle cacce di animali, venationes, che si davano così spesso negli anfiteatri romani e che sì frequenti pure ci dicono i surriferiti affissi seguissero in quello di Pompei.

Desiderosi coloro che davano gli spettacoli di solleticare con isvariate illecebre gli appetiti del publico, immaginarono, a rendere più interessanti queste cacce, di convertire l’Arena in selva, presentando, cioè, la più illudente immagine delle cacce germaniche, che si volevano arieggiare. Facevasi dunque a tale intento sollevare ne’ boschi da’ soldati delle grosse piante fino dalle radici e trasferire nell’Anfiteatro, dove confitte nel suolo e assicurate con travi e sovrapposta la terra si mutava l’arena in una foresta. Nè l’arena così conformavasi soltanto, ma anche i cataboli, stanze di custodia, da cui, come da antri e spelonche, sbucavano, quasi da’ naturali lor covi, le fiere. La natura era pertanto fedelmente imitata.

E quel che in Roma facevasi ed era in voga, afferma Giusto Lipsio essersi nelle provincie subitamente emulato, e le caccie dovevano però tosto adottarsi e suscitare il più vivo interesse.

In due maniere si compivano queste cacce: o facendo combattere fra loro le fiere, o facendole combattere con gladiatori o con condannati. Eranvi però [165] delle volte in cui per la rarità dell’animale, che non si voleva uccidere, limitavansi ad ammaestrarlo facendolo passare avanti gli spettatori, o stretto in catene, ovveramente chiuso in una gabbia. Le cacce più consuete, perchè meno dispendiose, erano di orsi e cinghiali. Erano straordinarie e di lusso quelle di leoni, elefanti, pantere ed altre belve rare.

I combattimenti degli animali vorrebbe Seneca che avessero luogo per la prima volta in Roma, nel settimo secolo di sua fondazione, al tempo di Pompeo. Questi medesimo, nella inaugurazione del suo teatro, fece combattere nel circo gli elefanti, che Plinio dice essere stati in numero di venti, e i quali diedero tal prova d’intelligenza da destare perfino la compassione: strana cosa in vero, da che non la sapessero eccitare gli uomini in quel tempo! Così Cicerone infatti parla di quelle feste scrivendone a Marco Mario, alleato di sua famiglia:

«Per cinque giorni v’ebbero stupende cacce, e chi lo nega? Ma un uomo serio qual piacere può avere dal vedere o un uomo debole sbranato da una fortissima belva, o una superba fiera trapassata da un cacciatore? L’ultimo giorno comparvero gli elefanti, di cui il volgo e la turba fecero le maraviglie: ma voluttà non vi fu, anzi destò una tal qual compassione e si pensò che quell’animale avesse una cotale affinità colla stirpe umana»[162].

[166]

Ma Seneca nella summentovata sua sentenza è smentito da altri non meno autorevoli scrittori. Tito Livio, a cagion d’esempio, ne fa sapere che, fin dall’anno 568 della fondazione di Roma, Marco Fulvio celebrasse giuochi che passarono famosi nella storia, per compiere un voto fatto nella guerra d’Italia, e ne’ quali si fecero combattere pantere e leoni: et venatio data leonum et pantherarum[163].

Diciasett’anni dopo, cioè nel 585, gli edili curuli P. Cornelio Scipione Nasica e P. Lentulo, per la guerra contro Perseo, facevano combattere nei giuochi del Circo sessantatrè tigri, e quaranta orsi ed elefanti. Quinto Scevola, nel 689, fe’ combattere leoni; e Lucio Silla, per la prima volta, due anni dopo, offrì combattimento di cento leoni, della varietà che si chiamava giubbata, o colla chioma non ricciuta.

Lucio e Marco Lucullo, essendo essi pure edili curuli, nel 678, fecero combattere elefanti contro tori, per aizzare i quali ultimi conveniva far uso del fuoco, come Marziale ci avverte:

Qui modo per totam flammis stimulatus, arenam,

Sustulerat raptas taurus in astra pilas,

Occubuit tandem cornuto ardore petitus,

Dum facile tolli sic elephanta putat[164].

Passata questa caccia di tori, combattuta però dagli [167] uomini, come nelle altre provincie dell’orbe romano, così eziandio nella Spagna, anche quando la civiltà tolse affatto di mezzo questi barbari divertimenti, essa non se ne volle disfare non solo, ma tanto la smania delle caccie del toro si è innestata al suo costume, che pure a’ nostri giorni si continui tra la frenesia di pubblici entusiasmi, i plausi e le dimostrazioni di leggiadre dame; e toreros e matadores, picadores e banderilleros e tutto il gregge gladiatorio insomma che partecipano a queste se la campano egregiamente e son ben anco tenuti in conto. Si potrebbero in oggi citare più nomi di celebri toreri, come a Roma in antico si ripeteva da ognuno il nome de’ più famosi gladiatori, conservati poi alla memoria de’ posteri dagli storici e da’ poeti.

Ma rivengo a dire delle caccie romane.

Cento orsi della Nubia e cento cacciatori venuti dall’Etiopia combatterono l’anno 693 per cura di Domizio Enobarbo edile; e tre anni dopo, Marco Emilio Scauro, tra’ vari altri giuochi circensi, quello spettacolo offerì pure dello scheletro di enorme cetaceo, lungo quaranta metri, più alto di un elefante indiano, che si spacciò dai ciurmadori essere stato quello medesimo al quale era stata esposta Andromeda: un ippopotamo, [168] che Plinio afferma essere stato il primo veduto in Roma, di cinque coccodrilli e di centocinquanta tigri di ogni specie.

Ritornando sulla caccia data agli elefanti sotto Pompeo, che Plutarco dice essere riuscito uno spettacolo di spavento, Dione Cassio reca le seguenti particolarità, che piacemi riferire. «Si fecero combattere con uomini armati 18 elefanti; gli uni perivano nel combattimento, altri più dopo; perchè il popolo anche in onta a Pompeo, ebbe pietà di alcuni, quando li vide fuggire colpiti di ferite, percorrenti l’arena, colle trombe dirette verso il cielo e mandando lamentevoli grida: il che fece credere che essi non agivano così per avventura, ma che attestavano coi loro barriti la violazione della promessa fatta loro con giuramento nel trasportarli dall’Africa, e che imploravano la vendetta celeste. Si narra veramente che essi non avessero consentito a salire sulle navi, se non dopo che i conduttori ebbero loro promesso con giuramento di preservarli da qualunque duro trattamento. Il fatto è certo, o non l’è? È quanto ignoro.»

Del resto si sa, soggiunge Mongez, che tal passo riporta pure in una sua memoria, di cui mi son valso, che gli antichi credevano che gli elefanti avessero un’anima intelligente, e tale opinione si è conservata fra i popoli dell’India.

In questi giuochi da Pompeo dati per cinque giorni, a solennizzare la dedica del suo teatro, fra le molte [169] fiere cacciate nel circo, oltre i suddetti elefanti, Plinio ricorda seicento leoni, dei quali trecentoquindici giubbati, e quattrocentodieci tigri d’ogni specie.

Giulio Cesare nel 708 volle superare nella magnificenza de’ suoi giuochi quelli dati dal suo emulo e mostrò per la prima volta in Roma le giraffe e i combattimenti dei tori e fe’ comparire nel circo due eserciti composti di fanti, di cavalieri e di elefanti. «Si diedero cacce per cinque giorni, scrive Svetonio, e per terminare lo spettacolo si divisero i combattenti su due schiere composte ciascuna di cinquecento fanti, di venti elefanti e di trecento cavalieri, si fecero combattere gli uni contro gli altri»[165].

Succedutogli Augusto, a lui si volle dar vanto d’aver fatto uccidere, a divertimento del popolo, tremila e cinquecento animali.

Sarebbe lungo soverchio parlare degli animali nostrali e addomesticati; ma si può argomentarlo dalla passione che si aveva per tali divertimenti. Non lascerò tuttavia di narrare come il più volte citato Plinio abbia scritto che nei giuochi dati da Germanico si vedessero alcuni elefanti moversi in cadenza a guisa di danzanti[166]; Svetonio in quelli dati da Galba comparissero elefanti funamboli[167], in quelli di Nerone, [170] Sifilino dice di un elefante che salì sulla cima della scena, camminando sopra una corda e portando sopra di sè un cavaliere[168]; e Marziale parla dell’aquila addestrata a portar in sull’aria un fanciullo, nel seguente distico di un suo epigramma:

Æthereas aquila puerum portante per auras

Illæsum timidis unguibus hæsit onus[169]

e altrove sullo stesso fatto:

Dic mihi quem portes, volucrum regina? Tonantem[170]

perchè il fanciullo era vestito da Giove.

Le cacce e gli spettacoli gladiatorii si facevano nel circo nelle ore mattutine; ma, nell’814, Domiziano volle invertire l’ordine consueto e celebrò tali giuochi a notte, collo splendore delle faci; e Svetonio che ciò racconta nella vita di questo Cesare, aggiunge che in questi combattimenti di bestie e di gladiatori prendevano parte non uomini soltanto, ma femmine benanco[171].

Le caccie più ordinarie erano, giusta quanto già [171] dissi, d’orsi e di cignali, come quelle più favorite e di cui anche in Pompei si ha argomento di prova per pitture e bassorilievi rinvenuti: e i cacciatori, venatores, vi figuravano a piedi ed a cavallo. Usavano costoro di apposita lancia, venebalum, dell’arco, arcus, dei cani, canes venatici.

Le lotte degli uomini colle fiere venivano eseguite da appositi gladiatori, designati piuttosto col nome di bestiarii e considerati meno de’ gladiatori proprii e spesso anche da infelici schiavi a ciò costretti da snaturati padroni. Dapprima si accordò a tale effetto ad essi elmo, scudo, spada o coltello e schiniere o schermi alle gambe; poscia, sotto il regno di Claudio, non si videro combattere che difesi da fasciature attorno alle gambe ed alle braccia armati di spiedo o di spada soltanto, con un brandello di stoffa colorata, il più spesso in rosso, nella manca mano.

Di queste caccie e lotte diverse coi diversi animali ci lasciò memoria ed intrattenne lungamente Marziale nel suo Libellus De Spectaculis: io non vi spicco ora che il seguente epigramma, il quale volge intorno alla pugna delle donne colle fiere, perchè si vegga come ne’ ludi gladiatorj il così detto sesso gentile, non pago pure di misurarsi cogli uomini in quegli esercizj efferati, non volesse anche nel resto rimaner addietro degli uomini in alcun modo:

Belliger invictis quod Mars tibi sævit in armis;

Non satis est Cæsar: sævit et ipsa Venus.

[172]

Prostratum Nemes et vasta in valle leonem,

Nobile et Herculeum fama canebat opus.

Prisca fides taceat: nam post tua munera, Cæsar,

Hæc jam feminea vidimus acta manu[172].

Così si ebbero anche le bestiariæ.

Eppure il lettore non ha certo obliato come sotto la porta principale dell’anfiteatro di Pompei nella iscrizione a sinistra dedicata a Cajo Cuspio Pansa padre, si faccia cenno d’una legge Petronia, della quale l’illustre magistrato pompejano sarebbe stato rigido osservatore.

Questa legge, così chiamata da Petronio Turpiliano suo autore, che era console in Roma, nell’anno 813 [173] (61 dell’E. V.), unitamente a Cajo Giunio Cesonio Peto, soccorse alla misera condizione de’ servi, provvedendo che dove accadesse una eguale disparità di voti in un giudizio intorno la manumissione di un servo, decretar si dovesse in favore della sua libertà (L. 24. ff. de manumiss.), e proibendo agli inumani padroni di condannare a loro arbitrio i servi al combattimento colle bestie feroci, se prima non fossero stati giudicati meritevoli di questa pena con un formale giudizio. Ma intorno a questa legge, perchè memorata nella pure da me riferita lapide pompejana, lungamente dissertò il marchese Arditi, che fu ne’ primi anni del secolo sovrintendente agli scavi di Pompei, ed alla quale rinvio chi desideri saperne di più.

È implicitamente così detto che al combattimento colle fiere venissero condannati unicamente servi ed altri colpevoli. Ma, oltre ciò, altri, rei di parridicio o d’empietà, venivano condannati alla esposizione delle fiere nell’anfiteatro; ragione per cui la storia dei primitivi tempi del Cristianesimo segna a migliaja cosiffatte condanne dei neofiti cristiani, che gli imperatori si ostinavano a considerare come nemici dello Stato, malgrado pur sapessero che nelle loro agapi e catacombe e in ogni istituzione avessero in obbligo la preghiera per essi, l’obbedienza alle leggi e il perdono a’ nemici. Codeste persecuzioni durarono a questi miti ed entusiasti credenti, che da noi sono chiamati martiri della fede e però designati alla venerazione nostra.

[174]

Uno de’ precetti della filosofia stoica era: non ammirate gli spettacoli; i Cristiani, nello ispirarne l’aborrimento, avevano così una ragione maggiore.

Ecco un esempio di codesti ludi pantomimici, nei quali la catastrofe aveva veramente umani sagrificj, combinando così l’applicazione d’una vera pena col pubblico divertimento.

Ancora il più volte citato Marziale, nel suddetto Libellus, descrive di tal guisa lo spettacolo pantomimico, nel quale, Laureolo, schiavo, che per aver ucciso il padrone, era stato, come colpevole di parricidio, condannato alla croce ed alle fiere, era lo sventurato protagonista:

Qualiter in scythica relegatus rupe Prometheus

Assiduam vivo viscere pascit avem:

Nuda Caledonio sic pectora præbuit urso,

Non falsa pendens in cruce Laureolus.

Vivebant laceri membris stillantibus artus,

Inque omni nusquam corpore corpus erat

Denique supplicium dederat necis ille paternæ;

Vel domini jugulum foderat ense nocens,

Templa vel arcano demens spoliaverat auro,

Subdiderat sævas vel tibi, Roma, faces.

Vicerat antiquæ sceleratus crimina famæ,

In quo, quæ fuerat fabula, pœna fuit[173].

Il Colosseo di Roma fu singolarmente teatro a questi barbari spettacoli, dove un popolo sitibondo di sangue [175] forzava la mano al principe sovente, massime quando erano incominciate le persecuzioni cristiane, gridando contro i nuovi credenti: alle fiere! alle fiere! perocchè al nuovo culto e ai nuovi credenti, dagli astuti sacerdoti pagani si attribuissero le publiche calamità per lo sdegno degli offesi Numi.

Nè da meno inoltre attendere si doveva in un’epoca di piena degradazione morale. Non paga la prostituzione d’esercitarsi ne’ lupanari, nelle case de’ privati, nella reggia e pubblicamente, perfino nei cómpiti e quadrivii, essa versavasi ne’ teatri e nei circhi, dove più copiosa trovava la messe. Legga il lettore Marziale, legga Giovenale, poeti che son pur troppo forzato a citar di soverchio, e raccapriccierà dall’orrore di tanta spudoratezza e bassezza di popolo. I lupanari divennero quasi parte integrante di questi clamorosi ritrovi, vi si fabbricavano all’uopo apposite celle, e vi si eressero temporaneamente alla evenienza di grandi spettacoli, e le sciupate traevano però all’anfiteatro, più certamente in cerca di lussuria che di altro spettacolo.

[176]

Ma si oda su di ciò il Dufour.

«Non v’era eccezione nelle ore assegnate alla libera pratica dei pubblici luoghi e piaceri, che nei giorni di festa solenne, quando il popolo era invitato agli spettacoli del circo. In tali giorni la prostituzione veniva trasportata dov’era il popolo, e mentre i lupanari chiusi restavano deserti nella città, quelli del circo si aprivano nel tempo stesso dei ludi; e sotto ai gradini ove affollavansi gli spettatori, i lenoni organizzavano cellette e tende, ed ivi era una continua processione di cortigiane e di libertini attirati da queste al loro seguito. Mentre le tigri, i leoni e le bestie feroci mordevano le barriere delle loro gabbie di ferro; mentre pugnavano e morivano i gladiatori; mentre l’uditorio scuoteva l’immenso edifizio con grida ed applausi, le meretrices, adagiate sopra sedie particolari, distinte per l’alta pettinatura e per le vesti corte, leggiere ed aperte, facevano appello continuo alle brame del pubblico, e non aspettavano per soddisfarle che gli spettacoli fossero terminati. Tali cortigiane lasciavano non interrottamente il posto loro, succedendosi a vicenda durante tutto il tempo de’ giuochi. I portici esterni del circo non più bastando a quest’incredibile mercato di prostituzione, tutte le taverne, tutte le osterie delle vicinanze rigurgitavan di gente. Bene inteso che la prostituzione in quei giorni era libera assolutamente e che gli apparitori dell’edile non osavano inquisire sulle qualità [177] delle femmine che esercitavano colà l’infame mestiere. Ecco perchè Salviano dicesse di queste orgie popolari: si offre un culto a Minerva nei ginnasi; a Venere nei teatri, ed altrove quanto v’ha di osceno, si pratica nei teatri; quanto v’ha di disordinato, nelle palestre... Gli edili quindi non si dovevano occupare della prostituzione dei teatri, come se tale prostituzione completasse i ludi dati al popolo. Generalmente d’altronde (può almeno supporsi da’ varii luoghi della Istoria Augusta), i teatri erano messi in opera da una specie di femmine, che alloggiavano sotto i portici e nelle gallerie arcate di questi edifizj: avevano per mezzani, o per mariti, i banditori del teatro, i quali vedevansi circolare incessantemente di gradino in gradino durante la rappresentazione. Questi banditori non si contentavano di vendere al popolo, o distribuire gratuitamente alle spese del personaggio che dava i giuochi, acqua e ceci: servivano principalmente di messaggieri e d’interpreti per agevolare la dissolutezza. Con ragione dunque il cristiano Tertulliano chiamava il circo e il teatro concistoria libidinum»[174].

Come allora maravigliarsi dei sanguinarj giuochi dell’anfiteatro; come sorprendersi della generale ferocia degli spettatori?

[178]

Parini, il poeta mio concittadino, filosoficamente e a tutta ragione ebbe a cantare:

Così, poi che dagli animi,

Ogni pudor disciolse,

Vigor dalla libidine

La crudeltà raccolse[175].

Ma la gloria di far iscomparire dalla terra queste vere vergogne dell’umanità, che furono i giuochi gladiatorj, in cui la vita dell’uomo era offerta al ludibrio ed al capriccio della plebe, spettar doveva alla nuova dottrina del Cristo, che si andava per l’orbe diffondendo. Sarei nel dire di questo importantissimo argomento fuori veramente dell’epoca cui deve restringersi l’opera mia; ma, come dissimularlo? come, dopo avere turbato l’animo del lettore col ricordo di tanti strazii, non segnalargli poi il tempo in cui ebbero fine, e più ancora come non segnalare il principio, al quale andò debitrice di tanto beneficio la povera e depressa umanità?

Il Cristo era venuto a spezzar la catena dello schiavo, a proclamare il suo codice di libertà, d’eguaglianza, d’amore, e santificando col proprio supplizio la croce, segno dapprima d’infamia, l’aveva reso un oggetto di gloria. Sparso il buon seme della nuova dottrina, fruttificata dal sangue di tante migliaja di martiri, che spesso in onta alle debolezze dell’età o del senso, incontravano fra i più barbari tormenti la morte senza [179] pur dar un gemito, ma salmodiando a Dio e benedicendo a’ loro persecutori, mentre i più efferati ladroni mandavano sempre fra gli spasimi bestemmie ed urli, doveva necessariamente riformarsi il costume e dovevano tornare in obbrobrio i cruenti spettacoli del circo e dell’anfiteatro.

Fu Costantino imperatore, nell’anno 1067 di Roma, che in omaggio a’ cristiani principj, ch’egli aveva abbracciato, bandì la legge santissima che i gladiatorj ludi in tutto il romano impero aboliva. Pur nondimeno, diradicare d’un tratto e per sempre sì inveterate e glorificate abitudini non fu possibile, e un cotal poco fecero ancora esse capolino sotto Costante, e poscia sotto Teodosio e Valentiniano imperatori, ed anche sotto Onorio si aprì ai gladiatori in Roma il Coliseo. — Fu in siffatta occasione che avvenne scena in cui tutto si pare il coraggio e l’entusiasmo cristiano.

Era l’anno 404 dell’Era Cristiana, quando questi ludi si offerivano nell’Anfiteatro Flavio in Roma. Quivi, venuto dall’Asia, era un monaco di nome Telemaco, e avuto notizia che il sanguinoso spettacolo seguiva in un determinato giorno, vi si recava animato dal più santo zelo, e quando essi appunto fervevano, immemore d’ogni umano riguardo, precipitatosi nell’arena e gittatosi fra le coppie de’ combattenti, in nome del suo Divino Maestro e della cristiana carità, tentava disgiungere i gladiatori e farli cessare dal sangue. Sollevavansi a quell’atto furibondi gli spettatori, [180] che si vedevano sturbato il loro migliore divertimento, e dato di piglio alle pietre, lapidarono colà il monaco generoso. — Di ciò si valse appunto l’imperatore Onorio, perchè, proclamato Telemaco martire della fede, si avesse a richiamare alla più severa osservanza l’editto di Costantino.

I gladiatori adunque scomparvero di tal modo, quantunque le caccie degli animali feroci durassero sino alla caduta dell’impero d’occidente[176], e cessarono pure le persecuzioni contro i credenti del Cristo. «Voi che vi lagnate — sclama Cesare Cantù — perchè i simboli della passione del Cristo oggi sfigurino il Coliseo, ricordate quanto sangue v’abbiano quelli risparmiato»[177].

A compir le notizie che riguardano i ludi del Circo e dell’Anfiteatro, mi resta a dire delle sparsiones e missilia, che accompagnavano quasi sempre gli spettacoli che offerivansi in essi, quando chi ne sosteneva le spese erano il principe, o i maggiorenti della repubblica o dell’impero.

Queste missilia e sparsiones erano doni che si facevano al popolo da chi dava i giuochi. Distribuivansi a mezzo di tessere di legno, sulle quali stavano scritte le cose cui davano diritto, lo che recherebbe l’idea d’una gratuita lotteria, quando però non fossero gli oggetti stessi, i quali allora si venivano [181] con gran tafferuglio disputando. I valori e la spesa per siffatti regali quali fossero, possiam raccogliere da Svetonio, là dove tratta delle missilia e delle sparsiones, distribuite da Nerone. «Nei giuochi, scriv’egli, per l’eternità dell’impero che Nerone appellò massimi, persone dei due ordini e dei due sessi sostennero parti divertenti. Un notissimo cavalier romano sedendo su d’un elefante trascorse su d’una corda distesa (cathadromum) in direzione obliqua. Si recitò una commedia d’Afranio intitolata L’incendio e si abbandonò agli attori il saccheggio d’una casa divorata dalle fiamme. Ogni giorno si facevano al popolo tutte sorta di larghezze (sparsa et populo missilia), si largheggiavano a lui buoni pagabili in grani, vestimenta, oro, argento, pietre preziose, perle, quadri, schiavi, bestie da soma, animali addomesticati, e finalmente si giunse per pazza liberalità a regalare vascelli, e perfino isole e terre[178]

E così fece dopo anche Tito, ammanendo ludi e feste per cento giorni, nella dedica dell’Anfiteatro Flavio da lui compito; come prima di essi, un semplice privato, Annio Milone, quello stesso che fu difeso da Cicerone, sprecò tre patrimonj per gli stessi dispendj. Probo, figlio di Alipio, pretore; Simmaco pretore del pari, per non dir di tutti, profusero, al medesimo scopo di Claudio di blandire il popolo, infiniti tesori.

[182]

Come visitando il Coliseo e gli anfiteatri di Verona e di Nola; così pure vedendo quello di Pompei, il quale ne è il meglio conservato, e che tutto ciò che ho in questa pagina brevemente passato in rassegna rammenta, dinanzi a cosiffatte superbe costruzioni, non puoi disgiungere dal sentimento d’ammirazione, quello della compassione per le miriadi di vittime umane che dentro di essi vennero sagrificate, e per la sciagurata condizione che è fatta dalla fortuna agli uomini d’essere gli uni di ludibrio e spettacolo agli altri, questi destinati a servire d’incudine, quelli a valer da martello.

[183]

CAPITOLO XV. Le Terme.

Etimologia — Thermæ, Balineæ, Balineum, Lavatrina — Uso antico de’ Bagni — Ragioni — Abuso — Bagni pensili — Balineæ più famose — Ricchezze profuse ne’ bagni publici. Estensione delle terme — Edificj contenuti in esse — Terme estive e jemali — Aperte anche di notte — Terme principali — Opere d’arte rinvenute in esse — Terme di Caracalla. Seguon le terme di Caracalla — Ninfei — Serbatoi e Acquedotti — Agrippa edile — Inservienti alle acque — Publici e privati — Terme in Pompei — Terme di M. Crasso Frugio — Terme publiche e private — Bagni rustici — Terme Stabiane — Palestra e Ginnasio. Ginnasio in Pompei — Bagno degli uomini — Destrietarium — L’Imperatore Adriano nel bagno de’ poveri — Bagni delle donne — Balineum di M. Arrio Diomede — Fontane pubbliche e private — Provenienza delle acque — Il Sarno e altre acque — Distribuzione per la città — Acquedotti.

Tra gli edifizi antichi che meglio attestino della grandezza e sontuosità romana e del costume, non nella sola capitale dell’orbe, ma dovunque le aquile latine ebbero a stendere il volo delle proprie conquiste, sono, a non dubitarne, le Terme.

[184]

Terme ebbe pure, e come no? Pompei; e gli avanzi che più innanzi esamineremo, ci varranno di conferma di quello che storicamente sto per dire intorno a tale argomento.

La parola dedussero i Latini dal greco vocabolo θέρμας, che letteralmente significherebbe sorgenti calde; quindi bagni d’acqua calda; fosse pur essa così prodotta dalla speciale qualità e natura del luogo, o fosse l’effetto di semplice calore artificiale. Terme vollero dire ben presto l’edifizio intero destinato appunto al servizio di bagni d’ogni genere, caldi o freddi, a vapore o ad acqua.

Sotto questo aspetto generico, il vocabolo, come facilmente si vede, ha un significato equivalente alle parole Balineæ e Balneæ; ma queste, per istabilirne il divario dalle Thermæ, riferisconsi piuttosto all’antica maniera di costruire e disporre uno stabilimento balneario; mentre dopo l’età d’Augusto, come osserva il Rich[179], quando i Romani ebbero volto il pensiero alle arti di pace, ed erogato ad abbellire la città capitale una parte di quelle ricchezze che provenivano dai tributi de’ loro estesi dominj, il nome Thermæ venne più particolarmente appropriato a quei magnifici stabilimenti modellati sulla pianta d’un ginnasio greco, ma costruiti anche in più splendide proporzioni e più vasti. Così avverrà di rinvenire negli [185] scrittori usati i vocaboli Balineum e Balneum e questi per esprimere un bagno privato od una serie di stanze per bagni appartenenti a casa privata.

Nelle Balineæ eravi d’ordinario doppio appartamento per uomini e donne, vedendosi le eguali parti architettoniche di un lato egualmente riprodotte dall’altro: non così nel Balineum, del quale toccherò più d’una volta avanti, ricordando principalmente quello che fu riconosciuto in Pompei nella villa suburbana di Arrio Diomede. Solo avvertirò qui che più anticamente, a designare un bagno privato, venisse usata la parola lavatrina, da cui, nota Varrone, si fe’ per sincope la voce latrina, e poi si usò promiscuamente latrina per lavatrina, accordato poi nome di latrina tassativamente a quel luogo della casa ove confluiscono le immondizie di essa[180].

Nell’antichità più rimota ritrovasi adottato l’uso de’ bagni sì di acqua fredda, che di calda. Di questi ultimi quasi sempre parla Omero ne’ suoi poemi; dei primi fa pur cenno. Quando nell’Iliade fa che Diomede ed Ulisse sull’alba e di primavera si lavino nel mare per refrigerio di quella loro notturna impresa; e nell’Odissea quando rappresenta le donzelle, che accompagnavano la real fanciulla Nausica a lavarsi per diletto nel fiume. Ettore, ancor nell’Iliade, tramortito dal masso lanciatogli al petto da Ajace venne fatto rinvenire colle acque dello Xanto.

[186]

L’esercizio e il diletto de’ bagni entrarono perfino ne’ riti delle pagane religioni: perocchè queste di sovente consacrarono col loro sacro e venerato suggello quelle pratiche che la politica e l’igiene consigliavano a’ popoli, onde e in Egitto e in Grecia, e in Roma e presso le più barbare nazioni si introdussero nelle religiose cerimonie lustrazioni e purificazioni frequenti e si narri da Teofrasto che un cotale dominato da superstizione, mai non sapesse passeggiare la città che transitando avanti le publiche fontane non vi avesse a tuffare e lavare la testa.

Euripide, che i bagni di mare avevan guarito da pericolosa infermità volle forse alludere ad essi quando disse:

Lava il mar tutti quanti i mali umani.

L’uso dei bagni in Italia fu frequentissimo in allora, assai e assai più che di presente. Servio, lo scoliaste di Virgilio, commentandone un passo coll’autorità di Catone e di Varrone ci fa sapere che gli Stati primitivi portavano i loro pargoli a’ fiumi e col ghiaccio e coll’acqua rendevano i loro corpi più duri e più sofferenti, ciò che narrasi avere pur fatto gli Spartani, i Germani ed i Celti. Ma del non essere rimasta dopo l’impero di Roma, la consuetudine dei bagni, così frequente ed eccessiva in Italia, non se ne vuole, come fa il francese Bréton, ligio in questo al mal vezzo del suo paese, di buttarsi in ogni occasione a detrarci, inferire contro noi, che scostandoci dalle consuetudini de’ nostri padri, siam [187] portati a bagnarci ben più raramente che non gli abitanti delle contrade del Nord. Io non reputo vera l’accusa. Non saprei indicare qui esattamente tutte le stazioni termali della Penisola, sia per cure idropatiche, che di puro convegno estivo. Forse tra noi non hanno esse tanta nominanza quanto le terme di Baden, di Spa, di Omburgo, di Aix, di Plombières e va dicendo, per ciò solo che meno immorali, noi non vantiamo ai bagni nostri di Acqui, d’Abano, di Montecatini, di Genova, di Livorno, di Venezia, di Rimini, di Salsomaggiore, di Recoaro e dei cento altri luoghi in ogni parte d’Italia, che salutari guarigioni e non rovine di sostanze giuocate sui scellerati tapis verts.

In quanto ai tempi di Roma antica, trovandosi essa sotto clima meridionale, dove la traspirazione è abbondante nella estiva stagione, e siccome non si avesse ancora l’uso delle biancherie, ossia de’ pannilini, nelle vestimenta, — la cui introduzione avvenuta forse intorno al secolo sesto, secondo il Manni[181] e il Ferrari e il Mercuriale da lui citati, credono essere stata cagione della diminuzione della pratica quotidiana dei bagni, ridotta quasi al solo uso della medicina[182] — è certo che dovendo vestire immediatamente presso la pelle la lana e aver soli sandali ai piedi, il [188] sudore e la polvere dovessero esigere giornaliere abluzioni e persuadere così il generale e ripetuto uso de’ bagni.

Era questo una misura igienica. Ne’ primi tempi anzi la salute solo e la decenza lo consigliavano e reclamavano: l’idea del lusso o della mollezza non c’entrava ancor punto. L’uso era di bagnarsi tutti i nove giorni, all’epoca cioè del mercato, che seguiva appunto con questi intervalli, come già ne tenni parola, trattando del Foro Nundinario.

Dapprima i bagni pubblici non furono che edifizj massicci, rischiarati piuttosto da fessure che da finestre, divisi in tre comparti, o camere, la caldaria, la tepidaria e la frigida; nomi che indicano da sè stessi la loro speciale destinazione. Consistevano del resto allora semplicemente in ampie vasche in cui poteva ognuno entrare per lavarsi e nuotare, usanza tolta a prestito agli Spartani; ma, ai tempi di Pompeo, si eressero luoghi più adatti; quantunque, come già dissi, la ricercatezza e splendidezza, perfino eccessive, delle Terme, non si noti che più tardi, cioè sotto di Augusto e de’ suoi voluttuosi successori.

Per consueto si faceva uso dei bagni prima della cena ed anche dopo i passeggi, le esercitazioni ginnastiche e il lavoro; il più spesso per ragion di bisogno, non rado tuttavia per ragione di semplice diletto. Si giunse a un tempo perfino di eccesso nell’uso di essi; perocchè si legga che Commodo otto volte il dì si lavasse; [189] Gordiano il giovane e Remnio grammatico sette volte, e i fannulloni passassero nelle terme la più gran parte del giorno e della notte; nè ciò si verificasse soltanto de’ più potenti e ricchi, ma de’ privati ben anco, ivi allettati viemmeglio dal concorso delle cortigiane; e Plinio perfino rammentò di schiavi, che vi profondevano ricchezze, quale era il gitto di preziosi unguenti, di cui pavimenti e pareti rimanevano imbevute.

Seneca — e ciò valga a dimostrare la sontuosità di codesti publici convegni — in bagni plebei trovò fistole, o condotti di acque, lavorate in argento, e in quelli di gente libertina vide con giustissima indegnazione profuse perfin le gemme.

Valerio Massimo e Macrobio attestano che un Sergio Orata avesse immaginato, a maggiore studio di voluttà, dei bagni pensili.

Così dagli scrittori citansi in Roma le Balineæ Palatinæ, poste cioè sul clivo Palatino; quelle di Mecenate, quelle di Nerone, di Agrippina nel colle Viminale; di Stefano, ricordate da Marziale nel lib. XI de’ suoi epigrammi, in quello indiritto a Giulio Cereale:

Octavum poteris servare, lavabimur una;

Scis quum sint Stephani balnea juncta mihi[183];

di Novato pur sul Viminale; di Olimpiade; di Paolo; di Policleto e di Claudio Etrusco, di cui parla Stazio [190] nel lib. I delle Selve, facendone l’entusiastica descrizione, e Marziale suddetto nel sesto degli Epigrammi.

Il qual ultimo poeta fa menzione dei bagni pure di Tucca, di Fausto, di Fortunato, di Grillo, di Lupo, di Pontico, di Severo, di Peto e di Tigellino. Del resto è impossibile tener conto di tutti i pubblici bagni di Roma, se già dal tempo d’Augusto se ne noverassero sin ottocentocinquantasei, e sotto Antonino, nelle terme da lui costrutte, vi fossero milaseicento sedili di marmo o di porfido e vi si potessero riunire fin tremila bagnanti, e tremila e duecento in quelle di Diocleziano. Il solo Agrippa aprì centosettanta bagni pubblici e volle fossero gratuiti; oltre che ogni benestante, appena l’avesse potuto, accostumò aver nella propria casa il proprio bagno particolare.

Con quanta profusione di ricchezza si ornassero questi luoghi ho già detto e la fantasia appena può immaginarlo. Plinio lasciò ricordato che nei bagni degli imperatori sul monte Palatino vi fossero vasche e mobili d’argento nelle sale destinate alle dame. Pitture, statue, bronzi, mosaici vi abbondavano, nè facea difetto in questi sontuosi edifizj di tutto quanto potesse solleticare i sensi e ricreare gli spiriti.

Per farsi ragione di quanto lusso essi fossero, non sia discaro recar alcuni versi del succitato Stazio, ne’ quali parla dei bagni, che ho pur più sopra mentovati, di Claudio Etrusco.

[191]

Non huc admissæ Thasos, aut undosa Charistos,

Mœret onyx longe quæriturque exclusus Ophites:

Sola nitet flavis Nomadum decisa metallis

Purpura, sola cavo Phrygia quam Synnados antro,

Ipse cruentavit maculis lucentibus Atys,

Quasque Tyros niveas secat, et Sydonia rupes.

Vix locus Eurotæ viridis, cum regula longo

Synnada distincta variat non lumina cessant,

Effulgent cameræ, vario fastigia vitro

In species animosque nitent. Stupet ipse beatas

Circumplexus opes, et parcius imperat ignis.

Multus ubique dies radiis ubi culmina totis

Perforat, atque alio sol improbus uritur æstu.

Nil ibi plebeium, nusquam Temesea notabis

Æra, sed argento felix propellitur unda

Argentoque cadit, labrisque nitentibus instat,

Delicias mirata suas et abire recusat[184].

[192]

Ma perchè non si creda che il Poeta vi abbia aggiunto del proprio, ascoltiamo Seneca, nel passo al quale ho superiormente fatto cenno, che sembra essersi incaricato di trasmetterci le notizie di tutti i raffinamenti del lusso spiegati nei bagni, istituendo un paragone fra il presente e il passato con viva ed energica pittura e non dissimulando l’aspirazion sua verso l’antica semplicità.

È la vista della villa di Scipione a Literno che gli detta le seguenti considerazioni. «Io vidi, scrive egli, il bagno piccolo, oscuro e tenebroso, secondo il costume de’ nostri maggiori: credevano essi necessario per aver caldo, che non ci si vedesse molto. Fu gran piacere per me di mettere a raffaccio i costumi di Scipione coi nostri. È in questo tetro asilo che quell’eroe, il terror di Cartagine, lavava il proprio corpo, stanco dalle fatiche della campagna. Oggi chi consentirebbe a bagnarsi così? Si crederebbe versare nell’indigenza, se le pietre preziose, regolate da abile scalpello, non risplendessero da tutte parti sui muri; [193] se i marmi d’Alessandria non fossero interamente incrostati di marmi numidi, se la volta non fosse di vetro, se le piscine non recinte da marmo di Taso, meraviglia codesta riservata un tempo appena a qualche tempio privilegiato, se l’acqua non iscendesse da canne d’argento. E io non parlo finora che di bagni plebei; ma che sarà se passiamo in quelli de’ liberti? quante statue, quante colonne che sostenevano nulla, ma vi son collocate solo per ornamento dell’edifizio! Tale è oggidì la nostra delicatezza, che noi non permettiamo a’ nostri piedi che di calpestar pietre preziose. Nei bagni di Scipione non trovansi che piccole fessure per finestre: oggi invece si dice d’un bagno: è un antro, se non è disposto in guisa di accogliere a mezzo di immense finestre il sole durante tutta la giornata, se dalla vasca non si scorgono le campagne ed il mare. In addietro si contava picciol numero di bagni, ed essi erano assai poco ornati: perchè, infatti, spiegare della magnificenza in edificj in cui s’entrava col pagamento d’un quadrante e che erano destinati all’utilità piuttosto che al piacere? L’acqua non vi cadeva già a cascate e non si rinovellava senza interruzione: quanto non si troverebbe grossolano di non aver introdotto la luce nel suo caldarium a mezzo di larghe pietre speculari e di non essersi proposto di digerire nel bagno! Oh lo Sciagurato! ei non sapeva vivere! Non si bagnava già in un’acqua limpida e calma, ma torbida il più spesso e limacciosa! [194] ma poco a lui ciò caleva; perocchè egli colà traesse a lavare i suoi sudori, non i proprj profumi. Che direste voi dunque se sapeste com’ei non si bagnasse già tutti i giorni, non più de’ suoi contemporanei? Oh gli uomini sucidi, direste voi! — ma lo si è diventati di più da che i bagni si sono moltiplicati. Che mai dice Orazio per dipingere un uomo screditato dagli eccessi del suo lusso? Ch’ei pute di profumi. Scipione putiva di guerra, di fatica, di eroe. Scegliete fra Rufillo e Scipione.»

Ma se così erano i bagni pubblici e privati, faccia ragione il lettore che dovessero essere le terme, se a’ bagni fu sempre assegnato un significato più semplice e più modesto, e alle terme si applicò per contrario quello d’una magnificenza maggiore e d’una più grande estensione.

Le rovine che tuttavia sussistono gigantesche fanno fede di ciò e giustificano la sentenza d’Ammiano: Lavacra in modum provinciarum exstructa, quasi le terme emulassero in vastità, non che le città, le intere regioni. Infatti si vuole che le terme di Settimio Severo occupassero uno spazio di centomila piedi quadrati.

Ma come, dirà naturalmente il lettore, poteva il solo corpo delle terme occupar tanto spazio? Nelle terme, oltre le piscine, o gran vasche per nuotare allo scoperto e i battisterii pei bagni freddi a immersione, eranvi celle pei bagni particolari, portici e [195] xisti, specie di giardini alberati, per le passeggiate, sferisterii o sale per giuocare alla palla, conisterii o stanze co’ pavimenti di sabbia onde stropicciare i corpi unti dei pugili, teatri per rappresentazioni drammatiche, circhi per ludi gladiatorj, esedre per conferenze filosofiche e letture di poemi, palazzi e templi, biblioteche ed efebei, o luoghi destinati alla educazione della gioventù, e tali e tanti altri edificj che agli imperiti venne poscia autorità di chiamar col nome di terme i più cospicui monumenti che rimangono dell’antico.

Si fecero terme estive e terme jemali, che Gordiano insegnava erigere nella medesima località; ma prevenuto da morte, non potè recare ad effetto. Aureliano le fabbricò poi in Trastevere ed aperte prima tutte soltanto di giorno, poscia si resero accessibili anche di notte.

Ecco ora, secondo l’ordine di loro anzianità, le più celebrate terme di Roma:

Prima quelle di Agrippa, che Plinio, alla cui Storia Naturale son costretto sempre a ricorrere, chiamò fra i precipui ornamenti della città: ebbero archi e pavimenti di vetro e le migliori commodità.

Seguon quelle di Nerone, delle quali Marziale, nell’epigramma 34 del lib. VII, disse il maggior elogio, come del loro signore rese la più trista testimonianza:

Quid Nerone pejus?

Quid thermis melius Neronianis?[185]

[196] quelle di Tito, alle quali accenna il medesimo Marziale nell’epigramma 20 del lib. III:

Titi ne thermis an lavatur Agrippæ?

An impudici balneo Tigellini?[186]

quelle di Domiziano, quelle di Trajano, quelle di Severo e quelle di Antonino, di tanta mole codeste ultime ed artificio che, se vuolsi aggiustar fede a Sparziano, eziandio dotti architetti negassero prima potersi di tal modo costrurre.

Vengono altresì le terme dette Siriache; le terme di Alessandro; quelle di Gordiano sontuosissime; di Filippo, di Decio, di Aureliano e di Diocleziano. Queste occuparono buona parte del Viminale, e dalle loro imponenti rovine si argomentarono e i fornici altissimi e le ammirabili colonne e tutta la imponenza degli altri edificj.

Finalmente si rammentano le terme di Costantino nel Quirinale, un fornice delle quali ascendendo Giorgio Fabricio, vi giunse ad annoverare quasi cento gradini[187].

Come poi fossero, per così dire, divenute obbligatorie le splendidezze ed il lusso maggiori in cosiffatti stabilimenti, ce lo ha già appreso quel passo di Seneca, che ho superiormente riferito.

[197]

Or si comprende adunque come tanta parte degli antichi capolavori dell’arte greca pervenuti infino a noi e che formano i principali ornamenti e vanti dei nostri musei e gallerie, si avessero a ritrovare nelle terme. Il gruppo del Laocoonte si rinvenne in quelle di Tito; l’Ercole e il Toro Farnese, il Torso di Belvedere, la Flora Farnese, i due Gladiatori e il gruppo di Dirce legata da Zeto e Anfione ad un toro selvaggio, si scoprirono nelle Antoniniane, dette altrimenti di Caracalla, opere tutte che si conservano nel Museo Nazionale di Napoli. Si comprende eziandio come avesse potuto Michelangelo una sola stanza delle Terme Diocleziane, tramutar nella Chiesa di Santa Maria degli Angeli la più grande in Roma, dopo quella di S. Pietro.

Delle terme Antoniniane o di Caracalla, l’architetto Pardini sui ruderi esistenti ne ricostruì il disegno primitivo, onde è dato di ricordarne le parti alla maggiore intelligenza di tali stabilimenti, ed io lo farò, ajutandomi con quanto ne ha pur fatto il De Rich: perocchè suppergiù sieno le altre terme egualmente conformate[188].

Una colonnata corre lungo tutta la facciata e fronteggia la strada: sarebbe stata annessa alla fabbrica primitiva sotto Eliogabalo in parte e compiuta sotto Alessandro Severo. Dietro tale colonnata evvi una fila [198] di celle con un apoditerio o spogliatojo annesso a ciascuna per uso delle persone che non amavano di bagnarsi in pubblico. Nel mezzo della fronte s’apre l’ingresso. Tre corridoi semplici intorno al corpo centrale dell’edifizio, con un doppio corridoio dal lato ovest, ristaurati dal detto Pardini secondo il modello del ginnasio d’Efeso benchè non ne rimanga ora veruno; pur senza di essi vi sarebbe stato manifestamente un vuoto che conveniva riempire. Da ambo i lati della generale costruzione stanno le exedræ, ove sedevano e conversavano insieme filosofi e letterati, costruite con un abside semicircolare che dal lato sinistro tuttavia si conserva e intorno alla quale erano disposti i sedili. Nel mezzo di tale abside vi sono i corridoi conformi alli xisti greci, con terreni per esercizj sul davanti e che avevano alle due estremità una stanza separata, che serviva probabilmente a qualcuno degli esercizj o giuochi di provenienza greca. Fra questi xisti, dall’uno all’altro vi erano praticati passeggi scoperti (hypetræ ambulationes) piantati d’alberi e arbusti e con ispazj vuoti nel mezzo per gli esercizj del corpo. Nella parte postica dello stabilimento è delineato lo stadio, con sedili all’intorno, dove gli spettatori prendevano diletto alla corsa e agli altri esercizj, che vi si facevano; quindi anche il nome di theatridion. Le costruzioni dietro lo stadio contengono serbatoi di acqua e fornelli al di sotto, che riscaldavano l’acqua pei bagni fino ad [199] una certa temperatura, prima che fosse travasata da tubi nelle caldaje immediatamente contigue alle stanze dei bagni. Quanto alle altre stanze situate in questa estremità dell’edifizio non saprebbesi determinarne in modo autentico l’uso speciale, dove non servissero all’uso della ginnastica, essendo appunto prossime ai posti o terreni destinati alla medesima.

Il corpo centrale del fabbricato conteneva le stanze del bagno, alcune delle quali serbano tuttavia qualche traccia della loro destinazione così da potersene con fiducia assegnar l’uso ed il nome; quindi la natatio, ossia una gran vasca da potervi nuotare, fiancheggiata da ogni parte da una serie di stanze che servivano da apoditerj e da camere per gli schiavi, capsarii, che prendevano cura delle vestimenta deposte da coloro che si bagnavano; il caldarium con quattro bagni di acqua calda, alvei, ad ogni angolo, e un labrum, o gran vaso a fondo piatto per l’acqua, onde spruzzarsi il volto nell’altezza della temperatura, da ciascuno de’ due grandi lati. Le stanze che seguivano appresso contenevano il laconicum, o bagno a vapore, a cui probabilmente serviva la camera circolare, posta propriamente nel centro dell’edificio. Avanti di essa, ai lati pure, stavano cisterne d’acqua alimentate dai serbatoi posti all’estremità opposta. Due grandi spazj vicini ai corridoi laterali valevano di stanze coperte per passeggiarvi nel tempo cattivo e di sferisterii, o sale pel giuoco della palla, a cui si davano con molto ardore [200] i Romani; quelle che si trovano più oltre, sotto un doppio portico erano due bagni freddi a immersione, baptisteria, con una stanza per ugnersi, elæothesium, e una camera fresca, frigidarium, egualmente da ciascun lato. Nel suo complesso la fabbrica occupa un’area d’un miglio di circonferenza, o 1851 metri. Il corpo centrale aveva inoltre un piano superiore, dove probabilmente dovevano essere biblioteche e gallerie di quadri.

Per ciò che spettano all’argomento delle Terme, non dimenticherò di dire ora una parola de’ Ninfei. Che si fossero veramente, è controverso ancora: due principali sono i significati che vi si assegnano. Il Monaco Zonara, che scrisse intorno agli Imperatori Greci, vorrebbe i Ninfei essere stati pubblici palazzi, nei quali si celebrassero nozze e che venissero aggiunti ai massimi palagi a seconda del bisogno: altri opinano invece che fossero luoghi pubblici di piacere, nei quali venissero bensì derivate le acque, ma non per terme e bagni, ma solo per ragione di amenità, traendo il nome dalle statue delle ninfe, di cui più sovente solevansi adornare. Ma non consta di meglio circa il loro uso, nè circa la loro forma, variando assai gli scrittori di cose antiche nel dir di tutto che spetta a cotali edificj; pare nondimeno non avessero a mancare d’una certa importanza, se gli stessi imperatori gli ebbero a edificare; onde Ammiano faccia menzione del Ninfeo di Marco come d’opera [201] ambiziosa, Publio Vittore di quello di Alessandro, e Capitolino di quello di Gordiano, per non dire d’altri. Degli antichi ninfei non è superstite vestigio di sorta: solo il già citato Giorgio Fabrici, nella sua Roma, descrive liberamente un ninfeo nella villa Leucopetrea fra Napoli e il Vesuvio, ma non recano maggior luce nell’argomento.

L’opinione più generale è per la seconda ipotesi, che de’ ninfei fa un fresco ed aggradevole recesso, e come i sunnominati scrittori ne collocarono il tema nel dir delle terme; ho voluto pur io seguitarne l’esempio; avvalorato a questo dall’aver trovato nel Codice Teodosiano il titolo Quid in publicis thermis, quid in nympheis pro abundantia civium conveniat deputari, e nello stesso luogo aver letto: Malumus aquæductum nostri palatii publicarum thermarum ac nympheorum commoditatibus inservire[189], i quali testi, terme e ninfei confondono in un solo interesse. Vi pone suggello l’antica iscrizione scolpita sul margine di un fonte:

NYMPHÆ LOCI
BIBE LAVA TACE

Ora naturale discende dal fatto della esistenza, molteplicità e suntuosità di tutte queste istituzioni l’indagine [202] del come e terme e bagni pubblici e privati e ninfei venissero provveduti convenientemente di acqua, molto più in quelle città, nelle quali si doveva, per la loro situazione, difettare.

Era tutta una scienza, che procaccerò di spogliare di sua rigidezza, per non dirne che storicamente di sua applicazione.

Roma per lungo tempo non ebbe altra acqua che quella del suo Tevere e di qualche sorgente nativa; ma accresciuta la città, e distanti di soverchio i suoi colli dal fiume, nell’anno 441 di sua fondazione, per opera di Appio Claudio Censore, quello stesso che istituì il sistema di eseguir le strade, viæ stratæ, avvisò al modo di condurvi l’acqua per tubi, canali e fornici laterizii. L’acqua Appia vi venne pel corso di circa undici miglia condotta. I bisogni pel bevere, per i bagni, per le fulloniche, per le naumachie e pei circhi, consigliarono nuovi acquedotti; onde se ne contarono ben quattordici, e Publio Vittore ne numerò venti; così che quasi ogni casa potè derivarne a’ proprii usi con fistole e canali, e Plinio avesse a notare: Si quis diligentius æstimaverit aquarum abundantium in publico, balneis, piscinis, domibus, euripis, suburbanis villis, spatioque advenentium extructus arcus, montes perfossos, convalles æquatas, fatebitur, nihil magis mirandum fuisse in toto Orbe terrarum[190].

[203]

E destano infatti tuttavia la maraviglia nostra quegli avanzi degli arditi acquedotti romani costituiti da più ordini d’archi l’uno all’altro sovrapposti, contribuendo nella loro magnificenza a mantener l’antonomasia d’opera romana allorchè si voglia significare un’opera gigante, maravigliosa, per non dir quasi impossibile. Questi superbi acquedotti trasportavano perfino tre separati corpi di acque in tre canali uno sovra dell’altro.

Nè Roma soltanto intese alla costruzione degli acquedotti, ma nella più parte delle colonie e nelle maggiori castella eziandio; tanto la commodità si era venuta ingenerando come una vera necessità. Chi volesse poi conoscerne di più e saperne tutte le minute particolarità, consulti l’opera di Sesto Giulio Frontino De aquæductibus urbis Romæ Commentarius; e per informarsi delle opere nelle colonie, vegga la dotta memoria del conte Giovanni Gozzadini Intorno all’acquedotto ed alle terme di Bologna. Più innanzi dirò del come le Terme e le fontane publiche e le case si provvedessero d’acqua in Pompei.

Non va per altro taciuto, onde assolvere possibilmente questo subbietto, degli immensi e dispendiosi [204] serbatoi e laghi che per gli acquedotti si vennero facendo. Plinio summentovato ne fa stupire allor che memora: Agrippæ in ædilitate sua, adjecta Virgine aqua, cæteris corvisatis atque emendatis lacus 700 fecit, præterea salientes 105, castella 130; complura etiam cultu magnifica. Operibus in signa 300 ænea aut marmorea imposuit, columnas ex marmore 400: eaque omnia annuo spatio[191].

Occorre poi a conoscere l’importanza che all’acqua ed acquedotti aggiungevasi da’ Romani, riferire da Frontino suddetto quanto venisse provveduto alla loro custodia.

Due classi o famiglie d’inservienti vi erano preposte: l’una del pubblico, l’altra di Cesare. Più antica la prima, che fu da Agrippa legata ad Augusto e da questi attribuita al pubblico e pagata dall’erario, componevasi di circa 240 persone: il novero della famiglia di Cesare era di 460 e questa stabilita fin da’ primordj in cui si guidò l’acqua in Roma da Appio Claudio. L’una e l’altra famiglia impiegavasi in varia specie d’amministrazione: v’erano i villici, (villici), i ministri de’ castelli (castellarii), i riportatori [205] (circuitores), i selciatori (silicarii), gli incrostatori (tectores) ed altri artefici (opifices). Su tutti costoro era il soprintendente (Curator); e lo stesso Frontino fu alla sua volta, sotto di Nerva, Curatore alle acque, onde ne potè scrivere con maggiore cognizione di causa. E questi, dice egli, ideoque non solum scientia peritorum sed et proprio usu curator instructus esse debet, nec suæ tantum stationis architectis uti, sed plurium advocare non minus fidem, quam subtilitatem, ut æstimet, quæ repræsentanda, quæ differenda sint; et rursus quæ per redemptores effici debeant, quæ per domesticos artifices[192].

E ne fa sapere lo stesso Frontino che a codesti curatori delle acque furono dati anche ajutatori (adjutores), concedute insegne d’onore come a’ magistrati ed anzi intorno alla loro magistratura reso un decreto dal Senato, consoli essendo Quinto Elio Tuberone e Paolo Fabio Massimo, per il quale allorquando essi fossero, per cagione del loro ufficio, fuori di Roma, potessero [206] aver seco due littori, tre servi del publico, un architetto, scrivani (scribæ) e copisti (librarii), sargenti (accensi) e banditori (præcones), tanti, quanti ne hanno per l’ordinario due deputati alla dispensa del grano alla plebe, e dentro Roma, quando per cagione del medesimo affare operassero qualche cosa, potessero valersi di tutti gli stessi ministri, eccetto che de’ littori.

Toccato fin qui d’ogni tema attinente le Terme, vediamone l’applicazione allo speciale soggetto nostro di Pompei.

Quivi Terme, quivi bagni pubblici e privati, quivi ninfei e fontane publiche ed aquedotti e comunque le proporzioni sieno di gran lunga inferiori a quelle degli eguali stabilimenti che ho ricordato di Roma, in ragione cioè della minore importanza, vastità e quantità di popolazione; pur nondimeno ogni parte serbando di esse e soddisfacendo ad ogni bisogno creato dalle costumanze termali, ponno essere di grande utilità nei loro interessanti avanzi, per la spiegazione di tutto che si riferisce all’argomento e quasi alla completa storia del medesimo.

Sulla scoperta delle Terme si contava indubbiamente fin dal primo momento che si pose la mano agli scavi. Era impossibile che altrimenti fosse. Una città dove era stata dedotta una colonia romana, dove necessariamente erano stati importati costumi e abitudini greche dai primi abitatori e da’ suoi abituali [207] frequentatori, e costumanze romane dai nuovi arrivati, terme e bagni dovevano essere d’obbligo: dipendeva quindi unicamente di vedere in qual tempo si sarebbero trovate.

Fin dal primo marzo 1749, lo che è dire intorno al principio degli scavi pompejani, come ne fa sapere l’illustre Fiorelli, nella sua Pompejanarum Antiquitatem Historia[193], lungo la via dei Sepolcri, nella casa che si dice di Cicerone, della quale ho già nei capitoli della storia favellato, si rinvenne nella nicchia d’un’ara una lapide, su cui fu letta la seguente iscrizione:

THERMAE
M. CRASSI FRVGI
AQVA MARINA ET BALN.
AQVA DVLCI IANVARIVS L.[194]

Fu questo il primo cenno delle Terme, ma queste terme nondimeno di Marco Frugio sono ancora un desiderio, che sperasi appagheranno i futuri scavi.

Invece nel luglio 1824, nella vicinanza del Foro civile si fece la preziosa scoperta delle Terme publiche, nelle quali, se non si ammira la magnificenza delle arti e la profusione della ricchezza e del lusso, trovasi in ricambio una semplicità ed una squisita eleganza. Secondo l’idea che ne fornii più sopra, direbbonsi [208] queste piuttosto Balineæ che Thermæ, molto più se si pon mente alla poca ampiezza dello stabilimento, motivata dall’essere nel punto centrale e più frequentato della città, e dove per conseguenza il terreno indubbiamente doveva essere più limitato e costare più caro.

Ad ogni modo merita che ne somministri ogni particolarità.

L’edifizio aveva sei ingressi dalla strada, di cui i due principali davano uno sulla via del Foro e l’altro nella Piazza detta delle Terme. Tre servivano per i bagnanti, due per gli schiavi e pel servizio dello stabilimento e l’ultimo per le donne. È notevole che nessuno di questi ingressi fosse in linea diretta: ciò toglieva che le correnti d’aria penetrassero troppo vivamente nel luogo de’ bagnanti e forse impediva eziandio l’indiscrezione de’ passanti per la via summentovata dove s’aprivano anche le porte minori.

Presso ciascuno dei due ingressi principali eravi una latrina. Subito dopo il primo v’era un cortile circondato da un colonnato su tre lati, che formava una specie di Atrium. Lungo un lato di esso stavano sedili di sasso, scholæ, per chi stava aspettando quelli che uscivano dal bagno.

Sulla parete meridionale si lesse dipinto l’annunzio di una gran festa data nell’Anfiteatro, nell’occasione che venivano inaugurate le terme, a spesa di Gneo Allejo Nigidio Majo.

[209]

MAIO
DEDICATIONE PRINCIPI COLONIAE
FELICITER
THERMARVM MVNERIS CN. ALLEI NIGIDI MAI
VENATIO ATHLETAE SPARSIONES VELA ERVNT[195]

Dietro di essi era una camera appartata, in cui forse stava, se pur non era in quelle due camere laterali dei principali ingressi, nelle quali altri supposero esistere latrine, il balneator, o direttore del bagno, che riceveva il pagamento d’un quadrante o quarto di asse, se eguale devesi ritenere la misura in Pompei a quella che si pagava in Roma per accedere a’ bagni, giusta quel che ne disse Orazio nella satira terza del libro primo:

. . . . dum tu quadrante lavatum

Rex ibis[196].

Presso la seconda porta principale eravi un corridoio che riusciva all’apodyterium, che sappiamo essere la camera da spogliarsi, come suona la parola d’origine greca ἀποδυτήριον, dal verbo ἀποδύομαι, spogliarsi, detta anche più latinamente spoliatorium e spoliarium. Questo apodyterium pompejano ha opportunamente [210] molte porte, quante cioè son le camere destinate ai bagni caldi e freddi alle quali appunto esso introduceva. Eranvi pure disposti sedili in muratura per comodo de’ bagnanti. In fondo stava la guardaroba, o stanza di custodia del vestiario che si deponeva durante il bagno, e vegliavasi dai capsarii. Anche in Roma ognuno che traeva alle terme doveva spogliarsi nell’apodyterium ed entrar nudo nelle altre località; savia precauzione tendente ad ovviare alle sottrazioni delle ricchezze in fregi, pietre preziose, oggetti di toeletta e dalle cento altre bazzicature occorrenti a tutte le operazioni attinenti i bagni.

Di contro stava il frigidarium o bagno d’acqua fredda: gabinetto ovale assai grazioso, con vasca circolare rivestita di marmo, sul cui bordo è un gradino per entrarvi: dallato il tepidarium, o come esprime la parola, la camera ad ambiente tiepido, così mantenuto da un braciere, foculare, che vi si rinvenne di bronzo e valeva a graduare la temperatura dal caldo al freddo, quando si passava dal caldarium, o camera termale che fiancheggiava appunto il tepidarium, all’aria aperta.

Talvolta però il balneante dal caldarium non s’arrestava nel tepidarium, ma transitandolo rapidamente, lanciavasi nel baptisterium del frigidarium, perocchè si avesse fede che ciò valesse a rendere florida ed a fortificare la pelle, come lo attestano i versi di Sidonio Apollinare:

[211]

Intrate algentes post balnea torrida fluctus,

Ut solidet calidam frigida lympha cutem[198]:

è l’odierno sistema idropatico, principalmente nei bagni russi.

Nel tepidarium pompejano si trovarono pure tre sedili di bronzo su cui sedevano indubbiamente gli avventori quando usciti dalla camera del bagno caldo si sottoponevano alla operazione dei tractatores, che erano schiavi adetti ai bagni, il cui ufficio era di stropicciare il bagnante finchè non fosse ben asciutto, di ben raschiarne la traspirazione della pelle fatta più abbondante dal vapore e i corpi eterogenei, a mezzo dello strigile, arnese ricurvo di ferro o di bronzo, il cui filo rendevasi talvolta più dolce linendolo d’olio, e le buone fortune dei quali sono rammentate da Giovenale, nella satira VI. alla quale rimando il curioso lettore; perocchè la parola italiana è alquanto più della latina pudica, e mal si presterebbe alla lestezza dell’acre e spregiudicato poeta satirico. Eranvi poi gli aliptes che dopo ungevano con unguenti odorosi e profumavano; e le pareti del tepidarium hanno piccole cavità tutto all’intorno che dovevano [212] essere altrettanti ripostigli e di quelli stromenti e di quelli unguenti ed aromi.

Su quei sedili si lesse la seguente iscrizione:

M. NIGIDIVS VACCVLA. P. S. (pecunia sua)[199].

Nella camera termale o caldarium era da una parte il bagno d’acqua calda detto alveus e dall’altra il laconicum, o alcova semicircolare, riscaldata da una fornace e da tubi, hypocausis, sotto il pavimento e attraverso le pareti praticate espressamente vuote. Fu detto laconicum, perchè l’uso ne fu dapprima introdotto fra i Lacedemoni, e nel pompejano di cui parlo stava in mezzo il labrum, di cui spiegai lo scopo più sopra; ch’era cioè là vasca a fondo piano che conteneva l’acqua della qual s’aspergeva il balneante mentre gli si raschiava il sudore prodotto dalla temperatura elevata a cui eran mantenute le stanze, e immediatamente su di essi v’era un’apertura, lumen, che poteva esser chiusa od aperta con un disco di metallo detto clipeus, sospeso mediante catene, secondo si fosse voluto abbassare od elevare il grado di calore, come è indicato da Vitruvio. Tre finestre quadrate si veggono nella vôlta del laconicum ed eran chiuse con vetri, lapis specularis, e vietavano l’entrata dell’aria. La seguente iscrizione venne decifrata sui bordi del bacino, scrittavi in lettere di bronzo:

[213]

GN. MELISSARO GN. F. APRO. M. STAIO. M.
F. RVFO II. VIR. ITER. I. D. LABRVM EX D. D.
EX P. P. F. C. CONSTAT H. S. DCC. L.[200]

Tutte le altre località minori valevano al servizio dei bagni.

La rimanente porzione dell’edificio è occupata da un altro appartamento distribuito sull’identico principio che ho esposto, avente un solo ingresso, e serviva, secondo l’opinione di molti, per i bagni separati delle donne. Esso era più piccolo di quello destinato agli uomini, ma non appariva in ricambio nè più elegante nè più grazioso: dal primo tempo di loro scoperta furono detti bagni rustici e si credettero destinati invece alla povera gente.

Ricordo qui come per gli scavi venissero in questi bagni trovati un materozzolo di quattro strigili, un vaso di profumi ed uno specchio, il tutto in bronzo, e si conservano tuttavia nel Museo.

In quanto a ornati e cose d’arte, nel frigidarium si notò un fregio in istucco rappresentante carri ed amori pieni di espressione; e nel tepidarium una sequela di piccoli atleti, detti telamoni, in terra cotta che simulano sforzo per sostegno della cornice che [214] posa sulla loro testa. La vôlta poi è lavorata a cassettoni dipinti in rosso e in azzurro; in ciascuno, de’ bassi rilievi leggiadri esprimenti Cupido che s’appoggia sul suo arco, Amorini a cavalcione di mostri marini, altri guidanti delfini o ippogrifi, o suonanti de’ timpani, un centauro, un Pegaso, un Ercole fanciullo seduto sul leone, e dappertutto poi si vedono festoni con ghirlande di fiori.

Frigidarium, tepidarium e caldarium hanno egualmente bei pavimenti di musaico.

Il lettore non ci vorrà pertanto negar ragione di aver detto di questi bagni o terme come si vogliano chiamare, che se non avevano tutta l’esorbitanza della magnificenza e del lusso delle più celebri terme di Roma, spiccavano nondimeno per i pregi della migliore semplicità e per l’eleganza.

La descrizione delle singole parti dei Bagni Publici che ho appena terminata, mi renderà più spiccio nel dire delle Terme Stabiane, così appellate dal ritrovarsi esse sulla via detta di Stabia.

Questo grande stabilimento è isolato da tre lati e v’ha chi con assai buona ragione sostiene che fossero bagni più antichi de’ precedenti che abbiamo visitato. Qualche argomento in proposito avverrà di trovare più avanti.

Intanto ci arresta a prima giunta una particolarità che non han gli altri bagni, una palestra, cioè, o più propriamente un ginnasio; perocchè la palæstra [215] fosse il luogo dove gli atleti che dovevano esporsi ne’ ludi publici si esercitassero nel pugilato e nella lotta, mentre il gymnasium fosse un luogo imitato da quell’istituto di Grecia, nel quale la gioventù si procurava ricreazione ne’ giuochi ed esercizi corporali. Pressochè ogni città greca aveva il suo ginnasio: i resti di quello di Efeso stanno a ricordanza di quella istituzione, che presto divenne in Roma e nelle altre città che si reggevano a forma di Roma una parte interessante, direi quasi indispensabile di ben ordinate terme.

Quante maniere di comodi avesse un ginnasio lo si apprenda da Vitruvio.

«Nella palestra dunque si fanno i porticati quadrati, o bislonghi che sieno in modo che il giro attorno sia un tratto di due stadii, che i Greci chiamano δίαυλον: tre di questi portici si fanno semplici, e il quarto che riguarda l’aspetto di mezzogiorno, doppio, acciocchè nelle pioggie a vento non possa lo spruzzo giungere nella parte interiore. Ne’ porticati semplici vi si situano scuole (exedræ) magnifiche con de’ sedili, nei quali stando a sedere possano fare le loro dispute i filosofi, i retori e tutti gli altri studiosi.

«Nel porticato doppio poi si situano questi membri. Nel mezzo l’Efebeo[202]: questa è una scuola grandissima [216] con sedili e deve essere lunga un terzo più della larghezza: a destra il Coriceo[203]: immediatamente appresso il Conisterio[204]: appresso a questo, appunto nell’angolo del portico, il bagno freddo da’ Greci detto λοὒτρον: a sinistra poi dell’Efebeo l’Eleotesio[205]: accanto all’Eleotesio il Frigidario: da questo, e giusto nell’altro angolo del portico, il passaggio del Propnigeo[206]: accanto, ma d’altra parte intorno e dirimpetto al Frigidario, viene situata una stufa a vôlta (concamerata sudatio) lunga il doppio della larghezza: questa tiene ne’ cantoni da una parte il Laconico e dirimpetto al laconico il bagno caldo. I porticati dentro la palestra debbono essere [217] distribuiti con quella perfetta regola che abbiamo detta altrove.

«Al di fuori poi si fanno tre porticati, uno all’uscio della palestra, i due altri stadiati[207] a destra e a sinistra: di questi quello che guarda il settentrione, si faccia doppio e spazioso, l’altro semplice, ma in modo che tanto dalla parte del muro, quanto dalle colonne vi resti un tratto come una viottola, non meno larga di dieci piedi, il mezzo sia sfondato per un piede e mezzo dalla viottola al fondo; al quale si scende per due scalini: il piano del fondo non sia meno largo di dodici piedi. In questo modo coloro che vestiti passeggeranno intorno per la viottola non saranno incomodati da lottatori unti che si esercitano. Questo portico si chiama da’ Greci ξὐστὸς[208] perchè vi si esercitano i lottatori in stadii coperti ne’ tempi di inverno.

«I sisti poi si fanno in questo modo: hanno fra due portici a piantarsi boschetti o platani, e in essi viali spalleggiati da alberi con de’ riposi fatti di smalto. Accanto al sisto ed al porticato doppio si [218] lascino i passaggi scoperti, che i Greci chiamano παρκὸρομίδας, e noi chiamiamo sisti, ne’ quali anche d’inverno, ma a ciel sereno, escono dal sisto coperto ad esercitarsi i lottatori. Dietro a questo sisto vi vuole uno stadio fatto in modo che vi possa stare molta gente con agio a vedere i lottatori[209]

Il Ginnasio in Pompei, chiamavasi palæstra, come di questa voce si serve pure Vitruvio nella citazione che ho finito di fare. Tanto si raccoglie da un’antica iscrizione, incisa su d’una tavoletta di travertino, trovata in una sala di questi bagni il 15 maggio 1857, secondo si rileva dalla succitata opera del commendatore Fiorelli e che suona così:

C. VVLIVS C. F. P. ANINIVS C. F. II. V. I. D.
LACONICVM ET DESTRICTARIVM
FACIVND . ET PORTICVS ET PALAESTR.
REFICIVNDA LOCARVNT EX D. D. EX
EA PEQVNIA QUOD EOS E LEGE.
IN LVDOS AVT IN MONVMENTO
CONSVMERE OPORTVIT FACIVN.
COERARVNT EIDEMQVE PROBARV[210].

[219]

Questa iscrizione ci apprende doversi ai duumviri Cajo Vulio e Publio Aninio la ricostruzione di questa palestra; ma non è sufficiente a dirci se tale rifacimento fosse a seguito delle rovine cagionate dal tremuoto del 63; perocchè si voglia anzi dalla natura dei caratteri impiegati, inferirne anzi una data d’un secolo e mezzo prima.

Ma se questo fosse, come conciliare tal fatto con quanto afferma Vitruvio prima del brano che ho testè riferito; nunc mihi videtur, tametsi non sint italicæ consuetudines, palæstrarum ædificationes tradere explicata et quemadmodum apud Græcos constituantur monstrare[211], e con cui si vorrebbe escludere che al tempo di questo illustre architetto e scrittore non fossero in Italia conosciute le palestre? Or ritenendosi comunemente non potervi esser dubbio ch’egli abbia vissuto e fiorito sotto il regno d’Augusto, al quale egli dice nella Prefazione dell’Opera sua d’essere stato raccomandato dalla sorella di lui, non è possibile accogliere l’illazione dedotta dagli archeologi che l’iscrizione possa rimontare a tanto tempo addietro. Del resto l’impiego di più vetusti caratteri non può addursi a prova irrecusabile; perocchè potrebbe essere stato un vezzo di chi li usò, come usiamo far pur di presente.

[220]

La palestra pompejana era decorata di portici, doveva avere la sua sala di giuoco alla palla, sferisterio, se vi si trovarono ancora de’ globi di pietra, che avevano servito appunto al giuoco della sfera, al quale la gioventù si esercitava per acquistare forza ed elasticità di membra.

L’ingresso principale è dal lato di mezzogiorno, e presso di esso nel vestibolo, si ammira una bella scultura romana rappresentante un Termine sotto le forme d’una figura di donna molto elegantemente palliata.

Dal manco lato evvi un’ampia piscina pei balneanti; intorno ad essa son disposte diverse camerette per l’uso di essi. Una fra l’altre si distingue per eleganza di pittura e per una nicchia rettangolare destinata certo a contenere l’immagine di qualche divinità protettrice del luogo. Questa nicchia è fiancheggiata da due cariatidi che sostengono un bacino ed all’ingiro è dipinta una zona a scomparti, interrotta da paesaggi con pigmei e delfini.

Si pretende che siffatte pitture alludano al culto egizio e si trae la congettura da ciò che i Greci d’Alessandria stabiliti a Pompei e probabilmente in prossimità delle terme abbiano dovuto contribuire d’assai alla costruzione d’uno stabilimento che ricordava i loro usi nazionali.

I muri del portico sono dipinti a specchi rossi incorniciati d’una fascia gialla: le colonne di stucco [221] rosse verso la base, sono bianche nella parte superiore e sormontate da capitelli pure in istucco che sostengono una cornice di squisito lavoro, se si argomenta da un frammento che si ritrovò e si ricollocò al suo posto.

Dal lato di mezzogiorno poi, nell’ottobre 1854, fu scoperto un bel quadrante solare, formato d’un semicerchio praticato in un rettangolo, sostenuto da zampe di leone, con eleganti fregi ai lati. Il gnomone collocato orizzontalmente nel centro dei raggi convergenti è perfettamente conservato. L’iscrizione osca che vi era, fu letta dall’illustre archeologo cav. Giulio Minervini di questo modo: Marius Atinius, Marii filius, quæstor, ex multatitia pecunia conventus decreto fieri mandavit[212]. Questo monumento è certo interessante: ci attesta per lo meno che, anche dopo essersi stabilita la colonia romana, in Pompei si usasse della lingua osca, e mi conforta nell’idea che mi sono formato ch’essa anzi durasse viva continuamente sulla bocca del popolo.

Dalla palestra poi si facea passaggio al bagno degli uomini: per le donne dovevano esser quelli ai quali si accedeva dalla Via di Stabia.

La prima sala del bagno degli uomini era il frigidario: tutte le pareti all’interno dipinte in azzurro [222] hanno nicchie rettangolari come a ripostigli di vasi di unguenti e di profumi odorosi. Doveanvi essere pitture sulla volta e sulle muraglie, ma la prima crollò, e sulla seconda a sinistra non rimase che un pezzo di nudo di donna accosciata.

A destra di questa sala s’apre il tepidario, le cui muraglie hanno un doppio fondo, per la circolazione del vapore che per siffatta guisa moderava il calore dell’atmosfera; all’estremità sta il baptisterium che doveva essere rivestito di marmi, arguendovisi ciò dalla impronta lasciatavi dalle tavole di marmo che vi stavano, vi lasciarono impresse le lettere d’un’iscrizione che così si arrivò a decifrare dal sullodato Minervini:

IMP. CAESARI
DIVI FILI
AVGVSTO IMPERATORI
XIII TRIB. POTESTATE XV
PATRI PATRIAE COS. XI[213].

La sala che segue era destinata al caldarium, o sudatorium altramente detta. Come il tepidarium, aveva il pavimento detto suspensura, costruito cioè alto da terra, sorretto da specie di tegole di terra cotta, quadrate e con peducci, e valeva a permettere che il calore [223] potesse liberamente circolare sotto di esso. Doppie pure son le pareti tinte in rosso, con pilastri in giallo a capitelli bianchi. Un bacino circolare stava da un lato della sala e nel mezzo di esso zampillava un getto di acqua bollente che contribuiva a rendere più caldo l’ambiente.

Tepidarium delle antiche Terme in Pompei. Vol. II. Cap. XV.

Il destrictarium, di cui si è fatto cenno nella surriferita iscrizione, che in un col laconicum venne provveduto dai duumviri Cajo Vullo e Publio Aninio, stava rimpetto all’ingresso della palestra ed era quella località in cui i balneanti praticavano l’operazione dello strigile all’uscir del bagno. È forse la prima volta che si trovi questa sala così designata, non rinvenendosi la voce destrictarium in alcun dizionario, essendovi derivata forse da destringere, raschiare.

Si sa che tale operazione di polirsi la pelle collo strigile era così usata e congiunta al bagno stesso, che i ricchi usavano portare gli strigili seco al bagno, ivi mandandoli a mezzo de’ loro servi, come si raccoglie da Persio:

I, puer, et strigiles Crispini ad balnea defer,[215]

che ogni stabilimento termale di qualsiasi città ne fosse largamente provveduto, e che nel bagno de’ poveri, dove questi arnesi non erano, nè eranvi le altre [224] delicature, i bagnanti, a vece degli strigili, si fregassero contro le muraglie.

Contasi a tale proposito un aneddoto. Un giorno l’imperatore Adriano, visitando la terme di Roma, gli venne dato di scorgere un povero veterano che si stregghiava in questo modo contro il muro e che gli avesse a dare denari e schiavi onde potersi per l’avvenire farsi strigilare dopo il bagno; e che ritornato Adriano dopo qualche dì nello stesso luogo, uno sciame di poveri affettasse, appena accorti di sua presenza, di far altrettanto di quello aveva praticato il veterano, sfregandosi a tutta possa la schiena contro il muro; ma che allora l’imperatore argutamente avesse a consigliarli a fregarsi piuttosto gli uni gli altri.

A sinistra del destrictarium, in un lungo corridojo che dava su d’un viottolo, trovansi quattro camerette, solia, certo riserbate a bagni isolati, poichè vi si trovassero le rispettive vasche in muratura.

Le sale pei bagni delle donne, a cui entravasi per la via di Stabia, erano pur degne di attenzione. Una, a gran volta con eleganti opere in istucco e pavimento in marmi, serve a ricevimento ed ha proprie nicchie, in numero di ventinove, per gli olj, le essenze e le lampade per quando vi si veniva o se ne usciva di notte. Tutt’all’ingiro corre un sedile di materia laterizia, e doveva valere anche per apodyterium o spogliatoio.

Un’altra sala, circolare e pure elegante e con quattro [225] nicchie per deporvi le vestimenta, ed una quinta per dar passaggio a un getto d’acqua, serviva pel bagno freddo; un’altra pel tepidario ed un’ultima pel sudatorium, ambe queste a suspensura per la circolazione del vapore. Dovevano avere stucchi e pitture, ma il loro deperimento non permette che riscontrarne qualche reliquia appena.

Sul muro del vestibolo che separa il bagno degli uomini da quello delle donne evvi una pittura in giallo, rosso e verde, che raffigura un’ara ed un serpe che le si avvicina, e tali sacri emblemi, secondo Dyer, sarebbero valsi come di divieto agli uomini di non avanzare nell’appartamento riservato alle donne.

Eguale sistema nella distribuzione dei locali, come nel loro uso che abbiam veduto adottato per le terme e pei bagni publici, seguivasi pure ne’ balinei, o bagni de’ privati.

Vediamo, a mo’ d’esempio, adesso il balineum appartenente alla villa suburbana di Pompei di Marco Arrio Diomede, e del quale m’ero riserbato di parlare nell’esordire di questo capitolo.

I bagni e loro pertinenze occupano un angolo ad una estremità dell’intero edifizio e vi si entrava dall’atrium mediante una porta. Immediatamente a destra è una cameretta, forse usata come sala di aspetto, o destinata fors’anco agli schiavi addetti a questa bisogna dell’azienda domestica. Più in là l’apodypterium era situato [226] fra i bagni caldi e freddi, ed aveva un’entrata separata ad amendue.

Presso vi è un cortiletto triangolare coperto in parte da un colonnato, su due de’ suoi lati e nel centro vi era la piscina, o natatio pel bagno freddo. In prossimità dell’apodyterium era il tepidario, quindi la camera termale o calidarium, col laconicum all’estremità circolare, e all’altra estremità l’alveus, o bagno d’acqua calda.

V’è inoltre il serbatojo generale per l’alimentazione dei bagni, la cisterna dell’acqua fredda, il sito per la caldaja dell’acqua calda; non che quello per la fornace e la stanza ad uso degli schiavi che la servivano.

Ora l’ordine mi imporrebbe indagare se in questa città vi fossero ninfei; ma senza ritornare sulla questione del loro significato, poichè non se n’è finora precisato alcuno, noterò invece che diverse erano le fontane sparse per ogni parte della città. Già nel corso dell’opera m’avvenne di rammentarne qualcuna; ora completerò alla meglio il discorso intorno alle stesse.

Quasi tutte le vie scoperte di Pompei mostrano aver avuto fontane, il più spesso collocate sull’angolo di crocicchi: anzi, come vedremo nel capitolo delle Case, la maggior parte degli edificj avevano fontane, impluvii e puteali: come poi ricevessero le acque, oltre il già detto, toccherò più avanti.

Fontane, Crocicchii di Fortunata in Pompei. Vol. II. Cap. XV.

Le fontane publiche sono pressochè tutte eguali e [227] di una rara semplicità; perocchè si compongano d’una vasca formata da cinque pietre vesuviane riunite con legacci di ferro e sulla pietra posteriore un’altra se ne alza più alta, nella quale è scolpita in rilievo una testa di lione o d’altro animale o un mascherone, dalla bocca de’ quali esce l’acqua per versarsi nel sottoposto bacino.

Alcune fontane ottennero negli scavi nomi particolari: tali sono quelle dette dell’Abbondanza, all’ingresso del vicolo della Maschera, perchè reca sovra il bacino una figura scolpita con cornucopia; del Bue che dà il nome alla via, perchè l’acqua vi è emessa da una testa di quest’animale; di Mercurio, perchè il suo cippo ha una testa di questa divinità che dà pure il suo nome alla via nella quale si trova, e su d’un muro dicontro la fontana fu dipinto questo dio in atto di fuggire stringendo una borsa; di Venere sulla via di Stabia raddossata alla così detta Casa del forno, o come la chiama Dyer, la casa di Modesto per esservisi veduto appunto scritto su di essa il nome MODESTVM, perchè sormontata da una testa grossolanamente sculta e con una sola colomba; di Rotonda sull’angolo di Vico Storto, per la sua forma che differenzia dalle altre; della Viottola del Teatro, i cui bordi o margini s’alzano di poco dal marciapiede, e però è difesa d’una inferriata, ecc.

Se ogni via finora dissepolta ebbe la sua fontana; se fontane troveremo in tante case, se terme publiche [228] e bagni privati esistevano, è necessaria l’illazione che dunque copiosissima dovesse essere l’acqua in Pompei.

Vi bastava a ciò l’acqua del fiume Sarno? Vi sarebbe bastata se il suo livello fosse stato alto; ma sapendo già noi come questo fiume fosse a livello del mare, per formare il bacino di comunicazione e per essere perfino navigabile per un tratto di strada, come abbiam già veduto, e il Sannazzaro dicendolo eziandio impiegato alla irrigazione de’ campi

. . . . pinguia culta vadosus

Irrigat, et placido cursu petit aequora Sarnus[216];

non era assolutamente possibile che bastasse a tanto bisogno, molto più che sappiamo che la città dal mare si veniva su su adagiando pel declivio montuoso. Acquedotti saviamente praticati vi dovevano indubbiamente, secondo il sistema in que’ tempi generalizzato, derivar l’acqua da lungo, e così provvedere pe’ suoi mille condotti di ramificazione anche a tutte le fontane e serbatoj dalla parte più alta della città.

Infatti, in ogni parte di essa vennero trovati canali e condotti in muratura, in terra cotta ed in piombo; [229] le case poi hanno latenti nelle muraglie siffatti tubi di piombo e in più luoghi, ad attestarlo, mettono fuori tra le macerie e le rovine i loro capi e provano quanta fosse la cura e l’importanza che si aggiungeva ad aver copia di acqua ovunque.

Il canonico Andrea De Jorio, nella sua Guida di Pompei, dedicò un’appendice a bella posta per le indagini sulle sorgenti che conducevano le acque alle terme, e giova ricorrervi per avere una certa luce nell’argomento, che pur fu soggetto a tante controversie. Pose prima per base il livello attuale del Sarno, il suo canale attuale che passando per Pompei trasporta le acque alla Torre dell’Annunziata; l’impossibilità che vi era che il suo livello potesse alimentare tutte le fontane di Pompei e infine tenne conto degli avanzi di antichi acquedotti, che sono nell’antico territorio di Sarno egualmente che nella città di Pompei. Esaminò poi la natura de’ condotti trovati dall’architetto Domenico Fontana, quegli che fu incaricato di condur l’acqua a Torre dell’Annunziata, e li dichiarò ramificazioni del principale antico, che doveva derivare dal luogo detto la Foce, o sorgente del Sarno; giudicò che la sorgente, che apprestava l’acqua all’antica Pompei fosse più alta di quella che oggi alimenta il canale detto del Conte.

Derivata per tal modo l’acqua dai monti e dalle sorgenti del Sarno, distribuivasi per tutta la città a mezzo di canali costruiti sotto le vie, per la cui manutenzione [230] di tratto in tratto erano spiragli difesi da graticci di ferro, e mercè delle conserve e delle pressioni che esercitavano si faceva montare al livello dei getti più o meno alti delle publiche fontane, e servire ai bagni delle Terme ed agli altri dei quali ci siam venuti intrattenendo.

Il tremuoto dapprima del 63 e il cataclisma ultimo di Pompei sconvolsero ed ostruirono acquedotti e canali, e le acque deviarono e per modo, che ciò che allora poteva formar testimonio de’ savi provvedimenti edilizi per la somministrazione delle acque alla bella città, ora è divenuto astruso tema di congetture e di studj, frammezzo a’ quali se il solito dubbio, che, cioè, non vi fosse tutta quella copia di acque che si dice, non s’è cacciato, si fu perchè ad impedirlo, rimangono eloquenti i ruderi di aquedotti e di fontane, di bagni e di stabilimenti termali, che ponno essere tuttavia presi a modello e con buon frutto imitati al presente.

[231]

CAPITOLO XVI. Le Scuole.

Etimologia — Scuola di Verna in Pompei — Scuola di Valentino — Orbilio e la ferula — Storia de’ primordj della coltura in Italia — Numa e Pitagora — Etruria, Magna Grecia e Grecia — Ennio e Andronico — Gioventù romana in Grecia — Orazio e Bruto — Secolo d’oro — Letteratura — Giurisprudenza — Matematiche — Storia naturale — Economia rurale — Geografia — Filosofia romana — Non è vero che fosse ucciditrice di libertà — Biblioteche — Cesare incarica Varrone di una biblioteca publica — Modo di scrivere, volumi, profumazione delle carte — Medicina empirica — Medici e chirurghi — La Casa del Chirurgo in Pompei — Stromenti di chirurgia rinvenuti in essa — Prodotti chimici — Pharmacopolæ, Seplasarii, Sagæ — Fabbrica di prodotti chimici in Pompei — Bottega di Seplasarius — Scuole private.

Se fu dato potersi formulare a proverbio: di’ con chi tratti e ti dirò chi sei; parrebbe potersi eziandio dire, di’ come si istruisca un popolo e ti dirò quanto sia civile. Questo per adesso: forse non si poteva altrettanto affermare ai tempi di Roma, dei quali m’intrattengo col discreto e umano lettore.

Egli vedrà s’io mal non m’apponga nelle poche pagine che ho riserbato alle Scuole, traendone argomento [232] dalle due di cui gli avanzi di Pompei ci han tramandato memoria.

La parola, come tanta parte delle nostre e delle latine, deduce l’origine sua dal greco. Schola scrissero i latini e σχολή i greci, e vollero significare riposo da fatica corporea, il quale dà opportunità di ricreazione o di studio: così ci accadde già di ricordare la schola o sedile in Pompei, ov’era l’orologio solare: così schola chiamavansi quegli altri sedili in muratura ch’erano nelle terme, e via discorrendo. Presto poi venne adoperato il vocabolo ad esprimere il luogo in cui i maestri e i loro scolari si raccolgono per fine d’istruzione; nel qual unico senso fu quindi ricevuto nell’idioma nostro.

Io, come dissi, dalle due scuole summentovate, di cui ci è attestata da due iscrizioni l’esistenza in Pompei, nonchè dal ritrovamento di ferri chirurgici, de’ quali verrò a intrattenere chi legge, partirò per indagare l’indole dell’istruzione e della coltura intellettuale d’allora. Senza di questo capitolo, crederei incompleto il quadro che mi sono proposto di condurre delle condizioni di Roma e delle sue colonie, del quale mi danno causa e pretesto le rovine di Pompei.

Sotto il portico orientale del Foro civile di questa esumata città, e che già a suo luogo ho descritto, si è scoperta una vasta sala: nel fondo di essa è nel mezzo una specie di nicchia; altre minori sono distribuite tutte all’intorno, con porte agli angoli. Gau, scrittore, [233] la cui autorità ho più volte in addietro invocata, riconobbe in tutte queste disposizioni, le disposizioni stesse delle antiche scuole d’Oriente. La nicchia del fondo avrebbe, secondo lui e con tutta ragione di probabilità, servito di cattedra al maestro; quelle all’ingiro spettavano invece agli scolari, per deporvi abiti e libri. Siffatta supposizione fu universalmente accolta e trovò il suo suggello di verità nella iscrizione seguente, che stava scritta in caratteri rossi, oggi affatto scomparsi, vicino alla porta, sull’angolo della casa:

C. CAPELLAM D. V. I. D. O. V. F. VERNA CVM DISCENT[217].

Questa iscrizione valse di per sè ad imporre a quella sala la denominazione di Scuola di Verna, e i commentatori e scrittori di Guide a farne fuori un maestro di scuola di ragazzetti d’ambo i sessi, una specie di moderno asilo d’infanzia. Io mi permetto di dubitare che potesse trattarsi di scolari di così tenera età e molto meno di fanciulli d’ambo i sessi; perocchè, se ciò fosse stato, qual valore si avrebbe voluto aggiungere allora ad una raccomandazione in una elezione amministrativa fatta da piccoli fanciulli e da ragazzine? Doveva adunque essere, a mio avviso, una scuola almeno di giovinetti.

Anche un’altra iscrizione, fra le tante che vi dovevano [234] essere state scritte sulla muraglia dell’edificio d’Eumachia, venne trovata il 26 gennaio 1815[218], e ci fa essa conoscere un tal Valentino, pur senza alcun altro prenome, per un altro maestro: essa è così concepita:

SABINVM ET RVFVM AED. R. P. D.
VALENTINVS
CVM DISCENTES (sic)
SVOS ROG[219].

È notevole e sorprende sulla bocca d’un maestro un sì grosso strafalcione di grammatica come questo cum discentes suos, in luogo di cum discentibus suis, e dà la misura sì della scienza del maestro, che di quella de’ magistrati che lo tolleravano. «Il avait, dice a tal proposito Bréton, parlando di questa cima di maestro e delle sue sgrammaticature, il avait certes besoin d’invoquer la protection des Ediles

Ma ad altre considerazioni, più che di fredda grammatica, queste zelanti raccomandazioni de’ maestri di Pompei mi han fornito il soggetto e m’han condotto ad una savia conclusione.

I tempi sono pur sempre i medesimi, mi son detto: le più utili e virtuose istituzioni vengono sempre falsate e guaste: le passioni degli uomini se le assoggettano e sfruttano a loro profitto. Le sventure [235] e i danni d’ogni natura, che ad essi toccano, non sono bastevoli lezioni ai popoli; oggi, come a’ tempi di Verna e Valentino, il greggie degli stipendiati governativi e delle anime subalterne è pur sempre l’eguale.

Non lamentiamoci poi adesso del pari di vedere a’ dì nostri, ne’ giorni delle elezioni politiche od amministrative, sguinzagliarsi impiegati e poliziotti a portare il loro voto in suffragio del candidato messo innanzi dal partito che siede al governo della cosa publica, o dalla così detta consorteria. Quest’ultima ho già fatto altrove rilevare essere esistita anche allora; Terenzio l’ha rammentata sotto il nome di comitum conventus; onde hassi da noi a conchiudere tali disordini dell’oggi essere nuove edizioni di vecchia storia, più o meno accresciute ed illustrate, a beneficio dei meglio accorti.

Questo Verna e questo Valentino di Pompei io suppongo essere stati precettori in quella città della adolescenza, della risma, o suppergiù, di quell’Orbilio, che fu maestro in Roma di belle lettere e reso immortale dal suo discepolo Orazio Flacco, il quale per vendicarsi dei colpi ricevuti per avventura dalla ferula di lui sulle mani e sulle spalle, lo ha marchiato, in una delle sue Epistole, qualificandolo plagosus[220], quasi produttor di piaghe, per aver fatto uso co’ suoi scolari di sferze e di flagelli.

[236]

Nè doveva essere, a quanto pare, codesto sciagurato vezzo esclusivo di Orbilio, ma generale ne’ pedagoghi, s’anco Giovenale vi fece aperta illusione in quel verso della Satira I, sui Costumi:

Et nos manum ferulæ subduximus.....[221]

e del barbarico costume, come avvien d’ogni cosa brutta, è arrivata la tradizione infino a noi; perocchè io non sappia davvero se dappertutto, malgrado i divieti severi delle leggi e delle autorità, e più ancora i postulati della civiltà, sia stato ovunque per Italia diradicato, di gravi e sanguinose punizioni inflitte da’ maestri a fanciulletti avendo a’ giorni di mia infanzia udito più d’una volta lamentare.

Non chiamato a fare una completa monografia degli studj in Roma e nelle Colonie a lei soggette, non ne dirò ora che a larghi tratti, siccome è richiesto dalla economia dell’opera.

Presso questo popolo gagliardo e primitivo, dedito prima alle cure dei campi, poi a quelle dell’armi, gli studj, o furono quasi e per lungo tempo sconosciuti, o ne furono tardo pensiero. Il linguaggio medesimo era ben lungi dall’avere quella sonorità, armonia e maestà che assunse di poi nelle opere ammirabili de’ suoi scrittori: aspro e duro, era più proprio a comandar a’ soldati nelle battaglie; e se, al dir di [237] M. Catone, fu costume delle genti italiche di cantare ne’ loro antichi dialetti inni e canzoni guerriere o nenie pei caduti in guerra, sposandole al suono delle tibie, ciò non attesta a favore di una avanzata civiltà. Imperocchè consuetudine siffatta si riscontri in tutte le genti rozze e bellicose. Ossian e i bardi caledonici non cantarono che le imprese di eroi d’una patria guerriera sì, ma non colta e civile. Ho già toccato altrove, parlando delle origini del teatro, come prima di Livio Andronico, Roma non avesse teatro proprio, paga delle Sature degli istrioni d’Etruria, e Andronico non fiorì che al principiar del sesto secolo. Meglio dimostrerà la condizione intellettuale e la nessuna coltura il singolarissimo rito usato ancora nel quinto secolo per la numerazione degli anni. Consisteva esso nel piantare nel muro del tempio di Giove, che era il più venerato di Roma, un grosso chiodo. Ciò facevasi alle idi di settembre solennemente per mano de’ pontefici, e dove alcun altro straordinario avvenimento si fosse voluto raccomandare alla memoria de’ posteri, eleggevasi all’uopo un dittatore che figgesse altro chiodo. E questi chiodi, in mancanza di lettere, segnarono per lungo tempo l’epoche più famose di Roma. Ecco le testuali parole di Tito Livio: Eum clavum, quia raræ per ea tempora erant litteræ, notam numeri annorum fuisse ferunt[222]. L’aritmetica e la geometria non si [238] conoscevano se non tanto, quanto era necessario per misurare un campo, o per far le faccende giornaliere. Le loro cifre numeriche, osserva giustamente Francesco Mengotti, rappresentano espressamente le dita delle mani, che sono la prima aritmetica de’ fanciulli, dei villici e della natura[223].

La medicina stessa, reclamata dalla sollecitudine del corpo, distinta in sacerdotale e magica, rimase involuta lungo tempo nelle ubbie superstiziose. Solo poi, 263 anni prima di Cristo, Valerio Messala recò di Sicilia un quadrante solare, come già dissi a suo luogo, e appena 159 anni vennero da Scipione Nasica Corculo introdotti gli orologi ad acqua o clessidre. Prima i Romani erano rimasti per molti secoli senza neppure conoscere la divisione in ore del giorno e della notte e senza stromento alcuno per la misura del tempo. Plinio il Vecchio scrisse che le Dodici Tavole, compilate al principio del quarto secolo, non distinguevano che il nascere e il tramontar del sole[224]: dopo vi fu aggiunto il meriggio, che annunciavasi dal banditor del console, quando il sole si trovava fra la tribuna e la grecostasi. Allorchè dalla Colonna Menia il sole inclinava alle carceri, era sera.

Pel corso di parecchi secoli i Romani non posero alcun pensiero alla filosofia. Essi la conoscevano a [239] mala pena di nome. Occupati da principio in difendersi, poi in rassodare la loro potenza sui vicini popoli che avevan soggiogati, interamente pratica era la sapienza che dalla esperienza avevano attinta. Un mirabile buon senso derivò loro dalle difficoltà dell’esterna lor posizione e dal godimento di una libertà sempre perturbata, ma che per le stesse sue commozioni, rinvigoriva gli animi e gli ingrandiva. Si è voluto attribuire alla filosofia pitagorica qualche influenza sulle instituzioni di Numa, e si è potuto con tanto maggiore facilità unire insieme a quest’uopo qualche tratto di rassomiglianza, in quanto che è probabile aver Pitagora inserito nella sua filosofia alcuni frammenti delle dottrine sacerdotali alle quali Numa non era straniero. Ma ecco dove fermar si deve ogni comunanza fra il greco filosofo e il re secondo di Roma[225]. Forse invece di queste dottrine sacerdotali di Numa e di altri legislatori a lui succeduti, la ragione e l’origine dev’essere ricercata altrove, in Etruria come verrò a notare.

Bisogno di studi elementari e di intellettuale coltura si sentì, più per ispirito d’imitazione che per altro, dopo che i Romani conobbero i Greci. Già sa ognuno di là dedotte le leggi delle Dodici Tavole: là unicamente reputavasi infatti la sede della scienza, della poesia, dell’arti.

[240]

Erasi, è vero, per l’addietro usato mandar in Etruria i giovani, per apprendervi i riti augurali, senza di che non avrebbero acquistato valore i pubblici atti, ed era molto se di là recavasi qualche tintura o conoscenza di lettere. E sì che colà la coltura e la sapienza erano più antiche che in Grecia, a cui per avventura e da essi e dagli Atalanti, i progenitori nostri, era ogni lume di civiltà e di sapere derivato. Fu altrimenti adunque, quando ebbe luogo mercè le conquiste fatte dalle armi romane, il contatto con la Grecia: il dirozzamento cominciò ad operarsi tra’ Romani, e n’ebber merito in principalità gli Scipioni, che tolsero a proteggere i letterati venuti di Magna Grecia in Roma. Ogni partito volle avere schiavi greci e, come sarebbesi scelto fra quelli sventurati il celliere ed il cuoco; così venne cercato il pedagogo, onde a’ figliuoli apprendere la lingua di Omero. E la lingua greca divenne di moda, nè uomo aspirar poteva al vanto di educato, se a lui famigliare non fosse stato quel magnifico idioma. Quinto Catulo comperò Dassi Lutazio per duecento mila sesterzj; Livio Salinatore procacciò maestro a’ suoi figli quel Livio Andronico, del quale tenni parola dicendo de’ Teatri; Paolo Emilio riempì la casa di filosofi, di retori, di grammatici, di pedagoghi e d’artisti d’ogni maniera; Scipione l’Africano protesse Plauto e Terenzio, ed ebbe amico e compagno di sue militari spedizioni Quinto Ennio di Rudia in Calabria, che era stato richiamato [241] da Catone l’antico da Sardegna in Roma, e che, in buona fede o no, affermava in lui trasmigrata l’anima d’Omero.

Contuttociò, riguardavano i Romani gli studj, più che altro, oggetto di adornamento e di ricreazione, e Sallustio lasciò scritto: che i più assennati attendevano agli affari, nessuno esercitava l’ingegno senza il corpo; ogni uomo grande volea men tosto dire che fare, e lasciava che altri narrasse le imprese di lui anzichè narrar esso le altrui.

E poichè ho nominato ancora Andronico ed Ennio, dirò che anche dopo l’epoca in cui i Romani strinsero i legami coi Greci d’Italia e di Sicilia, essi non iscorgevano tuttora che leggerezza, mollizie e corruzione appo questi popoli, i quali dal lato loro li riguardavano quai barbari[226]. Verso il fine della prima Guerra Cartaginese, i Romani principiarono a conoscere la drammatica letteratura de’ Greci. Alcune tragedie greche tradotte da Andronico, il quale voltò pure in versi latini l’Odissea, presero il luogo de’ versi fescennini, de’ giuochi scenici degli Etruschi, e delle rozze farse Atellane degli Osci, come già sa il lettore per quel che ne ho discorso, trattando de’ Teatri.

In quanto ad Ennio, non pago egli della buona riuscita che ottenevano simili imitazioni, volle riportare un nuovo trionfo, mercè una traduzione dell’istoria [242] sacra di Evemero, di quell’Evemero che fu il primo a pretendere che i numi della Grecia non fossero che uomini divinizzati, nati come noi e come ogni ordinario mortale anche defunti. Appresso qualunque altro popolo, un gran passo sarebbe stato codesto nel filosofico agone, e forse tale era l’intendimento del latino autore; ma sembra che i Romani non abbian veduto di primo slancio delle ipotesi di Evemero che un frivolo argomento di curiosità. Meno sospettosi degli Ateniesi eran dessi, perchè nessuna esperienza ancora gli avvertiva delle conseguenze della filosofia sopra la falsa lor religione. Lo stesso avvenne rispetto alla esposizione del sistema di Epicuro fatta da Lucrezio. Queste due opere erano germi gettati sopra un terreno non ancor disposto a riceverli.

De’ libri avevasi quindi sospetto, quasi intaccassero le istituzioni e la religione patria; epperò essendosi, durante il consolato di Cetego e Bebbio, dissotterrati alcuni libri di filosofia, Plinio scrisse essersi poi ordinato dal console Petilio di abbruciarli: combustos, quia philosophiæ scripta essent[227].

È nondimeno nel senso che la coltura si venisse più generalizzando e perfezionando per i Greci ed importando nuove forme nella drammatica, che si dovrebbero intendere i versi di Orazio, che altre volte appuntai in addietro:

[243]

Græcia copia, victorem cœpit et artes

Intulit agresti Latio[228];

non già per dire che veramente l’importazione prima della letteratura venisse proprio di là. Notai come anzi gli incunaboli della poesia drammatica avessero avuto nelle sature e nelle atellane origine assai prima tra noi, e le Muse sicelides e i vari poeti e vati della Magna Grecia fossero stati nostri.

A questi Greci, schiavi o liberti, che popolavan Roma, dispensandovi la scienza, dai patriotti guardavansi in cagnesco, e si giungeva perfino a trattarli da ladri e peggio, e si poneva in canzone il loro grave sussiego assai volentieri, e ridevasi di cuore alle tirate contro essi in teatro, e il popolo tutto applaudiva. Così fu all’entrar in iscena di Curculione in Plauto al declamar di que’ versi:

Tum isti Græci palliati, capite operto qui ambulant,

Qui incedunt suffarcinati cum libris, cum sportulis,

Constant, conferunt sermones inter se drapetæ:

Obstant, obsistunt, incedunt cum suis sententiis

Quos semper videas bibentes esse in thermopolio:

Ubi quid surripuere, operto capituto, calidum bibunt

Tristes atque ebrioli incedunt....[229]

[244]

Marco Tullio, nel libro II de Oratore, c. LXVI, rammenta del proprio avo, Marco Cicerone, come avesse a dire: nostros homines similes esse Syrorum venalium; ut quisque optimi græce sciret, ita esse nequissimum[231]: lo che dimostra come non fosse disapprovata questa grecomania dal volgo soltanto, ma ben anco da uomini austeri e di autorità; perocchè quel vecchio uomo dovesse nel suo municipio aver avuto considerazione e voce, se aveva potuto con frutto farsi oppositore a M. Gratidio, che proponeva la legge tabellaria.

Ma quantunque si affettasse questo publico sprezzo per cotesti schiavi o liberti greci, nè si volesse far credere che alle lettere nazionali si anteponesse la stima e lo studio di quelle di Grecia; quantunque si armasse perfino l’autorità del governo con editti e leggi contro l’irruenza della straniera dottrina; pur nondimeno accadde che gli uomini illuminati di un’età [245] più matura, astretti ad eleggere tra l’abbandono di ogni filosofica speculazione, e la disobbedienza al governo, furono condotti ad attenersi a quest’ultimo partito dall’amore delle lettere, il quale allorchè ha posto radice, cresce ogni giorno, perchè ha in sè stesso la sua fruizione. Nè ciò fu tutto; avvegnacchè tutti i patrizi non solo e i più facoltosi, ma eziandio tutti quelli che appena l’avessero potuto, dopo i primi studj in patria compiti, mandassero per ciò i loro figli a perfezionarsi in Grecia. Era una vera colonia di distinta gioventù romana, che si trovava per conseguenza in Apollonia, in Rodi, in Mitilene ed in Atene, eclettica e nella sua filosofia, come ne’ suoi costumi; e sotto le ombre severe dell’Accademia e nei giardini d’Epicuro si informava essa a giganti progetti di guerra, egualmente che alle severe discipline della vera eloquenza e della poesia.

Orazio medesimo, sebben figlio di liberto, si trovò alla sua volta condiscepolo di Marco Bruto alla scuola di Teonesto e di Cratippo; e fu colà per avventura, che stringendosi in amicizia con quel fiero repubblicano, potè per di lui mezzo ottenere dipoi il comando d’una di quelle legioni, che soccombettero nei campi di Filippi, e dove ei, gittando lo scudo, certo non fe’ prova di molto valore.

Buon per lui nondimeno che nella Grecia aveva potuto il suo genio spaziare più libero, aggraziarsi, profumarsi e così preparare lo spirito a quelle innovazioni [246] nella poesia, da poter esser detto il primo de’ lirici latini, anzi quello che creò la lirica latina. Inceppata per lui, come per gli altri, era stata la educazione della mente in Roma: essa erasi voluto costringere a limitarsi alla sola conoscenza e studio delle cose antiche e già troppo viete; ma con Livio Andronico, con Ennio, con Nevio, Pacuvio, Accio ed Afranio soltanto non s’andava innanzi. Va bene, dice Orazio, che sian codesti altrettanti modelli; va bene che Roma tragga a’ teatri ad applaudirli: il popolo talvolta vede giusto, ma talvolta anche s’inganna. S’egli ammira gli antichi autori, s’ei gli esalta al punto di nulla trovare che li sorpassi, niente che loro regga a petto, s’inganna a partito; ma s’egli ammette che ad ogni tratto si incespichi con essi in termini che han fatto il loro tempo, e in uno stile bislacco, è nel vero, e la pensa come noi. Io non l’ho contro a Livio, nè penso che sieno da annientare i suoi versi che mi dettava fanciullo Orbilio di piagosa memoria; ma è egli poi giusto che per qualche concetto, qui e qua brillante, per un paio di versi un po’ meglio scorrevoli de’ restanti, abbiasi ad andare in visibilio?...

Jam Saliare Numæ carmen qui laudat, et illud,

Quod mecum ignorat, solus vult scire videri:

Ingeniis non ille favet plauditque sepultis;

Nostra, sed impugnat, nos, nostraque lividus odit.

Quod si tam Graiis novitas invisa fuisset,

[247]

Quam nobis; quid nunc esset vetus? aut quid haberet

Quod legeret, tereretque viritim publicus usus?[232]

Del resto, come già notai, Plauto e Terenzio, che pur formavano la delizia de’ romani teatri, avevano dedotto le loro commedie dal greco; più liberamente Plauto, che le ama almeno adattate a foggia nazionale; meno invece Terenzio, ch’ei medesimo proclama d’aver fedelmente tradotto Menandro e se ne reca a vanto.

Ritemprata così la letteratura latina nella greca, si preparò quello che si disse il secolo d’oro della latinità. Tito Livio, Crispo Sallustio, Giulio Cesare, Tacito e Cornelio Nipote nella storia; Cicerone, Ortensio, Crasso, Cornelio Rufo, Licinio Calvo ed altri molti nell’eloquenza, la quale però coll’avvenir dell’impero perdette di sua libertà e di molta parte di suo splendore; Catullo, Tibullo, Virgilio, Orazio, Properzio, Ovidio, Cornelio Gallo nella poesia, chiamano ancora la nostra ammirazione e formano tuttavia [248] l’oggetto de’ nostri studi: essi poi capitanavano una schiera di molti altri ingegni minori.

Coll’eloquenza, di cui ho ricordato i campioni, pur la giurisprudenza offrì le egregie sue prove e i suoi valorosi cultori. Sesto Elio Peto (184 anni av. G. C.) publicò l’Jus Civile Elianum e furono celebri giureconsulti M. Porcio Catone, P. Mucio e Quinto Mucio Scevola, che indagarono primi i veri principj del diritto ed applicarono alla giurisprudenza la dottrina morale degli stoici. Quando poi il potere supremo si accolse nelle mani di un solo, i rescritti, i decreti, gli editti e le costituzioni degli imperatori dischiusero nuova fonte alla scienza del diritto, che si vide collegata alla filosofia. I più rinomati giureconsulti del tempo di Cicerone furono L. Elio, Servio Sulpizio Rufo e A. Ofilio; sotto Augusto C. Trebazio Testa, P. Alfeno Varo, autore de’ Digestorum, Libri XL, che si conservarono nel Digesto. M. Antistio Labeone e C. Ateio Capitone originarono due sette, che discordavano tra loro ne’ principj da seguire nelle consulte: il primo inclinando al rigoroso diritto; il secondo all’equità. I loro discepoli Masurio Sabino (20 anni dopo C.) e Sempronio Proculo (69 anni dopo C.) diedero a tali sette estensione maggiore, i primi attenendosi alle sentenze degli antichi giureconsulti; i secondi ai principj generali del diritto.

Più sopra accennai come nei primi cinque secoli Roma si trovasse sprovveduta affatto d’ogni nozione [249] di matematica: essa quindi le attinse, come per gli altri rami dello scibile, a fonti greche, piuttosto occupati della pratica applicazione nello scompartimento dei terreni, nella disposizione degli accampamenti e nella costruzione dei grandi e sontuosi edifizi. Tra gli scrittori che si distinsero in siffatta materia, primeggia Marco Vitruvio Pollione, coll’opera sua De Architectura in dieci libri, a lui commessa da Augusto ed alla quale ho tante volte in questa mia ricorso, perocchè sia utilissima per la storia e la letteratura dell’arte presso gli antichi e contenga viste elevate e filosofiche, comunque talvolta pecchi di oscurità, e di disordine.

Lo studio della natura vantò a suo principale cultore Cajo Plinio Secondo Maggiore o il Vecchio (23-79 anni dopo G. C.) del quale ho già a lungo parlato nel dire del cataclisma pompejano; l’Economia rurale mette innanzi L. Giunio Moderato Columella, che scrisse dodici libri De Re Rustica; e la Geografia Pomponio Mela che ne dettò, circa al tempo di Nerone, un compendio in tre libri: De situ Orbis, tratto in gran parte dalle opere greche, ma con molta accuratezza, giudizio e critica.

E così fiorirono parimenti le scienze. Ho già notato le cause per le quali il nascimento e lo sviluppo d’una filosofia nazionale in Roma, fosse pressochè impossibile, giacchè il genio speculativo dovesse necessariamente essere alieno dallo spirito pratico politico [250] e guerriero dei Romani. Essi infatti non entrarono mai nella sfera dei problemi filosofici per esercitarvi la loro attività individuale. Si accontentarono di scegliere e di adattare fra i sistemi della greca filosofia quelli che lor parvero più acconci alla vita politica ed alle abitudini private e solo a quando a quando si risvegliò tra essi qualche interessamento e di gusto per la filosofia quando fu creduta mezzo di sviluppamento intellettuale o di progresso. La filosofia stoica era la più consentanea all’indole romana e in tempi di corruzione e di despotismo essa fu il rifugio delle anime temprate a robusto sentire, ch’ebbero forza di levarsi al disopra del depravamento del proprio secolo. Negli ultimi anni della Republica la filosofia platonica vi fu favorevolmente accolta, perocchè offerisse all’oratore negli ajuti della sua dialettica e dottrina di verisimiglianza alcuni reali vantaggi; ma poi quando i costumi degenerarono, i Romani divennero seguaci per lo più della filosofia di Epicuro, come quella che porgesse ad essi ciò che ad essi abbisognava, un codice, cioè, di prudenza e le norme del piacere; finchè più tardi, sotto l’imperio di Marco Aurelio per breve momento sfolgoreggiò una più vera filosofia. Quella di Aristotele, che in Grecia aveva trovato sì gran numero di proseliti, in Roma parve oscura, nè ebbe attrattive per menti straniere alle astratte speculazioni e più curiose che meditabonde; e non fu quindi che più [251] secoli dopo che invadesse le scuole in Italia e che, puossi dire, essere stata regolatrice delle medesime infine al chiudersi del medio evo; onde fosse nel vero l’Allighieri, quando di questo sommo ebbe a dire:

Vidi il Maestro di color che sanno

Seder tra filosofica famiglia:

Tutti l’ammiran, tutti onor gli fanno[233].

Si è voluto rinfacciare alla filosofia d’Epicuro, anzi alla filosofia in genere, la cagione della caduta della libertà, e si è accusata leggieramente di secolo in secolo con una maravigliosa facilità, come quella che avesse condotto la rovina di Roma: ma tale accusa fu ingiusta. Tutti gli uomini che difesero la republica furon filosofi. Varrone meritò di essere proscritto dai Triumviri, e scampandone appena dalle persecuzioni, perdè la biblioteca e i suoi scritti: Bruto amava siffattamente le greche dottrine, che non eravi al suo tempo, come ci narra Plutarco[234], setta alcuna che da lui conosciuta non fosse. Catone morì leggendo Platone. Cicerone, durante il corso della sua operosa e gloriosa carriera di tanto vantaggio al libero reggimento di Roma sì che la salvasse dalla cospirazione di Catilina, mai non cessò di consacrare alla filosofia tutti i momenti che potè ritogliere a’ suoi doveri di oratore, di soldato e di cittadino. Fin dalla sua [252] infanzia intimo amico di Diodoto, poi discepolo di Possidonio e protettor di Cratippo, egli aveva caro di ripetere che andava tenuto della sua dottrina e della sua eloquenza molto più alla filosofia, che non alla retorica propriamente detta, e mostrò saperla mettere in pratica, quando seppe ricevere il mortal colpo senza dar segno di debolezza, castigandosi per tal modo d’avere sperato in Ottaviano.

La storia pel contrario non ci trasmise che i distruttori della romana libertà nutrissero per la meditazione un pari amore.

Non ci vien narrato che Catilina fosse filosofo; Cesare, al principio di sua funesta carriera, professò in senato principj di triviale irreligione e grossolani assiomi, cui probabilmente questo giovane cospiratore aveva raccolti ne’ suoi intervalli delle sue dissolutezze e delle sue trame. Il voluttuoso Marc’Antonio, l’imbecille e codardo Lepido e tutti quelli avviliti senatori e que’ centurioni feroci, di cui gli uni tradirono, gli altri dilaniarono Roma spirante, non si erano, a quanto si sappia, formati a nessuna scuola di filosofia.

Tutto questo movimento letterario e scientifico in Roma per altro non era che un possente riflesso della greca letteratura e dottrina, e della quale fu anzi tanta l’influenza che, se il latino idioma doveva necessariamente essere il linguaggio della magistratura, il greco divenne quello della coltura e dell’eleganza. [253] Questo si parlò nella conversazione, nella famiglia e perfin nell’amore, dove trovasi più soave appellar l’amica, come notò con derisione Marziale, dicendola ζωή, ψυχὴ, cioè vita e anima; e Orazio raccomandò nell’Arte Poetica, a’ Pisoni il continuo studio dei greci esemplari:

vos exemplaria græca

Nocturna versate manu, versate diurna[235].

Già qualche cosa, parlando della lingua usata in Pompei, trattai della coltura in questa città: ora con quanto ho testè detto di Roma, rimane completato per riguardo a Pompei; perocchè ripeto le provincie e più ancora le colonie seguissero in tutto l’andamento della capitale.

Gli schiavi poi applicati a copiar manoscritti provvidero i privati di buone biblioteche. Già Paolo Emilio aveva dato l’esempio di cosiffatta raccolta, trasportando a Roma quella di Perseo re di Macedonia da lui vinto: Silla aveva fatto altrettanto trasportando da Atene quella di Apellicone Tejo; e più ricca l’ebbe il fastosissimo Lucullo: Cicerone aveva di libri fatto egli pure incetta; ma tutte finallora erano state proprietà private. Chi pensava a dotarne di una il publico, quale era stata a Pergamo ed Alessandria, incaricandone [254] Varrone, reputato il più dotto de’ suoi tempi, fu Cesare, ajutato poi in questo suo egregio pensiero da Asinio Pollione, dopo che Cesare era stato da morte impedito di condurlo ad effetto. P. Vittore conta ventinove biblioteche in Roma, ultima fra le quali quella di Marziale, che ne’ suoi epigrammi non può resistere all’amor proprio di ricordarla.

Pompei non aveva biblioteche pubbliche, nè forse l’ebbe pur Ercolano: almeno traccia di esse non presentarono finora gli scavi; ma e di una città e dell’altra ho già a suo luogo nondimeno osservato quanti papiri siansi raccolti mezzo arsi e con sommo artificio svolti e interpretati; quantunque finora non si possa dire d’essersi vindicato dall’azione distruggitrice del tempo un’opera qualunque che fosse di una grande importanza.

Volendo or qui toccare alcun che del modo tenuto nello scrivere, poichè altrove ho già detto delle tavolette cerate, e pur altrove ed anche adesso de’ papiri e delle pergamene, accennerò come su queste ultime scrivessero in fogli non ritagliati e quadrati, nè da ambe le facciate, come usiamo noi; ma per il lungo, e da una sola parte, ed acciò la grandezza non cagionasse impedimento nello scrivere, per fissarla, usavano d’una bacchettina di cedro o d’ebano, con capi d’oro o di gemma, indi piegassero la carta arrotolandola, e per questo rivolgimento avesse a nascere il vocabolo di volume, volumen.

[255]

La gente d’umile condizione scriveva pel contrario d’ambe le facciate; lo che venne mano mano in uso anche degli scienziati; onde Cicerone scrivendo ad un suo famigliare, avesse a dire d’aver sentito gran dispiacere nel leggere la prima facciata della lettera di lui e grande contentezza nel voltar l’altra[236]; Giovenale parlasse di una certa tragedia scritta in questa foggia[237]; Marziale ad accennare del proprio libro stesso così scritto[238]; e Plinio il Giovane, finalmente, scrivendo a Marco, dandogli conto d’alcune opere eredate dallo zio, l’illustre naturalista, in ispecie gli narrasse di censessanta commentarii scritti da una facciata e dall’altra[239].

Le iscrizioni e titoli delle opere, secondo ne fa fede Vitruvio[240], venivano ornate con minio, e le carte stropicciate sottilmente con olio di cedro, proveniente dal Libano, non tanto per conservarle dal tarlo, quanto per renderle odorose; onde Orazio, nell’Arte Poetica, a significare opera meritevole d’immortalità, in quel modo che si credevano durar le cose unte coll’olio di cedro, usò di questo concetto:

. . . . . cedro digna locutus;

e Ovidio non meno vi fece allusione nel primo libro Dei tristi, in quel verso:

[256]

Nec titulus minio, nec cedro charta notetur.

Detto di queste particolarità, progredendo nel mio tema, eran pure per la più parte fra gli schiavi, od erano stranieri coloro che si applicavano alle discipline mediche e chirurgiche: la prima però affidata più all’empirismo che alla vera scienza.

Valga il seguente aneddoto:

Il figlio di Marc’Antonio, dando una cena a’ suoi amici, vi convitava altresì Filota medico d’Amfrisso. Tra le argomentazioni ch’era in uso a que’ tempi di proporsi a tavola, Filota uscì in questa: V’è una certa febbre che si vince coll’acqua fredda; chiunque ha la febbre, ha una certa febbre; dunque l’acqua fredda è buona per chiunque abbia la febbre.

L’insulso paralogismo, degno d’un puerile scolasticismo, si meritò dallo spensierato Anfitrione i più ricchi donativi.

E valga pure il notare il passaggio, che fu anche satireggiato da Marziale, di un medico alla vile condizione del gladiatore:

Oplomacus nunc es, fueras ophthalmicus ante:

Fecisti medicus, quod facis oplomacus[241].

La medicina fu, tra le scienze, quella che a Roma ottenne poco favore e vi fece minori progressi. Non [257] è già che ivi si mancasse delle cognizioni ausiliarie su cui poggia la teoria della medicina; ma fino ai tempi di Plinio il Vecchio venne abbandonata quale occupazione illiberale, come già dissi, agli schiavi, a’ liberti od a’ forestieri. In questa, come nelle altre, i Greci la fecero da maestri, e fu Arcagato (535 di Roma), a quanto ne attesta lo stesso Plinio[242], il primo medico greco che gli iniziasse alla medicina. Lucullo, Pompeo ed altri illustri Romani invitarono in Roma parecchi greci di condizione libera per esercitarvi quest’arte. Sotto Cesare, montarono in grande stima, che vieppiù s’accrebbe regnante Augusto. Quest’ultimo accordò loro rilevanti privilegi, i quali allettarono più romani a dedicarsi, quantunque liberi, allo studio e alla pratica di questa scienza.

V’ebbero così medici pubblici e privati. Questi ultimi erano per lo più schiavi o liberti che abitavano col padrone e lui e la famiglia sua unicamente assistevano, o gli aderenti di casa.

I medici publici, ben lontani dal sentire la dignità degli odierni, esercitavano il loro mestiere in una bottega, alla quale ricorrevano coloro che avessero [258] avuto d’uopo di salassi, di operazioni chirurgiche o di avere strappati i denti; suppergiù come anche adesso in certi rioni di Napoli vedasi sulla bottega di barbiere annunciato che si fanno anche salassi.

E si andava a tastone. Una determinata cura non era riuscita a guarire una malattia, ebbene per essa si ricorreva a farmachi affatto contrarj. Narrasi di Antonio Musa, liberto di Augusto e amicissimo di Virgilio, medico di corte e celebratissimo, tal che gli furono eretti, a cagion di lode, statue e monumenti, che avendo veduto che i bagni caldi non avevano punto giovato al padrone aggravatissimo, gli consigliasse i bagni freddi e questi adottati, l’avessero a guarire. E del chirurgo Arcagato, del quale ho parlato più sopra, come primo introduttore della medicina in Roma, si racconta essere stato cotanto sanguinario, che il datogli soprannome di vulnerario gli venisse presto mutato in quello di carnefice.

Come maravigliare allora di quel che menzionò Plinio il Vecchio dell’antico Catone avere scritto al figlio: jurarunt inter se Barbaros necare omnes medicina. Et hoc ipsum mercede faciunt, ut fides iis sit, et facile disperdant. Nos quoque dictitant Barbaros, et spurcius nos quam alios Opicos appellatione fœdant. Interdixi de medicis[243].

[259]

Quindi è che ottenne fama e voga Asclepiade di Prusia in Bitinia, che recatosi a esercitar medicina in Roma un secolo prima di Cristo, deducendo le differenti malattie da viziosa dilatazione o stringimento de’ pori, e riducendo la medicina a rimedi che producessero l’effetto contrario, voleva una cura limitata a dieta, ginnastica, fregagioni, vino, uso di semplici e divieto d’ogni farmaco violento ed interno. A lui si attribuisce l’invenzione delle doccie, che si designarono col nome di balneæ pensiles. Furonvi altri medici che conseguirono celebrità, come il dottissimo Aulo Cornelio Celso, vissuto a’ tempi d’Augusto, che nulla per altro innovò, solo spiegando buon criterio nell’adottare le dottrine de’ suoi predecessori, dettando que’ libri, De Artibus, de’ quali otto sono ancora superstiti[244]; e come Scribonio Largo Designaziano, siculo o rodio del tempo di Claudio, che nel trattato [260] De Compositione Medicamentorum, che sussiste tuttavia, ed è tenuto in poco conto, cercò combinare le dottrine metodiche coll’empirismo, insegnando a non levare il dente leso, ma levarne solo la parte guasta, e suggerendo l’applicazione della elettricità pel mal di capo, mediante una torpedine viva; ed Erodico da Leonzio, che trovò la medicina ginnastica, curando con violenti esercizj susseguiti da bagno, a un di presso come farebbesi oggi a Grafenberg.

Claudio Galeno di Pergamo, di vastissimo ingegno, studiosissimo della natura e dell’anatomia, non venne in Roma che più tardi, al tempo, cioè, di Marco Aurelio imperatore.

Piacemi qui ad ogni modo segnalare come la città di Crotone, la formidabile rivale di Sibari, nel golfo di Taranto, fosse celebrata fin dall’antico per l’eccellenza de’ suoi medici e chirurghi.

La professione del medico era lucrosissima. Manlio Cornuto prometteva duecentomila sesterzj a chi l’avesse guarito dal lichene, malattia alla faccia; altrettanto si fece pagare Carmide un viaggio in provincia, egli che tuffava tutta Roma e fino i consoli e i senatori decrepiti nell’acqua gelata; Alcmeone raggranellò una fortuna di dieci milioni di sesterzj; Quinto Stertinio riceveva cinquecentomila sesterzj dagli imperatori, e dalla clientela in Roma seicentomila all’anno, e congiuntamente a suo fratello, lasciò un patrimonio di trenta milioni di sesterzj, oltre [261] all’aver dotata Napoli di opere superbe. Dieci milioni ne lasciò Crinate, dopo di averne consacrati altri dieci a rialzare le mura di Marsiglia sua patria: e Valente ed Eudemo, medici e drudi di Messalina e di Livia, disponevano a capriccio del talamo e del tesoro imperiale.

Tranne questi medici principali e forastieri, per lo più greci, vessati del resto anch’essi e costretti anzi a partire da Roma, dove non ritornarono che più tardi, gli altri medici erano per lo più schiavi o liberti, e quindi i primi esposti in caso di mala riuscita, alla battitura e alla catena, e i secondi alla condanna da parte della giustizia ad ammende considerevoli.

Le cortigiane poi che non erano sotto la vigilanza dell’edile, affidavansi a certe vecchie medichesse, medicæ che non solo erano levatrici, ma addette eziandio alla magia ed alla medicina empirica. Trovasi infatti in Grutero, un’iscrizione che ricorda una Seconda medichessa:

Secunda L. Livinæ Medica.

Aniano, nelle sue annotazioni al codice teodosiano, ricorda le medicæ juratæ, le medichesse giurate, che non erano che levatrici autorizzate a studiare medicina.

A Pompei la medicina doveva trovarsi presumibilmente non impari ne’ progressi a quella di Roma. Lo si può dedurre almeno dalla moltiplicità ed esame [262] degli stromenti chirurgici ritrovati negli scavi, che appunto per essi fu assegnata ad una casa, scoperta nel 1771, la denominazione di Casa del Chirurgo nella via Domiziana, a fianco della casa detta delle Vestali.

Questa casa abbastanza grande ha tredici camere, talune adorne di pitture e con pavimenti in mosaico. Nel fondo, a destra dello xisto, vi è una camera sulle cui pareti è dipinta la Toeletta di Venere, egual soggetto trattato così stupendamente dal morbido e grazioso pennello di Guido Reni. Pur dalle pareti di queste sale furon tolti altri dipinti rappresentanti un pittore che dipinge un busto, una testa, una Baccante ed una quaglia, che si depositarono, come tutte le altre cose pregevoli di Pompei e d’Ercolano, al Museo Nazionale.

Ma all’argomento mio importa tener conto adesso e parola dei suddetti arnesi chirurgici, che vi si ritrovarono.

Nella più vasta sala dell’abitazione, che verosimilmente doveva essere la sala anatomica e la scuola di medicina, ben quaranta stromenti di chirurgia si rinvennero, e quantunque si riconoscano di piuttosto grossolana fattura, se si paragonano agli odierni, lavorati con tutta la finitezza e talvolta con eleganza, riescono tuttavia assai interessanti, riscontrandosene pure taluni che rassomigliano molto ai moderni, ed altri di diverso disegno e per usi che non si sanno forse indovinare.

[263]

Con siffatta scoperta si è conosciuto che cosa mai fossero le cucurbitæ o cucurbitulæ, usate in medicina, rammentate pur da Giovenale in questo verso:

Jam pridem caput hoc ventosa cucurbita quærat[245]

e si comprese che se dovevano essere coppette fatte della scorza di questi frutti, o piccole zucche, potevano essere anche di bronzo, siccome queste trovate in Pompei. Fu inteso egualmente meglio, anche il passo di Celso, che allude a ventose di bronzo e di corno[246]. — Queste ventose pompejane sono a foggia di mezze ampolle con quattro buchi, che solevansi otturare con creta, che poi si levava onde distaccarla dalla pelle che il vuoto aveva attratto. Si riconobbe eziandio lo strumento per saldare le vene, gli scalpelli escissorii a guisa di picciole punte di lancetta da una parte e dall’altra aventi il malleo per la frattura delle ossa; le spatule di diverse forme; gli specilli concavi da un lato e dall’altro a forma d’oliva; un catetero bucato colla sua guaina mobile; un unco per estrarre il feto già morto; ami, aghi, forbici dentate a guisa di tenaglia, circini escissorii, bolselle a denti, sonde urinarie, lancette, bisturi, siringhe auricolari, seghe, coltelli ecc. tutti del rame più puro, con manichi di bronzo e riposti in astuccio pur di rame e di bosso. I soli [264] bottoni per l’applicazione de’ cauterj erano in ferro.

A chi ne voglia sapere di più consiglio ricorrere alla dotta dissertazione di Louis Choulant: De locis Pompejanis ad rem medicam facientibus, Leipzig 1823, ed alla descrizione illustrata da disegni del cav. Leonardo Santoro di Napoli, inserta nelle Memorie dell’Accademia di Napoli: non che al trattato edito nel 1821 a Parigi dal dottor Savensko di Pietroburgo, e da cui risulta che già si conoscessero a’ tempi di Pompei strumenti chirurgici che si credono invenzione de’ nostri giorni, e che pur allora si possedessero mezzi dall’arte chirurgica che non son oggi neppur sospettati.

Cesare Cantù poi ricorda[247] che all’accademia di Parigi fossero dal signor Scouteten presentati i seguenti strumenti, dissotterrati a Pompei ed Ercolano: una sonda curva, una dritta, pei due sessi e per bambino; la lima per togliere le asprezze ossee; lo specillo dell’ano e dell’utero a tre branche; tre modelli di aghi da passar corde o setoni; la lancetta ed il cucchiajo, di cui i medici si servivano costantemente per esaminare la natura del sangue dopo il salasso; uncini ricurvi di varia lunghezza, destinati a sollevar le vene nella recisione delle varici; una cucchiaja (curette) terminata al lato opposto da un rigonfiamento a oliva, all’uopo di cauterizzare; tre ventose di forma [265] e grandezza diversa; la sonda terminata da una lamina metallica piatta e fessa, per sollevare la lingua nel taglio del frenulo; molti modelli di spatule; scalpelli a doccia piccolissimi per legare le ossa; coltelli dritti e convessi; il cauterio nummolare; il trequarti; la fiamma dei veterinarj per salassare i cavalli; l’elevatore pel trapanamento; una scatola da chirurgo per contenere trocisci e diversi medicamenti; pinzette depilatorie, pinzette mordenti a denti di sorcio, una a becco di grua, una che forma cucchiajo colla riunione delle branche; molti modelli di martelli taglienti da un lato; tubi conduttori per dirigere gli stromenti cauterizzanti.

Se la medicina per sì lungo tempo rimase un vero empirismo, nè si sollevò che più tardi colla coordinazione dei fatti e risultamenti all’onore di scienza: puossi argomentare facilmente come in ricambio si dovesse ricorrere a prodotti chimici, ad empiastri, ad erbe, a beveroni, a dettame di que’ cerretani nelle cui mani trovavasi l’arte salutare. E v’erano donne altresì che la pretendevano a sapienza nelle scelte e distillamento delle erbe e componevano filtri, che la superstizione e i pregiudizi d’ogni maniera facevano credere atti a dare o togliere l’amore, a portare o distruggere la fortuna e vie via a secondare ogni sorta di passioni, ma principalmente quella degli appetiti sfrenati e lussuriosi onde dicevansi afrodisiaci. Ma essi, grida Ovidio, non recano vantaggio [266] alle fanciulle, ma nuocono alla ragione contenendo i germi della pazzia furiosa.

Questi empirici, antidotari e farmacisti erano però venuti nell’universale disprezzo, quantunque i più vi ricorressero: a un dipresso come vediamo adesso derisi magnetizzatori e sonnambule, tiratrici di carte e indovini, ma, ciò malgrado, contar numerosa clientela e raggrannellar ricchezza. Orazio li mise a fascio colle sgualdrine ambubaje in quel verso che nel capitolo dell’Anfiteatro ho già citato:

Ambubajarum collegia, farmacopolæ.

Fra questi empirici si distinsero nondimeno molti dotti botanici e manipolatori ingegnosi. Sotto Tiberio, Menecrate inventor del diachilo, componeva empiastri, spesso efficaci contro le erpeti, i tumori e le scrofole; Servilio Democrate fabbricava eccellenti emollienti.

Pharmacopolæ appellavansi i venditori di farmachi, ma non per questo si possono dire pari agli odierni farmacisti, perocchè questi or vendano i semplici e manipolino i medicamenti giusta le prescrizioni dei medici; mentre quelli fabbricavan rimedj di proprio capo e li spacciavano, come fanno gli odierni cerretani; onde Catone, presso Gellio, fosse nella ragione allorchè disse: Itaque auditis, non auscultatis, tanquam pharmacopolam. Nam ejus verba audiuntur, verum ei se nemo committit, si æger est[248].

[267]

Erano i Seplasarii che vendevano i semplici, e spacciavano pure profumi, droghe, unguenti ed aromi.

Sotto il nome di sagæ venivano le specie diverse di venditrici d’unguenti e di filtri, che fabbricavano spesso con magici riti inventati nella Tessaglia. Ignoranti assai sovente della efficacia delle erbe che trattavano, non è a dirsi se causassero anche di funeste conseguenze. Così perirono anzi tempo Licinio Lucullo amico di Cicerone, il poeta Lucrezio e tanti altri.

Orazio, che era stato amante d’una Gratidia, ch’era una tra le più celebri sagæ di Roma, stando a quanto ne scrissero i suoi scoliasti, rimproverò a costei, che raccomandò co’ suoi versi immortali alla esecrazione dei posteri sotto il nome di Canidia, il funesto potere delle sue pozioni amorose, che gli tolsero gioventù, forza, illusioni e salute[249].

In Pompei, sull’angolo d’un viottolo, si credè ravvisare una fabbrica di prodotti chimici. Sulla sua facciata si lessero diverse iscrizioni, tra cui l’una che accenna a Gneo Elvio Sabino; un’altra a Cajo Calvenzio Sellio. La fabbrica consta di due botteghe: [268] a destra dell’atrio vi è un triplice fornello destinato a tre grandi caldaje disposte a differenti altezze. Nella casa si conteneva gran quantità di droghe carbonizzate. Nel 1818, in faccia alla via Domiziana, sull’angolo d’un’isola triangolare, si sterrò una taberna di seplasarius o farmacista. Per mostra aveva dipinto un grosso serpente che morde un pomo di pino. Il serpe era l’attributo di Igea, la dea della salute, e di Esculapio: esso è ancora l’emblema delle odierne farmacie. In Pompei, come abbiamo altrove notato, valeva ad altri scopi eziandio, nè quindi avrebbe certo bastato a fissare la designazione a questa taberna di officina farmaceutica, dove non si fossero trovati nell’interno diversi altri medicamenti, preparazioni chimiche, vasi con farmachi disseccati e pillole, e spatole e una cassetta in bronzo a comparti contenente droghe, e una lama di porfido per distendere e stemprare gli empiastri. Questa cassetta conservasi al Museo in un con un bel candelabro di bronzo.

Dyer poi[250] scrive essersi colà trovato eziandio un gran vaso di vetro capace di contenere due galloni (9l, 086), nel quale vi era un gallone e mezzo (6l, 814) d’un liquido rossastro che si pretende fosse un balsamo. Essendo stato aperto il vaso, il liquido [269] cominciò a svaporare rapidissimamente, onde si affrettò a chiuderlo di nuovo ermeticamente.

Questo è quanto pare a me compendj brevissimamente la condizione dello scibile d’allora e il suo insegnamento.

Finora non si raccolsero dati essere esistite altre scuole in Pompei fuori di quelle che ricordai nel presente capitolo, nè forse gli Scavi altre ne metteranno alla luce. Si sa del resto, per gli usi generali in Roma, e quindi anche nelle colonie, che vi fossero scuole private, in ciò che per la puerizia delle classi agiate ogni famiglia avesse il suo schiavo, destinato a dare i primi rudimenti letterarj; poi erano i grammatici che subentravano ad ammaestrare nello scrivere e nello studio degli scrittori e nel greco, e dopo avea luogo il perfezionamento in Grecia nelle discipline della filosofia. Reduci in patria, o era nell’esercito che eleggevano la carriera e traevano alle guerre, di cui Roma non aveva penuria mai, o entravano nella magistratura, o praticavano dagli oratori più rinomati ad apprendere l’eloquenza del foro; assai sovente poi tutte queste professioni volta a volta esercitando, cioè passando dal foro alle cariche civili, e da queste a’ gradi militari, ora magistrati e ora soldati.

Non vi volevano che i vizj e le scelleraggini dell’impero per chiamare su Roma e l’Italia il torrente barbarico e far iscomparire istituzioni e civiltà, e quando questa potè far di nuovo capolino e ricomparire [270] sulle rovine indagate del passato, si è procacciato di ricostruire, senza che finora si possa dire che da noi siasi fatto meglio de’ nostri gloriosi maggiori.

Ad ogni modo, anche la sapienza odierna spesso piacesi confortare sè stessa dell’autorità della sapienza romana, che invoca come oracolo sacro e senza appello.

[271]

CAPITOLO XVII. Tabernæ.

Istinti dei Romani — Soldati per forza — Agricoltori — Poca importanza del commercio coll’estero — Commercio marittimo di Pompei — Commercio marittimo di Roma — Ignoranza della nautica — Commercio d’Importazione — Modo di bilancio — Ragioni di decadimento della grandezza romana — Industria — Da chi esercitata — Mensarii ed Argentarii — Usura — Artigiani distinti in categorie — Commercio al minuto — Commercio delle botteghe — Commercio della strada — Fori nundinari o venali — Il Portorium o tassa delle derrate portate al mercato — Le tabernæ e loro costruzione — Institores — Mostre o insegne — Popinæ, thermopolia, cauponæ, œnopolia — Mercanti ambulanti — Cerretani — Grande e piccolo Commercio in Pompei — Foro nundinario di Pompei — Tabernæ — Le insegne delle botteghe — Alberghi di Albino, di Giulio Polibio e Agato Vajo, dell’Elefante o di Sittio e della Via delle Tombe — ThermopoliaPistrini, Pistores, Siliginari — Plauto, Terenzio, Cleante e Pittaco Re, mugnai — Le mole di Pompei — Pistrini diversi — Paquio Proculo, fornajo duumviro di giustizia — Ritratto di lui e di sua moglie — Venditorio d’olio — Ganeum — Lattivendolo — Fruttajuolo — Macellai — Myropolium, profumi e profumieri — Tonstrina, o barbieria — Sarti — Magazzeno di tele e di stoffe — Lavanderie — La Ninfa Eco — Il Conciapelli — Calzoleria e Selleria — Tintori — Arte Fullonica — Fulloniche di Pompei — Fabbriche di Sapone — Orefici — Fabbri e falegnami — Profectus fabrorum — Vasaj e vetrai — Vasi vinarj — Salve Lucru.

Sotto questo nome di tabernæ, chè così i latini chiamavano le botteghe, il capitolo presente è chiamato a far [272] assistere il lettore al movimento dell’industria pompejana e del suo commercio. La storia del commercio romano non corre sempre parallela, come nelle altre cose che abbiam osservato finora, colla storia del commercio della piccola città di Pompei: tuttavia essa si comprende nella storia generale di quello della gran Roma, come la parte nel tutto, che però dovrò riassumere brevemente, e di tal guisa saran raggiunti i miei intenti, e il lettore si avrà così anche questa parte importante della vita di quella repubblica famosa, che compendia tutta l’Italia antica.

Quando si pensa che i Romani fondarono la più vasta e formidabile monarchia del mondo, parrebbe che si dovesse argomentare che essi avrebbero dovuto avere una corrispondente ricchezza e floridezza di commercio; ma non fu veramente così. Come abbiam veduto delle scienze, che non presero a mostrarsi in Roma che cinque secoli dopo la sua fondazione; così fu anche del commercio e dell’industria. Insino alla prima Guerra Punica, i Romani non erano per anco usciti d’Italia, nè pur potevano avere stabiliti commerci coll’estero. Poveri e soldati, non ebbero tampoco nozione alcuna di commercio, e neppure ne sentirono il bisogno. Erasi infatti ai primi giorni dell’infanzia di un popolo, divenuto poi conquistatore, che era ai prodromi di quelle convulsioni che l’avrebbero di poi così violentemente agitato. Fin dalle origini, più che impaziente di gittarsi alle conquiste, come da [273] non pochi scrittori si volle far credere, ciò desumendo piuttosto dai moltissimi fatti onde si ordì la sua storia, che dal più diligente studio del suo primitivo costume e delle sue abitudini; forzato ad essere soldato per difendersi dagli incessanti attacchi dei Sabini, degli Etruschi e dei Sanniti; tanto il carattere suo che le sue leggi naturalmente assumer dovevano una tinta militare; e però l’educazione doveva piegare alla più severa disciplina, alla più passiva obbedienza. Sì certo; il popolo romano era per istinto pastore e lo si può credere a Catone, che così ce lo attesta nella prefazione all’opera sua, De Re Rustica: Majores nostri virum bonum ita laudabant: bonum agricolam, bonumque colonum. Amplissime laudari existimabatur qui ita laudabatur[251]. Conquistando adunque l’universo, non fece che difendere o proteggere la propria indipendenza, nè combattè che per assicurarsi le dolcezze della pace, alla quale continuamente aspirava. Properzio mostra che pur a’ suoi tempi la si pensava così della patria romana, quantunque l’epoca sua ribollisse per la febbre delle conquiste, in quel verso:

Armis apta magis tellus quam commoda noxæ[252];

[274] ciò che del resto affermava pure Sallustio, quando, narrando della Guerra Catilinaria, qualificava la romana razza genus hominum agreste, sine legibus, sine imperio, liberum atque solutum[253]; e più innanzi così enunciava gli scopi de’ loro fatti militari: hostibus obviam ire, libertatem, patriam, parentesque armis tegere[254]. Ciò non tolse che il dovere star sempre all’erta e dover respingere tanti e innumerevoli nemici, avesse a modificare le primitive inclinazioni. Epperò l’occupazione generale doveva essere di ginnastiche esercitazioni, di ludi bellici, di studio, di violente imprese, e si hanno così le ragioni di que’ fatti d’armi gloriosi che si succedevano senza posa l’un l’altro e di quelle virtù eziandio primitive che si videro scemare man mano che crebbe la potenza romana e con essa le passioni individuali.

I Romani inoltre situati fra tanti popoli e nazioni prodi e bellicosi, che dovevano diventare? Altrettanti soldati, risponde il Mengotti nell’opera sua, Il Commercio dei Romani[255]. Bisognava o distruggere o essere distrutti. Stettero dunque coll’armi alla mano per quattro secoli, rodendo pertinacemente i confini ora di [275] questo, ora di quello stato, finchè superati tutti gli ostacoli, dominati i Sanniti e vinto Pirro, o piuttosto non vinti da lui, si resero signori d’Italia. In appresso l’orgoglio, che ispira la felicità delle prime imprese e la smoderata cupidità di bottino, gli stimolarono a divenir conquistatori della terra. Questo fu il genio che si venne necessariamente formando e il carattere de’ Romani. La guerra, dopo che divenne indispensabile, fu la loro educazione, il loro mestiere e la loro passion dominante. Essi furono quindi soldati per massima di stato, per forza di istituzione, per necessità di difesa, per influenza di religione, per esempio de’ ricchi e dopo altresì che divennero ricchi e potenti in Italia, conservarono la stessa ferocia e la stessa tendenza a crescere di stato per il lungo uso di vincere e per impulso delle prime impressioni.

Un popolo poi fiero e conquistatore riguarda allora la negoziazione come un mestiere ignobile, mercenario ed indegno della propria grandezza. Le idee vaste, i piani magnifici, i progetti brillanti, i pensieri ambiziosi di gloria e di rinomanza, lo splendore e la celebrità delle vittorie, la boria de’ titoli, la pompa ed il fasto de’ trionfi non si confacevano con le piccole idee e coi minuti particolari della mercatura. Lo stesso Cicerone preponeva ad ogni altra virtù la virtù militare: Rei militaris virtus præstat cæteris omnibus; [276] hæc populo romano, hæc huic urbi æternam gloriam peperit[256].

All’agricoltura, la passione e virtù d’origine, si sarebbero piuttosto nei giorni di calma e in ricambio rivolti, tornando più confacente a que’ caratteri indomiti; e così que’ grandi capitani che furono Camillo, Cincinnato, Fabrizio e Curio alternavano le cure della guerra con quelle del campo, infra i solchi del quale era duopo che i militari tribuni andassero a cercarli quando avveniva rottura di ostilità coi popoli limitrofi.

Quindi nulle le arti, povere le manifatture, rustico il costume. Grossolane le vesti, venivano confezionate dalle spose pei mariti; onde si diceva della donna a sommo di lode, domum mansit, lanam fecit[257], e i capi stessi non permettevansi lusso maggiore; sì che si legga nelle storie di Roma della toga di Servio Tullio, lavoro di sua moglie Tanaquilla, che stesse gran tempo, siccome sacra memoria, appesa nel tempio della Fortuna.

Colle spoglie de’ vinti nemici si fabbricarono e ornarono persino i templi: nulla insomma si faceva in casa propria.

Quali arti dunque, chiede ancora il Mengotti, [277] seguite pur dal Boccardo, qual industria, quali manifatture, qual commercio potevano avere i Romani senza coltura, senza lettere, senza scienze? Le arti tutte e le scienze si prestano un vicendevole soccorso e riflettono, per dir così, la loro luce, le une sulle altre. Tutte le cognizioni hanno un legame ed un’affinità fra di loro. La poca scienza della navigazione presso i Romani contribuì finalmente ad impedire che il traffico progredisse.

Tuttavia noi abbiam veduto diggià, nel ritessere la storia di Pompei, come questa città fosse emporio di commercio marittimo e così erano pure città commercianti tutte quelle littorane. Ma esse erano quasi divise allora dalla vita e partecipazione romana. La Sicilia contava floridi regni, che hanno una propria ed onorifica istoria, e la Campania, ed altre terre che costituiron di poi lo stato di Napoli, popolate da gente di greca stirpe, giunse a tale di prosperità, da essere appellata dai Greci stessi Magna Grecia. Navigarono questi commercianti della Campania lungo le coste d’Italia e delle isole vicine, visitarono la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, e fino in Africa pervennero a vendervi e scambiarvi i ricchi prodotti del suolo. Del commercio di Pompei con Alessandria ho già trattato, allor che dissi dell’importazione fatta dagli Alessandrini in Pompei; fra l’altre cose, pur del culto dell’egizia Iside.

Istessamente abbiam qualche dato che attesta il [278] commercio marittimo di Roma con l’Africa. Nell’anno che seguì l’espulsione dei re da Roma, venne, al dir di Polibio[258], conchiuso fra questa repubblica e Cartagine il primo trattato di commercio, che fu di poi rinnovato due volte. Vuolsi dire per altro che nelle loro relazioni con Cartagine i Romani comprassero più che non vendessero, importando di là tessuti rinomati per la loro leggerezza, oreficerie, avorio, ambra, pietre preziose e stagno; e però può aver ragione il succitato Mengotti nel credere che fossero stati piuttosto i Cartaginesi, sovrani allora del mare, i quali fossero andati ai Romani, anzi che questi a quelli; giacchè dove avessero avuto vascelli o navi proprie e conosciuta la nautica, se ne sarebbero valsi a respingere Pirro dal lido italico, nè le tempeste e gli scogli avrebbero distrutte sempre le loro flotte; tal che la strage causata dai naufragi fosse sì grande, che da un censo all’altro si avesse a trovare una diminuzione in Roma di quasi novantamila cittadini[259].

Porran suggello a questo vero dell’imperizia de’ Romani nella nautica, le frequenti disfatte toccate da essi nei mari, la guerra de’ Pirati, che li andavano ad insultare sugli occhi proprj, e le parole di Cicerone che l’abbandono vergognoso della loro marina [279] chiama labem et ignominiam reipublicæ[260], macchia e ignominia della Repubblica.

Ma le cose migliorarono, convien dirlo, dopo Augusto, se Plinio ci fa sapere che i Romani portassero ad Alessandria ogni anno per cinque milioni di mercanzie, e vi guadagnassero il centuplo, e se tanto interesse vi avessero a trovare, da spingere la gelosia loro a vietare ad ogni straniero l’entrata nel mar Rosso.

Roma per cinquanta miglia di circonferenza, con quattro milioni di abitanti[261], con ricchezze innumerevoli versate in essa da conquiste e depredamenti di tante nazioni, con infinite esigenze di lusso e di mollezza da parte de’ suoi facoltosi, opulenti come i re, doveva avere indubbiamente attirato un vasto commercio, certo per altro più di importazione che di esportazione. Il succitato Plinio ci informa come si profondessero interi patrimonii nelle gemme che si derivavan dall’Oriente, negli aromi dell’Arabia e della Persia; che dall’Egitto poi si cavasse il papiro, il grano ed il vetro, che si cambiavan con olio, vino, e Marziale ci avverte anche con rose in quel verso:

[280]

Mitte tuas messes; accipe, Nile, rosas[262]

e dell’Etiopia, profumi, avorio, fiere e cotone, che Virgilio chiama col nome di molle lana:

Nemora Æthiopum molli canentia lana[263].

La Spagna forniva argento, miele, allume, cera, zafferano, pece, biade, vini e lino; le Gallie rame, cavalli, e lana, oro de’ Pirenei, vini, liquori, panni, tele e prosciutti di Bajona; la Britannia stagno e piombo; la Grecia il miele d’Imetto, il bronzo di Corinto assai pregiato, vino, zolfo e trementina, le lane d’Attica, la porpora di Laconia, l’elleboro di Anticira, l’olio di Sicione, il grano di Beozia, nardo, stoffe, pietre preziose e schiavi. L’Asia Minore mandava ferro dell’Eusino, legno della Frigia, gomma del monte Idea, lana di Mileto, zafferani e vini del monte Tmolo, stoviglie di Lidia, profumi e cedri e schiavi della Siria, porpora di Tiro e formaggi.

Ma tutto questo commercio colle nazioni straniere, osserva il Mengotti, come fosse sempre passivo per i Romani; ma se ne ricattavano, osservo io, e colmavano il disavanzo del bilancio colle conquiste, riprendendosi ben presto con la forza ciò che le nazioni commercianti avevano loro spremuto con l’industria, [281] così che non potessero mai esaurire la loro ricchezza per quanto si studiassero di abusarne, siccome è detto in Sallustio: Omnibus modis pecuniam trahunt, vexant; tamen summa libidine divitias suas vincere nequeunt[264]. Il quale Sallustio che così scriveva, attingeva pure a questa limacciosa fonte per abbellire i suoi famosi orti, e l’infame sistema veniva sanzionato dalla religione, essendosi giunto perfino ad erigere un tempio a Giove Predatore.

Non sono quindi d’accordo coll’illustre scrittore del Commercio de’ Romani, che fosse per questo traffico passivo e rovinoso ch’essi cadessero nella povertà e nella barbarie. Le cagioni della decadenza e della barbarie voglion essere attribuite prima alla decrescente prosperità agricola che degenerò presto in rovina e ne fu causa principale la concentrazione dei piccoli poderi in vaste possessioni; quindi la sostituzione del lavoro degli schiavi a quello degli uomini liberi, del quale Plinio espresse gli effetti perniciosi in memorande parole: Coli rura ergastulis pessimum est ut quidquid agitur a desperantibus[265]. Altre [282] e più efficaci cause di desolazioni dell’Italia furono le incessanti guerre. I generali vittoriosi solevano ripartire ai loro soldati le terre conquistate. Codesti barbari d’ogni nazione, dice lo stesso Mengotti, Galli, Germani, Illirii e Numidi, senza affetto per l’Italia, che riguardavano non come patria, ma come una preda e un guiderdone dovuto ai loro servigi, cercavano di emungerla, non di coltivarla; sicchè lo sconvolgimento e la forza, le emigrazioni erano continue e cresceva ogni giorno l’abbandono e lo squallore delle campagne.

Nè fu estranea alla decadenza la diminuzione della popolazione, effetto delle proscrizioni e delle guerre; onde fin sotto di Cesare si pensasse a far provvide leggi, ut exhaustæ urbis frequentia suppeteret, onde sopperire, cioè, alla deficienza di popolazione della esausta città.

La corruzion del costume diede il colpo di grazia. Ingolfandosi i Romani nella mollezza e nel vizio e venendosi essi così eliminando dal servizio attivo dell’armi, presero il loro posto soldati e capi stranieri e così si scalzarono ben presto da quella antica grandezza, per sostituire altri i loro propri interessi. Divenuto l’impero oggetto di disputa e cupidigia, messo all’incanto perfino dalla prepotenza e rapacità de’ pretoriani, gli stranieri impararono la via di casa nostra, vi si stabilirono da padroni e tiranni, e ci fecero a misura di carbone pagare le passate colpe.

[283]

In quanto all’industria, nei primi tempi, pochi uomini liberi cercavano ne’ lavori manuali una professione lucrativa: l’agricoltura era la naturale e, se non l’unica, almeno la più onorevole occupazione dei cittadini romani. Ma quando la popolazione di Roma crebbe e la piccola proprietà di una famiglia povera non bastò a nutrir tutti i suoi membri, molti dovettero cercare la loro sussistenza nel lavoro manuale. Questi operai liberi uscivano quasi sempre dalla classe degli schiavi che esercitavano specialmente siffatti lavori e continuavano ad occuparsene, quand’essi avessero ricuperata la loro libertà. Di tal guisa l’industria migliore era esercitata a Roma massimamente dai liberti, che rimanevano clienti dei loro antichi padroni. Si comprende così perchè l’industria, esercitata da cittadini d’ultima classe, da liberti e da schiavi, dovesse essere negletta e disprezzata. I mestieri manuali e il commercio di dettaglio erano considerati come professioni basse, sordida negotia. Cicerone, che per l’altezza dell’ingegno avrebbe dovuto essere superiore ai pregiudizii volgari, pur nondimeno divideva questo contro gli industriali. Noi, scrive egli, dobbiam disprezzare i commercianti che ci provocan l’odio contro di essi. È basso e non è istimabile il mestiere di questi mercenari che locano le loro braccia e non il loro ingegno. Per essi il guadagno non è che il salario della loro schiavitù: mettiamo al medesimo livello l’industria di quelli che [284] comprano per rivendere, perchè per guadagnare, è bisogno che mentiscano. Che mai v’ha di nobile in una bottega? Quale stima accorderemo noi a questa gente, il commercio della quale non ha per oggetto che il piacere, come i pescivendoli, i beccaj, i pizzicagnoli, i cuochi e i profumieri? Concediamo la nostra stima alla medicina, all’architettura, se si voglia; ma in quanto al piccolo commercio, esso è sempre basso: il solo grande non è spregevole tanto.

E così la pensava tutta Roma.

Infatti nel grande commercio non esitavano ad entrare persone dell’ordine equestre, in vista dei forti lucri, grazie ai quali, sotto il nome dei loro liberti, esercitavano spesso la banca, chiamati que’ liberti, mensarii de argentarii, equivalenti ai moderni banchieri. Così ne originava quella schifosissima e fatal piaga che fu l’usura, che divenne anzi prontamente più forte e deplorevole che non la sia de’ nostri giorni.

A conoscerne la misura, citerò quella che si faceva da’ più virtuosi, senza pur credere di mancare alle leggi dell’onesto. Pompeo Magno prestava 600 talenti ad Ariobarzane al 70 per cento, e il severo Bruto, l’ultimo e virtuoso republicano alla esausta città di Salamina mutuava pur forte somma al 48 per cento.

Vuolsi attribuire a Numa Pompilio la distribuzione degli Artigiani in differenti categorie. Le corporazioni dei mestieri erano in numero di otto: i suonatori di tibia, gli orefici, i falegnami, i trattori, i vasai, i [285] fabbricatori di cinture, quelli di corregge, i calderaj e fabbri ferraj, e tutti gli altri artigiani non compresi fra costoro formavano una nona corporazione. Ciascuna corporazione poi aveva i suoi capi, magistri: i fabbri, falegnami o ferraj, che servivano nell’esercito erano sotto gli ordini di un prefetto, præfectus fabrorum, e quelli che si occupavano di costruzioni formavano una categoria particolare, spesso impegnati da un intraprenditore, chiamato ædificator, o magister structor.

In quanto al commercio minuto, vi aveva a Roma, come da noi, quello delle botteghe, tabernæ, e della strada.

Il commercio di strada si faceva principalmente nei fori, detti nundinari, o venali. La ragion del nome ho già dato, intrattenendo il lettore nel capitolo I Fori. Era stato Servio Tullio che, a regolare il commercio fra Roma e la sua campagna e sottometterlo a sorveglianza, aveva stabilito che la popolazion campagnuola venisse tutti i nove giorni alla città a comperarvi ciò che le fosse di bisogno, ed a vendere le sue derrate. Ho già ricordato in quell’occasione e il forum boarium o mercato de’ buoi; il suarium o quello dei porci; il piscarium, o de’ pesci; il pistorium, o del pane; cupedinis, o de’ frutti e delle confetture. V’era anche il forum macellum destinato alle carni non solo, ma a designare l’insiem de’ mercati, che tutti erano vicini, lungo il Tevere, facili così a essere vigilati [286] dagli Edili, che spezzavano i falsi pesi e le false misure, e gettavano alle onde di quel fiume i generi di cattiva qualità. Era sulla piazza stessa del mercato che gli Agenti del tesoro venivano ad esigere dai venditori il portorium, o tassa su tutte le merci che vi apportavano.

Oltre i mercati, vi erano anche botteghe. Erano queste il più spesso semplici baracche in legno, coperte di tavole ed adossate alle case. Dovevano essere per conseguenza anguste, male arieggiate e peggio illuminate, ma di tal prezzo di locazione che Cicerone ci apprende che molti ricchi proprietarj ne facessero costruire tutt’all’intorno delle loro magnifiche dimore, ricavandone enormi somme. Non mancavano del resto di coloro, che allettati dalla cupidigia del denaro, facessero tenere per loro conto da schiavi, liberti, o mercenari, che si dicevano institores, quelle botteghe, massime a vendita di pane e di carni.

Presso a tutti i luoghi publici, come bagni, teatri, circhi, trovavansi mercanti di vino, di bevande calde e cibi cotti. Al disopra delle botteghe mettevansi insegne a pittura. Ho già in altro capitolo recato all’uopo un passo d’Orazio che attesta questo costume; nè ciò bastando, si esponevano fuor della porta in bella mostra le mercanzie. Le più ricche erano quelle dei Septa Julia e attiravano il più gran numero di avventori.

[287]

Era certo che tutte queste baracche che costeggiavano le case dovessero essere di grande ingombro alle vie, che non erano sempre così larghe, come si potrebbe credere. L’inconveniente — a togliere in qualche parte il quale, aveva contribuito l’incendio di Nerone, — durò fin sotto Domiziano, che finalmente vietò che si costruissero presso le case, appunto perchè restringessero esse di molto la via publica, e Marziale, sempre pronto ad incensare quel Cesare, che dopo morte vituperò, così ne lo loda del savio provvedimento:

Abstulerat totam temerarius institor urbem,

Inque suo nullum limine limen erat.

Iussisti tenues, Germanice, crescere vicos;

Et, modo quæ fuerat semita, facta via est.

Nulla catenatis pila est præcincta lagonis:

Nec prætor medio cogitur ire luto.

Stringitur in densa nec cæca novacula turba:

Occupat aut totas nigra popina vias.

Tonsor, caupo, coquus, lanius sua limina servant.

Nunc Roma est; nuper magna taberna fuit[266].

[288]

Le botteghe avevano differenti nomi, secondo la natura delle merci che vi si vendevano. Così le taverne in cui si vendevano i cibi cotti si chiamavano popina, ed erano per lo più frequentate da’ ghiottoni che vi trovavano eziandio delicati manicaretti e gustose bevande, come si raccoglie da quel verso di Plauto:

Bibitur, estur, quasi in popina haud secus[267],

Thermopolia erano le taverne dove si vendevano bevande calde; caupona dicevasi l’albergo, o piuttosto la bottega dove si vendeva a bere ed a mangiare, l’odierno trattore, e caupo denominavasi il conduttore. La Caupona serviva anche di alloggio e tavola a’ forestieri: nelle grandi città equivaleva solo alle odierne taverne od osterie, canove, mescite e birrerie ed œnopolia chiamavansi. Lo stesso poeta che già citai, Plauto, ne trasmise la notizia che agli œnopolia traesse il vicinato a provvedere il vino necessario all’uso giornaliero, in quel passo dell’Asinaria:

[289]

Quom a pistore panem petimus, vinum ex œnopolio,

Si œs habent dant mercem[268].

Œnophores quindi appellavansi gli schiavi destinati a portare l’œnophorum o cesta a mano per mettervi gli urcei, ampolle o fiaschi di vino che s’andava a comprare ai venditori summentovati.

Venendo fra poco a dire delle Tabernæ, o botteghe scoperte in Pompei, vi troveremo altre denominazioni ed altre industrie.

Nè mancavano a Roma antica i mercanti ambulanti, come li abbiamo oggidì, che gridavano e vendevano le loro derrate per via; e Marziale pur ricorda venditori di zolfanelli, che scambiano la loro merce contro frammenti di vetro rotto; mercanti di minuti cibi, che spacciano alla folla; cerretani che mostrano vipere e serpenti, vantandone i pregi e le abilità, nè più nè meno insomma di quel che veggiamo e udiamo far oggidì per le nostre piazze.

Venendo ora a ricercare se le medesime condizioni commerciali fossero in Pompei e se l’industria e i mercanti al minuto vi esistessero eguali, poco mi resta a dire, per provare come pur eguale vi fosse la baraonda, perocchè già sappia il lettore, per quel che se ne è [290] detto, che in quanto al grande commercio e al marittimo, vi si notasse una tale attività, da indurre perfino i molti a ritenere fra le etimologie del suo nome quella di emporio, quasi appunto fosse Pompei un ridotto di merci e di commercianti. L’essere in riva al mare e in quella costa meridionale che è più aperta alle negoziazioni degli stranieri, le relazioni create dalla omogeneità delle razze fra la sua popolazione e le popolazioni greche, da cui forse derivava, dovevano mantenervi animato il commercio marittimo. La speciale condizione sua d’avere inoltre il Sarno, siccome già sappiamo, di non dubbia importanza, che comunicava col mare, e che allora era così grosso da permettere la navigazione, se ben dissero gli scrittori, vi creavano eziandio un forte movimento commerciale interno, comunicando così con città vicine da cui ricevevano e cui trasmettevano mercanzie. L’importanza delle cose rinvenute negli scavi, la ricchezza e valore delle pitture, delle statue, de’ musaici, della quantità degli ori e delle gemme provano che molto si faceva arrivare dall’estero; come del resto si argomenta dai canti de’ poeti e dalle pagine degli storici, che da queste sponde partissero i vini, le granaglie, le frutta, gli olj, di cui è fornitore larghissimo il territorio.

I suoi abitatori poi, che sappiamo in buona parte agiati e ricchi, come rilevasi e dalla entità de’ monumenti e da quanto si è trovato nelle loro case, oltre i [291] tanti facoltosi che da Roma traevano a villeggiarvi, dovevano necessariamente richiedere assai animato anche il piccolo commercio, e se già si è in grado di parlare di parecchie tabernæ, perchè si scavarono e se ne riconobbe l’uso, queste essendo nella parte più distinta della città, perchè verso la marina; è dato argomentare che nella parte superiore e non ancora esumata ve ne fossero assai di più, in numero, cioè, da soddisfare ai bisogni tutti della sua popolazione.

Anche Pompei aveva il suo Foro nundinario o venale, e il lettore se ne rammenta, chè di esso ho parlato nel Capitolo intorno ai Fori. Colà, come a Roma, sarà stato il mercato ove recavansi dagli abitanti delle campagne circostanti le derrate; colà saran venuti a scambiare le loro derrate colle merci cittadine. Ivi pure avranno i contadini pagato il portorium e ivi gli edili pompejani avranno esercitata la loro vigilanza sui pesi e sulle misure, non che sulla bontà delle derrate e, se cattive, gittate al mare non di molto discosto.

Se non che le botteghe o tabernæ, come si dicevano allora, non saranno state a Pompei, come a Roma, nè povere baracche di sconnesse tavole, nè indecentemente adossate alle muraglie delle case. L’angustia, che abbiam già veduto delle vie pompejane, vietava che tale costumanza si introducesse nella città: perocchè dove ciò fosse avvenuto, sarebbesi resa assolutamente [292] impossibile la circolazione. D’altronde i rialzi che costeggiavano le vie si opponevano a ciò. Le tabernæ adunque erano in Pompei come le botteghe delle moderne città, facenti parte delle case ai piani terreni, che si aprivano sull’esterno delle case. Avevano esse pure le loro indicazioni di vendita, e le loro insegne esteriori, e suppergiù vi si spacciavano quelle merci che già conosciamo vi si vendessero nelle botteghe di Roma.

Venga ora meco il lettore a visitarle.

Percorrendo le vie lungo le quali erano aperte, e che or si veggono vuote, conservando appena da un lato dell’ingresso que’ banchi di pietra o di materia laterizia, che servivano o per esporvi la merce, o per contarvi i denari che vi si esigevano, veggonsi in più d’una ai lati le scanalature per entro alle quali scorrevano le porte che chiudevano le botteghe, e pure a’ fianchi di codeste o superiormente alle medesime, ravvisasi qualche scultura o pittura, che serviva d’insegna spesso allusiva alla qualità di merce che nella bottega si spacciava. Così su di una vedesi una capra in terra cotta, che vi dice che là vi si vendesse il latte; su di un’altra una pittura rappresenta due uomini, l’un de’ quali cammina davanti l’altro sorreggendo ciascuno l’estremità di un bastone nel mezzo del quale pende sospesa un’anfora, a significare ch’ivi era un œnopolium o vendita di vino; altrove era dipinto un mulino girato da un asino, che annuncia il [293] magazzeno del mugnajo; e su d’altre botteghe scorgesi ancora l’avanzo di qualche emblema, come uno scacchiere, un’àncora, un naviglio. Già ho ricordato altrove il dipinto, onde era ornata la bottega presso alle Terme, rappresentante un combattimento di gladiatori, ed ho riferita l’iscrizione che a tutela della medesima vi si era graffita sotto: Abiat Venerem Pompejanam iradam qui hoc læserit; e così presso la bottega di panattiere, o pistrinum, leggesi quest’altra iscrizione: Hic habitat felicitas[269], la quale, se non accenna alla natura del commercio che vi si esercitava, vi attesta almeno che la famiglia che la conduceva, paga di sè stessa, potevasi proclamare felice. Tre pitture, ora affatto scomparse, in tre distinte botteghe, raffiguravano un sagrificatore conducente un toro all’altare su d’una; su di un’altra una gran cassa da cui pendevano diversi vasi, e sulla terza un corpo lavato, unto e imbalsamato, che indicava forse un unguentario, al quale pure incumbeva la preparazione de’ cadaveri, giusta l’uso che vedremo nell’ultimo capitolo di quest’opera.

Altre insegne vedremo al loro posto toccando delle varie botteghe, che più specialmente chiameranno la nostra attenzione, e delle quali anzi il Beulé si valse per uno studio complementario, che intitolò appunto Le commerce d’après les peintures nella sua [294] opera uscita in questi giorni in Francia, dal titolo Le Drame du Vésuve[270].

Ma prima di tutto, nel trattar del commercio bottegajo, intrattener debbo il lettore degli alberghi e popinæ. Hospitia dicevansi con vocabolo generale quando fornivano al viaggiatore o forastiero comodità di cibo o d’alloggio, e con esso li troviamo designati in Cicerone e in Tito Livio[271] e da un esempio in Pompei stessa, che riferirò più sotto. Popina chiamavasi la taverna, rosticceria od osteria, in cui erano venduti cibi cucinati: lo stesso Cicerone e Plauto vi fanno cenno[272]. Il più spesso l’hospitium era simultaneamente una popina: questa invece non implicava l’idea di albergo.

Ho, nel Capitolo quarto di quest’opera, favellato già alcun poco dei due publici alberghi, l’uno detto di Albino e l’altro di Giulio Polibio e Agato Vajo di Pompei. Ho creduto argomentare come il primo dovesse aver servito a stazione di posta, e che il secondo non avesse dovuto servire che all’uso de’ mulattieri e carrettieri, ciò desumendo dalla natura de’ locali e degli attrezzi e altri oggetti rinvenuti. Diciamone ora, poichè meglio ne cada in taglio il discorso, qualche cosa di più.

[295]

L’albergo e popina di Albino è la prima casa che si presenti a destra entrando nel Corso principale dal sobborgo o Via delle Tombe. La porta è larga undici piedi e mezzo, è atta al passaggio de’ carri, essendone piana la soglia d’ingresso ed a livello della strada publica. Da essa si passa in alcune vaste camere, ove per avventura collocavansi le merci. Sonvi de’ focolari con sottoposti ripostigli per le legna; dei banchi laterizi per la distribuzion delle vivande: due botteghe per vendita d’acque calde e liquori, comunicanti fra loro, con fornelli ed altri accessori per la cucinatura delle vivande e per il riscaldamento delle pozioni, non che alcune camere per ricettar avventori. In un secondo cortile si scende in un sotterraneo, il più spazioso e meglio conservato in tutta Pompei, di centocinque piedi di lunghezza, di dieci e mezzo di larghezza e di tredici di altezza[273]. Corre parallelo alla strada e viene illuminato da tre finestre: vi si ritrovarono molte ossa di diversi animali: forse vi si gettava l’immondezza e forse poteva essere anche ad uso di stalla. Il nome del proprietario era dipinto in nero davanti alla porta, e nella sommità del limitare stava scolpito in un mattone un gran segno itifallico, che ho già altrove spiegato essersi usato collocare dagli antichi, non a indizio di [296] luogo di prostituzione, come taluno può correre facilmente a pensare, ma per cacciar la jettatura, come direbbesi ora a Napoli, o contro il fascino o malocchio, come dicevasi allora. Ne’ marciapiedi, che circondavano le botteghe laterali dell’albergo, vi sono de’ buchi obliqui, che avran servito, come è generale opinione degli scrittori, per attaccar le bestie da soma. Due scheletri di cavallo colle loro testiere e briglie furono ritrovati negli scavi di questo albergo.

Quantunque l’altro albergo di Giulio Polibio e Agato Vajo fosse frequentato da’ mulattieri, come lo fa presumere l’iscrizione che ho già riferita nel summentovato Capitolo Quarto; tuttavia gli scavi offersero alcun che di interessante in esso. Avanzi d’iscrizioni sopra l’intonaco de’ muri esterni vi apparivano già cancellate. Annunziavano esse combattimenti gladiatorj e cacce nell’Anfiteatro ed indicavano più nomi proprj. I poggi delle botteghe annesse a quest’albergo erano assai eleganti, rivestiti al di fuori di marmi: avevano più fornelli, in uno de’ quali si trovò un cácabo, o stoviglia di bronzo col suo coperchio. Nel davanti erano ornati di due medaglioni con cornici di legno che rappresentavano due teste di donne in rilievo. Nell’angolo del poggio o banco era attaccata al muro una piccola statua di terra cotta coperta di una vernice verde, del genere degli amuleti, la quale ora si conserva nel Museo di Napoli. Ivi si trovò pure altro amuleto di bronzo, che sosteneva dei campanelli sospesi a catenelle di bronzo.

[297]

Un terzo albergo era quello di Sittio, detto anche dell’Elefante, dall’iscrizione che vi si leggeva così espressa:

SITTIVS RESTITVIT ELEPHANTVM[274]

e dall’insegna rappresentante un elefante con enorme serpente all’intorno ed un nano. Che dovesse essere un albergo, lo dice quest’altra iscrizione più grande che vi fu letta:

HOSPITIVM HIC LOCATVR
TRICLINIVM CVM TRIBVS LECTIS
ET COMM.[275]

L’interno è assai piccolo, povere le decorazioni: meschinissimo ritrovo a gente di nessuna fama, come non poteva essere altrimenti, avendo di fronte il lupanare.

Vi si rinvennero una testa di Giove in pietra di Nocera grossolana, tre stili per iscrivere, utensili di cucina, un sarracum o carro agricolo sia per veicolo di persone, che per trasporto di derrate al mercato, bottiglie di vetro, una asta di ferro, un peso di piombo e monete di bronzo.

[298]

Un albergo e scuderia era pure nella via delle Tombe, quasi rimpetto alla casa che si presume di Cicerone. Consta d’un portico con botteghe, e nel mezzo v’era una fontana con abbeveratojo. Gli scavi offrirono qui dei vasi, de’ secchi di bronzo, un mortajo di marmo, delle bottiglie di vetro, dei vasi in terra cotta, dadi, un candelabro e avanzi di bilancia. Nella scuderia che vi è attigua, si trovò la carcassa di un cavallo col morso in bronzo, se pure era un morso l’ordigno che aveva la figura di un D, e dei pezzi di un carro. A fianco dell’ingresso v’erano due fornelli con pentole, in cui dovevano esservi i commestibili che vi si esponevano e vendevano. Al di sopra di queste botteghe eravi pure un piano superiore, a cui si saliva per iscale di legno. In una di queste botteghe si ravvisarono scritti sullo stucco diversi nomi in caratteri rossi, ma di essi non si potè leggere che appena quello di STAIVS PROCVLVS.

Nella via di Mercurio vedesi pure una popina. Su di un panco di fabbrica rivestito di marmo sono incassati tre vasi: v’è uno scalino pur di marmo, per collocarvi le coppe e i bicchieri ed un fornello per cuocervi le vivande, sotto il quale è dipinto un angue in atto di divorar le offerte disposte su di un’ara. In un salotto vicino vi stavano dipinti degli amori; Polifemo e Galatea, e Venere che pesca coll’amo. Sotto vi è rappresentata una caccia; a qualche distanza un cane ed un orso accomandati ad un palo che ardono [299] assalire un cervo. A sinistra della popina evvi una altra sala con una porta segreta nel viottolo di Mercurio. Gli scrittori ricordano come qui vi si trovassero tre pitture oscene ora distrutte. Un’altra pittura rappresenta un soldato vestito d’una singolar tonaca, somigliante ad una pianeta, o dalmatica de’ nostri preti, il qual soldato porge da bere ad un popolano. Sopra vi è graffita questa iscrizione:

MARCVS FVRIVS PILA MARCVM TVLLIVM[276].

Anche un’altra popina era sull’angolo della Via delle Terme, e si denomina di Fortunata, perchè viveva un’iscrizione nella parte esterna che recava un tal nome, ma che ora è affatto scomparsa. Vi si vendevano commestibili.

Due osterie erano dirimpetto alle Terme: ivi stavano molti vasi di vino o dolia, come appellavansi allora, e focolari per ammanire vivande. Vi si scoprì uno scheletro d’uomo, che al momento della catastrofe s’era per avventura rifugiato sotto di una scala e stringeva ancora il suo piccolo tesoro, consistente in un braccialetto in cui erano infilati tre anelli, uno de’ quali con vaga incisione d’una baccante, due orecchini, il tutto d’oro; settantacinque monete d’argento e sessantacinque di bronzo, con cui voleva sottrarsi a sì generale rovina.

[300]

A queste cauponæ e popinæ ed œnopolia e tabernæ vinariæ erano quasi sempre congiunti, come abbiamo veduto, i thermopolia, ossia botteghe per vendita di bevande calde e liquori, come sarebbero a un dipresso i moderni caffè; poichè si tenesse allora comunemente più delizioso il bever caldo. Fin il vino si usava imbandir caldo: lo si cuoceva e lo si dolcificava e medicava con mirra, come pur di presente usasi in certe circostanze unirvi droghe, e si dava sopratutto idromele, giusta quanto si apprende in Plauto:

PSEUDOLUS

Quid, si opus sit, ut dulce promat indidem ecquid habet?

CHARIN

Rogas?

Murrhinam, passum, defrutum mellinam, mel cujusmodi.

Quin in corde instruere quondam cœpit thermopolium[277].

Pur tuttavia v’erano molti e speciali termopoli. Sul corso principale evvi quello di Perennio, o Perennino, Ninferoide, così interpretandosi la cancellata epigrafe PERENIN NIMPHEROIS. Vi si osserva ancora il [301] fornello, il davanzale di marmo bianco, in cui riscontransi le impronte lasciate dalle tazze colme di liquori, e una nicchia, contenente una testa di fanciullo in marmo, e alcuni gradini su cui disponevansi le tazze. Quivi pur si trovò un phallus di bronzo con campanelle, vasi di terra d’ogni forma e una lampa e varj oggetti di vetro colorato.

Vicino al Ponderarium, che già conosciamo, per averne trattato nel Capitolo Quarto, sonvi due altre tabernæ, ch’erano egualmente termopolii, o mescite di bevande calde, e vogliono essere ricordati per esservisi trovati una cassa col coperchio di rame, uno scheletro umano e due d’animali.

E così da codesti venditorj di vino e di bevande calde, di liquori e di commestibili, da quelli soltanto, cioè, che già si sono scoperti, vuolsi a ragione inferire che ne dovessero in Pompei sussistere in quantità; perocchè nel restante della città ancor sepolta abitasse, come sappiamo, la parte più povera della popolazione, e la quale più di tali vendite e mescite dovesse necessariamente abbisognare, da che la classe meglio provveduta avesse modo di prepararsi nella propria casa di cosiffatte bevande.

E poichè sono a dire delle taberne e commestibili, parmi vi possa star presso il discorso de’ pistrini o delle taberne da panattiere, o pistores od anche siliginari, come venivano chiamati, esprimendo il primo nome piuttosto l’operazione del macinare, il secondo [302] invece quella dell’impasto, da seligo, latinamente detta farina di frumento.

Pistrinum era dunque dapprima presso i Romani il luogo in cui veniva il frumento ridotto in farina. Usavasi a ciò un profondo mortajo detto pila, e d’un grande e forte stromento che ve lo pestava e stritolava dentro chiamato pilum, che per la sua grandezza adoperavasi a due mani, a differenza dei pistillum, il nostro pestello, a testa grossa, con cui si polverizzavano o impastavano nel mortarium altre sostanze, come droghe e pasticci. Più tardi, quando si pensò a sostituire altro stromento che stritolasse maggior quantità di grano e si inventò la macina, mola manuaria o trusatilis, o mulino a mano, pistrinum valse ancora a designare il mulino, che veniva messo in movimento continuo, di giorno e di notte, o da schiavi o da bestie da soma, cui si bendavan gli occhi, o da acqua[278]: nec die tantum, verum perpeti etiam nocte prorsus instabili machinarum vertigine membrabant pervigilem farinam[279], come disse Apulejo.

Ne venne così che il pistrinum si usasse comunemente per luogo di punizione degli schiavi rei d’alcuna colpa, che vi venivano condannati a subire un periodo di prigionia con lavoro forzato, lo che era [303] una ben miserevole pena per quegli sventurati pareggiati alle bestie.

Di questi pistrini se ne trovarono parecchi in Pompei, onde è dato fornirne ora la più esatta descrizione.

Tutti appajono costruiti d’un solo sistema, consistente, cioè, in due grosse pietre tagliate ora in forma di due vasi o campane, l’una arrovesciata sull’altra, che posa su d’una base, che è l’altra pietra, ed ora in forma di colonna che vien mano mano incavandosi o riducendosi a’ fianchi, pur posata sulla egual base cilindrica di un metro e mezzo di diametro ed uno in altezza. Da essa sorge uno sporto conico alto circa sessanta centimetri, che forma la macina inferiore, meta, ed ha un pernio di ferro infisso nel vertice. La pietra esterna, catillus, è fatta in forma di due vasi, come dissi, ed anche di oriuolo a polvere, clessydra, siffattamente, che una metà di esso si adatti come un berretto sopra la superficie conica della pietra inferiore, ricevendo il pernio summenzionato in un buco, forato a posta nel centro della sua parte più stretta tra i due coni vuoti, che serviva al doppio fine di tenerla fissa al suo posto e di scemare od eguagliare l’attrito. Il grano era quindi versato nella coppa vuota in cima, che così serviva di tramoggia e scendeva a mano a mano per quattro buchi forati nel suo fondo, sul solido cono di sotto; dov’era macinato in farina tra la superficie interna ed esterna del cono e del suo berretto, vie via che questo era fatto girare attorno dagli [304] schiavi che lo movevano coll’ajuto d’una stanga di legno infissa in ciascuno de’ suoi fianchi. La farina cadeva dall’estremo orlo in un canale tagliato tutto intorno alla base per riceverla.

È a questo sistema ed alla miseria che vi pativano gli schiavi, che si condannavano a metterlo in movimento marcati in fronte d’una lettera infame, rasati da una parte i capelli e con un anello al piede[280], che Plauto allude in questi versi:

LIBANUS

Num me illuc ducis ubi lapis lapidem terit?

DEMÆNETUS

Quid istuc est? aut ubi est istuc terrarum loci?

LIBANUS

Ubi fient homines, qui polentam pransitant[281].

E il povero Plauto se l’intendeva, o piuttosto la fortuna doveva farlo passare per queste dolorosissime prove, poichè guadagnato colle sue produzioni al [305] teatro un bel gruzzolo di denaro, avventuratolo poscia in ispeculazioni, da cui poeti e letterati debbono sempre star lontani, e quelle fallite, fu ridotto per campare la vita a girar macine da mugnajo. Plautus fuit pistor, scrisse lo Scaligero, cum trusatiles molas versando operam locasset. Quia vero pistura illa et labor grana conterendi omnium gravissimus erat, factum ut Pistrinum locus plenus fatigationis et negotii operosi viresque conficientis diceretur[282]. Terenzio e Cleanto vuolsi abbiano fatto altrettanto, quantunque fossero costoro lontani dai tempi e dai costumi, nei quali, sulla fede di Plutarco, Talete, essendo nell’isola di Lesbo, avesse udito una schiava straniera, girando una mola cantare: «Macina, o mulino, macina, poichè Pittaco, Re della gran Mitilene, si reca pur a piacere di volgere la mola[283]

Apprendiamo poi, a questo proposito, da Catone come Pompei fosse rinomata per le sue mole, per [306] le quali usufruttava del tufo vulcanico di che abbonda tutto il suo suolo così vicino al Vesuvio, e costituiva la fabbricazione e vendita di esse un ramo non indifferente del suo commercio.

Veniamo ora a parlare delle particolarità dei singoli pistrini che si scopersero.

Nella casa detta di Sallustio in Pompei si scoprì un Pistrino, che si locava dal proprietario a tale publico uso, e dove la costruzione del forno per la cottura del pane parve de’ nostri tempi, tanto si accosta alla odierna maniera. Il lavoro della volta è in guisa che con poco combustibile si dovesse riscaldare. Aveva nella bocca un coperchio di ferro, e presso stavano vasi per contener acqua. Vi si trovarono tre macine, come quelle testè descritte. Annessa era la camera per impastare il pane, col focolare per l’acqua calda, ed ivi si trovarono altresì l’anfora colla farina e parecchi acervi di grano.

Nel forno publico della Casa di Modesto, così designata dal nome MODESTUM, dipinto in rosso sul muro e dove si rinvenne una quantità di pani della più perfetta conservazione, deposti parte nel Museo di Napoli e parte in quel di Pompei, il forno si presentò più solido e più ingegnoso ancora. Vi si vede la camera o stufa in cui manipolavasi il pane; un’altra ove ponevasi a fermentare su tavole disposte l’una sull’altra lungo il muro, e quindi una terza ove riponevasi già cotto. Presso era la stalla degli asini [307] che giravano le mole, secondo il metodo più usitato. In questo pistrino si trovarono quattro macine un po’ più basse delle consuete d’altrove, formate da un cono concavo che si volge su di un altro convesso, anfore di grano e farina, e sul muro del Pistrino, vedesi un dipinto che esprimeva un sagrificio alla Dea Fornace e diversi uccelli. È forse la panatteria migliore che si scoperse finora.

Un altro forno publico è nel lato sinistro della casa di Fortunata presso quella di Pansa, con tre mulini, sull’un dei quali leggesi Sex. Sulla bocca del forno vi era un phallus colorito in rosso ed al di sopra scritta la leggenda HIC HABITAT FELICITAS, novella prova che l’emblema non fosse unicamente a segno di mal costume, ma piuttosto a felice augurio ed a scongiuro di disgrazia, come già ebbi il destro di sostenere. Nella bottega attigua di panatteria esisteva una pittura rappresentante un serpente, simbolo di una divinità custode, e rimpetto una croce latina in basso rilievo. Sarebbe questo segno un indizio del sospetto da me già espresso che la religione di Cristo fosse già penetrata in Pompei? Faccio voti che i futuri scavi abbiano ad offerire maggiori dati, che il sospetto e l’induzione abbiano a mutare in certezza assoluta.

Sull’angolo della via del Panatico, un’altra panatteria ha un gran forno con quattro mulini. Su due d’essi leggonsi le parole SEX e SOHAL in caratteri [308] rossi e sopra il forno vedevasi una figura rappresentante evidentemente un magistrato che distribuiva pane al popolo.

Nella viottola della Fontana del Bue, si è pure trovato un pistrino con tre macine, un gran forno a corrente d’aria e delle madie foderate di piombo.

D’un’ultima panatteria terrò conto, scoperta nel 1868 ed appartenente a Paquio Proculo, al quale apparteneva pure la casa. Essa è nella Via Stabiana (Regione VII, Isola II). Il chiarissimo Minervini lesse dipinta sulla parete sinistra della casa la seguente epigrafe, che oggi è frammentata per la caduta dell’intonaco:

PROCVLE . FRONTONI
TVO . OFFICIVM . COMMODA

Questa raccomandazione, scrive il dotto signor G. De Petra, illustrando nel Giornale degli Scavi la casa e il pistrino di P. Paquio Proculo[284], così per la sua forma, come pel luogo dov’è scritta, mi pare indubitato che Frontone la rivolgesse al padrone della casa, il quale perciò doveva chiamarsi Proculo. Con tal cognome occorrono più di frequente nei programmi pompejani due persone, P. Paquio Proculo e Q. Postumio Proculo; ma considerando che in una colonna dell’atrio è graffito il nome di Pacuia, la figlia [309] di Paquio, rimane provato che col nome di questo debba intitolarsi la casa. Donde si fa ancora probabile che l’altra raccomandazione elettorale publicata dal ch. Fiorelli (Giornale degli Scavi, 1862, p. 47, n. 4): Sabinum aed (ilem) Procule fac, et ille te facient, fosse indirizzata allo stesso P. Paquio, che pare sia stato un uomo assai influente e popolare. Diffatti il ch. Garrucci (Bull. arch. Nap., n. 5, tom. II, p. 52) fece nota questa epigrafe che sinora non trova riscontro di sorta fra le reminiscenze elettorali: P. Paquium Proculum ii. Vir. i. d. d. r. p. universi Pompejani fecerunt; nondimeno chi era questo Proculo, che i Pompeiani unanimi sollevarono alla somma dignità di duumviro giusdicente? Niente altro, come si vedrà, che un panattiere! Il qual fatto ci autorizza a conchiudere, che in Pompei le magistrature municipali non eran monopolio dei soli ricchi, e che questi conoscevano di buona voglia (universi fecerunt) la convenienza di farvi partecipare anche i più autorevoli e migliori cittadini di condizione plebea. — Lezione buona pei nostri tempi, in cui le elezioni amministrative e politiche sembrano infeudate all’aristocrazia del sangue e del denaro: colpa precipua del popolo stesso che si ostina, a parole, a gridar contro i ricchi e gli uomini di grande autorità, ma in fatto è poi sempre lo stesso peccatore, che religiosamente serba il suo stolido feticismo per chi tiene di classe a sè superiore; salvo a ricominciare di poi le sue maledizioni [310] contro gli eletti proprj, che ignari de’ suoi bisogni, fanno leggi a sproposito e a detrimento.

Anche all’ingresso della viottola della Fontana del Bue, sulla muraglia a sinistra, una bella e ben conservata pittura di simboliche serpi è sormontata, oltre che da un piccolo larario, anche da varie iscrizioni, parte in oggi cancellate dalla rovina, fra le quali leggesi la seguente, che ognor più avvalora e l’influenza e la ricchezza di questo importantissimo panattiere in Pompei:

P. PAQVIVM PROCVLVM
II VIR . I . D . THALAMVS CLIENS[285].

Io non mi divagherò a descrivere la casa di questo P. Paquio Proculo, che qui l’argomento ne sarebbe spostato: verrò invece difilato al pistrino che vi è in essa, e che è nel lato destro. Vi si riconosce la camera del panificium, e ciò si argomenta, scrive il De Petra, dai cinque podii di fabbrica per sostegno di tre tavoloni di legno su cui rimaneggiavasi la pasta, da varii recipienti per conservar l’acqua, quali sono una vaschetta quadra fabbricata, un gran dolio sepolto a metà nel suolo e un’anfora murata in uno de’ poggiuoli, infine dalle traccie degli assi di legno che sostenevano le tavole su cui disponevansi i pani. Una porta priva di soglia dava il passaggio da questo luogo [311] a quello dov’è il forno; ma tra l’una e l’altra stanza, per uno scopo limitato, cioè per la sola cottura del pane, v’era una comunicazione anche più diretta e sollecita. Si notarono tre molæ per isfarinare il grano, avendo una di esse la base ricoperta da una lamina di piombo, la meta di una quarta mola senza il catillus e la base circolare per una quinta; due serbatoj d’acqua fabbricati, un pozzo con coperchio, un piccolo dolio contenente calce e tre poggiuoli.

Il dipinto larario solito a incontrarsi nei pistrini, non è mancato in questo, ma sventuratamente tornò a luce poco conservato. Sotto un verdeggiante festone è la Dea Vesta ammantata con lo scettro nella sinistra e il dritto braccio proteso sopra un focus. Dietro a Vesta è l’asino, l’animale, come dissi, usato più spesso a girar le macine; rimpetto alla Dea v’è un giovane in piedi che nella sinistra ha la cornucopia, e stende la diritta sull’ara.

A sinistra del forno v’è un ampio locale in cui probabilmente si conservavano saccula di grano o di farina.

Di questo P. Paquio Proculo e di sua moglie, nel tablinum della loro casa, si rinvenne il ritratto dipinto sulle pareti gialle. Cedo la penna all’egregio De Petra. «Questo dipinto, offre la volgare fisonomia di Paquio, che ammantato dalla bianca toga magistrale, stringe nella destra un volume col rispettivo titolo di colore rosso. Gli è a fianco la sua donna, cui pendono sulla [312] fronte i ricciolini sfuggiti alla fascetta che le stringe i capelli; ha pendenti di perle alle orecchie, e rossa la veste; avvicina alle labbre la punta dello stilo che tiene nella dritta ed ha i pugillari aperti nella sinistra[286]. Donde si può inferire, che l’anzidetta positura sia stata convenzionale nei ritratti, poichè l’atteggiarsi dell’uomo e della donna trovasi ripetuto esattamente in due scudetti publicati nelle Pitture d’Ercolano (tom. III, tav. 45) e in quegli altri due che ornano il tablino d’una casa nella Regione Settima, isola 10, propriamente quella che vien dopo la casa del Balcone Pensile. Oltrecchè l’atteggiamento della donna si confronta con la scrittrice dipinta nell’atrio della casa di Popidio Prisco (Reg. VII, Is. 11, n. 20) e con un’altra delle Pitture d’Erc. (t. III, tav. 46)[287]. Quale simbolo dell’amor conjugale di P. Paquio e sua moglie, vedevasi al di sopra dei loro ritratti un grazioso ed importante quadretto, ora nel Museo, rappresentante Amore e Psiche teneramente abbracciati. Il bacio e l’amplesso di essi, ovvio in tanti altri monumenti, è ritratto in questa pittura pompejana in una movenza nuova, sebbene non molto diversa delle altre conosciute.»

[313]

Nella Via degli Augustali, come dipendenza della Casa detta dei Capitelli figurati, aprivasi poi una taberna da pasticciere, pistor dulciarius, il quale, come ne fa sapere Apulejo, panes et mellita concinnabat eduleia. Vi si videro parecchi mulinetti, pistrillæ, che un sol uomo bastava a girare; ma destò la speciale attenzione il forno, dalla forma del quale direbbesi a riverbero, costituendosi di due cavità sovrapposte, accendendosi il fuoco nella cavità inferiore da cui il calore ascendeva per un’apertura, nella cavità superiore, ove si deponevano a cuocer le pasticcerie. Due pasticcetti si trovarono negli scavi e si conservano nel Museo di Napoli.

Toccato de’ pistrini, vediamo ora le altre botteghe e spacci pompejani di merci attinenti i cibi e gli alimenti.

Una taberna o venditorio d’olio si scoprì nel 1852 nella via di Stabia, quasi all’angolo della viottola della Fontana del Bue. Il podio o banco della bottega era di marmo cipollino e grigio antico, con in mezzo dello specchio davanti un medaglione di porfido verde e due bei rosoni. Su di esso vi erano incastrate otto belle ed ampie scodelle in terra cotta. Nell’interno si ritrovò un pozzo, un fornello e l’ingresso del ripostiglio dell’olio. La quantità degli ulivi che si coltivavano nell’agro campano doveva necessariamente far luogo ad una produzione assai abbondante di olio. Anche gli scavi hanno offerte conserve nell’olio [314] di grosse ulive, che dovevano probabilmente aversi dalle famiglie pompejane fra le consuete ghiottornie.

Presso la casa di Cornelio Rufo e quella di Messinio nella Via di Stabia evvi una casetta, che l’illustre Fioretti, seguendo le indicazioni di Pompeo Festo e di Varrone, qualifica per un Ganeum, o Ganea, specialmente per avervi vedute pitture ed iscrizioni licenziose[288]. Era la Ganea o il Ganeum, come meglio piaccia al lettore di appellarlo, secondo essi, un ritrovo nascosto di meretrici, le camere da letto delle quali erano a pian terreno, come i cenacoli nella parte superiore delle case, ed io ne toccherò poi nel capitolo del Lupanare; ma Bréton, nella sua Pompeja, avendo constatato nell’area del peristilio sette grandi coppe, o giare, misure di capacità pei liquidi, e sette dolii coi loro coperchi, senza manichi, fu indotto a credere che questa casa potesse essere al contrario un magazzeno d’olio. Si sono poi trovati negli scavi dei particolari mulini che si sono creduti atti alla macinazione dei grani oleosi: l’uno fu rinvenuto nelle vicinanze del Foro Triangolare o Nundinario.

Prima di entrare nel Foro Civile, sulla diritta, stava la taberna di un venditore di latte. L’insegna di essa è in terra cotta e rappresenta una capra. Sotto di essa vi si lesse questa iscrizione in caratteri rossi, all’epoca [315] del suo sterramento, ma che ora non si distinguono più.

M. CASELLIVM AED. DIF. FAC.
FIDELIS...

Nel podio di materia di fabbrica, come d’uso nelle taberne di liquidi, v’erano incassati dei vasi.

Nell’isola intorno al Tempio d’Augusto si constatarono diverse botteghe di commestibili. Una di venditori di pesci salati, forse ciò argomentandosi dai pesci che si videro dipinti sulle pareti, della natura di quelli che si vendono nella salamoja, e già sappiamo che Pompei era nota e famosa pel suo garo che sapeva preparare e del quale ho già intrattenuto il lettore sulla fine del Capitolo Quinto. Un’altra di fruttivendolo, nè in questa si errò di certo, poichè vi si accogliessero fichi secchi in abbondanza, uva passa, susine, frutta in vasi di vetro, lenti, semi di canape; oltre una ciambella, vari frammenti di pasta e di pane, molto denaro, una staderina e varie bilancie. I fruttivendoli in Pompei dovevano essere di molti, così essendo lecito di pensare dalla iscrizione che fu letta sul pilastro che separa la Fullonica, di cui dirò qui appresso, dalla Casa della gran Fontana, scritta, come il più spesso, in caratteri rossi e che sembra riferirsi al magistrato, del quale abbiam veduto come la statua decorasse il teatro:

[316]

M. HOLCONIVM PRISCVM II VIR. I. D.
POMARI VNIVERSI CVM HELVIO
VESTALE ROGANT[289]

I fruttivendoli pompejani si raccomandano ancora in altre due iscrizioni, che si lessero nella strada ove è l’arco di trionfo. L’una è così concepita:

IVLIVM SABINVM AEDILEM
POMARII ROGANT

e l’altra così:

MARCVM CERRINIVM AEDILEM
POMARII ROGANT

Ciò che vuol essere osservato si è che in queste botteghe, che sono circostanti al Tempio di Augusto, si sono rinvenuti molti oggetti preziosi e d’arte, fra quali una statuetta di bronzo rappresentante una Vittoria con armille d’oro alle braccia; un’altra in marmo; Venere che si asciuga i capelli, come sorgesse allora dalle spume dell’Ionio mare, colla parte inferiore velata da un drappo dipinto in rosso; una bella tazza d’alabastro, anelli d’oro, gemme, sistri isiaci, un vaso di vaghissimo lavoro, amuleti, strigili e diverse monete.

Sarà negli ulteriori scavi che verrà dato indubbiamente di scoprire taberne d’altre cose mangerecce, e soprattutto lanienae, o botteghe da beccai e macelli, la principale opera e materia prima dei quali veniva somministrata dai templi, per le continue vittime che [317] vi si immolavano, per lo più in buoi, giovenche e pecore; e se agli Dei si bruciavano ciocche di lana e qualche inutile interiora, tutt’al più spruzzate da vino e mescolate di fiori, il meglio veniva accortamente goduto dai sacerdoti pel loro uso, e venduto nuovamente ai gonzi, di cui si costituisce la maggior parte del pubblico, che a ragion di divozione avevano fatto prima l’offerta. I macellai dell’antichità erano adunque principalmente i sacerdoti.

Della bottega del Chirurgo e del Seplasarius o farmacista e di quella di prodotti chimici, ho già detto nel Capitolo delle Scuole; di quella dello scultore mi occuperò nel venturo delle Belle Arti, come anche del mercante de’ colori; perocchè meglio vi si trovino in essi collocati, come materia che a que’ capitoli ha tutto il suo riferimento.

Nella stradicciuola di Mercurio, gli scavi trovarono nel 1853 un Myropolium, o bottega da profumiere, detta anche, come la vediam nominata in Varrone e Svetonio, unguentaria taberna[290]. Già superiormente ho toccato dello spreco di profumi, aromi ed unguenti che si faceva a quei tempi di grande effeminatezza in Roma e in tutto l’orbe a lei soggetto. Non era soltanto, cioè, del mondo muliebre; ma pur degli uomini. All’uscire del letto, prima d’entrare nel bagno, nel bagno e dopo, era costume di ugnersi e di profumarsi; [318] altrettanto facevasi nelle case prima del pasto e avanti comparire in pubblico e prima di coricarsi; ogni occasione era buona per ispargersi il corpo e le vestimenta di odorose essenze, per ungere i capelli e perfino per profumare camere ed appartamenti. Già abbiam veduto nel capitolo dell’Anfiteatro come si facesse eziandio all’aperto assai gitto di croco: si può pertanto argomentare cosa dovesse essere negli appartamenti chiusi: a suo luogo vedremo, specialmente nel triclinio e ne’ funerali.

Ma più che tutto, era nell’amore che di profumi si abusava, come eccitanti e preparatori allo stesso. È noto, scrive Dufour[291], che il muschio, il zibetto, l’ambra grigia e gli altri odori animali portati nelle vesti, nei capelli, in tutte le parti del corpo esercitano un’azione attivissima sul sistema nervoso e sugli organi della generazione. Nè solo adoperavano esternamente detti profumi, ma non temevano di far entrare aromi e spezie in quantità nel giornaliero loro alimento; onde a ciò si voglia ascrivere quell’appetito e prurito continuo che tormentava la romana società e che la spingeva in tutti gli eccessi dell’amor fisico.

La lussuria asiatica portò seco tali profumi e d’allora in poi, così prodigioso fu il consumo delle sostanze aromatiche, che parve non bastare quanto inviava [319] la Persia, l’Arabia e tutto l’Oriente insieme. S’era insomma venuto a tal punto, da aver ragione Plauto, quando nella Mostellaria usciva in questi accenti:

Quia ecastor mulier recte olet, ubi nihil olet.

Nam istæc veteres, quæ se unguentis unctitant, inter poles,

Vetulæ, edentulæ, quæ vilia corporis fuco occulunt,

Ubi sese sudor cum unguentis consociavit, illico

Itidem olent, quasi cum una multa jura confudit cocus.

Quid oleant nescias, nisi id unum, ut male olere intelligas[292].

Profumi e cosmetici assumevano il nome dal paese onde venivano: così furono celebrati l’unguento di Cipri, il balsamo di Mende, il nardo d’Achemenis, il malobutrum di Sidone, distillato in olio pei capelli, l’olio d’Arabia, quello della Siria, il mirobolano di Arabia; l’opobalsamum della Giudea, il cinnamomo dell’India, la maggiorana di Cipri, la mirra dell’Oronte e l’iride di Illiria, che Ovidio raccomanda nel suo [320] Poemetto De Faciei medicamine, e del quale facciamo uso noi pure rinchiudendolo in seriche borse o sacchetti, che poniamo, per profumarla, per mezzo la biancheria.

Altri profumi e unguenti pigliavano il nome dal loro inventore; come la Niceroziana ricordata da Marziale, odore inventato da Nicerote, e il Foliatum, manipolato da Folia, amica di Gratidia, che Orazio stigmatizzò nelle sue Odi, coprendola delle più infami accuse e vituperi, col nome di Canidia.

V’era poi l’unguento dipelatorio, detto dropax unguentum, l’odontatrimna per i denti, le pastiglie dette diapasmata contro l’alito cattivo, e vie via molti altri unguenti che sarebbe troppo lungo l’enumerare.

Malgrado questo bisogno che si provava dell’arte e dei prodotti del profumiere e del cosmeta, questi bottegai erano nel comune disprezzo, forse perchè a questo piccolo commercio s’applicassero cortigiane e cinedi, lenoni e mezzane, quando l’età toglieva loro ogni attrattiva e possibilità di continuare nel loro infame mestiere, o mancava la clientela, e così a donna ingenua ossia nata libera, il nome solo di profumatrice e cosmeta sarebbe giustamente suonato come la più fiera ingiuria.

Nelle case de’ ricchi eravi sovente il laboratorio dell’unguentarius, a cui s’applicavano schiavi o liberti, e le cosmete e gli unguentarii valevano eziandio per le molteplici operazioni, che già conosciamo, de’ privati balinei.

[321]

La gente onesta e della buona società teneva a disonore il mostrarsi publicamente nei myropolii o taberne unguentarie, e però quando vi accedevano o sceglievano le ore prime del mattino o quelle della sera, e tiravano il lembo della toga sul volto: non così gli sfaccendati che traevano a questi luoghi, non che alle tonstrinæ o botteghe da barbiere, od a quelle de’ medici e de’ banchieri, per raccogliervi novelle e chiacchierare, come Plauto ne fa sapere quando nell’Epidico fa che Apecide dica aver cercato ovunque di Perifane:

Dii immortales, utinam conveniam domi

Periphanem! per omnem urbem quem sum defessus quærere:

Per medicinas, per tonstrinas, in gymnasia atque in foro,

Per myropolia, et lanienas, circumque argentarias

Rogitando sum raucus factus[293].

Spettava a’ profumieri l’imbalsamazion de’ cadaveri e la vendita degli aromi pei sagrifici, e nel myropolium di Pompei diffatti le insegne o pitture che vi stavano nell’ingresso ed ora scomparse, e le quali condussero a constatare od almeno a far credere essere [322] quella una taberna unguentaria, rappresentavano l’una un sagrificatore che conduceva all’altare un toro; l’altra quattro uomini che portavano una enorme cassa, intorno alla quale stavano sospesi alcuni vasi. Superiormente poi vedevansi dipinte alcune persone intente a profumare un cadavere, prima d’essere portato al rogo.

Dal profumiere, passiamo a vedere la taberna del barbiere nella Via di Mercurio. È picciolissima: a destra vi è un podio, sopra di esso due nicchie simili a quelle che altrove servirono a larario, ma che qui più probabilmente avranno giovato per collocarvi cosmetici, vasi di profumi, pettini e novaculæ o lame di metallo molto affilate colle quali radevano i capelli della testa o i peli della barba, come i nostri rasoi. In mezzo alla bottega v’è un sedile in materia da fabbrica, dove l’avventore si sarà seduto, e in un dietro bottega sta il fornello, che avrà servito per riscaldare l’acqua. Non saprei spiegare come e perchè si trovassero in questa seconda camera gli avanzi di un mulino.

Circa questo mestiere del barbiere, tonsor, poco è a dirsi. Lo si faceva consistere nel tagliare i capelli, nel radere la barba, nel pareggiare le ugne e nello svellere i peli parassiti colle pinzette, volsellæ. I ricchi usavano a tutto ciò nella propria casa di uno schiavo o di liberto; il popolo veniva alla bottega. A radersi frequentemente la barba, si cominciò tardi in Roma, [323] nell’anno cioè 454, della sua fondazione, alla venuta dalla Sicilia del primo barbiere: avanti di costui la si lasciava crescere generalmente. Nelle tonstrinæ, — così chiamate le botteghe di barbieri, e noi diremmo barbierie, — era assai frequente che vi esercitassero tal mestiere le donne, dette però Tonstrices; e Plauto, fedel pittore di que’ vecchi costumi, nel Truculentus, accenna appunto alla Sura barbiera:

. . . tonstricem Suram

Novisti nostram, quæ modo erga ædes habet[294].

e Marziale acerbamente morde la moglie d’un barbiere che stava presso alla Suburra, e la quale co’ suoi artificii carpiva denaro alla gente:

Sed ista tonstrix, Ammiane, non tondet;

Non tondet, inquis? ergo quid facit? radit[295].

Non di meglio del resto aveva trattato lo stesso poeta, Marziale, il barbiere Eutrapelo nel seguente epigramma:

Eutrapelus tonsor dum circuit ora Luperci

Expungitque genas; altera barba subit[296].

[324]

Lo che dimostra che di buoni e grami barbieri ve ne erano allora come ve ne hanno di presente. L’epigramma adunque avrà sempre la propria attualità.

Di sarti finora gli scavi non rivelarono botteghe; di calzolajo se ne sospettò alcuna giusta quel che ne dirò tra breve, e così di tal’altre industrie e mestieri attinenti il vestire, e quel che si sterrerà per lo avanti, riguardando la parte più abitata dalla gente operaja, verrà forse facendo al proposito interessanti rivelazioni. Certo che nè le vestimenta, nè i calceamenti erano a que’ dì complicati come di presente, da richiedere specialità di artieri. L’importante quanto ai primi era la finezza della stofa onde si facevano tonache e mantelli, pepli e toghe e studio nel portarle onde si acquistasse grazia ed eleganza. Gli schiavi, le donne bastavano all’uopo e forse ognuno, anche del popolo, in sua casa poteva dalle proprie donne farsi preparare tutto quello che appunto riguardasse il vestimento. Circa alle vestimenta poi della gente rustica, ne abbiamo in Marco Porcio Catone, De Re Rustica, ricordati i nomi: Tunicæ, saga, centones, centiculi, manicæ de pellibus; e cuculli o cuculliones, pilei e galeri a berrette o cappelli che si portavano in testa, ed erano in tutti di pelli lanute. In quanto ai secondi, cioè a’ calzolai, si può dirne qualche parola, perchè in taluna pittura pompejana si vide riprodotta la forma di qualche calzare, ma sarà tra breve, come dissi, quando visiteremo la bottega del cuojajo o conciatore di pelli.

[325]

Presso le Prigioni, che abbiamo nell’undecimo Capitolo di quest’opera trovate nel Foro Civile Pompejano, vedesi un locale che fu designato siccome un ampio magazzeno in cui si vendevano tele e stofe ad uso proprio del vestire. Così fu interpretato l’uso di questo locale, fidandosi alla quantità dei buchi che vi si videro, che dovevano aver servito a sostenere gli armadj che contenevano quelle merci. Una pittura scoperta in Pompei, scrive Bonucci, fa per avventura allusione a questo Foro ed a questo magazzeno. Rappresenta un uomo in piedi, che tiene nelle mani un pezzo di stofa ch’egli offre ad una donna seduta. Questa mostra il desiderio di comperarla, ma fa osservare al mercante un difetto che si trova nel mezzo della merce, e il mercante cerca dissuaderla con ragioni che accompagna con gesti. Le due giovanette sedute, la servente che è dietro di esse, il gruppo di due altre donne che parlano con un uomo, e da ultimo i panneggiamenti che si scoprono nel fondo del quadro, possono indicare il luogo di che facciamo parola.

Tele e lane servivano alla confezione degli abiti: solo negli ultimi tempi, cioè a quelli dell’Impero, le matrone, comperandola a carissimo prezzo, usavano della seta che derivavano dall’Asia; ma questa consideravasi come merce di smoderatissimo lusso, perocchè costasse come l’oro. Ho già notato le maraviglie che si fecero quando nel circo vennero distesi [326] velarii di seta: erano esse in ragione della preziosità e rarità della stofa.

Nel Vicolo del Panatico, al lato destro, vi è un piccolo stabilimento di lavanderia: per tale venne riconosciuto, abbenchè tutto vi fosse rovinato e nulla di particolare offra ad essere riferito. Due altre lavanderie pure non di grande importanza, stanno nel Vicolo della Maschera: più vasta è quella in Via del Lupanare e detta di Narciso, scoperta nel 1862 e così denominata da una superba statuetta di bronzo che si conserva al Museo, rappresentante infatti questo personaggio mitologico nell’atto che ascolta la voce lontana della Ninfa Eco, che vien considerata come una delle migliori rarità trovate negli scavi, sì che Dognée giungesse a dire: Les fouilles n’eussent-elles déterré que ce seul bronze, l’importation des principes immortelles de l’art grec dans le vieux monde romain eût été démontrée par une trace glorieuse dont la splendeur indique incontestablement l’illustre origine[297]. È una bottega, in cui si veggono vasche diverse di pietra, in due delle quali era l’acqua condotta da un tubo di piombo con un robinetto. Sotto di queste due vasche è un fornello; ma giustamente osserva Bréton, siccome il piombo non può sopportare un fuoco di troppo ardente, si deve supporre, che in questi due fornelli non si ponesse che della brace destinata solo [327] a tener caldo il liquido, nel quale si lavavano le stofe di lana o di lino. Al disopra del lavatojo, nella muraglia, vi sono dei buchi, ne’ quali erano infissi dei chiodi per la biancheria. Il suolo della bottega ha un certo pendìo verso un lato, per ivi condurre le acque che vi scorrevano per uscire sulla via. A destra della bottega, è una cameretta, in mezzo alla quale è una tavola di marmo rettangolare d’un solo piede ornato d’un corno d’abbondanza e d’una pàtera con tracce di pitture. In fondo della stessa, scendendo quattro gradini, si entra in una vasta corte in cui si vedono le traccie dei chiodi cui si saran dovute accomandare le corde onde distendervi le biancherie ad asciugare.

Nella bottega sull’angolo della Via degli Augustali e del Lupanare, designata per quella del Conciapelli, coriarius o, come potrebbe essere, d’un calzolajo, giusta l’opinione di Fiorelli e di Overbeck, appartenente a Nonio Campano soldato della IX Coorte pretoriana, come era scritto in grandi caratteri rossi sulla bianca parete di essa, se non abbiamo speciali oggetti a rimarcare, tranne alcuni utensili propri a questo mestiere, l’argomento però ci obbliga a ricordare l’uso precipuo de’ suoi prodotti, cioè quello de’ calzari e scarpe.

Sutor chiamavasi l’artefice che cuciva in cuojo, adoperando la lesina, subula, e introducendo la setola, seta; onde sutrina la bottega di lui. Dalla diversa qualità del lavoro, dicevasi sutor crepidarius, o sutor caligarius, [328] o anche calcearius; onde la parola nostra calzolajo. Facevansi pure da’ calzolai romani i coturni, ed erano essi stivali di greco modello, di cuoio, usualmente portato da’ cacciatori e copriva l’intero piede e la gamba sino al polpaccio, allacciandosi sul davanti ed arrovesciato in cima con una ritoccatura, ed una suola diritta atta ad uno o all’altro piede, utroque actus pedi, come scrive Servio scoliaste di Virgilio[298]. Uno stivale dello stesso genere, dice Rich, ma ornato con più cura, è assegnato talora dagli artisti greci a talune delle loro divinità, in ispecie a Diana, Bacco e Mercurio e dai Romani nello stesso modo alla Dea Roma ed ai loro imperatori, come un segno di divinità. Così furono adottati da Marco Antonio, quando si attribuì il carattere e gli attributi di Bacco[299]; ma però non eran portati dai Romani come parte del loro vestiario consueto. Cicerone biasima l’insolenza d’un Tuditano, che si mostra in pubblico cum palla et cothurnis[300]. Il coturno portato dagli attori tragici sulla scena, abbiam già visto avesse la suola di sughero. — I cacciatori, oltre il coturno, portavano anche l’ocrea, specie di moderne uose. Ocrea era anche la gambiera che copriva lo stinco dal malleolo sino a poco sopra il ginocchio: per lo più era di metallo e se ne scoprirono degli esemplari in Pompei.

[329]

Crepida, era un calzare che si componeva d’una suola alta, ornata di una bassa striscia di cuojo che copriva solo il fianco del piede, ma aveva un certo numero d’occhielli, ansæ, sul suo orlo superiore, attraverso i quali passava una correggia piatta, amentum, per allacciarla sul piede. Propriamente era peculiare del vestiario nazionale greco ed usato dai due sessi e si considerava come la calzatura conveniente a portarsi col pallium e colla chlamys. Le crepidæ carbatinæ erano poi le più ordinarie di tutte le calzature in uso fra gli antichi e particolari ai contadini delle regioni meridionali. Consistevano in un pezzo quadrato di cuojo per suola, poi rivoltato all’insù a’ canti e sopra le dita, legato sul collo del piede attorno la parte più bassa della gamba con coreggiuoli passati attraverso dei buchi sugli orli.

Calceus era una piccola scarpa o calzaretto, per lo più portato dalle donne. Ne’ dipinti Pompejani si videro tre distinti modelli di essi: tutti per altro giungono a’ malleoli, con suola e tacco basso e così senza, come con laccetti. Calceus invece era uno stivaletto fatto sopra forma così per il piè destro, come per il sinistro, in maniera da coprire interamente il piede, a differenza dei sandali e delle pianelle che non ne coprivano se non solo una porzione. Come poi vediamo pur oggidì usarsi dalle nostre signore, aggiungere tacco a tacco per render alta la persona; così per le Romane, ad esempio delle Greche, [330] invece d’una, usavano di due e tre suole, onde la solea pigliava allora il nome di fulmenia, sincope di fulcimenia. Di queste duplici e triplici suole giovavansi inoltre, come faremmo noi adesso, per difenderci dalla umidità. V’era il calceus patricius che portavano i senatori, di qualità diversa da quella degli altri cittadini; di dove la frase di Cicerone calceos mutare[301], per significare che alcuno diventava senatore, e s’allacciavano con istringhe che s’incrociavano sul collo del piede e poi s’avvolgevano attorno alla gamba sino al principio del polpaccio; il calceus repandus, scarpa con una larga punta ricurva in su o indietro. — Calceamentum e calceamen erano poi termini generici per esprimere ogni maniera di copertura del piede.

Da obstragulum, che era quella striscia di cuojo o correggia con cui la crepida si allacciava attorno al piede e che passava tra il pollice e il dito vicino e che da persone affettate si portava talora tempestata di perle, come lasciò Plinio ricordato[302], derivò obstrigillum, ch’era una particolare sorta di scarpa, che aveva i quartieri, per i laccetti, cuciti alla suola da ciascun lato. Di queste scarpe se n’ha esempio in una pittura pompejana.

Sandalum era una pantufola squisitamente ornata, che portata dalle donne greche, venne poi introdotta [331] dalle signore di Roma. Pare che fosse d’una forma intermedia tra il calceolus e la solea, avendo un suolo ed un tomajo sopra le dita e la parte davanti del piede, ma lasciando scoverte le calcagna e la parte di dietro, come una pantufola nostra.

Finalmente v’era la solea, della forma più semplice del sandalum, consisteva in una semplice suola sotto la pianta del piede, legata con un correggiuolo attraverso il collo del piede stesso, come a un dipresso sono i sandali degli odierni cappuccini e si portava da ambo i sessi. V’era poi la solea spartea, o stivale fatto di ginestra spagnuola, ma non era ad uso degli uomini, ma delle bestie da soma, a proteggere i loro piedi quando malati.

La solea tuttavia non si portava fuori di casa: altrimenti sarebbe stata sconveniente o indizio di affettazione o di moda straniera, come avvertì Seneca ed anche Cicerone[303].

Perones, Sculponeæ e Soleæ ligneæ, erano nomi con cui si designavano i sandali e scarpe da famigli. I primi due indicavano calzari fatti di cuojo; le soleæ ligneæ erano, come esprime il loro aggettivo, di legno.

E qui s’arresta la mia erudizione in fatto di calzoleria romana e pompejana.

Non però di quanto riguarda l’arte del coriarius, o cuojajo, perocchè ad essa spettassero quelle altre [332] opere che or si direbbero da sellajo. Mi sbrigherò a dirne, sommariamente, ricordandone le sole denominazioni de’ relativi arnesi.

Lorea si chiamavano le briglie, o corregge; le redini più propriamente dicevansi habenæ; capistrum la cavezza, ma più precisamente quella dell’asino; helcia, i tiragli, co’ quali cavalli o asini si attaccavano al timone; erano essi o lorata, o spartea, o cannabina; stragula, la fornitura, ephippia, la sella; clitellæ, il basto; soleæ, le staffe.

E poichè avviene di ricordare tanti oggetti di selleria, porgo qui le denominazioni di juga lignea, o gioghi per appajare i buoi; oreæ, il morso; frenum, il freno; murices, lupi, lupata si chiamavano altri freni di ferro asprissimi, atti a diverse nature di giumenti.

Or passiamo alla ricerca delle altre taberne che coi loro prodotti contribuivano al vestimento, o piuttosto alla varietà e mantenimento di esso.

Presso la casa di Olconio eravi una bottega da tintore, che i latini chiamavano taberna offectoris, perchè, secondo spiega Pompeo Festo, colorum infectoris. Distinguevansi, secondo lo stesso scrittore, gli offectores dagli infectores: questi erano qui alienum colorem in lanam conjiciunt: offectores qui proprio colori novum officiunt[304]. Nulla in questa bottega si rinvenne di particolare: [333] nel fondo di essa eravi il laboratorio, con un fornello e vasche rivestite di cemento assai duro, ma pur guasto evidentemente dagli acidi che venivano usati nel tingere.

Nè io di più mi vi soffermerò, da che egual materia mi chiami a più largamente trattare della Fullonica.

L’arte dei fulloni, che Plinio vuole sia stata trovata da Nicia megarese, consisteva nel purgare, lavare ed anche tingere i panni. Trattando dell’edificio di Eumachia nel Capitolo XI di quest’opera, ho già fatto un rapido cenno dell’importanza di quest’arte in Pompei, che vi aveva anzi una speciale corporazione. Che una congenere vi fosse anche in Roma lo si raccoglie dalle Inscriptiones publicate dal Fabbretti, ricordando come quel collegio litigasse assai lungamente a proposito delle fontane[305]. Infatti non poteva a meno che essere numerosa la classe de’ folloni, per la necessità che dell’arte loro sentivasi per la politura delle vestimenta. Riccio ne dà informazioni dei folloni, da cui rivelasi come di essi si giovasse allora come adesso noi de’ nostri lavandaj e cavamacchie per rinettare ed imbiancare gli abiti, dopo averli portati, effetto che ottenevano col pestare co’ piedi i panni in larghe tinozze di acqua mischiata con orina e terra di Sardegna. I nostri cavamacchia di presente vi sostituiscono l’ammoniaca. Allora, onde [334] procacciarsi tanta materia quanta ne bastasse all’uopo, ponevansi vasi agli angoli delle Vie, come già notai nel Capitolo appunto che tratta delle Vie; onde aveva ragione Marziale di mordere la puzzolente Taide, dicendola più fetida del vaso d’un follone:

Tam male Thais olet, quam non fullonis avari

Testa vetus, media sed modo fracta via[306].

Il panno così lavato e netto distendevasi sulla cavea viminea, o graticcio semicircolare, con sottoposta fumigazione di zolfo, come si deduce da un passo di Apulejo[307]; dopo di che passava al cardatore, che col cardo fullonicus, vi risollevava il pelo, d’onde poi mettevasi allo strettojo per quella che or direbbesi cilindratura. Fin dall’anno 354 di Roma, la legge fatta dal Censore Flaminio, riferita da Plinio, aveva prescritta una maniera in parte diversa dall’or detta, con cui i folloni dovevano condursi per [335] ben eseguire il loro lavoro. Così si esprimeva: «Si lavin dapprima le stofe di lana colla terra di Sardegna disciolta; si faccia quindi una fumigazione di zolfo, poi si purghi con terra di Cimolo, di buon colore, riconoscendosi la falsa in ciò che lo zolfo si rode e s’annerisce. La vera terra di Cimolo ravviva i colori impalliditi dal zolfo. La terra chiamata saxum è la più conveniente alle stofe bianche quand’esse sono state solforate: esso è però nocevole alle stofe colorate. In Grecia in luogo della terra di Cimolo, si serviva del gesso tinfaico di Etolia.»

L’antica Fullonica di Pompei era sulla Via di Mercurio e riusciva su quella a cui essa medesima diè il nome: la sua pianta chiarisce l’importanza di questo stabilimento scoperto e sterrato negli anni 1835 e 1836.

È una grand’area, chiusa da tre lati da largo portico fiancheggiato da pilastri con archi. In fondo della corte si trovano quattro bacini alti, ma alquanto inclinati per lo scolo delle acque e dinnanzi ad essi un lungo banco di pietra, all’estremità del quale disposti due altri piccoli bacini e muricciuoli sono per collocarvi le vaschette. Era qui che si imbiancavano le stofe. All’ingiro de’ portici eran le camere dei folloni: il proprietario doveva alloggiare nell’appartamento più distinto. Vi si rinvenne un forno co’ suoi accessorj. Il piano superiore doveva avere delle [336] gallerie coperte; le colonne di esse caddero indubbiamente nell’occasione dei cataclisma.

Una fontana elegantissima di marmo, dei pozzi con condotti esterni dovevano somministrare ai bacini e vasche dei lavoratori acqua in abbondanza. Presso alla fontana vi son pitture su d’un pilastro che or sta al Museo, rappresentante le operazioni diverse de’ folloni. In colori ancor vivi veggonsi quattro giovani operai che colle gambe nude pestano in altrettante conche i panni, cui per tal modo tolgono il sucidiume. Più su si vede uno schiavo che reca un utensile per disseccare i drappi: un altro è occupato a passare il cardo fullonicus di ferro su di un drappo sospeso. Sull’altro lato del pilastro è figurato uno strettojo ornato di ghirlande; poi una bella dama che sembra dar degli ordini ad una donna e ad uno schiavo e presso a loro sono distese delle stofe a disseccare. Sul pilastro vicino è dipinto un altare, fiancheggiato da due serpenti, un Bacco ed un Apollo.

Si ritrovò nello stabilimento di questa Fullonica molto sapone, lutus fullonicus, parecchi vasi pieni di calce, delle caldaje e delle mestole per rivolgere il sapone e lavorarlo. In un ripostiglio si rinvennero cinque vasi di vetro, l’uno contenente un liquore che si disperse per inavvertenza, un altro contenente un succo vegetale con olio e un terzo contenente delle olive, galleggianti nell’olio, d’una conservazione prodigiosa. Taluna di queste olive serbavano ancora il [337] picciuolo ed apparivan sì recenti, che sembravan raccolte di fresco.

Per Nuova Fullonica si designa un vasto edificio sull’angolo del Vicolo della Maschera e si trovarono infatti molti fornelli ricoperti di piombo e vasche rivestite di cemento; ma Bréton si domanda: se non sia piuttosto una lavanderia più importante di quelle che per tali vennero denominate, e si dichiara disposto ad accogliere questa seconda supposizione.

Dopo le Fulloniche, occupiamoci delle due fabbriche di sapone che si trovarono finora: l’una nel 1788 presso al mercante di pesci salati, e nella bottega si vide molto sapone per terra ed anche molta calce di buona qualità, ma impietrita. In un’altra camera attigua vi erano sette vasche a livello del suolo per la fabbricazione; l’altra nella Via degli Augustali, sull’angolo della viottola, che nulla offrì di rimarchevole, all’infuori d’un gran forno diroccato.

Una importante corporazione erano in Pompei gli orefici, aurifices: essi abbiamo già veduto nel Capitolo Quarto come in una iscrizione pregassero ad essi propizio l’edile Cajo Cuspio Pansa, e pur senza di questa particolarità, le mille preziosità d’oro raccolte negli scavi e l’eleganza dei lavori, imporrebbero di aggiungere loro la massima riputazione. Collane, monili baccati o di pallottole vermiglie, braccialetti, orecchini, sigilli, falere, anelli e cento altre bazzicature muliebri, sono tutte eseguite col gusto più squisito e l’arte moderna [338] ha ritratto da quegli oggetti molti esemplari alle proprie produzioni. Vi si facevano anche dagli orefici oggetti da toletta, istromenti pei sagrifici, statuette di numi e massime di lari, pàtere, coppe, utensili ed altre moltissime cose, delle quali il Museo Nazionale di Napoli ribocca e va fra i Musei del mondo ammiratissimo.

E sì leggiadre cose eseguivansi dalla oreficeria di allora, che a rigore avrebbesi da me dovuto riserbarne la parola al capitolo vegnente, che s’intratterrà dell’Arti. E lodatissimi artisti si ricordarono dalle storie, di origine greca, o non mai usciti di Grecia, le opere de’ quali erano ricercatissime in Italia. Così ci giunse la fama di un Pasitele, che non metteva mano a nessun lavoro d’importanza senza prima averne abozzato il modello in argilla od in cera, conformemente al metodo raccomandato da Lisippo. Di lui si vantò assaissimo la perfezione di un piccolo gruppo d’argento da lui condotto, il quale rappresentava Roscio bambino lattante e la sua nutrice, che fremeva nello scorgerlo avvolto fra le spire di un serpente nella sua culla. Zopiro, altro orefice di non minore celebrità, non uscì mai di Grecia: ma di lui Plinio ci lasciò descritte due tazze d’argento, nelle quali aveva dimostrata la sua rara valentía: su l’una veggonsi Oreste uccisore della madre, ed accusato di tale delitto da Erigone innanzi all’Areopago, su l’altra lo stesso Oreste assolto da [339] quell’augusto tribunale, per l’intervento di Minerva, che opponendosi alla fatale sentenza, gli accordava il proprio suffragio.

Ho già detto come, più che altrove, nella Magna Grecia, e quindi anche in Pompei, attratti fossero gli artisti greci, ed è infatti da tutti riconosciuto che in ogni arte del disegno gli scavi misero in luce oggetti di lavoro greco.

Dal lato destro della Via Domiziana, dietro la taberna vinaria di Fortunata, v’era una bottega di fabbro, che nulla offrì di rilievo, se non che una leva terminata con un piede di cinghiale e molti istromenti del mestiere; non che un forno publico di forma ingegnosa ed un piccolo larario. Nelle quattro camere attigue alla fucina si rimarcarono le vestigia di un bagno e di una cella vinaria, o cantina, in cui stavano delle anfore.

Di fabbri, tanto ferraj che legnarii e carpentarj, dovevano del resto abbondare in una città come Pompei, dove opere edilizie d’ogni maniera, come templi, case, acquedotti esigevano la loro mano; ed oltre ciò, ponti, navi e opere militari richiedevano tal numero di lavoratori, da costituire una corporazione, alla quale era preposto un magistrato: Præfectus fabrorum. D’un prefetto dei fabbri, Spurio Turannio Proculo Gelliano, nominato anzi per la seconda volta a questa carica, ho già riferito la bella iscrizione che si trovò nel tempio di Giove di Pompei, nel Capitolo Ottavo di quest’opera.

[340]

Un’altra industria pompejana fu constatata nel 1838 nella fabbrica di vasi di terra cotta fuori di Porta Ercolano nel sobborgo Augusto Felice. Quivi nel forno a riverbero, costruito in pietra, rimarchevolissimo, la cui volta è forata da piccoli buchi per lasciar entrar le fiamme, si trovarono trentaquattro marmitte di terra cotta, delle quali una munita di lungo manico. Nella bottega v’erano molti altri vasi. La volta del detto forno, dice Bréton[308] che esisteva ancora in parte nel 1854, ma che oggi è interamente crollata, era la parte più singolare della costruzione, costituendosi di vasi di terra cotta gli uni negli altri incassati, come si adoperò nel sesto secolo per la famosa cupola di S. Vitale di Ravenna. Alcune aperture praticate nelle pareti del forno e munite di tubi pure di terra cotta permettevano di moderare il calore a piacimento.

Botteghe però di lavori di terra cotta e di vetri eransi assai tempo prima scoperte in Pompei nella strada che conduce dal tempio della Fortuna al Foro. In una di queste botteghe si trovarono moltissimi oggetti di tale industria e segnatamente un numero grande di bicchieri, di tazze e coppe, fra cui delle pregevolissime di color celeste, di piatti e tutti di vetro conservati nella paglia. Di creta si rinvennero molte lucerne, pignatte con coperchi, salvadanai, in uno dei quali anche tredici monete di Tito e di Domiziano; [341] oltre poi 153 monete di bronzo, una statuetta di donna e due di Mercurio. Nell’abitazione di una di queste botteghe si raccolse un anello d’oro e una moneta dell’imperatore Ottone, una statuetta di Mercurio e un’altra con corazza d’argento, clamide e calzari, creduta di Caligola fanciullo, una statuetta di Ercole; una lucerna capricciosa, formata da una rozza figura di vecchio che sostiene un priapo, un’altra di creta in forma di navetta a quattordici lumi, un cucchiajo d’avorio, ed inoltre uno scheletro d’uomo, che avrà dovuto fuggire per la finestra della sua casa e non lungi due altri: il primo trasportando seco un involto con sessanta monete, una casseruola ed un piattino d’argento.

In Pompei si facevano inoltre, poichè sono a dire di opere da vasajo, i Dolia, che erano vasi maggiori, come anfore grandissime e ventrute per la prima collocazione dei vini, tenendo il luogo delle odierne botti. Erano essi di certa pietra detta ofite, ed anche di terra cotta, e ne ho vedute là di capacissime, ed una anzi apparire cucita con filo di ferro e racconciata del modo che con laveggi e tegghie farebbero i nostri calderai. Nella cantina di Diomede se ne trovarono pure. Presto poi si lavorarono anche in legno: Plinio ne fa cenno ed assunsero così la figura poco a poco delle botti che abbiamo adesso. Quando poi era avvenuta la svinatura, si versava il vino, se di qualità più peregrina, in anfore minori e caratelli detti cadi, come [342] si evince da Plinio, il quale aggiunge la particolarità, che giova ricordare per l’origine d’un uso che venne conservato, che si otturassero con turaccioli di sughero. Erano anfore e cadi della materia stessa dei dolii, talvolta cioè di pietra ofite e quindi bianchi, ma il più spesso di color rossi, perchè di terra cotta; onde Marziale ha il verso:

Vina rubens sudit non peregrina cadus[309].

In questi caratelli o bariletti si riponevano non i vini soltanto, ma olio pure e conserve di pomi, fichi secchi, fave; e Marziale ci dice anche miele, nel seguente pentametro:

Flavaque de rubro promere mella cado[310].

In quanto alle anfore, che risponderebbero ai moderni fiaschi, e se picciolette, alle bottiglie, servendo principalmente alla conservazione dei vini e degli olj, oltre l’esser fatte di ofite, o fittili, Petronio ci fa sapere che fossero anche di vetro, in quel passo che narra recate sulla mensa amphoras vitreas diligenter [343] gypsatas, quarum in cervicibus pittacia erant affixa cum titulo: Falernum Opimianum annorum centum[311].

Come poi si lavorassero, per quel che è della terra cotta, risponderò: nè più nè meno che fa oggidì il vasajo; e Orazio ce lo ha tramandato in quell’immagine Dell’Arte Poetica:

amphora cœpit

Institui, currente rota, cur urceus exit?[312]

Nella storia militare di Roma si dirà poi come dei dolii si valessero come di stromenti guerreschi e massime negli assedj. Quando seguiva l’assalto delle città, gli assediati riempivano i dolii di sassi e con impeto gli scagliavano sugli assalitori. Altrettanto facevasi negli attacchi nemici, allor che essi seguivano su alcun declivio.

Qui ha fine il mio dire intorno alle Tabernæ.

Chi sa che presto, dove si spinga più alacre lo sterramento in Pompei, non sia dato di poter strappare ai segreti del tempo qualche nozione di altre industrie, qualche utile congegno antico e non rivendichi al passato il vanto di certi trovati, che assai [344] più tardi nepoti vollero avocare a sè stessi? L’esempio che ci ha fornito la Casa del Chirurgo, nella quale molti strumenti si videro che si ritenevano prima frutto di sapienza moderna, potrebbe ancora una volta, in altre taberne che si torneranno alla luce, rinnovare.

Discorso per tal guisa il commercio pompejano nella visita ed esame delle sue tabernæ, ed essendoci così fornita la ragione della fama che si aveva questa città procacciata di speculativa e industriale, di leggieri allora si può rendersi conto della iscrizione, che pel musaico della soglia del protyrum o vestibolo di sua casa, quel cittadino pompeiano volle esprimesse il benvenuto al guadagno: Salve Lucru. Era tutta una sintesi di quell’anima da mercante.

[345]

CAPITOLO XVIII. Belle Arti.

Opere sulle Arti in Pompei — Contraffazioni: Aneddoto — Primordj delle Arti in Italia — Architettura etrusca — Architetti romani — Scrittori — Templi — Architettura pompejana — Angustia delle case — Monumenti grandiosi in Roma — Archi — Magnificenza nelle architetture private — Prezzo delle case di Cicerone e di Clodio — Discipline edilizie — Pittura — Pittura architettonica — Taberna o venditorio di colori in Pompei — Discredito delle arti in Roma — Pittura parietaria — A fresco — All’acquarello — All’encausto — Encaustica — Dipinti su tavole, su tela e sul marmo — Pittori romani — Arellio — Accio Prisco — Figure isolate — Ritratti — Pittura di genere: Origine — Dipinti bottegai — Pittura di fiori — Scultura — Prima e seconda maniera di statuaria in Etruria — Maniera greca — Prima scultura romana — Esposizione d’oggetti d’arte — Colonne — Statue, tripedaneæ, sigillæ — Immagini de’ maggiori — Artisti greci in Roma — Caio Verre — Sue rapine — La Glittica — La scultura al tempo dell’Impero — In Ercolano e Pompei — Opere principali — I Busti — Gemme pompejane — Del Musaico — Sua origine e progresso — Pavimentum barbaricum, tesselatum, vermiculatumOpus signinumMusivum opusAsarota — Introduzione del musaico in Roma — Principali musaici pompejani — I Musaici della Casa del Fauno — Il Leone — La Battaglia di Isso — Ragioni perchè si dichiari così il soggetto — A chi appartenga la composizione.

Nel corso omai avanzato di questa mia opera mi avvenne le tante volte già di parlare di statue, di bronzi, di pitture e di musaici, di stili architettonici [346] e di colonne, d’edifizi e di templi, che appena il lettore si compiaccia di raccogliere in una le disseminate notizie, può farsi diggià una ragionevole e conveniente idea delle condizioni dell’arte in Pompei, sotto qualsivoglia sua manifestazione la si voglia considerare. Nè il consacrarvi per me un capitolo apposito significar vuole ch’io presuma dir di tutto questo argomento così largamente, da nulla, o poco men di nulla lasciarvi addietro; perocchè a ben altro che ad un capitolo ascender vorrebbe allora il materiale che mi verrebbe tra mano, come può informare chi di proposito vi si è messo intorno.

La grand’opera di Mazois, cominciata nel 1812 e terminata nel 1838[313], non ha infatti per oggetto principale che la descrizione e l’esatta rappresentazione de’ monumenti architettonici. Essa era stata per altro preceduta fin dal 1858 dalla stampa della magnifica opera degli Accademici di Ercolano, che, come ognun sa, fu di parecchi volumi in folio. Nel 1824 poi ebbe incominciamento la pubblicazione del Museo Borbonico[314], destinato a riprodurre tutti gli oggetti d’arte che formavano dapprima i musei di Portici e di Napoli, e che poscia vennero concentrati nel solo Museo Nazionale.

[347]

Importantissima del pari fu l’opera Le Case ed i Monumenti di Pompei disegnati e descritti, edita in Napoli che, iniziata dal cav. Antonio Nicolini architetto della Casa Reale e Direttore dell’istituto di Belle Arti, venne continuata dagli egregi fratelli Fausto e Felice Nicolini, ed è tuttavia in corso di publicazione. È sventura davvero che opere, come queste, degnissime e che meriterebbero di andar diffuse e consultate, non lo possano, perchè dispendiose di troppo. — Più alla mano e pel sesto e per il prezzo riuscì l’altra Ercolano e Pompei, che mandò fuori in Venezia il tipografo Antonelli nel 1841, e furono publicati sette volumi, voltandola dal francese di Bories e di Barré e che si giovò di tutte le anteriori publicazioni, divisa essa in due parti: Pitture e Scolture e Musaici e suddivisa in più serie.

Nè vogliono essere pretermesse altre opere congeneri e di merito singolare, come quella di Goldicutt di Londra; di Ternite e Zahn di Berlino; di Goro di Vienna, e meglio forse di tutte queste, quelle di William Gell, della quale si fece una versione a Parigi con moltissime aggiunte.

Intorno all’autenticità dei disegni publicati nelle più antiche opere, molti dubbj elevar si potrebbero, da che sia noto come prima il Governo Borbonico avesse opposto formale divieto alla copia delle pitture antiche, onde in quanto si avesse a diffondere di quelle d’Ercolano e di Pompei non si potesse riscontrare [348] tutta quella esattezza e fedeltà, che non concede il copiar di memoria.

Su di che tolgo al Barré l’aneddoto seguente, abbastanza curioso e che mette conto di riferire.

In onta alle precauzioni alcuna volta esagerate, con cui erano guardati gli affreschi del Museo che in quel tempo era a Portici, alcune copie furtive fatte vennero per mezzo di ricordi, e il publico le ricercava con tanta maggior avidità, quanto ch’ell’erano più rade, e con più riserbo vendute. Giuseppe Guerra, pittore veneziano, stabilito a Roma, mentre mancava di lavoro, quantunque non assolutamente sprovveduto d’ingegno, imprese ad innalzare, con una frode anche più ardita, l’edificio della sua fortuna. Guerra non si avventurò solo a spacciar copie di antiche pitture, ma vendette quelle pitture medesime. Egli dipinse differenti affreschi di antico stile sovra frammenti di intonaco, e li cesse ad alcuni amatori, confessando loro, sotto sigillo di alto segreto, averli acquistati egli medesimo da un qualche sovrintendente agli scavi napolitani. Fecesi rumore per ciò a Napoli, dove invano cercavasi il colpevole; ma per indizii positivi ricavati da Roma, i direttori del Museo fecero in sulle prime segretamente comperar tre degli affreschi che giravano in questa capitale. Quindi uno dei loro agenti portossi dal Guerra chiedendogli l’Achille e il Chirone, dipinti pompejani di recente scoperti, allora già incisi e publicati nel primo volume delle [349] Antichità di Ercolano. Guerra, senza diffidenza alcuna, fece la copia, o meglio, l’imitazione domandata, mentre egli non poteva lavorare coll’originale sott’occhio. In questa copia da lui sottosegnata, si conobbe esattamente lo stile dei tre affreschi acquistati; i medesimi sforzi per raggiungere un modello veduto alcun poco solamente da lungi; le medesime differenze sfuggite in onta a questi sforzi e sovratutto la perfetta analogia delle copie fra loro, quantunque si scorgesse molta diversità ne’ modelli. Il Governo di Napoli a nulla si valse della sua influenza nello Stato Pontificio per far redarguire il Guerra. Limitossi a esporre le quattro imitazioni unite agli originali, con una illustrazione diffusa, onde por sull’avviso i curiosi contro ogni frode di genere siffatto. Guerra, più non potendo alienare false antichità, ripigliò, non senza qualche profitto, l’uso legittimo del suo pennello[315].

Tutto questo premesso, avanti entrare a parlare partitamente delle preziose cose in fatto d’arte scoperte a Pompei, oltre quel che già toccai e che il lettor già conosce, non sarà inopportuno che io l’intrattenga delle condizioni generali delle arti nel mondo romano; onde questo mio lavoro illustrativo dell’antica vita di Roma col mezzo delle scoperte pompeiane non sia in questa parte cotanto importante difettivo.

[350]

Dopo che nel Capitolo antecedente ho chiarite le ragioni per le quali da agricoltori che erano i romani per nascita e per tendenza, passarono insensibilmente a divenir soldati e conquistatori, ed ho tracciate le cause che tolsero a Roma d’avere un florido commercio coll’estero, non credo necessario ritessere i motivi per i quali pur nelle arti non furono i romani eccellenti, ma anzi piuttosto delle medesime ignoranti. Sono essi identici a quelli che rattennero lo sviluppo del commercio; onde il ragionamento intorno all’arti romane vuol essere una logica deduzione di que’ motivi, che però mi accorciano il dirne qui particolarmente e più a lungo.

Architettura.

L’arte nondimeno, come ogni altra intellettuale coltura, non aveva così le medesime sorti nelle altre parti d’Italia. Nell’Etruria singolarmente era in fiore; la sua architettura, o a dir meglio, il suo ordine che serbò il nome di etrusco, comunque ne sia meno ornato, si accosta al dorico. Nè io già reputo che importato fosse, com’altri opina, da’ Pelasgi; ma dividendo le opinioni del chiarissimo Mazzoldi, penso che la civiltà etrusca fosse anteriore all’incivilimento di Grecia. Gli scavi fattisi pure ai nostri giorni in diverse parti di quella nobile provincia, oltre quanto è nelle storie antiche consegnato, fornirono monumenti e dati [351] attissimi a comprovare queste condizioni antiche dell’arte in Etruria. Nè diversamente nella Magna Grecia e in Sicilia, dove alla coltura nazionale s’aggiunse la greca importatavi dai più frequenti commerci. E qui giova osservare che sotto la denominazione di civiltà etrusca, vuolsi abbracciare come in essa compresa tutta quella parte di territorio che dall’odierna Toscana o dal piede dell’Alpi si distende fino allo stretto di Sicilia.

Le prime opere infatti de’ Romani si assegnano ad architetti etruschi. Così fu la Cloaca Massima, immaginata per disseccare i terreni bassi situati nelle circostanze del Foro, che, intrapresa sotto il reggimento del vecchio Tarquinio e continuata da Servio Tullio, venne compita sotto Tarquinio il Superbo[316] e che somministra un dato interessante alla storia dell’Architettura, venendo essa a provare che l’invenzione dell’arco appartenga a’ Romani e non ai [352] Greci, poichè vi si vegga esso grandiosamente sviluppato in un’epoca in cui, se esisteva in Grecia, non era punto in uso. Sul qual proposito, osserva Hope che l’arco già fosse introdotto in Etruria in monumenti che sembrano anteriori alla costruzione della cloaca ed alla fondazione di Roma[317]. Per i primi cinque secoli, Roma pare non prendesse cognizione affatto dell’arte architettonica, e i templi e i pubblici e privati edifizj suoi si sa perfino che non sapesse coprire che di stoppie mescolate all’argilla, come i viaggiatori trovarono praticarsi pur oggidì in molte terre selvagge. Nè l’acquedotto della Via Appia, che fu costrutto nell’anno trecentodieci di Roma, può fornir argomento che smentisca codesta asserzione, perocchè la sua opera correndo tutta sotterranea, non porga aspetto alcuno di forme architettoniche.

Tuttavia tracce di una architettura disciplinata addita la storia in Roma nel sepolcro in peperino di Scipione Barbato, il quale fu console nell’anno 456 della fondazione della città, sormontato da un triglifo dorico pur sormontato da dentelli jonici, e tre secoli avanti l’Era volgare si costrussero intorno al foro portici per le tabernæ degli argentarii o banchieri.

Per le conquiste fatte nella Grecia, vennero di là in Roma dietro il carro de’ trionfatori, colle scienze [353] e colle lettere, anche le arti, che pur vi accorsero dalla Magna Grecia e dalla Sicilia, e delle spoglie delle vinte città, fra cui oggetti pregevolissimi d’arte, si fregiarono templi, monumenti e case de’ vincitori. Incominciò anche per Roma ad essere pure l’architettura, che abbandonò da allora lo stile etrusco, per adottare il greco, quel che disse il Milizia, depositaria della gloria, del gusto e del genio dei popoli, ad attestare ai futuri secoli il grado di potenza o di debolezza degli stati. Così nel 205 avanti Cristo si ornò da Cajo Muzio, su pensiero di Marco Claudio Marcello, di fregi tolti a Siracusa, il tempio dell’Onore e della Virtù, e si impiegarono marmi nella costruzione. Metello nel 147 inviò dalla soggiogata Macedonia pitture, statue e tesori; per cui si eresse coll’opera di Ermodoro da Salamina il tempio periptero a Giove Statore, e quindi quello sacro a Giunone, prostilo e cinto da gran cortile con bel colonnato all’intorno.

Altri templi si erano venuti erigendo nella stessa Roma durante la seconda guerra cartaginese, al tempo cioè d’Annibale, che fu intorno al 220 avanti Cristo; ma, ripeto, che le discipline accertate e stabili dell’arte architettonica non si venissero fondando che colle conquiste e coll’arricchimento del Popolo Romano e col diffondersi di sua coltura; perocchè ben dicesse il succitato Milizia, che l’architettura non incomincia ad essere un’arte presso i differenti popoli, [354] dov’ella può estendersi, che quando sono pervenuti ad un certo grado di coltura, d’opulenza e di gusto. Allora, allontanandosi sempreppiù dai lavori e dalle occupazioni rustiche, gli uomini si rinchiudono nella città, dove ai perduti piaceri della natura sottentrano i godimenti delle arti imitatrici. Prima di quel tempo, l’architettura non si deve contare che tra i mestieri necessarj ai bisogni della vita, ed essendo fin allora i bisogni limitatissimi, il suo ufficio si riduce a non far che un ricovero contro le intemperie.

I tre ordini più nobili, il dorico, l’jonico e il corintio del pari che la scultura, passarono dalla Grecia in Roma belli e perfetti, portati da quella schiera di artisti, che le nuove vie aperte dalle conquiste e il desiderio di far fortuna sospinsero alla capitale del mondo.

Cicerone ricorda fra coloro che si diedero ad architettare in quel tempo i principali monumenti in Roma, nello stile greco, un Cluazio, un Ciro e Vezio liberto suo. E fu intorno alla medesima epoca che si scrissero anzi opere su quest’arte e citasi a tal proposito un Rutilio, che ne dettava una assai stimata allora, sebbene incompleta; restato essendo il vanto di questo più degnamente fare a Vitruvio, vissuto al tempo d’Augusto, che però invano Hope, con altri, dà per greco; ma che, per sentimento dei più, vuolsi nascesse per contrario in Formia, posta ove è oggi Mola di Gaeta.

[355]

Allora sul colle capitolino, settantott’anni avanti l’Era volgare, sorse il Tabulario, di cui esistono tuttavia considerevoli avanzi, uffizio od archivio nel quale si conservavano i registri e documenti publici e privati, i cui archi esterni si aprono tra mezze colonne doriche; poi il tempio della Fortuna Virile e il delubro funerario di Publicio Bibulo sullo stesso colle; quello rinnovato per cura di Lucio Cornelio Silla e dedicato a Giove Capitolino, quello all’Onore eretto da Cajo Mario e quello finalmente sacro a Venere Genitrice fatto costruir da Pompeo.

Ma quello che lasciò addietro ogni altro edificio, per la sua magnificenza, fu il tempio alla Fortuna, che il medesimo Silla fabbricò a Preneste, delle rovine del quale si costruì ne’ secoli posteriori Palestrina. Vuolsi vi si ascendesse per sette vasti ripiani, nel primo ed ultimo dei quali correva per tubi latenti e serbatoj copia di acqua e del quale serviva a pavimento quel prezioso musaico, che Plinio il naturalista afferma essere stato il primo che fosse lavorato in Italia, e il quale andò poscia a costituire uno de’ pregi precipui del palazzo Barberini in Roma.

Ventisei anni prima di Cristo, Vipsanio Agrippa, genero di Augusto, dedicò a Giove Ultore il Panteon, che fu una rotonda che riceveva la luce unicamente dalla apertura della cupola, dell’altezza e diametro di quarantatre metri, e il frontone della quale, bello per sedici maestose colonne corintie di marmo [356] di un sol pezzo, dell’altezza di trentasette piedi e di cinque di circonferenza, e, superstite, viene tuttavia ammirato e sta in testimonio eloquente delle egregie condizioni dell’architettura di quel tempo.

Io ho già descritto a suo luogo i templi, il foro civile, la basilica e vie via altri publici edifizi di Pompei: la loro architettura ne interessò: essa rimonta per tutti ad epoche anteriori a Cristo e principalmente vi dominano gli ordini greci; ciò che forse scaltrisce come prima fors’anco che a Roma, in ragione dei maggiori commerci, artisti di quella contrada avessero visitato e lavorato nella Magna Grecia. Ciò che di particolare vuol essere notato in queste architetture pompejane si è che le colonne, parte principale e caratteristica delle fabbriche greche, e divenute ornamento nelle romane, quivi venissero mutate da un ordine all’altro col rivestirle di stucco, senza curarsi più che tanto dell’alteramento delle proporzioni.

Ho già notato altrove come nelle sostruzioni degli edifici pompejani si riscontrino traccie di una preesistente e più antica civiltà, e come pei diversi cataclismi intervenuti a quella città, appajano quelli edifizj non di molto remoti, nelle date di lor costruzione, da quella della loro ultima rovina: di qui è dato argomentare che alla storia dell’arte italiana tornerebbe più vantaggioso il disseppellimento della città d’Ercolano. Ognun s’accorda nel ritenere che [357] Ercolano possa essere stata una città più artistica di Pompei, perocchè in questa meglio si fosse dati alle commerciali speculazioni, e in quella vi concorressero invece più i facoltosi e fosse luogo meglio acconcio alle villeggiature de’ più ricchi e voluttuosi romani, non altrimenti che Baja, Bauli e Pozzuoli.

Infatti le pitture, i marmi, i bronzi che si rinvennero in Ercolano, si riconobbero generalmente superiori d’assai in merito alla maggior parte di quelli che uscirono dalle rovine della città sorella, della quale specialmente è il mio dire.

Se non che io non credo, e l’ho già detto, che, ciò compiere si possa con quella grande facilità, che per avventura sembrava al Beulé si potesse fare[318]; perocchè non è vero che si riducano, com’egli dice, a due sole le difficoltà che si incontrano al diseppellimento: le costruzioni moderne che abbisogna espropriare e le quantità delle ceneri che convien d’asportare. E le lave e le ceneri petrificate? Vi hanno luoghi in cui le prime hanno perfino diciotto metri di spessore e su di esse si è fabbricato, tal che dove già s’era penetrato, e s’erano tratte le più interessanti preziosità, si fu costretti a rimettere il materiale cavato onde ovviare alla rovina. Notisi poi che le costruzioni finitevi sopra sono di tale natura da riuscire dispendiosissima la [358] espropriazione, nullamente è in proporzione dei mezzi che sono messi a disposizione degli scavi. Del resto l’età che corre è più cotoniera e trafficante che archeologa e poeta, gareggiano con essa di pillaccheria, in fatto di publica istruzione, i nostri uomini di governo che parteggiano per la teoria, d’invenzione del nostro tempo, delle economie infino all’osso[319].

Ciò che particolarmente dovrebbe chiamare la nostra attenzione è l’architettura delle case private di Pompei. Era essa etrusca? era greca? era romana? Chi lo saprebbe, rispondo io, definire in modo irrecusabile? I dotti questionarono tra loro e non s’intesero; forse non va errato chi di tutti questi generi d’architettura afferma riscontrare un miscuglio, che non lascia tuttavia che vi campeggi, per la semplicità ed eleganza degli ornati, la caratteristica greca. Chi credesse peraltro immaginare alcun lontano riscontro nella maniera odierna d’architettare, si ingannerebbe a partito; l’architettura delle case pompejane è quanto di più originale presenta lo studio della dissepolta città. La massima parte di esse si costituisce di due soli piani: rado avviene che se ne trovi alcuna che lasci presumere essere stata di tre, e dico che lasci presumere, perchè in nessuna il terzo piano [359] sussiste e solo è dato argomentarne la esistenza dalle traccie delle scale del secondo. Anche il secondo piano, che sarebbe il così detto solarium, o meglio cœnaculum, era assai basso e destinato alla abitazione degli schiavi addetti al servizio della famiglia. Esternamente esse erano allineate tutte l’una dopo l’altra in ogni via; se interruzione vi era circa l’altezza, veniva prodotta da talun edificio publico, che sopravanzava. Erano poi intonacate e colorate, non avevano finestre respicienti sulla via, le camere venendo rischiarate all’interno, rada era qualche apertura al piano superiore, e balcone, come avverrà di vedere nella casa del Balcone pensile. Per ciò che riguarda la distribuzione interna, sarà argomento che procaccierò trattare nel capitolo Le Case. Nondimeno fin d’ora non mi è lecito di passar oltre senza far cenno della picciolezza delle case pompejane, o piuttosto delle camere ond’esse si componevano, la qual non lascia di colpire chi per la prima volta visita questa città. Nè forse potrebbe esserne una ragione quella che i suoi abitatori suolessero, più che chiudersi dentro delle medesime, vivere in piazza e per le vie, siccome consentiva la dolcezza del clima; quando pure non si voglia interamente ammettere, ciò che per altro io credo verissimo, che per costumanze antichissime greche, importate in Pompei, siasi appunto seguitata la moda greca, che appunto assai picciole aveva tutte le parti architettoniche delle abitazioni, procedendo [360] nondimeno una non dubbia eleganza dalla esatta armonia delle medesime. Tuttavia voglionsi per alcuni ritrovarvi altre cause, della cui aggiustatezza lascio volontieri giudice chi legge. Si dice che occorrendo nelle case per tanti usi svariati una quantità di stanze, queste dovevano necessariamente risultare nella maggior parte di piccole dimensioni, che l’occhio però non se ne avvedesse troppo, mercè un artificio di dipinture prospettiche sui muri e di decorazioni combinate con accortezza[320]. Ma forse queste ragioni, che potrebbero attagliarsi a taluna casa costretta fra l’altre, non pajono troppo plausibili per tutte, non vedendosi perchè, abbisognando di molte camere, non si potesse procacciarsele, come si pratica di presente, estendendo l’area de’ fabbricati. Le decorazioni prospettiche, appunto per la soverchia angustia degli ambienti, potevano esse poi produrre tutti i loro effetti e simulare uno spazio maggiore? Ne dubito e preferisco attenermi a quelle altre ragioni che per me si sono recate.

Del resto fu solamente al cominciar dell’epoca imperiale, cioè ai giorni d’Augusto, che l’architettura divenne più fiorente e si sviluppò ne’ romani il gusto delle costruzioni colossali. Prima, come in Pompei, templi, edifizii pubblici e case private non avevano [361] che proporzioni esigue: in ragione della maggior vastità di concetti politici delle conquiste e della crescente ricchezza eransi venute ingrandendo ed assumendo un proprio carattere nazionale. Nelle forme esteriori poi si restò, è vero, fedeli allo stile greco; ma per guarentirne la solidità dell’interno vi si introdussero colonne ed archi.

Ma per seguire la cronologia delle opere più celebrate in fatto d’architettura di quel tempo, uopo è ricordare la basilica di Fano architettata da Vitruvio e da lui descritta nella sua opera De Architectura; i portici onde si cinse il circo Flaminio sotto l’impero di Augusto, la piramide di Cajo Cestio, il teatro di Marcello e il tempio di Giove Tonante. Quindi il mausoleo di Augusto nel campo Marzio, divenuto ben presto quasi una città marmorea e il Palazzo d’oro fabbricato da Nerone sulle macerie degli edifizi da lui incendiati, il quale abbracciava l’area del monte Palatino, del Celio, dell’Esquilino e la frapposta valle estesa quanto l’antica città, dove correva un portico a triplici colonne della lunghezza d’un miglio, e dove nel vestibolo, sorgeva la statua colossale in rame dell’imperatore, opera del greco Ateneo, alta quaranta metri, secondo alcuni, secondo altri di Zenodoro d’Alvernia, alta cento metri. Dovunque poi e fani e colonne ed archi, divenuti questi in breve distintivo singolare della romana architettura, poichè ignoti ai Greci. Il primo che sorse — giova allora ricordarlo — fu [362] 139 anni prima di Cristo, e fu ad onore di Fabio vincitore degli Allobrogi e degli Alvernii. Anche in Pompei ho già segnalato l’esistenza di quattro archi di trionfo, e rimangono essi novella prova del modellarsi interamente delle colonie sugli usi della capitale.

Il paragone della romana colla greca architettura è così a un dipresso come l’ho già pur io superiormente dimostrato, da Hosking istituito. «Benchè inferiore, scrive egli, in semplicità ed armonia all’architettura greca, la romana è evidentemente della stessa famiglia, distinta per esecuzione più ardita ed elaborata profusione d’ornamenti. Il gusto delle due nazioni è espresso dal dorico pel primo, dal corintio per l’altro: uno è modello di semplice grandezza, perfetto nelle particolari convenienze e inapplicabile ad oggetto diverso; l’altro è men raffinato, ma molto adorno; sfoggia nell’esterno la bellezza di cui manca nell’interno; imperfetto in ciascuna combinazione, ma applicabile ad ogni proposito.»

La storia poi della romana architettura segna le diverse fasi della sua politica, e come che Roma si pose alla testa del mondo, anche la sua architettura, più che ogni altra giganteggiò; perocchè sia anche l’arte più alta a rappresentare la terribile e vastissima grandezza di quel popolo.

Infatti a’ tempi più liberi e primitivi appartiene il modo d’architettare derivato dall’Etruria, che si palesa [363] solido e severo: a que’ dell’impero se ne spiegò la magnificenza: al declinar del medesimo si mostrò cincischiata di fregi e deviò dal gusto antico; per poi corrompersi affatto, parallelamente alla corruzion dei costumi.

Nè questi caratteri e questa magnificenza furono distintivi de’ publici edifizj soltanto: essi riscontransi eziandio ne’ privati e nelle loro abitazioni. Così furono celebri le costruzioni di Lucullo, di Lepido, di Scauro, d’Aquilio, di Mamurra; così nel Capitolo che verrà delle Case designerò pure in Pompei abitazioni di cittadini magnificentissime. Per dare un’idea ancorchè imperfetta di tanta magnificenza, basterà l’accennare qui il grandissimo loro prezzo. La casa che Cicerone possedeva sul monte Palatino, gli era stata venduta da Crasso per tre milioni e cinquecento mila sesterzi, che si vorrebbero ragguagliare in oggi a lire nostrali 736,125. Quella di P. Clodio, che Cicerone tanto avversò e che fu poi ucciso da Annio Milone, era costata quattordici milioni ed ottocento mila sesterzi, vale a dire 3.027,833 lire e centesimi trentuno.

Non credo fuor di proposito, dopo tutto il fin qui detto, di qui soggiungere ora brevemente alcuni cenni intorno a talune discipline dell’edilizia romana, al tempo della Republica.

Allorquando accadeva di dover costrurre o riparare un edificio, praticavasi ad un dipresso quello che già notai si facesse in Pompei per le riparazioni delle [364] vie. I Censori mettevano l’opera al publico incanto, quando pure essi medesimi non se ne fossero costituiti direttori, o non si fossero fatti rappresentare da loro delegati, duumviri, triumviri, quinqueviri. Compiuta la costruzione, i censori o gli edili venivano da un senato-consulto incaricati di collaudare e ricevere le opere, il cui prezzo veniva pagato dal publico tesoro. Spesso occorse che facoltosi uomini, in caccia di popolarità, previo aver riportato un senato-consulto, costruir facessero e riparare a propria spesa publici edificj: nel primo caso essi ottenevano l’autorizzazione di far iscrivere il loro nome sul monumento; nel secondo essi avevano facoltà di scriverlo a fianco del fondatore.

Pittura.

L’architettura interna delle case, per ispiegare tutto quel lusso e magnificenza che superiormente dissi, si giovò ben presto anche dell’arte sorella, la pittura; e se sappiam per le istorie che Ludio coprisse le pareti delle case di paesaggi, di vendemmie e di scene campestri; gli scavi di Pompei ci hanno messo in grado di stabilire con tutta certezza che altrettanto si dovesse fare ovunque a que’ giorni.

Nè furono soltanto dipinti, fregi, festoni, fiori, uccelli, delfini e animali, tritoni, sfingi, paesaggi, genj od altri leggieri soggetti, che ne fecero le spese; ma [365] vi si istoriarono fatti mitologici e veri e perfino soggetti di genere, come avvenne già di più volte mentovare in queste mie pagine, nelle quali, in difetto di meglio, dovetti ricorrere a cotali dipinti per chiarire la natura di commerci e de’ mestieri che si esercitavano nelle diverse tabernæ.

Ma dirò per ordine di tutte queste specie di pittura e prima di queste che direi strettamente architettoniche.

Descriverle partitamente è impossibile all’economia di quest’opera, per la loro infinita varietà, tal che costituirono per chi lo volle fare i soggetti di più volumi: basti adunque il constatarne per la massima parte l’eleganza delle linee e dei fregi, l’interesse delle storie che vi sono congiunte e la bontà de’ paesaggi, i quali, se non sempre, tuttavia offrono talvolta la conferma di quanto venne dagli scrittori d’arte affermato, della profonda cognizione, cioè, che avevano gli antichi delle discipline della prospettiva sì aerea che lineare. Spesso giovano alle cornici, uccelli, grifoni, ippocampi, pesci e bestie, frutta ed arbusti, talvolta patere, genietti, Vittorie alate e Fame, e vie via mille altre leggiadrie del miglior gusto. L’arte decorativa de’ nostri giorni vi avrebbe indubbiamente a studiare, desumere e guadagnare; nè chi s’è fatto nome in essa, ha veramente lasciato di attingervi a piena mano.

I colori rosso e giallo vi campeggiano nella parte [366] architettonica e nella decorativa: già l’osservai parlando sovente de’ colonnati rivestiti di stucco di questi colori e di altre parti di edificj e templi. È per altro da notarsi come nelle più antiche pitture e in Pompei ed altrove si facesse uso di un sol colore, dette perciò monocromatiche, fondendosi quindi l’interesse nel concetto e nel disegno.

Ma poichè sono a dir de’ colori, la riserva che ne ho fatto nel Capitolo antecedente mi invita a parlare della Taberna del mercante di colori, che fu rinvenuta negli scavi pompejani e che doveavi necessariamente essere in una città nella quale anche nelle più modeste case si ammiravano buoni dipinti. Essa è in quella località che vien designata dalle Guide per la casa dell’Arciduca di Toscana, così chiamata, perchè spazzata dalle ceneri nel 1851 alla presenza del principe ereditario del granduca Leopoldo II; ed è segnata dai n. 47, 48 e 49 che stanno su tre botteghe, in cui vennero appunto trovati in grandissima quantità molti colori, coi relativi mulini che li dovevano macinare, suppergiù eguali a quelli di cui si valevano per la macinazione de’ grani. La differenza consiste forse unicamente nella maggior piccolezza loro.

Sottoposti questi colori alla analisi chimica, si conobbe come vi fosse commista molta resina, che, per quel che verrò a dire tra breve, serviva nella pittura all’encausto, per far attecchire i colori colla azione del fuoco e così fu in certo modo strappato al silenzio [367] dei secoli una parte del processo di che si valeva appunto l’encaustica. Quantità di resina pura fu rinvenuta nelle stesse botteghe, dove si raccolsero eziandio quattordici scheletri; forse il personale tutto impiegato in quella officina.

Uscendo adesso da questa interessante taberna, e passando a dir della restante pittura, seguì ella, come la scoltura e l’altre arti, le medesime origini, fasi e condizioni. In Roma non si può dire che avesse avuto favore dapprima: di pochi artisti pertanto romani è fatto cenno dalle storie: Plinio ricorda appena tra essi Fabio, Arellio, Amulio, Cornelio Pino e Accio Prisco, pittori, oltre Pacuvio, che distinto poeta tragico, trattò anche la pittura. La coltura delle arti consideravasi poco più che opera servile, e se la rapacità de’ proconsoli tolse a Grecia, per arricchirne Roma e le ville ad essi spettanti, tanti preziosissimi oggetti; essi tuttavia riguardavansi più come stromenti di lusso, che altro, nè svegliavano quell’intellettuale interesse che si suscitò di poi; se Virgilio non fu rattenuto dal sentimento di nazionale orgoglio dal riconoscere che il merito di foggiare marmi e bronzi da farne volti animati e quello del perorar meglio le cause spettassero a gente straniera:

Excudent alii spirantia mollius æra,

Credo equidem vivos ducent de marmore vultus,

Orabunt causas melius, cœlique meatus

Describent radio, et surgentia sidera dicent:

Tu regere imperio populos, Romane, memento:

[368]

Hæ tibi erunt artes; pacisque imponere morem,

Parcere subjectis, et debellare superbos[321].

Orazio, malgrado proclamasse i Romani giunti al sommo della fortuna, faceva tanto conto dell’arti del pingere e del cantare, da metterle a paro di quella del lottare:

Venimus ad summum fortunæ. Pingimus atque

Psallimus, et luctamur Achivis doctius unctis[322].

e ascrisse in vizio a Grecia l’aver pregiato marmi, bronzi e pitture:

Ut primum positis nugari Græcia bellis

Cœpit, et in vitium fortuna labier æqua:

Nunc athletarum studiis, nunc arsit æquorum,

Marmoris aut eboris fabros, aut æris amavit:

Suspendit picta vultum, mentemque tabella[323],

[369] e prima di loro Cicerone vergognasse quasi di ricordar i nomi di quei divini scultori che furono Prassitele e Policleto e credesse menomar l’importanza loro confessandosi, egli abbastanza vanaglorioso, dell’arti belle ignorante.

Eccone i passi, perocchè paja tutto ciò veramente incredibile e strano:

Erat aput Hejum lararium cum magna dignitate in ædibus, a majoribus traditum, perantiquum: in quo signa pulcherrima quattuor, summo artificio, summa nobilitate, quæ non modo istum, hominem ingeniosum, verum etiam quemvis nostrum, quos iste idiotas appellat, delectare possent: unum Cupidinis marmoreum, Praxitelis. Nimirum didici etiam, dum in istum inquiro, artificum nomina.... Erant ænea præterea duo signa non maxima, verum esimia venustate, virginali habitu, atque vestitu quæ manibus sublatis sacra quædam, more Atheniensium virginum, reposita in Capitibus, sustinebant. Canephoræ ipsa vocabantur. Sed earum artificem quem? quemnam? recte admone: Policletum esse dicebant[324]. Più tardi [370] invece sì l’arte del dipingere che quella dello scolpire parvero crescere in maggiore estimazione, se Nerone imperatore vi si applicò e distinse.

La più gran parte delle pitture antiche erano parietarie, quelle che in oggi, dai diversi procedimenti adottati nel pingere, chiameremmo affreschi. Nondimeno anche allora non è escluso che si potesse da quegli artisti dipingere sull’intonaco recente. Anzi il dottissimo cav. Minervini ha constatato non dubbie differenze nei diversi sistemi onde sono condotti gli intonachi che ricoprono le pareti pompejane. Ne ha distinti di più fini, per i quali, a suo credere, gli antichi dipingevano a fresco le composizioni meglio accurate, i paesaggi e le figure; mentre che le semplici decorazioni erano dipinte a secco da pittori inferiori.

Il più spesso rilevasi evidentemente come suolessero dipingere a guazzo od all’acquerello con colori preparati a gomma, ovvero con altro genere di glutine, [371] e se ne adducon le prove in gran numero di dipinti pompejani esistenti nel Museo di Napoli, i colori de’ quali si ponno separare e staccare dall’intonaco, talvolta ben anco vedendosi ricomparire, nel cadere lo strato superiore, la sottoposta tinta, ciò che non può accadere di pitture frescate. Quando poi si ponga mente che fra i colori adoperati allora eranvi quelli che chiamavano purpurissum, indicum, cæruleum, melinum, auripigmentum, appianum e cerussa, e i quali non resistono alla calce[325], si mette in sodo che il processo non poteva essere a fresco.

Uno dei metodi più usitati in quel tempo era del pingere all’encausto, e se ne valeva assai per le pitture sulle pareti. Più sopra nella taberna del mercante de’ colori, abbiam trovato molti ingredienti che servivano a tale scopo. Era l’encaustica l’arte di dipingere con colori mescolati con cera e di poi induriti coll’azione stessa del fuoco. Di qual modo si praticasse in antico, di presente più non si sa, essendosene smarrito il procedimento. Vero è che il conte Caylus pretese averlo rivendicato e ne scrisse al proposito un trattato; ma per general sentimento non credasi che sia riuscito ad ottenerne i medesimi risultamenti. [372] Pare, scrive Rych[326], ch’essi seguissero diversi metodi e conducessero l’operazione in differentissime guise: o con colori mescolati con cera, distesi con una spazzola asciutta e poi bruciati con un cauterio (cauterium), ovvero marcando i contorni con un ferro rovente (cestrum) si incideva sopra l’avorio; nel qual processo non pare che la cera entrasse punto, o infine liquefacendo la cera con cui i colori erano mescolati, cosicchè la spazzola era intinta nel liquido composto e il colore disteso in istato di fluidità, come si fa all’acquerello, ma di poi rammorbidito e fuso coll’azion del calorico.

Contrariamente a quanto afferma Bréton, che l’encausto fosse bensì in uso allora, ma indubbiamente solo pei quadri e non per le pitture di semplice decorazione[327], vogliono altri che il metodo dell’encausto fosse quello adottato in tutte le pitture pompejane, come in quelle scoperte ad Ercolano. Mengs per altro portava opinione che esse fossero invece condotte a fresco[328].

Ho poi detto che la più gran parte dei dipinti fossero parietarii, ciò che significa che non tutti lo fossero; ben sapendosi come alcuna volta si dipingesse sulle tavole di legno, ch’erano di larice, preparate [373] prima con uno strato di creta, specie di pietra tenera, friabile e bianca, sì che tabula equivalesse, senz’altro, a quadro, come a mo’ d’esempio leggasi in Cicerone: Epicuri imaginem non modo in tabulis, sed etiam in poculis et in anulis habere[329]; e altrove: Tabulas bene pictas collocare in bono lumine[330], come istessamente oggidì ogni artista domanda di collocare sotto buon punto di luce le sue opere, per conseguirne i migliori effetti. Plinio poi aggiunge che si pingesse pure sovra pelli o membrane[331] ed anche sulla tela. Su tela, per la prima volta venne dipinta quella grande demenza che fu la colossale immagine di Nerone, alta centoventi piedi, che fu consunta dal fulmine, come disse lo stesso Plinio, nei giardini di Maja: Nero princeps jusserat colosseum se pingi CXX pedum in linteo incognitum ad hoc tempus. Ea pictura cum peracta esset in Majanis hortis, accensa fulmine cum optima hortorum parte conflagravit[332]. Nè [374] fu sola codesta prova del pingere sulla tela allora. Un liberto dello stesso Nerone, dando al popolo in Azio uno spettacolo di gladiatori, coprì i publici portici di tappezzerie dipinte su cui rappresentavansi al naturale i gladiatori e i loro inservienti.

Del resto anche le pitture pompejane offrirono dati, di cui giova tener conto, in conferma di quest’uso di dipingere a pittura sulla tela, avendosene una su parete, la quale rappresenta una dama che sta dinanzi al cavalletto intenta a dipingere un quadro o piuttosto a copiare un Bacco che le sta davanti; un’altra in cui si raffigura un pigmeo, che dipinge nella medesima guisa, ed una terza, nella quale è un’altra donna che pur così dipinge, la quale, scoperta nel 1846, gli Archeologi opinarono potesse essere la famosa Jaia di Cizica conosciuta da Varrone e celebrata da Plinio[333].

Recenti scavi fatti a Pompei (1872) rivelarono come si dipingesse anche sul marmo. Su di una tavola appunto marmorea, rinvenuta non ha guari, si ammirò una buona pittura a più figure, che l’illustre Fiorelli interpretò per la scena tragica dell’infelice Niobe; importante scoperta codesta che viene ad aggiungere una notizia di più alla storia della pittura.

Le Pitture di Pompei si possono classificare, oltre quelle architettoniche e decorative, di cui dissi più [375] sopra, in istoriche — intendendo comprendersi in esse tutti i soggetti mitologici od eroici — e giovan moltissimo, oltre che a rischiarare quanto noi sappiamo di mitologia e della storia dei secoli favolosi ed eroici, a fornire altresì nozioni circa la scienza del costume, l’arte drammatica e l’antichità propriamente detta; in quelle delle figure isolate e di genere; di paesaggi e animali e fiori; ommettendo per ora qui d’intrattenermi particolarmente di quelle delle insegne delle tabernæ, perchè ne ho già detto abbastanza nel Capitolo antecedente, per quel che ne importava di sapere; molto più che a rigore implicitamente io ridirò di esse, favellando della pittura di genere a cui appartenevan le dipinte insegne.

Ho più sopra, sulla fede di Plinio, ricordato alla sfuggita i nomi di alcuni pittori conosciuti in Roma: or ne dirò il giudizio che di loro opere fu lasciato ai posteri. Per Fabio, l’arte non doveva essere che un divertimento, perchè, come patrizio, non aveva d’uopo d’esercitarla, ne diffatti riuscì grande la riputazion sua come pittore. D’altronde così ragionava Cicerone: «Crederemmo noi che ove si fosse fatto titolo di gloria a Fabio l’inclinazione che mostrava per la pittura, non fossero stati anche fra noi dei Polignoti e dei Parrasii? L’onore alimenta le arti: ciascuno è spronato dall’amor della gloria a dedicarsi ai lavori che possono procurargliela: ma languono gli ingegni ovunque sieno tenuti in non cale.» Pacuvio, [376] poeta e pittore, quantunque arricchisse de’ proprii dipinti il Tempio di Ercole nel Foro Boario, sembra nondimeno che queste sue opere d’arte non oscurassero del loro bagliore la maggior fama acquistata da lui colla tragedia di Oreste, ancorchè la drammatica si trovasse in quel tempo nella sua infanzia. Arellio, vissuto qualche tempo appena prima d’Augusto, si rese celebre, ma fu rimproverato d’aver corrotto l’onore dell’arte sua con una insigne turpitudine e quando toglieva a pingere una qualche Iddia, le prestava i tratti e le sembianze di qualche sciupata, della qual fosse innamorato; suppergiù come fanno tanti dei pittori odierni col dipinger sante e madonne, onde la pittura sacra cessò di produrre que’ capilavori, che ispirava ne’ tempi addietro la fede. Amulio invece fu severo e si narra che la sua Minerva riguardasse lo spettatore da qualunque parte le si fosse rivolto; Accio Prisco si loda per accostarsi meglio alla maniera antica, e quest’ultimo viveva ai tempi di Vespasiano, quindi presso agli ultimi giorni di Pompei.

In questa città, più ancora che in Roma, risentono le pitture del far greco: certo molti artefici greci quivi furono e lavorarono. Voler tener conto, oltre quelli che già rammentai lungo il corso dell’opera, di tutti i dipinti di storia e di mitologia, non mi trarrei sì presto di briga: d’altra parte ho accennato in capo di questo articolo che tratta delle Arti belle, le opere che ne discorsero in proposito partitamente [377] e ne riprodussero i disegni. Tuttavia, come non dire del quadro di Tindaro e di Leda, meritamente considerato come uno dei più preziosi avanzi della pittura degli antichi? Vivacità di colorito, armonia di tinte e leggiadria di composizioni fecero lamentare che i suoi colori oggi sieno di tanto smarriti. Così la bella Danae scoperta nella casa di Pansa; l’Adige ferito nelle braccia di Venere, che diede il nome alla casa in cui fu trovato; il Meleagro, onde fu detta la casa in cui era, nella quale pur si trovarono Achille e Deidamia; Teti che riceve da Vulcano le armi d’Achille; Dejanira su d’un carro che presenta Ilio figliuol suo ad Ercole, mentre il Centauro Nesso offre di tragittarla sul fiume Eveno, e Meleagro vincitore del cinghiale Calidonio; ambe rinvenute nella casa detta del Centauro; Castore e Polluce, il Satiro ed Ermafrodito, Apollo, Saturno, Achille fanciullo immerso nello Stige, Marte e Venere, Endimione e Diana, Eco e Narciso, Giove, La Fortuna, Bacco, pitture tutte scoperte nella preziosissima casa che fu detta di Castore e Polluce od anche del Questore; Venere che pesca all’amo; Ercole ed Onfale, grande pittura scoperta nella Casa di Sirico e i diversi subbietti spiccati all’Iliade, che si giudicarono fra i dipinti più egregi per composizione ed esecuzione finora tratti in luce, che si videro nella Casa d’Omero, detta altrimenti del Poeta; fra cui pure fu ammirata la bellissima Venere, che Gell non esitò punto a paragonare per [378] la forma a quella sì celebrata de’ Medici, e pel colore a quella non men famosa di Tiziano.

Fu nel peristilio della medesima casa di Sirico che si trovò il Sacrificio di Ifigenia, copia del rinomato quadro che fu il capolavoro di Timanto.

Certo che tutte le opere di pittura in Pompei non hanno egual merito, nè vantar si ponno di molta correzione; ma in ricambio quasi sempre vi è l’evidenza, l’espressione, la verità, vivacità di colorito e intonazione ad un tempo e la luce ben diffusa e tale spesso da rischiarare di sè la piccola camera. «Et quel mouvement dans toutes ces figures, sclama Marc Monnier, che amo citare, perchè autorità di straniero, quelle souplesse et quelle vérité!! Rien ne se tord; mais rien ne pose. Ariane dort réellement, Hercule ivre s’affaisse, la Danseuse flotte dans l’air comme dans son élément, le centaure galope sans effort; c’est la réalité simple (tout le contraire du Réalisme), la nature belle qu’elle est belle, dans la pleine effusion de sa grâce, marchant en reine parce quelle est reine et qu’elle ne saurait marcher autrement. Enfin ces peintres subalternes, vils barbouilleurs de parois, avaient à defaut de science et de correction, le genie perdu, l’instinct de l’art, la spontaneité, la liberté, la vie[334].

La quale splendida testimonianza che ho recata colle parole del francese scrittore, applicar non si [379] vogliono — intendiamoci bene — a quelle principali composizioni storiche o mitologiche che ho più sopra annoverate, ma sì a quelle altre sole che superiormente ho distinte nella classe delle Figure isolate. Sentimento di quel critico, diviso pure da ben altri e da me, è che alle più importanti opere di pittura, alle storie onde si decoravano le pareti più ampie delle case si ponessero artisti i meglio riputati, e che invece a quelle isolate, si applicassero altri di minor levatura.

Queste figure isolate servivano il più spesso a decorare le pareti minori, quando pure le grandi non venissero disposte a piccoli quadri, a decorar lacunari ed agli effetti architettonici: erano il più spesso Ninfe, Danzatrici, Baccanti, Centauri, Sacerdotesse, Canefore e Cernofore, Genj alati, Amorini, Fame, Vittorie e Fauni, Muse e Iddii. Ma non furon sempre opere di poco momento o di merito secondario; perocchè talune, che si ebbero conservate, fossero altrettanti capolavori. Le raccolte infatti che si publicarono de’ pompeiani dipinti, fra le tante figure isolate, recarono i disegni di veri piccoli capolavori. Tale a mo’ d’esempio è la imponente Cerere rinvenuta nella Casa detta di Castore e Polluce o del Questore, in cui sembrarono essere di proposito state accumulate le più leggiadre opere di arte; il Giove che stava nella casa detta del Naviglio di fronte ad uno dei lati del tempio della Fortuna, e il quale ha tutta la [380] maestà del padre degli Dei. Ma forse la figura isolata più pregevole, è per generale avviso la Meditazione seduta su d’una sedia dorata, i lineamenti della quale sono eseguiti con tanta cura e dotati di tanta espressione, direbbesi individuale, da essere indotti a credere che dovesse essere un ritratto. E poichè sono a dire di questo genere di pittura, che è de’ ritratti, il lettore ricorderà i due ritratti di Paquio Proculo e di sua moglie, de’ quali m’ebbi ad intrattenere nel passato capitolo: se non sono essi da collocarsi fra le migliori opere, attestano nondimeno della costumanza che si aveva fin d’allora di farsi ritrarre, oggi divenuta omai una mania, atteso il buon mercato della fotografia.

Non vogliono poi essere passati sotto silenzio l’Apollo Musagete, o duce delle Muse e le nove Muse, isolatamente dipinti in tanti quadri, che si rinvennero negli scavi nell’anno 1785 nella vicina Civita, avente ognuna figura i proprj emblemi, e più che questi, la propria peculiare espressione.

In quanto alla pittura di genere, non voglio dire si possano vantare tante meraviglie quante se ne ammirarono in quella istorica, e quel che ne vado a dire ne fornirà le ragioni. In quella vece vuolsene segnalare un certo pregio in ciò che a me, come agli scrittori delle cose pompejane, giovarono alla interpretazione di importanti cose attinenti l’arti e i mestieri.

Fin da quando le scuole greche piegarono a decadenza, [381] per la smania del nuovo, molti artisti si buttarono ad una pittura casalinga e di particolari, che i moderni chiamarono di genere. Là, dove l’arte si ispirava sempre al grande ed al meraviglioso ed era aliena per conseguenza dal realismo, l’avvenimento non fece che sollevare il dispregio e questi artisti si designarono come pittori di cenci, e noi diremmo da boccali. Tuttavia sulla mente del popolo que’ dipinti che si esponevano ad insegna di bottega facevano impressione: erano richiami influenti e que’ dipinti si ricercarono a furia da merciai e venditori. Così Pireico ottenne fama, sapendo dipingere insegne da barbiere e da sarto; Antifilo, pingendo uno schiavo soffiante nel fuoco ad una fabbrica di lana; Filisco un’officina da pittore e Simo il laboratorio d’un follone[335]. Orazio ci ha poi ricordato ne’ versi, che in altro Capitolo (Anfiteatro) ho citati, un’insegna gladiatoria e nel capitolo delle Tabernæ ne ho pur toccato: or ne dirò, poichè mi cade in taglio, qualche cosuccia ancora.

L’Accademia d’Ercolano publicò ne’ suoi atti una serie di quadri scoperti fin dal 25 maggio 1755 in cui sono appunto espressi mercanti e lavoratori in pieno mercato, forse nel Foro di Pompei, dal quale appena differenziano i capitelli delle colonne, che in quel di Pompei son dorici, mentre nella architettura [382] de’ quadretti summentovati appajono corintii; perocchè nel resto tutto vi sia fedelmente riprodotto.

In uno si veggono due mercanti di drappi di lana, che trattan di loro merce con due avventrici: in altro è un calzolajo che in ginocchio prova a calzare delle scarpe a un suo cliente e nel fondo appiccate veggonsi al muro diverse calzature.

Un altro calzolajo è raffigurato in un altro quadro e colla bacchetta alla mano con cui misura il piede, porge un calzaretto a quattro pompejane sedute, di cui l’una ha in grembo un fanciullo. Buona la composizione, pessima ne è la esecuzione. Evvi un’altra pittura, in cui sono due genietti pure calzolai: l’uno ha nelle mani una forma, l’altro ha il cuojo che si dovrà adattare su di essa, onde foggiarlo a calzatura. In un armadietto a due battenti aperti veggonsi scarpe diverse e presso un vasetto e un bacino contenenti il colore per dare il lucido alle pelli. Evvi anche il commerciante di forbici, fibule, spilloni; il vasajo e il panattiere seduto alla turca sul suo banco.

Parlando della Fullonica, già dissi del dipinto che vi si trovò nel 1826 e che reca tutto il progresso di quell’arte de’ gualcherai, di esecuzione assai migliore delle altre, nè mi vi arresterò di più: invece nelle pitture di decorazione veggonsi fabbri, genietti alati con arnesi fabbrili, altri recanti nelle mani quelli del pistrino e del torchio.

Del pregio de’ paesaggi, che formavano soventissime [383] volte il fondo dei dipinti storici più importanti, dissi più sopra, e noterò meglio ora, che pur frequenti volte si trovino nei fregi e sotto altri dipinti di figura, riprodotti animali, come buoi, lupi, pantere, capre ed uccelli, talvolta condotti con non dubbia abilità.

Ora una breve parola della pittura de’ fiori. Nulla, scrive Beulé, nulla è più grazioso che le pitture rappresentanti piccoli genii che figurano il commercio de’ fiori. La gran tavola coperta di foglie e di fiori, i panieri che essi portano, che vuotano e riempiono, le ghirlande sospese, tutto ci richiama Glicera, la bella fioraia di Sicione che il pittor Pausia amava, e della quale egli copiava i bei mazzi, tanto sapeva comporli, disponendovi i colori ed ogni loro gradazione. Le più leggiadre rappresentazioni in questo genere, trovansi in quattro comparti decorativi d’una camera sepolcrale che Santo Bartoli ha disegnati. V’hanno fanciulli che colgono de’ fiori, ne riempiono i cestelli, ne caricano le spalle loro, attaccati in equilibrio su d’un bastone. Il picciolo mercante che va tutto nudo recando questa serie di ghirlande, è veramente degno di osservazione.

Scultura.

Veniamo ora alla parte statuaria, seguendo anche in questo argomento l’egual sistema di trattar delle sue condizioni generali nel mondo romano, particolareggiando poi intorno alle opere pompejane.

[384]

Io intendo trattare in proposito non solo delle statue in marmo, ma ben anco di quelle in bronzo e de’ bassorilievi; perocchè sieno tutte opere attinenti la scultura; solo omettendo di quelle ne’ più preziosi metalli, per averne già toccato alcunchè parlando degli orefici e delle orificerie in Pompei.

Anche nella statuaria l’Etruria precedette ogni altra parte d’Italia. Se le sue prime produzioni presentarono un genere presso che eguale alle produzioni de’ popoli incolti, presto per altro assunsero una propria maniera: anzi dai molti saggi recati alla luce dagli scavi in più località praticati, e di cui sono arricchiti i nostri musei, si può asserire che due fossero le maniere, o stili affatto distinti di disegno. Del primo, dice Winkelmann, esistono ancora alcune figure e somigliano le statue egiziane, in quanto che hanno esse pure le braccia pendule ed aderenti alle anche, ed i piedi posti parallelamente l’un presso l’altro: il secondo è caratterizzato dalle esagerazioni dei movimenti e di una ruvidezza di espressione che gli artisti si sforzarono di imprimere ai loro personaggi.

Da questa seconda maniera si fa passaggio alla maniera de’ Greci, di cui gli Etruschi, dopo l’incendio di Corinto e il saccheggio d’Atene datovi da Silla, che spinse gli artisti di Grecia in Italia, divennero discepoli e collaboratori.

Tuttavia i primi Etruschi potevano a buon dritto [385] vantarsi d’aver con successo trattato scultura e pittura fino dai tempi in cui i Greci non avevano che assai scarsa cognizione delle arti che dipendono dal disegno: argomento pur questo che avvalora la credenza dal Mazzoldi espressa nelle sue Origini Italiche, non abbastanza apprezzate come si dovrebbe, che la civiltà fosse prima dall’Italia importata alla Grecia, i Pelasghi appunto e gli Atalanti procedendo dalla terra nostra.

Plinio ne fa sapere infatti che in Italia venisse eseguita una statua innanzi che Evandro, mezzo secolo prima della guerra di Troja, giungendo dalla nativa Arcadia, sostasse sulle sponde del Tevere e vi fondasse Pallantea, che ho più sopra ricordato; e ne trasmise pur la notizia che nel suo tempo si vedevano ancora a Ceri, una delle dodici principali città dell’Etruria, affreschi d’una data anteriore alla fondazione di Roma. Egualmente le pitture del tempio di Giunone, condotte da Ludio Elota, prima che Roma esistesse, in Ardea, città del Lazio, capitale dei Rutuli e soggiorno del re Turno, come raccogliesi dal Lib. VII dell’Eneide, della freschezza delle quali rimaneva quell’enciclopedico scrittore maravigliato, non meno che dell’Atalanta e dell’Elena di Lanuvio, la prima ignuda, la seconda invece decentemente palliata e spirante timidezza e candore.

Fondata Roma, Romolo e Numa ricorsero, come mezzo di civilizzazione, a imporre il culto a quelle [386] immagini di numi che Evandro ed Enea avevano recato in Italia ne’ più remoti tempi, quantunque poi per crescere loro autorità, li avessero a circondar di mistero tenendoli gelosamente ascosi agli sguardi profani. Le prime opere di scultura presso i Romani si vuole essere state statue di legno o di argilla, raffiguranti divinità. D’altri personaggi si citano le statue: di Romolo, cioè, di Giano Gemino, consacrate da Numa, la prima anzi delle quali coronata dalla Vittoria, fu poscia collocata sopra una quadriga di bronzo tolta dalla città di Camerino. Più innanzi il simulacro dell’augure Accio Nevio e delle due Sibille e le statue equestri di Orazio Coclite e di Clelia trovasi scritto che venissero fuse in bronzo in epoca assai prossima a quella in cui siffatti personaggi avevano vissuto. Anche nel Foro Boario venne collocata in quei primi tempi una statua d’Ercole trionfatore; come più tardi sulla piazza del Comizio venne posta quella di un legista di Efeso, appellato Ermodoro. Un Turriano, scultore di Fregela lavorò in rosso una statua di Giove e fu cinque secoli avanti l’Era Volgare. Un Apollo di smisurata grandezza fu da Spurio Carvilio, dopo la sua vittoria contro i Sanniti, fatta fondere in bronzo, usando all’uopo delle spoglie tolte a’ vinti nemici.

Non è che dugentottanta anni prima di Cristo, dopo la sconfitta di Pirro, che a Roma venne offerto lo spettacolo di una esposizione di molti e pregevoli oggetti [387] d’arte, quadri e statue che dall’esercito Romano erano stati predati in un con ingente quantità d’oro e d’argento, ed altre preziosità negli accampamenti del Re epirota, che alla sua volta erano stati da lui derubati nella Sicilia ai Locri, nel saccheggio dato al tesoro del loro tempio sacro a Proserpina.

I monumenti che la nazione consacrava ad eternare i fasti più gloriosi consistevano d’ordinario in semplici colonne, rado a’ più valorosi capitani concedevasi l’onoranza di una statua, limitata l’altezza a tre piedi soltanto, onde designate venivano codeste statue col nome di tripedaneæ; mentre poi sigillæ dicevansi quelle più piccole d’oro, d’argento, di bronzo od avorio, le quali erano per solito d’accuratissimo lavoro.

Pel contrario nelle case private, i patrizj collocavano in apposite nicchie le immagini dei loro illustri maggiori, e se n’era anzi costituito un diritto, solo concesso a coloro che avessero sostenuto alcuna carica curule, come il tribunato e la questura, ed erano la più parte lavorate in cera; talvolta per altro in legno, in pietra od in metallo. Chi di tal diritto fruiva, poteva processionalmente siffatte immagini portare nelle pompe funerali, lo che ognuno si recava a sommo di onore.

La presa di Siracusa per opera di Marcello e le conquiste della Macedonia, della Grecia e dell’Asia, per quella di Paolo Emilio, di Metello e de’ Scipioni, [388] dovevano rendere più acuto il desiderio di possedere oggetti d’arte, comunque non fosse giunto, come dissi più sopra, a farsene il virtuale apprezzamento neppur a’ tempi della maggiore coltura, come furono quelli di Cesare e di Cicerone. Perocchè i trionfatori tutte le meraviglie dell’arte, di cui i Re macedoni avevano impreziosito le loro principali città, mandassero a centinaja di carra a Roma, in un con tante altre ricchezze; per modo che per centoventitre anni di seguito non s’avesse bisogno di prelevare imposte sui cittadini.

Come già narrai, si travasarono dalla Grecia in Roma, coi capolavori dell’arte, anche i loro artefici, e poterono così stabilirvi le loro scuole e sistemi e farli prevalere, che il Senato con apposito decreto mandò multarsi gli scultori che si fossero allora allontanati dalle dottrine di essi, la eccellenza delle quali veniva tanto splendidamente attestata da sì egregie ed immortali opere.

Le statue, che dapprincipio avevano giovato soltanto ad illustrare i trionfi, vennero pertanto adoperate ben presto a decorar piazze e monumenti e quindi a crescere il fasto delle abitazioni private. Silla, Lucullo, Ortensio e il cliente di lui Cajo Verre, diedero il primo esempio: dietro di essi vennero tutti i più facoltosi degli ultimi tempi della Republica, seguiti pure da tutti quelli delle colonie, come rimangono ad attestarcelo tanti capolavori, de’ quali più avanti dirò, rinvenuti in Ercolano e Pompei.

[389]

Di tal guisa gli artisti greci venuti a Roma vi trovarono molto lavoro e fortuna. Si citano fra essi un Pasitele, che eseguì una statua nel tempio di Giove e n’ebbe il diritto di cittadinanza; i suoi allievi Colote e Stefanio; Arcesilao, che scolpì la Venere genitrice per Cesare, il qual si vantava da lei discendere; Apollonio e Glicone, autore dell’Ercole Farnese, condotti a Roma da Pompeo; Alcamene e Cleomene, Poside e Menelao, Decio e Damasippo, e sotto Augusto Menofante e Lisia, Nicolao e Critone e l’ateniese Diogene, che condusse le statue che si collocarono sul frontone del Pantheon di Agrippa. Augusto stesso fece erigere sotto il portico del suo Foro le statue degli oratori e de’ trionfatori più illustri, e in Campidoglio si vede tuttavia una statua di questo imperatore con un rostro di nave a’ suoi piedi in memoria di sua vittoria sovra Sesto Pompeo.

Ma ho ricordato testè Cajo Verre. Or come si può, anche sommariamente, come faccio io qui stretto dall’economia dell’opera, ritessere la storia dell’arti, o piuttosto compendiarla, senza ricordare le gesta infami di quest’uomo, contro cui si scagliarono le folgori della eloquenza del sommo Oratore?

Cajo Licinio Verre, senatore, era stato proquestore dapprima in Cilicia, poscia pretore per tre anni in Sicilia, dove, non pago dell’ordinaria rapacità de’ suoi colleghi, trattò la Sicilia più che paese di conquista. Abusando del suo potere, fece man bassa su tutte le [390] preziosità publiche e private. Quadri e statue de’ più celebri artisti attiravano specialmente la sua cupidigia, nè ristava davanti alcuna legge divina ed umana per venirne in possesso. Cicerone, difendendo contro lui le ragioni de’ Siciliani, aveva potuto senza iperboli esclamare: «Dove sono le ricchezze strappate a forza a tanti popoli soggetti e ridotti omai alla miseria? Potete voi chiederlo, o Romani, quando vedete Atene, Pergamo, Mileto, l’Asia, la Grecia inghiottite nei palagi di alcuni spogliatori impuniti?» Minacciato per ciò d’accusa capitale, egli aveva prese le sue cautele, nè restava punto dal dichiararle svergognatamente a’ suoi amici, dicendo: io feci del prodotto del triennio che durò la mia pretura tre parti: una per il mio difensore, una per i miei giudici e la più grossa per me.

Il suo difensore fu Ortensio, che oltre essere rinomatissimo oratore, era appassionatissimo delle opere di arte, vantandosi fra gli altri di possedere il dipinto degli Argonauti di Cidia, che aveva costato centoquarantaquattro mila sesterzi, che sarebbero lire ventottomila delle nostre. Cicerone dice di Verre: che in lui la cupidigia d’artistiche cose era un furore, un delirio, una malattia, dacchè in tutta la Sicilia non esistesse un vaso d’argento o di bronzo, fosse di Delo o di Corinto, non una pietra incisa, non un lavoro di oro, d’avorio, di marmo, non un quadro prezioso, non un arazzo, che quell’avido governatore non volesse [391] vedere co’ proprj occhi, per trattenere poi quanto gli sembrava opportuno ad arricchire la di lui raccolta. Basti per tutti il seguente aneddoto. Antioco, figlio del re di Siria, volendo sollecitare l’amicizia del Senato romano, viaggiava alla volta della grande città, seco recando un ricchissimo candelabro, per donarlo al tempio di Giove Capitolino. Transitando per la Sicilia, ricambiando Verre d’una cena, questi vedute le mille preziosità che aveva, sotto pretesto di mostrarle a’ suoi orefici, se le faceva col candelabro portar a casa. Vi consentiva Antioco; ma quando si trattò della restituzione, il ladro pretore tanto insistè per aver tutto in dono, che alla perfine, a lasciargli ogni cosa si decise, purchè almeno gli rendesse il candelabro destinato al popolo romano. Verre ricorse dapprima a pretesti per ricusargli anche questo; ma poi impose termine a ogni contesa, intimando recisamente al re che sgombrasse avanti notte dalla provincia.

Chiederà il lettore se tanto ladro venisse poi condannato. Risponderò che non fossero questi soltanto i gravami contro lui formulati: altri furti e depredamenti d’ogni genere da lui commessi in Acaja, in Cilicia, in Panfilia, in Asia ed in Roma; la venduta giustizia, le violenze, gli stupri, l’oltraggiata cittadinanza; sì che li potesse così Cicerone riassumere nella Verrina De Frumento: Omnia vitia, quæ possunt in homine perdito nefarioque esse, reprehendo, nullum esse dico indicium libidinis, sceleris, audaciæ, [392] quod non in unius istius vita perspicere possitis[336].

Ebbene, Cicerone appena ne potè assumere l’accusa protetto da Pompeo; ma il fece con tanto vigore fin dalla prima arringa, che spaventatone Ortensio, disperando dell’esito del suo patrocinio, ne dimise tosto il pensiero, e Verre stesso persuaso, andò spontaneamente in esiglio, dove passò la trista vecchiezza e morì proscritto da’ Triumviri, come ce lo lasciarono ricordato Seneca e Lattanzio[337], condannato però a restituire a’ Siciliani quarantacinque milioni di sesterzi, dei cento che essi avevano addomandato e che forse non rappresentavano tutto il danno della sua rapina.

Le altre orazioni che contro Verre si hanno di Cicerone, non furono recitate, attesa la contumacia dell’accusato; ma corsero allora manoscritte per le mani di tutti e a’ posteri rimasero monumento, come di eloquenza, così della condotta de’ magistrati romani, che nella propria Verre compendiava.

Toccai più sopra di Augusto, come l’arti favorisse e gli artisti, e da Tito Livio infatti egli venne chiamato per antonomasia riedificatore dei templi, ed a [393] buon diritto però potè morendo dire di sè: Trovai Roma fabbricata di mattoni e la lascio fabbricata di marmo.

Fu sotto di lui che Dioscoride portò la glittica, od incisione in pietre dure, al più perfetto suo grado e si levano a cielo il suo Perseo, la Io, il Mercurio Coriforo, ossia portante un capro, e il ritratto dell’oratore Demostene inciso su d’un’ametista. Nello stesso genere furono pure lodatissimi Eutichio figliuolo di Dioscoride, Solone, Aulo e chi sa quanti altri, se i Musei tutti serbano i più squisiti cammei di quel tempo e se dagli scavi di Pompei se ne tolsero di preziosissimi, tali da formare la meraviglia di chi li vede adesso nel Museo Nazionale di Napoli.

E poichè m’avvenne di ricordare la glittica o glittografia, come altri la chiama, nel difetto di trattati antichi intorno a quest’arte, — perocchè non se n’abbiano che pochi cenni nelle opere di Plinio, — parmi potersi ritenere che avessero a un dipresso in antico i metodi che si han pur di presente in Italia, dove a preferenza fu sempre coltivata e portata a perfezione. Ad intaccar la pietra, si usava dagli artefici romani una girella che chiamavano ferrum obtusum, e la cannella da forare appellata da Plinio terebra, giovandosi del naxium, specie di grès di Levante, poi dello schisto d’Armenia, a cui sostituirono da ultimo lo smirris, che noi diremmo smeriglio. Credesi nota agli antichi la punta di diamante come strumento [394] attissimo all’incisione. Delle pietre dure incise valevansi principalmente a farne anelli e sigilli; onde, litoglifi dicevansi gli artisti intagliatori di pietre, e dattilioglifi gli intagliatori di anelli, usandosi anche nello stesso significato le parole più prettamente latine sculptores e cavatores.

E qui chiudo la parentesi, che parvemi necessaria a dare una qualunque idea di questa particolare arte del disegno e ritorno al primo subbietto.

Del tempo di Tiberio, ha poco a registrare la storia dell’arte, se non è la statua di quel Cesare che fu ritrovata in Carpi e una effigie colossale ricordata da Flegone, liberto d’Adriano, nel suo Trattato delle cose meravigliose. Nè di meglio del tempo di Caligola e di Claudio; comunque del primo si sappia ch’ei chiedesse agli artisti invenzioni straordinarie e prodigiose: di quello di Nerone varrebbe invece intrattenerci, se di lui stesso ebbe a scrivere Svetonio: pingendi fingendique, non mediocre habuit studium[338]; ciò che inoltre gioverebbe a provare che la professione dell’Arti Belle, non fosse più, come per lo addietro, cotanto disprezzata.

A lui è imputato d’aver dato l’incendio a parecchi quartieri della città; ma lo si pretende escusare, dicendo averne avuto il pensiero per distruggere tante indecenti [395] catapecchie, onde in luogo di esse sorgessero palagi, si ampliassero le vie, e potesse meglio allinearne le mura e imporre alla città il proprio nome, appellandola Neropoli. E vi fabbricò infatti la Casa di Oro, che dissi più sopra quant’area occupasse e vi fe’ portare statue e quadri de’ più famosi autori, arredi d’oro, d’argento, d’avorio e madreperla, e collocarvi quel colosso, di cui pure più sopra accennai, eseguitovi da Zenodoro, alto cento piedi, nel cui lavoro impiegò l’artefice ben dieci anni e il cui valore fu di quaranta milioni di sesterzi, a dir come nove milioni di lire italiane.

Sotto gli imperatori di casa Flavia, Vespasiano e Tito, dai quali veduto abbiamo eretto l’Anfiteatro, detto il Colosseo, non si sa che importanti opere scultorie venissero in Italia condotte, dove si eccettuino una bella statua rappresentante l’imperatore Tito ed una bella testa colossale del medesimo imperatore, che Winkelmann ricorda.

È anche a quest’epoca appartenente di certo, secondo l’opinione d’Ennio Quirino Visconti, l’incomparabile gruppo del Laocoonte, degli artisti rodii Agesandro, Atenodoro e Polidoro, che Plinio non esitò a dichiarare Opus omnibus et picturæ et statuariæ præponendum[339].

[396]

Viste così le principali cose di scultura pertinenti all’epoca imperiale infino ai giorni del cataclisma vesuviano, mi conviene ora completarne il discorso colle opere scoperte in Ercolano e in Pompei.

Le più grandi si rinvennero in Ercolano: tali la statua equestre in marmo di Nonio Balbo e quella del figliuol suo, che ne fiancheggiavano la basilica e la importanza delle quali opere lasciò indovinare l’importanza altresì de’ personaggi che rappresentavano; onde ne dolse che nè la storia, nè gli scavi abbiano finora portato alcun lume su di essi; tali il magnifico cavallo in bronzo, rinvenuto nel teatro e già spettante ad una quadriga, che nei primi scavi colà praticati venne messa sventuratamente a pezzi, e ricomposta poi, forma oggidì una delle più interessanti e preziose opere del Museo di Napoli in un con alcune figure del bassorilievo del carro, con un Bacco, otto statue consolari, quelle di Nerone, Claudio Druso e sua moglie Antonia, un ministro di sagrifici in bronzo e due teste di cavallo, e una statua di Vespasiano, e due di bronzo rappresentanti Augusto e Claudio Druso. Nello stesso Museo di Napoli, sono pure le statue di sei celebri danzatrici, trovate nella casa detta dei Papiri[340], il magnifico [397] Fauno ebbro, in bronzo, ch’era a capo della piscina nello xisto di essa casa, i busti di Claudio Marcello, di Saffo, di Speusippo, Archita, Epicuro, Platone, Eraclito, Democrito, Scipione l’Africano, Silla, Lepido, Augusto, Livia, Cajo e Lucio Cesare, Agrippina, Caligola, Seneca, Tolomeo Filadelfo, Tolomeo Filometore, Tolomeo IX, Tolomeo Apione, e Tolomeo Sotero I; di due Berenici e di due altri personaggi sconosciuti. Una statua e cinque busti in bronzo si trovarono nella stessa casa, su l’un de’ quali si lesse il nome dell’artefice: Apollonio figlio di Archia ateniese.

Circa alle opere di statuaria rinvenute in Pompei, esse sono in numero minore che non ad Ercolano; ma non sono meno pregevoli. Io ne ricorderò taluna e saranno le principali.

Nel tempio d’Iside fu rinvenuta una bella statua in marmo rappresentante Bacco, che fu detto, forse dal luogo in cui fu trovato, Isiaco. Essa appare coronata di pampini la testa, e colla destra alzata, cui tien rivolto affettuosamente lo sguardo, ci fa supporre che stringesse un grappolo. Al piede sta una pantera, e sulla base leggesi la iscrizione che ho già riferita parlando di questo tempio[341], dove ho pur ricordata la statua di Venere Anadiomene coll’ombilico dorato. Nel Pantheon, o piuttosto, come più [398] rettamente fu giudicato, tempio d’Augusto, nel 1821 si trovarono quelle due statue che già ricordai, le quali si ritennero rappresentare l’una Livia sacerdotessa d’Augusto, l’altra Druso: la prima sopratutto è una delle opere di scultura più rimarchevoli che vi si scoprissero. Ha essa una tale maestà che a chi la riguarda incute reverenza.

Ma siccome a suo luogo ho già ogni volta ricordate le opere di plastica; così de’ marmi, altro non ricorderò qui che il bassorilievo in marmo di Luni, o come direbbesi oggi di Carrara, raffigurante una biga, su cui sta un africano, e alla quale sono attelati due corridori preceduti da un araldo, come si usava comparire in publico da’ magistrati. La purezza dei disegno e della esecuzione rivelano l’artefice greco.

Dirò meglio de’ bronzi.

Leggiadra è la statuetta trovata in una nicchia innalzata nel mezzo di una stanza, rappresentante Apollo, e sì ben conservata, che neppure appajano danneggiate le corde argentee della lira. Taluni, all’acconciamento alquanto muliebre de’ capelli, alla delicatezza de’ lineamenti del volto, ed all’espansione del bacino, vollero invece ravvisarvi un Ermafrodito.

Una Diana vendicatrice, sarebbe la più armonica figura, se non vi disdicessero certe alacce mal attaccate: più lodevole e prezioso lavoro è il gruppo di Bacco ed Ampelo, dove gli occhi sono intarsiati in argento.

[399]

Ma tre statuette vi sono che vengono considerate come altrettanti capolavori e i migliori che furono scavati in Pompei: l’una rappresentante il Fauno danzante; l’altra Narciso; la terza un Sileno. Il loro merito si costituisce principalmente dalla maravigliosa e caratteristica espressione, dalla perfetta concordanza di tutte le parti, dalla irreprensibile finezza d’ogni particolare, da una esecuzione insomma completa del bello ideale.

Il Fauno ritrovato nella casa, cui per la propria eccellenza fu imposto il suo nome ed era nel mezzo dell’impluvium, ha il capo incoronato di foglie di pino, le braccia alzate, le spalle alquanto rigettate all’indietro, ogni muscolo in movimento e il corpo tutto in atto di chi sta per muovere alla danza. Non può essere ammirato il minuto lavoro del metallo, se non che vedendolo: l’epidermide è così resa morbidamente, da vedervi sotto la vita: opera certo codesta della più perfetta fusione, che non ebbe d’uopo per bave o altre scabrosità, di lima o di cesello dell’artefice.

Fa riscontro al Fauno, il Narciso, statuetta trovata in una povera casuccia, ed è d’una grazia tutta particolare e nell’atteggiamento scorgesi come stia in ascolto della Ninfa Eco. La sua testa piega da una parte, come appunto farebbe chi sta ascoltando voce che giunga da lontano, teso ha l’orecchio, e il dito rivolto verso dove la voce muove. L’espressione non poteva essere più felicemente côlta.

[400]

Il Sileno finalmente, più recentemente trovato dal comm. Fioretti, è ancora più perfetto, se è possibile; quantunque pel soggetto si mostri rattrappito e curvo. Era pur desso decoro d’una fonte: ciò che ne fa ragionevolmente supporre che dunque nell’interno delle camere vi fossero ancora maggiori preziosità di quelle ritrovate, se così all’aperto si tenevano siffatte maraviglie.

Molte opere peraltro della statuaria pompejana accusano la decadenza dell’arte, come infatti al tempo della catastrofe della città l’arte romana se ne andava degenerando nel barocco. E fu in questo tempo che alle statue prevalsero i busti, l’abbondanza de’ quali segna appunto il nuovo periodo della decadenza cui si veggono spesso aggiunte le spalle, parte del torace e talvolta le mani e qualche panneggiamento. Peccano questi assai sovente d’esagerazione, ma in ricambio conservano l’individualità. Sempre a’ giorni del decadimento si fecero busti di più marmi e colori, l’una parte nell’altra innestando, massime gli occhi e le vesti.

Marco Bruto. Vol. II. Cap. XVIII. Belle Arti.

Per completare quanto è attinente alla scultura nel suo più esteso significato, dovrei dire delle gemme. Qualche cenno ne ho fatto non ha guari più sopra, parlando della glittica, e per non entrare in maggiori particolari, ai quali assai si presterebbe il Museo Nazionale di Napoli, per quanti oggetti si raccolsero negli scavi d’Ercolano e Pompei, mi basti riassumerne [401] in concetto generale il discorso; che cioè anche in questo ramo dell’arte i Romani furono dapprima imitatori de’ Greci, adottandone i soggetti e desumendoli da fatti patrizii, sempre però con espressione allegorica. Ho già pur detto che in seguito, nell’epoca del risorgimento, Italia predominò tutte le altre nazioni nella perfezione di quest’arte. Impiegavasi questa principalmente nel lavoro di anelli e sigilli, de’ quali, come dissi in questa mia opera, usavasi moltissimo e però di pompejani se ne hanno molti: e la glittica poi conta inoltre fra’ suoi capolavori una maravigliosa coppa nel Museo napolitano summentovato.

Gneo Pompeo. Vol. II Cap. XVIII. Belle Arti.

Finchè si provò allora la influenza greca, l’arte romana grandeggiò; mano mano che scemava, amenenciva contemporaneamente di sua degnità, e, abbandonata a sè, ricadde nel fare pesante, secco e freddo.

Così ritengonsi di greci artefici i musaici, ai quali ho riserbato le ultime parole in questo capitolo dell’Arti, e dei quali Pompei ne largì di superbi, anzi il più superbo che si conti fra quanti si hanno dell’antichità, nella Battaglia d’Arbela o di Isso, come dovrebbesi per mio avviso più propriamente dire, ed a cui consacrerò peculiare discorso.

Ma prima si conceda che rapidi cenni io fornisca intorno a quest’arte.

Ne derivano la denominazione da Musa; quasi il [402] suo lavoro ingegnoso fosse invenzione ispirata dalle figlie di Mnemosine, o forse perchè se ne decorasse dapprima un tempio delle Muse. Ciò che più importa sapere si è com’essa unicamente consista nell’accozzamento di pietruzze, o pezzetti di marmo, di silice, di materie vetrificate e colorate, adattate con istucco o mastice sopra stucco e levigandone la superficie. Si chiamò dapprima pavimentum barbaricum, quando del musaico si valse per coprire aree alle quali si volle togliere umidità. Poi si disposero a disegni semplici, come a quadrelli di scacchiere, onde si venne al tesselatum, che era formato di pietre riquadrate. Progredendo l’artificio, ne seguì la specie del sectile, formato di figure regolari combinate insieme, che è quel lavoro che noi chiamiamo a commesso od a compartimento. Poi con frammenti orizzontali di forme diverse si giunse a piegare l’artificio a tutte le idee, capricci e disegni, come greche, festoni, ghirigori, ed a tutto quanto insomma costituisce ciò che chiamavasi opus vermiculatum, come si trova ricordato dal verso di Lucilio:

Arte pavimento, atque emblemata vermiculato

E qui piacemi avvertire come tutto questo processo non abbiasi a confondere con quello che dicevasi opus signinum, nome dato ad una peculiare sorta di materiale adoperato pure a far pavimenti, consistente in tegole poste in minuzzoli e mescolate con cemento, quindi ridotte in una sostanza solida colla mazzeranga. [403] Ebbero questi lavori il qualificativo di signini, dalla città di Signia, ora Segni, famosa per la fabbricazione delle tegole e che prima introdusse questo genere di pavimentazione.

Tutti questi primitivi saggi non erano ancora il musaicum propriamente detto, ma quel che i Greci chiamavano litostrato; per giungere al musivum opus, che rappresenta oggetti d’ogni natura, emblemata, non bastavano per avventura i marmi e ciottoli: convenne fabbricare de’ piccoli cubi di cristalli artifiziali colorati. Tornò facile il connettere le asarota, ossia musaici rappresentanti ossa e reliquie di banchetto, o un pavimento scopato, che con tanta naturalezza fu imitato, da ingannare chiunque.

Così, avanti ogni altro paese, in Grecia si spiegò il lusso de’ pavimenti e, prima di ogni altra città, presso gli effeminati sovrani di Pergamo. Citansi di poi i musaici del secondo piano della nave di Gerone II, che in tanti quadretti di meravigliosa esecuzione rappresentava i fatti principali dell’Iliade, tutti condotti a musaico; quindi i lavori eguali del magnifico palazzo in Atene di Demetrio Falereo.

È probabile che similmente si lavorasse a Roma coll’introdursi dell’arte greca; e quanto si rinvenne in Pompei potrebbe essere irrecusabile prova, se già noi non sapessimo come in questa città usi e costumanze vi fossero eziandio speciali e dedotti da Grecia, e come di colà vi si rendessero agevolmente [404] artisti. Tuttavia dal seguente passo di Plinio, pare che ai giorni di Tito imperatore, ne’ quali Ercolano e Pompei toccarono l’estrema rovina, questa del musaico fosse nuova importazione, e che appena facesse capolino in Roma verso il tempo di Vespasiano.

Plinio adunque, dopo aver detto che i terrazzi grecanici a musaico vennero da’ Romani adottati al tempo di Silla e citato ad esempio il tempio della Fortuna a Preneste, dove quel dittatore vi fece fare il pavimento con piccole pietruzze; così sostiene che l’introduzione de’ pavimenti di musaico nelle camere con pezzetti di vetro fosse affatto recente: Pulsa deinde ex humo pavimenta in cameras transiere, e vitro: novitium et inventum. Agrippa certe in Thermis, quas Romæ fecit, figlinum opus encausto pinxit: in reliquis albaria adornavit: non dubio vitreas facturus cameras, si prius inventum id fuisset, aut a parietibus scenæ, ut diximus, Scauri pervenisset in cameras[342].

Checchè ne sia, se recente consideravasi a’ tempi di Plinio il Vecchio l’introduzione in Italia del musaico, [405] questo si presenta nondimeno fiorentissimo d’un tratto e grande nelle opere pompejane.

Gli scavi offrirono saggi appartenenti a tutte le epoche di progresso di quest’arte, e in ognuno si manifesta una prodigiosa fecondità d’invenzione negli artisti della Magna Grecia, e chi si assunse di riprodurli con disegni ne ammanì interessantissimi volumi.

Non è possibile dunque occuparmene qui per ricordarli tutti; solo mi restringerò a dire de’ più importanti.

Un musaico quadrato di circa cinque piedi e tre pollici, fu rinvenuto nella casa detta di Pane, rappresentante un genio alato che a cavalcion d’un leone si inebbria. L’espressione del fanciullo è mirabile, come mirabile è la mossa del leone: la cornice a foglie, a frutti ed a maschere teatrali compiono la perfetta esecuzione.

Un altro di forma circolare, di sette piedi di diametro, trovato nella casa appellata del Centauro, rappresenta allegoricamente la Forza domata dall’Amore, in un leone ricinto da alati amori che gli intrecciano di fiori la fulva chioma. Nella parte superiore del musaico vedesi una sacerdotessa che fa una libazione; nella parte inferiore stanno l’una di fronte all’altra due donne sedute. Se non il disegno, che lascerebbe desiderj, l’esecuzione e l’effetto de’ colori sono sorprendenti.

[406]

Nella casa detta di Omero, nel tablinum si trovò un musaico istoriato raffigurante un choragium, o luogo in cui si facevano le prove teatrali, come già sa il lettore, per quel che ne ho detto nei capitoli intorno ai Teatri. Sono diverse figure in piedi, attori che stanno intorno al corago, o direttore, che li sta istruendo, il manoscritto della commedia alla mano. Un tibicine soffia nelle tibie, come accompagnando la recitazione del corago, perocchè paja veramente che ogni teatrale rappresentazione fosse dal suon delle tibie secondata. Vi hanno maschere disposte per gli attori e uno sfondo pure interessante: il tutto condotto con una rara maestria.

Nella stessa casa detta di Omero, sulla soglia si vide un musaico rappresentante un cane incatenato colla leggenda CAVE CANEM. Si raccoglie da tal lavoro artistico come all’usanza comune presso i Latini di tenere alla porta della casa un vero cane, quasi a custodia di essa, si fosse sostituito in tempi più civili una pittura del cane, eseguita in musaico e collocata, varcato appena il limitare, sul suolo colla suddetta leggenda; o altre parole, composte pure in musaico, bastassero, come SALVE, giusta quanto si vede nella casa delle Vestali, o SALVE LVCRV, ecc. consuetudine quest’ultima che vediamo copiata in molte case signorili de’ nostri giorni.

Ma eccoci alla casa del Fauno. In essa, ove già trovammo sorgere dal mezzo dell’impluvium la stupenda [407] statuetta in bronzo che forma altra delle opere più preziose degli scavi, si rinveniva altresì nel tablinum un musaico quadrato incorniciato da una greca assai corretta e dipinta a svariati colori, nel cui mezzo è un leone, che in uno stupendo scorcio, sembra stia per islanciarsi, così da incutere spavento a chi lo guarda. È a rimpiangere che sia assai danneggiato.

Nella stessa casa v’ha inoltre la maraviglia di quest’arte del musaico, la giustamente famosa Battaglia d’Arbela, o di Isso, o il passaggio del Granico che si voglia ritenere, che per grandezza, invenzione ed esecuzione sorpassa quanti musaici si conoscano finora. Mette conto che qui ne dica più largamente che non degli altri.

Anzitutto noto che esso misura un’altezza di otto piedi e mezzo, e una larghezza di sedici piedi e due pollici, senza calcolare il fregio, che a mo’ di cornice circonda il soggetto; onde hassi a ragione a proclamarlo per il più grande musaico conosciuto.

Ora eccone la descrizione.

A manca di chi riguarda, che è anche la parte più guasta, vedesi su d’un corsiero un giovane guerriero, che tosto distinguesi per il posto concessogli di fronte al capo dell’esercito nemico, come il capo esso pure dell’una delle armate. Ha la lorica di finissimo lavoro al petto e la purpurea clamide agli omeri ondeggiante. Ha scoperto il capo, perocchè il [408] cimiero gli sia nel calor della mischia caduto, e stringe nella destra la lancia, che sembra aver egli appena ritratta dal fianco d’un guerriero, cui è caduto sotto il cavallo ferito di strale che gli rimase confitto. L’agonia di questo infelice guerriero è espressa con toccante verità. Dietro di lui ve n’ha un altro, che comunque ei pur vulnerato, combatte tuttavia: ambi formanti intoppo a suntuosa quadriga, i cui cavalli veggonsi disordinati, ma che indubbiamente traggono altro importante personaggio, il qual rivolge l’attenzione sui due feriti e intima a’ suoi di venir loro in aiuto; mentre un soldato tiengli presso un corsiero in resta, su cui potrà quel personaggio montare appena ei ne abbia l’opportunità e pigliar diversa parte all’azione. Lo scorcio di questo cavallo è d’una prodigiosa bellezza. Tutto il resto dello spazio a destra non è che una scena di desolazione e scompiglio, comunque una selva di picche accenni che l’impeto de’ combattenti da ambe le parti prosegue.

Quanti studiarono la composizione di questo musaico, ne inferirono che le assise de’ guerrieri vinti, come la forma della quadriga, esser non possano che d’un esercito persiano, avendo tutti la tiara, propria di questo popolo, come si vede in altri antichi monumenti, e più ancora si distinguano per Persiani ai grifi ricamati sopra le anassiridi, o calzoni come essi portano, e sopra le selle.

[409]

Se dunque il guerriero vittorioso e feritore vestito alla greca, per la somiglianza al tipo assegnatogli da statue e medaglie è Alessandro il Grande: il capo de’ Persiani non può essere allora di necessità che Dario, perchè avente la tiara diritta, che solo aveva diritto il re di così portare[343]; com’egli solo la candice, o mantello di porpora, e la tunica listata di bianco[344] ed egli solo l’arco di sì straordinaria grandezza, ond’ebbero que’ della sua dinastia il nomignolo di Cojanidi, cioè arcieri.

Constatati i due capi principali degli eserciti nel musaico raffigurati, nelle persone dei due re, Alessandro e Dario, il soggetto allora deve rappresentare la Battaglia di Isso, non il passaggio del Granico, nè il combattimento di Arbela. Imperocchè il primo fu operato in estate; i Persiani in esso si servirono di carri falcati, che qui non si veggono, nè i due re si trovarono a fronte, e nulla poi indichi l’esistenza di un fiume, ciò che dall’artista non si sarebbe negletto di riprodurre a segnalare quel fatto, s’egli avesse inteso d’esprimere il passaggio del Granico. Egualmente la battaglia di Arbela fu combattuta ai primi di ottobre; v’ebbero pure carri falcati ed Alessandro incontro a Dario non si valse della lancia, come vedesi nel mosaico, ma dell’arco con cui uccise [410] l’auriga del re. Ora l’albero, che qui si vede tutto privo di foglie, esclude inoltre che non si potesse essere nè in estate, nè in ottobre, mentre in Assiria tutto un tal mese gli alberi serbino intatto l’onore delle frondi; ma nel verno, venendo anche da Plutarco ricordato che la battaglia di Isso fosse combattuta in dicembre, quando le piante dovevano essere, come nel musaico, prive di foglie. Diodoro Siculo e Quinto Curzio narrano per di più che a tal battaglia assistessero i dorifori, o guerrieri armati di lance, scelti per la guardia del re fra i dieci mila immortali, coi loro abiti ricamati d’oro e coi loro monili, e qui li vediamo appunto.

Tutte queste particolarità si raccolgono dai Cenni publicati dal dotto cav. Bernardo Quaranta[345], ravvicinandovi altresì i particolari storici che spiegano ognor meglio la composizione del musaico.

Dario tentò dapprima di decidere il combattimento d’Isso con l’ajuto della cavalleria; e già i Macedoni si vedevano accerchiati, allorquando Alessandro chiamò a sè Parmenione con la cavalleria tessala. Allora la mischia divenne terribile: Alessandro, scorto da lunge il re di Persia che incoraggiava i suoi dall’alto del suo carro ed alla testa della sua cavalleria, combatte egli come semplice soldato, per penetrare fino a colui che riguardava come suo nemico [411] personale e sperava la gloria di ucciderlo di sua mano. Ma ecco che offresi una scena sublime di coraggio e di devozione. Osoatre, fratello del re di Persia, vedendo il Macedone ostinato a cogliere Dario, spinge il suo cavallo dinnanzi la reale quadriga e trascina sopra tal punto la cavalleria scelta che egli comanda: ivi segue una spaventevole carnificina; ivi mordono la polve Atiziete e Reomitrete e Sabacete, Alessandro stesso vi è ferito nella coscia. Finalmente Dario prende la fuga, abbandonando la candice e l’arco reale.

Io plaudo e convengo pertanto col dotto illustratore, credendo sia qui veramente trattata la Battaglia d’Isso, e non altro combattimento d’Alessandro il Grande.

Tutto poi, per quanto riguarda esecuzione, è in questo musaico stupendamente trattato. Il guerriero che spira, cogli intestini lacerati, è di una verità insuperabile: i cavalli non potrebbero essere più belli e animati. Correzione di disegno, espressione di teste, movenza di figure, disposizione di gruppi, sapienza di scorci, colorito ed ombre, tutto vi è con una incredibile superiorità trattato.

«Or bene, conchiude un illustratore di questa insuperata opera, tutte siffatte bellezze non sono che quelle d’una copia: quei vivi lumi sono soltanto riflessi, perocchè il musaico fu imitato certamente da un quadro. Che dobbiamo dunque pensare dell’originale? [412] A chi attribuirlo? A Nicia, a Protogene, ad Eufranore, che dipinsero Alessandro? o piuttosto a quel Filosseno di Eretria, discepolo di Nicomaco, la pittura del quale, superiore a tutte le altre, a detta di Plinio, e fatta pel re Cassandro, rappresentava il combattimento di Alessandro e di Dario? Non si andrebbe per avventura più d’accosto al verisimile, pensando al divo Apelle stesso, che accompagnò Alessandro nella sua spedizione, e che solo ottenne in seguito il dritto di pingere il suo ritratto, come Lisippo quello si ebbe di gittarlo in bronzo, e Pergotele di scolpirlo sopra pietre preziose.»

Dopo ciò, mi trovo in debito di avvertire che il disegno che ho procurato per questa edizione del rinomatissimo musaico, appare completato dal lato sinistro, — che, come ho già avvertito, fu non so dire se dall’ultimo cataclisma toccato a Pompei, o dal precedente, o fors’anco dall’incuria di chi lo sbarazzò dalle rovine, come or si vede al Museo Nazionale, guasto, — per opera del ch. pittore napolitano Maldarelli padre, da un acquarello del quale, fornitomi dal mio eccellente amico Adolfo Doria, l’ho fatto ricavare perchè il lettore avesse un’idea esatta della maravigliosa composizione.

Non tenni conto più sopra, onde non interrompere il corso della storia dell’arti, delle botteghe o studj di scultura, che emersero dagli scavi di Pompei: trovi qui il cenno di essi il proprio posto.

[413]

Nell’uscire dalla nuova Fullonica, e discosto di poco dalla medesima, designata dal N. 5, fu scoperto uno studio di scultura, riconosciutosi tale dalla esistenza di più un blocco di marmo, già digrossato e abozzato, e diversi arnesi atti appunto a lavorare il marmo e condurre oggetti d’arte.

Ma uno studio di scultura, anzi tutta una dimora, più interessante all’epoca di sua scoperta, che fu verso la fine del passato secolo (1795-98), perocchè adesso lo si ravvisi nel più deplorevole stato di abbandono e di rovina, sorgeva nella casa presso il tempio di Giove e di Giunone, nella via di Stabia. Ivi pure, nell’atrio della casa, si raccolsero statue appena abozzate, talune presso ad essere compite, elegantissime anfore di bronzo, blocchi di marmo, fra i quali uno appena segato colla sega vicina ed altri utensili artistici. Vi si trovò pure un orologio solare, un uovo di marmo da collocarsi nel pollajo, per correggere la chiocciola onde non rompa i suoi, un bacino e un vaso di bronzo, con basso rilievo.

In una città come Pompei, nella quale, se non al pari di Ercolano, certo nondimeno in modo non dubbio le Arti erano in onore, così che ci avvenne trovarne capolavori nelle più umili dimore, doveva essere impossibile che gli scavi non ci additassero magazzeni e studj di scultura; nè è presumere troppo il pronosticare che pur ne’ futuri sterramenti se ne troveranno altri.

[414]

La città si risvegliava da quel mortale letargo, in cui l’aveva gittata il terremuoto del 63, e sgomberando le rovine e rimettendosi a nuovo, era naturale che artisti giungessero, chiamati d’ogni dove ed aprissero studj e botteghe per tanto lavoro.

FINE DEL VOLUME SECONDO.

[415]

INDICE

CAPITOLO XII. — I TeatriTeatro Comico — Passione degli antichi pel teatro — Cause — Istrioni — Teatro Comico od Odeum di Pompei — Descrizione — Cavea, præcinctiones, scalæ, vomitoria — Posti assegnati alle varie classi — Orchestra — Podii o tribune — Scena, proscenio, pulpitum — Il sipario — Chi tirasse il sipario — Postscenium — Capacità dell’Odeum pompejano — Echea o vasi sonori — Tessere d’ingresso al teatro — Origine del nome piccionaja al luogo destinato alla plebe — Se gli spettacoli fossero sempre gratuiti — Origine de’ teatri, teatri di legno, teatri di pietra — Il teatro Comico latino — Origini — Sature e Atellane — Arlecchino e Pulcinella — Riatone, Andronico ed Ennio — Plauto e Terenzio — Giudizio contemporaneo dei poeti comici — Diversi generi di commedia: togatæ, palliatæ, trabeatæ, tunicatæ, tabernariæ — Le commedie di Plauto e di Terenzio materiali di storia — Se in Pompei si recitassero commedie greche — Mimi e Mimiambi — Le maschere, origine e scopo — Introduzione in Roma — Pregiudizj contro le persone da teatro — Leggi teatrali repressive — Dimostrazioni politiche in teatro — Talia musa della Commedia Pag. 5
 
CAPITOLO XIII. — I TeatriTeatro Tragico — Origini del teatro tragico — Tespi ed Eraclide Pontico — Etimologia di tragedia e ragioni del nome — Caratteri — Epigene, Eschilo e Cherillo — Della maschera tragica — L’attor tragico Polo — Venticinque [416] specie di maschere — Maschere trovate in Pompei — Palla o Syrma — Coturno — Istrioni — Accompagnamento musicale — Le tibie e i tibicini — Melpomene, musa della Tragedia — Il teatro tragico in Pompei — L’architetto Martorio Primo — Invenzione del velario — Biasimata in Roma — Ricchissimi velarii di Cesare e di Nerone — Sparsiones o pioggie artificiali in teatro — Adacquamento delle vie — Le lacernæ, o mantelli da teatro — Descrizione del Teatro Tragico — Gli Olconj — ThimeleAulæum — La Porta regia e le porte hospitalia della scena — Tragici latini: Andronico, Pacuvio, Accio, Nevio, Cassio Severo, Varo, Turanno Graccula, Asinio Pollione — Ovidio tragico — Vario, Lucio Anneo Seneca, Mecenate — Perchè Roma non abbia avuto tragedie — Tragedie greche in Pompei — Tessera teatrale — Attori e Attrici — Batillo, Pilade, Esopo e Roscio — Dionisio — Stipendj esorbitanti — Un manicaretto di perle — Applausi e fischi — La claque, la clique e la Consorteria — Il suggeritore — Se l’Odeo di Pompei fosse attinenza del Gran Teatro 53
 
CAPITOLO XIV. — I TeatriL’Anfiteatro — Introduzione in Italia dei giuochi circensi — Giuochi trojani — Panem et circenses — Un circo romano — Origine romana degli Anfiteatri — Cajo Curione fabbrica il primo in legno — Altro di Giulio Cesare — Statilio Tauro erige il primo di pietra — Il Colosseo — Data dell’Anfiteatro pompejano — Architettura sua — I Pansa — Criptoportico — Arena — Eco — Le iscrizioni del Podio — Prima Cavea — I locarii — Seconda Cavea — Somma Cavea — Cattedre femminili — I Velarii — Porta Libitinense — Lo Spoliario — I cataboli — Il triclinio e il banchetto libero — Corse di cocchi e di cavalli — Giuochi olimpici in Grecia — Quando introdotti in Roma — Le fazioni degli Auriganti — Giuochi Gladiatorj — Ludo Gladiatorio in Pompei — Ludi gladiatorj in Roma — Origine dei Gladiatori — Impiegati nei funerali — Estesi a divertimento — I [417] Gladiatori al lago Fùcino — Gladiatori forzati — Gladiatori volontarj — Giuramento de’ gladiatori auctoratiLorarii — Classi gladiatorie: secutores, retiarii, myrmillones, thraces, samnites, hoplomachi, essedarii, andabati, dimachæri, laquearii, supposititii, pegmares, meridiani — Gladiatori Cavalieri e Senatori, nani e pigmei, donne e matrone — Il Gladiatore di Ravenna di Halm — Il colpo e il diritto di grazia — Deludiæ — Il Gladiatore morente di Ctesilao e Byron — Lo Spoliario e la Porta Libitinense — Premj ai Gladiatori — Le ambubaje — Le Ludie — I giuochi Floreali e Catone — Naumachie — Le Venationes o caccie — Di quante sorta fossero — Caccia data da Pompeo — Caccie di leoni ed elefanti — Proteste degli elefanti contro la mancata fede — Caccia data da Giulio Cesare — Un elefante funambolo — L’Aquila e il fanciullo — I Bestiarii e le donne bestiariæ — La legge Petronia — Il supplizio di Laureolo — Prostituzione negli anfiteatri — Meretrici appaltatrici di spettacoli — Il Cristianesimo abolisce i ludi gladiatorj — Telemaco monaco — Missilia e Sparsiones 103
 
CAPITOLO XV. — Le Terme — Etimologia — Thermæ, Balineæ, Balineum, Lavatrinæ — Uso antico de’ Bagni — Ragioni — Abuso — Bagni pensili — Balineæ più famose — Ricchezze profuse ne’ bagni publici — Estensione delle terme — Edificj contenuti in esse — Terme estive e jemali — Aperte anche di notte — Terme principali — Opere d’arte rinvenute in esse — Terme di Caracalla — Ninfei — Serbatoi e Acquedotti — Agrippa edile — Inservienti alle acque — Publici e privati — Terme in Pompei — Terme di M. Crasso Frugio — Terme publiche e private — Bagni rustici — Terme Stabiane — Palestra e Ginnasio — Ginnasio in Pompei — Bagno degli uomini — Destrictorium — L’Imperatore Adriano nel bagno de’ poveri — Bagni delle donne — Balineum di M. Arrio Diomede — Fontane publiche e private — Provenienza delle acque — Il Sarno e altre acque — Distribuzione per la città — Acquedotti 183
 
[418]
CAPITOLO XVI. — Le Scuole — Etimologia — Scuola di Verna in Pompei — Scuola di Valentino — Orbilio e la ferula — Storia de’ primordj della coltura in Italia — Numa e Pitagora — Etruria, Magna Grecia e Grecia — Ennio e Andronico — Gioventù romana in Grecia — Orazio e Bruto — Secolo d’oro — Letteratura — Giurisprudenza — Matematiche — Storia naturale — Economia rurale — Geografia — Filosofia romana — Non è vero che fosse ucciditrice di libertà — Biblioteche — Cesare incarica Varrone di una biblioteca publica — Modo di scrivere, volumi, profumazione delle carte — Medicina empirica — Medici e chirurghi — La Casa del Chirurgo in Pompei — Stromenti di chirurgia rinvenuti in essa — Prodotti chimici — Pharmacopolæ, Seplasarii, Sagæ — Fabbrica di prodotti chimici in Pompei — Bottega di Seplasarius — Scuole private 231
 
CAPITOLO XVII. — Le Tabernæ — Istinti dei Romani — Soldati per forza — Agricoltori — Poca importanza del commercio coll’estero — Commercio marittimo di Pompei — Commercio marittimo di Roma — Ignoranza della nautica — Commercio d’importazione — Modo di bilancio — Ragioni di decadimento della grandezza romana — Industria — Da chi esercitata — Mensarii ed Argentarii — Usura — Artigiani distinti in categorie — Commercio al minuto — Commercio delle botteghe — Commercio della strada — Fori nundinari o venali — Il Portorium o tassa delle derrate portate al mercato — Le tabernæ e loro costruzione — Institores — Mostre o insegne — Popinæ, thermopolia, cauponæ, œnopolia — Mercanti ambulanti — Cerretani — Grande e piccolo commercio in Pompei — Foro nundinario di Pompei — Tabernæ — Le insegne delle botteghe — Alberghi dì Albino, di Giulio Polibio e Agato Vajo, dell’Elefante o di Sittio e della Via delle Tombe — ThermopoliaPistrini, Pistores, Siliginari — Plauto, Terenzio, Cleante e Pittaco Re, mugnai — Le mole di Pompei — Pistrini diversi — Paquio Proculo, fornaio, duumviro di giustizia — Ritratto di lui e di sua moglie — Venditorio [419] d’olio — Ganeum — Lattivendolo — Fruttajuolo — Macellai — Myropolium, profumi e profumieri — Tonstrina, o barbieria — Sarti — Magazzeno di tele e di stofe — Lavanderie — La Ninfa Eco — Il Conciapelli — Calzoleria e Selleria — Tintori — Arte Fullonica — Fulloniche di Pompei — Fabbriche di Sapone — Orefici — Fabbri e falegnami — Præfectus fabrorum — Vasaj e vetrai — Vasi vinarj — Salve Lucru 271
 
CAPITOLO XVIII. — Belle Arti — Opere sulle Arti in Pompei — Contraffazioni — Aneddoto — Primordj delle Arti in Italia — Architettura etrusca — Architetti romani — Scrittori — Templi — Architettura pompejana — Angustia delle case — Monumenti grandiosi in Roma — Archi — Magnificenza nelle architetture private — Prezzo delle case di Cicerone e di Clodio — Discipline edilizie — Pittura — Pittura architettonica — Taberna o venditorio di colori in Pompei — Discredito delle arti in Roma — Pittura parietaria — A fresco — All’acquarello — All’encausto — Encaustica — Dipinti su tavole, su tela e sul marmo — Pittori romani — Arellio — Accio Prisco — Figure isolate — Ritratti — Pittura di genere: Origine — Dipinti bottegai — Pittura di fiori — Scultura — Prima e seconda maniera di statuaria in Etruria — Maniera greca — Prima scultura romana — Esposizione d’oggetti d’arte — Colonne — Statue, tripodaneæ, sigillæ — Immagini de’ maggiori — Artisti greci in Roma — Cajo Verre — Sue rapine — La Glittica — La scultura al tempo dell’Impero — In Ercolano e Pompei — Opere principali — I Busti — Gemme pompejane — Del Musaico — Sua origine e progresso — Pavimentum barbaricum, tesselatum, vermiculatumOpus signinumMusivum opusAsarota — Introduzione del musaico in Roma — Principali musaici pompejani — I Musaici della Casa del Fauno — Il Leone — La Battaglia di Isso — Ragioni perchè si dichiari così il soggetto — A chi appartenga la composizione — Studj di scultura in Pompei 345

NOTE:

1.  Lib. VII c. 2.

2.  Cajo Quinzio Valgo, figlio di Cajo, e Marco Porcio, figlio di Marco, duumviri, hanno, per decreto dei duumviri, fatto fare il teatro coperto e i medesimi lo hanno collaudato.

3.  «L’Odeo che s’incontra a sinistra nell’uscire dal teatro.»

4.  Apologia c. VI. Ne hieme voluptas impudica frigeret.

5.  Cap. XLIV.

6.  Trad. di Vincenzo Lancetti.

7.  Marco Oculazio Vero, figlio di Marco, duumviro sopra i giuochi — Bréton, pel contrario, constatando essersi qui scritto Olconius e non Holconius, come più spesso altrove, ne fa maraviglia; ma maggiore in me avrebbe a fare vedendo che, ammonito pure da ciò, non volle leggere, come altri lessero, invece di Olconius, Oculatius.

8.  Svet. Nero, c. 12; Juven. Sat., II. v. 147.

9.  Lib. V. c. 7.

10.  

Tal se ’l teatro il ricco arazzo adorna,

Mentre s’innalza al ciel la seta e l’opra,

Delle varie figure, ond’ella è adorna,

Prima lascia apparir la testa sopra;

Poi, secondo che al panno alzan le corna

Le corde, fa che il busto si discopra:

Come poi giugne al segno, ivi si vede

D’ogni effigie ogni membro insino al piede.

Trad. di Gio. Andrea Dell’Anguillara, Lib. X, ott. 37.

11.  Diz. delle Antich. alla voce Aulæa.

12.  Epist. II. I. 189.

13.  Metam. lib. III.

14.  «Calato sotto l’auleo, e ripiegati i siparii, si disporrà la scena.» Lib. X. Discorre Apulejo di ciò, come se avesse luogo nella rappresentazione d’un balletto pantomimico, il cui soggetto era il Giudizio di Paride.

15.  Georgica 3. 24:

Come volte le fronti a un tratto muti

Nel teatro la scena ed i Britanni

Tolgan gli auléi purpurei, in cui ritratti

Appajon essi.

Lo che significa che sui scenarj fossero tessute le vittorie, tra cui quelle singolarmente di Giulio Cesare nella Britannia, da cui i diversi schiavi o mancipi venuti di colà erano stati applicati a’ teatrali uffici.

16.  C. IV. v. 1186.

17.  Lib. V. c. 3 e 5. De Theatri vasis.

18.  «Turbato dallo schiamazzo che nel mezzo della notte facevano coloro che avevano ad occupare nel Circo i posti gratuiti.»

19.  

Non assediin gli schiavi i posti ond’essi

Per i liberi sien, a men che ognuno

Paghi un asse per testa e, ove non l’abbia,

Ritorni a casa.

Così nel prologo della commedia.

20.  «Sorgon in luogo eletto i tre teatri.»

21.  

Sovente assisi sulla molle erbetta,

Lungo il margin d’un rivo e al rezzo amico

D’un’arbore frondosa, allegramente

Senza dispendi avean essi riposo,

Gli scherzi allora, il conversar, le risa

Scoppiettavan graditi in mezzo a loro;

Però che onor l’agreste musa avesse.

22.  

Non per colpa s’immola a Bacco il capro

Sovra l’are dovunque e i ludi antichi

Sulle scene compajono, solenni

Della Tesea città[23] gli abitatori

Immaginaron premj intorno ai grandi

Popolosi villaggi e nelle vie,

E fra le colme coppe in su gli erbosi

Prati danzâr fra l’untüose pelli

Degli immolati capri. Istessamente

Gli Ausonj pur dalla trojana gente

Qui derivati con incolto verso

E irrefrenato riso han passatempo

E di cave corteccie orrendi visi

Assumono, e ne’ loro allegri carmi

Te invocan, Bacco, e sul gigante pino

Ti sospendon votive immaginette.

Mia traduzione.

23.  Gli Ateniesi sono così dal Poeta chiamati Thesidæ da Teseo re, che primo ridusse dagli sparsi villaggi entro la città che circondò di mura.

24.  «I primi ludi teatrali nacquero dalle feste di Bacco.»

25.  

Grecia già doma il vincitor feroce

Giunse a domar, e nell’agreste Lazio

L’arti guidò per man; indi quell’irto

Cadde saturnio ritmo, e fu respinto

Dal fior d’ogni eleganza il grave lezzo.

Ma rimasero ancor lungh’anni, e ancora

Rimangon oggi le salvatich’orme

Chè tardo acuti su le greche carte

Sguardi volse il Roman, e alfin deposte

Le punich’arme, cominciò tranquillo

Quella ad investigar, ch’Eschilo e Tespi

E Sofocle apprestava util dottrina.

Trad. Gargallo.

26.  Storia degli Italiani, Vol. I, cap. XXXI.

27.  

Ma però se grecizza il mio subbietto,

Non atticizza, ma piuttosto in vero

Sicilizza.

28.  

Che d’altri personaggi ora non lice

Valersi, e ch’altro scriver si costuma

Che di schiavi correnti e di pietose

Matrone o di malvagie cortigiane,

Di parassito crapulon, ovvero

Di spavaldo soldato e di supposto

Fanciullo; o pur da vecchio servitore

Venir tradito; amare, odiar, gelosi

Restar in scena? Oh! nulla cosa insomma

Scriver si può che non sia stato scritto.

Mia trad.

29.  

Molti incerti restar abbiam veduto

Cui conceder di comico poeta

La palma; a te, col mio giudizio adesso

Il dubbio solverò, sì che tu possa

Altra sentenza rigettar contraria.

Prima a Cecilio Stazio io la concedo,

Plauto di poi ogn’altro certo avvanza;

Quindi l’ardito Nevio ha il terzo posto;

E se il quarto, ad alcun dar lo si deve,

A Licinio è dovuto, ed a lui presso

Attilio viene; il sesto loco ottiene

Publio Terenzio, e il settimo Turpilio;

Ha Trabëa l’ottavo e il nono a Luscio

Giustamente si dee; Ennio, in ragione

Solo di vetustà, decimo venga.

Tr. id.

30.  Traduco:

Vi avran di quei che mi diran: che è questo

Matrimonio di schiavi? E quando mai

Torran moglie gli schiavi? Ecco una cosa

Strana così che in nessun luogo è vista.

Ma io v’accerto che ciò s’usa in Grecia,

A Cartagin, qui nella terra nostra,

In Apulia, ove più che i cittadini

Soglion gli schiavi andar tra loro a nozze.

31.  

Tutto ciò che piace

Potè ai mimi concedere la scena.

Lib. 2.

32.  Apologia. XV.

33.  «Il capo e la faccia coperti colla maschera.»

34.  Le Maschere Sceniche e le Figure Comiche d’antichi Romani descritte brevemente da Francesco De Ficoroni. — Roma. Nella stamperia dei Bernabò e Lazzarini MDCCXLVIII. I versi di Fedro così tradurrei:

Gli occhi in maschera tragica

Un dì la volpe affisse;

Oh quanto è bella, disse,

Ma ahimè! cervel non ha.

35.  Se taluno avrà cantato innanzi al popolo, o avrà fatto carme che rechi infamia o offesa altrui, venga punito di bastone.

36.  

Fescennina licenza, a cui ben questo

Costume aprì la via, con versi alterni

Rustici prese a dardeggiar motteggi,

E omai l’ammessa libertà, cogli anni

Rinnovandosi ognor, piacevolmente

Folleggiò, sinchè poi l’inferocito

Scherzo scosso ogni fren, cangiato in rabbia,

Già minaccioso gli onorati Lari

Impunemente penetrare ardio.

Quei che sentiro i sanguinosi morsi,

Muggir di duolo, e quegli ancor non tocchi

Su la sorte comun stetter pensosi:

Ch’anzi legge e castigo allor fu imposto,

Perchè descritto in petulanti versi

Alcun non fosse. Ecco littor temuto

Cangiar fe’ metro, e sol diletto e lode

Ormai risuona su le aonie corde.

Trad. Gargallo.

37.  

Magno tu sei per la miseria nostra....

E di codesta tua virtute alfine

Giorno verrà che te’ n dorrai tu forte,

Se legge non l’infrena, oppur costume.

38.  Ad Atticum, II, 19.

39.  

Quiriti, ahimè, la libertà perdemmo.

40.  

È da fatal necessità voluto

Che i molti tema chi è da lor temuto.

41.  «E che? colui che soccorse la Republica, la sostenne e rassodò tra gli Argivi.... dubbia l’impresa, non dubitò però espor la sua vita, nè curarsi del capo suo.... d’animo sommo in somma guerra e di sommo ingegno adornato.... o Padre! queste cose vidi io ardere. O ingrati Argivi, o Greci inconseguenti, immemori del beneficio!... Lo lasciate esulare, lo lasciate espellere, ed espulso, il sopportate.»

42.  

Io son Talia, che a’ comici presiede

Poemi e il vizio sferza

Per genial via di teatrali scede.

43.  

Nè la nostra Talia dentro le selve

Vergognò soggiornar.

44.  Tom. II. pl. 3 nella nota 7. Vedi anche Plutarco Simp. IX 14.

45.  

Di Melpomene aver l’ignoto carme

Tespi inventato, è fama, e aver su plaustri

Tratti gli attor, di feccia il volto intrisi,

Che adattassero al carme il gesto e il canto.

Trad. Gargallo.

46.  Costui è quell’Eraclide, che Diogene Laerzio e Suida dicono essere stato uomo grave, cantore di opere ottime ed elegantissime, e liberatore della sua patria oppressa, emulo di Platone, che nel partire per la Sicilia lo incaricò di presiedere alla sua scuola. Egli ne’ frammenti dell’opera Delle Republiche, ci lasciò testimonianza che Omero sè dicesse, in un componimento andato perduto, di patria toscano: Omero attesta dalla Tirrenia esser egli venuto in Cefallenia ed Itaca, ove per malattia perdè la vista, onde il nostro Manzoni il chiamasse:

«Cieco d’occhi, divin raggio di mente.»

47.  

Chi per vil capro in tragico certame

Pria gareggiò.

Trad. Gargallo.

48.  

Vien la truce Tragedia a grande passo,

Torva la fronte d’arruffata chioma

E il lungo peplo che le casca in basso.

Ovid., 3. Amor. I. II. Mia trad.

49.  

De la maschera autor, e del decente

Sirma, appo lui Eschilo il palco stese

Su poche travi, e ad innalzar lo stile,

E a poggiar sul coturno ei fu maestro.

Trad. Gargallo.

50.  Chi poi abbia introdotto le maschere, i prologhi, la moltitudine degli attori ed altrettali cose, si ignora. — Della Poetica, cap. V.

51.  

Se dì solenne a festeggiar talvolta,

D’erbe un teatro si compone e nota

Una commedia[52] recitar si ascolta,

In cui l’attor pallida al volto e immota

Maschera tien dalla beante bocca,

Il bimbo, di terror pinta la gota,

Nel sen materno si nasconde.

52.  Ho tradotto la parola exodium per Commedia; ma l’exodium era propriamente una farsa licenziosa che d’ordinario si rappresentava in seguito ad una tragedia e più spesso ancora in seguito ad un’atellana, qualche volta pure tra un atto e l’altro di quest’ultima. Il più delle volte l’esodio non aveva che un solo attore, chiamato per ciò exodiarus.

53.  «Laddove un oratore convien che abbia l’acutezza de’ dialetti e i sentimenti de’ filosofi e quasi il parlar de’ poeti, e la memoria de’ giuristi e la voce de’ tragici e poco meno che il gesto de’ più applauditi attori di teatro.» — Cicerone, De Oratore, lib. I, c. XXVIII, Trad. di Gius. Ant. Cantova.

54.  

Queste son l’opre e queste l’arti invero

Del generoso prence: ei s’abbandona

A oscene danze su palco straniero;

Beato allor che la nemea corona

D’appio mertò[55]. Del tuo trillo sonante

Alle immagin’ degli avi i trofei dona;

E di Domizio al più la trascinante

Sirma di Tieste o Antigone e la cetra

A quel gran marmo tu deponi innante.

Mia trad.

55.  Plinio, Nat. Hist. lib. 19. 5. 46, fa sapere che ne’ grandi spettacoli della Grecia Nemea venisse data al vincitore una corona di appio, erba palustre, detta anche, helioselinum.

56.  Egloga VIII. 10.

Che sol del sofocleo coturno degni

Sono i tuoi carmi.

57.  Lib. VII. 2.

58.  Hist. Nat. 35. 12. 46.

59.  Id. 57. 2. 6.

60.  Saturnaliorum. Lib. III. C. XIV.

61.  

Mentre il tosco tibicine strimpella

Muove il ludio il suo piè a grottesca danza.

V. 112. Mia trad.

62.  

Non grave d’oricalco e de la tromba

Qual oggi è omai, la tibia emulatrice,

Ma semplice e sottil per pochi fori

Spirando, al coro utile accordo univa,

E del suo fiato empiea gli ancor non troppo

Spesso sedili.

Tr. Gargallo.

63.  Flacco di Claudio suonò colle tibie pari.

64.  «Il Tibicine intanto or vi diverta.»

65.  «Non comprendo di che abbia egli a temere, da che sì bei settenari egli reciti al suono della tibia.»

66.  Lo Scoliaste d’Apollonio, Argonaut. III V. I., e lo Scoliaste dell’Antologia, lib. I. cap. 57.

67.  

Co’ suoi tragici giambi reboante

S’accalora Melpomene.

68.  Martorio Primo, liberto di Marco, architetto.

69.  

E del nudo teatro e del coperto

Il gemino edificio.

70.  Lib. II. c. 45. 6. «Quinto Catulo, imitando l’effeminatezza della Campania, primo coprì dell’ombra del velario gli spettatori.»

71.  Cap. XXVI.

72.  

«Sederò teco al pompejan teatro,

Quando il vento contende

Di spiegar sovra al popolo le tende.»

Lib. XVI. 29. Trad. di Magenta.

73.  

Sovente ancora

Il medesmo color diffuso intorno

È dal sommo de’ corpi; e l’aureo velo,

E le purpuree e le sanguigne spesso

Ciò fanno, allor che ne’ teatri augusti

Son tese, o sventolando in su l’antenne

Ondeggian fra le travi: ivi il consesso

Degli ascoltanti; ivi la scena e tutte

Le immagini de’ padri e delle madri

E degli dei di color vario ornate

Veggonsi fluttuare, e quanto più

Han d’ogni intorno le muraglie chiuse,

Sicchè da’ lati del teatro alcuna

Luce non passi, tanto più cosperse

Di grazia e di lepor ridon le cose

Di dentro, ecc.

Trad. Marchetti.

74.  «Avanti tutti, Gneo Pompeo col far iscorrere le acque per le vie, temperò l’ardore estivo.» Lib. II. c. 496.

75.  «Oggi per avventura credi più sapiente quegli che trovò come con latenti condotti si porti a immensa altezza e si sprizzi acqua profumata di zafferano.»

76.  

Non ondeggiava sulla curva arena

Pompa di veli, nè odoroso croco

Spirava intorno ognor la molle scena.

Lib. IV, el. I Trad. di M. Vismara.

77.  

Non si stendean sulla marmorea arena

Le vele allor, nè s’era vista ancora

D’acqua di croco rosseggiar la scena.

Lib. I. v. 103-104. Mia versione.

78.  

Testè, solo fra tutti, Orazio in bruno

Mantello agli spettacoli assistea,

Mentre la plebe, il maggior duce, e l’uno

Ordine e l’altro in bianco vi sedea.

Spessa neve dal ciel cadde repente:

In mantel bianco Orazio ecco sedente.

Lib. IV. 2. Trad. Magenta.

79.  «Un giorno (Augusto) avendo in un’assemblea di popolo veduto una gran turba in mantelli neri, pieno di corruccio si diè a gridare: Ecco son questi

I togati Romani arbitri in tutto?

e commise agli edili che quind’innanzi più alcun cittadino non comparisse nel foro o nel circo, se non deposto prima il mantello.» C. XL.

80.  «A Marco Olconio Rufo, figlio di Marco, duumviro incaricato per la quinta volta dell’amministrazione della giustizia, quinqueviro per la seconda volta, tribuno dei soldati eletto dal popolo, flamine d’Augusto, patrono della colonia, per decreto de’ decurioni.»

81.  «Marco Olconio Rufo e Marco Olconio Celere a propria spesa eressero una cripta, un tribunale, un teatro a lustro della Colonia.»

82.  «A Marco Olconio Celere duumviro di giustizia, cinque volte designato sacerdote d’Augusto.»

83.  De Rich, Diz. d’Antichità, voce Thymele.

84.  Parte I, cap. I, p. 6.

85.  Lib. cap. 13. 2.

86.  Epist. Ex Ponto. Epist XVI.

87.  

Indi fidai con gravi accenti al tragico

Coturno, qual dovea, regal subbietto.

Trad. dell’ab. Paolo Mistrorigo.

88.  

Io salvarti potei e mi domandi

Se struggerti non possa?...

Instit. Orat. VIII. 5.

89.  

Quasi invasa da un Dio, qua e là son tratta.

90.  

Le pugne de’ centimani

Sacrileghi giganti

Cantar tentai: ho cetera

Pe’ carmi altisonanti.

91.  Tristium, lib. II. 519.

92.  Id. lib. V. 7. 25.

93.  Inst. Orat. X. I. «che può essere paragonata a qualunque tragedia greca.»

94.  

LA NUTRICE.

Partiro i Colchi; nulla fu la fede

Del tuo consorte e di dovizie tante

Più nulla resta a te.

MEDEA.

Resta Medea.

Atto II. Sc. I.

95.  

TESEO.

Di’, qual delitto colla morte intendi

D’espiar?

FEDRA.

Quello ch’io vivo.

96.  

Tempo vegg’io propizio

In avvenir lontano,

In cui torrà gli ostacoli

Fremente l’oceano,

Ed ingente una terra apparirà;

Nè Tile fia più l’ultima;

Ma nuovi mondi Teti scoprirà.

Mia trad.

97.  Lipsia, 1822.

98.  Lipsia, 1852.

99.  Antichità di Pompei. Vol. IV.

100.  

Ecco d’eroici sensi menar vampo

Cianciator grecizzante.

Sat. I. v. 69. Trad. V. Monti.

101.  Le publicai tradotte in un volume: Publio Siro — I Mimiambi. — Pagnoni, 1871.

102.  Nat. Hist., IX. 59.

103.  

Quei cui parrà tuo genio al suo conforme

Con l’un pollice e l’altro avvien che innalzi

Fautor suoi plausi a’ marzïal tuoi ludi.

Epist. lib. 1. ep. XIX 66. Trad. Gargallo.

Vedi anche Plinio Nat. Hist. XXVIII, II. 3.

104.  

Nè l’opra tua puoi vendere a cotesta

Gente nel foro o nel teatro.

Epig. Lib. VII. 64.

105.  Lib. IV. 15.

106.  Paradox. III, 2. De Orat. III.

107.  Pag. 46.

108.  In Pericle 13.

109.  Lib. V. 9. 10.

110.  Cap. V.

111.  «Egualmente sono a lui dovuti e il tempio della gente Flavia e uno stadio e un odeum ed una naumachia, delle cui pietre di poi valsero alla riparazione del gran circo, i due lati del quale erano stati incendiati.»

112.  I giuochi di Achille in onor di Patroclo sono narrati nel libro XXIII dell’Iliade.

113.  

Questi torneamenti, e queste giostre

Rinnovò poscia Ascanio, allor ch’eresse

Alba la lunga; appresegli i Latini;

Gli mantenner gli Albani; e d’Alba a Roma

Fur trasportati, e vi son oggi; e come

E l’uso e Roma e i giochi derivati

Son dai Trojani, hanno or di Troja il nome.

Æneid. Lib. V. 596-601. Trad. Annib. Caro.

114.  Annales. Lib. XI. C. XV.

115.  Da αμφι, da ambe le parti, e da θεατρον, teatro.

116.  Nat. Hist. Lib. XXXVI.

117.  «Ciò che non fecero i Barbari fecero i Barbarini.»

118.  Narra a tal proposito Dione che Nerone accolse benignamente e onorevolmente quel re, facendo, oltre altre solennità, anche ludi gladiatorj in Pozzuoli. Fu prefetto di essi Patrobio Liberto, e ne fu tanta la magnificenza, che nessuno nello spazio d’un sol giorno potesse entrar nell’anfiteatro all’infuori degli uomini, delle donne e dei fanciulli Etiopi; onde Patrobio ne riportasse onore. Ivi il Re Tiridate, sedendo in luogo principale, con dardo colpiva le fiere e con un solo colpo ferì due tori ed uccise. Queste feste compiute, Nerone lo condusse a Roma e gl’impose la corona.

119.  «Cajo Quinzio Valgo figlio e Marco Porcio figlio di Marco Duumviri Quinquennali, hanno per onore della Colonia costruito col proprio denaro l’anfiteatro, concedendone ai Coloni il posto in perpetuità.»

120.  Cajo Cuspio Pansa figlio di Cajo, pontefice Duumviro incaricato di rendere giustizia.

121.  Cajo Cuspio Pansa figlio di Cajo, padre, Duumviro per la giustizia, quattroviro quinquennale, prefetto, per decreto de’ Decurioni, al mantenimento della legge Petronia.

122.  Gli scavi ripresi nel 1813 e durati fino al 1816 lo misero interamente alla luce, come trovasi di presente.

123.  «Il Patrono del sobborgo Augusto Felice sopra i ludi per decreto de’ decurioni — T. Atullio Celere figlio di Cajo Duumviro sopra i ludi, le porte e la costruzione de’ cunei, per decreto de’ Decurioni. — Lucio Saginio, Duumviro, incaricato dalla giustizia fece, per Decreto de’ Decurioni, gli aditi. — Nonio Istacidio figlio di Nonio, cilice, Duumviro sopra i ludi fe’ gli aditi. — Aulo Audio Rufo figlio di Aulo Duumviro sopra i ludi, e fe’ gli aditi. — Marco Cantrio Marcello figlio di Marco Duumviro sopra i ludi e fece tre cunei, per decreto de’ Decurioni.»

124.  Io ho creduto di tradurre sopra i ludi e non pour les jeux, come tradusse Bréton, e la parola lumina, non come il Garrucci e il Mommsen e altri per illuminazione, ma per aditi, cioè i vomitorj, porte e spiragli de’ sotterranei, perchè mi parve più naturale e probabile che coi cunei si facessero i relativi aditi, androni ecc., e nel diritto romano si trovi sempre usata la parola lumina per indicare le finestre. Così anche l’abate Romanelli.

125.  Pompeja p. 227 e 228 seguendo la lezione di Rénier: la ragione ne è fornita dopo la lettera di Rénier.

126.  Lib. 5, 24:

Ermete de’ Locarii arricchimento.

Trad. Magenta.

127.  

All’alte file io giunsi, ove la turba,

Dalla bruna e vil veste, spettatrice

Tra le femminee cattedre sedea;

Però che tutto quanto era all’aperto

Di cavalieri e di tribuni in bianco

Abbigliamento si vedea stipato.

Mia trad.

128.  La famiglia gladiatoria di Numerio Popidio a 28 ottobre darà in Pompei una caccia, e a’ 20 di aprile si metteranno le antenne ed i velarj.

129.  La famiglia gladiatoria di Numerio Festo Ampliato giostrerà di nuovo a’ sedici maggio e vi sarà la venazione e si metteranno i velarii.

130.  Senec. Epist. 95 e Lamprid. Commod. 18 e 19.

131.  

Scorpo son io, del circo onor solenne,

Tuo plauso, o Roma, e breve tuo contento.

Morte al ventisettesmo anno m’ha spento;

Contò mie palme, e già vecchio mi tenne.

Lib. X, ep. 57. Trad. Magenta

132.  

Oggi.... il solo Circo

Tutta nel suo giron comprende Roma....

Sì, dal fragor che intronami l’orecchio,

Vincitor ne argomento il verde panno.

Sat. XI. v. 195-96. Trad. Gargallo

133.  

De’ vincenti ronzon proclamatore,

Siede il Pretor in trionfal corredo.

Sat. XI. 191-93. Trad. Gargallo.

134.  «Abbia contro sè irata Venere pompejana chi a questa insegna porterà offesa.»

135.  

Gli abbattimenti

Colla sinopia, e col carbon dipinti,

Quand’io talor di Rutuba, di Flavio,

O di Placideian, a gamba tesa

Stommi a guatar, qual se verace fosse,

Di que’ prodi il pugnare, il mover l’arme,

Lo schermirsi, il ferir....

Trad. Gargallo.

136.  Hist. Lib. 11. 88.

137.  «Giurammo fede ad Eumolpione, sotto pena di essere abbruciati, legati, battuti, ammazzati, e quant’altro fosse esatto da lui, consecrandogli religiosamente, come i veri gladiatori consacrano a’ loro padroni, i corpi nostri e la vita.» Satyricon. Cap. XXVII, trad. Vinc. Lancetti.

138.  

Di peggio che si può, tranne l’arena?

E ancor qui trovi il disonor di Roma.

Eccoti un Gracco: mirmillonic’arme

Egli non veste: non impugna scudo,

O adunca falce: arnesi son cotesti

Ch’egli condanna; anzi condanna e abborre.

Nè il volto asconde sotto l’elmo; il mira:

Squassa il tridente, e poi che mal librata

La mano scaglia le sospese reti,

Dassi a fronte scoperta e a gambe alzate

Spettacolo a l’intorno. — È desso, è Gracco!

(Gridan tutti); la tunica l’attesta,

E l’aurea nappa che gli fascia il collo

E avvolta al pileo sventolando ondeggia.

Ond’è che il seguitor, vistosi astretto

Con un Gracco a pugnare, in sè ne freme

Qual d’un’onta peggior d’ogni ferita.

Sat. VIII. Trad. Gargallo.

139.  «I Campani, per odio de’ Sanniti, armarono di quelle ricche spoglie i gladiatori, che appellarono col nome di Sanniti.»

140.  

Chi non le ha viste impalandrate e d’unto

Atletico incerate; e chi non vide

Lor colpi, bagordando a la quintana?

Con l’asta in pugno e con lo scudo in braccio

Assal, ferisce, martella, disbarba,

Tutte osservando del giostrar le leggi....

O matrona arcidegna de la tromba

Che di Flora all’agon le prodi invita!

Se non che, a maggior opra il cor rivolto,

Già s’apparecchia a la verace arena.

Qual vuoi trovar pudor in una donna,

Che il biondo crin in lucid’elmo accolga;

Che, schiva al sesso, a vigor maschio aneli?

Sat. VI, 218 e segg. Trad. di T. Gargallo.

141.  Atto III.

142.  

Cogniti a tutti i borghi un di costoro

Cornette e trombettier, de’ gladiatori

Girovaghi compagni, indivisibili;

Questi già un dì spettacolo, son ora

Que’ che danno spettacoli; e del popolo

Adulatori, a un suo volger di pollice,

Uccidon chi si sia popolarmente.

Trad. Gargallo.

143.  

...... il pollice chinato,

La pudibonda vergine commanda

Che sia trafitto del giacente il petto.

144.  Atto V.

145.  Nat. hist. lib. XXXIV. «Fece un ferito morente, in cui si potesse comprendere quanto in lui restasse ancora di anima.»

146.  Byron. Pellegrinaggio di Childe Harold c. IV. st. CXL., CXLI.

147.  «Stima (il popolo) ingiuria, perchè non periscano volontieri.»

148.  «Il cadavere del gladiatore venga trascinato coll’uncino e lo si ponga nello spoliario.»

149.  Bond, scoliaste d’Orazio, le vuol dette Ambubaje dall’essere per ebrietà balbuzienti.

150.  

Or qual mai sia la razza prediletta

A’ nostri maggiorenti, e che mi sprona

A fuggir come lepre, in brevi detti

(Nè pudor men ritiene) io ti confesso

Roma, o Romani, divenuta greca

(Benchè la feccia achea qual può formarne

Picciola quota?) digerir non posso.

Pria di questa nel Tebro il siro Oronte

Era sboccato; e già sermon, costumi,

E flauti e cetre da le corde oblique

Seco tratti vi avea, frigi timballi,

E merce di fanciulle al Circo esposta.

Voi, cui fan gola barbare lupatte

Vario-mitrate, itene pure a loro.

Trad. Gargallo.

151.  

E truppe d’ambubaje e speziali,

Mimi, accattoni e zanni, afflitta è tutta

Questa bordaglia dell’estremo fato

Di Tigellio cantor, poichè per essa

Generoso fu sempre.

Mia trad.[152]

152.  A Gargallo mi sono sostituito, non avendo egli serbato fedeltà al primo verso d’Orazio, che tradusse:

Troppo di canterine e vendi-empiastri.

La citazione, mettendo in disparte la parola ambubaje, sarebbe stata perfettamente inutile.

153.  

Ditelo voi di Lepido nepoti,

Di Fabio il ghiotto e di Metello il cieco,

Qual gladiatrice (ludia) mai vestì tai vesti.

Trad. Gargallo.

154.  Svetonio, in Neronem. Cap. XII.

Vedemmo Pasifae dal toro coperta

E la prisca favola or fede ha più certa.

Gli antichi più, o Cesare, non vantin lor gesta:

Checchè fama celebra l’arena ci appresta.

Trad. Magenta.

155.  In Claud. c. XXI.

156.  Id. In Neron. 12.

157.  Id. In Tit. c. VII.

158.  In Domitianum, c. V.

159.  

Checchè ti mostrano di più preclaro

L’Anfiteatro e il Circo i splendidi

Flutti di Cesare qui ti mostraro.

Il lago scordinsi Fucin le genti,

E di Nerone gli stagni: ai posteri

Questo spettacolo sol si rammenti.

Trad. Magenta.

160.  In August. c. XLIII.

161.  Ad V. Æneid. 114.

162.  Epist. VII, ep. 1.

163.  Hist. Lib. XXXIX, c. 22.

164.  

Quel toro, che già poco

Scorrea, punto dal fuoco,

Nell’arena i bersagli a rovesciar,

Cadde alfin, dal suo tratto

Cieco furor, nell’atto

Che credea l’elefante in aria alzar.

De Spectaculis. Ep. 21. Tr. Magenta.

165.  In Cæsar. c. 39.

166.  Nat. Hist. Lib. VIII, c. 2.

167.  In Galbam, c. 6.

168.  Lib. LXI. c. 17, anche Svetonio il riporta In Neronem, c. XI.

169.  Epig. lib. 1. 7.

L’aquila, onde su l’etere

Recare il putto illeso,

Al sen con l’ugne timide

Si strinse il caro peso.

Tr. Magenta.

170.  Id. Lib. V. 55.

Dimmi, o regina degli augei, chi porti?

Il Tonante.

Trad. id.

171.  In Domit. c. 4.

172.  

Che il Dio belligero

Per te distinguasi

Nell’armi ognor,

Non basta, o Cesare,

Per te distinguesi

Venere ancor.

La fama d’Ercole

Vantava l’inclita

Nobil tenzon,

Quando nell’ampia

Nemea boscaglia

Spense il lion.

Taccian le favole,

Chè fatti simili

Per tuo favor

Oprarsi, o Cesare,

Da man femminea

Vedemmo or or.

Epigr. 8. Trad. Magenta.

173.  

Come al scizio ciglion Prometeo stretto

Nutre l’augel col rinascente petto,

Laureol così da vera croce pende,

E ad orso caledonio il fianco stende.

Palpitavan sue viscere, grondanti,

Lacere, e a corpo uman più non sembianti.

La pena alfin scontò del parricidio,

Del fero nel padron commesso eccidio,

Del rapito nei templi oro nascosto,

O dell’iniquo fuoco a Roma posto.

Nei delitti costui gli antichi ha vinti;

Ma fur gli strazj suoi veri e non finti.

Lib. De Spectæ. Epig. 9. Trad. Magenta.

174.  Storia della Prostituzione, Vol. I. Cap. XVIII.

175.  Ode, La Ghigliottina.

176.  Schroek: Christliche Kirchengeschichte. Vol. VII, p. 254.

177.  Storia degli Italiani, vol. I, pag. 277.

178.  In Ner., c. XI.

179.  Diz. delle Antichità.

180.  Varr. 8 L. L. 41.

181.  Delle antiche Terme di Firenze, pp. 67 e 68.

182.  La camicia di tela che usiamo noi, imitò l’uso ed il nome dal camiss persiano, e pare introdotta verso la metà del XII secolo.

183.  

L’ottava ora tien fissa:

Di Stefano sai quanto ha i bagni accosto.

Ci laverem tantosto:

Tr. Magenta.

184.  

Il bel verde, sottil marmo caristo,

L’agata, il tasio e la gentil corniola,

Non han qui luogo, e di restarne escluso

Lagnasi ancora il serpentin più raro:

Sol qui fan pompa e il porporin granito

Porfido di Numidia e il marmo frigio

Cui d’Ati il sangue colorì la vena;

E i più preziosi di Sidonia e Tiro.

Per ornamento delle porte, appena

S’ammette il verde di Laconia unito

Al sinadico marmo in lunghe strisce,

Onde si forma un color misto e vago.

De’ chiari vetri al vario raggio opposte

Splendon le stanze e gli archi d’or fregiati,

E di chi parte od entra in essi i volti

Stupido il foco stesso in tante avvolto

Lucide spoglie men superbo impera;

Il sole allor che l’ampia casa investe

Sè stesso adorna e fa più chiaro il giorno,

E nel passar fra queste fiamme ardenti

Acquista forza, e ’l proprio foco accresce.

Nulla v’è di plebeo, nè qui si vide

Faticar l’arte in liquefar metalli.

Son d’argento i canali, ove felice

Ha l’onda il corso e son d’argento i vasi

Ov’ella cade, e di sè stessa amante

Si specchia in essi e di partir ricusa.

Trad. dell’ab. Fr. Maria Biacca.

185.  

Chi di Neron peggiore?

E quale di sue terme opra migliore?

Trad. Magenta.

186.  

Di Tigellin nei bagni, o in quei si pone

D’Agrippa o Tito?

187.  Roma. Amstelodami apud Io. Wolters 1689, p. 491.

188.  Diz. delle antich. Greche e Rom. Vol. 2 p. 342.

189.  «Che mai convenga provvedere nelle pubbliche terme e ne’ ninfei per l’abbondanza de’ cittadini.» — Impp. Theodos. et Valent. Cod. II. 42. 5 e al n. 6: «Amiam meglio che l’acquedotto del nostro palazzo abbia a servire alle commodità delle pubbliche terme e de’ ninfei.»

190.  «Se diligentemente alcuno avesse a tener conto delle copiose acque pubbliche nei bagni, nelle piscine, nelle case, negli sbocchi, nelle ville suburbane, e la grandezza degli archi costruiti per condurre, i monti scavati, le convalli appianate, confessar dovrebbe nulla esservi di più maraviglioso nell’universo.»

191.  «Agrippa, nella sua edilità, annessa l’Acqua Vergine, le altre regolate ed emendate, fece 700 laghi (grandi serbatoj), oltre 105 salti, 130 castelli e molte altre cose magnifiche di manutenzione. Alle opere impose 300 statue tra di bronzo e di marmo e 400 colonne marmoree e tutte queste cose nel solo spazio di un anno.»

192.  «E il soprintendente delle acque debbe pertanto essere non solo diretto dalla scienza del periti, ma eziandio dalla propria esperienza, e non deve servirsi dei soliti architetti che s’impiegano in quella tal parte, ma ancora consultare non meno la fedeltà che l’acutezza dell’ingegno di altri per conoscere quali cose domandino un pronto riparo, quali ammettano dilazione; quali opere debbansi compire dagli appaltatori, quali si abbiano a far eseguire dagli artefici delle famiglie.»

Frontin. De Aquæduct. CXIX. Tr. di Baldassare Orsini.

193.  Pompejanarum Antiquitatem Historia Curante, J. Fiorelli edita. Neapoli 1860. I. 8.

194.  «Nelle Terme di Marco Frugio, da bagni di acqua marina e di acqua dolce, Gennaro Liberto.»

195.  «Per la dedicazione delle terme, a spesa di Cneo Allejo Nigidio Majo, vi saranno caccia, atleti, spargimento di profumi e velario. Viva Majo principe della Colonia!»

196.  

Per finirla, tu re, mentre ne andrai

Al bagno d’un quattrin.[197]

Trad. Gargallo.

197.  Quadrante più propriamente, ed era una piccola moneta di rame pari in valore di un asse.

198.  

Dopo i torridi bagni vi tuffate

Nell’onda algente, onde così col gelo

La calda cute più in vigor rendiate

Carm. IX.

Petronio afferma la stessa cosa.

199.  «Marco Nigidio Vaccula con denaro proprio.»

200.  «Gneo Melisseo Apro; figlio di Gneo, e Marco Stajo Rufo, figlio di Marco, Duumviri incaricati di nuovo della giustizia, hanno per decreto de’ decurioni e con pecunia publica fatto fare questo bacino che costa settecentocinquanta sesterzi.»[201]

201.  Circa 160 lire Italiane.

202.  Era una stanza ove apprendevano i giovani i primi rudimenti degli esercizi ginnastici.

203.  Forse luogo dove giuocavasi alla palla. Alcuni lo vorrebbero destinato agli esercizi ginnastici per le fanciulle.

204.  Ho già spiegato altrove il valore di questa parola: indicava cioè il luogo ove stava la polvere di cui servivansi i lottatori onde detergere il sudore e involgere l’avversario per poterlo meglio abbrancare.

205.  Era la stanza delle unzioni. Vi si conservavano a tal uopo olj ed unguenti, sia per ungersi prima della lotta e rendere così le membra sfuggevoli; sia dopo la lotta a ristoro delle membra scalfitte, sia come cura prima di entrare nel bagno. Il P. Ilario Casarotti, dotto e purgato scrittore e mio maestro nel milanese Collegio Calchi-Taeggi, solevami dire essere da questa antica consuetudine originata l’unzione della cresima cristiana, quasi a simbolo della lotta coll’avversario eterno.

206.  Forse sinonimo di hypocausis, più latinamente præfurnium, luogo della fornace per riscaldare le stanze e i bagni.

207.  Ricordo che lo stadio denota una lunghezza di 125 passi; ma vale altresì come luogo atto agli esercizi atletici e per gli spettatori dei medesimi.

208.  Non isfuggirà al lettore che Vitruvio usa della parola sisto per esprimere l’opposto del suo valore primitivo greco. Infatti i latini chiamarono sisto un luogo scoperto mentre per i greci significava un luogo coperto.

209.  De Architect. L. V. c. XI. Trad. Galiani.

210.  «Cajo Vulio figlio di Cajo, Publio Aninio figlio di Cajo, duumviri, incaricati della giustizia, han fatto eseguire un laconico e un districtario e rifare i portici e la palestra col denaro che, per decreto dei decurioni, dovevano spendere in giuochi od in monumento, e i decurioni hanno approvato.» Pompejan. Antiqu. Hist. V. 648. È testuale l’error grammaticale nell’iscrizione pequnia quod invece di pecunia quam; ma non è il primo, nè forse sarà l’ultimo che avrò a notare.

211.  «Mi pare ora, ancorchè non sieno di moda italiana, dovere spiegare la forma della palestra, e dimostrare come la costruiscano i Greci.» De Arch. c. XI.

212.  «Mario Atinio figlio di Mario, questore, fece fare per decreto dell’Assemblea col denaro prodotto dalle multe.»

213.  «All’imperatore Cesare Augusto, figlio del divo Cesare, comandante per la tredicesima, tribuno per la decimaquinta, padre della patria, console per l’undicesima volta.»[214]

214.  Il XV tribunato e l’XI consolato d’Augusto corrispondono all’anno di Roma 755 e 2 dell’Era Volgare.

215.  

. . . : Va recami, garzone,

Le stregghie al bagno di Crispin.

Sat. V. v. 126. Trad. di Vinc. Monti.

216.  

Il Sarno ondoso i pingui colti irriga

E col placido corso al mar sospira.

Jacobi Sannazzarii Poemata. Patavii 1751.

Trajano Cabanilio Salices.

217.  «Verna co’ suoi discepoli vi prega di eleggere Cajo Capella duumviro di giustizia.»

218.  Pompejan. Antiqu. Hist. Vol. III, 169.

219.  «Valentino e i suoi scolari invocano Sabino e Rufo edili degni della Republica.»

220.  Epist. Lib. II, I. 70.

221.  

E ancor noi finalmente abbiam sottratto

La mano alle spalmate.

222.  Lib. VII. c. 3.

223.  Del Commercio dei Romani, Cap. III.

224.  Hist. Nat. Lib. VI. c. 60.

225.  Vedi Cicero, De Oratore, 37.

226.  Cic. Pro Flacco. 15. Dionis. Alicarnas. VII. 70.

227.  Plin. Nat. Hist. XIII. 13. «Abbruciati, perchè fossero scritti di filosofia.»

228.  Epist. II. 1.

229.  

Questi Greci, ravvolti in lor mantello,

Colla testa coperta, intorno vanno:

Son carichi di libri e ne’ panieri

Hanno i rilievi della mensa: or questi

Disertor’ ch’hanno l’aria di trattare

Fra lor di cose gravi, ora s’arrestano,

Ora vanno, sputando lor sentenze;

Ma poi li trovi sempre al termopolio[230]

Che trincan e così, coperto il capo,

Bevono caldo quel ch’hanno rubato,

Poi tristi e brilli incedono.

Curculio. Atto II. Sc. 3. Mia trad.

230.  Venditorio di bevande calde, come vedremo nel capitolo venturo delle Tabernæ.

231.  «Essere i nostri uomini simili agli schiavi siri, che quanto son più periti del greco, tanto sono più nequitosi.»

232.  

Chi loda il carme salïar di Numa

E dotto ei solo in quel, che meco ignora,

Vuolsi ostentar, non favorisce, e applaude

Gli estinti ingegni; ma nostr’opre impugna,

Le cose nostre, e noi livido adonta.

Che se stata odïosa a’ Greci fosse

Novità, quanto a noi, che avrian di antico?

Degli uomini a ciascuno il public’uso

Or che darebbe a logorar, leggendo?

Epist. lib. II. Epist. I.

233.  Divina Comm. Inf. c. IV.

234.  In Bruto.

235.  

Voi su greci esemplar’ la man stancate

La notte, voi le man stancate il giorno.

De Arte Poetica. Tr. id.

236.  Lib. 11.

237.  Satira I.

238.  Epigr. Lib. 2.

239.  Lib. 3, epist. 5.

240.  Lib. 1, cap. 9.

241.  

Medico fosti, gladiator se’ omai;

E medico facevi

Appunto quel che gladiatore or fai.

Epigr. VIII. Lib. 74. — Tr. Magenta.

242.  Primum e medicis venisse Romam Peloponneso Archagatum Lysaniæ filium anno urbis DXXXV... Vulnerarium eum fuisse e re dictum, etc. Hist. Nat. lib. XX. c. 6.

Tum primum artis medicæ nomen auditum Romæ agnitumque est. Tit. Liv. Lib. XXV. 2.

243.  «Giurarono fra loro i Barbari (chiamavano i Romani barbari i forestieri) di uccider tutti colla medicina. E questo fanno, ripetendo per sopraggiunta la mercede, onde acquistar maggior credenza e più agevolmente sperdere. Vanno inoltre dicendo noi barbari e più sporcamente con siffatta appellazione noi insozzano che non gli altri Opici. In quanto a me, mi sono interdetto i medici.» Hist. Nat. XXIX. 1.

244.  I libri superstiti sono dal VI al XIV e sono una compilazione per via d’estratti, di cui avanza tuttavia una parte sulla medicina e la chirurgia; abbracciava molte scienze, come la giurisprudenza, la filosofia, la rettorica, l’economia, l’arte militare. Sono scritti con purità di stile e sono di gran pregio segnatamente le istruzioni dietetiche e la parte che ha riferimento alla chirurgia.

245.  

E ormai da un pezzo

Tua vota zucca le ventose invoca.

Sat. XIV. v. 58, trad. Gargallo.

246.  Celsus, lib. 11.

247.  Storia degli Italiani, I. 1, c. XLI.

248.  «Udite per tanto, ma non ascoltate come fareste d’un farmacista. Imperocchè le parole di costui si odono, ma nessuno che malato sia gli si commette in cura.» Gell. Notti Att. 1. 15.

249.  Vedi tutta l’ultima Ode degli Epodi di Orazio, che è appunto rivolta a Canidia.

250.  Pompei, pag. 350.

251.  «I nostri maggiori così lodavano l’uomo dabbene, chiamandolo buon agricoltore, buon colono, e stimavasi essere amplissimamente lodato colui che così chiamavasi.»

252.  Lib. III. 22:

Terra più ch’alla offesa, all’armi adatta.

253.  «Razza d’uomini agreste, senza legge e comando, libero e indipendente.»

254.  «Ire incontro ai nemici, e coprire dagli avversi attacchi la libertà, la patria, ed i parenti.» Catilin. 6.

255.  Epoca Prima. Capitolo I.

256.  «Il valor militare va innanzi a tutte l’altre virtù: esso procacciò eterna gloria al popolo romano ed a codesta città.» Or. pro Murena.

257.  «Rimase chiusa in casa e filò la lana.»

258.  Lib. III. c. 22. 23. 24.

259.  Zonara. Lib. VIII. c. 6.

260.  Or. Pro Lege Manilia.

261.  Freret le assegna 13,549 piedi geometrici di circonferenza, che sarebbe maggiore di quella dell’odierna Parigi. Jacob vuole che avesse solo 1,200,000 abitanti; ma altri eruditi pretesero ampiezza e popolazione maggiori e com’io scrissi.

262.  

Mandaci o Nil, le messi tue copiose,

Da noi ricevi le fragranti rose.

263.  

Degli Etiopi le selve, ove la lana

Morbida cresce.

264.  «In tutta guisa estorcono denaro e molestano; ma per quanta libidine spieghino, non giungono ad esaurire mai la ricchezza loro.» De Bello Catilin.

265.  «Pessima cosa è il coltivarsi i campi da gente d’ergastolo, perchè tutto vi si fa da uomini che non hanno speranza alcuna.» Hist. Natur. Ho già altrove detto che gli schiavi assegnati alla coltura delle terre si tenessero duramente e incatenati negli ergastoli.

266.  

Gli arditi rivenduglioli

Avean già tutte le contrade invase,

E sin gli usci turavano alle case.

Tu, di sgombrar, Germanico,

Quegli spazii ordinasti, e in larga via

Si cangiarono i vicoli di pria.

Da incatenate bombole

Or più nessun pilastro interno è stretto;

Nè più il pretor nel fango è agir costretto.

Fra densa moltitudine

Non più il cieco rasojo alzasi, e tutti

Da bettole non sono i calli ostrutti.

Ebbe il barbier suoi limiti,

L’oste, il cuoco, il beccajo: in Roma or stanzi:

In una gran taverna eri poc’anzi.

Epig. Lib. VII 61. Trad. Magenta.

267.  Pœnulus. 4. 2. 13:

E si mangia e si bee come in popina.

268.  

Siccome il pan dal panattier cerchiamo,

Dall’enopolio il vino, e se il denaro

Loro si dà, cedon la merce.

Act. 1. x. 3.

269.  «Qui dimora la felicità.»

270.  Paris, Michel Lévy Frères, 1872.

271.  Cic. Philip. XII, 9, De Senectute 23. — T. Liv. 28.

272.  Cic. Philip. II, 28; Plaut. Pœnulus, att. IV, sc. 2.

273.  Descrizione delle Rovine di Pompei, dell’arch. Gaspare Vinci. Terza edizione, Napoli, pag. 68.

274.  «Sittio riparò l’Elefante.» Nell’iscrizione è scorrettamente ommessa la lettera H in capo alla parola elephantum. Qui poi mal si comprende se Sittio sia stato il proprietario dell’Albergo o il pittore che ne ristorasse l’insegna. Par più probabile la prima ipotesi.

275.  «Albergo: qui si dà in affitto un triclinio con tre letti e colle relative commodità.»

276.  «Marco Furio Pila invita Marco Tullio.» Altri legge TVTILLVM.

277.  

PSEUDOLO

V’hanno dolci bevande ad abbondanza?

CARINO

E tu il domandi? Havvi del vin mirrato,

Del vin cotto, idromele e d’ogni miele:

Anzi, già un dì fin nel suo cuore aveva

Un termopolio aperto.

Pseudolus Act. II Sc. IV.

278.  Pallad. 1. 42.

279.  «Nè di giorno soltanto, ma quasi tutta l’intera notte con non interrotto volger di macchine producevano continua farina.» Apulej. Metam. Lib. IX.

280.  Così ce li descrive Apulejo. Metam. Lib. I. X.

281.  

LIBANO

Forse mi meni là dove una pietra

Stritola l’altra pietra?

DEMENETO

Or che è codesto?

Dove è mai questo luogo in su la terra?

LIBANO

Dove piangon quegli uomini infelici,

Che di polenta cibansi.

Asinaria At. I. 4. 1. V. 16-18.

282.  «Plauto fu pistore, avendo locato la propria opera a gran mole a mano. Perocchè codesto pestamento e fatica di stritolar grani fosse la più grave di tutte, e si dicesse il pistrino un luogo pieno di fatica e travaglio e che distruggeva le forze.»

283.  Pur ne’ tempi moderni v’ebbero e v’hanno re, che attesero a mestieri volgari. Si sa di Luigi XVI abilissimo nell’orologeria e fabbro espertissimo; e il Principe ereditario dell’attuale imperatore di Germania si perfezionò ne’ rudi lavori fabbrili, e i giornali di questi giorni recarono che il di lui fratello minore s’applicò all’arte di legare i libri.

284.  Nuova serie, n. 3 ottobre 1868, colonna 57.

285.  «Talamo cliente invoca P. Paquio Proculo duumviro incaricato della Giustizia.»

286.  Anche nelle Metamorfosi d’Ovidio, così vien immaginata dal Poeta la sua Bibli nell’atto che medita la propria lettera a Cauno:

Dextra tenet ferrum, vacuam tenet altera ceram.

Lib. IX v. 520.

287.  Metam. Lib. X.

288.  Giornale degli Scavi, 1861, p. 106.

289.  «Tutti i fruttivendoli con Elvio Vestale supplicano Marco Olconio Prisco duumviro di Giustizia.»

290.  Lib. XIII. 55, Svet. in Augustum, 4.

291.  Storia della Prostituzione, Cap. XXI.

292.  

Perchè, per fede mia, olezza bene

La donna allor che di niente olezza.

Però che quelle vecchie che sè stesse

Vanno d’unguenti ognor impiastricciando,

Decrepite, sdentate e di lor corpo,

Col belletto occultando i rei difetti,

Quando il sudor sen mischia, incontanente

Putono al par d’intingolo malvagio

In cui confuse molte salse il cuoco.

Di che odoran non sai, se non di questo

Che di pessimo odor puton, comprendi.

Atto I, Sc. 3, v. 116 e segg.

293.  

Numi immortali, almen trovassi in casa

Perifane, mi son quasi disfatto

A cercarlo per tutta la città:

Nelle botteghe mediche ed in quelle

Del barbier, nel ginnasio, in tutto il foro,

Da’ profumieri, da beccai, dappresso

I banchieri e, col chiederne, la voce

Ho fatta rauca.

Atto II. Sc. 2, 12 e segg.

294.  

Tu conoscesti la barbiera nostra,

Sura, ch’ora soggiorna appresso a quelle

Case.

Atto II, Sc. 4, v. 51.

295.  

. . . . ma non mai

Tal barbiera, Ammian, rade. — Mi svela

Che fa ella dunque se non rade? — Pela.

Mart. Epigr. lib. II, ep. 17. Tr. Magenta.

296.  

Pria che la man d’Eutrapelo sia giunta

Le guance e il mento di Luperco a radere,

In volto a questo un’altra barba spunta.

Id., ibid.

297.  Pompei, étude sur l’art antique.

298.  Bucolica VII, 32.

299.  Vellej. Paterc. II, 82.

300.  Philip. III, 6.

301.  Philip. XIII, 13.

302.  Nat. Hist. IX, 56.

303.  Sen. Fra. III, 18. Cic. Decr. II, 5, 33.

304.  «Quelli che tingono la lana d’altro colore: gli offectores quelli che la ritingono dello stesso colore.» — Insomma i primi lo mutano, i secondi lo conservano.

305.  P. 278, n. 170 e 171.

306.  

Sì puzzolente è Taide,

Che putir non suol tanto

Di tintor gretto un vecchio

vaso dïanzi infranto.

Trad. di Magenta.

Ora, in talun luogo si usufrutta delle orine per ragione di ingrasso. Già Vittor Hugo nei Miserabili mostrò di quanta utilità sarebbe il trar profitto in Parigi degli égouts: in Milano si è stabilita una società con tale intento sotto la denominazione di Vespasiano, dall’Imperatore di tal nome, che primo impose la tassa sugli orinatoi. Vedi Svetonio nella vita di questo Cesare.

307.  Metam. L. IX, Plin. XXXV, 57.

308.  Pompeja, Pag. 279.

309.  Magenta tradusse:

Il nostral rosso ti versar le botti.

Ma come facilmente vedrà il lettore, il traduttore assegnò al vino il colore che il Poeta assegna al cadus; onde più fedelmente sarebbesi detto:

non peregrini

Il rosso caratel diffonde i vini.

Epig. Lib. IV, 66.

310.  

E il flavo mele da rubiconda

Fiala versare.

Epig. Lib. I, 56, trad. Magenta.

311.  Petron. Satyricon, 34.

312.  V. 31.

Anfora a far s’imprende; ond’è che poi

Gira la ruota, e n’esce orciuol?

Trad. Gargallo.

313.  Ruines de Pompei, 4 vol. in folio. Parigi presso Firmin Didot. Il 4 volume fu compilato da L. Barré.

314.  Museo Borbonico, 1 vol. in 4 ogni anno con tavole a bulino.

315.  Ercolano e Pompei, Venezia 1841, Tip. Antonelli.

316.  Vi furono dotti che congetturarono che le vôlte della Cloaca Massima facessero parte di canali coperti di un’antica città, forse Pallantea, sulle cui ruine si pretese fabbricata Roma; ma se così fosse Tarquinio non avrebbe fatto altro che restaurare quanto rimaneva dei vecchi acquedotti. Infatti le rendite del suo piccolo regno non avrebbero per avventura bastato a tanta opera. I lavori di essa ingranditi successivamente in diverse epoche, furono poi così spinti da Agricola, genero di Augusto, che, al dir di Plinio, formò, per così esprimersi, sotto il recinto di Roma una città navigabile.

317.  Storia dell’Architettura di Tommaso Hope, pag. 25. Milano, 1840. Tip. Lampato.

318.  Le Drame de Vésuve, chap. Herculanum.

319.  Non voglio defraudare i lettori de’ venturi anni di conoscere l’autore di questa teorica, che lascia addietro ed eclissa ogni economista: essa appartiene al piemontese Quintino Sella, ministro più volte del Regno Subalpino e d’Italia.

320.  Pompei qual era e qual è. Per Gustavo Luzzati. — Napoli, 1872.

321.  Æneid., Lib. VI, v. 847 — 853.

Abbinsi gli altri de l’altre arti il vanto;

Avvivino i colori e i bronzi e i marmi;

Muovano con la lingua i tribunali;

Mostrin con l’astrolabio e col quadrante

Meglio del ciel le stelle e i moti loro;

Chè ciò meglio saprem forse di voi.

Ma voi, Romani miei, reggete il mondo

Con l’imperio e con l’armi, e l’arti vostre

Sien l’esser giusti in pace, invitti in guerra;

Perdonare a’ soggetti, accor gli umili,

Debellare i superbi.

Trad. di Annibal Caro.

322.  Epist. Lib. II, ep. 1, 32.

Tutto sorte ci diè; pittor, cantori,

Lottator siam degli unti Achei più dotti.

Trad. Gargallo.

323.  Id. Ibid. 94-98:

Grecia, scinta dall’arme, ove agli ameni

Studj si volse, e l’aura di fortuna

Nel vizio a dar la spinse; or di corsieri

Infiammossi, or di atleti, i marmi, i bronzi,

Gli sculti avori amò; talor dipinta

Tavola gli occhi le rapiva e il core.

Trad. Gargallo.

324.  «Era presso di Ejo un larario antichissimo, lasciato dai maggiori e guardato nella casa con assai dignità, nel quale si trovavano quattro splendidissime statue, condotte con mirabile artificio e con somma nobiltà; le quali non solo costui (Verre) ingegnoso e intelligente, ma anche chiunque di noi ch’egli chiama idioti, vi si potesse deliziare: una di marmo raffigurante Cupido di Prassitele, perocchè molti nomi di artefici, appresi in codesta mia investigazione... Eranvi due statue di bronzo non grandissime, ma in ricambio di una esimia venustà, in abito e veste verginali, che sostenevano colle mani in aria levate sovra il capo certi sacri arredi, secondo il costume delle fanciulle ateniesi. Canefore queste si chiamavano: ma chi era l’artefice di essi? chi mai? si domanderà giustamente. Dicevano che fossero di Policleto.» In Verrem, Lib. IV, De Signis.

325.  Vedi Plin. Nat. Hist. XXXV, 7, che enumera questi colori e li dice alieno parietibus genere, cioè stranieri alle muraglie... udoque illini recusant, e rifiutano di appigliarsi agli intonachi umidi.

326.  Dizion. delle Antichità.

327.  Pompeja, Pag. 425, nota 2.

328.  Opere, Ediz. Silvestri di Milano vol. secondo, p. 305.

329.  «Aver l’effigie di Epicuro non nelle tavole (quadri) soltanto, ma ne’ bicchieri eziandio e negli anelli.» Fin. 5. 1. extr.

330.  «Le tavole ben dipinte collocare in buona luce.» In. Brut. 75.

331.  Natur. Hist. XXXV, 2.

332.  «Nerone principe aveva ordinato lo si pingesse colossalmente della grandezza di 120 piedi sopra tela, genere fin allora sconosciuto; ma appena ultimata, una folgore piombata negli orti di Maja, la incendiò in un colla parte migliore degli orti.» Id. Ibid. 7.

333.  Nat. Hist. XXXV, 135.

334.  Pompéi et les Pompéiens. Paris 1867, p. 207.

335.  Vedi Beulé, pag. 301, e La Peinture de genre, di M. Gebhart.

336.  «Io in questo sol uomo trovo accogliersi qualunque vizio che immaginar si possa in uom perduto e scellerato: non v’è alcun tratto, io ritengo, di libidine, di scelleratezza e di audacia che voi non possiate vedere nella vita di questo solo.»

337.  Sen. In Suasoriis. Lib. 1; in Lactan. Lib. 2, c. 4.

338.  «Nerone ebbe non mediocre abilità tanto nel pingere che nello scolpire.»

339.  «Opere da anteporsi a tutte l’altre sì di pittura che di scultura.»

340.  Così chiamata perchè il 3 novembre 1753 vi si scoprirono 1756 volumi, o papiri, che, comunque in apparenza ridotti allo stato di carbone, poterono tuttavia essere svolti e letti, come già dissi a suo luogo.

341.  Vol. I, pag. 267.

342.  «I pavimenti di pietruzze passarono dal suolo alle camere e si fecero di vetro: è questa nuova invenzione. Agrippa (del tempo d’Augusto), certamente nelle Terme da lui fabbricate in Roma, dipinse all’encausto quant’era di terra cotta, nelle altre opere si valse degli stucchi: ma egli indubbiamente avrebbe fatto le camere co’ musaici di vetro, se il musaico allora fosse stato conosciuto, od anche dalle pareti della scena del teatro di Scauro sarebbero passati alle camere.» Histor. Natur. Lib. XXXVI, 25.

343.  Senofonte, Ciropedia IV, 7.

344.  Idem, VII, 3, 7.

345.  Napoli, novembre 1831.

Nota del Trascrittore

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