Title: Garibaldi, Vol. 2 (of 2)
Author: Giuseppe Guerzoni
Release date: January 18, 2025 [eBook #75139]
Language: Italian
Original publication: Firenze: Barbera, 1889
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GARIBALDI
DI
GIUSEPPE GUERZONI.
Vol. II
(1860-1882)
CON DOCUMENTI EDITI E INEDITI E 7 PIANTE TOPOGRAFICHE.
Terza edizione.
FIRENZE,
G. BARBÈRA, EDITORE.
1891.
Compiute le formalità prescritte dalla Legge, i diritti di riproduzione e traduzione sono riservati.
[1]
GARIBALDI.
Il 20 gennaio 1860 il conte di Cavour riafferrava il governo, e l’Italia risentiva tosto la mano del nuovo timoniere. Non conviene tuttavia piaggiar nessuno, nemmeno il genio fortunato. Fra la situazione politica trovata dal gran Ministro al cominciar del nuovo anno e quella da lui lasciata a’ suoi successori correva per l’appunto la stessa differenza che tra una nave in alto mare, sbattuta dalla tempesta, e una nave, lottante bensì cogli ultimi colpi della traversía, ma già in vista della terra e prossima a toccare il porto. Dell’eredità di Villafranca al Ministero La Marmora-Rattazzi toccarono tutti i rischi e tutti i fastidi; al conte di Cavour tutti i frutti e tutti i trionfi. Ad essi, se fosse lecito dire, la parte penosa ed oscura della liquidazione; a lui l’attuosa e brillante dell’accettazione. Sia giusta la storia: se il conte di Cavour fosse stato al potere dal luglio al dicembre 1859, non avrebbe potuto comportarsi diversamente dai suoi eredi; e gli sarebbe stato giuocoforza o temporeggiare e barcamenarsi com’essi; o volendo osar troppo, porre [2] ogni cosa a repentaglio. Il Ministero La Marmora-Rattazzi non compì grandi cose; ma, come suol dirsi di certi medici, aiutò la natura ad operare: diede cioè tempo ed agio all’Italia d’aspettare che tutto quel cumulo di difficoltà, d’ostacoli, di triboli che facevan barriera d’ogni dove al nostro cammino, si assottigliasse e s’indebolisse da sè, per sola forza delle cose, sì che non restasse più che scavalcarlo con un passo, o rovesciarlo con una spinta.
E così infatti era accaduto. L’annessione dell’Italia centrale al Regno sardo era, se non consacrata nella forma, compiuta nella sostanza; la chimera napoleonica d’una federazione austro-italiana presieduta dal Papa già ita in dileguo; tutti i progetti di congressi, di conferenze, di vicariati, di regni autonomi svaporati; tutte le promesse di restaurazioni, papali, ducali, granducali, scritte ne’ capitolari di Villafranca, cassate dalla manifesta volontà degl’Italiani, e ridotte lettera morta. Napoleone III, dopo cinque mesi di politica ambidestra, una pubblica e avversa, una segreta e propizia all’Italia, liberatosi dal reazionario Walewsky, dettato o ispirato l’opuscolo: Il Papa e il Congresso,[1] si chiariva di giorno in giorno più favorevole alle nostre sorti; mentre l’Inghilterra, subentrati i Whigs ai Torys, dichiarava apertamente la sua simpatia per la causa italiana, s’associava al Napoleonide nell’idea del non intervento armato, e ne faceva uno de’ cardini della sua politica nella Penisola. L’Austria sola continuava naturalmente ad atteggiarsi o stile e minacciosa; ma tanto la Prussia, quanto la Russia, sebbene diffidenti della rivoluzione e gelose del diritto divino, non sapevano risolversi [3] a far causa comune l’una colla prepotente rivale, l’altra colla fedifraga ed ingrata alleata, e chiaramente lasciavano intendere che non avrebbero mai tratta la spada per lei: unica cosa che importasse. E intanto il savio contegno dell’Italia centrale continuava a far l’ammirazione di tutti i popoli civili; forzando i suoi stessi avversari a parlare con rispetto d’una rivoluzione che procedeva con sì pacata e ordinata costanza, ed a discuter seriamente di quel nuovo diritto fondato sulla volontà popolare e sui caratteri indelebili delle nazioni, che la vecchia Diplomazia non voleva ancora riconoscere, ma che avrà sconvolto, prima che il secolo finisca, tutta l’Europa.
A tale essendo le cose, restava solo che una mano vigorosa desse l’ultimo colpo; e il Cavour ricomparve nell’arena. Salito appena al potere, annunciò ai Gabinetti d’Europa che oramai era impossibile una più lunga aspettativa; che le popolazioni italiane, dopo avere atteso lungamente indarno che le Potenze d’Europa mettessero ordine a’ loro affari, avevan diritto di passar oltre, e che «il solo scioglimento pratico consisteva nell’ammissione legale dell’annessione, già stabilita in fatto, dell’Emilia, come della Toscana.[2]»
Chi però vedesse in queste ardite dichiarazioni l’atto irriflessivo d’un giuocatore disperato che rischia l’ultima sua posta, s’ingannerebbe a partito. Il conte di Cavour aveva già calcolato tutte le sorti del giuoco, ed era certo oramai che la partita decisiva sarebbe stata per lui. Che l’Austria strepitasse o la Germania e la Russia tenessero il broncio, poco gli caleva. Sapeva d’aver seco, più che queste non volessero confessare, [4] Francia e Inghilterra; sapeva meglio ancora d’aver per sè il diritto, il fatto, l’opinione civile, e ciò gli bastava. Non andò guari infatti che l’Inghilterra inviava ai Gabinetti delle maggiori Potenze queste quattro proposte: non intervento armato; diritto ai popoli dell’Italia centrale di decidere, con un nuovo voto de’ lor Parlamenti, circa i loro destini; garantita la sovranità papale, ma sgombra Roma dai Francesi; soltanto la questione di Venezia taciuta e messa in disparte. Rispose sdegnosamente l’Austria; non piegarono tosto le Corti nordiche; ondeggiò ancora per poco lo stesso Napoleone, tentando introdurre nelle proposte inglesi altre condizioni: ma poichè egli consentiva nella massima fondamentale del non intervento, e richiedeva solo che al voto de’ Parlamenti si sostituisse il suffragio universale; il conte di Cavour, vinte o deluse tutte le nuove eccezioni, lo prese in parola, e mandata copia delle proposte inglesi, così come le aveva modificate l’Imperatore, ai Governi della Toscana e dell’Emilia, li invitò senza più a pronunciarsi. Era quanto dir loro (se già non era stato detto in privato): procedete subito ai plebisciti e confermate le annessioni; e va da sè che nessun invito poteva riuscire più aspettato e più gradito. Così tre giorni dopo l’ultima Nota francese, mentre ancora i potentati erano affaccendati a librare, analizzare, stillare le famose quattro proposte, l’Emilia e la Toscana votavano per voto universale la loro unione alla Monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele; e la rivincita di Villafranca era presa.
Se non che nessuna gioia senz’amarezza; l’imperatore Napoleone metteva alle annessioni dell’Italia [5] centrale un prezzo; quel medesimo ch’egli aveva prima richiesto per la cacciata degli Austriaci: Savoia e Nizza. Nè era da pretendersi che l’opera sua fosse tutta gratuita. Nemmeno la Francia era la gran nazione che potesse far la guerra soltanto per un’idea. Ciò si scrive volentieri nell’ebbrezza del trionfo, sui proclami; ma rare volte si ratifica co’ fatti. Quand’anche Napoleone l’avesse voluto, non era in di lui balía chiedere il sangue della nazione ond’era capo, per una guerra non sua, senza procacciarle almeno un compenso rimuneratore dei rischi corsi e dei sacrifici patiti. Oltre di che la cessione della Savoia e di Nizza era la conseguenza, per dirla collo stesso conte di Cavour, «della politica che ci aveva portati a Milano, a Bologna, a Firenze;» ed era certamente un’applicazione di que’ medesimi principii di volontà nazionale e di voto popolare che noi stessi avevamo invocati siccome fondamento giuridico alla nostra rivoluzione, e sul quale dovrà consistere l’intero edificio d’Italia.
Piuttosto era ad esaminarsi se tutto quel compenso era dovuto; se di quel tanto sacrificio richiesto all’Italia, una parte almeno non poteva esser risparmiata. Per la Savoia nessun dubbio: poteva essere doloroso abbandonare que’ monti, antemurale di nostra casa e cuna de’ nostri Re; ma proclamato il diritto delle nazioni, diveniva necessario e doveroso. Per Nizza, invece, il discorso mutava: ivi tutto era Italia; e la miscèla di idiomi, propria a tutte le regioni confinanti, non bastava a cancellarne i grandi e solenni caratteri scritti dalla storia, dalla natura e da Dio.
Però che l’imperiale alleato chiedesse con pari durezza le due spoglie, nessuno contende; rimane solo a chiarirsi se l’una non poteva essere più validamente e più tenacemente contrastata dell’altra. Il conte di [6] Cavour, disse uno de’ suoi più valenti cooperatori,[3] aveva perduto di fronte all’ingrata questione la consueta sua serenità, e facilmente si crede; ma che abbia posto a risolverla tutto il nerbo dell’anima sua; ch’egli abbia tentato la salvezza di Nizza con quel medesimo sforzo di destrezza e di energia da lui adoperato a disfar Villafranca, e unificar mezza Italia, questo in nessun libro e in nessun documento è attestato: eppure questo sarebbe stato un serto di più alla sua gloria. Si direbbe che il gran Ministro, assorto nell’unico fine «di rendersi complice[4]» la Francia, non ne vedesse alcun altro. Tuttavia se al conte di Cavour fosse balenato il pensiero che quella complicità era per Napoleone ormai fatale, e che in ogni caso non avrebbe mai fatto guerra all’Italia per Nizza, come non gliela fece, nè la potè fare per Bologna e Firenze,[5] forse avrebbe risparmiato agl’Italiani quel gentile e caro brano di patria, e a sè sospetti, rancori, inimicizie, di cui tra non molto egli e la parte sua sentiranno, primi, le difficoltà ed i danni.
Oltre a ciò avevano offesi i modi. Nizza era inondata da emissari napoleonici; bandi pubblici firmati dai magistrati del Re, o tollerati o non abbastanza [7] puniti, apertamente propugnavano la dedizione alla Francia; nessun’arte di pressione e di broglio era risparmiata; la libertà del voto, unica scusa e salvaguardia di quel triste plebiscito, sfrontatamente conculcata.
Qual maraviglia pertanto che un soldato, un nizzardo, Giuseppe Garibaldi, infiammato d’amore per la terra nativa e d’odio per ogni signoria straniera; inasprito da quello spettacolo nauseabondo di frodi e di violenze, si levasse per il primo contro un Governo che, per usare il linguaggio suo, «mercanteggiava come armento la città sua;» e vedesse da quell’istante un nemico in colui che era stato a’ suoi occhi l’artefice e lo stromento principale del mercato?
Prima conseguenza della felice annessione era l’ampliamento e la rinnovazione del Parlamento. Lo stesso conte di Cavour aveva richieste le elezioni generali come precipua condizione al suo ritorno al Governo; e infatti dal 25 al 29 marzo i Collegi delle antiche e nuove province convenivano all’urne per eleggere i loro deputati.
E naturalmente tra gli eletti fu anche Garibaldi. Molti Collegi gli furono profferti, tra gli altri Brescia, Stradella, Varese; ma egli ringraziò tutti, dichiarando di non poter accettare che per Nizza «posta in pericolo di cadere nelle ugne del protettore padrone,[6]» e [8] che a lui incombeva difendere. Nizza infatti lo elesse;[7] ond’egli appena conosciuto il voto lascia Caprera, corre nella sua città, vi raggruppa i suoi amici e devoti, tenta avvivare (e la sola sua presenza bastava) la fede nella patria antica; e illuso che il sentimento suo sia pur quello di tutti i suoi concittadini; ignaro che intorno a quel po’ di popolo schietto ed onesto, che si sentiva e voleva essere italiano, brulicava una plebe famelica, pronta al miglior offerente, e una borghesia ingorda, impaziente di subiti guadagni, che avrebbe venduto dieci patrie; parte per Torino accompagnato dal suo amico Robaudi, col proposito d’interpellare il Governo sulla sorte della sua città natale e di fare un ultimo sforzo per scongiurarne la perdita.
Del suo arrivo a Torino, delle commozioni provate dalla città, son pieni i giornali del tempo; ma in ciò nessuna maraviglia. Presentata col Robaudi la sua interpellanza fin dal 7 aprile, soltanto nella tornata del 12 fu ammesso a svolgerla. Era la prima volta che Garibaldi compariva nel Parlamento subalpino; [9] grande quindi l’impazienza di conoscere l’oratore e di giudicare il politico; «generale, siccome dice il resoconto ufficiale, il movimento d’attenzione.»
Parlò calmo e breve; ma è dubbio se con parole e concetti tutti suoi.[8] Reclamò l’osservanza dell’articolo 5º dello Statuto, che pei trattati importanti cessione di provincie richiede la perentoria sanzione della Camera: rammentò la storia di Nizza datasi a Casa di Savoia nel 1391 a patto di non essere ceduta a straniera potenza: dichiarò ogni traffico di gente repugnante al diritto ed alla coscienza delle nazioni civili: denunziò sommariamente i fatti di pressione elettorale, sotto la quale era soffocata la libertà di voto de’ suoi concittadini: chiese infine che, sino all’approvazione del trattato, il voto di Nizza fosse sospeso.
Rispose il Cavour temperato e cortese; negando l’incostituzionalità, giustificando il trattato colla necessità politica e l’interesse d’Italia; attenuando, non smentendo, i fatti di pressione. La discussione s’avvivò. Per Nizza, in vario tenore, parlarono i nizzardi Laurenti-Robaudi e Bottero, sostenuti dal Mellana e [10] dal Mancini; per il trattato i ministri Farini e Mamiani e il deputato Pier Carlo Boggio; e la conclusione fu l’approvazione d’un ordine del giorno di questi, mercè il quale «espressa la fiducia che il Governo del Re provvederebbe efficacemente che le guarentigie costituzionali e la sincerità e libertà del voto nelle provincie di Savoia e Nizza sarebbero rispettate,» la Camera non chiedeva di più.
E di più forse, al punto cui eran le cose, non si poteva nè sperare nè conseguire; ma Garibaldi non era uomo d’intenderlo, e uscì da Palazzo Carignano coll’anima ribollente d’ira e d’amarezza; nauseato di quella politica barattiera, a senso suo, e codarda, e guardando da quell’istante il conte di Cavour collo stesso occhio, con cui si guarderebbe colui che vi ha strappato dal braccio vostra madre, e l’ha gettata al mercato.
Ma per ventura sua e d’Italia altri e ben più gravi avvenimenti eran già venuti a divertirlo da quei turbolenti pensieri, e ad aprire al vorticoso torrente della sua passione patriottica uno sfogo più degno e più vasto.
La rivoluzione italiana era proceduta a sembianza d’un corpo leggiero, che, in una grossa battaglia, un po’ trasportato dal suo ardore, un po’ sospinto dalle circostanze, marcia avanti, senza badare nè a destra nè a manca, occupa alla baionetta un’eccellente posizione; ma, giunto colà, si trova circuito da nemici, che di fronte, ai fianchi, alle spalle gli fanno siepe da ogni lato; sicchè non può più nè avanzare nè retrocedere. Dovunque l’Italia si rivolgesse, incontrava una [11] barriera di ferro che le sbarrava il cammino e la forzava a ristare. Ai fianchi, accampata sul Quadrilatero, l’Austria; di fronte, meglio che dalle spade mercenarie, difeso dalla sua ibrida natura, il Papato; dietro a lui, nemico imbelle, ma protetto dall’egida dei trattati, il Re di Napoli; dietro a tutti il vecchio diritto, le vecchie tradizioni, la vecchia Europa; caparbi avversari avvezzi a non piegare mai che alla forza ed ai fatti compiuti.
Ora come l’Italia potesse trovar da sè stessa la via d’uscir da siffatti frangenti, nessuno, nemmeno il genio del conte di Cavour, lo sapeva. Pertanto egli pure s’accontentava di stare alla specula degli eventi, e più che a muovere innanzi badava a temporeggiare con frutto e ad assodarsi sull’occupato terreno. Il concetto dell’unità italiana non s’era ancora affacciato alla sua mente, come cosa pratica ed effettuabile, e frattanto gli pareva saggio volgere le prime cure a due scopi più prossimi e conseguibili: rafforzare il nuovo Stato, ed apparecchiarsi a nuova guerra coll’Austria.[9] A questo intento però, oltre al lavorío diplomatico che continuava a condurre con mano infaticabile, reputava ottimo mezzo premere sul Re di Napoli, tentando attrarlo nell’orbita del moto italiano e associarlo alla politica del Piemonte pel conquisto dell’indipendenza nazionale. Ma nè il pusillo Francesco era uomo da seguirlo per cotali altezze, nè gli uomini che l’attorniavano, o inetti o codardi, da sospingervelo. A Napoli si credeva sempre alla rivincita legittimista e la si preparava. La Reggia borbonica era [12] divenuta il centro della gran congiura principesca, che doveva restaurare su tutti i troni rovesciati d’Italia il diritto divino. Si arruolavano mercenari; si concentrava l’esercito negli Abruzzi; si fantasticava un’occupazione delle Marche; si patteggiava che contemporaneamente il Papa invaderebbe le Romagne, e il Duca di Modena i Ducati; si aspettava ad ogni istante di veder l’Austria rivarcare il Mincio, e Germania e Russia calar dalle loro selve e dalle loro steppe alla crociata dell’oppressa legittimità. Quanto all’interno, si derideva ogni consiglio di riforme, si sfidava, o fingevasi, ogni minaccia di rivoluzione; e in ogni evento fidando sull’esercito devoto, sulla sbirraglia innumerevole, sulla magistratura servile, e più che tutto sull’Ajossa, dittatore della Polizia di Napoli, e sul Maniscalco, emulo suo a Palermo, si dormiva fra due guanciali.
A riscuoterli dal sopore squillò la campana della Gancia: la soluzione che indarno il conte di Cavour cercava; la soluzione che forse l’Italia avrebbe dovuto attendere dalla lenta opera del tempo, usciva a un tratto dal seno misterioso della rivoluzione, e un pugno di popolani, decisi di morire per la patria loro, recideva quel nodo, che nè la forza legale della nuova Monarchia, nè la destrezza politica del suo grande Ministro, sarebbe bastata a risolvere.
L’insurrezione siciliana non fu, come ben s’immagina, una eruzione vulcanica e subitanea. Astrazion fatta dall’odio per la tirannia borbonica, tre grandi cause n’avevano preparato e affrettato lo scoppio. L’indomita energia d’una falange di patriotti e di proscritti che da tutte le terre dell’Isola, da tutti gli angoli d’Europa soffiavano da anni nella fiamma e [13] l’alimentavano. L’apostolato infaticabile di Giuseppe Mazzini, che dal 1856 in poi aveva indirizzati al Sud tutti gli sforzi del partito d’azione da lui capitanato, e fatto del moto siciliano la leva suscitatrice dell’unità di tutta la Penisola. Infine, e con maggior efficacia per fermo, gli avvenimenti dell’Italia superiore e centrale, i quali dimostrando possibile quell’unità, che poco dianzi agli occhi de’ più pareva un’utopia; attestando la devozione d’una Casa guerriera e d’un Re galantuomo alla causa nazionale; dando all’Italia un nome, un esercito, un governo, una diplomazia; aprivano anche ai Siciliani un orizzonte di speranze novelle, spegnevano nell’Isola le viete discordie, confondevano in un solo tutti i vecchi partiti, porgevano infine ai patriotti sinceri e spassionati di tutti i colori un vessillo di rannodamento ed un grido di battaglia.
E di questo fermento latente degli animi non tardarono ad apparire i segni manifesti. Le dimostrazioni succedevano alle dimostrazioni; i Consigli locali rifiutavano i consueti indirizzi di sudditanza al nuovo Re: i nomi di Vittorio Emanuele e di Napoleone III suonavan su tutte le labbra, apparivano su tutte le pareti; gli animi pendevano dalle notizie di Lombardia, come da altrettanti messaggi di vita e di morte; le vittorie di Magenta e di Solferino, a malgrado le minaccie della polizia, erano festeggiate con luminarie ed acclamazioni; passava infine per lo stretto la flotta degli alleati diretta all’Adriatico, e Messina tutta versavasi sulle sue spiagge a salutare le armate liberatrici.[10]
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Una vasta trama avvolgeva l’Isola e Comitati segreti ne tenevano le fila e la governavano. Si propagavano e affiggevano scritti incendiari; si allestivano armi e munizioni; si ordinavano squadre, e tutto ciò sotto gli occhi del truce Maniscalco che indarno ne cercava gli autori e nella cecità della furia colpiva a casaccio, confiscando, torturando, percuotendo spesso i più innocenti, e affrettando per tal modo lo scoppio dell’uragano che presumeva scongiurare.
Anche la Sicilia, è ben vero, aveva sentito il contraccolpo di Villafranca; ma fu buffo passeggiero, e i propositi un istante rattiepiditi si rianimarono con novello vigore. L’esempio fortunato dell’Italia centrale cominciava a persuadere anche i più restii, che oramai la prima arbitra de’ propri destini era la Sicilia stessa e che l’ora di rompere gli indugi s’avvicinava a gran passi. Soltanto i Comitati Lafariniani e della Società nazionale, male ispirati interpreti della politica del conte di Cavour, assai più rivoluzionario di loro, persistevano a sconsigliare ogni moto da essi chiamato intempestivo, «promettendo la salute della Sicilia a patto che non fosse insorta nel periodo delle annessioni.[11]»
Verso la metà di settembre però, Francesco Crispi, anima in quei giorni della parte più avanzata degli esuli siciliani, accordatosi da un lato con Giuseppe Mazzini e con tutti gli amici suoi, dall’altro incoraggiato dalle facili parole dello stesso Dittatore Farini, che a quei giorni pareva inclinato a tutti gli ardimenti, s’imbarcava nascostamente per la Sicilia, dove [15] già con pari rischio e audacia era stato dal 1856 in poi altre due volte, per gettar sulla bilancia degli oscillanti il peso della sua ascoltata parola e dar l’ultimo tratto al partito dell’insurrezione.
E i più fervidi dei patriotti siciliani, parvero disposti ad ascoltarlo; e serrate le fila, assegnati i posti, distribuite le poche armi e munizioni, la sollevazione fu deliberata pel 4 ottobre; poi, per difficoltà sopravvenute, differita all’11 di quello stesso mese.[12] Ma anche in quel giorno l’impresa, chi scrisse perchè già scoperta dalla Polizia, chi affermò per effetto delle lettere di alcuni Lafariniani venute a raccomandare novelli indugi,[13] dovette essere differita a più propizia occasione. Differita, diciamo, non abbandonata e soltanto in alcune parti del suo disegno modificata.
Così i patriotti siciliani, come Francesco Crispi, come in generale tutti quanti lavoravano a quell’opera, avevan finito col convenire che un moto nell’Isola non poteva scoppiare, e scoppiato espandersi e trionfare se non l’iniziava o almeno non lo soccorreva immediatamente una spedizione armata di fuori, capace di divenire il nerbo dell’insurrezione e di governarla. Però fu intorno a questo nuovo concetto che s’appuntarono tutti gli sforzi del partito d’azione dal novembre del 1859 fino alla spedizione di Quarto che ne fu l’incoronazione.
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Il Crispi, che a stento era scampato da Sicilia, pellegrinava dal Farini al Rattazzi e dal La Farina a Garibaldi chiedendo a tutti: armi, danaro, aiuti per la vagheggiata impresa; Nicola Fabrizi, che da Malta per oltre venti anni era stato l’anello di congiunzione tra la Sicilia e il partito d’azione, tornava colà per riannodarvi le trame già allentate; Giuseppe Mazzini moltiplicava le lettere, i proclami, gli emissari, cercando nella Falange sacra di Genova, dove già avea trovato i seguaci del moto del 1856, il nucleo della spedizione di cui proponeva il comando, se Garibaldi ricusava capitanarla, al Bixio, al Medici, a chicchessia, e racimolando a spizzico schioppi, polveri e moneta, goccie a innaffiare un deserto, ma che facevan testimonianza non solo della sua incrollabile fede, ma quella volta almeno d’un senso profondo e quasi fatidico delle necessità d’Italia. Infine nella notte del 20 marzo Rosolino Pilo, dei Conti di Capaci, elettissima anima d’eroe e di martire, d’intesa col Mazzini e col Crispi, incuorato da Garibaldi stesso, salpava su fragile paranza in compagnia di Giovanni Corrao con poche armi e poco peculio alla volta della sua isola natía, deliberato a chiamarvi alle armi i suoi compaesani e a dar egli, per primo, l’esempio della magnanima rivolta.
Ma questa scoppiò per forza propria anche prima del suo arrivo.[14] La brutalità del Governo aveva cospirato più di tutte le propagande. Le fila da lui spezzate si riannodarono da sè stesse; ad ogni patriotta incarcerato o spento, ne subentravano cento; [17] un ignoto pugnalava in pien meriggio sulla porta della Matrice lo stesso Maniscalco, che dava così egli pel primo col proprio sangue il segnale della riscossa.
Il disegno era: far del Convento della Gancia, i cui frati sapevansi devoti alla causa nazionale, base d’operazione; preparare, nascosti ne’ suoi sotterranei, colle poche armi già introdotte in città, un manipolo di animosi disposti a trattarle; all’alba del 4 aprile al suono delle campane a stormo sbucare dal Convento, chiamando la città alle armi; altre schiere di patriotti frattanto, già appostati in Via Scopari e nella chiesa della Magione, uscirebbero a lor volta ad appoggiare il movimento: simultaneamente le squadre del contado, già preste, sforzerebbero le porte, e mettendo il nemico fra due fuochi compirebbero l’opera.
E così fu fatto. Capo degli animosi che dovevan cominciare il fuoco dalla Gancia si profferì un popolano, certo Francesco Riso, fontaniere d’arte, anima candida di patriotta e di eroe, che fu il vero iniziatore della rivoluzione palermitana, e il cui nome va ormai proferito in Italia accanto a quelli de’ suoi martiri più gloriosi.
Se non che il Maniscalco, per una delle consuete e fatali imprudenze inseparabili da siffatte imprese,[15] ebbe vento della trama, e sebbene in una perquisizione, fatta la sera del 3 al Convento, non gli fosse riuscito di scoprire nulla di più, fece tuttavia occupare durante la notte tutti gli approcci della Gancia da picchetti di truppa e di sbirraglia, e si tenne preparato ad ogni evento. Infatti all’alba del 4 fu pronta la campana di Santa [18] Maria degli Angeli a dare il segnale; pronto Francesco Riso ad uscir al cimento; pronti i due drappelli di Via Scopari e della Magione a far la parte loro; ma sorpresi e questi e quelli e colti dalle soldatesche già appostate a tutti i varchi; sopraffatti in breve da altre sopravvenienti da ogni banda; furono parte dispersi, parte costretti a ricoverarsi nel Convento della Gancia, che divenne così l’estrema rôcca de’ patriotti. Ma non tardarono ad assalirli, superbi del numero, i Borbonici, e atterratane, senza grande sforzo, la porta, ricacciati di scala in scala, di piano in piano, i disperati difensori, ferito a morte l’eroico Francesco Riso, freddato d’un colpo il Padre Angelo di Montemaggiore, in brev’ora rimasero padroni del campo sanguinoso. Allora i vincitori non conobbero più freno; e trucidando alla cieca quanti incontravano; scorrazzando, manomettendo, guastando l’intero Convento; non arretrandosi nemmeno dinanzi alla santità degli altari, spogliando le immagini sacre de’ loro arredi e sperdendo al suolo persino le particole consacrate, coronarono con quest’ultima prodezza la vittoria del trono e dell’altare.
E fu crudele disdetta; chè le bande del contado fide alla promessa si erano già da ogni parte appressate ai sobborghi ed alle porte, richiamando verso sè stesse molta forza de’ Regi e appiccando in più luoghi, come ai Porrazzi, zuffe ardimentose, le quali potevano anco volgersi in vittoria, se l’insurrezione cittadina avesse potuto dilatarsi e dar loro la mano.
E tuttavia l’insurrezione poteva dirsi sbaragliata, non vinta. Le squadre ritiratesi nei dintorni continuavano [19] bravamente la resistenza, e ne erano principali: quella di Piana de’ Greci comandata da Luigi Piediscalzi; quella di Corleone guidata dal marchese Firmaturi; quella di Termini condotta dal Barrante e da Ignazio Quattrocchi; quelle di Ventimiglia, di Ciminna e Villafrati organizzate da Luigi La Porta; infine quelle dei distretti d’Alcamo e di Partinico capitanate dai fratelli Sant’Anna; le più numerose di tutte. Quanto al rimanente dell’Isola poi, appena corse l’annunzio del 4 aprile, tutte le maggiori città si apparecchiarono, secondo le forze e la possibilità, a secondare il moto, e quali con protesta solenne, come Messina; quali levandosi in aperta rivolta, come Girgenti, Noto, Caltanissetta, Trapani; non conseguendo, è vero, in alcun luogo alcun successo decisivo; ma dove scacciando o bloccando i piccoli presidii, dove inviando la più belligera gioventù a ingrossare le squadre alla campagna, dove organizzando, come a Trapani, le guardie nazionali, persino col consenso dell’Intendente borbonico, alimentavano, se non potevano afforzarlo, il fuoco dell’insurrezione, al quale mancava bensì la forza di divampare in incendio struggitore, ma s’appiccava con cento fiammelle in cento luoghi, molestando gli oppressori e facendo testimonio della vitalità degli oppressi.
E Palermo stessa quantunque spopolata de’ suoi più animosi, dagli arresti e dalle stragi e soffocata dallo stato d’assedio, e minacciata dai Consigli di guerra permanenti, e tenuta d’occhio da ventimila soldati e da una sterminata sbirraglia, non voleva permettere che i Salzano ed i Maniscalco potessero impunemente spacciare nelle loro gride: «la popolazione palermitana estranea ed indifferente al moto sfortunato del 4 aprile;» talchè, a smentire l’artificiosa calunnia, il 13 aprile versavasi [20] tutta quanta nelle vie e nelle piazze a testimoniare con migliaia di voci i suoi sentimenti d’odio al Borbone, a gridare Italia e Vittorio Emanuele, a sfidare con ogni maniera di scherni e di sfregi il superbo vincitore, il quale, sbalordito da tanta solennità di manifestazione, nè osando inferocire contro una sì grande moltitudine inerme, dovette rassegnarsi a patire in pace la fiera disfida.
Ma superfluo il dire che proteste, manifestazioni, pronunciamenti a nulla valevano, se o prima o poi non li seguiva o non li afforzava una vittoria militare qualsiasi, che desse all’insurrezione un punto d’appoggio ed una promessa di durata.
Disgraziatamente, nè le forze soverchianti dell’esercito regio, nè la natura e lo stato delle squadre permettevano di sperare che il giorno di quella vittoria fosse vicino.
Quel che fossero quelle squadre l’abbiamo detto altrove.[16] Un cento di giovanotti, o come dicon là di picciotti, raccolti o condotti dal signore della terra, o da qualche noto e stimato patriotta; armati, quando lo erano tutti, della paesana scopetta; forniti al più di tre o quattro cartuccie, tenute care come onze d’oro; scalzi, laceri, la maggior parte, ed affamati: ecco una squadra. Di siffatte se ne potevano contare, è vero, alcune diecine, e non difettavano certamente di alcune delle doti più preziose del soldato: il valore ne’ combattimenti, la tolleranza delle fatiche, la pazienza delle privazioni; ma la povertà d’armi e di munizioni, la inesperienza de’ condottieri, la dissuetudine della guerra, la mancanza di disciplina, la perpetua mobilità, sicchè da un giorno all’altro sparivano o ricomparivano, [21] ingrossavano o si diradavano, senza che mai si potesse far calcolo sulla loro forza precisa, ne sfruttavano la virtù e ne isterilivano i sacrifici.
Però dopo aver tenuto altri sette giorni sulle alture circostanti Palermo e conseguíto persino, in uno scontro alla Bagheria, di bloccar nella loro caserma due compagnie di Regi, incalzati da ogni dove da soverchianti colonne mobili, perduta Bagheria, cacciati da Gibilrossa, minacciati da Monreale, alle bande non restò altro partito che abbandonare quella linea troppo inoltrata e ritirarsi in Misilmeri, dove le gole di Portella di Mare e di Belmonte potevano offrire un buon baluardo ai difensori e un nuovo centro di riscossa all’insurrezione.
Se non che difettose le forze, povera l’arte e avversa la fortuna. Scacciati tra il 12 e il 13 da Misilmeri (chi incolpa l’incuria delle guardie, chi il tradimento de’ paesani, chi la sfortuna); fallito un assalto di Sant’Anna contro Monreale; rovesciati poco dopo anche dalle alture di Monte Cuccio; ecco gl’insorti costretti a cedere nuovo terreno e a ripiegare su Piana de’ Greci, dove li conduceva la speranza di potersi unire, appoggiando ad occidente, alle squadre del Sant’Anna, che dopo l’infausto successo di Monreale andavano a lor volta ritraendosi, ed erano venute a darsi la posta presso Carini. E a Carini li aspettava una prova decisiva.
I Regi non avevano mai perduto la pista delle squadre, molto meno di quella del Sant’Anna, e appena saputo del loro concentramento, mossero in tre colonne: l’una pel mare a destra (generale Wytemback, mille uomini), una per Baida al centro (duemila uomini, generale Cataldo), una da Monreale a sinistra (mille uomini, colonnello Bosco), col proposito di circuirle [22] e di distruggerle. Se gl’insorti però avessero deciso di concentrar la difesa in Carini occupandone la rôcca e sbarrandone le vie, avrebbero potuto, se non ributtar l’assalto, protrarre a lungo la resistenza; ma impietositi dalle strida degli abitanti che non volevano una battaglia fra le loro case, scelsero il partito di uscire all’aperto, e fu la loro rovina. Resistettero tuttavia imperterriti al primo fuoco della colonna proveniente dal mare; ma attaccati in breve di fronte e di fianco dalle altre colonne, schiacciati dal numero, esauste le cartuccie non tardarono ad esser vôlti in rotta precipitosa, abbandonando Carini al furore de’ vincitori, che ubriachi dalla facile vittoria vi si precipitano dentro, saccheggiando, uccidendo, stuprando, consumandovi una di quelle immani carneficine, onde il nome borbonico va famoso.
E coll’infausta giornata di Carini, l’insurrezione siciliana agonizzò. Restavano qua e là dispersi sui monti alcuni frammenti di squadre; ma traccheggiati da ogni parte, stremati di forze, privi di viveri e di munizioni, sarà gran mercè se i più costanti fra loro potranno trascinare di rupe in rupe una vita precaria, e se di quando in quando la debole eco di qualche rara fucilata potrà annunciare ai Siciliani che l’Isola loro non era ancor morta e combatteva sempre.
Al primo grido dell’insurrezione siciliana grande fu la commozione in tutta Italia. I nemici per dispetto o paura, gli amici per affetto o speranza, nessuno poteva riguardare con occhio freddo e non curante un avvenimento, che apriva una via sì inaspettata all’interrotto moto italiano. Però man mano che risuonava [23] l’annunzio d’un nuovo fatto, svisato, come accade, dalla lontananza e amplificato dal desiderio, una la voce che usciva dai petti patriottici, uno il proposito: bisogna aiutare i fratelli. E la magnanima idea, caldeggiata, prima che dagli altri, dai fuorusciti così di Sicilia come di Napoli, accolta dalle città più importanti, bandita dai Comitati e dalle rappresentanze di tutti i partiti, acclamata colla passione dell’età dalla gioventù più animosa, e finalmente già tradotta in un principio d’esecuzione mediante pubbliche collette d’armi e di danari, divenne in breve il convincimento, la volontà, diremmo quasi il decreto della nazione intera.
Se non che s’affacciava a tutte le menti un’incognita, e susurrava su tutte le bocche una domanda: Che cosa farà il generale Garibaldi? Che cosa farà il conte di Cavour? Consentirà egli, l’Eroe, a recare all’Isola combattente l’aiuto poderoso del suo braccio e del suo nome? Vorrà egli, il Ministro, impegnare nella zarosa impresa la politica del suo Governo, e dare egli stesso, o almeno permettere che si diano, i soccorsi invocati? Quanto al Cavour, vedremo tra poco quel ch’egli ne pensava: quanto a Garibaldi, ecco, sceverato dalle piacenterie partigiane come dalle calunnie, l’animo suo.
Non era quella la prima volta che egli era invitato a capitanare un’insurrezione siciliana. Anco senza rimontare più addietro, glien’avevano scritto e parlato fin dal settembre del 1859 a Bologna; gliel’avevano ripetuto nel marzo del 1860 a Genova; non c’era, può dirsi, patriotta ed esule siciliano che accostandolo e portandogli un saluto dai suoi concittadini, non gli annunziasse imminente una levata della sua Isola, e non sollecitasse la promessa del suo soccorso.
[24]
Ma a tutti questi Garibaldi aveva sempre risposto: — «Non assumere su di sè di promovere insurrezioni: se i Siciliani spontaneamente si leveranno in armi, egli, se non sia impedito da altri doveri, accorrerà in loro aiuto. — Frattanto, soggiungeva, risovvenitevi che il mio programma è Italia e Vittorio Emanuele.[17]»
Era infatti un dir troppo e nulla; e i Siciliani ne sapevan quanto prima. Gli è che Garibaldi non fu mai nè un iniziatore, nè un cospiratore. Egli era, prima e sopra di ogni cosa, un soldato. Il lavorío paziente, coperto, sedentario delle cospirazioni, non era fatto per lui. Che gli si offrisse un terreno anche angusto, ma franco, e un manipolo d’uomini anche inagguerriti, ma armati e pronti a marciare, ed egli non misurerà il terreno, nè conterà gli uomini, e farà miracoli; ma obbligarlo a prepararsi da sè nel chiuso d’un gabinetto, a forza di lettere, di bollettini, di proclami, il campo, le armi e l’esercito, era un pretendere ch’egli si snaturasse e non fosse più Garibaldi. Egli non aveva la tempra mazziniana.
Utopista in tante altre cose, in fatto d’insurrezioni preparate era un po’ scettico. Andare, come i Bandiera, i Pisacane, i Calvi, seguíto da poche diecine d’uomini a suscitare per primo un paese sconosciuto, inerme, addormentato nella pace, non fu mai affar suo. La sentenza del Maestro: «Il martirio è una battaglia vinta,» lo capacitava fino a un certo segno. Uomo di guerra, era pronto alla morte, ma a patto di vender cara la vita; e quanto alla vittoria, non ne conosceva veramente che una: quella in cui [25] si atterra il nemico e si dorme sul campo. Per questo nessuno de’ grandi tentativi rivoluzionari d’Italia fu iniziato da lui; molto meno quello di Sicilia. Garibaldi non ambì mai la corona del martire precursore, e non l’avrà.
Tuttavia le notizie della Sicilia tornavano quella volta troppo gravi ed insistenti perchè Garibaldi non dovesse impensierirsene. Il 7 aprile era a Torino, condottovi, come vedemmo, dall’interpellanza sulla cessione di Nizza, quando si presentavano, quasi improvvisi, nella sua stanza Francesco Crispi e Nino Bixio. Venivano entrambi da Genova; avevan recenti novelle dell’insurrezione; chiedevano a nome degli amici comuni, per l’onore della rivoluzione, per carità della povera Isola, per la salute della patria intera, che Garibaldi si mettesse a capo d’una spedizione d’armati e la conducesse egli stesso in Sicilia. L’eroe sfavillò al magnanimo invito, ma il condottiero esitò; e quando finalmente, vinto dalle pertinaci istanze de’ suoi amici, rispose d’accettare, fece ancora una riserva: che la rivoluzione fosse tuttora viva e tenesse fermo fino al suo arrivo.
Partirono paghi della risposta i due amici, e reduci a Genova si accontarono tosto co’ più intimi della parte loro, con Agostino Bertani principalmente, per la scelta e l’allestimento de’ mezzi. Occorreva uno, e forse due piroscafi, e di questi si tolse l’assunto Nino Bixio; occorrevano armi e danari, e per questi fidavano soprattutto nel Comitato del Milione di fucili, fattura, a dir così, di Garibaldi, che chiudeva già in cassa una discreta somma e nascondeva in certi arsenali [26] di Milano alcune migliaia di carabine colle rispettive cartuccie.
Quanto poi a’ soldati, nessun timore che difettassero. Da mesi migliaia di giovani non facevano che attendere un segnale; bastava che Garibaldi mandasse una voce, facesse un cenno, perchè vedesse balzar dal suolo legioni. E tuttavia, nel primo suo concetto, non era con un Corpo irregolare e improvvisato di Volontari che la spedizione di Sicilia avrebbe dovuto iniziarsi. Anco qui di sotto all’eroe traspariva il capitano. Non che avesse perduto la fede nell’armi popolari, molto meno ne’ suoi vecchi commilitoni; ma unico, forse, fra quanti lo consigliavano, a giudicar con occhio esperto tutte le difficoltà dell’impresa, non gli pareva troppo il tentarla con un’agguerrita e ordinata milizia.
Però, cosa fin qui non risaputa, appena ebbe impegnata co’ Siciliani la sua parola, Garibaldi presentossi al re Vittorio Emanuele, e confidatogli tutto il disegno, gli chiese se avrebbe permesso ch’egli si togliesse seco una delle brigate dell’esercito; precisamente la brigata Reggio, un reggimento della quale era comandato dal Sacchi, e contava così nelle file come ne’ quadri numerosi avanzi delle antiche falangi garibaldine. E Vittorio Emanuele, il quale probabilmente non aveva ancor consultato il conte di Cavour, nè ben ponderate tutte le ragioni della domanda che gli era rivolta, non assentì, ma non dissentì nemmeno apertamente; onde Garibaldi, chiamato con gran diligenza il Sacchi e riferitogli il colloquio avuto col Re, fidando senz’altro sulla devozione del suo più antico luogotenente di Montevideo, gli disse di tenersi pronto a seguitarlo col suo reggimento. Esultò il Sacchi; e tornato ad Alessandria e confidato il segreto a’ più intimi [27] suoi ufficiali, il Pellegrini, il Grioli, l’Isnardi, il Chiassi, il Lombardi, n’ebbe da tutti la stessa risposta ch’egli aveva data a Garibaldi. Se non che, era sogno troppo dorato. Scorsi pochi giorni, Garibaldi richiamava a Torino il Sacchi, e gli annunziava che il re Vittorio non solo negava il suo consenso al noto progetto, ma raccomandava che l’esercito stesse più serrato e disciplinato che mai, pronto a fronteggiare tutti gli eventuali nemici che gli stessi avvenimenti del Mezzodì potevano suscitare.
E così fu che il posto assegnato, nella mente di Garibaldi alla brigata Reggio, toccò ai Mille. Certo che quell’idea rasentava l’utopía; nè era presumibile che Vittorio Emanuele, re prudente ed accorto se mai ve ne fu, e conscio de’ suoi doveri costituzionali, avrebbe impegnato la sua regia parola in un complotto che gettava il suo Stato novello nell’ignoto d’un’avventura, ed equivaleva ad un’aperta dichiarazione di guerra.
Valga piuttosto il fatto, quale sulla fede di non disputabile testimonianza l’abbiamo narrato,[18] a chiarire [28] sempre più in quale confidente abbandono d’ogni più riposto loro pensiero vivessero a que’ giorni il Re Galantuomo e il Condottiero popolare, ed a riattestare in faccia alla storia, se pur ve n’ha mestieri, quanto fosse grande la complicità della Monarchia in quella congiura fortunata, che ebbe per prologo Marsala e per lieta catastrofe l’unità nazionale.
E sia pur vero che quella complicità sia stata, in sulle prime segnatamente, peritosa, ambigua, negativa: chiunque abbia senso delle necessità d’uno Stato, e memoria de’ pericoli che attorniavano a que’ giorni l’Italia, intende che non poteva essere diversa. La rivoluzione poteva azzardar tutto su una carta; la Monarchia no. L’alleanza della Monarchia colla rivoluzione non poteva essere effettuabile e fruttuosa che a due patti: che entrambe operassero a seconda della loro natura, e che l’una non usurpasse le parti e non intralciasse l’azione dell’altra. Un partito rivoluzionario che si fosse proposto procedere coi riguardi, le cautele, gli scrupoli d’un governo costituito, si sarebbe esausto nelle sterilità; un Governo che avesse voluto seguir gli andamenti, imitare le audacie e affettare la irresponsabilità d’un partito rivoluzionario, si sarebbe infranto contro la lega di tutti gli altri governi costituiti, e avrebbe trascinato nella propria rovina la causa stessa che voleva difendere. Era lecito a Garibaldi ed a’ suoi tentare il magnanimo giuoco, poichè al postutto si arrischiavano bensì molte vite preziose, ma non la patria tutta; il Governo del nuovo Regno d’Italia, responsabile non solo dell’esistenza sua, ma dell’avvenire della nazione intera, non poteva, senza abiura della sua stessa missione, correre la medesima sorte.
Queste pertanto e non altre le ragioni della politica [29] all’aspetto obliqua, dubbiosa e talvolta bifronte del conte di Cavour alla vigilia di Marsala. Il problema che per Garibaldi era semplicissimo, per lui era terribilmente complesso ed aggrovigliato. Egli non poteva certo, senza offendere il sentimento della universalità degl’Italiani, guardar con occhio indifferente la sommossa siciliana, molto meno lasciarla strozzare disperata d’ogni soccorso; ma non poteva nemmanco farsene aperto campione, nè recare ostensibilmente un aiuto che avrebbe svelato anzi tempo il fine ultimo della sua politica, e attirato sopra il giovine Regno italiano la collera sino allora delusa e blandita di tutta l’Europa conservatrice. Poteva però permettere che l’aiuto si recasse, o fingere di non poter impedire che fosse recato; ma perchè questa tattica, non grande per fermo, ma certo utilissima, sortisse tutto il suo pieno effetto, gli era mestieri appunto di quell’arte occulta, sottile, prestigiosa, lesta di mano e larga di coscienza che offende le anime rettilinee e cavalleresche, e spiace in sulle prime ad amici e nemici; ma vien poi sempre perdonata, tanto è umana essa pure, in virtù dello scopo e in grazia del successo.
E così fece. Che il conte di Cavour avesse scorto fin da’ primi giorni la grande importanza del moto siciliano, lo accerti questo solo: che prima ancora di conoscere gl’intendimenti di Garibaldi, egli fece chiedere al generale Ribotti[19] (quel medesimo che aveva comandato i primi corpi volontari di Modena e di Parma), se, venendo il caso, avrebbe consentito d’andare a capitanare anco gl’insorti di Sicilia. Poscia [30] ebbe egli pure, come li avrà più tardi Garibaldi, alcuni giorni di dubbiezza e d’indecisione: le novelle di Sicilia non venivano più così propizie; già correva voce che l’insurrezione agonizzasse nei monti; e naturalmente l’uomo di Stato prima di dar un passo e di scoprire i suoi intendimenti esitava.
Tuttavia, quando intese che la lotta nell’Isola persisteva e che Garibaldi s’era impegnato a soccorrerla; quando udì intorno a sè gli esuli di Napoli e di Sicilia preganti per la loro terra nativa; quando vide tra i complici e i fautori dell’insurrezione i suoi stessi amici e più fidati seguaci; quando s’accorse che il grido per la Sicilia non era artificio d’un sol uomo o d’un sol partito, ma eco schietta e profonda d’un sentimento dell’intera nazione; allora non vacillò più, e concesse a’ soccorritori tutto quello che a governante di Stato ordinato era lecito concedere: la balía di prepararsi, d’armarsi, di salpare all’ombra del suo Governo e sotto l’egida del suo Re.[20]
Così quando il Comitato del Milione di fucili fece [31] intendere che le armi raccolte a Milano dovevano essere trasportate a Genova, finse di non saperlo; che se poi quell’armi furono negate e sequestrate, l’autore del diniego e del sequestro è noto; una appunto di quelle anime rettilinee e cavalleresche che non sapevano seguire la politica molto curvilinea del conte di Cavour; nè intendere si «potesse avere un rappresentante presso il Re di Napoli e mandar de’ fucili in Sicilia.[21]»
Così quando tra il 18 e il 19 aprile Giuseppe La Masa si presentava al conte di Cavour per chiedergli in nome de’ suoi compagni d’esiglio di voler concedere alla insurrezione un aiuto un po’ più efficace della semplice astensione e di risarcire almeno i fucili staggiti a Milano; ecco il Conte fare un altro passo ancor più decisivo, e ordinare al La Farina di somministrare a Garibaldi quante armi avesse disponibili ne’ suoi depositi la Società nazionale. Che se poi quelle armi parvero scarse e pessime, e furon date con avarizia e mala grazia, e rinfacciate poi con acrimonia e superbia, la colpa ricade sull’uomo che il Cavour s’era tolto a Ministro della sua politica segreta, un uomo di nobile mente, di infaticabile e fervido patriottismo; ma invasato di passione partigiana, infatuato nell’idea d’aver egli solo preparato la spedizione siciliana, e morto col rancore male dissimulato[22] di aver rappresentato sulla scena italiana una parte poco vistosa e poco applaudita.
[32]
E così finalmente, quando la spedizione fu in procinto di partire, inviava nelle acque di Sardegna l’ammiraglio Persano, coll’ordine di catturare i volontari se toccavano qualche porto dell’Isola, ma di lasciarli procedere nel loro camminino incontrandoli per mare; ordine, a dir vero, che non imponeva all’Ammiraglio alcuno sforzo straordinario d’acume, nè alcuna prova singolare di coraggio per essere nel suo vero senso interpetrato.[23]
[33]
Intanto Garibaldi, visitato nuovamente a Torino dal Crispi, dal Medici, dal Finzi, dal Bertani, e presi con loro gli ultimi accordi, partiva il giorno 20 aprile per Genova, e dalla casa del suo amico Coltelletti passato tostamente nella Villa Spinola presso Quarto, offertagli dall’altro suo amico Candido Augusto Vecchi, piantava colà il Quartier generale della spedizione.
Questa infatti pareva irrevocabilmente deliberata. Il Bixio, cercato indarno un bastimento che assumesse il viaggio periglioso, pel puro noleggio, era riuscito più fortunatamente a persuadere Raffaele Rubattino a lasciarsi rapire, con un simulacro di pirateria, e mercè la sola malleveria della firma di Garibaldi, due de’ suoi piroscafi, e al più era provveduto.
Le carabine di Milano si potevan dire perdute; ma i mille cinquecento fucili e le cinque casse di munizioni, promessi dal La Farina, e qualche diecina di carabine e di rivoltelle raccolte a Genova, parevan bastare al bisogno. I danari penuriavano, ma si contava sulla cassa del Milione di fucili e intanto si suppliva alle prime spese con ottomila lire mandate dai Pavesi e con qualche dono venuto a Garibaldi da Montevideo.
La gioventù abbondava e passeggiava anche troppo [34] rumorosamente le strade di Genova: l’accordo infine tra i capi delle varie parti, o meglio dire tra i membri dei varii Comitati patriottici (quello di Soccorso degli Esuli siciliani; quello della Società nazionale; quello del Partito d’azione), pareva più o meno affettuosamente stabilito; e una voce già correva da Villa Spinola per tutte le fila che la notte del 27 aprile si sarebbero salpate le àncore.
Se non che le Bande siciliane toccavano appunto in que’ giorni la rotta di Carini; e un telegramma in cifra spedito da Malta da Nicola Fabrizi a Francesco Crispi venne interpretato così:
«Malta, 26 aprile 1860.
Completo insuccesso nelle provincie e nella città di Palermo. Molti profughi raccolti dalle navi inglesi giunti in Malta.[24]»
Era quanto dire tutto finito; e se i più, gli esuli principalmente, non potevano ancora confessarlo, Garibaldi, il quale fin da principio aveva posto per condizione del suo soccorso la durata dell’insurrezione, e si era mostrato più d’ogni altro impensierito della gravità del cimento, appena udito l’infausto annunzio [35] dichiarò che l’impresa era ormai impossibile, e ne disdisse egli stesso gli apparecchi. Con quale animo i principali attori e cooperatori della spedizione accogliessero l’inattesa risoluzione del loro Capitano, non si potrebbe con una sola parola ridire. I consigli e i propositi furono diversi secondo i caratteri e i temperamenti, gl’interessi e le parti. Chi esclamava, come il La Masa: Garibaldi non necessario, e lui essere sempre pronto a prenderne il posto; chi sconsigliava severamente la spedizione come il Sirtori, ma diceva: «se Garibaldi parte io lo seguo;» chi la dava addirittura per fallita e se ne ritornava rassegnato a Torino, come il La Farina; chi infine, come il Crispi, il Bertani, il Bixio persistevano a crederla sempre effettuabile, e con questa nobile ostinazione nell’animo si stringevano intorno al Generale, scongiurandolo a non desistere dal magnanimo voto, a non privare quella povera Isola combattente del poderoso soccorso della sua spada, a pensare a tanta gioventù accorsa d’ogni dove per combattere o morire con lui: a pensare all’Italia.
Generosi consigli, ma vani: Garibaldi ne’ solenni cimenti non li prende mai che da sè stesso. Però ascoltava cortesemente tutti; ma non dava risposta concludente e decisiva a veruno. Fin dall’arrivo di quell’infausto telegramma aveva mutato d’aspetto. Fattosi anche più pensoso e taciturno del consueto, andava solitario lungo la spiaggia del mare e vi restava lunghe ore immobile, silenzioso, cogli occhi fissi ad un punto dell’orizzonte, come se vi scorgesse tra le ultime brume la immagine dolente e insanguinata della Sicilia, e ognuna di quelle ondate che veniva a frangersi a’ suoi piedi gli portasse dal deserto infinito il responso del suo destino.
[36]
Così era fatto Garibaldi! Il consiglio decisivo egli non lo chiedeva più oramai ai sillogismi della ragione; ma lo aspettava da que’ moti istintivi, da quelle ispirazioni inconscie, da quei presagi fatidici che sono il sesto senso, la coscienza privilegiata, il Dio ignoto de’ poeti e degli eroi.
Però ripetiamo qui ciò che scrivemmo in altre pagine, per risposta ai tanti che si vantarono d’avergli persuaso Marsala: nessuno lo persuase; nessuno lo dissuase. Garibaldi non può essere misurato al metro comune, e chi lo dimentichi rischierà quasi sempre di sbagliare la giusta grandezza così delle sue colpe, come delle sue virtù. La Poesia, fatidica interprete della storia umana, attribuì sempre ad una volontà divina le gesta solenni degli eroi; e solo al celeste lume della Poesia convien cercare la spiegazione suprema di Marsala. È l’Araldo di Giove che strappa il Dardanide dai molli talami della Cartaginese, e gli rammenta il grande fato di Roma; è l’Angiolo del Signore che scuote in sogno il pio Goffredo e gli addita il Sepolcro di Cristo; son voci arcane dall’alto che suscitan la Vergine di Domrémy e l’armano per il riscatto della patria sua; e fu certo una gran voce echeggiata dentro le profondità più ascose dell’anima sua, quella che troncò tutti i contrasti, vinse tutte le dubbiezze di Garibaldi, e all’improvviso, imperiosamente, inappellabilmente, come un cenno di Dio, gl’intimò la partenza: «Partiamo,» disse il 1º maggio agli amici raccoltisi ancora intorno a lui a iterare le preghiere e supplicare la risposta: «Partiamo, ma purchè sia domani.» E domani non era possibile; ma quel grido subitaneo d’impazienza, quella fretta quasi febbrile, dopo tanti giorni d’indecisione, attesta una volta di più che l’eroe agiva oramai sotto l’impero d’una volontà [37] arcana, e che scendendo nell’arena egli sentiva intorno a sè, come Achille e Rolando, l’egida d’una protezione divina.
La sera del 4 maggio Genova ferveva d’insolito moto. Le vie brulicavano d’una folla straordinaria; capannelli di cittadini si componevano e scomponevano rapidamente in tutti i canti, e la voce: «Partono stanotte,» volava con accenti alterni di ansietà e di gioia su tutte le labbra. Intanto drappelli di giovani, all’aspetto forastieri, traversavano taciti e affrettati la città e si dirigevano tutti insieme, come mossi da un solo pensiero, fuori di Porta Pila. Poche ore dopo il Bixio, finto pirata, saltava con pochi seguaci a bordo del Piemonte e del Lombardo (i due vapori concessi dal Rubattino) e se ne impadroniva, e Garibaldi in camicia rossa e puncio americano, il sombrero sugli occhi, la sciabola sulle spalle, il rewolver e il pugnale alla cintura, scendeva sul far della mezzanotte da Villa Spinola alla spiaggia di Quarto, e colà attorniato tosto da’ suoi volontari giunti prima di lui al convegno, e tornato sereno e quasi ilare, vi attendeva in placidi ragionari l’arrivo dei predati bastimenti. Il Governo solo in tanto tramenío sembrava dormire profondamente.
Era però succeduto un piccolo incaglio. L’operazione de’ bastimenti era stata più lunga del supposto; la macchina del Lombardo non funzionava bene, talchè era stato mestieri che il Piemonte se lo attaccasse alla poppa e lo traesse a rimorchio; onde Garibaldi, dubitando di qualche inatteso sinistro, fu preso subitamente da una tal quale impazienza, e buttatosi in un [38] canotto faceva vogare a forza di poppa verso Genova per verificare co’ suoi occhi la causa dell’indugio. Fortunatamente i bastimenti erano già in cammino; e Garibaldi balzato a bordo del Piemonte e preso da quel momento il governo della piccola flottiglia, comandò egli stesso la manovra per accostar la spiaggia di Quarto. Colà tutto era pronto: da Villa Spinola eran già stati calati i mille fucili, non più, dati dal La Farina[25] (i viveri, le munizioni e il resto dell’armi dovevano esser presi in mare); il Bertani aveva già consegnato a Garibaldi trentamila franchi in oro, terzo della somma offerta del Milione di fucili;[26] i Legionari [39] «battevano il piede sulla spiaggia, come il corsiero generoso impaziente delle battaglie;[27]» e in brev’ora, senza strepito e senza disordine, tutto fu imbarcato.
Già biancheggiava l’alba del 5 maggio: le camminiere fumavano; la rotta era segnata; tutti gli ordini erano dati; il Bixio al comando del Lombardo, il Castiglia a quello del Piemonte, non attendevano più che il segnale; Garibaldi tuonò un sonoro: Avanti; le àncore furono salpate; le ruote si scossero; le prue si drizzarono verso sirocco, e in brev’ora le due navi non furono che due masse nere, sormontate da un pennacchio grigio, sulla glauca conca del Golfo ligure.
O nimis optato sæclorum tempore nati — Heroes salvete.[28]» Voi portate l’Italia e la sua fortuna; voi state per scrivere una delle più stupende pagine del secolo nostro; voi apparecchiate alla patria l’unità, alla poesia la leggenda, al valore latino una novella apoteosi, e felici o sfortunati siete immortali. Però [40] scegliere tra voi la schiera de’ più eletti sarebbe ingiusto: vi accomuna la fede nella virtù, vi uguaglia la religione del sacrificio, e Omero dovrebbe scrivere il vostro eroico catalogo coll’intero Albo dei Mille.
Garibaldi non poteva cimentar sè e la causa d’Italia a sì perigliosa avventura senza chiarire alla nazione ed al suo capo i propri intendimenti e, soprattutto, senza stringere co’ suoi amici lasciati sul Continente tutti gli accordi che valessero ad assicurargli alle spalle una base d’operazione ed una fonte durevole di soccorso.
Al Re aveva scritto: non aver consigliato l’insurrezione dei Siciliani, ma dacchè essi s’erano levati in nome dell’unità italiana non poter più esitare a correre in loro aiuto. Sapeva la spedizione pericolosa, ma confidava in Dio e nel valore de’ suoi compagni. «Suo grido sarebbe sempre: Viva l’Unità d’Italia e Vittorio Emanuele, suo primo e più prode soldato. Non avergli comunicato il suo progetto, perchè temeva che la grande devozione che nutriva per lui l’avesse persuaso ad abbandonarlo.[29]»
[41]
All’esercito, memore della promessa fatta al Sacchi, raccomandava di non sbandarsi, di sovvenirsi che anche nel Settentrione avevamo nemici e fratelli, di stringersi sempre più ai suoi valorosi ufficiali ed a quel Vittorio, la di cui bravura «può essere rallentata un momento da pusillanimi consiglieri, ma che non tarderà a condurli a definitivi trionfi.[30]»
Finalmente ad Agostino Bertani, creato da lui suo [42] proministro per tutta Italia, lasciava questi amplissimi incarichi:
«Genova, 5 maggio 1860.
»Mio caro Bertani,
»Spinto nuovamente sulla scena degli avvenimenti patrii, io lascio a voi gli incarichi seguenti:
»Raccogliere quanti mezzi sarà possibile per coadiuvarci nella nostra impresa;
»Procurare di far capire agl’Italiani, che, se saremo aiutati dovutamente, sarà fatta l’Italia in poco tempo, con poche spese; ma che non avranno fatto il dovere, quando si limitano a qualche sterile sottoscrizione;
»Che l’Italia libera d’oggi, in luogo di centomila soldati deve armarne cinquecentomila, numero non certamente sproporzionato alla popolazione, e che tale proporzione di soldati l’hanno gli Stati vicini, che non hanno indipendenza da conquistare; con tale esercito l’Italia non avrà più bisogno di stranieri, che se la mangiano a poco a poco col pretesto di liberarla;
»Che ovunque sono Italiani che combattono oppressori, là bisogna spingere tutti gli animosi e provvederli del necessario per il viaggio;
»Che l’insurrezione siciliana non solo in Sicilia bisogna aiutarla, ma nell’Umbria, nelle Marche, nella Sabina, nel Napoletano, ec., dovunque sono dei nemici da combattere.
»Io non consigliai il moto della Sicilia, ma venuti alle mani quei nostri fratelli, ho creduto obbligo di aiutarli.
»Il nostro grido di guerra sarà: Italia e Vittorio Emanuele; e spero che la bandiera italiana anche questa volta non riceverà sfregio.
»Con affetto
»vostro Giuseppe Garibaldi.[31]»
[43]
E questo mandato troppo per sè solo vago e indeterminato, combinato con altre lettere e discorsi di Garibaldi, diverrà poi il primo germe maligno di dissidi che minacceranno più d’una volta di turbar la concordia del partito nazionale e saranno origine di alcuni non lieti episodi che avremo a narrare fra poco.
Se non che la fortuna parve fin dai primi passi corrucciarsi dell’audace disfida, e suscitò ai navigatori una imprevista difficoltà. Una parte delle armi, e tutte le munizioni erano state caricate sopra due paranze, che dovevano aspettare con un fanale alla prua i due vapori all’altezza di Bogliasco e in essi trasbordare il loro carico. E difatti poco lontano dal punto indicato un fioco lume tremola sulle acque e par che navighi esso pure verso i piroscafi; quando, a un tratto che fu, che non fu,[32] il lume dà volta, s’allontana, dilegua, lasciando tutta la costa nella silenziosa oscurità di prima. Indarno Garibaldi fa rallentare le macchine, indarno fruga, quanto gira l’occhio, la costa ed il mare; [44] il mare e la costa non gli danno altra risposta. Era una terribile verità: quella barca portava a bordo la più necessaria parte dell’arsenale della spedizione; senza quella barca anche quel migliaio di grami fucili del La Farina diventava affatto inservibile; i Mille non erano più che una turba di viaggiatori inermi, ed ogni altro capitano avrebbe giudicato la spedizione ineffettuabile e deciso il ritorno. Non Garibaldi. Ordinato ai suoi Luogotenenti, partecipi del segreto, di nascondere a chicchessia il contrattempo, ormai fidente nella sua stella, e avendo probabilmente già trovato nella fervida mente il rimedio del male: «Non importa, esclama, facciamo rotta per il canale di Piombino;» e le due navi ripigliarono all’istante l’interrotto cammino, e i Volontari, che s’erano tutti levati a commentar quella sosta inattesa senza nulla capirne, tornarono inconsci e tranquilli ad accucciarsi sul ponte, a spandersi nelle cabine, a dondolarsi sui bordi; taluno a scriver le prime linee delle sue Memorie; tal altro a battagliare, come Don Giovanni, tra i ricordi della bella lasciata al paese, e gl’ingrati effetti del rollío e del beccheggio.
Poichè v’era tutto un mondo su quel naviglio: la recluta ed il veterano; l’avventuriere e l’eroe; l’artista ed il filosofo; il settario ed il patriotta; il lafariniano intollerante ed il mazziniano arrabbiato: «il Siciliano in cerca della patria, il poeta d’un romanzo, l’innamorato dell’obblío, l’affamato di un pane, l’infelice della morte: mille teste, mille cuori, mille vite diverse; ma la cui lega purificata dalla santità dell’insegna, animata dalla volontà unica di quel Capitano, formava una legione formidabile e quasi fatata.[33]»
[45]
Oltrepassato il Canale di Piombino la mattina del 7 maggio, la piccola flottiglia andò a gettar l’ancora innanzi a Talamone, a breve tratto da Porto Santo Stefano, a poche miglia da Capo Argentaro e dalla fortezza d’Orbetello. Nè fu certo per riposarvi.
Parecchie potevano essere le ragioni di quella fermata, ma principale fra tutte quella di cercare su quella costa solitaria, ma spesseggiante di fortilizi e di arsenali terrestri e marittimi, un mezzo, un espediente qualsiasi per risarcire la grave perdita delle munizioni, o predate o smarrite colla paranza di Portofino. E però fu anche questo il primo scopo, cui Garibaldi converse i suoi pensieri. «Talamone (narra egli stesso) aveva un povero porto poveramente armato, comandato da un ufficiale e da pochi veterani. I Mille avrebbero potuto facilmente impadronirsene anche scalandolo; ma non sembrò conveniente, e perchè si sarebbe fatto troppo chiasso, e perchè non si era certi di trovarvi quanto abbisognava.»
Conveniva dunque fidare in qualche stratagemma, e Garibaldi, già, lo sappiamo, non ne fu mai a corto.
Sovvenutosi d’aver seco nel poco bagaglio la sua uniforme da Generale piemontese del 1859, appena sceso a terra la indossò, e fatto chiamare a sè il vecchio Comandante di Talamone, gli fu facile ottenere da lui, parte col prestigio del nome e l’affabilità de’ modi, parte coll’autorità di quell’assisa, tutto quanto gli occorreva. Se non che il Castellano era più volenteroso che ricco; nella sua vecchia bicocca non v’erano più [46] che pochi fucili arrugginiti e un’antiquata colubrina; buoni pur quelli, pensò il Capitano de’ Mille, ma non certo bastevoli alla sua grande miseria. Fortunatamente però il Comandante di Talamone nel consegnargli que’ poveri rimasugli fece intendere che le scorte di guerra di tutto quel tratto di costa erano raccolte nel forte di Orbetello, e che colà certamente la spedizione avrebbe trovato quanto le poteva occorrere. Bastò. Pochi istanti dopo il colonnello Türr riceveva da Garibaldi l’incarico di chiedere al Comandante d’Orbetello quante armi e munizioni aveva in serbo ne’ suoi arsenali; e due ore dopo, munito di questo biglietto di Garibaldi: — «Credete a tutto quanto vi dice il mio Aiutante di campo, il colonnello Türr, ed aiutateci con tutti i vostri mezzi per la spedizione che io intraprendo per la gloria del nostro re Vittorio Emanuele e per la grandezza d’Italia;» — il Colonnello stesso si presentava al maggiore Giorgini, tale era il nome del Comandante, e gli esponeva l’oggetto del suo mandato. Il Giorgini in sulle prime, sgomento della grave responsabilità cui andava incontro, ne rifuggì apertamente; ma poi il Türr seppe tanto dire e fare e così destramente dimostrargli l’impresa esser voluta dal Re, andarne della Sicilia non solo, ma dell’Italia, ogni ritardo poter riuscire esiziale, infine la responsabilità del concedere essere in quel caso un nulla al paragone di quella del rifiutare, che il buon Giorgini, ascoltando certo più le voci del patriottismo che quelle della rigida disciplina militare, finì col darsi per vinto, e col concedere tutto quanto gli era richiesto. Nè infatti quel giorno era ancora tramontato, che lo stesso Giorgini conduceva a Garibaldi (tenersi dal vedere egli stesso il magico eroe non avrebbe potuto) centomila [47] cartocci, tre pezzi da sei e milleduecento cariche, le quali, unite ai vecchi schioppi e alla barocca colubrina di Talamone, compirono l’armamento ben degno di quei Mille pezzenti alla conquista di un regno.[34]
Ma di pari passo a questa, un’altra operazione, importantissima fra tutte, era stata compiuta. La gente imbarcata a Quarto non era fino allora che una turba informe e confusa; conveniva darle al più presto una forma ed un aspetto militare. Però anche a questa bisogna poche ore bastarono. Scesi a terra i Legionari, e passata una prima rassegna, millesettantadue risposero all’appello. In seguito, divisa la gente in nove compagnie, ed eletti: a Capo dello Stato Maggiore Giuseppe Sirtori, del Quartier generale Stefano Türr, dell’Intendenza Giovanni Acerbi, del Corpo sanitario il dottor Ripari; fu letto un Ordine del giorno, nel quale, dopo aver stabilito che il corpo riprenderebbe il nome di Cacciatori delle Alpi, e raccomandata l’abnegazione e la disciplina, era proclamato che il suo grido sarebbe sempre quello, rimbombato già sulle sponde del Ticino: Italia e Vittorio Emanuele.[35] [48] L’organizzazione poi, soggiungeva l’Ordine del giorno, sarebbe stata «in tutto simile a quella dell’esercito italiano a cui apparteniamo, ed i gradi, più che al privilegio, sono dati al merito, e sono gli stessi già coperti su altri campi di battaglia.[36]»
A questo solo però non s’eran fermate le cure di Garibaldi. Il pensiero vagheggiato fin dai giorni della Cattolica di un’invasione nelle provincie romane, egli l’aveva sepolto in fondo al cuore, ma deposto non [49] mai; e la riscossa siciliana non aveva fatto che ridestarlo e richiamarlo a vita novella. Nella mente sua un concetto non escludeva l’altro, anzi a vicenda s’integravano e insieme compievano quel disegno d’insurrezione generale di tutta Italia, che era il suo eroico sogno, e di cui i «cinquecentomila volontari e il milione di fucili» dovevano essere i fattori e gli stromenti.
Poichè l’eroe aveva promesso il suo braccio ai Siciliani, e’ non intendeva ritrarlo; ma pensava sempre che la Sicilia potesse essere soccorsa in due modi: recandole un rinforzo d’armi e d’armati; e suscitando nella restante Italia, rimasta schiava, segnatamente nelle Marche, nell’Umbria e nel Napoletano, una vasta sommossa che mettesse in fiamme tutta la Penisola, e finisse una buona volta, per dirla con lui, «le nostre miserie di tanti secoli.» Da ciò le parole al Bertani «che l’insurrezione siciliana non solo in Sicilia bisogna aiutarla, ma dovunque sono nemici;» da ciò la lettera al Medici (Genova, 5 maggio 1860), nella quale consigliandolo a serbarsi per altre imprese ed a fare ogni sforzo per inviare soccorsi di armi e di gente in Sicilia, gli aggiungeva di fare «lo stesso nelle Marche e nell’Umbria, ove presto sarà l’insurrezione, e dove presto conviene promuoverla a tutta oltranza.[37]» Da ciò infine l’appello agl’Italiani bandito da Talamone: «Che le Marche, l’Umbria, la Sabina, Roma, il Napoletano, insorgano per dividere le forze de’ nostri nemici;» e quale ultimo portato di quest’idea, quella diversione o spedizione nell’Umbria, che fu detta di Talamone.
Di questo fatto inesattamente si scrisse, e male si giudicò fin d’allora; ma alieni dall’occupare, con litigiose [50] digressioni, il posto sacro alla Storia, ci restringeremo a dire del fatto, quanto a noi stessi, testimoni e attori involontari, consta in modo non discutibile, nè confutabile.
Nella mattina stessa del 7 maggio, Garibaldi faceva chiamare nella casa del Gonfaloniere, dove aveva posto il Quartier generale, il colonnello Zambianchi e gli proponeva di mettersi a capo d’una schiera di Cacciatori delle Alpi per tentare un’invasione nell’Umbria dal lato di Orvieto. Gli avrebbe dato, diceva, armi e danari; l’affidava che a poche miglia avrebbe trovato una colonna già in marcia di Livornesi che s’unirebbe a lui; lo lusingava che una spedizione si stesse preparando a Genova dal Cosenz e dal Medici, e ch’egli stesso, Garibaldi, potesse comparire nell’Umbria e pigliare il comando dell’impresa.
E questo fu il primo capitale errore del Duce dei Mille. Lo Zambianchi, colonnello nel 1849 de’ Gendarmi della Repubblica romana, aveva lasciato dietro a sè una fama piuttosto di brutalità che di prodezza; e non possedeva certo alcuna delle doti necessarie a governare una siffatta impresa. Appunto perchè grosso di cervello, quanto spavaldo di cuore, non si rese alcun conto della difficoltà e della responsabilità del mandato, e l’accettò. Garibaldi gli diè facoltà di scegliersi, fra i Mille, una schiera di cinquanta o sessanta volontari, gli assegnò egli stesso due o tre ufficiali (buoni, diceva il Generale), i quali, indarno supplicato di non essere staccati dai camerata coi quali eran partiti, ma non volendo in quell’ora solenne dar l’esempio d’una indisciplinatezza, si rassegnarono al sacrificio; gli pose nelle mani sessanta buone carabine, quaranta revolver e seimila franchi; gli consegnò un Manifesto da bandirsi ai Romani, e [51] un foglio d’Istruzioni tutto di suo pugno e lo mandò con Dio.
Il Manifesto già noto diceva:
«Romani!
»Domani voi udrete dai preti di Lamoricière che alcuni Mussulmani hanno invaso il vostro terreno. Ebbene, questi Mussulmani sono gli stessi che si batterono per l’Italia a Montevideo, a Roma, in Lombardia! quelli stessi che voi ricorderete ai vostri figli con orgoglio, quando giunga il giorno che la doppia tirannía dello straniero e del prete vi lasci la libertà del ricordo!
»Quelli stessi che piegarono un momento davanti ai soldati agguerriti e numerosi di Buonaparte, ma piegarono colla fronte rivolta al nemico, ma col giuramento di tornare alla pugna, e con quello di non lasciare ai loro figli altro legato, altra eredità che quella dell’odio all’oppressore ed ai vili!
»Sì, questi miei compagni combattevano fuori delle vostre mura, accanto a Manara, Melara, Masina, Daverio, Peralta, Panizzi, Ramorino, Mameli, Montaldi, e tanti vostri prodi che dormono presso alle vostre catacombe, ed ai quali voi stessi deste sepoltura, perchè feriti per davanti.
»I vostri nemici sono astuti e potenti, ma noi marciamo sulla terra degli Scevola, degli Orazii e dei Ferrucci; la nostra causa è la causa di tutti gl’Italiani. Il nostro grido di guerra è lo stesso che risuonò a Varese ed a Como: Italia e Vittorio Emanuele! e voi sapete che con noi, caduti o vincenti, sarà illeso l’onore italiano.
»G. Garibaldi
»Generale romano promosso da un Governo
eletto dal suffragio universale.»
Le Istruzioni, ignorate sino ad ora e che per la prima volta si pubblicano, aggiungevano:[38]
[52]
Istruzioni al comandante Zambianchi.
«1º Il comandante Zambianchi invaderà il territorio pontificio colle forze ai suoi ordini, ostilizzando le truppe straniere mercenarie di quel Governo antinazionale con tutti i mezzi possibili.
»2º Egli susciterà all’insurrezione tutte quelle schiave popolazioni contro l’immorale Governo, e procurerà ogni modo per attrarre con lui tutti i soldati italiani che si trovano al servizio del Papa.
»3º Egli, campione della causa santa italiana, reprimerà qualunque atto di vandalismo col maggior rigore, e procurerà di farsi amare dalle popolazioni.
»4º Chiederà, come è giusto, dai Municipi ogni cosa, di cui possa aver bisogno in nome della Patria, che compenserà alla fine della guerra ogni spesa sopportata da particolari e Comuni.
»5º Egli propagherà l’insurrezione dovunque negli Stati del Papa ed in quelli del Re di Napoli, evitando, per quanto è possibile, di percorrere gli Stati italiani del re Vittorio Emanuele, il nome del quale e d’Italia saranno il grido di guerra d’ogni Italiano.
»6º Eviterà più che possibile d’accettare soldati dell’esercito nostro regolare, anzi raccomanderà a questi di non abbandonare le loro bandiere, e che non tarderà il loro turno in combattimenti maggiori.
»7º Trovandosi con altri corpi italiani nostri, procurerà di accordarsi circa le operazioni. Se alla testa di quei corpi si trovassero i brigadieri Cosenz o Medici, egli si porrà immediatamente ai suoi ordini, e se vi fosse guerra tra Vittorio [53] Emanuele e i tiranni meridionali, allora si porrebbe agli ordini del comando superiore del Re o chi per lui.
»(Firmato) G. Garibaldi
»Generale del Governo di Roma, eletto dal suffragio universale
e con poteri straordinari.»
Ora come Garibaldi potesse dar per cosa quasi certa la prossima entrata del Cosenz e del Medici[39] nelle provincie romane, e molto più come potesse credere che l’esercito regio li avrebbe o preceduti o spalleggiati, è problema che forse Garibaldi stesso non saprebbe risolvere; uno dei tanti enigmi di cui tutte le congiure son piene, e quella del risorgimento italiano è riboccante.
Comunque, lo Zambianchi, radunata la sua piccola [54] schiera, la sera stessa del 7 maggio spiccò la marcia verso Fontebranda, e incontrata la mattina vegnente la colonna promessagli de’ Livornesi,[40] continuò, attraverso tutta la Maremma grossetana, senza mai incontrare su suoi passi l’ombra d’un ostacolo. Soccorso dai Municipi di viveri, di vesti, e talvolta, come a Scansano, di armi; non molestato dalle Autorità governative, e spesso segretamente secondato, arrivò dopo dodici giorni di viaggio agiato e tranquillo a Pitigliano sul confine della provincia orvietana. Colà ospitato, mantenuto, al solito, festeggiato dagli abitanti, sostò comodamente altri tre giorni; e tra il 20 e il 21 sconfinò. I troppi saggi di volgarità e d’imperizia dati dallo Zambianchi non consentivano più alcuna illusione sull’esito finale dell’impresa, e i pochi che nelle file ragionavano ancora, lo prevedevano e ne tremavano. Ma che fare? Non avrebbero potuto denunciare l’inettitudine del Comandante senza taccia di sediziosi; non sottrarsi al destino de’ loro camerata senza taccia di disertori, e convenne loro rassegnarsi, tacere e marciare sino alla fine. Infatti, giunti alle grotte di San Lorenzo, tra Valentano e Acquapendente, la catastrofe, preveduta, precipitò. Il Colonnello, disposti a rovescio gli avamposti e trascurate le più elementari norme di cautela militare, aveva lasciato i volontari disperdersi tra le case e le cantine, dove col dolce vin di Orvieto gli abitanti medesimi li attiravano; e abbandonatosi egli stesso a copiose libazioni, era caduto, briaco fradicio, in pesantissimo sonno.
Intanto, scorsa poco più d’un’ora, uno squadrone di Gendarmi, condotti da quello stesso colonnello Pimodan che lasciò poi la vita a Castelfidardo, entrava [55] di sorpresa nel villaggio e lo traversava ventre a terra in tutta la sua lunghezza. Se non che non tutti erano venuti a patti coll’Orvietano: una mano di valorosi oppose da un caffè una disperata resistenza; al rumore della zuffa accorrono via via i più vicini e i meno assonnati: la pugna si accende alla spicciolata in più luoghi: una barricata improvvisata dinanzi al caffè sbarra la via ai cavalli nemici; una scarica bene aggiustata, penetrando nei loro fianchi, ne abbatte alcuni, e sgomina gli altri; e in men di due ore gli assalitori sono costretti a dar volta precipitosamente, lasciando dietro a sè non pochi feriti e prigionieri. I Garibaldini dunque non furono sconfitti, siccome i Pontificii spacciarono e molti ripeterono:[41] essi [56] restarono padroni del terreno; essi stettero ancora accampati sul territorio pontificio circa tre ore, e soltanto al calar della sera in ordine minaccioso, trascinando seco lo Zambianchi più come un ostaggio che come un capitano, ripassarono il confine a Sovano, dove il Governo di Ricasoli, che quindici giorni prima li aveva lasciati armare de’ suoi fucili, li disarmò.
E così nacque, procedette e finì la spedizione delle Grotte. Commessa a forze inadeguate, guidata da capo imbelle ed inetto, tentata in ora inopportuna fra popolazioni intorpidite ed avverse, essa doveva fallire al suo fine; ma se non fu vittoriosa nel suo campo, non ne recesse nemmeno disonorata; e fruttò almeno un’utile diversione all’impresa siciliana,[42] tenne incerti [57] e confusi più giorni i governi nemici d’Italia sui veri passi di Garibaldi e agevolò, col sacrificio di sessanta dei Mille, la vittoria de’ loro compagni.
I Cacciatori delle Alpi erano già tornati a bordo; i cannoni di Talamone già imbarcati; i vapori passati nella mattina dell’8 dal Porto di Talamone in quel vicino di Santo Stefano, vi prendevano il resto delle provvigioni da guerra e da bocca, e nel pomeriggio del giorno stesso il naviglio sferrava nuovamente con mare placido alla volta di Sicilia. E per due giorni e due notti nessun accidente notevole. Sulla prua del Piemonte erano stati posti in batteria la colubrina e sul casseretto della sua poppa il cannone da quattro; i Legionari pigliavano le armi e le munizioni: l’Orsini, nominato capo dell’Artiglieria, piantava in un camerino un laboratorio pirotecnico; c’era un po’ di maretta e qualche volontario pagava il tributo; ma nel rimanente tutto andava a seconda. Soltanto a una cert’ora del giorno: «Un uomo, un uomo in mare,» si udì gridare a prua del Piemonte; ed infatti un volontario, chi disse caduto per caso, chi buttatosi per accesso subitaneo di pazzia, dal bastimento, compariva e scompariva sull’onde, sì che fu mestieri che il Piemonte sciasse e mettesse in acqua una lancia per pescare, non si seppe mai di certo, se il naufrago o il suicida. Episodio insignificante, e che certo avremmo taciuto, se Garibaldi, combinando insieme il ritardo cagionato da quel salvataggio col perditempo occorsogli per la paranza delle munizioni e colla conseguitane deviazione per Talamone, non avesse tratto da tutti quegl’indugi la conseguenza che essi, anzichè [58] nuocere, giovarono provvidenzialmente all’impresa; sia continuando l’incertezza del nemico sulla vera rotta dei due piroscafi, sia facendo in guisa che essi arrivassero allo scoperto di Marettimo proprio nel momento, in cui la crociera borbonica lasciava i paraggi di Marsala e correva a levante verso Capo San Marco.
Garibaldi invece non nota nemmen di sfuggita altro più grave caso avvenutogli tra la notte del 10 e 11 maggio, e che per poco non cagionò un cozzo rovinoso fra i due legni fratelli. Infatti era accaduto che il Lombardo, filando due nodi meno del Piemonte, aveva perduto tanta strada sul suo compagno, che al calar della notte era scomparso affatto dalla sua vista. Era un grave inconveniente tanto più che nelle tenebre il viaggiar di conserva diveniva indispensabile. Garibaldi però decide di aspettare lo smarrito; ma poichè era già nelle acque di Marettimo e poco lunge probabilmente dalla crociera nemica, così aveva fatto spegnere a bordo tutti i fanali e intimato il più rigoroso silenzio. Ma il Lombardo, che intanto aveva fatto strada, «giunto a poche miglia da Marettimo vide a un tratto davanti a sè una massa nera, immobile con tutto l’aspetto d’un nemico in agguato. Chi può essere, che cosa può volere a quell’ora in quelle acque un bastimento a vapore senza lumi, senza segnali, senza voci? Però è già da un quarto d’ora che Bixio è fisso con tutti i sensi su quell’inerte e cieco fantasma; ma più guarda, più ascolta e più il legno s’avanza e più gli cresce nell’animo il sospetto, che sin dal primo istante gli era balenato. Certo è una fregata nemica alla posta della preda. Che fare? Che fare? Bisogna risolvere, e presto, finchè ne avanza il tempo. Madido di freddo sudore, tremante di rabbia, ma [59] coll’animo sacrato ad ogni più mortale cimento, il Bixio ha deciso. Si rammenta che Garibaldi fin da Genova gli mormorò all’orecchio: — Bixio, se mai.... all’arembaggio, — e credendo giunta l’ora di eseguire l’ordine del suo Generale, urla al macchinista di spingere a tutta forza, al pilota di drizzar la prua sul supposto incrociatore, e sveglia con un disperato ululo d’allarmi tutto il bastimento. In un baleno la voce corre che si è caduti nella crociera borbonica; i volontari, che dormivano sicuri, si svegliano in sussulto, danno di piglio alle armi, si schierano instintivamente lungo i parapetti, si preparano a combattere contro chi, perchè, come, non lo sanno; ripetendo macchinalmente quella parola all’arembaggio, che molti non sanno nemmeno che cosa voglia dire, che i più, capaci appena di tenersi ritti su un bastimento, non avrebbero nemmen saputo come si tenti. Ma hanno fede in Bixio, e la disperazione opera l’usato effetto di dar valore anche ai più imbelli.
»E Bixio, dal canto suo, continua a camminare in tutta furia sull’immaginario nemico, che immobile sempre pare che l’attenda e lo sfidi. A un tratto una voce sonora, piena, calda come un bramito, parte dal legno misterioso e rompe la silenziosa tenebra del mare: — Oh capitano Bixiooo! — Garibaldi! — scoppia in una voce sola il Lombardo. E Bixio già curvo all’estrema punta di prua per esser primo all’assalto, tremante ancora del disperato passo che era per dare, tremante anche più per l’irreparabile disastro che stava per cagionare, Bixio trova tuttavia la forza di rispondere:
» — Generale!
» — Ma cosa fate, volete mandarci a fondo?
» — Generale, non vedevo più i segnali.
[60]
» — Eh! non vedete che siamo in mezzo alla crociera nemica?... Faremo rotta per Marsala.
» — Va bene, Generale.[43]»
Marsala infatti era il punto che fin dalla sera del 10 era stato scelto per lo sbarco. In sulle prime Garibaldi aveva titubato tra Porto Palo e Sciacca; ma poi un esame più diligente della costa e degli andamenti della crociera, e soprattutto i consigli pratici d’un bravo pescatore trovato nelle vicinanze di Marettimo, lo indussero a preferire, fra quei tre punti, il primo. Sciacca infatti era troppo lontano; Porto Palo non aveva pescaggio sufficiente; mentre Marsala, oltre alla bontà dell’ancoraggio ed all’abbondanza di battelli da sbarco, offriva questo importantissimo vantaggio, che navigando tra Marettimo e Favignana vi si poteva accostar più facilmente al coperto e trovarvi men pericoloso l’approdo.
Oltre a ciò, spiando Garibaldi nella sera del 10 le mosse dei legni borbonici, li aveva veduti incamminarsi placidamente verso scirocco e levante, sicchè n’aveva argomentato che, quand’anche al suo uscire dall’Arcipelago delle Egadi fosse stato subito scoperto, egli si trovava però sempre assai più vicino a Marsala che gli incrociatori, quindi nella possibilità di afferrarvi molto prima che al nemico fosse bastato il tempo di traversargli il passo.
Tutto ciò ben ponderato e considerato, le navi corrono per la rotta indicata; scivolano tra Marettimo e Favignana, e girato il Capo della Provvidenza, mai come in quell’istante meritevole del suo nome, ecco apparire dalla cima dell’Erice alla punta del Lilibeo tutta la costa siciliana, e tra breve, entro una cerchia [61] di mura merlate le bianche case di Marsala, il Porto d’Alì.[44]
Se non che quasi nel punto medesimo emersero alla vista, ancorate innanzi a Marsala stessa, due grosse navi. Erano, senza tema d’inganno, navi da guerra; ma di qual bandiera, con quali propositi? Un gran silenzio si fa a bordo. Tutti gli occhi son fissi sui due legni sospetti; il dubbio d’essere incapati nella crociera nemica accende la fantasia de’ più inesperti, e fa battere i cuori de’ più intrepidi; sullo stesso volto di Garibaldi passa una nube. Quando uno schooner inglese, che veniva facendo la rotta opposta al nostro naviglio, risponde al capitano Castiglia, che l’aveva interrogato, nella lingua sua: They are two vassel of the british squadron. — «Son due legni della squadra britannica.» — Un respiro allarga tutti i petti: le macchine sono spinte a tutta forza; l’onda fugge sotto le rapide ruote; l’ambito lido si disegna: crebrescunt optatæ aures portusque potescit; giù verso scirocco tre incrociatori nemici, richiamati dai telegrafi ottici della costa, rimontano col massimo della loro velocità verso i legni ribelli, ma è ormai troppo tardi: il Piemonte, già sorpassata la punta del molo, infila il porto; il Lombardo, sforzando la vaporiera fin ad investire la costa, lo segue a breve tratto; e al tocco dell’11 maggio 1860, i novelli Argonauti afferrano gloriosamente la lor Colchide agognata.
Nè l’opera dello sbarco fu tardata un istante: numerose barche, quali prese a forza,[45] quali volontarie, [62] s’affollano intorno alle due navi, e prima ancora che i legni nemici, sempre accorrenti a tutto vapore, sian giunti a tiro de’ loro cannoni, il grosso della truppa, delle armi, delle provvigioni è già trasportato a terra. Anche gli incrociatori però ebbero tempo di sopraggiungere, e lo Stromboli, lasciata la Partenope che si trascinava al rimorchio, per nulla impedito, come fu novellato,[46] dai legni inglesi, rimastisi neutrali, veniva [63] a postarsi traverso, cominciando tosto a fulminare l’acqua, i bastimenti, le barche, la rada, il molo, di furiose e disordinate bordate.
[64]
Vano rumore! Spreco impotente di polvere e di ferro! Ogni colpo, fosse la fretta, l’imperizia o la trepidazione de’ tiratori, muore nell’acqua o passa innocuo per l’aria, e le Camicie rosse sfilano in perfetta ordinanza fino alla città, salutando di viva, di motteggi, di risate la vana mitraglia.
La prima prova era vinta. Otto secoli prima,[47] i Normanni di Ruggiero sbarcavano in Sicilia a fondarvi sullo sfacelo della dominazione mussulmana una monarchia cristiana, ma feudale; ora altri Normanni guidati da un eroe, non men famoso del nipote di Tancredi, scendevano nella medesima Isola non più conquistatori, ma liberatori, a fondarvi una monarchia civile e redentrice, pietra angolare dell’Unità d’Italia.
«Siciliani!
»Io vi ho guidato una schiera di prodi accorsi all’eroico grido della Sicilia — resto delle battaglie lombarde. — Noi siamo con voi — e noi non chiediamo altro che la liberazione della vostra terra. — Tutti uniti, l’opera sarà facile e breve. — All’armi dunque; chi non impugna un’arma, è un codardo o un traditore della patria. Non vale il pretesto [65] della mancanza d’armi. Noi avremo fucili, ma per ora un’arma qualunque ci basta, impugnata dalla destra d’un valoroso. I Municipi provvederanno ai bimbi, alle donne ed ai vecchi derelitti. — All’armi tutti! La Sicilia insegnerà ancora una volta come si libera un paese dagli oppressori, colla potente volontà d’un popolo unito.
»G. Garibaldi.»
Con queste parole annunziava ai Siciliani la sua calata nell’Isola, e il gagliardo appello diffuso prestamente da mani fidate in tutte le terre circostanti, correva come caldo soffio sulle ceneri semispente della rivoluzione, e ne sprigionava una vampa novella.
Intanto però una cosa urgeva: marciare avanti al più presto. Marsala tanto propizia all’approdo, non lo era del pari alla dimora. Confinata in un angolo estremo dell’Isola, segregata dai maggiori centri dell’insurrezione, esposta ad essere circuita in brev’ora così dalla terra come dal mare, ogni buona cagione politica e militare consigliava a levarne senza indugio le tende.
Oltre a ciò Garibaldi aveva compreso che, se v’era impresa in cui confidarsi alla celerità delle mosse, era quella; e provetto di quell’arte, fu risoluto di usarla da par suo. Comandò quindi che alla prima alba dell’indomani fosse suonato a raccolta e tutta la Colonna pronta alla partenza. Non aveva ancora fermo in mente alcun disegno preciso; ma vedeva però già chiara questa necessità: camminare diviato, per la più retta, su Palermo, salvo a prender più tardi consiglio dai casi e dalle fortune. Ora la via più retta era quella appunto che da Marsala va per Salemi, Alcamo, Partinico, Monreale, e che correndo fra due altre strade conducenti con giri più tortuosi al medesimo scopo, gli lasciava aperto il campo a quei volteggiamenti ed a quelle finte, di cui era maestro.
[66]
Con questa semplice idea nella mente, la mattina del 12 fece dare nelle trombe. Nessuna marcia di esercito potente e vittorioso fu più allegra, come la prima di que’ poveri Mille, cui poteva attendere tra poco l’ultimo sterminio. Gli è che per essi il solo esser sbarcati su quella terra, era già una conquista, e il passeggiarla co’ loro piedi un trionfo. Alla lor testa camminava Garibaldi stesso. A Marsala erano stati presi alcuni cavalli, e il Generale aveva ricevuto in dono un’eccellente puledra; tuttavia dopo averla montata per breve tratto fuori della città, ne era sceso per marciare a piedi co’ suoi commilitoni e dividere con essi la fatica gioconda di quella prima tappa. E i Mille seguivano, alacri e giulivi quali mai non erano stati, ballando, avreste detto, più che camminando, burlandosi della canicola, non avvertendo la sete, cantando in dieci dialetti diversi le loro vecchie canzoni di guerra; osservando, paragonando, illustrando più come una brigata di viaggiatori artisti che come una colonna di soldati, gli spettacoli dell’insolita natura; apostrofando ogni Siciliano, e più, s’intende, ogni Siciliana, che incontrassero per via, di cui ammiravano e commentavano, secondo i gusti, il vernacolo melodioso, i grand’occhi neri, la tinta olivigna, i fieri aspetti de’ maschi, la selvaggia bellezza delle donne, l’orrendo sfacelo delle vecchie, la innocente nudità dei bambini.
Così la Colonna era giunta a Rampagallo, feudo di un barone Mistretta, a mezza via tra Marsala e Salemi, e colà fu ordinato il grand’alto. Se non che, considerato l’ora tarda, la stanchezza già incipiente della truppa, l’inopportunità di arrivare in Salemi di notte, la scarsezza di notizie del paese circostante, Garibaldi deliberò di fermarsi nel luogo stesso dove era giunto e di pernottarvi. E fu a Rampagallo che [67] cominciarono a comparire i primi segni di quella insurrezione siciliana, di cui sino allora, a dir vero, eran corse più le novelle che apparse le prove. Infatti i due fratelli Sant’Anna e il barone Mocarta, che campeggiavano coi resti delle bande del Carini sui monti del Trapanese, appena udito lo sbarco del Liberatore, si erano affrettati, con una mano dei loro, sulle sue traccie, e raggiuntolo al bivacco di Rampagallo gli si eran presentati. Non eran più di cinquanta; coperti la più parte di pelli di caprone, e armati di vecchie scoppette e di pistole arrugginite; ma se Garibaldi avesse veduto arrivargli il soccorso d’un intero esercito, non sarebbe stato più radiante. Questi abbracciava, a quelli stringeva la mano, per tutti trovava qualcuna di quelle sue maliarde parole, di quelle sue note carezzevoli, di quei suoi sorrisi fascinatori che furono dovunque, ma saranno principalmente fra i Siciliani, il maggior segreto del suo trionfo.
Occupato pertanto il rimanente della giornata a riordinare la Legione, che fu ripartita in otto compagnie e due battaglioni ai comandi del Bixio e del Carini, e ad organizzare coi marinai del Piemonte e del Lombardo una compagnia di cannonieri; la mattina appresso la Colonna riparte per Salemi, e dopo una marcia alquanto più faticosa della precedente, in sulle prime ore del meriggio vi arrivò. E colà i Mille cominciarono ad avere una prima idea delle ovazioni siciliane. Intanto che da tutti i campanili della città le campane volavano a gloria, una turba di popolo, accompagnato da una musica, moveva incontro ai liberatori, dando loro un primo saggio di quel pittoresco linguaggio tutto meridionale, fatto insieme di mimica e di suoni, più dipinto, direste, che parlato e che nei momenti delle grandi ebbrezze scoppia in un tumulto [68] bacchico di urla selvaggie, di gesti vertiginosi, di contorsioni quasi epilettiche, che ora direste un’eco lontana delle orgie dionisiache, ora vi dà l’immagine d’un ballo di Dervisch urlanti e danzanti al suono della darbouka, testimonianza a tutti sensibile che una ricca vena di sangue greco ed arabo scorre sempre sotto le carni infocate del Siculo nativo.
«Quando poi giunse il Generale (scrive uno dei Mille),[48] fu proprio un delirio. La banda si arrabbiava a suonare; non si vedevano che braccia alzate e armi brandite; chi giurava, chi s’inginocchiava, chi benediceva; la piazza, le vie, i vicoli erano stipati, ci volle del bello prima che gli facessero un po’ di largo. Ed egli, paziente e lieto, salutava e aspettava sorridendo.»
Entrato in città, dato quel resto di giornata al riposo, ed alla pulizia della sua truppa, raccolto il Consiglio de’ suoi maggiori Luogotenenti e dei capi delle Deputazioni inviategli a fargli omaggio, emanava due solennissimi decreti. Coll’uno assumeva, per la volontà dei principali cittadini e dei liberi Comuni della Sicilia, e in nome di Vittorio Emanuele re d’Italia, la Dittatura; coll’altro bandiva la leva in massa di tutti gli uomini atti alle armi dai diciassette ai cinquant’anni, partendoli in tre classi di milizie: attiva, distrettuale e comunale, ordinamento che più tardi l’Italia crederà di apprendere dagli eserciti germanici, e le era antico e naturale. Che se quel secondo decreto, infrangendosi contro l’inveterata dissuetudine de’ Siciliani da ogni milizia obbligatoria, restò lettera morta, non affrettiamoci per questo a giudicarlo, come parve a taluno, sragionevole ed improvvido. Poteva essere, quanto a’ modi ed al tempo, meglio elaborato ed apparecchiato; [69] ma quanto al concetto attestava, per dirlo con uno storico,[49] «della mente del Dittatore» e fa il suo miglior elogio. Garibaldi aveva compreso quant’altri che primo fondamento all’impresa d’Italia era una grande, stabile ed ordinata milizia. Che se più tardi fu costretto dalla necessità d’una guerra, che non permetteva tregua, a combattere con bande tumultuarie ed eserciti improvvisati, egli può gloriarsi d’aver saputo vincere con quelli, non essere accusato di non aver saputo ordinarne di migliori. E non vogliamo accusare nemmeno la Sicilia. Educata dalla funesta signoria borbonica a non vedere nelle milizie stanziali che gli stromenti della sua oppressione, era naturale che essa non discernesse subitamente la differenza che correva tra un pretoriano della tirannide e il difensore d’una libera patria, e si spiega senza colpa d’alcuno, fuorchè della triste eredità del passato, come essa non intendesse il grande diritto che il suo Liberatore le conferiva, chiamandola all’adempimento di quel supremo dovere.
A modo suo però, conforme le sue forze e il suo costume, la Sicilia aveva risposto all’appello. La rivoluzione si rianimava. Se le città ferreamente compresse da forti presidii non ardivano ancora rialzar la testa; le campagne, specialmente nelle provincie più occidentali dell’Isola, cominciavano a riscuotersi; e se altro non potevano, allargavano intorno alla Colonna liberatrice il terreno, su cui vivere e combattere. Il La Masa, popolarissimo in Sicilia pei ricordi del 48, inviato a sommuovere i distretti di Santa Ninfa e Partanna, correva quelle terre annunziando Garibaldi, rovesciando e istituendo governi, fugando i birri borbonici, raccogliendo [70] i primi nuclei di quelle nuove bande che tra poco egli stesso comanderà.
Una banda di circa seicento, comandata da Giuseppe Coppola, era già calata dai ricoveri di Monte San Giuliano, e fin dalla sera del 13 arrivata a Salemi per offrire il suo braccio al Dittatore; un’altra squadra di un centinaio, la conduceva il giorno seguente quel frate Pantaleo, divenuto per brev’ora famoso, incontrato dai Mille presso a Rampagallo, che era ben lunge dal meritare il titolo di «novello Ugo Bassi,» da Garibaldi conferitogli; ma che però in quel momento colla simpatica figura, la scorrevole parlantina, il carattere non per anco sconsacrato e il bizzarro accoppiamento della cocolla e della camicia rossa, giovava ad apostolare quegl’ingenui Isolani ed a persuadere loro che Garibaldi non era quel Saracino che era stato loro dipinto, e che egli veniva non a spiantar la croce, ma a rassodarne nella giustizia e nella libertà il santo stelo.
Da lontano poi arrivavano non meno promettenti novelle. Rosolino Pilo (riuscito finalmente, dopo lunghe peripezie, ad unirsi agli insorti) teneva sempre con una mano di prodi le alture di San Martino nei dintorni di Monreale; e formava da quel lato un’estrema avanguardia utilissima; nel contado di Ventimiglia, di Ciminna, di Misilmeri, il La Porta, il Firmaturi, il Piediscalzi, il Paternostro, battevano ancora la montagna; infine, cosa nuova per Garibaldi e per vero significantissima, il Clero faceva quasi dovunque causa comune colla rivolta; anzi in molti luoghi ne era il principale istigatore e condottiero egli stesso; tanto profondo, universale, superiore ad ogni precetto di rassegnazione e ad ogni legge di perdono, era l’odio del nome borbonico.
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E fu sotto l’impressione di quello spettacolo che Garibaldi bandì da Salemi stesso quel suo proclama ai «buoni preti» (un arguto disse: «Sarebbe stato meglio dire, ai preti buoni»), nel quale, «consolatosi che la vera religione di Cristo non fosse perduta,» li incoraggiava a perseverare nella loro santa crociata, «fino alla totale cacciata dello straniero dal suolo d’Italia.» E non solo tentava affezionarsi quei buoni preti coi proclami; ma li cercava, li voleva d’attorno, li festeggiava, li seguiva nelle loro chiese, s’inginocchiava ai loro altari; azioni codeste che in tutt’altri che Garibaldi si potrebbero dire volgari furberíe politiche; ma che in lui erano una riprova, un documento di più che una sola fede dominava veramente nel suo spirito: la patria; e che chiunque gli paresse disposto a dargli mano per redimerla, Papa o Re, zoccolante o soldato, angelo o demone, egli era pronto a celebrarlo, e, se occorreva, ad adorarlo.
Il Governo borbonico conosceva fin da’ primi suoi apparecchi la spedizione garibaldina; ma pur movendone qualche lagno al Governo sardo, l’aveva superbamente disprezzata, credendo che la sua crociera sarebbe bastata a colarla a fondo. Quando invece la vide sbarcar felicemente sotto gli occhi delle sue fregate, non potendo più negare il fatto, si provò a svisarlo, dipingendo gli sbarcati come una mano di filibustieri, annunciando come una vittoria la cattura de’ loro bastimenti, già abbandonati, consolandosi colla illusione che li avrebbe tutti esterminati, se non fosse stato l’impedimento de’ due legni inglesi. Finalmente quando i filibustieri presero terra, e malgrado i telegrammi [72] de’ suoi Luogotenenti che li davano per distrutti e annichilati, li vide avanzare e ingrossare più vivi e baldanzosi che mai, allora scosse il letargo, e intanto che la sua Diplomazia protestava contro la perfidia del Gabinetto piemontese ed empiva di lai tutte le Corti dell’Europa; dava ordine a Palermo di inviare contro gl’invasori il nerbo delle sue truppe migliori, e di schiacciarli rapidamente in un sol colpo.
Per effetto di questi ordini, una colonna di tremila fanti, cento cavalli e quattro pezzi di artiglieria, agli ordini del generale Landi, marciava tosto per Partinico ed Alcamo alla volta di Salemi; mentre altre truppe navigavano per Trapani o salivano da Girgenti col proposito di mettere i filibustieri tra due fuochi e toglier loro ogni scampo.
Come però il Landi fu giunto, in sul pomeriggio del 14, a Calatafimi, vista la gagliardía del sito, deliberò di appostarvisi e di aspettare a quel varco inevitabile il nemico. Nè la postura, dato il concetto di una difensiva, poteva essere migliore. Essa offriva in un punto il doppio vantaggio tattico e strategico. Calatafimi, vecchia città saracena, giace sul dorso di un colle, dal quale mediante un’agevole sella se ne spicca un altro che serve quasi di spalla al primo, e scendendo a terrazze, degradanti fino ad un’aperta e brulla pianura, domina le due strade di Palermo e di Trapani, e come un bastione bifronte la serra. Tutto quel luogo porta ancora il funebre nome di Pianto de’ Romani, in memoria della rotta inflitta dagli Egestani al console Appio Claudio, nel 263 avanti Cristo, ed ora attende che un altro pianto lo ribattezzi Pianto de’ tiranni.
Un cozzo adunque appariva inevitabile; tuttavia il Capitano de’ Mille, non sperando di poter espugnare [73] colle scarse sue forze quella formidabile altura, fermò da principio di tenersi in sulla difensiva sulle colline di Vita, provandosi, se gli riusciva, di tirar il nemico al piano per combatterlo quivi con maggior probabilità di fortuna.
Concepito pertanto questo disegno, stese in catena i Carabinieri genovesi, sostenuti da una compagnia del Carini, coll’ordine di non rispondere al fuoco nemico che assai da vicino, e assaliti da presso, di ripiegare scaramucciando; pose al centro il restante del battaglione del Carini; tenne in riserva quello del Bixio; lasciò l’Artiglieria sulla strada; spinse sulle estreme alture di destra e di sinistra le squadre siciliane dei Sant’Anna e del Coppola, e stette a sua volta ad aspettare.
Intanto verso le 10 del mattino anche la Colonna garibaldina era giunta a Vita a un’ora incirca da Calatafimi, e pochi istanti dopo le Guide del Missori, spinte innanzi ad esplorare, riportavano d’aver scoperto su per quelle cime il luccicare delle baionette nemiche. All’annunzio Garibaldi spronò avanti per riconoscere egli pure il nemico, e vide chiaramente che fitte colonne di Napoletani uscivano da Calatafimi per coronare il colle vicino e scaglionarvisi in battaglia. Nel frattempo però anche la catena dei Cacciatori borbonici era già discesa verso le falde del monte, e di là, colle sue eccellenti carabine rigate bersagliando la nostra avanguardia, aveva cominciato a farle patire qualche perdita. Per alcuni istanti i bravi Genovesi si ricordarono dell’ordine ricevuto e ressero, pazienti ed inerti, ai molesti saluti; ma poi, a poco a poco infastiditi e irritati, principiarono a ribattere colpo per colpo, fino a che, infocandosi l’azione, si gettarono a testa bassa, traverso la nuda vallata, contro l’inimico.
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Non era quella l’intenzione di Garibaldi; però scrive egli stesso: «Chi fermava più quei focosi e prodi volontari, una volta lanciati sul nemico? Invano le trombe toccarono: Alto! I nostri o non le udirono o fecero i sordi, e portarono a baionettate l’avanguardia nemica sino a mischiarla col grosso delle forze borboniche che coronavano le alture.[50]»
Allora il Generale vide che non c’era più tempo da perdere, o «perduto sarebbe stato quel pugno di prodi,» e ordinò una carica generale di tutte le sue forze. Il Bixio da sinistra, le rimanenti compagnie da destra; i Carabinieri, le Guide, lo Stato maggiore, Garibaldi stesso, s’avventano a baionetta calata sulla catena borbonica; traversano senza balenare un istante l’arsa pianura tempestata dalla moschettería e dalla mitraglia nemica; e nel solo tempo richiesto al tragitto, sforzano il nemico a riparare sulle prime falde del monte. Era il prologo della battaglia; ma il dramma e la catastrofe eran lontani, in alto, molto in alto, là sulla cima di quel monte che il nemico occupava, e per giungere alla quale era mestieri salire per sette ardui scaglioni, custoditi da forti battaglioni squisitamente armati e da quattro bocche d’artiglieria, e ai quali que’ poveri Mille non potevano opporre che le punte arrugginite delle loro baionette, il loro ardimento e i loro petti.
Lo vide Garibaldi, ma intendendo che la vittoria era a quel patto, e che in quel giorno, su quel monte, si decidevano le sorti della Sicilia, deliberò di tentare il cimento.
Concesso pertanto un po’ di riposo a’ suoi Legionari; prescritto lo stesso ordine di battaglia; avvisate [75] le bande di appoggiare dalle loro cime il movimento; fece dar nuovamente nelle trombe, e si slanciò contro il primo scaglione. Era il tocco e mezzo! incominciava allora la vera battaglia.
Noi non presumiamo descriverla. In siffatti combattimenti, dove tutta l’arte riducesi a chi primo avanza o retrocede, e tutto lo spettacolo in un succedersi alternato di assalti e di fughe, di singolari certami e di epiche mischie, lo storico militare non ha più voce; la tavolozza d’un Meissonier, la fantasia d’un Victor Hugo dovrebbero parlare per lui.
«Ad ogni terrazza una scarica, una corsa fremebonda sotto la mitraglia nemica, una mischia rapida, muta, disperata, un momento di riposo a’ piedi della terrazza conquistata, e daccapo un’altra scarica, un’altra corsa, un’altra mischia, altri prodigi di valore, altro nobile sangue che gronda, altri Italiani che uccidono Italiani;[51]» finchè viene un punto, in cui il coraggio avendo ragione del numero, e la costanza della morte, il nemico, scacciato da altura in altura, abbandona il campo: ecco Calatafimi.
Svariati, invece, e mirabili gli episodi del valore personale. Qua il Bixio che urla, tempesta, fiammeggia, galoppa contra il nemico colla furia del Telamonio; là il Sirtori, montato su uno squallido cavalluccio, tutto vestito di nero, abbottonato fino al mento come un quacquero, che s’avanza in mezzo alla mischia, lento, impassibile, melanconico, più somigliante ad un sacerdote che benedica que’ bravi, o all’apostolo che cerchi [76] il martirio, anzichè ad un soldato; mentre poco lunge, a render più vivo il contrasto, «un frate francescano caricava un trombone con manate di palle e di pietre, si arrampicava e scaricava a rovina.[52]» Altrove Deodato Schiaffino, da Camogli, leonardesca figura di Genovese, più biondo di Garibaldi, ma più alto e tarchiato di lui, presa in mano una piccola bandiera, s’avventa, seguito dal Menotti, dall’Elia e da altri pochi nel fitto de’ battaglioni napoletani; ma ad un tratto eccolo spalancare le braccia, abbandonare la bandiera e stramazzare crivellato il largo petto da una scarica intera, fra una cerchia di nemici. A quella vista il Menotti si precipita per ricuperare la bandiera e vendicar l’amico; ma una palla gli fracassa la destra, e lo costringe a sua volta a lasciare al nemico la contrastata insegna; preda male decantata dai Regi, poichè quella pretesa bandiera non era che un umile cencio tricolore improvvisato da qualche gregario, e di cui lo Schiaffino s’era fatto in quel momento dell’assalto volontario alfiere. Incontrastabile invece, glorioso il trofeo del cannone da montagna, centro per parecchi minuti d’una zuffa accanita, strappato finalmente ai Regi a prezzo delle vite più preziose.
E girando per il campo avreste incontrato ancora, ora il Bandi di Siena, grondante da più ferite; ora il Majocchi di Milano, fracassato un braccio; ora l’elegante Missori, l’occhio livido da una sassata; e qua e là stesi a terra, placidi, composti, colla faccia vòlta al nemico, il Sartori di Sacile, morto; il Pagani di Borgomanero, morto; il Montanari, veterano di Montevideo e di Roma, morto.
E non parliamo di Garibaldi. In quella pugna, dove [77] il Capitano s’identificava all’eroe, egli era gigante. A piedi colla sciabola inguainata sopra una spalla, il mantello ripiegato sull’altra, inerpicandosi su per que’ greppi coll’agilità d’un montanaro e l’ardore d’un gregario; gridando di quando in quando uno squillante Avanti, che echeggiava nel petto dei Mille come un clangore di trombe; incoraggiando con amorose parole i feriti che trovava per via; pagando d’un sorriso i forti e invitandoli a riposarsi, egli seguiva, sereno, imperturbato, infaticabile, tutte le peripezíe della pugna; ed ora partecipandovi, ora dominandola, attento a tutti i casi, esposto a tutti i pericoli, e pronto a tutti i consigli, ne era davvero, per la sola sua presenza, l’anima invisibile e il Genio tutelare.
Finchè egli era vivo, la speranza viveva; lui morto, tutto era perduto. E lo sentivano i suoi Mille; lo sentivan così quelli che da lontano vedevano sparire e ricomparire nella zuffa il suo mantello grigio, come quelli che l’attorniavano e gli facevano scudo de’ loro corpi; l’aveva sentito il suo Bixio che fin dai primi assalti lo scongiurava a ritirarsi, per amor d’Italia; l’aveva sentito l’Elia, quando al vederlo preso di mira da un Cacciatore regio balzava davanti a lui e riceveva egli nella bocca la ferita quasi mortale, destinata forse al cuore del suo Generale.
Ma egli un’altra cosa anche più grande sentiva: che in quel giorno, su quel monte, bisognava vincere o morire; e che qual si fosse la sorte, egli doveva correrla tutta coll’ultimo de’ suoi. E fu anche quella l’idea salvatrice della battaglia. A un certo punto, dopo il secondo o il terzo assalto, affranti, sfiniti gli assalitori; sempre rinnovati, sempre più forti gli assaliti; parendo ormai impossibile la vittoria, e disperata la giornata, il Bixio stesso s’arrischiò a susurrargli: [78] «Generale, temo che bisognerà ritirarsi.» — «Ma che dite mai, Bixio!» rispose, sereno e solenne, Garibaldi: «Qua si muore.» Sul campo d’Hastings, la Calatafimi normanna, Guglielmo il conquistatore gridava a’ suoi: «Qui fuira sera mort, qui se battra bien sera sauvé.[53]» Garibaldi esprimeva con diverse parole lo stesso pensiero; il pensiero di tutti i grandi Capitani,[54] il pensiero vincitore di tutte le battaglie: la più difficile delle vittorie appartiene sempre ai più costanti.
E l’ultimo sforzo della loro costanza i Mille non l’avevano fatto ancora. Sei terrazze erano conquistate, restava la settima. I nostri, decimati dalle perdite, dalla stanchezza, dal diradamento naturale che avviene su tutti i campi di battaglia, eran ridotti a poco più che tre o quattro centinaia; ma restava pur sempre quell’ultima terrazza, ed era forza espugnarla. «Ancora quest’assalto, figliuoli (disse loro Garibaldi), e sarà l’ultimo. Pochi minuti di riposo; poi tutti insieme alla carica.»
E quel pugno d’uomini, trafelato, pesto, insanguinato, sfinito da tre ore di corsa e di lotta, trovata ancora in quelle maliarde parole la forza di risollevarsi e tenersi in piedi, riprese, come gli era ordinato, la sua ascesa micidiale; rigando ancora ogni palmo dell’erta terribile d’altro nobile sangue; scrollando ancora senza vacillare il nembo infocato della moschettería nemica; risoluto all’estremo cimento, risoluto all’ecatombe. Ma come l’eroe aveva preveduto, la fortuna fu coi costanti. Incalzati nuovamente di fronte da quel branco di indemoniati che pareva uscissero di sotterra, sgomenti [79] dall’improvviso rombo dei nostri cannoni che il bravo Orsini era finalmente riuscito a portare in linea, turbati dal clamore crescente delle squadre sui loro fianchi, i Borbonici disperano di vincere, e voltate per la settima volta le spalle, abbandonano il monte combattuto e non s’arrestano più che dentro Calatafimi.
Il miracolo era compiuto; la giornata era vinta; e all’indomani Garibaldi stesso lo annunciava ai suoi Mille, da Calatafimi già vuota di nemici, con quest’Ordine del giorno:
«Con compagni del vostro valore posso tentare qualunque impresa, e ve lo mostrai ieri conducendovi ad una vittoria, ad onta del numero dei nemici ed attraverso le loro forti posizioni. Feci un giusto conto delle nostre baionette ben taglienti, e vedete che non mi sono ingannato.
»Mentre deploro la triste necessità di dover combattere contro soldati italiani, debbo nullameno confessare di aver trovato una resistenza degna di una causa migliore. E tal fatto ci mostra quello che noi potremmo operare nel giorno, nel quale l’intiera famiglia italiana si radunerà intorno la gloriosa bandiera della redenzione.
»Domani la Terraferma italiana sarà tutta in festa per celebrare la vittoria dei suoi figli liberi e dei nostri valorosi Siciliani.
»Le vostre madri e le vostre amanti cammineranno per le strade alta la testa e con la faccia ridente, superbe di voi.
»Il combattimento ci ha costato molti cari fratelli che cadevano nelle prime file. Nei fasti della gloria italiana risplenderanno eternamente i nomi di questi martiri della nostra santa causa.
»Paleserò al vostro paese i nomi dei bravi che con sommo valore conducevano alla lotta i soldati i più giovani, i più inesperti, e che domani li guideranno alla vittoria sopra un campo più ampio; essi sono destinati a rompere gli ultimi anelli delle catene che tengono avvinta la nostra cara Italia.
»Giuseppe Garibaldi.»
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Nel qual Manifesto però noteremo noi pure con uno storico,[55] che tanto erano dovuti gli elogi ai vincitori, quanto immeritati quelli dispensati ai vinti. Magnificare il valore de’ nemici per accrescere la gloria del proprio esercito è antico costume d’ogni Capitano, e Garibaldi fece ottimamente ad imitarlo; ma contro alla sentenza dettata dalla generosità o dalla convenienza, la verità storica tosto o tardi protesta e pronuncia in appello. Non è vero che la resistenza dei Napoletani a Calatafimi sia stata degna d’una causa migliore. Militarmente parlando, essa non fu degna d’alcuna causa. Combattere al sicuro, trincerati su posizioni quasi inespugnabili; accogliere gli assalitori finchè eran lontani con furiosi fuochi di fila nutriti colla precisione d’una piazza d’arme, ma appena che il ferro delle baionette garibaldine balenava sui loro occhi, ripiegarsi sopra una posizione più alta, e poscia sempre, colla stessa tattica, sopra una seconda, una terza, una quarta fino all’ultima, ecco tutto il valore, ecco la tattica loro. Non un contrassalto energico, non una diversione ardita, non una mossa qualsiasi che potesse far costar cara la vittoria agli avversari, e meritare il nome, a quella ininterrotta ritirata, di vera resistenza.
Nè con ciò vogliamo dire che ai vinti mancasse ogni prodezza: erano Italiani essi pure, e ci graverebbe il confessarlo, se anche fosse vero. Ma non è: i soldati sono dal più al meno uguali in tutti gli eserciti del mondo; quello che li fa diversi, è il diverso valore degli ufficiali, de’ generali principalmente; è sopra ogni cosa il diverso grado di quella forza morale, prodotta insieme dall’indole, dalle tradizioni, dalla [81] educazione, dal paese, dall’essenza della causa difesa, e dal color della bandiera drappellata, e che si chiama spirito militare. Ora diciamolo qui per non averlo a ridire mai più; ciò che mancava all’esercito borbonico erano appunto quelle siffatte doti, che sole potevan renderlo eccellente. Generali che non videro mai un campo di battaglia; ufficiali invecchiati nelle caserme, impigriti nelle guarnigioni, carichi di famiglia, schiavi del pane, senz’altra fede che la carriera, senz’altra speranza che la pensione; soldati, infine, cresciuti in una lunga tradizione di violenza e di servitù, serbati alternamente agli uffici di scaccini e di sgherri d’una dinastia feroce e bacchettona, e condannati alle parti di pretoriani del più abbietto fra i dispotismi, non daranno mai la vita per il loro Re e pel loro Paese; non vinceranno mai una battaglia; non salveranno mai nemmeno l’onore; fuggiranno come i Napoletani a Calatafimi, o capitoleranno come i Lanza, i Briganti, i Ghio, a Palermo, a San Giovanni, a Soveria, trascinando nella immeritata vergogna anche lo stuolo eletto dei valorosi.
Però quanto la sentenza di Garibaldi: «La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la Campagna del 1860» è contestabile nel rigoroso senso militare, altrettanto ne sembra vera e indiscutibile nel senso morale. Dal giorno di Calatafimi la superiorità della camicia rossa sul cappotto bigio fu inconcussamente stabilita. D’ora in avanti ogni Garibaldino sapeva che, vinta alla baionetta una posizione, nessuno tornava più a contrastargliela; mentre ogni soldato borbonico era certo che, appena si trovava petto a petto con un Garibaldino, toccava a lui a cedere, e i suoi stessi ufficiali sarebbero stati i primi a comandargli la ritirata. E poichè la fede della vittoria nell’uno [82] corrispondeva esattamente alla certezza della sconfitta dell’altro, così la ragione del numero, l’unica che ancora militasse pei Regi, non aveva più valore, e non contava più che ad ingrossare le torme dei fuggenti, dei disertori e dei prigionieri: miserabile ingombro ai vincitori.
«Aiuto e pronto aiuto,» aveva scritto a Palermo, la sera stessa del 15, il general Landi; ma poi temendo che assai più dell’aiuto degli amici, fosse pronta una nuova visita dei nemici, alla prima alba del 16, in grandissima fretta, con raddoppiate cautele, diede le spalle anche a Calatafimi, e per la strada d’Alcamo e Partinico s’incamminava alla volta di Palermo. La sua partenza però ebbe ben presto più somiglianza di fuga che di ritirata. I Mille, spossati dalla cruenta fatica della vigilia, non avevan potuto inseguirlo; ma quello che essi tralasciarono, lo compierono i paesani. Gli abitanti di Partinico, infatti (fierissimi fra i Siciliani), esaltati dalle novelle di Calatafimi, s’erano accordati con alcuni sbrancati delle squadre di appostarsi fuori della città e al primo apparire della schiera aborrita piombarle addosso e finirla. Il disegno era temerario, e il successo prevedibile. I battaglioni regi ebbero presto ragione di quei contadini quasi inermi, e chi pagò per tutti fu la povera Partinico, che, abbandonata dallo stesso general Landi al ferro ed al fuoco, patì per tre ore tutti i flagelli del furore soldatesco. Ma il sangue frutta sangue; e appena il grosso della colonna nemica fu sfilata, guai agli sbandati, guai ai feriti, guai ai tardigradi! I Partinichesi [83] sbucano dalle case ancora crepitanti dal recente incendio, tornano dai campi, ridiscendono dai monti dove li aveva dispersi il terrore, e avventandosi colla voluttà d’un lungo odio che si disseta su quanti Borbonici cadono loro fra le mani, ne fanno orrendo macello. Nè soltanto sui vivi infuriò la immane vendetta, i cadaveri stessi non ottennero perdono; e due giorni dopo i Mille passando per di là videro ammucchiati nei fossati cataste di corpi borbonici arrostiti, e strascinati per le vie, putrido pasto a’ cani, frammenti d’ossa e lacerti di carni umane.[56]
Intanto anche Garibaldi s’era rimesso in cammino. Scritto a Rosolino Pilo per annunziargli la vittoria del 15 e «la speranza di rivederlo presto;[57]» inviato nuovamente il La Masa[58] a far nuova gente nei distretti di Misilmeri e di Corleone; spediti messaggi sul Continente per annunziare la vittoria, e chieder [84] soccorsi d’armi e munizioni;[59] il 17 di buon mattino riprese la marcia per Alcamo, dove, festeggiandosi [85] l’Assunta, fu dal Pantaleo condotto in chiesa a ricevere la benedizione; il 18 continuò per Partinico; il 19 infine salì per Borgetto al Passo di Renna, d’onde s’offerse agli sguardi attoniti de’ Mille tutto lo splendido panorama della Conca d’Oro, e in quella gloria di cielo e di mare, Palermo.
Colà però era mestieri arrestarsi: Ercole era al bivio: qualunque passo fuori di quella gola di Renna poteva essere decisivo. Appunto perchè la mèta appariva sì attraente e sì prossima, tanto più conveniva non lasciarsene ammaliare e guardarsi da tutti gli agguati che potevano circondarla. Molte erano le vie che conducevano a Palermo; ma non era per anco dimostrato che la più breve e la più diretta fosse la più sicura. Nulla di più ovvio a primo tratto che scender rapidi da Renna, calar improvvisi su Monreale, e di là, ripetendo le cariche di Calatafimi, entrare, commisti al fiotto de’ nemici sgominati, nell’agognata città; ma chi assicurava che la tattica eroica sarebbe sempre la più fortunata, e non fosse invece da saggio e accorto Capitano scemare colla prudenza e coll’arte le difficoltà d’un cimento che poteva essere decisivo?
Questo il problema; e il solo avere ordinato quella sosta di Renna, dimostra che Garibaldi ne aveva presentito fin dalla prima tutta la gravità. Però non gli occorse gran tempo a risolverlo. Un rapido esame delle posizioni nemiche, un’occhiata alla carta ed al terreno l’avevano già fatto accorto di questi due fatti: che i Borbonici appostati a Monreale lo aspettavano da quella banda, sicchè ogni speranza di sorpresa dileguava; e che prendendo quella strada, all’aspetto più corta, egli andava a chiudersi in una specie di angiporto, nel quale, perduta una battaglia, tutto sarebbe perduto.
[86]
Era evidente infatti che, se il colpo di mano su Palermo falliva, i Mille venivano a trovarsi rinserrati tra il mare da un lato ed i forti presidii di Palermo e di Trapani dall’altro, senza alcuna possibilità di scampo e di salvezza veruna. Ora Garibaldi non era uomo da cadere in siffatto errore; e prontamente risolvendo come prontamente aveva giudicato, abbandonava ogni pensiero d’assalire Palermo dal lato occidentale, e deliberava di tentarla dal lato di mezzogiorno, trasportandosi celeremente a cavaliere delle due strade di Piana de’ Greci e di Misilmeri, e manovrando su quello scacchiere. Ad effettuare però l’ardito disegno una condizione era indispensabile: che il nemico non avesse sentore della sua marcia di fianco, e perdurasse fino all’ultimo istante nell’inganno che egli mirasse sempre ad attaccare la capitale dalla banda di Monreale, scendendovi direttamente dal campo di Renna. Necessario perciò mascherare di molte finte e accorgimenti la mossa vera; al che Garibaldi si apprestò con tutta l’arte, di cui era maestro.
Mandato avviso a Rosolino Pilo di accendere molti fuochi, e di simulare grandi movimenti sulla sua montagna affine di attirare sempre più da quel lato l’attenzione del nemico, ogni cosa predisposta in Renna per la levata del campo, scende egli stesso a capo d’una forte ricognizione fino al villaggio di Pioppo, col duplice fine di scoprire più davvicino gli andamenti dei Regi, e di ribadirgli nella mente ch’egli meditasse sempre di tentar Palermo per quella via. E ci riesce. I Borbonici, colti al grosso zimbello, escono a loro volta da Monreale ad affrontare il temerario nemico; le due avanguardie si scontrano, barattano alcune fucilate: ma non appena l’accorto Condottiero le vide bene alle prese, lascia l’ordine all’avanguardia [87] sua, divenuta retroguardia, di ripiegar combattendo; risale rapidamente col grosso della colonna a Renna; spianta il campo, smonta i cannoni e li affida alle spalle di robusti montanari; alleggerisce quanto può i carriaggi, e sul calar del giorno piega a destra per una via asprissima di montagna, cammina l’intera notte, entro una tenebra fittissima, sotto un uragano diluviale, sopra un terreno stemperato da pioggie quatriduane, e riesce tuttavia ad afferrare colla intiera colonna, miracolosa di costanza, come là, era stata a Calatafimi di valore, le opposte alture di Parco e a fronteggiar Palermo dal lato di mezzogiorno.
«Io non ricordo (scriveva quindici anni dopo Garibaldi stesso), io non ricordo d’aver veduto una marcia simile e tanto ardua nemmeno nelle vergini foreste dell’America,[60]» e certo egli avrebbe potuto contare la giornata del 21 maggio come una delle sue più fortunate, se non gli fosse stata amareggiata da un crudele annunzio: nel giorno stesso Rosolino Pilo, mentre dalle alture di San Martino stava scrivendogli, era colto in fronte da una palla borbonica e stramazzava freddo sul colpo. Onore perpetuo alla magnanima sua ombra!
Della mossa del 21 però i vantaggi non potevano essere immediati: essa era un passo preparatorio, la condizione indispensabile al conseguimento dello scopo finale; ma non poteva ancora dirsi per sè sola decisiva. [88] Garibaldi, con quella marcia, s’era sottratto, a dir così, alla vista del nemico, ponendosi «in più facile comunicazione coll’interno e la parte orientale dell’Isola;[61]» aveva guadagnato un terreno più acconcio alle utili manovre e che gli avrebbe permesso fin all’ultimo la scelta tra l’offensiva e la difensiva, tra l’attacco e la ritirata; ma l’ora e il modo della difesa o dell’offesa, anzi la stessa decisione tra l’assalto e la ritirata erano altrettanti termini nuovi d’un problema nuovo, e di cui soltanto gli eventi potevano suggerirgli la soluzione. Gli eventi però a que’ giorni correvano veloci.
Dopo avere per ben ventiquattro ore perduto ogni traccia di Garibaldi, anco i Regi s’erano raccapezzati, e scoperto alla fine il suo nuovo rifugio, parevan risoluti a non lasciargli più un sol giorno di tregua. Il general Lanza (inviato a Palermo Commissario alter ego del Re a surrogare il Castelcicala revocato) aveva ordinato infatti che due colonne muovessero simultaneamente dalla capitale, la prima da sinistra per Monreale, la seconda di fronte per La Grazia, ad assalire il filibustiere nel suo campo di Parco, procacciando di chiudervelo dentro e di schiacciarlo d’un colpo. Ma il filibustiere vegliava, e scoperta egli stesso dalla cima del Pizzo del Fico la duplice mossa del nemico, n’aveva indovinato l’ultimo fine. Sulle prime però, o non avesse ben calcolato le forze del nemico, o confidasse nella forte postura, o sperasse soccorso dalle bande del La Masa che campeggiavano sui monti di Gibilrossa alla sua destra, parve deciso ad accettare la battaglia, e ne fece tutti gli apparecchi. Ma alla mattina del 24, meglio contati i nemici e [89] avvistosi soprattutto che la colonna di sinistra, capitanata dai colonnelli Von Meckel e Bosco, camminando per le scorciatoie dei monti, minacciava di cader sulla sua via di ritirata; composta prontamente una forte retroguardia coi Carabinieri genovesi e due compagnie, e imposto loro di contrastar più a lungo che fosse possibile le alture di Parco, ripiega col grosso della colonna su Piana de’ Greci. I nemici tuttavia avevan già guadagnato molto terreno; i Carabinieri eran già stati forzati a cedere da Parco; i Cacciatori del Bosco comparivano già sulle cime di sinistra a piombo della strada di Piana. Urgeva il pericolo, e Garibaldi fu pronto ancora al riparo, rimandando quegl’infaticabili Carabinieri a coronar le alture fiancheggianti la via e ponendosi egli stesso sulla difesa all’entrata di Piana; ma confidando assai più sulla probabile stanchezza de’ persecutori e sull’appressarsi della sera, che sulle sue forze. Nè s’ingannò. Durava da alcune ore l’avvisaglia sulla montagna, e già i Carabinieri, estenuati dalla fatica e dalle perdite, più non reggevano al disuguale cimento; quando il Comandante borbonico, visto che annottava e stimando forse opportuno di attendere l’arrivo delle altre colonne, deliberò, nella certezza di chi tiene ormai la preda in pugno, di differire all’indomani l’assalto. Appunto domani era tardi.
Garibaldi, approfittando della breve tregua, traversa Piana de’ Greci senza sostarvi; bivacca alcune ore della notte in una boscaglia vicina; poi innanzi giorno ripiglia di nuovo la ritirata per la strada di Corleone. Giunto però al punto dove si stacca la strada di Marineo, affida le artiglierie, gli impedimenti e una compagnia di scorta all’Orsini, ordinandogli di continuare, senza spiegargli di più, la [90] marcia per Corleone;[62] mentre egli svolta rapido col forte della colonna per la traversa di Marineo, dove, riposatosi poche ore, contromarcia celerissimamente per Misilmeri, e si trova prima che la giornata del 25 tramonti, liberi i fianchi e le spalle da ogni nemico, sulla strada di Palermo.
All’alba del 25 però anche i Napoletani furono pronti alle armi; ma di quale maraviglia restassero colpiti nel veder Piana de’ Greci e tutti i dintorni vuoti di nemici, lo scrivano essi. Convinti però che oramai la sola paura sospingesse Garibaldi, si pongono risoluti sulle sue orme, e raccolto da paesani che cannoni, cannonieri e bagagli si son visti sfilare per la strada di Corleone, giustamente sillogizzando che con essi debba pure essere il maggior nerbo de’ ribelli, quindi il loro capo, ripigliano ad occhi chiusi la loro caccia spensierata, spacciando allegramente a Palermo ed a tutta l’Isola: «Garibaldi fuggiasco fra le montagne; prossima la sua totale disfatta.»
Era l’inganno, di cui Garibaldi aveva bisogno: era il compimento del suo disegno. Il qual disegno non nacque già tutto intero per miracolosa fecondità di genio, d’un sol getto e in un solo istante; ma fu lentamente covato, preparato, compíto, perfezionato; il che ne accrescerà agli occhi degl’intendenti il pregio e la meraviglia.[63]
[91]
Fino alla marcia da Renna al Parco, Garibaldi non ebbe ben ferme in mente che queste due idee: portarsi sopra un terreno più propizio; tirare il nemico fuori di Palermo per batterlo divisamente, potendo, stancheggiarlo o scivolargli in mezzo, secondo l’opportunità e la forza.
Quando però la mattina del 24 si vide piombare addosso, per due vie convergenti, una mole di nemici anche più grossa della preveduta, e conobbe non restargli pel momento altro scampo che una subita ritirata, cammin facendo, meditando alla distretta in cui si trovava, e compiendo rapidamente l’analisi e la sintesi dei molti partiti che gli si affacciavano, allora gli balenò l’ardito concetto di farsi della ritirata lo strumento della vittoria, e intanto che il nemico allucinato inseguiva la sua ombra sulla strada di Corleone, marciare per l’opposta via all’assalto di Palermo.
Ma i mezzi? Per l’opera, a dir vero, infaticabile di Giuseppe La Masa, s’eran venuti raccogliendo sulla vetta di Gibilrossa, centro dei monti che serrano Palermo da sud-est, un grosso campo di squadriglie, armate e istruite come sappiamo, ma che per le loro marcie irrequiete, i loro fuochi numerosi, e gli innumerevoli e altisonanti proclami coi quali il loro capitano ne magnificava il numero e la fierezza, erano riuscite fino allora a tenere in allarme il presidio di [92] Palermo, ed a coprire l’estrema destra del corpo garibaldino da subitanei assalti. A dir il vero la prima volta che queste bande ricevettero il battesimo del fuoco, non fecero buona prova: al Parco anzi la mattina del 26 chiamate in sostegno della minacciata destra garibaldina, avevan dato volta ai primi spari, gridando per giunta (insania della paura!) «al tradimento di Garibaldi,[64]» e spargendo la loro fola e il loro terrore fin dentro Palermo. Tuttavia erano intorno a tremila; rappresentavano l’eletta militante del paese; confusi nella turba battevano i cuori più intrepidi della Sicilia, e non sarebbe stato giustizia, oltre che prudenza, trascurarli. Garibaldi inoltre ne aveva bisogno; sicchè salita la mattina stessa del 26 Gibilrossa (da Misilmeri distante poche ore) e passato a rassegna tutto il campo, ne ritrae così buona impressione, che promette al La Masa di porre a capo della colonna destinata alla marcia imminente su Palermo i suoi «bravi Picciotti.»
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Sceso però da Gibilrossa, ebbe uno scrupolo e volle adempiere una formalità. Chiamati a consiglio, cosa insolita, i suoi principali Luogotenenti, Sirtori, Türr, Bixio, La Masa, Crispi, quando li vide tutti raccolti, diresse loro questa breve parlata: «Voi sapete che non ho mai radunato Consigli di guerra, ma le circostanze in cui siamo mi vi inducono. Due vie ci stanno davanti: l’assalto di Palermo, o la ritirata nell’Isola. Scegliete.»
Taluno dicesi fu per la ritirata, i più per l’assalto,[65] che era in quel caso, non solo il più eroico, ma anche il più prudente partito, per non dirlo senz’altro l’unico effettuabile. Allora Garibaldi, fedele sempre al tolle moras, riunita la sua colonna al campo di Gibilrossa e quivi raccolte tutte le sue forze, dà nella sera stessa gli ultimi ordini per la deliberata battaglia. L’assalto nel primo concetto doveva effettuarsi nel cuore della notte, la partenza quindi essere suonata per le prime ore della sera. Composte le ordinanze colle squadre del La Masa e uno stuolo de’ Mille per guida ed esempio alla testa; i battaglioni del Bixio e del Carini al centro; le squadre del Sant’Anna alla retroguardia; la colonna doveva scendere da Gibilrossa pel sentiero dei Ciaculli che va a cadere sulla strada di Porta Termini, poco lungi [94] da San Giovanni, e passato l’Oreto al Ponte dell’Ammiraglio camminar diritta sulla città. L’ordine era: marciar serrati e silenziosi; avvicinarsi quanto più era possibile al nemico; giuntogli dappresso, rovesciar alla baionetta ogni ostacolo e penetrare al più presto, comunque, in Palermo.
Se non che, come accade sovente anco agli eserciti meglio ordinati, la marcia non cominciò per l’appunto all’ora designata; il sentiero preso, soggiorno quasi aereo di caproni selvatici, era oltre al preveduto aspro e malagevole; i Picciotti posti alla fronte, inesperti di marcie militari, molto più delle notturne, s’arrestano ad ogni tratto per ombre ed allarmi immaginari; talchè al sommar di tutte queste ragioni la colonna assalitrice non potè sboccare sulla strada di Palermo che allo spuntar dell’alba. Tuttavia non era per anco stata avvertita da alcuno, e la sorpresa era sperabile sempre, quando i Picciotti dell’estrema avanguardia, giunti ai così detti Molini della Scaffa e scambiandoli forse per le prime case di Palermo, alzano, probabilmente per darsi coraggio, tale un clamore di grida, con accompagnamento di fuochi, non sapremmo dire se di paura o di gioia, che i Regi di guardia, appostati al Ponte dell’Ammiraglio, ne sono riscossi in sussulto e corrono, tutt’ora assonnati, alle armi.
Di colpo improvviso non era più a parlarne, e non restava che supplire colla subitaneità dell’assalto e la forza dell’impeto alla fallita sorpresa.
Lo comprese tosto Garibaldi; lo comprese Nino Bixio, suo braccio destro; lo compresero quanti in quella falange avevan anima di soldati e senso della terribilità del momento. E prima di tutti l’avevan compreso il prode Tükery e i suoi compagni dell’antiguardo; i quali al primo grido, alla prima ombra può [95] dirsi del nemico, s’avventano su di lui a testa bassa, e prima ch’egli abbia tempo di conoscere gli assalitori, lo sforzano ad accettare la pugna.
E da quel punto «avanti, addosso, alla carica tutti.» I Regi, fortemente asserragliati dietro il Ponte dell’Ammiraglio, spazzano con un turbine di moschetteria e di mitraglia la via ed i campi: i Picciotti, nuovi a quei cimenti a petto a petto, balenano, si sparnazzano, scompigliano col rigurgito le schiere sopravvenienti degli amici; ma non monta: il Bixio e il Carini colle coorti di Calatafimi sopraggiungono al rincalzo; i più animosi delle squadre stesse si mescolano agli agguerriti compagni e fanno valanga; i Regi già vacillano, già danno le spalle e il Ponte dell’Ammiraglio è conquistato.
Era un fausto preludio, ma non ancora la vittoria. Restava ancora Porta Termini, chiave della città; restava una seconda linea di nemici gagliardamente appostati dietro case e barricate, protetti da numerose artiglierie, fiancheggiati da una forte squadra, liberi di piombare sui fianchi degli assalitori per le due strade che dalla Porta Sant’Antonino e da Porta de’ Greci convergono sulla via di Termini, e dentro una cerchia di fuoco schiacciarli. Ma non era sfuggito il pericolo a Garibaldi, il quale, provvedendo a un punto all’attacco ed alla difesa, mandava quanti branchi di squadre poteva raccogliere a custodire quelle due vie, mentre ordinava un ultimo disperato assalto alla Porta. E «al concitato imperio» non seguì mai sì pronto «il celere obbedir.»
Serrati, concordi, non contando i nemici, disprezzando la morte, gareggianti solamente a chi prima arriva, si slanciano di fronte i Mille: alla destra, avanzando arditamente tra vigneti e giardini, li fiancheggiano, [96] condotti dall’intrepido Fuxa, manipoli di Siciliani; da sinistra altri Picciotti e Cacciatori misti insieme, guidati dal Sirtori e dal Türr, tengono in iscacco i difensori della Porta Sant’Antonino: procombono sul fulminato terreno, della bella morte de’ prodi, Tükery, Rocco La Russa, Pietro Inserillo e Giuseppe Lo Squiglio; giacciono feriti Benedetto Cairoli, Enrico Piccinini, Raffaello Di Benedetto, Leonardo Cacioppo; Bixio stesso, ferito al petto da una palla, se la estrae da sè; ma i Napoletani, quasi sopraffatti da superstizioso terrore, più non reggono alla diabolica irruzione. Nullo, il Fieramosca della schiera, a cavallo, ritto, intrepido, stupendo nella sua marziale eleganza di cavaliere antico, ha già varcato, primo de’ primi, la Porta, e dietro a lui, come torrente che rompa le dighe, penetra da cento bocche la piena procellosa degli assalitori, i quali dilagando rapidi per tutte le vie, scacciando da ritta e da manca i residui dei nemici resistenti, e portando in trionfo, più che seguendo, il loro fatato Capitano, mondano Fiera Vecchia, il cuore di Palermo. Eran forse le 6 del mattino; due ore eran bastate alla prodigiosa vittoria, e il sole del 27 maggio, il sole di San Fermo, illuminava un’altra volta uno de’ più memorabili portenti del valore italiano.
Palermo dormiva ancora. Sorpresi essi pure dall’inaspettato assalto, già tratti in inganno da falsi allarmi perfidamente simulati dalla Polizia, e minacciati di morte coloro che al tuonar del cannone fossero trovati per le vie, i Palermitani avevano alquanto esitato prima di prestar fede ad un risveglio tanto fortunato; [97] e come gente non libera ancora dal sospetto d’un’insidia o dal timore d’un’imprudenza, si tennero chiusi e celati nelle loro case ad attendere che gli avvenimenti colla stessa luce del giorno si rischiarassero. Ma a poco a poco una finestra si socchiude; un uscio si apre; una, dieci, cento persone cominciano a far capolino; i più curiosi o i più animosi s’avventurano nella strada; altri corrono a’ campanili a dar nelle campane; la gran nuova si spande, il grande fatto si conferma, e finalmente tutta la più gagliarda e patriottica parte della popolazione (dir tutta la città sarebbe ancora troppo presto) si precipita festante sui passi dei liberatori, offre loro i primi conforti e i primi soccorsi e si mesce al gran fiume della rivolta.
E non v’era un istante da perdere. Alle 6 del mattino la situazione dei due belligeranti, per dirlo alla moderna, era questa: i ribelli occupavano precariamente Fiera Vecchia, e il tratto della città compreso tra la Porta Sant’Antonino e Porta Termini, meno alla destra la caserma di Sant’Antonino e, più a sinistra, i dintorni dell’Orto botanico; i Regi invece: Porta Montalto, Palazzo Reale, Porta Macqueda, il Castellamare, tutta la Marina; quanto dire quattro quinti della perifería.
E alla tattica bontà delle posizioni rispondeva la forza del numero e la ricchezza de’ mezzi di guerra. Per la rivolta ottocento camicie rosse[66] stremate, indigenti d’ogni cosa, e da tre ai quattromila Picciotti armati e agguerriti come sappiamo; per il Borbone [98] ventimila soldati ben istrutti, ben pasciuti, straricchi d’artiglierie, di munizioni, di viveri, d’ogni ben di Dio, fiancheggiati da quattro fregate, protetti da due forti e da numerose caserme, massiccie quanto i forti, padroni di tutte le loro comunicazioni, liberi d’essere soccorsi dal mare e dalla terra, quando che sia.
Però nulla di più precario, di più incompiuto, di più periglioso della vittoria garibaldina. Tutta la loro conquista poteva dirsi la conquista d’una mina, che da un istante all’altro poteva saltare e seppellirli sotto monti di rovine. Conveniva dunque strapparne subito al nemico le miccie o, per uscir di metafora, metter Palermo in istato di difesa, allargarvi quanto più era possibile la rivolta, rompere la cerchia nemica, occuparne i principali punti strategici, assicurarsi infine quelle tre condizioni indispensabili ad ogni guerra: posizioni per combattere; comunicazioni per manovrare; base d’operazione per rifornirsi.
E a tutto ciò fu, con maravigliosa rapidità, provveduto. Garibaldi, appena raccolta la sua gente, si inoltrava fino al Palazzo Pretorio e vi piantava il suo Quartier generale; occupava i quattro Cantoni, centro delle due grandi vie che segano in croce la città, e vi si asserragliava; istituiva un Comitato provvisorio, di cui faceva capo il dottor La Loggia e poco dopo una Commissione delle barricate, di cui eleggeva presidente il duca Della Verdura; chiamava di nuovo tutti i Palermitani alle armi, ed abbozzava un primo nucleo di guardie nazionali; spingeva, non senza combattimenti, i suoi avamposti verso Palazzo Reale fino a Piazza Bologna, e verso Porta Macqueda fino alla Villa Filippina; faceva nella giornata stessa attaccare la caserma di Sant’Antonino rimasta in potere dei Regi, e prima di sera se ne impadroniva; infine trasfondeva [99] in tutti i petti un raggio della sua serenità e una favilla della sua fede, forze inespugnabili.
E ciò non ostante il generale Lanza era sempre arbitro, purchè l’avesse voluto, del campo. Un istante d’energia, un contrassalto ben combinato, uno sforzo appena volonteroso di que’ ventimila uomini, e Palermo tornava sua. Ma era chieder troppo a siffatto Capitano ed a siffatto esercito. Però l’unica prodezza, di cui l’uno e l’altro furono capaci, fu il bombardamento; e già fin dalle 10 del mattino, dai forti di Castellamare e dalla Squadra ancorata di faccia a Toledo, cominciò a piovere sulla città, principalmente ne’ dintorni di Palazzo Pretorio, un nuovo diluvio di granate e di bombe; sprezzato, a dir vero, dai combattenti, e in sulle prime poco dannoso alla città, ma preludio di rovina maggiore.
L’indugio invece fu la fortuna dei ribellati. Giuseppe Sirtori, a capo d’una mano di Legionari e di Picciotti, fatta base il convento de’ Benedettini, riusciva ad impadronirsi del bastione di Montalto, punto avanzato sulla sinistra del Palazzo Reale; quasi contemporaneamente un’altra compagnia de’ Mille, Bergamaschi quasi tutti, guadagnava, non senza fiera lotta, la Piazza della Matrice e i dintorni del Burrone, del Papireto e di Porta Sant’Agata; sicchè per queste conquiste venivano tagliate le comunicazioni tra il Castello ed il Palazzo Reale, e gli approcci della rivolta avvicinati sempre più agli estremi baluardi della resistenza nemica. E quel che accresceva la maraviglia, era che ogni barricata sorgeva sotto il diluviare delle bombe; ogni palmo di terreno era guadagnato fra il crepitar degl’incendi, il crollar delle case, le urla delle vittime sepolte sotto le rovine, o trucidate nella fuga dalla ferina vendetta soldatesca.
[100]
Infatti il bombardamento dopo alcune ore di sosta aveva ripreso, nel 28 mattina, continuando fin nel cuore della notte con frenetica rabbia e facendo della miseranda, ma invitta città, un immane sterminio. Il vasto e ricco monastero di Santa Caterina ardeva tutto intero, assieme al lungo tratto di botteghe e di case che rispondevano sulla Strada Toledo: il Palazzo arcivescovile era saccheggiato, i ricchi monasteri dei Sette Angioli e della Badia Nuova saccheggiati e incendiati, il palazzo del principe di Carini distrutto; quelli del principe di Cutò e del marchese d’Artale smantellati. «In un remoto chiassuolo della città (scriveva un egregio Palermitano, spettatore della terribile tragedia[67]), presso alla Via del Pizzuto, la esplosione d’una sola bomba cagionava lo scempio di ventidue innocenti, ed erano in maggior parte donne e bambini: orrendo spettacolo quello di corpi oscenamente mutilati e squarciati, spettacolo commovente e pietoso quello d’intere famiglie, nude, raminghe, con vecchi e infermi che trascinavansi a stento e fuggivano gli abbattuti lor tetti. D’un subito, nella zona superiore della città, a dritta del Palazzo regio, sollevasi un vortice caliginoso di fiamme: ed è il bruciamento e la distruzione di tutto un quartiere. Dal Palazzo le napoletane milizie procedono verso la Piazza Grande e la Piazzetta de’ Tedeschi: la insurrezione ha preso appena a minacciar da quel lato; ed ecco i soldati trapassare di casa in casa, scassinare le porte, saccheggiare e disperdere quanto vi si trovasse per entro, macellarvi i sorpresi e sbigottiti abitanti ed [101] appiccarvi l’incendio. A chi fuggiva sì traea co’ moschetti; a chi chiedeva mercede s’insultava, poi si dava la morte: s’inducevano i miseri a ricattarsi svelando le preziosità e le masserizie nascoste, e, appagata la rapace ingordigia, seguivano le ferite e il sangue; si stupravano donne e fanciulle, poi scannavansi, e dopo loro i padri, i mariti, i fratelli: il nome del Re suonava da’ manigoldi acclamato fra le strida che sfuggíano alle vittime: e di quelle immanità e di quei fatti potrebbero allegarsi senza fine gli esempi, e non era guerra, ma eccidio efferato e vilissimo eccidio, non da uomini, ma da bestie crudeli. Il fuoco infuriava quel giorno per vasto recinto di edifici e di strade; infuriava nella notte e ne’ due giorni seguenti; e in quell’accesa fornace cuocevano e soffocavano umane creature, senza difesa e senza scampo immolate.»
Mille e trecento furono le bombe lanciate dal Castello e dalla Squadra senza contar le palle e la mitraglia: cinquecento trentasette i cadaveri ufficialmente numerati fino al 12 giugno.[68] Orrendo scempio che Lord Brougham nel Parlamento inglese pareggiava al neroniano e Lord Palmerston aggiungeva: «indegno del nostro tempo e della nostra civiltà.[69]»
La mattina del 29, con gran stupore dei bombardati, il bombardamento taceva; ma dell’inattesa tregua varie le cagioni, nessuna di pietà. Nella notte [102] dal 28 al 29 due piroscafi della Squadra regia portavano da Termini a Palermo un reggimento di Bavaresi, col rinforzo de’ quali il Generalissimo borbonico aveva contato di tentare una sortita generale di tutte le sue forze, onde ricuperare i posti perduti la vigilia. Ora così per non molestare il passaggio dalla Marina al Palazzo Reale de’ nuovi arrivati, come per evitare il rischio di colpire i propri soldati durante il premeditato assalto, il generale Lanza aveva dato l’ordine che il bombardamento rallentasse per alcune ore, limitandosi a battere i dintorni di Castro Pretorio, nido della rivolta.[70] Ma invano. Per tutta quella [103] giornata si combattè nuovamente al bastione di Montalto, all’Annunciata, ai Benedettini, al Duomo: in quest’ultimo punto anzi i Regi, sorpresi i Picciotti del Sant’Anna, ebbero alcune ore di sopravvento; ma poi sopraggiunti gli ormai terribili Cacciatori, riannodatesi le squadre, apparso Garibaldi, tutti i posti furono o conservati o ripresi, ed ai Regi toccò nuovamente di riparare a’ loro quartieri, più che vinti disperati di vincere; e riadorni soltanto di quei sanguinosi allori, a cui oramai sembravano aspirare: il saccheggio di nuove case e l’eccidio di nuove vittime.
Gli è che i soldati del Borbone non si battevano più. Quei tre fatti miracolosi della vittoria di Calatafimi, della ritirata del Parco e della sorpresa di Palermo avevano ispirato ne’ loro petti tale un superstizioso terrore, che era oggimai più forte d’ogni legge di disciplina e d’ogni punto d’onore. Per essi Garibaldi era ormai invincibile; vedevano in lui un essere privilegiato, protetto da una potenza sovrumana, contro la quale ogni forza terrestre doveva soccombere. Si spacciavano sul suo conto le più strane fole: chi lo diceva stregato; chi aggiungeva che fin da bambino fosse stato inoculato con un’ostia consacrata; e poichè gli ufficiali stessi per onestare la loro dappocaggine accreditavano queste insensatezze, non era più a sperarsi da siffatto esercito alcun atto, non che di energia, di decorosa resistenza.
Il Lanza però non aveva confidato soltanto sulla forza: un po’ di frode ad assodar l’opera gli era parsa [104] giovevole. Infatti fin dal 28 mattina egli si era rivolto, per mezzo d’un ufficiale della regia Marina, all’ammiraglio Mundy, comandante in capo della Squadra inglese,[71] per pregarlo d’un favore, all’apparenza innocentissimo: di voler soltanto ricevere al suo bordo due Generali dell’esercito regio incaricati di conferire con lui; procacciando unicamente che, durante le conferenze, i ribelli sospendessero le ostilità e i due Generali potessero aver libero passo traverso le linee nemiche sotto la protezione della bandiera britannica.
L’agguato era ben preparato, e se gli riusciva, il Generale borbonico otteneva in un colpo solo parecchi scopi: metteva in tutela della bandiera britannica l’assisa, quanto dire, la causa borbonica; otteneva dai ribelli, mercè una mediazione potente, una sospensione d’armi, e ciò senza essere costretto a richiederla egli stesso al disprezzato avventuriero. Ma quanto il laccio era sottile, altrettanto era acuto l’occhio dell’Inglese, e scivolandogli in mezzo con destrezza e prudenza, faceva al Commissario del Re questa risposta: «Prontissimo alla conferenza, lietissimo di ricevere a bordo della sua ammiraglia i due Generali che gli erano annunziati; ma quanto al loro passaggio traverso le linee degl’insorti, necessario richiederlo al generale Garibaldi che solo aveva diritto di darlo.[72]» Non era questa la conclusione che il Borbonico s’aspettava, anzi era precisamente quella che più di tutte aborriva; ma ciò non ostante, per quanto egli tornasse all’assalto con nuove missive anche più ambigue e capziose, l’Ammiraglio non si smosse d’una linea dalla prima [105] sua risposta, sventando così colla sua accorta tenacia una trama che intendeva a fare lui complice, e l’Inghilterra stromento della politica borbonica.[73]
Astretto da questa repulsa a non confidare più che nell’armi; ma nell’armi, dopo i falliti assalti del 29, non avendo più fiducia, il Generale borbonico si sentì a un tratto mancare quell’ultimo residuo, non diremo certo di coraggio, che non ebbe mai, ma di dignità [106] umana e di pudore soldatesco che ancora gli era rimasto, e senza nulla dire al Mundy, all’improvviso, come preso da subitaneo terrore, scrisse al filibustiere, fino a ieri schernito, questa lettera quasi incredibile:
«Il generale Lanza a S. E. il general Garibaldi.
»Palermo, 30 maggio 1860.
»Avendomi l’Ammiraglio inglese fatto sapere che riceverebbe con piacere a bordo del suo vascello due de’ miei Generali, affine di aprire con Lei una conferenza, della quale l’Ammiraglio stesso sarebbe il mediatore, purchè Ella consenta a conceder loro un passaggio traverso le sue linee; io la prego di farmi conoscere se vuole consentirvi, e in caso affermativo (supponendo le ostilità sospese da ambe le parti), io la prego di farmi sapere l’ora in cui la detta conferenza dovrà cominciare. Sarebbe allo stesso tempo utile che Ella accordasse una scorta ai summenzionati due Generali, dal Palazzo Reale alla Sanità, dove essi s’imbarcheranno per andare a bordo.
»In attesa d’una sua risposta, ec.
»Ferdinando Lanza.[74]»
«Quale non doveva essere l’avvilimento dell’esercito regio (scrive lo stesso ammiraglio Mundy), perchè l’alter ego d’un Sovrano acconsentisse a scrivere una lettera sì umiliante. L’uomo che fino a quel momento era stato stigmatizzato cogli epiteti più vituperosi dell’umana natura e denunziato nei proclami come un pirata, un ribelle, un filibustiere, eccolo elevato al titolo ed al rango di Generale e d’Eccellenza! Ciò equivaleva ad una ricognizione del suo carattere d’uguale, [107] e ad una confessione d’impotenza di sottometterlo colla forza.[75]»
E questo pure dovette sentire Garibaldi; ma disprezzando in cuor suo le antiche e nuove codardíe del suo avversario e pensando solo a trarne profitto, rispose all’istante al Commissario di Francesco II esser pronto alla propostagli conferenza; fissarla per le due pomeridiane del giorno stesso; avrebbe fatto immediatamente sospendere il fuoco de’ suoi, e accordato il passo e la scorta a’ due Generali regi.
Se non che verso le 10 antimeridiane dello stesso giorno (30 maggio), dopo cioè che Garibaldi ebbe mandato a tutti i suoi posti l’ordine di cessare da ogni ostilità, un inatteso avvenimento rischiava di mettere in forse con un sol colpo tutta la conquistata fortuna. La colonna di Von Meckel e del Bosco, in maggior parte composta di Bavaresi, dopo aver per tre giorni perseguíto vanamente l’Orsini (il quale, inchiodati i cannoni e bruciati gli affusti, era riuscito a scamparla, sperdendosi per le campagne al di là di Giuliana), quella colonna, dicevamo, risaputa alla fine la notizia[76] che quel Garibaldi, da essi sognato fuggiasco sulla strada di Corleone, accampava già in Palermo, era tornata quanto più veloce aveva potuto sui suoi passi, e appunto la mattina del 30 maggio compariva innanzi [108] a Porta Termini[77] e ne assaliva la barricata che la custodiva. Le squadre di guardia al posto ributtarono, com’era debito loro, l’inatteso nemico; questi incalzò più risoluto che mai, e la fucilata si accese vivacissima da ambe le parti. Indarno il luogotenente Wilmot, ufficiale di bandiera dell’ammiraglio Mundy, che per caso di là passava diretto al Castro Pretorio, sventolava il suo bianco fazzoletto e gridava agli assalitori: una tregua essere pattuita; fedifrago l’assalto; doverosa la ritirata; que’ Bavaresi, o avessero meditato un’insidia o la temessero, non vollero intendere ragione. Allora il combattimento si accanì più che mai: e a chi contava il numero soverchiante degli aggressori non era difficile prevederne il risultato. I Picciotti resistevano del loro meglio; una compagnia de’ Mille, guidata dall’intrepido Carini, tratteneva ancora per alcuni istanti quella piena irrompente; ma ferito gravemente ad un braccio lo stesso Carini, caduti molti de’ suoi, crescente l’irruzione nemica, la barricata sarebbe stata certamente perduta e [109] la via aperta fino a Fiera Vecchia, se la fortuna non avesse voluto che presso il generale Garibaldi stesse in quel momento, inviato dal Lanza, l’ufficiale di Stato Maggiore regio, Nicoletti, il quale, udito l’evento e invitato con acerbe parole dallo stesso Garibaldi a cessare quella perfidia, accorse sul luogo del conflitto e colla sua assisa ed autorità riuscì a persuadere quei, non sappiamo se testardi o astuti Tedeschi, se non a ritirarsi, come avrebbero dovuto, a restar nei posti indebitamente conquistati.[78]
Superato anche questo nuovo periglio, indossata ancora la sua vecchia uniforme di Generale piemontese (divenuta buona un’altra volta), accompagnato dal solo Crispi,[79] poco prima delle due pomeridiane si mosse per recarsi al convegno fissato. Al Molo della Sanità l’aspettava la lancia dell’Hannibal: quivi il caso volle che arrivassero nello stesso punto il generale Letizia ed il generale Chretien; sicchè la medesima barca li tragittò insieme al bordo dell’Ammiraglio inglese. Colà giunti, i Generali borbonici lasciarono il passo a Garibaldi; l’Ammiraglio, così a lui, come a’ suoi avversari, fece rendere i dovuti onori militari e li invitò ad entrare nella sua cabina.[80] Non appena radunati però, quasi preliminare al trattato che stava per cominciare, sorse un singolare litigio, che qualificò [110] subitamente agli occhi dell’Inglese il diverso carattere de’ negoziatori da lui ospitati al suo bordo.
L’ammiraglio Mundy per rendere più solenne la conferenza e porne la fede sotto il suggello di autorevoli testimonianze, aveva invitato ad assistere alla conferenza anche i Comandanti dei legni da guerra Francese, Americano e Sardo ancorati nello stesso porto, ed essi, accettato l’invito, stavano già sul ponte all’arrivo de’ negoziatori ed eran loro stati presentati. Quando però il generale Letizia li vide entrare assieme a tutti gli altri nella cabina dell’Ammiraglio e disporsi ad assistere alla conferenza, si fece innanzi e dichiarò ch’egli non era preparato ad intraprendere alcun negoziato alla presenza di quei Capitani stranieri, sicchè richiedeva formalmente che si ritirassero. Nè a questo si fermò. Soggiunse, «che quantunque egli avesse consentito a incontrare il generale Garibaldi a bordo della nave britannica, egli non intendeva riconoscergli alcuna officiale capacità, nè molto meno conferire con lui sopra qualsivoglia soggetto. Ogni mediazione, continuava egli, doveva aver luogo tra l’Ammiraglio inglese, lui ed il suo collega; e al generale Garibaldi non restava che confermare o disapprovare le parole del trattato che si fossero per usare. Queste le istruzioni da lui ricevute dal generale Lanza e dalle quali egli non poteva nè voleva dipartirsi.[81]»
A questa inattesa parlata, il cui senso era aggravato dal tuono dittatorio con cui era proferita, la sorpresa fu generale. L’Ammiraglio però, rotto per il primo il silenzio e raccomandata la calma e la temperanza, stimava suo debito chiedere prima d’ogni [111] cosa, se anche il generale Garibaldi aveva da muovere qualche obbiezione circa alla presenza dei Comandanti stranieri. A cui Garibaldi rispose che ogni concerto preso dall’Ammiraglio inglese gli sarebbe stato gradito, e che quanto ai signori Comandanti era lieto di vederli rimanere. Ma nemmeno a questa lezione di tolleranza e cortesia il generale Letizia volle darsi per vinto, e arzigogolando cavillosamente sulle parole della lettera scritta la mattina dal generale Lanza, ribadì la sua tèsi che «i negoziati dovevano correre tra l’inglese Ammiraglio e gli incaricati napoletani, e il generale Garibaldi non dover prendervi alcuna parte.» Alla caparbia malafede del Napoletano proruppero indignati, tanto il capitano francese Lefebre, quanto l’americano Palmer; «solo il marchese D’Aste, antico ufficiale sardo, restò silenzioso;[82]» finalmente lo stesso ammiraglio Mundy interveniva a cessare l’alterco, protestando apertamente che, «se il generale Letizia non consentiva a trattar personalmente col generale Garibaldi e in presenza dei Capitani esteri, egli sarebbe obbligato di rimandare tutti a terra, e dichiarare rotti i negoziati.[83]»
A sì aperto e risoluto linguaggio il generale Letizia finì col rassegnarsi, e riconosciuta al generale Garibaldi la parte che gli spettava, le trattative s’avviarono. I quattro primi articoli della convenzione proposta passarono senza contraddizione o discussione di sorta; giunti al 5º: «Che la Municipalità rassegnasse un’umile petizione a Sua Maestà il Re, esprimendogli i reali bisogni della città.» — «No!» proruppe con veemenza Garibaldi; e alzandosi di scatto soggiunse: «Il tempo delle umili petizioni o al Re, o a [112] chicchessia, è passato; inoltre non ci sono più Municipalità.... La Municipalità sono io. Io rifiuto il mio consenso. Passiamo alla sesta ed ultima proposta.»
All’udir queste parole sdegno e stupore si dipingono sul volto del generale Letizia, e sgualcendo la carta che stava spiegata sulla tavola, esclama: «Allora se questo articolo non è concesso, ogni comunicazione cessa fra di noi.[84]»
Garibaldi, il quale fino all’enunciazione del quinto articolo avea sempre serbato un calmo e imperturbato contegno, a quell’ultima albagiosa dichiarazione del suo avversario non seppe più frenarsi. «Egli denunciò in termini eccessivi[85] la mancanza di buona fede, anzi l’infamia della Reale Autorità nel permettere che truppe mercenarie, mentre una bandiera di tregua sventolava, attaccassero le italiane, le quali avevano avuto l’ordine di cessare il fuoco. Ed altre cose anche più appassionate soggiunse Garibaldi; a cui replicò con violenza non disuguale, ma certo con minor giustizia il suo antagonista. Sicchè l’Ammiraglio fu costretto di nuovo ad interporsi non solo per rimettere la calma fra i disputanti, ma per raddrizzare [113] le torte argomentazioni, con cui il negoziatore napoletano continuava a sillogizzare.»
A tal punto Garibaldi, credendo ormai compiuta la rottura de’ negoziati, si levò dalla sua sedia e fece atto di disporsi alla partenza; «ma tale non appariva in alcuna guisa l’intenzione del Generale borbonico.[86]» Anzi dopo essersi consultato alquanto col suo collega, si rivolse di nuovo al suo avversario, annunziandogli che egli consentirebbe a cassare il quinto articolo della convenzione, quantunque sapesse che per quella concessione egli incontrerebbe il disfavore del suo Generale in capo.
E dopo questa dichiarazione tanto maravigliosa ed inattesa, quanto lo erano state fino allora tutte le parole del negoziatore regio, l’armistizio fu prolungato fino alle nove del mattino seguente, al solo fine di concordare definitivamente i punti controversi e di ottenere dal Commissario alter ego del Re la ratifica dei già patteggiati. Prima di lasciar l’Hannibal però il generale Garibaldi, cogliendo il momento in cui l’ammiraglio Mundy s’era stretto in privato colloquio co’ due Inviati regi, si traeva in un canto col capitano Palmer e col marchese D’Aste, e susurrò loro in tutta fretta e in gran secretezza: essere allo stremo di munizioni; questo il suo pensiero più tormentoso; lo soccorressero, se potevano, in quella necessità; avrebbe pagato un pacco di cartuccie a peso d’oro. Il capitano D’Aste non volle dare neanche un grano di polvere; il Capitano americano crediamo che desse la poca che aveva; al resto pensò la Provvidenza!
Ma sia che l’ultima impressione ricevuta da Garibaldi fosse che il pattuito armistizio non potesse [114] durare oltre il vegnente mattino; sia ch’egli mirasse a trar profitto delle pretese esorbitanti del nemico, e della sua sdegnosa risposta per infiammare vieppiù gli animi già accesi de’ Palermitani, giunto a Palazzo Pretorio fece tosto pubblicare questo Manifesto:
«Siciliani!
»Il nemico mi ha proposto un armistizio. Io ne accettai quelle condizioni che l’umanità dettava di accettare; cioè: ritirar famiglie e feriti; ma fra le richieste, una ve n’era umiliante per la brava popolazione di Palermo, ed io la rigettai con disprezzo. Il risultato della mia conferenza di oggi fu dunque di ripigliare le ostilità domani. Io ed i miei compagni siamo festanti di poter combattere accanto ai figli del Vespro una battaglia, che deve infrangere l’ultimo anello di catene con cui fu avvinta questa terra del genio e dell’eroismo.»
Alla lettura del fiero bando la città intera, può dirsi, si versò a Palazzo Pretorio per udire dalle labbra del Dittatore, quasi per leggere sul suo viso, la conferma della grande nuova. E Garibaldi, apparso al balcone di Palazzo Pretorio, parlò come sapeva parlare lui tutte le volte che il cuore lo ispirava, e la grandezza degli avvenimenti s’accordava alla lirica intuonazione della sua tribunizia eloquenza. Però quando disse: «Il nemico mi ha fatto delle proposte che io credei ignominiose per te, o Popolo di Palermo, ed io sapendoti pronto a farti seppellire sotto le ruine della tua città le ho rifiutate....» un urlo, un urlo solo fu la risposta di quel popolo divenuto delirante: «Guerra, guerra;» e le donne stesse con parola anche più espressiva: «Grazie, gridavano al Generale, grazie;» e gli inviavano baci e benedizioni.... «E dal fondo della piazza (soggiunge uno de’ Mille testimonio alla gran scena) [115] gli mandai un bacio anch’io. Credo che Garibaldi non sia mai stato visto sfolgorante come in quel momento da quel balcone; l’anima di quel popolo pareva tutta trasfusa in lui.[87]» Nè furono parole soltanto: ogni uomo armato corse a prendere il suo posto di combattimento: quante braccia erano atte lavorarono l’intera notte al compimento delle barricate; e per supplire alla mancata luminaria delle bombe e delle granate, Palermo illuminò tutte le sue case, se non è meglio dir le sue rovine, come fosse alla vigilia di una festa.
Risapute però queste nuove, anche i Generali borbonici vennero a miglior consiglio, e nella mattina del 31 lo stesso generale Letizia tornava al Dittatore per ripigliare gli interrotti negoziati e chiedergli un armistizio indefinito. Tanto non poteva concedere Garibaldi; consentì bensì ad una tregua di tre giorni, e fu in questi capitoli stipulata:
«1º La sospensione delle ostilità resta prolungata per tre giorni, a contare da questo momento che sono le 12 meridiane del dì 31 maggio: al termine della quale S. E. il Generale in Capo spedirà un suo aiutante di campo onde di consenso si stabilisca l’ora per riprendersi le ostilità.
»2º Il Regio Banco sarà consegnato al rappresentante Crispi segretario di Stato, con analoga ricevuta, ed il distaccamento che lo custodisce andrà a Castellamare con armi e bagaglio.
»3º Sarà continuato l’imbarco di tutti i feriti e famiglie, non trascurando alcun mezzo per impedire qualunque sopruso.
»4º Sarà libero il transito dei viveri per le due parti combattenti, in tutte le ore del giorno, dando le analoghe disposizioni per mandar ciò pienamente ad effetto.
[116]
»5º Sarà permesso di contraccambiare i prigionieri Mosto e Rivalta con il primo tenente Colonna ed altro ufficiale o capitano Grasso.
»Il Generale in Capo
»Firmato: Ferdinando Lanza.
»Il Segretario di Stato
»del Governo Provvisorio di Sicilia
»Firmato: Francesco Crispi.»
Taluno censurò il vincitore di aver concesso al nemico una tregua troppo lunga; noi pensiamo altrimenti. Per fermo i Regi potevan ricevere nuovi rinforzi; ma che importavano oramai alcune migliaia di nemici di più, se mancava tra di loro la mente che governasse e il cuore che combattesse? Per la rivolta invece ogni ora che passava era un passo alla vittoria: lo scoramento nelle file avversarie cresceva, le diserzioni moltiplicavano, la città s’agguerriva, e s’abituava all’idea della lotta disperata; e frattanto i Mille si ristoravano, le munizioni si risarcivano, le difese si perfezionavano, i soccorsi sperati o promessi dal Continente o arrivavano o potevano arrivare, come sarebbe stato debito loro.[88]
Oltre a ciò nella generosità di Garibaldi s’ascondeva un grande concetto non meno politico che umanitario. Nessuno più di lui sentiva che quella era guerra civile, e quel pensiero fisso di renderla quanto più fosse possibile umana e pietosa sarà, nella calma sentenza de’ posteri, non ultima gloria della sua eroica vita. Quei soldati, lo diceva ad ogni istante, eran nostri [117] fratelli; lo diceva a’ suoi seguaci consigliandoli ad essere miti; lo diceva a’ nemici stessi, se qualcuno gliene compariva dinanzi o prigioniero o disertore; e solo dicendolo faceva proseliti e diradava le file nemiche. La generosità in quel caso era virtù ed arte insieme; e quando vedremo l’esercito borbonico squagliarsi e quasi sfumare innanzi ai passi di Garibaldi che li incalzava col sorriso sulle labbra e l’offerta del ritorno alle loro case, intenderemo quanto quella virtù fosse utile e quell’arte profonda.
Nè quei tre giorni li passò inerti. Intanto che i suoi Luogotenenti attendevano al riordinamento delle milizie, e i Palermitani al perfezionamento delle barricate, e il Crispi a prender possesso del Palazzo di Finanza, dove trovava cinque milioni di ducati, insperato tesoro per quei cenciosi conquistatori partiti da Quarto con trentamila franchi; Garibaldi pensava a dare all’improvvisato Governo di Palermo una forma più regolare e compíta, istituendo un Ministero, in cui il Crispi riteneva il portafoglio dell’interno e delle finanze, il barone Pisani gli esteri, il canonico Ugdulena il culto e la pubblica istruzione, un Raffaele i lavori pubblici, un Guarnieri la giustizia, e l’Orsini, riuscito miracolosamente a traforarsi il giorno 2 in Palermo, con tutti i suoi cannoni e i suoi uomini, il Ministero della guerra.
I Napoletani, all’opposto, non riuscirono che a rendere sempre più manifesta la loro impotenza. Non appena infatti fu conchiuso il primo armistizio, il generale Letizia partiva per Napoli per comunicarne il testo al suo Re ed al suo Governo, dipinger loro il vero stato delle cose, e richiederne le istruzioni per la condotta avvenire. Ruppe in amari rimbrotti il Re, e sola sua risposta fu che si riprendesse Palermo a [118] viva forza, anche a costo di raderla al suolo; ma tale non fu il consiglio nè la risposta de’ suoi Ministri, i quali già affaccendati ad ottenere la mediazione delle estere Potenze, fecero capire al Letizia che quel mezzo del bombardamento sarebbe stato esiziale a tutto il Regno, e che, se altra via non s’apriva per ricuperar Palermo, era minor danno abbandonarlo. Se lo tenne per detto il Letizia; e convinto oramai che il Governo di Napoli non aveva più nè volontà, nè speranza di vincere, riportò queste notizie e impressioni al regio Commissario in Palermo. Il quale, sperimentata già vana la forza delle bombe, non sapendo, nè osando confidar in quella delle baionette, delle quali, se voleva vincere, gli conveniva mettersi alla testa; sconfidando sempre più nella fedeltà delle truppe e temendo una sedizione della flotta;[89] ma tremando forse più per sè stesso, si decise a chiedere un prolungamento all’armistizio d’altri tre giorni, prodromo evidente della resa finale. E Garibaldi accondiscese ancora; ed ancora il suo naturale accorgimento non l’ingannò.
Infatti il 6 giugno i negoziati furono ancora ripresi, e senza molta difficoltà condussero alla Convenzione seguente:
«1º Gl’infermi (dell’armata regia) che giacciono in ambedue gli ospedali od in altri luoghi dovranno essere imbarcati colla maggiore sollecitudine.
[119]
»2º Le truppe regie che si trovano in Palermo avranno la scelta di abbandonare la città per terra o per mare con equipaggi, materiali da guerra, artiglieria, cavalli, bagagli, famiglie e tutto ciò che loro spetta, comprese le munizioni rinchiuse in Castellamare. A S. E. il tenente generale Lanza viene concesso di abbandonare Palermo per mare o per terra a sua scelta.
»3º Qualora si scegliesse la via di mare, si darà principio allo sgombramento caricando i materiali da guerra, gli equipaggi e parte dei cavalli e delle altre bestie da soma; le truppe rimarranno ultime.
»4º Tutte le truppe s’imbarcheranno sul Molo, e quindi prenderanno provvisoriamente alloggio nel quartiere dei Quattroventi.
»5º Il generale Garibaldi lascierà Castelluccio, il Molo e la batteria del Faro senza atti di ostilità.
»6º Il generale Garibaldi consegnerà tutti gl’infermi ed i feriti (delle truppe regie) che si trovassero in suo potere.
»7º I prigionieri saranno scambiati da ambe le parti senza distinzione di grado o di numero, e non uomo per uomo.
»8º Sette prigionieri (non militari) rinchiusi in Castellamare saranno messi in libertà tosto che sia compíto l’imbarco delle truppe e totalmente sgomberato il forte Castellamare. Questi prigionieri verranno condotti dalla guarnigione sul Molo e quivi consegnati.
»Ritenuti tutti i sovraccennati articoli, si aggiunge in una clausola addizionale che la guarnigione sarà spedita per la via di mare ed imbarcata sul Molo di Palermo.
»6 giugno 1860.
»G. Garibaldi.
»Con procura di S. E. il Luogotenente generale Lanza, Comandante del Corpo delle truppe regie:
»V. Bonopane,
»Colonnello e Capo dello Stato Maggiore.
»L. Letizia, march. di Mompellieri, generale.»
[120]
La nuova dell’entrata di Garibaldi nella capitale aveva precipitata la sollevazione di tutta l’Isola. Le principali città, quali senza grave sforzo, come Trapani, Girgenti, Noto, Caltanissetta, Modica, Sciacca, Mazzara; quali dopo aspra lotta di popolo e fiero martirio di saccheggi e di stragi, come Catania, s’erano vendicate in libertà; e di tutta la Sicilia al mattino del 7 giugno non restava più in mano del Borbone che Messina e le cittadelle di Milazzo, Augusta e Siracusa.
In Palermo frattanto lo sgombero dei Regi era cominciato e l’aspetto della città si rasserenava. All’ansietà angosciosa della lotta succedeva d’ora in ora il respiro più libero e il moto festivo e chiassoso della vittoria. La gente, come suole accadere ne’ giorni di pubblici commovimenti, viveva più nelle strade che nelle case; le grida, gli assembramenti, le manifestazioni rinascenti per ogni nonnulla non posavano ancora; il variopinto brulicame delle squadre, delle camicie rosse, dei frati in coccarda e cartucciera, dei preti in piuma ed archibugio, continuava tuttavia a mascherare d’una tal quale veste quarantottesca la città; ma intanto le barricate si sfacevano, le rovine degl’incendi si sgomberavano, ai morti tratti dalle macerie si dava onorata sepoltura, ai feriti ricoverati nelle case o negli ospedali si apprestavano cure più ordinate e più sollecite; migliaia di mani lavoravano ad ammannire vesti, scarpe, cartuccie; tutto dimostrava che Palermo respirava a polmoni dilatati la nuova aura di libertà, e guardava con serena fede all’avvenire.
[121]
Al tempo stesso il Dittatore provvedeva del suo meglio, come le opportunità consentivano e i suoi Ministri sapevano suggerire, alle più urgenti necessità dello stato novello. Volgendo il primo pensiero ai morti per la patria, decretava ricoveri e pensioni alle loro vedove e ai loro orfani; rivolgendo il secondo all’imperioso problema della forza, si rassegnava a riporre in fondo al cuore la sua bella utopia della leva in massa, ma consentiva tosto all’Orsini una leva più limitata di quarantamila uomini: beato ancora se tutti accorressero!
Frattanto congedava con parole affettuose le squadre divenute più un ingombro che un aiuto, ma invitava ancora una volta quanti Siciliani fosser disposti a restar nell’armi, a prender ferma regolare nei quadri de’ suoi Mille coi quali pensava di formare due brigate, destinate a percorrere l’Isola per impiantarvi il Governo nazionale, reclutar nuova gente e far atto di signoria.
Non meno importanti, se non tutte ugualmente saggie, erano le provvisioni che i suoi Ministri gli facevano firmare (ogni altra parola sarebbe impropria) per l’ordinamento politico e amministrativo.
Il Crispi ceduto il portafoglio delle finanze a Domenico Peranni, e tenutosi per sè l’Interno e la Segreteria della Dittatura, divideva l’Isola in ventiquattro Distretti, ponendo a capo di ciascuno un Governatore; intraprendeva l’organizzazione della Polizia e della Pubblica Sicurezza con questori, delegati, milizie a cavallo; tentava ricostruire le vecchie Municipalità, restaurando in carica i deposti o gli sbanditi del 1848; commetteva il giudizio de’ reati comuni a Commissioni speciali, parte civili e parte militari. Dal canto suo l’Ugdulena otteneva dal Dittatore lo scioglimento [122] delle compagnie de’ Gesuiti e de’ Liguorini;[90] il Peranni, l’abolizione del macinato, dei dazi d’entrata sui cereali, e di qualunque altra gabella decretata dal Governo borbonico dopo il 15 maggio 1849; indi l’assegnamento d’una quota sui beni pubblici dei Comuni ai soldati della patria e il divieto di pagare qualsiasi tassa al Governo caduto, e l’obbligo di versarle tutte nelle casse del nuovo. Di quando in quando in mezzo a questi decreti di scopo politico e finanziario, parti esclusivi della mente dei Ministri, ai quali Garibaldi non faceva che apporre il suo nome, ne compariva qualcuno di veramente pensato e voluto da lui, che portava manifestamente l’impronta del suo animo generoso e delle sue idee filantropiche, e che si poteva dire, senza tema di fallire, tutto suo.
Ora aboliva il titolo di eccellenza, e l’usanza del baciamano, vergognose reliquie della servitù; ora si volgeva «al bello e gentile sesso di Palermo,» perchè soccorresse della sua carità l’Ospizio dei lattanti e degli orfani di Palermo, «dove novanta su cento lattanti perivano di fame;[91]» ora infine decretava la [123] demolizione del forte di Castellamare, «conservando soltanto le batterie che difendono il porto e battono la rada;» alla qual’opera si videro accorrere, per più giorni, uomini, donne, nobili, plebei, laici, frati, il popolo intero, lieto di offrire quel tributo, quasi direste quella giornata di fatica servile alla patria tornata signora.[92]
Certo ben pochi di questi Decreti passeranno alla posterità come esemplari di sapienza politica o legislativa. Quello che richiamava in ufficio i proscritti del 48, ridesta alla memoria la follía di Vittorio Emanuele I di Sardegna, il quale, ristaurato ne’ suoi Stati, si pensò bastasse ripubblicare l’Almanacco reale del 1815 per riavere tutta la sua vecchia magistratura. La istituzione dei tribunali speciali era un’offesa alla giustizia della libertà rinascente; l’abolizione tumultuaria del macinato e d’ogni altra gabella fruttuosa era, per non dirne peggio, una solenne imprudenza; ma per quanto severa voglia essere la storia, [124] essa finirà coll’ascoltare le molte circostanze attenuanti, e conchiuderà con una mite sentenza. Non si dimentichi che la Dittatura era uscita dal seno d’una rivoluzione; che il Governo, privo della consacrazione del tempo e della tradizione, era costretto a cercare il suo principal fondamento sulla popolarità; che infine il paese, inasprito da lunghi dolori, era avido di novità e di riforme, le quali era assai dubbio fino a qual punto fosse saggio il concedere o il rifiutare. Oltre a ciò, nulla di quanto il Governo borbonico lasciava dietro di sè poteva più essere conservato. Magistrati, leggi, consuetudini, tutto era fradicio, e tutto conveniva spazzar via e rinnovare: impresa ardua in tempi calmi anco ai più esperti, ma che ad uomini cresciuti fino allora o nei sogni delle congiure, o nelle speculazioni della dottrina, e affatto nuovi alla pratica dei governi, doveva riuscire difficilissima e quasi invincibile.
Ma nè la loro apologia, nè la loro censura è dell’ufficio nostro. A noi si aspetta soltanto giudicar anche in questo l’opera di Garibaldi; e ne pare che il giudizio si riassuma in queste parole: egli nulla ne intendeva, nè poteva intenderne. Nè la vita del mare, nè quella de’ campi, nè la tebaide di Caprera, nè gli esempi di Bento Gonzales, del Ribera e dell’Oribe, l’avevano per fermo preparato ad essere un reggitore di Stati. Qual fosse per lui l’ideale più eccelso delle società umane, noi lo sappiamo: lo stato di natura; epperò anche il governo patriarcale era il più perfetto modello di governo, cui egli sapesse aspirare. Finanze, polizia, imposte, tribunali, congegni amministrativi, erano per lui meccanismi artificiali, superfetazioni oppressive, inventate dalla nequizia o dall’astuzia umana, delle quali, potendo, avrebbe fatto tavola rasa; [125] non potendolo, si rassegnava a subirle, ma in cuor suo sprezzandole ed abborrendole. Ora con queste idee pel capo, non solo non si governano gli Stati, ma si resta inetti a discernere chi possa meglio governarli per voi; e fu questa la sorte di Garibaldi. Creato dalla meritata fortuna Dittatore di nove milioni d’uomini, egli non sarà mai in effetto che un regolo dimidiato, metà genio, metà automa: nel campo di battaglia sovrano possente ed invincibile; nella corte, nel foro, nel reggimento civile, pupillo e stromento di chi lo attorniava e consigliava. E però ognuno di que’ Decreti che egli aveva già firmati o firmerà, portava a’ piedi il suo nome; ma il suo spirito poteva dirsene assente e la sua coscienza irresponsabile. Nè ciò fa la sua lode; aggiunge solo un chiaroscuro caratteristico alla sua figura. Una cosa sola egli vide, e ben chiara, nella sua Dittatura, dallo sbarco a Marsala all’arrivo in Napoli: differire l’annessione del Regno alla Monarchia di Vittorio Emanuele fino a che la rivoluzione, che doveva gettare le prime basi all’unità dell’Italia, non fosse compiuta. E ciò chiarirà meglio chi non voglia stancarsi di leggere queste pagine.
Frattanto il favore della causa siciliana cresceva nell’opinione europea, ed ogni giorno le arrecava nuovi conforti e nuovi soccorsi.
Fin dal 6 giugno gettava l’àncora nella rada di Palermo l’ammiraglio Persano, il quale, scambiate con Garibaldi visite e cortesie pubbliche ed ufficiali, pareva assumesse la rivoluzione sotto l’egida della bandiera sarda, e accresceva colla sola sua presenza la forza morale del nuovo Governo. Parimenti, il 22 del mese [126] stesso sbarcava a Castellamare Siculo la seconda spedizione capitanata da Giacomo Medici; ordinata più apertamente sotto il patrocinio del Governo sardo, scortata da’ suoi legni di guerra per tutta la traversata, e che ora veniva a recare a Garibaldi il gagliardo soccorso di tremilacinquecento volontari, ottomila carabine rigate (rifles inglesi) e quattrocentomila cartucce.[93] Cosa infine altrettanto importante, il Governo di Francesco II andava stendendo la mano a tutte le Potenze d’Europa, non escluso l’abborrito Piemonte, per mendicare da queste la mediazione, da quelle [127] l’alleanza, senza ottenerne altra risposta che di parole evasive, di sterili compianti o di vergognose proposte, le quali tutte parevan ripetergli in vario metro che l’ultima sua ora era suonata.
Garibaldi intanto pensò a trar profitto dei ben venuti soccorsi per dare un passo avanti e preparare la conquista totale dell’Isola. Raccolta colle due brigate del Bixio e del Türr, di cui già dicemmo intrapreso l’ordinamento, e con la novella brigata del Medici, la meglio ordinata ed armata fra tutte, una forza di circa seimila uomini, esercito formidabile per il guerrillero vincitore di Palermo, pose in esecuzione il disegno, fino allora soltanto per mancanza di forza ritardato, di occupare militarmente i centri principali dell’Isola, serrando sempre più dappresso l’estreme trincee dell’esercito borbonico.
A tal uopo manda la brigata Türr per la via di Villafrati, Santa Caterina, Caltanissetta e Caltagirone ad occupare Catania; la brigata Bixio per la via di Corleone a Girgenti, per risalire poi di là la costa orientale; e quella del Medici ad invadere per la strada littoranea di Termini la provincia di Messina, ed a portarsi quanto più vicino le fosse concesso alle linee borboniche. Ora, per la sua posizione più inoltrata, la colonna Medici doveva essere la prima a scontrarsi col nemico, forte ancora di otto in diecimila uomini, assiso in una gagliarda postura militare, padrone del forte di Milazzo, chiave della via che conduce a Messina.
Ma prima di narrare del combattimento di Milazzo, che compì la liberazione dell’Isola, ci è d’uopo dire brevemente una parola d’un accidente, che poco mancò fosse origine di dolorosa discordia; ma di cui se a qualcuno risale la responsabilità e la colpa, non fu certo a Garibaldi.
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Era sbarcato a Palermo, coll’ammiraglio Persano, Giuseppe La Farina. Era partito per volontà sua, senza mandato positivo ed ufficiale, in apparenza per osservare, studiare, portare il tributo della sua opera e del suo nome; in realtà per mestare ed intrigare. Appena giunto, cominciò a trovare tutto malfatto e spregevole: il Governo, la negazione d’ogni governo; i Ministri, o ribaldi o inetti; Garibaldi quasi uno scemo. Errori parecchi, lo dicemmo noi pure, erano stati commessi; ma il La Farina, anzichè alleviarli coi consigli amichevoli e leali, coll’aspra e superba censura li ribadiva e peggiorava. Ostentando l’amicizia del conte di Cavour, atteggiandosi a suo unico interprete e rappresentante, anticipava in Sicilia lo scoppio di dissidii partigiani, che ancora non erano nati. Stimando panacea a tutti i mali la subita convocazione d’un’Assemblea siciliana che votasse a precipizio l’annessione dell’Isola alla Monarchia di Vittorio Emanuele, non adoperava nella predicazione di questo suo concetto, per tanti rispetti disputabile, alcuna cautela e misura. Fattosi centro d’una camarilla di nobili e di dottrinari, impazienti di porsi in tutela d’una Monarchia, e più pensosi certamente, in quel momento, del trionfo della lor parte che della redenzione d’Italia e della salute dell’Isola loro, in luogo di dar loro consigli di tolleranza e di prudenza, li pungolava, li aizzava, prestava la mano a tutte le mène o occulte o palesi, colle quali essi tentavano isolare il Dittatore da tutti i suoi amici, e renderlo stromento de’ loro disegni.
Il Crispi, vuoi per la naturale asprezza dell’indole sua, vuoi per l’infelice genía di persone di cui [129] aveva inondati i pubblici uffici, vuoi per la politica fin troppo rigidamente unitaria con cui sfatava le speranze e rompeva le trame dei regionali, partito antico e sempre potente nell’Isola, era infatti divenuto inviso a moltissimi e quasi impopolare. Però non tardò il giorno in cui i Palermitani, soffiando il La Farina, ne chiesero il congedo al Dittatore. Questi in sulle prime riluttò, repugnandogli giustamente di staccarsi da colui ch’egli reputava uno de’ più energici fattori della spedizione di Sicilia, e nella questione suprema della redenzione ed unità nazionale sapeva fido interprete ed esecutore delle sue più care idee. Tuttavia, per amor di concordia, s’era alla fine rassegnato a togliere a lui ed ai principali suoi compagni il portafoglio, eleggendo in lor vece un nuovo Ministero d’uomini creduti o neutrali o conciliativi, e sui quali per la dignità del nome e del carattere primeggiava il marchese di Torrearsa. Se non che, indi a pochi giorni avendo anche il Torrearsa rassegnato l’ufficio, questo passò subito al barone Natoli, probo Siciliano, appena tornato dall’esilio, ma amicissimo del La Farina. Poteva questi esserne soddisfatto; ma poichè Garibaldi, perdurando a confidare nel Crispi, l’aveva nominato Segretario della Dittatura, ecco riscoppiare anche più accese le ire del La Farina, cagione d’altre agitazioni e di nuove trame. A sentirlo, il Crispi era la rovina della Sicilia; imminente lo scoppio della collera popolare; fra una settimana, fra quindici giorni al più, certa la caduta della Dittatura e la fine di Garibaldi.[94]
Indarno parlava per questi la fedeltà da lui tenuta fino a quel giorno al programma di Marsala; indarno la ragione categorica che, proclamando subito [130] l’annessione, il moto fino allora felicemente avviato arenava e l’Italia, a cui un varco sì insperato s’era dischiuso, veniva arrestata nuovamente al Faro; indarno, infine, lo stesso conte di Cavour faceva raccomandare al La Farina di non affrettarsi ad agire «e di aver pazienza, dovendosi ad ogni costo evitare urti col Generale:[95]» il fervente emissario non sapeva nè avere nè dar pace, fin che venne il giorno in cui Garibaldi, stanco di quel fanatico cadutogli fra i piedi, perduta la pazienza, lo sfrattò dalla Sicilia in 24 ore.
Nè la piena giustizia del bando potrà essere contrastata. Il La Farina non era più che un cospiratore arrabbiato e pericoloso, e il governo nascente d’un paese in guerra non lo avrebbe potuto soffrire più a lungo senza mettere a repentaglio la salvezza dello Stato, di cui gli era stata commessa la Dittatura. Ma se la pena era meritata, il modo aveva offeso. I confini della incolpata tutela erano stati inutilmente violati; le dure necessità della guerra con un brutale oltraggio superfluamente inasprite.
L’articolo del Giornale Ufficiale di Palermo, col quale il bando del La Farina era annunciato assieme a quello di due spioni côrsi,[96] fu una selvaggia rappresaglia, [131] un lusso grossolano di durezza, che Garibaldi non doveva permettere se lo conosceva prima, e conosciutolo dopo doveva sconfessare e punire.[97]
Ciò detto, però, il torto del La Farina non cessa d’essere inescusabile; e chiunque abbia scorso quel suo triste Epistolario, in cui gli atti ed i pensieri del suo soggiorno in Sicilia sono riflessi come in uno specchio, potrà farne testimonianza. Volere l’annessione della Sicilia prima della sua compiuta liberazione, era un’insania; volerla quando da due mesi non v’era atto o parola di Garibaldi che non bandisse, affermasse, glorificasse il nome di Vittorio Emanuele, era ingiuriosa diffidenza e grossa gratitudine che conchiudeva alla peggiore delle politiche. La poteva giustificare un argomento solo: che l’Isola fosse in piena anarchia; ma quest’anarchia non era che un sogno del La Farina. La confusione era più alla superficie che al fondo; nessun arbitrio scandaloso, nessuna discordia pubblica era accaduta, e il prestigio del nome di Garibaldi era ancora sì grande, che bastava esso solo, come in quei primi mesi bastò, a tener luogo di governo e di leggi. Lo stesso conte di Cavour, che pure ingannato dalle amplificazioni lafariniane non vedeva dapprincipio altra salute che nell’annessione immediata, aveva finito per non reputarla più così urgente e necessaria come da prima aveva stimato, e il 30 giugno scriveva esplicitamente al Persano che, «se il generale Garibaldi non vuole l’annessione immediata, sia lasciato libero di agire a suo talento.[98]» Il La Farina adunque non poteva [132] dirsi nemmeno l’interprete fedele del pensiero del suo alto committente; egli lo esagerava, lo svisava, e dicasi pure per innocente zelo, da segnacolo di concordia che doveva essere, ne faceva un’arme di guerra, un tizzone di discordia, un lievito di partiti; rischiando egli per il primo di ritardare o guastare quell’unione, che tutti, e prima d’ogni altro Garibaldi, fermamente volevano.
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Frattanto il Medici aveva continuato la sua marcia; se non che giunto a Termini e di là udito che il presidio di Messina muoveva su Barcellona per guadagnarvi quell’importante postura e punire la città di non sappiamo quale riotta liberale, delibera accelerare il passo nella speranza di occupar Barcellona prima del nemico e di contrastargliela. E così accadde. Il Medici, giunto a Barcellona quando appena la vanguardia borbonica appariva a Milazzo, tolse a questa ogni voglia e ragione di procedere oltre; talchè al Comandante garibaldino avanzarono ancora alcuni giorni per dar riposo alle sue milizie e apparecchiar più pensatamente le mosse ulteriori.
A mezza tappa da Barcellona, a poche miglia da Messina, sorge una piccola terra detta Meri, che prende il nome dal torrentello dello stesso nome, il quale calando da’ monti di Santa Lucia mette foce nel mare. Il fiumiciattolo, asciutto molti mesi dell’anno, non oppone, specialmente nell’estate, alcun ostacolo d’acque; ma per il suo letto incassato, rotto e sassoso, e le ripe costeggiate da muraglie di orti o da siepi di aloe, può far le veci in caso di estremo bisogno d’un simulacro di difesa.
Oltre a ciò, di là da Meri correva dinanzi al villaggetto di Coriolo un rio dello stesso nome che veniva a tracciare, meglio che a formare, un’altra linea più avanzata, la quale avrebbe potuto aiutare non diremo ad arrestare, ma a ritardare d’alcun poco un’aggressione nemica. In questa posizione, la migliore che il terreno consentisse, decise di appostarsi il Medici, e barricata la strada presso il Coriolo; piantativi [134] in batteria due pezzi d’artiglieria accattati a Barcellona; colla destra a Santa Lucia; il centro e la sinistra lungo il Meri; gli avamposti tra Coriolo e San Filippo, si tenne, scarso di forze com’era, e conoscendo le soverchianti del nemico, nella più circospetta e serrata difesa.
I Borbonici invece accennavano a voler ripigliare l’offesa, non a dir vero per espresso comando del Governo napoletano, ma per occulta volontà dello stesso Francesco II. Infatti a Napoli erano accaduti, dal giorno della perdita di Palermo, alcune novità che importa brevemente rammentare. Re Francesco, impaurito dal montar sordo della rivoluzione, istigato da’ suoi consiglieri, o inetti o traditori, aggirato dalla Diplomazia, pressato da’ suoi stessi parenti, aveva finito col concedere una Costituzione, a cui nessuno, e primo di tutti il largitore, credeva. Cedendo poi così ai consigli dei suoi nuovi Ministri,[99] come agl’inviti capziosi del conte di Villamarina, ministro di Sardegna e manipolatore in Napoli di tutte le trame del conte di Cavour, s’era già indotto ad entrare in negoziati colla Corte di Torino, accettando per base alle trattative l’abbandono della Sicilia, se Garibaldi rinunciava ad invadere il Regno, l’alleanza col Piemonte e l’accordo con lui nella politica nazionale. A quale poi fra questi giuocatori di vantaggio, che di negoziatori leali avevan perduto ogni titolo, s’aspetti il primato della mala fede, sarebbe difficile il dire. Fra il conte di Cavour, che mentre negoziava con Re Francesco cospirava a subornargli l’esercito e la flotta, armeggiando contemporaneamente contro Garibaldi onde levargli di mano [135] l’impresa, e Liborio Romano, abbietto cittadino di Gand, che accettava il potere dalle mani del suo Re per tradirlo più al sicuro; fra il generale Nunziante, che oggi prometteva di farla finita col Filibustiere, e dimani nell’ora del pericolo abbandonava la bandiera che l’aveva fatto nobile e ricco, e non sapendo essere nè apertamente ribelle, nè religiosamente fedele, cospirava ad involgere nella sua perfidia i suoi antichi camerata,[100] e l’ammiraglio Persano che faceva l’assisa della Marina italiana mezzana e complice di tutte codeste frodi e di codesti mercati, la storia sarà incerta a cui dare la palma, ma certo l’ultima fronda non toccherà a Francesco II. Anch’egli, ingannato da tutti, sperava tutti ingannare; e mentre blandiva di promesse il popolo, gli aizzava contro segretamente la sua Guardia del Corpo; mentre giurava la Costituzione, sollecitava aiuti dall’Austria, dal Papa, dalla Russia; infine, mentre inviava i suoi Ministri a Torino per trattare dell’alleanza nazionale, e dicevasi pronto a rinunziare alla Sicilia, eccitava, all’insaputa de’ suoi [136] Ministri, i suoi Generali alla ripresa dell’Isola e li soccorreva per questo di nuove armi ed armati.
Codesto suo desiderio sarebbe rimasto forse inadempiuto, se non avesse trovato un fautore ardente, e un esecutore devoto ed intraprendente nel colonnello Beneventano Del Bosco, che già incontrammo a Salemi, al Parco, a Corleone; più vantatore forse che prode; ma certo uno degli ufficiali più popolari dell’esercito borbonico, il quale, indettatosi col Re, gli promise non solo di conservargli Milazzo, ma di passare sul corpo del Medici alla riconquista di Palermo.
Sbarcato infatti da più giorni a Messina, e compostasi una colonna di circa cinquemila uomini, fra i quali il suo ottavo Cacciatori, muoveva di là alla volta di Milazzo; e lasciato un battaglione di custodia alle importanti posizioni di Gesso, in sul mattino del 17 arrivava col grosso presso Archi, a breve tratto dagli avamposti garibaldini. Siccome però anche il Medici non era stato colle mani alla cintola, e fin dal mattino aveva spedito una delle sue compagnie a riconoscere al di là di Coriolo l’annunciato nemico, accadde che appunto presso Archi l’avanguardia regia e gli esploratori garibaldini si scontrassero e venissero alle mani. Il combattimento fu breve e di poco momento: molto, come al solito, il numero de’ Borbonici; molto il valore de’ Garibaldini; ma nè da una parte nè dall’altra alcun decisivo vantaggio.
Dopo questo però il Comandante borbonico, sia che volesse riconoscere più a fondo le forze e le posizioni dell’avversario; sia che sperasse con un subitaneo assalto sorprenderlo e sgominarlo (ciò è ancora controverso), deliberò di deviare per poco dalla via presa [137] e di attaccarlo nel giorno stesso, col grosso delle sue forze, nel centro delle sue linee. Ma o ricognizione o attacco, nulla di quanto il Bosco aveva premeditato gli riuscì. Assaliti quasi contemporaneamente dalla destra e dal centro, nessuno dei posti garibaldini indietreggiò d’un passo. Spiegatosi più furioso l’attacco contro la barricata della strada di Coriolo, questa tenne fermo; accostatosi il nemico e venuto l’istante della baionetta, la carica fu sì concorde, sì impetuosa, che i Regi andarono cacciati colla punta alle reni fino al di là di Coriolo, rischiando di perdere un cannone, che a stento salvarono. Il Medici però non poteva illudersi; era evidente che il Bosco, qual che fosse stato il suo scopo, non aveva impegnato che una parte delle sue forze; e il giorno in cui le avesse spiegate tutte, il rischio poteva esser grave. Telegrafò quindi al Comandante in capo il buon successo del 17, ma insieme i pericoli da cui era minacciato.
Ed all’annunzio Garibaldi deliberò di partir immediatamente pel campo. Fin dal 7 luglio, la terza spedizione del Cosenz, forte di ben millecinquecento uomini, ben armata ed istrutta, era giunta a Palermo e già incamminata per Messina; un altro battaglione, comandato dall’inglese Dunn, grosso non più che di quattrocento uomini, stava pronto alla partenza; il caso volle che proprio nella mattina del 18 quel battaglione, comandato da Clemente Corte, che era stato preso dai Regi in mare e tradotto a Gaeta, ora liberato dalla tediosa prigionía approdasse egli pure a Palermo; infine il 12 luglio il capitano Anguissola, comandante della corvetta regia la Veloce,[101] dando per [138] il primo l’esempio della rivolta, conduceva al Dittatore in Palermo il proprio legno e gliene faceva dedizione. Tutto sommato pertanto, Garibaldi possedeva già un principio di marina da guerra, e poteva portare al Medici un soccorso di circa duemila baionette, forza straordinaria al paragone di quella con cui aveva vinto fino allora.
Lasciata quindi la prodittatura al general Sirtori; avvisata la colonna del Cosenz di affrettare la marcia; presa seco sulla Veloce, ribattezzata col nome di Tükery (quel prode Magiaro, morto nella presa di Palermo), la gente del Dunn e del Corte, salpa il 18, mattina, per Patti; colà preso terra, continua in vettura col Cosenz, che l’aveva raggiunto, per Meri, dove arriva la sera del giorno stesso. Il suo arrivo suonava battaglia, lo intesero e glielo fecero intendere colla loro entusiastica accoglienza i volontari del Medici, e il presagio s’avverò.
Spesa la giornata del 19 ad esplorare co’ suoi Luogotenenti le posizioni del nemico, e ad attendere l’arrivo delle truppe in marcia, decise per l’indomani l’attacco di Milazzo.
Qu’est ce que c’est que Milazzo? chiedeva Napoleone I a suo fratello Giuseppe, quando meditava egli pure una spedizione in Sicilia. Quel che fosse allora esattamente, non sapremmo dire; quel che sia oggi, eccolo. Milazzo sorge alla base d’un istmo sottile, congiunto alla terra mediante tre strade principali, quella d’Archi e Spadafora all’oriente, che lo allaccia a Messina; quella di San Pietro Meri a mezzogiorno, e quella di Santa Marina Meri a occidente, che lo annodano alla strada consolare di Barcellona, quindi all’interno dell’Isola. La città, di circa diecimila abitanti, è cinta da vecchie mura, costrutta in pendío e coronata alla sua estremità settentrionale da un castello [139] a due piani di fortilizi, capace di alcune migliaia d’uomini e di parecchie batterie. Il terreno che lo circonda più arido a levante, più ubertoso a ponente, è, in generale, basso, coperto, privo d’orizzonte, intersecato da acque frequenti, frastagliato di case e di molini, irretito, a dir così, entro una maglia di viottole che corrono, nella parte coltivata, tra continue muraglie di giardini e di vigneti, e nell’incolta tra folti canneti, che cessano soltanto dove comincia la nuda e sabbiosa spiaggia del mare, detta di San Papino, dominata da tutte le feritoie del Castello. Ora non è chi non veda che siffatto terreno quanto è propizio a chi debba difenderlo di piè fermo, altrettanto è avverso a chiunque tocchi traversarlo palmo a palmo e conquistarlo di viva forza. Tuttavia Garibaldi confidò ancora nel valore de’ suoi, nel suo genio e nella sua stella, e decise la battaglia.
Semplicissimo come al solito, ma logico, chiaro, antiveggente il disegno. Giustamente prevedendo che il Bosco avrebbe rivolto il maggior suo sforzo contro la destra garibaldina, per tentare di sfondarla e piombare sulla sua linea di ritirata; non che temerla, delibera di invogliarlo a quella mossa; ma intanto che il nemico concentrerà il grosso delle sue forze sulla sua sinistra, attaccarlo col maggior nerbo della propria gente sulla destra e pel centro, camminando direttamente su Milazzo. A tal uopo ordina che il Malenchini si porti, per la strada di Santa Marina, contro la sinistra del nemico e appena scopertolo lo assalti; commette al Medici e al Cosenz di avanzare col reggimento Simonetta e il battaglione Gaeta per la strada di San Pietro, spingendosi pel centro e per la destra contro la città; affida a Niccola Fabrizi di occupare con un’improvvisata legione di Siciliani la strada [140] di Spadafora per antivenire una eventuale sortita del presidio di Messina; delibera infine che il battaglione Dunn e la colonna Cosenz, già partiti fino dall’alba da Patti, col battaglione Guerzoni, lasciato a guardia di Meri, formino la riserva.
Alle 5 del mattino tutti furono in moto: alle 7, il Malenchini aveva già aperto il fuoco presso San Papino; poco dopo anche il Medici incontrava al di là di San Pietro il nemico; e il combattimento s’accendeva su tutta la linea. Se non che il Bosco che, come Garibaldi aveva preveduto, teneva in serbo il massimo delle sue forze sulla sua sinistra, accoglie l’assalto del Malenchini con tale furia di mitraglia, che il prode Colonnello, malgrado i più gagliardi sforzi per contenere e riordinare le sue giovani milizie, è costretto a ripiegare rotto e disordinato sulla strada di Meri. Ciò eccedeva il desiderio di Garibaldi; egli voleva bensì impegnare in serio combattimento il nemico da quel lato; ma non certo lasciarlo padrone del terreno, e molto meno della sua linea di ritirata. Occorreva dunque riparare tostamente all’inatteso rovescio, e lo soccorse ancora il suo prodigioso colpo d’occhio. Ordinato al Cosenz di spingere il battaglione Dunn, arrivato per fortuna in quel punto, in sostegno del Malenchini, si caccia egli stesso, alla testa de’ Carabinieri genovesi e delle poche Guide, sul fianco del nemico per arrestarne la foga irrompente. Ma i bianchi del Dunn non sono in sulle prime più fortunati de’ neri del Malenchini:[102] chè uno squadrone di cavalli lanciato a tempo contro di loro, li mette in rotta, sperdendoli fra i canneti e le siepi che lungheggiano la via. In quel punto però [141] Garibaldi co’ Carabinieri riusciva sul fianco nemico, sicchè gli Usseri reduci dalla carica, poco dianzi vittoriosa, si trovarono fra due fuochi in faccia a Garibaldi, che intimava loro la resa. E accadde allora la famosa lotta a corpo a corpo di Garibaldi, sceneggiata a penna ed a matita in tante guise diverse; ma che sfrondata dalle frasche romanzesche avvenne veramente così.[103]
Il generale Garibaldi era a piedi, in un campo di fichi d’India, seguíto e attorniato dal Missori, dal capitano Statella dello Stato Maggiore, da due o tre altre Guide e da qualche quadriglia di Carabinieri appiattati qua e là dietro le siepi. All’arrivare della cavalleria, quanti erano presso il Generale cercarono di coprirlo del loro meglio; ma il Capitano borbonico galoppò direttamente su di lui, e senza sospettare qual nemico gli stesse di fronte, gli menò un terribile fendente, che l’avrebbe certamente tagliato in due se Garibaldi, parando con maravigliosa agilità e freddezza e ribattendo subito colpo con colpo, non avesse spaccato egli la testa del Capitano. Intanto anche il resto della scorta non si era rimasta inerte: il Missori con alcuni ben appuntati colpi di revolver rovesciava due o tre cavalieri; lo Statella, rimasto poco dopo ferito, ne atterrava un altro; i Carabinieri, le Guide si precipitarono per partecipare alla zuffa; sicchè di tutto quel bello squadrone di Usseri pochissimi rientrarono in Milazzo; la più parte rimasero sul terreno feriti o prigionieri.
Questo episodio aveva arrestato l’irrompere del nemico sulla sinistra; dal canto suo il Medici e il Cosenz, [142] rinforzati da nuovi soccorsi, guadagnavano a prezzo di preziosissime vite (pianta fra tutte la morte del maggiore Filippo Migliavacca, uno dei prodi di Roma e di Varese) nuovo terreno; ma la battaglia era tutt’altro che vinta. Il ponte del Coriolo, gli sbocchi dei canneti, le case dei sobborghi erano ancora in potere dei nemici; e non appariva chiaro nè con quante forze vi stessero, nè con quali avrebbero potuto esserne sloggiati.
A quel punto Garibaldi divinava il segreto della vittoria. Indispettito contro quelle bassure paludose e assiepate che gli impedivano di vedere gli andamenti della giornata, andava cercando intorno a sè un punto culminante d’onde dominare il campo; quando l’occhio gli cadde sulle antenne del Tükery, che sbarcata la sua gente a Patti arrivava per l’appunto nelle acque di Milazzo. Ora veder quel bastimento e fabbricarvi sopra un intero stratagemma di guerra, fu un punto. Raccomandata al Cosenz quell’ala della battaglia, si butta con pochi aiutanti in una barca, voga fino al Tükery; salitovi, arrampica sulla gabbia dell’albero maestro e di là scoperto finalmente tutto il teatro della battaglia, scende, fa accostare il Tükery a tiro di mitraglia, e aspettato che una colonna sortisse di Milazzo per riassalire la sua sinistra, la fulmina di fianco, l’arresta come tramortita da quell’inatteso attacco, e la costringe poco dopo a rientrare scompigliata in Milazzo.
Il colpo felice ridà tempo e lena ai Garibaldini; il Medici e il Cosenz hanno riordinato le loro truppe e le preparano ad un nuovo assalto. Garibaldi, fatto sbarcare dal Tükery un manipolo d’armati, probabilmente la scorta del bastimento, e mandatili a scaramucciare sul lato settentrionale del forte, ridiscende egli stesso [143] a terra a rianimare il combattimento sulla sinistra; le ultime riserve sono impegnate: il Guerzoni arriva al passo di corsa sul campo di battaglia; un ultimo assalto quindi è ordinato; i canneti a sinistra, il ponte di Coriolo di fronte, le case di destra, terribili strette, son tutte superate: i Cacciatori del Bosco mandano fuori dai loro ripari un fuoco infernale; le perdite degli assalitori sono numerose e dolorosissime; il capitano Leardi morto; il Corte, lo Statella, il Martini, il Cosenz stesso, feriti; ma il nemico è in fuga, la porta di Milazzo è presa; i Garibaldini sono in Milazzo.
Però non è ancora la vittoria: la pianta della città è tale, che un valido difensore ne può rendere esiziale il possesso. L’unica strada, lunga, erta, tagliata a mezzo da una vasta caserma, che potrebbe tener luogo d’un forte, mette, passando sotto un volto della caserma stessa, al Castello che la domina, quindi la spazza a suo beneplacito. Alcune compagnie risolute a difendersi in quella caserma, un fuoco ben nutrito dal Castello, e una nuova battaglia diveniva inevitabile. Fortunatamente il Bosco aveva già rinunciato a vincere. I difensori della caserma, dopo alcune scariche, cercano riparo nel Castello; i cannoni del forte non rallentano ancora, ma i Garibaldini con due rapide corse si son già portati fuori del tiro; già investono, già serrano il Castello da ogni parte, e prima del mezzogiorno piantano le loro sentinelle a’ piedi delle sue mura.
La battaglia di Milazzo fu la più sanguinosa tra le combattute dalle armi garibaldine nel Mezzogiorno. Degli assalitori sopra non più che quattromila combattenti, settecento tra morti e feriti restarono sul campo; più d’un sesto quindi della forza, proporzione enorme nelle guerre moderne. I Regi invece si gloriarono di non aver perduto che centosessantadue uomini [144] sopra milleseicento: ridevole menzogna e incauto vanto insieme! Menzogna ridevole, poichè a tutti è noto che il solo Bosco condusse in Milazzo un cinquemila uomini; vanto incauto, più degno di commiserazione che di plauso, poichè se così scarse furono le perdite dei vinti, non ha più giustificazione l’abbandono, in men di tre ore, di posizioni formidabili; e la sconfitta che potrebbe essere giustificata dalla gravità dei danni patiti, non si spiega più se non colla dappocaggine dei vinti.
Il 21 passò in entrambi i campi a contarsi e riposare; il 22 apparvero inaspettati nel porto di Milazzo, prima due grossi legni mercantili francesi, poi un avviso da guerra, La Muette, della stessa bandiera, i quali venivano, noleggiati dallo stesso Governo di Napoli, per imbarcarsi le truppe del Bosco e trasportarle sul Continente. Quando però seppero della giornata antecedente e videro il Bosco bloccato nel suo forte, tre di quelle navi partirono, e solo il Protis restò per farsi mediatore, insieme al Capitano del Porto, d’un trattato di resa. E i Comandanti delle due parti non si ricusarono al negoziare; ma Garibaldi chiedeva la resa a discrezione, minacciando far saltare il Bosco e la sua truppa dalle rupi del Castello; il Bosco pretendeva la sortita libera coll’onore delle armi, preferendo, diceva, ad una resa disonorata saltare in aria con una mina; talchè l’accordarsi, se le parole dicevano il vero, pareva impossibile.
Nella mattina del 23, altra e più grande sorpresa: quattro fregate napoletane entravano nelle acque di Milazzo e si schieravano in battaglia dinanzi alla [145] città. A che venivano esse? Forse ad aiutare i bloccati? Forse a ricominciare la lotta? Tale fu per alcuni istanti il sospetto anche di Garibaldi; ma non andò guari che ogni cagione d’allarme cessò. Quelle quattro navi venivano come quelle del giorno precedente per imbarcare il presidio del Castello, e di più portavano a bordo il colonnello di Stato Maggiore Anzani per trattare della cessione del forte e di tutte le altre condizioni relative all’imbarco ed alla resa.
Ora questo fatto, di cui occorrerà tra breve la spiegazione, vinse tutte le incertezze. Il Bosco, da un lato, non aveva più nè motivo nè diritto di ostinarsi in una difesa che il suo stesso Governo non approvava; Garibaldi doveva benedire quelle quattro fregate che venivano a liberarlo da un grande fastidio, se già non dovesse dirsi da un serio pericolo; poichè se il Comandante borbonico resisteva, prendere a forza di baionette, senza una sol bocca d’assedio, un Castello cortinato e terrapienato, era cosa, anche a Garibaldi, più facile a minacciarsi che a mantenersi.
Ne conseguì che la sera stessa del 23 i negoziati furono ripresi collo stesso colonnello Anzani, e al mattino vegnente una Convenzione era già sottoscritta, per la quale la truppa napoletana abbandonava il Castello di Milazzo in armi e bagaglio e con tutti gli onori della guerra; e il forte veniva consegnato al generale Garibaldi «con cannoni, munizioni, attrezzi da guerra, cavalli, bardature degli stessi e tutti gli accessorii appartenenti al forte, come all’atto della stipulazione della Convenzione si trovavano.[104]»
E si badi che nessuno de’ cavalli, nemmeno quelli degli ufficiali, molto meno quelli del colonnello Bosco, [146] furono eccettuati. Che se a taluno questa condizione a nemico patteggiato sembra insolita e dura, eccone la spiegazione. Avendo i patriotti messinesi presentato il colonnello Medici d’un superbo cavallo, il Bosco, fedele alla sua indole millantatrice, s’era fatto sentire co’ donatori che tra poco sarebbe rientrato in Messina proprio su quel cavallo da essi regalato al suo compatito avversario. Ora come le sorti dell’armi posero il colonnello Bosco tra i vinti, parve giusta rappresaglia ch’egli dovesse cedere al vincitore precisamente quel medesimo onore ch’egli s’era vantato di prendersi da lui, e che invece del Bosco sul cavallo del Medici, i Messinesi dovessero salutare trionfante nella loro città il Medici sul cavallo del Bosco.
E così avvenne. La risoluzione presa dal primo Ministero di Francesco II, di rinunciare alla Sicilia per salvare il rimanente del Regno, stornata un istante, siccome dicemmo, dagli occulti complotti della Corte e dall’inane tentativo del colonnello Bosco, era stata ripresa con più fermo proposito da un secondo Ministero,[105] e quelle quattro navi che vedemmo apparire nelle acque di Milazzo e portarne via i difensori, non erano in fatto che le prime esecutrici di quella nuova politica di sottomissione o rassegnazione che il Gabinetto di Napoli inaugurava. Ora quelle medesime navi avevano portato lo stesso ordine al generale Clary, governatore di Messina, il quale dopo alcune finte di resistenza finiva col sottoscrivere egli pure col generale Medici [147] la resa della città, salva soltanto alle truppe regie la cittadella, la quale però non poteva compiere alcun atto di ostilità fino a che i Garibaldini rispettassero la condizione di non assalirla.
Liberata così tutta la Sicilia, padrone di Messina, Garibaldi affissò tutti i suoi pensieri in un punto solo: la passata dello Stretto e l’invasione delle Calabrie.
Nè da questo scopo nulla valeva a distoglierlo; non le suggestioni politiche, non le difficoltà militari. Alcuni giorni dopo la sua entrata in Messina, il re Vittorio Emanuele gli aveva inviato, per mezzo del conte Giulio Litta, la lettera seguente:
«Generale,
»Voi sapete che io non ho approvato la vostra spedizione, alla quale sono rimasto assolutamente estraneo. Ma oggi, la posizione difficile, nella quale versa l’Italia, mi pone nel dovere di mettermi in diretta comunicazione con voi.
»Nel caso che il Re di Napoli concedesse l’evacuazione completa della Sicilia dalle sue truppe, se desistesse volontariamente d’ogni influenza e s’impegnasse personalmente a non esercitare pressione di sorta sopra i Siciliani, dimodochè essi abbiano tutta la libertà di scegliersi quel Governo che a loro meglio piacesse, in questo caso io credo che ciò che per noi tornerebbe più ragionevole sarebbe di rinunziare ad ogni ulteriore impresa contro il Regno di Napoli. Se voi siete di altra opinione, io mi riservo espressamente ogni libertà d’azione, e mi astengo di farvi qualunque osservazione relativamente ai vostri piani.»
Ora, fino a qual punto questa lettera potesse ingannare la sonnacchiosa, ma non istupidita Diplomazia, è dubbio assai; certo ella pareva fatta piuttosto per raffermare il proposito del Dittatore che per iscrollarlo. Vecchia d’un mese, essa aveva perduto ogni [148] valore d’opportunità. Il Re vi dava un consiglio a Garibaldi, movendo da fatti che erano totalmente cambiati. Ciò che, in un certo rispetto, poteva esser vero quindici giorni dopo la presa di Palermo, non lo era più dopo la battaglia di Milazzo e l’entrata in Messina. La condizione imposta da Vittorio Emanuele al passaggio del Faro era già in gran parte adempita. I Borboni avevano oramai sgombrata la Sicilia, ed essa era arbitra de’ suoi destini. Garibaldi adunque poteva trovare nella lettera regale piuttosto un nuovo argomento per affrettarsi che per arretrarsi. Restava, è vero, quella clausola che i Siciliani fossero liberi di eleggersi il Governo che loro tornasse più gradito, la quale poi si traduceva ancora nel vecchio programma dell’annessione immediata; ma senza dire che anche questa condizione era annullata dagli stessi argomenti che infirmavano tutta la lettera, sappiamo che su quel punto dell’annessione Garibaldi era incrollabile, e sappiamo altresì che non gliene mancavano le ragioni. Rispose quindi al Re con questa lettera altrettanto celebre:
«Sire,
»La Maestà Vostra sa di quanto affetto e riverenza io sia penetrato per la sua persona e quanto brami d’ubbidirla. Però Vostra Maestà deve poi comprendere in quale imbarazzo mi porrebbe oggi un’attitudine passiva in faccia alla popolazione del Continente napoletano, che io sono obbligato di frenare da tanto tempo, ed a cui ho promesso il mio immediato appoggio. L’Italia mi chiederebbe conto della mia passività, e ne deriverebbe immenso danno. Al termine della mia missione io deporrò ai piedi di Vostra Maestà l’autorità che le circostanze mi hanno conferito, e sarò ben fortunato d’obbedire per il resto della mia vita.»
[149]
Ora, questo è notabile, che la risposta di Garibaldi non solo corrispondeva ai desiderii mal celati del Re Galantuomo, ma in quel momento s’accordava col pensiero più intimo dello stesso conte di Cavour. Egli infatti fino dal 25 luglio, udita la vittoria di Milazzo, scriveva al Persano:[106]
«Dopo sì splendida vittoria io non vedo come gli si potrebbe impedire di passare sul Continente. Sarebbe stato meglio che i Napoletani compissero, od almeno iniziassero l’opera rigeneratrice; ma poichè non vogliono, o non possono muoversi, si lasci fare a Garibaldi. L’impresa non può rimanere a metà. La bandiera nazionale inalberata in Sicilia deve risalire il Regno ed estendersi lungo le coste dell’Adriatico, finchè ricopra la regina del mare.[107]»
Soltanto circa un punto il conte di Cavour non aveva mutato parere, e s’immagina quale: la pronta annessione. Sentendo però quanto fosse vano il tentare la posizione di fronte, pensava come al solito a girarla di costa, sperando che a ciò l’avrebbero aiutato, oltre che l’ingegno e le circostanze, lo stesso Prodittatore che Garibaldi s’era chiamato al fianco. Avremmo infatti dovuto dir prima che il generale Garibaldi fino dalla metà del giugno aveva ceduto al consiglio di chiamare in Sicilia un uomo di grido e di autorità politica, il quale assumesse la grande bisogna dell’ordinamento [150] dello Stato e lo rappresentasse come suo Vicario o Prodittatore in tutti gli attributi del reggimento civile.
Nella scelta della persona ondeggiò alquanto. Egli avrebbe preferito, o Giorgio Pallavicino, o Carlo Cattaneo; il Persano gli suggeriva invece Agostino Depretis; il Re ed il Cavour gli profferivano Valerio; ma infine, essendosi Garibaldi deciso per il Depretis, ogni opposizione alla sua nomina cessò, e verso la metà del luglio questi partì Prodittatore per la Sicilia.
Il conte di Cavour aveva torto di diffidare di lui. Agostino Depretis non era de’ suoi amici, ma circa al problema dell’annessione era pienamente d’accordo con lui; non la voleva, è vero, precipitata e violenta; meditava prepararla a poco a poco, renderla necessaria, ottenerla amichevolmente dalle mani di Garibaldi, non strappargliela: ma infine la voleva quanto il Cavour stesso, e più che ad un Ministro di Garibaldi si convenisse. Però quando il 22 luglio si presentò a Garibaldi in Milazzo il Prodittatore non svelò tutto il suo pensiero; si dimostrò anzi impaziente di dare un assetto stabile allo Stato, promulgandovi al più presto lo Statuto e gli ordinamenti piemontesi (il che fece tosto con molta lode sua); ma delle sue idee annessioniste non fece motto; crescendo così subito nella fiducia del Generale, ma preparandosi a perderla fra breve.
[151]
Se la passata nel Regno era caldeggiata da quei medesimi che prima l’avevano sconsigliata, l’eseguirla era impresa assai meno facile di quanto, anche ai credenti nel genio e nella fortuna di Garibaldi, potesse apparire.
L’esercito borbonico, non ostante le defezioni e le perdite, poteva sempre mettere in linea un centomila uomini, e Garibaldi, sommati insieme i Mille, le tre spedizioni Medici, Cosenz e Sacchi, la brigata Türr di stanza a Catania e la brigata Bixio staccata a Taormina,[108] non riusciva a rassegnarne diecimila. La flotta nemica teneva sempre il mare con dieci fregate e cinque corvette a vapore, due vascelli e quattro fregate a vela, senza contare i legni minori; e a tutte quelle moli era già molto se la nascente marina siciliana poteva contrapporre quattro o cinque piroscafi armati per ripiego, ed assolutamente incapaci, non che a misurarsi col potente avversario, di recare, ad una [152] impresa tanto fortunosa qual è sempre uno sbarco di truppe, alcun valido soccorso. E v’ha di peggio. La posizione dei Regi sullo Stretto era formidabile. Dodicimila uomini protetti da una fitta linea di forti guardavano da Bagnara a Reggio la costa calabrese; due grosse fregate, il Fieramosca e la Fulminante, fiancheggiate da legni minori correvano il Canale e vi spadroneggiavano, infine sulla stessa costa sicula possedevano nella cittadella di Messina un posto avanzato, il quale, se altro non poteva, s’insinuava pur sempre come una spia insidiosa nel campo garibaldino e nuoceva al segreto ed alla libertà delle sue mosse.
Primo pensiero di Garibaldi perciò fu di uscire dalla città al più presto e di trapiantarsi a Punta di Faro. E fu ispirazione provvidenziale. Nessun luogo più opportuno all’impresa che Garibaldi apparecchiava, di quella specie d’Istmo che costituisce la estrema punta settentrionale dello Stretto e che, ora dalla sua forma e giacitura, ora dalla torre che l’illumina, si chiama alternamente, Punta, Capo o Torre di Faro. Posta tra l’alto mare e la parte più angusta dello Stretto, essa era al tempo stesso un agguato, una sfida ed uno zimbello. Un agguato, perchè nascondeva sempre la doppia opportunità, o di traversare all’improvviso il Canale o di gettarsi al largo per rischiare uno sbarco sopra un altro punto della costa napoletana; una sfida, perchè minacciava, come un’opera avanzata, la riva nemica, e opportunamente armata poteva ribattere i fuochi de’ suoi forti e delle sue batterie; uno zimbello, perchè costringeva i Regi a tenervi fissi gli occhi, ed a perdere di vista, per quel solo, tutti gli altri punti.
Nessuno pertanto di questi vantaggi era sfuggito all’occhio esperto del nostro Capitano; e senza aver [153] in mente alcun concetto definito e compiuto deliberò frattanto di fare di quella lingua di terra, obliato nido di pescatori, la base delle sue operazioni e il campo delle sue forze.
Eccolo quindi trasferire colà il suo Quartier generale: riunirvi le due brigate Medici e Cosenz, tenendo pronta a raggiungerle quella del Sacchi; farvi costruire batterie, ordinando all’Orsini di montarvi i cannoni di grosso calibro presi a Milazzo ed a Messina; raccogliervi infine, sotto gli ordini del Castiglia, un centinaio di barche da pesca, che dovevano nella mente sua comporre la flottiglia da sbarco, e tener il posto delle fregate da guerra di cui il nemico andava superbo.
Convintosi però che uno sbarco in massa, di viva forza, lungo lo Stretto, era impossibile, Garibaldi deliberò sperimentare in sulle prime il sistema dei colpi di mano, delle sorprese, degli assalti alla spicciolata, mercè i quali afferrare un caposaldo sulla riva opposta e preparare un colpo più decisivo. Infatti, nella sera dell’8 agosto, commetteva al calabrese Musolino di tentare, con una scelta mano di volontari (lo secondavano come ufficiali, Missori, Alberto Mario, Vincenzo Cattabeni), la sorpresa del forte Cavallo, e la sommossa dell’ultima Calabria; e tre sere dopo, ordinava a Salvatore Castiglia di sbarcare presso Alta Fiumara con altri quattrocento uomini, che dovevano andare in rincalzo de’ primi e impadronirsi con essi di qualche punto della costiera. È vero che nessuno di questi tentativi riuscì: Musolino al primo colpo di cannone del forte, veduta impossibile la sorpresa, non tentava nemmeno l’assalto e si rifugiava nei forestali dell’Aspromonte; le barche del Castiglia, fulminate dai fuochi incrociati delle fregate e delle batterie di terra, [154] erano costrette a virar di bordo e a ricorrere più che frettolose sotto la tutela del Faro; ma ciò non ostante chi reputasse questi conati tutti del pari infruttuosi, s’ingannerebbe a partito. Se altro buon effetto non erano atti a produrre, questo di certo fruttavano: stancheggiavano con allarmi e marcie continuate il nemico; ne dividevano le forze e ne confondevano le idee, e sopra ogni cosa lo confermavano e quasi indurivano nell’errore che unico disegno degl’invasori fosse la traversata diretta del Canale: errore che Garibaldi aveva veduto nascere con gioia, ch’egli stesso s’era studiato di nutrire e di crescere, e che gli aprirà tra breve le porte del Regno.
Quando infatti vide i Borbonici ben bene sprofondati nell’illusione, e fu certo ormai che tutti i loro sguardi e tutte le loro forze erano converse all’unico punto del Faro, Garibaldi commette al Sirtori il comando supremo dell’esercito, gli raccomanda di continuare come prima in quelle finte e in quegli apparecchi che avevano tanto giovato fino allora, e la notte del 12 scompare.
Dov’era andato?
In sullo scorcio di giugno Agostino Bertani spronato dal Mazzini, ma assenziente Garibaldi, aveva posto mano all’ordinamento d’una spedizione destinata ad invadere gli Stati pontificii, e se la fortuna secondava a spingersi anche nel Regno.
Il corpo (novemila uomini al più), commesso al comando supremo di Luigi Pianciani, uomo più politico che guerresco, era diviso pomposamente in sei brigate: una delle quali, agli ordini di Giovanni Nicotera, [155] veniva ordinandosi a Castelpucci poco lunge da Firenze e doveva da quel lato penetrare nell’Umbria fino a Perugia; un’altra si raccoglieva nelle Romagne ed aveva per obbiettivo le Marche; mentre le altre quattro erano già radunate tra Genova e la Spezia col disegno di sbarcare sulla costa pontificia in vicinanza di Montalto e là per Viterbo rannodarsi alle altre colonne.
Che una siffatta impresa non potesse essere tollerata dal Governo di Vittorio Emanuele, s’intende da sè. Ogni istituzione vive della logica sua. La Monarchia non poteva abbandonare il Papato alle mani della rivoluzione senza esporsi o ad esautorare sè stessa, se la rivoluzione trionfava, o a rovinare l’Italia, se la rivoluzione soccombeva. Oltre di che era da cansare il pericolo sommo che la rivoluzione trascorrendo, com’è natura sua, andasse a dar di cozzo contro Roma, scatenando dalle violate mura la collera della Francia, e i fulmini dell’intera Cattolicità. Importava dunque che una siffatta spedizione fosse comunque impedita, e il Gabinetto di Torino deliberò che la fosse ad ogni costo. Diverso però, secondo la diversa mente degli esecutori, il metodo d’esecuzione. Mentre il barone Ricasoli, sempre governatore di Toscana, ubbidendo alla sua rigida, ma schietta natura, scioglieva senz’altro la brigata di Castelpucci, sostenendo per alcune ore lo stesso Nicotera, il Farini deliberava appigliarsi piuttosto al sistema dei temporeggiamenti e degli artificii, e recatosi a Genova si studiò persuadere il Bertani stesso a rinunciare all’ideata impresa. In sulle prime il delegato di Garibaldi resistette; ma il Ministro di re Vittorio avendo alla fine smascherato il suo fermo proposito d’impedire la divisata spedizione anche colla forza, le due parti vennero pel [156] minor male ad un compromesso, mercè del quale tutte le truppe predisposte all’impresa di Roma s’imbarcherebbero in più riprese per la baia di Terranova, nell’isola di Sardegna, e di là non appena radunate continuerebbero per Sicilia, onde mettersi quivi agli ordini di Garibaldi.
Fino a qual punto però un siffatto componimento fosse sincero, sarebbe prudente non scandagliare. Certo nessuno de’ due contraenti svelò chiaramente il suo pensiero: vecchi cospiratori entrambi, entrambi convinti di giovare alla patria, facevano probabilmente a chi meglio gabbava l’altro. Il Farini intanto che concedeva la radunata in Sardegna, spiccava bastimenti da guerra perchè obbligassero i volontari, mano mano che arrivavano al convegno, a continuare per la Sicilia; il Bertani, mentre s’era impegnato a proseguire per Palermo, faceva intendere ai Comandanti la mèta vera della spedizione esser sempre le coste romane, verso le quali appena radunato il naviglio dovevano essere drizzate le prue. Ciò stabilito pertanto, ciascuno a seconda del suo disegno si mise in moto. Al finire del luglio la sciolta brigata di Castelpucci, passata al comando di Gaetano Sacchi, sbarcava tranquillamente a Palermo, e passava tosto ad ingrossare le schiere del Faro: poco dopo Agostino Bertani arrivava a Messina ad annunziare al Dittatore l’avvenuto compromesso; ai 13 di agosto il Farini pubblicava un bando inutilmente provocatore, in cui, sconfessate tutte le passate spedizioni, vietava le presenti e le future, e proclamava l’Italia dover essere degl’Italiani, non delle sètte; una cannoniera della marina sarda, la Gulnara, navigava per Terranova onde aspettarvi al varco i volontari e forzarli a proseguire per Palermo; le due brigate infine, nominate dai loro comandanti Eberhardt [157] e Tharrena, grosse non più che di duemila uomini ciascuna imbarcati sui due piroscafi il Franklin e il Torino, approdavano nel pomeriggio del 13 agosto nel Golfo degli Aranci, dove però, trovata la Gulnara e da essa ricevuta l’intimazione di continuare la rotta volenti o nolenti, mormoranti o rassegnati, ubbidirono.
Ed ecco la cagione della scomparsa di Garibaldi dal Faro. Toccata con mano, dopo quindici giorni di vani sperimenti, la difficoltà del passaggio dello Stretto, misurata l’esiguità delle proprie forze e persuaso che in essa stava il maggior ostacolo all’impresa; udito dal Bertani che in Sardegna stava aspettando una bella ed agguerrita legione di circa ottomila armati, co’ quali poteva d’un colpo solo addoppiare il suo esercito; convinto anche più che la spedizione romana, utile un tempo, era divenuta intempestiva e che a Roma si poteva marciar più spediti e sicuramente per la via di Napoli, delibera, quasi all’improvviso, di correre egli stesso nel Golfo degli Aranci a prendere quel prezioso soccorso e portarselo seco in Sicilia.
Di tutte le azioni di Garibaldi questa fu quella che i repubblicani gli perdonarono meno; ma pochi converranno nella loro sentenza. Certamente egli, non che approvata aveva consigliata e affrettata la spedizione negli Stati pontificii; talchè fa meraviglia che nel suo libro de’ Mille, dopo d’averla dichiarata inutile, anzi nociva, la rinfacci poi con amare parole a coloro che pur la ordinarono e apparecchiarono col suo esplicito consenso, stimolati e spinti fino all’ultimo istante da lettere e telegrammi suoi, che lo scrittore dei Mille, più labile di memoria del loro Capitano, può aver dimenticato, ma che la storia non può scancellare.[109]
[158]
Ma ciò detto, il torto di Garibaldi si ferma qui. Generalissimo di tutte le forze popolari in Italia, Dittatore d’uno Stato, garante in quell’ora delle sorti della patria che a lui principalmente si affidava, egli non solo aveva il diritto di muovere le sue insegne e mutare i suoi disegni a seconda delle opportunità, e giusta il criterio ch’egli via via se ne formava; ma n’aveva il preciso dovere. Pessimo de’ Capitani colui che ad una male intesa fedeltà a formole preconcette e convenzioni partigiane sacrifica la vittoria, prima e suprema sua norma. I Mazziniani che consideravano di quella spedizione più l’aspetto politico che militare, potevano credere sufficiente trionfo della parte loro, anche la sola iniziativa; ma di questo Garibaldi, uomo di guerra, non poteva appagarsi.
Più che alla gloria d’un partito egli guardava alla grandezza d’Italia, e in ciò stava la sua eccellenza.
Che fossero primi a entrare nelle Marche e nell’Umbria le camicie rosse o i cappotti bigi: che di far l’Italia egli dovesse dividere l’onore con Vittorio Emanuele nulla gli caleva, se non è anche più giusto il dire che gli caleva questo solo: di veder tutti gli Italiani uniti e concordi affinchè la grand’opera si compisse più presto. Oltre di ciò era naturale che giunto vittorioso al Faro, e in procinto di tentare un [159] altro passo decisivo, egli reputasse assai più saggio afforzarsi nel suo campo per fornire prestamente la ben incominciata impresa, anzichè sperdere le sue forze in un’avventura nuova, lontana e piena tuttora d’alea e di difficoltà, osteggiata dal Governo nazionale, temuta da buona parte degl’Italiani, e conducente ad una mèta, se pur vi conduceva, alla quale per una via più lunga, ma più certa, poteva e voleva arrivare quando che sia egli stesso.
E il successo gli diede ragione. Lasciato nella notte del 12 il Faro, delude prodigiosamente la crociera borbonica e dà fondo, sul mattino del 14, nel Golfo degli Aranci. Colà ode che le due brigate (quella Eberhardt e Tharrena, di cui dicemmo) son già in viaggio per Palermo; ma ci trova invece il grosso di altre due (Gandini e Puppi) raggiunte nella giornata stessa dai loro distaccamenti e dall’intero Stato Maggiore della spedizione col Pianciani in persona. Allora si presenta improvviso a quella gioventù già devota a lui più che non volesse parere; vince col fáscino della parola e anche più dell’aspetto gli scrupoli degli uni, la repugnanza degli altri, e preso, colla sicurezza di chi non teme di vederselo contrastato, il bastone del comando, fa prima un’escursione a Caprera, saluto del Leone alla diletta sua tana, e tornatone, ordina senz’altro che tutta la squadriglia lo segua a Cagliari e di là prosegua per Palermo, dove egli stesso nel mattino del 17 approda.
Nè a Palermo perde il tempo. La brigata Eberhardt era già stata avviata sul Torino a raggiungere il Bixio a Taormina; ora s’imbarca egli stesso scortato dal battaglione [160] Chiassi sul Franklin: fa egli pure il giro dell’Isola; arriva il 19 mattina a Taormina; comanda al Bixio, che aveva sospirato quel comando per lunghi giorni, d’imbarcare tutta la gente raccolta, circa quattromila uomini, su due vapori venuti da Palermo; udito però che le navi hanno bisogno di urgenti raddobbi, si fa per alcuni istanti carpentiere e si mette egli stesso coll’ascia e col martello a tappare falle e piantar chiavarde, e quando tutto è lesto, pigiati in quei due piroscafi, pieni di avaríe e di magagne, quei quattromila uomini, nella notte del 19 sferra da Taormina; corre tutta quella notte, non visto, non sospettato, nella direzione di greco, e ai primi albori del 20 afferra presso Melito, tra Capo dell’Armi e Capo Spartivento, l’estrema spiaggia calabrese.
Il Torino s’era arenato; Garibaldi dapprima aveva tentato di liberarlo facendolo tirare a rimorchio dal Franklin, ma non gli era riuscito. Allora non volendo lasciar quella preda ai nemici, s’era deciso ad andar egli stesso al Faro in cerca d’un soccorso qualsiasi; quando fatti pochi nodi vide arrivargli addosso due vapori della flotta borbonica, l’Aquila e la Fulminante, i quali appena scoperte sul far del giorno le antenne delle due navi garibaldine accorrevano a tutto vapore contro di loro coll’intento e la speranza di catturarli assieme a tutti gli imbarcati.
A Garibaldi allora non restò che retrocedere e buttarsi a salvamento sulla costa calabrese abbandonando alla sua sorte il Torino, che infatti bombardato prima dai legni, poi saccheggiato e dato alle fiamme dagli equipaggi borbonici, colò lentamente a fondo.
Tutti gli armati però ne erano discesi; il Bixio s’era già impadronito del telegrafo; il Missori subentrato [161] al Musolino nel comando militare della banda d’Aspromonte, richiamato al tempo stesso da un biglietto di Garibaldi e dal fragore della cannonata borbonica, s’era accostato di monte in monte a Melito; la strada littoranea era tutta sgombra fin presso a Reggio; non restava che impadronirsi di Reggio medesima, e il Generale volle che nella notte stessa ne fosse tentato l’assalto.
Reggio è munita al mare da un forte, al monte da un castello, ed era a que’ giorni difesa da circa duemila uomini comandati dal vecchio generale Gallotti. Avendo però gli abitanti chiesto al Comandante borbonico di risparmiare alla città un combattimento nelle vie, egli pietosamente consentì, chiudendo parte de’ suoi nel Castello e andando ad appostarsi col rimanente, non più d’un migliaio, lungo una fiumara asciutta, scorrente a mezzogiorno della città, ma che non gli poteva servire di schermo alcuno. Infatti essendo stato deciso che l’Eberhardt attaccasse per la sinistra e il Bixio per la destra, questi potè girare gli avamposti del nemico, prima che egli se ne fosse avveduto, e spiegatosi l’assalto costringerlo a riparare frettolosamente nell’abitato. Qui però la resistenza degli assaliti fu più gagliarda; e avrebbe anche fatto costar più cara la vittoria degli assalitori, se il Chiassi, a capo di due compagnie della brigata Sacchi, non fosse piombato di costa sul nemico, e non ne avesse affrettato lo scompiglio e la ritirata. Restava però ai Regi il Castello; e quivi infatti si ritrassero, disposti, pareva, a nuova e più lunga resistenza; il che, a Garibaldi, bisognoso d’impadronirsi di Reggio prima che [162] le colonne del Briganti e del Melendez, accampate tra San Giovanni e Piale, arrivassero al soccorso, dava non poco pensiero. Fortunatamente la comparsa del Missori sulle alture sovrastanti al Castello, e alcuni colpi ben appuntati de’ suoi, persuasero i difensori d’essere totalmente circondati; e nel pomeriggio del giorno stesso li indussero ad innalzare bandiera bianca. Garibaldi, com’era sua arte e suo proposito, fu nei patti liberalissimo: alle truppe libera l’andata alle lor case o dove gradissero; agli ufficiali salva la spada e le robe private; solamente il materiale del forte, cinquantotto pezzi di vario calibro e cinquecento fucili, senza dire delle buffetterie e delle munizioni, in mano del vincitore.
Ma la vittoria di Reggio era ben presto coronata da un’altra più importante e decisiva. Nella notte dal 21 al 22 il generale Cosenz imbarcata sopra la flottiglia del Faro parte della sua divisione, i Carabinieri genovesi e la Legione estera, riusciva ad afferrare la sponda calabra poco lontano da Scilla, ed a trovarsi così alle spalle della brigata Briganti, accampata, come dicemmo, nei dintorni di San Giovanni.
A questo annunzio Garibaldi, che s’era già mosso con tutte le forze contro il Briganti, non esita un istante; lo serra più dappresso, ai fianchi e di fronte, e quando è ben certo d’averlo circuito, gli intima senz’altro la resa a discrezione. Avrebbe forse resistito il Generale borbonico, se la soldatesca, ormai svogliata di combattere, diffidente de’ suoi ufficiali, e dagli ufficiali stessi corrotta, disamorata d’una bandiera che pareva portasse fatalmente nelle sue pieghe la sconfitta e l’ignominia, carezzata soprattutto dall’idea di tornare a’ suoi focolari, come il presidio di Reggio, non avesse fatto sedizione e costretto il suo [163] Generale a subire il patto umiliante. Allora si videro novemila uomini d’ogni arma, ricchi d’artiglieria, protetti da batterie d’acqua e di terra, abbassare l’armi innanzi a seimila scamiciati; e quali patteggiati, quali no, andarsene ciascuno a beneplacito suo, a stormi, a branchi, a coppie; facendo di sè lunga riga per tutte le vie del Regno; qua trafficando, là gettando le armi; vivendo di ruba e di limosina; stendendo talora la mano agli stessi Garibaldini che li cacciavano innanzi; dove passando umili ed innocui, dove lasciando traccia di prepotenze e di delitti: più atroce di tutti quello perpetrato a Melito, dove abbattutisi in quel misero generale Briganti, a cui essi pei primi avevano imposto il disonore, non seppero meglio nascondere la vergogna del proprio tradimento che gridando lui traditore (solita accusa delle soldatesche vinte contro i Capitani infelici); e giubilanti d’aver nelle mani una vittima espiatrice dell’onta comune, selvaggiamente lo trucidarono.
Da quel giorno lo sfacelo continuò colla celerità spaventosa d’una putrefazione. Padrone delle due rive del Faro e di lungo tratto della sponda tirrena, raccolti ormai nelle Calabrie da venti a venticinquemila uomini, e libero di farli avanzare per terra e per mare secondo i casi e le opportunità; acclamato, festeggiato, portato sulle braccia dalle popolazioni accorrenti in armi sui suoi passi, Garibaldi s’innoltrava verso Napoli colla rapidità d’una folgore e la maestà d’un trionfo.
Bellum ambulando perfecerunt, fu detto dei Cesariani nella Gallia, e così poteva dirsi di Garibaldi. [164] La sua non era una guerra, era una passeggiata militare. La rivoluzione non lo scortava soltanto, lo precedeva. Fino dal 17 agosto, prima ancora dello sbarco di Garibaldi a Melito, Potenza cacciava i pochi Gendarmi che la custodivano, e tutta la Basilicata si vendicava in libertà. All’annunzio della vittoria di Reggio tutte le Calabrie insorgevano; Cosenza costringeva il generale Caldarelli a capitolare con una brigata intera ed a ritirarsi a Salerno col patto di non più guerreggiare contro Garibaldi; a Foggia le truppe facevan causa comune col popolo; a Bari altrettanto: sicchè il generale Flores, comandante militare delle Puglie, era costretto a riparare cogli avanzi dei fedeli nel Principato; fuga da un incendio in un precipizio. Il generale Viale posto con dodicimila uomini a guardia della Termopile di Monteleone, minacciato da una sedizione pari a quella che aveva forzato il Briganti, non osando attendere Garibaldi, batteva in precipitosa ritirata, abbandonando agl’invasori una delle chiavi della Calabria. Succedutogli nel comando il generale Ghio, egli pure continuò la ritirata; ma pervenuto a Soveria-Manelli, tra Tiriolo e Cosenza, fosse stanchezza della lunga corsa, fosse disperato proposito, pensò di prendervi campo e di attendere di piè fermo l’instancabile persecutore. Fu la sua rovina.
Quando egli arrivava a Soveria, le alture, che da oriente e da settentrione la dominano, erano già occupate dalle bande calabresi dello Stocco, ed egli si trovava già prima di combattere quasi aggirato. Garibaldi frattanto lo incalzava di fronte, e vista l’infelice posizione del suo nemico, non gli lasciò un istante di posa. Egli che faceva quella guerra correndo le poste, precedendo di sette giorni la sua stessa avanguardia, esploratore degli esploratori, era giunto in [165] faccia al Ghio, quasi solo; ma non per questo pensò d’indugiarsi. Ordinato a tutte le truppe che lo seguivano di convergere tutte a marcia forzata per Tiriolo, appena ha sottomano l’avanguardia della divisione del Cosenz, forte non più di millecinquecento uomini, la spinge, ancora trafelata, sulla strada di Soveria-Manelli; fa calar dalle alture le bande dello Stocco e intima al generale Ghio la resa. Questi tenta guadagnar tempo e negoziare; ma gli fu accordata un’ora sola, e dopo un’ora sola altri dodicimila uomini andavano sperperati e disciolti in varie direzioni come quelli del Briganti, lasciando in mano del fortunato Dittatore tutte le Calabrie.
E quel che era accaduto da San Giovanni a Cosenza, ripetevasi dovunque. Non era una rivoluzione, era una grande diserzione. Il trono borbonico non cadeva tanto per l’assalto de’ suoi nemici, quanto per l’abbandono e l’infedeltà de’ suoi difensori. I soldati disertavano: i Generali capitolavano: i cortigiani si nascondevano: i funzionari fuggivano: i Napoletani non scacciavano il proprio Re, gli voltavano le spalle.
E lo stato delle provincie riflettevasi coll’intensità d’un vasto focolare nella capitale. Il conte di Cavour, ostinato a volere che una sommossa scoppiasse in Napoli prima dell’arrivo di Garibaldi, ne aveva affidata la suprema cura al marchese di Villamarina ed all’ammiraglio Persano e sotto di loro un vario stuolo di emigrati, cui la nuova Costituzione aveva riaperte le porte della patria, e di emissari d’ogni provincia e d’ogni fatta s’affaticavano alla tanto travagliosa quanto inutile trama. Il barone Nisco, per mezzo del Persano, [166] introduceva nella città migliaia di fucili: il generale Nunziante, compro dal Cavour, diffondeva fra l’esercito proclami corruttori: a bordo della squadra piemontese infine stavan nascosti due battaglioni di Bersaglieri, pronti a scendere a terra al primo segnale di rivolta;[110] e quantunque non fosse da aspettarsi che il popolo napoletano volesse dipartirsi da quel sistema di resistenza passiva e di inerzia ostile che era nell’indole sua, e in parte imposta dagli avvenimenti che camminavano più celeri della sua volontà; tuttavia, questi soli due fatti d’un popolo che aspettava da un’ora all’altra la caduta de’ suoi Re, e d’un esercito che non pareva più disposto a sparare un sol colpo per scongiurarla, bastano ad accertare che il fato de’ Borboni era consumato.
Nè la reggia era più sicura della piazza. Sorpreso da un turbine che avrebbe dato le vertigini a’ più gagliardi, aggirato da opposte correnti, circuito da consiglieri o fiacchi o stolti o infidi, col sospetto e la discordia nella stessa sua famiglia, Francesco II era la foglia in preda alla tormenta. Le Potenze lo abbandonavano; l’Inghilterra gli era ostile; la Francia lo trastullava di vane promesse; la Russia, la Prussia, l’Austria lo confortavano di sterili proteste; il Papa era impotente; il Piemonte, lo sappiamo, teneva in mano tutte le molle della tagliola in cui doveva cadere. Dovunque si volgesse, non udiva che amari rimproveri, o consigli vani ed impraticabili. Il conte di Siracusa, suo zio, lo consigliava ad abdicare;[111] il Ministero di Liborio Romano lo invitava formalmente [167] ad uscire temporaneamente dallo Stato e ad affidare il governo ad una reggenza; solo il conte Brenier, ministro di Francia, e il generale Pianell ed altri pochi gli davano l’unico consiglio, degno d’un Re, di mettersi a capo del suo esercito e di cadere o vincere con esso; ma era consiglio troppo alto per l’animo suo e ormai forse inutile e tardivo. In tanta tempesta di pensieri egli non s’appigliava a partito alcuno; o piuttosto li tentava tutti senza coerenza e senza energia. Ora faceva chiedere alle Potenze la neutralizzazione di Napoli e del territorio, colla speranza di arrestare Garibaldi e di restaurare, indugiando, le sorti del Regno; ora mandava segrete lettere a Garibaldi stesso per offrirgli cinquantamila uomini e la flotta per la guerra contro l’Austria, a condizione che s’arrestasse e gli salvasse il restante del Regno;[112] ora infine, rifiutata dalla Diplomazia la neutralizzazione e da Garibaldi, sdegnosamente, l’alleanza, si buttava in braccio alla reazione, tramando colla madre, la moglie, il generale Cutrofiano, l’Ischitella ed altri arnesi di Corte, un nuovo colpo di Stato, una specie di 15 maggio, che avrebbe dovuto fare man bassa di tutte le libertà e di tutti i liberali, se, come tutte le congiure, non fosse stato anzi tempo scoperto e i congiurati stessi non si fossero chiariti impotenti a tentarlo soltanto.
Frattanto Garibaldi camminava. Fra Salerno ed Avellino erano raccolti oltre a quarantamila uomini, la più parte di truppe straniere, risolute, dicevano, ad [168] attraversare ad ogni costo il passo al Filibustiere e a dargli una battaglia decisiva. E Garibaldi pure lo credette; onde affaccendandosi a concentrare quanto più presto poteva le sue forze intorno ad Eboli, s’andava a sua volta preparando alla giornata finale.
Ma inutile allarme. Anche l’esercito di Salerno era affetto dal contagio comune e sacrato al medesimo destino de’ suoi compagni. Corsa appena la notizia che la rivoluzione s’era propagata ad Avellino e nel Principato Ulteriore, saputo che quel Caldarelli, che aveva capitolato a Cosenza, era passato con Garibaldi e marciava con lui contro gli antichi camerata, anche le truppe di quel campo cominciarono a dar que’ medesimi segni di indisciplina e di ammutinamento, che già avevan sciolte le fila del Briganti e del Ghio, ed a levare ogni speranza ai Comandanti di tentare, con qualche probabilità di buon successo, la prova estrema a cui si erano impegnati.
L’arrivo di queste notizie a Napoli fu decisivo. Nella sera del 5 settembre, il Re, radunato il Consiglio dei Ministri, chiese il da farsi, e una sola fu la risposta loro: impossibile la resistenza; il Re si ritirasse a Gaeta colla famiglia; le truppe ripiegassero dietro il Volturno; Napoli fosse lasciata in tutela della sua Guardia nazionale. Il Re s’arrese al consiglio, e la sera del 6 settembre, intanto che le sue truppe cominciavano il loro movimento, dato un addio, non privo di dignità, ai suoi antichi sudditi, s’imbarcava colla moglie e i parenti sopra il Colon, nave da guerra spagnuola, e scortato da un’altra della stessa bandiera, poichè la sua flotta aveva rifiutato di seguirlo, salpava alla volta di Gaeta. La partenza di Francesco II fu pei Napoletani il lieto fine inaspettato d’un dramma che minacciava ad ogni scena di [169] finire in tragica catastrofe. Tutti respiravano come sollevati da un incubo. I patriotti che conseguivano la libertà senza il dolore di macchiarla di sangue civile; il popolo che poteva mutar di padrone senza nemmeno darsi la fatica d’una sommossa; i cortigiani cui era concesso di voltar livrea senza passare per ingrati; i magistrati cui era lecito di barattar giuramento senza esser tacciati di fedifraghi; gli ammiragli, i generali, le assise dorate dell’esercito e dell’armata, cui s’offriva la rara fortuna di passar sotto le bandiere del vincitore senza la vergogna di disertare quelle del vinto; Liborio Romano, infine, cui era riuscito di far sparire Francesco II e comparire Garibaldi, rendendosi ministro possibile dell’uno e dell’altro: tutti avevan sul volto quell’aria di soddisfatta sicurezza che esalò dal petto di Don Abbondio quando udì che Don Rodrigo era morto. Infatti la nave che portava in esiglio perpetuo Francesco II era ancora in vista del Golfo, che il Presidente de’ suoi Ministri proponeva ai colleghi fosse tosto annunciato a Garibaldi il felice evento, e invitato a venire a prendere possesso della metropoli. Non era ufficio che spettasse a’ Ministri d’un Re che non aveva ancora abdicato, e il Manna, il De Martino, lo Spinelli, rispettosi di sè medesimi, lo ricusarono; ma il Romano era preparato a ben altro, e quando gli fu detto esser necessario comporre un indirizzo di devozione da presentarsi al Dittatore: «Eccolo,» disse, e lo trasse di tasca bell’e fatto.
All’udir pertanto la gran nuova, Garibaldi che era già arrivato ad Eboli parte difilato per Salerno; colà ricevuta la Deputazione del Ministero che lo invitava d’affrettare il suo ingresso nella capitale, risponde saviamente esser pronto a partire appena vengano a lui il Sindaco e il Comandante della Guardia nazionale [170] della città; raccomandare frattanto l’ordine e la calma; ma poichè anche il Romano, divorato dalla febbre di ricevere egli per il primo il trionfatore, replica con enfatica parola l’invito, Garibaldi lasciando ogni esitazione prende a Vietri la ferrovia; arriva a mezzogiorno alla stazione di Napoli, dove Liborio Romano lo riceve e gli declama l’indirizzo preparato; e al tocco, in carrozza, accompagnato dal Cosenz, dal Bertani dal Nullo e da due altri ufficiali, entra in Napoli, e passando sotto il fuoco de’ forti tuttora occupati dai Borbonici, traversando i drappelli delle soldatesche nemiche sparse per la città, protetto soltanto dall’amore entusiasta d’un popolo e dalla serenità radiosa del suo volto che incute al pericolo e disarma il tradimento, va a posare alla Foresteria (Palazzo del Governo), e ne prende possesso. Modo di conquista unico nella storia: prodigio quasi divino d’un’idea, cui basta la fede d’un eroe ingenuo e sorridente per disperdere gli eserciti, atterrare le fortezze ed abbattere i troni!
Primo atto di Garibaldi in Napoli fu di aggregare tutta la marina da guerra e mercantile delle Due Sicilie alla squadra del re Vittorio Emanuele, comandata dall’ammiraglio Persano.[113] Questo Decreto era già un [171] principio d’annessione, e doveva bastare esso solo a testimoniare della fede del Dittatore e a disarmare a un tempo tutti i sospetti e tutte le diffidenze. Quella flotta, oggetto da un mese delle bramosíe e delle trame del conte di Cavour, per aver la quale egli ed il Persano avevan tanto armeggiato e congiurato, ecco che Garibaldi spontaneamente, tre ore appena dal suo ingresso in Napoli, al solo vedere l’ammiraglio di Vittorio Emanuele, la consegna egli stesso nelle di lui mani. Dal punto di veduta della politica rivoluzionaria era il più madornale degli spropositi; ma dal punto di veduta della politica unitaria italiana, era il più sublime degli olocausti.
Pure non bastò. Il conte di Cavour aveva detto alla rivoluzione: non plus ultra; e ciò non per tema che Garibaldi tradisse la Monarchia, ma per repugnanza che la Monarchia gli dovesse troppo. E su questo pernio ruotava da tre mesi tutta la sua politica. A Palermo aveva cercato arrestare il vincitore coll’annessione immediata; al di qua dello Stretto s’era provato a prevenirlo col fargli scoppiare dinanzi per iniziativa e con forze monarchiche una sommossa che lo costringesse o a tornarsene a Caprera, o a divenire un luogotenente di Vittorio Emanuele; dileguata poi anche la chimera dell’insurrezione monarchica, non cessa per questo dal macchinare: ora perchè Persano si assicuri della flotta; ora perchè s’impossessi dei forti di Napoli; ora perchè si tolga in mano la dittatura. Udito infine che Garibaldi è alle porte di Napoli, risolve con Vittorio Emanuele l’invasione delle Marche e dell’Umbria, «resa necessaria, scriveva al La Marmora, dalla conquista di Napoli;» — «unico mezzo, soggiungeva al Persano, per domare la rivoluzione e impedire che entrasse nel Regno.» E qui non s’ingannava. Lo scopo finale «di [172] coronare Vittorio Emanuele re d’Italia in Campidoglio,» lunge dal nasconderlo, Garibaldi lo gridava colla sua ingenua franchezza a’ quattro venti. Lo proclamava ne’ suoi bandi; lo diceva ne’ suoi colloqui; lo ripeteva al ministro inglese Lord Elliot, quando questi lo pregava a nome del suo Governo di non toccare la questione della Venezia;[114] lo confermava all’ammiraglio Persano ed al conte di Villamarina, quando l’uno dopo l’altro andavano ad annunciargli la deliberata impresa degli Stati pontificii.
«All’udire (dice un autorevole scrittore)[115] che i soldati piemontesi si apparecchiavano a entrare nell’Umbria e nelle Marche, il Dittatore manifestò gioia schiettissima. Ma poi, fattosi pensieroso, dopo alcuni istanti di silenzio, disse: — Se questa spedizione è diretta a tirare un cordone di difesa attorno al Papa, farà un pessimo effetto sull’animo degl’Italiani; — Villamarina con franca e calorosa parola si pose a dimostrare, che, se tra la politica sarda e quella seguíta dal Dittatore v’era qualche screzio in ordine ai mezzi, v’era perfetta concordia di fine, e che quindi bisognava che l’una aiutasse l’altra. — A me poco importa, riprese Garibaldi, che il Papa rimanga in Roma [173] come vescovo, o come Capo della Chiesa cattolica; ma bisogna togliergli il principato temporale, e costringere la Francia a richiamare i suoi soldati da Roma. Se il Governo sardo è capace di conseguire tutto ciò per negoziati diplomatici, faccia pure, ma presto; giacchè, se tarda, niuno mi potrà trattenere di sciogliere la questione colla sciabola alla mano.»
Di fronte a queste dichiarazioni dell’eroe la risoluzione del conte di Cavour diventava legittima e quasi necessaria. E però la spedizione delle Marche e dell’Umbria può dirsi, dopo la guerra di Crimea, la più ispirata e fatidica azione del grand’uomo di Stato. Con quel passo egli salvò al tempo stesso la Monarchia e l’Italia; frenò il corso precipitoso della rivoluzione, per riaddurla poscia più sicuramente alla mèta.[116] [174] Se un giorno, esaurito ogni altro mezzo, fosse per divenire necessario di recidere colla sciabola il nodo di Roma, nessuno poteva, nel 1860, nè affermare, nè negare: certo in quell’istante pareva, anche ai più impazienti, intempestivo; e il Mazzini stesso nel suo proclama di risposta alla circolare di Pier Luigi Farini, non si peritava a confessare che «la questione di Roma sarà sciolta, spero provarlo, pacificamente più tardi.[117]»
Ma se l’andare incontro a Garibaldi per prevenirlo e compiere più ordinatamente l’impresa ch’egli aveva rivoluzionariamente iniziata, era concetto ardito e saggio al tempo stesso; il vessare di sospetti, di pressure, di spinte l’uomo che aveva liberato mezza Italia, perchè s’affrettasse a deporre un potere ch’egli non aveva alcuna intenzione di ritenere, era affatto inopportuno ed improvvido, e poteva, a lungo andare, riuscire funesto. Certo Garibaldi, a Napoli, non aveva più le ragioni che in Sicilia per differire l’annessione, e s’intende che i patriotti napoletani intorno ad una questione di sì capitale importanza dovessero esporgli sin da principio i loro voti colla più aperta franchezza. Quello tuttavia che non s’intende è che vi fossero annessionisti così impazienti da pretendere che il Dittatore scrivesse il decreto dell’annessione appena messo il piede in Napoli, incerte tuttora le sorti della guerra, non chiari per anco gli effetti dell’impresa negli Stati pontificii, non esaurita ancora, nè di qua nè di là dallo Stretto, la fase della rivoluzione. L’annessione era ormai nella forza delle cose, e come Garibaldi non avrebbe potuto, anco volendolo, impedirla, così non s’addiceva a coloro, che insomma [175] dovevano a lui la libertà di discuterla, l’imporgliela ad ora fissa, lo strappargliela quasi a forza di mano. Nessun diritto aveva egli dato fino allora agli annessionisti di dubitare delle sue intenzioni; molti argomenti invece per rassicurarli. A Napoli si annuncia, proclamando Vittorio Emanuele: Vero Padre della Patria.[118] Giunto, consegna la flotta borbonica all’ammiraglio Persano; il giorno stesso nomina Ministri i capi più eletti della parte moderata e cavouriana; poco dopo prega il Persano a volergli mandare in città i Bersaglieri per custodire gli arsenali ed i porti; infine al settimo giorno promulga lo Statuto del Regno sardo come legge fondamentale di tutto il novello Stato. Come insospettire dunque e diffidare di lui? Certo gli stavano al fianco altri consiglieri dell’annessione non zelanti, e della politica del Cavour tutt’altro che amici; ma fino a qual punto li ascoltava egli? Lo spettro pauroso degli annessionisti era il Bertani, segretario generale della Dittatura, dell’impresa di Roma fautore aperto, in fama di mazziniano, anima rivoluzionaria al certo ed in ogni suo proposito audace e tenacissima. Ma senza dire che il Bertani non era veramente avverso all’annessione, [176] ma soltanto la voleva differita e condizionata, i suoi avversari non dovevano ignorare che il suo ascendente sul Dittatore era assai debole; che anzi di tutti gli uomini che attorniavano Garibaldi, quello che più gli era in sospetto e quasi in uggia era appunto il celebre medico; vuoi per i suoi rapporti occulti col Mazzini, vuoi per i contrasti avuti, e non per anco interamente quetati, per la spedizione di Terranova; vuoi per la disformità dei temperamenti e dei caratteri: l’uno rigido, loico, tenace, e sopra ogni cosa partigiano; l’altro mobile, subitaneo, intollerante delle opposizioni metodiche e ombroso dei consigli dottrinari; facile alle simpatie ed alle antipatie; accessibile da cento parti, ma sopra alcuni punti, formanti il suo credo, incrollabile e quasi inabbordabile.
Tutto ciò per altro non fu nemmanco sospettato dai partigiani a oltranza dell’annessione immediata; e così a Napoli come in Sicilia cominciarono tosto ad assediare il Dittatore di indirizzi e di deputazioni, di cicalate di gabinetto e di manifestazioni di piazza, che in sulle prime ottenevano da lui l’effetto precisamente contrario.
Però se a Napoli la sola sua presenza bastava a moderare le impazienze ed a tenere in rispetto le opposizioni; in Sicilia, lui assente, presente invece il suo Prodittatore, dell’annessione segreto istigatore dapprima, poscia pubblico favoreggiatore, le voglie annessioniste erano divenute smaniose, e fino a un certo punto anco pericolose. Il 4 settembre, il comandante Piola, capo della Marina siciliana, raggiunto il generale Garibaldi a Fortino, presso Sapri, gli porgeva una lettera del Depretis, colla quale questi lo sollecitava a decretare il plebiscito dell’Isola.
[177]
«La scena (scrive il Bertani)[119] accadeva in una povera osteria. Türr e Cosenz, presenti al colloquio, secondavano la proposta del Depretis, e già Garibaldi, non sapremmo se più persuaso o infastidito, aveva detto: — Basso, scrivete: Caro Depretis, Fate l’annessione quando volete; — allorchè il Bertani, entrato poco prima, esclamò: — Generale, voi abdicate; — e capacitato ben presto dalle opposte ragioni del Bertani (capacitato, perchè secondavano l’inclinazione del suo animo): — Avete ragione, — rispose, e rivoltosi a Basso, che stava sempre colla penna in mano, soggiunse: — Basso, stracciate la lettera. —
»E poi con calma riprese a dettare: Caro Depretis, per l’annessione parmi che Bonaparte possa ancora aspettare alquanti giorni. Sbarazzatevi intanto di mezza dozzina d’inquieti, e cominciate dai due C.....[120]
»E la scena finì;»..... ma non finirono del pari le lotte per l’annessione siciliana. Gli annessionisti, capitanati principalmente dal Cordova, e spalleggiati dal Depretis, non volevano desistere dal loro proposito; anzi in un Consiglio di Ministri ventilarono persino se non si dovesse bandire il plebiscito anche malgrado la lettera di Garibaldi. Il Crispi invece colla parte più rivoluzionaria e garibaldina insisteva perchè la volontà del Dittatore fosse rispettata; onde tumulti in piazza e conflitti in Palazzo, che mantenevano Palermo in uno stato d’agitazione assai presso all’anarchia e scrollavano sempre più la poca autorità al Prodittatore. Quando però corse la nuova che Garibaldi era entrato in Napoli, tanto il Crispi, quanto il Depretis, decisero, l’uno dietro l’altro, di partire pel Continente, onde rendere giudice un’altra volta il [178] Dittatore della perpetua controversia. E il Dittatore fu ancora del parere di Fortino; sicchè il Crispi continuò a stargli al fianco Ministro degli affari esteri, ed al Depretis, fallitogli ormai il principale scopo della sua missione, non restò che rassegnare l’ufficio. La rinuncia del Depretis però lasciava la Sicilia senza Prodittatore e senza governo, e all’urgente bisogno Garibaldi pensò di provvedere egli stesso in persona. La sera del 16 settembre, infatti, s’imbarca quasi di nascosto; approda l’indomani a Palermo; radunati tostamente i Ministri e trovatili fermi nella loro idea, con parole fin troppo dittatorie li congeda; elegge a Prodittatore Antonio Mordini, allora Auditore generale dell’esercito garibaldino, e lo fiancheggia di Ministri a lui graditi; fattosi al balcone del Palazzo arringa il popolo impaziente di acclamarlo dopo i recenti trionfi, lo ringrazia d’aver avuto fede in lui e di aver respinto un’annessione ch’egli credeva intempestiva, l’incuora a persistere finchè vi siano fratelli da liberare;[121] e dopo aver protestato nuovamente della sua amicizia per Vittorio [179] Emanuele, «l’unico rappresentante della causa italiana,» si accommiata colla lusinga di aver per alquanto tempo restaurata la pace e l’autorità in Sicilia, e ritorna a Napoli, dove le faccende della guerra s’erano già troppo risentite della sua mancanza.
Appena potè aver sottomano un nucleo di forze, Garibaldi aveva spedito in tutta fretta il generale Türr ad Ariano per soffocarvi una sommossa borbonica suscitata dal Vescovo di colà, e spalleggiata dal generale Bonanno che presidiava con una brigata l’Abruzzo Ulteriore. E il valoroso Ungherese se n’era sbrigato presto e bene; costretti i reazionari a piegar la testa, il Bonanno a render l’armi con tutta la sua brigata, il Vescovo, divenuto da quel giorno fervente patriotta, a ringraziarlo della sua umanità e cortesia. Questo felice successo però nè cansava nè ritardava per nulla l’estrema prova, a cui la rivoluzione, non ostante la sua corsa vittoriosa, era chiamata. L’esercito, ritiratosi dietro il Volturno, contava ancora tra Capua e Gaeta circa cinquantamila[122] uomini, era provveduto d’un ricco materiale, protetto da un fiume di cui signoreggiava le due sponde, appoggiato infine, senza dir dell’estremo propugnacolo di Gaeta, da una fortezza di prim’ordine, quale Capua; e se, come certi indizi facevan credere, l’appello di Francesco II, il quale da Gaeta invitava i suoi fedeli alla riscossa, era [180] ascoltato, la partita giuocata allora con tanta fortuna poteva ridiventare molto combattuta ed incerta.
Garibaldi però ne era impensierito più di quello che volesse confessare; ma obbligato ad attendere che le sue truppe, disseminate dal Golfo di Policastro a quelle di Salerno, si rannodassero, molestato ai fianchi dall’insorgere della reazione e costretto egli stesso dalla controversia annessionista ad allontanarsi da Napoli ed a partire per Sicilia, non potè nei primi giorni consacrarsi alle cose della guerra con l’intera energia del suo spirito, o se anche tutto lo spirito, non avrebbe potuto consacrarvi soldati. Però soltanto tra il 12 e il 13 di settembre aveva potuto mandare la divisione Türr, forte non più di quattromila uomini, ad appostarsi tra Caserta e Santa Maria; raccomandando però così al suo Comandante, come al generale Sirtori, capo di Stato Maggiore, di tenersi in sulla difesa, spiccando tutt’al più delle bande volanti sui fianchi ed alle spalle del nemico, onde tentare di sollevargli dattorno le popolazioni e turbarne le mosse.
Ma bastò ch’egli fosse lontano, perchè la fortuna, schiava fin allora del maliardo eroe, scuotesse la chioma e tentasse fuggire dalle sue insegne.
Il generale Türr (se d’accordo col Sirtori o di suo capo, è controverso; ma certo frantendendo od oltrepassando gli ordini precisi del suo Generale) s’era proposto di tentare una grande operazione strategica; nientemeno che di impadronirsi delle due sponde del Volturno, e di occuparvi sulla destra il forte luogo di Caiazzo che domina uno dei suoi passi. Infatti il 19 mattina mentre la brigata Rustow fingeva un attacco contro la fronte di Capua, spinto poi troppo a fondo o dall’imprudenza dei capi o dalla foga dei combattenti; il battaglione Cattabeni marciava per il passo [181] di Limatola sopra Caiazzo e con poco sforzo se ne impossessava. All’apparenza il colpo pareva riuscito; molto sangue di prodi era stato versato, ma insomma i Garibaldini potevan credersi padroni delle due rive del Volturno e felicemente piantati come una punta aguzza sulla costa sinistra del nemico. Illusione d’inesperti coraggiosi che sole ventiquattro ore basteranno a dileguare!
Già reduce da Sicilia e precisamente nella sera del 19 al campo di Caiazzo, Garibaldi aveva tosto compreso il grosso fallo del generale Türr, e se n’era accorato; ma o perchè gli repugnasse abbandonare nel pericolo il battaglione del Cattabeni, uno dei suoi vecchi soldati, o perchè temesse il triste effetto che sulla accendibile fantasia dei Napoletani poteva produrre una ritirata; per ragioni insomma di umanità o di politica, quelle ragioni che furono sempre le peggiori nemiche dei migliori concetti di guerra, comandò che il Cattabeni, minacciato d’imminente attacco, fosse soccorso prima con una brigata del Medici; poi, la brigata non essendo pronta, con un reggimento, quello che comandava il colonnello Vacchieri. E il preveduto accadde. Il Cattabeni e il Vacchieri, assaliti il 21 mattina da forze quattro volte superiori, furono, malgrado la prodezza dei capi e dei soldati, interamente sbaragliati; ferito e prigioniero col grosso del suo battaglione lo stesso Cattabeni; salvatosi a stento coll’avanzo dei suoi il Vacchieri; molti che, cercando scampo nel fiume, tentarono guadi mal noti, miseramente affogati.
Era il primo errore commesso durante quella campagna; era il primo e l’unico rovescio. Però se gli ordini lasciati da Garibaldi ai suoi fossero stati osservati, e l’errore ed il rovescio sarebbero stati evitati.
[182]
Garibaldi aveva certamente ordinato al Türr di lanciar scorribande al di là del Volturno; ma non gli aveva dato facoltà di prendere posizioni fisse, molto meno poi di dare battaglia per prenderle. Non si tengono con iscarse forze le due rive di un fiume privo di ponti, dominato da una fortezza; e il nostro Capitano l’aveva tosto compreso. Il difficile non stava tanto nel prendere Caiazzo, quanto nel conservarlo; e poichè a conservarlo occorrevano una e forse più teste di ponte sul Volturno e forze pari ai borbonici, così la rotta del 21 settembre era prevedibile ed inevitabile[123]
[183]
Persuaso anche prima del 21 settembre dell’impossibilità di conservare una posizione offensiva-difensiva [184] sulle due sponde del Volturno, deliberò di tenersi nella più stretta difensiva sulla sinistra del fiume stesso. Disgraziatamente anco la difesa, per la esiguità delle forze e l’estensione del terreno, rendevasi molto problematica e difficile. Perocchè non bastava difendersi dalle sortite di una piazza forte come Capua, ridotta un campo trincerato di circa quarantamila uomini, ma conveniva guardare, per il corso di sedici miglia, i passi di un fiume tortuosissimo, come il Volturno, e che forma una delle linee più bizzarre e insidiose che la topografia strategica conosca. I meandri e gli avvolgimenti di questo fiume son tanti, che un esercito costretto a campeggiare sulla sinistra del suo tronco inferiore, se lo trova, comunque si giri, di fronte, ai fianchi e alle spalle nel tempo medesimo. Non ha, è vero, che un sol ponte stabile, quello di Capua; ma in iscambio, una serie di ponti volanti a barche, detti, nel vernacolo del paese, scafe, che danno il mezzo a chiunque ne sia padrone, e i Borbonici lo erano, di tragittarsi da una sponda all’altra con una facilità di poco minore a quella che offrirebbe un sistema di ponti fissi.
E non basta. Posto che l’obbiettivo dei Regi fosse Napoli, essi potevano marciarvi per sette grandi vie collegate tra di loro da un dedalo di strade minori, che di tanto agevolavano ad essi le offese, di quanto accrescevano le difficoltà della difesa. Da Capua infatti essi potevano arrivare alla capitale, così per la doppia via Santa Maria-Caserta, o Sant’Angelo-Caserta, come per la strada più lunga, ma non meno insidiosa, San Tammaro-Aversa. Dal Volturno poi gli sbocchi erano tanti quante le scafe. Dalle scafe di Formicola e di Caiazzo si spiccavano due vie, che congiungendosi al bivio del Gradillo venivano a cader [185] traverso la colonia di San Leucio, sul gran parco di Caserta; dalla scafa di Limatola un’altra via, passando rasente Castel Morone, riusciva più a oriente alla medesima mèta; infine da tutti i passi del Volturno superiore si poteva sboccare sulla strada di Piedimonte-Dugenta, che piombava diritta sui Ponti della Valle e Maddaloni, a nove miglia da Napoli.
Ora il difensore, forzato a manovrare su questo scacchiere, non aveva libertà di scelta: o guardarne tutti i passi del pari, o, concentrandosi in pochi punti, correr rischio di vedersi aggirato e tagliato fuori della sua base d’operazione. Il suolo gli offriva qua e là qualche buon punto d’appoggio; come la catena del Tifata alle spalle di Sant’Angelo, i poggi di Briano ed i boschi di San Leucio innanzi al bivio di Formicola e di Caiazzo; la vetta di Castel Morone di contro alla scafa di Limatola: le alture di Monte Caro, di Villa Gualtieri e del Longano a guardia di Maddaloni; ma tutti questi baluardi essendo interrotti e separati da grandi intervalli scoperti, non bastavano a bilanciare la lunghezza della linea e la sottigliezza del numero, col quale l’esercito garibaldino era costretto a difenderla.
Ora nessuno vorrà credere che il difetto d’una siffatta linea sia sfuggito al nostro Capitano: molti anni dopo, in un suo libro lo denunziava egli stesso;[124] ma da vero uomo di guerra, anzichè perdersi in vani conati per cambiare ciò che la natura aveva creato, e la forza delle cose gl’imponeva, prese il suo partito di far fronte al nemico su tutti i punti, salvo a distribuire le forze a seconda delle naturali difese del [186] suolo, ed a tenersi sotto mano una forte riserva per accorrere sul punto più minacciato.
Ciò deliberato, stende fra Santa Maria e San Tammaro la divisione Cosenz,[125] comandata dal Milbitz (quattromila uomini e quattro pezzi), e vi stabilisce la sua sinistra; colloca a Sant’Angelo, in comunicazione colla prima, la diciassettesima divisione Medici (quattromila uomini e quattro pezzi), e ne fa il suo centro; apposta a San Leucio la brigata Sacchi (duemila uomini), ed a Castel Morone il battaglione Bronzetti [187] (dugentosettanta uomini); affida alla divisione Bixio, la più forte di tutte (cinquemilaseicento uomini e otto pezzi), la difesa dei Ponti della Valle e Maddaloni, e vi assicura la sua destra; mette a guardia della strada d’Aversa la nascente brigata Corte; accampa a Caserta, sotto il comando del Türr, la sua riserva (quattromilasettecento uomini e tredici pezzi) e insedia, nella celebre Villa del Vanvitelli, prediletto svago dei Borboni, il suo Quartier generale.
Ventunmila uomini, la più parte de’ quali male armati e peggio istruiti, seminati sopra un terreno di oltre venti chilometri, dovevano contrastare il passo a quarantamila vecchi soldati, il fiore dei fedeli del Borbone, protetti da una fortezza di primo ordine, armata di sessanta bocche da fuoco, fiancheggiati da un fiume tutto in mano loro, ai quali la vicinanza, e tra poco la presenza, del Re loro trasfonderà uno spirito novello, e che tenendosi incolpevoli delle vergogne di Palermo, di Reggio e di Soveria parevano tanto più deliberati a vendicarle.
Una battaglia era imminente; molti indizi l’annunciavano, Garibaldi la presentiva. «Tornato da Palermo (scrive egli stesso) presi stanza a Caserta, e visitando ogni giorno Monte Sant’Angelo, da dove scorgeva bene il campo dei nemici, a levante della città di Capua e nei dintorni, dai loro movimenti sulla sponda destra del Volturno, che non potevano sfuggire al mio osservatorio del Monte suddetto, e dalle loro disposizioni, io congetturava essere i Borbonici in preparativi d’una battaglia aggressiva.» E non s’ingannava. Fin dal 26 settembre il generale Ritucci, [188] nuovo comandante supremo dell’esercito regio, aveva già fermato il suo disegno, modello di primitiva semplicità: attaccare la linea garibaldina su tutti i punti, con maggior sforzo alle due ali di Santa Maria e di Maddaloni, e, sfondatala, marciare su Napoli. E da ciò questa distribuzione di parti: il generale Tabacchi colla divisione della guardia, settemila uomini, doveva assalire Santa Maria, fiancheggiato alla sua destra dalla brigata Sergardi, tremila uomini, che spuntando l’estrema sinistra garibaldina a San Tammaro aveva per iscopo di minacciare la strada d’Aversa. Al centro, invece, dando la destra al Tabacchi e sostenuto a manca dal generale Colonna, cui era commesso di passare con cinquemila uomini la Scafa di Triflisco, doveva marciare su Sant’Angelo con diecimila uomini, maggior nerbo degli assalitori, il generale Afan de Rivera: ad oriente il colonnello Perrone, con milledugento combattenti spalleggiati però da una riserva di altri tremila rimasti a Caiazzo, doveva sboccare da Limatola, e per la strada di Castel Morone mirare diritto a Caserta: all’ultima destra, infine, il Von Mechel con una divisione di ottomila uomini, la più gran parte Tedeschi, doveva, per la strada di Ducenta, avventarsi sul Bixio ai Ponti della Valle, e di là, dando la mano al Perrone, come questi doveva darla al Colonna, al Rivera, al Tabacchi, a tutti quanti marciare a bandiere spiegate su Napoli. Il gran colpo era stato deciso per il 1º ottobre, onomastico di Francesco II; il Re stesso, coi fratelli, doveva seguire, a convenevole distanza, le sue legioni, e coll’augusta presenza incoraggiarle, da lontano, alla sacra riscossa.
Fino dalla vigilia Garibaldi aveva notato sotto le mura di Capua un grande tramenío, sicchè, come uomo che ha letto fino al fondo il pensiero del suo avversario, [189] diceva o mandava a dire a’ suoi Luogotenenti: «Fate buona guardia, domani saremo attaccati.»
In sull’alba del 1º ottobre, infatti, un crescente colpeggiare di moschetteria, echeggiante da Sant’Angelo a Santa Maria, annunziava che la zuffa era cominciata. Poco dopo il Milbitz era già alle prese col Tabacchi, e il Medici con Afan de Rivera; laonde Garibaldi, accorso al fragore de’ primi colpi a Santa Maria, aveva subito indovinato che la giornata sarebbe stata, come suol dirsi, assai calda, e che conveniva rinforzare senza indugio Santa Maria, che era, tra i punti principali della sua linea, il più debole e per postura e per numero di difensori. Mandò quindi a chiedere a Caserta la brigata Assanti della riserva, e confidatosi interamente al Milbitz, uno de’ suoi vecchi commilitoni di Roma, partì in carrozza per Sant’Angelo, altro dei punti che più gli stavano a cuore.
Potevano essere le sei del mattino. Circa all’ora medesima gli avamposti del Bixio si scontravano con l’avanguardia di Von Mechel, e il Perrone passava il Volturno a Limatola. Se non che, giunta verso la metà della strada che da Santa Maria mena a Sant’Angelo, la carrozza di Garibaldi è all’improvviso tempestata da una grandine di fucilate, e al tempo stesso involta in un nugolo di nemici sbucati da certe fosse asciutte che tenevan luogo di vere strade coperte. E già quella prima scarica aveva morti il cocchiere ed un cavallo della carrozza; talchè Garibaldi stesso, in presentissimo pericolo, fu costretto a balzare a terra ed a mettersi co’ suoi aiutanti in sulla difesa. «Ma (narra egli medesimo) mi trovavo in mezzo ai Genovesi di Mosto ed ai Lombardi di Simonetta. — Non fu quindi necessario di difenderci noi stessi; quei prodi militi, vedendoci in pericolo, caricarono i Borbonici con tanto impeto, [190] che li respinsero un buon pezzo distanti e ci facilitarono la via verso Sant’Angelo.[126]»
Pure anco l’arrivo a Sant’Angelo non fu senza pericolo. Intanto che la prima catena del Rivera per quelle fosse o strade coperte, che dicemmo, s’insinuava non vista dentro il fianco sinistro del Medici e stava per tagliargli ogni comunicazione col Milbitz, dal lato opposto le avanguardie del Colonna, tragittata nella notte la Scafa di Triflisco, aggiravano favorite dalle tenebre la destra di Sant’Angelo, e per sentieri ascosi di monti arrivavano in sul fare dell’alba sui poggi di San Vito, uno dei contrafforti del Tifata. Poco mancò pertanto che Garibaldi, il quale appunto verso quella medesima ora arrivava su quell’altura, cascasse in mezzo a quella nuova imboscata di nemici; e sarebbe certamente accaduto se appena scortili non li avesse arrestati, cacciando loro incontro il drappello della sua scorta, facendoli al tempo stesso pigliar di costa da una compagnia del Sacchi che chiamò in tutta fretta da San Leucio.
Liberato, con tanta fortuna sua e della giornata che stava combattendo, da quel nuovo pericolo, Garibaldi potè abbracciare dal suo osservatorio di Sant’Angelo tutto il quadro della battaglia. E gli apparve formidabile. Il Milbitz e il Medici resistevano prodemente, ora contrastando, ora riacquistando con infaticabili contrassalti i punti capitali delle loro posizioni; ma il nemico, forte delle sue grosse riserve, rinnovava di continuo con truppe fresche gli assalti, mentre i Garibaldini, diradati dalla strage e dalla stanchezza, erano all’estremo della loro possa. Si combatteva da una parte e dall’altra da oltre sei ore; ma verso il [191] tocco pomeridiano un nuovo e generale assalto del Tabacchi contro il Milbitz, e di Afan de Rivera contro il Medici, addossa i difensori agli ultimi ripari delle loro linee. Il Milbitz a Santa Maria è ridotto alla difesa di Porta Capuana; il Medici a Sant’Angelo è forzato a disputare con un pugno di gente il crocivio Capua-Sant’Angelo, Santa Maria-Sant’Angelo, centro delle sue, e chiave di tutte le posizioni a occidente di Caserta. Ancora un passo de’ Borbonici e la giornata è perduta. Garibaldi lo vede, ed afferrando a volo l’istante, scende a galoppo dal Tifata, rincora, rampogna, raduna, risospinge al combattimento quanti fuggiaschi o sbandati incontra per via: raccomanda al Medici, cui ogni raccomandazione era superflua, di tenersi a Sant’Angelo fino all’ultimo fiato; spicca ordine al Sirtori di mandare incontanente a Santa Maria tutte le riserve, e pei sentieri bistorti e ruinosi della montagna, poichè la strada diritta era in potere del nemico, corre egli stesso a Santa Maria per attendervi le riserve e ristorare la pugna.
Le riserve infatti, verso le due pomeridiane, parte per la consolare, parte per la ferrovia, arrivarono. Non v’era più un solo istante da perdere; ogni altro capitano le avrebbe cacciate, senza dar loro un secondo di riposo, nella mischia: Garibaldi no. Composto il viso all’abituale placidezza, non tradendo alcun segno d’interna trepidazione, rassicura col solo aspetto le truppe sopravvenienti, comanda agli ufficiali che siano lasciate riposare, dice ad alta voce al generale Türr, in guisa che tutti possano sentirlo: «La vittoria è certa, manca solo il colpo decisivo;[127]» poi, [192] senza fretta, senza trambusto, con ordine e calma mirabili, piglia egli stesso la brigata Milano e parte della Eber e la caccia sulla strada di Santa Maria a Sant’Angelo; intanto che il Türr col rimanente della Eber e gli avanzi della Milbitz va a rinforzare la difesa di Porta Capuana e a fronteggiare il nemico su tutta la sinistra. Nel suo concetto le riserve mandate alla riscossa sulla destra dovevano attaccare il nemico in due colonne e con due obbiettivi affini, ma diversi: l’uno, cioè, urtare diagonalmente la destra del Tabacchi in modo da spuntarlo e separarlo da Afan de Rivera; l’altro marciar perpendicolarmente sul fianco sinistro di questi, in guisa da minacciarne la ritirata e da liberar a Sant’Angelo il Medici che eroicamente agonizzava. E tutto riuscì a seconda. Pochi colpi, alcune cariche a fondo brillanti, soprattutto quelle della Legione ungherese e del battaglione Milano, e i Generali borbonici, sconfidati da tanta resistenza, se non stremati di forze, fatta coprire la loro fronte, spezzata da un’ultima carica di cavalleria, male guidata e presto risospinta, suonarono a ritirata. Alle 5 della sera tutte le posizioni garibaldine erano riconquistate. Il Medici tornava signore indisputato del suo quadrivio. Il Türr e il Rustow (il Milbiltz era rimasto ferito) inseguivano le schiere disordinate del Tabacchi e del Rivera, fin sotto le mura di Capua. Alla stessa ora il Bixio, dopo avere per tutta la giornata ributtati gli assalti di Von Mechel, lo ricacciava colle baionette alle reni di là dai Ponti della Valle fin presso a Ducenta; al Perrone infine, trattenuto sei ore sotto Castel Morone dall’eroico petto di Pilade Bronzetti e de’ suoi trecento, sacratisi a certa morte per la salvezza comune, era tolto di tentare per quel giorno il divisato colpo su Caserta; sicchè in quell’ora [193] stessa, 5 pomeridiane, Garibaldi poteva telegrafare a Napoli: «Vittoria su tutta la linea.[128]»
E vittoria era, piena, compiuta, gloriosa e, checchè altri abbia novellato, tutta dell’armi volontarie, tutta garibaldina. All’indomani, come suol spesso accadere dopo i grandi fatti d’arme, la battaglia ebbe uno strascico che poteva arricchire e quasi allietare la vittoria, ma non avrebbe mai potuto, non che metterla in forse, turbarla un istante. Dicemmo che Pilade Bronzetti, anzichè cedere il passo di Castel Morone, a lui affidato, aveva tolto di morire col fiore più eletto de’ suoi. Da ciò era conseguíto che il Perrone, perduto intorno a quella vetta il suo tempo migliore, e ritardato novamente da un contrassalto ardito di alcune compagnie della brigata Sacchi, era stato sopraggiunto dalla sera e non aveva più potuto proseguire per Caserta, come era suo disegno. Tuttavia, o perchè ignorasse (strana cosa invero) la ritirata dell’esercito suo, o perchè fosse d’animo temerario e sconsiderato, non volle rinunziarvi per l’indomani, e all’alba del giorno mosse per la via di Caserta Vecchia alla sua mèta. Il generale Sirtori, che tutta la giornata del primo aveva vegliato con grande alacrità all’invio dei rinforzi e delle munizioni, e insieme alla sicurezza del Quartier generale, fu il primo ad avvertir l’avanzarsi del corpo del Perrone e nella notte stessa n’aveva mandato l’annunzio a Garibaldi, che spossato dalla [194] grande fatica della vigilia era rimasto a prendere un po’ di riposo a Sant’Angelo. Egli però fu più noiato del sonno interrotto, che conturbato dalla gravità del messaggio. Anche senza vederlo aveva, per istinto, compreso che si trattava d’un corpo isolato, rimasto spensieratamente di qua dal Volturno e che non poteva in alcuna guisa rimettere in dubbio la vittoria della vigilia. Montato tuttavia a cavallo, corre nella notte stessa a Caserta, dove concorda col Sirtori le disposizioni necessarie, non tanto per combattere, quanto per irretire e prendere il nemico. Il Sirtori con una frazione della brigata Assanti levata da Santa Maria, e un battaglione di Bersaglieri dell’esercito settentrionale chiamato il dì innanzi da Napoli, quando più ondeggiava la fortuna, doveva stare alla difesa di Caserta, quindi del centro; il Bixio ebbe ordine di attorniare il nemico dal lato di Monte Viro e Caserta Vecchia, cioè dalla sua sinistra; mentre Garibaldi in persona con un manipolo di Carabinieri genovesi, alcuni frammenti della brigata Spangaro razzolati a Sant’Angelo, un battaglione regolare della brigata Re e l’intera brigata Sacchi, si era assunto di accerchiarlo dalla destra, togliendogli così ogni scampo.
Se non che, intanto che le truppe destinate all’azione si ordinavano e mettevano in marcia, l’avanguardia del Perrone, che già nel mattino era stata scoperta dalle guide del Missori a Caserta Vecchia, si avanzava alla sprovveduta sino alle prime case di Caserta,[129] talchè il Sirtori, costretto ad accorrere alla difesa con quanta gente si trovava fra mano, diè modo a quei bravi Bersaglieri dell’esercito settentrionale, [195] chiamati la vigilia, di barattare coi Borboni alcuni felici colpi di carabina, e di suggellare anche sui campi del Mezzogiorno la fratellanza non mai smentita tra i soldati di Vittorio Emanuele e le camicie rosse della rivoluzione.[130] Intanto però che il Sirtori respingeva l’attacco di fronte, le truppe destinate all’aggiramento giungevano a’ loro posti, sicchè non restò più che a dar sul nemico l’ultimo colpo. Infatti verso le tre pomeridiane, attaccata dai Calabresi dello Stocco, e dal battaglione della brigata Re, lanciati alle spalle ed ai fianchi di Caserta da Garibaldi stesso, attorniata e serrata da due brigate del Bixio, perseguitata dal battaglione Isnardi della brigata Sacchi, opportunamente accorsa a chiudere il passo ai respinti da Caserta, tutta la colonna del Perrone o restò prigioniera, o andò dispersa di là dal Volturno, assicurando con nuovi trofei la vittoria della giornata precedente.
La battaglia del Volturno, e per l’estensione del campo e pel numero de’ combattenti e per la durata della pugna e per la grandezza dei risultati, fu una delle più grosse che l’armi italiane abbiano combattuto. Ventimila giovani volontari, disseminati sopra un terreno tortuoso e capricciosissimo di circa venti chilometri, resistettero ad un esercito di quarantamila [196] vecchi soldati agguerriti, ed alla fine lo sbaragliarono. Le perdite dei Garibaldini sommarono all’incirca a cinquecento morti, a milletrecento feriti e milletrecento sbandati o prigionieri; fuori del conto i codardi che passeggiavano le vie, biscazzavano nei caffè, o sbevazzavano nelle taverne di Napoli, intanto che i loro camerati combattevano e morivano. Dei morti e feriti borbonici invece incerto il numero, quantunque sia probabile che per la imperfezione delle armi garibaldine non abbia uguagliato quello dei vincitori; certissimo però quello dei prigionieri e delle prede: tremila e più tra soldati ed ufficiali e sette bocche da campagna di grosso calibro. Come in tutte le grandi fazioni campali, così in questa i fattori della vittoria furono tre: il genio del Capitano supremo, la prodezza de’ suoi Luogotenenti e soldati, gli errori del nemico. «Il generale Garibaldi (dice un ufficiale tedesco storico e testimone) fu inarrivabile prima, nel corso e dopo la battaglia.[131]» Preparato da molti giorni ad un assalto generale, prese in tempo le opportune misure per respingerlo, raddoppiò colla sua la vigilanza dei suoi Luogotenenti e si premunì da ogni sorpresa. Non appena accesa la pugna, ne estimò l’importanza, ne fermò il disegno, ne divinò l’obiettivo. Salito fin dal mattino al suo prediletto osservatorio del Tifata, vi potè abbracciare d’uno sguardo l’intero campo di battaglia e seguirne davvicino tutte le principali vicende. Veduto il balenare delle sue linee e il soverchiare del nemico, non dubitò un istante della vittoria. Apparso il momento del colpo decisivo, l’afferrò al volo; chiamò in tempo le riserve e le capitanò egli stesso; egli stesso le diresse contro il punto più offensibile del fianco [197] nemico e decise della giornata. Nella prima fase dell’azione fu l’occhio, nella seconda la mente e l’anima dell’esercito suo. Comandò e combattè insieme; osservò con acutezza, ragionò con logica, agì con rapidità e precisione; dovunque apparve serenò, col solo aspetto, i combattenti, fugò la paura e sovraneggiò la fortuna.
Il dubbio, tenace tuttora nella mente di molti, che Garibaldi non sia mai stato che un abile partigiano, inetto al comando di numerosi eserciti ed alle fazioni della grossa guerra, non merita più, dopo il 1º ottobre, di essere seriamente discusso. Nella battaglia del Volturno erano impegnate tante forze quante a Rivoli, sopra un terreno non meno esteso di quello di Marengo, e se il vincere una siffatta battaglia non conferisce al vincitore il titolo di Capitano, Bonaparte fino alle Piramidi non avrebbe potuto dirsi che un guerrigliero.[132] Certo anche Garibaldi non avrebbe potuto vincere senza Generali e soldati; ma avrebbe forse Napoleone trionfato in tante battaglie senza i Massena, i Soult, i Ney, i Lannes, i Marmont, i Davoust? E invero la condotta dei divisionari di Garibaldi al 1º ottobre è degna d’esser citata ad esempio. Posti a difendere con forze inadeguate posizioni tutt’altro che gagliarde, e il cui primo difetto era di essere tutte ugualmente importanti, adempirono l’arduo assunto con grande abilità e valore; disputarono palmo a palmo il terreno, tenendosi concentrati nei punti decisivi [198] e soprattutto usando a tempo e con energia dei contrassalti offensivi, che sono la salvezza di tutte le difese. È vero che furono a lor volta mirabilmente secondati. Il Bixio disse: «Quando dei corpi saranno comandati da ufficiali come Dezza, Piva, Taddei, Spinazzi, ed avranno a capo di Stato Maggiore un ufficiale come Ghersi, se la vittoria non coronerà sempre i loro sforzi, certo sapranno incontrare ai loro posti una morte gloriosa.[133]»
Ora lo stesso avrebbe potuto dirsi a Santa Maria, di Faldella, di Malenchini, di Eber, di De Giorgis, di Assanti, e a Sant’Angelo di Simonetta, di Ferrari, di Guastalla, di Cadolini, di Spangaro, e a Caserta di Bonnet, di Bruzzesi, di Majocchi; e serbata la debita misura di tutti i gregari. Le azioni di valore in quella giornata furono innumerevoli; ma a tutte sovrasta, come una gloria, quella del Bronzetti a Castel Morone, il cui generoso sacrificio salvò, ben può dirsi, l’esercito garibaldino dal più terribile colpo che il nemico gli serbasse, poichè a nessuno è dato affermare quel che sarebbe avvenuto, se il 1º ottobre un corpo, anche relativamente piccolo, fosse piombato su Caserta, nell’ora decisiva, costringendo Garibaldi ad usar contro di esso quelle riserve che gli erano necessarie a ristorare la battaglia sugli altri punti più minacciati.
Ma, siccome dicemmo, una parte non ultima della vittoria va dovuta agli errori de’ nemici. «Per fortuna nostra (scrive Garibaldi stesso), fu pur difettoso il piano di battaglia dei Generali borbonici. Essi ci attaccarono con forze considerevoli su tutta la linea, in sei punti diversi, a Maddaloni, a Castel Morone, [199] a Sant’Angelo, a Santa Maria, a San Tammaro, ed in un punto intermediario di cui non ricordo il nome, ove comandava il general Sacchi.
»Diedero così una battaglia parallela, cozzando col grosso del loro esercito contro il grosso del nostro, ed assalendo posizioni da noi studiate e preparate.
»Se avessero invece preferito una battaglia obliqua, cioè minacciato cinque dei punti summentovati, con avvisaglie di notte, e nella stessa notte portare quarantamila uomini sulla nostra sinistra a San Tammaro, o sulla nostra destra a Maddaloni, io non dubito essi potean giungere a Napoli con poche perdite.
»Non sarebbe stato perciò perduto l’esercito meridionale, ma un grande scompiglio ce lo avrebbero cagionato. Con un’ala rotta, ed il nemico padrone di Napoli e delle nostre risorse, diventava l’affare un poco serio.[134]»
E di più non ci occorre aggiungere. Garibaldi con questo giudizio, tanto modesto quanto esatto, ha dimostrato una volta di più che nessuno degli elementi del cimentoso problema incontrato il 1º ottobre nella pianura capuana gli era rimasto ignoto; ch’egli agì con piena coscienza della situazione sua e degli avversari; che la vittoria non premiò in lui soltanto il valore, e non servì soltanto la fortuna; ma ubbidì alla sagacia, all’arte, alla prodezza, a tutte le doti che formano il buon Capitano, e lo rendono degno delle marziali corone.[135]
[200]
Le due giornate del Volturno avevano tolto ai Borbonici ogni probabilità di prossima rivincita, ma non [201] ogni possibilità di lunga resistenza. Francesco II, non ostante le perdite, poteva ancora allineare circa a quarantamila combattenti; le principali fortezze del [202] Regno, Capua e Gaeta, erano sempre in suo potere; tutto il territorio dal Volturno al Tronto era signoreggiato dal suo esercito; gran parte della popolazione [203] rurale degli Abruzzi gli rimaneva fedele e in taluni distretti, come in quello d’Isernia, i contadini respingevano apertamente la rivoluzione e pigliavan le armi [204] in sua difesa; talchè egli poteva protrarre per lungo tempo la lotta e se non voltare la fortuna, differire ancora la finale caduta.
Pel contrario l’esercito garibaldino cominciava ad assottigliarsi e svigorirsi. I rinforzi non bilanciavano più da parecchio tempo le perdite: le grandi spedizioni del Continente erano arenate: la Sicilia, dati al passaggio dello Stretto dai quattro ai cinquemila Picciotti, pareva come esaurita; e peggio devesi dire delle Calabrie, delle Puglie, di tutte le provincie del Regno. Indarno Garibaldi ripeteva i suoi belligeri appelli in nome di Roma e Venezia; da qualche avventuriero in fuori nessuno rispondeva più alla chiamata. Dei ventunmila uomini del 1º ottobre non ne restavano oramai che diciottomila; e quando si eccettui una legione inglese, masnada di beoni e di saccomanni,[136] non una insegna di soccorso spuntava sull’orizzonte.
E come andava scemando la quantità, così peggiorava la qualità. I bei giorni di Calatafimi e di Milazzo erano passati. Nelle schiere cominciavano a serpeggiare quei primi sintomi di stanchezza, che sono quasi sempre i precursori della dissoluzione. Una parte reggeva ancora al dovere; ma la molla dell’entusiasmo, che aveva fino allora rese dolci le privazioni e belli i pericoli, era fiaccata. La vanità dei brevetti e dei gradi, i mercenari calcoli della carriera, già subentravano, nel cuore di molti, ai puri stimoli dell’amore della patria e della gloria. Gli ufficiali esuberavano in [205] misura insolita[137] anco fra gli eserciti rivoluzionari, ed acceleravano essi pei primi, coll’ingombro degl’inetti e lo scandalo degli oziosi, la corruzione dell’intero esercito.
Anche i migliori principiavano ad essere disamorati d’una guerra che dopo l’annunciato sopraggiungere dell’esercito sardo perdeva la sua ragione principale, e null’altro prometteva che un’incresciosa vigilanza attorno ad una uggiosa fortezza in una più uggiosa pianura. Che se a tutto ciò s’aggiunga l’intristire della stagione, le lunghe e piovose notti del morente autunno, il difetto di riparo e di vesti, il crescere conseguente delle sofferenze e delle malattie, si intenderà di leggieri come l’esercito garibaldino potesse tener ancora la difensiva sulla linea occupata, ma non mai pensare ad alcuna decisiva operazione offensiva, molto meno poi all’impresa di Roma. E Garibaldi lo sentiva, e talvolta nei confidenti abbandoni dell’amicizia gliene fuggiva di bocca l’amara confessione. «Leggete questa lettera di Mazzini (diceva ad Alberto Mario, qualche giorno dopo la vittoria del Volturno); egli mi sprona alla spedizione di Roma. Sapete se io non ci abbia di lunga mano pensato. Il 1º ottobre abbiamo sconfitto il nemico a tal punto, che non sarà più in grado d’affrontarci; ma non potrò mai andare a Roma, lasciandomi addietro sessantamila uomini trincerati fra due fortezze, i quali intanto si ripiglierebbero Napoli.[138]» E se quei sessantamila uomini erano un’amplificazione, tutto il resto era pura verità. Dopo il 2 ottobre l’esercito garibaldino [206] bastava appena a salvar Napoli da un colpo di mano, se pure bastava.
Ma a distoglierlo dalla temeraria impresa, più ancora della ragione militare poteva la politica.
Disfatto a Castelfidardo il Lamoricière, espugnata Ancona, riuscita oltre la speranza l’impresa delle Marche e dell’Umbria, il conte di Cavour deliberò di farsi perdonare l’audacia coll’audacia e di spingere l’esercito, già sulla via, all’invasione del Regno. Così con un colpo solo lo strappava a Garibaldi ed al Borbone insieme; rompeva gli ultimi indugi all’annessione, rivendicando alla spada del suo Re l’onore di compiere e assodare l’opera dalla rivoluzione iniziata.
Sfidata ancora la collera delle Potenze d’Europa, di cui presentiva le strida, ma insieme presagiva l’inerzia;[139] annunziata con brutale laconismo al Ministro napoletano presso la Corte di Torino la sua risoluzione; chiesta dal Parlamento subalpino,[140] non ancora [207] italiano, l’approvazione della sua politica e la balía di annettere tutte le provincie italiane, che liberamente dichiarassero di voler far parte integrante della Monarchia; spinge il Re stesso a mettersi a capo dell’esercito vincitore ed a passare il Tronto. E Vittorio Emanuele, cui nulla era più gradito della parte di re guerriero, e che degli ardimenti del suo Ministro era piuttosto l’istigatore che il moderatore, lasciata la reggenza al Principe di Carignano raggiunge il 3 ottobre l’esercito ad Ancona; d’onde bandito ai Napoletani, in un Manifesto, a dir vero, nè sobrio nè modesto,[141] ch’egli stava per arrivare, invitato, tra loro, a «chiudere l’èra delle rivoluzioni,» s’incamminò a grandi giornate verso i confini del Regno.
Ciò stante a Garibaldi non faceva mestieri di grande acume politico per comprendere che egli non poteva più oramai muovere le insegne contro Roma senza urtare o prima o poi nelle schiere di Vittorio Emanuele, e peggio ancora nella volontà di quel Parlamento che era a quei giorni il supremo rappresentante morale, se non per anco legale, della nazione intera; senza incorrere perciò nella terribile responsabilità d’una guerra civile. E poichè nulla era più profondo nel cuore del patriottico eroe che l’orrore della discordia fraterna, così molto prima d’accorgersi che gliene mancava la forza e molto prima che Vittorio Emanuele [208] venisse a capitanare l’esercito d’Ancona, egli aveva deliberato in cuor suo, mormorando, imprecando, fors’anco, a chi ve lo sforzava, ma pure senza restrizioni nè riserve, di rinunciare, pel momento almeno, ad ogni tentativo su Roma.
E di questo fanno fede due documenti noti, ma per avventura non abbastanza notati, nè dirittamente finora interpretati. Il primo è l’Ordine del giorno del 28 settembre, nel quale, bandita con esultanti parole ai Volontari la disfatta del Lamoricière, precorreva colla speranza gli eventi, compiacevasi della resa d’Ancona e della passata dell’esercito del Settentrione nel Regno anche prima che ciò avvenisse, e conchiudeva giubilando: «Fra poco avremo la fortuna di stringere quelle destre vittoriose.[142]» L’altro ancora più espressivo è la lettera ch’egli stesso dirigeva a re Vittorio Emanuele in data del 4 ottobre, e che preferiamo riprodurre testualmente:
«Caserta, 4 ottobre 1860.
»Sire,
»Mi congratulo colla Maestà Vostra per le brillanti vittorie riportate dal vostro bravo generale Cialdini e per le felici lor conseguenze. Una battaglia guadagnata sul Volturno [209] ed un combattimento alle due Caserte pongono i soldati di Francesco II nell’impossibilità di più resisterci. Spero dunque poter passare il Volturno domani. Non sarebbe male che la Maestà Vostra ordinasse a parte delle truppe, che si trovano vicino alla frontiera abruzzese, di passare quella frontiera e far abbassare le armi a certi gendarmi che parteggiano ancora per il Borbone.
»So che V. M. sta per mandare quattromila uomini a Napoli, e sarebbe bene. Pensi V. M. che io le sono amico di cuore, e merito un poco d’esser creduto. È molto meglio accogliere tutti gli Italiani onesti, a qualunque colore essi abbiano appartenuto per il passato, anzichè inasprire fazioni che potrebbero essere pericolose nell’avvenire.
»Essendo ad Ancona, dovrebbe V. M. fare una passeggiata a Napoli per terra o per mare. Se per terra, e ciò sarebbe meglio, V. M. deve marciare almeno con una divisione. Avvertito in tempo, io vi congiungerei la mia destra, e mi recherei in persona a presentarle i miei omaggi, e ricevere ordini per le ulteriori operazioni.
»La V. M. promulghi un decreto che riconosca i gradi de’ miei ufficiali. Io mi adopererò ad eliminare coloro che debbono essere eliminati.»
Chi consideri pertanto di questa lettera, il tempo, il contenuto, la forma, ne vedrà risplendere vieppiù il significato. Essa fu scritta il 4 ottobre, prima dunque che Garibaldi potesse conoscere il bando di Vittorio Emanuele ai Napoletani, prima che l’esercito sardo si fosse levato d’Ancona, prima assai che il Parlamento avesse votato l’annessione dell’Italia meridionale, e sanzionato con siffatto voto la politica del conte di Cavour.
Checchè dunque scriva a lode o vitupero lo spirito di parte, questo rimane incontrastato, che Cavour e Garibaldi, lo statista e l’eroe, quasi nel tempo stesso, ad insaputa l’uno dell’altro, s’accordavano a dare [210] al Re quel medesimo consiglio, intorno al quale pareva dovessero restar divisi implacabilmente! Ecco il giudicio uman come spesso erra. I monarchici superlativi credevano d’essere costretti, o prima o poi, a dar battaglia «alla rivoluzione personificata in Garibaldi,[143]» e Garibaldi apriva loro le porte di quello che ancora era suo Stato, di null’altro ansioso che di incontrarli e schierarsi sotto le loro insegne.
Nè si dica che la sua lettera parla di «una passeggiata;» è questa un’attenuazione metaforica per scemare l’importanza del fatto e farne parere più facile l’esecuzione; ma s’intende da sè che «la passeggiata» d’una divisione, capitanata da un Re, fiancheggiata da un’altra divisione, entro i confini d’uno Stato forestiero, è invasione bella e buona, è guerra in tutte le forme. E con quali intendimenti egli affretti la venuta di Vittorio Emanuele, è palese: vuol essere il primo a rendergli omaggio, desidera «ricevere i suoi ordini per le ulteriori operazioni,» ambisce, in una parola, di combattere al suo fianco, come suo luogotenente, contro il comune nemico.
Il linguaggio della lettera è semplice e schietto, ma reverente e affettuoso insieme; in essa il soldato dà consigli al Re; ma consigli saggi, di moderazione e di temperanza, che re Vittorio, il quale chiamerà un giorno l’antico mazziniano Medici a suo primo aiutante di campo, e il vecchio repubblicano Crispi a suo primo Ministro, non si pentirà d’aver ascoltati. Tutto persuade, adunque, che allorquando più si strillava a Torino perchè Garibaldi si ostinasse nell’avventura di Roma, egli n’aveva già deposto, almeno per quell’anno, il proposito, e che ad altro non pensava [211] se non a finir gloriosamente, in compagnia dei suoi fratelli dell’esercito sardo, sotto gli ordini del suo Re, la guerra contro il Borbone.
Ma perchè indugiava dunque ancora l’annessione, quell’annessione voluta ormai dalla quasi totalità del paese, decretata dal Parlamento, da Garibaldi stesso, indirettamente offerta a Vittorio Emanuele, e contro la quale, colla rinunzia alla marcia su Roma, cessava ogni ragione ed ogni pretesto? In verità, giunti a questo punto, il concetto del nostro eroe ci sfugge. Abbiamo compresa e difesa la sua resistenza all’annessione sino al giorno del suo ingresso in Napoli; l’abbiamo scusato d’averla differita anche dopo l’entrata dell’esercito sardo sul territorio ecclesiastico; ma ora, appressandosi quell’esercito, vietata dall’espressa volontà del Governo e del Parlamento la via di Roma, certo l’incontro ed il conflitto, nè l’intendiamo, nè sappiamo difenderla più. E fortuna volle che non la sapesse intendere a lungo nemmeno Garibaldi, siccome il seguito di questo racconto sta per dimostrare.
Fino dall’11 settembre il Dittatore chiamava presso di sè Giorgio Pallavicino coll’intenzione di offrirgli la Proditattura delle provincie napoletane. E l’onorando patriotta accorreva all’invito; se non che, giunto a Napoli, non assunse subito l’ufficio; ne ripartiva, invece, immediatamente per adempiere un altro confidenziale mandato commessogli dal Dittatore e del quale ecco la ragione. La ruggine frappostasi tra il conte di Cavour e il generale Garibaldi fin dalla cessione di Nizza, s’era, per gli attriti del Mezzogiorno, [212] dilatata e approfondita al segno da degenerare in aperta e implacabile inimicizia. Insusurrato da incauti o maligni consiglieri, il Generale aveva finito coll’accogliere il sospetto, che colui il quale era stato capace di mercanteggiare una volta una terra italiana, lo sarebbe stato la seconda. Ignaro o dimentico di quanto il conte di Cavour aveva operato per soccorrere l’impresa di Marsala, non ricordava, del rivale, che gli intoppi, le insidie, le trafitture; finchè venne il giorno, in cui, in buona fede, credendo che quegli solo, il Ministro, fosse d’inciampo al compimento della sua missione nazionale, ebbe l’infelicissima ispirazione di chiederne al Re il congedo, insieme al Farini ed al Fanti, che giudicava, ed erano, suoi complici.[144]
Nè Vittorio Emanuele era re da piegare a siffatta intimazione, nè il conte di Cavour ministro da consigliarlo. E ciò tanto più che la lettera del Dittatore, arte o imprudenza che fosse, era stata divulgata su pei giornali, e la dignità del Governo, non che quella della Corona, pubblicamente ferita. Su questo proposito il conte di Cavour fece in Parlamento alcune dichiarazioni, che non vanno dimenticate. «Fin dall’agosto, diss’egli, quando il dissenso del generale [213] Garibaldi era probabile, ma non ancora conosciuto, io non aveva esitato, per olocausto alla concordia, di offrire al Re la mia rinuncia e dell’intero Gabinetto; ma dal momento, egli aggiungeva, che quella lettera era stata propalata, che quel dissenso era divenuto pubblico, non era più lecito a noi l’offerta delle nostre dimissioni, giacchè, o Signori, io lo ripeto, se la Corona sulla richiesta di un cittadino, per quanto illustre egli sia e benemerito della patria, avesse mutati i suoi consiglieri, essa avrebbe recato al sistema costituzionale una grave e, dirò anzi, una mortale ferita.[145]»
E, per fermo, così la condotta sua, come quella del Re, non poteva essere nè più decorosa, nè più corretta. Chi sgarrava in tutto ciò era Garibaldi; ma poichè anche al conte di Cavour non pareva vero d’aver un’arma in mano per iscreditare e indebolire l’avversario fortunato, i mutui rancori, caritatevolmente soffiando gli zelanti d’ambo le parti, eran venuti di giorno in giorno siffattamente inturgidendo da minacciare non lontano qualche scoppio violento.
Ma appunto in que’ giorni giungeva in Napoli il Pallavicino, il quale, appena seppe il segno pericoloso a cui era giunto il dissidio, si offerse di comporlo, facendosi mediatore a Torino di proposte, com’egli le reputava, conciliatrici. E poichè Garibaldi consentì tosto, munito d’una seconda sua lettera pel Re il Marchese si rimise in viaggio. Se non che le condizioni, ond’egli era apportatore, non erano quelle per l’appunto che meglio potessero condurre ad un accordo. Garibaldi insisteva ancora nel pretendere il congedo del Cavour; in compenso prometteva l’annessione [214] immediata. La risposta fu quindi quale era da attendersi: una disputa di più tra il Conte ed il Marchese, e una nuova e più ricisa ripulsa. Al Prodittatore perciò non restò che il ritorno a Napoli; ma dicasi a lode del suo animo patriottico, lasciando per via ogni risentimento della fallita missione e non d’altro preoccupato che d’affrettare, come cittadino e come governante, quel patto d’unione, che era anco a’ suoi occhi la pietra angolare della finale unità d’Italia.
Nel frattempo però la questione dell’annessione erasi pericolosamente inasprita e complicata. E per ben intendere quanto fossero diverse le favelle che garrivano in quel piato, è mestieri rammentarsi chi e quanti erano coloro che, più o men dappresso, attorniavano Garibaldi. V’era anzitutto il Ministero, presieduto dal Conforti, cui eran colleghi il Pisanelli, il D’Afflitto, lo Scialoja, il Ciccone, il Crispi, tutti, meno quest’ultimo, Cavourriani infocati e dell’annessione zelatori impazienti ed intolleranti. V’era di contro a quello, rivale nata, antagonista necessaria, la Segreteria della Dittatura, gabinetto aulico del Bertani, grande macchina celerifera di leggi e decreti, fucina di tutte le discordie e di tutti i guai del Governo dittatoriale, la quale nella questione del plebiscito, dopo essersi sforzata d’indugiarlo fino all’estremo, ora professava apertamente di volerlo circuito di tutte le condizioni e garanzie di un vero contratto. Infine v’era quella che potrebbe dirsi la Sezione politica del Quartier generale, rappresentata principalmente da Alberto Mario, del prolungamento della Dittatura e del plebiscito condizionale partigiano ardentissimo, e per la [215] prodezza dell’animo, la illibatezza del carattere, la gentilezza della parola e dell’aspetto, caro al Generale e da tutti rispettato. All’infuori poi del contorno abituale e del consorzio ufficiale del Dittatore, ma più vicini a lui di quanto non paresse, v’erano Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo; l’Apostolo degli Unitari, e il Filosofo dei Federalisti: il primo, venuto a Napoli di volontà sua nella fiducia di giovare, nella lusinga di potere, il quale, sebbene non avesse veduto che una sol volta e clandestinamente il Dittatore, non tralasciava di insufflargli di continuo, mediante quegl’innumerevoli biglietti ond’era prodigiosamente fecondo, il suo antico verbo del se no, no, cioè a dire di non cedere alla Monarchia di Savoia un solo palmo delle provincie liberate, se non a patto che essa s’impegnasse a gridar subito l’Italia una dal Campidoglio; l’altro, venuto per espresso invito del Generale, il quale molinava di farne ora un ambasciatore a Londra, ora un suo prodittatore, e che pur con diverso intento arrivava alle stesse conclusioni del Mazzini, volendo che le condizioni del plebiscito fossero prima discusse e sancite da un’Assemblea, specie di Costituente, per impedire, diceva, che la Monarchia violasse la integrità dell’Italia, e mercanteggiasse le nuove provincie annesse, come aveva già mercanteggiato Nizza e Savoia.
Ora, quando si aggiunga a tutto ciò il quotidiano supplizio degl’indirizzi e delle orazioni, il vociar della stampa, il tumultuar della piazza, si vedrà fra quante correnti diverse fosse abballottata la mente del Dittatore, e come, non avendo l’animo temprato a siffatte bufere, rischiasse più d’una volta d’andarne travolto. E di questo ondeggiare faticoso della sua volontà si risentono dal mezzo settembre in poi tutti i suoi atti. Il 25 settembre accetta la rinuncia de’ suoi Ministri, [216] querelantisi per l’annessione; ma tre giorni dopo incarica di nuovo il Conforti della composizione d’un altro Gabinetto, che riesce poco dissimile al primo. Al fin di settembre, noiato dalle perpetue querele della Segreteria, congeda in cortese forma il Bertani, ma gli sostituisce pochi giorni dopo il Crispi, non meno inviso di lui. Lascia che Pallavicino, suo prodittatore preconizzato, scriva al Mazzini, «con buono intendimento e povero consiglio,[146]» una lettera in cui, fattogli intendere che la sua persona creava inciampi al Governo e pericoli alla nazione, sì che anche non volendolo divideva, lo invitava a bandirsi da quelle provincie, quanto dire d’Italia;[147] e si tiene accanto Carlo Cattaneo, repubblicano e federalista insieme, che frugandogli continuo nella ferita di Nizza, empiendogli l’animo di sospetti contro il Piemonte, il suo Re e il suo Ministro, divideva davvero volendolo, ed era il più pericoloso di quanti Consiglieri l’attorniavano allora.
Il 5 ottobre, infine, insedia nella Prodittatura il Pallavicino stesso, dell’annessione schietta ed immediata fautore aperto e deliberato, e permette che, a Palermo, l’altro suo prodittatore Mordini, bandisca nel giorno stesso i Comizi per l’elezione dell’Assemblea siciliana, che dovrà stabilire il tempo e le condizioni del plebiscito.[148]
[217]
Non fu quello il miglior periodo del governo di Garibaldi, nè manco il più lieto della sua vita. Egli non anelava che al bene della patria sua; ma l’occhio debole ed inesperto non ne travedeva che un barlume nel cielo procelloso di quei giorni, e spesso scambiava il fosco balenar delle nubi per la luce da lui desiderata. Una così fatta condizione di cose non poteva, senza manifesto pericolo della patria, più a lungo durare, e il Pallavicino tolse su di sè la responsabilità e l’onore di farla cessare. L’8 ottobre, posto in mora per l’ultima volta Garibaldi a decretare il plebiscito, e udito, o creduto di udire da lui una risposta favorevole,[149] propone e fa approvare al Consiglio de’ Ministri il decreto che convoca pel 22 il popolo delle provincie meridionali ad accettare o respingere il seguente plebiscito: «Il popolo vuole l’Italia una ed indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e suoi legittimi discendenti,» e si prepara a promulgarlo.
Grande, naturalmente, la meraviglia in Garibaldi, [218] che non aveva mai creduto di autorizzare siffatto decreto; grandissimo lo sdegno in tutti gli antiannessionisti, i quali, stimandosi giuocati dal novello Prodittatore, si prepararono a prendere la rivincita. Indotto il Dittatore a convocare presso di sè, a Caserta, per l’11 ottobre i principali d’ambe le parti, e intervenuti per l’una col Pallavicino il Caranti suo segretario ed il ministro Conforti, per l’altra col Cattaneo il Crispi, il Mario, il Parisi, ministro dell’interno per la Sicilia, la discussione si fece tosto ardente e pugnace. «Garibaldi (scrive lo stesso signor Caranti[150]), Crispi, Cattaneo, il Ministro dell’interno della Sicilia, e, se non erro, Mario e qualche altro peroravano per l’assemblea, Pallavicino solo la combatteva. L’ora erasi fatta tarda assai; Pallavicino, convulso dallo sdegno e dal dolore, dichiarò che egli non voleva avere alcuna partecipazione a questo tradimento dell’unità nazionale, che era ben dolente di dover vedere che colui che con una mano aveva tanto operato in suo pro, coll’altra la atterrasse, che egli all’istante rassegnava i suoi poteri, e che il domani avrebbe abbandonato Napoli.»
Ma non appena le notizie della deplorevole scena corsero per la Capitale, ecco la città intera commoversi: le vie, quantunque alta la notte, affollarsi come per incanto d’un popolo imperioso; i pubblici ritrovi risuonar di dispute infiammate; un analizzare, un chiosare, un giudicare in varie guise le novelle del Consiglio di Caserta; ma altresì un concordare di tutti, della grandissima maggioranza almeno, in questa unica sentenza: la nuova risoluzione del Dittatore poter esprimere forse la volontà d’un partito, non certamente [219] quella del popolo napoletano; questi invocar sempre l’annessione pronta e incondizionata; importare quindi alla dignità del popolo stesso, alla salute d’Italia intera che questo voto fosse al più presto, ma in modo perentorio e solenne manifestato.
«Infatti (aggiunge il citato scrittore[151]) il domani mattina pareva che per un incanto in Napoli fossevi stata una grande nevicata di Sì. Essi stavano affissi su tutte le porte, le finestre, le mura delle case, sulle vetture, sui cappelli degli uomini, sui loro abiti, sui vestiti delle donne, nelle vetrine dei negozi, nei poetici tempietti degli acquaiuoli. Ovunque vi foste rivolto, dappertutto avreste trovato un Sì, con cui quella nobile popolazione sanzionava il dogma dell’unità nazionale.»
Nè a questo si fermavano le dimostrazioni. La Guardia Nazionale, rimasta in quei frangenti l’unica tutrice dell’ordine, si accordava nello scrivere un indirizzo al Dittatore, in cui con figliale, ma schietta parola lo supplicava a non cimentare la sua gloria, disdicendo quel plebiscito che già era dal suo Prodittatore bandito: consimile indirizzo andava correndo fra i varii ordini de’ cittadini e coprendosi di migliaia di firme; turbe di popolo infine percorrevano la città, accampavano sulle piazze, assediavano il palazzo del Governo, alternando agli evviva per Vittorio Emanuele, Garibaldi e Pallavicino, grida di morte al Mazzini, al Cattaneo, a tutti gli antiannessionisti; profondamente turbando la pubblica quiete, minacciando gli eccessi a cui le folle scatenate sogliono giungere.
Nè possiamo in tutto aderire a quanto scrittori di parte antiannessionista vanno tuttora asserendo, che [220] quelle manifestazioni non altro siano state che spettacoli allestiti dai loro medesimi avversari. Vi avranno, forse, messa una mano; ma non si suscita una città di mezzo milione per solo artificio di sètte o di cricche. Era quella palesemente la volontà di Napoli e del Reame intero, volontà determinata, nol negheremo, da molti e opposti motivi, ispirata così dell’amor puro d’Italia e dal desiderio onesto d’uscir dal provvisorio, come dall’impazienza servile di adorare il novello astro; così dallo schietto affetto alla Casa di Savoia, come dall’interessata speranza di una più lauta mèsse di stipendi e d’impieghi; ma volontà pur sempre chiara, ferma ed universale.
E però la situazione era gravissima. Garibaldi, chiamato in tutta fretta dal Türr, di recente eletto Comandante della provincia e città di Napoli, accorse alla Capitale e potè da sè medesimo accertarsene. Infatti, accompagnato egli pure da grande moltitudine, che applaudiva a lui ed al Pallavicino, ma gli intronava le orecchie degli abbasso e dei morte ai fautori dell’Assemblea, ed empiva a lui stesso la carrozza di Sì, fu costretto a farsi al balcone della Foresteria ad arringare il popolo tumultuante,[152] il quale però abbonacciato [221] ben presto dal caro aspetto, dall’affascinante parola, e più forse dall’annunzio del non lontano arrivo del Re, non tardò a quietarsi e disperdersi.
Ma l’impressione prodotta in Garibaldi da quella solenne manifestazione fu profonda. Decise perciò di riconvocare pel giorno medesimo (13 ottobre) i suoi Ministri e Consiglieri, e si recò egli stesso alla Foresteria per invitare il Pallavicino ad esser parte dell’adunanza. Questa doveva aver luogo al Palazzo d’Angri, dove il Dittatore soleva prendere stanza. Erano presenti, oltre a lui, il Prodittatore, i ministri Conforti e Crispi, Aurelio Saliceti, Carlo Cattaneo, Francesco De Luca. Il Generale cominciò, chiedendo che tra i due opposti partiti dell’Assemblea e del Plebiscito si cercasse un mezzo di conciliazione. Il Pallavicino e il Conforti risposero che non sapevano vederne alcuno, e propugnavano novamente con caldo accento la necessità del plebiscito schietto ed immediato. Il Cattaneo, a sua volta, ribattè combattendo per la sua teoria dell’assemblea. Il Conforti replicò di nuovo; il Saliceti introdusse una sua proposta, per la quale Garibaldi doveva proclamare per decreto la sovranità nazionale di Vittorio Emanuele, salvo a farla sancire da un plebiscito e regolare da un Parlamento: altri diceva altre cose; talchè la discussione facendosi sempre più aspra e [222] confusa, il Pallavicino stanco di quel lungo ed affannoso dibattere erasi già alzato dicendo: «Vedo che io sono inutile qui, permettetemi che io mi ritiri,» quando il generale Türr, che era stato incaricato di presentare al Dittatore i voti della Guardia Nazionale e della cittadinanza, testè citati, e che era giunto poco dianzi alla riunione, si rivolse al Dittatore e gli disse: «Prima che prendiate una decisione, dalla quale può dipendere la sorte d’Italia, vi prego di esaminare il desiderio della popolazione di Napoli;» e gli sciorinò sotto gli occhi gli indirizzi che aveva portati seco.
Il Dittatore li lesse, vide le numerosissime firme onde erano segnati, stette un istante profondamente concentrato, poi, ripresa quella serenità che gli era consueta nei momenti delle solenni risoluzioni: «Non voglio assemblea, esclamò, si faccia l’Italia.... E voi, caro Giorgio (riprese, volgendosi al Pallavicino), voi non siete inutile qui; e vi prego di rimanere al vostro posto e cercate di meritarvi anche d’ora innanzi la stima della popolazione di Napoli.[153]»
[223]
L’annessione era deliberata. Non diremo col signor Caranti «che il Leone avesse trionfato delle Volpi,» poichè a nessuno di quanti in que’ giorni lo consigliavano s’addice la volgare similitudine; ma il Leone aveva trionfato certamente di sè stesso, de’ suoi ricordi di Nizza, de’ suoi rancori contro il Cavour, delle sfide del Farini, delle impertinenze del Fanti, della sua medesima ignoranza, illuminando colla fiamma del cuore le tenebre involontarie della mente, e dal solo amore alla patria traendo le ispirazioni al più sapiente atto politico della sua vita.
E, cosa singolare in quest’uomo singolarissimo, nel giorno stesso[154] ch’egli deponeva la Dittatura d’un regno, e i Napoletani tentavano una grossa sortita da Capua che poteva mettere un’altra volta in serio cimento le sue linee, e s’impegnava sotto i suoi occhi una battaglia, egli, il Capitano di ventura, il filibustiere, l’uomo del sangue, dalle alture di Sant’Angelo, al rombo del cannone, al fragore della mischia, dettava un Manifesto, o Memorandum che vogliasi dire, in cui predicava, colla fede d’un Apostolo e l’accento d’un Vate, la Confederazione europea, la fratellanza dei popoli, la fine della guerra, il disarmo universale delle nazioni, conchiudendo con queste parole degne dello spirito di Gentile e dell’eloquenza di Canning:
«Memorandum alle Potenze d’Europa.
»È alla portata di tutte le intelligenze, che l’Europa è ben lungi di trovarsi in uno stato normale e convenevole alle sue popolazioni.
[224]
»La Francia, che occupa senza contrasto il primo posto fra le Potenze europee, mantiene sotto le armi seicentomila soldati, una delle prime flotte del mondo, ed una quantità immensa d’impiegati per la sua sicurezza interna.
»L’Inghilterra non ha il medesimo numero di soldati; ma una flotta superiore e forse un numero maggiore d’impiegati per la sicurezza de’ suoi possedimenti lontani.
»La Russia e la Prussia, per mantenersi in equilibrio, hanno bisogno pure di assoldare eserciti immensi.
»Gli Stati secondari, non foss’altro che per ispirito di imitazione, e per far atto di presenza, sono obbligati di tenersi proporzionalmente sullo stesso piede.
»Non parlerò dell’Austria e dell’Impero ottomano, dannati per il bene degli sventurati popoli che opprimono a crollare.
»Uno può alfine chiedersi: perchè questo stato agitato e dell’Europa? Tutti parlano di civiltà e di progresso?... a me sembra invece che, eccettuandone il lusso, non differiam molto dai tempi primitivi, quando gli uomini si sbranavano fra loro per strapparsi una preda. Noi passiamo la nostra vita a minacciarci continuamente e reciprocamente, mentre che in Europa la grande maggioranza non solo dell’intelligenza, ma degli uomini di buon senso, comprende perfettamente che potremmo pur passare la povera nostra vita senza questo perpetuo stato di minaccia e di ostilità degli uni contro gli altri, e senza questa necessità che sembra fatalmente imposta ai popoli da qualche nemico segreto ed invisibile dell’umanità, di ucciderci con tanta scienza e raffinatezza.
»Per esempio, supponiamo una cosa:
»Supponiamo che l’Europa formasse un solo Stato.
»Chi mai penserebbe a disturbarla in casa sua, chi mal si avviserebbe, io ve lo domando, turbare il riposo di questa sovrana del mondo?
»Ed in tale supposizione, non più eserciti, non più flotte, e gl’immensi capitali strappati quasi sempre ai bisogni ed alla miseria dei popoli per essere prodigati in servizio di sterminio, sarebbero convertiti invece a vantaggio del popolo [225] in uno sviluppo colossale dell’industria, del miglioramento delle strade, nella costruzione dei ponti, nello scavamento dei canali, nella fondazione di stabilimenti pubblici, e nell’erezione delle scuole che tornerebbero alla miseria ed alla ignoranza tante povere creature che in tutti i paesi del mondo, qualunque sia il loro grado di civiltà, sono condannate dall’egoismo del calcolo e dalla cattiva amministrazione delle classi privilegiate e potenti all’abbrutimento, alla prostituzione dell’anima o della materia.
»Ebbene! l’attuazione delle riforme sociali che accenno, appena dipende soltanto da una potente e generosa iniziativa. Quando mai presentò l’Europa più grandi probabilità di riuscita per questi benefizi umanitari?
»Esaminiamo la situazione: Alessandro II in Russia proclama l’emancipazione dei servi;
»Vittorio Emanuele in Italia getta il suo scettro sul campo di battaglia, ed espone la sua persona per la rigenerazione di una nobile razza e di una grande nazione;
»In Inghilterra una Regina virtuosa ed una nazione generosa e savia che si associa con entusiasmo alla causa delle nazionalità oppresse;
»La Francia finalmente, per la massa della sua popolazione concentrata, per il valore dei suoi soldati e per il prestigio recente del più brillante periodo della sua storia militare, chiamato ad arbitra dell’Europa.
»A chi l’iniziativa di questa grand’opera?
»Al paese che marcia in avanguardia della rivoluzione! L’idea di una Confederazione europea che fosse posta innanzi dal capo dell’Impero francese, e che spargerebbe la sicurezza e la felicità del mondo, non vale essa meglio di tutte le combinazioni politiche che rendono febbrile e tormentano ogni giorno questo povero popolo?
»Al pensiero dell’atroce distruzione che un solo combattimento, tra le grandi flotte delle Potenze occidentali, porterebbe seco, colui che si avvisasse di darne l’ordine dorrebbe rabbrividire di terrore, e probabilmente non vi sarà mai un uomo così vilmente ardito per assumere la spaventevole responsabilità.
[226]
»La rivalità che ha sussistito tra la Francia e l’Inghilterra dal XIV secolo fino ai nostri dì esiste ancora; ma oggi, noi lo contrastiamo a gloria del progresso umano, essa è infinitamente meno intensa, di modo che una transazione tra le due più grandi nazioni dell’Europa, transazione che avrebbe per iscopo il bene dell’umanità, non può più essere posta tra i sogni e le utopíe degli uomini di cuore.
»Dunque la base di una Confederazione europea è naturalmente tracciata dalla Francia e dall’Inghilterra. Che la Francia e l’Inghilterra si stendano francamente, lealmente la mano, e l’Italia, la Spagna, il Portogallo, l’Ungheria, il Belgio, la Svizzera, la Grecia, la Romelia verranno esse pure, e per così dire, istintivamente, ad aggrupparsi intorno a loro.
»Insomma tutte le nazionalità divise ed oppresse, le razze slave, celtiche, germaniche, scandinave, la gigantesca Russia compresa, non vorranno restar fuori di questa rigenerazione politica, alla quale le chiama il genio dei secolo.
»Io so bene che una obbiezione si affaccia naturalmente in opposizione al progetto che precede.
»Che cosa fare di questa innumerevole massa d’uomini impiegati ora nelle armate e nella marina militare?
»La risposta è facile:
»Nel medesimo tempo che sarebbero licenziate queste masse, saremmo sbarazzati delle istituzioni gravose e nocive, e lo spirito dei sovrani non più preoccupato dall’ambizione, dalle conquiste, dalla guerra, dalla distruzione, sarebbe rivolto invece alla creazione di istituzioni utili, e discenderebbe dallo studio delle generalità a quello delle famiglie ed anche degl’individui.
»D’altronde coll’accrescimento dell’industria, con la sicurezza del commercio, la marina mercantile reclamerà dalla marina militare sul momento tutta la parte attiva di essa; e la quantità incalcolabile di lavori creati dalla pace, dall’associazione, dalla sicurezza, ingoierebbe tutta questa popolazione armata, fosse anche il doppio di quello che è oggi.
»La guerra non essendo quasi più possibile, gli eserciti diverrebbero inutili. Ma quello che non sarebbe inutile è di mantenere il popolo nelle sue abitudini guerriere e generose, [227] per mezzo di milizie nazionali, le quali sarebbero pronte a reprimere i disordini e qualunque ambizione tentasse infrangere il patto europeo.
»Desidero ardentemente che le mie parole pervengano a conoscenza di coloro, a cui Dio confidò la santa missione di fare il bene, ed essi lo faranno certamente, preferendo ad una grandezza falsa ed effimera la vera grandezza, quella che ha la sua base nell’amore e nella riconoscenza dei popoli.»
Il 21 finalmente il plebiscito[155] era votato, così al di qua che al di là dello Stretto. La formola: «Il popolo vuole l’Italia una e indivisibile sotto lo scettro di Casa Savoia,» era assai più comprensiva della semplice annessione al Piemonte, ma forse ne esagerarono la portata coloro che videro in esso il vincolo della Monarchia, la garanzia dell’Unità, il pegno di Roma. L’unità d’Italia era già nel fatto dell’unione di ventidue [228] milioni d’italiani; il vincolo della Monarchia stava nella storia d’una Casa, che da vent’anni aveva confuse le sue sorti a quelle dell’intera nazione; il pegno stava nell’evoluzione naturale del risorgimento italiano, e il Cavour stesso, molto prima che il plebiscito fosse bandito, lo dava al Parlamento nelle solenni parole: «Noi vogliamo fare di Roma la splendida capitale del Regno d’Italia.»
Col plebiscito e l’entrata di Vittorio Emanuele nel Regno l’opera di Garibaldi e della rivoluzione nel Mezzogiorno poteva dirsi finita. Pure, nè il Dittatore nè il suo Prodittatore lo credevano: il Pallavicino s’affaticava a profittare di quegli ultimi istanti per riordinare e migliorare l’amministrazione della cosa pubblica, quasi direbbesi, per rassettare la casa che doveva consegnare a’ novelli signori; Garibaldi sentivasi obbligato a qualcosa più che montar la guardia al Volturno; egli lusingavasi davvero di poter dare una mano non invalida a quelli che, non per una blandizia rettorica, egli chiamava «i fratelli del Settentrione;» e non nascondeva ad alcuno la nobile ambizione di combattere sul medesimo campo di battaglia al loro fianco. Quando infatti per la vittoria del Cialdini al Macerone (21 ottobre),[156] Francesco II decise di abbandonare [229] Caiazzo e la destra del Volturno, e serbando la sola Capua di ritirarsi prima verso, poi dietro il Garigliano, Garibaldi, passato il fiume a Formicola, con circa cinquemila[157] uomini, commesso alla divisione Medici di difendere da una eventuale sortita di Capua la sua marcia di fianco, s’incamminò per la strada di Venafro sulle traccie de’ Borbonici. Da Venafro, all’incontro, scendevano le avanguardie dell’esercito settentrionale, e il 26 ottobre a Caianello, poco lungi da Teano, le due schiere s’incontrarono.[158] «Erano le 6 del mattino (scrive Alberto Mario, testimonio all’episodio); Garibaldi e noi del suo seguito eravamo già discesi da cavallo. Garibaldi vestiva l’abito leggendario, e a cagione dell’umidità erasi coperto il capo e le orecchie col fazzoletto di seta annodato sotto il mento. Di lì a poco le musiche intuonando la Marcia reale annunciarono il Re, il quale arrivò sopra un cavallo arabo stornello. Garibaldi andò incontro a lui, ed egli venne verso Garibaldi fra la strada e la stradella. Garibaldi, cavatosi il cappellino, gridò: Salute al Re d’Italia, e il Re rispose: — Grazie. — Il Re soggiunse: — Come state, caro Garibaldi? — E Garibaldi fece: — Bene, e Vostra Maestà? — E il Re: — Benone. — Indi stettero a colloquio in presenza nostra un quarto d’ora. Dopo di che si partì per Teano. Il Re a destra, a sinistra Garibaldi, e, dietro, il seguito dell’uno e dell’altro alla rinfusa.[159]»
E fu allora che Garibaldi, sentendo che una battaglia [230] al Garigliano era imminente, chiese al Re l’onore del primo scontro. Ma il Re: «Voi vi battete da lungo tempo: tocca a me adesso; le vostre truppe sono stanche, le mie fresche; ponetevi alla riserva.»
Il bel sogno di Garibaldi di affratellare sullo stesso campo le camicie rosse e i cappotti grigi era ito in dileguo. Reduce la sera stessa da Calvi, disse mestamente alla signora White Mario: «Ci hanno messi alla coda;» e la frase scolpiva un’intera politica. Per metterlo alla coda era stata deliberata la spedizione dello Stato ecclesiastico, e per metterlo alla coda arrischiata l’entrata nel Regno; poteva forse parere crudele che subito, al primo incontro, Vittorio Emanuele glielo rammentasse; ma era logico. Garibaldi aveva vinto troppo: bisognava che la partita di quell’indiscreto donatore di regni fosse chiusa; bisognava dimostrare che si poteva vincere senza di lui, dovesse la vittoria costare a cento doppi più cara;[160] bisognava, e qui intendiamo l’altezza del concetto, che il futuro Re d’Italia potesse presentarsi a’ suoi nuovi popoli, non già nelle umili sembianze d’un sovranello protetto e patteggiato, ma di un vero Re soldato e conquistatore.
Garibaldi aveva finito davvero. Arrivata sul Volturno la divisione del generale Della Rocca e stabilito [231] di serrar Capua con regolare assedio e di espugnarla con bombardamenti, Garibaldi, o perchè gli ripugnasse di cannoneggiare una città italiana, o perchè stimasse la parte sua oramai accessoria e quasi superflua, lascia il comando de’ suoi, ancora campeggianti intorno a Capua, al Generale sardo, e si ritira a Napoli. Di là il 29, quasi segno di commiato, scrive al Re un’affettuosa lettera, nella quale, dopo «rimesso in sua mano il potere sopra dieci milioni d’Italiani bisognosi d’un regime riparatore,» lo assicurava che in quelle contrade avrebbe trovato un popolo civile, amico dell’ordine, quanto desideroso della libertà, pronto ad ogni sacrificio, se richiesto nell’interesse della patria e di un governo nazionale; affermava che l’Isola di Sicilia, malgrado le difficoltà suscitatevi da gente venuta di fuori, ebbe ordini civili e politici pari a quelli dell’Italia superiore, e godeva tranquillità senza esempio. Supplicava infine «mettesse sotto la sua tutela tutti coloro che egli aveva avuti a collaboratori in quella grande opera di affrancamento dell’Italia meridionale, e accogliesse nel regio esercito i suoi commilitoni che bene avevano meritato della patria.[161]»
E così gli ultimi giorni della sua Dittatura si avvicinavano. Il 31 ottobre consegnava solennemente alla Legione ungherese una bandiera ricamata per essa dalle signore napoletane; il 2 novembre Capua segnava la resa; il 4 faceva ai Mille la solenne distribuzione delle medaglie loro decretate dal Comune di Palermo; il 6 passava in rassegna sulla piazza di Caserta il suo stracciato, ma glorioso esercito, dopo aver atteso invano che il Re venisse ad onorare d’un suo sguardo i prodi che da Marsala a Sant’Angelo [232] avevano combattuto in suo nome.[162] Al dì vegnente, 7 novembre, giorno prefisso al solenne ingresso di Vittorio Emanuele in Napoli, lo accompagnava in carrozza, seduto alla sua sinistra, nella consueta sua assisa, dirimpetto i due Prodittatori, sotto una proterva pioggia che sciupava gli archi, dilavava i parati e infracidiva i fiori, ma non poteva intiepidire l’immenso entusiasmo dei Napoletani, ebbri di quel giorno tanto aspettato. E fu l’ultima comparsa pubblica del Dittatore. Gli furono offerti il collare dell’Annunziata, il grado di Maresciallo, altri onori e stipendi: rifiutò ogni cosa. L’8 di novembre consegnò a Vittorio Emanuele, nella gran Sala del trono, il plebiscito delle Due Sicilie; poscia, diretto a’ suoi compagni d’armi un ultimo belligero addio,[163] in sull’alba del 9, tacitamente, [233] clandestinamente, quasi un fuggitivo, seguíto dal Basso, dal Gusmaroli, dal Coltelletti, dal Nuvolari e da qualche altro famigliare, s’imbarcò sul Washington alla volta della sua Caprera.
[234]
Le ultime parole da lui dette ai pochi che l’avevano scortato a bordo, furono quelle del suo addio ai Volontari: «A rivederci a Roma.» Quando tutto fu lesto alla partenza, sciolse egli stesso la fune del bastimento, quasi volesse simboleggiare che scioglieva così le ritorte del potere, nel quale era stato fino allora avvinto e ricuperava la sua libertà. L’eroe però non partiva a mani vuote: Basso, il segretario, nascondeva nelle sue valigie alcune centinaia di lire, ed egli stesso aveva fatto imbarcare sul Washington, spoglie opime della conquista, un sacco di legumi, un altro di sementi e un rotolo di merluzzo secco!
Il Giornale Ufficiale di Napoli ostentò per tre giorni di ignorare la sua partenza; il Farini nell’annunciare la sua Luogotenenza ai Napoletani si scordò di nominarlo; altrettale cortesia fu suggerita al Re nel suo bando ai Palermitani, talchè fra il Liberatore che trionfa da Marsala al Volturno e il Dittatore che parte povero, oscuro e insalutato da Napoli, resterà dubbio nella storia quale sia il più grande.
[235]
Garibaldi è sparito per alcuni istanti dalla scena del mondo, ma il suo spirito è dovunque presente; egli non è più che un’ombra romita sopra un’isola deserta, ma l’eco del suo nome risuona fra i popoli più lontani, e il poema delle sue gesta empie la terra. Nessuna impresa era parsa più maravigliosa della sua. Ben altri prodigi di guerra aveva veduti il secolo nostro; di ben altre catastrofi di regni e rivolgimenti di popoli era stato testimone e narratore; ma lo spettacolo d’un uomo che seguíto da una falange quasi inerme varca incolume i mari, conquista isole e continenti, rovescia in poche settimane uno de’ più antichi troni d’Europa, ma per donarlo, s’impossessa d’una delle più felici contrade del mondo, ma per redimerla, dà terribili colpi se combatte, ma vince più coll’amore che coll’armi, disperde col solo apparire gli eserciti nemici, s’arma e ingrossa per via camminando e combattendo, vola con rapidità cesarea dall’estremo capo d’un Regno alle porte della sua Capitale, e colà giunto, basta il rosseggiare del suo [236] fantasma, basta il rumore ancor lontano del suo passo perchè il Re nemico gli abbandoni la reggia de’ suoi padri e la metropoli de’ suoi Stati, ed egli, il taumaturgo, vi entri solo e sereno come ad un convegno festivo, sorridendo alle soldatesche nemiche rimaste a vano presidio, non curando i cento cannoni puntati sul suo cammino, e trionfando più glorioso e sicuro che se l’avessero seguito le legioni di Cesare dopo Ilerda e dopo Farsaglia; uno spettacolo simile, diciamo, la storia non lo vide e non lo raccontò mai, o l’avrebbe esigliato, quasi incredula, nell’età eroica de’ miti e delle leggende.
E dicasi pure che veduti dappresso la leggenda si sfata e il prodigio dilegua; dicasi pure che l’albero della tirannide borbonica era ormai fradicio, e che Garibaldi non ebbe che urtarlo col dito per atterrarlo: varrà, ancora, per risposta quella che già diede un celebrato diario inglese:[164] «Chi se non lui conobbe che il momento della maturità era giunto; chi se non lui ebbe occhio per vedere che l’ora di colpire era venuta, discernendo il punto in cui l’impossibile diventa possibile, nel che, secondo il De Retz, sta la prima dote dei grandi uomini di Stato?»
E quando lo si accetti con la debita discrezione, nemmeno quest’ultimo attributo reputiamo improprio. Anco Garibaldi fu, in un dato momento e in un certo senso, un grande uomo di Stato. Lo fu in una guisa tutta sua ed originale; lo fu più per quell’istinto che tien luogo di genio, che per coscienza; lo fu come lo poteva essere un Capitano che non ha altro Stato fuor che quello misurato dalla sua lancia, e pianta e spianta [237] il suo governo colla sua tenda; ma, rispetto alla missione ch’egli s’era assunta, lo fu. Due fini gli erano imposti nell’Italia meridionale: liberar quei popoli; consegnarli liberati alla legittima Podestà ch’essi invocavano; e chi sappia sorvolare all’inezia de’ particolari, riconoscerà che a quei fini egli adempiette nel più breve tempo, colla maggior concordia e col minor danno possibile.
Che a lui sian mancate le doti dell’Amministratore e del Legislatore, fu abbastanza ridetto, e l’Italia, se appena conosceva la di lui vita, poteva aspettarselo; ma che quelle doti colaggiù, in quelle condizioni, gli potessero grandemente giovare, dubitiamo assai forte. Fosse stato pieno la mente di sapienti concetti legislativi, gli sarebbe pur sempre mancato il tempo ed il modo di effettuarli. Sfasciare uno Stato per ricostruirlo a un tempo, dettar buone leggi sotto il cannone, e meglio che dettarle farle obbedire, aver mestieri di governare col popolo e tenerlo a dovere, inducendolo a sopportare i freni e i carichi degli Stati ordinati, è cosa da pochi; non riuscita, che sappiamo, ad alcuno in Italia, e che, molto meno, poteva riuscire a Garibaldi.
Oltre di che, è egli vero che tutte le provvisioni e le leggi prese o scritte in suo nome nel Mezzogiorno siano state del pari improvvide o stolte? A dire il vero un siffatto quesito si converrebbe meglio in una storia della Dittatura che in una vita di Garibaldi, e ciò per quella ragione, già altrove toccata, ma che giova il rammentare, che dei tanti decreti firmati da Garibaldi Dittatore ben pochi sono quelli, di cui egli abbia avuto chiara coscienza, e gli spetti perciò la piena ed intera responsabilità. Consiglio e fattura de’ suoi Prodittatori e Ministri, ad essi [238] il risponderne! Tuttavia chi voglia accomodarsi d’una finzione legale, e nel Dittatore impersonare tutta la Dittatura, troverà che personificatori e personificati hanno a temere il giudizio dell’equa posterità men di quanto fu scritto.
E non si parli della promulgazione dello Statuto sardo e delle altre leggi che ne sono adempimento; atto lodevole, per fermo, ma assai più politico che amministrativo, di cui furono ottime le intenzioni, ma assai remoti gli effetti. Parliamo soltanto di quelle provvisioni che rendevano testimonianza d’un concetto e d’un indirizzo governativo, che miravano ad un fine pratico e vicino, di cui si poterono vedere sin da principio i frutti o almeno i germogli.
In paese dove la magistratura era apparsa troppe volte strumento servile della tirannide, la purificò dagli elementi più screditati ed aborriti, riordinò i Tribunali, rintegrò, dopo il breve interregno delle Commissioni speciali, le Corti ordinarie, avviò il corso regolare della giustizia, ne ravvivò la fede ed il decoro.[165] E in quelle medesime contrade dove la Polizia non aveva lasciato nella mente altra immagine che quella di un’occulta veheme di delitti e di sangue, e dove nessuno de’ suoi vecchi arnesi era stato risparmiato dalla vendetta popolare, restaurò colla stessa legge sarda la pubblica sicurezza; istituì i corpi delle Guardie e de’ Carabinieri, e li rese rispettati; ottenne una tregua ai reati che parve portentosa.
Fallitogli il nobile tentativo di estendere alla Sicilia, ineducata al debito dell’armi, la legge uguagliatrice [239] della coscrizione, introdusse nel suo esercito le ordinanze e persino avrebbe voluto le assise piemontesi;[166] e frattanto diè vita così al di qua come al di là dello Stretto alle prime Legioni di quella Guardia Nazionale, che fu, specialmente a Napoli, esemplare tutela d’ordine e di sicurezza. Riaprì ed avviò a nuovo indirizzo le Scuole, i Licei, le Università; riordinò il Museo napoletano; fondò a Palermo una Scuola militare per gli adolescenti, ed a Napoli un Collegio gratuito pei figli dei popolani poveri.[167] Aprì in Napoli dodici Asili infantili;[168] assegnò mille scudi annui agli scavi di Pompei; spegnò i piccoli pegni del Monte di Pietà;[169] decretò il miglioramento delle Carceri[170] e la scarcerazione dei prigionieri politici; abolì il nefando privilegio della Comune di Pizzo,[171] benemerita ai Borboni della morte di Murat; accordò pensioni alle famiglie dei morti o mutilati per la patria; perdonabile anche quella alla madre ed alle sorelle di Agesilao Milano; come perdonabile che un uomo siasi creduto in diritto di dare la propria testa per liberare la terra da quel mostro, che passò nella storia col nome di «Re Bomba.»
[240]
Abolì le decime e le manimorte; incamerò i beni reali ed ecclesiastici, assegnando però una pensione ai Vescovi ed una cassa di sussidio al Clero minore; soppresse infine l’ordine dei Gesuiti, ma ne tolse il diritto dalla storia e l’esempio da tutta l’Europa civile.
In fatto poi di Finanza camminò sulle orme di tutti i Governi rivoluzionari; annullò l’odiosa gabella del macino, come l’aveva annullata la rivoluzione del 48; abolì, anzi bruciò pubblicamente la carta bollata; decretò, sogno onesto, la soppressione graduale del lotto, surrogandovi le Casse di Risparmio; atterrò ogni barriera doganale tra Sicilia e Napoli; fece prestiti e convertì la Rendita pubblica;[172] ma quando il bilancio siciliano fu sottoposto all’esame del Parlamento, restò bensì controverso se avesse lasciato risparmi, e fu disputabile se quei prestiti potevano essere contratti a condizioni più laute; ma nessuno, nemmeno il più acuto e facondo economista della Camera,[173] potè tassare l’Amministrazione della Dittatura, non [241] che d’abusi e di malversazioni,[174] di gravi irregolarità. Il maggiore addebito che potè essergli rivolto fu d’aver ecceduto nella largizione degl’impieghi e nel dispendio de’ salari. Ma se il Farini potè dire, difendendo dalla medesima accusa il bilancio dell’Emilia: «Non nego siansi collocati in impiego uomini nuovi. Fu principalissimo intendimento del Governo di chiamare ne’ primi posti di fiducia que’ cittadini che per causa di libertà avevano sofferto persecuzioni ed esiglio. Ed infra i dolori che tormentano chi in tempi nuovi è chiamato ad amministrare la causa pubblica, rammenterò sempre fra’ più acerbi quello di non poter esaudire tanti uomini sventurati, che, in nome delle loro famiglie, in nome della fede politica, invocano un collocamento, cui credono aver loro dato diritto le sventure patite;» perchè non si meneranno buone le stesse ragioni alle Dittature di Napoli e di Sicilia, dove la febbre degl’impieghi e delle pensioni scoppiò con tutti i sintomi d’un fiero contagio; dove i patriotti, che nel 1848 avevano «salvato la patria,» che nel decennio avevano patito nelle prigioni e negli esigli, pullulavano a sciami dal suolo; dove certamente lo strazio d’onest’uomini, che aveva fatto il governo «negazione di Dio,» era stato sì lungo ed immane?
Non è questa un’apologia, è pura difesa della verità. Errori la Dittatura di Garibaldi ne commise e [242] non pochi; ne commise colla Prodittatura Depretis e colla Prodittatura Mordini, colla Segreteria Crispi-Bertani e colla Prodittatura Pallavicino; coi Ministri cavourriani e coi Ministri rivoluzionari; ma qual Governo non ne ha commessi? Quella stessa Luogotenenza regia che s’annunziava medicatrice di tutti i mali, e riparatrice di tutti i torti, succeduta alla Dittatura in giorni relativamente calmi, già queta la marea rivoluzionaria e ormai ridotta a un torneo innocuo la guerra, nuova di prestigio, di forza e d’autorità, quanti errori non commise ella in breve spazio di tempo? Quanto malcontento di popolo non suscitò; quante speranze non deluse, quanti pericoli non rinnovò? Fallirono a Napoli, l’uno dopo l’altro, il Farini e il principe di Carignano; a Palermo il Montezemolo e il Della Rovere, e non correranno molti mesi che Deputati di parte loro si leveranno nel Parlamento italiano[175] ad incolpare le Luogotenenze di torti e d’abusi anche maggiori di quelli ond’era stata incolpata la Dittatura; con questa sola, ma sensibile differenza, che mentre il Governo di Garibaldi era rimproverato d’aver troppo ciecamente favorito i rivoluzionari ed i repubblicani, il nuovo Governo di Vittorio Emanuele era accusato dello stesso favore a tutto beneficio dei Borbonici e dei reazionari.
Il primo atto di Garibaldi, rimettendo il piede nella sua Caprera, fu di levare le briglie e mandar sciolti per l’Isola i suoi due cavalli di battaglia, affinchè ad essi pure non fosse tardata quella libertà ch’egli veniva [243] impaziente a cercare. E ciò fatto tornò senz’altro al suo consueto tenore di vita, come se tutta quella splendida pompa di potere, di trionfi, di gloria, in che aveva vissuto sette mesi, non gli avesse lasciato nell’anima che sazietà e stanchezza. Deideri, il suo fedele amico e compaesano di Nizza, gli aveva fatto costruire, accanto all’antica, parte con danari suoi, parte col tributo d’altri amici, parte cogli stessi risparmi del Generale, una nuova casa più comoda e più signorile; pure l’antico mozzo gradì la sorpresa e ringraziò del dono, ma non volle abbandonare la sua vecchia casetta, costrutta in tanta parte col sudor della sua fronte; e continuò a dormire in quella medesima stanzetta a pian terreno, la prima a sinistra di chi entra, in cui aveva abitato la prima notte che ebbe un tetto nell’Isola.
Nel rimanente, si levava come per lo passato all’alba, il primo di tutta la colonia, e alternava le sue ore tra la pesca e la caccia (rese talvolta necessarie dalla mancanza del companatico quotidiano), e la coltura di que’ pochi frastagli di terreno che la roccia concedeva e ch’egli, con ingenua pomposità, decorava col nome di campi e di vigne. E il luogo più favorito di que’ giorni era il Fontanaccio, un quarto forse dei celebri quattro iugeri del Romano, tutto frastagliato e scaccheggiato per giunta di roveti e di scogli, e da cui Garibaldi s’era fitto in capo di cavare il suo podere modello. Ed era laggiù che voi potevate vederlo più di sovente, ora affaccendato a sterpare, a potare, a innestare, e qui a piantare un filare di magliuoli siciliani, là a zappare un quadrato di fave napoletane, più sotto a riparare dalle prime sferzate del grecale una buttata d’aranci novelli, più sopra a vegliare allo scavo d’un futuro pozzo artesiano; ora [244] seduto sopra un certo gradino, naturale rialzo del terreno, col cappello sugli occhi e il sigaro spento nella mano, lo sguardo fisso sul mare, tutta la persona immobile e quasi abbandonata, a guatar nel vuoto, a fantasticare, a nuotare nel pelago infinito delle sue ricordanze e dei suoi sogni, tuffandovisi dentro colla voluttà del poeta:
E ’l naufragar m’è dolce in questo mare.
Non eran quelle sole le sue fatiche, un’altra men geniale gli era imposta dalla stessa celebrità cresciuta, ed era, o avrebbe dovuto essere, lo smaltimento della mole di giornali e di lettere che ad ogni corriere gli arrivava. È ben vero che dei giornali finiva a non leggerne più che tre o quattro (preferito a quei giorni il Movimento di Genova), e che delle lettere lasciava quasi tutta la briga al suo segretario Basso, od al primo amico che volesse rendergli quell’ufficio, il quale poi lettogliene sommariamente il contenuto, e separate quelle condannate al paniere, dalle poche ammesse all’onore d’una risposta, la scriveva ora sotto dettatura del Generale stesso, ora di suo capo, e poi, usanza tradizionale e tuttora inviolata in Caprera, la spediva irremissibilmente a chiunque si fosse «senza francobollo postale.»
E come le lettere, cominciavano a piovere da ogni parte le visite. Avreste detto che Caprera fosse divenuta la Mecca della Democrazia europea. Non passava venerdì che il postale di Sardegna non sbarcasse alla Maddalena una brigata più o men grossa di pellegrinanti a quella Medinat-al-Nabi dell’eroe; e come è facile immaginare, era un brulicame di tutte le razze e di tutti i colori. Col vecchio amico e commilitone veniva il curioso importuno e il piacentiere sguaiato: [245] coll’innocente idolatra, alla conquista d’una firma o d’una fotografia, accompagnavasi lo scroccone volgare alla cerca d’un’elemosina o d’una commendatizia: le Deputazioni patriottiche, cariche d’indirizzi o di regali, gareggiavano colle ambasciate politiche, o politicanti, portatrici di piani di guerra o di abbozzi di programmi: la filantropessa inglese incontravasi colla emancipatrice americana e la socialista russa: gli emissari occulti di Mazzini s’incrociavano agli agenti segreti del Re: una carovana di emigrati veneti, trentini, istriani, romani, mescolavasi di continuo ad una processione interminabile di proscritti ungheresi, polacchi, spagnuoli, greci, russi, tedeschi, serbi, valacchi, insomma di tutto il mondo dove si sognava, si soffriva o si congiurava per una patria, e Garibaldi tutti accoglieva coll’usata cortesia ed ospitalità; un’ospitalità che poteva parere talvolta assai magra e quaresimale a chi la riceveva, ma che riusciva, per il gran numero, dispendiosissima e soverchiante a chi la dava.
Ma ognuno intende che siffatta pace non era che apparente. «Cincinnato» (il soprannome, divenuto poi volgarmente sazievole, gli fu imposto a que’ giorni) era tornato suo malgrado all’aratro, e ben diverso dal romano, non avrebbe accolto sospirando gli oratori del Senato che gli offrivano la Dittatura. Le parole del suo ultimo bando ai Volontari: «Se il marzo del 61 non trova un milione d’Italiani armati, povera libertà, povera vita italiana!...» non erano, sulle sue labbra, una figura rettorica; non è retore mai chi è pronto a confermare la frase col sangue; ma voto ardente e convincimento profondo dell’animo suo. Sinceramente egli credeva che la prossima primavera del 1861 non potesse passare senza una grande conflagrazione di popoli; vedeva già l’Ungheria e i Principati [246] Danubiani insorti: non dubitava un istante che, gettata una scintilla, tutta l’Europa, da Mantova a Galatz, andasse in fiamme: affermava che era un sacro dovere l’Italia farsi antesignana e aiutatrice del grande riscatto, e capitanarlo.[176]
Nè a questo pensiero frammischiavasi alcun intendimento di ribellione. Non solo Garibaldi tenevasi stretto per debito di lealtà alla bandiera di Marsala; ma credeva più che mai che in quella sola stesse la salute d’Italia. Soltanto voleva, e qui rincomincia il suo dissidio col conte di Cavour, che il Governo scrollasse il giogo umiliante delle alleanze straniere, della napoleonica principalmente, raccogliesse in un fascio solo tutte le forze vive combattenti dell’Italia, e, senza riguardo a colore e partito, le avventasse tutte insieme all’ultima battaglia della redenzione d’Italia. «Che il conte di Cavour armi (diceva un giorno a Caprera a due suoi amici[177]), ed io sono politicamente con lui,» e in questo concetto stette prima, stava allora, starà poi tutta la sua politica. E dicasi pure che un simile linguaggio nascondeva una condizione imperiosa, [247] e, se vuolsi, anche una minaccia; ma non poteva dirsi ancora un cartello di sfida e una manifesta ribellione. Garibaldi era sempre nella legalità. Voleva spingere, spronare il Governo; ma il proposito di forzargli la mano e di trascinarlo a forza non gli era spuntato ancora nell’animo, o almeno da nessun suo scritto o discorso traspariva. E di ciò fanno principale testimonianza quei Comitati di provvedimento per Roma e Venezia, progenie diretta di quelli che il Bertani aveva già fondati per la Sicilia, e che Garibaldi aveva consentito a ricostituire siccome gli organi destinati a dar vita e disciplina a quel concetto di armamento universale della nazione, che era, a’ suoi occhi, lo stromento ed il simbolo insieme d’ogni vera rigenerazione. Nella mente sua siffatti Comitati dovevano essere aiuto, non impedimento, al Governo: propagare le idee, preparare gli animi, ordinare le forze, apprestare i mezzi, come già erano stati apprestati per Marsala, ma senza sconfinar per anco dalla legge; procedendo sempre d’accordo col Governo che la nazione s’era dato, rammentando il giuramento fatto al suo Re, e attendendone il cenno, che non parevagli poter essere lontano.
«Io desidero[178] (scriveva al segretario de’ Comitati, [248] Bellazzi) l’apertura concorde di tutti i Comitati italiani per coadiuvare al gran riscatto. Così Vittorio Emanuele, con un milione d’italiani armati, questa primavera chiederà giustamente ciò che manca all’Italia.» E due settimane dopo, agitatosi e deliberato dalla Presidenza de’ Comitati il programma definitivo dell’Associazione, scriveva anche più esplicitamente:
«Accettando la presidenza dell’Associazione dei Comitati di provvedimento e dando la mia adesione ai tre articoli formulati dall’Assemblea generale il 4 di questo mese, nomino come mio rappresentante presso il Comitato centrale il generale Bixio, autorizzandolo a farsi sostituire, occorrendo, da una terza persona di sua piena fiducia.[179]
Il Comitato centrale, invocando il patriottismo degli Italiani, insisteva tenacemente presso tutti i Comitati di provvedimento, eccitandoli a promuovere nuove oblazioni tra i nostri concittadini, e a riunire tutti i mezzi necessari ad agevolare a Vittorio Emanuele la liberazione della rimanente Italia.
Altra delle precipue cure del Comitato centrale dovrà essere quella di istituire Comitati in tutti i punti della Penisola, ove non esistessero ancora, onde al più presto da un capo all’altro d’Italia, non esclusa la Venezia nè Roma, si trovi l’associazione organizzata, ed operi simultanea, concorde e rapidamente, obbedendo a un medesimo impulso.
Il Comitato centrale dovrà, come parola d’ordine di tutti i giorni, d’ogni momento, ripetere incessantemente a tutti i Comitati e cercare per ogni altra via di farlo penetrare nell’animo di tutti gl’italiani: — che nella prossima [249] primavera di quest’anno 1861 deve irremissibilmente porre sotto le armi un milione di patriotti, unico mezzo a mostrarci potenti e farci veramente padroni delle nostre sorti e degni del rispetto del mondo che ci contempla.
»Credo debito mio rendere avvertiti i Volontari che nessun arruolamento è stato da me promosso, nè consigliato per ora.
»Un giornale col titolo di Roma e Venezia (il quale, ispirandosi ai concetti enunciati, predichi la necessità della Guerra santa a far cessare una volta la vergogna che pesa sull’Italia, e che in pari tempo inculchi agli elettori, come uno dei mezzi più efficaci a raggiungere l’intento, la scelta dei deputati, che mirando anzitutto al totale affrancamento ed integrità d’Italia impongano al Governo il generale armamento della nazione) deve essere fondato in Genova senz’altro indugio.»
Questi e non più erano i pensieri di Garibaldi nel gennaio del 1861; che se mutarono in appresso, prepariamoci a seguirne le fasi ed a penetrarne le cagioni, cominciando però a notare attentamente le date, ed a rispettare la cronologia, che mai, come in questo periodo della vita dell’eroe, così copiosa di contraddizioni e di evoluzioni, meriterà il suo nome di «occhio della storia.» Non abbiamo negato mai, riconfermiamo anzi, che un siffatto programma poteva contenere in germe quel diritto dell’iniziativa individuale che fu per parecchi anni nel Parlamento e fuori la divisa della parte rivoluzionaria, o garibaldina che vogliasi dire; ma a’ giorni di cui discorriamo, quel germe non era ancora venuto a maturanza, nè l’idea, vagamente adombrata nelle sonanti frasi dei proclami, tradotta in una formola precisa, e soprattutto cimentata al paragone de’ fatti. Però di Garibaldi allora non disdice ripetere quel che un giornale massimo di parte moderata scriveva ancora con benignità di lui: «Se i [250] Comitati cammineranno come desidera il Generale, il paese l’asseconderà ed applaudirà, così come applaude ai generosi sentimenti, coi quali il generale Garibaldi desidera la concordia di tutti i partiti.[180]
Uno dei più intricati problemi, legati dalla rivoluzione al Governo italiano (gli spettava questo nome, dacchè il Parlamento, nella persona di tutti i rappresentanti della Penisola, aveva proclamato il Regno d’Italia e Vittorio Emanuele suo Re), era quello dell’esercito meridionale. Garibaldi nell’ultima sua lettera a re Vittorio[181] gli aveva detto: «Io imploro dalla Maestà Vostra che accogliate nel vostro esercito i miei commilitoni che hanno bene meritato della patria e di Voi;» ma egli ignorava probabilmente che non era in arbitrio di Re costituzionale il cedere o resistere a siffatta preghiera.
Infatti, due giorni dopo della partenza di Garibaldi, usciva un Ordine del giorno del Comando supremo dell’esercito, tradotto poi in Decreto,[182] in cui, proclamati i Volontari benemeriti della patria, li dichiarava però Corpo separato dall’esercito regolare, offriva ai gregari la scelta tra due anni di ferma o il congedo con tre mesi di soldo, ed agli ufficiali l’alternativa tra uno scrutinio de’ loro titoli fatto da apposita Commissione e la rinuncia della spada, mercè sei mesi di stipendio.
[251]
Questa provvisione, come era da attendersi, anzichè contentare, ferì nel vivo tutta la parte garibaldina, così la frazione militare come la politica, e la fece scoppiare in altissimi lai. Nè gli argomenti alle querele difettavano. O come, dicevasi, gridate benemerito l’esercito del Mezzodì e nell’ora stessa lo colpite di sospetti e d’ostracismo! Promettete che la milizia de’ Volontari sarà conservata e poscia collo spaventacchio della ferma di due anni in una mano e l’offa del congedo salariato nell’altra, la fate fuggire e la sciogliete! Accogliete senza tanta ritrosia nè inquisizione nelle file dell’esercito gli ufficiali ducali, granducali, borbonici, avanzi la maggior parte di corti servili e di caserme oziose, strumento fino all’ultima ora delle tirannidi domestiche, più corruttrici delle straniere, e codesti di Garibaldi, reliquie di tutte le battaglie italiane, li sogguardate con sospetto, li ponete al duro bivio o d’un sindacato umiliante, o d’una rinuncia prezzolata, e pareggiandoli alla bassa condizione di mercenari, li avvilite e li corrompete insieme?! Infine non è lecito, soggiungevano coloro che riguardavano le cose dal più alto punto della politica, disperdere in momenti così solenni tanto prezioso tesoro di giovani forze: il Governo, sacrificando il supremo fine dell’armamento nazionale a misere gelosie di parte o convenienze di persone, si chiarisce dimentico del primo fra i suoi doveri; e tenendo divisi i figli della stessa patria destinati a formare un solo esercito, sotto una sola bandiera, alimenta egli pel primo quel funesto antagonismo, che a parole tanto depreca, e prepara colle sue mani l’armi della discordia civile.
Ma nemmeno alla parte contraria facevan difetto le buone ragioni. L’armamento della nazione, ripeteva, è nei propositi del Governo; tanto vero che il decreto [252] dell’11 novembre conserva il Corpo dei Volontari e lo riordina. A due soli patti però era possibile dare una forma organica e durevole a una milizia siffatta: rendendone stabile la forza, mediante una ferma purchessia; depurandone i quadri, previa un sindacato. E come una lunga ferma obbligatoria repugnava alla natura ed al nome stesso di volontari, così quella facoltà, tanto censurata, di scegliere tra l’assoldamento e il congedo, diveniva una imprescendibile necessità. Nè diversamente poteva comportarsi quanto agli ufficiali. Una cerna era indispensabile, così per scemarne la quantità che per migliorarne la qualità. Non si dimentichi mai che erano settemila, circa un ufficiale ogni sei soldati;[183] che in mezzo a loro, tra non pochi egregi per singolari virtù militari e civili, parecchi non avrebbero saputo come giustificare le loro «favolose promozioni,» e moltissimi come chiarire la loro fosca origine e la lor dubbia vita; che perciò nessuno avrebbe potuto accoglierli alla cieca nelle file d’un esercito di specchiato carattere e di pure tradizioni, come il piemontese, dove i gradi erano sudato frutto non che del valore, dell’anzianità, dello studio, della esperienza, senza offendere l’esercito stesso e rischiare di corromperlo e scompaginarlo profondamente.
E ciò basti alla cronaca dell’increscioso litigio; chè il giudicarne sarà ufficio di più tarda e più fredda posterità. A parer nostro (è parere, non sentenza), si errava da entrambi le parti. Avevano torto i Garibaldini di presentare il conto, e torto il Governo di tirare di prezzo: torto i primi di querelarsi di una [253] legge, della quale, o per un verso o per l’altro, gli uni intascando il soldo e andandosene liberi, gli altri restando nelle file e aspettando a lor agio la conferma, tutti si avvantaggiavano; e torto il secondo di non avere, intorno a sì importante questione, un’idea netta e una volontà recisa, lasciando estendere e divampare, mercè una fiacca altalena di ripulse irose e di concessioni avare, un braciere di discordie che poteva riuscire funesto; torto infine tutti quanti permettendo che un alto problema di difesa nazionale immiserisse in un meschino piato di salari e di stipendi; talchè paresse che l’amor d’Italia fosse il pretesto, e il fine ultimo e vero, le spalline, le pensioni, la carriera di due eserciti rivali.[184]
[254]
E com’è naturale, ogni parola della gran contesa ripercuotevasi a Caprera: non passava corriere che Garibaldi non fosse costretto a riudire, dalle innumeri lettere e gazzette che da ogni dove gli fioccavano, l’eco delle lamentazioni de’ suoi compagni d’armi, accompagnata dalla pittura, più o men fedele, degli strapazzi e delle persecuzioni di cui il Governo li angariava; e non passava corriere che sulla fronte del Generale non calasse una nuova nube, e sull’anima, non per anco purgata dalla ruggine antica, non piovessero nuove e più acri stille d’amarezza. E non perchè egli desse ragione in cuor suo a tutte quelle querimonie, ma perchè colle sorti de’ suoi commilitoni, che non avrebbe mai potuto abbandonare senza parer egli medesimo improvvido ed ingrato, vedeva identificata la causa dell’armamento nazionale, dell’armamento, s’intende, quale lo concepiva egli, che era ormai il solo verbo della sua politica, il solo regolo delle sue azioni, l’unica corda vibrante nell’anima sua.
Quando però a quella dei Volontari venne ad intrecciarsi la questione delle provincie meridionali, e [255] nella stampa cominciò a rumoreggiarne e nello stesso Parlamento a penetrarne la discussione, ed ai richiami de’ suoi vecchi camerata vennero ad aggiungersi gli appelli de’ suoi amici di Palermo e di Napoli, che lo pregavano a riassumere nel suo patrocinio la causa delle loro provincie sgovernate, egli, che non aveva voluto accettare, sino allora, alcuna candidatura,[185] accetta quella del Collegio di Napoli offertagli come protesta; vi è eletto il 30 marzo alla quasi unanimità: parte il 1º d’aprile da Caprera; sosta poche ore del 2 a Genova, e riparte la sera stessa per Torino, deliberato a entrare egli pure in Parlamento ed a partecipare alla lotta.
La inattesa apparizione aveva sorpreso amici ed avversari.[186] Tuttavia, mentre i primi s’affrettavano a trarne profitto pei loro fini, i secondi non seppero con alcun onesto artificio e lieta accoglienza prevenirne gli effetti. I più importanti fra i Cavourriani, [256] lungi dall’accostare il Generale per tentar d’illuminarne e correggerne le idee, affettavano di cansarlo; la stampa moderata lo apostrofava di superflue paternali e di alteri consigli; il Governo stesso, infine, aspettava proprio l’indomani del suo arrivo sul continente per far perquisire in Genova le stanze del Comitato centrale di provvedimento, cercandovi, invano, indizi di arruolamenti, gettando in faccia al Generale ed alla parte sua una inutile od almeno intempestiva provocazione, aggiungendo nuova esca alle tante materie predisposte all’incendio. Conseguenza pertanto di questi due fatti furono le interpellanze del deputato Brofferio per chiedere ragione al Ministero della perquisizione di Genova e la interpellanza del deputato Ricasoli per invitare con indiretta, ma chiara intimazione il generale Garibaldi a scolparsi di certe parole, irriverenti al Re ed al Parlamento, attribuitegli dalla stampa e sollecitare al tempo stesso il Ministero a rispondere della di lui intenzione circa all’esercito dei Volontari. E poichè il Ministero non volle dare al Brofferio soddisfazione alcuna, anzi rincarò con parole, nè tutte giuste, nè tutte opportune, il torto di Garibaldi e de’ suoi; e al Ricasoli invece, quasi il suo invito non fosse che il frutto d’un tacito accordo, si dimostrò premuroso, anzi impaziente, di dar ragione; così la prima battaglia parlamentare tra la parte garibaldina e la cavourriana, quella battaglia preparata da dodici mesi di ostilità, di sfide, di scaramucce, desiderata forse più dai gregari, ma non saputa evitare con abbastanza prudenza dai capi, si annunciò ad un tratto imminente ed inevitabile.
[257]
Ed eccoci alle memorabili Tornate dei 18, 19 e 20 aprile. Fin dal 14 il Generale aveva inviato al Presidente della Camera una lettera ed un progetto di legge: nella lettera respingeva, sdegnando giustificarsene, le parole irriverenti al Re ed alla Rappresentanza nazionale, appostegli da’ giornali;[187] nel progetto di legge, ombra pallida del suo pensiero, consiglio e fattura de’ suoi amici, specie del Depretis, proponeva [258] come rincalzo all’esercito l’istituzione delle Guardie nazionali mobili; chiamando a parteciparvi tutti i validi da’ diciotto ai trentacinque anni.[188] Ma il Governo, pure ammettendo la discussione della proposta, la fece rimandare agli Uffici e aspettò a piè fermo il giorno della interpellanza.
Il 28 aprile Garibaldi fece la sua prima entrata nel Parlamento italiano; e pari alla celebrità dell’uomo ed alla straordinarietà dell’evento fu l’aspettazione. Vestiva la stessa foggia che da Quarto in poi non aveva più abbandonato: sombrero spagnuolo in mano, camicia rossa, poncio grigio; abbigliamento, se vuolsi, strano assai per un Parlamento, e nel quale si può anche convenire che talvolta si pavoneggiasse, ma che egli aveva fatto suo per quello spirito di originalità e d’indipendenza quasi selvaggia, che era l’essenza vitale del suo carattere; abbigliamento che egli preferiva alle sgarbate uniformi ed alle complicate bardature [259] delle nostre mode per la ragione medesima, per la quale preferiva il suo scoglio di Caprera a tutte le metropoli del mondo, una zuppa di fave ai più elaborati manicaretti di Brillat-Savarin; che portava insomma perchè gli piaceva ed era cresciuto, ragazzo male avvezzo dal destino, facendo sempre il piacer suo, ma senza metterci, come fu detto, alcun recondito fine di teatralità, e certo senza sospettare di mancar di reverenza a chicchessia.
Lo accompagnavano, uno per fianco, quasi lo menassero prigione, il letterato Macchi e il professore Zuppetta, accompagnatura a ver dire poco marziale: quando comparve al sommo dell’ultimo settore di sinistra un uragano d’applausi scoppiò anche dalle ultime gallerie; e non poteva parere onore straordinario, se la stessa accoglienza era stata fatta all’ammiraglio Persano, e sarà tra poco ripetuta al generale Cialdini.
Cessate le salve festive, il fuoco vero cominciò. Anco un breve sunto di quelle tre giornate parlamentari esorbiterebbe da questo libro: bastino a ritrarne la fisonomia i tratti più caratteristici. Aperse il dibattimento il Ricasoli con un esordio, più solenne che necessario, conchiudendo colla domanda già annunziata circa ai Volontari in particolare ed all’armamento in generale, e invitando il Governo a dar spiegazione del suo ultimo decreto dell’11 aprile, pel quale erano istituiti i quadri di tre divisioni di Volontari, ma posti i loro ufficiali in disponibilità. Toccò a rispondere al Fanti, e fu, come al suo solito, infelice; lesse, con lena affannata e accento sbiadito, un lungo discorso infarcito di particolarità, di cifre, di citazioni, di raffronti non sempre appropriati; nel quale ricantate le note argomentazioni dell’impossibilità [260] di tenere sotto le armi Volontari in pace, del soverchio numero degli ufficiali, delle promozioni favolose, della necessità d’una cerna, finiva dichiarando che nulla aveva da mutare, perchè in nulla aveva fallito, e invocava tranquillo la fiducia dalla Camera.
Fu allora la volta di Garibaldi. Ringraziò il Ricasoli d’aver posta quella importante questione; preludiò alla concordia; respinse da sè ogni imputazione di colpa in quel dualismo, cui il Barone aveva accennato, perocchè «tutte le volte che quel dualismo potrà nuocere alla gran causa del paese, egli piegò e piegherà sempre;» chiedendo soltanto «ai rappresentanti della Nazione, se come uomo egli avrebbe mai potuto porgere la mano a colui che lo fece straniero in Italia.» Se non che, a un certo punto, entrato a discorrere del suo esercito, senza alterazione, senza transizione di sorta, senza lasciar presentire ad alcuno la procella che stava per scatenare, esclama che i «prodigi dell’esercito meridionale furono offuscati solamente quando la fredda e nemica mano di codesto Ministero faceva sentire i suoi malefici effetti,» e come se ciò fosse poco ancora, punto badando all’agitazione che quelle prime parole avevan già suscitata in tutta la Camera, scaraventa in mezzo all’Assemblea, in faccia ai Ministri nient’altro che questo colpo di folgore: «quando l’amore della concordia e l’orrore d’una guerra fratricida, provocata da questo stesso Ministero....» e più forse avrebbe detto, se un tuono di grida indignate non avesse tronca a mezzo l’atroce ingiuria. Il conte di Cavour, pallido d’ira, balza dalla sua scranna e grida con quanto ha di voce: «Non è permesso insultarci a questo modo; signor Presidente, faccia rispettare il Governo ed i rappresentanti della Nazione;» il Presidente ammonisce, [261] scampanella, si sgola a sua volta: la Destra e il Centro strillano, ululano, si dimenano come ossessi: la Sinistra è muta, stordita, quasi mortificata dalla sortita del suo Capitano; ma Garibaldi, con quella medesima ostinazione che sul campo di battaglia e quando più imperversa la bufera nemica lo faceva invincibile, ripete ancora con voce tonante: «Sì la guerra fratricida....» Talchè nuova e più fragorosa stroscia di proteste e di richiami; la Destra urla: All’ordine; la Sinistra ribatte: Libertà di parola; il tumulto è al colmo: «Molti Deputati (trascriviamo il Resoconto parlamentare) abbandonano i loro stalli.... rumori da tutte le parti della Camera. Il Presidente si copre il capo; gran numero di Deputati è sceso nell’emiciclo, dove si disputa vivamente. La seduta rimane sospesa per un quarto d’ora; cessata l’agitazione dolorosa, la seduta è ripresa alle ore 4 in profondo silenzio.»
La parola toccava novamente al Generale: il Presidente gliela dà coll’ammonizione che gliel’avrebbe tolta se avesse trascorso ancora; egli se la ripiglia imperturbato, come se nulla fosse accaduto e senza un motto, non che di scusa, di schiarimento o di spiegazione, continua il suo discorso. E per un po’ tutto pareva rimesso sulla buona via. Garibaldi leggendo più che parlando, dappoichè era evidente che una parte del discorso gli stava scritta davanti, continua a far la censura dei provvedimenti del Fanti: questi a difendersi, quegli a replicare: a primo aspetto sarebbesi detto che la calma era tornata, se una nube vagante su tutti i banchi dell’Assemblea non avesse avvertito che il nembo non era sciolto per anco e che poteva riscoppiare. E lo sentì per primo Nino Bixio, e fu allora che gli uscirono dall’anima grande, sfolgoranti come una spada, alternate di gemiti e di bestemmie, [262] grido di eroe che combatte e angoscia di figlio che prega, le più potenti e ispirate parole che sian mai state proferite in un Parlamento italiano: «Io sorgo in nome della concordia e dell’Italia (Bravo, bravo). Quelli che mi conoscono, sanno che io appartengo sopra ad ogni cosa al mio paese.... (Segni d’approvazione). Io sono fra coloro che credono alla santità dei pensieri che hanno guidato il generale Garibaldi in Italia (bravo!); ma appartengo anche a quelli che hanno fede nel patriottismo del signor conte di Cavour (Applausi). Domando adunque che nel nome santo di Dio si faccia un’Italia al di sopra de’ partiti (Applausi vivissimi e prolungati dalla Camera e dalle tribune). Io faccio un discorso che non sarà del tutto parlamentare. Ma quanto agli uomini come il generale Garibaldi e come il conte di Cavour, debbo dire che c’è la disgrazia (e tutto al mondo non può andar bene) che si cacciano in mezzo un’infinità d’altri uomini che mettono la discordia (bene); questo non posso astenermi dal dirlo (Applausi). Ebbene, io ho una famiglia, e darei la mia famiglia e la mia persona il giorno che vedessi questi uomini e quelli che con il signor Rattazzi hanno diretto il movimento italiano stringersi la mano (Segni di approvazioni). Per l’amor di Dio non pensiamo che ad una cosa. Il paese nostro non è ancora abbastanza compatto, queste discussioni ci pregiudicano nell’opinione dell’estero. Il conte di Cavour è certamente un uomo generoso; la seduta d’oggi nella prima sua parte dev’essere dimenticata, è una disgrazia che sia succeduta, ma vuol essere cancellata dalla nostra mente. Ecco quello che io volevo dire (Applausi vivissimi e prolungati).»
Non poteva essere sordo al nobile appello il Conte; e rimossa da sè l’accusa d’esser stato nemico de’ Volontari, [263] rammentando al Generale ch’egli primo aveva pensato ad istituirli chiamando lui a comandarli, dichiarò, fra gli applausi dell’Assemblea, che la prima parte di quella seduta tenevala per non avvenuta; opponevasi solo alla proposta del Generale per alte ragioni politiche, pel timore soprattutto che gli arruolamenti da lui voluti potessero essere interpretati come provocazione di guerra; ma quanto ai Volontari ripeteva le sue proteste di stima e simpatia, desiderando che quelle sue parole «fossero accolte dall’onorevole Generale e da’ suoi amici politici collo stesso sentimento di concordia e di schiettezza, colle quali egli le pronunciava a nome del Ministero.»
E Garibaldi, soggiunte alcune spiegazioni sui Cacciatori delle Alpi,[189] le accolse, restituendo al conte di [264] Cavour tutte le sue cortesie, e dichiarandogli, cosa a ver dire nulla più che onesta, «che non aveva mai dubitato del suo patriottismo;» le accolse, conviene dirlo, anche meglio che con vacue parole, mutando radicalmente la sua prima proposta, tanto radicalmente che, mentre dianzi sollecitava il Ministero a ricostituire immediatamente l’esercito meridionale, ora lasciava al Ministero di «ordinare la chiamata dei Volontari quanto prima lo trovasse opportuno.» Era un gran pegno che la parte garibaldina dava alla concordia, e non era soverchia la lusinga che il Ministero l’avrebbe accettato. Ma il Ministero, o perchè si reputasse vincolato alla formola concordata col Ricasoli, o perchè gli paresse atto di buona politica il dimostrare che il Governo non aveva mestieri di venire a patti col suo popolare avversario, e che sentiva in sè tanta forza da resistergli e domarlo, ricusò ogni accordo ed ogni transazione.
La discussione pertanto riprese e continuò, ma non più intorno al tèma veramente interessante e disputabile della chiamata immediata o differita de’ Volontari, poichè oramai di questo anche la proposta di Garibaldi lasciava la balía al Ministero; ma sul misero punto se quei «quadri» che eran disegnati sulla carta si avessero a tenere per effettivi, e quegli ufficiali che il decreto dell’11 aprile aveva posti in disponibilità, dovessero essere chiamati, dopo uno scrutinio, in attività di servizio. Epperò s’intende che ridotta a siffatti termini la questione poteva bensì appassionare ancora i partiti, e dar di quando in quando [265] occasione a sottili argomentazioni od a vivaci scaramucce; ma non poteva più interessare Garibaldi. Non era quello ch’egli chiedeva: non era per lo stipendio o la carriera di alcune centinaia di ufficiali ch’ei s’era mosso, e tutto quanto si veniva dicendo di sofistico o di generoso, di propizio o d’avverso intorno a quell’argomento non lo toccava più. Invano il conte di Cavour, nuovamente da lui interpellato, gli promette di prendere in maturo esame la sua proposta circa la Guardia mobile; invano gli soggiunge che alla prima seria minaccia di guerra chiamerebbe i Volontari e ne darebbe a lui il comando; Garibaldi oramai non vuole più ascoltare che una sola parola: armamento generale della nazione, chiamata subita dei Volontari; e poichè il Conte quella parola non poteva o non voleva proferirla, il dissidio, fino a quel momento contenuto e dissimulato fra le ambiguità e le cortesie reciproche, irrompe in tutta la sua violenza.
Non appena infatti il Presidente del Consiglio ebbe cessato di parlare, che il Generale s’alza di nuovo e fra lo stupore, lo sbalordimento anzi di tutta la Camera, non eccettuati gli stessi suoi amici, dichiara che tutto quanto gli era venuto dicendo sino allora il conte di Cavour lo ha pienamente insoddisfatto; che per sola condiscendenza a’ suoi amici egli aveva consentito a «modificare in senso malva,» parole sue, il suo Ordine del giorno; ma che oramai essendo anche questo repudiato dal Governo, egli pure tornava al suo antico programma, l’unico in cui avesse fede: armamento generale della nazione e guerra immediata; conchiudendo alla fine che non essendo soddisfatto nè dell’Ordine del giorno Ricasoli nè del proprio, non ne avrebbe votato alcuno e sarebbesi astenuto.
E Garibaldi dal suo punto di veduta era logico: il [266] solo veramente logico fra tutta la Sinistra: l’unico che vedesse la questione dell’armamento nazionale dalla sua vera altezza; l’unico che contrapponesse alla politica del conte di Cavour un’altra politica, errata forse, temeraria certo, ma lucida e grande.
Pochi istanti dopo 194 sì approvarono la proposta ministeriale, 92 no la respinsero; il Ministero avea stravinto, il volgo misto dei fatui e dei piacentieri poteva menare il trionfo; ma chi avesse bene esaminati i frutti di quella vittoria, sarebbesi prestamente accorto che eran «stecchi con tosco.» La questione dei Volontari era insoluta più che mai; poichè una mostra di quadri senza soldati e senza ufficiali non era una soluzione. L’irritazione della Sinistra garibaldina era cresciuta, perchè aveva veduto respinte tutte le sue più oneste e conciliative proposte. Sulla conciliazione di Garibaldi non potevasi più contare, perchè ormai egli era nella condizione del vinto, a cui fu negato quartiere. La concordia infine, quella concordia che era stata eretta in Parlamento come la Divinità tutelare della Patria, a cui ogni oratore s’era creduto in obbligo di sciogliere un inno e di bruciare un grano d’incenso, era caduta fragorosamente dal suo provvisorio piedistallo, aprendo fra i contendenti un nuovo e più profondo solco di discordia.
E ne apparvero tosto i certissimi segni. Il 21 aprile, non dileguata peranco l’eco della recente battaglia parlamentare, il generale Cialdini, tradito, conviene pensarlo, dalla più infelice ispirazione della sua vita, arrogatosi a un tratto l’ufficio di vindice e campione dell’esercito, del Parlamento, del Re e dell’Italia, indirizzava, [267] sui giornali, al generale Garibaldi questa inaspettatissima lettera: «Voi non siete, dicevagli, l’uomo che io credeva, nè il Garibaldi che ho amato. Voi osate mettervi a paro del Re, parlandone coll’affettata famigliarità d’un camerata; al di sopra del Governo, dicendone traditori i Ministri; al di sopra del Parlamento, vituperandone i rappresentanti; al di sopra degli usi parlamentari, presentandovi alla Camera in un costume strano e teatrale; al di sopra infine di tutto il paese, che vorreste sospingere dove e come meglio v’aggrada. Collo sparire dell’incanto è scomparso l’affetto che a voi mi legava. Voi operaste grandi cose; ma il merito di aver liberato l’Italia meridionale non spetta a voi solo. Voi eravate sul Volturno in pessime condizioni, quando noi arrivammo. Capua, Gaeta, Messina, Civitella non caddero per opera vostra e cinquantaseimila Borbonici furono battuti, dispersi, fatti prigionieri da noi, non da voi. È dunque inesatto che il Regno sia stato liberato dalle armi vostre. Voi ordinaste al colonnello Tripoti di ricevere i Piemontesi a fucilate: voi dunque provocatore vero della guerra civile; ma io, nemico d’ogni tirannia o rossa o nera, saprò combattere anche la vostra.»
Se il generale Cialdini agisse soltanto di suo capo o sospinto dalle suggestioni di nascosti e zelanti consiglieri, fu disputato, ma non potè esser chiarito.[190] Certo non è presumibile che un Generale dell’esercito ardisse scrivere ed inviare un simile cartello di sfida, se in qualche modo non l’affidava il consenso o la [268] tolleranza tacita del Governo, o per lo meno della podestà militare a lui immediatamente superiore. Guai pertanto se l’altro Generale raccoglieva il guanto collo stesso sentimento, con cui eragli stato gittato. Uno scontro fra i due soldati avrebbe potuto dirsi il minor danno; il pericolo grande era che dietro i capitani si movessero i gregari, che da un duello ne rampollassero mille, che il mattino del nostro risorgimento fosse funestato dallo scandalo dei pronunciamenti e dal sangue della guerra cittadina.
Fortunatamente però il più rozzo fu il più saggio, e Garibaldi, guidato soltanto da’ suoi generosi istinti e dal suo profondo amore patrio, trovò tale una risposta, che attutì tutte le ire e soffocò nel nascere la lite:
«Anch’io, Generale, fui vostro amico ed ammiratore delle vostre gesta. Oggi sarò ciò che voi volete, non volendo scendere certamente a giustificarmi di quanto voi accennate, nella vostra lettera, d’indecoroso per parte mia verso il Re e verso l’esercito: forte in tutto ciò, della mia coscienza di soldato e di cittadino italiano.
»Circa alla foggia mia di vestire, io la porterò sinchè mi si dica che non sono più in un libero paese, ove ciascuno va vestito come crede.
»Le parole al colonnello Tripoti mi vengono nuove. Io non conosco altro ordine che quello da me dato: — Di ricevere i soldati italiani dell’esercito del Settentrione come fratelli; — mentre si sapeva che questo esercito veniva per combattere la rivoluzione personificata in Garibaldi. (Parole, di Farini a Napoleone III.)
»Come deputatolo credo avere esposto alla Camera una piccolissima parte dei torti ricevuti dall’esercito meridionale dal Ministero, e credo di averne il diritto.
[269]
»L’armata italiana troverà nelle sue file un soldato di più, quando si tratti di combattere i nemici d’Italia — e ciò non vi giungerà nuovo.
»Altro che possiate aver udito di me verso l’armata sono calunnie.
»Noi eravamo sul Volturno al vespero della più splendida vittoria nostra, ottenuta nell’Italia del Mezzogiorno prima, del vostro arrivo, e tutt’altro che in pessime condizioni.
»Da quanto so, l’armata ha applaudito alle libere parole e moderate d’un milite Deputato, per cui l’onore italiano è stato un culto di tutta la sua vita.
»Se poi qualcheduno si trova offeso dal mio modo di procedere, io parlando in nome di me solo, e delle mie parole sono garante, aspetto tranquillo che mi si chieda soddisfazione delle stesse. — Torino, 22 aprile 1861.»
La nobile lettera apriva essa stessa la via alla conciliazione; e onesti amici d’ambe le parti, il Fabrizi, il Pallavicino, il Depretis, s’interposero per affrettarla. Il Re stesso, già fin dalle prime conturbato dal doloroso dissidio, volle intervenire coll’alta sua influenza; nè solo per conciliare i due Generali; ma, ciò che più importava, i capi delle due parti, la mente e il braccio della sua politica, Cavour e Garibaldi.
E la regia volontà fu obbedita: alle 7 pomeridiane del 23 aprile, i due avversari, invitati a convegno dal Re, venivano in presenza sua a franche spiegazioni ed aperta conciliazione;[191] e poco dopo i due Generali abbracciaronsi fraternamente nel palazzo Pallavicino.
[270]
L’autore di queste pagine, però, scrivendo a quei giorni in un autorevole diario, e desiderando di dare a’ suoi lettori, intorno alla riconciliazione di Cavour con Garibaldi, più sicure e circostanziate notizie, scrisse al Generale stesso, pregandolo, per solo interesse della storia, a volergliele fornire. E il Generale gli rispose da Majatico, villa del Pallavicino, questa lettera, la quale, come si vedrà, dava un suono assai diverso dai cantici di pace, che la troppo credula speranza aveva già fatto intonare:
«Majatico, 29 aprile 1861.
»Caro Guerzoni,
»Io non ho stretto la mano di Cavour, nè cercato riconciliazioni. Ho bensì consentito ad un abboccamento, i cui risultati sono stati da parte mia: — Armamento e giustizia all’esercito meridionale. Se così riesce — io porgerò la piccolissima opera mia all’opera del Conte. — Diversamente io seguirò il sentiero che ci siam tracciato da tanto tempo — per il bene della causa nazionale — anche contro la volontà di chicchessia.
»Trecchi, che servì d’intermediario alla conferenza, s’incarica di far tacere le millanterie dei ministeriali. — Vedremo — in ogni modo non si deve pubblicare nulla di mio per ora. — In caso poi — cosa molto probabile — che non si ottenga nulla, e che quei signori continuino a gracchiare, allora ripiglieremo il tralasciato.
»Ho incaricato il generale Medici d’un mio programma sull’occorrente.
»Mi resta a ringraziarvi.
»Vostro
»G. Garibaldi.»
La qual lettera dimostra all’evidenza tre cose: che tutto quel discorrere e scrivere e affannarsi d’amici, [271] di avversi, di Ministri, di Deputati, di Re, per indurre l’eroe a modificare in qualche parte soltanto il suo pensiero, era stato fiato e tempo sprecato; che il dissidio del Generale col Conte non aveva radice in alcun rancore personale, ma in ragioni politiche, che soltanto il mutuo pegno delle opere poteva conciliare; che infine Garibaldi scese la reggia di Vittorio Emanuele, mormorando ancora il se no, no del primo suo Maestro, e covando, forse inconsciamente, in cuore il germe di Sarnico e d’Aspromonte.
Il 1º maggio Garibaldi era già tornato a Caprera: il 6 giugno moriva il conte di Cavour. L’Italia aveva perduto il suo grand’uomo di Stato; la libertà, uno de’ suoi più devoti amici; la dinastia di Savoia, uno de’ suoi più validi sostegni; la rivoluzione, uno de’ suoi più abili moderatori, e (stupiscano pure i superficiali, chi pensa sarà con noi) Garibaldi stesso, il migliore de’ suoi interpreti ed alleati. Si narrò[192] che il nobile Conte nell’uscire, la sera del 20 aprile, dalla Camera dei Deputati, vibrante tuttora delle emozioni provate in quelle tre memorabili giornate, al La Farina che lo abbordava scalmanato: «Eppure, dicesse, eppure se venisse il momento della guerra, prenderei sotto il mio braccio il generale Garibaldi e gli direi: andiamo a vedere che cosa si dice dentro Verona.» Queste parole parlan meglio d’ogni documento. Lo Statista aveva capito l’Eroe; egli era penetrato nel più intimo segreto della sua anima e ne teneva le chiavi. Cavour [272] vivo, molte pagine della storia d’Italia sarebbero state diverse, e quelle della vita di Garibaldi del pari. Cavour vivo, la guerra dell’indipendenza non sarebbesi protratta di cinque anni (la gran trama rivoluzionaria a cui lavorava lo dimostra), e Sarnico ed Aspromonte non sarebbero accaduti. Cavour vivo, il valore vero di Garibaldi sarebbe stato più utilmente e più degnamente estimato; non sarebbe stato inviato, come nel 1866, a dar di cozzo contro le rupi trentine; e se al governo della flotta, avrebbe signoreggiato l’Adriatico; se a capo d’un esercito di Volontari, avrebbe preceduto o fiancheggiato il regolare e forse risparmiate all’Italia Lissa e Custoza. Vivo Cavour, finalmente, Garibaldi non avrebbe più trovato nelle contraddizioni e nelle ambagi di Governi fiacchi, presi dal prurito malaticcio delle grandi gesta, un incoraggiamento e quasi una ragione a mettersi sulla via della ribellione: la gagliarda e prestigiosa mano del grande Ministro l’avrebbe saputo a tempo blandire e frenare, a tempo lanciare e trattenere, e nessuno può affermare, ma nemmen negare, che un giorno la mente soggiogando il cuore, il cuore infiammando la mente, Cavour e Garibaldi si modificassero a vicenda, e l’uno finisse più rivoluzionario, l’altro più moderato: legge naturale di selezione e d’evoluzione.
Garibaldi frattanto era tornato alle sue consuete abitudini, e in tutto quel 1861 non vi furono di notevoli nella sua vita che questi due episodi. Ai primi di luglio corse pei giornali la voce d’un attentato alla vita del Generale. Dicevasi che quattro mercenari, prezzolati da una segreta congrega reazionaria annidata in una città di confine,[193] eran partiti per Caprera [273] onde compiere il reo disegno; che il Generale, avvertito del pericolo, l’aveva, come altra volta,[194] disprezzato; che i famigliari di lui non solo, ma tutta la popolazione di Maddalena era nella più grande ansietà; che il Governo, già istruito della trama da alcuni complici pentiti, aveva già posto la Caprera sotto la più stretta sorveglianza ed altri particolari.
E forse si esagerava; ma tutto non era favola, come attesta questa lettera di C. Augusto Vecchi, che appunto a que’ giorni era ospite del Generale nell’Isola:
«Caprera, 8 agosto 1861.
»Ieri sera vennero qui tre cavalleggieri. Avevano avuto sentore che due uomini di male affare erano sbarcati in Caprera. Noi la credemmo un’ubbía. Essi si licenziarono e noi andammo a cena. Stagnati ed io passeggiammo fumando su e giù pel piazzale sino alle undici, e poi andammo a coricarci. Verso le tre udii i cani abbaiare ed escire a starno dal chiuso. Poco dopo mi addormentai.
»Alle cinque era in piedi. E vidi i gendarmi, i quali narravano l’accaduto nella notte. Quando noi andammo a cena, essi si ridussero sugli scogli che prospettano sull’alto il nostro piazzale e vi si adagiarono a distanza determinata. Alle tre udirono rumore di passi, e nelle tenebre videro due [274] uomini passare parallelamente ai loro posti ad un tiro di pistola. Il Maresciallo esclamò: — Chi va là? — Fu risposto con un’archibugiata.
»Allora i tre trassero loro addosso e discostandosi, il Maresciallo replicò: — Fermi in nome del Re. — Una voce gli ingiuriò con un’oscena parola. I gendarmi scaricarono di nuovo il moschetto ed udirono uno dei ribaldi gridare: — Madonna! — Ed ambedue a gambe, a precipizio. Accorsi dov’erano i tristi, trovarono le loro palle confitte sullo scoglio; sopra il granito, tre stampi di una mano insanguinata; per la terra, una breve gora di sangue; e più in giù tracce sanguigne sulla via percorsa: un fazzoletto di cotone macchiato di sangue ed un fiaschetto di corno con polvere dentro.
»I Sardi feriti guaiscono: — Gesù, Maria, Giuseppe! — Dunque i gendarmi argomentarono, quei due non essere banditi dell’Isola, ma assassini venuti di fuori.
»Poichè il Generale ebbe preso il suo bagno a vapore, lo avvertirono dell’accaduto. Ed egli, colla solita indifferenza, disse d’aver veduto dalla sua finestra, ieri, prima di passeggiare con me, due uomini ignoti passar su per gli scogli. Parlò coi gendarmi e cercò di persuaderli del malinteso, onde non allarmassero la popolazione della Maddalena. Poi andò col Carpeneti a visitare una vignetta lontana.
»Ma i cavalleggieri col loro rapporto alle Autorità hanno impensierito il paese. Le esagerazioni si accrescevano sulle bocche del popolo. Le donne urlavano dalle finestre che era stato ucciso il loro Generale. E tutti all’accorrere sul porto e gettarsi nelle barche. Le donne si fermarono alla Moneta. Le Autorità — meno la ecclesiastica — i gendarmi, i bersaglieri marittimi, i doganieri, i cittadini di ogni classe — persino i ragazzi — sbarcarono in armi a Caprera e accorsero sul piazzale. Mi parve lo spianato del palazzo di Caserta, quando noi avevamo l’onore di proteggervi l’unità della patria. Le squadre partirono per la via del monte, per la parte opposta. E tutti avevano nel cuore una sola idea — far salva la più nobile e la più necessaria esistenza all’Italia.
[275]
»Due golette governative facevano intanto il giro dell’Isola. Una di esse disse d’aver visto una barca staccarsi a pieno vento dall’isola del Giglio colla prua vòlta a Capo Ferro. Si sono spediti ordini per indagare chi fossero gli individui che ne sbarcassero.
»Nè più. — Vi ho scritto, perchè si sappia il vero di ciò che è avvenuto.
»C. Augusto Vecchi.[195]»
La minaccia infatti non si rinnovò; ma scampato da un pericolo, ecco invitarlo un altro cimento, perpetua sua vicenda. Ardeva fra gli Stati Uniti del Nord e del Sud la guerra così detta di secessione, e il presidente Lincoln, o fosse grande fiducia nel prestigio oramai mondiale del Liberatore di Sicilia, o fosse penuria, in quell’improvviso irrompere della rivolta, di buoni e reputati Generali (gli allievi di West-Point eran pochi, la più parte secessionisti; e i Grant, i Sherman, i Sheridan non s’eran rivelati ancora), fece chiedere a Garibaldi per mezzo del Console della Federazione a Bruxelles se avrebbe accettato il comando in capo dell’esercito federale. Nessuna offerta poteva riuscire più geniale e lusinghiera all’eroe: aggiungere alla gloria d’una vita spesa ne’ due emisferi per la libertà de’ suoi fratelli di razza, quella di capitanare a nome d’una grande Repubblica la guerra d’emancipazione dei Negri, voto della sua giovinezza, onore del suo secolo, era tale tentazione da vincere ogni modestia e tal premio da compensare ogni pericolo.
Pure gradì, ma non accettò tosto l’invito. Pensoso più d’Italia che di sè stesso, non sapeva risolversi ad abbandonarla alla vigilia forse di quella nuova riscossa [276] da lui tanto invocata, e frattanto temporeggiava, ponendo condizioni che erano clausole dilatorie; consultando il Governo, che gli faceva dire: «Andasse pure, non aver per ora alcun bisogno di lui;[196]» interrogando gli amici più divisi e perplessi di lui e incapaci d’un concorde consiglio.
Prevaleva tuttavia anco fra i principali, il partito dell’accettazione, non tanto per gli onori e gli allori che la bella avventura prometteva, così al Capitano come a’ suoi seguaci, quanto perchè, parendo a tutti lontana la possibilità d’una guerra in Italia, conveniva assai meglio alla stessa fama dell’eroe ch’egli traversasse quel periodo di tregua forzata, tra le lotte d’una vasta e gloriosa palestra anzichè nell’angusta arena delle fazioni nazionali, o nell’ozio increscioso e nella solitudine amareggiata di un’isola deserta.
Se non che al divulgarsi della nuova anche il paese cominciò a commuoversene; gli avversi alla partenza si fecero essi medesimi istigatori o consiglieri di manifestazioni popolari: a Napoli si andava sottoscrivendo un indirizzo al Generale che lo scongiurava a non abbandonare l’Italia, ed a recarsi nel Mezzogiorno a sanare le piaghe che il Governo di Torino vi aveva riaperte; talchè egli, incapace di distinguere, in quelle dimostrazioni, la parte artificiale dalla sincera, e credendo di udire in quelle voci la voce della patria stessa, finì col dichiarare al Console americano d’esser dolente di non poter aderire all’invito, soggiungendo «che dubitare del trionfo della causa dell’Unione non poteva; ma che, se per mala sorte la guerra dovesse continuare, egli avrebbe vinto tutti gli ostacoli [277] per affrettarsi alla difesa d’un popolo che gli era tanto caro.[197]»
E la guerra durò ancora quattro anni e l’invito fu ripetuto, ma Garibaldi, anche volendo, non avrebbe più potuto accettarlo: un ostacolo ch’egli non avrebbe mai potuto prevedere, ma più forte d’ogni volontà, gliel’avrebbe vietato: la palla d’Aspromonte.
In sullo scorcio di febbraio il senatore Giacomo Plezza, presi seco il suo schioppo ed i suoi cani da caccia, s’imbarcava per Caprera. E che unico scopo della sua gita fosse una partita alle pernici ed alle beccaccie, i giornali spacciarono e il pubblico credette. Ma non appena il Senatore fu nell’Isola, svela a Garibaldi l’arnese da caccia non essere che una maschera; mandarlo in segreto il barone Ricasoli (primo successore del conte di Cavour) onde assicurarlo in suo nome che il Governo non aveva rallentato, nè rallenterebbe un istante dagli apparecchi dell’impresa nazionale; affrettarne anzi, ma non esserne ancora maturata l’opportunità; pregar quindi il Generale [278] a non voler con moti intempestivi guastare l’opera bene avviata; giunta l’ora, sarebbe fra i primi avvertito; tenesse frattanto come pegno dei buoni intendimenti del Governo l’imminente apertura dei Tiri a segno nazionali e l’invito che gli faceva per mezzo suo di venire sul continente a presiederne l’inaugurazione e a diffonderne l’istituzione.
Che il Plezza abbia tradotto esattamente, oppure no, il pensiero del suo mandante; che a lui sia stato commesso soltanto di invitare il Generale «a rimanersi tranquillo in aspettazione dell’opportunità;[198]» che quell’idea di trastullare l’irrequieto Capitano con quella distrazione dei Bersagli sia stata suggerita prima dal Plezza, e dal Ricasoli soltanto assentita, tutto ciò poco monta; il fatto è che Garibaldi aveva il diritto di credersi invitato da un’ambasciata del Governo, e poichè quell’invito s’accordava coi mille che da ogni parte i suoi amici gli inviavano, e colle sue più segrete speranze e vivaci impazienze, così l’accettò tosto, e il 2 marzo in compagnia del Plezza medesimo sbarcava improvviso, come al solito, in Genova.
Se non che tre giorni dopo il Ministero Ricasoli non era più. Meglio ancora dell’aperta ostilità degli avversari l’avevan ucciso la tolleranza ostentata, e la malcelata freddezza de’ suoi amici. Certi suoi atteggiamenti più altezzosi che fieri verso Napoleone III ed i suoi Ministri, ond’era venuto in fama di poco devoto e poco gradito all’imperiale protettore; certe sue professioni di fede liberalesca, più mistiche a ver dire che pratiche, ma ad orecchio moderato troppo [279] puritane; la stessa rigidezza baronale colla quale soleva trattare uomini e cose, l’avevano da lungo tempo indebolito nel favore della sua parte; ma quando gli fu chiesto, quasi per metterlo alla prova, di sciogliere i garibaldini Comitati di provvedimento, ed egli in nome della libertà d’associazione, mallevata dallo Statuto, sdegnosamente rifiutò, fu evidente, nonostante l’ombra d’uno stentato voto di fiducia, che ogni consenso d’idee e di affetti fra lui e la Destra era rotto, e che altro non gli restava che deporre il governo. E così fece; e poichè il Rattazzi ne febbricitava di voglia da più mesi, e il Re lo prediligeva, e i Centri lo invocavano, e la Sinistra prometteva tollerarlo, e la Destra doveva subirlo, così egli ne fu il naturale successore; senz’altro contrasto che de’ più arrabbiati delle varie consorterie moderate, le quali non avendo saputo fino allora nè combattere con lealtà, nè sostenere con franchezza il Ricasoli, si lagnavano ora ch’egli cadesse in un punto ed in un modo da lasciarne l’eredità al loro più aborrito avversario.
All’udire pertanto questa nuova, anche Garibaldi s’allietò. Egli non conosceva il Deputato d’Alessandria che di nome, e non era certo in grado di giudicare della sua politica, molto meno di distinguere quella sottile linea che appena lo discerneva dai moderati; ma da ogni parte glielo dipingevano per vecchio avversario del conte di Cavour, diletto a Vittorio Emanuele, beneviso a gran parte della Sinistra, democratico d’origine e di costumi; e ciò bastava perchè egli si felicitasse del cambio e si illudesse di trovare in lui un alleato più compiacente e più maneggevole. Nè alcuno si curò, a quel che parve, di trarlo d’illusione; chè ridottosi il Generale a Torino e ristrettosi a intimo colloquio, prima col Re, poi col Rattazzi medesimo, [280] partì da entrambi quasi entusiasta, a tutti magnificando le idee del nuovo Ministro, esortando i suoi amici a sostenerlo, ripromettendosi di compiere con lui le più grandi cose. E fino a qual punto fossero arrivate da un lato le promesse o le lusinghe del Presidente del Consiglio, e dall’altro la bonomia o la credulità del Generale, sarà difficile il documentare; certo da quel giorno si diffuse la voce che in quei colloqui fossero stati fermati importantissimi disegni; che Ministero e Garibaldi agissero ormai d’accordo; e che l’Italia fosse alla vigilia di grandi avvenimenti.[199]
Ma intanto che questi avvenimenti, più o meno probabili, maturavano, Garibaldi era chiamato a Genova da un’altra cura. Le antiche discordie della parte rivoluzionaria erano rinate. Essa pure era da molto tempo partita in due fazioni, o frazioni che vogliansi dire, l’una procedente più direttamente da Mazzini, che accettava condizionatamente la Monarchia, rimetteva bensì al tempo, ma non nascondeva il suo ideale repubblicano, teorizzava il diritto dell’iniziativa privata, predicava l’azione immediata e continua, poneva al Governo il dilemma: lasciarla fare e seguirla, o cadere; l’altra, capitanata più visibilmente da Garibaldi, che pur avendo con la prima molti punti di somiglianza, pure ne dissomigliava in tre essenzialissimi: era schiettamente monarchica; credeva, senza dottrineggiare [281] della sua legittimità, alla utilità dell’iniziativa rivoluzionaria e alla potenza della guerra popolare; serbavasi ferma tuttavia a non staccarsi dal Governo, pronta anche, se egli precedeva, a marciare dietro a lui; infaticabile solo a sospingerlo se indugiava; ma, fino al giorno in cui discorriamo, aliena pur sempre dal disconoscerlo ed esautorarlo. Ora, com’è ben naturale, ciascuna di queste due frazioni aveva la sua speciale organizzazione; e come la garibaldina era disciplinata, e quasi militarmente instrutta nei Comitati di Provvedimento, così la mazziniana per opera principalissima dell’infaticabile Bertani (che nel Bellazzi, già suo creato ed ora segretario de’ Comitati, trovava un fomite di più alle sue antipatie) era venuta prendendo nome e persona in tante Associazioni unitarie, che a primo aspetto si sarebbero dette un plagio e un pleonasmo dei Comitati, che in realtà ne differivano per quei punti che abbiamo posti in rilievo, e coi quali combatteva da parecchi mesi una sorda guerra fraterna, immagine riprodotta per mille membra della suprema discordia de’ capi.
Parve quindi urgente ai principali delle due parti che il periglioso dissidio cessasse; e cercandone il modo, nessun migliore espediente seppero immaginare che un’Adunanza generale, quasi un Concilio ecumenico, di tutti i rappresentanti dei Comitati e delle Associazioni auspice da Londra l’Apostolo del pensiero, da Caprera il Pontefice dell’azione.
Convocata infatti da Garibaldi stesso, l’Assemblea si raccolse in Genova nel teatro Paganini il 9 di marzo. Eran presenti tutti i caporioni e caporali della democrazia, non meno di quattrocento persone; presiedeva Garibaldi per ciò appunto venuto da Torino; il quale, dopo aver nell’usato stile, scongiurato per la [282] concordia, additato nuovamente Roma e Venezia, riaffermata la necessità di formare il fascio, o com’egli diceva, «il fascio romano di tutte le forze,» aperse la discussione, quanto dire tutte le cataratte della patriottica eloquenza. Pure fu notabile che in un’adunata d’uomini sì diversi, nessuno esorbitò. Parve anzi che l’Assemblea ci mettesse una tal quale ostentazione ad imitare l’ordine e la gravità dei dibattimenti parlamentari, sicchè fra il dispetto e l’ironia fu battezzata di secondo Parlamento. E d’un Parlamento ebbe, a dir vero, tutto l’aspetto e tutta la solennità, tanto che se fu doveroso che il Governo la rispettasse, perocchè così l’impedirla come il discioglierla sarebbe stato del pari illegittimo, certamente fu molto significativo che un’Assemblea di quattrocento persone, non munite d’alcun mandato legale, assegnasse termini alla pace ed alla guerra; accettasse e respingesse alleanze; passasse in rassegna armi ed armati; facesse e rifacesse l’Italia, e il Governo fosse costretto a restare inerte spettatore di tutto ciò, quasi in sembianza di tacito complice.
Per ventura però le deliberazioni furono meno paurose delle discussioni. I Comitati di Provvedimento si fusero colle Associazioni unitarie in un nuovo sodalizio che prese nome di Società Emancipatrice; un Comitato di ventiquattro membri, cibreo di tutte le tinte, fu eletto a rappresentarla; si auspicò al fausto connubio; si inneggiò a Roma e Venezia; si indusse Garibaldi ad invocare come pegno della restaurata concordia il richiamo di Mazzini, e tutto passò come iride, lasciando i nembi di prima.
[283]
Ma il Governo era impegnato a concedere ben più. Reduce Garibaldi a Torino, Rattazzi perfezionando il disegno del Barone Ricasoli gli commette la direzione dei Tiri a bersaglio, colla balla di girare Italia per propagarne l’effettuazione: poco dopo gli consente la istituzione di due battaglioni di Carabinieri mobili comandati da suo figlio Menotti;[200] apparentemente destinati a combattere il brigantaggio nel Mezzogiorno, ma presti, occorrendo, per altre imprese; infine, complotto trapelato soltanto più tardi, ma non men vero, gli promette un milione di lire per provvedere all’armamento d’una spedizione in Grecia, insorta allora contro il re Ottone, e che Garibaldi aveva promesso soccorrere[201] se non gli si apriva altra via in Italia.
Così il Dittatore cacciato da Napoli pareva risorgere a Torino. Si invocava il suo consiglio, si ambiva il suo aggradimento, si interpretavano i suoi discorsi come responsi d’oracolo. Ospite del senatore Plezza, la sua casa pareva un ministero; una processione perpetua di Garibaldini, di patriotti, di Ministri, di Deputati d’ogni colore, di ammiratori e sollecitatori d’ogni fatta, passava e ripassava a visitarlo, a onorarlo, a consultarlo. [284] I principi reali di Savoia lo convitavano alla loro mensa quasi ingloriando dell’onore; finalmente l’ultima settimana di marzo scortato dai figli e da numeroso corteo di luogotenenti e di commilitoni, sopra treni appositi, in carrozze separate, a spese dello Stato, s’incamminava alla volta di Lombardia. Per contrapposto in quei medesimi giorni Vittorio Emanuele moveva colla Corte e coi Ministri a visitare per la seconda volta il Mezzogiorno; ma la cronaca narrò che il viaggio del mozzo nizzardo fu più trionfale.
I Sindaci gli muovono incontro, i Municipi lo albergano a loro spese, i Prefetti lo banchettano, il clero lo ossequia, l’esercito lo acclama, le Guardie nazionali gli presentano l’armi, i Garibaldini in camicia rossa montano la guardia alla sua porta, le donne lo corteggiano, lo abbracciano, lo baciano, ne portan via per reliquia i capelli e le vesti, gli offrono in dono le gemme ed i figli: infine dovunque arriva una turba immensa di popolo lo attende impavido alla pioggia ed al sole, monta sui tetti e sugli alberi per vederlo, si precipita, appena lo scorge, intorno a lui, lo avviluppa, lo serra, lo trasporta, lo tien prigione del suo affetto e del suo delirio, lo spia in ogni atto, lo segue in ogni passo, assedia da mane a sera gli approcci della sua casa, lo chiama e richiama al balcone, lo fa parlare e lo apostrofa, gli promette tutto quello ch’egli domanda, gli grida ad ogni istante: «Roma e Venezia;» a cui il Generale risponde quasi invariabilmente: «Sì, Roma e Venezia son nostre, e se saremo forti, le avremo.»
A Milano, murato da un serraglio vivente, non gli basta un’ora per arrivare dalla Stazione all’albergo: dalla terrazza della Ville saluta «il popolo delle cinque giornate capace di venticinque,» raccomanda la carabina; [285] promette al solito Roma e Venezia. Inaugurando con pompa solenne il bersaglio provinciale, spara egli il primo colpo, che i giornali trovano stupendo. Dovendosi distribuire le medaglie commemoratrici delle ultime campagne, ne è commesso l’ufficio a lui, e molti, pigliando le medaglie da quella mano, piangon di gioia e tentano baciarla. Il Sindaco lo arringa; le Guardie nazionali e le Associazioni operaie gli sfilan davanti a bandiere spiegate; i membri dell’Istituto Lombardo s’affrettano a visitarlo; il prefetto Pasolini lo invita a pranzo, e all’udire il racconto delle sue gesta esclama: «Questa sera divento garibaldino anch’io.[202]» Manzoni infine, visitato per omaggio dall’eroe, dice: «Sono io che devo prestar omaggio a voi: io che mi trovo ben piccolo dinanzi all’ultimo dei Mille, e più ancora dinanzi al loro Duce, che ha redento tanta parte d’Italia e nel modo migliore, offrendola a Vittorio Emanuele;» e avendogli il Generale nell’accommiatarsi fatto presente d’un mazzettino di viole, «lo conserverò, esclama il Poeta, lo conserverò in memoria d’uno de’ giorni più belli della mia vita!»
A Monza, a Como, a Lodi gli stessi deliramenti; a Parma, presiedendo un Comizio d’operai al teatro San Giovanni, molte voci gli gridano: «Viva Mazzini, ed egli replica: «Viva Vittorio Emanuele.[203]» A Casalmaggiore [286] bandisce la «Religione della santa Carabina.» A Cremona è una epifania di donne, di ufficiali dell’esercito, di preti: monsignor Vescovo Novasconi, malato, si leva di letto per ricevere la sua visita: il clero gli manda una deputazione e pende dal suo labbro, come da un nuovo Messia: dodici donne, madri, spose, figlie di morti per la patria, gli presentano un indirizzo firmato da un migliaio di signore e popolane cremonesi, nel quale promettono «che al nuovo appello del Capitano dei Mille esse ridaranno ai loro uomini il brando che spezzerà per sempre le catene delle loro sorelle ancora schiave.» Era un’ebbrezza che dava il capogiro alle teste più salde e non sarà meraviglia se tra poco ne sarà preso lo stesso Garibaldi. Perocchè respirare tanto tempo in un’atmosfera sì infocata e non esserne infiammato; sentirsi per quindici giorni intronati gli orecchi dalle parole [287] di «Roma e Venezia» e non crederle sincere; vedersi portato in trionfo, udirsi glorificato e quasi incielato da un popolo intero e non credersene il Dittatore; sapersi segretamente spalleggiato dallo stesso Governo e non supporlo consenziente e complice, poteva essere saggezza non difficile alla fredda mente d’un filosofo e d’un uomo di Stato; ma all’anima ribollente d’un eroe diventava virtù pressochè impossibile. Garibaldi sta per commettere i due più grandi errori della sua vita; ma quando pure non bastasse a riscattarli la nobile prepotenza dell’amor patrio, starebbero sempre a loro scusa questi tre argomenti: la imprevidente e ambidestra condotta del Governo, che pur di godere un riflesso della popolarità del Generale gli aveva sacrificato una parte della propria autorità; la obbedienza passiva dei di lui amici e commilitoni che tenendosi vincolati da una specie di giuramento militare non seppero nè parlargli con verità, nè resistergli con fermezza; finalmente la spensierata e quasi fanatica apoteosi che i Lombardi prima, i Siculi poi, fecero d’un uomo che pure s’atteggiava ad arbitro della nazione e li invitava a seguirlo in una avventura che aveva tutte le apparenze d’una follia e d’una ribellione.
A ciascuno la sua responsabilità. Per aver il diritto di dire tutta la verità ai grandi bisogna prima saperla dire ai popoli. Sarnico ed Aspromonte li fecero in gran parte anche gli Italiani. Stia pure a loro discolpa che il magico Capitano li stregò col suo fascino; il Governo li confuse colle sue ambagi; la parte rivoluzionaria li sorprese colle sue audacie; non è men vero che se Garibaldi non avesse trovato fin dai primi passi tanto incoraggiamento d’applausi, di promesse e di offerte, non avrebbe mai potuto pensare, nonchè avviare, [288] le due temerarie imprese a cui nel 1862 s’accinse. Gl’Italiani gli urlavano: «A Venezia,» ed egli, seguendo la sua natura, rispondeva: «Andiamo.» Essi gli giuravano sulla spada e sulla croce, nelle piazze e nelle chiese: «Roma o morte;» ed egli li invitava a confermare i giuramenti coi fatti; essi continuarono per un mese a rappresentare sotto i suoi occhi la commedia dell’eroismo disperato e del patriottismo indomabile; ed egli, ignorando quanto di rettorico, di melodrammatico e di carnevalesco s’ascondesse ancora, per antica legge ereditaria, nelle vene de’ suoi concittadini, egli, l’eroe dabbene e sincero, li prese sul serio e scontò la pena per tutti.
La storia di Sarnico è breve. Garibaldi, visitate ancora Brescia, Castelgoffredo, Asola, Desenzano, Pavia, adducendo il bisogno di curarsi della sua vecchia artritide si riduce in sul finire d’aprile presso le Terme sulfuree di Trescorre, nella villa del suo vecchio amico Gabriele Camozzi. Chiunque però sapeva che Trescorre giace come al centro delle valli che mettono al Tirolo, e osservava gli andamenti del Generale e de’ suoi seguaci non poteva tardare ad avvedersi che la salute e i bagni erano un comodo pretesto; ma la ragione vera, ben altra e più grave. La villa Camozzi sembrava divenuta un Quartier-generale. Un andirivieni incessante di Garibaldini, di profughi veneti e trentini, di Deputati dell’estrema Sinistra; un discorrere sommesso, un appartarsi guardingo, un apparire e scomparire misterioso, dicevano abbastanza che qualcosa di nuovo si macchinava. Il 5 maggio i membri della Emancipatrice, convenuti a Trescorre per festeggiare [289] la partenza di Quarto, confermavano l’alleanza e la concordia giurata a Genova, e davano a Garibaldi nuovo stimolo a compiere il concepito disegno.[204]
Era una congiura condotta press’a poco colla stessa noncuranza del segreto con cui due anni prima lo era stata la più grande congiura di Marsala. I più noti luogotenenti di Garibaldi, i più celebrati agitatori del partito d’azione[205] giravan apertamente di città in città ad incettare armi, a commettere vesti, a comprare scarpe, a negoziar prestiti di danaro; e bastava aver [290] occhi ed orecchi per conoscerne i passi ed udirne i discorsi. Garibaldi stesso, infine, aveva già dato al Governo di Torino il più chiaro di tutti gl’indizi, inviando agli ultimi d’aprile il dottor Ripari a richiedere al signor Capriolo, segretario dell’interno, plenipotenziario del Rattazzi assente, tutto o parte di quel milione che già era stato promesso per la Grecia, e che era assai facile sospettare dovesse servire a impresa più vicina. Insomma la trama ordivasi con tanta sicurezza e pubblicità che a Parigi ed a Vienna sapevasi già quello che il Ministero a Torino, e, cosa ancor più strana, i suoi governatori di Brescia e di Bergamo sul teatro stesso dell’azione ignoravano. Ma un caso inatteso venne ad illuminarli. A Genova una banda di audaci, svaligiato in pien meriggio il banco Parodi, tenta la fuga sopra una tartana che mesi prima era stata noleggiata a nome di Garibaldi dal colonnello Cattabene, appunto per quella spedizione di Grecia di cui tanto si discorreva e che mai si effettuava. La polizia italiana, frattanto, scoperta la via tenuta dai ladri, riesce ad arrestarli in mare sulla tartana medesima; ma quivi, trovando fra le carte del Capitano il primo contratto del Cattabene, sospetta questi pure complice del furto, e saputolo a Trescorre presso il Generale, senza badar più che tanto, nella notte del 13 aprile, arresta lui pure e lo traduce come un malfattore ad Alessandria. Proteste del Generale; strida del partito; invano; chè al Tribunale soltanto spetta decidere la lite. Se non che l’autorità, frugando la casa del Cattabene per iscoprire maggiori tracce della sua colpabilità nel furto Parodi, viene inaspettatamente ad avere tra le mani gl’indizii d’un’altra impresa non sospettata fino allora: gli appunti, gli ordini, i piani dell’imminente invasione del Tirolo. A tal punto anche [291] il Governo si desta, e mentre bandisce illegittimi tutti quegli apparecchi e falsa la vociferata connivenza del Governo, e ferma la risoluzione d’impedire e reprimere quei tentativi, occorrendo anche colla forza,[206] spedisce truppe a sbarrare tutti i passi di Valcamonica e di Valsabbia; ordina che quanti s’avviano per quelle valli siano arrestati; pone sotto rigorosa sorveglianza Trescorre stesso e i suoi abitatori.
Ed era tempo. Il 14, sera, un manipolo di giovani conveniva da ogni parte nei dintorni del lago d’Iseo, manifestamente avviati per la Valcamonica: il 15 il colonnello Nullo e il capitano Ambiveri, seguíti da una più grossa squadra, stavan per raggiungerli: tutto dimostrava che si era alla vigilia d’un’entrata in campagna. Allora anco i Prefetti di Brescia e di Bergamo si riscuotono in sussulto: Nullo, Ambiveri e cinquantacinque de’ loro compagni sono presi a Palazzolo: altri quarantaquattro tra Sarnico ed Alzano Superiore: e i prigionieri, con l’imprudenza che segue sempre le risoluzioni precipitate, sono tradotti parte a Bergamo e parte a Brescia, patria di quasi tutti gli arrestati, le due città più infiammabili d’Italia. E ne apparvero tosto le conseguenze: il popolo bergamasco si accontentò d’un tumulto presto sedato; ma il bresciano più sulfureo s’avventa alle prigioni per tentare di liberare i prigionieri: il picchetto di guardia resiste; spiana l’armi, fa fuoco: un cittadino è ferito, un altro morto: grande lutto e maggior scompiglio in tutta la città.
A questa nuova Garibaldi schizza fuoco e fiamme: scaraventa contro i difensori delle prigioni di Brescia una violenta invettiva, pareggiandoli «a sgherri mascherati da soldati,» e proponendo una spada d’onore [292] all’ufficiale russo Popof, che favoleggiavasi avesse spezzato la sua piuttosto che usarla contro l’inerme popolo di Varsavia; nè pago di ciò, chiede imperiosamente al Prefetto di Bergamo la liberazione de’ suoi prigionieri, proclamando «aver essi agito per espresso suo ordine e sè solo in ogni evento responsabile.» Dove fosse per trascorrere l’accecato Achille era pauroso il pensarlo; pure avendogli il dabben Prefetto comunicato la cortese, ma ferma risposta del Ministero: «rincrescere al Governo, ma non poter ammettere il modo di vedere del generale Garibaldi circa le conseguenze de’ fatti avvenuti;» eccolo a un tratto, come se tutto quel furore non fosse stato che un fuoco d’artificio, mutar parole e contegno; ridivenir ragionevole e sereno; temperare in una nuova lettera le acerbe frasi dirette all’esercito:[207] promettere a quanti l’avvicinano d’aver deposto ogni pensiero di spedizione; reduci i ministri da Napoli, abboccarsi tranquillo col Rattazzi e il Depretis; tranquillo partirsi da Torino; tranquillo ritirarsi a Belgirate, ospite di Benedetto Cairoli, d’onde dichiara pubblicamente: «Che ogni arruolamento che si potesse fare, sarebbe a sua insaputa ed avrebbe la sua disapprovazione.[208]»
[293]
E non basta: riapertosi in quei medesimi giorni il Parlamento, il Generale consigliavasi di inviare al Presidente della Camera dei Deputati una lunghissima lettera, la quale, riassunta ne’ suoi capi principali, diceva: esser venuto sul continente chiamato dal Ministro Ricasoli, che dicevasi disposto ad occuparsi seriamente dell’armamento nazionale: il nuovo Ministero avergli confermato il mandato dei Tiri a segno, e più «data larga speranza» che sarebbesi adoperato alacremente alla definitiva costituzione d’Italia: pegno dei patti convenuti doversi riguardare la istituzione di due battaglioni di Carabinieri Genovesi; venuta meno anco questa promessa, aver egli rimandato alle loro case i giovani accorsi a parteciparvi; ma poichè parte di loro riluttava a rimpatriare, egli «li consigliò a raccogliersi in alcuni luoghi della pacifica Lombardia nei quali si doveva provvedere al loro mantenimento con ispontanee oblazioni di buoni cittadini, mentre essi si sarebbero esercitati viemeglio alle armi in aspettazione di futuri avvenimenti.» Il Governo quindi equivocò fatalmente sullo scopo di quei depositi: niente di più falso che si trattasse d’un tentativo d’invasione nel Tirolo; dolorose tutte le persecuzioni di cui i suoi compagni furono fatti segno: suo grido sempre Vittorio Emanuele, e guai a chi tocca il concetto salvatore: necessario però a fecondarlo l’armamento universale della nazione. Questa tende alla sua unificazione come i gravi al centro della terra: irrefrenabile l’agitazione della gioventù: chi vuole opporsi al generoso movimento assume tutta la responsabilità delle disgrazie che ci possono minacciare.[209]
[294]
Non rifaremo la discussione, o meglio il diverbio, che per questa lettera s’accese in Parlamento. Il Crispi la difese passo passo, spiattellando in faccia al Rattazzi anche la storia del milione, o, come volgarmente dicevasi, del milioncino promesso per la Grecia; il Rattazzi armeggiò abilmente a contraddirla in tutti quei punti che lo prendevano di mira; la Camera, più per tutelare l’autorità del governo che per fiducia nel Ministero, votò un Ordine del giorno che prendeva atto delle di lui dichiarazioni e lo incoraggiava a far rispettare la legge; ma un’opinione s’accordò nelle menti, che la verità non si disse nè si seppe intera da alcuno; e che poche giornate meritarono come quella il proverbiale titolo di journée des dupes.
E questo giudizio tocca per primo Garibaldi. Quale imperiosa ragione abbia potuto indurre il Generale a firmare quella lettera (a firmare, diciamo, non a scrivere, poichè lo stile prolisso e il sillogizzare curialesco la dimostrano evidentemente fattura d’altra mano), a noi non fu dato chiarire; il segreto è morto probabilmente coll’eroe. Per certo quel messaggio non diceva tutta la verità e ne dissimulava la principalissima parte. Che la spedizione del Tirolo non dovesse aver luogo immediatamente; che tra la raccolta delle armi e degli armati, e il momento dell’invasione potesse o dovesse trascorrere ancora un certo tempo, e che in questo intervallo fosse possibile una resipiscenza e un contr’ordine, ciò si comprende di leggieri; e in questo senso la lettera del Generale diceva il vero; ma che tutta quella gioventù si radunasse ai piedi dello Stelvio e del Tonale, sulle soglie del confine austriaco, solo per esercitarsi alle armi, o molto meno, come nell’eccesso del suo zelo apologetico volle dare a credere il deputato [295] Crispi,[210] o molto meno per apparecchiarsi a tragittare il Mediterraneo e combattere in Grecia, ciò oltrepassa i confini del credibile e dell’intelligibile, e ciò non è.[211] E non andremo in cerca per questo di superflue prove; non faremo appello alla testimonianza di centinaia dei nostri antichi amici e compagni d’armi; non pretenderemo nemmeno che si creda alla nostra;[212] [296] ci basta rammentare un fatto solo: Bixio, alla Camera dei Deputati, nella tornata dell’8 giugno 1862, studiandosi a dimostrare che il Ministero non poteva [297] avere alcun sentore di quella impresa di cui eran piene le bocche, adoperò questo singolarissimo argomento: «Tanto vero, esclamò, che Garibaldi interrogò me se conveniva renderne partecipe il ministro Depretis ed io ne lo dissuasi.» Ora è troppo ovvio che nè Garibaldi avrebbe stimato necessario di consultare il Depretis, nè Bixio reputato sì pericoloso il farlo, se quei disegni che allora mulinavano per la mente del Generale fossero stati embrioni ancora non nati; o, come egli scriveva, si fossero arrestati all’innocente idea di esercitar alle armi qualche giovanetto ramingo e sfaccendato.
La verità è che Sarnico doveva essere la prima tappa di Trento; e sarebbe stato più degno di Garibaldi confessare apertamente il proprio generoso errore, anzichè sforzarsi a mascherarlo di avvocateschi sotterfugi e di pie menzogne. Certo più che a lui la responsabilità della lettera del 3 giugno spetta ai malavvisati consiglieri che gliela dettarono; certo egli non s’indusse ad apporvi il proprio nome se non per l’ingenuo convincimento di salvare per tal modo i suoi amici compromessi da lui e per lui; ma non è men increscioso il pensare che egli per una male intesa convenienza politica abbia dovuto lasciar cadere sull’immacolata fama della sua lealtà una stilla d’inchiostro e siasi esposto a veder sorridere della sua parola, sacra fin ora, la più benigna posterità.
Anche quello strascico di mar vecchio che aveva lasciato dietro di sè la burrasca di Sarnico pareva del tutto quietato. Garibaldi era sempre a Belgirate nella villa dei Cairoli; ma vi menava da due settimane [298] una vita sì privata e tranquilla che persino quei diari, che erano in voce di suoi più intimi, non sapevan che si dire di lui. La sola nuova un po’ importante che da qualche tempo fosse corsa dal Lago Maggiore fu che a cagione di nuovi dissidi insorti tra il Generale e la parte mazziniana (quella che voleva l’azione a ogni costo) egli aveva dato la sua rinuncia di Presidente della Società Emancipatrice; e, com’è ben naturale, anche questo fatto parve ai più buono augurio che l’eroe andasse a poco a poco mettendo il cuore in pace, e deponendo, almeno pel momento, ogni proposito di fortunose avventure.
Se non che, a un tratto, una dietro l’altra, coll’incalzare staremmo per dire d’un nembo che s’avanzi, rumoreggiarono queste notizie: Garibaldi è giunto a Torino dov’ebbe un segreto abboccamento col Re e un alterco con Rattazzi; Garibaldi seguíto da un manipolo de’ suoi fidati è ripartito per Caprera: Garibaldi è sbarcato improvvisamente a Palermo.
Ma a che fare a Palermo? Perchè quel viaggio precipitato e misterioso? Quale nuovo disegno covava il Generale? Quale nuova sorpresa preparava egli all’Italia? Eran queste le domande ansiose che susurravan su tutte le labbra e s’agitavan in tutti i cuori ed ai quali nè oggi, nè mai, forse, sarà concesso dare precisa e certa risposta. Tuttavia, rifrugando fra quei frammenti a matita di cui altrove abbiamo parlato, ci venne fatto di trovare questa pagina di tutto pugno del Generale che getta un raggio di luce inattesa sulle origini d’Aspromonte, e decifra almeno la prima sillaba dell’«enigma forte:»
«Disgustato delle cose di Sarnico — e tornato in Caprera — io non avrei abbandonato la mia solitudine — se [299] le notizie dell’Italia meridionale fossero state men tetre. — I miei amici di quelle parti — massime dalla Sicilia — mi narravano il malcontento crescente ed il pericolo d’un movimento autonomista — coadiuvato certamente da tutti gli altri partiti che col mal governo di Rattazzi avevano alzato la testa. — L’opinione generale era, che al richiamo (qui minacciato) del Pallavicino un’insurrezione sarebbe scoppiata in Sicilia. Tali considerazioni mi fecero decidere a visitare la capitale dell’Isola.
»Io sapeva che i Principi erano stati a Palermo — ma confesso che se avessi saputo che essi si trovavano ancora là — io avrei scelto un altro luogo di sbarco.
»Avendoli però trovati a Palermo — ed essendo sempre stato ben accolto da loro, mi affrettai a dire al mio amico Pallavicino che mi sarebbe stato carissimo l’incontrarli.
»Giunsi in città al principio della notte — e subito che quella cara popolazione seppe del mio arrivo — volle vedermi e mi accolse come un caro della famiglia.
»Noi avevamo passato insieme momenti così solenni, tanti pericoli e divise insieme tante glorie, ch’era naturale il rivederci oltremodo commossi.[213]»
Ora vi è in questa pagina autobiografica un punto che importa rilevare. Fino ad ora fu detto e creduto che il disegno di far della Sicilia una base all’impresa di Roma fosse già fermo e compiuto nella mente di Garibaldi prima della sua partenza da Caprera. Ecco invece che egli ci disinganna e con grande asseveranza ci assicura nelle più intime sue carte come unico motivo di quel suo viaggio fosse l’idea, tuttora vaga ed oscura, di ravvivarvi colla sua presenza lo spirito unitario, quietarvi il pubblico malcontento, e combattervi le fazioni autonomiste e borboniche che tentavano rialzare la testa. Nè di dubitare della sua [300] parola vi sarebbe ragione; in ogni caso, a noi suoi compagni d’azione non mancherebbero argomenti per confermarla.
Nessuno infatti di quanti, invitati da lui, lo accompagnarono da Caprera a Palermo seppe mai dal suo labbro nè dove s’andasse, nè perchè s’andasse! Soldati, seguivamo il Capitano: credenti, seguivamo l’Apostolo.[214] Soltanto in alto mare nella notte del 7 luglio in vista della costa siciliana, taluno essendosi arrischiato a chiedere timidamente se si facesse rotta per la Sicilia: «Sì, rispose.... andremo a Palermo e là vedremo.» E tuttavia questa indeterminatissima parola «vedremo» era ancora la parte più definita e più certa del programma di Garibaldi in quel momento. Nessuna mèta fissa guidava i suoi passi; nessun proposito chiaro animava la sua volontà; e, a guisa d’uomo che intraprenda un viaggio d’esplorazione in una terra incognita, attendeva dalle scoperte che andrebbe facendo per via la norma del suo cammino ulteriore. Però, lo si tenga per fermo, il concetto di muovere dalla Sicilia al conquisto di Roma, lunge dell’essere stato, come fu scritto, la causa del suo viaggio in Sicilia, non ne fu che l’effetto. Che quel concetto dormisse in embrione in fondo al cervello dell’eroe è più che probabile; ma affinchè quell’embrione si animasse e prendesse forma viva e concreta nel disperato dilemma o Roma o Morte, fu prima mestieri che sentisse i vulcanici influssi del clima e del suolo siciliano, e trovasse in quel medesimo maleficio di insanie, di debolezze, di equivoci d’onde nacque l’aborto di Sarnico, la forza d’ingrandire e di minacciare.
[301]
Come accogliesse Palermo il suo primo liberatore lo narrò testè egli stesso, e a chi conosce la forza d’espansione degli entusiasmi siciliani è facile immaginarlo. Incontrato fra i primi dal prefetto Pallavicino-Trivulzio, condotto al Palazzo Reale e ospitato in quella medesima stanza da lui abitata nel 1860, visitato a gara da ogni ceto di cittadini e da ogni ordine di magistrati, applaudito, baciato, benedetto da una moltitudine di popolo delirante che cangiava sempre e non scemava mai; unico nome su tutte le labbra, unico tema a tutti i giornali, gli stessi figli di Vittorio Emanuele parvero dimenticati. Però, quantunque il Generale fosse stato sollecito di rendere loro, appena arrivato, il debito omaggio, essi sentirono il falso della loro posizione, e affrettarono, senza parere, la partenza. E da quell’istante il vero padrone della città fu lui; i partiti pendevano dalle sue labbra; le Autorità facevano a gara ad ossequiarlo; gli Istituti pubblici sollecitavano l’onore d’una sua visita, come quella d’un sovrano; la Guardia Nazionale, fiore della cittadinanza, novellamente comandata dal generale Medici, sembrava trasformarsi in una sua guardia del corpo; il prefetto Pallavicino, supremo rappresentante del Governo, pareva tornato suo prodittatore. Tuttavia per alcuni giorni il Generale non profferì verbo, nè fece un passo che uscisse dalla stretta legalità. Che cosa fosse venuto a fare a Palermo, continuava ad essere un mistero anche pei suoi intimi; e probabilmente non avrebbe saputo dirlo nemmeno lui. Soltanto la domenica del 15 luglio assistendo al Foro Italico, da una tribuna eminente, in compagnia del [302] Sindaco, del Prefetto e dei primari Magistrati della città, ad una rassegna della Guardia Nazionale; punto badando al luogo, alla cerimonia, al contorno ufficiale (fors’anco in cuor suo avendo pensato giovarsene) saetta in mezzo alla milizia ed al popolo accalcato a’ suoi piedi questa terribile invettiva:
«Popolo di Palermo,
Il padrone della Francia, il traditore del 2 dicembre, colui che versò il sangue de’ fratelli di Parigi, sotto il pretesto di tutelare la persona del Papa, di tutelare la religione, il cattolicismo, occupa Roma. Menzogna! menzogna! Egli è mosso da libidine, da rapina, da sete infame d’impero, egli è il primo che alimenta il brigantaggio. Egli si è fatto capo di briganti, di assassini.
Popolo del Vespro, Popolo del 1860, bisogna che Napoleone sgombri Roma. Se è necessario, si faccia un nuovo Vespro.»
All’inattesa folgore gli stessi amici impallidirono; giuntane la nuova a Torino, il Parlamento si commosse; il Ministro Rattazzi, incalzato d’interpellanze, negò, arruffò, disdisse, deplorò le insensate parole, censurando apertamente il prefetto Pallavicino d’averle ascoltate senza protesta; ma poichè il Pallavicino pareva non darsene ancora per inteso e Garibaldi non udiva intorno a sè che voci di plauso e di consenso, e vedeva quell’idea di Roma accolta dall’inconsapevole entusiasmo popolare più ch’egli non avesse sperato, così s’afferra a quella e ne fa oramai la stella fissa del suo cammino.
Risoltosi infatti a visitare i luoghi della epopea del 1860, tocca Alcamo, Partinico, percorre, esaltandosi a quei ricordi gloriosi, il campo di Calatafimi, fa una punta a Corleone, a Sciacca, a Mazzara, e di [303] là ripiega su Marsala, dove parendogli bello riprendere da «quella terra di felice augurio il tronco cammino,[215]» annunzia, più categoricamente che fino allora non avesse fatto, il suo fermo proposito di marciare all’impresa di Roma, ed apertamente invita i Siciliani a dar di piglio alle armi ed a seguirlo. E poichè, a quel bellicoso appello, una voce ignota dalla folla plaudente sclamò: Roma o Morte, «Sì,» ripetè più volte il Generale, «o Roma o Morte;» e questo grido, uscito forse dalle labbra inconscie d’un Picciotto o d’un pescatore marsalese, diventò da quell’istante, per il fato delle parole, il segnacolo in vessillo d’una delle avventure più cimentose a cui mai Garibaldi siasi accinto ed abbia tentato strascinare l’Italia.
Da quell’istante Garibaldi non s’arresta più. Appena reduce a Palermo affretta colla nativa energia, incuriosa de’ particolari, sempre diretta al fine, gli apparecchi della bandita impresa: manda i suoi più fidati ufficiali a correre il continente, ad avvertirvi gli amici, a fare incetta d’armi e di danaro: ad altri commette lo stesso ufficio nella Capitale: spedisce nei comuni limitrofi il Corrao e il Bentivegna (compagno [304] il primo di Rosolino Pilo, fratello l’altro dell’infelice Capo della insurrezione del 1856) a chiamare a raccolta i Picciotti; e tutti lo ubbidiscono, tutti argomentando dalla palese acquiescenza del prefetto Pallavicino che si fosse a una ripetizione del sessanta, e che il Governo tacitamente assentisse, tutti lo secondano e gli prestano aiuto. Soltanto tre de’ suoi più intimi, tra tanti che lo circondavano,[216] raccolto tutto il loro coraggio, tentano di far sentire al Generale consigli di prudenza, dimostrandogli la impossibilità di transitare armata mano la Sicilia, senza incontrarvi o prima o poi l’esercito regio, e soggiungendo, allo stremo d’ogni altro argomento, che se la spedizione di Roma era invariabilmente deliberata nell’animo suo, fosse il minor dei mali tentarla, come nel sessanta, per l’ampia via del mare, dove il rischio di esser colati a fondo sarebbe stato sempre minor danno d’una guerra civile, quasi inevitabile per terra. E, fosse la bontà dei ragionamenti, fosse un rimasuglio d’incertezza ancora tenzonante nella sua mente, il Generale, cosa insolita, consentì ad ascoltare e discutere; cosa poi veramente straordinaria e quasi unica, parve anche disposto a seguire il consiglio. Infatti fu notato da chi gli era più vicino che il giorno dopo egli diede ordine di raccogliere le armi e le munizioni in qualche casa presso la costa; e spedì il suo segretario Basso a Messina in cerca di vapori mercantili.
Se non che avendogli taluno de’ più esaltati Siciliani, specie il Corrao ed il Bentivegna, dato l’annunzio che nel bosco della Ficuzza erano già raccolte in armi alcune migliaia di Picciotti, e dipinta la Sicilia tutta pronta a insorgere, il Generale si lasciò trasportare [305] da quelle novelle, e deliberando piede stante, secondo il suo costume, all’insaputa della maggior parte de’ suoi amici, seguíto dai pochissimi che in quel momento gli si trovavan d’attorno, parte per la Ficuzza, dando la posta colà a quanti volessero raggiungerlo. Allora nuovo e più strano spettacolo; Palermo brulica d’armi e d’armati, come alla vigilia d’una campagna; squadre di giovani a piedi, in carrozza, a cavallo, in completo arnese garibaldino traversano a tutte le ore la città; un nerbo di loro, in una casetta a poche miglia dalle porte, piglia le armi e le buffetterie, s’organizza in compagnie e in colonna al suon delle trombe, sfilando a pochi passi da un battaglione di truppe regie, mandate non si sapeva se per fiancheggiarli o sbarrar loro il cammino, s’avvia sicuramente, allegramente al campo designato. Ora dire o far credere al popolo testimonio di quelle scene che non fosse negozio inteso; che quelle mostre di proteste e di proibizioni del Governo fossero altro che commedia, era impossibile. E lo provò subito il prefetto De Ferrari, mandato a surrogare il Pallavicino, dopo che questi, più non potendo reggersi nell’equivoca posizione, aveva rassegnato l’ufficio; lo provò, diciamo, quando essendosi stimato in dovere di pubblicare un suo manifesto, che il Governo disapprovava quella mossa ed era deliberato ad impedirla, si vide strappati, tra le beffe e le minaccie, i suoi bandi e posti in mora tanto egli quanto il generale Righini, Comandante militare della città, o di venire ad aperta battaglia per le vie o di starsene inerti.
La mattina del 1º agosto infatti erano assembrati nei boschi della Ficuzza circa tremila Volontari; talchè [306] il Generale tutto lieto esclamò: «Non ne ebbi tanti nel sessanta.» Eppure la qualità n’era tanto diversa! Quando se ne eccettui il battaglione de’ Palermitani, eletta della cittadinanza, e con esso una piccola mano di continentali e poche reliquie di veterani e di patriotti seminati per le file, il grosso componevasi d’un’accozzaglia di vagabondi e di ragazzacci razzolati a caso fra quel vario elemento che in Sicilia forma, a seconda dei tempi, così il ripieno delle squadre patriottiche, come il fondo delle bande brigantesche, e che diede subito saggio di sè stessa gridando al Generale per primo saluto: «pane pane....» Pure il Generale li accolse tripudiando, compiacendosi quasi di que’ cenci e di quelle faccie con quel sentimento medesimo con cui un altro e ben più grande entusiasta lungo le rive dei laghi galilei compiacevasi delle lacere turbe che lo seguivano. Però dopo averli arringati in un suo Ordine del giorno che cominciava[217] colla formola «Italia e Vittorio Emanuele, Roma o morte» e finiva colla speranza «di dare, riuniti al prode esercito, un ultimo saggio del valore italiano,» partisce la sua gente in tre colonne: una, la più grossa, sotto il suo comando diretto; l’altra sotto gli ordini del Bentivegna, destinata a percorrere, per Girgenti, la costa meridionale della Sicilia; la terza guidata da un Trasselli, diretta per Termini, su Messina; e ciò fatto la mattina del 2 agosto per Corleone, dove un picchetto della truppa regolare gli monta la guardia, s’avvia a Mezzojuso.
E colà soltanto gli giunge la nuova che era messo fuori della legge. Il ministro Rattazzi, veduta l’ostinata impenitenza del Generale, e vani ormai così i mezzi della persuasione, come quelli della repressione [307] ordinaria, si scuote alla fine; propone apertamente al Re di porre la Sicilia in istato d’assedio; manda Commissario a Palermo, con pieni poteri militari e civili, il generale Cugia, e il Re stesso, sancendo la proposta de’ suoi Ministri, pubblica un proclama agli Italiani, nel quale ammonitili «a guardarsi dalle colpevoli impazienze e dalle improvvide agitazioni,» e assicuratili che «giunta l’ora della grande opera la voce del loro Re si farà udire,» dichiara «ogni appello che non sia il suo, appello alla ribellione ed alla guerra civile,» minaccia del rigor della legge quanti non daranno ascolto alle sue parole, e chiude solennemente: «Re acclamato dalla nazione, conosco i miei doveri. Saprò conservare integra la dignità della Corona e del Parlamento per avere il diritto di chiedere all’Europa intera giustizia per l’Italia.[218]»
Primi portatori a Mezzojuso di queste novelle, come del bando regale, furono il duca Della Verdura e il dottor Gaetano La Loggia, vecchi e cari amici del Generale; ma nè i loro affettuosi consigli, nè la voce augusta di Vittorio Emanuele, nè la minaccia della legge, nè i pericoli della guerra civile valsero a smuovere il proposito, ormai incrollabile, dell’indomito Capitano. E n’adduceva le ragioni, o quelle almeno che a lui parevano tali: non credere il Ministero giusto interprete della volontà nazionale; non sgomentarsi, memore d’avervi felicemente disobbedito altra volta, del divieto regio, probabilmente imposto da prepotenza straniera o da intrighi diplomatici: l’esercito poi, lungi dal temerlo nemico, attenderlo aiutatore e alleato, e in ogni evento lasciassero a lui la cura d’evitarlo; finalmente il disputare era tardi; l’alea era tratta; egli [308] aveva giurato a Roma per la vita e per la morte; campione sacro a quella causa, non poteva retrocedere più.
E non retrocesse; e per venticinque giorni precisi egli proseguì la sua via con tanta sicurezza e tanta fortuna che gli Italiani non seppero più se il Governo parlasse per celia o per davvero; se quell’esercito che lo scontrava ad ogni passo e non l’arrestava mai fosse destinato ad una indiretta complicità o ad una comparsa teatrale; se infine in tutto quell’ingarbugliato dramma, che da mesi si svolgeva sotto i loro occhi, essi fossero giuoco d’un occulto protagonista che dirigesse a sua posta la macchina, e di cui Garibaldi non fosse, a dir così, che il confidente e lo stromento.
Udito il Te Deum nella chiesa di Mezzojuso (a compiere quella shakespeariana tragicommedia d’equivoci non mancava più che preti cattolici in chiesa cattolica benedicessero a Dio per la caduta del poter temporale), Garibaldi leva il campo il 6, mattina; la sera del dì medesimo è ad Allia; il 7 a Valledolmo; l’8 a Villalba, dove gli perviene la notizia che a Santo Stefano la colonna Bentivegna era venuta alle mani a cagione di due disertori con un battaglione di regolari che colà presiedeva; ma aveva evitato più sanguinoso conflitto principalmente per l’ardito e pronto accorrere di Enrico Cairoli, il quale, cacciatosi fra i combattenti, aveva ottenuto si cessasse dal sangue fraterno a patto di lasciare i disertori e sgombrare al più presto la terra.
Ripresa la marcia, traversa il 9 Santa Caterina; il 10, incontrato dalle Guardie nazionali del paese, accampa a Marianopoli; l’11 entra in Caltanisetta, d’onde la truppa regia, udito il suo avvicinarsi, si [309] ritira quasi fuggiasca, a Girgenti, la città gli dà un banchetto in cui il Prefetto medesimo beve «alla fortuna della sua impresa;» ed egli saluta Vittorio Emanuele in Campidoglio, e parte regalato d’armi, di danari, di vesti. L’indomani a Villarosa lo raggiunge, con ottocento uomini, il Bentivegna; il 14 a Castrogiovanni un barone varesano si arruola sotto la sua bandiera con una grossa squadra soldata da lui, talchè, ascesa la colonna a quattromila armati, viene divisa in due Legioni romane, agli ordini, la prima del Menotti, la seconda del Corrao. A Piazza, a Leonforte, a San Filippo le stesse accoglienze. A Regalbuto sopraggiungono i deputati Mordini, Fabrizi, Calvino e Cadolini, venuti di terra ferma per esplorare davvicino il vero stato delle cose ed a seconda dei casi, o ripregare il Generale a desistere dall’impresa, o associarvisi. E fu, se ci apponiamo, in que’ dintorni (non sapremmo tuttavia precisarne il punto) che il Generale stesso ricevette una lettera dell’ammiraglio Albini,[219] nella quale questi a nome del Governo proponevagli di trasportarlo su una fregata regia in quel qualsiasi porto del Regno che meglio gli fosse piaciuto; pronta la fregata ad attendere i suoi ordini fra Acireale e Catania. Offerta benigna, ma imprudente, come quella che dava al Generale un pretesto di più per marciare su Catania, e ch’egli perciò s’affrettò ad accettare.
E così di tappa in tappa era giunto a Centorbi, presso alle rive del Simeta, dove cominciò a riavere notizie dell’esercito regio, di cui da ben otto giorni aveva perduto ogni sentore.
Infatti il generale Mella, comandante il presidio [310] di Catania, era venuto ad appostarsi coll’intera Brigata Piemonte tra Adernò e Paternò, a cavaliere delle due strade che menano a Catania ed a Messina, risoluto, a quanto pareva, a sbarrargliene i passi; mentre il generale Ricotti, spintosi da Girgenti alle spalle della colonna ribelle, arrivava in que’ medesimi giorni a Castrogiovanni e serrava sempre più dappresso il retroguardo garibaldino. Per Capitano deciso a combattere, il cimento sarebbe stato poco temibile; per Capitano deciso a sfuggire ogni battaglia, il frangente era minaccioso. Però Garibaldi non pensò altro mezzo per uscirne che affrettare la marcia, guadar notte tempo il Simeta, traversare a passi celeri e silenziosi Paternò e deludere così la vigilanza de’ suoi custodi. Ma l’intento gli fallì: l’avanguardia del Corrao fu indugiata per via; il Simeta più grosso dell’usato rese difficile il guado; sicchè la colonna non potè arrivare in faccia a Paternò che a giorno già alto. E siccome a Paternò stava di guardia un battaglione regolare, il quale, al primo apparire delle camicie rosse, corse subito a schierarsi in difesa, così tutti pensarono, i più col cuore serrato, che uno scontro fosse ormai inevitabile. Ma, il lettore l’ha già compreso, noi viaggiamo da un pezzo nel mondo ariostesco dei sortilegi e degli incantesimi, e conviene essere apparecchiati a tutte le sorprese. Garibaldi manda in cerca del Maggiore Comandante di quel Battaglione, non si può dire se amico o nemico, e il Maggiore s’affretta all’invito, stavamo per dire all’ordine, del Generale avversario. Questi a sua volta esce dal suo campo incontro al Maggiore e sotto gli occhi dei loro soldati, presti a combattere, si salutano, si stringono la mano ed amichevolmente conversano.
Quel che siansi detto non si seppe; taluno vide il [311] Generale mostrare al Maggiore una lettera con un gran suggello rosso;[220] letta la quale l’ufficiale s’inchinò riverentemente e partì. E non è inverosimile; probabilmente la lettera era quella medesima che l’ammiraglio Albini aveva scritto pochi giorni innanzi al Generale, nella quale gli dava convegno nel porto di Catania; d’onde il consenso del Maggiore regio a concedere il passo. Certo è che, appena separatisi, i Volontari poterono mandare i loro furieri a provvedersi di viveri in Paternò; che il battaglione regio non fece un passo fuori della linea già occupata; che infine, verso le quattro pomeridiane, dopo almeno sei ore di sosta, Garibaldi potè levare tranquillamente il campo, e, preso prima per viottole traverse, poi per vigneti e giardini, girare attorno Paternò e riescire franco da ogni molestia sulla strada maestra di Catania, dove, per giunta, un picchetto di Regi, di guardia alla porta, gli presenta l’armi. E tutto gli sarebbe riuscito ancora più a seconda, se una parte della legione Corrao, la meno disciplinata tra tutte, o per capriccio o per errore, non avesse tentato traversare il paese; per il che i Regi furono costretti a far fronte ed a vietare loro il cammino. E certo un conflitto ne sarebbe scoppiato, se, altra e più grande meraviglia di quella favolosa giornata, Garibaldi avvisato del pericolo non fosse tornato sui suoi passi e non avesse ottenuto sempre da quel Maggiore, mercè una sua dichiarazione scritta, il libero passo degli arrestati.[221]
[312]
Strana guerra, invero, in cui il Comandante d’una parte stava ai cenni del Comandante dell’altra: il nemico prestava i viveri al nemico; i prigionieri erano liberati sulla parola del Capitano avversario; e coloro che avrebbero dovuto, a rigor de’ termini, passarlo per l’armi, gliele presentavano.
E tuttavia il genio di quella fantastica tregenda non aveva esaurite le sue gherminelle. Nella sera stessa essendosi il Generale avanzato con pochi seguaci verso Misterbianco, vede a un tratto illuminato il paese da una gran luce e pochi istanti dopo una folla festante armata di fiaccole uscirgli incontro, e annunziatagli Catania già libera di Regi, sobbarcarsi alla sua carrozza, e per parecchie miglia portarlo, quasi di peso, come in una sedia gestatoria, nella città.
Tralasciamo le accoglienze, non dissimili, più fervide forse, di quante n’aveva ricevute fin allora. In Catania non c’è più ombra di governo regio: governa Garibaldi. Una o due compagnie di linea sono chiuse in castello quasi prigioniere, e quella volta è Garibaldi che concede la libertà. Il prefetto Tholosano s’è ritirato a bordo della Vittorio Emanuele, una delle fregate che ancoravano nel porto; e Giovanni Nicotera, fatto Comandante civile e militare della città, tiene il suo luogo. E il più notevole si è che non un partito solo coopera a quella strana rivoluzione, ma la cittadinanza intera. Garibaldi è ospitato nel Casino della Società degli Operai, di cui eran membri cittadini d’ogni colore politico. Il marchese di Casalotto, deputato di parte moderata, Comandante in capo della Guardia nazionale, gli manda una compagnia d’onore; una legione [313] cataniese si recluta fra l’eletta della città: insomma l’inganno che Garibaldi, se pure discorde col Governo, agisse in segreto accordo col Re, confermato in quegli ultimi giorni dalla fiacchezza del generale Mella e dall’inazione della squadra, continua il suo giuoco e travia tutte le menti. Ed a tal segno le travia, che sparsasi, il 22 sera, la novella che il Mella ed il Ricotti marciassero con forze unite e mosse combinate ad assalire Garibaldi, la città si leva in tumulto; le vie e le porte si coprono di barricate; gran parte della Guardia nazionale si mette in armi, pronta a respingere l’assalto; sicchè può dirsi che chi lo teme di più sia lo stesso Garibaldi.
Fortunatamente, a scongiurare il pauroso evento ed a levarlo dall’atroce distretta, apparvero in vista del porto due piroscafi, uno con bandiera francese, l’altro con italiana; laonde Garibaldi, che dall’alto del Convento dei Benedettini era stato il primo a scoprirli, «È un’occasione, sclamò, che non bisogna lasciarci sfuggire;» e in men d’un’ora quelle due navi erano in suo potere.
Ma qui è il tempo di lasciar parlare egli stesso. Nei già noti Frammenti a matita troviamo di tutto suo pugno la narrazione d’Aspromonte, e quantunque l’autobiografo sorvoli a non pochi particolari, e lasci qua e là qualche lacuna;[222] siam certi che il lettore preferirà sempre queste pagine autografe, scolpite dalla interna stampa dell’eroe, a qualsiasi più veridico e diligente racconto.
[314]
«Catania s’era mostrata degna di Palermo e della Sicilia. In Catania trovammo un vulcano di patriottismo. — Uomini, denaro, vettovaglie e vesti per la nuda mia gente.
»La Provvidenza c’inviò due vapori ed io, amante del mare, dall’alto della torre del Convento dei Benedettini che domina Catania salutai la venuta de’ due piroscafi collo sguardo appassionato d’un amante. — Uno era italiano, roba nostra — l’altro francese.[223](?) — Buonaparte non ci aveva rubato Roma — che teneva da tredici anni? — e perchè non potrò io disporre d’un suo piccolo legno per una notte? Due fregate italiane custodivano il porto e s’accorsero naturalmente dell’intenzione nostra. — Dovendo traversar lo Stretto di notte bisognava fare i preparativi di giorno. Le fregate vigilavano accuratamente e quasi chiudevano l’entrata del porto di Catania. Esse nella notte — o sarebbero all’àncora, e in quel caso potevano tenersi molto vicine; ma non pronte a proseguirci nella nostra uscita — oppure si terrebbero esse sulla macchina — ed allora impossibile di star così vicini agli scogli — in una notte oscura — poichè tutto intorno al porto di Catania è scoglio e d’una lava che incute timore anche di giorno. Di notte quella costa è d’un oscuro — d’un tetro d’inferno. Ostile l’esercito che circondava Catania, e che aumentava di numero ogni giorno. Ostile la squadra che senza dubbio sarebbe aumentata pure. Non v’era miglior espediente che di profittare de’ due provvidenziali vapori e tentare il passaggio.
»Se le fregate crociavano — non potendo esse tenersi vicino agli scogli, a noi gli scogli — e stringerli quanto più si poteva.
»Se le fregate ancoravano sulla bocca del porto — diritto su di esse — e passar tanto sotto le loro batterie da [315] non poter colpire — con tutta l’inclinazione data ai cannoni.[224] Io avevo calcolato dall’alto e l’altezza delle batterie delle fregate e l’altezza de’ due piccoli piroscafi — ambi esposti alla mia vista ed a poca distanza.
»Presa cotal risoluzione — io scesi dalla torre del Convento e m’incamminai verso il porto per sollecitare l’imbarco ordinato da varie ore. Erano tremila e più i miei compagni — che meco dovevano traversare il mare — ed appena mille ne poterono ricevere i due piroscafi. Quello fu un momento penibile.[225] Nessuno voleva rimanere, eppure molti lo dovevano. Vi era un’assoluta impossibilità di fare altrimenti.
»Col cuore lacerato io vidi rimanersi quella cara gioventù, che altro non voleva che precipitarsi nella impresa la più ardua e la più pericolosa, senza chiedere ove si andava — e qual’era il loro guiderdone? Oh! Chi può disperare dell’avvenire d’una patria con uomini tali — eppure quegli stessi uomini che si cercò di schiacciare, di distruggere — erano poco tempo dopo trascinati come malfattori nelle prigioni dello Stato — coi nomi di ribelli, briganti e camorristi!
»I piroscafi che non potevano ricevere più di mille uomini — ne ricevettero più di duemila — ma erano stracarichi d’un modo, come non ho mai veduto.
»Chi poteva impedire l’imbarco a quella buona, ma disperata gioventù? Non ne entravano più sui bastimenti quando materialmente nè un solo vi poteva più mettere il piede, dalla gran calca. Era cosa spettacolosa!
»Così si uscì dal porto di Catania — verso le 10 pomeridiane. Le fregate — come avevo previsto — non tenendosi [316] all’àncora, dovevano tenersi alquanto scostate — e l’espediente fu allora di costeggiare vicinissimo gli scogli al settentrione del porto.
»Anche questa volta la fortuna marciò colla spedizione dei Liberi — e prima di giorno noi toccavamo la sponda meridionale della Calabria a pochissima distanza del punto ove sbarcammo nel 60 — ed ove rimaneva lo scheletro del Torino,[226] che per molto tempo si scoprirà ancora, testimonio della rabbia ridicola e sterminatrice dei Borboni. Il Torino era uno dei più bei piroscafi che io m’avessi veduto. Proprietà nazionale ed individuale italiana — quel bel vapore si sarebbe potuto salvare al paese non essendovi nè necessità, nè gloria militare nel distruggerlo.
»Ancora una volta noi salutammo il continente italiano, pieno il cuore di speranze e colla mèta di scuotere a libertà gli schiavi fratelli di Roma. Ma il continente italiano non rispondeva degnamente alla chiamata del risorgimento. Il Moderantismo aveva gettato tra le moltitudini la sua ghiacciata parola — e per sciagura que’ moderati d’oggi erano i corifei della rivoluzione del 60 — e quindi possenti ad ingannare i popoli.
»Lo stesso giorno dello sbarco in Calabria si occupò Melito. Da Melito v’erano tre vie da prendere. L’orientale per Gerace — la centrale per San Lorenzo ed i Monti — e l’occidentale per Reggio. Per Reggio fummo fortunati nel 60 e si scelse quella.
»Da tutte le notizie raccolte io non dubitava che in quella estremità del continente italiano non si facessero quanti preparativi si potevano per fermarci — e veramente colla direzione su Reggio io avevo poca speranza di penetrarvi.
»Ciononostante — il fortunato nostro passaggio e la celerità di cui erimo capaci — ci mettevano nella possibilità d’entrare in Reggio — non avendo potuto ancora i nostri avversarii radunare in quella città forza sufficiente per chiudercene [317] l’entrata. Con un colpo di mano come quello del 60 — e colla simpatia della popolazione di cui non dubitavo noi saressimo entrati in Reggio. Ma molto dubbioso era, se potevamo entrare senza combattere e contrariamente al 60 noi dovevamo evitare i combattimenti.
»Tali considerazioni mi obbligarono d’accennare a Reggio — ma poi deviarci — e presimo a destra nella direzione d’Aspromonte.[227]
»Il letto del torrente[228] fu la via che si seguitò per raggiungere le alture. Ad onta però di celere marcia la retroguardia nostra fu attaccata da una compagnia di truppa.[229] Io ero già un pezzo sulla montagna quando fui avvertito di tale avvenimento — tornai indietro e vidi che tutto era terminato.
»La strada dei monti che avevamo presa ci faceva evitare i corpi di truppa — ma ci lasciava in quasi assoluto difetto di viveri. Il primo giorno si passò con alcune pecore comperate dai pastori, e che furono insufficienti. Bisognava con tuttociò marciare fortemente, sia per trovare de’ viveri — come per oltrepassare Reggio ove si sapevano ingrossare ad ogni momento le truppe.
»Quei due giorni di marcia per i monti[230] furono veramente [318] disastrosi. La gente aveva mangiato pochissimo ed alcuni nulla. Grande difetto di calzatura, per cui si doveva rallentare la marcia. Poi si consideri che la maggior parte de’ giovani che mi accompagnavano — oltre all’essere poco assuefatta alla fatica — perchè gente agiata — erano giovanissimi — ed io avevo l’anima straziata di vederli così in misero stato — trascinarsi piuttosto che camminare.
»Qui mi accade ricordarmi di quei bei mobili di preti, che ci tolgono quasi assolutamente la gente della campagna. Indi la mancanza di gente nerboruta e forte per le marcie — quei miei poveri giovani in tutte le epoche hanno fatto marcie forzate e non poche — ma sostenuti più dalla forza morale che dalla fisica e penetrati dall’indomabile amor di patria.
»Non è da stupirsi se i sedicenti briganti che con tanta ostinazione tengono testa alle nostre truppe regolari nelle provincie napoletane hanno potuto sostenersi fin oggi e vi si sosterranno forse per un pezzo ancora — se dura loro la protezione del Papa e di Buonaparte.
»Tutti questi briganti sono uomini del campo e della montagna — la suola naturale dei loro piedi non si consuma mai. Io ricordo un mio compagno di caccia contadino con cui cacciavo sui monti di Nizza — che quando entravamo in caccia toglieva le scarpe e le poneva in cintura.
»Con uomini simili si può fare facilmente trenta miglia in una notte — sorprendere il nemico, batterlo e dopo d’aver bottinato ritirarsi in luoghi sicuri.
»Senza preti quella gente svelta, coraggiosa, robusta delle popolazioni sarebbe con noi, ed agevolerebbe immensamente a raggiungere la mèta prefissa dalla nazione italiana.
»Io marciavo avanti — e — singolare — l’eletta della mia gente, in numero di circa cinquecento, marciava meco non solo, ma era obbligato di fermarla sovente perchè non passasse avanti, spinta, povera gente, anche dalla fame e dalla speranza di trovare più avanti qualche cosa da mangiare. Si giunse finalmente alla casetta forestale d’Aspromonte ove si credeva trovare alcuni viveri — ma nulla — e vi trovammo porte chiuse.
[319]
»Un campo di patate sfamò i primi giunti — che avevano pure avuto la previdenza di portare seco loro alcune fascine secche atte ad arrostire le patate, ciocchè fu eseguito in un momento. Per parte mia mangiai quelle patate arrostite deliziosamente.[231]
»Il 28 agosto, credo, giunsimo in Aspromonte in numero di circa cinquecento, ed accampammo intorno alla casetta — io dentro. I miei poveri compagni giungevano alla spicciolata in uno stato da far pietà — affranti dalla fatica e dalla fame, e sprovvisti la maggior parte del necessario vestimento. Così stesso[232] tra quella brava gioventù non si sentiva un lamento. Nel decorso della giornata giungevano sempre piccoli drappelli de’ nostri — e nello stesso tempo viveri che si erano mandati cercare — ed altri che la brava popolazione dei paesi circonvicini ci offriva spontaneamente. Così passammo quel giorno.
»Mi pare d’aver detto — che l’ultima marcia alquanto forzata — aveva il doppio oggetto di porci presto a settentrione di Reggio — e cercare da mangiare. Quest’ultimo motivo mi poneva nel caso di sollecitare la marcia — inquieto ed impaziente di trovar presto cibo per la gente, quindi immenso allungamento di colonna — e certamente la coda rimaneva indietro. In marcia cotale era impossibile trovare guide per ogni frazione della colonna. Indi deviamenti di direzione. Nella notte poi la scabrosità dei sentieri di montagna ed oscurità de’ boschi. Poi molti, dalle informazioni prese conoscevano ch’io non seguivo sulle traccie de’ paesi, ma bensì verso un campo situato al limitare d’una foresta, e prendendo consiglio dalla fame si dirigevano di preferenza verso i paesi ove si presentasse loro più probabilità di trovare de’ viveri.
»Tali e tanti motivi fecero sì che alla fine del giorno 28 ci mancarono ancora più di cinquecento dei nostri. La maggior [320] parte di quei nostri mancanti caddero in potere della truppa che si avvicinava ad Aspromonte — e gli altri che rimasero liberi si traviavano per non essere colti dalla truppa a Santo Stefano alcune miglia distante e seppero quasi subito ch’essa s’incamminava per Aspromonte.[233] Feci subito toccare a riunione e marciare verso una posizione più conveniente ch’io già aveva riconosciuta. La posizione era magnifica — e se avessimo dovuto combattere de’ nemici anche in numero doppio di quanto era la truppa italiana io non dubitavo della vittoria.
»E qui commisi un errore che per deferenza non è citato da nessuno di quanti scrissero sul fatto doloroso d’Aspromonte; ma che in ossequio della verità io devo confessare. Non volendo combattere — perchè aspettare la truppa? Avrebbe dovuto il capo che la comandava mandarmi un parlamentario prima d’attaccare? Ma non dovevo io supporre che finalmente si voleva rompere, e che un po’ di sangue fraterno non farebbe male, e che per non dar tempo ai soldati di riconoscere chi avevano in fronte si farebbero cominciare il fuoco da lontano e subito giunti al passo di trotto — come fecero.
»Io dovevo supporre tutto questo e non lo feci. Io dovevo marciare prima dell’arrivo della truppa — lo potevo e non lo feci.
»Avrei molti motivi da anteporre[234] a mio favore: per esempio — la distribuzione dei viveri ch’erano giunti, e che stavano per giungere. Veramente mentre io vedeva giù la truppa avanzare alla nostra volta, delle file di donne e [321] d’uomini si scorgevano in lontananza carichi di provvigioni per noi.
»Non è questo sufficiente motivo perchè la gente qualche cosa aveva mangiato — e si poteva fare almeno una piccola marcia sino a Santa Eufemia — distante due ore — ed ove la popolazione con varie deputazioni mi aveva caldamente invitato. Oppure marciare io, con parte della gente a Santa Eufemia, e mandare il generale Corrao in altra direzione. Avrei potuto ancora frazionare di più la gente. Tutte queste misure che potevano almeno momentaneamente allontanare la catastrofe io avevo nella mente di eseguire, ma ciò doveva essere eseguito colla celerità che mi aveva servito in tante occasioni. E non lo feci.
»Un altro motivo era quello di aspettare la gente nostra che marciava ancora, e che poteva giungere da un momento all’altro. Motivo anche questo insufficiente poichè chi non s’era riunito a quell’ora, o aveva poca voglia di riunirsi, od era stato arrestato — od era traviato, e si sarebbe riunito in altri luoghi.
»Infine un po’ d’irresoluzione da parte mia — posso dire insolita — fu per gran parte colpa di quanto avvenne. Ora devo confessare che quando vidi la forza (e certo nessuno la scoprì prima di me) alla distanza di circa tre miglia che marciava su di noi con sollecitudine, non mi passò nemmeno per idea la ritirata — quando fosse stata quella forza doppia di quello che era.
»Solamente ordinai al Capo di Stato Maggiore di rettificare la linea occupata dai nostri — e prendere alcune convenienti posizioni. La foresta d’Aspromonte formava nella posizione in cui ci trovammo un contrafforte di piante che s’avanzava verso la pianura. A ponente del contrafforte il bosco si limitava, in linea retta scendendo dal monte, verso la pianura, ed al di fuori del bosco verso ponente pure, il colle era privo d’alte piante e ricoperto di felce — formando un piano interrotto e convesso che terminava alla nostra destra nella pianura ed al fronte nostro nel letto di un torrente.
»Io avevo fatto formare la nostra linea sull’alto del bosco, la sinistra al Monte ove mi collocai io stesso per esser [322] la parte più alta ed ove appoggiavano la loro sinistra alcuni dei battaglioni del corpo di Menotti.
»Menotti essendo alla destra del suo corpo si trovava al centro.
»La destra comandata dal generale Corrao si stendeva oltre l’estremità.
»Avevo ordinato che si schierassero alcune catene al fronte della linea, e che il resto fosse tenuto in colonna nei vuoti che si trovavano nella linea del bosco. Due compagnie furono staccate a crocchietto[235] sulla nostra sinistra formando una perpendicolare colla nostra linea e colla direzione del torrente che dominavano. Una terza compagnia fu inviata pure sulla nostra sinistra ad occupare un’eminenza che dominava tutta la linea — ed ove si temeva che verrebbero a comparire alcune compagnie di bersaglieri — che staccati dalla truppa minacciavano di fiancheggiarci.
»Ho già detto: che alla vista della truppa non mi sarei ritirato ancorchè avessi saputo che ci succederebbe peggio di quanto ci successe.
»Avevo commesso l’errore di non marciare appena scoperta la truppa — non dovevo più marciare alla vista di essa. Ciò sarebbe stata una fuga — e poca voglia v’era di fuggire.
»Dimodochè noi contemplammo tranquillamente il celere avvicinarsi de’ soldati italiani — i quali giunsero al passo di trotto sulla collina che fronteggiava la nostra al di là del torrente — stendersi in linea e cominciare un fuoco d’inferno. Fu cosa d’un momento. Io passeggiavo al fronte delle nostre catene — e certo addolorato dalla piega che prendevano le cose — massime che udivo sulla destra — essere stato risposto continuatamente alle fucilate degli assalitori — continuavo colla raccomandazione di non far fuoco — ed i miei aiutanti percorrendo la linea raccomandavano lo stesso — ed ordinavo alle trombe di comandare il cessare il fuoco.
»Io fui ferito al principio della fucilata — ed accompagnato all’orlo del bosco — ove fui obbligato di sedermi — rimasi [323] quasi nell’impossibilità di più poter distinguere ciò che succedeva sulla linea. Ove avessimo avuto da fare con dei nemici — la cosa andava certo diversamente. Avrei potuto collocare, coperte dalle prime piante, le nostre catene dei bersaglieri e con loro potevo rimanere io stesso. Lasciare avanzare la truppa al di qua del torrente — e dopo d’averla fucilata a bruciapelo — caricarla di fronte — col vantaggio dell’altura, e di fianco sulla sua destra spingendovi, collo stesso vantaggio, le compagnie che si trovavano a crocchietto nella nostra sinistra. Tutto ciò poteva operarsi molto prima che le compagnie de’ bersaglieri che marciavano per il bosco per fiancheggiarci sulla nostra sinistra potessero comparire e prender parte alla pugna.
»Io non ho mai dubitato che per valorosi che fossero i soldati che avevamo di fronte — essi non potevano mancare d’essere sbaragliati.
»Io ho fatto gli elogi del colonnello Pallavicini — e sono oggi della stessa opinione. In primo luogo — noi potevamo cadere in peggiori mani. In secondo, egli eseguiva gli ordini che aveva, con valore e risoluzione. Ciò nonostante — ripeto — se nemici dell’Italia noi avessimo avuto in faccia da combattere — l’Italia in quel giorno contava una splendida vittoria di più.
»Già dissi in un altro luogo che alcuni picciotti dell’ala destra avevano risposto al fuoco della truppa. Io ciò aveva veduto nel momento in cui fui ferito. Ma ciò che non vidi — e seppi dopo — fu che li stessi picciotti e Menotti nel centro — avevano eseguito una scarica.[236]
»È positivo però che da tutte le parti della linea dal centro alla sinistra — ove si trovavano in maggioranza i veterani di tutte le pugne — dei volontari italiani, e che [324] più immediati erano alla posizione da me occupata — nessuno si mosse nè fece fuoco.
»Seduto — attorniato da’ miei prodi fratelli d’armi — io ebbi la prima medicatura al mio piede destro — alla coscia sinistra un’altra palla mi aveva contuso, ma fu poca cosa.
»Frattanto giungevano alcuni della truppa — e tra essi varii di coloro che con me avevano servito nei tempi passati — e vidi il cordoglio sulla fisonomia di tutti — meno alcuni giovani ufficiali dell’esercito — che senza dubbio — nuovi nei combattimenti credevano di aver riportato una strepitosa vittoria. Io ebbi ad incomodarmi con alcuni di questi pei spropositi loro — ma fu cosa di momento.[237]
»Giungendo la truppa sulla linea nostra — e non sapendo di me — molti de’ nostri si ritiravano per il bosco — dimodochè si rimase in pochi e ciò accelerò il disarmo della gente.
»I miei ufficiali di Stato Maggiore col colonnello Pallavicini stipulavano alcune condizioni — fatica inutile — poichè fummo trattati come prigionieri di guerra — come tali accompagnati a Scilla e come tali imbarcati a bordo della fregata il Duca di Genova e condotti alla Spezia.
[325]
»Da Aspromonte alla Spezia — io devo ricordare con gratitudine il trattamento del colonnello Pallavicini — del maggior Pinelli — del comandante, Whright, del Duca di Genova — del colonnello Santa Rosa, e del comandante Ansaldi al Varignano — e del capitano di Porto, Rossi (uno dei mille), alla Spezia.[238]»
La commozione suscitata dall’annuncio d’Aspromonte fa grandissima, e non in Italia soltanto, ma in quante contrade era giunto il nome del mondiale condottiero e l’eco della catastrofe. Strano destino di quest’uomo: egli raccoglieva dalla sua disfatta una mèsse di gloria che mai sì grande dai trionfi di Palermo [326] e di Napoli! Finchè fu in piedi col vessillo della rivolta in pugno, egli non era, agli occhi dei più, che un ribelle dissennato, che pareva lecito anzi doveroso combattere e schiacciare al più presto; appena fu atterrato, egli diventò a quegli occhi medesimi il martire d’un’idea, reso dalla sventura inviolabile e sacro.
Perseguitato, temuto, da molti esecrato fino a ieri come un bandito pericoloso, oggi è ricerco, glorificato, staremmo per dire, adorato come un santo. Un incessante pellegrinaggio di devoti assedia il suo carcere; una gara d’affetti circonda il suo capezzale; un concento di compianti e di voti vola a lui da ogni angolo della terra, e ne dice l’apoteosi. E quel che è più meraviglioso, prima in quel torneo di pietà la fredda, compassata, calcolatrice Inghilterra. A Londra, a Birmingham, a New-Castle, a Dundey, a Birkenhead i meetings si succedono ai meetings, nè solo per esprimere all’eroe la simpatia del popolo britannico, ma per protestare insieme contro la Potestà temporale de’ Papi e l’occupazione francese di Roma. Uno de’ più celebri chirurghi inglesi parte a pubbliche spese per visitare il ferito; una colletta popolare d’un penny, destinata a costituire un fondo di soccorso a Garibaldi, raccoglie in pochi giorni 40,000 franchi; i giornali d’ogni parte riboccano di notizie del ferito, di particolari della sua vita, d’apologie della sua causa; da tutti i porti del Regno Unito partono per la Spezia lettere, telegrammi, doni, visitatori e visitatrici; un Comitato permanente di notabili governa nella metropoli le onoranze a Garibaldi; ad Hyde Park in un meeting di quarantamila persone si combatte tra Irlandesi ed Inglesi pro e contro Garibaldi, pro e contro il Papa più che non si fosse combattuto ad Aspromonte; la questione garibaldina par divenuta una questione inglese.
[327]
Diverse di forma, non di sostanza, sono le manifestazioni degli altri popoli. A Lipsia si getta in oro per sottoscrizione pubblica una corona d’alloro al Campione della libertà umana; a Stocolma per lo stesso fine, per il medesimo uomo, si tiene nel palazzo della Borsa un immenso Comizio popolare; in America rinasce il pensiero di affidare a Garibaldi il comando dell’esercito federale, e il Console degli Stati-Uniti a Vienna ha l’incarico di ripetergliene la proposta.[239] [328] In Francia finalmente, quantunque il regime imperiale non tolleri manifestazioni politiche, gli operai sottoscrivono indirizzi e mandano deputazioni; i diari dell’Opposizione esaltano le virtù dell’eroe e chiedono la sua liberazione; e quel che più sorprende, taluno fra gli stessi organi napoleonici ne consiglia l’amnistia.[240]
E codesta dell’amnistia era il più intricato de’ problemi che il prigioniero del Varignano imponesse ai suoi custodi. Che si faceva di lui? Graziarlo? Processarlo? Condannarlo come un reo volgare e un ribelle comune? Certo i pareri erano divisi a seconda delle passioni e delle idee, ma una sovrastava manifestamente a tutte le altre e veniva sempre più raccogliendo il suffragio degli uomini moderati di tutte le parti: Garibaldi non si tocca.[241] E i più espliciti in questa sentenza erano ancora i giornali stranieri. Il Daily News, appena udito il fatto d’Aspromonte, esclamava: «Se Napoleone è stanco di regnare e di vivere, basta ch’egli tocchi un capello della testa di Garibaldi;» il Morning Post, di tendenze napoleoniche, chiedeva che «gli fosse permesso di ritirarsi in un paese di sua scelta:» l’Opinion Nationale più esplicitamente diceva: «Garibaldi infatti non è un ribelle ordinario. Quand’anche non si voglia tener conto dei suoi immensi servigi, della sua devozione senza limiti alla causa italiana, [329] del suo disinteresse assoluto, del suo coraggio, di tutto ciò ch’egli ha fatto col suo prestigio e colla sua popolarità; è tuttavia permesso di dire a suo discarico ch’egli colla sua rivolta ha espresso, in un modo illegale, irregolare, e sia pure inammissibile, il sentimento di tutta l’Italia.»
Tale non fu in sulle prime il pensiero del Governo. Come non aveva saputo arrestare a tempo il ribelle, così ora pareva risoluto a tutte le audacie per annientarlo. Però con infelice consiglio elevava al grado di generale il Pallavicini, decorava i suoi ufficiali, tollerava che un Maggiore in Sicilia fucilasse, senza processo, veri e supposti disertori; inaspriva, coi vani rimbrotti de’ suoi portavoce, la piaga del ferito, annunziava finalmente il suo proposito di abbandonarlo al rigor della legge; discuteva soltanto se tradurlo innanzi ad un Tribunale ordinario o innanzi al Senato convocato in Alta Corte di giustizia. Di mano in mano però che i fumi della facile vittoria si dileguavano e i voti della pubblica opinione si facevano più manifesti, e i pericoli di quello straordinario processo politico più certi, anche il Governo cominciò a piegare a più miti e prudenti consigli, fino a che, stimando cessata la causa della severità, e restaurato l’impero della legge, e domo Garibaldi, e «risorta la fiducia della Francia,[242]» facendosi interprete del voto del Parlamento, sottoponeva alla firma del Re Vittorio Emanuele un decreto d’amnistia, e, colto il destro delle fauste nozze della principessa Maria Pia col re di Portogallo, lo promulgava.[243]
Il decreto di amnistia però, aveva fatto grazia a [330] Garibaldi della libertà, non del suo piede. La palla d’Aspromonte era certamente annidata nella profondità dell’arto, ma non era stato finora possibile ai più valenti chirurghi d’Italia e d’Europa[244] il determinarne la posizione precisa. Da ciò la gravità sempre pericolosa della ferita; da ciò una tortura quotidiana di specillazioni, di tagli, di esplorazioni, che il martoriato sapeva sopportare con spartana fortezza, ingannando quelle lunghe giornate di decubito e di inerzia colla lettura di pochi libri e la scrittura de’ suoi ricordi; sorridendo e conversando placidamente sotto il bisturi e lo specillo; tollerando con serena cortesia il fastidio delle interminabili visite, più tormentose, sovente, della sua piaga; mostrandosi talora più sensibile a un raggio di sole che scherzasse per la sua camera, o ad un alitar di brezza marina che gli carezzasse la fronte, che a tutti gli strazi della mano chirurgica, ed esclamando un giorno, durante una di quelle dolorose medicazioni, che facevano impallidire i suoi infermieri: «Che magnifica bonaccia![245]»
Finalmente però, mercè lo specillo del dottor Nélaton (dotato della proprietà di tingersi in nero al contatto del metallo), l’ubicazione della palla potè con sicurezza essere accertata (stava incuneata a quattro centimetri e mezzo, sotto l’estremità inferiore della tibia), e la mattina del 22 novembre, senza sforzo, senza lacerazioni, senza grave dolore dell’infermo, l’esperto dottor Ferdinando Zannetti riuscì ad estrarla.
Ed era questo, dopo ottantasei giorni di cura incerta [331] e temporeggiatrice, la prima vittoria certa, condizione indispensabile della guarigione; ma la guarigione appariva tuttora assai lontana. Prima che l’opera restauratrice della natura sia compiuta, che la piaga sia rimarginata, che il malato abbia ricuperate le sue forze, molti mesi dovranno trascorrere, ed anche quando i medici lo licenzieranno per il ritorno a Caprera, non potranno tacergli il pronostico che egli rimarrà zoppo per tutta la vita. S’ingannerebbe però chi, giudicando dalle sole apparenze, conchiudesse che l’unico frutto raccolto da Garibaldi sulla vetta di Aspromonte, sia stato un piede di meno e un disinganno di più! Si torni al finire del 1862, si paragoni, in quell’anno, Garibaldi che si trascina sulle gruccie pei greppi di Caprera, al Papato che troneggia e minaccia da Roma, e si dica quale dei due fosse allora più ferito e più zoppicante! La palla del 29 agosto 1862 abbattè il corpo del temuto Capitano, ma l’idea animatrice del suo pensiero percorse in quell’ora un cammino che forse la più splendida sua vittoria non avrebbe potuto. Aspromonte non soccorse alla soluzione della questione romana che in un modo indiretto, ma pur decisivo; la liberò dalle ambagi della diplomazia e la ripropose, in tutta la sua fiera nudità, al tribunale delle nazioni civili. Il Roma o morte di Garibaldi aveva detto al mondo che la Penisola non avrebbe posa, nè la rivoluzione tregua, nè l’Europa pace, finchè la mostruosa lega dei due Reggimenti non fosse spezzata, e Roma rivendicata alla sua terza gloria di capitale d’Italia; e non vi sarà oramai prepotenza principesca o astuzia clericale, che possa sfuggire all’implacabile dilemma.
[332]
Garibaldi è a Caprera e la sua ferita rimargina con lentezza, ma con regolarità; il piede imbustato in un apparecchio inamidato va acquistando ogni giorno elasticità e vigoria; non può abbandonarsi ancora con grande confidenza all’appoggio delle gruccie, sicchè quando esce per l’Isola è costretto a farsi trascinare in un carrozzino a seggiola, dono ed industria elegante d’Inglesi; ciò malgrado, i medici son persuasi che la guarigione non sia più che una questione di tempo e che di tutto il danno temuto non resterà più che una zoppicatura appena sensibile.[246]
[333]
Pure mai forse come in quell’anno egli sentì il cruccio dell’impotenza e il tedio dell’inerzia. La Polonia era novamente insorta: spinta alla disperazione dall’ukase che le strappava in una notte il fiore dei suoi figli[247] per mandarli sotto l’assisa del pretoriano moscovita a servire tra le rupi del Caucaso, o le nevi della Siberia, dava di piglio alle sue lancie, si inselvava ne’ suoi boschi, e ricominciava per la quarta volta, contro il suo colossale oppressore, uno di quei duelli ineguali a cui la vecchia Europa da oltre ottant’anni assisteva, le braccia al sen conserte, incoraggiando la indomita combattente de’ suoi applausi sentimentali e de’ suoi petrarcheschi conforti per abbandonarla poi sempre a nuovo e più crudo martirio.
Però con qual cuore udisse l’infermo di Caprera i primi annunzi dell’eroica lotta l’immagini chi lo conobbe. Egli avrebbe voluto accorrere, volare, ritentare sulle rive della Vistola le disperate prove da lui compiute nelle campagne dell’Uruguay e della Sicilia, pagare almeno col sangue suo il debito di gratitudine che l’Italia doveva ai tanti Polacchi morti per lei; ma il leone è confitto alla sua rupe; l’eroe non è più che un apostolo inerme ed impotente, che può ancora dare i suoi figli, spronare i suoi amici, fustigare se [334] non scuotere, con infiammati appelli e acerbe rampogne, l’infingarda apatia dei popoli e de’ governi; ma il soccorso vero, poderoso, efficace, il soccorso del suo braccio di soldato e della sua esperienza di capitano, egli non può darlo più: Aspromonte l’ha rapito alla Polonia.
Intanto, null’altro potendo, parlava e scriveva. A Mariano Langievicz, Dittatore degli insorti, scriveva: «Che Dio vi benedica: tutti saremo con voi e presto;[248]» ai popoli dell’Europa gridava: «Non abbandonate la Polonia;[249]» al popolo inglese soggiungeva: «Volgiti all’Oriente, o generoso; là si dibatte in un lago di sangue sotto il knout sterminatore lo schiavo bianco.... Britanno, chiama a te i popoli ed i popoli ti seguiranno.[250]» All’Emigrazione polacca rispondeva: «Voi mi chiedete una parola, ed io vorrei porgevi dei fatti:[251]» all’esercito russo finalmente, quasi glossando un enfatico manifesto che poco prima Vittor Hugo gli aveva diretto, pregava a «considerare i Polacchi come fratelli ed a meritare le benedizioni della specie umana, stringendo la mano alla più sventurata ed alla più degna delle nazioni.[252]» Ma eran parole; più sincere e generose per fermo di quelle che a quei medesimi giorni schiamazzavano nelle concioni de’ tribuni, cinguettavano nelle pagine delle gazzette, o arzigogolavano nelle note delle Cancellerie diplomatiche, ma [335] ne’ loro effetti poco dissimili; parole anzi non bene accette a quei medesimi pei quali erano profferite, perchè il Governo insurrezionale di Varsavia, timoroso che l’intervento di Garibaldi potesse imprimere al moto polacco un carattere troppo rivoluzionario e alienargli per tal modo lo sperato favore delle Potenze europee (dell’Austria principalmente, che in sulle prime era parsa secondare sottomano gli insorti), faceva intendere al famoso Capitano[253] che la Polonia eragli grata della sua magnanima offerta e contava sul di lui morale patrocinio, ma che per il momento non reputava opportuno che la sua persona apparisse sul teatro della lotta.
Ed anche in Italia la causa polacca raccoglieva aiuto più d’orazioni che d’opere. E non parliamo del Governo costretto dalla condotta incerta degli Stati occidentali e più dalla posizione ambigua presa dall’Austria ad una grande circospezione; ma nella stessa democrazia, fra i più devoti commilitoni di Garibaldi, gli animi erano perplessi e i pareri divisi. Perocchè se tutti consentivano nella santità della causa e nel debito di aiutarla, i più non ne vedevano nè il mezzo nè la via; e pochissimi soltanto, primo fra tutti l’anima eroica ed impaziente di martirio di Francesco Nullo, cui attendeva la bella morte dei prodi sugli argini di Olkutz, pochissimi erano quelli che si mostrassero deliberati ad ogni sbaraglio.[254] Tuttavia un Comitato erasi costituito in Genova sotto la direzione di Clemente Corte che andava un po’ a stento, per ver dire, [336] accattando armi e danari, soccorrendo gli esuli polacchi che volevan rimpatriare e apparecchiandosi alla meglio all’eventualità d’una spedizione. E non andò molto infatti che parve offrirsene l’opportunità.
In sul finire di maggio due emissari polacchi[255] erano arrivati a Caprera apportatori di questo audacissimo progetto: attaccare la Russia anche da mezzogiorno; raccogliere in Costantinopoli quante armi e volontari fosse possibile; sommovere la Rumenia, rovesciar coll’aiuto del partito nazionale, capitanato dal Rossetti e dal Bratiano, il principe Couza; e fatto base del Principato, penetrare, con legioni miste d’italiani e Polacchi, guidati da Menotti, in Bessarabia, e di là per la Podolia e la Gallizia dar la mano agli insorti del centro.
Non ci arrestiamo a discutere l’attuabilità di siffatto progetto; eran progetti di esuli disperati e basta: aggiungiamo questo solo: che Garibaldi diè il consenso; che Menotti[256] partiva pochi giorni dopo da Caprera con un piroscafo che nascondeva nella sua stiva tutto il piccolo arsenale dell’Isola, compresovi un cannoncino; che a Genova il Comitato per la Polonia, presieduto dal Corte, accettò l’idea, soltanto fece intendere così al Generale come ai Polacchi che trattandosi d’impresa sì fortunosa nella quale andava avventurata non solo la vita di tanti giovani, e le poche sostanze del Comitato, ma il credito della stessa democrazia italiana e del loro capo, era per lo meno prudente inviar qualcuno a Costantinopoli ed a Bukarest affine di scandagliare il terreno, esaminare fino a qual punto il disegno fosse effettuabile, prendere [337] gli accordi coi Comitati polacchi esistenti colà e rapportare ogni cosa agli amici d’Italia. E ciò convenuto, Giacinto Bruzzesi e Giuseppe Guerzoni, scelti di comune accordo a quell’ufficio, s’imbarcarono per l’Oriente. Se non che poche settimane di dimora a Costantinopoli, una visita fatta dal Bruzzesi a Bukarest bastarono ai due esploratori per conoscere tutto il vero. In primo luogo il Governo turco poteva fino a un certo segno chiudere un occhio sui disegni della Emigrazione polacca, ma protestavasi fermamente risoluto ad impedire qualsiasi accolta d’armi e d’armati sul suo territorio; in secondo quantunque il trono del principe Couza apparisse assai vacillante, nè il Rossetti nè i suoi amici stimavano giunta l’ora di dargli l’ultimo crollo, tanto meno arrischiando la patria loro in una avventura il cui primo frutto sarebbe stato di inimicare alla causa dell’indipendenza rumena la potente Russia, sua naturale tutrice; finalmente v’era bensì a Costantinopoli un manipolo di Polacchi deliberati a tentare, non foss’altro perchè l’avevano promesso, la impresa, ma per l’esiguità del numero e la povertà dei mezzi sfiduciati essi pei primi di poterla condurre a compimento. E tanto è vero che in sul cominciare di luglio essendosi un centinaio di loro raccolti ne’ dintorni di Galatz furono dal Governo di Bukarest immediatamente perseguiti, e prima che riuscissero a varcare il Pruth, disciolti e disarmati. Però riportate queste notizie a Genova, l’impossibilità della divisata impresa apparve a’ suoi più accesi zelatori evidente, e Garibaldi pel primo si rassegnò a rinunciarvi.
Quasi contemporaneamente anche la insurrezione polacca, stremata da oltre un anno di lotta disperata, mandava gli ultimi aneliti. Sempre cullata dalla speranza che la platonica tenerezza e la verbosa commiserazione [338] delle Potenze occidentali si convertissero finalmente in aiuti efficaci d’opere e d’armi; sempre credente alla voce de’ suoi esuli che, illusi a lor volta dalle lunghe promesse de’ capitani veri o presunti della rivoluzione europea, le facevan balenare ad ogni giro di luna il miraggio d’una spedizione, d’uno sbarco, d’una crociata;[257] oggi confortata dall’aspettazione d’un congresso europeo, domani rianimata dal sogno d’una insurrezione rumena o galliziana, o d’una ripresa della quistione d’Oriente; la grande martire riusciva bensì a protrarre per tutto l’inverno del 1864 la sua prodigiosa agonia, ma ahimè! senz’altro frutto che di veder ingrandire giorno per giorno la già immane ecatombe de’ suoi figli, e rinnovare sulla pietra risuggellata del suo sepolcro la funebre epigrafe del primo suo campione: Finis Poloniæ.
Ed eccoci a quel viaggio d’Inghilterra che per il modo onde fu avviato e condotto, il clamore che menò, gli spettacoli che offerse, i sentimenti che suscitò, i commenti a cui porse occasione divenne non per Garibaldi e l’Italia soltanto, ma per buona parte d’Europa, un vero avvenimento.
L’idea di veder Garibaldi nel loro paese non era [339] nuova nei cervelli inglesi, e fin dal 1862, e prima e dopo Aspromonte, a voce e per iscritto, vecchi e novelli amici gliene avevan più volte ripetuto l’invito. Il Generale però, pur protestandosi desiderosissimo di ringraziare in persona il popolo inglese per il grande patrocinio prestato in ogni tempo alla causa italiana, s’era sempre schermito dal prendere alcun impegno definitivo. E ciò non tanto per l’argomento della sua infermità, divenuto dopo Aspromonte, achilleo davvero, quanto perchè non si sentiva in fondo all’animo abbastanza tranquillo circa all’opportunità di quel viaggio che poteva vestire le apparenze d’una vanitosa questua d’onori, e risolversi, anche contro sua volontà, nel clamore d’un trionfo senza alcun beneficio per l’Italia.
Tuttavia, quando in sul finire del 1863 corse la notizia che il Generale poteva coll’appoggio d’un tenue bastoncello passeggiare francamente per l’Isola e che perciò quell’impedimento della salute, l’unico riconosciuto dagli Inglesi, era cessato; i fautori del viaggio gli furono novamente addosso con tanta concordia e tanta insistenza che non gli fu più possibile pagarli di risposte evasive, e gli convenne prendere un partito.
Nè si creda, come a taluno parve, che quei promotori o fautori fossero pochi ed oscuri. V’erano persone di tutti i ceti e di tutte le parti, Whigs e Tories, nobili e popolani, commercianti ed avvocati, segretari di Stato e membri del Parlamento, lordi scritti da secoli nel peerage e dame accolte ne’ penetrali più rigidi della società inglese; v’era tutto ciò che in un paese di libertà e di discussione forma, illumina e dirige l’opinione pubblica, se pure in quel caso l’opinione pubblica non era anticipatamente formata dal consenso [340] istintivo del popolo intero.[258] Nè si vuol dire che queste persone fossero mosse da un solo pensiero; come suole accadere, i motivi personali si frammischiavano anche allora ai pubblici, ed è assai probabile che i sentimenti di simpatia all’Italia e d’ammirazione pel suo eroe non fossero le sole molle eccitatrici di tutto quell’entusiasmo. Così, a mo’ d’esempio, mentre i Whigs caldeggiavano il viaggio, perchè vi scorgevano un mezzo di accrescere la popolarità del Governo; i Tories lo favorivano per il motivo precisamente opposto, che il Ministero vi avrebbe trovato una certa cagione di triboli e di guai: così intanto che i radicali, i socialisti, i rivoluzionari, gli agitatori e i congiurati di tutte le cause e di tutte le patrie, di cui la metropoli era il grande asilo, sollecitavan la venuta di Garibaldi più per la speranza di farne uno strumento delle loro idee e un vessillifero delle loro imprese che per il desiderio di festeggiare la sua persona e rendere omaggio alle sue virtù, il popolo, scevro di secondi fini, lo desiderava ed aspettava ansiosamente [341] solo per mirare in lui uno dei più nobili frutti del suo sangue; povero, semplice, ingenuo, figlio delle sue opere come lui: il marinaio divenuto redentore di popoli, e creatore di re.
Un dubbio solo restava a chiarire: fino a qual punto il Governo, rappresentato a que’ giorni dal Gabinetto Palmerston, gradisse quel viaggio e fosse disposto a favorirlo. Lord Palmerston infatti, richiesto a nome del Comitato per il ricevimento di Garibaldi (poichè un Comitato s’era già formato e lo presiedeva quello stesso signor Richardson che aveva istituito il Comitato per le manifestazioni garibaldine ai giorni d’Aspromonte), aveva manifestato intorno a quel disegno un aperto scontento, non già perchè fosse o amasse apparire freddo ammiratore del Generale, del quale pensava «che non avrebbe mosso un dito per recar disturbi all’Inghilterra;[259]» ma perchè non sapeva fino a qual segno l’agitazione popolare suscitata dalla sua venuta potesse trascorrere, nè in qual modo un’accoglienza anche semiufficiale potesse essere interpretata dai potentati, specie da Napoleone III, del quale, ardendo la contesa dano-germanica, apprezzava più che mai l’amicizia. Però resistette, traccheggiò, chiese proroghe, suscitò inciampi; e sol quando i membri del Comitato per il ricevimento gli fecero intendere che Garibaldi sarebbe venuto anche contro il suo consenso, mutò tattica e volse tutto il suo ingegno a fare in guisa che l’avvenimento [342] ormai inevitabile gli tornasse più innocuo o meno pericoloso.
Fra i più entusiasti di quel viaggio v’erano certi signori Chambers di Liverpool, marito e moglie, entrambi devoti al Generale e per le cure prodigategli durante la sua infermità al Varignano ed a Pisa a lui singolarmente cari: egli, il marito, rispettabile tory, maggiore della milizia e colonnello dei Rifles Volunteers della sua contea, ma per l’indole flemmatica e aliena dalle brighe pubbliche assai più inclinato a secondare le voglie della moglie che a dirigerle; ella donna di scarse attrattive femminili, ma dotata in cambio di tutta la energia che mancava al marito, invasata da quello ardore d’apostolato che in molte donne della sua razza fa singolar contrasto collo spirito di famiglia e il culto della home, e che essendosi fitta in capo di condurre il Generale in Inghilterra s’era fatta oramai di quest’impresa, lo scopo supremo della sua volontà tenace e della sua febbrile operosità.
Ora, come tutto ciò era noto in Inghilterra, ad essi principalmente il Comitato del ricevimento affidò il mandato di riannodare la pratica del viaggio e di concertare tutto quanto fosse necessario alla sua effettuazione.
Però s’intende che essi, la signora principalmente, non si fecero pregare; giunsero in sullo scorcio di gennaio a Caprera, vi si insediarono senza cerimonie e posero tosto il Generale in un vero stato d’assedio. La signora Chambers non gli lasciava, staremmo per dire, un istante di tregua; gli entrava in camera, lo seguiva alla passeggiata, ne interrompeva i lavori, ne turbava le ore a lui più care della meditazione e della solitudine, e sempre e dappertutto per parlargli d’un argomento solo: il viaggio d’Inghilterra. Ora gli recava [343] i giornali che pronosticavano il suo arrivo, ora gli mostrava lettere di questo o quell’Inglese che l’invitavano al viaggio, ora disputava, ora pregava, ora per convincerlo dipingeva con enfatici colori le accoglienze che lo attendevano: le contentezze della nobiltà; le gioie della city; l’entusiasmo del popolo. Il Generale però esitava sempre; sicchè può affermarsi che poche risoluzioni furono da lui più dibattute e ponderate di quella. Due dubbi principalmente gli battagliavano nell’animo e lo tenevano perplesso. Qual era il pensiero del Governo britannico intorno a quel suo viaggio; quale profitto avrebbe potuto ritrarne l’Italia? E poichè da un canto le esitanze del Palmerston duravano sempre, e dall’altro la parola d’ordine mandata alla signora Chambers era di togliere al viaggio qualsiasi colore politico e molto più rivoluzionario, così le due principali obbiezioni del Generale continuarono a restare lungamente intatte e i negoziati a non progredire d’un passo.
Sui primi di marzo però arrivarono all’infaticabile plenipotenziaria decisivi soccorsi. Dicemmo che Lord Palmerston, veduta l’impossibilità di scongiurare un avvenimento che ormai l’Inghilterra tutta voleva, aveva da quell’accorto uomo che era finito coll’acconciarvisi, riserbandosi soltanto di studiare co’ suoi amici il modo onde cansarne o almeno scemarne i probabili pericoli e i certi fastidi. E il modo fu ben presto trovato. Anzitutto per levare viemeglio dal viaggio ogni ombra d’intento politico si doveva propalare la voce, e non mancavano giornali all’uopo,[260] [344] che il Generale, non per anco ristabilito dalla sua ferita, venisse solo in Inghilterra per cercare, in un clima diverso, un ristoro alla sua malferma salute; poscia importava fare in guisa che il Generale appena messo piede sul suolo britannico fosse circondato da tali persone e cadesse in tali mani che gl’impedissero, senza parere, qualsiasi scarto e, assopendolo tra le carezze e cingendolo di catene di rose, lo tenessero, a sua insaputa, prigioniero. Così fermato il disegno, l’esecuzione fu un portento di abilità e di esattezza. Il signor Seely, membro del Parlamento e insieme del Comitato promotore, cominciò ad accaparrarlo per la sua villa di Brook-House nell’isola di Wight, dove avrebbe potuto, diceva, rimettersi dai disagi del viaggio prima d’accingersi alla maggior fatica dell’ingresso in Londra; ma dove infatti era convenuto dovesse passare una specie di quarantena, la quale desse modo a’ suoi ospiti di scrutarne le intenzioni, catechizzarne lo spirito ed apparecchiarne il contorno. Nello stesso tempo il Duca di Sutherland gli scriveva per offrirgli la principesca ospitalità del suo palazzo di Stafford-House, più volte insistendo perchè non gli fosse negato tanto onore. Infine il signor Thornton Hunt, [345] segretario, o uno dei segretari privati di Lord Palmerston, parlando in proprio nome, ma lasciando intendere che era certo d’interpretare i propositi del suo Ministro, toglieva su di sè di vincere quella che fin allora era stata una delle più forti obbiezioni del Generale, assicurandolo che il governo della Regina non poteva nutrire alcun sentimento avverso ad un fatto che non solo era voluto dalla grande maggioranza del popolo britannico, ma tendeva ad onorare una delle più schiette personificazioni del patriottismo e della virtù; certo, soggiungeva, non era quello il caso di parlare di accoglienze ufficiali; ma qualora tanto il Generale quanto i suoi amici si fossero studiati a spogliare la visita desiderata da ogni carattere politico, impedendo sopratutto che potesse mai degenerare in pretesto di agitazioni e di tumulti, egli, il signor Hunt, poteva quasi star mallevadore che così Lord Palmerston come i suoi colleghi sarebbero stati lietissimi d’incontrare dove che sia l’ospite onorato dall’Inghilterra, e associarsi come cittadini inglesi al meritato onore che la loro patria gli tributava.[261]
[346]
Al ricevere di questi iterati inviti, alla lettura di queste lettere, il Generale si diede per vinto; e non già perchè le offerte del signor Seely, o del Duca di Sutherland lo avessero sedotto o le dichiarazioni del segretario Hunt appagato: ma perchè dopo due anni di negoziati, di dispute, di lotte, egli pure era all’estremo delle sue forze; perchè una volta assicurato che al desiderio del popolo inglese s’associava il consenso del suo Governo, non avrebbe più potuto senza taccia di selvatichezza rispondere a tanta cortesia con un rifiuto; perchè se anco gli fosse impedito di bandire ai quattro venti quale fosse il vero ed ultimo scopo della sua visita e quali aiuti sperasse ritrarre a profitto della sua Italia, si lusingava tuttavia che non gli sarebbe o prima o poi mancata l’occasione di farlo intendere in segreto; perchè infine se non poteva propriamente definire in che quell’ultimo scopo avesse a consistere ed a quale impresa quegli aiuti dovessero servire, sperava sempre che da cosa nascesse cosa, e che in ogni caso le circostanze l’avrebbero ispirato e la fortuna come sempre soccorso.
Ed è questo un punto che nella storia di quest’episodio non va dimenticato. Garibaldi non aveva intorno [347] al suo viaggio in Inghilterra alcun fermo e chiaro concetto: avrebbe voluto che non isterilisse in una vana mostra; ma in qual modo renderlo fecondo, egli pel primo sarebbe stato incapace ad affermare. Più volte infatti, interrogato da chi l’attorniava,[262] che cosa si farebbe in Inghilterra? dava risposte diverse e contradittorie: ora accennava in confuso all’idea di armar in qualche porto inglese uno o più bastimenti per muovere una disperata guerra di corsari contro l’Austria allora impegnata nel litigio danese; ora delineava vagamente progetti di spedizioni in Grecia o in Polonia; ora carezzava il disegno di raccogliere in Inghilterra denari ed armi per una futura impresa veneta; ed altre siffatte fantasticaggini. Delle quali fantasticaggini però era utile toccare per mettere in sodo fin da principio che nessuna libidine di popolarità, nessuna vanità di pompe e di trionfi spingeva l’eroe a quel pellegrinaggio; ma soltanto la speranza, vaga, annebbiata, finchè si voglia, di poter giovare un’altra volta, come si fosse, alla causa della patria sua, alla causa di tutti i popoli oppressi, per la quale andava, da circa trent’anni, apostolo armato pel mondo predicando e combattendo.
Deciso il viaggio, in poche settimane ne furono apprestati i mezzi. Giusto un accordo preso tra i signori Chambers e il Comitato di Londra, un bastimento della Peninsular Oriental Company doveva passare a Caprera per prendere il Generale e tragittarlo a Malta, d’onde un altro della stessa Compagnia [348] l’avrebbe poi trasportato in Inghilterra.[263] E così avvenne.
Il 21 aprile la Valletta gettava l’àncora nelle acque della Maddalena; poche ore dopo il Generale vi s’imbarcava. Lo accompagnavano il signor Chambers, i figli Menotti e Ricciotti, il dottor Basile, il signor Sanchez spagnuolo (destinato però a sbarcare a Gibilterra), Giovanni Basso e Giuseppe Guerzoni. Prima dell’imbrunire il piroscafo sferrò e nella sera del giorno 22 approdava nel porto della Valletta. E com’era a prevedersi, non appena corsa la nuova di quell’inaspettato arrivo, la città fu tutta a rumore; e Garibaldi cominciò tosto a saggiare le prime delizie di [349] quelle ovazioni di cui tra poco il popolo inglese lo sazierà. Fortunatamente il Ripon, quel secondo vapore della Peninsulare che doveva portarlo in Inghilterra, arrivò; egli potè imbarcarvisi con tutti i suoi, e nella notte stessa del 23 ripigliare il suo viaggio. Il quale sino alla fine fu felicissimo, senz’altro di notevole che una fermata a Gibilterra, dove il Governatore del Capo, appena saputo l’arrivo del Generale, gli manda incontro ufficiali di terra e di mare, in grande uniforme, per ossequiarlo in suo nome ed invitarlo a scendere a terra. Ma il Generale, adducendo che il piroscafo era sulle mosse, si schermì cortesemente; e infatti prima che il sole di quel medesimo giorno 26 aprile fosse tramontato, il Ripon aveva già varcato lo stretto e dopo altri sei giorni di prospera navigazione gettava l’àncora nel porto di Southampton.
Quantunque piovesse a dirotto e fosse domenica, ciò nonostante un’immensa moltitudine di popolo, alla cui testa primeggiava il Mayor della città, stava ad attendere fino dalla mattina l’annunziato visitatore. Le campane suonavano a festa: i bastimenti ancorati nel porto avevano issato ai più alti pennoni le loro bandiere, e tutta la città era pavesata dagli intrecciati colori d’Italia e d’Inghilterra. Gran numero di cittadini erano accorsi da Londra e dalle terre vicine; e non appena il Ripon apparve all’imboccatura del Solten,[264] il Duca di Sutherland, il signor Seely, il signor Negretti ed altri Italiani, sopra un agile vaporetto di rimorchio gli erano mossi incontro. Pochi istanti dopo il Ripon entrava nel dock, e il Generale montato sul ponte salutò più volte col cappello la folla aspettante, la quale indovinatolo allo storico suo costume [350] gli rispose con salve triplicate di fragorosissimi urrà. Intanto però che il Ripon manovrava per accostar lo scalo, il Duca di Sutherland, il signor Seely, e il signor Negretti montavano al suo bordo, impazienti, dicevano, di dare il benvenuto al Generale, che doveva essere loro ospite; in fatto premurosi di dare un principio d’esecuzione al disegno prestabilito d’isolarlo al più presto da ogni consorzio pericoloso e impadronirsene. Garibaldi non cercò più che tanto, e deliberato ormai a non far cosa che potesse sgradire a’ suoi ospiti, e in ogni caso a cattivarseli e vincerli colla dolcezza e la sottomissione, accettò senz’altro la graziosa offerta e si preparò a scendere a terra.[265]
Qui però confidiamo che il lettore non ci vorrà muovere rimprovero se gli risparmiamo un’altra volta la circostanziata narrazione delle accoglienze. In una storia in cui codesta sorta di trionfi occorre ad ogni passo e sovente con monotona somiglianza si rinnova, la parsimonia delle descrizioni ne par quasi un preciso dovere e tanto più in questo viaggio dove il gigantesco romano trionfo di Londra sta per riassumerli e vincerli tutti.
Accolto allo scalo dal Lord Mayor; condotto in una carrozza a quattro cavalli al Town-Hall e quivi convitato dal Mayor stesso a sontuoso banchetto, ricevute nel corso della giornata innumerevoli visite, udito al mattino vegnente l’indirizzo del Consiglio di città e rispostogli in uno stentato e lento, ma chiaro inglese che «la nazione britanna meritava la riconoscenza [351] degli Italiani,» ricevute poco dopo le Deputazioni delle città di Bristol e di Newcastle, e d’altre Corporazioni e Comitati, passò finalmente nelle mani del signor Seely, il quale, rapitoselo sopra uno degli eleganti vaporetti che fanno il servizio dell’isola di Wight, se lo trafugò per viottole segrete nel suo Brook-House,[266] spaziosa e dorata muda, dove il leone prima di comparire in pubblico dovrà addestrarsi, per alquanti giorni, ad addolcire la voce ed ammorbidire le ugne.
A Brook-House il Generale doveva restare sinchè i preparativi del ricevimento di Londra fossero compiuti. Nè egli sembrava premuroso di abbreviare il termine del suo ritiro. L’ospitalità infatti del signor e della signora Seely, oltrechè splendida era sì amabile, e il recesso così ameno, e quel riposo così grato, che ogni uomo anche di gusti meno semplici e solitari di Garibaldi vi si sarebbe obbliato. Era però un ozio relativo. Il solo rispondere alle innumerevoli lettere d’invito, d’offerte, di augurii, di domande di ritratti, d’autografi e di capelli che da ogni angolo del Regno gli fioccavano, era una faccenda laboriosissima. Così le visite che era obbligato a fare nelle principali terre dell’Isola (notevole tra tutte l’accoglienza di Newport), s’alternavano con quelle che riceveva a Brook-House [352] egli stesso; e quindi oggi il poeta Tennyson[267] e Lord Shafterbury; domani il signor Gladstone, Cancelliere dello Scacchiere, e Carlo Blind il celebre patriota tedesco; posdomani i signori Kinnaird ed Ashley membri del Parlamento, e Alessandro Herzen, l’ardente agitatore russo: un altro giorno infine Giuseppe Mazzini in persona, che il Generale stesso aveva desiderato vedere prima del suo arrivo in Londra, col quale s’abbracciava affettuosamente e restava in lungo segreto colloquio.
La più geniale però di tutte quelle occupazioni fu la rivista all’arsenale di Portsmouth. Invitatovi dallo stesso ammiraglio Seymour, comandante di quella stazione navale, trasportato da Cowes a Portsmouth sul yacht ammiraglio Fire Queen, comandato dal capitano Scott, un avanzo di Trafalgar; incontrato all’ingresso del porto dalle lancie di tutti i comandanti della squadra e da grandissima folla di cittadini; condotto a visitare minutamente ogni punto del grandioso stabilimento e cantieri, e officine, e scuole di marina, gli è alla fine, sul Royal Sovereign, offerto il grandioso spettacolo di una gara al bersaglio con cannoni Armstrong di 300 libbre, nuovissimi allora, seguíto tosto da evoluzioni e manovre a fuoco di tutta la squadra.[268]
[353]
Frattanto il giorno destinato al solenne ingresso in Londra era giunto, e la mattina dell’11 aprile, giusta il convenuto, Garibaldi s’imbarca col signor Seely, i signori Chambers, i figli e gli altri suoi compagni di viaggio per Southampton, d’onde in sul mezzogiorno un treno apposito, al tuonar del cannone, allo squillar delle campane, lo trasportava con velocità inglese verso la grande metropoli.
Anche Londra però erasi degnamente preparata a riceverlo. Era stato stabilito che il Generale smonterebbe alla stazione di Nine Elms, ove sarebbe ricevuto dai membri del Comitato promotore, dai Delegati degli operai e della Colonia italiana; che fuori della stazione lo attenderebbero schierate per scortarlo, ciascuna colle sue musiche e i suoi gonfaloni, le corporazioni principali della città, tra le altre quelle della Soutwark Temperance, dei Foresters, degli Old Fellows; dei Temperance Sons of Phenix, degli Old Friends, e della Legione inglese Garibaldi nel 1860; che di là monterebbe nella carrozza a tiro a quattro del Duca di Sutherland e per Wandsworth Road, Miles, Brough, New Bridge-Street, Upper-Kennington, Lane, Kennington-Road, Westminster-Bridge-Road, Westminster-Bridge, Parliament Street, Charing Cross e Pall-Mall, procederebbe, processionalmente, fino a Stafford-House. Quantunque però fosse stato annunziato che egli non arriverebbe a Nine Elms se non verso le due del pomeriggio, tutte le strade d’onde doveva passare brulicavano, fin dalle prime ore del mattino, d’una folla immensa, multiforme, rumorosa, che veniva crescendo, ad ogni istante, incalzando, accavallandosi, allagando [354] le piazze e le vie, stipando i palchi eretti espressamente lungo il passaggio, rigurgitando dalle finestre, spuntando dagli abbaini, arrampicandosi sui tetti, penzolando dagli alberi, vivente oceano di teste che faceva ondeggiare all’occhio, case, monumenti, torri, ponti, giardini, e pareva quasi subissarli.
Finalmente, poco dopo le due, un lungo fischio e un subitaneo e più violento mareggiare della folla annunziava che il treno tanto aspettato entrava in stazione. Garibaldi ne scese tosto, e uditi gl’indirizzi delle Deputazioni, ricevuti gli omaggi d’un’eletta di spettatori e spettatrici, raccolta sotto un ricco padiglione, che l’apostrofava co’ più teneri ed eroici nomi e «Dio vi benedica, benvenuto nel paese della libertà» e «Benvenuto l’eroe italiano,» riuscì finalmente, non senza stento per la fitta calca che ne assiepava le porte, a uscir dalla stazione ed a montare nella carrozza designatagli. E qui accadde un fatto straordinario, il più straordinario forse fra i mille di quella giornata. Tutta quella moltitudine che dianzi fiotteggiava e sordamente mugghiava come un mare gonfiato dai primi soffi della bufera, all’apparire di Garibaldi sulla carrozza, fosse il pittoresco ed insolito costume, fosse la nuova meraviglia di quella superba testa leonina, nella quale la natura pareva essersi compiaciuta a fondere insieme tutti i tratti della forza e della bellezza; tutta, dicevamo, quella tempestosa e sterminata moltitudine, s’abbonacciò a un tratto e per alcuni secondi restò davanti a quella inattesa apparizione, estatica, muta, quasi pietrificata, come se avesse veduto balzar di sotterra all’improvviso, il biondo e capelluto fantasma d’uno de’ leggendari eroi d’Engisto e d’Horsa, cari ad Odino ed a Thor. Ma fu, come dicemmo, un attimo, chè subito dopo, scossa la istantanea [355] malía, quella stessa moltitudine esalò dall’immane petto tale un ruggito, tale un iato, non sapremmo dire, se di tripudio, d’ammirazione o d’amore, da far correre un brivido per le vene ai più, e lasciar a sua volta lo stesso Garibaldi sbalordito per un istante ed esterrefatto.
Allora cominciò lo sfilare delle corporazioni e delle rappresentanze; finita la sfilata, il corteo si mosse e si vide un nuovo spettacolo.[269] Migliaia di braccia s’agitavano; migliaia di fazzoletti sventolavano; migliaia di cappelli salutavano; migliaia di mani applaudivano; migliaia e migliaia di bocche gridavano co’ più svariati accenti, co’ più fantastici attributi, un nome solo: Garibaldi. La processione delle corporazioni che aprivano la marcia, arrestata a ogni passo dalla piena, avanzava lentamente; ancora più lentamente la carrozza del Generale. In taluni luoghi la stipa era tale che la carozza, incastrata entro un serraglio di corpi [356] umani, non poteva nè avanzare nè retrocedere. E in mezzo a tutto ciò due meraviglie, una per gl’Inglesi: la serenità olimpica di Garibaldi; un’altra per il forestiere: l’ordine perfetto, nel disordine immane di tutta quella folla babilonica, mantenuto da pochi policemen senz’armi. Dire i saluti a cui ha risposto, i baci che ha restituito, le strette di mano che ha barattate il Generale sarebbe impossibile: basti che dopo poche ore le sue mani, il suo volto, il suo mantello erano tutti tigrati di macchie nerastre come fosse uscito appena da una fucina o da una miniera. A un certo punto, presso Westminster, una subitanea rotta della fiumana popolare divide il Generale dalle corporazioni, ond’eccolo tagliato fuori dal suo corteo e prigioniero d’un popolo nuovo, ma non meno infanatichito, che a somiglianza del primo lo assale, lo serra, lo pigia, vuol parlargli e farlo parlare; lo assorda colle sue voci, lo soffoca ne’ suoi amplessi, lo ucciderebbe fors’anco, se l’opportuno intervenire di due o tre policemen non lo liberasse a tempo da quelle strette d’amore delirante, e non aprissero, in quel gigantesco ginepraio di mani e di braccia, un breve spiraglio per cui potere proseguire. Quando a Dio piacque infatti il convoglio potè ravviarsi: passò Westminster-Bridge, passò Trafalgar-Square, dove la base della colonna di Nelson, fitta di spettatori, sembrava un piedestallo di statue viventi, ed entrò in Pall-Mall; ma in quel punto, circa le sette e mezzo, l’ultimo raggio di sole si nascondeva nel lenzuolo di nebbia delle sere britanniche, e pochi istanti dopo carrozze, bandiere, rappresentanze, spettatori e Garibaldi non erano più che una torbida fantasmagoria d’ombre confuse che s’agitavano nella caliginosa opacità della notte imminente. Ma ciò non ostante il popolo continuava [357] ancora a seguire, a gridare, a segnare a dito Garibaldi, indovinandolo coll’istinto, salutando il suo mantello grigio che solo spiccava ancora nelle tenebre. Finalmente l’architettonica massa di Stafford-House spuntò: la folla raccolta sullo square, tra preghiere, ammonimenti, spinte, fece quel tanto di largo che permettesse alla carrozza d’entrare la grande cancellata del palazzo e colà finalmente il Generale potè mettere piede a terra. Un tappeto di porpora era steso dall’atrio allo scalone, a’ piedi del quale attendeva con gran corteo di gentiluomini e di dame la bella Duchessa di Sutherland; Garibaldi s’avanzò verso di lei con passo lento ma fermo; ne ricevette il benvenuto, ne sfiorò colla sua destra, affumicata dal contatto di tutto il catrame di Londra, la candida mano, e lasciando delusa la moltitudine che ancora s’ostinava a volerlo rivedere, sparì nei penetrali della principesca dimora. Sei ore da Nine-Elms a Stafford-House; sei ore per cinque miglia: un mezzo milione di spettatori accalcati sulla via del passaggio; una piena di popolo quale non vide l’esercito inglese reduce da Crimea, erano le parole che correvano su tutte le labbra alla fine di quella memorabile giornata e ne riepilogavano la meraviglia.
All’indomani Garibaldi parve riposato, ma cominciarono allora le sue dodici fatiche. Come però non è questa una storia aneddotica e il descriverle tutte, episodio per episodio, particolare per particolare, richiederebbe, senza iperbole, un volume, così ne restringeremo il racconto in rapidissimi tocchi.
[358]
Il 12 di buon mattino ascolta un indirizzo degli abitanti del quartiere di San Pancrazio, santo a lui memorabile; visita più tardi a Chiswick la Duchessa madre di Sutherland; dove incontra Lord Russell, Lord Granville, il duca e la duchessa d’Argyll, il conte e la contessa di Clarendon, il signore e la signora Gladstone e durante la colazione la banda del secondo reggimento delle Life Guards gli suona il suo inno. Sul pomeriggio altra visita a Lord Palmerston, col quale si trattiene in segreto oltre un’ora, e la sera banchetto, ricevimenti e discorsi ancora.
Il 13 mattina rivista all’arsenale di Woolwich, dove impennatisi i cavalli gli operai dello stabilimento trascinano la sua carrozza a forza di braccia; nella sera banchetto di quaranta coperti dal duca di Sutherland, e subito dopo solenne ricevimento, durante il quale il Generale, seduto sopra una specie di trono nella gran sala degli Staffords, vede sfilargli davanti la più antica e più pura nobiltà di Brettagna e di Scozia.
Il 14 mattina udienza alle Deputazioni della città di Manchester; poco dopo rivista della brigata dei pompieri, di cui è colonnello il Duca di Sutherland, e la sera comparsa al Covent-Garden dove si rappresenta la Norma e in suo onore un atto della Muta di Portici; ed egli è letteralmente coperto di fiori dalle più belle mani del Regno Unito.[270]
Il 15 escursione agricola a Bedford e davanti a nuova moltitudine di popolo, convenuto da tutte le parti del distretto, esperimenti delle macchine Howard; [359] alla sera desinare intimo da Antonio Panizzi, il celebre restauratore del British Museum e vecchio amico suo.
Nella mattina del 16 visita alla birreria Berkley e Perkins; verso il tocco gran concerto al Palazzo di Cristallo, datogli dagli Italiani; trentamila spettatori lo accolgono, una Deputazione di suoi compatriotti gli presenta una bandiera col motto «Roma e Venezia;» Arditi dirige l’orchestra, e un coro di mille voci gli canta:
O Garibaldi nostro salvator,
Te seguiremo al Campo dell’onor.
Dal Crystal Palace passa a Piccadilly[271] dove Lord Palmerston lo convita a solenne banchetto.
Il 17 è domenica, e come è noto il rigoroso rispetto che gl’Inglesi professano od ostentano per il giorno festivo, così il russo Alessandro Herzen riunisce in casa sua a fraterna mensa, fra una scelta d’amici, Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini.[272]
L’agape però nulla aveva di politico. Certo in quel cenacolo di apostoli e di soldati di tutte le patrie e di tutte le libertà un discorso doveva ricorrere e dominare su tutti gli altri; ma nessuno prestabilito disegno di complotti rivoluzionari, nessun occulto pensiero presiedeva il nobile simposio. Gli stessi brindisi, commoventissimi per chi li profferiva come per chi li udiva, non furono che reciproche testimonianze d’onore e d’affetto, scevri interamente da ogni ascoso fine politico, se non forse l’altissimo di riaccostare [360] almeno un istante due grandi spiriti affratellati un giorno dalla medesima idea, e che non avrebbero potuto passarsi vicini senza seppellire in un amplesso ogni ricordo della passata discordia. Mazzini con ispirate parole bevve alla «libertà de’ popoli, all’associazione de’ popoli, a Garibaldi vivente incarnazione di questa idea, alla povera, santa Polonia, alla giovine Russia.» Garibaldi con caldo accento rispose: «Al mio amico e maestro Giuseppe Mazzini;[273] alla [361] Polonia, alla Russia, all’Inghilterra.» E al toccar de’ bicchieri una lacrima brillava nell’occhio di tutti i commensali; ed Herzen, strozzato dall’emozione, non potè pronunciare che poche e rotte parole.
Al lunedì vegnente ricevimento a Stafford-House di privati e di Deputazioni;[274] visita a Ledru Rollin, e Louis Blanc; al tocco un secondo concerto popolare al Palazzo di Cristallo, dove un popolo misto di Corporazioni, di Rappresentanze, di Deputazioni, sfila davanti al Trionfatore, che sa trovare per tutti il contegno e la parola opportuna, notevole e notata da coloro che cominciavano ad impensierirsi di quei trionfi, quella da lui gridata ad alta voce alla Deputazione degli esuli polacchi: «Chiedo che la nobile nazione inglese non voglia abbandonare la nazione polacca.»
Il martedì invece è giornata di riposo, se riposo può dirsi leggere o firmare serque di lettere e di ritratti, discorrere con centinaia di persone e posare ora per un busto, ora per una fotografia, risedersi a tavola tre o quattro volte il giorno, per non far torto all’usanza degli ospiti, meravigliati che un eroe mangiasse così poco e bevesse anche meno, e finito il pasto, all’ora rituale in cui le signore lasciano i lor cavalieri in intimi colloqui col Sherry e col Brandy, si ritirasse con loro.
[362]
Così però era arrivato il 20 aprile; il giorno solennissimo destinato al conferimento della cittadinanza di Londra, che è, come ognuno sa, il più grande onore che la vecchia city possa dare, invidiato e raramente ottenuto dagli stessi Sovrani; e che a Garibaldi era stato decretato, senza contrasto, appena ebbe messo il piede sul suolo britannico. E come la storica cerimonia fu anche il compendio simbolico di tutte le onoranze tributate all’eroe italiano, così ne toccheremo meno fugacemente.
Assistito ad un asciolvere dal duca d’Argyll, in un tiro a quattro alla Daumont da Prince’s Gate, dimora del signor Seely dove il Generale era passato, s’avviò in sul mezzogiorno verso Guild-Hall. Lo accompagnavano, giusta il rito, il signor Richardson e l’Alderman Scott, ciambellano del Town-Hall, cui spettava quest’onore, il primo per aver proposto, il secondo per aver secondato la mozione del Freedom: lo seguivano in altra carrozza il signor Seely e i figli, e in altre ancora un lungo corteo di membri del Parlamento e di nobili invitati. Le botteghe erano chiuse, i lavori sospesi come nel giorno dell’ingresso. Turbe di popolo assiepavano le strade per le quali doveva passare il corteo; ma all’ingresso della city e più ancora nei pressi del Palazzo di città la calca è sì densa, la piena sì procellosa da pareggiare quasi quella impareggiabile dell’11 aprile. Arduo perciò come in quel giorno il transito; arduo ai policemen contenere il torrente; arduo e pericoloso insieme per il Generale lo scendere di carrozza. Vi pervenne tuttavia, e allora, accolto nell’atrio di Guild-Hall dalla deputazione del Comitato di ricevimento, passando fra due ale di gentlemen e di ladies che lo salutano e s’inchinano come ad un re, è condotto nel gran salone del Consiglio, in mezzo ad una [363] fiorita corona d’invitati, e quivi, sotto un ricco baldacchino, sopra seggiolone dorato, fra il signor Seely e suo figlio Ricciotti,[275] fatto sedere.
Entrarono allora gravi e solenni nel loro storico costume, roboni di velluto nero, parrucche bianche a zazzera, grandi lattughe allo sparato, il Lord Mayor, gli Aldermen, i Clerks, e fattosi un solenne silenzio il Town’s Clerk venne innanzi e lesse il seguente decreto:
«Che l’onorevole titolo di cittadino sia conferito al generale Garibaldi come segno di riverenza al più magnanimo e valoroso dei patriotti e gli sia presentato in una scatola d’oro del valore di cento ghinee.»
Una salva d’applausi era già scoppiata alle parole most generous and magnanimous man, un’altra ancora più fragorosa seguì la chiusa del decreto. Allora il Generale si alzò e il signor Scott gli lesse un lungo indirizzo, nel quale, dopo avergli significato come Londra andasse superba d’avere tra’ suoi cittadini un uomo che a nessun altro poteva essere paragonato, «perchè in nessun uomo si trovarono insieme accoppiate come in lui la semplicità d’un Cincinnato, l’incorruttibilità d’un Dentato, il cuore di Leonida, la tenerezza d’una donna, la confidenza d’un fanciullo;» conchiuse ringraziandolo d’aver destata in Inghilterra la fiamma della libertà, ed augurando all’Italia di compiere la sua unità ed indipendenza.
Il Generale, che aveva ascoltato con profondo e decoroso raccoglimento, fece in inglese, con accento stentato e troppo apertamente meridionale, ma con [364] perfetta correzione di sintassi e di lingua, questa risposta:
«Non mi è possibile esprimere a voi, come rappresentanti di questa gloriosa città, la gratitudine che io provo dell’onore che mi avete oggi conferito. Ne inorgoglisco più che dell’avere il primo onore, il primo grado in guerra, perchè non so qual cosa possa tenersi più onorevole che l’esser libero cittadino di questa città. Nè io dico questo per adularvi. Ho veduto che questo è il vero centro della libertà del mondo, è il foco della civiltà di tutte le nazioni. Qui niuno è straniero, perchè in Inghilterra ogni uomo è in casa sua. Vi ripeto che non potrei esprimere la mia riconoscenza, ma ve ne ringrazierò, non potendolo per me stesso, in nome della mia patria, che aspetta dall’Inghilterra quell’aiuto ch’essa può dare in guerra.
»Certo l’Italia non potrà mai dire abbastanza quanto è grata a questo paese pel gran favore con cui ha accolto la sua causa, e per gli aiuti che le ha dato in tempi di gran bisogno. Nè è questa la sola volta che io sono stato beneficato dal popolo inglese. Lo fui in America quando dovetti alla protezione inglese se fui salvo da gran pericolo. — Ebbi anche aiuto da Inglesi in Cina. Tutto questo non potrei mai dimenticare; ma dovunque sarò, il mio affetto, la riconoscenza verso il popolo inglese sarà imperitura. — Ripeto che sono gratissimo per me e per la mia patria al popolo inglese.»
Certo questo discorso non aveva nulla di peregrino, ma il Generale che al toccar del suolo inglese pareva aver acquistato il senso, a lui tanto innaturale, della convenienza e della misura, ed essersi trasformato in un attore provetto, a cui nessuno dei lenocinj dell’arte sia ignoto; il Generale, dico, seppe dare a quelle sue parole, studiate più che non si pensi, tale un’impronta di verità e di naturalezza, e trovare recitandole un atteggiamento così artisticamente equilibrato [365] tra la modestia e la dignità, un gesto così giustamente misurato tra la vivacità italiana e la rigidezza anglo-sassone, un’intonazione così abilmente indovinata tra la rozzezza eroica e la cortesia signorile, e sopratutto tali modulazioni, tali blandimenti e incanti di voce da suscitare in tutto l’uditorio un vero delirio. Una triplice tonante salva d’applausi, quali forse quella sala non aveva mai uditi, accolse la fine del discorso e soltanto la maestà del luogo e della cerimonia parve trattenere da più clamorose manifestazioni. Quando però il Generale, salutato il Mayor e la Mayoressa, si mosse per uscire, il pubblico, rotta ormai quella diga di tradizionale rispetto che l’aveva fino allora contenuto, dimenticò ogni gravità, e scavalcando sedie e barriere si rovesciò letteralmente su di lui, per ottenere, con mille voci, l’onore d’un suo shake hands. Nè forse l’eroe sarebbesi rifiutato anche a quel capriccio se taluno de’ suoi amici non si fosse opposto, dicendo che ciò avrebbe nociuto alla sua salute; il che bastò perchè tutta quella folla tumultuante si ritraesse e diradasse in silenzio.
Allora il Generale uscì da Guild Hall per passare a Mansion-House, dove il Lord Mayor dava in suo onore lo storico banchetto della Loving Cup, nel quale il Generale, ignaro del rito, bevve alla salute del Popolo inglese fra le acclamazioni de’ convitati.
Non fu quella però l’ultima impresa di quella giornata campale. Alle 6 il Generale dovette intervenire ad un altro banchetto, il terzo in un giorno, offertogli dal Cancelliere dello Scacchiere e trattenervisi fino a tarda ora sempre sulla scena, sempre in sull’all’erta per ascoltare e rispondere, sempre meraviglioso a tutti di semplicità, di cortesia, di tatto e di pazienza.
[366]
Ma nel medesimo giorno che Londra scriveva nell’Albo de’ suoi cittadini il nome di Giuseppe Garibaldi, una voce, susurrata pochi giorni prima come una vaga ipotesi ed una remota eventualità, prendeva a un tratto nei giornali la forma asseverante d’una positiva notizia: «Garibaldi interrompeva il suo viaggio e si preparava a ripartire per l’Italia.» Naturale pertanto che un simile annunzio destasse in tutte le classi della vasta metropoli (eccettuati forse i pochi consiglieri e preparatori di quella partenza) il più grande stupore ed il più vivo malcontento. Indarno i diari amici del Ministero si studiavano di onestare e spiegare quella repentina risoluzione con semplici e naturali motivi; dicendola imposta da ragioni di salute, consigliata dai medici, suggerita dalla pietosa sollecitudine di risparmiare al Generale, già affranto dalle fatiche de’ suoi primi trionfi, nuovi e più gravi travagli; la città, le classi popolari principalmente, non sapevano appagarsi di queste ragioni; e messe già in sospetto da tutta quella estemporaneità di passione amorosa onde l’aristocrazia britannica era stata presa per il mozzo nizzardo, fiutavano sotto quelle mostre di zelo per la salute d’un uomo, che stava forse benissimo, le fila d’una trama aristocratica o politica, cominciando già a dimostrare apertamente la loro incredulità e diffidenza, agitandosi nei pubblici meetings, e forzando il governo stesso a rispondere in Parlamento.
Per intendere frattanto fino a qual punto quei sospetti fossero giustificati, e fra le tante e contradittorie ragioni di quella partenza, sceverare, non diremo la vera, ma la più prossima al vero, importa rimontare [367] alcuni giorni addietro e penetrare un po’ più addentro nel retro scena della storia.
Il lettore non ha dimenticato che il Governo inglese non aveva mai veduto di buon occhio il viaggio di Garibaldi. Presago dei disturbi che la inopportuna visita gli avrebbe, o prima o poi, arrecati, Lord Palmerston s’era studiato fino alla fine di scongiurarla, e solo quando la vide ormai inevitabile fece buon viso, come suol dirsi, all’avversa sorte, e s’adoperò, nel modo che sappiamo, a menomarne le conseguenze. In sulle prime però tutto parve andargli a seconda. Garibaldi s’era abbandonato, senza resistenza alcuna, alle braccia dei Geni tutelari che dovevano, durante il suo passaggio per Albione, custodire la sua innocenza e preservarlo dai diabolici contatti della rivoluzione; Garibaldi mansueto, quale mai non fu, passava di banchetto in banchetto, di cerimonia in cerimonia, di teatro in teatro, rappresentandovi, appuntino come una brava bestia feroce bene ammaestrata, la parte che meglio gradiva a’ suoi custodi e al suo pubblico, senza dare mai il più piccolo segno di ribellione, o mandare il più lieve ruggito di collera. Non v’era dunque a pentirsi troppo d’averlo lasciato venire. È ben vero che egli aveva messo sottosopra mezza Inghilterra, e in combustione tutta Londra; ma infine era sperabile, era presumibile che a poco a poco il fanatismo si stancherebbe, l’entusiasmo svamperebbe, la vecchia freddezza inglese riprenderebbe il sopravvento; lo stesso attore a forza di essere veduto e sentito si logorerebbe, e tutto rientrerebbe in breve, con poco fastidio, nella calma e nell’ordine di prima. Accadde invece tutto il contrario. Passavano i giorni, le ovazioni succedevano alle ovazioni, e gli spettacoli agli spettacoli, ma il saturnale garibaldino non dava [368] alcun segno di cessare. Garibaldi continuava da oltre una settimana a mostrarsi, a concedersi, a distribuirsi a quanti volevano vederlo, udirlo e toccarlo; ma il farnetico non accennava a calmarsi; Londra tornava ogni mattina e ogni sera a mirare, a contemplare ad adorare il suo nuovo idolo in tutte le pose e su tutti gli altari, ma non ne era sazia ancora.
Eppure Londra non era che una stazione, ed il trionfatore non si trovava ancora che alla prima pietra miliare della sua via trionfale. Ma che sarebbe accaduto se egli avesse mantenuto la promessa di visitare una ad una tutte le principali città d’Inghilterra e di Scozia, Manchester, Birmingham, Bristol, Newcastle, Liverpool, Glascow, Edimburgo, che l’attendevano impazienti di rinnovargli tra le loro mura i trionfi della Capitale?
Questo era il pensiero che principalmente turbava gli uomini di Stato inglesi, e in generale quanti pregiavano, sopra ogni cosa, l’ordine e la quiete del loro paese. Perocchè se tanta, dicevano essi, era l’agitazione che quel fatato Italiano era riuscito a suscitare in Londra dove pure le masse popolari erano guidate e contenute dalla presenza del governo e del Parlamento, dagl’influssi d’una stampa autorevole e dall’azione moderatrice di numerose classi superiori illuminate e potenti, quale non sarebbe stata in quelle grandi città manifattrici, alveari giganteschi d’operai e d’industriali, focolari naturali delle idee rivoluzionarie e socialiste, miniere profonde e insidiose cariche insieme d’oro e di dinamite, d’onde l’Inghilterra traeva da secoli la sua ricchezza, ma che troppo arditamente esposte al contatto d’una scintilla fulminea, avrebbero anche potuto cagionarne la rovina!
Certo non era a temersi che Garibaldi vi andasse [369] a suscitare una rivoluzione sociale; ma il solo dubbio ch’egli riuscisse a trascinare quelle popolazioni in manifestazioni di politica internazionale ed a renderle complici più o meno dirette de’ suoi appelli e de’ suoi disegni patriottici, bastava ad obbligare un governo appena consapevole della propria responsabilità alla più grande cautela e vigilanza. Nè queste apprensioni eran del tutto infondate. Garibaldi era stato fino allora, non all’occhio degli Inglesi soltanto, un miracolo di saggezza e di temperanza; ma fino a quando il miracolo fosse per durare nessuno poteva affermarlo. L’eroe non poteva rinnegare a lungo la propria natura, e con lui era prudenza star pronti a tutte le sorprese. Anche in que’ primi dieci giorni egli aveva fatto più d’una scappata fuori del morbido serraglio in cui i suoi guardiani lo tenevano custodito; e il brindisi a Mazzini, le visite a Ledru Rollin e Luigi Blanc, le parole ai Polacchi, parevano segni abbastanza eloquenti che v’erano idee, amicizie, relazioni, alle quali egli, sotto pena di snaturarsi, non poteva rinunciare.
Oltre di che i Mentori blasonati, che s’erano tolto il carico della sua tutela in Londra, non lo potevano accompagnare dappertutto, e il giorno in cui egli fosse uscito dalle loro mani per cadere in quelle, a mo’ di esempio, dei Taylor, degli Stuard, dei Cowen, conosciuti in Inghilterra per le loro opinioni rivoluzionarie, la loro intimità con Mazzini, e la loro influenza sulle popolazioni artigiane delle città industriali, nessuno poteva prevedere fino a qual punto il mutato ambiente avrebbe influito sul mobile spirito del Patriotta italiano, nè a qual eccesso, una volta lasciato in balía di consiglieri o complici o compiacenti, avrebbe potuto trascorrere.
[370]
E ciò tanto più che il vero ultimo scopo della sua visita in Inghilterra non traspariva ancora. Egli andava bensì dicendo, e i suoi seguaci ripetendo, che l’unico motivo di quella sua visita era stato il ringraziare il popolo inglese di quanto aveva operato per l’Italia; ma questa spiegazione, buona forse, non appagava abbastanza gli uomini politici inglesi, avvezzi a non credere troppo alla gratitudine, e a diffidare un tantino anche delle parole degli eroi. Infatti i suoi incessanti rapporti col Mazzini, col Saffi, l’arrivo continuo dall’Italia di ufficiali garibaldini, di deputati, di personaggi politici che apparivano un istante, s’abboccavano col Generale e sparivano,[276] se non costituivano ancora un indizio certo di congiure latenti, erano però sintomi poco rassicuranti, i quali, sommati a tutti gli altri segni, accrescevano naturalmente le inquietudini del Governo inglese e ne acuivano i sospetti.
Nè qui finivano le inquietudini che quella visita troppo prolungata cagionava ai Ministri di Sua Maestà Britannica. L’indomani della entrata di Garibaldi in Londra era il giorno destinato alla riunione della Conferenza diplomatica per l’accomodamento della lite dano-germanica; e la coincidenza di questi due fatti poneva il gabinetto di Lord Palmerston in una posizione singolarmente difficile e delicata. Era infatti per lo meno strano che la Diplomazia europea fosse convocata a negoziar della pace, in quella città che era in quel momento la più agitata del vecchio mondo, e ripeteva da mane a sera l’apoteosi di colui che passava per il campione giurato di tutte le rivoluzioni e di tutte le guerre.
[371]
E più di tutti dovevano sentire il dispetto di quei trionfi l’Austria e la Francia. Per Francesco Giuseppe, Garibaldi era sempre l’uomo di Luino e di Sarnico; per Napoleone III, quello del Gianicolo e d’Aspromonte; per entrambi l’Annibale implacato che quando non poteva guerreggiarli coll’armi, li combatteva colle parole, colla penna e col nome.
Ora come l’amicizia della Francia e dell’Austria era a quei giorni uno dei perni della politica inglese, così veniva da sè che il governo della Regina fosse il primo a riguardare con ansietà il perdurare d’un fatto che era cagione di disgusto a’ suoi più utili amici e poteva, lungamente protratto, fruttare alla stessa Inghilterra noie e contrarietà imprevedibili. Nè, per far intendere il loro sentimento circa la presenza di Garibaldi in Londra, era mestieri che i Gabinetti europei ricorressero al mezzo estremo delle proteste. Quando Lord Palmerston nella Camera dei Comuni,[277] diceva che «qualunque governo forestiero si fosse fatto lecito di intromettersi nelle interne faccende dell’Inghilterra avrebbe avuto da qualsiasi governante del suo paese una urbana sì, ma franca e ferma risposta,» diceva cosa da tutti saputa, sottintesa e creduta.
Ma ognuno sa che tra la diretta intromissione e l’indifferente astensione ci corre tanto spazio che basta per contenere insieme la indiretta disapprovazione e il tacito dissenso, la triste scontentezza e il broncio amichevole, tutte le gradazioni del malcontento e del malumore. È noto che la politica ha parecchi vocabolari: che in diplomazia ciò che non si vuol dire ufficialmente si susurra ufficiosamente; che il più delle volte basta un segno, un monosillabo, un [372] silenzio tempestivo ed un sussiego calcolato per dir più di tutti i discorsi e di tutte le note. Ora tale era appunto il linguaggio che conveniva a quel caso. Nessuno dei governi interessati avrebbe osato esprimere al Gabinetto di Londra il proprio dispiacere per gli onori straordinari che il popolo inglese aveva stimato di rendere a quell’avventuriere fortunato; ma pochi di loro avevan saputo nascondere il proprio scontento.
Era stato notato infatti che a nessuno dei grandi ricevimenti dati al Patriota italiano, meno l’ambasciatore di Turchia e il Ministro degli Stati Uniti, nessun altro diplomatico, nemmeno in forma privata, era intervenuto; che il conte Appony, ambasciatore d’Austria, s’era chiuso fin dall’arrivo in uno sdegnoso ritiro non comparendo più nemmeno al Palazzo del governo; che l’Austria e la Prussia tardavano ad inviare i loro rappresentanti al Congresso, senza dire apertamente che la cagione ne fosse la sgradita vicinanza di quello spadroneggiante trionfatore, ma facendolo con abbastanza chiarezza trapelare; che infine la stampa governativa ed officiosa così di Francia come d’Austria e di Germania, canzonando quella nuova frenesia garibaldina onde il serio popolo britannico era stato colto, non perdevano mai il destro di tirare una botta contro i ministri della Regina che si lasciavano pigliare dallo stesso delirio e adoravano lo stesso feticcio.
Combinati questi fatti, sommate tutte queste cagioni;[278] considerato da un canto la necessità di tagliar [373] corto ad un’agitazione fino allora soltanto inquietante che poteva tralignare in più pericolosi disordini, e dall’altro la convenienza di evitare alle potenze amiche, in un momento di negoziati diplomatici, una cagione di fastidio e di disgusto, il Governo inglese deliberò di indurre Garibaldi ad abbreviare il suo viaggio e ad affrettare il suo ritorno in Italia.
E fermato il disegno, il modo d’esecuzione, e gli esecutori furono presto trovati. Quei medesimi fedeli del governo che s’erano fino allora assunto di guidare i primi passi dell’eroe sul suolo britannico, quei medesimi s’impegnerebbero a condurnelo fuori. La sera del 16 infatti il duca di Sutherland, il signor Seely, il dottor Fergusson, medico della Regina, il generale Eber, il colonnello Peard, il signor Gladstone, e pochi altri amici del Generale si raccolsero a consiglio in Stafford-House e convennero prestamente sul da farsi: Il Generale doveva esser un ammalato: il dottor Fergusson l’avrebbe attestato; i suoi ospiti amici, compresi dall’obbligo di risparmiare al grande patriota i danni e i pericoli d’un viaggio più disastroso, [374] si sarebbero tolto l’assunto di consigliargli il ritorno desiderato: il Duca di Sutherland, ottenuto l’assenso, l’avrebbe fatto a poco a poco dileguare portandoselo via sul suo velocissimo yacht; e tutto sarebbe riuscito al suo fine senza scandali e senza compromissioni.
Con quest’accordo la mattina del 17 il dottor Fergusson cominciò a fare al Generale, ignaro ancora di quella parte d’ammalato immaginario che gli era preparata, la sua prima visita, e notò in lui tracce così profonde di stanchezza, e lo trovò così sofferente anche nella gamba sana costretta a sostenere parte del lavoro della ammalata che non potè a meno di dichiarare al Duca di Sutherland, «i suoi timori sugli effetti che ne potevano derivare dalla permanente eccitazione prodotta da quelle ripetute ovazioni, che gli stessi uomini più robusti non avrebbero potuto affrontare.»
Come restasse a questa lettera inattesa il nobile Duca, inutile ridire: tutta Stafford-House fu piena in poche ore della dolorosa notizia, e l’argomento della malattia del Generale su tutte le labbra de’ suoi ospiti e frequentatori.
Il dottor Fergusson però, da medico coscienzioso, non poteva fidarsi al giudizio di una sola visita, e volle ripeterne una seconda: ma ahimè il pronostico non poteva essere diverso! Non solo il Generale era stanco, non solo «ne conveniva egli stesso;» non solo era manifesta la sua fisica debolezza, ma cominciava già a trasparire la mentale. Infelice eroe, stanco, debole, sofferente nella gamba destra per contraccolpo della sinistra, e quasi scemo di mente! L’Archiatro di Sua Maestà la Regina Vittoria non poteva più esitare; e presa tosto la penna non più soltanto al duca di Sutherland, ma anche al suo collega il signor Seely, [375] scrisse risolutamente che, viste le miserande condizioni del generale Garibaldi, «riteneva ormai pericoloso per lui l’adempiere a tutti i presi impegni;» e consigliava perciò «sì l’uno che l’altro e tutti i suoi amici d’Inghilterra di cercare un mezzo qualsiasi per distoglierlo dalle imprudenti emozioni delle sue visite progettate.[279]»
La parola era detta; il dado era tratto e conveniva tosto giuocare l’ultima posta. Ecco infatti il Duca di Sutherland, il signor Seely, il generale Eber, il colonnello Chambers, il signor Negretti, tutti quanti [376] gli artefici ed i complici della trama stringersi attorno al Generale e tentare di persuaderlo con tutti gli argomenti che loro occorrevano, al passo desiderato. Indarno. Il Generale, o troppo ingenuo per sospettare l’intrigo o troppo furbo per mostrar d’accorgersene, rispondeva a tutti invariabilmente: «che non s’era mai sentito così bene come da quando era venuto in Inghilterra;» in ogni caso pochi giorni di riposo gli sarebbero bastati a rimetterlo dalla momentanea stanchezza; non potere però in alcun modo deludere l’aspettazione di tanti cari amici, di tante illustri città, e mancare alla propria promessa. Innanzi a questa non preveduta resistenza, i manipolatori della partenza si trovarono un po’ sconcertati e stimarono necessario di invocare l’autorevole intervento dello stesso Cancelliere dello Scacchiere. E questi accettò, e nella sera medesima del 18, in presenza del Duca di Sutherland, del dottor Fergusson, del signor Seely, del colonnello Peard, del generale Eber, del signor Negretti e di due o tre altri amici[280] del Generale, ebbe [377] con questi un lungo colloquio. L’assunto era arduo: la veste ufficiale onde il signor Gladstone era rivestito ne accresceva le difficoltà; ma egli seppe tirarsi d’impiccio con mirabile delicatezza e maestria. Accortosi prestamente che quell’argomento ormai logoro «della salute» non aveva più alcuna presa sull’animo d’un uomo che credeva e protestava di sentirsi benissimo, vi scivolò sopra lievemente e volse tutta l’arte a toccare altri tasti più graditi o meno stridenti. Dichiarò che parlava come amico, non come membro del governo; respinse, sprezzandolo come indegno di confutazione, ogni sospetto di ingerenza forestiera e di secondo fine politico: assicurò il Generale che qualunque fosse la sua risoluzione nessun Inglese si sarebbe permesso di mancare ai doveri dell’ospitalità; desiderava soltanto fargli considerare come ormai, visitata Londra, lo scopo principale del suo viaggio fosse raggiunto, e come quelle stesse splendide ovazioni che erano uno dei più mirabili avvenimenti del nostro tempo, anzichè crescere, potessero, colla continuata ripetizione, scemare della loro dignità e bellezza: in ogni caso nessuno poter pretendere che gli impegni da lui presi dovessero tenersi per incondizionati e assoluti; sì che quando non credesse di sciogliersi da tutti restavagli sempre l’espediente di limitare le sue visite ai luoghi più vicini e più importanti, facendo valere verso gli altri la ragione indiscutibile della salute e della necessità di riposo che avrebbe tagliato corto a tutte le querele e a tutte le pretese. Ed altre cose disse e avrebbe potuto soggiungere l’eloquente ministro, se il Generale n’avesse avuto mestieri.
Ma egli, che fino allora non aveva voluto o saputo capire, vide come in un lampo tutta la situazione. [378] Più il signor Gladstone si studiava a girar attorno alla ragione principale che l’aveva mosso a parlare, e più questa ragione, come per effetto di chiaroscuro, risaltava; più adoperava a tener lontano dal suo discorso l’ombra del governo e più quell’ombra ricompariva e il suo pensiero erompeva. Il solo fatto del suo intervento in quel negozio era un fatto politico; il solo trovarsi a fianco agli uomini che da tre giorni peroravano per la causa della partenza, parlava più eloquentemente d’ogni discorso. Il Generale dunque capì, e alzandosi di scatto dalla sedia con quel suo fulmineo risolvere che tante volte scompigliava i calcoli più studiati de’ suoi avversari: «No! disse, con voce secca e imperiosa, credo impossibile fare una scelta fra città e città, e dare la preferenza piuttosto all’una che all’altra, sarebbe scortesia ch’io non commetterò mai. Piuttosto, se credete che debba partire, partirò domani.[281]»
[379]
Alla sortita inattesa, così il signor Gladstone come i suoi colleghi restarono alquanto sconcertati.
[380]
Non era infatti una partenza precipitata e quasi clandestina che essi s’eran proposto di ottenere dal Generale: un siffatto modo avrebbe avuto l’aspetto o d’una fuga o d’uno sfratto, e destate anche più vive quelle agitazioni che essi miravano a spegnere. Essi chiedevano soltanto un lento ritiro; un allontanamento a piccole giornate; un dileguarsi insensibile che togliesse ogni sospetto di violenza e vestisse tutte le sembianze d’un atto volontario e spontaneo del Generale stesso. Però quando udirono quelle due parole: «partirò domani,» misurarono tosto il pericolo e corsero tutti insieme al riparo adoperandosi con ogni miglior argomento a smuovere il loro ospite da una risoluzione che rischiava di guastare i loro disegni assai più d’un reciso rifiuto. Ma il Generale fu in quella sera irremovibile; e soltanto la mattina dopo (19), assalito nuovamente dalle insistenti preghiere di quasi tutti i suoi consiglieri della vigilia,[282] irretito, [381] fors’anco sedotto, dalle provette blandizie della Duchessa madre di Sutherland e dalle rosee grazie della giovane sua nuora, finì col cedere e col dichiarare che sarebbe partito come e quando ai loro amici fosse piaciuto. Era la vittoria desiderata, e non restava più che bandirla nei giornali per rendere impossibile colla pubblicità qualsiasi pentimento. Infatti nello stesso pomeriggio del 19, i signori Duca di Sutherland e Seely inviavano al Times le tre lettere del dottor Fergusson, da noi già compendiate, facendole precedere da questa loro dichiarazione che annunciava la prossima partenza dell’eroe, precisandone persino il giorno ed il modo:
«All’Editore del Times.
»Il Duca di Sutherland ed il signor Seely presentano i loro omaggi all’editore del Times e gli trasmettono copia delle lettere ricevute dall’illustre professore Fergusson sullo stato sanitario del generale Garibaldi.
»In conseguenza di ciò, il Generale si trova costretto a rinunciare al suo progetto di visitare le provincie, e partirà da Londra venerdì mattina. S’imbarcherà sul yacht del Duca di Sutherland, il quale lo accompagnerà alla sua residenza dell’isola di Caprera.»
Quale effetto producesse nel popolo inglese questo annuncio, già accennammo: di amaro sospetto ne’ più; d’intera contentezza in pochi; di sorpresa in quasi tutti. Però l’opinione pubblica si divise quasi tosto in due campi. Gli amici del governo, gli uomini politici, le classi superiori e in generale tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, erano inquieti o tediati di quella prolungata baraonda garibaldina, lodavano [382] il Generale d’esservisi arreso; gli avversi al Ministero, gli idolatri dell’eroe, la gente più di sentimento che di ragione, e tutti coloro in generale cui quella baraonda piaceva o giovava, non sapevano persuadersi che la malattia fosse reale (tanto più dopo una attestazione del dottor Basile che la smentiva[283]), nè quella partenza spontanea e sospettandovi sotto un oscuro complotto aristocratico e diplomatico, a cui non parevano estranei nè il Governo inglese, nè Napoleone III, nè l’Austria, s’apparecchiavano con tutti i mezzi che la legge loro concedeva a sventarla.
Già infatti tra il 20 e il 21 la più parte dei giornali liberali e radicali[284] denunziava, esagerandolo, il misterioso complotto: innumerevoli cartelli affissi per le vie avvertivano il popolo che Garibaldi era forzato a partire: alla Taverna di Londra per iniziativa del Comitato di Ricevimento convocavasi un meeting nel quale si deliberava «non essere desiderabile che il generale Garibaldi venisse indotto ad abbandonare l’Inghilterra, tanto più che non erano stati sufficientemente chiariti i motivi della sua partenza.» Un altro meeting pubblico e più numeroso preparavasi per istigazione di Mazzini a Primrose, sotto la Presidenza del signor Beales; infine il Ministro degli Esteri, il Presidente del Consiglio, e il Cancelliere [383] dello Scacchiere erano invitati a dar spiegazione nelle due Camere di quell’inatteso rimpatrio, e sopratutto a dichiarare quanto vi fosse di vero nella voce persistente che il governo della Regina, spinto da suggestioni straniere, vi avesse partecipato.
Ma le risposte erano prevedibili. Lord Clarendon si dichiarò persino inconsapevole della progettata partenza, e quanto a Napoleone III non solo lo purgò da qualsiasi taccia d’avversione a Garibaldi, ma assicurò che caduto il discorso su quel tema, l’Imperatore gli disse di comprendere benissimo come un uomo sì straordinario, quale era Garibaldi, dovesse toccare l’animo agli Inglesi e trasportarli fino all’entusiasmo. Nè sostanzialmente diverse furono le parole di Lord Palmerston e del signor Gladstone. Solo il primo soggiunse anche più esplicitamente che qualunque governo forastiero facesse all’inglese, sopra un consimile argomento, una rimostranza qualsiasi, «riceverebbe una urbana sì, ma ferma ed aperta risposta;» mentre il secondo, senza sconfessare la sua intromissione nell’affare e narrati press’a poco i fatti come li narrammo noi stessi, si studiò soltanto a rimuovere da sè e dal governo ogni sospetto di indebita ingerenza e d’inospitale pressione, ed a gettare la colpa dell’avvenimento su quella disgraziata salute del Generale, del cui stato sofferente, dopo le attestazioni d’un medico come il signor Fergusson e d’amici così affezionati e devoti, come il signor Seely e il Duca di Sutherland, non era più possibile dubitare.[285]
Contemporaneamente le Deputazioni dei meetings si presentavano a Garibaldi, il quale, fluttuante ancora [384] tra le promesse fatte agli uni di visitarli ed agli altri di partire, si tirava alla meglio d’impaccio dicendo agli inviati del London Tavern, che desiderava ardentemente di visitare i suoi vecchi amici di Newcastle e del Nord, ma che avrebbe meglio considerato se dopo la promessa data poteva cambiare di determinazione;[286] e scrivendo anche più esplicitamente al signor Beales, presidente del meeting che si stava preparando a Primrose, ed a tutti i suoi amici «che accettassero i suoi ringraziamenti per l’affetto dimostratogli: che sarebbe felice di rivederli in circostanze migliori e quando potesse a tutto agio godere del loro nobile paese; ma pel momento essere obbligato a lasciare l’Inghilterra.[287]» E queste ultime parole valgono un documento. Garibaldi poteva essere o più generoso o più coerente tralasciandole; ma infine se la verità suo malgrado gli scappò dalla penna, raccogliamola e scriviamola come l’unica conclusione chiara di tutto questo [385] torbido negozio: Garibaldi fu obbligato a partire d’Inghilterra; graziosamente, soavemente obbligato; ma «obbligato.»
Fissata la partenza pel 22, Garibaldi adopera i due giorni che gli avanzano a fare a precipizio tutte quelle visite che per dovere o per affetto non poteva assolutamente tralasciare. Però il 21, di buon mattino, sciogliendo un voto da lui fatto sino dal suo arrivo in Inghilterra, va in compagnia di Panizzi e d’altri Italiani, a visitare la tomba di Ugo Foscolo a Chiswick; resta alcuni istanti assorto in una mesta contemplazione dinanzi all’avello del poeta, indi vi depone una corona d’alloro in bronzo sul cui nastro aveva fatto scolpire egli stesso la leggenda:
AI GENEROSI
GIUSTA DI GLORIA DISPENSIERA È MORTE.
DEPOSTA OGGI 21 APRILE 1864
DAL GENERALE
GIUSEPPE GARIBALDI.
Al tornare dal suo pellegrinaggio, si reca senza perdere un istante al Reform-Club, dove subíto, non sapremmo dire se più il tormento o l’onore d’uno de’ soliti banchetti, il presidente, Lord d’Elbury, lo arringa chiamandolo «lo strumento di Dio,» e soggiungendogli, parole significative su quel labbro ed in quel luogo, che «le accoglienze ricevute dal popolo inglese dovevano essergli largo compenso per l’apparente ingratitudine che viene da un luogo d’onde l’ingratitudine era meno da aspettarsi.» Licenziatosi poi anche di là con opportune parole di ringraziamento, si fa [386] condurre a Richmond per prendervi commiato da Lord Russell; quindi, reduce nuovamente in Londra senza il respiro d’un istante, passa a visitare, introdottovi da Lord Clifford, la Camera dei Lordi, i quali al suo apparire si distraggono e si agitano al segno che Lord Chelmsford, che in quel momento parlava, può a stento continuare il suo discorso, finito il quale tutti s’accalcano intorno all’eroe, e quanti fra di loro l’hanno conosciuto, specialmente i Whigs, si disputano l’onore di salutarlo pubblicamente, il Vescovo d’Oxford fra i primi. Finalmente verso sera, sempre senza sosta e senza riposo, passa al Fishmonger Club (Circolo dei pescivendoli), uno de’ più antichi, e, non ostante il nome, de’ più aristocratici circoli di Londra, dove l’attende a uno de’ loro pranzi tradizionali, famosi per luculliane ghiottornie di pesci, il fiore più eletto della nobiltà, della ricchezza, dell’armi, della eleganza e della cultura britanniche; dove il primo Warden (il primo Guardiano) gli accorda il titolo di membro onorario del Club, ambito quanto il Freedom, e d’onde parte a tarda notte pensando forse, con segreta compiacenza, che era quella l’ultima delle sue sterili fatiche londinesi, e che toccava oramai alla vigilia di quel rimpatrio che egli più d’ogni altro sospirava.
Nel giorno vegnente, infatti, fatta colazione dal Console Generale degli Stati Uniti, visitato nella sua casa Giuseppe Mazzini, congedatosi da Lord Shaftesbury, ricevute a Prince’s Gate quante persone vogliono dirgli addio, incontrato a Stafford-House il Principe di Galles che avea espresso il desiderio di conoscerlo in quel luogo ed a quel modo, lasciati al Popolo inglese i suoi addii, i suoi ringraziamenti e le sue scuse di non poter andar per ora dovunque avea [387] desiderato, accompagnate dalla promessa di tornar forse fra non molto a veder, nella quiete della vita domestica inglese, gli amici che allora non poteva,[288] verso le 3 del pomeriggio, in carrozza a quattro cavalli, accompagnato soltanto dal Duca e dalla Duchessa di Sutherland e dal signor Seely, passando in mezzo a un fitto stuolo di popolani che fin dalla mattina l’attendevano e gli gridavano: «Non partite, Generale, non partite,» s’avviò alla volta di Clifden Park, una delle principesche villeggiature della madre dei Sutherland, nei dintorni di Maidenhead.
E di quella sosta in villa, le ragioni erano parecchie: si allontanava subito da Londra il Generale senza portarlo via di colpo dall’Inghilterra, il che sarebbe stato pericoloso: si mettevano tra lui e i suoi più intimi e devoti un tratto di ferrovia e i cancelli [388] d’un castello feudale, e lo si separava così da consiglieri sospettati a torto avversi al rimpatrio:[289] si abituava insensibilmente il buon popolo inglese alla sgradita separazione, e mostrandogli il suo eroe contento della quiete della campagna, e vivente co’ primi suoi ospiti nei termini della più cordiale famigliarità, di tanto si avvalorava la credenza ch’egli fosse realmente sofferente e bisognevole di riposo, di quanto si svigoriva il sospetto che la sua partenza fosse l’effetto d’un intrigo e d’una violenza.
Trascorsi infatti tre giorni nelle delizie di Clifden (un giardino d’Armida a cui non mancava la fata), il 26 mattino, in ferrovia, sempre accompagnato dal Duca e dalla Duchessa di Sutherland, si mosse alla volta del Cornwall; giunto a Bristol, devia per Weimouth dove visita la squadra, vede manovrare il Warrior, e pranza a bordo dall’ammiraglio Dacres; di là, continuando per Exeter e Plimouth, ossequiato sempre dai Mayors delle città, da svariate Deputazioni e da sempre nuova moltitudine di popolo, smonta finalmente a Penquite Par, dimora di quel suo vecchio commilitone, il colonnello Peard, che aveva avuta tanta parte nell’imbroglio di quella partenza. Quivi però non passa che la notte e una parte del giorno successivo; chè inviato di colà un nuovo e più lungo manifesto alla nazione inglese, nel quale raccomandava più apertamente che fino allora non avesse fatto la causa della [389] patria sua,[290] sul cadere del giorno stesso, sempre in compagnia del Duca di Sutherland e del costui fratello, [390] del figlio Ricciotti, di Basile e di Basso, ne ripartiva per Fowey, dove l’Ondine l’attendeva, lesta alla partenza, e sulla quale in fatti pochi istanti dopo metteva alla vela. Costretto però da un forte vento di levante a poggiare nella notte stessa a Weimouth, non poteva ripartirne che il giorno successivo, sicchè soltanto nel mattino del 28 aprile può veramente dirsi ch’egli abbia lasciato le spiaggie d’Inghilterra.[291]
Il 5 maggio, data a quel viaggiatore memorabile, ritraversava lo Stretto di Gibilterra, e dopo altri quattro [391] giorni di fausta navigazione, il 9 dello stesso mese, egli afferrava finalmente il porticciuolo della sua diletta Caprera, d’onde quarantaquattro giorni prima era salpato pieno di illusioni e di speranze, dove tornava non sapremmo più dire se scontento dei disinganni patiti, o felice della pace e della libertà che stava per riacquistare.
Da quel viaggio, in verità, Garibaldi aveva raccolti onori quali e quanti nessun uomo aveva mai conseguiti in quel paese, ma un frutto sostanziale, un aiuto anche indiretto, un beneficio anche remoto non l’aveva raccolto.
Aiutare la Polonia, sommovere il Veneto, intraprendere una guerra di corsa contro l’Austria, con danari, armi e bastimenti inglesi, erano stati i tre fini nascosti, vaghi ancora quanto ai mezzi, fermi quanto all’intento, che l’avevano spinto a quel faticoso pellegrinaggio, e sappiamo oramai che nessuno di quei tre fini gli riuscì. Un giornalista francese scrisse a quei medesimi giorni che «gli Inglesi impinzarono Garibaldi di plum puddings di turtle’s soups e di sandwiches, ma che quanto al suo milione di fucili non gli diedero un soldo,[292]» e non sapremmo negare che la frase contenga, malgrado la forma triviale, gran parte di vero. Garibaldi ottenne tutto dal popolo inglese; tutto fuori di quello che più gli stava a cuore; sebbene [392] convenga soggiungere ad onor suo che egli non chiese nulla. Fin dai suoi primi passi sul suolo britannico, aiutato da quell’istinto che spesse volte s’addormentava nel suo spirito, ma che svegliatosi gli teneva luogo di genio, s’accorse immantinente che qualunque parola anche remotamente allusiva a imprese rivoluzionarie non solo non avrebbe trovato ascolto in quel paese, per indole e per istoria positivista e utilitario, ma gli avrebbe, quasi di colpo, alienata quella pubblica opinione che era del massimo suo interesse serbarsi amica. Però ingoiò ogni parola ardente che gli potesse ricorrere alle labbra, chiuse in fondo al petto le sue patriottiche speranze e i suoi belligeri disegni; imparò subito la parte di ospite soddisfatto, di commensale compiacente, di Eroe cerimonioso, che gli veniva con tanto garbo imposta, e lasciò anche quella volta che la vecchia sua fortuna decidesse di lui. I suoi ospiti, d’altra parte, prima lo assordarono d’applausi, lo ingozzarono di pranzi, lo soffocarono di doni, lo tempestarono di brindisi, di indirizzi e di poesie, lo menarono di qua, di là, di su, di giù, dove loro piacque, mostrandolo su tutti i palchi e in tutte le fiere, come il fenomeno vivente, e la great attraction dell’ultima moda; poi, quando ne furono satolli e ristucchi, lo pregarono gentilmente d’andarsene, ed egli se n’andò.
Se n’andò; e noi, confessiamo il vero, preferiamo ancora questo Garibaldi che s’adatta docilmente alla maschera dell’ingenuo e del compiacente, e pur vedendo le grosse panie tese intorno a lui, le rispetta e le compatisce, ad un altro Garibaldi qualsiasi che per raggiungere fini impossibili avesse usato del suo prestigio e della sua popolarità a mandar sossopra il paese che lo accoglieva, il quale poi, e a dir tutto, se [393] aveva il dovere di parlar più schiettamente all’eroe che andava con tanto abbandono ad assidersi a’ suoi focolari, non ne aveva però alcuno di farsi paladino della sua politica e di seguirlo nelle sue avventure.
Garibaldi però non rimaneva a lungo nella sua isola. Il 19 di giugno collo stesso vapore con cui era giunto d’Inghilterra e che il Duca di Sutherland, dopo un giro in Oriente, aveva rinviato nelle acque di Caprera a disposizione del Generale, questi approdava improvvisamente nell’isola d’Ischia, prendendo stanza in Casamicciola presso un suo amico.[293] Pretesto, come al solito, il bisogno di curare in quelle terme salutari la sua artritide: ragion vera un progetto di spedizione in Oriente, di cui erano state segnate, durante il viaggio d’Inghilterra, testè lungamente narrato, le prime linee.
Ma qui pure ci troviamo tra le mani un’aggrovigliata matassa della quale non ci è possibile sbrogliare i fili senza rifarci parecchi mesi addietro e ripassar nuovamente la Manica. È noto che Vittorio Emanuele non ebbe mai grande tenerezza per la formola «il Re regna e non governa.» Scrupoloso de’ suoi doveri, ma geloso de’ suoi diritti; infiammato dell’alto orgoglio di non essere soltanto nella grande impresa commessagli dalla Provvidenza un simbolo vano od un gonfaloniere passivo, ma un artefice operoso ed un utile combattente; unico forse tra i Principi costituzionali, se non lo uguaglia il Taciturno, che in [394] tempi procellosi abbia saputo conciliare la tutela delle prerogative regie colla osservanza delle libertà popolari; egli non credeva venir meno alla costituzione giurata, se partecipava un po’ più che astrattamente alla politica del suo Stato e dentro i termini della legge faceva sentire l’influsso del suo pensiero e qualche volta il peso della sua volontà. Da ciò quindi quella che fu chiamata la politica segreta o personale di Vittorio Emanuele; da ciò quella nomea di Re cospiratore a cui ogni nuova lettera che si pubblichi di lui aggiunge un documento; da ciò infine quell’ordito sottile d’intrighi, di complotti, di congiure mazziniane, garibaldine, regie, italiane, polacche, ungheresi, rumene, serpeggiante come una vegetazione spuria nelle pagine della storia palese, che sorprende il più delle volte ed arresta lo storico, e gli impedisce di scrutare e conoscere fino al fondo la verità, od anco conosciutala di scoprirla e proclamarla tutta quanta. E così dicasi ora dell’episodio d’Ischia.
Vittorio Emanuele, dopo aver fino al 1862 cospirato a modo suo con tutti coloro che accettavano di far l’Italia con lui, nel 1863 fa l’ultimo passo a cui un re possa giungere, e si risolve a cospirare anche con colui che gli diceva apertamente di volerla fare contro di lui: con Giuseppe Mazzini. In un libro recente[294] questa pagina dei rapporti segreti tra Vittorio Emanuele e Giuseppe Mazzini fu, non potremmo dire se fedelmente, certo diffusamente scritta, e il lettore potrà attingere di colà più ampi particolari. Al nostro racconto basta il rammentarne questo solo: che per oltre un anno Re e Tribuno continuarono a carteggiare segretamente fra loro, ed a dibattere in vario senso, [395] per mezzo di confidenti e di cifrari, progetti d’insurrezioni nella Venezia, nella Polonia, nella Gallizia, nell’Ungheria, nei Principati, senza però riuscire ad intendersi mai. Nè lo potevano. Mentre infatti il Mazzini voleva che la rivoluzione veneta precedesse, come scintilla all’incendio, tutte le altre, e che il Governo italiano se ne facesse complice e aiutatore; Vittorio Emanuele rifuggiva da idea siffatta; dichiarava che qualsiasi tentativo di simil genere l’avrebbe non solo abbandonato, ma represso, e consentiva soltanto a secondare copertamente i moti progettati della Gallizia, dell’Ungheria e dei Principati, dei quali però non s’impegnava a profittare «se non quando prendessero tali proporzioni da tenere fortemente occupata l’Austria e da permettere all’esercito italiano di tentare l’impresa comune con probabilità di riuscita.[295]»
Erano, come ognun vede, due concetti totalmente [396] opposti e destinati a non incontrarsi mai. Mazzini mirava a farsi stromento della monarchia, e Vittorio Emanuele della rivoluzione: entrambi volevano la stessa impresa, ma nessuno de’ due intendeva rinunciare all’altro il diritto e l’onore di compierla; entrambi eran guidati dallo stesso fine, ma nel mentre il tribuno, responsabile soltanto del credito d’un partito, era pronto a giuocare tutto su una carta; il Re, mallevadore della sorte d’un’intera Nazione, era deciso a non rischiare nulla all’azzardo; disposto bensì ad accettare od affrettare l’opportunità come e d’onde che sia; ma col fermo proposito di tenersi sempre libero di giovarsene o di ripudiarla a sua posta, e di respingerne da sè e dall’Italia la responsabilità.
È vero che in una seconda fase delle trattative[296] Mazzini aveva acconsentito anche a posporre il moto veneto al galliziano a patto soltanto che gli si fosse lasciata preparare una introduzione d’armi pel Veneto; ma il Re, risoluto più che mai a non impegnarsi in cosa alcuna che potesse compromettere l’Italia e scemare la libertà d’azione del suo governo, ricusò anche questo patto; sicchè non corse molto tempo che ogni negoziato fra i due illustri cospiratori andò rotto per sempre.[297]
Rotti i negoziati, ma non abbandonata l’idea. Vittorio Emanuele non voleva rinunciare a quella sua [397] chimera, forse troppo favorita, dell’insurrezione galliziana; e, sia che la credesse un mezzo, come pensò taluno, d’allontanare dall’Italia i più torbidi elementi; sia che vi intravedesse davvero una opportunità ed una leva, la leva tanto desiderata della nuova riscossa italiana, n’aveva fatto da due anni uno dei punti di mira della sua politica segreta. Però mentre ne carteggiava col Mazzini, ne trattava insieme col Klapka e col Türr, capi del Governo insurrezionale ungherese, ne cospirava con altri suoi agenti secondari a Costantinopoli, a Belgrado, a Bukarest, e finalmente, verso la metà d’aprile, proprio ne’ medesimi giorni in cui il Generale arrivava in Inghilterra, risolveva d’aprirsene anche con lui. Infatti verso il 15 d’aprile arrivava a Londra certo signor Porcelli, uno degli emissari segreti del Re, coll’incarico da lui di esporre al Generale il progetto galliziano, e promettergli, se acconsentisse, tutti gli aiuti che potesse desiderare. Il Generale però cansò dal dare una risposta immediata e decisiva, e ciò tanto più che per un progetto quasi consimile era già impegnato col Comitato insurrezionale polacco residente in Londra presieduto da certo Borzilawski e in relazione col Mazzini. Scorsi però quattro o cinque giorni arrivò d’Italia, con un mandato quasi consimile, un messaggiero anche più importante, il generale Klapka in persona, e poichè Garibaldi era già a Clifden Park, la visita tra i due famosi soldati avvenne colà. Quel che siansi detto, nè noi, nè alcun altro saprebbe affermare, poichè restarono chiusi in camera e soli;[298] [398] ma non è difficile l’indovinarlo. L’argomento del loro discorso fu certo l’insurrezione galliziana, della quale il Klapka, per desiderio del Re, era destinato ad essere uno dei capi.[299] Anche in quel giorno però crediamo che nulla da veruna parte siasi definitivamente stabilito; e in questa credenza ci rafferma il fatto che il Klapka non era beneviso alla parte rivoluzionaria degli Ungheresi e dei Polacchi, coi quali Garibaldi teneva sempre corrispondenza e che stimava imprudente, almeno per allora, lo scontentare.[300]
Intanto al partire del Generale dall’Inghilterra ecco press’a poco la situazione; press’a poco, perchè in tutte le congiure, massime in quella che aveva per campo mezza Europa, v’è sempre una parte misteriosa, cangiante e, ci si perdoni la frase, volatile, che nessuno può cogliere con sicurezza e fissare.
Mazzini, in rotta momentanea col Re, ma in pace momentanea con Garibaldi, anima del Centro rivoluzionario polacco-ungherese del Borzylawski e in rapporto con tutti i Comitati rivoluzionari immaginabili, che predica, e, come dice egli, prepara la sommossa veneta, prima se possibile, dopo se non lo è, di quella galliziana; ma in ogni caso, insurrezione entro l’anno dappertutto, ad ogni costo, col Re, con Garibaldi, col Klapka, con tutti.
Il Re, che vuole il moto serbo-ungherese-galliziano [399] anteriore al veneto, cospira per questo col Klapka, col Türr, con Garibaldi, pronto, come vedremo tra poco, a cospirare di nuovo col Mazzini e co’ suoi, se convenivano nelle sue idee, e accettavano la sua disciplina.
Klapka, che promette il moto galliziano-ungherese a patto che non sia guastato con conati intempestivi, nè caschi in mani rivoluzionarie. Il Comitato rivoluzionario magiaro-polacco, che promette la stessa cosa a patto che non ne sia affidato il comando a Klapka; Garibaldi finalmente pronto a tutto, amico di tutti, legato insieme con Vittorio Emanuele, con Mazzini, col Borzylawski, con chicchessia, indifferente a cominciare dalla Venezia o dall’Ungheria, dalla Serbia o dalla Gallizia, purchè si cominciasse; e compendio e conclusione di tutto quest’agitarsi di tanti cuori generosi e di tanti nobili spiriti, un’ombra trattata come cosa salda; un tesoro negli spazi immaginari speso per realtà; una enorme cambiale d’eroismo e di sangue tratta sulla vita di ben dieci milioni d’uomini, ma che nessuno ha fino allora accettata; insomma una rivoluzione, certa, infallibile, europea, a cui nulla oramai mancava, fuorchè una cosa insignificante: i popoli che la facessero.
Ma in sullo scorcio di maggio l’intrigo cominciò ad arruffarsi ancora più. Il Re si metteva in corrispondenza col Comitato rivoluzionario polacco di Londra (quindi indirettamente col Mazzini) e ne approvava tutte le proposte; conveniva con lui di sollecitare il moto ungherese-galliziano, escludendone affatto il Klapka e il Türr, fermo il comando supremo a Garibaldi; [400] metteva in comunicazione il Plenipotenziario del Comitato (signor Bulewsky) col suo ministro dell’Interno (allora Ubaldino Peruzzi); s’impegnava a fornire l’erario dell’impresa e intanto ne sborsava i primi fondi; consentiva che in Italia si ordinassero i primi quadri del Corpo spedizionario e prometteva d’inviarlo a sue spese in Moldavia, ed altre concessioni e soccorsi.[301]
Intanto però che il Re stringeva questi accordi, coll’Emigrazione polacco-ungherese, quindi, giova ripeterlo, col Mazzini stesso, che n’era la mente, fosse diffidenza de’ suoi nuovi soci, fosse istinto di autorità o bisogno di far da sè, fosse il gusto di cospirare anche nella cospirazione, il fatto è ch’egli, all’insaputa così del Mazzini, come del Bulewsky, avviava segretamente col Garibaldi un’altro complotto che invece di assicurare l’esito della progettata impresa, riuscì, come vedremo tra poco, al fine precisamente opposto, di farla tramontare per sempre.
Infatti quel signor Porcelli che vedemmo comparire a Londra, incaricato di aprire a Garibaldi le prime intenzioni del Re intorno al moto galliziano, eccolo circa alla metà di maggio riapparire a Caprera, abboccarsi in segreto col Generale, ripartirne tosto, ma per tornar subito dopo col postale successivo, e così di seguito per due o tre volte, e sempre con aria, fin troppo, di mistero e di congiura. Contemporaneamente il Re, questo pure bisogna notare, incaricava Bixio, allora comandante il campo di San Maurizio, di interrogare il signor Accossato di Genova se, dati certi eventi, avrebbe potuto tenere a disposizione [401] del Re uno o due de’ suoi vapori;[302] mentre poi, quasi ne’ medesimi giorni, si vedeva il Duca di Sutherland, reduce dalla sua corsa in Oriente, approdare a Caprera, lasciarvi il suo yacht, ripartirne per Torino, dov’era ricevuto dal Re, correre al Campo di San Maurizio, esservi onorato dal Bixio d’onori fin anco eccessivi,[303] e come epilogo e chiave insieme di tutti questi fatti il generale Garibaldi imbarcarsi, come dicemmo, sul piroscafo del Sutherland e partire per Ischia.
Tuttavia per alcuni giorni, nè della cagione di tutto quel sordo andirivieni, nè della mèta ultima dell’escursione ad Ischia nulla era trapelato per anco. Il Generale fin dal primo nascere di quell’arruffio austro-orientale s’era chiuso nel più geloso silenzio, e, tranne qualche parola sfuggitagli con Menotti, non aveva svelato ad anima viva la novella trama a cui, insieme con Vittorio Emanuele, stava lavorando.
Se non che sul finire di quel mese il Generale, credendo giunta forse l’ora d’agire, fu obbligato ad aprirsi, almeno con quelli tra’ suoi più devoti e fidati che si era predestinati per compagni; epperò chiamato a sè il Guerzoni, che gli faceva sempre da Segretario, gli svelò a larghi tratti tutto il disegno. Diceva press’a poco tutto quello che noi abbiamo narrato: il Re d’accordo con lui, imminente l’insurrezione, il principe Couza disposto ad appoggiarla, il colonnello Frigesy pronto, a Bukarest, ad entrare in [402] Ungheria con una mano d’Ungheresi e Polacchi, egli prossimo a partire per Costantinopoli, d’onde poi a tempo opportuno entrerebbe nei Principati: aspettare per questo un vapore da Genova che lo portasse in Oriente, intanto partissi anch’io per Torino affine di chiamare a raccolta gli amici comuni, e me ne indicava i nomi, e farli convenire ad Ischia. Come restasse il Guerzoni a quella inattesa rivelazione non ridiremo: basti solo ch’egli misurando subitamente e senza grande sforzo di acume tutti i rischi d’una siffatta avventura, incoraggito dalla fiducia che gli accordava il Generale e dalla coscienza d’adempiere ad un alto dovere, non si peritò a rispondere anche a quel Garibaldi col quale era cosa sì ardua il solo discutere, e pel quale egli nutriva una venerazione quasi figliale, non si peritò, diciamo, a rispondergli: «che egli l’avrebbe, come sempre, ubbidito e seguito in capo al mondo; ma che ponderasse se quella impresa era possibile; se le notizie che riceveva da quei paesi lontani erano certe; se i soccorsi promessi parevano bastanti; se infine Vittorio Emanuele, re costituzionale, era autorizzato a promettergli un aiuto che solo d’accordo col Parlamento e col Ministero avrebbe potuto arrecargli. Infine soggiunse non intendere come anche giunto a Costantinopoli, il Generale potesse sperare di penetrare di là, tanto più con un seguito d’ufficiali e in atteggiamento guerresco, fino in Gallizia, e credere che il Governo ottomano o il principe Couza non l’avessero ad arrestare per via anche prima che l’arrestassero al confine transilvano i battaglioni austriaci. Infine pregò, scongiurò il Generale a pensare alla risoluzione che stava per prendere: andarne della sua vita tanto preziosa; andarne della salvezza della patria medesima.»
[403]
«Che cosa importa la vita,» interruppe con uno de’ suoi più fieri accenti il Generale: «è ora di finirla: l’Italia non si libera che colla rivoluzione. Se volete partire, partite, se no manderò un altro.»
Il Guerzoni chinò la testa e partì. Giunto a Torino dava convegno a tutte le persone indicategli dal Generale; Benedetto Cairoli, Giovanni Acerbi, Clemente Corte, Enrico Guastalla, Giuseppe Missori, Giacinto Bruzzesi, Giovanni Chiassi, Francesco Cucchi, Agostino Lombardi,[304] e manifestò loro i propositi, se non è meglio dire, la volontà del Generale, e li invitò, come n’aveva ricevuto l’incarico, ad Ischia, dove avrebbero ricevute più compiute istruzioni. Al messaggio del Guerzoni unanime fu il sentimento di tutti i suoi commilitoni, unanime il dolore di quella risoluzione del loro Generale, e il proposito di sconsigliargliela con tutte le loro forze. Lasciatigli pertanto in questa disposizione d’animo, fatta una visita al generale Bixio al Campo di San Maurizio, il Guerzoni il 6 di sera (gioverà rammentarsi di questa data) ripartiva per Ischia; dove cinque giorni dopo, tra il 12 e il 13, lo raggiungevano pure il Cairoli, il Bruzzesi, il Corte, il Guastalla, il Lombardi, l’Acerbi; insomma quasi tutti gli ufficiali garibaldini dianzi accennati. Se non che sullo stesso vapore col quale avevano viaggiato gli amici di Garibaldi erasi imbarcato pure il signor Porcelli, e come vedremo, apportatore d’una novella totalmente inaspettata. Giunta infatti tutta questa varia comitiva a Casamicciola, il primo ad essere ricevuto dal Generale fu Benedetto Cairoli, il secondo il signor Porcelli, col quale il Generale volle restar solo e si [404] trattenne lungamente. Ma quale non fu la meraviglia di tutti gli astanti e convenuti nel sentire, poco dopo, dalle labbra stesse del Generale: ogni idea di partenza abbandonata, l’impresa abortita e libero ciascuno di tornare alle proprie case?
Perchè mai? Che cosa era accaduto? Quale era la nuova cagione di quel mutamento così repentino e inopinato?
Il Diritto del 10 luglio pubblicava a titolo di documento questa sedicente protesta.
«Domenica, 10 luglio 1864.
»Avuta certa notizia che alcuni fra’ migliori del partito d’azione sono chiamati a prender parte ad imprese rivoluzionarie e guerresche fuori d’Italia, i sottoscritti[305] convinti:
»Che noi stessi versiamo in gravi condizioni politiche;
»Che nessun popolo e nessun terreno sia più propizio ad una rivoluzione per gl’interessi della libertà che l’italiano;
»Che le imprese troppo incerte e remote, quali sono le indicate, ordite da principi, debbano necessariamente servire più a’ loro interessi che a quello dei popoli;
»Credono loro dovere e per isgravio della loro coscienza dichiarare:
»Che l’allontanarsi dei patrioti italiani in questi momenti non può che riuscire funesto agli interessi della patria.»
Come ognun vede, questo scritto senza data, senza firma, buttato là dal giornale stesso che lo pubblicava senza una parola di conferma e di schiarimento; che vagamente parlava di progetti generici in paesi [405] ipotetici, non poteva avere in sè stesso alcun valore, e sarebbe probabilmente passato nel pubblico o inosservato o incompreso, come una delle cento novelle de’ giornali che nascono al mattino e la sera son morte.
Tale non fu il pensiero di Vittorio Emanuele. Sia che egli si fosse avveduto del mal passo in cui s’era impigliato[306] e stesse spiando uno scappavia per districarsene; sia che fosse sinceramente persuaso di non poter più dopo quella pubblicazione del 10 luglio condurre colla dovuta segretezza la trama avviata (anche i Re galantuomini quando cospirano non dicono mai tutto intero l’animo loro), il fatto sta che egli vede, o immagina, o finge vedere in quella anonima protesta una denunzia pensata, una perfidia calcolata, una ostilità deliberata di tutto quel partito d’azione col quale aveva fino allora congiurato e trovando in questo solo fatto un motivo a’ suoi occhi plausibile per giustificare la sua ritirata, annunzia a Garibaldi (per una lettera recata da quello stesso Porcelli) che visto oramai il disegno propalato da’ suoi stessi amici, e se compromesso col governo, si scioglieva da ogni impegno e disdiceva l’opera intrapresa.
Grande fu naturalmente l’indignazione di Garibaldi a questo inaspettato messaggio, e nella prima concitazione dell’animo, vedendo egli pure nella protesta del 10 luglio la cagione prima della fallitagli impresa, corse egli pure, sospinto da maligne suggestioni, a sospettarne autori coloro che più erano in voce di avversi alla spedizione e primo di tutti il suo segretario [406] Guerzoni, che n’era invece più di tutti non che innocente affatto inconsapevole.[307] Pochi giorni di riflessione [407] però bastarono a riaprirgli gli occhi, ed a fargli discernere di nuovo i veri dai falsi amici. Quanto più grande era la sconvenienza, diciamo senz’altro, la colpa della protesta del 10 luglio, tanto più appariva impossibile che alcuno degli ufficiali garibaldini convenuti o chiamati ad Ischia vi avesse partecipato. Nè Cairoli, nè Acerbi, nè Corte, nè Guastalla, nè Missori, nè Cucchi, nè Chiassi, nè Bruzzesi, nè Lombardi, nè Guerzoni erano uomini da dissimulare il loro pensiero, o da rimpiattarsi dietro i nascondigli dell’anonimo per esprimerlo. Essi non approvavano quella scorreria austro-orientale, e non lo nascondevano; essi potevano anche tentare d’opporvisi manifestando schiettamente il loro dissenso; ma chi appena li conosceva li sapeva assolutamente incapaci di abusare d’un segreto che il loro Generale avesse loro confidato, e molto meno di cospirare di soppiatto contro di lui per farne abortire i disegni. Non era certo da coloro che l’avevano sino allora seguito in silenzio e ad occhi chiusi da Varese a Marsala e da Sarnico ad Aspromonte, che Garibaldi poteva temere un atto, non che di slealtà, di defezione o di rivolta. Anzi tanto era, a que’ giorni, tenace il loro attaccamento, e cieca la loro devozione, che se egli si fosse ostinato a partire e avesse detto loro come l’udimmo altre volte «chi vuol restare resti: andrò anche solo;» mettiamo pegno che nessuno di que’ suoi fedeli, pur credendo di perdersi con lui, avrebbe avuto cuore d’abbandonarlo.
Fortunatamente a cessare per lui e per l’Italia questo pericolo venne la lettera di Vittorio Emanuele, e il dì appresso, 14 luglio, Garibaldi, cupo, triste, aggrondato, ripartiva sullo Zuavo di Palestro per la sua Caprera, null’altro portando seco del gran fuoco artificiale [408] di Londra e del tizzone passionatamente covato d’Ischia, che un pugno di cenere; la cenere amara di due sogni distrutti.
Giungemmo così a quell’anno 1866 che doveva essere la prova di fuoco del nostro valore e non fu che la superflua conferma della nostra fortuna. Le origini della guerra che sta per iscoppiare, i negoziati diplomatici che la prepararono, gli interessi e le alleanze che ne furono il fondamento, sono noti e non sarebbe di questo libro il riandarli punto per punto e nemmeno il compendiarli. Soltanto ci sia lecito rammentare, a onore della generazione che governò i primordi del nostro risorgimento, come i primi a scoprire, quasi divinare, quella comunanza di interessi e d’intenti che segretamente stringeva l’Italia e la Prussia, e grado grado le preparava a trovarsi un giorno sui medesimi campi, contro il medesimo nemico, furono gli uomini di Stato italiani.
Questo concetto, che trent’anni fa poteva parere poco meno che una utopía, fu, staremo per dire, vaticinato nel 1848 da Pellegrino Rossi in una delle sue tre celebri lettere da Roma, che morte repentina gli impedì di pubblicare;[308] ripreso nel 1858 dal conte di Cavour, che tentava pel primo farne oggetto di diplomatiche trattative, fu di nuovo enunciato da lui nel Parlamento del 1861 come un’eventualità non lontana e nell’anno stesso, mercè la fida e ascoltata parola di Alfonso La Marmora che n’era sempre stato [409] caldo favoreggiatore, insinuato per la prima volta nella Corte di Berlino, dove il solo nome d’Italia metteva tuttora il ribrezzo d’una befana.[309]
Quanto poi al 1866, nessuno che abbia letto i documenti di quell’anno potrà negare oramai che una gran parte del merito della conchiusa alleanza non ispetti al generale La Marmora. Il Bismarck fu il primo a concepirne il disegno e intavolarne i negoziati, e non gli torremo questo vanto; a patto però che non si neghi al La Marmora l’altro non minore d’aver prontamente afferrata la mano che, ancora esitando, gli era stesa, e soprattutto d’essere rimasto fedele ai patti stipulati anche quando l’alleato col suo contegno, e l’avversario colle sue offerte, lo tentavano a violarli.
Furono la sua coerenza, la sua fermezza, la sua lealtà, non disgiunta in taluni istanti da molta prudenza ed accortezza, che condussero in porto quella nave respinta, in sulle prime, da tanti venti, e che abbandonata un giorno dallo stesso suo maggior pilota, per poco mancò di naufragare. Se il generale La Marmora col mettere risolutamente l’Imperatore de’ Francesi nelle confidenze del trattato non ne avesse assicurata all’Italia ed alla Prussia l’amichevole neutralità, non sappiamo se il conte di Bismarck sarebbe riuscito da solo a condurre a termine un disegno di cui la Francia aveva tanta ragione d’adombrarsi; se quando l’Austria propose il disarmo simultaneo (21 aprile) e la Prussia l’accettò, e Napoleone III lo consigliava, [410] l’Italia non avesse risposto accelerando i suoi armamenti, non è ben certo con quale altra carta il conte di Bismarck avrebbe potuto rimettere la partita pericolante; se infine, anche essendone giustificato dalle ambiguità del suo alleato,[310] il La Marmora avesse consentito alle proposte di cessione della Venezia, fattegli dall’Austria per mezzo di Napoleone III, a sola condizione di restare neutrale nella lotta imminente fra i due Potentati tedeschi, ognuno intende che non solo della lega italo-prussiana non restava più nemmeno la memoria, ma assai probabilmente la vittoria di Sadowa si sarebbe compiaciuta di volare sotto altre bandiere. E dicasi pure che il rifiuto del generale La Marmora non fu, insomma, che il semplice adempimento d’un volgare dovere; resta tuttavia a sapersi quali interpretazioni avrebbe dato ad un siffatto dovere il Machiavelli prussiano se per avventura l’Austria gli avesse fatto offrire di ritirarsi in perpetuo dalla Confederazione germanica, a patto solo di lasciarla scapriccire in Italia. Assai probabilmente l’uomo che ci offriva la sua amicizia, e ratificava poco dopo i preliminari di Gastein, che interpretava il Trattato dell’8 aprile [411] obbligatorio soltanto per l’Italia e si rifiutava di impegnare la Prussia a soccorrerci nel caso che l’Austria ci assalisse; che aveva sempre considerato la questione di Venezia «come una carta da giuocare,» buona a puntarsi così contro l’Austria per amicarsi l’Italia, come contro l’Italia per ingraziarsi l’Austria; assai probabilmente, diciamo, un uomo siffatto si sarebbe intascato il lauto e gratuito compenso, lasciando solo nelle peste il dabbene alleato, fra l’ammirazione ancora più probabile di tutti i volghi cui non sarebbe parso vero di gridare lui genio portentoso della politica e il gabbato ministro italiano un povero gonzo!... Onore ad Alfonso La Marmora, che preferì per sè il rischio d’una reputazione perpetua di dabbenaggine e per la patria sua le alee cimentose ma onorate d’un’amicizia non bene saldata e d’una guerra sempre ardua, al marchio, che nessuna gloria avrebbe scancellato e nessun guadagno riscattato, di mancatore di fede.
Gli avvenimenti frattanto erano corsi colla rapidità delle cose che hanno in sè stesse il loro impulso e la loro ragione. Il 6 marzo pervenivano a Firenze le proposte dell’alleanza prussiana; il 7 il generale Govone partiva per Berlino, latore delle controproposte del La Marmora: l’8 d’aprile il Trattato offensivo e difensivo era conchiuso: dal 12 al 27 aprile tutte le disposizioni preparatorie della mobilitazione erano state prese: il 27 veniva incorporata la seconda categoria della classe 1844: il 28 decretato il richiamo delle due classi in congedo, e la formazione dei depositi: in sui primi di maggio l’esercito veniva ordinato [412] e mobilitato in sedici divisioni attive e quattro Corpi d’armata, che andavano concentrandosi tra Cremona, Piacenza, Bologna: finalmente il 6 maggio era decretata la formazione di cinque reggimenti di Volontari, il comando dei quali era commesso al generale Garibaldi; stabiliti i depositi a Como ed a Bari, aperti nel 14 dello stesso mese gli arruolamenti.
La lode schietta però che la storia deve tributare al generale La Marmora ed al suo Ministero della Guerra per la rapidità con cui in breve tempo, e malgrado la necessità di serbare in sul principio il segreto, fece passare l’esercito (indebolito dalla smania intermittente delle economie e mancante persino dell’ultima sua classe) dal piede di pace al piede di guerra, portandolo in poche settimane, sufficientemente istruito e provvisto, sulle prime linee d’operazione, quella lode, diciamo, non gli potrà esser concessa, nè per il modo con cui provvide all’armamento della flotta, nè per l’indugio che frappose all’ordinamento dei Volontari.
E lasciando a cui ne spetti il doloroso assunto di parlare dell’armata, ecco quale fu la condotta del Governo verso i Volontari.
Nell’opera ufficiale la Campagna del 1866 in Italia, si legge: «L’idea della formazione dei Corpi volontari si presentò al Ministero sino dai primi indizi di guerra come questione risolta di sua natura. Se non che le considerazioni che lo avevano trattenuto da qualunque misura d’armamento manifesto, gli impedivano di porre per tempo mano a qualsiasi provvedimento di tale fatta, che avrebbe potuto essere segno di guerra decisa.[311]»
[413]
Queste ultime considerazioni se giustificano, fino a un certo punto, il ritardo della chiamata pubblica dei Volontari (e anche questa poteva essere anticipata di parecchi giorni), non ci pare abbiano lo stesso valore per iscusare il troppo lungo indugio frapposto alla loro formazione ed ordinamento. Appunto perchè la istituzione de’ Corpi volontari era «già questione risolta di sua natura;» appunto per ciò importava che ne fossero da tempo apparecchiati i quadri, il vestiario e l’armamento. Nè contro siffatte provvisioni preparatorie poteva stare la ragione della prudenza politica accampata giustamente contro gli arruolamenti. Questi erano per necessità pubblici; quelli potevano anche essere segreti, o almeno larvati e dissimulati in guisa da togliere ogni appicco legittimo alle rimostranze diplomatiche, e da poter essere poi in ogni evento, senza grande compromissione, o negati, o attenuati, o disdetti. Come si preparavano negli arsenali armi e vesti per trecentomila soldati, nulla vietava se ne preparassero alcune migliaia di più per i Volontari, che già si sapeva di non poter rifiutare; come i Comitati di Stato Maggiore lavoravano pubblicamente da circa due mesi alla mobilitazione dell’esercito, nulla avrebbe impedito di affidare a Comitati segreti di ufficiali superiori garibaldini la composizione ed epurazione dei quadri, opera fra tutte ardua, lenta ed importante. Nè soltanto circa al tempo si sbagliò; ma altresì circa al numero della milizia cui si doveva provvedere; anzi il primo errore derivò manifestamente dal secondo. Il Ministero, lo confessò egli stesso, non aveva calcolato che su quattordici o al più quindicimila Volontari.[312] Ma davvero non si sa [414] intendere su quale criterio questo calcolo fosse basato. Nel 1860 Garibaldi tra utili ed inutili rassegnò circa quarantamila Volontari, ond’era ragionevolmente presumibile ch’egli ne avrebbe contati altrettanti nel 1866; più anzi se si tenga conto che la sanzione reale, dando all’istituzione dei Volontari un carattere prettamente monarchico e governativo, avrebbe spinto sotto le insegne garibaldine molti che nel 1860 per ritrosia o diffidenza politica ne avevano rifuggito, e che infine la guerra all’Austria era la guerra più popolare di tutte; la guerra nazionale per eccellenza.
Ma per credere ai quarantamila Volontari, per apparecchiarne in tempo opportuno l’agguerrimento, per adoperarli con fiducia e con profitto, occorreva una fede che al generale La Marmora era disgraziatamente sempre mancata. L’uomo che in Parlamento aveva dichiarato d’aver per la sola parola rivoluzione un’antipatia invincibile, non poteva essere un amico sincero e cordiale di quella milizia e di quel Capitano che a’ suoi occhi rappresentavano l’incarnazione armata dell’esecrata parola. Tutto ciò che sapeva di popolare, di improvvisato, di exlege, gli era istintivamente sospetto. Però i Volontari egli poteva subirli come fece nel 1859, ma non amarli; reputarli in qualche caso non inutili, non mai necessari. Nei suoi Ricordi rammenta con certa compiacenza d’aver proposto egli il mezzo termine di Cacciatori delle Alpi; ma quel mezzo termine era la estrema concessione a cui gli fosse dato arrivare: il di più lo poteva concedere, molto a malincuore, alla opinione pubblica, al pregiudizio popolare, alla opportunità politica, non mai alla sua coscienza. A’ suoi occhi un corpo grosso di Volontari era militarmente un imbarazzo e politicamente un pericolo. E tanto più in quell’anno 1866, [415] in cui colla guerra veniva a coincidere la partenza de’ Francesi da Roma! Perocchè, domanda a’ lettori uno de’ suoi più devoti biografi: che cosa poteva accadere se Garibaldi alla testa di quaranta o cinquantamila Volontari rifiutava di deporre le armi fino a che i Francesi avessero sgombrato, o fosse marciato direttamente su Roma? «L’Imperatore non aveva mancato di mostrarsi inquieto di questa eventualità e per quanto il Ministro a Parigi avesse tentato di rassicurarlo, questi non si lusingava di esservi riuscito.[313]»
Date pertanto queste idee, che dal punto di vista strettamente monarchico e conservatore in cui il La Marmora si poneva erano logiche, le conseguenze furono immancabili ed immediate. I presunti quindicimila Volontari diventarono in meno d’una settimana trentamila, talchè non bastando più i due depositi di Como e di Bari a capirli, non che ad acquartierarli, fu mestieri sospenderne per alquanti giorni gli arruolamenti, stabilire in fretta e furia altri quattro depositi: Varese, Gallarate, Barletta, Bergamo; portare i battaglioni da venti a quaranta, raddoppiare e triplicare di conserva i mezzi d’armamento e di corredo, i quali, però, nonostante tutto il buon volere dei Reggitori della guerra, restarono sempre, fino alla fine della campagna, e per numero e per qualità inadeguati al bisogno.
E più grave ancora apparve la insufficienza de’ quadri. Le Commissioni di scrutinio non posavano nè dì nè notte; ma strette dall’urgenza, sopraffatte dal lavoro, dovettero ben presto abbandonare ogni proposito di cerna rigorosa, prendendo gli ufficiali come venivano loro alle mani, spesso e malgrado loro fra i meno idonei, e mandandoli poi, a sorte ed a casaccio, [416] a questo o quel reggimento; taluno de’ quali veniva così a sovrabbondare d’inetti ed altri a mancare de’ necessari. E poichè la confusione del centro non poteva a meno d’irradiarsi, moltiplicando, alla periferia, i comandanti di corpo incalzati pur essi dalla fretta, «che l’onestade ad ogni atto dismaga,» obbligati a provvedere al tempo stesso con pochi e spesso inesperti ufficiali all’arruolamento ed all’epurazione, ai quadri ed all’amministrazione, alle distribuzioni ed alle proviande, erano di necessità forzati a trascurare, o almeno a non curare quanto avrebbero dovuto o voluto la istruzione e la disciplina, che erano il supremo e più urgente bisogno di quelle improvvisate milizie.
Tuttavia e malgrado questi difetti, anzi staremmo per dire vizi organici, l’opera preparatoria procedeva senza sosta, e Garibaldi, null’altro potendo, si sforzava d’agevolarla col consiglio e coll’esempio. Pregato a non muoversi da Caprera, pel timore che la sua venuta sul continente potesse accrescere gl’imbarazzi del Governo, aveva subito obbedito; ricevuto l’annunzio della sua nomina, vi aveva risposto pubblicamente con fervide proteste di gratitudine e di devozione al Re ed a’ suoi Ministri;[314] interpellato da amici, [417] da commilitoni, da società politiche sul da farsi, rispondeva a tutti una sola parola; «Guerra e concordia.[315]» Infine quando sulla fine di maggio il colonnello Vecchi si recò a Caprera, incaricato dal Governo di concertare con lui le ultime provvisioni per il comando e l’ordinamento dei Volontari, ed esporgli insieme il piano di guerra stabilito per la imminente campagna, egli pose uno studio singolare nel mostrarsi arrendevole su tutti i punti, riducendo al più stretto necessario le sue domande, e protestandosi contento di qualunque parte gli si volesse assegnare.
Circa ai Volontari approvò quasi senza discutere tutto quanto era stato predisposto; chiedendo soltanto che al corpo fossero aggiunti uno squadrone di guide, un battaglione di Bersaglieri volontari, e, se dovesse operare in Tirolo, alcune batterie da montagna: nominò egli, poichè glie n’era lasciata la facoltà, i Comandanti di corpo, e gli ufficiali dello Stato Maggiore, esprimendo però il desiderio, che non fu poi soddisfatto, di poter accettare nei quadri gli ufficiali che avevano disertato per lui ai giorni d’Aspromonte e che perciò erano stati cassati dai ruoli dell’esercito. Interpellato circa all’Intendenza, rispose: «Datemi [418] Acerbi e del danaro, e basta;» consultato circa al concetto di ordinare i venti reggimenti in quattro divisioni, esternò qualche dubbio, natogli principalmente dal timore che un siffatto ordinamento potesse nuocere alla mobilità e speditezza del corpo; ma rimettendosi anche in questo al giudizio de’ suoi capi. Soggiunse, tuttavia, che qualora la propostagli formazione fosse deliberata, egli proporrebbe per comandanti delle quattro divisioni, Nino Bixio, suo figlio Menotti, Nicola Fabrizi, e, questo solo basterebbe a nobilitare l’uomo, il generale Pallavicini, quel medesimo che l’avea ferito ad Aspromonte. Nè questo gli bastò, chè discorrendo della eventualità di combattere sopra un terreno più vasto, dichiarò che avrebbe tenuto a onore e fortuna singolari l’avere sotto i suoi ordini una divisione dell’esercito regolare, la quale ben pensava che a fianco dei suoi Volontari avrebbe rappresentato la più nobile incarnazione dell’unità della patria.
E tutto ciò, meno gli ufficiali disertori, gli fu prontamente e largamente promesso; ma in qual misura al lungo promettere sia seguito l’attendere lo vedremo in appresso. Quanto poi al disegno generale della guerra, espresse, poichè erane richiesto, il suo parere, lasciando però anche intorno a siffatto argomento chiaramente trasparire che nessuno più di lui era alieno dall’imporre le proprie idee, e che unico suo pensiero in quella guerra era di servire il proprio paese e di combattere. A’ suoi occhi il concetto sul quale lo Stato Maggiore generale italiano pareva essersi già fermato, di agire sul Po allo scopo di girare il quadrilatero, distraendo l’attenzione del nemico con alcune dimostrazioni sul Mincio, era buono in massima; solamente alla sua felice riuscita credeva indispensabili due condizioni: che sul Po, d’onde doveva partire [419] lo sforzo principale, fosse concentrato il grosso dell’esercito e che alla dimostrazione sul Mincio fossero assegnate poche divisioni, le quali più che a combattere dovessero pensare a muoversi e manovrare. Quanto poi a sè stesso, non negò di mirare ad una impresa più vasta ed arrischiata, meditata a lungo e del cui buon successo sentiva quasi di poter rispondere. «L’intendimento suo (lo diremo colle stesse parole della Storia ufficiale) non era già di tentare una punta della Dalmazia attraverso alle provincie slave del mezzodì verso l’Ungheria e porre piede nell’Istria alle spalle di Pola; ma sbarcare presso Trieste, occupare quella città e manovrare verso nord sul rovescio delle Alpi Giulie e Carniche per impadronirsi dei passi che dal Veneto conducono nelle valli della Sava e della Drava.[316]»
[420]
Se non che avendo il colonnello Vecchi fatto considerare a Garibaldi che il Governo italiano non [421] avrebbe potuto impegnarsi in quel progetto «se non a guerra cominciata, quando la situazione politica e militare si fosse rettamente disegnata,» (quando cioè l’esercito italiano fosse riuscito a postarsi gagliardamente nel Veneto, e la Confederazione Germanica, che la Prussia aveva interesse a non disgustare, avesse chiarito meglio i suoi propositi circa Trieste e l’Istria), il Generale si persuase subito della gravità di queste ragioni (specie della prima, che era la sola valida), e diede al suo interlocutore questa testuale risposta, che basta di per sè sola a qualificare i sentimenti con cui egli s’accingeva a quell’impresa: «Certamente ho anch’io, come gli altri, il mio piano di campagna. Espongo le mie idee, se sono consultato, e naturalmente ho piacere di vederle messe in opera; ma non farò mai difficoltà ad eseguire i comandi del capo supremo dell’armata.[317]»
Siccome però il colonnello Vecchi aveva pure dovuto soggiungergli che, nel primo periodo della guerra, il Governo l’aveva destinato ad operare in Tirolo, donde soltanto nel momento in cui la spedizione transadriatica fosse matura avrebbe potuto essere richiamato, il Generale accettò tosto l’offertagli impresa e volgendosi senz’altro a studiare i mezzi che potessero agevolargliene la riuscita, «richiamava fin d’allora l’attenzione sulla necessità di provvedere alla difesa del Lago di Garda, consigliando di armare batterie potenti, anche fino a venti o trenta pezzi, su zattere da rimorchiarsi col mezzo di vapori o di canotti a remi, assicurando aver egli stesso impiegato un tale espediente con successo nel Plata. Consigliava pure, e vivamente raccomandava, che si riunissero sulle [422] rive del Garda molte imbarcazioni, quand’anche si fosse dovuto trasportarle colla ferrovia da punti lontani, e ciò per transitare attraverso il Lago grosse forze, e prendere piede sulla sponda sinistra, nello scopo di facilitare il passaggio del Mincio all’esercito e di assicurare il possesso di quella regione collinosa, che forma il punto più debole del Quadrilatero.»
E soggiunge il dotto ufficiale, da cui abbiamo tolto a bello studio queste parole: «e a nessuno sfuggì la saggezza di tale consiglio; ma la mancanza di tempo, la ressa, e tant’altre cagioni note e malnote impedirono di effettuarlo, sicchè (notevoli parole) mentre l’Austria signoreggiava il Lago di Garda colle fortificazioni di Peschiera e di Riva, ed una flottiglia di sei cannoniere e di due vapori a ruote, armate le prime di due pezzi ciascuna ed i secondi di sei pezzi, noi non avevamo sul Lago che cinque cannoniere male in arnese, armate ciascuna di tre pezzi; una sola di esse in buono stato, le altre inabili al movimento.[318]»
Nè con questo vogliamo dire che seguendo quei concetti le fortune del 1866 sarebbero state diverse; pur troppo gli spropositi commessi e i difetti apparsi nella preparazione e nella condotta di quella guerra furono tali che non si sa più quale disegno, per eccellente che fosse, avrebbe potuto dar la vittoria; a noi basti dire che le idee colle quali si combattè nel 1866 non furon quelle di Garibaldi, che nessuno de’ suoi consigli fu ascoltato, e nessuna delle sue proposte accolta e messa in atto.
La campagna del 1866 fu in realtà la negazione di ogni concetto. Fra la dimostrazione sul Mincio e l’irruzione dal Po, fu scelto un mezzo termine che [423] aveva i difetti di entrambi i sistemi, senza alcuno de’ vantaggi che la scelta risoluta e l’attuazione compiuta d’un solo avrebbe portati seco. Le parti furono invertite: l’accessorio divenne il principale, e il principale l’accessorio; il passaggio del Po fu subordinato alla dimostrazione sul Mincio, la quale poi si mutò in un’irruzione; ma perchè anche la irruzione non era stata nè seriamente pensata, nè risolutamente voluta, nè convenientemente predisposta, si tramutò a sua volta in un’azione, anzi in una sequenza d’azioni imprevedute, estemporanee, sconnesse, che avrebbero reso difficile la vittoria anche ad un esercito più prode e più numeroso di quello che fu mandato a dar di cozzo ciecamente contro i colli di Sommacampagna e di Custoza, la mattina del 24 giugno. Che se a questo fondamentale errore si aggiunga la funesta dualità del comando e la discordia dei capi, con tutto il corteo degli equivoci, dei malintesi, dei puntigli, dei ripicchi che ne furono il naturale portato, si spiegherà ancora più facilmente, senza bisogno di acute disquisizioni strategiche, come una campagna che pareva vinta prima che intrapresa, cominciata con tanta superiorità di forze, e ardore di milizie, ed entusiasmo di popoli, esordisse da una sconfitta, indarno palliata col barbarico eufemismo d’insuccesso, e dopo una ritirata precipitosa senza ragione, e un lungo ozio senza scusa, finisse in una passeggiata militare senza gloria e in una conquista senza merito.
Il 10 giugno, il generale Garibaldi, chiamato finalmente dal Ministero, s’imbarcava a Caprera sul Piemonte (quello stesso auguroso piroscafo della spedizione [424] di Marsala), e da Genova correva diritto in Lombardia a passarvi la prima rivista de’ suoi Volontari. L’11 era a Como; il 12 a Monza, ove si ordinavano le guide, indi a Varese e Gallarate; il 13 a Lecco; il 17 a Bergamo, dove s’era stabilito il deposito del primo battaglione Bersaglieri; e con quale entusiasmo d’amore l’accogliessero quei giovani che vedevano in lui la gemina personificazione della patria e della vittoria, lo si immaginerà di leggieri. I Volontari erano ancora nello scompiglio della prima formazione. I quadri erano tuttora incompiuti, scarseggiavano il vestiario e le buffetterie, un battaglione aveva le camice rosse e non i berretti, un altro le uose e non i calzoni: a tutti poi mancavano le armi; pure Garibaldi, anzichè crucciarsene, si compiaceva di quel disordine e vedendosi sfilar davanti quel carnevale bizzarro e pittoresco di tinte e di foggie che ormai era la veste abituale e caratteristica del garibaldino, esclamava gioiendo: «Non erano diversi i Mille.» A tutti però raccomandava la disciplina, l’esercizio al bersaglio, la scherma della baionetta; a tutti lasciava di quelle sue parole colle quali era solito da tant’anni a trascinarsi dietro la gioventù italiana; e a trasformare anche i più fiacchi e restii in anime d’eroi, pronti ad ogni cimento e ad ogni sacrificio.[319]
[425]
Ma oramai, come egli stesso diceva, l’ora delle parole era passata e suonava quella de’ fatti. Il 19, cessate in Germania le incertezze che fino allora avevano tenuto in sospeso anche l’Italia, la guerra era deliberata: il generale La Marmora lasciava il Ministero per recarsi ad assumere il comando dell’esercito: le dieci divisioni del Mincio e le sette del Po si avvicinavano alle sponde de’ due fiumi apparecchiandosi al passaggio; e il generale Garibaldi da Brescia, dove aveva già stabilito il suo Quartiere generale, moveva col 1º reggimento (colonnello Corte), col 2º (colonnello Spinazzi) e col 1º battaglione de’ Bersaglieri (maggiore Castellini), i soli armati fin allora, moveva, dico, alla volta di Salò; allineandosi così all’estrema sinistra dell’esercito e prendendo in sua custodia i valichi della Valsabbia e della sinistra del Garda, primo passo alle operazioni in Tirolo. Ed anche Salò non era che una tappa. Esplorate egli stesso nella giornata del 21 giugno le posizioni intorno al Caffaro,[320] appena è raggiunto dal secondo reggimento [426] ripiglia la sua marcia avanti; sicchè tra il 23 e il 24 viene a trovarsi con tutte le milizie di cui poteva pel momento disporre nei dintorni del Lago d’Idro, tra Hano, Vestone e Rocca d’Anfo, e all’indomani, nel giorno stesso di Custoza, spingere le sue teste di colonna al Ponte del Caffaro e a Monte Suello, prime chiavi di quel confine che era impaziente di varcare.
Se non che nella sera stessa giungeva al Quartier generale di Salò, dove Garibaldi dimorava ancora, l’inaspettato annunzio dell’infelice giornata combattuta tra il Mincio e l’Adige, e nel mattino vegnente l’ordine di proteggere Brescia, anzi per dir la frase usata dal Quartier generale del Re, «di proteggere l’eroica Brescia.» E l’annunzio e l’ordine erano per il nostro Capitano due volte dolorosi: poichè alla trafitta ch’egli pure al pari d’ogni altro cittadino dovette sentire per quel primo infelice esperimento delle armi italiane, si associava nell’animo suo il rammarico di dovere abbandonare quelle due posizioni di Monte Suello e del Caffaro; la prima fortunatamente occupata senza colpo ferire, l’altra valorosamente difesa in quella stessa mattina del 25 contro un furioso assalto di nemici;[321] e perdute le quali non si sapeva quanto sangue sarebbe occorso a riconquistarle. Tuttavia non v’era luogo ad esitare, e Garibaldi s’apprestò ad eseguire l’ordine coll’usata sua energia e rapidità. Richiama in gran fretta le truppe accampate intorno ai confini, e le fa scendere a marcia forzata lungo la riviera del Lago; fa avanzare da Brescia [427] a Lonato il 3º reggimento (colonnello Bruzzesi), che vi era appena giunto e appena vi aveva preso le armi; chiama contemporaneamente da Bergamo, per ferrovia, il 4º (colonnello Cadolini), di cui già aveva spedito il primo battaglione a custodia della Valcamonica minacciata da un’incursione austriaca, corre egli stesso nella sera del 25 a Lonato, e scorto a colpo d’occhio il partito che si poteva trarre da quella cerchia di contrafforti che girano dall’estrema punta occidentale del Garda ai poggi di Castiglione, scagliona colà tra Padenghe, Lonato e l’Esenta tutte le forze che può avere sottomano e si prepara a disperata battaglia.
L’allarme fortunatamente fu vano. Il Generalissimo austriaco non aveva alcuna intenzione di rischiare in conflitti spicciolati la facile gloria del 24; e, da qualche scorribanda d’esploratori in fuori, si tenne serrato nel suo Quadrilatero, intento assai più a spiare le mosse del Cialdini che sperava avrebbe passato il Po e si sarebbe ingolfato nel dedalo d’acque del Polesine. Ma indarno: l’esercito del Mincio era già in ritirata sull’Oglio, disposto, pareva, a continuarla fino a Cremona; l’esercito del Po, per naturale conseguenza, contromarciava a sua volta per prendere posizione tra Bologna e Modena, e coprire Firenze; talchè tra il 27 e il 30 giugno non restarono più difaccia agli Austriaci che dieci o undicimila Volontari; più alcuni squadroni dell’esercito regolare volteggianti tra il Chiese e il Mincio, e, non si deve dimenticarlo, i petti dei Bresciani, risoluti, se lo straniero avanzasse fin sotto le loro mura, a rinnovare le fiere prodezze del 1849.
Al 1º luglio però erano giunti in Lombardia dal mezzogiorno tre dei cinque reggimenti che si organizzavano [428] colaggiù; e poichè da un lato appariva manifesto che l’Arciduca Alberto non aveva alcuna intenzione di passare il Mincio e dall’altro contro simili scorrerie potevano bastare le nuove Legioni sopraggiunte, Garibaldi, d’accordo col Quartier generale, lascia una parte delle sue forze (terzo, sesto e nono reggimento) a guardia delle sue spalle, e a protezione di Brescia, tra Salò e Lonato; invia il quarto reggimento col primo battaglione Bersaglieri a rinforzare le difese della Valcamonica; e incamminasi egli stesso col primo e secondo reggimento e il 2º battaglione Bersaglieri (maggiore Mosto) verso il confine trentino per ripigliarvi le posizioni che Custoza, con tanto suo cruccio, l’aveva costretto ad abbandonare.
Ma anche il nemico non era stato inerte. Nel giorno stesso in cui Garibaldi si preparava a risalire la Valsabbia, l’Arciduca Alberto pensava ad un movimento generale di tutto l’esercito imperiale, talchè il dì appresso, 1º luglio, mentre i tre corpi del Quadrilatero passavano il Mincio sui quattro ponti di Peschiera, di Monzambano, di Borghetto e di Goito, il generale Kuhn, comandante il corpo austriaco di operazione in Tirolo, spingeva innanzi le teste delle sue colonne al di qua dello Stelvio, del Tonale e del Caffaro, preparandosi a riprendere l’offensiva ed a capitanare egli stesso col grosso delle sue forze una punta in Valcamonica.
E in quale posizione sarebbero venute a trovarsi le milizie garibaldine non è chi non veda. Se l’esercito imperiale del Mincio avanzava ancora d’una tappa; se le colonne del generale Kuhn compivano [429] la loro mossa, Garibaldi sarebbe stato o prima o poi inevitabilmente schiacciato.
Fortunatamente l’Arciduca Alberto s’arrestò. In quel 1º di luglio pareva che tutti i campi fossero stati colti dalla febbre del movimento; e in quello stesso giorno anche il generale La Marmora, che comandava ancora la sinistra dell’esercito italiano, ordinava all’intero corpo del generale Della Rocca di ripassare l’Oglio ed il basso Chiese e di spingere una ricognizione, senza però impegnar alcun combattimento, fino al Mincio. Questa mossa, che nella mente del generale La Marmora doveva ridursi ad un semplice esercizio di gambe, anzi per usare la celebre frase, ad una mostra «tanto per far qualcosa;» questa mossa salvò Garibaldi. L’Arciduca Alberto, infatti, il quale a sua volta aveva varcato il Mincio senza scopo ben determinato e soltanto per muover campo e foraggiare alquanto sul territorio lombardo, veduta da un lato quella avanzata dell’esercito italiano sul Mincio, e dall’altro avuto sentore del riavvicinarsi di Cialdini alle sponde del Po, insospettito, non senza ragione, d’un ritorno offensivo che poteva coglierlo nel fianco e scalzarlo dalla sua base, deliberò subitamente di ritornar sui suoi passi, non solo riconducendo nei suoi alloggiamenti sulla sinistra del Mincio l’esercito del Quadrilatero, ma ordinando a Kuhn di fare altrettanto sulle Alpi, ripassando cioè il già varcato confine e riprendendovi le sue prime posizioni difensive.[322]
[430]
Il generale Kuhn tuttavia, pur obbedendo agli ordini del suo Generalissimo e cominciando nel pomeriggio del 2 il suo movimento retrogrado, lasciò a guardia dello Stelvio a Sponda Lunga, del Tonale a Ponte di Legno, e del Caffaro a Bagolino e Monte Suello forti retroguardie che dovevano non solo proteggere la sua ritirata, ma disputare, se il destro si porgeva, con energici contrassalti il terreno e impedire l’avanzare degli assalitori.
E nacquero da ciò i combattimenti del 3 e 4 luglio di Monte Suello e Vezza, che stiamo per raccontare brevemente.
Infatti nel pomeriggio del 2 luglio, intanto che la Brigata Corte, 1º e 3º reggimento, marciava alla volta del Caffaro, due colonne austriache, di cui ancora non era dato misurare la forza, scendevano in senso contrario, l’una da Moerno per Hano su Treviso, l’altra da Bagolino per Presegno su Lavenone, rendendo così inevitabile per l’indomani uno scontro. Nè il colonnello Corte pensò a fuggirlo; anzi rinforzate le sue avanguardie che già erano giunte a Ponte d’Idro, e mandate quattro compagnie col maggiore Salomone a girare per le pendici del Monte Berga le alture di Bagolino, si preparava cautamente al conflitto, quando Garibaldi, giunto nel frattempo a Rocca d’Anfo, venne a precipitarlo.
Siccome le due colonne nemiche s’erano ripiegate l’una a Moerno e l’altra a Monte Suello, Garibaldi deliberò di non lasciar loro alcuna tregua, e inviate [431] altre due compagnie di Bersaglieri da Rocca d’Anfo, guidate dai capitani Evangelisti e Bezzi, ad aggirare per la destra Monte Suello, senza nemmeno attendere che l’aggiramento fosse compiuto, ordinò al colonnello Corte di assalire di fronte la postura nemica e di espugnarla. Nè si può dire che ai Garibaldini scarseggiassero le forze; il colonnello Corte, non ostante i molti distaccamenti, aveva sempre sotto mano diciassette compagnie e una batteria da campagna; ma la postura nemica era gagliardissima; il Suello sbarra quasi a picco le due vie di Bagolino e del Caffaro; quattro compagnie di Kaiser-Jäger (800 uomini) lo custodivano, altre quattro compagnie di fanti ne guardavano i dintorni, e snidarli di lassù a punta di baionetta era difficile impresa. Ma Garibaldi, impaziente quel giorno e nervoso fuor dell’usato, non volle persuadersene, e se ne ebbe a pentire ben presto. Ordinato l’assalto, i Volontari si slanciarono animosi; impotenti a rispondere coi loro sfocati ferravecchi alle eccellenti carabine dei Tirolesi, non indietreggian per questo, e non ostante la grandine di fuoco che li fulmina e li dirada, avanzano, avanzano sempre e costringono ad ogni carica il nemico a cedere il passo, a risalire ancora più in alto per cercare una nuova trincea sulle vette del monte. Ma a tal punto anche le ultime forze degli assalitori vengono meno. Indarno Bruzzesi e Corte rianimano colla voce e coll’esempio la lena affranta dei loro valorosi; indarno gli ufficiali prodigano al fuoco le vite fiorenti; e Bottino muore, Vianello muore, Trasselli e Piazzi e Carlo Mayer e tant’altri cadono feriti sull’erta sanguinosa; indarno lo stesso Garibaldi urla, rampogna, tempesta; ferito egli stesso al sommo della coscia, è costretto a riconoscere la necessità della ritirata. Ritirata però [432] compiuta col massimo ordine, colla faccia al nemico, e che avrebbe dovuto levargli dal capo ogni velleità d’inseguimento. Egli invece, illuso da quel movimento retrogrado, pensa scendere sulla strada del Caffaro, e, formandosi in colonna, passare a sua volta dalla difesa all’offesa. Fu il suo passo falso: chè sfolgorato di fianco dai quattro pezzi posti in batteria sui poggi di Sant’Antonio e ributtato di fronte dalle compagnie del terzo reggimento, fu costretto a riparare di nuovo, sanguinolento, dietro le roccie del Monte Suello, seminando il terreno di molti de’ suoi morti o feriti.
La sera intanto era calata; i due campi stavan di fronte incapaci, sì l’uno che l’altro, di dare un passo avanti, quando le quattro compagnie del Salomone, mandate sin dal mattino a circuire la sinistra nemica, essendo apparse sulla cima del Berga, gli Austriaci temendo, a ragione, di vedersi all’indomani chiusa ogni via, abbandonarono nella notte stessa la forte posizione e raggiunsero su per le Giudicarie il loro Corpo principale.[323]
Ma se il combattimento di Suello non fu per le armi garibaldine che uno scacco passeggiero, lo scontro di Vezza fu una vera sconfitta. Nel pomeriggio del 3 luglio i sei battaglioni confidati al colonnello Cadolini per la difesa della Valcamonica erano così distribuiti: il 1º battaglione Bersaglieri (maggiore Castellini), un battaglione del 5º reggimento (maggiore Caldesi) e due compagnie del 44º di Guardia mobile a Vezza sopra Edolo, a pochi chilometri dal Tonale; [433] tre battaglioni del 5º reggimento, sotto gli ordini diretti dello stesso Cadolini, a Campolaro di fronte al passo di Croce Domini, sulla via che congiunge la Valcamonica alla Valtrompia.
Ora la retroguardia austriaca rimasta di guardia al Tonale saputa la scarsa forza che le stava di fronte, obbedendo essa pure all’ordine di proteggere il concentramento generale della difesa del Tirolo con opportuni ritorni offensivi, deliberò di assaltare in Vezza l’accampamento garibaldino non tanto per aprirsi un varco a imprese maggiori, quanto per dare una scossa (frase prediletta del generale Kuhn) al suo nemico e togliergli la volontà di avanzar troppo sollecito. La mattina del 4 perciò una colonna di milledugento imperiali, scortati da due pezzi d’artiglieria, piomba su Vezza, e giovata dalla posizione infelicemente scelta dai difensori, dall’assenza del comandante in capo, dal dissenso dei due ufficiali che ne tenevano le veci[324] e infine dalla cieca avventatezza del maggiore Castellini, che a petto scoperto si precipitò sull’inimico; posti fuori di combattimento in men di tre ore, tra morti (14) e feriti (66) ben ottanta gregari, morto lo stesso Castellini che sconta eroicamente il temerario ardimento, morti il capitano Frigerio e il [434] tenente Prada, costringe il rimanente, malgrado sforzi disperati di valore, a ripiegare su Edolo, per tornarsene poi nella sera medesima a Ponte di Legno assai malconcia essa pure, ma paga del piccolo e forse insperato trionfo.
E con questo ultimo scontro, il periodo dei combattimenti difensivi delle milizie garibaldine in Lombardia era chiuso per sempre. Il 5 luglio Garibaldi portava il suo Quartier generale da Rocca d’Anfo a Bagolino, e da quel giorno la campagna del Tirolo potè dirsi veramente cominciata. Prima però di narrarne le vicende ci conviene esaminare brevemente in quali condizioni Garibaldi la intraprendeva.
Nella seconda settimana di luglio disseminati da Brescia a Lodrone e da Salò ad Edolo ubbidivano a Garibaldi quaranta battaglioni di fanteria; due battaglioni di Bersaglieri riuniti in dieci reggimenti e cinque brigate; tre batterie di artiglieria da campagna ed una da montagna; due squadroni di guide a cavallo; quattro compagnie di Zappatori, i quali sommati ai relativi corpi del treno, dell’intendenza, dell’ambulanza,[325] componevano un totale di trentottomila uomini, ventiquattro cannoni, dugento cavalli; non [435] contati due piroscafi, dei quali uno solo poteva navigare, e sei barche cannoniere prive fino al 6 luglio di cannoni e d’artiglieri, e ai quali era commesso non già di fare, ma di simulare la difesa del Lago di Garda.
Ora nessuno negherà che una simile forza stimata alla sola stregua del numero e paragonata a quella del nemico non potesse dirsi soverchiante e quasi strapotente; soltanto a fare una forza non basta una massa, e il valore d’un numero non è determinato dal solo esponente. Che cos’erano in realtà quei trentottomila uomini? Come armati, come vestiti, come ordinati, come agguerriti? come comandati? Chi sa come sono nati i Volontari ha già sulle labbra la risposta.
Per armi, i macchinosi schioppettoni d’ordinanza del 1866, inferiori anche al fucile ordinario austriaco, pressochè inservibili nella guerra alpestre, se già non poteva dirsi altrettanto in ogni sorta di guerra; incapaci poi di gareggiare nè da vicino, nè da lontano colle celebrate armi di precisione del nemico contro il quale perciò ogni garibaldino veniva a trovarsi in una necessaria e quasi organica inferiorità: quella stessa inferiorità a cui lamentò d’aver soggiaciuto l’austriaco contro il fucile ad ago del suo nemico di Sadowa.
E pari all’armi veniva la perizia di chi doveva trattarle. Nè per colpa loro. Soldati improvvisati, sbalzati dopo un mese di caserma e una settimana di piazza d’armi, al campo; ignari moltissimi del come si caricasse uno schioppo; ignari parecchi di quel che uno schioppo si fosse; armati la più parte per via, spesso alla vigilia d’andare al fuoco; non esercitati al bersaglio, non addestrati alle marcie, nuovi affatto alla montagna, quei trentottomila uomini non rappresentavano una forza militare proporzionata al loro numero; [436] essi erano tutt’al più un gran campo di reclute; il rudimento d’un mirabile esercito, atto a crescere e perfezionarsi più rapidamente di qualsivoglia altro, ma che fino al termine del suo tirocinio restava pur sempre fra le mani del suo Capitano uno strumento imperfetto, una lama mal temprata che egli era obbligato a trattare tanto più riguardosamente, quanto più delicata e gentile era la materia onde si componeva.
E non si discorra degli ufficiali. Il modo usato nella loro scelta dà la norma della qualità loro. Scarsi di numero, lo erano ancora più di capacità. Non mancavano i buoni e nemmeno gli ottimi; ma la valanga dei mediocri, non senza mistura di pessimi, li soffocava. Sentivasi soprattutto (fatte qui pure le debite eccezioni) il difetto di ufficiali generali e superiori; più benemeriti la maggior parte per servigi resi alla patria che ragguardevoli per gesta militari. Come nei gregari così ne’ comandanti sovrabbondava il valore, scarseggiavano l’arte e l’esperienza. Molti non avevano mai tenuto un comando effettivo di truppe in campagna, e la stagion campale più lunga che avesser veduta era quella di Sicilia del 1860. Non si parli poi della guerra di montagna; era per essi un mondo nuovo; un continuo viaggio d’esplorazione in terra incognita, in mezzo alla quale avanzavan brancolando, interamente persi e disorientati. Nessuno, o, per non esagerare, ben pochi coloro che sapessero come coprirsi nelle marcie, guardarsi negli accampamenti, piantar un avamposto, misurare approssimativamente una distanza, leggere con certa sicurezza una carta. Anche ai migliori falliva in sulle prime il senso dell’insolito terreno sul quale eran chiamati a guerreggiare, e soltanto più tardi, dopo alcune settimane di lezioni, spesso dolorose, cominciavano ad acquistarlo. [437] «Fate l’aquila,» diceva loro Garibaldi; ma quando principiarono a impararlo la guerra finì.
E non eran queste sole le cagioni che scemavano il valore di quelle milizie in cui pure grandeggiavano tante nobili virtù; un’altra ve n’era, forse la più grave di tutte: la infelicissima composizione dei reggimenti, interamente disadatta alla guerra che dovevano combattere. Anche qui l’imprevidenza aveva cagionato la precipitazione e la precipitazione il disordine. A Garibaldi occorreva una formazione svelta, leggiera, elastica, atta alle marcie, ai volteggiamenti, alle sorprese della montagna; gli fu consegnata invece una compagine abborracciata di corpi mastodontei, taluno de’ quali toccava, tal altro superava i quattromila uomini, difficili a maneggiarsi in rasa campagna, ma che tra i picchi delle Retiche, in quella guerra quasi aerea di falchi e di camosci, diventavano per chi doveva comandarli un problema ed un impaccio incessante; una cagione quotidiana di quella lentezza, di quei ritardi, di quei contrattempi che, nei monti principalmente, o costano la sconfitta o fanno pagar più sanguinosa la vittoria.
E a rendere più evidente quanto siamo venuti sin qui discorrendo, si volga uno sguardo al teatro nel quale Garibaldi era stato obbligato ad agire. A’ suoi occhi l’impresa del Tirolo non poteva esser condotta con rapidità e sicurezza, se non da chi avesse saputo a tempo assicurarsi la signoria del Garda. Però il consiglio da lui dato fin dal 10 maggio a Caprera di stabilirvi senza indugio una flottiglia di combattimento e di trasporto capace non solo di tener spazzato il Lago dalle navi nemiche, ma altresì, e più ancora, di tragittare sulla riva veneta quante forze fossero stimate espedienti così a penetrare nel Trentino [438] per la valle del Sarca, come a dar la mano all’esercito italiano che vinta la linea del Mincio si fosse incamminato verso l’alto Adige.
E in entrambi questi casi, sia che il buon consiglio fosse stato seguito, sia che l’eventualità fortunata si fosse verificata, i quarantamila Volontari non sarebbero stati più di troppo. Libero di spiegarli e di muoverli per le tre grandi vie dell’Oglio, del Chiese e dell’Adige, collegate tra di loro dalle squadriglie del Garda, Garibaldi avrebbe potuto trarre dal suo esercito numeroso tutto il frutto di cui era capace e marciare più rapidamente alla vittoria. Invece quel che accadde è noto. Il Garda abbandonato alla difesa di quattro o cinque squallide carcasse su le quali doveva essere gran mercè, non di cacciare, ma di fuggire alla caccia del nemico, fu in realtà e per tutta la durata della campagna un lago austriaco; dal Mincio, anzichè l’annuncio della vittoria, suonò il grido spaventato «d’un disastro irreparabile;» e per l’effetto combinato di quell’imprevidenza e di questa sventura, ogni possibilità di operare per la sponda orientale del Garda e per le due rive dell’Adige venne a fallir per sempre.
Allora naturalmente non restò a Garibaldi che un partito:[326] tentare l’irruzione di fronte e prendere la [439] strada più diretta e vicina, invadere il Tirolo per le valli del Chiese e di Ledro, e girati secondo i casi, o sforzati i forti che le sbarrano, salir in tre colonne per le Giudicarie la convalle di Conzei e la valle del Sarca nella direzione di Trento, sotto la quale avrebbe potuto dare una battaglia finale e decisiva con tutte le sue forze collegate.
Però chi abbia percorso una volta sola quelle Alpi, od anche volga soltanto un’occhiata rapida alla loro Carta, comprenderà di leggieri che penetrare con quarantamila uomini nelle anguste gole di quelle vallate era quanto voler penetrar di colpo colla folla di Serse nella bocca delle Termopili.
Nel primo istante, fino a che l’imbocco delle valli non fosse superato e gli invasori non avessero guadagnato tanto terreno da potervisi distendere e manovrare, l’avanzare per essi non poteva essere che assai lento e penoso, e piuttosto un tentar a destra e a manca mille sentieri e mille varchi, che un vero avanzare. Naturalmente in quelle strette non ci potevano capire che le teste di colonna; epperò si può affermare con tutta asseveranza che soltanto nel giorno in cui da un lato ebbe posato saldamente il piede [440] all’imbocco delle Giudicarie e dall’altro colla presa d’Ampola afferrata la chiave della valle di Ledro; soltanto cioè tra il 17 e il 18 luglio, Garibaldi potè spiegare in linea tutte le sue forze e adoperarle utilmente.
Ma se Garibaldi era assai men forte di quello che appariva, il suo avversario non era tanto debole quanto egli stesso voleva far credere. Il generale Kuhn non poteva disporre, è vero, che di diciassettemila uomini, trentadue cannoni e duecento cavalli; ma chi consideri come quei diciassettemila uomini erano comandati, istruiti ed armati, e quale rinforzo trovavano nel terreno stesso che dovevano proteggere, nell’indole stessa della guerra difensiva che dovevano combattere, vedrà la pretesa superiorità delle forze italiane scemare d’assai, e la partita de’ due contendenti, per un reciproco compenso di vantaggi e svantaggi, quasi pareggiarsi.
Composti in gran parte di quei Cacciatori imperiali che l’Austria leva dal seno stesso del Tirolo, e i quali contendono agli Svizzeri la fama di migliori tiratori d’Europa; formati abilmente in quattro mezze brigate leggiere, di cui l’unità tattica predominante era la compagnia; spalleggiati e collegati tra di loro da due grosse brigate di riserva; armati di quei loro Stutzen di precisione, che tra gli alpigiani tirolesi sono quasi un’arma tradizionale e domestica; protetti oltre che dai baluardi naturali del suolo, che è di per sè solo un grande campo trincerato, da un sistema di forti asserraglianti le principali arterie del paese (Lardaro nelle Giudicarie, Ampola e Ponal in Val di Ledro, Riva in quella della Sarca, Buco di Vela e Doblino presso Trento), quei diciassettemila combattenti potevano dirsi nel fatto raddoppiati e fino a che non li avesse raggiunti sulle loro rupi la baionetta garibaldina [441] tenersi pressochè invincibili. Nè ciò basta ancora: li comandava uno de’ più abili uomini di guerra dell’Austria; quel generale Kuhn, che passa oggi ancora per uno de’ più dotti maestri della guerra di montagna,[327] il quale, accoppiando alla prodezza ed all’ingegno uno studio lungo e approfondito dello scacchiere che era chiamato a difendere, diventava anche per Garibaldi un avversario veramente temibile; il solo, forse, fra tanti che n’aveva scontrati in trent’anni di guerra, il solo degno di lui.
E tuttavia la sorte preparava al Generale austriaco un altro immenso, inestimabile vantaggio: Garibaldi era ferito! Conviene aver veduto Garibaldi in campagna, conoscere il suo modo di guerreggiare, ricordarsi quale partito egli sapesse trarre dalla sua prediletta abitudine di salire ogni mattina il punto più culminante e sovente più avanzato della sua linea per esplorare le mosse e le posizioni nemiche, per comprendere tutto il valore di quella parola. La ferita era più molesta che grave; ma dapprima configgendolo in letto, poscia, durante la convalescenza, vietandogli l’uso del cavallo e non permettendogli altro modo di locomozione che la carrozza, si risolveva difatto per quell’uomo e quel Capitano in una vera e grossa infermità che lo paralizzava in uno de’ punti più vitali della sua energia.
Ridotto a far la guerra, come suol dirsi, a tavolino, ed a fidarsi alle relazioni de’ suoi luogotenenti, che non sempre erano i più fedeli ed abili interpreti del suo pensiero; posto nell’impossibilità di essere egli il primo esploratore o la prima vedetta del [442] proprio esercito, che tutto vede co’ suoi occhi, dirige colla sua voce, ravviva colla sua presenza, il Capitano del 1866 non era più in realtà che un Garibaldi dimezzato, uno spirito prigioniero del proprio corpo, privo degli strumenti principali del suo genio: il moto e la vista.
Certo, che anche ferito e chiuso fra quattro pareti, l’occhio più vigile del suo campo era sempre lui. Quel che Garibaldi vedeva, concepiva, divinava anche dal fondo della sua cameruccia di Storo, è inenarrabile e forse incredibile. Col solo aiuto d’una Carta topografica egli passeggiava su per le creste e dentro i valloni del Tirolo meglio di quegli stessi ufficiali che pur v’andavano e ne venivano ogni mattina. Quante volte non lo udimmo noi stessi indicare un sentiero, rilevare una posizione, scoprire una scorciatoia che i suoi migliori luogotenenti non avevano talvolta nemmeno sospettata! Era una meraviglia incessante; e non esitiamo ad affermare che tra tutte le campagne combattute fino allora, quella in cui emerse maggiormente la potenza geniale del nostro Capitano fu quella del Tirolo. Soltanto era, come dicemmo, una potenza i cui effetti non potevano più farsi sentire colla rapidità ed efficacia con cui si fece sentire altra volta ad altri nemici, allorquando Garibaldi, in pieno possesso di tutte le sue membra e di tutte le sue forze, era il primo nelle marcie, il primo alle avanguardie, il primo alle scoperte, l’ultimo alle ritirate, e poteva col sussidio del suo colpo d’occhio maraviglioso confermare le ispirazioni della mente e vegliarne l’applicazione. Però ringrazi il generale Kuhn, il suo bravo Kaiser-Jäger di Monte Suello: quella palla così bene aggiustata nella gamba del suo avversario gli vinse la migliore sua battaglia.
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Ed ora vediamo i due campioni alla prova. Il 6 luglio la posizione dei belligeranti era la seguente: Garibaldi col Quartier generale, il 1º reggimento ed il 2º battaglione Bersaglieri a Bagolino, e posti avanzati verso il Monte Brufione; il 3º reggimento al ponte del Caffaro con avamposti a Lodrone; il 2º tra Tremosine e Limone con avamposti verso il Monte Notta sul confine meridionale della Val di Ledro; il 7º e l’8º scaglionati lungo il Garda tra Salò e Gargnano; il 6º e il 9º in marcia da Salò a Vestone; il 5º e il 10º ancora in formazione ai due depositi di Varese e di Barletta; il 4º finalmente col 1º Battaglione bersaglieri e un battaglione di Guardie nazionali tra Edolo e Incudine a custodia della Valcamonica. Nel campo opposto invece il generale Kuhn col suo quartiere e la brigata di riserva Kaim (6921 uomini, 12 cannoni) a Bad Comano; la mezza brigata Metz (950 uomini, 4 cannoni) allo Stelvio, coll’appoggio al forte Gomogoi; la mezza brigata Albertini (1700 uomini, 4 cannoni) al Tonale coll’appoggio al forte Strino; la mezza brigata Höffern (1800 uomini, 4 cannoni) nelle Giudicarie col grosso nei dintorni di Daone; l’avanguardia tra Cimego e Condino, appoggiata al forte Lardaro; la brigata Thour (1500 uomini, 4 cannoni) a Tiarno, al punto d’incidenza della Valle di Conzei in quella di Ledro, appoggiata a destra dal forte d’Ampola, ed a sinistra da quello del Ponal; infine la brigata di riserva Montluisant (3500 uomini, 4 cannoni) scaglionati in seconda linea tra le Arche e Fiavè, postura centrale tra le Giudicarie, Val di Ledro e la Valle del Sarca, e collegata a sua volta all’altra più grossa [444] brigata di riserva Kaim, accantonata, come dicemmo, nei dintorni di Bad Comano, colle spalle ai forti di Buco di Vela e di Doblino, e che veniva a costituire una specie di terza linea o riserva generale in grado di proteggere o rinforzare al bisogno tutte le altre.[328]
Per alcuni giorni i due campi stettero guardandosi senza dare un passo innanzi nè l’uno, nè l’altro. Evidentemente nessuno dei due Generali aveva formato il proprio definitivo disegno, e intanto andavano tasteggiandosi con scorrerie e ricognizioni; l’austriaco per iscoprire da qual parte gli potesse venire l’assalto principale; l’italiano per istudiare in qual punto gli convenisse meglio tentarlo.
Il 7 luglio però avendo il 3º reggimento respinto una ricognizione della mezza brigata Thour che s’era inoltrata a Lodrone, e tre giorni dopo, sotto gli occhi stessi di Garibaldi, ributtato ancora più brillantemente un secondo assalto della stessa brigata inseguendo i fuggenti fino al di là di Darzo; il generale Kuhn ordinò alla brigata Höffern di abbandonare interamente la destra del Chiese e di concentrarsi tra Lardaro e Tione, perno della difesa nelle Giudicarie. In [445] conseguenza di ciò Garibaldi non ebbe più ad esitare: e spinti da un lato i suoi posti avanzati fin presso Condino; dall’altro fatto occupare l’ingresso del vallone d’Ampola, andò a piantare il 13 sera il suo Quartier generale a Storo al bivio delle due vallate principali per cui doveva operare. E con questa mossa la campagna del Tirolo entrò nella sua fase più operosa e decisiva.
Ma nemmeno il generale Kuhn era uomo da restare lungamente inerte; e però appena vide il rapido, troppo rapido forse, avanzare della brigata Nicotera sulla strada delle Giudicarie, divisò di andarle incontro a sua volta e con un energico attacco darle una buona scrollata e costringerla ad arrestarsi. E ad incuorarlo nell’impresa, oltre la massima troppo da lui predicata ne’ suoi libri per non essere confermata coll’esempio, che la migliore delle difese sta in un energica offesa, cospiravano in quel caso le sviste tattiche dei suoi avversari. Infatti mentre il colonnello Nicotera commetteva lo sbaglio di allungar troppo la propria linea in fondo alla valle senza occupare di pari passo le alture che la fiancheggiano, l’ufficiale incaricato di custodire gli sbocchi di Val d’Ampola[329] aveva dimenticato nientemeno, non ostante le istruzioni precise di Garibaldi, di assicurarsi il possesso di Monte Giovo e Rocca Pagana, il nucleo più eccelso dei passi che da Ampola per Val di Buono menano nella valle del Chiese dominante insieme le strade di [446] Condino, di Storo e di Ampola, e fino a quel giorno la chiave delle posizioni occupate dall’esercito garibaldino in Tirolo.
Nella sera del 14 pertanto il generale Kuhn aveva già riunito nelle alte Giudicarie tra Roncone e Lardaro il grosso delle sue forze, e dato verbalmente a’ suoi luogotenenti le istruzioni per la battaglia dell’indomani. Il colonnello Montluisant, composta una colonna di dieci compagnie, doveva attaccare il centro garibaldino di fronte per la strada principale Lardaro-Condino ed ai fianchi per Val di Buono e Cologna sulla sinistra, e Prezzo e Castelert sulla destra del Chiese. Il colonnello Höffern, forte esso pure di dieci compagnie e una batteria, marciando obliquamente da Daone verso Narone-Clef doveva assalire l’estrema sinistra italiana scaglionata da Brione ai varchi del Brufione. Il maggiore Grünne (subentrato al colonnello Thour nella valle di Ledro) preso seco sei compagnie della sua brigata, lasciato il rimanente a rinfranco del forte d’Ampola e a guardia della Valle di Conzei, doveva afferrare i passi di Monte Giovo e di là tra Condino e Storo compiere l’avviluppamento della destra garibaldina. Infine la brigata di riserva Kaim, chiamata essa pure fino dal 14 a Stenico, doveva scendere colla sua avanguardia verso Prezzo e Cotogna e appoggiare, occorrendo, l’azione generale.[330]
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E, lo vede ognuno, non si trattava, come fu detto, di una semplice ricognizione; si trattava d’un attacco in piena regola, eseguito con tutto il nerbo delle forze di cui gli imperiali potevano disporre nel Trentino meridionale; e che riuscendo a seconda poteva avere per effetto di ricacciare Garibaldi fuori delle Giudicarie e strappargli di mano il prezzo di dodici giorni di fatiche e di lotte.[331]
Fortunatamente il disegno gli fu guasto, non oseremmo dire dall’arte, ma dalla costanza e prodezza degli avversari. Nel frattempo avendo il brigadiere Nicotera ripetuto l’errore di spingersi troppo innanzi, facendo occupare il ponte di Cimego senza munire di conserve le alture che lo dominano, avvenne che lo scontro fu anticipato di qualche ora, e in posizione, per l’Austriaco, più vantaggiosa di quello che per avventura avesse sperato. Infatti tra le 7 e le 8 del 16 mattina, il fuoco era cominciato; ma anche i Volontari, finchè non l’ebbero che di fronte, vi risposero bravamente. In brev’ora però assaliti da ogni parte, stipati in una specie di pozzo, dall’alto del quale li saettava una grandine di palle; posti nell’impossibilità di muoversi, nell’impossibilità di ribattere, anche i più valorosi principiarono a balenare. Fu allora che il maggiore Lombardi, anima bresciana d’eroe, visto che il nemico poteva da un istante all’altro chiudere la ritirata, si slancia, con quanti hanno cuore di seguirlo, nel Chiese colla speranza di arrestare l’avanzare del nemico che dalle vette di Cologna s’innoltrava continuo serrando sempre più dappresso il [448] ponte di Cimego. Nè il sagrificio grande fu del tutto sterile. Molti travolse la corrente; molti abbattè la carabina de’ Cacciatori; lo stesso Lombardi, già superata la sponda, colpito alla fronte suggella col sacrificio della nobile vita il magnanimo ardimento;[332] ma intanto la mossa attorniante del nemico è rallentata; la strada della ritirata è aperta: i Volontari possono ripiegare, in iscompiglio, ma non in fuga, sopra Condino, dove, spalleggiati dai rinforzi accorrenti da Storo e da Darzo, e più ancora rinfrancati dalla presenza di Garibaldi stesso, accorso in carrozza al primo fragore delle fucilate, ponno ancora far testa e ristorare la pugna.
Intanto però anche la colonna austriaca venuta di Val di Ledro aveva compiuto il suo movimento; e mentre una frazione di essa, capitanata da quello stesso Gredler che aveva fatto così bella difesa a Monte Suello, s’innoltrava per le balze del Giovo fino alla chiesetta di San Lorenzo, d’onde poteva bersagliare al coperto la strada di Condino e il Ponte di Darzo; un altro distaccamento s’inerpicava fino al sommo di Rocca Pagana tempestando de’ suoi proiettili le vie di Storo e persino il cortile del Quartier generale di Garibaldi. Il momento era critico: per fortuna Garibaldi era là; una mezza batteria, opportunamente appostata e validamente sostenuta da alcune compagnie del 9º reggimento, arresta la colonna di San Lorenzo: un’altra colonna di Volontari del 7º si avanza a cerchio contro Rocca Pagana e ne risospinge gli occupatori; finchè dopo alcune ore di contrasto, il nemico che di fronte aveva guadagnati appena pochi palmi di terreno [449] al di qua di Cimego, visto il fallimento del premeditato aggiramento; udita la notizia che anche la brigata Höffern, attardatasi fra i gioghi dei monti, era stata anche meno fortunata delle sue compagne; il nemico, diciamo, checchè abbia potuto dire e scrivere in appresso per giustificare la sua risoluzione,[333] comandò la ritirata su tutta la linea.
[450]
Non per questo il 16 luglio andrà scritto ne’ fasti garibaldini. Esso fu una di quelle dubbie giornate in cui ciascuna delle due parti si appropria con pari ragionevolezza la vittoria. I volontari trovaronsi signori del combattuto terreno, ma lo pagarono con sacrifici di sangue maggiori del compenso: gli Austriaci non ebbero a dolersi che di pochissime perdite, e videro per alcuni istanti le spalle de’ loro avversari; ma non poterono conservare il campo di battaglia e furono costretti di rinunziare al principale disegno pel quale s’erano mossi.
Oltre di che il combattimento di Condino non ritardò d’un giorno solo, una sola delle operazioni garibaldine.[335] Non a settentrione della Val di Ledro, dove il forte d’Ampola investito gagliardamente dall’artiglieria italiana fin dal 17 mattina, dopo due giorni di valida, ma inutile resistenza capitolava a discrezione;[336] non a mezzodì della Valle, dove il colonnello [451] Spinazzi dopo un breve e felice scontro s’impadroniva del passo di Monte Notta e si sgombrava il cammino fino al Lago di Ledro; non nelle Giudicarie, dove Garibaldi aveva già fatto riprendere Cimego, ed occupare, mercè un’ardita sorpresa dei due battaglioni del 9º reggimento, Friggesy e Cairoli, quel Monte Giovo, che egli fino al risveglio del 16 aveva sempre creduto in mano de’ suoi e che costituiva, siccome dicemmo, il pernio delle comunicazioni tra la sinistra, la destra e il centro garibaldino e il loro baluardo più forte e più avanzato.
E poichè questi tre fatti quasi simultanei, l’occupazione di Monte Giovo, la presa di Monte Notta, e la caduta d’Ampola, aprendo ai Garibaldini gli sbocchi principali di Val di Ledro avevano obbligata la brigata Grünne ad abbandonare tosto Bezzecca, epperò anche l’imbocco della Valle di Conzei, e la strada del Ponal e di Riva; così Garibaldi ne approfittò tostamente ordinando alla brigata Haug di occupare col 5º e 7º reggimento le posizioni testè sguernite dal nemico, facendone al tempo stesso appoggiare il movimento in avanti dal 9º reggimento sceso dal Giovo ad occupare Tiarno e dal 2º reggimento Spinazzi invitato a scendere verso Ledro.
Ma tra l’antico Guerrillero e il Maestro della guerra di montagna il duello era infaticabile. Nel giorno stesso in cui Garibaldi pensava ad avanzare da un lato, il generale Kuhn molinava d’assalirlo dall’altro. Saputo infatti che quella spedizione di Val Sugana che gli era fatta presentire fin dal 16 luglio era ancora lontana, e che in ogni caso non avrebbe potuto essergli addosso prima di tre o quattro giorni, concepì il disegno, non privo d’audacia, di giovarsi di quel frattempo per dare prima un’altra delle sue batoste a [452] Garibaldi, eppoi voltarsi con tutte le sue forze contro il suo luogotenente che s’avanzava dalla Brenta. Però staccate alcune truppe e artiglierie a rinforzo delle piccole brigate destinate a custodia degli sbocchi di Val d’Arsa e Val Sugana, compose nuovamente col resto delle sue truppe due colonne mobili; l’una delle quali, forte di seimila uomini sotto gli ordini del generale Kaim, doveva per le Giudicarie attaccare la sinistra e il centro garibaldino, mentre l’altra, grossa di quattromilacinquecento uomini e quattro pezzi, capitanata dal Montluisant, piombando per Val di Conzei tra Tiarno e Bezzecca, doveva sfondarne la destra, e di là convergendo su Ampola e Storo dar la mano alla colonna scendente per Val di Chiese e con forze riunite schiacciare il nemico.
Il giorno prestabilito al nuovo assalto fu il 21 luglio. Il corpo Montluisant, al quale spettava evidentemente lo sforzo principale, doveva scendere in due colonne (Krynicki alla sua destra, Grünne alla sinistra) su Val di Conzei, e appoggiato da una terza colonna che aveva l’ordine di sboccare da Riva, pigliare Bezzecca da tre parti e sgominarne i difensori. Ed anche in quel giorno accadde quel che vedemmo nella giornata di Condino.
Il generale Garibaldi non aveva preveduto l’attacco; il generale Haug, che aveva l’ordine di arrestarsi a Bezzecca, volle spingere il 5º reggimento a Locca dentro la Valle di Conzei; il colonnello Chiassi si credette a sua volta in dovere di proteggere la sua fronte avviando innanzi un battaglione d’avanguardia fino a Lensumo, e proprio nel momento in cui quel battaglione stava per prendere posizione al di là di Lensumo era colto di sorpresa dalla colonna di sinistra del Montluisant (maggiore Grünne) e in parte fatto [453] prigioniero, e in parte ributtato in grande disordine sopra Locca.
Ma anche Locca era una posizione infelicissima, e se n’avvide tosto il bravo Chiassi, il quale, assalito di lì a poco e avvolto da ogni parte da entrambe le colonne di Montluisant, dopo non lungo e assai disuguale combattimento fu ricacciato a sua volta sopra Bezzecca lasciando per via, morti, o feriti, o prigionieri, alcune centinaia dei suoi.
Non per questo il prode Colonnello smarrì l’animo invitto, chè presa posizione all’ingresso di Bezzecca tra la chiesa e il cimitero, sostenuto soltanto da due pezzi dell’artiglieria regolare e da alcuni manipoli dei Bersaglieri di Mosto, si accinse ad una seconda e più disperata difesa. Indarno. Le armi di precisione, le posizioni dominanti, la conoscenza dei luoghi, lo scompiglio introdottosi nelle file garibaldine sin dal principio dell’azione, davano al nemico tale vantaggio che la resistenza non poteva esser lunga.
I Garibaldini facevano prodezze; ma cannoneggiati da ogni parte da una numerosa artiglieria, costretti come al solito a guardar con le inutili armi al braccio un nemico quasi invulnerabile, che dall’alto delle sue roccie li bersagliava come selvaggina al fermo e li decimava, circuito in breve dalla colonna Krynicki il poggio della Chiesa estremo baluardo della difesa, e minacciata da quella del Grünne la stessa via di Bezzecca, tornarono nuovamente in fuga precipitosa fin dentro le case del villaggio, sul quale già calavano urlando vittoria i Cacciatori nemici.
Chiassi però, travolto suo malgrado dall’onda rigurgitante de’ suoi, non vuol disperare ancora; ma nel punto in cui tenta far argine colla voce e coll’esempio alla rotta e raccogliere intorno a sè un manipolo [454] de’ più risoluti per tentare un ultimo disperato contrassalto, una palla lo coglie al petto e lo stramazza morto sul campo.[337]
In quel momento, circa le otto, arrivava da Tiarno il generale Garibaldi. Era, s’intende, in carrozza, costretto perciò a restar sulla strada, posto nell’impossibilità di abbracciare da un punto eminente tutto il campo di battaglia. Pure quello che non poteva vedere indovinò, e diede immantinente i suoi ordini come se tutta la situazione gli stesse spiegata innanzi sopra una carta. Menotti con quanto ha sottomano del 9º reggimento piombi da Tiarno sulla destra del nemico; il colonnello Spinazzi sbocchi da Molina e lo avvolga per la destra; il 7º reggimento e i rotti avanzi del 5º e dei Bersaglieri si slancino di fronte e tutti insieme riprendano ad ogni costo Bezzecca, chiave della posizione, premio supremo della vittoria.
Menotti, impedito dai sentieri torti e malagevoli, tarda a comparire in linea; Spinazzi, o ricevesse tardi o fraintendesse l’ordine, non compare affatto: gli Austriaci [455] frattanto non solo si son resi padroni incontrastati di Bezzecca, ma già sboccano fuori del villaggio, già coronano le alture circostanti di artiglierie e si preparano ad un terzo e finale attacco contro l’estrema linea garibaldina. Stringeva il pericolo: la strada di Tiarno è tempestata dai proiettili nemici, e Garibaldi vi è il più visibile e cercato bersaglio. Le palle sibilano, guizzano, rimbalzano, ravvolgono in un nembo di polvere la sua carrozza; uno de’ cavalli è già ferito: una delle guide a cavallo (Giannini) che la scortano è morta; i suoi aiutanti Cairoli, Albanese, Damiani, Miceli, Cariolato, Civinini gli fanno scudo de’ loro corpi, tentano strapparlo da quel posto mortale e salvar lui, se non è possibile salvar la giornata. Ma Garibaldi ha sul volto la calma delle tragiche risoluzioni: la calma del Salto, e di Calatafimi: «Là si vince o si muore.» Sordo ai consigli, insensibile al pericolo, tutto assorto nelle peripezie della pugna, fa avanzar al galoppo la batteria di riserva ed ordina al maggiore Dogliotti, eroico in quel giorno, di convergere i suoi fuochi principalmente su Bezzecca, additandogli egli stesso, con colpo d’occhio maestro, la posizione più propizia all’appuntamento dei pezzi. «Però mi ci vorrà più di mezz’ora!...» grida il bravo Dogliotti...: «Fate più presto che sia possibile,» esclamò Garibaldi: «mi troverete qui vivo o morto.» E le otto bocche stupendamente dirette dal Dogliotti producono tosto il loro terribile effetto; il nemico sfolgorato dentro Bezzecca, ributtato sulla via dai bravi del 7º reggimento, ben presto colto di fianco dal 9º reggimento, è costretto ad arrestarsi, a ripiegar su Bezzecca ed a provvedere a sua volta alla difesa. Ma nulla è fatto se Bezzecca non è ripresa, ed è quello l’ultimo sforzo della battaglia. Garibaldi lo [456] vuole: ogni bravo lo ascolta. Ed ecco Menotti, Canzio, Ricciotti, Bedeschini, Rizzi, Mosto, Antongini, Pellizzari, improvvisata una falange coi più volonterosi di tutti i corpi, lanciarsi tutti insieme, intanto che il cannone del Dogliotti manda in fiamme Bezzecca, a testa bassa, al passo di corsa, al grido d’Italia e di Garibaldi, sul villaggio, e scacciarne, dopo una lotta corpo a corpo, gli ultimi difensori, inseguirli colla baionetta alle reni fino al di là di Enguiso e di Lensumo alle falde del Monte Pichea d’ond’erano discesi.
E poichè nell’ora stessa anche la colonna Kaim, che doveva scendere in Val di Chiese, avea trovato i Garibaldini pronti a riceverla e dopo breve avvisaglie era stata respinta su tutti i punti, così la vittoria del 21, facile a Condino, contrastata e sanguinosa a Bezzecca, fu compiuta su tutta la linea.[338]
E però resterà sempre inesplicabile come gli storiografi austriaci persistano a negarla.
La battaglia cominciò avversa ai Garibaldini; le loro perdite furono gravissime; il numero de’ prigionieri fu dura e non immeritata lezione.[339] Nessuno [457] pensa a contrastare nè il valore degli Imperiali, nè, sia pur detto, l’inferiorità del loro numero (largamente compensata però dalla superiorità delle armi); ma infine ogni battaglia è un succedersi alternato di rovesci e di trionfi, dei quali il trionfo o il rovescio finale rimane l’arbitro supremo. E il successo finale fu (come negarlo?) avverso agli Austriaci. Essi volevano scacciar Garibaldi dalle soglie della Valle di Conzei e di Ledro, e non vi riuscirono: essi volevano romperne le due ale, sfondarne il centro, ributtarlo al di là di Storo, e non vi riuscirono: ad essi il vanto d’aver preso alle nove Bezzecca; a Garibaldi la gloria d’averla ripresa a mezzogiorno per non perderla più.[340]
[458]
Fu quella l’ultima prova dei Garibaldini in Tirolo. Al 23 mattina il generale Kuhn, avvertito del rapido avanzar di Medici, volgeva contro il nuovo suo avversario il grosso delle sue forze non lasciando in faccia a Garibaldi che i presidii dei forti e pochi distaccamenti di sostegno, e nel giorno stesso il condottiero [459] dei Volontari tuttora ignaro di questo movimento spingeva innanzi tutta la sua linea, occupando sopra Val di Conzei, Campi, serrando più dappresso Riva, trasportando nelle Giudicarie il Quartier generale a Cologna, e cominciando l’investimento di Lardaro. Se non che, il 25 mattina, quando tutto era pronto nel campo garibaldino per il bombardamento di quel forte e per un altro passo in avanti verso la Sarca, giungeva l’annunzio del primo armistizio di otto giorni, prodromo manifesto di tregua più lunga e forse della pace.
Quel che sarebbe avvenuto se la guerra avesse continuato a nessuno è dato profetare. Probabilmente il Medici, che era ad una marcia da Trento, vi sarebbe entrato prima e senza Garibaldi; se no, e nell’ipotesi che il Kuhn avesse potuto protrarre la resistenza, Garibaldi in pochi giorni avrebbe dato la mano al suo Luogotenente; e nell’uno e nell’altro caso stretto in un anello di ferro il loro nemico, e compiuta in pochi giorni la conquista del Trentino.
Certo da quel fatale 25 luglio cominciava per Garibaldi il periodo più brillante e fruttuoso. Padrone oramai delle due valli principali che dal Garda rimontano a Trento e delle convalli finitime; libero di spiegare di fronte, sopra uno scacchiere tutto suo le proprie forze e di marciare in battaglia contro un nemico inferiore di numero e che veniva a perdere la sola superiorità fino allora goduta del terreno propizio, Garibaldi avrebbe certamente dovuto dare o sostenere contro il suo intraprendente nemico un’altra e più grossa battaglia; ma sarebbe stata finale e decisiva, e a quali braccia si sarebbe concessa la vittoria non è difficile il prevedere. Tutto fino allora gli era stato contrario: l’imperizia degli ufficiali, l’inesperienza [460] delle milizie, l’inefficacia delle armi, persino la soverchianza del numero, nel quale aveva trovato assai più un inciampo che un aiuto. E nulla ridiciamo di quella ferita che gli rubò metà della sua forza e costrinse lui, il più attivo forse e onnipresente dei Capitani moderni, a far la guerra sopra una carta topografica, o dal fondo d’una carrozza accomodata a lettiera.
Pure se non stupì novellamente il mondo con strepitose vittorie, non allegrò nemmeno i suoi nemici con alcuna sconfitta. Lentamente, ma assiduamente fece ogni giorno un passo innanzi e dal terreno conquistato nemmeno l’arte del suo valente avversario valse a sradicarlo. Non corse come Joubert nel 1797; ma non ebbe neanche, come Joubert, le spalle sicure da ogni minaccia, la larga valle dell’Adige per linea d’operazione, i vincitori di Millesimo, di Castiglione e di Rivoli per soldati, la floscia inettitudine dei Kerpen e dei Laudon per avversaria, le vittorie di Bonaparte e di Massena per esempio ed incitamento. Non corse, perchè, come disse egli stesso, «su per le montagne non si corre;» ma in quindici giorni s’era posto già in grado di prendere con maggior energia l’offensiva su tutta la linea, e in meno di venticinque sarebbe stato probabilmente padrone di Trento.
«Noi conveniamo (dice uno storico militare)[341] che la campagna garibaldina del 1866 rassomiglia poco a quella del 1860, non solamente rispetto ai frutti raccolti, ma eziandio rispetto alle operazioni in sè stesse. [461] Tuttavia essa ebbe un merito che forse nessuna delle operazioni più brillanti di Garibaldi potè vantare: fu più ordinata e, nonostante la massa considerabile delle forze, più metodica di qualsivoglia sua impresa. Sembra invece che alla maggior parte de’ suoi subalterni sia mancata la conoscenza del mestiere e soprattutto la pratica di quelle tre colonne con avanguardia e riserva, così ben conosciuta dai Prussiani, necessaria in montagna anche più che in pianura, e che convenientemente usata avrebbe risparmiato alle sue masse, il più delle volte rinserrate entro strette angustissime, il fuoco micidiale dei fiancheggiatori nemici, lasciati troppo liberi nei loro movimenti d’aggiramento sulle alture circostanti.
»Quando pertanto si tenga conto di questa circostanza, lieve all’aspetto, ma importantissima a spiegare le gravi perdite toccate; quando si tenga conto altresì dell’inferiorità relativa dei Corpi volontari rispetto al materiale; dello scarso appoggio loro prestato, contro ogni aspettazione, dalle popolazioni trentine; del formidabile avversario da essi trovato nel corpo del generale Kuhn; nel difetto d’una flottiglia dominante sul Lago di Garda; infine del subitaneo troncarsi della campagna, si deve riconoscere che le operazioni di Garibaldi, sebbene all’apparenza non abbiano conquistato che poche leghe di territorio nemico, son ben lontane dall’offrire alcun appiglio di biasimo o di sprezzo. Esse diedero dei risultati sostanzialmente utili e non certamente ingloriosi: esse fecero testimonianza in ogni caso della stessa virile tenacità, del medesimo eroico slancio di cui avevano dato tante volte prova i Volontari, dietro l’esempio dell’illustre loro Capitano.»
E con questo giudizio del dotto ufficiale chiudiamo [462] il nostro. Il 3 agosto la sospensione d’armi era prolungata d’un’altra settimana, e il 10 dello stesso mese il generale Garibaldi riceveva dal generale La Marmora il seguente telegramma: «Considerazioni politiche esigono imperiosamente la conclusione dell’armistizio per il quale si richiede che tutte le nostre forze si ritirino dal Tirolo, d’ordine del Re. Ella disporrà quindi in modo che per le ore quattro antimeridiane di posdimani 11 agosto le truppe da lei dipendenti abbiano lasciato le frontiere del Tirolo. Il generale Medici ha dalla sua parte cominciato i movimenti.»
Quale scossa abbia provato in quel momento il cuore dell’Eroe, lo storico può indovinarlo, ma affermarlo con certezza non può. Forse le vergogne immeritate di Custoza e di Lissa; la Venezia accettata come una elemosina dalle mani straniere; il Trentino perduto; Trieste abbandonata; il confine orientale d’Italia aperto da tutte le parti; tanto eroico fiore di giovani vite inutilmente sacrificato, tutto ciò passò come nembo di foschi fantasmi sull’animo di Garibaldi e vi suscitò in tumulto i pensieri da anni soffocati dell’antica rivolta; ma al tempo stesso un pensiero più alto, uno spettro più terribile si levò contro lo stuolo delle maligne tentazioni e le fugò in un istante. Garibaldi non tradì nemmeno ai più intimi la sua interna tempesta; tranquillo prese la penna e rispose egli stesso al La Marmora questa sola parola: «Obbedisco.» E con quell’ultima vittoria sopra sè stesso chiuse la campagna.
[463]
Pagato il debito a Venezia, Garibaldi si preparò a sciogliere il voto a Roma. E Roma, lo sappiamo, era la idea fissa, la stella polare, il termine ultimo della sua missione patriottica. La palla d’Aspromonte aveva potuto arrestarlo in cammino, ma non isviarlo dalla meta. Un giuramento sacro lo legava alla redenzione dell’eterna città, e conveniva che il giuramento s’adempisse: O Roma o morte! Di tutto quell’aggrovigliato intreccio di problemi politici, religiosi, morali onde componevasi allora, e sempre, forse, si comporrà il gran nodo della questione romana, egli non vedeva chiaro che due cose: un mostruoso potere che opprimeva e corrompeva a un punto coll’aiuto dell’armi straniere la metropoli d’Italia, la regina del mondo: il diritto e il dovere degli Italiani di levarsi concordi e di cessare d’un sol colpo la doppia tirannide. Egli accomunava in un odio solo il protetto e il protettore; sicchè a lui stesso sarebbe stato difficile il discernere quali dei due abborrisse di [464] più. Che gl’importava se il guardiano del Papato era uno degli arbitri d’Europa, il capo di una potente nazione, sorella di sangue e di civiltà all’italiana, il solo fra tanti principi forastieri che avesse porta una mano soccorrevole alla patria sua, e aiutatala a rialzarsi da un sepolcro di secoli? E non era egli altresì l’Uomo del 2 Dicembre, il «tiranno» della Francia? Non aveva egli riscosso il prezzo di Magenta e Solferino con Nizza e Savoia? Non cancellava egli ogni giorno la memoria de’ suoi beneficii puntellando, solo in Europa, quel tarlato poter temporale che abbandonato da lui crollerebbe in un punto?
Nè gli si opponga come spauracchio la potenza della Francia. L’Eroe era forse il primo di quella lunga schiera d’allucinati che, traendo da una distinzione ragionevole una conseguenza erratissima, reputavano il popolo francese più liberale e più amico dell’Italia di quello che lo fosse, a danno della Francia stessa e della sua propria corona, Napoleone III.
Ingannato pertanto da questa illusione, Garibaldi rifiutavasi a credere che la Francia avrebbe seguito a lungo il suo oppressore in una guerra liberticida; anzi, trascorrendo colla facile fantasia, vedeva già affratellarsi nell’impresa comune i figli delle due nazioni, e per provvidenziale disegno, dalla liberazione di Roma uscire la vendetta del 2 Dicembre e la redenzione della Francia stessa.
Inutile poi parlargli della Convenzione di Settembre. Un Trattato pieno di tante ambiguità, capace di interpretazioni così diverse, e che dalle stesse parti contraenti poteva essere inteso in due sensi totalmente opposti, non era certamente fatto per rassicurare la sua anima semplice e schietta sulle sorti di Roma e persuadergli quella serena e fiduciosa aspettazione [465] dell’avvenire che i negoziatori del Trattato s’erano impromessa.
Fosse anche erronea l’interpretazione del Governo francese che la Convenzione significasse rinuncia perpetua a Roma, questo era pur sempre evidente e indiscutibile che l’Italia concedeva al Papato una tregua indefinita, subentrando essa in luogo della Francia nell’obbligo di tutelarlo, ed impegnandosi persino a custodirgli il mal definito confine, intanto che una Grande Compagnia di mercenari cosmopoliti gli avrebbe montato la guardia nella capitale.
Ora se v’era Italiano che non potesse acquetarsi a simili patti, quegli era certamente Garibaldi. La Convenzione era stata subita con ripugnanza da parecchi degli stessi uomini di parte moderata, che l’avevano stipulata; a maggior ragione doveva esserlo da lui. Ciò che in essa v’era di equivoco offendeva la sua coscienza; ciò che v’era di chiaro offendeva il suo patriottismo. Molto meno però avrebbe potuto acquietarvisi quando vide la Francia stessa non osservare nemmeno i patti stipulati e farsi beffe dell’Italia.
E alludiamo a quella Legione d’Antibo, reclutata sfacciatamente tra le file dello stesso esercito francese; comandata da ufficiali francesi; passata in rassegna, arringata da generali francesi: miserabile commedia, intervento male mascherato, violazione grossolana e sleale della lettera e dello spirito della Convenzione, che sdegnò in Italia i più devoti del Governo napoleonico, fece scoppiare in alte grida di protesta tutta la parte rivoluzionaria e diede il trabocco alla misura di collera da cui l’anima dell’Eroe era ricolma.
Che se a tutto ciò si aggiunga l’agitarsi della parte più avanzata dell’emigrazione romana, il sorgere in [466] Roma specialmente per opera sua d’un Centro d’insurrezione, rappresentante la frazione più rivoluzionaria della città, frazione infinitesimale, come chiarirà l’evento, ma che si riprometteva combattere la propaganda addormentatrice del Comitato Nazionale, organo del partito moderato, e di apparecchiare il popolo romano alla riscossa, si vedranno, in compendio ma esattamente, riassunte tutte le ragioni che spinsero Garibaldi alla sua seconda crociata per Roma e prepararono Mentana.
L’11 febbraio il Ministero Ricasoli, disapprovato egli pure nella perpetua lite del diritto di riunione, aveva sciolto la Camera e bandito nuove elezioni generali. Dal canto suo la Sinistra parlamentare si apparecchiò a sostenere la lotta dichiarando in un manifesto agli elettori il proprio programma, e invitando al tempo stesso Garibaldi a venir sul continente a prestargli l’appoggio del suo nome e del suo prestigio. Il Generale non si sentiva molto disposto a quella parte; ma un mezzo impegno già contratto coi Veneti di andarli presto a visitare, il desiderio di far cosa gradita a’ suoi amici, la speranza di trovar in quel viaggio una propizia occasione per cominciare la sua propaganda per Roma; lo indussero ad accettare l’invito e il 22 sera arrivò inaspettato, fuorchè da pochi, in Firenze.[342]
Giunto colà però non volle indugiarsi. All’indomani aveva già fatto adesione al programma della [467] Sinistra,[343] e il 23 s’era già messo in viaggio per la Venezia. Superfluo il dire le ovazioni. Era quella la prima volta che i Veneti lo vedevano e da ciò solo s’argomenti il loro entusiasmo. Come però dei due fini pei quali egli s’era mosso, la campagna elettorale e l’apostolato per Roma, quella non era per lui che l’accessorio e questo soltanto il principale; così i suoi amici che s’erano lusingati di trovare in lui un destro e potente procolo delle loro candidature, dovettero ben presto persuadersi quanto fosse stato grande errore affibbiargli quell’ufficio così disadatto alle sue spalle e cominciarono piuttosto a tremare del suo patrocinio che a rallegrarsene.
Dovunque arrivava, dal terrazzo della casa o dell’albergo che l’ospitava, era costretto dagli stessi inviti della folla a pronunciare un discorso; ma ogni discorso, dopo un esordio il più delle volte freddo e stentato sul tema obbligato delle elezioni, si conchiudeva sempre in una perorazione, ancora più obbligata: Roma. Anche gli argomenti che adoperava per raccomandare questo o quel candidato ricascavano tutti nel ritornello: «Eleggete degli uomini che vi conducano presto a Roma.» A Bologna diceva: «Mandate al Parlamento degli uomini che ci facciano andare a Roma come a casa nostra, e che abbiano più a cuore gli interessi del popolo che quelli dei preti.» A Ferrara, proponendo a deputato il dottor Riboli, soggiungeva: [468] «Bisogna prepararsi a difendersi dai preti, a combattere il clericalismo, perchè è tempo che cessi la di lui preponderanza in Italia.» A Venezia ancora più chiaramente, dal balcone di casa Zecchini dove era ospite, esclamava:
«Abbiamo ancora un bocconcino che non manca di avere la sua importanza: Roma. Dunque Roma, che quei signori mitrati non vogliono cedere all’Italia, e che pure è nostra capitale!... colle buone o colle cattive faremo in modo che ce la diano.
»Quei signori preti, che per tanti secoli l’hanno goduta, deturpata, trascinata nel fango, e del primo popolo ne han fatto una cloaca, sarebbe tempo che finissero d’insudiciarci, che ci lasciassero la nostra capitale.... Io sono persuaso che l’Italia ha abbastanza valorosi per prendersela colle armi. Ma non credo che sia il caso. Roma è nostra, è nostra legalmente. In conseguenza andremo a Roma come andiamo nella nostra stanza, in casa nostra.
»Spero che non vi sarà bisogno di prendere le armi! troppo facile sarebbe andarvi colle armi — noi siamo assuefatti a imprese ben più ardite!...
»Dunque oggi gli Italiani devono ottenere Roma coi mezzi legali; chiederla al Governo italiano, e per conseguenza mandare rappresentanti al Parlamento che non patteggino coi preti, nè coi complici dei preti, nè coi protettori dei preti.» E una voce dalla folla rispondeva: El parla come un Dio![344]
Partito da Venezia andava a ripetere press’a poco le medesime cose a Chioggia, Treviso, Udine, Palmanuova, Belluno, Feltre, Vicenza, Verona, dappertutto; [469] e dappertutto conchiudendo con una sentenza strana davvero sulla sua bocca: che Roma bisogna prima chiederla coi mezzi pacifici e legali; soltanto esauriti questi, coll’armi. Ora che cosa voleva egli dire con quelle insolite parole? Ubbidiva egli ad una raccomandazione fattagli a Firenze da’ suoi amici, ma nell’esprimere il concetto suggeritogli, confondeva i «mezzi morali» coi quali il Parlamento aveva dichiarato di voler andare a Roma, coi «mezzi legali» coi quali si poteva chiedere al Parlamento stesso che affrettasse la soluzione del grande problema? In verità crediamo che non avrebbe saputo spiegarlo egli stesso, tanto era evidente che quella frase era un artificio oratorio insufflatogli da qualche nascosta Egeria, il quale non rispondeva ad alcuno degli abituali concetti della sua mente, nè molto meno agli eroici impulsi del suo cuore.
Ma in quel suo viaggio anche più delle sue parole parvero strani gli atti. O fosse stato colto da uno di quegli accessi di misticismo, dei quali nessun uomo di ardente fantasia va immune, o a forza di scavare il problema che aveva sotto mano fosse arrivato alla conclusione che a rendere compiuta la emancipazione dal Vaticano era necessario principiare da una rivoluzione religiosa; o gli fosse anche balenata l’idea (con uomini siffatti tutte le ipotesi sono permesse) d’esser egli il Maometto, la voce e la spada di siffatta rivoluzione, fatto è che egli non poteva ormai pronunciare una concione politica senza mescolarvi insieme la buona novella di una certa sua religione naturale, un quissimile di quella di Giangiacomo, senza preti, senza culto e senza altari, e che, secondo lui, doveva redimere l’umanità intera, a patto però, s’intende, di cominciare dalla redenzione di Roma.
[470]
E l’effetto di quella sua predicazione fu tale che un giorno in Verona un sarto, certo Amadio Somma, convertito, a quanto pare, al suo evangelio, avendogli portato innanzi un suo bambino di nove mesi non battezzato per anco, perchè gli desse il battesimo della sua nuova religione civile, egli, Garibaldi, alla presenza di due testimoni,[345] imposta sul catecumeno la mano, colla formola: «Io ti battezzo in nome di Dio e del legislatore Gesù. Possa tu divenire un apostolo del vero; ama il tuo simile; assisti gli sventurati; sii forte a combattere i tiranni dell’anima e del corpo: sii degno del bravo Chiassi di cui ti impongo il nome,» — lo battezzò.
La quale scena sarebbe bastata a seppellire sotto una valanga di ridicolo qualsiasi uomo più famoso, ma non Garibaldi. I suoi amici ne sorrisero; i suoi avversari ne borbottarono un po’; ma egli restò, come prima, intatto sul suo piedistallo, l’idolo delle moltitudini.
Lasciato il Veneto, passò in Lombardia e in Piemonte, dovunque ricevendo le stesse accoglienze, e dovunque ripetendo le stesse raccomandazioni, le stesse prediche e le stesse cerimonie. A Mantova diceva: «Avversate i preti, ma non i preti come Tazzoli, Grioli e Grazioli, veri sacerdoti di Dio.» A Torino, festeggiato dall’intera cittadinanza, ossequiato oltre che dai capi delle corporazioni operaie e democratiche, dai principali dell’antico partito moderato, quali i Rorà, i Ferraris, i San Martino, dopo la Convenzione di settembre divenuti ardentissimi per Roma; confortava, [471] dal balcone del palazzo Pallavicino, quel popolo «fortissimo, che aveva dato la prima spinta, a dare l’ultima e portarci verso la nostra capitale, Roma;» ad Alessandria battezzava colla stessa formola, «in nome di Dio e di Gesù liberale,» altri figli di popolani, imponendo loro i nomi di Bottino, Lombardi e Cappellini, martiri i primi due del Tirolo, l’ultimo di Lissa!
E finito anche quel giro si riduceva nella fine di marzo a San Fiorano, nella villa dello stesso Pallavicino, dove colle lettere e coi discorsi privati continuava la propaganda che in pubblico aveva cominciata.
Intanto la nuova Camera era stata convocata, e poichè essa non appariva affatto diversa da quella che il barone Ricasoli aveva disciolta, e persino in quella maggioranza, che egli aveva sperato ritemprare al battesimo delle urne, rispuntavano gli stessi screzi, gli stessi attriti, gli stessi germi di sorda opposizione, che l’avevano indotto a congedarla, così rinnovando il poco lodevole esempio del 1861, senza attendere alcun voto che lo giudicasse, rassegnò il potere. E come nel 1861 un uomo era già designato a raccoglierlo, e lo raccolse difatti: Urbano Rattazzi.
Se non che il ritorno al governo del deputato d’Alessandria aveva, segnatamente rispetto alla questione romana, un significato che a nessuno poteva sfuggire. Anzitutto il Rattazzi era pur sempre l’uomo d’Aspromonte; colui, è vero, che aveva fracassato un piede a Garibaldi, ma colui altresì che l’aveva lasciato scorrazzare in armi un terzo d’Italia, poi tenutolo prigioniero come un sovrano vinto in battaglia e alla fine amnistiato.
In secondo luogo le sue opinioni intorno a Roma erano note. Aveva proclamato per mezzo del suo ministro Durando l’urgenza del gran problema; aveva [472] censurata la Convenzione di settembre; s’era opposto al Contratto Langrand Dumonceau; sorrideva della libertà della Chiesa, non intendendo farle alcuna concessione «se non quando fosse cessato il poter temporale dell’autorità ecclesiastica ed il Governo italiano fosse insediato in Roma.»
Infine egli non era ancora la Sinistra, ma ne era il precursore. I suoi rapporti coi capi più autorevoli della parte avanzata non erano un mistero per alcuno. Essi non sedevano nella sala del Consiglio, ma ne occupavano le anticamere; non salivano al palazzo Riccardi per le grandi scale, ma tenevano le chiavi di quelle segrete: Rattazzi li conteneva e moderava, e, occorrendo, non ristava dallo sconfessare pubblicamente le loro idee; ma era manifesto che non avrebbe potuto reggersi a lungo su quel sottile pernio tra la Destra e la Sinistra sul quale si studiava bilicarsi, e che il giorno s’avvicinava a gran passi in cui per necessità di cose, non potendo cadere tra le braccia de’ moderati, sarebbe caduto di nuovo tra quelle de’ rivoluzionari suoi fatali amici.
Ora quanto questa condizione del Governo giovasse ai progetti rivoluzionari che mulinavano pel capo di Garibaldi e de’ suoi amici non è chi nol vegga: possiamo anzi affermare che solo dal giorno in cui il Rattazzi salì al potere, le idee del partito d’azione, vaghe fino allora, incominciarono a disegnarsi con qualche chiarezza ed a prendere una forma rilevata e concreta in un principio d’azione.
E i primi segni di questa maggiore alacrità apparvero ne’ Romani stessi. Quel medesimo Centro d’insurrezione, al quale più su accennammo, pubblicando nel 1º d’aprile il primo suo Manifesto ai Romani, annunziava trascorsa ormai l’ora delle tacite proteste [473] e delle imbelli manifestazioni; bandiva la necessità dell’insurrezione e riconoscendo Garibaldi col titolo di Generale romano, lo pregava ad assumere la direzione della patriottica impresa e a darle esecuzione per mezzo degli uomini che a lui fosse piaciuto designare. E Garibaldi, cui nessun eccitamento poteva essere più caro a quei giorni, non cercando chi e quanti fossero coloro che gli parlavano sì alto in nome di Roma, non curandosi di scandagliare fino a qual punto la realtà delle cose, la volontà dei Romani, le ragioni dell’opportunità, consuonassero a sì magnifiche promesse, rispondeva quasi subito, dichiarandosi superbo, diceva, del titolo che gli era rinnovato di Generale romano; accettando senza più l’incarico commessogli; eleggendo per coordinare il lavoro di Roma e quello della restante Italia un Centro d’emigrazione, il quale allacciato a sua volta ad una rete di Sub Centri provinciali e locali, doveva fare il censimento degli idonei alle armi, raccogliere l’Obolo della Libertà, contrapposto all’Obolo di San Pietro, e apparecchiare quanti mezzi fossero in suo potere per la nuova levata che s’annunziava vicina.
E tutto ciò così scopertamente, con tanto rumore di proclami e di programmi, e pubblico via vai di emissari e di agenti, che il barone Malaret, ministro di Francia a Firenze, egregiamente informato d’ogni più minuto particolare dalla doppia polizia del suo Governo e del cardinale Antonelli, si trovò nella necessità di presentare i suoi reclami al Rattazzi e di obbligarlo ad ufficiali assicurazioni.[346] Le quali, a dir [474] vero, non avrebbero potuto essere nè più oneste nè più accorte: scarsi i mezzi di Garibaldi per essere temibili; sacri al Governo italiano gl’impegni assunti colla Convenzione del settembre, e risoluta la sua volontà di farla rispettare; soltanto non poter egli starsi garante che pochi individui isolati non riuscissero a schizzare nel Pontificio per la frontiera; avvenendo il caso però, tener per certissimo che il Governo di Sua Santità avrebbe saputo averne ragione da sè.
E il Rattazzi, giova ridirlo, fino a quel giorno, anzi per molti giorni e mesi ancora parlava sincero. Egli disapprovava ogni conato intempestivo verso Roma e non lo nascondeva; egli non voleva nè denunziare nè perseguitare gli agitatori; ma non aveva alcun vincolo con essi: s’illudeva, come altre volte, sulle forze di Garibaldi, e sperava che il nuovo nembo da lui addensato si scioglierebbe da sè in un acquazzone d’estate; ma in ogni ipotesi egli si credeva forte e destro abbastanza per sorprenderlo ed arrestarlo a tempo. Solo quando sopraffatto dal turbine non vedrà più modo di scongiurarlo, si nasconderà anch’egli tra le nubi e vi soffierà dentro per la disperata speranza di poterne usufruttare lo scoppio a beneficio della sua politica e dell’Italia.
[475]
In sui primi di maggio Garibaldi passava di Lombardia in Toscana. Sostato un giorno a Firenze, andava a prender stanza nella villa del deputato Cattani-Cavalcanti, a Castelletti presso Firenze. Ora, che questo tramutamento si collegasse ai disegni su Roma era visibile a chicchessia, e il fatto non tardò a dimostrarlo.
Nella prima settimana di giugno il Generale riceveva in Castelletti una visita inaspettata. Due incaricati dal Comitato Nazionale Romano, di quel Comitato che era l’antagonista nato del partito d’azione e che per la sua propaganda eternamente temporeggiatrice s’era acquistato il non immeritato titolo d’addormentatore, si presentarono a lui, dicendosi a nome de’ loro mandanti pronti a entrare in accordo col Centro d’insurrezione e desiderosi di intendersi con lo stesso Generale, circa al programma d’azione. Il come e il quando di quest’azione pare non dicessero: forse si restrinsero a generiche dichiarazioni ed a vaghe profferte; ma Garibaldi, ignaro delle ambagi e delle sfumature del linguaggio, avvezzo a veder dietro ogni detto un fatto, non si cura di chieder di più, e tenendo subito per conchiusa l’alleanza, e per decisa indifferibilmente l’azione, spaccia ai due Comitati di Terni, il Nazionale e l’Insurrezionale, certi Galliano e Perelli col mandato di prendervi alcune centinaia di fucili che sapeva nascosti colà fin dai giorni d’Aspromonte, armare con questi quanti giovani o fuorusciti romani si potessero raccogliere, e fatta irruzione nello Stato Pontificio, gettarvi la prima favilla dell’incendio. Trasognarono all’inatteso messaggio i patriotti [476] ternani: il rappresentante del Comitato moderato, certo Mauri, protestò di nulla potere senza espresso ordine de’ suoi capi (riprova codesta che il Comitato Nazionale non aveva promesso nulla di positivo), e ricusò di ubbidire; il rappresentante del Comitato d’azione, certo Frattini, caldo patriotta e vecchio cospiratore, persuaso dalle molte parole del Perelli e del Galliano che la mossa fosse combinata coi Comitati di Roma sì Nazionale che Insurrezionale, e tutto pronto al di là del confine per aiutarla; vinto ancora più dal nome di Garibaldi, di cui i due emissari presentavano un’amplissima credenziale, consentì a secondarli e dar la sua mano all’impresa. Nè furon lunghi gli apparecchi: appena due giorni dopo, il 19 giugno, il Perelli e il Galliano raccoltisi con altri centoquattro giovani nel convento di San Martino, tragittata sopra una barca del Frattini stesso la Nera e ricevute colà presso le armi, s’incamminarono diviati verso la Sabina. Se non che quasi sul punto di sconfinare, nei pressi di Ponte Catino e Castelnuovo, un pelottone del 7º Granatieri, imboscato da più giorni in quelle macchie, circuì in un battibaleno la colonna e fatta per intimorirla una scarica all’aria, le intimò la resa.[347] Infatti il Rattazzi, eccitato, anzi pungolato senza posa, dalla polizia francese, più vigilante forse e informata della sua, era da oltre una settimana sulle orme di tutta la congiura, impartendo ordini rigorosissimi a tutte le autorità così di terra come di mare, affinchè le custodie della doppia frontiera fossero raddoppiate, e ad ogni costo s’impedisse il passaggio di qualsiasi banda d’armati; e, come ognun vede, era stato fedelmente e zelantemente ubbidito.
[477]
Pari però all’ingrata sorpresa, il clamore dei delusi. Nessuno voleva assumere la paternità del fallito tentativo, e ogni parte se ne scaricava sull’avversa. Garibaldi indignato imprecava al Governo, «birro del Papa;» il partito d’azione incolpava di tradimento il Comitato Nazionale, accusandolo persino d’aver egli spinto il Generale a quella scorreria coll’intenzione di pubblicarne le trame e comprometterlo; il Comitato Nazionale invece apertamente sconfessava l’intempestivo conato e persisteva a raccomandare ai Romani la pazienza e l’aspettazione. Era insomma il consueto palleggio di accuse, di recriminazioni e di vituperii che suol seguitare tutte le imprese fallite, di mezzo al quale sarebbe bensì facile trarre una prova di più delle passioni partigiane; ma non la verità.
Non dobbiamo però tacere che tra mezzo al tumulto delle voci contrarie quella che ci sembrò allora, e ci sembra tuttodì la meno vera, la meno probabile, la meno dimostrata, fu quella che appose al Comitato Nazionale d’aver tradito per cieco livore di parte l’impresa da lui medesimo suggerita e apparecchiata. Fino a prova contraria noi non abbiamo alcuna ragione per credere a tanta scelleraggine. Aggiungiamo anzi, che tutte le ragioni ci sforzano a discrederla. E ciò non solo perchè la onestà privata, fino ad oggi indisputata, dei componenti del Comitato Romano ci sta garante della loro probità politica; ma anche perchè se fosse stata soltanto probabile la perfidia apposta al Comitato, Garibaldi, che non era certo sulla via dei riguardosi riserbi e dei temperati discorsi, non l’avrebbe taciuta, ed in ogni caso il Comitato stesso, per ispudorato che si potesse supporre, non avrebbe mai osato di infliggere un biasimo pubblico ad un’azione della quale ognuno avrebbe potuto [478] dirgli ad ogni istante: «Tacete, voi stessi ne foste complici.»
No: l’enormezza stessa dell’accusa attesta per la sua incredibilità. Reputiamo superfluo cercare l’autore responsabile di quel tentativo, che potrebbe dirsi il prologo sbagliato d’un dramma male abbozzato; ma se quell’autore si volesse cercare, lo si cerchi in Garibaldi stesso.
Egli ideò e volle e fece eseguire la scorreria; egli scambiando le indeterminate profferte del Comitato moderato per impegni positivi d’azione, e fidandosi alle notizie dubbie ed ai suggerimenti fallaci di agenti innominati ed oscuri, e sprezzando ogni consiglio di preparazione e d’opportunità e dimenticandosi persino di prevenire de’ suoi disegni il Centro di Roma e il Centro di Firenze e tutti i suoi principali amici e cooperatori, egli pel primo rese inevitabile il fallimento d’un’intrapresa che aveva già in sè tanti rischi e tante difficoltà.
Già dicemmo che Garibaldi non fu mai cospiratore, e il modo con cui egli condusse la Campagna preparatoria di Mentana lo proverà luminosamente. Ciò non scema la sua grandezza; ma aggiunge un lineamento più originale e caratteristico alla sua straordinaria figura.
Ma come ognuno immagina, l’infelice successo della Sabina non aveva rallentato un solo istante l’opera di Garibaldi, nè quella de’ suoi amici. Trasferitosi sull’aprirsi di luglio alle Terme di Monsummano, dove lo conduceva la necessità, tutt’altro che fittizia, di curare la sua implacabile artritide, diceva subito ad [479] alcuni suoi commilitoni, accorsi a visitarlo: «A Roma ci si andrà; e se hanno impedito a quei duecento valorosi di entrarvi, i duecento diverranno duemila, e i duemila ventimila.» E a Pescia, arringando il popolo raccolto sulla piazza a festeggiarlo, soggiungeva: «Dobbiamo andare a Roma a snidarvi quel vivaio di vipere;» così a Montecatini, a Castelfranco, a Lucca, sempre e dovunque ribattendo il medesimo chiodo e predicando il medesimo verbo, con quel suo linguaggio ignaro di eufemismi, fiammeggiante d’amor patrio, ma che troppo spesso urtando nella corda delicata delle credenze religiose non era sempre, specialmente tra le popolazioni delle campagne, il più opportuno e convincente.
Nè oramai si trattava più di sole parole. Uno dei maggiori ostacoli alla felice riuscita della meditata riscossa era quell’antagonismo più volte accennato del Comitato d’insurrezione e del Comitato Nazionale, che dividendo i patriotti romani in due campi (e quando si volesse contare la frazione mazziniana del Comitato d’azione in tre) formava la cagione principale della loro mutua debolezza.
A Garibaldi però era sempre parso che la prima e più urgente necessità fosse quella di cessare, a qualsiasi patto, quel funesto dissidio, adoperando ogni maniera di sforzi affinchè tutti coloro che nelle due parti ponevano al disopra delle astiosità partigiane il pensiero della patria, stringessero in un sol fascio le loro forze e procedessero concordi al conseguimento del fine comune. E a così onesto desiderio, partecipato dalla eletta dei fuorusciti romani, sembrò rispondere, quasi senza contrasto, l’adempimento; sembrò, diciamo, perchè si vedrà in appresso che la festeggiata concordia era più apparente che reale; [480] più tra i gregari che fra i capi; più tra pochi individui che nella pluralità de’ due partiti.
Comunque, il patto fu sancito, e il Comitato Nazionale Romano e il Centro d’insurrezione, scontenti però sempre quelli del Comitato d’azione, si fusero in un nuovo ed unico Comitato e lo annunziarono ai loro concittadini in questo manifesto:
«Romani!
»Il voto comune, il voto di tutti quelli a cui batte il cuore per l’onore e la libertà della patria, si è realizzato. Non più dissensi, non più divisioni; tutte le frazioni del partito liberale si sono data la mano, hanno unite le forze per abbattere per sempre questo resto del governo papale e dare Roma all’Italia.
»Il Comitato Nazionale Romano ed il Centro d’insurrezione fanno quindi luogo ad una Giunta Nazionale Romana, la quale assume la suprema direzione delle cose.
»Rallegriamoci di questa santa concordia, e diamo opera a fecondarla con unità di fede e di disciplina, con unità di propositi e di sacrifizi. Il fascio romano è ora veramente formato: facciamo che non si sciolga mai più, e che presto ci dia la vittoria.
»Romani!
»I cittadini rispettabili che fanno parte della Giunta a cui rassegniamo l’ufficio, sono degni dell’alta missione; ma a nulla riuscirebbero senza il vostro concorso.
»Secondateli adunque fidenti ed animosi, e l’impresa non fallirà. Vogliamolo tutti, e ben presto venticinque milioni di fratelli saluteranno Roma capitale d’Italia.
»Roma, 13 luglio 1867.
»Il Comitato Nazionale Romano.
»Il Centro d’Insurrezione.»
Queste parole, a dir vero, suonavano tutt’altro che promessa di azione immediata; ma Garibaldi, credulo [481] sempre a quello che più desiderava, non curandosi di indagare quanto quella lega fosse salda e sincera, e se dietro quei Comitati, diremmo quasi, quegli stati-maggiori, stesse la milizia d’un popolo veramente deliberato ai cimenti cui era invitato; ingannato, come ai giorni di Sarnico e d’Aspromonte, dalle manifestazioni in gran parte artificiali delle città italiane;[348] fidente, come sempre, nella propria forza e incrollabile nella sua volontà, stimò giunta l’ora di raccogliere i frutti della sua predicazione e di passare dalle parole ai fatti.
Trasferitosi a Vinci (nella villa del conte Masetti, al Ferrale), riepiloga di là in un lunghissimo manifesto le idee che era venuto fin allora sparsamente predicando;[349] convoca presso di sè quelli tra i suoi amici che in quel momento stimava più devoti o meno renitenti a’ suoi concetti, e coll’usato stile, più da Generale che impartisca degli ordini a’ suoi luogotenenti che da capo politico, il quale proponga delle risoluzioni a’ suoi seguaci, li lega a’ suoi disegni; commette a Francesco Cucchi di andare a Roma ad annodare in sua mano le prime fila della trama avviata: manda suo figlio Menotti a tastare il terreno e stringere le prime relazioni nel mezzogiorno; delega Giovanni Acerbi, l’Intendente dei Mille, alla raccolta dei giovani e delle armi alla frontiera umbro-toscana e lo manda in suo nome a scandagliare le intenzioni di Rattazzi; indi passa egli stesso a Siena, a Montepulciano, a Orvieto, a Rapolano scuotendo fin sulle porte del Gran Nemico la fiaccola incendiaria della sua parola, colla quale senza posa da tre mesi lo minacciava.
[482]
Ed appariva tanto evidente che oramai l’impresa era non solo deliberata nel suo animo, ma imminente, che ad un banchetto offertogli in Siena dalla storica Accademia de’ Rozzi, rispondendo al professore Stocchi, il quale pareva indirettamente consigliarlo a differire il segnale della magnanima riscossa a tempi più maturi, esclamò: «No, no, questo non è il mio pensiero: alla rinfrescata moveremo.»
E alla rinfrescata diventò, da quel giorno, la segreta parola d’ordine di tutti i Garibaldini. Invano il Rattazzi aveva risposto all’Acerbi severe parole, non solo togliendogli ogni speranza che il Governo avrebbe aiutato l’avventura, ma esplicitamente dichiarandogli che l’avrebbe con tutte le sue forze impedita; invano i principali del partito avanzato e gli stessi suoi più devoti amici, quali il Crispi, il Cairoli, il Miceli, il Guastalla, si mostravano o avversi all’impresa, o sgomenti delle difficoltà e dei pericoli onde essa era piena: Garibaldi, o non accettava discussioni o le troncava con uno de’ suoi soliti motti dittatoriali, e camminava imperturbato per la sua via.
Se non che accadeva a quei giorni un fatto singolarissimo. Un gruppo de’ più avanzati socialisti europei, fra i quali il Barny francese, il Fazy svizzero, il Bakounine russo ed altri, s’era dato l’intesa di convocare a Ginevra pel mese di settembre un Congresso internazionale della pace (per chieder cioè la pace universale perpetua, la soppressione degli eserciti stanziali, la federazione dei nuovi Stati d’Europa ed altre siffatte bazzecole), e naturalmente al Congresso fra i famosi campioni della democrazia cosmopolita [483] era stato invitato il famosissimo fra tutti Giuseppe Garibaldi. Si poteva credere però che quell’invito a discorrere e sentir discorrere di pace, per un uomo tutto affaccendato in apparecchi di guerra non potesse, in quel momento almeno, tornare il più opportuno ed accetto; ma non così per l’Eroe nostro. Nulla anzi a’ suoi occhi di più propizio di quel Concilio ecumenico dei sacerdoti della libertà aperto nella «Roma dell’intelligenza» per dare solennità alla Crociata da lui bandita contro l’altra «Roma bugiarda del Papato;» talchè lasciato a Menotti il mandato di continuare il lavoro incominciato, parte improvviso per Belgirate dove prende seco Benedetto Cairoli, e accompagnato da Giuseppe Missori, Alberto Mario, il professor Ceneri, Vincenzo Caldesi, Mauro Macchi, il dottor Riboli ed altri che non sapremmo dire, continua per Ginevra. E questa volta pure perdoneremo al lettore la cronica delle accoglienze; Ginevra in questo non fu diversa da Londra nè ad alcuno dei tanti luoghi in cui la maliarda figura di quell’uomo comparve. Ivi pure riuscito a gran stento ad aprirsi un varco nella calca, fino alla casa che doveva ospitarlo e presentato dal signor Fazy al popolo ginevrino che dalla piazza lo acclamava, il Generale lo arringa in lingua francese, con un discorso che fu certo uno de’ più nobili che gli uscissero dal labbro in quei giorni e del quale basti il saggio di questi due periodi, ad attestare la eloquenza.
················
»La magnifica accoglienza fattami nella vostra città m’inorgoglisce e forse mi dà troppa baldanza. In ogni modo, essa m’incoraggia a dire la verità; e se io avessi la disgrazia di travisarla, crederei di aver commesso un sacrilegio, in un paese donde la libertà del pensiero si va spandendo [484] in tutte le pianure di Europa, a quel modo che vi diffondono le acque sgorgate dalle sue ghiacciaie. (Applausi strepitosi.)
»Qui i vostri antenati ebbero animo di assalire tra i primi cotesta pestilenziale istituzione che si chiama: il Papato. A voi, cittadini di Ginevra, che vibraste i primi colpi alla Roma papale, non è più l’iniziativa ch’io domando; ma vi domando di compir l’opera dei vostri padri, quando noi recheremo gli ultimi colpi al mostro. Vi ha nella missione degli Italiani che lo custodirono così a lungo nel loro seno una parte espiatoria; noi faremo il debito nostro. A quell’uopo il vostro consenso potrebbe esserci necessario; io lo spero.» (Applausi.)
Nè dissimile fu l’accoglimento che all’indomani ricevette al Congresso di cui teneva la presidenza Giulio Barny ed in mezzo al quale spiccavano variamente illustri i nomi di Edgardo Quinet, di Pietro Leroux, di Stefano Arago, di Luigi Bückner e di altre celebrità della democrazia mondiale. Non dissimile l’accoglimento alla persona, ma assai diverso quello alle idee. Anco in quell’assemblea battagliavano troppi partiti: i socialisti puri della scuola manchesteriana, avversi a qualunque guerra per qualsivoglia pretesto o ragione: gli atei e miscredenti ad oltranza, nemici deliberati d’ogni religione e del nome stesso di Dio e convenuti colà col semplicissimo assunto di chiederne la soppressione: i clericali cattolici zelanti della pace evangelica e sotto quella maschera infiltratisi anche in quel Congresso, ma, quando mai, propizi a quella sola guerra che restituisse alla Chiesa romana il tolto potere; infine i dottrinari della democrazia svizzera, professanti la libertà panacea di tutti i mali; ma soprattutto gelosi della neutralità del loro paese e paurosi di arrischiarne con sovversive dottrine la pace.
[485]
Ora Garibaldi in mezzo a costoro era, senza saperlo, come un disperso nel campo nemico: e lo vide ben presto, quando levatosi a rispondere al signor Schmidlin oratore dei clericali, e al signor Fazy oratore dei democratici svizzeri, tentò ribattere in un discorso le loro opinioni per affermare la propria, negli otto articoli di questa proposta:
«1º Tutte le nazioni sono sorelle.
»2º La guerra tra di loro è impossibile.
»3º Tutte le querele che sorgeranno tra le nazioni dovranno essere giudicate da un Congresso.
»4º I membri del Congresso saranno nominati dalle Società democratiche dei popoli.
»5º Ciascun popolo avrà diritto di voto al Congresso qualunque sia il numero dei suoi membri.
»6º Il Papato, essendo la più nociva delle sètte, è dichiarato decaduto.
»7º La religione di Dio è adottata dal Congresso e ciascuno de’ suoi membri si obbliga di propagarla. Intendo per religione di Dio la religione della verità e della ragione.
»8º Supplire al sacerdozio delle rivelazioni e della ignoranza col sacerdozio della scienza e della intelligenza.
»La democrazia sola può rimediare al flagello della guerra.
»Lo schiavo solo ha il diritto di far la guerra al tiranno; è il solo caso in cui la guerra è permessa.»
A questo colpo inatteso, che dava nel petto a tutte, può dirsi, le idee predominanti nel Congresso, il rimbalzo dello sdegno e della paura collegati insieme fu irrefrenabile. Indarno il Quinet coll’autorevole parola, e il Ceneri e il Macchi colla persuasiva si studiarono difendere le proposte del Generale; i clericali suscitandovi contro la reazione del sentimento cattolico, gli Svizzeri facendo appello al sentimento ancora più [486] forte ne’ loro concittadini della tranquillità e sicurezza della Confederazione, riuscirono a far tale pressione sul Congresso ed a raggruppar intorno ad essi tale maggioranza, che tutte le proposte di Garibaldi furono scartate e surrogate da una di quelle mozioni verbose e vuote di cui gli archivi del dottrinarismo democratico sono così ricchi, ma che nulla contenendo di sostanziale e di sodo non ci sembrano meritare la fatica d’essere trascritte.
Garibaldi però non attese nemmeno la votazione de’ suoi articoli, e già fiutato il vento infido, pago d’aver gettato in faccia all’Europa democratica ivi congregata la sua bomba incendiaria, tornava l’11 mattina, per la via del Sempione in Italia, e sostato brevemente a Belgirate, metteva capo a Genestrello, altra villa del suo amico Pallavicino presso Voghera.
Colà però lo raggiungevano tosto importanti notizie da Roma che lo consigliarono ad affrettare il suo ritorno in Toscana.
Quelle notizie dicevano certa la insurrezione purchè il braccio di Roma fosse armato: facile l’impadronirsi di due porte e la sorpresa delle ferrovie conducenti a Roma: utile con un colpo di mano occupar le due stazioni d’Orte e di Ceprano; necessario soltanto armi e danaro: tutta la Carboneria, numerosa a Roma, pronta a secondare il moto appena Garibaldi facesse appello. La Giunta romana poi rincarando su queste speranze dichiarava, venuta l’ora dell’azione, ogni indugio pericoloso, urgente la costituzione d’un fondo di cassa, al quale, in forma di prestito gratuito o rimborsabile, invitava nuovamente tutti gli Italiani a contribuire.
E come ognuna di queste parole scendeva soave all’animo già febbricitante dell’Eroe, così da Genestrello [487] stesso, senza frapporre un’ora, rispondeva confermando l’appello della Giunta romana con questo nuovo manifesto:
«Alla Giunta Nazionale Romana.
»Genestrello, 16 settembre 1867.
»Il vostro appello agli Italiani non andrà perduto.
»In Italia sonvi molti paolotti, molti gesuiti, molti che sacrificarono sull’altare del ventre. Ma, è pure consolante il dirlo, vi sono molti prodi di San Martino, molti eroici bersaglieri del Re d’Italia, molti soldati della prima artiglieria del mondo, molti nepoti dei trecento Fabii ed un avanzo dei mille di Marsala, i quali, se non m’inganno, hanno prodotto centomila giovani che temono oggi di esser troppi a dividere la misera gloria di cacciar dall’Italia mercenari stranieri e negromanti.
»Circa ai mezzi, l’Italia ebbe sempre la disgrazia d’essere troppo ricca per mantenere eserciti stranieri, e fra i suoi ricchi non mancano patriotti che tosto porgeranno, ne sono sicuro, le loro splendide offerte.
»Avanti adunque, o Romani, spezzate i rottami dei vostri ferri sulle cocolle dei vostri oppressori, e d’avanzo saranno gl’Italiani che divideranno le vostre glorie.
»Vostro
»Garibaldi.»
E ciò detto, partiva al dì vegnente (17) per Firenze.
Colà giunto però erano tali ancora gli ostacoli e tanti i motivi di indugio e di prudenza, che qualunque altro uomo ne sarebbe stato scosso; non Garibaldi. Roma non era armata ancora, nè per quanto si fossero studiati fin allora tutti i passi di terra e [488] di mare per introdurvi quei pochi fucili che stavan sempre nascosti nei pressi di Terni e di Follonica, nessuno n’aveva ancora trovato la via. I principali fra gli amici del Generale persistevano sempre presso di lui nel concetto di lasciare a Roma l’iniziativa del moto, apparecchiando bensì in silenzio i mezzi per accorrerle in soccorso; ma evitando ogni apparenza di una importazione artificiale e facendo in ogni caso seguire l’irruzione delle bande all’insurrezione della capitale; non questa a quella.
Infine il ministro Rattazzi, dopo aver dato qualche segno e qualche promessa di tacita acquiescenza, forse nella speranza di guadagnar tempo, e aver persino condisceso a lasciar continuare in segreto gli apparecchi dell’invasione, purchè il Generale acconsentisse a ritirarsi ed a scomparire nella sua Caprera;[350] spinto ora e sempre più dai richiami e dai ministri della Francia, rappresentata allora in Firenze dal signor De la Villestreux, tornava ai suoi primi propositi, protestandosi deliberato ad impedire anco colla forza qualsiasi violazione della Convenzione di settembre e dandone la prova col raddoppiare le guardie alla frontiera e col rinnuovare gli ordini della più severa vigilanza.
A tutto ciò però Garibaldi non movea collo nè piegava sua costa: le armi in un modo o nell’altro sarebbero entrate: a’ suoi amici faceva le mostre di consentire [489] ai loro consigli, ripetendo anzi a taluno di loro che l’iniziativa romana la teneva indispensabile;[351] ma non cessava per questo dall’avviare quanti Volontari gli capitavano verso i confini e dal concentrarvi come ad un campo ormai prestabilito l’attuazione e la forza: al Governo infine rispondeva sdegnosamente rifiutando la condizione del ritiro in Caprera; e dichiarandosi a sua volta deliberato a qualunque cimento. Tutt’al più piegando all’argomento sempre più evidente che Roma non era ancora preparata, consentiva a differire la mossa fino agli ultimi di settembre; non però a sospendere e molto meno a mascherare alcuni degli apparecchi avviati.
Epperò, prima che l’agosto finisse, tutte le parti erano nella sua mente assegnate e tutti gli ordini distribuiti come alla vigilia d’un’entrata in campagna. Il Cucchi, munito d’un’amplissima sua credenziale che lo eleggeva suo rappresentante in Roma, partiva un’altra volta per la città eterna a prendervi la direzione del moto creduto imminente; Menotti ed Acerbi doveano tenersi pronti a sconfinare colla gente già raccolta, il primo da Terni coll’obbiettivo su Monterotondo; l’altro da Orvieto coll’obbiettivo su Viterbo, mentre Nicotera e Salomone dovevano fare altrettanto da Aquila e Pontecorvo verso Velletri; a Canzio era commesso di allestire una spedizione marittima che andasse a gettarsi sulle coste pontificie tra Montalto [490] e Corneto, compiendo così l’invasione da tutte le parti. Nè il Generale arrestavasi a questi ordini guerreschi, ma colla consumata abilità del guerrillero prevedeva tutti i casi possibili, distribuendo a tutti i capi delle colonne designate queste particolareggiate istruzioni:
«1º Punto di concentrazione delle colonne invadenti il territorio romano — Viterbo.
»2º Si raccomanda ad ogni comandante di colonna di non impegnare combattimenti colle truppe pontificie, senonchè con molta probabilità di riuscita. Ed ove le forze nemiche sieno superiori, manovrare di modo da concentrarsi su Viterbo ove si troverà probabilmente la colonna principale.
»3º Ove un comandante di colonna si trovasse nella assoluta necessità di combattere, egli deve ricordarsi e ricordare ai suoi che il mondo intiero ha gli occhi su di noi e sa che noi siamo assuefatti a vincere.
»4º A qualunque costo i comandanti delle colonne non devono impegnarsi in combattimenti colle truppe dell’esercito italiano.
»5º Scopo del movimento è il rovesciare il governo dei preti, proclamare Roma capitale d’Italia e lasciare il popolo romano in piena libertà sulle proprie condizioni di plebiscito.
»6º Credo superfluo il raccomandare molto un lodevole contegno verso le popolazioni. I militi della libertà, nostri fratelli d’armi, sono assuefatti a trattare il popolo da fratelli e giammai vi fu esempio che si macchiassero di brutture.
» 7º Si darà alle colonne l’organizzazione ch’ebbero in tutti i tempi i corpi volontari — acciocchè essi si presentino al paese ispirandovi la fiducia — e la paura ai nemici d’Italia.
»8º I comandanti delle colonne hanno il diritto d’impossessarsi d’ogni cosa appartenente alle autorità nemiche a profitto della rivoluzione.
»9º Abbisognando di viveri od altro, ne faranno richiesta alle autorità municipali o locali, rilasciando loro idonee ricevute.
[491]
»10º Una colonna che si trovi nell’impossibilità di concentrarsi alla colonna principale — manovrerà di modo da non combattere con isvantaggio, inquietando il nemico quanto è possibile — e procurerà frattanto di mettersi in comunicazione col quartiere generale.
»11º In quest’impresa gl’Italiani devono ben penetrarsi d’avere su di loro gli occhi del mondo intiero — e che quindi il nome italiano deve uscirne bello, radiante di gloria, salutato con entusiasmo e rispetto da tutte le nazioni.
»12º Fra le eventualità possibili, vi è quella di essere io arrestato. In quel caso, il movimento deve continuare colla stessa impavidezza — come se fossi libero. E deve pur continuare anche che arrestassero la maggior parte dei capi.
»13º In caso non riuscisse una colonna nell’intento, le altre devono continuare il moto come se nulla fosse successo.
»G. Garibaldi.»
A tal punto però anche il Ministero, perduta ormai ogni speranza di contenere coi privati consigli e le blande minaccie il patriotta agitatore, deliberava di lasciar quel riserbo che s’era fino allora imposto, e di accettare il guanto che gli era gettato. Però nel 21 agosto comparve nella Gazzetta Ufficiale una dichiarazione del Governo, la conclusione della quale era che «se alcuno si attenterà di venir meno alla lealtà de’ patti e violare quella frontiera da cui ci deve allontanare l’onore della nostra parola, il Ministero non lo permetterà in niun modo e lascerà ai contravventori la responsabilità degli atti che avranno provocato.»
Ma «un po’ tardi,» notava il signor De Moustier[352] nel [492] ricevere notizia di questa dichiarazione; un po’ tardi pel Governo, un po’ tardi per Garibaldi stesso.
Egli oramai aveva tratto il dado, nè anco volendolo poteva più retrocedere. Anzi quella pubblica minaccia gli parve come un avvertimento di rompere gli ultimi indugi; talchè già coperti vari punti della frontiera di Roma di Volontari, pronti a seguirlo il Menotti e l’Acerbi; la mattina del 23 settembre s’incamminava accompagnato soltanto dal fedele Basso e dal signor Del Vecchio, alla volta d’Arezzo, diretto, secondo diceva, e voleva far credere, a Perugia (per ingannare la vigilanza della polizia aveva fatto spedire colà i suoi bagagli); ma proseguendo ratto nella sera stessa di quel giorno per la strada di Orvieto, e andando quella notte a pernottare a Sinalunga a circa cinquanta miglia dal confine orvietano.
Il prefetto di Perugia però non s’era lasciato allucinare e aveva provveduto in guisa che qualunque strada il Generale fosse per prendere, al primo tocco di telegrafo, potesse essere arrestato. E così fu. Garibaldi, ospitato in Sinalunga dal signor Agnolucci, s’era appena coricato, che una compagnia di soldati e carabinieri, venuti da Orvieto, invadeva il paese, circuiva la sua casa, e un luogotenente de’ carabinieri salito da lui, gli intimava senz’altro l’arresto. Il Generale non chiese che il tempo di fare il suo solito bagno: gli fu concesso; e di lì a mezz’ora in biroccino fino a Lucignano, poscia in ferrovia fu tradotto col Basso e il Del Vecchio nella direzione di Firenze. Nemmeno Firenze però era l’ultima meta che gli era stata imposta; il treno ne traversò rapido la stazione, e soltanto a Pistoia sostò per alcuni istanti per deporre il Basso e il Del Vecchio, e continuare di là, senza resta, fino ad Alessandria, dove il Governo aveva deciso [493] che il Generale passerebbe i primi giorni della sua cattività.
A Pistoia però nemmen l’occhio vigile de’ suoi custodi aveva potuto veder tutto. Infatti il Generale era riuscito in quei pochi momenti di fermata a scrivere a matita un biglietto, e prima che il Del Vecchio s’allontanasse a ficcarglielo nelle mani. Il biglietto era un nuovo e più fiero appello all’insurrezione, e diceva testualmente così:
«24 settembre.
»I Romani hanno il diritto degli schiavi, insorgere contro i loro tiranni: i preti.
»Gli Italiani hanno il dovere di aiutarli — e spero lo faranno — a dispetto della prigionia di cinquanta Garibaldi.
»Avanti adunque nelle vostre belle risoluzioni, Romani e Italiani. Il mondo intiero vi guarda, e voi, compiuta l’opera, marcerete colla fronte alta e direte alle nazioni: Noi vi abbiamo sbarazzata la via della fratellanza umana dal più abominevole suo nemico: il Papato.
»Caro Del Vecchio — voi non verrete in prigione con me — e farete stampare queste linee.
»G. Garibaldi.»
La lettura pertanto di queste linee e ancora più l’annuncio dell’arresto del Generale suscitò in tutte le maggiori città d’Italia fierissimi tumulti. In Firenze i deputati della Sinistra, raccoltisi in Palazzo Vecchio, firmavano una protesta per l’illegale arresto del loro collega; i giornali avanzati schizzavano fiamme; il popolo inferocito percorreva le vie cercando a morte il Rattazzi, il quale solo al caso di essere entrato per il mal tempo in una vettura pubblica, dovette di non essere subito riconosciuto e d’aver salva la vita. E a Bologna, a Modena, a Milano, a Torino, a Pavia, a Genova, le stesse manifestazioni; a Genova [494] soprattutto, dove la collera per l’arresto del Generale, inasprita dal sequestro delle armi destinate alla spedizione marittima del Canzio, era giunta a tale che la folla diede un vero assalto a Palazzo Tursi.
Nè in Alessandria l’aria era più quieta. Al primo giungere di Garibaldi nella fortezza, anche quella popolazione, comechè spettatrice abituale di tanti prigionieri politici, s’era commossa; e i soldati stessi del presidio, affollati sotto le finestre della cittadella dove il Generale era stato rinchiuso, gli gridavano «A Roma, a Roma!» il che gli fece dire più tardi:[353] «Se avessi detto una sola parola che suonasse lavacro delle vergogne italiane, uffiziali e soldati mi avrebbero seguíto ovunque.»
Intanto l’agitazione crescente della Penisola, i doveri della pubblica tutela, le insistenti e quasi insolenti pressioni della Francia ponevano il Governo in terribili frangenti.
Anzitutto che cosa fare di quel prigioniero? Era ancora il medesimo problema d’Aspromonte, ma più intricato forse; giacchè sostenere che Garibaldi fosse stato colto in flagrante non era sì facile assunto, e l’accusa di violazione della immunità parlamentare poteva tornare assai pericolosa. Però dopo molto ondeggiare tra il processo, la libertà incondizionata, la libertà condizionata, Rattazzi si risolveva ad inviare in Alessandria il generale Pescetto, Ministro della Marina, coll’incarico di commuovere l’animo del Generale, e di indurlo, se fosse possibile, a ritornare a Caprera sotto la sola condizione che non avrebbe fatto alcun tentativo per uscirne. Ma il Generale diede a questa proposta un così aperto e secco rifiuto che il [495] Pescetto, dopo aver chiesto e atteso invano per oltre dodici ore nuove istruzioni, s’indusse, sotto la propria responsabilità, a consentirgli il ritorno a Caprera senza condizione alcuna, provvedendo soltanto che non s’indugiasse a Genova e fosse trasferito immediatamente alla sua isola da un piroscafo della R. Marina.
E così avvenne.
Il 27 mattina, in sull’alba delle 4, il Generale usciva da Alessandria e circa due ore dopo smontava nella casa del signor Coltelletti all’Acquasola di Genova. Quivi il popolo ebbro di rivederlo, ma credendolo tuttavia prigioniero, minacciava di liberarlo egli stesso colle proprie braccia; quando il Generale con una lettera ad A. G. Barrili, Direttore del Movimento, nella quale diceva che «a scanso d’equivoci tornava a Caprera libero e senza condizioni,» e con molte altre consimili parole dirette ora in italiano, ora in genovese alla folla, riuscì a quietare ogni tumulto e nella sera del giorno stesso condotto amichevolmente a bordo del regio Avviso l’Esploratore, ricevuto con tutte le mostre d’un illustre viaggiatore, in realtà custodito come un deportato, salpava per Caprera.
Ma dietro al corpo di Garibaldi prigioniero restava la sua anima; restava nell’eco infocata de’ cento manifesti e de’ mille discorsi, restava in quelle demosteniche parole: «I Romani hanno il diritto d’insorgere; gl’Italiani hanno il dovere di aiutarli, e spero lo faranno a dispetto della prigionia di cinquanta Garibaldi:» e, se un dubbio fosse ancora possibile, restava in quest’ultima lettera a Francesco Crispi, scritta sulla nave stessa che lo portava a Caprera, e nella quale [496] non sapresti se più ammirare il senso fatidico dell’Eroe che presentiva in un atto di suprema energia la soluzione del grande problema, o la virtù del patriota che non fa della salvezza della patria un misero piato di vanità o di primazia, ed è sempre pronto ad ecclissarsi dietro chiunque inalberi prima di lui il vessillo redentore.
«Caro Crispi,
»Dopo ben maturo esame della situazione, io vedo un solo modo di rimediarla a soddisfazione della nazione e del governo.
»Invadere Roma coll’esercito italiano e subito.
»Non creda il governo di contentare l’Italia in altro modo. Essa perdonerà le sue miserie, ma non la sua degradazione. Ed oggi non solo la nazione italiana si sente oltraggiata, ma si sente oltraggiato l’esercito; e se in Alessandria, quando ero acclamato dall’intiera guarnigione, io avessi detto una parola che suonasse lavacro delle vergogne italiane, uffiziali e soldati mi avrebbero seguíto ovunque.
»Per cotali considerazioni il governo si persuada che, con pochi giorni d’energia, esso tutto accomoda, si concilia la nazione intiera e dove vi fosse minaccia esterna di volerlo inceppare, noi solleveremo fino alle donne, ai bambini, e certo il mondo vedrà risoluzione di popolo, come forse non ha veduto ancora.
»Rispondetemi subito.
»Vostro
»G. Garibaldi.
»27 settembre 1867.»
Ora in cospetto d’una causa così santa e di una fede sì ardente, e dopo tante ripetute manifestazioni della medesima volontà, al punto in cui erano giunte le cose, un dilemma si presentava chiaro ai vecchi garibaldini e a tutto in generale il partito democratico italiano: o sconfessare il loro Capo, rinnegando con [497] lui tutto il proprio passato rivoluzionario e dando una mentita a tutte le idee sin allora espresse in Parlamento e fuori circa al modo di risolvere la questione romana; o continuare l’opera da lui avviata, giovandosi soltanto della sua forzata e temporanea assenza per compierne meno precipitosamente gli apparecchi e sceglierne con maggior ponderatezza l’opportunità e l’istante.
Se non che, come accade sovente, alla concordia nel fine non andava di pari passo l’accordo dei mezzi. Crispi, ormai buttatosi corpo e anima nella congiura, Fabrizi, Cucchi, Cairoli, Guastalla, Miceli, La Porta, Oliva, Guerzoni, tutta in generale la frazione politico-militare del partito garibaldino opinavano sempre che il segnale della riscossa dovesse partire da Roma, e che qualsiasi anticipato moto di bande, mettendo sull’allarme il Governo pontificio, non potesse che nuocere alla riuscita dell’impresa principale. Menotti, invece, Canzio, Acerbi e qualcun altro, tenendosi più ligi alle istruzioni del Generale, persistevano a credere che le due mosse dovessero andare parallele; che la insurrezione di Roma non accadrebbe mai, o difficilmente, senza l’esempio e l’eccitamento della insurrezione della campagna, e che questa non potrebbe mai ottenersi se non per mezzo di una irruzione di Volontari che la suscitasse.
Tuttavia il dissidio non era tra amici e commilitoni impacificabile, e già pareva che l’idea dell’iniziativa romana, caldeggiata, più che da tutti, dal Cucchi, che la dava, se il tempo non mancasse alla preparazione, per sicura, e dal Crispi, che oltre a tant’altre ragioni tentava dimostrare non renitente il Rattazzi col quale aveva frequenti convegni, pareva, dico, che quell’idea cominciasse a prevalere; quando ad un tratto, all’improvviso [498] per tutti, una mano di forse centocinquanta giovani, dei quali soltanto un terzo armati di pessimi fucili, capitanati dal trentino Luigi Fontana, uno dei Mille, appiattati fino a quel giorno nelle macchie d’una Bandita viterbese, chi dice spinti dalla fame, chi dalla paura d’essere smacchiati e presi dalle truppe italiane spedite alla loro caccia, passano il confine, si buttano sopra Acquapendente e dopo una zuffa accanita vi fanno prigionieri trentadue gendarmi pontifici e s’impossessano della terra.
Fu il trabocco della bilancia: Acerbi e Menotti si credettero impegnati d’onore ad accorrere in aiuto degli arditi che pei primi eransi gettati allo sbaraglio; e tra quei medesimi che fino allora erano stati piuttosto avversi a qualsiasi intempestiva invasione armata, cominciava a farsi strada l’idea che fosse mestieri soccorrere i combattenti e che in ogni caso non si potesse abbandonarli. Ecco perciò Acerbi dar l’ordine alle altre sue genti, che aveva raccozzate nei dintorni d’Orvieto, di sconfinare; ecco Menotti partire per Terni col proposito di fare altrettanto; ecco Nicotera prepararsi ad imitarli. Fra il 2 e il 5 ottobre tutto l’agro viterbese e la Sabina formicolavano di bande. Il 4 era passato Menotti con soli venti uomini; ma il 7 ne aveva seicento, ed occupato Nerola, sul confine sabino, aveva già respinta una prima ricognizione di Pontifici. Il 3, i Garibaldini d’Acquapendente rinforzati da alcune centinaia di camicie rosse, guidate dal maggiore Ravini, occupavano prima San Lorenzo, poi Bagnorea, da dove il 5, dopo un eroico ma sfortunato combattimento, eran ricacciati in disordine su Castiglione; alcune squadriglie stormeggiavano presso Bolsena, ed altre nei dintorni di Viterbo; e finalmente Acerbi, dopo lungo e non bene giustificabile [499] indugio, compariva in mezzo a’ suoi e annunziata la sua prodittatura, piantava il Quartier generale a Torre Alfina.
Che faceva ora innanzi a questa marea crescente il Governo? Urbano Rattazzi fino a quel momento, fino cioè alla passata delle bande, aveva parlato ed agito chiaramente. Tutt’al più qualche eccessivo gli poteva rinfacciare un po’ di lentezza nella caccia de’ Volontari accorrenti a Garibaldi, e qualche reazionario di non aver fino dalle prime fatto man bassa su tutte le libertà, e posta mezza Italia in istato d’assedio; ma insomma gli uomini equi ed imparziali dovranno convenire che un governo liberale in una monarchia costituzionale, in una questione nazionale d’indole così delicata e complessa, come quella suscitata dalla crociata garibaldina, non poteva fare di più. Egli aveva protestato apertamente che disapprovava quel moto e che l’avrebbe, occorrendo, impedito anco colla forza: aveva confermato il fatto col detto, sequestrando, disperdendo, incarcerando: anche i più esigenti conservatori non potevano chiedergli di più. Se non che, quando il torrente malgrado tutti gli sforzi dilagò e parve manifesto che l’arrestarlo non era più possibile senza opporgli dighe di cadaveri umani; quando il fatto si chiarì più forte d’ogni consiglio e il sentimento patriottico soverchiava anche ne’ più prudenti ogni considerazione politica;[354] quando infine la repressione del conato garibaldino poteva parere una sconfessione dell’idea nazionale ed essere interpretata come un atto di paura o di soggezione all’Impero Francese, unico protettore rimasto al Papato, allora il [500] gabinetto Rattazzi non poteva più esitare: o cedere ad altri immediatamente il governo della pubblica cosa (e non sarebbe stato nè onesto nè coraggioso), o secondare arditamente, anzi governare egli stesso il moto che non aveva potuto impedire.
Ma come tutti i deboli e i mediocri, prese non diremo nemmanco una via di mezzo, ma cento viottole torte che non conducevano ad alcuna. Oggi sequestrava i fucili de’ Volontari e domani metteva in mano dei Comitati garibaldini quelli degli arsenali governativi:[355] non permetteva che i Volontari sconfinassero in grosse bande, e li lasciava passare alla spicciolata; conveniva che una insurrezione in Roma sarebbe stata il taglio macedone di tutti i nodi, e largheggiava di danari in suo soccorso e forniva di passaporti coloro che volessero entrarvi ad aiutarla, ma non aveva il coraggio di confessarlo, e soprattutto d’aiutarla pubblicamente; minacciava ripetutamente al Governo francese di occupar Roma al primo annuncio d’insurrezione, e alle troppe parole non faceva mai seguire il fatto. Il solo audace partito di cui si sentì capace fu la istituzione d’una certa Legione Romana, che doveva a’ suoi occhi imprimere il suggello d’un’insurrezione veramente paesana e spontanea a quella che fin allora era stata accusata di importazione forestiera, e forzare anche la più incredula diplomazia a riconoscerne la autentica romanità. Il qual disegno, piccino in sè stesso, ordito ad insaputa dei principali capi garibaldini, e pregiudicato fin dal nascere dal sospetto d’una cospirazione nella cospirazione, finì poi, per le mani indegne cui fu affidato, a [501] degenerare in un vero pericolo ed in un danno reale per l’impresa stessa cui mirava giovare.
Infatti il ministro Rattazzi, fidatosi, con una cecità che riesce tuttora inesplicabile, a certo Filippo Ghirelli, emigrato romano e già maggiore prima di Garibaldi, eppoi dell’esercito, commise a lui non solo l’ordinamento ed il comando della Legione, ma persino il titolo e le facoltà di Commissario regio nel distretto d’Orte; dei quali titoli e facoltà quel nobil campione del valore romano seppe usare così bene che per saggio della sua onestà svaligiò in compagnia del famigerato barone Franco Mistrali la Posta d’Orte; per documento della sua accortezza politica impose una taglia di 25,000 franchi al clero della stessa città; per riprova infine de’ suoi talenti militari tagliò la ferrovia tra Orte e Corese, base delle comunicazioni ferroviarie della rivolta; per la quale ultima prodezza, prima ancora che il Fabrizi lo destituisse, fu cacciato via da’ suoi stessi soldati col grido di traditore.
Ciò non ostante, l’insurrezione si sosteneva, e quantunque breve, ognuna delle colonne invadenti aveva fatto un passo avanti. Il 13 ottobre, Nicotera, dopo un ritardo, a dir vero, poco giustificabile, riusciva a sconfinare a Vallecorsa con oltre ottocento uomini (dei quali peraltro soltanto alcune centinaia armate alla meglio) e s’avviava l’indomani per Falvaterra. Nel giorno stesso Menotti si spingeva fino a Montelibretti, che contrastava all’indomani per tutto il giorno al nemico, abbandonandolo senza plausibile ragione la sera; ma per ricuperarlo al mattino vegnente.[356] In fine il 15 ottobre l’Acerbi, rimastosi immobile [502] tutti quei giorni a Torre Alfina, moveva con tutte le sue forze sopra San Lorenzo, ne sloggiava il nemico e si preparava a marciare su Viterbo, che si diceva pronta ad insorgere al primo apparire delle camicie rosse.
Solo Roma non dava ancora alcun segno di vita, nè lo poteva. Una sollevazione generale, uno di quegli impeti spontanei e irresistibili di popolo, che, senza bisogno di disegni e d’apparecchi, coll’armi sole dello sdegno e dell’amor patrio, fa crollare in poche ore le più antiche tirannidi, in Roma non era possibile. L’infiacchimento degli animi e de’ corpi, naturale effetto della centenaria educazione sacerdotale, e l’idea propagata dalla funesta scuola del Comitato Nazionale, e infiltratasi anche nelle fibre de’ più energici, che unica soluzione sperabile alla questione romana fossero il consenso delle maggiori Potenze cattoliche e l’opera lenta dei mezzi morali, avevano doma, se non ispenta, l’antica virtù del popolo romano, e toltagli la fede di poter da sè solo vendicarsi in libertà. Però sola cosa sperabile e conseguibile in Roma era una sommossa parziale; un colpo di mano degli elementi più rivoluzionari e gagliardi della città (e non abbondavano), preparato artificialmente nel segreto d’una congiura, epperò soggetto ai mille eventi ed ai mille pericoli di tutte le congiure. Affinchè però anche un siffatto colpo di mano potesse riuscire in una città quale Roma, due condizioni erano indispensabili: che il lavoro preparatorio potesse essere condotto con una certa libertà e sicurezza: che in ogni caso le braccia [503] pronte a tentarlo fossero armate. Ora al 16 ottobre Roma non aveva ancora una sola arma da guerra; e quanto a cospirare, la sveglia data alla polizia papale dalla invasione garibaldina, l’aveva reso così pericoloso e difficile che poteva dirsi un vero miracolo se la trama non era dieci volte al giorno scoperta e disfatta. Appena infatti la prima banda ebbe sconfinato, il Governo pontificio lasciò ogni ritegno; e raddoppiati i posti militari; chiuse o vegliate più gelosamente le porte; frugando case ed alberghi; espellendo i forestieri sospetti; mettendo alle calcagna d’ogni patriotta un birro; perlustrando notte e giorno la città; minacciando con pubbliche gride i cittadini, pose Roma, senza dirlo apertamente, in un vero stato d’assedio. Ora introducete armi e cospirate in siffatta città! Cucchi, Guerzoni, Adamoli, Bossi, Cella, stretti in lega coi membri più operosi della Giunta Nazionale, lavoravano arditi e indefessi; ma, senza che nessuno osasse confessarlo all’altro, tutti sentivano gli influssi di quel nemico che fin da principio aveva più d’ogni altro cooperato ad accrescere le difficoltà dell’opera loro: la sollevazione intempestiva e forse sterile delle province, che aveva reso pressochè impossibile la sorpresa della capitale.
Ma torniamo a Caprera. La Gazzetta Ufficiale del 27 settembre stampava: «Il generale Garibaldi avendo manifestato il desiderio di ritornare a Caprera, il Governo, trovando questa intenzione conforme alla sua, vi ha tosto aderito;» ma in queste parole l’organo governativo mentiva a una metà del vero, e ne dissimulava l’altra metà. Mentiva quando diceva che il Generale [504] aveva chiesto egli stesso di tornarsene a Caprera; come vedemmo, posto al bivio dal generale Pescetto o di restar prigione nella fortezza d’Alessandria, o di tornarsene senza condizioni al suo eremo, egli non aveva fatto che appigliarsi a questo partito come al minor male; dissimulava poi la parte più importante della verità, quando taceva che appena toccata terra il generale Garibaldi era stato posto sotto la custodia d’una squadra prima di quattro, poi di cinque, finalmente di nove[357] legni da guerra, e rinchiuso nella sua isola se non veramente come un prigioniero, come un relegato a confino.
Il Generale tuttavia ricusò in sulle prime di credere ad una sì aperta mancanza di fede, e continuando a reputarsi libero de’ suoi passi e delle sue azioni tempestava di lettere e di telegrammi il Cucchi ed il Crispi perchè alla lor volta mantenessero la data parola e mandassero un vapore a prenderlo.[358] Il che nè il Cucchi, nè il Crispi potevano fare: il Cucchi perchè era in Roma; il Crispi perchè sapeva bene quali erano gli ordini del Governo e non poteva sperare di mutarli se non col mutare della politica generale del Governo stesso. E per questo egli scriveva al Generale: «State tranquillo: ottime disposizioni e spero non tarderete a vederne conseguenze;» e per [505] questo il Generale continuava ancora per alquanti giorni a pazientare ed attendere.
Venne però il momento in cui l’inganno non fu più possibile. Agli 8 di ottobre infatti avendo voluto far la prova d’imbarcarsi sopra il vapore postale che tocca periodicamente la Maddalena, un legno della crociera, la Sesia, tirò replicatamente su di lui e forzatolo a montare al suo bordo lo ricondusse a Caprera. Allora finalmente aperti gli occhi all’evidenza, mandò quella specie di ruggito di leone incatenato che suonava così:
«Caprera, 10 ottobre 1867.
»Amici carissimi,
»Sono veramente prigioniero, e vi lascio pensare con che spirito, sapendo Menotti ed i miei amici impegnati sul territorio romano.
»Impegnate il mondo perchè non mi lascino in questo carcere.
»Un saluto a tutti dal
»sempre vostro
»G. Garibaldi.»
Ma gli amici erano tuttora divisi in due; alcuni, quali il Crispi, il Fabrizi, il Cairoli, il Guastalla, fidenti sempre negli accordi col Rattazzi, opinavano che il Generale avrebbe assai meglio giovato a sè ed alla causa sua attendendo in Caprera l’esito de’ negoziati: altri invece, tra questi principalissimo Stefano Canzio, diffidente di tutte quelle ambagi, non ammetteva dimore; e non vedendo altra salute che nel ritorno del Generale sul continente, prima ancora che la signora Mario recasse da Caprera il biglietto testè citato, lavoravano a tutt’uomo alla sua liberazione. Non passavano infatti tre giorni che Stefano Canzio, noleggiata colla mediazione di Andrea Sgarallino e col danaro [506] d’Adriano Lemmi, l’instancabile e inesauribile tesoriere della rivoluzione, la paranzella San Francesco, e avuto seco a bordo Andrea Viggiani, espertissimo marinaio della Maddalena, salpava da Livorno, e dopo tre giorni di traversíe e di rischi d’ogni fatta, ingannata felicemente la crociera in mezzo alla quale fu costretto a passare, approdava alla Maddalena, poco lunge dalla punta della Moneta, e per mezzo della signora Collins, una Inglese dimorante da lunghi anni in quel paraggio, riusciva a rendere avvertito del suo arrivo il Generale e a comunicargli il fine che l’aveva condotto.
E il Generale, che a guisa dell’uomo del Vangelo era sempre pronto, inviava tostamente il Basso con la figlia Teresita alla Moneta, e concertava col genero questo disegno di fuga.
Egli, il Generale, tragitterebbe di notte da Caprera alla Moneta, e di là in una barca da pesca tenterebbe di afferrar la Sardegna, o nel porto di Liscia o in quello d’Arsachena; il Canzio e il Viggiani colla San Francesco, girata la Maddalena, andrebbero a lor volta a prender terra sulla costa orientale sarda e nel porto di Brandinchi l’aspetterebbero.
Ma tutto ciò era molto facile a dirsi, e forse per il Canzio ed il Viggiani, intraprendenti e audaci, non straordinariamente difficile ad effettuarsi; ma per il Generale, guardato a vista nell’isola, addirittura portentoso e quasi impossibile.
Una squadra di nove legni da guerra senza contare i minori[359] guardava Caprera da tutti i lati, visitando [507] qualsiasi barca salpasse dall’isola, od anche solo la costeggiasse, ricacciando indietro tutte quelle i cui andamenti fossero appena sospetti e tirando a palla, come fu fatto sul Generale stesso e sulla figlia, su quanti navigatori di quelle acque non si mostrassero pronti ad obbedire al comando. La vigilanza era dunque rigorosissima e dato lo scopo non poteva essere minore in quello stretto di Bonifacio, tutto frastagliato, come un arcipelago di scogli e bassi fondi, intorno ad un’isola, quale Caprera, tutta seni, calanche, porticciuoli innumeri e di cui Garibaldi conosceva come un pesce i più misteriosi recessi.
«Per guardare un’isola simile — esclamava ancora il comandante Isola — non c’era che legare una barca ad ogni scoglio.... e per essere sicuri che Garibaldi non fuggisse imbarcarselo a bordo d’un legno da guerra e portarselo a fare un viaggio all’estero.»
Pure il capo della crociera, non pago delle prese precauzioni, raddoppiava ogni giorno d’astuzie e di vigilanza. Ora mandava a terra con studiati appigli i suoi ufficiali a spiare le mosse del Generale in casa sua: ora gli si presentava egli stesso col pretesto di chiedere nuove della sua salute, in fatto per accertarsi della sua presenza; ora infine poneva sotto guardia speciale di un’apposita squadriglia di barche da guerra tutti i legni grandi e piccoli del Generale, cioè il canotto, il Yacht, dono d’Inghilterra, un’altra barca, e tutto quanto insomma galleggiava nel porto dello Stagnarello, che era il principale asilo della piccola flottiglia di Caprera.[360]
Allora adunque la fuga poteva dirsi quasi disperata, e allora Garibaldi la tentò.
[508]
A lui di tutto quell’arsenale non era rimasto, perduto in un magazzino tra gli altri rottami marinareschi, che un canottino, una chiatterella, uno di quei gingilli, diremo così, sottili, leggieri, fragili, capaci appena d’un uomo e d’un remo, che i cacciatori pisani usano per la caccia delle anitre e delle beccaccie nelle morte gore de’ loro paduli, e che appunto dal nome della caccia son chiamati beccaccini. Mai più sospettare che Garibaldi si sarebbe avventurato a traversare uno stretto di mare su quella tavola che un buffo di vento poteva capovolgere ed un’ondata ingoiare; mai più sospettare che il gingillo fosse uno strumento bellico, e che il beccaccino del cacciatore dovesse portare la guerra al Papato! Fu dunque non visto, dimenticato, trascurato, che so io, non calcolato e non contato. Lo contò per altro Garibaldi, che nell’anima chiusa covava la fuga colla fissazione del forzato nell’Ergastolo; lo contò sì bene che, colta una notte oscura, lo fece, a spalle d’un suo fido, trasportare e rimpiattare ben bene in una delle più ascose insenature del così detto Passo della Moneta, punto che, per essere più prossimo all’isola della Maddalena, serviva a meraviglia al disegno che già molinava in mente e di cui quel trasporto poteva dirsi la prima mossa esecutrice. Fatto ciò, si disse ammalato, e chiuso in camera, invisibile per parecchi giorni ad anima viva, stette ad aspettare l’occasione. E l’occasione, come dicemmo, navigava già alla sua volta, e gliela conduceva la paranzella di Stefano Canzio.
Durante tutta la giornata del 16 era regnata una fitta nebbia, frequente in que’ paraggi, e la notte perciò prometteva d’essere oscurissima. Garibaldi scelse quella; e verso le 10, calato solo al nascondiglio del suo beccaccino, si spiccò da terra e s’avventurò al tragitto. [509] Bisognava possedere l’occhio felino, veggente nelle tenebre, di Garibaldi; essere vissuto in que’ mari da quindici anni, saperne a memoria pietra a pietra tutti gli scogli e quasi indovinare dove vegliano a fior d’acqua e dove dormono insidiosi; essersi provato dieci altre volte a passare illeso in mezzo ad una flotta nemica, conoscere a prova tutte le leggi, tutte le manovre, tutti gli strattagemmi, tutte le abitudini della gente di mare, da quelle del mozzo a quelle del nostromo, da quelle dell’ammiraglio a quelle del corsaro, per concepire anche solo la speranza di poter approdare a quel modo, in quell’ora, con cento occhi e cento fanali puntati su di voi, in un porto o ad una riva qualunque.
Tanto più che le barche della crociera non solo potevano vedere, ma udire; e il più lieve batter di remo, persino un insolito frangere d’onda, bastava a destarne l’allarme.
Il problema era dunque doppio: avanzare senza farsi vedere e vogare senza farsi sentire; ridurre a un punto impercettibile la barca, e a un fiato quasi insensibile il remeggio ed ogni altro rumore. E Garibaldi lo risolse. Disteso allungato immobile dentro il suo guscio, in guisa da formare con esso e colla superficie del mare quasi una linea sola, maneggiando coll’agilità del piroghiere indiano la spatola che gli tien luogo di remo, studiando la rotta, spiando ogni ostacolo, misurando ogni colpo, vogando leggiero e costante, inoltrando guardingo e veloce, come uno smergo che strisci sull’acqua, scivola via.
Le storie narrano di molti aiuti prestati dai piccoli ai grandi; da quella notte del 16 ottobre esse dovranno anche registrare l’aiuto prestato dal piccolo navicello maremmano al grande vincitor di Palermo, al grande vinto di Mentana.
[510]
Ci fu anzi un momento in cui Garibaldi passò così rasente ad un barcone di guardia che poteva persin sentire le parole delle sentinelle; pure anche in quel momento nessuno sospettò di lui ed egli continuò felicemente, fino alla Maddalena, il tragitto. Sbarcato poi, la signora Collins lo ricoverò in casa sua, e là, sotto la duplice tutela della santità della donna e della inviolabilità d’una bandiera che non tollera insulti, passò il resto della notte.
Alla mattina del 17, nessun movimento insolito, nessuno indizio di novità importante nelle acque di Caprera e della Maddalena; soltanto una barca di pescatori fu veduta passare tra l’isolotto San Stefano e la Punta Rossa, colla prua verso Liscia o verso Arsachena. Per sola formalità, la barca giunta in vicinanza di un legno di crociera, probabilmente il Ferruccio, ebbe il Chi va là? — Pescatori! fu risposto. Infatti pescatori maddalenesi d’aragoste e corallini di Torre del Greco rifanno ogni mattina quella strada e per quella direzione, ed era già cosa convenuta di lasciarli liberamente passare. Nella barca, tinta la barba, camuffato da pescatore, insieme con Basso, il servo Maurizio e il marinaio Cuneo, v’era Garibaldi.
Sbarcò in una insenata della Punta di Sardegna e quivi in una conca (specie di caverna) passò la notte. Al mattino seguente montato sopra uno di que’ ginnetti sardi che ballano sulle roccie, per valli e per monti, su per sentieri dove appena s’inerpica il caprone selvatico, per diciassett’ore di seguito, arrestandosi appena per lasciar rifiatare le bestie, giunse presso Porto San Paolo, dove riposatosi alcune ore nello stazzo del pastore Jaceddu, continuò di lì a poco per Brandinchi; e colà trovati Canzio e Viggiani, colto [511] un vento fresco di poppa in sulle tre e mezzo pomeridiane del 18 mise alla vela per la costa toscana.
E così il vecchio Corsaro tornava signore del regno ampio de’ venti e sarà bravo chi lo arriva. Superato all’alba del 19 il Canale di Piombino, giunse in poche ore in vista della rada di Vado, a poche miglia da Livorno e verso le nove del mattino vi atterrò. Colà però nuovo e non meno fastidioso ostacolo. Tutta quella spiaggia vadese è un impasto così appiccaticcio di rena e di alghe, che mettervi il piede senza restarvi invischiati dentro è quasi impossibile.
Ecco dunque tutta la brigata de’ fuggitivi, ma più Garibaldi cui la ferita d’Aspromonte rendeva penosissimo il camminare, costretta ad aprirsi faticosamente un sentiero tramezzo quei paduli, spesso affondando fino a mezza gamba e avanzando a piccoli passi, talvolta non potendo nè avanzare nè retrocedere; ma pure a forza di volontà e di costanza riuscendo a sfangare da quella melma ed a guadagnare finalmente le case di Vado.
E da quel punto tutto va a seconda. Canzio noleggiati in Vado due baroccini monta egli stesso sul primo col Generale, che aveva ripreso per precauzione il suo vecchio nome di guerra di «Giuseppe Pane;» sul secondo vengon dietro gli altri tre compagni, e via allegramente tutti insieme alla volta di Livorno. E quivi pure il Generale non arrivava a tutti inaspettato. Entrato per vie remote in città, riposatosi alcune ore in casa degli Sgarallino, monta verso la mezzanotte sul legno da posta, che Adriano Lemmi aveva già apparecchiato, e a trotto serrato, senza voltarsi indietro, correndo senza posa quel resto di notte e tutta la mattina successiva, in sul mezzogiorno del 20 arrivava in Firenze.
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Ad Empoli gli erano mossi incontro, già edotti del suo arrivo, Enrico Guastalla e Benedetto Cairoli; e tant’era la gioia che sfavillava dall’animo del Generale che buttandosi tra le braccia di Benedetto esclamò: «Di tante rischiate imprese che ho tentato in vita mia la più ardua e la più bella, e di cui sentirò un certo vanto fino che campi, è codesta mia fuga da Caprera.»
Descrivere la sorpresa, la scossa, la gioia e lo sgomento insieme, cagionati da quell’inaspettata apparizione, noi non lo sapremmo. Governo, Parlamento, cittadini, erano tutti sossopra. I telegrammi della vigilia avevano per l’appunto assicurato che Garibaldi era sempre a Caprera, non solo ben sorvegliato e custodito, ma anche un po’ ammalato e quindi costretto a rimanere in camera; e la mattina dopo eccotelo, come uno spettro balzato di sotterra, a Firenze. Fu detto subito che il Governo l’aveva lasciato scappare, e quanto non fosse vero lo sappiamo! Chi non l’aveva veduto non voleva crederlo. Vedutolo, il fáscino della sua persona riguadagnava tutti i cuori. Il popolo lo contemplava col superstizioso stupore con cui si contemplerebbe un redivivo: gli amici lo consultavano con ansietà: gli avversari lo interrogavano con rispetto: tutti gli si affollavano dintorno trepidi ed inquieti, come se egli portasse nelle pieghe del suo puncho i destini d’Italia.
E quel che è più, nessuna forza poteva pel momento opporglisi. Il Governo non esisteva più che di nome. Fin dal 18 ottobre ad Urbano Rattazzi, dopo aver respinto uno ad uno i partiti che il Governo francese pretendeva imporgli, ora dell’intervento momentaneo [513] sul territorio pontificio per disarmarvi i Volontari; ora dell’intervento misto in Roma, francese e italiano, per tutelarvi il Pontefice e proporvi d’accordo la questione romana ad un Congresso europeo, non era rimasta aperta altra via che quella dell’intervento puro e semplice in Roma, non già coll’intento, dichiarava il Rattazzi medesimo, di tagliar colla spada il nodo della questione romana, ma di tutelare insieme alla indipendenza spirituale del Santo Padre gli interessi de’ Romani rimettendo nelle loro mani l’arbitrio delle loro sorti politiche. Come, però, al solo annuncio di questo disegno il Governo francese s’era tosto inalberato minacciando a sua volta di rioccupare Roma, e se avesse fatto un sol passo innanzi di intimar guerra all’Italia; così il Gabinetto Rattazzi, ridotto al bivio estremo, o di raccogliere il guanto di sfida della Francia, o di sottomettersi a’ suoi voleri, non avendo potuto trovarsi concorde nè sull’uno nè sull’altro partito, rassegnò i suoi poteri indicando al Re il generale Cialdini come l’unica persona politica che in quell’istante potesse succedergli.[361] Ma poichè d’altra parte il Cialdini, giunto in Firenze soltanto nella giornata del 21, era più lontano che mai dal riuscire nella composizione del Gabinetto, così il Rattazzi perchè non era più Ministro, il Cialdini perchè non lo era ancora, nessuno de’ due si sentiva l’autorità e la forza di porre le mani sul grande ribelle, il quale in poche ore era ridivenuto più potente che mai, e oramai padrone di tutti i suoi passi.
[514]
Il Cialdini, è vero, tentò nella mattina del 22, prima per mezzo del Crispi, poi direttamente egli stesso, di persuaderlo a fermarsi e a ritirarsi nuovamente nell’ombra, assicurandolo che la questione romana non sarebbe abbandonata, nè l’intervento straniero permesso; ma le scariche a polvere sulle corazze producono lo stesso effetto. Fermo, tenace più che mai nel suo proposito, banditi l’un dopo l’altro due nuovi appelli di guerra,[362] nel secondo de’ quali, credulo immantinente ad una fola, sparsa non si sa come, in Firenze, che i Romani fossero insorti, diceva: «A Roma i nostri fratelli innalzano barricate e da ieri sera si battono cogli sgherri della tirannide papale. L’Italia spera da noi che ognuno faccia il suo dovere;» arringato due volte dal suo albergo in Piazza Santa Maria Novella il popolo fiorentino, scompare improvviso come era venuto; e in sul pomeriggio del giorno stesso con un treno straordinario procacciatogli dal Crispi parte per Terni, dove saputo che il Cialdini ed il Rattazzi, postisi per un istante d’accordo, avevano dato ordine d’inseguirlo (inseguirlo fu detto, ma non raggiungerlo), sconfinò, in sul primo albeggiare del 23, da Passo Corese.
Nella sera stessa in cui Garibaldi arrivava a Terni, la tanto promessa e invocata e sudata insurrezione romana scoppiava;... ma ohimè! eterno apologo delle montagne partorienti!
A tutto rigore, nonostante i prodigi d’operosità e d’ardire del Cucchi e de’ suoi compagni, gli apparecchi dell’impresa non erano ancora compíti; e non [515] foss’altro, le armi, quelle armi, senza le quali i congiurati romani si protestavano impotenti a qualunque sforzo, non erano per anco potute penetrare in Roma; e gli unici duecento fucili su cui gl’insorti potevano contare, dopo essere rimasti sepolti per alquanti giorni sotto la pozzolana della riva sinistra del Tevere, era parso grande fortuna disotterrarli e nasconderli in certa Vigna Matteini, a circa un miglio da Porta San Paolo. Però tutto l’arsenale dell’insurrezione consisteva in alcune serque di bombe Orsini e di rewolvers e in qualche barile di polvere. Ma il Comitato di Firenze a nome del Rattazzi stesso, il generale Fabrizi da Terni, tutti scrivevano o facevano dire al Cucchi: «una schioppettata, una sola schioppettata, per carità,» e la schioppettata fu tirata.
Nel disegno de’ congiurati, troppo a dir vero complicato, il più grosso drappello, guidato dal Cucchi stesso, doveva assalire il Campidoglio, e se gli veniva fatto d’impadronirsene, asserragliarvisi; un’altra squadra, comandata dal colonnello Bossi, tentare lo stesso colpo sul corpo di guardia di Piazza Colonna: Guerzoni con cento uomini condurre, sforzando la Porta San Paolo, il carico delle armi dalla Villa Matteini entro la città, e presso Campo Vaccino distribuirle: Giuseppe Monti minar la caserma Serristori: Francesco Zoffetti ed altri sette cannonieri inchiodare le artiglierie di Sant’Angelo: i fratelli Cairoli infine (benchè il loro magnanimo tentativo non potesse dirsi concertato, almeno quanto al tempo e al modo, col Comitato Romano) dovevan scendere pel Tevere fino a Ripetta, apportando ai Romani parte delle armi di Terni, e, quel che più montava, l’aiuto d’un manipolo di valorosi, le cui forze potevansi dire centuplicate e dalla prodezza singolare dei Capitani e dall’apparire inopinato.
[516]
E tutto ciò a giorno e ora fissa: il 22 ottobre alle ore sette della sera.
Se non che coteste fila erano troppe, perchè potessero essere tutte forti del pari e qualcuna spezzandosi non producesse lo sfasciamento dell’intera trama. La polizia era già in sull’all’erta: tutti i particolari forse non conosceva; ma pareva certa del giorno e dell’ora, e frattanto il generale Zappi, governatore di Roma, faceva murare sei delle dodici porte della città; raddoppiava i posti di Piazza Colonna e del Campidoglio; tratteneva in quartiere le truppe ed altre siffatte precauzioni. Però il Guerzoni (che in luogo dei cento promessi, compagni n’aveva sette), sorpreso quasi tosto nella Villa Matteini e assalito da una compagnia di Zuavi rinfrancata da Gendarmi e Dragoni, era costretto, dopo breve lotta, ad abbandonare le armi agli aggressori; l’assalto del Campidoglio, alla cui difesa stava nascosto il De Curten con due compagnie, fallì; quello di Piazza Colonna, dispersi i congiurati anche prima dell’ora, non potè nemmeno essere tentato; la caserma Serristori saltò in parte; ma gli Zuavi, quei medesimi che erano andati ad assalire Vigna Matteini, ne erano usciti; sicchè fu assai più il rumore che il danno; i Cairoli infine, del cui arrivo nè Cucchi nè alcun altro era stato avvertito in tempo, pervenuti nella notte del 22 con settantasei compagni all’altezza di Ponte Molle, e udito di là il fallimento della sperata sollevazione, eran stati costretti a tenersi rimpiattati nella notte fra i canneti della riva ed a cercarsi, alla prim’alba, un rifugio meno periglioso nella Villa Glori sui Monti Parioli. Scoperti anche colà, assaliti nel pomeriggio da un nemico tre volte soverchiante, piagato a morte Enrico, rotto da ben dieci ferite Giovannino, l’un fratello spirante nelle braccia [517] dell’altro esangue, decimata in breve la più bella schiera di prodi che l’Italia da molto tempo avesse partorito, il campo restò al numero ed alla forza, miserabile conquista dei vincitori, ara perenne di gloria al sacro stuolo dei vinti.[363]
E tuttavia non fu quella la catastrofe più tragica di quell’infelice conato. Nel lanificio Ajani in Trastevere, alcuni patriotti avevano raccolte poche armi col proposito di usarle, se, come speravasi, Roma era decisa a ritentare la riscossa. Se non che scoperto per l’imprudenza d’un fanciullo il ricovero, circuita e battuta da ogni lato la casa, gli assaliti infiammati dallo spartano esempio di Giuditta Tavani-Arquati si preparano a disperata difesa. Combattono prima dagli abbaini, dalle finestre, dalle porte; poscia, penetrata l’onda degli aggressori, invase le scale, sfondati gli ultimi serragli che il furore aveva innalzati, il combattimento si muta in zuffa feroce, al pugnale, coll’ugne, co’ denti; dominante in mezzo a tutti la eroica Giuditta, che incuora, comanda, combatte, fino a che, già cadutole al fianco il marito e il figlio giovanetto, essa medesima ai replicati colpi soccombe, ingombrando con altri nove cadaveri la memorabile casa, fumante di orrida strage.
E il magnanimo fatto bastò esso solo a scontar l’inerzia di Roma nel 1867. Nè più operose e risolute s’eran mostrate le provincie. Viterbo, che da tanto tempo andava promettendo all’Acerbi, già grosso di mille uomini, di insorgere, non ne aveva ancora trovato, [518] fino al 22, nè la forza nè la opportunità, sicchè il Prodittatore era sempre alla sua famosa Torre Alfina: Menotti, da parte sua, dopo il combattimento del 14 ottobre, sospettoso di nuovi assalti, costretto a cercarsi una stanza più propizia al vivere e all’ordinarsi, dopo aver errato un po’ alla ventura da Nerola a Monte Calvario e da questo a Pericle, finiva col riparare a Scandriglia nel territorio del Regno; similmente il Nicotera tra il 23 e il 24 mattina non s’era ancora mosso da Veroli; talchè quando Garibaldi giunse sul teatro della guerra trovò la insurrezione delle provincie paralizzata, quella della capitale soffocata, le bande scoraggite e disordinate; e insomma l’insieme della situazione anco peggiore di quella in cui l’aveva lasciata al suo partire per Caprera.
E tuttavia al suo giungere sul teatro della guerra uomini e cose risentirono tosto l’impulso della sua mano poderosa. Tutte le colonne del centro, tanto quella che Menotti aveva riportata a Scandriglia come le altre che stavano organizzandosi a Terni od erano già in cammino per passare il confine, ricevevano tutte insieme e nel giorno stesso (22 ottobre) l’ordine di muovere senza ritardo e di venirsi a concentrare a Monte Maggiore e Passo Corese. Però la sera del 25 Garibaldi stesso poteva telegrafare al Comitato Centrale di Firenze: «Occupo Passo Corese e Monte Maggiore con le forze riunite di Menotti, Caldesi, Salomone, Mosto e Friggesy.» Concentramento, diciamolo subito, ammirabile, favorito di certo dalla inerzia de’ Pontifici, ma che per la rapidità di pensiero con cui fu concepito e d’azione con cui fu eseguito, merita nota come quello che assicurava al piccolo esercito insurrezionale la prima condizione della vittoria: l’unità delle forze.
[519]
Ma che cos’erano codeste forze di cui parla il telegramma di Garibaldi, com’erano formate, ed a quanto salivano?
Che fossero colonne, quali di due, quali di tre o quattro battaglioni formanti, come i Bersaglieri dell’esercito, unità tattica ed amministrativa da sè, ma riuniti sotto il comando dei colonnelli già nominati, lo possiamo dire; ma conoscere ed accertare a quanto ascendessero i loro uomini, cioè, per dirla militarmente, a quanto sommasse la loro forza, fu impossibile cosa a noi, ma crediamo lo sia stato, e lo sarà sempre ai comandanti stessi, allo Stato Maggiore e a tutti quanti ebbero tra le mani alcune delle fila di quel lavoro di Penelope[364] a cui s’era ridotto, per le ragioni già discorse, l’organismo dell’esercito insurrezionale. Pure non temiamo dilungarci troppo dal vero tenendoci intorno ai settemila uomini.
Garibaldi intanto andava molinando come prendere di notte e per sorpresa Monte Rotondo. È desso l’antico Eretum, poi feudo degli Orsini, dei Barberini, dei Grillo ed ora dei Montefeltro, una delle solite cittaduzze della Comarca, lanciata sopra un’altura se non inaccessibile, molto ardua di certo, ricinta da mura non a prova di cannone ma tali da scoraggiare le scalate; ha due porte massicce e gagliardamente [520] sbarrate; ha nel centro, ultimo ridotto, un castello quadrato, solido, fitto di finestre e di feritoie d’ogni guisa: è posizione forte per sè, non solo, ma chiave di posizioni; guarda e domina, a occidente la grande via Salara e la ferrata; a mezzogiorno, per mezzo di Mentana, la Nomentana e Tiburtina, e tutte insomma le principali vie strategiche che dalla sinistra del Tevere sboccano in Roma; munito d’artiglieria, può essere buon punto di ritirata e di difesa a chi lo possiede, un cimento per chi deva impadronirsene, una minaccia per chi l’abbia alle spalle, e finchè si parli o si scriva d’arte militare, resterà sempre arduo il comprendere come lo Stato Maggiore pontificio o non l’abbia guernita anticipatamente di tutte le forze capaci d’una lunga difesa, o, quello che tornava ancora più opportuno appena Garibaldi vi apparve dattorno minaccioso, non siasi tenuto pronto a spedirvi da Roma un nerbo di truppe sufficienti a sostenere gli assediati ed attaccare sul fianco gli assalitori. Lasciarono invece che Garibaldi facesse a sua posta un giorno ed una notte, nè si decisero a partire da Roma che la mattina del 26, due ore dopo che Monte Rotondo aveva già capitolato.
Fallita però, per le consuete ragioni per cui falliscono quasi sempre tutte le imprese notturne, la sorpresa ordinata per la notte del 24, non restò che l’attacco di fronte e fu ordinato per l’alba del 25.
A difesa di Monte Rotondo stavano circa trecento uomini, tutti della Legione d’Antibo, ed ora può ben dirsi, tutti dell’esercito francese, alcuni gendarmi e dragoni a cavallo e due pezzi di artiglieria da sedici. Avevano asserragliate le porte, aperto nelle mura un ordine di feritoie, occupate le finestre delle case che sovrastavano, e non sappiamo se ignorando la presenza [521] di tutto l’esercito di Garibaldi o per alto sentimento d’onore militare, s’apprestarono a vigorosa difesa.
Le colonne di Valzanía, Mosto, Friggesy e Caldesi, erano destinate all’assalto; quella di Salomone fu lasciata a guardia della stazione della ferrovia e della Salaria, d’onde era buona regola attendersi da un istante all’altro un attacco di fianco. Il lato scelto all’attacco fu il meridionale e la Porta San Rocco, ma pare che la scelta non fosse bene ponderata. Se la posizione nemica fosse stata meglio riconosciuta, si sarebbe scoperto che dal lato occidentale, dove le mura cessano e le case cominciano, gli approcci erano assai più agevoli e la presa più facile e meno costosa. Assalita invece di fronte, nel suo punto più forte, dovea essere pagata al caro prezzo di diciannove ore di combattimento e del sangue più prezioso.
Valzanía e Caldesi attaccarono con parte delle loro genti dalla destra, appoggiandosi al convento di Santa Maria; Mosto co’ suoi Genovesi veniva di fronte; da sinistra, sboccando dal convento de’ Cappuccini, Friggesy; Menotti dirigeva, sotto gli ordini del padre, l’azione generale. Malgrado che i nostri soperchiassero di numero, era sempre un combattimento disuguale. I nemici al sicuro dietro le feritoie e armati di squisite armi di precisione; i nostri a petto nudo, scoperti, veri bersagli viventi ai tiri nemici, armati di quegli arnesi che tutti sanno, affranti per giunta dagli stenti per le rapidissime marcie di due giorni, gittati a cozzare contro pareti inaccessibili che vomitavano la morte! pure andavano e morivano al grido di Garibaldi e d’Italia, lietamente. Gli ufficiali, è vero, brillavano tra i primi nello sbaraglio, e molti di loro, i Mosto, i Martinelli, gli Uziel, i [522] Sabbatini, i Giovagnoli cadevano quali morti e quali feriti. Ma tutta la giornata era trascorsa, la sera stava per calare e il nemico continuava il suo fuoco micidiale e non dava alcun segno di resa.
«Ma pur bisogna vincere, grida Garibaldi, bisogna vincere stanotte,» e ordinava che si raccogliessero in fretta tutti i mezzi per incendiare la porta. Ed ecco subitamente ufficiali e soldati formare una mobile catasta di legne e zolfo, e fattasi di quella al tempo stesso una barricata e un brulotto, sospingerla, sotto il grandinar incessante delle fucilate, contro la porta e appiccarvene le fiamme. La porta verso le otto cominciò ad ardere, ed a mezzanotte cascava già carbonizzata e sfasciata da tutte le parti. Però anche questa operazione era costata molte vite generose, tra le quali il capitano Sabbatini di Sogliano, perocchè il nemico non aveva mai smesso un momento dal trarre contro gl’incendiari. Alla fine appena scavato un pertugio i Volontari, proprio come onda che abbia trovato la stura, vi si precipitarono dentro. I Dragoni nella loro caserma esterna si arresero; ma gli Antiboini serrati nel castello non vollero udir parola di dedizione, e appena albeggiato ricominciarono a moschettare, e con fuoco più terribile, i Garibaldini stipati per le strade, onde fu forza rizzare una barricata e appiccare l’incendio anche alla porta del castello. Allora minacciati essi pure dalle fiamme, veduto ormai svanire l’ultimo raggio di quella speranza di soccorso che forse li tenne in vita, verso le nove del mattino stesso alzarono bandiera bianca, e la resa fu stipulata.
Caddero tutti, senza onore d’armi, prigionieri di guerra, lasciando i due cannoni con poco più di settanta cariche e tutte le altre munizioni da bocca e da guerra che possedevano. Una compagnia li scortò [523] a Passo Corese e li consegnò alle truppe italiane, primo ed ultimo trofeo della campagna. Ai nostri questa giornata costò centoquaranta feriti e quaranta morti, cifra che ci venne confermata dal Medico Capo del corpo sanitario dell’esercito insurrezionale, e che possiamo ritenere esatta.
Verso le undici antimeridiane del giorno stesso una colonna di Pontificii di circa duemila uomini di tutte le armi, zuavi, antiboini, cacciatori esteri, mezzo squadrone di dragoni, e mezza sezione d’artiglieria, con tutto comodo, con tutta placidezza, usciva da Porta Pia per andare in soccorso dei difensori di Monte Rotondo, e arrivava verso le quattro del pomeriggio presso alla stazione. Ivi gli avamposti di Salomone accolsero la testa di colonna a fucilate, ond’essa, avvedutasi che tutto era finito su a Monte Rotondo, con molto disordine, quasi tornasse da una rotta (noi stessi ne fummo testimoni oculari) rientrò il giorno dopo in Roma.
La giornata di Monte Rotondo produsse lo sgombro di tutto il territorio pontificio e la ritirata dell’intero esercito dietro i ponti del Tevere e del Teverone, onde facevasi omai evidente che tutto lo sforzo papale andava a concentrarsi nella difesa delle mura di Roma, le quali in tutta fretta erano state guernite di batterie e di fortilizi d’ogni natura.
E libera per tal modo la campagna, Acerbi, cui era fallita due giorni prima (24 ottobre) una sorpresa di Viterbo, se ne impadroniva nella giornata stessa di Monte Rotondo senza colpo ferire, insediandovi la prodittatura e proclamandovi i plebisciti; altrettanto [524] faceva a mezzodì il Nicotera, il quale, dopo l’eroico sacrificio di Raffaele Benedetto e de’ suoi ventidue compagni a Monte San Giovanni, campeggiato altri due giorni nei dintorni di Veroli, saputa sgombra di nemici tutta la provincia di Velletri vi si gettava tosto con tutte le sue genti; trionfando il 28 a Frosinone, il 30 a Velletri, dove egli pure, colla proclamazione dei plebisciti, dissipava i maligni sospetti insorti sul colore della sua bandiera.
Stando così le cose, Garibaldi, regalato un giorno di riposo a’ suoi Volontari, lasciato un battaglione a Monte Rotondo, un altro a Mentana, e speditone un terzo col colonnello Pianciani a Tivoli, ordinato alle colonne dell’Acerbi e del Nicotera di raggiungerlo, mosse difilato con tutte le sue forze verso Roma. La sera del 27 pernottò a Fornuovo: il 29 portò il suo quartier generale a Castel Giubileo, spingendo i suoi avamposti oltre a Villa Spada in vista del ponte Salario, a pochi tiri dall’inimico. I Pontificii pare l’attendessero da questo lato, giacchè Porta del Popolo, Porta Salara e Porta Pia e tutte le ville attigue, la Torlonia, la Patrizi, la Ludovisi, erano state guernite di pezzi coperti e occupate da compagnie imboscate. Monte Mario, contrafforte formidabile che munisce l’entrata di Porta del Popolo, era pure stato posto in istato di difesa, ed una specie di campo trincierato vi si andava alacremente costruendo.
Garibaldi vide le difficoltà e passò tutta la giornata del 29 a studiarle. Tuttavia una falsa notizia, recatagli da un bugiardo messaggiere, «che Roma fosse pronta a ritentare nella notte dal 29 al 30 una seconda riscossa,» lo indusse a persistere nel primo divisamento di attaccare Monte Mario, e pensando rincorare colla promessa di un vicino aiuto i Romani, [525] ordinò si accendessero molti fuochi lungo tutta la linea del campo e si preparassero quante barche potevasi, per il passaggio del Tevere. A chi scrive queste linee toccò l’amaro ufficio di far sentire a Garibaldi, addormentatosi nella forte speranza della battaglia, la sgradita sveglia della delusione. Tutto era spento in Roma. I Romani non potevano fare e non avrebbero fatto di più; chi gli aveva portato quel messaggio era od un ingannato od un ingannatore. Garibaldi ci diede ascolto, e gli eventi risposero se noi avevamo detto il vero.
Allora il Generale si volse ad altri pensieri. Stare accampato lungo le umide rive d’un fiume, senza avanzarsi nè retrocedere, a nulla approdava e molto poteva nuocere, specialmente alla salute de’ soldati, e tutto consigliava a prendere stanza in qualche luogo sicuro e difeso, centrale tra le due colonne di destra e sinistra che dovevano raggiungerlo, aspettando l’occasione propizia per riprendere più decisamente le offese.
Gli restava per altro a riconoscere la postura e il contegno dell’inimico dall’altra parte della città, vedere fino a qual segno fossero guardati i ponti sul Teverone, e infine scandagliare lungo la via il punto più debole per l’assalto futuro.
A tal uopo, la mattina del 30, scortato da due battaglioni di Carabinieri genovesi sotto gli ordini di Burlando e Stallo, da una dozzina di guide e dal suo Stato Maggiore, guidò egli stesso la divisata ricognizione su Ponte Nomentano. Menotti con tutte le sue genti, meno un battaglione rimasto a Castel Giubileo, dovea marciare più tardi in sostegno della ricognizione. E in questa breve e quasi oscura operazione, parve ancora una volta quell’acume militare e quella [526] famigliarità col campo di battaglia, onde Garibaldi terrà mai sempre, contrastato o no, il primo posto tra i primi capitani del mondo.
Egli stesso in un bullettino, che noi scrivemmo sotto la sua dettatura nel suo quartier generale di Monte Rotondo, faceva con brevi e scolpite parole la storia di quella giornata.
«Monte Rotondo, 31 ottobre.
»Ieri, alle sei antimeridiane, giunse una scoperta nostra di pochi uomini a cavallo al Castello dei Pazzi, ed una guida nostra assieme ad un ufficiale di Stato Maggiore, entrati per i primi, s’incontrarono petto a petto con una pattuglia di Pontificii, l’attaccarono co’ rewolvers e la misero in fuga. La guida nostra ebbe una palla nel petto che lo sfiorò felicemente, e fu ferita di poco momento.
»La scoperta era seguita dal primo battaglione di bersaglieri nostri che occuparono il castello suddetto ed il Casale Ceccina. Dopo un’ora circa di soggiorno in quel sito, due colonne di Zuavi e di Antiboini sboccarono una dal Ponte Nomentano e l’altra dal Ponte Mammolo.
»I nostri, collocati in posizione dal Casale suddetto al Castello, ebbero ordine d’aspettare il nemico a bruciapelo.
»I nemici avvicinandosi a destra e sinistra della posizione ci fecero molti tiri da destra a cui non fu risposto; solamente verso sera avvicinandosi alcuni Pontificii per la destra, furono sparati alcuni tiri, i quali uccisero quattro uomini e non si sa quanti feriti.
»Noi abbiamo tre feriti leggermente. Così passò la giornata e si tennero le posizioni fino alla notte, a un tiro di carabina dal Ponte Nomentano.
»Non essendo l’obiettivo se non che di riconoscere la posizione del nemico sul Teverone, quella notte si diede ordine di ritirarla su Monte Rotondo, lasciando una quantità di fuochi accesi sulla linea. La ritirata si fece in buonissimo ordine, e questa mattina il nemico, credendo che occupassimo [527] ancora le nostre posizioni, vi fece una quantità di cannonate al vento.
»I nostri Volontari scalzi ed affamati si stanno rifocillando in Monte Rotondo e contorni. Il loro contegno di ieri in presenza del nemico fu ammirabile.
»G. Garibaldi.»
Se Garibaldi si fosse lasciato tentare a rispondere con una sola fucilata alle tante che il nemico c’inviava, o se un solo volontario lo avesse disubbidito, noi avremmo dovuto accettare il combattimento, trecento contro le migliaia, in un terreno scoperto e in parte sconosciuto, separati dalle nostre linee (almeno fino all’arrivo di Menotti) mediante un vasto tratto di campagna, e non solo la giornata, ma Garibaldi stesso sarebbe stato posto a grave pericolo. E già poco mancò non lo fosse nel mattino stesso, giacchè fra i primi entrati nel cortile de’ Pazzi v’era Garibaldi in persona! Una palla di un mercenario, e Garibaldi spariva oscuramente sotto le volte d’un castellaccio abbandonato della Comarca romana! Ma il colpo d’occhio di quell’uomo e la fede in lui salva tutto. Gli stette sempre al fianco, interprete intelligente e risoluto de’ suoi ordini, un altro veterano di battaglie rivoluzionarie, il generale Fabrizi, arrivato al campo dal mattino soltanto a riprendere il suo posto di capo di stato maggiore, che Garibaldi gli aveva meritamente conservato.
Questa marcia avanti e indietro, quella ritirata su Monte Rotondo non piacque ai Volontari; e se la parola ai militari sembra strana, chi fu volontario la comprenderà. Il piacere o non piacere, il benedire o maledire, il discutere i movimenti, i disegni, i comandi, il rerum cognoscere causas è uno dei bisogni invincibili [528] e degli abiti incurabili delle baionette intelligenti. Perchè si fosse andati fino a Ponte Nomentano ognuno press’a poco presumeva comprenderlo; ma perchè senza sconfitta, quasi senza combattimento, si desse addietro, e addietro fino a Monte Rotondo, questo nessuno poteva metterselo in capo. E il non intendere rendeva grave e svogliato l’ubbidire. Quindi i commenti, le interpretazioni, le censure, le querimonie infinite. Chi voleva che la ritirata ci fosse imposta dal Governo italiano, e che il ritorno a Monte Rotondo significasse dissoluzione; chi sosteneva che Garibaldi stesso, riconosciuta l’impossibilità di prender Roma con quelle forze, abbandonava l’impresa; e chi andava più innanzi e faceva già sparito, già arrivato a Firenze il Generale, il quale per smentire la puerile diceria, era costretto a mostrarsi e a parlare; chi ci vedeva una tregua, chi un acquartieramento, pochissimi una manovra, ed infine, cosa assai più grave, chi gettava in mezzo ai crocchi dei novellieri e dei disputanti la notizia, vera pur troppo, dell’arrivo in Roma de’ Francesi, e portava così al colmo il malumore, la confusione e lo scoramento.
Pure finchè non erano che ragionari di giovani, o queruli, o curiosi, ma onesti, si potevano presto quetare; una parola di Garibaldi, un ordine del giorno, una promessa qualunque, li avrebbe persuasi: ma in mezzo al fiore degli schietti ed ingenui v’era la mondiglia dei tristi, dei maligni, dei corruttori, degli spacciatori di bugiarde notizie, degli agenti segreti e prezzolati della dissoluzione; peste che aveva ammorbato fin dal loro nascere quelle avveniticcie milizie. Lo sfasciamento pertanto cominciò da costoro e si propagò in breve anco a’ meno peggio; laonde al toccar Monte Rotondo era già visibile e grande. I Volontari, [529] quali col fucile, quali senza, a lor beneplacito, senza chiedere nè accettare licenza, se ne andavano a coppie, a squadre, e per far più presto, giunti alla svolta della strada di Monte Rotondo, non la salivano nemmeno e continuavano su per via Salaria verso il confine. L’onesto partiva dicendo: «Poichè a Roma non si va più, stia ne’ quartieri chi vuole;» il mariuolo partiva pensando: «Poichè non v’è più nulla da bottinare costà, a Roma, ci pensi chi vuole,» e quali istigando, quali scimmiottando, tutti persuadendosi a vicenda che la era finita, e non restava altro da fare, a drappelli, a frotte, se la svignavano. Lo sfacelo durò così vasto e crescente fino alla mattina del 2. In quel giorno però, la voce sparsa d’una marcia in avanti, una rivista passata da Garibaldi, lo sforzo de’ buoni ufficiali rimasti fedeli al posto, lo arrestò. Frattanto potè ben dirsi che circa 2000 uomini erano sfumati a quel modo.[365]
Però finchè la defezione non era che dei tristi, anzichè impedirla era da incuorarla; ma il male era che nè i tristi se n’andavano tutti, nè i buoni restavano tutti; onde si era minacciati dei danni dello sfacelo senza i vantaggi che sarebbero derivati da uno spurgo generale, fatto con criterio e con energia, degli elementi morbosi che infracidavano il corpo anche nelle sue parti più sane. In altre parole, la diserzione complicava anzichè risolvere il problema della riorganizzazione, e lo rendeva sempre più urgente e pericoloso.
A questo problema però quanti avevano coscienza dello stato vero delle cose, da Garibaldi all’ultimo [530] ufficiale, s’erano dati gravemente a pensare. Il generale Fabrizi, aiutato da Alberto Mario, lavorava alacremente a ordinare il suo stato maggiore, e la prima opera a cui mostrava intendere era la riorganizzazione. Un tribunale militare con poteri eccezionali era improvvisato, e se non gli fosse venuto meno il tempo, avrebbe fatta rigorosa giustizia; la ferrovia tra Orte e Corese già interrotta, era restaurata, e l’arrivo de’ più indispensabili oggetti d’equipaggiamento, elemento principalissimo d’ogni organizzazione, affrettato. Si tentava inoltre di formare una scelta e numerosa guardia del campo, posta agli ordini d’un capo energico ed autorevole che avrebbe dovuto fare la polizia dell’esercito, che ne avea tanto bisogno, e marciando col quartier generale proteggere la persona di Garibaldi, ad ogni momento esposto a’ più rischiosi sbaragli.
E tutto ciò era un nulla, a petto del vero, del supremo problema dominante tutti gli altri. Che si faceva a Monte Rotondo? Che si faceva oggimai nello stesso Agro romano? Al Cialdini, cui la composizione di un Gabinetto di conciliazione era fallita, subentrava il generale Menabrea con un Ministero così detto di resistenza, il cui primo atto era stato un bando del Re che apertamente sconfessava il conato garibaldino e del quale furono ben tosto chiaro commento lo scioglimento del Comitato centrale di soccorso, la fermata al confine dei viveri diretti al campo garibaldino, il consenso all’intervento francese in Roma, e la sottomissione infine a tutti i voleri dell’imperatore Napoleone III e alle disfide oltraggiose de’ suoi ministri.[366]
[531]
Infatti tra la sera del 30 e la mattina del 31 la voce era cominciata a propagarsi che i Francesi fossero sbarcati a Civitavecchia, anzi già entrati in Roma, e quantunque al generale Garibaldi nessuno avesse pensato a darne l’annuncio ufficiale, la sola probabilità del fatto era anche per l’eroe più temerario d’una importanza capitale. Infine contemporanea a quella notizia ne era corsa subito un’altra, che le truppe italiane avessero varcato la frontiera pontificia occupandovi i punti più prossimi, col mandato, dicevano i dispacci del Menabrea, di tutelarvi l’ordine, di evitare ogni cozzo colle truppe francesi e di procedere, potendo, d’accordo con esse.
Ora la gravità di questi fatti era manifesta a chicchessia. La impresa garibaldina veniva a trovarsi interamente abbandonata a sè stessa, posta da un giorno all’altro al cimento di dover combattere, insieme al pontificio, l’esercito francese e fors’anco scontrarsi coll’italiano, giacchè le intenzioni del Governo di Firenze non erano su questo proposito ben chiare. Che fare? Garibaldi non era mai stato così cupo e cogitabondo! In quella mattina del 31 parecchi amici, tra i quali Cairoli e Guastalla, venuti da Firenze a visitarlo a Monte Rotondo, l’avevano consigliato a desistere da una lotta, il cui ultimo resultato non poteva essere oramai che un infruttuoso e cruento sacrificio; ma ciò che appariva semplice e chiaro ai più volgari, non lo era altrettanto agli occhi dell’Eroe! Cedere in faccia allo straniero fino allora sfidato; cedere senza aver tentato un supremo sforzo per riafferrare la vittoria, o almeno glorificare la sconfitta, non era da lui! E non era nemmeno il parere degli amici militari che l’avevan seguito fino allora. Anche per essi, come per Garibaldi, l’impresa non per anco era disperata, la resistenza [532] poteva essere ancora possibile, tanto più che a nessuno era dato prevedere quale sarebbe stato il sentimento dell’Italia innanzi ad una guerra combattuta da’ suoi figli, anco con mediocre fortuna, contro uno straniero invasore! Però Garibaldi, concorde con tutti i principali suoi Luogotenenti, deliberò di continuare la lotta a oltranza; e nel 31 stesso provvide al da farsi.
Se non che prendere quella risoluzione e veder che Monte Rotondo non era più stanza adatta ad una campagna di guerriglie, di volteggiamenti, di meditati indugi e di accorte ritirate, quale era quella cui bisognava prepararsi, fu per Garibaldi un punto.
Posizione forte contro la fanteria Monte Rotondo non lo è più quando abbia di contro un nemico munito d’artiglierie, che possa coronare le alture circostanti e batterlo in breccia da ogni punto. Però i veri pericoli della dimora a Monte Rotondo, senza dire che le lunghe scorrerie militari l’avevan dissanguato d’ogni cosa necessaria al vivere quotidiano, eran principalmente queste: la troppa vicinanza al confine che apriva una comoda via al flusso già cominciato delle diserzioni; la sua posizione isolata e facilmente aggirabile, la quale non lasciava ai difensori altra scelta che di seppellirsi uno ad uno sotto le sue pietre o di capitolare a discrezione.
L’abbandonarlo dunque era più che saggezza, necessità; e poichè d’altro canto Tivoli era città prossima a Roma quanto Monte Rotondo, in posizione ancora più forte, con un fiume davanti, una catena di contrafforti a’ fianchi, due o tre strade di ritirata in caso di rovescio; più lontana da Acerbi, ma più vicina a Nicotera; un vasto territorio alle spalle; popolosa, ampia, fornita di vettovaglie, così Garibaldi prescelse Tivoli.
[533]
Tuttavia, convien confessarlo, il Generale prima di risolversi al partito che da ogni parte gli veniva proposto, ed egli stesso aveva chiaramente indovinato, esitò. Qual pensiero lo trattenne? Noi nol potremmo mallevare: appena ci periteremmo a supporre che egli sperasse ad ogni istante di veder l’esercito italiano marciare contro il nuovo invasore e chiedergli così ragione del violato suolo della patria. Nessuno stupisca: son pensieri di Garibaldi! Il condottiero di Volontari che lietamente si sarebbe messo alla coda dell’armi nazionali, non voleva con una mossa apparentemente ostile aggravare la situazione politica, nè guastare quelle che per lui erano buone intenzioni del Governo italiano e nelle quali ancora confidava. Comunque, l’esitazione di Garibaldi, fosse pur figlia d’un’alta e patriottica ragione, pesò sulla bilancia degli eventi che il futuro prossimo maturava.
Nel dopo pranzo del 2 novembre parecchi messaggeri al quartier generale recarono che le truppe pontificie, non si diceva ancora le francesi, si apparecchiavano ad uscir da Roma per venire ad attaccare i Garibaldini a Monte Rotondo. Queste notizie, sebbene non certe, tolsero Garibaldi ad ogni incertezza, e tutte le disposizioni per la marcia su Tivoli furono prese, caute e sapienti come l’arte più rigorosa poteva suggerire.
Il movimento che stava per intraprendere, era una marcia sul fianco sinistro; e ognuno sa i rischi e i pericoli di siffatte manovre. Però Garibaldi era di fronte a due ipotesi ugualmente probabili: che il nemico, già in marcia su Monte Rotondo, ci incontrasse nella nostra [534] marcia su Tivoli: che il nemico, avvertito della nostra partenza, sboccasse da Roma, e scegliendo il luogo e il tempo, ci assalisse sul nostro fianco. Importava quindi parare a queste due eventualità, potrebbesi già dire probabilità, ed ecco come Garibaldi provvide.
A levante della via Nomentana, da Mentana a Tivoli, si spiega un sistema di piccoli poggi popolati di frequenti villaggi, i quali paiono gettati là dalla natura per guardare quella strada fino al suo punto d’incontro colla strada Tiburtina. Qualora perciò fossero state occupate quelle alture, coll’ordine di spingere avamposti e ricognizioni sulle diverse vie che da esse sboccano sulla via Nomentana, si sarebbe stati per lo meno sicuri di queste due cose: o che il nemico sarebbe stato scoperto molto prima che potesse incontrare la colonna marciante, la quale perciò avrebbe avuto tempo di spiegarsi come e dove voleva; o che il nemico anche sfuggendo alle scoperte, comunque e dovunque attaccasse la colonna, avrebbe sempre avuto sul suo fianco destro od alle spalle la minaccia, ed occorrendo anche il peso dei battaglioni stesi lungo tutte quelle posizioni avanzate, e cadendo fra due fuochi si sarebbe inevitabilmente esposto al pericolo di una rotta là dove sperava trovare una vittoria.
Fermo in questi concetti, il generale Garibaldi fin dal 1º novembre avea mandato il colonnello Paggi con tre battaglioni (900 uomini) ad occupare i villaggi di Sant’Angelo in Capoccia e Monticelli e le alture più avanzate di Monte Lupari e Monte Porci con tutte quelle prescrizioni d’avamposti, di sorveglianza e di precauzioni che abbiamo indicate. Date queste disposizioni, Garibaldi stesso, nel pomeriggio del 2, andava a riconoscere le posizioni nuovamente occupate da [535] Paggi e lo stradale da percorrersi, e tranquillo da questo lato tornava a Monte Rotondo per dare in un ordine del giorno, tutto scritto di suo pugno, le disposizioni finali della partenza, che importa trascrivere:
«Colonnello Menotti Garibaldi,
»Le colonne da voi comandate marceranno per la sinistra sulla via di Tivoli.
»Nella marcia esse si terranno compatte il più possibile ed in ordine.
»Sulla destra delle colonne in marcia e sulle strade che conducono a Roma si dovranno spingere delle pattuglie a piedi e degli esploratori a cavallo bastantemente lontani, per essere avvisati a tempo a poter prendere posizioni, in caso dell’approssimarsi del nemico.
»Sulle alture di destra della linea di marcia si dovranno pure tenere delle vedette allo stesso scopo.
»Una vanguardia precederà le colonne ad una distanza per lo meno di millecinquecento a duemila passi, ed essa sarà preceduta pure da esploratori e fiancheggiatori competenti.
»Una retroguardia pure molto importante, con rispettive guide indietro a considerevoli distanze, per avvisare di qualunque cosa utile.
»Questa retroguardia non deve lasciare dietro di sè un solo individuo delle colonne ed un solo carro o bagaglio.
»L’artiglieria e munizioni marceranno nel centro.
»I bagagli, i viveri, ec. potranno marciare in testa od in coda delle rispettive colonne.
»Si raccomanda ai comandanti le colonne il buon ordine che col valore dei nostri Volontari deve acquistarci la stima delle popolazioni.
»Monte Rotondo, 2 novembre 1867.
»Il Capo di Stato Maggiore
»N. Fabrizi.
»G. Garibaldi.»
[536]
L’ordine di marcia dapprima era fissato per l’alba del 3; se non che il colonnello Menotti, opponendo la necessità di una distribuzione di oggetti di vestiario e specialmente di scarpe, arrivate poco prima, pregava il padre a sospendere la partenza fino alle 11 del giorno stesso.
Garibaldi, pieno di paterna fede nella voce del figlio, si arrese, e quel che gli abbia costato quella condiscendenza l’evento lo dimostrerà. Che cosa era mai il bisogno, fosse pur sentito, di scarpe, davanti alla suprema necessità d’una marcia manovra di quella importanza e natura, gravida di tanti pericoli e di tanti effetti, e fallita la quale, tutto era perduto? Come si poteva posporre il principale all’accessorio? Come intraprendere una marcia, che doveva esser fatta di soppiatto, in pieno mezzogiorno? Basti il dire che alle 11, marciando anche senza scarpe, tutta la colonna sarebbe stata a Tivoli; e che i Pontifici, giungendo in faccia a Mentana, l’avrebbero trovata vuota. Quale scacco per i generali francesi! Quale trionfo per Garibaldi!
Non si potè naturalmente partire che a mezzogiorno. Garibaldi poco prima aveva spedito un altro messo all’Orsini, subentrato al Nicotera, perchè sollecitasse la sua marcia su Tivoli, e quando vennero ad avvertirlo che tutto era pronto per la marcia, si mosse senza dir verbo, pensieroso e triste, zufolando per le scale una sua vecchia canzone d’America,[367] quasi volesse dai ricordi di quei giorni gloriosi trarre gli auspicii del destino al quale andava incontro. Indi montò a cavallo ed al galoppo, cosa insolita in lui, passò via, [537] rapido e silenzioso davanti ai battaglioni schierati in battaglia lungo la strada di Mentana, e poco dopo dietro a lui tutta la colonna si pose in cammino.
Il servizio d’esploratori e fiancheggiatori, oltre ad un manipolo di guide mal montate e per la maggior parte nuove a quel delicatissimo servizio, fu affidato al 1º battaglione dei Bersaglieri genovesi, comandati dal maggiore Stallo. Dietro dovevano seguire, sempre come avanguardia, i due altri battaglioni di bersaglieri, il 2º de’ Genovesi, comandato da Burlando, e il 3º dei Lombardi e Romagnoli comandato da Missori, e con essi la compagnia de’ Carabinieri livornesi, forte non più di 70 uomini, sotto gli ordini del capitano Mayer. Ora senza rivangare qui le molte ragioni che possono avervi influito, ma incontrastabilmente per la principalissima che la distribuzione del mattino avea disturbato le ordinanze, il fatto sta, e importa notarlo, che tra l’avanguardia e il corpo principale sparì, appena staccata la marcia, ogni intervallo, talchè persino l’estrema punta del maggiore Stallo non potè che assai malamente adempiere all’ufficio suo di scoprire il nemico e di proteggere la testa e il fianco della colonna marnante. D’altra parte il colonnello Paggi, che avea spedito al comando generale a prendere nuove istruzioni, riceveva firmato dal signor Berna, capo di stato maggiore del colonnello Menotti, l’ordine di lasciare Monte Porci e Monte Lupari e di andare colle stesse forze ad occupare Palombara (se il Paggi aveva letto bene), paese a settentrione delle posizioni prima occupate, rivolto a tutt’altra direzione e che nulla avea a che fare nè colla via Nomentana nè con nessun’altra via onde il nemico potesse sboccare. Quest’ordine accrebbe nella mente del Paggi la confusione, laonde la sorveglianza [538] che egli stesso dovea esercitare sulla via Nomentana, divenne disforme interamente dalle istruzioni del Generale in capo, e affatto illusoria. A sommar tutto, gli ordini chiari, accurati e precisi dati da Garibaldi non furono che imperfettamente eseguiti e negligentemente sorvegliati, onde non sarà gran meraviglia se il nemico potrà quasi improvviso piombare sulla testa della colonna garibaldina e prima ancora che ella si fosse riavuta dalla sorpresa costringerla a duro cimento.
Garibaldi collo stato maggiore e il quartier generale erano appena entrati in Mentana, che le guide a cavallo venivano ad annunziare la comparsa de’ Pontificii. Nello stesso tempo le fucilate degli avamposti confermavano la notizia. Garibaldi ordinò tosto alla colonna di arrestarsi, ma indarno cercava un luogo onde poter riconoscere l’inimico. Mentana è quasi incassata in un avvallamento, e tutti i poggi circostanti la dominano. Questo solo fatto mostrava già fin dalle prime che la posizione era sfavorevole, e che la difesa di Mentana sarebbe stata difficile. O bisognava avere il tempo e la possibilità di spingersi ad occupare le posizioni davanti il villaggio, o abbandonarlo interamente per difendere le posizioni indietro, tra Mentana e Monte Rotondo, a noi d’altronde già note e in parte non ancora abbandonate. Ci fu allora chi si peritò a profferire al Generale quest’ultimo consiglio.[368] Garibaldi rispose: «Udite quel che ne dice Menotti, e se crede che le posizioni davanti siano tenibili.» [539] Menotti assicurò «che davanti stava benissimo,» e.... un quarto d’ora dopo eravamo tutti ricacciati nel villaggio.
Tuttavia ogni segno rendeva manifesto che il nemico, benchè abilmente coperto dalle macchie e dalle pieghe del suolo, avanzava dalla destra, e Garibaldi non titubò un istante. Ordinò ai battaglioni di Burlando, di Missori ed ai Cacciatori livornesi di spiegarsi prontamente sulle alture di destra; mentre il figlio Menotti portava avanti a sinistra e sul centro altre forze in sostegno dei combattenti. Allora il combattimento si propagò vivo ed energico su tutta la linea dell’avanguardia. In sulle prime però parve che il nemico mirasse a concentrare l’attacco sulla destra e sulla fronte di Mentana, e soltanto dopo avere seriamente impegnati i Garibaldini in questi punti si decise ad assalire anche la sinistra, sulla quale rovesciò il nerbo principale delle sue forze. Frattanto la sua manovra era smascherata: l’attacco di destra e di fronte, benchè gagliardo, non era che una finta per coprire il vero attacco di sinistra e ingannarci sulle sue intenzioni. Ma nessuno cascò nell’inganno, meno poi Garibaldi. A destra e di fronte i battaglioni di Missori, di Burlando, di Carlo Mayer, ai quali si erano venute a riunire le genti di Stallo risospinte, furono lasciati soli a sostenere l’urto, certi che l’avrebbero fatto bravamente, e non furono più rinforzati. D’altronde la strada era stata quasi subitamente perduta, e non restava altro che arrestare l’impeto de’ nemici, asserragliando alla meglio l’entrata del paese. Così fu fatto: e lì dietro poche tavole tarlate e qualche frantume di mobilia, simulacro squallido di barricata, i più volenterosi tenevano testa intanto che col grosso delle forze si provvedeva alla sinistra del villaggio, sempre più [540] gravemente minacciata. Non v’era un attimo da indugiare. Coperti dalle ortaglie e dai vigneti della villa Santucci, dove era venuto a piantarsi il quartier generale del nemico, fitti gruppi di Zuavi e Carabinieri esteri s’erano spinti fin presso alle prime case, avvolgendo in un arco di fuoco i pochi Garibaldini che al riparo de’ pagliai e delle fronteggianti finestre cercavano di arrestarne la marcia. Ma il numero de’ nemici soperchiava: ufficiali e soldati non s’erano ancora riscossi dalla prima sorpresa dell’inopinato attacco; tutti consigliavano, comandavano, strafacevano: v’erano quelli che gridavano «avanti» rimpiattati dietro le muraglie; v’erano gli altri che stavano soli in mezzo alle palle a sfidare i battaglioni: era un vocío, una confusione, un tumulto, sul quale, anche chi non aveva perduta la testa mal riusciva a dominare. Mentana parve per un istante perduta. Indarno ogni valoroso, soldato od ufficiale che fosse, cercava far testa colla voce, col comando, coll’esempio, colla vita; l’onda de’ nemici invadeva e sospingeva innanzi a sè l’onda non meno rapida dei fuggenti. Molti si rifugiavano nelle case, ma pochi per continuarvi la difesa, i più, doloroso a confessarsi se meritassero pietà, per nascondersi e peggio. Tuttavia i nemici non avevano ancora vinto, e purchè si fosse potuto rimettere un po’ d’ordine, di calma e di silenzio — oh di silenzio soprattutto! — così negli allarmanti come negli allarmati, e formare punta con una schiera di risoluti, le forze fresche erano molte ancora, e le parti potevano essere mutate.
Lo pensò Garibaldi, e sapendo quanto possa e sui nemici non solo, ma sull’anima facilmente elettrizzabile de’ suoi Volontari il tuono del cannone, corse egli stesso a postare e puntare contro il centro nemico i due pezzi predati a Monte Rotondo, onde appena partirono [541] i primi colpi, giusti come in un bersaglio, se ne vide subito il magico effetto. Il nemico si arrestò: i Volontari fra grida di gioia parvero pronti a ripigliare l’assalto. Era il momento decisivo, e Garibaldi slanciò quanta gente avea d’intorno alla baionetta. Fu davvero una carica stupenda. Si rientrò in Mentana, si risalì ai perduti pagliai, si ricaricò il nemico di siepe in siepe, di dosso in dosso, fin dentro la cinta degli orti Santucci. Ancora uno sforzo, e la villa, chiave della posizione, è presa e la giornata è nostra. Ad animare e dirigere questo sforzo, Fabrizi, Menotti, Mario, Bezzi, Canzio, il Generale non sono di troppo; ma una moschetteria diabolica partiva dalle file nemiche sempre rinnovate, che ributtava sul terreno morti e feriti i più audaci. Tuttavia si avanzava, e per un istante la fucilata nemica parve allentare. Che era? Pur troppo non era che una sostituzione di linee.
Ad un tratto, all’estrema nostra sinistra, due zone nere nere apparvero traverso le ondulazioni dei colli di San Sulpizio: erano i due freschi battaglioni del 1º di linea francese che entravano in battaglia. Ma nessuno allora ci pensò, nessuno lo credette. La stragrande uniformità delle assise e la somiglianza di linguaggio e di comando li confondevano cogli Antiboini, e le minute distinzioni non erano in quel momento permesse. Del resto un sentimento, una voce interiore più che una ragione politica, facevan credere quella cosa impossibile. «Io non avrei mai creduto — scriveva Garibaldi a Edgardo Quinet — che i soldati di Solferino sarebbero venuti a combattere i fratelli, che avevano col loro sangue liberati, e questa credenza mi valse una disfatta.»
Comunque erano nemici, e trovarono sulle prime degna resistenza. I Francesi avanzavano su due ordini: [542] davanti una catena di bersaglieri; dietro, in sostegno, un battaglione per divisioni, descrivendo, di mano in mano, una conversione a sinistra sempre più pronunciata, coll’evidente intenzione di avviluppare l’esercito ribelle, di tagliarlo interamente dalla sua ritirata. Garibaldi allora corse di nuovo a puntare i due pezzi contro i nuovi nemici, ma ahi! que’ poveri settanta colpi, unico tesoro del parco, erano esauriti. I nostri, finchè ebbero cartucce, tennero fermo; Menotti tentò una carica, ma fu ributtata, e il bravo maggiore Cantoni vi lasciò la vita. Alberto Mario, che fu sempre in tutta la giornata dove più incalzava il pericolo, tentò girare con un battaglione l’estrema destra francese, ma era tardi: per difetto di forze, di munizioni, di fiato, in una parola, nessun movimento approdava e nessun eroismo valeva più.
I Francesi avanzavano sempre. Villa Santucci, ristorata da nuove forze, non avea ceduto; dalla destra un battaglione del 29º di linea francese subentrava ai Pontificii e serrava dappresso gl’indomiti difensori di quel fianco: non c’era più una compagnia disponibile; la giornata vinta alle due, alle quattro era di nuovo perduta.
E non pareva vero. Fabrizi, il vecchio Fabrizi, sereno ed impassibile in mezzo alle palle, quasi solo talvolta a un trar di pistola dal nemico, implorava, dimentico di sè, quasi pregando ancora, pochi istanti di resistenza; Bezzi, rimasto tutto il giorno con Cella ed altri prodi contro Villa Santucci, e tratto anch’esso nel fiotto de’ fuggenti, si strappava i capelli; Mario, Friggesy, Menotti, Missori (parliamo di quelli che ci passarono davanti in quell’ora) si spingevano dove più ardeva la mischia a contrastare il terreno. Garibaldi, pallido, rauco, cupo, invecchiato di vent’anni, [543] seguíto dall’indivisibile Canzio, ululava ai fuggenti: «Sedetevi, chè vincerete.» Invano! tutto rigurgitava, correva, precipitava sulla via finale della ritirata.
E non parea vero! — Triste ritornello che ci torna sulle labbra e ci riempie ancora di tutta l’amarezza di quell’ora! I Francesi inoltravano così lentamente, con tanta cautela, con tale peritanza da non riconoscergli più; non diciamo poi degli Zuavi, degli Antiboini e di tutta la restante masnada. Non una carica, non una mossa risoluta da que’ superbi soldati dell’Impero! Volevano avvilupparci e non osarono; intendevano pigliarci tutti, compreso Garibaldi, e non seppero. Padroni del campo, baionettarono i feriti; questo sì; ma bravura no! Erano diecimila contro quattromila, e se quando incominciò la nostra rotta, un solo sottotenente avesse cacciato su di noi il suo pelottone, ci avrebbe con pochi uomini presi tutti prigionieri! Ma dov’erano gli ufficiali francesi? dove le cariche decantate di Malakoff e di Solferino! In quel supremo istante un’amara parola ci uscì dalle labbra, e la ripetiamo ancora perchè dipinge Mentana a quattro ore pomeridiane: È un combattimento fra gente che fugge e gente che non s’avanza.
Perocchè, vogliamo dire anco questo a onore della verità e per lasciare ai valorosi una gloria senza mistura, anche fra i Volontari ci furono le centinaia di bravi che pagarono per tutti, ma il grosso del corpo non si battè. E infatti come si sarebbe battuto? Il coraggio è dovere, onore, patriottismo, ordine, disciplina, e non era certo da quell’immondo lezzo che potevano scaturire queste virtù. Finchè a vincere bastarono i pochi, i pochi ci furono e ammirandi: quando occorsero tutti, i più mancarono e travolsero nella disfatta i migliori.
[544]
Non restava ormai altro partito che la ritirata su Monte Rotondo, e fu operata sotto la sinfonia merveilleuse dei fucili Chassepot. Però, sia ridetto per isbaldanzire ancora una volta un nemico che non seppe aver rispetto nè pei vinti, nè per la verità, i tiratori francesi erano circa a dugento passi dalla via che percorrevamo, vedevano noi a occhio nudo, come noi essi, e non osarono scendere sulla strada.
In Mentana però tutto non era finito: un millecinquecento uomini circa vi restavano sempre; e quali per paura d’uscirne, come coloro che fin da principio corsero a rimpiattarsi nelle case; quali per non saperne trovare la via, come i tardivi o gli sbandati: quali per vender cara la libertà e la vita, come i Bersaglieri di Burlando, che, dopo aver bravamente combattuto tutta la giornata, si buttarono con un centinaio d’altri compagni nel castello e vi si rinchiusero; quali infine per non voler disperare della vittoria, come i Carabinieri livornesi, che già caduto il sole, ultimo quadrato di Waterloo, combattevano ancora; venivano tuttavia per ragioni e con propositi diversi a formare una massa che a prima giunta, a nemico non bene certo della vittoria, poteva parere temibile.
E infatti di fronte a questa folla di feriti, di dispersi, di nascosti, di impotenti, i generali franco-papali s’arrestarono; e non solo non ardirono entrare in Mentana, ma, vedi sapienza! sospesero persino una ricognizione che avevano ordinato per quella sera, accontentandosi di mettere le gran guardie a un mezzo tiro di fucile dal paese.[369] E questo lo scrive proprio il generale francese, e il fatto conferma, almeno in questo punto, il suo rapporto. Una cosa sola inesatta [545] sfuggì al signor De Failly, «che egli dormì sul campo di battaglia.» Il valente Generale dimenticò che il campo di battaglia era Mentana stessa, e che egli per quella notte dormì fuori.
Garibaldi non l’avrebbe mai immaginato, e convinto che Mentana sarebbe stata nella sera stessa in potere del nemico, vedendo omai vana, e più per le ragioni politiche che per le militari, ogni altra resistenza, ordinò per la sera stessa la ritirata di tutto il corpo (circa tremila uomini) su Passo Corese. Egli sapeva, come noi tutti, che a Passo Corese l’attendeva la catastrofe, ma non sarebbe stato da uomini, poichè la era inevitabile, il differirla con un infecondo spargimento di sangue, o con un ludo teatrale di gladiatori, mascherarla.
Al mattino seguente, 4 novembre, al primo apparire del 59º reggimento francese, che, sotto gli ordini del tenente colonnello Bresolles, marciava in ricognizione sopra Mentana, una bandiera bianca issata sul castello annunziava che i Garibaldini ivi rinchiusi intendevano capitolare, e furono tosto intavolate le negoziazioni. Il maggiore Burlando per i suoi stipulò che tutti i Volontari chiusi in Mentana avrebbero deposte le armi e sarebbero stati ricondotti al confine italiano da una scorta francese. I generali franco-papali mostrarono intendere, ed amiamo ancora crederlo, per l’onore di Francia, incolpevole equivoco, che pei soli rinchiusi nel castello fosse pattuito il partire così, laonde tutti quelli che trovarono per le vie di Mentana, circa ottocento, li ritennero prigionieri di guerra e li portarono, trofeo non legittimo, in Roma.
Ridire poi tutte le prove di valore e di sacrificio sarebbe impossibile: empirebbero un poema. I settanta Carabinieri livornesi, la vecchia guardia della [546] giornata, lasciarono circa la metà de’ loro sul terreno, fra i quali dodici morti, dei quali troviamo in un album pietoso registrati i nomi che ci par sacro ripetere.[370] Era stato degno di comandarli fino all’ultimo istante, fino a che gravemente ferito ad un braccio cadde egli stesso, Carlo Mayer, nome in Livorno onorato, già soldato e ferito d’altre campagne, colto intelletto e nobile cuore, fra i rari superstiti di quella generazione di veri volontari, di veri patriotti, e, sia pur detto, di veri uomini, che le battaglie della vita, più ancora che le battaglie del campo, vennero decimando. Cantoni di Bologna, il conte Bolis romagnuolo, bravamente morirono. Egisto Bezzi, di cui basta il nome, Adami livornese, Stallo genovese, Erba e Vigo Pellizzari di Milano, molti altri de’ quali il nome non si conosce, caddero feriti e con uno stuolo non meno ammirando di usciti illesi per prodigio da ogni più disperato sbaraglio, confermarono al nome italiano l’immortalità del valore.
Che cosa faceva intanto il colonnello Paggi co’ suoi tre battaglioni? Aveva egli scoperto il nemico, aveva visto il combattimento, aveva sentito la fucilata ed il cannone? Tanto Menotti Garibaldi quanto il generale Fabrizi gli mossero ne’ loro rapporti grave censura per non aver prima d’ogni altra cosa avvertita la marcia dell’esercito franco-papale per via Nomentana, e non essere disceso, una volta impegnato il combattimento, ad attaccare il nemico alle spalle.
Ma il colonnello Paggi in un suo rapporto, edito da’ giornali, s’è giustificato adducendo che il nemico, girando per le posizioni di Casale e Romitorio su [547] Mentana, passò lontano da’ suoi avamposti otto miglia: che Monte Porci e Monte Lupari, oltre che essere anch’essi assai lontani e fuor d’ogni vista dalle accennate posizioni di Casale e Romitorio, erano stati il giorno prima per ordine di Menotti stesso abbandonati: che egli era stato mandato ad occupare Palombara fuori affatto di linea, mentre dovea occupare il monte Palombino dominante la strada; che infine egli avea udito il cannone soltanto verso il tocco e mezzo, ma che non avendo ricevuto alcun ordine di muoversi, stimò di non poterlo fare sulla sua responsabilità.
A noi mancano tuttavia argomenti bastevoli per pronunciare un giudizio. È certo però che il generale Garibaldi contava molto sulla vigilanza e sull’intervento della colonna del Paggi, tanto vero che durante il combattimento spedì guide ed ufficiali di stato maggiore a chiamarlo, ed è altresì certo che se un solo battaglione di quella colonna fosse comparso anche verso le tre alle spalle del nemico, l’effetto ne poteva essere grande e forse decisivo.
Tale fu la giornata di Mentana. In essa si trovarono di fronte, secondo i nostri ed i rapporti dello stato maggiore dell’esercito alleato, 11,000 Franco-papali contro 4652 Garibaldini. Tutto l’esercito pontificio sì mercenario che indigeno era uscito da Roma, ed il generale Fabrizi calcolando ai 5000 uomini si tiene molto al disotto del vero. Dell’esercito francese erano in linea tutto il 1º, il 29º e il 59º reggimento di linea, un battaglione di cacciatori di Vincennes e un’intera batteria d’artiglieria.
Le perdite de’ nostri, secondo le informazioni raccolte dal corpo sanitario, ammontarono a circa 240 feriti e 150 morti, oltre a circa 900 prigionieri. I morti del nemico ascesero a 256, sui quali, fatta la proporzione, [548] si può calcolare il numero dei feriti. La differenza è dunque tutta a danno de’ Franco-papali; i Garibaldini non ebbero altro privilegio che di lasciare un maggior numero d’ufficiali sul campo di battaglia.[371]
La notte era grigia e tetra, la campagna squallida e muta: buffi di vento soffiati dal Tevere penetravano nelle ossa, intirizzendovi quelle ultime ceneri d’energia che l’ambascia e la fatica di quell’aspra giornata non aveano consumate. La colonna seguiva, lunga, serrata, taciturna: non un canto, non un grido, non un colloquio. Garibaldi precedeva a cavallo, silenzioso anch’esso, col cappello sugli occhi, le braccia abbandonate, lugubre, spettrale. Pareva il Napoleone di Meissonnier, che batte in ritirata dopo la sconfitta di [549] Laon. Egli non badava ad alcuno, e nessuno a sua volta avrebbe osato interrompere il sacro colloquio di quell’uomo con la sua sventura.
Un istante tuttavia parve accorgersi che qualcuno gli cavalcava più dappresso, guatando ansioso tutti i moti della sua fronte; onde, rotto per poco il silenzio, gli disse: «È la prima volta, Guerzoni, che mi fanno voltare le spalle così, e sarebbe stato meglio....» qui un profondo sospiro gli troncò nella strozza la parola, e spinto avanti il suo cavallo, arrivò poche ore dopo insieme a tutta la colonna a Passo Corese.
Voleva forse dire: «Sarebbe stato meglio morire?» L’evento e l’ora consigliavano siffatti pensieri, e molti forse li covavano come lui.
Ivi il primo ad affacciarglisi fu il volto franco ed ospitale del colonnello Caravà, già suo soldato, ora comandante il 4º Granatieri al confine, e che fin dove glielo avevano concesso i suoi rigorosi doveri, era stato durante tutta la campagna sollecito in ogni guisa de’ nostri sbandati e de’ nostri feriti. Garibaldi gli porse la mano e gli disse:
«Colonnello, siamo stati battuti, ma potete assicurare i nostri fratelli dell’esercito che l’onore delle armi italiane fu salvo.»
E fu quella la più eloquente epigrafe di tutta quella campagna.
Il dì appresso il Generale montava in ferrovia, col proposito di ricondursi diritto alla sua Caprera, quando, «giunto a Figline (lo diremo colle parole stesse della protesta che i seguaci del Generale stesero in quella circostanza),[372] il convoglio fu fatto arrestare e presentossi [550] al generale Garibaldi il luogotenente colonnello dei Carabinieri, signor cavalier Camozzi, il quale chiese conferire da solo col Generale stesso. La stazione era occupata militarmente da una divisione di Bersaglieri, comandata dal maggiore Fiastri, e da un forte drappello di Carabinieri.
»Dopo pochi istanti il Generale scese dal convoglio, e tutti noi che lo accompagnavamo con lui.
»A un tratto si udì il generale Garibaldi dire ad alta voce al colonnello Camozzi le seguenti parole:
» — Avete il regolare mandato d’arresto? —
»Il Colonnello rispose: — No. Ho l’ordine d’arrestarla. —
»Il Generale replicò: — Voi sapete di commettere una illegalità. Io non sono colpevole d’alcuna ostilità contro lo Stato italiano, nè contro le sue leggi. Sono deputato italiano, generale romano eletto da un governo legalmente costituito e cittadino americano. Come tale, non essendo colto in flagrante di nessun delitto, non posso essere arrestato, e voi e chi vi manda, violate la legge. Però vi dichiaro che non cederò che ad un atto di violenza, e che, se volete arrestarmi, vi converrà trasportarmi a forza. —
»A queste sue parole noi tutti (s’intendano i sottoscrittori della protesta) eravamo risoluti a difendere anche colle armi, nella persona del Generale, la legge e il diritto. Ma egli ci dichiarò «che alla violenza, che si intendeva usare contro di lui, non voleva si rispondesse con altra violenza; che non avrebbe mai consentito ad un conflitto con soldati italiani, e ci impose di tralasciare ogni pensiero di resistenza armata.»
» — Perchè (soggiunse) se avessi voluto resistere colle armi, io pel primo avrei usato di quelle che aveva sotto i miei ordini. —
[551]
»Noi ubbidimmo.
»Accorsa molta gente, la quale poteva far temere una collisione, e nel desiderio di evitare uno spettacolo così umiliante per il paese, il deputato Crispi telegrafò due volte al Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo una revocazione degli ordini in nome d’Italia, ed affermando replicatamente che il Generale voleva andare a casa sua, a Caprera. Perciò fu chiesta al colonnello Camozzi la breve dilazione necessaria per ottenere da Firenze una risposta telegrafica, come era stata domandata.
»Nello stesso tempo molti fra noi insistevano presso il colonnello Camozzi, perchè anch’egli, da parte sua, telegrafasse al Governo, significandogli la risoluzione del generale Garibaldi e chiedendogli, per la nuova e impreveduta circostanza, nuove istruzioni.
»A questo nostro consiglio il colonnello Camozzi oppose il più reciso rifiuto.
»Scorsa un’ora, senza che fosse arrivata da Firenze alcuna risposta al telegramma del deputato Crispi, il colonnello dei Carabinieri dichiarò che doveva far eseguire gli ordini.
»Nemmeno la dichiarazione fatta più volte dal generale Garibaldi d’essere stanco, sofferente, affranto da molti giorni di privazioni e di fatiche, e di non poter sopportare il nuovo e grave disagio d’un lungo viaggio, valse a trattenerlo.
»Allora quattro carabinieri si avvicinarono al Generale, il loro maresciallo lo invitò, in nome de’ suoi superiori, a seguirli. Il Generale, mantenendo ferma la sua prima risoluzione, fu sollevato dai suddetti carabinieri, tolto da dove era seduto nella sala d’aspetto, e così trasportato di peso in mezzo al silenzio più solenne de’ suoi amici sino alla carrozza a lui destinata.
[552]
»Solo il deputato Crispi, in nome di tutti, protestò con energiche parole contro la violazione della legge e contro l’oltraggio inflitto al più grande cittadino d’Italia.
»Fu concesso soltanto alla sua famiglia ed a’ suoi domestici d’accompagnarlo, ma solo il genero Canzio rimase con lui.
»Nello stesso compartimento andò a sedersi il colonnello Camozzi; molti vagoni di Bersaglieri precedevano e seguivano il treno.[373]»
E di là continuò fino al Varignano, dove sostenuto tre settimane, il 26 di sera fu imbarcato per Caprera, e quivi colla sola condizione di non uscirne sino al marzo vegnente e di presentarsi al Tribunale, caso mai il processo dovesse aver luogo, posto in libertà.
Le ultime parole da lui scritte, uscendo da quel secondo carcere patito per Roma, furono: «Addio Roma, addio Campidoglio! Chi sa chi e quando a te penserà!»
Ci pensò la Nemesi della Storia, che ai vinti di Mentana preparò la triste, ma giusta, ma fatale rivincita di Sédan!
L’Eroe aveva più che mantenuta la sua parola; dal 1868 al 1870, non solamente non s’era più mosso [553] da Caprera, ma, cosa portentosa, aveva scritto poche lettere, e fatto parlare raramente di sè.[374]
[554]
Che cosa fa il Generale?; — era la domanda quasi obbligata e periodica de’ suoi amici in quegli anni; — che cosa pensa, che cosa mulina, che cosa apparecchia? — Nulla! pota le viti del Fontanaccio, scrive de’ romanzi,[375] e fa la corte alla signora Francesca Armosino, che non sembra ritrosa a quell’onore.
Se non che, a un tratto, l’una dietro l’altra, col crescendo d’un uragano, scoppiano le notizie dell’anno terribile: l’antico duello tra Francia e Germania ripreso; il primo esercito francese disfatto a Wörth e a Gravelotte; il secondo annientato, coll’Imperatore stesso prigioniero, a Sédan; l’Impero caduto e la Repubblica gridata: gli eserciti di Germania alle mura di Parigi: la Francia boccheggiante sotto il piede del vincitore, troppo orgogliosa, vorremmo dire, troppo grande, per darsi vinta ancora.
Ora in mezzo a questo cataclisma che spostava da un istante all’altro il fulcro dell’equilibrio mondiale, quale sia stato il contegno dell’Europa, il contegno dell’Italia nostra, non è mestieri ridirlo. L’Europa gridò: «Beati i neutri;» l’Italia esclamò: «Quest’è l’ora di riprender Roma:», più d’uno forse pensò se non era il caso di riavere anche Nizza; e continuando a lasciar che la Francia si liberasse come poteva dalle strette del colosso che le stava sul petto, ciascuno badò soltanto a trarre quel qualunque profitto che potesse dalla vittoria dell’uno, dalla sconfitta [555] dell’altro, dallo spossamento d’entrambi. Ciascuno, eccettuatone un solo: colui che fu, sotto ogni rispetto, l’eccezione vivente del nostro secolo, Giuseppe Garibaldi. Intanto che gl’Italiani si preparavano tripudiando alla facile conquista dell’eterna città, intanto che taluno de’ suoi concittadini nizzardi lo sollecitava a entrare nel moto revisionista che doveva restituire la sua terra nativa all’Italia, egli solo pensava alla Francia; egli solo forse sentiva il pericolo di veder sparire dal consorzio delle nazioni latine quella madre presunta, ma agitatrice certa di tutte le grandi idee moderne; ed egli solo le offerse, con semplice e commovente parola, «quanto restava di lui.»
La sua lettera però al Governo della Difesa Nazionale in Tours restò senza risposta; e forse la sarebbe rimasta per sempre se il francese colonnello Bordone, uno de’ suoi ufficiali del 60, fattosi zelatore ardentissimo di quel viaggio, non fosse riuscito a strappare al signor Crémieux, Guardasigilli della Difesa Nazionale una specie di aggradimento o d’incoraggiamento ufficioso che non aveva nulla, a dir vero, dell’invito ufficiale e categorico d’un Governo; ma che bastò al Bordone stesso per credere e far credere al Generale che egli sarebbe stato accolto a braccia quadre da tutto il popolo francese e salutato come un salvatore.[376] Ma fu disingannato ben presto. A Marsiglia il popolo lo accolse coll’usato entusiasmo; ma a Tours era così poco aspettato[377] che lo stesso Crémieux fu [556] udito esclamare in suon lamentoso: «Ah mon Dieu; il arrive! Il ne nous manquait plus que cela;[378]» e il Gambetta, disceso per l’appunto in quei giorni in aerostata alla capitale provvisoria della nascente repubblica, non seppe ringraziarlo in altro modo che facendogli offrire il comando di due o trecento Volontari, di cui il Governo non sapeva che farsi.
Il fatto era che, eccettuati quei pochi amici ed ammiratori che l’Eroe aveva in tutti gli angoli della terra, nessuno in Francia aveva desiderato la sua venuta. Il Governo pel primo l’aveva subíta, ma non l’avrebbe mai invocata. Aborrito da tutte le frazioni del partito retrivo come il campione più pericoloso della rivoluzione; dipinto alle ignare contadinanze come un anticristo nemico a tutte le religioni e a tutti gli altari; inviso alla borghesia bottegaia e pacifica, come un impedimento di più alla conclusione della pace, che era in fondo l’anelito segreto e il desiderio più sincero del popolo francese, Garibaldi si trovò in Francia fin da’ primi giorni nella falsa posizione d’un intruso che arreca in casa d’altri un aiuto non richiesto, ed è tanto più increscioso agli aiutati, quanto più sono costretti a confessare che di quell’aiuto avrebbero bisogno. L’esercito pel primo non avrebbe mai potuto tollerarlo. «Mai, esclamava il Gambetta, mai io metterò un Generale francese sotto gli ordini di Garibaldi.[379]» Ed era un proponimento ingrato, ma in quel momento e per quel paese, politico. Nessun Generale si sarebbe mai rassegnato ad aver per uguale, [557] molto meno per capo, quel soldato di ventura. I Capitani dell’Impero erano stati troppo solennemente battuti per ammettere che altri venisse loro ad apprendere il modo di non esserlo più. Vittoriosi, avrebbero forse tollerato di dividere con lui i resti della loro gloria; vinti, non avrebbero patito di dovere a lui gli onori della rivincita sperata. Checchè facesse Garibaldi, ponendo il piede in Francia egli era già predestinato a questo fine: portare la soma di tutti gli errori altrui; perdere il frutto di tutti i meriti propri; non raccogliere altro premio del suo beneficio che l’ingratitudine implacabile de’ beneficati.
Tuttavia il governo di Tours se non poteva desiderarlo, non poteva neanche osar di respingerlo; e quando il Generale, indignato dell’oltraggiosa offerta che gli era stata fatta, annunziò che sarebbe ripartito dalla Francia col primo treno diretto, il Gambetta, impensierito dell’interpretazione che si sarebbe data a quella partenza, e soprattutto forzato dal programma di guerra a oltranza da lui stesso bandito, che gli impediva di trascurare qualsiasi più piccolo soccorso, finì coll’offrire al Generale «il comando di tutti i Corpi franchi della zona dei Vosgi compresi da Strasburgo a Parigi, e d’una brigata di Guardie mobili.»
E come ognun sente, il titolo era troppo risonante per non sospettarvi sotto più vento che sostanza; tuttavia Garibaldi ormai disposto a sacrificare tutto sè stesso al fine che lo conduceva, l’accettò subito, e nell’indomani diede convegno a tutte le forze reali ed immaginarie poste a’ suoi ordini, nei dintorni di Dôle, dove andò egli stesso il 15 ottobre a porre il suo Quartier generale.
La scelta di quel primo punto di concentramento, [558] dato l’obbiettivo prescritto al generale Garibaldi, e le posizioni del nemico, non poteva essere migliore. La piccola città di Dôle, capoluogo del Giura, domina dall’alto le due valli della Saona e del Doubs; allaccia intorno a sè le quattro strade di Dijon, di Langres, di Besançon, e di Lione, ed offre a qualunque esercito abbia l’ufficio di proteggere il Giura ed il Lionese da un nemico sboccante dai Vosgi, un pernio d’operazione e di difesa per ogni rispetto gagliardo ed opportuno.
E tale era infatti il problema dei belligeranti nel sud-est della Francia. Il generale Werder vinta Strasburgo era sceso con tutto il suo Corpo d’armata (XIV) nella regione meridionale dei Vosgi, e lasciata una divisione all’assedio di Belfort, s’era disteso colla sua ala destra nelle convalli della Saona e dell’Ognon, spingendo già le sue scorrerie fino a Vesoul, Langres e Montbeillaird in faccia a Dijon, Dôle e Besançon.
Ora contro queste truppe, sommanti a più che quarantamila uomini, non istettero fino ai primi d’ottobre che il Corpo del generale Cambriels, forte tutt’al più di ventimila soldati, tra Besançon e Beaume-les-Dames, e alcuni battaglioni di milizie mobili sotto gli ordini del dottore Lavalle, a guardia di Dijon. Tra questa città e Besançon v’era dunque un largo spazio vuoto, già minacciato dalle scorrerie nemiche, che importava e si pretendeva infatti coprire col così detto Esercito dei Vosgi del generale Garibaldi.
Il qual esercito però non cominciò che al 20 ottobre a parere almeno l’embrione di quello che sarebbe stato in futuro. E non parliamo del numero, che fino a tutto ottobre non superò mai i quattromila uomini e per quasi l’intero novembre i settemila, ma tocchiamo qualcosa soltanto della qualità. Un cibreo [559] cosmopolita di Francesi, Spagnuoli, Polacchi, Greci, Algerini, miscuglio a sua volta di guardie mobili, di soldati stanziali, di volontari, di reclute forzate, e decorato de’ nomi più strani e diremmo quasi quarantotteschi: Francs-tireurs du Rhône, de Gand, de l’Isère ec.; Alsaciens de Paris, Explorateurs de Gray, Compagnie de Colmar e d’Oran, Enfants perdus de Paris, Guerrillos d’Orient, le Bataillon l’Egalité de Marseille ec.; i Cacciatori delle Alpi, di Marsala, di Genova, ec.; camuffati nelle foggie più strane, militari, brigantesche, eroiche, borghesi; armati di tutte le armi, dalla tabatière al Chassepot, dal Remington alla carabina svizzera, dall’antiquato fucile a percussione al nuovissimo Spencer Rifle; comandati da ufficiali, la cui gerarchia morale andava dall’avventuriere mestierante, lanciaspezzata di tutte le cause, al candido paladino dell’idea, accorso a morire per la repubblica; dal veterano incanutito nelle battaglie, al tribuno popolare improvvisato generale; dal vigliacco degno di fucilazione,[380] all’eroe degno d’apoteosi: ecco l’esercito dei Vosgi.
Che se a tutto ciò si aggiunga, fino quasi al finire della campagna, la mancanza di cavalleria, la povertà d’artiglieria, la freddezza, se non era qualche volta avversione, delle popolazioni e delle magistrature locali; la lentezza, se pur non poteva dirsi ritrosia del Governo a soddisfare ai più stringenti bisogni del nuovo esercito, e infine la perpetua incertezza del comando, sicchè in quella zona dei Vosgi, o del Giura, o della Costa d’Oro, non si seppe mai chi comandasse in capo; se Garibaldi, o Cambriels; se Michel, o Cremer; se Crousat o Bressolles; si avrà una pallida [560] idea delle condizioni in cui Garibaldi dovette fare quella guerra, e quanta virtù di pazienza, di costanza, di coraggio, dovesse racchiudersi nel petto di quell’eroe per resistere a tante contrarietà, ben più moleste del fucile ad ago prussiano, e non piantare su due piedi un paese che gli lesinava persino i mezzi di combattere e morire onoratamente per lui.
E se ne videro ben presto le prove. Le avanguardie del Werder scorazzavano già nei dintorni di Gray, laonde Garibaldi, accortosi della necessità di far argine all’invasione crescente, mentre con abili manovre tra la Saone e l’Ognon tentava di arrestare la marcia del nemico o di guastarne i disegni, insisteva col Cambriels, affinchè cooperasse con lui, sia colle mosse combinate delle sue truppe, sia coll’inviargli rinforzi, a contenere il nemico sempre più minaccioso.
Ma indarno. Ora il Cambriels dichiarava di non poter dare nè un uomo, nè un cannone de’ suoi; ora invece sognando d’essere attaccato egli stesso, interrompeva le operazioni meglio avviate di Garibaldi per chiedere soccorso a lui;[381] ora infine per l’impotenza di Garibaldi, ora per l’incapacità e il malvolere del Cambriels, la cosa andò tanto a seconda ai Prussiani da quel lato, che alla fine dell’ottobre, avuta pronta ragione dei pochi mobili che guardavano la città, entrarono, per dedizione del municipio, in Dijon.
[561]
Il fatto era grave. Colla presa di Dijon non solo tutte le gole del Morvan, dietro le quali la Francia possiede nei grandi opifici del Creuzot una delle maggiori sue ricchezze, erano esposte all’invasione nemica, ma persino le strade di Lione e di Nevers, quindi la linea della Loira, dietro la quale il generale Bourbaky ordinava il suo ultimo esercito salvatore, poteva essere minacciata. Di fronte pertanto a questo pericolo, il governo di Tours pensò di incaricare il Generale della difesa del Morvan, ordinandogli di trasportarsi con tutte le sue forze ad Autun. E il Generale, che fino a quel giorno avea reso alla difesa del Giura importantissimi servigi, arrestando coi felici scontri di Genlis e Saint-Jean de Losne (5, 6, 7 novembre) i Prussiani al di là della Saona, accettò, ringraziando, il nuovo mandato, e tra il 14 e il 15 novembre mosse per il nuovo teatro della guerra che gli era destinato.
Ma quivi pure la parte affibbiatagli era superiore alle forze. Col sopraggiungere della legione italiana e d’altri corpi franchi, Garibaldi aveva potuto accrescere e riordinare il suo piccolo esercito in quattro brigate; la prima comandata dal generale Bossack, veterano delle guerre polacche, con circa quattromila uomini; la seconda agli ordini del signor Delpeck, testè prefetto di Marsiglia, prode, ma nuovo alle armi, di circa millecinquecento; la terza, capitanata da Menotti Garibaldi, comprendente i Corpi franchi italiani, di circa cinquemila seicento uomini; una quarta infine, posta sotto il comando di Ricciotti Garibaldi, composta in gran parte di francs-tireurs, ma che a quei giorni era tuttora in formazione a Dôle e superava di poco il migliaio di combattenti.
E conviene sempre rammentarsi che se questa massa di circa quattordicimila uomini cominciava a [562] prendere qualche forma e qualche aspetto militare, non aveva ancora al suo arrivo in Autun che quattro pezzi d’artiglieria di montagna; contava tutt’al più un centocinquanta cavalieri miseramente montati; penuriava de’ più necessari oggetti di corredo, principalmente di cappotti e di scarpe, divenuti, pel crudo inverno che s’innoltrava, assolutamente indispensabili. Il nemico invece presidiava con circa ventimila uomini Digione, e nei dintorni ne teneva altri diecimila tra Auxonne e Dôle, ed era già potentemente fiancheggiato dalla 14ª divisione, del 7º corpo (Zastrow), staccato dall’armata del principe Federico Carlo, le cui avanguardie stormeggiavano tra Auxerre e Montbard e minacciavano insieme il fianco sinistro di Garibaldi e le sue comunicazioni col sud. Erano insomma cinquantamila uomini, muniti di potente e numerosa artiglieria e forniti a dovizia d’ogni ben di Dio, contro quindicimila soldati improvvisati, sprovvisti d’ogni cosa più necessaria.
È ben vero che il generale Garibaldi non era solo, e che quasi a contatto della sua destra, tra Beaune e Chagny, stava scaglionato tutto l’esercito dell’est, passato allora sotto gli ordini del generale Crousat, per ripassare tra poco sotto gli ordini del generale Cremer; ma chi rammenti dall’un canto la funesta dualità di comando che paralizzava le migliori intenzioni dei due eserciti e l’antipatia che i generali francesi avevano d’accordarsi col Condottiero italiano; chi consideri dall’altro il modo veramente singolare con cui que’ generali intendevano e facevano la guerra, senza concetto, senza iniziativa, senza fede, vedrà che Garibaldi non poteva fare assegnamento per operazioni importanti che sopra sè stesso; e leggendo attentamente la storia di quel tratto di campagna, si [563] convincerà che se egli non fosse stato, nulla avrebbe impedito all’esercito di Werder di marciare un mese prima sopra Lione, e di sorprendere dietro la Loira il generale Bourbaky in piena formazione.
Tuttavia, come al solito, egli disse: «i’ mi sobbarco,» e si mise all’opera. Fino a quei giorni i prussiani avevano potuto scorazzare impunemente il paese e con pochi ulani spadroneggiarlo. Da che entrò in campo Garibaldi la scena mutò, ed essi pure dovettero pensare un po’ più seriamente ai casi loro. Oramai in quell’arte delle scoperte, dei volteggiamenti, delle sorprese in cui si eran chiariti maestri, avevano trovato un emulo, e un emulo degno di loro. D’ora in poi non un bivio, non un villaggio, non un bosco, in cui i formidabili scorridori tedeschi non incontrassero, pronte a riceverli, anzi desiderose d’incontrarli, le pattuglie dei franchi tiratori garibaldini. Il giuoco delle allegre scorribande nel Morvan e sulla Costa d’Oro era finito, quando non erano i superbi vincitori di Sédan e di Strasburgo che ne pagavano le spese.
Munita alla meglio Autun, scaglionatosi arditamente da Epinac a Soubernon, Garibaldi non s’accontenta di star sopra una inerte difesa; attacca, sorprende, molesta egli stesso il nemico, e col moto perpetuo sulla fronte, sui fianchi, alle spalle, gli nasconde i suoi disegni. Così il 20 lancia a fondo la brigata Ricciotti sulla colonna Zastrow, e il figliuolo fa così bene la sua prima prova di comandante che sorprende, a Châtillon-sur-Seine, una delle avanguardie nemiche, le uccide dugento uomini, le porta via centosessanta prigionieri,[382] e quattro carri di munizioni.
[564]
Ma di ciò non s’appagava. Da lungo tempo Garibaldi mulinava di tentare un colpo di mano notturno su Dijon, e nella sera del 24, lasciata parte delle forze a guardia d’Autun, mosse colla 1ª e 3ª brigata Bossack e Menotti, all’ardua impresa. Se non che la brigata Bossack essendo incappata negli avamposti prussiani di Velars, che avrebbe dovuto cansare, la sorpresa, come accade di sovente, fu sventata e il disegno mutato. Non per questo Garibaldi indietreggiò. Presa posizione sulle alture e nei dintorni di Lantenay, Garibaldi aveva concertato col capo di stato maggiore del generale Cremer di attirare nella Val di Suzon l’inimico, per lasciar modo ai Francesi di accostarsi a Dijon da sud-est, e se era possibile penetrarvi.
Ai Prussiani però importava troppo di non avere un siffatto nemico, potrebbe dirsi, a ridosso; sicchè intanto che egli meditava di attaccarli nelle loro posizioni di Plombières, aggirandoli per nord-ovest, essi si movevano ad attaccar lui nelle sue posizioni di Lantenay aggirandolo per la strada di Prenois-Pasques, d’onde lo scontro e quel che fu detta la battaglia di Pasques. Garibaldi però, vigile sempre, aveva scoperto fin dal mattino (26 novembre), la marcia del nemico, sicchè non appena egli cominciò a spuntar colle avanguardie su Pasques, potè salutarlo colle sue artiglierie. Allora il combattimento s’accese, e Garibaldi in persona, montato pel primo giorno a cavallo, lo dirigeva. E quantunque il numero de’ Prussiani fosse da quel lato minore (la sola brigata Degenfeld), la superiorità della loro artiglieria era tale che la bilancia delle forze traboccava ancora in loro favore. Tuttavia l’ardore dei Garibaldini è in quel mattino grandissimo; la legione italiana, condotta dal Tanara, si lancia alla baionetta; alcune compagnie di franchi tiratori, guidati [565] da Canzio, secondano il Movimento; la brigata Delpeck spuntando da Ancey minaccia la destra di Pasques, talchè i Prussiani, in presentissimo pericolo d’essere tutti avvolti, si ripiegano disordinati su Prenois. Colà però trincerati dietro le case, e protetti dalle muraglie dei giardini, ripiglian la resistenza; ma di là pure intrepidamente assaliti da ogni fianco cominciano a vacillare ed a cedere terreno. Egli è allora che Stefano Canzio, il quale in tutta quella campagna manifestò doti d’intelligentissimo capitano, veduto il balenar de’ nemici si pone a capo di quel distaccamento di cacciatori a cavallo e di quelle poche guide garibaldine, che facevan tutta la cavalleria dell’esercito, raccozza quanti altri ufficiali e soldati a cavallo gli cadon pel momento sotto mano, e formato così un gruppo di forse centocinquanta cavalieri, si lancia ventre a terra, Murat improvvisato, contro il fianco sinistro dell’inimico sulla strada di Prenois-Darois, e ne compie la rotta.
«A Dijon, a Dijon,» gridaron tosto ebbri della vittoria i Garibaldini. «Ebbene a Dijon,» rispose Garibaldi, e cedendo ancora una volta al cattivo genio degli assalti notturni, date poche ore di riposo alle truppe, posti i carabinieri genovesi del Razzetto in testa, dietro i legionari italiani e i francs-tireurs di Ricciotti, in ultimo i tre battaglioni dei mobiles, in sul cader della sera per la strada di Val Suzon si pose in marcia.
La notte era già calata e tutto fin presso a Talant era andato a seconda. Il Generale in una carrozzetta ferma sulla strada, rassegnava, a mano a mano [566] che passavano, le sue milizie e gridava loro: «Avanti, figliuoli: alla baionetta, non un colpo di fucile,» accompagnando il passo marziale de’ suoi con un suo inno patriottico, che egli aveva composto in quei giorni e che suonava così:
Aux armes! aux armes! aux armes!
L’étranger veut nous envahir,
Aux armes! aux armes!
Nous saurons le punir.
Vous osez menacer la France,
Souverains pleins d’arrogance;
Oubliez-vous qu’en cent combats
Vos phalanges fuyaient
Au seul bruit de nos pas,
Et vos trônes brisés
Tombaient avec fracas?
Aux armes! etc.
Pour asservir notre patrie
S’est formée une ligue impie;
Les rois nous préparent des fers.
Vainqueurs de l’Univers,
A nous des fers? A nous des fers?
Aux armes! etc.
Ma all’entusiasmo latino stava per rispondere ben presto la solidità tedesca. Sorpresi a Hauteville dai carabinieri del Razzetto, gli avamposti di Degenfeld danno in volta disordinata, e dietro loro i franchi tiratori di Ravelli e di Ricciotti si avanzano arditamente fin sotto Talant; ma il nemico s’è già riavuto dalla prima sorpresa; il 1º battaglione del 2º reggimento badese, fiancheggiato da batterie a mitraglia, si spiega sulla strada accogliendo con rapide scariche su quattro righe gli assalitori: i mobili, nuovissimi al fuoco, nuovissimi a quelle imprese notturne, infilati dalla moschetteria e dalla mitraglia, rompono, si scompigliano, rigurgitano in grandissimo tumulto, trascinando nel loro vortice i più audaci e volonterosi. Invano [567] Garibaldi dalla sua carrozza, esposto egli pure alla grandine dei colpi nemici, urla, prega, bestemmia, vuol farsi portare innanzi a forza di braccia: non c’è genio o virtù di Capitano che imponga ad un esercito vinto da un timor pánico; e quando il pánico lo prende di notte, nessuna potenza umana che lo salvi.
Ma che cosa faceva, intanto che i Garibaldini attaccavano due volte in un giorno il nemico, che cosa faceva il generale Cremer co’ suoi dodicimila uomini scaglionati da Beaune a Chagny, a quattro ore di marcia da Dijon? «Dobbiamo supporre, esclama il generale Bordone, ch’essi siano stati battuti e schiacciati, poichè conoscendo il forte conflitto, che durava dal mezzogiorno in poi, non diedero segno di vita.[383]»
A Garibaldi frattanto fu giuocoforza battere in ritirata. Rioccupate nella notte le sue posizioni di Lantenay-Commarin, al mattino vegnente, 27, mentre il generale Werder con due colonne convergenti si preparava a circuirlo e tagliargli la via, riusciva a sgusciargli dalle mani col grosso delle sue forze, e fatta fronte due giorni ad Arnay-le-Duc, il 30 novembre rientrava, senza lasciarsi dietro nè feriti nè prigionieri, in Autun.[384]
[568]
Colà però il nemico non tardò a rendergli la visita di Dijon. Solo Garibaldi la presentiva; e datone avviso al Cremer, che prometteva ancora il suo aiuto, faceva munire d’artiglierie le due strade di Saint-Martin e Saint-Symphorien, d’onde il nemico doveva infallibilmente sbucare.
Se non che la guardia di Saint-Martin era stata affidata a certo Chenet, comandante la Guerrilla d’Orient, che nella notte dal 30 novembre al 1º dicembre, senza ordine, senza perchè, come si lascia una villeggiatura, scomparve, abbandonando nelle mani dei Tedeschi quella posizione importantissima. Era una vigliaccheria inaudita, una patente diserzione in faccia al nemico; il Chenet fu da un regolare Consiglio di Guerra condannato alla degradazione ed alla morte (graziato poi della vita per troppa generosità di Garibaldi); ma frattanto il danno era avvenuto e il nemico, forte di tutta la brigata Kettler, di un reggimento dragoni e di tre batterie, era già, prima che fosse avvertito, ai sobborghi della città. Nulla di meno, trovò resistenza degna di lui. Intanto che i francs-tireurs di Ricciotti e i volontari della Legione italiana, fiancheggiati da due battaglioni di mobiles, ributtavano il nemico dai sobborghi e ricuperavano Saint-Martin, le batterie garibaldine, collocate da Garibaldi, controbattevano felicemente le prussiane, Menotti arrestava sulla destra la colonna di Saint-Symphorien e frustrava il movimento girante d’un’altra dalla foresta di Vesvres; talchè in meno di due ore, l’assalitore era forzato a dar volta su tutti i punti. Ed a compiere la vittoria che i Garibaldini per mancanza di cavalleria non poterono proseguire, il generale Cremer riusciva a cogliere le retroguardie dei fuggenti presso Châteauneuf, rimeritato per ciò da elogi eccessivi di [569] Garibaldi, il quale l’aveva fatto avvertire della rotta dei Prussiani e l’aveva posto in grado, usando un po’ d’energia e di solerzia, di circuirli e annientarli.[385]
Le marcie e i combattimenti di quell’ultima settimana di novembre avevano gravemente danneggiato la debole compagine dell’esercito dei Vosgi, e Garibaldi fu costretto ad occupar gran parte del dicembre ad accrescerlo, riordinarlo e soprattutto fornirlo di quanto fino allora l’avara mano del governo di Tours gli aveva fatto desiderare.
Infatti l’esercito s’era ingrossato fino a sedicimila uomini; una seconda batteria di campagna le era stata aggiunta; una certa unità d’armamento e d’assise cominciava ad ottenersi; soltanto difettava sempre di cavalli e gl’intrighi del Frapolli a Lione che arrestava i Volontari accorrenti a Garibaldi, i pettegolezzi del Quartier generale e le animosità dei generali francesi duravano ancora.
Ad aggravar le disgrazie nella seconda metà di quel mese, Garibaldi fu ripreso da uno de’ suoi consueti accessi di artritide, che lo inchiodò per parecchi [570] giorni in letto, obbligandolo ancora, come nel Trentino, a far la guerra dalla sua camera, per divinazione.
E tuttavia la sua alacrità non rallentò un istante. Il gran disegno, che, secondo il signor Gambetta e il suo ispiratore signor De Serre, doveva salvare la Francia, la punta cioè di Bourbaky su Belfort con l’intendimento di liberare quella fortezza, riafferrare l’Alsazia e troncare gli eserciti germanici dalla loro base, sembrava maturo, e non restava più che concertare gli ultimi particolari della sua esecuzione. In vero Garibaldi non approvava quel disegno. A parer suo era un errore da cima a fondo: «errore perchè di quanta gente staccavasi dalla Loira, di altrettanta il nemico ringagliardiva le linee che stringevano la capitale; errore perchè lasciava isolato Chanzy contro il Principe Federico, che Bourbaky avrebbe dovuto assalire, e contro il Duca di Mecklemburgo; errore perchè prima che Bourbaky, con la solita lentezza francese, si fosse avvicinato a Belfort, Werder avrebbe spedito rinforzi: errore soprattutto, secondo lui, perchè muovendo sul suolo ghiacciato, sotto l’incessante fioccare della neve, una giovine truppa, nuova ai disagi, sarebbe stata affranta dalle fatiche e dagli stenti, prima di cominciare i combattimenti. Io (esclama la signora Jessie Mario, angelo confortatore dei feriti e degli ammalati, in quella campagna) l’udii favellare in questo senso con accento di profonda afflizione e non c’è sillaba che i fatti non abbiano con precisione confermato.[386]»
Tuttavia quando la impresa fu decisa, egli fu pronto a cooperarvi con tutte le sue forze. La parte assegnatagli [571] era di coprir il fianco sinistro del Bourbaky dalla Saona fino ai Vosgi, al quale scopo gli era stato promesso, non sapremmo se per la terza o quarta volta, di porre sotto i suoi comandi la divisione Cremer; ma quantunque questa promessa non fosse mai mantenuta, il Generale accettò il carico impostogli, e prima ancora che il Bourbaky fosse giunto a Châlons-sur-Saone, era già all’opera. Intento soprattutto a disturbare la congiunzione del corpo di Zastrow con quello di Werder, lanciava in mezzo a loro le due brigate di Ricciotti e di Lobbia (succeduto al Delpeck nel comando della 2ª) coll’ordine di distruggere ponti, eseguir sorprese, arrestar convogli; e i due valenti sanno destreggiarsi così bene che il Ricciotti batte più volte il nemico nei dintorni di Montbard; il Lobbia, dopo aver campeggiato vittoriosamente per oltre una settimana nell’altipiano di Langres, riesce a penetrare in questa fortezza ed a destarvi l’assonnata energia de’ suoi difensori.
Ma la marcia di Bourbaky era stata troppo strombettata a quei giorni dagli stessi suoi ordinatori, perchè potesse più essere un segreto per chicchessia; laonde il Werder, avvertito l’avvicinare del nuovo nemico, fra il 28 e il 29 dicembre abbandonava Dijon, per ristringersi a Vesoul e porsi in grado di proteggere gli assedianti di Belfort dall’assalto che li minacciava. E allora fu ordinato a Garibaldi di occupare e difendere inébranlablement Dijon, e quantunque egli preferisse appostarsi col grosso a Dôle, dove fin da principio aveva intravveduto il pernio delle operazioni nel sud-est, e che inconsultamente abbandonata dal Cremer sarà fra poco la porta per la quale Manteuffel sbucherà sul dosso di Bourbaky, tuttavia obbedì ancora, e tra il 5 e il 6 fu con tutte le sue [572] genti nella capitale della Costa d’Oro. E quivi, afforzata di opere temporanee la città, occupate le forti posizioni che da Plombières passando per Talant, chiave loro, si spiegano a ventaglio fino a Saint-Apollinaire, spingeva scoperte in tutti i sensi, sorprendeva talvolta gli avamposti nemici, ma non era certo da temersi fosse sorpreso egli stesso.
Se non che il Quartier generale prussiano prendeva una risoluzione, che mutava interamente anche nel sud-est lo stato delle cose. Un nuovo esercito era formato sotto gli ordini del generale Manteuffel, il quale aveva appunto per iscopo di gettarsi sull’esercito di Bourbaky e, a seconda dei casi, o attraversargli la strada di Belfort, o metterlo tra due fuochi e schiacciarlo. E già verso la metà di gennaio il generale Manteuffel aveva cominciato l’esecuzione del suo disegno; marciando rapido da Châtillon-sur-Seine sopra Vesoul, e facendosi coprire dagli attacchi eventuali di Garibaldi colle due colonne Dannenberg e Kettler, la prima delle quali stormeggiava già tra Bagneux-les-Juifs e Darcey,[387] l’altra camminava dietro a lui tra Nuits e Montbard.
Avvennero per tal modo le tre giornate di Dijon. La mattina del 21 la brigata Kettler compariva sulle alture di Hauteville in faccia a Talant e apriva contro queste posizioni e contro quelle di Fontaine un fuoco micidiale. Nel medesimo tempo numerosi battaglioni si spingevano nella pianura che si stende tra [573] Hauteville, Daix, Talant e Fontaine, intanto che un’altra colonna nemica accennava una diversione dal lato di Plombières sull’estrema sinistra francese. Ma sei pezzi, posti in posizione e diretti da Garibaldi in persona sui poggi di Talant, arrestavano tosto con tiri ammirabili l’avanzar del nemico, smontando parecchi dei suoi cannoni; talchè dopo un breve e felice duello d’artiglieria, Garibaldi potè lanciar all’attacco le sue colonne. E allora da Plombières, da Hauteville, da Talant, da Fontaine, Canzio, Tanara, Menotti, Ravelli (primi sempre gl’Italiani e i francs-tireurs, oscillanti come al solito i mobiles), irrompono con grandissimo impeto; gli approcci di Talant, dove stava Menotti, sono più fieramente disputati; ma alla fine ripetute le cariche, apparsi sull’estrema destra del nemico tra Darois e Messigny gl’infaticabili volteggiatori di Ricciotti, il nemico fu ricacciato fino a’ suoi accampamenti al di là di Messigny. Fu bella e meritata vittoria, e Garibaldi superbo, non per sè ma pe’ suoi bravi compagni, ne telegrafava l’annunzio a sua figlia Teresita in questo tenore;
«Attaccati vigorosamente dal nemico, l’abbiamo costretto a ritirarsi dopo dieci ore di combattimento: l’esercito de’ Vosgi ancora una volta ha ben meritato dalla Repubblica.»
Grande però la strage in ambi i campi, lamentata fra tutte l’ecatombe degli Italiani: e Imbriani e Perla e Cavallotti e Pastoris e Bassi e Gnecco e Settignani e Leonardi e Valdata e Cerruti e Ricci e Canova e Cecchini e altri ed altri ancora, primo fra tutti per la nobile vita, e per la fine miseranda, lo stesso generale Bossack, trovato cadavere due giorni dopo sull’orlo d’un bosco verso Darois; forse abbandonato da’ suoi, probabilmente morto solo.
[574]
Non si rassegnò a questo scacco il nemico, e all’indomani si preparò a rinnovare l’assalto. Ma Garibaldi era, s’intende, pronto a riceverlo; non così per altro tutti i Digionesi. Narra il Bordone che nella notte stessa dal 21 al 22 un notaio di Messigny accompagnato dal Maire di Dijon e da un generale Pellissier, cui il governo di Bordeaux aveva confidato il comando delle Guardie mobili concentrate in Dijon, fa svegliare Garibaldi per annunziargli, tutto ansante, aver il generale Kettler ricevuto nella notte grandi rinforzi, essere deliberato a riattaccare al dì seguente la città ed a bombardarla se resisteva; scongiurarlo quindi a salvar Dijon dal certissimo eccidio.
Il Generale prese allora dalle mani del notaio il foglio sul quale era scritto il salvacondotto prussiano, guardò gli astanti con una di quelle occhiate che soltanto coloro che gli erano famigliari potevano comprendere, e disse: «Va bene, Signore: è questo tutto quanto avete a dirmi?»
«Sì, Generale,» fece il notaio.... «Ebbene, replicò Garibaldi, potete tornarvene, per non mancare alla vostra parola; ma dite a quello che vi ha dato questo salvacondotto, che l’aspetto e che se egli non viene andrò io a cercarlo: generale Bordone, fate accompagnare questo signore agli avamposti e buona notte agli altri.[388]»
I Prussiani tornarono infatti, men numerosi però che il giorno precedente e forse più per riconoscere e tener occupato il loro nemico che per ritentare l’assalto; ma anche quel giorno i mobiles cui toccava l’onore della prima linea, capitanati dal colonnello Lhost, che vi lasciò da prode la vita, ributtarono gli [575] assalitori, e Garibaldi potè ancora annunciare al governo di Bordeaux: «Oggi combattimento meno serio di quelli di ieri, ma più decisivo, che obbligò il nemico alla ritirata inseguito questa sera dai nostri franco-tiratori.»
Ma l’attacco finale e decisivo il generale Kettler l’aveva serbato per il 23. Ristorato di truppe fresche e d’artiglierie, mosse per la strada di Langres prendendo per obbiettivo il castello di Pouilly, mascherando il suo movimento con una finta aggirante sulla strada Saint-Apollinaire. Ma quel giorno a riceverli c’erano le genti di Ricciotti e del Canzio, che raccolta a Lione un’altra schiera di Volontari italiani e staccati qua e là i frammenti d’altri corpi, era riuscito a formare una 5ª brigata, di cui era stato posto a capo. Il castello di Pouilly, meta della battaglia, fu perduto dai Franco-Italiani, riguadagnato e riperduto tre volte; ma alla fine l’entrata in azione di Menotti Garibaldi sulla strada di Langres, il valor disperato di Ricciotti e di Canzio, una carica di cavalleria sostenuta con sufficiente valore dai mobiles del Jura, ridiedero il contrastato castello in mano ai loro primi possessori. Allora le veci sono mutate, gli assalitori divengono assaliti; e il 1º battaglione del 61º di Pomerania, incaricato di sostenere la ritirata, mirabile di costanza e di solidità, ravvolto da un turbine di fuoco, perde circa la metà de’ suoi, ma non cede il terreno che a notte alta, quando la battaglia era perduta. Ed avvenne così che i franchi-tiratori di Ricciotti entrando nella fattoria dove il 61º aveva fatto le ultime prove, sotto un mucchio di cadaveri e di rovine, accanto al suo alfiere morto, trovarono coll’asta spezzata quella bandiera prussiana, che fu l’unico trofeo di quella campagna, entrato a tener compagnia [576] a quelli di Jena e di Auerstaedt nel Duomo degli Invalidi.
E Garibaldi che tutto il giorno era stato dove più infuriava la mischia e che poco mancò non restasse crivellato da una scarica quasi a bruciapelo, fattagli da una mano di nemici imboscati, Garibaldi salutò la chiusa di quelle tre eroiche giornate con questo manifesto scritto in francese e di cui crederemmo scemare il valore storico, voltandolo in altra lingua.
«Aux braves de l’armée des Vosges,
»Eh bien! vous les avez revus les talons des terribles soldats de Guillaume, jeunes fils de la liberté! Dans deux jours de combats acharnés, vous avez écrit une page bien glorieuse pour les annales de la République, et les opprimés de la grande famille humaine salueront en vous encore une fois les nobles champions du droit et de la justice.
»Vous avez vaincu les troupes les plus aguerries du monde, et cependant vous n’avez pas exactement rempli les règles qui donnent l’avantage dans la bataille.
»Les nouvelles armes de précision exigent une tactique plus rigoureuse dans les lignes de tirailleurs; vous vous massez trop, vous ne profitez pas assez des accidents de terrain, et vous ne conservez pas le sang-froid indispensable en présence de l’ennemi, de sorte que vous faites toujours peu de prisonniers; vous avez beaucoup de blessés, et l’ennemi, plus astucieux que vous, maintient, malgré votre bravoure, une supériorité qu’il ne devrait pas avoir.
»La conduite des officiers envers les soldats laisse beaucoup à désirer; à quelques exceptions près, les officiers ne s’occupent pas assez de l’instruction des miliciens, de leur propreté, de la bonne tenue de leurs armes, et enfin de leurs procédés envers les habitants qui sont bons pour nous et que nous devons considérer comme des frères.
»Enfin, soyez diligents et affectueux entre vous, comme vous êtes braves; acquérez l’amour des populations dont [577] vous êtes les défenseurs et les soutiens, et bientôt nous secouerons jusqu’à l’anéantir le trône sanglant et vermoulu du despotisme, et nous fonderons sur le sol hospitalier de notre belle France le pacte sacré de la fraternité des nations.
»Signé: G. Garibaldi.»
Intanto che Garibaldi, fedele al mandato ricevuto, difendeva a quel modo Dijon, il Bourbaky, sbaragliato dal Werder alla Lisaine (18 gennaio), era ributtato su Besançon; dove incalzato da nord-est dallo stesso generale che l’aveva vinto, serrato da sud-ovest dal 7º corpo di Manteuffel, già penetrato per Dôle (come Garibaldi aveva preveduto) fino a Mouchard e Salins, non vedeva dietro a sè altro scampo che la via di Pontarlier e una ritirata precipitosa per i passi del Giura. Se non che, chiusi in men di ventiquattr’ore dalla rete degli eserciti vincitori anche quegli ultimi valichi, il misero Bourbaky disperò; e dopo aver tentato invano di bruciarsi le cervella, rassegnò il comando dell’ormai disfatto suo esercito al generale Clinchant, affinchè dove e come potesse lo riducesse in salvo.
Garibaldi però non se ne stava inerte, e appena conosciuto il primo rovescio del Bourbaky, del quale era rimasto fino al 27 senza notizie, lanciava, senza abbandonare Dijon sempre minacciato, tutte le forze di cui poteva disporre sui fianchi del Manteuffel, facendo occupare Saint-Jean de Losme da Menotti e Mont Roland presso Dôle da Baghino, e portando egli stesso il suo Quartier generale a Mondaine. Nè colà s’arrestava; all’appello di Clinchant, ormai chiuso in Pontarlier, si gettava con mosse arditissime colla 4ª e 5ª brigata sulle spalle dei Prussiani verso Bourg e Lons-le-Saulinier, deciso comunque ad aprire un varco all’esercito amico; ma il 29 mattina giungeva a lui [578] pure la notizia dell’armistizio di ventun giorni conchiuso a Versailles, e l’ordine di fermarsi sui posti occupati.
Non era quello il voto di Garibaldi e de’ suoi seguaci, tuttavia si riconfortò nel pensiero che la tregua gli avrebbe dato modo di riordinare e agguerrire il suo esercito, ponendolo in grado di compiere più segnalate imprese a servizio della Repubblica. Quale non fu invece la sua meraviglia nel sentire che tutti gli eserciti militanti nel Giura, nel Doubs e nella Costa d’Oro erano esclusi dalla tregua e che tanto a lui quanto al Clinchant era imposto di correre ancora la sorte dell’armi, e far fronte al nemico!
Nè il combattere l’avrebbe sgomentato; ma dietro quell’annunzio ne seguiva quasi subito un altro, che l’esercito dell’Est oramai serrato nelle tanaglie di ferro del Werder e del Manteuffel, già a mezzo disfatto dagli stenti e dalle diserzioni, s’era buttato per perduto oltre la frontiera svizzera, abbandonando così lui solo alle prese co’ formidabili nemici da cui fuggiva. Vide tosto il pericolo l’Eroe italiano; se indugiava un giorno solo, la tagliuola in cui era caduto il Bourbaky avrebbe stritolato lui pure, condannandolo inesorabilmente ad essere come la più parte de’ generali francesi «ingabbiato sui vagoni del bestiame» e tradotto prigioniero in una fortezza tedesca.
Non perdette però un istante; corse a Dijon, e mentre Menotti sulla strada di Saint-Apollinaire, Baghino a Mont Roland continuavano ancora a respingere le scorrerie de’ nemici, che tentavano avvilupparli, Garibaldi prepara dietro di loro la ritirata di tutto l’esercito, che in ordine perfetto, senza perder nè un uomo, nè un carro, nè un cannone, si compie per la strada comune di Autun e la ferrata di Beaune-Chagny, [579] e restituisce così intatto alla Francia l’esercito ch’essa gli aveva confidato.
Ed oramai il destino aveva detto la sua ultima parola. Il Governo aveva convocato in Bordeaux un’assemblea di rappresentanti, che aveva principalmente per mandato di deliberare sui preliminari conchiusi a Versailles; e Garibaldi, eletto, per Algeri, rimise il comando dell’esercito nelle mani del figlio Menotti e si recò all’Assemblea. Quivi pure due partiti tenevano il campo: i rivoluzionari di tutte le tinte, per la guerra a oltranza: i conservatori in massa, mescuglio di bonapartisti, legittimisti, borghesi, rurali, per la pace ad ogni costo. I primi accolsero Garibaldi con ovazioni frenetiche, i secondi con oltraggi bestiali. Calmo in mezzo al tumulto babelico, l’Eroe chiese di parlare e non gli fu concesso. Allora uscì dalla Camera, rassegnò l’ufficio di deputato, salutò con un altro proclama i suoi fedeli dell’esercito de’ Vosgi, e triste, scorato, schivando le pubbliche manifestazioni, fuggendo persino le visite degli amici, nulla avendo accettato per sè, nulla avendo chiesto per i suoi, se ne tornò nel romitaggio della sua Caprera.
Fu quella l’ultima stagione campale dell’Eroe e non poteva chiudere con azione più cavalleresca la sua cavalleresca epopea. Mille pensieri potevano trattenerlo; ma nella Francia caduta egli non vide che un grande e miserando infortunio, ed accorse a sollevarlo. Ciò basta alla sua gloria. Non ridiremo per altro quello che pure è ritornello obbligato di tutti i discorsi, ch’egli sia andato a quell’impresa soffocando i ricordi di Roma, di Nizza e di Mentana, perchè ciò [580] non è. Noi vogliamo il nostro Eroe grande, ma lo vogliamo soprattutto vero. Garibaldi distingueva due Francie: quella di Napoleone, e quella del Popolo francese; la prima aveva rubato all’Italia Nizza e Roma, e non le avrebbe perdonato mai; la seconda non era stata che la vittima inconscia e lo strumento involontario del predatore, e per essa gli era parso il più semplice dei doveri offrire il sangue e la vita.
Epperò non è vero ch’egli siasi offerto alla Francia soltanto quando vi fu proclamata la Repubblica; ma è verissimo che se vi fosse durato l’Impero, egli non vi sarebbe andato mai. Della sua andata in Francia non avrebbe fatto mai una questione astratta di Monarchia e Repubblica (non la fece nemmeno in Italia), e qualunque fosse il governo prescelto dal popolo francese, egli non avrebbe consultato che i diritti della sventura e i doveri della fratellanza, e sarebbe accorso; ma ne avrebbe fatto sempre una questione di Bonapartismo. Convien prendere l’uomo qual era. Il suo amore alla Francia aveva per confine l’odio al Bonaparte: finchè essa tollerava quell’uomo, e volontaria o no se ne faceva complice e satellite, non meritava più che un braccio si levasse per lei, e conveniva che il suo destino si adempisse.
Libera invece del Bonaparte, ecco che la Francia si trasfigura: i suoi vizi scompaiono; le sue virtù ingigantiscono; essa torna la grande, la forte, la invincibile, la madre della libertà, la nutrice dell’incivilimento, caduta un istante, per colpa non sua, sotto il ferro d’un despotismo parente a quello onde s’è appena liberata, ma che è dovere di quanti uomini liberi sono nati da quel seno, ed hanno succhiato quel latte, di rialzare e redimere.
Magnanimo illuso! Nemmeno l’accoglienza fatta a [581] lui medesimo valse ad aprirgli gli occhi. Stimarono grande mercè concedere a quel Capitano di ventura una condotta; gli avareggiarono prima gli uomini, poi le armi, poi le vesti; sdegnarono ch’egli comandasse ad una sola compagnia dell’esercito regolare; avrebbero reputato sacrilego che un solo de’ loro più ignoti generali ubbidisse a’ suoi ordini; lo tormentarono infine per quattro mesi di angherie, di sospetti, di calunnie, ed egli impavido e rassegnato a tutto, ingollò fino al fondo l’aceto e il fiele di che lo abbeverarono; e quando suo figlio e suo genero, stanchi ormai delle incessanti vessazioni, gli fanno dire che se durano ancora avrebbero dato le loro dimissioni: «Ebbene, dice, vadano pure: faremo la guerra anche senza di loro.»
E quella guerra, la fece come nessuno dei generali che si sarebber creduti umiliati di ubbidirlo, seppe farla. Fra lui e i suoi Luogotenenti, sempre però ispirati da lui, sostenne nel corto spazio di quattro mesi oltre venti combattimenti, de’ quali le giornate di Pasques e di Dijon vere battaglie, ed eccettuato il fallito colpo notturno di Dijon non fu battuto mai. Soccorse i generali francesi suoi vicini, e non ne fu soccorso: vide fin dal primo giorno l’importanza di Dôle, e non fu per colpa sua se gli eserciti nemici la ripresero senza colpo ferire.
Fu detto che egli ignorò la mossa del generale Manteuffel e che questi lo tenne a bada con una sola brigata; ma basti rileggere con un istante di spassionatezza la storia di quella campagna per vedere quanto, in quella asserzione, vi sia d’ingiusto e di falso.
«Il passaggio dell’armata di Manteuffel al nord (dice Garibaldi stesso)[389] per aiutare quella di Werder [582] era noto a me come alle mie quattro brigate: la seconda comandata dal colonnello Lobbia, e la quarta da Ricciotti manovravano insieme a tutti i nostri corpi di francs-tireurs, ed erano distaccate per contrariare la congiunzione degli eserciti nemici.»
Che poi il Manteuffel abbia baloccato Garibaldi con una sola brigata è ancora più falso. Anzitutto, e qui preghiamo i militari a guardare la Carta e a leggere le storie ufficiali, fino al 17 o 18 di gennaio Manteuffel fu incerto se prendere la strada di Dijon o quella di Vesoul, sicchè fino a quel giorno le sue avanguardie avviluppavano può dirsi Dijon alla distanza di una giornata di marcia, e certo in quel momento non si vorrà pretendere che Garibaldi solo andasse a dar di cozzo nell’intera armata del Generale prussiano. In secondo luogo è affatto inesatto che quando il Manteuffel decise di continuare per Vesoul egli si lasciasse addietro per ischermo soltanto la brigata Kettler; fino dal 21 sera c’era la divisione Zastrow che manovrava sempre nei dintorni di Montbard, e Garibaldi, che aveva nemici di fianco, di fronte, da tutti i lati, sopra un’area di oltre cinquanta chilometri, non poteva certo supporre, come non era, che quelle truppe appartenessero ad una sola brigata.
Finalmente è vero che la brigata Kettler fu la sola ad attaccare Dijon, dimostrando in quelle tre giornate un valore ed un ardimento veramente mirabili; ma ciò non conduce a concludere che le sue forze fossero così sproporzionate a quelle del nemico che assaliva; o che anche, data la sproporzione, questi potesse far di più che respingere l’attacco. Non era sì grande la sproporzione: poichè la brigata Kettler, rinforzata da un reggimento di cavalleria, contava pur sempre i suoi diecimila combattenti; mentre Garibaldi non [583] poteva opporgli che il vecchio esercito dei Vosgi scemato allora della brigata Lobbia, chiusa in Langres, cioè circa sedicimila uomini, una metà dei quali mobiles, moblots e mobilisés, gente che si batteva intermittentemente, o non si batteva affatto.[390]
Ma ammessa pure dalla parte garibaldina una tal quale superiorità numerica (troppo pareggiata dalla inferiorità morale), chiediamo a tutti gli uomini che in siffatte questioni vedono lume, che cosa poteva far Garibaldi assalito così gagliardamente per tre giorni, se non ributtare gli assalti, e conservare quella città che il governo di Bordeaux gli replicava ogni giorno di difendere inébranlablement? Forse si pretenderebbe che co’ suoi diciottomila uomini egli dovesse al tempo stesso batter Kettler e assalir Manteuffel, forte di ben sessantamila, il quale, sia detto per soprappiù, il 21 mattina non aveva più nemmeno l’inquietudine di Bourbaky già disfatto il 18 alla Lisaine?
Poteva, è vero, tentarlo dopo, quando respinto il Kettler e rinforzato di nuove milizie e nuove artiglierie, la condizione disperata del Bourbaky richiedeva uno sforzo disperato, e sappiamo che lo tentò. Lo tentò; ma la nostra molta fede nel genio di Garibaldi non va sino al punto di credere che il suo temerario tentativo[391] sarebbe approdato. Lo sfacelo dell’esercito di Bourbaky era cominciato molto prima della sconfinata di Pontarlier; e non c’era più forza umana che lo potesse arrestare. Garibaldi avrebbe sacrificato inutilmente il suo esercito, il suo nome, [584] forse la sua vita, ma non avrebbe potuto mutare i decreti della sorte.
Tutto quanto un uomo, un soldato, un cittadino poteva fare per la più cara, la più diletta delle patrie, Garibaldi lo fece per la Francia; e ciò spiega sempre più perchè gli imbastigliati di Gravelotte e di Sédan, i capitolati di Metz e di Parigi non gli abbiano perdonato mai l’oltraggio di quel beneficio. Soltanto dopo la sua morte una parte della Francia parve voler cancellare l’ingratitudine dell’altra parte, decretando espressioni di pubblico cordoglio; e noi ne siamo lieti, non già per Garibaldi, che oramai «s’è beato e ciò non ode,» ma per l’onore della Francia stessa.
[585]
Triste il narrare questi ultimi anni: triste, come lo spettacolo d’una grandezza che decade e sopravvive a sè stessa. Garibaldi non è oramai che il fantasma d’un gigante, costretto a strascinare sulla terra il peso della sua passata grandezza e ad assistere lentamente, faticosamente alla propria consunzione. Il leone manda ancora dal suo antro solitario qualche ruggito d’amore e di collera; ma l’ugna, l’ugna che lo rese terribile e glorioso nelle pugne del suo tempo, affievolita dagli anni e dall’infermità, pende inerte dal suo tronco invecchiato, e lo danna ad un ozio che è il più tormentoso de’ suoi mali e, forse, il più funesto dei suoi nemici.
Perocchè la fortuna che fu larga al nostro Eroe di tanti favori, gli rifiutò tuttavia il più grande: quello di giacere sull’ultima orma delle sue vittorie e di morire a tempo. Parole crudeli a quanti lo conobbero e lo amaron vivo, ma di cui i futuri sapranno estimare l’alta pietà.
È giusto, infatti, è doveroso che a noi suoi contemporanei, [586] commossi tuttora dalla sua partita recente, ogni minuto di quella vita, ogni soffio di quel respiro guadagnato alla morte, sembri una ineffabile conquista; ma alla storia, che guarda l’uomo nell’immortalità, e misura il proprio amore e la propria ammirazione non dal numero ma dall’utilità degli anni vissuti, quest’appendice di giorni vuoti e prosaici, appiccicati ad una vita così poetica e così piena, questo lungo, freddo, decennale tramonto, imposto a forza ad un sì rapido mattino e ad un sì caldo meriggio, sembreranno una superfetazione capricciosa, uno strascico superfluo, un castigo crudele del destino, inflitto ad uno de’ più nobili suoi figliuoli, ed ella, per la prima, si studierà di affrettarne il fine condensandone in poche pagine la sintesi dolorosa.
E ciò tanto più che a nessun uomo dovette increscere la troppo lunga vita, quanto a Garibaldi; e non già per filosofico tedio, o per intolleranza dei malanni comuni della vecchiaia; ma per fastidio di quella che è certamente l’infermità più tormentosa dell’eroismo: l’inerzia.
Perocchè sotto la scorza logora dagli anni e dagli acciacchi del Garibaldi sessagenario, reduce da Dijon, c’era sempre il Garibaldi giovane e virile di Montevideo e di Marsala; c’era cioè quel contrasto tra la fiamma del cuore e la rigidezza delle membra, i voli della mente e il peso del corpo, gl’ideali dello spirito e le realtà della vita, che sono l’eterno tormento di tutte le grandi anime; e all’anima novissima di quel novissimo Eroe, martirio incomportabile.
E ciò per una ragione che è la chiave di tutte le altre: Garibaldi non credeva fornita la sua giornata.
Da giovane era partito troppo da lontano, verso una cima troppo eccelsa, perchè ora anche la lunga [587] via percorsa gli paresse termine ultimo al suo viaggio. Vedeva, in gran parte per opera sua, la patria una; ma era dessa forte, gloriosa, felice, quale l’aveva sognata? E al di là della patria non v’erano altre patrie, ed altre patrie ancora? E al di sopra di tutte le patrie non v’era dessa l’umanità? Forse che colla indipendenza delle nazioni tutti i problemi politici, sociali del suo tempo erano risolti? Ma le reliquie di Roma sacerdotale chi le spazzava? E i privilegi sopravviventi chi li aboliva? E alle plebi affamate chi provvedeva? E gli eserciti stanziali quando si trasformavano? E la fratellanza dei popoli, e gli Stati Uniti d’Europa, e la pace universale quando si proclamavano? Quanti mali da rimediare; quante battaglie da combattere; quante mete da raggiungere ancora!
Ora si prenda un uomo simile, invecchiato in queste idee, avvezzo non a bandirle soltanto colle parole, ma a confermarle coi fatti e segnarle col sangue, e poscia lo si sforzi a ripassarle, ruminarle e rimuginarle per dieci anni nel silenzio d’un’isola deserta, tra i soliloqui d’un ozio forzato, chiudendogli colla vasta palestra de’ campi di battaglia l’unica distrazione e l’unico sfogo, al troppo e al vano delle sue utopie e delle sue chimere; si configga a un tratto il protagonista operoso sullo scanno dello spettatore inerte; si costringa il più battagliero de’ condottieri, il più infaticabile de’ cavalieri erranti ad entrare nella giornea dell’apostolo verboso o del gazzettiere polemista; si trasformi insomma l’uomo d’azione in uomo di parola, obbligandolo a barattare i poderosi colpi di spada della giovinezza nelle ventose figure rettoriche della vecchiaia, e il concitato imperio e il celere obbedir delle battaglie, in prolisse concioni, in elaborati programmi ed in sofistiche lucubrazioni, e si [588] avrà un concetto delle torture morali che Garibaldi dovette provare negli ultimi suoi anni; e al tempo stesso la ragione più interiore e più vera delle contraddizioni, degli errori, de’ difetti, che ombreggiano più foscamente che mai quest’ultimo periodo della sua vita.
Non furono però nè errori ignobili nè contraddizioni spregevoli, nè difetti volgari. La parola fu sovente condannabile; il pensiero stesso talvolta confutabile; ma l’intento non cessò mai d’esser puro ed elevato.
Anche l’epistolario di Garibaldi, specialmente il volume più farraginoso del suo ultimo decennio, avrebbe mestieri d’un rogo purificatore; ma quando la fiamma avrà compiuta l’opera sua, sopra le scorie della veste informe e selvaggia, in mezzo agli atomi volatili delle idee stravaganti e fantastiche, rimarranno sempre, ceneri pure e inconsumabili, le reliquie d’un pensiero e d’un amore eterni: il pensiero e l’amore della umanità.
Nel 1871, col sangue acre ancora degli influssi del partito rivoluzionario francese, che, non ostante tutti i suoi torti, era stato ancora il solo amico e difensore ch’egli avesse trovato in Francia, scrive una lettera all’avv. Petroni, che si potrebbe dire un’apoteosi della Comune; ma ecco che in fondo all’epistola, tornando come sopra sè stesso, e chiedendosi che cosa sia l’Internazionale, la figura e la presenta così pura d’intendimenti, così temperata di mezzi, così diversa insomma dalla realtà, che nell’atto in cui sta per farne l’apoteosi ne pronuncia la condanna.[392]
[589]
Quattro anni dopo, nel 1875, quasi lo crucciasse il pensiero di non aver fatto abbastanza per Roma, gli balena l’idea, grandiosa certamente, di convertire il Tevere in un canale navigabile da Roma al mare, risanare l’Agro romano, restituire all’antica metropoli del mondo la prisca prosperità, bandendo da essa alla terza Italia un intero programma di nuova vita economica e sociale.
E non si ferma ad una vaga proposta; ma rattratto dall’artritide, torturato da reumi, abbandona Caprera, arriva improvviso a Roma, lasciando per alcuni giorni [590] trepidi de’ suoi propositi amici e nemici; e colà, dichiarato a tutti il fine che lo moveva, spiega ne’ suoi minuti particolari il suo progetto; invoca ed ottiene per esso il patrocinio di Vittorio Emanuele, il favore d’un grandissimo numero di uomini tecnici e parlamentari e il consenso del Governo medesimo; il quale però, o perchè non trovasse effettuabile il disegno, come andava egli stesso dicendo, o perchè in suo segreto fosse poco propizio alla proposta a cagione del proponente, tirò siffattamente in lungo il negozio, che il Generale vessato, stanco, nauseato ormai di tutte quelle lungherie e quegli andirivieni «di Commissioni che nominavano le sotto Commissioni» per non approdare mai a nulla, abbandonò per disperata l’impresa, portando seco l’ingiusto sospetto d’essere stato canzonato, e un rancore di più contro il governo della parte moderata che accagionava di tutti i mali.[393]
Salutò quindi egli pure come l’aurora d’un’èra novella l’assunzione della Sinistra parlamentare al governo; e nei primi mesi plaudì ai magniloquenti programmi, diede il pegno del suo nome alle lusingatici promesse, distribuì ai novelli ministri, succedentisi con vertiginosa vicenda, diplomi di genio e di patriottismo, inneggiò ai regni della Riparazione: Saturnia regna.
Ma la Sinistra aveva troppo promesso per poter tutto mantenere; d’altra parte i prodigi per accontentare Garibaldi neppur essa poteva farli; talchè non [591] correranno molti mesi che il principale suo paladino ne sarà divenuto il principale avversario. Eccolo quindi nel 1879 piombare di nuovo come folgore a Roma, destandovi le consuete alternative d’inquietudine e d’entusiasmo, e predicando a tutti, dal Re che lo visitava pel primo in sua casa, al più modesto giornalista e al più umile operaio, la necessità di disfarsi dell’uomo fatale, e l’uomo fatale era per lui il Depretis; di riconciliare tutte le frazioni discordi della Sinistra, cementandone con un Ministero che ne comprendesse le sommità più pure l’auspicata concordia;[394] di affrettar soprattutto l’adempimento delle fatte promesse, che per Garibaldi non ammettevano indugi e non conoscevano confine.
Nè basta, come alla demolizione della Sinistra costituzionale tutti i partiti radicali avevan interesse, così riuscì loro, giovandosi dello stato di esaltazione in cui l’Eroe si trovava, d’averlo facilmente complice d’un loro disegno: e complice, per Garibaldi, non poteva voler dire che gonfaloniere e capitano.
Per la qual cosa eccotelo in brevi giorni a capo d’una così detta Lega della Democrazia, la quale raccogliendo sotto una specie di bandiera neutra tutte le gradazioni del partito radicale, dall’unitario al federalista, dal Mazziniano al Garibaldino, dal repubblicano insurrezionista al repubblicano evoluzionista, ponesse in mora la Monarchia, o di concedere il suffragio universale, la revisione della Costituzione, la trasformazione degli eserciti permanenti in nazione armata, l’incameramento di tutte le proprietà ecclesiastiche, l’abolizione della legge delle guarentigie al [592] Papato spirituale, e un micolino di riforme sociali — o di cadere. Quest’ultima parola, a dir vero, non era espressamente scritta, ma era nella maggior parte dei compilatori del grande programma sottintesa; e per ciò appunto, Garibaldi, organicamente impenetrabile ai sottintesi ed alle anfibologie, non la capì e la sottoscrisse. Gli avessero detto chiaro: oggi poniamo a Casa di Savoia il dilemma o di darci la repubblica — o d’andarsene, Garibaldi, che al di sopra d’ogni repubblica aveva posto sempre l’unità e la concordia della patria, che ebbe sempre un religioso orrore anche del solo nome di guerra civile, che intendeva per Repubblica la «Dittatura d’un uomo onesto» ed era sempre stato alieno dalle sottigliezze dei dottrinari, come egli li chiamava, che gli facevan corona, Garibaldi, lo crediamo fermamente, non avrebbe mai sancito quel pericoloso dilemma, nè dato il suo nome al cartello di sfida che lo intimava.
Ma così la sua passata per Roma, al pari della famosa Lega da lui cresimata, lasciò, come suol dirsi, il tempo che aveva trovato. La Sinistra continuò a volgersi in sè stessa co’ denti: in luogo del suffragio universale promise una riforma, di cui soltanto la prova de’ fatti potrà dimostrare la bontà e contro la quale i primi a ribellarsi furono i medesimi radicali della Lega; mise quattro anni ad abolire la gabella del macinato, che doveva sparire al tocco di bacchetta magica; l’esercito stanziale è per fortuna d’Italia sempre in piedi; la legge delle guarentigie riconosciuta dai replicati giuramenti di fedeltà dei nuovi governanti par più sicura che mai; la riforma sociale sembra piuttosto destinata a divenire un programma della nuova Destra che della vecchia Sinistra; qualche bandieretta rossa a saliscendi fu non [593] vista, qualche grido non interamente ortodosso fu compatito; ma la libertà piena di spiegar al vento i vessilli e di levare al cielo i voti della repubblica non fu per anco concessa: finalmente i Comitati dell’Irredenta, dopo essere stati per qualche tempo carezzati in segreto, furono essi pure scomunicati e disciolti in pubblico, con uno zelo da meritare la gratitudine dell’Austria stessa.
Ora tutto ciò non era fatto certo per strappare gli applausi dell’Eroe, il quale tornato a Caprera, già senex querulus egli pure, si pentiva sempre più d’aver accordato il suo patrocinio a quella Sinistra così fedifraga alle sue promesse; e ad ogni atto del governo che urtasse nelle sue idee ripigliava a borbottare, a maledire, a sfolgorare de’ suoi anatemi anche coloro tra i Ministri che gli erano stati più cari; non rispettando nella cecità dell’ira sua nemmeno il suo Benedetto Cairoli (sol perchè gli fece sostenere il genero Canzio, condannato dai Tribunali per discorsi sovversivi), coprendo d’un oltraggio plebeo, che la penna sdegna ripetere, colui che poco prima aveva egli stesso proclamato il «Baiardo della democrazia.»
Eppure dalla Sinistra accettò due favori, per varie cagioni non dimenticabili. Fin dal 1875, il ministro Minghetti, edotto delle angustie finanziarie del Generale che già confinavano colla povertà, penetrato, al pari della nazione intera, da un alto sentimento di riconoscenza verso l’uomo che tanto aveva operato e tutto sacrificato per la patria sua, aveva ottenuto che il Parlamento approvasse e il Re sancisse (Vittorio Emanuele non aveva mestieri che altri lo istruisse delle quotidiane necessità del suo grande amico) una Legge che accordava a Garibaldi una rendita di lire cinquantamila annue a decorrere dal 1º gennaio [594] 1875 ed inoltre un’annua pensione vitalizia di altre cinquantamila lire colla stessa decorrenza.[395]
Ma Garibaldi in sulle prime scorse in quel dono un salario a’ suoi servigi, un oltraggio al suo disinteresse, una vittoria de’ suoi nemici, una perdita di quella indipendenza che fino allora era stata la più preziosa delle sue ricchezze, ed aspramente rifiutò. E in verità se egli avesse potuto respingere quel dono, l’aureola della sua fronte avrebbe avuto una stella di più. Ma la vita ha realtà implacabili; realtà che non perdonano nemmeno agli eroi, e Garibaldi pure dovette piegarvi la fronte.
Finchè durò al potere la Destra persistette nel rifiuto; ma venuto agl’Interni Giovanni Nicotera e conosciuto più dappresso tutte le strettezze in cui il Generale si dibatteva, toccato egli stesso con mano la prova che così egli come i suoi figli potevano essere minacciati da un istante all’altro da una levata di creditori e dallo scandalo d’un fallimento, trovò in un forte sentimento di dovere il coraggio di dipingere [595] al Generale tutta la gravità delle condizioni sue, chiedendogli un’altra volta l’accettazione di quel dono, che non era insomma se non il compenso inadeguato de’ suoi grandi servigi e un tributo doveroso che l’intera nazione veniva volontaria a deporre a’ suoi piedi.
E tuttavia l’Eroe riluttò ancora, durando per parecchi giorni una delle più fiere battaglie della sua vita. Ma posto finalmente tra la sua fierezza d’uomo e il suo amore di padre, sbigottito dal pensiero di non lasciare a’ suoi figli che un retaggio di miseria e forse di disonore, premuto, incalzato da ogni parte, dai parenti, dagli amici, consapevoli più di lui dei pericoli che da ogni parte stringevano, piegò tristamente il capo a inesorabile fato ed accettò. E corse la voce che nel dare il doloroso assenso, mormorasse sospirando cupamente «anche questo mi fanno fare,» le quali parole dette o pensate soltanto che siano, dovranno risuonare come un perpetuo rimorso nella coscienza di coloro che lo posero nella disperata necessità di subire quel grande sacrificio, e quasi sull’orlo del sepolcro gli rapirono quella che sarebbe stata la gemma più sfolgorante della sua corona: la gloria del morir povero.
Quell’amarezza però gli venne raddolcita ben presto da una grande consolazione. Sappiamo di toccar un delicatissimo tasto e vi scivoleremo leggieri. Chi lesse quanto ne dicemmo noi stessi[396] sa come il matrimonio di Garibaldi colla signora marchesa Giuseppina Raimondi sia rimasto in quello stato che i legali chiamano: rato e non consumato.
[596]
Dal giorno in cui i due coniugi si separarono a Fino, essi non s’incontrarono, non si videro, possiamo soggiungere non si perdonarono più, e il loro vincolo si mutò da quell’ora in quella specie di catena lunga che la nostra sapiente legislazione civile inventò col nome di «separazione,» e la quale non essendo nè la libertà nè la schiavitù, nè il matrimonio nè il libero amore, pone i falsi coniugati nell’alternativa perpetua o del celibato obbligatorio o del concubinato forzoso e crea in mezzo alla nostra società quelle condizioni famigliari scandalose e violenti di cui Giuseppe Garibaldi e Giuseppina Raimondi furono uno degli esempi più celebri, ma non più dolorosi.
Se non che a quale de’ due partiti dell’alternativa si sia appigliato Garibaldi, non è mestieri ridirlo. Alla castità si sentiva negato; e un giorno conosciuta, come ogni mortale conosce, la signora Francesca Armosino, n’ebbe da lei, a lunghi intervalli, tre figli: Clelia, nata il 16 febbraio 1867; Rosita, nata il 10 luglio 1869, morta il 1º gennaio 1871; Manlio, nato il 23 aprile 1873.[397]
Ora di fronte a questi fatti che cosa potevano desiderare e volere, Garibaldi, la signora Raimondi, la signora Francesca; che cosa avrebbero potuto desiderare e volere, giunti all’età del raziocinio i figli stessi nati da lei? E che cosa, aggiungiamo noi, potrebbe desiderare e volere non diciamo la legge scritta de’ codici, ma la legge morale scritta nella coscienza di tutto l’uman genere?
Da un lato un’unione fittizia rimasta sterile; dall’altro un vincolo reale saldato da diciannove anni [597] d’amore e dal pegno di tre figli; di qua la famiglia legale, ma immaginaria, di là una famiglia illegittima, ma vera; di qua tre bambini innocenti a cui un atto di giustizia può dare un nome, di là due donne, all’una delle quali la legge può riscattare il fallo, e all’altra riconsacrare il suo amore; in verità nè Garibaldi, nè la signora Raimondi, nè la signora Armosino, nè, a parer nostro, i tribunali depositari della morale pubblica e privata, potevano esitare più. I coniugi Garibaldi Raimondi se ebbero un torto fu di aver troppo atteso: essi dovevano chiedere molto prima che la legge regolasse la loro anormale condizione, e ciò tanto più che ai molti e solenni argomenti morali se ne aggiunsero, a quanto sembra, parecchi di stretto ordine legale che confermavano il loro diritto.
Comunque, sul principiare del 1879 deliberarono d’accordo di domandare o la nullità o lo scioglimento del loro matrimonio, ma al primo passo furono sfortunati: il Tribunale Civile di Roma con una sua sentenza del 6 luglio 1879 respinse la loro istanza.
Allora Garibaldi non ebbe più posa. Tempestava di lettere gli amici e i giornali, consultava avvocati, scongiurava il giovane Re, se i tribunali non lo potevano, a sciogliere egli stesso con un colpo della sua autorità dittatoria il nodo iniquo (a queste teoriche garibaldine siamo già avvezzi); voleva a forza che il Cairoli, Presidente del Consiglio, proponesse al Re un decreto, o alla Camera una legge, che lo liberasse dal giogo incomportabile e gli desse modo di divenir marito e padre legittimo della sua donna e de’ suoi figli.
E va da sè che Re e Ministro si rifiutassero all’atto autoritario, d’onde novelle sfuriate dell’Eroe, [598] pacificate ben presto dalla notizia che un celebre avvocato, il più celebre d’Italia, Pasquale Stanislao Mancini, assumeva su di sè l’ardua causa, sicchè non era disperabile che la Corte d’Appello revocasse la prima sentenza e facesse paghi i reclamanti. E così avvenne.
La Corte d’Appello di Roma, considerato principalmente che il matrimonio Garibaldi Raimondi avvenne sotto il regime del diritto austriaco, emanante dal Concordato del 1855, il quale appunto ammetteva la nullità dei matrimoni rati e non consumati, colla sua sentenza del 14 gennaio 1880 «dichiarava Giuseppe Garibaldi libero dal vincolo del matrimonio celebrato in Como il 24 gennaio 1860 ed il matrimonio stesso destituito d’ogni conseguenza giuridica.»
Ne fu beato il Generale e pochi giorni dopo la pronunciata liberazione, il 26 gennaio, innanzi al Sindaco della Maddalena dava la mano di legittimo sposo alla sua Francesca, e, cosa forse per lui anche più dolce, il nome a’ suoi bambini che adorava. Non fu così piena e unanime la soddisfazione del pubblico, e del forense in principal modo. Più d’uno, riguardando la causa solo dal punto di veduta giuridico; reputò il primo voto della Corte d’Appello romana un’aperta illegalità, un diritto privilegiato creato per un uomo privilegiato, una violazione insomma di tutti i principii della nostra legislazione civile.
Va da sè che noi non osiamo metter verbo in siffatta lite: noi, indotti, consideriamo il problema nel rispetto più umile e più comune della moralità e della naturale giustizia, e, confessiamo il vero, nella nostra coscienza di giurati avremmo noi pure pronunciato l’annullamento. Sia pur stata violata, in qualche punto delle sue rigide forme, la legge; ma lo diremo con [599] un egregio giureconsulto: «Noi confessiamo di non poter soffocare un intimo e prepotente sentimento di soddisfazione che le incongruenze giuridiche dei canoni e dei causisti abbiano permesso di rimediare ad una condizione di cose, dolorosa ad un tempo ed eccezionalmente immorale.[398]»
Ma in sullo scorcio del 1880 le condizioni di salute del Generale declinarono rapidamente. L’artritide si era fatta cronica e invincibile, e gli sformava mani e piedi in modo miserando. Ogni moto, eccettuato quello della carrozzella a mano, gli era interdetto. Gli organi vitali funzionavano regolarmente, la mente era lucida, la energia morale vivace, ma una paralisi incipiente delle membra ed un catarro senile costringevano medici ed amici alla più grande vigilanza. E ciò non ostante intendeva curarsi a modo suo; dai medici non accettava che i consigli che gli garbavano; non voleva rinunciare nè anche nella stagione men propizia ai bagni, ed era tanto difficile governarlo da ammalato, quanto guidarlo da sano.
E tuttavia, anche in questo stato, appena udì che suo genero era stato arrestato a Genova, volle a forza farsi portare colà per protestare, almeno colla presenza, contro quello che a lui era parso una violazione ed un arbitrio; e pochi giorni dopo, invitato a partecipare in Milano alla commemorazione di Mentana [600] ed allo scoprimento del suo monumento, si faceva mettere in vagone e partiva. E il suo ingresso nella capitale lombarda fu lo spettacolo più pietoso a cui la grande città avesse da tempo assistito. Steso sopra un letto, trascinato a passi lenti da una grande carrozza, bianca la barba, cereo il viso, immobile la persona, le mani rattrappite involte in un fazzoletto, coperto il capo da una papalina dorata e argentata, ammantellato in una specie di paludamento pontificale, Garibaldi sembrava piuttosto la salma d’un santo portato a processione da un popolo di devoti, che il corpo vivo d’un uomo! «Pare sant’Ambrogio!» mormorava il popolino milanese, memore de’ giorni in cui faceva passeggiare per la città il suo antico protettore, e forse l’analogia che la fantasia popolare trovava tra quel vecchio Pontefice armato della libertà latina e il belligero arcivescovo campione della nuova fede romana contro la prepotenza gotica, non era fisica soltanto. Pure quella reliquia d’eroe non s’arrendeva ancora; imperterrito accettava tutti gl’inviti, si prestava a tutte le cerimonie, riceveva a centinaia visite ed omaggi ed assisteva il 3 novembre da una loggia apposita, all’inaugurazione del monumento per cui era venuto; soltanto così egli che lo faceva come coloro che glielo permettevano o consigliavano, non pensavano abbastanza che ognuna di quelle fatiche era un giorno di più sottratto alla sua vita?[399]
[601]
Nel 1881, non soltanto per ragioni di salute, aggravatasi anche per una caduta fatta dalla carrozzella sugli scogli di Caprera, d’onde n’ebbe la testa ferita e qualche minuto di deliquio, si recava sopra la riviera ligure e in certa villetta d’Alassio vi passava due mesi d’inverno in una placida e forse ristoratrice solitudine.
Se non che aveva appena, può dirsi, riposto il piede nel suo eremo, che scoppiò il conflitto italo-francese per la questione tunisina, quindi l’una cosa dietro l’altra: il grido delle prepotenze del signor Roustan, la invasione della Reggenza, l’estorsione del trattato del Bardo, gli insulti alla nostra bandiera, gli eccidi dei nostri operai a Marsiglia, le contumelie quotidiane della stampa francese buttateci in viso a piene mani, e tutto insomma quell’insieme di fatti che misero in chiara luce a qual caro prezzo la nostra vicina repubblicana ci presterebbe la sua amicizia, e qual frutto usuraio d’umiliazioni e di servitù ella pretenda ancora dal beneficio, principalmente imperiale, di Solferino e di Magenta, pagato tuttavia abbastanza collo scotto di Nizza e di Savoia, e col sangue di Mentana e di Dijon.
Ora s’immagini a queste notizie il vecchio Eroe! Pareva che tutti quegli oltraggi fatti alla patria sua, penetrassero come lame di spada nel suo petto, tanto erano acute le urla di dolore e di collera che mandava. [602] Schizzava fuoco e fiamme, e se avesse contato alcuni anni di meno, è difficile pensar qual nuovo incendio avrebbe suscitato in Italia. Avreste detto che al limitare del sepolcro, nel punto stesso che la compagine del suo corpo si sfasciava, l’anima sua ringiovanisse e sfolgorasse nuovamente di tutta l’energia de’ suoi giorni più gagliardi.
Null’altro potendo, parlava e scriveva, ma eran scritti e parole che valevano fatti. Egli solo parve a quei giorni la voce della nazione; e quegli Italiani, la grande pluralità pur troppo, che avevan stimato doveroso subire l’oltraggio con quel temperato risentimento e quella dignitosa rassegnazione con cui si sopporta una insignificante mancanza di galateo in una conversazione, quegli Italiani dovettero sentire ognuna di quelle parole piombar loro sull’anima come tante goccie roventi e destarvi almeno un istante di vergogna e di rimorso. Prima aveva cominciato con una nota più temperata: «Io sono amico della Francia e credo si debba fare il possibile per conservare la di lei amicizia. Però siccome sono Italiano anzitutto, darò lietamente questo resto di vita acciò l’Italia non sia oltraggiata da chicchessia....[400]» Poi alzando il tono coll’incalzar degli avvenimenti: «Il trattato della Francia col Bey fece crollare la buona opinione che io avevo per la Francia.... e se i suoi ingiusti procedimenti in Africa continuano, ci costringerà a ricordarci che Cartagine e Nizza sono francesi come io sono tartaro, e che nell’antica Cartagine gli Italiani hanno tanto diritto quanto la Francia, e che devono tendere alla completa indipendenza della Tunisia.[401]»
[603]
E quasi tutto ciò non fosse ancora abbastanza esplicito, come uomo cui tarda di dir tutto e nella forma più chiara il suo pensiero, prorompeva:
«Caprera, 22 settembre 1881.
»Miei cari amici,
»Lavare la bandiera italiana trascinata nel fango per le vie di Marsiglia — e stracciare il Trattato — tolto colla violenza — al Bey di Tunisi: solo a tal patto gl’Italiani potranno tornare a fraternizzare coi Francesi — lasciare a Bismarck accarezzare il Papato, e non oltraggiare la Repubblica coll’alleanza della menzogna — dalla quale si minaccia l’Italia.
»I nostri vicini da ponente a levante devono capire esser finiti i tempi delle loro villeggiature nel bel paese. E se han paura i........, gl’Italiani sono disposti a non tollerare oltraggi.
»Sono
»vostro
»G. Garibaldi.[402]»
Nè di sole parole si contentava. Udito che Palermo si prepara a festeggiare il suo Vespro, vede in quella commemorazione della disfatta angioina un risveglio del sentimento nazionale, e ad ogni costo, non sappiam se sprezzando i consigli de’ medici e de’ parenti, perchè di questi consigli non si vide la prova, ma certo sprezzando i consigli della sua salute, deliberò di recarsi a Palermo. Solo concede a sè stesso, non sapremmo se dire il riposo, o la fatica maggiore, di arrivarvi a piccole giornate, posando prima a Napoli, rivedendo le Calabrie, rifacendo a ritroso, come chi ricorda, la strada trionfale del 1860. E parte, e il 21 gennaio è a Napoli: ricevuto con delirio dalla città, che dal 60 in poi non l’aveva più riveduto, ma [604] che rispettando il suo stato lo lascia tranquillo per oltre due mesi nella villa del signor Maclean a Posilipo, dove entrando, alla vista del magnifico golfo, esclama col nostalgico affetto del vecchio marinaio: «Oh bello questo mare!»
Colà però il corpo riposava, non lo spirito ancora. Egli non perde d’occhio Tunisi, e ad un certo punto è tale la nausea che lo prende delle rodomontate francesi e della dappocaggine italiana, che a pochi giorni di distanza scrive al signor Leo Taxil: «È finita, la vostra repubblica chiercuta non ingannerà più alcuno. L’amore e la venerazione che avevamo per lei si son mutati in disprezzo.[403]» E ad un ministro italiano andato a visitarlo, soggiungeva: «Lessi in qualche giornale che trattate con la Francia, per trovar [605] modo di accettare senza scandalo il trattato del Bardo. Non lo fate. Una nazione non può mai tollerare le offese. E, se lo farete, io, vecchio, che non potrò correre l’Italia gridando vendetta contro di voi, io mi farò trascinare qui alla Riviera di Chiaia e in via Toledo, e sputerò sul viso alle guardie di pubblica sicurezza e alle sentinelle dell’esercito italiano, finchè o una mi uccida con un colpo di baionetta, o mi si porti a morire in prigione. Così, se voi farete quello, io farò che voi mi ammazziate, sperando che la mia morte muova contro di voi il popolo.[404]»
Tanta era ancora la fiamma vitale in quel settuagenario disfatto!
E dicasi pure ch’egli esagerava; a parer nostro, l’esagerazione era più nella forma che nel sentimento; ma gli è sol quando un paese esagera a questo modo, sente di sè e del proprio onore in siffatta guisa, che si fa rispettare dagli amici e dai nemici, e diventa grande.
Da Napoli a traverso le Calabrie, posando una notte a Catanzaro, parte in vettura, parte in ferrovia, pellegrinaggio micidiale a quell’uomo, arrivò allo Stretto, e di là, salutata la sua Messina, entrò il 28 marzo, di mattina, a Palermo.
Ma qui pure, come a Milano, come a Napoli, sorvoleremo alle accoglienze, poichè l’immaginarle è più facile che il descriverle. Noteremo soltanto un episodio singolare. Si era fatta correre la voce che il Generale, affranto dal lungo viaggio, avesse talmente bisogno di riposo che persino le grida e gli applausi [606] avrebbero potuto nuocergli. Ond’ecco tutta la popolazione palermitana, concorde per incanto in un solo sentimento, soffocare le voci, smorzar i passi, domar l’indole espansiva ed entusiastica, e al Generale, cui aveva forse preparato uno dei suoi più strepitosi baccanali di gioia, render l’omaggio, nobile, delicato, figliale del silenzio.[405]
All’indomani Garibaldi, ospitato lungo la marina nel casino del signor Ugo Delle Favare, Sindaco di Palermo, scriveva di tutto suo pugno, con sforzo grandissimo della mano, ma lucido ancora di mente, questo Manifesto ai Palermitani, che senza toccare della Francia, la quale già pareva tornar verso l’Italia a meno violenti consigli, riepilogava il supremo ideale ghibellino del Vespro, e insieme gli amori e gli odii più antichi dell’anima sua.
«A te, Palermo — città delle grandi iniziative, maestra nell’arte di cacciare i tiranni — appartiene il diritto della sublime iniziativa di cacciare dall’Italia il puntello di tutte le tirannidi, il corruttore delle genti che — villeggiando sulla riva destra del Tevere — sguinzaglia di là i suoi neri cagnotti alla adulterazione del suffragio universale, quasi ottenuto, dopo essersi provato a vendere l’Italia per la centesima volta.
»Ricordati — o valoroso popolo — che dal Vaticano si mandarono benedizioni agli sgherri che, nel 1282, cacciasti con tanto eroismo.
»Forma, quindi, nel tuo seno — dove palpitano tanti cuori generosi — una associazione che abbia il titolo di [607] Emancipatrice dell’intelligenza umana, la cui missione sia quella di combattere l’ignoranza e svegliare il libero pensiero.
»Occorre andare, per ciò, tra le plebi della città e delle campagne, per sostituirvi alla menzogna la religione del Vero.
»Giuseppe Garibaldi.»
E trascorriamo ancora sulle feste, sulle visite, sulle ovazioni, tutte minori di quelle che avrebbe volute il popolo palermitano, maggiori pur sempre di quelle che le condizioni minacciosissime del suo ospite potevano comportare. Il 31 marzo, infatti, anniversario del terribile eccidio, il Generale non potè assistere alla lunga cerimonia; ma due giorni prima di partire volle visitare ad ogni patto la storica chiesa di Santo Spirito e giunto sulla piazza del famoso «mora, mora,» pronunciò con voce commossa, ma chiara: «Onoriamo la memoria dei nostri padri palermitani che seppero scacciare i tiranni, e dico i nostri padri perchè anch’io mi credo palermitano come voi.»
All’indomani suo figlio Menotti leggeva alla folla radunata sotto le sue finestre, al chiarore d’una serenata, un affettuoso addio del padre, nel quale egli si protestava ancora «figlio di Palermo,» e il 17 aprile, mattina, imbarcato sul Cristoforo Colombo risalpava per Caprera....
Non doveva uscirne più. Tra l’aprile e il maggio le notizie del suo stato di salute s’erano fatte sempre più rare e confuse; la notte dal 2 al 3 giugno corser l’uno dietro l’altro i telegrammi: Garibaldi è agonizzante: Garibaldi è morto. Corre il detto: «che [608] saetta previsa vien più lenta;» infatti da parecchi anni l’Italia vedeva il suo Eroe morire giorno per giorno, e vi era tristamente apparecchiata; tuttavia come il colpo non fu preceduto da alcun segno prenunziatore, così l’effetto ne parve ugualmente fulmineo e tremendo.
E l’Italia, com’era da attendersi, si scosse in sussulto e guardò sbigottita la immensità della perdita che aveva fatto. Un sol pensiero occupa in un subito tutte le menti, un sol nome corre su tutte le labbra; una folla triste e come trasognata ingombra le vie; le bandiere si abbrunano, le feste si sospendono, i negozi si differiscono: i teatri, le scuole, le officine si chiudono: la concordia della sventura affratella, come nel funebre giorno di Vittorio Emanuele, gli affetti e le opinioni più discordi: quei medesimi che ieri ancora sprezzavano ed aborrivano l’implacato nemico, s’arrestano riverenti innanzi al cordoglio della nazione e sentono essi pure muoversi qualcosa nel loro cuore, che se non è peranco dolore, è rispetto e pietà. E tuttavia, l’ansietà che tutti preme, appena scosso il primo stordimento della percossa, è il conoscere la storia degli ultimi momenti dell’eroe! Come e quando morì? e chi l’attorniava e chi l’assistette, e quali furono le ultime sue parole, e chi raccolse l’estremo suo respiro, e chi gli chiuse gli occhi, e chi lo compose sul letto di morte?
Nel mattino del 1º giugno il Generale aveva cominciato a sentirsi male. Il catarro bronchiale gli faceva ingorgo più del solito nel petto e non potendo espellerlo gli rendeva sempre più lento e affannoso il respiro. Non c’era presso di lui a Caprera altro medico che il dottore Cappelletti, medico di bordo del Cariddi, ancorato in quelle acque, ma egli avvertì [609] tosto la gravità del caso, e d’accordo colla signora Francesca e con Menotti, che da più giorni si trovava presso il padre, telegrafò al dottor Albanese in Palermo, perchè accorresse immediatamente.
Ma il male incalzava con rapidità terribile e nella notte dal 1º al 2 s’aggravò siffattamente che nel cuore di tutti gli astanti entrò lo sgomento d’un pericolo urgente. Allora ne fu telegrafato a Canzio a Genova ed a Ricciotti a Roma; ma oramai nè essi, nè Albanese potevan più giungere a tempo.
La forte natura del Generale, prostrata da una decenne congiura d’infermità, era alla sua ultima prova.
Nel pomeriggio del 2 la difficoltà crescente del respiro, l’affievolimento della voce, l’abbandono delle forze, fecero a tutti comprendere che la catastrofe era imminente.
Tuttavia il Generale, sebbene parlasse a stento, aveva ancora la mente serena. Solo l’inquietava la tardanza d’Albanese, sicchè iteratamente domandò se Albanese fosse arrivato; se il vapore fosse in vista; ma nessuno potè dargli la consolante risposta! A un certo punto due capinere, consuete visitatrici del Generale, vennero a posarsi sul suo balcone aperto, cinguettando allegramente; la moglie, temendo disturbassero l’ammalato, fece un gesto per allontanarle; ma il Generale, con un fil di voce soave, susurrò: «Lasciatele stare, son forse le anime delle mie due bambine che vengono a salutarmi prima di morire. Quando non sarò più vi raccomando di non abbandonarle e di dar loro sempre da mangiare.»
E pare siano state quelle le ultime parole che profferì. Solo più tardi chiese ripetutamente del piccolo Manlio, infermiccio egli pure, si asciugò con un moto convulso della mano la fronte, mormorando «sudo....» [610] cercò il suo cielo, il suo mare.... sorrise a’ suoi cari.... e colla placidezza d’un patriarca, fra le braccia della dolce famiglia, alle 6.22 pomeridiane spirò.[406]
E da allora comincia il grande epicedio delle Nazioni. Re Umberto scrive di proprio pugno al figlio Menotti:
«Mio padre m’insegnò nella prima gioventù ad onorare nel generale Garibaldi le virtù del cittadino e del soldato.
»Testimone delle gloriose sue gesta, ebbi per lui l’affetto più profondo e la più grande riconoscenza e ammirazione. Queste memorie mi fanno sentire doppiamente la gravità irreparabile della perdita.
»Mi associo quindi al supremo cordoglio del popolo italiano, e prego d’essere interprete delle mie condoglianze condividendole coll’intera nazione.
»Umberto.»
[611]
La Camera dei deputati ed il Senato prorogano per quindici giorni le loro tornate; il Governo propone e il Parlamento approva che la Festa Nazionale dello Statuto sia sospesa, le esequie dell’Eroe sieno fatte a pubbliche spese, una pensione vitalizia di diecimila lire annue sia assegnata alla vedova ed a ciascuno de’ figli.
In ogni terra d’Italia, da Roma al più umile borgo, si decretano statue e lapidi, e si consacrano istituzioni benefiche in sua memoria; le università, gl’istituti scientifici, le associazioni operaie, ogni maniera di sodalizi gareggiano nel commemorare con pubblici discorsi e solenni onoranze la sua vita e la sua morte; l’elettrico non basta a sfogare la colluvie de’ telegrammi che da ogni angolo, può dirsi, della terra, piove a Caprera.
L’Assemblea dei deputati della Repubblica francese sospende per un giorno le sue sedute; la Sinistra del Senato vota un indirizzo di cordoglio alla famiglia dell’estinto; il Municipio di Parigi delibera di inviare rappresentanti a’ suoi funerali; Lione, Marsiglia, Dijon attestano con pubbliche manifestazioni le loro condoglianze; lo stesso urlo di protesta della lega napoleonico-legittimista vale un omaggio di più. La Camera dei deputati e il Senato di Washington approvano una mozione deplorante «la morte di Garibaldi ed esprimente la simpatia degli Stati Uniti per l’Italia.» La Camera dei deputati di Buda-Pest vuole scritto nel processo verbale il compianto della nazione ungherese, per la scomparsa dell’Eroe; il Consiglio nazionale di Berna, con voti 63 contro 20, «rende omaggio a nome del popolo svizzero alla memoria di Garibaldi, si associa all’Italia nel lutto causato dalla morte del grande patriotta.» Nel Consiglio municipale [612] di Londra Sir John Bennet propone «una mozione di profonda simpatia alla nazione italiana in occasione della morte del cittadino Garibaldi e condoglianze alla famiglia,» e la mozione è approvata all’unanimità.
Tutta la stampa mondiale dice in vario tenore il compianto del grand’uomo.
Il Times, che non gli fu mai amico, scrive: «Ebbe tutte le qualità del leone; non soltanto il coraggio senza confini, ma le doti più nobili, come la magnanimità, la placidezza e l’abnegazione.»
La France esclama: «Questa morte è un lutto dell’umanità. Garibaldi era cittadino del mondo.» La tedesca Vossische Zeitung: «Dobbiamo dimenticare il ricordo di averlo avuto nemico;» e il Tageblatt conferma: «Egli nel suo idealismo vide solo l’infelicità della Francia e non pugnò contro il popolo germanico, ma bensì in favore della libertà del popolo.» La Germania, organo dell’ultramontanismo tedesco, dichiara: «Vogliamo rendergli questa giustizia. Egli fu generoso, patriottico, pronto al sacrificio.» L’austriaca Neue Freie Presse conchiude: «Simili figure sono i fari della storia. Non con lunga calcolata previdenza, non con piani e concetti faticosamente elaborati, essi muovono i loro passi; è con l’azione vivace, libera che essi si imprimono nella memoria degli uomini, e a coloro che paurosamente guardano il loro entusiasmo, risponde Guglielmo Tell con le parole messegli in bocca da Schiller: — Se io fossi stato prudente, non sarei stato Tell! — »
Due soli uomini nel secolo nostro migraron dalla terra accompagnati da sì universale consenso di laudi e di dolore: Vittorio Emanuele e Garibaldi; perchè essi soli parvero incarnare due delle più straordinarie [613] eccezioni della storia: un Re fedele alla Libertà, che oblia le tradizioni della sua stirpe e arrischia il retaggio dei suoi figli per la redenzione di un popolo; un popolano che si eleva, per sola virtù propria, fino alla potenza di Re; ma per tornare invitto dalle tentazioni dell’ambizione, nel suo modesto focolare, e sacrificare gli affetti del suo cuore e gli ideali della sua anima alla suprema felicità della patria.
Quali funebri pertanto potevano parere degni di un tant’uomo se non quei medesimi resi al grande Re che l’aveva preceduto nella tomba? più solenni ancora se fosse stato possibile! Quindi un grande lavorío di fantasie, una subita faccenda di necrofori pubblici e privati per risolvere l’arduo problema; quindi un vociferar di monumenti e di mausolei, un presentarsi di imbalsamatori, di pietrificatori, di conciatori d’ogni fatta; un progettare di onoranze e di cortei di ogni specie; e la flotta che dovrà levare la salma da Caprera; e le rappresentanze che dovranno scortarla; e i Principi del sangue che dovranno accompagnarla; e il luogo di Roma (se il Gianicolo, il Campidoglio o il Panteon era tuttavia controverso, ma in Roma pareva certo) in cui doveva posare; quando da Caprera il dottore Albanese inviò questo telegramma:
«Garibaldi spirò iersera; lasciò un’autografa disposizione in data 17 settembre 1881, così concepita: — Avendo per testamento determinato la cremazione del mio cadavere, incarico mia moglie dell’eseguimento di tale volontà, prima di dare avviso a chicchessia della mia morte. Ove ella morisse prima di me, io farò lo stesso per essa. Verrà costruita una piccola urna in granito che racchiuderà le ceneri sue e le mie. L’urna sarà collocata sul muro dietro il sarcofago delle nostre bambine e sotto la acacia che lo domina. — »
[614]
Era insieme un pensiero sublime ed una volontà sacra. Garibaldi non voleva nè essere sepolto, nè esserlo in Roma; voleva, prima ancora che il mondo sapesse della sua morte, essere bruciato, colle piante odorose della sua Caprera, e quivi, poca cenere chiusa in un’urnetta, tra i sarcofagi delle sue bambine, sotto l’acacia che li consola di molle ombra, dormire in pace per sempre.
E questo voto doveva parere tanto più intangibile e santo, in quanto non era nè estemporaneo nè nuovo. Molto prima, può dirsi, che il rito della cremazione tornasse di moda, Garibaldi ebbe quell’idea di confidare la suprema cura della sua spoglia mortale alle fiamme. L’aveva confessato fin dal 1870 al colonnello Bordone; l’aveva ridetto al suo vecchio amico Giuseppe Nuvolari; lo ripetè poco dopo ad Achille Fazzari; lo raccomandò ancora più esplicitamente nel 1877 al suo fido medico, il dottor Prandina.[407] «Voglio essere [615] bruciato: bruciato e non cremato capite bene. In quei forni che si chiamano Crematoi non ci voglio andare. Voglio esser bruciato come Pompeo, all’aria aperta.... e voi, Fazzari, soggiungeva scherzando, sarete il mio liberto..... Farete una catasta, soggiungeva al Nuvolari, di quelle acacie della Caprera, che bruciano come l’olio; stenderete il mio corpo vestito della camicia rossa sopra un lettino di ferro, mi deporrete sulla catasta colla faccia rivolta al sole e così mi brucerete. La cenere che resterà la metterete in un’urna.... anzi in una pignatta qualunque, e la deporrete sul muricciolo dietro le tombe di Anita e di Rosita. Così voglio finire.»
Ma chiese il dottor Prandina: «E se per disgrazia moriste sul continente, lontano dalla vostra Isola?» — «Non importa, fece il Generale, mi caricherete sopra una barca, mi condurrete alla Caprera, e mi brucerete come v’ho detto.»
Nessun uomo espresse mai più chiaramente e replicatamente la sua estrema volontà, e di nessun uomo avrebbe dovuto essere più religiosamente osservata.
Ma altro fu il parere di coloro che l’Eroe aveva il diritto di credere i più gelosi interpreti e più fidi custodi del suo testamento. I politicanti dissero che le spoglie di Garibaldi non appartenevano a lui, ma alla nazione, e che a questa sola, mediante i suoi legittimi rappresentanti, spettava il diritto di decidere della loro sorte; i medici, sgomenti del rapido progredire della corruzione, sostennero la necessità di provvedere senza indugio alla imbalsamazione del cadavere, il che era già un avviamento alla sua conservazione; altri, quale il signor Crispi, affermava l’impossibilità di eseguire alla lettera la combustione come il Generale l’aveva ordinata, affermando che la mancanza [616] in Caprera de’ mezzi adatti ad una perfetta cremazione esponeva al certo pericolo di vedere «le ceneri della spoglia confuse con quelle delle legne;» altri vociarono: Roma! Roma sola degna tomba dell’Eroe: tutto deve piegare, anche Garibaldi, innanzi alla maestà di quel luogo e di quel nome; e insomma quali per una ragione, quali per l’altra, radunatosi in Caprera una specie di consiglio di famiglia, al quale erano presenti, oltre la signora Francesca, Menotti, Canzio e la signora Teresita, anche il dottor Albanese, Francesco Crispi, Alberto Mario e Achille Fazzari, contro la volontà, fu detto, della signora Francesca (e doveva farla valere più gagliardamente) e contro il parere del Fazzari, la maggioranza deliberò di compiere senz’altro l’imbalsamazione del cadavere e di seppellirlo frattanto in Caprera, lasciando al Parlamento di decidere quale ultima dimora gli dovesse essere destinata.
Noi non discuteremo qui quelle ragioni, nè riapriremo una polemica, che falserebbe il carattere di questo libro. Alla storia interessa soltanto che la deliberazione del Consiglio di Caprera suscitò in tutta, può dirsi, l’Italia un grido unanime di riprovazione e di sdegno.
Le città e le associazioni radunarono comizi e votarono indirizzi di protesta; la stampa, fatte poche eccezioni, echeggiò concorde l’indignazione della coscienza nazionale; gli uomini più eminenti di tutti i colori e di tutte le parti sfolgorarono talvolta in parole eloquenti il sacrilegio minacciato, ma indarno. Garibaldi aveva voluto; un Plebiscito della nazione aveva confermato, ma il conciliabolo di Caprera aveva deciso altrimenti; sic volo, sic jubeo, stat pro ratione voluntas.
[617]
L’8 giugno, presente il Principe Tommaso per il Re, i ministri Ferrero e Zanardelli per il Governo, le Presidenze della Camera e del Senato, le Rappresentanze della marina e dell’esercito, gli inviati delle città e delle corporazioni, i superstiti dei Mille e dei Volontari, presente in simbolo tutta l’Italia ufficiale e reale, Garibaldi, in un giorno di uragano, protestando il cielo ed il mare, fu fatto scendere a forza sotto l’umida terra, a forza vi fu chiuso e suggellato dentro sotto una duplice lapide; la volontà dei vivi mise a giacere per sempre la volontà del morto; la inviolabilità della pietra sepolcrale tagliò corto a tutti i reclami e a tutte le querele; e il popolo italiano, facile alle accidie perchè facile agli entusiasmi, piegò la testa al fatto compiuto e lo subì.
Washington non volle altra tomba che un’aiuola del suo Mount Vernon, e nessun Americano avrebbe nemmeno per un istante dubitato che quella volontà potesse essere violata. Robert Peel lasciò scritto di voler esser sepolto nella chiesa parrocchiale di Draylon Bassett, e il Parlamento che gli aveva destinato gli onori di Westminster s’inchinò al suo volere; il conte di Cavour volle posar per sempre nel domestico sepolcreto di Santena, e nessuno della sua famiglia l’avrebbe ceduto a Torino, o a Santa Croce.
Giuseppe Garibaldi non pretese dalla sua patria, per la quale aveva tanto operato, non domandò alla sua famiglia, che aveva tanto adorata, altro pegno di gratitudine, altro ricambio d’amore, che di dormire pugno di cenere tra le fosse delle sue bambine, lontano dal fatuo rumore del mondo, che aveva sempre sprezzato, nell’Isola solinga, sotto il libero aere, presso l’immenso mare, che avea tanto amati; — e gli fu negato.
[618]
Tale fu l’uomo di cui ci siamo avventurati a narrare la vita. Molti particolari vi potranno essere aggiunti, molti aneddoti intarsiati, molti falli corretti; ma se l’amore dell’opera nostra non ci ha fatto sin qui fitto velo al giudizio, confidiamo che i tratti più caratteristici della sua figura vi siano tutti raccolti e bastevolmente lumeggiati.
Giuseppe Garibaldi fu principalmente «l’Eroe», e sarà questo l’antonomastico nome col quale vivrà nella storia. Il coraggio, l’agilità, la forza, la fortuna, la vaghezza delle imprese ardue e maravigliose, la famigliarità col pericolo, il disprezzo della morte, la fede nella vittoria, una tal quale presunzione d’invulnerabilità taumaturgica, tutte le doti essenziali all’eroe, egli le compendiò e fuse in sè medesimo con una forma così eletta e così tipica, che non è mestieri ridirne di più. Pure non basta: Multi fuere ante Agamemnona fortes; quelli che siam venuti sin qui enumerando in Garibaldi son pure gli attributi comuni [619] dell’eroismo, e Achille, Orlando, Leonida, Epaminonda, Aroldo, il Cuor di Leone, il Cid, Bajardo, quali li concepirono insieme la leggenda e la storia, ponno vantarsi di averli posseduti quanto lui, taluno forse, in talun caso, più di lui.
La virtù invece che lo distingue e lo solleva sulla falange di tutti gli eroi fino ad ora conosciuti, e lo accomuna piuttosto a quella speciale famiglia d’uomini di guerra che furono insieme guerrieri e capitani, quali i Maratonomachi, l’Africano, il Barbarossa, Giovanni delle Bande Nere, il Morosini, il gran Condé, Gustavo Adolfo, è la calma imperturbabile, la serenità olimpica, la padronanza sovrana del campo di battaglia, per la quale anche travolto nei vortici più furiosi della pugna egli poteva seguirne e dominarne con occhio sicuro e freddo giudizio le peripezie, e nel momento stesso in cui sembrava sparire nella mischia come l’ultimo dei combattenti, giganteggiava sul campo come un ispirato capitano.
Ed eccola detta la gran parola, quella che a molti sarà la più ostica di questo libro, ma per la quale appunto l’abbiamo scritto: la parola che tarderà lungo tempo ad essere accolta nei sinedri delle vecchie cricche militari, ma che alla fine, non già per merito nostro, o nemmeno di alcun più poderoso propugnatore di noi, ma per solo merito intrinseco della sua verità, finirà a farsi strada e trionfare.
Garibaldi fu un gran Capitano e di terra e di mare; e se la Campagna del Parana (rammentiamo le azioni in cui principalmente il Capitano rifulse) e la Ritirata da Roma, la Presa di Palermo e la Battaglia del Volturno, la Campagna del Trentino, fatta a tavolino o in carrozza, e la Campagna di Francia, fatta infermo a sessantatrè anni, tra gli ostacoli e le [620] difficoltà d’ogni maniera che ci sono note, non bastano a decretargli un siffatto titolo, non sappiamo più con quale criterio si estimerà oggimai la capacità degli uomini, nè perchè si dirà grande un poeta pei suoi poemi, e un artista pe’ suoi marmi e per le sue tele, e non un capitano per le sue battaglie e le sue vittorie.
La natura lo aveva fatto capitano, ed è questo ancora il miglior modo d’esserlo. Perocchè la guerra è arte; la scienza ne determina i canoni e le appresta gli strumenti, ma l’atto supremo della sua estrinsecazione è essenzialmente una creazione artistica; un pensiero cioè sorpreso, divinato, tradotto in un baleno in un’azione viva, che può essere il tocco d’un pennello, l’atteggiamento d’un periodo, la mossa d’una divisione, e che in tutti i casi richiede quella medesima potenza di ispirazione e di esecuzione che non si apprende nè da maestri nè da libri, che la natura sola dà a taluni predisposti da essa a riceverla, e che diede a Garibaldi.
Nè vogliam dire che la natura abbia dovuto concedergli molto. Le doti per essere grande capitano sono rare, ma non sono le più sublimi. La guerra è in fondo una gran caccia, nella quale capitano e soldati fanno, volta a volta, la parte della fiera, del bracco e del cacciatore. Ora date ad un uomo gli istinti della fiera che si trafuga e si difende, del cane che la imposta e la stana, del cacciatore che la circuisce e l’assale, e avrete nelle sue qualità essenziali il grande uomo di guerra: avrete Garibaldi.
Gli si aggiungano poi come doti peculiari, se non veramente a lui solo, a pochissimi come lui: un senso profondo e quasi fatidico del terreno, tanto che indovinarne, dal punto di veduta militare, il carattere, misurarne l’estensione, stimare quanta truppa vi possa [621] capire in colonna od in battaglia, era per lui, può dirsi, l’affare d’un’occhiata: l’attitudine, perfezionatagli di certo dallo studio delle matematiche, di leggere con tanta sicurezza e precisione nelle carte topografiche da potere, come gli accadde nel Trentino, far la guerra quasi esclusivamente su quelle: la facoltà acuitagli dall’esercizio della navigazione, di essere orientato sempre e di guidarsi, perduta ogni altra scorta, anco colle stelle, sicchè non gli accadde mai di perdere la strada, spessissimo di trovarla dove nessuno la sospettava: la virtù di non allarmarsi mai, sorella a quella di non lasciarsi mai sorprendere, e figlie entrambi di altre due qualità naturali: il sangue freddo e il fiuto del pericolo; sicchè nel 1859 presso Casale, essendosi alcuni de’ suoi esploratori precipitati nella stanza dove desinava, gridando ansanti: «Il nemico! Il nemico!» — «Ebbene,» disse, senza interrompere il pittagorico pasto, «lasciatelo venire, dopo pranzo lo riceveremo;» la sua qualità d’anfibio, sicchè poteva giovarsi a suo grado dell’uno e dell’altro elemento, e nella terra, dove un ammiraglio avrebbe trovato un incaglio, egli trovare uno sbocco, e nell’acqua, dove un generale avrebbe scorto un ostacolo, egli vedere un veicolo: la potenza infine acquistata essa pure nelle ginnastiche della gioventù nomade e marinaresca, di durare più di chicchessia alla fatica ed alle privazioni della vita guerriera, d’onde quella sua abitudine d’essere il primo alzato nel suo campo e il primo a farne suonare la Diana, per andare, albeggiando appena, ad esplorare egli stesso, molto al di là delle proprie linee, le posizioni del nemico; si aggiungano, dicevamo, o meglio ancora, si innestino sulla prima radice della sua natura eroica tutte queste qualità omogenee ed affini a quella prima, e si avrà la [622] spiegazione perchè Garibaldi, avendo letti pochi trattati d’arte militare, e forse nessuno, non avendo mai sostenuto esami in nessuna Accademia, nè fatto manovrare una compagnia sopra nessun campo di Marte, abbia potuto sopra quaranta combattimenti, tra i quali almeno sette giornate campali (il 30 aprile e il 3 giugno a San Pancrazio, Milazzo e il Volturno, Bezzecca e le tre giornate di Dijon), vincere almeno trentasette volte il nemico,[408] e sconfitto veramente, disfatto in guisa da dover abbassare le armi ed arrendersi alla mercè del vincitore, non lo sia stato mai.
Gli mancò, è vero, per la guerra a cui fu condannato, l’occasione di sviluppare grandi concetti strategici; ma tutti quelli che suggerì od effettuò: la marcia manovra su Palermo; la occupazione difensiva della sinistra del Volturno; il progetto di Campagna consigliato nel 1866, concorde a quello proposto dal generale Moltke; la disapprovazione data in Francia alla mossa del Bourbaky; il consiglio ripetuto e non ascoltato di occupare in ogni caso gagliardamente Dôle; tutti questi ed altri esempi provano abbastanza che l’intelletto strategico non mancava certo al nostro Capitano, e che gli fallì soltanto l’opportunità di sperimentarlo egli stesso sopra campi più vasti.
Certo il suo merito risalta più spiccatamente nelle operazioni tattiche. Per la guerra di partigiano, marciar di notte, dormire il giorno, spiegarsi possibilmente coperto; cansar la lotta, se non è sicura la vittoria; costretto ad accettare il combattimento in condizioni sfavorevoli, protrarre fino a notte la resistenza, perchè di notte la ritirata è più sicura; caricati [623] dalla cavalleria, formare la massa in difesa, preferibile al quadrato vuoto che si muove con difficoltà e presenta una fronte troppo debole e troppo estesa all’assalitore. Per la guerra grossa poi «riunire il più di forze possibili sul punto tattico o obbiettivo di campo di battaglia, massima di tutti i grandi uomini di guerra; pericolose però le colonne serrate, specialmente dopo il perfezionamento delle armi: in ogni caso lasciare accostar il nemico: bersagliarlo di pochi colpi ben diretti, e quando sia vicino, fidar sempre nella baionetta e caricarlo.
Questi i precetti principali, ch’egli riassunse in tanti scritti,[409] e professò con l’esempio. «Lasciateli venire,» gridava al Volturno. «Sedetevi, che vincerete,» urlava a Mentana. «Un soldato non deve aver mai vergogna di coprirsi per colpir meglio il nemico,» esclamava a Dijon; ed era la stessa voce che ordinava al momento opportuno le cariche a ferro freddo e le capitanava.
Che cosa mancava dunque a quest’uomo perchè gli si potesse contrastare il titolo di gran Capitano? Di aver mai fatto la grossa guerra, nè condotte le grandi masse degli eserciti moderni. Davvero, che questo argomento sia ripetuto da un pubblico profano e ignaro di siffatte questioni lo si capisce, ma che possa essere in buona fede adoperato da’ militari, sorprende e attrista ad un tempo. E qual uomo di guerra fu egli assunto al comando supremo delle grandi masse, se non dopo aver fatto le sue prove comandando le minori? Oh come! Nella gerarchia militare chi ha comandato un reggimento è presunto capace [624] di comandare una brigata, e chi una brigata una divisione, e così di seguito, e questa presunzione di capacità non varrà per Garibaldi?
Voi, Tedeschi, eleggeste generalissimo de’ vostri eserciti il Moltke, che prima di Sadowa non aveva mai guidato in guerra un solo battaglione; voi, Francesi, deste il bastone di maresciallo a Mac-Mahon, che prima di Magenta non aveva mai condotto al fuoco una divisione; voi, Italiani, reputaste capaci il generale La Marmora e il generale Cialdini, di comandare in capo tutto l’esercito italiano, sol perchè il primo aveva capitanato 15,000 uomini in Crimea, e il secondo ne aveva guidati altrettanti a Castelfidardo ed a Gaeta; e nessuno di voi riconoscerà che Garibaldi, il quale cominciò a guidarne parecchie migliaia fin dal 1849; che al Volturno ne comandava 30,000, e nel Trentino 35,000, possa bastare all’ufficio, a cui pure i gallonati e piumati suoi colleghi furono reputati meritevoli? Col criterio di non reputar Capitano chi non ha comandato grandi eserciti, Napoleone I, che non ne comandò, nella prima e più gloriosa sua campagna d’Italia, più di 30,000, non sarebbe mai stato che un guerrillero, e Hoche, Massena, Lannes, Augereau, che eran già salutati grandi generali quando non avevano ancora condotto al fuoco che le minuscole divisioni della Repubblica, non sarebbero rimasti che dei cabecillas.
Certo, a dirigere le grandi masse, Garibaldi solo non sarebbe bastato; ma quale più sommo Capitano vi bastò? Anco a Garibaldi faceva mestieri quello che occorse a Napoleone, all’Arciduca Carlo, a Wellington, a Moltke, una corona d’interpreti intelligenti, e di cooperatori fidi; uno Stato maggiore istrutto, e generali di divisione valenti; un servizio organizzato di [625] amministrazione, d’ambulanza, di provianda; ma se a lui pure fosse stato concesso tutto ciò, con quanta maggior libertà ed efficacia non avrebbe potuto attuare i suoi concetti e far sentire alla macchina ben congegnata posta nelle sue mani l’impulso del suo genio! Gli eserciti mancarono a Garibaldi, non Garibaldi agli eserciti! Egli partì co’ Mille di Marsala; ma sarebbe partito assai più volentieri, noi lo vedemmo, con una brigata dell’esercito regolare,[410] e quando voleva esprimere il gran conto in cui teneva l’esercito italiano, invocava l’onore «di combattere alla sua sinistra.»
Strana logica invero!
Fino ad ora si era sempre creduto che chi fu capace di far bene co’ pochi potesse essere presunto idoneo a far meglio co’ più; ma a Garibaldi pare che questa maniera di ragionamento non sia applicabile.
Egli è escluso dalla legge del perfezionamento umano. Fosse stato, come dicevano i Piemontesi d’una volta, una vecchia giberna invecchiata fra le piazze d’armi e le caserme, avrebbe potuto dire egli pure il suo bravo «porto nel mio zaino il bastone di Maresciallo;» ma aver guerreggiato per circa quarant’anni, nel vecchio e nel nuovo mondo, portar sul corpo dieci ferite, presentare uno stato di servizio di sedici campagne[411] e quaranta combattimenti; aver battuto in America Oribe e Brown, in Italia Oudinot e Colonna, Landi e Bosco, Lanza e Ritucci, Urban e Kuhn, e in Francia Keller, Danemberg e Kettler, tutto ciò non dà diritto ad alcuna promozione.
[626]
Guerrigliero cominciò, guerrigliero visse, guerrigliero morì.
Diverso fu il giudizio di Abramo Lincoln, che gli fece offrire il comando d’un esercito della grande repubblica americana; diverso quello dell’austriaco D’Aspre, che nel 48 esclamava: «Un sol uomo avrebbe potuto ancora salvar l’Italia, e non fu compreso;» diverso quello del prussiano generale Manteuffel, che pochi anni or sono scriveva: «Se il generale Bourbaky avesse operato secondo i suoi consigli, la campagna dei Vosgi sarebbe stata la più fortunata combattuta nel 1870-71 dalle armi francesi.[412]»
Diversi i pareri dei moderni storici militari, quali il Rustow e il Lecomte, che studiarono un po’ più attentamente e spassionatamente le sue campagne; ma ciò non conta. Non è un generale,» cominciò a mormorare qualche professore d’arte militare, che non aveva letto mai probabilmente una sola pagina delle sue guerre; «non è un generale,» ripetè in coro la scolaresca, e «non è un generale,» fece eco il pubblico pappagallo; e [627] con questa sentenza pronunciata senza esame, senza motivi e senza processo fu accompagnato al sepolcro.
E frattanto la prima vittima di questi errori e di questi pregiudizi, propri a dir vero a tutto ciò che tiene ancora della casta e dell’accademia, fu l’Italia. Pensino invece gl’Italiani, se il valore reale di quest’uomo fosse stato giustamente estimato, quanti rovesci di meno e quanti trionfi di più! Pensi il valoroso esercito nostro, quanto corteo di novelle vittorie avrebbe scortato le sue bandiere, se colui che vinse coi cento e coi mille, coi diecimila e coi trentamila, nel piano e sui monti, cogli scamiciati e cogli inermi, avesse potuto capitanare le agguerrite schiere di Palestro, di San Martino e di Gaeta, e nella sera della fatale Custoza, dare, a chi l’avesse interrogato sul da farsi, la classica risposta: «dormire sul campo.»
Ma anche per lui la giustizia verrà dal di fuori e comincerà dopo morto. Fra pochi anni i giudizi degli stranieri, più intelligenti e più spassionati dei suoi compaesani, saranno conosciuti, i preconcetti e le gelosie che vietarono sin qui la conoscenza e la manifestazione della verità saranno spenti, le storie militari del nostro tempo e del nostro paese saranno meglio scritte, più lette e meglio apprezzate, e allora forse l’Italia comprenderà a qual caro prezzo abbia pagato l’errore d’aver partorito dal suo seno un grand’uomo di guerra e d’averlo disconosciuto.
Pura quanto quella del guerriero, incontestata più di quella del capitano è la gloria del patriotta. Se [628] fra gli eroi della spada è difficile trovargli il simigliante, trovargli l’uguale nello stuolo degli eroi della patria lo è ancora più. E ciò perchè quello che egli offerse in olocausto all’Italia supera in valore tutto quanto fino a lui, anche i più grandi cittadini, anche Washington, il grandissimo fra tutti, avevano offerto alla patria loro. Tutti come lui diedero alla loro terra natale il meglio di sè stessi: il sangue, la vita, gli averi, le gioie del domestico focolare, persino, costosissimo fra i sacrifici, le palme più meritate della gloria ed i risentimenti più legittimi dell’ambizione; ma nessuno di loro le immolò, come lui, il tesoro più sacro del suo petto, la fede dell’anima sua.
La patria creata dal genio e dalla virtù di Washington fu quella vagheggiata da lui: fra il suo concetto politico e la volontà de’ suoi concittadini nessun divario essenziale e nessun dissenso: il Virginiano diede alle Colonie da lui redente e federate le istituzioni pensate ed elaborate dalla sua mente, le suggellò, a dir così, dello stampo del suo spirito e ottenne un frutto e un premio dell’opera sua che nessun altro maggiore.
Di Garibaldi diverso il destino. Egli non sortì la mente pratica del grande Piantatore; il genio della politica non era il suo e non v’è mestieri di riprova. Discernere tra la verità ideale e la realtà effettuale la distanza e la differenza non era da lui; veder ciò che nel suo paese ed anche nel suo tempo fosse fattibile era al di sopra o al di sotto, secondo il punto da cui lo si consideri, del suo intelletto, e il solo trovarsi di fronte ad una questione pratica, se non era militare, lo confondeva e paralizzava.
Epperò il contrasto profondo tra quello che i suoi coetanei preferirono e quello ch’egli amò; tra gl’ideali [629] del suo capo e quelli della sua patria. Il suo ideale religioso fu la Religione naturale o il Deismo filosofico, che dir si voglia, di Gian Giacomo; e l’Italia è per due terzi cattolica, per l’altro terzo scettica o indifferente. Il suo ideale politico fu una specie di Repubblica patriarcale con un Dittatore temporaneo, assistito da un Consiglio di probi viri, «la Repubblica della gente onesta,[413]» come egli la chiamava; e l’Italia è e vuol essere monarchica. Il suo ideale sociale è un quissimile di società pastorale, nè colta, nè barbara, vivente nella semplicità e nell’innocenza, retta da un regime che sarebbe un che di mezzo tra il comunismo sansimoniano, «a ciascuno secondo la sua capacità, a ciascuna ’capacità secondo il suo lavoro,» e il nuovo socialismo della cattedra, «governo largitore di tutti i beni e riparatore di tutti i mali;» e l’Italia si dibatte ancora contro gli avanzi del passato e non osa sbarbicare le ultime radici delle antiche caste e dei vieti [630] privilegi. Quale abisso adunque tra l’anima di quell’uomo e le aspirazioni del suo paese; quanti conflitti dolorosi, quante tentazioni insidiose, o di sciogliere il litigio coi colpi di spada dei Cesari, dei Cromwell e dei Napoleonidi, imponendo alla patria ignara e riluttante la legge della sua volontà, o di abbandonarla, come persona che si sprezza, alla meritata servitù!
Ora Garibaldi non seguì nè l’uno, nè l’altro consiglio, gettò sull’ara della Patria i suoi amori e i suoi odii, le sue più care speranze, le sue più carezzate chimere, e senza chiederle alcun prezzo del suo sacrificio la servì e la salvò.
Nel 1848 proclamava, primo fra i repubblicani, la necessità di stringersi al re Carlo Alberto, e non dipese da lui se la sua spada, che poteva essere forse la salvezza d’Italia, fu ricacciata nel fodero.
Nel 1857 è ancora il primo a sottoscrivere con Daniele Manin e Giorgio Pallavicino il patto d’unione dell’Italia con Casa di Savoia ed a fondare con essi quel nuovo partito nazionale, che fu la base popolare dell’imminente risorgimento.
Nel 1859 non esita ad offrire il suo braccio al Re Galantuomo, e trascinata dietro al suo esempio tutta la gioventù più gagliarda ed attuosa d’Italia, suggella sui campi di battaglia l’unione auspicata della rivoluzione con la monarchia.
Nel 1860 infine, quando il nodo del problema italiano sembrava giunto a tale che la monarchia nè poteva tagliarlo colla spada, senza compromettersi, nè lasciarlo in balía della rivoluzione, senza abdicare, nè scioglierlo coll’artificio dei compromessi e delle transazioni, senza nuocere al suo principio vitale, Garibaldi ancora scioglie il nodo intricato e ponendosi [631] a capo di un’impresa, che adempiva insieme ai fini della rivoluzione ed agli obblighi della monarchia, amplia il patto dei plebisciti e fonda sovra essi il nuovo regno.
Nè a questo patto venne meno più. Aspromonte e Mentana furono certamente, il primo un grande errore, il secondo una grande temerità, entrambi una illegalità; ma astraendo anche da quel segreto viluppo di equivoci e di ambiguità, che in tanta parte li giustificarono, essi devono essere giudicati piuttosto un conato di insurrezione contro la politica d’un governo, che un atto di ribellione contro le istituzioni d’uno Stato.
Non si dimentichi mai che tanto sulla bandiera di Aspromonte, quanto su quella di Mentana, il motto era pur sempre quello di Marsala; e l’aspro dissidio insorto per questo fatto fra Garibaldi e Mazziniani, ne indica meglio d’ogni altro argomento la capitale importanza.
Nè bisogna credere che tutte le conseguenze di Aspromonte e di Mentana siano state malefiche. Non si scordi che l’Italia nel 1861 non era ancora che un simulacro; le mancavano Roma e Venezia, le veniva meno, cosa anche più triste, la speranza e l’ardire di presto acquistarle. Roma era serrata nel circolo vizioso dei voti della Camera e della Convenzione di settembre, che ne rimettevano la liberazione al doppio miracolo dei «mezzi morali» e del consenso della Francia; Venezia poteva, è vero, aspettare più fidente la fortuna d’una nuova alleanza; ma era sempre l’aspettazione del fato.
Ora un uomo che sorgesse protesta viva della volontà nazionale contro la lettera dei trattati e le ambagi della diplomazia, che fosse sempre pronto a [632] spingere il governo, se si arrestava, a scuotere la nazione, se intorpidiva; che serrando insieme l’Italia e la Francia nel dilemma implacabile: «Roma o morte,» rendesse sempre più accorti coloro che ci contendevano la nostra capitale, dei pericoli d’un più lungo rifiuto; un uomo simile non poteva mai dirsi senza un influsso benefico sui destini della patria sua, nè egli stimare del tutto compiuta la sua missione.
Oltre di che, e sta in ciò l’importante, quella propaganda, quell’agitazione, anche quelle rivolte, non erano che uno sfogo ed una distrazione offerta alla parte rivoluzionaria, la quale, o abbandonata a sè stessa, o caduta in potere d’altri capi, avrebbe assai probabilmente varcata quella barriera che il generale Garibaldi le impedì sempre d’oltrepassare.
E in ciò veramente si assomma l’opera benefica del grande patriotta negli estremi suoi anni. Egli gettò più volte in mezzo alla Nazione parole terribili, che potevano essere pericolosissimi tizzoni d’incendio, ma quando li vide prossimi a divampare in fiamme minacciose al sacro edificio della patria, egli stesso accorse pel primo e sotto il suo piede li soffocò.
Egli fu, finché visse, come un Dio Termine sulla strada della rivoluzione, innanzi al quale anche i più esaltati e temerari de’ suoi seguaci si sarebbero sempre arretrati. Tutto potevano dire, tutto potevano tentare, ma lui vivo il grido ultimo della discordia, il segnale irrevocabile della guerra civile non avrebbero osato darlo mai.
Il pensiero di Garibaldi è in questo rispetto limpidissimo. Prima l’unità, la concordia, la volontà d’Italia; poi, se vi sia posto, i sogni della sua mente. Si congiungano le parole che egli, reduce dal primo esiglio, indirizzava nel 1848 ai Nizzardi: «Tutti quei [633] che mi conoscono sanno se io sia mai stato favorevole alla causa dei re; ma questo fu solo perchè i principi facevano il male d’Italia; ora invece io sono realista e vengo ad esibirmi coi miei al Re di Sardegna, che s’è fatto il rigeneratore della nostra Penisola;» si congiungano con quelle ch’egli scriveva alla vigilia, staremmo per dire, della sua morte: «La Casa di Savoia ha fatto molto per la patria e merita rispetto. Ma quand’anche avesse fatto meno, ha la grandissima maggioranza degl’Italiani per sè, e il sentimento della maggioranza noi dobbiamo rispettarlo, perchè è la continuazione dei plebisciti. Volerlo disconoscere e combattere sarebbe accendere la guerra civile e quindi distruggere colle nostre stesse mani l’opera nostra;» e nell’esordio e nella conclusione di questo discorso, attraverso i contrasti, gli sviamenti, le alternative, che sono il portato necessario di tutte le grandi lotte, avrete riassunto da Garibaldi stesso il suo testamento politico.
E ciò non ostante resterà sempre dubbio se più della patria sua abbia amato le altrui. È questo il tratto più singolare e più radioso della sua immagine. Il patriotta s’immedesimava talmente in lui all’umanitario che era difficile il discernere quale dei due fosse il più vero e il più grande. Primo precetto della sua «Religione del Vero» egli stimava l’evangelico: «Non fare ad altri quel che non vorresti fatto a te stesso;[414]» e con questa norma nel cuore, l’indipendenza, la libertà, la felicità che voleva per la patria sua, le voleva per tutte le altre. Su questo proposito [634] la sua dottrina era di una semplicità biblica. Dio avea creato tutti gli uomini uguali e tutti i popoli fratelli, dividendoli in tante famiglie quanti i linguaggi, ed imponendo loro per dimora tante regioni distinte, di cui la natura stessa aveva, con linee eterne di mari e di monti, tracciati i confini. Soltanto la cupidigia e la nequizia di pochi uomini, nequitosissimi fra tutti i preti, violarono quei confini, tentarono confondere quelle lingue, falsarono il disegno di Dio. Ad essi perciò guerra perpetua: guerra anzi alla guerra, di cui essi pei primi gittarono il mal seme nel mondo. Sopprimere gli eserciti stanziali, primi alimentatori e provocatori della guerra, braccia sottratte al lavoro, sangue rapito alla vita economica delle società moderne, trasformandoli in una milizia volontaria, chiamata soltanto a difesa dei diritti e della libertà dei popoli: fondare una Unione Europea delle Nazioni «con un rappresentante per ciascuna, uno Statuto fondamentale, il cui primo articolo fosse: la guerra è impossibile, ed il secondo: ogni lite delle nazioni sarà liquidata da un Congresso:» proclamare l’unità dell’umana famiglia, cementandola, se fosse possibile, coll’unità d’una sola lingua mondiale;[415] ecco i sogni che l’Eroe incessantemente perseguiva [635] e da cui era egli stesso perseguito, e talvolta anche nel tumulto delle sommosse e il fragor delle battaglie, ma che egli era sempre pronto non solo a bandire e predicare, ma a suggellare col sangue.
Non una causa umana cui fosse indifferente; non una giusta rivolta a cui, anco non potendo colla spada, non partecipasse colla voce e colla penna; non un appello d’oppressi a cui non abbia risposto: presente.
Nel mezzo secolo da lui vissuto nell’uno e l’altro mondo, congiurano, insorgono, combattono, quali per la libertà, quali per l’indipendenza, Brasiliani, Platensi, Spagnuoli, Portoghesi, Polacchi, Ungheresi, Serbi, Rumeni, Greci, Jugo-Slavi, da ultimo anco i Francesi, e non uno di questi popoli che non abbia [636] ricevuto da lui, se non l’aiuto del suo braccio, un soccorso di armi, o di danari, un consiglio utile, una parola confortatrice ed amorosa, e spesso, inviati direttamente da lui, o mossi dall’influsso del suo apostolato, manipoli di valorosi che nelle più remote contrade propagano l’onore della camicia rossa e combattono e muoiono per la libertà dei popoli fratelli al grido di «Viva Garibaldi!»
Nè la sola causa dei popoli l’interessava. Il problema sociale l’occupava anche più del politico. Convinto più che mai che le disuguaglianze sociali fossero non già l’effetto d’una legge naturale, irrevocabile e fatale, ma il prodotto della perversità di pochi uomini o furbi o prepotenti, era contro la società in uno stato di guerra aperta e continua.
E non era un filosofo che meditasse le cause e gli effetti, nè uno statista che distinguesse i mali rimediabili dagl’irrimediabili, e ne apprestasse i provvedimenti e le leggi: era un plebeo, un paria, un diseredato che giudicava della società matrigna in cui si trovava sbalestrato dietro le impressioni del momento, secondo l’effetto più sensibile e più, staremmo per dire, drammatico che ne riceveva; secondo i criteri assoluti di chi vive solitario nelle proprie idee ed ignora la realtà.
La vista, a mo’ d’esempio, d’un signore in panciolle che passasse in carrozza dinanzi a un contadino sudante alla canicola, curvo sulla marra, gli strappava lo stesso gemito di rabbia, le stesso gesto di minaccia che il contadino stesso lanciava alle spalle del superbo gaudente. Credeva la società una lega dei forti contro i deboli, de’ furbi contro gl’ingenui, dei ricchi contro i poveri, e senza esitare un istante, in qualunque causa, stava istintivamente cogli ultimi.
[637]
Aveva per vangelo la onestà impeccabile dell’operaio, la bontà innocente del contadino, la brutalità feroce del padrone, la furberia rapace del mercante, la boria ignorante del nobile; e su questi criteri regolava i suoi giudizi. Credeva sul serio ai lauti stipendi della burocrazia, alle ricchezze ammassate dai ministri, ai sordidi traffici dei deputati, alle orgie sardanapalesche della Corte, a tutti i luoghi comuni della eloquenza tribunizia, con questa differenza tuttavia che i tribuni le ripetevano per convenzione e per mestiere; egli con tutta la ingenuità della fede e la profondità del sentimento.
Aveva insomma della società il concetto pessimista di Gian Giacomo, e come Gian Giacomo avrebbe voluto rinnovarla da cima a fondo per mezzo d’una revisione del suo patto fondamentale, cominciando naturalmente la riforma da sè stesso e dalla sua famiglia.
Come però queste idee non potevano essere accettate, od anche accettate in parte non potevano subito nè tutte in una volta essere effettuate, e il mondo continuava a girare sul suo vecchio asse senza curarsi dei sognatori che l’avrebbero voluto far andare a modo loro, così ad ogni nuova disdetta che la realtà dava alle sue dottrine, ad ogni nuovo disinganno che la società in generale o l’Italia in particolare gli facevano patire, il suo umore si faceva acre, il suo pessimismo peggiorava, la sua misantropia filantropica (sentiamo il bisticcio, ma a Garibaldi, che abborriva gli uomini perchè rifiutavano il bene che avrebbe voluto far loro, s’adatta a capello), la sua misantropia filantropica s’inaspriva, e, vero «burbero benefico,» sfogava la sua atrabile sulle spalle di coloro che amava di più e per la cui felicità s’affannava da mezzo secolo, ed era pronto ad ogni istante a dare la vita.
[638]
Questo, se non c’inganniamo, l’uomo pubblico; ma e l’uomo privato? L’uomo privato fu tale egli pure, che se anche non avesse compiuto alcuna delle azioni famose per cui diventò storico, sarebbe stato tuttavia un esemplare singolarissimo della specie umana, degno di tutto lo studio dello psicologo e dell’artista. Il biondo fanciullo che dipingemmo scorrazzante sulla riviera di Nizza; il bel Corsaro che vedemmo ammaliare la povera Anita alla fontana di Laguna; il trionfante Dittatore del 1860, che al suo apparire faceva squittire in coro le picciotte siciliane: Oh quant’è beddu! aveva serbato fino agli ultimi anni la sua maschia bellezza, una bellezza però tutta sua, lontana dal tipo comune della bellezza eroica e guerriera; originale e novissima essa pure.
Perocchè Garibaldi non poteva dirsi un «bell’uomo,» nel senso più usitato della parola. Era piccolo: aveva le gambe leggermente arcate dal di dentro all’infuori, e nemmeno il busto poteva dirsi una perfezione. Ma su quel corpo, non irregolare nè sgraziato di certo, s’impostava una testa superba; una testa che aveva insieme, secondo l’istante in cui la si osservava e il sentimento che l’animava, del Giove Olimpico, del Cristo e del Leone, e di cui si potrebbe quasi affermare che nessuna madre partorì, nessun artista concepì mai l’eguale. E quante cose non diceva quella testa; quanto orizzonte di pensieri in quella fronte elevata e spaziosa, quanti lampi d’amore e di corruccio in quell’occhio piccolo, profondo, scintillante, [639] che marchio insieme di forza e d’eleganza in quel profilo di naso greco, piccolo, muscoloso, diritto, formante colla fronte una sola linea scendente a perpendicolo sulla bocca; quanta grazia e quanta dolcezza nel sorriso di quella bocca, che era certo, anche più dello sguardo, il lume più radioso, il fascino più insidioso di quel viso, e che nessuno oramai il quale volesse serbare intera la libertà del proprio spirito, poteva impunemente mirar davvicino.
A questa singolar bellezza poi, che era già per sè sola una potenza, la natura, madre parzialissima a questo suo beniamino, aggiunse l’agilità e la forza; non veramente la forza muscolare dell’atleta, ma quella particolare forza nervosa che si rattempra e ingagliardisce coll’esercizio e che, associata all’agilità, rende capace il corpo delle più ardue prove e delle più arrischiate ginnastiche.
E che ginnasta fosse Garibaldi lo sappiamo da lui stesso. «Credo d’essere nato anfibio,» soleva dire per esprimere la facilità con cui fin dalla prima volta in cui si buttò in acqua si trovò naturalmente a galla. Abbiamo notato infatti le persone da lui salvate dall’acqua, e sono sedici: il che potrebbe bastare, anche non essendo Garibaldi, alla rinomanza d’un uomo.
E come nuotava, cavalcava, saltava, s’arrampicava, tirava di carabina, di sciabola, occorrendo di pugnale, senza che nessuno gliel’avesse mai insegnato, e avendone trovato soltanto nella struttura delle proprie membra e negli istinti della propria indole il segreto e la maestria.
Del suo corpo poi, come uomo che sa d’averne bisogno, era curantissimo. Egli non vestì sempre il costume con cui il mondo s’abituò a vederlo fin dal 1860. In America alternò, secondo i casi, il vestire [640] paesano del gaucho, la giacca del capitano di mare, e l’uniforme bianca, rossa e verde della Legione Italiana; venuto in Italia, se non era sotto le armi, nel qual caso tornava alla tunica rossa orlata di verde (non camicia per anco), al cappello piumato a larghe falde, al mantello bianco ed ai calzoni grigi instivalati; indossava un grosso soprabito abbottonato sino al mento, e fu con quello che noi lo vedemmo per la prima volta a Torino nel 1859.
Soltanto la mattina del 5 maggio comparve sullo scoglio di Quarto colla camicia rossa e il poncho sulle spalle; e sia stato amore di quell’assisa fortunata o certezza che quella foggia si attagliasse meglio d’ogni altra alla sua figura, non l’abbandonò mai più.
Ma anche più che all’eleganza del vestire, tenne alla nettezza della persona. Usava frequente bagni e lavacri d’ogni sorte; aveva delle sue mani, de’ suoi denti, de’ suoi capelli una cura attentissima; non avreste trovata sulle sue vesti, spesso logore e strappate, una sola macchia. Strano a dirsi come quel mozzo paresse un gentiluomo. Nel primo abbordo aveva quel non so che di semplice e decoroso insieme che è il primo incantesimo con cui tutti i grandi uomini pigliano di solito i minori. Non dava che del voi; tenne il tu per i figli e per i più vecchi e più intimi amici; e fuori che al Re non l’abbiamo sentito dare del lei a chicchessia. Nel ricevere porgeva egli per il primo famigliarmente la mano; alle signore, tanto più se onorande per età o per lignaggio, gliela baciava con galanteria di cavaliere.
Nei colloqui preferiva l’ascoltare al parlare, segno questo pure di cortesia aristocratica. Nelle cose minime, nelle questioni secondarie d’etichetta o di forma, quando si trattasse di rendere un servizio, di [641] liberarsi da un fastidio, o di concedere un favore, fosse colui che gli parlava ricco o povero, umile o potente, era d’un’amabilità e d’un’arrendevolezza affascinanti. E da ciò la sua troppa facilità nel concedere commendatizie ed attestati d’onestà e di patriottismo anche ai meno meritevoli, e l’abuso che tanti indegni poterono fare della sua parola e del suo nome. Ma in tutti gli argomenti a’ suoi occhi importanti, quando fosse in giuoco alcuna delle sue opinioni predilette, o degli affetti dominanti del suo cuore, allora il discorso cominciava a diventar difficile, e se l’interlocutore s’infervorava nelle obbiezioni, con una sentenza, un motto, talvolta una scrollata di spalle, troncava la disputa. Nel 1864 quando visitò Lord Palmerston in casa sua, avendo questi condotta la discussione sulla Venezia e tentato di fargli capire che la questione veneta era da rimettersi al tempo, alla Diplomazia, ai Trattati: «Ma che cosa mi dite, interruppe di scatto, chè non è mai troppo presto per gli schiavi rompere le loro catene,» e con una mossa subitanea piantò stupito e quasi a bocca aperta il suo eloquente contradittore.[416]
E ciò sganni una buona volta coloro che, non sappiamo con quali fini, si son sempre finto un Garibaldi automa senza idee e senza volontà, e di cui i pochi furbi che l’accostavano potevano a lor grado guidare i movimenti e far scattare le molle. Delle idee [642] ne aveva poche, ma tanto più tenaci quanto più avevano trovato libero il campo dello spirito in cui abbarbicarsi. Discutere con lui era anche per quelli che più stimava ed ascoltava, la più ardua e più erculea delle imprese. Era una sfera d’acciaio brunito che non lasciava presa d’alcuna parte. Francesco Crispi, nel di lui elogio funebre alla Camera dei Deputati, disse: «Non ci fu uomo che sia stato come lui forte nelle sue volontà; egli fece sempre soltanto quello che volle, ma non volle che il bene d’Italia,» e questa affermazione d’un testimonio che gli fu al fianco nei più gravi momenti della patria, ci dispensa dal dirne di più.
Le maniere gentili traevano risalto dai costumi semplici. Pochi uomini più di lui furono nel bere più sobri, nel cibo più parchi. Fino agli ultimi anni, in cui il vino gli fu ordinato quasi per medicina, bevette sempre acqua e dell’acqua migliore si pretendeva buon gustaio finissimo, e l’assaporava, e la decantava talvolta ai commensali, che non erano sempre del suo gusto, come il più prelibato de’ nettari. Quanto alle vivande, mangiava poca carne, anche per un residuo di scrupoli pittagorici che non aveva mai saputo vincere; prediligeva il pesce, i frutti e i legumi. Un piatto di fichi e di baccelli lo metteva d’appetito meglio d’un fagiano tartufato! Il pesce godeva, quand’era sano, pescarselo da sè; e allora due o tre volte la settimana, al pallido lume di Venere-Diana, presi seco or l’uno or l’altro de’ suoi figli e per turno questo o quello de’ suoi compagni di Caprera (quasi sempre, nel 1854, anche lo scrittore di questo libro), scendeva in canotto, ed ora al largo, ora nei seni più pescosi di quella pescosissima marina, passava tal volta coll’amo, tal altra coi filaccioni, quasi mai colle [643] reti, l’intera mattinata, tornandone, rare volte, a mani vuote, quasi sempre con tanto di preda da fornire il desinare a lui e a tutta la colonia.
Ma la sua passione predominante fu l’agricoltura. «Di professione Agricoltore,» scriveva egli stesso sulla scheda del Censimento del 1871, e non aveva mentito. Un terzo della Caprera fu ridotto fruttifero per molta parte del lavoro sudato della sua fronte, o colla scorta de’ suoi precetti e per impulso della sua volontà.
La prima sua opera era stato un vigneto sopra un piccolo altipiano, a metà via tra la sua casa e Punta Rossa, ma quantunque l’uva, tutta bianca, ne fosse squisita, la vendemmia non compensò mai la fatica e la spesa. Più tardi, già preoccupato del problema del pane quotidiano, volle tentare la coltura dei cereali, e ridusse a frumento un quadrato di forse quattro ettari; ma qui pure, per colpa non del cultore, ma del terreno, il frutto non corrispose al dispendio.
Ma il suo vero amore, era il podere modello di Caprera, era il Fontanaccio. Esso pure, fino al 1859 non era che dura roccia, e d’anno in anno ci fece la vite, il fico, il pesco, il mandorlo, il fico d’India, e, sebben più sensibili alle sferzate di grecaio, gli agrumi.
E colà ogni mattina, per lunghi anni, coperto il capo da un cappellone a larghe falde, in camicia rossa sempre, armato di coltelli e di forbici agricole, di cui gran parte portava appesi ad una cintura, passava le lunghe ore a potare, sfrondare, innestare; lieto fin che lo lasciavano solo, rannuvolato tostamente se un visitatore importuno, se un telegramma malarrivato, venivano ad interrompergli il piacere di quelle gradite occupazioni.
Nè agiva empiricamente. Nella sua biblioteca i [644] Trattati d’Agronomia abbondavano, e parte col sussidio dei libri, parte col consiglio di questo o quell’agronomo, che metteva subito nel novero de’ suoi amici, parte coll’aiuto del suo ingegno, naturalmente incline a tutti gli studi fisici, s’era formato un corredo di idee scientifiche e razionali, che certo molti de’ più grossi agricoltori d’Italia non hanno mai posseduto.
Epperò fece venire d’Inghilterra macchine agricole, aprì fosse di scolo per dar esito alle acque piovane, sanò dalle sotterranee i terreni più plastici, sostituì alla rotazione dodicennale la coltura più intensiva delle alberate e degl’ingrassi e agli ingrassi provvide coll’allevamento del bestiame; (ebbe persino centocinquanta capi di armento bovino e quattrocento d’ovino); a poco a poco fornì quel suo podere, strappato zolla per zolla alla breccia ed al granito, di tutto quanto la scienza ha indicato di più acconcio alla sua coltura; e stalle e concimaie e capanni per marcimi e lettimi, e colombaie e alveari e via dicendo; e si rovinò del tutto. Garibaldi non fu mai ricco; ma i suoi pochi risparmi fatti in America, le eredità fatte dai fratelli, i denari ricavati dai ricchi regali mandatigli, i denari stessi donatigli o prestatigli dagli amici di tutto il mondo; tutto andò a finire nel pozzo senza fondo di Caprera, che non restituì mai al suo innamorato cultore nemmeno il salario quotidiano delle fatiche che per circa venti anni le aveva spese d’attorno.
Ma non sempre poteva stare nei campi; e i giorni di pioggia e di vento, o i più crudi dell’inverno, li passava in casa, seduto quasi sempre, dopo il 60, di faccia alla terrazza della casa nuova che guardava il mare, intento alla lettura e alla scrittura. Lesse molto e un po’ di tutto; ma nessuno vorrà dirlo per questo un [645] lettore portentoso. Dei libri, già dicemmo quelli che prediligeva: gli storici principalmente di Grecia e di Roma; i trattati d’Agronomia e di Matematica; e sopra a tutti, i poeti; e fra questi, come è noto, Ugo Foscolo degli italiani; Chenier e Voltaire fra i francesi. Negli ultimi anni s’era preso d’amore per Guerrazzi e Vittor Hugo; due autori non fatti certamente per temperargli la fantasia, e per la Storia dell’Italia antica di Atto Vannucci, di cui citava intere pagine anche ne’ suoi romanzi; ma diletto fra tutti, compagno inseparabile delle sue veglie, primo confidente del suo spirito, il Carme dei Sepolcri, di cui gli trovaron presso il letto di morte aperto il volume.
Nello scrivere invece inesauribile, infaticabile, e rispetto a tante altre cose che faceva, prodigioso. E non diciamo delle sue lettere, testimoni troppo eloquenti della scorrevolezza della sua penna; ma egli scrisse, in vecchiaia, tre romanzi: Clelia o il Governo del Monaco; Cantoni il Volontario e I Mille di Marsala; e da molti anni aveva intrapreso a scrivere in versi sciolti la storia della sua vita, e noi stessi, nel 1864, ne udimmo parecchi squarci dalla sua bocca. Intralasciato poi, per qual ragione non sapremmo dire, questo lavoro, riprese lo stesso tema in prosa, scrivendo le sue Memorie, dal giorno in cui le lasciò nel 1850, fino, crediamo, alla campagna di Francia. E queste Memorie, ci consta nel modo più certo, egli le affidò, or sono quattr’anni, in una cassetta chiusa, al figlio Menotti, coll’ordine espresso di non mostrarle finchè fosse vivo ad alcuno, e soltanto trascorso un certo termine dalla sua morte, pubblicarle.[417]
[646]
Mescolate poi alle Memorie autobiografiche, si trovarono fra le sue carte, e si troveranno anche più quando si spoglino tutte, pensieri staccati, frammenti di problemi, appunti, studi fisici e matematici;[418] [647] persino uno specchietto dei conti di casa, che non oseremmo affermare tornassero perfettamente.
[648]
Infine, poeta nell’anima, cui non era forse mancato per esserlo anche nell’arte, che il tirocinio degli studi e l’esercizio della tecnica, e poesia vivente egli stesso, non seppe resistere mai alle tentazioni d’una certa sua musa bizzarra e selvaggia che le si era annidata nel cervello, ed empiva quaderni di versi, di cui talvolta l’udimmo noi stessi recitarne lunghi brani, talchè non ci meraviglierebbe che un giorno sbucasse fuori dalle sue carte anche un Canzoniere.
E non solo in versi italiani[419] scriveva, ma spesso in francesi, come ne ha già fatto testimonianza l’inno di guerra composto in Francia e recitato durante l’assalto notturno di Dijon; e ne fa conferma lo squarcio di questo Carme, scritto a Vittor Hugo nel 1867, in risposta della sua Voix de Guernesey, rovente ancora delle collere recenti di Mentana e dove, in mezzo al rombar monocorde delle tribunizie invettive, senti echeggiare qua e là, fieri e solenni, i giambi del Barbier.
Quand plus heureux jadis, aux champs de Parthénope,
Mes jeunes miliciens ont étonné l’Europe,
Essuyant leurs pieds nus sur le tapis des rois,
Donnant à leur pays ce qui fut tant de fois
Le rêve, le soupir, l’espoir de nos ancêtres,
Crois-tu qu’ils ont servi, combattu pour des maîtres?
L’amour de la patrie fut leur seule passion,
[649]
Et de l’humanité libre la mission.
Ce n’est pas vrai qu’aux rois nous ayons fait l’aumône;
Nous servions l’Italie, nous ne servions personne.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Si de l’Europe alors la phalange d’élite
Avait de son appui encouragé de suite
Les nouveaux Argonautes en leurs braves élans,
Le Lucifer de Rome avait fini son temps;
Le monde était guéri de la lèpre infernale,
Et l’horrible mensogne, à son heure fatale,
Aurait du despotisme accéléré le sort!
Mais les nations toujours ont le terrible tort
De laisser une sœur seule dans la bataille,
Seule des potentats affronter la mitraille!
Eux, ils sont bien unis, à l’heure du danger;
Et les peuples, jamais ne sauront partager
Le péril en commun pour la cause commune?
De l’humaine famille à la sainte tribune
On entendit la voix de la noble Albion
Imposant fièrement: «Pas d’intervention!»
Seule! et l’on vit alors le superbe despote
Reculant sans réplique au devant du grand vote,
Aller chercher ailleurs des peuples à duper,
Des tyrans à produire, et le monde à tromper.
Mais la liberté sainte, au sein de l’Amérique,
Oh! n’est pas un vain mot, et le sol du Mexique
Sera longtemps fécond par le sang des Français.
L’Américain, de maîtres, il n’en voudra jamais!
Bons pour nous, surannés, remplis, pétris de vices,
Serviteurs de nos rois, agents de leurs polices!
Ils ont trouvé la voie de nous tromper toujours,
Par leurs statuts masqués, par leurs prêtres, leurs cours,
Des marches de l’autel, où le clergé-mensogne
Nous montre le salut. C’est hideux, quand j’y songe!
Nous courons aux tribunes, où nos sages parleurs,
À force de grands mots, nous dorent nos malheurs.
Le mouchard, l’alguazil, sont décorés, sont maîtres;
Il faut, pour prospérer, être serviles ou traîtres;
Le sang de nos enfants sert à river nos fers;
La superstition, ce monstre des enfers,
Plane encore sur le monde, et, comme l’hydre antique,
Ressuscite toujours dans l’affreuse boutique
Du prêtre, et le tyran, dont elle est le soutien,
[650]
De sa fausse piété nous montre le maintien.
De l’or des nations on construit la mitraille,
Les instruments de mort: et le champ de bataille
Est toujours des humains l’arène, où de leurs droits
Au jugement du sabre ont appelé les rois.
Ton pays et le mien, par un vil servilisme,
Sont courbés lâchement sous l’impérialisme
Par qui nos champs sont clos et nos sillons blanchis
Des os des malheureux que le monstre a trahis
Avec les vains appâts de conquête, de gloire.
Le monde est un charnier dont il dore l’histoire.
«L’empire c’est la paix,» dit-il, le vieux menteur,
Tandis que de la guerre il est l’instigateur.
Toujours, toujours poussant les peuples au carnage,
L’Europe n’a suffi pour contenter sa rage.
Oh! de l’humanité, quand ce cœur malfaisant
Aura cessé de battre, on verra reparaître
Le fraternel amour, les vertus, le bien-être;
Et de la liberté le soleil radieux
Des nations trompées dessillera les yeux.
Caprera, décembre 1867.
G. Garibaldi.[420]
* * *
Ma il gusto della vita solitaria stringe l’uomo a tutto ciò che lo attornia, e l’amore della natura lo inclina ad amare tutto ciò che essa produce. Da ciò quella gentilezza d’affetto che il nostro Eroe ebbe sempre per le piante, gli animali, per tutti gli esseri coi quali per una ragione o per l’altra si trovò a contatto o convisse. E l’estremo episodio delle due capinere è troppo recente e vivo nella memoria, perchè sia mestieri addurlo per una prova di più. Soltanto egli si rendeva conto di questo suo sentimento: nell’arcano fascino che esercitava su di lui la natura, cercava una dottrina, anzi una fede; nell’amorosa corrispondenza [651] che sentiva correre tra lui e le cose, scopriva una prova che le cose stesse fossero dotate d’un’anima pari alla sua, raggio a sua volta dell’anima dell’universo, e nella quale, traendo facilmente le ultime illazioni da questa specie di panteismo sentimentale, sentiva e adorava Dio.
E perchè di questo non si dubiti, si legga questa pagina, crediamo interessantissima, delle sue Memorie.
L’ANIMA.
«Io ho veduto mia madre in sogno. — Io ho veduto mia madre — sveglio! — L’amore della mia genitrice non merita esso che in qualche momento della mia vita — il mio pensiero si rivolga ad essa? — Essa che fu così buona — così affettuosa per me — così indulgente! Dunque mia madre in molte circostanze mi si è presentata — anche sveglio! Sì, anche sveglio! — perchè pensando a quella carissima creatura anche in pien meriggio — mi par di vederla sotto quella sua semplice veste — sorridermi col sorriso degli angioli. — E l’immateriale corrispondenza degli occhi dell’anima non è forse prova sufficiente dell’immortalità della stessa? questo per la madre mia — potentissimo affetto! Ma non amo io pure il mio cavallo, il mio cane, le mie piante? Quando nella mia vita nomade dell’America — dopo una lunga marcia, e dopo un giorno di pugna — io spogliava de’ suoi arnesi il mio povero stanco cavallo — e lo palpava e lo asciugava del sudore — e rare volte io potevo regalare al mio fedele compagno — un pugno di biada, — poichè nei campi illimitati di quella parte del mondo, per l’abbondanza dei pascoli, ossia per la poca abbondanza di cereali non si dà ordinariamente biada ai cavalli, — e dopo d’averlo accompagnato all’acqua lo collocavo accanto al mio giaciglio — ebbene, dopo tutto ciò che non era altro che un dovere verso il mio compagno di fatiche e di pericoli — io mi sentiva soddisfatto. Se poi un nitrito del rinfrancato mio [652] compagno si aggiungeva, e lo vedevo ravvolgere le stanche membra sulla verdura del campo — oh! allora sentivo la gentil voluttà d’esser pio.
»Il mio cane Castore, che nel 1849 mi seguiva in Tangeri, ov’io ero proscritto — io lo amavo perchè nella sventura e nell’isolamento — ov’io ero rigettato dalla fortuna — e dalla codarda malvagità di certi uomini — mi sembrava di sentire più intenso l’affetto de’ miei superstiti. Il mio cane, dovendo partire per l’America, era mestieri lasciarlo — e lo lasciai al mio amico Murray, console inglese. Il mio povero Castore! pianse per varii giorni la separazione dell’ingrato amico — e senza voler prendere cibo morì di crepacuore. — Ebbene — io amo e ricordo il mio cane commosso. E le mie piante — quelle piante ch’io seminai — che ho veduto nascere — e che piccine ho trapiantato in collocazione migliore. Quelle piante nei calori estivi — sull’arida terra di Caprera languiranno di siccità — e così languide penderanno le loro foglie appassite verso il suolo.
»Io con premura innaffiava le mie care piante e a poco a poco si rialzavano dal loro abbattimento e sembravano gettarmi un sorriso di gratitudine. L’anima delle povere piante era in corrispondenza colla mia, come lo sono quando gettato in questo pelago di miserie — lontano da esse — ad esse rivolgo il mio pensiero e mi sento deliziosamente sollevato.
»Egli è il Signore dei cedri del Libano — come dell’issopo che cresce nelle più profonde convalli (Massillon)!
»E perchè sarò io geloso della farfalla — assai più di me bella — se piacque all’Onnipotente di dotarla di un’anima? Non bastava la mia scintilla animatrice per costituirmi parte dell’anima dell’Universo — parte dell’Infinito — parte di Dio? — come lo è la scintilla che vivifica la formica ed il rinoceronte?[421]
»Ignorati da mille passate generazioni — miriadi di mondi rotavano nello spazio — e l’occhio scintillante di Galileo li scopriva e li svelava all’uomo maravigliato. L’onda e [653] l’aria esplorate dalla scienza hanno rivelato all’atterrito osservatore tale numero di esseri viventi ignorati sinora, da fare impazzire le maggiori intelligenze. L’elettrico solca lo spazio colla celerità del pensiero. E chi può limitare i tesori concessi da Dio all’uomo — nei portentosi suoi misteri?
»E l’anima che noi presentiamo — che noi vediamo coll’occhio dell’immaginazione — che noi scorgiamo sino nell’impercettibile aereo abitatore — l’anima — è dessa forse al di là o al di qua della barriera innalzata dall’Eterno all’umana intelligenza? Comunque sia — l’anima mia — è un atomo dell’anima dell’Universo — e questa credenza mi nobilita — m’innalza al di sopra del miserabile materialismo — m’infonde rispetto per gli altri atomi, emanazioni di Dio, e mi spinge a meritare il plauso delle moltitudini degli atomi che mi somigliano — e che coll’esempio — più che colla dottrina — devono far bene — perchè appartengono per essenza all’Eterno Benefattore.»
In uomini siffatti gli affetti domestici sono potenti: e di quanta religione abbia amato la madre sua, di cui portava dovunque nella sua odissea l’immagine, che rivedeva in sogno come persona viva, nelle preghiere della quale credeva come ad un talismano, lo sappiamo; e da qual passione d’amore sia stato avvinto alla sua Anita narrammo a lungo, per non aver mestieri di dirne più. Così avesse potuto serbar fede a quel suo primo bello eroico amore; ma la natura non potè dargli tutte le perfezioni; anzi gli pose nel sangue più acre e imperiosa che mai l’imperfezione della sensualità.
E qui ripetiamo una parola detta fin da principio in questo libro: la cronaca degli amori di Garibaldi non è tema per noi. Soggiungiamo soltanto, poichè c’è in Caprera una lapide di cui tutto il mondo in quest’ultimo mese ha ripetuto l’epigrafe, che l’Anita [654] Garibaldi, sulla di cui tomba si legge: «Nata il 5 maggio 1859, morta il 25 agosto 1875,» non è figlia della signora Francesca Armosino; essa è figlia d’una signora nizzarda, conosciuta da Garibaldi in quel periodo tra il 1856 e il 1857, in cui navigava ancora su e giù da Nizza a Caprera; una signora nizzarda di civile condizione, che vive tuttora, e sembra angustamente, nella sua città natale, e della quale, per questo appunto, stimiamo dover nostro non gettare in pubblico il nome.[422] Perchè poi abbia sposato la Raimondi e non quella signora da lui resa madre, ed abbia creduto doveroso legittimare Manlio, Clelia e Rosita e non l’Anita, figlia essa pure, al pari di tutti i suoi fratelli, dell’amore, è uno di quei problemi che la storia non può risolvere, e fa bene a non approfondire. Perchè si ami e non si sposi; si sposi e non si ami; si cessi d’amare dopo aver sposato, sono enigmi del cieco iddio, di cui nessun mortale tenne finora le chiavi.
Lasciamo Garibaldi col fardello de’ suoi peccati amorosi innanzi a quel tribunale in cui si giudicano insieme i fatti e le intenzioni, le attenuanti e le aggravanti, e facciamo noi stessi, noi uomini di questo secolo XIX, medicus aliorum, ipse ulceribus scatens, facciamo il nostro esame di coscienza. Garibaldi ebbe delle amanti! ma qual meraviglia? Non tiriamo in campo il solito paragone escusativo dei grandi uomini (donnaiuoli superlativi quasi tutti), perchè anche parlando solo degli Italiani s’andrebbe all’infinito. Chiediamo piuttosto al pudico lettore che si scandalizza, alla vereconda damina che s’imporpora, se una scivolata [655] fuori dalla diritta rotaia degli amori legali non l’abbian fatta mai. Probabilmente entrambi, dopo una abbassatina di testa che varrà una confessione, scapperanno fuori in coro con questa risposta: sì, ma senza scandalo. Era da attendersi: si non caste, saltem caute. Soltanto si potrebbe replicare: se lo scandalo non sia avvenuto perchè essi seppero destreggiarsi con arte ed astuzia maggiori di quelli che nello scandalo incapparono, o perchè, non avendo intorno alla loro persona l’incomodo riverbero di alcuna celebrità, nessuno s’è occupato dei fatti loro. E forse, posti innanzi a questi due quesiti, tanto il benigno lettore, quanto la gentile lettrice non saprebbero quale risposta profferire.
Garibaldi invece, cattivo cospiratore anche nelle congiure d’amore, operò alla piena luce del sole; non nascose mai nè quello che sentiva, nè quello che voleva: «Ti amo, mi piaci, ti voglio,» disse alla sua donna, e se la donna assentì, animale di preda, mai di frode, la rapì nelle sue braccia, e la fece sua.
E v’ha di più. Qualunque più franco e più ardito amatore avrebbe potuto avere la probabilità di nascondersi; Garibaldi no.
Per quasi mezzo secolo, gli occhi del mondo restarono sbarrati su di lui: egli non potè dare un passo, fare un gesto, pronunziare un detto, comparire o scomparire da un luogo, essere accompagnato o no da una persona, che migliaia di sguardi non fossero già appostati a sorprenderlo, e migliaia di migliaia di voci a denunziarlo.
È la sorte degli uomini storici. Tutti sanno a mente le tredici mogli di Cesare; nessuno sa quante volte al giorno il liberto entrava i lupanari della Suburra.
[656]
Così di Garibaldi! Se egli fosse stato un ignoto, la storia delle sue mogli e de’ suoi figliuoli, in mezzo alla grande babele erotica del nostro secolo, sarebbe trascorsa inosservata; mentre è quasi certo che il tempo, consumate le ultime scorie che ancora involgono la statua dell’Eroe, la seppellirà nell’oblio.
Comunque, nessuno, per quanto faccia, potrebbe sostenere che Garibaldi sia stato, nello stretto senso della parola, un libertino.
Un uomo che ebbe una gioventù affaticata e combattuta come la sua, ed una vecchiezza, nonostante i tanti acciacchi, così resistente e così prolifica, non può aver abusato della voluttà. Condannato egli pure ai tormenti del deserto, non macerò le sue carni come i Padri della Tebaide, ubbidì egli pure alla umana fragilità; ma non permise a una tale ubbidienza di convertirsi in abito vizioso e molto meno di degenerare in colpa. Egli non fu un volgare Don Giovanni. Figlio schietto e tuttora indomito della natura, amò con tutta la subitaneità fulminea e l’abbandono innocente del selvaggio, che non avverte i freni e ignora le leggi onde la società civile modera e disciplina ad un più alto fine gli istinti e le passioni umane; ma appena la satanica scintilla divampò nel suo petto, non la nascose, non s’infinse, non si mascherò, non sedusse con volgari inganni e con mendaci promesse alcuna donna, non fece delle conquiste d’amore una gloriola o un mestiere; non eccitò con turpi artifici le spossate satiriasi della sua senilità: amò con tutto il foco naturale de’ suoi sensi, con tutto l’impeto del suo cuore; promise alla donna da lui prescelta quello soltanto che sapeva di poter mantenere, e mantenne; tre volte giurò di farla sua sposa innanzi agli altari, o in faccia ai magistrati che la legge religiosa e civile [657] del suo tempo o del suo paese prescrivevano, e tre volte tenne il giuramento.
E a dir vero, in questo secoletto di pudichi adulterii, di frolli concubinati, di bastardini abbandonati, di nozze mercantili, di George Dandin tolleranti e di monsieur Alphonse tollerati, non toccherà a Giuseppe Garibaldi, che si affanna e lotta dieci anni per dare il nome alla donna che amò, non toccherà a lui, innanzi alle Assisie della Morale pubblica e privata, d’abbassare la fronte.
Ed ora chi è quest’uomo?
Nasce nella oscura casipola d’un porto da una famiglia di umili marinai, e già immortale prima della morte, migra dalla terra cogli onori d’un Re ideale, nella gloria d’un’apoteosi olimpica, lasciando dietro a sè piuttosto la tristezza d’un astro che s’allontani per salire ad una sfera più fulgida, che il dolore d’un uomo che muoia.
Trascina la giovinezza in una faticosa vicenda di monotone navigazioni e di travagliati esigli; e ad un tratto irrompe dalla sua penombra coi fulgori d’un’apparizione fantastica, e di grado in grado ascendendo giganteggia nell’arena del nostro secolo come uno de’ suoi più portentosi figliuoli.
Sbalestrato dall’Oriente all’Occidente, volta a volta pedagogo e corsaro, mandriano e guerrigliero, agricoltore e capitano, candelaio e dittatore, la sua vita si svolge nel ciclo di tre generazioni con tutte le varietà e i contrasti, le sorprese e gli incantesimi d’un [658] poema ariostesco, mentre colla fusione della storia e della leggenda, della realtà e della poesia sembra risuscitare la classica unità della omerica epopea.
È un corsaro; ma comincia il suo byroniano romanzo liberando gli schiavi neri trovati a bordo della nave predata e rifiutando dai mercanti prigionieri gli scrigni di gemme che gli offrono per il loro riscatto.
È un filibustiere; ma una volta, cadutogli nelle mani colui che sei anni prima gli aveva inflitto l’oltraggio anche più che il dolore della tortura, lo rimanda libero e perdonato.
È un avventuriere; ma, lo diremo colle stesse parole del generale Pacheco, «se recavasi negli uffici del Governo era soltanto per domandare la grazia d’un cospiratore, o per chiedere qualcosa a favore d’un infelice.»
È un condottiere; ma non riceve altro soldo dal paese a cui consacra da dodici anni la vita, che la razione del gregario: distribuisce fra i feriti, gli ammalati e le vedove dell’esercito il primo regalo che la Repubblica gli fa; rifiuta i gradi e gli onori che essa gli offre; e di fatto, se non di nome, Generale Ammiraglio, quasi Dittatore, non possiede che una camicia, i piedi gli sboccano dagli stivali sfondati, e non ha tanto da pagare il lume del povero abituro in cui si ricovera.
Lo immaginano un fiero lupo di mare e di terra, ispido e coriaceo, vago soltanto degli spettacoli sanguinosi delle cariche e degli arrembaggi; eppure l’uomo che nel saladero di Camacua con soli tredici compagni sfidava, cantando, l’assalto di trecento cavalieri e accettava di seppellirsi tra le fiamme e le rovine del suo fragile asilo piuttosto che arrendersi, o che nelle acque del Paranà dopo tre giorni di lotta [659] «a ferro freddo,» piuttosto che ammainar la bandiera, faceva saltar egli stesso l’ultimo legno della sua flottiglia; era lo stesso che in un giorno di battaglia marciando contro il nemico s’arrestava, dimentico, ad ascoltare il gorgheggio d’un usignolo innamorato, e che udendo in una cruda notte d’inverno belar tra le rupi della sua Caprera un’agnella abbandonata, s’alzava di letto per andare, tra il rigor del libeccio ed il frizzar di brumaio a cercare la derelitta e ospitarla nella sua medesima stanza.
Lo acclamano infine l’Ettore di Montevideo, il Camillo di Roma, l’Argonauta di Marsala; ma l’uomo a cui poteva parer poca gloria la statua di Giove Ultore che dall’alto del Gianicolo assicura il Quirinale e sfida il Vaticano, non chiede all’Italia, non invoca dalla sua famiglia altro pegno d’amore che di dormire poca cenere in un’urnetta di granito, accanto al sarcofago delle sue bambine, sotto l’acacia che l’ombreggia; novissimo fantasma d’eroe che non potendo morire come Orlando sulla catasta dei nemici, muore come Washington, decretando a sè stesso il «rogo di Pompeo.»
Chi è dunque quest’uomo? Costretto a vivere la vita nomade e quasi selvaggia dei gauchos e dei rastreadores; mescolato dalla sua fortuna alla schiuma degli avventurieri e dei fuorbanditi di tutte le stirpi, cresciuto suo malgrado alla scuola delle rivoluzioni e delle guerre perpetue, travolto a controgenio nella mischia di fazioni feroci e sanguinarie, conserva intatta in mezzo a tanto contagio la nativa purità dell’anima sua, riportando dal forzato consorzio qualche difetto e qualche stranezza, non un solo abito vizioso nè un solo sentimento colpevole.
Braccio designato di tutte le congiure, campione [660] atteso di tutte le rivolte, alfiere desiderato di tutte le parti; si consacra a tutte, ma non serve a nessuna, e nel tumultuante pandemonio delle chiese, delle confessioni, delle sette del suo tempo, si innalza come un Pontefice a cui tutti si volgono e s’inchinano, e che nessuno può dir suo.
Ama dell’amore geloso e intollerante del selvaggio la sua patria, e va cavaliere errante di tutte le patrie e crociato di tutte le libertà. Proclama la fratellanza dei popoli, ma ad ogni straniero che s’accampi entro il sacro confine della sua terra, grida minaccioso lo sfratto del poeta:
Ripassin l’Alpi e tornerem fratelli.
Si protesta repubblicano, ed offre due volte la sua spada a due re. Resta democratico rivoluzionario socialista; ma partendo per la più maravigliosa delle sue imprese riconsacra sulla bandiera il patto d’Italia con Vittorio Emanuele e la monarchia dei plebisciti.
È un Dittatore onnipotente per la gloria e la fortuna, e festeggia egli stesso l’arrivo del Re e dell’esercito che vengono a spodestarlo; e fatto nascostamente bottino d’un sacco di civaie, colla ricchezza di questa preda, colla gioia di chi perdendo il potere ricupera la libertà, dispare novellamente nella solitudine del suo mare.
È un ribelle, e scrive sulla bandiera il nome del Re a cui si ribella; poi ferito e imprigionato da lui, continua a restargli fedele, e per la causa per cui era caduto di palla italiana sul colle d’Aspromonte, cade di palla austriaca a piedi di Monte Suello.
È un Belial, un Lucifero, un Dragone; sfolgora la grande simonia del Poter Temporale colle invettive di Dante, e odia la Chiesa Romana dell’odio di Lutero; a [661] sentirlo si direbbe che sia pronto a cominciar da un istante all’altro una Saint-Barthélemy di cattolici, e se incontra uno di quei preti ch’egli chiama buoni, è il primo a stendergli la mano, e crede ancora alla possibilità d’un clero evangelico, amico della libertà e del progresso; e cerca nelle parole di Cristo i precetti della Religione del Vero, e confida alle sue Memorie la sua fede in Dio e nell’anima immortale.
Chi è dunque quest’uomo?
Vittor Hugo, il Garibaldi della lirica, lo chiama «l’eroe dell’ideale,» ma è un responso apollineo: Giulio Michelet esclama: «Degli eroi non ne conosco che uno: Garibaldi;» ma l’iperbole tradisce la difficoltà del giudizio: Giorgio Sand scrive: «Garibaldi non assomiglia a nessuno, pure v’è qualcosa in lui di misterioso che fa pensare;» ma in tal modo ripropone il problema, non lo risolve. Una delle più celebrate effemeridi della Gran Brettagna l’Athenæum[423] tenta seriamente di trovare in lui l’incarnazione del veltro allegorico:
Questi non ciberà terra nè peltro
Ma sapienza ed amore e virtute;
ma con ciò non fa che addensare sulla fronte del Proteo le nebbie del più oscuro simbolo dantesco.
I partiti se lo palleggiano; i repubblicani lo contrastano ai monarchici; i rivoluzionari lo levano al cielo; i reazionari lo inabissano nel fango; i preti di Sicilia lo annunziano dai pergami come un nuovo Messia, i preti di Roma lo folgorano d’anatemi come un Anticristo; la rettorica consuma tutte le sue metafore; l’amore profonde tutti i suoi inni; l’idolatria [662] esaurisce i suoi incensi; l’odio erutta tutte le sue bestemmie; la critica stanca i suoi occhi e la filosofia i suoi ragionamenti; ed egli, al pari della favolosa Jungfrau, di cui a tutti è concesso ascendere i fianchi e superare le prime vette, ma a nessuno toccare la cima, ravvolta nell’intatto velo delle nevi eterne; egli nasconde ancora la parte più alta e più pura di sè stesso, e dalla sua solitaria rupe continua a sfidare i definitori e gl’interpreti.
Ancora una volta: chi è quest’uomo?
Il lettore rammenta certamente quell’apparizione quasi fantastica del secolo XVIII che fu chiamata l’uomo di Rousseau. Prediletto figlio della natura, dotato delle più nobili facoltà, più ricco d’istinto che di ragione, e più di sensibilità che di riflessione, uscito più che a mezzo dallo stato di barbarie, ma ancora esitante sul confine della civiltà, e portando sempre seco in tutti i passi della sua vita le abitudini, i gusti e i ricordi della nativa selvatichezza; cresciuto nella fede che la natura abbia creato l’uomo virtuoso e felice, e la società sola l’abbia fatto colpevole e infelice; carezzato dal sogno d’una età reditura di perfezione e di felicità, da cui non già le colpe sue, ma la prepotenza di pochi malvagi l’abbiano sbandito; educato a vedere in un ipotetico contratto sociale, quando e come scritto non si saprebbe, il patto leonino del più astuto o del più forte imposto al più dabbene e al più debole, l’uomo di Gian Giacomo, quantunque non corrisponda ad alcuna realtà storica e sia manifestamente il portato di un erroneo concetto, rappresenta ancora in una figura simbolica quella lotta antica e perenne della società e della natura, dell’ideale umanitario, e dell’ideale politico, d’onde uscirono ed usciranno in perpetuo, insieme alle periodiche convulsioni [663] del genere umano, i periodici progressi del suo incivilimento.
Agli occhi dell’Adamo ginevrino la natura è la madre, e la società è la matrigna; da quella la cornucopia di tutti i beni, da questa il vaso di Pandora di tutti i mali.
Dio si rivela da sè stesso alla coscienza umana nelle opere della sua creazione, nei beneficii della sua provvidenza, e la società ne oscura il limpido concetto colla fola delle religioni, le superstizioni dei culti, il mendacio de’ sacerdoti. La terra fu concessa dal Creatore per stanza e nutrimento di tutti i suoi figli, e la società sancisce l’usurpazione del più forte e il furto della proprietà. La natura creò dal suo grembo tutti gli uomini uguali, e la società vi sostituisce la superfetazione dei privilegi e delle caste. La natura largì a tutti i cuori i diritti del libero amore, e la società li sconosce o li violenta coll’imposizione delle nozze artificiali e indissolubili. La natura donò alle arti pacifiche e benigne dell’uman genere il fuoco de’ suoi soli, i metalli delle sue viscere, la scintilla de’ suoi corpi, tutte le arcane potenze de’ suoi elementi, e l’egoismo o l’ambizione di pochi privilegiati convertirono tutte quelle forze benefiche in istrumenti di distruzione e di rovina. La natura infine scrisse nell’anima d’ogni suo figliuolo i sentimenti della giustizia, della carità e dell’amore, e dacchè in un angolo di quest’aiuola si strinse il primo consorzio umano,
. . . . . . . . . . Una feroce
Forza il mondo possiede, e fa nomarsi
Dritto!
Tutto in questo dorato ergastolo della civiltà, dove l’uomo della natura si sente incarcerato, tutto gli è [664] sospetto ed esoso. La scienza è un pericolo, il lusso un oltraggio, i trovati dell’uman pensiero un’insidia, le arti, le arti stesse divine, ponno mutarsi in scuola del vizio ed in veleno della virtù.
Quale meraviglia pertanto se un uomo siffatto traendo a fil di logica le ultime conseguenze delle sue premesse, conformando il fatto alla dottrina, brandisse la fiaccola d’Erostrato e appiccasse egli stesso le fiamme ai bugiardi templi di quella civiltà ch’egli gridò la grande nemica dell’umana famiglia? Ma rassicuratevi. L’uomo che vi sta dinanzi non fu mai un dialettico; il sentimento domina troppo il suo intelletto, l’amore sovrasta troppo ai suoi odii, perchè egli possa, coll’inflessibilità d’un Convenzionale e la brutalità d’un Comunardo, giungere imperturbato alle ultime illazioni de’ suoi principii ed erigere sopra monti di teste, al chiaror delle torcie petroliere, la città nuova de’ suoi sogni.
Perisca pure la logica, ma sia salva l’umanità; e però la stessa voce che poco prima nelle medesime pagine scrollava come vento impetuoso le mura della vecchia società, risponderà a coloro che gli rinfacciarono di non saper usare strumenti più efficaci e più pronti: «E che! bisognerà dunque distruggere la società, annientare il tuo e il mio, e tornar cogli orsi a vivere nelle selve? Pochi, cacciati dal rimorso o chiamati da una popolare vocazione, lo potranno; ma i più, ma tutti coloro che avranno udito la voce dell’Eterno e compreso la necessità di cooperare colla virtù a’ suoi alti disegni, coloro rispetteranno i sacri legami della società di cui sono membri, ameranno i loro simili, serviranno scrupolosamente alle leggi ed agli uomini che ne sono gli arbitri ed i ministri, e onoreranno sopra ogni cosa i Principi buoni e saggi che [665] sapranno prevenire o guarire la moltitudine crescente degli abusi e dei mali che senza posa ci assalgono e ci percuotono.[424]»
Ora si riuniscano tutte le idee capitali di questa dottrina, e si spiri loro un’anima; si raccolgano tutti i lineamenti sparsi dell’uomo immaginario che ci passò davanti, e si gettino nella forma concreta e salda d’un uomo vivo e vero; si dia quindi a quest’uomo reale e storico lo stesso istinto del bene e intuito del vero, lo stesso concetto della vita e del mondo, lo stesso amore appassionato della natura e la stessa antipatia invincibile della società; si compia la sua figura colla semplicità de’ costumi, il gusto della libertà campestre, il fastidio della vita cittadina, il bisogno profondo e ineffabile di solitudine e di pace; non si nascondano per questo alcune delle ombre che frastagliano anco più scuramente la fronte del simbolico Emilio: la sensibilità eccessiva, la mobilità impetuosa, la intemperanza delle passioni, la crudezza del linguaggio; si collochi quest’essere fantasioso e ardente, sdegnoso e pio, istintivo e geniale innanzi alla civiltà d’un secolo non più, credo, ma non meno corrotto di quanti l’hanno preceduto, in faccia alle religioni bugiarde non ancora sfatate, alla clerocrazia tuttora prepotente, ai privilegi mutati, ma non distrutti, alle caste trasformate, ma non annichilite, al grido delle nazioni oppresse, all’urlo delle plebi affamate, al gemito dei bambini venduti, al pane salato dalle lagrime di vergogna della donna prostituita, e tuttavia saporito al dente dello Stato, e ciò fatto si dia ad un uomo simile il cuore d’un eroe e il braccio d’un atleta, lo si [666] armi d’una spada, in luogo d’una penna; si converta ognuna delle sue idee e delle sue passioni in un fatto, e ogni fatto in un prodigio; gli si apra per arena il vecchio e il nuovo mondo, e lo si segua sopra un’interminabile Via Sacra che va da Laguna a Montevideo, dal Salto a Roma, da Varese a Marsala, dal Volturno a Bezzecca, da Mentana a Dijon; si riepiloghi finalmente tutta questa epopea nell’egloga di Caprera; si nasconda tutto questo mondo di gloria e di virtù in una povera urna, fra due bambine, sotto un’acacia, — e si avrà Garibaldi.
Fine del Volume Secondo ed ultimo.
[667]
AVVERTENZA.
Nel primo volume trascorsero alcune sviste tipografiche, e alcuni errori di fatto. Alle prime si ripara con l’Errata-Corrige che viene appresso; dei secondi siamo lieti di potere, mercè il consiglio di qualche cortese che volle onorare de’ suoi appunti l’opera nostra, fare ammenda con queste
Postille:
Nel primo volume, a pag. 389, in nota, parlando della pensione offerta dal Governo sardo, per mezzo del generale La Marmora, al generale Garibaldi, ci siamo un po’ maravigliati che il La Marmora, in certe sue lettere al Dabormida, avesse tralasciato di notare che Garibaldi la pensione l’accettò per la madre e la rifiutò per sè, traendo la prova di questo fatto da una lettera di Massimo d’Azeglio ad Antonio Panizzi, del 25 luglio 1864, e scorgendo quindi una certa contraddizione tra l’asserto del generale La Marmora e quello del suo amico, allora Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ma Verax nel Fanfulla del 30 giugno 1882 (e tutti sanno quale devoto amico del generale La Marmora si nasconda dietro quel pseudonimo) mi scrisse una lettera pubblica nella quale sostenne che contraddizione non c’è: che le pensioni date a Garibaldi furono due: una, quella di cui parla La Marmora, nel 1849; l’altra, quella a cui allude Massimo d’Azeglio, accettata per la madre ed i figli nel 1851. E noi, rispondendo al Verax, abbiamo espresso qualche dubbio su questa seconda pensione; ma egli ci rispose ribadendo e affermando d’avere visti i Documenti, e noi, senza credere per questo [668] chiusa del tutto la lite, ci rimettiamo per ora alle autorevoli parole del nostro stimato amico.
Lo stesso Verax poi.... cioè no.... Luigi Chiala ci scrive additandoci un altro errore scappatoci a pag. 225, dove diciamo che teneva il portafogli della guerra il generale Ricci: egli ci ammonisce che reggente il ministero della guerra era allora Cesare Balbo, Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale aveva per suo primo ufficiale il colonnello Dabormida, e soggiunge: «Hai confuso alle volte col maggiore Giuseppe Ricci, che fu poi generale di Stato Maggiore, e, se non erro, era allora segretario generale, cioè primo ufficiale agli esteri?»
E non abbiamo nulla a che ridire sulla rettifica. Soltanto ne giova soggiungere che un Ricci generale o maggiore deve esserci entrato, perchè il generale Medici nel brano di Memorie da lui confidate ad Alessandro Dumas seniore, e delle quali il Medici stesso ci confermò più volte la veridicità, narrando questo episodio di Garibaldi, dice che Carlo Alberto lo rimandò a Torino «pour qu’il y attendît les ordres de son Ministre de la guerre Mr Ricci.»
E il Medici e il Dumas, o forse anche Garibaldi, fecero la confusione dalla quale fui colto io stesso. E non solo potrebbe essere che essi abbiano scambiato il maggiore Ricci per un generale Ricci ministro della guerra; ma che il Ricci di cui parla Garibaldi sia stato il Giuseppe Ricci ministro dell’interno, appunto nel Ministero Balbo.
D’un altro sbaglio mi avvertì il signor Luigi Torre, di Casale (pag. 256): «Macerata lo elesse (Garibaldi) a suo Deputato alla Costituente Romana;» soggiunsi: «e fu quello il primo voto che lo mandò in un’assemblea politica.» Ora il signor Torre mi scrive: «Badi, il primo Collegio che mandò Garibaldi ad un’assemblea politica fu Cicagna in quel di Chiavari, nelle elezioni parziali del 30 settembre 1848. La Camera convalidò la sua elezione nella tornata del 18 ottobre 1848.» Ed io ringrazio il signor Torre della notizia, e, come vede, la confermo.
Il signor conte Alessandro Morando, che nel 1848 fu tra i primi ad accogliere Garibaldi a Milano, guardato ancora con sospetto dalla cittadinanza, dice: che l’albergo da cui [669] arringò il popolo milanese, di cui si parla a pag. 227 in nota, non fu già La Bella Venezia, dove albergava il Mazzini, ma l’Albergo del Marino, e che insieme e intorno a lui a riceverlo c’era l’ingegnere Geronimo Cantoni, e l’ingegnere Antonio Anselmi. Anche le parole da lui dette, e da noi tolte dai giornali del tempo, dovrebbero essere modificate così: «Quello che avete fatto è un nulla a fronte di quello che dovete fare. Il nemico che dovete combattere non è tutto fuori di voi: è in mezzo a voi. Io sono venuto dall’America a dare il mio sangue: fate altrettanto anche voi.»
ERRATA-CORRIGE.
Volume I.
Pag. | lin. | ||
5, | 7 | l’anno stesso di Cavour | va soppresso |
27, | 12 | Ragiundo | Raimondi |
84, | 25 | Tramandahy | Taramanday |
id., | ult. | id. | id. |
85, | 4 | id. | id. |
id., | ult. | id. | id. |
170, | 9 | 1842 | 1843 |
202, | 13 | 14 gennaio | 12 gennaio |
206, | 22 | Duyman | Dayman |
233, | 7 | 4 luglio | 4 agosto |
247, | 27 | 24 aprile | 29 aprile |
259, | 7 | 22 marzo | 23 marzo |
280, | 24 | Giuseppe Rosselli | Pietro Rosselli |
398, | 25 | barca | bara |
422, | 24 | fosse assalita | non fosse assalita |
424, | 21 | Migliavaca | Migliavacca |
437, | 25 | giornata stessa del 27 | giornata stessa del 21 |
450, | 14 | maggiore Bioll | tenente colonnello Bioll |
453, | 17 | colonnello Bioll | tenente colonnello Bioll |
A pag. 193, riproducendo in nota l’ode a Garibaldi del signor Giuseppe Bertoldi, corse un errore di disposizione.
[670]
Dopo la strofe sesta «Or leva dai marmorei ec.,» devono seguire le ultime quattro strofe, che cominciano dal verso «Chi sono quei fortissimi» e vanno al verso «Che fa l’americane acque stupir;» poi l’ode continua colla strofe che nel volume sarebbe la settima: «Quando su noi le barbare ec.»
[671]
(Il numero romano indica il volume, l’arabo la pagina.)
Abba Giuseppe Cesare, I, XXI.
Acerbi Giovanni, II, 47, 403, 417, 481, 489, 498, 517, 523.
Acquapendente, II, 498.
Agnetta Carmelo, II, 116.
Agnolucci, II, 492.
Airoldi, I, 424.
Alassio, II, 601.
Albanese Enrico, II, 332, 609.
Albini (ammiraglio), II, 309.
Alcamo, II, 84, 302.
Alessandria, II, 492.
Alfieri, I, 424.
Allemann (signora), I, 75.
Allia, II, 308.
America, vi giunge Garibaldi, I, 48; considerazioni generali sulle imprese compiutevi da Garibaldi, I, 206.
Amoy, I, 399.
Ampola, II, 440.
Anagni, I, 259, 299.
Andreus Giacinto, I, 71, 75.
Andrews (signor), II, 340, 348.
Anfossi, II, 47.
Anguissola, II, 137.
Anita, I, 90; si fa sposa di G. Garibaldi, I, 93; sua patria e famiglia, I, 94; è compagna di valore di Garibaldi, I, 97; partorisce Menotti, I, 99; sofferti coraggiosamente al fianco del marito i disagi della ritirata dei Riograndesi, giunge a Montevideo, I, 100, 108; consacra innanzi a Dio le sue nozze con Garibaldi, I, 152; dà vita a Ricciotti e parte per l’Italia, I, 202; riabbraccia il marito, I, 218; riceve da Subiaco una lettera dal marito, I, 259; segue il marito nella ritirata da Roma, I, 332; a Sant’Angelo, I, 346: parte da San Marino, I, 357; ripara sulla costa di Magnavacca, I, 360, 363; sua morte e sepoltura, I, 366; aneddoti ed epilogo sulla sua vita, I, 371.
Antonini Stefano, I, 149, 202.
Anzani Francesco, incontra Garibaldi, I, 108; divide con Garibaldi il comando della Legione di Montevideo, I, 168; notizie sulla sua vita, I, 169; al combattimento della Boyada, I, 171; al Salto, I, 185; scrive con Garibaldi una lettera a Pio IX, I, 197; s’imbarca per l’Italia, I, 205; vi giunge moribondo, I, 221; ultime sue parole, I, 224; sua morte, I, 224, 229.
Aquila (fregata), II, 160.
Archi, II, 136.
Arcioni, I, 235.
Arcisate, I, 240, 465.
Arditi, II, 359.
Arduino (colonnello), I, 424.
Arena (capitano), I, 15.
Arezzo, I, 342; II, 492.
Argentina (repubblica), sue vicende politiche e cagioni della sua guerra contro l’Uruguay, I, 109.
Argyll (duchi di) II, 358, 362
Armosino-Garibaldi Francesca, II, 596, 598.
Arnay-le-Duc, II, 567.
Arona, I, 236, 438.
Artigas, I, 122.
Ashley, II, 340, 352.
[672]
Ashurth, II, 359.
Asola, II, 288.
Aspromonte, II, 153, 298, 314, 317.
Associazioni unitarie, II, 281.
Autun, II, 563.
Avezzana Giuseppe, I, 264.
Azzarini Paolo, I, 386.
Bagnorea, II, 498.
Bagolino, II, 434.
Bajada, I, 75.
Barcellona, II, 133.
Bari, II, 412.
Barletta, II, 415.
Barrault, I, 31.
Basile (dottor), II, 330, 332, 382.
Bassi Ugo, I, 269, 332, 349, 357, 360.
Basso Giovanni, I, 400, 403; II, 348, 492, 510.
Bazan (capitano), I, 47.
Beales, II, 340, 382.
Beauregard (capitano), I, 48.
Bedford, II, 358.
Bedini (monsignor), I, 197, 200.
Beghelli G., I, XXIII.
Belforte, I, 450.
Belgirate, II, 292, 483, 486.
Belluno, II, 468.
Belzoppi (capitano), I, 349.
Bentivegna, II, 303, 306, 308.
Bergamo, I, 229, 291, 475; II, 415, 424.
Berkley, II, 359.
Bertani Agostino, I, 401, 425; II, 25, 33, 35, 41, 154, 177, 548.
Bettoletto, I, 480.
Bezzecca, II, 452.
Bideschini F., I, XXI.
Biella, I, 429, 433, 435.
Bifronte (brigantino), I, 205.
Birkenhead, II, 326.
Birmingham, II, 326.
Bixio Nino, a Villa Pamfili, I, 269; nei Cacciatori delle Alpi, I, 420, 424, 443, 449, 456, 459; all’impresa dei Mille, II, 25, 33, 35, 39, 47, 59, 67, 77, 93, 96, 127, 159, 161; al Parlamento il 28 aprile 1861, II, 261, 400, 418.
Blanc Louis, II, 361.
Blind Carlo, II, 352, 359.
Boggio P. C., I, XXI.
Bogliasco, II, 43.
Bologna, I, 249, 499, 501; II, 467, 493.
Bolzola, I, 431.
Bonnet Giovacchino, I, XXVII, 361.
Bordeaux, II, 579.
Bordone, I, XXII; II, 555.
Borel, I, 36.
Borgomanero, I, 436.
Bosco Beneventano Del (colonnello), II, 21, 136.
Bossi (colonnello), II, 515.
Bourbaky, II, 570.
Bourg, II, 577.
Boyada (torrente), I, 171.
Boyada (città), I, 155.
Brasile, compendio storico delle sue vicende politiche, I, 52; cause che gli sollevarono contro il territorio di Rio Grande, I, 59.
Brescia, I, 478; II, 7, 288, 425.
Briganti (generale), II, 162.
Bristol, II, 351, 388.
Brodo, I, 338.
Bronzetti Narciso, I, 424, 460, 476, 482.
Brook-House, II, 344, 351.
Brown, I, 153.
Brozzolo, I, 427, 432.
Brusasco, I, 426.
Bruzzesi Giacinto, II, 403.
Bueno, I, 332.
Cabo Frio, I, 51.
Cacciatori degli Appennini, I, 432.
Cacciatori della Stura, I, 423.
Cacciatori delle Alpi, I, 421; II, 17.
Cadolini (colonnello), I, XXVII, 424.
Caffaro, II, 425.
Caianello, II, 229.
Caiazzo, II, 181.
Cairoli Benedetto, I, 424; II, 47, 403, 482, 483, 512, 593.
Cairoli Enrico, II, 516.
Cairoli Giovanni, II, 516.
Calatafimi, II, 72, 302.
Caldesi Vincenzo, II, 483.
Caltanissetta, II, 338.
Cambriels, II, 560.
Camerlata, I, 235.
Camozzi Gabriele, II, 288.
Canavarro (generale), I, 84, 88, 92.
Canton, I, 399.
Canzio Stefano, II, 456, 505, 565, 575, 609.
Capivari, I, 84.
Cappelletti Alessandro, II, 608.
Caprera, I, 394, 400, 401, 417, 504, 509; II, 8, 233, 271, 298, 332, 391, 407, 423, 495, 579, 589, 607.
[673]
Carabinieri mobili, II, 283.
Caravà (colonnello), II, 549.
Carini, II, 47, 67, 73, 93, 108.
Carlo Alberto, I, 37, 217, 225, 231, 233.
Carniglia Luigi, I, 70, 79, 87.
Carpaneti (console), I, 395, 397.
Carrano Francesco, I, XX, 424.
Casabona Antonio, I, 26.
Casa Bruciata, I, 37.
Casale, I, 430.
Casalmaggiore II, 285.
Casamicciola, II, 393.
Caserta, II, 183, 193.
Cassapara (goletta), I, 88.
Castelfranco, II, 478.
Castel Giubileo, II, 524.
Castelgoffredo, II, 288.
Castelletti, II, 475.
Castelletto, I, 236, 439.
Castellini Napoleone, I, 76, 146.
Castiglia Salvatore, II, 39, 153.
Castiglion Fiorentino, I, 342.
Castore, II, 652.
Castrogiovanni, II, 309.
Catania, II, 312.
Catanzaro, II, 605.
Cattabeni Vincenzo, II, 153, 180.
Cattaneo Carlo, II, 216, 218.
Cattolica, I, 492.
Cavallasca, I, 455.
Cavallotti Felice, I, XXII.
Cavour (conte di), I, 412, 417, 432; II, 1, 9, 28, 149, 170, 206, 211, 260, 262, 269.
Cazzone, I, 451.
Ceccaldi, I, 332, 357.
Ceneri (professor), II, 483, 485.
Cenni, I, 332.
Centorbi, II, 309.
Centro romano d’insurrezione, II, 466, 472.
Ceprano, I, 297.
Cerrito, I, 155.
Cesenatico, I, 357.
Cetona, I, 339.
Chambers (signori), II, 340, 342, 353, 375.
Châtillon-sur-Seine, II, 563.
Chenet, II, 568.
Chiassi, I, 332; II, 159, 161, 370, 403, 452.
Chiavari, I, 5, 387.
China, I, 897.
Chioggia, II, 468.
Chretien, II, 109.
Chiswick, II, 385.
Chiusi, I, 339.
Chivasso, I, 426, 429, 432.
Cialdini Enrico, I, 423, 427, 430; II, 266, 511.
Ciceruacchio, I, 253, 332, 357, 360.
Cima-la-Costa, I, 456.
Cincia (isola di), I, 397.
Cipriani Emilio, II, 380, 548.
Citerna, I, 343.
Civitavecchia, I, 261.
Clarendon (conti), II, 358.
Cleombroto, I, 40.
Clifden Park, II, 387.
Collins (signora), II, 506, 510.
Colombo (legno da guerra), I, 394.
Colonia, I, 177.
Coltelletti, II, 33, 495.
Comacchio, I, 361.
Comitati di Provvedimento, II, 281.
Comitato Nazionale Romano, II, 466, 475.
Como, I, 234, 453, 457, 465; II, 285, 412, 424.
Commonwealth (brigantino), I, 399.
Condino, II, 446.
Confine, I, 335.
Coppola Giuseppe, II, 70, 73.
Coriolo, II, 133.
Coritibani, I, 98.
Corleone, II, 302.
Cornwall, II, 388.
Corrao Giovanni, II, 16, 303.
Corrientes, I, 151, 156.
Corte Clemente, I, 489; II, 137, 337, 403, 430.
Cortese (brigantino), I, 25.
Cosenz Enrico, I, 408, 424, 449, 457, 481; II, 137, 153, 162, 177, 186.
Costantinopoli, I, 25.
Costanza (brigantino), I, 19.
Costitucion (corvetta), I, 148.
Covent-Garden, II, 358.
Cremer, II, 567.
Crémieux, II, 555.
Cremona, II, 285.
Crispi Francesco, II, 14, 25, 33, 34, 35, 93, 109, 117, 482, 495, 504, 551.
Cristoforo Colombo, II, 607.
Cruz-Alta, I, 97.
Crystal Palace, II, 359, 361.
Cucchi Francesco, II, 403, 481, 489, 504.
Cuneo Gio. Batt., I, XVIII, 31.
[674]
Dacres (ammiraglio), II, 388.
Dandolo Emilio, I, 298.
D’Apice, I, 235.
D’Aspre (generale), I, 240.
D’Aste, II, 111.
David, I, 289.
Della Verdura (duca), II, 307.
Del Vecchio, II, 489.
De Cristoforis, I, 424, 431, 439, 443, 446, 455.
De Negri (don Pedro), I, 397.
Depretis Agostino, II, 150, 176, 591.
Desenzano, II, 288.
Des Geneys (fregata), I, 41.
Di Cossilla, I, 387.
Dijon, II, 571.
Diritto (Il), giornale, II, 404.
Draghignano, I, 43.
Duca di Genova, I, 236.
Duca di Genova (fregata), II, 324.
Dumas Alessandro, I, XVII, XVIII.
Dundey, II, 326.
Dunn, II, 137.
Eber (generale), II, 373, 375.
Eberhardt, II, 156, 161.
Eboli, II, 167.
Echague (don Pedro), I, 71, 75.
Elpis Melena, I, XVII.
Empoli, II, 512.
Enea (brigantino), I, 24.
Entre-Rios, I, 71, 75.
Esenta, II, 427.
Esploratore (L’), I, 400.
Europa (L’) nel 1831, I, 27.
Exeter, II, 388.
Fabrizi Nicola, II, 16, 34, 139, 418, 530, 542.
Fanti (Brigata), I, 424.
Fanti Manfredo, I, 491; II, 259.
Farini, I, 491; II, 14.
Faro, II, 152.
Fazy, II, 482, 483.
Fazzari, II, 614.
Feltre, II, 468.
Fergusson (dottor), II, 373.
Ferrara, II, 467.
Ferrari, I, 424.
Ficulle, I, 339.
Ficuzza, II, 304.
Figline, II, 549.
Filigare, I, 249.
Fino, I, 505, 508.
Finzi Giuseppe, II, 33.
Firenze, I, 249; II, 466, 475, 487, 511.
Foiano, I, 342.
Follonica, I, 386.
Fontana Luigi, II, 493.
Fontebranda, II, 54.
Forbes, I, 357.
Foresti Felice, I, 405.
Forio (Da) Giuseppe, I, XX.
Formicola; II, 229.
Fornuovo, II, 524.
Fortino, II, 176.
Foscolo Ugo, II, 385.
Fowey, II, 390.
Francesco I di Napoli, II, 166.
Francia, II, 328.
Franklin (piroscafo), II, 157.
Frattini, II, 476.
Friggesy Gustavo, I, XXII; II, 518.
Froscianti, I, 403.
Frosinone, I, 297, 299.
Fulminante (fregata), II, 160.
Fumagalli, I, 332.
Fuxa, II, 96.
Fuzzi Antonio, I, 386.
Gallarate, II, 415, 424.
Galles (principe di), II, 386.
Galliano, II, 475.
Galpon de Chargucada, I, 80.
Gambetta, II, 556.
Gancia (convento della), II, 17.
Garibaldi Angelo (iuniore), I, 10.
Garibaldi Angelo (seniore), I, 6.
Garibaldi Anita. Vedi Anita.
Garibaldi Anita (figlia), II, 596, 653.
Garibaldi Clelia, II, 596.
Garibaldi Domenico, I, 5, 6.
Garibaldi Felice, I, 10, 401.
Garibaldi Giuseppe, sue Memorie, I, XXV, 3; prima sentenza che lo condanna nel capo, I, 1; sua nascita, patria e discendenza della famiglia, I, 5; suo padre, I, 5, 6; sua madre, I, 5; suo onomastico, I, 9; fratelli e sorella, I, 10; condizioni morali ed economiche della sua famiglia, I, 10; sua infanzia, I, 11; prime prove di coraggio ed abnegazione, I, 13; studi, maestri e coltura, I, 13; suo grande amore per il mare, I, 18; primi viaggi marittimi, I, 19; visita Roma, I, 21; pensa all’incanalamento dei Tevere, I, 23; continua i viaggi ed è spettatore al primo naufragio, I, 24; [675] infermasi a Costantinopoli, I, 25; precettore di fanciulli, I, 25; diviene capitano di mare, I, 26; lo stato politico d’Europa e d’Italia comincia a commuovergli l’animo, I, 27; incontrasi coi Sansimoniani, I, 31; a Taganrok scopre l’esistenza della Giovine Italia, I, 33; presentasi a Mazzini, in Marsiglia, per esservi aggregato, I, 35; tornato in Liguria, si mette in relazione co’ principali patriotti e iscrivesi come semplice marinaio nella flotta regia, per far propaganda fra gli equipaggi, I, 39; fallito il movimento repubblicano in Piemonte, ripara in Francia, I, 41; arrestato, riesce a fuggire, I, 43; volge i passi verso Marsiglia e dopo una curiosa avventura vi giunge, I, 44; legge la sua condanna di morte, I, 46; cambia nome, I, 47; gode dell’ospitalità di un amico finchè trovasi un posto di secondo sopra un brigantino, I, 47; salva un giovinetto che annega, I, 47; assoldasi nella flottiglia del Bey di Tunisi, I, 47; tornato a Marsiglia e trovatala afflitta dal colèra, si dà ad assistere gl’infermi, I, 48.
Fa vela per Rio Janeiro, I, 48; v’incontra Luigi Rossetti, I, 50; si dà al cabotaggio, I, 51; dopo la sollevazione di Rio Grande, visita in carcere Livio Zambeccari, che lo anima a far guerra al Brasile, I, 61; va corsaro contro il Brasile, I, 62; prima sua impresa di corsaro, I, 62; tocca le coste dell’Uruguay, dalle quali è obbligato allontanarsi per non essere arrestato, I, 64; non volendo abbandonare l’Uruguay, giunge con molti pericoli a Jesus-Maria, I, 64; procura con ardito espediente vettovaglie al suo equipaggio, I, 65; per la prima volta trovasi nelle Pampas e v’incontra una poetessa, I, 66; attaccato da due lancioni dell’Uruguay, li respinge, rimanendo ferito, I, 69; fa volger la prua verso Santa-Fè, nel Paranà, I, 70; raccolto da un bastimento brasiliano, vien condotto a Gualeguay e quivi ritenuto prigioniero, I, 71; confortasi coltivando lo spirito e poetando sui pietosi casi d’Italia, I, 72; stanco del suo stato fugge, I, 74: ripreso e ricondotto a Gualeguay, vien posto alla tortura da un feroce governatore, I, 74; al quale più tardi, avendolo prigioniero, perdona, I, 76; vien posto in libertà, I, 75; ripara in Montevideo, ospitato e protetto da alcuni amici, I, 76; va con Rossetti a Piratinin, campo dei Riograndesi, I, 76; raggiunge il presidente della repubblica di Rio Grande, I, 77; il quale gli commette l’organizzazione ed il comando di una flottiglia, I, 78; costruisce ed arma due lancioni e spingesi nella laguna de los Patos, I, 78; con tredici uomini resiste all’assalto di 150 cavalieri, I, 80; con mille espedienti conduce la sua flottiglia in mare, I, 83; un naufragio gli toglie le navi e i più cari compagni, I, 85; con altri legni riprende le ostilità, I, 88; dopo alcuni combattimenti ripara nel porto d’Imbituba, I, 87; di dove respinto il nemico, rientra nella laguna di Santa Caterina, I, 89; suoi amori, I, 68, 90; incontra Anita Riberas e la toglie in moglie, I, 90; è obbligato far saccheggiare Imeruy, I, 95; cominciata la ritirata dei Riograndesi, si adopera per renderla meno disastrosa, I, 96; con tre navi resiste a ventidue e a molte truppe di terra, I, 97; protegge la ritirata con settantatrè uomini contro cinquecento, I, 98; a Santa Vittoria decide del combattimento, si trova alla fazione di Taquary, all’assedio di San Josè rimane quasi padrone della città, I, 98; gli nasce il figlio Menotti, I, 99; la sua famiglia soffre stenti e pericoli, I, 99; è funestato dalla morte di Rossetti, I, 102; sua descrizione della ritirata dei Riograndesi, I, 103; decidesi portarsi a Montevideo, e per via si fa truppiere, I, 107; incontra Francesco Anzani, I, 108; giunge a Montevideo, I, 108.
Trova Montevideo impegnata nella guerra contro Rosas, I, 109; si [676] dà a trafficare e insegnare matematiche, I, 146; gli viene offerto il comando della flottiglia della città, I, 147; accetta e gli è affidata rischiosissima impresa, I, 151; avanti di accingervisi consacra all’altare la sua unione con Anita, I, 152; partito per il Paranà, a Martin Garcia sfida i primi pericoli, I, 153; può sfuggire a un attacco dell’ammiraglio Brown, I, 153; entrato nel Paranà vince a Boyada, a Las Concas, al Cerrito, I, 155; seguita la rotta per Corrientes, catturando alcune navi mercantili, I, 155; a Nueva Cava, attaccato con forze superiori, resiste tre giorni e tre notti e si salva co’ suoi incendiando le navi, I, 156; suo valore nella campagna del Paranà, I, 160; conducesi invano a San Francisco per unirsi al generale Ribera, I, 161; gli viene affidato da Montevideo l’ordinamento e il comando di una nuova flottiglia, I, 164; prende anche il comando della Legione Italiana, I, 166; divide con Francesco Anzani il comando della Legione, I, 168: la conduce al combattimento della Boyada, I, 171; continuano le sue animose avventure, I, 173; risale il Plata, s’impadronisce di Colonia, Martin Garcia e Mercedes, respinge il general Lavalleja, sorprende Gualeguaychu e giunge al Salto, I, 176; si porta a Tapevi, ove vince la battaglia di Sant’Antonio, I, 178; ordine del giorno dopo la vittoria, I, 187; continuato a battagliare per qualche tempo al Salto, torna a Montevideo, I, 193; risale l’Uruguay e vince a Las Vacas, I, 195; gli viene offerto il comando della piazza di Montevideo, I, 195; accettatolo è obbligato rinunziarvi poco dopo, per le mene di alcuni invidiosi, I, 195; rimette all’obbedienza un reggimento di negri ammutinato, I, 196; giuntegli novelle della rivoluzione d’Italia, scrive insieme ad Anzani una lettera a Pio IX, offrendogli il suo braccio per la causa italiana, I, 197; preparasi a partire per l’Italia, I, 201; gli nasce Ricciotti, I, 202; imbarca Anita per l’Italia, I, 202; manda in Italia Giacomo Medici con istruzioni per preparare la patria a riceverlo, I, 203.
Imbarcasi per l’Italia con un manipolo di legionari, I, 205; sua vita tenuta in America: conclusioni generali I, 206; in alto mare salva il bastimento da un incendio, I, 214; presso Gibilterra ha notizia della scoppiata rivoluzione, I, 214; approda a Palos, I, 217; decide offrire il suo braccio a Carlo Alberto, I, 217; giunge a Nizza, I, 217; abbraccia i suoi, I, 218; il popolo l’accoglie festante, I, 218; recasi a Genova, I, 220; assiste l’amico Anzani morente, I, 221; palesa i suoi pensieri intorno ai casi della guerra, I, 222; parte da Genova, passa da Novara e da Pavia per condursi a Roverbella a offrire il suo braccio a Carlo Alberto, I, 224; rinviatolo questi a’ suoi ministri, si conduce a Torino, I, 225; non concluso niente col governo del Piemonte, va a Milano, I, 227; vi riceve il comando di tremila volontari, I, 228; con questi si porta a Bergamo, I, 229; è chiamato a Milano, I, 231; accampa a Monza, I, 232; caduta Milano, ritirasi su Como, I, 234; giunto a Camerlata vi si trincera, I, 235; invita l’Italia alle armi, ed apre nuovi arruolamenti, I, 235; levato il campo da Como si dirige a San Fermo, I, 236; tocca Varese, parte per il Lago Maggiore, tragitta il Ticino ed approda presso Arona, I, 236: intimatogli dal Duca di Genova di sciogliere i suoi volontari, inalbera il vessillo mazziniano Dio e Popolo, e fa un proclama agl’Italiani, I, 236; risale il Lago Maggiore e si accampa a Luino, I, 238; sbaraglia una colonna austriaca, I, 238; giunge a Varese, I, 239; si ritira sulle colline di Induno, I, 239; riesce a porsi alle spalle de’ nemici a Morazzone, I, 240; attaccato, è obbligato ripararsi in Isvizzera, I, 241; sua prima impresa in Italia: conclusioni generali, I, 243.
[677]
Si riconduce a Nizza e di là a Genova, I, 246; di qui parte con cinquecento volontari in soccorso della Sicilia, I, 243; accetta a Livorno il comando dell’esercito toscano e si conduce a Firenze, I, 249; s’accinge a portare aiuto a Venezia, I, 249; il generale Zucchi gl’impedisce il cammino alle Filigare, può proseguire e tocca Bologna e Ravenna, I, 249; accorre a Roma, I, 250; non si accolgono troppo cordialmente i suoi servigi, I, 251; vien mandato tenente colonnello a Macerata, I, 253; gli viene ordinato di combattere il brigantaggio nell’Ascolano, I, 254; a tal uopo per Tolentino, Foligno e Spoleto si porta a Rieti, I, 255; di qui va a Roma per assistere all’apertura del Parlamento come deputato di Macerata, I, 256; suo primo atto parlamentare, I, 256; torna a Rieti, I, 258; condottosi a Subiaco scrive ad Anita, I, 259; richiamato a Roma per la difesa contro i Francesi, è riconosciuto generale, I, 264; vince co’ suoi a Villa Pamfili, I, 266; gli è vietato compiere la disfatta dei Francesi, I, 270; tenta dare un nuovo combattimento I, 271; invaso lo stato di Roma da’ Napoletani, gli vien commesso di molestarli, I, 272; a tal uopo va a Tivoli, I, 272; poi a Palestrina a vista dei nemici, I, 274; respinge un attacco di questi, I, 275; consigliato dai casi della guerra torna a Roma, I, 276; vien promosso generale di divisione, I, 280; si accinge col generale Rosselli a battere l’esercito borbonico, I, 281; vince a Velletri, I, 283; nel caldo della mischia rischia perder la vita, I, 287; per cogliere i frutti della vittoria vuol entrare nel Napoletano, I, 296; gli viene accordato dal governo di Roma, I, 297; partito per l’impresa tocca Frosinone e Ripa, sconfina a Ceprano e prende ai nemico Rocca d’Arce, I, 297; i casi della guerra lo richiamano a Roma, I, 299; da Frosinone scrive al Masina dandogli il comando della Legione Italiana, I, 300; assalta eroicamente Villa Pamfili, I, 302; sua parte nell’assalto, I, 309; assediata Roma ha la parte principale nella difesa, I, 314; guida l’incamiciata, I, 316; presa dai Francesi la breccia rifiuta al Triumvirato tentarne il riacquisto, I, 319; consiglia invece altro modo di difesa, I, 321; propostagli da Pietro Sterbini la dittatura, la rifiuta, I, 322; continua a dirigere la difesa, I, 325; perduta l’ultima breccia, rafforza Villa Spada e la difende, I, 327; perduta anch’essa spera arrestare il nemico a Ponte Sant’Angelo, I, 328; è richiesto di consiglio dalla Costituente sullo stato delle cose, I, 328; esce di Roma, I, 332.
Accompagnato dagli avanzi delle sue legioni pernotta a Monticelli, s’accampa a Monterotondo, I, 332; è minacciato dai Francesi, dagli Spagnuoli, dai borbonici e dagli Austriaci, I, 334; toccato Confine e Poggio Mirteto incontra a Terni il colonnello Forbes con un rinforzo, I, 335; si porta a San Gemini presso Todi, I, 336; lascia Todi, passa il Tevere a Monte Acuto e s’incammina per Orvieto per la via di Brodo, I, 337; da Orvieto va a porre il campo a Ficulle, I, 338; riposa a Sole e giunge a Cetona, I, 339; scaramuccia tra Sarteano e Chiusi, riposa a Sarteano, I, 339; entrato in Montepulciano fa un proclama ai Toscani, I, 340; giunto a Torrita risolve d’andare a Venezia, I, 341; passa per Foiano, Castiglion Fiorentino e giunge ad Arezzo, I, 342; scaramuccia col nemico e riposa a Monterchi, I, 343; porta il campo a Citerna e di là a San Giustino, I, 343; valica il monte della Luna, I, 344; riposa a Mercatello, I, 345; s’accampa a Macerata Feltria, I, 346; per le alture di Carpegna si dirige a San Marino, I, 347; ove manda Ugo Bassi a chieder passo e viveri, I, 349; sconfittagli dagli Austriaci la retroguardia, ripara a San Marino, I, 349; fattosi mediatore il governo di San Marino per ottenergli buoni patti dal nemico, scioglie i suoi volontari, I, 350; [678] fugge da San Marino con pochi dei suoi, I, 356; a Cesenatico fa vela per Venezia, I, 357: attaccato da incrociatori austriaci, si salva sulle coste di Magnavacca, I, 359; perseguitato, abbandona la spiaggia con la moglie morente, I, 360; incontra Giovacchino Bonnet, I, 361; dal quale riceve aiuti per salvarsi, I, 363; fugge per Comacchio e giunge alla villa Guiccioli, I, 365; gli muore Anita, I, 366; da villa Guiccioli va a Sant’Alberto, di lì a Modigliana, I, 385; per quel di Prato, Poggibonsi, Pomarance e Massa Marittima va a Follonica, I, 386; qui imbarcatosi approda a Porto Venere, I, 386; giunto a Chiavari è fatto arrestare dal governo piemontese, I, 387; posto in bando dal Piemonte va a Tunisi, I, 388; il Bey di Tunisi gli ricusa ospitalità, I, 393; approda all’Isola della Maddalena, I, 393; il governo piemontese lo ritrae di là e lo manda a Gibilterra, I, 394; salva un canotto sardo naufragante, I, 394; Gibilterra e la Spagna ricusano ricettarlo, I, 394; gli viene offerta ospitalità dagli Stati Uniti d’America, I, 394; ripara a Tangeri ove scrive le sue Memorie, I, 395; si conduce a Liverpool, di là a New-York, I, 395; ove si dà a fabbricar candele per campare la vita, I, 396; offertogli il comando di una nave mercantile lascia New-York, I, 397; a Panama è ridotto in fin di vita, I, 397; guarito va a Lima, I, 397; commessogli il comando di una nave va da Lima a Hong-Kong, I, 397; riapproda a Lima, I, 399; a New-York prende il comando di una nuova nave, I, 399; toccato New-Castle giunge a Genova, I, 400; a Nizza abbraccia i suoi, I, 400; datosi al cabotaggio va a Marsiglia, è intenzionato comprare Caprera, I, 400; si stabilisce a Caprera, I, 401; prende l’incarico di liberare i prigionieri di Santo Stefano, I, 404; a Genova parla con Foresti sui casi d’Italia, I, 405.
Visita Cavour a Torino, I, 411; a Voltaggio fa un proclama ai giovani, I, 412; aderisce all’Associazione Nazionale, I, 413; conferisce col Cavour intorno alla futura guerra, I, 417; torna a Torino chiamato da Vittorio Emanuele, I, 419; annunzia la guerra a’ suoi amici, I, 420; è chiamato da Caprera per capitanare i Cacciatori delle Alpi, I, 423; per Savigliano, Chivasso e Cavagnole giunge a Brusasco co’ suoi Cacciatori, I, 426; presidia Verrua e s’accampa sulle alture di Bruzzolo, I, 427; prende posizione a Ponte Stura, Casale, Bolzola e Rive, I, 430; a Ponte di Casale ributta il nemico, I, 431; va a San Salvatore dal Re che gli dà ordini scritti, I, 431; contromarcia per Brozzolo, invia la brigata verso Chivasso e va a Torino dal Cavour, I, 432; si pone a San Germano sotto gli ordini del general De Sonnaz per la presa di Vercelli, I, 432: comincia la marcia per la Lombardia, I, 433; tocca Biella, Gattinara, Romagnano, Borgomanero, I, 436; muove su Arona per Castelletto ed occupa Sesto Calende, I, 437; toccata la Lombardia riceve deputazioni patriottiche, giunge a Varese, I, 441; è minacciato dagli Austriaci guidati da Urban, I, 445; si dà alla difesa di Varese, porta il quartier generale a Villa Ponti, I, 447; batte il nemico a Varese e a San Salvatore, I, 449; muove su Como, I, 453; vince a San Fermo, I, 454; entra in Como, I, 456; tenta sorprender Laveno, I, 458; rioccupato Varese dall’Urban, prende posizione a Sant’Ambrogio e Robarello, I, 461; ripiega su Como per Induno ed Arcisate, I, 464; incontra la marchesa Giuseppina Raimondi, I, 465; rientra in Como, I, 466; conclusioni intorno alla sua campagna di Lombardia, I, 467; per Lecco, Caprino e Almenno, piomba su Bergamo, I, 474; è chiamato a Milano da Vittorio Emanuele, I, 476; tornato a Bergamo va a Brescia, I, 478; a Rezzato e a Tre Ponti, I, 480; ultime sue operazioni, I, 483; accetta il comando [679] dell’esercito toscano, I, 487; divide con Manfredo Fanti il comando dell’esercito dell’Italia centrale, I, 491; vien mandato sul confine pontificio con due divisioni, I, 492; è chiamato dal Re a conferire intorno agli Stati pontifici, I, 495; resta dinanzi alla Cattolica a provocare l’insurrezione fra i Marchigiani, I, 499; al governo di Bologna promette desistere dall’impresa d’invadere le Marche, I, 499; ad Imola falsi messaggi gli dicono essere scoppiata l’insurrezione nelle Marche, I, 500; da Rimini comanda alle sue truppe di sconfinare, I, 500; impedito il movimento delle sue truppe va a Bologna a rampognarne Fanti e Farini, I, 501; è chiamato da Vittorio Emanuele che lo consiglia a rassegnare l’ufficio, I, 503; da Genova annunzia con un proclama le sue dimissioni, I, 503; invita gl’italiani ad una sottoscrizione per l’acquisto di un milione di fucili, I, 504; passa qualche tempo a Nizza, I, 505; tocca Caprera, e da Fino indirizza un appello agli studenti di Pavia, I, 505; passato da Milano va a Torino a chiedere l’organizzazione della Guardia Nazionale e fonda l’associazione la Nazione Armata, I, 566; va a Fino a sposare la marchesina Raimondi, I, 508; la ripudia e si porta a Caprera, I, 509; suo operato nell’Italia centrale: conclusioni, I, 510.
Nizza lo manda al Parlamento subalpino, II, 7; svolge a Torino un’interpellanza sulla cessione di Nizza, II, 8; invitato a fare una spedizione in Sicilia, accetta, II, 25; chiede a Vittorio Emanuele milizie regolari per la spedizione, II, 26; non ottenutele va a Quarto ove stabilisce il quartier generale della spedizione, II, 33; soffocata l’insurrezione siciliana dichiara impossibile l’impresa, II, 35; decide la spedizione, II, 36; salpa da Quarto coi Mille, II, 37; scrive a Vittorio Emanuele lo ragioni dell’impresa, II, 40; raccomanda disciplina all’esercito regolare italiano, II, 41; dà istruzioni ad Agostino Bertani riguardo alla spedizione, lasciandolo suo rappresentante sul continente, II, 41; a Bogliasco non trova le armi che gli dovevano pervenire, II, 43; fa rotta per Piombino, II, 44; getta l’àncora a Talamone, II, 45; a Talamone ed Orbetello trova armi e munizioni, II, 45; ordina la legione, II, 47; creduto opportuno promuovere un’insurrezione nell’Italia centrale, divisa farvi una piccola spedizione, II, 48; dà il comando al colonnello Zambianchi, II, 50; fa un proclama ai Romani e dà istruzioni allo Zambianchi, II, 51; nelle acque di Marettimo, II, 58; sbarca a Marsala, II, 60; ove pubblica un proclama ai Siciliani, II, 64; a Rampagallo e a Salemi ha i primi soccorsi d’armati, II, 66; gli muove contro il generale Landi, II, 71; vittoria di Calatafimi, II, 72; sosta ad Alcamo, e per Partinico e Borgetto giunge al Passo di Renna, II, 83; a Piana de’ Greci, a Misilmeri, sulle alture del Parco, II, 86; a Palermo, II, 89; dal borbonico Lanza è invitato ad una conferenza, II, 105; è attaccato in Palermo dai borbonici, fedifraghi alla pattuita tregua, II, 107; prende parte alla conferenza sulla nave inglese Hannibal, II, 109; accetta un armistizio dai borbonici, II, 113; dopo il resultato della conferenza fa un proclama ai Siciliani, II, 113; consente al nemico una tregua di tre giorni, II, 115; si adopra a dare una forma regolare al governo di Palermo, II, 117; resta padrone di Palermo, II, 117; provvede ai bisogni del nuovo governo, II, 120; scambia visite con Persano, II, 125; pensa bene occupare militarmente i centri principali dell’Isola, II, 127; dà lo sfratto al La Farina, II, 128; resta padrone di Milazzo, II, 127, 133; occupata Messina, volge in mente passare lo stretto, II, 147; intorno a ciò riceve una lettera di Vittorio Emanuele, cui risponde, II, 147; elegge Agostino Depretis suo prodittatore nel governo dell’Isola, II, 149; per facilitarsi il passaggio [680] dello stretto si porta al Faro, II, 151; primi tentativi di sbarco, II, 153; commesso al Sirtori il comando dell’esercito, parte dal Faro e si porta al Golfo degli Aranci, II, 154; preso il comando di due brigate di una nuova spedizione, le conduce a Palermo, II, 159; di là va a Taormina a prepararsi allo sbarco sur continente, II, 158; a Melito tocca la spiaggia calabrese, II, 160; s’impadronisce di Reggio, II, 161; la divisione Briganti gli si rende a discrezione, II, 162; muove su Napoli, II, 163; i generali Caldarelli, Flores e Viale gli lasciano libero il passo, II, 164; si sbarazza del general Ghio, II, 164; minacciato dai borbonici concentra le forze ad Eboli, II, 167; entra in Napoli, II, 168; aggrega la marina militare e mercantile napoletane a quella del Piemonte, II, 170; gli annessionisti lo stringono a dare il plebiscito, II, 171; vieta al Depretis far l’annessione della Sicilia, II, 176, 177; rimasta senza prodittatore la Sicilia, si porta a Palermo a ristabilire il governo, II, 178; ordina al Türr di soffocare una sommossa ad Ariano, II, 179; a Caiazzo, II, 180; si prepara alla battaglia del Volturno, II, 183; vince al Volturno, II, 187; alla fazione di Castel Morone e Caserta, II, 193; sua battaglia al Volturno: conclusioni generali, II, 195; il suo esercito s’indebolisce, II, 200; dopo Castelfidardo ed Ancona felicita con lettera Vittorio Emanuele per le vittorie riportate, II, 206; offre a Giorgio Pallavicino la prodittatura, II, 211; il suo dissidio con Cavour s’inasprisce, tenta comporlo il Pallavicino, II, 211; gli si aggrava la questione dell’annessione, II, 214; allontana da Napoli il Mazzini, II, 216; dà la prodittatura ai Pallavicino, II, 216; si sdegna della promulgazione del plebiscito fatta dal Pallavicino, II, 217; Napoli gli chiede il plebiscito, II, 218; delibera l’annessione, II, 220; respinge una sortita de’ nemici da Capua, II, 223; detta un Memorandum alle potenze d’Europa in cui fa voti per la pace de’ popoli, II, 223; fa un proclama alle Due Sicilie, in cui le dichiara annesse all’Italia, II, 227; a Caianello presso Teano incontra Vittorio Emanuele, II, 228; gli chiede di essere primo allo scontro nella futura battaglia e gli è rifiutato, II, 229; si ritira a Napoli, II, 230; scrive a Vittorio Emanuele declinando la dittatura, II, 231; consegna una bandiera alla Legione Ungherese, distribuisce le medaglie ai Mille e passa in rivista il suo esercito a Caserta, II, 231; entra in Napoli con Vittorio Emanuele, ricusando tutti gli onori offertigli, II, 232; lascia Napoli per la sua Caprera, II, 232; la sua impresa delle Due Sicilie: conclusioni generali, II, 235.
Suo tenore di vita a Caprera, II, 242; è visitato da un continuo pellegrinaggio, II, 244; preparasi a sciogliere il voto a Roma e Venezia, II, 245; giungono a lui i lamenti dei suoi commilitoni lagnantisi del trattamento del governo, II, 250; eletto deputato di Napoli va a Torino, II, 255; sua prima seduta al Parlamento italiano, II, 257; riceve una lettera dal Cialdini, II, 266; vi risponde, II, 268; Vittorio Emanuele lo invita presso di lui insieme al Cavour per conciliarli, II, 269; si riconcilia col Cialdini, II, 269; torna a Caprera, II, 271; si attenta alla sua vita, II, 272; è invitato dagli Stati Uniti a prendere il comando dell’esercito federale, II, 275; è visitato a Caprera dal senatore Plezza, che lo invita ad inaugurare i Tiri Nazionali a nome del governo, II, 277; tocca Genova, e a Torino parla col Re e Rattazzi, II, 278; torna a Genova per comporre i dissidi del partito rivoluzionario, II, 280; avute offerte di armamenti dal governo, parte per la Lombardia, II, 283; a Milano visita Manzoni, II, 284; continua il viaggio per Monza, Como, Lodi, Arona, Casalmaggiore, Cremona, II, [681] 285; visitata Brescia, Montechiari, Castelgoffredo, Asola, Desenzano, Pavia, si riduce a Trescorre a preparare una spedizione, II, 288; la sua congiura è scoperta dal governo, II, 290; la sua spedizione è arrestata a Palazzolo e a Sarnico, II, 291; da Torino si porta a Belgirate, II, 292; scrive una lettera al Parlamento spiegando i fatti di Sarnico, II, 293; toccato Torino e Caprera sbarca a Palermo, II, 297; invita il popolo alle armi per toglier Roma ai Francesi, II, 301; visita i luoghi del 1860, a Marsala annunzia la spedizione contro Roma, II, 302; affretta i preparativi della spedizione, II, 303; parte per la Ficuzza ove sono assembrati i suoi volontari, II, 304; ordina la sua gente e s’avvia a Mezzojuso, II, 306; il governo decide opporsi alla sua spedizione, II, 306; passa da Allia, Valledolmo, Villalba, a Santo Stefano una sua colonna viene alle mani co’ soldati regolari, toccata Santa Caterina e Marianopoli entra in Caltanissetta, II, 309; passa da Girgenti, Villarosa, Castrogiovanni, Piazza, Leonforte, San Filippo, Regalbuto, II, 309; riceve una lettera dell’ammiraglio Albini, che si esibisce di condurlo in qualunque porto del regno, II, 309; a Paternò gli vien dato il passo da un battaglione di regolari, II, 310; entra in Catania, II, 312; parte da Catania, II, 313; sua narrazione dei fatti di Aspromonte, II, 314; tocca la costa calabrese ed occupa Melito, II, 316; presa la strada di Reggio volge ad Aspromonte, II, 317: è attaccato dalla truppa italiana, II, 320; è ferito, II, 322; imbarcato sul Duca di Genova, è condotto prigioniero a Spezia e di là al Varignano, II, 324; in Inghilterra, a Stocolma ed a Lipsia gli si decretano grandi onoranze, II, 325; è invitato nuovamente dagli Stati Uniti ad accettare il comando dell’esercito federale, II, 327; è amnistiato, II, 328; gli viene estratta la palla dal piede, II, 329; torna a Caprera non bene ristabilito, II, 332.
Si cruccia di non potere aiutar la Polonia insorgente, II, 333; dà il consenso per una spedizione in soccorso dei Polacchi, II, 335; è invitato dagli Inglesi ad andare nel loro paese, II, 338; è visitato a Caprera dai signori Chambers per deciderlo al viaggio, II, 342; riceve splendide offerte di ospitalità, II, 344; una lettera del signor Thornton Hunt lo avvisa non dispiacere al governo inglese s’effettuasse il progettato viaggio, II, 344; riceve offerte di ospitalità, II, 346; decide il viaggio e va a Malta, II, 346; tocca Gibilterra e sbarca a Southampton ricevuto splendidamente, II, 349; è ospitato dal signor Seely all’isola di Wight, II, 351; suo soggiorno a Wight, II, 351; visita Portsmouth, II, 352; entra in Londra ospitato dal duca di Sutherland, II, 353; suo soggiorno in Londra, II, 357; banchetto con Herzen e Mazzini, II, 359; gli viene conferita la cittadinanza londinese, II, 362; ragioni principali della sua partenza, II, 366; è consigliato al riposo dal dottor Fergusson, II, 374; è consigliato a partire, II, 375; non cede che alle parole del signor Gladstone, II, 376; la notizia della sua partenza scontenta le popolazioni, II, 381; a Chiswick depone una corona sulla tomba di Foscolo, II, 385; parte da Londra per Clifden Park, II, 386; tocca Bristol, a Weimouth visita la squadra, e per Exeter e Plimouth smonta a Penquite Par, II, 388; manda un proclama al popolo inglese, II, 388; a Fowey s’imbarca per l’Italia, II, 388; giunge a Caprera, II, 390; conclusioni generali sul suo viaggio, II, 391.
Lascia Caprera e si porta ad Ischia per preparare una spedizione sotto gli auspicii di Vittorio Emanuele, II, 393; ragioni dell’impresa, II, 393; comincia i preparativi della spedizione, II, 400; gli fallisce l’impresa, II, 403; si divide dal Guerzoni, II, 405; [682] parte per Caprera, II, 407: venuto il 1866 riceve il comando dei volontari, II, 411; i quali gli vengono organizzati dal governo, II, 412; sue relazioni col governo d’Italia intorno ai volontari e alla guerra, II, 416; lascia Caprera e per Genova va in Lombardia a capo dei suoi, II, 423; tocca Como, Monza, Varese, Gallarate, Lecco e Bergamo, ove ordina le sue genti, II, 424; da Brescia muove verso Salò con parte delle truppe, II, 425; abbandona le posizioni del Lago d’Idro, del Caffaro e di Monte Suello per protegger Brescia, II, 426; rimarcia verso il Trentino, II, 427; al combattimento di Monte Suello, II, 430; è ferito, II, 431; al combattimento di Vezza, II, 432; conclusioni generali sulla condotta del primo periodo della guerra nel Tirolo, II, 434; porta il quartier generale a Bagolino, II, 443; scaramuccie di Lodrone e Darzo, II, 444; porta il quartier generale a Storo, II, 445; a Condino, II, 446; s’impadronisce di Ampola, Monte Notta e Monte Giovo, II, 451; a Bezzecca, II, 451; a Cologna si accinge alla presa di Lardaro, quando gli giunge la nuova dell’armistizio, II, 458; conclusioni generali sul suo operato nel Trentino, II, 459; si ritira dal Tirolo, II, 462.
Si prepara a sciogliere il voto a Roma, II, 463; dà opera a far sorgere centri rivoluzionari a tal uopo, II, 465; va a Firenze, II, 466; prosegue per Venezia, II, 467; tocca Bologna e Ferrara, II, 467; partito da Venezia passa per Chioggia, Treviso, Udine, Palmanuova, Belluno, Feltre, Vicenza e Verona sempre con Roma sul labbro, II, 468; battezza un bambino, II, 469; passa in Lombardia e Piemonte, tocca Mantova e si riduce a San Fiorano, II, 470; il centro d’insurrezione romano lo riconosce generale della futura insurrezione, II, 472; giunge a Firenze e prende stanza a Castelletti, II, 475; riceve due delegati del Centro Nazionale Romano che lo invitano all’azione, II, 475; ordina il primo tentativo d’invasione negli Stati romani, II, 475; va a Monsummano per Pescia, Montecatini, Castelfranco e Lucca, II, 478; fusisi i Comitati romani d’insurrezione si prepara all’azione, II, 479; a tal uopo va a Vinci, Siena, Montepulciano, Orvieto e Rapolano, II, 481; assiste in Ginevra al Congresso internazionale della pace, II, 482; torna in Italia per Belgirate e Genestrello, II, 486; invitato all’azione fa un proclama ai Romani, II, 486; tocca Firenze ove trova ostacoli alla sua impresa, II, 487; è invitato dal governo a ritirarsi a Caprera, II, 488: ordina le sue genti ai confini pontificii, II, 489; ove volge i suoi passi, toccando Arezzo e Sinalunga, II, 491; qui è arrestato dal governo italiano, e per Firenze e Pistoia condotto prigione ad Alessandria, II, 492; manda un proclama agl’italiani invitandoli ad aiutare l’impresa di Roma, II, 493; è ricondotto a Caprera, II, 494; invia una lettera al Crispi intorno alla questione romana, II, 495; i tentativi d’invasione de’ suoi volontari lo crucciano di non poter esser fra loro, II, 496; a Caprera è posto sotto la sorveglianza di una squadra di guerra, II, 503: Canzio si accinge a liberarlo di prigionia, II, 505; fugge e ripara in Sardegna, II, 508; giunge a Vado sul continente, II, 511; sotto finto nome va a Livorno, di là per Empoli a Firenze, II, 511; non piegando nè ai consigli nè alle minaccie del governo, parte e sconfina a Passo Corese, II, 514; giunge a Terni, II, 514; ordina e mette in posizione le sue genti, II, 518; a Monterotondo, II, 519; cadono in suo potere Viterbo, Frosinone e Velletri, II, 523; tocca Fornuovo e Castel Giubileo, II, 524; marcia su Roma, poi volge fino a Ponte Nomentano, II, 525; alcuni cattivi elementi mandano in dissoluzione il suo esercito, II, 527; l’intervento francese cresce le difficoltà della sua impresa, II, 530: crede necessario marciare su Tivoli, II, [683] 531; dà le disposizioni per la marcia, II, 533; muove su Tivoli, II, 536: combattimento di Mentana, II, 538; sua ritirata, II, 548; a Figline il governo d’Italia l’arresta, II, 549; è tratto prigione al Varignano, torna a Caprera, II, 552; rompe il suo lungo silenzio con un proclama agli Spagnuoli, II, 552; offre il suo braccio alla Francia, II, 554; sbarca a Marsiglia e giunge a Tours, II, 565; riceve il comando dei Corpi franchi, II, 557; dopo gli scontri di Genlis e Saint-Jean de Losne muove su Autun, II, 560; i suoi battono il nemico a Châtillon-sur-Seine, II, 563; muove su Dijon, II, 564; prende posizione a Lantenay, vince a Prenois, II, 564; tenta infruttuosamente un attacco su Dijon, II, 565; rientra in Autun, II, 567; batte il nemico alle fazioni di Saint-Martin e Saint-Symphorien, II, 568; sue fazioni di concerto al generale Bourbaky, II, 570; scontri fortunati di Montbard, II, 571; occupa Dijon: le tre giornate di Dijon, II, 572; alla fazione di Pouilly la sua gente s’impadronisce di una bandiera nemica, II, 575; fa un proclama lodando i suoi soldati del valore dimostrato, II, 576; porta il quartier generale a Mondaine, II, 577; ritirata su Autun e di là su Lione, II, 578; si porta a Bordeaux all’Assemblea Nazionale, II, 579; torna a Caprera, II, 579; sua campagna nei Vosgi: conclusioni generali, II, 579.
Suoi ultimi anni, II, 585; scrive all’avvocato Petroni intorno all’Internazionale, II, 588; si porta a Roma a proporre l’incanalamento del Tevere, II, 589; è lieto dell’assunzione al governo della Sinistra, II, 590; torna a Roma per avversar la Sinistra e il Depretis, II, 590; si mette a capo della Lega della Democrazia, II, 591; accetta una rendita dallo Stato, II, 593; è dichiarato nullo il suo matrimonio colla marchesa Raimondi, II, 595; sposa la signora Francesca Armosino, II, 598; va a Genova a protestare per l’arresto di Canzio, II, 599; quindi a Milano per la commemorazione di Mentana, II, 599; va ad Alassio a ristabilirsi in salute, II, 601; protesta energicamente contro la politica francese nella questione di Tunisi, II, 601; a questo proposito manda una lettera al giornale La Patria, II, 603; per la commemorazione dei Vespri Siciliani va a Napoli, II, 603; e per le Calabrie, riposando a Catanzaro e passando per Messina, giunge a Palermo, II, 605; fa un proclama alla città di Palermo, II, 606; torna a Caprera, II, 607: sua morte, II, 607; onoranze tributategli in Italia e all’estero, II, 610; ultime sue volontà, II, 613: l’Eroe e il Capitano, II, 618; il Patriotta e l’Umanitario, II, 627; l’uomo privato, II, 638; tutto l’uomo, II, 657.
Garibaldi Manlio, II, 596, 609.
Garibaldi, Maurizio, I, 65.
Garibaldi Menotti; sua nascita, I, 99; a Caprera, I, 403; a Palermo, II, 300; ad Aspromonte, II, 322; a Londra, II, 348; ad Ischia, II, 401; nel Trentino, II, 454, 456; a Mentana, II, 481, 498, 518, 525, 535; alla campagna dei Vosgi, II, 561, 568, 577; a Palermo, II, 607; gli muore il padre, II, 609.
Garibaldi Michele, I, 10.
Garibaldi Raimondi Rosa. Vedi Raimondi Garibaldi Rosa.
Garibaldi Ricciotti; sua nascita, I, 202; a Londra, II, 348, 390; nel Trentino, II, 456; nei Vosgi, II, 561, 563, 571, 575; gli muore il padre, II, 609.
Garibaldi Rosita (prima), I, 376.
Garibaldi Rosita (seconda), II, 596.
Garibaldi Teresita, II, 376.
Garigliano, II, 228.
Gattinara, I, 432.
Gemonio, I, 459.
Genestrello, II, 486.
Genova, I, 24, 39, 220, 246, 400, 405, 503; II, 33, 255, 278, 280, 424, 493, 495, 599.
Gervino Giuseppe, I, 24.
Ghio (generale), II, 164.
Ghirelli, II, 501.
Giaccone (padre), I, 15.
Gianuzzi, I, 232.
Gibilrossa, II, 92.
[684]
Gibilterra, I; 394; II, 349, 390.
Ginevra, II, 482.
Giorgini (maggiore), II, 46.
Giovine Italia, I, 34; suo stato quando accolse nelle sue file Giuseppe Garibaldi, I, 37.
Girgenti, II, 308.
Giulay (generale), I, 428.
Gladstone, II, 352, 358, 373, 376.
Golfo degli Aranci, II, 157, 159.
Gomez Servando, I, 179.
Gonçales de Silva Bento, I, 60, 77.
Gorini, I, 424, 427, 455.
Granville (Lord), II, 358.
Grasse, I, 43.
Griffini, I, 235.
Griggs John, I, 79.
Gualeguaj, I, 71.
Gualeguaychu, I, 177.
Guastalla Enrico, I, 23, 403; II, 482, 512.
Guelfi, I, 386.
Guerzoni, II, 140, 359, 401, 405, 515.
Guiccioli (fattoria), I, 365.
Guild-Hall, II, 362.
Gusmaroli, I, 403
Hervidero, I, 177.
Herzen Alessandro, II, 352, 359.
Hoffstetter Gustav, I, XX, 332.
Hong-Kong, I, 398, 399.
Hyde Park, II, 326.
Imbituba, I, 89.
Imeruy, I, 92.
Imola, I, 500.
Induno, I, 240, 465.
Ischia, II, 393.
Isnardi, I, 332.
Isola (capitano), II, 504, 507.
Italia, suo stato nel 1821, I, 28; nel 1848, I, 196, 229, 247, 259; nel 1859, I, 415; nel 1860, II, 1; nel 1866, II, 408.
Itaparika (goletta), I, 92.
Ivrea, I, 429.
Jesus-Maria, I, 65.
Kinnaird, II, 340, 352.
Klapka (generale), II, 397.
Kuhn, II, 428.
La Carmen, I, 397.
La Farina, II, 16, 35, 128.
Lago di Garda, II, 421.
Lago d’Idro, II, 426.
Lago Maggiore, I, 429.
Laguna, I, 88, 92, 95.
La Loggia, II, 307.
La Marmora, I, 387.
La Masa Giuseppe, II, 31, 35, 47, 69, 83, 91, 93.
Landi (generale), II, 72.
Landi, I, 424, 460.
Lantenay, II, 564.
Lanza (generale), II, 88, 103.
Lardaro, II, 459.
Las Concas, I, 155.
Las Cruces, I, 170.
Las Vacas, I, 195.
Lavalleja Juan Antonio, I, 129, 177.
Laveno, I, 459.
Leblanc, I, 263.
Lecco, I, 475; II, 424.
Ledru Rollin, II, 361.
Lefebre, II, 111.
Lega della Democrazia, II, 591.
Leggiero, I, 360.
Legione Italiana di Montevideo, sua organizzazione, I, 165; primi fatti d’arme, I, 166; sua bandiera, I, 168; combattimenti di Las Cruces e della Boyada, I, 170; eroica battaglia di Sant’Antonio, I, 177; onori tributatile dal governo di Montevideo, I, 187; un manipolo dei suoi passa in Italia, I, 205.
Lemmi Adriano, II, 506, 511.
Leonforte, II, 309.
Lesseps, I, 277.
Letizia (generale), II, 109.
Levante, I, 25, 31.
Liborio Romano, II, 169.
Lima, I, 397, 399.
Lincoln, II, 275.
Lipsia, II, 327.
Liveriero, I, 357.
Liverpool, I, 396.
Livorno, I, 248; II, 511.
Livraghi, I, 332, 357, 360.
Lobbia, II, 571.
Lodi, II, 285.
Lombardi Agostino, II, 403.
Lombardo, II, 37.
Lonato, II, 426.
Londra, II, 326, 353.
Lons-le-Saulnier, II, 577.
Los Patos, I, 77.
Lucca, II, 478.
[685]
Lucignano, II, 492.
Luino, I, 238.
Luisa (goletta), I, 63.
Luna (monte), I, 344.
Macchi, II, 259, 4S3, 485.
Macerata, I, 253.
Macerata Feltria, I, 316.
Maddalena (isola della), I, 393, 400; II, 510.
Magnavacca, I, 359.
Maidenhead, II, 387.
Maineri B. E., I, XXII.
Majatico, II, 270.
Maldonado, I, 64.
Malenchini, I, 488; II, 139.
Manara Luciano, I, 235, 265, 272, 275.
Manchester, II, 358.
Mandriole, I, 365.
Mansion-House, II, 365.
Mantova, II, 470.
Manzoni Alessandro, II, 285.
Marettimo, II, 58.
Marianopoli, II, 308.
Marineo, II, 89.
Mario Alberto, I, XXII; II, 153, 483, 530.
Mario White Jessie, I, XXII; II, 230, 505, 570.
Marocchetti, I, 332, 424.
Marsala, II, 60, 302.
Marsiglia, I, 35, 46, 48, 400; II, 555.
Martin Garcia, I, 153, 177.
Martini Antonio, I, 356.
Masina (colonnello), I, 299, 306.
Massa Marittima, I, 386.
Masséna Andrea, I, 5.
Matteucci Ferdinando, I, 385.
Mauri, II, 475.
Maurigi Ruggiero, I, XXI.
Mazzara, II, 302.
Mazzini Giuseppe, I, 35, 38, 201, 228, 271, 322; II, 216, 359, 386, 394.
Mazzini (barca da guerra), I, 62.
Medici Giacomo, sbarca a Montevideo e si arruola nella Legione italiana, I, 263; è inviato da Garibaldi in Italia ad annunziare la sua spedizione, I, 203; parte per l’Italia, I, 205; crucciatosi con Garibaldi, riannoda con lui l’antica amicizia, I, 224; comanda a Milano il battaglione Anzani, I, 229; combatte a Luino, I, 239; è inviato da Garibaldi ad Arcisate, I, 239; con pochi uomini resiste a cinquemila Austriaci e si ritira in Svizzera, I, 242; va alla difesa di Roma, I, 278; combatte alla Casa Bruciata, I, 307; difende il Vascello, I, 324; è nominato colonnello nei Cacciatori delle Alpi, I, 424; a Varese, I, 450, 456; a Rezzato, I, 489; segue Garibaldi nell’esercito dell’Italia centrale, I, 489; sbarca in Sicilia, II, 125; a Milazzo, II, 127, 133; al Volturno, II, 186, 189; nel Tirolo, II, 458.
Medina Anacleto, I, 177.
Melito, II, 160, 316.
Mella (generale), II, 309.
Mentana, II, 538.
Mercatello, I, 345.
Mercedes, I, 177.
Meri, II, 133.
Messina, II, 146, 605.
Meucci, I, 396.
Mezzacapo Luigi, I, 491.
Mezzojuso, II, 306.
Miceli, II, 482.
Migliavacca, I, 421.
Milano, I, 227, 476, 505; II, 284, 493, 599.
Milazzo, II, 136.
Milian, I, 74, 76, 177.
Misilmeri, II, 90.
Missiones, I, 97.
Missori, II, 73, 141, 153, 160, 162, 370, 403, 483.
Mocarta (barone), II, 67.
Modena, I, 488; II, 493.
Mondaine, II, 577.
Monsummano, II, 478.
Montaldi Luigi, I, 269.
Montanari, I, 332, 366, 385.
Montbard, II, 571.
Montecatini, II, 479.
Montelibretti, II, 501.
Monte Maggiore, II, 518.
Montepulciano, I, 340; II, 481.
Monterchi, I, 343.
Monterotondo I, 33; II, 519.
Monte San Giovanni, II, 524.
Monte Suello, II, 426, 430.
Montevideo, I, 64, 76, 108, 109, 146. Vedi Legione.
Monti Giuseppe, II, 515.
Mont Roland, II, 577.
Monza, I, 232; II, 285, 424.
Morazzone, I, 240.
[686]
Mordini Antonio, II, 216, 359.
Moreschi Antonio, I, 385.
Moringue (colonnello), I, 81, 100.
Mosto, II, 47.
Müller, I, 332.
Mundy, I, XXI; II, 105, 358.
Musolino, II, 153.
Mustarda, I, 99.
Mutro Edoardo, I, 82, 87.
Napoli, II, 168, 254, 603.
Nautonier (brick), I, 48.
Negretti, II, 340, 349, 375.
New-Castle, I, 399; II, 326, 351.
Newport, II, 351.
New-York, I, 396, 399.
Nicotera Giovanni, II, 489, 501, 518, 524, 594.
Nizza Marittima, I, 5, 26, 217, 246, 400, 505; II, 5, 7, 9.
Nostra Signora delle Grazie (La), I, 26.
Novara, I, 225.
Nuova Cava, I, 150.
Odessa, I, 19, 47.
Ogareff, II, 359.
Ondine, II, 390.
Orbetello, II, 46.
Oribe (generale), I, 109, 140.
Orsini, II, 47, 57, 89, 107, 153.
Orvieto, I, 338; II, 481.
Oudinot, I, 261.
Pacheco y Obes, I, XVIII, 163.
Padenghe, II, 427.
Palazzolo, II, 291.
Palermo, II, 91, 298, 605.
Palestrina, I, 275.
Pallavicini (generale), II, 323, 325, 329, 418.
Pallavicino Giorgio, I, 405; II, 211, 216.
Palmanuova, II, 468.
Palmer, II, 111.
Palmerston (Lord), II, 341, 343, 358, 359, 371, 641.
Palos, I, 217.
Pampa, I, 66.
Panama, I, 397.
Pane Giuseppe, I, 47; II, 511.
Panizzi Antonio, I, 404; II, 340, 359.
Pantaleo, II, 70.
Paranà, I, 151.
Parco, II, 87.
Paris Giuseppe, I, 47.
Parma, II, 285.
Partenope, II, 62.
Partinico, II, 82, 85, 302.
Pasolini Giuseppe, II, 285.
Pasques, II, 564.
Passo Corese, II, 514, 518.
Paternò, II, 310.
Patria (La), giornale, II, 603.
Pavia, I, 225; II, 288, 493.
Peard, II, 373, 388.
Penquite Par, II, 388.
Pereira (legno da guerra), I, 148.
Perelli, II, 475.
Perkins, II, 359.
Persano (Di) C., I, XXI; 11, 32, 125.
Pesante, I, 76.
Pesante Angelo, I, 19.
Pescetto (generale), II, 494.
Pescia, II, 479.
Petroni (avvocato), II, 588.
Piana de’ Greci, II, 89.
Piazza, II, 309.
Piccadilly, II, 359.
Picozzi Antonio, I, 229.
Piemonte, II, 37, 423.
Pinelli (ministro), I, 337.
Pio IX, I, 197.
Piombino, II, 44.
Piratinin, I, 77.
Pistoia, II, 492.
Pitigliano, II, 54.
Plata (Stati della), loro storia, I, 109.
Plezza Giacomo, I, 277, 283.
Plimouth, II, 388.
Poggibonsi, I, 386.
Poggio Mirteto, I, 335.
Polonia, II, 333.
Pomarance, I, 386.
Ponte Acuto, I, 337.
Ponte Nomentano, II, 525.
Ponte Stura, I, 430.
Ponte Tresa, I, 241.
Porcelli, II, 397, 400.
Portsmouth, II, 352.
Prandina, II, 614.
Prato, I, 386.
Procida (legno di guerra), I, 148.
Quarto, II, 33, 37.
Quattro-Venti (Casino de’). Vedi villa Corsini.
Quintini, I, 424, 456.
Raimondi Garibaldi Rosa, I, 5, 7 9.
Raimondi Giuseppina, I, 466, 508, 595.
[687]
Rammon (dottore), I, 71.
Rampagallo, II, 60.
Rapolano, II, 481.
Rattazzi, II, 16, 279, 283, 306, 482, 494.
Ravaglia, I, 366.
Ravenna, I, 219, 385.
Ravini (maggiore), II, 498.
Regalbuto, II, 309.
Reggio, II, 161, 316.
Renna, II, 85.
Repubblica romana. Vedi Roma.
Repubblicano, I, 79.
Reumont (De) Alfredo, I, 391.
Rezzato, I, 480.
Ribera (presidente), I, 109, 140.
Riberas Anita. Vedi Anita.
Riboli, II, 483.
Ricasoli, II, 259, 277.
Ricciardi Giuseppe, I, XXI.
Richardson, II, 340, 341, 362.
Ricotti (generale), II, 310.
Rieti, I, 255, 258.
Rimini, I, 495, 500.
Rio della Plata, I, 64, 176.
Rio Grande del Sud, cause che lo sollevarono contro il Brasile, I, 59.
Rio Janeiro, I, 48, 50.
Rio Pardo (lancione da guerra), I, 79, 88.
Ripari (dottore), II, 47.
Ripon (vapore), II, 349.
Riso Francesco, II, 17.
Rive, I, 431.
Rizzo Giovanni, I, 146.
Robarello, I, 462, 466.
Robaudi, II, 8.
Rocca d’Anfo, II, 430.
Rocca d’Arce, I, 297.
Rodney Mundy, I, XXI.
Roma, è visitata da Garibaldi giovinetto, I, 21; fuggito Pio IX, elegge la Giunta Suprema, I, 250; Garibaldi va in sua difesa, I, 250; proclama la repubblica, I, 257; l’intervento francese, I, 261; si prepara alla difesa, I, 262; vince a Villa Pamfili, I, 266; è minacciata dagli Austriaci, dagli Spagnuoli e dal re di Napoli, I, 272; la missione di Lesseps, I, 277, 301; elegge Rosselli comandante supremo dell’esercito e Garibaldi a generale di divisione, I, 279; vince a Velletri, I, 282; tenta invadere il Napoletano, I, 296; è minacciata sempre più dagli Austriaci, I, 299: la giornata del 3 giugno a Villa Pamfili, I, 302; è assediata, I, 314; estrema difesa, I, 326; caduta, I, 328; ospita Garibaldi, II, 589, 591.
Romagnano, I, 436.
Rondinello, I, 455.
Rosas (don Juan Manuel), I, 133.
Rosolino Pilo, II, 16, 70, 83, 86.
Rosselli Giuseppe, I, 280.
Rosselli Pietro, I, 491.
Rossetti Luigi, I, 50, 76, 102.
Roverbella, I, 225.
Rubattino Raffaele, II, 33.
Russell (Lord), II, 358, 386.
Sacchi Gaetano, I, XXVII, 76, 178, 205, 225, 332, 420, 424; II, 26, 153, 268.
Saffi Aurelio, II, 359.
Saint-Jean de Losme, II, 577.
Saint-Martin. II, 568.
Salemi, II, 67.
Salò, II, 425.
Salomone, II, 489.
Salto, I, 177.
San Carlo (piroscafo), I, 238.
San Dalmazio, I, 386.
San Fermo, I, 455, 466.
San Filippo, II, 309.
San Fiorano, II, 471.
San Francesco (paranzella), II, 506.
San Francisco, I, 162.
San Gemini, I, 336.
San Germano, I, 432.
San Giustino, I, 344.
San José (del Norte), I, 98.
San Lorenzo, II, 54, 498, 502.
San Marino (Repubblica di), I, 347.
San Michele, I, 390.
San Pancrazio, I, 302.
San Salvatore, I, 431, 451.
Santa Caterina, I, 83, 97; II, 308.
Santa Fé (nel Parana), I, 71.
Sant’Ambrogio, I, 462, 466.
Sant’Angelo, II, 223.
Sant’Angelo in Vado, I, 346.
Sant’Anna (fratelli), II, 67, 73, 93.
Sant’Antonio, I, 178.
Santa Vittoria, I, 98.
Santo Stefano, I, 404; II, 308.
Santo Stefano (porto di), II, 57.
Sardegna, I, 400.
Sarnico, II, 288, 291.
[688]
Sauvaigo Luigia, I, 25.
Savigliano, I, 426.
Savini Giuseppe, I, 385.
Savoia, II, 5.
Schwarz. Vedi Elpis Melena.
Sciacca, II, 302.
Scilla, II, 324.
Scott (Alderman), II, 362.
Seely (signore), II, 340, 344, 349, 353, 362, 373, 375, 387.
Seival (lancione da guerra), I, 84.
Semeria Carlo, I, 25.
Semidei (Collegio), I, 147.
Serafini Camillo, I, 386.
Sesto Calende, I, 439.
Settembrini Luigi, I, 404.
Seymour (ammiraglio), II, 352.
Sgarallino Andrea, II, 505.
Shaftesbury, II, 340, 352, 386.
Sicilia, I, 248; II, 12.
Siena, II, 481.
Simonetta Francesco, I, 425, 436, 457, 459.
Sinalunga, II, 492.
Sirtori Giuseppe, II, 35, 47, 93.
Sisco, I, 332.
Società Emancipatrice, II, 282, 288, 298.
Somma Amadio, II, 470.
Sonnaz (generale), I, 432.
Soveria, II, 164.
Speranza (La), brigantino, I, 206, 214.
Spezia, II, 325.
Stafford-House, II, 361.
Stagnetti, I, 332.
Stati-Uniti, I, 275.
Sterbini Pietro, I, 253.
Stocco, II, 47, 164.
Stocolma, II, 327.
Storo, II, 445.
Southampton, II, 349.
Stradella, II, 7.
Stromboli, II, 62.
Susini Millelire, I, 424, 455.
Susini Pietro, I, 393.
Sutherland (Lord), II, 340, 344, 349, 353, 358, 373, 375, 387, 401.
Taganrok, I, 33.
Talamone, II, 45, 48.
Talant, II, 565.
Tanara, II, 564.
Tangeri, I, 395.
Tapevi, I, 178.
Taramanday, I, 84, 85.
Tavani-Arquati Giuditta, II, 517.
Taxil Leo, II, 604.
Taylor, II, 340, 359.
Teano, II, 229.
Tennyson, II, 352.
Termini, II, 133.
Terni, I, 335, 514.
Tevere, I, 23; II, 289.
Thornton Hunt, II, 344.
Timoni (signora), I, 25.
Tivoli, I, 273, 332.
Todi, I, 336.
Torino, I, 225, 417, 420, 432, 495, 503, 506; II, 8, 255, 298, 470, 493.
Torino (piroscafo), II, 157, 159.
Torricelli, I, 332.
Torrita, I, 341.
Tours, II, 555.
Trasselli, II, 306.
Tre Ponti, I, 480.
Trescorre, II, 288.
Treviso, II, 468.
Tükery, II, 94, 96, 138.
Tunisi, I, 47, 390.
Türr Stefano, I, 481; II, 46, 47, 93, 127, 177, 179, 180.
Udine, II, 468.
Ugo Delle Favare, II, 606.
Umberto I, II, 610.
Unione (brigantino), I, 47.
Urban (tenente maresciallo), I, 417.
Urquiza (generale), I, 146.
Uruguay, I, 61; compendio storico delle sue vicende politiche, cause della sua guerra contro la Repubblica Argentina, I, 109.
Vacchieri, I, 455; II, 181.
Vado, II, 511.
Valcamonica, II, 427.
Valcuvia, I, 461.
Valle (Della) Giuseppe, I, XX.
Valledolmo, II, 308.
Valletta, II, 348.
Valletta (piroscafo), II, 348.
Valsabbia, I, 484.
Valtellina, I, 484.
Varese, I, 289, 441, 458, 461; II, 7, 415, 424.
Varignano, II, 552.
Vascello, I, 303, 323.
Vecchi (colonnello), II, 417.
Vecchi Candido Augusto, I, XIX; II, 33.
Velletri, I, 282.
[689]
Veloce (corvetta), II, 137.
Venezia, I, 249; II, 468.
Verbano (piroscafo), I, 238.
Vercelli, I, 432.
Verità (don Giovanni), I, 386.
Verona, II, 468.
Verrua, I, 427.
Vezza, II, 430, 432.
Vicari (signor), I, 241.
Vicenza, II, 468.
Viganotti, I, 438.
Villa Corsini, I, 268, 302.
Villa Glori, II, 516.
Villalba, II, 308.
Villa Pamfili, I, 267, 302.
Villa Ponti, I, 448.
Villarosa, II, 309.
Villa Spada, I, 324, 326.
Villa Spinola, II, 33, 37.
Vinci, II, 481.
Vita, II, 73.
Viterbo, II, 517, 523.
Vittorio Emanuele, I, 420, 431, 476, 494, 503; II, 26, 40, 147, 208, 229, 232, 269, 893, 590.
Voltaggio, I, 412.
Volturno, II, 179.
Wampoo, I, 399.
Washington, II, 233.
Weimouth, II, 388.
Wight (isola di), II, 344, 351.
Woolwich, II, 358.
Zambeccari Livio, I, 160.
Zambianchi (colonnello), II, 50.
Zanardelli, I, 479.
Zoffetti Francesco, II, 515.
Zuavo di Palestro, II, 407.
Zucchi (generale), I, 249.
Zuppetta, II, 259.
[691]
Capitolo | ||
VIII. | Da Marsala al Faro (1860) | Pag. 1 |
Carta d’insieme della Sicilia | ivi | |
Piano delle operazioni sotto Palermo | 96 | |
Piano della battaglia di Milazzo | 144 | |
IX. | Dal Faro al Volturno (1860) | 151 |
Piano della giornata del Volturno (1º ottobre 1860) | 193 | |
X. | Da Caprera ad Aspromonte (1861-1862) | 235 |
XI. | Da Londra a Bezzecca (1863-1866) | 332 |
Schizzo topografico delle operazioni di Garibaldi nel Trentino (1866) | 456 | |
XII. | Da Mentana a Dijon. (1867-1870) | 463 |
Schizzo topografico dell’insurrezione romana (1867) | 552 | |
Schizzo topografico della Campagna di Francia (1870) | 584 | |
XIII. | Ultimi anni (1871-1882) | 585 |
XIV. | Epilogo | 618 |
I. L’Eroe e il Capitano | ivi | |
II. Il Patriotta e l’Umanitario | 627 | |
III. L’Uomo privato | 638 | |
IV. Tutto l’uomo | 657 | |
Indice generale dei nomi e delle cose | 671 |
1. In quell’opuscolo scritto, come è noto, dal visconte A. de La Guerronière, ma evidentemente ispirato da Napoleone, si proponeva la creazione d’un Regno dell’Alta Italia, lasciando al Papa la sola città di Roma.
2. Nota-Circolare del conte di Cavour alle Legazioni sarde all’estero, del 27 gennaio 1860.
3. Il signor Artom, oggi senatore del Regno, allora capo del gabinetto del grande Ministro. Vedi Œuvre parlementaire du comte de Cavour, Préface.
4. Maintenant nous voilà complices, parole del Cavour al principe Talleyrand, ministro di Francia a Torino, appena fu sottoscritto il Trattato di Nizza e Savoia. Vedile in Artom, De la Rive, Massari.
5. Nel 1860 al barone De Martini, inviato di Francesco di Napoli a Napoleone, questi diceva: «Scaltri sono davvero gl’Italiani; essi comprendono a meraviglia che, dopo di aver dato il sangue de’ miei soldati per l’indipendenza del loro paese, giammai non farò tirare il cannone contro di essi. È stata questa convinzione che ha guidata la rivoluzione a compiere l’annessione della Toscana al Piemonte contro i miei interessi, e che ora la sospinge ai danni della Casa di Napoli.» — N. Bianchi, Storia documentata della Diplomazia europea, già citata, pag. 298.
6. La frase è d’una lettera diretta allo scrittore di queste pagine in risposta ad una, colla quale, in nome del partito liberale di Brescia, gli aveva offerto la candidatura di quella città.
Riporto la lettera per intero:
«Caprera, 26 marzo 1860.
»Mio caro Guerzoni,
»Mi duole di non poter accettare per Brescia, avendo accettato per Nizza. — La città mia natale si trova in pericolo di cadere nelle ugne del protettore padrone — ed il mio dovere mi chiama sulle sponde del Varo. — Trent’anni al servizio della libertà dei popoli — avrò guadagnato il servaggio della mia povera terra! Domani forse dovrò arrossire di chiamarmi Italiano al cospetto de’ miei compagni d’armi — e mi chiamerete suddito del Due Decembre — del protettore del Papa — del bombardatore di Roma.
»Ringraziate i vostri bravi concittadini, e credetemi sempre
»vostro
»G. Garibaldi.»
7. Non a primo scrutinio però. Il conte di Cavour nella tornata della Camera del 12 aprile per dimostrare che anche in Nizza il partito italiano avverso all’annessione non era tanto forte quanto si credeva, fece notare che sopra 1596 elettori inscritti, Garibaldi non ottenne che 444 voti, cioè solo il 28 per cento; pel che fu resa necessaria una seconda votazione. La conseguenza tratta da quella cifra non ci pare che corra a fil di logica, poichè nel novero di quegli elettori mancavano appunto le classi popolari, che erano più di tutte avverse all’annessione.
8. Non crediamo, per esempio, farina del suo sacco tutta l’argomentazione di costituzionalità; molto meno le parole usate a svilupparla. Ne giudichi il lettore:
«Garibaldi. Signori, nell’articolo 5º dello Statuto si dice:
»I trattati che importassero una variazione di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo ottenuto l’assenso delle Camere.»
»Conseguenza di questo articolo della legge fondamentale si è, che qualunque principio d’esecuzione dato ad una diminuzione dello Stato, prima che questa diminuzione sia sancita dalla Camera, è contrario allo Statuto. Che una parte dello Stato voti per la separazione prima che la Camera abbia deciso se questa separazione debba aver luogo, prima che abbia deciso se si debba votare, e come si debba votare pel principio d’esecuzione della separazione medesima, è un atto incostituzionale.
»Questa, Signori, è la quistione di Nizza sotto il punto costituzionale, e che io sottopongo al sagace giudizio della Camera.» — Atti del Parlamento italiano, Sessione del 1860. Tornata del 12 aprile 1860.
9. Vedi nella Storia documentata della Diplomazia europea, vol. VIII, pag. 275, le Istruzioni al marchese Pes di Villamarina, ministro plenipotenziario di Sardegna presso la Corte di Napoli, e pag. 280, il Dispaccio confidenziale del Cavour allo stesso colla data del 13 marzo 1860.
10. Su queste dimostrazioni vedi La restaurazione borbonica e la rivoluzione del 1860 in Sicilia dal 4 aprile al 18 giugno; Ragguagli storici di Isidoro La Lumia. Palermo, 1860.
Per la parte avuta dai Siciliani del partito d’azione e da Giuseppe Mazzini nell’opera preparatrice della rivoluzione, vedi principalmente Raffaele Villari, Cospirazione e rivolta. Messina, tip. D’Amico, 1861; ed i Cenni biografici e storici dettati da Aurelio Saffi e da lui premessi a proemio del testo al vol. XI degli Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini.
11. Villari, op. cit., pag. 372.
12. Cenni biografici e storici, Proemio di Aurelio Saffi sopra citato, pag. 39. Anche sul viaggio di Crispi in Sicilia e sulla parte da lui avuta ad apparecchiarne la riscossa, vedi nello stesso Proemio molti documenti e particolari; tra gli altri una serie cronologica di Note storiche del Crispi medesimo ed uno scritto anonimo di un Siciliano partecipe al lavoro di quegli anni. In quello scritto si legge fra gli altri particolari che il Crispi pel primo insegnò ai Siciliani a fare le bombe all’Orsini, modellandone egli stesso in creta alcuni campioni.
13. Il La Lumia, opera citata, l’attribuisce alla prima cagione; il Crispi nelle sue Note storiche confidate al Saffi, alla seconda.
14. Rosolino Pilo, patita una fiera fortuna di mare ed altre peripezie, non potè approdare a Messina che il 9 aprile. Vedi sul viaggio di Pilo, Relazione esatta della spedizione di Rosolino Pilo e Giovanni Corrao avvenuta nel 1860, scritta da Raffaele Motto, pilota della paranza, pubblicata per cura di Francesco Zannoni. Spezia, novembre 1877.
15. Fu scritto per delazione d’uno dei frati della Gancia: pura favola. Il processo chiarì che l’involontario delatore fa uno degli operai affigliati alla congiura che la confidò, credendolo fidato, ad un altro operaio, il quale invece altro non era che un arnese occulto della polizia.
16. Vita di Nino Bixio, pag. 173 e segg.
17. Vedi lettera di Garibaldi in risposta ai Siciliani nel Proemio già citato di Aurelio Saffi, pag. 39 e 46.
18. La testimonianza è quella dello stesso colonnello, ora generale Sacchi. Ecco come nel fascicolo de’ suoi Ricordi egli racconta l’episodio:
«La spedizione in Sicilia doveva prima farsi colla brigata Reggio, 45º e 46º reggimento, quest’ultimo da me comandato; Garibaldi da Alessandria ove io stanziava mi chiamò a Torino; mi parlò di quest’idea che aveva subordinata al parere del Re; mi diede istruzioni pel caso si dovesse effettuare; io misi a parte del segreto Chiassi, Isnardi, Pellegrini, Grioli, Lombardi e qualche altro ufficiale del reggimento; dopo qualche tempo mi richiamò a Torino; in presenza di Trecchi, che ritornava d’aver visto il Re, mi disse che non si pensava più a quanto erasi prima ideato; e non solo non ci si pensava, ma bisognava anche che rimanesse nelle fila chi eravi vincolato, salvo ad accorrer poi; ma che intanto bisognava lavorare ad impedire che si sciogliessero forze organizzate; tale era il parere del Re! Fu allora che io chiesi una parola di Garibaldi perchè fossero conosciuti i suoi intendimenti al proposito, e che egli prima di partire redasse l’Ordine del giorno che ho trascritto.»
19. Lettera del generale Fanti, ministro della guerra, al generale Ribotti, Torino, 6 aprile 1860, citata nella Storia documentata della Diplomazia europea, di N. Bianchi, pag. 289.
20. Il dottore Agostino Bertani nel suo opuscolo: Ire politiche d’oltre tomba (pag. 61), dice che il Sirtori al ritorno d’una visita fatta al Cavour, alcuni giorni prima della spedizione, gli narrò che il Conte stesso interpellato cosa pensasse della fortuna di quegli arditi patriotti, rispose sorridendo e fregandosi le mani: «Io non penso che li prenderanno.»
Non vogliamo mettere in dubbio la sincerità del dottor Bertani; ma come si concilierebbe quel racconto del Sirtori con questa lettera da lui stesso diretta nel medesimo giorno al conte Giulini di Milano:
«Partiamo per un’impresa risolta contro i miei consigli. Vedi Cavour e fa’ che non ci abbandoni. La nostra bandiera è la vostra. Aiuti efficaci non ci possono venire che da voi, cioè dal Governo. I nostri mezzi sono troppo al di sotto dell’impresa; ma l’impresa merita che il Governo ci aiuti, e lo può senza compromettersi. Giorni sono vidi Cavour a Genova; gli parlai del nostro disegno, toccai dell’insufficienza dei nostri mezzi; il suo discorso mi lascia sperare aiuto. Egli è il solo che possa aiutare efficacemente, e credo che abbia cuore e mente per comprendere quanto bene farà all’Italia aiutandoci.» — Si trova nella citata Storia documentata della Diplomazia europea, vol. VIII, pag. 290.
21. Vedi l’ormai famosa Lettera di Massimo D’Azeglio a M. Rendu, del 15 maggio 1860.
Il D’Azeglio poi restituì le armi sequestrate, dodicimila carabine Enfields, che servirono per le successive spedizioni.
22. Tutto ciò attesta il suo Epistolario; ma avremo occasione di riparlare di questo, quando incontreremo il La Farina a Palermo.
23. Leggiamo in parecchi libri e giornali che il conte di Cavour, al Persano che lo interpellava sul vero senso dell’ordine ricevuto, rispondesse: «Navighi tra Garibaldi e gl’incrociatori napoletani;» al che l’Ammiraglio avrebbe risposto: «Ho capito; se sbaglio mi manderà a Fenestrelle.» Ma la verità vuole si dica che il Persano stesso, nel suo noto Diario politico militare, racconta un po’ diversamente l’aneddoto, e importa ricordarne il vero tenore:
«9. — .... Devo arrestare i volontari partiti da Genova per la Sicilia su due piroscafi della Società Rubattino sotto il comando del generale Garibaldi, ove tocchino in qualche porto della Sardegna, e più particolarmente a quelli della Maddalena e del golfo di Cagliari, MA DEVO LASCIARLI PROCEDERE NEL LORO CAMMINO INCONTRANDOLI PER MARE.
»Nella via percorsa mi fermo a Tortolì tanto quanto basta ad impostarvi una lettera riservata a S. E. il conte di Cavour, dettatami dall’ambiguità dell’ordine avuto. Gli dico che la spedizione che ho mandato di arrestare non avendo potuto effettuarsi ad insaputa del Governo, ne argomentava non avesse a toccare nè alla Maddalena, nè dove mi si ingiungeva di fermarla; ma siccome potrebbe pur esservi sforzata da eventualità di mare, chiedeva di telegrafarmi Cagliari, quando realmente si volesse l’arresto; e Malta nel caso contrario; proferendomi in qualsiasi evento di salvare sempre colla mia persona il Governo del Re col lasciargli facoltà di oppormi ogni operato della divisione che comando sebbene ordinatomi, e di castigarmi ove occorrano maggiori prove.
»10. — S. E. il conte di Cavour mi telegrafa: Il Ministero ha deciso per Cagliari. Questo specificarmi che la decisione era stata presa dal Ministero mi fa comprendere che egli, Cavour, opinava diversamente; quindi per tranquillarlo mi faccio premura di ripetergli: Ho capito; e risolvo di lasciar procedere l’ardito condottiero al suo destino, ove mai approdasse nei porti in cui erami ingiunto di arrestarlo; facendo ogni mostra atta a far credere sul serio essere io stato nell’intendimento di trattenerlo.» — Vedi Diario citato, pag. 14, 15 e 16.
Ma come ognun vede, qui dell’ordine di navigare tra i Garibaldini e gl’incrociatori non ce n’è parola; quindi la supposta protezione della squadra sarda preparata dal conte di Cavour dilegua in fumo. Il conte di Cavour non voleva impedire la prima spedizione, e faceva certamente voti per la sua riuscita; ma fino al punto di volerla coprire e difendere colle sue navi non era ancor disposto ad arrivare. Oltre di che dicano i marinai, se un ordine dato a una squadra ancorata in Sardegna di coprire dei legni partiti da Genova e diretti Dio sa per quale rotta alla volta di Sicilia, poteva essere dato seriamente e in ogni cosa efficacemente eseguito!
24. Ripeto qui una Nota della mia Vita di Nino Bixio:
«Trascrivo testualmente questo telegramma dal Diario di Bixio. E così fu interpretato dal Crispi che lo ricevette, così fatto leggere a Garibaldi e a quanti lo circondavano. A me pure, venuto in que’ giorni da Brescia con una schiera di cento Bresciani pronti a partire, fu tradotto così. Ora invece il generale Fabrizi mi avverte che il suo telegramma fu male interpretato, e che suonava invece così: L’insurrezione, vinta nella città di Palermo, si sostiene nelle provincie. L’equivoco nacque certamente dall’essere il telegramma in cifra, e una di quelle cifre rivoluzionarie destinate a passare non intese sotto gli occhi di tante Polizie nemiche, quindi più oscura delle altre. Certo il generale Fabrizi non ebbe intenzione di mandare alcuna notizia che avesse per effetto di sospendere una spedizione da lui prima che da ogni altro aspettata e secondata.»
25. Il La Farina aveva ricevuto millecinquecento fucili; ma per quante preghiere gli fossero fatte, non ne volle mai dare più di mille. Ciò è attestato tanto da Garibaldi nei Mille, quanto dal Bertani nelle sue Ire d’oltre tomba, e riconfermato poi da questa lettera del signor Enrico Besana, uno dei direttori del Milione di fucili, illibatissimo patriotta, ma di parte moderata, e la cui testimonianza non può in questa cosa essere sospetta:
«Pregiatissimo sig. Direttore del Giornale La Perseveranza.
»Milano, 12 gennaio....
»Nell’impossibilità di indirizzarmi al signor Ba.... mi rivolgo a lei, perchè voglia rettificare alcune inesattezze inserite nell’appendice del pregiatissimo di lei giornale del 12 gennaio corrente. Parlando di Giuseppe La Farina, l’appendicista attribuisce al suddetto, come presidente della Società nazionale, la somministrazione dei mezzi necessari per la spedizione di Marsala; ma il fatto si è che il La Farina, con tutta la più buona volontà del mondo, non potè contribuire che pochi fucili; l’amministrazione del Milione di fucili, di cui io era indebitamente uno dei due direttori, somministrò tutto il materiale che fu imbarcato, non che centomila franchi in contanti. La spedizione Medici poi fu completamente organizzata, vestita, armata e provveduta persino de’ necessari bastimenti a vapore di trasporto dalla suddetta amministrazione.
»Tutto ciò in onore al vero. Con tutta la stima
»Enrico Besana.»
(Bertani, op. cit., pag. 126.)
26. Circa ai denari che servirono d’erario alla prima spedizione, così scrive il Bertani nelle sue Ire politiche d’oltre tomba, pag. 53 e 54:
«I primi danari per la spedizione, cospicua somma che servì appunto alla compra di armi, di munizioni, di viveri e per cento altri bisogni, vennero da Pavia, città sempre esemplare nella iniziativa delle più ardite e patriottiche imprese, altri e molti ne fornì, come dissi già, la cassa del Milione di fucili. Altre migliaia di lire aveva ricevute Garibaldi dall’America, raccolte da amici suoi.
»I denari per poter salpare li recò a me il 5 maggio a sera, coll’ultima corsa della ferrovia da Milano, l’avvocato Filippo Migliavacca, già tenente de’ volontari del 1859, maggiore a Milazzo, dove morì combattendo.
»Erano le sessantamila lire provenienti dalla cassa del Milione di fucili, e rappresentate da un buono sulla Banca di Genova. Ma l’ora era già troppo tarda per averne il cambio. Che fare? l’imbarazzo era grande quanto la premura.
»Mandai tosto, giacchè io era infermo, presso alcuni ricchi negozianti miei clienti per avere il denaro; ma a quell’ora e con tanta fretta non potei trovare presso di un solo la rilevante somma in metallo.
»Fu necessario che mi accontentassi di trentamila lire in marenghi, che consegnai oltre le 11 ore di notte a bordo dei battelli a vapore già venuti nelle mani dei volontari.»
27. Parole dello stesso Garibaldi nel suo libro I Mille, pag. 7.
28. Catullo, nell’Epitalamio di Teti e Peleo, versi 22-23.
29.
«Quarto, 5 maggio 1860.
»Sire,
»Il grido di sofferenza che dalla Sicilia arrivò alle mie orecchie, ha commosso il mio cuore e quello di alcune centinaia dei miei vecchi compagni d’arme.
»Io non ho consigliato il moto insurrezionale dei miei fratelli di Sicilia; ma dal momento che si sono sollevati a nome dell’unità italiana, di cui Vostra Maestà è la personificazione, contro la più infame tirannide dell’epoca nostra, non ho esitato di mettermi alla testa della spedizione.
»So bene che m’imbarco per un’impresa pericolosa, ma pongo confidenza in Dio, nel coraggio e nella devozione de’ miei compagni. Il nostro grido di guerra sarà sempre: Viva l’Unità d’Italia! Viva Vittorio Emanuele, suo primo e bravo soldato!
»Se noi falliremo, spero che l’Italia e l’Europa liberale non dimenticheranno che questa impresa è stata decisa per motivi puri affatto da egoismo e interamente patriottici. Se riusciremo, sarò superbo d’ornare la corona di Vostra Maestà di questo nuovo e brillantissimo gioiello, a condizione tuttavia che Vostra Maestà si opponga a ciò che i di lei consiglieri cedano questa provincia allo straniero, come hanno fatto della mia terra natale.
»Io non ho partecipato il mio progetto a Vostra Maestà: temeva infatti che per la riverenza che le professo non riuscisse a persuadermi d’abbandonarlo.
»Di Vostra Maestà, Sire, il più devoto suddito
»G. Garibaldi.»
30.
«Soldati Italiani,
»Per alcuni secoli la discordia e l’indisciplina furono sorgente di grandi sciagure al nostro paese. Oggi è mirabile la concordia che anima le popolazioni tutte dalla Sicilia alle Alpi. Però di disciplina la nazione difetta ancora — e su di voi, che sì mirabile esempio ne daste e di valore — essa conta, per riordinarsi, e compatta presentarsi al cospetto di chi vuol manometterla.
»Non vi sbandate, dunque, o giovani! Resto delle patrie battaglie!... Sovvenitevi che anche nel Settentrione abbiamo nemici e fratelli schiavi, e che le popolazioni del Mezzogiorno, sbarazzate dai mercenari del Papa e del Borbone, abbisogneranno dell’ordinato marziale vostro insegnamento per presentarsi a maggiori conflitti.
»Io raccomando dunque, in nome della patria rinascente, alla gioventù che fregia le file del prode esercito, di non abbandonarle.... ma di stringersi vieppiù ai loro valorosi ufficiali, ed a quel Vittorio, la di cui bravura può esser rallentata un momento da pusillanimi consiglieri, ma che non tarderà molto a condurci tutti a definitiva vittoria!
»G. Garibaldi.»
31. Questa lettera fu pubblicata ne’ giornali del 1860 con alcune varianti ed ommissioni; ma noi abbiamo preferito il testo di quella che dallo stesso Agostino Bertani fu spedita in copia ad Antonio Panizzi, che si legge nelle Lettere ad Antonio Panizzi, e che reputiamo il testo originale e genuino.
Nella lezione de’ giornali, precisamente nel periodo che dice: «.... l’insurrezione siciliana non solo in Sicilia bisogna aiutarla, ma dovunque, ec.,» fu ommesso l’inciso: ma nell’Umbria, nelle Marche, nella Sabina, nel Napoletano, ec., di cui a nessuno sfuggirà l’importanza. La ragione dell’omissione non sapremmo dire: probabilmente originò da scrupoli o da ritardi politici: certo che da quell’inciso risultava più chiaramente il concetto di Garibaldi di collegare l’impresa di Sicilia colla insurrezione della rimanente Italia e di aiutare l’una coll’altra.
32. Si seppe dipoi che fu un vero tradimento. Il capo della spedizione piantò in mare, fuggendo sopra un canotto, le paranze che doveva dirigere nello scopo infame di giovarsi della confusione di quella notte per contrabbandare entro Genova molti colli di seta. Vedi Relazione inviata al generale Garibaldi sul fatto delle armi sottratte nelle acque di Genova alla spedizione dei Mille. Sampierdarena, 2 novembre 1874. — Firmati: Stefano Lagorara, Giacomo Canepa, Pietro Botto, Francesco Moro (detto Baxaicò), Giuseppe Oneto, Michele Danovaro, Castello Lorenzo, Castello Girolamo. — Nomi dei superstiti tra coloro che erano stati incaricati di scortare il carico delle armi, e che furono le prime vittime del tradimento.
33. Vita di Nino Bixio, pag. 160. — Ho scritto altra volta sullo stesso tema e mi accadrà spesso di citare me stesso. Chi conosce l’artificio di travestire con diverse parole i medesimi affetti e pensieri, mi condanni.
34. Il fatto è in diversi libri diversamente narrato; Garibaldi stesso ne’ Mille, tradito dalla memoria, confonde Santo Stefano con Orbetello, dice di non essersi messo che il berretto da Generale, mentre noi stessi lo vedemmo in completa uniforme; ed altre inesattezze. Noi ci siamo attenuti al racconto che ne fa il maggiore Pecorini-Manzoni nella Storia della 15ª Divisione Türr nella Campagna del 1860 (Firenze, 1876, pag. 17-18), sembrandoci che un libro riveduto ed approvato dallo stesso generale Türr, in un fatto memorabile che personalmente lo riguarda, debba essere più d’ogni altro esatto e credibile.
La colubrina era da sei, montata su d’un affusto di marina; i cannoncini erano: uno da quattro sull’affusto, gli altri due da sei senza affusto.
35. «La missione di questo corpo è, come fu, basata sull’abnegazione la più completa davanti alla rigenerazione della patria. I prodi Cacciatori servirono e serviranno il loro paese colla devozione e disciplina dei migliori corpi militanti, senz’altra speranza, senz’altra pretesa che quella della loro incontaminata coscienza. Non gradi, non onori, non ricompensa allettarono questi bravi; essi si rannicchiarono nella modestia della loro vita privata, allorchè scomparve il pericolo; ma, suonando l’ora della pugna, l’Italia li rivede ancora in prima fila, ilari, volonterosi e pronti a versare il loro sangue per essa. Il grido di guerra dei Cacciatori delle Alpi è lo stesso che rimbombò sulle sponde del Ticino, or sono dodici mesi: Italia e Vittorio Emanuele; e questo grido, ovunque pronunciato da noi, incuterà spavento ai nemici dell’Italia.
Comandanti delle Compagnie:
»L’organizzazione è la stessa dell’esercito italiano a cui apparteniamo, ed i gradi, più che al privilegio, al merito, sono gli stessi già coperti su altri campi di battaglia.
»Giuseppe Garibaldi.»
(Oddo, op. cit., pag. 187.)
36. Il sono dati l’aggiungiamo noi, fatti per necessità grammatici e linguai. L’Autore dell’Ordine del giorno, che aveva il coraggio d’andare innanzi senz’armi, saprà bene sbarcare a Marsala anche senza un verbo!
37. Vedila a pag. 5 dell’opuscolo: Una pagina di storia del 1860, di Giacomo Medici. Palermo, 1869.
38. Di queste Istruzioni vidi io stesso a Talamone co’ miei occhi l’originale tutto del Generale. Esse restarono qualche tempo nelle mani dello Zambianchi; poi passarono in quelle del professor I. B. Savi di Genova, il quale lo offerse al Gran Bazar aperto in Londra nel 1863 da Giuseppe Mazzini a beneficio di Roma e Venezia. Ma il signor Michele Tassara di Genova, allora incaricato dal Sotto-Comitato delle signore genovesi delle operazioni del sopradetto Gran Bazar, ne tenne copia; e fu da esso che i miei amici dottor Cantoni e capitano Pittaluga poterono ricavare quello che qui si stampa.
39. Che il generale Medici non ignorasse l’assegnamento che Garibaldi aveva fatto su di lui, lo dimostra, oltre la lettera già citata, anche la seguente, che egli dirigeva al Panizzi due giorni dopo la partenza dei Mille:
«Genova, 7 maggio 1860.
»Caro Panizzi,
»Garibaldi con 1500 uomini corre il mare in due battelli a vapore da ieri mattina, alla volta di Sicilia.
»L’impresa è generosa; Dio la proteggerà e la fortuna del fortunato Condottiero.
»Io son rimasto per appoggiare l’ardita iniziativa con una seconda spedizione, o meglio con potente diversione altrove; ma i mezzi ci mancano. Bertani ha fatto miracoli di attività che molto hanno prodotto e che la prima spedizione ha completamente esauriti.
»Caro Panizzi, non lasciarci soli, non lasciamo solo il nostro Garibaldi e suoi generosi compagni, aiutaci ad aiutarlo, tu puoi molto, procura di raccogliere tra pochi amici almeno per la compera di un battello a vapore e di mandarcelo subito subito, con bandiera ed equipaggio inglese: quanto più di marcia veloce, tanto meglio servirà allo scopo.
»Addio; lascio la penna a Bertani.
»Tuo affezionatissimo
»Medici.»
(Vedi Lettere ad Antonio Panizzi, pubblicate da Luigi Fagan. — Firenze, Barbèra editore, 1880, pag. 424-25.)
40. La comandava Andrea Sgarallino: eran circa duecento.
41. Ci spiace doverlo dire, ma il signor Zini non fece che accogliere nella sua Storia le menzogne pontificie, senza nemmeno darsi la cura di vagliarle e appurarle. Quando dal suo racconto si eccettui il giudizio che egli dà dello Zambianchi, esagerato esso pure, poichè in fondo quel pover’uomo era un miles gloriosus che faceva colle sue smargiassate credere di sè peggio di quello che faceva; non resta più una sola parola di vero.
Dico che «lo Zambianchi passò speditamente il confine colla sua banda ingrossata, Dio sa da quanti venturieri, e volteggiò alquanti giorni attorno al lago di Bolsena e tentò l’Agro viterbese; ma indarno, chè scorrazzando quelle terre e taglieggiando per sostenersi e peggio, ben altro che suscitare quelle popolazioni ignare a levarsi, messe in loro un grandissimo sbigottimento.» Tante parole, tanti spropositi. Lo Zambianchi, lungi dal passare speditamente, vi impiegò dodici giorni; non volteggiò e non poteva volteggiare al lago di Bolsena e sull’Agro viterbese, essendosi diretto su Orvieto; molto meno volteggiò alquanti giorni, avendo passato il confine la mattina ed essendone ripartito la sera. Però tutti quegli altri gerundii, SCORRAZZANDO, TAGLIEGGIANDO, sono borra rettorica del periodo e nulla più.
Il signor Zini prosegue: «.... nè guardandosi, improvviso da Montefiascone vennegli addosso polso di Gendarmi e Zuavi pontificii.» (Vennero da Valentano, non da Montefiascone, e soli Gendarmi a cavallo e un reggimento di fanteria svizzera, ma non Zuavi.) «.... La banda, sorpresa al villaggio delle Grotte, andò subitamente fugata e dispersa quasi senza combattere, lasciando parecchi morti nella fuga, li più per mano dei villani infelloniti.» La banda fu sorpresa, come dicemmo, ma non andò subito fugata; fugò anzi, e in che modo, i Pontificii, costringendoli a lasciare i loro morti e feriti sul terreno. È vero che i villani del paese ci erano avversi, e che molti di loro avevano fatto fuoco dalle case; ma non perchè i Garibaldini avessero fatto loro alcun male, ma perchè il villaggio dominato dal Vescovo di Montefiascone era feudo di preti e vecchio nido di barbacani.
Del resto, le pagine del signor Zini non hanno oggi più mestieri di confutazione. Dopo diciotto anni d’ingiusto oblío, anche agli sbarcati di Talamone fu resa giustizia, e il Parlamento equiparandoli, colla legge del 26 gennaio 1879, agli sbarcati di Marsala, ha sciolto al tempo stesso una questione di diritto e di storia.
42. Così giudicarono i principali storici, come il Lecomte, L’Italie en 1860, pag. 37, e il Rustow, Storia della Campagna del 1860; così credettero i giornali del tempo.... così scrisse Garibaldi nella lettera del 25 maggio 1869, che tronca ogni lite:
«Caprera, 25 maggio 1869.
»Fu per ordine mio che la spedizione Zambianchi in Talamone si staccò dal corpo principale dei Mille, per ingannare i nemici sulla vera destinazione di detto corpo.
»Io sono certo che i componenti la spedizione Zambianchi, Guerzoni, Leardi e tutti loro sarebbero stati degni, come sempre, dei loro compagni, ove avessero avuto la fortuna di partecipare ai gloriosi combattimenti di Calatafimi e di Palermo.
»L’onorificenza della medaglia dei Mille accordata dal Municipio di Palermo senza mia richiesta, e la pensione conceduta agli stessi individui fu decretata dal Parlamento nazionale. Io quindi nulla chiedo pei miei fratelli d’armi di Talamone. Ma sarò contento se essi vengono soddisfatti nel loro desiderio.
»G. Garibaldi.»
43. Vedi mia Vita di Nino Bixio, pag. 165-166.
44. La città ed il porto furono ricostruiti dagli Arabi, che vi diedero il nome: Marsa-’Alì (Porto d’Alì).
45. Non siamo noi che le diciamo, sono i Siciliani. — «All’istante Castiglia discese su d’uno de’ suoi battelli unitamente al bravo marino signor Andrea Rossi; girando tutti i piccoli legni ancorati nel porto, imponevano a quei marinari, col revolver alla mano, di inviare gli schifi a bordo del Piemonte loro malgrado.»
Questo è il brano d’un opuscolo: Memorie relative al marino Castiglia, scritto da un Siciliano, ripubblicato nel libro: Alcuni fatti e documenti della Rivoluzione dell’Italia meridionale del 1860, riguardanti i Siciliani e La Masa (opera del La Masa stesso). Torino, 1861, pag. 20.
46. La diceria fu accolta da parecchi ed anche in molte parti dall’acutissimo Zini. Pure bastava il semplice fatto della posizione rispettiva dei bastimenti per chiarirlo dell’errore. I vapori inglesi erano la corvetta Argus e l’avviso Intrepid: il primo era ancorato alla punta del molo; il secondo più entro terra verso scirocco; lo Stromboli si mise di traverso al porto; era dunque materialmente impossibile, finchè i bastimenti inglesi stavano fermi nei loro ancoraggi, che essi potessero impedire il tiro dei bastimenti napolitani.
La fiaba poi fu smentita, prima da un rapporto del capitano Marryatt, comandante dell’Intrepid; poscia da una esplicita dichiarazione di Lord John Russel, ministro degli esteri di S. M. Britannica, fatta alla Camera dei Comuni nella seduta del 21 maggio 1860:
«Lord John Russel. Il mio onorevole amico mi fece una domanda relativa allo sbarco di Garibaldi ed a due vascelli inglesi, che, secondo alcuni telegrammi, dicono avrebbero protetto lo sbarco di quegli uomini. Ebbene, io ricevetti oggi dall’Ammiragliato il dispaccio telegrafico dell’ufficiale comandante uno di questi vascelli, l’Intrepid. Gli onorevoli signori devono sapere che in Marsala vi sono molte case inglesi, e che da tempo, quando si attendeva un’insurrezione nella Sicilia, e specialmente poi quando corse la voce che Garibaldi vi sarebbe andato, erano spôrte dimande al Ministero degli esteri ed all’ammiraglio Fanshawe, che comanda sul Mediterraneo, di mandare vascelli per proteggere le proprietà inglesi nei luoghi dove si trovassero sudditi britannici. Quindi è che l’ammiraglio Fanshawe mandò l’Intrepid e l’Argus a Marsala. L’Intrepid vi giunse, io credo, agli 11; ma non ebbe tempo a fermarvisi molto prima che giungessero due vapori mercantili colle forze di Garibaldi, che cominciarono tosto a scendere a terra. Mentre ciò succedeva, due bastimenti da guerra napolitani, un vapore ed una fregata, s’avvicinarono a Marsala. Ma questo ufficiale dice che, sebbene questi bastimenti potessero far fuoco sui vascelli e sugli uomini durante lo sbarco, nol fecero.
»Non dice, nulla sapendo della storia, che poi fu messa in giro, che i bastimenti inglesi impedissero i Napolitani da fare fuoco; ma dice che, sebbene questi avessero l’opportunità di far fuoco sui vascelli e sugli uomini, nol fecero.
»Dice inoltre che, dopo che gli uomini furono sbarcati, e che i vapori mercantili ebbero sbarcate tutte le truppe di Garibaldi, l’ufficiale comandante il vapore napoletano venne da lui a richiederlo di mandare un battello inglese a prendere possesso di quei vascelli. L’ufficiale inglese, il capitano Marryatt, ben con ragione vi si rifiutò (Hear, hear). Egli non aveva istruzioni che lo autorizzassero a prendere quei vascelli, ed a partecipare in quella faccenda. Le sue istruzioni erano, come sempre è stata la condotta del Governo inglese, di osservare una perfetta neutralità nel conflitto ora insorto (Hear, hear). Perciò, sebbene questo ufficiale non dia formale diniego (per nulla conoscendone l’esistenza) all’allegazione che i suoi bastimenti all’àncora impedissero il fuoco dei vascelli napoletani, possiamo inferire dalla sua relazione che tale non fu il caso. Sembra che il capitano napoletano lo richiedesse di richiamare da Marsala qualunque dei suoi ufficiali fosse a terra, e che egli immediatamente innalzasse un segnale per tal fine, e che quando i suoi ufficiali furono a bordo, sia stato aperto il fuoco contro Marsala dai bastimenti napoletani. Ciò potrebbesi ravvisare come un atto di cortesia internazionale per parte del capitano napoletano, ma punto non implica che i bastimenti inglesi si opponessero al suo fuoco. Non risulta che l’ufficiale inglese eccedesse in modo alcuno il suo dovere. Egli si ritrova colà nello scopo di proteggere gl’interessi britannici e nulla fece di più.»
47. Otto secoli precisi. I Normanni di Ruggiero sbarcarono la prima volta in Sicilia nell’inverno, e la seconda nella primavera del 1060. Nessuno de’ vecchi cronisti siciliani accertò il loro numero: chi li fa trecento, chi quattrocento, chi seicento e più; certo che i quaranta sono pura leggenda.
48. Noterelle d’uno dei Mille, edite dopo vent’anni, di Giuseppe Cesare Abba. Bologna, 1880, pag. 60.
49. Zini, Storia citata, pag. 605.
50. Vedi I Mille pag. 26.
51. Vita di Nino Bixio, pag. 175.
52. Abba, Noterelle citate.
53. Vedi Histoire de la Conquête de l’Angleterre, par Augustin Thierry. Lione, vol. III, pag. 199.
54. Ricordo che il Davoust ad Aerstaedt diceva: «Les braves mourront ici; les lâches iront mourir en Sibérie.»
55. Rustow, La guerra d’Italia del 1860, vol. II, pag. 189 e segg.
56. Vedi I Mille di Garibaldi, pag. 36, e Giuseppe Capuzzi (bresciano, de’ Mille egli pure), La spedizione di Garibaldi in Sicilia. — L’Abba, Noterelle già citate, conferma.
Un altro assalto di bande subirono pure i Regi a Montelepre.
57. «Caro Rosolino. — Ieri abbiamo combattuto ed abbiamo vinto. I nemici fuggono impauriti verso Palermo. Le popolazioni sono animatissime e si riuniscono a me in folla. Domani marcerò verso Alcamo. Dite ai Siciliani che è ora di finirla, e che la finiremo presto; qualunque arma è buona per un valoroso, fucile, falce, mannaia, un chiodo alla punta di un bastone. Riunitevi a noi ed ostilizzate il nemico in quei dintorni, se più vi conviene; fate accendere dei fuochi su tutte le alture che contornano il nemico. Tirate quante fucilate si può di notte sulle sentinelle e sui posti avanzati. Intercettate le comunicazioni. Incomodatelo infine in ogni modo. Spero ci rivedremo presto.»
58. Accompagnavano il La Masa i siciliani cav. Fuxa, Curatolo, Di Marco, Nicolosi, i due fratelli La Russa e Rebaudo.
59. Scriveva alla Direzione del fondo pel milione di fucili:
«Stimatissimi Signori,
»Ebbimo un brillante fatto d’armi avanti ieri coi Regi capitanati dal generale Landi presso Calatafimi. Il successo fu completo, e sbaragliati interamente i nemici. Devo confessare però che i Napoletani si batterono da leoni, e certamente non ho avuto in Italia combattimento così accanito, nè avversari così prodi. Quei soldati, ben diretti, pugneranno come i primi soldati del mondo.
»Da quanto vi scrivo, dovete presumere quale fu il coraggio dei nostri vecchi Cacciatori delle Alpi e dei pochi Siciliani che ci accompagnavano.
»Il risultato della vittoria poi è stupendo: le popolazioni sono frenetiche. La truppa di Landi, demoralizzata dalla sconfitta, è stata assalita nella ritirata a Partinico e a Montelepre con molto danno, e non so quanti ne torneranno a Palermo, o se ne tornerà qualcuno.
»Io procedo colla Colonna verso la capitale, e con molta speranza, ingrossando ad ogni momento colle squadre insorte, e che a me si riuniscono. Non posso determinarvi il punto ove dovete inviarmi armi e munizioni, ma voi dovete prepararne molte, e presto saprete il punto ove dovrete mandarlo.
»Addio di cuore.
»Alcamo, 17 maggio 1860.
»G. Garibaldi.»
Quattro giorni prima aveva parimente scritto al dottor Bertani:
«Salemi, 13 maggio 1860.
»Caro Bertani,
»Sbarcammo avant’ieri a Marsala felicemente. Le popolazioni ci hanno accolto con entusiasmo, e si riuniscono a noi in folla. Marceremo a piccole giornate sulla capitale, e spero che faremo la valanga. Ho trovato questa gente migliore ancora dell’idea che me ne fecero.
»Dite alla Direzione Rubattino che reclamino i vapori Piemonte e Lombardo dal Governo, ed il Governo nostro li reclamerà naturalmente dal Governo napoletano.
»Che la Direzione per il milione di fucili ci mandi armi e munizioni quanto può. Non dubito che si farà altra spedizione per quest’Isola, ed allora avremo più gente.
»Vostro
»G. Garibaldi.»
(Pungolo di Milano del 3 e 4 giugno 1860.)
60. I Mille, pag. 90. Soggiunge per l’onor del vero: «Marcia che, senza la cooperazione di que’ Picciotti delle squadre siciliane, sarebbe stato impossibile di eseguire o almeno di trasportare i pochi cannoni nostri e le munizioni.»
61. Parole sue nei Mille, pag. 90.
62. Non svelò nè all’Orsini, nè ad anima viva la ragione di quella marcia. Solo nel vederlo partire, il Crispi l’udì mormorare: «Povero Orsini, va al sacrificio.»
63. Alberto Mario nel suo Garibaldi (pag. 35) in una descrizione delle mosse di Garibaldi da Renna al Parco, piena, a parer nostro, di molti errori di fatto e di non poche sviste topografiche, afferma che il Capitano dei Mille pensò all’assalto di Palermo per la via di Porta Termini, e quindi alla ritirata manovra per Piana de’ Greci, Marineo, Misilmeri, fin dal suo arrivo al Parco. Ora che Garibaldi meditasse di portarsi sulla via di Termini, è probabile, sebbene non ne abbia dato alcun indizio; ma che egli nello stesso tempo, fin dal 22 o 23, avesse concepita e fermata la finta ritirata, e lo strattagemma che gli aperse dopo Piana de’ Greci la strada di Misilmeri e quella di Palermo, questo ne sembra non solo improbabile, ma viene da tutte le circostanze del fatto smentito.
64. Nel libro: Alcuni fatti e documenti della Rivoluzione dell’Italia meridionale del 1860 riguardanti i Siciliani e La Masa (Torino, tipografia Scolastica Franco e Figli, 1861), a pag. XLVI si legge:
«Lungo la via La Masa incontrò molte guerriglie sbandate che gridavano al tradimento ed alla fuga dei Continentali, perchè, dicevano, era stato ordinato loro di respingere gagliardamente l’attacco del nemico, che i Cacciatori delle Alpi coll’artiglieria sarebbero accorsi ad aiutarli al momento opportuno; ed invece quando essi erano impegnati nel combattimento disuguale, quelli si ritirarono conducendo seco anche l’artiglieria.
»La Masa ordinò la fucilazione per chi avesse ripetute le parole fuga e tradimento — assicurò alle guerriglie che quella ritirata era un’astuzia strategica, ch’esse non avevano saputo comprendere — ordinò che gli sbandati s’incorporassero nella sua colonna, e proseguì la marcia riconducendoli al punto da cui essi erano fuggiti.
»Quanto più inoltravasi, maggior numero di sbandati incontrava, — ripeteva la scena stessa; — non vedendo nessun avviso nè contrordine, ei proseguì il cammino.»
Ora ognuno sa che questo libro fu scritto dal La Masa stesso.
65. Nè dalle istorie, nè dalle testimonianze orali ci fu possibile raccapezzare intorno a cotesto Consiglio di guerra l’esatta verità. Il La Masa nel suo libro (pag. XLIX e LI) attribuisce a sè solo il merito del consiglio più eroico; il Crispi invece ed il Türr, da me in varii tempi interrogati, affermano che il partito dell’assalto fu sostenuto principalmente da essi, contro il Sirtori che stava apertamente per la ritirata. Questi, al contrario, che interrogai del pari quando scrivevo la Vita del povero Bixio, negò recisamente d’aver mai espressa quell’opinione. Insomma non si sa a chi credere! Forse colui che fu meglio servito dalla memoria era il Bixio, il quale soleva dire «che non ci fu discussione, nè ci poteva essere.»
66. Più d’un centinaio era posto fuori di combattimento dalle morti, dalle ferite, dalle malattie; circa altri cento correvano coll’Orsini; dire ottocento dunque è già un dir troppo. Dallo Stato numerico delle Squadriglie siciliane passate in rivista dall’Ispettore generale Türr il 1º giugno 1860, il totale delle loro forze apparisce di 3229 uomini, ma supponiamo che anche il Türr non abbia potuto contarli tutti.
67. Isidoro La Lumia, valente storico della sua Isola nativa; anima rettissima e cuore gentile, rapito anzi tempo agli studi ed alla patria, nel suo opuscolo: La Restaurazione borbonica e la Rivoluzione del 1860, pag. 117, 118 e 119.
68. Vedi: Notamento dei cadaveri rinvenuti nella città di Palermo dal 30 maggio 1860 in poi, ufficialmente constatati dall’Autorità municipale, avvertendo che è stato impossibile di raccogliere più precisi e circonstanziati ragguagli.
69. Lord Brougham alla Camera dei Lordi nella seduta dell’8 giugno; e Lord Palmerston alla Camera dei Comuni in quella del 12 giugno 1860.
70. In alcuni storici (Rustow, op. cit., pag. 214; Zini, op. cit., pag. 612) troviamo che il Console inglese e l’ammiraglio Mundy chiesero ed ottennero dal Commissario del re Francesco la cessazione del bombardamento. Ma nel libro dell’ammiraglio Mundy, che abbiamo sott’occhio (H. M. S. «Hannibal» at Palermo and Naples during the Italian Revolutions 1859-1861. With notices of Garibaldi, Francis II and Victor Emanuel, by Rear-Admiral Sir Rodney Mundy. K. C. B. London, John Murray, 1863), non abbiamo letto una sola parola che giustifichi quell’affermazione. Tutto quanto l’Ammiraglio inglese ha operato per impedire il bombardamento o diminuirne i danni, si riduce a questi due fatti da lui stesso raccontati:
1º Nel 25 maggio, due giorni prima dell’entrata di Garibaldi, l’ammiraglio Mundy scrisse al generale Lanza per pregarlo a risparmiare alla città gli orrori del bombardamento. A questa domanda però, a cui si associò naturalmente il console inglese Sir Podven, il generale Lanza fece questa risposta: «Non credersi obbligato a risparmiare il bombardamento a città ribelle; promettere soltanto che, scoppiando la rivolta, non aprirebbe il fuoco se non due ore dopo cominciate le ostilità, per lasciar tempo ai sudditi stranieri ed ai pacifici sudditi di S. M. di riparare alle navi.» (Vedi nell’op. cit., dalla pag. 99 alla 103.)
2º Essendosi il generale Lanza nella mattina del 28 posto in comunicazione coll’ammiraglio Mundy allo scopo di ottenere la di lui mediazione, l’Ammiraglio aveva creduto bene avvertire il Comandante della Cittadella delle intavolate trattative, richiedendolo nello stesso tempo di sospendere, durante le stesse, il fuoco delle sue batterie. Ma anche questa richiesta ebbe la sorte della prima; poichè il Comandante del forte mandava a rispondere all’Ammiraglio, che era impossibilitato di compiacere a’ suoi desiderii «as his orders were imperative to continue the bombardment unless the answer which I (cioè l’ammiraglio Mundy) should give was a full acquiescence in the proposals which had been made.» (Vedi op. cit., pag. 134.) E in ogni caso ognuno vede che il Mundy si era diretto non al Comandante in capo dell’esercito napoletano, ma ad un ufficiale subordinato, e non con una formale richiesta o protesta, ma con una specie di preghiera, che doveva restare, come restò, inesaudita.
71. Quell’ufficiale si chiamava il capitano Cossovich, comandante della regia fregata Partenope, e corrispondeva col Lanza per mezzo del telegrafo ottico del Castellamare collegato a quello del Palazzo Reale.
72. Mundy, op. cit., pag. 124.
73. Di codesta trama noi non abbiamo dato che i sommi capi. Chi ne voglia vedere il lungo complicato intrigo, legga i capi XI e XII dell’opera citata del Mundy. Soggiungeremo solo, per maggiore chiarezza, che quando il generale Lanza udì che il Mundy, in luogo della chiesta protezione dell’Inghilterra, gli offriva il salvocondotto di Garibaldi, gli replicò secco e sdegnato che egli aveva chiesto la protezione della bandiera inglese, e mancando questa, egli non aveva più nulla a dire all’Ammiraglio. Allora questi ragionevolmente pensò che ogni carteggio in proposito fosse chiuso; quando, con sua grande maraviglia, nella mattina del 29 si vide arrivare quest’altro dispaccio del Commissario regio: «Riferendomi all’ultima corrispondenza, mando i due Generali a conferire con lei. Il fuoco sarà sospeso da ambe le parti verso sera.» Che cosa significava questo sibillino dispaccio? Il Lanza si riferiva all’ultima corrispondenza! Ma l’ultima corrispondenza aveva precisamente conchiuso, che il Mundy credeva necessario l’intervento di Garibaldi e che il Lanza non poteva accettare questa condizione. Ora come mai poteva riferirvisi? Certo il Commissario regio voleva traccheggiar sopra un equivoco, sperando con questo di strappare all’Ammiraglio britannico una concessione che altrimenti non avrebbe mai fatta. L’Ammiraglio cansò ancora il tranello e replicò per la terza volta al generale Lanza la lettera seguente, che fu l’ultima e che testualmente pubblichiamo:
«Rear-Admiral Mundy to General Lanza
(Translation.)
Hannibal, at Palermo, May 29, 1860, Noon.
»Sir — From your Excellency’s last communication al 7 P. M. yesterday, in which you state it is not necessary to speak to me any more, I concluded the correspondence was finished. But as you again earnestly request my mediation, I consent to receive the two Generals on board, provided general Garibaldi allaws them to pass through his lines. My boat will be at Porta Felice to receive them.
»(Signed) G. Rodney Mundy.»
74. Ho ritradotto testualmente la traduzione in inglese dell’ammiraglio Mundy, che varia in alcune parti da quelle che corrono per le storie, ma che credo più genuina, come quella che venne testualmente comunicata in copia dal generale Lanza all’Ammiraglio stesso.
75. Mundy, op. cit., pag. 142.
76. Non lo riseppe che nella sera del 28; tanto fu il segreto serbato da quella brava popolazione sulle mosse del liberatore.
Il Lanza non aveva tardato di spedire ai due comandanti, nella giornata stessa del 27, un corriere che li avvisava dell’accaduto e prontamente li chiamava; ma il corriere fu spacciato, ed il plico, di cui era latore, riportato, dopo la liberazione di Palermo, a Garibaldi.
77. Stando ad un rapporto del luogotenente Wilmot (in Mundy, op. cit., pag. 145), sembrerebbe che quella colonna fosse entrata da Porta de’ Greci e venisse di fianco dall’Orto botanico; ma tutte le nostre testimonianze ci ripetono che la colonna entrò per la Porta di Termini: forse quella veduta dal Wilmot ne era un distaccamento.
Nel libro: Storia della 15ª Divisione Türr nella Campagna del 1860 in Sicilia e Napoli, per il maggiore di fanteria Carlo Pecorini-Manzoni (Firenze, 1876, pag. 63), si legge che fu il Letizia, il quale per l’appunto traversava la città per recarsi a bordo dell’Hannibal, a correre a Porta Termini a far cessare il combattimento. Ciò non è nè poteva essere. Il convegno sull’Hannibal era fissato per le due, e il Letizia vi arrivò contemporaneamente a Garibaldi; non poteva dunque traversare Palermo tra le 10 e le 11, ora in cui accadde lo scontro a Porta Termini.
Lo stesso maggiore Pecorini fa intervenire al fatto di Porta Termini il generale Türr. È probabile ch’egli pure sia accorso a veder che fosse quell’inaspettato combattimento e si sia adoperato a farlo cessare; come accorsero e s’adoperarono altri, fra i quali il Sirtori; ma gli attori principali dell’episodio furono quelli da noi citati.
78. Non ci arrestiamo a smentire tutti gli altri favolosi racconti di questo episodio; diremo solo che Alberto Mario nel suo Garibaldi (pag. 38) lo fa accadere il 1º giugno!
79. In molti libri si legge Türr. Lo stesso Generale ci assicurò che è un errore.
80. Il Mundy, op. cit., pag. 147, dice: «Whether this arrangement was an act of simple politeness on their part, or a premeditated scheme for accertaining if he would be received with military honours, I do not pretend to say, but as they did not immediatley follow him up the accomodation ladder et struck me the delay was not entirely accidental.»
81. Mundy, op. cit., pag. 148.
82. Mundy, op. cit., pag. 150.
83. Ib., pag. 150.
84. Mundy, op. cit., pag. 153.
85. Ib., pag. 153 e 154. — Del resto, la parola unmeasured terms è dell’ammiraglio Mundy, non nostra, e siamo ben lungi dal confermarla. Quali che fossero i termini usati da Garibaldi (villani non saranno stati certamente), non era mai unmeasured dire in quel momento e a siffatto nemico il fatto suo. Se anche, per generosità, non si voglia scorgere nel fatto di Porta Termini alcuna perfidia premeditata, resta sempre l’altro fatto ancor più irritante d’un nemico, che dopo aver sollecitato dal proprio avversario la grazia d’una conferenza o d’un armistizio, ricusava poi di riconoscere l’avversario stesso nella persona del suo capitano supremo, e di trattare con lui! Pensiamo che alla sortita del generale Letizia un Inglese avrebbe forse risposto, effetto di temperamento, con più flemma, ma l’avrebbe anche assai probabilmente fatto saltare nella lancia di bordo, e rimandato a voga più che arrancata a terra.
86. Mundy, op. cit., pag. 156.
87. Abba, Noterelle d’uno dei Mille, ec., pag. 154.
88. Fino dal 2 sul vaporetto Utile erano già sbarcati a Marsala altri cinquantasei volontari, parte Siciliani, parte Continentali. Li guidava Carmelo Agnetta e portavano, oltre che il loro braccio, qualche soccorso d’armi e di munizioni. Non poterono però penetrare in Palermo che la mattina del 5 giugno.
89. E non gliene mancava la ragione. Il conte di Cavour lavorava già da tempo a promuovere un pronunciamento fra gli ufficiali della flotta borbonica; e all’uopo gli serviva d’intermediario l’ammiraglio Persano, autorizzato a mettersi in corrispondenza cogli ufficiali stessi «ed a spendervi qualche danaro occorrendo.» (Diario citato, pag. 22.) L’8 di giugno poi, narra lo stesso Persano (pag. 29) che il comandante Vacca andò ad un convegno datogli da lui e disposto, per solo vivo sentimento d’italianità, ad inalberare sul suo legno la bandiera italiana. E tralasciando la parte non bella che facevano in tutto questo così il conte di Cavour come l’ammiraglio Persano, si vede che il Lanza aveva fiutato il pericolo.
90. Decreto del 17 giugno 1860.
91.
«Al bello e gentil sesso di Palermo.
»Colla coscienza di far bene, io propongo cosa gradita certamente ad anime generose come voi siete, o donne di Palermo!... A voi che io conobbi nell’ora del pericolo!... belle di sdegno e di patriottismo sublime!... disprezzando nel furore della pugna le immani mercenarie soldatesche, ed animando i coraggiosi figli di tutte le terre italiane, stretti al patto di liberazione o di morte!
»Fidente a voi mi presento, vezzose Palermitane!... e per confessarvi un atto mio di debolezza, io vecchio soldato dei Due Mondi, piansi.... commosso nell’anima!... e piansi.... non alla vista delle miserie e del soqquadro a cui fu condannata questa nobile città!... non al cospetto delle macerie del bombardamento e dei mutilati cadaveri; ma alla vista dei lattanti e degli orfani dannati a morir di fame!... Nell’Ospizio degli orfani novanta su cento lattanti periscono mancanti d’alimento! Una balia nutre quattro di quelle creature fatte ad immagine di Dio!... io lascio pensare il resto all’anima vostra gentile, già addolorata dalla nuova desolante.
»Nei molti congedi della mia vita, il più sensibile sarà certamente quello in cui mi dividerò da voi, popolazione carissima!... Io sarò mesto in quel giorno!... ma spero la mia mestizia raddolcita da voi, nobile parte di questo popolo, colla speranza, col convincimento, che le derelitte innocenti creature, cui più la sventura che la colpa ha gettato un marchio d’infamia!... ripulse lungi dal seno della società umana!... dannate ad una vita di vituperio e di miserie.... quelle infelici, dico, restino affidate alla cura preziosa di queste care donne, a cui mi vincola, per la vita, un sentimento irremovibile d’amore e di gratitudine!
»G. Garibaldi.»
92. Il Decreto era del 20 giugno.
93. Ci atteniamo alle cifre date dal Medici nella sua lettera a Garibaldi, scrittagli da Cagliari il 12 giugno, e che si legge nel Diario Persano (pag. 33), benchè il Resoconto del fondo del Milione di fucili, che abbiamo potuto consultare, presenti, circa al numero delle armi segnatamente, qualche differenza. Ma di ciò poco monta. Importa forse più mettere in sodo che le spese della seconda spedizione, checchè altri ne abbia scritto, furono tutte sostenute dallo stesso fondo del Milione di fucili sopra ricordato, come risulta da questo specchietto cortesemente favoritomi dal mio dilettissimo amico Enrico Guastalla, segretario allora del fondo dei fucili, ordinatore principale della spedizione Medici, in appresso Capo di Stato Maggiore della stessa Divisione: patriotta e soldato valoroso quanto modesto, che l’Italia presente degli arruffoni e dei ciarlieri dimentica, ma che la futura ricorderà.
Seconda spedizione. | |
Colonnello Giacomo Medici. | |
Battelli a vapore. | |
Importo dei tre vapori Washington, Oregon e Franklin con approvvigionamenti e paghe agli equipaggi comperati in Marsiglia, comprese le spese di viaggi, telegrafi, corrispondenze e provvigioni. | L. 752,489.55 |
Oggetti d’armamento. | |
Nº 4850 fucili francesi. | |
Nº 200 carabine Enfield. | |
Nº 200 fucili di Liegi. | |
Sciabole, revolwers, cartuccie, capsule ed altri accessorii, per | 324,596.10 |
Oggetti di equipaggiamento, per | 22,144.27 |
Oggetti di abbigliamento, per | 60,266.64 |
Totale | L. 1,159,496.56 |
94. Vedi lettere sue al conte di Cavour del 10, 18, 25, 28 giugno e 2 luglio 1860.
95. Vedi Diario privato politico-militare dell’ammiraglio Persano, parte I, pag. 47. Lettera scritta dal conte di Cavour all’Ammiraglio stesso.
96. Ecco quell’articolo:
«Sabato 7 corrente, per ordine speciale del Dittatore, sono stati allontanati dall’Isola nostra i signori Giuseppe La Farina, Giacomo Griscelli e Pasquale Totti. I signori Griscelli e Totti, côrsi di nascita, sono di coloro che trovano modo ad arruolarsi negli uffici di tutte le polizie del Continente.
»I tre espulsi erano in Palermo cospirando contro l’attuale ordine di cose. Il Governo, che invigila perchè la tranquillità pubblica non venga menomamente turbata, non poteva tollerare ancora la presenza tra noi di codesti individui venutivi con intenzioni colpevoli.» — Vedi Epistolario di Giuseppe La Farina, tomo II, pag. 376.
97. Di averlo ignorato lo disse all’ammiraglio Persano, al quale soggiunse anche di non lo voler disdire. — Vedi Diario citato, pag. 73.
98. Il conte di Cavour, il 13 luglio, scrivendo all’ammiraglio Persano, faceva l’ipotesi che Garibaldi si mettesse un giorno o l’altro in opposizione col Governo del Re; ma s’affrettava a soggiungere che questo non poteva accadere, se non quando si giudicasse dal Re giunto il tempo di operare l’annessione di Sicilia e Napoli. Ora queste parole provano che al dì 13 luglio, quel tempo il Conte non lo credeva ancora venuto. Del resto quella lettera del 13 luglio onorerà la previdenza, ma non certo la lealtà, del conte di Cavour, e basti la citazione di questo brano a provarlo:
«In quest’ipotesi (nell’ipotesi della resistenza di Garibaldi all’annessione), importerebbe sommamente che tutte le forze marittime passassero immediatamente sotto il di lei comando. Io son certo che noi possiamo fare affidamento assoluto sopra Piola. Ma ciò non basta; bisogna che egli possa portar seco tutti i legni che comporranno la squadra di Garibaldi, perciò sarebbe bene che questi legni fossero comandati da ufficiali fidati. Io la autorizzo quindi ad accettare le dimissioni di tre o quattro ufficiali della squadra, a cui Piola affiderebbe il comando dei varii legni, di cui il Governo della Sicilia dispone. Questi devono essere scelti in modo da non lasciare il benchè minimo dubbio sulla loro devozione al Re ed alla Monarchia costituzionale.
»In questo momento rispondo a Piola, che mi fece richiesta d’alcuni ufficiali, di rivolgersi a lei per conoscere le mie intenzioni, e che ha piena facoltà di mandarle ad effetto.»
Da questa lettera sarebbe difficile argomentare quale de’ tre personaggi il conte di Cavour, l’ammiraglio Persano e il comandante Piola facesse la più triste figura. Il conte di Cavour cospirava con un Ammiraglio del Re e un Ministro di Garibaldi stesso, tentando ammutinargli contro o portargli via la flotta. L’ammiraglio Persano doveva farsi complice della trama, dando a Garibaldi degli ufficiali di marina infidi, disposti, a un dato momento, ad abbandonarlo e tradirlo. Il signor Piola, ministro della Marina di Garibaldi, chiesto da lui e depositario della sua fiducia, doveva dar l’ultima mano al complotto, mettendo a bordo quegli ufficiali e consegnando al momento anche la squadra.
Fortunatamente quel disegno, nato certamente da un triste incubo del conte di Cavour, non ebbe bisogno d’esser mandato a compimento; ma quel disegno prova che, se Garibaldi credeva d’essere attorniato da insidie, non aveva tutti i torti. (Vedi Diario citato, pag. 41.)
99. Presiedevali Don Antonio Spinelli: n’erano principali per gli Esteri Giacomo De Martino, per le Finanze Giovanni Manno, per la Giustizia Gregorio Morelli, per la Polizia Liborio Romano.
100. Alessandro Nunziante, duca di Mignano, figlio del tormentatore delle Calabrie, e stromento egli stesso delle ferocie di Ferdinando II: dopo aver chiesto di capitanare una spedizione contro Garibaldi, vistolo trionfante, tocco dalla grazia, chiedeva all’improvviso licenza dal suo esercito; offertogli il ritiro, lo rifiutava, rinviando con sdegno pomposo le sue decorazioni e indirizzando a’ suoi soldati un addio, nel quale li esortava a militare per la patria, «quasichè (dice bene lo Zini) egli avesse fino allora portato in petto la patria in compagnia degli esuli e dei macerati negli ergastoli.» Poi riparatosi a Torino e ricevuta colà la parola del conte di Cavour, circa la metà d’agosto torna nascosto a Napoli, e vivendo clandestino ora a bordo dell’ammiraglia del Persano, ora in casa d’amici, cospira a ribellare coll’oro del conte di Cavour l’esercito, al quale pur ora apparteneva; specialmente i Cacciatori, che, a sentirlo, si sarebbe tirati dietro al solo presentarsi. Ma nè egli si presentò, nè i Cacciatori si mossero; pure egli potè essere accolto nell’esercito italiano e morirvi generale! (Vedi Diario Persano, parte II, pag. 16, 35, 36, 44, 66, 73, ec.)
101. Era un antico legno da guerra borbonico; preso dai Palermitani nel 1848 e battezzato Indipendenza, ripreso dal Borbone e restituito al suo primo nome di Veloce.
102. Fra i volontari eran chiamati così dal colore della divisa: tutte di tela bianca quelle del Dunn; con tuniche bigio-scure quelle del Medici.
103. Alberto Mario la racconta con verità. Il Rustow scrisse che lo scontro avvenne nella prima carica, ma è un errore. Io udii narrare il fatto da Garibaldi stesso.
104. Parole del testo della Convenzione 23 luglio 1860, tra il colonnello Anzani ed il generale Garibaldi.
105. In questo, Liborio Romano passava al Ministero dell’interno e il generale Pianell a quello della guerra.
106. Persano, Diario cit., pag. 92.
107. Anche prima di quel giorno, nell’annunciare allo stesso Ammiraglio la lettera di Vittorio Emanuele a Garibaldi, invitava l’Ammiraglio a non cercare d’influire sulle determinazioni di questi, confessando che per poco esso sia ragionevole bisogna che il Governo del Re cammini con lui; e dicendosi pronto a ritirarsi onde facilitare lo stabilimento di una perfetta concordia tra Garibaldi e il Ministero.
Lettera del conte di Cavour al contrammiraglio Persano, estratta dal Diario di questi, parte I, pag. 89.
108. Al Türr ammalato e partito per ragione di cura per il Continente era subentrato nel comando della brigata l’ungherese colonnello Eber.
109. Vedi I Mille, cap. XXXII, pag. 151-152. Che Garibaldi abbia ordinato egli stesso la spedizione romana, lo provano le lettere pubblicamente scritte al Bertani ed al Medici prima di partire da Quarto; l’approvazione tacita o espressa a tutti gli apparecchi fatti dal Bertani al medesimo scopo, e stando ad un’affermazione di Maurizio Quadrio, un telegramma che Garibaldi stesso avrebbe diretto dal Faro tra il 10 e l’11 agosto ad uno dei capi della spedizione romana, e che avrebbe suonato precisamente così: «Io scenderò in Calabria il 19 agosto, voi operate ad oltranza negli Stati romani.» Vedi il Libro dei Mille del generale Giuseppe Garibaldi, Commenti di Maurizio Quadrio, pag. 47 e segg. Il Quadrio però non dice d’aver veduto egli il telegramma: afferma solo che fu veduto da Mauro Macchi, e che una copia autenticata da notaio ne fu consegnata per sua garanzia al colonnello Pianciani.
110. Vedi Diario Persano, quasi tutta la parte seconda.
111. Lettera del conte Leopoldo di Siracusa al re Francesco del 24 agosto 1860, e Indirizzo del Ministero Liborio Romano allo stesso Re del 22 agosto.
112. Vedi Bianchi, Storia documentata della Diplomazia europea, vol. VIII, pag. 322-323.
113. Vedi il Decreto nel Diario Persano, parte II, pag. 117:
«Napoli, 7 settembre 1860.
»Il Dittatore decreta:
»Tutti i bastimenti da guerra e mercantili appartenenti allo Stato delle Due Sicilie, arsenali e materiali di marina sono aggregati alla squadra del Re d’Italia Vittorio Emanuele, comandata dall’ammiraglio Persano.
»Firmato: G. Garibaldi.»
114. L’ammiraglio Persano nel suo Diario citato, parte II, pag. 135, narra:
«Vedo a terra l’ammiraglio Mundy. Egli mi dice che il signor Elliot, ministro d’Inghilterra, aveva avuto un abboccamento col generale Garibaldi a bordo dell’Annibale, essendo stato incaricato da Lord John Russell di dissuaderlo dal suo intendimento di attaccare la Venezia, dacchè tutto induceva a far credere che tale atto sarebbe tornato oltremodo dannoso all’Italia; per l’appunto come s’era detto fra noi due alcuni giorni prima: che il Dittatore, alla comunicazione fattagli dal signor Elliot, aveva risposto, essere egli risoluto di proclamare, ma dal Campidoglio, Vittorio Emanuele Re d’Italia; e che dopo ciò si sarebbe offerto uno de’ suoi luogotenenti per l’impresa della Venezia.»
115. Nicomede Bianchi, Storia documentata della Diplomazia europea in Italia (1859-1861), vol. VIII, pag. 338-339.
116. Consentiamo collo Zini (Storia cit., pag. 702) che «l’arditezza del conte di Cavour venne a contraccolpo della prima arditezza di Garibaldi; onde questi, non quegli, fu il vero motore dell’impresa;» ma non per questo possiamo tenerci dall’ammirarle entrambe. Se anzi una censura può muoversi al conte di Cavour è di troppa temerità. Nel giorno infatti in cui egli spingeva metà dell’esercito sardo al di là della Cattolica, egli non era sicuro che l’Austria, che ingrossava nel quadrilatero, non l’avrebbe assalito. Tanto vero che scriveva a Persano: «Tenga la squadra pronta a partire per l’Adriatico. Faccia una leva forzata di marinai in codeste parti.... Dica al generale Garibaldi, da parte mia, che, se noi siamo assaliti, l’invito in nome d’Italia ad imbarcarsi tosto con due delle sue divisioni per venire a combattere sul Mincio, ec.» (Istruzioni Cavour a Persano, Torino, 22 ottobre 1860.)
Solo alcuni giorni dopo, essendo stato assicurato da Napoleone che l’Austria non l’avrebbe attaccato, o che altrimenti egli, almeno rispetto alla Lombardia, l’avrebbe impedito, il conte di Cavour respirò. Quando poi, nel convegno di Varsavia, la Prussia e la Russia accettarono il principio del non intervento, energicamente difeso dalla Francia e dall’Inghilterra, ogni pericolo svanì, e Cavour potè correre franco fino alla fine. Ma aveva giuocato un terribile giuoco. Per salvare l’Italia dal mostro della rivoluzione aveva rischiato di farla sbranare nuovamente dall’aquila austriaca. Ma poichè l’Austria in fin de’ conti non si mosse, e Cavour vinse la partita, non gli può essere negato l’applauso che ha sempre salutato il successo.
117. Vedi la lettera del Mazzini nei Mille, di G. Oddo, pag. 708.
118. Vedi il suo Proclama in data di Salerno, 7 settembre 1860:
«Alla cara popolazione di Napoli.
»Figlio del popolo, è con vero rispetto ed amore che io mi presento a questo nobile ed imponente centro di popolazione italiana, che molti secoli di dispotismo non hanno potuto umiliare, nè ridurre a piegare il ginocchio al cospetto della tirannide.
»Il primo bisogno dell’Italia era la concordia per raggiungere l’unità della grande famiglia italiana: oggi la Provvidenza ha provveduto alla concordia con la sublime unanimità di tutte le provincie per la ricostituzione nazionale; per l’unità essa diede al nostro paese Vittorio Emanuele, che noi da questo momento possiamo chiamare il vero padre della patria italiana.» (Diario cit., parte II, pag. 115.)
119. Ire politiche d’oltre tomba, di Agostino Bertani, pag. 74 e seg.
120. Doveva alludere a Filippo Cordova e al barone Camerata Scovazzo.
121. Pubblicava nello stesso senso un Manifesto, nel quale è notevole questo periodo:
«Essi vi hanno parlato (ai Palermitani) d’annessione, come se più fervidi di me fossero per la rigenerazione d’Italia — ma la loro mèta era di servire a bassi interessi individuali — e voi rispondeste come conviene a popolo che sente la sua dignità, e che fida nel sacro ed inviolato programma da me proclamato:
»Italia e Vittorio Emanuele.
»A Roma, popolo di Palermo, noi proclameremo il Regno d’Italia — e là solamente santificheremo il gran consorzio di famiglia tra i liberi e gli schiavi ancora, figli della stessa terra.
»A Palermo si volle l’annessione, perchè io non passassi lo Stretto.
»A Napoli si vuole l’annessione, perchè io non possa passare il Volturno.
»Ma in quanto vi siano in Italia catene da infrangere — io seguirò la via — o vi seminerò le ossa.....»
122. Il maresciallo Ritucci, eletto comandante in capo dell’esercito borbonico, aveva sotto i suoi ordini tre divisioni di fanteria, una di cavalleria, alle quali aggiunte le truppe accantonate qua e là a guardia degli Abruzzi, i presidii di Gaeta e di Civitella del Tronto, si vede che la cifra di cinquantamila uomini sta piuttosto al di sotto che al di sopra del vero.
123. Il Rustow, che pare sia stato uno dei consiglieri dell’operazione di Caiazzo, vorrebbe far credere che l’abbia ordinata Garibaldi stesso (Op. cit., pag. 892); ma ciò, siccome narrammo, non è. Garibaldi nel suo libro dei Mille (pag. 276-277) respinge da sè la responsabilità dell’impresa tentata e contro ordine suo, con queste esplicite parole:
«Obbligato di lasciare l’esercito sul Volturno e di recarmi a Palermo per placare quel bravo e bollente popolo nell’esaltazione in cui l’avean spinto gli annessionisti, io aveva raccomandato al generale Sirtori, degno capo dello Stato Maggiore dell’esercito meridionale, di lanciar delle bande nostre sulle comunicazioni del nemico.
»Ciò fu fatto, ma pure chi ne avea l’incarico immediato stimò opportuno di fare qualche cosa di più serio, e col prestigio delle precedenti vittorie non dubitò qualunque impresa essere eseguibile dai nostri prodi militi.
»Fu decisa l’occupazione di Caiazzo, villaggio all’oriente di Capua, sulla sponda destra del Volturno.
»Il 19 settembre ebbe luogo l’operazione: si occupò Caiazzo, ed io giunsi lo stesso giorno per assistere al deplorevole spettacolo del sacrifizio dei nostri poveri volontari, che avendo marciato, secondo il costume loro, intrepidamente sul nemico sino all’orlo del fiume, furono poi obbligati, non trovandovi riparo contro la grandine di palle nemiche, di retrocedere fuggendo, fulminati alle spalle. Il giorno seguente, credo, il nemico inviò un forte nerbo di forze ad attaccare i nostri in Caiazzo, che in pochi furono obbligati ad evacuare, e ritirarsi precipitosamente verso la sinistra del Volturno, dopo essersi valorosamente battuti ed aver perduto non pochi militi, morti, feriti ed affogati nel fiume. L’operazione di Caiazzo fu, più che un’imprudenza, una mancanza di tatto militare, da parte di chi la comandava.
»E serva quell’esempio ai nostri giovani militi, tuttora obbligati a studiare quella manía di macellar gli uomini, che si chiama arte della guerra.»
S’aggiunga: il Pecorini-Manzoni, nella sua citata Storia della XV Divisione Türr, ec., cercando di giustificare il Türr della mossa, si limita a dire, che «egli pensava di lanciare dei distaccamenti al di là del Volturno verso Piedimonte per verificare l’opinione del paese, e trovandovi simpatia organizzare delle squadre di Guardia Nazionale, e con esse tormentare alle spalle ed ai fianchi il nemico e simulare quindi degli attacchi sopra Caiazzo e dietro Capua, per obbligarlo a mostrare le forze che potrebbe spiegare in un fatto d’arme serio contro le forze garibaldine, e non dargli tempo di mandare ad effetto un tale fatto prima che tutta l’armata di Garibaldi fosse riunita sul Volturno.» (Op. cit., pag. 182.)
Infine meglio d’ogni testimonianza valgano le istruzioni che Garibaldi stesso dava in iscritto al maggiore Csudafy, incaricato appunto di comandare una delle scorribande al di là del Volturno, e che chiariscono tutto il pensiero del Generale in capo dell’esercito meridionale:
«Al signor maggiore Csudafy.
»Caserta, 16 settembre 1860.
»Maggiore!
»Con tre distaccamenti, che confiderà a voi il generale Türr, voi passerete il Volturno al di sopra di Capua ove vi convenga.
»Il principale oggetto della vostra missione è di mostrarvi nella retroguardia al nemico dietro Capua e incomodarlo in ogni modo possibile.
»Quindi mostrarvi alle popolazioni circonvicine, fra le quali voi dovete spargere i buoni principii di libertà e d’indipendenza italiana, e spingerle all’armamento contro il dispotismo. Soprattutto voi dovrete ottenere dai vostri soldati che rispettino la gente, le proprietà, e che procurino di farsi amare da tutti e temere dai nemici.
»Per mezzi di cui abbisognate, rivolgetevi alle Autorità locali che munirete di competente ricevuta.
»Se potete spingere alcuno dei vostri distaccamenti (che cercherete d’aumentare quanto possibile) alla frontiera e sul territorio pontificio, farete bene di farlo e spingere pure le popolazioni pontificie a scuotere il giogo.
»Infine voi darete notizie di voi e di qualunque cosa importante al Quartier generale del generale Türr ed al mio.
»Firmato: G. Garibaldi.»
(Pecorini-Manzoni, op. cit., pag. 183-184.)
124. «La nostra linea di battaglia era difettosa; essa era troppo estesa da Maddaloni a Santa Maria.» (I Mille, pag. 280.)
125. Abbiamo usato per brevità la parola Divisione; ma s’ingannerebbe assai chi la prendesse alla lettera. L’esercito meridionale essendo in formazione continua, nulla di più difficile di dare la situazione quotidiana dei corpi. La divisione Türr comprendeva cinque brigate: Sacchi, Eber, Spangaro, De Giorgis, La Masa; ma essendo esse tutte sparpagliate in mezzo alle altre divisioni, può dirsi che la divisione in fatto non esisteva. Così la brigata La Masa era aggregata alla 16ª divisione Cosenz e Milbitz; quella Spangaro alla 17ª Medici, e la brigata Sacchi stava da sè a San Leucio; le brigate Eber e De Giorgis stavano nella riserva. La 18ª divisione Bixio comprendeva tre brigate: quella Dezza, della forza di milleottocento uomini; quella Eberhard, di millecinquecento, e una terza, Spinazzi, di seicentosettanta, più una così detta colonna Fabrizi che non apparteneva a nessuna divisione. La 16ª invece aveva un battaglione Bronzetti nientemeno che a Castel Morone, e una brigata intera, quella Assanti, nella riserva.
La riserva poi era un miscuglio curiosissimo. Essa comprendeva, oltre le nominate:
Brigata Eber | 1600 |
Brigata De Giorgis | 850 |
Brigata Assanti | 1100 |
Un battaglione Paterniti | 250 |
Una brigata calabrese comandata dal colonnello Pace, grossa di oltre duemila uomini, ma di cui soltanto ottocento armati alla meglio e servibili | 800 |
Totale | 4600 |
Centocinquanta uomini di cavalleria, quattrocento del Genio aggregati la maggior parte alla 17ª divisione, e gli artiglieri necessari ai servizio dei trenta pezzi summentovati, compivano l’esercito.
126. I Mille, pag. 282.
127. Il Rustow, pag. 436; il Pecorini, pag. 242, riferiscono queste parole del Generale con alcune varianti. Al solito noi ne prendiamo l’essenziale, lasciando l’accessorio.
128. Altri disse che mandò la notizia della vittoria molto prima, cioè quando giunse a Santa Maria. Nel suo libro dei Mille egli tronca ogni dubbio scrivendo: «In quel momento, 5 pomeridiane, io telegrafai a Napoli: Vittoria su tutta la linea.» — (Vedi op. cit., pag. 297.)
129. Quando diciamo puramente Caserta intendiamo la città, ora capoluogo della provincia.
130. L’abbiamo detto altrove (Vita di Nino Bixio), lo ridiciamo qui, questa e questa sola fu la parte presa da quei Bersaglieri alla battaglia del Volturno. Tutto quanto fu scritto sin qui nell’intento di accrescere a’ regolari e scemare a’ Volontari una gloria, a cui basta d’essere italiana, è assolutamente falso: falso che essi abbiano partecipato in un modo qualsiasi alla giornata del 1º; falso che abbiano contribuito alla vittoria del 2, la quale era già ottenuta prima di combattere, che fu una razzía di truppe disperse, non un combattimento, e che in ogni caso sarebbe stata decisa dai movimenti aggiranti di Garibaldi e del Bixio, non dalle poche fucilate di quei pochi Bersaglieri contro l’avanguardia sviata d’una colonna venuta a cascare nel centro delle nostre linee.
131. Rustow, op. cit., pag. 449.
132. E non abbiamo mestieri di citare esempi più recenti. Il La Marmora non comandò in Crimea più di quindicimila uomini, eppure fu nominato Generale d’armata. Castelfidardo fu un combattimento di posizione di otto o diecimila uomini contro cinque o seimila, eppure il Cialdini fu nominato Generale d’armata, e nessuno dubitò mai che que’ due Generali non fossero capaci di condurre più grossi eserciti.
133. Rapporto del generale Bixio sul fatto d’armi di Maddaloni, in data di Caserta, 6 ottobre 1860.
134. I Mille, pag. 292-293.
135. È doloroso il pensare che la battaglia del 1º ottobre non abbia ancora ottenuto nella storia delle armi italiane il posto che le conviene. Storici anche autorevoli ne parlano con una leggerezza da far dubitare della loro serietà. A mo’ d’esempio, nella Storia militare del colonnello Carlo Corsi, professore di Storia militare alla Scuola superiore di guerra (libro di testo anche per gli allievi della R. Accademia militare), terza parte, pag. 295 e seg., ci sono tali errori e di fatto e di apprezzamento da legittimare il sospetto che lo storico abbia mai riflettuto un istante alle cose da lui narrate. Noi riproduciamo qui il suo racconto, accompagnandolo di brevissime osservazioni, lasciando giudice il lettore se a siffatti romanzi convenga il nome di storia, e di storia destinata all’educazione della mente o del cuore della gioventù militare della patria nostra:
Pag. 295. «Battaglia del Volturno o di Santa Maria (1º ottobre). — Lo scopo primo del radunamento delle truppe borboniche sul Volturno, cioè rassodar le milizie e fermar Garibaldi, era stato ottenuto; ora bisognava procedere alla riscossa, come Radetzky nel 1848, col massimo vigore. Ma invece di tener riuniti attorno a Capua quei quaranta e più mila uomini e adoperarli per una gran riscossa, i Generali del re Francesco li divisero tra Capua e Gaeta in modo che non più di un ventimila rimasero disponibili sul Volturno tra San Clemente e Caiazzo....»
1º Errore. — Non sappiamo d’onde lo storico abbia attinto questa cifra. Essa è patentemente erronea. L’esercito del Volturno sotto il comando del generale Ritucci componevasi di tre Divisioni complete di fanteria ed una di cavalleria, e quando si aggiunga a queste le armi secondarie e il presidio di Capua, si supera di molto la cifra di quarantamila uomini da noi stabilita.
Pag. 295-296. «I Garibaldini s’erano distesi sulla sinistra del Volturno; debole era la loro sinistra attorno a Santa Maria, aggirabile la loro destra per l’alto Volturno e i monti sopra Caserta e Maddaloni. La loro situazione era ancora più pericolosa di quella dei Toscani a Montanara e Curtatone nel 1848.»
Questo lo vide e lo disse anche Garibaldi. Ma perchè lo storico non soggiunse che quella situazione, data l’esiguità delle forze garibaldine, era la sola tenibile in quel caso?
Pag. 296. «Dal lato dei Garibaldini la divisione Medici teneva Sant’Angelo, la divisione Cosenz Santa Maria, Türr stava presso Caserta, Bixio presso Maddaloni, Garibaldi aveva il suo quartiere in Caserta. Il 1º ottobre quindicimila Borbonici con molta cavalleria, sboccando da Capua sotto il comando del generale Ritucci, assaltarono all’improvviso e con molto impeto la sinistra dei Garibaldini a Santa Maria....»
2º Errore. — Il primo errore è dimostrato dal secondo. Se l’esercito borbonico sommava appena a ventimila uomini e quindicimila attaccavano Santa Maria, bisognerebbe supporre che all’attacco di tutto il resto della linea comprendente le posizioni di Sant’Angelo, Caserta, Maddaloni, il generale Ritucci non ne avesse impiegati che cinquemila, il che sarebbe stato semplicemente assurdo.
Pag. 296. «.... E di primo lancio s’impadronirono d’una gran parte di quella città....»
3º Errore. — I Borbonici, come narrammo, non s’impadronirono mai d’alcuna parte, nè grande nè piccola, di Santa Maria. Essi non poterono mai oltrepassare la linea di Porta Capuana.
Pag. 296. «L’attacco si estese prontamente a sinistra su Sant’Angelo, ove il combattimento fu vivissimo. La divisione Türr s’avanzò a rinforzo. Un reggimento toscano, condotto dal colonnello Malenchini, investì il fianco destro degli assalitori dal lato di San Tammaro....»
4º Errore. — Il Türr condusse i rinforzi sol quando fu chiamato da Garibaldi, il Malenchini ribattè gli assalti dell’estrema destra nemica sul lato di San Tammaro, ma in principio non in fine della battaglia e non in guisa da liberar San Tammaro, ma solo da contrastar la posizione. Il contr’attacco decisivo fu diretto tra Sant’Angelo e Santa Maria e capitanato, siccome scrivemmo, da Garibaldi in persona. Non sono, a tutto rigore, errori, ma inesattezze che sfigurano l’aspetto della battaglia.
Pag. 296-297. «Par tuttavia tra quelle milizie tumultuarie, composte la massima parte di gente eccessivamente sensitiva e affatto nuova alla guerra, quel vigoroso assalto cagionò grande scompiglio, anzi fuga e sbandata che portò lo spavento fin nel cuore di Napoli.»
5º Errore. — Di fuggiaschi e di sbandati ce ne furono di certo, come ce ne sono in tutti gli eserciti e in tutte le battaglie; ma parlare «di fuga e sbandata che portò lo spavento fino a Napoli,» come se tutto l’esercito garibaldino avesse dato le spalle al primo urto, è peggio che errore. Non si può accusare di fuga e sbandata un esercito inferiore di numero che contrasta il terreno per oltre sei ore e dà tempo alle sue riserve di soccorrerlo.
«.... Ma Garibaldi, Medici, Türr ed altri capi minori con quelle poche migliaia di valorosi che loro rimasero, sostennero e rintuzzarono l’attacco, che impetuoso da principio, poi sul più bello languì e sfumò indietro per mancanza di spinta, d’alimento, di buona direzione. I soldati aveano fatto assai bene la parte loro, ma i Generali non s’accorsero nemmeno dei vantaggi che aveano ottenuto, perchè erano troppo lontani dal luogo ove le loro truppe combattevano, e sentito che il nemico resisteva, invece di mandar rinforzi e spingere innanzi comandarono la ritirata, e l’effetto fu come di una sconfitta....»
6º Errore. — La frase ambigua: «e l’effetto fu come di una sconfitta,» ci toglie di penetrare la vera intenzione dell’Autore. Se egli ha voluto dire che la sconfitta de’ Borbonici fu più apparente che reale, i particolari della battaglia da noi narrati lo smentiscono.
Pag. 297. «Anche la cavalleria v’ebbe qualche parte, con isvantaggio dei Borbonici, che furono ricacciati dagli Usseri ungheresi. I Garibaldini inseguirono fin presso Capua. La perdita dei Borbonici fu di circa duemila uomini, quella dei Garibaldini di circa millecinquecento uomini.
7º Errore. — La cifra delle perdite borboniche è arbitraria. Se tra le perdite si devon computare i prigionieri, quelle de’ Borbonici superò di certo i quattromila. Quanto ai Garibaldini dicemmo più sopra che il danno loro fu di circa cinquecento morti, milletrecento feriti, milletrecento sbandati o prigionieri; molto maggiore quindi da quello affermato dallo storico.
Pag. 297. «Se nel concetto dei Generali del re Francesco quel fatto dovea essere una ricognizione (inopportunissima), il risultato più ragionevole avrebbe dovuto esserne una vera battaglia il dì seguente. Ma così non fu. Dal canto suo Garibaldi, che in quel dì s’era veduto quasi sfuggir di mano, insieme a tanta parte delle sue forze, la vittoria e la fortuna....»
8º Errore. — Come Garibaldi, che a capo di ventimila ribatte l’assalto di quarantamila, prende loro circa tremila prigionieri e richiude il rimanente in una fortezza, si sia veduto sfuggir di mano la «vittoria e la fortuna,» davvero non sappiamo comprendere. Che far doveva Garibaldi? forse dar l’assalto a Capua?
Pag. 297. «.... Aveva chiesto al Ministro del re Vittorio Emanuele a Napoli il sussidio di alcuni battaglioni di truppe regolari, che là stavano nel porto sui navigli di S. M., e quegli avea fatto sbarcare il primo battaglione Bersaglieri e lo avea avviato in fretta a Maddaloni e Caserta....»
9º Errore. — Non fu veramente Garibaldi a chieder rinforzo delle truppe piemontesi, bensì il suo Capo di Stato Maggiore, il Sirtori; ma tralasciando questo, fa maraviglia che un ufficiale dell’esercito regolare ignori che le truppe dell’esercito settentrionale, venute da Napoli a Caserta la sera del 1º ottobre, furono non solo un battaglione di Bersaglieri, ma anche un battaglione del 1º reggimento della brigata Re.
Pag. 297. «Combattimento di Caserta (2 ottobre). — Frattanto il corpo aggirante di sinistra (generale Von Mechel), passato il Volturno a Caiazzo, era stato ritardato dalle cattive strade nella sua marcia alla volta di Caserta, sicchè la sua azione tattica nella giornata del 1º non s’era estesa più là che a tenere a bada Bixio. La mattina del 2, non avendo ancora notizia di ciò che era avvenuto il dì prima e dei mutati intendimenti del Re, quel corpo scese su Caserta. Ma intanto che un corpo di Garibaldini, rinforzato dal primo battaglione Bersaglieri, lo tratteneva di fronte sulle alture di Caserta Vecchia, Bixio da Maddaloni si portava a tagliargli la ritirata al Ponte delle Valli, in conseguenza di che una parte di quella mal capitata colonna (duemila uomini circa) posava le armi. V’era in tutto ciò motivo sufficiente da crescer l’animo ai Garibaldini e scemarlo ai Borbonici, tra i quali i malumori contro i loro ufficiali e Generali proruppero allora più violenti nelle aperte accuse di viltà e tradimento. Garibaldi rassicurato riprese il suo disegno di manovrare contro la sinistra del nemico.»
10º Errore. — Gli spropositi intorno a questa giornata sono tanti, che davvero non ci è che una frase sola per confutarli: tutto falso. Falso che il corpo aggirante di sinistra, Von Mechel, passasse il Volturno a Caiazzo; falso che mirasse a Caserta; falso che attaccasse il Bixio a Maddaloni solo per tenerlo a bada. Von Mechel era già da giorni di qua dal Volturno; veniva dalla grande strada di Piedimonte d’Alife, marciava direttamente su Maddaloni coll’intendimento di sfondare l’estrema destra garibaldina e aprirsi di là la via per Napoli. Il corpo che passò il Volturno presso Caiazzo diretto su Coperta era quello del Perrone, spalleggiato dal Ruiz, e fu arrestato il 1º d’ottobre a Castel Morone e fatto prigioniero il 2, non colla sola opera del Bixio, ma con quella altresì, come dicemmo, di Garibaldi e del Sacchi che lo circuirono dalla loro sinistra.
E basti. Se così nei nostri Istituti militari si insegna la storia delle battaglie italiane, che cosa sarà mai di quella delle altre nazioni?
136. La comandava il maggiore Carlo Smiles, e non il colonnello Peard (accrebbe lo sproposito stampando Pearce), come scrive il Cantù, Cronistoria, vol. III, parte II, pag. 509. Nel rimanente gli spropositi, e usiamo mite parola, di questo libro sono tanti e tali, nella parte militare principalmente, che ci è impossibile, non che confutarlo, leggerla seriamente.
137. Erano settemila, sopra un esercito (contando i depositi, i presidii, i servigi d’amministrazione e d’intendenza) di trentacinquemila.
138. Alberto Mario, Garibaldi, pag. 53.
139. È però ammiranda, non saprei dire se più per schiettezza o per abilità, la Nota da lui diretta il 9 novembre alla Prussia, la sola che coll’Inghilterra non avesse ritirato il suo rappresentante; e nella quale ribatteva con stupenda eloquenza tutte le censure mosse all’occupazione delle Marche e dell’Umbria dal barone Schleinitz, ministro di S. M. Prussiana nella sua Nota del 13 ottobre. Vedi Bianchi, Storia docum. citata.
140. Non la ottenne però che nella seduta dell’11 ottobre, in cui fu votato quest’Ordine del giorno:
«La Camera dei Deputati, mentre plaude altamente allo splendido valore dell’armata di terra e di mare e al generoso patriottismo dei Volontari, attesta la nazionale ammirazione e riconoscenza all’eroico generale Garibaldi che, soccorrendo con magnanimo ardire ai popoli di Sicilia e di Napoli, in nome di Vittorio Emanuele restituiva agl’Italiani tanta parte d’Italia.»
E questo articolo di legge:
«Il Governo del Re è autorizzato ad accettare e stabilire per reali decreti l’annessione allo Stato di quelle provincie dell’Italia centrale e meridionale, nelle quali si manifesti liberamente, per suffragio diretto universale, la volontà delle popolazioni di far parte integrante alla nostra Monarchia costituzionale.»
Fu in quel giorno che il conte di Cavour pronunciò uno de’ più eloquenti ed ispirati discorsi della Tribuna italiana; e, per ardimento di concetti, uno de’ più rivoluzionari che uomo di Stato abbia pronunciato da cento anni a quest’oggi. Vedi Il Conte di Cavour in Parlamento, Discorsi raccolti da I. Artom e A. Blanc. Un volume. Firenze, Barbèra, 1868.
141. È uno degli scritti più infelice del Farini, che pure ne dettò in quegli anni di felicissimi.
142. Vedi l’Ordine del giorno del 28 settembre 1860. Pecorini, op. cit. pag. 218-219:
«Caserta, 28 settembre 1860.
»Il Quartier generale è a Caserta: i nostri fratelli dell’esercito italiano comandato dal bravo generale Cialdini combattono i nemici d’Italia e vincono.
»L’esercito di Lamoricière è stato disfatto da quei prodi. Tutte le provincie serve del Papa sono libere. Ancona è nostra: i valorosi soldati dell’esercito del Settentrione hanno passato la frontiera e sono sul territorio napoletano. Fra poco avremo la fortuna di stringere quelle destre vittoriose.
»Firmato: G. Garibaldi.»
143. Frase del Farini a sazietà ripetuta, a sazietà rimproveratagli.
144. Questa, secondo la Presse francese, fu la lettera di Garibaldi al Re, portatagli dal marchese Trecchi:
«Sire,
»Congedate Cavour e Farini, datemi il comando d’una brigata delle vostre truppe; datemi Pallavicino Trivulzio per prodittatore, ed io rispondo di tutto.»
Che in fatto di diritto costituzionale tutte le nozioni di Garibaldi si fermassero alla dittatura, questa lettera lo dimostra. Egli aveva del Re la stessa idea che ne ha il popolo. Il Re può fare e disfare i Ministri; i Ministri soli sono i cattivi genii del Re: solo il Re è buono, anzi bonario, come nei melodrammi, ec.
145. Tornata della Camera dei Deputati dell’11 ottobre 1860.
146. Sentenza dello Zini, Storia citata, vol. I, parte II, pag. 757.
147. Si sa che il Mazzini rispose con altra lettera sdegnosa, risolutamente ricusando di partire.
148. Ecco la prima parte del decreto del prodittatore Mordini:
«In virtù dell’autorità a lui delegata,
»Considerando che i progressi delle armi italiane ravvicinano sempre più il giorno, nel quale sarà costituito sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emanuele II il Regno d’Italia;
»Considerando essere perciò conveniente che la Sicilia si trovi preparata a pronunziare anch’essa il suo voto per entrare in seno alla grande famiglia italiana;
»Volendo a tale oggetto stabilire le condizioni di tempo e di modo;
»Sulla proposta del Segretario di Stato per l’interno;
»Udito il Consiglio dei Segretari di Stato;
»Decreta e promulga:
»Art. 1º I Collegi elettorali, costituiti ai termini del decreto dittatoriale del 23 giugno 1860, sono convocati per il giorno 21 ottobre corrente ad oggetto di eleggere i respettivi loro deputati nel numero stabilito all’art. 4º del decreto.»
149. Gli avversari suoi sostennero che la risposta era stata sfavorevole addirittura. Ma finora il vero si nasconde per difetto di documenti.
Il signor Caranti però, nelle sue Notizie intorno al plebiscito delle Provincie napoletane (pag. 330), non s’arrischia ad affermare che il Dittatore avesse autorizzato il Pallavicino a proporre in Consiglio dei Ministri quel decreto, nè molto meno promesso di approvarlo.
150. Notizie sul plebiscito nelle Provincie napoletane, pag. 334.
151. Caranti, Notizie sul plebiscito, ec., pag. 335.
152. Ecco il Discorso pronunziato in quel giorno:
«In questa Capitale regna la discordia e l’agitazione. Sapete voi chi l’ha eccitata? Quegli stessi che mi hanno impedito di combattere gli Austriaci con quarantacinquemila Volontari; che nell’anno scorso mi vietarono di accorrere con venticinquemila uomini alla vostra liberazione; quegli stessi che spedirono La Farina a Palermo, e chiesero l’immediata annessione, quelli cioè che volevano impedire a Garibaldi di passare lo Stretto e cacciare Francesco II. Si è gridato: morte a questo, morte a quello! Si è gridato contro i miei amici. Gli Italiani non deggiono gridare morte l’uno contro l’altro, essi tutti deggiono stimarsi ed amarsi, perchè tutti hanno contribuito a fondare l’unità d’Italia. Quando sorge discordia, accorrete a me. Non venga una deputazione di marchesi e di principi, ma di semplici popolani, ed io disperderò i dissidii e tranquillerò gli animi. Ieri vi dissi che sarebbe venuto il Re. Oggi ho lettera di lui. Il 9 le sue truppe passarono il confine, e due giorni or sono Vittorio Emanuele si pose alla testa del suo valoroso esercito. Laonde fra breve noi vedremo il nostro Re. Durante questo stato di transizione fate che regnino dovunque la tranquillità, la prudenza, la moderazione; si mostri il popolo napoletano quel bravo popolo che è. Facciamo l’Italia una, a dispetto di quelli che la vorrebbero scissa per tenerla schiava!» — Rustow, op. cit., pag. 564.
153. Abbiamo sott’occhio tre Relazioni di quella importante riunione.
Alcune notizie sul plebiscito delle Provincie napoletane di Biagio Caranti, segretario particolare del Pallavicino, che scrisse colla sua approvazione, se non può dirsi sotto la sua dettatura.
Una Relazione del generale Türr, pubblicata nel 1869, che parla dei fatti, a cui fu parte e testimonio. Una Relazione infine del Giornale Ufficiale di Napoli, organo del ministro dell’interno Conforti, e che si deve ragionevolmente pensare riveduta ed approvata da lui. Se non che, mentre queste tre Relazioni, tutte ugualmente fededegne, sono concordi nei fatti sostanziali, non lo sono punto quanto ai particolari e mettono lo scrittore, costretto a prenderle per fonti, nella più grande incertezza. Sulla impossibilità pertanto di decidere quale sia la più completa e veridica, ci siamo appigliati al partito di comporre un’epitome di tutte e tre, scegliendo in ciascun racconto quelle parti che riferendosi a parole e fatti detti o compiuti dal raccontatore medesimo, o dal suo diretto ispiratore, v’è fondata ragione di credere che siano le più genuine. Il caso di veder narrato diversamente il medesimo fatto dagli stessi testimoni o attori è, pur troppo, frequentissimo, e fa correre per le vene dei terribili brividi di dubbio sull’autenticità della storia.
154. Il 15 ottobre fu anche il giorno, in cui pubblicava il decreto da noi citato più innanzi a pag. 225. In quel giorno eran già entrati in linea sotto Capua a sollievo dei Garibaldini estenuati un reggimento di linea e tre battaglioni di Bersaglieri dell’esercito settentrionale.
155. Il 15 ottobre Garibaldi scriveva e mandava da Sant’Angelo quest’altro Manifesto:
«Per adempiere ad un voto indisputabilmente caro
alla Nazione intera determino:
»Che le Due Sicilie — che al sangue italiano devono il loro riscatto, e che mi elessero liberamente a Dittatore — fanno parte integrante dell’Italia una ed indivisibile — con suo re costituzionale Vittorio Emanuele ed i suoi discendenti.
»Io deporrò nelle mani del Re — al suo arrivo — la Dittatura conferitami dalla nazione.
»I Prodittatori sono incaricati dell’esecuzione del presente decreto.
»Sant’Angelo, 15 ottobre 1860.
»G. Garibaldi.»
Che voleva egli dire? I Ministri ne furono allarmati e credettero scorgervi una nuova voltata del Generale, una seconda disdetta del plebiscito. Non tardarono però a ravvedersi. Garibaldi non aveva voluto con quelle parole che ripetere il suo programma: unire a quello del popolo napoletano e siculo il suo voto, e dichiarare che deponeva senza rancore e senza astio il potere.
156. L’aveva annunziata Garibaldi stesso all’esercito meridionale con queste parole, che sembravano scelte accuratamente per dimostrare sempre più che nessun antagonismo era possibile fra i due eserciti, e ch’egli, Garibaldi, tenne la vittoria d’entrambi per vittoria della sola nazione.
«Ordine del giorno 21 ottobre 1860.
»Il prode generale Cialdini ha vinto presso Isernia. I Borbonici sbaragliati hanno lasciato ottocentottanta prigionieri, cinquanta ufficiali, bandiere e cannoni.
»Ben presto i valorosi dell’esercito settentrionale porgeranno la mano ai coraggiosi soldati di Calatafimi e del Volturno.
»G. Garibaldi.»
(Pecorini-Manzoni, op. cit., pag. 291.)
157. Aveva seco due brigate della divisione Bixio; la brigata Eber e De Giorgis della divisione Türr e la Legione inglese.
158. Di questo incontro di Garibaldi col Re fu molto favoleggiato. Fra le altre cose all’epico saluto di Garibaldi fu messa in bocca del Re la condegna risposta: «Salute al mio migliore amico,» che il Re non diede.
Anch’io in altri scritti credetti al romanzo. Alberto Mario mi disinganna. La risposta del Re fu assai più prosaica, ma vogliamo ritenere non meno cordiale.
159. Alberto Mario, Garibaldi, pag. 78.
160. Forse, accettata l’offerta di Garibaldi, non sarebbe toccato all’esercito piemontese lo scacco del Garigliano (29 ottobre). Il tragitto del Garigliano avrebbe potuto essere tentato o almeno minacciato in più punti e avvenire prima e molto facilmente e sicuramente. E vado più in là: se Garibaldi fosse stato avvisato in tempo dell’avanzarsi de’ Sardi, avrebbe potuto passare prima in qualche punto il Volturno, e impedire o almeno turbare in modo tale ai Borbonici il passaggio del Garigliano da renderlo loro esiziale.
161. Lettera di Garibaldi al re Vittorio Emanuele, 29 ottobre 1861.
162. I commenti per quella mancanza furono molti, acerbi e lunghi. Noi non possiamo credere ad una pensata scortesia; ma nessun impedimento doveva trattenere Vittorio Emanuele dal rendere all’esercito meridionale quel meritato onore. Se il giorno 6 il Re era impedito, la rivista poteva differirsi, ma egli doveva assistervi.
Altre volte, in quei giorni, il Re, mal consigliato, mancò alle forme della cortesia, che erano in quel caso anco le forme della buona politica.
Così, per esempio, fece scrivere al generale Della Rocca un Ordine del giorno di encomio all’esercito garibaldino, che poteva scrivere egli stesso!
163.
«Ai miei compagni d’armi.
»Penultima tappa del risorgimento nostro noi dobbiamo considerare il periodo che sta per finire, e prepararci ad attuare splendidamente lo stupendo concetto degli eletti di venti generazioni, il cui compimento assegnò la Provvidenza a questa generazione fortunata.
»Sì, giovani! L’Italia deve a voi un’impresa che meritò il plauso del mondo.
»Voi vinceste; — e vincerete, — perchè siete ormai istrutti nella tattica che decide delle battaglie!
»Voi non siete degeneri da coloro ch’entravano nel fitto profondo delle falangi macedoniche, e squarciavano il petto ai superbi vincitori dell’Asia.
»A questa pagina stupenda della storia del nostro paese ne seguirà una più gloriosa ancora, e lo schiavo mostrerà finalmente al libero fratello un ferro arruotato che appartenne agli anelli delle sue catene.
»All’armi tutti! — tutti; e gli oppressori — i prepotenti sfumeranno come la polvere.
»Voi, donne, rigettate lontano i codardi: — essi non vi daranno che codardi; — e voi, figlie della terra della bellezza, volete prode e generosa prole.
»Che i paurosi dottrinari se ne vadano a trascinare altrove il loro servilismo, le loro miserie.
»Questo popolo è padrone di sè. Egli vuol essere fratello degli altri popoli, ma guardare i protervi con la fronte alta; non rampicarsi mendicando la sua libertà — egli non vuole essere a rimorchio d’uomini a cuore di fango. No! no! no!
»La Provvidenza fece dono all’Italia di Vittorio Emanuele. Ogni Italiano deve rannodarsi a lui — serrarsi intorno a lui. Accanto al Re Galantuomo ogni gara deve sparire, ogni rancore dissiparsi! Anche una volta io vi ripeto il mio grido: all’armi tutti! tutti! Se il marzo del 61 non trova un milione d’Italiani armati, povera libertà, povera vita italiana!... Oh! no: lungi da me un pensiero che mi ripugna come un veleno. Il marzo del 61, e, se fa bisogno, il febbraio, ci troverà tutti al nostro posto.
»Italiani di Calatafimi, di Palermo, del Volturno, di Ancona, di Castelfidardo, d’Isernia, e con noi ogni uomo di questa terra non codardo, non servile; tutti, tutti serrati intorno al glorioso soldato di Palestro, daremo l’ultima scossa, l’ultimo colpo alla crollante tirannide!
»Accogliete, giovani Volontari, resto onorato di dieci battaglie, una parola d’addio! Io ve la mando commosso d’affetto dal profondo della mia anima. Oggi io devo ritirarmi, ma per pochi giorni. L’ora della pugna mi ritroverà con voi ancora — accanto ai soldati della libertà italiana.
»Che ritornino alle loro case quelli soltanto chiamati da doveri imperiosi di famiglia, e coloro che gloriosamente mutilati hanno meritato la gratitudine della patria. Essi la serviranno nei loro focolari col consiglio e coll’aspetto delle nobili cicatrici che decorano la loro maschia fronte di venti anni. All’infuori di questi, gli altri restino a custodire le gloriose bandiere.
»Noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme al riscatto dei nostri fratelli, schiavi ancora dello straniero, noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme a nuovi trionfi.
»G. Garibaldi.»
164. L’Examiner citato dal Giornale Ufficiale di Napoli, quando però Garibaldi era ancora Dittatore.
165. Garibaldi tentò istituire a Napoli anche i giurati (decreto del Dittatore, 11 settembre 1860); ma non avendo il Ministero Conforti stimato opportuno di introdurre i codici che erano necessario compimento alla Giuría, il decreto restò lettera morta.
166.
«Ministero della Guerra.
»Circolare a tutti gl’Ispettori delle diverse armi.
»In ordine a quanto prescrisse il Dittatore a Palermo, io rendo noto che l’uniforme da adottarsi per l’armata sarà perfettamente identico a quello dell’armata del re Vittorio Emanuele.
»I modelli di ogni arma saranno esposti nelle sale di questo Ministero, affinchè tutti possano uniformarvisi esattamente.
»Il Ministro: Cosenz.»
167. Decreto. Palermo, 22 giugno 1860; e Napoli, 12 settembre 1860.
168. Decreto. Napoli, 11 settembre 1860.
169. Decreto. Napoli, 11 settembre 1860.
170. Decreto. Napoli, 19 settembre 1860.
171. Decreto. Napoli, 19 settembre 1860.
172. Il primo prestito lo fece il Depretis all’82 1⁄2 ed al 5%, accettando in pagamento anche le cartelle del prestito siciliano del 1848 fino al limite della metà del prezzo della rendita medesima.
Il Mordini ne fece un secondo, comperando tutta l’antica e nuova rendita. Fu questa operazione che il Cordova accusò di svantaggiosa (Camera dei deputati, seduta del 28 giugno 1860); ma che il Mordini difese valorosamente, riassumendo così la sua argomentazione:
«Riassumendomi, dico che la sola o quasi sola mia risorsa fu l’alienazione dell’antica e della nuova rendita. La prima fece entrare nelle casse dello Stato lire 841,500, la seconda 7,743,500, in tutto 8,585,000; somma che, unita a quella di 896,760 ricavata dal prodittatore Depretis, dà un totale di 9,481,760.
»Queste furono le risorse straordinarie di una rivoluzione di sei mesi, 9,481,760.» (Atti della Camera dei Deputati, tornata del 1º luglio 1861, vol. II, pag. 1681.)
173. Filippo Cordova, nel già citato suo discorso e in quello successivo del 1º luglio 1861.
174. L’unico abuso di cui fu accusata la Dittatura, in materia di finanza, fu d’aver messo mano sui depositi dei privati, giacenti sul Banco di Napoli.
Il deputato Crispi, nella tornata predetta, tolse a dimostrare: 1º Che l’accusa di violazione dei depositi è male indicata, perchè il Governo dittatoriale non fece che prendere il fondo di guarentigia ch’egli aveva presso il Banco stesso; 2º Che quando mai un simile addebito va rivolto ai Ministri di parte moderata, che sedevano presso Garibaldi dal 28 giugno al 22 luglio 1860.
175. Vedi Interpellanza sulle condizioni di Napoli e Sicilia dei deputati Massari e Paternostro nella tornata del 2 aprile 1861.
176. Queste cose le ripeteva spesso; lo ridisse anche ad una Commissione d’Inglesi, fra cui il duca di Southerland, andato a Caprera tra il 12 e il 13 gennaio coll’apparente scopo di visitarlo, col reale di dissuaderlo dal pensiero d’una spedizione nella Venezia. A questa proposizione il Generale rispose:
«L’Ungheria e le provincie danubiane sono pronte a sollevarsi, e il moto si estenderà infallibilmente alle coste adriatiche. Venezia freme sotto il giogo; e da Venezia la rivoluzione si estenderà al Tirolo italiano. In quindici giorni si può mettere il fuoco da Mantova a Galatz, e quando questa immensa rivoluzione in luogo d’essere abbandonata alle sole sue forze, come suole avvenire in simili casi, fosse sostenuta da un’armata italiana, capace non di vincere, secondo il nostro avviso, ma di tenere in iscacco l’austriaca, non credete che le probabilità a noi favorevoli siano meravigliosamente accumulate e che noi azzardiamo assai meno che non sembri?
177. Il generale Türr e G. B. Cuneo. Vedi una corrispondenza da Caprera alla Perseveranza del 23 gennaio 1861.
178. Lettera di Garibaldi al Bellazzi del 29 dicembre 1860:
«Caprera, 29 dicembre 1860.
»Caro Bellazzi,
»Io desidero l’apertura concorde di tutti i Comitati italiani per coadiuvare al gran riscatto. Così Vittorio Emanuele, con un milione d’Italiani armati, questa primavera chiederà giustamente ciò che manca all’Italia.
»Nella sacra via che si segue io desidero che scomparisca ogni indizio di partiti, i nostri antagonisti sono un partito, essi vogliono l’Italia fatta da loro col concorso dello straniero e senza di noi. Noi siamo la nazione, non vogliamo altro capo che Vittorio Emanuele; non escludiamo nessun Italiano che voglia francamente come noi. Dunque sopra ogni cosa si predichi energicamente la concordia, di cui abbisogniamo immensamente.
»Vostro G. Garibaldi.»
(Pungolo di Milano, 9 gennaio 1861.)
179. Il generale Bixio non accettò l’incarico, riservandosi di conferire col generale Garibaldi a Caprera.
180. Perseveranza, 23 gennaio 1861.
181. Lettera del 29 ottobre di Garibaldi a Vittorio Emanuele, già citata.
182. Decreto in data di Napoli 11 novembre, e Ordine del giorno del Comando supremo dell’esercito, firmato dallo stesso Vittorio Emanuele, in data del 12.
183. Fu il Fanti che nella tornata della Camera dei Deputati del 23 marzo 1861 li dichiarò 7013, e come l’esercito garibaldino, tutti compresi, ondeggiò sempre tra i 35 e i 40,000, la proporzione sarebbe di un ufficiale per 5 soldati e 5⁄8.
184. Io pure, come ufficiale dimissionario dell’esercito meridionale, partecipai a quel litigio e mi spetta quindi la mia parte di torto. A quei giorni credeva alla possibilità della nazione armata; pur conservando l’esercito permanente, volevo anch’io che un secondo esercito di Volontari, modellato sui Volontari inglesi, lo integrasse e rafforzasse. Però soltanto in questa istituzione vedevo la soluzione della questione dell’esercito meridionale, e gridavo con quanto fiato avevo in gola perchè il Governo s’affrettasse a decretarla. Mi illudevo. Contavo sopra uno spirito militare che gl’Italiani non hanno e non ebbero mai. I Volontari sarebbero morti come la Guardia nazionale mobile e stanziale, come i Tiri a segno. L’Italia ha potuto dare a Garibaldi dai trentamila ai quarantamila Volontari (tanti ne ebbe nel 1866) per uno scopo determinato e per un breve periodo; ma un grande esercito di cento o dugentomila uomini, tali che rispondessero veramente al nome ed allo scopo di Nazione armata, e da uguagliare per numero ed organismo la forza dei Rifles Volunteers, o delle Landwehr e delle Landsthurm tedesche, l’Italia non potè nè volle allora, non potrà nè vorrà darlo giammai. L’Italia non è capace d’altre istituzioni militari, che di quelle che la legge impone e lo Stato fonda ed alimenta. Oltre di che, l’esperienza ha chiarito anche me, tardi, ma in tempo, che un Corpo permanente di Volontari, comandato da Garibaldi e dai Garibaldini, sarebbe degenerato immediatamente in un corpo politico, antagonista nato dell’esercito stanziale, probabile strumento di tutte le rivoluzioni, causa perpetua di guai, o almeno d’allarmi alla nazione. Però la risoluzione del Petitti di sciogliere il Corpo de’ Volontari e d’incorporarne gli ufficiali nell’esercito fu la più saggia che Ministro della guerra abbia presa. Ebbe un solo difetto, d’essere tardiva. Il Fanti è dubbio assai se l’avrebbe presa. Egli nutriva contro l’esercito di Garibaldi un’avversione invincibile. Come corpo separato e ausiliare dell’esercito, li avrebbe subiti; come parte dell’esercito stesso non li avrebbe accettati mai. Ed anche come Corpo di Volontari non sapeva decidersi nè a trasfondergli vita organica e durevole, nè a discioglierlo. Qui stava il maggior suo torto. Agiva come uomo che, fatta una incresciosa eredità, non osa rifiutarla; ma pensa disfarsene lentamente, lasciandola consumare dal tempo. E parlava anche peggio che non agiva. Infelice oratore, non sapeva nè riscaldar la lode coll’affetto, nè ammorbidire la censura colla cortesia. Però inacerbiva gli animi e rendeva sempre più aspro il conflitto.
185. Al Bellazzi aveva scritto sino dal 29 dicembre 1860:
«Caprera, 29 dicembre 1860.
»Caro Bellazzi,
»Per circostanze eccezionali io non posso accettare candidatura alcuna a deputato. Desidero che ciò sia notorio a tutti i Collegi, onde evitare l’inconveniente di dover addivenire ad altre elezioni.
»Sono
»Suo
»G. Garibaldi.»
(Pungolo di Milano, 8 gennaio 1861.)
186. I giornali moderati avevano stampato che Garibaldi era venuto a Torino per invito del conte di Cavour. Il Generale lo smentì con questa lettera al Direttore del Diritto:
«Signore,
»Un foglio di Torino pubblica che io venni qui chiamato dal conte di Cavour.
»Questa notizia è del tutto inesatta.
»Torino, 3 aprile 1861.
»G. Garibaldi.»
187. Ecco testualmente la lettera:
«Signor Presidente,
»Alcune mie parole malignamente interpretate hanno fatto supporre un concetto contro il Parlamento e la persona del Re.
»La mia devozione ed amicizia per Vittorio Emanuele sono proverbiali in Italia, e la mia coscienza mi vieta di scendere a giustificazioni.
»Circa al Parlamento nazionale, la mia vita intera, dedita all’indipendenza e alla libertà del mio paese, non mi permette neppure di scendere a giustificarmi d’irriverenza verso la maestosa Assemblea dei rappresentanti di un popolo libero, chiamata a ricostituire l’Italia e collocarla degnamente accanto alle prime nazioni del mondo.
»Lo stato deplorabile dell’Italia meridionale e l’abbandono in cui si trovano così ingiustamente i valorosi miei compagni d’armi, mi hanno veramente commosso di sdegno verso coloro che furono causa di tanti disordini e di tanta ingiustizia.
»Inclinato però alla santa causa nazionale, io calpesto qualunque contesa individuale, per occuparmi unicamente ed indefessamente di essa.
»Per concorrere quanto io posso a cotesto grande scopo, valendomi dell’iniziativa parlamentare le trasmetto un disegno di legge per l’armamento nazionale e la prego di comunicarlo alla Camera secondo le forme prescritte dal Regolamento.
»Nutro la speranza che tutte le frazioni della Camera si accorderanno nell’intento di eliminare ogni superflua digressione, e che il Parlamento italiano porterà tutto il peso della sua autorità nel dare spinta a quei provvedimenti che sono più urgentemente necessari alla salute della patria.
»Torino, 12 aprile 1861.
»G. Garibaldi.»
188. Ed ecco i principali articoli del suo progetto:
«Art. 1º La Guardia nazionale sarà ordinata in tutto il Regno giusta le prescrizioni delle leggi vigenti nelle antiche provincie colle modificazioni portate dagli articoli seguenti.
»Art. 2º I corpi destinati per far servizio di guerra prenderanno il nome di Guardia mobile. Essa sarà formata in divisioni, in conformità dei regolamenti dell’armata di terra.
»Art. 3º Sono chiamati a far parte della Guardia mobile tutti i regnicoli che hanno compiuto il 18º e non oltrepassano il 35º anno di età.
»Art. 4º Le armi, il vestito, il corredo, i cavalli e tutto il materiale da guerra necessario alla Guardia mobile sarà fornito interamente a carico dello Stato.
»Art. 5º Il contingente della Guardia mobile è ripartito per provincie, per circondari, per mandamenti, a proporzione della popolazione. I militi sono chiamati al servizio in base della legge sul reclutamento dell’esercito e delle altre leggi vigenti. La durata del servizio è regolata dall’art. 8 della legge 27 febbraio 1859.»
Con altri articoli erano dichiarati esenti i facenti parte dell’esercito e dell’armata, gl’inabili, gli unici, i primogeniti orfani, ec., e coll’ultimo aprivasi un credito di trenta milioni per l’armamento della Guardia stessa.
189. Furono superflue. La questione dei Cacciatori era morta e sepolta, e a nulla giovava il rivangarla. È vero che Garibaldi vi fu provocato dalle parole del conte di Cavour; ma sarebbe stato più generoso e certamente più abile lasciar cadere l’invito. Oltredichè avevan ragione entrambi: ragione il Cavour, che primo istitutore e protettore di quel Corpo fosse stato lui; ragione Garibaldi di dolersi delle difficoltà suscitategli in cammino, e degli scarti dell’esercito mandati a lui, e del Corpo degli Appennini promessogli dal Re e rifiutatogli dal Ministero, e di tant’altre angheríe. Nei discorsi così di Cavour che di Garibaldi sono però notevoli due cose: la prima che Garibaldi si sia dimenticato d’aver chiesto i Cacciatori degli Appennini non una, ma due volte: una a Treponti, e l’altra molto prima a Chivasso nel momento di intraprendere la sua marcia in Lombardia; la seconda che il conte di Cavour per iscusarsi di non avergli mandati i Cacciatori degli Appennini, gli abbia dato poi ragione che, avendo egli sempre stimata la Valtellina «un teatro disadatto alla sua capacità,» quella forza su quei gioghi sarebbe stata perduta, come già la furono i Cacciatori delle Alpi. Ottima ragione, e che dimostra, oltre a tante altre cose, che il conte di Cavour ne capiva delle faccende della guerra assai più di coloro che avevan l’ufficio di governarle.
E finiremo la nota con un’altra osservazione. Il generale Petitti alla fine della seduta del 20 aprile lesse un telegramma del La Marmora, nel quale questi smentiva l’asserzione di Garibaldi, che i Volontari più idonei fossero costretti a entrar nell’esercito e soltanto gli scarti lasciati andare nei Cacciatori. Il generale La Marmora diceva il vero, «nessun ordine costringeva i Volontari a entrare piuttosto in un corpo che nell’altro»; ma in ogni ufficio d’arruolamento, me testimonio, c’era uno o più ufficiali che consigliavano i più aitanti a preferire l’esercito ai Volontari.
190. I giornali di Sinistra vollero vedervi la mano del conte di Cavour; ma basta la memoria della sua grande accortezza, non che del suo forte ingegno e del suo nobile carattere, per purgarlo d’ogni accusa.
Lo Zini invece «sospetta li caporali di parte sua, e principalmente di quel manipolo che intorno al Minghetti s’avvoltacchiava.» (Op. cit.)
191. Son testuali parole della Monarchia Nazionale di Torino, organo del terzo partito, e per i suoi intimi rapporti col Depretis, col Rattazzi e gran parte della Sinistra, in grado d’essere bene informato.
192. Vedi Nicomede Bianchi, Il conte di Cavour, pag. 83.
193. Nizza probabilmente.
194. Alludiamo all’assassinio, di cui doveva essere vittima nel 1860. L’ammiraglio Persano nel suo Diario (parte I, pag. 30 e 40) ne parla distesamente. Certo Valentini, caporale della fanteria di marina borbonica, era partito da Napoli col disegno di uccidere il Generale. Il Persano ne fu avvertito prima dal conte di Cavour, poi dal Villamarina, sicchè corse immediatamente ad informarne il Generale, pregandolo a premunirsi; ma il Generale non se ne volle curare! e solo per compiacere l’Ammiraglio ne fece parola sorridendo ad un suo aiutante di campo.
Il Valentini tra il 15 e il 16 sbarcò a Palermo, ma essendosi accorto d’essere tenuto d’occhio dalla Polizia, si gettò in mare e a nuoto riparò sulla Partenope, una delle fregate della marina napoletana che ancoravano a quei giorni nella rada di Palermo.
195. Dal Movimento di Genova, 18 agosto 1861.
196. Egli mandò per avere il consiglio del Re e dei Ministri il colonnello Trecchi, il quale ne ricevette quella risposta.
197. La lettera si legge nei giornali americani, ed era del seguente tenore:
«Al Console degli Stati Uniti d’America.
»Caprera, 10 settembre 1861.
»Caro Signore,
»Ho veduto il signor Sanford, e sono dolente d’esser costretto a dire che non posso andare pel presente agli Stati Uniti. Non dubito del trionfo della causa dell’Unione, e che avvenga presto; ma se la guerra dovesse per mala sorte continuare nel vostro paese, io vincerò tutti gli ostacoli che mi trattengono, e mi affretterò a venire alla difesa di quel popolo che mi è tanto caro.
«G. Garibaldi.»
198. Parole di Celestino Bianchi, segretario generale del Ministero dell’interno, in una sua lettera a Pier Carlo Boggio, deputato al Parlamento, intitolata: Il barone Ricasoli, Mazzini, Garibaldi e i Comitati di provvedimento. Torino, 1862, pag. 11.
199. Una notizia dell’Italie giornale ufficioso, telegrafata il 9 (sera) dall’Agenzia Stefani a tutta la stampa, diceva: «Secondo le nostre informazioni, la conferenza di ieri tra Garibaldi e Rattazzi avrebbe avuto importantissimi risultati, di natura da esercitare grande influenza sui destini del paese.»
200. Li dovevano comandare il maggiore Bideschini e il capitano Baghino. Giuseppe Guerzoni doveva tenere le funzioni di Capo di Stato Maggiore. I Carabinieri si organizzavano in Genova, onde il nome di Carabinieri genovesi, e gli arruolati ai primi d’aprile sommavano già a millecinquecento.
201. Il fatto fu negato invano. Il Crispi l’affermò recisamente in pieno Parlamento (Seduta del 3 giugno 1861) ed al Rattazzi stesso mancò l’animo di smentirlo. Del resto noi abbiamo l’aneddoto dalle labbra stesse del dottor Ripari, che fu appunto la persona incaricata da Garibaldi di chiedere al commendator Capriolo, segretario generale dell’Interno e alter ego del Rattazzi assente, la consegna della somma promessa.
202. Vedi Giuseppe Pasolini, Memorie raccolte da suo figlio. Imola, tip. I. Galeati, 1880, pag. 297.
203. Val la pena di riprodurre qui il discorso di Garibaldi pronunziato nel teatro di Parma che venne dai giornali travisato.
Lo togliamo dalla Gazzetta di Parma del 2 aprile:
«Io vi spiegherò le condizioni presenti. — Io sono repubblicano — benchè molti credano farsi un delitto il dirlo, non lo nascondo. — Alle grida che s’innalzavano nella sala, soggiunse: Ricordatovi che siamo forti, ma i forti sono tranquilli e calmi e colla calma faremo fatti. Io voglio farvi un’ipotesi — supponete che siamo qui in cento: se sono ottanta che vogliono un governo o venti un altro, i venti che violentano la volontà degli ottanta sono despoti, sono tiranni. Ma quegli ottanta sarà il governo del popolo, quello sarà la mia repubblica. Ora dunque abbiate in mente la concordia, lasciamo da parte i torti ricevuti per la causa italiana. — Io posso esser certo che quando in nome della patria e del Re vi chiamerò, tutti verrete. (Sì, sì prolungati.) Ora tornando all’ipotesi, gli ottanta hanno già accettato quel programma col quale dal Ticino ci accampammo alle falde del Vesuvio; voi ben lo conoscete — Italia e Vittorio Emanuele — e mentre noi esprimiamo il nostro principio, noi seguiremo quel programma. Chi non segue quel programma deve essere considerato come nemico della patria. Siamo leali; se l’abbiamo accettato, seguiamolo. Ricordiamo la concordia.
Al grido di viva Mazzini disse che incaricato di parlare a Rattazzi e al Re per il richiamo di Mazzini, il fece e spera che non vi siano serii ostacoli, non essendovi ormai che un punto legale da sciogliere che egli non saprebbe spiegare. Al grido di viva Mazzini egli ripete: Io vi accompagno, ma io ve l’ho detto: il popolo forte deve essere calmo e concorde — Viva Vittorio Emanuele — (Si ripeterono le grida: Viva Vittorio Emanuele.) Ho fatto un discorso, esso conchiuse, che passa di molto la mia capacità; ma colla vostra fisonomia marziale e franca mi avete dato l’energia di parlare: vi saluto con affetto, o degni figli del lavoro, vi raccomando la concordia: nella concordia sta la salute della patria. Mantenetevi buoni — sarò con voi sino alla morte.»
204. Egli infatti scriveva:
«Trescorre, 6 maggio 1862.
»Nel 5 maggio in Trescorre ho potuto corroborarmi nel concetto che si meritano i miei correligionari politici — confermarmi che non ci può essere democrazia senza onestà d’intendimento e rispetto alla volontà nazionale.
»Non più diffidenze dunque in un paese che deve trovarsi compatto nelle ultime battaglie dell’indipendenza. I membri del Consiglio dell’Associazione emancipatrice, eletti nell’adunanza generale di Genova, che si componeva dei delegati di tutte le Associazioni liberali d’Italia, confermarono in questo solenne anniversario il patto fondamentale, su cui posa l’avvenire della patria; il concerto che lega questa nazione, che vuole risorgere tutta, al suo Re leale e galantuomo.
»I nostri convincimenti furono trovati da noi tutti consentanei al nobile plebiscito siculo-napolitano, al programma glorioso delle nostre vittorie.
»Italia e Vittorio Emanuele!... Ecco la nostra bandiera, ecco il voto consacrato dalle moltitudini, proclamato oggi dall’entusiasmo per il Re guerriero di mezzo milione di popolo, a cui fanno eco tutte le popolazioni. — Ecco la mèta a cui devono tendere tutte le aspirazioni. — Ecco finalmente il vangelo politico su cui posero la destra, ieri — uomini che mi onoro di chiamare fratelli, uomini che l’Italia ed il Re troveranno sempre cooperatori sulla via che conduce alla intera nazionale rigenerazione.
»G. Garibaldi.»
205. Citiamo i colonnelli Nullo, Missori, Guastalla, Corte, Cattabene, i maggiori Cucchi, Mosto, Lombardi, Bedeschini, il dottor Ripari, Benedetto ed Enrico Cairoli, i trentini Ergisto Bezzi, Filippo Manci, Pietro Martini; Paolo Francesco Savi di Genova, Alberto Mario, e potremmo raddoppiare la schiera.
206. Vedi Circolare del Ministero dell’interno, 15 aprile 1862.
207. «Taluni male interpretarono la mia protesta sul Diritto. Soldato italiano, non ebbi, nè poteva avere, intenzione di lanciare contumelie contro l’esercito italiano, gloria e speranza della nazione. Volli soltanto dichiarare che dovere dei soldati italiani è di combattere i nemici della patria e del Re, e non di uccidere e ferire inermi cittadini. — Se il Comandante di Brescia avesse potuto provvedere secondo gl’impulsi del proprio cuore, non avremmo oggi da maledire chi fu la causa della strage, nè lamentare vittime di quel popolo generoso. Alle frontiere e sui campi di battaglia la milizia — quello e non altro è il suo posto.
»Garibaldi.»
Supplemento del Pungolo di Milano del 23 maggio 1862.
208. Vedi Diritto del 4 giugno 1862.
209. Vedi negli Atti parlamentari, Lettera di Garibaldi del 2 giugno 1862.
210. Tornata della Camera dei Deputati del 3 giugno 1861.
211. Ci conviene tuttavia essere più esatti. Per molto tempo nella mente di Garibaldi l’impresa veneta e la greca andarono di conserva: l’una a’ suoi occhi non escludeva l’altra, a vicenda forse si aiutavano. Anzi fra il 7 e l’8 maggio avendo il Generale ricevuto una visita del generale Di Saint-Front, aiutante di campo del re Vittorio Emanuele, si notò che per due o tre giorni le idee e gli ordini del Generale cambiarono totalmente; talchè la spedizione in Tirolo parve messa in disparte e quella per l’Oriente ripresa più alacremente. Tanto vero che il maggiore Bideschini ebbe l’ordine di scegliere tra i giovani raccoltisi a Genova una grossa schiera, di unire ad essa una mano di marinai e di tenerli tutti preparati ad un imbarco. (Vedi Garibaldi, per F. Bideschini, pag. 25.) Se non che, prevalendo probabilmente l’impazienza generosa dei Veneti e dei Trentini, e continuando ad affluire in Lombardia nuovi Volontari, Garibaldi lasciò che la prima trama del Trentino fosse ravviata e condotta fino al termine in cui la vedemmo troncata.
212. Io era a que’ giorni segretario particolare capo del Gabinetto del ministro dei lavori pubblici, Agostino Depretis; ma, come ognuno sa, ero nello stesso tempo soldato ed amico di Garibaldi, col consenso del quale soltanto mi ero indotto ad accettare il posto di fiducia che l’onorevole Depretis mi aveva offerto. Ora io non appaio certamente questi due fatti per dare a credere che io tenessi nel Governo alcun importante e molto meno segreto ufficio politico; ma li ricordo soltanto per chiarire come la mia origine, il modo della mia elezione, la mutua confidenza di cui mi onoravano il generale Garibaldi e il ministro Depretis, facessero di me qualcosa di diverso, per lo meno, d’un burocratico qualsiasi e mi mettessero quindi in grado di essere più addentro di molti altri miei colleghi in taluni negozi; in quelli specialmente che concernevano la principale materia degli accordi a quei giorni avviati tra il Governo e il Generale.
Ora dunque, essendomi recato nell’ultima settimana d’aprile a Desenzano per vedervi il Generale e sentire da lui a che punto stessero le cose circa a quei Carabinieri genovesi, dei quali ero predestinato a diventare il Capo di Stato Maggiore, il Generale mi rispose col suo ordinario laconismo: «Presto spero che faremo qualche cosa; fatene un cenno anche a Depretis, e tenetevi pronto.» Tornato a Torino come il Generale mi aveva detto, riferii il breve dialogo al Ministro, che ascoltò quasi senza rispondere; e non mi lasciò in alcun modo intravedere quello ch’egli pensasse di quella mia confidenza. Io non dirò come de’ particolari fossi informato quasi giorno per giorno dagli altri miei amici e commilitoni. Soltanto ai primi di maggio dovendo io accompagnare il ministro Depretis a Napoli, scrissi al Generale anche a nome di Bixio, che era a parte di tutta la trama (Vedi Vita di Nino Bixio, pag. 306 e seg.), se potevamo fare impunemente il viaggio senza pericolo di perdere il nostro posto nella impresa che tutto faceva credere imminente. Ma egli mi rispose: «Partite pure: occorrendo vi chiamerò.» Ed io, rassicurato come la cosa non fosse così prossima come si vociferava, partii, e soltanto in mare, tornando da Sicilia, seppi con qualche certezza le notizie degli arresti di Palazzolo e di Sarnico. Allora, appena arrivato a Torino, e meglio conosciuti tutti i particolari degli eventi, udito il consiglio de’ miei amici, reputai di non poter più servire convenevolmente un Ministero che dopo aver fino alla vigilia parte congiurato col Generale, parte tollerato ad occhi chiusi ch’egli cospirasse con chi voleva, gli si avventava contro all’improvviso e lo trattava come ribelle e poco meno che nemico. E questa pertanto fu l’unica cagione della dimissione ch’io diedi, in quei termini forse un po’ troppo vivaci che la giovinezza dovrebbe scusare, al ministro Depretis. Se poi in Parlamento taluni Deputati vollero farsi della mia nomina come della mia rinunzia un’arma di partito e tirarne a forza illazioni esorbitanti dalla logica e dalla verità, ciò poteva attristarmi, ma non era in me d’impedirlo. Io m’ero risolto a quell’atto per un profondo sentimento di dovere; ma ero il primo a dolermi del rumore che esso veniva facendo, e non l’avrei certamente voluto ingrossare con nuove polemiche che avrebbero richiesto di necessità nuove rivelazioni e generati scandali maggiori. Però se anche oggi dopo venti anni ne parlo, gli è solo perchè la necessità di questa storia mi vi trascina, e ciò nonostante resta ancora una parte della verità che stimo debito mio il tacere. Spero tuttavia che anche il poco che ne ho detto varrà a consigliare il signor Zini ad una onorevole ammenda. Egli nella sua Storia (vol. I, parte II, pag. 1021) ha tassata la mia rinuncia di «triste vanità;» ma confido che dopo le spiegazioni da me date vorrà dolersi della sua frase e pronunciar di me più benigna sentenza. Quando nol facesse saprei ben passarmene, ma egli m’avrebbe dato il diritto di dire che se tutti gli uomini e tutte le cose, delle quali giudica e manda nella sua Storia, sono trattati colla stessa conoscenza de’ fatti, ponderatezza di giudizio e temperanza di stile con cui trattò il mio minuscolo aneddoto, non c’è più in tutti i suoi quattro volumi una sola parola degna di fede.
213. Frammenti citati, pag. 13 e 14.
214. Lo accompagnarono a Palermo, oltre il figlio Menotti, Enrico Guastalla, Giuseppe Missori, Giacinto Bruzzesi, Agostino Lombardi, Giuseppe Guerzoni, Giovanni Basso e in qualità di segretario Giuseppe Civinini.
215. Troviamo la frase in un periodo dei citati Frammenti, pag. 16:
«Addio Marsala! terra di felice augurio. — Anche questa volta il tuo bravo popolo mi spinse ad opera buona — e rispose con risoluzione ed entusiasmo al mio grido di Roma o Morte — che il dispotismo crede d’aver sepolto con due palle di carabina; ma ch’io spero non passerà molto — udremo risuonare ancora più terribile di prima. — E come riveder Marsala senza concepire il progetto di ripigliare il tronco cammino? Forse perchè Buonaparte lo vietava? Ed io ho mai temuto Buonaparte?
»Oh! Italiani — penetratevi una volta delle mie ragioni e persuadetevi che i tiranni hanno paura, se non si temono.»
216. Giuseppe Guerzoni, Enrico Guastalla, Giovanni Chiassi. Accennai il fatto anche nella mia Vita di Nino Bixio, pag. 309.
217. Fu scritto da Giuseppe Civinini, che faceva allora da suo segretario.
218. Proclama del Re agl’Italiani, del 3 agosto 1862.
219. Così la lettera dell’Albini come la risposta del Generale furono vedute dal generale Cugia e dal deputato Miceli, che l’attestarono nella tornata della Camera dei Deputati del 25 novembre 1862.
220. Ciò è attestato, fra gli altri, dall’Autore della Verità sul fatto d’Aspromonte per un testimonio oculare. Milano, 1862, pag. 26. Che la lettera poi fosse quella dell’ammiraglio Albini è supposizione nostra, ragionevole crediamo, ma pur sempre supposizione.
221. Vedi su questo e molti altri particolari Aspromonte, Ricordi storici militari del marchese Ruggero Maurigi, già aiutante del generale Garibaldi. Torino, 1862; fedele ed accuratissimo diario.
222. Ci studieremo di colmar noi le principali, con postille cavate dai nostri personali Ricordi e dagli altri documenti che abbiamo fra mano.
223. L’interrogativo è di Garibaldi; forse egli non ricordava più i nomi dei due bastimenti, eccoli: Il Generale Abbatucci francese della Compagnia Valéry francese, e il Dispaccio della Florio, italiano.
224. Così il manoscritto, ma il senso riesce alquanto oscuro; dubitiamo che lo scrittore abbia omesso qualche parola che l’avrebbe schiarito. Certo voleva dire: se le fregate incrociavano al largo, egli (Garibaldi) sarebbe passato fra gli scogli dove le fregate non potevano inseguirlo; se invece ancoravano vicino agli scogli, egli sarebbe marciato diritto su di esse, passando tanto vicino alle loro batterie da metterle nell’impossibilità di colpire.
225. Voleva dire penoso, angoscioso, ec. Ma chi s’occuperebbe a riveder la lingua a Garibaldi!
226. Vapore con cui era passato il generale Bixio nel 60 colla sua brigata.
227. Qui il Generale tace o dimentica che una Deputazione reggiana, composta dei signori Bolani, Ramirez, Bruno Rossi e Grillo, era venuta a Sannazzaro per avvertirlo la città essere posta in istato di assedio; il presidio, triplicato per soccorsi venuti da Messina, forte di circa quattromila uomini, disposto a sbarrargli il passo; scongiurarlo fervidamente a risparmiare alla città lo spettacolo e il danno d’una guerra cittadina. Garibaldi rispose parole concilianti e pacifiche, e sebben non lo promettesse esplicitamente agli oratori, avea già in cuor suo fermato di lasciare in disparte Reggio e prendere il sentiero dei monti.
228. Il torrente San Nicolò.
229. Devesi aggiungere che la marcia fu molestata da alcune scariche di moschetteria sparate dalla corazzata regia Terribile, specialmente contro il gruppo in cui marciava Garibaldi. L’avvisaglia poi di retroguardia a cui qui accenna il Generale ebbe luogo la mattina del secondo giorno di marcia, 27 agosto. Ci furono dei feriti e morti da ambe le parti.
230. E poteva bastare un giorno solo. La guida, o mal pratica o traditora, aveva fatto fare ai Garibaldini doppio cammino. Da ciò la facilità con cui i Regi poterono presto raggiungerli.
231. Eppure le fascine erano così poche e fradice dalla pioggia che non bastarono a cuocere le patate per tutti; e i più le dovettero mangiar crude.
232. Intendi: Malgrado ciò; Ciò non ostante.
233. La forza che il colonnello Pallavicini capitanava, come si desume dal rapporto ufficiale del generale Cialdini, componevasi di due reggimenti di linea, il 20º e il 1º, e due battaglioni di bersaglieri; in totale sette battaglioni e tremilacinquecento uomini circa. L’ordine che il Pallavicini aveva ricevuto dal generale Cialdini era perentorio; «Raggiunto Garibaldi, attaccarlo senza più, schiacciarlo e non accordargli che la resa a discrezione.» — Vedi nella Gazzetta Ufficiale del Regno dell’8 settembre 1862 i Rapporti del generale Cialdini e del colonnello Pallavicini.
234. Anche qui intende a modo suo il senso del verbo anteporre. Vuol dire allegare, addurre, mettere innanzi.
235. Crediamo voglia dire in gruppo. La formazione che ne risaltava era quella che in linguaggio militare si dice a potenza.
236. E questo fu il vivo fuoco di cui parla nel suo rapporto il colonnello Pallavicini; questo l’accanito combattimento che magnificò il generale Cialdini. Il fuoco durò poco più di dieci minuti; le perdite d’ambe le parti furono di cinque morti e venti feriti tra i Garibaldini; di sette morti e ventiquattro feriti tra i Regi, e tuttavia le perdite di questi sarebbero state molto minori se non avessero ricevuta la scarica garibaldina a brevissima distanza e quasi a bruciapelo.
237. Allude a questo fatto. Il colonnello Pallavicini aveva inviato a parlamentare col Generale un suo ufficiale di Stato Maggiore. Questi però essendosi presentato armato senza farsi precedere da un trombetta o da un segnale qualsiasi, e di più avendo brutalmente intimato al Generale la resa a discrezione, l’atterrato ma ancor fiero Capitano era scoppiato in queste indignate parole: «Faccio la guerra da trent’anni e ne conosco meglio di voi le leggi. Non è così che si presentano i parlamentari. Disarmatelo.» E gli fu infatti tolta la spada, che gli venne però poco dopo restituita. Allora lo stesso generale Garibaldi chiese di vedere il Pallavicini, il quale s’affrettò a lui, ma in atteggiamento ben diverso del suo parlamentario. Si presentò al grande sconfitto in atto riverente col cappello in mano, gli s’inginocchiò dappresso e gli disse, con cortese accento: «Aver l’ordine d’intimargli la resa a discrezione, ma attendere che esprimesse i suoi desiderii.» Al che il Generale avendo chiesto che fosse concesso ai disertori dell’esercito regolare di mettersi in salvo, e per sè di essere imbarcato cogli ufficiali che in quel momento l’attorniavano, su una nave inglese, il colonnello rispose: che ai disertori avrebbe concesso quarantotto ore, e quanto alla seconda domanda ne avrebbe interpellato i suoi capi, non avendo egli autorità di assentirvi.
238. Circa al trasporto vanno aggiunti questi particolari. Nella notte, fu trasportato nella cascina dei Forestali della Marchesina. All’alba vegnente, fatta con rami e frasche una barella (la migliore, dice Garibaldi stesso, di quante s’adoperassero negli ulteriori suoi trasporti), fu trasportato sulle braccia de’ suoi fedeli, che gareggiavano a darsi la muta fino alla marina di Scilla, dove il Duca di Genova lo attendeva per tradurlo alla Spezia. Quando il Generale vide la nave e ne seppe l’uso, rampognò sdegnato il colonnello Pallavicini che avesse mancato alle sue parole; ma il Pallavicini potè giustamente rispondergli «avergli soltanto promesso di esporre la di lui domanda al Governo, e a questo non aver mancato; il Governo aver risposto rifiutandola e ordinando che il prigioniero fosse tradotto alla Spezia; suo dovere di soldato ubbidire.»
L’ultima e forse più penosa scena della tragica catastrofe fu quella di cui fu infelice protagonista il generale Cialdini. Nel punto in cui il ferito d’Aspromonte tragittava dalla spiaggia al mare, dal cassero d’una nave vicina, eretto di tutta la persona, nella posa d’un trionfatore, stava a contemplarlo il generale Cialdini. A che quella mostra, per lo meno superflua? Voleva egli, il non invidiabile vincitore, passare a rassegna quel lacero stuolo di prigionieri? Non era cura da lui. Bearsi della vista del vinto nemico? Era indegno. Ostentare impersonata in lui la maestà della legge vendicatrice e vendicata? Era superbo e crudele insieme.
Quanto è più grande, in questo caso, il vinto che passa non vedendo o non curando l’oltraggio, e nelle sue più intime Memorie non ricordandolo nemmeno! Ma egli poteva perdonare; non lo seppero i suoi compagni, i quali, notata la bravata del Generalissimo regio, gli inviarono, saluto e disfida insieme, il grido di Roma o morte, che gli fu forza ascoltare in silenzio.
239. Ecco la lettera del Console e la risposta del Generale:
«Al Generale Garibaldi, Spezia (Italia).
»Vienna, 1º settembre 1862.
»Generale,
»Essendovi riuscito impossibile il compiere per ora la grand’opera patriottica che avevate intrapreso nell’interesse della vostra patria diletta, mi prendo la libertà d’indirizzarvi la presente per sapere se non entrasse nei vostri disegni di offrirci il vostro valoroso braccio nella lotta che sosteniamo per la libertà e unità della nostra gran repubblica.
»Il combattimento che sosteniamo non interessa noi soli, ma interessa tutto il mondo civile.
»La gloria e l’entusiasmo con cui sareste accolto nella nostra patria, ove avete passata una parte della vostra vita, sarebbero immensi, e la vostra missione che sarebbe quella d’indurre i nostri bravi soldati a combattere per lo stesso principio al quale avete consacrato nobilmente tutta la vostra esistenza, sarebbe pienamente conforme alle vostre intenzioni.
»Mi stimerei fortunatissimo, o Generale, se potessi ricevere da voi una risposta.
»Ho l’onore di essere, ec.
»Canisius
»Console degli Stati-Uniti d’America.»
* * *
«Al signor Teodoro Canisius, ec.
»Varignano, 14 settembre 1862.
»Signore,
»Io sono prigioniero e pericolosamente ferito: per conseguenza m’è impossibile di disporre di me stesso. Tuttavia credo che, se io sarò restituito alla libertà e se le mie ferite guariranno, sarà giunta l’occasione favorevole nella quale potrò soddisfare il mio desiderio di servire la Gran Repubblica Americana, di cui io sono cittadino, e che oggi combatte per la libertà universale.
»Ho l’onore, ec.
»G. Garibaldi.»
240. Patrie del 17 settembre 1862.
241. Diversa era l’opinione di Massimo d’Azeglio. Ancora due anni dopo Aspromonte scriveva ad Antonio Panizzi: «Dopo Aspromonte (Rattazzi ministro) mi fecero l’onore di chiamarmi con altri al Consiglio dei ministri, che doveva decidere la sorte di Garibaldi. Io dissi: Sottoporlo ad un giudizio come ogni cittadino. E dopo la condanna, grazia del Re immediata. Ma siccome nelle tasche della camicia rossa doveva essere rimasto un certo pezzo di carta, ec. ec., si pensò meglio di dargli l’amnistia, ch’egli rifiutò, dicendo che aveva fatto quel che doveva, ec. ec., e così finì,» — Vedi Lettere ad Antonio Panizzi di uomini illustri e di amici italiani. Firenze, G. Barbèra, 1880, pag. 480.
242. Frase infelicissima, ma testuale, della Relazione del ministro Rattazzi al Re. Come la clemenza regia si potesse far dipendere dal beneplacito della Francia spieghi chi può!
243. Decreto del 5 ottobre 1862.
244. Visitarono e curarono il Generale, il dottor Partridge di Londra, Nélaton di Parigi, e fra i medici e chirurghi italiani: Porta, Bertani, Cipriani, Zannetti, Tommasi, Albanese, Prandina, Ripari, Basile.
245. Testuale. Io narrai questo ed altri episodii della malattia del Generale al Varignano in una lettera al Movimento, in data del 14 ottobre, e riprodotta poi da altri giornali.
246. Era rimasto a Caprera chirurgo ordinario del Generale il dottor Basile. Altri medici suoi amici non tralasciarono di visitarlo assiduamente, e primo fra tutti il dottor Enrico Albanese, tanto valente chirurgo quanto prode soldato e generosissimo amico. Egli in data del 23 gennaio scriveva della salute del Generale in questi termini:
«Il Generale va meglio, e già son sei giorni che, coll’aiuto delle gruccie, cammina qualche poco per la stanza; la ferita non è ancora risanata, ma il pus diminuisce sempre, ed io ho fede che fra due mesi, al maximum, sarà completamente guarito. La fasciatura inamidata, ultimamente applicata, agisce potentemente a migliorare le condizioni locali.
»Enrico Albanese.»
247. Nel 1862 era stata ordinata la leva generale in tutto l’impero, ma per la Polonia prescritto che fossero esenti dal reclutamento i contadini ed i grandi proprietari rurali, sicchè la legge veniva a cadere soltanto sugli abitanti della città, quanto a dire sulla popolazione più colta e civile. La commozione suscitata dall’iniquo privilegio fu grandissima in tutta la Polonia. Il marchese Wielopolski, governatore di Varsavia, per recidere fin da principio i nervi alla rivolta, deliberò che tutti i designati al reclutamento fossero presi in una notte, e, dove essi mancassero, arrestati in loro vece i fratelli, i parenti, gli amici. A quest’atto di caccia selvaggia i Polacchi non ressero più, e nella notte del 18 gennaio il Comitato nazionale di Varsavia bandì la insurrezione.
248. V. il Diritto del 6 marzo 1863.
249. Manifesto ai Popoli dell’Europa in data di Caprera 15 febbraio 1863, pubblicato dal Diritto del 21 febbraio.
250. Manifesto al popolo inglese da Caprera, 4 febbraio 1863, pubblicato dal Movimento di Genova.
251. Manifesto all’Emigrazione polacca da Caprera, 5 febbraio 1863, pubblicato dal Diritto.
252. Vedi l’indirizzo da Caprera ai prodi dell’esercito russo, pubblicato dal Diritto e riprodotto nel Pungolo di Milano del 7 marzo 1863.
253. La lettera del Langievicz a Garibaldi fu pubblicata da parecchi giornali e tra gli altri dalla France. La troviamo ricordata anche nell’opera: Fatti della Polonia dal 1863 in poi, Venezia 1863, pag. 161.
254. Rammentiamo con uguale rimpianto il prode toscano Stanislao Bechi, fucilato dai Russi a Wloclaweck, la mattina del 17 dicembre 1863.
255. Crediamo il generale Wisoky e il signor Charnewsky.
256. Ciò si legge nel citato opuscolo su Garibaldi del Maggiore Bideschini, pag. 35. Il piroscafo giunto a Genova fu staggito dalla polizia.
257. Si allude alle molte trame di insurrezioni, di spedizioni, di sbarchi orditi a Londra dall’infaticabile genio rivoluzionario di Giuseppe Mazzini, che era riuscito in tra il finire del 1863 e il cominciare del 1864 ad avvolgere ne’ suoi disegni d’insurrezione in Transilvania e Gallizia non solo il generale Garibaldi e il generale Klapka, ma per qualche tempo lo stesso re Vittorio Emanuele, che di congiurare un po’ a insaputa de’ suoi ministri s’era sempre compiaciuto. — Vedi fra gli altri Politica segreta italiana (1863-70). Torino, Roux e Favale, 1880: specie il cap. II e III.
258. Citeremo i nomi dei principali, come in parte li ricordiamo noi stessi e in parte li troviamo scritti nei giornali inglesi. E primo di tutti il signor John Richardson, notabile nel ceto dei commercianti, capo del Comitato delle dimostrazioni garibaldine nel 1862 ed ora presidente dello stesso Comitato per ricevere Garibaldi in Inghilterra. Indi il signor Peter Steward, ricco banchiere; il signor Andrews, membro del Consiglio della Peninsular and Oriental Company; il signor Roberto Taylor, proprietario di Glascow; il signor Cowen, industriale di Newcastle; i signori Seely, Ashley, Kinnaird, Peter Taylor, membri del Parlamento; Lord Shaftesbury e Lord Sutherland, membri della Camera dei Lordi; il signor Stansfeld, già segretario di Stato nel Gabinetto Palmerston; il signor Chambers, tenente colonnello dei Rifles Volunteers; il prof. Balley, l’avv. Edmondo Beales; indi la signora Sara Nathan, la signora Stansfeld, la signora Wight, la signora Ashurth, la signora Schwabe; infine tutta la Colonia italiana, di cui eran principali Panizzi, direttore del British Museum; l’ottico Negretti; i maestri di musica Campana e Arditi; i signori Costa, Semenza, Vivanti, Serena, Fabbricotti ed altri.
259. «He know the General would never lift a finger to disturb the England,» frase d’un libro recente su Garibaldi uscito in Inghilterra: The Life of Giuseppe Garibaldi, by J. Theodore Bent, B. A. Oxon. Londra, Longmans, Green and Co. 1881, pag. 219; libro del resto compilato sopra notizie inesattissime, di cui non si veggono nè i documenti nè le fonti, e che soltanto in questa parte del viaggio d’Inghilterra può prestare qualche lume e qualche sussidio.
260. Il Daily Telegraph, amico a quei giorni del Gabinetto Palmerston, scriveva così:
«Tutte le voci corse sulla completa guarigione di Garibaldi erano quasi interamente false. La ferita ricevuta al piede fa pochi progressi verso la guarigione, se pure ne ha fatti. Alcuni sintomi poterono essere attenuati dal sollievo derivato dall’estrazione di una parte dell’osso fratturato. Ma la ferita in sè non è guarita. La spossatezza, ancor più che il male, ha grandemente influito sulla salute del Generale, e malgrado il vigore della sua costituzione che non ha cessato di manifestarsi nella potenza della sua voce, nella vivacità del suo spirito, nell’energia del suo patriottismo, che è in lui un’affezione personale ed appassionata, egli è tuttora in uno stato di notevole debolezza. Sorse dunque naturalmente l’idea che il mutamento di clima potesse avere un effetto benefico sulla sua salute e contribuire a produrre la guarigione così a lungo ritardata.
»Si opinò eziandio che a Londra Garibaldi troverebbe cure mediche tali da farlo guarire perfettamente. Pertanto il Generale accettò il privato invito di venire in Inghilterra.
»Egli sbarcherà a Brook nell’isola di Wight, ove passerà un mese.»
261. Io dimoravo allora a Caprera presso il Generale prestandogli per preghiera sua e d’amici l’ufficio di segretario; onde ero in grado di seguire giorno per giorno le vicende di quel progetto di viaggio e per la confidenza di cui il Generale mi onorava, di conoscere su quell’argomento i suoi più intimi pensieri. La signora Chambers invece, credendomi avverso al progetto, diffidava di me e non me ne parlava affatto. La buona signora s’ingannava; certo a me premeva che il Generale non s’impegnasse in un intrigo di partiti stranieri e fosse vittima o strumento degli interessi o delle vanità di chicchessia; ma se il viaggio poteva farsi con tutte quelle condizioni che a me parevano necessarie a salvare con la dignità del Generale quella d’Italia, io lo desiderava quant’altri mai. Tutta la mia opposizione consisteva dunque nel consigliare il Generale ad andar cauto; ad informarsi bene chi fossero le persone che lo invitavano e quale mandato avessero, e quale credito godessero; e soprattutto quali fossero gl’intendimenti del Governo inglese, che sino allora almeno, erano rimasti incerti. Non appena però giunse a Caprera la lettera del signor Thornton Hunt, il Generale me ne parlò subito; e come io m’arrischiai ad esprimergli il desiderio di vederla, egli se la fece dare dalla signora Chambers, e il giorno dopo me la mostrò. Ora avendola io letta e riletta, anzi analizzata col Generale stesso, giacchè mi pareva che essa contenesse molte frasi ambigue, così ho potuto ritenerne nella mente i principali concetti, e, senza tema d’errare, riprodurli. Ne discussi anzi colla signora Chambers, la quale ormai saputomi partecipe d’ogni segreto, temendo forse di far peggio continuando a trattarmi ostilmente, cominciò prima a farmi vedere quella famosa lettera di cui ella magnificava più del giusto la importanza; poi a farmi via via molte confidenze, le quali non contenevano certo che una piccola dose di verità; ma tutta quella verità che una accorta diplomatica sua pari, era in dovere di confidare ad un occulto ed astuto rivale della mia forza!
262. Per non dire d’altri, lo scrittore di queste pagine.
263. Parrà strano certamente e bisognevole di qualche spiegazione che un bastimento d’una Compagnia postale potesse, senza legittima causa e per servigio d’un privato, deviare dalla sua rotta, venendo meno manifestamente ai propri doveri ed ai propri statuti. Ma dovunque compaia Garibaldi, alle violazioni delle norme comuni bisogna essere preparati. Eccone però la spiegazione. Fra i più caldi amici e zelanti fautori del viaggio v’era pure, come già s’è detto, un certo signor Andrews, ricco commerciante, Mayor di Londra nel 1848, e della Peninsular and Oriental Company forte ed influentissimo socio. Ora, essendosi questo signor Andrews tolto l’assunto di fornire al Generale i mezzi di trasporto, potè anche ottenere dalla sua Compagnia di navigazione una concessione che altri certamente non avrebbe potuto. E la concessione fu questa: che uno dei bastimenti della Peninsulare incaricati della valigia postale tra Marsiglia, Genova e Malta appoggiasse per poche ore a Caprera e vi imbarcasse il Generale.
Siccome però quella deviazione sarebbe parsa una troppo flagrante violazione degli statuti, della quale avrebbero potuto essere chiamati a rispondere anche i governi delegati alla sorveglianza di quella Società, così fu pensato e adoperato quest’espediente. A Marsiglia c’era un vecchio vapore in riparazione, la Valletta; faccia essa il viaggio; appoggi al momento opportuno nelle acque della Maddalena; e se alcuno gli fa carico dello sviamento dia per scusa lo stato mal sicuro del bastimento, e la necessità di nuove riparazioni. Così fu escogitato, combinato, eseguito; così avvenne che un vapore postale della più grande Compagnia di navigazione di quell’anno abbandonasse la propria rotta e facesse aspettare per più di sei ore la Valigia delle Indie, per fare il comodo di Giuseppe Garibaldi e de’ suoi amici.
264. Il braccio orientale del Canale di Southampton.
265. In conferma delle sue intenzioni, Garibaldi lasciò al signor Negretti un biglietto, nel quale diceva che «non desiderava d’avere dimostrazioni politiche, e soprattutto non eccitare tumulti.» Questo biglietto fu subito pubblicato nei giornali.
266. Fu da tutti notato che il signor Seely, sbarcato a Cowes, in luogo di far tenere a Garibaldi la strada comune che passa per Newport ed altri luoghi popolosi dell’Isola, lo fece poi passare per strade traverse con gran delusione di quelle popolazioni che attendevano al passaggio l’eroe, ansiose esse pure di vederlo. Ma il signor Seely diede per ragione, di evitare al Generale altre dimostrazioni che l’avrebbero stancato e forse nociuto alla sua salute. Ognuno intende però che tutte quelle cure non erano che un eccesso di zelo del bravo gentiluomo. Del rimanente il giuoco del signor Seely e soci era già scoperto; infatti nella stessa mattina del 3 aprile un signor Walk tenne a Southampton un meeting di operai per protestare contro coloro che volevano monopolizzare Garibaldi.
267. Restituendo la visita al Tennyson, questi gli chiese e ottenne che il Generale piantasse nel ricco giardino del poeta una Wellingtonia gigantea, maniera di cortesia che gl’Inglesi tengono di grande importanza e per chi la fa e per chi la riceve. Se non che pochi giorni dopo la Wellingtonia fu trovata ignuda di quasi tutte le sue fronde, e cercandosi la cagione del sacrilegio, si seppe che taluni idolatri l’avevano così spogliata per possedere, in alcune di quelle foglie, un ricordo di cosa toccata da Garibaldi. I feticismi non sono soltanto de’ popoli barbari.
268. Nello stesso giorno il Generale, togliendosi a tutte le feste, andava a visitare la signora White, sua amica ed ospite fin dal 1854, e madre della signora Jessie White Mario.
269. L’ordine della processione era il seguente: — Le bande a capo della processione — La società dei calzolai — Dieci marescialli con bandiere recanti il motto «Ben venuto Garibaldi» — I membri dei Comitati riuniti a piedi — Dieci carrozze di visitatori — La società di temperanza — Cinque marescialli con bandiere col motto «L’Eroe d’Italia» — Le società di commercio con la loro banda — Le minori società amiche (Friendly Societies) — Le carrozze della società dei Foresters — La banda degli Old Fellows — Cinque marescialli con bandiere «Il primo patriotta» — Dieci carrozze — La loggia di Memfi dei Frammassoni — Venti marescialli — Le carrozze della stampa — Venti marescialli — Bandiere «L’uomo del popolo» — La carrozza del signor Plesmal — La carrozza del signor Giorgio Moore (tesoriere) — La carrozza del dottor Massey — Il Comitato esecutivo — La carrozza del signor Chinery — Quella del signor Nicholas — Quella del signor Richardson — Le carrozze della nazionalità ungherese — Quelle della nazionalità polacca e della nazionalità italiana — La banda italiana — La carrozza del generale Garibaldi, col quale sedevano il signor Seely ed il signor Negretti, circondata da un corpo di marescialli delle Corporazioni e da un manipolo della legione Garibaldi — Le carrozze dei figli di Garibaldi, con la signora Seely — I segretari — Il seguito — Il Comitato degli operai, a piedi.
270. C’era in un palco l’ammiraglio Mundy, quel medesimo che comandava la squadra inglese in Sicilia nel 1860; non appena il generale lo vide si levò per andarlo a visitare; l’atto cortese, notato dal pubblico, fu salutato da un vivissimo applauso.
271. La casa di Lord Palmerston in Londra era a 94 Piccadilly.
272. Assistevano al banchetto il russo Ogareff, il tedesco Blind, gl’inglesi Ashurt e Taylor; gl’italiani Aurelio Saffi, Antonio Mordini e Giuseppe Guerzoni.
273. Diamo qui interi i brindisi pronunziati dai due celebri patriotti.
Mazzini pronunziò il seguente:
«Mon toast comprendra tout ce que nous aimons et tout ce pour quoi nous combattons:
»A la liberté des peuples!
»A l’association des peuples!
»A l’homme, qui, par ses actions, est l’incarnation vivante de ces grandes idées!
»A Joseph Garibaldi!
»À la pauvre, sainte, héroïque Pologne, qui depuis plus d’une année combat en silence et meurt pour la liberté!
»A la nouvelle Russie, qui, sous la devise terre et liberté, tendra dans un jour rapproché, une main de sœur à la Pologne pour la défense de la liberté et de l’indépendance et effacera le souvenir de la Russie des Tzars!
»Aux Russes, qui, notre ami Herzen en tête, ont le plus travaillé à l’éclosion de la nouvelle Russie!
»À la religion du devoir qui nous fera lutter jusqu’à la mort pour que toutes ces choses s’accomplissent!»
Garibaldi rispose:
«Je vais faire une déclaration que j’aurais dû faire depuis longtemps; il y a ici un homme qui a rendu les plus grands services à mon pays et à la cause de la liberté. Quand j’étais jeune et que je n’avais que des aspirations, j’ai cherché un homme qui pût me conseiller et guider mes jeunes années; je l’ai cherché comme l’homme qui a soif et cherche l’eau. Cet homme je l’ai trouvé; lui seul a conservé le feu sacré, lui seul veillait quand tout le monde dormait. Il est toujours resté mon ami, plein d’amour pour son pays, plein de dévouement pour la cause de la liberté.
»Cet homme c’est mon ami Joseph Mazzini.
»A mon maître!»
Dopo una breve pausa proseguì:
«À la Pologne, la patrie des martyrs, au pays qui se dévoue à la mort pour l’indépendance, au pays qui donne un sublime exemple aux autres peuples!
»À la jeune Russie, au nouveau peuple, qui une fois libre et maître de la Russie du Tzar, est appelé à jouer un grand rôle dans les destinées de l’Europe!
»A l’Angleterre, ce grand pays de la liberté qui nous donne l’hospitalité, à qui nous devons le bonheur de nous trouver réunis!» — Vedi Politica segreta italiana (1863-1870), Torino, Roux e Favale, 1880, pagine 145-146.
274. Quella de’ Danesi fra le altre.
275. Menotti, tagliato fuori dalla calca, non aveva potuto penetrare in Guild-Hall.
276. Erano venuti d’Italia il colonnello Chiassi, il colonnello Missori, il deputato Mordini ed altri.
277. Tornata del 19 aprile 1864.
278. Nel citato libro la Politica segreta italiana, a proposito delle cagioni che il governo aveva di desiderare l’allontanamento di Garibaldi, si leggono a pag. 164-65 queste parole:
«Il governo italiano aveva mandato presso quello inglese un agente segreto, il quale aveva fra altri il mandato di tentare che l’Inghilterra come espressione concreta di quella simpatia che dimostrava all’Italia negli omaggi resi a Garibaldi si decidesse a cedere al nuovo regno l’isola di Malta, come aveva ceduto alla Grecia le isole Ionie, la quale idea era stata comunicata e non aveva dispiaciuto alle Tuilerie.... Ciò fece che il gabinetto di San Giacomo desiderasse più vivamente anch’egli che il soggiorno di Garibaldi venisse abbreviato, e che non avesse luogo il viaggio nelle provincie, dove accrescendosi con incalcolabili proporzioni l’entusiasmo popolare esso temeva che gettata in campo la proposta della cessione di quell’isola, la pubblica opinione eccitata lo costringesse ad acconsentire.»
Ora è questa una delle tante fiabe onde codesto libro è infarcito. A noi consta in modo incontrovertibile che in tutto questo racconto non c’è parola di vero.
279. Riproduciamo per brevità soltanto le due ultime lettere del 18 aprile. Della prima del 17, scritta in forma privata al Duca di Sutherland, abbiamo riassunto fedelmente il senso.
«13 aprile.
»Milord Duca,
»Confermando la mia lettera di ieri, ho l’onore di parteciparvi il risultato d’un colloquio avuto questa mane col generale Garibaldi. Egli ammette di sentirsi stanco e di non essere nelle stesse disposizioni fisiche come al suo giungere dall’isola di Wight.
»Mi ha parlato delle emozioni e dello strepito che lo circondano, formando un forte contrasto cogli usi abituali della sua vita. Quando parlava, osservai in lui una stanchezza mentale, forse più pronunciata della fisica debolezza.
»Non potrei asserire essere impossibile lo adempiere agli impegni assunti, ma non esito a dirlo pericoloso.
»W. Fergusson.
»A. S. G.
»il Duca di Sutherland.»
* * *
«18 aprile.
»Mio caro Seely,
»Leggo nei giornali che il Generale impegnossi a viaggi in tutte le direzioni. L’impresa è ardua e non v’ha uomo dell’arte che non la riconoscerebbe piena di pericoli. Ho scritto in proposito al Duca di Sutherland, e credo mio debito consigliare anche voi e tutti i suoi amici d’Inghilterra di suggerir un mezzo qualsiasi per distoglierlo dalle imprudenti emozioni delle sue visite progettate.
»W. Fergusson.
»Al signor Carlo Seely.»
280. Fra quei due o tre amici c’era anche, in un angolo della sala, l’Autore di questo libro. Io vedeva da parecchi giorni quello che si tramava, ed ero deciso ad averne, come suol dirsi, il cuor netto. E ciò non perchè m’importasse che Garibaldi abbreviasse o no il suo viaggio; fallito anzi lo scopo politico pel quale l’avea intrapreso, non vedevo più ragione di prolungarlo; ma solo perchè stimavo mio preciso dovere per l’ufficio di fiducia che il Generale m’aveva commesso di vegliare attentamente a tutto ciò che si ordiva intorno a lui, e d’impedire, per quanto era in me, ch’egli fosse vittima d’un intrigo. Saputo pertanto delle progettate riunioni, mi preparai alcuni minuti prima nel salotto del Generale ben risoluto a non muovermi di là se il Generale stesso non me lo ordinava. Ma come il Generale mi parve piuttosto contento che io restassi, così non ostante il visibile dispetto che la mia importuna presenza cagionava ai congregati, restai, fermo come una sentinella, e potei quindi udire dal principio alla fine tutto il dialogo di quella sera memoranda. Il qual dialogo ho riprodotto con tutta la maggior fedeltà che mi fu concessa, certissimo d’averne serbate nella memoria le parole più salienti, e in ogni caso il senso e l’andamento.
281. Chi confronti la mia versione colle dichiarazioni del signor Gladstone ai Comuni (seduta del 21 aprile) e del signor Seely al meeting del London Tavern (la sera del 20) vedrà che le differenze sono quanto alla sostanza insignificanti. Il solo particolare dimenticato da quei due signori furono le parole «partirò domani,» ma io tanto quelle parole, come l’alzata impetuosa dalla sedia che le precedette, le vedo e le odo come se accadessero ora, e le riaffermo qui in tutta la loro pienezza. Aggiungo anzi che quelle parole caratteristiche si leggono tra le linee del discorso del signor Seely e non è mestieri di grande acume per comprendere com’egli avesse interesse ad attenuarne il senso.
Il signor Seely al London Tavern disse «che Garibaldi avendo promesso di visitare più di trenta città, i suoi amici credevano che la promessa non potrebbe essere tenuta senza pregiudizio della sua salute. Per conseguenza, domenica a sera, il Duca di Sutherland, il Conte di Shaftesbury, il generale Eber, il colonnello Peard, il signor Gladstone, il signor Negretti ed egli stesso si riunirono a Stafford-House onde considerare se non fosse espediente di limitare le visite del Generale a sei od otto delle principali città del regno. Il Generale replicò essergli impossibile tirare una linea di separazione, e che preferirebbe abbandonare addirittura l’Inghilterra.
»Quella stessa mattina (la mattina in cui il Seely parlava, cioè il 20 aprile) il Duca di Sutherland, il Conte di Shaftesbury, Saffi, il generale Eber, il colonnello Peard, Negretti e il signor Stansfeld avevano tentato far cambiare il Generale d’avviso, ma indarno.»
Ora ognuno intende che tra le parole «abbandonare addirittura l’Inghilterra» e il «partirò domani» non c’è altra differenza che di forma; e basta poi il fatto riaccertato dallo stesso signor Seely che la mattina dopo il Duca di Sutherland, il Conte di Shaftesbury, ec. ec. tentarono far cambiare d’avviso al Generale (cioè di non partire subito) per confermare in ogni parte la nostra testimonianza.
Ed ora ecco le parole dette dal signor Gladstone ai Comuni:
«Sono tenuto al mio onorevole amico d’avermi mosso questa domanda per ciò che riguarda me stesso. Il fatto ch’egli ha accennato tiene molto commosso il popolo inglese, il quale da niente più rifugge che dal mistero e segreto in simili cose. Or ecco quel che veramente è avvenuto, e che ha fatto narrare diceríe false ed assurde. Il Duca di Sutherland mi fece sapere, sabato passato, che egli ed altri amici del Generale avevano concepito forti timori rispetto alla sua salute, e che un insigne medico, il signor Fergusson, pensava che s’egli avesse messo in effetto il disegnato giro per le provincie avrebbe assai patito.
»Il Duca di Sutherland m’invitò ad andare da lui, quella sera, per consigliarci insieme intorno al da farsi.
»Io, pensando che il Duca aveva molti titoli di gratitudine per quello che ha fatto pel governo, andai, com’ero stato invitato, e trovai che i timori erano giusti, tanto più che il Generale aveva accettato quasi cinquanta inviti di città vicine, e l’elenco ogni dì cresceva rapidamente. Il signor Fergusson chiaramente disse non poter il Generale sopportare le fatiche di tanti viaggi e dimostrazioni. Venuti dunque a consiglio il Duca, il colonnello Peard, il generale Eber e due o tre amici del Generale, si trovò esser nostro dovere consigliarlo a restringere il numero delle sue promesse, e determinasse bene prima di lasciar Londra.
»Questo fu fatto conoscere da due amici particolari al Generale, e quindi fui io richiesto di parlare a lui medesimo. Così allora m’avventurai a mostrargli quello che ognuno doveva vedere, come l’andar incontro a tante fatiche non potesse essere che a danno della sua salute. Aggiunsi ancora che mi pareva che le magnifiche accoglienze avute in questa metropoli, che sono certamente uno dei più memorabili avvenimenti dei nostri tempi, potevano perdere un poco della loro dignità e bellezza, se fossero state ripetute ogni giorno in tanti luoghi diversi. Queste furono le cose che io dissi al Generale, nè mai dissi che era meglio partire, ma solamente di tenere entro a certi limiti le sue promesse.
»Il Generale m’ascoltò con molta pazienza, indi mi rispose che v’era gran verità in quel che io gli avevo esposto, ma parergli che sarebbe assai difficile distinguere fra i desiderii e le domande d’una e d’altra città; che egli pensava che il fine della sua venuta in Inghilterra era conseguito, essendovi egli venuto, non per avere quegli onori, di cui egli era ricolmo, ma per ringraziare il governo ed il popolo inglese per quello che avevano fatto a pro della sua patria. Disse che egli credeva che, visitando Londra, aveva visitata tutta la nazione; che le promesse fatte erano tutte sotto condizione, e non si teneva più obbligato, quando forti cagioni l’impedissero, di adempierle. Soggiunse sperare di poter in altro tempo, ma senza cerimonie di gran pubblicità, tornare in Inghilterra, e allora potrebbe vedere molti più amici che non aveva ora fatto. Questo egli disse, nè pensò mai che vi fosse alcuna cagione politica, nè sospettò certo, come altri ha fatto, che qualche potentato straniero fosse mescolato in questa pratica.
»Quanto all’Imperatore dei Francesi e al suo governo, il nobile Lord in questa Camera ha già detto assai chiaramente ch’egli non vi ha nulla a che fare. Ma molte volte avviene che una piccola verità è sorgente di molti errori; e in questo caso l’essere io stato chiamato per dare un consiglio, richiesto dal bene e dalla salute del Generale, ha fatto credere cose che sono al tutto senza parte alcuna di vero.»
282. In questo terzo colloquio della mattina del 19, v’erano il Duca di Sutherland, il signor Eber, il signor Peard, il signor Negretti e forse altri, ma nè Lord Shaftesbury, nè il signor Gladstone, nè il signor Seely, nè il dottor Fergusson vi erano.
283. Il dottor Basile, in una lettera al Sun del 19 aprile, diceva:
«Come medico ordinario del Generale, mi credo in obbligo d’affermare trovarsi la sua salute nel più soddisfacente stato e la ferita del piede cicatrizzata da vari mesi, non aver più bisogno di cure chirurgiche.... Sono dunque fermamente convinto che il Generale possa intraprendere il progettato viaggio senza pericolo.»
Il Basile diceva la verità; ma non saprei affermare che egli fosse stato autorizzato dal Generale a dirla, e molto più a scrivere questa lettera.
Il dottor Partridge nel Times del 20 pubblicava un’attestazione quasi consimile a quella del dottor Basile.
284. Il Sun, il Morning Star, l’Evening Standard.
285. Vedi Tornate della Camera dei Lordi del 18 aprile 1864, e dei Comuni 19 e 21 aprile.
286. Ecco la testuale risposta di Garibaldi:
«Sono profondamente grato al popolo inglese degli onori che mi ha resi, ma di cui mi considero indegno. Le accoglienze che ho ricevute da ogni classe di persone sono state tali che non le scorderò giammai.
»Desidero ardentemente di visitare i miei vecchi amici di Newcastle e del Nord. Considererò se posso cambiare di determinazione dopo la promessa data e farò conoscere la mia risoluzione al mio amico signor Beales.»
287. Ecco la lettera testuale:
«Cari amici,
»Accettate i ringraziamenti del mio cuore per la vostra simpatia e pel vostro affetto. Sarò felice se potrò rivedervi in circostanze migliori e quando potrò godere con tutto agio della ospitalità del vostro nobile paese. Pel momento io sono obbligato di lasciar l’Inghilterra. Ancora una volta, la mia gratitudine sarà sempre viva per voi.
»21 aprile.
»G. Garibaldi.»
288. Ecco la lettera:
«Rivolgo le più vive grazie del mio cuore e i sentimenti di gratitudine alla nazione e al governo inglese per l’accoglienza ricevuta su questa libera terra. Il primo scopo della mia venuta era di compiere un dovere per la simpatia dimostrata a me ed alla mia patria. Questo scopo è raggiunto: ma bramavo eziandio di pormi a disposizione di tutti i miei amici inglesi e recarmi in tutti i luoghi ove poteasi dimostrare desiderio di me. Ora non mi è lecito di soddisfare tutti gl’impulsi del mio cuore.
»Se fui causa di qualche turbamento o di qualche disinganno, ne chiedo perdono agli amici, i quali comprenderanno come io non potessi stabilire una linea di demarcazione fra i luoghi da visitare. Accettino perciò i miei ringraziamenti e i miei saluti.
»Tuttavia spero in un tempo non lontano poter fare ritorno, visitare i miei amici nella vita domestica inglese, e mantenere quella promessa che oggi, con mio immenso dolore, non mi è dato poter secondare.
»Garibaldi.»
Giova notare che la lettera era scritta nel più perfetto inglese, e che il Generale non fece che firmarla. La frase «non posso stabilire una linea di demarcazione fra i luoghi da visitare,» già usata dal signor Seely al meeting di London Tavern, la fa sospettare dettata da lui.
289. Infatti nè i figli, nè il dottor Basile, nè il segretario Guerzoni erano stati invitati a Clifden Park. Oltre a ciò era stato deciso dai manipolatori della partenza che il Generale s’imbarcherebbe sull’Ondine seguíto dal Basso, e forse dal dottor Basile e dal figlio Ricciotti, e che l’altro figlio Menotti, il segretario Guerzoni e gli altri suoi amici ritornerebbero in Italia per altra strada. Il Generale tuttavia volle rivedere prima a Clifden, poi a Penquite Par, dimora del colonnello Peard, il suo segretario Guerzoni e questi ubbidì come diremo meglio in appresso.
290. Il documento meriterebbe essere pubblicato per intiero, ma ce ne trattiene la soverchia lunghezza. La prima bozza era stata concertata tra il segretario Guerzoni, il deputato Mordini, e, se non c’inganna la memoria, Aurelio Saffi. Il Guerzoni la portò a Penquite Par nella sera stessa del 26, dove arrivò per la linea più diretta, Londra-Bristol-Exeter-Plimouth; il Generale vi fece parecchie ed importanti mutazioni, e fu pubblicato nei giornali inglesi colla data di quella medesima sera.
Eccone pertanto i brani più salienti:
«Al popolo inglese.
»Penquite Par, Cornwall, aprile 26.
»Al popolo inglese io non ho nulla a ricordare che esso non conosca. Egli sa ciò che l’Italia desidera. L’Italia ha risoluto di esistere. Essa ne ha il diritto, e se alcuno ne dubitasse, io aggiungerei che essa esiste già di fatto, e che nulla le impedirà dal completar sè stessa. L’Italia non desidera che di scuotere il giogo delle due avverse potenze che la opprimono — lasciate che il mondo l’oda — essa non può rimaner tranquilla finchè non avrà ottenuto questo scopo, che è fra le questioni di vita o di morte. Il popolo inglese che sprofonderebbe sotto il suo Oceano piuttosto che permettere che il sacro suolo del suo paese sia violato dallo straniero comprenderà quanto legittime siano le aspirazioni, e quanto irremovibili le risoluzioni del mio paese.
»L’Inghilterra conosce che cooperando disinteressatamente in favore dei destini dell’Italia nel 1860 contribuì a promuovere l’ordine e la pace in Europa — quella pace e quell’ordine che soli riescono durevoli e benefici perchè fondati sulla giustizia e sul progresso.
»L’Inghilterra, ne sono convinto, si confermerà sempre più in questa opinione che se da una parte sta all’Italia a mostrarsi forte ed essere realmente forte e indipendente da servili alleanze, affine di cattivarsi fiducia dai suoi veri amici (fra i quali il primo posto è dovuto all’Inghilterra), l’Inghilterra stessa vedrà dall’altra parte in quanto l’alleanza d’una giovine incivilita e libera nazione come l’Italia, sia preferibile alle eterogenee e mal sicure alleanze colle potenze dispotiche. Tuttavia io non posso sperare — lo dico con dolore — che l’Italia sarà atta a compiere i suoi destini senza correr di nuovo la terribile prova dell’armi. La voce dell’Inghilterra è udita e rispettata, essa è in alto grado arbitra dei destini dell’Europa, ma sia pienamente persuasa che essa non può sciogliere la questione italiana o quella di altre nazionalità, mediante alcuna immaginazione di compensi e negoziazioni diplomatiche. Ma in faccia al gran principio della solidarietà dei popoli, proclamato e sancito dalla coscienza universale, io non posso parlare solo dell’Italia, molto meno in un tempo in cui il presagio di questa vera sacra alleanza fu irrevocabilmente confermato quando di recente io strinsi la mano dei proscritti di tutte le parti dell’Europa. Lasciando questa spiaggia ospitale non posso nascondere più a lungo il segreto del mio cuore, raccomandando la causa dei popoli oppressi alla più generosa e sagace delle nazioni. — Dacchè il loro sorgere è certo ed il loro trionfo è fatale, l’Inghilterra saprà come stendere su di loro il poderoso scudo del suo nome e sostenerli se bisogna col suo forte braccio.
»L’Inghilterra sa che essa non sarà sola in questa grande missione. Di là dello Stretto v’è un altro popolo gigante, che è stato sovente costretto dalle arti del dispotismo ad essere il rivale e il nemico di questo paese, ma che la libertà riuscirà a volgere in pacifico competitore e amico. — Libertà! questo è il sole che deve fecondare la sincera e formidabile alleanza dei due popoli della civiltà contro la barbarie, e per cui, senza sguainar la spada, la grand’opera della pace del mondo sarà realizzata.»
291. Nella citata Politica segreta italiana (pag. 167-168) si narra che il Duca di Sutherland aveva proposto al Re, per mezzo del conte Maffei, allora consigliere di legazione a Londra, di far viaggiare Garibaldi due mesi nei mari d’Oriente impedendogli così di sbarcare a Caprera, d’onde si temeva che il Generale potesse slanciarsi in nuove avventure. Il libro però aggiunge che Mazzini, scoperto il complotto, lo sventò avvertendone per telegrafo il Generale, il quale ricevuto il dispaccio a Gibilterra chiese ed ottenne che la rotta dell’Ondine sarebbe stata in retta linea per Caprera. A noi mancano argomenti per confermare o smentire questo racconto. Diciamo solo che non ne abbiamo mai sentito a parlare. Che il progetto sia nato nel cervello del Duca di Sutherland par certo poichè esiste il dispaccio del conte Maffei che lo prova; ma non crediamo che il Re l’abbia approvato, nè che Mazzini abbia avuto bisogno di sventarlo. Soltanto il fatto meritava essere ricordato come indizio delle mille tranellerie da cui il Generale era circondato.
292. Il signor Assollant, nel Courrier du Dimanche citato da Bent, pag. 228, op. cit. E lo stesso Bent, dopo aver dato ragione al signor Assollant, soggiungeva: «From first to last Garibaldi’s visit was one long cheer; he was a veritable nine days’ wonder; but beyond good wishes, and addresses from every imaginable town that could squeeze in a word edgeways, Garibaldi got only a few handsful of presents from his immediate admirers, and when he made his second rash attempt on Homo in 1867 he found England no more inclined to help him than if he had remained quietly at home.»
293. Arrivava verso le 11 del mattino. Lo seguivano il dottore Albanese, il segretario Guerzoni, i figli ed altri. Prendeva alloggio nella casa del signor Luigi Mansi.
294. La Politica segreta italiana già citata.
295. Il 2 maggio in un suo biglietto autografo il Re faceva al Mazzini questa risposta:
«Non è da ammettersi la frase che si sia tenuto a bada il partito d’azione, mentre gli si fece sempre intendere in modo netto e preciso che qualunque moto, sia interno, sia avente per iscopo un’iniziativa verso il Veneto, sarebbe stato impedito con ogni mezzo energico di cui si può disporre.
»Essere pertanto una prova insensata che si tenterebbe senza risultato di sorta, che cagionerebbe guai a deplorarsi per parte dei motori.
»La Polonia mancò ognora nelle varie sue fasi insurrezionali della forza vitale di espansione, e questa è la principale cagione della sua rovina, forse potrebbe rinascere come la fenice dalle proprie ceneri, estendendo le sue ramificazioni in Gallizia, Principati ed Ungheria, dove il terreno sarebbe facile à exploiter se vi fossero uomini energici ed audaci che servissero di trait-d’union.
»Se i moti in Gallizia estesi alle citate contrade prendessero le proporzioni di una spontanea popolare insurrezione da tenere fortemente occupata l’Austria, allora sarebbe necessario anzitutto d’aiutarla con un nucleo d’Italiani determinati, e così riuniti vari fecondi elementi, tutti ostili al principale nemico, si potrebbe condurre a compimento il comune desiderio.
»V. E.»
(Politica segreta ec., pag. 72-73.)
296. «Ottenendo il moto galliziano anteriore, il moto veneto dovrebbe seguire immediato.... Intendendo che il moto veneto segua rapidamente, è necessario aumentare l’armamento fin d’ora. Quindi la richiesta di restituzione dell’armi e del rinvio d’un uomo persecutore (Spaventa), che d’altra parte è screditato per ogni dove e disonora il governo.»
Nota-memorandum Mazzini da rimettersi al Re. — Politica segreta ec., pag. 77.
297. Vedi risposta del Re a Mosto, incaricato di Mazzini. — Politica segreta ec., pag. 88.
298. Il generale Klapka arrivò a Clifden il giorno stesso in cui, chiamatovi dal Generale, vi arrivava da Londra io pure. Lo vidi restare a lungo con Garibaldi e ne immaginai facilmente la cagione. — Vedi anche Politica segreta ec., pag. 87.
299. Documento di pugno del Re letto ad Antonio Mosto in presenza del conte Verasis di Castiglione e del signor D. Müller. Fra le altre cose diceva: «Che per quanto riguardava la rivoluzione in Gallizia il Re e il suo governo ne avevano lasciata la direzione al Klapka, ec.....» — Politica segreta ec., pag. 85.
300. «Le parti d’action (ungherese) nous a donné la main à condition que nous n’aurons rien à faire avec Kossuth et les généraux Klapka et Türr.» Parole d’una nota del signor Bulewsky, agente del Centro Rivoluzionario Polacco in Londra. — Politica segreta ec., pag. 97.
301. Vedi Politica segreta ec., pag. 99.
302. Nè più nè meno però. Di preparare armi ed armati, come altri disse, Bixio non ebbe nessun incarico. Fu anzi per mettere in chiaro la verità di questa novella che io nella notte dal 4 al 5 luglio mi recai da lui al campo di San Maurizio.
303. Radunò gli ufficiali a gran rapporto, e lo presentò loro come amico di Garibaldi, del Re e dell’Italia. L’eccesso stava nella presentazione d’un personaggio borghese non rivestito d’alcuna carica o dignità ufficiale ad un corpo di ufficiali.
304. Questi sono i nomi che ci occorrono alla memoria. Forse ne dimentichiamo alcuno. Tutti invece non poterono venire, tra gli altri Giovanni Chiassi.
305. Come si vede, i sottoscritti non si sottoscrissero, e la così detta protesta restò quello che era in fatto, l’opera d’un solo e anonimo autore. Come poi il Diritto potesse chiamare documento uno scritto anonimo, è ciò che non riesciamo a comprendere!
306. Questa è l’ipotesi più probabile. Dai Principati non venivano da parecchio tempo che notizie sfavorevoli alla meditata impresa. Il governo del principe Cuza, sul cui assenso tacito e segreto si era contato, chiarivasi invece recisamente avverso ed arrestava il Frygesy, quel colonnello ungherese che era in Rumenia il capo ed il centro della congiura.
307. Egli aveva lasciato Torino il 6 mattina e non poteva avere conoscenza della lettera pubblicata il 10. A proposito del Guerzoni, in quel libro più volte citato, la Politica segreta italiana, sono spacciate tante fandonie che sarebbe impossibile smentirle tutte anche scrivendoci intorno un intero capitolo. Come però da una parte non vogliamo far servire un libro consacrato a Garibaldi alla nostra privata difesa, e dall’altra di quella difesa non sentiamo alcun bisogno, così passiamo accanto sorridendo alla povera cantafavola, e aspettiamo che il tempo ne faccia la dovuta giustizia.
Solo un fatto è narrato in quelle pagine con poche varianti più maligne che importanti, ed è il congedo che Garibaldi diede al Guerzoni quando lo sospettò autore delle voci che a detta di taluni avevano mutata la risoluzione di Vittorio Emanuele e fatto abortire la progettata corsa in Oriente. Ora come di quel fatto il Guerzoni non si vergognò mai, anzi andò sempre fiero come d’una delle azioni più oneste e coraggiose della sua vita, così non ha alcun ritegno a narrarlo egli stesso più veracemente per esteso. Ingannato da mendaci rapporti, sorpresa la sua buona fede e nell’acciecamento del primo sdegno trasportato a pensare che il Guerzoni fosse stato autore o istigatore della lettera del 10 luglio, il Generale lo fece venire a sè e gli disse con accento tuttavia pacato e benigno: «Guerzoni, è necessario che per qualche tempo ci separiamo.... La cosa però resterà fra di noi. Noi saremo sempre amici come prima.»
Il Guerzoni alzò la testa alla immeritata ferita e rispose come ogni uomo al suo posto avrebbe fatto: «Io non ho nulla da rimproverarmi, Generale, — però non ho nulla da nascondere. Parli o taccia, io resterò sempre quale mi parto di qui, suo amico devoto e suo fedele soldato.»
E il Guerzoni partì.... Da quel giorno non scrisse più al Generale che sei mesi dopo per mandargli in brevi parole i suoi augurii pel buon capo d’anno del 1865. Il Generale gli rispose con questa lettera:
«Caprera, 2 del 1865.
»Mio caro Guerzoni,
»Grazie per la lettera vostra gentile. Io vi contraccambio gli augurii con augurarmi d’aver compagni che vi somiglino in una battaglia che forma l’unica speranza della mia vita. V’invio la parola che mi chiedete, e sono sempre vostro
»G. Garibaldi.»
Scorsi altri sei mesi egli scriveva a Benedetto Cairoli, a proposito della candidatura del Guerzoni a deputato:
«Vi raccomando Guerzoni per tutti i collegi.»
Il congedato d’Ischia poteva dirsi soddisfatto.
308. Una fu pubblicata dal Farini nel suo Stato Romano, vol. II, pag. 253. Firenze, 1850.
309. Anche Giuseppe Mazzini, scrivendo nel 1861 ad un Tedesco, diceva alla nazione germanica: «Cancellate dalla fronte della Germania la macchia che l’Austria vi ha messo.... Siate un popolo e c’intenderemo. L’idea germanica e l’idea italiana s’abbracceranno sulle Alpi libere.» — Vedi Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, vol. XI, pag. 262. Roma, 1882.
310. Il Bismarck, interpellato dal La Marmora se in caso che l’Austria attaccasse l’Italia la Prussia sarebbe stata pronta ad accorrere in nostro soccorso, rispose che il Trattato dell’8 aprile non era un Trattato bilaterale, e che la Prussia non vi era in alcun modo vincolata ad aiutare l’Italia.
Del resto chi voglia sincerarsi di quanto abbiamo detto sin qui intorno all’alleanza italo-prussiana veda principalmente: Le général La Marmora et l’alliance prussienne, Paris, 1868. Opera del capitano Chiala, il più fedele e devoto interprete istoriografo del generale La Marmora. — Due anni di politica italiana. Milano, 1868, di Stefano Jacini, nel 1866 ministro dei lavori pubblici del gabinetto La Marmora e principale confidente e consigliere del Generale stesso. — Un po’ più di luce sugli eventi politici e militari dell’anno 1866, pel generale Alfonso La Marmora. Firenze, G. Barbèra editore, 1873. — Il generale Alfonso La Marmora, Ricordi biografici di Giuseppe Massari. Firenze, G. Barbèra editore, 1880.
311. La Campagna del 1866 in Italia, redatta dalla Sezione Storica del Corpo di Stato Maggiore. Roma, 1875, vol. I, pag. 65 e 66.
312. Vedi op. cit., pag. 67.
313. Vedi Cenni Storici sui Preliminari della Guerra del 1866, ec. del capitano Luigi Chiala, pag. 580.
314. Al ministro della guerra, generale Pettinengo, scriveva:
«Caprera, 14 maggio 1866.
»Signor Ministro,
»Accetto con vera gratitudine le disposizioni emanate da S. M. in riguardo ai Corpi volontari, riconoscente alla fiducia in me riposta con l’affidarmene il comando. Voglia essere interprete presso S. M. di questi miei sentimenti nella speranza di poter subito concorrere col glorioso nostro esercito al compimento dei destini nazionali.
»Ringrazio la Signoria sua della cortesia colla quale si è degnata farmene partecipazione.
»Voglia credermi della Signoria sua
»devotissimo
»G. Garibaldi.»
315. Questo scriveva in quei giorni ai signori Valzania, Caldesi, Bagnasco, noti repubblicani. Per brevità citeremo solo la lettera a quest’ultimo:
«Caprera, 11 maggio 1866.
»Caro Bagnasco,
»È cosa utile al paese che in ogni modo tutti siamo pronti e concordi. E questione di vita o di morte perla patria, e sta all’Italia tutta il problema.
»Io accetterò tutti coloro che vogliono combattere lo straniero oppressore. Per le istruzioni dirigetevi ai nostri amici della Commissione; e fra gli altri a Benedetto Cairoli. Bando alle gare ed alle opinioni, e facciamo.
»Credetemi
»vostro sempre
»G. Garibaldi.»
316. La Campagna del 1866 in Italia, redatta dalla Sezione Storica del Corpo di Stato Maggiore, tomo I, pag. 129.
Vi fu chi disse che il piano di guerra di Garibaldi era simile in tutto a quello del generale Moltke e dello Stato Maggiore prussiano dichiarato nella celebre Nota del signor D’Usedom, ministro del re di Prussia a Firenze.
Chi abbia letto quella Nota e la confronti colle parole testè citate della Relazione Ufficiale, vedrà che tra i due concetti corre una capitale differenza. Entrambi, è ben vero, s’accordavano nel pensiero di non arrestarsi intorno al quadrilatero, di girarlo o di attraversarlo; entrambi credevano che compiuta questa prima operazione e «quando la sorte fosse propizia sul principio ai due alleati» (parole della Nota Usedom), l’Italia dovesse spingere un forte Corpo di spedizione nel cuore dell’impero austriaco; ma circa alla strada che quel Corpo dovesse tenere e al modo con cui doveva operare, dissentivano grandemente. Garibaldi infatti, come fu già detto, voleva sbarcare presso Trieste allo scopo di prendere a rovescio l’esercito austriaco e tagliarlo da Vienna; lo Stato Maggiore prussiano voleva uno sbarco nella Dalmazia, il quale appoggiandosi ad una ipotetica insurrezione slavo-ungherese, desse la mano all’esercito prussiano e marciasse su Vienna.
Il Generale italiano, rivoluzionario dalla nascita, non pensava che ad una operazione prettamente militare; il Generale prussiano, militare nel sangue, aveva in mente una operazione rivoluzionaria.
Quale dei due concetti fosse migliore sarebbe ormai superfluo il discutere. Certo il disegno prussiano appare a prima giunta più audace e più vasto; ma esso aveva, secondo noi, il grave difetto di fondarsi sopra una rivoluzione di popoli che nessun indizio prometteva, e di calcolare sopra una vittoria delle armi prussiane che era ancora nei segreti del fato. Si supponga la insurrezione slavo-ungherese fallita; si immagini una Sadowa favorevole all’Austria, che cosa avrebbe fatto il Corpo di spedizione italiano? Che cosa sarebbe accaduto a Garibaldi nel cuore dell’impero austriaco?
Non per questo crediamo che il progetto prussiano meritasse lo sdegnoso disprezzo con cui lo trattò il generale La Marmora. Anzitutto l’accusa da lui mossa a quel progetto, che volesse la spedizione transadriatica prima che l’esercito italiano avesse preso posizione alle spalle del quadrilatero è affatto gratuita; e le parole stesse dell’Usedom, che pure nella sua qualità di diplomatico non era obbligato a spiegarsi con tutta la precisione del linguaggio militare, la smentiscono completamente. La Nota Usedom, infatti, muove dal supposto che l’esercito italiano abbia già attraversato e girato il quadrilatero e vinto una battaglia in campo aperto; ed evidentemente coordina e subordina tutte le operazioni proposte al di là dell’Adriatico, a quella ipotesi. Il generale La Marmora dunque, rimproverando allo Stato Maggiore prussiano un assurdo, che davvero sarebbe stato enorme, non faceva che pensarlo egli stesso e da sè solo. Ma non è qui il punto.
Il torto del generale La Marmora non consistette già nel respingere un disegno che anche nella felice ipotesi d’una piena vittoria in Italia sarebbe pur sempre stato temerario e pericolosissimo; il torto del Generale stette, e starà sempre, nell’essersi rifiutato di esaminare, di discutere quel disegno, nell’averlo nascosto a’ suoi colleghi del ministero e dell’esercito; nell’aver perciò impedito che potesse di comune accordo fra i due alleati essere corretto e modificato, reso più utile e praticabile.
Ma a che pro esaminare i torti del generale La Marmora nel 1866? A che mai fargli colpa di non aver nemmeno degnato di discussione i disegni del suo alleato, se non eseguì quelli che aveva combinati col suo primo luogotenente in Italia, col generale Cialdini, anzi che aveva sanciti egli stesso, poichè nella sua qualità di Capo dello Stato Maggiore generale dell’esercito stava a lui il comandare?
Che se gli apologisti del La Marmora sorgono a dire che il piano combinato col Cialdini era diverso; che il passaggio del Po doveva essere l’accessorio e l’irruzione dal Mincio il principale, allora noi chiediamo, e lo chiederà sempre, vivaddio, la storia, perchè questa irruzione non fu almeno preparata cogli accorgimenti e le precauzioni che l’arte suggeriva per assicurarne il trionfo, tanto più facile al generale La Marmora quanto meno gli erano mancati quei due fattori essenziali d’ogni vittoria: il tempo e la forza?
317. Vedi L. Chiala, Cenni Storici sui Preliminari della Guerra, vol. I, pag. 584.
318. Chiala, op. cit., vol. I, pag. 585 e 588.
319. A Lecco, per esempio, dal terrazzo dell’albergo La Croce di Malta, diresse alla moltitudine de’ Garibaldini, stipata giù nella piazza, queste parole:
«Amici! — Voi sapete che in questo mondo ci vuol fortuna quasi in ogni cosa; ci vuol fortuna pel marinaio che alcune volte in mezzo al mare incontra uno scoglio, altre volte invece scopre un tesoro; ci vuol fortuna per il soldato, che spesso stando tra l’ultime file trova una palla, mentre un altro che trovasi tra i primi, rimane illeso.
»Ora voi siete una generazione fortunata, io vo declinando in età, e mi chiamo felicissimo d’essere ancora con voi. Prima di voi furonvi mille generazioni che vedevano i lor campi calpestati dallo straniero, e le loro donne in preda di truppe mercenarie, e voi questa terra la libererete, i vostri figli e nipoti alzeranno la fronte e si glorieranno del vostro nome, io ve lo dico: voi siete destinati a vincere e dire agli eserciti stranieri che hanno la boria di credersi invincibili, perchè si chiamano organizzati, che diano un fucile a voi altri che avete chi berretto, chi cilindro, chi fazzoletto bianco in capo, e vedranno cosa saprete fare.
»Io sono contento d’essere con voi e per certo faremo qualche cosa.... Non è vero?» — (Pungolo di Milano, 14 giugno, supplemento pag. 2.)
320. Lo accompagnavano nella esplorazione il suo vecchio segretario Basso e il capitano Ergisto Bezzi, uno dei prodi trentini che insieme ai Bronzetti, ai Manci, ai Tranquillini, ai Martini, ai Fontana, ai Bolognini, agli Zancani si incontravano dal 59 in poi su tutti i campi di battaglia dell’indipendenza italiana ad attestare col valore, e spesso col sangue e col martirio, l’indelebile italianità della loro terra.
Il Generale s’avvicinò tanto agli accampamenti nemici che fu a occhio nudo riconosciuto, sicchè i suoi compagni tremarono qualche istante per lui.
321. Non v’erano che due compagnie de’ nostri. Vi fecero prodezze il trentino Bezzi già nominato e il friulano Celli, il quale sostenne un vero singolar certame con un ufficiale austriaco, uscendo dal conflitto tagliuzzato e pesto in più parti del corpo, ma lasciando morente sul terreno il suo avversario.
322. Molti scrittori militari affermano che l’Arciduca Alberto ritornò sulla sinistra del Mincio udita la notizia di Königgrätz. Evidentemente essi confondono le date. La battaglia di Königgrätz accadeva il 3 luglio, e soltanto alla notte di quel giorno l’Arciduca Alberto poteva aver certa notizia della disfatta delle armi imperiali. Il movimento di ritirata invece da lui fu ordinato la sera del 1º luglio e cominciato la mattina del 2. Conviene dunque attribuirlo ad altra cagione, e la sola cagione probabile e plausibile è quella da noi data. Si guardi una carta e s’immaginino due eserciti l’uno de’ quali s’avanza su Piubega, Gazzoldo e Castellucchio nei pressi del Mincio, e l’altro muove tra Borgoforte e Sermide a sboccare dal Po, e si dica se il Generale austriaco poteva continuare a restare sulla destra del Mincio, senza esporsi al pericolo, se la mossa era seria, d’esser preso a rovescio e svelto dalla sua base.
323. Il combattimento di Suello fu variamente raccontato. Noi attingemmo, oltrechè ai racconti più volte uditi dal colonnello Bruzzesi, al Rapporto ufficiale del brigadiere Corte al generale Garibaldi in data del 6 luglio; dal quale consta che l’attacco subitaneo di fronte di Monte Suello non fu ordinato da lui, ma dallo stesso generale Garibaldi.
324. Il maggiore Castellini volle accettare il combattimento nella posizione di Vezza; il maggiore Caldesi a cui era stato realmente affidato il comando voleva indietreggiare nelle posizioni già trincerate d’Incudine. Da ciò quel dissidio e quel contrasto d’ordini e di contr’ordini che riuscì fatale alla difesa. Per tutti i particolari del combattimento di Vezza vedi principalmente Il Quarto Reggimento dei Volontari ed il Corpo d’Operazione in Valcamonica nella Campagna del 1866 del tenente colonnello Giovanni Cadolini, comandante lo stesso reggimento. Firenze 1867, tip. del Diritto. In essi ci trovi anche spiegata la ragione per cui il colonnello Cadolini tenne così divise nella giornata del 3 luglio le sue forze. Egli temette per tutto quel giorno un attacco dal passo di Croce Domini e dovette premunirsi contro quell’eventualità che avrebbe posto a serio rischio le sue comunicazioni, e l’esistenza stessa del corpo d’operazione.
325. Le cinque Brigate erano così composte e comandate:
Capo dello Stato Maggiore, generale Fabrizi.
Sotto capo, colonnello E. Guastalla.
Capo dell’Artiglieria, Maggiore Doglietti. — Capo dell’Intendenza, Colonnello Acerbi. — Capo dell’Ambulanza, Colonnello Bertani. — Comandante le Guide, Tenente Colonnello Missori. — Comandante la zona delle operazioni sul Garda, Generale Avezzana. — Comandante la flottiglia, Tenente Colonnello Elia.
326. Fu detto che Garibaldi poteva trarre maggior partito dalla Valcamonica sia tentando per quella via l’attacco principale, sia facendone appoggiare più efficacemente dai corpi mandati a campeggiarvi l’irruzione delle Giudicarie. Noi opiniamo diversamente.
La via del Tonale, oltre che la più aspra e la più lunga, espone l’assalitore che non possegga gli sbocchi laterali superiori ad essere ad ogni passo circuito e stroncato dalla sua base. Circa poi all’idea di trarre dalla Valcamonica un appoggio più efficace alle operazioni delle Giudicarie, essa era certamente buona, ma non poteva essere praticata che a condizione che l’invasore fosse già padrone della chiave delle Giudicarie o almeno vi tenesse un piede tale da potervi con sicurezza attendere i soccorsi e combinare le sue mosse colle colonne laterali che dovevan cooperar con lui. Ed a questo sappiamo che Garibaldi pensò inviando l’ordine al colonnello Cadolini fino dal 14 luglio, fino dunque dall’ingresso vero in Tirolo, di marciare col suo reggimento per la valle di Roucon alle spalle di Lardaro. Che se il Cadolini non riescì alla meta che assai tardi, fu perchè nel frattempo Garibaldi si era rivolto alla Val di Ledro ed aveva posto in seconda linea l’investimento di Lardaro e la conquista delle Giudicarie.
Tutt’al più può essere rimproverato a Garibaldi di non aver inviato in Valcamonica una forza maggiore, che fosse in grado così di scuotere i difensori del Tonale con abili assalti, come di tener desta e legata l’attenzione del generale Kuhn per la sua estrema destra. Ma Garibaldi può ancora rispondere: «E quando l’aveva io questa forza maggiore disponibile?» Fino al 1º luglio dei suoi dieci reggimenti egli non aveva in mano che la metà; mandò dunque quel che poteva.
327. Vedi la sua opera magistrale Gebirgeskrieg compendiata dal capitano Chioffredo Hugues nel suo opuscolo: La Guerra di Montagna. Modena, 1872.
328. Superfluo il dire che così nella enumerazione, come nella dislocazione delle forze nemiche noi abbiamo attinto soltanto ad opere e documenti di fonte ufficiale ed austriaca; quali il rapporto ufficiale sulla guerra del 1866: Oesterreichs Kämpfe im Jahre 1866, nach Feldachten bearbeitet durch das K. K. General Stabs Bureau für Kriegs Geschichte. — Wien, 1869. Verlag des K. K. General Stabs; Fünfter Band: Die Vertheidigung Tirols.
E il libro stesso del generale Kuhn, La Guerra di montagna, traduzione del capitano Hugues, da noi citato negli esempi che illustrano la parte teorica.
Anche l’opera Geschichte des Feldzuges 1866 in Italien, ec. von Alexander Hold, Hauptmann im K. K. General Stabs — Wien 1867, ha valore quasi ufficiale, e certamente molto pregevole.
E di queste sole opere ci serviremo per conoscere e giudicare delle operazioni degli Austriaci.
329. Dobbiamo dir così non sapendo nè chi quell’ufficiale fosse, nè a chi spetti la responsabilità di quell’errore. A custodia di Val d’Ampola v’era il settimo reggimento; ma non potremmo dire che il torto di non aver occupato Rocca Pagana sia imputabile al suo comandante. Certo Garibaldi la credeva occupata, e restò quasi sbalordito dalla sorpresa quando il 16 mattina vi vide comparire i Cacciatori austriaci.
330. Così i movimenti di queste truppe, come le loro forze, le desumiamo dal citato libro, La guerra di montagna del barone generale Kuhn, versione di Hugues, pag. 90-91 e seguenti, come dalla Relazione ufficiale dello Stato Maggiore austriaco, già citata.
331. Vedi Rustow nella sua Guerra del 1866 in Germania ed in Italia. Milano, 1867, pag. 332.
Del resto anche il generale Kuhn (op. cit., pag. 89) ammise che lo scopo del combattimento del 16 era maggiore d’una ricognizione.
332. Agostino Lombardi di Brescia, prode quanto gentile d’animo, fece tutte le campagne d’Italia del 48, 49, 59, 60 e 66. Non aveva che 33 anni!
333. Il generale Kuhn tentò spiegare la sua subitanea ritirata dal campo di battaglia coll’arrivo di due telegrammi, l’uno dal Comando di piazza di Verona, l’altro dallo stesso Arciduca Alberto; col primo dei quali era avvertito che l’esercito italiano, già entrato nel Veneto, stava per inviare due colonne, una per Val d’Arsa, l’altra per Val Sugana, a invadere dal lato orientale il Trentino; e col secondo invitato a nome dello stesso Imperatore a tenersi nella più stretta difensiva.[334] Lunge da noi il pensiero di negare l’autenticità dei due telegrammi, allegati dall’illustre Generale; quantunque possa parere strano a chicchessia che il Comandante di Verona potesse aver sentore d’una spedizione per Val d’Arsa e Val Sugana, che al 16 luglio non era decisa, e nemmeno forse pensata al Quartier generale italiano, e che ebbe un principio d’esecuzione visibile soltanto il 20 dello stesso mese. Tralasciando però ogni discussione sul tenore delle notizie e degli ordini ricevuti dal generale Kuhn, essi non bastano ancora a spiegare la risoluzione da lui presa nel pomeriggio del giorno 16. Che infatti un Generale si risolva a troncare a mezzo una vittoria già tenuta per certa, e abbandonare un campo di battaglia già creduto suo, solo perchè riceve un telegramma che lo avvisa della possibilità di essere assalito egli stesso, cinque o sei giorni dopo, è cosa assolutamente inammissibile. Per esatto che potesse parere l’annunzio del Comando di Verona, e perentorio l’ordine del Generalissimo dell’esercito imperiale, il generale Kuhn sapeva meglio d’ogni altro che gli Italiani non potevano volare, e che alla peggio gli sarebbe sempre rimasto il tempo di battere prima i Garibaldini che aveva dinanzi a Condino e di marciare poi con tutte le sue forze e con tutto il suo comodo, contro l’altro nemico che gli veniva sul fianco.
Però ci meraviglia grandemente che il dotto e valente Generale abbia potuto scegliere, per ispiegare la ritirata da Condino, una scusa così magra ed irragionevole. Era assai più decoroso per lui l’ammettere che fallito l’aggiramento della destra garibaldina, e riuscita ancora più vana la mossa dell’Höffern sulla sinistra, egli non si sentì in grado con tutte le sue forze di affrontare una seconda volta nelle sue posizioni di Storo-Condino il grosso dell’esercito nemico. Il qual grosso però non sommava a trentacinquemila uomini, come egli nel citato suo libro affermò. In linea tra il Brufione, Brione, Condino non vi erano che il 1º e il 6º reggimento e un battaglione di Bersaglieri; in seconda linea tra Darzo e Storo che il 3º, il 9º e il 7º; poco più di diciottomila uomini; gli altri erano troppo lontani per poter prendere parte alla giornata.
334. Guerra di Montagna già citata, pag. 94-95, e nel Rapporto ufficiale Oesterreichs Kämpfe im Jahre 1866. Viert Band.
335. Anche il Lecomte, Guerre de la Prusse et de l’Italie contre l’Autriche et la Confédération germanique en 1866, pag. 87, è dello stesso parere.
336. Centosettantasei prigionieri, fra cui quattro ufficiali; tutte le artiglierie e munizioni del forte oltre a qualche centinaio di fucili furono i trofei della conquista. Gli Italiani ebbero perdite dolorosissime; tra le altre quella del bravo luogotenente d’artiglieria Tancredi Alasia che aveva diretto con rara precisione e intrepidezza la sua batteria durante il cannoneggiamento, e col suo primo colpo spezzata l’asta della bandiera nemica. Egli morì da prode ai piedi de’ suoi pezzi.
337. Aveva soli 39 anni. Era nato a Mantova. Combattè nel 48 a Governolo, nel 49 a Roma e seguì Garibaldi fino a San Marino; nel 1859 comandò in secondo la compagnia de’ Carabinieri Genovesi. Nel 1860 si distinse nella presa di Reggio, e lasciò l’esercito meridionale tenente-colonnello. Era ingegnere; mente colta e severa. Idolatrava la sua vecchia madre tanto che nel 1866 pel timore di darle un dolore troppo forte si arruolò di nascosto con Garibaldi, e gli riuscì di tenerglielo celato fino all’ultimo. Continuato poi il pietoso inganno dagli amici, ella ignorò per parecchi mesi anche la morte del figlio. «Quando però fu giuocoforza destarla dalla dolcissima illusione e rivelarle l’atroce realtà, ella ancor più madre di Rachele, che rifiutò d’essere consolata, rifiutò di credere. Non lasciò la vita sotto il colpo, ma vi lasciò la ragione; e due anni dopo cogli occhi fissi sulla porta d’onde aveva veduto uscire il suo Giovanni, dove lo vedeva sempre ritornare, in questo bellissimo sogno spirò.»
I Castiglionesi eressero al loro virtuoso concittadino un monumento, e le ultime parole che abbiamo testè trascritte sono tolte dal Discorso che allo scoprimento della statua faceva l’Autore di questo libro, alla memoria dei suo grande amico.
338. Superfluo parlare delle operazioni della flottiglia sul Garda, dalle condizioni del suo armamento e dalla soverchiante superiorità dell’avversaria condannata all’impotenza. Due volte la squadriglia austriaca potè bombardare quasi impunemente Gargnano e Bogliaco. Un giorno le cinque cannoniere italiane riescono a circuirne una austriaca; ma avendo il Depretis mandato sul Garda certi artiglieri di marina, che non avevan mai sparato un cannone, la vanità de’ loro colpi fu tale che la cannoniera austriaca non solo riescì a farsi largo, ma a costringere alla ritirata i cinque assalitori. Il 17 poi la squadra austriaca va a pigliare fin dentro il porto di Gargnano il vaporetto italiano il Benaco e se lo porta via prigioniero. Così Alberto Mario nel suo Garibaldi, pag. 122.
339. Cento morti, dugentocinquanta feriti, millecento prigionieri. Non diecimila però come spacciò il maggiore Haymerle in un opuscolo detto dell’Italicæ res. Le mie cifre son tolte al Rapporto ufficiale austriaco.
340. Della sincerità dei Rapporti ufficiali di guerra di tutti i paesi e di tutti gli eserciti fu sempre prudente diffidare; ma pochi meriteranno una minor fede del Rapporto ufficiale austriaco sul combattimento di Bezzecca. Basti dire che esso non accenna nemmeno al tentativo fatto dal Montluisant di sboccare da Bezzecca, e tace poi interamente dell’ultimo contrassalto garibaldino diretto appunto a riconquistare Bezzecca. Siccome però conveniva spiegare come mai dopo esser rimasti padroni di Bezzecca, l’avessero abbandonata, così il generale Kuhn nelle Note al suo Gebirgeskrieg diede la ragione taciuta interamente nel Rapporto ufficiale, che il generale Montluisant ordinò la ritirata per mancanza di munizioni. È strano davvero che una colonna partita espressamente per dar battaglia si trovi, dopo sole quattro ore di fuoco, senza munizioni; ma accettata per buona la ragione (e il Kuhn stesso confessa che i suoi cannoni avevano ancora quarantasette colpi e le riserve erano ancora provviste di cartuccie), domandiamo noi: Come il Montluisant avrebbe potuto sentire il difetto delle munizioni se i Garibaldini non lo avessero attaccato? O è vera l’ultima carica dei Garibaldini, e allora il generale Kuhn deve confessare che, munizioni o no, riuscì vittoriosa; o non l’ammette (cosa impossibile), e allora resta inesplicabile come un corpo che si credeva vincitore alle undici si ritirasse, senza colpo ferire, a mezzogiorno, e cedesse senza contrasto al nemico una posizione di sì capitale importanza, privandosi persino dell’onore, se per altre cagioni era costretto a ritirarsi il giorno dopo, di dormire sul campo.
Del resto valga di risposta a tutti il Rapporto dello stesso generale Garibaldi.
«Combattimento del 21 luglio.
»Ieri ancora la vittoria sorrise alle armi italiane.
»Il vantaggio delle posizioni da lungo tempo studiate, quello immenso delle armi, ed il valore con cui si batterono i nemici, fecero l’esito della giornata alquanto incerto fino ad un’ora pomeridiana.
»Il combattimento ebbe principio all’alba. Il prode generale Haug aveva ordine di operare sulla nostra destra in Val di Ledro, ma la maggior parte della sua brigata era ancora sulle alture per le operazioni dei giorni precedenti. Avevo dato l’ordine al 5º reggimento e a due battaglioni del 9º della 3ª brigata di preparare l’occupazione della Valle di Ledro, finchè la 1ª brigata si riunisse e marciasse a rilevare la 3ª.
»Io non prevedeva un attacco per parte del nemico, nonostante aveva ordinato di spingere solamente sino a Bezzecca e di contentarsi di esplorare al di là. Giunta la nostra testa di colonna a Bezzecca nella sera del 20, all’alba del 21 mandò un battaglione in ricognizione sui monti che a levante dominano la Valle di Conzei.
»Questo si trovò avviluppato da una forza superiore di Austriaci ed obbligato di ripiegarsi in disordine sulla colonna principale. Ciò diè luogo ad un combattimento accanito a Bezzecca e nei paesi alla bocca della Valle di Conzei, ove, dopo caduto eroicamente il colonnello Chiassi, il 5º reggimento fu obbligato di battere in ritirata. Sostenuto però da un battaglione del 6º comandato dal maggiore Tanara, pure gravemente ferito, da un battaglione del 9º, da alcune compagnie del 2º, dai Bersaglieri e dalla valorosissima nostra artiglieria, l’azione si ripigliò, non con vantaggio, ma conservando le posizioni, massime sulla nostra sinistra, sostenuta efficacemente dal 9º. Avendo più tardi il prode maggiore Dogliotti ricevuto una batteria fresca, la collocò sulla nostra destra in vantaggiosa posizione; e gli Austriaci, bersagliati e fulminati con una speditezza sorprendente dalla nostra artiglieria, cominciarono a sgomentarsi. Allora una piccola colonna di attacco composta di prodi di tutti i corpi, comprese le guide, e comandata dal maggiore Canzio, sostenuta dal 9º a sinistra, si precipitò, senza fare un tiro sul nemico, e lo cacciò colle baionette alle reni in disordine da tutte le posizioni che occupava. Da quel momento la ritirata del nemico fu generale, ed i nostri lo inseguirono oltre Bezzecca ed Enguiso entro la Valle di Conzei.
»Un Rapporto più dettagliato verrà compilato in seguito; ora si stanno compilando gli elenchi dei morti e feriti, e quelli dei soldati, sottufficiali ed ufficiali che si distinsero in questo combattimento.
»Cologna, 1º agosto 1866.
»G. Garibaldi.»
341. Il colonnello Lecomte nella sua citata opera: Guerre de la Prusse et de l’Italie contre l’Autriche ec., pag. 110, 111.
Anche l’Autore della Guerra in Italia nel 1866, Milano, 1867, che si firma Un vecchio soldato italiano, emette press’a poco lo stesso giudizio a pag. 335.
342. Andò ospite di Alberto Mario che abitava allora in Piazza Bellosguardo.
343. Il Diritto, annunziandone l’arrivo a Firenze, pubblicava la seguente dichiarazione del Generale:
«Firenze, 22 febbraio.
»Non solamente io aderisco al manifesto dell’opposizione parlamentare con tutta l’anima — ma spero che la gratitudine del paese non mancherà a quel patriottico documento.
»Vostro
»G. Garibaldi.»
344. Togliamo questi proclami e discorsi dal Diritto di Firenze e dal Pungolo di Milano (mesi di febbraio e marzo), che ne erano esattamente informati dai loro corrispondenti.
345. E non di centomila spettatori come scrisse Alberto Mario nel suo Garibaldi. Il battesimo avvenne nelle stanze di Garibaldi alla presenza di Francesco Marnelli, di Teresa Bellotti, testimoni, e di pochi altri dei seguaci del Generale.
346. Vedi nel Libro Verde presentato alla Camera dal generale Menabrea il 3 dicembre 1867 le Note dello stesso De Malaret al Ministro degli affari esteri in Francia, in data 15 e 17 aprile 1867.
E poichè ne abbiamo il destro, diciamo una volta che i documenti citati in questo capitolo, siano dessi lettere o manifesti di Garibaldi, e atti del Governo o del Parlamento, gli abbiamo tolti, oltre che dal citato Libro Verde, dalle opere seguenti: Documenti presentati alla Camera relativi agli ultimi avvenimenti 1867; Discussioni della Camera dei Deputati, Sessione 1867, dal 5 dicembre al 22 dicembre 1867: Storia della insurrezione di Roma nel 1867 per Felice Cavallotti, continuata da B. E. Maineri. Milano, 1869; L’Italia nel 1867 di G. Friggesy. Firenze, 1868. E infine nei giornali più volte accennati.
347. Vedi Documenti sui fatti di Terni fra i Documenti sugli ultimi avvenimenti, pag. 5 alla 17.
348. Dimostrazioni erano avvenute a Milano, Torino, Genova, ec.
349. La sua eccessiva lunghezza ci obbliga a tralasciarlo. Lo si può vedere in Cavallotti, opera citata, pag. 173, 74, 75.
350. L’Acerbi aveva in que’ giorni frequenti colloqui col commendatore De Ferrari, direttore generale della polizia del Regno; e in uno di essi si sentì dire dal De Ferrari medesimo «che il Rattazzi non dissentiva dall’idea del Generale ed era pronto a fornire i mezzi per coadiuvarlo. Solo dimostrava la necessità che il Generale, per acquietare le rimostranze della Francia e stornare i sospetti del Governo pontificio, lasciasse per qualche tempo il continente e tornasse a Caprera.» Vedi anche Cavallotti, op. cit., pag. 256, 257, 258.
351. Fra gli altri, all’Autore di questo libro. Chiamato da lui nei primi di settembre, ero, come sempre, accorso; soltanto, interrogato se ero disposto a seguirlo, colsi il destro, non sempre facile, per dirgli che se si trattava di eccitare o di aiutare i Romani ad insorgere ci stavo; ma se invece si pensava ad una delle solite spedizioni di bande, io la credevo inopportuna, anzi dannosa, e non mi sarei mosso.
«Ebbene,» mi fece il Generale bruscamente, «e voi andate in Roma!»
Ed io vi andai!
352. Ministro degli Affari Esteri in Francia nella sua nota 23 settembre 1867 al signor De la Villestreux in Firenze.
353. Vedi più sotto, a pag. 496, la lettera a F. Crispi in data 27 settembre.
354. Noti e ricordati da tutti gli articoli della Perseveranza e dell’Opinione, che innanzi alle minaccie della Francia consigliavano il Governo italiano ad un contegno risoluto.
355. All’incirca ottocento fucili della Guardia nazionale di Perugia furono dal prefetto Gadda, d’ordine del Rattazzi, consegnati al deputato Crispi, me presente e testimone.
356. Vedi nella Nuova Antologia del giugno 1868 un mio esteso racconto del combattimento. Il Menotti, dopo aver combattuto tutto il giorno essendo sempre superiore di forze, credette d’essere circuito e si ritirò su Nerola; il nemico a sua volta, che non si sentiva sicuro a Montelibretti, ripiegò la notte stessa su Valentano, e all’indomani Menotti riprendeva la terra. Vi fece prodezza il maggiore Fazzari rimastovi ferito e per poche ore prigioniero.
357. Prima la squadra si compose dell’avviso Esploratore, delle pirocorvette la Gulnara e la Sesia e della pirofregata Principe Umberto, nave capitana. Più tardi vi si aggiunsero il Weasel, il Tukeri, l’Indipendenza, la Confienza ed il Ferruccio. Comandava tutta la crociera il capitano di vascello Isola.
358. Al Cucchi telegrafava:
«Conforme avviso vostro e promesse, io sono qui. Vogliate inviare vapore per condurmi continente.»
E al Crispi in data del 2 ottobre:
«Conforme ai vostri consigli, io sono qui e spero che penserete a tener parola facendomi ricondurre presto continente.»
359. Il comandante la crociera aveva noleggiato due o tre latini per aiuto alle navi regie.
360. Vedi la Deposizione del comandante Isola nel Rapporto della Commissione superiore d’inchiesta composta del vice-ammiraglio Serra, presidente, contr’ammiraglio De Viry e contr’ammiraglio Riboty, membri.
361. Vedi, sulle cagioni della dimissione del ministero Rattazzi, Documenti sugli ultimi avvenimenti, pag. 148-149 e la fine del secondo discorso del Rattazzi stesso sulle interpellanze Miceli e La Porta sui fatti di Mentana, pronunciato nella seduta del 19 dicembre 1867. Discussioni della Camera dei Deputati, Sessione 1867, vol. III, dal 14 luglio al 23 dicembre.
362. Uno l’aveva scritto a bordo della paranza San Francesco, ed aveva per motto: Redimere l’Italia o morire; per brevità l’omettiamo.
363. Dolente che la economia di questo lavoro mi vieti di dare al magnanimo gesto la meritata ampiezza, rimando il lettore a quanto ne scrissi io stesso nella Nuova Antologia del giugno 1868. Quelle pagine non hanno alcun valore letterario, ma le scrissi colle lacrime più calde del mio cuore, e soltanto come un fiore di più, deposto sulla tomba di quei santissimi martiri, amo ricordarle.
364. «In questo lavoro di Penelope, in questa vicenda d’invio e di ritorno di Volontari, la forza maggiore presente al campo nel corpo di operazione del centro fu quella raggiunta dopo l’arrivo del generale Garibaldi dalla vittoria di Monte Rotondo in poi, cioè di ottomila uomini, forza che riprese ben tosto decrescenza nonostante il ricambio con nuovi arrivati.» Fabrizi, Mentana, pag. 15.
Anche Menotti somma ad ottomila uomini le forze dell’intero corpo dopo Monte Rotondo. Ora se si calcola che alcuni battaglioni già formati e molti Volontari isolati aveano raggiunto dopo quella vittoria il campo, la nostra cifra di settemila uomini è la più prossima al vero.
365. «...... Ad una giornata del più lodevole contegno per parte de’ Volontari, successe quella di una deplorabile ed estesa defezione, che continuò sino alla mattina del 3, in cui i Volontari rimasti si rianimarono pel movimento ordinato su Tivoli.» Fabrizi, Mentana, pag. 18.
366. Fu in que’ giorni che il ministro Rouher disse all’Assemblea francese il suo famoso Jamais.
367. Quello che cantava nel Galpon de Chargucada:
Soldados, la patria
Nos llama á la lid.
368. Lo scrittore di questo libro che gli cavalcava al fianco.
369. Rapporti dei generali De Failly e Kantzler.
370. Bertagni Vincenzo, Boni Egidio, Caillou Gustavo, Capaccioli Natale, Cipriani Ubaldo, Costa Pietro, Franceschi Francesco, Grotta Giovanni, Linau, Bellini, Giuliani Francesco, Paci Silvestro.
371. I feriti di quella giornata, tranne i pochi che poterono sfuggire assieme ai capitolati del castello, furono trasportati negli ospedali di Roma, dove il duplice influsso dell’atmosfera pontina e pretina finì coll’ucciderne il trenta per cento.
Il servizio sanitario, diretto dal professore Emilio Cipriani, avrebbe fatto l’invidia di qualsivoglia esercito più ordinato. Quantunque egli non fosse stato investito dell’ufficio se non ai 17 d’ottobre, pure fino dal 26 aveva organizzato tutto il suo servizio, formati i quadri, raccolti e distribuiti i materiali d’ambulanza, istituita da Monte Rotondo una linea non interrotta d’ospedali, capaci di un doppio numero di feriti se la campagna fosse continuata. Ospedali di prima linea furono Monte Rotondo, di seconda Corese e Poggio Mirteto, di terza Spoleto, Fuligno e Perugia. Sotto capo di servizio nominò il bravo dottor Pastore, ed oltre al dottor Agostino Bertani, il chirurgo nato di tutti i campi rivoluzionari, che non aveva alcuno speciale uffizio, ma che fu la provvidenza di centinaia di feriti, un manipolo di distintissimi giovani, Pierozzi, Cristofori, Lauri, l’aiutavano con zelo indefesso. I Comitati, i Comuni, tutti gli ordini de’ cittadini gareggiarono per mantenere provveduta l’ambulanza di tutto quanto occorreva, e non vi fu richiesta, per quanto improvvisa, che non fosse prontamente soddisfatta. Le donne, assidue vestali della pietà, vinsero anche in questa prova gli uomini, e appresero a molti infingardi gridatori da trivio come si ami e si voglia Roma.
372. Tanto più che della scrittura di quella protesta fu incaricato lo stesso Autore di questo libro; talchè le parole che usiamo sono ancora le nostre.
373. Erano firmati a questa protesta: F. Crispi, deputato; G. Guerzoni, deputato; Alberto Mario, Numa Palazzini, colonnello Bossi Luigi, Carlo Francesco Cucchi, deputato; E. Guastalla, Fabrizi Paolo, Guarneri-Zanetti Giuseppe, Achille Panizza, Raffaello Massimiliano Giovagnoli, romano; Enea Crivelli, Giovanni Costa, romano; Achille Bizzoni, Giulio Adamoli, Domenico Adamoli, Missori Giuseppe, Giupponi Ambrogio, Pisano Giovanni, dottor Carlo Tivaroni, Stanislao Carlevaris, Vincenzo Carlevaris, Niccolò Marcellini, Leopoldo Gisonna, Gualterio Scarlatti, Vincenzo Restivo, Giuseppe Bennici, Domenico Cariolato. — Vedi La Riforma, 6 novembre 1867.
374. Unico scritto notevole in quell’anno questa specie di programma ai suoi amici di Spagna, nel quale dopo la rivoluzione repubblicana federale del 1868 raccomandava agli Spagnuoli di nominare un Dittatore per due anni, sua idea fissa e prediletta.
«Caprera, 10 di novembre.
»Miei cari amici,
»Io era deciso di tacere, non per indifferenza alla causa della nazione spagnuola, che tanto amo e ammiro, non per mancanza d’interesse alla gloriosa rivoluzione che voi ultimaste tanto eroicamente, ma per non immischiar la mia voce al rumore che amici e nemici fanno intorno a voi; mentre voi abbisognate di calma per costituirvi in un modo degno della grande nazione che pose la sua sovranità sulle rovine d’un trono esecrato. Oggi da voi richiesto, io dirò francamente l’opinione mia.
»Proclamate la repubblica federale, e immediatamente nominate un dittatore per due anni.
»La Spagna non manca di uomini onesti che possano governarla meglio di qualunque dei moderni feudalisti europei, che mantengono questa parte del mondo in guerre continue, in desolazioni ed in miserie.
»Non cadano i vostri ammirabili e valenti capi nello stesso errore del buono, ma credulo ed ingannato Lafayette, che lasciò alla Francia l’eredità di due rivoluzioni e la tirannide.
»Lo spauracchio della repubblica, di cui si servono con tanta abilità i despoti ed i gesuiti, nasce dalle esorbitanze della grande rivoluzione dell’89, che, a forza di allontanare il despotismo e sublimare la libertà, terminò col gettarsi nelle braccia di un tiranno avventuroso.
»Voi già avete provato colla moderazione la più esemplare che il vostro sistema non è quello della ghigliottina, e quindi la vostra rivoluzione può inspirare fiducia anche alle code di paglia, che disgraziatamente non sono poche.
»La repubblica è il governo della gente onesta, e se ne vide la prova in tutte le epoche. Esse durano mentre virtuose, e cadono quando corrotte e piene di vizi.
»La Svizzera e gli Stati Uniti si sostengono senza dittatura, è vero; quantunque i Washington ed i Lincoln fossero i dittatori morali, quando lo necessitò la patria americana.
»La Spagna trovasi in una condizione speciale; molti e forti pretendenti; influenze gesuitiche in casa e molto vicine; e infine un carattere nazionale, generoso e cavaliero (sic), ma nello stesso tempo molto inquieto; per cui si ha bisogno d’un governo giusto ma molto energico.
»La sovranità nazionale acquistata passi alle Cortes costituenti col suffragio universale, e queste non si occupino d’altro che di trovare nel seno della nazione l’uomo capace di costituire la Repubblica degnamente e di tornare ai suoi focolari dopo due anni, accompagnato dalle benedizioni dei suoi concittadini riconoscenti.
»Ecco quanto auguro ad una nazione che io amo, e sono il
»vostro
»G. Garibaldi.»
375. A que’ giorni appunto scriveva il romanzo Clelia, o il Governo del Monaco, pubblicato nel 1870.
376. Il signor Crémieux disse: «Oh ce cher Garibaldi, que de plaisir j’aurais à le voir! Ah si nous pouvions le faire entrer à Paris, quel effet ça produirait!...» ec. — Vedi Garibaldi et l’armée des Vosges, Récit officiel de la Campagne, avec documents, etc. par le général Bordone, chef d’État Major de l’armée des Vosges. Pag. 15. Paris, 1871.
377. Il signor Gent, uno dei segretari del governo di Tours, telegrafò al Prefetto di Marsiglia: «Faites à Garibaldi un accueil splendide,» ma firmò egli solo; e più tardi nessun ministro volle assumere la responsabilità di quel telegramma. Vedi Bordone, op. cit., pag. 20.
378. Bordone, pag. 13.
379. Bordone, op. cit., pag. 244.
380. Alludiamo al colonnello Chanet, che disertò sotto Autun come vedremo più tardi.
381. Vedi Bordone, op. cit., tutto il capitolo V. Tra le altre cose si legge in questo capitolo che il generale Cambriels vedendo, come al solito, nemici dove non erano, mandò ad insaputa di Garibaldi a tagliare i ponti del Doubs che erano, in caso, i soli punti di ritirata e di approvvigionamento dei difensori di Dôle, e fu mestieri di tutta l’energia di Garibaldi per impedirlo.
382. Diede egli stesso al figliuolo le istruzioni particolareggiate, modello di arte tattica. Dopo il fatto, pregato e ripregato, fece il grande onore al figliuolo di nominarlo maggiore.
383. Anzi il generale Cremer in un suo libro ebbe il coraggio di scrivere che il generale Werder avea tratto Garibaldi in un guet-à-pens! Non si può spingere più oltre l’impudenza! Che i Prussiani anzichè aver teso un tranello siano stati impensatamente assaliti a Pasques e visitati a Dijon lo dice il loro Rapporto ufficiale, parte II, fascicolo XV, pag. 563.
384. Sosteneva valorosamente la ritirata la brigata Delpeck a Pasques. Altri piccoli combattimenti di retroguardia avvennero più al sud, ma la battaglia di Lantenay, descritta dal colonnello Corsi nel suo Sommario di Storia militare, parte IV, pag. 299, e la disfatta della brigata Menotti e la ritirata precipitosa su Autun è un sogno. Noi abbiamo qui sott’occhio due libri in diverso modo ufficiali: il Rapporto prussiano più volte citato, parte II, fasc. XV, pag. 564, e il libro del Bordone, L’Armée des Vosges, ec. in tutto il XIV capitolo del vol. II, e nessuno dei due libri parla di ciò.
385. Il generale Garibaldi felicitò il generale Cremer con questi telegrammi:
«Mes félicitations au jeune et vaillant général de la République. Votre manœuvre est marquée au coin du génie de la guerre. J’en augure bien pour l’avenir de la République.»
Il Cremer rispose:
«Merci au maître de ses compliments à l’élève. Demain je reprends mes positions sur la ligne du chemin de fer de Nuits à Beaune, prêt à agir de concert avec vous au premier signal.» Ma, come si vede, qui si parla di concerto, mai di ordini. Quando il governo della Repubblica parlò di mettere il Cremer sotto gli ordini di Garibaldi, il Francese offrì le sue dimissioni che non furono accettate.
386. I Garibaldini in Francia per J. White Mario. Roma, Tip. G. Polizzi e Comp. 1872, pag. 93.
387. Vedi sulla parte avuta da questa brigata a tenere in iscacco Garibaldi, Opérations de l’Armée du Sud pendant les mois de janvier et février 1871 etc., par le comte Hermann de Wartensleben, colonel d’État Major. Paris 1872, pag. 10 e 13.
388. Bordone, op. cit., pag. 332.
389. Nella sua lettera al generale Fabrizi, stampata prima nella Riforma e riprodotta dal Bordone, pag. 420-421.
390. Non possiamo contare i diciottomila uomini di gardes mobilisés del generale Pellissier, che non dipendevano direttamente da Garibaldi, e nei giorni di Dijon non vollero uscire a combattere, anzi misero la confusione tra i combattenti.
391. Egli stesso lo giudicò una temerarietà nella lettera succitata al Fabrizi.
392. «E l’Internazionale? Che necessità di attaccare un’associazione, quasi senza conoscerla? Non è essa una emanazione dello stato anormale, in cui si trova la società del mondo? E quando essa possa essere tersa da certe dottrine, forse introdottevi dalla malevolenza de’ suoi nemici, essa non sarà la prima, ma certo non potrà non essere la continuazione dell’emancipazione del diritto umano.
»Una società (dico l’umana) ove i più faticano per la sussistenza, ed ove i meno con menzogne e con violenze vogliono la maggior parte dei prodotti dei primi, senza sudarli, non deve suscitar essa il malcontento e la vendetta di chi soffre?
»Io desidero che non succeda all’Internazionale, come al popolo di Parigi, cioè di lasciarsi sopraffare dagli spacciatori di dottrine, onde essere spinta a delle esagerazioni e finalmente al ridicolo; ma che studi essa bene gli uomini che devono condurla sul sentiero del miglioramento morale e materiale prima d’affidarvisi.
»Soprattutto si astenga dalle esagerazioni ove cercheranno di condurla gli agenti della monarchia e del clero per perderla nell’opinione delle classi agiate, sempre tremanti davanti al terribile spettro della legge agraria. E le classi agiate si persuadano bene, che non sono i molti sergents de ville ed i grandi eserciti permanenti che costituiscono la sicurezza d’uno Stato e della proprietà individuale, ma un governo fondato sulla giustizia per tutti. E di ciò ne hanno un troppo eloquente esempio nella Francia.
»Io vengo ad assidermi ad un banchetto, ove ho diritto come voi. Non tocco il patrimonio vostro, benchè più pingue del mio, ma non toccate questo poco, che stillo dalla mia fronte, cogli odiosi mezzi che avete impiegato finora, di tasse sul macinato, sul sale e con tante altre ingiustizie che gravitano sulla mia miseria.
»Soprattutto non mi venite colle speciose bugiarde ragioni di pubbliche sicurezze e di preposti, di cui voi abbisognate, e ch’io debbo pagare; di esercito per la difesa della patria, che difende voi, le vostre prepotenze, e mi priva delle braccia valide, che potrebbero migliorare la condizione del paese e la mia.»
393. Garibaldi intervenne alla tornata del 25 novembre in cui Benedetto Cairoli presentò la sua mozione di biasimo sugli arresti di Villa Ruffi, e votò naturalmente con lui contro il Ministero.
Era la prima volta dacchè Roma lo elesse deputato che interveniva alla Camera e così al suo apparire come al pronunciare del giuramento la sala scoppiò in applausi fragorosissimi.
394. Voleva un ministero Crispi, Cairoli, Zanardelli, Nicotera, Villa, Mancini: coloro precisamente che in quel momento più si dilaniavano.
395. Ecco il testo della Legge:
«Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato: Noi abbiamo decretato e decretiamo:
»Articolo unico.
»In attestato di riconoscenza della nazione italiana al glorioso concorso prestato dal generale Garibaldi alla grande opera della sua unità e indipendenza, è autorizzato il Governo del Re ad inscrivere sul gran libro del debito pubblico dello Stato una rendita di lire cinquantamila annue del consolidato cinque per cento con decorrenza dal 1º gennaio 1875, in favore di Giuseppe Garibaldi; ed è inoltre assegnata al medesimo un’annua pensione vitalizia di altrettante cinquantamila lire con la stessa decorrenza.
»Ordiniamo che la presente Legge, ec.
»VITTORIO EMANUELE.
»M. Minghetti.»
(Gazzetta Ufficiale, 11 giugno 1875.)
396. Vol. I, pag. 508-509.
397. Vi è un’altra bambina sepolta a Caprera, Anita, nata nel 1859 e morta nel 1875, della quale riparleremo più tardi.
398. L’avvocato A. Bussolini in nota alla Sentenza della Corte d’appello. Monitore de’ Tribunali, 1880, vol. XXI, pag. 144.
Il professor Gabba invece, valente giurista, condannò apertamente in una dottissima Memoria la Sentenza. — Gabba, Questioni giuridiche, pag. 233.
399. Io pure fui a visitarlo il 5 novembre. Lo dico perchè fu quella l’ultima volta che lo vidi, e la sua vista mi ambasciò. Ragionava abbastanza lucidamente; ma la lingua, parlando, gli si attorcigliava nella bocca e la parola gli usciva stentatissima. Gli dissi che stavo scrivendo la sua vita, non ostante ch’egli m’avesse sconsigliato, ed egli sorridendo mi rispose: «Vi ringrazio. — Voi farete bene; ma quante cose difficili a capirsi. Per esempio, sapete voi chi ci portò via la gente a Monterotondo, la vigilia di Mentana? Furono i Mazziniani....»
Io l’aveva sentita dire più volte questa cosa e non l’aveva mai creduta, anzi sapevo che non era vera.... ma non era quello il luogo e il momento di discutere, e lo lasciai nel suo errore. Mi congedai io stesso per non affaticarlo, ed egli mi disse: «Non posso darvi la mano; datemi un bacio!» Fu l’ultimo suo.
400. Nella sua lettera ad Achille Fazzari. Caprera, 12 giugno 1881.
401. Lettera da Caprera, 17 maggio 1881.
402. Al giornale La Patria.
403. Riproduciamo per intero la lettera, pubblicata per la prima volta dal Piccolo di Napoli l’11 marzo 1882:
«Napoli, 9 marzo 1882.
»Mio carissimo Leo Taxil,
»È finita, la vostra repubblica chiercuta (république à calotte) non ingannerà più alcuno. L’amore e la venerazione che avevamo per lei, si son mutati in disprezzo.
»La vostra guerra tunisina è vergognosa. E se il governo italiano avesse la viltà di riconoscere il fatto compiuto, sarebbe assai spregevole, come codarda sarebbe la nazione che tollerasse tale governo.
»I vostri famosi generali che si sono lasciati dai Prussiani ingabbiare nei vagoni da bestiame e trascinare in Germania, dopo aver abbandonato e lasciato al nemico un mezzo milione di prodi soldati, oggi fanno i rodomonti contro le deboli innocenti popolazioni della Tunisia che nulla loro debbono e in nulla li hanno offesi.
»Conoscete voi i telegrammi che annunziano: il generale in capo ha combattuto — il generale tale ha fatto una brillante razzía: ha distrutto tre villaggi, abbattuto mille datteri, rubato dugento buoi, sgozzato mille pecore, sequestrato duemila galline, eccetera eccetera? Se avessero l’impudenza di mettere quei telegrammi nella bella storia di Francia, bisognerebbe spazzarneli, spazzarneli con la granata di cucina infangata nella poltiglia.
»G. Garibaldi.»
404. Così raccontò Rocco De Zerbi nel suo giornale il Piccolo di Napoli.
405. Garibaldi fece rispondere dal sindaco signor Ugo Delle Favare: «Mai come oggi i Palermitani si mostrarono così sublimi...» e se l’epiteto si risente della tendenza all’iperbole che era il difetto dell’educazione di Garibaldi, non è però men vero che il contegno dei Palermitani non sia stato singolarmente nobile e gentile.
406. Ecco l’atto di morte del generale Garibaldi:
»Anno 1882, 5 giugno, ore 7 m. 2 ant. Casa Garibaldi.
»Avanti a me, Bargone cavaliere Leonardo, Sindaco ufficiale dello stato civile del Comune di Maddalena, comparsi il professor Enrico Albanese, di anni 48, medico-chirurgo domiciliato a Palermo, ed il dottore Alessandro Cappelletti, di anni 26, medico-chirurgo della Regia Marina, domiciliato a Torino, mi hanno dichiarato che alle 6 pomeridiane e minuti 22 del 2 corrente, nella casa posta in Caprera è morto Garibaldi generale Giuseppe, di anni 75, residente alla Maddalena, nato a Nizza Marittima, figlio del fu Domenico capitano marittimo e della fu Rosa Raimondi, donna di casa, residenti a Nizza Marittima, e marito alla signora Armosino; presenti i testimoni: Bianchi Vincenzo e Pieramonti Egidio, residenti alla Maddalena.»
* * *
Il certificato dei medici dice:
«Caprera, 3 giugno 1882.
»Signor Sindaco,
»Ieri (2) alle ore 6 pomeridiane è morto in Caprera al suo domicilio il generale Giuseppe Garibaldi in seguito a paralisi faringea. Dichiariamo che la tumulazione del cadavere può farsi dopo 24 ore dalla morte.
»In fede ci sottoscriviamo.
»Professore Albanese.
»Dottore Cappelletti.»
407. Vedi lettera di G. Nuvolari, pubblicata in tutti i giornali, da noi letta nel Pungolo del 17-18 giugno.
Ecco poi testualmente la lettera del Generale al dottor Prandina:
«Caprera, 27 settembre 1877.
»Mio carissimo Prandina,
»Voi gentilmente vi incaricate della cremazione del mio cadavere; ve ne sono grato.
»Sulla strada che da questa casa conduce verso tramontana alla marina, alla distanza di trecento passi a sinistra, vi è una depressione di terreno limitata da un muro.
»Su quel canto si formerà una catasta di legna di due metri, con legna d’acacia, lentisco, mirto ed altre legna aromatiche. Sulla catasta si poserà un lettino di ferro, e su questo la bara scoperta, con dentro gli avanzi adorni della camicia rossa.
»Un pugno di cenere sarà conservato in un’urna qualunque, e questa dovrà essere posta nel sepolcreto che conserva le ceneri delle mie bambine Rosa e Anita.
»Vostro sempre
»G. Garibaldi.»
(Pungolo di Milano, 11-12 giugno 1882.)
408. Battuto veramente dove egli comandava in persona, non lo fu che a Morazzono, a Mentana, e nell’assalto notturno di Dijon.
409. Vedi principalmente le Questions pour les francs-tireurs et les corps de volontaires. Bordone, Documents, pag. 123.
410. Vedi vol. II, capitolo VIII, pagg. 26 e 27.
411. Quattro anni di guerra guerreggiata nel Rio Grande, 1837-1840 — Sei anni idem nell’Uruguay, 1842-1847 — Cinque campagne in Italia, 1848, 1849, 1859, 1866, 1867, e la campagna di Francia.
412. «La tattica del generale Garibaldi, dice il Manteuffel nella puntata XX della Storia della guerra franco-germanica, va segnalata specialmente per la grande rapidità delle mosse, per sagge disposizioni durante il combattimento a fuoco, e per un’energia e focosità nell’attacco, che se dipende in parte dall’indole dei suoi soldati, dimostra eziandio che il Generale non dimentica un solo istante l’obiettivo del combattimento, ch’è appunto quello di sloggiare il nemico dalle sue posizioni, mediante un attacco rapido, vigoroso, risoluto.
»La prova di questa sua speciale valentia l’avemmo nel fatto d’arme che fece rifulgere non solo l’eroismo dei nostri soldati, ma anche la bravura dei Garibaldini.
»Il 61º fucilieri ebbe sepolta la sua bandiera sotto un mucchio di morti e feriti, appunto perchè non gli fu possibile sottrarsi alla celerità delle mosse di Garibaldi.
»Certamente i successi del Generale furono successi parziali e non ebbero seguito; ma se il generale Bourbaky avesse operato secondo i suoi consigli, la campagna dei Vosgi sarebbe stata la più fortunata combattuta nel 1870-71 dalle armi francesi.»
413. Clelia, ovvero Il Governo del Monaco (Roma nel secolo XIX), romanzo storico-politico di Giuseppe Garibaldi. Milano, 1870, pag. 210-211:
«Quanto a lui crede che Repubblica sia: il governo della gente onesta — e lo prova; accennando alla caduta delle repubbliche — quando i cittadini sprofondandosi nel vizio hanno cessato di esser virtuosi. — Non crede però alla durata del governo repubblicano composto di cinquecento individui.
»Egli è d’avviso che la libertà d’un popolo consista nella facoltà di eleggersi il proprio governo — e questo governo, secondo lui, dev’essere dittatoriale — cioè d’un uomo solo. — A questa Istituzione dovette la propria grandezza il più grande dei popoli della terra.
»Sventura però a chi in luogo di un Cincinnato elegge un Cesare!
»Vuole poi limitata a tempo determinato la Dittatura — e solo in un caso straordinario, come quello di Lincoln nell’ultima guerra degli Stati Uniti — consentirebbe la proroga, in nessun caso accorderebbe — ereditario il potere.
»Egli però non è esclusivo: pensa che il sistema del governo veramente voluto dalla maggioranza della Nazione — qualunque esso sia — equivalga alla Repubblica — com’avviene per esempio del governo inglese.»
414. Vedi nel fac-simile del suo autografo pubblicato in principio al 1º volume.
415. Vedi il Governo del Monaco, pag. 242, e il suo Memorandum alle potenze d’Europa, scritto dal Monte Tifata, poche ore dopo la battaglia del 1º ottobre 1860.
Circa alle sue idee sulla Lingua mondiale, curioso il leggere questo brano trovato fra le sue memorie manoscritte e ancora inedite:
«Il modo dunque più indicato ad un’Unità mondiale — e che più coadiuverebbe all’Unità religiosa vera — Dio! — sarebbe una lingua universale.
»Non è questa idea mia — ma vecchia e ne lascio l’esame cronologico a chi vuol incaricarsene.
»Vado alla sostanza.
»Voler imporre una lingua qualunque delle esistenti per lingua universale credo sarebbe questione alquanto simile a quella dei preti, e l’abbandono. — Proviamo un altro espediente.
»Per esempio — vari complessi di lingue per formare un tutto — col tempo.
»Il francese sarebbe uno dei complessi — esso ha agglomerato un gran numero di dialetti delle diverse sue provincie ed ha una rispettabile estensione al di fuori.
»L’anglo-germano — od anglo-sassone immensamente propagato.
»Per le lingue orientali lascio a’ più scienziati la cura d’occuparsene — se così loro piace.
»Tu puoi occuparti del complesso — Iberitalo — formato di tre lingue: portoghese, spagnuola ed italiana, di cui conosci qualche cosa e consultare perciò tutti quegli umanitarii di quei tre paesi e delle colonie dell’America portoghese e spagnuola, che volessero essere tanto buoni da cooperarvi. — Le tre lingue hanno molte voci comuni — si può cercarle e riunirle in un principio di Dizionario, ove gettar la base d’una lingua nuova, che potrebbe frattanto essere imparata dalla gioventù dei tre paesi.
»Io non mi nascondo l’arduità dell’impresa — ma la sua importanza sembrami meritare l’attenzione degli uomini cui il progresso umano non è una chimera.
»Certo vi vorranno secoli per raggiungere il nobile scopo — ma è pur vero che se i Caldei non avessero principiato, gettando uno sguardo nello spazio — ad investigare i moti e le leggi stupende che regolano gli eterni luminari — gli odierni astronomi — non sarebbero forse così inoltrati nelle vie dell’Infinito.»
416. Lo raccontò Garibaldi stesso a me nell’uscire dalla casa del Palmerston. Io era rimasto con altri del seguito in una sala attigua al gabinetto in cui il Generale era entrato; ma pochi momenti dopo vidi uscire il Generale col viso tutto infiammato; ed io che lo conosceva, capii subito che il colloquio non gli era andato pel suo verso. Però in carrozza azzardai una domanda:
— Pare che vi abbiano fatto inquietare, Generale?
— Cosa volete, amigo.... — e mi raccontò il dialogo testè riferito.
417. Alcune bozze a matita di queste memorie sono quelle che il Generale regalò a Giovanni Basso e ch’egli diede a me perchè ne facessi l’uso migliore che credevo.
418. Come saggio di questi studi sui Venti diamo questa lettera in francese, inedita fino ad ora, diretta ad uno scienziato, di cui non ci fu dato scoprire il nome:
«J’ai lu avec un bien vif intérêt votre magnifique ouvrage sur les phénomènes de l’atmosphère — et je vous en suis reconnaissant. J’ai vu avec un sentiment d’orgueil et de fraternité vos principes humanitaires sur la solidarité des peuples.
»Certes tant que les Gouvernements emploieront les revenus des nations à construire des bayonettes et des vaisseaux cuirassés, il sera difficile que le monde atteigne cette unité de famille à laquelle il aspire et jusqu’à ce que les armées ouvrières, comme celles qui aux ordres de votre illustre compatriote Mr Lesseps creusent des canaux et posent des rails de chemins de fer, ne substitueront les armées guerrières maintenues pour destruction de l’homme, l’homme sera toujours un misérable instrument du despotisme et de la dilapidation.
»Comme vous dites, la guerre d’Amérique — dans les malheureuses conséquences porte l’inaction d’un de vos plus illustres collaborateurs, le commandant Maury, que j’ai connu à l’Observatoire de Washington — et duquel j’ai possédé les belles cartes inventées par lui sur la théorie des vents. — A Boston, où j’avais obtenu des cartes, je m’étais obligé de fournir ma quote d’observations maritimes au savant Américain. — Mais ayant dû encore une fois abandonner ma profession de marin — je ne pus tenir ma promesse.
»Peu initié dans la science, je me confesse incapable d’apprécier toutes les beautés renfermées dans votre bel ouvrage. — Mais comme vous y traitez d’une manière si savante la théorie des vents — je me permets de vous présenter quelques observations faites dans mes voyages sur le même sujet.
»Les observations dont je vais vous entretenir — et que je n’aurais peut-être jamais ébauchées — me furent suggérées par la lecture des ouvrages d’agriculture — dont je m’occupe presque uniquement aujourd’hui.
»En général la cause des vents sur la surface du globe comme elle est décrite par certains auteurs d’agriculture ne me satisfait pas.
»Par exemple — on dit toujours que la cause des vents est causée par la condensation de l’air froid dans les zones glaciales — qui tend naturellement à se précipiter dans les espaces d’air raréfié par la chaleur dans la zône torride.
»Jusqu’ici nous sommes d’accord — ce que je voudrais seulement, ç’est qu’on signalât un peu davantage l’action que causent sur l’air atmosphérique les mouvements de rotation et de translation de notre globe dans l’espace.
»Le mouvement de rotation de la terre effectuant une entière révolution de 360° en 24 heures, donne aux objets qui se trouvent sur l’Équateur une vitesse de 900 milles par heure.
»Le mouvement de translation de la même dans son orbite pousse les mêmes objets qui se trouvent sur l’Équateur à midi, avec l’immense vitesse — je crois — d’à peu près 65 mille milles par heure — et si cette surprenante célérité n’était modifiée, je crois, par une force de projection de notre planète qui nous lance dans la direction qu’elle parcourt — et par le remous du fluide atmosphérique tendant à devancer latéralement comme le remous d’un navire — sans cette compensation, dis-je, l’air que rencontrerait un habitant de l’Équateur dans se pérégrination aérienne le balayerait de dessus son cheval céleste plus facilement qu’un ouragan ne livre dans les airs le moindre brin de paille.
»Que les mouvements susdits aient une action sur la surface du globe le prouvent les éternels vents alizés qui règnent dans la zône torride et les courants qui trouvent la direction de ces vents.
»Une zône di 60° environ, comprise entre 30° de latitude Nord-Est et le 30° Sud-Est, est sillonnée éternellement par les vents venant de l’Est. Dans l’émisphère Nord ces vents s’approchent du N.-E., dans le S.-E. Ou plutôt dans cette zône l’air reste en arrière vers l’Ouest tandis que le planète s’avance vers l’Est.
»Un corps solide quelconque, qui s’avance dans l’espace ou dans l’eau, génère naturellement un remous derrière lui. — Ce remous suit le corps — et dans les parties latérales il tend à le précéder. — On peut observer cela sur un navire qui marche.
»Voilà, je crois, la cause des contr’alizés, qui soufflent de l’Ouest à l’Est — dans les zônes en dehors de la zône torride.
»Ne pouvant rompre les alizés de la zône torride, le remous se dilate latéralement — et au de là du parallèle de 40, tant dans un émisphère que dans l’autre, on est presque certain de le trouver souvent plus fort que les alizés, mais beaucoup plus inconstant.
»Il paraît que les vents d’Ouest dans les zônes torrides tendent vers les pôles contrairement aux alizés qui tendent vers l’Équateur. — Ainsi le S.-O. prévaut dans l’émisphère boréal et le N.-O. dans l’Australie. Le diagramme de Mr Maury note ainsi, et dans ma traversée de Van Diémen à la côte méridionale du Chili au Sud du parallèle de 50 courant droit à l’Est, le vent descendait toujours sur babord.
»J’ai souvent entendu dire par les marins venant de l’Amérique du Sud: — Nous avons remonté jusque vers les Açores pour trouver les variables, et vraiment cela signifie qu’ils ont traversé la zône torride avec les ancres à tribord et qu’ils sont ainsi arrivés vers le parallèle des Açores pour trouver les vents variables qui soufflent irrégulièrement entre les zônes des vents alizés et contr’alizés. —
»C’est bien désirable que pour le progrès de la navigation le commandant Maury puisse bientôt reprendre son premier recueil des observations de toutes les mers du monde. On pourra alors mieux connaître les vents qui se plaisent dans les zônes variables — et les points surtout des zônes calmes qu’il faudra éviter.»
419. Già ne citammo alcuni. Uno de’ suoi ultimi componimenti poetici in italiano fu la Epistola metrica a Felice Cavallotti, scrittagli da Roma nell’aprile del 1879: la sua lunghezza ci toglie il piacere di ripubblicarla.
420. Dal Caffaro di Genova, 5 giugno 1882. Ne abbiamo riprodotto soltanto i brani principali.
421. Questo periodo non è ben chiaro, ma nel manoscritto è tal quale, e lo rispettiamo.
422. Potremmo, occorrendo, dire il nome della contrada e il numero della casa in cui vive, tanto sono sicure le nostre informazioni.
423. Vedi l’Athenæum del 16 febbraio 1861 (n. 1738)
424. Rousseau, Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes. Deuxième Partie, Note neuvième, nella edizione d’Amsterdam 1772, a pag. 126, 127.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a fine libro, riguardanti il volume 1, sono state riportate nel volume corrispondente.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.