Inno d'amore e di compianto al giusto,
Al giusto denigrato! Ebelin, fido
Campion del magno Ottone e consigliero,
Colui che al generoso Imperadore
Verità generose favellava,
E i biasimati torti indi con mente
Pronta e amorevol correggea e sagace;
Colui, che, senza ambizïon nè orgoglio,
Spesso invece del sir ponea la destra
Al timon dell'impero, e lo volgea
Del sir con tanta gloria e securanza,
Che questi, anco in cimento arduo serrando
Le auguste ciglia al sonno, a lui dicea:
«Vigila or tu, che il signor tuo riposa;»
Quell'Ebelin, che, lagrimato il sacro
Cener del magno Otton, d'Otton novello
{172}
Fu parimente lunghi anni sostegno
Di giustizia nel calle, e guida e sprone;
Sì che a nessun parea che dilettoso
Ne' poveri tuguri e nelle sale
Fervesse crocchio, ove lodato il nome
Non fosse d'Ebelin,—quell'Ebelino
Morì esecrato, ed era giusto! Amore
E compianto agli oppressi!
Un dì l'Eterno,
Come a' giorni di Giobbe, al suo cospetto
Avea tutti gli spirti, e a Sàtan disse:
—Onde vieni?
E il maligno:—Ho circuita
Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo.
Ed il Signore:—O di calunnie padre,
Non vedestù l'amico mio Ebelino,
Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo
Tanta in prosperi dì serba innocenza?
E l'angiol di menzogna ambe le labbra
Si morse, e crollò il capo, e disdegnoso
Disse:—Ebelin? Dov'è il suo pregio? Ei t'ama
Perchè di beni è colmo. Il braccio or alza,
Percuotilo, e vedrai s'ei non t'imprechi.
{173}
Ed il Signor:—Giorni di prova a' retti
Forse non io so stabilir? Va; pongo
Entro a tue mani dispietate or quanto
Agli occhi della terra Ebelin porta,
Fuorchè la vita.
L'avversario allora
Avventossi precipite dal grembo
Della nembosa nube, onde i mortali
Atterria lampeggiando; ed in un punto
Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante
Si soffermò, e da questo lato i campi
Della lieta penisola mirando,
E dall'altro le selve popolose
De' boreali, l'una all'altra palma
Battè plaudendo al sovrastante lutto
D'entrambo i regni, ed esclamò:—Vittoria!
La più squisita voluttà del male
Pensò un momento qual si fosse, e al giusto
Fermò ignominia cagionar per mano...
Di chi?—D'amico traditore! Il colpo
Più doloroso e a dementar più adatto
Chi molto amando irreprensibil visse!
—Un Giuda voglio! Il dèmone ruggia
Giù dall'alpe scagliandosi e correndo
{174}
Pe' teutonici boschi, e visitando
Con infernal, veloce accorgimento
Città e castella.
Iva ei cercando l'uomo,
In cui scernesse il dolce volto, e i dolci
Atti, e l'irrequïeto occhio geloso
Del venditor di Cristo; e non volgare
Mente si fosse, ma gentil, ma calda
Di lodevoli brame, ed inscia quasi
Di sè si pervertisse, e vaneggiasse
D'amor per tutte le virtù, e seguirle
Tutte paresse, e infedel fosse a tutte.
Tale, od un vero giusto esser dovea
Chi affascinasse d'Ebelino il core;
E Sàtan nol trovava, e con dispregio
Maledicea la lealtà nativa
De' figli del Trïon, popol rapace
Nelle battaglie, e in sue pareti onesto.
Ma quando già il crudel quasi dispera,
Ecco s'incontra in uomo onde il sembiante
Tosto il colpisce; e fra sè dice:—«È desso!»
Ed esulta, e più guata, e vieppiù esulta.
Quel benedetto dall'orribil genio
Era un prode straniero, e fama tace
{175}
Di qual progenie, e nome avea Guelardo.
Sul suo destrier peregrinava, e ladri
Or assaliva, degli oppressi a scampo,
Or dispogliava ei stesso i passeggeri,
Se mercadanti, e più se ebrei. Nè spoglio
Pur quelli avrìa, se a povertà costretto
Non l'avesse un fratel, che del paterno
Retaggio spossessollo.
A che di bosco
In bosco errasse, ei non sapea. Sperava
Dal caso alte venture, e perchè tarde
Erano al suo desìo, volgea frequente
Il pensier di distruggersi; e più volte
Dall'altissime balze misurava
Coll'occhio i precipizi, e mestamente
Rideagli il core, e si sarìa slanciato
Nelle cupe voragini, se voce,
O aspetto di mortali, o speranze altre
Non l'avesser ritratto.
—O cavaliere,
Salve.
—Scòstati, scòstati, o romito;
Oro non tengo.
—Ed oro a te non chieggo;
{176}
Ben d'acquistarne santa via t'accenno.
Vile è il mestier cui t'adducea sciagura,
Ma nobile è il tuo spirto. A me tue sorti
Occulta sapïenza ha rivelate:
Vanne a Bamberga; ad Ebelin ti mostra:
Grazia agli occhi di lui, grazia otterrai
A' clementi occhi del regnante istesso.
Così Satan, e sparve.
Incerto è quegli
Se fu delirio o visïone. Al cielo
Volge supplice il viso: in cor gl'irrompe
De' suoi misfatti alta vergogna; aspira
A cancellarli, e quindi in poi di tutte
Virtù di cavaliere andare ornato.
In quel fervor del pentimento, incontra
Un mendico, e su lui getta il mantello,
E sen compiace, e dice:—Uom non m'avanza
In carità e giustizia.
E Sàtan rise,
E non veduto gli baciò la fronte.
Alla real Bamberga andò Guelardo,
Mosse alle auguste soglie, ad Ebelino
Supplice presentossi, e pïamente
Da quella bella e grande alma si vide
{177}
Ascoltato, compianto, e di non tarda
Aïta lieto. Un fascino infernale
Sovra la fronte di Guelardo imposto
Ha del demone il bacio. Allo straniero
Conglutinossi d'Ebelino il core
In breve tempo; e nella reggia e in campo
Quei Gionata parea, questi Davidde.
Mirabile brillava ad ogni ciglio
Quella forte amistà: Saran fremeva
Ch'ella durasse, e il volgersi degli anni
Affrettar non potea. Nè ratto varco
Sperabil era tra i pensieri onesti
Che Guelardo nodriva e la sua infamia,
Tra l'amor suo per Ebelin, tra il dolce
Nella virtù emularlo, e il desiderio
Scellerato di spegnerlo. Ma il tristo
Angiol si confortava misurando
L'immortal suo avvenire. Appo sì lunghi
Secoli, breve istante eran poch'anni.
Ed intanto ci godeva, a quell'imago
Che tigre, sebben avida di sangue,
Mira la preda, e ascosa sta, e sollazzo
Tragge di quella contemplando i moti
E l'amabil fidanza, ed assapora
{178}
Più lentamente la decreta strage.
Dopo tanto aspettar, s'appressa il giorno
Sospirato dall'invido. Al novello
Otton contrarie qua e là in Italia
Eran le menti di non pochi, e speme
Vivea secreta ch'italo Ebelino
Secretamente lor plaudesse. Il core
Di molti era per esso, e nelle ardite
Congrèghe entro a' castelli, ed appo il volgo
Susurravan, più splendido rinomo
Non avervi del suo; null'uom più voti
A suo pro riunir; doversi acciaro
Dittatorio offerirgli, o regio scettro.
L'augusto sir dalla germana sede
Contezza ebbe di fremiti e lamenti
Nell'alme de' Lombardi esasperate,
Ed a sedarle con prudenza invìa
Ebelino e Guelardo.
Alla venuta
Di questi sommi giù dall'alpe, e al grido
Che fama addoppia de' lor alti pregi,
E più de' pregi di colui, che sembra
D'onnipotenza quasi insignorito,
Ferve ognor più l'insana speme, e tutta
{179}
In congressi pacifici prorompe,
Ove i duo messi imperïali invano
Senno indiceano e obbedïenza.
—O prodi!
Così Ebelin risponde al temerario
De' corrucciosi invito; io condottiero
Mai contr'Otton non moverò, chè avvinto
Gli son da conoscente animo e onore,
E il portai fra mie braccia. E quando insieme
Del moribondo padre suo le coltri
Inondavam di pianto, il sacro vecchio
Nostre mani congiunse, e disse:—Un figlio,
O Ebelino, ti lascio;—ed a te lascio,
O figlio, un padre in Ebelino!—Ed era
In tai detti spirato. Allora il figlio
Gettommi al collo ambe le braccia, e molto
Pianse, e chiamommi padre suo, e lo strinsi,
E il chiamai figlio. Ove pur reo di patti
Violati con voi fosse il mio sire,
Biasmo sincer da mie labbra paterne
Avriane, sì; retti n'avrìa consigli,
Ma non odio, non guerra, non perfidia!
—Deh! taccïano, Ebelin, privati affetti,
Ov'è causa di popoli. Ed ignota
{180}
Mal tu presumi essere a noi l'ingrata
Alma d'Ottone anco ver te, che dritti
Tanti acquistasti a guiderdone e lode.
Ombra a lui fa la tua virtù: onorarti
Finge, ma stolta è finzione omai
Ond'ogni cor magnanimo s'adira.
Possente sei, ma più non sei quel desso
Che ne' duo regni un dì tutto volvea.
Tëofanìa il governa, e da Bisanzio
Sul germanico seggio ov'ei l'assunse
Recò le greche astuzie, e lo circonda
Di greci consiglieri. Essi con lei
Van macchinando contro te ogni giorno;
Che se finor cadute anco non sono
Le podestà che a te largì il monarca,
Della tua rinomanza egli è prodigio,
E nel tiranno è di pudor reliquia.
Bada a' perigli, a tua salvezza bada:
D'Otton l'iniquità rotto ha i legami
D'ogni giusto con esso.
Un de' maggiori
Così parlò fra gli adunati audaci.
Nè, sebbene oltrespinta, era appien falsa
La parola di sdegno e di sospetto
{181}
Circa l'imperadrice e i cortegiani
Ch'ella a sue nozze addotti avea di Grecia.
Ma la candida e ferma alma del pio
Ebelin s'adirò. L'imperadrice
E Otton con nobil gagliardìa difese,
E de' Greci sorrise. Ei sì facondo
Favellava, e amichevole e verace,
Che i più irati l'udìan con reverenza:
Con tenerezza quasi, ancor che invitti
Nel feroce astio e nell'ardente brama.
Di Guelardo lo spirto a quel congresso
Funestamente s'esaltò. Il diletto
Ebelino ei vedea, nella commossa
Fantasia, re, suscitator di gloria
Ad un popol redento. Il vedea bello
Giganteggiare in immortali istorie,
Com'un di que' supremi, onde la terra
Lunghi secoli è priva; e sè medesmo
Socio vedea di quel supremo, e a lui
Successor forse, e... Che non sogna audace
Ambizïon, se raggio ha di speranza?
Quand'ei fu sol con Ebelin, ridisse
Le voci insieme intese, e commentolle
Coll'insistenza del favore; e aggiunse
{182}
Maligno esame de' pensier, degli atti
D'Ottone, e della Greca in trono assisa,
E degli astuti amici ond'ella è cinta.
Quasi certezza accolse i più irritanti
Dubbi e i minimi indizi di periglio,
E gridò ingratitudine, e diritto
Alla rivolta. E a grado a grado questa
Ei necessaria osò chiamare, e il pio
Ebelin concitarvi. Lo interruppe
Finalmente Ebelin; duplice tela
Come già svolto aveva agli adunati,
Svolse di novo al tentatore amico:
Qua la turpezza del tradir, là i vani
Sforzi a potenza e gloria, ove bruttata
È nazïon da lunghi odii fraterni.
Negli aneliti suoi s'ostinò il core
Di Guelardo in quel giorno, e seguì poscia
A ridir con sofistica, inesausta
Facondia per più dì l'empie sue brame;
Sì che non poche volte il generoso
Ebelino in resistergli, dal mite
Considerare e dai soavi detti
Passò a dogliosa maraviglia e sdegno.
Turbossene colui, ma il turbamento
{183}
Ascose e il disamore, e da quel tempo
Crescente invidia in sen covò tremenda.
Novi succedon fortunati eventi,
Ch'ognuno attesta glorïosi al senno
Dell'ottimo Ebelin; ma più Guelardo,
Come negli anni primi, or della gloria
Del suo benefattor non va giocondo.
Ei con geloso sospettante ciglio
Mira la sua grandezza, e superarla
Vorria e non puote; e detestando, sogna
Dall'amico esser detestate; e pargli,
Laddove pria si belle in Ebelino
Virtù vedea, più non veder che scaltra
Ipocrisia. De' pervertiti è proprio
Non credere a virtù; d'ogni più certo
Generoso atto dubitar motivi
Turpi, ed asseverarli: in ogni etade
Così abborriti fur dal mondo i santi.
Da quello stato di rancor, di mente
Ognor proclive a gettar fango ascoso
Sovra l'opre del giusto, è breve il passo
Ad assoluto di giustizia scherno.
In Lamagna Guelardo ad altri uffizi
Di grande onor da Ottone è richiamato,
{184}
Mentre Ebelin nell'itale contrade
Resta moderator. L'ingrato amico
Sospetta ch'Ebelino abbia con arte
Tal partenza promosso, a fin di trarsi
Uom dal cospetto che in secreto esècri.
Del congedo gli amplessi ei rende a quello,
Ma senza avvicendar come altre volte
Palpiti dolci di desìo e di pena.
Infinto ei crede ogni atto ed ogni accento
Del più sincero degli umani, e parte
Coi fremiti dell'odio, e maturando
Di non avute offese alta vendetta.
—Cieco tanto io sarò che vero estimi
Suo rifiuto ai ribelli? Or che si vaste
Son le congiure? Or che da lunghe e infauste
Guerre è stanco l'impero? Or che d'illustre
Nome a capitanarla, e di null'altro,
La penisola ha d'uopo? Or che oltraggiata
Dalla superba, greca, invida nuora
È quell'antica d'Ebelin fautrice,
La vantata Adelaide, che alle umìli
Ombre de' chiostri dalla reggia mosse?
Or che Tëofania palesemente
Lacci a lui tende e sua rovina agogna?
{185}
Il menzogner di me diffida: i vili
Diffidan sempre! Allontanarmi volle
Non senza mira ostil: me di qui toglie
Per regnar sol, per non aver chi forse
Sua sapïenza e sue prodezze oscuri.
All'amico ei rinuncia; ei nelle schiere
Del suo tradito Imperador mi brama,
Nelle schiere d'Otton, contro a cui l'asta
Scaglierà in breve; e tanto orgoglio è in lui,
Che nè lo sdegno mio, nè la sagacia
Non teme, nè il valor! Perfido! io mai
Stato non fora a tua amicizia ingrato;
Alla mia ingrato ardisci farti: trema!
Valor non manca al vilipeso e senno
Da smascherar tua ipocrisia. Ludibrio
Ne fur bastantemente il sire, i grandi,
Le sciocche turbe, e insiem con loro io stesso!
Così nel suo vaneggiamento infame
S'agita l'infelice, e non s'accorge
Che il re d'abisso più e più il possede;
Così travolve le apparenze ogn'uomo
Che a livor s'abbandoni:
Ecco Guelardo
Giunto ai reali di Bamberga ostelli;
{186}
Eccolo assaporante i nuovi onori,
Ma com'egro che, misto ad ogni cibo,
Sente l'amaro della propria bile.
Più sovra il labbro di Guelardo il nome,
Come già tempo, d'Ebelin non suona,
O su quel labbro se talvolta suona,
Laude non l'accompagna, e il favellante
Impallidisce, e torvamente abbassa
La pensosa pupilla irrequïeta,
E la rïalza sfavillando; e ognuno
Scerne che di compressa ira sfavilla.
Del mutamento avvedasi esultando
Tëofania, s'avvedono i suoi fidi,
E al convito di lei con gran decoro
Visto sovente è quel Guelardo assiso,
Ch'ella tanto agli scorsi anni abborria.
Ordiscono essi alcuna trama insieme
Contro al lontano giusto? o la perfidia
Tutta covossi di Guelardo in petto?
Un dì da quel convito esce il fellone,
E quasi esterrefatto si presenta
Agli occhi del monarca, e a lui si prostra,
Ed esclama:—Ebelino è traditore!
Le rivolte fomenta; alla corona
{187}
D'Italia aspira: sciolta è l'amistade
Che a lui mi strinse! Eternamente è sciolta!
E false carte adduce in prova, e adduce
Di vili già ribelli, or prigionieri,
Menzogne tai, che faccia avean di vero.
Ed il monarca trabalzò, fu vinto
Dalle inique apparenze. Esitò ancora,
Dubitar volle novamente; a novo
Esame ripiegò la scrupolosa
Afflitta anima sua; ma le apparenze
Trionfaron più orrende e più secure.
Indi egli irato invìa turba di sgherri
All'italo paese, onde sia tratto
Carico di catene il formidato
Duce a Bamberga.
L'innocente duce
Stanza a que' giorni avea in Milan. Posava
Una notte, ed in sogno a lui s'affaccia
Lo stuol de' cari, in varia guerra estinti,
Fratelli suoi, col vecchio padre; e il padre
«Fuggi, gridava, sei tradito!» E gli altri
Con affanno e singhiozzi ad una voce
Ripetean: «Fuggi, fuggi!»
E per quell'alme prega, e s'addormenta
Un'altra volta. E in sogno ecco apparirgli
Il magno Otton primiero ed Adelaide,
Non cinta ancor di monacali bende,
Ma il serto imperial sopra la fronte.
Meste eran lor sembianze, ed a lui: «Fuggi
Fuggi, dicean, del figlio nostro l'ira!
Ira per te sarìa mortal!»
Si desta
Il nobil duce, e per quell'alme prega,
E s'addormenta un'altra volta. E vede
Il tempo antico e la città solenne
Ove sorge il Calvario, e là pur vede
Di Getsèmani l'orto, ed appressarsi
Una frotta d'armati, e Iscarïote
Dare il bacio alla vittima!... Ed oh vista!
Iscarïote era Guelardo!
Balza
Spaventato destandosi Ebelino,
E que' tre sogni avvertimento estima
Dell'angiol suo. Fuggir vorrìa; ma dove?
Ma perchè? Fugge l'innocente mai?
Pochi istanti anelò fra que' pensieri
Di stupor, di tristezza, e piena d'armi
{189}
Fu ben tosto la soglia. Udì Ebelino
Che dal suo Imperador venìan que' ferri,
E il cenno di seguirli: ai manigoldi
Cesse con muto fremito la spada,
E porse ai ceppi gli onorati pugni.
Quasi ladro il trascinano, e Milano
E tutta Lombardia mira quel crollo
Sì inopinato. Il prigioniero obbrobri
Soffre inauditi; e non sarìagli pena
Dagli sgherri soffrirli: itale voci
Lo irridon per la via, maledicenti
Al passato suo lustro. E quale esclama:
—Va, di rivolte eccitator maligno!
Va, scellerata causa, onde su noi
Cesare versa il suo tremendo sdegno!—
Qual:—Va, codardo degli Otton mancipio,
Che d'Italia campion far ti negasti!
Ben or ti sta de' tuoi servigi il premio!—
Qual più schietto prorompe:—Erami noia
Udir chiamarti il giusto; alfin delitti
Potrem di te sapere ed abborrirti!
Quant'è lunga la via sino a' confini
Delle italiche valli, Ebelin tacque
Degli spregi sofferti. Allor che in cima
{190}
Dell'alpe fu, rivolse gli occhi, e alzando
Le incatenate braccia,—Oh maledetta
Troppo da' vizi tuoi, misera patria,
Sclamò, non io ti maledico! Il cielo
Figli ti dia che s'amino fra loro,
Ed amin te com'io t'amava e t'amo,
E più di me felici acquistin gloria
Senza espïarla con dolori e insulti!
—Maledicila! gridagli all'orecchio
Una voce infernal.
—Ti benedico
L'ultima volta! ripres'egli.
E pianse
Siccome pio figliuol sulla ignominia
D'una madre infelice; e gli sovvenne
Quanto già quella madre avea prefulso
In virtù fra le genti, e a depravarla
Quante cagioni eran concorse! E grande
Su lei di Dio misericordia chiese;
E dal dolce aer suo, dalle ridenti
Tutte illustri sue sponde, ei nè le amanti
Ciglia diveller, nè il pensier poteva!
Satan che indarno occultamente spinto
Avealo ad imprecar la patria terra,
{191}
Urlò di rabbia le sue preci udendo;
E di Lamagna per alture e piani
Corse con questo grido:
—È alfin caduto
L'italo malïardo, il seduttore
De' nostri augusti, il protettor di quanti
Di Lombardia traeano ad impinguarsi
Sul germanico suol, genìa predace
Onde la tanta povertà cresciuta
In quest'anni da noi! Tutti Ebelino
Nostri tesori al lido suo recava,
E colà un trono alzar voleasi, allora
Che ad atterrar le ribellanti spade
Inetto fosse per miseria Ottone?
—Ebelin mora! Universal risposta
Fu del tedesco volgo. Ed obblïato
Da migliaia di cuori in un dì venne
Quanto a lodarlo aveali invece astretti
La sua mansüetudine, il modesto
Non curar le ricchezze, il riversarle
Sulle infelici plebi, il non mostrarsi,
Benchè pio verso gl'Itali, men pio
Ver gli stranieri. Quella dianzi nota
Serie di virtù splendide cotanto,
{192}
Un incantesimo vil parve ad un tratto,
Una menzogna. Convenìa disdirla:
Riconoscenza è grave pondo ai bassi.
Esultan se pretesto a lor si porga
Di rigettarla, e attaccaticci morbi
Son odio, ingratitudine e calunnia.
Conscio de' benefizi innumerati
Ch'egli avea sparso, avea creduto ognora
L'irreprensibil cavalier che stretti,
A lui fosser d'amor cuori infiniti.
Le ripetute indegne contumelie
Lo sorpreser, ma tacque; e sovra tanta
Pravità de' mortali meditando,
Arrossì d'esser uomo, e innanzi a Dio
Umilïossi. E vanamente ancora
Stette Satan mirandolo e aspettando
Il desìo di vendetta e le bestemmie.
Chiama l'Onnipossente al suo cospetto
Tutti i ministri spirti, e a Satan dice:
—Onde vieni?
E il maligno:—Ho circüita
Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo.
Ed il Signore:—O di calunnie padre,
Non vedestù l'amico mio Ebelino,
{193}
Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo,
Tanta nel suo dolor serba innocenza?
E l'angiol di menzogna ambe le labbra
Si morse, e disse:—Ov'è il suo pregio? Ei t'ama,
Perchè, in tuo amor fidando, ei palesata
In breve spera sua innocenza. Il braccio
Estendi, e più percuotilo, e vedrai
Se non t'impreca.
Ed il Signor:—Non forse
Giorni di prova assegno a' retti? Vanne:
Ebelino è in tua mano; anco sua vita,
Anco la fama sua, perchè maggiore
Torni suo vanto e tua immortal vergogna.
L'avversario precipite avventossi
Dal grembo della nube, onde i mortali
Atterrìa lampeggiando, ed in un punto
Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante
Si soffermò, e da questo lato i campi
Della lieta penisola mirando,
E dall'altro le selve popolose
De' boreali, l'una e l'altra palma
Battè plaudendo al sovrastante lutto
D'entrambo i regni, ed esclamò:—Vittoria!
{194}
Di là scagliossi alla città del trono
E de' cento felici incliti alberghi,
E delle orrende mura ove trascina
Sua catena Ebelin. Desta il demonio
Ne' giudici, che Ottone a indagin chiama
Dell'alta causa, aneliti vigliacchi.
Temon, se reo non trovan l'accusato,
L'ira d'Otton, l'ira d'Augusta, l'ira
Di quel Guelardo che per essi or regna;
E dove il trovin reo, speran più pingui
Gli onorati salarii, e maggior lustro.
Chi primiero è fra' giudici? Oh impudenza
Guelardo stesso!
Oh come il core all'empio
Nondimen trema, udendo che s'appressa
L'irreprensibil catenato! E questi
Entra con umil, sì, ma non prostrato
Animo, e reca sulla smorta fronte
Quell'alterezza ch'a innocenza spetta.
Cela Guelardo il suo tremore, e prende
Così ad interrogar:
—Qual è il tuo nome,
O sciagurato reo?
Da Villanova, amico tuo.
—Rigetto
L'amistà d'un fello: giudice seggo.
Che macchinasti co' Lombardi?
In viso
L'accusato guardollo, e non rispose.
E Guelardo:—A lor trame eri secreto
Eccitator; t'offrìan lo scettro, e pronta
Stava tua destra ad accettarlo in giorno
Ch'ansio esitavi a stabilire, in giorno
Che, la mercè di Dio, non è spuntato.
V'ha fra i complici tuoi chi tua perfidia
Al tribunale attesta.
E poichè muto
Serbavasi Ebelin, vengon a un cenno
Que' testimoni nella sala addotti.
Eran duo di que' truci esclamatori
Di libertà, di civiche vendette,
Di patrio amor, che ne' consessi audaci
Della rivolta più fervean, più scherno
Scagliavan sui dubbianti e sovra i miti,
E più capaci d'affrontar qualunque
Parean supplizio, anzi che mai parola
Di codardia pel proprio scampo sciorre.
{196}
Questi eroi da macelli, questi atroci
Ostentatori d'invicibil rabbia,
Come fur tolti a lor gioconde cene,
E gravato di ferri ebbero il pugno,
E il patibolo vider,—tremebondi
Quasi cinèdi, le arroganti grida
Volsero in turpi lagrime e in più turpi
Esibimenti di riscatto infame,
Altre teste al carnefice segnando.
Ad Ebelino in riveder coloro
Isfuggì un atto di stupor:—Voi dunque?
Voi?... Ma, qual maraviglia? Oh! ben a dritto
Io sempre le feroci alme ho spregiato,
E ben diceami il cor quali voi foste!
Ed appunto perchè troppe vid'io
Alme siffatte là nelle congrèghe
Ove il mio plauso si cercava indarno,
E pochi vidi eccelsi petti, avversi
Ad insolenza e a stragi, io mestamente
Presentii di mia patria obbrobri e pianto,
S'ella sorda restava a' preghi miei,
E alle minacce mie, quando insensata
Io vostr'impresa nominava e iniqua.
I testimoni balbettaro, e fisi
{197}
Gli occhi loro in Guelardo, il concertato
Calunnïar sostennero. Ebelino
Più non degnolli di risposta, e chiese
D'esser condotto anzi ad Ottone a cui
Parlar volea.
Respinge inutilmente
Guelardo quest'inchiesta, e così forte
La ripete Ebelin, ch'un de' seduti
A giudicarlo generoso alzossi,
Sclamando:—La tua brama, o il più infelice
Fra gli accusati, porteranno al trono
Le labbra mie.
Null'uom potè di quella
Anima schietta rattenere i passi:
Move all'Imperador, franco gli parla,
E il pio monarca inducesi al colloquio.
Mentre dunque l'afflitto incoronato
Nelle regali, splendide pareti
Aspettava che a lui tratto venisse
Il già caro Ebelin, nella memoria
Gli ritornavan gli alti e numerosi
Servigi di quel prode, e l'amicizia
Che al magno Otton, suo padre, avealo stretto;
E commoveasi ripensando quante
{198}
Volte quell'Ebelin con tenerezza
Lui prence fanciulletto infra le braccia
Portato avea, quante paterne cure
Prese per lui, quanti affrontati in guerra
Per sua difesa ardui perigli,—e il core
Gli si volgea a clemenza.
Ode sonanti
Nelle vicine sale i trascinati
Ferri del prigioniero, e gli si gela
Di pietà il sangue. E quand'entrare il vede
Pallido, smunto, gli si gonfia il ciglio,
E magnanimo pianto a stento cela.
Ebelin pur commosso era, calcando
Con vincolato piede oggi i tappeti,
Che tante volte avea con dominante
Passo calcati, e intorno a sè veggendo
Tanti, che in altro tempo a lui dinanzi
S'inchinavan temendo, ovver felici
Andavan s'egli a lor stringea la destra,
E ch'or s'atteggian contegnosi, e quali
A sterile pietà, quali ad insulto.
Giunto Ebelino alla presenza augusta,
Piegasi reverente, e aspetta il cenno:
—Favella, sciagurato: uom con più caldo
{199}
Fervor non brama tue discolpe.
—Sire,
La mia innocenza esser dovriati scritta
Ne' lunghi intemerati anni ch'io vissi
Di tua casa al servizio e dell'onore.
In inganno te volto han miei nemici,
E me calunnia opprime.
—A tue parole
Aggiungi prova, e riputato il sommo
De' tuoi servigi questo fia da Ottone.
—Se a te prova non son gli atti che oprai
Alla luce del sol, l'abborrimento
Sperimentato mio contra ogni fraude,
Contr'ogni ingiusta ambizïon; se nulla
A te non dicon queste mie sembianze
Imperturbate in così ria sventura,
Preclusa è a me di scampo ogni fiducia;
Anzi alle leggi mia supposta colpa
È attestata abbastanza. Altro non posso
Se non gli estremi del mio zelo sforzi
In quest'istante consecrarti, o sire,
Tai verità parlandoti, che forse
Più non udresti, se da me non le odi.
—T'ascolto, disse il rege.
{200}
Ed Ebelino
La propria causa obblïar parve, e diessi
A svolgere di stato alti consigli,
I bisogni quai fossero additando
Delle schiere, del popol, dell'altare,
De' tribunali, e della reggia stessa:
Quali i provvedimenti unici, rotti
Ed efficaci ad impedir l'ebbrezza
Delle rivolte, a raffermar lo impero:
Quali de' prischi imperadori, e quali
Del magno Otton le più laudabili opre,
E quai le insane; e come arduo ognor sia
Seguir le prime e non errare; e come
Gli egregi prenci a errar tragge talvolta
Adulante caterva. Accennò alcuni
Del sir lusingatori, accennò il vile
Cangiarsi di Guelardo: e brevi furo
Su lor suoi detti, e non degnò que' nomi
D'anime basse proferir neppure.
Ma que' rapidi detti eran gagliardi,
Siccome piglio di paterno braccio,
Che sovra l'orlo d'un dirupo afferra
Perigliante figliuolo.
Da verità sì energiche, da senno
Sì giusto e luminoso ed esaltante
Non era stato mai colpito. In altri
Colloqui a' dì felici il buon ministro
Parlava il ver, ma forse in più gradita
Guisa, sparmiante del suo re l'orgoglio.
Ora è il parlar solenne, il grido urgente
D'uom, che vicino a morte anco un tributo
Di fedeltà solve al monarca e al dritto,
Tutto dicendo che giovar del pari
Sembrigli al trono e alle regnate genti.
Alla beltà del vero e del coraggio,
E di quel dignitoso intenerirsi
Che da alterezza vien compresso, e pure
Nella voce si sente e ne' benigni
Sguardi si vede, unìasi in Ebelino
Da natura sortita un'armonìa
Di nobili sembianze e di contegno,
Talchè valor più prepotente dava
A sua favella, ed escludea il supposto
D'ogni viltà, d'ogni codarda astuzia,
E facea forza a Otton. Perocchè Ottone
Stranier non era a simpatia per cuori
Di grandissima tempra. E fu vicino
{202}
A cedere, a gettare ambe le braccia
Del prigioniero al collo, al gridar:—Falsa
Tengo ogni accusa contro al mio fedele!
Ma Sàtan vide quell'istante, e spinse
Tëofania d'Augusto in cerca.
Bella
Era la greca donna e di vivaci
Grazie adorna, e scaltrissima e pungente
Ne' suoi sarcasmi, ed irridea talvolta
La bonaria alemanna indol con motti
Quasi di spregio; e di quei motti spesso
Arrossia Ottone. E perocch'egli amava,
L'affascinante sposa, ambìa piacerle
E far pompa d'accorta alma inconcussa,
E a tal cagion solea de' generosi
Sensi in cor frenar gl'impeti al suo fianco.
Salutata dall'armi, il passo inoltra
Fra le colonne di que' regii lochi
La incoronata, e stabilisce e freme
In vedere Ebelino; e sovra Ottone
Lancia quel guardo che dir sembra:—Stolto!
Sedur ti lasci?
Tanto, oimè, bastava
A confondere il sire! Eccol a un tratto
{203}
Con più severa maestà atteggiarsi
Verso il captivo, e dir:—Riedi: a me il vero
Tutto paleserassi; e tu, innocente,
Gloria n'avrai; prevaricato, morte.
Torna Ebelino al carcere, e già scerne
Che inevitata è per lui morte. Oh come
Lenti di nuovo i dì, lente le notti
Volgon per lui! Quel sempre assomigliarsi
D'una all'altr'ora, e la perpetua veglia,
Ed il perpetuo tenebrore—e i cibi
Immondi e scarsi—e l'aspreggiante voce
Di questo o quello sgherro—e il frequent'urlo
D'altri prigioni disperati, in cupe
Vicine volte seppelliti—e il suono
De' ceppi loro, e quel de' propri—e il canto
Osceno del ladron che, bestemmiando,
La forca aspetta—e i gemiti dell'egro
Forse non reo che sulla paglia spira—
E il sollecito passo delle guardie
Che dicono: «È spirato!»—e questo detto
Che l'echeggiante corridoio in guisa
Ripete orrenda—e il pianto d'un amico
Che, udendo il nome dell'estinto, grida
Dal fondo d'un covile: «Ahi! gli sorvivo!»—
{204}
E per dispregio di quel pianto il ghigno
Od il sibilo infame di coloro
Che trascinano il morto—e, con siffatta
Serie d'inenarrabili vicende
Di castel, che i perenni affigurava
Dell'abisso tormenti, il ricordarsi
De' dì sereni che svanìr, de' plausi,
Delle liete speranze, e, più di tutto,
De' dolci affetti—ah! quella è tale immensa
Congerie di dolori e di spaventi,
Che dissennar minaccia ogni più forte
E sdegnoso intelletto! E se si ponno
Da intelletto simil serbar talvolta
Contro all'empia fortuna altero scherno,
O pensieri di pace e di perdono,
E di fede nel cielo, ahi! pur quell'ora
Amarissima vien che ineluttata
Mestizia il cor miseramente serra,
E non v'è chi consoli! Ed altre pari
A quell'ora succedono, e d'angoscia
In angoscia si cade! Ed un'ardente
Smania investe il cervello, ed impazzato
Esser si teme o brama! E il generoso
Petto chiuder non puossi all'irrüente
{205}
Piena dell'odio che in lui versan mille
Della viltà degli uomini memorie!
E feroce si resta, e di sè stesso
S'inorridisce e sclamasi:—«Son io,
Benchè non conscio di mie colpe, un empio?»
E chiedesi all'Eterno, e lungamente
Chiedesi invan, d'amore una scintilla!
Quelle angosce conobbe anco Ebelino,
Ed allora invisibile al suo fianco
Sàtan sedeva, e gli pingea coll'arte,
Ch'è propria a lui, tutto che meglio ad ira
E a disperazïon trarlo potesse.
Ed Ebelin pur resistea, e pensava,
In mezzo alle sue smanie, all'Uomo-Iddio,
Che sublimò i dolori, e fu ludibrio
D'ingrati e di crudeli: e quel pensiero,
Che insensatezza all'occhio è de' felici,
Insensatezza non pareagli, ed alta
Storia pareagli che gli oppressi in tutti
Lor martirii nobilita; e volgendo
Quella storia ammiranda, a poco a poco
Ammansava gli sdegni e perdonava.
Ma la parte del cor, che più dolente
Sanguinava, era quella ove scolpite
{206}
Stavan due care fronti. Una è la fronte
Della madre decrepita che in pace,
All'ombra degli altar, da parecchi anni
Viveasi in Quedlimburgo, e l'altra è quella
Della madre d'Augusto. Ambe le antiche
Serrava il chiostro istesso, e raramente
Alla reggia venìan; che ad Adelaide
Odïosa la reggia erasi fatta
Per l'imperar della superba nuora.
—Qual sarà stato di mia madre, e quale
Dell'onoranda Imperadrice il core,
Allorchè udir la mia sventura? Iniquo
Esse, no, non mi tengono! Esse almeno,
Mentre a tutti i mortali il nome mio
In abbominio fia; caro l'avranno!
Così geme Ebelino. Un dì, ottenuto
La madre alfine ha di vederlo, e scende
Alla prigion del figlio. Oh inenarrati
Di quel colloquio i sacri detti e i sacri
Abbracciamenti! Oh qual pietà! Una madre
Che riscattar col sangue suo non puote
Di sue viscere il frutto! ed il più amante
Figlio che di sua madre, ahimè! in secreto
Deplorar dee la lunga vita!
{207}
Il giorno
Che dalla inconsolabil genitrice
Fu Ebelin visitato, oh da qual notte
Seguito fu! L'espandersi de' cuori
Nella sventura, è de' sollievi il sommo;
Ma dopo tal sollievo, allor che mesto
Il prigionier dalle pietose braccia
Di persona carissima è staccato,
E solingo riman, quanto più dura
Gli è solitudin! Quanto più affannoso
Il desiderio de' bei tempi in cui
Fra gli amati vivea! Quanto più viva,
Più lacerante la pietà ch'ei sente
Di sè stesso e d'altrui!
Me a tal dolore
Stranier non volle il Cielo, e in ripensarti,
O decennio del carcere, infiniti
Strazi ricordo, ma il più acerbo è forse
Quand'io, abbracciato il genitor, partirsi
Da me il vedea; quand'io, calde le labbra,
Del bacio suo, dicea:—Questo è l'estremo!
Non un decennio, ma più lune ancora
Durar gli allarmi d'Ebelino. Ei forse
Nel giudizio di Dio gli accusatori
Sperava iniqui col possente acciaro
{208}
Düellando atterrar. Chi d'Ebelino
Avea la forza e la destrezza? E quanta
Forza o destrezza in düellar non dona
Senso d'intemerata anima offesa!
Ma tai giudizi Iddio forse abborrendo,
Non volle che sancito il reo costume
Per Ebelin venisse; o del demonio
Opra fu l'impedirlo. Il pestilente
Aere del carcer nell'oppresso infonde
Maligni influssi, ed eccolo abbattuto
Da insanabili febbri. Il derelitto
Pur talvolta illudeasi, immaginando
Che alcun de' tanti, su cui sparsi avea
Suoi benefizi, or con repente mossa
D'onore e gratitudin s'offerisse
A combatter per esso:—attese indarno.
Spunta il dì della morte, ed Ebelino
Vien tratto innanzi a' giudici; e Guelardo
La sentenza gli legge! Il condannato
Udì, chinò la fronte, e rese grazie
Tacitamente a Dio che al sacrificio
Termine alfin ponesse; e bramò ancora
Una volta veder la genitrice.
Venne l'antica, e insiem si consolaro
Con nobil forza alterna, e con alterne
{209}
Religïose cure. Ella ed un pio
Ministro del Signor soli eran consci
Dell'innocenza d'Ebelin. Veloce
Scorre quel sacro tempo, e omai gl'istanti
Sovrastan del patibolo. Umilmente
Prostrasi ancora innanzi al sacerdote
Il giusto cavalier; quindi si prostra
Anzi alla madre, ed ella il benedice,
E si dividon sorridendo, e in cielo
Riabbracciarsi in breve speran.
Move
Per le vie tra i carnefici, agguagliato
Al più vil masnadiero, e contro a lui
Insane urla di scherno alzan le turbe.
Di quegl'inverecondi ultimi segni
Dell'odio altrui stupìa, ma per le turbe
Egli pregava. Ed arrivato al palco,
Con fermo passo ascese, e parlar volle;
Ma sue parole non s'udir, sì orrendi
Vituperi sonavano. Ed allora
Accennò egli medesimo al percussore,
E siede sullo scanno, e tosto il collo
Mise sul ceppo—e la mannaia cadde!
L'angiol della calunnia, abbenchè indurre
{210}
Non avesse potuto alla bestemmia
Il retto cavaliere, e or si rodesse
Invido i pugni, l'alta anima a Dio
Salir veggendo—audacemente «Ho vinto!»
Volea sclamar. Ma pria che la menzogna
Intera uscisse dell'infame petto,
Piovver dal cielo i fulmini, e il bugiardo
Spirto ravvolser negli eterni abissi.
Ov'è il Giuda novel?—Perchè perduto
Delle guance ha il vermiglio, e la baldanza
Della voce e del guardo?—E perchè al riso
Che da Tëofania volto gli è spesso
Non ride, e gli occhi abbassa, o spaventato
Mira a destra e sinistra?—E perchè a sera,
Se in luoghi oscuri passa, affretta il piede
A illuminata parte, e ansante giunge
Quasi inseguito fosse?—E perchè cerca
Talor per via i mendici, e su lor versa
A piene mani l'oro, e di lor preci
L'aiuto invoca, e inefficaci poscia
Di quei le preci ei furibondo chiama?—
E perchè ne' festini alcune volte
Cionca e sghignazza, e intrepido si vanta
Contro a tutte paure, e quando a letto
{211}
Va nell'ebbrezza, trema ed urla, e al fido
Servo chiede il cilicio e se lo cinge?
Pentimento ei bramava, e scellerata
L'alma era fredda, e a pentimento chiusa.
Un dì, colui con altri sommi duci
Passò a fianco d'Otton sovra la piazza,
Ove ancor d'Ebelino ad alto palo
Vedeasi infisso il teschio. Il traditore
Volea finger letizia, e le pupille
Miseramente stralunava, e insieme
Forte i denti batteangli. Ottone il guarda,
E vacillar sovra l'arcione il vede,
E a sostenerlo accorre.
—Oh! che ti turba?
Oh! che ti turba? Gli ripete.
—È desso!
Sclama Guelardo, il mio tradito amico!
Chi dal giusto immolato mi sottragge?
E prepotenza di rimorso invitta,
Ma non pia, lo costringe. Ei maledice
E terra e ciel, ma l'alto arcano svela.
Folto drappello d'ottimati, e folta
Moltitudin di volgo al confessante
Fa cerchio, e inorridisce a sue parole,
Tutta imparando la esecrata istoria.
{212}
Da tanti petti universal s'innalza
Un lamento:—Oh sventura! oh atroce colpa!
Il caduto Ebelino era innocente!
Ed Otton più che gli altri inconsolato
Raccapricciando grida:—Oh me infelice!
Era innocente, e trarre a morte il feci!
Il traditor nel suo sangue stramazza.
Qual mano il colpo diè primier? Mal puote
Fama saperlo. I più disser che ratto
Un ferro in cor si configgesse il tristo,
Altri che Otton percosselo. Il tumulto
Ferve con rabbia orrenda. In cento brani
Ecco lacero, pesto, annichilato
Il cadavere infame. E s'inchinaro
D'Ebelino anzi il teschio e imperadore
Ed ottimati e popolo, e nel tempio
Dato fu loco alla reliquia santa.
Alto clamor di giubilo e di rabbia
Rimbombò nell'inferno, al piombar quivi
Il traditor, ma sol menonne festa
L'abbietta e sciocca de' demonii plebe:
Il lor superbo re, poste con ira
Su Guelardo le luci e le calcagna,
Urlò:—Che gloria alma sì vil mi reca!