Title: Marcantonio Colonna alla battaglia di Lepanto
Author: Alberto P. Guglielmotti
Release date: June 22, 2025 [eBook #76349]
Language: Italian
Original publication: Firenze: Le Monnier, 1862
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MARCANTONIO COLONNA
ALLA
BATTAGLIA DI LEPANTO
PER IL
P. ALBERTO GUGLIELMOTTI
TEOLOGO CASANATENSE
E PROVINCIALE DEI PREDICATORI.
FIRENZE.
FELICE LE MONNIER.
—
1862.
Proprietà letteraria.
[1]
I. — I Turchi ed i Cristiani dopo l’assedio di Malta a rincontro sul mare. — Principî della guerra di Cipro.
II. — Pio V promette soccorso ai Veneziani. — Elezione di Marcantonio Colonna a capitan generale. — Breve del Papa. — Fisonomia e moral carattere di Marcantonio. (11 giugno 1570.)
III. — Provvisioni del generale per l’armata. — Patente di capitano a Fabio Santacroce e a Domenico de’ Massimi. — Armamento delle galere. — Levata delle fanterie. — Capitani. — Uditore, commissario, gentiluomini e venturieri. — Istruzioni ai capitani. (15 giugno.)
IV. — Marcantonio arma otto galere in Ancona. — Viaggia a Venezia. — Arma altre quattro galere. — Giunge con tutta la squadra ad Otranto. — Girolamo Zane generale de’ Veneziani, e stato dell’armata sua. — Lettera a Marcantonio del re di Spagna. — Del doge di Venezia. — Del gran maestro di Malta. — L’autorità del Colonna dimostrata. (6 agosto.)
V. — Ragioni di Stato tra Venezia e Spagna. — Il primo incontro di Marcantonio e di Giannandrea Doria in Otranto. — Difficoltà di Giannandrea. — Risoluzioni di Marcantonio. (21 agosto.)
VI. — I Turchi a Cipro. — Stato dell’armi in quell’Isola. — Astorre Baglioni perugino. — Il colonnello Palazzo di Fano, e i capitani dello Stato a Nicosìa. — Vicende dell’assedio fino al primo di settembre.
VII. — Incontro dell’armata ausiliaria con quella dei Veneziani alla Suda. — La Capitana del Papa al centro tra quelle di Spagna e di Venezia. — Ragionamenti del Veneziano a Marcantonio. — Consiglio degli ausiliarii sulla Capitana pontificia. — Giannandrea rifiuta la battaglia. — Il marchese di Santacroce la chiede. — Sforza Pallavicino propone diversioni. — Discorso di Marcantonio. — Venuta del generale veneziano [2] col voto del suo consiglio. — Si delibera la partenza per Cipro. (3 settembre.)
VIII. — La mostra di tutta l’armata a Sittia. (11 settembre.) — Nuove difficoltà. — Manifesto di Giannandrea. — Risposta di Marcantonio. (16 settembre.) — Consiglio di guerra. — Partenza da Sittia. — (17 settembre.) — Ordinanza dell’armata nella navigazione. — Arrivo a Castelrosso. (21 settembre.)
IX. — Procedimento dell’assedio di Nicosìa dal primo al nove settembre. — L’armata turca sguarnita alla spiaggia. — Assalto generale della piazza. — Ributtato dai tre baluardi. — Ricevuto al Podocattaro. — Perdita e strage di Nicosìa. — Nomi dei capitani statisti che morirono nel nove Settembre.
X. — Perduta Nicosìa l’armata cristiana si ritira. — Consiglio per assaltare il Turco in altra parte. — Giannandrea propone la Vallona e Durazzo. (22 settembre.) — Arrivo a Scarpanto e divisione dell’armata. — Si riunisce a Tristamo. — (25 settembre). — Giannandrea domanda licenza. — Marcantonio lo chiama all’ubbidienza. — Dialogo tra loro. — Parole di don Carlo Dàvalos. — Litigio. — Marcantonio lascia di mescolarsi nelle cose di Spagna. — Biglietto a Giannandrea. (26 settembre.)
XI. — Considerazioni sulla condotta di Giannandrea. — Sue parole. — Carica vini preziosi. — Minaccia i Cristiani dell’arcipelago. — Precetto di san Pio in favor dei Cristiani d’Oriente. — Epilogo delle opere di Giannandrea.
XII. — Marcantonio amorevole ai Veneziani. — Parte con loro da Tristamo. (27 settembre.) — Arrivo alla Canèa. (2 ottobre.) — Naufragio di molte galere e di due del papa. — Scritture ai principi. — Suggerimenti al re — Brano di lettera.
XIII. — Arriva a Corfù. — Disarma sei galere. — Condotto dalla tempesta in Schiavonia. — Dispersione degli altri capitani. — Morte del capitan Domenico de’ Massimi. — Suo testamento. — Gli schiavi. — La galera di Marcantonio bruciata dal fulmine. — Altra galera naufragata al capo del Molino. — Marcantonio a Ragusa. — Parte per Ancona. — Viene a Roma. — Ricevuto amorevolmente dal Papa.
[3]
I. — La vita degl’imperî nel successivo procedimento del sorgere, del crescere e del cadere fu sempre paragonata alla vita degli uomini per i tempi della gioventù, della virilità e della vecchiaia: e sempre si è detto che quelli al paro di questi scadono o per lunga decrepitezza, o per interna corruzione, o per esterna violenza. Al quale ultimo modo di scadere vanno più spesso soggetti gl’imperî dei conquistatori: perchè costoro a lungo andare devono finalmente venire in parte ove la natura (che ha definiti i termini alle nazioni co’ monti co’ mari e co’ fiumi) arduità di rupi e profondità di acque lor contrapone; e dall’altra parte i popoli schivi di servaggio tanto li contrastano che o rottili tra le balze, o sommersili nell’acque, li riducono contro lor voglia a declinare. L’impero ottomano, fondato e mantenuto da’ conquistatori, condotto nel secolo decimoquinto all’altezza di Costantinopoli, non era nel decimosesto nè decrepito nè corrotto; ma in quella vece florido di giovanil vigoria, per terra e per mare potentissimo, e geloso mantenitore degli ordini civili e religiosi onde era salito a tanta potenza. Ciò non pertanto in quel torno [4] medesimo di tempo e quando vagheggiava maggiori conquiste, cominciò ad abbassarsi: donde è forza concludere che nell’ultimo modo, e per violenza di esterna percossa fosse da altri condotto a rovinare.
Nel vero, dopo avere allargalo il suo dominio in tanta parte dell’Asia, sottomesso l’Egitto, resa l’Africa tributaria, divorate molte provincie di Europa, e postosi rimpetto a noi sulle marine della Grecia, oppresso i popoli vicini, e sempre minacciato i lontani in quel modo che negli altri miei libri ho raccontato, finalmente venne a provarsi in guerra contro l’Italia sul confine dei mari Jonio, Adriatico, e Tirreno ove è Malta. Nell’assedio della quale gli invasori intendevano a procedere e i difensori a respingere: gli uni e gli altri commossi alla estrema prova della difesa e dell’offesa. E quivi medesimo sul mare aveva a decidersi la grande tenzone; e mettersi, o levarsi il limite delle invasioni; siccome non guari dopo successe a Lepanto, ove il dito di san Pio e il braccio degli Italiani segnarono da lungi il nostro trionfo ed il loro confine. E quantunque la memorabile giornata, in quel luogo combattuta e vinta, non producesse la caduta repentina dell’imperio ottomano sotto la violenta percossa, tuttavia ferillo di piaga insanabile, e lo ridusse per lenta consumazione alla moderna impotenza. Perchè, toltogli quivi il dominio del mare ed ogni possibilità in questa parte di venire avanti, nè potendo per le condizioni delle umane cose fermarsi, fu da quel colpo medesimo ridotto a declinare. Perciò la battaglia di Lepanto, verso la quale mi affretto, se non fu allora quanto avrebbe dovuto e potuto essere feconda di grandi successi, neanche fu sterile nel procedimento del tempo: perchè al postutto là si decisero le sorti dell’impero ottomano, dell’Italia, e di tutta l’Europa. La storia di questo grande successo io prendo a svolgere in tre libri: nel [5] primo dei quali metterò il principio della lega, e la guerra di Cipro; nel secondo la sanzione dell’alleanza, e la grande battaglia di Lepanto; nel terzo le conseguenze della medesima, e lo scioglimento della lega. Il mio dire è tutto sopra i preziosi manoscritti privati e pubblici di Roma, massime sopra i codici dell’Archivio Colonnese e Vaticano: nell’uno e nell’altro dei quali Marcantonio ha lasciato arcane e importantissime memorie di questi fatti. Ed io tanto più volontieri ne seguo le traccie, in quanto che mi è avviso che, dopo quello che è stato già scritto dai Veneziani e dagli Spagnuoli, dopo le accuse e ricriminazioni loro, potrà la storia decidere in favor dei primi; e avvantaggiarsi di ciò che risulta dai documenti romani, sin ora sconosciuti.
[1570.]
Quando i generosi della cristianità fremevano ripensando all’assedio di Malta ed ai pericoli corsi poc’anzi dall’Italia, allora per opera di san Carlo Borromeo veniva dagli elettori messo sulla cattedra del Vaticano quel Pio V che, insieme ad una vita di santi ed immaculati costumi, portava in cima de’ suoi pensieri il gran disegno di francare una volta l’Italia e la Cristianità dagl’insulti dei barbari, e coll’armi riunite dei principi cristiani conquiderli per sempre. E l’occasione che egli cercava gli venne appunto dalla perfidia loro: perchè Selim, novello imperadore dei Turchi, assunto all’imperio l’anno 1567, dopo aver confermata con solenne giuramento la pace che Soliman suo padre e tutta casa sua da più tempo avevano con la repubblica di Venezia, cominciò a macchinare di torle ad ogni modo il regno di Cipro: come luogo opportuno a mantenergli il dominio sui paesi usurpati dai suoi maggiori, ed a fargli strada per novelle conquiste. [6] E celando il mal talento sotto simulate dimostrazioni di amicizia, tanto si contenne, sinchè levatisi in arme i Mori di Granata, impigliato il re Cattolico con quella ed altre guerre, e bruciato gran’parte d’arsenale in Venezia, gli parve tempo di spiegare il suo disegno. Chiamato per tanto Marcantonio Barbaro ambasciadore dei Veneziani, fece con lui gran richiamo delle scorrerie dei Cavalieri di Malta contro ai sudditi ottomani, e del ricetto e della protezione che i Maltesi trovavano nell’Isola di Cipro: e il richiese che per sicurezza sua gli si dovesse cedere quel regno; altrimenti lo torrebbe per forza.
E di ciò parendogli essersi anche troppo scoperto, e che non dovesse indugiare più oltre a spingere innanzi con tutto il calore la sua pretensione, fece ai tredici di gennaio del mille cinquecento settanta sequestrare le navi dei Veneziani che alla fede dei trattati nel suo imperio trafficavano, chiudere i passi ai mercadanti, sostenere l’ambasciadore, e sciogliere il freno ai confinanti di Dalmazia perchè molestassero in terra, ed ai corsari levantini perchè in mare travagliassero le cose della Repubblica. La quale a un tempo e per tanti modi offesa grandemente si commosse: e senza piegare l’animo invitto nè alle lusinghe fraudolenti nè alle minaccie terribili di così grande imperadore, anzichè cedere in balía di Turchi un regno cristiano, risposero: Esser turpissima cosa per Selim, senza alcuna nuova cagione nè vera nè verisimile, rompere quella pace che essi per tanti anni avevano gelosamente custodita, ed egli medesimo poc’anzi con giuramento confermata; possedere la Repubblica per giusto titolo il regno di Cipro; averla Selim e gli altri imperadori sempre riconosciuta padrona di quello: lo difenderebbe come cosa propria da chiunque fosse ardito assalirlo: e Iddio, giustissimo giudice dimostrerebbe cogli effetti a favor loro quanto gli ardimenti dei rapaci e degli spergiuri [7] siangli malgraditi. Così, rotte le pratiche, con grand’animo presero i Veneziani a far le provvisioni della guerra, talchè di presente la città fu piena di armi e in gran movimento al porto e all’arsenale, scrivere fanti e cavalli, trovar denaro e provvigioni, varar navi e galere, armarle, fornirle, spingerle a Cipro, rimontar l’artiglierie, munir le fortezze, dare a Girolamo Zane il comando dell’armata, a Sforza Pallavicino dell’esercito, chieder soccorso ai principi, e prima d’ogni altro al Papa, furono opere di tanta prestezza che quasi a un tempo il Turco assaltava Cipro e il Leone di San Marco spiegava l’artiglio per difenderlo: e col ruggito di giusta indignazione chiamava all’armi la Cristianità.
II. — Quando il Papa ebbe inteso dall’ambasciadore di Venezia quel che i Turchi ardivano, e quel che il Senato da lui richiedeva, si dolse prima grandemente del travaglio che pativano i diletti suoi figli, e poi levando al cielo le mani, si rallegrò che gli avesse Iddio ottimo massimo messo innanzi l’occasione tanto da lui desiderata di stringere per così giusta causa ed urgente necessità i principi cristiani ad una lega vigorosa, che sola poteva salvare l’Italia e l’Europa dalla crudeltà e insaziabile cupidigia dei Turchi, e ricuperare le altre provincie ove tante migliaja di fedeli, sotto il giogo di spietata tirannide, servile e misera vita menavano: affinchè gli uni e gli altri liberati dalle mani dei nemici potessero senza timore servire a Lui.[1] E quantunque si trovasse egli allora smunto di danaro, pure volendo prima d’ogni altro dare l’esempio, come colui che per vera virtù e per santo zelo di religione procedeva, applicò l’animo non solo a [8] trovar grosse somme, e spedir nunzi e brevi pressantissimi alla corte di Spagna e agli altri principi, ma anche a soccorre i Veneziani con un’armata navale: affinchè la lega avesse principio, questi si confortassero, quelli si commovessero, e tutti il seguissero. E perchè la cosa riuscisse a buon termine prese semplice e sicuro partito; avere un uomo capace, dargli ogni potere, e lasciarlo fare.
[11 giugno 1570.]
E senza riguardare alle passate condizioni politiche della guerra di Campagna, nè alle ostilità di Marcantonio Colonna in tempo di Paolo IV, tanta fiducia pose nell’altissimo valore e nella virtù di quel campione incomparabile del sangue romano, già lungamente provato nelle guerre di terra e di mare, che avutolo seco a stretto e segreto colloquio non dubitò, sebbene molti principi d’Italia e qualche grande di Spagna ambissero quell’onore, di prescegliere lui medesimo per suo capitan generale, e fornirlo di tutti i poteri con piena balía di governar quella impresa, siccome si fa manifesto per la lettera in forma di breve a lui diritta in questa sentenza.[2]
[9]
«Al diletto figliuolo, nobil uomo, Marcantonio Colonna, barone romano, prefetto e capitan generale dell’armata nostra e della Sede apostolica contro Turchi. Pio Papa V. Diletto figliuolo, nobil uomo, salute ed apostolica benedizione. — Dovendosi in questi difficili e pericolosi tempi trascegliere un prefetto all’armata nostra di mare, per opporla ai Turchi, i quali apertamente combattono dura ed aspra guerra contro i Veneziani, e contro [10] tutto il Cristianesimo, affinchè congiunte tutte le forze nostre, più facilmente si possa respingere l’impeto del furente nemico, gli occhi dell’anima nostra, figlio carissimo, alla nobiltà tua tra tutti gli altri tuoi pari si sono rivolti; perchè fermamente speriamo nel nome della nobilissima tua casata e nella tua virtù, prudenza, fede e nella lunga pratica delle cose militari poterci al tutto sicuri riposare. Per tanto nel nome di Dio onnipotente, a difesa della santa Chiesa ed a tutela della Cristiana repubblica, noi per autorità apostolica e tenore delle presenti, sempre che durerà il beneplacito nostro e della predetta Sede, ti eleggiamo, creiamo, costituiamo, e deputiamo capitan generale e prefetto di tutta la navale armata nostra e della stessa Sede contro i Turchi, con tutte e singole facoltà, giurisdizioni, preminenze, prerogative, onori, e pesi soliti e consueti; similmente con lo stipendio mensile per te di scudi seicento di giulj dieci, e con la provvisione ordinaria di dodici eletti militi, chiamati volgarmente lancespezzate, e di più venticinque alabardieri per la guardia del tuo corpo. Al tempo stesso comandiamo a qualunque capitano, padrone, ufficiale, soldato e persone delle nostre galere e navi, sotto le pene da infliggersi ad arbitrio nostro, e puranco tuo, che con il debito onore ed ossequio ricevendoti tengan con te, i tuoi comandamenti senza alcun indugio od eccezione eseguiscano, ed ogni tuo volere in tal guisa facciano come se noi medesimi avessimo comandato. Tu dunque, figliuolo, così ti diporterai, e l’ufficio volenterosamente da noi conferito eseguirai, che l’opere tue pienamente rispondano a quanto noi e tutti pubblicamente da te ci aspettiamo. Nel che tu farai cosa grata primamente a Dio, la cui causa ora si tratta; e poi al nostro desiderio sommamente soddisfarai: donde te ne verrà dall’istesso Iddio il premio di felice e perenne vita [11] e da noi senza alcun dubbio la lode e la giusta commendazione delle egregie opere da te fatte. Dato a Roma, presso San Pietro sotto l’anello piscatorio, a dì 11 giugno 1570, del nostro pontificato anno quinto.»
Marcantonio Colonna, duca di Paliano, scritto alla nobiltà di Venezia, feudatario del re di Spagna, e gran contestabile della corona di Napoli, era nei trentacinque anni,[3] quando per questo breve gli fu conferito il generalato del mare. Egli alto e svelto della persona, calvo in sin da giovanetto, gran fronte, viso lungo, occhi grandi, aspetto serio, tinte calde, lunghi mustacchi, portamento nobilissimo; grande intelligenza, raro valore, e cuor magnanimo: provveduto in ogni sua cosa, efficace nel discorso, e insieme di maniere tanto affabili e dignitose quanto non si disconverrebbero ad un sovrano. Sin dalla prima gioventù aveva seguita, al paro de’ suoi maggiori, la via delle armi; e si era mostrato non solo [12] prode condottiero di fanti e cavalli, come tutti sanno, ma anche valente capitano di mare. Aveva tenuto tre galere sue proprie, la Capitana, la Colonna e la Fenice, navigato con quelle in Spagna e in Africa, fatta la impresa del Pegnone, ed altre onorate navigazioni che pur gli storici ricordano, e i documenti della sua casa ampiamente descrivono.[4] Fatto capitan generale dell’armata romana, e posto in mezzo tra gli Spagnuoli e i Veneziani, ebbe sempre l’animo non ai propri interessi, ma al pubblico bene di tutti: ed al particolare eziandio di ciascuna delle potenze confederate. Dai contemporanei toccò quella mercede che sempre è riserbata a chi ha a fare tra le discordie di più padroni, e la invidia di molti servi. Il giorno stesso undici di giugno, vestito di tutt’arme e accompagnato da una splendida cavalcata di grandi ufficiali e baroni romani, andò nella cappella papale, ove [13] cantata la messa dello Spirito Santo, e dato il giuramento, ricevette dalle mani stesse di san Pio le insegne del comando e lo stendardo della lega, che aveva sul fondo di damasco rosso l’imagine di nostro Signore Crocifisso, quelle dei santi apostoli Pietro e Paolo, e in alto a grandi caratteri scritto il motto celebre per le memorie del passato e per il presagio dell’avvenire: Tu vincerai con questo segno.[5] Dopo di che, ricondotto dagli amici assembrati sotto il fatal gonfalone al suo palagio, e ricevute quivi le congratulazioni della corte e le pubbliche feste che per la città di Roma con molti fuochi e spari e suoni in simili circostanze solevano farsi, rivolse tutti i suoi pensieri a ben condurre l’impresa.
III. — Non avendo Marcantonio nè tempo nè modo da costruire, come avrebbe desiderato, il suo naviglio, posto nella urgente necessità della guerra imminente, pensò cavare dodici corpi ignudi di galere da Venezia,[6] e quelli rivestire, ed armare di tutto punto in Ancona. Prima però di andar colà, si ordinò in Roma di tutto che facesse a proposito dell’armamento: e secondo il mandato del Pontefice e l’uso di quel tempo, spedì le patenti ai capitani che dovevano comandare sopra l’armata, cominciando da Fabio Santacroce, al quale scrisse in questi termini:[7] «Marcantonio Colonna duca di Paliano, [14] e capitan generale di sua Santità. Avendosi a provvedere dei capitani delle galere di sua Beatitudine al nostro general governo commesse nella istante impresa contro infedeli, et conoscendo il valore et meriti del molto honorato signore Fabio Santa Croce, nobile romano, gli diamo il carico per la presente di una di dette galere, deputandolo capitano di quella: con autorità, e facoltà di armarla, comandarla, e provvederla come conviene alla qualità sua, et confidiamo che esso signore farà per servitio di sua Santità. Comandiamo però che per tale sia riconosciuto favorito, et obbedito da chi appartiene, non si facendo il contrario per quanto si ha cara la gratia di Sua Santità et nostra. Dato a Roma il dì 11 giugno 1570.»
Prima però che fosse spedita questa patente, già Fabio viaggiava in diligenza verso Venezia per aver dal Senato quei corpi di galere e condurli in Ancona, portando seco calde raccomandazioni ai Governatori della Marca e della Romagna che il favorissero nell’assoldare i marinari; ed ordine ai tesorieri acciò lo provvedessero [15] del danaro.[8] Fabio nel suo rapido passaggio, lasciando ovunque istruzioni ed uomini da ciò, faceva scrivere i comiti o capi delle ciurme, gli scrivani, i piloti, le maestranze, i bombardieri, e i marinari.[9] Al tempo stesso le comunità vuotavano le carceri di tutti i condannati e scrivevano volontarj per metterli al remo, ove erano poscia dagli stessi comuni senza aggravio dello Stato come prima mantenuti.
[16]
[15 giugno 1570.]
Appresso a Fabio ordinò Marcantonio gli altri capitani a comandar le galere, e le patenti di ciascuno pose ne’ suoi registri: donde mi piace cavarne quella che ebbe Domenico de’ Massimi, del quale dovrò più volte ragionare.[10] «Marcantonio Colonna ec.
»Essendo piaciuto a sua Beatitudine servirsi di noi in quest’impresa contro infedeli con darci il carico delle galere et fanterie che sopra quelle hanno da militare, et [17] convenendo al servitio di sua Santità et alla fede che di noi ha mostrato in questa importante occasione come al debito et riputatione nostra, haver persone di sapere et di valore, havemo pregato l’illustrissimo signor Domenico de Massimi, conte di Cicigliano, che volesse accettare l’infrascritto carico che per sua comodità et per potersi nell’occasione mostrare gli avemo dato: et trovato in detto signore corrispondente desiderio verso il servitio di sua Santità et amor nostro, li concedemo in vigore della facoltà nostra il governo di una di dette galere che appresso per nostro ordine gli sarà consegnata, et una di dette compagnie da poter nominare il capitano di essa et ispedirgliene patente con tutte le provvisioni, paghe, stipendi, gaggi et emolumenti che si sogliono pagar dai ministri di sua Santità e da quelli che a ciò saranno deputati. Dunque potrà il detto signore quanto prima fare allestire detta compagnia per eseguire l’ordine nostro; volendo, e comandando che nella sua galera sia da ognuno come la persona nostra obedito, et da ciascuno conforme al suo merito honorato per quanto si ha caro la gratia di sua Santità et nostra. In Roma a dì 12 di giugno 1570.» Al modo stesso Marcantonio chiamò seco il fior dei prodi tra la romana nobiltà a comandar le sue galere; e questi furono Orazio Orsini, Pompeo Colonna, Prospero Colonna, Muzio Frangipani, il cavalier Malaguzzi, Domenico de’ Massimi, Manlio Baglioni, Alessandro Ferretti, Gianluigi Giorgi, il cavalier Gaspare Bruni e Cencio Capizucchi. E perchè tra quei signori non avesse a nascere controversia fece imborsare i nomi loro da una parte, e quelli delle galere dall’altra, e cavarli per dare a ciascuno la sua secondo che gliene venisse la sorte, salvo quello della capitana, che dovendo essere di speciale fiducia, e vivere sempre vicino al generale, non per fortuna ma di sua elezione vi condusse Cencio Capizucchi.[11] [18] Per la levata delle fanterie destinò in varie parti i quartieri ove dovessero raccogliersi: e spedì le patenti a dodici capitani, già provati in molte guerre. Per ordine suo il capitan Dario Nelli assembrò la compagnia a Castelfidardo, Gianvincenzo Valignani a Santelpidio, Filippangelo Boccaurati a suo piacimento, Flaminio Zambeccari a Montemilone, Cornelio Buongiovanni a Montolmo, Sante Ranucci al Sirolo, Francesco Lodi a Macerata, Guido Tromba a Fano, Camillo Perinelli a Jesi, Alessandro Ferretti a Recanati, Cencio Capizucchi a Filottrano, Prospero Colonna a Cingoli: essendosi questi ultimi tre per la loro grande riputazione messi non solo a reggere le galere, ma anche a levar le fanterie.
Finalmente chiamato per uditor generale nelle questioni di diritto l’eccellentissimo dottor Fabrizio Villani, per commissario generale della Camera apostolica sulle spese monsignor Paolo Francesco Baglioni, per segretario privato il Gallo di Osimo, e capo di tutti i bombardieri, [19] il celebre architetto Iacopo Fontana d’Ancona,[12] scrisse il ruolo dei gentiluomini e venturieri di sua compagnia in una nota ove fan di sè bella mostra i nomi più chiari che per nobiltà di sangue e militar virtù allora onorassero le nostre contrade. La qual nota per giusta retribuzione di lode ai nominali e di onore alle famiglie e città loro io stimo doversi pubblicare.[13] Ecco a verbo a verbo il catalogo dei gentiluomini venturieri che si raccolsero intorno alla persona di Marcantonio Colonna. «Il signor Biagio Capozzuccha alfiere, Giovanni Orsello da Tolentino sergente, Cesare da Bologna tamburo, il signor Francesco Orsini de la Scarpa, il cavalier Navarino, signor Girolamo Mariotti da Fano, signor Alberico Alberici, signor Fabio Piccolomini, signor Ferrante Davila, signor Annibale degli Oddi, signor Iacopo Frangipane, il marchese Malaspina, signor Pirro Passerini, signor Pier Giovanni Spinelli, signor Giulio Gabrielli romano, signor Camillo Accoramboni, signor Francesco Nari, signor Alfonso [20] Cambi, signor Camillo Fracastoro, signor Cesare Pagani, signor Lucio Colonna, signor Giulio Timotelli, Orazio Corona romano, Hieronimo Signorini da Viterbo, Vetresco Vetreschi da Viterbo, Agnolo Fiamma, Giovanni Martino portoghese, Pasino Carniglia, Landuga spagnuolo, il capitan Lucio Cales napolitano, Nicolò Bocchieri del Bosco, Ottavio Caro, Alessandro Doria, il capitan Gianbattista Alciati, Giovanni Domenico, Pietrantonio De Giorgi da Magliano, Annibale Bagarotto, Fabrizio Magnenti di Marino, Matteo di Tommaso da Scanzano, Curzio Caracciolo, Gianantonio di Maglieri, fra Settimio cavalier di Malta, Belisario d’Orlando di Genazzano, signor Mutio Vitozzi romano, Francesco Grignetta napolitano, Camillo Socchini da Modigliano, Michele Corrotto, signor Pietro de Fabbi, il capitan Lionbruno da Recanati, Pietrozzo da Recanati, Priamo da Recanati, il capitan Liutrecche da Sassoferrato, il capitan Pier Mario da Terani,[14] il cavaliere Enèa da Sassoferrato, Gianfelice da Terni, Teseo de Lanzi da Terni, Menico di ser Basilio da Terni, Silvestro de Santi da Terni, Marzio da Terni, Ricciotto da Terni, Niccola Orselli da Tolentino, Agnolo de Zoccoli romano, Agnolo Leonini romano, Giovanni da Palestrina, Mancino da Fabriano, Giovanni Battista del Bufalo romano, Giovanni Romolo da Fiorenza, Valentino da Sassoferrato, Vincenzo da Sassoferrato, Eraclio Ridolfini da Narni, Cristoforo de Concha spagnuolo, Gasparre spagnuolo, Lazzaro da Fabriano, Brandimarte della Ripatransona, Lorenzo di Castel delle Pieve, Tiburzio [21] da Narni, Ottaviano Particappa.» Con questi andarono molti capitani e gentiluomi perugini: tra i quali si ricordano negli annali del Crispotti il capitan Simone da Papiano, Traiano Vermiglioli, Nicolò Graziani, Michelangelo Benincasa, Luca Signorelli, Rugero degli Oddi, il cavalier Ranieri, Camillo Pennelli, Livio Parisani.[15] Nè posso tacere quel che tutti gli scrittori raccontano, che il famoso poeta Michele Cervantes, paggio allora nella corte del cardinale Acquaviva in Roma, si arrolò tra le milizie di Marcantonio per la guerra d’Oriente.
Marcantonio dette le seguenti istruzioni ai capitani:[16] «Vostra signoria ha da fare dugento soldati, cioè centonovanta archibugeri, e dieci corsaletti con alabarde; e che non manchi uno del numero. Et se ne menasse quattro o sei di più, se li faranno buoni.
»Li detti archibugeri hanno da avere tutti li morioni alla moderna: perchè colui che non n’havesse, non sarà passato alla banca; ancorchè venisse provvisto di tutto il resto.
»Che abbiano ancora li fiaschi di velluto grandi et belli quanto sia possibile, et che tutti li archibugi siano a miccio, et di buona munitione; come volgarmente si dice, alla spagnola.
»Che li dieci corsaletti siano buoni et aggarbati, alla moderna. Et le alabarde tutte di velluto in hasta et chiodate.
»Procurerà ancora che li soldati abbiano calzoni di velluto per quanto sia possibile, o di panno. Et li borrichi o pezzi alli lati di panno alla francese. Et con giubboni che siano buoni. Et con un poco di bombace. Perchè, ancorchè sia di estate, in galera fa freddo.
[22]
»Userà diligenza d’haver soldati prattici et buoni. Et perchè non si potranno haver tutti prattici, procurerà di farli esercitare, giacchè per una patente a parte si dà loro autorità di poterlo fare.
»Sopra ogni galera s’imbarchi un frate scappucino per cura di essa; e si mettano due casse di spezieria con li dui medici.» M. A. C.
[16 giugno 1570.]
IV. — Ciò preparato e disposto con molta sollecitudine, Marcantonio andò a congedarsi dal Papa, e il sedici del mese dopo vespro partì da Roma conducendo seco per luogotenente generale Pompeo Colonna, al quale aveva poc’anzi procurato dal medesimo Papa il titolo di duca di Zagarolo. La sera giunse a Castelnuovo di Porto, il dì seguente che fu sabato a Terni, la domenica a Serravalle, lunedì a Macerata, martedì nella mattina sentì la messa e si comunicò a Loreto, e la sera entrò in Ancona, ove già era Fabio Santacroce con otto galere che aveva cavate da Venezia per armarle in quel porto. Difficilmente potrebbe esprimersi la efficacia delle parole, e la prontezza delle opere del generale e dei suoi, e quanto volentieri la gioventù concorreva a scriversi nei ruoli della milizia e della marineria.
[20 giugno 1570.]
I fatti, per così dire, ne parlano; e Marcantonio Colonna la stessa sera scrivendo da Ancona al cardinale Alessandrino, gli diceva[17] avere ritrovate ovunque le [23] fanterie già pronte, e in tanto numero, e gente così buona da farne restar maravigliato chiunque, e di più trovarsi già all’ordine trecento nobili venturieri per militar sull’armata a proprie spese.
[Luglio 1570]
Mancavano però l’altre quattro galere: e quelle otto trovate in Ancona erano prive di molte cose necessarie. Ondechè avendo ordine di sua Santità di passare a Venezia più tosto per complire con quei Signori e farsi loro amorevole, che per alcun bisogno di armar galere, essendosi giudicato che non vi sarebbe stata necessità di andar per questo; pure vedendo le cose a tal termine, fece risoluzione di passar subito a Venezia con alquante galere della Signoria che si trovavano in Ancona sotto il governo di Marin Dandolo. Se non che, veduto il tempo contrario al navigare, prese le poste con cinquanta cavalli; e il primo giorno (dopo essersi trattenuto alquanto col duca d’Urbino in un luogo fuori di Pesaro, detto l’Imperiale) fu al Cesenatico; l’altro alle Fornaci, e il terzo giorno a Chiozza, presso il podestà Lorenzo Emo; donde sulla sera con buone barche si inviò a Venezia con tanta celerità che la Signoria non ebbe tempo di mandarlo ad incontrare. Pur nondimeno subitamente riconosciuto alle sue divise nel passar dal Canale grande, lo fecero smontare a palazzo Pisani, ove i savi di terraferma Antonio Tiepolo e il cavalier Soriano vennero a visitarlo e pregarlo che per quel giorno quivi si riposasse.
Ma il dì seguente con quattro barche della Signoria, in mezzo a cinquanta senatori vestiti di cremisino, andò in collegio, presente il principe che gli venne incontro tutti i gradini della sua sedia, mentre egli graziosamente [24] salutando ad alta voce e rivolto a tutti diceva che dovessero star di buon animo perchè da sua Santità sarebbero sempre aiutati con tutte le forze sue ed anche coll’autorità presso gli altri principi, e che per questo animosamente attendessero alle provvisioni di sì onorata impresa contro gente rapace e senza fede. Poi sedutosi allato al Doge e stando sempre con la capitolazione in mano, siccome era stata conclusa a Roma tra i ministri del Papa e della Repubblica, si restrinse intorno alle cose principali della sua commissione, insistendo per essere spedito, specialmente rispetto alle grandi difficoltà che ogni poco nascevano nell’armare: perchè le dodici galere non erano pronte secondo il patto, ed a compirne il numero si offerivano quattro fusti vecchi e mal atti, lasciati indietro e per rifiuto nell’arsenale; con una capitana che era galera restia di quarant’anni. Tuttavia Marcantonio tolse le difficoltà, accettando pure di far certe spese non pattuite: ed i Veneziani per amor di lui fecero molte cose supplire d’armi e di vettovaglie e di altro a che non sarebbero stati tenuti. E così destramente negoziando, concluse in un mese quel che altri non avrebbe pensato in un anno. La sua mente era a tutto e tutto moveva, in Ancona e in Venezia: là armava le otto galere,[18] qua le quattro: e, sempre pronto nei ripieghi, [25] marinari, remigi, soldati, armi, vettovaglie, munizioni, metteva e governava con tanta cura e così grande prestezza, che ai ventidue di luglio acconciata ogni cosa, e preso commiato in collegio, partivasi da Venezia conducendo seco le quattro galere in Ancona, dove all’entrar d’agosto ebbe tutta la squadra pronta alla vela.[19]
[26]
[Agosto 1570.]
Intanto l’armata veneziana numerosa di cento e trentasette galere sotto il governo di Girolamo Zane suo capitan generale, di Sforza Pallavicino generale delle fanterie, e dei provveditori Giacomo Celsi e Antonio da Canale, dopo avere su e giù volteggiato nel golfo per assicurare i possedimenti di Dalmazia e le Isole del Jonio, finalmente erasi accostata a Candia: laddove sapendo che in Ponente si era dato principio a trattar della lega, e aspettando i rinforzi del Papa e dei principi cristiani, nè potendo nel mezzo tempo far nulla contro l’armata assai più numerosa del turco, cadde in tanto languore di ozio e di abbattimento, che, unito alla rea qualità dei cibi ed alla corruzione dell’aria, si condusse a consumarsi di febbri acute e di contagio pestilenziale, tanto che in breve perdette di marinari, di soldati e di ciurme quasi tremila persone. Tuttavia attendevano i Veneziani a rifar gente in Candia, e confidavano negli aiuti che a richiesta del Papa mandar doveva secondo certi riscontri il re cattolico. Monsignor Ludovico de Torres, nuncio straordinario per questa bisogna della lega, faceva allora allora gran pressa a Madrid. E sebbene il re Filippo II, con mostra di gran pietà riguardando agl’interessi della sua corona, avesse risposto al nuncio che i Veneziani fossero indegni di essere nei loro bisogni aiutati, e che quanto alla lega voleva pensarci essendo negozio di tanta importanza, ciò non pertanto dopo infinite difficoltà era venuto ad impegnar la sua parola che manderebbe Giannandrea Doria con quarantanove galere a [27] unirsi con le pontificie e le veneziane nell’armata.[20] Onde che avendo Marcantonio dato fondo il sei d’agosto in Otranto, e trovate quivi molte lettere di Madrid e di Venezia che l’avvisavano dovere in quel luogo e prestamente capitare Giannandrea Doria con le predette quarantanove galere del re per congiungersi sotto il suo stendardo ed obbedienza, pensò che, tenendo certa aspettativa di così grande rinforzo, non fosse bene l’andata sua con sole dodici galere in Candia, e che gli convenisse meglio aspettar quivi Giannandrea e sollecitarlo tanto più da presso quanto che in questa bisogna lo vedeva procedere lentamente.[21] Tra le lettere che trovò Marcantonio in Otranto ve n’ebbe una di Filippo II re di Spagna scritta nel suo volgare, che per esser di somma importanza, come appresso si dirà, io qui rivolgo a verbo a verbo nel nostro così:[22] «Illustre cugino Marcantonio [28] Colonna. — Ho ricevuto la vostra lettera del 9 di giugno con che mi date contezza come sua Santità vi aveva nominato per capitano generale delle sue galere, ed io mi sono rallegrato molto di questo, per la particolar benevolenza che vi porto e fiducia che metto nella vostra persona: persuaso che voi avrete tanto pensiero della [29] mia armata e del mio servigio quanto sempre ne avete avuto nel resto delle cose che vi sono state imposte. Io scrivo a don Giovanni di Zuñiga, mio ambasciatore in Roma, che vi partecipi la risoluzione che ho preso perchè Giannandrea, con quelle galere che già prima gli si era ordinato di tener insieme nel nostro regno di Sicilia, vada ad unirsi con le galere di sua Santità e con quelle della illustrissima repubblica di Venezia, e vi obbedisca e segua lo stendardo di sua Santità. Io vi incarico e prego molto che nella battaglia vi valghiate in tutto del parere di Giannandrea, che mi si dice vi gioverà assai la sua assistenza, affinchè abbia felice successo, per la pratica ed esperienza ch’egli ha delle cose di mare: e che abbiate pensiero di avvisarci di tutto quello che occorrerà; e similmente che siate avvertito che se l’armata del Turco pigliasse determinazione diversa da quella che sin ora si è detta e venisse a danno de’ nostri stati, voi accorriate con tutte le galere al bisogno come è ragionevole, ed io di voi confido. — Dall’Escuriale ai 15 di luglio 1570. Io il re — Antonio Perez.»
La risoluzione presa dal Re che l’armata sua si congiungesse con quella pontificia e veneziana sotto l’ubbidienza e lo stendardo del generale del Papa, giunse in Roma col corriero di Spagna il ventisette di luglio, e subitamente l’ambasciatore fecela pubblicare in corte e per la città,[23] menandone ognuno grandissima festa, perchè tutti pensavano che il Re fosse risoluto daddovero di metterci le mani, e che quelle solenni parole di dover l’armata di Spagna seguire lo stendardo di sua Santità, ed ubbidire al general pontificio, come nel linguaggio [30] militare significavano e tuttavia significano assoluta sommissione, così fossero un sicuro pegno di veder le cose pubbliche all’ombra del papale stendardo ben dirette da quell’uomo nel quale tutti riponevano la loro fiducia. Quando questa istessa notizia per lettere di Madrid e di Roma si riseppe a Venezia crebbero due doppi tanto le speranze della repubblica. E il doge persuaso che fosse onore e utilità grande dello stato suo il ricevere gli ajuti di Spagna sotto la bandiera della Chiesa, e sotto l’obbedienza di Marcantonio, (già per pubblico decreto chiamato gentiluomo di quella patria e ammesso a tutti i gradi e dignità della repubblica) quantunque pochi giorni prima avesse tanto lungamente esso doge ragionato con lui delle cose di guerra, e trovatolo in tutto seco pienamente concorde; volle nondimeno mandargliene in Otranto lettere di congratulazione, e mostrargli fiducia sempre maggiore con una lettera scritta in questa sentenza:[24] «Aluise Mocenigo per la grazia di Dio doge di Venezia, eccetera: All’illustrissimo signore Marcantonio Colonna capitano generale della navale armata pontificia, figliuolo nostro carissimo salute ed affetto di sincera dilezione. — Con grandissima soddisfazione dell’animo nostro abbiamo inteso per lettere dei 17 del mese passato dell’ambasciator nostro presso al serenissimo Re cattolico, che la maestà sua aveva spedito ordine al signor Giovannandrea Doria che con ogni diligenza s’abbia da congiungere all’armata nostra con le galere che ha seco, sotto lo stendardo ed ubbidienza dell’Eccellenza [31] vostra, sì per averci con così buona risoluzione confermato dell’ottima volontà della Maestà sua cattolica verso di noi, quanto per vedere queste forze all’obbedienza di lei tanto amata e stimata dalla signoria nostra, e tanto nostra confidente: onde se ne rallegramo con l’Eccellenza vostra per ogni rispetto con quel maggiore e più caldo affetto che potemo: et perchè abbiamo data commissione ultimamente al capitan nostro generale di mare che si debba spingere innanzi con l’armata et andare in Candia perchè di là rinforzate le galere di genti così da combattere come da remo, et intendendo con più fondamento lo stato delle cose turchesche per la vicinità dei luoghi, possa fare quelli progressi che nostro signore Iddio li potesse mettere innanzi, così principalmente per la difesa del regno nostro di Cipro come per offesa delle forze e cose turchesche prefate, giudicamo grandemente a proposito che quanto prima si divenga all’unione dell’armata cristiana a fine che tanto più si venga a facilitare quello che si avesse a fare: però volemo per queste nostre pregare l’Eccellenza vostra, sì come facemo con ogni affetto, di accelerare con ogni diligenza la sua andata in Levante per ritrovare et unirsi con la detta armata nostra, et accettare quelle occasioni con le quali la si possa dimostrare di quella virtù e valore che ella è in effetto, siccome da ognuno è grandemente aspettato: questo siccome a noi sarà sommamente grato così volemo esser certi che sarà posto in effetto dalla Eccellenza vostra con ogni prestezza, sì per il desiderio che conoscemo che ella tiene del comodo e beneficio della cristianità et nostro in particolare, come perchè con questa unione ella può molto ben conoscere che darà compita consolazione alla Santità sua desiderosa oltremodo del bene et della reputazione della repubblica cristiana, et [32] del comodo nostro, possendosi per ciò operare alcuna cosa innanti che passi la stagione di quell’utile et honorato servigio suo et beneficio particolare dello stato nostro che l’Eccellenza vostra per sua prudenza ben conosce. Dato dal nostro ducal palagio, a dì 5 agosto indizione decimaterza, 1570.»
Similmente il grammaestro di Malta insieme col suo consiglio nello spacciare le istruzioni al cavalier Pietro Giustiniani allora dichiarato generale delle galere in luogo di Francesco di Saint Clement (che per essersi lasciato sorprendere dal corsaro Luccialì ed aver perdute la capitana e due sensili era stato strangolato in carcere e gettato in canale) prescriveva.[25] «Che dovesse navigare alla volta di Cipro, e quando trovato avrebbe le galere del Papa con esse congiungere si dovesse riverentemente salutandole con abbassare et alzare tre volte lo stendardo, e poi tornandolo ad alborare nel suo luogo. Che presentare si dovesse d’innanzi a Marcantonio Colonna generale di sua Santità, e che presentandogli le lettere del gran maestro, s’offerisse di seguirlo con le galere della religione dovunque andar voluto havesse: dimostrandogli che il principal desiderio di questa religione era di volere ubbidir sempre ad ogni cenno di sua Beatitudine: esponendo quanto tiene per difesa della santa fede e per servigio della santa Sede apostolica. Che far dovesse la scusa se prima non v’era andato, raccontandogli la disgratia e la perdita delle galere prese da Luccialì, che di quella tardanza era stata cagione, significandogli lo sforzo grande e la diligenza che usato havevano acciò, non ostante la detta disgrazia, lo stendardo della Religione comparisse in ogni modo ancor quest’anno nell’armata: e che volendo Marcantonio Colonna [33] che le galere svernassero in Levante, insieme con quelle di sua Santità, ubbidire il dovesse.»
V. — Non era dunque temerario Marcantonio Colonna duca di Paliano, cavaliero del tosone, gran contestabile del regno, e capitan generale del Papa se per tutte quelle ed altre molte lettere, diplomi e ragioni giudicava di avere qualche autorità sopra le galere ausiliarie, che dai loro sovrani eran mandate sotto lo stendardo ed obbedienza sua. E quantunque egli non ad arroganza ma a pubblico servigio intendesse tener temperantemente in serbo l’autorità pel caso dell’estremo bisogno, pur qualcuno v’era già fermo a non volerla proprio allora riconoscere quando più ne facesse mestieri. Costui pensava che lo stendardo di sua Santità o non mai, o tanto tardi sarebbesi mosso da doversi scusare in pubblico di non poterlo seguire: e, dato pur che si movesse, sapeva di potergli contrapporre in privato alcune secrete cifre di Madrid che dal seguirlo ed obbedirlo il francavano.
Non devo io schivare di scendere ai minuti particolari, nè di salire alle generali considerazioni quando il richiede l’argomento mio. In principio la prestezza e la qualità degli armamenti di Marcantonio voleansi chiarire; però con lui sono sceso a noverare i giorni, le persone, le armi, le salmerie, gli stipendî. Poscia bisognava dimostrarne l’autorità; e l’ho fatto, scuotendo dalla polvere degli archivi le lettere spedite e ricevute a confermarla. Ora mi si presentano le discordie delle corti, e devo salire a ricercarne le cause. Il farò, senza voli di fantasia, e senza artificio di parole. L’artificio e la fantasia hanno da tre secoli travisato nell’opinione degli uomini il concetto dell’alleanza, e della vittoria di Lepanto. Io intendo rimetterlo nei giusti termini; e dimostrare chi n’ebbe dispetto, ne prese diletto, chi ne [34] tolse i frutti. Non ch’io voglia chiamare al sindacato i secoli passati e giudicarli a mio talento: non ho siffatta temerità. Sento però dovermi mettere in mezzo a loro, raccoglierne le parole, udirne le querele, e leggere le arcane cifre che pur si scrivevano quando più che la paura poteva il dolore. Metterò tutto innanzi ai lettori: essi saranno giudici. Ed io intento al valore dei documenti ed alla certezza dei fatti condurrò il mio racconto al segno prefisso piuttosto per fil di critica che per copia di sentenze e per forbitezza di stile. Vengo ora ad esporre le ragioni di stato onde le corti di Roma, di Venezia e di Spagna sin dal principio della Lega si governavano.
Della interezza di Pio V non v’ha che dubitare. L’animo di lui, come altresì le parole e le opere, erano per ogni riguardo generose e leali. I fatti e il procedimento della lega, gli scrittori d’ogni nazione, infino i protestanti, ne hanno data e ne danno piena testimonianza. Spagnoli e Veneziani vennero in Roma a trattar con lui della lega, il tennero mediatore ed arbitro di loro differenze: ed il mondo tanta fede pose nella sincerità di Pio che la lega e la vittoria intitolò al suo nome.[26] Ma quanto al doge ed al re, v’hanno molte cose a ripensare: senza di che la storia anderebbe ancor cieca tra le tenebre onde sono stati coperti gli intricati successi della lega. Non si potrebbe nè salvare la legge della morale, nè applicare a ciascuno la lode o il biasimo secondo il merito; ma in quella vece sbalestrare giudizî senza cognizione [35] di causa, negare i principî per salvar le persone, o tuttalpiù mettere in un fascio (come i tristi per iscolpar sè stessi vorrebbono) tutti insieme gli innocenti co’ rei, gli oppressi e gli oppressori; e chiamar tutti, senza alcuna distinzione, in colpa dei gravissimi disordini che vi furono commessi. Protesto però una volta per sempre che parlando della generosa nazione spagnola e della sapiente signoria veneziana io non intendo derogare in niuna cosa ai loro meriti; ma, seguendo l’esempio degli stessi storici spagnoli[27] e veneziani,[28] voglio che il biasimo sempre s’intenda essere di quelli o pochi o molti che peccarono; e che per male arti di governo non solo alla causa pubblica della cristianità, ma anche ai loro concittadini e patria fecero oltraggio. Che se per avventura dovrò nominar tra costoro il re Filippo di Spagna, io prego chi legge a non precipitar [36] nei giudizî: ma rispetto a questo argomento della lega col Papa e co’ Veneziani, e della guerra contro Turchi, seguire il filo del racconto: e ponderare le ragioni, i fatti e i documenti che nello scrivere mi sono venuti tra le mani.
Allora la corte di Spagna ambiva grandezza di dominio, e imperio assoluto in tutta l’Italia.[29] Qua possedeva tre reami, Napoli, Sicilia, e Sardegna, ridotti a province; e il ducato di Milano a governo dispotico: qua aveva ridotto il Piemonte, dopo la battaglia di Sanquintino, a vassallaggio: Genova, per la protezione del re, e per la condotta di quasi tutti i suoi maggiori uomini nell’armata regia, a suggezione: la Toscana, in premio della guerra di Siena, a feudo: Roma (che pur s’era levata più volte a contrastarle) pel sacco della città, per la guerra di Campagna, e per la tragedia dei Caraffi, ridotta a sbigottimento: qua non restava più che Venezia libera e minacciosa, da potere al presente vietarle l’assoluta padronanza, e contrastargliela nell’avvenire. Quindi gli Spagnuoli, e tutti i loro aderenti scrivevano e sparlavano sempre contro Venezia: e tanto se le mostravano avversi quanto poscia si parve e nella rottura con Paolo V, e nella famosa congiura del duca d’Ossuna. E quantunque le due corti in palese facessero mostra [37] d’amicizia, in segreto astiavansi tra loro di odio acerbissimo[30], secondo passione con che gli uni e gli altri riguardavano la servitù o l’indipendenza d’Italia. Il principal carattere, che distingue gli storici parziali di Spagna, (siano di qualunque nazione) è dir sempre male di Venezia: e sovente dei papi che, come Paolo IV, Sisto V, ed altri, procacciarono frenare le esorbitanze della corte di Madrid. Oltracciò speciali contrarietà ciascun di loro covava rispetto alle cose di Lombardia: la qual provincia era allora divisa in due parti: l’una con Milano, Como, Lodi, e Pavia a suggezion di Spagna; l’altra con Bergamo, Brescia, Vicenza, e Verona a signoria de’ Veneziani, talchè l’Adda li partiva. E siccome suole esser sempre questione tra vicini di costumi diversi e di interessi contrarî, così essi pure dalle due ripe del fiume contendevano: non solo per le gabelle, pei banditi, e per molte altre ragioni di giure internazionale, ma anche per il diritto del dominio che la corte di Spagna pretendeva sopra alcun territorio dei Veneziani.[31] [38] Laonde costoro a cessar soperchierie non amavano che il re crescesse di potenza: e questi per non perder Milano, anzi per fa valere quando che fosse i diritti suoi al di là dell’Adda, e tenersi alto in Italia, studiavasi mettere a basso i Veneziani quanto più copertamente poteva, senza suo carico.[32]
Il perchè gli uni e gli altri già da molto tempo si guardavano dal mettersi insieme nè a favore nè contro chicchefosse, compreso il Turco: sapendo i Veneziani non doversi ripromettere gran fatta soccorsi dagli Spagnuoli; e questi non volendo dar loro troppa mano a crescere. Onde il senato, costretto dalla necessità, per [39] non perdere il suo dominio oltremarino sopra tanti paesi cristiani da Cipro sin quasi a Venezia tutti esposti all’infinita potenza del Turco, per trafficare liberamente in Levante, e per massima di stato osservava la pace (non l’alleanza come i Francesi) alla casa Ottomana: e se alcuno chiedevalo di unirsi seco contro a quella casa, se ne scusava allegando l’incorrotta fede della Repubblica nel mantenere i trattati anche a suo discapito cogli stessi infedeli.[33] All’incontro il re nudriva nimicizia perpetua col Turco, non avendo mai la corona di Spagna voluto riconoscere nè trattare alla pari con quel governo barbaro e usurpatore. Dal che gliene veniva molta lode di costanza e di giustizia, e insieme qualche utilità: perchè lo spavento dei Turchi, sempre in guerra o in procinto di guerra contro Cristiani, era un gran freno a mantenergli soggette le Sicilie, ed imbrigliati i Veneziani. Ma se questi alcuna volta da quel nemico offesi chiedevano aiuto al re potevano far conto innanzi tutto di sentirsi rispondere che nè egli nè il suo consiglio giudicavano che fossero meritevoli di essere aiutati nei loro bisogni, perchè nel tempo dei travagli altrui eran soliti di starsi a vedere.[34]
Ciò non pertanto alcune volte Spagnuoli e Veneziani stretti ambedue dall’istessa necessità di difendersi, provocati dalle atroci ingiurie dei Turchi, e condotti del Papa, avevan potuto collegarsi insieme. Ma la loro alleanza era riuscita sempre piena di scaltrimento e di frode, non essendo per ciascun di loro eguali le partite [40] del vincere e del perdere. Nell’avversa fortuna dovevano perdere i Veneziani tutti i loro possedimenti oltremarini per opera dei Turchi, e tutta la terraferma per opera degli Spagnuoli: senza che questi arrischiassero nulla, potendosi le Sicilie difendere da sè, come facevano. Nella prospera, niuno impediva che il dominio veneto si allargasse (come già altre volte) sino a Costantinopoli; e che quel di Spagna (come troppo lontano da siffatte conquiste) si restasse a veder crescere la potenza degli emoli, ed il pericolo di Milano. Il senato metteva sul tavoliere tutto l’aver suo, a rischio di perdere ogni cosa, o di raddoppiar la posta: il re una piccola parte in ogni evento, a rischio di poca perdita e con speranza di minor guadagno. Quindi ne veniva un’altra differenza notabilissima tra loro: erano i Veneziani in tanto bella condizione che la causa privata della Repubblica s’accordava onninamente con la pubblica dell’Italia e del Cristianesimo: cosicchè ogni vantaggio o perdita dell’Italia e della Cristianità era pur perdita o vantaggio dei Veneziani. Essi avevano in un sol punto l’utile e l’onesto. Non così per li Spagnuoli, cui veniva egualmente bello, ma non utile del paro, il vincere. E perciò combattuti da contrarie passioni angustiavano sè stessi ed i compagni, stentamente misurando che il troppo bello non addivenisse per loro troppo nocivo.
Valga l’esempio di quel che successe al tempo di Solimano. La Repubblica era in pace col Turco, quando Carlo V gli faceva la guerra. Questi chiese aiuti, quella allegò la pace, ambedue se ne offesero. Ma avendo poco dopo lo stesso Solimano assaliti i Veneziani al paro degli Spagnuoli, allora stretti gli uni e gli altri dal medesimo bisogno, per intramessa di Paolo III, si collegarono. Batterono il Turco, lo scacciarono dalla Puglia, [41] andarono concordi sin che l’utilità degli uni parve utilità anche agli altri. Venuto però il destro di dare al nemico una gran battaglia, e una gran vittoria ai Veneziani, allora il vecchio Doria diventato spagnuolo, voltò le spalle. Espugnato Castelnuovo, ricusò secondo i patti consegnarlo ai Veneziani. La lega si sciolse e gli alleati si rimisero al solito, chi in pace, chi in guerra col Turco; e tra loro in più nemicizia di prima.
Ora nel 1570 quantunque si mantenessero gli Spagnuoli nemici del Turco ed i Veneziani in pace con lui, ciò non pertanto avendo Selim assalito Cipro e messo mano a toglier quel regno alla Cristianità, la Repubblica deliberò la guerra; elesse doge di bellicosi spiriti Luigi Mocenigo, mise in piè sì grande armata che nè prima nè poi n’ebbe mai la simigliante, i nobili e i cittadini con volontaria offerta di denaro concorsero a sostener la patria: ed il Papa per la salute d’Italia, e per opporsi all’usurpazione dei barbari non ebbe mestieri di mandar nunzî a Venezia, perchè in quella vece gli ambasciatori della Repubblica vennero a Roma profferendo tutte le cose loro per la guerra, nella quale avrebbero durato senza mai cedere a meno che non si vedessero abbandonati.[35]
[42]
All’incontro Filippo II stette sempre saldo ad aspettare le suppliche de’ Veneziani e del Papa; e le pratiche non solo degli ambasciadori ordinari e straordinari di Venezia, ma quelle pure del nunzio Giambattista Castagna arcivescovo di Rossano residente alla sua corte, e di Ludovico de Torres chierico di camera, e del cardinal Alessandrino nipote del Papa, mandati a lui l’un dopo l’altro «per farlo risolvere a prestar questo servigio alla causa comune del Cristianesimo, di entrar nella lega contro il Turco; e che gli dovesse parere questa impresa giusta, onorevole, ed utile: e che S. M. pel zelo che aveva sempre mostrato verso la conservazione dei Cristiani (quandanche non ci vedesse il proprio interesse) dovesse congiungersi co’ Veneziani e non temer di loro, ma nel comun pericolo averli per amici massime insieme col Papa.»[36] Alle quali cose tanto giuste e richieste [43] istantemente e con questi istessi precisi termini dal Pontefice, non potendo Filippo ricusarsi per esser tenuto pio, cominciò a querelarsi dei Veneziani come indegni di essere aiutati,[37] e a chieder tempo per decidere con maturità sopra la Lega proposta, come affare di così gran rilievo. Dopo di che ponderando gli interessi della sua corona, e posposti gli scrupoli della coscienza, deliberò lasciar che i Veneziani s’immergessero nella guerra, dando loro parole di speranza e mostra d’aiuto.[38] E così per caparra della lega futura [44] (mentre tenuti da lui non si movevano a soccorrere i Veneziani nè il granduca Cosimo colle sue galere, nè il senato genovese, nè il duca di Savoia) egli promise che avrebbe mandato in Levante Giannandrea Doria con quarantanove galere sotto lo stendardo ed ubbidienza del general pontificio.
Per ciò quando si riseppe a Venezia che il soccorso del re andrebbe a congiungersi coll’armata loro sotto il governo di Marcantonio Colonna, se ne rallegrarono fuor misura, come quelli che in tal modo pensavano esser daddovero aiutati. E alla corte di Madrid piacque aver fatto un bel tiro agli emoli laddove pensavano star più sicuri. Perciocchè sotto quelle tanto belle viste dello stendardo e dell’obbedienza misleali intendimenti ricoprivansi: ed affinchè Giannandrea nè di suo moto, nè a talento di Marcantonio, non corresse a favorir troppo efficacemente le imprese dei Veneziani, già prima di muovere da Messina teneva secrete istruzioni scritte di mano del re[39] per le quali tanto doveva stare coll’obbedienza [45] e allo stendardo, quanto gli pareva[40] e portar così grande aiuto ai Veneziani in Cipro quanto n’aveva portato suo zio alla Prevesa,[41] e con questo meritarsi [46] dal re Filippo sempre più grandezze e favori. Dalle opere si conoscono gli uomini.
Ma lasciate pur da parte le secrete istruzioni della corte, e presa in mano la lettera patente di Filippo a Marcantonio, che avanti ho pubblicata, a chi ben la considera e quanto ai concetti e per conto degli effetti che se ne vedranno si mostra chiaro il disegno di deludere i Veneziani, dando loro come certo un incerto soccorso: e di mettere eziandio il General pontificio nella contradizione di dover comandare ed ubbidire al regio. La patente strigne il secondo sotto l’ubbidienza del primo, e insieme il primo sotto il parere del secondo. All’uno il presiedere, all’altro il definire, a tutti due il dovere e il diritto di sottomettersi e rilevarsi, ed a ciascuno il decidere quando era da star sui pareri e quando sui comandi. I Veneziani pasciuti di vento avessero speranze senza costrutto; il Papa onori senza autorità, e il Re sicurezza di stato, lode di pietà, e tutto quel che meglio gli venisse.
Così dunque Giannandrea Doria che per migliori interpetri doveva aver colto l’alto senso delle arcane ordinanze del suo sovrano, stavasene a Messina facendo le grandi viste di voler ubbidire, e non mai venendo ai fatti. Esso era allora nell’anno trigesimo primo dell’età sua, lungo, magro, negro, deforme, cui la testa aguzza, la corta e crespa capigliatura, il naso camuso, l’occhio incavato, ed un gran labbro gonfio spenzolato all’ingiù [47] davano l’aria piuttosto di corsaro africano che di gentiluomo genovese.[42] Ma sotto a quelle deformezze chiudevasi animo grande, intelligente, valoroso, gran pratica del mare, conoscenza degli uomini, simulazione profonda, ed arte sottile per menar la sua barca secondo il meridiano di Madrid. Teneva egli a Messina trentasette galere tra spagnole, napoletane e siciliane; e dodici sue proprie al soldo del re per diecimila scudi all’anno e a galera: e quivi stavasene senza darsi gran fatto pensiero di muovere. Giudicava che Marcantonio non potesse mai per quell’anno esser pronto da condurselo appresso allo stendardo. Quando fuor d’ogni sua opinione, sentì ai primi d’agosto che quegli in soli cinquantadue giorni aveva pure armato di tutto punto le dodici galere, e già era in Otranto aspettandolo, fece vela. Ma con tanta lentezza, che partitosi da Messina alli dodici, e sempre col buon tempo, non giunse in Otranto fino alli venti del mese.[43] Marcantonio attendevalo da [48] quattordici giorni. Venuto colà a due ore di notte, diè fondo fuor del porto: nè si mosse dalla sua capitana, nè mandò altrimenti a visitare il generale del Papa, nè a mettersi all’obbedienza sua, come avrebbe dovuto. Ma avendogli Marcantonio inviato Pompeo Colonna da sua parte a visitarlo, egli rese il complimento per mezzo di Marcello Doria. La mattina poi, senza altra cortesia entratosene in porto, sarebbe restato quivi chi sa come e quanto se l’istesso Marcantonio, per attendere più alle cose di momento che alle frivole, dissimulando lo spregio, non fosse andato a ritrovarlo. E usò secolui tutti i cortesi modi, e largheggiò di titoli sino a dargli dell’eccellenza, quantunque allora non fosse nè generale nè luogotenente di generale (il primo di questi carichi aveva in Spagna don Giovanni d’Austria [49] e il secondo don Luigi de Requesens commendatore maggiore di Castiglia) sperando così più facilmente piegarlo a trattar da senno i comuni interessi.[44]
[21 agosto 1570.]
Tale fu il primo incontro di questi due grandi sopra ai quali si riposavano allora le sorti della Cristianità. Ambedue italiani di patria, ambedue spagnoli di clientela: ma l’uno più volto a quella che a questa, e l’altro più a questa che a quella. Da ciò la differenza del loro procedere. Il genovese, dopo essersi seduto dappresso al romano, disse in verità tenere ordine dal re di ubbidirgli e di seguirlo. Ma ben maravigliarsi della temerità dei Veneziani nel volersi mettere insieme con loro allo sbaraglio dei Turchi tanto insuperabili sul mare: altro aspettar non potersene se non vedere le armate del Papa e del Re cacciate in fuga, e quella della signoria al tutto disfatta dai nemici, come era a metà già ruinata dalla morìa; e resa inetta non che al combattere, al fuggire. Dato però che coloro nella disperazione volessero farne la prova, e condurvi pure le squadre degli ausiliari, avrebbero almen dovuto per riverenza e per gratitudine venir quivi in Otranto a trovarli e a congiungersi insieme. Allora sarebbesi egli provato a persuaderli che per esser la stagione troppo innanzi, le forze troppo fiacche, il nemico troppo invincibile, non fosse tempo d’andar verso Cipro ad offesa altrui, ma soltanto da starsene sulle volte nell’Adriatico a difesa propria. Poscia rivoltosi a Marcantonio il richiese di dare la mostra delle galere, di venire nel suo parere [50] di non andare avanti, e in ogni caso di risovvenirsi che secondo gli ordini del re doveva conservargli l’armata.
L’altro allora con molta grazia e maggior destrezza, ripigliando per filo tutto il discorso, rispondeva: avere sua Santità e il Re cattolico comandato chiaramente che quanto prima dovessero le squadre ausiliarie unirsi all’armata veneziana: quindi non esservi questione nè dubbio di non doverlo eseguire. Delle sue genti e galere darebbe conto a chiunque in Candia, ove si sarebbero vedute le squadre di tutti, senza alcuna eccezione. I Veneziani essere stati aspettando riverenti e grati anche troppo, dal maggio all’agosto; e non doversi dar carico ai medesimi perchè allora non avessero abbandonato i Cristiani di Cipro e di Candia allo strazio dei nemici per venire in Otranto a complir cogli amici. Lodar egli molto che l’armata cattolica si guardasse dai pericoli, navigando sempre in buona regola e governo, non già fuggendo ogni cimento: non potendo esser volontà del Re che l’armata sua si conservasse senza riputazione. Quanto al modo di combattere i Turchi e di stimare le forze dei Veneziani doversene ciascun riportare a ciò che se ne consiglierebbe in Candia: dopo fatta l’unione di tutte le forze cristiane si prenderebbero più certe e fresche contezze degli amici e dei nemici. In fine pregavalo che considerata la stagione così bella del mese di agosto non la facesse inutilmente trascorrere, ma usasse somma diligenza per mettersi subito alla vela.[45] Il qual ragionamento tanto assennato quanto [51] ciascun comprende, ridusse Giannandrea a consentire. Ciò non pertanto bisognò prima dargli tutte le soddisfazioni che seppe domandare: levargli la paura di essere per via assalito dai Turchi: ed aspettarlo là dove, non avendo cosa a fare di due ore, si trattenne due giorni. In capo ai quali finalmente le squadre ausiliarie fecero vela in alto mare verso Candia.[46]
VI. — Intanto le cose di Cipro volgevano manifestamente a mal termine: e l’isola per tutti i tempi celebrata come luogo del piacere, delle grazie e dell’amore era tutta in fiamme, in sangue, e in lagrime in che gemevano grami e desolati i superstiti alla strage ottomana.[47] [52] Mustafà general capitano di Selim all’entrante di giugno aveva sbarcato colà un formidabile esercito: quattro mila cavalli, sei mila giannizzeri, e novanta mila fanti. E volendo espugnar le sole due piazze d’armi che quivi erano, Famagosta e Nicosia, disertate le campagne intorno alla prima, si rivolse a questa seconda per essere città capitale del regno, debolmente fortificata, e meno opportuna a ricevere i soccorsi, perchè trenta miglia lungi dal mare. Governavano per i Veneziani Nicolò Dandolo luogotenente del regno, Astorre Baglioni perugino governator generale dell’armi, il conte di Roccas barone principe dell’Isola, e il colonnello Palazzo da Fano con duemila e cinquecento fanti italiani,[48] cinquecento cavalli dei gentiluomini feudatari, cinquecento stradiotti, e qualche numero di gente delle battaglie cittadine, con molti gentiluomini e soldati venturieri e molti anche dell’Isola. Avevano i Veneziani fatto diverse provvisioni per fornir meglio quel regno: ma la fortuna era stata loro in tutti i principî contraria. Imperciocchè essendo il conte Girolamo Martinengo con grosso presidio mandato per governatore a Famagosta, poco dipoi la sua partenza morissi; e tutte le genti che seco conduceva di contagiosa infermità similmente perirono: di modo che Astorre Baglioni, alla cui [53] cura Nicosia principalmente era commessa, acciocchè la fortezza di Famagosta molto più rilevante e sul mare non si trovasse sprovvista di governatore, fu costretto nel maggior bisogno lasciar Nicosia in mano del Dandolo, uomo inetto, e mettersi in Famagosta, senza che più il ritorno conceduto non gli fosse nè a Nicosia nè a Perugia: perchè quivi poco dopo assalito e fatta la nobile difesa che nell’altro libro dirò, per gloriosa morte lasciò la vita. Similmente Pallavicino Rangone, in luogo del Martinengo, con tremila fanti mandato insieme a Sebastiano Veniero provveditor generale del regno, per varii casi l’uno e l’altro distratti tanto in Candia furono trattenuti che esso Rangone di sua infermità vi morì, ed il Veniero non potè mai arrivare a Cipro. Dalle quali cose seguì che quando Nicosia fu assediata si ritrovò senza governatore e col debolissimo presidio di soli mille cinquecento fanti, al tutto sproporzionati per difendere grossa città, vasto perimetro, opere esteriori e undici baluardi. Pur nondimeno quelli che si trovarono nella piazza, e principalmente il colonnello Palazzo da Fano che, posta l’imbecillità del luogotenente Dandolo[49] e la disubbidienza del collaterale Roccas,[50] fu il miglior uomo del presidio; e con lui i capitani Cecco da Perugia, Giannandrea da Spello, Niccolò Paleotti da Bologna, Camillo de Gaddi da Forlì, Carlo Malatesta da Rimini e il capitan Fabrizio da Imola[51] si accinsero alla difesa. Nonostante la disparità delle forze avrebbero potuto sin dal primo giorno, siccome tutti dissero, riuscire al glorioso segno di solenne vittoria, se il Dandolo e il Roccas avessero voluto seguire il prudente e salutifero consiglio del colonnello [54] Palazzo.[52] Ma per l’imperizia loro e codardia, lasciata ai nemici (quantunque stracchi, disordinati e senza artiglieria) libera la strada sin sotto alle mura, bisognò chiuder le porte, ed aspettare che il dì seguente venissero sbarcati e condotti là sopra i cannoni d’assedio per riceverne riposatamente la batteria. Al furor della quale riscossi in fine i rettori, permisero le sortite: che sebbene facessero buoni effetti, ne avrebbero prodotti migliori se fossero state da essi più presto e più ben dirette.
Il nemico aprì il fuoco della prima paralella alla distanza di dugensettanta passi dal fosso: il secondo a passi ottanta. Ma vedendo che il primo, dal rovinare in fuori alcune case eminenti, poco effetto faceva; e che nel secondo per il franco rispondere della città aveva i pezzi continuamente scavalcati; e molto più considerando Mustafà che i suoi tiri ficcandosi nel terrapieno morivano senza far rovina, rivolse il pensiero ai guastadori: facendo grande assegnamento nell’opere possenti della zappa e della pala, le quali dovunque adoperar si possono non ingannano mai le speranze della vittoria. Cominciò dunque a cavare il terreno, mettersi al coperto, e alzar trincere, e andare avanti a spinapesce, sempre difeso: e lavorando continuamente, sboccò dalla controscarpa nel fosso. Quivi trovando tutta quella terra che dai precedenti cavamenti vi aveva a disegno buttata, e cavando inoltre più larga e spaziosa trincera (sempre in mezzo al fuoco vivo perchè gli assediati non isturbassero i cavatori) con le fascine che la cavalleria da lungi traeva, fece così forti e gagliardi traverse che levò affatto le difese dei fianchi, nei quali è posta la sicurezza delle fortezze: senz’essi nè le cortine nè le faccie dei baluardi possono lungamente durare. Per tal [55] modo a sicurtà, non potendo essere nè offeso nè impedito, cominciò a smantellare la fronte delle fortificazioni sopra quattro lati del poligono, e le punte di altrettanti baluardi.
Di che cominciando que’ rettori di dentro con molta ragione a temere, stretti dalla necessità che molte volte suol partorire effetti stupendi, oltre al continuo controbattere, tentarono una sortita gagliarda di fanti e cavalli. Il dì venticinque agosto improvvisamente uscendo sull’ora del mezzodì, quando i Turchi per l’eccessivo calore stavano disarmati e stracchi, ruppero il campo, occuparono due principalissimi ridotti, e percossero i fuggitivi nella campagna di tanto terrore che se allora la cavalleria, secondo l’intesa, sboccava fuori dalla piazza, facilmente quel giorno con la liberazione di Nicosia una felice vittoria si sarebbe conseguita. Ma il Dandolo per star sui puntigli non volle che la cavalleria nobile del regno uscisse, e neanche il permise agli stradiotti che richiedevanlo frementi al portello. E così quei fanti che già alla vittoria avevano aperto la strada, essendo poi dalla cavalleria nemica assaltati e vedutisi abbandonati dalla loro, furono in necessità di lasciare la ben cominciata impresa e ritirarsi nella piazza con perdita di due capitani e quasi cento soldati tra morti e prigionieri. Dal qual fatto i Turchi per conoscere l’imbecillità di chi governava la piazza imbaldanzirono: e tanto rifidati di sè, quanto in minor stima avevano i nostri, vennero agli assalti ora ad un baluardo, ora a due, e finalmente a tutti quattro: con tanta furia e pertinacia, che in pochi giorni dettero sino a quindici assalti, nei quali essendosi da ambedue le parti fatto ogni possibile sforzo con ogni sorta d’armi e di istrumenti soliti adoperarsi in simili combattimenti, vi morirono Turchi infiniti, ma dei nostri ancor tanti che la città restò quasi vuota di [56] difensori. Laonde ridotte le cose a quel termine, non rimaneva altra speranza che nel sostenere più che si poteva con le ritirate dietro le breccie, con le chiuse alle gole de’ quattro bastioni: non lasciando piazza al nemico d’alloggiarvisi sinchè il soccorso giungesse, se pur poteva, in tempo. Scrissero per tanto i rettori di Nicosia lettere pressantissime in più parti dell’Isola perchè a Girolamo Zane, capitan generale dell’armata in Candia, si facesse sapere in chiari termini che non era più possibile sostenere la piazza se non veniva di presente soccorsa.
[31 agosto 1570.]
VII. — Stava il capitan generale Girolamo Zane coll’armata veneziana nel porto, o meglio direbbesi nel golfo, della Suda in Candia l’ultimo giorno d’agosto, molto perplesso con quelle lettere di Cipro in mano, quando le due squadre del Papa e del re, dopo aver navigato nove giorni con diversa fortuna, gli comparivano da lungi alla vista per ravvivare le sue speranze, e per mettere maravigliosa allegrezza nei suoi capitani che tutti ardentemente desideravano di rivolgersi al soccorso di quegl’infelici tanto orribilmente dagl’infedeli straziati in Cipro. Aveva il general veneziano ordine dal senato di usare ogni sorta d’onore e di rispetto a Marcantonio Colonna ed a Giannandrea Doria, e di ceder loro il primo luogo per la grandezza dei principi che rappresentavano. Perciò, prima che quelli approdassero, cavò tutta l’armata sua dal porto della Suda, a fin di incontrarli con ogni maggior dimostrazione d’onore. Mise avanti per tale effetto il capitan del golfo con una squadretta, e appresso tutte le altre galere di qua e di là divise in due stuoli, quasi due braccia aperte a ricevere in [57] mezzo gli amici. Ed essendosi questa manovra perfettamente eseguita, si trovò il Colonna con lo stendardo del Papa e la sua capitana nel centro: a diritta la capitana di Spagna, ed a sinistra quelle di Venezia. Tra le quali scambiati i saluti, come si costuma in mare, con molte salve di moschetti e di cannoni, ristretti insieme entrarono nel porto.
Quivi Giannandrea chiese subito la comodità per ispalmare le sue galere. E mentre egli se la passava tra il sevo e la brusca, Girolamo Zane e Marcantonio Colonna che avevano mantenute in punto e spalmate di fresco le loro galere, trattavano insieme nella camera di poppa della capitana pontificia, quel che si avesse a fare in così grande distretta. Zane mise fuori le lettere più recenti di Nicosia e di Famagosta: e poi ne cavò una avuta ultimamente da Venezia, per la quale gli comandavano che (appena unite fossero con lui le galere del Papa e del re) dovesse andare a Cipro, combattere l’armata nemica, e liberare il regno. Sopra le quali cose ragionando, diceva: Non potere il Turco occupare e neanche mantenere il regno di Cipro se non per mezzo dell’armata navale; perchè, essendo isola, soltanto dal mare poteva ricevere eserciti e munizioni: dunque distrutta l’armata nemica, cadeva di necessità l’impresa sua e si aveva vinta la guerra. La speranza poi del vincere l’armata turca, essere ragionevolmente fondata non solo sopra il maggior valore dei Cristiani, avendo quivi raccolto il fiore dei cavalieri di tutta la Cristianità, ma anche sul maggior numero delle galere, non oltrepassando cencinquanta quelle del nemico; e quelle degli alleati dugento, oltre alle dodici galeazze ed al miglior armamento di artiglierie e di rambate e di ripari, che i Turchi non avevano. Quanto alla battaglia, essere allora non solo utile ma necessaria per levare i Turchi da Cipro, qualunque [58] fosse lo stato di Nicosia. Imperciocchè o la piazza reggeva ancora, e molto più reggerebbe col soccorso vicino: e quandanche per disavventura fosse perduta, restava non solo la fortezza di Famagosta intatta, e tanti altri luoghi forti dell’Isola; ma anche la sicurezza di ricuperarla: perchè non potendo essersi perduta se non da due o tre giorni, e stando essa dentro terra trenta miglia, senza dubbio i Turchi non sarebbero tornati sì presto dal sacco di quella città tanto ricca, che non si fosse potuto prima sorprendere alla spiaggia l’armata loro senza difensori, e sottometterla. Con questo sol tiro di riscossa muterebbero le sorti, diverrebbero vinti gli stessi vincitori, e libera la soggiogata città.
[3 settembre 1570.]
E certamente le cose quasi con lume di sovrumana visione trattate da Girolamo, per volontà sua e pieno consentimento di Marcantonio sarebbero successe in quel modo che detto aveva, se Giannandrea chiamato a dire il suo parere non si fosse risolutamente opposto al partito: e ciò con tanto magre e timide ragioni che, riscaldandosi gli animi, si portava pericolo di grave dissidio. Il perchè Marcantonio, volendo dolcemente tirarlo a miglior divisamento, pregato il generale veneziano a ritirarsi, raccolse nella sua capitana il consiglio privato dei soli ausiliarî: al quale intervennero Giannandrea, Pompeo Colonna, il marchese di Santacroce generale delle galere di Sicilia, don Giovanni di Cardona generale di quella di Napoli, Gianfrancesco di Sangro marchese di Torremaggiore, don Cesare Davalos, e con altri ufficiali superiori Sforza Pallavicino generale di terra, uomo assai da tutti stimato. Quivi avendo Marcantonio dato libertà a quei signori che ciascuno aprisse l’animo suo intorno alla domanda dei Veneziani di andare avanti e [59] di presentar la battaglia al nemico, prima d’ogni altro rispose Giannandrea negativamente, dicendo: Esser la stagione già inoltrata ed i luoghi al di là di Candia senza porto per l’armata cristiana; quindi non doversi consentire l’andata. Le galere veneziane quasi vuote di gente per la grande mortalità, le galere Turche al contrario piene di buoni soldati: il numero dei legni dall’una e dall’altra parte eguale: dunque non potersi presentar la battaglia. Dal procedere o dal combattere non altro effetto poterne venire se non il disfacimento della unica armata che allora aveva la Cristianità, o la salvezza sua per una fuga vergognosa. Ma temperando l’opposizione col mostrarsi nelle parole pronto a combattere se l’armata veneta fosse in ordine, non tirava niuna conclusione positiva del suo discorso, nè proponeva impresa alcuna, ma soltanto provocava i Veneziani a risolversi presto, volendo alla fine del mese, tornarsene in Sicilia.[53]
[60]
Appresso parlava don Giovanni di Cardona tanto da dire che egli intendeva rimettersi in tutto e per tutto al parere di Giannandrea. Ma il prode marchese di Santacroce, generale delle galere di Sicilia, il cui nome sarà più volte onorato in questa storia, francamente impugnando l’opinione dei due prenominati, e quasi tacciandola di viltà, da buon soldato in poche ma solenni parole, diceva: Che delle due cose richieste dai signori Veneziani non si poteva per debito e per onore fare a meno di eseguir l’una, e prepararsi all’altra: cioè andare avanti subito, e dare a tempo la battaglia.[54] La qual sentenza sostenuta da Pompeo Colonna sarebbe forse prevalsa, se Sforza Pallavicino credendo comporre le opinioni diverse non avesse messo il partito di operare per diversione: volgersi ai Dardanelli e minacciando il centro dell’imperio ottomano in parte così vitale e sprovveduta, strappar via da Cipro l’armata nemica e salvare quel regno: nel viaggio avrebbero facilmente potuto occupar Negroponte, e con quello in mano ricuperare in ogni caso per via di trattati quanto avessero perduto per forza d’armi.[55]
Per la qual cosa essendosi gli altri signori del consiglio accostati chi al parere di Giannandrea, chi all’altro del marchese, chi al terzo del Pallavicino, parve a Marcantonio [61] che fosse tempo di dire il suo. E quantunque forte si dolesse in suo cuore di tanto poca concordia, e amaramente sentisse opporre gli ostacoli della stagione da quelli istessi che avevanla lasciata passare; pure temperando l’indignazione con misurate ed efficaci parole, senza offendere gli altri, nè fallire al proprio dovere, fatto un po’ di silenzio parlò presso a poco così:[56] Mentre noi a tutto agio, o signori, in questo sicuro e comodo porto con dugento galere intorno consultiamo di quel che s’abbia a fare, già gl’infedeli che hanno mosso la guerra nel Regno di Cipro sono sotto a quelle fortezze in battaglia; già la capitale ha sostenuto quindici assalti, il generale veneziano per andarla a soccorrere non ha aspettato altro che il nostro arrivo. Noi siamo venuti, ed egli oggi ci richiede di esser seco, di andar verso Cipro, e di dar la battaglia agli inimici. E quantunque l’urgenza grande del bisogno loro e nostro richieda piuttosto fatti che parole, nondimeno attesa la diversità dei pareri, dovendo anch’io dir quel che penso, francamente v’aprirò l’animo mio con quella brevità che l’argomento consente e il tempo richiede. Noi non siamo venuti sin qua per assistere da vicino al trionfo dei nemici nostri, per sentirne gli insulti, per vedere scorrere impunemente il sangue dei cristiani; non per deludere l’unica speranza degli amici sotto l’ombra d’un vano soccorso, nè per tornarcene pieni di vergogna donde siamo partiti pieni di onore. Meglio sarebbe stato non essere venuti: chè non avremmo oggi nè l’obbligo di metterci alla battaglia nè la taccia di fuggirla. Ma dappoichè pur ci siamo per nostra volontà e per comandamento dei nostri principi [62] coll’armi in soccorso dei Veneziani, noi non possiamo senza vergogna nostra, senza aggravio degli amici, e senza derisione de’ nemici tirarci indietro. Anzi come cavalieri e come cristiani siamo stretti a metterci risolutamente ad ogni prova per dare soccorso a coloro cui abbiamo promesso soccorso. Altrimenti daremmo ragione di dire, cosa deforme e quasi inaudita! che due principi tanto grandi quanto il Papa di Roma e il re di Spagna abbiano mandato aiuto ad un principe minore per non doverlo aiutare: molto più stando essi a manco rischio di fortuna, quando il terzo espone tutto sè stesso al pericolo, ed i primi soltanto una piccola parte delle loro forze. E per questa istessa ragione che i Signori Veneziani mettono nella guerra tutta l’armata loro di cento quaranta vele, ed espongono il loro stato a pericolo più grande, ed hanno in casa propria il nemico, è giusto che noi ausiliari li soccorriamo dove essi sono, e come essi richiedono: non dove e come a noi piace. Quindi quantunque a me privatamente parrebbe bella ed utile impresa conquistar Negroponte e portar lo sgomento sino a Costantinopoli con tutti quegli effetti che si possono immaginare qui dal signor Sforza; tuttavia, trovandomi unito ai Signori Veneziani per soccorrerli, quando essi mi richiedono che in vece del mio metodo di operar per diversione io li segua nel metodo loro più semplice e naturale d’andare colà ove è il teatro della guerra in Cipro, secondo che essi sono costretti a fare per molte ragioni, e per obbedire agli ordini del loro Senato, e mi dicono che ad essi non piace perdere il proprio per acquistar l’altrui; allora non mi sembra dover mancare alla domanda loro. Affinchè giammai per il tempo avvenire abbiano a far lamento d’esser stati abbandonati anche dal generale del Papa, e che per sua colpa sia perduto il regno di Cipro. E tanto più son fermo [63] in questa determinazione ed a voi pure, signori, la propongo, quanto che ho ragionevole speranza della vittoria. Imperciocchè quantunque la stagione sia avanti, nondimeno essa non è nè più nè meno inoltrata di quel che sia oggi il tre di settembre: il qual termine ci dà tempo sufficiente per andare a Cipro, e far la giornata, e ritornarcene in quindici giorni, cioè molto prima della fin del mese, sino a che l’eccellenza del signor Giannandrea dice di potersi trattenere. Ed ancorchè si avesse a tardar di più, siccome il caso presente non è di elezione ma di necessità, bisognerebbe acconciarvisi senza timore, sapendosi che le galere tengono il mare non solo di settembre e di ottobre ma anche di novembre, e per necessità in ogni tempo. Quanto ai porti abbiamo nell’isola il meglio: perchè il golfo di Famagosta protetto dalle fortezze è in mano dei nostri, aperto per noi: e le baie di Limissò e di Pafo, e la cala di Larnaca, e la rada di Cerine e di Lesca sono a riceverci. E come quivi sulla spiaggia aperta dell’isola, senza tante comodità quante possiamo aver noi, già da gran tempo dimora e non teme dimorare l’armata nemica, al modo stesso e meglio potrà starci la nostra. Quantunque poi sia verissimo che l’armata veneziana abbia patito gran mortalità, nondimeno la si è rifornita di gente qui in Candia; ed ora le sue galere sono armate a sufficienza: avendo ciascuna per lo meno ottanta uomini da combattere. Inoltre ha marinari e remigi tutti cristiani, che all’occasione lasciato il remo piglieranno l’armi, e saranno più che bastanti a far dichiarar la vittoria dalla parte nostra. Finalmente il numero delle nostre navi, come avrete già veduto e potete anche di qui ad una ad una riconoscerle, sono galere di Nostro Signore dodici, di sua Maestà quarantanove, della Signoria cento e ventisei, un galeone, undici galeazze e sei navi: in tutto [64] dugento e cinque legni di fila.[57] Quelli del nemico, per aver più volte il general di Venezia mandato a riconoscerli come anche noi appena arrivati abbiamo fatto, tenendoci sempre avvisati dei movimenti loro e d’ogni altra occorrenza, non sono più che cento e cinquanta galere disordinate alla spiaggia. Quindi noi non corriamo alcun pericolo nel seguire i Veneziani in quel luogo. Nè dobbiamo avvilirci a dubitar della vittoria. Con questo, cadremmo nel peggior di tutti i danni: perchè noi con tutta l’armata nostra renderemmo contennendo il nome cristiano agli amici ed ai nemici di tutta la terra, anche nel tempo a venire, se trovandoci così vicini, superiori di forze, e provocati dalle ingiurie, lasciassimo strapparci un regno di mano e rifiutassimo la battaglia per la sola paura di esser vinti. Dunque tutte le ragioni di guerra e di onore, i nostri alleati e i nostri principi, ci inducono a procedere avanti, e a cercar la battaglia in Cipro. Colà si aspettano di vederci (e ne temono) anche i nemici; colà gl’invitti difensori e fratelli dell’istessa fede, le matrone, le vergini, i fanciulli che per le chiese pregano sia pronto il nostro soccorso. Famagosta si difende, ed ha buon presidio. Molti cristiani stanno in arme sulle montagne. Gli infedeli soldati e marinari o all’assedio, o al sacco di Nicosia. L’armata loro alla spiaggia quasi abbandonata. Noi possiamo con un colpo risoluto e franco distruggerla. E con l’aiuto di Dio, andandosi in giusta guerra contro un cane mancatore [65] di fede, io son certo conseguir quella stessa vittoria che già noi tutti rallegrò cinque anni addietro nella liberazione di Malta. Dunque, o signori, imitiamo i Veneziani, e andiam con loro al soccorso e alla battaglia.»
Aveva appena Marcantonio finito di parlare, e già, come suole accadere, alcuni facean plauso, ed altri non avendo che opporre tacevano, quando ecco venire il general veneziano col voto dei suoi a richiedere pubblicamente in consiglio che piacesse agli ausiliari di venir a Cipro, secondo l’ordine che esso aveva da Venezia: unico rimedio alle afflitte cose di quel regno. Della qual sua requisizione consegnò in mano a Marcantonio Colonna una scrittura in questi termini.[58] «Eccellentissimo signore. Havendo io tanto con questi signori del consiglio, come li miei signori in Venetia, giudicato che nullo altro rimedio habbi il regno nostro in Cipro et così l’ovviar alla ruina che appresso potrebbe causarsi a questi nostri paesi, frontiera del Turco, se non di andar a trovar la sua armata, ho voluto pregar et essortar come fo caldamente V. E. come general di S. Santità et che ha tanta autorità in quella di S. M. Cattolica che non voglia in questo abbandonarci ma esser con noi: con speranza che il Signore Dio aiuterà la sua causa. Et che considerato il numero de nemici et la nostra armata non solo potemo et dovemo andar a combatterla, ma con certa speranza della vittoria; et quando lo nemico non ci aspettasse resteremo a S. Santità, et Maestà tanto obligati come la ragione ci obliga, et non periremo indifesi. Pregando V. S., il signor Gio. Andrea, et quelli signori che havendo vista la nostra armata lassino navi galere et insomma faccino tutto quel che a lor pare, che tutto son pronto di fare, sperando che non ci habbino a mancar in questa urgente occasione, lasciandoci in preda di un [66] nemico comune come questo, et a V. E. bacio le mani. Di galera. — Girolamo Zane, Cap. Generale.»
Laonde aggiunto al voto di lui quello del general pontificio, che era già la maggioranza dei tre principali, e sostenendoli Pompeo Colonna, il marchese di Santacroce e quanti ivi aveva prodi uomini, finalmente anche Giannandrea consentì di andare. Ma le sue peritanze, i suoi sembianti, e le parole con che in pubblico e in privato, prima e dopo discorreva, avevano già impresso così altamente nell’animo dei Veneziani l’opinione che egli non aveva volontà di far nulla in questa guerra, che per non mostrare sospetti sulla lealtà del Re, amarono meglio di credere che Giannandrea non volesse pericolarvi le dodici galere di sua proprietà. Talchè il generale della Repubblica venne a termini di pregar Marcantonio a procacciare che Giannandrea accettasse un deposito di duecentomila zecchini di Venezia per sicurezza della sua persona e delle sue dodici galere,[59] e per riparare ai [67] danni che dalla battaglia potessero provenirgli. E quantunque Marcantonio per non fare così grande onta a Giannandrea lo impedisse, pure i Veneziani sempre si mostrarono pronti di andargli ai versi per veder se lo potevano condurre volentieri alla battaglia. Quindi avendo egli richiesto molte cose avanti di partirsi dalla Suda, fu di tutte soddisfatto. Perchè primamente volle che se gli desse biscotto in tutta la navigazione; e il veneziano concesselo anticipandone benanche una grossa partita:[60] poi domandò che non mai dovesse navigare di retroguardia per non aiutar le galere restie; e quantunque quel travaglio fosse obbligo di tutti per turno, secondo le leggi di quel tempo, pure se ne fece eccezione per lui: appresso non consentì a intrecciar le sue galere con le altre dell’armata, ma volle tenersele tutte spartite con seco dalla banda del largo; e quivi pure lo lasciarono fare a suo talento, a patto però che in cambio di navigare sull’ala diritta verso il largo del mare, si mettesse alla stanca verso terra: e finalmente, ripetendo sempre che doveva tornarsene a casa alla fine del mese, volle che si facesse all’estrema punta dell’Isola di Candia, nelle acque di Settia, la mostra generale di tutta l’armata, per accertarsi che le galere veneziane si fossero con gli uomini levati dall’isola rifornite a dovere.
[11 settembre 1570.]
VIII. — Così sciolsero i canapi dalla Suda: e quando sarebbe stato da navigar speditamente al soccorso, bisognò dar fondo e perder tempo nel passar la mostra e nel far contento Giannandrea. Quindi la mattina delli [68] undici settembre, messa tutta l’armata a ordine di battaglia, e le galere sopra un’ancora al vento, discoste tanto tra loro quanto bastava a impedire il passaggio delle genti dall’una all’allra, tirati dentro li schifi, e fatte in più luoghi le guardie, andarono i generali tutti in un tempo a rassegnarla.
Alla squadra del Papa, Marcantonio, Giannandrea, Sforza Pallavicino, e Giacomo Celsi; questi istessi all’armata di Spagna; ed a quella di Venezia da una parte Giannandrea e Sforza, dall’altra Marcantonio, Zane, Santacroce e Francesco Duodo capitano delle galeazze: rividero queste ultime il Cardona, Marcello Doria, Pallavicino e don Alvaro di Bazan. Si trovò che le galere del Papa erano ben fornite, massime di fanteria più d’ogni altra: quelle di Spagna con cento uomini da combattere per ciascuna; e quelle di Venezia con ottanta: undici galeazze, un galeone e sette navi, cioè dugento e due legni di linea, con mille e trecento cannoni, sedicimila soldati, e più del doppio remigi e marinari.[61]
[16 settembre 1570.]
Tuttavia la mostra non piacque a chi era interesse che non piacesse: e dopo le ragioni, restarono le partite [69] più incerte che prima. Giannandrea diceva non sentirsi sicuro; aver potuto i Veneziani dall’una all’altra galera più volte nel tempo della mostra far passare le soldatesche, per ingannare sul numero: diceva non essere sufficiente l’armamento di ottanta soldati per galera. E ripetendo i suoi parziali or una ora un’altra difficoltà, e negando oggi quel che ieri concedevano, bisognò che Marcantonio pregasse Giannandrea a mettere in scritto le sue osservazioni. Egli lo fece con quel manifesto che porta la data del sedici settembre in Sittia, e che essendo stato più volte pubblicato non fa bisogno ripetere, tanto più che dalle risposte di Marcantonio si può ben ricavarne il sentimento.[62] Non propone che difficoltà, biasima la mostra, dice che le galeazze erano nel porto con le poppe in terra e li soldati a mare, e che potendosi non solo da terra, ma pure da una galera all’altra, tramutar la gente e farne vedere assai più che non fosse, neanche restava chiarito bene delle forze: e in ogni modo essendo le galere veneziane scarse di ciurme, e non avendo più che ottanta soldati per ciascuna, non credeva veder ragione per avventurarsi alla battaglia. Due soli effetti buoni al suo giudizio si potevano sperare dall’andata in Cipro; ma tutti due senza fondamento: o che il nemico vedendo l’armata nostra risoluta a combattere la stimasse più del dovere, e se ne fuggisse: ovvero che volendosi ritirare, e andando esso al suo cammino, e gli alleati al loro, venissero ad incontrarsi insieme per azzardo, senza che i Turchi fossero nè preparati nè rinforzati. Ma non essendo credibile nè l’una, nè l’altra di queste due cose, anzi dovendosi supporre [70] che i Turchi facessero buona guardia e stessero pronti, non poteva suggerire altro se non che i Veneziani trovassero subito tremila soldati, e nelle loro centocinquanta galere ne mettessero, oltre gli ottanta altri venti, così che fossero cento buoni soldati in ciascuna: che però facessero presto in due settimane, altrimenti alla fine dei mese sarebbe partito: e del non essersi fatta cosa alcuna essi sarebbero in colpa. Se questo non è sarcasmo non saprei qual sia. A Lepanto si vedrà quali fossero i Veneziani con ottanta uomini, e qual Giannandrea con cento.
Letta e considerata siffatta scrittura, stimò Marcantonio doverglisi dare risposta: e, come era suo stile parcamente di sè stesso parlando in persona terza, definir la questione, rispondere alle difficoltà, ribattere le accuse, e dimostrare quale dovesse essere la condotta dei generali ausiliari in quella circostanza. Scrisse il suo manifesto sotto il dì sedici settembre in questa sentenza.[63]
«Marcantonio Colonna è fatto generale delle galere del Papa alli undici di giugno del mille cinquecento settanta, in aiuto dei signori Venetiani. E quando detti Signori avevano da armare cento quaranta galere; esso n’ebbe ad armare dodici. Il che fece contra l’opinione d’ognuno in pochi dì, bisognandoli ancora per detto negozio levare in Venetia molte difficoltà occorse nell’armare, per non s’esser mandate le galere dai Signori veneziani conforme all’appuntamento pigliato da Sua Beatitudine in scritto: anzi la maggior parte delle galere che ebbe, erano vecchie e mal atte, lasciate nell’arsenale per le peggiori, e la sua capitana propria era di quarant’anni. Li marinari mal pratichi lasciati ancor loro per non essere a proposito. E così si condusse alli [71] sei di agosto in Otranto, dove ebbe lettere da Sua Maestà Cattolica che, a requisitione di Nostro Signore, mandava in aiuto pur dei signori Venetiani le quarantanove galere che aveva in Italia, con commissione che Giovannandrea Doria che n’era capo obbedisse il detto signor Marcantonio, e questo perchè confidava in lui ch’averia il pensiero della sua armata e del suo servizio che aveva avuto nel resto delle cose che se gli erano imposte. Per il che Marcantonio si fermò in Otranto, stando di partenza per Candia, ed ivi aspettò Giovannandrea quindici giorni: e con esso partendo da Otranto alli ventidue di agosto giunse a Suda porto di Candia all’ultimo, dove s’unì con l’armata venetiana. E subito fu richiesto da quel Generale che si dovesse andare in Cipri ad incontrare l’armata nemica: e che la Signoria ce lo comandava espressamente, et così ancora che l’onorasse et obbedisse, sperando che da lui se daría ogni aiuto possibile. Ecco dunque (senza essere in lega formata) in che modo venne Marco Antonio ad essere generale di questa armata, messo da Sua Santità con ordine di aiutare li signori Venetiani in ogni cosa possibile, da Sua Maestà per confidare a lui li suoi servitii, e dalli signori Venetiani per essere aiutati. Ecco la precedenza che a Marco Antonio toccava, rispetto alla dignità del Papa. Che se Marcantonio fosse stato generale di questi tre principi assolutamente per fare quella giornata e quelli effetti che a lui fossero paruti, prenderia quel conto dell’esito di questo negotio, che da tal sorta di gente si richiede. Ma quando esso averà aiutato li signori Venetiani in quanto da loro è stato richiesto, averà complito con loro e con l’ordine di Sua Santità che era di fare tutto il possibile in servitio loro; e quando haverà tenuto conto del servitio di Sua Maestà, avrà corrisposto alla confidenza che di lui si è tenuta.
[72]
»Hor veggasi se questo si è fatto. Quanto a Sua Beatitudine et alli signori Venetiani si crede che abbino da essere soddisfatti nella diligenza di armare le galere, et con esse haver quindici giorni aspettato in Otranto l’armata di Sua Maestà Cattolica, et in Candia quindici li signori Venetiani ad intrecciare l’armata, et remediarla: nè mai lasciatili, seguendoli, et aiutandoli a quanto si sia potuto. E richiesto da loro del combattere, continuamente esservi concorso. Quanto a Sua Maestà (non ostante che Giovannandrea non fosse di parere d’andare ad incontrare l’armata nemica) Marco Antonio volse che si andasse sempre, mentre di ciò era richiesto dal general venetiano. Nel che si persuade haver fatto a Sua Maestà singolarissimo servitio: prima perchè in questo modo si è conservata all’armata di Sua Maestà, la reputatione senza la quale nè armata di terra nè di mare non possono fare cosa buona; e questa era persa, quando si havesse detto che per la prefata armata fosse restato il combattere. Poi perchè non si conviene alla prudenza di un tanto Principe che mandasse un aiuto per non volere arrischiarlo, quando quello che l’haveva da ricevere si metteva a rischio molto maggiore: come era questo che Sua Maestà perdesse quarantanove galere, e la Signoria centoventi galere, sei navi e dodici galeazze e quattordici schirazzi,[64] appresso a questo le loro isole e riviere marittime; oltre che tutto il danno, che da questo negotio fosse potuto accadere per non combattere, tanto di perdita di paese e città, quanto di perdere le occasioni che erano in piè d’una lega tanto utile alla Cristianità, tutto si fosse mai potuto dire che per questo rispetto di non volere concorrere l’armata di [73] Sua Maestà al combattere fosse accaduto. Nè vale a dire che l’andare a combattere fosse a certa perdita: perchè chiaro era che l’armata nemica non era unita con Luccialì e con gli altri corsari ponentini; nè mai passò il numero di centosessantacinque galere, e la nostra era di centottanta e dodici galere grosse che valevano per molto più, nè manco essi potevano haver sei navi così buone come le nostre.
»Et ancorchè la nostra armata non avesse tutta quella gente da combattere che saria stata necessaria, non era però che quella di Sua Maestà non l’havesse; e così quella del Papa, massime di soldati; e che quella della Signoria non havesse al meno ottanta uomini da combattere, e molte galere più, oltre a tante galere particolari che erano in questa armata, con tanta nobiltà, come erano li capitani di Sua Beatitudine, di Sua Maestà, Generale venetiano, Sforza Pallavicino, il generale di Napoli e sua padrona, generale di Sicilia, et altri capitani particolari, li due provveditori veneziani, il governatore degli sforzati, e il capitano del golfo, molto più artiglieria, e più gente armata che non usano li Turchi, gran quantità di fuochi artificiati, e tutte le ciurme di Sua Santità e della Signoria armate a combattere: sì che con l’aiuto di Dio, andandosi contro un cane mancator di fede, non si dovesse al certo sperare di conseguir vittoria. In modo che si è fatto il servitio di Sua Maestà: e si è detto, non senza tanto poca cautela, che non si risparmiasse in simile negotio un’armata ausiliatrice come la sua. E seguitò ancora Marcantonio li signori Venetiani, con offerirsi a quanto fosse possibile conforme all’ordine di Sua Beatitudine nel condiscendere a quello che dalli signori Venetiani fosse richiesto.
»Sicchè Marcantonio crede che stante la qualità del suo generalato, habbia fatto et complito al debito dell’honor [74] suo tanto con Sua Santità e Sua Maestà, quanto con la signoria di Venetia. Nè del modo della navigazione deve egli render conto: poichè non essendo marinaro, se bene nella sua galera si facevano li segni di partenza e di ogni altra azione, era per risolutione fatta da altri che in apparenza facevano lui guida, ma era sempre guidato.[65]
[17 settembre 1570.]
Il qual manifesto come fu distribuito agli ufficiali dell’armata si ebbe l’effetto che Marcantonio aspettato n’aveva. L’istessa sera nel consiglio generale, ribattute le difficoltà, e rinnovata la domanda di andare avanti, Giannandrea non potè ricusare. Poco dopo, che erano cinque ore di notte, tutta l’armata salpava da Sittia per andare a Cipro. Già verso quell’isola navigava Luigi Bembo, ed altri tre capitani con quattro galere spalverate, perchè quanto prima riportasse di là nuove certe. L’armata per l’istesso rombo seguiva in questa ordinanza: all’antiguardo il provveditor Querini con dodici galere, al centro Marcantonio con le dodici del Papa, Giannandrea con le quarantanove del Re, Girolamo con trenta di Venezia, Pallavicino con venticinque, Celsi con venti, e Canale con venti, le quali si ripartivano anche nei corni della battaglia; al retroguardo Sante Trono governator dei condannati con sedici galere, Francesco Duodo con dodici galeazze compreso [75] il galeone, e Pietro Trono con quattordici navi:[66] tutte insieme dugento e dieci legni di fila, sufficientemente armati, e ben disposti per navigare e per combattere. Marcantonio aveva il primo luogo, non il supremo comando: i Veneziani gli si erano volontariamente sottomessi per la riverenza allo stendardo suo; ma Giannandrea, che avrebbe dovuto più d’ogni altro osservarlo, manifestamente contendevagli la dignità, e faceva le viste di volersegli eguagliare. Imperciocchè, secondo la disciplina militare di quel tempo, dovendosi nella notte solamente dalla galera del supremo comandante accendere il fanale di poppa per segno a tutti di seguirne la navigazione ed i comandi, Giannandrea volle esso pure mettere il lume, a grandissimo oltraggio di Marcantonio e dei Veneziani: e questi con insigne longanimità mostravano di non farne conto per il pubblico bene.[67] Andando adunque l’armata con vento favorevole, sebbene per tenersi unita facesse vela co’ soli trinchetti, si trovò dopo tre giorni aver filate trecento miglia, ed esser presso a un isoletta chiamata Castelrosso nella Caramania,[68] [76] non più che cencinquanta miglia da Cipro. Colà nella notte del ventuno di settembre, levatasi gran fortuna di mare e vento freschissimo di scirocco, dettero fondo i capitani di Venezia e del Papa; alcuni ormeggiati nella rada del Cáccamo, altri a ridosso delle isole Celidonie: solo Giannandrea si tenne sui bordi al largo; non piacendogli mettersi quivi entro di notte e con tanta gente, come egli disse; o aspettando, come dissero gli altri, che lo scirocco rinforzato il dovesse portar via verso ponente, tanto che paresse costretto ad abbandonare i compagni.[69]
[9 settembre 1570.]
IX. — Intanto però i Turchi che abbiamo lasciato all’assedio di Nicosia, dopo i quindici assalti del mese [77] d’agosto, non stettero indarno nè a dar le mostre, nè a scrivere i manifesti; ma sempre strignendo l’oppugnazione: e spianata la strada per montar sui baluardi, cominciarono a salire. Prima provandosi se loro riusciva di piantarvi alcuna banderuola, e poi tra cinque o sei giorni mettendosi agli assalti di forza, che furono molti ed ostinati. Dopo la scarica delle artiglierie e moschetterie, venivano coloro sulle piazze dei bastioni sin presso le semigole, e quivi in molti azzuffamenti a corpo a corpo combattevano, usando ogni arte ed ogni strumento di guerra: tra l’altre cose mi sia permesso ricordare l’uso continuo dei fuochi artificiati, e specialmente di certi sacchetti di polvere che i Turchi gettavano in mezzo ai drappelli dei difensori, senza che questi potessero per qualche tempo nè scuoterseli nè spegnerli; e guai a chi ne sentiva la vampa: ma poi infilzati con le picche e rovesciati destramente tra le file degli aggressori, divenivano armi eccellenti contro a loro. Per i quali combattimenti, mantenuti da mattina a sera sopra le piazze dei baluardi, come sul campo d’alcun torneo, chiaro si vedeva che i Turchi intendevano a consumare a poco a poco i difensori secondo il modo dall’istesso Mustafà tenuto a Malta; ed i Cristiani a menare in lungo quanto potessero: quelli ritenuti dal valore degli assediati e dal timor delle mine; questi dalle promesse degli amici e dalla speranza del soccorso. Ma quando non restavano in piedi più che quattrocento soldati nella piazza, e l’armata cristiana non moveva ancora da Candia, Mustafà persuaso di potere finalmente compire senza pericolo il suo disegno, cavò fuori dall’armata sua ventimila uomini (lasciando le galere sue sguarnite e in preda [78] ai nostri, se avessero saputo coglierle improvvisamente alla spiaggia delle Saline come ne aveva detto Marcantonio)[70] e feceli venire trenta miglia lontani dal mare a Nicosia per dare con tutte le forze l’ultima stretta all’assediata città.
Era la mattina delli nove di settembre, e i difensori ridotti a così picciol numero stavano risoluti a combattere, senza affatto pensare alla resa: ma quasi presaghi di non doversi mai più rivedere affettuosamente salutandosi e raccomandandosi a Dio, si mettevano ciascuno per ordine alla sua posta, massime alle traverse dei quattro baluardi sbrecciati, che da altrettante nobili famiglie dell’isola si nomavano il Davila, il Costanzo, il Tripoli e il Podocattaro. Poco di poi Mustafà moveva all’assalto generale con tant’impeto e tanta fierezza quanta se ne poteva da barbare genti in così grande giornata aspettare. I difensori dei tre primi baluardi, ributtato con infinita uccisione il nemico, confidavano potersi almen per quel giorno sostenere: se non che allora i presidiarî del Podocattaro, essendo molto pochi rimasti, erano costretti a dare indietro e lasciare ai Turchi la piazza e la ritirata del baluardo medesimo.
Non già che i soldati Italiani ed i nobili cipriotti di combattere valorosamente cessassero mai; ma abbandonati dalle reclute del contado, che impaurite si posero a fuggire, e rincalzati dai nemici, che in quella parte venian crescendo sempre di numero e di ardire, si trovarono finalmente tolti via dalle poste. Entraronvi allora le schiere assalitrici, e al primo loro ingresso levossi incredibile rumore, insieme a fuoco, fumo, polvere e orrende voci di minaccie e di percosse. Il conte di Rocca co’ suoi fratelli, [79] ed i principali baroni dell’Isola co’ loro famigliari corsero al Podocattaro per ovviare alla perdita della piazza: e sebben quivi combattendo con quel valore che a nobili cavalieri nell’estremo pericolo della patria si conveniva, facessero prove di gran prodezza, non pertanto avviluppati dalla moltitudine dei Turchi l’un sull’altro massacrati caddero. Indarno i vecchi, le donne e i fanciulli dalle fenestre, disperatamente difendendo il passaggio delle strade, lanciavano sassi, tegole, arnesi; indarno Greci e Latini mischiaronsi alla riscossa: perchè quei prodi, i quali negli altri baluardi con virtù memoranda ancora combattevano, furono presi alle spalle, e tutti sul campo oppressi. Allora carneficina e violenza per la città: quaranta mila persone messe al filo della spada, quindici mila alla catena; sei vescovi, tutto quasi il clero greco e latino, il luogotenente del regno scannati; spogliate le chiese, aperte le tombe, oltraggiati i fanciulli e le donne: e per tre giorni saccheggiata la città, si arricchirono i barbari di tante spoglie, che dalla presa di Costantinopoli sino a quel giorno giammai esercito ottomano non aveva tra sacre e profane rapitene maggiori. Tra i nostri statisti morirono onoratamente combattendo il colonnello Palazzo di Fano, Niccolò Paleotti bolognese, Camillo de Gaddi da Forlì, Battista da Fano, Carlo Malatesta da Rimini, Giannandrea da Spello, Fabrizio da Imola tutti capitani di provata virtù, e seco loro quasi un migliaio di soldati marchiani e romagnoli che sotto le bandiere di San Marco alla difesa di quei lontani baluardi avevanli seguiti.[71] E qui, per dare un saggio delle cose successe in Cipro e mostrare con qual animo stessero quegli infelici in aspettazione del soccorso, io non posso per grandissima [80] compassione tacere il caso che gli scrittori contemporanei concordemente raccontano.[72] Volendo Mustafà mandare al suo signore in Costantinopoli le primizie delle più ricche e care cose che nella presa città trovate si erano, fece caricare sopra tre bastimenti molte gioie, e ricchi ornamenti, e gran quantità di oro e di argento, e insieme uno scelto drappello di fanciulli avvenenti, e di giovani donne bellissime d’aspetto e di nobiltà principali, affinchè il Sultano d’ogni cosa avesse la miglior parte. Salpata l’àncora, quando i tre legni cominciarono a pigliare il vento, una di quelle infelici donne, scolpitasi nella fantasia la miseria che da così dura e perpetua servitù se le apparecchiava, e conoscendo che nessuno schermo avrebbe potuto opporre alla sfrenata libidine di qualsivoglia nelle cui mani fosse capitata, in cotale estremo e doloroso termine avvisando che le fosse lecito ogni rimedio, si deliberò di francar per sempre sè e le compagne da vergogna e dolore. Ondechè con sottile artificio, senza che mai alcuno abbia potuto saperne il modo, entrò col fuoco nelle munizioni della polvere, e in men che si pensa mandò a pezzi sè stessa, la nave, gli amici e i nemici. Mustafà ed i suoi, quando da alcuni pochi che nuotando si salvarono, riseppero il caso, ne sentirono pietà. E Giannandrea allora imperturbabile a Candia scriveva i manifesti contro il soccorso, e chiedeva la mostra dell’armata per non procedere.[73]
[81]
[22 settembre 1570.]
X. — Stava pertanto l’armata cristiana, come è detto, nelle acque della Caramania al ridosso degli scirocchi, la notte del ventuno settembre, quando Luigi Bembo, per quelli stessi venti prestamente rivenuto dalla sua scoperta di Cipro, scendeva a gran passi nel govone del General veneziano, e a lui partecipava la perdita di Nicosia, ed i particolari che si sono avanti raccontati. Alle quali notizie Girolamo Zane turbatosi tutto (e chi non si sarebbe turbato tra quei successi, e con da presso Giannandrea?), invece di tenersele, come facilmente poteva, celate; invece di spingere al più presto l’armata cristiana secondo la già presa deliberazione a Cipro contro l’armata nemica, che esser doveva allora più ingombra e meno apparecchiata; invece di cogliere quelle occasioni favorevoli che certamente potevano venirgli innanzi, pubblicò le notizie: e volle che un’altra volta si mettesse in consiglio (che era quanto dire in discordia) il partito da prendere. Ondechè la mattina seguente, raccoltisi insieme i capitani di fanale nella generalizia del Papa, parlò Girolamo Zane, che stante la perdita di Nicosia non gli pareva più tempo d’andare a Cipro, essendo finito il [82] bisogno di soccorrerla, nè avendo forza a ricuperarla: che rispetto a Famagosta non gli mancava modo di provvedere, restandogli la fortezza intatta, e il mare aperto: soltanto richiedeva gli ausiliarî di mettersi con lui ad alcuna impresa di terra, per togliere al Turco qualche fortezza, e compensare col guadagno da una parte quel che dall’altra già s’era perduto. E dibattendosi là tra i generali se fosse meglio assaltar Negroponte, o la Morèa, o altri luoghi dell’Arcipelago, Giannandrea mostrò la qualità della stagione, la vicinanza della Vallona e di Durazzo all’Italia, e la difficoltà che il Turco avrebbe di soccorrere queste due piazze così lontane da Cipro e da Costantinopoli, cioè dall’armata e dalla capitale sua; e si offerì alla espugnazione delle medesime: dicendo che quivi avrebbe potuto più lungamente trattenersi. Nel qual parere essendo tutti gli altri di buona fede convenuti, e rimettendosi Marcantonio in questa come in ogni altra cosa alle richieste del General veneziano, restò fermo il partito del ritorno.[74]
[25 settembre 1570.]
Così la stessa sera del ventidue di settembre, nell’ordine che erano venuti, virarono di bordo dalle isole Celidonie [83] a Rodi, e il dì seguente a Scarpanto, che è isola grossa tra Rodi e Candia, donde ha nome il mar Carpazio: ma in quei rivaggi avendo trovato burrasche da varie parti, e rifoli di vento, e grosso mare, dovette ripararsi ciascuno come meglio gli venne. Giannandrea diè fondo a Tristamo, che è il miglior porto dell’Isola; Marcantonio e Girolamo a Portograto; le navi, le galeazze ed una grossa partita di galere veneziane si tennero volteggiando a mare due giorni, prima di potersi ricongiungere alle conserve: e una galea di San Marco apertasi in mezzo, andò perduta con tutta la gente. Il giorno venticinque, parendo a Giannandrea che il tempo volesse rabbonarsi, e che l’armata dei Veneziani e del Papa dovesse essere già scorsa avanti insino a Candia, si levò da Tristamo per seguirla: se non che trovato fuori il vento e il mare contrario al suo viaggio si rivolse indietro all’istesso porto, allora appunto che Marcantonio e Girolamo, ricercando pur di lui, gli venivano incontro. L’avversa fortuna traevali tra quelle tempeste, ed in quel porto di tristo nome a rompere l’ultimo filo della concordia. Imperciocchè allora Giannandrea, uscitagli di mente la promessa della Vallona e di Durazzo, e stringendo i capi del discorso intorno alla perdita di Nicosia, alla stagione autunnale, alla prevalenza dei Turchi, alla debolezza dei Veneziani, ai venti, ai pericoli, ed agli ordini segreti di Madrid, stimò aver ragioni più che sufficienti per andarsene a suo talento. Il perchè, fatta una consulta privata co’ suoi capitani, mandò Marcello Doria alla generalizia pontificia, pregando Marcantonio che si facesse mediatore tra lui e i Veneziani, e gli ottenesse buona licenza di ritirarsi. Come restassero a tal domanda in siffatto luogo e tempo pieni di stupore i Papalini e i Veneziani, lo pensi chiunque ha fatto assegnamento sulle [84] promesse di Giannandrea. Ciò non pertanto frenando la indignazione, rimandarono Marcello a fargli sapere quanto tutti desideravano averlo seco loro in compagnia nelle imprese da farsi, o almeno sino al Zante; ove, se non avesse voluto più oltre continuare, lo avrebbero liberato dall’impegno.
[26 settembre 1570.]
Quietò Giannandrea per quel giorno: ma la mattina seguente, sapendo essersi già ben avanzato per l’ambasceria di Marcello, fu in persona a trovare Marcantonio, con animo di persuaderlo delle sue ragioni. Or questi vedendo da una parte il campione di Spagna risoluto a fare il piacer suo, e dall’altra il general veneziano risolutissimo a non volersene contentare, pensò non si poter disciogliere siffatto nodo se non da quelli che ne tenevano i capi. E ben era dura cosa l’aver aspettato tanto un soccorso così inutile; e il vedersi poscia abbandonati nell’avversa fortuna, in onta a tutte le promesse. Perciò inchinossi a pregar Giannandrea di venir seco a bordo del General veneziano, e di intendersi con lui. Laddove entrati ambedue con buon numero di cavalieri, e tra essi don Carlo Davalos, cugino di Marcantonio e condottiero di fanterie nell’armata di Spagna, non fu mai possibile mettere d’accordo Girolamo e Giannandrea: dicendo il secondo volersi partire col beneplacito del primo, e il primo volersi ritener l’altro al modo istesso. Sicchè dopo avere que’ due a grand’infingimento gareggiato tra loro di cortesie, ciascun di essi si rivolse al mediatore perchè venisse in favor suo. Quindi Marcantonio stretto dalla pressa che ambedue gli facevano; e vedendo più giustizia e maggior beneficio pubblico a contentare i Veneziani, [85] affinchè quel principio di Lega non si rompesse; memore eziandio dell’autorità che a lui concedevano le lettere del Re, e giudicando che quello non fosse caso nè di navale battaglia nè di pratica marineria da stare al parere di Giannandrea, cortesemente per finir la disputa con queste istesse parole, prese a dirgli:[75] — Se io vi comanderò che restiate, il farete voi? — Al che l’altro fattosi sopra sè, e a grado a grado crescendo di tuono nella risposta, diceva: — Se questa dilazione non portasse infinito danno all’armata ed ai regni di Sua Maestà, se io avessi ordine libero di poter senza occasione di combattere o di altra fazione che lo meriti lasciar di provvedere alla conservazione dell’armata, se non fosse questa domanda di così poco rilievo com’è d’accompagnare chi può andar da sè; anche, Signore, se voi aveste l’autorità di don Giovanni d’Austria da potermelo comandare: allora ubbidirei. — Che anzi, ripigliava il primo, misurando i termini per rispetto all’Altezza di don Giovanni, Che anzi, questo è il caso in che io mi trovo qui avere tanta autorità quanta n’aveva sull’armata don Garzia di Toledo; e quanta n’avrebbe sua Altezza, come successor di don Garzia, [86] se qui fosse presente. Però voi, Signore, ora avete ordine d’ubbidirmi, e di seguire il mio stendardo. — Ma Giannandrea che posto di fronte all’autorità non si sentiva bastante nè a riconoscerla nè a rifiutarla, volse agli assurdi, e soggiunse: — Se questo fosse, potrebbe vostra Eccellenza far giustizia sull’armata di Sua Maestà, come ho fatt’io sin ora; senza mescolarsene di niente l’Eccellenza vostra. — Sì bene, replicò Marcantonio, avrei potuto, e potrei ancora far giustizia di pena e di premio sull’armata di Sua Maestà che è posta all’ubbidienza mia: ed è per buona grazia che ho lasciato e lascio farlo all’Eccellenza vostra. — E quegli di tratto: — Perdoni, Vostra Eccellenza, che è in errore; perchè le lettere del Re non le conferiscono tanto libera autorità. — E qui, fatte venire e leggere le lettere del Re,[76] Marcantonio rivolgevasi a Giannandrea, dicendo: — Io ho mostrato le lettere mie: vostra Eccellenza ha udito l’ordine del Re perchè ubbidisca al generale del Papa e ne segua lo stendardo. Se Ella per avventura ha ordini in contrario, li mostri. E prima sappia che, qualora sua Maestà comandi a me di ubbidire a lei, il farò ben volentieri e sempre che mi si mostri l’ordine. — Giannandrea però che non avea carte da mettere in pubblico, sì bene da tenersi gelosamente nascoste, replicava con più parole che ragioni, come sempre avviene a chi sia colto in fallo; e finalmente conchiudeva: — Gli ordini di sua Maestà li conosco ben io, io solo ho il comando dell’armata, io farò quel che meglio mi parrà: e chiamando i miei capi di squadre, il marchese di Santacroce e don Giovanni di Cardona, si potrà sentir da loro, cui abbiano ordine di obbedire. — L’altro tuttavia soggiungeva: — Per quel che riguarda le galere [87] del Re, a me basta comandare a vostra Eccellenza, e per suo mezzo agli altri: ma se pur vogliamo sentir qualcuno, venga il marchese di Torremaggiore, ed egli ne ripeta gli ordini avuti dal Vicerè di Napoli. — Giunti a questo segno don Carlo Davalos essendo stato lungamente in silenzio a udire, e non avendo per bene che si chiamasse il marchese assente, quando egli era quivi presente, entrò per terzo nel discorso, e disse: — Io altresì tengo carico di fanterie sulle galere del Re, come il marchese; e non ho ordine d’ubbidire ad altri che al signor Giannandrea. — Alterossi a siffatta scappata Marcantonio, per vedersi contraddetto da un giovane ufficiale, suo parente, e non richiesto in materia così grave: sicchè vedendosi ormai solo contra due, quanto più gli apparve misleale il rincalzo, tanto meno da passarsene: e per un istante guardato in faccia don Carlo, sdegnosamente gli disse: — Molto poco mi cale, Signore, di comandare a voi. — Ed egli di rimando: — E a me, molto meno di ubbidire vostra Eccellenza. — Don Carlo! esclamò allora Marcantonio, mi hanno ubbidito uomini maggiori di voi! — E già don Carlo levatosi in piè ferocemente cominciava: — Questo no!... — Quando Giannandrea venuto in mezzo, non volendo che colui passasse più avanti, coprì la di lui voce e persona con la voce e persona sua, gridando anch’esso: — Don Carlo! io dico, don Carlo! Mostrate coi fatti che voi mi ubbidite: tacete e levatevi subito di qua! — Questi inchinatosi con grande osservanza a Giannandrea, prese congedo tacendo; intanto che Marcantonio raddolcito dicevagli nel vederlo partire: — Così dunque, signor don Carlo, non avete avuto vergogna di parlare ad un vostro fratello maggiore con tanto poco rispetto! — Ma al tempo stesso colui era già fuori di camera, e Giannandrea d’impaccio. Imperciocchè, giunti a quei termini, indarno il Doria si fece a [88] ripigliare la pratica per condurla a suo talento; che era al postutto di voler che gli altri si chiamassero contenti a loro dispetto. Marcantonio sentendosi in obbligo di non offendere i Veneziani, ed impotente a condurre gli Spagnoli, dichiarò sull’atto a tutti quei signori in pubblico che egli intendeva finire di intromettersi più in niuna cosa che riguardasse l’armata del Re.[77] E fatto segno al general veneziano che egli non l’avrebbe giammai abbandonato, uscì dai bandini e tornossene alla sua capitana, fermo di mantenere il proposito, e di lasciare la dimane quell’infausto porto.[78]
[89]
Prima però di sciogliere le vele, ripensando alla disciplina militare che a lui sembrava violata dalla oltracotanza [90] di don Carlo, con parole misurate e calzanti, senza mettere in mezzo nè il nome nè l’autorità del [91] Pontefice, scrisse a Giannandrea questo biglietto.[79]
«Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore.
»Havendo considerato quel che oggi il signor don Carlo Davalos ha detto in presenza mia, di Vostra Eccellenza, del general di Venezia, et di quelli altri Signori, mi è parso convenire al servitio di Sua Maestà ed alla dignità che io tengo di dire a Vostra Eccellenza che faccia ritenere la persona di esso signor don Carlo, fintanto che Sua Maestà, inteso quel che oggi è passato, commandi quel che le farà servitio; perchè fatto questo io non vi ho altro che fare. Pertanto la prego che per servitio di Sua Maestà e per rispetto della mia dignità lo voglia così eseguire: che così farei io stesso in servitio suo, quando ne fossi da lei richiesto, stando Vostra Eccellenza nel luogo mio. Et le bacio le mani. Dalla mia galera capitana nel porto di Tristamo a dì 26 di settembre 1570. Servo di Vostra Eccellenza
»Marcantonio Colonna.»
[92]
[27 settembre 1570.]
XI. — Così l’armata di Spagna restò il medesimo giorno divisa dalla pontificia e dalla veneziana nel porto di Tristamo, per aver voluto Giannandrea fare il piacer suo, secondo gli ordini secreti del Re. Il quale dappoi non ne fece alcun risentimento, anzi ebbelo sempre più caro: a tale che non guari dopo lo nominò generale con preminenza sopra gli altri generali delle galere di Napoli, di Sicilia e di Spagna; e di più non dubitò proporlo l’anno seguente nella terna del generalato supremo di tutta la lega:[80] e quantunque escluso, rimandollo alla armata insieme con don Carlo Davalos, procurando ad ambedue l’onore del comando: all’uno l’ala diritta dell’ordinanza, e all’altro il governo delle navi: donde gli effetti funesti che appresso si leggeranno.
Intanto però Giannandrea congedatosi dal Generale di Venezia con molte cirimonie, e inchinatolo a ogni passo dallo scannetto di poppa, chiamato pizzuolo dai Veneziani, sino alla scaletta di fuoribanda, si ridusse a bordo della sua galera: ove sommamente lieto di aver concluso il negozio a modo suo, fermo alla spalliera, fè palese agli amici la vittoria riportata e l’abbassamento del Generale romano; uscendo ancora a motteggiarlo con questo frizzo:[81] — Pensava Marcantonio farsi onore a Cipro con la roba mia. — E quantunque Giannandrea si lasciasse andare a siffatto discorso sul ponte della sua galera, senza che vi fosse persona di fuori, tuttavia ciascun deve intendere l’enormità di rattizzare [93] le passioni de’ suoi con le proprie, a pubblico danno, e con sì gran travisamento di giudizio. Imperciocchè al postutto non intendeva là Marcantonio a farsi onore con la roba altrui: ma sì bene a liberare i Cristiani dal coltello dei Turchi con le forze comuni messe all’ubbidienza sua; che sarebbe stato onore e debito di ciascun cristiano il farlo, come fu colpa e vergogna il rifiutarlo. Tanto più per parte di Giannandrea, le cui galere condotte a prezzo dal Re, promesse ai Veneziani per soccorso, e poste sotto lo stendardo papale per combattere, non potevano più dirsi, come egli diceva, roba sua: ma di tutti coloro ai quali erano obbligate per quegli effetti che egli fare non voleva. Ma in quella vece pensava conservarsele a fin di caricare in Candia moscadelli e malvasia in buon dato, e di scorrere dappoi nell’Arcipelago: non già per rifocillar di generosa bevanda quei Greci tapini che erano pur cristiani al par di lui, ma per farvi presa di genti, e rifornir di ciurme le sue galere.[82]
Certo è che non ostante la gran premura di voler presto essere in Sicilia, indugiossi in Candia cinque giorni a caricar quei vini: ma non trovo che egli eseguisse il divisamento delle rappresaglie nell’Arcipelago. Forse le tempeste che gli fecero sferrare molte galere,[83] [94] forse l’orrore di tanto eccesso, il ritennero. Ma in argomento così grave sopra gli usi e gli abusi della marineria di quel secolo, non posso io restarmi dal chiarire che fossero le così dette rappresaglie: ed il farò con le parole gravissime di san Pio, donde tutta si dimostra la qualità del male e del rimedio. Ecco il documento in volgar nostro rivolto.[84]
[95]
Precetto di Pio Papa quinto.
«Quantunque ciascuno sappia che questa guerra or ora incominciata contro l’empio tiranno dei Turchi non solo si faccia per trastornar dal nostro capo il pericolo imminente delle sue continue invasioni, ma anche per rimettere in libertà, e al quieto esercizio della fede, ed alla professione franca del nome di Gesù tante migliaia di cristiani che sotto la feral tirannide dei Turchi servile e misera vita conducono, tuttavia non sono mancati taluni tanto immemori della cristiana fratellanza che assaltando le terre dei Turchi nostri nemici hanno fatti schiavi pur i cristiani di quelle parti, e spogliatili dei loro beni e sostanze li hanno incatenati nelle galere, messi al remo, ed anche imposto il taglione per il loro riscatto. Donde ne è seguito che i fedeli redenti col sangue [96] di Gesù Cristo, i quali avevano con le loro orazioni e voti affrettata la venuta e la vittoria dei Cristiani, tali cose abbiano avuto a patire dai Cristiani istessi loro fratelli e vincitori, quali appena dai Turchi aspettar si potevano. Laonde noi, che quantunque immeritevoli, teniamo in terra il luogo di Lui che venne dal cielo a sciogliere le nostre catene, affinchè liberati dalle mani dei nostri nemici quinci innanzi senza timore serviamo a lui, temendo giustamente non forse poco curando la carità e la dilezione impostaci da Lui verso i nostri figli, provochiamo l’ira sua contro di noi e contro la navale Armata nostra, dovendo provvedere a siffatto disordine, per tenore delle presenti deliberatamente commandiamo che niuno quinci innanzi, o militante nella sacra alleanza, o chiunque si voglia, ardisca pigliare a forza i cristiani, nè costringerli contro lor voglia a remigare quando ben li pagasse, nè imporre il taglione, nè spogliarli dell’avere: ma in quella vece fraternamente ed amichevolmente come conviensi alla pietà cristiana, li tratti, e gli uomini coi figli e con le spose di ciascuno lascino andare a lor talento. Però dichiariamo che tutti e singoli coloro i quali ardiranno violare questa nostra costituzione debbano sul fatto essere incorsi nella pena della scomunica, sentenza già data, dalla quale, men che nell’articolo della morte, non possono esser prosciolti altrimenti che da Noi o dai nostri Successori: vogliamo inoltre che essi stessi i delinquenti siano puniti dai superiori loro di pena severa e grave, avuto rispetto alla qualità del mancamento. Comandiamo ancora a tutti e singoli i superiori tanto della predetta Armata quanto dei luoghi indicati, ai quali spetta o per il tempo futuro spetterà, che per quanto hanno caro meritar la grazia di Dio e la nostra benevolenza, questo Nostro, o per dir meglio Divin comandamento e precetto, [97] nei luoghi della loro giurisdizione; o vero dovunque approderanno i comandanti dell’Armata, o delle squadre dei principi alleati lo faccino pubblicare, affiggere, tradurre nelle lingue che si parlano nei detti luoghi, e dalle dette persone, bandire per tutta l’Armata e da tutti inviolabilmente osservare, sotto le pene che a loro sembreranno convenienti, affinchè possano sperare da Dio ottimo massimo i premi eterni, e da noi giusta lode per l’adempimento fedele di questo dovere. Vogliamo di più che nel presente Motuproprio basti solo la nostra segnatura; e questa dovunque faccia fede nel giudizio, e fuori, non ostante qualunque regola e costituzione apostolica in contrario: e che se ne tirino molti esemplari a stampa e quelli sottoscritti da alcun Notaro pubblico ed insieme muniti del sigillo di qualunque Curia ecclesiastica o di qualche Prelato, tanta fede facciano in ogni luogo quanta ne farebbe il presente original Motuproprio se fosse prodotto e mostrato. Nonostante checchessia in contrario. Piace per Motoproprio.»
Ecco dipinta al vivo per la mano maestra di un Santo la pietà fallace di alcuni malvagi militanti nella sacra alleanza, che sotto specie di far la guerra ai Turchi spogliavano e manomettevano i Cristiani, con tanta sfrontatezza, che a frenarli fu bisogno di un decreto papale in tutte le forme e in tutte le lingue, come quello recitato. Da ciò giudichi chi intende il principio dell’alleanza in compagnia di cotali.
Ma per ritornare a Giannandrea, la sua condotta nella guerra di Cipro spiacque a ciascuno in ogni parte men che nella corte di Madrid.[85] Il cardinal Morone, di [98] quella esperienza e virtù che tutti sanno, quantunque nato suddito di Spagna, se ne dolse pubblicamente.[86] Il cardinal Pacecco, principalissimo ministro del Re in Roma, ripetè più volte che egli non sarebbe mai ben servito finchè l’armata sua fosse in mano di chi ha galere proprie; perchè questi per loro interesse schivano quanto possono di metterle a pericolo, nè vogliono distruggere l’armata del Turco; perchè il nutrimento loro è l’armata di lui.[87] E san Pio tanto disgusto ne prese che per più lettere se ne richiamò al re di Spagna;[88] e di ciò non contento, spedì a Madrid Pompeo Colonna perchè a voce dicesse quel più che non voleva scriverne:[89] ed avendo Giannandrea per discolparsi mandato a Roma Marcello Doria, questo non fu mai voluto ricever dal Papa.[90] L’unica sua difesa furono e sempre saranno [99] gli ordini secreti del Re: ma quanto possa valere in materia così grave ed evidente, con tanta ruina del cristianesimo in Levante, tanto danno dei Veneziani a Cipro, e tanto pericolo di tutta l’Italia; massime con quel modo perfido di mostrarsi sempre pronto in parole, esser sempre restio nei fatti, e rimandarne sempre agli altri la colpa; il dica chi ha senno, o chi si sente d’imitarlo. I suoi parziali, e alcuni scrittori, smagati al miraglio della corte spagnuola, non potendo dare ragione a lui, si contentano levarla agli altri. Dicono che i generali vennero a rottura, che le loro istruzioni portavano difficoltà, che le corti non erano d’accordo. Ma i generali di Venezia, le istruzioni e gli ordini del loro governo dicevano chiaro una cosa sola: ite a Cipro, e combattete l’armata nemica. Quelli di Roma ancor più chiaro dicevano; ite, soccorrete i Veneziani dove e come essi richiedono. Il disaccordo, la rottura, le istruzioni equivoche restano in mano d’un solo: di colui che ha le cifre segrete, di colui che deve combattere e non combattere, esporre l’armata e non esporla, obbedire e non obbedire. A lui, ed alla corte da lui rappresentata, tutto il torto; anche per implicita confessione di quelli che nel difenderlo si contentano di dargliene la metà. Ciò non pertanto io non sarei nullamente maravigliato di veder comparire alcun campione alla sua difesa: perchè ancor dura il vezzo di riguardar l’opere sue sotto il manto della real grazia che le coprì, come se non avesse mai potuto dare in fallo. Si provino costoro, producano paurosi documenti, citino qualche storico che non potè nè vedere [100] nè alzare il misterioso velo; mettano innanzi qualche avviluppatore che, non volendo accusare uno, calunniò tutti; e se fa bisogno, rinneghino gli archivi di Roma, di Venezia, di Firenze, di Montecassino, non meno che quelli di Spagna: farà sempre contro a loro l’isola di Cipro che per non esser soccorsa cadde abbandonata nelle mani dei barbari, i quali ancora dopo tre secoli la possiedono; sarà mai sempre vero che Giannandrea inteso a magnificare la potenza del nemico, e a vilipendere la nostra, sconfortò l’animo delle genti e ne guastò il valore, o come oggi dicono, demoralizzò l’armata;[91] si avrà per sua confessione medesima che egli fu l’ultimo ad arrivare, quando ogni menomo indugio era fatale: che giunto sul campo, si oppose al procedere; chiamato a battaglia, non volle combattere; richiesto di soccorso, prese congedo; pregato, si scusò; comandato, disubbidì. E se questo non basta, seguanlo da presso, riguardino ai favori del re Filippo che già lo destina primo tra i generali di Spagna, e successore in luogo di Don Giovanni d’Austria; s’affissino al resto dell’opere sue, sino alla famosa giornata del sette ottobre a Lepanto. Là tra tanta gente di tante nazioni tutte ricoperte di verace e cristiana gloria una sola vergogna dovette rattristare il cristianesimo, e fu la sua.
[101]
[2 ottobre 1570.]
XII. — Marcantonio al contrario rappresentando non già le gelosie, nè le ragioni di stato di cupa e interessata corte, ma in vece la sincera fede e l’imparzial devozione del Pontefice romano al pubblico bene della cristianità, ripresa l’abituale sua prudenza e moderazione (da che per comune testimonianza soltanto il repentino caso del ventisei avevalo alquanto potuto smovere) si accostò sempre più amorevolmente ai Veneziani, lor mostrando l’animo suo tutto conforme nelle parole e nei fatti alle istruzioni di Roma di non doverli giammai abbandonare. Ecco come i due capitani secondo gli ordinamenti diversi delle due corti si comportavano. E i Veneziani posero amore grande a Marcantonio e tanta fiducia in lui, che non pareva loro poter giammai in alcun tempo trovare amico più fedele e più pronto ad ogni loro piacimento.[92] Laonde insieme con lui il giorno ventisette salparono da Tristamo, insieme il dì seguente presero terra a Sittia, insieme schivarono d’incontrarsi più con Giannandrea, oltrepassarono il porto di Candia, e alli due di ottobre si ormeggiarono alla Canèa. Infausto ritorno! scherniti da’ nemici, pressochè traditi dagli amici, perseguitati dall’avversità della fortuna, dalle tempeste del mare, e dalla rabbia dei venti. A Giannandrea nel tragitto sferrarono [102] quattro galere, tre di Napoli e una dei Negroni:[93] due galere di Marcantonio naufragarono, tredici dei Veneziani si persero, ed altre più andarono traviate sino a capo Dionda nella costa meridionale dell’isola. E sebbene non vi fosse stata gran mortalità di gente, pur restarono tutti così perduti di animo e di forza, che non era più a riconoscersi quella robusta marineria, e quella fanteria intrepida che poc’anzi aveva chiesto ad ogni risico la battaglia. Niuna cosa più contrista gli uomini nella sventura, che l’essere abbandonati da chi s’aspettavano aiuto.
Ciò non pertanto il general veneziano prese a rimettere l’armata, a sbarcar le milizie, e ad ordinare i soccorsi e le provvigioni per Famagosta, per Candia, e per le altre isole del dominio. E Marcantonio a riparar le sue galere, e a scrivere gli strani ed infelici successi di quella campagna a Roma, a Venezia e a Madrid. Si conservano ancora nell’Archivio di sua casa lettere, giornali, documenti, relazioni, cifre, e scritture d’ogni maniera mandate o ricevute dal Papa, dal Doge, dal Re, dall’ambasciatore di Spagna, dal Granduca di Fiorenza, dal Cardinal segretario di Stato, e da altri personaggi principalissimi, nella secreta confidenza dei quali tutta traspira la candidezza e la fede dell’uomo eccellente. Là è gran mèsse a raccogliere per la storia di questi tempi: e di là ricavo che niuna cosa tanto ribadisce nelle sue lettere, anche al re Filippo, quanto la doppiezza e gli ordini segreti di Giannandrea. E quantunque nelle lettere al Re destramente faccia le viste di credere che questo sconcio non fosse venuto per sua volontà, pure avvisa che il solo sospetto produceva tristi effetti, diffidenza tra i Veneziani e discredito all’armata [103] reale. E ciò ben chiaro si mostra da un brano di lettera al Re con la seguente conclusione:[94] «In fine per tutto il tempo di questa campagna Marcantonio non ha avuto che dire con Giannandrea perchè gli fosse dato nulla, ma solo per queste due ragioni: la prima è che non avessero giammai a sapere i principi del mondo che Vostra Maestà avesse dato ordini contradittorî per la stessa impresa, come non li ha dati; e l’altra che tenendo Marcantonio la medesima volontà e desiderio di Giannandrea per la conservazione dell’armata di Vostra Maestà, si doveva fare in modo da conservarle pur la riputazione, e che giammai pel tempo a venire non si potesse dar taccia ai ministri di Vostra Maestà di aver lasciato di aiutare e di favorire una causa tanto cristiana come è questa. Tale è in breve la sostanza di quel che è occorso; e quantunque ognun sappia che siffatte pratiche possono esser dipinte e raffazzonate con molto artificio e molti colori, tuttavia è parso a Marcantonio parlare col suo Re e signore senza mistero la pura e schietta verità, con poche e veritiere parole.»
[104]
[Ottobre — Dicembre.]
XIII. — Intanto il General veneziano aveva fermo levarsi da Candia per isgravar l’isola dall’incomodo che le apportava il dover nudrir tanta gente; ed anche per indurre coll’esempio l’armata nemica a ritirarsi, perchè quei luoghi potessero quietare. Ondechè, lasciato quivi il Quirini con le galere consuete della guardia, egli col resto dell’armata se ne venne a Corfù in compagnia di Marcantonio. Il quale vedendo che i Veneziani disarmavano, fece lo stesso; riserbandosi soltanto quattro galere rinforzate: e congedatosi da loro, che a gara non rifinivano di onorarlo e ringraziarlo, sciolse le vele per ritornarsene a Roma.[95]
Se non che nel breve tragitto da Corfù ad Ancona ebbe così avversa la fortuna, e tante maniere di travagli e di presentissimi pericoli quanti nelle lunghe navigazioni di molti anni incontrar si potrebbero: calamità, tempeste, venti, folgori, peste, fuoco e nemici, posero a durissime prove la sua costanza.[96] Entrata nelle galere da lui condotte la infermità che era nelle veneziane, patì acerbissime pene, e vide gran numero [105] dei suoi tocchi di peste e morti. Partitosi da Corfù ai ventotto di ottobre, fu da terribile tempesta gittato a Casopo: e non mai racconciandosi il tempo, quivi ritenuto un mese a consumarsi di fame e di stenti. Sciolte le vele alla prima aura favorevole, ecco scatenarglisi contro la rabbia di un libeccio burrascoso, e gittarlo a naufragare in Schiavonia: altri de’ suoi morirgli attorno di febbri acute e di lunghi patimenti, altri tornarsene a Corfù, altri ad ogni rischio sopra piccole barche farsi tragittare nella Puglia per potersi in qualche modo curare. Tra questi fu Domenico de’ Massimi, nobile romano e capitan di galera, che dopo il naufragio con alquanti suoi famigliari scampato a Lecce, quivi rifinito da tanti disastri, alli quattro di decembre morissi. Ho alle mani il codicillo della sua ultima volontà, donde ora traggo alcune notizie che fanno al mio proposito.[97] Domenico prima di tutto lascia scudi venti per dare suffragio alle anime di tutti quei remiganti che, di buona voglia presi a Roma, erano morti nel naufragio della sua galera: lascia scudi trenta al padre Cappellano dell’abito di sant’Agostino; altrettanti alla Camera Apostolica per le spese della guerra contro Turchi: scudi cento al capitan Paolo Martelli di sua provvisione, del tempo che prese a servire sino a tanto che la galera dètte in terra: ordina che qualora la sua fregata fosse mai caduta in poter degl’infedeli, siano riscattati a sue spese i marinari, e pagato il prezzo della medesima al padron Girolamo [106] Laudati.[98] Così il capitan de’ Massimi[99] e tanti altri suoi pari romani e veneziani terminarono il corso della infelice spedizione a Cipro. Oltracciò si legge che essendosi la squadra pontificia per tanto tempo trovata nel paese dei nemici; o dalle loro terre, o dai loro bastimenti in alcun parziale riscontro, aveva preso prigionieri. Domenico nel predetto codicillo ne lascia diciassette, tutti turchi: quattro siano liberi, cioè Annibale, Adir, Orlandecco, e Marzio: una bambina turca di Scarpanto sia messa alle orfanelle di Roma: siano consegnati ai ministri del Papa l’albanese e il greco, ambedue rinnegati; e il turco naturale chiamato Curdo: un puttin negro, per nome Salem, al signor Piero de’ Massimi suo nepote: Cadir africano a suo fratello Orazio: uno schiavo ed una schiava grandi di Barno al signor Paolo Orsini: ed alla signora Vittoria Naro sua moglie quattro schiave bianche ed una negra, questa chiamata Barlecca, e quelle Fatima, Miriam, Zenà e Zoaba, insieme con una donzelletta e un fanciullino figliuoli dell’ultima; pregando la detta signora contessa a far quanto si conveniva perchè tutti si battezzassero, e le donne si maritassero ne’ suoi feudi: che se per avventura [107] coloro la ponessero in fastidio e non volessero battezzarsi, pensasse a venderli.
Tratterò a miglior tempo questa materia degli schiavi turchi e del loro trattamento nello Stato papale.
Ora torno a Marcantonio che, ricoveratosi a Cattaro, neanche quivi entro al porto può trovar riparo alla contrarietà degli elementi onde è perseguitato. Stando surto presso alle mura della città, durante un grosso temporale, tra la pioggia diluviosa e lo spesso guizzar dei lampi e l’eco lungamente fragoroso dei tuoni, la saetta folgore diè a gran furia nella sua capitana, e misela a fuoco. Il legno vecchio di quarant’anni, arido e impegolato prestamente fu tutto in fiamme; terribile spettacolo, e rare volte veduto. Guizzava il fuoco su per le sartie sino al calcese, bruciavan vele e manovre, le antenne ardenti cadevano sul ponte; e come arrivava il fuoco alle poste degli archibugi e delle artiglierie, sparavano da sè in mezzo all’incendio ove per caso erano volte. Là in mezzo scorrea Marcantonio a sferrar le ciurme e a far disbarcare le genti: e vedendo che il fuoco s’accostava alla Santabarbara, preso in braccio lo stendardo usciva ultimo dalla galera. Indi a poco, accesa la munizione della polvere, con orrendo strepito tutta disfatta in minutissimi pezzi disperdevasi nei gorghi del mare. Questa fine ebbe la famosa galea quadrireme del Fausto.[100] Ciò [108] non pertanto fu così destro Marcantonio che, aiutato dal cavalier Gaspare Bruni, potè salvar tutte le genti di capo e di remo, e portar seco lo stendardo e le scritture a terra, e dopo ricuperare l’artiglieria. E quantunque avesse in quel disastro perduto ogni privato arredo, per fino l’argenteria della sua camera, e non avesse altri panni che in dosso, pure imperterrito nei pericoli, e nullamente sgomentato nè delle tempeste del mare, nè degli ardori del fuoco, riprese il mare con una galera veneziana di Francesco Trono, menando seco le genti che gli restavano.[101] Da Cattaro passò a Gianizza perseguitato sempre dalla fortuna, e sempre superiore alla medesima: in quel passaggio tanto gli crebbe il vento contrario, che i piloti giudicarono non potersi salvare se non pigliando terra a Ragusavecchia, ove dettero fondo a due ancore, e si rafforzarono con un capo in terra. Ma provando in quel luogo una rivolta gagliarda di scirocco, col quale aveano navigato il giorno, deliberarono scorrere avanti e dar fondo al ridosso del capo Molino, tre miglia lungi da Ragusa. Colà tuttavia la galera travagliava assai, ed era bisogno alla ciurma star sempre col remo ad aiutar l’àncora che non arasse sul fondo: sebbene con poco effetto, perchè il freddo della notte, e l’acqua che minuta pioveva, e gli stenti continui prostrate [109] avevano le forze di quelle misere genti. Ma pur la galera ad ogni modo si manteneva.
Parendo nondimeno al sotto-comito che, per la grande tiragna[102] che essa galera pativa, sarebbe stata maggior sicurtà legare a piè dell’albero un provese che slava al netto di prua, tostochè ebbe allentato quell’aiuto da una parte, e prima che potesse raccomandarlo all’altra, la galera impetuosamente dètte in terra: prendendo così lungo tratto, che ciascuno potè sbarcare in secco, senza danno delle persone, ma con la perdita del naviglio e grandissimo pericolo di ciascuno, per esser quivi presso al confine molte masnade di Turchi in arme. Quindi Marcantonio condusse nel silenzio della notte i compagni del naufragio alla piccola casa del molino: e spartite che ebbe le guardie alla porta, alle scale e all’entrar delle stanze, aspettò il giorno. All’apparir del quale, posto il fuoco alla galera, e squadronate le genti, marciò ordinatamente verso Ragusa: ove poi seppe che un migliaio di Turchi non tardarono due ore ad essere in quel molino ove aveva passata la notte, ed ove ardevano ancora di giorno l’ultime tavole del suo bastimento.[103]
I Ragusei raccolsero a grande onore il general pontificio e tutta la sua brigata; e li fornirono di cavalli, e di ogni altra comodità, finchè a loro piacque dimorare in quella terra: dopo di che, essendosi Marcantonio licenziato, passò in Ancona, e sul principio del seguente [110] anno giunse a Roma. Il Pontefice lo rivide con piacere più che dir si possa grandissimo, e gli parlò parole di gratitudine e di amorevolezza, dichiarandosi di lui pienamente soddisfatto: sì perchè aveva patito tanti disastri per obbedirlo, come per le buone relazioni che gliene avevano date i Veneziani, il Doge, e gli ambasciatori. E vie meglio sopra di lui fondava le sue speranze di quella lega, che tanto ardentemente desiderava: e che la provvidenza disponeva doversi non da altri condurre a compimento se non dal più generoso e leal capitano, come nell’altro libro sarà narrato.
[111]
I. — Ministri della Repubblica del Re e del Papa a trattare i capitoli della alleanza. — Prima sessione. (1º luglio 1570.) — Domande e risposte. — Offensiva e difensiva. — Le censure. — Altre difficoltà. — Condizioni di Venezia al principio del 1571.
II. — Il generale della lega in mare e in terra, e il suo luogotenente. — Don Giovanni d’Austria e Marcantonio Colonna. — Ristretto della capitolazione. (Febbraio 1571.)
III. — Congresso solenne del 7 marzo alla Minerva. — Articolo addizionale improvvisato dal Granuela. — Nuove discordie. — Fermezza dei Veneziani. — Il Papa torna senza conclusione a Palazzo (7 marzo.)
IV. — Scioglimento dei trattati. — Marcantonio spedito a Venezia. — Opinione dei Veneziani. — Destrezza e ragionamenti di Marcantonio. — Sua orazione in senato per la lega. (Aprile 1571.)
V. — Istanze di Marcantonio. — Suo ripiego per togliere la difficoltà del danaro. — Conduce il senato alla lega. — Sottoscrizione de’ capitoli a Roma. (25 maggio 1571.) — Medaglia.
VI. — Armamenti. — Pompeo Colonna luogotenente generale. — Onorato Gaetani generale delle fanterie. — Cencio Capizucchi maestro di campo; sua patente. — Capitani delle compagnie. — Nobili venturieri. — Tutti i Papi del cinquecento tennero galere proprie. — Perchè non n’ebbe Pio V. — Difficoltà per condurre galere da Venezia. — Capitoli per le dodici galere dell’ordine di santo Stefano. (Maggio 1571.)
VII. — Venuta delle galere a Civitavecchia. — Loro nomi e capitani. — Ordini di san Pio. — Marcantonio a Civitavecchia. — Mostra delle galere, e delle fanterie. — Partenza. — Arrivo [112] a Napoli. — Rissa sanguinosa in quella città tra papalini e spagnoli. — La squadra pontificia prima d’ogni altra a Messina. (20 luglio.)
VIII. — Movimenti dell’armata turca e della veneziana. — Sebastian Veniero. — Pericoli di lui. — Rimedî suggeriti da Marcantonio. — Sebastiano in gran travaglio si rivolge a Messina. — Incontro dell’armata veneziana e pontificia. — Feste a Messina. — Amorevolezze dei Veneziani verso i Papalini. — Maltalento degli Spagnoli. — Veniero vorrebbe partirsi. — Marcantonio lo ritiene. — Soperchieria degli Spagnoli contro i Papalini. — Tumulto militare. — Giustizia sopra gli Spagnoli. (7 agosto.)
IX. — Arrivo di don Giovanni a Napoli. — Sue qualità. — Riceve lo stendardo della Lega. — Lettera del Granuela. (13 agosto.) — Pio V lo sospinge a Messina. — Vi arriva alli 23 di agosto. — Consiglio di guerra sulla reale alli 24. — Nomi dei principali capitani, e loro propositi. — Deliberazione del consiglio. — Ardore dei Veneziani. — Freddezze degli Spagnoli. — Lettera in cifra di Marcantonio. — Sua difficile posizione. — Due lettere, a san Pio e a san Francesco Borgia.
X. — Altre sessanta galere veneziane a Messina. — Altre questioni. — Rimedi di Marcantonio. (2 settembre.) — La mostra. — L’armata veneziana difetta di fanterie. — Don Giovanni vuole fornirla con soldati del Re. — Rifiuto di Sebastiano. — Mediazione di Marcantonio. — Consenso dei Veneziani. (8 settembre.)
XI. — Altro consiglio di guerra. — Doppiezza dei consiglieri spagnoli. — Voto favorevole di Sebastiano e di Marcantonio per far giornata. — Sentenza di don Giovanni. (10 settembre.)
XII. — La partenza da Messina. (16 settembre.) — Religione all’armata. — Ordine del navigare. — Passaggio a capo Colonna. (21 settembre.) — Segni nel cielo. — Navigazione a Corfù. (26 settembre.) — Aggiramenti degli Spagnoli. — Arrivo alle Gomenizze. — La prima scaramuccia dei Romani contro i Turchi. (2 ottobre.) — La perdita di Famagosta conosciuta all’armata.
XIII. — Tumulto dei soldati del Re sulle galere veneziane. — Il Veniero impicca un capitano e tre soldati del Re. — Turbamento di don Giovanni e del suo consiglio. — Decisione contro il Generale veneziano. — Tumulto in tutta l’armata. — Marcantonio chiamato al consiglio. — Suo parere [113] e ragioni prudentissime. — Trova il modo di comporre le differenze. — Partenza per la Cefalonia. (3 ottobre.)
XIV. — Pareri dei Cristiani e dei Turchi intorno alla battaglia. — Esploratori da una parte e dall’altra. — Ambedue le armate decidono di combattere. — I Cristiani la sera del 6 ottobre spuntano la Cefalonia, e passano la notte nel canale. — Si appressano alle Curzolari. — Descrizione di questo luogo. — Ordinanza dell’armata. — Le galeazze alla fronte. — Rassegna dell’armata cristiana e della turchesca, galere, galeazze, navi, cannoni, soldati, marinari e remieri. — Mossa dell’armata nemica. — Muta il vento. (7 ottobre.)
XV. — Il primo movimento di Giannandrea. — Rompe l’ordinanza. — Il Turco sfida i Cristiani con un tiro. — Risposta di don Giovanni. — Lo stendardo di battaglia. — Assoluzione delle colpe. — I generali. — Il ballo. — Ferocia dei Turchi all’assalto. — Le galeazze. — Scontro delle armate. — Le due reali investite tra loro per prua. — Marcantonio al terzo banco. — Pertaù al focone. — La capitana di Venezia in pericolo. — La pontificia ributta Pertaù. — Concia altre galere. — Opprime i figli di Aly. — Conquista una galera. — Assalta il bassà per fianco. — Piglia insieme con don Giovanni la reale nemica. — Prosegue la battaglia sull’ala sinistra. — Astuzia di bassà Scirocco. — Prudenza del Barbarigo. — Una squadra dei Turchi è vinta alla spiaggia. — L’altra è circondata. — Orribile azzuffamento. — Vittoria dell’ala sinistra. — Morte del Barbarigo, e suo elogio in una lettera di M. A. — L’ala diritta. — Giannandrea e Luccialì. — Il primo s’allontana: il secondo fugge, opprimendo nel suo passaggio diciassette galere cristiane. — Sentenza di san Pio sui fatti di Giannandrea.
XVI. — Cause della vittoria ed effetti generali. — Notizie speciali delle galere di Marcantonio. — La capitana ributta Pertaù, opprime il re di Negroponte, vince un’altra galera. Conquista l’almirante del Turco insieme con don Giovanni. — Lettere di Marcantonio a diversi, e ai cardinali Gaetani e Spinosa. — La Padrona e suo soccorso alla battaglia. Salva Ascanio della Corgnia. — La Soprana e la Serena pigliano e inseguono galere nemiche. — La Reina sostiene la sua generalizia. — L’Elbigina conquista la Capitana di Rodi. — La Grifona vince i famosi corsari Caracossa ed Aly, ricupera la Fiorenza e la Piemontesa. — Vittorie dell’altre galere. — Ruggiero Oddi ripiglia la Capitana papale perduta alla [114] Gerbe. — Lettera di M. A. a san Pio. — Condotta nobile dei soldati romani rispetto all’interesse. — Esempj del Caetano. — Lettera di un soldato. — I monsignori Odescalchi e Grimaldi. — I cappuccini. — Visione di san Pio. (7 ottobre.)
XVII. — Rivista dei generali sul campo. — L’armata nel porto di Platèa. — Abbracciamento dei tre generali. — Tempesta nella notte. — Gran mortalità di nemici. — Don Giovanni e Marcantonio un altra volta sul campo. — Consiglio e ritirata. — Novero delle prede. — Partizione. (8 ottobre.)
XVIII. — Marcantonio a Messina. (1 novembre.) — Entra nel porto di Napoli con la sua squadra e le vinte galere. (13 novembre.) — Verso Roma per le poste a fin di trattar col Papa. — Notizie e feste di Roma. — Apparecchio di trionfo. — Maltrattamento delle fanterie per alcuni ufficiali. (18 novembre.) — Le galere, i cannoni, e i prigionieri a Civitavecchia. — Il Papa a sue spese arma alcune galere in quel porto.
XIX. — Apparato di Roma per il ritorno di Marcantonio. — Lettera di san Francesco Borgia. — Arrivo di M. A. in Roma, suoi modi e costumi. — Gli artieri, le milizie, i prigionieri, i patrizi, i dignitari, gli stendardi di Roma. — Il passaggio di Marcantonio. — Le iscrizioni. — Il Campidoglio. — Castel Santangelo. — Il Vaticano. — Marcantonio e san Pio. — Luminarie (4 dicembre.) — Feste all’Aracœli. — Orazione del Mureto. — La colonna rostrata. (13 dicembre.)
XX. — Feste della Chiesa cattolica. — Medaglie di san Pio con sopravi l’ordinanza navale. — Considerazioni. — Gelosie degli Spagnoli per i trionfi di Venezia e di Roma. — Fanno deporre il Veniero. — Mettono in mala vista Marcantonio. — Conseguenze funeste. (31 dicembre 1571.)
[115]
[1571.]
I. — Si saranno taluni per avventura maravigliati che le nostre armate sul principio della Lega dopo vinte tante difficoltà per unirle a Candia, e sì duri travagli superati a voler che approdassero in Cipro, siansi finalmente ritirate dalla guerra senza battaglie e dal soccorso senza profitto: derise dai nemici, di danni afflitte, dalle discordie lacerate, e percosse dalle tempeste. Io qui non ripeterò la dimostrazione delle cause che gittaronle a rompere in siffatti frangenti, perchè già ne ho detto avanti. Ciò non pertanto bisognandomi ancora per molto tempo fra le angustie dei medesimi scogli navigare, devo sin dal principio far cauti i lettori a lasciar da parte ogni maraviglia se pure in questo libro (in fronte al quale sta scritto il gran nome di Lepanto) vedranno le cose dell’armata cristiana procedere al modo stesso con che furono principiate. Agúzzino essi l’ingegno per discernere il vero, sebbene occulto, carattere di queste alleanze: donde altrettanto grande comparisce la paura che avevano i Cristiani dei Turchi, quanto la rivalità che nutrivano tra loro: più nocevole, perchè più celata. Nel vero, concorrenti a Cipro, giammai non combatterono col Turco; [116] ma vicendevolmente sempre contesero: ed alleati a Lepanto, tanto si osteggiarono tra loro per un anno che furono al punto d’azzuffarsi insieme; ed un giorno solo di battaglia ebbero col nemico. Pur sarebbe bastato quel dì a mutar la faccia semibarbarica dell’Europa, se avessero almen dopo il trionfo potuto quietare. Ma non ostante la comune necessità, e l’universal desiderio, la lega giurata e la mediazione di un santo, non arrivarono mai ad esser concordi. Anzi ingelosirono più nella vittoria: e finirono a quella dissoluzione che, copertamente causata dagli uni, e non potuta a niun patto cessare dagli altri, fece perder tutto il frutto che poteva sperarsi allora allora dalla grande giornata. Indi pure si può comprendere quanto tra loro si nimicavano. Ma di mezzo a siffatto contrasto più bella e più gloriosa rilevasi l’intramessa del Pontefice e de’ suoi capitani, ai quali la posterità farà ragione dei beneficî ricevuti: e gli storici romani levandosi all’altezza di così degno argomento, troppo travisato dalle altrui passioni, potranno una volta con la penna rimetterlo in chiaro, come i loro maggiori lo posero con la virtù.
Aveva il santo Padre, sin da quando il Turco assaltò primamente Cipro, deliberato di condurre i principi maggiori della Cristianità ad una lega per la difesa comune del Cristianesimo, alla quale esso stesso si offrì avanti a tutti per zelo di religione, subito i Veneziani se gli accostarono per bisogno di aiuti, appresso il re di Spagna si lasciò trarre per contentarnelo,[104] e finalmente gli altri principi lo udirono per iscusarsene. Ma tra gli Spagnuoli e i Veneziani, sebbene dovesse riuscire [117] difficilissimo il concludere e il mantenere la lega, non fu gran fatto malagevole, sotto la mediazione del Papa, cominciarne le pratiche: talchè invitati ad aprire in Roma le conferenze, vennero le commissioni di pieno potere da Venezia all’ambasciadore ordinario Michele Soriano, cui poscia fu aggiunto Giovanni Soranzo; e da Madrid egualmente all’ambasciadore don Giovanni di Zuñiga, e ai due cardinali spagnoli Antonio Perrenotto di Granuela, e Francesco Pacheco: con i quali il Papa deputò da sua parte sette cardinali, che furono Giovanni Morone, Michele Bonelli, Giovanni Aldobrandini, Carlo Grassi, Pierdonato Cesi, Girolamo Rusticucci e Prospero Santacroce, oltre al cardinal Giampaolo Chiesa surrogato alla morte del Grassi; uomini tutti di valore e di giudizio eccellenti per negozio così grande.
Il Pontefice riconosciutili tutti, gli ebbe a sè il primo di luglio del mille cinquecensettanta: e con parole gravi e piene di saviezza parlò loro delle cose occorrenti, ed esortolli a concludere prestamente quell’alleanza dalla quale ciascuno doveva ripromettersi la difesa e della Cristianità e degli Stati loro contro la potenza del Turco, che minacciava a parte a parte opprimerli tutti.[105] E avendo i deputati risposto con parole onoratissime, mostrando pronta volontà ad ogni suo consiglio e piacimento, si ristrinsero insieme a negoziare presso il cardinal Bonelli. Gli arcani colloqui degli ambasciatori sono in gran parte pubblicati per le stampe,[106] nè io intendo fermarmici troppo: ma solo [118] darne un cenno per tenermi alle ragioni dell’argomento mio; e farmi strada a metter fuori per la prima volta alcune notizie che molta luce spargono e più particolari aggiungono in questa negoziazione, per ciò che v’ebbe a fare Marcantonio Colonna.
Sin dal primo giorno i ministri spagnuoli con gran sicumèra e con sospettosa alterigia presero a mandar le cose per le lunghe, ed a trattar co’ Veneziani piuttosto da superiori che da compagni. Venisse l’ambasciator Soriano in mezzo a far le petizioni; e lasciasse loro il carico di rispondere, e di mandare i partiti a Madrid per ricavarne dal Re risposte e ordini più precisi secondo le speciali risoluzioni che si avessero a prendere.[107] Michele però cui pareva indegna quella parte obbligata di domande [119] e risposte, come tra maestri e discepoli si costuma nelle scuole, soggiugneva: non aver egli altra cosa a chiedere che non avessela già prima di lui domandata il Papa. E rivolto ai sette cardinali dal medesimo Papa deputati, pregavali che, secondo la mente di Sua Santità, ripigliati i capitoli dell’altra lega tra Paolo III, Carlo V e la Signoria nel millecinquecento trentasette, quelli medesimi proponessero nel settanta: e coll’istessa prestezza, fin dalla prima congregazione, li pubblicassero come lega conclusa; affinchè il mondo si quietasse nella pronta risoluzione, e gli alleati si ordinassero ad eseguirla. Allora il cardinal Granuela, prese a dimostrare che i capitoli del trentasette si dovevano correggere: e che tanti anni fa si era potuto in un giorno concludere, ma non si potrebbe ora, per non essere i deputati delle due parti egualmente convenuti nei punti principali. Poscia passò a considerare quanto tempo avrebbero per discutere riposatamente i nuovi capitoli: stantechè per quell’anno le forze della Repubblica, del Re e del Papa unite a Candia già bastavano alla difensiva; e che prima di mettersi alla offensiva nell’anno seguente, si poteva con ogni comodità trattarne il modo, e convenire insieme nelle debite forme. Al qual discorso il Soriano, che vedeva quanto pericolo da quelle comodità del Granuela venisse a Venezia di consumarsi nel mezzo tempo coi Turchi e con gli Spagnuoli, replicava: non essere nè giusto nè utile aspettar gli anni e struggersi intanto nella guerra senza alcun beneficio; che il nemico non aspettava di assaltar Cipro l’anno venturo, ma già aveva invaso l’isola, e in quei giorni combattevane la capitale: doversi pigliar subitamente l’offensiva ora e sempre; perchè il miglior modo di difendersi è quello di offendere l’inimico, e di farlo impotente a nuocere; e di togliergli quanto più si può delle cose da lui usurpate, [120] donde è sua forza: dovere i Cristiani con gli acquisti presenti a danno del Turco compensarsi delle perdite passate. Scendendo poscia ai particolari; dimostrava non esservi forse mai stata occasione tanto bella di offenderlo come allora, quando l’armata sua trovavasi in fondo al mare di Cipro, e restavano tutte le isole e città marittime dell’imperio ottomano sguarnite, e senza speranza di soccorso: preda certa a chi di presente volesse assaltarle.
Le risposte del Soriano riferite al Papa tanto gli piacquero che da quelle prese occasione di rinnovare ai signori ambasciadori più caldi ufficî, perchè sollecitassero la conclusione dell’alleanza: e mandò loro il dì seguente, che erano li tre di luglio, una bozza di capitoli, secondo che a lui coll’intervento di uomini periti era parso conveniente di fare.[108] Sopra il quale fondamento si sarebbe in poco tempo potuto costruire un edificio di buona lega, e togliere le difficoltà del domandare e del rispondere, dell’offensiva e della difensiva, ed ogni altra maniera ostacoli, se non ci fosse entrato il disegno che gli Spagnuoli avevano di pigliar tempo, contro il volere del Papa e de’ Veneziani. E dall’insieme apparisce che non era a pena risoluto un dubbio se non quando ne nascevano due: talchè per molti mesi bisognò che i deputati di buona o mala voglia si acconciassero a disputar sottilmente se la lega esser dovesse a perpetuità o a tempo, e se in questo caso bastasse il termine di dieci o dodici anni; se dichiararsi sol contro il gran Turco o contro tutti gl’infedeli, o almeno [121] pur contro i Barbareschi; se imporre la pena delle censure ecclesiastiche contro a chi la romperebbe; se chiamare alla lega i Persiani, quantunque seguaci di Maometto; se concludere senza l’imperador dei Romani, e senza gli altri principi cristiani ad uno ad uno nominati; se togliere o mantenere la neutralità dei Ragusei: quante le forze comuni dei collegati, che per ciascuno, come ripartir le spese, quando concedere le tratte, a chi le conquiste, qual porzione delle prede, cui dare il generalato di mare, e quello di terra, e la successione ad ambedue in loro difetto: cose tutte che insieme a molte altre furono con grande arte diplomatica tramestate e ribattute per ogni verso. Ma principalmente i due punti dell’offensiva e delle censure; sui quali soprammodo insistevano gli Spagnuoli. Volevano costoro che la lega si dichiarasse soltanto difensiva dal sultano di Costantinopoli, offensiva contro i Barbareschi: e che fosse scomunicato dalla Chiesa chi rompendola si pacificasse con loro. Ma i Veneziani, sostenuti dal Papa, vinsero il partito che l’alleanza mirasse sin dal principio a guerra offensiva contro il gran Turco e suoi dipendenti: e quanto al secondo, contentandosene il Papa, non vollero mai sentire parola di censure. E quantunque dicessero che la fosse indegnità e capitolo inutile e non mai praticato tra i principi, i quali non si legano nè si guardano da fallire come i privati per paura delle pene, ma per amore della virtù; ciò non pertanto vedevano e dissimulavano che si potrebbe con siffatto capitolo di scomunica straccarli tanto (come poi successe) da farveli cadere: e allora, tra lo sbigottimento pubblico e lo scroscio del fulmine, tirare a Madrid tutto il loro dominio di Terraferma. Queste pratiche pertanto durarono sei mesi dell’anno settanta, e i due primi mesi del settantuno; con tal contenzione che più volte i Veneziani furono al punto di rompere ogni [122] pratica, e più volte gli Spagnoli dissero conclusa ogni cosa, sebbene non ne fosse deliberatamente fermata alcuna.[109] Senza conclusione e senza rottura si andava per le lunghe: e quantunque i ministri del Re avessero messe in ogni cosa tante difficoltà, e negoziato con tanta insolenza che più non si poteva,[110] nondimeno il Papa e i Veneziani tolleravano. Grande è la pazienza degl’infelici e dei santi.
[123]
A queste difficoltà si aggiungeva la mala condotta di Giannandrea nella guerra di Cipro. Avevano i Veneziani concepito grande speranza di far buona guerra; e coll’aiuto del Papa e del Re, e coll’armata loro quant’altra mai bellissima, piena di valorosi soldati e di eccellenti capitani, si erano persuasi di poter non solo francamente difendere lo stato oltremarino, ma anche conquistare buona parte dell’imperio turchesco, rifarsi con molto vantaggio dei danni patiti nelle guerre passate, e finalmente con infinita e giusta gloria abbassare l’orgoglio ottomano. Quando poi in fine della prima campagna si trovarono aver perduto il tempo nell’aspettare da Giannandrea un soccorso tanto inutile, il regno di Cipro abbandonato, la capitale perduta, e l’armata loro ruinata, non dall’armi nemiche, ma dall’ozio, dalle infermità, e dai lunghi inganni degli amici, e finalmente ebbero un successo alle prime speranze tutto contrario; mesti, confusi e sbigottiti, come negl’imprevisti e acerbi accidenti suole avvenire, gemevano.[111] Le case piene di lutto, la città di vesti lugubri: chi la morte dei parenti, chi la perdita delle sostanze, chi il pericolo della patria amaramente piangeva. La plebe per la sospensione dei traffichi ridotta in miseria, la piazza piena di fallimenti, ed il senato pel gravissimo pericolo della publica salute in travaglio. E quantunque non ristassero di fare que’ maggiori provvedimenti che potevano per sostener la guerra, pure poco o nulla più fidavano nell’aiuto lontano, tardo e ritroso degli Spagnuoli. Di che allora andò proverbio, ripetuto poi le tante volte a Venezia, che la Republica nella guerra del Turco avesse ad esser sempre presta e sempre sola.
II. — Nondimeno risoluti a continuare la guerra, e volendo pur contentare il Papa, nel quale grandemente [124] confidavano, perchè era uomo di petto, franco nel dire ciò che pensava, e fermo nel mantenere le sue parole, non avevano mai rotte le pratiche della lega: ed erano giunti fino al febbraio del settantuno, quando (dopo aver in qualche maniera composte le altre difficoltà) restava a decidersi del generalato: cioè di chi dovrebbe con suprema autorità governare le forze di tutti i confederati. Punto essenzialissimo, intorno al quale rigiravasi tutta la ragione di stato dei negoziatori, e tutte le speranze della lega: perchè in potestà di quell’uomo sarebbe stato il favorire o ruinare ogni impresa. I Veneziani che si erano onninamente contentati della capitolazione fatta con Carlo V e Paolo III nell’anno 1537, e che erano disposti a ricevere ogni altro capitolo, solo nel punto del generalato chiedevano istantemente nuova forma. Ripensavano che, per essere allora stato fatto così assolutamente Andrea Doria, nè coi nemici si era combattuto alla Prevesa, nè cogli amici osservata la capitolazione a Castelnuovo: quindi proponevano al presente che, dovendo ognun de’ tre principi collegati avere il suo generale, essi tre risolvessero il tutto; siffattamente che la volontà dei due generali fosse legge al terzo, e la deliberazione dei due s’intendesse deliberazione di tutti: dandosi però il titolo di generale supremo, e la facoltà di eseguire i partiti deliberati a uno di loro che potesse nell’autorità e nel nome soprastare agli altri, talchè niuno patisse ad ubbidirlo con quella prontezza e fede che è necessaria nelle cose di guerra. La scelta però di comune soddisfazione riusciva difficilissima. Imperciocchè da una parte al piacer dei Veneziani nominandosi per tale ufficio tutti i principi maggiori d’Italia dal duca di Savoja in giù, e dall’altra volendo il Re per suoi fini che si dovesse scegliere don Giovanni suo fratello naturale, si era quinci e quindi in sospeso: finchè i Veneziani, [125] come sempre succedeva, piegaronsi ad accettarlo: rimettendone l’elezione al Papa e chiamandosi contenti di chiunque piacesse eleggere a sua Santità. Allora il Pontefice scrisse al Re che esso e i Veneziani seco si contentavano che secondo la sua proposta don Giovanni aver dovesse il generalato dell’armata, e pregavalo che proponesse altre persone di sua fiducia tra le quali si potesse scegliere il generale dall’esercito per le imprese di terra, ed i successori dell’uno e dell’altro qualora alcuno dei due si trovasse assente o impedito. Queste lettere partivano nel tempo che i deputati spagnoli a Roma erano a pretendere in punto che, mancando don Giovanni, dovesse farne le veci l’ordinario luogotenente di sua Altezza: cosa che non piaceva ad alcun altro, e nè pure il Papa poteva soffrirla.[112] Perchè ricordando tutti la mala condotta di Giannandrea nella campagna precedente, temevano vederlo luogotenente di don Giovanni nella campagna seguente: e neanche potevano restar capaci, che fosse giusto di vedere in tal modo un luogotenente (per accidentale combinazione) montare improvvisamente a tanta altezza da essere superiore ai Capitani Generali del Papa e dei Veneziani presenti all’armata. Molto più che a libito di don Giovanni sarebbe dichiararsi impedito, e a libito del Re metter in sua vece chi non godeva fiducia. Perciò il Papa e i Veneziani fermamente mantennero che in difetto di don Giovanni, Generale spagnuolo, dovesse succedere Marcantonio, Generale pontificio: ed in questo condiscese il Re (che in suo segreto si riserbava alcune parti graziose) tanto per soddisfare al Pontefice, quanto perchè stimava la persona di Marcantonio. Ma tra simili difficoltà la lega invece di concludersi speditamente, se ne passava in [126] negoziati quasi un anno, e intanto niuna delle parti faceva le provvisioni con quella fiducia e calore che sarebbe stato necessario.
[Febbraio 1571.]
Tuttavia venuta la risposta di Filippo, che fu all’uscita di febbraio, i Veneziani non vollero mancare di concludere quello di che si erano per rispetto del Pontefice contentati; nè lasciare di sciogliere quell’ultimo nodo del generalato di terra e di mare e dei loro successori. Portavano le lettere che nel comando dell’armata, non vi essendo presente don Giovanni, dovesse succedere l’uno dei tre: o don Luigi di Requesens commendator maggiore di Castiglia, o Marcantonio Colonna, o Giannandrea Doria: nel comando poi dell’esercito, il principe di Parma, quello di Urbino, Marcantonio Colonna, e Vespasiano Gonzaga. Tra le terne e le quaterne niun veneziano, sì bene il Doria. Lasciava poi ai deputati del congresso in Roma che si accordassero a scegliere per il mare uno delli tre, e per la terra uno delli quattro: se pure non amavano meglio che don Giovanni riunisse nella sua persona il generalato di terra e di mare per maggior beneficio dell’impresa.
Il tenore di queste lettere condusse i deputati a risolvere la difficoltà: imperciocchè avendo il Re posto Marcantonio nella terna e nella quaterna, tanto di mare che di terra; e trovando i Veneti eccezione in qualcuno dei capitani del mare, come il Pontefice in uno di quelli di terra, si venne nel parere di sua Maestà, e tutti nel fatto concordi stabilirono dare a don Giovanni l’uno e l’altro generalato, e a Marcantonio egualmente il succedere nell’uno e nell’altro carico quando fosse assente o [127] impedito don Giovanni.[113] Così restò stabilito il capitolo dei Generali e insieme fermati gli altri della lega, che dal latino al volgar nostro ridotti sommariamente dicevano in questo modo.[114]
I. Tra il Pontefice, il Re, e la Repubblica nell’anno mille cinquecento e settantuno sia lega perpetua, offensiva e difensiva, contro il Turco e suoi dipendenti.
II. Le forze della lega siano dugento galere, cento navi, cinquanta mila fanti, e nove mila cavalli.
III. Gli apprestamenti di guerra si facciano ogni anno nel mese di marzo: al fine del quale tutta l’armata debba trovarsi pronta in quel porto che verrà stabilito.
IV. Dato che il Turco assalti alcuna piazza dei confederati, quella debba esser soccorsa da tutta l’armata o da una parte di essa, secondo il bisogno.
V. Gli ambasciadori dei confederati ogni anno tratteranno in Roma, durante la stagione autunnale, ciò che debba imprendersi alla primavera dell’anno seguente.
VI. Il Pontefice armi dodici galere, tremila fanti, e ducensessanta cavalli.
VII. Le spese si dividano in sei parti: così che il Re ne paghi tre, la Repubblica due, e il Papa una.
VIII. Il Re e la Repubblica diano ciò che possa mancare [128] al Papa: in ragione di tre quinti per il primo, e due quinti per la seconda.
IX. I Veneziani imprestino al Papa dodici galere ben munite d’artiglieria, e il Papa le armi di sue genti ed a sue spese.
X. Colui dei confederati che supera gli altri nelle spese abbia il diritto ad esser dai medesimi rimborsato.
XI. Sia libera la tratta dei grani e delle vittovaglie per l’armata, secondo certe speciali convenzioni sulla quantità e sul prezzo.
XII. Niuno imponga nuove gabelle sopra i generi necessarî al sostentamento dell’armata.
XIII. Se i Barbareschi assalteranno la Spagna, si debba soccorrerla con tutta o con parte dell’armata, secondo il bisogno.
XIV. Il simile per la spiaggia romana.
XV. E lo stesso in ogni parte del dominio veneto.
XVI. Nei consigli interverranno i tre generali dei confederati: e quello che sarà parere di due s’intenda essere deliberazione di tutti.
XVII. Don Giovanni D’Austria, per eseguire le deliberazioni comuni, sia capitan generale della Lega in mare e in terra; e nel caso di impedimento o di assenza ne faccia le veci Marcantonio Colonna.
XVIII. L’armata quando sia unita inalberi lo stendardo della lega.
XIX. Si riserbi un luogo conveniente all’imperadore dei Romani, ed ai re di Francia e di Portogallo.
XX. S’invitino pure gli altri principi cristiani.
XXI. Le prede si dividano in tanti sesti, quanti ciascuno ne spende: e le conquiste tornino ai primi possessori, come nel trattato del 1537; eccettuato Tunisi, Tripoli, e Algeri che debbano rimettersi al re di Spagna.
XXII. Si riconosca la neutralità dei Ragusei.
[129]
XXIII. Le difficoltà che possono insorgere si rimettano all’arbitramento del Pontefice.
XXIV. Niuno faccia nè pace, nè tregua col nemico, senza il consentimento degli altri.
[7 marzo 1571.]
III. — Essendosi adunque dopo tanto tempo e travaglio accordati gli ambasciatori nei predetti capitoli, parve al Papa che fosse tempo di sottoscriverli e di bandirli solennemente. Al quale fine, dopo avere ottenuto il consenso di tutti, fissò il giorno sette di marzo nel quale si celebrava con molta pompa da’ suoi domenicani di santa Maria sopra Minerva la festa dell’angelico dottore san Tommaso d’Aquino: acciocchè nel giorno istesso e nella medesima chiesa si dovesse pubblicare la tanto sospirata alleanza, e renderne le dovute grazie a Dio. Venuto il qual giorno, e ridottosi quivi il collegio dei cardinali, gli ambasciatori dei principi, e la frequenza della nobiltà e del popolo romano, dopo la Messa, si restrinsero fra di loro i deputati in una sala del convento alla presenza del Papa per far lettura dell’istromento e firmarlo.[115] Recitato però il proemio, e parte del primo capitolo, [130] là dove diceva che la lega s’intendesse stabilita nell’anno mille cinquecento e settantuno, levossi in piedi il cardinale Granuela, primo negoziatore di Spagna, e senza alcun rispetto alla solenne adunanza, alla pubblica espettazione, ed alla maestà del romano Pontefice; anzi traendo partito da tutte queste cose per sorprendere i Veneziani e per legarli a suo talento, interruppe repentinamente il lettore dicendo: Questo è impossibile nell’anno presente; perchè il tempo è troppo avanti. Siamo alli sette di marzo, e non possiamo per la fine del mese, secondo il capitolo terzo, aver pronta tutta l’armata a Messina: non si può eseguire quest’anno tutto ciò che si contiene nella capitolazione. Dunque o bisogna acconciare, e mettere il settantadue laddove dice settantuno; o introdurre nel trattato un articolo di più, che ne determini le applicazioni pratiche per l’anno presente. E dopo alquante repliche di varie persone con diversi propositi, richiesto a manifestare qual dovesse essere il tenore dell’articolo nuovo, egli lesse da una sua carta la seguente sentenza:[116] «Perchè quest’anno non si possono [131] mettere insieme quelle forze che sono contenute nel capitolo terzo, e pur bisogna contro il Turco comune nemico fare quest’anno tutto che si può, li deputati del serenissimo Re cattolico offeriscono che avrà in ordine quanto più presto, ed al più tardi per tutto maggio, almeno da settanta in ottanta galere ben in ordine ed armate; desiderando si menino insieme di quelle dei confederati tutti in quel maggior numero che si potrà fino al numero di duecencinquanta: et che li signori Venetiani in questo di armar galere faccino ogni sforzo, perchè hanno comodità di più legni. Con questo però che quello che contribuiranno in questo più della loro rata, il più dal serenissimo Re loro sarà compensato in denaro, o in altro; siccome in gente, vettovaglie, remi, munizioni et altre cose: sì come darà loro comodità di cercar remigi, ed armar galere quanto si potrà nelli suoi regni, con che si provvedano ancora le galere di sua Maestà di quello avranno bisogno.»
Letto questo capitolo, il Granuela si tacque, pago di aver con sì bel tratto mostrato palesemente al mondo qual fosse la tempra del suo negoziare; ed essersi reso degno di quei premî che poco dopo gli vennero da Madrid col governo vicereale di Napoli, e con la presidenza del supremo consiglio sopra gli affari d’Italia. San Pio, già ristucco delle arti usate da quell’insidiatore del pubblico [132] bene, ruminava le severe parole con che poscia rampognandolo il discacciò da se:[117] e gli astanti che avevano sentite tante novità, ed erano improvvisamente caduti in così gran confusione, guardandosi l’un l’altro tacevano. Gli ambasciadori veneziani però consideratamente s’applicarono a contrappesare la giunta e la derrata; deducendone che al postutto si voleva stringerli in quell’anno a non far nulla, come nell’anno passato; e sol contentarli con le speranze del tempo futuro: e intanto obbligarli ad armare oltre il debito loro, e a riceverne il pagamento ancora nel tempo a venire, o in denaro, o in altro. Nondimeno anzichè rompere, pregarono che si lasciassero i capitoli così come erano già prima convenuti: promettendo che essi non mancherebbero ai patti, nè allora nè mai; come stimavano che per le maggiori sue forze potrebbe anche meglio di loro in quell’anno e sempre venir fatto dal Re. Protestavano gli Spagnuoli che il loro governo non potrebbe essere in ordine nel settantuno: e che non si dovrebbe intanto pensare ad alcuna impresa, nè a ricuperare Cipro, nè ad altra conquista; ma soltanto a star sulle difese. I Veneziani insistevano che l’offensiva era già risoluta, e che il peggiore di tutti i danni sarebbe il perder tempo. Finalmente dopo molte dispute, appartandosi or gli uni or gli altri a trattar in diverse camere, e poi riunendosi insieme senza accordarsi mai, i Veneziani risolutamente troncarono la questione, dicendo: [133] Essere venuti là per sottoscrivere ciò che dopo otto mesi di pratiche si era stabilito; e non per avere ad abbracciare nuove condizioni: mantenessero i regî quanto avevano promesso, ed essi pure il manterrebbero: alle altre novità non estendersi il loro mandato, scriverebbero a Venezia. Ma i regî importunavano: in quel modo e in quel giorno le firme volevano; rinfacciavano ai Veneziani il rifiuto, chiamavanli irreverenti al Pontefice, ingrati al Re: speravano vincolarli col giuramento dei capitoli e delle giunte; ed essi liberamente entrare in possesso delle grazie di Roma e delle decime del clero, sulle quali non potevano gettarsi se non a lega bandita. Gli ambasciatori Veneziani però in cosa di tanto momento, e così diversa da quel che si era sino allora stabilito, giudicarono convenirsi al debito loro aspettar nuovi ordini dal Senato. Stettero fermi: e l’assemblea fu sciolta.
Così il giorno dell’alleanza solenne si finì con amara dissensione: e il Papa dolente di veder tante sue fatiche rese vane, non senza grave cordoglio, piangendo alla vista del popolo romano stupefatto, se ne tornò a palazzo.[118] Avvenimento rimarchevole che onora la sua virtù; quantunque per rispetto di Spagna taciuto dagli scrittori della sua vita.
[134]
[Aprile 1571.]
IV. — Come poi arrivarono le notizie di questi successi a Venezia crebbe fuormisura la pubblica indignazione. E molti principali senatori che conoscevano le ordinarie condizioni delle leghe, e penetravano eziandio profondamente nei segreti della corte di Spagna, furono tutti in por mente al capitolo di Granuela, congetturandone simili e peggiori cavillazioni perpetue nel tempo futuro. Gli Spagnoli dall’altra parte sapendo come alla Repubblica non restava altro partito che, o gettarsi ai loro piedi, o pacificarsi col Turco; quando schifava il primo partito, davano voce che pensasse al secondo; con questo giustificavano i sospetti, e chiamavanla traditrice. E quanto più gli uni e gli altri replicavano con le scritture e co’ corrieri, tanto più la piaga inciprigniva, e la lega si andava da un capo all’altro disciogliendo; tanto che già se n’era perduta ogni speranza. Se non che il Pontefice per farvi sopra dal suo canto tutto quello che poteva, pensò mandare a Venezia, non già vescovi prelati o cardinali, quantunque ve ne fossero in Roma eccellentissimi; ma l’istesso capitano generale della sua marineria. Marcantonio Colonna: affinchè egli procurasse con la destrezza e co’ graziosi suoi modi di levar le difficoltà e rinverdir la fiducia già quasi spenta, e ridurre per pubblico beneficio l’animo dei Veneziani a quella condiscendenza che non si poteva conseguire dagli altri.
Quei che avevano allora in mano il governo di Venezia erano risoluti alla guerra contro il Turco, risoluti alla lega con gli Spagnoli: ma ogni giorno meno speravano nella lega e nella guerra. La pochezza del soccorso ricevuto l’anno avanti da Giannandrea, gli [135] ostacoli continui nel negoziare, gli articoli improvvisi del Granuela, la cupezza del Re tenevali impensieriti nel tempo presente, e toglieva loro la speranza di effetti migliori nel tempo a venire. Vedevano la loro armata percossa di grande mortalità e di maggiore avvilimento, vedeano già quasi certa la perdita del regno di Cipro, e tutto il resto del dominio loro in Levante presso che vicino a perdersi: vedevano non poter soli resistere contro la sterminata potenza del Turco, l’imperatore di Germania non volersi rompere con lui, e il re di Francia più che mai osservarlo. La lega poi pareva a molti segni che dovesse riuscire piuttosto difensiva che offensiva, cioè al rovescio del loro proprio e del comune interesse: avendo essi e tutto il Cristianesimo bisogno di assalire per ricuperare Cipro, Negroponte, ed altri paesi perduti, per allontanare il Turco dall’Italia, e per goder poi lungamente il frutto di tanti travagli. Cose che non potevano tutte egualmente piacere alli Spagnuoli. Anche l’immensa voragine delle spese li spaventava, temendo da un giorno all’altro dover loro venir manco onde pagar le milizie; e consumato senza profitto lo stato di Lombardia, farsi quei popoli nemici. La pubblica miseria, la perdita del traffico, i continui fallimenti, il lutto di tante vedove, e di tanti orfani opprimevali. Confrontando poi le spese ed i pericoli loro con quelli degli altri, si trovavano per ogni capo in peggior condizione: perchè nè il Papa nè gli Spagnoli potevano nella guerra perder nulla; ed essi avevano già perduto un regno, e stavano al punto di perderne altri, specialmente Candia sulle fauci dell’arcipelago, e più di Cipro vicina a Costantinopoli. Quanto all’armata, vedevano il Papa metterci solamente dodici galere e minima spesa, il Re poi di spese e galere quasi nulla: perchè le stesse squadre della guardia ordinaria di Napoli, Sicilia, Sardegna e presidî [136] dell’Africa bastavano a fornire il contingente della lega; e, quando anche avesse in qualche parte ecceduto, poteva largamente compensarsi sopra le ricche decime del clero di Spagna, per la concessione che glie ne farebbe il Pontefice. Ed essi, senza tante rendite, costretti a mantenere fuor del costume cencinquanta legni in mare, cinquanta mila uomini in terra, l’assedio tremendo di Famagosta nell’isola, le difese di Dalmazia, di Candia, di Corfù, e di tante altre piazze poste in pericolo; i presidî, le munizioni, le vettovaglie; e con questo carico addosso sentire gli Spagnuoli nelle sedute riposatamente discorrere di aspettare un altr’anno, non potevan quasi più contenersi. E sebbene per la grande prudenza tacessero in pubblico, nondimeno si lasciavano intendere in Senato, che vedendosi abbandonati da tutti i principi e delusi dagli Spagnuoli, altro lor non restava se non venire col Turco a qualche accordo, purchè fosse onesto.[119] Dicevano che dovendo pur finalmente venire a questo termine, meglio sarebbe farlo subito per aver da lui megliori condizioni, che non dopo conchiusa la lega; a rischio di peggior sorte per lo sdegno del Turco, del Re, e del Papa. Ad ogni modo poi, essendo già presso il mese di aprile senza alcuna conclusione, e stando le forze del re divise in più parti e lontane, nè potendo nel corso dell’anno far cosa di momento, concludevano non doversi la Repubblica obbligare a niun patto, per non pigliarsi addosso così grave peso, senza alcun vantaggio. A tale si era ridotta la pratica della lega dopo il capitolo del Granuela.
E così Marcantonio, quando con prestissimo viaggio [137] giunse a Venezia, trovò le cose. Il Doge coi principali senatori amorevolmente ricevendolo non dissimularono dolersi di lui per compassione che fosse venuto a negozio non solo difficile, ma disperato: intorno al quale nondimeno, desiderando dargli ogni soddisfazione possibile, lo avrebbero udito. Laonde egli, come di animo grande, levandosi al di sopra della difficoltà si accinse all’impresa, altrettanto ardua per lui che utile per tutti, di condurre a lieto fine la sua missione. E alcune volte in Collegio, spesso in privato, nel continuo ritrovo che in casa sua si faceva dei senatori principali che al di là d’ogni credenza lo visitavano e frequentavano, prese a ragionare sopra questa materia, procurando togliere le diffidenze che erano nate, scusando gli Spagnuoli, e le opere loro rivolgendo (per quanto era possibile) dal lato più favorevole, e conchiudendo che dalla lega se ne potrebbe in fine qualche cosa di bene ottenere. Dimostrava a quei signori che non dovessero creder mai di poter vivere in pace col Turco, il quale si era sempre mostrato traditore e senza fede: che li avrebbe un’altra volta all’ombra di novella pace tanto meglio disarmati e ripercossi, quanto maggior profitto gli lascerebbero cavare dai precedenti tradimenti, e dai trattati successivi. Non così con la persona santissima del Pontefice tutta volta ai vantaggi della Cristianità, specialmente della loro Repubblica, e tutta nell’osservanza delle promesse. E che l’animo pur di sua Maestà si dovesse credere buono, nonostante la difficoltà dei ministri, s’ingegnava dimostrare per molti indizî, e per l’articolo addizionale medesimo; potendosi indi dedurre che sua Maestà intendeva determinare chiaramente quel che poteva fare per volerlo mantenere: altrimenti se l’animo suo fosse a violare le promesse, non farebbe tanta difficoltà [138] nell’obbligare la parola. Poi richiamavali al punto della loro riputazione, e diceva aver caro che non iscapitassero nel mostrarsi tanto nemici dell’armi e della guerra da meritarsi la taccia di gente morbida e neghittosa, cui nè le parole, nè i fatti, nè le ingiurie, nè la perdita dei regni potessero scuotere dal letargo: così che ognuno in seguito pigliasse ardire ad offenderli senza rispetto. Veniva appresso stringendoli a confessare che essi da sè non potevano sostener la guerra, ancorchè difensiva, contro la grande potenza del Turco, cresciuto troppo più di forze in terra e in mare, che negli altri tempi, quando essi soli vittoriosamente aveano guerreggiato con lui. E scendendo ai particolari faceva loro toccar con mano non aver essi luogo alcuno sicuro ed a proposito per conservar l’armata unita, in guisa che potesse far fronte al nemico e difendere lo Stato: imperciocchè mandatala nel capacissimo porto della Suda in Candia, potrebbero bene tenerla unita, ma non guardare il golfo nè assicurar Venezia, per la grande distanza: avrebbero da Corfù potuto fronteggiare il nemico e coprire il golfo, ma non unirvi l’armata; essendo poco capace quel porto, e neanche sicuro, perchè dominato da certe alture, donde il nemico potrebbe distruggere le navi sulla testa dell’ancora. Nella Dalmazia non esservi porto ove l’inimico non avesse facoltà di piantargli sopra alcuna batteria dal lato di terra, e cacciare in fondo l’armata: così che del naviglio loro poco o niente si sarebbero potuti servire. Per la qual cosa non dovendo essi confidare nella fede del Turco, nè potendo guerreggiar da sè soli, nè sull’offensiva nè sulla difensiva, bisognava che consentissero nella lega con gli altri; ed accettassero gli aiuti del Papa e del Re per una guerra tanto onesta, profittevole, ordinata non solo a difendere l’Italia e la Cristianità, ma anche ad offendere [139] il nemico ed a ritogliere dalle rapaci sue mani quanto si potesse dei paesi già prima da lui usurpati. Che se rifiutassero così grandi soccorsi, non solo resterebbero da tutti abbandonati e vilipesi per aver impedito il pubblico bene, ma altri potrebbe attribuire a loro ogni danno che fosse per venire al Cristianesimo. E perderebbero inoltre que’ vantaggi che con ogni buona ragione erano da aspettare dalla lega: tra’ quali il principale di distruggere con una navale battaglia la potenza del Turco sul mare anche nell’anno medesimo: non essendo poi la stagione tanto innanzi che non si potesse in cinque mesi almeno un giorno incontrarsi col nemico, combattere e trionfare, con immensa gloria e perpetuo beneficio degli stessi Veneziani.
Con questi ed altri simili ragionamenti Marcantonio, che dalle cause naturali argomentava i successi che di fatto poi si ottennero, avendo già molto acquistato nell’animo dei senatori, cui il solo pensiero di naval battaglia e vittoria faceva lietissimi, domandò essere ricevuto un giorno in Collegio: e quivi alli dodici di aprile, presenti il Doge e i senatori, declamò la seguente orazione:[120]
[140]
[12 aprile 1571.]
«Serenissimo Principe.
»Avendo la Santità di Nostro Signore per gloria de Dio e servitio della Cristianità procurato la lega contro il Turco comune nemico, e vedendo l’utile che da questa unione si può sperare, et il danno che apporta mandare in lungo la risolutione per essere il tempo avanti, acciocchè le forze de’ confederati siano unite a tempo, per poter pigliare di quelle occasioni che il Signore Iddio ne potesse mettere innanzi, m’ha commesso che io faccia istanza con la Serenità Vostra per la ispeditione di questo negotio, il quale da lei è stato sempre tanto bene abbracciato e venutoci così alla libera.
»Nè sa vedere Sua Santità perchè s’habbia d’haver per novità quella che dai ministri di Sua Maestà Cattolica si è ricordata per il capitolo aggiunto, che possa alterare la conclusione di negotio tanto importante: anzi si deve tenere per segno certo dell’animo buono che Sua Maestà tiene nell’osservanza di quanto promette: perchè dovendosi di necessità pigliare dopo la conclusione della lega (la risolutione della quale è stata così tardi) questo o altro simile provvedimento, e intanto ritrarne da Nostro Signore le gratie che a Sua Maestà importano tanto, ha voluto anteporre ad ogni interesse la realità dell’animo suo. E con tuttociò Sua Santità stabilì con i ministri regî che le galere fussino almeno al numero di ottanta alla fine di maggio, unite e bene armate, e quelle di Sua Santità e della religione di Malta ancor prima. Anzi con l’occasione dell’andata a Napoli del cardinal Granuela, Sua Santità l’ha stretto in tal modo, che, se bene Sua Maestà pensa per l’anno a venire havere tutto il numero della sua rata di galere sforzate (con far che [141] altri armino, e pigliandoli al suo soldo come è solito di fare) non di meno procurerà di armare venti galere per complimento delle cento, usandovi tutta la diligenza possibile. Le altre si havrebbero a mandare da Vostra Serenità a Brindisi quanto prima. E la Santità Sua con molta ragione crede che se il tempo lo comportasse operaria che Sua Maestà levasse via questa difficoltà, come ha fatto dell’altre: ma non si potendo, Sua Santità giudica che con queste forze si deve sperare di haver armata da fare tale effetto che forse meglio non si potrebbe desiderare: in modo che con complire al resto delle spese, con assiguramento di vettovaglie e denari, pareria haver assettato questo negotio: quando non si volesse spedire per migliorare le conditioni della pace, come i maligni hanno voluto dire e dicono per nocere: e il dilatare ancora con questo le provvisioni necessarie perla guerra.
»Questa lega, Serenissimo Principe, è già stata giudicata fruttuosa e necessaria: il medesimo si deve sperare hora più che mai. Perchè ogni parte della Christianità che patisse, bisognerebbe che ruinasse il resto: e però la salute deve esser comune, et unita dunque deve esser la forza. Poi per lo danno che apporterebbe per sempre il perdersi la speranza di detta salutifera unione, non havendo questo negotio havuto mai altra difficoltà che la confidenza; e però non sarà mai per venire tempo più atto ad esserci questa. E resterà affatto bandita l’inconfidenza, essendo la Serenità Vostra tanto infedelmente stata trattata dal Turco, Sua Santità volta solo al servitio di Dio e della Fede cattolica, Sua Maestà aliena d’occupar quello d’altri e amatrice di conservare ad ognuno il suo, come si vidde nella pace fatta con la felice memoria del re Henrico. Anzi, che dico io della confidenza certa che apporterebbe la lega, se l’anno scorso quando appena vi si era pensato, Sua Maestà (quantunque [142] havesse i Mori in casa) mandò subito soccorso alle Serenità Vostra con le galere sue. E Sua Santità armò galere de’ suoi sudditi propri. E certo non so veder io qual vittoria habbia havuto mai il Turco contra la Christianità tale, quanta sarebbe la dissolutione di questo negotio: poichè restarebbe sicuro di non esser offeso; e certo di poter fare, senza altro incontro, ciò che la sua rabbia e insatiabile ingordigia gli dettasse. Quanto poi al fatto che di questa lega si potrebbe sperare, prima nelle cose di mare, le quali sono d’infinita importanza, sarebbe grandissimo. Perchè chiaramente si è visto che non habbiamo lasciato mai di non haver vittoria per mancamento di forze, ma solo per mal governo. Hora che Sua Santità ha il voto in questo negotio, e così la Serenità Vostra, e che quello di Sua Maestà sarà in potere di suo fratello con esser generale di mare e di terra, che si haverà da sperar altro che col combatter gloriosi successi e fuori di ogni interesse privato? Nè sono tanto cresciute le forze del Turco in mare, che le nostre non habbino fatto ancora il medesimo, e forse a proporzione maggiore, aumento. Quanto alle cose di terra che dubbio è che dove sarà Sua Santità e Sua Maestà cattolica vi sarà ancora l’Imperatore, il re di Polonia, e altri principi? I quali con le forze loro, e con quelle della lega già formata (potendosi dargliene ventimila fanti, e quattro mila cavalli) faranno effetti notabili. Oltrecchè solo il batter l’armata del Turco, basterebbe a far la Christianità gloriosa. Anzi tali forze di lega non so veder io come possano esser altrimenti che offensive. Nè accade per congetture pensare e credere altrimenti: perchè essendo stata l’opinione del mondo sempre questa, e così ricercandolo il bisogno presente, gran stoltitia sarebbe dei Christiani confidare sì poco nella bontà di Dio (essendo questa sua causa) che non credessero [143] mai di poter fare nè progressi nè conquiste, e che perciò lasciassero essa lega. Se però con gli effetti dopo fatta si vedesse col tempo altrimente, all’hora ad ogni modo si haveria da attribuire più presto questa disavventura alli peccati nostri, che a difetto di questa unione; nè che dalla Serenità Vostra e da gli altri principi si havesse havuto confidenza temeraria in Dio in quello che spetta alla gloria e esaltatione della sua santa Fede: e che il mondo potesse restare con opinione, che la Christianità havesse per sempre persa la speranza del suo rimedio, e che tutte le ruine che per l’avvenire venissero si potessero attribuire alla esclusione di questa santa opera. Il perchè non è da credere che il Turco tardasse molto a valersi di questa occasione, acciò in tanto non si perdesse la memoria di questo danno: poichè si restarebbe con maggior disunione, che mai: e tutti con opinione di poca forza e potenza. Pertanto nostro Signore spera che la Serenità Vostra quanto prima darà perfetione a questo negotio, il quale scorrendo così, nè sì facendo le provisioni con quel calore che si deve, al tempo poi del bisogno il tutto si trovarebbe in confusione. Veda quanti giorni sono passati dopo che Sua Santità mandò l’avviso delle ottanta galere per lo tempo detto. E Sua Santità non mancherà alla Serenità Vostra giammai di soccorso di galere e di genti, fatta la lega. Nè si ha da maravigliare Vostra Serenità se Sua Beatitudine non l’ha fatto prima: che il medesimo ha usato col Re cattolico, al quale non ha voluto far le gratie se prima non habbia veduto la lega conclusa, con tutto che quella Maestà havesse la guerra co’ Mori in Spagna e con gli heretici in Fiandra, oltra quelle che continuamente ha con il Turco. Ponderate queste ragioni, la Serenità Vostra conforme all’istanza di Sua Beatitudine deliberi, e accetti la lega.»
[144]
[Maggio 1571]
V. — Questa ed altre cose dette con efficacia e spirito militare da tale personaggio, che sempre si era con le parole e coi fatti mostrato prode e leale, commossero i Veneziani, cupidi soprammodo di potere almeno in quell’anno battere l’armata del Turco: talchè da una parte restando perplessi i più avversi alla lega, e dall’altra crescendo di ardire e di numero i favorevoli, si vedeva già chiaro che l’opinione fosse rivolta verso la lega medesima, senza però che si venisse ad alcuna risoluzione. Laonde Marcantonio dopo alquanti giorni, non volendo che gli animi freddassero, si rifece a stringere il Senato con molte preghiere ed anche con dolce risentimento, perchè risolvessero: dicendo, parere a lui che la troppo lunga perplessità fosse un rifiuto con poca sua riputazione e con danno ancora del Papa e del Re, i quali se ne restavano incerti delle cose loro; e con pregiudizio del Senato eziandio che dava ai maligni l’occasione di calunniarlo, come se tirasse in lungo il negozio della lega tra i Cristiani per avvantaggiar quello della pace coi Turchi.
E perchè parlando un giorno in Collegio potè rilevare delle parole del Doge che a lui faceva difficoltà, sol questo, di dover anticipatamente spendere la parte sua e quella del Re per riscuotere in tempo futuro, e che in tutto il resto facilmente si comporrebbe; giudicò poter per sua destrezza trovar partiti a togliere di mezzo siffatto ostacolo. Era occorso di fresco che per necessità di frumenti i Veneziani avean preso in alto mare (come allora si costumava) un convoglio di navi che trasportavano i grani della Puglia a Napoli: di che eran venute in Venezia le persone che v’aveano loro interesse, a [145] domandarne il prezzo; e di più i ministri dell’erario regio a ripetere la valuta delle tratte, per le quali domandavano gran somma. E stando Marcantonio coll’animo vôlto appunto alla difficoltà del danaro, trovò a caso chi l’informò pienamente di siffatto successo. Indi pensò cavare partito per la sua causa.
Scrisse al cardinal Morone in Roma che dovesse trattare coi ministri del Re cattolico di lasciare ai Veneziani il prezzo dei frumenti e delle tratte, per quattro mesi, durante la campagna: dopo la quale, fatti i conti e detratte le spese, si pagherebbe la differenza cui toccasse. Con siffatto ripiego ai Veneziani si toglieva il timore di poter riscuoter denari da un principe più potente in tempo futuro; lasciando la grossa somma depositata nelle loro proprie mani: nè pareva farsi ingiuria al Re se, per così grande e pubblico beneficio, e per soli quattro mesi, rimettesse il pagamento che a lui medesimo ed ai sudditi suoi più doviziosi era dovuto. Laonde proposto che fu segretamente questo partito dai ministri del Papa a quelli del Re, tutti d’un animo l’accettarono. Ed il Morone immantinenti ne dette conto a Marcantonio: il quale aspettando questa risposta andava tuttavia più oltre ne’ suoi trattati, e nella certezza che la maggior parte del Senato fosse per lui rivolta in favor della lega: altra difficoltà non restando se non quella del danaro.
Avute pertanto le risposte in debita forma, tornò in Collegio, e propose come suo pensato questo modo di acconciare gli interessi: dicendo che, quando alla Signoria fosse piaciuto, se ne potrebbe trattare. E quantunque alcuni, come suole avvenire nei congressi di molte persone, mettessero fuori diverse difficoltà, pure considerata bene la ragione da ogni parte, il consiglio dei Pregadi a grande maggiorità abbracciò la proposta. Ma quando poi quei signori chiamarono Marcantonio [146] per comporre con lui il tenor delle lettere da scriversi a Roma a fin di condurre i ministri del Papa e del Re a prestarvi il consentimento, allora Marcantonio sorridendo, e tra le maraviglie degli astanti mostrando le carte, diede loro il negozio per concluso.[121] E al tempo stesso gli strinse a decidere, perchè gli altri aspettavano ed il nemico insolentiva. Onde il giorno appresso con quella maggior solennità a che la Repubblica veneta usata era, messo il partito della lega, dappoichè la difficoltà del danaro erasi tolta, fu quello abbracciato con tale concorso che tra dugento senatori non restarono più che dieci contrarî, e tutti gli altri cento e novanta favorevoli. In mezzo ai quali entrato per poco tempo Marcantonio, prese la risoluzione: e speditamente partitosi portolla a Roma tra il plauso infinito dei popoli ovunque passò, maravigliandosi ciascuno che egli fosse riuscito in un negozio tanto difficile, quanto che tutti avevano [147] fino a quel giorno tenuta per vana la sua gita a Venezia.[122]
[25 maggio 1571.]
Così dunque, restando fermi i capitoli già concertati, e ricevuto eziandio dai Veneziani l’articolo aggiunto con la predetta malleveria, fu sottoscritto in Roma alla presenza del Papa l’istrumento della Lega alli venticinque di maggio. Letti ad alta voce i capitoli in pieno concistoro, il sommo Pontefice pose la destra sul suo petto, e gli ambasciadori di Spagna e di Venezia sopra i santi Evangeli: tutti insieme ne giurarono l’osservanza. I banditori la pubblicavano nella chiesa di san Pietro.[123] E mentre da più parti intorno si facevano feste e si apparecchiavano l’armi, il Pontefice per tramandare alla posterità la memoria di questo glorioso avvenimento del suo tempo faceva coniare una medaglia;[124] sopra la [148] quale era scritto in bronzo: — Sanzione della lega contro i Turchi. —
Nel mezzo volle effigiati i contraenti per tre simboliche figure: cosicchè alla diritta l’una di fiero e marziale aspetto armata di elmo, corsaletto e soprasberga, con a piedi l’aquila imperiale, simboleggiasse il re Filippo di Spagna: l’altra sulla sinistra in grave movenza di donna forte, sparte le chiome, e cinta di ducal corona, con sotto l’alato lion di san Marco, figurasse la Repubblica di Venezia: e mentre il Re porge la destra alla Repubblica, la Chiesa Romana nel mezzo come nobil vergine in abito sacerdotale, col papal triregno sulla fronte e l’agnello di Dio a’ piedi, abbracciando e quasi stringendo ambedue, conferma il patto dell’alleanza. Dall’altro lato poi lasciò agli artisti che ritraessero la sua fisonomia di profilo, a capo nudo, e con le mani giunte sul petto, scrivendogli attorno: — Pio quinto Pontefice Massimo l’anno della salute mille cinquecento settantuno. —
[Giugno 1571.]
VI. — Conclusa pertanto l’alleanza con infinita consolazione del Papa, si rivolse Marcantonio a preparare l’armamento. E innanzi a tutto deputò Innocenzo volgarmente detto Cencio Capizucchi, patrizio romano, a far la levata delle fanterie, con grado di maestro di campo generale, e patente che sebbene porti la data dell’anno [149] successivo, tuttavia parla ancora del presente in questa sentenza.[125] «Havendo il signor Cencio Capizucco mastro di campo generale delle battaglie di Roma e dello Stato Ecclesiastico, come apparisce per motoproprio e breve della felice memoria di Pio IV concessoli, sempre esercitato detto uffitio con molta prudenza, fede e valore, e massime l’anno 1571 nella speditione della lega contro Turchi: per ciò stante detti motoproprio e breve e saggio che diede di sè nella sopradetta impresa et in ogni altro tempo, e desiderandoli noi per tutti li sopradetti rispetti questo et ogni altro honore e riputatione, n’è parso conveniente dichiarare, come con la presente dichiariamo, che il presente anno e nella presente speditione della detta Lega habbia da esercitare e continuare il detto suo uffitio di mastro di campo con tutti i suoi carichi et privilegi et emolumenti, secondo più largamente si contiene ne i detti motuproprio e breve, et altri soliti concedersi in tale offitio: ordinando a qualsivoglia et colonnelli, capitani, luogotenenti, alfieri, sergenti, et altri uffitiali e soldati nostri che, riconoscendolo per mastro di campo come sopra, l’obbedischino et assistino nel detto suo offitio, come la persona nostra propria, per quanto stimano la gratia et il servitio di nostro Signore. Dato in Roma li 27 d’aprile 1572. Marco Antonio Colonna duca di Paliano.»
Similmente confermò Pompeo Colonna nel grado di suo luogotenente, pose generale delle fanterie Onorato Gaetani signore di Sermoneta, colonnello delle medesime Pirro Malvezzi gentiluomo bolognese, e capitani delle otto compagnie, ciascuna di ducento fanti, Flaminio Zambeccari [150] di Bologna, Ruggero Oddi di Perugia, Angelo Mezzatosti di Roma, Giammaria Puccini di Roma, Giannantonio Gigli di Fuligno, Gianpaolo Berardelli da Spoleto, Livio Parisani da Perugia, e Ippolito Tebaldini da Osimo:[126] ai quali si unirono molti prodi e veterani soldati e cavalieri statisti, come Michele Bonelli, Orazio Orsini di Bomarzo, Lelio de’ Massimi, il conte Francescantonio Berardi, Tullio da Velletri, Fabio e Niccolò Graziani, Girolamo Mariotti da Fano, il cavalier Tommasi d’Ancona, il capitan Camillo Bartoli da Perugia, il marchese Malaspina, il signor Fabrizio Ruspoli di Roma, Ottavio Speranza da Fano, Muzio Colonna, Carlo del Monte, il Baglione, Ottavio Corona e Orazio Campana romani, Francesco Zucconi da Tivoli, Marcello Regio d’Ancona, Maurizio Calmanti da Camerino, Giulio Angelici da Macerata, Matteo Pierbenedetti da Camerino, Pasquale Micara da Sanseverino, Gaudenzio Contucci da Matelica, Marzio Spuntoni e Felice Rossolini da Viterbo, e tra i molti altri valorosi che ho nominato l’anno addietro[127] il capitan Bartolommeo Sereno: che indi a quattro anni, posata la spada di cavaliere romano e preso il sajo di monaco cassinese, scrisse i commentarj di questa guerra che furono non ha guari per le stampe pubblicati.[128] Or costoro tanto bene si governarono, ciascuno secondo il suo carico, per le città più [151] popolate e guerriere dello Stato, che sebbene paresse impossibile di trovare soldati a quei tempi per esser tutti sbigottiti non solo dalla mortalità e dagli stenti patiti l’anno addietro sull’armata, ma anche dalle discordie degli alleati; nondimeno con meraviglia di ogni uomo innanzi ai quindici di giugno ebbero tutte le compagnie compite, rassegnate e pagate; e di gente così prestante e valorosa, che tutti ne facevano le meraviglie, e se ne promettevano quei felici successi che poi si videro.
Intanto si trattava in Roma del modo di avere le galere. Secondo il capitolo nono della Lega, avrebber dovuto i Veneziani dare dodici galere sfornite, ed il Papa armarle di sue genti ed a sue spese. Tuttavia nell’anno presente i Veneziani non le dettero; ed il Papa presele dal granduca Cosimo di Firenze. Qui fa mestieri notare come, tra tutti i Papi del cinquecento, solamente Pio quinto si trovò non avere galere sue proprie. Gli ordini diversi osservati dai suoi predecessori nel costruirle, armarle o condurle per i tempi di mezzo, sino a tutto il secolo decimoquinto, e le imprese da essi fatte sono state da me descritte e pubblicate in quattro libri.[129] Ne ho in punto altri dieci per la storia del tempo successivo; condotti al modo stesso, e sopra quella maniera di documenti che ho in uso studiare. Si vedrà come nel cinquecento non v’ebbe fazione alcuna di momento nei nostri mari, ove non fossero le galere proprie dei Papi. E ciò tanto nelle guerre d’Italia al tempo di Alessandro VI, di Giulio II, di Leon X, e di Clemente VII; quanto nelle guerre dei pirati e dei Turchi. Il marchese Cintio Benincasa, il conte Gabriele Bonarelli, Giovanni del Biassa, Paolo Vettori, Bernardo Salviati, il conte [152] dell’Anguillara, Carlo Sforza, Flaminio Orsini, il conte Marcantonio Zane,[130] il commendatore Emilio Pucci, il cavalier Cesare Magalotti, ed altri multi prodi capitani, o nativi dello Stato o congiunti ai Papi per vincoli di sangue o di clientela, guidarono le galere romane nel secolo decimosesto a Rodi, a Santamaura, a Corone, alla Goletta, a Tunisi, alla Prevesa, a Castelnovo, ad Algeri, ad Afrodisio, a Tripoli, alle Gerbe. Tutti sanno l’infelice successo dell’armata cristiana sotto il duca di Medinaceli all’isola delle Gerbe, che ivi fu compiutamente disfatto dai Turchi. Tra gli altri capitani di squadre, si trovò a quella giornata con le galere romane il cavalier Flaminio Orsini: uno dei pochi che seppe prevedere il disastro, e suggerirne il rimedio; unico che tenne il fermo nel combattere e nel morire. Col sangue suggellò la prudenza dei consigli, e dette la vita per cuoprire la fuga dei compagni. Caduto l’Orsino, i Turchi ebbero le galere del Papa; e tutta la nostra gente di capo e di remo passarono a fil di spada, o condussero in schiavitù. Il resto dell’armata, quasi cento legni d’ogni grandezza e d’ogni parte d’Italia e di Spagna, andò perduto: i pochi che si salvarono colla fuga, dovettero saperne grazia all’Orsino. Questo avvenne nel 1560, al tempo di Pio IV. Il quale, spaventato di tanta rovina, smise il pensiero delle galere, e rivolse più tosto l’animo a fortificare la spiaggia romana per difendersi ne’ suoi domini. Riprese i lavori attorno alla città Leonina,[131] munì le fortezze di Civitavecchia e di Ancona, e cominciò a mettere in piè quel sistema di torri che si distende sulla riva del mare dal monte Circèo all’Argentario. Io ho voluto seguirlo in siffatto lavoro di fortificazioni; e rifacendomi ai principî sopra i disegni originali e con [153] nuovi argomenti penso averne dato saggio non ispregevole per alcune scritture intorno ai bastioni di Civitavecchia,[132] ed alla rocca d’Ostia.[133] Or Pio quinto, venuto al pontificato sei anni dopo, continuava l’opera del predecessore,[134] quando fu colto all’improvviso dalla guerra dei Turchi in Cipro: indi si trovò, come ho detto, senza naviglio, e fu costretto chiederne ai Veneziani.[135] Nondimeno alla fine dell’anno armò in Civitavecchia tre galere sue proprie:[136] altre ne aggiunse Gregorio XIII, e non guari dopo Sisto V ebbe il vanto di richiamare a nuova vita la marineria romana.
Ma nel trattar la Lega del mille cinquecento settantuno, ricordava Marcantonio di quanto poca soddisfazione riuscite fossero le galere prese l’anno innanzi a Venezia, e che non convenisse allora nè privare la Repubblica del suo meglio, e nè anche accettare i suoi rifiuti: ricordava altresì la troppa lontananza di là a Roma, che doveva essere il centro del movimento delle milizie, come lo era di tutti gli affari dei confederati: e suggeriva che alle spese della Camera apostolica, e [154] senza ingiuria di alcuno, si potrebbero assoldare le dodici galere che teneva a Livorno il granduca Cosimo di Fiorenza grammaestro dell’ordine militare di santo Stefano. Io non mi fermerò alle origini di tale ordine cavalleresco che nel primo secolo di sua vita ebbe grande celebrità di belle e gloriose imprese che risuonano ancora e risuoneranno nel tempo a venire; ma stretto ai termini dell’argomento mio mi starò contento a riprodurre i capitoli stipulati tra la Camera apostolica e il serenissimo granduca per la condotta delle predette galere.[137]
«Capitulazione tra nostro Signore Papa Pio V et il serenissimo gran Duca di Toscana per l’assento delle dodici galere di Sua Altezza per l’effetto della Lega.
»Avendo Sua Beatitudine, nel tempo che durerà la Lega tra sua Santità, la maestà del Re cattolico, et li signori Venetiani, a tener armate per servitio di essa certo numero di galere, per minore spesa della Sede Apostolica, disegnando accostarsi a qualche Principe che commodamente possa sostener questo peso, ha giudicato che il serenissimo gran Duca di Toscana non meno ossequente et amorevole verso di Sua Santità che fautore del servizio di Dio, et amatore del benefitio pubblico di Christianità, sia per pigliar volentieri questa cura. Ha però Sua Santità convenuto con sua Altezza in questo modo, cioè:
»In prima che sua Altezza sia obbligata havere in Civitavecchia, almeno per tutto il mese d’aprile prossimo 1571, dodici galere buone di fusti ed atte a navigare, [155] con i suoi remieri, armamenti, monitioni, fuochi, arme, artiglierie, vele, sarte, et ogni altra cosa necessaria per il detto effetto nel modo a punto che si tenevan già a soldo dalla Maestà Cattolica.
»Che la Capitana habbi cinque huomini di remo per banco da poppa all’arbore, et quattro dall’arbore alla prua, con tutti quelli huomini et offitiali di più che a una Capitana si ricercano et son soliti ritenersi dall’altre.
»Che la Capitana habbi fanale, concerto di trombetti, et ogni altra cosa solita portarsi da altre galere capitane, talchè il Generale di Sua Santità non habbi a provvederla d’altro che di bandiere, tendali di seta, et altri ornamenti soliti portarsi da li generali.
»Che il capitano della galera capitana, et così il pilotto d’essa habbino a esser eletti et deputati dal Generale di Sua Santità, et similmente il capitano d’una altra galera, accetto che della Padrona, a spese però di Sua Altezza, con il medesimo stipendio et pagamento che ella è solita pagare questi simili per il passato.
»Che il Generale di Sua Beatitudine habbi a provedere il vitto suo della tavola di poppa, et de’ suoi servitori.
»Che il Generale di Sua Santità habbi a essere obbedito dal Generale, luogotenente, capitani, offiziali, et ministri di dette galere, et gli sia lecito castigar chi commettesse alcun delitto su dette galere; con darne conto però a Sua Altezza.
»Che il Generale di Sua Santità non possa in modo alcuno dar libertà alli forzati o schiavi di dette galere, senza partecipazione di Sua Altezza.
»Che il Generale di Sua Santità, o la R. Camera, et suoi ministri possino sempre che gli pare pigliar la mostra di dette galere, acciò possino vedere che stieno [156] ben proviste et con gli huomini che sono obbligate tenere.
»Che il Generale di Sua Altezza, o suo luogotenente, possa navigar sempre con dette galere et su quella che più gli piacerà: lasciando però la capitana al Generale di Sua Beatitudine, quando vi sarà presente.
»Che le altre undici galere siano almeno di ventiquattro banchi a tre huomini per banco, o quel più che paressi a Sua Altezza.
»Che Sua Altezza sia obbligata tenere su dette dodici galere sessanta uomini tra marinari et offitiali in tutto per ciascuna galera.
»Che Sua Altezza debba metter li capitani et marinari a modo suo in tutte le altre galere, eccetto li due offiziali della Capitana et il capitano dell’altra, come di sopra.
»Che Sua Altezza habbi a tenere una fregata armata di padrone et huomini, almeno di sette banchi, per il tempo che le galere navigheranno. Che le dette dodici galere sieno tenute sei a sei servire quando si sarà in attual guerra, et sei altre ne sieno armate continuamente, dandoli però di suo verno mesi cinque all’anno.
»Che quando Sua Santità voglia porre nelle dette galere fanteria, debba essere a tutte spese di Sua Santità, conforme a quello che si costuma et fa con quelle che stanno al soldo della Maestà Cattolica.
»Che Sua Santità sia obbligata pagare il soldo di sei galere solamente, il quale s’intenda di scudi cinquecento d’oro in oro il mese per ciascuna galera, conforme a come li paga Sua Maestà cattolica.
»Che la galera capitana debba essere pagata a ragione d’una galera et mezza.
»Che Sua Santità sia obligata dare la tratta dei grani [157] per servitio di dette galere che costuma di dare la Maestà Cattolica alle sue.
»Che li scudi d’oro il mese, che importa la spesa di sei galere si debbino pagare in tre paghe, ogni quattro mesi la rata: et che per detti pagamenti sia obbligata Sua Beatitudine consegnare a Sua Altezza l’assignamento nella sua generale tesaureria o qualche altro modo da potersene valere a detti tempi.
»Che Sua Altezza habbi a tenere le sopra dette dodici galere in essere per tutto il tempo che durerà la lega tra Sua Santità, la Maestà Cattolica, et la Signoria di Venetia: non intendendo in parte alcuna alterata per questo, anzi salva sempre la capitolazione che Sua Altezza tiene con la maestà del Re cattolico; col consenso del quale, dato per sue lettere de’ 18 ottobre prossimo passato, queste dodici galere servono per l’effetto della lega di Sua Beatitudine.»
VII. — All’entrare di giugno furono nel porto di Civitavecchia le galere assoldate dal Papa a Firenze: e quantunque di gran lunga migliori delle altre prese l’anno precedente a Venezia, pur esse mancavano di remigi, di munizioni e di molte cose; di che per la diligenza grande di Marcantonio sollecitamente si fornirono in quel porto.[138] Di là al tempo stesso movevano marinari [158] e capitani, non solo per militare nell’armata pontificia,[139] ma anche nella veneziana.[140] Ecco i nomi delle galere, e dei dodici cavalieri che la guidavano.[141] La Capitana [159] destinata secondo i capitoli a Pompeo Colonna, la Padrona condotta da Alfonso d’Appiano, la Reina dal cavaliere Olgiati, la Grifona da Alessandro Negroni, la Soprana da Antonio d’Ascoli, la Toscana da Metello Caracciolo, la Vittoria da Baccio di Pisa, la Pace da Jacopo Perpignano, la Pisana da Ercole Lotta, la Fiorenza da Tommaso de’ Medici, la Santa Maria da Pandolfo Strozzi, il San Giovanni da Angelo Biffoli, l’Elbicina da Fulvio Galerati, la Serena da Ettore Caraffa duca di Mondragone, nominato da Marcantonio; e di più sei fregate. Venute le quali a Civitavecchia, e raccoltesi quivi pur da Corneto le fanterie, parve al Colonna che fosse tempo di imbarcarsi. Prima però volle andare con gli ufficiali del suo seguito a pigliar congedo dal Papa; il quale, dopo averlo con tutta l’effusione dell’anima benedetto, gli diè tre ricordi:[142] invigilasse sulla pietà delle genti, e non patisse giammai che alcuno fosse tanto ardito da bestemmiare il nome di Dio; secondo, licenziasse gli scostumati e non tenesse a bordo giovanetti imberbi; terzo che non togliesse i soldati dalle battaglie di Maremma. Per quest’ultimo provvedeva al di dentro la difesa dello Stato, quando spediva al di fuori la guerra; pel secondo, assicurava la morale in un punto tanto dilicato quanto per le sue costituzioni si fa manifesto; e pel primo manteneva incorrotte le pratiche della religione ed il timor di Dio.
Le quali cose avendo Marcantonio promesso osservare, [160] si partì da Roma alli tredici di giugno: e passata la notte a Cerveteri, entrò il dì seguente in Civitavecchia. Colà onoratamente ricevuto si trattenne fino al ventuno:[143] rivide le galere, rassegnò le genti di capo e di remo, e fece di tutti i soldati sulla piazza d’arme una mostra assai bella per ogni rispetto, massime pel numeroso concorso di gentili cavalieri e di nobili dame venute da Roma a salutare gli amici e a dar animo ai guerrieri. Onorato Gaetani, vestito di tutt’arme e sopravveste di raso bianco,[144] conduceva ad una ad una le compagnie d’innanzi al Generale. Più d’ogni altro fu commendato il capitan Mazzatosti di Roma, onesto e prode condottiero, alla testa di uomini valenti e di bello e grande aspetto; appresso il capitan degli Oddi che mostrava la sua compagnia assai ben armata di corsaletti e di morioni; [161] e il capitan Livio Parisani da Perugia, che l’avea fiorita di molta nobiltà: ma per esservene di troppo giovani, ne furono cassi parecchi, secondo l’ordine del Papa. Impietosirono gli astanti nel vedere que’ bei giovanetti uscir dalla compagnia, piangendo il rifiuto.[145] Questi tornarono alle case loro, e gli altri presero il complemento a Napoli con una mano di militi romani che avevano campeggiato nel regno.[146]
Alli ventuno di giugno, imbarcatosi Marcantonio con Michele Bonelli, Gabrio Serbelloni, Pompeo Colonna, e il celebre cavalier Romegasso sulla Capitana; Onorato Gaetani sulla Grifona, monsignor Paolo Odescalchi nunzio del Papa sulla Vittoria; e distribuiti quegli altri signori e capitani con le loro fanterie, ciascuno sopra la galea assegnatagli, sciolsero le vele da Civitavecchia con vento freschissimo di tramontana: e dato fondo il dì seguente nel porto di Gaeta, entrarono il ventiquattro sull’ora di vespero in quel di Napoli.[147] Quivi alla riva erano il Cardinal vicerè ed i ministri regî a riceverli con tante dimostrazioni di onore quante mai se ne potessero. Santelmo, Castelnuovo, e castel dell’Uovo davano fuoco alle più grosse artiglierie, e il popolo napoletano serrato a calca sul molo acclamava strepitosamente alla venuta dei Romani. Felice presagio di lieto avvenire. Ma in mezzo alla comune letizia che tutta una città dimostrava per la venuta della squadra papale, i [162] soldati spagnoli dal presidio, o punti di gelosia, o mossi dalla rivalità nazionale, insultando villanamente alle milizie nostre quiete e pacifiche per la città, provocarono tumulto di molta importanza. Imperciocchè essendovi al primo affronto morti alcuni di loro e feriti quattro papalini, già dall’una parte e dall’altra si chiamavano i compagni, e si correva all’armi, con pericolo di maggior sconcio, se dalla prudenza di Marcantonio non vi si fosse opportunamente ovviato. E seppe egli tanto destramente fare col Cardinal vicerè, che sebbene offeso dall’essere i papalini entrati sin dentro al suo palazzo a far vendetta, tuttavia con pace d’ognuno fu in un subito ogni cosa acquietata e sopita.[148]
E quantunque egli desiderato avesse fermarsi in Napoli sino all’arrivo di don Giovanni, per esser dei primi ad inchinarsegli ed a trattar insieme della guerra; ciò non per tanto essendogli venuto da Roma l’ordine di partir subito per Messina, affinchè quanto più egli s’inoltrasse verso levante tanto più don Giovanni s’affrettasse a raggiugnerlo, e tanto meglio i Veneziani si mantenessero in fede; prese commiato dal Vicerè, ed ai venti di luglio fu a Messina, festeggiato altresì da quei popoli, che vedevano nel porto e alla raunanza dei confederati comparire prima d’ogni altro lo stendardo di Roma.[149]
[163]
[20 luglio 1571.]
VIII. — Intanto che gli alleati perdevano il tempo nelle lunghe difficoltà dei trattati e nei tardi apprestamenti della guerra, già il sultano di Costantinopoli, cavata dai Dardanelli l’armata sua, di quasi trecento vele, da una parte aveva stretto l’assedio di Famagosta; dall’altra assaltava le Isole dei Veneziani; e riempiva di arsioni e di rapine Candia, il Cerigo, il Zante, e la Cefalonia. Erano i Turchi sul muovere a irreparabil danno sopra Corfù, quando Marcantonio si volse a provvedere eziandio da quella parte alla salute degli amici.[150]
[164]
Aveva il Senato fin dal verno precedente tolto il comando a Girolamo Zane, perchè non aveva combattuto a Cipro, e posto in suo luogo Sebastiano Veniero; uomo, secondo l’usanza dei Veneziani, di nobil sangue, dotto di leggi, acuto di mente, di grande eloquenza e di maggiore ardire, famoso per molte avventure e per non poche ferite fatte e toccate in quelle risse ove esso avidamente correva a mescolare le mani.[151] Sebastiano al primo rumore di guerra, quantunque vecchio di settant’anni, era andato ad offerire il suo braccio ancora robusto in servizio della patria: egli avea tolto a sè i carichi più rischiosi e difficili, quando altri ricusavansi; e sempre tenendo per la guerra, avea pur con poca gente poc’anzi espugnata la fortezza di Soppotò nell’Albania. Venuta la buona stagione, Sebastiano era in punto con tutta l’armata di più che cento galere: ma avendo tanto paese a difendere, e non essendo in alcun luogo porto capace e sicuro da contenerla, aveva dovuto smembrarla in due divisioni: delle quali l’una stanziava a Candia, con i provveditori Canale e Quirino; e l’altra seco a Corfù con il luogotenente Barbarigo. Giunte queste [165] notizie a Marcantonio quando passava da Napoli, e discorrendone insieme con Ascanio della Corgnia, e col Buonvicino secretario dei Veneziani, mostrò ad ambedue come dall’essersi tutta l’armata del Turco arditamente cacciata in mezzo tra le due divisioni del Veniero e dei provveditori, facilmente potrebbe interporsi un grave ostacolo al congiungimento di tutte le forze della lega: per a cui ovviare, era da scrivere immantinente al Veniero in Corfù, acciò prima d’esser chiuso in quel luogo dovesse prendere senza più il cammino diritto per la via di Otranto a Messina; ed il simile dovessero fare a golfo lanciato da Gandia le altre galere dei provveditori Canale e Quirino: passando al tempo stesso questi sulla sinistra e quegli sulla diritta dell’armata nemica, per unirsi all’istesso punto in Sicilia.
[21 luglio 1571.]
Siffatti avvisi furono giudicati importanti dal Buonvicino, e che in diligenza spedì un corriero a Brindisi, e fece saperli al Generale veneziano: il quale, vedendo approssimarsi l’armata nemica, antivedeva egli stesso il sinistro; così del pericolo suo, standosene fermo in quel luogo; come della impossibilità d’unirsi agli altri, entrando in golfo. Nella quale perplessità, non avendo tempo da consultare il Senato, risolvette di seguire il parere di Marcantonio: e il fece col voto de’ suoi capitani, specialmente di Agostino Barbarigo, uomo per singolar prudenza e valore da tutti commendato. Ondechè Sebastiano spedì ordine in Candia, che le sessanta galere di quell’Isola venissero difilate a Messina: ed egli stesso, quasi alla vista dell’armata nemica che nel canal di Corfù compariva, partissi. Ma la sua levata, come fu repentina e contr’animo, così gli apportò infinito travaglio [166] per molti rispetti: massime perchè vedeva l’inimico vigoroso venirgli sopra, e la lega novella non essergli a beneficio; anzi cagione ch’egli, mentre il Turco entrava in golfo e poteva accostarsi a Venezia, dovesse abbandonare la patria, lo stato e la capitale, andandosene improvviso e quasi fuggiasco nei regni altrui.
Voglionsi avvertire e considerare questi fatti per giudicar delle persone e delle cose: e non saltare a un tratto alla grande giornata, senza mettere innanzi quei particolari che la prepararono; d’onde è il merito di chi vinse.
[23 luglio 1571.]
Quando l’armata del Veniero si appressava a Messina, uscì dal porto la nostra squadra: e per tre miglia incontro agli amici sopravvegnenti andò con quella pompa che allora si costumava. Marcantonio fece abbatter le tende, pavesar le galere, issare i più ricchi stendardi da poppa e da prua, spignere fino alla penna le fiamme di dommasco, porre i pennoncelli variopinti al calcese, i gagliardetti all’osta, e su per le sartie di maestro e di trinchetto quattro sàgole con assai banderuole d’ogni taglio e colore: i soldati alle balestriere, i bombardieri sul castello di prua, i marinari alla freccia dello sprone, le genti di capo sulle rambade, gli ufficiali e i gentiluomini alla spalliera, ciascuno alla sua posta, come se fosse il momento del combattere. E mentre le milizie brandivano le armi, e le ciurme palpavano il remo, la nostra capitana appuntato il cannone di corsia, con quattro tiri salutava lo stendardo di san Marco: quindi tutte le altre galere nostre prima da diritta e poi da sinistra, una dopo l’altra, ripetevano con due tiri. I Veneziani di fronte altresì pavesati a festa risalutavano con innumerabili spari da ogni parte; e gli [167] uni e gli altri a intervalli facevano risuonare le melodie della musica marziale. Allora tutte le nostre galere, ripresa la voga, passarono per mezzo alle veneziane; ciascuna delle nostre tra due delle loro; ed avendo nel passaggio acconigliati i remi, e poscia virato di bordo sulla contrammarcia, si accompagnarono insieme per ritornare a Messina. Nella qual manovra la capitana nostra prolungandosi a lato di quella di Venezia, tanto che l’una coll’altra si incontrassero alle scalette di poppa; Marcantonio Colonna, Michele Bonelli, Onorato Caetani, e monsignor Odescalco prevennero il general Veniero, e tutti quattro a un tratto saliti sulla galera gli furono intorno, festeggiandolo con quelle liete accoglienze che usano i marini, e che allora per tanti rispetti più si convenivano. Nè per questo cessarono le salve dei Veneziani, come le nostre: che anzi essi non fecero altro in quel tragitto se non sparar cannonate sin quasi dentro il porto; dove, secondo che entravano, ripetevano il fuoco per salutare la piazza e le fortezze con tanto rimbombo d’artiglierie che non si sarebbero udite scoppiar le folgori. La città all’incontro non mancò al debito suo di corrispondere; imperciocchè da quattro parti ordinatamente salutava senza riposo, finchè non furono tutte le galere arrivate, e ferme agli ormeggi. Dopo un’ora sopravvennero le famose galeazze, cui tanta parte della vittoria a Lepanto è dovuta; e quantunque rimburchiata ciascuna da quattro galere, pure lentamente entrarono. Ma allorchè furono dentro, daddovero che si fecero sentire: e tal fu il fragoroso scoppio delle grosse artiglierie che prognosticarono, al dir di taluni, la grande ruina degli Ottomani.[152] [168] Il dì seguente Marcantonio convitò al suo bordo il Generale veneziano, e tutti gli ufficiali superiori delle due bandiere; e il veneto appresso rese la pariglia a Marcantonio ed ai maggiori dell’armata romana:[153] con tanta, non dirò già pace ed osservanza, ma amore ed amicizia dei capitani, dei marinari, e dei soldati tra loro, che tutti ed essi medesimi sommamente lieti ne pigliavano maraviglioso diletto. Nè bisognava meno per ritenere in Messina i Veneziani trenta giorni, in quella stagione, senza far altro che domandare quando giugnerebbe don Giovanni: e sentire dall’altra parte continuamente gl’infiniti danni che i Turchi facevano nelle Isole, in Dalmazia, e in ogni luogo dei loro possedimenti. Imperciocchè l’armata nemica per continue crudeltà, col ferro e col fuoco, per terra e per mare, da Candia sin quasi a Venezia guastando ogni luogo scorreva, e non soltanto nei casali e nelle spiagge aperte, ma nelle terre murate e nelle stesse fortezze combattendo entrava; talchè avendo espugnato Dulcigno e Antivari, ripreso Soppotò, ed assalito Cattaro, non altro restava se non che da sera a mattina comparisse davanti a Venezia. Giungendo pertanto con grande rapidità l’una dopo l’altra queste notizie a Messina, più volte il Veniero (che anche non poco dubitava dell’animo del re di Spagna)[154] piuttosto che consumare così inutilmente quel tempo, si mostrò risoluto d’andarsene e far da sè qualche impresa: e più volte il Colonna coll’autorità e prudenza sua lo ritenne, dimostrandogli che per il merito della costanza nel mantenere la lega, presto maggior ricompensa e maggior [169] trionfo n’avrebbe.[155] E sebbene afflittissimo anch’esso del pubblico danno, e di quello suo privato per la morte di donna Giovanna sua figliuola, duchessa di Mandragone, per la quale non pur la sua famiglia e guardia ma le galere ancora messe a lutto e coperte di gramaglia davano a tutti cagione di cordoglio; non per questo smetteva punto dell’usata diligenza, nè lasciava oziose le galere in Messina: ma unite alle veneziane ora le spediva a Milazzo per levar vittovaglie,[156] ora all’Eolie per inseguir pirati, ora a Palermo per condurne milizie all’armata. Nelle quali spedizioni si adoprarono con molta utilità pubblica e senza danni; quantunque rompessero più volte terribili burrasche. I Veneziani poco pratici di quelle riviere, andati a Reggio per vino, perdettero sette galere nel mare.[157]
[7 agosto 1571.]
Vero è che la molta lealtà e i grandi servigi, che avevano rese le genti romane carissime ai Veneziani e ai Messinesi, non valsero a dimesticare l’altiera natura dei soldati spagnuoli, per la cui malvagità si riprodussero in Sicilia quegli stessi scandali, già da loro in Napoli provocati. Tanto è difficile la pace co’ superbi. Il qual fatto, quantunque coperto dagli altri storici cui tornava a vergogna, si trova dai nostri con tutte le sue particolarità descritto; e dal [170] Sereno tanto bene e saviamente narrato, che io crederei mancare al debito mio se, in materia sì grave, aggiungessi o togliessi solo una parola a quelle di lui contemporaneo e testimonio di veduta, che dice così:[158] «Or mentre quivi (in Messina) si stava aspettando che gli altri ministri dei collegati con gli altri vascelli si riducessero, gli Spagnuoli soldati che al presidio di quella città si trovavano, forse perchè avevano udito che la questione seguita in Napoli tra quelli della loro nazione e i soldati italiani del Papa fosse con disvantaggio dei loro terminata, e per ciò sperando vendicarsene volessero farne risentimento; o per qualsivoglia altra cagione lo facessero, assaltarono una notte con abbominevol soverchieria alquanti dei soldati di quelle galere, i quali senza sospetto, il fresco della terra sicuri godendosi, chi qua, chi là d’intorno al porto per tutto sparsi dormivano. E avendone alcuni così all’improvviso feriti, con disonesta vigliaccheria molte spade e cappe di essi rubarono. Il che non parendo agl’Italiani che fosse da comportarsi, quantunque di lor mano la mattina seguente ne gastigassero alcuni, avevano nondimeno risoluto di far loro un tal giuoco che con molta uccisione terminandosi, avria senza dubbio gli animi di quelle due nazioni si gravemente concitati, che facilmente grave disturbo alle cose dell’armata recare avrebbe potuto. Ma fu da Marcantonio con tanta prestezza rimediato, che avendo fatta pigliare alcuni di quelli Spagnuoli che il delitto avevano [171] commesso e condannare alla catena in galera, e alcuni altri impiccare, s’acquetò di tal sorta il tumulto, che non fu dipoi alcuno dell’una parte o dell’altra, che di tal fatto osasse più di parlare.» Mal si comportarono i Papalini con la vendetta di arbitrio privato; peggio gli Spagnuoli con le ruberie, gl’insulti, e le provocazioni; e giustamente Marcantonio con la prudenza sua, usando a tempo il credito, l’imparzialità, e il grado di luogotenente generale e supremo duce, nell’assenza di don Giovanni, oppresse il disordine nella sua origine, e assicurò l’armata da ogni turbamento futuro anche per questo capo.
[9 agosto 1571.]
IX. — Intanto la Cristianità, senza ristare ai successi di Messina, affissava da lungi il guardo sulla persona di don Giovanni; e co’ voti giorno e notte affrettavane la venuta.[159] Egli uscito di Barcellona dopo molti stenti a mezzo luglio, giungeva il ventidue a Genova con quarantaquattro galere: e dopo esser passato di lungo avanti a Livorno, ed aver fatto una breve posata a Civitavecchia, liberando da molti sospetti la Liguria e la Toscana,[160] entrava finalmente alli nove d’agosto nel porto [172] di Napoli. Era don Giovanni d’età giovanetto, di aspetto bellissimo, di maniere gentili, e di grandi speranze; figlio naturale di quel Carlo, cui tuttavia chiamavano invitto imperadore. Indole egregia, amor di gloria, sincerità d’animo, e desiderio del pubblico bene si accordavano mirabilmente in lui, e dalla franca espressione di sua fisonomia venivano a chiunque il riguardasse dimostrati. Nondimeno per queste istesse ragioni facilmente si levava all’arroganza sopra i colleghi, e cadeva nella debolezza sotto agli adulatori invidiosi. Sin dai primi giorni per le sue lentezze aveva fatto palese al mondo quanto egli fosse stretto a seguir la politica del Re[161] suo fratello: il quale, sotto specie di aiutare la sua poca età, ma in fondo per viemeglio dominarlo, avevagli dato a governo un consiglio privato d’uomini suoi devotissimi, don Luigi de Requesens commendator maggiore di Castiglia, il conte di Pliego, Stefano Mutino dell’abito di Santiago, Giovanni Soto, Pierfrancesco Doria, ed il Marchese di Pescara; il quale, essendo in quei giorni morto in Sicilia, non ebbe allora successore:[162] [173] ma nell’anno seguente gliene furono dati una ventina, che tarparono le ali di quel giovanetto, e finalmente lo ridussero a mutar costume. Soperchieria di Filippo; più a danno pubblico, e de’ Veneziani, e del Papa, che del fratello.
[13 agosto 1571]
Sostenne don Giovanni dieci giorni in Napoli per ricevere quivi gli onori, che da quella città regalmente se gli facevano; e per torre a gran pompa dalle mani del cardinal Granuela il bastone del comando e lo stendardo della lega, che il sommo Pontefice gli aveva mandato. Questa cirimonia con molta solennità e numeroso concorso di cavalieri, di dame e di tutto il popolo napolitano fu compiuta nella chiesa di santa Chiara, alli tredici di agosto: di che il cardinale scrisse a Pio quinto con molte e belle parole la lettera seguente.[163]
[174]
«Padre Beatissimo.
»Dopo i baci umilissimi de’ santissimi piedi: Avendo ricevuto le lettere dalla Santità Vostra per mezzo del conte Sassatelli che rimenerà a Roma la mia risposta, io ho consegnato oggi stesso, secondo il rito e nelle forme che mi si erano ordinate, lo stendardo benedetto ed il bastone insegna del capitanato generale di tutte le milizie della lega cristiana al Serenissimo don Giovanni d’Austria, due giorni dopo il suo arrivo: la qual cosa sarà di salute alla repubblica cristiana ed ai nemici di terrore e di ruina, come sommamente desidero e con preghiere continue d’innanzi al Signore Iddio imploro: tuttociò che dalla Santità Vostra mi verrà comandato, son pronto ad osservare e subitamente obbedire. Oggi doveva partirsi l’istesso don Giovanni d’Austria, ma per cagioni necessarie ha differito a domani: egli certamente si affretta, ed io ancora con molti argomenti lo sospingo e non manco per quanto posso coll’aiuto, fatica, studio ed opera a sollecitare questa stessa prontezza. Ne conceda il Signore prosperi eventi, e la Santità Vostra alla sua Chiesa lungamente conservi sano. Della Santità Vostra umilissimo servitore obbedientissimo, Antonio cardinale Granuela.»
[23 agosto 1571.]
Quindi don Giovanni tolte le divise del suo generalato, e punto da più maniere di stimoli che il Pontefice da ogni parte gli metteva addosso, uscì dal porto di Napoli, ed alli ventitrè giunse finalmente a Messina. Venne così tardo, e insieme tanto improvviso, che appena furono in tempo le armate pontificia e veneziana ad uscire per incontrarlo. Pur nondimeno con somma allegrezza e festa incredibile ricevuto dai collegati, allo sparo di una [175] salva reale di tutte l’artiglierie; e dalla città di Messina sopra un ricchissimo palco messo a mare, ricoperto di sontuose drapperie, di vaghe pitture e di ingegnose iscrizioni, entrò nella terra alla testa di una splendida cavalcata di gentiluomini e capitani, fino al palagio reale. Laddove, licenziatosi da ogni altro, si restrinse per due ore a trattar con Marcantonio: facendosi intendere, che quanto alle deliberazioni e governo dell’armata non avrebbe mai cosa alcuna risoluto se non quanto da lui fosse stato approvato e dal generale dei Veneziani, secondo i capitoli della lega.[164]
[24 agosto 1571.]
Dopo le quali cose volendo anche contentare quegli altri signori e venturieri che quivi erano, li ebbe tutti il dì seguente sulla sua capitana; ove stando esso nel mezzo e Marcantonio alla diritta, sedettero nel salone di poppa l’un dopo l’altro, nelle loro assise e costumi, Sebastiano Veniero generale dei Veneziani, che bollente di giovanile ardore in età decrepita non sofferiva che di altro si trattasse che di partenza e di battaglia; il commendator di Castiglia don Luigi de Requesens, uomo di molta esperienza nelle cose del mondo; Pompeo Colonna luogotenente sull’armata del Papa, Onorato Gaetani generale delle nostre fanterie, Michele Bonelli nipote [176] giovanetto di sua Santità, Francesco Maria della Rovere figliuolo del duca d’Urbino, Alderano Cibo marchese di Carrara, Alessandro Farnese figliuolo di Ottavio duca di Parma, Stefano Mottino maestro di don Giovanni, Paolo Giordano Orsini duca di Bracciano, Ascanio della Corgnia maestro di campo generale delle fanterie della lega, monsignor Paolo Odescalchi nuncio del Papa, Gabrio Serbelloni milanese generale delle artiglierie, don Bernardino de Cardines, don Carlo Davalos, Ottavio e Sigismondo Gonzaga, don Pietro di Padiglia, don Lopez di Figueroa, Vincenzo Caraffa, il conte di Lodrone, don Pompeo della Noia, Giovan Ferrante Bisballo, Girolamo Morgat, il conte di Santafiora e Paolo Sforza suo fratello, Ettore Spinola generale delle tre galere di Genova, Antonio Provana conte di Leiny generale delle galere di Savoia, Giovanni Vasquez di Coronado capitano della reale, don Luigi d’Acosta capitan della padrona reale, Gil d’Andrada, Pirro Malvezzi, Ambrogio Negroni, Giorgio Grimaldi, Stefano de Mari, Nicolò Doria, David Imperiali, Giovanni di Cordona, Ferrante Caracciolo conte di Bìccari scrittore dei commentarj di questa guerra, e molti altri, che furono più di sessanta persone. Quivi prima d’ogni altro si fece a parlare don Giovanni, mostrando le relazioni che si avevano dell’armata nemica, e le qualità della cristiana: poi svolse così per le generali il suo intendimento con animo bello e generoso, senza venire a niuna risoluzione; e pregò tutti que’ signori che se avessero a dire, sì il facessero liberamente; o se alcuno amava meglio dare il suo parere in iscritto, egli in buon grado l’avrebbe.
E quantunque non pochi di essi, specialmente spagnuoli e loro aderenti, pensassero che non si dovesse a niun patto mai arrischiare la battaglia; ma soltanto difendere gli stati della Cristianità, o al più assaltare qualche [177] fortezza lontana dall’armata nemica, per non esporre a pericolo la propria; tanto più che i Turchi, a parer loro, dovevano stimarsi invincibili in mare;[165] ciò non [178] pertanto, ritenuti dalla vergogna di aversi in così picciol conto e di tanto poco stimare il fiore dei cavalieri cristiani, quivi venuti non già a dichiararsi impotenti, sì bene a combattere, si tacquero. Parlarono però Marcantonio e il Sebastiano, affermando che l’armata cristiana era più che bastevole a vincere in ogni riscontro la nemica: e che qualunque altra impresa di terra, o espugnazione di fortezze o d’isole, vorrebbe riuscire o vana, o di poco momento, se prima l’orgoglio dell’armata nemica non si fosse abbassato: perchè ove niuno ardisse frenarla, l’altrui sgomento le darebbe animo a sempre mantenere la padronanza di tutto il mare. Alle quali proposte non solo a cenni fece plauso continuamente monsignor Odescalchi, nuncio del Papa, ma appena potè parlare, a nome di sua Santità, disse: non bramare altro se non che si ponesse questo pensiero ad effetto, e che si accelerasse la partenza e la battaglia, che per buone ragioni prevedeva doversi terminare con una splendida [179] vittoria. Laonde ripetendosi queste parole, di battaglia e di vittoria, da molti capitani e da tutti i venturieri giovani, che veramente o non dovevano dir nulla o questo, fu sciolto il consiglio. Causa di maggior discordia nell’armata. I Veneziani gli si attaccarono forte, e vi si tennero sempre saldi; perchè fatto a parer loro con ogni solennità di pieno consenso e deliberazione di tutti; da non doversi mai più rivocare dubbio: dicendo che chiunque non aveva in quel giorno fatto parola in contrario, era convenuto con la parte maggiore, nel punto di cercar l’inimico e di combatterlo. Ma non pensavano così i parziali di Spagna: ai quali pareva che il consiglio fosse stato tenuto da don Giovanni per cirimonia, e per dimostrazione di gentilezza: e che si dovesse ancora pigliar tempo, ed esaminare meglio le imprese di sicura riuscita. Non già per fuggir la battaglia, no: ma per andar cauti in ogni cosa; per cavare certe utilità ora da Brindisi, ora da Otranto, poi rinforzi di fanteria, e appresso provvigioni, e l’un giorno assalir Negroponte, l’altro espugnar Castelnuovo. Tutti andirivieni conosciuti: voltarsi di fianco quando non si vuole andare di fronte; e dar tempo al tempo perchè da cosa nasca cosa.
[1 settembre 1571.]
E questo si faceva non solo in parole ma anche in scritture, con gran disturbo dell’impresa e avvilimento di tutti. Ascanio della Corgnia pubblicava un manifesto alli venticinque d’agosto in Messina, il giorno dopo al consiglio: nel quale parlando a don Giovanni tra l’altre cose diceva:[166] «Vostra Altezza non ha forza bastante per andare a trovare l’armata nemica, nè per [180] tentare impresa alcuna a diversione, o ad altro effetto, senza porsi a manifesto pericolo di perdersi malamente.» Ascanio dopo la grande giornata venuto a Roma non essendo ricevuto dal Papa nè con accoglienze nè con parole, come egli pretendeva di meritare, cadde ammalato; e diede ragione universalmente di credere che da quel dispiacere gli fosse venuta la morte, che in assai breve spazio gli succedette. Non pochi tra i maggiori condottieri parlavano e scrivevano simili indegnità: tanto che Marcantonio ristucco della soperchieria ed autorità dei contradittori, mandava allora a Roma una lettera arcana, che diciferata diceva così:[167] «Il signor Ascanio della Corgnia ed il conte di Santa Fiora, con altri tenuti d’autorità, si fanno intendere pubblicamente in parole e in iscritture che non sia bastante l’armata nostra a combattere la nemica, e in tal modo fanno raffreddare l’animo buono del signor don Giovanni: ed io, che tanto ho faticato a ridurre le cose a sì buon termine d’unione, non posso comportare che dopo tante fatiche e spese si perda una occasione tale, donde può risultare tanta inconvenienza e pubblico danno.... Io di tutto sento gran disturbo, nè posso quietarmi come il signor Ascanio e Santafiora, che sono pur vassalli di Sua Santità, vadano tanto contro la buona mente sua e contro il comun servigio, facendo tanto conto dell’armata nemica per il numero delle vele, che sono di gran parte fuste e vascelli piccoli; et fare sì poco conto dell’armata nostra, che sono duecento e dieci galere, sei galeazze, e trenta navi: che non so quando mai se ne unirà un’altra tale. Io potrei quietarmi e lasciar fare a chi tocca; ma non devo.... et il mio voto sarà sempre che si combatta.» Per questo egli era perseguitato: [181] e i suoi nemici sottili arti adoperavano a metterlo in diffidenza de’ confederati. Tra i Veneziani spargevano che se la intendesse secretamente cogli Spagnuoli; e tra gli Spagnuoli che egli seguitasse la parte dei Veneziani: don Giovanni liberamente dicevagli che contro di lui gli si erano fatti pessimi uffici, e il re Filippo (che non ardiva per rispetto di san Pio spiegare con lui l’animo suo) scrivevagli lettere misteriose, rammentandogli sempre gli obblighi suoi, come se diffidassene, o volesse condurlo all’adempimento di alcun secreto e poco onesto disegno.[168] Onde Marcantonio per più lettere e più persone fece sapergli che il togliesse da quella incertezza; e se era malcontento, gli desse licenza di potersi ritirare: altrimenti parlasse chiaro quel che da lui desiderava. Ecco al proposito due lettere importanti: ecco come un uomo grande, ma suddito e feudatario del cinquecento, scriveva del re Filippo e degli affari correnti a san Pio, e a san Francesco Borgia:
«Reverendissimo Padre.
»La Paternità vostra si è incaricata per sua bontà [182] di supplicare la Maestà Sua che mi desse licenza di lasciare questo generalato, dappoichè dicono che io l’ho preso con altro fine che non è di servir Sua Maestà; o vero, se così gli fosse piaciuto meglio, mi comandasse ciò che avrei a fare. Ora torno di nuovo a supplicare la Paternità Vostra per la cosa medesima, purchè non si opponga il signor Ruy Gomez, nel quale ho fondata speranza. Mi sono giunte diverse lettere di Sua Maestà mettendomi sempre avanti le mie obbligazioni che tengo per servizio suo. Di modo che la mia volontà, che a questo mira più che a quante ricchezze e onori sono nel mondo, si tiene per nulla. Peggio è che sento dire essersi proposto a Sua Maestà di scrivermi cose anche più strane. Che se a tal mi vedessi, io gli lascerei tutto, e me ne verrei costà, e sarebbe un bene all’anima mia. Ecco che quando pensavo che i miei servigi sarebbero graditi, non essendomi trovato in Roma, nè avendo trattato cosa che potesse dar disgusto a Sua Maestà, avendogli l’anno passato messo in salvo l’onore dell’armata sua, e in questo conclusagli la lega, mi trovo al punto di dover scrivere la mia giustificazione. In che modo servo al Signor don Giovanni egli lo vede, e lo vedrà: però quando penso che alcuno abbia a dire che me lo fanno fare per forza, resto tanto afflitto, come se questo fosse cosa nuova per gli altri di casa mia e per me stesso. Sia lodato Iddio, che ci fa conoscere quanto poco vale questo mondo. E sappia vostra paternità reverendissima che tanto pubblicamente correva voce che il signor don Giovanni veniva coll’ordine di mettermi in paura e soggezione, che il Papa mandò qui monsignor Odescalchi principalmente a raccommandar me a questo Signore, e a trattar con lui, pensando che a me non mi ascolterebbero. Lodato Dio, che siamo qui tutti: e si vedrà quel che [183] vale ciascuno. A vostra paternità bacio le mani, pregandola a perdonar la molestia: chè certamente questo negozio mi ha dato tanta afflizione, che mi ha fatto dimenticar quella della galera in Messina li quattro di settembre 1571.»
A san Pio, senza toccare i particolari, sapendo ambedue le istruzioni di monsignor Odescalco, e ciò che direbbe tornandosene allora a Roma, scriveva brevemente così.
«Santissimo et beatissimo Padre.
»Da monsignor Odescalco Vostra Santità sarà informata di ogni particolare di quest’armata. A lui mi rimetto: certificando la Santità Vostra che il detto monsignore con giuditio et diligenza ha eseguito l’ordine suo. — Raccomando alla S. V. le cose mie. — Et bacio li suoi santissimi piedi. Di Messina li 15 settembre 1571.»
[2 settembre 1571.]
X. — Ma quando a’ due di settembre furono riunite nel porto di Messina le altre sessanta galere dei Veneziani, venute da Candia a golfo lanciato, senza aver toccato terra, per una delle maggiori navigazioni che simili bastimenti avessero da gran tempo fatta; e quando nella stessa giornata altre undici galere del Re, agiatamente condotte da Giannandrea Doria, vi ebbero dato fondo;[169] crebbero le dissensioni. I Veneziani non potevano più patire di esser tenuti a bada colà, nè gli Spagnuoli risolversi a partirsene. Questi sempre in parole di nuove consultazioni per veder ciò che s’avesse a fare; quelli all’opposto sempre fermi nel partito già preso di cercar l’inimico e di dargli la battaglia. La qual differenza [184] tanto più dispiaceva ai Veneziani, quanto che vedevano i regi ad ogni altra cosa, men che alla battaglia, prontissimi. A Giannandrea, l’istesso giorno dell’arrivo e senza loro consentimento, era dato da don Giovanni il comando di tutta l’ala diritta nell’ordinanza della lega; a don Carlo Davalos similmente il governo di tutte le navi, ad Ascanio della Cornia di tutte le fanterie. Ascanio, che a loro dispetto parlava e scriveva in Messina contro la battaglia; Carlo, che a loro danno era stato nella guerra di Cipro; e Giannandrea, che dovunque e sempre attraversavali.[170] A costoro il comandare, ai Veneziani l’ubbidire. Le leggi, uscite di penna a don Giovanni, senza participazione di alcun di loro, tosto si pubblicavano: e più volte s’era veduto, in barca e bandiera spagnuola, il banditore venirsene sotto la Capitana veneziana intimando a suon di tromba l’osservanza di certi editti, e le minacce di certe pene, di che il general Sebastiano era costretto a dire non sapersi cosa gli si comandava.
Marcantonio là in mezzo difficil carico sosteneva, la [185] lega per lui durava: tutto amorevolezza verso i Veneziani, procacciava quietarli; e tutto osservanza verso don Giovanni, dirgli liberamente il suo parere: quelli per lui tolleravano lo strazio; e questi per lui rimediava ai disordini. Non era sempr’esso la causa; ma altri poco officiosi e meno benigni. Pur la macchina andava, e le opposte pretensioni restavano dentro certi limiti: oltre ai quali più di una volta sarebbero infallantemente trascorse se Marcantonio, mirando al pubblico bene, non le avesse con somma prudenza contenute.[171]
[8 settembre 1571.]
Tra questi travagli si venne agli otto di settembre a dar la mostra generale di tutta l’armata. Le dodici galere pontificie e le sei fregate furono stimate ottime per la qualità ed armamento loro, e più pel numero e bellezza delle fanterie; al paro di chi che fosse all’armata;[172] le galere del Re eziandio ben fornite d’armi e di genti; quelle dei Veneziani, pregevoli per ogni altro capo, e mal fornite di fanterie; non avendo più che ottanta soldati per galera. E quantunque il loro Generale con buon fondamento dicesse che i remigi dell’armata sua, perchè tutti cristiani e volontari, non turchi o sforzati, in caso di battaglia, lasciato il remo piglierebbero l’armi, [186] ed egli ne avrebbe più combattenti d’ogni altro; ciò non pertanto i consiglieri di don Giovanni deliberarono che in ciascuna galea di san Marco dovessero mettersi venticinque soldati del Re. Gli Spagnuoli volevano comparire in ogni parte, assicurarsi dei Veneziani, e aggravarne i difetti: pognamo pur che fossero, come questo era, segno di loro bravura. Di che si alterarono grandemente, parendo loro indegnità d’essere voluti aiutare nel combattimento da chi mostrava tanta poca voglia di combattere; e di ricevere in casa, anzi dentro le viscere delle loro migliori fortezze (chè tali erano le galere pei Veneziani) gente straniera, sospetta, e coll’armi in dosso. Sebastiano s’opponeva, don Giovanni protestava; e Marcantonio tenuto dal primo in altissimo concetto e dagli altri in più fede che tutta la lega,[173] temperando quello e persuadendo questi, riusciva a mettere sulle galere veneziane quattro mila soldati tra Spagnuoli ed Italiani che erano in Messina ai soldi del Re. Io stimo, e ogni altro meco vorrà convenire, che la mediazione di lui era primo sostentamento della Lega, e la sommissione dei Veneziani segno il più certo della loro buona volontà.
I loro nemici non poterono negarlo: e gli storici meno parziali condotti dall’evidenza dei fatti riconoscono in quella ed in altre occasioni la fiducia, e la sincerità con che procedevano i Veneziani.[174]
[187]
[10 settembre 1571]
XI. — Ciò non pertanto gli alleati non movevano da Messina: e molti ricantando la potenza, la bravura, il numero, e ogni altro vantaggio vero o supposto dei Turchi, dissuadevano la partenza. Per ciò don Giovanni divisò raunare un’altra volta il maggior consiglio, e mandar di nuovo a partito la già presa deliberazione. Tutti quei signori, che erano stati chiamali il ventiquattro di agosto, tornarono sulla reale ai dieci di settembre; più il marchese di Santacroce, Prospero Colonna, il Quirini, il Canale, Giannandrea Doria, e alcuni altri arrivati di fresco, quasi settanta persone, a rimestar l’argomento del cercare o del fuggire la battaglia.
I tutori di don Giovanni che pensavano aver già fatto gran cosa ad aiutar i Veneziani sino a Messina, e non volevano altri viaggi nè battaglie, per fuggir la taccia di codardia, affettavano prudenza:[175] non si arrischiasse tutta la naval forza della Cristianità ad una battaglia di esito incerto; si attendesse alla stagione troppo inoltrata per navigare, al difetto di viveri, di milizie, e di molte cose: meglio rivolgersi a Tunisi, ove sarebbero [188] guadagni certi; doversi procedere con grandissima cautela, e guardarsi bene dagli scontri repentini: affinchè l’armata nemica, già tanto vittoriosa, che aveva la gran provincia di Dalmazia e il ricco regno di Cipro all’impero Ottomano soggettato, potesse facilmente andarsene a Costantinopoli.
Ma dall’altra parte Marcantonio, Sebastiano, il marchese di Santacroce, tutti i Romani e tutti i Veneziani, dicendo che erano venuti per combattere non per tremare di paura, per mettersi alla prova non per fuggirla, e che alla Cristianità recava pericolo ogni altra cosa fuorchè la battaglia, persistevano in richiederla. Quando fosse vinta, secondo che doveva con ogni ragione sperarsi, l’avrebbe per sempre liberata: e quand’anche perduta si fosse, non potrebbe però il nemico, senza grandissima sua strage e ruina di molte sue navi, della vittoria godere; per l’ardire e la bravura di tanti valorosi guerrieri, quanti nell’armata cristiana se ne vedevano. In tal caso nè la cristianità nè i regni d’Italia, ben guardati e muniti, avrebbero nulla a temere dagli inimici tanto debilitati, dai quali quantunque potenti s’erano sempre difesi. L’armata cristiana non già la turca correrebbe pericolo di esser disfatta dal tempo; dipendendo la prima da più principi le cui volontà potevano mutarsi, e la seconda dalla volontà di un solo che non mutava mai. E ripetendo che il turco non fosse già mica l’invincibile, nè che avesse tanta superiorità di forze, nè per il numero dei vascelli, nè per la loro qualità, che non si potesse con molto vantaggio delle pavesate, rambate, artiglierie e galeazze nostre superare, conchiudevano che per necessità di non romper la lega, e per la molta speranza della vittoria, e con poco pericolo in caso di rovescio, si dovesse onninamente andare a combatterlo.
[189]
Le quali ragioni, sostenute dal generale veneziano con assai calore e dal romano con molta saviezza, bastando già i due voti secondo i capitoli della Lega a dar legge al terzo, ridussero don Giovanni (quantunque perplesso tra l’osservanza del fratello e gli stimoli della gloria) a inclinare il suo voto in favor della battaglia. Ondechè levatosi in piedi a un tratto, e rivolto agli astanti parlò presso a poco in questo tenore:[176] «Avendo qui adunate sotto l’imperio mio tutte le forze marittime che dai principi cristiani cavar si possono, penserei di commettere grave scelleratezza se in tanti e sì urgenti pericoli dei Veneziani gravemente afflitti, mentre sono compagni e nella lega confederati, io non li soccorressi d’ogni aiuto opportuno. Pertanto ho risoluto, insieme col Generale del Papa e di Venezia, di partirmi di qua; e di fare ogni diligenza per trovar l’armata nemica e con l’aiuto di Dio combatterla. Esorto adunque e prego ogn’uomo che l’animo e le forze generosamente disponga a secondarmi: talchè io possa risolutamente venire alla battaglia; e con tutti voi rallegrarmi poscia d’una splendida vittoria.[177]
Dopo le quali parole, udite da tutti in profondo silenzio, gli astanti senza eccezione, anche gli stessi regi curatori che tanto avevano sconsigliato il combattere (fosse vergogna, fosse adulazione) proruppero con grandi [190] applausi, acclamando alla generosa e risoluta semenza di don Giovanni: e quasi tutti lietissimi, se ne uscirono dal consiglio. Sull’atto diffusane la notizia; fu, da chiunque non avesse sinistre intenzioni, ricevuta con un solo e solenne sentimento di gioia.
[16 settembre 1571.]
XII. — Sei giorni dopo, tutta l’armata cristiana usciva dal porto di Messina, tra le acclamazioni dei popoli, la festa dei soldati e le maraviglie dei marinari. Navigavano in bellissima ordinanza, e prima di tutto con grandissime dimostrazioni di pietà: avendone dato l’esempio i generali, i colonnelli e gli altri ufficiali; e detto ai soldati che si dovesse confidare in Dio per aver buoni effetti da così giusta e santa guerra, tolta per servigio suo, e per la difesa della fede e della patria. Però quasi tutti in Messina si erano riconciliati con Dio, ed avevano ricevuti per le chiese i sacramenti: e comunemente si giudicava che forse mai non si fosse veduta un’armata così disciplinata in fatto di religione. Nella qual cosa grandemente si adoperarono quei sacerdoti Cappuccini che il Papa aveva messo nelle pontifice galere;[178] e quei padri Gesuiti che il Re aveva mandato nelle sue; e quei tanti dell’ordine di san Domenico e di san Francesco che qua e là sulle galere di Genova, di Venezia e di Savoja esercitavano il sacerdotal ministerio. Andava di vanguardia don Giovanni di Cardona con otto galere spalverate, venti miglia a mare; con ordine che scuoprendo l’armata nemica dovesse ripiegarsi subito sulla nostra, e rimettersi al luogo assegnato, con dar conto al Generale di quanto avesse veduto. Appresso di tutte le galere dell’armata si fecero tre divisioni; cioè il corno destro, la battaglia, [191] e il corno sinistro: mettendo le galere del Re, del Papa, e della Repubblica interzate e miste tra loro, perchè si aggiustassero le squadre ad essere egualmente gagliarde, e si togliessero i pericoli di ammutinamento e di fuga. Così pure fu riserbato un corpo di trenta galere da venire appresso un miglio per soccorso e riserva. E finalmente per turno un capo di retroguardia col carico di soccorrere se qualche galera rimanesse sbandata o zoppa; e di allumare il fanale nella notte per dimostrare quanto addietro fosse l’ultima galera; perchè le prime regolassero il cammino, e al far del giorno si trovasse tutta l’armata unita. Le quali cose, con molti altri ordini bellissimi, di che parlerò nel giorno della battaglia, furono tutte disegnate in carta e dipinte a colori, coi nomi e stendardi di ciascuna galera, e distribuitone un esemplare a tutti i capitani di esse, e a tutti coloro che nell’armata avevano governo.
[21 settembre 1571.]
Le nostre galere assai quietamente, sebbene fossero accadute alcune questioni di precedenza tra la capitana di Malta e quella di Savoja,[179] rigirarono il capo Spartivento; e costeggiata la Calabria, con diverse fortune, nella cala delle Castella dettero fondo, al ridosso di capo [192] Colonna. Nel qual luogo, mentre erano dal gran vento impedite di procedere (pel quale sferrò con molto pericolo la capitana di Malta) la notte avanti al ventuno di settembre apparve in alto un segno, che fu dalla gente creduto prodigioso. Era il cielo tutto sereno, il vento di tramontana freschissima, le stelle chiare e scintillanti; ed ecco nel mezzo all’aria fiamma di fuoco sì lucente e sì grande in forma di colonna per lungo spazio fu da tutti con maraviglia veduta. E quantunque oggidì sia dimostrato che tra li fenomeni elettrici e pneumatici dell’atmosfera, i quali più vigorosi appariscono nel cader dell’estate, debbano annoverarsi non solo i fuochi fatui e la luce di Santelmo; ma anche i globi di fuoco e le travi ardenti, come questa; nondimeno allora gli spettatori, come da prodigiosa apparizione, ne tiravano felicissimi augurj di gran vittoria. Stimavano che la colonna di fuoco guidar dovesse l’armata cristiana sul mare, come guidò il popolo d’Israele nel deserto: o vero simboleggiasse colassù lo stemma di quel Colonna che, avendo quaggiù coll’altezza della sua prudenza congiunto la lega, con la saviezza del suo consiglio la sostentava.[180] E tanto più si addentravano nei prognostici di siffatto segno, quanto che da molti altri era stato in poco tempo preceduto: perchè la terra si era scossa a Ferrara, il fulmine aveva pur dato in Roma sul campanil di san Pietro, e in Firenze sulla cupola di santa Maria del Fiore: oltreacciò si diceva che nella parte più sublime di santa Sofia in Costantinopoli, che oggi è principal moschèa dei Turchi, fossero apparse alcune striscie di fuoco, come tre croci. Di che sparsa la fama in ogni parte rinverdivano le speranze dei popoli, come se quei segni presagissero la caduta dell’impero [193] ottomano. Dolci fantasie di rozze genti; che in ogni modo disvelano le loro speranze, ed ovunque ne scorgono i segni. Tito Livio ed altri storici, prima di narrare grandi successi, ricordano sovente l’opinione dei popoli sui presagi.
[26 Settembre 1571.]
Ora io non istarò a noverar tutte le palate che dette, nè tutti i capi che raddoppiò, nè le cale tutte ove diè fondo l’armata nostra; col vento or favorevole or contrario, e col mare or di bonaccia or grosso: ma insiem con lei me n’entro nel porto di Corfù, alli ventisei di settembre, sull’ora di vespro, per vedere altri segni grandissimi di quelle allegrezze che erano in ogni luogo dimostre ai capitani della lega. Non rimase uomo alcuno in Corfù che non scendesse al porto, nè pezzo alcuno d’artiglieria nella fortezza che non fosse sparato: l’accoglienze e gli onori dei Veneziani a don Giovanni, a Marcantonio ed agli altri condottieri apparver grandi, e le dimostrazioni di confidenza infinite. Contuttociò, nella breve dimora che quivi fecero aspettando il ritorno di Gil d’Andrada, spedito avanti sulle tracce dell’armata nemica per cavarne notizie, non lasciarono i consiglieri di Spagna di ritentar la prova se pur venisse lor fatto di smuovere don Giovanni e di rivolgerlo altrove; cioè all’espugnazione di Santamaura, o della Prevesa o di altre fortezze più vicine. Ma ributtate siffatte proposizioni da lui, che ormai ardeva nel desiderio di trovar l’armata nemica, fu nuovamente risoluto di tirare avanti per inseguirla: e posto che non si potesse raggiungerla, si sarebbe assalito Negroponte. A quest’effetto ordinarono che Gabrio Serbelloni imbarcasse sei pezzi grossi da batteria, con ruote e carri di rispetto, seimila palle, e polvere all’avvenante.
[194]
[2 ottobre 1571.]
Dalle quali cose speditosi don Giovanni, e ricevuta poco dopo da Gil d’Andrada la notizia che l’armata turchesca era giusto allora entrata nel golfo di Lepanto, condusse la nostra alle Gomenizze: bello e capacissimo porto, messo dalla natura al di là di Corfù venti miglia, sulla costa dell’Epiro; senza alcuna fortezza che ne tenesse l’ingresso. Quivi l’armata dovette per tre giorni rimanere; essendo il mare grosso, e il vento contrario gagliardo da scirocco. Nel qual tempo i Turchi della provincia, temendo qualche sbarco, eransi raccolti da più parti in arme, e spiavano ogni occasione per danneggiare i Cristiani. Colà appunto alli due di ottobre successe la prima scaramuccia; e toccò in sorte ai soldati di Marcantonio di far sui nemici il primo fuoco. Imperciocchè, volendo una delle nostre galere mandare gente in terra per acqua, il capitan Ruggiero Oddi di Perugia sbarcò altresì venticinque soldati a spalleggiare gli acquatori. Andarono alla sorgente, e dettero nell’imboscata di cinquanta cavalli nemici. I quali a un tratto usciti fuori con grida ferocissime mossero per caricare sopra i nostri. Però fu così destro un soldato velletrano ad aggiustar la palla del suo moschetto in petto al caporal de’ Turchi, che lo rovesciò semivivo da cavallo; e tanto prestamente i compagni presero quel vantaggio, che a furia d’archibugiate cacciarono in dirotta fuga il mal arrivato drappello.[181]
[195]
[3 ottobre 1571.]
Tra le feste che a bordo si facevano per la riuscita di questo primo scontro, arrivarono quivi stesso nella notte le infauste notizie di Cipro. Era rimasta in quell’isola ai Veneziani soltanto la fortezza e città di Famagosta; che sin dall’anno precedente assediata, si era pur lungamente difesa, per opera non solo del presidio sceltissimo di gente italiana, ma anche dei nobili e terrazzani che dettero sempre ogni bell’esempio di virtù. Ma dopo infiniti travagli, cavato nuovo fosso, e rilevati altri fianchi e più traverse su tutte le opere di fortificazione; difesa a palmo a palmo la strada coperta, l’argine, il fosso, il muro, le brecce, e le ritirate; venute meno le munizioni, il vino, il pane, e ogni speranza di soccorso; piene le strade e le case di feriti, di languenti, e di cadaveri; dovettero finalmente capitolar la resa: salva la vita dei capitani e dei soldati; l’uscita libera a chiunque volesse, e ciò con armi, bagagli, cinque cannoni, e tre cavalli, uno di Astor Baglioni governator generale della piazza, uno di Marcantonio Bragadino provveditor dell’Isola, e uno del provveditor Quirini; il passaggio sulle galere per fino a Candia; e i cittadini rimanessero nelle loro case, vivendo da cristiani e godendo de’ loro beni. Ma un giorno appresso alla giurata capitolazione, resa la città, il Turco traditore fece tagliare a pezzi il prode Astorre Baglioni di Perugia, con altri cavalieri principali di sua compagnia:[182] e l’invitto [196] Marcantonio Bragadino, mozzate le orecchie e schernito con molte bestemmie più giorni, finalmente messo nudo in sulla piazza al ferro della gogna, fece crudelmente così vivo scorticare: con tanta costanza, fede e divozione di quell’uomo nei tormenti, che non perdendo mai punto dell’animo suo generoso, rimproverando senza turbamento a Mustafà, che era presente, la fede violata, e raccomandandosi divotamente a Dio, in grazia di sua divina maestà come dobbiamo credere, santamente spirò.[183]
XIII. — Udite siffatte atrocità in onta alle leggi di natura per oltraggio della fede e del nome cristiano, l’indignazione dei soldati sull’armata proruppe con segni [197] tanto manifesti, quanto ciascun generoso meglio può pensare che non io descrivere. Niuno però imaginar potrebbe, senza che venisse ricordato, come l’istesso giorno di così giusto dolore, quando gli alleati avrebbero dovuto viemeglio stringersi e levarsi tutti insieme contro gli spergiuri per vendicare il sangue dei traditi fratelli, allora appunto i fratelli contro i fratelli rompevano, e tutta l’armata in due parti divisa si metteva in punto di combattere con sè stessa, e mutuamente sconfiggersi ed annichilarsi. Già ho detto come stavano tra loro di mal talento gli Spagnuoli e i Veneziani; e quanto il general Sebastiano Veniero s’era opposto per non ricevere nell’armata sua le soldatesche del Re. Ma avendole, per la necessità di non rompersi apertamente con don Giovanni, ricevute, presto successe ciò che egli già pensato n’aveva. Era sopra una galera veneziana del capitan Andrea Calergi, nobile candiotto, un tal Muzio Alticozzi di Cortona, capitano al soldo del Re: uomo fazioso e caparbio, il quale per cagione di lieve momento intorno a certe balestriere si lasciò fuggir di bocca parole villane a vituperio dei Veneziani. Nacque allora una rissa tra le parti, che fu a stento compressa dal Calergi. Ma essendosene poi le genti della galera querelate col general Veneziano, questi mandò alcuni compagni di stendardo (così chiamavansi a Venezia i berrovieri del mare) e ordinò che fossero imprigionati i delinquenti. Se non che Muzio, dicendo che egli niun veneziano riconosceva per superiore, fece tal resistenza coll’armi contro quei dello stendardo, contro al Comito reale dai Veneziani chiamato l’ammiraglio, e contro all’istesso generale Veniero, venuto in fretta per frenarlo; che sotto quasi agli occhi suoi ammazzò due uomini, e sconciamente ferì di archibugiata nella spalla l’ammiraglio. Ma intanto essendo stato ferito in più parti, e preso anche Muzio, [198] fu a un tratto, così mezzo morto, per ordine del Veniero sull’antenna di quella galera impiccato, insieme con un caporale e due soldati partecipi del disordine.[184]
Non fu accidente in tutta quell’annata che più di questo turbasse l’animo di don Giovanni; parendogli che l’autorità sua tornasse al tutto disprezzata. E si alterarono intorno a lui maggiormente quei consiglieri che non avevano voglia d’andare avanti, tanto Spagnuoli che Italiani aderenti loro. Gli uni rappresentavano il fatto come ingiustizia del Veniero, gli altri come offesa a don Giovanni, questi come oltraggio alla nazione, quelli come degradamento dei capitani, e quasi tutti come cosa da non doversi in niun modo comportare. Ondechè sua Altezza radunò il consiglio privato: nel quale la maggior parte deliberò che don Giovanni, per sua dignità e per ogni rispetto, doveva pigliar prigione il General veneziano, e fare dimostrazione notabile e rigorosa contro la persona sua. Ciò è dire, punirlo nella testa.[185]
[199]
Presa questa deliberazione, don Giovanni fece trattenere il consiglio unito, mandò per Marcantonio, e quivi in pubblico il richiese se avesse udito il gran disordine del general Sebastiano, che egli non sarebbe mai per comportare. Indi lo pregò che dicesse subito il parer suo; non come generale del Papa, ma come servitore del Re.[186] Marcantonio era rivolto coll’animo a scusare quel fatto: perchè non si poteva dubitare che il capitan Muzio ed i suoi complici non avessero meritato il gastigo; e pareva che (quantunque prestati da don Giovanni) avendo pur commesso grave delitto sopra le galere dei Veneziani, e dovendo per quel tempo essere sottoposti agli ordini e giustizia loro, potevano essere puniti dal Generale medesimo, massime in caso di urgente necessità e per sicurezza sua; non restando altro a scolpare se non l’errore, forse inavvertito, di non averne dato parte a don Giovanni prima, o almeno subito dopo, della esecuzione. Ciò non pertanto, veduta l’alterazione di sua Altezza, si contenne. Molto più che quivi erano taluni i quali per private passioni facevano cattivi ufficî; e più ancora che non miravano se non alla dignità dell’Altezza Sua, facendo poco conto di tutti [200] gli altri; e pochi di loro sapevano qual fosse la sostanza dei capitoli: talchè avrebbero anzi acceso che spento il fuoco. Pensò dunque di pigliar tempo a rispondere; e disse: aver udito il caso del capitan Muzio; ma che, per esser quivi giunto allora allora, prima di parlare desiderava sentire il parere di quei signori che già avevano trattato l’argomento. Ondechè, tacendo Marcantonio, ripigliarono quegli altri: ma confusi e peritosi, come avviene a chi ripete pareri poco ragionevoli; specialmente innanzi a personaggio sagace, che fissamente riguardando mostri noverare gli errori di ciascuno, e biasimarne la poca prudenza. Finalmente Marcantonio col movimento della persona mostrò di aver chiaramente compreso come avessero già ferma quella deliberazione che peggiore tra tutte s’era immaginata. Allora non volendo inutilmente opporsi nè entrare in dispute contro tanti, si rivolse a don Giovanni, e rispose: che quello che gli occorreva, come capitano del Papa e insieme come servitore del Re, era il dissimulare intanto ogni ingiuria, e rimettere la dimostrazione rigorosa ad altro tempo. E ciò per molte ragioni: prima perchè la deliberazione venisse con minor calore, e quindi più prudente e più giustificata: e poi perchè la dimostrazione rigorosa in quel momento doveva farsi contro ad altri nemici, assai peggiori, coi quali prima già s’erano disfidati; e che nondimeno impuniti e sempre più da vicino insultavano e manomettevano a tradimento la vita e il sangue, non di tre malfattori, sì di molte migliaja d’innocenti: essendosi con tante fatiche e tante spese unita l’armata della lega per questo fine. E perchè era altresì cosa certa che la dimostrazione di rigore non si sarebbe potuta fare contro la persona di uno che comandava la maggior parte dell’armata, senza combattere con lui e mandare in ruina la lega e tutta la Cristianità, doveva ognuno intendere [201] il pericolo di quel consiglio. Si guardasse, che sarebbe poi biasimato da tutti, e solamente lodato dai Turchi: i quali avrebbero cogli occhi loro così da vicino veduto il giocondo spettacolo del combattersi insieme le armate cristiane, e del caderne gli avanzi senza fatica in poter loro. Gli altri però, principi e popoli della Cristianità, che avevano concetta tanto grande speranza della virtù di don Giovanni e della potenza della lega, resterebbero non solo delusi ma esposti alle ingiurie dei barbari, per causa del disordine fatto da un privato gentiluomo veneziano; che altro non era il Veniero, tornato che fosse a Venezia. E quantunque agli offesi potesse parer dura la sofferenza, nondimeno si doveva considerare ciò che ne direbbero gli uomini presenti e gli avvenire: Ecco, direbbero, la lega è stata disciolta, il Turco è prevalso, la congiunzione di tante navi è stata vana, don Giovanni non ha fatto cosa alcuna degna del suo nome: e ciò perchè Sebastiano Veniero ha impiccati tre uomini, che alla fine lo meritavano. Quindi liberamente era di parere che, potendosi trovar alcun modo a dissimulare per allora l’ingiuria, ciò fosse da fare: e procedere innanzi. Così, domando l’ira con la clemenza e posponendo le private passioni al pubblico bene, acquisterebbe don Giovanni quella fama e quella gloria che sempre segue chi ben si governa.
Commosso don Giovanni alle ragioni ed ai consigli di lui, non solo sospese la vendetta, ma arrossì di sè stesso; pensando anche aver dato occasione a tal personaggio, di tanto senno e gravità, qual era Marcantonio, di venir seco ad umili supplicazioni. Perciocchè, dicendo l’ultime affettuose parole, per abbracciargli le ginocchia gli si era inchinato. Laonde subitamente levatolo, rispose: che a lui si rimetteva, perchè come aveva saputo ben consigliare, così saprebbe anche meglio scegliere [202] la forma più adatta a salvare le sue ragioni, a contenere il general veneziano, e a fare insomma che tutto ben procedesse, sino a veder l’esito della battaglia. E Marcantonio salutandolo graziosamente si partiva, dicendo: che sarebbe andato di presente a trattarne con Agostino Barbarigo, nella prudenza e destrezza del quale molto si confidava.
Tornando allora col palischermo verso la sua capitana, già presso la mezzanotte, vide tutta l’armata sossopra in gran rumore, per essersi saputa la deliberazione del consiglio privato di sua Altezza, contro la persona del General veneziano. Onde questi aveva preso l’armi, accesi i fanali, chiamate intorno a sè le sue galere, e si apparecchiava a difendersi: gli Spagnuoli dall’altra parte davano mano ad allestirsi, e pieni di sospetto si tiravano da parte, e mettevano le armi in coperta: i capitani di qua e di là scorrevano incerti di quel che dovesse succedere: ed Agostino Barbarigo per quel rumore era venuto sulla capitana pontificia, e aspettava che Marcantonio ritornasse dal Consiglio. Per ciò narratisi rapidamente l’un l’altro le cose occorse sino a quel momento, presero ambedue a trattar del modo che si avesse a tenere per quietare don Giovanni. Convennero in questo, che Sebastiano non dovrebbe più intervenire nei consigli, ma starsene nella sua galera privatamente, e non farsi vedere a don Giovanni, nè anche nel navigare; e che il Barbarigo potrebbe in sua vece entrare in consiglio, posto che Marcantonio avrebbe sempre riferito prima quel che si dovesse trattare, affinchè l’altro potesse venirci indettato dal suo Generale e dagli altri provveditori. Preso questo concerto, se ne andarono al Veniero: e come dubitavano della sua terribile natura, per essere quel vecchio collerico e di subitanea impressione, fermarono insieme di usare ogni arte per condurlo a [203] secondare il loro avviso. Ma trovarono la cosa tanto facile, che in due parole restò conclusa: perchè avendo colui saputo della dimostrazione che si voleva fargli, già era fisso che non sarebbe mai più montato sopra una galera spagnuola, quandanche tutta la sua Repubblica vi si fosse unita. Marcantonio non per questo lasciò con buone ragioni di ammonirlo, dicendogli: che mal si conveniva a lui, tanto versato nelle leggi per tutto il tempo di sua vita, dimenticarle nel maggior bisogno. Indi tornò a don Giovanni, che era quasi solo col marchese di Santacroce e don Luigi de Requesens: tacque la facilità del consentimento di Sebastiano: anzi mostrò come era gran cosa il tener colui confinato nella sua galera, escluso dai consigli, e riservati a miglior tempo quei risentimenti che fossero creduti giusti; e indusse sua Altezza a contentarsene. La mattina seguente tutta l’armata, per la prudenza del generale romano campata dal presentissimo pericolo, assai quietamente dava le vele ai venti, facendo prua verso la Cefalonia.[187]
[4 ottobre 1571.]
XIV. — In questo intervallo, sino alli sette di ottobre, che fu la grande giornata, non successe alcuna novità di momento nell’armata cristiana; e nè anche nella nemica. Ma da una parte e dall’altra due cose si facevano; disputare della battaglia, e spedire gli esploratori. I Turchi, sicuri di non poter essere offesi nel golfo di Lepanto, dibattevano tra loro se dovessero uscir fuori, o no, incontro ai cristiani; e al tempo stesso [204] mandavano Carascosa, famoso corsaro, a raccogliere tra le nostre galere il numero, la qualità, e per fino le parole: tanto egli si pose a seguirle da presso.[188] Ma essendosi costui per diversi accidenti ingannato nel conto, fu poi principale cagione perchè i nemici deliberassero uscir dal golfo, e cercar l’armata della lega: persuasi di pigliarsela tutta a salvamano, sol che si mostrassero. I Cristiani dall’altra parte, levatisi dalle Gomenizze, s’avviarono all’Isola di Paxo; già chiamata Ericusa. Nel qual viaggio tutta l’armata per la prima volta si pose in perfetta ordinanza di battaglia: e tenendo ogni galera ed ogni squadra il suo luogo, lasciò finalmente considerare quanto tutta la fronte di essa si stendesse; quanto spazio ciascuna squadra occupasse; quanto l’ala diritta a largo mare dovesse tenersi per non stringere troppo a terra l’ala sinistra; e finalmente in che modo ciascuno il suo ufficio ordinatamente far dovrebbe, affinchè nel caso improvviso tra loro non si intricassero. Con questa ordinanza, che fu molto bella a vedere, giunsero nel canale tra Itaca e la Cefalonia. Dopo aver navigato ora a vela, ora a secco, essendo i venti a segno di ponente e maestro troppo freschi e con una sorda maretta, si fermarono alla punta settentrionale della Cefalonia, in una calanca, detta Val d’Alessandria. Colà i consiglieri privati, insieme con Giannandrea, un’altra volta rappresentarono a don Giovanni l’incertezza del vincere, la difficoltà del fuggire, e tutto ciò che poteva fare contro al disegno di combattere: ma [205] non poterono più smuoverlo; anzi, come alli dieci di settembre, furono rimandati pieni di confusione. Dalla volontà di Marcantonio e dei Veneziani, divenuta ormai volontà ferma altresì di don Giovanni, come bisce tratte all’incanto, senza pur volerlo nè intenderlo, erano alla battaglia condotti.[189] E tanto erano pubblicamente note le difficoltà di costoro, che avendo anch’esso don Giovanni mandato tra gli altri esploratori in più luoghi, ed anche in terra d’Epiro, un pratico piloto, detto Cecco Pisano, a riconoscere l’armata nemica; questi ritornando, maravigliato del numero delle galere, delle navi e dei soldati ottomani, non volle da alcuno di loro lasciarsi intendere; per timore che ne venissero altri impedimenti alla battaglia. Ma colto il destro di esser da solo a solo con Marcantonio, dandogli secretamente certa relazione del gran numero dei vascelli da lui veduti, gli disse: «Spuntati l’unghie, signore, e combatti; che n’è bisogno.»[190]
[7 ottobre 1571.]
Pertanto fermatasi l’armata nostra il cinque di ottobre in Val d’Alessandria, si mosse il sei: e contrastando tutto il giorno col vento contrario, di levante e scirocco, per uscir dal canale della Cefalonia, appena potè la notte. Ma non volendo tra le tenebre troppo avanzare, col nemico così vicino, prima che alle isole Curzolari, dagli antichi dette Echinadi, arrivasse, per aspettare il giorno fermossi. I Turchi l’istessa notte, col vento [206] a loro favorevole, usciti da Lepanto per trovar l’armata nostra nel canale della Cefalonia, le venivano incontro: così che ai sette di ottobre, molto per tempo, le due armate vicendevolmente si avvicinavano a quei rivaggi ove si avevano a decidere le nostre sorti.
E poichè questo luogo è venuto a tanta celebrità dopo la famosa giornata, io stimo doverlo in qualche modo descrivere; affinchè meglio possa ciascuno comprendere quel che appresso dovrà vederne.
Chiunque riguarda alla bocca del golfo di Lepanto vede di qua e di là due costiere, che si partono quasi a sesto di squadra: l’una a levante mostra le spiagge della Morea per miglia settanta, sino a capo Tornese; l’altra a settentrione segna le rive dell’Epiro per miglia più che ottanta, sino all’Isola di Santamaura. E perchè questo luogo, in siffatta maniera da due lati già chiuso, resti anche meglio da ogni altra parte rinserrato; ecco, da ponente comparir di contro per quaranta miglia la Cefalonia; e da ostro per venticinque il Zante: talchè nel giro di dugencinquanta miglia, trovandosi l’acqua tutt’intorno riparata, e vedendosi da ogni parte la terra, più quasi dà vista di lago che di mare: e come se fosse una artificiale naumachia, sembra dalla natura destinato tra l’oriente e l’occidente a teatro di naval combattimento. Là, presso al promontorio azziaco, Ottaviano contro Marcantonio mutò lo stato dell’imperio romano: là, presso a Corinto, Maometto secondo rassodò il suo seggio in Bizanzio: là, presso alla Prevesa, il vecchio Doria macchiò il suo nome, e rese formidabile la naval potenza dei Turchi: là, presso a Lepanto, gli alleati la prostrarono: là, presso a Navarrino, risorse nel nostro tempo la Grecia. Però quando due armate nemiche siano a punto nel mezzo della naumachia, niuna delle due può rifiutar la battaglia, nè fuggire lo scontro, senza intricarsi e perdersi tra gli angusti [207] canali di quelle isole: massime che in più parti dell’istesso bacino sorgono altre isolette, importune ai naviganti; tra le quali irte e spesse compariscono dal lato settentrionale, un miglio da terra, le ignude rocce delle isole Curzolari: che, quantunque sino alla metà del secolo decimosesto neglette ed oscure, acquistarono grande rinomanza per la memorabile battaglia quivi presso combattuta.[191]
Nel sito di tal contenenza essendosi fermato tutto il naviglio della lega, come ho detto, ad aspettare il giorno, non appena comparve la prima luce dell’aurora a rischiarare la marina di levante nel sette di ottobre, levossi: e quantunque ancor fosse contrario il vento, andò dirittamente per mettersi alla bocca del golfo di Lepanto. Poco dappoi, quando fu dato veder chiaro anche da lungi, cominciò la guardia del calcese sulla Reale a dar segno, prima del vedere da levante due vele; tanto però lontane da non poter così bene discernere se le fossero navi o galere; e poscia, continuandosi nel cammino e scorgendo di mano in mano molte altre vele, diede avviso a don Giovanni di veder certamente tutta l’armata nemica. Alla qual notizia, perchè poco dopo da più parti ripetuta; e confermata eziandio dagli esploratori, che innanzi a tutti avendo battuto il mare, secondo l’ordine [208] se ne tornavano; fece don Giovanni sparar da poppa un piccolo sagro: segno ai capitani di pigliare l’armi, e mettersi in punto; segno perchè i soldati a combattere si apparecchiassero. Allora tutte le nostre galere si restrinsero all’ordinanza, e le milizie alle poste loro delle balestriere e delle rambate; con tanta volontà, quanta per ogni più desiderata cosa ne avrebbero potuto dimostrare. Era l’armata cristiana, secondo la tattica militare, divisa in tre squadre, sotto tre diverse bandiere. Nel mezzo la squadra azzurra, coi pennoncelli dello stesso colore al calcese; a diritta la verde, coi gagliardetti alla penna; ed a sinistra la gialla, con le banderuole dorate all’osta. Per tutti un ordine solo; tener le galere di ogni squadra tanto vicine tra loro e ristrette che, dato pur lo spazio necessario al palamento, non potesse mai galera nemica cacciarsi in mezzo; e di stendere le ali a diritta e a sinistra quaranta braccia lungi dal corpo di battaglia, talchè ciascun corno avesse modo a rivolgersi ovunque occorresse senza imbarazzar nè il centro nè l’altre squadre. Le quali pareggiate alla battaglia n’andavano, non già in figura di mezzaluna o semicerchio, come alcuni dicono; ma sopra un sol filo di retta linea, tutte insieme del paro e di fronte.[192]
[209]
La squadra azzurra contava sessantuna galera: nel centro la reale di Spagna e don Giovanni, a diritta la capitana di Roma e Marcantonio; a sinistra di Venezia e Sebastiano: poi di qua la capitana di Savoja col conte di Leiny ed il principe di Urbino; di là, la capitana di Genova con Ettore Spinola e il principe di Parma; e tra le altre galere spagnuole e veneziane, erano nel corpo di battaglia la nostra Grifona ed Onorato Gaetani, la Pisana e il capitan Mazzatosti, la Fiorenza e il capitan Puccini, la Pace e il capitan Orazio Orsini, la Vittoria e il capitan Livio Parisani da Perugia, la Toscana e il capitan degl’Oddi, tutte del Papa. La squadra verde sulla diritta, sotto Giannandrea Doria, favorito della corte di Spagna, teneva insieme cinquantatrè galere: tra le quali il san Giovanni e la santa Maria del Papa, con Cencio Capizzucchi e Tullio da Velletri. La squadra gialla sul lato sinistro aveva cinquantacinque galere, al comando di Agostino Barbarigo; e insiem con lui il capitan Gigli di Fuligno nell’Elbigina. Poi da poppa alla reale, e alle altre quattro capitane del centro, si stringevano dieci galere sottili, talchè ciascuna di quelle aveva seco due di queste per assisterle nel combattimento: e là era al servigio della capitana nostra la Reina, sulla quale governava le fanterie il capitan Flaminio Zambeccari di Bologna. Finalmente un miglio appresso venivano di retroguardia, col marchese di Santacroce, trenta galere; portando l’insegna bianca in asta, quattro braccia più [210] su del fanale: e in mezzo a loro la Padrona, la Soprana, e la Serena del Papa, coi capitani delle nostre fanterie Berardetti, Tebaldini e Bartoli. Le trenta navi a carico di don Carlo Davalos avrebbero dovuto mettersi sopravvento, secondo che spirasse; e investire per fianco nell’armata nemica a vele gonfie, o almeno molestarla alle spalle coll’artiglieria e coi moschettieri imbarcati nelle lance: ma per diverse ragioni e venti contrarii tutto quel giorno non furono nè anche vedute. Però le sei galeazze veneziane, della condotta di Francesco Duodo, tratte avanti per forza di rimburchio da don Giovanni medesimo, e dalle capitane di Marcantonio e dagli altri principali dell’armata, i quali ponevano in quelle grandissima fiducia per rompere l’ordinanza dei nemici, già erano o andavano a porsi un miglio innanzi, a due a due: perchè, quanto potessero, ciascuna coppia cuoprisse l’una delle tre squadre. E quantunque le due, che dovevano fronteggiare innanzi alla squadra gialla, più delle altre tardassero, ciò non pertanto esse ancora nel momento della battaglia furono, sebbene a grandissimo stento, menate alle loro poste. Erano dunque all’armata centocinque galere di Venezia; dodici del Papa, prese dai Fiorentini; ottantuna del re, cavate da Genova, da Napoli, da Sicilia, e da Spagna; tre di Savoja, tre di Genova, e tre di Malta: in tutto duecento sette galere, sei galeazze, e trenta navi, mille ottocento cannoni. Militavano quivi tre mila nobili venturieri, quasi tutti d’Italia; venti mila fanti italiani assoldati dalle varie potenze, ed ottomila Spagnuoli: v’erano dodici mila marinari, quarantamila remigi; e tra tutte le genti di guerra di capo e di remo nell’armata cristiana più che ottanta mila persone.[193]
[211]
I Turchi all’incontro avevano anch’essi l’armata loro in altrettante squadre ripartita: al centro Aly generale del mare; e al suo fianco le capitane di Pertaù generale delle fanterie, e di Esdey tesoriero, con novantaquattro [212] galere della battaglia: al corno diritto, Maometto Scirocco, governator di Alessandria, con cinquantatre galere; ed al sinistro, con sessantacinque, Luccialì re di Algeri: facendosi anch’essi seguire da Amurat Dragut con dieci galere e sessanta piccoli bastimenti, vuoi fuste o brigantini, che riuscirono membra troppo fievoli a soccorrere efficacemente quando ne venne il bisogno.[194] Ma il numero grande e la qualità dei soldati, che avevano allora cavati dai presidj di Lepanto e di Patrasso, tanto rinforzavano le squadre nemiche e ne accrescevano l’orgoglio, che ripensando alla vergognosa fuga del vecchio Doria, quivi presso alla Prevesa, stimavano che i Cristiani per la sola vista e paura dell’armata loro avrebbero un’altra volta vilmente mostrato le spalle. E nel [213] vero non pochi dei consiglieri di don Giovanni avean l’animo a secondare questa speranza dei Turchi.
In siffatto modo dugentoventi galere e sessanta fuste ottomane, navigando coi soli trinchetti e col vento fresco in poppa, venivano da Lepanto a trovare dugentosette galere, e sei galeazze cristiane, che dalle Curzolari a lenta voga andavano loro incontro, la mattina del sette ottobre mille cinquecento settantuno, sull’ora di terza: quando improvvisamente, e contro l’aspettazione d’ognuno, prima tacque ogni vento; e poi, spianatosi il mare a perfettissima calma, levossi sull’ora del mezzodì una brezza di ponente, tanto favorevole ai Cristiani, quanto ai Turchi perniciosa. Frattanto quasi tutti i generali andarono alla Reale di don Giovanni per accertare le ultime sue disposizioni: e alcuni di loro, pregiandosi del voto che avevano nei consigli privati di sua Altezza, non ebbero vergogna in quel momento di ripetergli le consuete difficoltà: stesse cauto, vedesse meglio il pericolo, sentisse il consiglio: in somma si ritirasse, e ripetesse nelle acque di Lepanto le infamie della Prevesa e delle Gerbe. Però sostenuto da Marcantonio Colonna e da Agostino Barbarigo, don Giovanni li discacciò, dicendo: «Andate, signori, che ormai non è più tempo di consiglio, ma di battaglia.»[195]
XV. — Il primo movimento che allor fece l’armata cristiana fu dalla parte di Giannandrea: il quale comandò a tutta la sua squadra verde di girare il bordo al [214] largo. Laonde si vide a un tratto l’ala diritta, da lui condotta, rompere l’ordinanza, distaccarsi dall’altre due squadre; e senza rispetto alle leggi, tanto studiosamente composte in Messina, andarsene lungi per mezzo il mare. E sebbene pochi in quel momento potessero giudicare dove e a che intendimento si rivolgesse, ciò non pertanto sin dal principio il fatto suo parve a tutti i Cristiani segno di poca volontà di combattere; e parve fuga manifesta ai Turchi.[196] Tanto che Alì pascià, comandante supremo dell’armata nemica, per ritenerlo che non si fuggisse, gli scaricò dietro un gran tiro; come disfida a lui, ed a tutta la lega. Alla quale chiamata, non essendosi in modo alcuno rivolto Giannandrea, rispose don Giovanni col cannone di corsia, significando l’accettazione della battaglia.
Allora tutte le galere della squadra azzurra e della [215] gialla abbatterono dall’albero le bandiere dei loro principi, e la sola reale di don Giovanni spiegò il grande stendardo della Lega, benedetto dal santo Pontefice, e a lui mandato affinchè lo inalberasse nel giorno della battaglia. Era un ricco drappo di seta cremisina, coll’immagine del Redentore in croce: alla vista del quale avendo tutti, dal primo capitano all’ultimo soldato, scoperto il capo e posto a terra il ginocchio, con segni di molta compunzione, fecero la confession generale in compendio per quella necessità; e ne riportarono dai sacerdoti in ciascuna galera, a nome del Pontefice, l’assoluzione sacramentale e la plenaria indulgenza di colpa, e di pena.[197] Rilevatisi poi con maggior fiducia; sciolti dalle catene i forzati, come caparra della libertà che loro si riprometteva nella vittoria; e distribuite buone vivande e vini generosi a tutte le genti di guerra, di capo, e di remo, perchè potessero sostenere il peso del vicino conflitto; scesero, da una parte don Giovanni, e dall’altra Marcantonio, sopra due fregatine spalverate a percorrere la linea della battaglia.[198] Salutavano a nome i capitani, animavano i soldati, prescrivevano quel che facesse mestieri. Ecco, dicevano, ecco il giorno segnato da Dio per abbattere l’orgoglio degl’infedeli, e per dissipare le forze dei barbari, che senza legge e senza fede insultano e minacciano esterminio e catene. Ricordassero il proprio valore, le ingiurie ricevute, i tradimenti patiti, e il sangue innocente del Bragadino e del Baglioni, che aspettavano giusta vendetta per le loro mani: l’avrebbero. Ai forti gloria e vantaggio in vita, ed anche nella morte la suprema felicità che Dio riserba a chi dà il sangue per la fede e per la patria. Stringevano la destra degli amici, [216] salutavano le schiere, e con la serenità del volto raggiante di gioia pronosticavano il vicino trionfo. Si legge che don Giovanni, tornato nella sua galera dopo quella rassegna, non solo facesse un’altra volta avvisati i suoi tutori a cessar di molestarlo per codardi consigli,[199] ma che tutto ebbro di letizia e tratto da giovanil ferocità nell’ardente desio di appiccar la zuffa, facesse dar nelle trombe; e sopra la piazza d’arme della sua galera, con due cavalieri, ballasse a vista di tutta l’armata una concitatissima danza, chiamata dagli Spagnuoli la gagliarda.[200]
Marcantonio, tornato a bordo, si vestì di tutt’arme, fece spuntar lo sperone delle galere per incontrarsi più da vicino coi nemici, spianò i banchi della capitana per averne più larga la piazza sul ponte; assegnò il governo e la difesa della mezzania a Pirro Malvezzi e al conte Berardi, il quartier di prua a Virginio Orsini da Vicovaro ed a Pompeo Colonna; mise alle rambate Lelio de’ Massimi, Biagio Capizucchi, Giulio Gabrielli e Francesco Nari; al focone Iacopo Frangipani, allo schifo Orazio Orsini da Bomarzo, alla poppa Francesco Graziani, Michele Bonelli, Annibale degl’Oddi, Orazio Corona, Ridolfini, Brandimarte, ed i gentiluomini della sua casa.
Intanto i Turchi sebben fossero, per la mutazion del vento, costretti ad ammainare i trinchetti, e con loro discapito mettersi a remo; pur avvisatisi che l’armata nostra sull’esempio del Doria dovesse volgere alla fuga, presero maggiore ardimento. Tanto che sprezzando ogni pericolo, a voga arrancata, mossero per investirla tutta d’un colpo, in ogni parte: parendo loro doversene alla prima far padroni. Ma essendosi già le galeazze avanzate [217] un buon miglio, e stando quelle enormi e poderose macchine là in mezzo al mare, piene di grosse artiglierie, come primo intoppo alla loro foga, dovette il Bassà per quel rispetto mutare l’ordine della sua battaglia. Perchè, persuaso che ad espugnar ciascuna di quelle galeazze gli anderebbe molto tempo e perdita di molte galere, prese il partito di lasciarle da banda: pensando, quando avrebbe vinto l’armata cristiana, impadronirsene senza combatterle. Perciò fece ai suoi ufficiali in gran fretta comandare, che in più squadre uguali e ben distanti si dividessero; e, senza trattenersi colle galeazze, anzi vogando arrancati, passassero oltre, sino ad investire nella linea dell’armata cristiana.
Ma quanto più divisi essi arrancavano, tanto più per diversi accidenti tra loro si confondevano; e tanto meglio si accostavano alle terribili galeazze. Il capitan delle quali, come ebbe veduto quegli stormi passargli sotto a tiro, cominciò sì fieramente a percuoterli, chè avendo col primo colpo levato il fanale alla galera di Aly, e con molte altre cannonate ad un tempo rotto le spalle a certe galere, e cert’altre direnatele, uccisi molti nemici, e gittata tra loro la confusione, fu causa di aprire e mantenere la vittoria ai nostri, sino a compiuta. I capitani d’Aly, al primo fuoco delle galeazze, come se avessero urtato nel muro, chi a orza chi a poggia, per diverse parti rimbalzati piegarono. Ed egli tra quelle angustie (assai più che stimato non aveva dannosissime) battuto, risospinto, e disordinato, arse di rabbia: ma pur trapassando con quanta celerità poteva, s’argomentò rannodare al di qua le sue galere. E avendo allora anche i capitani della Lega fatto forza coi remi, in brevissimo tempo le due armate intieramente, con le prue l’una sull’altra, investirono.
Il quale terribile e pauroso scontro non si potendo [218] con le parole descrivere tutto a un tratto, mi bisogna a parte a parte narrarlo.
La capitana d’Aly, quasi di mezzo corpo precedendo le conserve, correva difilata a cercare la capitana del Papa: della qual cosa avvedutosi don Giovanni, ordinò al suo timoniero che dovesse incontrarla, dirizzandosi a lei: cotalchè le due Reali urtaronsi prora contro prora. Ma la galera del Turco, come più alta di bordo, caricò sopra quella di Spagna; dando e ricevendo nell’atto dell’investire la scarica di tutte l’artiglierie grosse e minute, che furono di qua e di là nell’istesso tempo messe a fuoco. La capitana del Papa, per sostenere la reale di Spagna, mosse a voga arrancata su quella del Turco; e fieramente il percosse al terzo banco. Pertaù, in aiuto d’Aly, cozzò sulla pontificia alla mezzania.[201] E appresso molte altre galere di turchi e di cristiani, confusamente concorrendo, s’investirono, s’intrecciarono, si strinsero in [219] micidiale, ma gloriosa zuffa. Là i primi capitani, là il centro della battaglia, le prove del valore, e la decisione della vittoria. Laonde come si furono quelle galere anche meglio con ramponi e catene di ferro le une coll’altre strette e assicurate, tornò la cosa quasi più a guerra terrestre che navale; e i combattenti non solo con gli archibusi e con le spade, ma coi pugnali e co’ denti, vennero alla vita gli uni sugli altri.
I giannizzari d’Aly, quattrocento giovani di scelta milizia, fatto un terribile sforzo, tentarono innanzi a tutti saltar dentro nella reale di Spagna: e gli archibugeri del terzo di Sardegna, con molta nobiltà venturiera, non solo si opposero al loro impeto, ma per tre volte con fierezza terribile li ricacciarono indietro; e mescolatamente con loro entrarono nella Reale turchesca, sino al trinchetto: senza mai poter fare maggior progresso, a cagione dei continui rinforzi che a’ nemici venivano per poppa. La corsia dell’emule galere era in tre luoghi abbarrata; al trinchetto, alla mezzania, alla spalliera. Gli uni dietro ai ripari si difendevano, gli altri assalivano. Il ponte unto di sevo, perchè i vegnenti stramazzassero; su per gli alberi arcieri e moschettieri a percuotere i sottostanti: e le artiglierie a cartoccio (quando si poteva caricarle) a spazzare di diritta e di sinistra le file nemiche.
Similmente dalle altre parti disperatamente e con molto sangue venuti alle mani, già alcune galere di qua e di là bruciavano, altre si sommergevano, queste si aprivano, quelle sottentravano: e le genti a fremere, a percuotere, a rovesciarsi insieme nel mare. Là fuochi artificiati, là colpi di metraglia, e punte, e fendenti, e ferite di mille guise. Spettacolo orribile! Vedere continuo ogni maniera di morte crudelissima, e quello strazio che fa delle membra umane ora il ferro ora il fuoco, scorgendosi al tempo istesso quello arso, questo sbranato, [220] l’uno sommerso, l’altro trafitto, o messo a pezzi dalle artiglierie. E poi le navi tranghiottite dal pelago, non potute dagli amici aiutare; ed i compagni semivivi andare al fondo: e il mare mutar colore, divenir vermiglio di sangue; coprirsi d’armi, di spoglie, e di rottami; e per la moltitudine dei tiri e delle grida, fatto come un baratro pieno di fuoco, di morte, di caligine, e di urla tremende. I prodi non invilirono per ciò. E intrepidi nella durissima prova, tennero il proposito: o vincere, o morire.
A tale erano dopo un’ora di combattimento le due armate: e si stava da una parte e dall’altra in gran dubbiezza, quando il Veniero non ancora assalito da niuno, per agevolare la vittoria a don Giovanni, pensò attaccarsi alla poppa della Reale nemica. Ma quantunque l’ardito vecchio, a capo scoperto e con una zagalia in mano, valorosamente combattendo si studiasse di ciò fare; tuttavia alcuni capitani nemici ad impedirlo si mossero: e l’istesso Pertaù, disferratosi da Marcantonio, giunse in tempo a tagliargli la strada. Ondechè il capitano di Venezia sopraffatto dal numero, morti ed uccisi quasi tutti i difensori, e ferito esso stesso di freccia in un piede, sarebbe certamente caduto in potere dei Turchi, se non accorrevano prontamente con due galere Giovanni Loredano e Caterin Malipiero, arditissimi giovani. I quali entrati nel maggior pericolo, non solo col proprio sangue assicurarono la vita del loro Generale e la difesa della sua capitana, ma avanti di cadere esanimi tanta strage menarono nella galera di Pertaù (già stremata dai Romani) che fuggitosi colui quasi solo sopra un palischermo, restò la galera abbandonata a Paolo Giordano Orsini.[202]
[221]
Marcantonio però, con quella scelta mano di prodi che ho già nel capo sesto noverati, non volle mai per cosa alcuna muoversi dal fianco di don Giovanni: guardando sempre a sostenere l’onore della Reale, e il centro della battaglia. Laddove al tempo stesso combatteva di fronte contro Aly, e di fianco contro chiunque il volesse trastornare. Tanto che, avendo ributtato Pertaù, e mal conce tre altre galere (senza mai lasciare don Giovanni) ebbe a far prova con quella di Maometto, re di Negroponte, ed ajo de’ due figli di Alì. Questi giovanetti avevano la mattina giurato al padre di portargli prigioniera la capitana di Marcantonio: e venivano risoluti a mantenere il giuramento. Ma trovato alla giovanile baldanza virile riscontro, dovettero pensare piuttosto a scioglier sè stessi, che a legare altrui. Gran mercè se poterono al primo saggio battere la ritirata. Ma quantunque Marcantonio, fermo alla istessa posta, non curasse inseguirli, pure ambedue caddero poco lungi di là in potere del commendator di Castiglia, che poi li rese a Marcantonio, dal quale furono menati prigionieri a Roma. Poco dopo a rinfrescar la battaglia contro la nostra capitana, sottentrava un’altra galea; alla quale non valse nè scampo di fuga, nè stanchezza delle nostre genti; perchè di primo impeto vi montarono sopra, e se ne impadronirono.[203]
[222]
Dopo di che Marcantonio, libero ormai da ogni altra molestia di nemici, quantunque avesse già perduti più che settanta soldati, raccolse tutte le forze sue e delle conserve per dare ad Aly l’ultima stretta. Fattosi arditamente alla prora (come il dipinse Gerardi nelle vôlte della galleria colonnese, e il Vasari nella sala regia del Vaticano) e menata gran strage nel mezzo del ponte, colse il momento, segnò la strada, e suonando concitate le trombe, spinse una mano de’ suoi sul fianco della reale d’Aly. E già era egli stesso in punto per saltarvi, quando al marchese di Santacroce parve tempo di movere le riserve, e portarle sul centro, per inchinare coll’ultimo colpo a favor dei nostri le ancor dubbiose sorti della battaglia. Nel qual tempo, restando tutti da una parte e dall’altra per poco sospesi, entrarono a rinforzo dugento fanti spagnuoli sulla galera di don Giovanni, ed altrettanti soldati italiani su quella di Marcantonio. Allora rifulse in tutto il suo splendore la gloria della Spagna. Il braccio dei valorosi campioni cancellò la viltà degli infinti consiglieri. I soldati vendicarono l’onore della patria oltraggiato dai ministri: essi fecero testimonianza alla storia; essi comprovarono coll’opera quella virtù che io ho riconosciuta sin dal principio con le parole:[204] essi posero in chiaro quanto e come differissero tra loro la nazione e la corte; quantunque l’uso comune di quei tempi portasse di ristrignere il grande e generoso nome di Spagna nella misera e tenebrosa cerchia dell’Escuriale. Allora i soldati freschi spagnuoli ed italiani al cenno di don Giovanni e di Marcantonio, rinforzando i prodi che da più ore combattevano, fatta gagliarda irresistibile impressione, i primi per prua, gli altri per fianco, penetrarono in tutta la [223] galea del Turco.[205] In un istante Aly fu morto, i suoi giannizzeri sterminati, la galera almirante sottomessa. Scendeva giù per le sàgole lo stendardo della luna, e saliva in alto quello della croce: gridando i soldati da ogni parte: Vittoria! vittoria! E ben a ragione i valorosi mandavano dai robusti petti queste voci, quando tutte le galere del centro, aiutate dalle riserve, a un tratto finivano di ghermire e sottomettere le loro contrarie: quando in questa parte non era più a vedere naviglio [224] alcuno di Turchi, che non fosse stato o prima o dopo sommerso o preso.
Pari contrasto e fortuna aveva incontrato alla sinistra la squadra gialla. Là s’era combattuto, non solo di forza, ma anche di astuzia, tra Agostino Barbarigo provveditor di Venezia, e pascià Scirocco governator d’Alessandria. Costui vedutosi di rincontro un numero di navi assai minor delle sue; e pensando che tra la spiaggia dell’Epiro, e la punta dell’ala sinistra, avrebbe modo a trapassare, tenne quella maniera di guerra che, ripetuta poi nella battaglia di Abukir, dette tanta fama a Nelson. Perciò ad un suo cenno quindici galere sottili, e buona mano di legni minori, si volsero verso la spiaggia per isguizzare sui bassi fondi, e riuscire alle spalle del Barbarigo. Se non che Agostino, antiveduto il disegno dell’avversario, spediva subitamente una partita di galere a tagliargli la strada. Se avesse imitato Giannandrea, e per non lasciarsi circuire si fosse tirato indietro, la battaglia quantunque già ben avviata nel centro, era perduta in ogni altra parte. Ma esso in quella vece, senza allontanarsi dal posto, anzi accorrendo più da vicino con la persona sua ove era maggiore il pericolo, tanto bene giugneva a chiudere il varco, che il nemico non potendo per questo andare innanzi, appena girata la prua verso il lido, si trovò ai fianchi le galere veneziane che con tiri giustissimi e con mirabil maestria lo percuotevano. Il perchè fallito a quello stuolo il disegno, stretto già troppo alla riva, disordinato, e battuto, dovette (come è solito in questi casi) investire in terra. I Turchi fuggendo alla spiaggia salvarono le persone: ma le galere e le fuste, caddero tutte in poter del vincitore.
Restavano però in punto di combattere le altre galere di Scirocco, presso a quaranta, che non essendo entrate [225] in quella stretta s’aspettavano miglior sorte. Ma coloro, veduta prima la rotta dei compagni e poi toccando il fuoco delle galere veneziane, che di fronte e di fianco si voltavano a stringerli, non più aggiratori ma aggirati in quella rete che a loro danno tesa avevano, si trovarono chiusi da ogni parte. Onde non avendo più scampo in terra, vôlta la sofferenza in furore, deliberarono morir combattendo; come è forza a chi vien meno ogni altra speranza di salute. Anche i Veneziani, che più di tutti per le antiche e per le recenti ingiurie odiavano i Turchi, maggiormente adirati dell’audacia loro e delle dure percosse che ne ricevevano, corsero perdutamente ad assalirli. La zuffa della sinistra divenne orribilissima.
Nel che Agostino Barbarigo, mentre con pari senno e valore dirigeva i movimenti de’ suoi, chiamò sopra di sè l’attenzione dei nemici; i quali contra a lui di presente con fierezza terribile si rivolsero per disbramar nel suo sangue la vendetta. Là si vide cosa fossero sul mare i Veneziani, le loro galere, i loro remieri, i loro soldati; e quanto poco abbisognassero degli altrui soccorsi.[206] Due volte i Turchi entrarono nella galera del Barbarigo, due volte ne furono ributtati. Ma ripetuto con tremendo sforzo il terzo assalto, difendendosi egli valorosamente, e temendo non forse la sua voce non fosse udita dai soldati, secondo gli ordini che di volta in volta intimava, si tolse la rotella dalla faccia, proprio in quella che i nemici più fieramente saettavano. Avvisava, come disse di poi, per minor male essere trafitto dai nemici, che non sentito dalla sua gente. In quell’atto e’ fu percosso [226] mortalmente da una freccia nell’occhio diritto, e cadde sul ponte. Di che presero i soldati tanto terrore, che quasi attoniti cedendo, non senza pericolo di perdersi tutti, sino all’albero lasciarono entrare il nemico. Se non che correndo opportunamente a rinfrescar la battaglia il conte di Porcia con la sua galera, e appresso il Nani, il Quirini, e il Canaletto, con quella prontezza che dal loro conosciuto valore aspettar si doveva, non solo ributtarono i Turchi con molta strage; ma penetrati nella capitana di Scirocco con maggior furia, la sottomisero. Gli stessi galeotti, lasciato il remo, e prese quelle armi che il furore metteva loro nelle mani, con ira ferocissima terminavano d’opprimere qualunque dei Turchi facesse ancor vista di combattere.
Agostino Barbarigo, l’Epaminonda dei moderni tempi, pregato a ritirarsi e a medicar la ferita, non volle mai consentire. Ma rilevatosi, e sempre saldo in corsìa, sostenne sino all’ultimo le parti di prode ed invitto capitano: sinchè non vide sottomessa tutta l’ala cui aveva combattuta. Poi sceso da basso nella camera, trasse di sua mano il ferro dalla fronte; e sopravvissuto fino a saper le notizie certe della vittoria, levate le braccia al cielo, tra i conforti della religione, ne rese a Dio le dovute grazie, e spirò. Fu il Barbarigo bello e singolar esempio di prudenza e di valore, amicissimo a Marcantonio, sempre con lui nel mantenere il filo della concordia tra gli alleati, e nel rincalzare il partito del combattere contro i nemici: ebbe animo grande, vita pura, aspetto nobile, e memoria onorata da tutta la posterità. Valga l’elogio che di lui fece l’istesso Marcantonio, scrivendo al Buonvicino: ed i lettori non disgradino sentire gli uomini grandi parlare da sè le cose loro.[207]
[227]
«Molto Magnifico Signore.
»Nostro Signore Iddio dà le gratie quando la sapienza umana resta da banda. Come hora, che per il tempo et altri impedimenti non si sperava tanto bene, si è chiarito che i Venetiani sono quelli d’altro tempo, e che i Turchi sono homini come l’altri: per non dir più, per nostro honore. E che io l’anno passato e questo ero ben ispirato, e non era illusione diabolica nè temerità la mia. Mi rallegro di questo fatto con Vostra Signoria come cristiano che siete zelante della vostra patria et mio caro amico: del resto non dirò altro. Basta che il combattere mi è parso riposo all’altri intrighi che il demonio, quasi presago di questo fatto, haveva messo davanti. Dolgomi bene, al paro del contento, della perdita fatta dalla Christianità tutta della gloriosa et honoratissima memoria del Barbarigo: homo singulare di ogni cosa, et che in un giorno valeva già quanto ogni altro soldato. Et certo la nostra repubblica di Venezia ha perso il braccio diritto; et io tanto, che non voglio qui dichiararlo. Felice lui, che così felicemente è uscito dalle miserie di questo mondo. Mai si vide homo a mio giudicio che valesse più di lui. Oh! gran perdita si è fatta. Et è tale che mi fa temere che il Signore non voglia che sia cavato tanto frutto da questa vittoria, come si poteva sperare hora et sempre; levandoci tanto bene et tanto homo: che io per me quando stavo con lui havevo tanto contento che ogni travaglio mi si appartava davanti. Et quel che peggio [228] mi sa, è che non li ho potuto dare un abbraccio dopo la battaglia per mia estrema consolattione. Et per non esservi molesto finirò.
»Di Petalà, li 9 di ottobre 1571.
»M. A. Colonna.»
Per contrario mi è forza ora favellare di Giannandrea Doria; perchè non devo e neanche posso lasciar di descrivere questa battaglia in ogni sua parte.
Giannandrea, messo dal consiglio di don Giovanni a governar l’ala diritta con cinquantatrè galere, si trovò rimpetto l’ala sinistra del nemico, numerosa di sessantacinque, guidate da Luccialì re d’Algeri, rinegato calabrese, per soprannome il Tignoso. Stavano l’uno rimpetto all’altro due uomini del paro deformi all’aspetto, del paro eccellenti nel mestiero del mare: ambedue prodi, ambedue scaltriti, vissuti sempre tra i remi e le vele, sempre sulle galere proprie al soldo di maggiori principi: ambedue giudicavano che non fosse da far giornata, nè da mettere a pericolo le cose loro. Il parere di Luccialì era giustificato da molte ragioni: l’armata turca era unanime, padrona del mare, stimata invincibile, e gloriosa per l’acquisto di Cipro, per le prede menate da Candia, dal Cerigo, dal Zante e dalla Cefalonia; e per l’espugnazione di Dulcigno, Soppotò, Antivari, Budua, e di tanti altri castelli nel golfo stesso di Venezia: non era stretta da niuna necessità a combattere, nè a mettere in dubbio quel che già possedeva: anzi temporeggiando guadagnava più che non combattendo; perchè se quella stagione, già vicina al suo termine, passata fosse senza alcun benefizio per la lega, non poteva andare molto che dall’istesso suo stento non tornasse a sciogliersi. Nondimeno, preferita dal consiglio dei bascià l’opinione contraria, Luccialì rispettò l’ordine del suo Generale, stette fermo al posto, non violò la disciplina militare, e raccolse il [229] frutto de’ suoi scaltrimenti: oppresse una parte dell’armata nostra, e salvò le reliquie della sua. Ma Giannandrea che per vieppiù forti ragioni avrebbe dovuto consentire alla generosa deliberazione dei collegati, e alla necessità del combattere, che allora o non mai più doveva stringerlo, rifiutò la pugna, spregiò le leggi della milizia, abbandonò il suo posto, e fu causa che molte galere nostre rimanessero sterminate, e che quaranta delle nemiche scampassero. Imperciocchè essendosi, come ho detto, al primo segno di battaglia tirato fuori, quasi fuggendo, tanto se ne andò per mezzo il mare, che invece di lasciare tra l’ultima galera della squadra azzurra e la prima della verde lo spazio di quaranta braccia, fecevi squarcio di quattro miglia: e tenendosi sempre lontano, quanto durò il combattimento, stette poltro a riguardare. Anzi, per non esser dai nemici riconosciuto, levò via dalla poppa il notissimo suo fanale: che era un mappamondo di cristallo, co’ coluri e lo zodiaco dorato. Pensava a Filippo.[208]
Nel qual tempo alcune delle galere romane, maltesi e veneziane, che si trovavano per grande sventura con lui all’estrema sinistra della squadra verde, e fuori dell’ordinanza, sospettando per tanti segni che colui non intendesse a combattere ma a fuggire, lo abbandonarono, per tornarsene laddove si combatteva:[209] e parecchie altre all’estrema diritta della squadra azzurra si distesero da quel lato, per dar loro la mano e coprire insieme quanto si poteva lo squarcio predetto. Furono nel numero [230] di queste galere la Fiorenza e il san Giovanni del Papa, la capitana di Malta, undici di Venezia, una di Savoia, e due di Sicilia.
Rimpetto alle quali, senza fare niun movimento, nè di assaltare nè di circuire, si tenne Luccialì risguardando, tanto che vide tutto l’andamento della battaglia.[210] Ma quando fu certo della totale disfatta de’ suoi sul centro e sulla diritta, come colui che stava in ponte, e senza oppositori per gettarsi da quella parte che meglio gli tornerebbe, pensò non esser da più indugiare in quel luogo. Il perchè avendo già fatto sue ragioni che il centro dei nostri e l’ala sinistra fossero bastantemente ancora travagliati a finire il combattimento, le riserve già incorporate nella battaglia, e il corno diritto con Giannandrea troppo lontano per tenergli il passo; e pensando che sulla strada gli verrebbe fatto pigliarsi a man salva quelle galere che il Doria aveva là in mezzo abbandonate, fece udire l’acuto sibilo del suo fischietto alle ciurme, e sull’atto dare dei remi in acqua, e arrancare dirittamente nel mezzo allo squarcio.[211] Nondimeno quelle poche galere che lo guardavano non si fuggirono; anzi gli si opposero animosamente: in guisa che il combattimento, allora allora [231] in ogni altra parte terminato, quivi si ripigliò. La capitana di Malta contro tre galere nemiche già quasi vinte combatteva, quando Luccialì, ferocissimo nemico di quel nome, con altre tre giunse a sottometterla: prese lo stendardo, e sgozzò sul ponte trentasei cavalieri e tutte le genti di capo.[212] La san Giovanni del Papa, governata dal cavalier Angelo Biffoli, e dal capitan Tullio da Velletri, sostenne il combattimento con molte galere nemiche, senza arrendersi mai: vi morì Tullio, e quasi tutti gli altri restarono morti o feriti; tra i quali Angelo con due archibugiate nella gola, di che finchè visse per molti anni portò come onorato segno le cicatrici.[213] La Fiorenza, egualmente del Papa, ove erano i due capitani Tommaso de’ Medici e Giammaria Puccini, aveva già nell’estrema diritta dell’ordinanza combattuto felicemente: ma poi investita a un tempo per ogni parte da quattro galere e tre galeotte, massacrate le sue genti, salvo il capitano e quattordici uomini, fu presa: e tanto malmenata che bisognò bruciarla.[214] Insomma aveva Luccialì oppresse dodici galere, morti più che mille cristiani, e avrebbe continuata la carnificina, se don Giovanni, Marcantonio, il Caetano, il Quirino, il Canale, e tutti i più generosi, lasciato il bottino delle galere già prima vinte, non si fossero mossi da lungi a quella parte per la riscossa. Allora [232] il Tignoso fischiò un’altra volta più forte il segno della ritirata: e non mirando più ad altro che a scampare, abbandonò le dodici galere poc’anzi predate, meno quella di Pietro Bua corfiotto; lasciò pur quivi delle sue venticinque galere e molte galeotte, che nello scontro erano state dai nostri, quantunque inferiori di numero, orrendamente guaste; e prese la fuga. Così Luccialì, menando per via la rovina al Cardona e a quanti cristiani si ardirono venirgli avanti, se ne andò con quaranta legni verso Costantinopoli. E così Giannandrea, traendo cannonate da lontano, comparve finalmente sul campo della battaglia, quando era finito il combattimento. Giunse però in tempo a ghermire dalle mani dei vincitori la sua parte del bottino.[215]
Io non mi fermerò troppo ai fianchi di Giannandrea; non a paragonare le parole e le opere sue dell’anno passato, con quelle del presente; e nè pure ad aggravarne i disordini. Lo lascio a suo talento rompere [233] l’ordinanza, abbandonare gli amici alla strage, e favorire la fuga dei nemici. Solo dico a chi ben discerne, che affissi nella maniera di lui il carattere occulto della lega: e, squarciando il velo della marinaresca bravura, in che si studiarono ricoprirlo i cortigiani di Filippo e i parziali suoi, faccia giudizio guardandolo a nudo, secondo l’evidenza dei fatti. Dappoi scorra a Madrid, e lo troverà cresciuto in assai più grazia della corte;[216] passi a Genova, e sentirà le sue scuse:[217] entri in senato a Venezia, e leggerà i processi:[218] giri il mondo, e non avrà chi lo lodi:[219] venga a Roma, e sentirà che i movimenti di quel suo corno diritto fecero a qualcuno saltar le corna in testa:[220] si accosti finalmente al Vaticano, e avrà dalla bocca istessa di san Pio, in dolce e pietoso tenore, quella aperta condanna de’ fatti suoi, che a me piace coll’istesse parole ripetere: «Iddio gliela perdoni al Doria.»[221]
[234]
Ciò non pertanto il re Filippo e i suoi cortigiani, sapendo cui Giannandrea serviva, e quanto lor bisognava coprir lui per non discoprire sè stessi, procacciarono con grande arte discolparlo. Dissero che quelle giravolte da lontano erano state marinaresche bravure delle più rare e squisite da trasecolarne; imposero silenzio ai contrarî, usarono minacce: e, come erano potenti e temuti, costrinsero le genti a far vista di contentarsene. Solo a san Pio non poterono mai darla ad intendere, nè egli volle mai tranghiottirsela: e vi fu chi, sentendosi turbata la coscienza, ne prese paura. Tanto che un di coloro, commendator maggiore di Castiglia, luogotenente generale di don Giovanni, commissario del re Filippo a Roma, e per lui governator di Milano, scrivendo all’istesso don Giovanni d’Austria alli quindici dicembre di quell’anno medesimo, ebbe a dire:[222] «Io ho procurato qui in Roma di difendere Giannandrea, per quanto è stato possibile: e finalmente sono arrivato al punto che niuno oramai più si ardisce venirmi a parlare di ciò che tocca la persona di lui. Se ne sono dette qui a suo carico delle grosse: e il Papa non c’è rimedio che voglia quietarsene. E siccome Sua Santità alcune volte procede con molta franchezza; così Giannandrea ha preso il partito di non venire per queste parti.» Io [235] penso che la generosa nazione Spagnuola, onorata di tante glorie, conosciuti tali disordini di Giannandrea e questi tranelli de’ cortigiani, non vorrà farsene mallevadrice, nè chiamarsene partecipe, nè giurar sulle parole dei bugiardi per dare una mentita a san Pio.[223]
XVI. — Dopo ciò resta chiarito, così per le generali, l’andamento delle squadre cristiane nella gran giornata di Lepanto: quando gli alleati, contro il voler dei regî consiglieri, costretti dalla necessità perchè assaliti dai Turchi, dopo cinque ore di combattimento dalla sesta a vespro, favoriti dal vento, dalle galeazze, dalle artiglierie e dalle riserve (che furono le quattro cagioni principali della vittoria) prostrarono per sempre la potenza navale degli Ottomani. Imperciocchè di tutto quel numeroso naviglio, che aveva corso in più partite tutte le marine del Mediterraneo, dall’Egitto alla Spagna, non tornò indietro a Costantinopoli altro più che venticinque galere e venti galeotte di Luccialì. Il resto rimase alle Curzolari: di legni grossi e piccoli centosette arsi o sommersi, centotrenta presi, quarantamila tra soldati e marinari uccisi, ottomila prigionieri, morti quasi tutti i capitani di conto, e liberati dalle catene diecimila cristiani. Al qual glorioso fine tutti, come ho detto, si adoperarono tanto animosamente e con dimostrazione di così gran valore, che non si finirebbe mai se si volessero ricordare ad una ad una tutte le prove ammirabili che ogni nazione, ogni squadra, e quasi ogni soldato in quel benedetto giorno dètte della sua virtù. Ciò non pertanto se a me non si conviene più [236] stendermi, nè ripetere ciò che i Veneziani e gli Spagnuoli da lontano tempo hanno detto delle cose loro, verrebbemi certo apposto a gran difetto se mi rimanessi dal contare in questo luogo, delle nostre almeno, i fatti più belli e gloriosi, di che mai prima non si è fatto quel conto che se ne doveva.
E innanzi tratto risguardando alla nostra Capitana ed a quella eletta schiera di prodi che vi erano di presidio o v’entrarono per soccorso, siccome Pompeo Colonna, il cavalier Romegasso, Orazio Orsini da Bomarzo, e Virginio Orsini da Vicovaro, Pirro Malvezzi, il conte Berardi, Michele Bonelli, Flaminio Zambeccari, Cesare Cavaniglia, Lelio dei Massimi, Gabrielli, Naro, Fabi, Frangipani, Accoramboni, Ridolfini, e tanti altri cavalieri di sangue e di valore provatissimi, io non so come degnamente lodare le tante e sì chiare prove di virtù militare, per le quali si resero degni di stare al paragone di qualsivoglia degli antichi trionfatori che nella loro patria salissero al Campidoglio. Temerei anzi di scemar la grandezza loro, se nessuna ricordanza ne lasciassi agli avvenire: e meritarmi biasimo di temerità se pensassi colle mie parole agguagliarne i meriti. La qual difficoltà molto più mi sgomenta quando ripenso a Marcantonio Colonna, il più grand’uomo del suo tempo, colonna saldissima del Cristianesimo, dell’Italia, e di Roma: dal cui senno e valore deve la posterità riconoscere la grande vittoria. Egli a stringer la lega, egli a conservarla, egli a trovare il danaro, egli a quietare le risse dei soldati, egli prima di ogni altro al convegno di Messina, egli ad assicurare la congiunzione dell’armata, egli a ritenere in fede i Veneziani, egli a vincere il partito della battaglia, egli a prevedere in chiari termini la vittoria, egli a mettere la ragione in capo agli Spagnoli, egli ad impedire [237] la guerra intestina, egli a condurre i discordi sul campo della battaglia, egli a sostenerli nella mischia: sempre esposto ai maggiori pericoli, non solo nel comandare e provvedere ai bisogni della sua galera, ma a quelli di don Giovanni e di tutta l’armata.[224] Il perchè non volle mai discostarsi dal fianco di Sua Altezza, nè per inseguir galere già vinte, nè per iscuotersi di dosso galere moleste, che lo stringevano per fianco e per poppa: ma sempre fermo alla sua posta ebbe animo di ributtare la galera di Pertaù, di opprimere quella dei figli d’Aly, di sottometterne un’altra, e finalmente insieme con la reale di Spagna di conquistare la nave almirante dei Turchi. Nella quale, a grande stento, morti già settanta de’ suoi, quasi tutti uomini di conto, oltre ai molti feriti; e fra essi Orazio e Virginio Orsini che poco di poi si morirono, e Fabio Graziani che gli cadde trafitto al [238] fianco, e poco lungi di là il conte Berardi parimente morto, e Troilo Savelli, e il cavalier Sangiorgio, e Michele Bonelli feriti, egli entrò al tempo stesso dalla mezzanía quando don Giovanni v’entrava per prua.
Nel qual lungo e sanguinoso conflitto, quantunque del continuo in mezzo a infiniti tiri di frecce, d’archibugi e di cannoni, come è da credere, più volte preso di mira, nondimeno intatto e senza una minima offesa, nella persona e nello stendardo, restò da Dio preservato; perchè la Cristianità avesse con tanta vittoria la compiuta allegrezza della conservazione del suo più forte ed onorato campione.[226] Di che fan fede non solo le testimonianze qui prodotte per mantenerlo in possesso di quella gloria che alcuni vorrebbero in parte almeno togliere a lui, e farla propria ad altri; ma anche la parola che egli, come onorato cavaliere, ne mandò modestamente al cardinal di Sermoneta; e che ancora si conserva di suo pugno scritta in questo tenore:[227] «Posso [239] con ragione arrogarmi, non solo per la fattura della lega, ma anche per la conservazione di essa, e per la opinione ferma di doversi combattere l’armata nemica, d’avere io superato infinite difficoltà ed esser venuto a questo memorabile effetto.... Dalla mia Capitana si è fatto quanto più non si poteva: poichè oltre all’aver sostenuto il maggior impeto dell’armata nemica che seguiva la loro generalizia (combattuta da don Giovanni e da me, e giuntamente conquistata) venne ad investirmi un’altra buona galea di fanale, con una galeotta di fianco, ed una galea da poppa, che mi ammazzò alcuni appresso, senza esser tocco nè io nè lo stendardo di Sua Santità. Cosa invero miracolosa.»
La Padrona comandata dal signore Alfonso d’Appiano, sulla quale era Gianpaolo Berardetti di Spoleto, capitano di chiara fama ai suoi tempi,[228] quantunque non gl’incontrasse combattere nella prima fila, pure tanto opportunatamente si mosse con le riserve, e venne in mezzo alla battaglia, che riparando ai danni ed alla stanchezza di chi aveva sino allora combattuto, riscotendo dai nemici la persona e la galera d’Ascanio della Corgnia, e fulminando la capitana del Turco, si meritò nella pubblica opinione lode grandissima per la parte che ebbe all’esito felice della pugna.[229]
[240]
La Soprana e la Serena, che avevano per capitani Antonio d’Ascoli ed Ettore Caraffa, e per duci delle fanterie Ippolito Tebaldini e Pirro Malvezzi, entrarono anch’esse con la squadra del soccorso nel combattimento; e poi si volsero insieme ad afferrar galere di Turchi che nel trambusto cercavano la fuga.[230]
Il cavaliere Olgiati e il capitano Zambeccari, come stettero sempre con la Reina appresso alla Capitana, così parteciparono di tutte le fatiche e onori di quella. Fabio Gallerati, e Giannantonio Gigli, nell’ala sinistra coll’Elbigina, dopo molte prove di squisito valore, si affrontarono con la capitana di Rodi, galea di fanale, e la sottomisero: facendovi ricco guadagno, per esser quivi gran parte del danaro dell’armata nemica.[231]
Diè saggio di sè al paro d’ogni altro la Grifona del Papa, ove erano Onorato Caetani generale delle fanterie, Alessandro Negroni, e il cavalier Sereno; ai quali toccò in sorte punire Caracossa, ed Aly, principi di corsari, e crudelissimi nemici del nome cristiano. Costoro avevano già nella mischia battuta la galea del capitan Benedetti di Corfù, e ributtata quella del capitan Buzzaccarino di Padova; quando a un tempo investivano la Grifona, l’uno per prua, e l’altro per fianco. Onorato sostenne con parte de’ suoi l’assalto del primo sulle rambate, sino a che non sottomise all’abbordo la galeotta d’Aly. Ma quando, morto il corsaro, quella fu doma; allora con maggior impeto sdrucì nell’altra. E senza che mai turco [241] alcuno non potesse metter piè nella Grifona, tanto quivi combattè, che ucciso Caracossa da una archibugiata di Giambatista Cortesi, e caduti tutti gli altri, da sei in fuori, la galera fu presa. Non ignoro che il Dionigi vorrebbe togliere questa gloria alla Grifona del Papa, e darla ai Padovani; producendo a favor loro il giuramento d’un tale Olzignano che, ferito in faccia di freccia e rotta la coscia di mitraglia, poteva ben in quel giorno giurare de’ suoi dolori e sfinimenti, non già delle conquiste e dei fatti altrui. Non dissimulo come il Doglioni vorrebbe che il Benedetti, ucciso in singolar certame e uccisor di Caracossa, facilitasse almeno al Caetano la vittoria.[232] Anzi ne deduco quanto ciascuno si studiasse per onore suo di esser tenuto il vincitore di codesto pirata, e come ambedue gli autori citati confermino almeno in parte quel che ne dicono del tutto in favor della Grifona le molte testimonianze che qui produco.[233]
[242]
Il Caetano ebbe due colpi di fuoco e tre saette, senza alcuna ferita, per essere ricoperto da capo a piè di maglia e di piastra a botta di archibugio: altri nondimeno vi lasciarono la vita, e molti toccarono onorate ferite, come il predetto Cortesi, Adriano de Virgili e Paolo Durante, tutti gentiluomini romani. La Grifona menava seco rimburchiate a rovescio le due prede, quando all’improvviso si udirono sulla diritta le artiglierie di Luccialì, che malmenava le poche galere abbandonate da quella parte. Allora Onorato, tronchi con la scure i rimburchi, e lasciata ogni cosa in preda a certe galere che venivano appresso,[234] volse di tutta lena a soccorrerle. Ed essendo stato dei primi a far impeto sopra il Tignoso, ricuperò prima la Fiorenza e poi la Piemontesa; che passate a fil di spada, mostravano il ponte pieno di soldati cristiani condotti a morire sotto al ferro ottomano dalla marinaresca bravura di Giannandrea.[235] Onorato restituì l’una al conte di Leiny, generale del duca di Savoia, che indarno ivi ricercò il prode capitano Ottaviano, indarno il signor Chiaberto di Scalenghe dei signori di Piossasco, e Cesare Provana dei signori di Leiny, e il cavaliere di Sanvitale, e tutti gli altri ufficiali di quella: trovò soltanto vivo don Francesco di Savoia; ma così concio in sul capo, che da lì a poco morissi. L’altra poi, che era tutta ancora macchiata del sangue dei nostri, se la menò sempre seco fino a Santamaura: ove, vedutala non più alta a navigare, per ordine di Marcantonio bruciolla. Il fuoco la purgò dalla [243] macchia di contaminazione ricevuta nel contatto dei nemici. Le due galere di Caracossa e d’Aly, saccheggiate dai Napoletani e più altri, per sentenza di don Giovanni, furono restituite alla Grifona; che non ne cavò utile alcuno, eccetto la fatica di rimburchiarsele in trionfo sino a Messina.[236]
Le altre galere della squadra papale vinsero ciascuna la sua nemica: e tra le conquiste degne di memoria devo specialmente ricordare quella che fece Ruggero degli Oddi da Perugia. Il quale, dopo aver combattuta e presa una grossa galera, riconobbe agli stemmi, alle pitture, e a molti segni essere quella stessa capitana del Papa che dodici anni prima avevano i Turchi presa nella sanguinosa giornata delle Gerbe. Ancora poderosa e forte, come tutte le romane costruzioni, serviva di capitana ai nemici. Il sangue dell’Orsino fu dal valore del Colonnese e de’ suoi in quell’istesso giorno vendicato.[237] Ecco la prova di questi fatti nella lettera originale di Marcantonio al Papa, scritta l’istesso giorno della battaglia.[238]
«Smo e Bmo Padre.
»È piacciuto alla bontà e gran misericordia di Dio esaudire le calde et sante orationi della Santità Vostra, perchè hoggi 7 de ottobre, festa del Signore, Sua Divina Maestà ne ha voluto dare vittoria nell’essaltazione della sua vera Fede.
»Il Serenissimo signor don Giovanni, così figlio del suo cristiano e valoroso padre, è stato sempre fermo in [244] questo santo proposito: et così essendo certi che l’inimico era in Lepanto ci incamminammo a quella volta, et all’uscir del sole si scoperse l’armata turca che vistasi forte et fortunata se ne veniva ad incontrarci. La nostra armata col gran valore et somma prudenza del signor don Giovanni si mise all’ordine, mettendo avanti le sei galeazze, et così ne riscontrammo verso le ore 18: e per cinque hore continue se combattè: al fin si ottenne la desiderata vittoria. Et alcuni vasselli inimici et per Levante et per Ponente si misero in fuga; che credo che di 220 che erano non se ne sien salvati 40. I quali meglio credo che fuggiranno la faccia del suo Padrone, più che non hanno fatto la nostra. Pensano seguitar la vittoria tanto quanto la stagione et la commodità che si havrà lo comporti.
»Tutte le galere della Santità Vostra hanno fatto il debito: il signor Honorato nella sua, il signor Alfonso luogotenente di Sua Altezza, et così quella dove era monsignor Commissario. Quanto alla Capitana il signor Michele, il duca di Mondragone, il signor Pompeo Colonna, signor Romegasso, et tutti; talmente chè non si potria dir meglio, et si farà la lista delli feriti et morti, et così della battaglia più distintamente.
»Il cavalier Sangiorgio è stato ferito, et così il signor Horatio Orsino et il fratello di monsignor Camaiano, il signor Pirro Malvezzi, il marchese Malaspina et tutti in somma, chè io non vorrei far torto a nullo. Io et lo stendardo di Vostra Santità stemmo in tal modo illesi, che parse cosa di miracolo. Il signor Michele fu un poco ferito, ma certo lo ha fatto tanto bene che più non si potria desiderare. Mando il signor Romegasso membro principale di questa vittoria, a darne conto alla Santità Vostra più particolare; et lascerò di fare altro ragguaglio, come havevo detto di sopra. Al signor Pompeo, [245] che verrà a congratularsene, spinto dal desiderio di baciar li piedi alla Santità Vostra e dall’amore che a me porta Vostra Santità, non li creda altro se non quello che io le dirò: che io mi sono soddisfatto in tutto di quanto devo all’obbligo che ho e che devo alla salda confidenza che la Santità Vostra ha tenuto di me. E così prego Iddio che mi abbia da trovare a molte vittorie cristiane della Santità Vostra, alla quale bacio li suoi pii piedi, pregandole lunga vita.
»Da Petalà, li 7 ottobre 1571.
»M. A. Colonna.»
«Li padri Cappuccini si sono portati mirabilmente. Il cardinal Rusticucci dirà a Vostra Santità una gratia che io desidero per il signor Romegasso: la supplico a non mancarmi, per quanto ha cara la mia servitù. Le dodici galere di Vostra Santità hanno pigliato dieci galere turche, et la sua Capitana, oltre una che ne prese, fu unita all’acquisto della generale inimica. Si è ricuperata la capitana del Papa persa alle Gerbe.»
In tutte le quali fazioni i soldati romani tal opera vi fecero che ben si parve il carattere antico impresso sul corpo di questa milizia: cioè di combattere per onore non per mestiero, per debito non per guadagno. Imperciocchè tra tanta ricchezza di arredi, di vestimenta, e di danari, quanta n’era sull’armata nemica, non si udì tra loro nè richiamo nè ruberia. Tornarono alle loro case più poveri che non ne fossero partiti, e lasciarono a chi ne volle gli utili; mirando soltanto a vincere i nemici, ed a soccorrere gli oppressi.
Altri soldati e marinari fecero bottino così grande d’ogni cosa ed ebbero alle mani tant’oro, che sdegnavano di più toccar l’argento, e di ricevere il resto nello spendere.[239] [246] Al contrario Marcantonio, per onore di don Giovanni e per quiete degli altri, vietò ai Papalini il sacco della reale del Turco; e tutti gli schiavi rassegnò, come se non fossero suoi. Il Caetano, per riscuotere dalle mani di Luccialì la Fiorenza e la Piemontesa, abbandonò il ricco bottino di Caracossa e d’Aly. E la nobiltà di questi ed altri esempi era talmente dai capitani trasfusa negli animi dei più minuti soldati e famigli, che essi pure in fatto di guadagneria tanto si mostravano di parole e di tratto delicati, quanto si potrebbe aspettare da’ cavalieri. Ecco come scriveva, in rozze frasi e nobil sentenza, allo zio del suo padrone un servitore di Onorato Gaetani, imbarcato sulla Grifona:[240]
»All’illustrissimo e reverendissimo padrone mio osservandissimo il cardinale di Sermoneta. — Hora con l’ajuto de Dio semo arivati a questa santa giornata, e a gastigar questi cani: che n’avemo fatto un fragello tale, che non averanno mai più animo nè così granne ardire, come avevano. E avemo havuto tre galere addosso alla nostra galera, e semo stati li primi a investire. E havemo avuto Caracozza che dicono che è principale corsaro: e con l’ajuto de Dio, il Signore (Onorato) s’è portato valorosissimamente, e non ha havuto mal nessuno. Sta benissimo con tutti quanti noi altri. Il capitan Tullio è morto. Si sono fatti grannissimi buttini: ma noi, che havemo atteso a commattere, non havemo buscato [247] nulla: ma havemo assai aver la sanità. Ora che havemo cominciato a incarnarci, faremo qualche altra cosa bona. Non le dirò altro, se non che stamo benissimo tutti, e allegramente: in questo le bacio la mano. Dal Porto di Santa Maura adì 8 di ottobre, di Vostra Signoria illustrissima humilissimo Servitore, Vitale Casolo.»
Ora la qualità del mio argomento stringemi a toccare alcune cose dei prelati e dei cappellani, che Marcantonio condusse all’armata. Dirò per ordine: e prima di monsignor Paolo Odescalchi, uditore della Camera, visitator generale dello Stato, nunzio già alla corte di Spagna sotto Pio IV, eletto da Pio V per vescovo di Penne, e nuncio apostolico sull’armata della lega: quivi egli si mostrò destro e zelante, sostenne il partito del combattere, non solo nel consiglio di guerra e nei discorsi privati, ma anche dal pergamo della chiesa cattedrale di Messina, alla presenza di quasi tutti i soldati e marinari, che lo udirono.[241] Monsignor Domenico Grimaldi, commissario della squadra papale, dopo aver soddisfatto all’ufficio suo con molta lode, volle nella grande giornata farsi conoscere dai soldati non meno nell’economia esperto che nell’armi. Sovrapposta alla toga la corazza, con un grande spadone si cacciò nella mischia, e menò le mani fino a che non fu dichiarata la vittoria. Dopo la quale veduti nella sua galera due soldati a contendersi l’onore d’aver fatto un prigioniero, egli con tanta prestezza entrò di mezzo a dividergli, che avendo appena preso quel turco, là presso alla scaletta di poppa, e fatto prova di levarnelo, sfuggirongli i piedi; e cadde in un tratto giù nel profondo del mare. Senza alcun dubbio si sarebbe affogato coll’elmo e corsaletto che aveva in [248] dosso, se per sua fortuna cadendo non avesse tirato seco quel turco. Il quale stretto da lui sott’acqua, per non morire insieme, dovette dar mano a salvarlo: esperto nuotatore si acconciò sotto al ventre del Prelato, e tanto sbracciò di nuoto sostenendolo e traendolo fuori, che i marinari della galera poterono ricoverarli a bordo ambedue.[242]
Anche i cappuccini, che il Papa aveva messi nelle sue galere, perchè i soldati e i marinari n’avessero esempio di pietà e soccorso di religione, non solo ministrarono i sacramenti e fecero cuore ai guerrieri; ma nel fervor della mischia, esposti a ogni pericolo, stettero intrepidi all’assistenza dei feriti, al conforto dei morienti, ed alla prova di quella sublime carità che le storie, le leggende, e per fino i racconti dei romanzieri tanto hanno nell’ordine loro commendata.[243] Un frate Marco di Viterbo, colpito da più moschettate che gli trapassarono la tonaca, restò illeso:[244] un altro ferito di freccia nella gamba, dopo alquanto tempo morissi:[245] qualcuno sin dal principio della battaglia salì al calcese in cima all’albero, e quivi stette, affinchè i soldati [249] meglio ne udissero l’esortazioni: qualch’altro di qua teneva mente all’ufficio suo, e di là guatava attorno se pur venisse il caso della necessità, che gli facesse lecito di pigliar l’armi, e satisfare al pizzicore di dare, come gli altri davano, addosso ai Turchi. Il qual caso come parve al padre Anselmo da Pietramelara che fosse venuto, perchè dopo molta uccisione di Cristiani la galera sua era piena di nemici, così afferrò con ambe le mani un roncone: e invece d’elmo crinito e di corazza lucente, camuffato di aguzzo cappuccio e di bigio saione, non altro mostrando che il ferro acuto e l’ispida barba, con sì fiero piglio e di tanto furore avventossi contro i nemici, e così grande spavento mise nelle anime loro al solo mostrarsi, che dopo aver co’ suoi manrovesci straziato sette turchi, cacciò tutti gli altri in fuga, o spinseli a gettarsi nel mare; senza che nessuno s’ardisse affrontarsi con lui. L’annalista Boverio ne fa sapere che frate Anselmo raccontando il suo fatto in Roma al Papa, il fece sorridere.
Nel tempo però che queste cose succedevano, il santo Pontefice con molte orazioni chiamava l’assistenza di Dio sopra ai suoi figli, e le celesti benedizioni sopra l’armi cristiane. A tutte le pie persone, e più agli ecclesiastici, faceva dire che orassero cori fiducia, e ne vedrebbero gli effetti. L’Altissimo il volle non solo esaudito, ma lieto con la notizia anticipata della vittoria. Imperciocchè stando quel giorno sette di ottobre nelle ore pomeridiane con monsignor Bartolommeo Bussotto tesoriero, col cardinal Cesis, e più altri famigliari, improvvisamente appartatosi da loro cogli occhi levati al cielo, pieno di giubilo, e mostrando sui tratti dello scarno sembiante l’impressione del superno lume, rivolto al Tesoriero, gli disse: Andate, monsignore, non è tempo di altri affari: ringraziatene Iddio che l’armata [250] nostra, affrontatasi con la nemica, ha guadagnato la vittoria.[246]
XVII. — In quella i nostri generali, da vincitori spaziavano sul mare, ovunque s’era combattuto. Dopo avere rimessa ogni cosa in punto, e dato ordine che niente restasse di che il nemico si potesse giovare, conducevano le dugento galere cristiane, e le turchesche pressochè di egual numero conquistate, al porto o meglio direi alla sicura baja di Platèa, che oggi dicono Petalà, in terraferma dell’Epiro, presso la foce del fiume Achelòo, sei miglia dal luogo della battaglia. Colà prima di tutto pubblicamente furono rese le dovute grazie a Dio per il gran beneficio che in quel memorabil giorno si era ricevuto: e poi non altro si fece, per tutta quasi la notte, che visite e congratulazioni; concorrendo tutti, generali, colonnelli, capitani e venturieri sulla galera di don Giovanni. Il quale con affetto di cuore incomparabile li abbracciava, e pur li ringraziava delle valorose prove onde l’avevano sostenuto. Quando venne a rallegrarsi insieme con gli altri il vecchio Sebastiano, generale di Venezia, prima che Marcantonio potesse profferir parola per indurre don Giovanni a condonargli in quel giorno ogni passato disgusto, già il regio giovane correndo con allegrissimo viso avevaselo stretto tra le braccia. Nel quale amplesso, invitato anche Marcantonio a fraternamente rallegrarsi con loro, tutti tre insieme i tre generali della lega, alla presenza dell’armata, si baciarono in fronte. Il viril romano, il giovanetto spagnuolo, e il vecchio veneziano espressero con quel bacio la letizia di tutte l’età.
[251]
Il vento, che nel giorno due volte era saltato da levante a ponente, si girò per maestro: e coll’avanzar della notte tanto crebbe, e portò sì gran pioggia, in mezzo a tuoni e lampi e gonfiezza di mare, che se avvenuti non si fossero in quel porto così vicino e capace per tante navi quant’erano le vinte e le vincitrici, sarebbero andate tutte perdute.
[8 ottobre 1571.]
La mattina seguente però, riandando l’accaduto, stava ogni uomo attonito e stupefatto, come se avesse sognato. Imperciocchè richiamando da una parte alla mente le difficoltà della lega, la tarda unione, lo stento della partenza, il successo delle Gomenizze, la contrarietà dei consiglieri, la ritirala di Giannandrea, e la inestimabile opinione che si era fatta prevalere della potenza del Turco; e dall’altra riguardando tante navi cattivate, tanti schiavi alla catena, tante armi, tanti arredi, tante ricchezze; non pareva possibile che alle loro mani così d’un tratto fossero tutte venute.
Ma più d’ogni altra cosa li riempiva di maraviglia il gran numero di cadaveri che il mare, sazio della ingorda sua preda, aveva gonfiati, e messo al sommo; e il vento talmente spinti ed ammassati alla spiaggia, che quanto giungesse la vista non altro scoprir si poteva che ignude teste di turchi. Là erano gli sforzati e i marinari, e continuamente pescando cavavano danari, vestimenta, arredi e molte altre cose che a galla ad ogni muover di onde apparivano, tra mezzo alla densa caterva dei morti. Nel qual tempo volle don Giovanni tornare con Marcantonio, e Giannandrea, e poche altre galere a rivedere il campo; che ben si poteva discernere al fosco colore che l’acqua ancor manteneva nel luogo del [252] tremendo conflitto. Non altro ritrovarono che rottami e cadaveri trabalzati sull’onde; e due galere turche abbandonate, l’una già quasi tutta consunta dal fuoco; e l’altra talmente nelle secche incagliata che Marcantonio, quantunque con la sua galera gli desse tre strappate, non potè cavarnela. Laonde, tolta l’artiglieria, e lasciatala saccheggiare alle ciurme, fece tutto il resto bruciare. Tornati poi al porto, diè don Giovanni il segno della partenza a tutta l’armata; e con quella si ridusse l’istesso giorno a Santamaura, ove radunato il consiglio prese a ragionare di quel che dovesse farsi. E quantunque alcuni con alla testa Marcantonio,[247] richiedessero istantemente di seguir la vittoria, di scorrere sino a Costantinopoli, o almeno riscuotere dai Turchi la Grecia; tuttavia tante difficoltà si opposero al generoso divisamento, che non restò altro partito se non di tornare addietro. Imperciocchè da una parte non si poteva negare che l’armata non fosse piena di ferite e di squassi:[248] scarsa di vettovaglie e di munizioni, dopo quel che se n’era fatto: e dall’altra i consiglieri regî pensavano che i disegni della loro corte dovrebbero certamente [253] variare dopo la gran vittoria. Rinascevano le gelosie, e le doppiezze; le trenta navi cariche di vittovaglia sotto gli ordini di don Carlo Davalos non erano più state vedute; don Giovanni chiaramente protestava aver ordine espresso dal Re di svernare in Sicilia;[249] e Giannandrea, invece di vergogna e di biasimo, toccava più che mai onori e riverenze dagli Spagnuoli. L’istesso don Giovanni gli era sempre intorno; e sulla galera di lui banchettava gli amici, esclusi i Veneziani.[250] Qual maraviglia [254] che fosse allora deliberato il ritorno; e che, chiamandosi contenti di quello che si era fatto, rimettessero il resto all’anno futuro?
Prima però di separarsi vollero in quel luogo rassegnare tutto ciò che si era guadagnato nella battaglia; e dividere la preda, secondo i capitoli e le consuetudini della milizia. Alla qual rassegna e partizione don Giovanni diputò Marcantonio, insieme con monsignor Grimaldi commissario del Papa, don Francesco d’Ivarra commissario del Re, ed il riveditore veneziano; affinchè di comune consenso facessero buona giustizia a ciascuno.[251]
Messe adunque da parte le galere e le galeotte fracassate e inutili per bruciarle, si trovò esservi di legni venuti in mano degli alleati, galere centodiciassette e galeotte tredici; in tutto centotrenta bastimenti buoni a navigare: cannoni grossi centosedici, petrieri diciotto, cannoni piccoli o sagri da sei libbre e più di palla dugencinquantadue: turchi prigionieri, più volte rassegnati di mano in mano che dai commissari venivano scoperti, ancorchè nascosti da molti per fin di guadagno o di pompa, settemila duecento e venti: e si diceva che ne fossero occultati altrettanti.[252] Intorno alle quali cifre, dato [255] pur che in diverse scritture si trovino notevoli differenze, tuttavia si può ben discernere la verità da chi voglia, come ho fatt’io, raccoglierle diligentemente, e confrontarle: partendo da principii certi, cioè dal primitivo numero dell’armata nemica; e poi scevrando i legni grossi dai piccoli; ed i presi dagli sfuggiti e dagli arsi. Le quali cose alcuni confondono tutte insieme, e quindi trapassano co’ numeri; altri le escludono, e per questo non giungono al giusto novero. Finalmente sommando le parti, che per certe testimonianze si sa esserne a ciascuno venute, si può ritornare al totale; ed aggiungere alle ragioni la prova.[253]
[256]
Fatto il novero si venne al partire: prima la Cristianità n’ebbe di sua parte diecimila uomini, quasi tutti italiani, in quel giorno francati dalla schiavitù dei Turchi: poi, secondo il capitolo vigesimoprimo della lega, ciascuno tolse le sue seste parti, proporzionate alle spese; e finalmente don Giovanni, siccome capitan generale, toccò la decima dei sei sesti: ma essendo nate alcune difficoltà sul conto delle artiglierie, si aspettò per questo la decisione del Pontefice.
A Marcantonio furono immediatamente dati diciannove cannoni grossi, tre petrieri, quarantadue sagri, mille duecento prigionieri, e galere tra grandi e piccole ventuna: delle quali, avendone il Papa donate otto al granduca di Toscana, ne restarono tredici. Al modo stesso tanto don Giovanni quanto i Veneziani ne donarono sopra le loro porzioni ai cavalieri di Malta, a quelli di Savoia, ai principi di Urbino e di Parma, ed agli altri principali venturieri, secondo il merito di ciascuno; affinchè ragguagliatamente all’opera posta ne avessero il premio.
[10 ottobre 1571]
Intanto che alla rada di Santamaura queste cose si facevano, aveva don Giovanni mandato a riconoscere la fortezza dell’isola. Le galere di Giannandrea menarono Ascanio della Corgnia, Grabrio Serbelloni. Prospero Colonna, Lelio de’ Massimi, ed alcuni altri sperti cavalieri: i quali dopo essersi aggirati in più parti, tornarono dicendo, che la impresa vorrebbe riuscire troppo difficile; massime bisognandovi l’artiglieria grossa, e di molte fascinate attraverso alle paludi; e che il presidio, essendosi già quivi ingrossato e messo in punto alla difesa, la sarebbe opera [257] non meno di quindici giorni.[254] 148 Però don Giovanni pose da parte anche questo pensiero: e intanto, con molto pressanti inviti a quei signori di tornar per tempo nella prossima primavera, rivolse l’animo e la prora verso l’Italia. A ciascuno altresì diè licenza, come meglio gli mettesse, di partirsi.
[23 ottobre 1571.]
Sciolsero i canapi alli ventitrè di ottobre; e chi prima chi dopo, senza timore di nemici, presero terra a Corfù. Colà in capo a un mese fu riveduto il Davalos,[255] che a malgrado dei Veneziani, posto per generale delle trenta navi, aveva con quelle talmente navigato da non incontrarsi mai più nell’armata se non al ritorno.[256] In quel porto si fermò Sebastiano, rivolgendo nella mente diverse fazioni che imprese poi a suo conto nell’inverno. E don Giovanni con Marcantonio licenziatisi da lui, che fu visto in quel punto piangere di tenerezza, tra le acclamazioni e gli onori dei Corfiotti, ripresero il mare verso Messina. Nel quale viaggio, essendo i tempi già rotti a pioggia e a fortunali, dovettero beccheggiare coi soli trinchetti: e spesso anche investire nei rimburchi; che, per la loro leggerezza trabalzati dalle onde, davano fieramente di sperone nelle poppe delle galere che li traevano.
[258]
[1 novembre 1571.]
Tuttavia presso a Messina, come se il cielo coi vincitori e coi Siciliani rallegrar si volesse, dissipate le nubi dal soffio del vento maestro, e fattasi l’aria tutta serena, entrarono a gran festa nel porto. Sulla riva del quale l’arcivescovo col suo clero e tutti i Messinesi, non statovi alcuno nè uomo nè donna nè fanciullo che il solenne e glorioso ingresso vedere ed esaltar non volesse, cantando salmodie e agitando ramoscelli di ulivo, incontrarono don Giovanni, Marcantonio e gli altri campioni dal cui senno e valore si stimavano per sempre dalla invasione e dalle perpetue molestie del Turco liberati.
[13 novembre 1571.]
XVIII. — Io non dirò gli onori che ebbe Marcantonio da don Giovanni e da tutti gli ordini della città di Messina, nè le accoglienze anche maggiori del popolo napoletano, quando alli tredici di novembre giunse nel porto di quella capitale con la sua squadra vittoriosa; perchè n’avrò molto a poter descrivere l’ingresso trionfale in Roma. Già quivi erano Pompeo Colonna, Pirro Malvezzi, e il tanto celebre cavalier Romegasso, messaggeri al Pontefice per contargli il successo della vittoria, da parte di Marcantonio.[257]
Ma parendo a lui di dover molte cose aggiungere a voce, e trovandosi in Napoli così vicino, prese le poste e [259] sollecitamente si mosse verso Roma. Nel qual tempo rallegrandosi fuormisura la città e la corte, con tante feste nelle chiese, luminarie nelle piazze, limosine ai poverelli, doti alle fanciulle, liberazione di carcerati, suffragi ai defunti, suoni, spari, e gazzarre, quante niuno prima per qualunque novella di maggior contento non aveva vedute; venne a tutti in mente che a render compiuta la dimostrazione della pubblica esultanza si convenisse ricevere Marcantonio, come principale cagione di tanto bene, trionfalmente nella sua patria. Di che mandarono ambasciadori ad incontrarlo e ritenerlo nella sua terra di Marino, dieci miglia da Roma, tanto che egli quivi si riposasse in mezzo alla sua famiglia, e il popolo romano si apparecchiasse al suo trionfo.
[18 novembre 1571.]
Uscito però il prudentissimo uomo di Napoli, e rimasta la squadra in balía di altri ufficiali, subitamente nacquero tali disordini che condussero all’estrema miseria le vittoriose fanterie pontificie. Io non scrivo elogi, ma storia: quindi non posso, nè devo tacere i rei fatti di niuno, ancorchè nostrano e potente, a pubblico danno. Anzi per guidare chi legge consideratamente dagli esempii del tempo passato al buon governo del futuro, dopo aver mostrato la premura grandissima del Pontefice verso quel suo armamento, bisogna pur che ricordi l’oltraggio fattogli: così che ciascun comprenda come i ministri talora vadano contro i buoni intendimenti anche dei principi più virtuosi; ed in qual modo il zelo disordinato di certi officiali e la trista speculazione di alcuni taccagni sovrastanti alla pecunia pubblica procaccino non già l’economia ma la rovina dell’erario, la vergogna dello stato, il biasimo degli estranei, [260] l’ingiuria dei sudditi, e l’ingratitudine verso i benemeriti. Era costume generalmente osservato in Europa per quei tempi far la levata così dei soldati come dei marinari e dei remieri, quando se ne aveva bisogno, per qualunque fazione; e quella finita, licenziarli. Nè praticandosi allora coscrivere la gioventù alla sorte dei numeri, secondo l’uso moderno, nè ingaggiarla con premii per certo tempo, restava a libito dei sudditi il militare, e dei principi il togliersi quando che fosse il peso di tenerli. Quindi sciolto l’assembramento delle armi alleate a Messina, e venuta la tregua consueta del verno, potevano bene i ministri del Papa congedare quanti remieri, marinari e soldati avessero voluto: ma entrarono in questo negozio con tanta precipitazione, e in così piccolo conto tennero gli altrui meriti a volersi troppo valere del proprio diritto, che toccarono il segno dell’ingiuria, e produssero tutte quelle infelici conseguenze che io non credo potersi altrimenti descrivere se non ripetendo le stesse parole di Bartolomeo Sereno, cavaliere romano, ufficiale delle fanterie papali a Lepanto, e gravissimo istorico di quell’età, il quale ne parlò in questa sentenza:[258] «Non mancò in Messina chi proponesse, per alleggerire al Papa la spesa, che ai soldati delle sue galere si saldassero i conti; e si sbandassero. Ma per non v’essere il Commissario, a cui toccava la cura (il quale avendo inteso la morte di Giorgio Grimaldi suo fratello a Genova per provvedere alle cose sue era andato) ebbero pure i soldati quel poco di comodo d’esser fino a Napoli ricondotti. Dove, ritornato che fu il detto Commissario, tanto minutamente fu fatto loro il conto, che, come se mai fazione alcuna avessero fatto, [261] non procurando per loro chi ne doveva aver cura, fu lor fatto pagare sino alle proprie munizioni, che col sangue loro dai nemici combattendo s’avevano guadagnate. Di modo che non essendo lor donata la paga (che col nome di donativo molto debitamente dopo le generali fazioni si deve) e ritrovandosi la maggior parte di essi senza danari, licenziati che furono, non bastò loro vender le armi per vivere, ma nel ritornare alle case loro scalzi e spogliati d’andar miseramente mendicando furono costretti. Aggiungendosi alla loro miseria ancora, che essendo in Napoli e in Roma prima di essi comparsi quelli che più avevano procacciato il guadagno che combattuto, ed avendo di molto oro fatto mostra pomposa, furon cagione che quando essi meschini, che da buoni soldati onoratamente avevan fatto il debito loro, così maltrattati vi giunsero, credendosi ognuno che solo i vigliacchi e da poco guadagnar non avesser saputo, non solo non trovarono chi li aiutasse, ma furono il più comunemente scherniti. Questi furono i primi trofei che in Roma si videro della ricca vittoria! questo fu il guiderdone di chi col sangue e col valore l’avevano partorita!»
Io qui lascio Bartolomeo a proseguir la lunga intemerata e le molte rampogne contro i colpevoli, che più d’uno e grandi esser dovevano; quantunque egli non nomini alcuno. Consento però pienamente con lui, che le nostre milizie avevano fatto onoratamente il debito loro mirando più all’onore che all’interesse; perchè ciò torna sempre non solo dai fatti di questa battaglia, ma da tanti altri fatti precedenti e seguenti che connaturati perpetuamente alla romana milizia ed alle sue tradizioni ne rappresentano, per così dire, a primo aspetto le veraci fattezze del suo volto. E perchè appunto bene e onoratamente servirono, ebbero a sostener la soprassoma della miseria e degli scherni, di che alcuni beffardi avrebber voluto [262] anche in altri tempi rimeritarle. Siffatti disordini non si vogliono tacere, e nè meno scusare; affinchè non si riproducano a discapito non solo della milizia, ma anche di ogni altra maniera d’uomini per qualsivoglia ragione benemeriti.
[25 novembre 1571.]
Alleggerita pertanto dalle fanterie, venne la squadra nel porto di Civitavecchia a sbarcare quelle genti che ancor le rimanevano: e poco dopo furono pur nella darsena condotte alcune delle galere prese a Lepanto, e le artiglierie conquistate, ed i mille dugento prigionieri. Sopra di che i Caetani, gli Orsini e più altri s’adoperavano per averne parte. Ogn’uomo, che aveva nella gran battaglia con qualche carico combattuto, contendeva di ottenere in premio schiavi, cannoni e galere; e di armarle a spese sue, e di entrar poscia venturiero con la propria squadretta nell’armata.[259] Io non saprei dire ciò che essi ne conseguissero: ma ho argomento certo a provare che il Papa istesso del suo ne armò tre per Michele Bonelli, il quale in tenera età aveva di sè molto fatti contenti il Papa, e don Giovanni, e Marcantonio.[260] Il perchè soprattenne un mese in Civitavecchia monsignor Grimaldi ed il cavalier Romegasso a dirigere il racconcio di quelle, e a mettere le opere nuove, la piattaforma per cinque pezzi in vece di tre, le pavesate attorno ai filaretti ed alle battagliole, e le rambate sulla batteria, di che andavano [263] sfornite le galere dei Turchi.[261] Così il santo Pontefice dava mano a rilevare la nostra marineria, che disfatta già dagli Ottomani nell’infelice giornata delle Gerbe, ora coll’istesso naviglio, cannoni e ciurme di turchi si rifaceva dopo la vittoria di Lepanto; e non guari dopo giungeva a compimento per opera del suo amico e successore Sisto V: di che a suo tempo sarà detto. Anzi volendo, per quanto egli poteva, impedire che i nemici non ripigliassero mai più la padronanza del mare, dappoichè nella battaglia avevano perduti quasi tutti i capitani, piloti e marinari, vietò ai Cristiani che durante la guerra non dovessero nè vendere nè liberare i prigionieri; ma ritenerli sotto custodia: perchè al nemico, per manco di uomini esperti del mare, si accrescesse la difficoltà di risorgere.[262] Quindi la turba dei prigioni venutagli in parte mise al remo nelle sue galere; e gli uomini di maggior conto, siccome Maometto re di Negroponte, Mamet bey figlio del capitan bassà, Ammet governator di Bisa, e molti altri capitani, sino a quaranta, li tenne in Roma molto umanamente, ma sotto buona guardia, nel palazzo dell’Aquila in Borgo.[263]
[264]
[4 dicembre 1571.]
XIX. — Ma gli è da ritornare a Marcantonio che se ne stava a Marino ricevendo visite, lettere e infinite congratulazioni da ogni parte. Stimo utile darne qualche saggio; e preferisco la breve lettera d’un santo e grande amico dei Colonnese: dalla quale pur si raccolgono importanti notizie intorno alla speranza di cavare gran frutto dalla vittoria, e di mettere altri principi nella lega, e di finirla per sempre co’ Turchi. Sospiro di santi, di papi, di popoli: non di Filippo. Il padre Francesco Borgia in quei giorni scriveva così:[264] — «Jhus. — Illmo et Eccmo Signore. — Di quello che passai con Sua Maestà sopra la persona di V. Eccellenza, ho scritto di Madrid. Questa è solamente per rallegrarmi et render gratie a Iddio nostro Signore insieme con V. Eccza di questa vittoria data da Dio nostro Signore alla Xpianità, come cosa da sua mano. Li ngeli lo benedicano et tutti li santi suoi; et vorrei che li fedeli che stamo quaggiù in terra non fossimo ingrati in riconoscere tanto beneficio, nè in supplicare ala divina Maestà lo faccia perfeto con li buoni incessi in questi anni che seguitano della Liga. Molto particolarmente ci siamo consolati de che V. Eccza se sia ritrovata in questa santa impresa, et che li tocchi tanta buona parte della fatica et merito et gloria di quella; et per l’avvenire in tutto spero sarà in augmento. Siamo quasi spediti di questa Corte di Portogallo molto bene, Dio laudato: et quanto ala Liga [265] che questo Principe ci entra molto voluntieri, et non solamente per il mar Rosso et Persico, et per l’Etiopia vuole far la guerra al Turco, ma anche per questa parte vol dare aiuto alla Armata Xpiana. Già V. Eccza saprà come Nostro Signore vole si vada ancora in Franza: io mi preparo per accompagnar il Illmo Legato, benchè non mi serve troppo la sanità. Dio la conservi a V. Eccza, et prosperi sua Illma et Eccma persona et Casa, con augmento continuo dei suoi doni per grande aiuto del bene universale. De Lisbona 10 diziembre 1571. Servo in Jesùs.»
»Francº.»
Allora in Roma altro quasi più non si udiva ripetere che il nome di Marcantonio; nè commendare altro maggiormente che il senno ed il valore onde egli aveva difeso il cristianesimo dal suo più crudele e pertinace nemico, e levata in quei giorni la gloria della sua patria a tanta altezza quanta mai se ne potesse negli antichi tempi ricordare. Per ciò chierici e laici, senato e popolo a gara concorrevano per onorarlo quanto più potessero nel suo ritorno: ed apparecchiavano archi, trofei, iscrizioni, ed ogni altra dimostrazione di festosa accoglienza sulle porte, per le vie, nel Campidoglio, al Vaticano.
Era il dì quattro del mese di decembre, e l’ampia vallèa che intorno a Roma dai colli albani sino al mare si stende non compariva già, come nella stagione invernale, umida di piogge dirotte, o coperta di nubi procellose; ma invece, maravigliandone ciascuno, si vedevano, come a primavera, le campagne tiepide e fiorite, con tale serenità di cielo, e splendor di giorno lucidissimo da non potersene volere il più bello per festeggiare il gentil cavaliero che cavalcando sulla via Appia s’appressava alle porte della città, presso la basilica di [266] san Sebastiano.[265] Stavano colà schierate alle due bande della via le milizie di Roma, e nel mezzo il senatore, i conservatori, i caporioni, e gli altri ufficiali del popolo romano, riccamente in loro costume vestiti; e tanta gente, anche dalle vicine terre concorsa, quanta ve ne capiva. Tutti chiedevano della venuta dell’aspettatissimo campione: e tutti riguardavano i novelli ornamenti della porta; gli stemmi del Papa, del Senato, e dei Colonnesi; i fiori, le ghirlande, le bandiere, i trofei militari, i rostri delle galere, la luna ottomana riversata, i prigionieri tra le catene, messi qua e là a colori, a rilievo, a stucco e a dorature bellissime. Alcuni cogli occhi alla grande iscrizione sull’arco della porta Capena voltavano in volgar nostro la leggenda che poneva:[266] — Il Senato e il popolo romano a Marcantonio Colonna, capitan generale della marineria pontificia, della Apostolica Sede, della salvezza dei confederati, e della dignità del popolo romano sommamente benemerito. — Quando ecco da ogni parte risuonare il suo nome, ecco rivolgersi tutti alla strada; e un batter di mani, e un accalcarsi di popolo, e un gridar di viva: e dar nelle trombe, e salutare da presso e da lunge, coi cenni e con la voce, con le berrette e con le bandiere: ecco i fanciulli, le donne, i baroni, e la plebe esprimere la pubblica gratitudine al valoroso.
[267]
Veniva egli, per certe ragioni che appresso toccherò, disarmato; modestamente per lo suo grado vestito, senza carro trionfale, e senza corona d’alloro: ma sopra un cavallo ambiante di bianco mantello, donatogli poc’anzi da san Pio. Avea sella ricoperta di tocca d’oro, gualdrappa di seta porporina, trapunta di passamani e frangette ad oro; il pettorale, il morso, le briglie ricoperte e sfioccate a porpora e ad oro. Aveva in piè stivaletti bianchi, incerati a lustro; calze cangianti di rosso e di giallo, brache rigonfie alla spagnuola a molti listoni di teletta d’argento e di seta morella, giubba di tocca d’oro, cappa di seta nera trinata ad oro e soppannata di pelli zibelline, cappello di velluto nero, e la piuma bianca affibbiata a un gran bottone di perle ricchissimo.[267] Giunto in quel luogo faceva cordialissime proteste di gratitudine e d’osservanza al Senatore ed agli altri ufficiali di Roma, e sempre col cappello in mano riguardando qua e là gli astanti, e mostrando grata riconoscenza, secondo il merito di ciascuno cordialmente inchinavalo.
[268]
In quella moveva dalla porta il corteggio trionfale: dietro ad una prima squadretta di trombe a cavallo passavano numerose brigate di uomini scelti tra gli artieri di Roma; fabbri, magnani, legnaiuoli, armaiuoli, pellicciai, ed altrettali sino a ventisette maestranze, tutte spartitamente raccolte sotto alle loro capitudini e gonfaloni, tutti vestiti di novello, lucenti e lisci che menavano per via gioia e festa. Passavano dappoi Domenico Jacovacci e Cencio della Tolfa gentiluomini romani, armati di corsaletti, impugnando il baston del comando, come coloro che erano sergenti maggiori, o vero capi dei battaglioni nelle milizie della città; alla testa delle quali, con loro trombe e tamburi, cavalcavano. Il primo corpo d’armati era uno squadrone di milletrecensessanta archibugeri, messi dieci per dieci, in centotrentasei file: il secondo, comandato dal sargente maggiore Francesco Spannocchi, di millecinquecento picchieri, in cencinquanta file: e il terzo, sotto Gianpietro Muti, di mille cento e trenta moschettieri, in centotredici file. Tutti pomposamente vestiti di velluto e di seta a vaghi colori, sotto bellissime insegne, con morioni lucenti d’acciaio, e pennoncelli azzurrini sul capo, o vero berrette di velluto con piume, o anche cappelli rivolti all’ungarese; e i picchieri armati di corsaletti bruniti, che rendevano bella e nobil vista. E a cessare agli spettatori quel sentimento di sazietà solito nascere dalla continuata medesimezza delle stesse comparse, avevano provvedutamente tra l’uno e l’altro squadrone, ed anche tra le istesse compagnie, tramezzato molti manipoli di alabardieri, e alcuni drappelli di spadoni a due mani, e divise di paggi bellamente scompartiti, in assetto di ricche livree, che portavano pendoni, celate, scudi, ed armi attorno ai capitani.
Lo sguardo però degli spettatori e il cicaleccio dei [269] curiosi rincalzava sul passaggio dei prigionieri che, appresso alla bandiera ottomana rovesciata allo ingiù, seguivano in due turme; tutti legati con le mani dietro alle spalle, e tutti avvinghiati da due catene di ferro, che dai polsi dell’uno entrando tra i polsi dell’altro scorrevano a far di loro due grosse brancate di quasi cento turchi per ciascuna. Erano costoro vestiti tutti al paro d’una tonachetta di panno giallo e rosso insino al ginocchio, calzati di cordovano giallo, e coperti di una berretta marinaresca della stessa divisa, in mezzo a due file di alabardieri che li guardavano.[268] Passati i quali, come per isgombrare quell’aria di tristezza, e i chiusi petti a nuovi e più lieti sensi allargare, scorrevano a cavallo trombando in alto i famigli del Senato a pomposa foggia, e schiudevano la cavalcata di quasi cento gentiluomini romani, che in diversi costumi, sotto le proprie divise, erano quivi insieme assembrati per onorare la virtù dell’invitto guerriero che tanta luce diffondeva sulla già chiara nobiltà del patriziato romano.
Da meglio che un’ora difilava la pompa, nè si pareva ancor segno di stanchezza in alcuno colà, dove non solo la dolcezza della stagione e la giustizia di così nobile trionfo, ma altresì la varietà di tanto belle comparse teneva occupati gli animi d’intenta curiosità e mirabil diletto. Quando però furono trascorse innanzi le schiere degli artigiani, dei soldati, dei prigioni, e dei nobili cavalieri romani, sopravvenne maggior solletico e maggiore [270] gradimento: perchè ad ogni istante proseguivano sopra cavalli di maneggio bellissimi, con isquisita eleganza e senza profusion di lusso, nuove assise, maggiori dignità, e personaggi di più rispetto. Di che desta vieppiù la curiosità delle persone, v’avean di quelli che sperti negli usi della corte romana, qua e là tra la folla, divisavano i nomi e le cose, così per punto come venivano a passare, facendo conto ai vicini ciò che al loro sguardo si presentava. Ecco, dicevano, passa il signor Camillo de’ Crescenzi e il signor Angelo Flad maestri di strada; in roba lunga, col berretto alla ducale, e attorno i loro staffieri: passano a coppia li due sindaci di Roma, in velluto lionato, e negre gualdrappe, tra i loro famigli: passa lo Scriba del Senato e il suo collega, in costume di dottori: i quattro appresso, con le piume cangianti di quattro colori, sono i secretari, tra la turba dei donzelli: passano i marescialli del popolo romano, in casacca azzurrina e calze incarnate, ciascun dei quattro con due staffieri. Vedi, vedi, a due a due i paggi del comune, vestiti a verde e violetto, con in mano ciascuno la grande insegna del suo rione. I begli stendardi della città damascati a onda e a spina, e l’aste tutte coperte di velluto cremisino, con frange di seta e d’oro: ecco il capo del leone in campo rosso, e la ruota in campo vermiglio; emblemi di Trastevere e di Ripa. Vedi l’angelo in campo rosso, e la testa di drago in campo d’argento; sono Santangelo e Campitelli: poi la pigna, e la testa di cervo sul rosso, del rione Pigna e Santeustachio: il fusone in campo d’azzurro, e il grifo in campo d’argento, per la Regola e Parione: fiume e ponte in campo rosso, e la luna in campo d’azzurro, segnano Ponte e Campomarzo: le tre spade in campo di rosso, e i tre monti in campo d’azzurro, sono di Trevi e Monti: ecco in ultimo la colonna del rione omonimo: e appresso i [271] Signori dodici della città, Velli, Boncori, Massimi, dello Schiavo, Caffarelli, Cenci, Falconieri, Galgano, della Riccia, Coccio, Calvi, Maccarani; e il loro priore Stefano de’ Crescenzi. Passano venti staffieri ai colori della casa Cesarina, e il signor Giangiorgio gonfaloniero nostro perpetuo con lo stendardo del popolo romano. E poi le trombe d’argento con le nappe rosse, e il commendator Romegasso con la bandiera papale, e il capitan della sua guardia. Vedi, nobile quadriglia a cavallo, Pompeo Colonna, e Onorato Caetani, con in mezzo i due Bonelli Michele e Girolamo nipoti del Papa. Ed ecco tutti ammutolire in grandissima aspettazione, eccoli farsi in punta di piè, levare il capo, guardare intesamente a colui di chi la festa era. Allora un sol grido scoppiare di vivissima gioia, e ripetersi: Viva, viva il signor Marcantonio, e la casa Colonna. Ed egli in tanta gloria i baldi e guerreschi spiriti di tanta popolar commozione per lui, non che della ingenita sua gentilezza temprando, discoprirsi il capo, volgere a tutti piacevole lo sguardo, tutti riconoscere e salutare. Non così i boriosi antichi trionfatori! Erangli ai lati dodici staffieri nelle assise della sua casa: lo seguivano il Senator di Roma, i conservatori, gli amici e consorti suoi, i paggi, ed un drappello di cavalleggeri. Dopo i quali ad ogni passo crescevagli appresso la calca del popolo.
E dovendo il glorioso campione in tal modo procedere, dalla porta Capena alla via trionfale ed al foro romano, per salire sul Campidoglio e passarsene al Vaticano; facendo cammino per questi luoghi di eterna rinomanza, ove stanno ancora dopo tanti secoli le maravigliose moli poste a segno della romana grandezza, rivedeva non solo lo splendore delle arti antiche, e le memorie dei prischi eroi; ma novelle leggiadrie d’ornamenti, e più liete leggende intitolate al suo nome. Là, [272] sull’arco di Druso leggeva:[269] — Roma esultante nel Signore Iddio stende le braccia al vincitore, e stringe al seno il più chiaro dei suoi cittadini. —
Qua, da quello di Costantino gli scendeva all’anima il motto:[270] — Ripensa che a te si schiude la via per andar nel nome di Dio a riscuotere quella città che Costantino ebbe fondata. —
Quinci sulla diritta rileggeva che:[271] — Costantino tra i Romani Imperadori fu il primo a combattere felicemente sotto lo stendardo della Croce, contro ai crudelissimi nemici del nome cristiano. —
E quindi sulla sinistra gloriava[272] — Pio Quinto che tra i romani pontefici fu il primo, per la lega col re cattolico e con la repubblica veneziana, e per l’aiuto dello stesso segno di salute, ad aver vittoria giocondissima sopra la maggiore armata dei Turchi. —
Dall’arco di Tito ritraeva della guerra giudaica, e del passaggio delle crociate; in proposito delle quali si diceva:[273] — Rallegrati Gerusalemme: che, se Tito Vespasiano [273] già ti trasse cattiva. Pio Quinto intende a liberarti. —
Più sotto all’ultimo lembo del foro avvenivasi nell’arco di Settimio Severo, vincitore dei Parti: ivi in tre scompartimenti leggeva tre diverse iscrizioni. Nel mezzo così:[274] — Sta ancor qui l’antico monumento al senato ed al popolo romano della partica vittoria per ricevere coll’aiuto d’Iddio i nuovi trionfi contro i Parti. —
A diritta poi:[275] — Quei prischi capitani fortemente combattendo ritornarono alla sua pristina dignità l’imperio romano guasto dall’armi dei Parti. —
A sinistra finalmente:[276] — I nostri prodi, dopo l’insigne e incomparabile naval combattimento, vittoriosi dal furor dei Turchi liberarono le cervici del popolo cristiano. —
Di là, salita l’erta del colle, l’eroe si trovava sulla vetta del Campidoglio: attorno al quale i balconi dei tre splendidi palagi levati su da Michelangelo, ornati di tappezzerie, gremiti di dame e di cavalieri, abbelliti dalle bandiere tolte al nemico, facevano di sè lietissima mostra. Scorreva coll’occhio in ogni parte, e quivi pur leggeva in rapidi sensi scritto:[277] — Fiorisce ancor virtù, [274] ardono i petti, sovreggia pietà, non son già spenti i romani affetti, spicca il romano valore. — In quella, ecco, a un cenno del Senatore, scoppiare lietissimi plausi e festosi saluti di tutto il popolo; ecco una bella musica di scelti strumenti agitare una marcia guerriera; ed al rintocco delle campane del Campidoglio rispondere in trionfo lo sparo degli archibugi, e l’incocciamento delle spade e degli scudi dei picchieri. Nel qual festoso armeggiare dopo essersi alcun poco dilettato, proseguiva il cammino per la piazza degli Altieri, la via de’ Cesarini e de’ Banchi, a Montegiordano ed a Ponte: sul cui passaggio il castello Santangelo di prospetto, spiegati i vessilli, sbombardò da ogni parte tutte l’artiglierie grosse e minute, con tant’ordine, e strepitoso echeggiamento sulle ripe del Tevere, che non si potrebbe facilmente raccontare.
Finalmente passando di Borgo, entrò nel palazzo del Vaticano per la porta maggiore, e scavalcato nel cortile, venne nella Basilica di San Pietro onorevolmente ricevuto dai canonici e da monsignor Patriarca di Gerusalemme loro vicario, che pontificalmente vestito il condusse seco innanzi all’altare. Colà esso e tutti gli altri del seguito, cantando devotamente a Dio lodiamo, resero alla divina maestà le grazie maggiori che potevano dei beneficî ricevuti.
Ma nell’uscir di chiesa eran là due camerieri del Papa presti a torselo in mezzo, e a condurlo su nel pubblico concistoro dei cardinali, alla presenza del Pontefice. Laddove essendo egli stato da tutti piacevolmente riveduto, ebbe poi dal Papa maravigliose dimostrazioni di stima e di gratitudine, con parole di così grande benevolenza e tanto calde di affetto, che i risguardanti ne stupivano. In fine congedato ogni uomo e rimasti soli Marcantonio e san Pio per lungo tratto a ragionare sopra i grandi [275] successi di quel tempo, non potrebbe nè altri nè io ripetere il discorso onde le due grandi anime rivelaronsi scambievolmente i propri concetti. Vorrei che alcun mi dipingesse Marcantonio e san Pio nell’arcano colloquio: da un verone in lontananza il prospetto del mare; di qua, il ducal palagio di Venezia; di là, la reggia di Spagna: e qui presso alla grande basilica di Roma, un guerriero romano e un romano Pontefice che sorreggono il destino d’Italia, e difendono la fede e la civiltà dell’Europa.
Tornossene sull’imbrunir della sera in cocchio e privatamente Marcantonio alle sue case: ma come dopo così lieta e luminosa giornata non potevano aver luogo le tenebre; così fu tutta la città da un capo all’altro illuminata, con tante fiaccole, tanti fanali, e tanto fuoco sulle vie, nei balconi, e in mezzo alle piazze, che quasi al paro del giorno lucente e lieta invitava ogni uomo generoso a ricercar di fronte alla piazza degli Apostoli la casa dell’ammiratissimo Signore, e a ripetergli attorno le festose dimostrazioni di che pareva non potessero saziarsi. Nel vero il magistrato romano quell’istessa sera deliberava che la domane, ripetendo la medesima pompa, si dovesse accompagnare il vincitor di Lepanto a render le dovute grazie alla Madre di Dio nella chiesa senatoria dell’Araceli; e, a nuova mostra della tragrande allegrezza, dargli a spese pubbliche nella maggior sala del Campidoglio un lauto banchetto. Se non che, venuto il Senatore ad invitarlo, Marcantonio dissegli che siccome la spesa del convito non era ad altro che per onorarlo da vantaggio, ed egli già di troppo onorato teneasi, gli piacesse dispensare in pietose opere e in dote alle povere fanciulle della città quel danaro che da metter fosse nel convito. Ed essendo ogni sua volontà come legge dal Senatore ricevuta, insieme si consigliarono del modo ed ordine che si avesse a tenere nella esecuzione.
[276]
[13 dicembre 1571.]
Laonde provvedutamente rimisero la solennità dell’Araceli alli tredici dell’istesso mese. E venuto il dì posto di santa Lucia, il Senato e tutti gli ordini della città in lunga cavalcata andarono al palazzo di Marcantonio; e, presolo in mezzo, alla chiesa predetta del Campidoglio lo accompagnarono. Tra molte iscrizioni, ornamenti, e drapperie che dentro e fuori decoravano il tempio, si lodò molto la leggenda composta così dal Mureto:[278] — Quelle grazie che gl’imperadori pagani per la felice riuscita delle loro imprese rendevano vanamente agl’idoli sul Campidoglio, ora il vincitor cristiano salendo qua ov’è l’ara del cielo, al vero Iddio Cristo Redentore ed alla gloriosissima sua Madre per la gloriosa vittoria, religioso e pio le rende e protesta. — Col qual sentimento di vera fede tutti quei signori entrarono devotamente nella chiesa per assistere ai divini misteri, celebrati da un vescovo dell’abito di san Francesco, in mezzo ai ministri ed ai cantori della cappella papale. Ma come si fu letto il vangelo, ecco da ogni parte farsi silenzio, e riguardare tutti al pergamo, donde monsignor Marcantonio Mureto, facondissimo oratore di quell’età, per commissione del Senato, recitava una elegante e grave orazione latina pel ritorno di Marcantonio a Roma, dopo la vittoria riportata in naval combattimento contro i Turchi a [277] Lepanto.[279] Il quale avendo con acconce parole dimostrato la grandezza dell’istessa vittoria sopra quei nemici che gonfi di tanta fortuna pensavano quasi sol con un soffio disperdere l’armata cristiana, ed occupare i porti, le isole, e tutta la riviera del mediterraneo, rammentava a ciascuno quanto poco alcuni mesi indietro sperato avrebbe di conseguirla. Talchè se pur i nemici se ne fossero andati a loro piacimento in Costantinopoli, se avessero sgombrato l’Adriatico e il Jonio, se lasciato togliersi qualche prigioniero o qualche galera, ognuno avrebbe dovuto, secondo la poca aspettazione, anche di quel poco chiamarsi contento. Ma che la potentissima armata si distruggesse, che dugento quasi galere si pigliassero; quarantamila turchi si uccidessero, e tanti prigioni, tante armi, tante bandiere venissero in poter degli alleati, niuno pensato avrebbe conseguire, e neanche desiderare.
Ora poi, diceva, tutto questo esser già fatto per la virtù sovrumana di tanti capitani valorosi, e di tanti prodi soldati, quanti colà combattendo avevano onoratamente vinto o erano gloriosamente caduti. A tutti doversi lode ed onore; ma a Marcantonio capitan generale della marineria romana, e general luogotenente della lega, doversene ancor più che non ne pensassero quelli stessi che più l’onoravano. Lui aver messi i fondamenti della lega, lui compiutala, lui prima d’ogni altro in Sicilia a sostenerne il peso, lui a parlar sempre nei consigli la miglior sentenza, lui a quietare le discordie sempre nascenti, lui a ricomporre in pace gli alleati, lui ad infiammare i soldati alla battaglia, e combattere [278] nel maggior pericolo, e vincere con tanto maggior bravura quanto con minore ostentazione. A lui l’istesso don Giovanni, più che a ogni altro, aver dato pubblica testimonianza di gratitudine, chiamandolo consigliero, sostenitore e campione principalissimo della vittoria. Laonde, appellando dal pergamo Marcantonio medesimo, e sopra di lui chiamando gli sguardi di tutti, esortavalo a ripigliar le armi vincitrici, seguire il felice presagio del suo nome, e riscuotere la Grecia e la Palestina, Costantinopoli e Gerusalemme: confidando che come già il popolo eletto da lunga e faticosa schiavitù, sotto la scorta di lucente colonna, potè essere a dispetto dei suoi nemici liberato; così in quel tempo le nazioni cristiane d’occidente e d’oriente francate venissero dal giogo ottomano per la virtù di quella sublime colonna su che poggiava la difesa del Cristianesimo: affinchè a Roma, sede dell’imperio e centro della fede, nel pontificato del medesimo Pio, e per l’opera d’un romano campione, un altra volta toccasse la prima parte di così nobil trionfo.
In questa sentenza perorava il Mureto, e quantunque egli dovesse, a cessar gelosie come ciascun da se comprende, studiarsi di velare il suo pensiero rispetto al primato del Colonna; e tanto largheggiare in lode verso don Giovanni, da chiamarlo divin giovanetto; tuttavia non potè fare che non manifestasse chiaramente l’animo suo e la pubblica opinione di quel tempo, che appunto a Marcantonio dava il principal merito della vittoria. Perchè egli, degno rappresentante del romano Pontefice, pel senno, pel valore, per la fede e per l’età, posto in mezzo agli altri due e fatto arbitro, potè condurre l’uno e sostenere l’altro sino al termine glorioso: ove ancor più facilmente sarebbe arrivato, se fosse stata sua la prima autorità, e avesse potuto seguire il generoso volo [279] senza ch’altri di qua e di là gli gravassero le penne. Iddio il volle premiato: niuno da lui in fuora ebbe il trionfo. Ed egli sempre prudentissimo, fattosi al gradino dell’altare, e quivi genuflesso, protestava doversi la vittoria riconoscere dalla mano di Dio. In segno di che offeriva di oro purissimo una imaginetta di Gesù risorto con la croce tra le braccia (simile a quella che Michelangelo aveva scolpito alla Minerva), posta in cima ad una colonna d’argento coronata ad oro, secondo che si vede negli stemmi della sua casa: e attorno al fusto i rostri delle galere in argento dorato, avendoci già scritto nella base:[280] — Al Cristo vincitore, Marcantonio figlio d’Ascanio, capitan generale dell’armata pontificia, dopo la insigne vittoria riportata sopra i Turchi, a memoria del beneficio. — Volle poi il Senato che a ricordare il gran fatto una simile colonna rostrata di marmo si ponesse nel palazzo dei conservatori al piano del cortile. Questa tuttavia rimane ove fu posta: l’altra andò al crogiuolo pel trattato di Tolentino.
Dopo di che, terminati gli uffici divini, si fecero venire in chiesa a processione sessantatrè donzellette, con la bella veste di panno rosso e il borsellin della dote. Sulla porta i fedeli del Campidoglio regalavano di tre giulî ciascun poverello che quivi era venuto per mercè. E Marcantonio lietissimo d’avere in ogni parte soddisfatto al debito suo, tornavasene alle sue case.
[31 dicembre 1571.]
XX. — A imitazione di Roma furono ripetute diverse feste in tutta l’Italia, e nelle Spagne eziandio. E mentre le [280] arti belle, le dotte accademie, ed una turba di più che cento poeti, l’uno a gara dell’altro, tramandavano alla posterità la gloriosa e per tutti i secoli memorabil vittoria;[281] san Pio ordinava che nell’orbe cattolico dovesse essere festivamente ogni anno ricordata in quell’istesso giorno che da Dio Ottimo Massimo, per la intercessione della Vergine ausiliatrice dei cristiani era stata concessa; e la memoria tuttavia ne rimane nei fasti annuali della Chiesa, ove il successor di lui fecela scrivere per la domenica prima d’ottobre, sotto il titolo del Rosario, con che a solennità di culto e di processioni, per tutto il mondo ancor si celebra.[282] Volle pur san Pio che il glorioso successo di quella battaglia, secondo l’esempio dei predecessori, fosse scolpito sulle medaglie monumentali del suo pontificato. Di che per avventura molto avrei a dire, se non temessi increscere ai miei lettori. [281] Niuno tuttavia vorrà darmi biasimo se con una di quelle per poco mi trattengo, a fine di ribadire i fatti, dichiarare le altre, ed esporre in tutte l’intendimento di quel grande che le volle conformi al suo pensiero condotte.[283] Questa medaglia da una parte semplicemente mostra l’immagine sua, a capo scoperto, e il solo nome — Pio V, Pontefice Massimo: — dall’altra dispiega tanta varietà e tanto movimento, che l’occhio a grande compiacenza vi si posa per discernere in essa tutta, quasi direi, la storia della grande giornata.[284] Il campo della medaglia è sul mare: alla sinistra le isole Curzolari, che per la loro lontananza non compariscono; di fronte, la vista di Lepanto, il golfo quivi aperto, i due castelli che ne difendono l’ingresso, e lo svolgimento delle due riviere, quinci l’Epiro, quindi la Morèa. L’ora si manifesta a chi nol sappia essere quella di sesta, cioè poco prima che si venisse alle mani; perchè non apparisce ancor segno di combattimento, Giannandrea non si è separato, le riserve stanno ancora addietro, nè sono arrivate le due galeazze a coprir la fronte della squadra gialla, ove come ho detto, non poterono essere se non a mala pena condotte nel momento della battaglia. L’ordinanza dell’armata cristiana è secondo narrano le storie, in cinque membri: avanti le galeazze; sulla linea le tre squadre del centro, della diritta, e della sinistra; appresso la squadra del soccorso: e tutte distribuite in bella mostra come esser dovevano poco prima di azzuffarsi co’ nemici. Ciò non pertanto la fantasia dell’artista, trapassando rapidamente [282] dalle cause agli effetti, giugne di volo all’armata nemica che doveva esser vinta poco dopo dalla nostra; e ti mette sott’occhio la distruzione dei Turchi in tutta la squadra loro diritta, e in tutto il loro centro: ove più non si vede che il mare coperto di rottami. Non resta di loro altro che la squadra sinistra, e la capitana di Luccialì presta a fuggirsi per quel varco che gli schiuderebbe Giannandrea. Costui impari di qua come egli avrebbe dovuto tener sua posta; stia saldo sul bronzo laddove non volle stare sul mare: e sempre cogli occhi suoi veggasi avanti Luccialì in atto di prender gabbo dell’arti sue marinaresche, e di opprimere i Cristiani in quella parte abbandonati. L’anima nobile del Barbarigo, là sulla punta dell’ala da lui valorosamente comandata, si consoli: perchè al suo cospetto vanno dispersi i nemici. Don Giovanni non presuma: perchè nè il suo nome nè la sua persona vi è posta: e nè anche pigli gelosia, che niuno quivi gli è stato preferito. Marcantonio finalmente e tutti i prodi con lui riconoscono da Dio il beneficio: perchè attorno all’Angelo che scende dai cieli, con la spada ignuda a loro soccorso, sta scritto: — La destra del Signore ha fatto la prodezza. — Le altre medaglie in quel torno di tempo per questa istessa vittoria coniate, tutte sul campo medesimo, rimpetto a Lepanto, mostrano diversi abbattimenti di galere: ai quali sempre sovrasta la virtù, l’assistenza, e il soccorso di Dio; ed il motto pietoso: — La tua destra, o Signore, ha percosso il nemico. — Ciò è stato fatto dal Signore. — [285]
[283]
Ma all’ombra dei gloriosi allori invece di cader appassita, crebbe più che mai rigogliosa la trista semenza della gelosia con che si era dato principio all’alleanza. I Turchi, ha notato il Baronio, potevano esser vinti; ma non gli alleati aver concordia.[286] Alla corte di Spagna suonarono ingrate l’esultanze di Venezia e di Roma: la gran vittoria fece paura, come quella che cresceva troppo riputazione e forza all’emula repubblica: don Giovanni, quantunque vincitore e fratello del Re, fu colà biasimato e fatto segno a severe riprensioni per il gran rischio in che aveva posto la corona;[287] Giannandrea, per essersi due anni dimenato nell’armata ad impedir le battaglie, divenne sempre più caro: il general Sebastiano, per quel fatto delle Gomenizze, bisognò che cedesse all’implacabile livore di Filippo; e se ne tornasse degradato a Venezia:[288] e la virtù di Marcantonio, che era stata sin là riverita da tutti, e pur dai regî cortigiani commendata, quand’ebbe conseguita la vittoria a Lepanto e il trionfo a Roma, increbbe alla burbanza di costoro. Tant’onore a chi aveva sempre richiesto il combattere, e voluta una lega efficace, dolse a quelli ch’erano stati là per dar la mostra e pigliar la gloria. E sebbene san Pio avesse per giustizia consentito al senato e popolo romano di onorare il vincitore di quelli onori trionfali che addietro ho descritti; e per prudenza temperatane la pompa; talchè senza carro trionfale e senza corona d’alloro non mandasse nè ombra nè strepito alla corte di Spagna; ciò non pertanto alcuni di questa nazione, tanto [284] più offesi quanto più loro se ne richiamava la propria coscienza, asprissimamente ne mormorarono, dicendo: che al solo serenissimo don Giovanni, perchè generalissimo della lega, si addiceva il trionfare.[289] Come se in Roma non si potesse onorare un Romano; o vero si dovessero i trionfi ai nomi superlativi e non alle sublimi virtù. E tant’oltre costoro spinsero la malignità da tentar col santo Pontefice che dinegasse al senato romano il trionfo di Marcantonio. Al che quantunque san Pio, indignato che gli si volesse imporre in casa sua, di niente mostrasse di voler loro consentire; non è però che essi non facessero legge perchè niuno Spagnuolo o seguace di Spagna non si facesse incontro alla venuta di Marcantonio, nè fosse spettatore delle feste volute fargli.[290] Questo sia detto perchè ciascuno intenda chiaramente [285] gli umori della lega: e trovi eziandio non solo la verità sempre costante dal principio alla fine di questo libro; ma anche possa antivedere quel che narrare dovrò nel libro terzo, rispetto ai frutti che si raccolsero dalla grande battaglia.
[287]
I. — Speranze dei Cristiani, e avvilimento dei Turchi. — Gelosia tra gli alleati. — Conferenze degli Ambasciatori a Roma. — Contesa sugl’interessi. — Vorrebbero gli Spagnuoli fuorviare la guerra in Africa. (Gennaio 1572.)
II. — Pio V vince le difficoltà. — Si delibera la guerra di Grecia. — Provvisioni di Marcantonio. — Levata delle fanterie. — Torquato Conti ad Otranto. — Michele Bonelli, Cencio Capizucchi. — Lettera circolare. — Gli altri capitani sull’armata del Papa. — I Romani su quella di Venezia. — Le galere di Civitavecchia e di Livorno. — Infermità e morte del Pontefice. (1º maggio.)
III. — Lutto della Cristianità. — Turbamento della Lega. — Il Granduca ritiene le galere. — Lettera dei Cardinali a Cosimo. — Armamento nello Stato. — Lettere al castellano di Civitavecchia per mettere in punto tre galere. — Conclave ed elezione di Gregorio XIII. (13 maggio.)
IV. — Marcantonio richiamato a Roma. — S’imbarca coi suoi, a Gaeta. — Naviga a Messina. — Don Giovanni e i Veneziani. — Iacopo Foscarini generale al luogo del Veniero. — Doppiezza.
V. — Don Giovanni si rifiuta a partire. — Scuse de’ suoi. — Indignazione pubblica. — Giudizio d’ogni maniera di persone. — Condotta ed opinione di Marcantonio. — Contraddizioni degli Spagnuoli. — Concedono ventidue galere ai Veneziani. (1º luglio.)
VI. — Marcantonio favorisce questa risoluzione. — Ordini di don Giovanni. — Scrittura di S. A. perchè si combatta. — Partenza di Marcantonio da Messina. (7 luglio.) — Giunge a Corfù. (13 luglio.) — Querele dei Veneziani. — Prudenza di Marcantonio. — Avvisi dell’armata nemica. — Luccialì capitan generale, sue forze e suoi disegni. — Consiglio [288] dei nostri. — I Veneziani richiedono la partenza verso la Grecia. — Marcantonio conduce l’armata alle Gomenizze. — Rassegna. (22 luglio.)
VII. — Artifizio spagnuolo. — Impedimento al procedere di Marcantonio. — Don Giovanni riceve l’ordine di muovere per la Grecia. — Sua lettera a Marcantonio. — Si fermi, e vada avanti. — Contraddizioni di S. A. — Ragionamento dei Veneziani. — Modestia di Marcantonio. — Continua il viaggio. — Lettere di Marcantonio a don Giovanni. — Sdegno degli Spagnuoli. — Minacce di don Giovanni. (30 luglio.)
VIII. — Turbamento degli altri generali. — Marcantonio scioglie dalle Gomenizze. — Arriva alla Cefalonia, al Zante, al Cerigo. (1º agosto.) — Posizione dell’armata nostra. — Notizie dell’armata nemica. — Nota delle galere dei Turchi. — Falso allarme. — Marcantonio in battaglia a capo Maléo. — Postura alle Dragoniere. (3 agosto.) — Avvisaglie del quattro agosto a capo Maléo.
IX. — Luccialì spunta da capo Maléo. — Si accosta all’isola dei Cervi. — Rivolge la faccia a Marcantonio. — Aspetta il ponente per venir sopravento ad investirlo. — Marcantonio muta l’ordinanza. — Mette le navi sulla sinistra per riceverlo tra due fuochi. — Falla il ponente. — Marcantonio profitta dello scirocco per andarlo a trovare. — Ordinanza da tenere insieme le navi e le galere. — Luccialì dà in dietro. — Cessa il vento. — Marcantonio animoso e prudente. — Ordina i rimburchi. — Va con le navi e con le galere. — Principia il combattimento. — Fuga vergognosa di Luccialì. — Marcantonio padrone del campo. (7 agosto.)
X. — La notte. — Ordine dell’armata cristiana appresso a Luccialì. — Dispacci di Marcantonio a don Giovanni. — Ritorno al Cerigo. — Alcuni capitani violatori della disciplina. — Falso allarme. — Disordine di alcune galere. — Provvedimento di Marcantonio. — Dissimula per non punire gli Spagnuoli. — Luccialì comparisce verso capo Matapan. (8 agosto.) — Marcantonio accorre per cuoprire don Giovanni. (9 agosto.) — Navigazione notturna. — Dispute per andare a sua Altezza. — Proposta di Marcantonio. — Replica dei Veneziani. — Ragioni segrete. (9 agosto.)
XI. — Partenza nella notte con tutta l’armata. — Scontro coi Turchi. — Una nave Veneziana s’accosta per errore ai nemici. — Contrasto attorno a quella. — Luccialì l’abbandona e Marcantonio la libera. — Sfida il nemico a battaglia. — Luccialì [289] accetta. — Giornata del 10 agosto a capo Matapan. — Cannoneggiamento tra le due armate. — I nostri mettono in fondo cinque galere turche, e sette fuori di combattimento. — Confusione dei nemici. — Il Soranzo e Marcantonio, lasciate le navi, si avanzano per investire. — Non sono seguiti dagli altri. — Pertinacia del Canaletto. — Il nemico si rifà, e i nostri si confondono. — Pericolo dell’armata cristiana. — Risoluzione di Marcantonio. — Rimette l’ordinanza. — Torna alla carica. — Artificî di Luccialì per tirarsi indietro. — Incalzato, fugge vilmente. — Marcantonio lo perseguita. — Mutato il vento, torna al Cerigo. — Doglianze di Marcantonio, e sue parole ai mancatori. — Considerazioni sulle navi. (10 agosto.) — Consiglio per congiungersi con don Giovanni. (14 agosto.) — Partenza. — Arrivo al Zante. (16 agosto.) — Avvisi di don Giovanni che quivi l’aspettassero. — Epilogo dei fatti di Marcantonio, durante il suo comando.
XII. — Disordini degli Spagnuoli. — Consiglio privato di don Giovanni. — False relazioni di Pietro Pardo. — Veraci ragguagli di don Alonso. — Marcantonio al Zante, e don Giovanni a Corfù. — Il primo s’affatica condurre i Veneziani incontro al secondo, sino alla Cefalonia. — Questi comanda che si riducano a Corfù. — Lettera di don Giovanni a Marcantonio. — Indignazione de’ Veneziani, risentimento di Marcantonio. — Obbedienza. (16 al 31 agosto.)
XIII. — Arrivo di Marcantonio a Corfù. — Mal animo di don Giovanni. — Magnanimità del Colonna. — Brano di lettera al Secretario di stato in Roma. — Lettere al Re, ed al Papa. — Considerazioni. — Sentenza. — Consigli. — Ragionamenti di Marcantonio contro i timidi disegni. — Rincalzo sul condurre all’impresa le navi e le galere. — Deliberazione. (6 settembre.)
XIV. — Partenza. — Rifiuto dei Veneziani di ricevere a bordo soldati spagnuoli. — Insistenza di don Giovanni. — Ragioni delle due parti. — Ripiego di Marcantonio. — Le fanterie del Papa sulle galere veneziane. (7 settembre.) — Rassegna dell’armata. (11 settembre.) Navigazione da Corfù alla Cefalonia. — Notizie dei nemici. — Ardore dei nostri. — Lentezza degli Spagnuoli. — L’armata dà fondo alle Stanfani. (16 settembre.) — Parole libere del Foscarino. — Parere di Marcantonio. — Deliberazione del consiglio, per essere la dimane all’isola della Sapienza. (16 settembre.)
XV. — Navigazione della notte. — Gravità del successo. — Dubitazione [290] degli scrittori. — La costa di Morèa, Navarino, Modone, il Prodàno e la Sapienza. — L’armata Turca divisa in due parti. — L’armata cristiana invece di essere la mattina alla Sapienza è condotta al Prodàno. — Giudizio imparziale di questo fatto. — Gli alleati perdono la più bella occasione. — I Turchi di Navarrino fuggono verso Modone. — Poca caccia di don Giovanni. — Marcantonio lo stimola. — Sceglie venti galere per inseguire il nemico. — Impedito da don Giovanni. — Va solo. — Oltraggiato. — Riconosce la fuga del nemico. — Lo raggiugne. — Nove galere contro lui solo. — Soccorso. — Prodezze di Marcantonio sotto Modone. — Lentezza di don Giovanni. — Il nemico opera la sua congiunzione. (17 settembre.)
XVI. — Don Giovanni arriva vogando a’ quartieri. — Cosa fosse. — Difficoltà d’assaltare Modone. — L’armata si sbanda. — Marcantonio torna a riconoscere la piazza. — Perseguita quattordici galere. — Esce fuori Luccialì. — Pericolo dei nostri. — Avvisaglia lontana. — Giolito. (17 settembre.) — La disfida del dì seguente. — L’acquata. (18 settembre.) — Ritorno a Modone. — Tutto il consiglio sulla Capitana del Papa a riconoscere la Piazza. — Parere degli Spagnuoli per tornare al Zante. — Risposta dei Veneziani. — Marcantonio propone entrare a viva forza nel porto, e distruggere l’armata nemica. — Sue ragioni. — Stato di Luccialì. — Difficoltà dei collegati. — Altro ripiego di Marcantonio. — Sua fecondità di partiti. — Opinione del marchese di Trevico. — Risposte dei Veneziani. (19 settembre.)
XVII. — L’architetto del duca Cosimo, e la sua macchina. (25 settembre.) — L’arrivo delle navi, e la mancanza della panatica. (27 detto.) — Impresa di Navarrino. (30 detto.) Assedio. — Disordine e ritirata. — Marcantonio sbarca per difendere le spalle di quei signori. (5 ottobre.)
XVIII. — L’esercito rimbarcato. — Anniversario della gran giornata. (7 ottobre.) — Avvisaglie intorno ad una nave Veneziana. — Presa una galera di Turchi. — Notizie dei nemici. — Mancanza di viveri tra i nostri. — Deliberazione pel ritorno. — Lettera di Marcantonio. — Considerazioni. — Naufragio di una galera del Papa. — Arrivo alle Gomenizze. — Navi, soldati e vittovaglie quando non era più tempo. — Il duca di Sessa e Giannandrea sollecitano don Giovanni a ridursi in Sicilia. — Ciascuno ai suoi porti.
XIX. — Don Giovanni a Napoli. — Marcantonio in Spagna. — Il [291] Re Filippo motteggia. — Indignazione dei Veneziani. — Pratiche per la pace col Turco. — Intanto apparecchi di guerra a Venezia ed a Roma.
XX. — I deputati al congresso. — Artifizj degli Spagnuoli. (1573.) — Costanza dei Cardinali. — Domanda dei Veneziani. — Deliberazioni del congresso. — Freno a don Giovanni, accrescimento dell’armata, e principio della campagna pel fine di marzo. — Al primo di aprile niuna esecuzione. — Capitoli di pace col Turco. — Fermati a Venezia il tre di aprile. — Ragionamento del Doge col nunzio del Papa. — Parole quiete del re Filippo. — Conseguenze. — Disarmo. — Marcantonio ottiene licenza. — Suoi meriti riconosciuti da popoli e da principi. — Non dagl’invidiosi. — Sua lettera al Re. — Suoi persecutori. — Muore avvelenato in Spagna. — Fine.
[293]
[Gennaio 1572 ]
I. — Pensava il mondo che la vittoria di Lepanto tanto maggior frutto portar dovesse ai vincitori, quanto incomparabilmente più d’ogni altra che per i tempi passati ricordar si potesse, era stata gloriosa, decisiva, e compiuta.[291] I Greci erano in punto di levarsi per tutto l’Oriente, i Turchi sbigottiti stavano aspettandosi la caduta dell’imperio, il Sultano confuso tornava precipitosamente dalle provincie a guardar la capitale, e la plebe musulmana a quei Franchi, che aveva sino allora disprezzati, s’inchinava pubblicamente; e loro confidava le più preziose sostanze, per salvarle dal sacco, che temevano da un giorno all’altro imminente.[292] Gli Occidentali dall’altra parte niuna cosa più rivolgevano per la [294] mente che battaglie e conquiste: cacciare i Turchi dall’Europa, svellere dalle radici la pirateria africana, rimettere in piedi l’imperio di Grecia, riscuotere la Palestina, liberare Gerusalemme, impedire la temuta rovina dell’Ungheria e della Polonia, ed ogni altra impresa, quantunque ardua, stimavano che dovesse, dopo così felice cominciamento, riuscire. Ciò non pertanto dalla grande vittoria nostra (che pur fu principio del dichinamento in che è venuto l’imperio turchesco) non si cavò allora niun frutto: perchè ad onta dell’opinione pubblicamente tenuta dagli amici e dai nemici, contro il corso ordinario degli eventi, ed oppositamente agli interessi comuni del Cristianesimo e dell’Italia, vi fu chi si adoperò a contrariarlo. Questa sola ragione, già nota ai miei lettori, quantunque studiosamente ricoperta dietro le cortine dei gabinetti, e poco eziandio potuta o voluta vedere dagli storici timidi o parziali, pur rilevasi da tutta l’orditura dei fatti precedenti e seguenti, e dalle carte secrete degli archivî. Questa sola ragione, dico e ripeto, può chiarire gl’intricati successi con che si passarono gli altri anni dell’alleanza.
A vedere insieme Spagnuoli e Veneziani pareva che dovessero essere in grande amicizia tra loro; ma nel secreto nudrivano gli uni contro gli altri odio più acerbo che non contro i Turchi.[293] Ed il fuoco occulto delle passioni, rattizzato dalle continue querele, e più che mai scosso dal soffio della recente vittoria, divampava qua e là in fiamme di sdegnose parole. Imperciocchè gli Spagnuoli, generazione d’uomini gonfia e burbanzosa, dispettando la semplicità e sottigliezza dei Veneziani, ne spregiavano il costume, la milizia e l’armata; altamente [295] sentivano e parlavano di sè; tutto il vanto della giornata davano ai capitani, ai soldati e galere loro. Ed i Veneziani non sapendosi passare di tanta arroganza, e forse anche travalicando i limiti della giusta indignazione, riforbivano le lingue a narrare i loro meriti, e le altrui magagne. Contrapponevano alla tardanza di don Giovanni la prontezza del Veniero; alla fuga o al tradimento di Giannandrea, le prodezze e la gloriosa morte del Barbarigo; alla infingardaggine del Davalos, capitan delle navi spagnuole, la bravura di Francesco Duodo, duce delle galeazze veneziane; ai timidi consigli dei tutori di sua Altezza, il deliberato parere dei provveditori di san Marco: e dimostravano che la battaglia e la vittoria erano state, non a diletto ma a dispetto degli Spagnuoli: essendo che per quant’era da loro non avrebbero voluto combattere per non vincere. Il governo di Venezia oltracciò mirava apertamente non solo a ricuperare Cipro e Negroponte, ma ben anche a mettere altri ordini di dominio nell’Epiro e nella Grecia: e la corte di Madrid, che non poteva nè per i capitoli della lega, nè per la distanza delle regioni, aver parte a siffatti guadagni, pativa troppo a dar mano perchè l’abborrita rivale se ne facesse padrona. Bisognavale piuttosto averla avvilita e fiacca, che gagliarda e vittoriosa.[294] Così gli alleati di gloria, [296] d’imperio e di virtù, nella marineria, nella milizia e nei gabinetti contendevano.
Ma in Roma sotto la fede di Pio V si facean pratiche per coprire gli oltraggi, quietare gli sdegni, e promovere la concordia: a pur ottener che tutti insieme si volgessero al pubblico beneficio. Da questo centro, ove era più pura l’intenzione e più sincera la pietà, partivano consigli generosi ed efficaci rimedj per condurre sulla diritta via a termine salutare la scontorta machina della lega. Perciò, volendo a un tempo crescerle forza e ripararne i difetti, pensò il Papa rinfiancarla coll’imperadore de’ Romani, e col re di Francia, e di Portogallo; invitandoli a mettersi di accordo per così giusta ed util guerra. Ma quantunque si brigassero a Vienna e a Parigi i due cardinali Commendone e Bonelli, a questo intendimento mandativi dal Pontefice, non si potè conseguir nulla di rilevante.[295] Massimiliano, dopo la gran battaglia navale, non avendo più paura del Turco, schermivasi dai colpi maestrevoli del Commendone: e [297] Carlo, dicendo che sarebbe venuto nella Lega quando ci fosse entrato Cesare, si scusava: prometteva però con molta solennità di parole e magnificenze di regî segni al Bonelli, che, sebbene dovesse far risentimento di certi oltraggi ricevuti dal re di Spagna; pure vivendo il Pontefice, non avrebbe mai mosso l’armi contro di lui, nè in alcun modo disturbata la lega. Di Portogallo si ebbero molte promesse, e nulla più.[296]
Così al principio del settantadue non furono in Roma a trattar le sorti della futura campagna altri ambasciadori se non quelli stessi del re Filippo e dei Veneziani: i quali sembrava pur che non avessero modo ad accordarsi insieme altrimenti che nel trovare ogni dì nuovi capi di questioni senza fine, se l’autorità del Pontefice mediatore, appo gli uni e gli altri sommamente valevole, non le avesse terminate.[297]
Per dirne quel tanto che basta, comincerò dai Veneziani: i quali primamente proponevano che si vedessero i registri delle spese, e per giustizia si restituisse alla repubblica il denaro cavato al di là del debito suo. [298] Laddove gli Spagnuoli scaltritamente entrando con loro nell’irto spineto del lungo e minuto bilancio, tanto li ravvolgevano in cento digressioni sulla passata economia da mandar quasi in oblio i provvedimenti della guerra da farsi. Il Pontefice però che intentamente vegliava sopra i negoziatori, e più d’ogni altro sentiva l’importanza del trattato, e però il danno che dalle altrui passioni gli veniva, per ovviarvi, proibì a quei signori di fermarsi punto sulle cose passate senza aver prima concordato delle future. Ma qui pure si fece campo a discordie e a strani infingimenti. Qui si erano a grand’arte provvisti e trincerati gli Spagnuoli. Avevano tra loro deliberato, e con molte maniere di ragionamenti persuaso a sè stessi, e non dubitavano di poterlo persuadere anche agli altri, di smettere la guerra di Grecia, e di rivoltarla in Africa. E ciò ostinatamente richiedevano per comprimere la oltracotanza dei pirati, e per rilevare la Spagna dalle loro molestie. Trovato bellissimo a mantener la guerra, a perdere i frutti della vittoria, ed a consumare i Veneziani. Questi però si opponevano a siffatto tranello, richiamandosi al capitolo quarto della Lega, e all’obbligo di esser tutti colà ove Turchi e barbareschi, molestavano insieme, non con parziali ladronecci, ma con guerra guerreggiata i possedimenti di una tra le potenze alleate. Richiedevano la difesa di Candia, la riscossa di Cipro, l’impresa già bene incominciata di cacciar fuori il Turco dall’Europa, e francare per sempre l’Italia e la Cristianità dal timore dei barbari. Schiacciato il capo dei nemici a Costantinopoli, dicevano, cadrebbero da sè le membra troppo slogate del mostruoso imperio nella Libia: al contrario i pirati, quantunque percossi, rileverebbersi più che mai formidabili se al loro capo si lasciasse il vigore di ravvivarli. Allora gli Spagnuoli, ribattuti sino alle trincee, voltavano [299] la faccia, e si rifacevano all’assalto da un altro lato: dicevano che non si poteva andare tanto innanzi nella Grecia senza l’aiuto dell’imperadore dei Romani, il quale non si sapeva ancora se volesse o no entrare nella lega. E i Veneziani, che non cedevano in destrezza e avvantaggiavano nella giustezza dei tiri, rispondevano che Cesare più facilmente si metterebbe con loro se li vedesse venire avanti verso di lui, che non se li sentisse andare in dietro verso l’Africa. Quindi i primi abbassavano l’armi; e come se volessero capitolare, proponevano con molta dolcezza, che, stando Cesare irresoluto, si potrebbe almeno lasciare in arbitrio dei tre generali il decidere quando e come meglio metterebbe il voltarsi a Levante, o a Ponente: facevano secretamente ragione di poter tirare ogni cosa a quest’ultima parte coll’autorità di don Giovanni e con lo stringervi Marcantonio. Ma gli altri, fiutata la malizia, rilevavano in alto le armi della capitolazione, dicendo doversi osservare quelle leggi che si erano con solennità di sacramento stabilite; nè concedere a niuno, fossero pure i tre generali, la facoltà di violarle.[298] I primi allora querelavansi che la Repubblica [300] volesse dominare a suo talento, e togliere per sè ogni vantaggio: i secondi che si tentasse ingannarli, e toglier loro il frutto della vittoria. E gli uni e gli altri da questo a quel ragionamento trapassando, senza fermarsi mai, dopo il giro di due mesi si restavano nell’incertezza del primo giorno: nè si vedeva alcun segno di conclusione.
[Marzo-Aprile 1572.]
II. — Allora san Pio, contrappesate le opposte sentenze, e veduto che da una parte era doppiezza e pubblico danno, e dall’altra lealtà e comun beneficio (sebbene accidentalmente congiunto con la privata utilità di chi lo sosteneva) pronunciò l’arbitramento, conforme al vigesimoterzo capitolo dell’alleanza, che fu da tutti di buona o mala voglia ricevuto.[299] Con questo restarono decisi i quattro punti di maggior controversia: primo, all’entrante di aprile l’armata tutta si troverebbe a Corfù; secondo, la guerra si farebbe nella Grecia; terzo, là e non altrove si governerebbero le imprese col voto dei tre generali; finalmente ciascuno accrescerebbe a poter suo il numero delle galere, e tutti insieme per la rata parte condurrebbero sull’armata trentaduemila fanti, cinquecento cavalli, trenta cannoni da batteria, munizioni all’avvenante; e terrebbero un [301] campo di dodici mila fanti ad Otranto, sia per rinforzar l’armata, sia per traghettarli quando che fosse in Grecia. Ciò fermato, e tronche per la diligenza ed autorità sua infinite altre questioni, si venne a sottoscrivere i detti ordini per la campagna dell’anno mille cinquecensettantadue. I Veneziani palesemente gioivano sperando gran fatti: e gli Spagnuoli in segreto sogghignavano, sapendo di aver loro dato parole di soddisfazione in carta, purchè continuassero a consumarsi nella guerra.[300]
Marcantonio ebbe ordine di allestirsi alla partenza. Sapeva bene quanta invidia fosse cresciuta dalla plebe dei cortigiani sino al trono di Filippo contro di sè.[301] Sapeva le querele tra Spagnuoli e Veneziani, e pensava come, dovendo star tra loro nel mezzo, sarebbe stato afflitto o dalle esorbitanze degli uni, o dalle esigenze degli altri. Ciò non pertanto, ripigliato animosamente il governo della spedizione, e pronto a soffrire tutto anzichè fallire alla fiducia del Papa, si dette a provvedere quello che bisognava per la campagna. Prima deputò ad Otranto Torquato Conti e Gentile Sassatelli, nobilissimi romani e prodi condottieri, con duemila fanti che esser dovevano [302] la parte del Pontefice in quel campo.[302] E trovandosi poco soddisfatto di Onorato Gaetani per la provvisione dei soldati, quantunque marito dell’Agnesina Colonna sua sorella, gli tolse il generalato delle fanterie,[303] e in suo luogo pose Michele Bonelli; che, avendo molto valorosamente combattuto a Lepanto, per la sua virtù e per l’autorità che gli dava la parentela e benevolenza del Papa, stimava molto a proposito per quel carico. Aveva altresì destinati i nuovi capitani a far levata di fanterie sotto la direzione di Cencio Capizucchi mastro di campo generale, cui spacciò con amplissima autorità nelle provincie, datagli tra l’altre una lettera di bando a tutti i governatori e magistrati secondo suo usato in questi brevi concetti:[304] «Molto magnifici Signori. Roma, 15 gennaro 1572. Il signor Cencio Capizucchi viene per servigio di Nostro Signore e per ordine mio a fare scelta delle fanterie che sono necessarie in questa nuova spedizione per l’armata di Sua Santità, come vedranno le Signorie vostre per la sua patente. Et perchè appresso li ragionerà di alcune cose toccanti all’honore et riputazione di codesta Comunità et beneficio e comodo delli soldati, li prego a credergli come farebbero a me medesimo, et favorirlo in tutto quello che da lui saranno richiesti per questa causa: et alle signorie vostre mi raccomando et offero: «Marcantonio Colonna.»
Quindi spedì la patente al capitan Girolamo Mariotti di Fano, perchè mettesse la sua compagnia nella Marca d’Ancona: alli venti diè la condotta a tre altri capitani; [303] Filippo Contucci da Matelica, Concetto Matteucci da Fermo, e Giulio Sanfrèo da Urbino: alli nove febbrajo diputò ajutante del Capizucchi il capitano Aurelio Alavolino di Macerata, e non guari dopo scrisse nel ruolo dei suoi capitani Andrea Càrdoli da Narni, Vincenzo Olivieri di Pesaro, Orsino Ferrari e Rutilio Conti di Roma, Marcello da Bologna, Filippo da Civitavecchia, Flaminio Brandolini da Forlì, Pierjacopo da Nocera, don Cesare Caraffa napoletano pronipote di papa Paolo, Vincenzo Galeotti di Roma, Francesco Marcia Signorelli di Perugia, Bastiano Bandini, e Pellegrino Sinibaldi di Osimo.[305]
La gioventù animosa intanto, ed i soldati che avevano già prima militato, senza ripensare altrimenti alle durezze della passata milizia, così prontamente concorsero a scriversi nelle nuove compagnie, che in pochi giorni ebbero pieni i ruoli: non solo dell’armamento papale, che era di duemila fanti e trecento nobili venturieri; ma anche dei battaglioni che i Veneziani, come sempre, così allora traevano dallo Stato.
A me piace ricordare che nel presente anno quasi dieci mila statisti militavano all’armata sotto la bandiera di san Marco, guidati da quattro colonnelli o mastri di campo, che erano Paolo Orsini di Roma, Prospero Colonna di Roma, Claudio della Penna di Perugia, e Fabio Pepoli di Bologna: oltre ai quali erano quivi pure i capitani Carlo da Perugia, Gasparo d’Ascoli, Lorenzo Narducci di Macerata, Pier Filippo da Scapezzaro, Signorello da Perugia, Nardo da Bevagna, Ferro Romano, Costantino da Viterbo, Bartolommeo da Montesanto, Giovanni Brancadoro da Fermo, Ruggero della Fara, Orazio Bordandini da Faenza, Francesco Coppoli [304] da Perugia, Baldassar d’Assisi, Angelo Romano, Giulio da Spoleto, e Luigi Pepoli da Bologna.[306] Similmente il Contarini, e in più luoghi anche il Sereno, ricordano i seguenti capitani da unirsi a quelli che ho nominati avanti. Pasotto e Camillo Fantuzzi da Pesaro, Cesare Crotti e Giammaria Riminaldi da Ferrara; il conte Cesare Bentivoglio, conte Bonifacio Bevilacqua, Antonio Ercolani, Alessandro e Paolo Zambeccari da Bologna; Ottaviano, Bonifacio e Annibale Adami da Fermo, Alfonso Vitelli da Castello, Ortensio Palazzi da Fano, Roberto Malatesta da Rimini, Soldatelli da Gubbio, Ascanio da Civitavecchia, conte Jacopo da Corbara di Orvieto; Pietropaolo Mignanelli, e Ludovico Santacroce di Roma.[307]
[1 maggio 1572]
Al tempo stesso si trovavano già pronte al navigare in Civitavecchia le tre galere quivi armate dai ministri del Papa, e se ne aspettavano altre undici da Livorno. Le fanterie marciavano dai loro quartieri verso la marina, e Marcantonio era sul punto di uscir di Roma, quando Pio Quinto rifinito dalle lunghe molestie ed affannose cure del pontificato, nè potendo oltre reggere il peso delle abituali sue infermità, oppresso più dalle fatiche che dagli anni, dopo alquanti giorni di acerbissimi dolori pazientemente tollerati, tra i conforti della religione raccomandando agli astanti cardinali le cose della Chiesa e della lega, santamente il dì primo di Maggio addormentossi nel Signore. Uomo per innocenza di costumi, grandezza di animo, e studio di pietà degno di esser a quei sommi Pontefici dei primi [305] tempi comparato, cui la riverente posterità per le virtù e santa vita tenne e terrà sempre in venerazione.[308]
III. — Restò tutta la Cristianità e più d’ogni altro il popolo romano compreso da tanto dolore quanto mai per molti anni innanzi non se ne era sentito per morte di pontefice, o per qualunque altra pubblica calamità. Così grande era la estimazione e l’amore in che tutti l’avevano; e così pure cruccioso il perturbamento imminente agl’interessi della lega. Cadevano le speranze, esultavano i nemici, crescevano le gelosie, e don Giovanni, consapevole del fatto, che solo per l’autorità di Pio stava in piedi l’alleanza, s’udiva esclamare: Or ch’è morto mio padre (così per affetto pietoso chiamarlo soleva) non ho speranza di far mai più nulla di bene.[309] Nel vero il grave corpo della lega perduto avendo il suo capo, e quasi direi l’anima sua, stava prosteso senza moto, senza disegni, e da ogni parte oppresso da nuove difficoltà. Tuttavia i cardinali, fermi nel proponimento di non mancare al debito loro nel favorire e mantenere la guerra, giovandosi di quel denaro, che contro l’opinione di ciascuno aveva Pio lasciato in Castello per la continuazione della medesima, ottocento mila ducati di moneta coniata e il compimento di un milione [306] e mezzo in assegnamenti sicuri,[310] coll’autorità del loro collegio in Sede vacante, confermarono Marcantonio nel generalato: e prima che nel conclave si chiudessero, gli ordinarono di mettere in assetto le galere di Civitavecchia, affrettare la venuta delle fiorentine, imbarcar le fanterie, e partir per l’armata. Ma si aveva a trattar col Granduca: il quale, sebbene avesse capitolato per la condotta delle galere con papa Pio,[311] pure in Sede vacante stava dubbioso, e andavasi scusando di non averle in ordine. Temeva la lunghezza del conclave, le qualità di qualcuno dei papabili, segretamente se la intendeva con gli Spagnuoli, e poco amava i Veneziani.[312] Di che i cardinali comandarono a Marcantonio che scorresse di presente a Firenze per levare le difficoltà: e scrissero a Cosimo eziandio più lettere per aver le galere, confermandogli quanto da Pio gli era stato promesso; con amplissima dichiarazione e firma di tutti loro, che chiunque fosse per riuscir Papa sarebbe per fare il medesimo. Una di queste lettere, che meglio d’ogni altro discorso mostra lo stato di questa bisogna, stimo pregio dell’opera il produrre qui volgarizzata in questa forma.[313]
[307]
[6 maggio 1572.]
«Al Granduca di Toscana. — Noi per divina misericordia Vescovi, Preti, e Diaconi cardinali eccetera: Dilettissimo ecc. Abbiamo jer l’altro spedite in diligenza per un corriere espresso le nostre lettere alla Vostra Nobiltà, con molte ragioni e maggior premura pregandola a mandar quanto prima in Civitavecchia quelle galere che può, e quante più ne può; affinchè a noi sia dato il modo di imbarcar le fanterie della sede Apostolica chè stanno già pronte, e nulla più aspettano che l’imbarco. Poi per le lettere scritte dalla istessa Vostra Nobiltà al cardinale Alessandrino collega e fratello nostro abbiamo apertamente veduta la vostra buona volontà verso la felice memoria di Pio Quinto Pontefice Massimo, e non dubitiamo che quella sia per durare al modo stesso verso di noi e verso questa Apostolica Sede per tutto ciò che risguarda la conservazione della sua dignità, massime negli affari di questa santa spedizione contro gl’Infedeli. Noi certamente ci siamo ripromessi da Voi gran cose ancor prima che le lettere di costì ci manifestassero la cura e la diligenza che Voi mettete grandissima nell’aver tutto in pronto. Nondimeno il pensiero di questo sommo e gravissimo negozio, dal quale principalmente dipende la salute di tutta la cristiana repubblica, tanto ci commove e sollecita che non possiamo quietarci con le sole parole, ma ci bisogna vedere i fatti e le galere; se non tutte almeno parte: e questo per molte e gravi ragioni che alla Vostra Nobiltà per la sua singolar prudenza possiamo confidare. Primo, perchè qui si tratta della dignità della Sede Apostolica, convenendosi che, come fu la prima a guidar [308] gli altri nel patto della sacra alleanza, così ancor lo sia nell’eseguirlo. Di più il nostro dilettissimo nel Signore Giovanni d’Austria, avendo già l’armata sua in ordine, scrive lettere pressanti per avere senza indugio queste milizie e queste galere. Similmente i Signori Veneziani non ristanno dall’adempiere tutti gli obblighi loro, e già cominciano a chiamarsi gravati perchè tante forze e così gran mole di guerra debba rimaner sospesa ad aspettare le poche galere che mancano. S’arroge il sospetto che gli stessi Veneziani pigliano di questo ritardo, come se non fosse a cuore della Santa Sede il perseverare nella sacra alleanza; la qual cosa a noi che vedemmo già l’ardore della felice memoria di Pio Quinto, e l’ardor nostro sentiamo, riesce più che dir si possa molestissima: e ci duole all’anima, che essi, o altri, ancorchè nel loro secreto e per solo sospetto, pensino tale indegnità di noi. D’altronde però non ci sembra aver modo a poterci scusare, essendo già passato il tempo prescritto: e quando avrebbe l’armamento nostro dovuto esser fornito nel mese di aprile, ci troviamo già valichi alcuni giorni di maggio senza alcuna conclusione; e quel che è peggio menati a più lunghi indugi. E neanche sminuisce il nostro cordoglio, nè resta salva la nostra dignità, per quel che forse potrebbe dirsi degli altri principi confederati; come se non fossero in punto, nè avessero adempiuto agli obblighi loro: perchè, dato pur che ciò sia vero, ne avremmo gravezza e molestia per cagione del pubblico danno: ma infinitamente più molesto e più grave ci sarebbe se avessimo col nostro esempio a dare agli altri un buon pretesto a cavarne le mani. Deve anche attendersi provvedutamente a questo, che se le galere della Vostra Nobiltà tardassero non diciamo pochi giorni, ma poche ore, eccoci sopra un grave ed imminente pericolo che le armate degli altri collegati senza aspettar la nostra si [309] sciolgano, e se ne vadano ciascuna a suo talento ad imprese di poco conto, e preparino quelle perniciose conseguenze che alla vostra prudenza lasciamo considerare.[314] E nè anche si deve preterire come tra pochi giorni ci avremo a chiudere nell’apostolico conclave per la elezione del nuovo Pontefice; laddove impediti da più alto affare non ci verrà concesso l’attendere a questo. Finalmente l’istessa stagione ci fa sentire il tempo opportuno alle imprese, nè ci permette di lasciarlo trascorrere a vantaggio dei nostri nemici e a nostra ruina. Questa fatta incomodi e danni non possono ripararsi che col rimedio della prestezza. Laonde noi non contenti delle lettere già scritte alla Nobiltà Vostra (dappoichè la gravità ed importanza del subbietto non ci consente di poterci chiamare abbastanza diligenti) nuovamente con tutta quella maggiore efficacia di che siamo capaci, richiediamo da Voi che senza aspettare le due vostre galere mandate in Spagna, e ne anche le galeazze, se non sono in punto, onninamente ne mandiate alcune galere per poche che siano, ma specialmente la Capitana, affinchè quivi inalberar si possa decentemente lo stendardo della Sede Apostolica, senza di che il felice proseguimento della sacra allenza non avrebbe buono avviamento. Le altre galere, secondo verranno, potrete comodamente mandarle appresso alle prime. Questo favore in tal modo dalla Vostra Nobiltà chiediamo, e così quella ne preghiamo che con più premura o maggior insistenza non ci è dato nè chiedere nè pregare. Ancor questo desideriamo, che per lo stesso corriero nostro voglia rispondere alla presente lettera; e significarci espressamente il tempo quando le galere che manderà scioglieranno le vele: imperciocchè tale notizia [310] ci è necessaria avanti, per bene ordinare i mezzi al fine. Dato a Roma a dì 6 maggio 1572 — Giovanni cardinale Morone, Girolamo cardinal Simoncelli, Silvio.»
Questa lettera dei cardinali da una parte dimostra la premura loro grandissima e l’importanza che mettevano nell’armamento delle galere; mostra gli umori dei collegati, i loro sospetti, il pericolo di separarsi e di mettersi a imprese di poco momento; e come don Giovanni faceva le viste di chiamarsi malcontento del ritardo altrui. Dall’altra parte fa toccar con mano il danno già patito alle Gerbe, quando fu distrutta la marineria nostra; donde il bisogno di ricorrere a principe tanto minore per aver il naviglio, che il sacro collegio avrebbe altrimenti a suo talento potuto spedire. Quindi io penso che le lettere di Cosimo passate attorno per le mani dei cardinali fino a quelle del Perretti, che fu poi papa Sisto, facessero in lui nascere il disegno di rifornir, quando che fosse, lo Stato d’una marineria sua propria, talchè Roma in simili casi tornasse in grado di dare non di chiedere soccorso altrui, secondo la qualità di sua grandezza.
E gli stessi cardinali prima di entrare in conclave, stretti dalla forza di cotal ragionamento, non lasciarono di fare quel che allora potevano intorno alle tre galere che Papa Pio aveva fatto armare in Civitavecchia: per le quali mandarono monsignor Grimaldi, il commissario della marina; e gli imposero di fornirle co’ migliori cannoni, e con tutti gli schiavi che erano nella fortezza.
[9 maggio.]
Ecco due lettere sopra questo subbietto.[315] «Al Castellano di Civitavecchia. Noi per misericordia divina [311] Vescovi, Preti, e Diaconi cardinali, eccetera. Ti raccomandiamo che tu debba trarre da codesta fortezza e consegnare nelle mani del reverendo Domenico Grimaldi protonotario e dell’armata apostolica commissario generale, o vero nelle mani di chiunque egli ordinerà, quattro cannoni: cioè due di quella specie che chiamano mojane e due mojanette, secondo la scelta che ne farà esso Commissario o altri da lui deputato, per uso e servigio della marittima spedizione dell’anno presente nella sacra alleanza: la qual consegna sarà da noi approvata, come di presente l’approviamo. Dato a Roma eccetera a dì nove maggio 1572. G. cardinal Morone. — G. cardinal Simoncello, Silvio.»
[10 maggio.]
Similmente all’istesso castellano il dì seguente con la medesima solennità di firme e di favella latina scrivevano:[316]
[312]
«Nostro diletto nel Signore salute.
»Ti comandiamo di dare e consegnare al reverendo signor Domenico protonotario Grimaldi, commissario generale dell’armata apostolica, o vero a chiunque egli stesso deputerà, i Turchi prigionieri della Sede apostolica quanti mai ne siano costà sotto la tua custodia: affinchè egli l’adoperi in servizio della santa spedizione dell’anno presente: e questo sarà approvato, come ora l’approviamo. Dato a Roma a dì dieci maggio 1572.»
[13 maggio]
Nè di ciò contenti replicarono con più lettere gli stimoli alla corte di Toscana per mezzo del nunzio Brisegno, e del general Sassatelli.[317] E perocchè da ogni parte richiedevasi che Marcantonio fosse quanto prima spedito all’armata,[318] ordinarono che le fanterie staccassero la marcia per terra verso Gaeta, da essere imbarcate o sulle galere pattuite da Cosimo o sopra quelle dei confederati;[319] e Marcantonio prima che si chiudesse il conclave uscisse da Roma, e andasse in Firenze a pressare il Granduca. Laonde la sera del tredici maggio l’istesso Marcantonio, dopo aver con poche e gravi parole mostrato al sacro collegio la prontezza sua in [313] tutto ciò che risguardar potesse la sacra alleanza, raccomandando loro la famiglia e gli stati suoi, partissi,[320] e i cardinali la stessa sera a tre ore di notte chiusero il conclave. E sebbene gli Spagnoli avessero da ogni parte trombato che i comizj volevano durare lungo tempo; e non senza ragione si temesse che il cardinale Alessandro Farnese, sostenuto da molta ricchezza e clientela, volesse ambiziosamente intorbidarli;[321] ciò non pertanto a insinuazione del cardinal Bonelli, e per opera dell’Altemps, la mattina seguente fu con prestissima elezione fatto papa il cardinale Ugone Boncompagno, chiamato Gregorio XIII.[322]
[15 maggio]
IV. — Di presente il nuovo Pontefice rivolse i suoi pensieri al grande affare della lega; e mandò a richiamar Marcantonio, che partitosi il dì innanzi non era molto lungi da Roma.[323] Allora il prudentissimo uomo venuto alla presenza del Pontefice novello, genuflesso ai suoi piedi depose il comando e le insegne del generalato, perchè Sua Santità liberamente le conferisse a chi più stimava degno della sua fiducia.[324] Seco stesso fin [314] d’allora avvisava che niuno potrebbe mai più essere tale per lui, quale era stato Papa Pio. Nondimeno Gregorio rispose che non pur nel grado e nel luogo in che il predecessor suo e gli altri collegati posto l’avevano il confermava, ma che avrebbe voluto potergli tanto ampliare l’autorità e gli onori, quanto stimava il suo merito e i suoi servigi. Intanto il Granduca, intesa la creazione di Gregorio, aveva subitamente troncato le precedenti difficoltà e fatto passare le sue galere a Gaeta: colà erano le tre di Civitavecchia, e le fanterie pontificie;[325] colà Marcantonio, Pompeo, Bonelli, Capizucchi e gli altri capitani con due mila fanti e trecento venturieri tosto furono ad imbarcarsi per essere quanto prima in Messina.[326]
[315]
[2 giugno ]
Erasi don Giovanni tenuto alle stanze in Sicilia: e, passata in feste e balli l’avversa stagione, ripreso pure con la primavera l’armamento, apparecchiava nei porti di Palermo e di Trapani quel che bisognar potesse per voltar la guerra in Affrica; avendogli fatto assapere i ministri del fratello che ciò sarebbe stato risoluto ed approvato nel congresso di Roma. Ma quando san Pio (secondo che avanti si è scritto) ebbe tolto di mezzo questa e le altre scappatoie; e fatto vincere il partito di continuare la guerra nella Grecia, allora don Giovanni da Palermo era passato a Messina: e quivi a poco a poco riduceva l’armata sua, intanto che alla corte di Madrid si annaspavano altre filamenta.[327] I Veneziani dal canto loro, quasi mai non posando, avevano nel cuor del verno coll’armi di Prospero Colonna e di Paolo Orsini, guerreggiato in Albania, preso la fortezza di Margaritino,[328] tentata Santamaura, e scosso Castelnuovo: ed avvicinandosi la buona stagione con molto ardore si adoperavano a rifornire le provvigioni, crescere il numero delle galere, e rinforzare di genti l’armata; per le grandi imprese che meditavano.[329] Alle quali non volendo che portasse impedimento benchè minimo la presenza di Sebastiano Veniero, vittorioso e odiato dagli Spagnoli, [316] per compiacere alle molte istanze del re,[330] e di don Giovanni, volere o non volere, deliberarono privarlo del generalato, sotto specie di fargli godere riposatamente nella patria i meritati onori. In suo luogo posero Iacopo Foscarini, provveditor generale in Dalmazia. Costui pochi anni prima era passato con maravigliosa felicità dalle cose private al governo delle pubbliche; ma per età e per temperamento frigido, e nullamente rinfocolato nè dalla sorte dei suoi predecessori, nè dal favore della Spagna, languidamente tenne il generalato. Stava col nervo dell’armata in Corfù aspettando don Giovanni da Messina; e aveagli mandato incontro con venticinque galere Iacopo Soranzo, nuovo provveditore dell’armata succeduto al Barbarigo, perchè sotto colore di onorare il serenissimo capitan generale, il dovesse invitare e stringere alla partenza.[331] Luccialì già conciava col ferro e col fuoco i rivaggi dei cristiani.
Allora Marcantonio era in Napoli alle prese col cardinal Granuela. Questi istantemente il richiedeva di sostare, e di menar seco le galere del regno; perchè avendo sin allora pubblicato che stessero ad aspettarlo, non [317] aveva caro che dai fatti comparisse il contrario; cioè di non averle ancora allestite. Ma quegli vedendo che i Napoletani dovevano non poco tardare, e che la presenza sua sarebbe necessaria a Messina, prese congedo e partissi. Poco onorato dagli Spagnoli, e poco corrisposto dai castellani di Napoli; segni piccoli ma certi di maltalento.[332] Giunto a Messina alli due di giugno, dava la destra ai Veneziani, e trovavali come sempre suoi confidenti ed amorevoli. Non così don Giovanni: anzi torbido e pensoso, tanto che pur dal sembiante mostrava l’interno cruccio, ond’era afflitto. Freddo con lui per le diffamazioni degli invidi,[333] riserbato co’ Veneziani per gli ordini della sua corte,[334] ossequente ai consiglieri per paura del fratello,[335] chiudeva in core un secreto, cui nè tacere nè palesar poteva senza rossore. Restavagli il nome di generale, non più l’autorità: soltanto [318] doveva coprire coll’autorità e col nome le altrui magagne.[336] Prima sdegnoso che i Romani e i Veneziani tardassero a venire in Messina, dipoi inquieto che la venuta loro stringesselo alla partenza, ora tutto ardore di guerre e di speranze, ora tutto gelo di dubitazioni e d’indugi; e avendo più volte fermata e disdetta la partenza, finalmente dopo diciotto giorni d’incertezza, chiese in grazia al Soranzo ed al Colonna che per altri sei giorni non gli dessero molestia, nè gli parlassero del partire. Le parole e i fatti di don Giovanni sono di gran lume alla storia: quelle mostrano la ragione e la sua buona indole; questi i falli a che lo conduceva la politica di Filippo.[337]
Giunto a tale, lettor generoso, fa mestieri portar lo [319] sguardo sino al fondo di questi maneggi, è accinger l’animo a sofferenza. Imperciocchè se tu detesti, come io penso, la frode dei tristi; e più se coperta a studio col manto della pietà, grave ti parrà affrontare il corso di tanti inganni, e giugnere sino alle arcane sorgenti.[338] Non potrai quest’anno neanche per azzardo, come a Lepanto, vedere alcun felice successo; nè ti rimarrà conforto di speranza, nè discolpa ai traditori, nè sollievo ai derelitti: ma in ogni parte sconci, frode e ruina. La storia che è ritratto fedele degli uomini deve mostrarteli quali essi furono: e tu per le opere loro, non per le mie parole, ne farai ragione.[339]
[26 giugno 1572.]
V. — Stavano in grande aspettazione Romani e Veneziani e insieme tutto il Cristianesimo di quando agli [320] Spagnuoli piacerebbe muovere da Messina: mossa in ogni parte ardentemente desiderata, e colà istantemente richiesta dal general Colonna, dal provveditor Soranzo, dal Nunzio Odescalchi, e da molti altri con loro. Se non che il serenissimo don Giovanni, passati venticinque giorni, col pretesto di spalmar galere, di armarne delle nuove, di mettere in punto un’altra Capitana, tra le visite, le mostre, i conviti, le processioni, e il giubileo, promettendo sempre di partire, non era mai sull’eseguirlo.[340] Alcuni ne facevano grandi meraviglie, altri pubbliche mormorazioni, e tutti sottili ricerche per saper che fosse siffatta novità. Novità già da tanto tempo preparata che sin dai primi di giugno n’era arrivato l’avviso secreto a Costantinopoli.[341] Finalmente in capo ad altri sei giorni, quasi per forza, venne don Giovanni a palesare l’ordine del Re che gli proibiva di cavare l’armata regia dalla Sicilia. Egli se ne mostrava e n’era dolentissimo a tale che il dolore consumavalo: nè per questo ardiva scolparsi, nè dar ragioni, nè mostrar le lettere di Sua Maestà. Marcantonio, insistendo sull’osservanza dei capitoli, indarno implorava di vedere almeno la qualità e i termini delle medesime, se pur dessero luogo a interpretazione, o temperamento.[342] Tacendo però don Giovanni, parlavano [321] i parziali suoi; e con tanto apparato di scuse quanto bastava ad imporre altrui, a perturbare il giudizio dei meno veggenti, ed a ridurre in disperazione i Veneziani. Dicevano sospettare Filippo, che la Francia volesse movergli guerra; quindi trovarsi stretto a tenere l’armata vicina, ed a smettere il pensiero di lontane fazioni. Siffatto trovato uscì fuori di Madrid, e fu a un tempo ripetuto dagli ambasciatori e amici loro in Roma, e in tutte le corti di Europa. Di presente rispose un fremito generale d’indignazione contro a Filippo di Spagna.[343] Il Papa, chiamandosi oltraggiato, acerbamente querelavasi che nel principio del suo pontificato si rompessero per iniquo inganno i patti dell’alleanza: e subitamente spediva un Nunzio a richiamarsene col Re.[344] I Veneziani dolentissimi sclamavano, sempre a un modo venir di Spagna parole buone e cattivi fatti:[345] falsa esser la minaccia [322] di Francia, falsi i sospetti di Spagna, falsa la pietà di Filippo; vero soltanto che egli voleva abbandonare in man dei Turchi la sorte del Cristianesimo, perchè i Veneziani non cavassero frutto dalla vittoria.[346] I Francesi liberamente rispondevano, essere gli Spagnuoli artefici eccellenti e maestri di menzogne: calunniare alla buona mente del loro sovrano che aveva promesso, e manterrebbe la tregua: ingiustamente adesso rivoltarsi contro ai Francesi l’accusa di quella frode, che eglino stessi usavano sempre contro i Veneziani.[347] I pubblicisti dimostravano che, data per vera la levata dei Francesi, non cadevano per questo le obbligazioni degli Spagnuoli; massimamente che le spese lor forniva la crociata e i beni del clero: anzi troverebbero nella stessa lega la più sicura guarentigia per non essere impunemente da [323] chi che fosse molestati.[348] I Cortigiani ghignando dicevano secretamente l’uno all’altro, che la fosse solenne astuzia per tarpar le ali al pericoloso e troppo alto volo di don Giovanni, la cui grandezza non poteva troppo piacere al fratello.[349] I curiali di Roma, sottilmente considerando il caso, secondo la ragione dei tempi e l’umore delle persone, pensavano che il Re volesse in tal modo tentare la pazienza del nuovo Papa, per vedere come si passerebbe di questa ingiuria, e quanto ardimento potrebbe con lui pigliarsi nel tempo a venire.[350] Marcantonio, senza dissimulare sin da principio a don Giovanni in presenza dei Veneziani la sua riprovazione, nè fare cosa indegna di ministro di sua Santità,[351] vedeva nel fondo di questo negozio, che i rumori di Francia non [324] avevano fondamento, e gli altri pretesti erano baje. E quantunque da buon feudatario nudrisse e mostrasse gran riverenza al suo Re, pure non lasciava di scrivere in cifra al Cardinale segretario di Stato in Roma «Che non si poteva difendere il re di Spagna senza offenderlo; e che i Veneziani di niuna cosa potrebbero mai più dolersi tanto che di essere stati allora abbandonati.[352]» Mentre il popolo cristiano a gran dolore tutte queste cose insieme ripetendo da ogni parte rammaricavasi, i ministri del re, come se già fosse rotta la guerra coi Francesi, mostravansi a un tratto spaventati: e ciascuno di loro, vicerè o governatore, da Napoli, da Milano, da Genova, dalla Sardegna negavasi di mandar più quel denaro, quelle munizioni, e quei soldati che avrebbe dovuto dar per la lega.[353] Con questi disegni in capo ardiva Filippo di Spagna dire al cardinal Bonelli, legato straordinario di san Pio, che i Veneziani erano indegni di essere soccorsi; e che per colpa loro la lega non sarebbe lungamente durata![354] Sapeva egli bene come far le mostre di fedeltà, mancar di fede, e costringere altrui a romperla.
[27 giugno 1572.]
Restavano pertanto i collegati in Messina pieni di confusione, e Marcantonio in gran travaglio: faceva di confortare i Veneziani, che non potevano darsene pace; e [325] di rimediare con don Giovanni che, quantunque afflitto, rispondeva non potersi muovere dal suo pensiero, nè servire alla santa lega, e neanche entrare in discorsi e repliche con Sua Maestà, per gli ordini precisi che n’aveva. Quando ecco il dì seguente a questa solenne dichiarazione correre quivi appunto in Messina pubblica voce, da tutti e Spagnuoli e Italiani ripetuta, che Sua Altezza tra pochi giorni partirebbe per l’impresa di Tunisi.[355] Ecco raunarsi il suo consiglio privato a trattare di questa partenza: ed ecco escludersi, non già per il bisogno che avesse il Re di tener vicina l’armata sua (perchè se questo fosse stato, non si sarebbe fatta correr la voce nè raunare il consiglio) ma, come mostrò il marchese di Santostefano, per non dare a vedere ai collegati ed a tutta la Cristianità che i sospetti di Francia fossero ombre e colori da nascondere l’abbandono dei Veneziani, e il mal talento di rivolgersi a dispetto loro verso quelle parti che nell’inverno passato s’erano escluse col parere comune dei collegati nel congresso di Roma.[356]
[1º luglio 1572 ]
Fallito quel disegno, presero i consiglieri spagnoli a spiegarne un altro, che tenevano in serbo. Tiro solenne a scusare il passato, a blandire il presente, e a togliere ogni speranza nell’avvenire. Don Giovanni, consigliato dal cardinal di Granuela e dall’ambasciador di Zuñiga, chiamava [326] a sè Marcantonio e Soranzo; e mostrando avere a cuore la conservazione e riputazione della lega, offriva ventidue galere del Re, e lor dava licenza di andarsene con esse in Levante. Soccorso però, come ognun vede, tanto fuor di tempo e così misero, che da una parte rivelava la falsità dei sospetti, e dall’altra l’astuzia dell’adescamento. Si voleva che gli altri continuassero a consumarsi nella guerra, e non potessero mai più godere i frutti della vittoria.[357] I Veneziani dal canto loro, stanchi di tante ripulse e sfiduciati di maggior sussidio, anzichè perdere il miglior tempo inutilmente a piangere, fecero vista di contentarsene. Indi a poco sfilarono da Messina per Corfù le ventiquattro galere della Repubblica, che erano quivi sotto la condotta di Iacopo Soranzo; le ventidue del re a carico del commendator Gil d’Andrada, cui fu dato il voto deliberativo nei consigli; e le tredici galere del Papa, sotto Marcantonio. Questi con lo stendardo della lega e con suprema autorità, nell’assenza di don Giovanni, doveva a tutta l’armata comandare.
[7 luglio 1572.]
VI. — Il periodo di tempo, che dal sette di luglio arriva sino all’ultimo di agosto, entra a gran rilievo nella storia mia; perchè allora Marcantonio Colonna tenne il primo luogo di autorità e di onore sopra l’armata dei principi alleati in guerra viva contro l’imperador dei Turchi. E quantunque quel bimestre mi si presenti intricatissimo [327] d’infinite difficoltà, pieno di contraddizioni, senza alcun successo decisivo, e poco tocco dagli storici; nondimeno perchè sfolgori tutta la luce della verità sull’argomento che tratto, e meglio si comprenda l’arte della politica e della guerra nel cinquecento, io intendo fermarmici alquanto, rincalzare il racconto co’ documenti, rilevare i fatti, e mettervi il più che posso di chiarezza e d’ordine. Insomma qui s’ha a vedere dopo la battaglia di Lepanto chi tra gli alleati intendeva vederla feconda, e chi invece vederla sterile; e come alcuni si adoperavano a mantenere la lega, altri a romperla.
Marcantonio in Messina avea posto mente a don Giovanni, che dopo l’ultime lettere del Re s’era turbato con tutti; e più con lui dopo il trionfo di Roma: aveva a chiari segni osservato il gran dispiacere che egli mostrava nel mandare armata in Levante, senza andarvi esso stesso, geloso di accrescere altrui la gloria:[358] prudentemente il colonnese volle pigliare da lui medesimo in scritto gli ordini di quel che avesse a fare; affinchè nè esso nè altri potessero di poi chiamarlo mancatore.[359] E per maggior sicurezza ne mandò una copia al Papa, e la pose eziandio ne’ suoi registri: talchè per quanto si adoperasse poscia don Giovanni a sopprimerne la memoria, non potè fare che non ci restasse quella scrittura che per la gravissima importanza sua oggi qui produco.[360] [328] «Messina, 7 luglio 1572. — Parere del serenissimo signor don Giovanni d’Austria. — Quel che pare al serenissimo signor don Giovanni d’Austria che potrebbe fare l’armata della lega che va in Levante quest’anno condotta dal signor Marcantonio Colonna, è come appresso. Quantunque sia sommamente difficile e pericoloso il dar pareri intorno alle cose future, massimamente considerando che quelle della guerra da un’ora all’altra si mutano per diversi accidenti, tuttavia si toccheranno [329] qui alcuni punti di ciò che Sua Altezza pensa che debba esser fatto dall’armata della Lega, posta all’obbedienza [330] del signor don Marcantonio Colonna. È parere di Sua Altezza che il detto signor Marcantonio si affretti quanto più sarà possibile di andarsene con la detta armata a Corfù, e di unirsi con quella dei Veneziani che sta quivi. Ma tal sollecitudine non deve impedire che prima vada al capo Santamaria, e di là levi tutti i soldati di Sua Maestà che potrà condurre seco nelle galere, perchè si è veduto coll’esperienza che la moltitudine dei soldati è quella che combatte, e sopra di loro si deve fare il maggiore assegnamento per vincere. E a questo proposito si dice che niuna galera debba avere meno di cencinquanta soldati a bordo, oltre la gente di capo e di remo del suo ordinario armamento.
»Sin da Corfù devesi pigliare la risoluzione del viaggio di detta armata, secondo gli avvisi che si avranno dell’armata nemica: perchè le cose da farsi devono dedursi dagli avvisi medesimi.
»Si fa conto che il predetto signor Marcantonio potrà unire insieme almeno centottanta navigli grossi di guerra, in questo modo: sei galeazze dei signori Veneziani, centoventi galere dei medesimi, ventidue galere e due galeotte di Sua Maestà, tredici di Sua Santità, diciotto o diciannove navi che si sa per lettere esser pronte in Corfù a conto dei signori Veneziani: in tutto centottantadue.
»Laonde quest’armata è tale per numero e per qualità di vascelli che non solo si eguaglierà a quella del nemico, ma ne sarà superiore; e così Sua Altezza è di parere che con essa si vada a scorrere presso le riviere dei Turchi, bruciando e distruggendo la roba loro; e ciò con doppio intendimento. L’uno per vendetta dei danni che essi hanno fatto nella presente stagione, e l’altro per provocarli a battaglia, che è il fine principale a che si deve intendere. Nella quale se essi vorranno affrontarsi, [331] non può mancare che coll’aiuto di Dio non restino vinti, per le molte ragioni che se ne potrebbero dire.
»Due cose voglionsi eziandio diligentemente osservare: l’una di non mettersi all’assedio di alcuna piazza; perchè il nemico stando vicino con tutta l’armata sua, e potendo caricare per terra con gran levata di soldati, riuscirebbe facilmente a danneggiare l’armata nostra: e l’altra di non cacciarsi troppo dentro nelle marine del nemico, senza una buona provvisione di vettovaglia. E così non essendo conveniente che l’armata della lega imprenda assedj, come si è detto addietro, il principal suo fine deva essere combattere coll’armata del nemico, sempre che si sappia che quella non sia troppo superiore alla nostra.
»Se però si vedesse che Luccialì, saputa la divisione dell’armata della Lega, volesse venire a cercare la parte più debole, sembra che convenga molto il tenergli dietro, dovunque egli si rivolti. Ondechè niuna cosa tanto bisogna, quanto condurre uomini diligenti e pratici con alcune galeotte o navigli leggeri; affinchè da un’ora all’altra possano avvisare i progressi del nemico, secondo i quali dovranno pigliarsi le risoluzioni.
»Messina, 7 luglio 1572.» «Don Giovanni d’Austria.»
In questi termini l’istesso don Giovanni dava le sue istruzioni allo spagnuolo Gil d’Andrada, che doveva condurre le ventidue galere del Re, sotto l’ubbidienza di Marcantonio: e in quel medesimo giorno, che non era tempo sospetto, nè prevedeva le susseguenti sue contraddizioni, scriveva al Papa di suo pugno dicendo:[361] «Ho [332] ordinato che insieme col predetto Marcantonio Colonna vadano in levante ventidue galere e due galeotte, sotto il comando del commendatore Egidio d’Andrada; con le quali, e con l’altra gente che anderà sull’armata (ma sopra tutto con le sante orazioni di Vostra Beatitudine) spero in Dio signor nostro che s’abbiano a fare nell’anno presente non meno buoni effetti di quelli che si fecero l’anno passato.» Dunque non v’ha luogo a dubitare che Marcantonio poteva e doveva condurre l’armata a far buoni effetti, a soccorrere i Veneziani, e reprimere le correrie dei Turchi; e principalmente a combattere coll’armata nemica, al paro e più che nell’anno passato.
Fermo il qual disegno, e stando monsignor Odescalco sopra una fregata alla bocca del porto in atto di benedire la partenza, Marcantonio cavò fuori ad una ad una le cinquanta galere che dovevano seguirlo: e sciolte le vele al vento, dette principio alla navigazione, usando sempre il suo grado di supremo generale con amore, con valore e con prudenza, da far concepire grandi speranze, se non lo avessero attraversato.[362] Quando egli fu sopra capo dell’Arme, punto estremo al mezzogiorno d’Italia, arborò sulla sua Capitana lo stendardo della lega, come doveva farsi per vigore della capitolazione e dei ricordi dati in voce da Sua Altezza; e poi rigirandosi da capo Spartivento a quel di Stilo, e da Cotrone a capo Santamaria, trovò quivi alli dieci del mese don Alvaro di Bazan, prese da lui le quattro galere che mancavano al compimento delle ventidue, imbarcò qualche migliaio [333] di soldati italiani, spedì a Corfù ventidue navi armate in guerra che si trovavano pur cariche di munizioni per la lega, e lasciati gli ordini opportuni al general Sassatelli per le fanterie pontificie che esser dovevano al campo d’Otranto, senza frapporre dilazioni e con intendimento di conservare i Veneziani nella Lega e di dar loro per questo ogni possibile soddisfazione, in due giorni per mezzo il mare travalicò a Corfù, incontrato e ricevuto con ogni dimostrazione d’onore da Iacopo Foscarini generale della Repubblica. Le galere, e i cavalieri di Malta, subbillati dai ministri Spagnuoli, invece di seguire lo stendardo della lega restaronsi oziosi a Messina: di che quasi tutti si scandalizzarono, e ne fece poscia Gregorio XIII grandi risentimenti.[363]
[13 luglio 1572.]
Prima cura di Marcantonio in Corfù era il moderare la collera dei Veneziani: avendoli trovati sopramodo sdegnosi, perchè impediti di fare ciò a cui potere sentiansi prodi e valenti. Dopo tre anni di speranze, e dopo la gloria della gran battaglia, si vedevano ogni giorno condotti a peggior partito. E allora, messe in punto centoventi galere, scritti ventimila soldati, spesi milioni di zecchini, pronti sin dal primo d’aprile, si stavano ancora a mezzo luglio aspettando l’altrui venuta. Nel qual nulla fare consumavansi, non solo di spese, ma anche di dolore e letargo; di che l’armata loro s’era un’altra volta corrotta. Il nemico rifattosi, impunemente [334] li danneggiava: e il regno di Candia era in pericolo di cadere da un giorno all’altro nelle rapaci sue mani; non potendo più quei popoli abbandonati da tutti campar la vita, se non gettandosi alla disperata dalla parte del Turco. Pur la sola vista dell’armata cristiana sarebbe stata più che sufficiente a tenérli in fede, e a liberarli dal continuo strazio.
Dopo la battaglia di Lepanto tra i pochi capitani di conto che tornar poterono a Costantinopoli fu Luccialì re d’Algeri.[364] Costui al primo giugnere rinfrancò gli animi abbattuti della plebe musulmana; e a poco a poco rimise alquanto di fiducia nel Sultano, che principiò a vedere in lui l’uomo da rialzare la prostrata potenza della sua casa. I suoi consigli furono lodati a cielo; il non aver combattuto, scritto a merito; la fuga, a bravura; ed il ritorno a salute. Insomma commendandolo ciascuno, e da ogni parte raccogliendosi intorno a lui le genti scampate dalla sconfitta, si trovò presto condotto alla vacante dignità di capitan generale dell’armata ottomana.[365] Di che a tutta diligenza adoperandosi, e non lasciando parte alcuna che all’ufficio suo in [335] quella necessità si convenisse, tanto seppe fare nella invernata, che di qua rassettando le galere seco lui scampate, di là richiamando le quaranta lasciate alla guardia di Cipro, di su dal mar nero conducendone molte dei Tartari, di giù dall’Africa molte più dei pirati, e da tutti i porti ed arsenali dell’imperio cavandone quante mai ve ne avesse, sebben vecchie e logore; e con operosità maravigliosa costruendone di legno ancor verde gran numero di nuove, ebbe alla primavera allestite duecentoventi galere; cioè molto maggior numero che non credeva don Giovanni.[366] Con queste, quantunque male armate di gente raunaticcia, di marinari presi a forza, e di soldati inesperti del mare, pure uscito dai Dardanelli si dette a scorrere in ogni parte la Grecia, e le isole dei Veneziani. Non già ch’egli avesse animo di guerreggiare [336] coll’armata cristiana, perchè dopo la prova dell’anno avanti non poteva presumerne buon effetto; e nè anche il confortava la qualità del suo mal armato naviglio: ma bensì intendeva a rintuzzar le speranze dei Cristiani, a consumar le isole, a tenere in soggezione la Grecia, e sempre schivando la battaglia cogliere quelle occasioni che l’altrui negligenza, o la sua fortuna e scaltrimento potessero mettergli avanti. Era allora in suo potere, senza che alcuno osasse contrastargli, condurre a compimento il disegno che da un anno prima che si combattesse a Lepanto, aveva formato; di tirare in lungo, straccare i Cristiani, consumarli nelle spese, dar campo alle loro gelosie, talchè senza pericolo restassero i Turchi alla fine superiori.[367] Dovea sapere di Fabio.
[23 luglio 1572.]
Le forze però e i disegni del nemico non erano così ben conosciuti a Corfù, come si richiedeva; nè gli avvisi del Foscarino si accordavano insieme con quelli che da più parti giungevano a Marcantonio. Di qua gli esploratori dicevano che Luccialì non aveva più di cencinquanta galere; e queste mal conce e peggio armate: di là il bailo veneziano in Costantinopoli (che, quantunque sin dal principio della guerra fosse stato ritenuto prigione, pure aveva sempre per sue molte aderenze e sottile ingegno secretamente mandato notizie ed avvisi) scriveva che l’armata turca sarebbe di dugento e venti galere, sufficientemente provviste, e di cinque maone da paragonarsi in grandezza ed armamento alle galeazze cristiane. Delle quali notizie i generali della lega, che avevano veduta la distruzione dell’anno avanti a Lepanto, non potevano persuadersi; e le tenevano l’una [337] più che l’altra esagerate. Ciò non pertanto sapendosi di certo che Luccialì aveva in più parti disertato il Cerigo, e minacciata Candia; e bisognando all’armata veneziana aria e moto per rimetterla con quel beneficio in salute, e rinvigorirne le genti infralite dal languore di così lunga oziosità, Jacopo richiese Marcantonio di mettersi in mare; e di farsi vedere dai Greci già mossi, specialmente nel braccio di Maina, a loro favore; e di là scorrere a Candia per difenderla dagl’insulti ottomani: dappoichè la comune disgrazia aveva portato che si dovesse allora provvedere a non perdere i propri paesi, in cambio di andare a cogliere negli altrui il gran frutto che si sperava della passata vittoria.[368]
Alla qual domanda, così ragionevole e tanto pur conforme al parere di don Giovanni, avendo Marcantonio ed Egidio volentieri consentito, l’armata della lega, lasciato addietro il funesto soggiorno di Corfù, andò a sorgere presso l’Epiro, alle Gomenizze; che già ho detto essere porto nel paese dei nemici, al paro di molti altri in quel tratto di mare, aperto a tutti e disabitato. Di là Marcantonio con alcune spalverate galere mandò spiare l’andamento di Luccialì: e intanto forniva le provvisioni d’acqua e di legna, richiamava dal golfo alquante galere restate addietro, faceva venire il compimento dei fanti d’Otranto, e rassegnava l’armata che era quasi di centottanta vele; cioè tredici galere, e due [338] navi di sua Santità; ventidue galere, tre navi, e due galeotte del Re; cento galere, sedici navi, e diciotto tra fuste e galeotte dei Veneziani; con venticinque mila buoni soldati da combattere.[369] Tutti confidavano che, qualunque fosse stata la forza e il numero dell’armata nemica, avrebbero potuto, almeno congiunti con le navi, combatterla.
[29 luglio 1572.]
VII. — Alli ventotto di luglio Marcantonio uscì dalle Gomenizze: e sarebbe stato uomo da conquidere Luccialì, e da render lieta la Cristianità di vittorie più anche gloriose della precedente, sol che gli Spagnuoli l’avessero lasciato andare. Ma quando in mezzo ai lieti marinari era in punto di navigare con tutta l’armata verso la Cefalonia, comparivagli innanzi una fregata con certi repentini avvisi del Ragazzoni, ambasciator dei Veneziani presso don Giovanni; e poi una galeotta con alcuni messaggeri [339] di Sua Altezza. Costoro venuti a gran pompa e spavalderia sul bordo della capitana pontificia, in presenza di Marcantonio e degli altri generali, si fecero a dire: essere all’improvviso caduti giù tutti i sospetti di Francia, e il Re per sua bontà avere ordinato a don Giovanni che con tutta l’armata movesse da Palermo per Levante. Però Sua Altezza quanto prima raggiugnerebbeli: e sebbene contro sua voglia alcun tempo tardar dovesse, a fin di spedire il bisognevole di così subita partita, tuttavia gli alleati si rallegrassero, la buona novella ricevessero, la prossima venuta di lui bandissero; e nel mezzo tempo si guardassero da niuna cosa imprendere: ma anzi tornassero indietro, o almeno aspettassero quivi l’Altezza Sua, per onorarlo e congiungersi seco.[370] Finissima malizia!
Poi trassero fuori una lettera assai rispettosamente; e consegnatala a Marcantonio, lo invitarono a leggere in presenza degl’altri ciò che quivi si conteneva in questa forma:[371]
«Illustrissimo Signore.
»Ricuperata nel Belgio Valenziana, e cacciati di là i ribelli, sebbene costoro siansi ristretti ai monti d’Haynau e molto ancora resti a fare in quelle parti, nondimeno il Re mio Signore geloso di mostrare al mondo di non aver giammai mancato ai capitoli della [340] lega e che sempre tiene in maggior conto il pubblico servigio della Cristianità che non le private sue cose, per [341] mezzo della galera che io spacciai da Messina nei giorni passati ed oggi è ritornata, mi ha fatto scrivere essere di suo servigio che io, lasciato ogni altro pensiero, me ne venga con tutta l’armata in Levante; e porti la guerra al comune inimico. Quindi io penserei partirmi da questa città per Corfù nel termine di tre giorni, al più tardi: e nella mia grande allegrezza che V. S. può bene intendere per infiniti rispetti ho subitamente scritto il presente dispaccio che mando con una fregata in diligenza, affinchè V. S. udita questa nuova che è stata per me di tanta consolazione e piacere possa comunicarla a codesti signori; ed affinchè conforme a questa procedano a pigliar quel partito che loro convenga, che io non perderò un momento di tempo nel mio viaggio. Intanto mi piace che si divulghi tra i Greci la mia venuta per tenerli in fede, tanto che arrivo; e che non si dia principio ad alcuna impresa che possa aver pericolo, per conservare la riputazione: ma solo s’intenda a preparare le cose necessarie, e si provveda che il nemico non dipopoli le isole dei Veneziani. Imperciocchè piacendo a Dio e congiunta tutta l’armata, spero in lui che si abbiano a fare quest’anno effetti conformi al suo servigio.
»Scrivo con questa medesima fregata al marchese di Santacroce che, ricevute le mie lettere in qualunque parte egli si trovi, passi subito con tutte le galere e navi che ha seco a Corfù: e ciò per guadagnar tempo, e togliere ogni ostacolo che possa ritardare la mia venuta. [342] Procuri V. S. con gran vigilanza di mantenere i soldati in disciplina, ed impedire ogni questione tra gli Spagnuoli e gl’Italiani: perchè mi dispiacerebbe di cominciar la guerra con la discordia di queste due nazioni.
»Nostro Signore Iddio ammonisca la persona Illustrissima di Vostra Signoria.
»Da Palermo alli 16 di luglio 1572.
»P. S. La Signoria Vostra partecipi da mia parte ai signori Generale e provveditori la risoluzione che mi ha fatto prendere Sua Maestà, la quale (credami Vostra Signoria) pospone gl’interessi suoi al pubblico bene. E quantunque ho detto che partirò di qua per Corfù, dovrò nondimeno trattenermi a Messina per condurre tutta unita quest’armata: ma resterovvi il meno possibile. Io non scrivo a codesti signori per non ritardare lo spaccio. Questo potrà servire eziandio per loro.
»Servo di V. S. Don Giovanni.»
Ma il generale veneziano, indispettito che per sì belle mostre di zelo e disinteresse, e servigio di Dio, si volesse mandare alla peggio la causa della Cristianità; e con fondamento temendo che la venuta di don Giovanni non sarebbe stata nè certa nè pronta, perchè i sospetti ad un sol cenno potevano rinascere, e le galere di S. A. chi sa di quanto fornimento e di quanto tempo aver bisogno per essere da Palermo a Messina, e indi a Corfù; dopo aver aspettato inutilmente quattro mesi, quando i Turchi a man salva davano il guasto ai possedimenti della sua patria, udita la lettera e i messaggeri che lor suggerivano di starsi a bada un altro mese, non poteva credere a tanto ardire. Ma per sua buona fortuna in quelle stesse lettere che gli davano travaglio era pur notato il rimedio, nè fu tardo Iacopo a coglierlo. Imperciocchè la verità ha tanta forza che per quanto uno s’ingegni non può mai vincerla tutta, onde avviene che [343] chiunque le dà contro in una parte, resti preso dall’altra, e cada nella contraddizione, che è suggello a sgannare ogni uomo dalla frode. Tenevano allora gli Spagnuoli quel sospetto di Francia a mo’ di spauracchio in mezzo al giuoco della lega: ora tiravanlo su lungo e allampanato, affinchè rimettessero i Veneziani la troppa baldanza; ora calavanlo alquanto, perchè andassero pure a consumarsi nella guerra, senza speranza nè di pace nè di vittoria; ora colcavanlo in terra, per richiamarli addietro. E con siffatta fantasima potevano lungamente ripetere l’incanto ed uccellare gli alleati, senza che lor non mancasse mai il modo di scolparsene; nè di metterci per giunta certe altre lungàgnole, di che parlerò più avanti. Non dico io già che don Giovanni guidasse cotal maneggio; chè la sua natura non era da ciò: ma, stretto a servire il fratello e la corte, doveva sostenere la sua parte.[372] Quindi da un lato, per ubbidire a chi poteva comandargli, scriveva che gli alleati non dessero principio a cosa alcuna: e dall’altro per sua natural rettitudine, conoscendo la grande vergogna e il gran danno del tirare indietro tutta l’armata dei Veneziani e del Papa che già fronteggiavano il nemico, e dell’abbandonare nelle mani dei Turchi le terre dei Cristiani e la causa dei Greci che avevano prese l’armi per lui, voleva che Marcantonio li difendesse.[373] E tra le due, dello stare o dell’andare, [344] lasciava a lui di prender sopra sè il carico della scelta, al punto di incontrare lo sdegno o dei Veneziani, o degli Spagnuoli. Stando però gli ordini suoi nella predetta contraddizione, come a dire: Eccomi, vengo io, non date principio a cosa alcuna; e insieme, fate che il nemico non molesti nè Greci nè isole; ragionevolmente Iacopo si attenne al secondo, dicendo: che per salvar Candia dal saccheggio, e i Greci dall’oppressione, bisognava, secondo il parere di Sua Altezza, andare avanti, cacciare da quei mari il nemico, e se non sgomberava combatterlo, continuando nel già preso divisamento. E quantunque Marcantonio in consiglio col Giacopo di Venezia e coll’Egidio di Spagna proponesse di aspettare in quel luogo la venuta di don Giovanni, e per sua parte ne facesse istanza, a fin di mostrare coi fatti la modestia nel comando e la riverenza al supremo duce; ciò non pertanto ambedue gli si opposero, ed esso dovette consentire con loro. Que’ signori discorrevano sul proposito: che l’aspettare non veniva comandato, e neanche ricordato da Sua Altezza; che anzi implicitamente faceva loro intendere di andare avanti, non si potendo dar animo ai Greci e molto meno salvare lo stato della Signoria restando fermi in Corfù, perchè il bisogno di questi particolari stava cinquecento miglia più oltre.
E mostrando da una parte la vergogna di starsene neghittosi quando il nemico insultava, dall’altra le infermità delle genti illanguidite dall’ozio, e poi la stagione tant’oltre, e don Giovanni così lontano, e la sua venuta tanto incerta, e le sue galere così disperse tra Palermo e Messina, e tanto poco preparate a spedirsi; perchè l’anno non passasse senza frutto nell’aspettarsi gli uni [345] cogli altri a fin di congiungersi poi quando non fosse più tempo, deliberarono i tre generali con voto uniforme (al quale don Giovanni ancorchè fosse stato presente avrebbe dovuto per le leggi della lega sottomettersi) deliberarono, dico, di continuare il già preso cammino e scriverne le ragioni a don Giovanni.[374] Questo fu il maggior beneficio che ebbe in quest’anno la lega. Ecco la lettera e i ragionamenti di Marcantonio, dall’originale spagnuolo in volgar nostro volti, così:[375] — «Al [346] Serenissimo signor don Giovanni d’Austria. Serenissimo signore: dalle Gomenizze 29 luglio 1572. — Questa notte passata ventinove del presente arrivò qui una fregatina del Ragazzoni, portando la nuova che Vostra Altezza per ordine di Sua Maestà verrebbe in Levante. Ne abbiamo fatto tanto grande allegrezza come non se ne sarebbe fatta più per la presa di Costantinopoli e per la caduta dell’impero [347] ottomano. Lodato sia Dio che il buon animo di Sua Maestà ed il valore di Vostra Altezza non sono stati impediti da gente malvagia.
»Eravamo già risoluti di partire in questa notte verso il Cerigo per andar colà a pigliare le risoluzioni di quel che ci convenisse fare, secondo gli avvisi dell’armata nemica. Sapevamo che Luccialì scorreva il mare con cento quaranta galere ed altri bastimenti, sebbene le galere assai meschine e mal armate; e pensavamo col tenere unita tutta l’armata nostra andar contro lui a sicurtà di vittoria, quando a lui fosse venuto in capo di opporcisi: imperciocchè abbiamo cento ventisette galere, sei galeazze, ventiquattro navi, e venti fuste, di più tra via abbiamo a trovare altre dodici galere di Candia, e due galeotte; e quando a noi fosse parso che l’armata nemica si potesse combattere senza le nostre navi, lasciarle, e andargli sopra con le sole galere. E sappia l’Altezza Vostra che le nostre galere son ben fornite di soldati, avendone presi altri due mila cinquecento da Otranto. Pensavamo coll’andare avanti impedire il danno che l’armata nemica potesse fare in Candia e nelle altre isole dei Veneziani, lasciando che si contentasse di distruggere i paesi del suo dominio: imperciocchè hanno bruciato tutte le isole di Nixsia e di Paros, e venivano risoluti a scannare tutti li Greci insorti della Morèa, a disertare la terra, e perderne le vittovaglie. Perciò questa mattina ho richiesto Gil D’Andrada e il general veneziano del loro parere rispetto alla notizia che corre della venuta di Vostra Altezza: ed ambedue hanno detto che bisogna andare avanti, come è stato già deliberato. Imperciocchè questo non impedisce che Vostra Altezza ne venga appresso: e intanto importa molto assicurare la Grecia dai danni, e confermare quei cristiani nella buona volontà. Che se Vostra Altezza non [348] venisse, io non so (per quanto se ne dice) sorte più miserabile di quella che toccherebbe a questa povera gente. E così potremo ancora difendere le nostre terre dagli insulti che potrebbe, come ho detto, farci il nemico. E se noi con la nostra andata riusciamo a tenerlo a bada, dandogli sospetto di sbarchi, sino alla venuta di Vostra Altezza, sarebbe ben possibile che all’armata loro noi potessimo tagliar la strada in guisa che, essendo gran parte di quelle galere fiacche, non potessero più tornarsene ai Dardanelli; e quando in faccia mia volessero farlo, avendo io qui ottanta galere sceltissime, si potrebbero conciare con un bel tiro.
»Quanto al metterci in alcuna impresa di terra, dato pur che l’armata nemica se ne fuggisse, io non sono di parere che ci convenga; sino che non arrivi Vostra Altezza: perchè noi potremmo impegnare la riputazione a cosa che l’Altezza Vostra nella sua molta prudenza non fosse per approvare. Avevo già scritto sin qui sempre aspettando che dovesse venire dopo l’avviso del Ragazzoni, alcuna fregata che ci portasse le lettere di Vostra Altezza. Ed ecco che oggi a ventitrè ore la predetta fregata è giunta. Io e Gil d’Andrada subitamente abbiamo fatto le parti di Vostra Altezza con il Generale e provveditori di Venezia, i quali se ne mostrano gli uomini più contenti di questo mondo: ed a noi è sembrato, leggendo le lettere di Vostra Altezza, che la già presa risoluzione è molto buona, e assai conforme ai suggerimenti dell’Altezza Vostra. E così di presente noi partiamo, e ce ne anderemo adagio, avendo a rimburchiare galeazze e navi.
»Bacio le mani a Vostra Altezza, desiderando presto servirla in sua presenza. Dalle Gomenizze 29 luglio 1572. M. A. Colonna.»
Come don Giovanni ebbe ricevuta questa lettera, e [349] sentito che Marcantonio, il Foscarino e l’Andrada avevano continuato il viaggio verso Levante, senza aspettarlo, ne prese mala soddisfazione: parendo a lui che coloro gli avessero portato poco rispetto. Dissimulando però lo sdegno, ed affrettandosi esso pure di giungere in tempo ove il resto dell’armata andava con tante speranze, condusse cinquanta galere del Re sull’istesso rombo tracciato già prima da Marcantonio, ed arrivò alli dieci di agosto in Corfù. Laddove essendosi confusamente allora divulgati i successi della Grecia, e lo scontro de’ nostri co’ nemici, siccome or ora vengo a narrare, la stizza di lui e degli altri suoi non ebbe più freno. Nè altro era a udirsi da loro che diffamazioni e querele contro Marcantonio, perchè era andato avanti senza aspettare. Gli adulatori di don Giovanni incolpavano Marcantonio di emulare l’Altezza del regio principe, di sfuggirne l’imperio, di usurparne l’autorità, ed altre molte fantasie, piene di maltalento e di passione. Ondechè don Giovanni, già tocco di gelosia secreta verso di lui pel trionfo dell’anno avanti, e immerso allora nel vortice di tanta malevolenza, proruppe al paro d’ogni altro contro di lui e contro Gil d’Andrada in parole oltraggiose e minaccevoli: dicendo pubblicamente del primo, che il troverebbe una volta in parte da poterlo gastigare; e del secondo, che gli farebbe tagliar la testa.[376]
[4 agosto 1572.]
VIII. — Don Giovanni adunque aveva dato un gran colpo a coloro che movevano dalle Gomenizze. Questi non altro volgevano nell’animo che onorate imprese, ed egli con la sua lettera era venuto a turbarli, [350] perchè o non navigassero avanti, o il facessero paventosi e sospesi. Chè sebbene don Egidio e Marcantonio non avessero udito i fieri suoi propositi, non era però che non dovessero ambedue averli pensati, e non sentirsi cruciare di vedere che senza colpa, anzi per voler fare il debito loro, si avrebbero concitato contro lo sdegno dell’Altezza Sua e della formidabile Maestà del Re. Egidio dissimulò l’interno rammarico: e Marcantonio governossi con somma prudenza per non dare nè alla Spagna ragionevol pretesto di risentimento, nè a Venezia alcuna ragione di richiamo. Fece il segno della partenza, e l’istessa sera del ventinove luglio con censettanta vele prese il vento. Fedele alle istruzioni di sua Altezza, senza tentare nel passaggio nè la fortezza di Santamaura nè i castelli di Lepanto, tanto dirittamente per mezzo il mare tenne la prua, che la sera appresso raggiunse la Cefalonia, l’altro giorno trapassò il Zante, e alli quattro d’agosto la mattina per tempo con tutta l’armata diè fondo tra l’isola del Cerigo e quella dei Cervi, rimpetto a capo Malèo, donde tutta insieme poteva fronteggiare l’armata nemica, sostener i Mainotti, coprir Candia, e assicurare quando che fosse la venuta di don Giovanni al congiungersi con lui. Di che i Greci ripresero animo; e Luccialì, che aveva già disertato il Cerigo ed era in punto di far peggio a Candia, e di tagliare a pezzi quanti Greci troverebbe coll’armi in mano nel braccio di Maina, dovette deporre i feroci disegni, e tirarsi indietro a Malvasia.[377]
[351]
Non aveva cessato Marcantonio da Corfù, e poi mano mano che andava avanti, da più parti, spedire esploratori e galere a pigliar lingua dell’armata nemica: e tanto gli uomini suoi, quanto gli schiavi che spesso fuggivansi da quell’armata, rapportavano che Luccialì con dugento e venti galere e sei maone stesse assicurato sotto la fortezza di Malvasia, quaranta miglia quindi lontana: e che stimando esser don Giovanni in rotta coi Veneziani, e conscio di aver armata più numerosa della nostra, tra poco verrebbe ad assaltarla. Laonde in consiglio i tre generali deliberarono che per l’onore della lega e per la difesa dei Cristiani non dovessero partirsi di quel luogo, nè rifiutar la battaglia, anzi ricercarla opportunamente; e che per mettere l’armata della lega a paraggio della nemica bisognasse in ogni riscontro menar seco loro le venti navi e la capitana, quantunque sapessero la gran difficoltà che incontrata avrebbero nel tenere insieme durante la navigazione navi e galere, chi a vela chi a remo. Quando ecco in quel consiglio, già valico il mezzodì, venir l’avviso dalle guardie che l’armata nemica compariva da greco; ed ecco a un cenno di Marcantonio quella della lega uscire in mezzo al canale e farsi incontro ai nemici, accostandosi quanto più poteva alle loro spiagge. Giudicavano che colà sempre più valorosamente si combatterebbe dove la salute fosse solo nel menar delle mani. Ma Luccialì contento di aver con alcune [352] delle sue galere sparso un falso all’arme, e fatto sperienza di ciò che gli alleati ardissero, senza spuntar capo Malèo, oggi detto Santangelo, rese il bordo verso le sue fortezze; laddove non poteva essere molestato dai nostri.
[5 agosto 1572.]
Ciò non pertanto Marcantonio restò là tutto quel giorno ed il seguente in ordine di battaglia: ma non essendosi Luccialì arrischiato a ritornare, egli per vie meglio fronteggiare contro a lui, e coprir Candia, andossene a sorgere in capo alle Dragoniere, che sono due isolette disabitate, donde meglio si domina il canale tra la terraferma, il Cerigo e Candia.[378] Di là per mezzo degli esploratori che da mare e da terra faceva scorrere attorno al nemico, procacciava scoprire non solo il numero e la qualità dell’armata, ma più anche gli intimi disegni del Tignoso, a fine di contrapporglisi in ogni parte. E sempre più veniva chiarito che colui guidava tal numero di galere quale niuno per l’innanzi pensato avrebbe: e che sebbene non fossero tutte armate a dovere, pure non lascerebbe di combattere, posto che a Marcantonio non venissero altri soccorsi da don Giovanni: e che, se le galere cristiane si fossero alcun poco allontanate dalle navi, senza dubbio le assalirebbe. Quindi Marcantonio e gli altri capitani maggiormente si studiarono a tenersi [353] quelle navi sempre vicine, ed a sollecitare la venuta di Sua Altezza. Di che più volte Marcantonio gliene scrisse, tenendolo avvisato d’ogni cosa che alla giornata passava.
[6 agosto 1572.]
Così le due armate stettero tre giorni: che nè Marcantonio poteva con tanto svantaggio assaltar Luccialì sotto le fortezze di Malvasia; nè questi voleva investir Marcantonio, tanto bene ordinato nel suo squadrone con le navi alla fronte. La mattina del sei di agosto accennando il nemico ad alcun movimento sul capo Malèo, e levatisi i nostri ad incontrarlo, girò il vento a ponente. Per la speciale giacitura della costa nè quelli poterono spuntare il capo, nè i nostri oltrepassarlo; perchè il vento che agli uni e agli altri era favorevole sino alla punta, veniva poi di prua, opposto a loro, quando avevano a dar volta. Laonde Marcantonio se ne ritornò alle Dragoniere: ma rinforzatosi il ponente, non giunse a rimetter le navi. Alcune sferratesi ed altre sulle volte andarono quel giorno, senza che il nemico osasse assalirle: la domane e bordeggiando e rimburchiate, tornarono all’ordinanza.[379]
[7 agosto 1572.]
IX. — Dopo queste prime avvisaglie le due armate tanto si accostarono tra loro nel dì sette agosto, che finalmente vennero al fatto d’arme. Ed io ripensando all’ordinanza bellissima dell’armata cristiana in quel luogo e tempo, e dibattendo eziandio la fortuna dell’imperio [354] turchesco, quasi direi che allora per una seconda sconfitta avrebbe dovuto cadere abbasso, e i destini della Grecia e dell’Europa in tutt’altro modo allora comporsi, se proprio nel mezzo di quella giornata non fosse mancato quel soffio di vento che quasi mai nell’estate non falla. Tanto è vero che i grandi avvenimenti del mondo spesso dipendono da ben piccole e per noi fortuite ragioni.
Era la mattina del sette agosto alto già il sole, quando tutta l’armata turca, meno le maòne lasciate a Malvasia, spuntava da capo Malèo, tanto noto nell’antichità per le fortune di mare.[380] Lentamente di là vogando presso alla spiaggia, facea la prua all’isola dei Cervi, dieci miglia lontana; e poscia virava di bordo in faccia all’armata nostra. Di colà voleva attendere il fresco ponente, che nell’estiva stagione suol mettersi al mezzodì; e con quel vantaggio venire sopravvento ad investir l’armata nostra. Imperciocchè accertatosi Luccialì dell’assenza di don Giovanni, ed avendo ordine dal Sultano di combattere contro forze minori, deliberatamente divisava presentar la battaglia, e prendere tal posta che potesse dargli più sicura la vittoria.
Laonde Marcantonio che continuo teneva gli occhi sopra di lui, e ne penetrava i disegni (dopo aver mandato a don Giovanni con la galera del capitan Pietro Pardo le relazioni di quel che s’era fatto ed era per farsi in quel momento) slargatosi dall’Isola, mutò la forma dell’ordinanza. Perchè volendosi assicurare che i nemici attorniatolo nol battessero da più lati, ma anzi restassero essi stessi da ogni parte battuti, cercò miglior postura: e laddove prima aveva spartite le navi alla fronte delle galere, le fece passare tutte al di là dell’estrema sinistra, [355] verso ponente: affinchè quando verrebbe il nemico ad investirlo, dovesse di necessità difilar per prua avanti alle navi medesime: alle quali comandato aveva che nel passaggio lo fulminassero con tutto il loro cannone; e dappoichè fosse passato, facessero vela sopra di lui, e così sopravvento assaltandolo per poppa il ponessero tra due fuochi. Mirabile ed ingegnoso partito, onde guarentì la salvezza dell’armata sua tanto inferiore di numero alla nemica. Così Luccialì per dar sopra ai cristiani col benefizio del vento, e Marcantonio per riceverlo fiancheggiato dalle navi, stettero ambedue aspettando sino al mezzodì che si levassero i ponenti. Ma per quanto ciascun di loro riguardasse alla mossa dei pennelli, questi invece si restarono fermi a un po’ di scirocco e levante. Onde il primo fu certo aver fallito il disegno; ed il secondo pensò che se ne potrebbe vantaggiare: e che valendosi dell’occasione, la quale contro il consueto gli si offriva, dove il vento non aveva permesso al nemico di venirlo a trovare, poteva egli coll’aiuto del vento andare a lui. La quale molto ben scaltrita mossa, allegramente accolta dall’armata cristiana, fu di presente seguita. A un cenno tutti insieme spiegaron le vele, e mossero contro il nemico. Sfilavano minacciose alla fronte le navi e le galeazze; seguiva lo squadrone delle galere diviso in tre corpi, alla diritta il Soranzo, alla sinistra il Canaletto, e nel centro i tre generali; appresso la squadretta della retroguardia. E governavano il cammino così che ciascuno sempre fosse all’ordine ed alla posta sua: le navi con tutto il cotone al vento, le galeazze col bastardo e alcune velacce, le galere coi soli trinchetti e qualche palata, per superare coll’arte marinaresca la grandissima difficoltà del tenere a giusto segno nel navigare le navi e le galere; e quelle innanzi a queste: punto di somma importanza, massime allora che sopra siffatta [356] unione, e sopra cotest’ordinanza si posava tutto il fondamento di salvar l’armata propria, di offendere la nemica, e di guadagnar la vittoria.
Navigando ora Marcantonio a gran fiducia nell’ordine predetto, si turbò Luccialì, vedendosi un’altra volta superato nell’arte e nell’ardire. Onde cominciò a tirarsi indietro, senza però voltar le spalle: si lasciava andare in giù verso ponente, come l’istesso corso dell’aria e della corrente, coll’aiuto di qualche palata, leggermente il traeva. E più incalzato dai nostri era sul volgere a manifesta fuga, di che già allargandosi ed abbracciando tutto il canale con le dugento e venti galere alla vista di ciascuno dava segno, se lo scirocco che portato aveva sin là così bene l’armata nostra non fosse venuto mano mano a mancare. Per la qual cosa sulle quattro pomeridiane, cessata ogni benchè leggerissima bava di vento, Luccialì risolse di star fermo: non più essendo possibile a Marcantonio andargli contro con altro che con le sole galere, e per forza di remi; chè, quanto alle navi, sotto vela cascante e sventata, non era da temer che si movessero. E perchè egli aveva nell’armata sua settanta galere di più, faceva giudizio di dover vincere certamente combattendo con le galere senza navi; e i nostri per la stessa ragione di non poter vincere senza queste. Ondechè il primo procacciava tagliar fuori le navi, e gli altri tenersele congiunte. Armeggiando e schermendo il tempo passava.
In mezzo a siffatto adoperarsi v’ebbe chi tentò indurre Marcantonio a lasciar le navi, e ad assalir il nemico con le sole galere, dicendo: che si doveva contare più sulla virtù dei cristiani, che sulla moltitudine dei barbari.
Ma il campione magnanimo che non voleva, nè per eccesso, nè per difetto, nè per amici, nè per nemici, torcere [357] dal cammin diritto in quella circostanza, rispose: non temere già il numero grande dell’armata nemica, ma la opinione pubblica della propria: perchè, giudicandosi universalmente da tutti che non si poteva vincere senza le navi, sarebbe stato temerità il tentarlo: dovendo un generale tener gran conto dell’opinione pubblica della sua gente.[381]
Ma se per questo non gli conveniva lasciar le navi, nè anche poteva al paro del nemico star fermo in battaglia: perchè le navi in balía della corrente e del flusso andavano in deriva, o scadevano le une sulle altre, e il mettevano in disordine. Laonde comandò che pur si andasse avanti con le navi alla fronte. E quantunque tale ordinamento portasse travaglio e pericolo, dovendosi rimburchiare ogni nave con quattro galere, cioè le venti navi con galere ottanta; talchè non sarebbe rimasta nell’armata della lega forma niuna di squadrone ordinato, e quindi avrebbe potuto perdersi senza combattere; ciò non pertanto trovò riparo all’uno e all’altro inconveniente, dando il capo del rimburchio di ciascuna nave a due sole galere, ma queste sceltissime, e per ciò tali da tirare innanzi i rimburchî, e nel bisogno tornare addietro e rimettersi presto nello squadrone dell’ordinanza. Così Marcantonio venne al segno di tener le navi sulla fronte, l’armata in ordine, e la via sicura per andar, sebben lentamente, a trovare il nemico. Ma costui che temeva della fatale ordinanza, vedendo i nostri accostarsi, e le navi alla prima fila, non ebbe cuore a sostenerle: anzi quando già [358] venuti a tiro cominciava il cannoneggiare, egli ritraevasi. E per non mostrar con brutta fuga le poppe, secondo che i nostri avanzavano, secondo e’ stringeva la voga a rovescio; sempre in giù. Finchè venuta la notte, sparò a un tratto a sola polvere tutte le artiglierie dell’armata sua, e tra i vortici del fumo ricoprendo il rapido girar di bordo, senza accendere i fanali vergognosamente si nascose tanto che nè per la notte medesima nè pel giorno appresso non fu potuto rivedere. Marcantonio restato padrone del campo, mantenne ai Cristiani la superiorità sul mare.[382]
[8 agosto 1572.]
X. — I nostri però allumati i fanali, e avendo già preso con la bussola tra ponente e maestro la direzione dell’armata nemica, quando s’era perduta di vista, verso quella governarono. Ma sempre guardinghi, sempre ordinati, coll’armi in coperta e il buttafuoco alla mano: potendo tra le tenebre avvenire, o una sorpresa di nemici, se ne avessero fatto disegno; o di dare a caso sopra di loro, se per via si fossero restati in giòlito. Al far del giorno si trovarono pronti e all’ordine; ma per quanto riguardassero da ogni parte sul mare, non videro traccia di Turchi: tanto studiosamente s’erano nella fuga coperti. Per ciò Marcantonio, che quasi tutta la notte era [359] stato desto a sorvegliare le guardie e a scrivere gli spacci, come ebbe la mattina seguente spedito la galera del capitan Vasquez a Corfù, per dare conto a don Giovanni di quanto passava, e ricordargli, con quella modestia che si doveva, quanto belle occasioni di vittoria avrebbe Sua Altezza, qualora venisse prestamente a unirsi seco loro, pensò ricondurre l’armata al Cerigo per le stesse ragioni di coprir Candia e gli altri possedimenti veneziani, perchè vi era la prima volta andato: bisognandogli ancora rinfrescare le provvigioni e l’acquata, di che pativa difetto. Ma nel ritornare, alcuni capitani, sia che non temessero più nè punto nè poco il nemico fuggitivo, o vero che dopo due giorni di fatiche volessero allargare il freno e sollazzarsi, sciolta l’ordinanza contro la disciplina, se ne andarono con le galere lungi dall’armata ove meglio lor piacque; non solo in diverse parti dell’isola, ma anche di terra ferma: e non obbedirono alla chiamata. La qual contumacia fu presto punita: imperciocchè stando coloro spensierati, ecco di repente giunger messaggio e correr voce che Luccialì per di dietro all’Isola del Cerigo sopravveniva con tutta l’armata, e che non era ormai di là più che otto miglia discosto. Al primo annuncio si fece tumulto tra i dispersi, poi crebbe la calca delle genti al rimbarcare, e finalmente montò tanto alto in tutti il terrore, quanto era improvviso e non aspettato il pericolo. Nondimeno Marcantonio da una parte rifacendo i segni, e dall’altra mandando uomini di autorità a raccogliere e ordinare i capitani e le galere sbandate, si mise per mezzo il mare in battaglia, con sessanta vele che in quel punto trovossi attorno, pronto a coprire e difendere le altre. E queste, secondo che giungevano disordinate e paurose, confortava e rimetteva e spediva. A certuni pertinaci che mai non seppero nè per messaggi nè per segni ridursi all’obbedienza, [360] avrebbe certamente dato quella punizione che meritavano, se di ciò non fossero stati trovati in colpa certi Spagnuoli di grandi casate, rispetto ai quali bisognò che Marcantonio e Gil d’Andrada se ne passassero, per non irritare di più le passioni nazionali, e non avviluppare maggiormente le fila di quell’intricata matassa.[383] Ma il mancamento per detto di tutti fu grande, perchè non solo manifestò la poca disciplina degli ufficiali e fece perdere poco dopo l’occasione di una segnalata vittoria; ma avrebbe allora condotto l’armata a certa perdizione, se colà spinto si fosse Luccialì a sorprenderla.
Costui però trovavasi per avventura ben lungi: e la voce sparsa della sua venuta proveniva dall’essersi scoperte a ridosso alcune galeotte turchesche di pirati o stracorridori che stavano appostati a rapina.[384] E quando l’armata nostra rimettevasi, allora la guardia della montagna per tutt’altra parte scopriva daddovero quella di Luccialì, distante intorno a venti miglia, che essendosi nella notte allargata per ostro se ne veniva alla vela verso il capo Matapan, dagli antichi detto Tenario.
[9 agosto 1572.]
Siffatto aggiramento dei nemici mise in pensiero Marcantonio: perchè, essendosi coloro cacciati in mezzo tra lui e don Giovanni, potevano all’improvviso, quando mai Sua Altezza, secondo l’invito, si fosse deliberata di venire avanti, voltarglisi contro, opprimerlo, o impedirgli la congiunzione. Quindi rifornitosi d’acqua e panatica, e fatte quella notte riposar le stanche ciurme, la [361] mattina del nove col vento propizio levossi dal Cerigo, e prese a navigare a quella volta per dove il giorno avanti si era visto il nemico. Ma per quanto il ricercasse tutto il giorno in ogni riposto seno del golfo di Colochina, non potè ritrovarlo, talchè dopo il tramonto navigò a secco verso il capo Matapan.
Or mentre nel quieto silenzio della serena notte e sul mar tranquillo l’armata lentamente moveva; nel salone di poppa della capitana pontificia a lume dei doppieri, il Colonna, il Foscarino, l’Andrada, il Soranzo, il Canaletto, il Bonelli, il signor Pompeo e più altri capitani in molte questioni tra loro si dibattevano di ciò che si dovesse fare. Marcantonio, spiegando sue carte, dimostrava la necessità di congiungersi con le cinquanta galere di don Giovanni, per pareggiare i nemici e combatterli con vantaggio. E da ciò, non essendovi alcuno che dissentisse, deduceva come non potendo don Giovanni con la parte minore dell’armata passare avanti al nemico per cercar la maggiore (al che niuno lo avrebbe potuto indurre, massime considerata l’importanza della sua persona) così convenisse loro andarlo a cercare. I Veneziani però nè vedevano tanto pericolo al venire di don Giovanni, nè potevano voler lasciare a discrezione di Luccialì tutte le isole loro; e di più facevano toccar con mano e il danno di perder tempo, e la difficoltà di correr tanto mare all’andata e al ritorno con quell’ingombro delle navi. Marcantonio suggeriva che le galeazze e le navi potrebbero esser messe in sicuro nel porto di Candia, e poi le galere speditamente scorrere verso sua Altezza. Ma al Foscarino non sapeva così bene di quel doppio andare dal Cerigo a Candia e da Candia al Zante, dovendosi perder il miglior tempo in cercarsi l’un l’altro: e inoltre diceva che le navi a Candia non le faceva sicure, e che avendo in quelle i viveri dell’armata, era [362] sempre costretto portarsele seco. Altri lo sostenevano, temendo eziandio che in tanta vicinanza di così solerte nemico le galere senza le navi non dovessero riuscir buone nè a combattere, nè a fuggire; altri lo impugnavano, appellandosi alla virtù dei capitani nostri ed allo sbogottimento dei nemici: e Marcantonio dentro del cuore rodevasi che per quella difficoltà di congiunzione si desse a don Giovanni ed a’ suoi consiglieri il pretesto per impedire ogni impresa, e per mandare un altra volta deluse tutte le speranze di quella campagna.[385]
[10 agosto 1572]
XI. — Or mentre in diversi pareri i generali dubbiavano, venne opportunissimo a troncar le questioni in mezzo a loro un prosperevol vento di levante, che senza alcuna difficoltà poteva portarli tutti insieme con le galere, le navi, e le galeazze verso ponente insino al Zante, incontro a don Giovanni. E pensando tutti che in quel modo fosse bene andarsene colà a pigliar tanto rinforzo, Marcantonio fermò la deliberazione: e poco dopo, che era la seconda guardia della notte, dato il segno dalla sua capitana, tutta l’armata fece vela e si lanciò a dar volta attorno al capo Matapan. Ma come si furono avvicinati là presso all’altura di porto Quaglio, quando già tutta intorno alla luce dell’aurora imbiancavasi la marina, si vide ivi presso l’armata nemica; e Luccialì, come se fosse stato la notte in consiglio con gli alleati, e tutti i loro disegni avesse da sè stesso uditi, quivi al varco aspettavali per assaltarli se mai fossero disordinatamente o senza il presidio delle navi trapassati. [363] Laonde a un tratto venne fuori a vele gonfie, e con tanta baldanza che sembrava muovere non già a riconoscere, ma ad investire. E Marcantonio con altrettanta prontezza gli si fece incontro, mettendo alla fronte le navi, che per fortuna aveva seco, a compensare il disvantaggio delle galere, il cui numero appena montava a due terzi delle nemiche.
Ma avvicinandosi gli uni agli altri in mezzo al mare, cresceva la fiducia in Marcantonio, e scemava in Luccialì; perchè l’ordinanza nostra con quelle poderose navi sulla testa era fortissima. E già il Tignoso rallentava a grado a grado la voga, quando un improvviso accidente lo condusse contro sua voglia al punto della battaglia. Veniva con molti danari da Venezia una nave all’armata, che incontratasi quella mattina all’altura del capo, aveva preso l’armata nemica per amica; e vedutala tranquillamente navigare in giù senza dimostrazione di ostilità, l’aveva salutata ed erale stato corrisposto. Ma quando si preparava a dare in mano a coloro il gherlino del rimburchio, accortasi dei nostri e conosciuto l’errore, si pose in difesa. Trovossi pertanto quella nave e il suo prezioso carico in mezzo alle due armate come segno di lotta, ciascuno a gara dell’altro facendo sua possa di tirarsela. Luccialì spiccava dodici galere a sottometterla, Marcantonio quattro a soccorrerla. E già stavano le due armate pronte ad entrar tutte insieme nel cimento, quando il Turco temendo svantaggio ebbe con un tiro richiamate le sue galere, e lasciata libera la nave, che poco dopo fu dai nostri menata a salvamento. Alcuni gentiluomini veneziani venuti con quella credevano sognare, ripensando all’errore ed al pericolo in che s’erano poc’anzi lasciati cadere.
Marcantonio però, come animoso capitano, cavar volle da quel successo il suo pro: e vedendo i suoi far [364] cuore e gli inimici invilire, levò in alto lo stendardo della battaglia, e con un tiro fece segno di sfida. Alla quale avendo Luccialì risposto col contrassegno, e mostrato consentire, le due armate forzarono di vela, come per volersi investire. Giunte a tiro di cannone, manca il vento. Luccialì leva remi, per non venire troppo avanti; e Marcantonio rallenta la voga, per non oltrepassar le navi. Angoscioso momento. Ma durando nelle due armate l’abbrivo, tanto si avvicinarono, che da una parte e dall’altra presero a sbombardarsi colle più grosse artiglierie. Le colubrine nostre traevano a furia, la mischia a grado a grado stringevasi: cinque galere di Turchi erano colate a fondo, sette messe fuori di combattimento: alcune galere di Luccialì, massime nel corno sinistro, davano le spalle; altre più dalla grandine delle nostre cannonate si ritraevano; e si vedeva manifestamente il nemico su tutta la linea a balenare. Allora parve al Soranzo che guidava l’ala diritta di perseguitare i fuggiaschi, ed a Marcantonio d’avanzar tutta l’ordinanza dell’armata sottile, di caricar sopra il nemico, e di opprimerlo nel suo disordine.
Stimarono i due prodi che le sole galere in siffatta congiuntura bastar potrebbero. E fatto il segno di oltrepassar le navi, dieron la voga nelle loro capitane, e mossero arrancati per serrarsi a corpo a corpo con Luccialì. Ma come la fazione veniva senza disegno premeditato, anzi del tutto improvvisa, e contraria alle deliberazioni primamente fatte; così per la novità del caso nè le squadre loro con tutta la franchezza si mossero, nè le altre li seguirono con quella prontezza che sarebbe stata necessaria. Marcantonio ebbe seco alla pari soltanto tredici galere, con le due capitane di Venezia e di Spagna; al Soranzo non fece spalla più che il piccolo stuolo di nove galere; le altre a più riprese avanzavano o facevano sosta; [365] e il Canaletto nel corno sinistro, sempre fermo dietro alle navi, non volle mai spiccarsi, lasciando a ridire di sè tutta l’armata. Però ad un tratto mutarono le sorti: i Turchi ebbero tempo a rimettersi, ed i Cristiani per quella opinione delle navi, tra chi non voleva lasciarle indietro, e chi già l’aveva trapassate, vennero a disordinarsi più che non fossero stati pocanzi i nemici.
Il qual fallo avrebbe certamente condotto a ruina l’armata cristiana, se Marcantonio non fosse stato pronto a ripararlo nel miglior modo che per lui si poteva. Là, nel mezzo ove era andato quasi solo un buon miglio innanzi alle navi, intrepidamente ristette a mantenere il campo; e senza mai retrocedere, nè esso, nè il Foscarino, nè l’Andrada, nè il Soranzo, dettero tempo che avanzassero, sebben lentamente, le galere e le navi restate addietro, sino a rimetterle in linea. Che se là si fosse pur un momento peritato, tal rotta sarebbe potuta toccare alla Cristianità quale l’anno avanti aveva data. Ma il valore dei due generali e l’intrepidezza di Marcantonio, che in quella giornata fu prodigiosa,[386] mise tanto terrore a’ nemici che mai non ardirono prevalersi di una occasione che era tutta del caso loro. Anzi avviliti a rincontro di così gran virtù, appena l’armata nostra sul mezzodì si fu rimessa in punto di ripigliare con buon successo il combattimento, cominciarono a ritirarsi. Luccialì nondimeno ostentava coraggio, e mostrava la faccia; ma fingendo che le sue ciurme vogassero avanti con qualche palata a fior d’acqua, faceva di ritorno ponzare [366] i remi a rovescio per dare indietro; poi legava il capo del rimburchio alle galere che aveva da poppa, perchè il tirassero fuori, e finalmente spargendo fumo di cannonate a sola polvere, voltava a turpe fuga le spalle, e come disfatto cedeva un’altra volta il campo a Marcantonio.[387]
[11 agosto 1572]
In quella essendosi messi i Ponenti ordinarî, le armate dovettero sempre più separarsi. Luccialì di gran pressa co’ trinchetti e co’ bastardi riducevasi a porto Quaglio, Marcantonio pel vento contrario e per la stanchezza delle genti non potendogli tener dietro rendeva il bordo verso il Cerigo. Stette la prima notte in mare, e la mattina seguente sotto il castello, lasciando di fuori le navi alla guardia. Ben si doleva grandemente di non esser stato ubbidito e seguitato da alcuni capitani,[388] e che la loro pertinacia avessegli tolto una certa vittoria. Moderando però le sue parole con quella modesta circospezione che in mezzo al disordine di siffatta lega era necessaria, senza eccitar tumulti, nè offendere i generosi, conduceva i mancatori dolcemente a riconoscere l’errore e a farne l’ammenda. Diceva, non volersi mettere a gastigare quei capitani che avevano fallato per non imitare Luccialì, che nel sangue soleva lavare la viltà dei suoi: ma invece lasciarli in vita perchè [367] tra poco, venendo don Giovanni, avessero agio a dar di sè miglior mostra, e con opere degne sotto gli occhi di sua Altezza lavarsi dal viso la vergogna.
[14-16 agosto 1572]
Tanto egli diceva perchè ormai tutti convenivano che senza il rinforzo di don Giovanni non potevasi durare a quel modo. Troppo piccolo era il numero delle galere: e le navi, sebbene per la fortezza loro portassero molta sicurtà, pure altrettanto grande incomodo per rimburchiarle e rimetterle; convenendosi poi dipender dalle fortune del mare, dal capriccio dei venti, e dalla volontà del nemico, e star sempre in pericolo o di abbandonarle, o di perderle, o di regolare i propri pensieri secondo il volere e la comodità degli altri. Però sapendo che don Giovanni con cinquantaquattro galere era in punto ed aspettavali, piacque a tutti andarlo a ritrovare, e tirarselo seco loro alla giornata; che per la giunta di così grande rinforzo non poteva riuscire se non felicissima. Quindi la notte del quattordici agosto con vento fresco di levante, che al parer dei marinai doveva durare, salparono dal Cerigo. Con tutte le navi e le galere fecero vela pel Zante, la mattina del sedici senz’altra novità vi dettero fondo, e trovarono avvisi di sua Altezza che giunta a Corfù il dieci era per partirne il quattordici, ed essere due giorni dopo alla Cefalonia per unirsi con loro. Laonde Marcantonio sommamente rallegrandosene con tutti, massime con don Alonso di Bazan che le buone novelle portato aveva, pensò esser venuto in buon punto per veder ristorata la fortuna dell’armi cristiane, e compiuti i suoi desiderî. Difese le isole dei Veneziani, protetti i cristiani della Grecia, riconosciute le forze del nemico, percosse le sue galere, e tutta sua [368] armata messa in fuga due volte, era pur colà ove sua Altezza il voleva, senza che per tutti questi servigi resi alla lega non si fosse pure un’ora differita la congiunzione dell’armata.
[16 agosto 1572.]
XII. — Ma laddove sperava trovare unione e forza, quivi erano a pubblico danno infinite discordie e biechi disegni, pe’ quali doveva la congiunzione da due giorni differirsi ad un mese, poi rompersi l’alleanza, e finalmente andarne l’autore innanzi tempo alla tomba. Sapeva ben egli l’inflessibile rigore delle gelosie di stato, e non ignorava i pensieri dei suoi nemici: ma forse non credeva che giunger potessero a tanto, quanto egli ai fatti ne vide, e quanto a me per intelligenza delle cose che quinci innanzi si racconteranno fa bisogno ritoccare. Ho detto degli inganni tesi sul campo della lega per i sospetti di Francia, ora vengo al resto, dopo un breve preambolo.
Al regio consiglio di Madrid era saputo male della vittoria di don Giovanni,[389] i grandi della Spagna invidiavano alla sua gloria[390] i ministri temevano la sua potenza:[391] e il Re geloso per infrenarlo avevagli messo attorno due vecchi marchesi, due giovani cortigiani, e altri sedici consiglieri; senza dei quali non poteva far [369] nulla. I Veneziani ed i Romani non solo dal re e da don Giovanni, ma anche dalla balìa dei venti, dipender dovevano. Oneste apparenze, e soprusi alla lega. Erano tra costoro principali don Gonsalvo Fernandez di Cordova, duca di Sessa, e gran privato del re; Giannandrea Doria, principe di Melfi, già notissimo ai miei lettori; Ferdinando Loffredo, marchese di Trevico, e Antonio Doria marchese di Santostefano, stretti ambedue da Filippo a lasciare le solite comodità dei vecchi soldati per essere intorno al fratello; e finalmente il Davalos di quella consorteria che dal porto di Tristamo non volle soccorrere Cipro, e da Corfù non comparve mai con le navi della lega a Lepanto.[392]
Essi dovevano stringere don Giovanni, e siffattamente consigliarlo che l’armata di sua Maestà fosse sempre salva, e quella de’ suoi nemici depressa. Siccome però nel numero dei nemici erano i Turchi e i Veneziani; e forse più questi che quelli;[393] così per deprimerli tutti [370] e due e salvar sè stessi bastava solo una cosa, cioè mostrare animo alla battaglia e a ogni potere sfuggirla: perchè in tal modo l’armata del Re conservavasi alle spese del clero: e le due armate dei Turchi e dei Veneziani si consumavano.[394] Dell’armata romana, maltese, savoiarda, fiorentina, e degli altri principi d’Italia, niuna cura. Non già che avessero formato in questi precisi termini il disegno, come io risguardando alle testimonianze ed ai fatti lo svolgo, ma assai meglio e più secretamente facevano giucare secondo gli intendimenti loro la persona certa che a tempo e luogo doveva produrre effetti certi: don Giovanni era a far le mostre di guerra; i consiglieri a impedir la battaglia;[395] i Francesi a metter sospetti; il Re Filippo a levarli; i Turchi a ricevere le minaccie, i Veneziani a esser consunti, il Papa e gli altri a restar gabbati.
Perciò, vivendo ancora san Pio, i negoziatori spagnuoli in Roma tenzonavano a sviar la guerra in Africa; e don Giovanni obbligato a dar calore alla pratica, se ne andava a Palermo; e là ammassava munizioni, faceva [371] gente, e stagiva navi; come se già fosse ferma l’impresa di Tunisi.[396] Ma fatto il decreto di guerreggiare in Grecia contro il gran Sultano e non in Africa contro i piccoli pirati, ecco don Giovanni tornarsene a Messina e quivi far le viste di molta sollecitudine, finchè fu Sede vacante. Eletto però il papa, venuto Marcantonio e il Soranzo, e richiesto di far vela, pigliava tempo, copriva il secreto, tentava Marcantonio;[397] e finalmente per liberarsi dalle molestie pubblicava i sospetti di Francia e l’ordine che aveva dal Re di non partirsi dalla Sicilia.[398] Non guari dopo consentiva a Marcantonio di portare in Levante lo stendardo della lega, ed un piccolo soccorso di galere spagnuole: se non che a talento dei suoi consiglieri tanto assegnatamente gliene dava, quanto bastar potesse ad allettare i Veneziani alla guerra, e insieme a non far possibile la vittoria.[399] Partitosene Marcantonio ai sette di luglio, credevasi da ciascuno ch’egli potrebbe liberamente condurre la guerra: ma don Giovanni il faceva [372] raggiugnere alle Gomenizze; annunciavagli il gran zelo del Re nel posporre gli interessi suoi al pubblico bene, prometteva di portargli il soccorso di tutta l’armata, scriveva a senno dei consiglieri lettere d’ambigui concetti, e intimavagli di andare e di restare, d’opporsi al nemico e di non far nulla; affinchè da sè pigliasse quest’ultimo partito, e ne portasse il biasimo.[400] Appresso sua Altezza moveva per Corfù a mostra di gran prontezza: ma lasciavasi indietro in Messina le galere di Giannandrea, quelle del duca di Sessa, e menava le sue sprovviste di vettovaglie.[401] Finalmente sentendo che Marcantonio era scorso avanti a raggiugnere il nemico, e parendo a lui (per quanto gliene dicevano i consiglieri) di essere stato defraudato nell’onore, non sapea sì celare lo sdegno[402] che non rompesse a parole ingiuriose contro il Colonna e l’Andrada, facendoli segno a future vendette.[403] La diligenza di Marcantonio, e lo spedir frequente delle lettere e delle galere, conturbava tanto il pupillo che i tutori: e venendo dall’armata notizie o sinistre o prospere, sempre era colpa o della temerità o della imprudenza di Marcantonio. A lui tanto il perdere quanto il vincere tornava male:[404] ed ai Veneziani noceva egualmente aver sua Altezza vicino che lontano.[405]
[373]
Arrivata poi a Corfù la galera spagnuola del capitan Pedro Pardo, che Marcantonio aveva spedita per avvisare delle novità occorse sino alla mattina del sette agosto, si riempì di turbamento l’animo di sua Altezza, e dei consiglieri secreti: imperciocchè avendo Pietro dopo la sua partenza per più ore sentito da lungi il rombo delle cannonate, come ho detto addietro; e facendo giudizio che pel piccol numero delle galere cristiane, per l’ingombro delle navi, e per la poca obbedienza dei capitani, non potessero aver vinto; tanto erasi persuaso che Marcantonio fosse stato rotto e l’armata perduta, che in secreto dette l’una e l’altra cosa per certa al marchese di Santacroce, e dopo in pubblico all’istesso don Giovanni.[406] Di che tutti gli altri consiglieri, giucando di fantasia al paro del Pardo, menarono tanto scalpore contro Marcantonio, e presero così gran paura di Luccialì, che non sapendo ormai cosa più dire contro il primo, nè come salvarsi dal secondo, restarono istupiditi a Corfù. Comparve da lungi in mare una galeotta che prodeggiando se ne veniva in quel porto: era di messaggeri mandati già molto tempo da Marcantonio a tenere avvisato don Giovanni del suo viaggio. Invece la presero per antiguardo dell’armata nemica: e dettero subito all’arme. Non solo don Giovanni con tutte le galere tirossi in gran fretta sotto la fortezza; ma fece pur quivi accalcar le navi: tutti insieme palpitanti aspettavano essere in breve dai nemici assaliti. Erano in punto di bruciare le navi, e salvare le persone in terra.[407]
[374]
[18 agosto 1572.]
Così stettero per due giorni in varii e paurosi disegni. Ma non vedendosi Luccialì, nè segno alcuno di armata nemica, quando si disponevano a spedire uno stuolo di galere rinforzate per raccogliere gli avanzi della supposta sconfitta, ecco sopraggiungere don Alonso di Bozan dall’isola del Zante a dimostrare non solo la vanità di quei timori, e le fallacie del Pardo, ma anche a riferire con tutta certezza che Marcantonio, invece di esser stato disconfitto dai Turchi avevali due volte con loro danno e vergogna battuti e cacciati in fuga; e che tutta l’armata da lui condotta sorgeva vigorosa al Zante, nulla più desiderando che congiungersi prestamente coll’Altezza sua per tornare a più gloriosi cimenti.[408] Cadute le paure risursero un altra volta i rancori.
[20 agosto 1572.]
Stavano a mezzo agosto i nostri capitani così: Marcantonio, coll’armata veneziana e la sua, più le ventidue galere di Spagna e le venti navi della lega, in tutto censessanta vele, giù al Zante proprio sulla fronte del paese nemico; don Giovanni, con cinquantaquattro galere del Re e alcune navi da trasporto, dugento miglia addietro, e più vicino all’Italia, nel porto di Corfù; in mezzo a loro la Cefalonia, quasi egualmente dagli uni e dagli altri discosta. Con questo però che, volendo andare avanti, doveva don Giovanni di necessità venire oltre alla Cefalonia ed al Zante; ma non Marcantonio. Il quale, [375] per essere già al capo opposto, non poteva tirarsi addietro a Corfù senza perder tempo in quella strada due volte, e senza lasciare sbrigliati i nemici, e smarrirne la traccia. Ciò non pertanto vedendo per sua prudenza come gli facesse mestieri dare anzi nel soverchio che nel difetto sul fatto di onorar don Giovanni, perchè la lega si mantenesse, persuase ai Veneziani che, lasciate le navi al Zante, con cento e venticinque galere se ne venissero insiem con lui ad incontrare sua Altezza sino alla Cefalonia. Nella qual cosa egli dovette travagliarsi assai, sembrando duro a quei signori sobbarcarsi a tanto peso inutilmente, e ristancar le ciurme già stanche da tante fatiche, e lasciar senza difesa le navi al Zante, e le isole loro in preda al nemico. Pure, non se ne potendo altrimenti, s’acconciarono a seguirlo: ed il venti d’agosto approdarono ad Argostoli, fortezza e sorgitore principale della Cefalonia. Di là spedirono più galere a far chiamate e contrassegni, perchè don Giovanni a sicurtà vi si conducesse.[409]
[26 agosto 1572.]
Sua Altezza intanto, dopo fatta una leggera prova di navigare verso la Cefalonia, erasene ritornato a Corfù. Fosse timore di Luccialì, o malizia dei consiglieri, o volontà di abbassare Marcantonio,[410] scrissegli tal ordine che se voleva la congiunzione venisse con tutta l’armata in quel porto, ove aspettavalo.[411]
[376]
Io lascio qui libero sfogo alla giusta indignazione dei Veneziani, che sempre delusi a un modo e abbindolati a Messina, a Corfù, al Cerigo, al Zante, alla Cefalonia, e ora da capo a Corfù in andirivieni continui perdevano il tempo e ogni altra cosa; compensati soltanto dal superbo dominio di quel garzone che a suo talento, quantunque assente, arrogavasi il comando sopra gli altri due generali della lega, i quali a lui stesso presente potevano coi loro voti dar legge.[412]
Lascio eziandio un secreto corso all’indignazione di Marcantonio che vedeva ogni giorno farsi più difficile la mediazione sua a conservare la lega per la quale aveva sostenuto tante fatiche.[413] Dirò soltanto che Romani e Veneziani, stretti a chinarsi alle voglie altrui, dovettero dalla Cefalonia tornare al Zante, levarne le navi, rivolgersi un’altra volta alla Cefalonia, e colle navi appresso tirarsi a Corfù: mentre Luccialì, libero da ogni freno disertava il Cerigo e riduceva a disperazione i cristiani di Candia e di Morea. Sultano Selim non avrebbe potuto fare risoluzione a sè stesso più utile di quella che aveva fatta don Giovanni nel richiamare i Veneziani dalla Cefalonia. L’armata ottomana ripigliava la padronanza; ed i collegati perdevano il filo dei disegni incominciati, lasciavano la traccia dei nemici, abbandonavano i cristiani [377] d’Oriente, gittandosi tutto dietro le spalle per trecento miglia di mare.[414]
[1 settembre 1572]
XIII. — Arrivato pertanto Marcantonio a Corfù che era il primo di settembre, trovò al di fuori allegrezza grande della sua venuta, e salve d’artiglierie, e festa che i più facevano nel vedere finalmente insieme tutta l’armata già da tanto tempo divisa: ma entrato dentro nella galea di don Giovanni per dimostrare con le lettere di sua Altezza che egli aveva eseguito quanto in esse si conteneva, conforme al debito suo, don Giovanni senza alcun segno nè pur di cortesia le lettere si ritenne, e gli intimò di ritirarsi, non volendo niente udire da lui delle cose passate. Cui Marcantonio rispose che se non poteva mostrar le sue ragioni a Corfù non gli sarebbe divietato portarle a Roma e a Madrid, prima di essere prevenuto delle sinistre relazioni de’ suoi nemici: lascerebbe all’armata in luogo suo Pompeo Colonna: e poichè tornava non gradita l’opera sua, gli si desse licenza di partirsene. A questo replicò don Giovanni fargli mestieri alcun tempo a risolvere. E vedendo come il congedo di [378] Marcantonio sarebbe suo gran biasimo, la mattina seguente gli fece dire che non poteva dargli licenza: e Marcantonio, rispondergli che non era d’animo a restare di buona voglia senza potersi discolpare.[415]
Anche Gil d’Andrada commendatore dell’abito di san [379] Giovanni gerosolimitano, per le minacce avute nel capo, parlò di tal maniera con sua Altezza che fu riputato magnanimo: perchè coraggiosamente si offrì pronto alla pena quando si potesse trovare esserne in colpa; e francamente gli disse che, per non servire più a lui, rinuncierebbe ad ogni carico nell’armata del Re, tornandosene a servir privatamente alla sua religione in Malta. E a Marcantonio profferse una lettera, scrittagli di proprio pugno di don Giovanni negli stessi termini dell’altra che sua Altezza si era ripigliata, affinchè non restasse senza difesa; col dire che, potendo ajutare la verità in persona di tanto merito quanto quello del signor Marcantonio, non avrebbe mai nè per timore nè per qualsivoglia altro rispetto lasciato di farlo. Laonde don Giovanni si trovò stretto a rispondere che non poteva consentire ch’egli si partisse: e l’altro a soggiungere che resterebbe a servirlo quindi innanzi per timore, laddove prima avealo servito per amore.
Raccolse adunque sua Altezza da ogni lato confusione: perchè al postutto la reità di prendersi a gabbo la lega era in lui, e non in quei due degni campioni che egli avrebbe voluto punire di aver fatto quello che far dovevano non solo per debito loro, ma anche per ordine scritto di sua mano. A tale fu condotto don Giovanni dai biechi divisamenti della corte e da’ rei consigli dei tutori. Chè nell’armata cristiana, se tu ne togli i promotori di siffatti disordini, non restò alcuno il quale non ammirasse la magnanimità dell’Andrada e la virtù del Colonna: intorno a loro crebbe sempre più la venerazione e il rispetto di chiunque aveva sentimento di lealtà e di onore.[416] Marcantonio in quella così ardua prova, [380] vincendo sè stesso e temperando lo sdegno (che tanto mai grande non si accende nei petti generosi quanto al veder vilipese le opere magnanime da chi men dovrebbe) nelle parole e nei fatti proseguì non solo coll’istessa fede e valore; ma, quel che impossibil parrebbe se non si fosse da tutti veduto, con maggiore virtù. Nè è da tacere che di questi brutti vezzi ricevuti da don Giovanni, nelle secrete corrispondenze in cifra, e nei preziosi codici Colonnesi, che io per cortesia del gentil cavaliero don Vincenzo Colonna da un capo all’altro ho diligentemente studiati, non se ne parla altrimenti, se non con eroica moderazione: segno manifesto che l’anima di quel grande, usa a infrenar le private passioni per servire agl’interessi comuni, non sentiva il basso livor della vendetta. Anzi nelle lettere al cardinal di Como, segretario di Stato, scrivendo in quello stesso giorno del primo di settembre, non fece motto di risentimento, nè si querelò dell’oltraggio fatto nella sua persona alla maestà del Pontefice; ma per non giunger esca al fuoco, in quanto a don Giovanni se ne passò, toccò a pena il fatto il Gil d’Andrada, e descrisse lo stato della lega con tanta gravità di sentenze, che io senza uscir gran fatto dai confini della presente materia mi prenderò licenza di qui recarlo colle sue stesse parole.[417]
«Io vedo quanto questo negozio della lega è a cuore di Sua Santità, e però è bene che sappia che per volerlo conservare ci bisogna diligenza, e non meno quella che qui si procura, quanto col negoziare in Spagna e in Venezia e coll’Imperadore. E che Sua Maestà Cattolica si risolva se questo negozio le sta bene, o no. Se le sta bene, [381] lasci da parte quello che meno importa: che certo ei fia glorioso con salute certissima de’ suoi stati. Se altramente la intendono, sarebbe molto meglio levar Sua Santità da questa continua ansietà; e che ognuno faccia il fatto suo. E certo qui hanno mal consigliato Sua Altezza a farci tornare con tanto incomodo, lasciando in mano dei nemici il paese che con tanta fatica avevamo conservato, per dover forse poi fare il medesimo d’andare avanti: oltrechè noi (finchè Sua Altezza non si congiungeva) avevamo pur l’autorità delle deliberazioni: ed egli non poteva commandare con tanta autorità. Questo io non lo dico per me: chè l’ubbidir Sua Altezza mi è felicità (che sono avvezzo ad andar sotto ogni spagnoluzzo) ma per li capitoli e per li Veneziani. Ed hanno messo in disgrazia di Sua Altezza Gil d’Andrada, il quale concorse in quel che si doveva. Sicchè ci è pur troppo che fare a conservare questo negozio, ed alle volte vorrei essere non solo qui, ma in Venezia, in Spagna, e per tutto. Che è miserabil cosa veder perire una congiunzione già fatta, la quale non vi essendo, nè si dovrebbe nè si potrebbe desiderare e procurare altra, a beneficio della Cristianità. Io so ch’è superfluo entrar io in questi particolari che nostro Signore sa e vede tutto: ma l’importanza del negozio mi fà trascorrere, stando impiegato nel servizio di Sua Santità. A Vostra Signoria illustrissima bacio le mani. Di Corfù al primo di settembre 1572.»
Prudentemente in questa lettera Marcantonio toccava i punti fondamentali della maggior causa che in quei giorni si trattasse in Europa. Qui la necessità della lega per pubblico beneficio della Cristianità; qui la doppiezza della corte di Spagna, di che dopo tre anni ancor non si sapeva se la lega le piacesse, o no; qui il mal governo che facevano i consiglieri di don Giovanni; [382] l’oltraggio ai Veneziani, le non meritate minacce a Gil d’Andrada, e qui l’animo grande di Marcantonio che tace delle sue offese, che non ricusa sottomettersi a chicchessia, sì veramente che non ne venga alcuno sconcio al bene pubblico della Cristianità. Ed è per questo che a me, come dal grave officio di storico viene imposto, conviensi tanto più rendergli ragione quanto maggiore mi si mostra la sua virtù; e senz’altro rispetto se non della pubblica moralità, biasimare apertamente i soprusi, le doppiezze, e dirò pure i tradimenti onde i cortigiani ruppero il corso alla prosperità delle armi cristiane, le frodarono del frutto della gran vittoria, e ci abbandonarono a quei lunghi disastri che avrò per molto tempo a descrivere nella storia della mia marina.
[6 settembre 1572.]
Quanto ai fatti, qui potrei finire: non avendone altro notevole. Ma perciocchè non cessarono nè i disegni delle grandi imprese nè le arti di ruinarle, ed io mi trovo avere in mano le secrete pratiche, e le fila, e le ruote di quella macchina, stimerei troppo gran difetto togliere agli studiosi tanta messe di ammaestramenti quanti se ne possono quindi cavare. Perocchè il tanto negoziare di quell’anno per la sua importanza era fondamento di salute o ruina alla Cristianità ed all’Italia; e per le tanto sottili arti adoperativi ha potuto, tra le accuse degli uni e le recriminazioni degli altri, tener sospeso il giudizio del mondo sino ai nostri giorni.
Finite le difficoltà della congiunzione, cominciavano quelle dei consigli. Chiunque aveva ad arte condotta la stagione tanto innanzi, bisognava pur che se ne prevalesse e ne cavasse costrutto. Dicevano non esser più tempo di imprese rilevanti, nè di liberare la Grecia, nè di pigliare più fortezze ai nemici, e nè anche di combattere [383] contro Luccialì, perchè troppo più potente di quanto non si pensava; ma solo di rimandare le navi in Sicilia, e con le galere inseguire e molestare alla coda l’armata nemica; e le più grandi cose rimetterle all’anno venturo. Alle quali induzioni contrapponevasi Marcantonio, dicendo: troppo onore volergli fare il consiglio, che dopo aver lui potuto con piccol soccorso due volte superare il nemico, non consentiva che con tutto il nerbo della lega potesse farlo sua Altezza: ripensassero alla vittoria dell’anno addietro e vedrebbero che quella ne darebbe questa, se in Dio e in sè stessi quanto si doveva confidavano: risguardassero in viso la marineria cristiana, e la mettessero al paragone delle spaurite genti turchesche: noverassero gli archibugeri, e troverebbonli tali di qualità e di numero da combattere non contro dugento, ma contro trecento e più galere; attendessero finalmente alla stagione che sollecitamente pressavali non a smettere le imprese perchè erano venuti, ma a rompere gli indugi. Cacciassero una volta la paura dei Turchi.[418]
Non potendosi trovar risposte a siffatte ragioni, senza rinnegare l’evidenza e l’onore, il consiglio stava per assentire al parere del General pontificio, sostenuto dal veneziano e dal suo luogotenente: che eran quivi tutti i maggiori capitani soliti a intervenire, men che Pompeo Colonna, escluso quel giorno dal consiglio per volontà di don Giovanni, e a ingiuria di Marcantonio.[419] [384] Se non che il marchese di Trevico, gran privato di Spagna, rifacendosi sull’argomento della speditezza, suggeriva di lasciare le navi, le grosse artiglierie, i cavalli, ed ogni altro apparato di guerra campale, e con le sole galere inseguire Luccialì: sforzandosi a dimostrare che assai ne avrebbero a poterlo combattere; e che, alla fronte di così grossa armata com’era la turchesca, non sarebbe possibile nè sbarcare in terra, nè adoperarsi ad espugnar fortezze, nè a far conquiste. Freddi consigli di vecchio cortigiano. Marcantonio però con caldi ragionamenti, e da valoroso generale, rispondevagli: non doversi pensare che il nemico faccia ogni cosa bene, perchè così non si verrebbe mai al punto d’assalirlo: ma potendosi andare a sicurtà colle navi, sarebbe da vederlo in che termini fosse: non essendo difficile incontrarlo in tanto disordine, per la sollevazione dei Greci, per la debolezza delle sue piazze, e per la perduta riputazione, da aversi a pentire di essere andati senza le navi, e senza tutti quegli aiuti di vittovaglie, di soldati, e di arredi che in esse si tenevano. Quindi richiedeva che di presente si dovesse far vela; le galere a ritrovare l’armata nemica, e le navi a seguirla: e quando non si potesse costringere il nemico alla battaglia navale, s’imprendesse almen l’espugnazione di alcuna delle sue fortezze.
[7 settembre 1572.]
XIV. — Presa la deliberazione conforme al parere di Marcantonio, le galere salparono da Corfù alli sette di settembre; e le navi sciolsero verso il Zante, ove si era ordinato che dessero fondo ed aspettassero gli ordini di Sua Altezza. Intanto don Giovanni s’era lasciato intendere dai Veneziani come egli teneva che le galere [385] loro non fossero provviste a dovere di fanterie, e quindi dovessero rinforzarsi, con ricevere a bordo soldati di sua Maestà. I Veneziani però, offesi dall’incontrato loro per simil ragione l’anno avanti, non potevan pure sentirselo ricordare; e di più tenevano ordine espresso del Senato di non prenderne a niun patto. Quindi Iacopo Foscarino apertamente si rifiutò, dicendo che la sicurezza del suo naviglio tanto a cuore stava a lui medesimo, quanto a chiunque altro; che sentiva di non avere alcun bisogno d’aiuto: ed in prova citava i fatti recenti, l’avere in Grecia due volte combattuto e fugato il nemico; e nel ritorno eziandio preso cinquecento fanti dalla fortezza di Corfù, altrettanti dalle navi, e così provvisto anche meglio che non bisognava alle sue galere. Ma don Giovanni replicando, e quegli persistendo, giunsero a tale che niuno di loro poteva più ritirarsi dall’impegno. E chi sa come sarebbesi terminata la contesa, se non fosse quivi stato a mediatore d’ogni differenza quel sottile ingegno di Marcantonio, il quale con una delle sue destrezze tolse ambedue d’impaccio. Don Giovanni mettesse il rinforzo, ed i Veneziani non ne ricevessero da lui: cioè, invece di soldati spagnuoli, andassero mille e seicento uomini delle fanterie pontificie. Li rassegnò di presente sotto tredici capitani al commissario Contarini, e ne prese nelle sue galere altrettanti di quelli del Re.[420] L’intramessa dei Romani nell’armata della lega, massime sotto a tal capitano qual era Marcantonio, nei maggiori bisogni riusciva opportuna a riparare i disordini e a mantener la concordia. Non [386] poteva però rimediare alla perdita del tempo: chè in queste pratiche se ne passarono cinque giorni.
[11 settembre 1572.]
Erano pertanto alle Gomenizze tredici galere, e due navi del Papa; settantasei galere, e ventiquattro navi del Re; cento cinque galere, sette navi, e sei galeazze dei Veneziani; più due galeazze del granduca di Toscana: che unite insieme facevano grossa armata di cento novantaquattro galere, trentatre navi, e otto galeazze, tutte acconce e corredate d’ogni cosa necessaria a navigare e a combattere. Allora parve a don Giovanni di metterle in ordinanza, divise in squadre, e contrassegnate da pennoncelli di diversi colori. Nella battaglia galere settanta [387] di giallo al calcese, condotte dai tre generali della lega; nell’ala diritta quarantacinque galere, di verde alla prua, sotto il marchese di Santacroce; nella sinistra altrettante d’azzurro all’osta, sotto il Soranzo; e nel retroguardo di bianco alla poppa, con più di trenta galere, don Giovanni di Cardona: le galeazze, guidate dall’intrepido e veterano comandante Francesco Duodo, all’antiguardo; due per ciascun corno, tre sul fronte della battaglia, ed una alla coda; le navi finalmente, a carico di don Rodrigo di Mendoza e di Adriano Bragadino, alla vela tutte in un corpo sino al Zante, e là pronte ad ogni cenno di sua Altezza.
[11-16 settembre 1572.]
Con quest’ordine salparono dalle Gomenizze agli undici di settembre, la sera dettero fondo presso all’isola Ericusa, oggi detta il Paxò; e la mattina, levatisi per andare verso la Cefalonia, ebbero incontro due galere che per ordine di Marcantonio avevano spiato i movimenti dell’armata nemica, e venivano a riferire trovarsi buona parte di quella in Portogiunco presso a Navarino, e il resto sotto la fortezza di Modone; ma tutta stremata di vettovaglie, oppressa dalla infermità, e piena di terrore.[421] Però crebbe a dismisura l’ardire delle nostre genti; e tanto maggiore allegrezza si faceva, quanto che la cosa tornava quasi fuor d’aspettazione: giudicando ciascuno che i Turchi, avuto avviso della congiunzione dell’armata cristiana, senza dubbio si dovessero esser fuggiti a Costantinopoli, paghi di aver ricuperato molta riputazione coll’essersi mostrati presti alla battaglia. Saputo però che [388] Luccialì era venuto così vicino, quasi a cercar le busse, non altro desideravano che dar dentro, e rivedere un’altra giornata a Navarino, come quella dell’anno avanti a Lepanto. Ma ora la contrarietà dei tempi, ora quella degli uomini, fece ritardo: perchè la sera del dodici pel vento contrario bisognò ritornarsene a Paxò; la mattina del tredici dar fondo alli Guardiani fuor del porto di Argostoli, il quattordici passarlo a far acqua e legna, e il quindici a veder l’armata in battaglia; rodendosene i Veneziani, che per violenza trovavansi stretti a patire quel perdimento di tempo. Il qual cruccio tanto più cresceva quanto che, messosi alla sera il ponente freschissimo, si sarebbe potuto giungere improvvisamente sopra Portogiunco, ed avere certissima vittoria. Don Giovanni però contro il parere del generale di Roma e di Venezia (che nel corso della notte tre volte, e sempre con maggior premura il sollecitarono) non volle scorrere avanti: anzi, avendo divietato ogni mossa di remo ed ogni scossa di vela, per consiglio di don Giovanni di Cardona e de’ suoi marinari, navigò tutta la notte a secco. Avrebbe potuto essere all’alba sopra Navarino, e pur non giunse che ben tardi alle Strofadi, oggidì chiamate Stanfane, isole picciolette e deserte in mezzo al mare, quasi egualmente dal Zante che da Navarino lontane.[422]
Qui già trapela l’accordo secreto tra i consiglieri e [389] i marinari per arreticare i movimenti dell’armata. Si naviga a secco, cioè senza vela, si arriva a mezza strada, si dà fondo, e si chiamano i capitani a consiglio. Però il Foscarino, afflitto nell’animo, e condotto dall’istessa freddezza del temperamento suo a mostrare una volta che poteva risentirsi di così lunga sofferenza, liberamente rivoltosi a don Giovanni ed ai suoi, prese a dire:[423] Che fa per noi, signori, metterci ogni giorno in consiglio per vedere il modo di combattere e di navigare, se navigare e combattere non vogliamo? A che tante parole? Questa notte si poteva filar dodici nodi all’ora, col vento fresco di ponente, e non si è fatto vela: ecco, quest’oggi si poteva dar la battaglia, e ci troviam qui fermi a perder tempo in consigli perpetui. Non basta? Vogliam noi che il nemico si prepari meglio a resistere? Vogliamo che si riduca in parte più sicura? Che sappia l’arrivo nostro in quest’isola? Stiamci due giorni; ed egli il saprà. Ma che dico due giorni? E non basta forse a quest’ora per averci discoperti il gran fuoco che si è da certuni acceso alla spiaggia? Son questi i nostri consigli? Queste le glorie della Cristianità? Questa la liberazione della Grecia? E già era in procinto di non attendere risposta, ma da sè stesso e di buon peso far ragione alle domande sue; allorquando Marcantonio, colto forse il momento d’un suo sospiro, interrompevalo dicendo: Esser quello il tempo da concludere con poche parole la grande impresa; si spegnessero i fuochi, si calmassero gli animi, l’armata si apprestasse a combattere: la notte si leverebbero copertamente di là per esser prima dell’altro giorno sopra l’isola della Sapienza, innanzi alla fortezza di Modone: da quell’isola potrebbero a oltranza assalire l’armata nemica, tutta o parte, [390] che fosse in Navarino, e troncarle la strada perchè mai più non potesse fuggire. Escluso Luccialì da Modone, avrebbero gli alleati a loro posta l’armata sua.[424] Il qual partito sebbene fosse in consiglio da tutti abbracciato e fermo, come tale che poteva dare gloriosa vittoria, ciò non pertanto tornò vano. Sulle rive di quell’isola, ove i poeti avevano posto il seggio dell’Arpie, non doveva essere che il marzial congresso, a che i prodi si convitavano, non fosse da sconce mani e guasto e corrotto.
[17 settembre 1572.]
XV. — Imperciocchè venuta la sera assai quieta e serena, senza niun vento, l’armata cristiana levossi; e celatamente prese a navigare secondo il convenuto. Ma nel silenzio della notte, quando i soldati e i capitani immersi nel sonno riposavano le stanche membra a invigorirle pel combattimento imminente, allora fu sconvolto onninamente l’ordine del navigare, e tolta non solo una gran vittoria alla Cristianità, ma per altri tre secoli aggravato il servaggio dei Greci, e mantenuti i barbari a flagellar l’Europa. Di che, mentre io scrivo, la penna in mano mi trema pel fremito che sento nel ripensare come la frode a pubblico danno e perpetuo delle genti usa vestire il manto dell’innocenza, e la menzogna sfacciatamente mostrarsi sotto l’aspetto della verità. Il Caracciolo, il Sereno, il Graziani e l’Adriani,[425] che ho sempre innanzi, autori di somma fede, concordi [391] fra loro, e con quanto v’ha di recondito negli archivj; tutti contemporanei, i due primi capitani assennati e presenti all’armata, gli altri due uomini di stato e di quell’ingegno che tutti sanno, temono dir troppo, e si tengono tra l’errore di qualche piloto, e il maltalento di alcun comandante, lasciando alla posterità scevra di paure e di speranze il risolvere. Ed io senza passione, che nulla temo e nulla spero, stretto solo dall’evidenza dei fatti, mi fo coscienza a gettar via quel tormento dei dubbi, ed a parlare la sincera verità, perchè la storia sia qual esser deve maestra della vita, ritratto fedele della virtù, e flagello del vizio.
Tuttavia prima di mettere in chiaro l’arcano di quella notte, mi fa bisogno descrivere in brevi tratti i contorni delle costiere ove il fatto avvenne. Un vago disegno, dipinto a colori per mano del tanto celebre capitan Francesco de Marchi, svolge il prospetto della costa occidentale di Morea, le isole del Prodano e della Sapienza, il porto di Navarino, la rada di Modone, e le posizioni delle due armate di Cristiani e di Turchi, come furono in questo giorno diciassette settembre 1572. È alla Magliabecchiana tra le tavole e piante di fortezze disegnate dal De Marchi, il quale fu presente a questi fatti, come si rileva dalla scrittura posta al margine del disegno.[426] Da quella e da altre carte marine si rileva che la spiaggia di Morèa rimpetto alle Stanfane, donde si è mossa l’armata cristiana, scorre tra la foce del fiume Achelòo e la punta di capo Gallo, quasi per diritta linea da settentrione a mezzogiorno; ed offre ai navigatori nel picciol tratto di quindici miglia due porti capacissimi di qualunque armata: su verso tramontana è Navarino, [392] la cui fama risuona nel mondo per moderni e per antichi avvenimenti, di che avrò più volte a parlare; ed all’ingiù, verso ostro, è Modone, fortezza, città e porto principalissimo della Grecia. Presso a ciascuno di questi luoghi è un’isoletta: la prima, sei miglia al di sopra di Navarino, è chiamata il Prodàno, o isola di Proteo; e l’altra, per tre miglia sotto Modone, è detta oggidì la Sapienza, e presso gli antichi Enusa: quella scopre Navarino da lungi, e non lo domina, per la troppa lontananza; questa però tanto sovrasta sull’angusto canale di Modone, che gli è tutt’uno il mettersi alla Sapienza ed il bloccare questa città, senza che niuno possa più uscirne od entrarvi. E siccome nel fatto presente l’armata nemica stava divisa tra i due porti or ora nominati, così la venuta improvvisa degli alleati sopra la Sapienza doveva disunirla per sempre, tenerne deboli e soggette le divisioni, e quasi senza alcun risico aprir la strada a disfarle ambedue.
Con questa deliberazione l’armata nostra sciolse dalle Stanfane, con questa navigò a remo tacitamente nella oscurità della notte, con questa in dodici ore avrebbe potuto filare le quaranta miglia, con questa all’alba presero l’armi capitani e soldati.[427] Ma, tra le maraviglie che ne fece ciascuno ignaro del secreto, invece di trovarsi la mattina alla Sapienza, quinci distante quarantun miglio nel rombo di scirocco per due gradi a mezzogiorno, l’armata della lega (condotta secondo la tattica dal Piloto della real galera di don Giovanni), fatte non più che ventisei miglia, e nel rombo di scirocco per quindici gradi a levante, trovossi fuor di strada! Non alla fronte ma alla coda dei nemici, non alla Sapienza ma al Prodàno! [393] Non a vittoria segnalata, ma a perdere la riputazione e il frutto di tante fatiche![428]
Io non coprirò questa enormità con magre scuse. Non dirò che fu errore involontario del piloto di sua Altezza.[429] Perchè questo non potrebbe supporsi senza ingiustizia o follia: ingiusto io dico dar taccia di così grande reità ad un piloto reale, senza alcuna prova; anzi quando si sa che non fu nè punito nè rampognato, nè dal suo generale nè dal suo sovrano: follia sarebbe supporre nell’arte di navigare, in una notte tranquillissima di mare e di vento, per un tragitto così breve e tanto conosciuto, tal fatta errori che in un negozio di tanto rilievo menassero alla differenza di diciassette gradi per rombo e di quindici miglia per distanza; quandochè (volendo pur concedere qualche errore al piloto) doveva essere tutto nell’allargarsi a mare e nel tirar oltre a gradi ed a miglia, anzi che nel troppo stringersi a terra e nel trattenersi tutta la notte per via: e ciò perchè di suprema importanza era sorprendere il nemico, comparirgli di fronte ancorchè tardi, tagliargli la strada, invece di lasciarsi vedere prima del tempo, e alla coda. Nè pure dirò che i ministri spagnuoli per loro private passioni si opponessero in ogni incontro alla buona volontà del re Filippo;[430] perchè tanta contumacia e perpetua di tre anni non era possibile contro un sovrano di quella [394] tempra, che aveva poc’anzi per disubbidiente fatto morire il figlio nella prigione. E nè anche mi sento di seguire il terribile salto di certuni che, sfiduciati di trovare altra scusa qui in terra, sono andati a cercarla nei cieli:[431] perchè troppo enorme bestemmia mi parrebbe attribuire all’altissima Maestà di Dio i peccati degli uomini i quali gli si opponevano, allora appunto che tanta bella occasione di vittoria metteva loro innanzi. Dirò dunque che questo fu tiro maestro di quelli stessi personaggi che alla Prevesa, a Cipro, a Lepanto, a Navarino non volevan battaglie; di quelli che a Roma intrigavano i capitoli, a Messina mettevano sospetti, a Corfù richiami, per tutto mala frode e false scuse.
Chi ne dubitasse, senta gli effetti, e legga il resto. Appena i Turchi che erano in Navarino ebbero scoperta a levata di sole tutta l’armata cristiana venirne da tergo verso il Prodàno, conosciuto il precipizio sull’orlo del quale s’erano quella notte trovati, con la fretta maggior che potevano o salparono i ferri, o troncarono a furia le gomene, per ridursi in salvo a Modone, prima che i nostri giungessero a chiudere il passo. Ma dovendo ad una ad una quelle galere mettersi in mare, tra la confusione che in ogni repentino caso suole incontrarsi, non poterono tanto presto smucciare, che gli alleati non le avessero già quasi [395] raggiunte.[432] Don Giovanni però non dava loro che poca caccia, quasi per mandarle più presto a ricoverarsi in Modone, anzichè per assalirle nella fuga. Marcantonio tutt’armato com’era, fattosi tragittare di presente dal suo palischermo alla galera di don Giovanni, con franchezza e libertà pari al bisogno, dicevagli: Che, se pure si era navigato a rovescio, contro la risoluzione fatta, e già il nemico se ne fuggiva, ordinasse almeno venti galere delle migliori, perchè l’inseguissero alla coda, tanto per provocarlo a battaglia, quanto per ghermirgli qualche galera grave e tarda che dietro all’altre, come sempre succede, si rimanesse. Ed avendolo l’Altezza Sua con molto sussiego interrogato, se egli stesso che proponeva il partito l’avrebbe voluto eseguire; Marcantonio sull’atto fece scorrere il suo palischermo a cavar fuori le venti galere che, dopo la sua capitana, stimava più leggiere e ben armate: ed era già sul muovere, quando don Giovanni facevagli dire che si rimanesse nell’ordinanza con tutti gli altri, perchè l’armata nemica non fuggiva altrimenti, ma se ne veniva in tre squadre a presentar la battaglia. Allora Marcantonio, cui non poteva parer vero tal mutamento, a voga arrancata passò col battello sotto la poppa della sua Capitana, e domandò più volte alla guardia del calcese: qual vista facesse l’armata nemica; e quegli sempre a rispondere: Di fuggire.
Il perchè tornò alla reale ripetendo come per certo il nemico fuggiva, e don Giovanni fermo a negare. Finalmente per levarsi dinanzi il testimonio importuno della verità, ed il tacito riprenditore della maligna e codarda politica, gli comandava che andasse con sola la sua capitana dietro ai nemici per vederli da vicino: e se venivano [396] a combattere, ne desse segno con un tiro; altrimenti con due, se fuggivano.
E quantunque ciascuno vedesse in ciò l’oltraggio manifesto alla capitana, allo stendardo, ed al generale del Papa nel mandarlo a mo’ di stracorridore, e senza dignità di accompagnamento, a spiare i nemici; pure Marcantonio di presente acconsentì, e spiccò senz’altro la sua capitana. Alla cui vista molte galere mossero dalla posta per seguirlo, specialmente la padrona e le sensili del Papa, parendo a tutti che non si dovesse patire di lasciarlo andar solo.[433] Ma per ordine di don Giovanni furono tutte, loro malgrado, ritenute; salvo che la galera del Quirino, il quale, giudicando che il suo Generale veneziano per la ragione di più alta giustizia e di comune utilità gliel consentisse, volle contro il divieto di don Giovanni andare appresso a Marcantonio.[434]
Così il generale romano, e luogotenente della lega passò avanti di tutti gli altri tre miglia; laddove vedendo con gli occhi suoi manifestamente che il nemico fuggiva, sparò li due tiri: e non per questo don Giovanni si mosse. Voltarongli però la faccia nove galere turchesche, sdegnose di vederselo appresso così solo in mezzo al mare a sparare cannonate: e sarebbesi quivi fatto disperato combattimento, perchè Marcantonio intrepido aspettavale, [397] se il Quirino, rimandato indietro da lui, non avesse ottenuto da don Giovanni che si avanzassero seco due galere di Malta e cinque del Re, alla vista delle quali le turchesche ripigliarono la fuga, inseguite sempre e cannoneggiate da Marcantonio sin sotto la fortezza di Modone.
Io lascio a voi il ripensare da questi fatti quale esser dovesse l’animo di sua Altezza e dei suoi consiglieri contro i Turchi in quel giorno e nella notte precedente: e, toccando di volo i minori incontri per non tenervi a tedio, ometto le prove di egregio valore che Marcantonio dette nell’affrontarsi là sotto Modone con alcune galere nemiche, e nel farle investire in terra, ed anche nel tentare di pigliarsene due incagliate sotto la stessa fortezza, donde i Turchi sfolgoravano di tutte le loro artiglierie contro lui solo. Concludo però che la giornata del diciassette settembre tale doveva essere per la lega quale era stata quella del sette d’ottobre.[435] Ma arcani ordinamenti, traendo l’armata di don Giovanni nella notte fuori di via, e nel giorno fuori di senno, permisero al nemico d’andarsene, di ricongiungersi e di mettersi in salvo. Or prenda cui tocca a suo carico il lento movere, il simulato navigare, il falso vedere, e il [398] non inseguire; che quanto a Marcantonio bisogna concedere che mostrò come sempre, così quel giorno, esser schifo di simulazione e di vigliaccheria.
XVI. — Ritirate che furono le galere dei nemici a Modone, sopravvenne lenta lenta presso al medesimo porto tutta l’armata con don Giovanni, che in quel giorno, come ne dicono il Caracciolo ed il Sereno, aveva fatto sempre vogare a quartieri.[436] La qual parola quartieri non è stata quivi messa a caso dagli esperti capitani, ma pensatamente: perchè fosse intesa da chi si conviene. Laonde ben fecero gli editori di Montecassino a fiutare che quivi il loro Sereno abbisognava di chiosa, ma andarono fuori del seminato nel volergliela fare mal a proposito.[437] Perchè il vogare del testo non tocca nè al fil del timone, nè al vento tra la perpendicolare o il traverso, come essi dicono, fermandosi alle prime parole del dizionario. Vogare è dar dei remi in acqua, non di vele al vento, nè di filo al timone. Perciò con buona loro licenza mi bisogna ricordare che quartiero significa propriamente la quarta parte, e spesso per analogia la terza o la quinta di ogni cosa: quindi i tre scompartimenti d’una galera, presa per lo lungo da ruota a ruota, chiamavansi quartieri di prua, di poppa, e di mezzanía. Onde, vogare a quartieri significava remigare con sola una parte del palamento; ora con quello di prua, ora coll’altro di poppa, ora col terzo di mezzana;[438] tanto che [399] riposandosi gli uni di qua, travagliavano gli altri di là; a vicenda toglievano e lasciavano il remo, ed a vicenda aveano riposo e fatica. Insomma era un vogar lentamente con pochi remi. Ed usavasi tanto per dar fiato alle ciurme a fin di mantenersele vigorose in procinto di battaglia, quanto per non essere troppo presto in alcuna parte ove non mettesse conto. Dunque dicendo quei maestri che don Giovanni il diciassette settembre aveva fatto vogar a quartieri, vogliono farci intendere che veniva senza fretta, e che copriva la lentezza sotto colore di riposar le ciurme pel caso della battaglia. Spiegano eziandio (tanto è feconda la verità) le opere dei navigatori coll’arte del navigare; e viceversa l’arte coll’opere. Anzi mi si permetta che dal detto innanzi ne deduca per conseguenza necessaria che quella notte e quel giorno fu bonaccia, o poco vento: perchè altrimenti nè la notte sarebbero andati a remo, nè il giorno a quartieri, nè il piloto a trattenersi per via, nè Marcantonio a raggiugnere tanto da vicino i nemici, nè questi a voltarglisi contro, nè il Quirino avanti e indietro, nè i Turchi fuggirsene lasciando altri a dubitare se si movessero in su o in giù: segno certo che niuno alzava la vela, e notizie bellissime che al bisogno si possono cavare da quei diligenti scrittori, perchè viemeglio si confermi l’impossibilità dell’errore, e la certezza che si adoperava a malizia.
[400]
Giunti a Modone, indarno Marcantonio rappresentò che, senza dar tempo ai nemici, si dovesse di presente a viva forza entrar nel porto, e tra quelle angustie opprimerli siffattamente che non ne scampasse pur uno. Indarno si offrì d’esser il primo alla prova, e indarno promise certissimo effetto. Coloro che sempre erano a schifare i cimenti, veduto quel luogo, cominciarono a chiamarlo invincibile: a diritta la rocca sopra una rupe circondata dal mare, a sinistra le batterie sur una collina, e in mezzo galere, soldati e cannoni a guardarne la bocca. Altro non vollero per dire che pareva cosa piena di pericolo e quasi impossibile entrare là dentro. E facendo conto don Giovanni, per esser vari i pareri e l’ora già tarda, che non si potrebbe in quel giorno pigliare alcun partito, ordinò che l’armata si ritraesse, e ne andasse a dar fondo alla Sapienza: e che Marcantonio, pigliate otto galere di vanguardia, codiasse il nemico, e si mettesse a suo piacimento sulle vedette tra quell’isola e la Capraia. Nel qual tempo, disfatta l’ordinanza e navigando ogni altro a suo talento, egli col predetto antiguardo volle accostarsi a Modone per viemeglio riconoscere il porto, la piazza e l’armata nemica. Se non che scontratosi là presso con quattordici galere turchesche, prese a inseguirle: e con tutto che quelle disperatamente fuggissero, era per raggiungerne qualcuna, e già cominciava a bersagliarle col cannone, quando Luccialì, che stava in punto per uscire, si mostrò con ottanta galere, non tanto a ricoverare le sue quattordici, quanto a dar vista di coraggio, e a confondere vieppiù i Cristiani che senza aver fatto nulla procedevano chi qua chi là disordinati.
Ondechè don Giovanni fu costretto a voltar la faccia, ma il fece con tanta confusione che Luccialì l’avrebbe [401] rotto se fosse stato pronto ad assalirlo.[439] Avendo però costui tardato, per la paura che soppanno agghiadavalo, sapendo che la ruina sua sarebbe certa se i Cristiani pigliassero ardire, contento di averli con siffatto badalucco sgomentati, prese a ritirarsi in quella che i nostri si rimettevano: e non lasciando mai di trar cannonate, rientrò nel porto che erano due ore di notte.
[18 settembre 1572.]
Don Giovanni allora si allargò sino a venti miglia da Modone, e aspettò in giolito il nuovo giorno. Venuto il quale, si rifece innanzi al porto, provocò in più modi il nemico alla battaglia; non ebbe risposta.
Chiaro era che Luccialì, secondo si legge di Fabio Massimo, intendeva a temporeggiare, a confondere gli alleati, e far le viste non le prove della guerra, insomma a vincere senza combattere. Ciò non per tanto sua Altezza e i suoi si lasciarono prendere a quelle arti: e quando avrebbero dovuto tirarlo per forza alla giornata, in quella vece se ne andarono a rinfrescar l’acquata.
Una delle grandi necessità che spesso stringeva le galere, era la provvisione dell’acqua: imperciocchè questa specie di navigilio non potendo imbarcar vasi di gran capacità, doveva usare i barili. Che sebbene industriosamente ripartiti, senza ingombrare nè il ponte di sopra nè le camere di sotto, ma in quella vece allogati a tre a tre sotto ai banchi dei remieri, giungessero al numero di quasi dugento barili in ciascuna galea; tuttavia per la gran moltitudine delle genti, e l’arsura che provavano nella fatica, non fornivano bevanda più che per dieci o [402] quindici giorni: dopo i quali, fosse pure in paese nemico, bisognava accostarsi a terra, e da qualche ruscello o fontana attigner acqua: e sovente battersi ancora con quelli che venivano ad opporsi. Perciò si sbarcavano primamente drappelli di archibugieri più o meno numerosi, secondo il bisogno; e quando di qua e di là della sorgente, spiegatisi alla campagna avevano abbracciato le alture circostanti, allora scendevano le ciurme per acqua.
Così il diciotto settembre l’armata della lega mosse verso la fortezza di Corone, salutolla di buon mattino con alcune volate d’artiglieria, e, scorsa dieci miglia più oltre ad un fiumicello, sbarcò quasi tre mila fanti spagnuoli sotto il conte di Landriano, e cominciò l’acquata. Ma avendo il conte svolte le maniche degli archibugieri sul piano, attorno alle siepi e alle macerie di certi giardini, e non avvertito di guadagnare una villa che da presso gli sovrastava, ecco venirvi speditamente per la via di terra con tre mila giannizzeri e cento cavalli l’istesso Luccialì, diligentissimo a cogliere l’occasione che gli si offriva. Dì là caricò più volte sui nostri, e sempre mantenne viva la scaramuccia, che per essere il luogo pieno d’alberi durò sei ore. In capo alle quali, avvisato don Giovanni che gli Spagnuoli cominciavano a cedere, vi mandò Paolo Sforza con una mano d’Italiani a sostenerli sino a notte, che si terminò il travaglio degli acquatori.[440] Morirono in questa fazione da una parte e dall’altra molti soldati e capitani, tra i quali Alessandro Strozzi e il cavalier di Bazan; avendo pur corso pericolo Alessandro Farnese, che con molti cavalieri del suo seguito vi fece prove di gran valore.
[403]
[19 settembre 1572.]
Rimbarcate le genti nella notte, rimenò don Giovanni l’armata a Modone; donde le galere nemiche non s’erano punto mosse. Rivide alla prima luce del giorno la gran selva d’alberi e d’antenne che là sorgevano, e il prese vaghezza di accostarvisi e considerarne da presso la postura. E perchè la capitana di Marcantonio s’era mostrata in tanti riscontri agile, sicura e forte più ch’ogni altra dell’armata, volle sua Altezza montare in quella, col general veneziano e cogli altri del consiglio, e senza galere d’accompagno scorrere sin quasi alla bocca grande del Porto, tra l’isola della fortezza e la spiaggia.[441] Colà stette alquanto a riguardare le dugento galere ottomane ormeggiate in tre file, colle poppe a terra, la tenda fatta, e la fronte difesa dalle stesse loro artiglierie; egualmente che i fianchi dalla fortezza sulle rupe di ponente, e dai ridotti sulla collina di levante. Sua Altezza e i consiglieri sclamavano, che l’armata nemica era bene alla posta.
Stando adunque in queste ed altre molte considerazioni, ecco uscir dalla punta del molo quindici galere, che guizzando fuor fuori venivano per metterlo in mezzo e tagliargli la ritirata: ondechè sua Altezza diè volta indietro, dicendo che prima di mettersi al pericolo di assaltar là dentro un nemico così bene afforzato si doveva [404] deliberare l’impresa co’ voti di tutti. Così fece chiamare a consiglio nella sala dell’istessa capitana[442] oltre i generali di Venezia e del Papa, i consiglieri privati, i provveditori, i condottieri, e insieme, il principe di Parma e il duca di Bracciano: e dette principio al parlamento con quella diversità di pareri stata sin allora consueta.
Gli Spagnuoli tenevano per impossibile assaltare l’armata ottomana nel porto di Modone: e in quella vece proponevano di tornare al Zante, ripigliar le navi, rinfrescar le vettovaglie, e governarsi poscia secondo che metterebbe conto.[443]
I Veneziani chiamavano codardia la ritirata al Zante, non acconcia se non a crescer baldanza ai nemici e a dar pretesti a chi cercava di non far altri conti. Niuna battaglia navate, dicevano, potersi combattere ove non era l’armata nemica; nè alcuna impresa di terra tentare ove quella poteva da un momento all’altro sopraggiugnere. Come difenderebbero l’armata senza soldati? e come piglierebbero le fortezze senza sbarcarli? Venissero adunque le navi dal Zante a Modone; troverebbero la via sicura ed aperta. Basterebbe un messaggero ed una lettera, senza che capitani, generali, soldati, e tutta la lega andassero a chiamarle. E dappoichè il nemico era stretto e bloccato in Modone, si deliberasse non il modo di abbandonarlo, ma di offenderlo.
Marcantonio risolutamente affermava che le batterie e le difese di Modone in altri tempi e con altra gente potevano forse credersi difficili a superare; non allora con [405] quei Turchi che dentro vi stavano fuggitivi, pieni di paura, invalidi, e trepidanti alla fresca memoria di tante sconfitte; non allora che all’incontro stavano uomini prodi, esperti di guerra, usi a vittorie, e pieni di grandi speranze. Mostrassero gli alleati coi fatti più che colle parole il poco conto in che si doveva tenere quella gente raunaticcia ed inesperta, che non mai ardiva venire a battaglia. Si provassero ad assalirla nel porto: e vedrebbero che coloro, non avendo nè animo di combattere, nè modo di resistere, ma solamente comodità di fuggire in terra, al primo abbordo lascerebbero in abbandono i loro vascelli, e metterebbero la piazza in tal disordine, che i vincitori, come già a Tunisi, piglierebbero a un tratto l’armata e le fortezze.[444]
E tale senza fallo sarebbe stato l’effetto del suo consiglio quale egli prediceva: perchè gli esploratori e i rinegati sin d’allora rapportavano quel che dappoi meglio si venne a risapere, che Luccialì disperava di salvar l’armata [406] sua, essendo di soldati e di remigi mal provvista, piena di avvilimento, e oppressa dalla fame: e che quantunque richiamato dal Sultano, non ardiva partirsi, temendo non forse gli alleati il raggiungessero per via. E più volte pensato aveva o di abbandonar secretamente l’armata e con pochi ripararsi in Algeri, o di fuggire in terra con tutti i suoi e lasciare i vascelli in poter dei Cristiani, cui pensava vedere più anche in quell’anno che nel precedente vittoriosi.[445] E mentre egli seco stesso tenzonando in grande amarezza deplorava la sua trista sorte e l’imminente pericolo che gli sovrastava o dai nemici o dal padrone,[446] allora la stoltezza o malizia dei consiglieri venne in suo soccorso e il rese fuor d’ogni sua opinione vincitore.
Perocchè quasi tutti, per sino i Veneziani, impensieriti al pericolo, e trepidanti per l’autorità e pel numero degli oppositori, esclusero il partito di Marcantonio.[447] Grande sventura! Non era pari alla potenza degli Spagnuoli la sincerità; nè pari alla prudenza dei Veneziani l’ardire. Per manco di sincerità e d’ardimento, non vi ebbe chi sostenesse il partito salutifero del romano campione. Nè questi sel recò ad offesa: anzi sommesso alle leggi dell’alleanza, ed ai voti degli altri [407] due generali, smise il primo disegno; e, riguardando alla pianta della città, del porto e dei rivaggi di Modone, un altro ne svolse da produrre ugualmente buon effetto. Far campo attorno alla terra; ed espugnata la piazza, impadronirsi dell’armata. Per la qual fazione bisognandogli avere un giusto esercito alla campagna, e l’armata in punto sul mare, fece seco le ragioni del condurre l’una e l’altra bisogna; così che sbarcando dodici mila uomini ne avrebbe assai per l’assedio, e gliene resterebbero ventimila sull’armata (cento per galera) bastevoli a sostenerla. Che se si volesse condurre l’armata medesima quivi presso nel porto di Navarino, chiusa la bocca colle galeazze e colle navi, starebbe sicura da qualunque insulto di nemici e da ogni fortuna di mare; e darebbe eziandio calore all’assedio. I dodici mila, traendo seco vittovaglie e artiglierie, andrebbero a porsi sul colle di Santaveneranda, vicino o per dir meglio a cavaliero sulla fortezza e sul porto; donde già prima combattendo avevano i Turchi tolta la terra ai Veneziani, e donde (come altrove si dirà) Romani e Veneziani la ritolsero ai Turchi. Quivi avrebbero acqua in gran copia, che da inesauste sorgenti vi rampolla, vittovaglie abbondanti dall’armata, e più anche dai Greci del contado; con che risparmierebbero le proprie e torrebbero quel sostentamento ai nemici. E venendo al modo di eseguire il suo disegno, prese a considerare che, sbarcando i dodici mila nel porto di Navarino, resterebbe sicura l’armata; ma l’esercito avrebbe a camminar quindici miglia di strada difficile all’artiglieria, e sovente aperta agli assalti dei cavalli nemici: e in quella vece, sbarcandoli alla spiaggia sotto il colle di Santaveneranda, l’esercito andrebbe sicurissimo a campo; ma le galere correrebbero pericolo di essere in mal punto assalite da Luccialì. Perciò schivando l’uno e l’altro inconveniente [408] si dovrebbe pigliare una via di mezzo: metter prima l’armata a Navarino; e all’improvviso venire con cinquanta galere delle migliori e con tutti i palischermi e fregatine a sbarcare il detto numero di soldati a due miglia da Modone, in una valletta chiamata Mauria: ma di notte, in silenzio e con prestezza tale, che fatto lo sbarco in un ora, quando pur Luccialì se ne addasse, non potesse aver tempo nè d’impedire che l’esercito non salisse a Santaveneranda, nè che le cinquanta galere non ritornassero sicure a Navarino.[448]
Mirabile fecondità di mente! A lui tanto era facile trovar sempre nuovi ed ingegnosi partiti, quanto ad altri l’udirli raccontare. Egli in un giorno, e son già tre secoli, spiegò a Modone quella tattica sublime onde crebbe la rinomanza di Bonaparte a Tolone, di Nelson ad Abukir, e dei tre grandi ammiragli quivi stesso a Navarino. Ma non per questo se ne contentavano i prudentissimi consiglieri privati: anzi, dopo aver impedito l’assalto del porto, non potendo opporsi all’assedio della piazza, prendevano a ridir sul modo proposto da Marcantonio, e gli si contrapponevano col voto del marchese di Santostefano. Questi divisava che di pieno giorno tutta l’armata si dovesse mettere tra l’isola della Sapienza e della Capraia; di là muovere e sbarcare i dodici mila, non sulla diritta di Modone per a Santaveneranda, ma sulla sinistra al piè della Collina fortificata; e quivi [409] presso rimanere schierata in battaglia: le fanterie dalla spiaggia dovessero assalire la Collina; e, potendola pigliare, fortificarsi in quella: quindi scorrere sul Monte appresso; e di là, scoprendo a giusto tiro l’armata nemica nel porto, prendere a offenderla. Che se altrimenti non riusciva lo sbarco, nè l’assalto della Collina e del Monte, allora si richiamerebbero a bordo le fanterie, e si darebbe volta per l’Italia.[449]
Se non che il General veneziano, non tanto commosso dal finale proposito di ritirarsi in Italia, quanto dalla vanità del progetto del Marchese, prese a parlare, dicendo: Che ben si poteva salvar l’armata a Navarino, sbarcar di notte i dodici mila, ricoverar le cinquanta galere, mettersi a Santaveneranda, e di là pigliar Modone, secondo l’avviso del signor Marcantonio; ma che non sarebbe mai possibile di pieno giorno, sopra spiaggia aperta, in faccia al nemico, sbarcare senza ostacoli dodicimila uomini, e il parco dell’artiglieria; e quandochè riuscisse, per fortuna dei Cristiani o per negligenza di Turchi, restavano troppe Colline e Monti a superare, troppe fortificazioni a vincere, e troppa sete a patire in quella parte priva d’acqua, e solo guarnita di bocche a fuoco: e che nè anche l’armata cristiana potrebbe a piacer del Marchese fermarsi in battaglia a rimpetto di Modone, perchè discacciata di là al primo scirocco dovrebbe andarsene, lasciando l’esercito disperato di ritirata e di soccorso.[450] Tra questi e molti altri ragionamenti, [410] dibattendosi lunga pezza i capitani, n’andò la giornata, e si sciolse il consiglio, senza aver ferma alcuna deliberazione. Don Giovanni o non seppe o non volle concludere, nè troncare il filo alla diversità delle sentenze.
[25 settembre 1572 ]
XVII. — Quando ecco, per dar tregua alle altrui ed alle nostre melanconie, un cotal architetto di oscura fama, per nome Giuseppe Buono, messo all’armata dal duca Cosimo (gran partigiano della corte di Spagna)[451] offerirsi di costruire alcune batterie galleggianti con che facilmente piglierebbe Modone. Approvò don Giovanni che si fabbricassero le macchine, e dette il carico di sopravvederle a Marcantonio, come a colui che pel desiderio di buoni effetti si metteva volentieri ad ogni travaglio. Primamente il Buono richiese sei galere per farne tre batterie, e Marcantonio propose che si piglierebbe secondo la rata di ciascuno nella lega: tre di Spagna, due di Venezia, ed una del Papa. Ma i grandi personaggi che per parte del Re stavano con don Giovanni, dopo aver consentito al disegno delle macchine, cominciarono a farne poco conto; ed a volere che prima se ne tentasse la prova con due sole galere dei Veneziani.[452] Contentandosene il Foscarino, le due galere vennero in mano al Buono: disarmate, disalberate, rase di tutta l’opera morta, strettamente incatenate l’una coll’altra; sopra la coperta da poppa a prua gran piazza di tavole massicce; attorno il parapetto di gabbioni e fascinotti [411] terrapienato per di dentro, dodici palmi alto, quattordici profondo; la piattaforma, e sopra quella otto cannoni in batteria, sei di fronte e due per fianco. Ed affinchè la macchina al gran peso non profondasse, il Buono vi metteva sotto e di costa due file di botti vuote; e similmente dentro nella stiva da poppa a prua altre botti quante più ve ne capissero: talchè se mai l’artiglieria nemica rompesse in qualche parte la macchina, non per questo affondasse.
Con tuttociò pesava tanto, che appena reggevasi a galla: e quando ne sparavano i pezzi immergeva il rostro nel mare. Laonde quel gran successo che si sperava, e che erasi pur veduto venti anni prima nella espugnazione d’Afrodisio,[453] non era a vedersi in quel di Modone. E ritirandosene ciascuno, come per vergogna, restava là soltanto Marcantonio a sorvegliare il lavoro, secondo l’ordine di sua Altezza; ed a beccarsi la taccia di intendere alle vanità, e di mettere a pericolo la gente del Re: quando dall’altra parte i Veneziani in peggior condizione si dolevano di aver perduto due galere, e patito altri danni, e vista l’opera abbandonata alla metà da chi non voleva metterci nè tavole, nè corde, nè portar la terra, nè dar mano a compirla o a ripararla.[454]
[27 settembre 1572.]
Passati col pretesto di siffatto lavoreccio nove giorni, arrivarono dal Zante le ventotto navi che [412] don Giovanni aveva mandato a richiamare. Crebbe con esse la forza dell’armata, ma non il sostentamento della guerra. I marinari si aspettavano guazzare nell’abbondanza della Sicilia, unico granaio donde si potessero trarre i viveri dell’armata; i capitani per le promesse del provveditore di Spagna don Giorgio Manriquez si aspettavano sette mila soldati, e vittovaglia per due mesi: ma non erano più che due mila fanti, parte del Re, parte della Signoria, e tanto poca e così cattiva panatica quanto malamente poteva bastare cinque giorni: tutta roba di mazzamurro.[455] Sicchè alla diversità dei pareri, al non potersi far macchine, e a tante altre difficoltà, aggiungendosi a grado a grado la penuria del vivere, e la stagione facendosi di giorno in giorno più trista, tutti colà fluttuavano. Più d’ogni altro don Giovanni: che smarritosi nelle contraddizioni, nè sapendo più tra que’ suoi consiglieri cui credere, dubbioso tra lo stare e l’andare, tra il desio d’aver Modone e la vergogna di non prenderlo, qua mormorazioni delle genti, là querele dei Veneziani, non trovava loco a risquitto. Gran testa quel re Filippo, che sapeva confonderli tutti; da vicino e da lontano, in vita e dopo morto.
[30 settembre 1572.]
Finalmente parendo a don Giovanni ed al General veneziano che per allora non si poteva far altro a Modone, [413] essendosi troppo nei pubblici e privati discorsi inaspriti gli animi, e non avendo ardimento nè di seguire Marcantonio nè di opporsi al gran consiglio, pensarono operare per diversione, e mettersi all’assedio di un castello che i Turchi avevano al lato destro del gran porto di Navarino, di che portava il nome.[456] Era Navarino in quel tempo una piccola terra, malamente fortificata, senza fossi e senza baluardi, con solo un muro attorno, e qualche torre e qualche fianco all’antica; non aveva altro vantaggio che di sorgere sopra una rupe a guardia della bocca minore del porto, senza poter impedire il passo a chi vi entrava per la maggiore. Tale era questo luogo, prima che Luccialì lo fortificasse alla moderna, e in onta a don Giovanni vi costruisse quella nuova fortezza di che avrò con miglior successo altra volta a trattare. Ora dico che, alla prima parola di Navarino, tutto il Consiglio fece plauso. Non v’ebbero più nè Colline, nè Venerande, nè scirocchi, nè altra difficoltà: si fece pressa a partire. Alli trenta di settembre don Giovanni sbarcò quattro mila Spagnuoli del Padiglia e del Moncada, cinquecento Papalini del Bonelli, cinquecento Veneziani di Paolo Orsini, quasi mille nobili avventurieri sotto Girolamo Acquaviva duca d’Atri; e postili tutti al comando di Alessandro Farnese (che tanto poi rese chiaro il romano suo nome nelle campagne di Fiandra e nell’assedio di Parigi), mandolli con diciannove cannoni a pigliar Navarino. Il Padiglia, ordinato a guidar l’antiguardo e ad investir la piazza, se [414] le accostò nella notte: con poca fatica occupò una tra le due strade: ma non avendo atteso all’altra, e ciò contro al parere del conte di Sarno, fu cagione che il giorno seguente per quella via entrasse nella fortezza l’istesso Luccialì. Il quale, cavatine i vecchi, le donne, i fanciulli, empito tutto di vittovaglie, e postivi dentro sceltissimi soldati, sventò a un tratto il disegno della lega.[457] Indarno si dette mano agli approcci, indarno a far salir l’artiglierie, indarno ad aprire il fuoco delle trincere: i difensori con arditissime sortite e col trar continuo li rimboccavano. Alle quali cose aggiungendosi tristi tempi, e dirottissime piogge, e per tutto il campo una voce, che si dovesse levare l’assedio, altrimenti sarebbe succeduto qualche gran sinistro, tanto più che i Turchi si facevano vedere alla campagna con grande assembramento di fanti e cavalli, don Giovanni deliberava di abbandonare l’impresa, quantunque vi fosse impegnata la riputazione sua, e l’onore delle armi cristiane. Sempre le discordie dei capitani confondono, e i timidi consigli conturbano la mente dei soldati.
[5 ottobre 1572.]
La notte dopo il quattro di ottobre si cominciò a ritirar l’artiglieria, appresso il bagaglio, l’esercito, i capitani. E parendo bene a don Giovanni che quei signori fossero aiutati a scendere, fece venir in terra Marcantonio a dar loro la mano. Egli che per natura [415] odiava le fazioni non compite, ed allora sentiva vivissimo il dispiacere di trovarsi testimonio di tanta vergogna, dovendosi così grande armata ritirare da sotto una roccaccia, pur si mise alla coda delle colonne nella loro contrammarcia; sempre difendendole e sempre combattendo contro la cavalleria nemica che lo accompagnò sino alla spiaggia, sino ai palischermi, sin quasi sotto al tiro delle galere.[458]
[7 ottobre 1572.]
XVIII. — Fatta l’acquata a Portogiunco, che è l’uno dei sorgitori dentro il golfo Navarino, e terminato l’imbarco con quell’avvilimento che a siffatti disastri va sempre congiunto, si trovarono per soprassello quasi affamati. Tanto di vittovaglia per le piogge, pel trasporto, e per lo sciupío s’era consumato in sei giorni al campo, quanto sarebbe bastato per venti giorni in mare. Di che sgomentandosi ciascuno, massime gli Spagnuoli, cominciavano a parlare del ritorno: e don Giovanni stava già per mettere il segno di far vela con tutta l’armata verso l’Italia, quando gli rammentarono la mattina del sette ottobre, che quello era il primo anniversario della gran vittoria: e che si doveva con qualche prova di valore celebrare. Il perchè deliberò rivolgersi un’altra volta a Luccialì, appunto allora che costui, reso ardito dalle nostre miserie, e dal niun frutto della lega in quella campagna, era uscito di Modone, e se ne veniva codiando alla larga l’armata cristiana. Nel qual tempo essendo comparsa in alto mare una nave veneziana [416] che, partita dal Zante col pieno carico di vittovaglie, era stata prima spinta dal vento al Cerigo, e di là se ne veniva a Navarino, entrò Luccialì nella speranza di poterla predare, avanti che don Giovanni avesse tempo a difenderla. Per ciò spinse a quella vôlta venticinque delle sue migliori galere, ed egli stesso con tutta l’armata si mise in punto per sostenerle. La qual cosa divulgatasi a Portogiunco, e riferita a don Giovanni, fece nascere un subito e pronto movimento delle galere cristiane, che alla sfilata, come meglio si trovavano, uscivano fuori, e arrancavano verso terra per cacciare al largo le venticinque galere nemiche. Marcantonio divisava affrontarle, e tanto trattenerle che il marchese di Santacroce potesse tagliarle fuori dell’armata loro. E don Giovanni si ordinava appresso per essere pronto alla giornata, qualora Luccialì si fosse avanzato a proteggere i suoi. Ma il corsaro che non voleva perdere con una battaglia ciò che aveva fin allora guadagnato senza far nulla, richiamò di presente le venticinque galere; e si rivolse a fuggire verso Modone.
In quello scompiglio dei nemici le migliori nostre galere, la capitana di Marcantonio, del Cardona, del Caneletto, del Santacroce, e di Malta si misero in caccia, gareggiando tra loro per ghermirne qualcuno: ma tanto erano lontani e così prestamente smucciavano e tanto da presso avevano il porto, che sarebbero i nostri tornati addietro senza alcuna presa, se in una di quelle galere, capitanata da Mahamud nipote di Barbarossa, gli schiavi cristiani in numero di duecento, rivoltandosi contro di lui non avessero gettato i remi e fermato il naviglio, perchè il marchese di Santacroce, che davagli la caccia, se lo pigliasse. Mahamud resistette combattendo sino alla morte, alcuni [417] degli schiavi cristiani restarono massacrati al primo rumore, gli altri ricuperarono la libertà, ed il Marchese ritornando con quella preda fu ricevuto a sommo onore da don Giovanni e con infiniti applausi dai cortigiani.[459] Gran miseria sfamarsi di briciole.
Allora dalla concorde testimonianza di dugento persone si venne meglio a confermare come Luccialì era pien di spavento, e non fidava rimenare l’armata a Costantinopoli, per quanto il Sultano lo richiamasse, temendo esser nel viaggio sopraggiunto dai Cristiani. Di più che se i nostri lo avessero assaltato la sera del diciassette settembre, certamente pigliato avrebbero l’armata sua; perchè egli, pensando non poter resistere, aveva fermo di salvarsi a terra, e fuggire. La stessa deliberazione dicevano aver fatta il giorno diciannove, quando gli si presentò la battaglia nel canale della Sapienza. Riferivano inoltre che durante l’assedio di Navarino egli ogni dì entrava nella fortezza e ne dirigeva le difese. E che sebbene gli fosse arrivato alcun rinforzo di gente e rinfreschi di provvigioni, non per questo si trovava fornito a dovere; ma anzi in molta penuria, e più pieno di timore che di speranza. E per tutte queste ragioni essi, sebben schiavi alla catena, avevano preso animo a rivoltarsi. Donde era a concludere che con alquanto più d’ardire, secondo il parere di Marcantonio, si sarebbe potuto già molto prima per terra e per mare aver finita la guerra. Tuttavia, tanto erano gli animi oppressi dal letargo e dal privato consiglio, che senza cavar profitto da tutto ciò, non altro ardimento prese don Giovanni se non di condurre l’armata davanti a Modone, e di farla quivi vedere terribilmente al nemico. [418] Là stette con gran valore fermo alla mostra per tutta la giornata; finalmente stanco di tanta bravura, per non aver più che mangiare, propose di tornarsene in Italia. Marcantonio eziandio persuaso che a quel modo non si poteva far nulla di bene, ma soltanto accelerare lo scioglimento della lega, consentì alla domanda:[460] e il Generale veneziano, lieto altresì di potersi ritirare senza aver colpa nella deliberazione, chinò la fronte e si mise cogli altri; dicendo che il voto dei due era legge per tutti. Di che l’Europa restò maravigliata, il Papa offeso, la Repubblica oppressa, e l’armata piena di confusione. Grande il trionfo di Luccialì. Intorno a costui furono in festa tutti i mussulmani, con quella schiuma di malvagi cristiani, specialmente di Dalmatini e di Spagnuoli che gli si presentavano ogni giorno per farsi, se forse già prima non erano, turchi.[461]
Or non sarà che io lasci di trascrivere qui, almeno in parte, il dispaccio di Marcantonio al cardinal di Como nel quale si contiene il suo giudizio sopra questi successi, in questa forma:[462] «Per una mia lettera delli due diedi conto a Vostra Signoria Illustrissima come si era concluso di pigliar questo luogo di Navarino, et come [419] se n’era data la cura al signor principe di Parma. Vi è stato tanto poc’ordine nel piantar dell’artiglieria, e nel munire il campo, et in ogni altra cosa necessaria, et quel che più importa si è lasciato il transito libero all’inimico di potere a sua posta di giorno e di notte rinforzare il presidio, che stante il suddetto, et il mancamento delle vittovaglie, si fece jer sera deliberazione di ritirare l’artiglieria et l’esercito, con grandissimo dispiacere di tutti.... Parse anche conveniente che il signor Principe fosse ajutato a ritirar l’artiglieria, et così vi andai io; dove sono stato la notte passata et questa mattina.... Non si tenterà altro per quanto vedo in queste parti.... Ed ancorchè si aspettino alcune navi di vittovaglie non può essere bastante; dovendo esser molta quella che abbia da rimediare un’armata come questa, quando viene a restarne del tutto sprovveduta, come questa ora si trova.... Dio perdoni a chi da principio non ha voluto che fosse possibile di offendere il nemico, e sono andati dando tempo al tempo, con far macchine e aspettar navi, acciò il mancamento del pane ci abbia poi escluso il tutto. La volontà di sua Altezza non può migliorarsi.» Cifra. «Siamo stati sempre uniformi li tre voti, ed in questa ritirata avendo parlato il signor don Giovanni ed io che per la necessità del vivere il partito era forzato, il generale veneziano disse: la risoluzione è fatta perchè li due voti bastano. Io replicai che se le altre deliberazioni si erano prese sempre di comune accordo, questa doveva essere più di tutte, perchè era forzata dalla necessità; e che avendo io ordine da sua Beatitudine non solo di tardare ma anche di procurare che sua Altezza sverni in Levante, dicevo che mi pareva che stessimo: e che se loro avevano vittovaglie ce ne dessero, che io per il mio voto dicevo che si stesse fermi. Rispose che egli non replicava, nè contraddiceva. Io soggiunsi [420] che giacchè non poteva contraddire, doveva consentire: et non volere buttare in faccia ad altri il carico del bisogno che era comune a tutti: perchè li soldati di Nostro Signore che io avevo nelle sue galere si morivano dalla fame. Et così afflosciò. Et oggi è stato da me a scusarsi mostrandomi la terribilità della sua Republica; et dicendomi, che se io non venivo a Corfù con quelle galere di Sua Santità, et del Re cattolico, lui aveva ordine di andare a combattere l’armata del Turco, et che si sarebbe perso in un tratto. Mi è parso che Sua Santità sappia la verità di questo fatto.[463]
»Quello di che li signori Veneziani si possono dolere (levato il passato)[464] è, che sua Altezza ne fece tornare a Corfù; che si venne pigramente a trovar quest’armata, et che risolvendosi di dare all’alba sopra l’isola della Sapienza (quando l’armata turchesca era in questo Porto) dessimo in quella del Prodano. — Da Porto-Giunco la sera del 7 ottobre 1572.»
Or dunque, messe anche da parte le ingiurie del tempo passato in tre anni di guerra, e prese sol queste più recenti degli ultimi due mesi, avevano pur di che dolersi i Veneziani. La volontà di sua Altezza non poteva migliorarsi. Vedi destrezza nello scegliere la sua frase: non dice con questo che la volontà di lui sia cattiva, non dice che sia buona; soltanto dà per impossibile che si muti in meglio. Dunque non aveva più volontà. Soltanto doveva patire che a libito altrui andassero per sempre le cose al modo stesso; che si lasciasse [421] la briglia sciolta al nemico, e che gli amici fossero abbindolati dal Cerigo sino a Corfù; che il tempo migliore si perdesse; che fosse offeso Marcantonio, minacciato Gil d’Andrada, dispregiato il generale di Venezia; patire che pigramente si andasse a cercar la battaglia, che invece di aver la vittoria alla Sapienza si andasse a perdere ogni cosa al Prodano; che a Navarino si accattasse vergogna; che a lui venuto per ultimo dai granai della Sicilia mancasse dopo un mese la vittovaglia, non mancata agli altri nell’anno; patire di venir tardi e mal provvisto, che i suoi commissarj entrassero col vanto dell’abbondanza e poco dopo scoprissero i cenci della miseria; che i suoi consiglieri promettessero vittorie senza battaglie, e tutti insieme mettessero difficoltà in ogni cosa, men che nel ritorno. E così lasciare abbandonati i Veneziani innanzi al nemico cresciuto di potenza e di riputazione.[465]
[18 ottobre 1572.]
Con questi patimenti dell’una e dell’altra parte in broncio navigarono di ritorno. Ed al turbamento degli [422] animi rispondendo le tempeste del mare, tra le dirotte piogge, il fragor dei tuoni, ed il folgorar delle saette, andarono afflitti e dimessi dal Zante al Viscardo, e più oltre alle Gomenizze, ed a Corfù. Mancò la galera san Pietro del Papa: che scorrendo alla vela, menata da gagliardo scirocco, sulla prima guardia dopo la mezza notte del giorno diciotto di ottobre, investì sulla secca che è presso l’isola di Paxo.[466] Metà della galera salì di prua sul banco, metà di poppa si sommerse, e nel mezzo si sdirenò: affogarono più che cento persone. Il cavalier di Sangiorgio che n’era capitano, tutti gli ufficiali, e trecento altri si salvarono sulla prua: passando di là due galere furono tirati a salvamento. La mattina seguente Marcantonio dalle Gomenizze mandò monsignor Grimaldi commissario con tre bastimenti a ricuperar ciò che avanzava del naufragio: ma il mare grosso, lo scirocco gagliardo, e lo sfacelo della nave non permisero che si ricoverasse altro se non l’artiglieria, e qualche parte degli armeggi: il resto andò in mano ai rapaci che poco dopo quivi si gittarono per bottino.[467]
Raccoltasi finalmente l’armata nel porto delle Gomenizze, ecco sopraggiungere il Morillo, regio provveditore, con cinque navi spagnole cariche di vettovaglie, ecco nove galere di Spagna col cavalier Vasquez de Coronado, e insieme Giannandrea Doria con cinque galere [423] sue, il duca di Mondragone, Gabrio Serbelloni, il Figueroa, tre mila soldati,[468] e sopra ogni altro il signor don Gonzalo Ferrante di Cordova duca di Sessa, venuto colà con tutta quella provvisione e compagnia non già per confortare i collegati alla guerra, nè per reprimere i nemici, nè per mettersi ad alcuna impresa, nè per unirsi, o come essi dicevano incorporarsi all’armata; ma per disciogliere l’unione, e per sollecitar don Giovanni a tornarsene presto in Sicilia.[469]
Il perchè, reclamando indarno i Veneziani, e indarno offerendosi Marcantonio a svernare in Levante se restassevi l’Altezza sua, o almeno qualche squadra di galere spagnole, perchè vi si vedesse la forma di Lega, don Giovanni con poco onore, senza salva, e senza segno di allegrezza, molto diversamente dalle altre volte, partissi da Corfù. Alli venticinque entrò in Messina. Marcantonio poco dopo ricondusse le genti del Papa a Civitavecchia.[470] I Veneziani restarono soli a fronte dei nemici. Niuno mai avrebbe nell’ottobre del settantuno pensato che tale sarebbe stato l’anno appresso il ritorno dell’armata.
[424]
[Novembre-Dicembre 1572.]
XIX. — Or io non voglio mettermi appresso a ciascun di quei capitani, nè raccontare minutamente i viaggi e le pratiche in che si occuparono. Bastimi per sommi capi raccogliere la venuta di don Giovanni a Napoli, laddove nelle delizie, da altro fuoco che non di guerra nel giovanil petto acceso, aspettava e temeva essere richiamato dal fratello.[471] Brevemente ancora raccolgo il viaggio che Marcantonio per commissione del Papa fece a Madrid, con animo non tanto di scolpare sè stesso delle accuse di che gli invidiosi caricavanlo presso il Re, quanto di convenire del modo col quale avesse l’anno venturo a trattarsi la guerra. Nel suo passaggio ricevette grandissimi onori, tutti vollero vederlo e festeggiarlo, per fino i suoi contrarj. Tanto la verità vince sopra le menzogne, e la virtù sopra le passioni. In Genova ogni ordine di cittadini, e l’istesso Giannandrea, quasi da occulta forza condotti, furono a visitarlo.[472] Dal Re poi gratissimamente ricevuto ed onorato, dopo spediti i negozii pubblici, e giustificata benissimo la sua causa, fu confortato a tornarsene in Italia, ed a procurare che l’armata per tempo potesse uscir fuori.[473] Al modo stesso il principe di Parma, Paolo Giordano Orsini, il duca di Sessa, [425] e gli altri personaggi principali, in modo differente delle cose fatte e da farsi discorrendo, si ridussero a Madrid. E il re Filippo, sì di tutti loro che di Marcantonio e di Giannandrea lodandosi, ebbe a dire che: Quei signori avevano molto sentito la passeggiata.[474] Cioè che menavano gran rumore, non avendo per tutto l’anno fatto altro più che andarsene a spasso.
Ma il passeggio delle armate, che al re Filippo dava materia di giocose parole, quello per appunto rimescolava la bile dei Veneziani. Intesi i successi della campagna ed i disgusti ricevuti del loro Generale, non più secretamente ma in pubblico, per le piazze, domandavano qual mai fine aver dovesse la loro miseria, da qual rabbia fosse compreso il Senato, e per punizione di quali peccati nella mente dei consiglieri fosse venuta tanta pazzia, che paresse loro di far cosa bella a mostrarsi invitti contro tutte le avversità e contro tutti i mali, sol che potessero mantenere la cara amicizia di quella corte che già tante volte avevagli derisi, straziati, e traditi.[475] Da uomini prudenti, com’erano, si guardavano dal suscitarsi contro l’ira personale del Re terribile, menavano per buone più le parole che i fatti suoi, e rovesciavano la colpa, gli sdegni, e le maledizioni sopra i ministri. Dimostravano con molte ragioni che si troverebbe la Signoria [426] meglio d’accordo coi Turchi, che non con loro.[476] Di che inteso secretamente il Senato, fu scritto a Marcantonio Barbaro, ambasciadore in Costantinopoli. Costui, uomo di molte lettere e di molta virtù, sebben dai Turchi sul cominciare delle ostilità posto in custodia, pure aveva saputo per destrezza sua molto bene accomodarsi al tempo, e non ostante la guardia e la prigionia, potuto sempre mandare e ricevere avvisi e lettere anche in cifra per salvezza della sua patria: egli medesimo ricevuta la commissione prese daddovero a trattar la pace col Sultano.
Ciò non pertanto i Veneziani si apparecchiavano più che mai alla guerra, per esser pronti ad ogni successo nella nuova stagione. In Roma il Papa disegnava accrescere il numero delle sue galere: già n’aveva per opera di Marcantonio messe assieme da varie parti diciassette, e ne cercava delle altre.[477] Per mezzo di Pompeo Colonna duca di Zagarolo e di Concetto Matteucci da Fermo scriveva le nuove fanterie.[478] Da Madrid il re Filippo, fermo ne’ suoi principi e fedele osservatore delle formalità di corte, rinnovava solennemente con tutti i suoi titoli le lettere di credenza per il congresso di Roma a quelli stessi deputati Granuela, Pacheco e Zuñiga che avevano negli altri anni più volte, massime nella chiesa della Minerva, cavato le lacrime a san Pio.[479]
[427]
[Gennaio-Marzo 1573.]
XX. — Con siffatti animi si ripigliarono in Roma le sedute; alla prima delle quali volle esser presente il Pontefice. Ciascuno tornò al filo di quelle ragioni, e di quegli scaltrimenti che aveva già altre volte adoperati. Gli Spagnuoli a levar la guerra dalla Grecia ed a tirarla in Africa, i cardinali a mantenerla contro il Sultano, ed i Veneziani a chiedere che le forze degli alleati si dovessero accrescere, come per certo crescerebbero quelle del nemico, che don Giovanni smettesse il vezzo dell’assoluta padronanza, osservando o assente o presente il voto degli altri due generali; e che nel mese di marzo, non più tardi, l’armata del re e del Papa fosse pronta a Messina per mettersi in campagna a guerra guerreggiata con forza e diligenza in tempo debito secondo l’uso delle nazioni e la dignità del nome cristiano.[480] Le quali proposte essendo in ogni parte conformi ai capitoli della Lega, per quanto venissero contrastate dai cavilli degli Spagnuoli, e messe a troppa tortura dalla minutezza dei Veneziani,[481] dovettero in fine essere approvate da tutti: deliberandosi di comun consenso che innanzi al primo d’aprile dovrebbe l’armata del Re e del Papa essere a Messina, e di là senza indugio unirsi a Corfù coi Veneziani, per cacciare di Grecia il nemico: le galere sino al numero di trecento si accrescessero, e la guerra non secondo l’arbitrio di un solo, ma col voto dei tre si governasse.[482]
[428]
[4 aprile 1573.]
Ferme queste ed altre utilissime deliberazioni, uscito il mese di marzo, ed entralo l’aprile, senza essersi ancora eseguito dagli Spagnuoli nulla di ciò che era promesso:[483] ecco la sera del due arrivare a Venezia il figliuolo dell’ambasciatore Marcantonio Barbaro, e portare da Costantinopoli al Senato i capitoli della pace promessi dal Sultano a suo padre, sotto la malleveria dell’ambasciatore di Francia,[484] quando il doge volesse firmarli. Ai Francesi non piaceva che Venezia si consumasse inutilmente nella guerra, nè che con essa cadesse l’ultimo baluardo d’Italia in mano degli Spagnuoli.
Alli tre il consiglio dei dieci, ponderata da una parte la infedeltà perpetua di Filippo, l’ingiuria di Andrea Doria alla Prevesa, l’abbandono di Giannandrea a Cipro, la diserzione di quest’istesso a Lepanto, le difficoltà del Granuela a Roma, le opposizioni del consiglio privato a Messina, gli inganni della navigazione al Prodàno, e le continue dilazioni, soprusi e menzogne; e dall’altra le condizioni quantunque si voglia gravose, che il Sultano come se fosse vincitore imponeva, deliberò piuttosto alla pace col Turco che alla perfidia degli Spagnuoli affidarsi. La mattina del quattro il Doge, fatto venire il nunzio del Papa, con lui in questa sentenza parlò.[485]
«Iddio onnipotente scrutator de’ cuori sa quanto noi sino al dì d’oggi con ogni sforzo abbiamo procurato [429] di mettere un freno alla prepotenza del Turco. Egli pur sa che la grande giornata del settantuno non è stata proseguita dalla Lega, e non ha prodotto l’effetto che doveva. Egli sa che l’anno passato quando le forze marittime del nemico erano ancor fiacche e noi pronti, il Re cattolico non ha fatto la parte sua: e prima dette ordine a don Giovanni che non andasse in Levante, poi che tardi venisse; e questi a vista dei nemici, o per deliberazione de’ suoi consiglieri, o per mancamento di biscotto, si ritirò senza aver fatto cosa alcuna.
»Oggi il Turco si è riavuto, ha armato quattrocento galere, e fa sforzo estremo d’esercito in terra a’ nostri danni. Cattaro, Zara, Traù, tutta la Dalmazia è in pericolo; il nemico ha devastato le campagne; noi non abbiamo che città assediate: Candia, il Cerigo e Corfù esposte ai nemici; e quei popoli in stato di disperazione per le continue molestie, il poco soccorso e la mancanza del pane. Noi dovremmo essere già in campagna a fin di marzo: pure si vede col fatto che non giovano ad assicurarci nè i capitoli della lega giurata, nè le deliberazioni del congresso a Roma. Eccoci alli quattro di aprile, senza vedersi eseguita cosa alcuna. Ne duole affliggere maggiormente Sua Beatitudine. Di essa non possiamo dolerci, anzi ce ne teniamo, e terremo sempre obbligati. Ma l’infedeltà degli Spagnuoli, il non poter più reggere a tante spese, la manifesta ruina di tutto lo stato nostro, ci ha sciolto da ogni impegno, e ci ha sforzati ad accettare dal nemico una misera pace, che ora vi annunciamo conclusa.
»Non erano queste le nostre speranze; ma ci scusa la forza che ci ha stretti a chinare il capo e ad acconciar i nostri pensieri alla qualità delle cose.»
La pace fu trattata con tanta segretezza che, avanti [430] di saperne il principio, se ne sentì la conclusione. Restò la Repubblica tra molte angustie per l’aggravio dei capitoli; ma al tempo stesso in grande sicurtà per la fede con che la corte ottomana prese ad osservarli. Per quasi un secolo non vi fu più guerra tra loro. Ma il Pontefice che, dopo tanti pensieri e così gran travaglio abbandonato, perdeva la speranza di veder riscossa dalle usurpazioni ottomane la cristianità di Oriente; gli Ungheresi, i Pollacchi, i Tedeschi che rivedevano il Turco sbrigliato in atto di gittarsi nuovamente sulle loro terre; gli ambasciatori di Spagna, che sempre davan voce contro i Veneziani;[486] tutti quelli che senza muovere un dito zelavano le vittorie sopra i nemici della fede; i capitani di ventura che perdevano il soldo, i mercadanti che scadevano nelle tratte, i novellieri che non avevan più pascolo, e infiniti altri che per innumerevoli rispetti credevano scapitarci, ne menarono scalpore incredibile: tutti contro i Veneziani. Di che io mi passo assai quietamente; rivolgendo lo sguardo al re Filippo di Spagna che fu il primo a quietarsene. Quando seppe della pace, senza mostrare risentimento e senza alcuna apparente amarezza, disse:[487] Che se i Veneziani tanto prudenti [431] avevano conosciuto che lor mettesse conto la pace, stimava che avessero fatto bene di provvedere ai casi loro; nè egli potrebbe offendersi che la guerra fosse finita ad arbitrio e piacimento di quelli per utilità dei quali era cominciata. Ciò non pertanto egli continuerebbe a combattere contro i Turchi, ancorchè solo; e basterebbegli in premio che il mondo conoscesse come alla prontezza sua nel pigliar l’armi corrispondesse sempre la costanza nel mantenerle.
Parole magnifiche: che riportate da tutti, anche dai suoi parziali, gli tolgono ogni scusa. Filippo non si era messo nella lega per ricuperare i paesi perduti, non per riscuotere la Grecia, non per rimettere la civiltà in Oriente, nè per restituire a quei cristiani gli usurpati diritti; ma perchè il mondo lo chiamasse costante nel mantenere i suoi sudditi, i suoi nemici, e i suoi alleati tutti insieme in guerra perpetua, senza battaglia, senza compenso, senza fine: perchè il Turco sempre ci fosse, e l’Italia sempre palpitasse in quello strazio in che per tanto tempo fu tenuta dai barbari, massime co’ ladronecci e scorrerie perpetue sui paesi littorani. Il mondo non si [432] piglia a gabbo per più di tre secoli. Oggi il mondo chiama perfidia quella che esso chiamava costanza: oggi dice che la lega fu rotta da lui, non dai Veneziani.[488] Che se egli fosse stato sincero, e avesse voluto da senno ciò che tutti i popoli di Europa ed i Pontefici altresì s’aspettavano dalla lega, egli al paro d’ogni altro si sarebbe sdegnato della rottura.
Nel tempo istesso l’ambasciador suo in Roma spediva un corriero a don Giovanni d’Austria, proponendogli di far grandi promesse ai Veneziani, sol che si rompessero un’altra volta col Turco. Allora, diceva, oltre agli aiuti che la corte di Spagna avrebbe da Venezia, le toglierebbero per sempre la speranza di pacificarsi, e la ridurrebbero a suo dispetto schiava di sua Maestà: il Papa eziandio quinci innanzi con maggior sommissione guarderebbe le cose del Re; e sua Altezza don Giovanni farebbe la guerra a suo modo, senza stare ai capitoli dell’alleanza, e senza dover osservare il voto del generale del Papa e dei Veneziani.[489]
[433]
[Maggio 1573.]
Non si lasciarono però a siffatta tresca condurre i Veneziani. Il general Foscarino rimise l’armata nell’arsenale; don Giovanni sul molo di Napoli abbattè lo stendardo della lega; e Marcantonio sapendo come il Pontefice aveva a gran fretta rimandate indietro le galere, e sciolte le milizie, andò, come aveva già fatto dopo la morte di san Pio, a chiedere licenza.[490] Senza replica l’ottenne.[491] Di là a pochi giorni fu eletto governator generale delle armi pontificie, e supremo comandante di terra e di mare, Jacopo Boncompagni consanguineo del papa.[492]
Così ebbe fine il generalato che Marcantonio Colonna tenne con tanto decoro del Papato e di Roma, quanto mai se ne sappia degli antichi e dei moderni capitani. Per la virtù sua non solo trionfò dei nemici e riempì d’ammirazione i popoli; ma, quel che parrebbe impossibile ad ogni altro, restò egualmente nella stima delle emule corti di Venezia e di Madrid, con le quali mantenne sempre corrispondenza di lettere e d’uffici. Il Doge sovente il ricercò dei suoi consigli. E il Re, dopo la terribile disfatta che andò costantemente cercando in [434] Africa, e ve la trovò l’anno dopo, temendo troppo della Sicilia, e bisognandogli governatore tale che fosse in terrore agli Ottomani, pregò Marcantonio a pigliarne come vicerè il governo: egli resse per nove anni quei popoli con lode di giusto e di prudente reggimento. Or io avendomi a dividere da questo eroe, non mi proverò di compendiarne qui gli elogi; perchè sì grandi sono e tanto li ho discorsi, che nè io saprei meglio, nè egli a venire in maggior fama ne abbisogna.[493]
Nell’altezza però di tanta gloria, onorato dai principi, riverito dai popoli, superiore a qualunque offesa aperta, non fu già sicuro dalle arti vilissime dell’invidia, con che alcuni pochi ma potenti travagliarono il resto della sua vita, e procacciarono oscurarne la fama. Il Litta con poco accorgimento, e per volersi mostrare imparziale, si mise in ponte tra la verità e gli inganni di costoro. Marcantonio scrivendo al re di Spagna, a cose finite, e con l’usata sua circospezione, di sè e di loro parlava così:[494]
«Le contrarietà che mi sono state fatte nel tempo [435] della guerra che per tre anni si fece in lega col Papa e co’ Veneziani vennero da tre cagioni. Primo, perchè vi furono alcuni che non giudicavano utile, nè avevano piacere della lega: secondo, perchè non potevano persuadersi che si potesse combattere contro i Turchi sul mare: terzo, la grande invidia e rabbiosa che mi portavano, perchè col favore di Vostra Maestà io tenevo in quella spedizione un luogo tanto principale. E questo maledetto peccato tanto più andò crescendo quanto meglio le cose succedevano al rovescio della loro opinione. Il frutto che ho cavato io fino al dì d’oggi dalla grande giornata sono state persecuzioni.»
La rabbia dei persecutori, non sazia mai di calunnie, spinse innanzi tempo l’eroe di Lepanto al sepolcro. Chiamato dal re Filippo alla corte l’anno mille cinquecento ottanta quattro, se ne venne con dieci galere di Sicilia a Civitavecchia: e dopo essere stato in Roma sua patria per riveder la famiglia, quasi presago della triste sua sorte, da tutti affettuosamente accomiatandosi, passò per mare a Barcellona, e di là con molto seguito prese le poste verso Madrid. Ma come fu giunto a Medinaceli, colto da violentissimo male, morissi: lasciando a tutti gli storici sospettare che il veleno di alcun possente ed invido nemico spegnesse nella fresca età di anni quarantanove questo luminare di gentilezza e di virtù romana.[495] Le sue spoglie mortali, ricondotte tra noi, si posarono con quelle dei suoi maggiori nella chiesa di sant’Andrea del castello di Paliano. Io però, tra le mura del chiostro e sulle carte dell’età trascorse [436] dolorosamente ripensando all’ingratitudine degli uomini, che fa più grande e mesta la mia solitudine, non ho cessato fatica per rinverdire nella memoria e nella estimazione dei posteri la fama dell’altissimo campione. L’ho seguito ne’ suoi viaggi, ho narrate le sue geste, l’ho accompagnato alla tomba. Qui mi fermo, qui oro, qui poso alquanto la penna a ritemprare l’animo stanco del passato, e fiducioso dell’avvenire.
FINE.
[437]
N. B. Il numero arabico indica la pagina, tanto per il testo quanto per le note.
Adami Bonifacio, Ottaviano, Annibale, 304.
Africa (in) sviamento di guerra, 298, 299, 325, 370, 427, 433.
Alavolino Aurelio, 303.
Alba (d’) duca, 300.
Alberici Alberico, 49.
Alciati Giambattista, 20.
Alticozzi Muzio, 197.
Ammiraglio, 197.
Ancona, difetta di storici, 15. — Suoi capitani. Vedi Benincasa, Bonarelli, Ferretti, Fontana, Regio, Tommasi.
Andrada (d’) Gil, 193, 194, 326. — Minacciato, 349, 372. Vero cuore di Spagna, 379.
Andreotti Francesco e Gregorio, 158.
Angelici Guido, 150.
Appiano (d’) Alfonso, 159, 239, 244.
Araceli, 275.
Archivio Caetani, 159. — Capitolino, 150. — Colonna, 13, 434. — Corsini, 42. — Doria, 47. — Massimi, 105. — Di Perugia, 21, 197. — Di Stato in Firenze, 25, 44, 122, 241. — Vaticano, 120, 146 ec.
Armamenti in Roma, 13. — In Ancona, 15. — In Civitavecchia, 153, 157, 206, 310, 386.
Armata cristiana in ordinanza, 190, 204, 208, 211, 350, 357, 363, 387. — Numero e forza, 211, 338, 386. — Mortalità, 253. — Preda, 255. — Sciolta, 433.
Armata romana, 151, 152, 153, 157, 261, 264. — Lodata, 67, 185, 194, 235.
Armata spagnuola, lodata, 222. — Restía, 48, 92, 174, 183, 213, 216, 229, 232, 254, 422. — Le navi, 184, 210, 253, 257. — Paventata dai Principi italiani, 171.
Armata turchesca invincibile e perchè, 98, 100, 177, 179, 188, 311, 322, 383, 419, 434. — Contro Veneziani, 6, 54, 76, 163, 168, 195, 316, 330, 333, 347. — Contro Greci, 316, 337, 347. — Numero e forza, 212, 244. — Distrutta, 235. — Rifatta, 334. — Risparmiata, 394.
Armata veneziana, 26, 102, 168, 183. — Lodata, 225. — Molestata da Spagnuoli, 37, 92, 183, 321, 324, 333, 370, 428. — Minacciata, 202. — Mortalità, 26, 333. — Naufragi, 102, 169.
Ascanio da Civitavecchia, 158, 304.
Ascoli (d’) Antonio, 159, 196, 240.
Assedio di Navarino, 413. — di Modone, 407. — di Santa Maura, 256.
Assisi (d’) Baldassarre, 304.
[438] Avvisi, gazzette, Mss., 157.
Austria (d’). — Vedi Giovanni.
Baccio da Pisa, 159.
Bagarotto Annibale, 20.
Baglioni Manlio, 17, 150. — Paolo, 18. — Astorre, 52, 195, 196.
Barbarigo Agostino, 165, 202, 225.
Barbaro Marcantonio, 6, 336, 426.
Battaglia di Lepanto, 217. — Di Capo Malèo, 357. — Di Capo Matapan, 363.
Benincasa Cintio, 151. — Michelangelo, 21.
Bentivoglio Cesare, 304.
Berardetti Giampaolo, 150, 210, 239.
Berardi Francescantonio, 150, 216, 236, 237.
Bevagna (da) Nardo, 303.
Bevilacqua Bonifacio, 304.
Boccaurati Filippangelo, 18.
Bocchieri Niccolò, 20.
Bologna e suoi capitani. — Vedi Bentivoglio, Bevilacqua, Ercolani, Guidotti, Malvezzi, Marcello, Paleotti, Pepoli, Zambeccari, Zane.
Bonarelli Gabriele, 151.
Boncompagni Iacopo, 433.
Bonelli don Michele, 150, 161, 175, 216, 236, 238, 244, 263, 271, 302.
Bonelli frà Michele per la lega, 42, 117, 264, 296, 324.
Bongiovanni Cornelio, 18.
Bordandini Orazio, 303.
Borgia san Francesco, 122, 181, 264.
Bragadino Marcantonio, 196. — Adriano, 387.
Brancadoro Giovanni, 303.
Brandolini Flaminio, 303, 386.
Buffalo (del) Giambattista, 20.
Buonavoglia, 105.
Buono Giuseppe, 410.
Caetani Archivio, 159. — Duca don Michelangelo, 173. — Onorato, 149, 160, 209, 231, 240, 242, 244, 260, 262, 271, 302.
Cales Lucio, 20.
Calmanti Maurizio, 150.
Cambi Alfonso, 19.
Camerino. — Vedi Calmanti, Pierbenedetti.
Campana Orazio, 150.
Candia, 57, 101, 334, 337, 350, 359.
Canèa, 101.
Cannoni per galee, 311.
Capitana del Papa perduta alle Gerbe, ricuperata a Lepanto, 153, 243, 245.
Capitana di Marcantonio, 25, 107, 403.
Capitani papalini, 17, 149, 151, 158, 303, 385.
Capitani di Roma co’ Veneziani, 79, 158, 195, 303.
Capitoli della Lega, 127. — Delle galere, 154.
Capizucchi Biagio, 19, 216. — Cencio, 17, 148, 209, 302, 314.
Caracciolo Curzio, 20. — Ferrante, 176.
Caraffa Ettore, 159, 240, 244. — Cesare, 303, 386.
Cardona (di) don Giovanni, 60, 232, 387.
Carinci Giambattista, 159, 238.
Carniglia Pasino, 20.
Caro Ottavio, 20.
Castagna mons. Giambattista, 42.
Castelrosso, 75.
Cattaro, 107.
Cecco Pisano, 205.
Cefalonia, 374.
Cerruti Tiberio, 196.
Cervantes Michele, 21, 100, 393, 405.
Cesarini Giangiorgio, 271.
Cipro, 7, 51, 76, 97, 195, 430.
Città di Castello. Vedi Giustini, Vitelli.
Civitavecchia difetta di storici, 157. — Armamenti, 153, 157, 158, 262, 304, 306, 310, 386, 423. — Vedi Andreotti, Ascanio, Filippo, Giacometto.
Colonna Archivio, 13, 14. — Cavalier don Vincenzo, 14, 380. — Lucio, [439] 20. — Muzio, 150, 314. — Prospero, 17, 256, 303, 315. — Pompeo, 17, 98, 149, 159, 216, 236, 244, 258, 271, 383. — Marcantonio, 11. — Per tutto: specialmente, 47, 51, 61, 74, 83, 142. — Predice la vittoria, 143. — A Lepanto, 218, 221, 236. — Trionfo, 259, 265, 274. — Amato da San Pio, 8, 110, 134, 177, 245, 274, 313. — Tentato dal re, 181. — Dai ministri, 184, 299. — E da don Giovanni, 344, 371, 372. — In Grecia, 345, 350, 358, 363, 367, 387, 391, 414. — Ripieghi per armare, 15, 24, 151, 160, 262, 306. — Con Giannandrea, 49, 61, 75, 85. — Per Cipro, 74. — Per la lega, 137. — Pel danaro, 144. — Per le risse, 162, 170. — Co’ Veneziani, 101, 162, 168, 178, 181, 185, 186, 333. — Con gli Spagnuoli, 103, 181, 184, 318, 324, 434. — Per la battaglia, 178, 187, 337, 363. — Per la guerra intestina, 199. — Pel rinforzo, 186, 385. — Con don Giovanni, 218, 221, 236, 380. — Con Filippo, 99, 103, 324, 369, 380, 434. — Per seguir la vittoria, 252. — Per la concordia, 324, 332, 333, 344, 372. — Co’mancatori, 359, 366. — Per Modone, 405, 407. — Magnanimità, 48, 75, 380. — Sotto ogni Spagnoluzzo, 381. — Invidiato, 295, 301, 317, 327, 434. — Chiamato pazzo, 227, 237, 411. — Minacciato, 349, 372, 377. — Offeso, 181, 344, 372, 383. — Morto, 435.
Commendone cardinale in Germania, 296.
Compagni d’Albero, marinari di prima classe, 16.
Compagni di stendardo, gendarmi del mare, 197.
Concha Cristoforo, 20.
Congresso in Roma per la Lega, 117. — Alla Minerva, 129. — Al Vaticano, 147. — Per la seconda campagna, 297. — Per la terza, 426.
Consiglio in Otranto, 49. — Alla Suda, 57. — A Sittia, 69. — A Castelrosso, 81. — A Tristamo, 85. — A Messina, 175, 187. — Alle Gomenizze, 198, 344. — A Santa maura, 252. — A Capo Matapan, 361. — A Corfù, 382. — Alle Stanfane, 389. — A Modone, 404. — Alla vela pel ritorno, 418.
Consiglieri privati di don Giovanni, 172, 198, 317, 326, 369, 381. — Contro la battaglia, 177, 187, 193, 204, 216, 227, 235, 237, 343, 368, 383, 388, 391, 394, 397, 399, 406. — Contro Veneziani, 297, 321, 326, 382, 385. — Della guerra intestina, 198, 284. — Con Giannandrea, 234 — Contro Marcantonio, 181, 184, 227, 237, 299, 301, 371. — Contro la vittoria, 175, 177, 318, 323, 368. — Paura a Corfù, 373. — Pel ritorno, 254, 422.
Conti Torquato, 301. — Rutilio, 302, 386.
Contucci Gaudenzio, 130. — Filippo, 302.
Coppoli Francesco, 303.
Corbara (da) Iacopo, 304.
Corfù, disarmo, 104. — Alleati, 193. — Ritorno, 257. — Aspettar dei Veneziani, 316. — Richiamo, 375. — Paura de’ Spagnuoli, 373.
Corsia, e cannon di corsia, 311.
Cortigiani spagnuoli, contro la lega, 118, 122, 133, 295, 318, 368, 380, 434. — Contro la battaglia e la vittoria, 175, 177, 188, 318, 323, 368, 373. — Contro don Giovanni, 323, 368. — Contro Marcantonio, 227, 237, 285, 301, 434 — Contro Veneziani, 37, 294, 343, 368. — Vedi Alba, Corgnia, Davalos, Doria, Requesens, Toledo, Granuela, Zuñiga.
Corgnia (della) Ascanio, contro la battaglia, 176, 179, 184, 256. — Prigione, 239. — Pel ritorno, 254, 256. — Rampognato dal papa, 179, 184.
Corona Orazio, 20. — Ottavio, 150, 216.
Corrotto Michele, 20.
Cortesi Giambattista, 241, 242.
Cosimo I granduca, partigiano di Spagna, 36, 43, 44, 410. — Assento per le galere, 157. — Pretesti, 306. [440] Costantino da Viterbo, 303.
Crescenzi Camillo, 270. — Stefano, 271.
Crotti Cesare, 304.
Dama di Nicosia (Arnalda de Roccas, secondo il Sagredo), 80.
Daneo, messer Nicolò, agente di Marcantonio a Madrid, 181, 285.
Davalos don Carlo, 84, 87, 184. — Restio, 210, 253, 257. — Consigliere, 369.
Davila Ferrante, 19.
Deposito di zecchini per Giannandrea, 66.
Documenti.
Domenicani della Minerva, 129. — All’armata, 190.
Doria S. E. il principe, 233. — Archivio e medaglie, 47. — Alessandro, 20. — Marcello, 48, 83. — Pagano, 45. — Pierfrancesco, consigliere, 173. — Antonio, consigliere, 369, 408. — Giannandrea, 46. — Difficoltà, 48, 49, 59, 66, 68, 85. — Ordini secreti, 44, 46, 99, 103. — Disordini, 85, 93, 94. — Biasimato da san Pio, 97, 233. — A Lepanto, 213, 216, 229, 233. — Contro la battaglia, 187, 193, 204, 213, 216, 233. — Premiato dal Re, 97, 126, 184, 209, 234. — E da don Giovanni, 253. — Consigliere, 369, 372, 422.
Durante Paolo, 242.
Enèa cav. di Sassoferrato, 20.
Ercolani Antonio, 304.
Fabriano (da) Mancino, 20. — Giacomo, 196.
Faenza. — Vedi Bordandini. Famagosta, 195.
Fanale (veneziano Fanò), segno di capitana, 239. — Acceso da Giannandrea, [441] 75. — Nascosto, 229.
Fano (da) Battista, 79. — Vedi Mariotti, Palazzi, Speranza.
Fantuzzi Pasotto, Camillo, 304.
Fara (della), Ruggiero, 303.
Farnese Alessandro, 176, 209, 402, 413.
Fausto Vettore, e sua quinquereme a Marcantonio, 25, 107.
Fermo (da) Erasmo, 195. — Marchetto, 196. — Vedi Adami, Brancadoro, Matteucci.
Ferrara. — Vedi Crotti, Riminaldi.
Ferri da Roma, 303.
Fiamma Angelo, 20.
Filippo da Civitavecchia, 303, 314, 386.
Filippo II, sue ragioni, 35, 37, 39, 294, 343, 368, 393. — Nella Lega, 42, 295, 321, 343, 368, 370. — Promesse, 29, 44, 147, 324. — Parole magnifiche, 340, 342, 431. — Ordini secreti, 44, 46, 99, 103, 181, 300, 312, 318, 324, 381, 388, 391, 394, 397, 399. — Non si combatta, 178, 321, 324, 343, 368, 370. — Diffida di Marcantonio, 27, 46, 181, 184, 299, 301, 371. — Premia Giannandrea, 97, 126, 184, 234. — E Granuela, 131. — Ministri insolenti, 118, 122, 125, 168, 173. — Contro il Veniero, 283. — Geloso del fratello, 175, 177, 318, 323, 368. — Altro, 321, 324, 325, 369, 380, 381. — Gran testa, 412. — Dopo tre anni si ignorava se la Lega gli stava bene, o no, 324, 369, 372, 380. — La rompe, 321, 370, 412, 425, 430, 432.
Flad Angelo, 270.
Foligno. — Vedi Gigli.
Fontana Jacopo, 19.
Forlì. — Vedi Gaddi, Brandolini.
Foscarini Jacopo, 316, 389, 433.
Fracastoro Camillo, 20.
Francescani all’armata, 190.
Francia (corte di) co’ Turchi, 135 — Declina la lega, 296. — Accusa gli Spagnuoli, 321, 322. — Per la pace, 428, 320.
Frangipani Antigono, 157. — Jacopo, 19, 216, 236. — Muzio, 17.
Fregata, piccolo vascello a remo, 106.
Fusta, piccola navicella da remo e da corso, 180.
Gabrielli Giulio, 19, 216, 236.
Gaeta, 311.
Galeazze, grandissime galee, incastellate a poppa e a prua, e munite di trenta colubrine, 217.
Galere di Marcantonio, 12. — Dei Papi, 151, 153. — Prese a Venezia, 23. — Armate in Ancona, 15. — In Civitavecchia, 153, 157, 262, 304, 306, 310, 363, 386. — Prese da Cosimo, 154. — Lutto, 169. — Naufragi, 102, 108, 422.
Galere abbandonate da Giannandrea, 229. — Prese da Luccialì, 230.
Galere di Turchi senza pavesate, senza rambate, con poca artiglieria, 57, 262, 311.
Galeotte, piccole galee, 180, 212.
Gallo, secretario di Marcantonio, 18.
Gasparre Spagnuolo, 20.
Gennazzano (da) Belisario di Orlando, 20.
Gerbe (isole), rotta de’ Cristiani, 152. — Ricuperata la capitana del Papa, 243, 245.
Gesuiti all’armata, 190.
Giacometto di Civitavecchia, 138.
Gigli Giannantonio, 150, 209, 240.
Giorgi Gianluigi, 17. — Pietrantonio, 20.
Giovanni (don) d’Austria, 172. — Generale, 125, 176, 283, 315. — Senza potere, 173, 317, 368. — Ardore di guerra, 189, 215, 218, 222. — Lentezze, 175, 315, 318, 375, 410. — Abbraccia il Veniero, 250. — Lo perseguita, 186, 198, 283, 316. — Favorisce Marcantonio, 175, 250. — Contraria, 317, 318, 327, 349, 372, 377, 379, 383. — Feste a Giannandrea, 184, 253. — Motto in morte di san Pio, 305. — Avanza, 189, 213, 216, 349, 370. — Indietreggia, 254, [442] 257, 299, 315, 372, 423. — Contraddizioni, 315, 317, 320, 343, 371, 412, 420. — Abbasso la lega, 433.
Giulio da Spoleto, 303.
Giustini Pompeo, 158.
Gomenizze porto nell’Epiro, 194, 237, 337. — Primo fuoco, 194. — Richiamato Marcantonio, 338. — Richiamato don Giovanni, 422.
Granuela card, e ministro, 42, 117, 118, 122. — Cacciato da san Pio, 130, 132. — Premiato dal re, 131. — Lo stendardo, 174. — Inganni, 119, 316, 325.
Graziani Fabio, 150, 257 — Niccolò, 150. — Francesco, 216.
Grecia, guerra ivi deliberata, 300, 427.
Greci chiamati a levarsi contro Turchi, e difesi da M. A., 293, 337, 340, 341, 347, 350, 351, 359, 366.
Gregorio XIII conferma Marcantonio, 314. — Sdegnato con Filippo, 321. — Disarma: nuovo generale, 433.
Grignietta Francesco, 20.
Grimaldi Domenico (mons.), 244, 247, 254, 261, 422.
Gubbio (da) Bernardino, 195. — Vedi Soldatelli.
Guerra intestina impedita da Marcantonio, 200.
Guidotti Obbizzo, 75.
Iacovacci Domenico, 268.
Imola (da) Fabrizio, 79.
Imperatore di Germania declina la lega, 296, 135.
Incontro di Marcantonio e Giannandrea, 48. — Ausiliari e Veneziani 56, 83. — Romani a Napoli, 161. — Romani e Veneziani a Messina, 166. — Don Giovanni a Messina, 174. — A Corfù, 193. — Al ritorno in Messina, 258. — Ultimo a Corfù, 423.
Landuga spagnuolo, 20.
Lanzi (de’) Teseo, 20.
Lecce (a), codicillo e morte del Massimi, 103.
Lega proposta da Pio V, 7. — Dai Veneziani, 5, 41. — Poco accetta a Spagnoli, 38, 42, 369, 372, 324, 380, 381. — Menata in lungo, 118, 121, 126. — Rotto il trattato, 129. — Conclusa, 137, 144, 147. — Violata da Spagnoli, 320, 326, 339, 375, 389, 394, 422, 428, 432. — Sciolta, 428.
Leiny (di) Provana, 209. — Cesare, 242.
Leonini Angelo, 20.
Lepanto golfo e battaglia, 194, 206, 213.
Lionbruno, 20.
Liutrecche, 20.
Lodi Francesco, 18.
Loffredo Ferdinando, consigliere, 369, 384.
Lotta Ercole, 159.
Luccialì, 212, 334. — Disegni, 228, 230, 235, 236, 335, 350. — Rimette l’armata turca, 235, 334. — Vinto da Marcantonio, 355, 358, 363, 366, — Vincitore di Giannandrea, 230, 232. — E di don Giovanni, 414, 418.
Macerata. — Vedi, Angelici, Alavolino, Narducci.
Macchina di batteria, 410.
Magliano. — Vedi Giorgi.
Maglieri Giannantonio, 20.
Magnenti Fabrizio, 20.
Malaguzzi cav. Alfonso, 17.
Malaspina Marchese, 19, 150, 244.
Malatesta Carlo, 53, 79. — Ercole, 195. — Jacopo, 335. — Ruberto, 304.
Malèo capo (oggi Santangelo), 351, 353. Battaglia, 357.
Malta (di) Cavalieri, istruzioni per Marcantonio, 32. — Pèrdono la Capitana, 231. — Rispettosi degli Spagnuoli, 43, 333.
Malvasia fortezza per Luccialì, 353 — Vino per Giannandrea, 93.
Malvezzi Pirro, 149, 176, 216, 236, 240, 244, 258. — Roberto, 196.
Marca provincia dà due mila remieri, 16. — Vedi Boccaurati, Bongiovanni, Lodi, Nelli, Tromba, Ranucci.
Marcello da Bologna, 302, 386.
Marchetto da Fermo, 196.
Marchi (De) cap. Francesco, e suoi disegni di queste guerre, 391, 413.
[443]
Marina (della) Storia, 151, 107, 153, 262, 310, 382. — Vedi Tàttica.
Marino, Vedi Magnenti.
Mariotti Girolamo, 49, 150, 302, 314.
Martelli Paolo, 105.
Martini Giovanni, 20.
Massimi Archivio e Principe, 105. — Domenico, 16, 17, 105. — Lelio, 150, 216, 236, 256, 271.
Matapan capo, e battaglia, 360, 363.
Matelica. — Vedi Contucci.
Mazzatosti Angelo, 150, 160, 209.
Medaglie per la lega, 148. — Per la vittoria, 281.
Medici Tommaso, 150, 231. — Vedi Cosimo.
Mendoza don Rodrigo, 387.
Messina a Marcantonio 162, 163. — Ai Veneziani, 166. — A don Giovanni, 175. — All’armata, 190. — Al ritorno, 258. — Altre volte, 326, 332, 423.
Micara Pasquale, 150.
Mignanelli Pietropaolo, 304.
Minerva (alla) per la Lega, 130.
Ministri di Spagna contrari alla lega, 35, 37, 38, 42, 43, 118, 122, 306, 318, 319, 324, 326, 381, 435. — E alla vittoria, 177, 323, 368. — E al frutto, 294, 301, 318. — E a Marcantonio, 227, 236, 284, 285, 299. — Aizzangli gli Orsini, 285. — La guerra in Africa, 299, 427. — Di poco momento, 308, 434. — Ingiusta, 299, 300. — Inganni, 324, 343, 368, 370. — Per le lunghe, 47, 118, 130, 136, 382. — Senza panatica, 67, 372, 415, 421, 423.
Modone, città, fortezza e porto, 387, 391, 407.
Mojane, artiglierie di galea, 311.
Monte (del) Carlo, 150.
Montolmo. — Vedi Bongiovanni.
Montesanto (da) Bartolommeo, 303.
Morillo con la panatica fuor di tempo, 422.
Morone card. parla di Giannandrea, 97. — Alla lega, 117.
Mostra a Sittia, 67. — A Civitavecchia, 160. — A Messina, 185. — Alle Gomenizze, 387.
Mureto, orazione, 276. — Primato a Marcantonio, 277
Muti Giampietro, 268.
Napoli (a) Marcantonio 162. — Don Giovanni, 174. — Rissa, 162. — Ritorno, 258. — Sciolta la lega, 433.
Narducci Lorenzo, 303.
Narni. — Vedi Cardoli, Ridolfini, Tiburzio.
Navarino, porto, fortezza, assedio, 387, 391, 414.
Navarrino cavaliere, 19.
Naufragio a Candia, 102. — In Schiavonia, 105. — A Ragusa, 108. — Al Paxò, 422.
Navi tonde a vela quadra, cominciate a usare per la guerra nel cinquecento, donde i moderni vascelli. Avevano quei ducento uomini d’armamento, e circa venti cannoni grossi. Condotte dal Davalos, 184. — Non vedute alla battaglia, 210. — Trovate a Corfù, 253. — Alla seconda campagna, 338. — Difficoltà e forza, 253, 355, 357, 364, 367.
Nelli Dario, di Osimo, 18.
Nicosia assediata, 52. — Espugnata, 76.
Nobili (de’) cavaliere e ambasciadore di Cosimo I a Madrid, cifra sul maltalento de’ Ministri, 122.
Nocera (da) Pierjacopo, 303, 386.
Nomi storpiati da Spagnoli e Veneziani, 19, 159.
Oddi Annibale, 19, 216. — Rugero, 150, 194, 209, 243.
Odescalchi mons. Paolo, 161, 176. — Per Marcantonio e per la battaglia, 167, 177, 178, 187, 247, 332.
Ordinanza dell’armata, 74, 190, 354, 357, 386.
Orlando (di) Belissario, 20.
Orselli Niccolò, 20. — Giovanni, 19.
Orsini aizzati contro Marcantonio, 255. — Flaminio da Stabia, 152. — Francesco della Scarpa, 19. — Orazio [444] di Bomarzo, 17, 150, 209, 216, 236, 237, 244. — Paolo, 303, 315. — Paologiordano, 176, 220. — Virginio da Vicovaro, 216, 236, 237.
Orvieto. — Vedi Alberici, Corbara.
Osimo. — Vedi Gallo, Nelli, Sinibaldi.
Otranto, incontro di Marcantonio e Giannandrea, 49. — Campo alle riserve, 301, 333.
Pace de’ Veneziani col Turco, 428.
Pacheco card. deputato alla lega, 117. — Parole di Giannandrea, 98.
Pagani Cesare, 20.
Palazzo, colonnello, 53, 79. — Ortensio, 304.
Palestrina (da) Giovanni, 20.
Pallavicino Sforza, diversioni, 58, 60. — Fede, 88.
Panatica (di) mancamento agli Spagnoli, 67, 372, 412, 415, 421.
Pardo Pedro, fallacie, 354, 373.
Parisani Livio, 150, 161, 209, 214.
Particappa Ottaviano, 21.
Passerini Pirro, 19.
Pavesata, specie di bastingaggio sul posticcio, tra le battagliole, per cuoprire i moschettieri; anticamente formato di scudi o pavesi, 262.
Paxò isola, 387. — Naufragio, 422.
Penna (della) Claudio, 303.
Pepoli Fabio, e Luigi, 303.
Perinelli Camillo, 18.
Perpignano Iacopo, 159.
Perugia. — Vedi Baglioni, Bartoli, Coppola, della Corgnia, Graziani, del Monte, Oddi, Parisani, della Penna, Perinelli, Ranieri, Signorelli, Vermiglioli.
Pesaro. — Vedi Fantuzzi, Olivieri, Sassatelli.
Petalà, Platèa, porto nell’Epiro, 250.
Piccolomini Fabio, 19.
Pierbenedetti Matteo, 150.
Pieromari, 20.
Pio V per la lega, 7, 117, 147. — Integrità, 24, 296 — Alla Minerva, 129, 133. — Manda nunzi, 42, 134, 296. — Discaccia Granuela, 132. — E Giannandrea, 98, 233, 234. — Gli mette paura, 234. — E ad Ascanio della Corgnia, 178. — E ai consiglieri spagnuoli, 173, 284. Amorevole a Marcantonio, 8, 110, 134, 177, 245, 274, 313. — Consigli al medesimo, 159. — Arbitro tra gli alleati, 129, 297, 300. — Perchè non ebbe in principio galere proprie, 153, 157. — Ne arma a Civitavecchia, 262, 304, 306, 310. — Delibera la guerra di Grecia impugnata dagli Spagnuoli, 300. — Visione, 249. — Medaglie, 148, 280. — Muore, 304. — Parole di don Giovanni, 305. — Di Marcantonio, 313.
Poeti della vittoria, 279.
Politica dei cinquecentisti. Vedi Cortigiani, Congresso, Consiglieri, Filippo, Ministri, Lega, Vittoria.
Portogallo (di) il Re si offre alla lega, 265. — Nulla, 297.
Portogiunco. — Vedi Navarino.
Pizzuolo, pei Veneziani, lo scannetto di poppa, 89, 92.
Prede fatte alla battaglia, e loro divisione, 255.
Presagî, 192.
Puccini Giammaria, 100, 209, 231.
Quaglio, porto di Morèa, presso al Capo Matapan, 362, 366.
Ragazzoni, ambasciatore dei Veneziani presso don Giovanni, 338.
Ragusa, naufragio di Marcantonio, 109.
Ranieri (cav.), 21.
Rambate, due castelli a prua, congiunti in alto, per coprire la batteria, e per dare piazza rilevata ai moschettieri nelle galere, 262, 311.
Rappresaglie nell’arcipelago, abuso, 95.
Recanati, Vedi Lionbruno, Pietrozzo e Priamo, 20.
Regio Marcello, 150.
Religione all’armata, 22, 159, 190, 215, 274, 279.
Remieri, mantenuti dai municipi, 13. — Due mila dalla Marca, 16. — Sforzati, ivi. — Buonevoglie, 105. — Schiavi turchi, 311.
Requesens don Luigi, Consigliere di don Giovanni, 172. — Scusa Giannandrea, e minaccia, 234. — Adizza [445] Orsini e Colonnesi, 283. — Per le lunghe, 296.
Ricordi di san Pio a Marcantonio, 159.
Ridolfini Eraclio, 20, 216, 236.
Riminaldi Giammaria, 304.
Rimini (da) Ottavio, 196. — Vedi Malatesta. Rinforzo di Spagnuoli alle galere Veneziane, 187, 197, 385. — Di Romani, 385.
Rioni di Roma e loro stendardi, 270.
Ripatransone. — Vedi Brandimarte. Rinegati, 418.
Rissa di Spagnuoli e Romani a Napoli, 162 — a Messina, 169. — Di Spagnuoli e Veneziani alle Gomenizze, 197.
Roma, Archivî, 5. — Cavalcata di Marcantonio, 12. — Armamento, 13. — Ritorno, 110. — Feste per la lega, 148. — Per la vittoria, 259, 265, 275. — Vedi Congresso. — Vedi Accoramboni, Bagarotto, Berardi, Bonelli, del Buffolo, Caetani, Campana, Capizucchi, Cerruti, Colonna, Conti, Corona, Cortesi, Durante, Fabi, Farnese, Fiamma, Frangipani, Gabrielli, Galeotti, Massimi, Mazzatosti, Mignanelli, Naro, Leoncini, Odescalchi, Olgiati, Orsini, Pagani, Ruspoli, Salviati, Santacroce, Sereni, Sforza, Savelli, Timotelli, Valignani, Virgili, Vitozzi, Zoccoli. Romegasso cav. Maturino Le Scut, 161, 236, 244, 245, 258, 271.
Romoli Giovanni, 20.
Rossolini Felice, 150.
Rovere (della) principe d’Urbino, 176, 209.
Ruspoli Fabrizio, 150.
Sangiorgio cav., 238, 244, 314. — Naufragio, 422.
Sanseverino. — Vedi Micara, Boccaurati. Santacroce, di Roma, Fulvio, 15. — Ludovico, 304.
Santacroce, di Spagna, don Alvaro di Bazan, marchese, lodato, 60. — Sua bravura, 222, 332, 387, 416.
Santamaura, Isola, 206, 256, 257.
Santis (de) Silvestro, 20.
Sassatelli Gentile, 301, 312, 333.
Sassoferrato (da). — Vedi Enèa, Liutrecche, Valentino. Savelli Troilo, 238.
Scapezzano (da) Pierfilippo, 303.
Schiavi, abuso nel pigliarli, 93. — Turchi nello Stato, 105, 254, 260, 264, 310. — Di Massimi, 106.
Schiavi cristiani liberati a Lepanto, 256. — Rivoltati contro Turchi e presa una galera, 416.
Schirazzi, navi da carico dei Levantini, 72.
Scommessa di Pagan Doria, 45.
Selim, imperadore dei Turchi muove guerra a Cipro, 5. — Spavento dopo la battaglia, 293. — Rimesso da Luccialì, 233, 334. — Non poteva fare tanto per sè, quanto per lui fecero gli Spagnuoli, 376. — Sapeva che questi romperebbero i patti, 320. — E che don Giovanni era in rotta co’ Veneziani, 320, 350. — Fa pace co’ Veneziani, 428. — Rompe gli Spagnuoli a Tunisi, 434.
Serbelloni Gabrio, 161, 176, 193, 256, 423.
Sereno Bartolommeo, 25, 150. — Per documento, 189.
Sessa (di) duca, e consigliere, 369, 372, 422.
Settimio cav. di Malta, 20.
Sforza Carlo, 152. — Paolo e il conte di Santafiora, 176.
Signorelli Luca, 21. — Francesco Maria, 303, 386.
Signorini Girolamo, 20.
Simeoni archivista, 264.
Sinibaldi Pellegrino, 303, 386.
Sisto V, rileva la marineria, 153, 262 264, 310.
Sittia città e porto in Candia, 68, 74.
Socchini Camillo, 20.
Soldatelli di Gubbio, 304.
Soldati romani al primo fuoco, 194. — Generosi, 245. — Maltrattati, 260.
Soldati statisti co’ Veneziani, 79, 158, 195, 303.
Soldati romani, spagnoli e veneziani. — Vedi Rinforzo, e Risse.
[446]
Soldato di Velletri, 194.
Soranzo Giovanni, aggiunto all’Oratore Veneto per la Lega, 117, 130, 137, 147, 197, 300. — Iacopo provveditore, 316, 355, 364, 387.
Soriano Michele tratta la Lega, 117, 119, 130, 137, 147, 297, 300.
Spagnuoli soldati e nazione, mia protesta, 35, 222, 235. — Vedi Andrada, Santacroce.
Spagnoli cortigiani. — Vedi Ministri e Consiglieri, Filippo, Giovanni, Granuela, Zuñiga.
Spagnuoli, alcuni capitani non puniti e perchè, 359, 360, 366.
Spannocchi Francesco, 268.
Spello (da) Giannandrea, 79.
Speranza Ottavio, 150.
Spinelli Piergiovanni, 19.
Spinosa card., 237.
Spoleto. — Vedi Berardetti e Giulio.
Spuntoni Marzio, 150.
Stendardo di Marcantonio, illeso, 238, 239, 244. — Della Lega, 174. — Per la battaglia, 215. — Dato a Marcantonio, 332. — A don Giovanni, 174. — Abbattuto, 433.
Stendardi di Roma, 270.
Strozzi Pandolfo, 150. — Alessandro, 402.
Suda, golfo e porto in Candia, 56, 67.
Tàttica. Vedi M. A. Don Giovanni, Giannandrea, Luccialì, Acquata, Armata, Assedio, Battaglia, Galere, Mostra, Navi, Ordinanza.
Tebaldini Ipolito, 150, 210, 240.
Terni. — Vedi Lanzi, Pieromari, de Santis, ed altri a pag. 20.
Tiburzio da Narni, 21.
Timotelli Giulio, 20.
Tivoli. — Vedi Zucconi.
Tolentino (di) Trattato, 279. — Vedi Orselli.
Tommasi Matteo, 20. — Il cavaliere d’Ancona, 150.
Toledo (di) don Garzia, consigliere, 172. — Non si combatte a nome di S. M., 178.
Tolfa (della) Cencio, 268.
Torres mons. Luigi a Madrid, 42.
Trionfo di Marcantonio a Roma, 265.
Tristamo porto nell’isola di Scarpanto, 83, 92.
Tullio da Velletri, 209, 231, 246.
Tunisi (a), rotta di Spagnuoli, 433.
Turchi per invadere l’Italia assaltano Malta, ribattuti a Lepanto, 4. — Invadono Cipro, 6. — Nicosia, 54, 76. — Famagosta, 195. — Le isole de’ Veneziani, e il loro dominio, 163, 166, 168, 188, 335, 347, 350, 429. — La Grecia, 316, 337, 347, 351, 367. — Stimati invincibili, 98, 100, 177, 180, 188, 311, 383, 384, 419, 434. — Muovono contro i nostri, 194, 207, 354, 363. — Disfatti, 244. — Gran mortalità, 251. — Rifatti, 334. — Voluti conservare, 39, 98, 311, 322, 370, 390, 419, 431. — La pace co’Veneziani, 428.
Urbino. — Vedi della Rovere, Sanfrèo.
Valignani Vincenzo, 18.
Veniero Sebastiano, 164. — A Messina, 166. — Vorrebbe partirsi, 168. — Chiede battaglia, 178, 187. — Impicca soldati del re, 197. — Minacciato, 198. — Bravure, 220. — Abbracciato da don Giovanni, 230. — Deposto da don Giovanni, e dal re, 315.
Velletri (da). — Vedi Soldato, Orazio, Tullio.
Veneziani per la Lega, 6, 7, 41, 117, 137, 146, 295, 300, 427. — Diffidenza e timori, 123, 134, 425. — Armata, 26, 164. — Mortalità, 26, 333. — Naufragi, 102, 169. — Prontezza alla guerra, 41, 65, 82, 178, 187, 389 — Bravura, 225. — Vanno soli, 326. — Impediti dai regi, 339. — Richiamati, 375. — Contrarietà, 37, 294, 369. — Abbandonati, 94, 183, 321, 324, 333, 370, 390, 394, 428. — Pace col Turco, 428.
Venturieri nobili con Marcantonio, 19, 150.
Vermiglioli Traiano, 21.
Vetreschi Vetresco, 20.
Villani Fabrizio, 18.
Virgili (de) Adriano, 242.
[447]
Vitelli Alfonso, 304.
Viterbo. — Vedi Costantino, Rossolini, Signorini, Spuntoni, Vetreschi.
Vittoria di Lepanto non gradita alla corte del re, 175, 177, 283, 318, 323, 368.
Vittovaglie. — Vedi Panàtica.
Vitozzi Muzio, 20.
Zambeccari Alessandro e Paolo, 304, — Flaminio, 18, 130, 209, 236, 240.
Zane Girolamo di Venezia, 26. — Accoglienza a Marcantonio, 56. — La battaglia, 65, 82. — Turbato, 81. — Ritorno, 82. — Abbandonato da Giannandrea, 94. — Prigionia e morte, 35.
Zane Marcantonio di Bologna, 152.
Zante isola, 374.
Zoccoli Angelo, 20.
Zucconi Francesco, 150.
Zuñiga don Giovanni ambasciatore di Spagna a Roma, 117. — Insolenze 118, 122, 133. — Contro Marcantonio, 184, 285, 299. — Cacciato da san Pio, 284.
[448]
Libro Primo. — Il principio della Lega e la guerra di Cipro. | Pag. 1 |
Libro Secondo. — Conclusione della Lega e battaglia di Lepanto. | 111 |
Libro Terzo. — La guerra di Grecia, e lo scioglimento della Lega. | 287 |
Indice alfabetico delle persone, dei luoghi e delle cose. | 437 |
1. Pii Papæ V, Præceptum quod Christiani apud Turcas servi reperti libere cum suis bonis abire permittantur. Bibl. Casanat., Collez. di Bolle, Editti ec., t. I, anno 1570, nº 4. Parla il Pontefice con queste istesse parole qui dette nel testo. Vedi appresso nota nº 80.
2. Archivio Colonna, Da una pergamena e parecchie copie. «Dilecto filio nobili viro Marco Antonio Columnæ, domicello romano, classis nostræ et apostolicæ Sedis adversus Turcas præfecto et capitaneo generali. Pius Papa quintus. Dilecte Filii, nobilis vir, salutem et apostolicam beneditionem. Cum his difficillimis periculosisque temporibus Præfectus Classis nostrae et hujus sanctæ Sedis contra Turcas ingens bellum ad Venetorum omniumque Christianorum perniciem molientes esset deligendus, ut coniunctis viribus illorum furorem et conatus facilius repellere possimus, ad nobilitatem tuam potissimum inter alios animum nostrum convertimus, sperantes ob ejus nobilissimæ familiæ splendorem in tua virtute, prudentia, fide, reique in primis militaris usu ac disciplina, nos conquiescere posse. Itaque in Dei omnino potentis nomine, et ad Sanctæ Ecclesiæ, christianæque reipublicæ defensionem et conservationem, te Praefectum et Capitaneum generalem totius ejusdem classis nostræ et dictæ Sedis adversus Turcas cum omnibus et singulis facultatibus, iurisdictionibus præminentiis, prærogativis, honoribus et oneribus solitis et consuetis: necnon cum stipendio menstruo pro te scutorum sexcentorum (paullis decem pro quolibet scuto computatis) et provisione ordinaria pro duodecim electis militibus Lancie spezzate vulgo nuncupatis, et vigintiquinque stipatoribus corporis tui Alabarderiis vocatis, auctoritate apostolica tenore præsentium ad nostrum et ipsius apostolicæ Sedis beneplacitum, eligimus, creamus, constituimus et deputamus, mandantes quibusvis triremium aliorumque navigiorum nostrorum ductoribus, capitaneis, officialibus, militibus et personis sub pœnis arbitrio nostro, atque, etiam tuo imponendis, ut te debito cum honore et obsequio suscipientes tibi prompte reipsa praesto sint, mandatisque tuis sine ulla mora atque exceptione pareant, et obediant, omniaque imperata tua faciant et exequantur, non secus ac si nos ipsi ea juberemus. Tu ergo, Fili, ita te geras, munusque ipsum hoc tibi per nos libenter demandatum, sic diligenter ac strenue obire studebis ut nostrae omniumque de te expectationi cumulate respondeas. In quo Deo in primis, cujus causa nunc praecipue agitur, deinde desiderio nostro maxime satisfacies, unde felicis perennisque vitae præmium a Domino, a nobis autem bene navatae operæ laudem ac commendationem procul dubio consequeris.
»Datum Romæ apud Sanctum Petrum sub anulo Piscatoris, die XI junii MDLXX, Pontificatus nostri anno V.
»Cæsar Glorierius.»
3. Antonio Coppi, Memorie Colonnesi, in-8. Roma, 1855, p. 349. «Marcantonio Colonna nacque a Civitalvinia il 26 febbraio 1535.»
I ritratti di Marcantonio possono vedersi nella Galleria colonnese, donde furono ricopiati dal Litta, Famiglie celebri, in-fol. Milano, tav. IX; e da Pompilio Totti, Ritratti et elogi di capitani illustri, in-4. Roma, 1635, p. 256.
Marcantonio Colonna in tutte le sue lettere a Pio V, a Gregorio XIII, a Filippo II re di Spagna, al doge di Venezia, ai cardinali Rusticucci e di Como, al Granduca di Toscana, agli ambasciadori di Venezia e di Spagna, e in tante altre sue scritture dipinge sè stesso in questo modo. Specialmente nelle due lettere a Filippo II, che sono nel t. I, p. 272 e 277: l’ultima delle quali finisce così: «Attendo dunque a portar sì grave salma di soddisfare al pubblico ed al particolare di tutti, che certo sa Iddio quanto travaglio. Et alla fine per ricognitione et riposo mi resta sempre il giustificarmi di quello donde meriterei honore et ricognitione. Lodato sia Dio del tutto, et a Vostra Maestà bacio la mano. Da Corfù, li 6 di settembre 1572. Humile et devoto subdito et servo di Vostra Maestà M. A. Colonna.»
4. Antonfrancesco Cirni, Commentari della guerra di Francia, soccorso d’Orano, impresa del Pegnone e assedio di Malta, in-4. Roma, 1567, p. 19.
Augustinus Thuanus, Historia sui temporis, in-fol. Londra, 1733 all’anno 1564, p. 411.
Bosio, Storia de’ Cavalieri di Malta, in-fol. Roma, 1602, t. III, 482.
Dal Pozzo, Storia del Sacro ordine gerosolimitano, in-4. Verona, 1703, t. I, p. 383.
Arch. Colonna, t. III, 176, 269, 270, 275; t. IV, per tutto, e codice segnato col numero 150. Strumenti, perizie, caratazioni, spese, e viaggi delle galere e del signor Marcantonio. Strumenti di compra delle galere del cardinal Carlo Borromeo, vendita delle medesime al duca di Firenze, tratta dei grani concessa dal re di Spagna per le medesime.
Non so se il chiarissimo signor don Aristide Sala abbia pubblicato l’istrumento con che san Carlo Borromeo vendette a Marcantonio Colonna tre galere della sua casa: mi ricorda avergliene parlato in Roma.
5. Cornelius Firmanus, Magister Cæremoniarum, Diarium MS. Bibl. Chigiana, L. I, 27: «Die II junii dominica in festo Santi Barnabæ.»
6. Natal Conti, Storia de’ suoi tempi, tradotta dal Saraceni, in-4. Venezia, 1589, t. II, p. 68 in fine.
Bartolommeo Sereno, p. 46: si veda la nota 18.
7. Marcantonio Colonna, Scritture dell’armata navale, MSS. nell’Archivio di essa eccellentissima casa. Sono volumi 4, in-fol. Incomincia il tomo primo: «A dì 11 giugno 1570. Noi Marcantonio Colonna duca di Paliano semo stato spedito capitan generale della Santità di Nostro Signore contro Turchi, come appare per il breve di Sua Beatitudine. Favorisca nostro Signore Iddio il suo santo servitio a desiderata vittoria. In questo libro si annoteranno tutte le expeditioni che giornalmente si faranno.» — Questo codice e tutti gli altri dell’archivio intorno a queste materie, per cortesia somma del gentilissimo cavaliere signor don Vincenzo Colonna, sono stati messi a disposizione dell’Autore che, avendoli studiati in sua camera con ogni comodità, stima suo debito rendergliene qui pubblico e solenne ringraziamento.
Si noti che molte delle predette scritture sono autografe di Marcantonio, il quale non pertanto quasi sempre in persona terza parla di sè stesso.
In detto Archivio si conservano, oltre ai volumi legati, molte filze e carte sciolte relative a questi successi.
8. Arch. Colonna cit., t. I, p. 2 e 3, e t. III, p. 226. Nota delle spese fatte da Marcantonio in Ancona.
Bosio cit., t. III, p 850.
Giambattista Adriani, Storia de’ suoi tempi, in-fol. Venezia, 1583, p. 860.
Antonii M. Gratiani, De bello Cyprio, libri quinque, in-4. Roma, 1624, p. 54.
Ubertus Folietta, De sacro fœdere in Selymum turcarum tyramnum ap. Burmannum in Thes. Hist. Ital., t. I, p. 970.
Paolo Paruta, Historia della guerra di Cipro, in-4. Venezia, 1718, p. 64.
Tutti questi ed altri molti, parlano dell’armamento delle galere fatto da M. A. Colonna nell’anno 1570 in Ancona. Ondechè la pietà quel Saracino il quale tronfio e paffuto nella sua storia di essa città, a pagina 368, scrive così: «Dall’anno 1567 al 1574, che sono anni sette, non ho notizia alcuna di Ancona.»!! Donde attendeva costui le sue notizie?
9. Arch. Colonna cit., t. I, p. 14, 19, 24, 42. Quivi sono gli specchietti degli uomini necessari ad ogni galera, e dei soldi mensili di ciascuno; che io stimo doversi pubblicare con alcune noterelle per chi apprezza i bei lavori archeologici del chiarissimo A. Jal, fatti per ordine del Ministro della Marina di Francia:
Numero delle Teste. | Qualità delle persone. | Soldi complessivi a scudi per mese. |
1 | Comito. (Il primo de’ bassi ufficiali) | 7. — |
1 | Sotto Comito. | 5. — |
1 | Scrivano. (Ragioniero) | 5. — |
1 | Peota. (Piloto) | 3.50 |
3 | Maestranze (calafato, mastro d’ascia, e remolaro) a due scudi | 6. — |
3 | Loro fanti, a paoli quindici | 4.50 |
2 | Capi bombardieri, a scudi 4 | 8. — |
4 | Bombardieri, a paoli venticinque | 10. — |
1 | Cappellano | 2. — |
1 | Barbiero. (Cerusico) | 3. — |
8 | Compagni d’albero (Marinari di prima classe) a scudi 3,75 | 30. — |
30 | Marinari, a scudi 2,50 | 75. — |
100 | Soldati, a scudi 4,57 | 457. — |
Pane ai medesimi | 50. — | |
Vino e companatico | 165. — | |
200 | Remigi (mantenuti dalle Comuni) | » — |
1 | Capitano della galera | 30. — |
1 | Capitano delle Fanterie | 30. — |
1 | Alfiero | 10. — |
2 | Gentiluomini di Poppa, a scudi 8 | 16. — |
―― | ――― | |
361 | 917. — |
Arch. Colonna, t. II, p. 266. «Marcantonio ebbe dalla Marca circa duemila uomini da remo, pagati da quella provincia per sei mesi.»
10. Arch. Colonna cit., t. I, p. 9.
11. Archivio Colonna cit. t. I, p. 1 a 13.
Vincenzo Armanni, Storia della nobile ed antica famiglia de’ Capizucchi, baroni romani, in-4. Roma, 1668.
Id., Ragguaglio per appendice alla predetta istoria. Roma, in-8. 1680.
Annibale Adami, Elogi storici di due marchesi Capizucchi, in-fol. Roma, 1685.
Ferdinandus Ughellius, Genealogia nobilium de Capizucchis, in-fol. Roma, 1653.
Petrus Aloysius Galletti, Inscriptiones Romanæ, Classis X, nº 22, 29, 36.
Teodoro Ameyden, Le famiglie romane, autografo del secolo XVII, MSS. Casanat., E. III, 11.
Gamurrini, Crescentio, Zazzera, Imhoff, Crispolti, Marchese, Litta ed altri genealogisti.
12. Carlo Promis, Le Opere di Francesco di Giorgio Martini, in-4. Torino, 1841, t. I, p. 317, parla del Fontana in una nota.
Jacopo Fontana, Capo bombardiere ed ingegnere propose a Papa Sisto V il ristauro del porto e fortificazioni d’Ancona. MSS. Vaticano nº del codice 5463. — Quivi dà egli stesso notizia della sua vita e de’ servigi prestati nell’armata sotto Marcantonio Colonna.
Arch. Colonna, t. III, p. 212, lin. 4.
Arch. Col., t. I, p. 153: «Scriverò con questa cifra che tiene il Gallo mio secretario.»
13. Arch. Col. cit., t. III, p. 164, e t. II, p. 141.
Gian Pietro Contarini, Historia delle cose successe dal principio della guerra sino al dì della gran giornata, in-4. Venezia, 1645. p. 15, 16. Esso ed altri scrittori veneziani e spagnoli ripetono e storpiano orrendamente i nomi. Per esempio: capitan Cortesi, Baccio da Pisa, e Pandolfo Strozzi, nei MSS. e in qualche stampa si leggono Pamiolfo Atroci, Bazza da Pista, e capitan Cortes. — Avvertenza necessaria per comprovare alcune volte l’identità delle persone.
14. In tutte le scritture del cinquecento il nome della città di Terni nell’Umbria si poneva Terani, sincopato dal latino Interamna, poi più speditamente rivolto a Terni, come oggi si dice: per non ripetere questa avvertenza e per togliere gli equivoci, userò in seguito sempre la moderna ortografia che dice Terni, ogniqualvolta nell’originale si trovi Terani. Così pure io scriverò Ripatransone quando leggo ne’ codici della Ripa.
15. Crispolti, Annali di Perugia, MSS. alla Comunale, C. 33, t. II, p. 254, 260.
16. Arch. Col., t. I, p. 201 e t. III, p. 43.
17. Arch. Col., t. I, p. 13.
Lettera di M. A. Colonna a Monsig. reverend. Alessandrino d’Ancona, 20 giugno 1570.
Similmente t. II, p. 461 e, t. III, p. 1.
18. Arch. Col., t. I, p. 49.
«Signori sopraccomiti delle galere di Nostro Signore in Ancona, per ciascuna vostra galera farete caricare l’infrascritte robbe, cioè:
Biscotto migliara | 30 |
Vino, some | 50 |
Riso, migliara | 1 |
Fave, some | 10 |
Oglio, otri | 15 |
Aceto, some | 8 |
Sardelle, barili | 12 |
Salami, migliara | 2½ |
Formaggio, migliara | 1 |
Sale, libbre | 200 |
Stoppa | 300 |
Pece, libbre | 200 |
Sevo, libbre | 300 |
Sacchi, numero | 50 |
Polvere, migliara | 3 |
Dalla galera Capitana in Ancona, a dì 6 di luglio 1570.»
M. A. Colonna.
Archivio Centrale in Firenze, Arch. Mediceo Codice 2979. Lettera del Bartoli ambasciadore di Toscana a Venezia. Al Granduca, del 10 Giugno 1570. «Pel signor Marcantonio Colonna fanno rinfrescare una galea quadrireme del Fausto, che sono trent’anni che mai non fu in mare.» Ecco per gli archeologi una notizia di più intorno alla celebre quadrireme del Fausto.
19. Arch. Col. t. I, p. 55.
Bartolomeo Sereno, Commentari della guerra di Cipro e della lega dei Principi cristiani contro il Turco, in-8. Montecassino, 1845, p. 46.
Il Sereno, come quivi nel prologo dimostrano gli eruditi editori, fu cavaliero romano e capitano nell’armata pontificia. Dopo aver combattuto in più guerre e sostenuto un carico principale nelle galere del Papa alla battaglia di Lepanto, si rese monaco: e portò a Montecassino la storia delle cose per lui fatte e vedute nel tempo della Lega.
Qui vuolsi notare l’errore di alcun bibliografo, che vedendolo così facilmente da capitano convertito in monaco, prese da romano a farlo napolitano.
Ferrante Caracciolo, conte di Biccari, Commentari delle guerre fatte coi Turchi da Don Giovanni d’Austria, in-4. Firenze 1581, p. 6.
Gio. Pietro Contarini, Storia delle cose successe dal principio della guerra mossa da Selim Ottomano ai Veneziani sino alla gran giornata di Lepanto, in-4. Venezia, 1572, ristampata nel 1645: cito quest’ultima.
20. Rosell Cayetano, Historia del combate naval de Lepanto. Obra premiada por voto unanime de la real academia de la historia, in-8. Madrid, 1853, p. 19 e 22.
Sereno cit., p. 253.
Arch. Col. per totum.
Giambattista Castagna, arcivescovo di Rossano e nuncio apostolico alla corte di Spagna (fu poi Papa sotto nome di Urbano VII). Lettere, cod. 507, t. II, p. 175. Mss. alla Corsiniana in Roma.
21. Arch. Col. t. I, per totum.
Francesco Longo, Successi della guerra con Selim. Arch. Stor. Ital., Appendice, t. IV, 17, p. 19.
Ferrante Caracciolo, I commentari delle guerre fatte da Don Giovanni d’Austria, in-4. Firenze, 1581, p. 6.
Foresti, Mappamondo storico, in-4. Venezia, 1736, t. XII, p. 10.
Il Saggiatore, giornale romano di storia e documenti, in-8. 1844, t. II, p. 289; III, p. 27.
22. Arch. Col. cit. t. II, p. 161. «Illustre Marco Antonio Colona primo. Vuestra carta de nueve de junio he recibido en que me dais cuenta como Su Santitad os habia nombrado por Capitan general de sus Galeras, y he holgado yo mucho de ello por la particular voluntad que as tengo, y confiança que hago de vestra persona de que terreis la misma cuenta con las cosas de mi servicio que siempre habeis tenido en las que se os han encomendado.
A Don Juan de Zuñiga mi ambaxador (a Roma) escrivo que os de cuenta de la resolucion que he tomado en que Juan Andrea se vaya a juntar con las galeras de Su Santitad y con las de la Illma republica de Venecia con las que antes se le habia ordenado que tuviesse juntas en el nuestro Reyno de Sicilia, y os obedesca y siga el estendarte de Su Santitad. Y os encargo y ruego mucho que en la jornada os valgais en todo del parecer de Juan Andrea que entiendo que os aprobecherà mucho su asistencia para que se acierte por la platica y experiencia que tiene de las cosas de la mar; y que tengais cuidado de avisar nos de todo lo que se ofreciere, y asi mismo que tengais advertencia que si l’armada del Turco tomase otra determinacion de la que hasta ahora se ha dicho en daño de nuestras tierras vos hagais acudir con todas las guleras a la necessidad como es de razon i yo de vos confio.
Del Escurial a XV de julio 1570.
Yo el Rey
Antº Perez.»
Colleccion de Documentos ineditos para la historia de España, in-8. Madrid, 1843, t. III, p. 356.
«Carta de Filipe II a don Garcia de Toledo. Escorial, 15 de julio 1570. — Y quanto al punto de juntarse las dichas nuestras galeras con las de Venecianos, aunque a los principios se representaron algunos inconvenientes, habiendo tornado a mirar en ello, me he resuelto de que Juan Andrea se vaya a juntar con las que tiene juntas en el nuestro reyno de Sicilia con las de Su Santitad y con las de Venecianos, i obedezca a Marco Antonio Colona como a general de las galeras de Su Santitad y siga su Estendarte el tiempo que durare la dicha junta.»
23. Du Mont., Corps diplomatique, in-fol. Amsterdam, 1738, t. V, P. I, p. 192.
Suriano, Negotiato et Conclusione della Lega, Append. al Sereno, p. 411.
24. Arch. Col. cit., t. II, p. 9; t. I, p. 78.
Saggiatore, giornale romano, in-8. 1845, t. III, p. 170. — La sola intestazione latina: «Aloysius Mocenigus Dei gratia Dux Venetiarum etc., illustrissimo Domino Marco Antonio Columnæ Pontificiæ classis Capitaneo generali, filio nostro carissimo salutem et sinceræ devotionis affectum.»
25. Bosio cit., t. III, p. 863, E.
26. Cabrera. Herrera. Sepulveda. Lafuente. Rosell.
Contarini. Longo. Diedo. Morosini. Romanin.
William H. Prescott, History of the Reign of Philip the second, in-8. Londra, 1859, t. III, p. 247. «Fortunatly the chair of S. Peter was occupied by Pious the fith, who seens to have been called forth by exigencies of the times to uphold the pillars of Catholicisme;» e p. 310: «He was the true author of the league. He the only of the confederates Who acted solely.... for the interest of the faith.»
27. Rosell cit., p. 46: «Doria procediò, quando menos, con indolencia.... España hizo quanto podia.... Sobre su gobierno deben recaer las culpas.»
Ib., p. 133: «La inaccion de don Juan era efecto de los ordenes de la corte.»
Ib., p. 150: «Culpa fue de nuestra Corte, o per mejor decir del Rey Felipe.»
Ib-, p. 156: «No se imputò la culpa ni a don Juan ni a Venecianos.... Pendiò exclusivamente de los recelos de Felipe.... que pospuso la obligacion de las estipulaciones que habia firmado.»
Cabrera, Vander Hamen, Sepulveda, La Fuente.
28. Maurogenus Andreas, Histor. venetæ, lib. IX, in-4. Venezia, 1719, p. 333: «Ex quo tandem eo deventum est ut Hyeronimus Zannius imperator Venetias vocatus inter reos referretur. Novi classis Legati crearentur.»
Giacomo Diedo, Storia veneta, in-4. Venezia, 1751, lib. VII, p. 256: «Partì il generale Zane per Venezia obbligato a discolparsi da molte imputazioni.»
Paruta, Guerra di Cipro, in-4. Venezia, 1718, p. 167: «Il general Zane a Venezia era di molte colpe accusato.... e, prima che giustificar potesse la sua causa, morì.»
29. Sereno cit., p. 91: «E chi non sa che la sete maggiore degli Spagnoli è l’impero assoluto di Italia, il quale altra potenza non è che lor vieti che i soli Veneziani?»
Cabrera, Vida de Felipe II, in-fol. Madrid, 1619, p. 667. «Los Venecianos decian hasta quando serian burlados par les Españoles con engaños entretenidos: porque, despojados por et turco de su señorio, faltasse a Italia el principal fundamento de su libertad: a cuyo imperio con desenfrenado deseo ya aspiraban.»
Rosell cit., p. 19: «Repatabase la monarquia de Felipe II dominadora de entrambos mundos.... Rodeabase el mundo todo, y el ambito siempre alumbrado por el sol del dominio de los españoles.»
30. Graziani, p. 243: «Inter Venetos Hispanosque cum palam amicitia societasque esset, secreto acrioribus quam cum hoste odiis certabatur.»
Francesco Longo per totum.
Rosell, p. 49: «Tratabase de que coadiuvassen a un mismo fin voluntandes opuestas, e interesses encuentrados.... Los politicos tenian la allianza per punto menos que irrealizable.»
Modesto Lafuente, Historia de España, in-8. Madrid, 1854, t. XIII, p. 486: «Viose luego lo difficil que era traer a comun acuerdo potencias que obraban impulsadas per diversos interesses i fines.»
Nicolò da Ponte, Orazione al Senato Veneziano contro la Lega, ext. ap. Sereno cit., p. 105.
31. Philippi II, Hispaniarum regis epistola ad Gabrielem a Cueva, ducem Albuquercium, Status Mediolanensis gubernatorem generalem, XVII kal. junii 1570. — «Qua de re te commonefaciendum putavimus ejus item juris quod principatus noster Mediolanensis in venetos eorum que dictionem sibi esse prætendit.» Ap. Laderchi, Ann. Eccl. in-fol. Roma, 1737, t. III, p. 17.
32. Graziano, 245: «Hispani veteri consilio, atteri atque debilitari rem venetam præoptabant.»
Laderchi, t. III, p. 516: «Perspecta hispanorum mens et ratio consiliorum qui reipublicæ venetæ semper infensi eam ab initio semper frustrati fuerant.»
Raynaldo, ann. 1538, nº 26: «Comodum Cæsaris; qui Venetos turcico bello implicitos, atque a præpotente hoste viribus et opibus exhauriendos, terrestris imperii urbibus expoliare posset.»
Augustinus Thuanus, Hist., in-fol. Londra, 1733, lib. 54, nº 21, p. 206: «Hispanorum id consilium esse ut Venetos inutilibus et insanis sumptibus absumant: eorumque ditionem bello attritam, inde turcis exponant, hic propriæ ambitioni.»
Marcantonio Colonna, Pensieri sulla Lega, t. II, p. 195: «Per le suddette ragioni potevano i Veneziani dubbitare che dai ministri di Sua Maestà cattolica, così poco amorevoli non fossero dati quegli aiuti che erano necessari.... Tanto maggiormente tenendo che il consiglio di Spagna non desideri totalmente la grandezza di essi signori Veneziani per raggione di Stato....»
Villemain, Rapports de la poésie avec l’histoire politique, — dans la Revue des deux mondes, 28e année, seconde période, t. XVII, 1 octobre 1858. — 3e livraison in-8. Parigi, 1858, p 650: «Rien n’arrêta le zèle du généreux Pontife, pas même les lenteurs égoïstes et la froide astuce du monarque dont il devait le plus espérer le secours. Philippe II, en effet, impitoyable pour les débris du Mahométisme épars encore dans ses états, hésitait à lutter contre la puissance des Turcs, et surtout à défendre contre eux Venise.»
33. Bosio cit., t. III, p. 114.
Petrus Bizarus, Historia Januensis, in-fol. Anversa, 1579, lib. 20, p. 493.
Paolo Giovio, Storie, tradotte dal Domenichi, in-4. Venezia, 1608. t. II, p. 271.
34. Sereno cit., p. 253.
35. Muratori, Annali, 1570.
Rosell cit., p. 23.
Marcantonio Colonna, Lettere al Cardinale Alessandrino. Da Venezia, 27 giugno 1570. Arch. Col. cit., t. I, p. 16: «Dico che Vostra Signoria Illustrissima può assicurar nostro Signore che i Veneziani son tanto inanimati che più non si potria dire, tanto nella guerra, che nella lega. E di pace col Turco non hanno alcun pensiero, et solo il non essere ajutati potria esser causa di questo.... Dubitano che il signor Giannandrea non vada a Corfù, il che dispiacerebbe a questa Signoria, e li metterebbe in tant’ombra che più non si potrebbe dire.... Confidano infinitamente in Sua Santità et sperano che Ella resterà soddisfatta di loro nel particolare della Lega e che coll’autorità sua leverà ogni dubbio che potesse nascere et cavillatione che venisse interposta..... Et sono risoluti di combattere: et certo io che gli ho parlato et visti in faccia, et li tratto ogni hora ne resto tanto soddisfatto che più non si potria.»
Item, p. 23: Lettera al señor Gusman de Silva, ambaxador por S. M. en Genua. Desde Venecia, el ultimo de junio 1570: «Los que tratan la liga la quieren tanto particularizar que dudo daran lugar i occasion a estos señores venecianos de passalle la gana de la guerra: tanto mas que han gastado hasta ahora cerca de dos miliones, y dudan que las galeras de su Majestad ne se junten cen ellos: y haber perdido este año en el qual se huvieran echo grandes cosas. Dudo que la mucha sabiduria del Cardenal Granuela lo ha de hechar a perder todo. I asi verà S. M. que cosa es perder una occasion como esta.» Parole di profeta.
36. Michele Bonelli cardinale Alessandrino, Istruzioni particolari e private a Monsignor de Torres per trattare la Lega con Sua Maestà cattolica, pubblicate in appendice al Sereno cit., p. 427, 431.
Giambattista Castagna, nunzio alla corte di Spagna, Lettere e corrispondenze Mss., Bib. Corsiniana, Cod. 506 e 507, p. 175.
Monsignor Luigi de Torres, Relazioni della sua nunziatura straordinaria in Spagna l’anno 1570, Ms. presso i marchesi Torres all’Aquila.
Arch. Secret. Vat. Venezia, C. E., 2492. — Spagna, CXV, E. 2503.
37. Sereno cit., p. 253.
Rosell cit., p. 20: «Pues, quando Venecianos tenian a la memoria que en occasiones parecidas a la presente no habian querido acceder a los ruegos del rey catolico que les pedia ayuda, tenian per certisimo su desamparo.»
38. Paruta, Guerra di Cipro, in-4. Venezia, 1718, p. 294: «Dicevano avere il Re di Spagna in questa Lega avuti innanzi i suoi propri interessi.»
Rosell, p. 19: «Felipe tampoco anteponia les escrupulos de la conciencia a los oficios de rey.... en todo preferia los interesses de su corona; p. 21: El genio de Filippe II despacible, reservado, astudo y rincoroso, como en toda Europa se la suponia; p. 150: Culpa fue de nuestra corte, o par mejor decir del rey Filippe II.»
Longo cit., p. 21: «Li Spagnoli avevano opinione che se la Republica avesse avuto una stretta dal Turco si avrebbe resa più facile a soddisfargli di quello che avessero voluto.»
M. Antonio Colonna, Lettera al cardinal Rusticucci, Da Venezia, 16 luglio 1570; Arch. cit., t. I, p. 43: «Son venuti da me tre di questi Signori de Pregadi et mi hanno pregato che io faccia ufficio con nostro Signore che oltre alle galere di Malta, Sua Santità si procurasse quelle della Signoria di Genova, et del Gran Duca, delle quali io li ho risposto che le devono domandar loro: al che si stringono nelle spalle.» Cioè dire che non isperavano soccorso da chi seguiva la politica di Spagna; nè anche contro il Turco, quando pur ne avessero obbligo per istituzione e per voto.
Archivio Centrale di Firenze. Arch. Mediceo Cod. 4905. Lettera di Cosimo I al cavaliere de’ Nobili suo ambasciatore in Spagna, data del 5 novembre del 1570. Domanda consiglio al Re sopra il concedere o no le sue galere al Papa: e si lagna di S. M. perchè tratta con artifizio e velame.
39. Francesco Longo, Guerra di Selim. — Arch. St. It., Append., t. IV, p. 19. «Giannandrea disse a Candia che nella commissione del Re v’era una riga di suo pugno.»
Idem, p. 21: «Giannandrea aveva ordine di non combattere.»
Colleccion de Documentos, t. III, p. 9, Lettera di don Garzia di Toledo a don Luigi de Requesens: «No sepan Venecianos que Su Majestad tracte de que no se pelee.»
Arch. Col., t. II, p. 158: Lettera di M. A. al Re: «Pareciendo a Marcantonio que no era razon que ni a Venecianos ni al mundo se diesse a creer que da un Rey tan grande y de tanta bondad, hubiessen salido ordenes contrarios, per un mismo negocio.»
Marcantonio Colonna, Relazione al Re cattolico di quel che avvenne nell’armata l’anno 1570. Arch. Cassin., append. Sereno cit., p. 437 e 438: «Veda Vostra Maestà quanto male a proposito Giovannandrea, allegando di aver comandi particolari di Vostra Maestà, disgustasse i Veneziani.... Mi dolse che Gioannandrea mi desse a credere che V. M. intorno a quest’affare avesse a lui affidato segreti che a me non palesò.»
Marcantonio Colonna, Lettera al cardinal Rusticucci da Corfù, novembre 1570. Arch. Col., t. II, p. 412: «Il generale veneziano mi ha mostrato uno scritto venuto da Ragusa, che in somma Pagan Doria, fratello di Giannandrea, disse offerendosi a farci scommessa che non si sarebbe combattuto coll’armata nemica, perchè Giannandrea haveva ordine di Sua Maestà di non lo fare in quest’anno. Hor io spero esser alli piedi di Sua Santità, e li darò contezza.»
Arch. Col., Lettera di Marcantonio al vicerè di Napoli, Da Corfù, 28 novembre 1570: «Qui mostrano una fede fatta da certi gentiluomini veneziani in Ragusa dove dicono che Pagan Doria voleva scommettere che non si sarìa combattuto coll’armata del Turco perchè Sua Maestà così aveva ordinato a Giannandrea, e che per quest’anno non voleva Sua Maestà si facesse niente.... Pagano era malato in Ragusa con Vincenzo Vitelli quando li venne voglia di far questa gentile scommessa.» T. II, p. 420.
Rosell cit., p. 133, nº 13: «La inaccion de don Juan era effecto de las ordenes de la Corte.»
40. Marco Antonio Colonna, Relazione di quanto è successo all’armata il 1570, pubblicata nel Saggiatore, giornale romano di storia e documenti, t. III, p 29 e 30: «Giannandrea disse che non faria quel che gli ordinasse il signor Marcantonio, eccetto in quello che paresse a lui.»
41. Michel Soriano, Trattazione della Lega tra N. S. Pio V, il Re cattolico e la Repubblica di Venezia contro il Turco nell’anno 1570, Appendice (non pubblicata dai Cassinesi) Ms. Casanat., XX, I, 32, p. 328: «Intanto si ebbe avviso della ritirata dell’armata cristiana, e delli dispareri nati tra il signor Marcantonio ed il signor Giannandrea Doria, donde fu data imputazione al Doria che havesse mancato abbandonando gli altri e messo in disordine l’impresa. La qual cosa turbò grandemente l’animo di tutti, et il Pontefice entrò in sospetto che la Signoria venuta in diffidenza delli regi non fosse per attendere alla Lega. Et fu confermato in questo dalle parole dell’Ambasciador Soranzo, il quale aggravando il fatto comparavalo con quello che seguì l’anno 1538 nell’altra guerra.»
42. Nella Galleria della eccellentissima casa Doria in Roma non è ritratto di Giannandrea: ma bensì sopra due medaglie d’argento scolpita la sua fisonomia. Ambedue simili nel diritto e nel rovescio, quantunque l’una alquanto più rozzamente lavorata. Quivi è il busto di Giannandrea a capo nudo, con sulle spalle e sul petto un gran manto: attorno si legge: IO. AND. AUR. COMES. LODANI.
Nel rovescio si vede la galera sua capitana, le bandiere al vento, e sopra il molto: DEI. ET. REGIS. MVNERE.
Niuna biografia, a mia notizia, parla di Giannandrea, men che quella di Brantome: il quale in un capitoletto lo loda per gran marino, lo chiama brusco, e non entra in altri particolari.
Agostino Olivieri, Monete, medaglie e sigilli dei Principi Doria, in-8. Genova, 1859, alla tavola IIª nº 3, produce la medaglia sopra citata, e nº 4 ne aggiugne un’altra, nelle quali si vedono i medesimi tratti.
43. Rosell cit., p. 34: «En el retraso del Doria intervinieron circumstancias de diversa indole. Lo primero que la corte d’España abituada a mirar con certa desconfianza la amistad de los Venecianos, e no creiendo, hasta venir formalizadas las hostilitades, que el Senado dejase de intentar alqun medio de accomodamiento con la Porta, anduvo remisa en dar a Doria las istrucciones, que le mandò mas adelante.»
Loderchi, Ann. eccl., t. III, p. 18 a 22. Tratta di tutte le dilazioni precedenti, e susseguenti di Giannandrea e delle varie opinioni circa la causa.
Arch. Col., Lettera di Marcantonio al card. Rusticucci, da Otranto il 20 agosto 1570. T. 1, p. 63: «Il signor Giannandrea partì alli 12 da Messina senza saper ch’io l’aspettassi. Poi al capo della Colonna ebbe la mia fregata; e sebbene il tempo buono l’aveva portato qui vicino, se ne tornò indietro a Taranto per pigliare alcuni soldati: e questa fu giovedì a sera del 17: e non è ancora comparso. Talchè quando pareva che si havesse da usar maggior diligenza, sapendosi ch’io aspettavo, si è andato più ritenuto. E tutto questo negozio verrà a battere in questo che (come saremo a Candia tardi) si metta in difficoltà il passare avanti, et la impresa si converta in util privato di alcuni danni che si possono fare al nemico: che non sono di sostanza al fatto presente.»
Item, Lettera all’ambasciadore di Spagna, da Otranto, 21 agosto, ib. p. 64. »Il signor Giovannandrea fa molta difficoltà non solo di passar Candia, ma d’arrivarci.»
44. Arch. Col. cit., t. I, p. 65; t. II, p. 3 e 155.
Arch. Cassinese, Pubblicazione nell’appendice del Sereno cit., p. 431.
45. Arch. Cassinese cit., p. 432.
Ferrante Caracciolo cit., p. 6 in fine.
Arch. Col., Relazione al Re, t. II, p. 155 e p. 256.
Marcantonio Col., Lettere al cardinal Rusticucci. Da Otranto, a dì 20 agosto; e dalla Suda in Candia, a dì 5 settembre. Arch. cit., t. I, p. 64 a 67. Nella prima dice così: «Alli 17 d’agosto capitò qui vicino il signor Giannandrea, e tornò indietro fin in Taranto.... io vedo che quest’allungamento è la ruina di questo negotio.» In data del 21 dice: «Questa notte giunse il signor Giannandrea, e se ne restò fuori del porto.»
46. Marcantonio Colonna, Relazione al re di Spagna: «Por mucho que Marco Antonio importunase a Juan Andrea, no teniendo alli negocio de dos horas, no lo pudo arrancar de Otranto en dos dias.» T. II, p. 155.
47. Stefano Lusignano di Cipro, lettore dell’Ordine dei Predicatori, Chorografia et breve historia universale dell’Isola di Cipro, in-4. Bologna, 1573.
Angelo Calepio di Cipro, dell’ordine de’ Predicatori e vicario generale in Terrasanta, prigioniero de’ Turchi a Cipro, Vera et fedelissima narratione del successo della espugnatione et defensione del regno di Cipro, ext. in præced.
Gian Pietro Contarini, Historia delle cose successe dal principio della guerra di Cipro, sino alla giornata di Lepanto, in-4. Venezia 1572 e 1645.
Paolo Paruta, cavaliere e procuratore di San Marco, Storia della guerra di Cipro, in-4. Venezia, 1718.
Emilio Maria Manolesso, Historia nova nella quale si contengono tutti i successi della guerra turchesca, in-4. Padova, 1572.
Petrus Bizarus, Cyprium bellum, ext. int. Aulæ Turciæ script. ab Geuffræo et Godeleveo, editos in-8. Basilea, 1577, p. 678.
Antonius Maria Gratianus, De bello Cyprio, libri quinque, in-4. Roma, 1624.
Laderchi, Bzovio, Tarcagnota, Catena, Spondano, Gabussi ed altri.
48. Sereno cit., p. 32 e 54.
Capitan Angelo Maria Gatti da Orvieto. Successi della guerra di Famagosta nell’isola di Cipro, e della presa di essa, Ms. alla Chigiana in Roma, G. IV, 102, ed alla Capponiana e Marucelliana in Firenze. Quivi sono i nomi di più altri capitani statisti.
49. Calepio cit., p. 95, verso, linea 17, 19.
50. Sereno cit., p. 54.
51. Calepio cit., p. 96 e 97.
52. Sereno cit., p. 56.
53. Giannandrea Doria, Primo manifesto al sig. Marcantonio Colonna dato da Secthia li 16 settembre 1570. Arch. Col., t. IV, p. 119. Ed altra copia legata in pelle verde presso don Vincenzo Colonna.
Quivi l’autore medesimo, giustificando la sua condotta, confessa d’aver nel consiglio parlato in questo modo. Il documento si trova nell’Arch. Col. Fu anche pubblicato dal Saggiatore, giornale romano del 1844, t. II, p. 289, come se fosse inedito: ma era per la sua grande importanza publicato già prima da Cesare Campana, Historie del mondo, in-4. Pavia, 1602, t. I, p. 56, come ben avvisano gli editori Cassinesi del Sereno a p. 385, nella nota. Ed io per mostrar la grande importanza che i contemporanei mettevano in questa confessione generale del Doria aggiugnerò essere stato pubblicato pure dal Bosio nella sua storia dei Gerosolimitani più volte citata al t. III, p. 865.
Francesco Longo cit., Arch. Stor. Ital., t. IV, app. p. 19.
Ferrante Caracciolo cit., p. 6.
Sereno cit., p. 67.
Adriani cit., p. 861.
Rosell cit., p. 37 e 38, e 171 e 175.
Arch. Col., t. I, p. 68. Lettera di M. A. al sig. Antonio Tiepolo. Data dalla Sada, 7 settembre 1570: «Il signor Giovanni Andrea teme di noi come dell’inimico.»
E t. II, p. 9, verso il fine: «Il signor Giannandrea non concorreva nè all’uno nè all’altro partito: ma all’andar a far dei danni e pigliar degli schiavi.»
54. Arch. Col. ut supra.
Arch. Cass. ut sup., p. 434, lin. 11.
55. Arch. Col., t. I, p. 79, Parere di Sforza; item, t. III, p. 130, e t. II, p. 10.
56. Marco Antonio Colonna, t. I, Diverse sue Lettere e manifesti conservati nell’Archivio e qualcuno pubblicato dal Saggiatore cit., t. II, p. 294, 336 e 337.
57.
Galere del Papa | 12 |
Del Re | 49 |
Della Signoria | 126 |
Galeone | 1 |
Galeazze | 11 |
Navi | 6 |
205 |
58. Arch. Col., t. I, p. 75.
59. Marcantonio Colonna, Relazione dell’armata al re cattolico, Arch. Col., t. II, p. 158. «Es de notar que los dichos Venecianos estaban con el animo tan impreso que Juan Andrea en esta jornada no tenia voluntad de hacer nada con l’armada de Vuestra Majestad, que el General vino a terminos que dixo a Marcantonio que el queria ofrecer a Juan Andrea, para securidad de su persona y de sus galeras, un deposito de doscientos mil cequines de Venecia: y Marco Antonio lo estorbò que no lo hiciesse, diciendole que se hiciera agravio a la armada de V. M. y a sus Ministros.»
Marcantonio Colonna, Relazione alla Maestà del Re nostro signore di quel che avvenne nell’armata: pubblicato dall’Arch. Cassinese. Appendice al Sereno, p. 435: «Onde mi fu mestieri parlare per togliere le male intelligenze e sì calmai gli animi già troppo annuvolati. Ma non siffattamente che il generale veneziano, come per disprezzo, non offrisse polizze di cento scudi (l’una, sino alla somma di dugentomila zecchini che sono due milioni e mezzo di franchi) con che Giovannandrea potesse soccorrere ai danni che dalla battaglia gli venissero.»
60. Arch. Col., t. I, p. 85, t. II, p. 269, 331 e 380.
Arch. Cassinese ut sup., p. 435. «Giovanni Andrea richiese, tre cose al general veneziano: la prima che desse biscotti ec.»
61. Bosio cit., p. 864, D.
Caracciolo cit., p. 6.
Adriani cit., p. 860.
Sereno cit., p. 67, 68.
Marcantonio Colonna, Manifesto, edito nel Saggiatore cit., t. II, p. 337.
Giovannandrea Doria, Secondo Manifesto nel Saggiatore, t. II, p. 358. Il numero era piuttosto maggiore che minore, e tutti presso a poco concordano: avvertendo che le piccole differenze provenivano dal continuo arrivare e partire, armarsi o disarmarsi di alcuni legni, come suole sempre succedere in grande armata.
62. Se ne è parlato già sopra alla nota 51: e si osservi come il Codice che riporta detto manifesto è presso Sua Eccellenza Don Vincenzo Colonna, legato in mezza pelle verde, col titolo Manoscritti, t. IV, a p. 119. Indi fu copiato dal Saggiatore.
63. Arch., presso S. E. Don Vincenzo Colonna, volume legato in mezza pelle verde, col titolo Manoscritti, t. IV, p. 127; di qui fu copiato e pubblicato dal Saggiatore, t. II, p. 336.
64. Navi da carico usate dai Veneziani e dai Levantini.
Il Saggiatore legge con tibazzi. Laddove l’originale dice xiv schirazzi.
65. Questo disse Marcantonio per modestia (si veda la nota 4), e per fare intendere copertamente a Giannandrea che da lui si fosse lasciato sempre guidare, come da maestro di pratica marineria, conforme alle istruzioni ricevute nella lettera del re, prodotta sopra alla nota 21.
66. Sereno cit., p. 68.
Paruta cit., p. 115. Queste quattordici navi sono nel manifesto di Marcantonio chiamate schirazzi, mettendosi là il genere e qua la specie per la cosa medesima.
67. Andreas Maurocenus cit., p. 366, B.
Gratianus cit., p. 61: «Auria quo Columnæ æquari videretur idem in sua navi per noctem lumen ardere voluit.... tamen Columnæ animum tam contumax dignitatis suæ contentio incredibiliter urebat: quamquam eam injuriam insigni moderatione, rei publicæ condonare se, Venetis rem acclamantibus, respondebat.»
Arch. Col., t. II, p. 258.
68. L. S. Baudin, Manuel du pilote de la mer méditerranée, in-8. Tolone, 1833, t. II, p. 382.
Magloire de Flotte d’Argençon.
Joseph Le Roux, Cartes Hydrographiques.
Cav. Opizio Guidotti, logotenente generale delle galere del Papa nel 1622: Portolano ms. nell’Arch. Col., segnato Armata navale, nº 79, p. 84: «Il Caccamo è un freo che dura da quattro miglia e corre da Ponente a Levante, e dalla banda di Ponente vi sono due bocche: la prima è netta; la seconda ha una brutta seccha la quale non veglia, e nell’entrare ti resta a banda sinistra che vi è sicuro cammino. E quando sarai dentro, darai fondo a 30 passa, e darai li provesi a certi scogliotti, starai sicuro. All’isola di fuori per mezzogiorno vi è un porto per Galere, il quale si domanda porto Caracollo; e quando ci sei dentro, no vedi da qual banda tu ci sia intrato. Dentro al detto freo del Caccamo ci sono parecchi altri porti per vascelli da remo; vi è un molo antico, e tutta l’isola ripiena di case dirupate, e vi sono cisterne d’acqua bonissima.»
69. Paruta cit., p. 116. Quivi egli dice porto Vathi et Calamiti, dei quali non si trova alcun indizio nè tra le carte geografiche antiche e moderne, nè tra i portolani. Ma sapendosi che l’armata procedette dodici miglia a Levante di Castelrosso, non può essere altro quivi che la gran rada di Caccamo. Baudin cit., p. 383.
Andreas Maurocenus, Hist. venet., in-fol. Venezia, 1615, p. 375: «Venetæ et Pontificiæ triremes portum Vathim inter continentem et Chelidonias cæpere. Eumdem occupare quoque Auriam potuisse fertur, nisi aperto mari detineri ea nocte maluisset, non absque periculo ut infensiore vento in Occidentem abstractus, nostros deserere cogeretur.»
70. Sereno cit., p. 61 e 62.
Longo cit., p. 18.
M. A. Colonna, Discorso e Manifesto, come alle note 54 e 59.
73. Lafuente cit., t. XIII, p. 498 e 502 nel testo e nelle note procaccia per via di sentenze, scusar Giannandrea; confessa però che «Juan Andrea Doria tuvo que hacer una justificacion publica con la qual quedan desvanecidos los cargos que en algunas historias italianas se leen contra esta conducta del gefe de la armada auxiliar espanòla.» Vedremo appresso anche altri fatti, ed il giudizio che ne dette san Pio.
Rosell, Memoria sobre el combate naval de Lepanto premiada por la real Academia de la historia en el certamen de 1853, in-8. Madrid, 1853. Imprenta de la Real Accademia, p. 171 a 180. Quivi si riproducono i pareri, giustificazioni e manifesti di Giovannandrea già prima pubblicati dal Saggiatore e da altri. Tali documenti non che discolparne l’autore, contengono quel che potrebbe chiamarsi la confessione generale delle sue colpe fatta per bocca sua e sottoscritta di sua mano.
74. Arch. Col., t. II, p. 259 e 382.
Marcantonio Colonna, Relazione al Re di Spagna, app. al Sereno cit., p. 436 e 437. Suo parere, t. II, 477, 479 e 520.
Giovanni Andrea Doria: Secondo Manifesto del 5 ottobre, pubblicato dal Saggiatore cit., t. II, p. 360.
Codice presso don Vincenzo Colonna, t. IV, 131.
Rosell cit., 43, pare che contradica al documento che egli stesso pubblica a p. 176, col. 2ª, linea 11ª, laddove Giannandrea scrive così: «Conchiusi che avrei tenuto che fosse stato molto più facile far qualche buon effetto nella Morèa, verso Castelnuovo, Durazzo, la Vallona ed altri luoghi di quella costa, come in parte più vicina, et nella quale ... io ancora avrei potuto trattenermi di più.»
75. Marcantonio Colonna, Informazione di quanto è successo all’armata l’anno 1570. Mss. Colonnesi. — Saggiatore, t. III, p. 30.
Giannandrea Doria, nel secondo Manifesto di Candia, 5 ottobre 1570. Arch. Col., pubblicato dal Saggiatore cit., t. II, p. 363. Il dialogo che io qui metto non è di mia fattura: ma traggo le parole da questo documento, col quale concordano gli storici: e ne cito
Francesco Longo cit., p. 20.
Natal Conti cit., p. 89.
Sereno cit., p. 69.
Mambrino Roseo cit., p. 370.
Foresti cit., t. XII, p. 10 a 13.
Il Documento qui appresso alla nota 75.
76. Principalmente la lettera pubblicata da me alla nota 21.
77. Luis Cabrera, Vida de Felipe II, in-fol. Madrid, 1619, p. 653.
Modesto Lafuente cit., t. XIII, 497. Racconta il fatto, i dissapori, la rottura, come se fossero colpa di tutti e non di chi l’avea causata.
Cayetano Rosell cit., p. 44: «Esto confirma que las tres potencias unidas obraron sin reciproco accuerdo, que cada qual pretendiò ser independiente, y aun sobreponerse a los otos dos, y que en los titulos e instrucciones dadas a sus generales no se precavieron las difficultades que pudieran originarse de aquellas emulaciones.»
Whillam H. Prescott cit., t. III, 251: «No one had authority enough to enforce compliance whit his own opinion. The dispute ended in a rupture. The expedition whas abandoned; and the several commanders returned home with their squadrons without having struck blow for the cause.»
Si noti che chiunque ha scritto sulle carte spagnole, non potendo pigliar per sè la ragione, si contenta di levarla agli altri. Non fu mancanza d’accordo, nè difetto di autorità, nè gelosia dei generali di Venezia e di Roma, ma gli ordini secreti e contraddittori, del Re di Spagna a Giannandrea.
78. Fede di Sforza Palloncino e di Giacopo Celsi, di quel che avvenne tra M. A. Colonna e Giannandrea Doria il di 26 settembre 1570 all’Isola di Tristamo. — Arch. Col., Armata navale, Carte sciolte, nº 99.
«Essendo stati ricercati dall’Illustrissimo signor Marc’Antonio Colonna Generale di Santa Chiesa noi Sforza Pallavicino marchese di Cortemaggiore et governator generale dell’armi del serenissimo Dominio Veneto, et Giacomo Celsi provveditor dell’armata di esso serenissimo Dominio che siamo contenti di far fede in scrittura di quanta hieri passò fra sua Signoria eccellentissima et l’illustrissimo signor Giovann’Andrea Doria nel pizzuolo dell’eccellentissimo Generale nostro d’intorno alla proposta che esso signor Giovann’Andrea fece a detto eccellentissimo Generale nostro alla nostra presenza di volersene andare: nè potendo noi mancare di riferir la verità come siamo obbligati, diciamo che a noi pare d’haver inteso et di ricordarci che la sostanza di questo successo sia tale. Che havendo detto signor Giovann’Andrea proposto che, poichè credeva che per hora non si haveva d’andar a trovar l’armata nemica nè da far altro, dovendo egli andare a svernare tanto lontano, desiderava di partirsi et andare al suo diritto cammino; al che l’eccellentissimo Generale nostro rispose che poteva sua Signoria far quello che voleva; ma che li saria ben gran commodo et che ne la pregava d’andar di compagnia sino al Zante dove saria provvisto all’armata di biscotto: et ciò per il dubbio che poteva esserci che l’armata nemica non ci venisse alla coda et non ci facesse qualche danno per trovarsi buona parte dell’armata nostra in non molto buon termine per esserci alcune galee deboli et per doversi anco lasciare la maggior parte dei soldati d’essa armata in Candia. Il detto signor Giovann’Andrea replicò che non bisognava, et che l’armata nemica non vanirebbe. Et io Sforza Pallauicino dissi ad esso signore ch’el s’era già contentato di star tutto questo mese andandosi in Cipro et che del mese ne restavano quattro giorni et quelli di più che s’havesse a tardar nel ritorno, et che questo che se li domandava era meno; poichè soli doi giorni si fermerebbe in Candia per dar ordine alla difesa di quell’Isola. Et che siccome sua Maestà cattolica aveva mandato sua Eccellenza con questa armata per la conservatione delle cose di questo serenissimo Dominio, ancorchè non si fosse potuto conservar Nicosia, si haveva a credere che non li saria men caro che sua Eccellenza ajutasse la conservatione di questa armata. Alle quali cose il detto signor Giovann’Andrea non cessò di replicare con molte parole. Allora poi il signor Marc’Antonio disse: Il signor Giovann’Andrea ha fatto tanto sin hora; non mancarà in quello sarà possibile, nè ci sarà scarso di doi giorni. Il signor Giovann’Andrea replicò che esso sapeva molto bene gli ordini ch’havea da sua Maestà cattolica el che però faria quel che meglio li paresse per conservatione di quest’armata. Il signor Marcantonio soggiunse che sapeva che sua Maestà li commanda che egli li possa ordinare quello che conviene al suo servitio; et che se sua Maestà havesse commandato a lui che l’ubbidisse lo farebbe volentieri, et lo farà sempre che glielo commanderà. Replicò il signor Giovann’Andrea che non lo haveva per generale di sua Maestà cattolica, la qual non commandava questo, ma diceva come ad uomo del Papa; et che facesse portar la lettera. Il signor Marc’Antonio fece portare et leggere la lettera, et disse, che non credeva che sua Maestà havesse ordinato questo, come se il Papa ci havesse messo un Vescovo o un Patriarca a’ quali si sogliono dar questi honori; ma che essendosi sua Santità servito di lui, sua Maestà havesse voluto confidar questo carico ancora nella sua persona: et che se per avventura egli havesse altro ordine in contrario lo mostrasse. Alle quali cose il signor Giovann’Andrea rispose con molte parole, et in somma concluse che havrebbe fatto quello che li fosse parso meglio dell’armata di sua Maestà cattolica nella quale lui solo ci haveva l’autorità. Il Signor Marcantonio disse che haveva questo per bene, che egli commandasse tutta l’armata di sua Maestà, et che a lui bastava ordinarli quello che havesse giudicato servitio di detta Maestà; et se non l’havesse voluto fare non lo facesse: et che lui havria ben potuto commandare al Signor Marchese di Torremaggiore et a tutte le sue genti che così lo commandava l’illustrissimo Vicerè di Napoli, et che non l’haveva fatto perchè gli era bastato haver ordinato a lui quanto gli era occorso. Replicò il signor Giovann’Andrea che il Marchese non havria fatto quello che esso signor Marc’Antonio gli havesse commandato, ma quello che gli havesse commesso lui solo. In questo disse il signor don Carlo Davalos, che si trovava presente, che nè lui manco haveria obbedito il signor Marc’Antonio, ma sì bene il Signor Giovann’Andrea, et che lui ancora havea pur gente in quell’armata. Il signor Marc’Antonio li disse che non dovea parlar così con un suo fratello maggiore, che voleva che sapesse che havea commandato a maggiori huomini di lui. Il signor Giovann’Andrea ordinò al detto signor Carlo che se ne andasse; et lui se ne andò. Tornando a dire il signor Giovann’Andrea che esso farà quanto li fosse parso meglio, et che sapeva gli ordini di sua Maestà. Il signor Marc’Antonio li replicò, che poichè egli voleva far quel che gli pareva, et esso non lo poteva sforzare, che lui si liberava da questo carico, et che se ne resteria coll’armata di questo serenissimo Dominio solo come homo di sua Santità: et che il signor Giovann’Andrea facesse quello che meglio li paresse. Et li disse ancora che dovea cavar dalla sua galea et dall’armata di sua Maestà il signor don Carlo per haverli parlato con tanto poco rispetto. Al che esso Signor Giovann’Andrea rispose che faria quanto dovea.
»Et questa è la sustanza di quello che a noi pare di haver inteso, et di recordarci (come dicemmo di sopra) di questo successo: il quale forse è passato con qualche altre parole di più che noi o non abbiamo udite o non ne sono restate così bene a memoria.
»In fede di che, ec.
»Di Galea, alli XXVIJ di settembre MDLXX.
»Sforza Pallavicino. (Firma autografa.)
»Jacomo Celsi, Provveditor dell’Armata. (Firma autografa.)
» Io Domenico Vico secretario coll’Eccellentissimo Signor Capitano Generale dell’armata della Serenissima Signoria di Venetia fui presente et mi sottoscrivo alla soprascritta scrittura d’ordine di Sua Eccellenza.»
79. Arch. Col., t. I, p. 76. (Firma originale.)
Saggiatore, Copia pubblicata nel t. III, p. 170.
80. Vedi appresso la nota 81, e quelle del lib. II, sul generalato.
81. Marcantonio Colonna, Informazione di quel ch’è successo all’armata ec. Ms. colonnese pubblicato pur dal Saggiatore cit., t. III, p 30, linea 20.
82. Marcantonio Colonna, Relazione al Re di Spagna data dal porto di Tristamo il 1º ottobre 1570, pubblicata ancora dai Cassinesi in appendice al Sereno cit., p. 437, linea 11 e 28.
Arch. Col., Relazione storica di questi fatti, t. II, p. 259, b. in med.
Item, t. II, p. 471, noterella: «E tutto questo nasceva per il desiderio che haveva di pigliar gente nell’Arcipelago, che pur sono christiani.»
83. Giannandrea Doria, Manifesto secondo dato da Candia il 5 ottobre 1570. — Pubblicato dal Saggiatore, t. II, p. 362 e 364.
84. «S. D. N. D. Pii Pp. V. Præceptum quod Christiani apud Turcas servi reperti, libere cum bonis suis abire permittantur.» Pius Papa V.
»Motu-proprio etc. Licet omnibus notissimum sit bellum hoc quod cum impio Turcarum tyramno geritur, non ea tantum de causa geri, ut imminens ab illius viribus nobis periculum dimoveamus, sed ut etiam plurima Christianorum millia, quæ sub dira illius tyramnide servilem ac miserabilem vitam ducunt, in libertatem, ac ad Christi nomen libere profitendum, ac excolendum vindicemus; non defuerunt tamen qui christianæ fraternitatis obliti, loca Turcarum hostium nostrorum invadentes, Christianos ibidem repertos in servitutem redegerunt, bonis ac fortunis spoliarunt, triremibus alligarunt, ac taleam imposuerunt. Quo fit ut Christi sanguine redempti, qui cumulatis votis Christianorum adventum, et victoriam exoptaverunt, ea a victoribus fratribus suis patiantur, quibus paulo pejora a Turcis expectare potuissent. Nos igitur ejus locum licet immerito tenentes in terris, qui de Cœlo ad liberandum nos venit, ut de manu inimicorum nostrorum liberati deinceps sine timore serviamus illi, verentes ne si iniunctæ nobis ab eo erga filios nostros caritatis et dilectionis immemores simus, ipsius omnipotentis Dei contra Nos Classemque nostram iram provocemus, malis hujusmodi obviare cupientes tenore præsentium decernimus et mandamus ut nullus deinceps sive sacri fœderis miles, sive alius Christianos capiat, aut præter eorum voluntatem, etiam data mercede, remigare cogat, taleam imponat, aut ejus bona diripiat: quinimmo fraterne et amicabiliter ut christianam pietatem decet, tractet, ac libere cum liberis, conjugibus, bonis abire permittat. Illos autem omnes et singulos qui huic constitutioni contraire præsumpserint, declaramus ipso facto in pœnam excomunicationis latæ sententiæ incidisse, a qua non possint nisi a Nobis aut a Successoribus nostris, præter quam in mortis articulo, absolvi: et ulterius volumus eos a superioribus suis ad quos spectabit, severe et graviter juxta contraventionis qualitatem puniri. Mandantes omnibus et singulis tam ipsius classis, quam locorum ipsorum superioribus quibus spectat, et in futurum spectabit ut pro quanto student divinam gratiam, nostramque benevolentiam promereri, hoc Nostrum, immo vero potius Dominicum præceptum et mandatum in locis suæ jurisditionis, sive iis ad quæ christianos principum fœderatorum Præfectos tam generales quam particulares appellere contigerit, ea lingua cujus ejus loci habitatores intelligentes fuerint, et in ipsa etiam Classe publice æditæ, affigi, et sub pœnis sibi bene visis faciant ab omnibus inviolabiliter observari ut, a Deo opt. max. præmia æterna et a nobis de re diligenter gesta laudem reportare mereantur.
»Volumus autem ut præsentis nostri Motus-proprii sola signatura sufficiat, et ubique fidem faciat in judicio et extra, quacumque regula seu constitutione apostolica contraria non obstante: quodque illius exempla etiam impressa edantur, eaque Notarii publici manu, et cujuscumque Curiæ ecclesiasticæ, aut Prælati sigillo obsignata, eandem prorsus fidem ubique faciant, quam ipse præsens Motus-proprius faceret, si esset exhibitus, vel ostensus. Contrariis non obstantibus quibuscumque. — Placet Motu-proprio M.
»Romæ apud Hæredes Antonii Bladii impressores Camerales.»
Biblioteca Casanat., Collezione di Bolle, Editti ec., t. I, nº 4. — Per errore del legatore messo all’anno 1567.
85. Coleccion de Documentos cit., t. III, p. 184. Cedula de Felipe II declarando que Juan Andrea deberà preceder i mandar a los generales de Napoles, Sicilia y España. Data del 1 maggio 1571.
86. Francesco Longo cit., p. 20. «Il Cardinal Morone diceva: Piacesse a Dio che Giannandrea non si fosse mai congiunto coi Veneziani: perchè ha fatto più male che bene.»
87. Francesco Longo cit., p. 21.
88. Antonio de Herrera, Historia general del mundo, in-4. Vaglialodi, 1606, par. Iª, p. 801, col. 1 in fine: «Marco Antonio embiò adelante a Pompeo Colonna que era su lugarteniente, a dar cuenta al Papa de lo que havia pasado: de que pesò al Pontifice, y se quexò al Rey catolico del principe Doria.»
89. Laderchi, Ann. Eccles. post Baronium, t. III, p 53. Quivi è il Breve di san Pio a Filippo II, di credenza piena alle parole di Pompeo Colonna, latore del medesimo: pregando Sua Maestà che «Loquenti Pompeio eamdem fidem adhibeat quam nobis ipsis, si cum eo præsentes loqueremur.»
90. Arch. Col., t. II, p. 288, b. lin. 21; e p. 260, b. lin. 4.
Cabrera cit, p. 654 col I, B: «El Doria embiò a disculparse con el Pontefice de las caluñias del Colona i fue a España a tratar de lo sucedido en a quel verano, i responder a las quexas de Pio V.» Buono che riconosce le lagnanze del Pontefice, e bisogna ringraziarlo che non le abbia pur chiamate calunnie di san Pio come le chiamò calunnie di Marcantonio.
Meglio procede il Rosell cit., p. 45, nota 40: «Se ha tenido hasta ahora por un echo inegable, en que convienen casì todos los escritores que Doria procediò en el mando de nuestra expedicion auxiliar de Chipre, cuando menos con indolencia.... pero España hizo entonces a favor de Venecia quanto podia, y que sobre les gefes que mandaban sus esquadras, o sobre su gobierno deben recaer las culpas.»
91. Miguel de Cervantes, Don Quixote, libro IV, capit. 39, in-8. Amberes, 1683, t. 1, p. 451: «Se desengaño el mundo i todas las naciones del error en que estavan, creyendo que los Turcos eran invencibles por la mar.» Questa paura dei Turchi finì quando fu vinta la battaglia di Lepanto: ma prima durava per la vergognosa fuga del principe Andrea Doria alla Prevesa, per la imbecillità del duca di Medinaceli alle Gerbe, per la lentezza del don Garzia di Toledo a Malta, e pei fatti di Giannandrea a Cipro. Tutti effetti della istessa politica della corte di Spagna.
92. Laderchi cit., t. III, p. 47 ...: «Uterque tamen, Gratianus scilicet et Maurocenus cum scriptoribus cœteris, Pontificiæ classis præfecto Columnæ egregium perhibent testimonium, quod non minus consilio quam animi moderatione publicæ utilitati prospexerit.»
Item, p. 53: «Cumque Marcus Antonius omnia muneris sui officia venetis ipsis comulate persolvisset ab eis discessit, ingentes gratias ipsi et Pontifici agentibus ob egregiam novatam operam et fidem et constantiam ad extremum præstitam.»
93. Rosel. cit., Documento, p. 117, col. II, lin. 42, e p. 179, col. II, lin. 39, opposto a quel che si legge a p. 45, lin. 15.
Saggiatore cit., t. II, p. 362 e p. 364.
94. Marco Antonio Colona, Carta a la Majestad del rey Catolico «En toda esta jornada M. Antonio non ha tenido en fin niuguna diferencia con Juan Andrea de que a el se le diesse nada; sino per estas dos causas: la una de que no entendissen jamas los principes del mundo que V. M. huviese dado ordenes contrarias por un mismo negocio, como no las ha dado; y la otra, que teniendo el la misma voluntad, y deseo que habia Juan Andrea por la conservacion de la armada de V. M. se havia de hacer de que se conservase tambien la reputacion de ella; y que en ningun tiempo se pudiese dar tacha a los ministros de V. M. de haber dexado de ayudar y favorecer una causa tan cristiana como esta. Esta es la sumaria relacion i sustancia de lo que se ha pasado; y aunque bien s’entiende que semejantes platicas se pueden adobar y colorar con muchas palabras y colores, todavia a M. Antonio ha parecido con su Rey y señor hablar desnudamente la pura verdad con pocas i verdaderas palabras.» Arch. Col., t. II, p. 159.
Si veda pure la nota nº 37, e più altre di questo Libro.
96. Ubertus Folietta, De sacro fœdere, ap. Burmann. in Thesaur., t. I, p. 995: «Cæterum breve illud iter in Italiam ita infestum fuit ut nemo in multorum annorum longissimis itineribus pluribus asperitatibus conflictatus aut atrocioribus casibus jactatus fuerit: nullumque fuerit genus pestis a cœlo, a ventis, a tempestatibus, ab undis, ab igne, ab hominibus cui prope non fuerit.»
Andreas Maurocenus, Hist. Venet., lib. VIII, in-4. Venezia, 1719, t. II, p. 332 e 333.
Paolo Paruta, La guerra di Cipro, in-4. Venezia, 1718, p. 135.
Arch. Col., t. II, p. 260.
97. Archivio de’ Massimi in Roma. Il testamento è fatto in Roma l’anno 1570 prima che Domenico partisse per l’armata, il codicillo in Lecce. L’originale è presso S. E. il principe D. Camillo Massimo nell’Arch. segnato Armadio A, mazzo E, numero 24; che per gentilezza di esso signore ho copiato, e conservo presso di me.
98. Le fregate nel secolo decimosesto erano battelletti velocissimi a vela e a remo, di che i capitani usavano per trascorrere dall’una all’altra galera, per far le scoperte, praticare in terra e cose simili. Quella di Domenico de’ Massimi non poteva valer più, come egli ne dice, che cinquanta o sessanta scudi. A poco a poco questa maniera di bastimenti, ritenendo sempre l’istesso nome ed ufficio, è stata ingrandita in quel modo che tutti or sanno.
99. Galletti, Iscript., Rom., Class. X, nº 22. Quindi erra il Litta che lo pone alla battaglia di Lepanto, essendo morto un anno prima nel ritornare dalla guerra di Cipro. Nel vero il suo nome non si trova più nei codici Colonnesi dopo il 4 decembre 1570, giorno della sua morte; e la sua donna Vittoria Naro nel 1571 era già passata all’altre nozze.
100. Molti hanno parlato e più cose si son dette della quadrireme costruita a Venezia dal Fausto. Il professore Stratico ed il barone Parrilli devono dirne qualcosa ne’ loro Vocabolari di Marina: certamente ne parla A. Jal nel Dizionario poliglotto di Marina, e nella Archeologia navale. Che la quadrireme del Fausto fosse dai Veneziani tenuta molti anni nell’arsenale, e tratta fuori nel 1570 per Capitana di M. A. Colonna si prova con la testimonianza citata alla nota 17, e con molti riscontri dell’Archivio colonnese: ma ora non li ho a mano. Sono certo che la detta galea, comechè di primaria grandezza, non era a quattro ordini di remi quando l’ebbe M. A.; ma a un ordine solo, sopra un solo posticcio, come tutte le altre. Il numero unito al nome non prova altro nella bireme, trireme e quadrireme se non la maggiore o minore grandezza. Che se la galea del Fausto avesse avuto quel miracolo di quattro ordini, nè i codici colonnesi l’avrebber taciuto, nè io mancato di appuntarmelo.
101. Arch. Col., t. II, p. 384.
Bosio cit., p. 870.
Contarini cit., p. 21.
Sereno cit., p. 72.
Morosini cit., p 332.
Paruta cit., p. 135.
102. Arch. Col., t. II, p. 288.
Questo termine non faccia ombrar niuno, perchè si usava nella marina italiana del secolo XVI. L’ho tratto dai codici Colonnesi. Si accosta molto all’indole della nostra lingua, e può esser grande il bisogno di usarlo in marina.
103. Arch. Col. cit., t. II. Da molte lettere e dalle due relazioni poste in principio, e nel mezzo di detto tomo a p. 288 e 289.
104. Sereno cit., p. 333.
Cabrera, Don Felipe II, Rey d’España, in-fol. Madrid, 1619, p 747.
Lafuente cit., t. XIII, p. 534.
105. Pii Papæ V, Allocutio habita in Palatio Apostolico Vaticano coram oratoribus Serenissimi Regis catholici et Illustrissimi Domini Veneti pro fœdere, Ap. Laderchi, Ann. eccl. cit., p. 55.
Gabutius, Vita Pii V, in-fol. Roma, 1605, p. 130.
106. Du Mont., Corps diplomatique, in-fol. All’Aja, 1728, t. V, P. I, p. 184.
Luinig, Codex Italiæ diplomaticus, in-fol. Francoforte e Lipsia, 1735, t. IV, p. 262 e 305.
Comin Ventura, Tesoro politico, in-4. Milano, 1600, t. I, p. 510.
Michele Soriano, Negotiato et conclusione di Lega contro il Turco; tra Pio V, Re cattolico, et Signoria di Venetia: l’anno 1570 e 1571, app. al Sereno cit., p. 392.
107. Soriano cit., seconda edizione dei Cassinesi, p. 391, lin. 30: «Dipoi fu detto da Granuela che saria stato conveniente che fossero mandati al Re li partiti che s’avevano da proporre, perchè averia potuto dar ordine più risoluto, ma che loro dariano a sentir quello che gli fosse domandato et responderiano.»
Lafuente cit., t. XIII, p. 486: «Viose diesde luego lo dificil que era traer a comun acuerdo potencias que obraban impulsadas por diversos interesses y fines. Las dificultades nacian principalmente de la republica de Venecia, que en vez de pedir, puesto que era la mas directamente interessada y habia de ser la mas favorecida, aspiraba a imponer condiciones.»
Lorenzo Vander-Hammen y Leon, Vida de don Juan de Austria, in-4. Madrid, 1627, p. 146: «Esperaban los del rey catolico que los Venecianos pidiessen.... ellos por contrario no querian humiliarse a nada.»
Cabrera, Vida de Felipe II, in-fol. Madrid, 1619, p. 666.
Rosell cit., p. 50: «Para dar principio a las discussiones aguardaron a que el embajador veneciano hiciesse sus peticiones en forma.» Vedi appresso nota 7.
108. Arch. Secret. Vaticano, Plenipotenze, Congregazioni e Scritture della Lega tra i principi contro il Turco, C. 33. Quivi è la predetta bozza dei capitoli, postillati di mano di san Pio.
Arch. Secret. Vatic., De fœdere et speditione Classis Pii Papæ V. 143, p. 24 a 29.
Morosini, Hist. venet., cit. p. 336.
109. Soriano, edit. cit., p. 404, lin. 4, et p. 413, lin. 33.
110. Arch. Col., t. II, p. 260.
Soriano cit., p. 411 in fine.
Paruta cit., p. 127.
Antonio de Herrera, Historia del mundo, quinze años del tiempo del Rey Filipe II, in-4. Vagliadolid, 1605, P. II, p. 2: «Causas per que los Ministros del Rey catolico no querian la liga.»
Luis Cabrera, Vida de Felipe II, in-fol. Madrid, 1619, libro IX, cap. 20, p. 666: «Dificultades en hacer y confluir la Liga.»
Niccolò da Ponte, Orazione contro la Lega, ext. ap. Sereno cit., p. 105.
Arch. Col., t. II, p. 289: «Il Cardinal Granuela aveva negoziato sempre con parole gravide e pregne di significati atti a insospettire, sì perchè è stato ajutato, al solito della sua natione, dalla natura che l’ha aspera et altiera, sì perchè parendoli che i Veneziani venissero alla Lega per necessità e non per virtù avriano sostenuto ogni grave condizione.» E a pag. 290: «Dalle parole e dai modi di Granuela fu giudicato da ognuno che egli non desiderasse la Lega.»
Archivio Centrale di Stato in Firenze. Arch. Mediceo, Vol. 4903. Al granduca Cosimo, cifra del cav. de Nobili suo ambasciatore di Spagna, con la data del 5 Febbraio 1571. «Quanto a la Lega chi la fomentasse non piaceria a costoro (di Spagna) che n’hanno poca voglia.... La perdita di Cipro, et l’alterazione che possino avere i Vinitiani in Levante costoro non la sentano.... Et se quella Repubblica havrà travaglio manco hanno da temere.»
Cardinale M. A. Colonna, Lettera al reverendissimo padre Francesco Borgia, con minuti ragguagli delle arti indegne usate dai ministri spagnoli. La publicherò: importantissima scrittura di quattordici pagine.
Si legga inoltre il successo qui appresso del 7 marzo.
111. Sereno, p. 75.
112. Sereno cit., p. 81.
Arch. Col., t. II, p. 260, 261.
113. Arch. Col. cit, t. II, p. 261.
114. Sereno cit., p. 110.
Ibid., App., p. 419.
Du-Mont, cit., t. V, Par. I, p. 203.
Folietta, De sacro fœdere cit., p. 1018.
Maffei, Vita di san Pio V, in-4. Roma, 1712, lib. IV, Cap. VI, p. 281.
Mss. Casanatensi XX, I, 32.
Laderchi Jacobus, Ann. Ecclesiast. continuat., p. 404, 414, ann. 1571.
115. Laderchi cit., ad ann. 1571, p. 396.
Francesco Longo cit.; Arch. Stor. Ital., t. IV, app., p. 22.
Arch. Col., t. II, p. 261.
Sereno cit., p. 89.
Cornelius Firmanus, Magister Cæremoniarum, Ms. Bibl. Chigiana, L. I, 27, p. 201: «Die Mercurii, 7 martii. Sanctissimus Dominus vectus in lectica hora XI, ivit ad Ecclesiam S. M. S. Minervam, audivit missam planam in sacello, deinde expectavit in Conventu donec cardinales accederent, tunc venit ad sacellum, accepit paramenta et cruce ac cardinalibus præcedentibus accessit ad altare.... Completa missa ivit cum cardinalibus ad orandum ante cappellam S. Thomæ, et postea fuit in conventu pro quadam Congregatione.» Cornelio per vergogna non volle dirne di più.
116. Mss. Arch. Secret. Vat., Codice segnato. — Venezia, C. Lettera E, nº 2492, p. 99.
Mss. all’Arch. Secret. Capitolino, Credenza XIV, cod. 8, carte 258.
Arch. Col., t. II, p. 291, 357.
Arch. Generale di Venezia, Ai Frari. Lettera di Michiel Suriano et Giovanni Soranzo ambasciatori al serenissimo principe di Venezia, data da Roma, 8 marzo 1571. Ne ho copia presso di me.
Sereno cit., p. 90.
Lorenzo Vander-Hammen y Leon, Historia de don Juan de Austria, in-4. Madrid, 1627, p. 147: «Los Senadores de Venecia eran alterados con el papel que el cardenal de Granuela dio en la junta proponiendo nuevas condiciones, con poca reputacion de su republica.»
Jacobus Laderchius, Annales Ecclesiastici post Baronium et Raynaldum, p. 397.
Antonius Maria Gratianus, Episcopus Amerinus, De bello Cyprio, in-4. Roma, 1624, p. 115: «Itaque icti re nova Veneti et execrantes tam perfidiosam ludificationem respondent; misi pactis conditionibus stetur Senatum se consulere velle.»
Cabrera, Vida de Filipe II, in-fol. Madrid, 1619, p. 667: «Turbo la junta un papel en que Grunela propuso nuevas condiciones, con poca reputacion de Venecianos, i alterò su republica.»
Lafuente e Rosell tacciono questo fatto del card. Granuela.
117. Gratianus, De bello Cyprio, p. 116: «Ea res Pii pontificis animum vehementer offendit et maxime a Granuellano alienavit, quem ad omnia evertendo, veluti insidiatum publicæ causæ gravissimis verbis objurgatum ab se repulit.»
Del cardinal Granuela e del suo dispotismo parlano in più luoghi gli Annalisti Rainaldo, Laderchi e Theiner, ed i cardinali Bentivoglio e Pallavicino nelle loro Storie e Memorie.
118. Arch. Col., t. II, p. 262: «Et il Pontefice se ne tornò a palagio mal contento.»
Sereno, p. 90: «Et il Papa non senza lacrime e grave afflizione al Palazzo tornossene;» e p. 92: «Il Papa con lacrime e infinito dolore si querelava.»
Laderchi cit., ad ann. 1571, p. 397: «Sed præ aliis inopportunum illud scriptum Pontificis animum vehementer offendit.»
119. Gratianus, De bello Cyprio cit., p. 115: «At Veneti incessantes Hispanorum perfidiam.... tam ancipitis belli cura levare civitatem aliqua pacis conditione cupiebant, animumque a belli consiliis ad paciscendum cum hoste convertere.»
120. Marcantonio Colonna, Orazione al Senato di Venezia per la Lega. Arch Col., t. II, p. 186 e 307. Sono quattro pagine di bozzetto, scritte di sua mano, nelle quali il sentimento procede a salti ed incisi da essere poi spianati e svolti col discorso estemporaneo come si usava a Venezia, e come si deve tenere che Marcantonio abbia fatto. Io pubblico il bozzetto medesimo, come è nel codice, perchè si veda qual fosse il modo suo di argomentare; e non vi introduco se non quanto è necessario per legare i periodi e compiere l’andamento naturale del discorso.
121. Arch. Secret. Vaticano, volume segnato Plenipotenze, Congregazioni e Scritture per la Lega contro i Turchi, C. 33. Atto del dì 11 giugno 1571, dichiarazione di certi articoli e dubbi tra i confederati, dice pure così: «Che fatta dai Generali la rassegna e mostra di tutte le armate, e soldati che sono all’armata; trovandosi che l’illustrissima Signoria di Venezia non abbi nella spedizione di quest’anno più spesa della portione che, secondo la capitulazione della Lega gli tocca, DEBBA PAGARE LI GRANI ET TRATTE CHE HA IN MANO al prezzo che da Sua Santità sarà arbitrato: così di detti grani, come delle tratte di essi. Ma ritrovandosi che l’illustrissima Signoria havesse più spesa della detta sua portione, debba essere rifatta da Sua Maestà Cattolica.»
L’istessa cosa si ripete nel medesimo volume a p. 174.
Arch. Col., t. II, p. 277.
E quivi pure t. I, p. 224, è una lettera di M. A. onde si vede che nel 1572 ai 12 di giugno i grani non erano ancora stati pagati, con gran danno dei particolari: e che M. A. essendo stato di mezzo in questo negozio insisteva col cardinal di Como che si diciferasse il dare e l’avere, e si pagasse a chi di ragione.
122. Arch. Col. cit., t. II, per totum. Confermano brevemente queste notizie gli storici seguenti:
Natal Conti cit., p. 110, B.
Francesco Longo cit., p. 51.
Ferrante Caracciolo cit., p. 8.
Bartolomeo Sereno cit., p.
Lorenzo Vander-Hammen, Historia de don Juan de Austria, in-4. Madrid, 1627, p. 147: «Colona con su eloquencia acabò quanto quiso en el consejo de Venecia.»
123. Cornelius Firmanus, in Diariis Mss., Bibl. Chigiana, L. I, 27, p. 206: «Die Veneris 25 maji in Consistorio Liga conclusa.»
William H. Prescottp, History of the Reign of Philip the second king of Spain, in-8. Londra, 1859, t. III, p. 254.
124. Philippus Bonanni, Numismata Rom. Pontif., in-fol. Roma, 1699, t. I, p 295.
Rodulphinus Venuti, Numism., in-4. Roma, 1744, p. 124 e 125.
— Fœderis. In. Turcas. Sanctio. — Pius. V. Pont. Max. Ann. sal. MDLXXI. — Ve n’ha un’altra medaglia in tutto simile alla presente, salvo che di minor modulo.
Questo stesso concetto ha tenuto Giorgio Vasari nel suo affresco della sala regia al Vaticano, come tuttora vi si vede. Egli stesso ne diè la descrizione in una lettera al principe Francesco di Toscana, data di Roma, 23 febbraio 1572, e pubblicata dal Gaye, Carteggio degli Artisti, in-8. Firenze, 1839-40, t. III, p. 307.
125. Ferdinandus Ughelli, Genealogia nobilium romanorum de Capizucchis, in-fol. Roma, 1653, p. 12.
Arch. Col., t. I, p. 202. V’ha un’altra patente egualmente onorevole per lui.
126. Mss. Colonnesi t. I, p. 118 e seguenti, e t. II, p. 141.
Bartolomeo Sereno, Commentarj della guerra di Cipro e della Lega contro il Turco in-8. Montecassino, 1845, p. 115 e 197; e nel Prologo, p. XVII e XXIV parla di sè stesso.
Nores, Guerra di Paolo IV. Arch. St. It., t. XII, p. 149 del Conte Berardi.
Crispolti, Annali di Perugia, t. II, p. 254, 260. Mss. alla Comunale C. 33.
127. Vedi sopra la nota dei gentiluomini e venturieri postisi nella Compagnia di M. A. Colonna, lib I, nota 13, p. 19.
128. Si veda sopra la nota 18 del Libro I.
129. P. Alberto Guglielmotti, Storia della Marina Pontificia dall’anno 727 al 1500, libri quattro, in-8. Roma, 1856 (pag. XXVIII-522).
130. Questi della famiglia Zane di Bologna, di che parla il Dolfi.
131. Muratori, Annali d’Italia, all’anno 1561.
132. P. Alberto Guglielmotti, I bastioni di Antonio da Sangallo disegnati sul terreno per fortificare e ingrandire Civitavecchia, l’anno 1515. Lettera al chiarissimo signor cavaliere e professore Salvator Betti, in-8. Roma, 1860. Edizione di cento esemplari, estratta dal t. XVII della nuova serie del giornale Arcadico.
133. P. Alberto Guglielmotti, Della rocca d’Ostia, e delle condizioni dell’architettura militare in Italia prima della calata di Carlo VIII, Dissertazione letta in Roma alla Accademia di Archeologia. È agli atti per la stampa.
134. Sul forte di San Michele nella marina d’Ostia copiai alli 3 di maggio 1859 la seguente lapida: «Pius. V. Pont. Max. Et. Benignus. Turrim. Hanc. S. Michaelis. Cum. Aliis. Quindecim. In Lettere. Maris. A. Fundamentis. Erigi. Muniri. Et. Custodiri. Mandavit. Ann. Sal. MDLXVIII.»
135. Sopra Lib. I, cap. III, p. 13.
136. Sotto Lib. II, cap. XVIII in fine, e Lib. III, cap. II.
137. Augustinus Theiner, Ann. ecclesiastici post Baronium etc., in-fol. Roma, 1856, t. I, p. 464.
Arch. Secret. Vat., Armata, cod. 3139, p. 477. Quivi per altra mano fu aggiunto di essere stata la medesima capitolazione rinnovata da Gregorio XIII.
Arch. Col. cit., t. I, p. 114.
138. Il Marchese Antigono Frangipane nella Storia di Civitavecchia alla pag. 153 si dimostra gemello del Saracino d’Ancona (vedi sopra lib. I, cap. III, nota 8). Esso eziandio ignorava le notizie di quella stessa città di che scriveva la storia, e in vece di fatti imbrancava una tirata di congetture sue, tutte vane. Avrebbe egli pur dovuto leggere almeno gli storici stampati, come tra molti basterà citare i seguenti:
Giambattista Adriani, Storia de’ suoi tempi, in-fol. Firenze, 1583, p. 877.
Giorgio Viviano Marchesi, Galeria dell’Onore, in-4. Forlì, 1735, t. II, p. 82.
Avvisi di Roma. Sono gazzette mss. che circolavano nel secolo XVI e XVII, prima delle stampate. Ve ne sono più centinaia di volumi alla Vaticana, dall’anno 1534 fino al 1716; di che mi sono frequentemente giovato. Qui cito il Codice Urbinate 1042, data del 13 giugno 1571.
Arch. Caetani, Lettera di Onorato Caetani al Capocci in Roma, data da Corneto il 13 giugno 1571.
Altra lettera dello stesso al cardinale di Sermoneta, data da Civitavecchia li 21 giugno 1571.
Vedi sopra il documento e la nota nº 34.
139. Arch. Col. cit., t. IV, p 36. Jacometto da Civitavecchia, marinaio premiato da Marcantonio.
Theuli, De romana provincia, in-8. Velletri, 1628, p. 84: ricorda i due capitani Francesco e Gregorio Andreotti di Civitavecchia.
Arch. Col. cit., t. IV, p. 148, nella rassegna fatta in Corfù l’anno 1572 è nominato il capitan Filippo da Civitavecchia, con la sua compagnia di centotrentanove soldati.
140. Sereno cit., p. 118, racconta il fatto delle tre compagnie assoldate dai Veneziani nello Stato papale sotto il colonnello Pompeo Giustini di Città di Castello; una delle quali era del capitan Ascanio di Civitavecchia. Arch. Colonna t. IV, p. 115.
141. Arch. Col. cit., t. II, 60 a 90.
Gian Pietro Contarini cit., p. 37 e seguenti.
Girolamo Catena, Vita di Pio V, in-4. Roma, 1586, p. 319 e seg.
Bartolomeo dal Pozzo, Storia della Religione di Malta, in-4. Verona, 1703, p. 13.
Don Juan de Austria, Orden que la armada de la Santa Liga ha da tener en el caminar. Mss. Casanat., X, VI, 41. post med. — Vi sono nominate al posto loro tutte le galere ed i capitani delle medesime.
Arch. Caetani, Lettera di Muzio Manfredi a Monsignor Peranda in Roma, data da Napoli 24 luglio 1571.
Si noti che il Catena enumera tredici galere, senza nominar l’Elbicina: questa poi è ricordata dai mss. Caetani e Casanatensi, e dal Codice urbinate 1042 della Vaticana sotto la data del 28 agosto 1571: donde risulta il numero totale di quattordici galere. I nomi poi dei capitani sono generalmente da tutti riportati al modo stesso, salvo le continue varianti ortografiche degli Spagnuoli e dei Veneziani; che in vece di scrivere Strozzi alcune volte scrivono Atroci, Caracollo per Caracciolo, Bazza per Baccio, e simili.
142. Arch. Caetani, Lettere di Onorato Caetani, date da Civitavecchia li 14 e 15 giugno 1571. — Grazie all’archivista Carinci.
143. Arch. Col., t. IV, p. 12. — Quivi sono le note di ogni minuta spesa. Eccone un saggio per giorni otto in Civitavecchia.
«A dì 13 giugno 1571. Spese fatte da S. E. al partir di Roma per condurre le robe a Civitavecchia:
Per trentaquattro muli, a doi scudi l’uno Scudi. | 68.— | |
Per trentacinque cavalli. | 55.— | |
Per le casse della Messa e credenza. | 15.50 | |
Per il magnare in Cerveteri. | 12.16 | |
Per il magnare in Civitavecchia il dì 14. | 21.50 | |
alli 15 detto. | 12.27 | |
alli 16 detto. | 13.52 | |
alli 17 detto. | 25.32 | |
alli 18 detto. | 28.32 | |
alli 19 detto. | 33.84 | |
alli 20 detto. | 27.36 | |
alli 21 detto. | 18.09 | |
Per due botti di vino bevute nel sopraddetto. | 27.20 | |
Per quattro some di biada lograte nel detto tempo. | 7.20 | |
Per tredici vitture di cavalli quando s’andò a Corneto. | 3.25 | » |
144. Arch. Gaetani, Lettera di Muzio Manfredi a Monsignor Peranda, data da Civitavecchia a dì 20 giugno 1571.
145. Arch. Caetani, Lettera di Onorato Caetani al cardinale di Sermoneta, da Civitavecchia, 21 giugno 1571.
146. Arch. Caetani, Lettera di Muzio Manfredi a Monsignor Peranda, data da Napoli, 7 luglio 1571.
147. Avvisi di Roma, Cod. urbinate alla Vaticana, 1042, data del 24 giugno 1571.
Sereno cit., p. 116: «Non si potria narrare con quanta festa e allegrezza fosse Marco Antonio Colonna ricevuto a Napoli.»
148. Sereno cit., p. 117.
149. Arch. Col., t. IV, p. 82.
Quivi è la nota origliale dei doni ricevuti da M. A. a Messina, che nella sua ortografia e dialetto presento ai lettori perchè considerino i costumi di quel tempo.
Noterò soltanto che i doni si traevano pubblicamente a processione da gran numero di donzelli in livrea, i quali portavanli sulle stanghe o sopra carri coperti di drappi, di fiori, di targhe e di bandiere: e innanzi a loro i trombatori che bandivano al popolo la magnificenza dei donatori e la dignità degli ospiti che si volevano onorare.
«Memoriale del presente si manda per la città di Messina all’Eccellenza dell’illustrissimo signor Marco Antonio Colonna.
Primo. Confettione blancha, Scatoli dodichi | 12 |
Intorchi de chera biancha mazi dichidotto | 18 |
Candiloni de chera blanca mazi dichidotto | 18 |
Zuccaro fino pani ventiquattro | 24 |
Capponi venticinque | 5 |
Gallini venticinq | 25 |
Galluzzi chento | 100 |
Anatri num. ventiquattro | 4 |
Papari dudichi | 12 |
Galli d’India cinque et una Gallina malta | 6 |
Pavoni, tri mascoli e tri fem | 6 |
Genchi dui | 2 |
Crastati sei | 6 |
Dui Butti di vino | 2 |
Pani blanco, cofini tri | 3 |
Quattro cofini di frutti | 4 |
Uno carrico di nivi | 1 |
»Matthæus Casalayna Secretarius.»
150. Gratianus, De bello Cyprio cit., p. 154: «Interea dum Christiani jungendis fœderibus altercandoque de singulis tempus terunt, Turcæ, ingenti confecta classe, Venetorum insulas orasque maritimas immaniter vastabant.»
Rosell cit., p. 63: «Selim justò a sus capitanes que no estuviesen ociosos un solo dia: por lo que echaron a tierra soldados a Candia.... arrasaron pueblos ec.»
151. Natal Conti, Storia de’ suoi tempi, volgarizzata dal Saraceni, in-4. Venezia, 1579, t. II, p. 72: «Sebastiano Veniero uomo di chiaro e prestante ingegno (quantunque nelle cose forensi piuttosto che nelle militari controversie esercitato)»
Gratianus cit., p. 104 et 139: «Prima ætas ejus expers honorum fuit; causas mercede aclitavit. Parta re, privatis omissis causis, magistratus urbanos cœpit. Militari potius animo inter cives, quam peritus militiæ usu aut scientia ulla. Concitus atque audax; inimicitias rixasque et ipse exercuit, et alienis se miscuit; in quibus et accepit vulnera haud indecora, et fecit.»
152. Arch. Col. cit.
Arch. Caetani cit., Lettera di Muzio Manfredi a Monsignor Gianfrancesco Peranda, data da Messina, li 24 luglio 1571.
153. Arch. Caetani cit., Lettera 24 luglio.
154. Sereno cit., p. 130 e 134: «Il Veniero, che non poco dubitava dell’animo del re di Spagna, cominciò a dire.... che avrebbe procurato di far da sè.»
155. Arch. Caetani cit., Lettera di Onorato al Cardinale di Sermoneta, data da Messina 30 luglio 1571.
Sereno, p. 130.
Arch. Col., Lettera di M. A. al cardinale Spinosa in Spagna, data da Messina 25 agosto 1571, t. I, p. 152.
156. Arch Caetani cit., Lettera di Onorato al Cardinal di Sermoneta, da Messina, 6 agosto e 6 settembre 1571.
157. Sereno cit., p. 133.
158. Bartolomeo Sereno, pag. 118.
Arch Caetani cit., Lettera di Onorato al Cardinale di Sermoneta, data da Messina 10 agosto 1571.
Rosell cit., p 79. Si noti che il tumulto successe alli 7 di agosto: la lettera del Gaetani, che ne parla, è delli 10: don Giovanni arrivò a Messina, alli 23: onde non fu frenato da don Giovanni, ma da Marcantonio.
159. Laderchi cit., p. 480: «Columna vero et Venerius interim in Sicilia cladium Dalmatiæ spectatores Joannem Austrium expectabant.... Quod Pius moleste ferens, ut Joannes maturaret summum studium adhibuit, ad eumque sollicitandum literas et nuncios misit.»
160. Sereno cit., p. 132. — Quando passavano armi spagnole tremavano le piccole potenze italiane. Che lode! che lega!
Jean de Ferreras, Histoire générale d’Espagne, in-4. Parigi, 1571, t. X, p. 250: «Don Juan d’Autriche arriva heureusement le vingt-six juillet à Gênes, où cette République le reçut avec beaucoup de magnificence, quoique avec quelque crainte.»
Rosell cit., p. 78: «Refieren que toda Italia se sobresaltò con la venida de don Juan, temerosa de su opresion y ruina.»
161. Rosell cit., p. 73: «El Rey mismo se felicitaba de que occupase el lugar supremo una persona allegada a si; que siendo por otra parte echura suya, y docil a su voluntad, en nada se excederia.» Idem, p. 83, e a p. 54: «Don Juan no era dueño ni aun del titulo que se le daba, su voluntad su mismo ser dependian del Rey a quien amaba como hijo, y obedecia como vassallo.»
Famiano Strada, Hist. Belg., in-fol. Roma, 1632, t. I, p. 364. Don Giovanni nato a’ 24 febbraio 1545.
Prescott, III, 103, a’ 24 febbr. 1547.
Altri più variano.
162. Sereno cit., p. 132, 133 e 134.
Caracciolo cit, p 64 e 99.
Rosell cit., p. 83, lin. 15.
Theiner, Ann. eccl., t. I, p. 481, col. 2, lin. 20 a 36.
Collecion de Documentos cit., t. III, p. 357. Carta del Rey a don Garcia de Toledo, e p. 185. Carta de Rey a don Juan para que embarque y lleve con sigo a don Pedro Francisco Doria pora que asista cerca de el como uno de las demas consejeros. V. Lib. III, nota 100.
Prescott cit., t. III, p. 269, 270. Confonde i tre consigli che erano all’armata: uno deliberativo, secondo i capitoli, composto di tre persone Don Giovanni, Marcantonio e Veniero, in guisa che i due dovevano far legge al terzo: uno consultivo, al quale per convenienza si chiamavano tutti i comandanti superiori per udirne il parere: uno abusivo di soli Spagnoli e partigiani messo dal Re per tenere a freno don Giovanni, e con lui eziandio i Veneziani e i papalini. Fatto questo preambolo, e levati gli equivoci, rimane che a rispetto di quest’ultimo consiglio: «Had been strenously urged on him by the king ever afraid of his brother’s impetuosity.» Anche a san Pio dispiaceva questo consiglio privato «di che soltanto il Papa temeva» come dice il Sereno, 155.
163. Arch. Caetani, Antonii cardinalis Granuellani epistola Pio V P. M. L’autografo latino mi fu gentilmente mostrato dal riverito duca di Sermoneta, don Michelangelo Caetani, noto ai cultori de’ buoni studi, il dì 23 novembre 1855. Ne ho copia presso di me.
164. Arch. Caetani cit., Lettera del Signor Onorato al Cardinale di Sermoneta, data da Messina il 24 agosto 1571.
Sereno cit., p. 136.
Si noti che il re Filippo, geloso di questo suo fratello, non voleva che gli si desse titolo di Altezza, ma solo di Eccellenza: nondimeno quasi tutti, meno i ministri e il vicerè, trattavanlo d’Altezza come si vedrà per continui documenti.
Lafuente cit., t. XIII, p. 529 e 530.
Rosell, p. 73.
165. Vedi sopra, lib. I, nota 87.
Sereno cit., p. 137, lin. 21, e p. 233, lin. 4: «Anzi quando nella corte di Spagna s’intese la gran vittoria navale, non mancò di quel consiglio chi dicesse che, quantunque bene fosser succedute le cose, era nondimeno degno don Giovanni di severa riprensione; poichè intento solamente alla gloria sua, come giovane troppo volenteroso, non aveva avuto riguardo di porre a rischio tutte le forze che il Re si trovava in mare.»
E p. 142 in fine: «Ma dava cagione di temere l’ostinazione dei consiglieri spagnuoli, che apertamente si facevano intendere che si doveva sfuggir di combattere; di che tante ragioni allegavano, che quando un men risoluto animo di quello di don Giovanni avessero avuto a trattare, senza dubbio avrebber avuto l’intento.»
E p. 144. Altre ragioni dei consiglieri spagnoli contro la battaglia.
E di don Giovanni a p. 277.
E p. 155: «Monsignor Odescalchi fu eletto dal Papa, perchè persuadesse a don Giovanni e al suo consiglio spagnolo, di cui solo il Papa temeva, che a nessun’altra impresa si volgessero le forze che ad espugnar quell’armata con la quale principalmente il Turco nuoceva.»
Caracciolo cit., p. 15, e 22: «Hassi per cosa indubitata che Marcantonio antivedendo le discordie intorno al combattere si fosse fatto fare un motuproprio dal Pontefice, che sotto scomunica non potesse dir altro mai intorno a questo, eccetto che si combattesse: e perciò si scusava con don Giovanni che non poteva per dette ragioni dir altrimenti, benchè tutto ciò tenesse egli segreto con altri, mostrando che nei consigli consultivi avrebbe consentito a quanto don Giovanni li comandava, ma come si veniva nel consiglio decisivo intorno a detta deliberazione, non poteva dir altro che conforme all’ordine del Papa.»
Paolo Paruta, Storia veneziana, in-4. Venezia, 1718, p. 277.
«Perocchè andavano molte voci attorno che alla corte cattolica da persone principali fosse stato biasimato il consiglio di don Giovanni d’arrischiare le forze del Re pari a quelle dei Veneziani: però che dovevano essere le cose di lui maneggiate con diversa ragione e con separati consigli.»
Thuanus cit., lib. 54, nº 21: p. 201: «Felicitas præinopinata et tanta victoria tantum abest ut lætitiam in Regia et hispanorum procerum animis excitaverit, ut aperte plerique Austrii consilium improbarent, nonnullique temeritatem ejus puniendam censerent.»
Lafuente cit., t. XIII, p. 511 e 512.
Coleccion de Documentos ineditos para la historia de España, in-8. Madrid, 1843, t. III, p. 9: «Carta de don Garcia de Toledo a don Luis de Requesens. Pisa, 1 de agosto 1571: «Por amor de Dios que se considere mucho, como se que se harà, negocio tan grande, como es el que se trata; y de que tan gran daño puede suceder: y pareciendome que es bien que no sepan venecianos, por buen respecto, que ministro ni en à donde Su Majestad tracte de que no se pelee. Suplico a Vostra Signoria Illustrissima mande, despues de haber leida de mi parte esta carta al Señor don Juan, rasgalla luego si asi le pareciere, y que no vaya en otras manos sino en las del secretario Soto.» Ecco come i ministri del re e i consiglieri di don Giovanni trattavano a nome di Sua Maestà perchè non combattesse.
Prescott, t. III, p. 270: «Even Doria thought it was not advisable to attack the ennemy.»
166. Sereno, cit., p. 138, e 234.
167. Marcantonio Colonna, Lettera al card. Rusticucci, data di Messina 2 settembre 1571 in cifra. Arch. Col., t. 1, p. 157.
168. Arch. Col., t. I, p. 154. M. A. al Doge: da Messina, 28 agosto 1571: «Intendo che stancati i maligni di volermi far tanto veneziano, intendano hora che io non ho procurato il servigio della Serenità vostra.»
E p. 155, Lettera a M. Niccolò Danèo che trattava i suoi negozi in corte di Spagna. Cifra del 3 settembre 1571: «Don Giovanni mi ha detto liberamente che con lui sono stati fatti contro di me cattivissimi uffici. Vedo ancor che in tutte le lettere che mi scrive Sua Maestà mi mette avanti l’obbligo; che pare si dubiti della mia volontà: cosa che mi dà dispiacere.»
E p. 154. Marcantonio al padre Francesco Borgia, già duca di Gandia, da Messina li 4 settembre 1571. L’originale in lingua spagnuola.
Ibid., p. 163, Lettera dello stesso a nostro Signore Papa Pio V, da Messina li 15 settembre 1571.
169. Arch. Caetani, Lettera del Signor Onorato Caetani al Cardinale di Sermoneta, da Messina 6 settembre 1571.
170. Rosell cit., p. 206, Carta de don Juan de Zuñiga a don Juan de Austria. Roma, 28 novembre 1571: «Su Santitad nunca me ha dado a mi otra queja sinò la de la nominacion de Ascanio de la Cornia por maestre de campo general de la liga, sin consulta de los otros generales.» Item, p. 216, Carta del mismo, 29 noviemb.: «Ascanio de la Cornia esta en muy poca esperanza de vida: si muere vea V. E. que persona sera conveniente para el uficio de Maestre de campo general de la liga. Y aunque serà muy bien con consulta de los otros generales, por que no se quejen, conviendra que V. E. prevenga a Marco Antonio (Colonna) de manera que no ose hacer sino lo que V. E. fuere servido.» Ecco come si servivano questi signori.
Arch. Col., t. II, p. 282: «E di già erano passate tra il Veneziano e don Giovanni alcune male soddisfazioni come furono, far don Giovanni patente ad Ascanio della Cornia di maestro di campo generale, e capitano generale delle navi di tutta la Lega a don Cesare Davales, senza comunicarlo con lui e col general del Papa.»
171. Arch. Col., t. II, Relazione, scritta in piccol foglio, legata in mezzo a detto tomo.
Arch. Caetani, Lettera al Cardinal di Sermoneta, da Messina, li 6 settembre 1571.
172. Arch. Col., Lettera cit. del 6 settembre.
Coleccion de Documentos cit., t. III, p. 16, Carta de don Juan a don Garcia de Toledo: «Hallè a qui a Marco Antonio Colona con las doce de Su Santitad, que estan a su cargo, bien en orden.»
Rosell, p. 80: «Seguian luego las doce galeras i seis fragatas del Papa, puestas asi mismo muy en orden.»
173. Sereno cit., p. 143, lin. 24.
Collecion de Documentos, t. III, p. 20. Lettera di don Giovanni d’Austria a don Garzia di Toledo del 9 settembre: «Estos Señores venecianos a la fin se han acabado de resolver en tomar en sus galeras quatro mil infantes de los de Su Majestad, es a saber mil quinientes españoles, i dos mil quinientos italianes: i asi se quedan consignados a esta hora.»
174. Rosell cit., p. 78: «Porque el encerrarse la escuadra de Veniero en al puerto de Messina, dominio del Rey d’España, i que fue si no muestra de confianza, en que no se trasluce el menor recelo?»
175. Sereno cit, p. 151 e 152.
Coleccion de Documentos cit., t. III, p. 11.
Rosell, p. 91.
Caracciolo cit, p. 21.
Lafuente cit., t. XIII, p. 511. «No faltaban en el consejo quienes asustado antes el gran poder del Turco, recordando el desastre de los Gelbes, propusieran empresas que denotaban su timidez.» Questi timorosi non erano nè Romani nè Veneziani. Il chiarissimo autore li nomina generali di don Giovanni: «Tambien los generales de don Juan, i entre ellos se cuenta a Andrea Doria a Ascanio de la Cornia.... se mostraban temerosos de entrar en la lid: i hubolos que qualificandola de temeridad avanzaron a decirle que convendria retirarse.»
176. Sereno cit., p. 151.
Il Sereno che scriveva senza speranza e senza timori, ritirato in Chiostro, che era stato attore e testimonio di questi fatti, che non aveva interesse a mentire, e le cui parole pienamente s’accordano con gli originali documenti degl’archivi romani, merita fede grandissima; ed io quasi più come documento che come storia cito le sue sentenze.
177. La condotta di don Giovanni fu anche dopo la vittoria giudicata degna di severa riprensione dalla corte di Madrid. Vedi sopra la nota nº 61.
178. Sereno, p. 191.
179. Bartolomeo Dal Pozzo, Storia della sacra Religione militare di san Giovanni gerosolimitano, detta di Malta, in-4. Verona, 1703, t. I, p. 14.
Gioffredo, Storia delle Alpi marittime, int. monumenta Hist. Patriæ Scrip., t. IV, p. 1551, in-fol. Torino, 1839. Grazie a S. E. signor conte Federigo Sclopis, per cui sollecitudine, e per introdotto del cav. Pier Alessandro Paravìa e del conte Ferrero di Ponziglione ebbi in dono a vantaggio degli studiosi nella nostra biblioteca Casavatense una copia di questa insigne raccolta di monumenti.
180. Sereno cit., p. 160.
Caracciolo cit., p. 17.
181. Arch. Caetani, Lettera del Signor Onorato al Cardinal di Sermoneta, data dalla galera Grifona nel canal della Cefalonia, a dì 4 ottobre 1571.
182. Il gran numero di quei soldati era dello Stato romano, donde i Veneziani, come da ricca miniera, sempre ne traevano. Tra i capitani statisti che morirono a Famagosta, affinchè presso ai posteri la virtù loro non resti frodata delle debite lodi, ricorderò Bernardino da Gubbio, Ercole Malatesta da Rimini, Erasmo da Fermo, Antonio da Ascoli, Giacomo da Fabriano, Roberto Malvezzi da Bologna, Marchetto da Fermo, Tiberio Cerruti da Roma, Ottavio da Rimini e il Governatore generale della Piazza Astorre Paglioni da Perugia ucciso a tradimento dai Turchi dopo la capitolazione.
183. Sereno cit., p. 251.
Calepio cit., p.
Mambrino Roseo, Storia del mondo in continuazione del Tarcagnota, lib. XIII, in — 4. Venezia, 1585. p. 395.
Cesare Campana, Storia del mondo, t. I, lib. II, in-4. Pavia, 1602, p. 123.
Paolo Paruta, Storia di Venezia, in-4. 1718, p. 229.
Giacomo Diedo, Storia della repubblica di Venezia dalla sua fondazione sino all’anno 1747, in-4. Venezia, 1751, t. II, p. 271.
Crispolti, Annali di Perugia, t. II, Ms. alla Comunale C. 33.
Anonimo Perugino, Vita di Astor Baglioni, alla Comunale Ms. D. 24, in fine: «Fu Astorre di statura mediocre, di pelo e colore più tosto negro, d’occhi vivacissimi, di corpo robusto, e dalla fanciullezza allevato a sostenere ogni fatica. Di ingegno acuto et expedito, in tutti gli esercizi militari agilissimo; si dilettò di poesia, scrisse i commentari della sua vita, che poi non furono trovati. Fu nel conversare di maniere gravi e piacevoli, onde da tutti amato e riverito. Nel parlare di parole acute e brevi, ma piene di sugo: e molti detti si raccontano dei suoi da agguagliare a quelli dei primi uomini che stati mai siano.»
184. Arch. Col. cit., t. II, p. 285.
Sereno cit., p. 166.
Caracciolo cit., p. 25.
Campana cit., p. 136.
Paruta cit., p. 237.
Francesco Longo cit., p. 31.
Adriani cit., p. 883.
Girolamo Diedo, Lettera a Marcantonio Barbaro, Bailo in Costantinopoli tra le Lettere di Principi, in-4. Venezia, 1583, t. II, p. 242.
Queste testimonianze provano nome, cognome, patria e bandiera del capitano che fu impiccato. Dopo ciò vuolsi correggere il Prescott, t. III, 271 che dice: «A Roman Officer named Tortona etc.» Nè era romano, nè ufficiale, nè si chiamava Tortona, nè menava ciurme, nè altri equivoci.
185. Rosell cit., p. 92: «Don Juan encolerizose tanto, que estuvo a punto de imponer a Veniero castigo igual a aquel de Muzio.»
Arch. Col., t II, p. 446: «Tutti li consiglieri del signor don Giovanni, che non havevano voglia d’andare avanti, lo consigliavano che per il meno castigasse il general di Venezia: cosa che non si havrebbe potuto fare senza una battaglia tra noi invece di farla coll’inimico.»
E p. 285, 286. Autografo di Marcantonio: «Nel consiglio la maggior parte furono di voto che per sua dignità et per ogni rispetto doveva don Giovanni far dimostratione notabile et rigorosa contro la persona del General veneziano.»
Sereno, p. 166: «Don Giovanni di tanto sdegno si accese contro il Veniero, che avendo risoluto in ogni modo di volerne far risentimento, vide quel giorno un chiaro preparamento d’aversi a combattere fra sè stessa l’armata.»
186. Marcantonio aveva feudi nella provincia di Napoli, ed era gran contestabile del regno.
187. Dopo la grande vittoria a Lepanto, don Giovanni abbracciò il Veniero, e rimiselo in sua grazia: tuttavia la corte di Madrid il volle privato del comando, e la Repubblica ubbidì. Ma poco dopo fu eletto doge e principe della patria.
188. Arch. Caetani cit., Lettera del Signor Onorato al Cardinal di Sermoneta, data dal Porto delle Fighere a dì 9 ottobre 1571.
Sereno cit., p. 170.
Caracciolo cit., p. 29.
Questo corsale si trova anche nominato Caracossa, e Caracoggia, Caracuse, e Cara-Jussuf. Era calabrese rinegato.
189. Sereno cit., p. 181 e 188.
Rosell cit., p. 91: «Consejos eran estos de animos apocados o cobardes.»
Item, p. 94: «Doria representaba difficultades ec.»
190. Sereno cit., p. 188.
191. Tommaso Porcacchi, Le isole, con le giunte, in-fol. Venezia, 1604, presso gli eredi del Galignani, p. 85. Quivi è l’armata in ordinanza.
L. S. Baudin, Manuel du Pilote de la Mediterranée, in-8. Tolone, 1838, t. II, p. 114.
Magloire de Flotte d’Argençon.
Captain W. H. Smith, Carte marine: Isole di Santamaura, Cefalonia, Itaca e Zante, da Parga al Katakolo, 1825. Londra.
Arch. Centrale di Stato in Firenze, Codice segnato nº 259 delle carte Strozziane. Una grande stampa; e la veduta del golfo e delle due armate.
192. Catena cit., p. 192 e 319.
Contarini cit., p. 35.
Sereno cit., p. 153 e 184.
Di più i documenti citati nella nota nº 38.
L’Ordine che ha tenuto l’armata della Lega, dal dì che si partì da Messina, con i nomi di tutte le galere e di tutti i capitani di essa ed altre notizie. Roma, in-4. 1571. Foglietto volante nella Bibl. Casanatense, Miscellanea in-4. t. 776, nº 25.
Don Juan de Austria, Orden que la armada de la santa Liga hade tener en el caminar. Ms. Casanatense, X, VI, 41.
Coleccion de documentos ineditos, in-8. Madrid, 1845, t. III, p. 204. Relacion del numero de toda la gente que va en esta armada de Su Majestad, y de la manera que se ha echo su embarcacion y repartimiento.
Arch. Col., t. II, foglio 60 a 90, i nomi e i segni di tutte le galere.
Arch. di Stato in Firenze, nº 259 delle carte Strozziane. Nomi di tutte le galere e capitani a stampa, Firenze, 1571 per Antonio Padovani.
193. Nel determinare le forze della Lega, come suole sempre avvenire, non convengono tra loro gli scrittori. Alcuni producono il numero delle galere, senza noverare le galeazze e le navi: altri scrivono le fanterie soltanto di questa o di quella nazione: altri il numero dei soldati, senza far ragione ai marinari: altri mettono gli Italiani nel numero degli Spagnuoli, senza avvertire che gran parte della gente e delle galere del Re erano galere e genti napolitane, siciliane e genovesi. Volendo esatta contezza di tutto, sembra potersi formare sopra documenti sicuri, come alla nota 88, il seguente
SPECCHIO ANALITICO DELLA FORZA DELLA LEGA NELL’OTTOBRE 1571. |
|||||||
MATERIALE. | PERSONALE. | ||||||
Italiani. | GALERE. | NAVI. | GALEAZZE. | CANNONI. | SOLDATI. | MARINARI. | REMIERI. |
sotto le loro bandiere. | |||||||
Venezia | 105 | 10 | 6 | 905 | 11,200 | 7,000 | 22,800 |
Papa | 12 | . | . | 60 | 2,200 | 700 | 2,400 |
Savoia | 3 | . | . | 15 | 500 | 180 | 600 |
Genova | 3 | . | . | 15 | 500 | 180 | 600 |
Malta | 3 | . | . | 15 | 600 | 200 | 900 |
sotto le bandiere del Re. | |||||||
Napoli | 19 | . | . | 95 | 1,900 | 1,100 | 3,800 |
Sicilia | 4 | . | . | 20 | 400 | 240 | 800 |
Giannandrea | 10 | . | . | 50 | 1,000 | 600 | 2,000 |
Niccolò Doria | 2 | . | . | 10 | 200 | 120 | 400 |
Lomellini | 4 | . | . | 20 | 400 | 240 | 800 |
Negroni | 4 | . | . | 20 | 400 | 240 | 800 |
De Mari | 2 | . | . | 10 | 200 | 120 | 400 |
Grimaldi | 2 | . | . | 10 | 200 | 120 | 400 |
Imperiali | 2 | . | . | 10 | 200 | 120 | 400 |
Sauli | 1 | . | . | 5 | 100 | 60 | 200 |
Spagnoli | 31 | 20 | — | 555 | 8,000 | 1,700 | 6,200 |
Totale | 207 | 30 | 6 | 1,815 | 28.000 | 12,920 | 43,500 |
194. Catena cit., p. 325.
Contarini cit., p. 44. Quivi è il novero delle galere ottomane e i nomi di ciascun capitan turco.
Arch. di Stato in Firenze, Codice 259 delle carte Strozziane. Novero delle galere ottomane con questi ed altri documenti, si può formare il seguente:
SPECCHIO ANALITICO DELLA FORZA DELL’ARMATA TURCHESCA NELL’OTTOBRE 1571. |
||||||
MATERIALE. | PERSONALE. | |||||
GALERE. | GALEOTTE. | CANNONI. | SOLDATI. | MARINARI. | CIURME. | |
Centro | 94 | . | 300 | 12,500 | 5,000 | 18,000 |
Diritta | 53 | . | 160 | 8,500 | 2,500 | 10,000 |
Sinistra | 65 | . | 200 | 10,000 | 3,000 | 12,000 |
Riserva | 10 | 60 | 90 | 3,000 | 2,500 | 1,000 |
Totale | 222 | 60 | 750 | 34,000 | 13,000 | 41,000 |
195. Rosell cit., p. 91: «Hubo algunos que.... renovarian la infamia de los Gelves y de la Prevesa.... Però Marcantonio Colonna Barbarigo, i don Juan infundieron a los demas su ardimiento generoso.» E p. 95: «Y como algunos preciados sin duda del voto que el Rey les hubia otorgado dijesen al Principe que convendria retirarse, y no seguir en proposito tan temerario, señores, replicò este con eroico spiritu, ya no es hora de consejos, sino de combates.»
196. Caracciolo cit., p 33.
Sereno cit., p. 194 e 201.
Adriani, 886, F.
Contarini, 49.
Longo, 26.
Catena, 197.
Diedo cit., t. II, 275, 279, 280.
Gabutius, Vita Pii V, ap. Bollandianos, die 5 maij, § 284.
Thuanus, lib L, nº 4.
Rosell cit., p. 99: «Delonte la seis galeazas de Venecianos.... detras en una linea las dos alas o cuernos con la battalla; que por haberse hecho mucho a la mar la de Juan Andrea, occupaban una extencion de tres millas.»
Item, p. 103: «Juan Andrea habia de alejarse largo trecho, tanto que se dice que les Turcos llegaron a sospechar que huia: y don Juan le enviò a advertir que no se extendiese tanto, porque dejaba la battalla desabrigada.»
Prescott, t. III, p. 282: «Doria extended his line so far.... that don Jhon was obliged to remind him that he left the center too much exposed...» E p 290: «Uluch-Aly profited by Doria’s error in extending his line so far as greatly to weaken it.»
197. Sereno cit., p. 192.
198. Natal Conti, Storie de’ suoi tempi, tradotte dal Saraceni, in-4. Venezia, 1589, t. II, p. 143.
200. Caracciolo cit., p. 36.
201. Arch. Col., t. II, più volte.
Arch. Caetani, Lettera del signor Onorato al Cardinale di Sermoneta, data dal porto delle Fighere, 9 ottobre 1571: «La Capitana del Papa investì quella del Turco (Aly) al focone: e quella del Turco, dove era il Bascià di terra (Pertaù) investì quella del Papa allo schifo.... eccetera.»
Dal Pozzo cit., p. 24
Ercilla, La Araucana, canto 24, stanza 44:
«No estavan las Reales aferradas,
Quando de gran tropel sobrevinieron
Siete galeras turcas bien armadas
Que en la Christiana subito envistieron.
Però no de menor furia llevadas
Al soccorro sobre ella succudieron,
De la derecha y de la izquierda mano,
La general del Papa, y Veneciano.
Do con secunda autoridad venia
Por general del Summo Quinto Pio
Marco Antonio Colona; a quien seguia
Una esquadra de mozos de gran brio. ec.»
203. Ubertus Folietta, De sacro fœdere in Turcas, ext. ap. Burmann in Thesauro, t. I, p. 1066 A: «Triremis quæ duos filios Halys vehebat cum rostro dexterum pluteum pontificiæ Pretoriæ percussisset.... capitur etc.»
Dal Pozzo cit., p. 24, 25: «Marcantonio sottomise più galere, e quella dei figli d’Aly, che fuggì dalle sue mani, trovò la sua disgrazia col commendator maggiore.»
Sereno cit., p. 199: «Due giovanetti figli d’Aly, presa la loro galera dal Colonna, restarono prigioni.»
Caracciolo cit., p. 38.
Catena cit., p. 196.
Sereno cit., p. 198.
204. Vedi a pag. 35 la mia protesta da essere sempre presente ai lettori.
205. Sereno cit., p. 199.
Arch. Caetani cit., Lettera del signor Onorato al Cardinale, 9 ottobre 1571, dal porto delle Fighere: «La reale di Spagna, e la capitana di Sua Santità, pigliarono quella del Turco.»
Arch. cit., Lettera di Marcantonio all’istesso Cardinale di Sermoneta: «Ho sostenuto il maggior impeto dell’armata nemica che seguiva la loro generalizia, combattuta da don Giovanni e da me, e giuntamente conquistata.»
Adriani cit., p. 885.
Bollandisti, 5 maij, ex Gabutio, § 282: «Marcus Antonius Columna cum triremem qua cum diu admirabili contentione dimicaverat in potestatem redegisset, aliasque vicinas velut tempestas, pari virtute disjecisset, quacumque pergeret magnam hostium stragem faciebat; ac demum in Turcarum regiam sese insinuavit.»
Laderchi cit., p. 503.
Gabutius cit., lib. V, c. IV, p. 173 e 174.
Coleccion de Documentos para la historia de España, in-8. Madrid, 1843, t. III, p. 220. Relacion de la battalla de Lepanto: «Los generales del Papa i de Venecia ayudaron sin duda mucho a la real del señor don Juan.» Ibid., altra Relazione, p. 265: «Los capitanes del Papa i Venecia, y las otras demas galeras que habian estado cerca de ellas sin duda habian ayudado mucho a la real de Su Majestad.»
Pompeo Litta, Le famiglie celebri d’Italia. Tra le tavole dei Colonnesi dà il disegno del Gerardi.
Giorgio Vasari, Lettera a Vincenzo Borghini, da Roma, 1º marzo 1572, e del 23 febbraio al principe dei Medici. Parla del suo dipinto alla sala regia. Gaye, Carteggio d’Artisti, in-8. Firenze, 1839-40, t. III, p. 307, 311.
206. Rosell cit., p. 104: «A qui asistian principalmente los Venecianos, i bien mostraron serlo en el encarnizamiento con que peleaban: el encono y hasta el brio tanto tiempo en sus pechos comprimidos, se desahogaban entonces, saciandose en la obborrecida sangre de los verdugos de sus hermanos.»
207. Caracciolo cit., p. 37.
Sereno cit., p. 205.
Paruta cit.
Girolamo Diedo, Lettera a Marcantonio Barbaro. Tra le lettere dei principi, in-4. Venezia, 1575, t. II, p. 250 b.
Marcantonio Colonna loda il Barbarigo, narra i successi passati, e accenna i futuri disastri della Lega nella lettera al Buonvicino, secretario dei Veneziani. Arch. Col., Armata navale, carte sciolte, nº 85.
208. Dal Pozzo cit., t. I, p. 26, lin. 9.
Bartolomeo Dionigi da Fano, Giunte al Tarcagnota, Storie del mondo, in-4. Venezia, Par. III, t. II, p. 409, lin. 28.
Sereno cit., p. 200.
Vedi sopra la nota 92, e la pagina 40.
209. Diedo cit., p. 280.
210. Sereno cit, p. 201: «L’accorto Luccialì vide quelle galere separate dall’altre, conobbe anche nel Doria poca voglia d’andarlo a trovare; e vedendo che quandanche impedirlo avesse voluto, tanto lontano se lo trovava, che non poteva a tempo più arrivare a sturbarlo, con tanto furore si volse contro di quelle che avendone in un attimo guadagnate dodici.... troppo miserabil danno vi fece.»
211. Ercilla, La Araucana, canto 24, stanza 76.
«Però el Virey de Argel, cossario experto,
Que a la mira hasta entonces havia estado,
Hallando al cuerno diestro el passo abierto,
Que del todo no estava bien cerrado,
Antes que se pusies en en concierto
Furioso se lançò por aquel lado.»
212. Dal Pozzo cit., p. 27.
Sereno, p. 201.
213. Marchesi, Galleria dell’onore, in-4. Forlì, 1735, t. I, p. 322, e t. II, p. 83.
Successo dell’Armata della santa Lega, foglio volante stampato in Roma l’anno 1571. Bibl. Casanat., Miscell., in-fol. Volume 157, nº 16.
215. Adriani cit., p. 886.
Contarini, p. 49.
Catena, p. 197.
Paruta, p. 257.
Thuano, L. L, nº 4.
Diedo, p. 280.
Campana, p. 151.
Caracciolo, p. 40.
Graziano, 243: «Ausiam ante omnes pene proditionis insimulabant, quod longius in altum... seriusque inde cum posset et ex disciplina deberet, noluerit persequi Uluccialium fugientem; sed victas captasque a nostris hostium naves diripuerit ipse, praedator potiusquam bellator.»
Rosell cit, p. 112: «Juan Andrea que no habia tropezado con Uluch-Aly (por mucho que hizo para lograrlo!!!) conosciendo que consumia el tiempo inutilmente, diò la vuelta.»
Lafuente cit., t. XIII, p. 516, lascia incerti i lettori di quel che facesse Giannandrea in quel giorno.
216. Antonio de Herrera, Historia general del mundo, in-fol. Vagliadolid, 1606, t. II, p. 32.
Lorenzo Vander Hammen y Leon, Vida de don Juan de Austria, in-4. Madrid, 1627.
Rosell cit., p. 120.
217. Ubertus Folietta, De sacro fœdere, ap. Burmann., in Thesaur., t. I, p. 1064.
218. Agostino Sagredo, nella dedica al marchese Gino Capponi dell’opera di Messer Francesco Longo intitolata: Successo della guerra fatta con sultan Selim. — Arch. Stor. Ital., t. XII, p. 5, 8, 28.
219. Niuno storico si è mai ardito a farne elogi per ciò che riguarda il fatto della guerra di Cipro e battaglia di Lepanto. Anzi è rimarchevole che nelle Biografie più celebri di questo nostro secolo neanche il suo nome si trova.
220. Longo cit., p. 28.
221. Paruta, Storia di Venezia, in-4. 1718, p. 257.
Foresti, Mappamondo, in-4. Venezia, 1736, t. XII, p. 20.
Longo, p. 28.
Io che vivo in Roma, ammirando la virtù e i meriti del Principe Doria e della sua eccellentissima Casa, tanto amata e riverita nella città e fuori, non posso qui tacere come io al paro d’ogni altro in quella gran famiglia e nell’eccelso suo Capo ravviso il riflesso e i pregi dei molti e valorosi suoi maggiori, non il difetto di qualcuno. Di che fia pegno a me ed a tutti la cortese e giusta risposta onde l’istesso Principe volle onorarmi, per la bocca del padre Saccheri professore all’Università romana, facendomi dire: Scriva pur liberamente; perchè la storia esser dee maestra di verità.
222. Don Louis de Requesens, Carta a D. Juan de Austria, Roma, 15 de dicembre 1571, pubblicata dal Rosell cit., p. 233.
223. Rosell, p. 150: «Culpa fuè de nuestra Corte, o per mejor decir del rey Felipe II.» E p. 56: «Harto imparciales nos mostramos en causa propria; pues pudendo culpar a los extraños, nos hacemos responsables de todos aquellos yerros.» — Bravo! —
Vedi sopra le mie proteste, p. 35, e 223.
224. Marcantonio Colonna, Lettera al cardinale Spinosa (originale). Arch. Col., Armata navale, carte sciolte, nº 85:
«La victoria que Dios ha dado a la Christianidad y a Su Majestad creo que habrà obrado que Su Majestad vea que el año pasado no fue yo loco del todo: pues teniamos quarenta vaxeles de ventaja al enemigo, y ahora se ha ganado a la par. Tambien creo que la conclusion de la Liga no aportò daño a la Xndad ni al servicio de Su Majestad. Assi mismo el parecer, que yo este año en todas las occasiones he dado al Señor don Juan; el qual con mucha prudentia i valor ha guiado este negocio. V. S. Illustrissima crea que si Su Altezza siguiera la opinion de algunos se volviera con poca honra.[225] Loada sea la bondad de Dios para siempre. Supplico a V. S. Illma se acuerde de la protecion que de mi tomò y ha tenido, pues yo no dexo de hacer lo que devo. Y con este le beso las manos. Dios nuestro Señor guarde i prospere su Illma persona.
De Petalà, 9 de octubre 1571.
Su major i mas aficionado servidor de V. S. Illma que B. S. M.
M. A. Colonna.
225. Queste poche parole son pregne di senso, e mostrano a che tendevano i consiglieri di Sua Altezza.
226. Gratianus cit., p. 221 et 223.
Laderchius cit., p. 503 e 512.
Paruta cit., p. 256.
Adriani cit., p. 885.
Sereno cit., p. 207.
Caracciolo cit., p. 38.
Arch. Caetani cit. in più relazioni. Vedi sopra, note 88, 91, 92, 99 e 101.
Rosell cit., p. 120: «Colona se distinguiò entre los demas por su firmeza i serenidad.» E p. 107: «Colona resistiò con fortaleza digna de sus antepasados.»
227. Marcantonio Colonna al Cardinal di Sermoneta, lettera scritta dal porto di Dragomestre, 11 ottobre 1571. Arch. Caetani cit. Di questa lettera ne produco solamente un brano per non togliere nulla di pregio alla pubblicazione che intende a fare il diligentissimo signor Giovan Battista Carinci, archivista meritissimo di casa Caetani. Si noti che quel giuntamente conquistata è spagnolismo d’uso in quel secolo, per significare, insieme, a un tempo, da ambedue conquistata.
228. Monaldo Monaldeschi, Commentarj storici e cose notabili di Orvieto, in-4. Venezia, 1584, lib. XIX.
229. Thuanus Augustinus, Historiarum sui temporis, in-fol. Londra, 1733, t. III, lib. L, nº 4, p. 48, lin. 32.
Adriani cit., p. 886, in fine.
Marchesi, Galleria dell’onore cit.
Ritratto d’una lettera scritta all’ambasciador cesareo dell’armata. Foglietto volante di quel tempo, stampato in Roma. Bibl. Casanat., Miscell. in-4. vol. 776, nº 26.
Arch. Caetani cit., Lettera del 9 ottobre.
230. Successo dell’Armata cit. alla nota 109, p. 3, lin. 45.
Bibl. Casanat., Miscell. in-fol., vol. 157, nº 16.
231. Arch. Caetani cit., Lettera del signor Onorato Caetani al Cardinal di Sermoneta del 9 ottobre.
Ritratto di una lettera scritta all’ambasciador cesareo dall’armata, in-4. Roma, 1571, e p. 3 in med.
Bibl. Casanat., Miscell. in-4. vol. 776, nº 12.
Sereno, p. 227 in principio.
232. Nicolò Doglioni, Historia Venetiana, in-4. Venetia, 1598, p. 869.
Bartolomeo Dionigi, Storie del mondo, continuazione del Tarcagnota, in-4. Venetia, 1598, t. V, p. 408.
233. Adriani cit., p. 885, C.
Thuano cit., p. 48, in med.
Sereno cit., p. 197, 200, 204.
Arch. Caetani cit., lett. del 9 ottob.
Ritratto cit., p. 3.
Successo cit., p. 3.
Coleccion de Documentos cit., t. III, p. 218, Relacion de la batalla de Lepanto: «La Grifona del Papa imbistiò con Caracosa; y aunque tenia una galeota de soccorro fue entrada i Caracosa muerto.»
Archivio Centrale di Stato in Firenze, carte Strozziane, Codice 1027, Lettera di Fortunato Scipione Corbinelli a suo fratello, da Porto Candela alli 10 ottobre 1571. Conferma il fatto che Caracossa fu vinto dalla nostra Grifona.
Appresso nota 130 e 134.
Rosell, p. III. Si noti che il capitan Cortesi era romano, e stava sulla Grifona. Non già spagnuolo, nè di nome Cortès.
234. Sereno cit., p. 103 in fine.
235. Gioffredo, Storia delle Alpi marittime, ext. int. Mon. Hist. Patriæ, in-fol. Torino, 1839. Script., t. II, p. 1552.
Adriani cit., p. 892.
Sereno cit., p. 204.
Arch. Caetani, Lettera del 9 ottobre cit.
236. Sereno, p. 204.
237. Arch. Caetani, Lettera citata del 9 ottobre, e la seguente.
238. Arch. Col., Minuta originale di Marcantonio Colonna che scrive a Papa Pio V l’istesso giorno della vittoria. Carte sciolte, nº 85. — V. sopra, p. 152.
239. Rosell, cit., p. 111: «No havia hombre que se preciasse de gastar moneda de plata, si no cequines; ni curase de regalear en nada que comprase.»
Torres y Aguilera, Chronic., in-fol., p. 19.
Prescott cit., t. III, p. 390.
240. Vitale Casolo al Cardinale di Sermoneta, dal porto di Santa Maura, 8 ottobre 1571, autografo nell’Arch. Caetani.
Vedi appresso, p. 261, nota 151.
242. Augustinus Oldoinus, Athenæum Ligusticum, in-4. Perugia, 1680, p. 157. Quivi si dice che le sue lettere d’affari stavano in un codice del card. Bernardino Spada. Indarno da me ricercate.
Ughelli, t. IV, p. 743, vescovo di Savona, di Cavaglione, e vice-Legato di Avignone.
Sereno cit., p. 209.
Sammartani, Gallia sacra etc.
243. Zacharias Boverius, Ann. Cappuccinorum, in-fol. Lione, 1632, t. I, p. 714.
Il Generale de’ Cappuccini, Lettera originale a M. A. Colonna, con che gli raccomanda i suoi frati messi per ordine di S. Pio all’Armata. Arch Col., carte sciolte, nº 110. — Copia presso di me.
244. Sereno, 213.
245. Boverio, 714.
246. Bollandisti, Acta Sanctorum, die 5 maij, Vita beati Pii Papæ quinti, cap. IV, § 291, p. 688, edizione di Anversa.
Catena, Vita del beato Pio V, in-4. Roma, 1586, p. 195.
Caracciolo cit., p. 54.
247. Arch. Col., Lettera di M. A. al doge di Venezia, t. III, p. 4: «Nel 1571 che fu il secondo anno della guerra, credo che non solo io concorsi al combattere, ma che per me non si mancò di seguitare la vittoria: et questo è certo, e lo sanno ancor quelli che v’erano.» Item, t. II, p. 430.
Fabio Mutinelli, Storia Arcana ec., in-8. Venezia, 1855, t. I, p 103, Dispaccio dei 26 novembre 1571: «Marcantonio Colonna confessò all’ambasciador Soranzo che le cose erano ridotte dopo la vittoria in tanto disordine et rovina, che di certo era impossibile far cosa alcuna: perchè non v’era più obbedientia, nè si faceva più giustizia, e tutto andava male.»
248. Rosell cit., p. 118, Contarini, p. 55.
Arch. Col., Armata Navale, carte sciolte, nº 89.
Arch. Secret. Vat., Codice segnato De fœdere et speditione Classis Pii V contra Turcas, p. 67. — Quivi è la seguente:
NOTA DEI MORTI E FERITI NELLA BATTAGLIA. |
||
MORTI. | FERITI. | |
Sull’armata di Sua Santità | 800 | 1000 |
Di sua Maestà | 2000 | 2200 |
De’ Veneziani. | ||
Capitano di Fanò | 1 | — |
Governatori di Galee | 17 | 20 |
Nobili di poppa | 8 | 5 |
Padroni | 5 | 20 |
Cappellani | 5 | 3 |
Comiti | 6 | 20 |
Scrivani | 6 | 4 |
Piloti | 7 | 10 |
Bombardieri | 113 | 79 |
Maestranze | 32 | 38 |
Compagni d’Arboro | 124 | 118 |
Scapoli | 925 | 681 |
Remieri | 2274 | 2499 |
Soldati | 1333 | 1087 |
Totale | 7656 | 7784 |
250. Caracciolo, p. 47.
251. Caracciolo cit., p. 51.
Arch. Caetani cit., Lettera del signor Onorato al Cardinale, da Corfù 25 ottobre 1571.
252. Sereno cit., p. 221.
Caracciolo cit., p. 51.
Catena cit., p. 200.
Contarini cit., p. 55 b.
Arch. Caetani cit., lett. 25 ottobre.
Arch. Col. cit., t. II, 227-248.
Coleccion de Documentos cit., t. III, p.
Arch. Col., t. III, da p. 40 a p. 73. Nomi, cognomi e patria di tutti i Turchi presi prigioni dalle galere di M. A.
253. Dai citati autori e documenti, massime dalla nota 88, 90 e 145, si può formare il seguente:
SPECCHIO DELLA DIVISIONE TRA GLI ALLEATI DOPO LA VITTORIA. | ||||||||
Armata nemica. | ||||||||
Prima della battaglia. | ||||||||
GALERE. | GALEOTTE. | |||||||
222 | 60 | |||||||
Dopo la battaglia. | ||||||||
Fuggite | 25 | 20 | ||||||
Arse o sommerse | 80 | 27 | ||||||
Totale perdute | 105 | 47 | ||||||
Totale prese | 117 | 13 | Da dividersi. | |||||
GALERE | GALEOTTE | CANNONI | PETRIERI | SAGRI | PRIGIONI | |||
Al Papa, un sesto | 19 | 2 | 19 | 3 | 42 | 1200 | ||
Ai Veneziani, due | 38 | 4 | 38 | 6 | 84 | 2400 | ||
Al Re, tre | 57 | 6 | 57 | 9 | 126 | 3600 | ||
A don Giovanni | 3 | 1 | 2 | — | — | — | ||
117 | 13 | 116 | 18 | 252 | 7200 | |||
254. Caracciolo cit., p. 48.
Sereno cit., p. 220.
255. Vedi sopra, p. 87, e 184.
256. Sereno cit., p. 223.
Rosell, cit., p. 99.
257. Caracciolo cit., p. 48.
Adriani cit., p. 892 E.
Pompeo Litta, Famiglie celebri d’Italia, Casa Colonna, Pompeo, tav. XIII.
258. Sereno cit., p. 227. Vedi appresso a p. 302.
Vedi sopra la lettera di Vitale Casolo, e i bottini degli altri soldati alla nota 133.
259. Arch. Caetani cit., Lettera del signor Onorato al Magnifico Gian Francesco Peranda, da Corfù 26 ottobre 1571. Il Caetano sin di là scriveva a Roma per avere almeno un paio di quelle galere, e di cuore si raccomandava al Peranda che le chiedesse per lui.
260. Sereno cit., p. 208 e 211.
261. Avvisi di Roma, codice Urbinate alla Vaticana nº 1043, data del 23 febbraio, 5 e 15 marzo 1572.
Arch. Col. cit., t. III, p. 4, Lettera di Marcantonio al Doge di Venezia, ove parla di due galere che Pio V aveva sue proprie per l’armata del 1572.
Caracciolo cit., p. 60, lin. 6, ne fa pur menzione.
262. Pii Papæ V, Præceptum de notificandis et non relaxandis captivis: sub die 22 decembris 1571. Bibl. Casanat., Collezione di Bolle, Editti ec.
263. Augustinus Theiner, Ann. Eccl. continuat., in-fol. Roma, 1856, t. I, p. 462. Quivi è tra i documenti la nota dei nomi, età, patria e segni di ciascun dei quaranta.
264. Arch. Col., Armata navale, carte sciolte, nº 120. Lettera di San Francesco Borgia a M. A. Colonna, data da Lisbona 10 decembre 1571. Firma autografa e sigillo del santo. Grazie al signor Simeoni, archivista di Colonna.
265. Cancellieri dei possessi de’ Romani Pontefici. Roma, in-4. 1802, p. 119, e molti altri cronisti ricordano la singolare e maravigliosa invernata che fu quella del 1571 quando oltre all’essere l’aria temperatissima, si videro con stupore di tutti fiorire gli alberi nel decembre.
266. Sull’arco della porta:
«M. Antonio. Columnae. Pontificiae. Classis. Præfecto. De. Apostolica. Sede. Sociorumque. Salute. Ac. Populi. Romani. Dignitate. Optime. Merito. S. P. Q. R.»
267. Francesco Albertonio, L’entrata che fece l’Eccellentissimo Signor Marc’Antonio Colonna in Roma alli 4 di decembre 1571, dove minutamente si narra il viaggio, il numero delle genti, l’ordine, e le livree, et altre cose simili che v’intervennero. Con l’avviso della solennità che fu poi fatta in Santa Maria d’Aracœli il giorno di Santa Lucia, in-4. Viterbo, senza data, ma certamente di quel tempo. Bibl. Casanatense, Miscell. in-4. vol. 776, nº 14.
Item, la stessa Relazione con alcune varianti, e la giunta di Sebastiano Torello, pubblicata dal tanto notissimo Francesco Cancellieri. Storia dei solenni possessi dei Romani Pontefici, in-4. Roma, 1802, p 112.
Dopo di ciò, il 1837 nell’Album, giornale letterario e di belle arti. Roma, in-fol. 1837, anno III, vol. III, 14 gennaio 1857, p. 357, è stata riprodotta, tal quale è nel Cancellieri, con la giunta di una sola noterella che dice: «Per la prima volta pubblicata.»
268. Un quadro in casa Colonna rappresenta al vivo, in sette scompartimenti o gironi, tutto l’ordine, le persone, le vestimenta e i luoghi del passaggio trionfale, dalla porta al Campidoglio. Pompeo Litta, scrivendo di casa Colonna tra le famiglie celebri d’Italia, ne ha pubblicata fedelissima copia, di che mi sono anche giovato nella mia descrizione.
269. Sull’arco di Druso:
«Exultans . In . Domino . Clarissimum . Civem . Suum . Victorem . Amplectitur . Roma.»
270. Sull’arco di Costantino:
«Cogita . Aditum . Iam . Patefieri . Ad . Costantini . Urbem . Juvante . Deo . Recuperandam.»
271. Sull’arco stesso a diritta:
«Primus . Romanorum . Imperatorum . Costantinus . Crucis . Vexillo . Usus . Cum . Acerrimis . Christiani . Nominis . Hostibus . Felicissime . Certavit.»
272. Ivi, a sinistra:
«Primus . Romanorum . Pontificum . Pius . V . Cum . Rege . Catholico . Et . Republica . Veneta . Societate . Inita . Eodem . Salutari . Signo . Fultus . Victoriam . Contra . Maximam . Turcharum . Classem . Consequutus . Est . Lætissimam.»
273. Sull’arco di Tito:
«Lætare . Ierusalem . Quam . Olim . Titus . Vespasianus . Captivam . Duxit . Pius . V . Liberare . Contendit.»
274. Sulla fronte dell’arco di Settimio Severo:
«Stat . Etiam . Nunc . Vetus . Parthicæ . Victoriæ . S. P. Q. R. Monumentum . Ut . Novos . De . Parthis . Triumphos . Deo . Approbante . Excipiat.»
275. Ivi, a diritta:
«Prisci . Illi . Duces . Romanum . Imperium . Parthorum . Armis . Vastatum . Fortiter . Pugnando . In Suam . Pristinam . Dignitatem . Restituerant.»
276. Ivi a sinistra:
«Nostri . Insigni . Atque . Inusitato . Prorsus . Navali . Prælio . Parta . Victoria . Turcarum . Furorem . A . Christianorum . Cervicibus . Repulerunt.»
277. Sulla porta maggiore del palazzo Senatorio in Campidoglio:
«Adhuc . Viget . Virtus . Flagrat . Amor . Pollet . Pietas . — Romanus . Adhuc . Viget . Amor . Romana . Virtus . Emicat.»
278. Sulla porta maggiore della Chiesa Senatoria:
«Quas . Olim . Gentiles . Ductores . Idolis . Pro . Re . Bene . Gesta . In . Capitolio . Stulte . Agebant . Eas . Nunc . Ad . Cœli . Aram . Christianus . Victor . Ascendens . Vero . Deo . Christo . Redemptori . Ejusque . Gloriosissimæ . Matri . Pro . Gloriosa . Victoria . Religiose . Et . Pie . Agit . Habetque . Gratias.»
279. Marci Antonii Mureti, Oratio in reditu ad Urbem Marci Antonii Columnæ post Turcas navali prœlio victos habita. Idibus decembris, anno MDLXXI. — Pubblicata da Paolo A. Maffei, Vita di San Pio V, in-4. Roma, 1712, p. 360.
280. Sulla base della colonna rostrata:
«Christo . Victori . M . Antonius . Ascanii . F. Pontificiæ . Classis . Praefectus . Post . Insignem . Contra . Turcas . Victoriam . Beneficii . Testandi . Causa.»
281. Oltre ai dipinti del Tintoretto e del Zuccari, oltre alle orazioni di Silvio Antoniano e di Marco A. Mureto, oltre al gran numero di tutti quelli storici che ho già addietro citati, può vedersi la raccolta di cento poeti di cui si ha il nome, e quasi altrettanti anonimi stampati da Pier Gherardi, e da lui dedicati al card. Sirleto con questo titolo: «In fœdus et victoriam contra Turcas juxta sinum Corinthiacum, nonis octobris partam, Poemata varia,» in-12. Venezia, 1572, Bibl. Casanat. YY, XII, 33.
Al. Chrys. Ferruccii, Enchiridion Hist. Pontif. Lugo, in-8. 1855, p. 75.
282. Cæsar Baronius, Martyrologium romanum cum notationibus. Ad diem 7 octobris: «Fidelium Classis victoriam reportavit, fractosque nostrorum animos in spem erexit: posse inimicos nostros nullo negotio profligari (modo in unum Christianorum animi viresque conveniant)»
Con questa parentesi: alla notarella del Martirologio il cardinal Cesare toccò il centro della piaga; che gli inimici si potevano vincere, ma gli animi dei collegati non si potevano unire, come il fatto comprovò.
Paolo A. Maffei, Vita di S. Pio, in-4. Roma, 1712, p. 334.
283. Bonanni cit., t. I, p. 297.
Venuti cit., p 125.
284. Si raffronti l’incisione di questa medaglia pubblicata dal Bonanni, come alla nota precedente, e facile ad aversi in qualsivoglia Biblioteca, per comprendere le annotazioni che ho fatto alla medesima.
285. Ecco le epigrafi delle medaglie:
«Pius V Pont. Max. — Dextera. Domini. fecit. virtutem.» (Psalm. 117, v. 16)
«Pius V Pont. Opt. Max. Ann. VI. — Dextera. tua. Domine. percussit. inimicum.» (Exod, XV, v. 6.)
«Pius V Pontifex Maximus Ann. VI — A. Domino. factum. est. istud.» (Psalm. 117, v. 23.)
286. Vedi sopra la nota 184.
287. Marcantonio Colonna, Lettera al cardinal di Como, da Corfù 1 settembre 1572, ext. ap. Theiner cit., t. I, p. 481.
Vedi i seguenti successi, e più la nota 45 del Lib. III.
288. Don Juan de Zuñiga, Embajador del Rey en Roma, Carta a D. Juan de Austria, 29 de noviembre 1571, Ap. Rosell cit., p. 215.
289. Sereno cit., p. 229: «Ma come negli onori supremi rare volte s’avverta che dall’atroce veneno dell’invidia non vengano contaminati; con le lingue viperine della sua sferza fece ella asprissimamente alcuni Spagnuoli mormorare: con dire che ad altri, che a don Giovanni, il quale della Lega era principal generale, il trionfo non si doveva. Onde quantunque desiderasse il Papa ogni onore ed ogni grandezza di Marcantonio.... nondimeno moderò la pompa.»
Caracciolo cit., p. 54: «Ma il Pontefice sotto colore di moderar la spesa, moderò il trionfo per non isdegnare il Re e don Giovanni.»
Motley Joh Lothrop, The Rise of the Dutch Republic, in-8. New-York, 1857, t. III, p. 141: «Had don John of Austria remained at Naples, the issue of the battle of Lepanto might have easily been the same.»
290. Antonius M. Gratianus, Episcopus Amerinus, De bello Cyprio, in-4. Roma, 1624, p. 231: «Hispani derisi rejectique a Pio.... eo descenderunt invidis animis ut prohiberent ne quis hispanus hispanorumque stipendiis obligatus. Columnæ aut occurreret venienti, aut omnino spectatum prodiret ingressum ejus in Urbem.»
Cayetano Rosell, Combate naval de Lepanto, in-8. Madrid, 1853, p. 207. Carta original del commendator mayor (Don Luigi de Requesens) a d. Juan de Austria, Roma, 14 diciembre 1571. «Lleguè aqui a los cinco de este, habiendo publicado que no llegaria hasta el dia despues: por escusar un muy solemne y extraordinario recibimiento que me tenian aparejado Paulo Jordan (Orsini) i todos los barones romanos que no se quisieron hallar en el triunfo.» Ecco come si manipolavano le nostre discordie. E l’istesso scrive in altra lettera a p. 223: «El triunfador anda muy melancolico despues que llegò este corrèo d’España: perque no tiene otra carta de allà, si no de su sulicidador; teniendolas Paulo Jordan y otros del Rey, dandoles gracias per lo que han servido. Dice que quiere dexar el cargo:... no sè que el lo haya dicho al Papa, però halo dicho a algunos amigos suyos, que no lo son tanto que le guarden secreto.»
291. Leopold Rankc, The ottoman and Spanish empire in the sixtheenth and seventinth centuries, in-4. Londra, 1843, p. 44: «Victory so glorious complete and dicisive, as had never before been achieved by Christendom.»
John Lothrop Motley, Rise of the Dutch Republic, in-8. New-York, 1857, t. III, p. 141: «The meagre result of the contest (of the battle of Lepanto) is as notorious as the victory.»
292. Graziani cit., p. 240.
Sereno cit., p. 218 e 270.
293. Graziano cit., p. 243: «Inter Venetos hispanosque cum palam amicitia societasque esset, secreto acrioribus quam cum hoste odiis certabatur; irritaveratque iras ipsa victoria.»
294. Graziano cit., p. 274: «Monuisse secreto dicitur, ut rebus suis veneti alia via consulerent, nec sibi præsidii aut spei quidquam ponerent in Hispanis; quibus non victore sed attrito confectoque turcicis armis Veneto opus esset.»
Item, p. 245: «Hispani veteri suo insistere consilio, et sustineri Turcas satis habentes, atteri et debilitari rem venetam præoptabant.»
Coleccion de Documentos cit., t. III, p. 63, Carta de D. Garcia de Toledo a don Juan de Austria. Pisa, 23 decembre 1571: «Quanto a lo que V. A. me manda que yo avise al Comendador mayor i al embajador D. Juan de Zuñiga mi parecer cerca lo que se ha de tratar en Roma, digo en substancia que yo tenia por cierto, como arriba digo, que con tan gran victoria. S. M. haria facilmente nuevos disignios, i daria nuevas ordenes; y que hasta saber la voluntad de S. M. se fuere alargando lo mas possible la platica en Roma.»
Rosell cit., p. 217, Carta del Comendator major i de don Juan de Zuñiga a su Majestad: «Respondimosle por los mismos terminos, que aunque nos otros teniamos el poder y orden de concluir sin esperar otra consulta.... deseavamos tener carta de Vuestra Majestad antes de la ultima conclusion....»
Arch. Col., t. II, p. 169, Lettera di M. A. a san Pio V: «Non si può sapere quello che il commendator maggiore può trattare con la Santità Vostra, et così non si può dir precisamente quello che convenisse per l’universal servigio. Tanto più che questa vittoria di necessità bisogna che abbia mutato l’animo di Sua Maestà.... et non sarà difficil cosa che il commendatore si vada intertenendo al venir qua per aver altri ordini per questa novità detta di sopra.»
295. Sereno, 253 e 255.
296. Vedi sopra, p. 264, nota 157.
297. Coleccion de Documentos por la Historia de España, in-8. Madrid, 1845, t. III, p. 49 a 58. Quivi sono undici capi di difficoltà che la parte spagnuola doveva proporre contro i Veneziani al congresso di Roma nel 1572.
Si vegga similmente la nota 4.
Graziano cit., p. 244: «Veneti igitur regiique legati disceptabant, nulla de re conventuri nisi apud utrosque interposita Pii auctoritas voluisset.»
Item, p. 249: «Cum hæ contentiones ipsos sexaginta dies tenuissent, et neutri sua sententia moverentur res ad Pium delata est, atque ex auctoritate ejus ita conventum.»
Item, p. 250: «Multis auctoritate, et diligentia Pontificis victis atque oppressis difficultatibus, redierant hominibus spes gerendi prospere belli in barbaros.»
Adriani cit., p. 901.
298. Don Juan de Austria, Despacho enviado a Felipe II en la Coleccion de Documentos cit., t. III, p. 42. Quivi don Giovanni istesso dimostra che si farebbe contro la capitolazione della Lega a lasciar da parte la spedizione generale contro il Turco per rivolgersi in Barberia: «Aunque convenga lo que todos sabemos, veo una gran difficultad; porque el Papa i Venecianos no han da venir en ello. Y a la verdad parece que no seria observar la capitulacion de la Liga cuando venecianos fuessen invadidos en sus estados, como se ha de tener por sin duda que lo ha de ser el año que viene. — Demas que, habiendo perdido ellos a Chipre tan poco tiempo ha, tambien podrian tratar de recobrarla, a lo cual añadiran lo que todos dicen comunemente que si el año que viene se goza de la occasion, por hallarse el Turco desarmado por mar, se le podrà hacer gran daño, lo que no serà si se le dà tiempo que se arme. Y a si cuanto a mi tengo par sin duda que el Papa i venecianos se han de ofender mucho en solo que se trate de otra cosa que de la expedicion general.» Fino giudizio.
299. Arch. Secr. Vatic., De fœdere et speditione classis Pii Papæ V contra Turcas, p. 62, Cod. segnato M., 172.
Arch. Col., t. II, p. 36.
Prescott, III, 309.
Documentos Ineditos, III, 300, Lettera del duca d’Alba contro la deliberazione di continuar la guerra in Levante, ridendosi di Pio V, e di qualche altro: «Que no pueden entender estas cosas.»
300. Don Juan de Zuñiga a don Juan de Austria. Roma, 13 febraro 1572. App. Rosell, p. 241: «Se firmaran los capitulos por la orden de S. M. que se dè satisfacion a venecianos por deseo de que estos no se concierten.»
301. Laderchi, Ann. Ecclesiæ, in-fol. Roma, 1737, t. III, p. 437: «Ad hæc illud Pio pariter molestum accidisse quod de M. A. Columna Philippo delatum esset.... quod igitur Pontifici pro sua in Regem charitate gratiam conciliare vel augere debebat id Columnæ invidiam conflasse. Sed quod gloriæ esse par erat, id vitio verti minime oportere. Denique non ut Pii gratia Columnæ prodesset, sed ne obesset Regem rogari.»
Graziani cit., p. 269: «Columna quia particeps victoriæ fuerat, quia redeunti domum honor ei a Pontifice habitus sit, prope eius rei invidia apud Regem, criminantibus hispanis, deflagrasse.»
302. Ratti, Della famiglia Cesarini, Sforza, Conti ec., in-4. Roma, 1794.
Gentile Sassatelli, Al Card. di Como informazione e soldati. Arch. Secret. Vatic., Armata del 1572, Cod. 3439, p. 333.
303. Sereno cit., p. 264. Forse per ciò che si è detto a p. 260.
304. Arch. Col. cit., t. I, p. 202.
305. Arch. Col. cit., t. I, p. 201 a 212, e t. IV, p. 118. Rassegna fatta dal Commissario.
306. Arch. Col. cit., t. IV, Rassegna del 10 luglio 1572, p. 115.
307. Contarini, cit. — V. sopra p. 79, 158, 195.
308. Il corpo del santo Pontefice dalla basilica Vaticana, ove era stato umilmente deposto nella cappella di Sant’Andrea, fu poi da Sisto V trasportato a santa Maria Maggiore; e degnamente riposto in un bel monumento ricco di marmi e di scolture. I fedeli concorrono a venerarlo nell’annuale ricorrenza della sua festa alli cinque di maggio. Sulla fronte del monumento sono tre bassi rilievi: la creazione del Pontefice, il concistoro per il generalato di Marcantonio, e l’ordinanza delle armate alla battaglia di Lepanto.
309. Maffei cit., p. 399.
Catena cit., p. 217.
Gabussi, Vita di san Pio, in-fol. Roma, 1605, p. 191.
310. Gabussi cit., p. 192.
Sereno cit., p. 267.
311. Vedi sopra, Lib. II, c. 6. p. 154.
312. È cosa notissima, e di più risulta da due lettere di esso Cosimo pubblicate dal padre Theiner cit., t. I, p. 356 e 357, nelle quali ardisce tentar Gregorio XIII a lasciar la guerra di Grecia e rivoltar le forze della lega in Africa, contro quel che aveva deliberato san Pio.
313. Theiner, Ann. Eccles., in-fol. Roma, 1856, t. I, p. 457.
Epistola S. R. E. Cardinalium Magno Etruriæ Duci sub die VI maij 1572.
314. Si noti che l’imprese dell’Africa proposte dagli Spagnoli vengono da tutti i cardinali chiamate di poco conto.
315. Theiner cit., t. I, p. 460, Epistola S. R. E. Cardinalium Castellano Civitatis Veteris sub die IX maij 1572.
316. Theiner cit., t. I, p. 461, Epistola S. R. E. Cardinalium Castellano Civitatis Veteris sub die X maij 1572.
Si noti che gli schiavi tenuti dal Castellano di Civitavecchia, di che qui si parla, erano quei Turchi prigionieri che Marcantonio aveva condotti da Lepanto. Le Mojane, dal francese Moyenne, erano cannoni di mezzano calibro da dodici e da diciotto, usati sulle galere del cinquecento. Le galere ponentine della Cristianità portavano più artiglieria che le levantine dei Turchi. I nostri avevano copia di falconetti o archibusoni da posta, alla spalliera, alla mezzanía e alla poppa: ed oltracciò la batteria sotto le rambate sempre di cinque pezzi. Il cannon grosso, chiamato pur cannon di corsía, da quarantotto; due mojane da dodici, e due sagrì da sei e più libre di palle. I Turchi non ne avevano che tre: il cannon di corsía, o petriero; e due sagrì. Nondimeno, diceva Giannandrea, bisognava fuggire.
317. Epistola S. R. E. Cardinalium Gentili Comiti Sassatelli sive in ejus absentia Protonotario Brisegno Apostolicæ Sedis apud Magnum Etruriæ Ducem nuntio, ap. Theiner cit., t. I, p. 456 et 458.
318. Conclave nella sede vacante di Pio V, nel quale fu creato Papa il Cardinal Boncompagni detto Gregorio XIII, ap. Theiner cit., t. I, p. 444, col. I, lin. 15.
319. Epistola S. R. E. Cardinalium, Vice-Regi Neapolis sive ejus Locumtenenti et Nuntio Neapolis Alexandro Simonetæ et Comunitatibus locorum per quæ milites Sedis Apostolicæ ad expeditionem sacri fœderis destinatos a civitate Viterbii usque ad confinia regni neapolitani transire contingerit. Theiner cit., t. I, p. 458 e 459.
320. Conclave ut supra, p. 446, col. 1, lin. 45, — e p. 448, col. 1.
321. Graziano cit., p. 257: «Cardinales conclavia intrarunt, et Alexandro Farnesio magnis opibus ambiente summum honorem repulso, Ugonem Boncompagnum pontificem appellarunt.»
Sereno cit., p. 268.
322. Giampietro Maffei, Annali di Gregorio XIII, in-4. Roma. 1742.
Ignatius Bomplanus, Historia Pontificatus Gregorii XIII, in-12. Roma, 1655.
Ciacconus, Vitæ Pontificum.
323. Sereno cit., p. 268.
324. Graziano cit., p. 270: «Columna animo versabat: nullum esse nunc Pium cuius auctoritate gratiaque tegeretur.»
325. Caracciolo, 60.
Sereno, 269.
Graziano, 258.
Adriani, 907.
Thuanus, lib. LIV, nº 21, t. III, p. 200.
326. Arch. Secret. Vatic., Armata e diversi d’Italia nel 1572, Cod. segnato nº 3439, p. 209 e 207.
«Paga delle fanterie Pontificie, a dì 25 giugno 1572.
Capitani. | Soldati. | |
Malati | Buoni | |
Cencio Capizucchi (di Roma.) | 20. | 231 |
Mariotti. (Girolamo da Fano.) | 18. | 142 |
Mutio Colonna (di Roma.) | 12. | 208 |
Tromba (Guido.) | 10. | 160 |
Concetto. (Matteucci da Fermo.) | 9. | 206 |
Urbino. (Giulio Sanfrèo da.) | 37. | 152 |
Tuttavilla. | 13. | 221 |
Sangiorgio. | 18. | 178 |
Maso. | 9. | 151 |
Filippo (da Civitavecchia.) | 10. | 189 |
156. | 1838 |
»N. B. Morti già venti, e infermi di malattia mortale dodici.» — Le armate vanno soggette alla moria se oziose nei porti.
327. Cesare Campana, Vita di Filippo II, in-4. Vicenza, 1608, t. III, p. 124 b.
Caracciolo, 66.
Graziano, 258.
328. Paruta cit., 265.
329. Sereno, p. 266.
Paruta, p. 278.
330. Rosell cit., p. 215, Lettera di don Giovanni di Zuñiga a don Giovanni d’Austria, da Roma 29 nov. 1571: Quivi è tutto il veleno contro questo uomo risoluto che faceva paura alla corte di Spagna, bisognandole uomo più arrendevole.
E p. 216: La risposta di don Giovanni d’Austria: e le proteste di non poter vivere in compagnia del Veniero; e la minaccia di gastigarlo senza aspettare che gliene dessero licenza, qualora venisse a far spropositi simili a quelli dell’anno passato. Così (aizzato dai tristi) parlava dopo la riconciliazione!!! Si raffronti con la nota 8, e con ciò che si è detto a p. 172.
Prescott, III, 299.
332. Arch. Secret. Vat., Armata e diversi d’Italia, Cod. nº 3439, p. 8, Lettera di M. A. Colonna al Cardinal di Como, da Napoli 26 maggio 1572.
Arch. Col., t. I, p. 210 a 219.
333. Gratianus, p. 274: «Austrius alienatum a Columna animum non dissimulavit.»
Id., p. 269: «Constat Columnam apud regem invidia, criminantibus hispanis, deflagrasse.»
334. Arch. Secret. Vatic., Armata e diversi d’Italia, Cod. 3439, p. 17, Lettera di M. A. Colonna al Card. di Como, da Napoli 28 maggio 1572: «Sebbene si mostra da alcun dei Ministri regii stimar la conservazione della Lega conforme alla volontà di S. Maestà, con gli effetti poi mostrano il contrario.... Volesse Iddio che chi mette il signor Don Giovanni in questo negozio avesse buon animo nella conservazione della Lega, dalla quale al fine dipende la grandezza di detto signore in particolare.» E p. 30: «Ho ben dispiacere che questo signore non venga aiutato dai Ministri di Sua Maestà con altro che con parole.»
Arch. Col., t. I, p. 212.
335. Arch. Col., t. I, p. 231. Rosell qui appresso.
336. Arch. Secret. Vatic. ut supra, p. 63 e 90, Lettere di Messina del 16 e 17 giugno: «Della volontà buona del signor don Giovanni io ne sono certo ma della sua jurisdizione io non posso aver l’istessa sicurtà.... Dio ispiri Nostro Signore al rimedio, che qui dubito non ci è giurisdizione: sebbene credo sia bene mandare un corriero e scrivere gagliardamente in Spagna. Il tempo è quello che mi smarrisce. Con i ministri piaccia a Dio che giovi, et poco ajuto mi pare che questo signore don Giovanni riceva da loro nella impresa; oltre che si crede che questi ministri siano di parere interessato che queste forze vadino ad altra impresa che a questa dove sono destinate e pronte. Et Dio voglia ancora che detti loro pareri non vadino in corte.» Figuratevi più bella maniera per dire che venivano di là.
Rosell, cit., p. 133, nota 13: «La inaccion de don Juan era efecto de los ordenes de la Corte:» E l’istesso Rosell a p. 154: «Don Juan enmudecia, en secreto se lamentaba de su situacion; no era dueño ni aun del titulo que se le daba; su voluntad su mismo ser dependian del Rey, a quien amaba como hijo y obedecia como vassallo.»
337. Arch. Col. cit., t. I, p. 233: «D. Giovanni ci domandava in gratia che per cinque o sei giorni non gli parlassimo della partita.»
Graziano, p 258: «Ille nunc studium ingens eundi præseferre, nunc res nondum paratas ad profectionem causari.»
Vedi sopra p. 299, nota 8, e p. 172.
338. Paruta cit., p. 282: «Ma quale si fosse la più vera cagione è cosa occultissima, tenendo gli Spagnoli i pensieri e disegni suoi in modo celati che senza dimostrare che per timore dei Francesi o per qual sia altro rispetto avessero l’animo alieno dal far unir l’armata et imprendere le imprese di Levante affermavano continuamente il contrario, temendo in continua speranza di passar presto a Corfù.... In tal modo li Spagnoli non scoprendo l’intrinseco de’ suoi pensieri, ma quando l’una quando l’altra causa di dilazione ritrovando, portavano il tempo innanzi senta far nulla.»
Però don Giovanni che ben sapeva come e perchè tutto questo venisse; non per altro che per disegni e fini particolari della corte di Spagna, ne scriveva ai 24 d’agosto di quest’anno ne’ termini seguenti al duca di Sessa, gran confidente del re: «Yo gracias a Dios tengo salud: aunque mayor desgusto del que sabria encarecer en esta de haber visto perder tan grande occasion como hemos perdido este año presente de romper l’armada del Turco segunda vez, por designios y fines particulares.» Rosell cit., p. 236.
339. Matthæi, cap VIII, vº 10: «Igitur ex fructibus eorum cognoscetis eos.»
340. Arch. Col., t. I, p. 234: «Il signor don Giovanni, ci aveva chiesto in grazia che per sei giorni non li dessimo molestia per conto della partita.»
341. Arch. Col., t. II, p. 118: «Si è scritto oggi in cifra al signor don Giovanni che si è inteso per lettera del Balio di Venezia de’ quindici di giugno, che già il Turco aveva saputo che Sua Altezza non veniva in Levante quest’anno coll’armata di Sua Maestà, et che di questo pigliava occasione l’ambasciador di Francia per tornare a trattare il negozio della pace.»
342. Arch. Secret. Vatic., Armata, Cod. 3439. Lettera di M. A. al Card. di Como, da Messina 24 giugno 1572.
343. Don Giovanni d’Austria, Lettera al duca di Terranova. Messina, 5 luglio 1572, ap. Rossell., 250: «El Papa da voces y scrive breves de fuego: Venecianos exclaman y dicen lastimas verdaderas, que enternecerian las piedras.»
Arch. Col., t. I, p. 226 a 241. Quivi è tutto il filo di questa matassa.
Graziano cit., p. 259 e 260: «Hispani literas Regis ad ipsum scriptas Gregorium XIII proferunt.... His lectis concidere omnibus animi, fremere homines in regem hispanosque.»
344. Graziano, p. 361: «Gregorius XIII inique ferebat sui pontificatus initio aperte falli fœderis leges.»
Prescott, III, p. 310: «Philip was not inclined to furnish the costly armament to which he was pledged as his contingent.»
345. Graziano, p. 241, 261: «Philippus diligentiam pollicitus, rem omisit.... Erat in summa invidia apud omnes non Italiæ modo sed reliquarum quoque gentium populos Philippi Hispanorumque nomen, quod nullo fidei pudore contra fœderum pacta non tam Venetos quam publicam christianæ reipublicæ causam, tempore tam indigno, deseruisse viderentur.»
Paruta, p. 294: «Dicevano avere il re di Spagna in questa Lega avuto innanzi i suoi propri interessi.»
346. Graziano, 260: «Veneti cuncta querelis miscebant non juvare sed prodere hostibus rem christianam esse clamitantes. Confictos Gallicos metus; ut, dato Turcis spatio, victoriæ navalis fructum Veneti nullum perciperent.»
Thuano cit., lib. LIV, nº 2t, p. 201: «Hispanorum id consilium esse ut Venetos insanis et inutilibus sumptibus absumant; eorumque ditionem bello attritam inde Turcis exponant hinc propriæ ambitioni.»
Longo cit., p. 36: «Pareva agli Spagnoli che s’avesse fatto troppo male al Turco con la rotta della sua armata, e troppo servigio alla republica.»
Leopold Ranke, Ottoman ad Spanish empire, London in-4. 1843, p. 45: «Don John of Austria was forced to admit the conviction that there was no hope of a well concerted erterprise on the part of Spain alone against the Turcks, nor yet of a League. It has always been a prominent tendency of European policy to preserve the Turks.»
347. Graziano, 260: «Idem testabantur Galli qui Romæ erant, Legatus regis et cardinalis Lotharingius; hinc calumniam hispanorum acerrimis confutare dictis, hinc eos egregios artifices occulendæ in aliena culpa fraudis qua Venetos circumvenire studerent.»
348. Marcantonio Colonna al Cardinal di Como, di Messina 20 giugno 1572, ap. Theiner, t. I, p. 466.
349. Paruta, p. 282: «Nè mancavano di quelli che dicessero essere dai grandi di Spagna invidiata la gloria di don Giovanni, e però aver posto questi davanti al re la troppa grandezza di lui come cosa di travaglio e pericolo.»
Lafuente cit., t. XIII, p. 529: «Que era que movia a Phelipe II a obrar d’esta manera?... Eran solo las difficultades de Francia?.... O eran tambien timores de su hermano?... Para nosotros es cierto que Philipe no queria permitir que su hermano don Juan remontase mas arriba.... Receloso del dictado de Alteza que daban a su hermano es evidente que hacia lo posible porque no llegara a decorarse con el de Majestad.»
Rosell cit., p. 134 e 135.
350. Graziano, 260: «Fuere qui non metum a Gallis, sed tentationem eam patientiæ Pontificis fuisse crederent: ausuro majora Philippo si his non succensuisset.»
Paruta cit., p. 283: «Fu questa elettione di Gregorio XIII molto favorita dagli Spagnuoli e dal card. Granuela, perchè stimavanlo uomo di così moderati pensieri da riuscir principe quale tornava comodo al Re cattolico.»
351. M. A. Colonna al Card. di Como, da Messina 20 giugno 1572, ap. Theiner, t. I, p. 466, col. 1, lin. 36, col. 2, lin. 6.
352. M. A. Colonna al Cardinal di Como, Messina 6 luglio 1572, ap. Theiner, t. I, p. 471.
353. Paolo Odescalchi al Cardinal di Como, da Messina 24 giugno 1572, ap. Theiner, t. I, p. 467.
Rossell., Lettera di don Giovanni ai vicerè di Napoli e di Sicilia, p. 229 e 230.
354. Sereno cit., p. 253.
355. Il Nunzio Odescalchi al Card. di Como, Messina, 28 giugno 1572, ap. Theiner, 469.
M. A. Colonna, cifra del 6 luglio cit.
Cosimo de’ Medici a Gregorio XIII da Vallombrosa, 17 luglio 1572, ap. Theiner, 357.
356. Il Nunzio Odescalchi al Card. di Como, Messina 3 luglio 1572 nel proscritto, ap. Theiner, 470.
357. Graziano cit., p. 261: «Austrius viginti triremes se daturum ait si sibi legatus regis, et Granuellanus cardinalis auctores essent: qui consilio inter se habito statuunt nec omnem classem, ne victoriam darent, esse mittendam; nec nullam, ne necessitatem deponendi belli Venetis facerent.»
358. Sereno, 274. Vedi sopra p. 317, 318.
359. M. A. Colonna al Cardinal di Como, da Capo Santamaria, alli 11 luglio 1572, ap. Theiner, t. I, p. 472: «Al mio partire da Messina supplicai Sua Altezza a farmi gratia di darmi il suo parere in scritto, et così me lo diede, del quale mando la copia a Vostra Signoria Illustrissima.»
360. Arch. Col., t. II, p. 116.
Confermato dal Caracciolo, p. 65, lin. 9.
Dal Sereno, p. 276, che dimostra l’impegno di don Giovanni nel ritirar questa scrittura, p. 294, e che una simile scrittura con la firma di Sua Altezza era in mano del cavalier Gil d’Andrada, il quale la donò a M. A., p. 295.
Arch. Secret. Vatic., Armata e diversi d’Italia, Cod. 3439, p. 212: «Parecer de Su Alteza de lo que podria hacer la armada de la Liga el año presente que va en Levante a cargo del señor Marco Antonio Colona:
»Parezer del Serenissimo S. D. Juan de Austria.
»Lo que Parece, Al Serenissimo señor don Juan de Austria que padria hazer el año presente la armada de la liga quê ba en Levante es lo siguiente.
»A un que sea cosa muy difizil y peligrosa el dar parescer en las que estan por venir, mayormente considerando que las de la guerra de una ora a otra se mudan por diversos azidentes, todabia se dirà aqui algo de lo que a su Alteza le pareze, que deve hazer la armada de la liga que lleba a cargo el señor Marcantonio Colona.
»Es Su Alteza de parezer, quel dicho Señor Marcantonio se dè toda la mayor priesa que fuere posible en yrse con la dicha armada a Corfù, y juntarse con la de Venecianos que alli està. Pero esta priesa sea de manera que no por ella se deje de hir al cabo de Santa Maria a tomar todos los soldados de su Majestad que pudiere llevar en las galeras; por que, como se ha visto por experienzia, el numero de la gente es el que pelea, y de lo que sobretodo se ha de hazer mucho caso. Y a este proposito se dize que ninguna galera llebe menos de ciento y cinquenta soldados, ultra de la gente que trae de hordinario.
»Desde Corfù se ha de formar la resolucion del viaje que se habrà de hazer, con la dicha armada; segun los avisos que se tuvieren de la del enemigo: por que los efectos que se habran de hazer han de nazer de los dichos avisos.
»Hazese cuenta que el dicho señor Marcantonio podra juntar por lo menos ciento y ochenta navios gruesos de pelear, en esta manera:
Seis galeazas de los SS. Venetianos | 6 |
Ciento y veinte galeras de los mismos | 120 |
Veinte y dos galeras y dos galeotas de Su Majestad | 24 |
Treze de Su Sanctitad | 13 |
Dieziocho a diezinueve naves, que escriven que havia en Corfù por cuenta de los SS. Venecianos | 19 |
182 |
»Esta armada es de numero y cualidad tal de Vaxeles, que no solamente se ygualarà con la del enemigo; pero le serà superior, y asì es Su Alteza de parezer que con ella se vayan corriendo las costas de las tierras del turco y quemandolas y destruiendolas a dos fines: el uno por vengança de los daños que los turcos han hecho el año presente, el otro para provocarlos a benir a batalla, que es el fin principal que se ha de tener: a la qual si vienen no hay duda que con la ayuda de Dios Nuestro Señor hayan de dexar de quedar venzidos por muchas razones que para ello se podrian dezir.
»A dos cosas pareze que se à de tener muy grande advertenzia la prima a no ponerse sobre plaza ninguna; pues el enemigo stando con el numero de baxeles que tiene y pudiendo cargar por tierra con mucho numero de soldados, podria hazer fazilmente un notable daño a nuestra armada; la otra a no entrar muy adentro en las mares del enemigo sin buena provision de bitualla.
»Y siendo asi que no convenga que la armada de la liga se ponga sobre ninguna plaza, como arriba se dize, su fin principal ha de ser comvatir con la del enemigo siempre que se entendiere no ser muy superior a la nuestra. En caso que se tenga aviso que, por entender que la armada de la liga sea dividida, Luchali quiesiere benir a buscar la parte mas debil, pareze que convenga mucho seguirla a donde quiera que fuere; Para lo qual de ninguna cosa hay mayor necesidad que de traer hombres de esperienzia y diligenzia con algunas galeotas o otros navios ligeros los quales puedan de ora en ora dar aviso de los progresos que el dicho enemigo harà, conforme a los quales se han de tomar las resoluziones.
»En Mezina a VII de julio de MDLXXII.
»Don Juan de Austria.»
361. Don Giovanni d’Austria, Lettera a Gregorio XIII, Messina, 6 luglio 1572, autografa nell’Arch. Vaticano, pubblicata dal Theiner cit., t. I, p 472, vol. I: «He ordenando que vayan en Levante con el dicho Marco Antonio Colona XXII galeras i dos galeotas, a cargo del comendador Gil d’Andrada.... con las quales i con el restante de la gente che en la dicha armada ira (mas sobre todo con las sanctas oraciones de Vuestra Beatitud) espero en Dios Nuestro Señor que sean de hacer el año presente nò menos buenos effectos que el que se hizo el pasado.»
362. Longo cit., Arch. Stor. Ital., app., t. IV, p.
363. M. A. Colonna, Cifra al Cardinal di Como, da Messina, 6 luglio 1572: «Sappia Sua Santità che queste galere di Malta mi hanno scandalizzato assai, lasciandomi in tale occasione.» Ap. Theiner cit., t. I, p. 471, col. 1.
Ib., altre lettere, p. 478, 479, 488.
364. Era Calabrese, rinegato e tignoso, come ho detto altrove. Luccialì, Luzzalì, Louchalì, Lucalì, Locchialì, Uluch-Alì, e simili, sono tutte varianti, presso diversi scrittori, dell’istesso nome; che non ha riscontro in lingua turchesca. Si potrebbe dire che al battesimo si chiamava Luca, ed alla circoncisione Aly: e che i due nomi congiunti insieme davano Luccialì, come lo scrivevano i migliori del cinquecento. Nativo di Cutro nel golfo di Squillace, di cognome Galeni, preso dai Turchi mentre navigava per essere allo studio di Napoli, e messo al remo, portò in pace qualche anno la sua sventura: poi rinegata la fede, e preso il mestiero della pirateria, diventò per ricchezza ed ingegno principe dei corsari e bey d’Algeri. Molte pratiche si fecero dai cristiani per riguadagnarlo, ma inutilmente.
366. Arch. Secret. Vat., Armata e diversi d’Italia, Cod. 3439, p. 362. Quivi è la seguente nota:
«Numero delle galere del Turco secondo la relazione mandata dal Signor Jacopo Malatesta nel 1572:
Bei di Rodi | 4 | |
Idem di Cipro fatte per l’armata | 6 | |
In Cipro passacavalli cinque per l’armata, accomodati in forma di galere da combattere | 5 | |
Idem Agà de Giannizzari ne menò forse cinque | 5 | |
Dervis Agà | 15 | |
Cauralì ne ha condotte forse | 15 | |
Un altro che non so il nome | 14 | |
L’uccialì ne condusse | 117 | |
Da Gallipoli | 15 | |
Da Satalia ne son venute | 3 | |
Da Escanderia (Alessandria) | 15 | |
Quattro Maone | 4 | |
Quattro d’Algeri venute con Luccialì | 4 | |
Somma | 222. | » |
367. Sereno cit., p. 179 e 180.
368. Marcantonio Colonna, Relazione di quel che avvenne nell’armata della Lega nel 1572 prima della venuta del Signor don Giovanni, scritta dall’istesso Marcantonio a richiesta di Paolo Tiepolo ambasciator de’ Veneziani in Roma, e ripetuta al Doge: come risulta dalla lettera quivi alligata sotto la data di Paliano, 14 giugno 1573.
Arch. Col. cit., t. III, num. 11, da p. 5 a 13, e t. II, 430 e 480.
Item, M. A. Colonna, Lettera al Card. di Como, dalle Gomenizze, 27 luglio 1572, ap. Theiner cit., t. 1, p. 473.
369. Longo cit., p. 37.
Sereno cit., p. 276.
M. A. Colonna, Relazione citata, nella quale rassegna l’armata come era alle Gomenizze il 23 luglio 1572:
FORZA DELL’ARMATA CONDOTTA DA M. A. NEL 1572. | |||||||
MATERIALE. | PERSONALE. | ||||||
GALERE. | NAVI. | GALEOTTE. | CANNONI. | SOLDATI. | MARINARI. | REMIERI. | |
Dei Veneziani | 100 | 16 | 18 | 838 | 15,700 | 6,700 | 20,000 |
Del Papa | 13 | 2 | — | 105 | 2,300 | 880 | 2,600 |
Del Re | 22 | 3 | 2 | 172 | 7,000 | 1,620 | 4,440 |
Totale | 135 | 21 | 20 | 1,115 | 25,000 | 9,200 | 27,000 |
371. Graziano cit., p. 262, Lettera di don Giovanni d’Austria a Marcantonio Colonna.
Della medesima parla l’istesso Colonna al Card. di Como, cui dice averne mandato copia ap. Theiner, t. I, p. 475, col. 1 in med.
Ne parlano egualmente in più luoghi la relazione citata, ed i Codici Colonnesi.
Arch. Secret. Vat., Armata e diversi d’Italia nel 1572, Codice 3439, p. 267: Carta de don Juan de Austria a M. A. Colona de Palermo, 16 julio 1582, firma autografa di don Giovanni. Eccola:
«Al Señor don Marco Antonio Colona.
»Ilustrissimo Señor.
»Haviendo el Rey mi señor entendido que se havia recobrado el lugar de Valencianas de los reveldes, aunque todavia quedava en su poder el de mont de Henao, y handavan haziendo los enemigos grandes daños en Flandes, teniendose zelo que por esperiencia se ha visto al beneficio universal de la christiandad y en particular a la observancia de la capitulacion de la liga, me ha mandado escrivir con un correo, que llebò la galera que despachè los dias pasados de Mecina, la qual ha buelto hoy, de que es su servicio, gue yo vaya en Lebante a daño del comun enemigo, posponiendo sus cosas particulares al beneficio de la Republica Christiana. Y asì pienso partirme d’esta ciudad para Corfù dentro de tres dias a mas tardar. Y me he holgado d’esta resolucion lo que V. S. puede bien considerar por infinitos respectos. Aqui despacho el que la presente lleba con una fragata en diligencia para que V. S. tenga entendida esta nueba que ha sido para mi de tanto gusto, y la pueda comunicar a esos señores; y tambien para que conforme a ella procedan en lo que habràn de hazer, que yo no perderè un memento de tiempo en mi viaje. Entre tanto juzgo que sea muy conveniente que se divulgare a los Griegos la nueba de mi yda, para tenellos en fèe en quanto llego; y que no se emprenda cosa que pueda haver peligro, por conservar la reputacion; sino que atendiendo preparar todo lo necessario, se estè con miramiento para estorvar el daño que el armada del Turco puede hazer en las tierras de Venecianos. Pues que, plaziendo a Dios, como toda la armada estè junta, espero en el que se hayan de hazer efetos muy conformes a su servicio.
»Escrivo con esse mismo despacho al marquès de sancta Cruz, que de donde quiera que le tomare se buelba con la armada de galeras y naves que trae a Corfù, a tal que se gane tiempo en caso que llegue a aquella Isla. Estando en ella V. S. procure y con gran vigilancia de que non hayan renzillas entre los soldados Españoles y Italianos: por que me pesaria de comenzar la jornada con desconformidad d’estas dos naciones. Que nuestro Señor la Ilustrissima persona de V. S. amonesca. De Palermo a 16 de julio 1572.
»V. S. se alegre en mi nombre con los Señores, general y probeedores, de la resolucion que Su Majestad ha mandado tomar: el qual, crea V. S., que pospane lo que toca a sus cosas particulares por las publicas; y aun que dixe que partirè de aqui a Corfu, siendome fuerza detenerme algo en Mezina por llebar esta armada junta, pero sera todolomenos que posible sea. Yo no escrivo a esos señores por no detener este despacho, el mismo podra servir para ellos.
»Servdr de V. S.
(firma autografa.) »Don Juan.»
372. Rosell, p. 154: «A las difficultades de don Juan replicaban los Venecianos.... y a las razones de Venecianos enmundecia don Juan, aunque en secreto se lamentaba de su situacion: no era dueño ni aun del titulo que se le daba, su voluntad su mismo ser dependian del Rey, a quien amaba come hijo a quien obedecia como vassallo.»
373. Gli eccitamenti di don Giovanni ai Greci, perchè si sollevassero a scuotere il giogo dei Turchi, si possono vedere nelle sue lettere tra la Coleccion de Documentos ineditos para la historia de España, in-8. Madrid, 1843, t. III, p. 353: «Carta de don Juan de Austria a los Cristianos de la Morea y a su arzobispo. Mesina, 9 de junio 1572, item, a los Cristianos de la isla de Rodos. Mesina, 15 de henero 1572 etc.» V. appresso la nota 85.
374. Marcantonio Colonna, Relazione cit. Arch. Col.
It., Lettera al Cardinal di Como, Dal Cerigo 5 agosto 1572, ap. Theiner cit., p. 475 e 476.
Paruta cit., 310.
375. Arch. Col. cit., t. II, p. 119.
Arch. Secret. Vat., Armata e diversi d’Italia nel 1572, Codice nº 3439, p. 265: Carta del señor M. A. Colonna al Serenissimo don Juan de Austria.
«Semo Señor.
»Gumenizas, 29 de julio 1572.
»Esta noche pasada 29 del presente llego una fragatilla de Ragazon con nueva que Vuestra Altezza por orden de Su Majestad viendria en Levante. Ha sido tan grande nuestra alegria que no fuera tal la tomada de Costantinopla y de toda su tierra. Loado sea Dios que la buena voluntad de Su Majestad, y valor de Vuestra Alteza, no ha sido impedido de gente ruin.
»Esta noche estavamos resueltos de partir para el Zerigo y de alli tomar conforme a los avisos de los enemigos la resolution de lo que haviamos de hazer, pues los avisos hèran que Luchali era fuera con 140 galeras y otros vaxeles: pero la mayor parte da las galeras muy ruines y mal armadas; y pensabamos con traer junta toda nuestra armada yr seguros de la vitoria quando el enemigo nos biniese a buscar; pues tenemos 127 galeras, seis galeazas, 24 maos y veinte fustas, y mas cobraremos en el camino 12 galeras de Candia, y dos galeotas: y quando nos pareciera que la armada del enemigo se pudiera pelear sin las naves, dexarlas; y hir a topalla con todo lo demas: y sepa Vuestra Alteza, que las galeras vienen bien proveidas de gente que de Otranto me truxeron 2500 soldados. Pensavamos con el ir adelante asegurar el daño que la armada enemiga pudiera hazer en Candia y en las mas islas de Venetianos, y que les bastase al enemigo de destruir su tierra, como hazen: pues han quemado toda la isla de Nixia y Paros y venian por degollar mucha gente de la Morea, y quitando tambien toda la vitualla de la tierra. Però esta mañana quise el parezer de Gil de Andrada y del General venetiano por la nueva que haviamos tenido de la venida de Vuestra Alteza; y entrambos dixeron que convenia yr adelante, como se havia tratado: pues esto no era de ningun embarazo a la venida de Vuestra Alteza, y importava mucho asegurar la Morèa sin daño, y la gente d’ella con su buena voluntad: que cierto si Vuestra Alteza no viniera, no sè yo (por lo que acà entiendo) caso mas miserable de lo que les acaeziera a esta pobre gente: y gardamos el daño tambien como ariba digo, que nos podian hazer en nuestra tierra. Y cierto si con nuestra yda los hazemos parar por sospecha que tomasen de que no se hechase la gente en tierra hasta la benida de Vuestra Alteza, cosa posible seria que esta armada cortandole el camino no pudiese, siendo parte d’ella tan flaca, bolberse a los Castillos: y quando en mi cara lo quisiese hacer tambien teniendo yo aqui ochenta galeras muy escoxidas se les podria hazer tiro. El empeñarse en impresa en tierra aun que el armada se huisse, yo no soy d’este parezer, hasta la benida de Vuestra Alteza, porque podriamos nos otros obligarle por la reputacion a lo que Vuestra Alteza con su mucha prudencia, no concurriese en ello. Y teniendo escrito hasta a qui, pensando siempre que havia de benir esta fragata con las cartas de Vuestra Alteza, ha llegado a 23 horas la dicha fragata, y yo con Gil de Andrada hemos hecho luego el oficio con el General y probeedor, los quales estan los mas contentos hombres del mundo. Y nos ha parecido, biendo la carta de Vuestra Alteza, que la resolution que es tomada, ha sido muy buena y conforme al parezer de Vuestra Alteza: y asì en esta ora, nos partimos, y sera muy a espazio con remorcho de naos y galeazas. A Vuestra Alteza beso las manos, esperando en Dios presto servirle de presencia.
»M. A. Colonna.»
376. Sereno, 286, 287, 288, 295.
Graziani, 274.
377. Rosell, cit., p. 138.
Marcantonio Colonna, Relazione cit.
Item, Lettera al Cardinal di Como, dal Cerigo 5 agosto 1572. Ap. Theiner cit., p 476, col. 2 in princip.: «Avendo inteso Luccialì che io venivo con 140 galere, et che il Signor don Giovanni era in rotta co’ Veneziani (dico così per dire appunto ciò che il cristiano fuggito dalle mani dei Turchi ne dice) veniva a combatterci, ma che vedendoci accompagnati dalle navi se ne era tornato indietro. Se Dio ci mandasse Sua Altezza, tutta l’armata turca sarebbe presa; e per conseguenza quasi tutta la Morea, perchè i Cristiani stanno in arme, et aspettano il fine di questo negozio. Questo cane di Luccialì veniva a tagliar molte teste nella Morea et bruciar tutte le isole dei Veneziani et giungere a Lepanto. Ringrazio Dio che finora il nostro venire avanti non è stato in darno: dica chi vuole.»
378. Vincenzo Coronelli, Atlante veneto in gran folio, Venezia, 1691.
Gian Giacopo de’ Rossi, Mercurio geografico, in-fol., Roma, 1689.
Tommaso Porcacchi, Le Isole, in-fol., Ven., 1604.
L. S. Baudin, Manuel du Pilote, in-8. Tolone, 1838, t. II, p. 141 e 439.
379. Marcantonio Colonna, Lettera al Cardinal di Como, dal Cerigo 5 agosto 1572. Ap. Theiner cit., p. 476, col. 1.
380. Virgilio, Æned., lib V, ver. 193:
«Jonioque mari, Maleæque sequacibus undis.»
381. Marcantonio Colonna, Relazione citata in med. Sono sue proprie parole.
Item, Narrattiva dei fatti del sette e del dieci agosto.
Arch. Secret. Vat., Armata et diversi d’Italia, nel 1572, p. 290.
382. Marcant. Colonna, Relaz. cit.
Graziano cit., p. 264 e 265.
Sereno cit., p. 285.
Caracciolo cit., p. 73.
Paruta cit., p.
Theiner cit., Lettere di M. A., di Pompeo Colonna, e di Domenico Grimaldi, p. 476, 478.
Arch. Col., t. II, p. 390, 417.
383. Graziano cit., p. 266: «Idque præfectis triremium earum impune fuit, Columna Gildoque animadvertere non ausis, quia in eis nobiles aliquot Hispani fuerant.»
384. Caracciolo cit., p. 71.
385. Graziano cit., p. 267: «Sed illa magis Venetos movebat cura, ne Austrio Hispanisque qui cum eo erant cupientibus, locus tergiversandi frustrandique rursus eius anni spes præberetur.»
386. Il Commissario Grimaldi, Lettera al Card. di Como, dal Cerigo 12 agosto 1572 Ap. Theiner cit., p. 478.
«Il Signor Marcantonio a mio giuditio si è dimostrato in questi dua giorni tanto valoroso et prudente, che se bene io lo riputava tale, mi è stato molto caro veder questa confirmacione per maggior soa gloria.»
387. Sereno cit., p. 290.
Caracciolo cit., p. 75.
Longo cit., p. 37.
Paruta cit., p. 324.
Graziano cit., p. 269.
388. Sereno cit., p. 291 in princ.
Caracciolo cit., p. 75 in fine.
389. Marcantonio Colonna al Cardinal di Como, da Corfù 1 settembre 1572.
Theiner cit., p. 481, col. 2, lin. 5: «Sappia Vostra Signoria Illustrissima che in corte di Spagna, sebbene Sua Altezza pigliò l’anno passato l’armata nemica, lo cacciorno.»
Sereno cit., p. 253.
Vedi a pag. 175, 177, 318, 323.
390. Paruta cit., p. 282.
391. Tuano cit., p. 201.
392. Marcantonio Colonna al Card. di Como, da Corfù, 1 settembre 1572, Ap. Theiner, p. 481: «Questo signor don Giovanni lo tengono tanto soggetto ed ha tanto consiglio che è cosa dannosissima in una guerra che le determinazioni vanno ad ore; che certo sono venti li suoi consiglieri: et poi bisogna far quello consiglio della Lega. Che io prometto a Vostra Signoria illustrissima che da che si comincia a consultare può un’armata nemica, prima che noi abbiamo risoluto, far ducento miglia.... Domattina don Giovanni farà la sua Sinodo....»
Lafuente cit., t. XIII, p. 532: «El consejo desaprobaba la idea de don Juan, y el disgustado y cansado de ver el poco acuerdo.... atado ademas por el Rey su hermano, y sujeto al voto de los otros capitanes, i no pudiendo obrar por su cuenta, determinò dar la vuelta a Italia.»
Cabrera cit., p. 708: «Los Venecianos despacharon a España a Antonio Tiepolo a saber si el Rey tenia gusto e proseguir la confederacion; porque les parecia aspero estorbar los efectos, i no los gastos.»
393. Graziano cit., p. 243: «Inter Venetos Hispanosque cum palam amicitia esset secreto acrioribus quam cum hoste odiis certabatur.» Si vedano le note precedenti.
394. Tuano cit., p. 201: «Hispanorum id consilium esse ut Venetos insanis et inutilibus sumptibus absumant eorumque ditionem bello attritam inde Turcis exponant, hinc propriæ ambitioni.»
Gratianus cit., p. 245: «Hispani veteri consilio atteri et debilitari rem venetam præoptabant, satis habentes Turcas sustineri.»
395. Paruta cit., p. 282: «La cagione è cosa occultissima, tenendo gli Spagnoli i pensieri et i disegni suoi celati.... coll’animo alieno dal fare unire l’armate et imprender le imprese di Levante affirmavano continuamente il contrario.... et non iscoprendo l’intrinseco de suoi pensieri, ma quando l’una quando l’altra causa di dilazione ritrovando portavano il tempo innanzi senza far nulla.»
I fatti però parlano più verità che le parole: e di quelli se n’è già veduti e se ne vedrà meglio tra poco.
396. Gratianus cit., p. 258: «Austrius expeditionem in Africam paraverat sperans quod Pontifex et Veneti haud invisi paterentur.... Verum accepto decreto ut bellum in Turcas atque in Grecia fieret Panormo Messanam cum tota classe transiit.»
Lorenzo Vander Hamen, Vida de don Juan de Austria, in-4. Madrid, 1627, p. 153.
397. Graziano cit., p. 259: «Quod ille secreto Columnæ aperuerat, ac petierat ab eo ut quod regis interesset Veneto verba daret.»
Sereno, p. 270: «L’ordine contrario del Re lo ritardava. Non restava però egli (don Giovanni) di mostrar d’affrettarsi per mantenere in fede i Veneziani.»
It., p. 272.
398. Caracciolo cit., p. 62. «Tutto il mondo mormorava del tardare a Messina, dove consumati in queste pratiche intorno a venti giorni ai ventisette giugno venne ordine del re che don Giovanni non si dovesse muovere.»
399. Gratianus cit., p. 261: «Nec omnem classem esse mittendam ne victoriam darent; nec nullam, ne necessitatem deponendi belli Venetis facerent.»
400. V. sopra al capo VII, la lettera di don Giovanni, le considerazioni dei Veneziani, e la risposta di Marcantonio.
401. Marcantonio Colonna, Relazione cit. in fine.
402. Caracciolo, p. 80.
404. Graziano cit., p. 269: «Columna animo versabat Parem profecto secundæ adversæque rei suam invidiam fore.»
405. Antonio de Herrera, Historia general. Valladolid, in-fol., 1605, p. 64: «Los Venecianos viendose muy cargados en tres años, sin sacar fruto; y puestos en mayor peligro, que primero, dizian que habiendo de ser las armadas per abril en Corfù, no fueron antes de agosto: y que pudiendo don Juan yr a buscar al armada, quiso que se bolviese por el a Corfù.»
406. Graziano cit., p. 272.
Sereno cit., p. 287.
407. Sereno cit., p. 288.
Caracciolo, p. 70 e 71.
408. Sereno cit., p. 293.
409. Caracciolo cit., p. 77.
Sereno cit., p. 293.
410. Graziano, 273: «Indignabantur Cytheris Zacynthum, inde Cephaleniam, nunc Corcyram quoque evocari.... nec Columna dolorem continebat in cuius contumeliam fieri id ab Austrio ferebatur.»
411. La lettera cavata dai codici Vaticani. Arch. Secret., Cod. 3439, p. 353 con la firma autografa di don Giovanni, data di Corfù 26 agosto 1572: «Sepan que conviene al beneficio comun de los collegados que se vengan luego sin ninguna dilacion, y con la mayor brevedad a este Puerto, donde los aguardo.» Corfù! Beneficio comune!
412. Graziano, 274: «....Cum Veneti stomachantes tam superbum adolescentis imperium execrarentur.»
413. Marcantonio Colonna al Cardinal di Como, dal Zante, 19 agosto 1572. Spedita per un servidore in posta, perchè lo spaccio andasse sicuro senza essere intercetto.
Theiner cit., p. 479: «Io fo molto mal giuditio di questo negotio, nel quale a me è giovato tanto poco il servir così bene appresso i ministri di Sua Maestà, che solo l’infinita affetione che porto al servitio di nostro Signore.... mi fa passar questa croce.... Che potevo io far più per gratia di Dio di quel che ho fatto?... Il giusto risentimento mi trasporta.... Però bisogna aver patientia, e quietarsi della sua coscientia, la quale tengo io tanto quieta quanto dir si possa.» Altra lettera del 1º settembre, ib.: «Sicchè c’è troppo che fare a conservare questo negotio et alle volte vorrei esser non solo qui, ma in Venezia, in Spagna et per tutto; ch’è miserabil cosa veder perire una congiuntione fatta, la quale non vi essendo, non si potria nè dovria desiderar et procurare altro, a beneficio della Cristianità.»
414. Francesco Longo, Successo della guerra fatta con Selim. Arch. Stor. Ital., Ap., t. IV, p. 40 e 41.
Caracciolo, p. 78.
415. Caracciolo, 78.
Sereno, 294.
Dal Pozzo, 55.
Adriani, 915 D.
Arch. Secret. Vat., Armata e diversi d’Italia, Cod. 3439, p. 366. In quei giorni Marcantonio dopo aver scritto di tutte queste cose ampiamente al Cardinal Colonna mandava al Papa la seguente lettera di suo pugno.
«Santissimo e Beatissimo Padre.
»Di Gomenizze, 7 settembre 1572.
»Il Cardinal Colonna informato della persecutione che io ho havuto da poichè servo la Sede Apostolica darà conto a Vostra Santità di quanto io habbia necessità della sua protetione. A lui rimettendomi, resto baciando li sui santissimi piedi.
»Humilissimo et fedelissimo suddito et servo di Vostra Santità
»Marco Antonio Colonna.»
Al re scriveva:
»S. C. R. M.
»Il signor don Giovanni in ultimo ne scrisse che tornassimo tutti in Corfù. Ma non ci scrisse che non partissimo, come V. M. havrà visto per la copia delle lettere che io le mandai. Havrà ancor saputo come io mi governai trovando così grande et increduta armata di Turchi. Et non ostante questo, et che li Venetiani tengono haver salvato Candia et le altre isole per la nostra andata avanti, vengono alcuni ad impressionar Sua Altezza che sia di me mal soddisfatta. Onde finora non ha voluto che io parli, nè le dia conto delle mie attioni. Comechè se io havessi fatto bene, non potesse essere che Sua Altezza ancora non si fosse prudentemente governato. Supplico Vostra Maestà a serbarmi un’orecchio, perchè qui in tutta questa armata chiare et honorate sono le mie attioni. Solo desidero che la M. V. sia della verità informata, come lo sarà Sua Altezza, visto che habbia solo le sue lettere. L’armata inimica creda V. M. che si verifica esser di duecento galere, et che sette se ne affondarono la seconda volta che ci incontrammo, et a V. M. bacio le mani.
»Di Corfù, li 2 settembre 1572.
»Humo et Demo suddito et servo
»M. Antonio C.»
Arch. Col., t. I, p. 272.
417. Marcantonio Colonna, Lettera al Card. di Como. Da Corfù, 1 settembre 1572, Ap. Theiner cit, t. I, p. 481.
Arch. Col., Due lettere di M. A. al Re di Spagna, t. I, p 272 e 277, nelle quali presso a poco produce le stesse ragioni.
419. Graziano, p. 274: «Austrius alienatum a Columna animum non dissimulavit.... ut arcano trium ducum consilio, admisso Sorantio, Pompejum Columnam, ante adhiberi solitum, in M. Antonii contumeliam prohibuerit.»
Arch. Col., t. I, p. 279.
420. Thuanus cit., lib. 54, nº 23 in fine.
Caracciolo cit., p. 80.
Sereno cit., p. 297.
Arch. Col., t. I, p. 276, Lettera di M. A. al Card. di Como, e t. IV, p. 118 è la Rassegna di 1614 soldati pontificii passati da M. A. al commissario Contarini per rinforzo dell’armata veneziana. Eccone la nota:
«Compagnie e Capitani. | Soldati in essere. | Feriti o infermi. | Tristi cassi. | ||
1. | Andrea Cardoli (di Narni) | 122 | 7 | 4 | |
2. | Vincenzo Olivieri (di Pesaro) | 91 | 12 | » | |
3. | Orsino Ferrari (da Roma) | 148 | 18 | 1 | |
4. | Marcello di Bologna | 143 | 14 | » | |
5. | Rutilio Conti (di Roma) | 150 | 12 | » | |
6. | Filippo da Civitavecchia | 139 | 3 | » | |
7. | Flaminio Brandolini (da Forlì) | 93 | 5 | » | |
8. | Pierjacopo da Nocera | 159 | 3 | » | |
9. | Cesare Caraffa | 108 | 17 | » | |
10. | Vincenzo Galeotti (da Roma) | 20 | 8 | » | |
11. | Francesco M. Signorelli (di Perugia) | 115 | 13 | 2 | |
12. | Bastiano Bandini | 108 | 7 | » | |
13. | Pellegrino Sinibaldi (di Osimo) | 78 | 11 | 3 | |
1474 | 130 | 10. | » |
421. Arch. Col., Relazione, t. II, p. 104.
422. Narratione di quanto si è fatto in armata da la partita de le Gomenizze alli XI settembre sino alli XX detto, mandata con lettera dei XXI settembre da porto di Giunco a Navarino. Ap. Theiner cit., p. 482.
Caracciolo, 82.
Sereno, 299.
Paruta, 330.
Arch. Col., t. II, p. 104.
423. Sereno, p. 299.
424. Caracciolo, 82.
426. Cap. Francesco De Marchi, Mss. Piante di città e fortezze, alla Magliabechiana, Classe XVII, Codice 37, tavola 162 e 165.
427. Caracciolo cit., 83.
Rosell cit., p. 142.
428. Miguel de Cervantes, lib. IV, cap. 39, in-8. Amberes, 1673, t. I, 452: «Halleme el setanta y dos en Navarino.... Vi y notè la occasion que alli se perdiò de no coger en el puerto toda la armada turquesca.»
429. Sereno cit., p. 300: «E dissero che fu per errore del piloto reale.... il quale tutta la notte si andò trattenendo.»
430. Rosell cit., p. 135: «Convencidos en Roma y en Venecia que nada se adelentaria sin que condescendiese a sus proposito don Filipe, etc.»
431. Graziano cit., p. 276: «Sed sive gubernatoris error fuerit, sive infensum Christianis Numen, egregia quod omnes fatentur delendi hostis occasio elapsa e manibus est.
Cervantes cit., p. 453: «Però el Cielo lo ordenò de otra manera.»
Lafuente cit., t. XIII, p. 531: «Los Aliados intentaron estorbar la reunion de las escuadras otomanus, que se verificò sin embargo.»
432. Paruta cit., p. 331, in med.
433. Adriani, p. 916 G.
434. Arch. Col. cit., t. II, p. 105.
Narratione cit., Ap. Theiner, p. 482.
Graziano, 276.
Sereno, 300 e 301.
Caracciolo, 83, 84.
Questi ultimi tre dicono in sostanza più o meno copertamente come le cose passarono: niuno però poteva tanto saperne quanto il protagonista che l’ebbe patite, vedute, e scritte nei primi due documenti qui citati.
435. Graziano, p. 276 e 277: «Plerique instinctu inimicorum Columnæ (ne qua laus ex re bene gesta ad eum obveniret) factum crediderunt.... tum quoque bene gerendæ rei, ut plerisque videbatur occasione amissa.»
Paruta cit., p. 331: «Così avvenne che lo tardare di pochissime ore (cotanto nella guerra importa la prestezza) facesse perdere una segnalatissima occasione di opprimere quasi senza alcun pericolo l’armata turchesca, la quale cosa grandissima variazione apportò nell’evento di tutta la guerra.»
Rosell cit., p. 142: «Este plan era acertado, si con diligencia i precaucion se llevaba a effecto. Se frustrò el calculo.... y la esperanza de otro triumfo tal vez mas completo que el de Lepanto.»
436. Caracciolo cit., p. 83, lin. 35.
Sereno cit., p. 301, lin. 4.
437. Simone Stratico, Vocabolario di Marina. Milano, in-8. 1813. Questi però alla voce quartiere, d’onde è cavata la nota dei Cassinesi, si legga tutto, e senza confusione.
438. Pantero Pantera, capitano di galera nella marineria romana, La Armata navale, in-4. Roma, 1614. Vedi quartiero e vogare nel vocabolario nautico, e nel corpo dell’opera a pagina 221: «Sarà anche giovevole alcuna volta nei viaggi lunghi la voga a quartiero, acciocchè, mentre una parte della ciurma s’affatica, l’altra pigli riposo et cibo.»
E a pag. 133: «Quando si camina a quartiero alla mezzania.... quando camina il solo quartier della prora.»
Bartolomeo Crescentio, ingegnero nelle navali spedizioni della marineria romana, La nautica mediterranea, in-4. Roma, 1602, p. 96. Ripete le stesse cose.
439. Sereno, 302.
Caracciolo, 84.
440. Sereno, 303.
441. Sereno, 304.
Graziano, 278.
Caracciolo, 87.
Giacomo de’ Rossi, Teatro della guerra, dove sono le piante e le vedute delle principali città e fortezze della Morea ec., in-fol. Roma, 1687. — Bibl. Casanat., Y, I, 13, tav. 77 e 79.
442. Sereno, 305, lin. 20.
444. Sereno, 304: «Instava Marcantonio che s’invesisse per due cagioni promettendo certa vittoria.... La nostra armata meglio fornita di combattenti, ed il nemico vicino al suo lido avrebbe comodità di salvarsi in terra abbandonando i vascelli.»
Arch. Col., t. II, p. 106, Lettera di M. A. al card. di Como. Da Porto Giunco li 28 settembre 1572. «Io proposi potersi investire l’armata nemica: la quale havendo la gente timida, stando nel suo porto, era da sperare certo che la maggior parte si buttasse in acqua. Et fu tenuto partito da non doversi accettare, come ho detto.»
Cervantes cit., lib. IV, cap. 39, p. 453: «Vi y notè la occasion que alli se perdiò de no coger en el puerto toda la armada turquesca. Porque todos los leventes i genizaros que en ella venian, tuvieron por cierto que les avian de envestir dentro del mismo puerto; y tenian a punto su ropa para huyrse luego por tierra, sin esperar ser combatidos. Tanto era el miedo que avian cobrado à nuestra armada.»
Vedi appresso pag. 417.
446. Graziano, 283: «Uluccialis qui adeo res suas deploraverat ut de deserenda classe turpique consciscenda fuga cogitaverat, ei mox vecordia nostra non in salutem modo, sed in tantam gloriam vertit ut.... hostem nulla re bene gesta abire Græcia inglorium coegisset.»
447. Gratianus, 279: «Consilium quoque classis turcicæ in Methonis portu oppugnandæ... in nihil iam tendentibus Venetis, ancipiti periculo deterritis, sua sponte effluxit.»
448. Sereno, 310.
Marcantonio Colonna, Lettera al Card. di Como. Dal porto Giunco (Navarino), 28 settembre 1572, t. II, p. 106, 107.
Lettera del Card. di Como a M. A. Colonna. Da Roma 25 settembre 1572. Importante, e firma originale. Arch. Col., Carte sciolte, nº 109. — Ne ho copia presso di me.
449. Sereno, 311.
Marc’Antonio, Lettere cit., p. 107, 108 e 110.
450. Tuano cit., lib. LIV, nº 24, p. 205, produce quasi a verbo la lettera di Marcantonio, e questo racconto.
Arch. Col., t. II, p. 107 in principio. Lettera di Marcantonio al Cardinal di Como, data da porto Giunco, 28 settembre 1572.
451. Theiner, Annal. eccl., t. I, p. 71, e Documenti, p. 356, 358.
Lettere del duca Cosimo e del principe suo figlio al Papa, senza esserne chiesti, per iscusare la doppiezza di Filippo.
452. Caracciolo, p. 91, lin. 16.
453. Si vedano gli storici di detta spedizione nel 1550.
454. Arch. Col., Lettera di Marcantonio al Card. di Como. Data da porto Giunco 28 settembre 1572, t. II, p. 108.
Adriani, 923.
Caracciolo, 91.
Sereno, 309.
455. Sereno, 309, 311, 312.
Caracciolo, 91.
Longo, 43.
M. A. al Cardinal di Como, da porto Giunco 28 settembre, t. II, p. 109: «Si credeva che queste navi dovessero portar vittuaglia.... ma non ne hanno portato.»
456. Sereno, 313.
Capitan Francesco de Morchi, Disegni e piante di fortezze, Mss. originali alla Magliabechiana, Classe XVII, Cod. 37, tavola 163; Navarino e l’assedio attorno postovi nel ottobre del 1572. I quartieri dei papalini, del sig. Pompeo Colonna, e del commissario Grimaldi vi sono specialmente indicati.
457. Rosell cit., p. 144: «Ademas se contentaron con tomar los caminos que iban à aquel lugar por una parte, mas par otra quedaban expeditos y entraban en la fortaleza quantos socorros se necessitaban.» Per colpa di don Padilla, contro gli avvisi del Conte di Sarno.
458. Caracciolo, 95 e 96.
Bartolomeo Dal Pozzo, Historia della sacra religione di Malta, in-4. Verona, 1703, t. I, p. 56.
459. Sereno, 324.
460. Marcantonio Colonna, Lettera al Cardinal di Como dall’Armata, passato il Prodano alla vela verso Zante a dì 8 ottobre 1572. Arch. Col. et ap. Theiner cit., p. 486: «Per il che noi astretti dal mancamento del pane, come dal vedere di non potere in questa parte fare altro effetto, havemo risoluto di venircene.»
461. Sereno, 308. «Passarono ai nemici più di quaranta Spagnoli.»
Caracciolo, 90 in fine.
462. Marcantonio Colonna, Lettera al Card. di Como, data da porto Giunco li 5 ottobre 1572, con una postilla in cifra della sera del dì 7 ottobre, pubblicata dal Theiner, t. I, p. 484 con qualche errore di amanuensi nel fine.
E nell’Arch. Col., t. II, p. 111.
463. Qui si conferma che la gita di M. A. in Levante fu per quest’anno il maggior beneficio della Lega.
464. Dunque i Veneziani e pel passato e pel presente erano maltrattati.
465. Marcantonio Colonna al Cardinal di Como, 8 ottobre dal Prodano alla vela pel Zante ap. Theiner, p. 486: «I Veneziani sono restati mal soddisfatti di due cose: l’una che da principio c’era più da magnare (a detto dei ministri di Sua Altezza) che non si è detto di poi, e l’altra che essendosi venuto tardi sia stato ancor con mala provvisione. Il punto è che per l’anno a venire si abbia un’armata da combattere.... Mi perdoni V. S. che è ordinario di chi non fa niente il discorrere, et alienare il pensiero dalle cose presenti e passate, con trattar delle future, ancorchè Dio sa se io ho colpa di così infruttuoso successo.»
Graziano, 280
Paruta, 336, 338, 339.
466. Sereno, 325.
Caracciolo, 99.
467. Arch. Secret. Vat., Armata e diversi d’Italia, Cod. 3439, p. 440. Lettera del signor Michele Bonelli al Cardinal di Como, da Corfù, 20 ottobre 1572, e p. 445. Lettera di monsignor Commissario Domenico Grimaldi all’istesso Cardinale, da capo Santamaria, li 22 ottobre 1572.
468. Sereno, 325 in fine.
469. Marcantonio Colonna, Lettera al Card. di Como. Da Corfù, 19 ottobre 1572: «Intendo che il Duca di Sessa è venuto per sollecitare il signor don Giovanni, perchè ritorni in Sicilia, e non per altro: il che ha causato che subito Sua Altezza ha fatto determinazione di partire.... Avrei molto più che dire. Mi rimetto all’arrivo, se Dio me lo concederà.» Ap. Theiner, p. 488.
Rosell cit., p. 145: «A las Gomenizas encontraron trece galeras, y Juan Andrea Doria, y el Duque de Sessa, que iban a incorporane con l’armada. En aquel punto se dividieron las armadas. Les Venecianos a Corfù, M. A. a Roma, y don Juan con los suyos a Mesina.»
470. Adriani, 923 D.
471. Sereno, 328.
472. Marcantonio Colonna, Lettere al Card di Como, da Genova 19 decembre 1572. Ap. Theiner, p. 363: «Qui sono stato visitato da tutta questa città; ma quel che è parso nuovo a tutti è stato che ci sia venuto il signor Giovanni Andrea Doria. Infatti è gran cosa che la verità ha da venire a luce.»
473. Sereno, 330.
Paruta, 342, 343.
474. Gregorio Leti, Vita del re Filippo II, in-4. Coligni, per Giovanni Antonio Chovet, 1679, t. II, p. 62.
475. Sereno cit., p. 327, 328.
Lafuente cit., t. XIII, p. 532: «Tal fue la infructuosa espedicion del 1572, emprendida con indisculpable retraso, continuada con lentitud, malograda por las difidencias i desacuerdos. Nadie hubiera creido en octubre 1571, que los vencedores de Lepanto habian de regresar asi en octubre de 1572.»
Item, p. 538: «El fruto que de la batalla naval de Lepanto se recogiò no fue ni el que se debiò ni el que se pudo.»
476. Paruta, 340.
Sereno, 328.
477. Marcantonio al Cardinale di Como. Da Genova, 19 decembre 1572. Ap. Theiner, 362.
Graziano, 321.
478. Severino Servanzi Collio, I militi della casa Matteucci, in-8. Sanseverino, 843.
479. Philippi II Hispaniarum regis, Literæ Gregorio XIII Pont. Max., sub die 30 nov. 1572. Ap. Theiner, t. I, p. 358.
480. Graziano, 292.
481. Graziano, 293: «Inter captiosos et cavillatores Hispanos, et morose nimis atque minute omnia exigentes Venetos.»
482. Graziano, 296.
483. Graziano, 322.
484. Graziano, 322.
Paruta, 360.
485. II Vescovo di Nicastro, Nuncio del Papa a Venezia, Lettere al Card. di Como del 4 e 5 aprile 1573. Ap. Theiner, t. I, p. 405-407.
486. D. Juan de Zuñiga, Carta a d. Juan de Austria. Roma, 6 aprile 1573; ap. Rosell cit., p. 243: «Yo serè en amaneciendo a Palacio, y despues de haber dado a entender el Papa la maldad que estos Venecianos hacen, y la obligacion que a el le queda de resentirse, hablar ec.» (Peggio a p. 244 e 245).
487. M. Wattson, Histoire du Regne de Philippe II, in-12. Amsterdam, 1777, t. II, p. 108.
Louis Cabrera, D. Filipe II Rey d’España, in-fol. Madrid, 1619, p. 747.
Gregorio Leti, Vita di Filippo II, in-4. Caligni, 1679, t. II, p. 64.
Sereno, 333.
Paruta, 362.
Graziano, 326.
Cesare Campana, Vita di Filippo II, in-4. Vicenza, 1608, t. III, p. 138.
Antonio de Herrera, Historia del mundo, in-fol. Vagliadolid, 1605, t. II, lib. II, in fine.
William H. Prescott, History of the Reign of Philip the second, in-8. Londra.
Lafuente cit., t. XIII, p. 534.
Rosell cit., p. 148: «Filipe II oyò la notificacion sin mostrar la menor sorpresa.... Asi a quel politico profundo desconfiando de los hombres acertaba a cenocerlos.» E p. 150: «Culpa fuè de nuestra Corte, o por major decir del rey Filipe II, alianza tan desvantajosa.» Documenti, p. 248.
488. Rosell cit., p. 156: «En 1572 no se imputò la culpa ni a don Juan ni a los Venecianos: el primevo no veia la hora de volar a les mares de Levante, los segundos se impacientaban con su tardanza. Pendiò este exclusivamente de los recelos de d. Felipe, que... pospuso la obligacion del cumplimento de las estipulaciones qae habia firmado.» La lega fu rotta da Filippo non dai Veneziani: e per confessione della Storia Spagnuola, approvata dall’Accademia reale di Madrid.
489. D. Juan de Zuñiga a don Juan de Austria, Roma, 2 julio 1573; ap. Rosell, p. 247: «Si podria ser que a Venecianos se les hiziese romper con el Turco, demas de la ayuda que tendriamos en sus fueras, V. E. crea que, aunque les pesara, havian de quedar SCLAVOS de S. M.: y tambien miraria S. Sanlitad con otros ojos nuestras cosa, y V. E. haria la guerra e su modo, sin haber de estar atenido a las condiciones de la Liga, y votos de los generales del Papa y Venecianos.... y por parecer este punto de tan grande importancia he querido luego despachar este corrèo, poro que pueda V. E. pensar i platicar.»
490. D. Juan de Zuñiga al Rey. Roma, 8 april 1573: «La flaqueza que el Papa ha echo en desarmar tan presto.... Yo les he dado cargo sobre esto a el y a sus ministros.» Rosell, p. 250.
492. Franciscus Mucantius, In Diariis, Mss. Ad diem 20 mensis aprilis 1573. Bibl. Casanat., XX, III, 7.
493. Iscrizione posta in Campidoglio sotto alla sua statua: «Marco Antonio Columnæ Civi Clarissimo Triumphali Debitum Virtuti Proemium Utile Posteritati Exemplum. Grata Patria Posuit. Ex S. C. Anno MDXCV.»
494. Arch. Col., t. III, p. 1: «La contrariedad que yo tuve en la guerra, que se hizo por tres años en compañia del Papa y Venecianos, nacio per tres causas. La primera porque huvo algunos que no les parecia bien ni les entrava en gusto la Liga: la otra, que no podian hacer que los Turcos se podiesen pelear en la mar: la tarcera, la grande embidia i rabiosa que me se tubo en que con el favor de Vuestra Majestad tuviese en a quel negocio luego tan principal. I este maldicho pecado fue creçiendo tanto mas, quanto que los sucessos y estas cosas suçedieron al revès de sus pareçeres. Y el fruto que yo he sacado hasta haora de la batalla han sido persecuciones.»
495. Muratori, Ann. d’Italia, 1584.
Antonio Coppi, Memorie Colonnesi, in-8. Roma, 1855, p. 349.
Tuano cit., t. IV, p. 236.
Arch. Col. cit., Biografia del signor Marcantonio, t. II, 338.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.