Title: La Palingenesi di Roma
(da Livio a Machiavelli)
Author: Guglielmo Ferrero
Leo Ferrero
Release date: February 1, 2025 [eBook #75269]
Language: Italian
Original publication: Milano: Corbaccio, 1924
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)
CULTURA
CONTEMPORANEA
BIBLIOTECA
DI
LETTERATURA, STORIA E FILOSOFIA
DIRETTA DA
GEROLAMO LAZZERI
Vol. II
EDIZIONI “CORBACCIO„
MILANO - MCMXXIV
Proprietà Artistico Letteraria dello Studio Editoriale “Corbaccio„
Copyright by G. e L. Ferrero
(Printed in Italy)
GUGLIELMO e LEO FERRERO
La Palingenesi di Roma
(DA LIVIO A MACHIAVELLI)
Con un’appendice su: Che cos’è la Storia?
MCMXXIV
EDIZIONI “CORBACCIO„
MILANO
LA PALINGENESI DI ROMA
[1]
Questo volumetto è destinato a far parte di una Collezione, che si pubblica nell’America Settentrionale, per cura di un comitato di professori delle Università; e che si propone d’illustrare gli influssi della civiltà antica sulla moderna.
Occupato in altri lavori, mi son fatto aiutare, per la compilazione di questo, da un giovane collaboratore, che è nell’età delle grandi e proficue letture.
L’appendice è per intero opera mia.
Firenze, 5 maggio 1924.
G. F.
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[5]
Nel De Oratore di Cicerone Antonio domanda, a un certo punto, se per scriver di storia sia anche necessario essere un buon oratore, e Catulo gli risponde:
«È necessario, se si scrive alla maniera dei Greci, ma secondo la nostra non c’è nessuna ragione di far dell’eloquenza: basta non essere falsi».
«Non disprezzare i nostri» replica Antonio. «Anche i Greci scrissero in principio come Catone, come Fabio Pittore, come Pisone. La storia non era altro che una fabbrica d’annali; e per questo, cioè per conservare le pubbliche memorie, dalle origini di Roma fino al pontificato di Mucio, il Pontefice massimo raccoglieva tutti gli avvenimenti dei singoli anni, li scriveva nell’albo e poneva dinanzi alla sua casa la tavola, perchè il popolo potesse consultarla. Son quelli che si chiamano anche oggi annali massimi. E molti seguirono questo stile lasciando senz’ornarlo soltanto il ricordo dei tempi, degli uomini, dei [6] luoghi e delle imprese. Perciò come i Greci hanno Ferecide, Ellanico, e Acusilas, così noi abbiamo Catone, Pisone e Fabio Pittore, che non sanno come ornare un’orazione (da poco infatti è stata importata presso di noi quest’arte); e purchè si capisca quello che dicono, credono che bisogna soltanto ricercare la brevità»[1].
Questo passo ci dimostra che si conoscevano a Roma due modi di scrivere la storia: uno più antico, e più schiettamente romano, più rigidamente ufficiale, che non si elevava fino al racconto, ma si contentava di notare gli eventi, in uno stile diremmo quasi scheletrico se non stenografico; l’altro più recente, di origine greca, che apparteneva all’eloquenza, intesa non nel senso stretto, come arte del parlare in pubblico, ma nel suo senso largo, come arte del buon comporre e del narrare ornato.
Così infatti Cicerone, un po’ più innanzi, ritratta lo storico oratore:
«Non vedete che la storia è uno dei compiti maggiori dell’oratore, quello che richiede maggiore ricchezza e varietà di stile... Chi ignora che la prima legge della storia è di non tacere mai il falso e di dire sempre il vero, evitando il sospetto di parzialità? Questi fondamenti sono noti a tutti: i materiali son le cose e le parole. L’esposizione dei fatti richiede l’ordine dei tempi, la descrizione dei luoghi, e poichè negli avvenimenti importanti e degni [7] di memoria ci si aspetta prima di conoscerne il disegno, poi l’esecuzione e il risultato, lo scrittore deve prima enunciare la sua opinione sul disegno, e poi narrando l’esecuzione dichiarare non solo ciò che è stato detto o fatto, ma anche in che modo; e quanto al risultato, elencarne le cause tutte, o il caso o le prudenze o le temerità dei personaggi; infine non solo raccontare le imprese, ma se essi eccellono per fama o per nome, studiarne la vita e l’indole. Lo stile e il genere del discorso deve essere «fusum atque tractum», scorrevole con una certa misurata dolcezza; senza quella asprezza e quelle punte maligne proprie dell’eloquenza forense»[2].
È facile riconoscere nel munus oratoris di Cicerone, quella che noi chiamiamo la storia artistica, ascritta alla famiglia dei più nobili generi letterarî, e contrapposta per questo, allora come ora, alla nuda e asciutta cronaca dei fatti positivi, sollecita solo di raccontare con una certa minuzia. La storia artistica entrò tardi in Roma, dove per lunghi secoli la rude annalistica aveva signoreggiato senza rivali, d’accordo con la tenace diffidenza dell’aristocrazia per tutte le forme dell’intellettualismo greco. Il maggior numero degli storici più antichi, di cui la tradizione ci ha trasmesso i nomi, appartiene all’annalistica. Ma se la storiografia artistica entrò così tardi a Roma, quando Roma, maturata ormai al dominio da una lunga esperienza di guerre, di contese politiche, [8] di rivoluzioni, sede di un pensiero politico e di una direzione morale di valore universale, era già il centro e il cervello di un vasto impero; quando ci entrò finalmente, in questa atmosfera satura di una così grande esperienza storica, generò tre grandissimi scrittori — Sallustio, Tito Livio, Tacito — che noi dobbiamo studiare, perchè in essi e per essi lo spirito di Roma ha sopravvissuto alla rovina della civiltà antica, come un elemento creatore dei tempi nuovi, di cui noi siamo i figli, forse degeneri e parricidi. Quel che noi dobbiamo agli storici romani, lo dobbiamo a Sallustio, a Tito Livio ed a Tacito.
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Di Sallustio, purtroppo, l’opera principale, le Historiae, è perduta. Le due opere minori che ci restano, la Giugurtina e la Catilinaria, figlie della passione più volubile e passeggera, la passione di parte, non sono storie, sia pure più o meno imparziali; ma piuttosto veementi libelli politici, nei quali l’amico e l’ammiratore di Cesare, sfoga i suoi tenaci rancori contro la consorteria di Silla, contro il Senato, o contro la vecchia nobiltà che aveva avversato così fieramente il conquistatore delle Gallie. Le due monografie sono state scritte con scopi precisi: la Giugurtina per dimostrare che il Senato era stato corrotto da Giugurta nel famoso affare della Numidia, il che, poco verosimile in sè, risulta falso dalla stessa narrazione di Sallustio[3]; la Catilinaria per dimostrare che la celebre congiura era stata macchinata dagli avanzi del partito di Silla: ritorsione in parte vera, ma non immune da esagerazione, contro [10] quelli che l’imputavano a Cesare e ai suoi amici.
Su due opere minori soltanto, di polemica più che di vera storia, dobbiamo giudicare Sallustio; ma poichè sono innanzi tutto due opere d’arte, senza meraviglia poniamo, nella storia della storiografia romana, Sallustio come il primo storico romano, di cui ci resti qualche opera, che sia stato sin dall’antichità e giustamente considerato un grande scrittore. La sua brevità ora lodata, ora biasimata, già celebre presso gli antichi, tanto che fu ricordata tra gli altri da Seneca («obscura brevitas») e da Quintiliano («vitanda illa Sallustiana brevitas»), e la sua abitudine di collezionare arcaismi, adoprandoli a fare una tessitura preziosa e ricercata di prosa, in cui si sente il compiacimento dell’autore, che, quando si rileggeva, doveva divertirsi a certi effetti di simmetria e alle trovate architettoniche delle frasi ben composte, lascia trasparire una preoccupazione stilistica, che è del tutto nuova, e riesce bene, se non cade nell’artificio.
«Sallustio — scrive un francese, che aveva profondo il senso della bellezza letteraria[4] — non cerca tanto di far conoscere i fatti, quanto di ostentare il suo ingegno, e ambisce più la lode che l’istruzione del lettore. Si diverte ogni momento a trovare delle antitesi riuscite, delle frasi simmetriche, delle metafore e delle rassomiglianze. Quando i congiurati stanno per essere condannati a morte, ferma il [11] racconto e comincia a paragonare Cesare con Catone, contrapponendo a una a una le loro qualità, a membro a membro i periodi, con una straordinaria veracità e profondità di vedute; tanto che sarebbe uno scrittore ammirabile se non cercasse troppo di farsi ammirare. Le frasi corrono con gran velocità, a una a una, non più raggruppate in battaglioni compatti, e lo spirito è lanciato come su una china. Ma si sente la maniera, perchè la tecnica è invariata: quando incontra un assedio, una battaglia, una spedizione, un’azione qualsiasi, Sallustio scocca una grandine di frasine concise, ugualmente costrutte».
Ma che forza, non ostante questo difetto! «Il suo stile cammina con una certa indifferenza sdegnosa; è stringato come quello di Tacito, pur essendo meno faticoso; è ricco come quello di Livio, ma è anche più sobrio. «En arrivant au bout d’une phrase, on est parfois frappé comme d’un coup subit; ce sont deux mots simples qui, par un rapprochement nouveau, ont pris un sens accablant»[5]. Metafore audaci, nascoste in un verbo, illuminano tutta un’idea. E poi una lunga e furiosa passione chiusa in una parola, una mescolanza di famigliarità, di poesia, di eloquenza, e sopratutto quegli sbalzi bruschi e potenti d’invenzione originale che piacciono più della perfezione liscia: il dono della creazione».
Ma Sallustio non è soltanto un grande stilista; è anche un moralista ed un filosofo, il quale nella storia [12] vuol ritrovare i segreti della fortuna, i piani del destino, le profonde lezioni della vita; tanto che la sua narrazione, sorretta da una concezione generale del mondo, come da una intelaiatura, mira a un alto fine morale. Siamo usciti con lui dalla scarna annalistica per entrare nel pieno splendore del genere oratorio. Senonchè ci siamo entrati un po’ bruscamente. Non è possibile non avvertire in Sallustio — ed è uno dei suoi difetti maggiori, pur non essendo un difetto scevro di grandezza e nobiltà — una sproporzione tra il fine e i mezzi, tra l’intelaiatura e la tela: fine ed intelaiatura troppo grandi per i mezzi e per la tela troppo piccoli.
«Io credo che poichè ho deciso di vivere lontano dagli affari pubblici — scrive nella prefazione della Giugurtina — questa mia grande ed utile fatica sarà chiamata pigrizia da coloro ai quali pare somma attività andare mendicando il favore della plebe coi banchetti. E se essi penseranno in che tempo entrai nelle magistrature, e che uomini ne siano stati esclusi, e siano arrivati al Senato, conchiuderanno certamente che io per ragione e non per pigrizia ho cambiato parere, e che alla Repubblica verrà maggior bene dal mio riposo che dalla attività di costoro. Perciò io ho spesso udito che Q. Massimo e P. Scipione ed altri uomini illustri, eran soliti dire che quando guardavano le immagini dei loro maggiori, l’animo loro si accendeva di grande coraggio». Chi non potrebbe lodare questo fine nobilissimo? Ma per assolverlo, non basta raccontare in forma elegante [13] e bella una guerricciola memorabile, invece che per la gloria delle armi, per gli odî e i puntigli delle fazioni, che senza scrupoli ferirono, pur di ferirsi l’un l’altra, financo il corpo della Repubblica.
Con la storia di Catilina, Sallustio assunse il compito di mostrare che nei tempi antichi «in pace e in guerra si coltivavano i buoni costumi: e massima era la concordia, minima l’avidità; e il diritto e il bene eran forti più per la loro natura che per le leggi; e le brighe, le discordie e gli odî si riservavano ai nemici, mentre i cittadini coi cittadini gareggiavano di virtù. Magnifici nell’onorare gli dei, parchi in casa, fedeli cogli amici. Con due arti, il coraggio in guerra e l’equità in pace, governavano sè medesimi e la repubblica.»[6] Poi «il destino incominciò ad incrudelire e rivoltò tutte le cose»[7]. Ritroviamo qui — a far da cornice al quadro — quella dottrina della corruzione dei costumi, opposta alla nostra fede nel progresso indefinito del genere umano, ma famigliare invece al pensiero antico. Senonchè la cornice è troppo vasta per il piccolo quadro in cui è dipinto il tumulto, più clamoroso che pericoloso, suscitato, nella repubblica, da Catilina. Cosicchè non possiamo dar torto a Quintiliano quando dice che «Sallustio nella Catilinaria e nella Giugurtina ci conduce all’una ed all’altra guerra, con dei proemi che sembrano non aver che fare con il soggetto», e dobbiamo riconoscere che le sue dissertazioni qualche volta [14] sono un po’ lunghe e gonfie, le sue digressioni talora appiccicaticce e fuori di posto. Se le Historiae si fossero conservate, non avrebbero, forse, rivelato così ingenuamente questi difetti, perchè in quella vasta storia di tutta un’età, la cornice poteva essere adeguata al quadro. Ma sia colpa del caso, che ci ha fatto conoscere soltanto il Sallustio minore, o difetto inerente alla mente dello scrittore, cui mancasse un po’ quella virtù così difficile che è l’equilibrio, per trovare uno storico in cui la cornice ed il quadro, la visione della vita ed il soggetto, la materia e la forma si proporzionino, dobbiamo giungere a Tito Livio.
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Tito Livio, famigliare di Augusto, e così grato nella casa del principe, che a lui fu affidata l’educazione del futuro imperatore Claudio, figlio di Druso, non ebbe ambizioni politiche, non coprì cariche, e visse da privato, studiando e scrivendo; fu insieme a Virgilio e ad Orazio, il terzo dei tre grandi restauratori, che aiutarono, con la penna, Augusto a ricomporre il mondo romano, disfatto dalle guerre civili. Livio nacque da una famiglia cospicua. Scrisse, come è noto, dialoghi, trattati filosofici, ed una immensa storia di Roma, dalle origini ai tempi suoi, nella quale volle trasfigurare la rudezza dell’annalistica tradizionale, adornandola e vivificandola con il colore, il calore e la pienezza fluente della oratoria greca.
Gli storici moderni sono stati severi con Livio, e non possono approvare il metodo con cui trattò le sue fonti, capriccioso, arbitrario, ed un po’ negligente, almeno alla stregua del nostro zelo nel cercare la verità. Senonchè Livio non vuol cercarla, così come [16] noi l’intendiamo, arrivando alla conoscenza esatta dei fatti, proprio come sono accaduti. Egli vuole dimostrare con la sua storia (e dimostrarla con la rappresentazione viva più che con la rigorosa argomentazione, con il colore più che con l’esattezza, prediligendo il dramma che sembra alla storia che vuole essere vera) una dottrina generale, una visione della vita in cui gli spiriti più alti del tempo credevano e nella quale tutta la storia di Roma entra come un quadro nella cornice: che la ricchezza e la potenza non sono beni ma pericoli; che Roma si è corrotta e guasta a mano a mano che il suo impero è ingrandito; che le generazioni non possono camminare verso la perfezione se non a ritroso della corrente del tempo. È la dottrina della corruzione, quella già mescolata, senza grazia e naturalezza, alla storia di Sallustio, ma ripresa e sviluppata con la grandiosa coerenza necessaria, per dare a un corpo robusto un’anima sostanziale.
«Io vorrei — scrive Livio nel proemio — che ciascuno tra sè considerasse ansiosamente con l’animo, che vita, che costumi fossero i loro (quelli degli antichi), con quali uomini e con quali arti in pace ed in guerra sia stato fatto e ingrandito l’impero. E come indebolendosi a poco a poco ogni disciplina, prima i costumi quasi tralignassero e poi rovinando sempre di più precipitassero fino a questi tempi, in cui non possiamo sopportare nè i nostri vizi nè i nostri rimedi. E questo è nella conoscenza delle cose sopratutto salutare e fruttifero, che tu studi [17] gli ammaestramenti di tutti gli esempi posti nelle illustri memorie; e di lì impari ciò che devi imitare per te e per la repubblica, e ciò che devi evitare perchè brutto negli inizi e nei risultati... O l’amore della mia opera mi illude, o non fu mai una repubblica più grande, o più saggia, o più ricca di esempi, ove così tardi entrassero l’avidità ed il lusso, ove tanto e così largamente fosse onorata la povertà e la parsimonia, e tale che quanto meno i suoi cittadini possedevano tanto meno desideravano».
Posto questo proposito, si spiega come, resistendo alla fretta dei suoi lettori, impazienti di arrivare alla storia recente, Livio incominci la sua opera rammentando minutamente le origini favolose di Roma, sebbene, anzi appunto perchè le sa favolose, «Io credo — dice egli ancora nel proemio — che i primi principî e le cose vicine a quei tempi non divertiranno la maggior parte dei miei lettori, parendo loro mill’anni di giungere a queste ultime novità, per cui stanno morendo le forze di quello che fu il più gagliardo popolo del mondo. Ma io voglio invece anche questo come premio della mia fatica, che mentre con tutto l’ardore andrò ripetendo quelle prime cose antiche, allontanerò il mio pensiero dai mali di questa età; e sarò libero da quella preoccupazione, che se non può distogliere dal vero l’animo di chi vive, può però renderlo travagliato. Non è mia intenzione nè confermare nè rifiutare quel che si raccontò sui tempi della fondazione di Roma, sebbene [18] le favole vaghe ci abbondino più che le notizie sicure».
Non c’è dunque da meravigliarsi se Livio non si è scervellato, come gli storici moderni, per scoprire quella briciola di vero che poteva nascondersi sotto i miti della fondazione di Roma. In quel mondo lontano e solatio, come quello di una leggenda, Livio si riposa delle miserie e delle tragedie contemporanee, che sono tristi, perchè vere; si diverte a giuocare con quegli eroi vestiti di corazze lustrate, e che han l’aria, attardandosi fra Torquato e Bruto, di pensare con tristezza al momento della separazione. Egli non cerca d’infonder in quei personaggi una vita reale, che possa romper l’incanto di quel dolce e quieto artifizio; ma li toglie di peso dalla leggenda, con tutto l’ingenuo ingrandimento proprio del mito, che ammette solo santi o ribaldi; e se per un verso li dipinge così lontani dai moderni, che non è possibile avere neppur un’illusione di vita, dall’altra li veste col linguaggio e i costumi del suo tempo, come i pittori del quattrocento infilavano agli eroi della Bibbia il giustacuore e le calze lunghe. Così, quei soldati sono oratori espertissimi, che hanno certo letto i libri di Cicerone sull’arte del dire, e improvvisano ben composte orazioni, feconde in gradevoli simmetrie ogni volta che capita, e se non capita spontaneamente, lo storico pensa a facilitare l’avvento, una buona occasione — e ognuno capisce che di solennità politiche, religiose o militari ce n’erano fin che se ne voleva. La narrazione cammina sempre sull’orlo [19] della parodia; ma Livio, che è un grande artista, non cade, e procedendo sereno, misurato, lontano dall’amarezza di Sallustio, il quale ricorda gli antichi con irritante pomposità e li adopra, perchè sono ormai intangibili e lontano, a maltrattare inutilmente i moderni, ha invece l’aria di dire che non importa accertare le virtù degli avi, ma che bisogna stimarli in ogni modo così, perchè ogni nazione ha diritto di avere dei padri semi-divini. «Si concede all’antichità il permesso di mescolare le cose umane con le divine, per rendere più venerabili i principî delle città. E se è lecito ad un popolo consacrar le sue origini attribuendole agli dei, la Gloria del popolo Romano nella guerra è così grande, che se egli dice essere Marte il genitore suo e del suo fondatore, le genti umane devono sopportare pazientemente anche questo, come sopportarono d’essere signoreggiate da Roma»[8].
Ma questa età dell’oro non dura; non può durare a lungo. La storia di Livio è stata scritta per dimostrare la tesi, che Roma s’è corrotta ingrandendo. Al prologo degli eroi tien dietro l’età in cui gli uomini, ridotti alle giuste proporzioni, peggiorano a mano a mano che la storia progredisce. Dovremmo quindi entrare nella realtà; ma ci entriamo solo sino ad un certo punto, perchè anche là dove la storia di Livio non è più favolosa, i suoi personaggi fanno talvolta pensare a quei Romani che David dipinse nel «Ratto delle Sabine».
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Le figure del quadro infatti, disposte una dietro l’altra, vestite scrupolosamente con le corazze e gli schinieri, sono ordinate, senza che i piani si compongano o fondano in file parallele; le facce hanno una ricercata impersonalità, che rivela l’imitazione delle statue greche; così come nella carne dei corpi, che è stata dipinta con un modello di marmo e vuol arrivare a quell’effetto medesimo di plastica polita.
In Livio si ritrova la stessa stilizzata ricerca del generico. Così che componendo, a grandi tratti, il carattere della professione e della carica, egli vi introduce poi volta a volta i suoi uomini e fa che essi ne rivestano, con le insegne esterne, anche le doti morali e intellettuali, come, entrando in una stanza ove un gioco di sole sulle persiane l’abbia bagnata tutta di luce verde, la gente è colorata di verde. Così abbiamo il tipo del generale, il tipo del senatore, il tipo del tribuno, mentre la classificazione dei buoni e dei cattivi, più larga, comprende tutte l’altre classificazioni minori. Ma che differenza c’è fra Manlio Torquato e Paolo Emilio, il primo agli inizi e il secondo al termine della storia; se rispetto a ogni circostanza si comportano allo stesso modo, come se seguissero un protocollo?
Noi non possiamo dire se questa attitudine a generalizzare il tipo, piuttosto che ad individuare i singoli, fosse comune a tutta l’opera di Livio, o non piuttosto si ritrovasse soltanto nella parte più antica della sua storia, quella a cui appartengono i libri giunti fino a noi e che tratta i tempi in cui gli stampi [21] della tradizione e del costume erano più forti e gli uomini fatti tutti secondo pochi modelli. Forse, se potessimo leggere i libri, in cui si raccontavano i tempi di Silla e di Cesare — pieni di rivoluzioni, e più ricchi di tempre singolari — vedremmo in quelli un maggior rilievo di uomini meno simbolici. Ma nei libri che possediamo i personaggi sono come li abbiamo descritti. E poichè gli avvenimenti procedono in modo già prestabilito dagli Dei, la storia apparisce quasi una enumerazione di battaglie e di lotte politiche, sommate le une alle altre in ordine di tempo come una montagna di pietre, e tutte così simili, che non si distinguono a colpo. Non sembra che l’intelligenza degli uomini possa influire su questo corso preordinato dagli eventi: caso mai, contano di più le virtù e lo zelo religioso, che gli Dei ricompensano con la vittoria. Dobbiamo dunque concludere che Livio è uno storico freddo e senz’anima?
No, Livio è uno storico vivo, anche se i suoi eroi spesso non sono tali, perchè con quella sua attitudine a descrivere il tipo più che il singolo, riesce come nessuno a far muovere le folle. Per questo, se non è riuscito a vivificare i grandi Romani, è riuscito invece a rappresentare il popolo romano. Il vero protagonista della sua storia è il popolo romano: personaggio enorme, che occupa tutta la scena, e non si compone di tanti singoli ben distinti, così da essere la somma dei loro caratteri comuni; ma appare come un ente nel tempo stesso umano e sovrumano, da cui loro caratteri particolari, come uomini che attingono [22] acqua ad una fontana. In questa potentissima personificazione del popolo romano sta il fascino incomparabile della Storia di Livio; perchè questa personificazione è riuscita ad essere nel tempo stesso di un alto ideale e di un’efficace verità.
Il popolo romano, in Livio, si presenta da principio come una generalizzazione di Appio Claudio; sprezzante le fatiche, giorno e notte corazzato per ogni battaglia, indifferente alla morte e valoroso in guerra, semplice di costumi, laborioso in pace, ambizioso di gloria, scrupoloso di verità, ligio alla fede data, ossequiente dinnanzi alla Giustizia che lo governa per mezzo di tante leggi, devoto alle Divinità, che ne ricompensano lo zelo facendolo oggetto di un favore priviligiato. Religione, patria, lavoro, obbedienza alle leggi, spirito di sacrificio, sono le virtù che rifulgono in fondo ai secoli dalla sua vita privata e pubblica. La storia non ha mai visto una luce più intensa. Lo scrupolo della verità e della giustizia, che fra tutte le qualità dei romani è la più coltivata, ha l’aria di resistere in loro, anche quando le circostanze offrono, senza pericoli, allettanti transazioni. Bisogna vedere che importanza ha un giuramento fatto al nemico: e con quali tortuose invenzioni i Romani cercano di svincolarsi senza disonore da queste promesse! Uno dei prigionieri di Annibale, quando furon mandati in commissione a Roma, per trattare del riscatto, col giuramento di tornare, appena uscito dal campo ritornò indietro, toccò le palizzate e si riunì ai compagni, sperando [23] di essere con questo libero da ogni impegno. Ma fu rimandato ai Cartaginesi. Anche le cattive azioni di questo Popolo devono esser compite rispettando rigorosamente la legalità, ossia rendendo omaggio al principio che quella tale azione non deve essere compiuta perchè illecita.
Ora, siccome un popolo di questo stampo non è mai esistito, Livio avrebbe l’aria di dipingere in lui uno di quegli eroi puritani, che vivono solo nelle leggende; così che le gesta di questo popolo immaginario formerebbero un poema, più che una storia. Senonchè, anche in mezzo al racconto delle età più antiche e leggendarie, qualche tratto verace fa intravedere nell’eroe sovrumano un po’ di triste umanità. Così, sulla bocca del Sannita, si sente forse la voce dello storico, che riconosce nei grandi eroi il fango per cui si riattaccano gli uomini.
«Voi deste gli ostaggi a Porsenna e col furto li avete ripresi; ricompraste dai Galli le città con l’oro, e sono stati trucidati mentre prendevano l’oro. Ci avete promesso la pace, per ottenere le legioni prigioniere e ora la fate vana; e compite sempre ogni frode sotto apparenze di giustizia»[9].
Senonchè anche nella figurazione del popolo romano si osserva quello che già vedemmo nelle figure degli eroi; così che essa si fa più umana, di pari passo col procedere della storia. Che la dottrina della corruzione, fondamento di tutta la storia di Livio, [24] sia filosoficamente vera, è riprovato per via indiretta dalla vivacità di cui si anima la storia di Livio, a mano a mano che questa dottrina domina e quasi guida la narrazione. Pur conservando una certa nobiltà ideale, il popolo romano si fa vivo a mano a mano che i difetti della ricchezza e della potenza escono dall’ombra dell’antichità incorrotta: l’indisciplina, la cupidigia, l’amore del lusso e dei piaceri, la gola e la sensualità, l’egoismo, l’invidia sopratutto, che distrugge Roma con la guerra intestina delle ambizioni e delle cupidige insoddisfatte.
«Qui si tratta della fama dei soldati, anzi universalmente di tutto il popolo romano»[10], dice Servilio rampognando i soldati che si oppongono al trionfo di Lucio Paolo, «perchè il popolo romano non abbia fama di invidioso ed ingrato contro tutti i suoi più illustri cittadini, e non sembri con questo imitare il popolo Ateniese, solito a perseguitare con l’invidia i migliori. Abbastanza si peccò contro Camillo, il quale almeno fu offeso prima di aver riconquistato la città dai Galli. Abbastanza contro Scipione Africano. A Linterno si trova la casa del vincitore dell’Africa; e Linterno ostenta il suo sepolcro. Vergogniamoci se L. Paolo, uguale per gloria a tali uomini, sia loro uguagliato anche per l’ingiurie vostre. Cancelliamo finalmente questa nostra mala fama, sozza e vilipesa presso le altre genti e dannosa presso di noi.» Chi non riconosce qui l’eterna malignità [25] della democrazia? Così gli idillici rapporti fra il senato concepito come un «consesso di Re» e la plebe, sui primordi obbediente carne da macello, sempre pronta per il mattatoio delle battaglie, si fanno a poco a poco torbidi e violenti; quella docile moltitudine di cittadini-eroi diventa tumultuosa, sediziosa; accecata dai propri interessi non vede più quelli della comunità; si lascia trascinare dal più ignobile dei demagoghi e non ascolta le parole dei saggi e dei grandi; passa da un accesso di furore oceanico in cui pretende rivendicazioni — anche giuste — coi mezzi più rivoluzionari, ad uno stato di indifferente incoscienza e di fatalistica sopportazione quando è vessata da un regime sanguinario, ingiusto e terroristico.
E il Senato perde, se si comincia a passeggiare fra i rostri e a conversare sotto le colonne, quella regale apparenza che presentava agli occhi di Cinna. Si vede una moltitudine di patrizi, pieni di pregiudizi e di altezzosità, egoisti, che si preoccupano di Roma, per quel che riguarda la loro classe e i loro interessi, ma non hanno nessun pensiero per i Romani, come se Roma e i Romani fossero due cose distinte. E le gelosie e le diffidenze reciproche alterano il loro retto giudizio, e li spingono a operare, in ogni occasione, per secondi fini.
«Si stabilì un patto con gli Ernici, si tolsero due parti del territorio, e una metà fu data ai Latini, e l’altra il Console Cassio voleva dividerla fra la Plebe. Aggiungeva a questo dono alcune terre le quali, [26] essendo pubbliche, egli biasimava che fossero di privati. E questo spaventò molti senatori che ne eran possessori, e vedevano in pericolo le cose loro. Ma erano ancor più inquieti perchè il Console con queste largizioni si acquistava una potenza pericolosa alla libertà.»[11]
Così la grandezza romana, idealizzata tutta insieme come una meraviglia sovrumana, ci apparisce umanissima nei singoli elementi di bene e di male, che la compongono. Questa è nel tempo stesso la grande bellezza e la profonda verità dell’opera di Livio, alle quali corrisponde mirabilmente lo stile. Lo stile di Livio è veramente come un fiume immenso dalla corrente tranquilla, che scende dal monte sicuro di arrivare alla foce, trasportando una mescolanza di cose diverse. Nei momenti solenni, o tragici, è maestoso e lento, quasi per trattenere il respiro a chi legge e non accontentarlo nella sua impazienza con piccole frasi rapide; alle volte perde la sua serenità olimpica, si commuove, si agita come uno stagno in cui sia piombato un macigno; ma la chiusa degli avvenimenti è spesso composta con poche frasi corte e succosissime, che appaiono più potenti che mai, appunto perchè, con grande arte, son collocate dopo un periodare ampio e fertile, in cui le frasi tendono la mano una all’altra e si allacciano con rotonda scorrevolezza. In tal modo i due ritmi si sostengono e si analizzano a vicenda: il primo mette [27] in rilievo quella stringatezza del secondo, che, dopo un capitolo di Tacito, non sarebbe neppure avvertita; il secondo drammatizza lo stile per quel variare improvviso di tono, che sorprende, e ci fa sentire come il primo ritmo fosse armoniosamente pieno.
[29]
Tra Tacito e Livio abbiamo una fioritura copiosissima di storici. Citiamo Asinio Pollione, che trattò delle guerre civili; Pompeo Trogo, che scrisse una storia universale, epitomata da Giustino; Fenestella, Iginio e Verrio Flacco, contemporanei di Tito Livio. Nel I secolo Cremunzio Cordo che fece l’apologia di Bruto e Cassio, Valerio Massimo, Velleio Patercolo, Punico che vivendo accanto a Tiberio, lo comprese, e ne lasciò una vita imparziale, e fu per questo accusato di adulazione. Delle quali calunnie la responsabilità più grande pesa proprio su Tacito, il terzo storico di Roma.
Vissuto durante il primo secolo dell’impero; campione di quella nuova aristocrazia, cresciuta nelle provincie europee e africane dopo Augusto, che con Vespasiano sale al Governo, più semplice, più austera, più disciplinata, più innamorata del romanesimo autentico, che la nobiltà dei tempi dei Giulio-Claudî, crebbe studiando nell’ambiente delle [30] scuole di eloquenza; fu pretore, sacerdote quindecenvirale, propretore e finalmente, sotto Traiano, console. La vetta delle ambizioni era stata scalata. Dopo lasciò la vita pubblica e scrisse. E il suo soggetto fu triste.
«Prendo a scrivere un tempo pieno di vicende, tremendo per battaglie e discordie, per sedizioni, crudele anche in pace. Quattro principi assassinati: tre guerre civili, molte all’esterno, e per lo più mescolate. Imprese prospere in Oriente, avverse in Occidente: sconvolta l’Illiria, le Gallie vacillanti, domata la Brittannia e tosto abbandonata: i Sarmati e gli Svevi risollevati contro di noi... L’Italia afflitta da stragi nuove o rinnovate, dopo una lunga serie di secoli. Città sprofondate o rovinate, nella zona più fertile della Campania. Roma incendiata, distrutti i templi più antichi, il Campidoglio stesso arso dai cittadini; profanata la religione, grandi adulterî, mare pieno d’esuli, scogli intrisi di sangue... Secolo non però così sterile di virtù da non produrre anche dei buoni esempi»...[12] «Ma non mai per più atroci stragi del popolo Romano o per più giusti indizi, si capì che gli Dei avevano a cuore non la nostra sicurezza ma il nostro castigo.»[13]
Quanto siamo lontani dalla serenità quasi gioiosa di Livio! La vasta pianura si trasforma in una treggiaia chiusa, seminata di rovi e di lappe pungenti, sgradevole al piede. Un’afa insopportabile pesa sul viandante, [31] che aspetta ogni tanto invano dal cielo una ventata salubre, e una passata d’acqua dalla nuvolaglia turbolenta. Tacito stesso, ripensando a Tito Livio, ne soffre e lo confessa apertamente.
«Narravano di grandi guerre, di città conquistate, di re vinti e prigionieri, e i litigi dei tribuni e dei consoli, le leggi agrarie e frumentarie, le lotte del popolo e del senato. Era un soggetto largo, spazioso, dove si muovevano con libertà. Ma io sono chiuso in una stretta carreggiata, e l’opera mia sarà senza gloria.»[14]
Mentre Tito Livio, come si vede da una citazione che Seneca trasse dalle opere scomparse, si nutre della sua opera concepita nella gioia, e nella gioia dello scrivere e nell’amore della sua storia moltiplica le sue forze all’immensa fatica, si sente che il soggetto è antipatico a Tacito, che le sue previsioni sono dolorose, che lo scrivere gli costa sforzo e lo attrista. Perchè scrive allora la storia dei tempi che gli erano così odiosi? Egli stesso ce lo dice.
«Noi raccontiamo questo perchè chiunque leggerà i casi di quei tempi, da noi scritti o da altri, sappia, benchè si taccia, come si ringraziavano gli Dei, ogni volta che il Principe esiliava od assassinava. E come le insegne della prosperità annunziavano le disgrazie pubbliche.»[15]
Nato fra le follie sanguinarie di Nerone, cresciuto sotto il governo pauroso di Domiziano, dopo aver [32] temuto e sofferto lunghi anni, ricordando ancora le favole atroci, che si susurravano nei giardini dei nobili morituri, quando il silenzio regnava, e non vinta era la paura dei delatori, Tacito volle, stabilita finalmente con Traiano la pace e la sicurezza, prendersi una imperitura vendetta, per sè e per tutta la nobiltà a cui apparteneva; volle dirsi «ho patito, ma questi patimenti non saranno inutili». Hanno fatto di lui un repubblicano, ma non è vero nel senso moderno della parola. Per quanto abbia spesso visto la tirannia dove non c’era, egli non ha mai pensato che una rivoluzione contro il regime imperiale fosse possibile e desiderabile nè che fosse necessaria per ricostruire la repubblica, che ai suoi occhi era stata maltrattata ma non distrutta. Egli non è il censore dell’impero, ma di alcuni imperatori, di molti vizî, dei costumi contemporanei, della società, come egli la vedeva, nella sua crescente depravazione, del senato, che perdeva ogni giorno un po’ della sua autorità, benchè ne avesse più di quanto sembrava. Tacito è un moralista, che osserva la depravazione dei suoi tempi e ne soffre; ma che invece di curarla, come Livio, proponendo loro il modello ideale di una età più antica, mitologicamente austera, semplice e ricca delle più eccelse virtù, vuol curare quella cancrena con la pietra infernale dell’indignazione. La storia è per lui una specie di tribunale del vizio e della colpa, innanzi al quale egli, giustiziere implacabile, cita i suoi tempi in forza del codice non scritto della propria coscienza. Egli scrive la storia perchè «pochi [33] uomini distinguono con il loro senno l’onesto dal criminale; l’utile dal nocivo. E gli esempi degli altri formano, per lo più, la vera scuola»[16]. Perchè «il compito principale della storia è di salvare la virtù dall’oblio e di incutere alle azioni e alle parole malvagie la paura della posterità».[17]
Un giustiziere, dunque, il quale vuol scrivere la storia sine ira et studio, come egli stesso dice, imparzialmente, sui documenti. A Tito Livio questa idea, che la storia potesse o dovesse essere scritta a mente fredda, senza ira e senza amore, non venne mai, poichè scrisse per ingrandire Roma agli occhi della posterità, con l’entusiasmo e l’amore, non dubitando di abbellire, o di velare, o anche addirittura di alterare la verità, quando poteva nuocere alla reputazione del suo idolo. Per Tito Livio la gloria di Roma non riconosce nessun obbligo d’imparzialità nello storico, la sua grandezza sta al di sopra del giudizio della storia. Per Tacito non più. Anche Tacito è un tradizionalista, come Tito Livio, ligio all’ammirazione degli antichi esempi nazionali; ma nella sua ammirazione per l’antichità ormai il momento morale si distacca dal momento nazionale, e si impone, invece di mescolarsi ad esso, come in Livio. Egli ammira gli antichi, non perchè erano nel tempo stesso virtuosi e schiavi, ma solo perchè erano virtuosi; e cercando, ma non trovando, queste virtù nei suoi tempi, non esita a scrivere storie, che ci appaiono le [34] più terribili accuse contro Roma e il suo impero, tramandate a noi dall’antichità.
Livio ingrandisce per contrasto la gloria e l’ammirazione di Roma, con il male che è costretto a raccontare. Tacito accresce l’orrore per l’impero di Roma anche con i rari esempi di virtù, che inserisce nel lungo racconto dei vizi e delle colpe. Per quanto tradizionalista, come la maggior parte dei senatori del suo tempo, Tacito presente, senza saperlo, il Cristianesimo, e quel prevalere della morale sulla politica, in cui starà la grande rivoluzione cristiana. È già in un certo senso cristiana, e non è più romana, almeno al modo di Livio, la intrepidità con cui questo senatore infama tutto un secolo di storia dell’impero per castigare un certo numero di imperatori, da lui giudicati malvagi.
Ma se il giustiziere voleva scrivere la storia sine ira et studio, immolando alla giustizia anche la gloria di Roma, è poi riuscito ad essere giusto? Noi possiamo rispondere risolutamente di no. La storia di Tacito è scritta dalla passione, non meno di quella di Sallustio, anche più di quella di Livio. La sua passione non è, come in Sallustio, il risentimento politico di un partito perseguitato, ma l’odio di un’epoca contro un’altra epoca; l’odio che i suoi tempi, dopo esser riusciti finalmente a conciliare il governo senatorio ed il principato, sentivano contro i Giulio-Claudi, i quali intorno a questa conciliazione si erano inutilmente affaticati per tanti anni. Tiberio e Claudio avevano fallito più per colpa del [35] Senato che propria, ma la giustizia sommaria della generazione seguente serbava rancore agli imperatori, in quanto erano un bersaglio più vistoso; e Tacito fu la penna illustre che soddisfece, eternandoli in uno stile immortale, con un’arte di scorci potentissima, questi odî. Egli è dunque un giustiziere sospettoso, inquieto, implacabile, che per lo zelo di scoprire e bollare il vizio ed il male, lo trova con certezza là dove proprio nessuno avrebbe avuto soltanto il coraggio di sospettarlo. Quanti esempi si potrebbero citare!
Egli riferisce, mostrando di approvarla, la diceria che Augusto «scelse Tiberio a suo successore, non già per amore o per zelo della repubblica, ma per acquistarsi gloria col paragone di un principe assai peggiore, poichè ne aveva già intuita l’arroganza e la crudeltà»[18]. In che modo ha conosciuto Tacito questo riposto pensare dell’imperatore? E quale altro personaggio avrebbe egli potuto indicare a successore, associandolo nella suprema autorità? Tacito ci racconta che non volendo Tiberio e Livia uscire in Roma dopo la morte di Germanico «Tiberio e l’Augusta tennero Antonia (la madre di Germanico), chiusa in casa, perchè, dato questo esempio, si vedesse che avola, madre e zio erano tormentati da uguale dolore.»[19] Non sarebbe stato più semplice e più umano supporre che restassero tutti e tre in casa per dolore e per rispetto del morto?
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Quando Tacito si è messo in mente che un suo personaggio è perverso, ogni cattivo pensiero gli è attribuito di autorità, senza che venga chiarito bene con quali informazioni lo storico sia riuscito a documentarsi. Così, quando egli afferma che Tiberio «Germanici mortem inter prospera ducebat» si fonda soltanto sul presupposto, accertato e riconosciuto, che Tiberio sia uno scellerato e che, quindi, gode in segreto di quanto è dolore per gli altri. Quando Tiberio ebbe il governo della repubblica «aggiunse Messala Valerio che si rinnovasse ogni anno il giuramento di fedeltà a Tiberio, dal quale interrogato se avesse proposto ciò per ordine suo, rispose che aveva parlato spontaneamente e che negli affari riguardanti la repubblica egli si sarebbe consigliato solo con la sua coscienza, anche correndo il pericolo di dispiacere al principe»[20].
La domanda di Tiberio può spiegarsi come una precauzione abbastanza semplice e come un riguardo ragionevole usato al Senato. Nè c’è serio motivo di dubitare che la risposta di Messala fosse vera. Ma Tacito vede subito nero e sentenzia: «Mancava soltanto questo genere di adulazione!» Che contrasto, fra il pessimismo sarcastico, amaro, violento di Tacito, e la serenità grave e composta di Tito Livio! Modesto non per finta, serio e sincero, dominato da alcuni pregiudizi che non cerca nemmeno di sradicare, Livio è corrucciato bonariamente con i suoi [37] tempi, e se ne tiene lontano, senza esagerare nel suo sdegno. A furia di viver sognando con quei mitici eroi e quei generali favolosi, egli riesce a sopportare con tanta dolcezza il male del mondo, che non sa più immaginare un carattere doppio o un’anima ipocrita, crede per davvero ai discorsi de’ suoi oratori, senza mai permettersi un sorriso ironico, e ha troppa coscienza della sua responsabilità per attribuire, senza scorta di documenti sicuri, qualche pensiero ad un suo personaggio. Tacito invece non riesce a immaginare una condotta lineare, e un’anima sincera; i suoi personaggi procedono sempre per vie tortuose, spinti da passioni recondite o da pensieri segreti, che Tacito conosce a fondo come se fosse il loro intimo confidente. A questo modo scopre spesso doppiezze ed ambiguità dove c’è una tranquilla franchezza. Ma egli adopra a dimostrar certe tesi una divertentissima abilità, interpretando con sottigliezza greca i documenti, mettendo in luce quelli che gli sono utili e nascondendo i contradditori, tal quale un avvocato.
È così riuscito ad imporre ai posteri le figure di Tiberio, di Claudio, di Agrippina, per il loro straordinario risalto, ma le ha falsificate una dopo l’altra secondo lo stesso preconcetto. Tiberio è il tipo che incarna meglio quello strano ideale letterario, perchè, essendo la doppiezza in persona, è ricchissimo di sfumature, di contrasti, di dubbi, di raffinate perversità, di morbose inquietudini, cosicchè in qualunque sua azione si possono ritrovare doppi motivi. Con dei «si credette»... e dei «si pensò»... Tacito fa passare [38] delle gravi malignità. Ma se si legge attentamente il suo testo, è facile accorgersi che Tiberio può cambiare fisionomia con facilità, poichè tutte le azioni ambigue sono mutate in perfide e qualunque opera buona è messa in conto all’ipocrisia. Ora, secondo Tacito, per nove anni di seguito Tiberio sarebbe stato assiduamente ipocrita; ossia avrebbe compiuto buone azioni, pur con ripugnanza. Per provare che queste opere buone erano fatte ipocritamente e con ripugnanza, Tacito non ci offre che la propria certezza, e la penetrazione con cui lesse nei pensieri segreti del principe. In verità Tiberio, come tutte le altre figure, è un personaggio fantastico, inventato e dipinto dall’odio, combinando insieme molte deduzioni sottili, ingegnose, ma arbitrarie.
Si spiega così come questo giustiziere, che vuole narrare e giudicare sui documenti, sia così spesso irresoluto e diffidente. Talvolta gli accade di non sapersi decidere tra due notizie contradditorie ma ambedue serie, onde sente il dovere di citare tutte le fonti, che si contraddicono, lasciando la scelta al lettore. Invece, quando si imbatte in voci udite durante la giovinezza, che suonino accusa contro i principi e che lusinghino la sua sospettosità, non resiste mai, nonostante le sue dichiarazioni d’imparzialità, alla tentazione di riferirle, dando loro il primo posto fra l’autorità della storia. «Io stimo indegno della gravità di quest’opera l’andare dietro alle favole per stuzzicare i lettori, ma non oso nemmeno sfatare ciò [39] che è stato divulgato e scritto»[21]. Ciò che egli non osa sfatare sono quasi sempre certe calunnie, che giravano per Roma divulgate da anonimi in storie scandalose, di cui il pubblico naturalmente era ghiottissimo, tanto è vero che Tacito prega «coloro che leggeranno quest’opera a non anteporre quelle divulgatissime ed inverosimili storielle così avidamente ricercate, alle storie vere — «neque in miraculum corruptis»[22]. Nè Tacito riferisce soltanto queste storielle, che avrebbe dovuto respingere sdegnosamente; ma pure avvertendo di non dar loro gran peso, le racconta in modo che paiono vere, cosicchè spesso è riuscito ad accreditarle come storiche.
Molte delle favole che si ripetono anche oggi sul conto dei Giulio-Claudi come verità storiche, ci sono state riferite da Tacito come dicerie dubbie, come malignità velate, come sarcasmi in sordina, come supposizioni, raccolte perchè le ritrovava spesso sulla bocca della gente, ed esposte con un tono pacato, che più ancora dell’imparzialità, affetta l’indifferenza.
Ma quale è dunque la segreta ragione di questa potenza suggestiva? L’aver scritto una storia, i cui protagonisti sono degli uomini, e l’aver saputo descrivere questi protagonisti con la forza drammatica che un odio potente può suscitare in un grande scrittore di temperamento, oggi si direbbe, romantico.
Noi abbiamo visto che in Tito Livio il vero protagonista è il popolo, personaggio pieno di vita, ma [40] anonimo e collettivo, immenso e semplice. Tutti gli altri personaggi si uguagliano in alcuni gruppi, confondendo le loro linee personali in un’uniformità generica. Tacito invece, sulle rovine del popolo, morto come personaggio simbolico, costruisce gigantesche e isolate figure di uomini, con tanto ardore, che quando i documenti si ostinano a non rivelargli l’elemento che gli ci vuole, lo inventa. In altre parole Tacito è un poeta tragico, che ha scritto in prosa delle storie, le quali appartengono di pieno diritto alla grande letteratura dell’immaginazione.
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Per capir bene la svolta a cui arriva, dopo Tacito, la storiografia, sarà bene che ci rifacciamo un momento da capo.
Gli annalisti arcaici, che non pensarono all’arte, intesero la storia come uno dei loro tanti doveri civili. Poi, con Sallustio e Livio, il fine artistico si mescola a quello morale e politico; ma siccome nella vita dell’uomo si considerava solo la parte sociale e pubblica, trascurando la privata e vera del tutto, anche la psicologia e la morale si occupano di lui in quanto è cittadino romano, e perciò sono generiche e un po’ esteriori. Ma poi a poco a poco l’uomo prevale anche nella storiografia romana sul cittadino, ed ai tempi di Tacito si osservano già due correnti. Una, quella impersonata da Tacito, il quale, pur conservando la nobiltà di intendimenti, e la dignità stilistica degli antichi, ha già una tesi particolare da dimostrare, una verità da gridare; e per arrivare ai suoi fini, abbandonando la tradizione [42] della psicologia e della morale civile, basa la sua storia sulla psicologia e la morale personale; — e ridando all’uomo come uomo una grande importanza ne toglie molto all’uomo come cittadino. L’altra è quella di cui egli stesso si lagna, che si può considerare come l’estrema esagerazione della storia personale: la storia aneddotica, scritta specialmente per divertire, e questa fa capo a Svetonio.
Svetonio era un uomo di mondo che leggeva molto, osservava molto, conosceva tutte le persone intelligenti della capitale, e che, essendo stato segretario di Adriano — l’imperatore intellettuale ed esteta — ebbe la fortuna di poter leggere dei documenti ignoti a tutti e seppe sfruttarli con intelligenza. La sua vita dei Cesari è l’opera più famosa giunta a noi di questo genere nuovo. Svetonio non dispone gli avvenimenti nell’ordine cronologico, secondo i canoni prestabiliti; non conosce retorica, non si abbandona a concezioni politiche e considerazioni generali, nè pretende mai di far lezione. Invece, nella sua storia abbondano gli aneddoti, raccontati con semplicità, senza preoccupazioni di fare effetto o di disegnare grandi quadri; i documenti originali, specialmente le lettere, quando possono illuminare un personaggio; le facezie e le spiritosaggini che la leggenda gli mette in bocca e quelle inventate su di lui. Sono enumerati i monumenti che il personaggio ha costruiti o riparati, i giochi che ha dati al popolo; e non sono dimenticati mai nè i segni che annunziarono la sua morte nè i connotati fisici. C’è sempre un ritratto [43] dell’imperatore dove dall’altezza della statua al colore degli occhi non è saltato un particolare. Svetonio ci confida senza scrupoli che Cesare rialzava i capelli sulla testa per nascondere la sua calvizia; che Claudio sbavava e dondolava il capo parlando; che Domiziano, bello da giovane, era in vecchiaia afflitto da un ventre enorme, con due gambe magre e tremanti. La morale civica non ha più importanza rispetto a quella privata. Anzi lo stesso scopo morale si perde, per lasciar posto alla curiosità, all’interesse, alla novità; cosicchè Tacito è l’ultimo grande storico classico e il primo della nuova corrente anticlassica: altro segno a cui si riconosce l’epoca di transizione. Dopo Svetonio tutti gli infiniti storici che fiorirono hanno seguito più o meno il metodo svetoniano. La corruzione era penetrata nelle midolla della storiografia, e la malattia non tardò a venire.
Eppure, se pensiamo alle centinaia di storici dei quali ci è stato tramandato il nome, alla scarsezza di quelli che sono giunti a noi anche con l’opera, e alle lacune dei testi conservati, rispetto al numero di quelli iscritti, non possiamo non essere profondamente meravigliati.
Perchè della storiografia, che è forse il genere letterario più fecondo della latinità, ci sono rimasti così scarsi frammenti? Chi è responsabile di questa immensa distruzione?
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Fra tutti questi frammenti, le Deche di Livio che formano ancora il frammento più lungo, ci offrono, sui 140 scritti, appena 35 libri. Il fatto è singolare, perchè l’impero Romano, più o meno forte e rispettato, come principio di autorità, se non come governo attivo, continuò con un filo ininterrotto di imperatori legalmente consacrati ed eletti, ora soltanto in Oriente o in Occidente, ora in Oriente ed in Occidente, sino al 1806. Di solito, quando un regime continua a vivere anche solo di nome, non si spegne la curiosità di conoscerne le origini e di studiarne la storia: la storia appunto che, anche nei tempi barbari, è la più spontanea espressione di una società, perchè tutti gli uomini desiderano di tramandare ai posteri le loro opere, e di conoscere quelle degli antenati; che è anche la più resistente, perchè è legata dall’interesse al regime costituito in modo che storia e regime si sostengono a vicenda. Eppure quell’immenso magazzino di documenti e di pensiero [48] che era la letteratura storica latina, andò distrutto: perchè? Perchè, se alcuni vollero ancora conoscere nella statica determinatezza delle cose passate e giudicare certi avvenimenti memorabili, quasi nessuno più si curò a cominciare dal quarto secolo dell’era volgare di capire quale era stata l’anima di quei secoli e di quelle storie, e questa a poco a poco si spense nell’indifferenza universale?
La distruzione della storiografia antica è uno dei tanti effetti della rivoluzione cristiana. Come avvenne, è quello che cercheremo di chiarire.
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La morale romana fu sempre una morale civica. L’uomo non contava e non valeva, se non in quanto partecipava alla vita pubblica; le sue virtù personali eran tenute in conto, soltanto se servivano alla comunità. Anche certi vizi, quando riuscivano utili alla repubblica, venivan senz’altro lodati come virtù.
Il Cristianesimo, invece, sostituì alla morale civica la morale personale, in modo che il cristiano rendeva direttamente conto delle sue azioni a Dio, e, come cittadino del mondo, non si curava di chi governasse il suo corpo, non preferiva questo a quel paese, uno straniero a un compatriota. Un barbaro o uno schiavo, se buoni e virtuosi cristiani, valevano ai suoi occhi assai più di un romano o di un senatore, viziosi ed increduli. La giustizia e la reputazione degli uomini lo lasciavano indifferente. Tutte le guerre spargevano il caro sangue di uomini a lui uguali.
E allora, veniva fatto di concludere, perchè combattere, se bisogna amare i nemici come sè stessi, e [50] tendere la guancia sinistra a chi ci percuote sulla destra?
Se tutte le virtù civiche fortificavano il regno terrestre, a che servivano per le glorie di quello divino? Perchè ammirare il coraggio, quando non serviva che ad uccidere e a farsi uccidere, come gladiatori, per un padrone inutile? Perchè conquistare il mondo e imporgli le proprie leggi, se soltanto contavano quelle di Dio, alle quali si deve obbedire non per forza ma per amore? Perchè accumular denari arricchendo nello stesso tempo lo Stato con la privata avarizia, se tanto le vere ricchezze stanno nel proprio cuore o nei cieli; se inutile è pensare al domani, poichè Dio provvederà ai nostri bisogni, come dà cibo e vesti agli uccelli del cielo? Perchè migliorare la propria condizione e render sicuro lo Stato, se nella sofferenza sta la vera gioia, e nel patire l’ingiustizia altrui, si prova l’infinito godimento di sentirsi migliore?
Esagererebbe chi attribuisse al Cristianesimo soltanto tutto questo capovolgimento della antica morale. Già in seno al paganesimo le grandi filosofie universalistiche, come lo stoicismo, avevano incominciato ad opporre la morale umana alla morale civica. Seneca era arrivato ad affermare «homo res sacra homini» immaginando una città universale ove tutti potessero abitare — amici e nemici, padroni e servi, patrizi e plebei — senza distinzione di nazionalità, di classe e di diritti politici. Nella stessa storiografia noi abbiamo veduto a Livio, per il quale il grande [51] cittadino è l’uomo perfetto, succedere Tacito, che pur essendo tenacemente tradizionalista, giudica gli imperatori ed i grandi secondo un criterio di morale personale, ossia alla stregua della loro virtù e dei loro vizi privati. Ma nella filosofia e nelle storie pagane la nuova morale non si contrappone all’antica: si sovrappone a lei come una conciliazione, un perfezionamento, un addolcimento; il cristianesimo invece tronca ogni transazione, spinge alle ultime conseguenze il principio che importa soltanto l’adempimento dei doveri verso Dio, dinnanzi a cui tutti gli uomini sono uguali. Ma così facendo, il cristianesimo compiva una rivoluzione immensa, per cui la storia di Roma, oggetto fino allora di tanta venerazione, diventava un’orribile e incomprensibile anarchia.
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In nessuno scrittore questo rivolgimento, per ciò che si attiene alla storia della Chiesa, appare così chiaro come in S. Agostino, il quale, nel De Civitate Dei, paragonando appunto la città umana e quella divina, il Paganesimo e il Cristianesimo, e riferendo, purificate dallo stile ed approfondite dalla rigorosa dialettica, le opinioni di tutti i cristiani, e forse anche di molti non cristiani, suoi contemporanei, altera senza volerlo tutte le manifestazioni della civiltà antica e riesce a renderle irriconoscibili, quando addirittura non le nega appieno.
Si vedano, come esempio, i suoi commenti a Scipione, quando, nel De Republica di Cicerone, il grande generale parla appunto della repubblica. Scipione — osserva S. Agostino — «definisce concisamente la repubblica come la cosa del popolo. Se questa definizione è vera, la repubblica romana non esistette mai, perchè non fu mai cosa del popolo. Scipione, [54] infatti, afferma che il popolo è una moltitudine di persone unite da interessi comuni e da un diritto accettato da tutti. Spiega poi nella discussione ciò che intende per diritto, accettato da tutti, dimostrando come senza giustizia non possa esistere repubblica, poichè dove non c’è giustizia vera non può esserci diritto... Perciò dove non c’è la vera giustizia non può neanche esserci una società di uomini, riuniti dal diritto, e neanche popolo, secondo la definizione di Cicerone e di Scipione; e se non c’è popolo non c’è nemmeno la cosa del popolo, ma la cosa di una folla qualunque che non è degna del nome di popolo. Ora, se la repubblica è la cosa del popolo, dove non c’è giustizia non c’è repubblica. Infatti la giustizia è la virtù che dà ad ognuno il suo. E si può chiamare giustizia quella che toglie l’uomo al vero Dio e lo affida ai demoni immondi? Questo è forse dare a ciascuno il suo?[23]. Insomma, così conclude a proposito della Repubblica, come è descritta in Sallustio, la repubblica romana non è stata mai che un’apparenza: «Omnino nulla erat»[24]. E se non esiste la repubblica non esiste neppure il popolo romano, quel glorioso popolo romano, innalzato da Livio a protagonista della sua storia, deità mitologica soprannaturale, superiore alla censura dei singoli cittadini, i quali sparivano in lui. Secondo S. Agostino invece, uno Stato non è che una somma di singoli uomini, pei quali il solo problema [55] serio è la salute dell’anima. «Cum moltitudo constet ex singulis.... Neque enim aliunde beata civitas, aliunde homo: cum aliud civitas non sit, quam concors hominum multitudo»[25].
Così Livio o Sallustio direbbero: sono morti molti soldati, è vero; ma Roma è riuscita a soggiogare il mondo; e che importano questi sacrifici umani, quando è stata compita un’opera senza pari? S. Agostino ribatte: «Una città potente e vittoriosa ha dato ai vinti, non solo le sue leggi, ma anche la sua lingua, per la pace dell’umanità... È vero; ma quante guerre ha dovuto scatenare per questa pace; e quanta strage di uomini ed effusione di sangue spargere sulla terra!»[26].
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Anche S. Agostino parla a lungo della corruzione dei costumi romani, e in modo che ricorda il tono di Sallustio e di Tito Livio.
«In che tempo la passione di dominare si sarebbe spenta in quei cuori superbi, se essa non fosse arrivata, di onore in onore, alla potenza reale? Poichè non sarebbe stato possibile continuare a crescer di onori, se non fosse prevalsa l’ambizione, e l’ambizione non poteva prevalere che in un popolo corrotto dall’avidità e dal lusso. Poichè l’avidità e il lusso di un popolo sono il frutto della prosperità; la quale con molta prudenza Scipione Nasica stimava essere pericolosa, quando non voleva distruggere la più grande, la più forte, la più ricca città nemica di Roma»[27].
«O mentes amentes! Non siete più stolti, ma ammattiti, siete, voi che cercate i teatri, li affollate, li [58] riempite, e fate mille pazzie, mentre l’Oriente piange la vostra rovina, e le più grandi città sono nel lutto e nell’afflizione per voi, sino alle estreme lontananze del mondo!... Ebbero più forza sui vostri animi le seduzioni degli empi demoni, che gli ammaestramenti dei saggi. Per questo non volete imputare a voi stessi i mali che fate; e quelli che soffrite li imputate ai cristiani. Poichè nei tempi sicuri non volete la tranquillità dello Stato, ma l’impunità del piacere; e siete stati depravati nella prosperità; nè avete saputo correggervi nella sfortuna. Scipione voleva che foste atterriti dal nemico, perchè non foste vinti dalla lussuria, e voi pure essendo abbattuti dal nemico non l’avete repressa; avete perduto il frutto della calamità, e siete diventati i più infelici, restando i più cattivi di tutti i mortali»[28].
Anche qui, come negli storici latini, si attribuisce la rovina dell’impero alla corruzione dei costumi. E su questo punto S. Agostino e gli storici sembrano d’accordo. Ma è facile, addentrandosi nel pensiero dell’uno e degli altri, accorgersi che l’accordo è apparente. La rovina dell’impero lascia S. Agostino indifferente; ciò che lo inquieta è la corruzione dei sudditi; egli è sdegnato perchè la rovina di Roma non ha corretto i romani, ed anche quest’ultimo ammaestramento è rimasto inutile; ma ha l’aria di dire che, se la catastrofe generale avesse migliorato i Romani, questa catastrofe sarebbe stata da lui benedetta come [59] una grazia del Signore. In certi passi, infatti, S. Agostino sembra lodare piuttosto i tempi della decadenza che quelli della gloria, perchè gli sembra che gli uomini siano divenuti un poco migliori. Questo ad esempio: «Roma, fondata e accresciuta dalle fatiche degli antenati, fu più sozza nella sua potenza che nella sua rovina, poichè nella rovina caddero pietre e travi, ma nella corruzione dei romani caddero i sostegni e le bellezze non dei muri ma dei costumi, quando i loro cuori arsero di passioni più funeste delle fiamme che bruciarono i tetti della città»[29].
Sallustio, invece si spaventa perchè «in Roma si cominciarono ad onorare troppo le ricchezze, e poi la gloria e poi la potenza: e allora cominciò a mancare ed a impigrire la virtù e si disprezzò come vergognosa la povertà e l’innocenza. E così la gioventù romana cadde per le ricchezze nel lusso e nell’avarizia; cominciò ad arraffare e consumare e disprezzare le proprie cose e desiderare quelle altrui». Ma lo storico teme, perchè tutti quei vizi enumerati sono dannosi alla repubblica, perchè con l’ambizione e l’arrivismo i migliori rimangono soffocati, con lo spreco si consuma il capitale romano, con le ricchezze è importato l’ozio, con la lussuria la debolezza, con la cupidigia lo sconvolgimento tumultuoso dell’ordine e della pace.
Con questa opposta concezione della vita e della storia, gli stessi avvenimenti assumono un aspetto diverso [60] e le stesse opere sembrano eroiche e scellerate, buone e cattive, ispirate da Dio e dal demonio. Ecco, ad esempio, come S. Agostino giudica il ratto delle Sabine.
«Per questa naturale tendenza alla giustizia e alla bontà, credo, si rapirono le Sabine. Non è forse segno della massima giustizia e bontà insidiare con la frode a teatro le figlie degli altri, per prenderle, non col consenso dei genitori ma con la forza, e come a ciascuno capita? Poichè se i Sabini fecero male a rifiutare le figlie domandate, quanto peggio non fecero i Romani a rapirle? Sarebbe stato più giusto portare la guerra a quel popolo quando rifiutò di dare le sue figlie in matrimonio ai suoi vicini, piuttosto che quando venne a riconquistare le donne rapite»[30]. «E vinsero i Romani per potere estorcere funesti abbracci dalle figlie, con le mani ancora sanguinose della strage dei padri. E le figlie non osarono piangere i padri uccisi, per timore di offendere i mariti; e mentre quelli combattevano esse non sapevano per chi invocare vittoria»[31].
Livio invece descrive in questo modo il Ratto delle Sabine.
«La Repubblica Romana era già così forte che poteva essere uguale in guerra a qualunque delle città vicine; ma per la mancanza di donne, quella grandezza avrebbe solo durato l’età d’un uomo, non essendoci speranza di prole futura in patria, nè di matrimoni [61] coi vicini»[32]. Perchè Roma potesse seguire la via gloriosa tracciata negli astri, Romolo risolse, dopo il rifiuto, di violare per una volta la legge, obbedendo quasi, come Loth, a un comando divino. E spiegò poi «che ciò si era fatto per la superbia dei padri, che avevano negato i connubi ai loro vicini; ma che quelle tuttavia sarebbero legittime spose nel matrimonio e nella comunità di tutte le fortune di Roma e dei figli, dei quali non vi è per gli uomini cosa più cara. Perciò calmassero l’ira e concedessero gli animi a coloro ai quali la fortuna aveva dato i corpi»[33].
E dopo aver vinto i Ceninensi, i Crustumini e gli Antennati che volevano vendicare l’ingiuria, Romolo portò sopra una barella le spoglie del duce nemico, le appese ad una quercia sacra sul Campidoglio, e consacrò un tempio a Giove Feretrio con queste parole:
«O Giove Feretrio, io, Romolo, re vincitore, ti offro queste armi reali, e ti consacro il tempio che ora ho fondato in questa terra, perchè nel tempio siano deposte le prime spoglie che i posteri, seguendo i miei esempi, toglieranno ai re uccisi in battaglia»[34].
Per S. Agostino il ratto delle Sabine non è che una violazione della morale. Per Livio è il momento sacro e solenne da cui comincia la storia di Roma, è [62] l’esecuzione di un ordine venuto dagli dèi, è l’adempimento di una delle tante imprese predestinate, che dovevano riuscire felicemente, perchè Roma diventasse la dominatrice del mondo.
E questi due contrari punti di vista si ritrovano quando S. Agostino parla del combattimento fra Orazi e Curiazi, e dice di Virginia «humanior huius unius feminae, quam universi popoli Romani, mihi fuisse videtur affectus»[35]. Egli non si lascia esaltare dagli argomenti inebrianti degli scrittori latini.
«A che mi si obbiettano qui il nome della gloria, il nome della vittoria? Messi da parte gli intralci di una folle opinione, guardiamo, pesiamo, giudichiamo a nudo i delitti. E che si dica il conflitto di Alba come si dice l’adulterio di Troia. Non si troverà mai niente di uguale, niente di peggio. Tullo vuol solamente «levare in armi gli uomini impigriti, e le schiere ormai disavvezze ai trionfi». Per questo vizio, è stato dunque perpetrato il delitto di una guerra fra alleati e parenti!»[36].
[63]
I Cristiani non potevano neppure ammettere che i grandi uomini romani discendessero da antenati di origine divina, mentre l’inventare ed il magnificare questa origine ultra umana appariva come uno dei compiti fondamentali della storiografia, sin dai primi anni, quando i rozzi cronachisti cercavano di dimostrare, con le loro prose scabrose, che il popolo romano era il più grande dei popoli.
Ricordate il proemio di Livio?
«Si concede come licenza, all’antichità, che mescolando le cose umane con le divine, faccia i principî della città più sacri e venerabili. E quando si conceda ad alcun popolo il diritto di consacrare le sue origini e di attribuirle agli Dei, tanta è la gloria del popolo Romano nel fare la guerra, che se egli proclama specialmente Marte suo genitore ed edificatore, le genti umane devono sopportare anche questo, così serenamente come sopportano l’imperio di Roma.»
[64]
Ma S. Agostino non sopporta «aequo animo» questa ambizione e si scandalizza quando Varrone «pretende essere utile agli stati, che i grandi uomini, anche se è falso, si credano discendenti degli Dei, perchè in questo modo l’animo umano «velut divinae stirpis fiduciam gerens» con più coraggio imprende grandi fatti, opera con più veemenza, e appunto per quella sua creduta sicurezza riesce con maggior fortuna».
Ma c’è di più. Siccome molti, nello sconvolgimento del quarto e del quinto secolo, facevano specialmente responsabili i principî cristiani della disgregazione generale[37], Sant’Agostino, per dimostrare che in verità si era sempre stati malissimo, non esita a fare un quadro terrificante della storia di Roma, in cui si passa da un omicidio a una strage, a una rivoluzione, a una carestia, ad una guerra disastrosa, ad un incendio funesto. Quelli che negli storici antichi sono i grandi secoli di Roma diventano un’età maledetta, donde il cristiano torce lo sguardo inorridito.
Non si capisce più come i Romani siano riusciti ad attraversare quelle età così calamitose, senza essere tutti distrutti. Lo Stato, oggetto per i Romani e per i grandi storiografi di una venerazione religiosa, diventa per S. Agostino uno scandalo che fa rabbrividire i secoli.
«Ma i cultori e gli adoratori di quei numi, dei [65] quali amano imitare i delitti e i vizi, non cercano affatto di rendere la repubblica meno sozza e vergognosa. Basta che viva, dicono, basta che fiorisca per la forza dell’armi, e per la gloria delle vittorie, oppure — e questo è ancora meglio — che sia sicura per la pace. Che cosa c’importa del resto? O piuttosto c’importa sopratutto che ciascuno aumenti sempre le sue ricchezze, perchè nutrano le quotidiane larghezze, con cui i potenti si assoggettano i più deboli; che i poveri adulino i ricchi, per poter mangiare, e che i ricchi, perchè i poveri godano sotto il loro patrocinio di un ozio tranquillo, abusino dei poveri, facendoli clienti e ministri del loro lusso; che i popoli applaudiscano, non a coloro che provvedono al loro vero bene, ma ai dispensatori di voluttà; che non sia comandato niente di duro, e non sia proibito niente di impuro; che le leggi impediscano piuttosto di danneggiare le vigne di un altro che di rovinare la propria vita; che uno sia condotto dinanzi ai giudici solo se ha attentato alle sostanze, alla casa, o alla esistenza di un uomo; ma che per il resto ciascuno faccia quello che voglia, dei suoi, o con chiunque si presti; che abbondino le prostitute, per tutti quelli che vorranno goderne, ma specialmente per quelli che non ne possono avere di private; che si costruiscano grandiosi e ornatissimi palazzi, che i conviti seguano i conviti; e come ciascuno può e vuole, di giorno e di notte si giochi, si beva, si vomiti e si fornichi; che risuonino d’ogni parte le musiche delle danze; ed echeggino per i [66] teatri i clamori di una gioia disonesta e si esalti il pubblico a ogni genere di crudelissime o turpissime voluttà... Chi, domando, se non pazzo, può chiamare questo stato l’impero romano e non la casa di Sardanapalo?»[38].
Questa critica demolisce ad uno ad uno, con una dialettica implacabile, tutti i miti e i racconti leggendarî, adoprati dagli storici per esaltare nei romani l’ammirazione delle virtù civiche. Un esempio curioso è quello di Lucrezia, la quale, per essersi uccisa dopo il forzato adulterio, volendo provare a tutti che non vi aveva partecipato segretamente, simboleggia, agli occhi dei romani, la donna esemplare, per la quale l’onore vale più della vita. S. Agostino invece non riconosce il sacrificio di Lucrezia e ragiona a lungo, per dimostrare che Lucrezia ha avuto torto in ogni maniera. Egli dice: se Lucrezia è stata sempre pura di intenzioni ed ha veramente subita la violenza di Sestio, perchè allora la celebre Lucrezia ha ucciso questa casta ed innocente Lucrezia, e l’ha castigata ingiustamente della cattiveria altrui? E come mai Sestio, che ha subito soltanto l’esilio, è stato punito meno della sua vittima? Dove è allora la giustizia, se la castità è punita più che il vizio? Ma se Lucrezia ha invece partecipato segretamente all’adulterio e si è voluta punire della sua colpa, perchè gli storici romani la glorificano come la più virtuosa delle donne? Di qui non si scappa: se non è [67] un’omicida, è un’adultera; se non è un’adultera, è un’omicida; nè si può sciogliere questo dilemma: se è un’adultera perchè lodarla? Se è casta perchè quella morte?[39]. Ora S. Agostino trova la probabile ragione del suicidio di Lucrezia, ma la biasima, invece di ammirarla come gli antichi. «Ha avuto vergogna della violenza altrui commessa su di lei, anche se contro la sua volontà; e romana troppo avida di gloria, ha temuto che continuando ella a vivere si sospettasse la sua complicità nella violenza che essa aveva in vita subita. Ella volle infliggersi la morte, per testimoniare delle sue buone intenzioni agli occhi degli uomini, che non potevano leggere nella sua coscienza... Non fecero così le donne cristiane, le quali vivono, pure avendo sofferto simile violenza. Ma non hanno vendicato su di loro i delitti altrui, e non hanno aggiunto l’omicidio all’adulterio, e non si sono uccise, arrossendo di sè stesse, perchè i nemici, desiderandole, le hanno stuprate. Ma per le donne cristiane la gloria della castità è la testimonianza della loro coscienza dinnanzi a sè e dinnanzi a Dio; e non domandano di più. Infatti anche se agiscono rettamente non ottengono di più perchè non possono allontanarsi dalla autorità della legge divina, malamente evitando l’offesa dell’umano sospetto»[40].
Ma S. Agostino appare più radicalmente sovvertitore, quando dà col piccone proprio sulla pietra angolare di tutta la creazione pagana della storia: [68] la ragione della grandezza di Roma. Perchè Roma aveva potuto fondare quel vastissimo e fortissimo impero? Rispondeva la coscienza pagana: perchè così avevano voluto gli Dei, che avevano protetto i Romani, in considerazione delle loro virtù religiose e civiche. La storia di Livio è così viva, perchè è tutta animata da questa persuasione. Ma S. Agostino entra nell’Olimpo, dove avrebbero dovuto risiedere gli autori soprannaturali della grandezza di Roma, e ne fa una strage. Egli incomincia a domandare: quali sono gli Dei che hanno prodotto la grandezza di Roma?
Certo, risponde, i Romani non oseranno attribuire anche la più piccola particella di un’opera così gloriosa e così grande «alla Dea Cloacina o alla Dea Volupia, che così è chiamata dalla voluttà, o a Lubentina dalla libidine, o a Vaticano, che presiede ai vagiti dei bambini; o a Cunina che veglia sulle loro cune»[41].
E qui si domanda perchè i Romani abbiano inventato un tale numero di Dei, ciascuno con le sue funzioni particolari e con la proibizione di invadere il campo degli altri. «Non è bastato — egli osserva — affidare a un solo Dio la cura delle campagne, ma si son dati la pianura ed i campi alla Dea Rusina, i gioghi dei monti al Dio Jugatino, i colli alla Dea Collatina e le valli a Vallonia. E non hanno neanche trovato una Dea abbastanza vigilante per [69] poter affidare a lei sola le difese delle messi. Ma alla semenza del grano, quando è ancora sotto terra, hanno preposto la Dea Seja, ed al grano quando spiga la Dea Segezia, ed al grano raccolto e riparato, perchè lo difendesse, la Dea Tutilina. Perchè non parve loro che Segezia bastasse, dagli erbosi inizi alle aride reste?»[42].
Nota poi come la stessa pianta di grano è affidata alle cure di Proserpina, del Dio Nodato, della Dea Volutina, delle Dee Patelana, Ostilina, Flora, del Dio Lacturno, della Dea Matuta e della Dea Runcina, quando, finalmente, è tagliata. Ora, dice S. Agostino, a chi si deve attribuire la grandezza dell’impero romano, se Roma è stata difesa e sostenuta da una quantità di piccoli Dei talmente attaccati a un ufficio particolare, che sarebbe stato molto imprudente affidar loro un compito di ordine generale?
Allora — egli nota, passando agli Dei maggiori — supponiamo che il merito dell’impero risalga a Giove. «Jovis omnia plena» dicono i latini; ma come mai allora è assegnata l’aria inferiore a Giunone e l’etere a Giove? Tutto non è dunque pieno di Giove? Oppure essi riempiono l’aria e l’etere, e stanno insieme in ciascuno dei due elementi? Ma allora perchè dare l’aria a Giunone e l’etere a Giove? E dopo aver dimostrato negli altri grandi Dei tutti i garbugli, che nascono da queste prime definizioni contradittorie, egli si chiede: «Ma se invece, come [70] dicono i filosofi, non ci fosse che un Dio solo, il quale si impersona nei diversi Dei secondo le necessità ed i momenti? O allora non sarebbe stato più semplice e prudente adorare un solo Dio? Che parte di lui si disprezzerebbe, venerando Giove stesso?»
E se si teme che si possano adirare quelle parti del Dio che non sono venerate, o sono dimenticate, non è più vero che egli sia l’anima del mondo, lo spirito di tutti gli Dei, la vita universale, ma ogni parte di lui ha la sua vita propria, indipendente dalle altre; perchè se no sarebbe assurdo che una parte del Dio fosse offesa, quando, adorando il Dio che le comprende tutte, ogni parte è anche adorata.
Perchè invece, venerando e deificando, per esempio, alcune delle stelle, non si teme che tutte le infinite stelle non adorate si vendichino di questa oltraggiosa dimenticanza? In tutto l’universo gli Dei non venerati ed offesi sono innumerabili, e quindi più numerosi degli Dei venerati.
«E prima di tutto mi domando, continua S. Agostino, perchè anche l’Impero non è posto tra gli Dei? E perchè no, se la vittoria è una Dea? E che bisogno c’è più di Giove, se la Vittoria favorisce e vola sempre a quelli che vuole far vincere? Con questa Dea propizia, anche se Giove sta con le mani in mano, o ha da fare altrove, quanti popoli non si possono conquistare?»[43].
E così, sempre impostando la vita e la morale romana [71] su quella degli Dei, egli prova che tutti gli Dei sono dei burattini, o dei mascalzoni, o dei pazzi, o degli imbecilli. Ma ciò che più urta la sua coscienza di cristiano è l’impassibilità con cui gli Dei contemplano la corruzione dei romani, senza cercare di migliorarli.
«Perchè la repubblica non perisse, i suoi Dei custodi avrebbero dovuto dare dei precetti, specialmente sulla vita e sui costumi, a quel popolo che li venerava, e da cui erano venerati con tanti templi, sacerdoti, sacrifici, con tante diverse funzioni sacre, con tante solennità festive e celebrazioni di giorni. Mentre invece i demoni pensavano solo al loro interesse, non curando come i Romani vivessero, cercando anzi che vivessero malamente, purchè, sottomessi dal timore, li onorassero[44].
«E dove era tuttavia quella turba di numi, quando, molto prima che gli antichi costumi si corrompessero, Roma fu presa e bruciata dai Galli? Forse i numi presenti dormivano? Allora tutta l’Urbe fu occupata dal nemico, e rimaneva solo il colle capitolino; ed anche quello sarebbe stato preso, se le oche, mentre gli Dei dormivano, non avessero vigilato...»[45].
Ma gli Dei, oltre ad essere dormiglioni e vili sono anche cattivi, perchè cercano di aizzare invece che di raffrenare le passioni degli uomini. «Quei numi che hanno aiutato Mario, uomo nuovo e non nobile, [72] responsabile delle più sanguinose guerre civili, a diventare console sette volte e a morire vecchio, durante il settimo consolato, in modo che non cadesse nelle mani di Silla, futuro vincitore, perchè non lo hanno aiutato a non commettere tanta mole di delitti?»[46].
«E quando Silla, i cui tempi furono così crudeli che si rimpiangevano quelli di cui volle essere il vendicatore, mosse il campo verso l’urbe contro Mario, le viscere delle vittime furono tanto favorevoli, secondo Livio, che Postumio aruspice si dichiarò pronto a subire la pena capitale, se Silla coll’aiuto degli Dei non avesse compiuto tutto quanto aveva in animo. Dunque gli Dei non avevano abbandonati i templi e le are, poichè predicevano gli eventi delle cose, senza darsi la pena di render Silla migliore!»[47].
«Ma se mi rispondono che gli Dei non li aiutarono, faccio notare esser molto grave che essi confessino poter gli uomini godere, anche senza gli Dei favorevoli, di quella felicità temporale preferita fra tutte; e che gli uomini possano anche, come Mario, fruire della salute, della forza, della potenza, degli onori, della dignità e della longevità tutte insieme, contro il volere degli Dei; e che possano, come Regolo, morire poveri e schiavi, tormentati dalle veglie e dalle torture con la protezione degli Dei. E se i Romani ammettono questo, sono anche costretti a [73] confessare che gli Dei non servono a niente e che è inutile venerarli»[48].
Così, a poco a poco, dopo avere numerato tutti i vizi e le ridicolezze dei numi, come un buon avvocato che vuole screditare i testimoni della parte avversa, S. Agostino conclude affermando che gli Dei sono inutili, e che non hanno partecipato all’ingrandimento e alla fondazione dell’Impero. La discussione è chiusa con un dilemma insolvibile, a proposito della grandezza e della decadenza degli imperi.
«Insomma, o gli Dei sono infedeli, abbandonano i loro amici e passano al nemico — ciò che non fece Camillo, il quale era solo un uomo, quando, essendo stato pagato da Roma con ingratitudine per avere espugnate le città ostili più pericolose, memore della patria, dimenticò l’ingiuria e salvò Roma una seconda volta. O questi Dei non sono così potenti come dovrebbero essere, poichè possono esser vinti dall’ingegno o dalla forza degli uomini. O gli Dei non sono vinti dagli uomini, ma battagliando fra loro sono vinti da altri Dei, che proteggono altre città: hanno dunque anche loro delle inimicizie reciproche, o le sollevano ciascuno per il proprio partito»[49].
[75]
Ma allora da che cosa è nata, se non è nata dalla protezione degli Dei, la grandezza romana? Dal caso, dalla fatalità, o dal destino? No[50]. Siamo così arrivati, con tutte le preparazioni necessarie, sulle soglie della conclusione cristiana. S. Agostino ci rivela subito il fine di quel tormentoso sillogizzare:
«Vediamo ora per quali virtù dei Romani, e per quale scopo si degnò di aiutare l’impero ad ingrandirsi il vero Dio, nella cui potestà sono anche i regni della terra. Appunto per potere discutere absolutius della questione, abbiamo dimostrato nel libro precedente come, per questo ingrandimento, non abbiano contato nulla quegli Dei venerati con cerimonie così ridicole, e, al principio di questo libro, come fosse da eliminarsi la versione del fato, perchè qualcuno, stufo del culto degli Dei, non attribuisse la grandezza e la difesa dell’Impero romano a non so quale [76] fato piuttosto che alle potentissime volontà del Sommo Dio.»[51].
L’Impero romano è stato fondato ed ingrandito da Dio, perchè unificando il mondo sotto uguali leggi ed in un’unica lingua, preparasse la venuta di Cristo e rendesse possibile l’espansione della nuova religione. «La città di Roma fu fondata come un’altra Babilonia e come la figlia della prima, per mezzo della quale piacque a Dio domare l’universo e pacificarlo in lungo ed in largo con la comunanza del governo e delle leggi. Poichè c’erano allora dei popoli forti ed agguerriti che non cedevano facilmente e che non si potevano vincere se non con gravi pericoli, grandi devastazioni reciproche e orribile travaglio»[52].
Questa è la dottrina cristiana dell’impero e della sua storia. Senonchè è facile intendere che questa dottrina spogliava Roma di tutta la gloria, di cui l’antica storiografia l’aveva illuminata. Roma non ha virtù, ma vizi, non enumera glorie, ma orrori: ha vinto nonostante questi orrori e questi vizi, per volere di Dio, per combattere vizi ed orrori più grandi. Essa è insomma il minor male dei tempi che furono prima della redenzione; e il cristianesimo le deve, non ammirazione, ma intelligente compatimento. Così S. Agostino considerò quelle virtù civiche, per glorificar le quali Livio aveva scritto il suo immenso poema, come vizi: primo di tutti l’amor della [77] gloria, il pilone centrale della grandezza romana. «E questo impero potentissimo, col quale voleva castigare i gravi peccati di molti popoli, Dio lo affidò a questi uomini, i quali, per amore di onori e di lode, misero nella gloria della patria la propria gloria e non esitarono ad anteporre la salvezza della patria alla loro salvezza, vincendo il desiderio di denaro e molti altri vizi con un solo vizio: l’amor della gloria»[53]. «Poichè chi è saggio capisce subito che l’amor della gloria è un vizio». Vizio tanto maggiore perchè i Romani «non solo non gli resistevano, ma cercavano anzi di eccitarlo, pensando che sarebbe stato utile alla repubblica»[54]. Infatti «senza dubbio è meglio resistere a questa passione che cedere»[55]. Invece «quella gloria, per amore della quale ardevano, non è altro che la buona opinione degli uomini sopra un uomo. È dunque migliore la virtù che non si contenta della testimonianza degli uomini, ma esige quella della coscienza. Dice infatti l’apostolo: «Nam gloria nostra haec est, testimonium conscientiae nostrae»[56].
Perciò il sentimento vero che S. Agostino prova per i Romani delle grandi epoche, tanto ammirate da Sallustio, da Livio e da Tacito, è una specie di compassione, come per i disgraziati condannati a compiere un’opera necessaria ma orrenda, quasi si [78] direbbe per i carnefici della storia. «Essi amarono la gloria ardentissimamente, per la gloria vollero vivere, e per la gloria non esitarono a morire... Stimando vergognoso che la propria patria fosse schiava, e glorioso che dominasse e comandasse, con ogni sforzo vollero prima farla libera e poi sovrana». «E così era fra le aspirazioni degli uomini illustri per coraggio, che Bellona, agitando la sua frusta sanguinante, eccitasse i miseri popoli alla guerra, perchè vi potesse risplendere il loro valore... E prima per il desiderio di libertà, poi per quello di dominio e di gloria compirono grandi imprese»[57].
Nè è più benigno per l’altra passione figlia dell’amore della gloria: l’ambizione di dominare, regina delle virtù romane, quella che creò e difese l’impero. S. Agostino, infatti, condanna questa qualità del popolo romano, accusandolo di essere dominato dalla libidine di dominare, («ipsa ei dominandi libido dominatur»). E non cessa mai in tutta l’opera, ogni volta che l’occasione gli si offre, di scapitozzare questa colonna della civiltà romana, sentendo bene che l’ambizione, essendo fra tutte le virtù antiche, la più civile e la meno personale, contradiceva più aspramente che ogni altra tutta la morale cristiana.
«Chi potrebbe dire, egli scrive, quante calamità ha suscitato pel genere umano questa passione di dominio? Vinta da questa passione, Roma godeva di [79] aver soggiogata Alba, ed accettava sotto il nome di gloria la lode del suo misfatto. Perchè, è detto nella Sacra Scrittura, il peccatore è lodato per i suoi cattivi desideri, ed è benedetto chi commette l’iniquità. Ma togliamo quel belletto fallace, e questi falsi colori, per esaminare sinceramente le cose come stanno. Non mi vengano a dire: il tale è grande perchè ha combattuto con questo e quest’altro ed ha vinto. Combatte il gladiatore, e la sua crudeltà ha un salario di lode. Ma per me è meglio essere disprezzato come un vigliacco, che acquistar la gloria di simile coraggio»[58].
Roma, certo, non avrebbe avuto bisogno di guerreggiare così lungamente, se tutti gli uomini fossero stati d’accordo con S. Agostino, quando osservava, che per il mondo era meglio assoggettarsi senza guerre all’impero Romano: «tanto, dice, per la nostra vita mortale, così breve, che importa all’uomo morituro vivere sotto questo o quell’impero, se non è obbligato da quelli che comandano ad azioni empie od inique?»[59]. Ma ha quasi l’aria di dire che i romani hanno rifiutato questo semplice e profittevole mezzo di conquista — la buona volontà dei conquistati — «perchè sarebbe mancato loro la gloria del trionfo!».
È facile intendere come con questa dottrina della vita, tutta la storiografia antica, anche quella di Sallustio e di Livio, non avesse più nessun senso o interesse. [80] Che importavano tutte quelle guerre, quelle vittorie, quelle lotte civili, se Dio non c’entrava per nulla, poichè badava solo al risultato, e cioè all’unità dell’impero, come quella che doveva essere la gigantesca culla del redentore? A che serviva ormai la dottrina della corruzione, se le virtù civiche, che Sallustio e Livio opponevano alla corruzione, erano anche esse corruzione e male? E neppure la storia di Tacito, con quella sua sollecitudine della morale personale, poteva attrarre il pensiero cristiano. Dinnanzi a S. Agostino, il quale trova giusto che i buoni ed i cattivi godano e soffrano ugualmente, perchè secondo la dottrina cristiana saranno puniti e premiati con equità nella vita oltre mondana, come grossolana doveva sembrare la giustizia di Tacito, il quale aveva scritto per punire col suo stilo di storico i cattivi ingiustamente felici sulla terra, senza neppure sospettare, che secondo la dottrina cristiana i buoni e i cattivi reagiscono diversamente alle disgrazie e alle fortune. Infatti come «sotto lo stesso fuoco l’oro scintilla e la paglia fumiga... e l’olio e la morchia non si mescolano, quando sono espulse dallo stesso peso del frantoio, così una uguale disgrazia, se piomba sui buoni li prova, li purifica e li fa splendere, sui cattivi li tormenta, li rovina e li stermina!»[60].
Tutti i sentimenti, tutte le istituzioni, tutte le credenze romane sono a poco a poco trasformate ed alterate. La saggezza diventa follia, il bene diventa il [81] male, quello che era citato ad esempio è ricordato come un obbrobrio oltrepassato per la felicità degli uomini.
Così la morte, che era stata stimata il peggiore dei mali, fuori che quando era affrontata per la difesa della patria, diventa una mèta, il momento desiderabile per l’acquisto della beatitudine perfetta[61]. Viceversa il suicidio, considerato sempre un atto di coraggio, si giudica ora una viltà ed una follia[62], oltrechè un peccato mortale. La sepoltura, cerimonia consacrata religiosamente, come la più importante e la più sacra di tutte le funzioni, perchè era legata alla vita ultramondana del morto, ora non è più che una dimostrazione di amore, rispetto al defunto, ed un dovere igienico rispetto ai rimasti. L’Anima, tanto, è superiore ed indifferente al destino del suo corpo e al lusso della sua tomba[63].
La storiografia antica è stata vittima di questo immenso rivolgimento dello spirito del mondo. A poco a poco, a mano a mano che i secoli passavano, l’indifferenza, l’incomprensione e l’ignoranza stesero un immenso mantellone di feltro sul passato e la storia ritornò allo stadio primitivo di molti secoli innanzi. A Carlo Magno, che si faceva leggere e rileggere il De Civitate Dei, le opere di Sallustio, di Tito Livio e di Tacito non potevano insegnare più nulla, dovevano anzi riuscire quasi incomprensibili. Importava [82] tutt’al più il ricordo dei nudi fatti della storia di Roma, come l’aveva conservato nei primi secoli la annalistica. Le grandi opere di storia sono distrutte; anche dei grandissimi — di Sallustio, di Livio, di Tacito — solo pochi brandelli si salvano; si moltiplicano invece le piccole epitomi. E così quella grande luce intellettuale dell’antichità si ridusse a una piccola fiammella morente, finchè un rivolgimento del pensiero umano non la fece divampare di nuovo. È quella che si può chiamare la risurrezione della storiografia antica.
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Niccolò Machiavelli, dopo il ritorno dei Medici a Firenze, nel 1513, si era ritirato in villa senza impiego politico, e si consolava della sua triste vita, partita fra l’osteria e i lavori dei campi, studiando Tito Livio. Ma ogni tanto faceva una scappata a Firenze, dove trovava un cenacolo di fedeli ammiratori del Savonarola, amici suoi sin dal tempo della repubblica, che si radunavano negli Orti Oricellari, e con essi leggeva commovendosi a quella rievocazione di glorie repubblicane, le storie di Tito Livio. In questo gruppo il Machiavelli cominciò a commentare in modo nuovo le decadi ed entrò «in quella via» che non era «stata per ancora da alcuno pesta».
Perchè, si domanda il Machiavelli, gli uomini ricorrono agli antichi per tutte le arti e per tutte le scienze, e non li studiano quando si tratta di politica? Perchè non si ristudiano con intelligenza le storie? In verità, essi non sanno «trarne, leggendole, [86] quel senso, nè gustare di loro quel sapore che le hanno in sè»[64].
Siccome gli uomini «nacquero, vissero e morirono sempre con un medesimo ordine»[65] «gli è facil cosa a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni repubblica le future, e farvi quei rimedi che dagli antichi sono stati usati»[66]. Perciò «ho giudicato necessario scrivere sopra tutti quelli libri di Tito Livio, che dalla malignità dei tempi non ci sono stati interrotti, quello che io, secondo le antiche e moderne cose, giudicherò essere necessario per maggiore intelligenza di essi»[67].
L’antichità in generale, ed in essa sopratutto Tito Livio, sono adunque assunti a maestri della politica contemporanea, mentre la politica contemporanea è adoperata per illuminare nei suoi punti oscuri la storia dell’antichità. Il metodo era doppio ed era nuovo; e diede risultati singolari, che dobbiamo studiare, perchè con il Machiavelli la storia antica rinasce dal suo sepolcro e ridiventa una viva forza spirituale della civiltà moderna.
Gli amici degli Orti Oricellari che primi lo conobbero, sembrano aver più ammirato che non capito questo metodo, poichè i commenti liviani del Machiavelli esaltavano in loro soltanto il fervore repubblicano, e, come se fossero stati scritti e detti solo [87] per insegnar l’arte di fondare, ordinare e reggere una repubblica nei tempi moderni, riempivano quegli spiriti ardimentosi, ma angusti, di invidia e nostalgia per la fortunata sorella di Roma; li accendevano forse anche incitandoli a restaurare uno stato repubblicano nella Firenze medicea (così forse due uditori degli Oricellari, Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai, gettandosi in una disgraziata congiura contro i Medici, pensarono di avere tradotto in pratica gli insegnamenti di Niccolò Machiavelli). Ma a torto, perchè il metodo del maestro non era monopolio della politica repubblicana. L’antichità era vasta, gli storici numerosi, le Deche stesse oceaniche e multiformi. Nel mondo classico era lecito studiare con uguale profitto le istituzioni tiranniche e le istituzioni monarchiche. E il Machiavelli voleva studiare repubbliche e monarchie, tanto che ritornando da Firenze, dove aveva commentato Livio negli Orti Oricellari, alla sua campagna, a quell’Albergaccio di cui parla nelle sue lettere, scriveva il Principe, ossia un trattato sull’arte di fondare e reggere una monarchia, attingendo anche per questo agli esempi dell’antichità. «Deve il Principe leggere le istorie ed in quelle considerare le azioni degli uomini eccellenti, vedere come si sono governati nelle guerre»[68].
Non tutti gli storici e non sempre i posteri hanno capito la vera natura di questo eclettismo politico del Machiavelli. Si ripete spesso che nei Discorsi il [88] Machiavelli condensò la sua dottrina sul governo delle republiche, e nel Principe quella sul governo dei principati tirannici, esaltandoli ambedue come i regimi ideali. E poichè le due opere furono scritte press’a poco nel tempo stesso, questa contemporaneità gli è stata imputata come atto di mala fede, quasi che scrivendo il Principe, egli avesse rinnegato o tradito i Discorsi, e viceversa. Ma, innanzi tutto, l’opposizione delle due opere è arbitraria, perchè non è lecito assegnare la teoria della repubblica ai Discorsi e quella della tirannia al Principe, con quel taglio netto che è d’uso: tra Il Principe e i Discorsi c’è tanta continuità e coerenza di pensiero, che son quasi un’opera sola. E tu non senti nessun distacco passando dal primo al secondo.
Fin dalle prime pagine dei Discorsi, il Machiavelli dichiara che Repubblica o Tirannia fa lo stesso. Imbevuti delle dottrine politiche del secolo XIX, noi non possiamo più capire questa indifferenza a scegliere due forme di governo, di cui l’una, secondo noi, deve essere il male, se l’altra è il bene. Ma il Machiavelli, vivendo quattro secoli fa, pensava che tutti gli ordinamenti statali hanno dei difetti e delle qualità. Nella sua teoria della trasformazione dei governi[69], che anticipa quella di Vico, non si fa illusione sulla bontà di nessun ordinamento. Crede però che certe situazioni richiedono questo o quel governo, come più conveniente e adattabile. Esamina così le [89] condizioni degli Stati e i momenti storici in cui possono fondarsi e reggersi delle repubbliche o delle tirannie, e avverte «che colui che vuol fare dove sono assai gentiluomini una repubblica, non la può fare se prima non gli spegne tutti»[70]. E se vuol fare un Principato «dove è assai egualità» trova altri ostacoli invincibili. Cosicchè conclude: «costituisca, adunque una repubblica, colui dove è o s’è fatta una grande equalità; altrimenti farà una cosa senza proporzione e poco durabile»[71]. Poco dopo scrive un lungo capitolo sulle congiure «acciocchè i principi imparino a guardarsi da questi pericoli, e che i privati più timidamente vi si mettino, anzi imparino ad essere contenti a vivere sotto quell’impero che dalla sorte è stato loro preposto»[72]. E cita questa sentenza di Tacito: «gli uomini debbono desiderare i buoni principi e comunque siano fatti tollerarli».
Chi direbbe che questi pensieri sono stralciati dai Discorsi sulla prima Deca, le cui primizie furono riservate agli ultimi discepoli di Savonarola, e che passa per un libro repubblicano? E come attribuire a un teorico della repubblica quella poca stima delle masse che il Machiavelli esprimeva a Francesco Guicciardini scrivendogli «voi sapete e sallo ciascuno che sa ragionare di questo mondo, che i popoli sono vari e sciocchi»?[73]. O quella dottrina svolta pure nei Discorsi, per cui, se si vuol ricorreggere una repubblica, [90] che non regga più per la corruzione morale e politica, «è necessario venire allo istraordinario, come è alla violenza ed all’armi, e diventare innanzi ad ogni cosa, principe di quella città, e poterne disporre a suo modo»[74].
Il Principato è dunque necessario e quindi legittimo quanto la repubblica. Non c’è nel Machiavelli parzialità per l’uno o per l’altra, o contemporanea glorificazione di tutti e due. Benchè la divisione non sia netta, nei Discorsi si può trovare la teoria della repubblica, perchè il protagonista è il popolo, nel Principe la teoria del principato, perchè si parla specialmente dei principi. Infatti incomincia dicendo: «Io lascerò dietro il ragionare delle repubbliche, perchè altra volta ne ragionai a lungo»[75], alludendo senza dubbio ai Discorsi. Ma questa è la divisione teorica di due diversi ordinamenti, non il cozzo di due dottrine contrarie.
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Ammesso che tutte le forme di governo possano essere legittime, il Machiavelli non poteva non affrontare la questione: come si debbano nella realtà distinguere i governi legittimi dagli illegittimi. Lo studio degli antichi, massime quello di Tito Livio, lo conduce a stabilire la nozione di una legittimità di fatto. Il governo legittimo è quello buono, il quale sa compiere bene l’ufficio suo: «tanto è difficile e pericoloso, egli scrive senza reticenze, voler far libero un popolo che voglia viver servo, quanto è far servo un popolo che voglia viver libero». «Gli uomini nell’operare debbono considerare le qualità dei tempi e procedere secondo quelli». Il governo migliore è quello che indovina con più fortuna quali sono i mezzi necessari per mantenere l’ordine, aumentare la potenza e la prosperità. E chi ci riesce ha il plauso, qualunque esso sia, nuovo o antico, monarchico o democratico, aristocratico o religioso, militare o plutocratico. Senonchè, si potrebbe da questo argomentare [92] che il Machiavelli disprezza come superflua la legittimità formale e legale dei governi, per non ammettere che la legittimità del merito; ma si è invece un po’ sorpresi, in principio, trovando vicino a delle teorie così ardite, una preoccupazione incessante anche della legittimazione formale[76]. Egli sa che un vecchio governo, i cui titoli non siano discussi, è più solido di un governo fondato dalla forza, anche se ha meno denari e meno soldati. Egli sa che «nel principato nuovo consistono le difficoltà»[77] e osserva che «il Principe naturale ha minori cagioni e minori necessità di offendere»[78]. Ma questa preoccupazione della legittimità c’è solo perchè la legittimità è una forza di persuasione che serve più di molti cannoni come elemento di stabilità e di potenza. Insomma, passando attraverso Livio e gli scrittori antichi, il Machiavelli arriva quasi di colpo alla razionalizzazione totale della politica.
Risorgendo dal suo sepolcro, la storia antica rivela dopo tanti secoli agli uomini la dottrina dello Stato razionale ed umano. Che rivoluzione fosse questa è facile immaginare. Era la fine del Medioevo. Lo Stato non è più un pupillo del Pontefice chiamato ad attuare la legge di Dio sulla terra, secondo la dottrina di S. Agostino; è una creazione umana inventata dalla ragione per servire e sfruttare le passioni e gli interessi degli uomini a fini di grandezza e di potenza.
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Nel medioevo la Chiesa governava il mondo, e l’impero, se voleva essere riconosciuto dal popolo, doveva chiedere la benevolenza di Dio. Nelle dottrine del Machiavelli, lo Stato si serve della religione per governare con più forza. La religione — dice il Machiavelli — è «cosa al tutto necessaria a voler mantenere una civiltà»[79]. E aggiunge ancora «come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quella è cagione della rovina di esse. Perchè, dove manca il timore di Dio, conviene che o quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore del Principe che supplisca ai difetti della religione»[80]. E si duole, lui Machiavelli in odor di ateismo e a cui doveva toccar più tardi di esser arso in effige sulle piazze, che l’Italia rovini, perchè la religione è soffocata dalla Chiesa. «La quale religione, se nei principî della repubblica cristiana si fosse mantenuta, secondo che dal datore di essa ne fu ordinata, sarebbero gli stati e le repubbliche cristiane più unite, e più felici assai che elle non sono. Nè si può fare altra maggiore congettura della declinazione di essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa Romana, capo della religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e vedesse l’uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo, senza dubbio, o la rovina, o il flagello»[81].
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Lo Stato dunque ha una base razionale e sfrutta razionalmente, il misticismo per dominare. Ma da questo concetto puramente umano del governo, il Machiavelli giunge ad una conclusione che in Livio non c’era neppure come germe, alla conclusione che tutto è lecito pel bene dello Stato, perchè non c’è nessuna legge al disopra di lui, tanto che il suo interesse stesso diventa la legge.
Il celebre Valentino, divenuto come un simbolo, è per il Machiavelli il modello di Principe che bisogna imitare. «Chi giudica necessario nel suo Principato nuovo assicurarsi degli inimici, guadagnarsi amici, vincere o per forza o per fraude»[82] faccia come il Borgia. Non bisogna dimenticare che gli uomini e le cose sono come sono e non come dovrebbero essere: gli uomini malvagi e sciocchi, le cose difficili. «M’è parso più conveniente andar dietro alla verità effettuale della cosa che all’immaginazione [96] di essa; e molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti e conosciuti essere in vero, perchè egli è tanto discosto da come si vive a come si doverria vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverria fare, impara piuttosto la rovina che la preservazione sua, perchè un uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene che rovini in fra tanti che non sono buoni. Onde è necessario ad un principe, volendosi mantenere, imparare a poter essere non buono ed usarlo secondo la necessità»[83]. La morale si biforca di nuovo come negli antichi: la civile è altra dalla personale. Se il principe ha dei vizi privati, pazienza. Fuggire assolutamente deve «l’infamia di quelli vizi che gli torrebbono lo Stato»[84]; e con questo ha la coscienza tranquilla. Egli è costretto a fare ciò che la politica comanda: «non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato»[85]. Perchè «nelle azioni di tutti gli uomini e massime de’ Principi, dove non è giudizio a chi reclamare, si guarda al fine... I mezzi saranno sempre giudicati onorevoli e da ciascuno lodati»[86].
La famosa frase è detta; ma una resipiscenza strana fa esitare per un attimo l’ardito scrittore. A proposito di Agatocle siracusano, giunto al principato [97] della sua città per mezzo di inaudite efferatezze e di ignobili tradimenti, il Machiavelli scrive: «Non si può chiamare ancora virtù ammazzare li suoi cittadini, tradir li amici, essere senza fede, senza pietà, senza religione; li quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria. Perchè se si considerasse la virtù di Agatocle nell’entrare e nell’uscire dei pericoli e la grandezza dell’animo suo nel superare e sopportare le cose avverse, non si vede perchè egli abbia a esser tenuto inferiore a qualsiasi eccellentissimo capitano. Nondimanco la sua efferata crudeltà ed inumanità, con infinite scelleratezze, non consentono che sia tra li eccellentissimi uomini celebrato»[87].
Il fine non giustifica dunque tutti i mezzi?
Che vuol dire questa improvvisa limitazione?
Fu probabilmente un grido strappato alla coscienza morale del Machiavelli, subito zittito dalla sua infatuazione politica. Infatti, poco dopo, cercò questi limiti pretesi dalla sua morale. Ma chi scende un pendio così scosceso non si può fermare. Non trovando i limiti nella morale, si rivolse alla vita pratica, come se questa potesse offrire una misura di se stessa. E s’accorse che le crudeltà si dividono in due categorie: le crudeltà bene usate e le crudeltà male usate. «Bene usate si possono chiamare quelle (se del male è lecito dir bene) che si fanno una sol volta per necessità dell’assicurarsi e di poi non [98] vi si insiste dentro, ma si convertiscono in più utilità dei sudditi che si può; le male usate sono quelle, quali, ancora che da principio siano poche, crescono piuttosto col tempo che le si spenghino»[88] cosicchè, l’occupatore di uno Stato «deve discorrere e far tutte le crudeltà in un tratto per non avere a ritornarvi ogni dì»[89].
Per dirla più chiaramente: ben usate sono le crudeltà che riescono, mal usate quelle che esasperano senza risultati.
Quale è, dunque, in politica, il criterio del bene e del male? L’abilità e il successo. Ci pare che la famosa frase «il fine giustifica i mezzi», con cui si esprime la politica machiavellica, possa essere sostituita da quest’altra «il successo giustifica i mezzi». Chi vince ha ragione. Questo hegelianismo precoce giustifica tutte le frodi. «Non può, pertanto, un signor prudente nè debbe osservar la fede quando tale osservanza gli torni contro, e che sono spente le cagioni che lo feciono promettere»[90]. Finchè ha forza sforzi. «È cosa veramente molto naturale e ordinaria desiderare di acquistare, e sempre quando gli uomini lo fanno che possino, ne saranno laudati e non biasimati, ma quando non possono e vogliono farlo in ogni modo, qui è il biasimo e l’errore»[91].
Nè si creda che questi consigli siano dati soltanto al Principe il quale, perchè si è impadronito [99] dello Stato colla violenza, non può rispettare nessun limite al di fuori della forza propria ed altrui. La dottrina del Machiavelli è applicata ad ogni governo senza distinzioni, anche alle repubbliche, se pure in misura minore. Tutte queste massime offerte alla meditazione dei principi, le ritroviamo nei discorsi stessi per illuminare coloro che vogliono fondare o debbono governare delle repubbliche.
I Discorsi cominciano con questo consiglio, a proposito dei luoghi più adatti per fondare una città. «Non potendo gli uomini assicurarsi se non con la potenza, è necessario fuggire questa sterilità del paese, e porsi in luoghi fertilissimi, dove potendo per la ubertà del sito ampliare, possa difendersi da chi l’assaltasse, e sopprimere qualunque alla grandezza sua si opponesse»[92].
Questo, rispetto agli Stati stranieri, non vuol forse dire: ciascuno fa quello che vuole ed il più forte distrugge il più debole?
La politica interna è retta dagli stessi principî. Il Machiavelli osserva, per esempio: «A coloro che in una città sono preposti per guardia della sua libertà, non si può dare autorità più utile e necessaria quanto è quella di poter accusare i cittadini al popolo, o a qualunque magistrato o consiglio, quando che peccassino in alcuna cosa contro allo stato libero»[93]. Questa abitudine è utile specialmente perchè così «si dà via onde sfogare a quelli umori [100] che crescono nelle cittadi, in qualunque modo, contro qualunque cittadino; e quando questi umori non hanno onde sfogarsi ordinariamente, ricorrono a modi straordinari, che fanno rovinare in tutto una repubblica»[94].
Qualche volta le accuse sono false, ma non importa, «perchè se ordinariamente un cittadino è oppresso, ancora che gli fosse fatto torto, ne seguita o poco o nessuno disordine in la repubblica».
Così, è giustificato Romolo del suo fratricidio, perchè «uno prudente ordinatore di una repubblica... debbe ingegnarsi d’avere l’autorità solo, nè mai uno ingegno savio riprenderà alcuno di alcuna azione istraordinaria, che per ordinare un regno o costituire una repubblica usasse»[95].
Il diritto della forza illegale è riconosciuto persino ai cittadini privati, ma quando, per essere a capo di un esercito, appaiono come dei piccoli sovrani.
Il capitano che torna vittorioso da una guerra — la gran preoccupazione del Rinascimento — ha solo due cose saggie da fare: «O subito dopo la vittoria lasci lo esercito e rimettasi nelle mani del suo Principe, guardandosi da ogni atto insolente o ambizioso» per non insospettire il suo signore, «o, quando questo non gli paia di fare, prenda animosamente la parte contraria, e tenga tutti quelli modi per li quali creda che quello acquisto sia suo proprio e non del Principe suo, facendosi benevoli i [101] soldati ed i sudditi; e faccia nuova amicizia coi vicini, occupi con li suoi uomini le fortezze, corrompa i Principi del suo esercito e di quelli che non può corrompere si assicuri, e per questi modi cerchi di punire il suo signore di quella ingratitudine che esso gli userebbe»[96].
[103]
Quella che balza fuori ad un tratto nell’opera del Machiavelli dallo studio degli storici antichi e massime di Tito Livio è dunque la dottrina dello Stato-Dio, la cui prosperità e potenza è lo scopo supremo al quale ogni altro interesse, anche la religione, è subordinato. Che Livio sia stato il grande ispiratore di questa dottrina, non è meraviglia. I suoi annali sono una divinizzazione di Roma come Stato e come Repubblica, sono la storia di un popolo, arrivato ad una potenza quasi sovrumana, servendo lo Stato come una divinità, immolando ogni altro bene, o diritto e aspirazione al suo bene. In tutto il passato, che egli era in grado di conoscere, il Machiavelli non poteva trovare un modello più alto, più completo, più grandioso di Stato, che trova in sè stesso il suo scopo e la sua perfezione. Ed il modello gli parve così sublime che egli volle centuplicarlo in un numero infinito di imitazioni spicciole.
Se in Livio questa subordinazione universale allo [104] Stato-Dio poteva essere giustificata dalla grandezza straordinaria di Roma e dal meraviglioso destino che l’aspettava, il Machiavelli ne fa la legge di tutti gli stati, grandi e piccoli, gloriosi ed oscuri. Ogni repubblichetta ed ogni principato doveva tentare di essere, quanto poteva, una piccola Roma, innamorata solo di se stessa ed aspirante alla propria divinizzazione se non in cospetto dell’universo e dei posteri, almeno nella piccola cerchia in cui doveva vivere e operare.
Senonchè, così facendo, il Machiavelli percorreva con un balzo formidabile quella che doveva essere la lenta evoluzione di tre secoli; e trascinava nel suo balzo anche Livio.
Senza dubbio, la concezione medioevale dello Stato e della storia che aveva avuto in S. Agostino il suo grande filosofo e che poneva in Dio il termine della perfezione dei singoli uomini come degli Stati, era al principio del secolo XVI molto indebolita. Se no, il Machiavelli sarebbe finito sul rogo.
A poco a poco i tempi si incamminavano di nuovo verso la concezione pagana dello Stato-Dio. Ma lentamente e non con la furia del Machiavelli, perchè le dottrine e le istituzioni medioevali, per quanto indebolite, erano abbastanza forti da resistere ancora ai più violenti attacchi dottrinali dei dialettici razionalisti.
D’altra parte, Tito Livio era lo storico della Repubblica; e con il Cinquecento incomincia dappertutto, ma in Italia particolarmente, la decadenza delle [105] repubbliche. Molte repubbliche cadono, e con essa si affievolisce anche l’ammirazione per lo storico delle Deche, il quale ebbe nel Nardi — un antico ammiratore e discepolo del Savonarola, ritirato a Venezia — l’ultimo traduttore.
A poco a poco Livio è considerato come un gonfio e retorico panegirista di una Repubblica immaginaria, scrittore pregevole per lo stile, ma di poco merito per la sostanza.
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Per queste ragioni una reazione non tardò a scoppiare contro il Machiavelli e contro Livio: una reazione a cui fu maestro e guida l’altro grande storico latino, Tacito, che da lui prese il nome di «tacitismo» e che fu uno dei movimenti intellettuali più importanti del secolo XVII[97].
Il Tacitismo fu l’infatuazione e la giustificazione classica della monarchia, che si veniva consolidando e rafforzando in Europa, a partire dal secolo XVI. A mano a mano che il medio evo tramonta, ogni pensiero, ogni teoria, ogni azione politica doveva essere legittimata dal consenso di uno scrittore classico. La monarchia non sfuggì a questo destino; volle avere anch’essa il suo maestro, tra i grandi della antichità, e scelse Tacito. Un’apparente somiglianza dei tempi fu la ragione di questa scelta. Non aveva [108] Tacito raccontato i primi travagli della monarchia Romana alle prese con le tradizioni secolari della repubblica aristocratica? Le monarchie, che nel secolo XVI e XVII, lottavano contro i residui delle tradizioni teocratiche, repubblicane e feudali del medio evo, credettero di ritrovarsi in quella storia, sebbene molte somiglianze fossero più apparenti che vere, e frequenti fossero le cose inconciliabili.
Nel 1542 Emilio Ferretti, dedicando un suo commento di Tacito ad un uomo di Stato, perchè ci trovasse norme di governo, scriveva: «Poterit Cornelii lectio nonnihil in isto concusso orbis motu, simillino eorum temporum, quae ab illo describuntur, adjuvare consilia tua».
E il Mureto — un altro grande umanista del Cinquecento — osserva: «Primum igitur considerandum est, republicas hodie perquam paucas esse, nullam esse promemodum gentem, quae non ab unius nutu atque arbitrio pendeat, uni pareat, ab uno regatur».
Anzi, il Mureto ammira tanto la politica di Tacito che non sente più neppure la differenza di molti umanisti per lo stile tacitiano, ed afferma che anche Tacito scrive bene.
Nella seconda metà del ’500 e prima del ’600 le traduzioni ed i commenti di Tacito si moltiplicano, e vengon raccolte, con cura religiosa, le massime sparse nei suoi libri. Si scrivono ad uso dei prìncipi dei «Taciti, con riflessioni politiche e storiche» cioè paralleli coi tempi moderni, consigli politici, vagabondaggi storici. Non solo in Italia, ma in Francia, [109] in Germania, in Olanda, i Tacitisti dilagano, si dividono in tendenze contrarie, distinguono, reagiscono magari, ma Tacito è sempre in bocca a tutti, e molti affermano che è il solo autore grande della antichità.
Così, per esempio, il marchese Virgilio Malvezzi dice che Tacito può essere molto utile in un’epoca di governi principeschi, come si studiava Tito Livio, quando c’erano le repubbliche. E Raffaele Dalla Torre, nel primo capitolo dell’Astrolabio di Stato, polemizza in un dialogo contro Famiano Strada, il quale affermava col suo traduttore, C. Papini, che Tacito attacca le frange al racconto, e si basa sul verosimile ma non sul vero, ha uno stile duro, rotto, troppo pieno di sentenze e di massime. Scipione Ammirato scrive i famosi «Discorsi sopra Tacito» che corrono il mondo, citati ovunque come un testo fondamentale. In Francia anche il Bodin scende in campo per difendere lo stile di Tacito. «Quis enim non videt dictio Taciti quam sit elegans, quam tersa et limata?». Giusto Lipsio scrive in vece che Tacito potrebbe gareggiare con tutti gli scrittori dell’antichità, se il suo latino fosse puro come quello di Livio e di Sallustio; ma poi si converte. E se in mezzo alla folla innumerevole degli entusiasti, tra cui non bisogna dimenticare Amelot de la Houssaye, c’è il piccolo gruppo di dissidenti, come il Boccalini, con che ardore sorgono a difendere lo scrittore antico i suoi molto più numerosi ammiratori! Teodoro Ryck definisce «sogni e chimere politiche» i giudizi su [110] Tacito del collega italiano. Il Rapin raccomanda a chi vuole fare lo storico «qu’il ne suppose point de faussetés pour justifier ses conjectures, et pour faire quadrer les choses au tour qu’il leur donne, comme Tacite qui jette du poison partout ou comme Paterculus qui repande des fleurs sur tout».
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Ma quale è la ragione profonda di questa ammirazione di Tacito, che è più forte anche dei pregiudizi letterari e stilistici a lui spesso avversi? Essa deve cercarsi in una specie di falsificazione di Tacito, per cui l’opera sua ha servito a dare la conferma e giustificazione classica della dottrina politica della Ragion di Stato, creata dalla monarchia e dalla Chiesa per attenuare la dottrina machiavellica dello Stato-Dio. Secondo questa teoria lo Stato non è una istituzione assolutamente umana e razionale, come volevano gli ammaestramenti del Machiavelli, ma è anche una istituzione umana, ha cioè dei fondamenti — non tutti — negli interessi e nei vizi degli uomini, e pure dovendo l’ossequio alla superiore autorità della religione, in certi casi precisi e delimitati che si fissano sull’autorità degli antichi scrittori e specialmente di Tacito, ha diritto di violare la legge morale per il bene pubblico. Questa è la Ragione di Stato.
Tale dottrina cerca, attenuandolo, di conciliare il [112] Machiavelli e tutti gli interessi, le ambizioni e le passioni che spingevano l’Europa verso lo stato razionale ed umano, con le istituzioni e le tradizioni del Medio Evo, che lo volevano strumento d’un ideale religioso. Essendo un’attenuazione del Machiavelli, deriva da lui e gli somiglia, nel tempo stesso che gli è avversa. Accade spesso di trovare nei tacitisti delle frasi che sono puro Machiavelli. Questa, per esempio, del Lipsio[98]: «Si urbe aut provincia statui meo per opportuna, quam nisi occupo alius faciet cum aeterno meu metu aut damno: non praeveniam? Illi volunt, quibus haec talia semper licita et proba, si cum successu». Gli uomini sono cattivi e pazzi, diceva il Machiavelli. Per governarli non basta essere leone, bisogna anche essere volpe. E il Lipsio «interquos enim vivimus? nempe argutos, malos: et qui ex fraude, fallaciis, mendaciis constare toti videntur (Cic. pro Rosc. Com.). Ipsi Principes, cum quibus nobis res, plerique in hac classe: et quidquid leonem praeferant; «Astutam vapido servant sub pectore vulpem» (Persius Sat.)... «Per frauden et dolum regna evertuntur notat philosophus (Arist. V. Pol): Tu servari per eadem nefas esse vis? Nec posse Principem interdum.
«Cum vulpe iunctum pariter vulpinarier»?[99].
E un po’ più in là nel capitolo «Quo modo et quatemus Fraudes admittendae» dà una definizione della ragion di Stato che parrebbe estratta dal Principe. [113] «Fraus universe mihi est, argutum consilium a virtute aut legibus devium, regis regnique bono»[100].
Eppure, mentre si scrivevano questi pensieri, il Machiavelli era bruciato in effige, messo all’indice, condannato alla riprovazione universale, esiliato da qualsiasi libro come autore, che si potesse citare. I tacitiani raramente lo nominano, anche quando lo confutano, designandolo con prudenti allusioni. Ipocrisia? Ingiustizia? Si bruciava l’opera di un uomo riprendendone sotto mano le teorie? No. La dottrina della Ragione di Stato alla quale Tacito doveva conferire l’autorità degli esempi antichi è elaborata nel cinque e nel seicento sotto l’occhio della Chiesa, ma pure avendo affinità con la dottrina machiavellica dello Stato-Dio, ne differisce sopratutto perchè tenta di risolvere la questione capitale dei limiti, entro cui è lecito allo Stato violare la legge morale per il bene pubblico.
Leggiamo, ad esempio, la pagina in cui Lipsio tratta della frode per ragione di Stato. Egli scrive: «ea triplex; Levis, media, magna. Illam appello quae haut longe a virtute abit malitiae rore leviter aspersa. In quo genere mihi est Diffidentia et Dissimulatio.
«Mediam quae ab eadem virtute flecit longius et ad vitii confinia venit. In qua pono Conciliationem et Deceptionem.
«Tertiam, quae non a virtute solum sed legibus etiam recedit, malitiae jam robustae et perfectae, [114] uti sunt Perfidia et Iniustitia. Illam suadeo, hanc tolero, istam damno»[101].
Quel grido che era sfuggito un momento alla coscienza del Machiavelli a proposito di Agatocle e che, poi, l’autore stesso aveva rinnegato, quel bisogno di un limite al di fuori del puro interesse che il Machiavelli aveva saputo trovare soltanto nel successo, è qui chiaramente sebbene forse un po’ sommariamente inciso. Lo Stato ha certe libertà, ma non tutte.
Posto così il problema, si capisce che, in autori più profondi del Lipsio, il Machiavelli, le sue dottrine, i tempi in cui aveva vissuto e che le avevano ispirate, apparissero come nefasti e quasi diabolici.
L’Italia era allora travagliata da un’anarchia di principi e da quell’esautoramento dei governi, per cui s’era incrostata sulla Penisola una muffa di tirannelli privi di scrupoli, che applicavano fino in fondo la teoria dell’Interesse proprio, senza che un limite morale o un interesse comune frenasse quel reciproco e continuo distruggersi. Siccome nessun principio di autorità li faceva legittimi, il Machiavelli osservava: i popoli sono cattivi, i principi birbanti; chi non bada come può a salvare la roba e la pelle, gli prendono la prima e gli fanno la seconda; se non l’ammazzo io, mi ammazza lui. È quindi consigliabile di cominciare per il primo. E diceva: «Un Principe, e massime un Principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose, per le quali gli uomini sono tenuti [115] buoni, essendo spesso necessitato per mantenere lo Stato operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione»; e diceva pure: «A un Principe non è necessario avere tutte le soprascritte qualità, ma è ben necessario parere d’averle... Deve, adunque, avere un Principe grande cura, che non gli esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità e paia, a vederlo ed udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione»[102].
Cosicchè l’interesse dello Stato, di cui era giudice il governo che lo rappresentava, finiva per giustificare ogni abuso.
La dottrina della Ragion di Stato, che si forma nel cinquecento e nel seicento, è — come dice uno dei suoi maestri — il Botero «notizia di mezzi atti a fondare, conservare, ampliare un dominio così fatto». Ma col Botero stesso, col Possevino, col Ribadeneira, la Controriforma affermava altresì che la Ragion di Stato è necessaria e utile solo quando è legittimata dalla Chiesa. Concessa a qualsiasi governo, in nome d’interessi particolari, senza la Chiesa, la Ragion di Stato è un principio pericolosissimo. Con questa limitazione essa diviene privilegio di pochi regnanti legittimi, e non di tutti i governi per contrari interessi; cosicchè è sottomessa a un principio al di sopra e al di fuori dell’interesse immediato e individuale; e gli Stati sono in certo modo regolati [116] nelle loro opere da una legge comune, di cui la Chiesa è depositaria, e non più soltanto dal proprio comodo. Insomma, la Ragion di Stato, pur allargando la sfera in cui l’interesse dello Stato può operare, vuol sempre circoscriverla con precetti e regole di natura morale e di carattere religioso. Con questa dottrina la monarchia assoluta cercava di mettere d’accordo le necessità del suo sviluppo, con le tradizioni religiose e morali ancora forti nella società del sedicesimo e diciannovesimo secolo. Ma come e perchè essa ha ricorso, per essere aiutata in questa opera, tra gli scrittori antichi, sopratutto a Tacito?
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Noi abbiamo visto come Tacito reagisca, nella storiografia romana, per primo contro quella concezione antica che fa dell’individuo uno strumento dello Stato, a cui deve sacrificarsi; e per primo cerchi nella storia non gli stati o i popoli, ma gli uomini; e si sforzi di studiare psicologicamente l’anima dei suoi personaggi. L’uomo coi suoi vizi e con le sue virtù, studiati e giudicati quando nascono dentro il suo cuore, quando si manifestano nei penetrali della sua casa o dinanzi alle folle, verso la schiava o verso il senato, in ogni attimo di vita, questo è il suo protagonista.
La sua storia è un drammatico intreccio e un cozzo di uomini ben diversificati e violentemente distinti. Lo Stato è per lui uno di questi uomini, che il caso ha posto sul trono: non più. I suoi meriti o le sue colpe verso il servo hanno per Tacito lo stesso valore che i suoi meriti o le sue colpe verso lo Stato. In lui, [118] come si disse, splende già quell’individualismo cristiano, che volle giudicare l’uomo in quanto è uomo e non in quanto è parte dello Stato, e reagì contro la tradizione latina che sacrificava i romani a Roma.
Fra tutti gli scrittori antichi, Tacito appare come il meno atto a giustificare una dottrina come quella della ragion di Stato, che, sia pure entro limiti precisi, sacrifica pur sempre l’individuo allo Stato e giustifica la violazione della morale per ragioni di pubblico interesse. Tacito è uno storico moralista, che perseguita e denuncia i delitti e i vizi dei grandi, senza ammettere mai, senza neppur supporre che si possa ammettere l’interesse pubblico come scusa o giustificazione. Per fondare su solenni esempi antichi una dottrina della Ragion di Stato, lo storico che poteva e doveva servire era proprio Tito Livio. E infatti il Machiavelli, pensatore profondo, aveva fatto testo di Livio più che di Tacito, benchè molti sostengano il contrario, per creare quella sua dottrina dello Stato-Dio, che era un po’ l’estrema esagerazione anticipata della Ragione di Stato. Come si spiega allora questo scambio singolare?
Tito Livio era troppo repubblicano per servir di maestro ai sovrani ed ai ministri, in un’età dominata dall’istituto monarchico. Tacito aveva il vantaggio di essere lo storico di Roma in cui più che negli altri i personaggi rassomigliavano ai sovrani e ministri secenteschi delle Corti europee. La somiglianza era molto vaga, perchè la casa di Tiberio e di Claudio non aveva niente a che fare con una corte; ma era [119] tuttavia sempre maggiore di quella che poteva correre tra l’Europa del secolo XVII e la Roma della seconda guerra punica.
Nel «Discours critique» che precede la traduzione di Tacito fatta da Amelot de la Houssaye, è riassunto il commento di Filippo Cavriana «Sopra i cinque libri di Cornelio Tacito». È citato tra l’altro, questo passo: «Comme Tacite découvre tout ce que les Princes de son temps faisoient, les vertus et les vices de nos princes donnent réciproquement l’intelligence de tout ce que dit Tacite, de sorte que les mêmes endroits que l’on trouve obscurs la première fois, sont bien entendus la seconde ou la troisième. Au reste les gens qui auront fréquenté la cour, ou les armées, pourront expliquer fidelement cet auteur sans le secour d’aucun interprète»[103].
Tacito è dunque una specie di guida delle corti, l’autore che si può intendere solo praticandole quotidianamente. Diventato l’autore familiare dei sovrani e dei cortigiani, Tacito è stato mutato in un grande maestro della Ragion di Stato, grazie a una persistente falsificazione, per cui le acerbe sentenze che in Tacito flagellano il vizio, sono interpretate e commentate come consigli di un’arcana e profonda saggezza, indicando al sovrano il termine a cui la Ragione di Stato può condurlo.
Approfittando della serietà e della compostezza che Tacito conserva anche nei momenti in cui si sdegna, [120] non avvertendo o fingendo di non avvertire la corrodente ironia che talvolta brucia più di un’invettiva — l’ironia si può anche prendere sul serio — il seicento interpretò con una esegesi paziente quei passi in cui il corruccio di Tacito, per rivoltare i posteri e spargere sui suoi personaggi la cenere dell’infamia, aveva condensato amare, torbide e cieche accuse, come aforismi e precetti un po’ arcani della oscura dottrina della Ragion di Stato.
L’esempio più singolare e istruttivo di questa falsificazione sistematica è la metamorfosi che il Tiberio di Tacito subisce nella mente dei suoi maggiori ammiratori del cinque e seicento. Tacito vede in Tiberio una specie di mostro, di cui egli vuol dipingere l’aspetto fosco, perchè la posterità ne provi orrore e lo odî in eterno. Il suo ritratto arcigno e irreale come un simbolo del male e della perfidia, può star piuttosto nel catalogo delle creazioni romantiche che nella lista dei personaggi storici, vissuti per davvero. Ad ogni modo la pittura, che gli attribuisce delitti e vizî immaginari, se è falsa, è potente, e i tacitisti del cinquecento e del seicento trovando, nel loro autore, un principe in cui la dissimulazione, la segretezza, la perfidia, l’ipocrisia, la decisione, si uniscono in una sola fusione; un Principe, che si impadronisce con l’astuzia del governo e fonda una dinastia, cominciando la sua carriera con un fratricidio e due avvelenamenti; un principe che sacrifica il nemico alla propria vendetta, il potente alla propria diffidenza, il sicario alla propria prudenza; un Principe [121] insomma che essi, se avessero letto Tacito come era, avrebbero dovuto tenere per uno dei peggiori uomini, che mai abbiano tormentato i loro simili, invece di inorridire se ne rallegrano e lo adottano appunto come un modello, un maestro di quella oscura Ragion di Stato, che preoccupava tutte le menti. A leggere Tacito gli uomini del tardo Rinascimento hanno gridato: Ma questo è il Valentino, è lo Sforza, è uno dei nostri contemporanei condottieri! Tiberio ha ucciso il cognato venendo al potere? Non poteva fare altrimenti! Tacito sa benissimo che i principi nuovi si imbattono sempre in difficoltà: Ragion di Stato. Ha ucciso Germanico? Tacito non ignorava il pericolo di un generale vittorioso e popolare: Ragion di Stato. Ha lasciato perir Pisone? Tutti sanno che un sicario, se non si elimina presto e segretamente, può essere fonte di gravi impicci: Ragion di Stato. E così mentre Tacito infama Tiberio per delitti che non ha mai commessi, trasformando persino in avvelenamenti le morti naturali, per quelli stessi delitti immaginari gli ammiratori di Tacito ne fanno un modello di saggezza!
Perchè, infatti, nessuno leggeva Svetonio, che era pure storico dell’Impero? Il Mureto lo spiega con circonlocuzioni complicate, sostenendo che Tacito, aveva sì, messo a nudo le cattive azioni dei principi, ma aveva coscienza della loro necessità politica, mentre Svetonio, limitandosi a raccontare aneddoti un po’ canzonatori, che non sopportavano trasfigurazioni, [122] dissolveva, col suo indifferente chiacchiericcio, il mito imperiale più che con delle imprecazioni e delle invettive. Ma i tacitisti, che non volevano la dissoluzione ma il rinsaldamento dell’Impero si rivolsero all’altro storico, abusando del suo stile un po’ misterioso, per inventare il Tacito campione della Ragion di Stato.
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Tanto Livio che Tacito furono dunque interpretati piuttosto bizzarramente dall’umanesimo. Ma, sia pure attraverso alterazioni, hanno aiutato il pensiero europeo a ritrovare il concetto dello Stato umano, che ha una vita e un fine suo, in opposizione all’idea dello Stato teologico, servo di Dio, strumento di un principio religioso, che dominò nel medio evo.
Questo concetto dello Stato umano, affermato con anticipazione profeticamente brutale da Machiavelli che si serve di Livio come maestro, è ripreso e adottato per mezzo di grandi limitazioni e tagli e rattoppi e attenuazioni, nel seicento, sotto l’influenza di Tacito con la teoria della Ragion di Stato, finchè si inserisce definitivamente nello sviluppo storico della nostra civiltà. Una volta innestato questo principio si allargò e fiorì sempre più nel seicento e nel settecento, prima sottomesso al principio teologico che era padrone da tanti secoli, poi a poco a poco alzando la testa, e assumendo maggior importanza, e finalmente, con la Rivoluzione Francese, soverchiando il principio teologico. La Rivoluzione Francese e l’Impero, che amavano le grandi apoteosi, rinnovarono [124] l’antica venerazione per l’affrescatore delle prime glorie di Roma. E le trombe romane squillarono ancora dinnanzi al mondo, per celebrare il trionfo dello Stato degli uomini!
Senonchè dallo Stato umano, che vinse lo Stato teologico tra la fine del Settecento e il principio dell’Ottocento, sta svolgendosi ora lo Stato satanico; lo Stato nemico di Dio e degli uomini, della giustizia e dell’onore, della pace e dell’ordine, della verità e della legalità; lo Stato criminale, predatore, sanguinario, corruttore, neroniano, cinico, sofista — e sfrontatamente vano della propria ribalderia, come di una forza gloriosa. Il melanconico e solitario filosofo dell’Albergaccio l’aveva intravisto, in quella sua smania di «andar dietro alla verità effettuale della cosa»; era stato lì per lì tra abbagliato e inorridito; l’aveva guardato, aveva chiuso gli occhi, aveva guardato di nuovo. La perversione dei tempi magnifica oggi questa sua, tra inorridita e ammirante, intuizione dello Stato satanico, come una mirabile anticipazione di un genio profetico: oltraggio indegno alla tormentata e nobile figura di quel grande ma ingenuo pensatore che, disgustato dai suoi tempi, in qualche momento di esasperazione, aveva dimenticato questo principio elementare di ogni consenso civile: che più forte è la tentazione e maggiore la facilità di violare una legge morale, più risolutamente è necessario affermare e sostenere l’obbligo universale di osservarla: se no «la verità effettuale della cosa» diventa il vestibolo della più selvaggia anarchia.
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Dopo aver visto come i Romani scrivevano la storia, e con quali occhi e con quale animo i secoli hanno letto le loro storie, scampate al diluvio barbarico, non sarà senza interesse studiare come si intenda la storia da certe chiesuole intellettuali moderne, a cui non spiacerebbe di potersi vantare maestre di una nuova arte, in confronto al passato. Un’occhiata alla «Teoria e storia della Storiografia» di B. Croce basterà per mostrarci i bei progressi che quest’arte, così cara agli antichi, ha fatto nei secoli del vapore e dell’elettrico!
«Ogni vera storia è storia contemporanea»: con questo paradosso il Croce apre la sua trattazione. E lo giustifica, argomentando lungamente. «Anche la storia già formata, — egli scrive — che si dice o si vorrebbe dire storia non contemporanea o passata, [128] se è davvero storia, se cioè ha un senso e non suona come discorso vuoto, è contemporanea e non differisce punto dall’altra (la contemporanea). Come dell’altra, condizione di essa è che il fatto del quale si tesse la storia vibri nell’animo dello storico o (per adoperar una parola d’uso nel mestiere storico) se ne abbiano dinnanzi, intelligibili, i documenti... E se la storia contemporanea balza direttamente dalla vita, anche direttamente dalla vita sorge quella che si vuol chiamare non contemporanea, perchè è evidente che solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato» (pag. 4).
Il pensiero è abbastanza chiaro, anche se espresso in forma involuta e imprecisa. Non basta narrare un fatto per dirsi storici; bisogna farlo presente, come se noi ne fossimo spettatori ed attori; se no si ha «vuota narrazione... e perciò priva di verità» (pagina 9). «La storia è un presente; la storia, resa vuota narrazione, è un passato» (pag. 9).
Ciò detto il Croce procede a distinguere, come già aveva fatto Cicerone, la cronaca dalla storia. Ma non oppone l’annalistica alla storia oratoria, venuta dalla Grecia. I moderni son persuasi che anche in questo ordine di scritture ne sanno più degli antichi. «La storia — egli scrive — è la storia viva, la cronaca la storia morta; la storia, la storia contemporanea, la cronaca, la storia passata» (pag. 10). Indi scopre che le fonti da cui scaturisce la conoscenza storica sono due: la vita e il pensiero che la risuscita e la eterna. «Il documento e la critica, la vita e il [129] pensiero sono le vere fonti della storia, cioè i due elementi della sintesi storica...» (pag. 14).
Accettiamo ad occhi chiusi queste dottrine, seguiamo docilmente il suo autore, e vediamo dove si va a finire. Dopo aver definito quale è la natura e quali sono gli elementi o le fonti della storia, il Croce procede a distinguere da questa che è la vera storia, le storie spurie o «pseudo-storie», come egli le chiama, alla greca. Tra queste pseudo-storie egli annovera la storia poetica, che definisce così:
«Esempi di tale storia forniscono in copia le biografie affettuose che si tessono di persone care e venerate; le storie patriottiche... la storia universale, rischiarata dagli ideali dell’idealismo e dell’umanitarismo, e quella narrata da un socialista che ritragga le gesta... del capitalista o l’altra di un antisemita, che mostri dappertutto, nelle sventure o brutture umane, il giudeo... Nè la storia poetica si esaurisce in coteste tonalità fondamentali e generiche dell’amore e dell’odio (dell’odio che è amore e dell’amore che è odio!) ma passa tra tutte le più intricate forme e le più fini gradazioni del sentimento; e così si ottengono storie poetiche, che sono amorose, malinconiche, nostalgiche, pessimistiche, rassegnate, fidenti, allegre, e quante altre si possano immaginare. Erodoto canta le romanze (!) dell’invidia degli Dei, Livio l’epos della romana virtù; Tacito compone tragedie dell’orrendo, drammi elisabettiani in scultoria prosa latina; e per venire ai moderni e modernissimi Droysen dà forma alla sua aspirazione lirica verso lo [130] Stato forte e accentratore col narrare la storia della Macedonia, della Prussia e dell’Ellade; e Grote a quella verso gli statuti della democrazia simboleggiata in Atene; e Mommsen all’altra verso l’impero, simboleggiata in Cesare; e Balbo effonde il suo ardore per l’indipendenza italiana, adoperando a tal fine tutti i ricordi delle pugne italiche, a cominciare nientemeno da quelle degli Itali e Etruschi contro i Pelasgi; e Thierry celebra la borghesia raccontando la storia del terzo stato» (pagg. 26 e 27).
Che Erodoto, Tito Livio, Tacito, Droysen, Grote, Mommsen, Balbo e Thierry non sieno storici ma falsi storici e poeti, è notizia che giungerà alquanto inaspettata a molti lettori. Se questi otto valentuomini, i quali pure godono di una certa rinomanza nel gregge di Clio, sono dei falsi storici, vorrebbe il Croce dirci il nome e cognome di uno storico vero? Ma la sorpresa cresce quando il Croce cerca di distinguere la storia falsa dalla vera, o, come egli dice, la storia poetica dalla storiografia. La storia poetica si esplicherebbe «nel surrogare al mancante interesse del pensiero l’interesse del sentimento» (pag. 26); mentre invece «il valore che regge la storiografia è il valore del pensiero. Ma appunto per questa ragione il principio determinante di essa non può essere il valore che si chiama di sentimento e che è vita e non pensiero; e quando questa vita si esprime e rappresenta non ancora domata dal pensiero, è poesia e non storia» (pag. 27).
Il principio, o la fonte, della storiografia o vera [131] storia sarebbe dunque il pensiero e non la vita, la quale è invece il principio della poesia. Ma a carte 14 il Croce aveva detto proprio l’opposto. Ricordate? «Il documento e la critica, la vita e il pensiero sono le vere fonti della storia». La vita, che a pag. 14 è fonte della storia, a carte 27 diventa fonte della poesia, e alcunchè di opposto e quasi di ribelle al pensiero, poichè il pensiero la deve domare. Domare è una di quelle parole equivoche, di cui la filosofia crociana abbonda con sua molta lode in un’epoca adorante tutte le confusioni; ma per quanto equivoca non può dubitarsi che implichi lo sforzo teso a vincere una resistenza. Difatti il Croce aggiunge più oltre: «per convertire la biografia poetica in biografia veramente storica bisogna reprimere... i nostri amori, le nostre lagrime, e i nostri sdegni...; e il medesimo deve farsi per la storia nazionale e per quella dell’umanità». Mentre nelle prime pagine la storia è il pensiero che risuscita la vita («la storia morta rivive» è detto a pag. 15), più innanzi la storia è il pensiero che combatte, che doma, che mutila la vita, recidendo da essa il sentimento.
Sin dalle prime pagine del volume si intravede che il Croce ha della storia, come di molte altre cose, due concezioni contradditorie; o forse ha una prima concezione che, strada facendo, si muta nella opposta, illudendosi di esser sempre la medesima. Da principio egli concepisce la storia come un «eterno presente» ossia come la vivificazione di quello che fu, quale fu visto e sentito dai contemporanei. Poi a poco [132] a poco si stacca da questa concezione sinchè, senza accorgersene, la nega interamente, cercando di dimostrare che storia e filosofia sono una cosa medesima, ossia la dottrina in azione del progresso, inteso non «come passaggio dal male al bene, quasi da uno stato all’altro, ma come passaggio dal bene al meglio, in cui il male è il bene stesso, visto alla luce del meglio» (pag. 23).
Confronti il lettore il primo e il quinto capitolo; e subito si accorgerà che questo nega quello, illudendosi di svolgerlo. «La coscienza storica, in quanto tale, è coscienza logica e non pratica, e anzi fa suo proprio oggetto l’altra: la storia, che fu già vissuta, è ora in lei pensata, e nel pensiero non hanno più luogo le antitesi, che si fronteggiavano nella volontà e nel sentimento. Per essa non ci sono fatti buoni e fatti cattivi, ma fatti sempre buoni quando sieno intesi nel loro intimo e nella loro concretezza; non ci sono partiti avversi, ma quel partito più ampio che abbraccia gli avversi e che per avventura è appunto la considerazione storica... La storia non è mai giustiziera ma sempre giustificatrice» (pagg. 76 e 77).
E ancora: «il vizio della storia negativa proviene dal separare e solidificare e contrapporre le antitesi dialettiche del bene e del male... Tutti i fatti e le epoche sono a lor modo produttivi; non solo nessuno di essi è al lume della storia condannabile, ma tutti sono laudabili e venerabili» (pag. 78).
E sia pure; ma addio, allora, contemporaneità della storia! La storia contemporanea consiste appunto [133] nel «solidificare e contrapporre le antitesi dialettiche del bene e del male». Il presente è proprio un momento del tempo, in cui un certo numero di antitesi si fronteggiano nella volontà e nel sentimento; e se nella storia, scritta dopo qualche secolo, si può trovare «quel partito più ampio che abbraccia diversi partiti», chi può esser così ingenuo da cercar questo partito fra i contemporanei, che vivono appunto per odiarsi, combattersi e sterminarsi? Intorno a che cosa hanno versato tanti fiumi di sangue gli uomini se non a quelle che il Croce chiama «antitesi dialettiche del bene e del male, solidificate»; e che la storia dovrebbe per l’appunto sciogliere? Se gli uomini fossero persuasi che tutti hanno ragione e tutti meritano almeno una menzione onorevole, se non una medaglia di bronzo nel concorso della storia, si sarebbero forse patrizi e plebei, ricchi e poveri, eretici e ortodossi, cristiani e mussulmani, protestanti e cattolici, aristocratici e democratici, scannati in tanti secoli con tanto furore? E che cosa resterebbe di tutte le «storie contemporanee» che si sono seguite?
Una delle due: o la storia è sempre storia contemporanea e allora deve «separare, contrapporre e solidificare le antitesi dialettiche del bene e del male» [134] perchè ogni presente non è che una di queste antitesi in azione. O deve giustificare tutto e allora non può essere storia contemporanea; anzi la storia contemporanea deve considerarsi come pseudo storia o poesia. Impigliato in questa contraddizione, da cui non riesce a districarsi, il pensiero del Croce si lascia sospingere dalla sua stessa confusione a conclusioni così paradossali e strane, da essere quasi ridicole. Questa, ad esempio: che «la storia non è mai storia della morte sibbene storia della vita»; che «sono da ritenere false... tutte le storie che narrano la morte e non la vita dei popoli, degli stati, delle istituzioni, dei costumi, e si contristano, e si angosciano e lamentano che quel che fu non è più» (pagine 79 e 80).
Questa pagina confonde manifestamente il narrare le rovine e il disperarsi per esse. Se un moderno scrivendo la storia dell’impero romano si stracciasse, arrivando ai bassi secoli, i capelli, e ululasse inferocito ai barbari e ai cristiani, noi potremmo dirgli di risparmiare il suo tempo e il suo dolore, poichè le sue furie sono vane o ad ogni modo son cosa sua, che non ci tocca, se pure non ci infastidisce. Ma non per questo è men vero che l’impero romano, fiorente nel primo e nel secondo secolo, è stato dal terzo al quinto secolo a poco a poco distrutto dal di fuori e dal di dentro; e che o lagrimando o ad occhi asciutti uno scrittore può narrare la storia di questa distruzione: come, quando, e per opera di chi si compiè. Dir che la rovina dell’impero romano è una storia falsa, perchè [135] sulle rovine dell’impero sorsero nuovi stati e nuovi popoli e nuove civiltà, sarebbe come dire che l’inquilino di quella tal casa, che oggi hanno portato al cimitero, non è morto, perchè domani un altro inquilino entrerà nella casa. Nuovi stati sorsero sulle rovine dell’impero romano, perchè l’impero era stato distrutto; e la sua distruzione fu effetto di un lungo seguito di azioni che la storia può narrare, come può narrare il lungo seguito delle azioni che lo crearono.
Andare a caccia di contraddizioni nei libri del Croce è come andar a caccia di farfalle in primavera. Ma in questo libro si trovano contraddizioni anche più strane che negli altri libri, forse perchè egli non è mai riuscito a distinguere bene i due elementi della storia che sono il pensiero e il sentimento; ed ora li ha confusi immedesimandoli, ora li ha opposti l’uno all’altro arbitrariamente.
«Condizione dello storico è che il fatto vibri nell’animo dello storico; o (per adoperare le parole d’uso nel mestiere storico) se ne abbiano intelligibili i documenti» — ha scritto, come vedemmo, a carte 4. Sembrerebbe dunque che la storia ritornando a vibrare nell’animo, diventi intelligibile. Non c’è storico un po’ esperto, il quale ignori che spesso accade proprio l’opposto: accade che per capire un avvenimento, [136] ossia per distinguere chiaramente i motivi veri che spinsero i personaggi all’azione e i veri effetti che l’azione generò, è qualche volta necessario, più spesso utile liberarsi dalle passioni contemporanee, ossia mettersi in uno stato di freddezza, per cui l’evento non vibrando più nell’animo dello storico, questi possa osservarlo da tutte le parti, anche da quelle che gli attori appassionati non videro e non potevano vedere. Per citare un solo esempio: accade spesso nelle grandi lotte umane (guerre, rivoluzioni, ecc.) che la parte la quale riuscì vittoriosa, si fosse per lungo tempo ingannata sulle forze dell’avversario, credendole molto più grandi che non fossero. Uno storico, il quale voglia capire ciò che davvero è accaduto, deve rendersi conto di questa illusione; ma dal momento in cui ha scoperta l’illusione l’avvenimento non può vibrare più nell’animo dello storico come vibrò nell’animo degli autori. La passione, che generò l’azione, diventando oggetto di fredda analisi, lo storico deve distaccarsene invece di confondersi con essa.
Dopo aver immedesimato sentimento e pensiero, come se nella storia il sentire equivalesse a comprendere, con singolare contraddizione, in un altro punto, il Croce vuol bandire addirittura il sentimento, come un falsario sistematico, dalla storia, e come se il sentire un avvenimento volesse dir sempre fraintenderlo. «L’alterazione — egli scrive — continua e intrinseca a quella storiografia (la poetica) consiste nello scegliere e connettere i particolari, che si traggono [137] dalle fonti, secondo un motivo non di pensiero ma di sentimento; il che se ben si consideri, è sostanzialmente un inventarli» (pagg. 28 e 29). E perchè? Da una esagerazione si casca in una esagerazione opposta. Qui il Croce suppone che il sentimento falsi sempre la verità e che il pensiero invece non la falsi mai; il che è un errore di psicologia manifesto. Il sentimento falsa la verità quando è pervertito, viziato, in rivolta contro le leggi della natura e della morale; quando odia quel che è bene e ama quel che è male. Ma quando ama il bene, o odia il male è spesso più pronto e più profondo nello scoprire il vero del pensiero. Quante volte il cuore precorre la mente nel divinare quello che la mente scoprirà dopo, faticosamente! Di quanti sentimenti altrui ci è difficile renderci conto se non li abbiamo provati, e quante volte l’essere appassionato è condizione per capire l’altrui passione! Viceversa, anche il pensiero spesso s’inganna, o adultera la verità per errore o per malizia. Un cattolico, un protestante, scrivendo la storia della Riforma, con la passione altereranno sfigurandolo coll’odio il nemico, ma ciascuno sarà nel vero nel lodare le cose buone della Chiesa o della Riforma; e l’uno e l’altro capiranno non solo lo stato d’animo dei propri ma anche quello degli avversari, meglio e più facilmente di un miscredente, per il quale tutte quelle dispute teologiche non siano che un fastidioso perditempo.
E del resto se la passione fosse condannata a restar fuori della verità sempre e in eterno, come potremmo [138] noi scriver la storia? Chi conosce un po’ quel che il Croce chiama il «mestiere storico» (l’arte, io direi) — sa che quasi tutti i documenti sono più o meno inquinati dalla passione.
Anche questa dottrina della storia è un guazzabuglio di contraddizioni, in mezzo alle quali il pensiero del Croce cerca di reggersi e di camminare diritto; ma non può, chè non sa dove va, barcolla e ad ogni passo incespica. La Storia è problema nel tempo stesso più semplice e più complesso che il Croce non pensi.
La Storia è l’applicazione letteraria di una facoltà dello spirito umano, poco o punto studiata sinora dagli psicologi e dai filosofi: l’intuizione. Che cosa è l’intuizione? È quella facoltà per cui noi indoviniamo gli stati d’animo dei nostri simili; i loro pensieri, i loro sentimenti, le loro inclinazioni, la loro indole, i loro propositi, le loro virtù, i loro vizi. Non c’è facoltà più comune e più preziosa di questa. La vita di tutti gli uomini, umili e grandi, dotti e ignoranti, ricchi e poveri non è, dalla mattina alla sera, che un esercizio ininterrotto di intuizione psicologica. Noi abbiamo sempre bisogno di indovinare quel che pensa, vuole, macchina, in quali disposizioni di [139] animo si trova un certo numero dei nostri simili senza che essi ce lo dicano — sia perchè non vogliono, sia perchè non sanno e non possono.
La natura di questa facoltà è molto misteriosa: ragione per cui forse gli psicologi non l’hanno punto studiata fino ad ora. È una facoltà mista, a cui partecipa il raziocinio, la memoria, l’associazione, l’immaginazione; e per la quale noi quasi entriamo a un tratto negli altri indovinando quel che avviene nella loro coscienza. È una facoltà innata, perchè tutti ne sono provvisti, come di volontà e d’intelligenza; ma come di volontà e di intelligenza chi più e chi meno. L’esercizio e l’esperienza la raffinano e la rafforzano. Quel che si dice di solito «imparare a conoscere gli uomini e il mondo» non è che l’esercizio di questa facoltà. Il nascere provvisti di intuizione pronta, agile, sicura, è una fortuna, perchè questa è tra le armi che più servono per riuscire.
La Storia non è che una applicazione letteraria, nobile, profonda di questa facoltà comunissima, di cui tutti gli spiriti son provvisti, perchè è uno dei tanti cosidetti «organi di relazione». Chi scrive una storia, grande o piccola, non fa che intuire ed esporre degli «stati di coscienza» singoli o gregari. I [140] piani, i disegni, le ambizioni, gli odî, gli amori, le illusioni, gli atti e i fatti dei grandi personaggi della storia che altro sono se non idee, sentimenti, voleri, propositi, ossia «stati di coscienza»? E che cosa sono, se non stati di coscienza gregari, le inclinazioni dello spirito pubblico, le dottrine e le ambizioni, gli odî e le ammirazioni dei partiti, le tradizioni e gli interessi delle classi sociali, le aspirazioni, gli orgogli, i puntigli, gli interessi dei corpi pubblici — parlamento, magistratura, burocrazia? Che altro è una religione, se non una cristallizzazione di stati di coscienza, spesso complicatissimi ed oscurissimi?
La storia insomma, come opera d’arte e di pensiero, è una psicologia in azione, il cinematografo interno — se posso adoperare l’immagine — di singoli uomini e di gruppi: sovrani, capi di religione, generali, diplomatici, demagoghi, partiti, classi, amministrazioni, sette e via dicendo. Il Croce si è invischiato in tante difficoltà perchè non ha capito questa prima ed elementare verità. Senonchè se lo strumento con cui noi risuscitiamo questi stati di coscienza è quella stessa intuizione, di cui ci serviamo ogni giorno per indovinare ciò che i nostri simili pensano e vogliono, il nostro compito è molto più difficile, quando si tratta di scrivere storie. Gli stati di coscienza da cui nascono i grandi avvenimenti storici sono complessi, numerosi, spesso contradditori, spesso legati tra di loro o inestricabilmente aggrovigliati gli uni negli altri, e in continuo movimento. Chi ci vive in mezzo, se non è proprio dotato di straordinaria intelligenza, [141] non vede che frammenti; onde è così difficile scrivere la «storia contemporanea» a cui il Croce ha voluto per un momento ridurre tutta la storia, ma inutilmente, perchè dire che ogni storia è «storia contemporanea» è come dire che l’uomo non capirà mai nulla di ciò che succede. Quando invece la storia è passata nasce un’altra difficoltà: gli «stati di coscienza» sono spariti insieme con gli uomini, e di essi non restano più che segni frammentari e per se stessi morti: i documenti.
I documenti sono il grande rompicapo di tutti i teorici della storia, che non riescono a mettersi d’accordo intorno alla loro natura. Ma la oscura questione si chiarisce semplificandosi, per chi abbia capito che la storia è intuizione di stati di coscienza, singoli o gregari, di uomini e di generazioni che furono. Fuorchè nei casi in cui il documento è la voluta espressione degli «stati d’animo» di qualche personaggio storico — tali sono, per esempio, le memorie degli uomini politici, qualche volta le loro lettere o confidenze — il documento è quasi sempre il rottame, salvatosi a caso, di un antico mezzo d’azione che per i posteri diventa il segno di uno o più stati di coscienza — i propositi, le illusioni, le speranze dell’uomo e del gruppo che se ne serviva. La corrispondenza diplomatica di un ministro, gli ordini e i bollettini di un generale, i discorsi di un capo di parte sono stati composti non perchè i posteri sapessero poi quello che è successo, ma per ottenere quello o quell’altro intento, che allora premeva a quel tale o [142] tal’altro uomo d’azione. Ma allo storico servono come mezzo per conoscere ciò che l’uomo d’azione, il suo governo o il suo partito, voleva in quel momento; per capire la visione delle cose che lo guidava; i motivi che lo spinsero a quella o a quell’altra azione.
È facile ora capire la strana e contradditoria natura del documento storico, intorno alla quale tanto disputano i teorici della storia, e che i veri storici capiscono a fondo senza aver bisogno di discuterla. Tre sono le contraddizioni insite nella natura del documento storico.
a) La sopravvivenza del documento è accidentale perchè dei mezzi d’azione si conservano spesso, per servir come segni degli stati d’animo, quelli che meno servono a capire «gli stati d’animo» essenziali dai quali l’avvenimento è nato; lo storico deve invece indovinare questi stati d’animo essenziali.
b) il documento, appunto perchè è il rottame di un mezzo d’azione che non serve più, è una cosa morta: lo storico deve servirsene per intuire uno stato d’animo, che è una cosa viva;
c) il documento è sempre frammentario; da questo documento frammentario lo storico deve cercare di ricavare una intuizione di stati di coscienza quanto più gli è possibile totalitaria, indovinando quello che nel documento non c’è e non ci può essere, perchè il documento è per sua natura un frammento.
Chi tenga presente queste tre contraddizioni insite nel documento, intenderà quanto sia difficile lo scriver la storia e come ai maestri che salgono in cattedra [143] a insegnare la teoria si addica una certa modestia nel dare consigli a coloro, che invece di dir come si deve scriver la storia, la scrivono. Intenderà pure che il cercare una conclusione certa, appoggiata su documenti inoppugnabili e definitivi, i quali si possano interpretare in una sola maniera, è quasi sempre la pretesa di una presuntuosa leggerezza. Intenderà come accada che ogni storia si rinnovi quando lo storico muta. Intenderà che un mezzo sicuro e definitivo di provare vera e giusta la interpretazione di un documento, ossia di verificare l’intuizione degli «stati di coscienza» che da quel documento piglia le mosse non c’è. Intenderà infine che la storia si scrive per molti motivi diversi. Si scrive per ricordare il passato. Si scrive per soddisfare la curiosità. Si scrive per divertirsi e per divertire, su per giù come si scrivono romanzi. Si scrive per glorificare o per infamare una dinastia, un partito, una religione, un popolo, una nazione, un regime politico, una classe sociale. Si scrive per affilare le armi ad una lotta politica, sociale, o ad un conflitto armato tra stati. Si scrive per indagare il mistero dei destini umani, il perchè delle vittorie e delle sconfitte, della grandezza e della decadenza, delle prosperità e dei rovesci. Il Croce dice che questo perchè è introvabile. Non importa: a quanti perchè senza risposta l’uomo cerca risposta!
Questa molteplicità di scopi genera molte famiglie di storie e di storici, ciascuna delle quali esercita la sua intuizione in modo diverso. Lo scopo foggia per [144] reazione lo strumento. Alcune tra le distinzioni che il Croce, brancicando nel buio, tenta di stabilire tra storia e storia nascono da questi diversi scopi. Non ci sono storie positive e storie negative, storie vere e storie false, storie poetiche e storie filosofiche. La storia è sempre storia — cioè intuizione di «stati di coscienza»: la scriva Tito Livio, o Tacito, o Svetonio, o il Machiavelli, o il Gibbon, o il Mommsen, o quel tale misterioso storico — chi sarà mai? — nel quale il Croce ravvisa il vero storico. Ma muta secondo che è scritta per uno scopo o per un altro. Così quelle che il Croce chiama storie poetiche o pseudo-storie sono storie dominate da una forte passione, o politica o religiosa o morale, la quale in certi momenti può falsare, in altri acuire nello storico la visione della verità. Tacito ha atrocemente calunniato Tiberio, che fu un grande imperatore, e si sacrificò per salvare lo Stato; ma se la sua intuizione ha errato nel raffigurare questo personaggio; e se per ciò la sua storia è in questo punto difettosa, è pur sempre storia composta con gli eterni processi che ogni storico ha adoperato, adopera ed adopererà, perchè non ce ne sono altri. La differenza da storico a storico sta solo nella maestria con cui ciascuno li adopera, e nello scopo che si propone.
[145]
Alla luce di queste considerazioni molte questioni sul metodo storico, che da quando la storia si è messa in mente di essere una scienza, si sono tanto arruffate, si semplificano assai. Non ho tempo qui di dimostrarlo. Ma non posso tacere una conclusione che è la più importante, perchè vale a sbugiardare insieme e di colpo tutte le false autorità che pullulano oggi negli studi storici dalla universale confusione e ignoranza. La conclusione è questa: che una opera di storia può essere giudicata da un critico soltanto nella sua forma letteraria, come è stata composta e scritta; se è viva o no; se si capisce o se riesce oscura, se piace o annoia. Nella sostanza, ossia se lo storico abbia adoperato bene o male il processo intuitivo con cui soltanto si può scriver la storia; se sia nel vero o se s’inganni, no. Siccome non c’è modo o criterio per verificare inappellabilmente se un documento è stato o non è stato interpretato rettamente, il critico può soltanto scoprire o notare i piccoli errori di fatto, in cui a tutti gli storici accade di incorrere: per giudicare sostanzialmente una storia il critico dovrebbe rifarla tutta quanta, interpretando di nuovo i documenti, a modo suo, ossia intuendo in altro modo e legando tra loro in un ordine diverso gli stati di coscienza di cui i documenti sono il segno frammentario, accidentale e morto. Al lettore spetterà [146] poi di giudicare quale delle due interpretazioni lo convinca di più, e gli sembri più verosimile: giudizio però personale anche questo e quindi variabile da lettore a lettore, ma sempre posato sopra un paragone di più storie. Se voglio dimostrare che Tacito si è sbagliato scrivendo la storia di Tiberio, devo raccontarla di nuovo e in modo che sembri più persuasiva, perchè più verosimile; senza però presumere mai di giungere ad una conclusione che sia definitiva, inoppugnabile, irrevocabile.
Desidera il lettore rendersi conto, come un critico, il quale voglia giudicare il valore intrinseco di una storia senza rifarla, possa vaneggiare? Il Croce stesso ci somministra di ciò un curioso esempio. Il Croce aveva rasentato la verità — che la storia sia intuizione di stati di coscienza — quando scriveva a pagina 29 e 30: «la fantasia è indispensabile allo storico: la critica vuota, la narrazione vuota, il concetto senza intuizione o fantasia sono affatto sterili; e ciò si è detto e ridetto in queste pagine col richiedere la viva esperienza degli accadimenti, di cui si prende a narrare la storia, il che importa insieme elaborazione di essa come intuizione e fantasia; senza questa ricostruzione o integrazione fantastica non è dato nè scrivere storia, nè leggerla o intenderla. Ma siffatta fantasia veramente indispensabile allo storico è la fantasia inscindibile dalla sintesi storica, la fantasia nel pensiero e per il pensiero, la concretezza del pensiero che non è mai un astratto concetto ma sempre una relazione e un giudizio, non una indeterminatezza, [147] ma una determinatezza. Epperò essa è da distinguere dalla libera fantasia poetica, cara a quegli storici che vedono o odono il viso e la voce di Gesù sul lago di Tiberiade, o seguono Eraclito nelle sue quotidiane passeggiate tra le colline di Efeso, o ridicono i segreti colloquî tra Francesco d’Assisi e il dolce umbro paese».
Sebbene involuta ed oscura, questa pagina distingue, una fantasia — chiamiamola così — «storica» che ricostruisce ed integra dai documenti quello che fu; e una fantasia poetica che inventa quello che non fu mai; concludendo che senza la fantasia «storica» la quale ricostruisce ed integra, non c’è storia. «Senza questa ricostruzione o integrazione fantastica non è dato nè scrivere storia, nè leggerla ed intenderla».
Su questo punto non possono esserci dubbi. È chiaro d’altra parte che quella che il Croce chiama qui, con linguaggio impreciso e barcollante, «ricostruzione o integrazione fantastica» è l’intuizione degli stati di coscienza passati. Ma in un’altra opera il Croce ha voluto giudicare l’opera mia e giudicarla non solo nella forma, ma anche nella sostanza, per negare che essa sia storia. Che cosa ha detto allora? Ha affermato che non solo la fantasia poetica, ma anche la fantasia storica, ossia l’intuizione, non può creare storia vera. Il lettore stenterà a crederlo; eppure è proprio vero che il Croce ha scritto testualmente così: «Il Ferrero crede che si debba con la immaginazione, o come dice, con la congettura integrare [148] le fonti là dove il senso critico vieta coteste integrazioni e nega che possano mai fornire storia e storia reale. Al che il Ferrero, e con lui i suoi difensori, obbiettano, che, senza le congetture e le immaginazioni, molta parte della storia rimarrebbe arida esposizione e compilazione di fonti. E tale sia e rimanga, quando non può essere altro, ossia quando mancano le condizioni soggettive ed oggettive perchè sorga storia vera e propria; meglio allora una rassegna di fonti, che un sogno sulle fonti...»
La contraddizione è evidente: «Il senso critico vieta coteste integrazioni e nega che possano mai fornire storia e storia reale». Ma che altro possono essere queste integrazioni vietate dal senso critico, se non quelle che la fantasia storica fa in opposizione alla fantasia poetica, che non integra ma inventa; e che nella «Teoria» erano state giustamente dichiarate indispensabili allo storico, perchè non sono altro che la sua facoltà di intuizione?
Ma non poteva accadere altrimenti. Volendo negare che una storia fosse buona storia senza rifarla, il Croce non aveva altro mezzo che di negare addirittura il processo creativo della storia — l’intuizione; ossia, per affermare che io ho perduto il mio tempo a scrivere «Grandezza e Decadenza di Roma» come i suoi numerosi lettori a leggerla, che la storia non esiste, non è possibile, è un vano sogno. Per ammazzare me egli ha sacrificato addirittura Clio e la Storia tutta quanta; e dopo aver scritto un poderoso volume per scoprire che cosa sia e come si scrive!
[149]
O giovani, che volete darvi alle storie, non ascoltate le false autorità, che vogliono insegnarvi, senza saperlo, che cosa è e come si scrive la storia. Leggete i grandi maestri dell’arte, incominciando dagli antichi. Leggete Tucidide, leggete Sallustio, leggete Livio, leggete Tacito. Solo chi conosce l’arte può insegnarla: troppo, questo vecchio precetto del buon senso è stato dimenticato dal secolo implacabilmente nemico di tutte le arti: della storia come della guerra, della pittura come della politica.
[151]
Quando apparve la traduzione francese dei due primi volumi di «Roma» alcuni, giornalisti d’oltre Alpi, uomini d’ingegno ma un po’ precipitosi nel giudicare, come è spesso quella professione, scrissero, e con sincera intenzione di elogio, che l’autore aveva studiato Carlo Marx. Imbattutisi per la prima volta in una storia antica, che raccontava di commerci, di dissesti, di fallimenti, di usure, e di altre cose consimili, reputate da molti invenzioni moderne; avendo sentito dire che Carlo Marx aveva fatto degli interessi economici l’asse intorno a cui giri la storia universale, s’erano messi in mente di far onore all’opera, ascrivendola ad una famiglia così moderna e così illustre. Senonchè è difficile immaginare un più grosso sproposito, e che sia prova più manifesta di ignoranza totale, sia in ciò che concerne la storia in genere, sia per ciò che tocca il materialismo storico. Ragione per cui l’errore fu largamente ripetuto.
Il materialismo storico non è una scuola, perchè [152] una scuola suppone maestri e discepoli, e qui i discepoli almeno mancano; è una pura dottrina, campata nei cieli della speculazione, un po’ confusa e nebulosa, come tutto ciò che è uscito dalla mente frammentaria di Carlo Marx. Nessuno storico l’ha ancora applicata in nessuna opera di polso. Ma come dottrina si presenta negli scritti del suo autore e dei suoi discepoli e commentatori in due vesti: più generale la prima, più particolare la seconda. La dottrina più generale vuole che i fenomeni della storia, la religione, la politica, il diritto, l’arte e via dicendo, siano una specie di drappeggiamento sontuoso, sotto cui si nasconde la greggia ed unica realtà degli interessi economici. Ma del materialismo inteso così io penso che sia una dottrina puerile, da non poter essere presa sul serio; immaginarsi se si potranno trovare le sue «formule» e i suoi «derivati» nell’opera mia! Che ogni istituzione o associazione umana di qualsiasi natura, politica, religiosa o intellettuale, debba tenere un libro di conti; che tutte le relazioni tra gli uomini di ogni specie, dalla famiglia allo Stato e alla Chiesa, siano regolate anche da una ragione di dare e avere, non vuol dire, che l’anima di quelle associazioni e istituzioni viva nel libro dei conti; vuol dire soltanto che, qualunque cosa gli uomini facciano, pensino o vogliano, hanno bisogno di nutrirsi e di vestirsi; che il prete deve vivere dell’altare, come il pittore del pennello, e il matematico delle formule. Più seria è la dottrina particolare e ristretta, che assume la trasformazione [153] degli istrumenti del lavoro a motore occulto della storia. Inteso così, il materialismo storico potrebbe essere una dottrina feconda e fare scuola, il giorno che raccogliesse intorno a sè discepoli valorosi, purchè circoscritta alla storia dell’Europa negli ultimi due secoli, che sola può comportarne la applicazione. Negli ultimi due secoli la storia dell’Europa è veramente condotta da due demiurghi: le dottrine razionali della società e dello Stato, che minano sotto sotto Dio; le macchine mosse dal vapore e dall’elettricità, che minano sotto sotto tutti gli antichi ideali di perfezione. Nessuno scrittore capirà il secolo XIX, sinchè non riesca a scoprire questi due demiurghi, discesi da due cieli differenti della storia, all’opera insieme e senza saper l’uno dell’altro. Il materialismo storico potrebbe studiarne con profitto uno; e quindi scoprire una parte della verità.
Senonchè questa dottrina non ha posto nè ufficio nella storia antica, dalla quale il secondo demiurgo è assente; ed è addirittura infantile di supporre che abbia potuto applicarla proprio l’autore, che ha indicato nel secolo XIX e nel trapasso della civiltà qualitativa alla quantitativa, dall’ideale di perfezione all’ideale di potenza, il maggior rivolgimento della storia universale. Solo questo rivolgimento ha chiamato in terra, un paio di secoli fa, il demiurgo, che il materialismo vorrebbe presente in tutti i luoghi e in tutte le epoche; e le cui formidabili spinte e audacie e crudeltà gli uomini non conobbero, sinchè la civiltà fu per sua natura qualitativa. Intorno [154] alla tecnica dei Greci e dei Romani ci somministrano numerose, per quanto slegate e frammentarie notizie, gli scrittori, le leggi, i rottami di attrezzi e di macchine — aratri, mulini, telai, forni, stampi e via dicendo — raccolti negli scavi, e i disegni scolpiti nei bassorilievi. Ma da secolo a secolo, da paese a paese, non si riesce a scoprire differenze visibili e quindi progresso, come l’intendiamo noi, fuorchè nelle macchine di guerra. Gli strumenti della industria e della agricoltura non mutano, a distanza di secoli; le forze motrici sono sempre i muscoli umani, alcuni animali, il vento e l’acqua; il vapore è un gingillo. In tutta la letteratura antica ho trovato una sola pagina, in cui l’ammirazione del progresso, oggi così fervida, sia presentita: la prefazione del libro diciannovesimo della Historia naturalis, in cui Plinio il vecchio, raccontando che il Mediterraneo ai suoi tempi è solcato in ogni verso non più da navi a remo ma da navi a vela, dopochè l’abbondanza del lino coltivato in Occidente ha fatto della tela un oggetto di consumo corrente, vanta la velocità delle navi spinte del vento, i viaggi affrettati, lo spazio vinto, con parole, che un moderno potrebbe ripetere, ritoccandole appena, del vapore. Ma se gli strumenti non mutavano, mutavano, e molto, i manufatti da epoca ad epoca; secondo che la mano di una generazione e di un popolo era più abile o meno, più arduo o più facile il modello di perfezione a cui i differenti secoli e le diverse nazioni guardavano, più [155] fino e più rozzo il gusto che commetteva i lavori e li giudicava.
Immaginare una storia «materialistica» di Roma sarebbe come voler scrivere una storia cattolica o protestante dei Faraoni. Ma come è nato allora questo svarione di critici orecchiuti e orecchianti? Nella storia degli ultimi due secoli della repubblica c’è un paradosso apparente: più Roma e l’Italia arricchiscono e più sono rovinate; più si ingrandiscono fuori, e più si indeboliscono dentro. L’aristocrazia romana si trova padrona di un immenso impero, quando non è più capace di governare e amministrare una città! Massime nell’ultimo secolo della repubblica ogni vittoria è una catastrofe. Parecchi storici avevano visto o intravisto, tra le cause di questo singolare dissolversi per troppo vincere, gli influssi della cultura greca — arti, filosofie, industrie, religioni, costumi, lussi, piaceri — sull’antica società latina, aristocratica, tradizionalista, bigotta e puritana. Ma questa causa non è la sola, ed è, per dir così, una causa seconda, derivata da un’altra, meno visibile e più profonda: l’oro delle conquiste. Fenomeno economico? Per chi cerca nella natura umana la ragione profonda della storia, questa azione della moneta è un altro esempio della padronanza e tirannia che tanti oggetti creati dall’uomo a servirlo esercitano sul loro autore. Che cosa è la moneta? Non è la ricchezza, ma una ricchezza; ossia uno dei tanti beni desiderati dall’uomo, ma in sè e per sè non dei più necessari, perchè i metalli preziosi, tanto pregiati [156] per la loro bellezza e rarità, non servono a nulla fuorchè ad ornare, se non esistono gli altri beni necessari alla vita, che il denaro acquista. Ad un uomo perduto nel Sahara un pane ed un otre d’acqua sarebbero più preziosi, che un sacco di monete d’oro.
Senonchè se questo è vero, è pur vero che gli uomini immedesimano la ricchezza e il denaro, come se il denaro fosse la ricchezza, e di nulla sono più cupidi che di denaro, sia esso coniato in metallo prezioso o stampato in vilissima carta, al punto che reputano felice solo chi ne abbonda — uomini e tempi. Come si spiega questo strano fenomeno? Per quale ragione questi pezzi di argento e d’oro, queste polizze baroccamente istoriate che da sè e per sè non potrebbero soddisfare nessuno dei nostri bisogni, abbagliano l’uomo al punto, che il maggior numero immedesima in quelli la ragione stessa del vivere? Perchè, quando intorno sussista una civiltà raffinata e piena di beni svariati, il denaro è uno schiavo docile, pronto a tutti i servizi; mentre tutte le altre ricchezze si prestano ai voleri dell’uomo soltanto secondo la loro natura rigida e limitata. Chi possiede una terra, una casa, una bottega, un’officina, una merce qualsiasi, ne è nel tempo stesso il padrone e lo schiavo; perchè può servirsene solamente per i fini e gli uffici a cui la loro natura destina quelle cose. Se vuol servirsene ad altri fini ed uffici deve venderli, ossia convertirli in denaro. Chi possiede denaro, può invece accumularlo o disperderlo, nasconderlo o ostentarlo, prestarlo o regalarlo, aiutare [157] i suoi simili o corromperli, convertirlo in sapere, in sfarzo, in piacere o in vizio. Il denaro è amico e nemico, maestro e lenone, creatore e distruttore, angelo e demonio. Se l’uomo comanda, il denaro lo servirà nell’una o nell’altra di queste opposte persone.
Questa sua natura è cagione che nessuna prova sia più ardua e pericolosa per un singolo uomo, come per un popolo ed una civiltà, che un’improvvisa abbondanza di denaro. Che cosa accade quando, per una ragione o per un’altra, il denaro viene improvvisamente ad abbondare in una nazione, mentre gli altri beni necessari alla vita, che si possono comperare con il denaro, non crescono, o diminuiscono? Noi possiamo rispondere facilmente a questo quesito, dopo il diluvio di falso denaro sotto cui la guerra ha sommerso in sette anni l’Europa. Coloro, nelle cui mani affluisce questa nuova abbondanza di denaro, potranno accaparrare una parte assai maggiore dei beni disponibili, che non prima; e siccome la somma totale di questi non è cresciuta, dovranno toglierli ad altri che prima ne godevano: a coloro i quali, per una ragione o per un’altra, non sono stati raggiunti e irrorati dall’alta marea del denaro... Quindi alterazione violenta delle fortune; ingiusto e improvviso arricchimento degli uni; improvviso ed ingiusto impoverimento degli altri. Inoltre — ed è il disordine più pericoloso — mentre gli impoveriti si ridurranno a vivere strettamente del necessario, gli arricchiti saranno spinti sempre più al lusso ed al vizio. Appunto perchè questo pericoloso servitore [158] si offre di servirli a loro piacere, come angelo o come demonio, gli uomini sono vinti il più spesso dalla curiosità di vedere come serve un demonio. Quando gli uomini dispongono di troppo denaro, il loro senno vacilla; cresce il prezzo dei gioielli, dei vini, delle vesti preziose; sorgono da ogni parte ville e palazzi; lupanari e bische rigurgitano; danze e feste tripudiano.
L’ingiusto arricchimento infatua gli uni, come lo immeritato impoverimento inasprisce gli altri; la disciplina sociale si rallenta; il rispetto, la parsimonia, lo spirito d’ordine svaporano, si diffonde l’invidia delle altrui ricchezze, l’odio dei fortunati, una insaziabile cupidità. Non solo il denaro, passando da una mano all’altra, insegna l’ozio, la prodigalità, il lusso, la dissolutezza, la vanità, la ghiottoneria; ma più abbonda, più scarseggia, più ne cresce il bisogno perchè più rinvilia. I tempi si lagnano di impoverire, quanto più arricchiscono. Il denaro sembra come volatilizzarsi.
Questo spasimo tetanico, in cui si contorce oggi l’Europa, infettata dal falso denaro della guerra intriso di tanto sangue, per poco non soffocò Roma e l’Italia negli ultimi due secoli della repubblica romana. Non la carta e i torchi litografici, ma l’oro e l’argento furono allora il veicolo della malattia. L’Italia fu per due secoli devastata periodicamente da violente maree di oro e di argento, suscitate dalle guerre, che nei tempi antichi, per le ragioni esposte nel mio primo volume, snidavano dai ripostigli [159] e trasportavano nel paese vincitore i metalli preziosi. Soffrì, in quei due secoli, di tutti i mali che ci tormentano oggi: la carestia crescente con l’abbondanza, l’alterazione iniqua delle fortune, la depravazione dei costumi, il tramonto delle tradizioni, l’obliterarsi della disciplina sociale, le turbolenze politiche e gli odi civili che, via via esasperandosi, proruppero alla fine in aperte e sanguinose rivoluzioni.
Ed ecco spiegato l’errore di coloro che hanno visto in questa visione della storia di Roma le formule e i derivati di un materialismo storico di fantasia, perchè la moneta vi comparisce come il principale agente del disordine di una grande epoca. Ma questa visione non è parente del cosidetto materialismo storico neppure in decimo grado. Vero è invece che la visione è mia. Senza dubbio questo spaventoso e meraviglioso fenomeno non è stato da me capito con quella pienezza e rappresentato con quella forza, di cui, dopo la guerra mondiale, mi sentirei oggi capace; e che spero di trasfondere un giorno in una edizione definitiva. Ho concepito questa parte dell’opera una ventina di anni fa, perduto in una pace così universale e profonda, che la memoria e la nozione stessa del terribile fenomeno si erano perdute; l’ho concepita, quasi direi, dal nulla e in piena solitudine, perchè nessuno dei predecessori aveva neppur presentito queste oscure verità e poteva quindi prestarmi aiuto. Non ostante un intensissimo sforzo di riflessione e di immaginazione, che ha durato anni, non ho veduto il fenomeno nella sua pienezza [160] e in tutti i suoi particolari, così lucidamente come lo vedo ora; e qualche volta l’ho confuso un po’ con un altro fenomeno, che appartiene alla stessa famiglia ma è diverso: con la perturbazione che genera l’incremento della ricchezza, quando è figlia del lavoro. L’opera ha quindi bisogno di qualche ritocco. Ma sarò io giudicato vittima di un vano orgoglio, se dirò apertamente che, a mio giudizio, un critico equo e competente, invece di dottrineggiare fuori di tempo e luogo sul materialismo storico, avrebbe potuto, e forse dovuto, riconoscere un po’ di merito all’autore, che primo aveva avuto la visione di un fenomeno di cui si era perduta la memoria, venti secoli dopo che era avvenuto, venti anni innanzi che, ripetendosi in un intero continente, si rivelasse di nuovo alla obliviosa noncuranza degli uomini?
FINE.
[163]
[164]
[165]
Al Lettore | pag. 1 | |
LA CREAZIONE. | ||
I. | L’annalistica dei primi secoli | pag. 5 |
II. | Sallustio | 9 |
III. | Tito Livio | 15 |
IV. | Tacito | 29 |
V. | Svetonio | 41 |
LA DISTRUZIONE. | ||
I. | L’Impero romano e la sua storia | pag. 47 |
II. | L’aurora della morale umana | 49 |
III. | S. Agostino, la Repubblica e il popolo romano | 53 |
IV. | S. Agostino e la corruzione dei costumi | 57 |
V. | S. Agostino, i grandi uomini e la storia di Roma | 63 |
VI. | La fortuna di Roma e Cristo | 75 |
[166] | ||
LA RINASCITA. | ||
I. | La storia e l’antichità nella mente del Machiavelli | pag. 85 |
II. | La razionalizzazione della politica | 91 |
III. | Lo Stato superiore alla morale | 95 |
IV. | Lo Stato-Dio in Livio e nel Machiavelli | 103 |
V. | La reazione contro Livio e contro il Machiavelli | 107 |
VI. | Il Tacitismo e la ragion di Stato | 111 |
VII. | Il Tacitismo e la falsificazione di Tacito | 117 |
VIII. | Quel che noi dobbiamo agli storici antichi | 123 |
APPENDICE. | ||
I. | Che cos’è la Storia? | pag. 127 |
II. | Il materialismo storico e Roma antica | 151 |
Indice dei nomi | pag. 163 |
1. De Oratore, II, 12.
2. De Oratore, II, 15.
3. Cfr.: Ferrero e Barbagallo, Roma Antica, I, pag. 259.
4. Taine, Essai sur Tite Live. Paris 1874, pag. 343 e sg.
5. Taine, Op. cit., pag. 346.
6. Cat., VII.
7. Cat., VII.
8. Livio, Proemio.
9. Liv., IX, 11.
10. Liv., XLV, 38.
11. Liv., 2, 41.
12. Tac. Hist., I, 2.
13. Tac. Hist., I, 3.
14. Tac. Ann., IV, 32.
15. Tac. Ann., XIV, 64.
16. Ann., IV, 33.
17. Ann., III, 65.
18. Ann., I, 10.
19. Ann., III, 3.
20. Ann., I, 8.
21. Hist., II, 50.
22. Ann., IV, 11.
23. De Civit. Dei, XIX, 21.
24. De Civit. Dei, II, 21.
25. De Civit. Dei, I, 15.
26. De Civit. Dei, XIX, 7.
27. De Civit. Dei, I, 31.
28. De Civit. Dei, I, 33.
29. De Civit. Dei, II, 2.
30. De Civit. Dei, II, 17.
31. De Civit. Dei, III, 13.
32. Livio, I, 9.
33. Livio, I, 9.
34. Livio, I, 10.
35. De Civit. Dei, III, 14.
36. De Civit. Dei, III, 14.
37. De Civit. Dei, III, 4.
38. De Civit. Dei, II, 20.
39. De Civit. Dei, I, 19.
40. De Civit. Dei, I, 19.
41. De Civit. Dei, IV, 8.
42. De Civit. Dei, IV, 8.
43. De Civit. Dei, IV, 14.
44. De Civit. Dei, II, 22.
45. De Civit. Dei, II, 22.
46. De Civit. Dei, II, 23.
47. De Civit. Dei, II, 24.
48. De Civit. Dei, II, 23.
49. De Civit. Dei, IV, 7.
50. De Civit. Dei, V, 1 e 10.
51. De Civit. Dei, V, 12.
52. De Civit. Dei, XVIII, 22.
53. De Civit. Dei, V, 13.
54. De Civit. Dei, V, 13.
55. De Civit. Dei, V, 14.
56. De Civit. Dei, V, 12.
57. De Civit. Dei, I, 1.
58. De Civit. Dei, III, 14.
59. De Civit. Dei, V, 17.
60. De Civit. Dei, I, 8.
61. De Civit. Dei, I, 11.
62. De Civit. Dei, I, 17 e 24.
63. De Civit. Dei, I, 12.
64. Discorsi sulla Prima Deca di Tito Livio. Proemio.
65. Discorsi, I, 11.
66. Discorsi, I, 39.
67. Discorsi, Proemio.
68. Principe, XIV.
69. Discorsi, I, 2.
70. Discorsi, I, 55.
71. Discorsi, I, 55.
72. Discorsi, III, 6.
73. Cfr. Discorsi, I, 2; I, 38; I, 57.
74. Discorsi, I, 18.
75. Principe, II.
76. Discorsi, III, 5. — Principe, 3 e 19.
77. Principe, 3.
78. Principe, 2.
79. Discorsi, I, 11.
80. Discorsi, I, 11.
81. Discorsi, I, 12.
82. Principe, 7.
83. Principe, 15.
84. Principe, 15.
85. Principe, 18.
86. Principe, 18.
87. Principe, 8.
88. Principe, 8.
89. Principe, 8.
90. Principe, 18.
91. Principe, 3.
92. Discorsi, I, 1.
93. Discorsi, I, 7.
94. Discorsi, I, 7.
95. Discorsi, I, 9.
96. Discorsi, I, 30.
97. Sul Tacitismo si può leggere con profitto il bel lavoro di G. Toffanin, Machiavelli e il Tacitismo. Padova, 1921.
98. Iusti Lipsi, Polit., IV, 14.
99. Iusti Lipsi, Polit., IV, 13.
100. Iusti Lipsi, Polit., IV, 14.
101. Iusti Lipsi, Polit., IV, 14.
102. Principe, 18.
103. Tacite, avec des notes politiques et historiques par Amelot de la Houssaye. Paris, 1724.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.