Title: Storia di un'anima
Author: Ambrogio Bazzero
Release date: August 15, 2006 [eBook #19048]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Sormani - Milano)
Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the
Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Sormani - Milano)
1885.
Erano i tempi della nostra Vita Nuova.
Con questo titolo uscì nel 1876 a Milano un giornale letterario sostenuto in parte dai raminghi scrittori dell'antica Palestra letteraria e da altri nuovi venuti. Furono e l'uno e l'altro due bagliori, più che due fuochi, ma a quella vampa molti giovani si conobbero a tempo, molte volontà si sgranchirono, molti ingegni si accesero. Poi venne la vita vera per alcuni, l'oblìo per altri, la morte per i migliori.
Fu in quell'anno ch'io conobbi Ambrogio Bazzero, il primo dei nostri morti,
Non molto alto di persona, di capelli rari per grave malattia sofferta qualche anno prima; con bei baffi rossicci, di fattezze regolari, parlava con una voce chiara, ora argutamente, ora in tono di profonda tristezza. Mobile, nervoso, fuggevole, caro, fu il più attivo, il più ordinato, il più candido di quella babilonia che si diceva per burla Amministrazione della Vita Nuova.
Il Bazzero era nato il 15 ottobre 1851 a Milano, da una ricca famiglia. L'essere ricco non nocque a lui, come nuoce a molti che la troppa fortuna confonde e stanca, perchè il denaro non gl'impedì mai di studiare e di fare del gran bene alla povera gente.
Fin da fanciullo, dice un santo libricciuolo che mi fu dato di consultare, Ambrogio mostrò animo così pietoso, che non osava far male a una formica. D'inverno spargeva miglio e briciole di pane sul davanzale della finestra e godeva a vedere gli uccelli che venivano confidenti a mangiare. Era così semplice ne' suoi gusti che un fiore, un frutto, un bambino, un cagnolino rapivano subito la sua attenzione e bastavano a consolarlo e a rallegrarlo.
Questa semplicità di gusto egli conservò sempre, e passeggiando con lui, era curioso il vedere come egli sapesse rilevare il bello e il grottesco nelle cose più comuni, nel saltellare elastico d'un passerotto sull'erba, o nel subito atteggiarsi d'un gatto, o nei ghirigori d'un'inferriata, o nella frase volante d'un vetturale, o in un proverbio di contadini, dei quali sapeva ingegnosamente imitare la cadenza e i fiori del linguaggio.
Dopo il Liceo, in cui fu suo caro maestro Leopoldo Marenco, studiò legge privatamente, cosa di cui si lamentava sempre per non aver potuto apprendere nel libero consorzio universitario la scienza della vita e una maggiore sicurezza di sè stesso. E veramente in lui a trent'anni tremava ancora il fanciullo.
Il pensiero era libero e audace, ma la volontà paurosa. Di questo squilibrio di forze, fra l'occhio che vede e la mano che non osa, egli si querelava spesso con me durante il nostro viaggio di piacere a Firenze e a Venezia, e spesso ne piange anche in questo libro, che è la storia dell'anima sua. Più che i codici amava le sue armi antiche di cui aveva in casa una ricca collezione, i suoi elmi, le sue spade rugginose, le celate, gli stocchi, gli archibugi a ruota. Nè minore era il suo entusiasmo per ogni altra sorta d'anticaglia, mobili, stipi, poltrone, inferriate, tappeti, e non già per moda, come usarono poi molti dei nostri ricchi, ma per il sentimento che gli faceva credere d'abbracciare in quelle cose lo spirito di più generazioni. Alle anime generose è poca soltanto una vita.
Io me ne accorsi in quel nostro viaggio del 1876. Era la prima volta che si spiccava il volo dalla casa, e freschi entrambi di studi e di affetti, corremmo a contemplare le porte del paradiso, il campanile di Giotto, e poi San Marco e la laguna. Quali giorni nella mia vita e come sento che molta parte della vita di lui è rimasta come trasfusa in me! Quando entrando nella sala del Bargello a Firenze, vide una stupenda raccolta di fucili d'ogni tempo, egli gettò un grido di gioia e per poco non mi abbracciò, senza chiedermi pure se io avessi mai letta la sua monografia: Sopra gli archibugi a ruota ch'egli aveva pubblicato a vent'anni.
Nella sala della Morte a Firenze, volle provarsi la veste, il cappuccio e la buffa della compagnia. A Parma pagò il chierico perchè si lasciasse mettere in testa l'elmo e brandisse la spada di Alessandro Farnese, giù nella cripta al chiarore delle torcie. A Ferrara, entrando nella celletta di Sant'Anna, mi accorsi ch'egli tremava di commozione, e pallido lo vidi uscire dal carcere ove fu chiuso il povero amante di Parisina. E intanto preveniva nuove emozioni desiderando, sognando Venezia e i quadri del suo Tintoretto, sul quale aveva due anni prima scritto il suo prediletto dramma.
Non so dire se più dell'arte egli amasse la libera natura, Fin da fanciullo ebbe sotto gli occhi i malinconici dintorni del suo Limbiate e i grandi boschi di pino silvestre che coprono una vasta zona dell'alto Milanese, luoghi di caccia una volta e di sontuose villeggiature, oggi ingiustamente abbandonate. Per quei boschi, nati nell'ingrato solco della sodaglia, i sentieri si avviluppano in un inestricabile labirinto di selve, fra eserciti agglomerati di conifere, sottili, diritte, vicine, che quasi si toccano, che tolgono la luce del cielo o la lasciano solamente biancheggiare fra ciuffo e ciuffo pallidamente. E scendono e salgono le viottole in un mare di eriche e di felci. Stride la gazza, passa a volo, e va squassando le ali a posarsi sull'orlo d'un laghettone, in cui la piova del bosco si riversa in uno stagno viscido e giallastro che dorme nel silenzio verde della pineta. Tu vai e vai per miglia e per ore e non trovi che solchi, avvallamenti e nuovi eserciti di pini scaglionati su una vetta, talchè ora ti pare d'essere a un valico alpino, ora in un parco reale, ora in un deserto. Non una voce odi, non un fiato, se non è quello del vento che passa al disopra: o tutto a un tratto lo scoppio aspro d'un fucile e il frascare d'un cane. Vai ancora. Il bosco si schiarisce.
Al di là scorgi un non so che di bianco. È un cimitero abbandonato, sepolto nel verde, dove vorresti sdraiarti tutto supino, colle mani in croce, e chiudere gli occhi, e dormire, dormire nel seno molle della madre terra.
Fra questi boschi era solito errare il giovinetto colla mente accesa dai tanti romanzi storici che noi tutti in quegli anni abbiamo avidamente cercati. E il bosco a lui pareva d'un subito che si popolasse di cavalieri erranti, armati di ferro, di donzelle bionde e di tutti i più bei fantasmi che uscivano soltanto al tocco degli antichi liuti.
I boschi non soffrono d'anacronismo e a chi le chiama bene vengono incontro anche le vergini amadriadi.
Il romanticismo vinceva negli anni che corrispondono alla giovinezza d'Ambrogio Bazzero le sue ultime battaglie, accompagnando il frastuono delle battaglie vere per la patria. Tutti abbiamo avuto, qual più qual meno, qualche castello nel cuore e una spada di Toledo nel pugno. I più giovani, i più timidi erano i più leggieri alle immaginazioni. Il Bazzero, d'ingegno facile, senza le noiose distrazioni del bisogno, con un'anima semplice, con tanto medioevo appiccato alle pareti del suo studio, potè meglio di molti altri ricreare quel mondo morto intorno a sè. Nè lo ricreava per sola vaghezza d'antiquario, come si disse, ma perchè gli pareva che in quel mondo astratto i suoi sottili ideali respirassero meglio che nell'aria grossa della realtà pregna di cose. Da questo raccoglimento uscì il suo Buondelmonte, l'Angelica Montanini e l'Ugo, in cui la conoscenza dei tempi e dei costumi è così ricca e precisa e i rapporti così studiati nella lontananza dei tempi, che il lettore moderno, sorpreso dal gran numero delle evocazioni rimane confuso, e accusa d'oscurità e di confusione un'arte che ha il difetto di essere troppo minuziosamente precisa.
Ma chi ha tanta pazienza di rileggere e d'aspettare che l'impressione si snodi trova cento luoghi d'ammirare e finisce col sentire in sè la forza e l'anima dei tempi. Nell'Ugo specialmente, romanzo che stancò lo stesso autore, l'impressione finale è propriamente quella di sentirsi sotto il peso cupo del più cupo secolo della nostra storia, il decimo.
Chi più di tutti sentiva il fascino di queste risurrezioni era l'autore, quando si svegliava dalla sua meditazione con tutte le prove vive e parlanti intorno a sè dell'opera sua.—Chi può capire la potenza di certe mie pagine?—scriveva nel libro dell'Anima, in un sincero abbandono con sè stesso; non fa meraviglia, quindi, che al vedere gli amici suoi impassibili o indifferenti, il pubblico non curante, la critica scempia e ingiusta, provasse tanto dispetto da buttar via la penna, da chiudere i libri negli scaffali, da maledire le sue armi, le sue notti perdute. Erano i mesi dello sconforto: poi ritornava da capo, e avrebbe vinta la partita, son certo, se la morte non avesse voluto vincere prima di lui.
* * *
Di questi scritti che non fanno parte del presente volume, e che bene o male appartengono già al pubblico da molti anni, dirò soltanto quel che importa per la migliore conoscenza dello scrittore, augurando che la devozione di chi volle raccolti questi primi fogli consigli a tentare una nuova raccolta anche di quelli.
Lasciando stare qualche piccolo tentativo troppo giovanile e troppo acerbo, ch'egli pubblicò in privata edizione, mi pare che coll'Angelica Montanini tentasse veramente di scendere nel campo letterario(1).
L'azione di questo dramma ha luogo a Siena alla fine del secolo XIV, durante la guerra di Siena contro Firenze. Il dramma è dedicato a Leopoldo Marenco, che con una parola d'affetto aveva cambiato, come dice la dedica, in speranza il tormento ineffabile dell'arte. Molte sono le esuberanze e le inesperienze in questo lavoro, che è congegnato sopra un odio di parte e sopra una spada, e manca in molte parti quella chiara prospettiva dei caratteri e delle cose che è tanto necessaria sulle scene. Evidente è l'imitazione del Guerrazzi.
Al Guerrazzi, per le lettere sue all'autore, è dedicato il Tintoretto(2). La tela di questo dramma è più distesa, più ben dipinta e qua e là tocca ad una larghezza quasi di poema storico. Chi lo giudicasse soltanto dal punto di vista della teatralità potrebbe trovarlo anche una meschina cosa, ma noi sappiamo da un pezzo che teatralità è parola volgare, buona per un successo, e che quasi sempre finisce là dove l'arte comincia, mentre non c'è parola nei drammi de Bazzero, che non sia collocata senza una sicura convinzione artistica. Quei grandi artisti del cinquecento, voglio dire il Vecellio, il Sansovino, lo Schiavone, il Tintoretto e quel grande ludibrio che fu messer Pietro Aretino, si muovono in una scena sfarzosa, piena di colori, e parlano un linguaggio che arieggia il classico del Vasari e del Cellini. Nel Tintoretto ha voluto il Bazzero rappresentare gli sforzi d'un uomo alla conquista delle due più grandi gioie della vita, l'arte e la famiglia, contro tutte le minaccie della fortuna e della volgarità. Al Tintoretto vien sciupato il nome dall'Aretino, e tolta la figliuola diletta dalla peste. Eccone le ultime scene:
Infierisce la peste in Venezia. Due commessari di sanità vestiti in nero e sdrusciti, salgono dal mare al terrazzo ov'è la casa del Tintoretto:
PRIMO (salendo, grida al basso). Ohe, maledetta ciurma, legate la gondola chè l'onda non la rovesci.
SECONDO. È tanto piena! Pescare i morti non s'è mai dato.
PRIMO. Pesca i vivi, pesca i morti, è tutt'una; quello che non si è mai dato in dieci notti che faccio questo mestiere da corvo, si è pescare qualche borsuccia d'oro.
SECONDO. Senza il fiasco e la gonnella fanno pietà anche i morti.
PRIMO. Orsù, ci hanno chiamato con tanta furia (ridendo). Date qua….. (si avvia alla porta del Tintoretto, e vi dà un calcio). Messeri e madonne! (apre ed entra cantacchiando).
TINTORETTO e i due COMMESSARI.
TINT. (stringendosi alla figlia). Chi siete?
PRIMO. (accennando la morta). È questa sola? (al secondo). Togli su, e fa presto.
TINT. (con feroce lamento). Voi non me la toccherete!
SECONDO. Tutti matti così questi pittori! (gli fanno forza).
PRIMO. Guarda, se c'è qualcosa…. (dà un piede nella cesta di fiori e la rovescia).
TINT. Indietro, villano barattiero!
PRIMO. È il mestier nostro così!
TINT. Tu vuoi rubare? Ruba, dà fuoco, saccheggia, ma lasciami la figlia! (ruggendo, s'accinge alla disperata difesa dell'amatissimo corpo).
SECONDO. Noi siamo ai servigi della Repubblica. Mettete senno, o vi chiamiamo due alabardieri (s'avvia all'uscio).
TINT. La violenza a me?
PRIMO. È tempo sprecato (cinicamente)…. Ci chiamerete voi, quando vi accorgerete che vostra figlia ell'è come tutte le creature di carne ed ossa, destinate alla terra. Adesso le fate mille baci, ma domani….
TINT. (come chi scopre una terribile verità). Domani?… Ah!
PRIMO. E non so se avremo tempo.
TINT. Fermatevi!… (va al letto di Maria, e la guarda e la tocca con ansia paurosa)…. Quel pallore è tremendo!…. (imprecando e supplicando). Natura tristissima, che crei questi angioli per disfarli nel modo il più sozzo! Una figlia farà ribrezzo al padre? (ai Commessari)…. Voglio tenere il mio tesoro, finchè potrò (baciandola sicuramente)…. Ora posso ancora baciarla.
PRIMO. Ripasseremo ancora.
TINT. Quando?
PRIMO. Domani.
TINT. No!… (Anche la lupa, che vegliò il lupicino trafitto, abbandona la tana ai corvi! Io fuggirò'?…) (combattendo fiera battaglia, facendosi per crudelissima necessità mansueto). Io stesso la recherò sulle mie braccia, le farò posto nella gondola, l'adagerò tranquilla…. Le conserverete i fiori e il drappo bianco?… Io l'accompagnerò fin dove andrete: poi quando il commessario mi scaccerà… apparecchiate due fosse vicine….
PRIMO. Messere (gli tende la mano….)
TINT. (si china, cieco dal dolore, toglie dal cofanetto una collana, fa per darla al commessario)…. No!… È la collana di mia figlia! Ed io non sono degno di baciarla!… (va ad una cassa, con subito pensiero toglie una borsa). Prendete: è l'oro di re Filippo. Regnate nella taverna e sulle donne vostre!… (i Commessari soddisfatti, escono sul terrazzo, e discendono al mare).
TINTORETTO solo.
(baciando la figlia) È l'ultimo bacio nella casa dove se' nata! (la compone, le si inginocchia vicino, si solleva). È l'ultima alba!… Guarda se ancora luccica la tua stella!… (la drizza sui guanciali, le alza la testa, e fissa pel finestrone…. Dal terrazzo si vedrà sfilare sull'acqua un'immensa processione di lumi, lentissima, imponente)…. Che è?… È il funerale di Tiziano! (chinandosi sulla figlia). Tutto è finito! Famiglia ed Arte!
MARCO(3), dalla scala di terra, sale al terrazzo, lo attraversa frettolosamente e giunge all'uscio: sta in sospeso per la gioia: trova semiaperto ed entra…. Il TINTORETTO gli viene incontra, reggendo la figlia sulle braccia.
TINT. Non è più tua! Ella è d'Iddio e dei posteri!
* * *
L'Ugo, che l'autore dedica alla sua prima amarissima delusione, è la prima parte d'un romanzo sul secolo X, che vide la luce nella Vita Nuova. Il genere astruso dell'argomento e dello stile stancò i lettori del giornale abituati al facile leggere. Raccolto poi in un volume, la critica l'addentò colla sua solita inconsulta voracità(4). Il Bazzero ne restò tanto conturbato che non volle più continuare. Rileggendolo in questi mesi ho risentito ancora il sentimento faticoso della prima volta, ma se l'affetto non mi fa velo, credo che vi siano in queste 130 pagine, cinquanta almeno degne d'un grande scrittore. E non sarebbero poche per un libro! Che tempi fossero quelli ch'egli vuole descrivere, ce lo dice presto in un modo vivo e incisivo:
"Erano quelli i tempi in cui un cavaliere noverava, come un sellaio, le fibbie e i chiodi della sua sella da battaglia e neppure sbagliava in un sopranome a quegli arnesi e forse forse moriva senza tutto avere appreso il paternoster dalla bocca della madre o del chierico: tempi in cui, io credo, che la natura non si sarebbe messa su via fallata, se avesse ai priminati delle famiglie baronali dato a vece di cranio addirittura un elmo, a vece di lingua una lama, e per cervello qualcosa di bollente che fuori uscisse e fosse mostruoso cimiero. Io non so se ancora allora i bambinelli si tormentassero colle fasce: se così fosse stato, non mi sarebbe punto di maraviglia se anche trovassi nelle cronache che la madre di Garmario saluzzese, madonna Sandra, torturasse le membra del suo figliuolo, serrandole in una bandiera insanguinata, o che il padre di Forcone da Ivrea recasse al castello per la bisogna materna della sua moglie Ageltruda la soprasberga dell'inimico bucata e ribucata a colpi di spada: l'avo Attone da Susa legò con sacramento ai nascituri dal suo Rogerio il lembo stracciato a morsi della sozza camicia che vestiva nella torre della fame. Messer Adalberto era primogenito, ed aveva avuto madre come l'ebbe Garmario, padre come quello di Forcone, ed avo della taglia di Atto. Finchè vissero i suoi, imparò che nelle sale feudali l'agnello santo del perdono ci sta figurato solo per spasso di qualche frate dipintore, il quale fa il mestiere, è pagato, e se ne va dal ponte: imparò che negli steccati dei giuochi d'arme, se le cadute da cavallo v'incarnano gli anelli di maglia nelle membra, perchè la lancia dell'avversario vi coglie, è meglio che quelli vadano fino al cuore a condensarvi dentro tutto l'odio, e questa vi avesse passato fuor fuora, senza accorgervi di provare vergogna! Imparò che le dita ci furono date da natura per contare le vendette da farsi: segnar croce colla penna è da monaco, tagliare colla spada da cavaliere: si vive collo usbergo maledetto, si muore coll'abito immacolato di qualche monistero."
Ugo è un tessuto di scene, una successione di quadri storici, di figure riprodotte dalle cronache, di atteggiamenti che sembrano scolture, di truci spettacoli, incisi con uno stile di ferro.
La lettura non ne è facile come dell'elegante prosa del D'Annunzio e della lucida scuola degli Abruzzesi, ma è una prosa nutrita di studii e di forti riflessioni, che durerà, io mi lusingo, nel giudizio dei buongustai, più del tempo che dura una moda.
Ecco come il Bazzero vi dipinge le sue figure.
Dopo aver letto sono tubae il bando pasquale ai vassalli, l'araldo Guidello e il chierico Ingo, poco lieti delle mancie ricevute, si allontanano così:
"E mossero giù dalla scalea della chiesa. La piazzuola della curte era deserta. Essi presero ad uscire dalla viuzza fiancheggiata dalle casucce dei montanari, oggi boscaiuoli, domani alle giornate d'armi, sempre poveri e sempre irosi. Intorno all'edera frusciavano con volo tortuoso le nottole; gli usci erano chiusi, gli arconcelli delle finestre lucenti di strisce rosse dal sotto in su, che venivano dai focolari posti in mezzo alle stanze; sullo sfondo si vedeva una montagna già sfumata nella nebbia del crepuscolo.
I nostri due procedevano silenziosi, e, benchè sotto la protezione del loro signore, pure affrettavano il passo e sulla punta dei piedi.
E l'uno calava il cappuccetto sulla testa tonsurata e nascondeva la pergamena sotto la tonaca, e l'altro storceva una mano all'indietro ad assicurarsi che la tromba non percuotesse coll'elsa della spada o col pugnale: e quegli guardava sospettoso le pieghe del drappo ventilante dallo strumento del compagno, come se da quelle dovesse uscirgli il malanno: e questi imprecava il calzolaio che aveva fatto pel chierico scarpe così disacconce per suolo sospettato.
Passavano e guardavano. Quelle tavolacce di quercia parevano fatte apposta per spalancarsi ad un'insidia: da quegli arconcelli i tizzoni che erano sui focolari con maledetta furia potevano essere sbatacchiati nella strada. Basta! il santo patrono tenesse buoni i gloria!"
Così descrive un pranzo nel castello:
"Come voleva la cortesia delle usanze, i messeri furono convitati. Entrarono in una sala assai rozza, ma spaziosa, col tavolo fumante di mezzi capretti arrostiti, colle seggiolone coperte di pelli di lupi. Scinsero le spade, rumorosamente gittandole in un mucchio, allentarono le fibbie delle piastre e delle maglie, si lasciarono andare giù sui panconi, pure nessuno mise le mani nel tagliere, perchè un posto, e il più eminente, rimaneva vuoto. Nè attesero a lungo: si sollevò l'usciale della sala, e un paggio, affacciando mezza persona, annunziò:—Madonna Imilda.
Apparve la figliuola di messer Ildebrandino e della morta Adelasia, di vaga persona e di animatissimo viso, in stretta gonna oscura, cinta su da uno saccheggiale, e coperta il capo dai lati con un velo appuntato: s'avanzò salutando i convitati, e, al cenno fattole dal padre, s'assise al suo posto. A destra aveva messer Ugo, a sinistra il suo parente Oberto.
Ildebrandino così la salutò:—Valenti, udite: la figliuola mia sa assai bene di leuto e canta di Carlomagno e dei paladini: operate in modo che il suo strumento abbia una corda anche per voi, e la sua bocca una voce per le vostre imprese. Amabilissima figlia, abbiateci grazia!
Di poi i convitati presero l'invito non da scherzo, come ai dì nostri, e se da quegli assalti alle vivande dovevasi trarre augurio per la domane, in verità era buonissimo. La sola fanciulla non aveva tagliere dinnanzi e non partecipava all'allegrezza epulona: il che era richiesto dal suo decoro verginale."
Notate quanto spavento in questa descrizione d'un assalto al castello;
"Imilda era nella cappella da un pezzo e così pregava, quando nella corte ecco un grido spaventato, e un altro! Imilda si alza in piedi tremante, corre sotto un finestrone aperto.—I nemici!—ascolta la voce del vecchio Federigo:—Salvate madonna!—ed ecco ancora:—Fuoco! fuoco!
La vergine, come a luogo di rifugio, si butta ai piedi dello altare, scongiurando con fiero rimorso:—O Signore, salvate mio padre! Come vi ho pregato? È il mio castigo dunque così pronto?—ed ode ancora un rumore di pugna, e uno sbattersi fragoroso di porte, e un correre affrettato su nelle stanze, e voci diverse, e tra tutte una irosissima che comandava:—Balestrate fuoco nelle finestre!—e un'altra,—Se tutto arde, che ci rimane di bottino?
—Combattete!—gridava Federigo agli uomini del castello:—Giuratemi!
Alla fantasia della fanciulla si presentò tutto il castello invaso da una turba di lupi e da un torrente di fuoco; e qua sotto alle scuri si sfasciavano gli usci: e qua si massacravano i servi: qua si sforzavano gli scrigni: dappertutto si portava ruina: e le fiamme divampavano più e più, alimentate dai cadaveri friggenti: e il fumo soffogava assalitori e assaliti. Chi precipitava dalle finestre: e chi dalle finestre entrava: chi si trascinava a morire sulla soglia, per avere fiato: chi impedito nella fuga o nella corsa di conquisto da qualche ferito pregante, gli faceva somma grazia o di una stoccata o di una maledizione… Venivano, venivano i furibondi! La camera del padre era deserta: lo scalone, il corritoio, o stanzone dell'arme….—O Signore! la fanciulla se li immaginò al lume delle torce incendiarie nell'andito lunghissimo che conduceva alla cappella! Venivano, venivano!… Almanco le fossero già alle spalle, l'avessero già afferrata: ella, si sarebbe trascinata all'altare, chiamando la Madonna! Ma oh come invece erano lenti e terribili! E che portava quel mostro? Dio! la non vedesse! Portava una testa sanguinosa!… O padre! O Ugo!…
La povera vergine, esterrefatta dall'atrocissima visione, si rinversò con abbandono ai piedi dell'altare.—Non sia vero!
Fu scossa. Di nuovo la voce:—Balestrate fuoco nelle finestre!—E un'altra:—Sulle vetriere c'è su dipinta la croce: lì è la cappella.—Ancora la prima:—Sconficcate le inferriate!
Imilda non ascoltò più, ed aggrappandosi ai gradini, discinse le chiome, le scompose, con quelle si velò il volto per pudicizia, poi ancora, ma più rassegnata, scongiurò:—E se vuoi mandarmi la morte, fa che non sia vergognosa!"
Mi duole di non poter trascrivere tutti i punti in cui mi pare che la vita e l'arte si stringano in una forma tutta di getto. Qualche scena feroce è tale da far inorridire, come là dove descrive la morte di Guidinga, che in odio al marito, nuda, oscenissima e sanguinante, si rotola giù di gradino in gradino, percuotendo quasi a morte il frutto esecrato che porta nelle viscere: e la vendetta che trae il marito, mostrando all'antico amante di lei il cadavere della donna senza lume accanto, senza frate, senza croce fra le mani! Dicono le cronache che solesse venire poi la madonna perduta e ripetesse la condanna: Voi non credete in Dio! Da questa donna era nato Ugo; e crebbe cupo, angosciosissimo. «In vent'anni tre volte ho sorriso,—esclama—quando la prima volta su un'altissima cima vidi all'orizzonte sorgere il sole e vidi che avvolgeva anche me ne' suoi raggi; quando suonò la tromba che mi chiamava all'armi, quando… Non è riso, è sogghigno! Ebbene sogghigno oggi in cui mi trovo tanto deserto….»
* * *
Come nel Tintoretto, così in molti dolori dell'Ugo il Bazzero descriveva i suoi. Quell'anima dolce e tenerissima, che non sapeva far male a una formica, caricò i suoi personaggi di feroci furori e quasi li incaricò delle sue vendette. È un mistero che molte pagine del presente volume spiegheranno.
* * *
Anch'egli amò la sua donna, ma noi come tutti gli altri. Amò troppo castamente, e sacrificò all'ideale più che non sia permesso alla debole natura umana. Fenomeno strano è questo che in un tempo, in cui dal languido romanticismo l'arte e con essa il sentire si avviavano verso il godimento pagano del realismo, strano fenomeno veramente è il vedere questo solitario rifugiarsi nel deserto, con un'immagine sola soavissima nel cuore, meno donna alla fine che luminosa e innocente visione, ch'egli adorò estatico come quel d'Assisi adorò la Vergine sua, «Vi dirò (troverete negli Schizzi dal mare), che una fanciulla bionda, la mia fanciulla che mi cantava le poesie d'Iddio e dell'amore, mi ha fatto piangere e mi ha ammalato a letto. Mi offriva vaniglie, viole del pensiero, versi francesi e sorrisi di santa Cecilia, l'organista.»
A noi non è permesso di togliere il velo di cui egli volle circondata Lidia, una bionda straniera, assai colta, che viveva del suo lavoro, la quale, prima non potè corrispondergli perchè stretta da un'altra promessa; e sciolta questa, quando forse poteva farla sua, egli o non seppe o non osò contraddire a un'autorità ch'era dover suo di rispettare. Poco importa a noi di sapere come scoppiasse in quel cuore, dopo un'alba ridente d'amore, un tumultuoso uragano, che lo spinse fino all'orlo dalla morte. Più che una lotta fra vivi, fu una lotta di fantasimi creati dal desiderio e dalla volontà in cozzo, sostenuta coll'energia dell'anacoreta, voluta per forza, inasprita dalle istigazioni feroci della natura. Questa è la storia dell'Anima, che egli scrisse giorno per giorno, nel silenzio del suo studiolo, e che noi confidiamo a tutte le anime delicate che sanno accogliere ogni dolore umano con umana carità. A chi ci domandasse l'utilità di una pubblicazione di questo genere, noi non sapremmo rispondere nulla, perchè certe cose si appannano solo a toccarle colla punta delle dita.
Immaginiamoci invece il fondo della pineta vastissima colle sue ombre folte: e innanzi al pensiero del vergine giovinetto una immagine di donna, esule da una patria infelice, Lidia: immaginiamoci il vecchio cimitero del villaggio con tutti gli accozzi della rovina, e il fido cane che parla all'amico poeta co' suoi grandi occhi onesti: poi è a pensare un'anima per indole molto religiosa, anche quando la mente non crede più ai misteri sacri del pane e del vino, ma che per una deliziosa superstizione si accosta alla comunione per sentire Iddio nel fremito dell'amore, per vedere Iddio buono e grande attraverso alla diafana idealità della donna! Questo mistico è artista non soltanto come frate Angelico, ma con impeti umani, come la calda scuola de' suoi adorati cinquecentisti; onde il cozzo delle passioni, e voci strazianti, e contraddizioni ed esecrazioni miste ad estasi stupende, e dappertutto un incalzante presentimento di morte.
Il lettore troverà in queste centoquaranta pagine dell'Anima qualche cosa di soverchio che ci fu necessario di lasciare così per tenere insieme nella materia uno spirito troppo irrequieto; e spero che non gli vorrà far colpa se nella foga dell'improvvisazione e del dolore il giudizio di chi scrisse sulle cose e sugli uomini e il tenore dello stile travalica di qualche linea la misura.
Il Bazzero fu un diligente coltivatore del dolore e lodando lui, a questi soli splendenti, si può far credere che si voglia rimettere in auge un genere d'arte che si estinse da un pezzo nelle proprie lagrime.
Sappiamo anche noi che uno dei modi di rendere le nostre passioni troppo intense e malaticcie è di rifiutar loro ogni consolazione, e che nel moderato esercizio dei nostri affetti è l'equilibrio della vita, e forse la felicità. Il Bazzero ebbe torto di rifiutare tutte le gioie che questo mondo gli poteva dare, e di schernirle, come insulse o troppo volgari; ebbe torto di credersi più forte della natura, che è la fonte della vita e di avere quasi una superstiziosa paura di ciò che in qualche modo poteva fargli piacere. Sappialo che è meglio allargare la vita in cerchi sempre più grandi fino a comprendere la rassegnazione e la coscienza delle umane cose, anzichè restringerla nella celletta del cervello per forza d'una morale contrazione.
Ma ogni più bel ragionamento non ha mai guarito un cuore afflitto, e quand'anche il Bazzero non fosse figlio del suo tempo, malato per troppa delicatezza morale, avrebbe avuto questi torti in comune con quasi tutti i più grandi poeti dell'umanità che non conobbero le matematiche leggi dell'equilibrio.
«No, scriveva il Rousseau, la natura non mi ha creato per godere; ella ha distillato nel mio cervello il veleno di quella felicità ineffabile di cui ha messo il desiderio dentro il mio cuore.»
È del Wagner la sentenza che non riesce a nulla se non chi è sempre malcontento di qualche cosa.
Nel Giornale intimo di H. F. Amiel, che suscitò recentemente in Francia un interesse assai vivo, e che offre la storia di un altro pensoso solitario, s'incontra spesso questa scoraggiante compiacenza di voler essere infelice quasi a dispetto della natura. Anche Amiel scriveva: «Diffido di me e della felicità perchè mi conosco.» E se non fosse la paura di offendere la santa modestia dell'amico, vorrei trovare nel Leopardi, nell'Heine, nel Byron, nel Tasso i suoi fratelli maggiori.
Da questo stato dell'animo, prodotto alla sua volta da inevitabili condizioni fisiologiche, deriva spesso quella specie di malattia della volontà, che si trasforma in una mutabilità continua di desiderii e di propositi, in una incostanza di simpatie, in trasporti vivi e in profondi abbattimenti, come fu veramente la vita del nostro. Per superare una difficoltà a cui sarebbe bastata una schietta e franca deliberazione, noi lo vedemmo riprendere gli studi classici all'Accademia di Milano, coll'intenzione di laurearsi in lettere, e poi smetterli per darsi tutto allo studio delle lingue moderne, e tentare la pittura, e maledire libri e pennelli, per tuffarsi nella politica e nella carità, senza che nella sua coscienza entrasse mai la persuasione che tutto ciò gli potesse servire a qualche cosa. Sempre egli ritornava poi alla solitudine del suo studio, scoraggiato, affranto, ammalato di desiderii infiniti, e cercava la pace al bromuro di potassio.
Colla storia dell'Anima si collegano gli scritti che seguono, cioè gli Schizzi dal mare o Acquerelli com'egli li intitolò variamente.
Sono un poema marino, in una forma sciolta dal verso, ma risonante di melodie interne, luccicante di colori e d'immagini, in cui l'anima del Bazzero trabocca ne' suoi momenti migliori.
Se è vero che questo dovrà essere il sembiante della futura poesia, il giorno che avrà rotto i ceppi della vecchia e della nuova metrica, al Bazzero potrà forse venire anche una piccola lode di precursore, che egli non sognò quando scrisse dietro il naturale impulso.
La città, il popolo, il mare, i villaggi dell'incantata riviera ligure, i marinai dalle schiene di bronzo, le bagnanti, i colori dell'onda, il suo anelare immenso, i misteri delle sue profondità, una chiesetta, una barchetta, un canto, un gruppo di aloe nodosi, dei fiorellini, eccovi una serie di piccoli schizzi e di acquerelli, animati da una continua emozione e legati da una erudizione abilmente usata e argutamente presa a gabbo. Il poeta trasfonde il suo io in tutto ciò che vede e tutto vivifica di sè. Qualche pagina scintilla d'una meravigliosa evidenza. Sembra che la parola stessa rinunci alla sua logica natura per diffondersi in colore e in luce.
Leggete com'egli descrive i grigi pennacchi dell'onda che vengono a incalzarsi, a sfioccarsi, e il suo gonfiare e suo colmo trasparente verdissimo e il concavo lenissimo e il fragore e il dibattersi delle ondine che sommuovono ciottoli, e i mille rivoletti che ridiscendono con troscie lucenti (vedi a pag. 158). La lingua, come sentite, si ripiega sotto l'urto dell'impressione e scattano fuori delle arditezze felici che piacquero di poi in libri meno significanti. Si avrebbe torto di volere in una prosa comune ciò che scoppia continuamente con impeto lirico, ciò che divaga nei mille capricci dell'ora, dell'estasi, della tristezza, dell'umorismo e si perde nelle azzurre profondità di una filosofia panteistica. Aprite il libro e leggete subito, per farvi un'idea dell'uomo, il bozzetto Sera a pag. 184. Se vi pare che due dei nostri trecento lirici classici abbiano più profondamente sentito il dolore di un tramonto, e lo spasimo voluttuoso di quel dondolarsi a fior d'acqua e di quello spandersi dall'anima sui colmi dell'onda, di quel vanare nell'infinito, dite pure che il Bazzero è un poeta inutile di più. Per me, apro il mio cuore, certi tratti conservano ancora dopo tanti anni una freschezza che molte lodate liriche di quel tempo hanno perduto da un pezzo: e rileggendo gli ultimi acquerelli, Àncora, Stelle cadenti, Barcanera, ecc., non so perchè mi risuoni nell'anima qualche accento dell'Heine, e a volte dello Sterne, senza essere nè dell'uno nè dell'altro.
Non c'è imitazione, ma forse anche il Bazzero derivava da una fonte comune, che ha le sue scaturigini in un'elevata coscienza della nostra pochezza in faccia all'universo.
Il pessimismo, che fa tanto desiderare al Bazzero la morte e il riposo sottoterra, non è come la rigida convinzione leopardiana un precetto sterile, ma è un dolore che cerca riposo disciogliendosi. Nel mare dell'essere egli non vuole affogarsi, ma diffondersi e coi mille atomi accesi della sua coscienza fecondare per l'umanità qualche divina idea consolatrice.
Qual poteva essere il suo modello in questo genere pittoresco? quanti dei nostri pittori eccellenti che trattarono abilmente la penna sappero fondere così intimamente le due arti come il Bazzero? Il canto intitolato: Genova, comincia a pag. 217, con un'evocazione storica che tocca spesso a un'epica maestà, e scorrendo attraverso alle più luminose memorie della superba città, finisce in una finissima e aristocratica visione della donna genovese. Gli ultimi acquerelli: Convogli, Osteria, Montanari, son quadri fiamminghi. Barcanera è un'elegìa carica di mestizia, che più si rilegge e più persuade che la poesia esiste: Buona vendemmia vince quanto di più grazioso ha scritto Teocrito.
Spesso i legami sono così tenui e i passaggi così rapidi, che un lettore comune crederà che le parti siano sconnesse, e accuserà ingiustamente di incoerenza e di oscurità ciò che a una seconda o a una terza lettura ricomparirebbe agli occhi suoi in una naturale corrispondenza.
Si può pretendere che un lettore moderno legga due volte? In questi Acquerelli è notevole ancora come il Bazzero abbia saputo trasfondere la sua vasta coltura storica nella poesia senza sciupare nè l'una nè l'altra. Io non so s'egli pensasse mai a un grande poema storico, ma è certo che da questi frammenti, come dai pezzi d'un'antica rovina, si può arguire una costruzione artistica d'immenso valore. Ciò che rimpiangiamo nel Bazzero è non solo un dolce amico, un'anima candida, un caldo artista, una giovinezza recisa, ma anche una grande speranza.
Lagrime e sorrisi: è un lavoro più giovanile che egli pubblicò in una privata edizione, e del quale mostrò sempre di fare un gran conto. È un seguito dì massime, di sentenze, di consigli dedicati alla sorella sua e dentro già vi traduce il suo genio e la sua coscienza. Il pensiero dominante in queste massime è che l'amore e l'arte, più che ogni altra lusinga, più che ogni altro compenso di gloria e di ricchezza, sono i veri beneficii del vivere umano. L'amore consiglia la carità; amando s'impara a pregare, e si ritrova Dio. Ama chi piange e le lagrime sono il battesimo della virtù. Come la natura crea il nostro corpo, così l'arte crea il nostro spirito.
Molta giovinezza, vale a dire pochissima esperienza, troverete in queste massime, che non si possono nemmeno avvicinare a quelle del gentilissimo Vauvenargues, morto giovane e saggio. La vita in quasi tutti gli scritti dell'amico nostro è ancora al primo suo momento, quando più la si sente che non la si comprenda. Ma la giovinezza è la stagione dei fiori, e se anche con fiori non si possono fare che delle inutili ghirlande, bene amiamo averne pieni i giardini e la casa. Mi guardi il cielo dunque ch'io voglia ridurre queste massime e l'arte tutta del Bazzero a un sistema, e rilevarne le frequenti contraddizioni, e la non molta profondità pratica. Leggano le anime più giovinette queste pagine e lascino che la dolce poesia trabocchi dagli orli. Arido è il tempo e aride le ragioni del tempo: beato chi s'inebria una volta nella sua vita! vien per tutti necessariamente e troppo presto la stagione che la mente vede più chiaro le cose del mondo nei loro rapporti relativi e proporzionali, ma è sempre un giorno triste quando si scopre il primo capello bianco. Il Bazzero non ebbe il tempo di affilare la sua filosofa fino a farne uno strumento di morte contro sè stesso; e morì prima che la critica di sè corrodesse la sua abbondante spontaneità. Storia e filosofia sono ancora in lui, come nel primo stadio della civiltà, allo stato poetico. Egli non seppe mai, come i modernissimi scrittori fanno, rendersi il minuto conto dell'opera propria e calcolare la quantità degli elementi che entravano a comporre il suo ideale, farne dei prospetti, rintracciarne la derivazione, pesare a piccole dosi la produzione chimica del proprio pensiero.
Le Corrispondenze segnano un passo dalla poesia colorita alla poesia del disegno. Sono meno abbaglianti degli Acquerelli, ma più consistenti. L'impressione va perdendo alcun poco della sua vaporosità per concretarsi in un corpo. Ci sono ancora i prediletti sfondi, i mari trasparenti e celesti, le vastità fantastiche, ma uomini e cose cominciano insieme a farsi avanti e a tenere il campo del quadro. La realtà viene incontro e lo scrittore dopo averla accolta con giovanile trasporto, la segue, la insegue, la trova,
È da alcuni tratti di queste Corrispondenze che si vede ancor meglio quello che il Bazzero avrebbe potuto scrivere al volgere del suo trentesimo anno, quando placato il torbido senso giovanile, fosse venuto alla vita nella chiarezza d'un sentimento più riposato.
Le Corrispondenze sono argomenti semplicissimi, che il Bazzero eleva a una maggiore dignità. Pur scrivendo per conto di giornali di Moda e di Sport non riusciva mai lo scribacchiare a questo povero uomo. Aver la penna in mano voleva sempre dire per lui erigersi a interprete e quasi indovino delle cose, come se la sedia del suo studiolo fosse il tripode e Nume fosse per sè l'umano pensiero. Di qui forse una soverchia abbondanza d'addobbi che pare quasi una verbosità senza significato, e non è che una eccessiva riverenza; di qui anche una risonanza nell'incedere stesso della parola, che pare gonfiezza e non è che una musica che accompagna la venerata Idea. Chi ama adora, e chi adora prega a lungo e canta. Ma fatta la debita parte alla foga giovanile, poco gli manca per essere qua e là un modello di stile. Cercate alla pagina 302 la descrizione d'un paesaggio alpestre sopra Oropa e giunti là dove egli parla di una vacca che appare col muso gemmato d'acqua, le corna sporche di terra, con una bava che fila giù dalle mascelle spostate dal ruminare, che sbarra gli occhioni, e colla coda sferza una mosca, poi sprofonda la gamba nana nei cespi di rododendron…. leggete, giudicate. Non è più l'infinito azzurro, non è più la vaporosa visione aleardiana, è una vacca viva in mezzo a un armento vivo.
Le Melanconie di un antiquario che chiudono il presente volume sono variazioni artistiche e spirituali sopra il Natale e altre feste dell'anno, pubblicate come articoli d'occasione nel Pungolo di Milano. Era troppo lusso per i soliti abbonati. Qui troveranno la luce giusta.
* * *
Degli altri scritti che non entrano in questo volume non dirò che per cenni. Al solo elenco non basterebbero dieci pagine, ma vien da sè che il valore non sia uguale in tutti, come non uguale era la stima che ne faceva l'autore. Un grosso libro di Confidenze egli teneva in pronto per la stampa, e in parte anche pubblicò sopra qualche giornale.
E la raccolta delle lettere che Lina scrive ad Ermanna sui casi della propria vita e di quella delle sue amiche. Non c'è una gran favola e un grande intreccio, ma ne forma il tema l'assidua osservazione delle piccole cose e dei grandi sentimenti. In questo volume, dove abbiamo le confidenze originali dell'autore, ci sembrò inutile riportare quelle ch'egli affidò a un gracile personaggio fantastico, sebbene ci dolga che molte pagine descrittive restino per ora sottratte alla curiosità degli artisti. Il nome di Lina e di Ermanna ritorna spesso nelle memorie insieme a quello di un Giuliano, titolo d'un dramma storico in cui versò molta amarezza, Un romanzo tentò su Gian Galeazzo Visconti, e tre volte ritornò sopra il Buondelmonte. Abbozzò una Cinzica, un Baldo e una quantità infinita di schizzi, d'impressioni, di pensieri, di ricordi, che, sebbene inediti, si rivedono nella loro matura integrità negli Acquerelli, nelle Corrispondenze, e nelle Lagrime e Sorrisi. In un secondo volume, che tratterà più specialmente di studii artistici e archeologici, troveranno più naturale il loro posto le sue ricerche storiche su Matteo I Visconti, sugli Italiani alla prima crociata, gli opuscoli sulle Armi di fuoco, Sulle armi antiche nel Museo Archeologico di Milano, le Riviste artistiche sull'Esposizione nazionale di Milano, e quegli altri scritti d'arte che gli meritarono le lodi dei conoscitori. Fra gli altri il direttore dell'Auf der Höhe, dottor L. von Sacher Masoch di Lipsia, gli scriveva in data del 10 gennaio 1882;
"Illustrissimo signore!
"Il di lei nome celebre non solamente in Italia, ma che ha passato già le Alpi ed il mare e la raccomandazione del signor professore Angelo De-Gubernatis di Firenze, mi hanno ispirato il desiderio di chiedere alla V. S. Ill. il favore di contribuire alla mia rivista internazionale. "Auf der Höhe" recentemente fondata. Noi ci siamo proposti di proteggere e coltivare le belle arti e le scienze in bella forma per un pubblico educato, ma senza eccitare contese e disputazioni. Nomi come Wallace, Flammarion, De-Gubernatis, Mantegazza, e altri che abbiamo l'onore di chiamare i nostri collaboratori, Le saranno una garanzia per le tendenze della nostra rivista. Ci recheremo a onore se la S. V. Ill. ci concedesse il favore di diventare il nostro collaboratore e fissasse l'onorario per il di Lei pregiatissimo lavoro. Aggradisca, ecc."
Il sentirsi a un tratto chiamato da una voce lontana, il vedere il nome suo messo a lato dei più illustri cultori degli studii, ecco il primo e l'ultimo compenso della sua penosa, oscura, travagliata carriera letteraria. Poco potè rispondere all'invito, perchè nell'agosto di quello stesso anno la sua mano era fredda per sempre. Altri compensi tuttavia egli seppe procurare al suo cuore coll'esercizio delle più sante virtù civili. Alieno in tutto dai raggiri politici, volle pur entrare nella Associazione Costituzionale, che rispondeva meglio alle sue idee d'ordine, e vi si adoperò molto, offrendo la sua penna d'artista per tutte le scritturazioni d'ufficio, a redigere verbali, a compilare manifesti. Molti giovani amici, spiriti indipendenti, deploravano e deridevano costui che andava a servire un partito, o come si dice dai furbi, a compromettersi; qualche giornaluccio avversario gli lanciò sul viso le solite impertinenze.
Egli se ne turbò, soffrì, come soffriva sempre atrocemente delle grandi e delle piccole cose, ma rimase al suo posto. Era meno furbo e più coraggioso.
Della nostra Congregazione di carità non fu un comune patrono, ma un santo e zelante operaio.
Vi passava le più belle ore della giornata, e nominato visitatore dei poveri, andava per le case dei più miserabili a studiarne i dolori con quell'indulgenza che perdona anche gl'inganni. A me raccontava poi le sue tristi impressioni e lo stringimento del cuore che provava nel discendere certe scale. Fu dei promotori delle Cucine economiche, dove rimase tutto un inverno a distribuire le minestre, alacre, arguto fra i poverelli, che cominciavano a distinguere il signor Bazzero fra i cento che compiono il loro bene con solennità. Nè meno caro divenne agli Artisti della Società Patriottica. Prendeva allegra parte alle loro feste, schizzava con tratti rapidi e sicuri armi antiche, con una conoscenza di cose unicamente sua, con tanto gusto che il Pagliano e altri lo consigliarono a pubblicare un album in zincotipia, che è ancora molto apprezzato negli studi dei pittori.
Alla pittura ebbe sempre genio, sebbene non vi si dedicasse di proposito. Amò fin da fanciullo delineare tramonti coloriti, navicelle perdute nelle burrasche, boscaglie cupe tormentate dai venti. Della sua dottrina artistica e del suo gusto diede un largo saggio colle recensioni sull'Esposizione di belle arti pubblicate nel Pungolo di Milano, l'anno 1881, e in molti articoli illustrativi di cose vecchie e nuove, che egli regalava ai giornali e che non andranno perdute. Benemerito fu anche nel riordinare e nell'illustrare le Armature del Museo Archeologico, e quelle del museo Poldi-Pezzoli. Sempre disposto a far sacrificio della sua persona nei giorni di parata, era invece il più tenace e sempre il primo nei giorni di lavoro; non ebbe, nè dimandò ricompense ufficiali.
A Limbiate, in mezzo ai contadini, egli si sentiva più libero e più allegro. Quando vedeva una frotta di ragazzi in strada, chiamava a sè il più grande e gli dava qualche soldone perchè comperasse e distribuisse con giudizio una manata di zuccherini. La frotta scalza pigliava la corsa per la piazza come uno stormo di passeri, gridando: Viva el scior Ambroeus!
Egli correva in casa, ridendo, fregandosi le mani, col suo passino leggiero che non si sentiva, e per quel dì la gioia era con lui e cogli altri.
Ciò non impediva che il giorno dopo la nostalgia degli spiriti pellegrini sulla terra non rattristasse di nuovo la sua fronte. L'amore, l'arte, un nascosto e doloroso desiderio di gloria, un credere altrove, sempre troppo remota da sè, una felicità che non esiste che in noi, il sentimento esagerato della propria pochezza sociale in contrasto con un non proporzionato concetto della propria individualità solitaria, le continue apprensioni, pur troppo non false, del suo presto finire, tutte queste erano le cagioni che lo facevano comparire ora torbido e rinchiuso, ora sospettoso e incostante,
Da qualche lettera risulta ch'egli meditò più volte la morte, e vi andò vicino: altre volte pensò di entrare tra i monaci dell'Ospizio del gran San Bernardo. Fu religioso perchè fu buono e amò sua madre: ma più ancora perchè fu artista. Ogni passo verso una perfezione è un passo verso Dio, che sta nei cuori; nè la Intera Bellezza si può desiderare senza credere a lei come alla luce. La sua non fu la fede d'un catechismo, ma neppure un delicato epicureismo che teme, non credendo all'infinito, di rifiutare la più grande delle umane emozioni. Egli è pio e sincero anche quando sembra disperato.
Di una tale esistenza non comune, alla quale s'intreccia un delicato nome di donna, voi troverete nella prima parte di questo libro i documenti. E il libro anzichè una stonatura, come temono i suoi amici, crediamo che possa essere un raggio di sole che ritorna e nel suo complesso un prezioso documento a tutti quelli che studieranno l'evoluzione del pensiero e del sentimento italiano in quel tumultuoso periodo che succede alle battaglie dell'indipendenza, quando l'entusiasmo che le ha compiute diventa il primo imbarazzo del vincitore. Tutto è disordine ancora, non si sa quel che si vuole, ma si vuol molto, da tutti. Il linguaggio epico urta colla necessità ufficiale, il passato ingombra il presente e impedisce alle giovani forze l'andare avanti.
Ambrogio Bazzero non è solo in questa evoluzione, e per non parlare che di una piccola scuola milanese, mi pare che i nomi del Rovani, del Tarchetti, del Praga, del Dossi e del Boito abbiano con lui molti punti di affinità artistica. A tutti costoro mancò forse una ricca suppellettile accademica, ma tutti amarono l'arte con geniale sfrenatezza; la vita uccise i migliori.
D'Ambrogio Bazzero non vorrei che l'antica devozione mi avesse tratto a dire cosa maggiore del vero. Che se a chi lo conobbe e a chi lo conoscerà fra poco dovesse sembrare il mio giudizio troppo infiammato, io non mi pentirò d'aver consumato il mio fuoco a riscaldare questa cenere benedetta. Da due anni il povero Bazzero giace sotterra, e più che da due anni giacevano rinchiuse e morte le ignorate pagine dell'anima sua. Non si risuscita un morto senza un gran grido.
* * *
Il tifo che l'aveva già colpito nel 1873, lo assalì una seconda volta ai primi dell'agosto del 1882. Fu una malattia rapida, senza pietà, che il fratello Carlo descrisse in una potente Commemorazione che ha scosso ogni cuore. L'anima di Ambrogio aiutò a dettare quelle pagine così vere e così tremende che narrano un fatto tanto comune, il morire. Così termina quello scritto:
"Era la mattina di lunedì 7 agosto, il giorno che egli aveva
stabilito per la partenza pel suo giro di svago.
Alle 9 e 45 l'infermiera, fatto il segno di croce, cominciò a
pregare a suffragio dell'anima.
Il suo volto rimase atteggiato ad un dolore sdegnoso, le labbra sottili strette, l'occhio semi-aperto, io spirito malinconico abbandonò la terra, lasciando sul volto i segni dell'angoscia, supremo addio alla luce; si dileguò addolorato così come s'era sempre pasciuto di segreto corruccio e di desolazioni.
Venni da mia madre, m'inginocchiai e con uno scoppio del mio pianto
feci più violento il suo, che s'effondeva invocando Dio.
Mia madre, mio padre ed io baciammo un'ultima volta la sua fronte
tiepida ancora, e il nostro sacrificio era compiuto."
La notizia della sua morte giunse quasi improvvisa agli amici e fa un colpo di fulmine. Povero Bazzero! Ci ritrovammo tutti al tuo funerale, e ci parve che in te morisse la nostra prima giovinezza.
Ho ancora presente quella bella mattina di agosto. La gente riempiva la strada innanzi alla sua casa. C'erano le rappresentanze della stampa, della Costituzionale, della Congregazione di carità, gli amici della Palestra, della Vita Nuova, dell'Eco dello Sport, i parenti, i poverelli. Pareva che tutti, anche quelli che l'avevano incontrato una volta sola, affettassero un certo orgoglio d'essere al suo funerale, per dimostrare in qualche modo d'appartenergli. Due cose ebbi occasione di osservare nel mezzo della mia commozione: che la morte è una rivelazione; che i buoni sono forti.
Dal portichetto si entrava nella sala d'armi a terreno, vasto locale dal nero soffitto, dalle finestre acute a piccoli vetri rotondi, pei quali la luce entrava fredda a intirizzirsi sull'acciaio delle armature appese alle pareti. In un angolo un camino con poca cenere, e un vaso funebre sopra; di qua di là cassoni antichi, d'un colore cupo, con sopra elmi, e appoggiati agli spigoli delle vecchie targhe.
Nel mezzo era il feretro dell'ultimo amico dei cavalieri, fra quattro antiche torcie e molti fiori. Al cimitero non gli mancarono saluti pieni di lagrime. Uno gli disse:—Beato chi anche a trent'anni lascia un'orma di sè!—Quell'uno era Carlo Borghi, anima e simpatia della Vita Nuova, anch'egli una speranza dell'arte e del paese. Non passò l'anno che la morte, giudicandolo colle sue stesse parole, le trascriveva pel suo funerale. Noi crediamo ancora che i morti s'incontrano in qualche luogo.
In alcune sue Ultime volontà il Bazzero lasciava scritto: «Il giorno da me tanto desiderato, o miei parenti, è giunto. e non piangete: è il giorno in cui voi finalmente conoscerete l'anima mia.» E dopo aver raccomandato la sua donna e le sue ceneri, pregava così: «Per mia iscrizione queste sole parole:
AMBROGIO BAZZERO
NATO…………… MORTO……………
Tout ce qui finit est si court!
Erano le parole della sua donna, nelle quali spera di rivivere.
I giornali cittadini di tutti i partiti dissero le lodi del defunto: la famiglia gli eresse un sepolcro, dove a capo della cassa, pose le sue intime memorie e le lettere della sua donna. Oggi ne richiama lo spirito e lo raccomanda sommessamente all'avvenire.
Incipit vita nova.
Limbiate, 15 ottobre 1876.
L'anno scorso, nel mio compleanno, scrivevo dei pensieri che erano l'espressione dell'anima mia, e li dedicavo a mia sorella: quest'anno ancora voglio scrivere dei pensieri e li dedico al deserto. Deserto: ecco l'espressione dell'anima mia! Che cosa scrivo?… Si possono tradurre a parola le convulsioni dell'anima, le contorsioni di mano, gli stringigola, i groppi, le memorie fallite e le speranze fallite? Posso scrivere lo stato dell'anima mia?… Eppure voglio sfogarmi: voglio lasciare un foglietto che attesti questo tristissimo compleanno. Lo leggerò io? quando? come? Lo leggeranno gli altri? quando? Quando io sarò morto, quando frugando entro le mie carte, i miei parenti diranno:—Aveva un po' del matto!—e mi compiangeranno. Lo leggerò io? Non so perchè, ma fra l'immenso buio che mi ottenebra la vita, un po' di lume cade su quella scena ineffabile che ho sognato mille volte:—cioè:—una donna, la mia donna, spierà me che apro il cofanetto di ferro…. Apro e tolgo anche questo foglio. Lo leggiamo insieme.
Se oltre i trent'anni mi aspettassi l'ineffabile felicità che sogno! Consento ad amare poco la mia famiglia, ad essere misantropo, ad essere così scoraggiato, per apprezzare te doppiamente, o mio ideale, o mio unico segno, o mio completamento! Ti desidero, ti supplico, ti voglio! Quante volte oggi satanicamente ghignai alla canna del mio fucile, dicendo:—Dentro c'è la morte!—e guardandone la nera bocca, e invidiando la suprema voluttà della morte…, mi sorrideva a un tratto l'idea: Avrai pace, anima! Nel futuro avrai tante gioie a compensarti i dolori, gioie tranquille, pure, castissime… Sei brutto, corpo mio, ma sei buona, anima mia! Oh sì! sei buona, sei casta, sei amantissima! Voglio anche esser morto, quando la donna mia trovasse questo foglio! Certo non riderebbe!
L'inattività, l'inutilità mi avviliscono, il deserto mi schiaccia…. Come soffro! Nessuno mi conosce, nessuno oggi più mi soccorre di una parola, nessuno mi incoraggia alla vita!…
Limbiate, 23 ottobre 1876.
Fu una giornata piovosa, melanconica, di quelle in cui si desidera la quieta canterina, con un angiolo, con un bambino, con un focolare benedetto: tutto bigio e nebbioso dovrebb'essere al di fuori: cadute le foglie, infangate le stradicciuole, freddolosi i bimbi: tutto mesto, tutto morto, per far contrasto col di dentro—tutto santamente allegro e tutto vita. Vita, vita, ecco la gran parola! Vita, la grande aspirazione dei ventidue anni, dei ventitrè, dei ventiquattro, dei venticinque. A venticinque questa vita è l'irresistibile bisogno!… Acquietati, anima mia: il tuo corpo è bambino: acquietati: diventa filosofessa e ascolta il gran principio della sapienza pratica:—la vita è uno scherzo, cosa da ridere: si debbe approfittare delle gioie che offre: non prendere niente sul serio: si debbono ammirare i sacrifici per uno scopo: il moralista «en amateur» è un asino. È vero, c'è in queste parole una schiacciante verità. Vorresti discutere? No, arrossiresti, anima mia. Vorresti esprimerti? No, saresti ridicola. Vorresti prorompere? oh sì! espanderti nei cieli, volare ai mari, cercare i monti, volare volare… ma poi, tutta potentissima, fidente, docile, speranzosa, felice, tutta venirmi alle labbra, e formare un bacio, su una fronte umile di una donna; tutta divenire l'espressione di un ossequio, di una religione, di una felicità, di un nuovo Dio formatosi nel mio cuore, un Dio per la Donna! L'anima, così incatenata come mi è a questi giorni tristissimi, impotenti, irresoluti, sogna per espandersi l'ampiezza, l'altezza, l'incommensurabile, l'infinito, sogna le immense solitudini: l'anima sogna i consorzi umani e vorrebbe dalle solitudini passare ad abbracciare le città, la civiltà, le arti di tanti popoli: l'anima vorrebbe stancarsi, per posare…. ma il cuore, il povero cuore, tronca siffatti voli, e, modesto, di passo, quieto, religioso, vorrebbe avviarsi, anzi con evidenza s'avvia al futuro: il suo mondo diviene una camerina, la sproporzione dei desideri dell'anima si riduce alla misura delle cose umane, l'infinito si cambia nella vita, divengono stanche ironie le grandi solitudini della Natura e i grandi consorzi degli uomini di fronte ad un santo dovere, ad una donna che popola un universo, irradiando le virtù della fede, della speranza, della carità….—Ecco,—ora dico a te stesso:—faccio della poesia, sono un sognatore, nemmeno io vorrei credere a queste mie ciancie. Faccio della poesia? Ecco la prosa:—vorrei la mia Donna che mi amasse, rendendomi la fede gentile che ho perduto; vorrei un bambino che mi facesse pensare:—Che importa a me degli ambiziosi, dei ricchi, dei gaudenti, dei gloriosi? Eccoti nel bambino la tua ambizione, la tua ricchezza, il tuo gaudio, la tua gloria, il tuo scopo! Oh sì, compiangendo, ma non irridendo le mie poesie di un dì, diventerei un uomo che vive, che sa fare le addizioni e le moltipliche, che sa comperare, sa risparmiare, sa provvedere ai bisogni più prosaici, e vorrei avere uno scrittoio dinnanzi, non un'immensa solitudine, non uno spettacolo di varie civiltà, e da quello vedere il mio orizzonte, cioè i guadagni che potrei fare per la mia famigliuola.
* * *
Mille volte dico: voglio su qualche foglietto di carta lasciare traccia dei miei patimenti, per farmi conoscere dai miei quando frugassero fra le mie carte. Io scrivo, a sbalzi, pel mio cassetto, molte volte rattenendo le lagrime di tenerissima commozione, molte volto imprecando con voluttà mefistofelica a Dio!—Ci voleva tanto poco per farmi felice! Non ricchezze, non gloria, non nobiltà, non i soliti meccanismi della società domandavo: domandavo pace, sacrificio, religione, fede: avevo coscienza di fare un sacrificio, la coltivavo, mi accosciavo due volte al giorno, per voto, in una chiesa, ero buono una volta. Che ho ottenuto? Poveri miei anni, dai diciolto ai venticinque!
* * *
Che cosa è la vita dell'uomo? Nient'altro che la spuma dell'onda che si dibatte fra gli scogli misteriosi dell'Infinito. Ma se un riflesso di cielo può dare l'azzurro alla spuma fuggitiva, un riflesso d'amore può dare alla vita i colori della Fede, della Speranza e della Carità.
* * *
Ricordo, colle lacrime al cuore, che vi fu un anno, in cui, in alcune sere stellate, quando dimenticavo il mio corpo, quando dimenticavo il mondo esterno, e il mondo interno mi signoreggiava, e mi sentivo, e volevo credere, e sperare, e amare, ricordo che in alcune sere stellate, soavissime, confidentissime, ebbi vicino a me un'anima che mi ascoltò e mi comprese, quand'io espressi qualche speranza pel mio avvenire, avvenire che io legavo all'arte e alla famiglia. In quelle sere io accrescevo di dignità alla mia coscienza, io mi dichiaravo non volgare, mi mostravo uomo, e confidando, credevo, speravo, amavo…. Furono gli unici conforti: li ricordo: e allora, perchè a metà svelate, mi parvero più sante le mie melanconie, i miei silenzi, i miei dolori, il mio carissimo e soavissimo tifo, sì, la mia religiosa convalescenza, le mie dolcissime Confidenze, i miei sessi profumi, e il mio risveglio, il mio Tintoretto…. il mio Giuliano! Ho ricordato queste cose per dire che a quell'anima (come pensi ora di me, e come penserà, se vivo, non so) vorrei fossero consegnate queste mie annotazioni, s'io morissi, perchè, almeno in lei la mia memoria vivesse un po' consacrata, non come quella che lascierei a mia madre o a mio padre, la memoria di un povero figliuolo: e basti la compassione. A Lidia non oso destinare una sola riga: a che pro? Se mi volle un po' di bene ed ebbe poi tempo di dimenticarmi, perchè svegliare in lei, non dirò un rimorso, ma una cura fastidiosa? Così vivendo e morendo faccio sacrificio di speranze. A che pro io ebbi rimorsi, e per esser felice, mi tormentai? A che pro? A che pro non so correggermi?
Scriverò anche stassera? Oh sì che ne ho immenso bisogno! Mi sentivo buono, ma deserto, ma ridicolo, ma quasi reietto dalla società, avevo voglia di piangere e gettai le braccia al collo di mia madre. Oh mia madre! mia madre! Se tu fossi il mio tesoro, la mia pace, la mia religione, se in ogni tristo mio momento potessi posare la mia testa sulla tua! Tu hai scoperto che io piangevo, e mi hai detto:—La tua fronte scotta!—O mamma, in questa povera testaccia bollono tanti pensieri, ma resteranno sempre cozzanti e inconcreti perchè la mente ha perduto ogni forza di studio: mancò al cuore l'alito primo: l'ambizione non mi seduce più: se avessi denari, libertà e cattiva natura, questo sarebbe stato l'anno in cui sarei diventato vizioso! Coi vizi almeno avrei vissuto; col ricordo della virtù, colla stizza dell'impotenza al male, col vano attendere, colle spossatezze, coi fremiti del dì d'oggi vivo neghittoso. Vivo? Vegeto, inutile pianta. Nessun scopo alla vita: sono deserto. A venticinque anni….
Mia madre è venuta qui, mi ha baciato, mi ha domandato che cosa ho?—Ho un mondo a rivelarle: non so da che parte incominciare: l'ho quasi respinta col dirle:—Lasciami stare, lasciami stare—quasi che lei fosse indegna di ascoltare le mie confessioni. Sempre così!… Respinta, si tace, soffre, forse come me, forse più di me, e fingendosi tranquilla mi domanda se le voglio bene. In questa promessa vuole ch'io le racchiuda una sacra promessa; ella forse teme…. Ha concluso con una sola parola:—Tu sei troppo buono!—Oh mamma, mamma, lasciami questa illusione: tu, cioè, non mi credi originale. O mia mamma, questa parola buono sulle tue labbra ha avuto un accento nuovo e sicuro: anche quand'ero piccino mi dicevi ch'ero buono. Anche oggi l'hai detto, e hai capito che dentro di me si compiono dei sacrifizi. O mamma, ti voglio tanto bene. E vorrei esser felice per raccontarti tutto, per farti esultare di tutte le mie umili contentezze, per avere in te l'interprete sincera delle gioie dell'anima mia. Passo dei giorni squallidi, tristissimi, meschini, lo vedi…. No, mamma, nella mia superbia dell'affetto, nelle mie gelose fantasticaggini, nel mio deserto, mi pare quasi d'esser fanciullo, volendoti bene, e m'infingo: ma invece dove sei tu, c'è il mio angiolo: tu angiolo di verità, di rassegnazione, di fede, di speranza, di mitissimo amore, tu mamma!
* * *
Ieri, verso sera, ho veduto una bambina coi capelli biondi, colle pupille azzurre, una poverina che sedeva sui ciottoli, senza pensiero, col sorriso dei suoi otto anni. La mirai a lungo. Pensando che s'avvicinava la sera e a casa mi aspettava la minestra calda col buon brodo, e la carne, e la lucerna allegra, e la tovaglia di buon augurio, avrei voluto condurla con me e darle la mia parte, e sorriderle…. Che cosa avevo io fatto nel giorno per trovarmi servito, scaldato, allegrato? Povera bimba!—Lo dissi alla mamma:—Una bimba come quella non oserei sognarla mia,—e tacqui. La mamma mi raccontò che quella sgraziata aveva una matrigna che la trattava a busse e le faceva soffrire la fame. O mamma, quanto avrei voluto baciarti: mi riconciliai con tutto, con tutti, volli fugare i miei fantasmi di dolori, volli che tu fossi il mio tutto. Come potrei io dedicarmi a te? oscuramente, ma santamente provarti sempre che t'amo e contrapporre alle mie sciocche ambizioni, all'amor proprio trafitto, alle vane gare in cui sanguina il cuore inutilmente, contrapporre il tuo affetto sempre placido, sempre religioso, sempre benedetto, non mai ridicolo?
* * *
O Lidia, Dio è l'ironia!—Il buio!
Domenica, 31 dicembre.
Mancano tre ore e l'anno sarà finito. Queste tre ore voglio sentirle minuto per minuto, voglio goderle…. Come le gode la gente pratica del mondo? Divertendosi e gozzovigliando. Stupenda filosofia! io come le godo? Le godo sgroppando un'uscita al pianto segreto che mi arroventa il cuore: è una consolazione:—sorridendo un po' a qualche pallida fantasia della mia religione: è una poesia! So che è poesia inutile, ma a me è tanto cara.
Sono solo nel mio studiolo. Papà, mamma, Carlo sono andati or ora a teatro, proprio quand'io salivo le scale per chiudermi quassù. Ed or ora ho lasciato il Bianchi che mi ha complimentato gentilmente dicendomi un paio di volte «che bel tipo! originale!» perchè lui va a teatro, e io torno a casa a capo chino.
Sono solo e sono triste. Vorrei scrivere ordinatamente, ma non posso. Sebbene, chiusomi quassù, avessi tutta l'intenzione e il bisogno di scrivere, di scrivere, di scrivere. A che? per chi?
Che cosa spero pel 1877?
Milano. Mercoledì, 21 novembre 1877.—Sono da pochi giorni arrivato dalla campagna: ed ho il mio studiolo freddo, polveroso, abbandonato, tristo e perciò sto a disagio al tavolo. Coll'anima stanca, col cuore senza fede, coll'ingegno assopito, con grandi dolori—ma senza lutti officiali al cappello—bisognoso di vita, di vita, di vita, freddo a numerare le mie illusioni cadute, freddissimo a pensare al futuro, ti mando un bacio. Aggradiscilo come bacio di fratello. Pensa che mi sento il cuore gonfio d'un'arcana bontà, pensa che io piango, e che piangendo sento il bisogno di un'anima, e pensa che dinnanzi all'altare di un'altra anima che mi comprendesse, io pregherei ancora Dio, perchè mi sento casto, gentile, serio: e dinnanzi ai santi balbettamenti di un bimbo capirei—con quanta vita del cuore!—che l'arte per cui ho sofferto tanto, addoppiando me stesso, era un bisogno imperioso di creare; che la scienza di queste Accademie è il deserto, il vuoto, il nulla, o il tritume, la polveraglia dei morti: che gli anni di mia giovinezza erano un voto: che i miei tormenti, le mie fedi, il mio scetticismo, le mie speranze, le mie battaglie, il mio isolamento nella folla, il mio sdegno pei volgari, le mie povere poesie, erano indizi di un'anima che rigurgitava in un corpo nervoso, di un'anima che voleva un'anima!—Sono solo nel mio studiolo, solo, freddoloso e mesto. Ogni anno di questi dì faccio una ben triste resa di conti:—delusioni si aggiungono a delusioni. I volgari non si accorgono mai delle foglie che cadono, tu piangi: e la baraonda prosegue. Tu sorridi: oh veramente ci fosse Dio e vedesse e almeno lui apprezzasse questi sorrisi!
—Qualcosa c'è che non si soggioga a cifre: qualcosa c'è che rende uggiosi i libri dei filosofi: qualcosa c'è che consola i soli, gli abbandonati, i poveri, i poeti!—Oggi bisognerebbe tutto domandare ai medici materialisti. Io domando troppo a me stesso.
Lunedì, 31 dicembre.
Mancano tre ore e l'anno sarà finito. Ho qui sul tavolo tutte le mie memorie. E voglio scrivere. Scrivendo imito il carattere di Lidia, Che cosa voglio scrivere? Nulla di ordinato. Incomincio col rileggere le mie annotazioni del settembre 1876, poi voglio leggere il mio portafogli co' miei sogni di artista (1873-1874-1875): poi la mia lettera a Lidia: poi la sua a me….
Oggi si chiude un anno, un tristissimo anno. Colle speranze, coi ricordi, colle illusioni. Ella mi appartiene quasi, fino all'ultimo minuto di questo anno; domani si apre un anno nuovo, un anno che sarà importante per lei: sento che mi sfugge sempre più, che non è…. che non sarà mai più mia!…(5) Mio Dio, rendila felice!—Io mi illudo sempre nel mio dolore: rileggo la sua lettera, ribacio il suo ritratto, sento nell'animo la sua voce, e sono superbo, contento, felice, ma sogno, sogno: la verità non è ancora entrata nel mio cuore, io non sono persuaso che non la vedrò più! che non ho più diritto a pensare a lei!… Anno tristo, la mia vita è spezzata. Io ero nato per l'amore, per la donna, per la casa, per le sere tranquille, per un bambino, per sperare, per sentire la famiglia a benedire tutte le mie febbri, le mie aspirazioni, le mie malattie: e invece? Io vedo dinnanzi a me giorni e giorni e anni e anni che passeranno, solo conforto: che passeranno…. senza più ambizione di un nome, senza desiderio di una donna, senza coscienza di un'anima, e sempre più col bisogno di una donna! Non voglio più scrivere. Nè so scrivere. Mi inginocchio e prego il suo Dio, quello che ella pregherà per me:—Dio, ho bisogno dì credere! io mi sento buono! io mi sento il cuore!
Quando pensavo a lei, sentivo la fede e Dio! quando mi sentivo squallido e senza speranze, pensavo al suicidio, quasi come a un candido sogno! quando vedevo dei luoghi ameni: dicevo—qui non c'è lei!—quando vedevo delle fanciulle mi sentivo l'anima innondata di pace! quando vedevo dei bimbi, mi venivano le lagrime agli occhi! Mio Dio, al mio corpo nervoso, cupido, febbrile ho negato gli amplessi della femmina nuda; ho impazzito pensando alle voluttà: ho combattuto battaglie ridicole pel mondo, ma supreme e gloriose per chi vuol avere nel pensiero suo il pensiero d'una vergine; mio Dio, il suo ricordo era per me il ricordo di una tua vergine: la sua lettera l'ho letta in un santuario, guardando la bionda testina di due de' tuoi angioli! Guardami! Dimmi tu che non sono ridicolo, amando ancora! Che non lo fui amando in passato! Tu hai detto:—Siate fratelli e sorelle—e non hai detto che gli stranieri, i poveri, gli sventurati non possano fra loro essere fratelli e sorelle. Dinnanzi a mio padre, a mia madre, ai miei amici non ho saputo dire:—Ella è straniera! Ella non ha dote! Ella mangia il pane altrui!—sarebbe stato un delitto di leso decoro questo mio detto. Io fui così fiacco da non parlare, da non combattere parenti e amici e mondo: io tacqui! e sperai in te e in lei!… Mio Dio! Quanti a quest'ora si apparecchiano a godere gli ultimi momenti dell'anno! Io sono ginocchioni, io prego, io voglio pregare, io piango, io sono solo! io non so sperare, nè domandarti per me alcuna cosa per l'anno nuovo!! No, no, che importa a me di quello che mi accadrà? Ma io voglio pregare, voglio sorridere, voglio piangere per lei! Mio Dio:—rendila felice, e fa che ella si ricordi di me e che io sappia qualcosa di lei!
Rileggo i libri delle mie Confidenze. Oh! come sono belle e tranquille! Rileggo le pagine della malattia di Lina e le invocazioni ad Ermanna! Povero mio cuore!… Mio Dio, ti supplico, rendila felice.
Domenica, 27 gennaio.—È una giornata chiara, bella, calduccia. Tutti passeggiano. La si crede una prima festa di primavera. Io sono tanto tristo! Ho aperto le finestre: e mi vengono tutte le memorie della mia convalescenza. Poveri giorni di languide speranze! Giorni in cui mi pareva sempre di sentire l'odore di ghiaia umida misto all'odore delle violette: mi pareva di vedere uno dei viali del giardino non suo un viale che termina a un gruppo di pini dal cortice odoroso…. Oh mesti crepuscoli di Limbiate!—Io non so scrivere ordinatamente.—Ho taciuto tanto. Mi piacerebbe avere qui tante e tante memorie scritte: le rileggerei ora e le troverei belle! Come mi paiono belle queste poche! Eppure in vacanza non ho saputo scrivere: scrivendo mi pareva di rendere troppo concreto il mio dolore, di studiarlo troppo, mi sforzavo a essere indifferente. Quello che di dolorosissimo ho scritto l'ho scritto per Bianchi. Ho perdute le lagrime di quei dì. Vorrei ch'egli mi restituisse le mie lettere. Mi pento gravemente di essermi tanto confidato con lui. Mi capisce? Può capire chi non ha il mio ingegno? Chi non ebbe i miei entusiasmi? Chi non ebbe il mio cuore! Ridicolaggini! Ma io mi sentii potente ed ebbi un giorno delle audacie e una tal coscienza di me, che mi dovetti dire:—Oh sante le mie febbri che mi distinguono dalla folla intorno a me.
In questi giorni mi tornano alla mente i miei auguri per lei. Voglio pensare alla sua felicità. Ella apparecchierà la sua veste bianca! Ella gli scriverà quei mille nonnulla così graziosi, così cari, così confidenti! L'oubli seul sépare! E il mio pensiero?
O mio tranquillo cimitero di Limbiate, ti amo! O miei boschi! o pini!—Purchè io sia tra voi o mi imagini di essere tra voi, il mio cuore si esalta, l'anima mia diventa buona, e nelle speranze di un di e nelle delusioni d'oggi, il mio desiderio è desiderio di pace e di amore, il mio ingegno si sveglia e mi tormenta e mi fa delirare sempre inconcreto, sempre senza via, sempre senza certezza di scopo. O mio cimitero! Ti vedevo tutti i giorni quando pensavo all'amore! Ti ricordo ogni volta che qualche amico ride o qualche femmina sogghigna!—Come si amano i propri dolori!—Il cimitero vecchio non serve più per le tumulazioni: ebbene amo già il nuovo, perchè presento che vi giacerò (non oso dire voglio giacervi): vi sono passato vicino tante volte st'anno guardando ai monti di Como, a Mombello, alla Chiesa dei frati, ai monti che ho contemplato mille volte al tramonto con dolci desideri di avere una casetta là e là.—Amo le strade infangate, le foglie cadute, le campagne brumose, la mestizia della solitudine e il luogo di pace… amo la mia memoria abbandonata, solitaria: mi sento sotterra, sento l'oblio, lo sfacimento…. Ella avrà dei figli, degli amici, la vita!…
Mercoledì, 30.—Tutto è vuoto, senza scopo, senza soddisfazioni. Ieri ho visitato il cimitero degli stranieri! Come dormono bene le anime protestanti! «Thy will be done…» Come dormirei bene anch'io!
* * *
Tutto finì. Ecco il vuoto.
* * *
Est quaedam fiere voluptas!
* * *
Mio padre crede che questo sia il libro dei conti.
* * *
Nos joies ressemblent à l'arc-en-ciel, qui a l'aurore nous apparaît au couchant, et vers le soir se montre à l'orient.
* * *
Ogni mio filo che mi lega alla vita è nel passato: ed è solo pel passato e per lei che sento che la vita deve avere uno scopo serio. E solo per lei ho bisogno di credere a Dio, e solo per lei il suo Dio mi dà una mestissima pace e una mestissima fede, quasi una vocazione…. Solo pel passato, mantenendo una dolcissima illusione, io sorrido e studio, e prego Dio e sospiro alle fanciulle e vorrei baciare tutti i bimbi.
Uno solo il mio pensiero—Lidia—ed uno il mio voto—Dio, rendila felice!—Essa è mia sorella. «Notre affection est pure et noble, elle n'a rien de profane, elle peut se raconter à toutes les âmes qui sont bonnes:(6)» ella mi disse, e mi accettò per fratello….
Io solamente son felice quando guardo la sua lettera, il suo ritratto, la mia lettera, quando penso a Limbiate e al cimitero tranquillo….
Desidererei (e voglio scriverlo a' miei parenti) d'esser sepolto a Limbiate.—Desidero di avere sulla mia pietra o croce il solo mio nome e cognome e le sue parole: Tout ce qui finit est si court. Allez toujours.
5 e 6 febbraio.—S'io trovassi un compagno, andrei in Grecia volontario, giacchè qualche garibaldino si muove da Milano. Insegnerei a' miei parenti ed amici ch'io sprezzo la vita!
Leggo Byron. Si è avverato il suo augurio:—«que son coeur se passionne pour ce qui est beau et grand!»—Byron! I miei giorni non sono sciupati: più che il tritume delle Accademie vale il vulcano di Byron. Byron! io sento il mio cuore batter col suo! Che m'importa se vivo solitario? Perdo poco perdendo le ciarle stupidine o pretenziose o vuote dei cosidetti amici che sanno vivere a questo mondo, prendendo le cose come vengono. Perdo nulla, perdendo, la sera, le pettegole scipitaggini di un palchetto di femminucce… Byron! Tu mi rifai il sangue. Tu mi animi. Tu mi ridoni i miei muscoli… Oggi spero indeterminatissimamente, ma spero pel mio avvenire.—Ho veduto mio padre assistere all'anniversarie preci per suo padre.—Mi consolo ricordando, in una passeggiata in campagna, al sole primaverile, le frasi della lettera di Lidia.—Che ancora per le fila provvidenziali di Dio avessimo ad incontrarci?—Oh! possa il mio povero ricordo tormentarti nelle ore delle tue frenetiche voluttà! Sposa sei?—O mio Dio, come io desidero di morire!
19 febbraio.—O mio Dio, sento uno di quegli sconforti, pensando al mio passato!—Come vorrei esser morto! Piango!—Oggi, qui, dai tetti di un terzo piano di povera gente mi giungeva la vocina balbettante di un bambino.—Guardo il suo ritratto. Ma, mio Dio! sento che inavvertitamente caricherei a palla, sì, una pistola antica, e in questa febbre, inavvertitamente me la accosterei alla fronte…. Amo Lei! Lei! Tutta la mia giornata è per Lei! Studio per Lei, di giorno: studio per Lei, di sera! penso a Lei, di notte!—Penso ch'Ella deve esser felice, e per non turbarla, non mi uccido! Ma chi più mi trattiene? Che mi aspetta?—Che cosa è il mondo per me!—Se potessi viaggiare e viaggiare e stancarmi!—Come passo le sere e le giornate da solo.—Sere di primavera, coll'odore delle violette di Limbiate! Giornate di primavera con una trista, strapotente insidia di voluttà nelle membra!—E voglio esser casto! Chi lo sa? Chi lo sa il mio martirio? Chi lo apprezza?
3 marzo.—È primavera. È domenica. Suonano a distesa le campane. Domani andrò a Limbiate e qualcosa saprò…. Avrò coraggio di domandare di Lei?… Mi spaventa un tristo presentimento dacchè non ha Ella risposto al mio biglietto.
Mio Dio! che vuoto! Non sono stato ad alcun veglione; eppure oggi io mi sento tanto triste, e inquieto e svogliato, come se fossi stato a sciupare la mia notte…. Mi conforta il pensiero che Ella leggerà il mio libro Lagrime e Sorrisi. È donna e lo capirà. Che importa a me del mondo?
6 marzo.—Torno adesso da Limbiate, e subito corro quassù a leggere queste mie memorie, e vorrei scrivere sempre un pensiero, sempre un dolore, sempre un'illusione. Domani, giovedi grasso, quando gli altri godranno, io scriverò, e penserò, e piangerò.
Non ho saputo niente di Lei!
30 marzo.—Il nostro povero cane di Limbiate è ammalato. L'amo perchè è tanto legato alle mie memorie! Nel novembre 1873, quando solo mi addormentavo nella mia stanza fredda gustando le sante, melanconiche, dolcissime mie speranze: il povero cane mi dormiva a' piedi del letto. Quando a cinque ore, al tramonto, io vedevo, fra gli sterpi e le ruine scalcinate della darsena del laghettone, e contemplavo nell'acqua il riflesso roseo del cielo e sentivo la solitudine delle acque e delle tristi pinete, fingendo di trovarmi sulle rive del Mincio, e pensavo sospirando all'amore…. quando là al laghettone, riassumevo la giornata e chiusi i fascicoli di diritto speravo e speravo e speravo!… il povero cane mi era accosto. E, ricordo, ho sorriso a lui, che mi trovava solo, meditabondo, amoroso, a quell'ora, a quel luogo! E credo qualche volta di avere avuto quasi soggezione di lui!… Povero cane, povero amico!…
Tutti i giorni passavo un'ora o due al cimitero e pensavo alla vita, a una fanciulla, ai bimbi, alle sue toilette, ai suoi nonnulla, alle sue scarpine, ai suoi guanti, alle sue moine,—lì fra le croci e le foglie secche col sole pallido e le stradette umide io vivevo! O speranze! o memorie!—Io lavoro: studio il tedesco. Mi avvinghio sempre più al passato. Dove l'avvenire?
31 marzo.—È morto il cane! Povero Chellen! povero amico!…. A poco a poco là s'infrangono gli anelli che mi legano al mio passato…. O mio avvenire! O Lidia, se tu sapessi la mia sensibilità, la mia poesia, le mie lagrime! Mi è caro tutto ciò che nella mia memoria è legato con te… Ma non poteva Dio volere ch'io non li vedessi, ch'io fossi tranquillo, ch'io amassi un'altra fanciulla, ch'io a quest'ora fossi già marito e padre, ch'io fossi felice? Perchè Dio volle diversamente?… Crescono le ardenze delle mie febbri, il corpo freme di bisogni fisiologici, l'anima è sempre la stessa a comprendere la donna, il cuore è gonfio, l'ingegno sente la ricchezza del sentimento e… Se tu sapessi i miei scoraggiamomi!… Il mio passato!… O miei sogni, o mia preghiera, o Dio, o Donna, o Tutto, o Lidia!… O Lidia, come ti amo!—Ma che Dio sia almeno giusto, e faccia sì che il mio pensiero dia anche a te un po' di questi tormenti.
Torno col pensiero al povero cane! Povero amico! sì, caro testimonio di tante mie lagrime, di tanti miei dolori!
Leggo le mie memorie: è il saluto che le scrissi! E piango! Come il cuore è gonfio!—La scienza è vana. Ieri ho ascoltato una grande lezione di Antropologia: la genesi umana: la scimmia! O Lidia, perchè non eri tu a casa mia, in un bel gabinetto, pieno di cose d'arte e di profumi tuoi, bella, mia, sorridente? e perchè io non potevo gittarmi a' tuoi piedi, pregando Dio attraverso Te!
Leggo il mio saluto. Oh se tu potessi piangere, come piango io!… Eppure spero… Ci incontreremo, sarai mia!… Forse incominciano adesso le mie battaglie… Perseveranza, Castità, Fede… Speranza!… Lidia, ti prego in ginocchioni, dalla tua felicità (se ti ricordi di me) mandami un poco di pace! Merito un poco di pace, perchè delle mie idee arrossisco in faccia al mondo: non in faccia a Te, non in faccia a Dio! Leggo il mio saluto…. Saluto eterno!… La mia vita è condannata al tormento di perpetua illusione e di sproporzionato sentimento!…
Torno dal cimitero. Ho visitato il campo degli stranieri: ho letto iscrizioni tedesche e inglesi: Credo sia una buona azione il visitare i poveri morti stranieri.—Come dalla morte a me sgorga il pensiero della vita.—Ho visitato anche la Pinacoteca, adorando le Madonne del quattrocento… Sì, sì, il mio ideale della donna è divino.—Sei maritata? Oh come penso tristamente alle tue gioie frementi di sposa! Amavo meglio, nei mesi scorsi, pensare a' tuoi dolori di vergine!
Quand'io sognavo… la prima volta con te, a Firenze o a Venezia, io promettevo, io giuravo di caderti innanzi ginocchioni, dicendoti qualche mio pensiero delle Lagrime e Sorrisi, piangendo ch'io non fossi abbastanza poeta per te, esultando con tutta l'anima d'avere la coscienza ch'eri un fiore e che io non ero la mano villana che lo toccava.. E t'avrei baciata in fronte e t'avrei detto:—Piangi!
La mia penna è impotente alle povere fantasie del cuore!
1.° aprile.—Vorrei ricordarmi e rischiararmi dei paesaggi carissimi, dei boschi, delle rive, dei cieli… Anima ammalata: sento le donne nei fiori, nelle gemme, nei prati, nei cieli, nei raggi del sole… Non scrivo perchè non so scrivere: le parole che adopero sono parole che hanno tutti nei vocabolari; i sentimenti che mi ammalano sono sentimenti miei, e il mio cuore è diverso da quello degli altri.
Oh come penso! come vedo! come fremo! Ho avuto il tristo dono della fantasia. E come soffro! Ma oh! venga il mio pensiero qualche volta a turbarti!
Ho aperto il mio cassetto: il profumo che ne uscì mi ricordò dolcissimamente il giugno del 74, quando scrivevo le Confidenze, mi illudevo tanto e speravo tanto! Allora mi sentivo una fanciulla: e la mia convalescenza era per me una scusa alla languidezza del mio sentimento….
Crescere in dignità per lei, è lo scopo di questo mio anno. Nel mese scorso, venendo qui, nel mio cassetto presi un foglio di carta e scrissi due versi di Byron: oggi ho scritto due versi di Schiller.—Sogno dolcemente: a Limbiate le mie speranze, le mie certezze, il mio avvenire!—Ma quando sono qui, e vedo i luoghi di tante mie meditazioni, e quando vedo la casetta di….. e quando suona la campanella della chiesa di sotto, e quando vedo il suo giardino, e la finestra dove era affacciata quella sera di settembre, e quando…. oh come sento che tutto è passato! che la mia vita è decisa! che il mio avvenire è spezzato!—Deserto!
Prego la primavera, i fiori, le rondini, i bambini, il sole,
Dio.—Rendetela felice!
E di fronte alla primavera, ai fiori, alle rondini, ai bambini, al sole, a Dio, mi sento innamorato e casto!
Venerdì Santo.—Compiono oggi sei mesi da che… Sei mesi! mezzo anno! A me paiono sei giorni!
O quale sconforto il mio.
Oggi tutte le donne pregano…. Prega per me! Prega Dio che mi faccia morire!…
Morire? imputridire? essere dimenticato? E il mio desiderio, il mio bisogno era la vita, l'amore, la poesia!
Sabbato Santo.—Le campane annunciano che Cristo è risorto. Qual vuoto in me! Ma come potrò io mostrare l'anima mia! a chi?
Martedì, 23 aprile.—Come per certi dispiaceri certi uomini ricorrono ai liquori, pe' miei io ricorro (ricorsi) a Byron, Foscolo, Rousseau, Shakespeare: mi sostengo con questi alcool.—Ora gli abbattimenti, il vuoto…. e quali battaglie!… I miei balocchi antichi cominciano a distrarmi poco poco. Ma perchè forzare la natura?
24, mercoledì.—Ho fatto la comunione. Ieri il prete mi disse di meditare mezz'ora. Ecco come medito…. Per quattr'anni di seguito, quando a primavera andavo alla chiesa per la comunione, io portavo con me il portafogli col tuo nome! Sante illusioni! E quando l'ostia toccava le mie labbra io mi concentravo nel pensiero:—Lidia crede in Dio!—E la comunione del 74, quando ero convalescente? Oh nessuna preparazione di teologo, nessun libro, nessuna madre, poteva rendermi tanto degno di Iddio, quanto la mia speranza e la tua memoria! Santa religione, santa poesia, fede gentile: Vita, Donna e Dio!—Dimenticavo di non esser bello, d'essere ignorante, d'essere timido alla pratica, sentivo Te, speravo, sentivo la fede che è la vita! O vergine, o bionda, o straniera, chi t'avrebbe detto che tu dovevi tanto deliziare e tanto tormentare un'anima italiana. Io italiano? goffo, ridicolo, senz'azioni.
O vergine, o vergine! o Lidia, io ti ringrazio! Quei momenti in cui io pensavo a Te e la tua memoria veniva col pensiero di Dio, erano momenti soavi, pii, forti, si, e non verranno più! O Lidia, o Lidia, o mia sorella, prega per me!—Alcune volte voglio ribellarmi al tuo ricordo, e chiamarti causa d'ogni mio tormento, e odiarti…. Potessi odiarti!… Tu non ti sei manco accorta di me!—La realtà è troppo triste: è meglio l'illusione, la poesia.
Ed oggi?—Vuoto, sconfortato, col solo pensiero che sono brutto e ridicolo!—Senza speranza, senza fede, senza amore,—sono andato alla chiesa…. Ho pensato alla tua comunione di sposa.—Ho sentito come, anch'io, riceverei la mia ultima comunione, a letto, ammalato, moribondo, pensando alle mie Memorie, a Limbiate, al cimitero, dove voglio giacere, al mio libriccino Lagrime e Sorrisi, al mio portafogli, pensando a quelle carte che lascio nel mio scrignetto, al tuo ritratto che cadrà sotto gli occhi di mia madre…. pensando al di che saprai ch'io sono morto!…
Oh io mi sento buono!
Non voglio più annotare!
Maggio, 3.—Guardo il cranio…. e guardo il tuo ritratto. Il tuo ritratto! Ecco la vita, la speranza, l'amore, la Donna, la Fede!
Ed io ancora ho la speranza, la vita, l'amore, la fede per te, per te che non sei più mia!—Piango con dolcissime lagrime.—Mia Lidia, quale scoraggiamento!
Nel teschio vedo la materia: in te lo spirito: in quello il vuoto; in te il pensiero…. In te Dio!
Ho riletto le memorie di quest'anno! Mio Dio, mi vedi? Non so scrivere. Je ne vous oublierai pas, ella scrisse: e nel cassetto mio tengo la sua lettera mezzo aperta per leggere.
* * *
Tento di scriver oggi, 22. Ho veduto Lidia qui a Milano. Da quindici giorni ero abbattuto, stanco, annoiato, avvilito, senza più un pensiero alle cose antiche, senza passione per lo studio del tedesco, indifferente ad Heine e Goethe…. a tutto! Oh come mi erano cari quest'inverno i miei studi di tedesco su nel mio studiolo, quando tentavo di tradurre Lagrime e Sorrisi, e scrivevo, imitando il carattere di Lidia! Eppure guardavo di rado il suo ritratto. E la domenica in Duomo? Sempre, sempre passeggiavo sotto le arcate ricordandomi le espressioni della mia lettera, le espressioni della sua: e pensando che avrei studiato, e che avrei fatto…. In questi giorni studio in Biblioteca: e ogni sera, su nel mio studio, guardo le teste da morto e poi guardo il suo ritratto.
L'ho veduta ieri dopo pranzo alle 7 1/2. Tre volte l'ho veduta. Essa mi ha fissato, si è rivolta, mi ha atteso…. Ed io?
Che farà? È sposa? Era con sua madre? Colla sua tutrice? Ho influito sulla sua vita? Viene da Mantova o da Catanzaro? Va a Catanzaro o forse per sempre in Germania? È felice?
Era pallida.
Ma era proprio lei?
Quando nell'ottobre scorso l'ho vista a Limbiate aveva la faccia rosea sotto il velo.
Ieri era pallida.
Se non fosse stata lei, perchè avrebbe mostrato di accorgersi tanto di me?
Il mio turbamento fu immenso. Poi mi acquietai. Ho dormito sognando dell'incontro. A mattina mi rinacquero mille speranze e pensai a cento ipotesi, mi sentii felice. Sono andato sul corso, in Galleria Vecchia, vicino a Dumolard, in Duomo.—Forse è partita! Per dove? Avrà dormito stanotte? Che avrà pensato?
Dio mio! Dio mio! Ho letto tutta la mia lettera a Lei. Ho schifo delle mie sconce mani. E ho l'anima che sente Dio.
Era lei?—O è tutta mia illusione?-
Da Limbiate potrei saper qualcosa, ma non oso, non oso affrontare nuove emozioni, e forse tristissime!
Stamattina ancora ho sperato. Ma e se fosse a Milano per provvedere il suo corredo da sposa? Doveva sposarsi nel febbraio, mi dissero (a Limbiate).
(Fosse qui per collocarsi nuovamente in qualche casa!)
Quali incertezze! Se mio padre e se mia madre sapessero!
L'incontrerò ancora?
(Non so scrivere).
Ma che cosa vorrebbe adunque l'anima mia! Oh! nella morte ci deve essere una gran pace. Mi ricordo sempre il Suicidio, dramma di Ferrari, e so di voler bene a mia madre! O mamma! o mamma! Come da Te è uscita la mia anima ardente?
E sono brutto e ho dei difetti che mi rendono ridicolo nell'amore.
Sono tormentato, ma mi sento vivo! vivo! vivo! meglio è l'inferno che il nulla.
Ogni speranza di attività, di amore, di avvenire, di vita è in Lei…. E la vedo per l'ultima volta o la rincontrerò?—Tormento di incertezza—Basta! basta: ma come passerò i giorni?
Ma ci vuol altro! Leggere cinque o sei ore al giorno tedesco, è questa la vita? la pratica? la realtà? Ma che cos'è la vita dunque?
Vorrei divenir pazzo per non pensare più.
Un'anima che ama, in un corpo nervoso è tale tormento che gli uomini serii non sapranno mai,
A che scrivere?
E se questa Provvidenza che io bestemmio mi preparasse la felicità? se?…—Se lei potesse entrare in casa mia? Se sua madre o la sua tutrice….
Sogni! sogni inutili.
—Sei brutto e sei tormentato: e sarai brutto e sarai tormentato: ecco l'unica verità. Ti morirà la mamma, e che farai? Ti morirà il padre, e che farai?—Resterai solo a far la vita dell'ortica—solo—o con un fratello che ebbe aspirazioni diverse dalle tue.—Solo senza illusioni, senza egoismo e senza virtù proficue agli altri, solo e sempre memore che hai amato hai amato, hai amato. Allora leggerò queste note?
22, dopopranzo.—O suicidio! o suicidio! Ecco un orribile momento!
7 agosto.—A che cosa è attaccata la mia speranza? Tutto quello che ho sofferto in quattr'anni! Come ho bisogno d'esser felice! E come amo Te sola!
20 agosto, giovedì.—Compie oggi l'anno. Come avevo deciso di uccidermi?—Andrò a Parigi: ma l'anima mia è a Limbiate: a Limbiate la mia illusione!
O Lidia, come ti amo!
23 agosto.—Andrò a Parigi. Mio padre oggi mi ha dato i denari. Rimasi avvilito:—Che cosa ho fatto per meritarmeli?
O Lidia, penso malvolontieri al viaggio. Mi pare che Tu debba ancora essere a Limbiate.
Limbiate, 8 ottobre 1878. Martedì.
So che il suo matrimonio è andato in fumo, perchè lo zio le negò il consenso…. Che parte ho avuto io in quell'animo?—Che deserto! È vuoto quel palazzo, e piove, e mi ritiro (santa illusione) a scrivere un po' di tedesco e di inglese, pensando a Lei…. E Lei penserà a me?
Spero sempre: e benedico le mie melanconie. Mi illudo che Ella capiti a Milano, ch'io la riveda, ch'io… O Ella ha l'anima mia: ella leggerà i miei pensieri. Potrà sprezzarmi?
Domenica, 24 novembre 1878.—Sono a Milano, da quasi una settimana: e come mi sento triste! Sempre il tuo pensiero, o Lidia! Come all'anima mia abbisogna la tua! Come mi sento bisogno di amare, di credere, di sperare!—Un amico mi ha domandato se sono divenuto filosofo, anch'io. Sì, ho risposto, ed ho riso.
Filosofo gaudente e indifferente? Filosofo?—Ohimè, come mi diventa indifferente l'idea del suicidio!
Oh gli amici non mi comprendono! Sono anime piccine: Sono corpi oscuri:—Sono mezze creature.—Come desidero di morire! Oh mia madre, come ti voglio bene! Ma perchè hai soccorso sì poco all'anima mia!
18 dicembre.—O mio avvenire! Mi si presentano sogni, e imagini e speranze, con una evidenza e una serietà di particolari che quasi mi illudo… e sogni e imagini e speranze si fondano su di Te. Da tre mesi e mezzo, non ho più guardato il Tuo ritratto, o mia vergine, e mi sforzo a ricordarti tutta, coll'anima!
Tre grandi illusioni sono il mio grande tormento: tre grandi illusioni nella vita di un giovine bennato, Dio—la Donna—l'Arte.
Mi sento solo—e la notte mi turba con mille paure.
Un altro pensiero che pareva sopito da tanto tempo risorge a infastidirmi nell'amor proprio,—ma non scrivo; su queste pagine, consacrate al Tuo nome, o Lidia, non scriverò nessun altro nome di donna.
Martedì, 24.—Ecco un'ora triste!—Ieri sono stato fra la gente, ho visto dei giovinotti eleganti; delle belle signore.—Non so scrivere:—i sogni mi perseguitano con maliarda voluttà. Che ho provato io della vita? Nulla e mi sento stanco, vecchio, senza speranze, e senza scopo.
Oh qual bisogno d'esser felice!
Ma a che tradurre Byron? a che tradurre Heine? Byron e Heine hanno vissuto: ecco la poesia.
Ho ingegno sì o no? E che cosa faccio?
O come desidero di morire!
Rileggo un poco del mio Tintoretto! O che giorni erano quelli in cui scrivevo quelle scene, appena guarito dal tifo! Che vita! che speranze! che amore! Come mi sentivo artista, buono, solitario!—Sono scorsi già quattro anni. Quattro anni! E come sono io oggi?—Oh! leggo, leggo alcune scene.—E ricordo quello che mi dissero Marenco, Lombardi, Ferrari.—Oh come ho bisogno di risvegliarmi, di risvegliarmi alla vita, e dire ho la donna, e le gioie dell'Arte!
Ma è un sogno. E desidero di morire.
—L'anima mia che è?
Oh! s'io morissi! Ma s'io morissi, le fanciulle continuerebbero a prendere marito.
Mi è pure uscita una triste parola.—Oh la donna! valgono tanti tormenti dell'anima per lei?
La donna! avessi ascese le scale del lupanare, quando, a diciott'anni mi vennero le prime melanconie, e correvo tutti i giorni a pregare Dio, e non per me! Ah! ero troppo stupido!
Ma uno scopo ci dev'essere all'attività; alle febbri della mia età. Non sono nato per i divertimenti, non per lo studio, non per la gloria—oh potessi fare il bene, sì, e obliarmi nel beneficare chi soffre. Unico scopo, la carità.
31 dicembre 1878.—Ultimo giorno di un anno inutile nella mia vita.—Ho studiato l'inglese e il tedesco: ho letto molto: ora leggo molto, e con un ordine. Voglio farmi un'idea netta della letteratura del nostro secolo, e passo le giornate al tavolo colle grammatiche, e alla biblioteca con Monti e Manzoni e—sono sempre scoraggiato.
1° gennaio 1879.—È passato anche il 78!
E Lidia ove sarà? che farà? Si ricorderà di me? Ho riletto tutte queste memorie. Ho sperato sempre e spero ancora.
3 gennaio.—Oh se potessi andare a Venezia! E le conseguenze? E mio padre?
Perchè Lidia non si è maritata?—Non ho ancora aperto la busta del suo biglietto, ma ho intravisto…. Nemmeno il carattere della carta da visita è cambiato. Dunque non ha aggiunto nessun nome al suo…. E se avessi intravvisto male? Vorrei vedere subito.—No,—domani.—E in quante speranze mi perdo!
Si era un po' assopita l'anima mia. Perchè torno a svegliarmi? e sento tanto tormento di incertezze e di speranze?—Vorrei.
5 gennaio.—A che studiare? È una bellissima giornata: sole, luce, vento sciroccale: l'atmosfera nettissima: suonano campane e campanone; la ballerina si affaccia al balcone discinta e canta a squarciagola…. e senza sentimento! Oh la vita!—Io sono nè triste, nè allegro: sono nervoso, impaziente.
E penso.—Io ho mandato a Lidia il mio biglietto di visita senza una mia parola, senza il mio indirizzo—e Lei mi manda gli auguri e scrive il suo indirizzo…. Il suo indirizzo non è un invito a scriverle? O forse avrà bisogno di una parola amica?—Ed io tacerò se è dovere.—Ma c'è un altro dovere….—Ma se è destino?—Stamane pensai agli amici, ai parenti, al mondo, e mi spaventai….
Quali incertezze!
6 gennaio.—O Lidia! (scrivo dalla Biblioteca di Brera: è mezzogiorno, suonano le campane: e mi pare di essere in una città di provincia, e mi faccio triste, per gustare quella melanconia che avrai gustato Tu tante volte a Mantova e a Venezia! Questa estate, qui, le campane mi avevano il suono delle campane di Limbiate, e sospiravo!) O Lidia, ho qui il biglietto che mi spedisti Tu ieri da Venezia, in ricambio…. La busta non l'ho ancora aperta: e tutt'oggi non l'aprirò, gusto questa incertezza. Oh sono felice!—A Limbiate non sapevo più nulla di te: a Milano nulla. Quattro mesi erano scorsi: potevi esser morta. Io affidai al caso (no, no, a Dio!) il mio biglietto di visita per te…. Così era lontano dal credere che tu lo ricevessi!—E l'hai ricevuto! Oh qual gioia per me avere una busta scritta da Te…. e dico nel mio cuore, scrivendo il mio nome, avrà pur dovuto, fosse solo per un minuto, pensare a me!—Una volta ho ricevuto il tuo ritratto (10 ottobre 1877): una seconda volta la tua lunga lettera (23 ottobre 1877): ed ora un tuo biglietto…. avrà qualche frase? l'indirizzo? la data?—Non so! Non apro la busta: ma mi sento felice.—Rispondendo al mio biglietto mi hai dato una gran prova di stima…. potevi lasciarmi supporre di non aver ricevuto il mio…. Ma a che ragionare? Mi sento felice.—Nell'ultimo giorno dell'anno 1878, io ruppi i suggelli a certe mie carte, e rilessi, rilessi le mie annotazioni! Trovai una grande disperazione e una grande speranza—anche quando ero certo che Tu eri la moglie di un altro.—Ed ora lo sei? Se il tuo biglietto portasse un altro cognome?-
O Lidia! Lidia! a che studiare? quando si è così felici nell'amore santamente?—Oh come ti amo! E come spero? Dio può ingannarmi? Dio ha fissato che tu sii la mia donna! senza confidenza, senza speranza, ho gettato in buca il mio biglietto… ed oggi… oh non l'aspettavo più il Tuo!—Col tuo biglietto sul cuore, volli entrare nella Chiesa di San Marco a osservare le sculture antiche e fingevo d'essere a Venezia, poi sono andato al Duomo.—Sotto le arcate del Duomo, l'inverno scorso, ho sperato e temuto mille volte d'incontrarti col tuo sposo; sotto quelle arcate ho ricordato tutte le domeniche le espressioni della Tua lettera, e ho cercato di tradurle in inglese e in tedesco (soave illusione!); sotto quelle arcate Ti cercai più giorni nell'estate, dopo che t'avevo vista a Milano… Rileggendo le memorie del 1878 mi dicevo:—Ma come speravo ancora?
Sento che un giorno rileggeremo insieme queste annotazioni, e saremo contenti, e pregheremo Iddio, sento che la castità e la mia vita ritirata non sono un castigo per me, sono un voto, una preparazione… O Lidia, mi inganno? E allora che cosa è della mia vita? Ho già 27 anni! E sento tanto bisogno d'avere al mio fianco una donna, una giovane, una sorella, una vergine! I miei anni passano! Io spero, spero, o Lidia, spero.
Che importa se per quattro anni Tu non hai risposto al mio amore: Mi hai amato, quando Ti dichiarai: «Siate felice!» e avrai cominciato ad amarmi dopo l'addio.
Oh! se sono derivate a Te sventure, io dico: «benedette sventure se possono farti ricordare di me e potessi io un giorno farti dimenticare le sventure che hai avuto e rifarti con me una vita nuova, tranquilla, anche nella nostra età matura!»
Quale incertezza!—Oh spero, e sento che Dio mi vede… Vorrei andare al Santuario di Saronno, e là affisandomi in quei due angioli purissimi di Gaudenzio che ho tanto amato, là aprire la busta e leggere il suo Nome. Così nel 1877 ho letto la sua lettera: in faccia a Dio, nella quiete, nell'ombra, nella poesia santa di un sacrario antico!—Lontano dagli amici che ridono!
Senz'aprire la busta ho voluto spiare mettendola su un vetro della finestra quello ci fosse scritto sul biglietto. C'è l'indirizzo suo… gli auguri.
Mi sento triste—Le scriverò? Uscirò dall'incertezza? Oh s'io fossi libero della mia volontà che cosa Le scriverei!—Mi viene in mente di far stampare dei pensieri, e mandarli a Lei,—E poi?—Quale tormento!
7 gennaio 1879.—Imparare una lingua difficilissima, come la tedesca, per far sentire a una fanciulla tedesca le note di un suo grande poeta (note piene di religione e di amore di patria) è un pensiero che non sarebbe venuto in capo a due su mille innamorati nel mio caso. Oh che dico?—Darle una speranza o un addio con voce dignitosa, con sì faticosa costanza, con sì nobile poesia! Mi accingerei con fiducia e lavorerei anche cinque ore al giorno, per un anno, se sapessi…. Ma in queste incertezze!
Piuttosto che vivere così combattuto desidero morire e desidero che queste mie memorie tutte siano lette da mio padre e da mia madre.
Tarsis e Ricci sono morti giovani. Oh che darebbero i loro genitori per farli rivivere? E come tutto diventa santo dopo la nostra morte!—E i miei desideri, che sono santissimi ora, diverrebbero una religione di memorie sulla mia tomba. O mia vergine, come io ho sentito l'amore puro, nobile, felice! Oh! come io ho bisogno di Iddio.
10 gennaio.—Quali incertezze sempre! Ieri sera ero deciso a mandarle il Tintoretto—quel Tintoretto che ho tanto amato!—E come mi spaventa il giudizio del mondo!
Ah potessi essere egoista e avere i mezzi di esserlo con i fatti! Essere egoista, osceno, pigro, poltrone, ghiotto, e consumare il cervello coi vizî, non coi pensieri nobili—Ma che faccio infine?—Ho riletto il mio Tintoretto e sono mestissimo! Quante illusioni e quanto amore!
11 gennaio.—Come mi spaventa il mondo! E chi è questo mondo?… Oh come sto meglio nella solitudine di Limbiate! dove non sento nemmeno questi nomi!? E il mondo dopo aver ciarlato una settimana, s'annoia, e cerca un nuovo pettegolezzo: e ad esso si dovrebbe sacrificare tutta una vita?—Ma perchè questi pensieri, con tanta evidenza?—O Lidia, come stanotte ho vegliato penosamente! Ho pensato al mio avvenire. Sono stanco di studiare, così, senza uno scopo. Eppure quando a teatro sento qualche bella cosa, santa, morale, scritta coll'anima e col cuore, mi dico:—Mi sento anch'io chiamato a fare del bene? Sì, e bene!—Bisogna combattere la nuova letteratura da postribolo. Ho pensato a fare pratica di notaio o di avvocato, e fare gli esami. Ma che carriera sarebbe per me?—Oh che tormento! E che cosa faccio?—Da un poco di giorni penso seriamente di parlare al Parravicini e farmi da lui occupare nella Congregazione di Carità. Almeno fare un po' di bene! giacchè non posso essere egoista!—Che faccio? Che farò?—Studio, studio, mi occupo a leggere operone e non elzevir, riconduco il mio pensiero al grande, al bello, al dignitoso. Ma mi annoio anche! Non ho una parola gentile che mi aiuti!
13 gennaio.—Mio Dio! come veglio penosamente la notte! Perchè questo strazio? Amo quella vergine, e sento la vita de' miei ventisette anni, vita ribollente, immensa, condensata, perchè non l'ho mai sfogata colle tremende voluttà della carne.—Amo! e devo reprimere tutto in me: e sperare, sperare vagamente, sperare…. È ben tristo quello che io penso.
No, no, non mi sento creato per questa vita nulla che conduco! no, no, no, non mi seducono le scettiche prospettive di una vita negli anni venturi… no, no!
Io amo come Dio vuole che alla mia età si ami. Io amo come la
Natura vuole che con un viscere che si chiama cuore l'uomo ami.
Una donna! un bambino!—Ecco il sogno del poeta, del credente, dell'artista, del felice, dell'infelice… dell'uomo!—Che importa a me della filosofia, di Iddio!—ammetto i bisogni della terra, e di questi bisogni faccio un tesoro di religione, una filosofia contro cui non si può lottare, un Dio che non è in cielo nè in chiesa, ma è un Dio—Amore!
* * *
—No, non sono pazzo: sono infelice, giacchè lo studio accresce i miei dolori, mi crea sempre nuove speranze che diventano sempre nuove illusioni e poi sempre nuove delusioni, giacchè non posso essere egoista come i giovani ricchi e eleganti, giacchè, coll'anima mia d'amante e col mio cuore di poeta, non potrò fare mai una carriera seria,—voglio provare a fare il bene colla mano, voglio entrare nella Congregazione di Carità, e vedere le vere miserie della folla, e soccorrerle forse anche co' miei denari! Sì, il bene!
Io mi tormento; ma ecco sento una calma, una fiducia, una speranza;—mi inginocchio….
Mio Dio! perchè mi arrabbatto tanto? Tu forse hai già preparato tutto il mio avvenire nella Tua Bontà; mi vedesti! mi vedi! mi vedrai! Io so nulla e Tu sai tutto! Io bestemmio e Tu sei e mi perdoni! O santa fiducia! Chi sa le tua fila, o Dio? E mia madre Ti prega? Che Ti dice? E Tu la ascolti? Ed io sarò felice? O Dio, io leggo il tuo Vangelo e sento che se i miei pensieri non si conformano alle sciocchezze del mondo, si accordano co' tuoi precetti santi,—io sento la gioia di amare coll'anima e d'essere casto!—E, se vuoi, fammi pure morire… morire casto, tranquillo, pensando al mio cimitero di Limbiate, alle mie soavi speranze di vita che mi lusingavano un giorno, e alla placida certezza di riposo che avrò sotterra: Oh io mi sento buono!—Sai, ho sempre pensato a Lidia davanti a quel cimitero: era un cattivo augurio o un buon augurio? Ma che volevo? che voglio? La pace!
Come ho vergogna, in faccia a mio padre, di non avere una carriera seria!
La mia vita in sei anni fu eterna e brevissima, felicissima e infelicissima: speranze, scoraggiamenti, voli, cadute a precipizio: certezze, febbri, languori, tormenti… chi può dire? oblio, anche oblio! deliri, pazzie nei sogni, nei desideri: e santa castità, e santìssimi, rossori! O Dio! ma un solo il voto: quando, febbrile, crudele, briaco, promettevo a me stesso di gettarmi fra le braccia di una femmina qualunque, e di raccontarle i miei dolori, per farmi almeno deridere da lei, per istigarmi, per istigarla, quando… No! no! «Avrai dei figli da guardare negli occhi» mi diceva una voce segreta… e sentivo che ancora al mondo c'è mia madre, e forse lei, la mia vergine!
Rileggo la lettera di Lidia! «Aimons! c'est le bonheur suprème que l'amour et j'ai aimé plusieurs fois dans ma vie avec une telle exaltation, un tel transport que j'aurais peut-étre été capable de tout sacrifier pour des personnes qui maintenant m'ont déjà oubliées!—J'ai senti en moi un besoin profond d'amour et de sacrifice! oh combien j'ai souffert quelquefois de n'avoir reçu une nature ardente!»
* * *
Torno adesso dalla Pretura. Mio Dio! Come mi spaventa il mondo reale, il mondo della prosa, dei bisogni, degli affari.—E mi chiudo nel mio studiolo: apro il mobiletto…. Oh mondo delle mie illusioni, della mia poesia, del mio cuore! Come mi sento felice!
Leggo la mia lettera a Lidia! Non è un affare, no, ma per me decide della vita nel futuro! Come sono contento d'avere espresso le mie idee, i miei cari tormenti.—Rileggerà Ella la mia lettera? E penserà?—Et croyez-moi bien je n'oublierai jamais ce que vous avez été et ce que vous vouliez être pour moi!
21 gennajo.—Cinque anni fa, come oggi, mi posi a letto. Se fossi morto?… Io sarei in pace, ma Ella non avrebbe avuto Lagrime e Sorrisi, e la mia lettera…. Mi conosce? Penserà a me? Al male che mi ha fatto?
25 gennajo.—Conosco pochissimi romanzi: e li ho letti assai tardi: a venticinque e ventisei anni non hanno lasciato traccia su me, li leggevo, come li avrebbe letti un presidente di Tribunale. Leggendo Young, Foscolo, Leopardi, Goëthe, Byron, Heine, Rousseau… dicevo a me stesso «che teste bizzarre!» e pensavo: è più utile un ingegnere che un poeta pazzo. Oh lo dico francamente: le letture non hanno esercitato nessuna influenza su me.—Leggevo per esercizio di lingua francese, inglese e tedesca.—Se un autore ha avuto influenza su me è Aleardi, e, vedete, Aleardi non può far male!
Deciditi, sciocco! Chiudi in una busta tutte queste memorie: suggella, come si chiude una pietra di tomba; e non pensare più al passato: gettati nella vita! già troppi anni sono passati e fra pochi altri incomincerai ad esser già vecchio! Nella vita!—Oh se potessi viaggiare! E perchè? Chi mi strapperebbe il cuore e il cervello? L'orgia? la femmina?… Ah! alcune volte lo dico a Dio: se rinascessi, fammi nascere donnaccia volgare e venduta, e fammi conoscere tutte le crudeltà della libidine!—Potessi gettarmi nella vita!
Si ha tanta affezione ai propri dolori, alle proprie illusioni, alle speranze, quando una vergine nel giorno del sacrificio immenso ci dice: Conosco che il nostro affetto è puro, è nobile—ho per voi una confidenza di sorella—non dimenticherò mai quello che voi siete stato e quello che volevate essere per me.—E sono dolori, illusioni, speranze che hanno consacrato sei anni e sei anni della giovinezza, sei anni dai ventidue ai ventotto anni.—Ah se sul cuore si potesse porre una pietra come su una tomba! Ma anche pei morti si spera la resurrezione!
25 gennajo.—Oh mie memorie di Limbiate, come mi tornate davanti alla mente, carissime e meste! E voi tranquille pinete, tranquillissime mura, squallide croci, mi ricordate il mondo della mia ardentissima vita. Come vi amo! Come vorrei rivedervi una giornata triste! Oh memorie dolci e piene di speranze, della mia malattia e della mia convalescenza! Il piccolo portafogli l'avevo sotto il mio guanciale: quando i miei parenti erano a pranzo, mi tiravo su a sedere sul letto, prendevo il portafogli, lo aprivo, leggevo il tuo nome e lo baciavo. E i miei libri francesi? Raphael et les confidences? E il primo lampeggiarmi alla mente l'idea che della vita del Tintoretto si potesse fare un dramma, e con quel dramma potessi conquistare un nome, e col nome, un avvenire? E il piacere di trovarmi ingentilito dalla malattia? E la soddisfazione di dire: «Mia madre sa che ho sofferto?» E le trepidazioni, le incertezze?
26 gennajo. È una domenica calduccia, sciroccale, umida. Apro la finestra.—Ho trovato uno schizzo dal vero fatto a Limbiate probabilmente nel 1863 o 1864: lo amo!
31 gennajo.—Il tempo si è fatto triste. È inverno.
Quali incertezze!
Se fosse qui vicino ardirei parlarle? No: sono troppo villano di corpo.
Compero armi antiche: getto denaro e vorrei gettarne di più. Ed
Ella lavora per guadagnare.
2 febbrajo.—Jeri sera ho offeso, villanamente offeso, un mio amico. Lidia, perdonami! Ma così contraffatto, e incerto come sono io, il mio carattere può essere riflessivo e paziente? E i miei nervi?
Sera.—Sono tranquillo, anzi sono lieto. Sono tre anni di vita riassunti in quei drammi e in quelle epigrafi (1874-75-77). E che? Non temo? Dio mi vede nell'anima.
7 febbrajo.—«Je remercie l'ami de se souvenir de moi et l'auteur de me juger digne de l'apprécier: à tous deux je serre affectueusement la main.(7)»
O Tintoretto, quanto mi costi! O Byron, o Goëthe, per leggervi ho speso un anno di fatiche e di illusioni e di delusioni!—L'amico si ricorderà sempre di voi.
Questo amico che ha votato alla solitudine e allo studio gli anni più belli e più ardenti della sua giovinezza, colla sola gentile confidenza in Dio che un'anima di sorella ci poteva essere, la quale conoscesse le religioni del suo affetto e le febbri del suo povero ingegno, questo amico, qualunque sieno le circostanze della sua vita e della Vostra, vi ricorderà sempre. E vi prego di una cosa sola:—in quei giorni almeno in cui tutti per abitudine mandano un loro biglietto di visita ai conoscenti, per un mesto pensiero Voi non vogliate essergli avara del Vostro, perchè almeno egli sappia che Voi siete ancora a questo mondo e dove siete. Se poi verrà il giorno in cui al vostro biglietto vedesse aggiunto un altro, l'amico dirà:—Che essi siano felici!—e state sicuri, la sua preghiera a Dio sarà senza rossore, senza rimorso, senza un pensiero mondano, perchè incomincierà coi vostri nomi e finirà coll'augurio che si fa sulla culla degli innocenti (8 febbrajo 1879).
11 febbrajo.—Povero illuso! Aspetto ancora una lettera!
Comme une étoile dans la nuit!
14 febbrajo.—Una lettera di Lidia! Che spavento! Ella è infelice e si confida in me. Vuole consolazioni da me?
Che le dirò? Che posso fare?
È giunto il momento che in sei anni ho sospirato.
Essa è libera, è infelice,—è povera,—e si volge a me. Ed io?
Ella mi ama! sarà mia?
Etant pauvre il faut que je travaille(8).
Lidia, l'anno scorso, in febbrajo, io ti credevo sposa a un altro. Quest'anno in febbraio, Tu ricorri a me per avere conforti! O Lidia, come io saprei farti dimenticare quello che hai sofferto! Io che ho sofferto sei anni! e soffrivo quando tu non sapevi di me!
Forse Dio ha già stabilito tutto. L'ho sempre sentita questa profonda confidenza, anche quando ti credevo sposa a un altro.—Lidia, sei mia, sarai mia. Mi voto a te.
Se Ella venisse a Milano?
O mia Lidia, sono felice! Potessi vederti qui, nella mia casa!—Ti scriverò, come si scrive a una sorella.—È destino, no, è volere d'Iddio che noi abbiamo a trovarci, fosse pure fra dieci, fra venti anni! Ma ella è povera…. e vivrà? O Dio, sento una profonda fede in Te, l'ho sempre sentita anche nella disperazione, ho fede! e Tu mi dai la speranza!
Povera ragazza! Sono io un infame, che la illusi? No: Dio mi vede. È Dio che ha disposto che io debba essere a Lei un fratello, un consolatore. Oh come mi sono meritato questo affetto di sorella!
«Etant pauvre il faut que je travaille.» Ecco perchè Ti sposerei: per lavorare insieme, per darti gli agi di una discreta posizione: ecco perchè Ti vorrei mia…
16, domenica.—-Ho letto un po' dell'Ugo. La mia vita la sfogavo in quei tormenti drammatici! Chi può capire la potenza di certe mie pagine?
17 febbrajo.—Come sono felice! Io amo e sono amato! O Lidia, l'anno scorso, di questi giorni, chi me lo avrebbe detto? Ma sentivo che l'anime nostre dovevano incontrarsi!
Jeri ho adorato la Madonna della nostra Pinacoteca fingendo ch'Ella fosse con me, con me felice, sorella, vergine!—Come sono felice! Sento di vivere! Sì, e parlo in casa, e fuori di casa, pel primo, mi intrattengo coi conoscenti, parlo, rido, non abbasso gli occhi…. Vivo! o Lidia, da quella prima sera che ti vidi a Limbiate ad oggi come ti ho sempre amato! ma quale scoraggiamento nel pensare «Mi amerà lei? o almeno si ricorderà di me?» Forse Ti ero indifferente!—Ma in questi giorni mi ami! mi ami!
O mamma, come sono felice!
Come Ti amo! Ma ricomincia il tormento:—Come farmi una strada?—come lavorare a prepararmi un avvenire?
Io sono poeta!
18 martedì.—Jeri sera come fui melanconico e scoraggiato! Come farmi una strada?
19 febbrajo.—Etant pauvre il faut que je travaille.—Come mi addolorano queste parole! In casa si discorre di comperare carrozze. In sei anni io credo che ventiquattro mila lire si sono spese per questo inutile lusso. E tu lavori!
Jeri sono stato a passeggiare verso Limbiate, per sentirmi felice, per dire—là, là, un giorno ci troveremo e Ti condurrò in quei luoghi ove io ho pensato a Te e ho pianto!—Si vedevano i bei monti! Entrai nel cimitero di Porta Comasina per dedicare un mesto pensiero alle mie sorelle.
Come sentii la vita! Come pensai a Te! Come Ti volli mia, al mio braccio sorridente fra le croci, melanconica per quanto hai sofferto, fidente pel bene che Ti farò io!—Dio ci ha destinati!
Jeri avevo pensato tanto! E a sera un papà mi fa mille complimenti, per introdurmi nel palco di sua figlia. Combinazione! in quel palco, tante sere fa, sedeva una ragazza che somigliava a Lidia, ed io, pensando a Lidia, ho guardato con molta insistenza. La figlia del signor F. si credette d'essere l'oggetto di tanta mia attenzione, e cominciò da quella sera a guardarmi.—Oh come sarebbe felice mia madre!
* * *
Lidia, sono venuti per voi i giorni dello sconforto! cara, l'anima mia vi trova e vi dice—Coraggio!—l'anima sicura è ardente in Dio. È dovere il mio, e l'adempio in nome di quanto di più puro avete nella memoria della vostra vita, di quanto di più sacro sentite in fondo al cuore, fra i tesori della vostra fede religiosa, che è la mia. Un anno fa, voi mi avete scritto che credevate all'affetto nobile, puro, bello, quand'io mi sentivo tanto felice di sapervi felicissima: in quest'ora in cui ringrazio Dio che la mia povera voce possa giungere a un'anima sconsolata, in questa ora vi dico che Voi non avevate offerta la carità del vostro affetto ad un floscio che volesse raccosciarsi sui gradini del vostro altare e che sempre volesse tendervi la mano elemosinando l'obolo della vostra contentezza. Voi avete avuto allora e avete oggi la confidenza di una sorella: ed io, state sicura, so quale immenso e delicatissimo dovere mi dia questa massima parentela di rispetto e di affezione. Voi credete? Io ho avuto due sorelle, ma esse mi sono morte assai presto, bambine ancora: ma ancora le sento intorno a me, cresciute con me, pietose di me e le invoco, e le voglio, e ne bacio i biondi capegli, e le amo, e arrossisco di non essere nè bello nè gentile, ma le amo, tremando e inginocchiandomi, le amo! Ed esse mi dicono:—Siamo deboli, siamo fiori, siamo profumi, siamo memorie, siamo angioli! Siamo sorelle, siamo vergini!—Voi credete! Queste parole per me sono la più possente religione, quella che non si insegna dalle madri nelle nostre preghiere da fanciulli, quella che non ho trovato davanti agli altari della indulgenza, quella che non ho cercato alla scienza e quella che, vizioso e scettico e rachitico, il mondo irride. Una religione celata in fondo all'anima, colle più tremende battaglie alla materia, colle più arcane gioie dello spirito, piena di misteri, di fede, di speranza, senza esame, senza egoismo, colla gran voce della natura che ci vuole buoni, con Iddio che ci vuole infelici!
Ed è in nome di questa religione che non può offender voi nella vostra memoria nè nelle vostre speranze, ch'io vi dico:—Sorella, coraggio! Se le mie parole, disperse alla folla, mi tormentavano tanto, se le mie fatiche non aprirono mai una via, se le mie speranze d'Arte sono cadute, Dio è stato buono, ha voluto darmi le delusioni e i dolori, per darmi un segno della religione del sentimento, ha voluto togliermi ogni coraggio, per darmi poi la fede perchè io ripetessi a un'anima queste parole e con sicurezza.—Coraggio!—-Se mi apparecchia un avvenire sa che c'è quest'anima a benedirmi, a pregare per me. E a Dio mi sono sempre confidato così:—Ella non mi ha fatto male e desiderando sempre che Tu la rendessi felice, io non mi sentivo mai egoista! Ella fu un gentile ideale che mi rifulse nella mestizia di una vita arida e senza scopo: mi accompagnò nella solitudine e negli studi: forse non dimenticò…. Se la mia voce può farvi del bene, Lidia, se questa parola coraggio non vi suona banale da me, se l'espandervi vi sgroppa l'affanno dei giorni tristi, ricordatevi che non siete sola sulla terra, che io vi pongo tra le visioni più pure delle mie ore tranquille, e ardenti, che io credo in Dio e in Voi, che anche le vostre lagrime mi sono care, ch'io credo in Dio ed amo l'amoroso ideale della dolcissima Maria.
E mi dico vostro affezionatissimo fratello.
15 febbraio 1879.
19 febbraio.—Amo Lei! Lei! Tutta la mia giornata è per Lei! Studio per Lei, di giorno: studio per Lei, di sera: penso a Lei, di notte! Penso ch'Ella deve essere felice!
Ed oggi come sono felice. Dio, credo in Te! Dio, non far morire me, non far morire Lei! Lascia che ci amiamo come fratello e sorella: ci benedici: e ci compensa di quello che abbiamo sofferto, Ella nelle delusioni, io nell'amare solo Lei!
Oh come sono felice! Come vorrei che mia madre vedesse queste mie confidenze, per benedirci!
Oh quanto amore! E se morissi? Ho visto ieri le ossa dei morti! Chi distingue le ossa di chi ha amato?—Finchè siamo vivi e giovani e puri, Dio è in noi e Dio è l'amore!
Perchè si vive?
Leggo un po' del mio Tintoretto! Questa copia, gualcita, sporca, su cui ho scritto tante volte per epigrafe i versi di Byron e quelli di Goethe, questa copia l'ho portata con me a Venezia nel 1876 e volevo abbandonarla sulla lapide del Tintoretto. C'era insieme un mio amico, e non ho osato. Oh come ho amato vedendo la pietra del pittore e pensando a Te!—A Verona ero solo: volli andare a Mantova per vedere la città dove Tu eri: alla stazione di Verona comperai dei fiori, li posi nel volumetto del mio Tintoretto a pag. 70 e 71,(9) dove ci sono i pensieri che più mi facevano ricordare di Te, e volevo abbandonare e il dramma e i fiori e il mio pensiero al Mincio che va e va, all'ignoto, a Te…. Mi spaventai, pensando che quella copia potesse essere trovata e compromettere Te! vedi, a quali fantasticaggini da bambino conduce l'amore! Passai dinanzi al palazzo G. pauroso, religioso, raccolto, con amorosissimi pensieri: era illuminato dal sole: certe finestre aperte: nella corte si stava attaccando una carrozza…. Passai, ripassai, pieno di paure, e di memorie e di speranze…. Oh sì! Dio, li hai calcolati quei momenti, perchè ora mi fai tanto felice!
* * *
Ma l'avvenire! l'avvenire come me lo preparo? Con che lavoro? con che via?
20 febbraio.—È venuta un'ora di sconforto!—Da alcuni giorni sono al Museo Archeologico, colla pretesa di studiare le armi, ma veramente per farmi un po' conoscere dall'alta camorra artistica e municipale e forse mettermi a fare qualcosa. Passo delle ore là, ma adoro le Madonne e penso a te, o Lidia! Che importa a me delle armi rugginose? Quello che mi tormenta è la vita! Soffri tu? Sei nervoso? Sei ardente? È vero amore il mio? Perchè sono tanto infelice?
21 febbraio.—Come sono felice di amarti! Ma perchè sono incatenato?—Sento la poesia: ma oh quante volte penso al positivo, e faccio dei calcoli. Mio padre è ricco: scriverò un dramma per farmi una posizione?! È passato il tempo di queste ingenuità: non è passato l'amore.
23 febbraio.—Alcune volte come mi spavento! Oh potessimo esser felici! Noi due, noi due soli, e una bambina, noi, tranquilli, indifferenti del mondo, religiosi, artisti, casti, felici!
I sogni mi stancano con maliarde voluttà: oggi mi sento la testa grave.
24 febbraio.—Ho abbozzato una lettera per Lidia. Trepido e tremo…. Sono io geloso?
25 febbraio.—Come mi spavento in mezzo alla gente, pensando alle mie segrete speranze! Sciocco, ma quella gente moverebbe un dito per alleviarti un dolore? E Tu giovane, scettico e freddo e pieno di posa, sai Tu come mi agghiacci l'anima col tuo cinismo scientifico? Sei artista tu?—Ami tu?
O Lidia, che giornata triste! Nevica ed è freddo. Guardo il tuo ritratto e penso.—Quanto ho sofferto dalla sera che io ti vidi, freddolosa, triste, avvolta nello scialle ad oggi! Io ho sofferto per amore! Oh come riderebbero i miei amici!
26 febbraio.—Dio, mi spavento! Sono io sicuro dell'anima mia?
1.° marzo.—Oggi sono felice. Da due giorni ero nervoso e spaventato. Ho letto ieri in un libro del Michelet: «Due persone che si amano spendono assai meno di uno solo che vuol dimenticare.»—E che idee nobili, pratiche, scientifiche! Quelle pagine mi hanno consolato.—È sabbato grasso. Ieri a sera non sono andato al veglione della Scala: sarebbe stato un insulto a Lei che soffre.
Oggi sono felice!
2 marzo.—Sono freddoloso e sonnolento. Sono stato alle feste del Giardino. Ho avuto vicino, vicinissimo a me una sposina dalle spalle, dal seno nudo, ridente, allegra. Ho finito di dire a me stesso:—È mia moglie? Posso amarla?—La trovai gentile, perchè donna, la guardai, mi sentii buono e onesto, ma… potrei dimenticarti, o Lidia? No!
Ieri il mio tormento fu grande. I pensieri mi bollivano nella testa, si che credevo di impazzire. Leggo oggi Michelet.—Poesia!
6 marzo.—Perchè non una riga? Perchè mi tormento così?—Sono nervoso e aspetto.—Come la vita è breve per il mio amore! Oh come aspetto una tua riga! Tu tardi, penso che Tu scrivi una lunghissima lettera per dirmi tutta la Tua vita. Sei ammalata? Al Club non ardisco guardare la Gazzetta di Venezia, temo di trovare il tuo nome fra i morti.
7, venerdì.—Perchè non una riga? Oh abbiate cuore!
8, sabbato.—Abbiate cuore!—È primavera: senti anche Tu l'amore della natura?—Che tristezza mi assale in questo momento! Lidia, io ho turbato l'anima tua, e che cosa posso io fare per Te?
10 marzo.—Oh! miei genitori, se voi provaste ad avere l'anima mia!
Ai tremendi bisogni di un corpo nervoso, al tormentoso bollire di pensieri nel cervello, alla muraglia di ghiaccio che mi separa dal mio avvenire, come resistere? Come resistetti? Non posso occuparmi, no: la mia anima non può volgersi ad altri pensieri; che importa a me di tutto ciò che è diverso dal mio amore? Oh se gonfio di vita, avessi almeno lo sfogo delle libidini: se pieno di sentimento potessi almeno prorompere in una poesia: se così tormentato potessi almeno avere la libertà di stordirmi viaggiando!—È primavera! Sono io un pazzo? Lo fossi, sì, lo fossi! sarei felice!—Ricordo che ho vissuto con intimità con due donne a V… e ad Oropa. Come ero contento! Come prevenivo i loro minimi desideri! Come mi sentivo bene avendo vicino a me una donna! E se questa donna fosse stata quella che ho sognato! E discorrevo del mio avvenire, dell'amore, della famiglia, dei figli, di Dio, e delle toilettes! Così la vita. Ma ero contento, e presentivo la felicità di essere con Lei.
Sciocco! ieri lessi un libro di scienza. Dio non c'è: il fato è tutto: l'ideale nulla.—Dunque io sono un povero sciocco!
Padre mio, Ti sei tormentato tu pensando: Dio c'è, o non c'è?
La scienza nuova, le nuove lettere mi spaventano: non leggo niente per non turbarmi, e se qualcosa mi capita sotto gli occhi, sento lo squallore del materialismo e dell'ateismo. Sono un fanciullo, non sono un uomo: non oso pensare, non oso leggere: sto bene nelle mie dolci illusioni dell'ideale e di Dio. L'archeologia mi occupa tanto: cerco libriccini, leggo, annoto, confronto, vorrei farmi conoscere e entrare in qualche commissione, ma quante volte, quando splende il sole e le pagine sono gialle e rose dai tarli, quando la primavera regna e rifulge ed anima e suscita e tormenta, e la carta morta sta morta, quando una donna, una sposina entra a visitare la Biblioteca, una sposina con un mazzetto di viole e l'oblato sta lì giallo su un mucchio di libri a studiare le teorie della poesia rettorica o di Dio scolastico, quando da una finestra col sole entra il suono di un pianoforte ed io mi sento il cuore gonfio,—quante volte dico:—Al diavolo, o carte vecchie!
Da un mese vado in uno studio da pittore. M… sta facendo il ritratto di una sposina, morta st'anno. Nello studio vi sono i suoi abiti, i suoi pizzi, i suoi nastri. Un giorno li toccai con riverenza, un altro senza che io tanto ci pensassi, chinai la testa su uno di quegli abiti e lo baciai. Amo quella morta, ed è bruttina: ma era donna!
E nei sogni, nei sogni mi viene la femmina nuda, viscida, spossata, o ardente, istigatrice, bestiale! E sento che anch'io ero nato per provare l'orgia e l'abbrutimenio!
Quando potrò io abbruciare tutte queste carte e distruggere il mio passato e amare una fanciulla che abbia una buona dote?
Ora non ho alcuna passione. «Etant pauvre il faut que je travaille.» Queste parole mi strinsero il cuore: Ella lavora per guadagnare il denaro; io lo getto in ferravecchi. Spesi 160 franchi per un elmo di ferro! Quanto deve lavorare Ella per avere 160 franchi? Queste mie cose antiche mi danno un rimorso. Col denaro speso potevo soccorrere qualche povera famiglia o qualche povera fanciulla che lavora!
È primavera!—Mi ami Tu, o mia sorella? E taci? E soffri? Pensi per me? Soffri per me?—La viltà dell'egoismo mi persuade il suicidio: ma, no! no! Ti renderei troppo infelice!
Mio Dio! fammi vivere, vivere anche nel massimo dolore, vivere nella massima gioia, ma vivere! Questa stupida monotonia di giorni non è vita per l'anima mia e per i miei ventisette anni!
L'altr'ieri ho passato la Gazzetta di Venezia, dal 14 febbraio ai primi di marzo, guardando i nomi dei morti…. Mio Dio, quale spaventoso presentimento! Non osavo, tremavo: ridevo, alzavo le spalle e me ne andavo… Non ho trovato N.° del 23 e 24 febbraio. Che dubbio! Ma perchè…?
I miei sentimenti io li intono solo alla solitudine di Limbiate, alle tristezze della mia malattia, al deserto di questo mio studio, ma come sono stonati col mondo!—Ecco il mio spavento!
Sciocco! e se tutto fosse un sogno?
11 marzo.—Dopo pranzo. È la terza sera che salgo qui nel mio studio e mi trovo solo… Domani andrò a Limbiate. Che ora triste! È l'ora in cui si desidera di essere belli, buoni e felici!
14 marzo.—Torno adesso da Limbiate, e trovo una tua lettera, o Lidia. A Limbiate quanti pensieri! Non li ho scritti, ma li scriverò per Te!… Ho qui la Tua lettera: ma non voglio aprirla. Sono felice! che mi dirai? Non so, ma sono felice; mi sento in orgasmo… Primo pensiero: vorrei andare al Santuario di Saronno, e leggere la tua lettera, contemplando gli angioli (cioè quei due angioli, che conosco tanto) del Gaudenzio Ferrari. Ma come sono brutto e villano io!—Stanotte ho sognato di Te: nei sogni mi pare di esser bello perchè non ho corpo!
Domani scriverò. Oggi ho letto la Tua lettera, ma la folla, il sole, le ciarle mi hanno stordito. La rilessi ancora e la rileggo «Qu'aviendra-t-il de moi?» O mia madre! Spero di morire! E tu devi pensare a Lei come ad una figlia: lo devi perchè il mio amore è santo.—Sono in orgasmo. È una settimana ch'Ella ha scritto la lettera. Sono felice e sento che Dio mi vede.
Dio? ed io credo nell'anima? E Tu?
Sì! sì, siamo pazzi, ma consoláti, ma poeti!
15 marzo 1879.—Ho riveduta la A., quella ragazzina che mi fece tanto bene! Nell'agosto del 1877 forse mi sarei ucciso. Da due giorni ero in uno stato di abbattimento spaventoso. Trovai quella bambina, le diedi dei soldi, la baciai, la accarezzai, la tenni con me, e una voce di dentro al cuore mi disse:—Somiglia alla bimba che tu avrai dalla tua Lidia!—Fui tranquillo, felice, guarito. La realtà era tremenda per me, il fatto era fatto: eppure quella illusione mi salvò, perchè illusione gentile.
Ho una lontana speranza di poter scrivere qualche libro. Questo amore ha acuito le mie facoltà, e forse, cessato l'orgasmo, fra un po' d'anni potrò scrivere: e sento che scriverò come Tarchetti, con analisi, con cuore, coll'ideale. Ma che riuscita ha avuto Tarchetti? Che carriera ha fatto? Grazie tanto. Oh e il pubblico? Il pubblico? Il pubblico che legge l'anima nostra, e non la capisce, ci sprezza e fa il pettegolezzo!—No, meglio queste pletore, queste abbondanze di vita che fanno morire, che quegli sfoghi artistici che fanno sogghignare gli uomini d'esperienza panciuti e i giovinetti che hanno la mantenuta e le femmine eleganti che, oltre il francese, sanno leggere l'italiano! E gli amici? E i nemici?
Insomma i miei parenti non possono vedere ch'io sono stanco e sfiduciato.—Non mi divertono i cavalli, le feste, il teatro, la società, il giuoco, gli abiti, i pranzi… E solo discorro di vita e di viaggi, e solo mi chiudo in me, e in casa, Non ho nulla. No, Tu, mamma, hai sofferto, ma non avevi e non hai la mia anima! ma hai sofferto, sono certo: e Tu suonavi il pianoforte, timida e senza capire la musica, come una bambina. È un ricordo triste!
Guardo il Tuo ritratto, o Lidia! Ah mi costi cinque anni di vita! Ed è impossibile che io rinunci al sogno di una felicità che mi sarei meritata con tanti dolori! Sì, dolori! ed i peggiori dolori—quelli repressi in una povera anima e custoditi e santificati dalla solitudine e dal pensiero di Dio!
In nome di questi delirii, di queste baldanze, di questi scoraggiamenti, in nome dall'Anima che è trasfusa in queste povere carte, in nome di Dio, mamma, ti prego, ama la mia Lidia, provvedi a lei, tienla con te, sorreggila, amala più che se fosse la tua Maria o la tua Sofia! Questa è sorella di tuo figlio! Sorella d'anima, è sorella castissima in Dio!
* * *
Oggi non posso studiare. Il Don Giovanni di Byron mi annoia, mi indispettisce. Che umorismo scettico e volgare! Penso e non penso: sono inquieto: vorrei fare un viaggio, se potessi. Ma che vuoi? Non posso fare cosa diversa dallo stare al tavolo. Coi divertimenti mi pare di perdere tempo, un tempo sì prezioso! Oh se potessi lavorare e guadagnare, o sperare una posizione!
—O Dio! Che pensieri! Chissà quanti dolori avrò ancora! Gli ostacoli alla sua felicità sono temporanei forse: forse si sposerà; ed io avrò l'anima spezzata una seconda volta e senza rimedio!—Quanti dolori avrò ancora! Perchè tu non mi hai detto tutto!
Ah bisogna confessare che queste incertezze sono tormenti orrendi!
16 marzo.—Ieri fui al cimitero di Porta Magenta e vidi la esumazione dei tredici scheletri degli appiccati nel 6 febbraio 53. Mio Dio, che orrore! E quando verrà il giorno in cui anch'io potrò sfogare l'anima mia nelle grandiose emozioni delle battaglie? Oh venga presto quel giorno! Sì, laverei la macchia che ho sull'anima:—l'essermi lasciato persuadere da mio padre, quando potevo e dovevo fare il soldato. Come mi annoiano e mi ripugnano e mi avviliscono le sciocchezze che dico quando sono colla gente! Eppure bisogna fare così. Alla Società Patriottica si sta preparando una pagliacciata: io fui pregato, con grandi promesse di fortuna, fui lodato, fui conosciuto… Chi volle conoscermi pel mio Ugo? Se mi prestassi alla mascherata certo farei conoscenze e farei dei passi, più che con due anni di tentativi drammatici, due di scoraggiamenti fatali, e due di studi di lingue! Ma il divertimento mi ripugna! Tu soffri, o Lidia, e pensi a me, io Ti parlo di Dio e di solitudine, e Tu hai paura del Tuo avvenire: ed io divertirò la gente?—No: per chi leggerà queste mie pagine voglio lasciare un ricordo, un ricordo dignitoso, severo, casto, gentile del mio amore. Che importa a me del mondo? E che importerà a voi del mondo quando conoscerete i tormenti e le incertezze dell'anima mia!
Quando sento suonare gli inni di Mameli e le canzoni del 48 mi si riempie il cuore! Oh sento l'oblio di tutto! Perchè non mi fu dato di sfogare nelle tremende emozioni della Patria le esuberanze dei mio cuore?
Sono io così sciocco? Byron che non era sciocco amava ed amò sempre miss Chaworth; ed ella non lo amava. Come era sciocco Byron, non è vero, o Papà?
Ecco un'idea poetica che mi è cascata dalla penna! Ecco, direte che io sono esaltato dalle letture!—Esaltato? Scusate, sono abbassato. E se cito Byron gli è perchè era un uomo che sentiva ed io odio la folla dei merciai, dei rachitici, degli accidiosi, degli spudorati, la folla che oblia tutto!—Obliare?—Che importa? Fino alla morte avere l'anima gentile e Dio…
Ecco un tormento ineffabile che voi non capirete mai! Io dico di sentire fiducia in Dio, di sperare in lui, dico ch'egli ha fisso il mio avvenire, e prego melanconicamente e sorrido… Oh ma che faccio per il mio avvenire?
La scienza seria mi dice:—Dio non c'è: il tuo ideale è bambinesco; l'uomo si prepari il suo avvenire, l'uomo combatta, l'uomo soffra, l'uomo sia di questa terra! Oh che faccio per il mio avvenire? Se la verità è questa, e se è vero che la vita passa sì presto, e se è vero che il mondo è una commedia, che sono io e perchè mi tormento?
18 marzo.—Mi rifiuto alla pagliacciata che si farà dagli artisti. Anche le nuove mie conoscenze incomincieranno a dirmi originale. Che importa? Posso io fare lo sciocco e divertire gli altri, quando Tu domandi: «Qu'aviendra-t-il de moi?»
19 marzo.—Padre mio, l'hai tu sentito nella tua giovinezza questo strapotentissimo bisogno d'esser bello, d'esser felice, d'esser buono?—Se Dio non c'è, se la perfezione e la felicità dell'altra vita non esistono, l'uomo che su questa terra si sente l'anima così commossa, che si volge al cielo e dice:—Fammi esser bello e felice e buono—l'uomo non è uscito dal fango, sebbene imperfetto, turbato, sconvolto dalle passioni!
Oh li vedo, ora che passo del tempo fra la gente, certi uomini seri!… La politica è seria? L'arte? Le scienze? Li vedo; questi uomini sono indifferenti, fanciulli, senza passione: hanno anima? Essi certamente invidiano chi può nella quiete di uno studio essere indipendente, sciolto da ogni affare, solo, solissimo… Lo invidiano loro!
Dio mio, un anno solo, un mese solo, un giorno solo di quella felicità santa, piena, immensa che acquieti l'anima mia, un giorno solo, Ti prego! E poi lasciami pure al mio destino. Ch'io provi a vivere!
20 marzo.—Oh nei sogni quali spasimi di voluttà che non ho mai provato! E quando sono desto, e vivo, e ardente, ed è primavera, quale imperioso bisogno di conforto ai miei anni!—No, no! ti sprezzo, o femmina, o stupida istigatrice, fango destinato al fango; e ti adoro, o vergine, mestissima e santa poesia vivente!
O Lidia, Ti ho schiuse le pagine più sacre delle memorie, e forse anche Tu hai detto ch'io sono un fanciullo! e forse mi hai creduto un cattolico, forse un chierico!
O Lidia, il mio Dio lo capisci Tu come lo capisco io?
22 marzo. Sono stanco, annoiato di tutto, scoraggiato, avvilito. Penso al M. Com'è felice colla sua donna!—Io non avrò mai questa felicità? E perchè mi sono tanto tormentato?
Gli Italiani vanno alla Nuova Guinea. Sono pazzi? Mi è balenato il desiderio, in sogno, di avventurarmi là anch'io, e lasciare a casa tutte le memorie perchè i miei le leggano, e sperare… Sempre un dolore solo! Sperare! Sperare! L'anno scorso avevo pensato anche così. Non voglio più guardare alcuna ragazza. Lidia avrà una figlia: e la sposerò!—il mio spavento era che si rompesse ogni filo fra me e Lei; dove sarà fra tre, quattro anni?
Dov'è ora? E dove sarà?
Oh fosse vero il mio sogno! Che Tu potessi amarmi e ch'io potessi esser felice! Oh fosse vero il mio sogno!—Lidia, Lidia, io non sento che Te, Ti voglio, Ti amo, inginocchiandomi e tremando Ti amo! Tutti i dolori passano, o passeranno: il mio amore non passa. Dio, dammi la mia pace, la mia felicità, il mio cuore!
E intanto passano gli anni della mia giovinezza! E quanti miei amici sono felici, belli, tranquilli! E quante fanciulle sorridono! E quante femmine ghignano!
Una cosa che mi avvilisce è che ho poca memoria: e vale stordirsi il capo? L'anno scorso c'erano delle notti (e per settimane) in cui sognavo di leggere tedesco o inglese, dopo sei o sette ore di lettura fatta nel giorno!
—Sono tre mesi e più che l'anima mia è piena del Tuo ricordo, giorno e notte. Sì, non è passata ora in cui la mia anima non ti abbia invocata, per sentire la mia felicità o la mia infelicità! E di notte, quando mi sveglio, tu sei il primo pensiero, il primo tormento!
… Il y a révolte en moi-même et comme un enfant capricieux qui ne veut point entendre raison, j'appelle la nature marâtre, parceque je veux qu'elle me donne aussi ma parte de bonheur!(10)
Che parole! Ti amo perchè sei ribelle, perchè imprechi, perchè avrai dei pensieri orribili, perchè non sei la larva vaporosa del mio studio e dei boschi di Limbiate, ma perchè sei viva, soffri,—sei donna! E donna, ribelle, imprecante, disperata, mi devi credere un fanciullo perchè ti parlai di Dio e di Maria! Oh se ti dessi a leggere l'Ugo! mi conosceresti, mi ammireresti, mi ameresti! No! sarebbe una cattiva azione la mia!
Chi conosce l'anima mia? Vorrei prorompere! E se Tu fossi quella che deve capirmi e darmi la pace e farmi vivere? Che importa a me dei milioni di cui così avidamente discorrono. A me importa la pace, la vita, la felicità. E che colpa avevo io da scontare perchè Dio mi condannasse al supplizio di questa vita piena di desideri e di tormenti, e di bisogni e d'amore?
Vorrei morire…. ma non si rinasce a rimediare ai mali di questa vita.
Oh io Le ho fatto del male! L'ho turbata! Tante volte nel parossismo del mio dolore ho sognato che il suo fidanzato si ingelosisse di me, e venisse da me, e mi sfidasse, e mi uccidesse. Comprenderebbe egli il mio amore? e non sa che se l'avrebbe fatta felice, io avrei amato anche lui? Non sa che potevo essergli fratello?
Su questa terra io non ho trovato quello che l'anima mia spasmodicamente cerca! Sono insodisfatto e scettico. Sono ammalato.
O Lidia, ch'io un giorno sappia il tuo suicidio o la tua vergogna?
Come tutte le sere paurosamente leggo la Gazzetta di Venezia!
Oh se potessi salvarti dal dolore e dai pericoli, mi ameresti per tutta la vita. Salvarti!
Temo di perdere mezz'ora di tempo, a staccarmi dai libri, e perchè non vado nè a passeggio, nè in cavallerizza, mi paiono preziose le ore, e che cosa faccio? Come faccio a prepararmi una via? Per due anni ho studiato anche alla sera nell'inverno, e 5 e 6 ore di sera, oltre 7 ore di giorno e che cosa so o piuttosto che cosa ho fatto di pratico? Ed io stesso mi dico: poltrone, lavora e fatti una carriera, professa le tue idee dignitose ad alta fronte, e parla colla tua coscienza d'uomo, e pensa al tuo avvenire con sicurezza e con coraggio invece di sospirare e di bevere bromuro!
Dicono ch'io sia originale, invece sono solamente infelice. Se fossi pazzo, quante volte avrei compromesso in casa mia il suo delicatissimo nome! O mi sarei inebetito coi liquori, o avrei giocato.
Ma a che tante giustificazioni? E per chi? Sento l'anima mia—e sento che ho sempre ragionato:—e con grandi sacrifizi, sì—ma ho sempre ragionato:—e sento di essere un uomo.
Lidia potrebbe dirmi No!—Ma la mia posizione sarebbe decisa,—netta,—finite le incertezze. E mi darei tutto alla carità.—Non mi ucciderei, come un vile; non imprecherei, come un briaco; non mi soffocherei nei vizi, perchè la mia anima è nobile; non viaggierei per non sprecare denaro (un denaro che a me non comprerebbe l'oblio e sarebbe tanto di meno per chi soffre) e mi darei tutto alla carità.—Sarei uomo. Il dolore massimo si sopporta colla massima forza. Sono le incertezze che tolgono forza.
23 marzo.—Sono stanco e assordato. Stanotte assistetti alla festa della Società Artistica Patriottica. Ero melanconico e guardavo…. Vidi come gli uomini sono frivoli e libidinosi. Nel massimo rumore e fra la gioia più sfrenata, io ti nominai fra me e me una o due volte, o Lidia, e ricordai che t'avevo scritto. Il mondo non mi ha mai dato delle consolazioni, perchè non può darne; non mi ha mai dato una delle sue gioie, perchè non le voglio. E fra il lusso della cena, nel salone, mi sono immaginato la tua modesta cameretta, o mia vergine!
Oh se io potessi farti felice!
Quel fracasso mi ha stordito: oh se potessi sempre stordirmi! Invece penso sempre. Pensare per agire è cosa umana; pensare per fantasticare su mille gioie e mille paure è ben tormentoso.—Ieri credevo di impazzire e credevo che il tifo mi assalisse di nuovo: ero contento.—A notte ho pensato che ti ho scritto della mia comunione: se alcuno dei miei amici avesse visto quelle righe! E che? Sono superbo.
26 marzo.—Sono inquietissimo.
27 marzo.—Ieri ho riletto la Tua lettera del 13 febbraio. Ho bevuto del bromuro di potassio. I miei nervi si sono acquietati; le idee sono sempre le stesse. Come sono contento quando dormo: non penso più!—La ballerina ciarla, è allegra e guarda i fiori…. O fortunati coloro che si innamorano di una femminaccia che possono mantenere!
Rammenta, rammenta, e spera, e spera, o fanciullo, e intanto diventi vecchio! Gli anni più belli, più ardenti, passeranno.
Chi avrebbe detto a mio padre, quando comperava questi fogli di carta, che essi dovevano servire agli sfoghi dell'anima mia? Anima appassionata, timida, buona, piena di fede e di speranza, anima che non trova l'anima!
Lidia, sei tu l'anima mia, io sento! Siamo destinati!—E se Tu morissi? Se io morissi?
Io scrivo parole, ma chi capirà che sono dolori?
Da molto tempo coltivo il disegno di andare a Venezia,—la città del mio Tintoretto e della mia Lidia. O padre mio, se tu sapessi che uragani ho nell'anima mia!
Se in questi giorni di primavera, vedo qualche fotografia di Venezia, mi sento una gonfiezza al cuore, un orgasmo, una melanconia.. .. Pazienza! Pazienza!
Ma soffri anche tu, Lidia, e hai pensieri orribili e imprechi…. Ed io Ti consolo parlandoti di Dio. Io! In quali momenti mi sento io!—Mi scriverai?
Un giorno saremo abbracciati, felici, inginocchiati a ringraziare quel Dio a cui abbiamo creduto. Oh potessimo sposarci a Limbiate!—È un pensiero che ho sempre, e che non ho mai scritto!
Dio, Ti ringrazio! Mi hai aiutato l'anno scorso, e in che giorni! mi aiuti anche in questo. Sì, quanto Ti debbo: mi ha scritto. Sapevo io dove era? Era viva? Era morta?—Dio, grazie!
28 marzo.—A San Miniato, a Firenze, come Ti ricordai!—E quando ero solo, a Mantova nel palazzo Ducale; a Verona, nel giardino di casa Giusti; nel cimitero di Brescia, come Ti volli! come ero infelice! Ero tanto solo! O Lidia, se Tu avessi provato quei momenti di ardentissima passione e di immenso sconforto!
Oh mio Giuliano! Chi ti conosce? Io ebbi l'animo per abbozzarti: non ebbi l'ingegno per scriverti. Ma chi ti conosce? In te ho cercato di sfogare le incertezze, la bontà e i deliri e gli inferni e i paradisi di un'anima che sclama:—Dio, Tu non ci sei, ma c'è la donna! Non credo in Te, ma spero in Lei!—O Lidia, potess'io parlarti di quel mio Giuliano. Comprenderesti i tormenti dell'anima mia, piena di vita e desiderosa di morire.
29 marzo.—Ieri ho aspettato P…. nella via Olmetto per parlargli, se poteva trovare qualche mansione da darmi a disimpegnare alla Congregazione di Carità.—Non osavo. Come sono timido io! Mi esibii, arrossendo. Diffido sempre di me. Mi rispose freddamente, freddissimamente…. Pure aspetterò.
Stanotte ho sognato di ricevere una lettera d'una amica di Lidia:—«È con raccapriccio che devo farle sapere….» così cominciava. Mio Dio! Che spavento! Lessi qua e là.
Mi sovviene che un mese fa ho fatto dei conti colle cifre. Voi mi credete poeta! Ho calcolato fitto, vestito, cucina, servizio, ecc., ecc.—O Lidia, potessi darti una posizione agiata e vivere a lungo, se mi ami: e se non mi ami, morire presto per lasciarti libera e con qualche mezzo.
30 marzo.—L'altro dì, credendo di vederti, o Lidia, ho sentito una specie di ebbrezza: ieri, cercandoti nella via Manzoni, ho sentito uno spavento che non Ti so dire.—E chi sei tu?—Tante volte guardo la carta topografica di Mantova e cerco di trasportarmi coll'immaginazione o alla Piazza Virgiliana o a Porta Molina, o a Sant'Andrea o al Palazzo del T…. Che tristezza!
Ieri ho toccato i tuoi capegli biondi, povera morta! povera sposina! Come un giorno da ragazzo, sentivo paura e religione davanti all'altare, oggi sento religione e paura davanti a qualunque minuzia che appartiene ad una fanciulla.
31 marzo.—Alcune volte mi sento felice nel pensare alla morte, perchè mi dico:—L'anima mia è scritta in queste pagine e mia madre mi conoscerà.—Mia madre stenterà a capire la mia calligrafia, ed io sarò sotterra, senza aspettare la risurrezione.
2 aprile.—-Oggi per la prima volta, io, letterato, ho letto la poesia di Stecchetti.—Oh amo Te, mio ideale, mia Lidia! Ecco come le letture delle poesie stampate influiscono su di me!
3 aprile.—Anche i cattolici romani che leggono i discorsi alla Società Cattolica, dicendo che Dio è buono, abbracciano la femmina. Io credo in Te e per Te sono puro!
Li leggo i poeti, ora che ho rinunciato ad ogni studio d'arte, li leggo per curiosità Stecchetti e Carducci. Che mi importa? Nulla—voglio fare la carità.
6 aprile (sera).—Lo sento. Verrà quell'ora in cui io mi ucciderò. Ti scriverò?
11 aprile.—Aspetto sempre d'esser accettato alla Congregazione di Carità.—Alla sera mi trovo con molti giovani. Come sono stupidi nella sensualità! Ed io mi sento la poesia nel cuore!—Alcuni di quei giovani sono stimati giovani d'ingegno. Oh sono cinici e volgari!
Sulla Gazzetta di Venezia fra i decessi non trovo il suo nome. Dio Ti ringrazio. Ma che futuro mi prepari? Premiami di questa mia solitudine, di questi miei studj, delle mie speranze in Te!
13 aprile.—Giorno di Pasqua. Jeri a sera mi commossi dolcemente. Venendo a casa, come sempre ho pensato a Lidia! Nella mia camera da letto, sullo specchio vedo una busta…—Una lettera di Lidia, mi sono detto subito.—Era un regalo di mia madre: era una busta coll'augurio: La pace sia con te.
Oh sì la pace! Sai tu che pace abbisogni all'anima mia? Oh mamma, mi commosse la tua ingenua, bambinesca calligrafia! La pace! Non l'ho trovata nella febbrile fantasia dell'arte, nella stupida società elegante, nell'amore, negli studii pacati e solitarii… La troverò nel prestarmi a lavorare pei poveri?
E Tu, Lidia, non sei povera?
Suonano le campane e mi pare di essere a Limbiate e di camminare per uno stradone e di pensare a Te.
Perchè non mi scrivi? Che Tu fossi partita da Venezia e che io nulla debba sapere di Te?
14 aprile.—Perchè oggi ho il mio pensiero così fissamente rivolto a Te, o mia sorella?
L'anno scorso, quand'ero in Duomo, credevo e temevo sempre di vederti a braccio del Tuo sposo. Come sospiravo dietro a certe coppie tranquille! Che desiderio il mio! Che bisogno!—E mi rassegnavo.
—Perséverez dans le travail: dans vos nobles aspirations.—Mi suonava sempre nell'anima questo tuo caro ricordo. Perseverare, studiare! E senza domandarmi il perchè vero, per solo amore melanconicissimo a Te, io studiavo: non ho perduto un'ora sola in ozio o in divertimento, nell'inverno: studiavo di giorno, di sera, di domenica… L'anno scorso e st'anno, quando il sacerdote alza l'ostia, io dico:—Lidia—e credo… a che? Non credo al prete: credo a Dio! E quando il sacerdote leva il calice, io dico:—Lidia!—e credo!
Sono gli istanti solenni della commemorazione… Quando in cimitero vedo gli ossami e mi sento aizzato allo scetticismo, non credo nulla, nulla, e mi sento certo che sotterra non si ama, ma si imputrida, e finisce la bellezza, la bontà, la poesia, l'anima, io mi dico:—Lidia!—e quest'invocazione significa:—Voglio la vita!
Camperò solamente dieci o venti anni ancora. La mia giovinezza è quasi passata e sciupata in inutili studi e inutili melanconie e inutili ideali—morrò e…
O campane, come suonate meste e quasi a morte!—Come suoneranno meste a Venezia!—Le campane mi hanno sempre commosso nei paesi, e nelle città di provincia.—A Vicenza, a Padova, a Verona, a Mantova! A Mantova! Credevo che Tu fossi là nel settembre del 1876! O campane, perchè mi fate nascere tutta la mia melanconia!—Voglio vita e amore.
16 aprile.—Ho fatto la comunione. A questo mistero del pane di Dio io sposo sempre una mesta commemorazione, santa, pura, gentile.—È commemorazione d'amore. Mi sento casto e affettuosissimo. Avevo con me la tua lettera, e ho ripetuto tra me le parole: Vous étes mon ami, et un ami rare, pourquoi ne serai-je pas confiante avec vous? Si je vous ai fait du mal une fois je veux le réparer en étant pour vous une soeur et une amie.—Dio, eccoti il mio avvenire.
Finora la mia vita fu uno spasimo di incertezze, di speranze, di propositi, di scoraggiameli… Ed ora?
Perchè non mi scrive?-Non mi scriverà?—Sarà rotto il filo tra noi due.
Ma perchè mi tormento così? Prego? Confido? Faccio della poesia? La scienza che mi dice? La verità qual'è?… Mio Dio, mia Lidia, datemi un po' di fede gentile.
In che mani saranno questi miei fogli fra venti anni? e fra quaranta? e fra cento?—Vivrà l'anima mia, quando io sarò polvere e nulla?—Chi leggerà? chi capirà? Chi pregherà per me fra cento anni?
O Lidia, almeno le anime siano immortali! posso io averti amato soltanto per sette o dieci o venti anni? e dopo?—Per sempre! Per sempre!—dice l'anima mia.—Per sempre e in Dio! Dio che è l'amore! Dio che mi vede, e mi perdona, e mi conforta, e mi fa sperare e sorridere:—Dio che c'è!
* * *
—Torno dal Duomo. Che pensieri mesti! Credo sempre di vederti e sento di amarti! Ho bisogno di guardarti negli occhi!—Ti immagino nella chiesa di San Marco; tu sei bella, tu credi, tu disperi.
22 aprile.—Ho speso del denaro, comperando un budriere antico. Non è denaro pei poveri? Nella mia nuova missione imparerò a risparmiare ed a fare l'elemosina!
24 aprile.—Jeri ho incominciato a vedere la miseria. Lidia, voglio avere un grandissimo, religioso, gentile rispetto per quelli che soffrono e che lavorano—ricordandomi di Te e delle Tue parole «étant pauvre il faut que je travaille!»
26 aprile.—Jeri notte ho fatto un sogno bruttissimo. Jeri a sera, assai melanconicamente, ho parlato di Te.—Che Tu indispettita del mio silenzio, non mi scriva più? Sei già partita da Venezia? Mi hai promesso—Si je quitte Venise je vous en avertirai afin que vous sachiez toujours quelles sont les douleurs ou les joies de votre affectionnée amie et soeur. Ti ricordi di avermi scritto così?—Hai Tu la brutta copia delle lettere che mi scrivi? Suona mezzogiorno a salutare il nome purissimo di Maria. O Lidia, mia sorella, come Ti amo!
29 aprile. Lavoro pei poveri: e sono contento, E se il mondo fosse pieno di finzioni? E se tanti poveri sono bricconi? E se io sono novizzo?
1° maggio.—L'anno scorso, quasi regalo di maggio, il mese dei fiori, dei nidi, dei bambini e di Maria, mi fu regalato un cranio. Era un augurio? Se fossi morto, sarei morto credendo Lidia felice. Essendo vissuto, ho la gioia e il tremendo dolore di sapere che potrei farla mia….
Sono stanco e insoddisfatto di tutto.—Ah mio collega G.! fare la carità per te è un gustare doppiamente la tua posizione. Tu hai finito di girare per la stamberga, e vai alla tua casa e trovi una sposina bella e un bellissimo bimbo. Egoista!
Chi da giovane ha avuto le ubbriachezze della carne colla femmina, non può o non è degno di sentire il bisogno alto della donna; chi ha sempre avuto religione per la donna, vive per la sua donna, per il suo bambino.—O Lidia, il mio futuro non so e non voglio, e non posso sognarlo squallido!—Forse nuove delusioni mi aspettano! ma pure queste illusioni mi sono care, l'unico appoggio alla vita stupida, insoddisfatta, di ogni dì in questa mia repressa giovinezza. Leggete le mie annotazioni… e qualche pagina del Giuliano e dell'Ugo. Se quell'uragano che avevo nell'animo l'avessi traboccato in fatti, che cosa potevo essere io? un demonio!—E sempre, sempre, pensando a Te, mia fanciulla, fra mille dubbi e mille tormenti, ho sorriso e ho confidato in Dio!
Sera.—Oggi sono stato a consegnare il baliatico in sei povere cameruccie. Che rispetto ho io per quelle povere mamme!
Come mi commuovo! sento bisogno di riaprire il mio mobiletto e di annotare…. come mi commuovo! Non sono ricchi e sono felici! Qui, ad una finestra vicina, un uomo è affacciato e guarda: lei, non bella, gli appoggia una manina sulla spalla…. Oh felicità! felicità per me! O Lidia, come Ti parlerei io nei crepuscoli! Poesia e fede e amore! Poesia e speranza e vita!
3 maggio.—Jeri mi sono trovato con C.—L'anno scorso di questi giorni accompagnava per Milano la mantenuta. St'anno ha moglie e viene alla Congregazione di Carità:—Sono contento!—mi disse,—ho goduto la mia gioventù.
È un assioma di questo mondo. Io come godo la mia gioventù? Come mi preparo per Te? Come penso? E come soffro?
Oh il mondo mi assolverà sempre da qualunque sudicio amorazzo, non mi assolverà d'aver amato una vergine pura e povera e infelice!
Sera.—Io mi tolgo da pranzo e Ti ricordo sempre! Ricordo la povera minestra fredda e certi tozzi di polenta che vidi in certe povere casuccie, dove le mamme avevano un bambino in collo.
6 maggio.—….Sorriso di donna, che cosa sei?
8 maggio.—Non posso resistere; apro il mobiletto e guardo il tuo ritratto, o Lidia, e Ti fisso negli occhi. S'avvicina il giorno di santa Lidia, Ti scriverò. Da due giorni non leggo la Gazzetta di Venezia. Ti troverò fra i morti?—Penso al suicidio. No, penso a vivere con Tei in campagna! O primavera!
9 maggio.—O Lidia, Ti guardo negli occhi. Come Ti amo! Dio, Ti supplico, a patto di qualunque infelicità, rendila mia, per un giorno solo!—Ti guardo ancora negli occhi, e mi domando:—Sei Tu? Tu, Lidia!
10 maggio.—Oggi, quale spavento! Vidi e rividi un capitano del 35.° fanteria. Era il Tuo sposo? il Tuo promesso? Veniva a Milano per uccidermi?
12 maggio.—Penso alle mie ultime volontà che ho scritto, e vorrei raccomandare a mia madre…. Oh mia madre mi capirà quando leggerà quelle mie righe e queste mie pagine. Come sono contento pensando che in quel dì non saranno più mie vergogne quelle sante, pure, caste effusioni dell'anima mia, in quel dì non saranno più fanciullaggini le mie melanconie e i miei bisogni, ma in quel dì nella loro tremenda evidenza si mostreranno i sacrifizi e le repressioni dell'anima dai miei ventidue a questi miei ventisette anni! Capiranno? Oh no! a loro non fu dato il tormento di amare gentilmente a ventidue anni! a loro non fu dato ingegno e sentimento tormentatore di squisita e sfidatrice poesia!
Mia madre dirà:—Che tesoro d'affetti, che avvenire, che felicità! che anima! seppelliamo tutto in una buca e per sempre! Poteva e voleva essere buono e felice, voleva una fanciulla, ma casta, ma gentile, ma infelice. Lo seppelliamo per sempre!
Sì, per sempre! non si viene più di laggiù: è triste verità: si muore: l'anima è la memoria che lasciamo e l'anima mia ve la lascio in queste mie pagine e in quelle mie ultime volontà e in questo mio grido del cuore straziato:—O mamma, ti raccomando la mia Lidia: per Lei sono stato puro, gentile, sperando in Dio… Credi tu in Dio? Sì! Dunque per l'amore di Dio, per Lui che volle ch'Ella fosse il mio angelo attraverso la mia bollente giovinezza che poteva essere piena di spaventose colpe, per Dio che volle ch'Ella mi stimasse e mi rendesse gentile e pauroso e timido, per Dio che me la mostrò, me la tolse, mi tormentò di incertezze, e pare che me la destini ancora, per Dio che è l'Amore e lesse nell'anima mia, per Dio, te la raccomando, o mamma,
Oh come vorrei che queste fossero l'ultime parole che scrivo è che tu troverai, perchè Ella, la mia Lidia, ti sia raccomandata come una figlia!
17 maggio.—Voce, grazia, profumo, linee dolcissime, seduzione, sudore, carne della femmina, che siete voi per me? Vidi jeri e meditai sul quadro di Morelli «Le tentazioni di sant'Antonio.» Carne della femmina che sei? Tutto passa, e tu, corpo, imputridisci; dopo la giovinezza, nessun piacere; dopo la morte, nessuna vita!—O Lidia, in queste pagine su cui è scritto il tuo nome di vergine, oso io lasciare queste righe? Sì, per dirti che all'anima Tua sacrifico la mia bollente gioventù. Ti amo, purissimamente Ti amo e purissimamente Ti voglio mia!
18 maggio. «Io mi tacerò quando non mi sentirò più degna di stringervi la mano, come ora.» Queste sono le parole di Lidia, che mi spaventano da due giorni.
30 maggio.—A sera tarda mi trovai cogli artisti che festeggiavano il Michetti. Figlio di pastori a 25 anni è già celebre in Italia e in Francia, e guadagna quello che vuole. Come vorrei essere in lui! avere tanto nome e tanto merito e dire: Per una fanciulla! festeggiato, amato, ammirato e dire: Col pensiero di una fanciulla! Che superba compiacenza!
4 giugno.—Jeri sera ho ricordate le Tue parole a me e stamane voglio rileggerle:—J'ai aussi des remords, votre lettre m'a troublée—je me sens malheureuse car j'ai été pour vous cause de souffrance (oh sì), peut-être ma légéreté en est-elle la cause?—J'ai pleuré en lisant votre lettre, il m'a semblé entendre une voix que n'ètait point de cette terre, je ne croyais pas qu'il y eût sur cette terre une âme si belle que la vôtre!
O madre, queste parole sono il premio della mia castità, della mia religione, della mia timidezza, del mio amore!—E le ho lette in un santuario della Vergine.
Tout ce qui finit est si court Allez toujours—
24 marzo 1880.—Facendo la carità, trovo un padre che si uccide perchè la Congregazione è una vecchia istituzione burocratica piena di pregiudizii. Credo di servire il mio partito, ma per reggere alla noia di stare tre o quattro ore al tavolino della Costituzionale a scribacchiare i verbali mi immagino sempre d'aver avanti agli occhi la nostra Regina Margherita, e per lei, donna, faccio quel sacrificio di star lì. Essendomi occupato della Società Dantesca, trovo i Commendatori amici che mi fanno dire che sono assenti da Milano. Quando ho studiato che conforti ho avuto? quando ho scritto? quando mi ero inchiodato sulle panche dell'Accademia?
Io mi sento artista, perchè sto in contemplazione di un raggio di sole che fa luccicare mestamente l'iniziale delle pergamena e vivifica i colori di un angolo di tappeto turco e fa spiccare le ombre del tavolo barocco e polveroso. Io sono artista—melanconico e sognatore.
Guardo alla libreria polverosa…. O poeti, non vi leggo più! penso che anch'io volevo essere romanziero storico: e, dopo il mio amore, romanziere antico. Incominciai col Buondelmonte e finii coll'abbozzo Tisi.
Ho qui un vasetto di viole del pensiero. Da sei anni a primavera ho questa gentile compagnia: viole ed illusioni.—I miei amici vedendomi, triste, mi dicono per consolarmi:—Prendi moglie….
29 marzo.—Perchè nulla annotai nel dicembre, nel gennaio, nel febbraio, quando servivo i poveri alla cucina economica? Perchè non scrissi le soddisfazioni dell'anima mia nel fare il bene? E il bene l'ho fatto pensando a Te: ho avuto dolcezza, pazienza, perseveranza, dicendomi:—Lidia mi vede.—Ma chi sei Tu che ti facesti padrona della mia giovinezza? Chi sei? Perchè ti sono così schiavo? Perchè mi fai piangere? Perchè farai piangere mia madre?—Oh alcune volte impreco contro di Te, e ti odio e vorrei che l'anima tua soffrisse come la mia!
E che? La vita, l'avvenire è dinnanzi a me…. Sì, ma dove le risoluzioni? la forza d'animo? la perseveranza? la fede?—Alcune volte mi dico:—Dimenticarono tanti: dimenticherò anch'io: avrò una famiglia: avrò una carriera.—Ma no! sento solo le mie melanconiche fantasticaggini artistiche! Sento solo l'armonia del mio dolce passato! Ho sofferto, e i miei dolori non sono troppo preziosi, per mutarli nelle gioie banali di vita solita.
(sera).—Oggi mi sentii poeta. Meditai una poesia, I morti, i morti all'ospedale e i morti in battaglia—i morti d'amore—i morti in campagna….
Lessi i ricordi della vita di Settembrini. Come mi sentii consolato! Che fede in Dio! Che amore nella sua donna! Che carattere!—Mio Dio! perchè non sono vissuto nel tempo delle cospirazioni, dei patiboli, delle battaglie? A me che rimane? Lo sconforto!
11 aprile.—Sono otto mesi ch'io da mattina a sera aspetto una lettera di Lidia; che cosa mi potrebbe dire?
S'io mi trovassi padrone di trecento od anche di duecento mila lire, scriverei a Lidia:—Voi siete povera: ditemi quanto vi abbisogna per la vostra felicità…. Vi darei tutto. Avrei fatto il mio dovere dopo di avervi date tante proteste di affetto vero.—Dopo, colla coscienza forte e finalmente persuaso di aver fatto una buona azione, dopo mi voterei a Dio. Per andare missionario bisogna tanto denaro? Don Fedele non era ricco.
Fra tutte queste cose vecchie del mio studio, ho delle camelie in un vaso, camelie candidissime, camelie rosee… Perchè adorando i fiori, con dolcissima illusione, con irresistibile bisogno, adoro la donna?
Fanciulle belle e bruttine che passeggiate al sole, se sapeste il mio sacrificio! Nulla, nulla si cancella dall'anima mia e mi sento senza speranza, senza amore, con troppo amore!
Come ti bestemmio, o Dio! Non ti credo nei cieli! Sei in terra e Sei l'amore! Sii maledetto, o amore!—. Perchè non mi uccidi?
O sole, come ti amo sui picchi delle montagne selvagge! Come mi sentii felice nei deserti della Natura! come libero! come poeta!—Ma tu, Sole, mi schiaffeggiavi, mi macchiavi il volto e le mani, sì ch'io avevo persino vergogna della montanara che m'accompagnava: e quando tornavo fra gli uomini, io mi sentivo rigurgitante l'anima di grandiosa, di aspra, d'infinita poesia, e gli uomini ridevano di compassione per me, e le donnine ghignavano di scherno! O Sole! o Sole, mi tormentasti e mi tormenti! Io amerei Te e l'infinito mare, ma diverrei brutto d'una bruttezza ineducata!—Donne che per qualche minuto avete avuto un pensiero per me, chi siete? Vi ho io amato? Siete voi invecchiate? Mi avete dimenticato, come io ho dimenticato voi? L'anima sussulta!—I bei giorni ch'io ho passato con Te, o R., a ventitrè anni! Le belle cose che ti diceva parlando di Dio e leggendo le poesie! gli orrendi tumulti che si suscitavano nell'anima mia quando ti recitavo il mio Giuliano! Il Giuliano è incatenato in questo mio povero, sporco e meschino corpicciuolo, e lo squassa e lo uccide! Ero buono, ti confesso, una volta, gentile verso la Madonna, fiducioso in Dio. Ed ora?—Non leggo più poesie stampate. È domenica: io non benedico il Signore. Sorgete tutte in me, o male passioni dell'anima mia, tormentatemi, abbattetemi, schiacciatemi. Ch'io muoia maledetto, perdonando a nessuno.
12 aprile.—Eravamo soli in una cameretta disabitata del sacrestano: c'era una crociona nera dei morti: un canapè: delle seggiolaccie: un tavolo sconnesso…. Sui monti imperversò un uragano. Lei aveva paura dei lampi…. Si schiarì il cielo: tornò il sole, bellissimo: la montagna divenne festante. Io lessi l'agonia suprema del mio Tintoretto!—Che speranze, che fede nell'arte! Che baldanza nel guardare al mio futuro! Chi ridà i miei ventitrè anni?—Tu fosti gentile, soave, confidente, affettuosa, compassionevole con me.
Ma perchè mi tornano alla memoria queste dolci ricordanze della mia giovinezza? Perchè con tanta insistenza, vi risaluto ancora, o anime, ch'io chiamai gentili?—Su, a quella chiesetta scrivemmo i nostri nomi. Ci saranno ancora? Chi li avrà letti?—E parlammo di Te, o A., povera e affettuosissima e nervosa Signora che mi amasti! e mi piangesti in volto là su quei colli! piangesti ricordando il tuo passato!—Dirai tu, o Lidia, che questi sieno ricordi profani, perchè rubano a Te? Ma chi fosti tu per me?
12 aprile.—Sorgete tutte in me, o male passioni dell'anima mia: o tristi ricordi, o gelosia, o frenetici odi, o tremende ardenze del mio corpo, io sfido Iddio!—Così imploravo ieri.—E invece sorgono dal passato i ricordi dolci—dolcissimi—dell'affetto, dell'amicizia, della stima, della simpatia, della confidenza.
13 aprile.—Ma sai, Lidia, che ho un'illusione quest'anno? Di divenire pittore d'armi antiche. Mosè Bianchi, Pagliano, Bazzero, De Albertis, tutti gli artisti della Società Patriottica mi riconoscono per specialista nel disegnare armi antiche. Sono assai apprezzati i miei schizzi.—Diventare artista! Avere il mio studio! Nel mio studio mettere un pianoforte per Te! Oh il mio sogno! Avere i fiori, la donna, la purissima arte, qualche libro tedesco e qualche inglese e francese! Essere artista!
20 aprile.—Sono melanconicissimo fra gli amici.
Uno di questi amici raccontò una cosa graziosissima di sua moglie. Quando tornavano dall'altare di nozze, lei disse—Ora scappami, se puoi!—All'albergo, ella si addormentò fidente e stanca, ed egli stava a guardarla pensando:—Mio Dio, che spavento! È mia per tutta la vita!
Tu vedi com'è l'anima mia, o Vergine santissima: Tu sai ch'io voglio morire. Fammi morire. Risparmiami un delitto. Fammi morire. Tremenda malattia dell'anima! Io inorridisco! Scrivo io un romanzo o scrivo i miei pensieri? Scrivo il mio sconforto su un pezzo di carta che si consumerà, con un inchiostro che si sbiadirà, scrivo pei topi che rosicchieranno queste mie memorie, scrivo che sento d'amare! Che sfiducia ho io—io nulla farò a questo mondo perchè sono incertissimo di tutto e su tutto—non sono mai in pace—voglio e non voglio.
Perchè così presto ho sciupato il mio ideale della Carità?
Perchè ho conosciuto l'uomo basso, vigliacco, volgare, neghittoso, ipocrita e stupidamente prolifico? I poveri?—Presto avremo le elezioni politiche. Io mi dimetterò da Segretario della Costituzionale… Che importa a me della briga degli ambiziosi e degli intriganti?
È maggio: o fiori, o farfalle, o verde, o cielo, o fanciulle!
Come sono brutto io! La mia poesia bisogna ch'io la tenga nascosta in fondo al cuore, per me, per piangere solo, per pregar solo, per disperare solo!—Alcune volte sogno d'essere lontano, lontano nel mondo, fra gente nuova, sotto un cielo nuovo, con dolori nuovi… O mia mamma, perchè ho anche la squisitezza tormentosa di sentire i dolori di certe povere creature che non hanno casa, patria, parenti? Perchè penso mestissimamente a quella disgraziata—elegantissima—che ieri andava al manicomio?
Ricevo dalla Accademia di Brera dei biglietti di congratulazione per me spediti da Promis, Biondelli, Mongeri. Mi sento incoraggiato. Se potessi arrivare a quel posto! Ma coll'amore dell'arte non si fa carriera!
20 luglio.—Come ti sento, bisogno della mia giovinezza, del mio ingegno, della mia vita!—Lavoro moltissimo pei poveri: ma sento poco la compassione, sento un grande odio per la finzione, per l'inganno, per la umana bestialità! Come gli uomini sono gli autori delle loro sventure!
23 luglio.—Lavoro molto pei poveri. A vincere il mio carattere timido penso sempre:—Essi, i poveri, potrebbero trovarsi al mio posto: io, al loro: se io avessi bisogno?—E lavoro… È volgare la mia vita? O Signore, quando leggo la Tua Bibbia, come ancora nel mio avido scetticismo, ho dei momenti di fede gentile! O Signore, perchè mi tormentasti e mi tormenti coll'incertezza?
Scriverò a Recoaro per far apparecchiare le camere a mia madre e a me. Son spaventato: guardando solo l'orario, e leggendo quei nomi di stazioni venete, mi si stringe la gola… Rivedrò Lidia. È un'idea fissa.
Ah se potessi condannarti all'oblio! Ti amai, Ti amai, versai, nelle lettere che ti scrissi, l'anima mia, ti dissi il mio tormento, rinunciai alle prepotenti gioie che mi provocano a' miei anni, studiai, mi dedicai ai poveri, e al mio paese… E Tu? Come mi rispondesti? Tu chi ami?
Ah fosti crudele! Ed io perchè amo di acuire così il mio dolore?
Vi chiudo nel mobiletto, o pagine tristi, e siate l'ultime che scrivo!
C'ingannano i poveri, c'ingannano i preti, e c'ingannano i dottori….
* * *
31 settembre.—Non ho mai voluto scriverti per non darti dolore! Ho fatto le appendici artistiche del Pungolo, e ho dovuto condirle d'arguzie e forse di sconcezze per il pubblico, in quei giorni che la mamma era ammalata (e mi faceva davvero pensare tristamente di lei) e in quei giorni in cui volevo tacerti i miei pensieri. A Recoaro, come ho vissuto bene nella compagnia gentile di una fanciulla, che non mi credette sciocco e beghino! E perchè ti dico questa simpatia, e quei no! no! no! che mi dissi e feci capire a lei, pensando a te? È una fanciulla che mia madre ha visto nascere e che ha sempre conosciuta e che sarebbe contenta di vedere al mio fianco…
Ti ricorderai di me? Si spezzerà il filo tra noi? Chi primo obblierà? Vado a Limbiate e visiterò quel cimitero dove io ho scritto lagrime e sorrisi, io che ora sghignazzo facendo il giornalista lepido. Lidia, perdonami, faccio così per buttarmi nel mondo, e occupare un posto, e avere una possibilità di farti mia! Pensa che quella ragazza mi era molto simpatica: ed è forse l'ultima che incontrerò nella mia vita—nella mia vita stupida e ritiratissima.
1.° ottobre.—Stamani, quando la campanella di sotto suonò la messa, mi sentii tristissimo…. Preghi tu ancora? O perchè penso tanto a te e con tanto timore? Quante cose si sono cambiate in campagna. Vicino a quel cancello a Carate, ov'io venivo tutti i giorni nel 73 a guardare in quel giardino ove tu mi avevi dato un fiore di vainiglia e una foglia spinosa, vicino a quel cancello, ove scrivevo le date e mi pareva d'esserti fedele, hanno alzato un muro. L'ossario di Solaro ov'io passavo quasi tutti i giorni, e guardando i crani pensavo a te, dicendomi:—che cosa è la vita? e dove io ho contemplato quella mano rattrappita e secca, quando avevo sul cuore la lettera che mi avevi scritta e m'immaginavo la tua manina tonda e morbida, l'ossario l'hanno demolito… E noi abbiamo cambiato l'aspetto delle camere, del giardino, ma il mio cuore non muta.
Ho riletto la mia lettera del 15 ottobre 1877. Tutto è finito?… Coraggio, mi dico, il mio dovere ora è di servire i poveri, è d'esser umile, e di gettare questa penna insulsa…. Che cosa ho fatto per esser degno di lei? E che cosa farò?…. Tre anni fa, come mi sentivo buono e poeta e fiducioso, nella mia disperazione: ora nell'apatia, come mi sento vecchio! Perchè mi dico coraggio? Che fare? Che studiare?—Come gli uomini sono tristi! E non so staccarmi da questa memoria, mi pare così di esserle fedele….
18 ottobre.—Odoro nel cassetto un profumo che mi ricorda la mia santa malattia e le mie purissime illusioni….
20 ottobre.—Questi sono i giorni in cui io ho tanto pensato a Te. A Limbiate c'è una ragazza bionda, gentile, pallida che di sera somiglia a Te: son già due anni che solevo annotare questa circostanza, ma mi pareva d'esserti infedele….
Vittoria avrà avuto qualche po' di simpatia per me? Là a Recoaro mi ha regalato un pezzo di sasso colle piriti, preso all'orrido della Spaccata, ed ora lo tengo qui sul mio tavolo, quando scrivo. Come sono pallidi i miei ricordi di Recoaro!—Quante volte passeggiavamo noi due soli, alla sera colla mamma lontano a cento passi, e chiacchieravamo e ci sentivamo giovani. Chi ama ella? Certo amerà. So di un giovanetto simpaticissimo che l'amerà: e lo vedo alla Patriottica e mi è caro, e non mi sento geloso.
21 ottobre.—Volevo dicessero:—Quel giovane si è fatto seriissimo, è divenuto il servo dei poveri, è dolce, è pio, è rassegnato. Ha un profondo dolore, ma soave che coll'amore consacra la sua vita… Volevo mi amassero tutti ed io mi tranquillassi…. No! risusciti tu, mio animo d'artista e mi scuoti! mi tormenti! Mi fai delirare! Sghignazzo ancora: ancora sono superbo, ancora odio, ancora voglio morire come il mio Ugo! Tra questi spaventi sento l'amore a mia madre, a mio padre—l'amore che mi viene dai ricordi, quando ero piccino, quando Limbiate era un luogo di pace.
È una virtù questa vigliaccheria dell'obblìo?
O Vergine che un giorno ho pregato, o Madonna, in cui ancora ho un barlume di fede melanconica, protettrice della mia Lidia, fammi dimenticare la mia Lidia!
E preghiera questa?
Come sarei felice di morire e di terminare il martirio dell'anima mia!
22 ottobre.—Faccio forza per non scrivere, ma non posso.
Jeri ho veduto una bellissima rosa nel vecchio e squallido cimitero di Limbiate, ed ero con un prete: oggi ho incontrata la marchesina B: ed ero con due preti: stanotte fui tormentato dalla più fiera esasperazione della libidine che non concedo al mio corpo e col pensiero mi purificavo… ero con te. Chi le capisce le mie febbri e le mie speranze e di quando in quando i miei mortali spossamenti e questi orgasmi quasi suicidi? Come vivo stupido, fra gli stupidi o gli ignoranti, amoroso fra gli indifferenti, poeta fra questo volgo!
22 ottobre.—Ieri siamo stati alla Cassina Ferrari a vedere la villa Torras, un giardino romantico che da vent'anni forse io non avevo più veduto. Vi è una lapide nel boschetto, una lapide che parla di ricordi amorosi e di dolci confidenze. Mi ricordo che ad otto o nove anni fummo là in compagnia e c'erano le giovinette e i giovinetti che leggevano e si guardavano in volto e si deliziavano pei viali….
Il triste cielo, la natura mesta ed umida, l'ora mattutina e il canto dei coscritti avvinazzati mi fanno pensare….
È finito anche questo autunno…. E finora non sono ancora andato ai luoghi ove pellegrinavo negli anni scorsi pensando a Te.
Ti dirò come mi annoio? Ho passato tre ore con un prete a far passare le commediole delle marionette ch'egli deve far recitare alle fanciulle del suo collegio! Sono i libricciuoli nostri, dei nostri otto e nove anni. Il prete mi parla di farse, di sciocchezze, di melodrammi che fa lui…. Ed io lo ascolto…. Io che vorrei parlarti del mio Giuliano! E tu mi ascolteresti? E se tu non fremessi alle mie tempeste, io ti direi che quel Giuliano fu letto ad un'altra donna, da me a lei, che lasciò ch'io posassi la mia testa sulle sue ginocchia, e toccandola colle sue manine, mi disse:—Credo che ci sia dentro un inferno!—La tua memoria era in me santissima e dolce: e la maliarda libidine mi arroventava e mi strappava le carni. Quando diceva di non sentirsi bene ella mi lasciava accostare la mia fronte alla sua, mi lasciava toccarle il polso; e quando diceva ch'era nervosa voleva ch'io le stringessi forte ambo le braccia alle spalle in istretta voluttuosa….
Tre ore. anzi quattro ore stupide le ho passate passeggiando coll'ottimo prete che mi discorreva di panegirici, e di sacro cuore…. Il mio Giuliano è un panegìrico, il mio cuore è un sacro cuore!
In questi giorni sì mesti e sì squallidi, al declinare dell'anno, a sera, come si desidera la sua donna da guardare in volto!—Mio Dio! Suonano le campane dell'Ave Maria, quella sottile vocina della campanella di sotto mi fa ricordare…. Pregavi tu, Lidia, quando ti inginocchiavi nella chiesetta della Madonna?
Domenica, 24 ottobre.—Splende il sole e dovrei essere lieto, ma sento il massimo sconforto… M'imagino d'essere in questa casa, ma spopolata, morti tutti e divenute sacre le memorie, ed io vecchio, legato a te, ed obliato da te, senza una donna al fianco che sia stata la gioia di mia madre.
Torno dalla chiesetta di Pinzano…. Perchè su nell'organo guardando giù la chiesetta innondata di luce e di incenso, mi sono sentito tanto commosso? Perchè ti ho desiderato con me?
Poveri contadini, che avete lavorato sotto la pioggia, nel letame, forse colpiti anche dallo sprezzo di noi che passavamo in carrozza, poveri fratelli che sorgerete a vendetta in un dì non lontano, beatevi del sole, dell'oro, dell'incenso della vostra chiesetta…. Contribuire a farvi gioire un po', un sol giorno nell'anno, è affetto, è delicatezza, è forse anche dovere…. Ed io come sono egoista!
(Sera).—Torno da Pinzano dove si è ballato, e sono mesto come tutte le volte che vedo quel tripudio che a me non fu mai concesso. Penso che l'educazione che mi diedero i miei parenti fu santa, ma stupidina. Vedo anche i giovanetti delle famiglie che ricorrono alla Congregazione di carità, li vedo ballare.
Spettacolo triste! Sento sul volto la polvere che mi gettano i tacchi delle danzatrici: e sono quasi geloso delle mogli altrui.
In società sono uno sciocco, un collegiale. Che penso?
(Alba mestissima).—La natura ha una voce sconfortante per me! Sei tu, anima di donna, che parli a me da quel cielo melanconicamente roseo, da quel nero hosco della botanica, da quel piano silente?… Se tu, o Lidia, in questo momento muori o ti ricordi di me, io prego Dio.
25 ottobre.—Com'è bella la Natura, quando si ama! Splende il sole: il cielo è limpidissimo.
Volevo che queste pagine, fossero un libro di preghiera, e invece diventano una confessione di illusioni, di pazzie e di odii. Lacererò le pagine più tristi. Mio padre va a letto e dice di non sentirsi bene…. Sarà un po' di poltronaggine o una malattia! Dio mio, egli dice che è così triste il diventare vecchi. L'intimità della famiglia doveva essere il mio sogno: e invece ho avuto pel capo tanti delirii d'avvenire. Mio padre, quand'io ero piccino, era buono e mi voleva bene. E perchè sono io diventalo uomo? Perchè ho tanto sofferto? Poi sei venuta tu, maledetta, nel mio pensiero e nel mio cuore.
È giornata triste: s'avvicina l'inverno: mio padre deve sentire anche lui uno sconforto tremendo. O Signore, quand'era ammalato, tanti anni fa, ho pregato tanto per lui e tanto devotamente! Ti prego ancora, o Vergine, che sai come è l'anima mia…. perdonatemi tutti, o mio padre, o mia madre, o Carlo!—Perdonatemi… Lo sento che non sono cattivo.
30 ottobre.—Ieri ho fatto una passeggiata. Era tempo piovoso e melanconico. Abbiamo visto dei cimiteri…. Ma è sì dolce avere con sè una donna gentile! La mia vergine soavissima dov'è? Ho amato le sue memorie contemplando le croci di un cimitero! Almeno tu fossi morta! Almeno fossi morto io! Mi avresti pianto….
Splende il sole e si vedono i lontani monti, e sorride il cielo, e cadono le foglie…. Un altro autunno che finisce! un altro inverno che mi aspetta!
Quando ti avrò dimenticata, quando nulla più saprò di te, quando presenterò a mia madre una donna che possa fare la mia contentezza e la sua felicità, sarò io onesto? È a prezzo di tanto dolore ch'io mi dirò finalmente tranquillo? Io mi sono votato ad esser vergine: oh almeno potessi vivere con mio fratello!… solo che farei?
Vittoria, m'avevi dato un poco di pace. No! no! no! Non ti amavo! No! ma sentivo com'è bello lo stare con una fanciulla, che mia madre conosce tanto, che non dà turbamenti ne incertezze, che con una mia domanda può essere mia moglie, una moglie da poter presentare agli amici, ai parenti…. E tu chi sei, che col tuo sguardo d'angelo hai marchiata la mia fronte con una maledizione che quasi tutti qui mi leggono?… Tu chi sei? Oh dimenticami.
1.° novembre.—È il giorno di tutti i Santi. Splende il sole e s'odono i canti mattutini nella chiesetta di sotto. Perchè sento tanta malinconia? E perchè leggo queste memorie?
Il giardino è tutto bianco di brina. Dio, com'è triste sentirsi nel cuore questi primi geli!
Ci capita addosso un invito in casa S. Come mi fa dispiacere l'esser così stupido fra la gente. Nulla so, nulla dico: sono impacciato.
3 novembre.—Ieri nel dì dei morti ebbi dei momenti di grandissima gioia pensando a te, e al bambino biondo e gentile che avremo….
Ho domandato al figlio del fattore se egli sente la melanconìa dell'inverno.—No, e perchè?—mi risponde. L'altro ieri, al ritorno d'una allegra passeggiata, andai in cimitero…. C'era con me una signora, povera, ma gentile, ma educata, ma pietosa. Ci facemmo pensosi. Dio santo! Come io la sento la poesia del dolore! Come io ho bisogno della donna! Come mi trovo bene fra le croci!
6 novembre.—Dio! perchè anch'io non fui a Mentana? perchè non son morto? In questi giorni si commemorano i martiri della libertà, ed io mi sento ancora tanto piccino e poltrone! Era la mia un'anima repubblicana?
11 novembre.—Oggi parto. La natura è mestissima, ed io vado incontro alla noia ed allo scoraggiamento…. Non amo più i poveri: sono indifferente agli studii. Sento già vergogna delle persone con cui dovrò parlare per il lavoro sui Musei privati di Milano pel Vallardi.
12 novembre.—Sono nel mio studiolo di Milano. Mi sento scoraggiatissimo. Voglio mettere un po' d'ordine nelle mie carte: trovo grammatiche greche, esercizi latini, tedeschi e inglesi, e abbozzi di drammi.
Volevo, per far luogo, mettere queste cose in un fascio sulla libreria…. Le grammatiche portano le tue cifre, o Lidia, scritte da me quando volevo attingere un po' di coraggio: e i drammi cominciano col tuo ricordo T. c. q. f. e. s. c. A. t. Tout ce qui finit est si court. Allez toujours. Come mi faccio sempre melanconico! Volevo far posto pei nuovi scritti…. E che m'importa dell'arte, del nome, dell'antiquaria? M'importa nulla! Sento la mia giovinezza passata e le mie speranze cadute, e il mio cuore inaridito! Credimi, non so lavorare per amor proprio! Fra le mie carte trovo il libriccino dell'Aleardi e quello del Leopardi.
23 novembre.—Ieri a sera, alla Società degli Artisti, ho assistito allo svestirsi della modella, una ragazza triviale e perduta. Come parlava brutalmente dell'amore!
Sai, Lidia, è uno spavento per me l'udire l'immoralità dalla bocca di una donna giovane.
Mio Dio! e che fascino satanico in quella fascetta calda che si tolse, in quella camiciuola trasparente, in quelle braccia seminude, a quel profumo della carne! Quando penso a te e al nulla della mia vita come mi sento sconsolato! Ecco la mia voluttà: la melanconia del tuo ricordo.
25 novembre.—Angelucci, vecchio ed illustrissimo pedante, viene a Milano, e presso i pedanti illustri di Brera, critica il mio opuscoletto sulle armi del museo archeologico. Che m'importa? Ma credevo quello studio una prima base, per farmi un po' di nome, per andare avanti, per rendermi degno di te. Che m'importa dell'archeologia? Sono artista e non antiquario: son poeta e non rigattiere. Ma mi sento sconfortato.
27 novembre.—Ieri mi trovai coll'Angelucci. Il chiarissimo amico non moverà un dito per aiutarmi: e se gli venisse l'occasione, mi mozzerebbe anche la strada, parlando dei miei spropositi. Mille grazie. Per il nuovo lavoro che devo cucire avevo bisogno di un po' di coraggio. Mongeri mi spaura, Porro è indifferente e Angelucci mi lasciò freddo. Nessun passo farò: sono ricco, lo dicon tutti e me lo dicono…. Grazie.—Anche oggi devo aspettare l'Angelucci qui in casa. Oh questo mio studiolo dovrebbe per me essere un luogo di pace, di raccoglimento, un santuario di speranze: le mie belle armi, i mobili, la luce, il sole, il tuo ricordo….
Da un po' di tempo, per queste mie sciocchezze d'archeologia, che non approdano a nulla, trascuro i poveri e mi faccio indifferente alla miseria altrui…. Ero sepolto, ero oscuro, ero rassegnato, ero buono, perchè ridiventai ambizioso e impaziente e credulo in un avvenire mio? Mi tornano le malattie tremende.—A guarirmi da questi spasimi vorrei viaggiare: sarei anche partito per l'Egitto, ma perchè rompere l'ordine posticcio della famiglia? Mio Dio! mio padre invecchia e mi fa compassione, mia madre, dopo tante sofferenze incomincia a star un po' benino…. E viaggiando non sentirei il demonio dell'odio e l'angelo dell'amore in me?
(Sera).—Sin dopo il primo dell'anno 1881 non voglio vedere nessuna ragazza: aspetto il tuo biglietto di visita! E poi?
28 novembre.—Devo andare in casa Sola-Busca per vedere gli oggetti d'arte antica. La ricchezza mi spaventò sempre. Vorrei andare a Limbiate al vecchio cimitero. La morte mi consola sempre. Credo in Dio e sento la sua pace.
3 dicembre.—Oggi ho incominciato il lavoro di archeologia: non ho pensato a te e ho potuto lavorare.—Mio padre è a letto, non si sente bene. Se di notte mi sveglio, i miei pensieri sono tristissimi. Che figlio sono io per lui? Che uomo d'onore sono io per te? Li capisci questi tormenti?
Ieri il Consiglio della Società degli artisti e Patriottica mi volle proporre a segretario; oggi dal Comitato per l'esposizione del 1881 ricevo la nomina di membro di una commissione per una mostra d'arte antica. I miei concittadini hanno fiducia in me: io solo non ho coraggio! Lavorerò, accetto pensando a te.
11 dicembre (sera) .—Oggi prima di pranzo mia madre mi racconta che Vittoria è fidanzata. Era la fanciulla conosciuta da lei, da lei amata, da lei forse desiderata…. Non ti nascondo una mia illusione: avevo avuta molta intimità con lei, là sui monti, in faccia al cielo…. Sullo scoglio dello Spitz mi aveva dato il braccio….
Che vuoi? Nella mia vita stupida, fredda, senza gioie e senza dolori, mi era parso una gloria l'essere vicino ad una vergine: pensando a te, Lidia, che non mi amavi! Mi pareva di non essere così brutto, o così sciocco, o così pedante, come sono!
Perchè sarò incatenato alla tua memoria? perchè morire scettico e illuso per te? L'essere con una fanciulla, gentile ed elegante, in una chiesetta di montagna, il toccarle il piedino per darle la staffa, il ricever sorrisi e la frase:—Oh credevo che lei fosse serio serio!—l'offrirle fiori, confetti, erbe: il mangiare con lei coquettement sullo stesso vassoino un dolce, vedere un volto fresco, lieto, aperto, udir una voce giovane, capisci, Lidia, che sono cose che per me le dico tentazioni? Il tuo ricordo impallidiva.
Dovevo forse lacerare tutte queste carte. Il tuo nome solo, o mia Lidia, doveva esser scritto su queste pagine. Invece, quante volte ti dimentico per esprimervi sogni, speranze, illusioni! Ma questa è la storia dell'anima mia.
Ti avrei scritto anche le orgie, gli abbracci lascivi, le ebbrezze, se non fossi sempre vissuto così timido!
* * *
Vado a prendere del bromuro di potassio. È la cura per i miei amori.
13 dicembre.—Oggi fui in casa E. Per vedere le cose antiche sedevo sul tappeto ai piedi di una scansia: la signorina era vispa e spensierata, ma io sarei troppo vecchio per lei.
15 dicembre.—Oggi prima di pranzo la mamma mi dice che Vittoria sposa un ingegnere e va a Merate, in campagna. Ciò prova che era una buona ragazza adatta per me. O Lidia!
25 dicembre (Natale).—Sono in pace: ieri a sera ho baciati mia madre e mio padre. Oggi De Marchi mi manda delle sue novelline pel Natale: le dedica—Alla mia Lina, che m'intende, Chi intende me? Io avevo tanto bisogno d'amici e di quiete d'animo, e come invece son sfortunato!—Penso se mi manderà o no a capo d'anno il biglietto di visita!
26 dicembre.—Stanotte, morbosamente, le ho sognate tutte le spaventose voluttà della donna. Stamattina, vedendo il sole, ho sentito desiderio della mia fanciulla! Che importa a me di tutto?—Vorrei esser felice.
È squallido l'oblio.
27 dicembre.—Come sono scoraggiato! Stassera vado da Monsignor Arcivescovo. Sono invitato come uno dei patrocinatori pel ristauro di San Vincenzo in Prato. Che m'importa dell'archeologia? Una volta avevo tanto dolore, ma tanta era la mia speranza! Ora non ho più dolore, ma non ho più speranze! Apatia!
28 dicembre.—Gli altri che lavorano hanno un po' d'ambizione ed io mi sprofondo nel massimo sconforto! Eppure l'anima mia si sente nata per sprezzare ogni ambizione, ogni fumo, ogni finzione, e per esser modesto e tranquillo e felice con una donna!—Studiare? Studiare? No, no, no! s'accresce il mio sconforto sui libri!
Devo scrivere per Treves un articolo sulla Rocchetta del Castello.
Sento il peso che mi sono imposto.
Sono persuaso che i miei sono studii di archeologia seria ed utile? No: rubo dai libri. Sono persuaso che ci vuol grande fatica a studiare e che mi manca tutto? Sì e non ho più volontà di studiare. E perchè? perchè, mio Dio, ho la mente tanto torpida? Dicono ch'io scrivo con facilità: se sapessero il mio tormento!
«Oh blest be thine unbroken light!»
1.° gennaio 1881.—È finito un anno! Un altro incomincia!—Trepido aspettando il tuo biglietto, o Lidia.—Chi si ricorda di me? Vittoria pensa alla felicità delle sue nozze: tu dove sei? Come hai passato Natale? Ti ricordi che ho una famiglia? Che dovresti averne una anche tu?
Ho lavorato fino alle cinque e mezzo, si fa buio. Presto andrò d'abbasso pel pranzo. La portinaia mi darà il tuo biglietto?
2 gennaio.—Jeri, scendendo le scale, mi dissi:—E se mi mandasse col suo biglietto un altro che fosse di suo marito?—Stamattina ero quasi libero e gaio: a mezzo giorno, tornando quassù per lavorare, accendo la stufa. L'odore di pino bruciato mi rammenta Limbiate, e i fuochi dei poveri focolari in novembre, e il tormento dell'anima mia…. Non dimenticarmi che ho sofferto tanto! Non dimenticarmi! Verrà la primavera a darmi i languori e le poesie e i ricordi…. Ed io sarò solo nell'anima mia.—Non dimenticarmi!—Vorrei guardare il tuo ritratto, ma non oso!
(Sera).—Perchè mi hai dimenticato così? Non sai ch'io lavoro per te? Che m'importa dell'archeologia, della politica, dell'arte?
Mi rompo lo stomaco di giorno nelle biblioteche, e rubo il sonno di notte, per lavorare per te…. Senza cuore! dimenticami, ma non sarai dimenticata da me; verrà la primavera, verranno le mie prime viole, leggerò ancora il mio Byron…. E ti amerò! Ti amerò! Ti amerò sempre!
3 gennaio.—Oggi sono rimasto fuori di casa tutto il giorno. Tornando a pranzo, speravo che la portinaia mi desse il tuo biglietto…. Come due soli anni fa t'avevo santamente e mestamente pregata di mandarmi un solo biglietto!—Nulla.—Come è squallido l'obblio! Lo sento ora. Che scopo avrà la mia vita se anche questo sogno è perduto? Lavoravo, lavoravo, lavoravo, perchè il mio nome giungesse a te come un nome onorato e stimato…. Ed ora?
Il nome? il nome? Per un matrimonio, che accontenti le ciarle del mondo, bastano i denari di mio padre! Chi sa ch'io fui casto, tormentato, poeta e gentile? Chi lo sa? Perchè non mi sono dato alle femmine?—Mio Dio! tu sei in alto, più in alto di me e di Lidia e tu vedi e mi premii così! L'obblio! E perchè non la morte, se mi cadono tutti i sogni di sette od otto anni?
4 gennaio.—L'oubli seul sépare. Siamo separati e questa volta per sempre! O mie memorie, miei boschi di Limbiate, mio cimitero, mie malattie!—Tutto è finito ed io coltivo squisitamente il mio dolore.
6 gennaio.—Suonano le campane da morto. È morta anche l'anima mia! Chi conosce il tormento di questa mia solitudine?
Tu non mi ami! hai pensalo a spezzare il filo fra noi, il filo sottilissimo? Hai provato dolore?
Io non reggo! Mi decido a mandarti il mio biglietto. Capirai perchè ho tardato?—ho guardato il biglietto che mi hai mandato l'anno scorso: mi sono sentito commosso.—Tutto il giorno ho studiato, e mi sento stanco: un giorno il mio lavoro lo dedicavo a Te.
Ho preparato il mio biglietto per Lidia. Per vedere l'indirizzo, ho voluto rivedere quello suo dell'anno scorso: la busta è povera, c'è un francobollo meschino da due!—Chi è questa fanciulla?—Ti mando il mio biglietto: tardi: che dirai? Ti annoio?—Se non mi rispondi col Tuo, siamo davvero separati dall'oblio.
9 gennaio.—Dimmi, quando sarà finito il mio tormento? Aspetto la tua carta di visita. Se non rispondi, Ti odierò! Sarà l'odio, non l'oblio!
11 gennaio.—Perchè annoterò anche le debolezze? ho pianto! Or ora ho incontrata la mia fanciulla….
Non scrivo! non scrivo! E supplico Dio che Tu mi dimentichi, o Lidia! E perchè?—Chi mi vorrà un po' di bene?—La scienza, la scienza dei libri è crudele, è crudele e mi schiaccia!—E questo stupido pettegolezzo della politica come è vuoto! Dio mio!
Mi suona nell'anima un riso argentino di fanciulla che poteva farmi felice.—E sono qui impotente, iroso ed odio.—Che mi valgono quelle sciocchezze che ho pubblicato sui giornali e sui libri? Sono ambizioso io?
Vorrei essere felice: vorrei essere contento: vorrei esser quieto.
12 gennaio.—Quante cose ho sognato stanotte. Ero felice!
18 gennaio.—Mi faccio forza: non voglio scrivere…. Siamo separati. Tu hai obliato! Io non posso rimanere qui, in questo studio. C'è il mobiletto, le tue, le mie lettere, il mio tormento. Come vorrei mutare studio e incominciare una vita nuova!
Ieri a sera ho veduto il seno opulento di un modello nudo alla scuola degli artisti: io ho aiutato a vestire quella ragazza. Dio, che perdizione nelle carni della femmina! Ho ventinove anni e vorrei impazzire nella voluttà.—Oggi devo accompagnare al cimitero una mamma. Stamattina ho baciato la mia.—Il tarlo fa un gran buco nel mio cassettone.—Come vorrei mutare!—Spero ancora…. Il mio biglietto T'è giunto?
Forse sei partita per la Germania e il mio biglietto non Ti trovò a
Venezia.
30 gennaio.—Siamo separati. Come hai dimenticato! Ed io ti ho amato tanto!
Perchè rimarrò qui? dove tutto mi fa ricordare di Te? Vorrei cambiare cielo e abitudini…. Vorrei la mia donna!
Non scrivo di più.—La Tua memoria è santa. Tu fosti il mio angelo, ho tanto sofferto per Te. Ma non ti odio, no, no! Ti benedico.—Forse sono l'ultime righe che scrivo. Seppellirò tutte queste carte, ma la tua memoria sarà sempre in me, e lo sa Dio s'io ti perdono.
10 febbraio.—Perchè non posso sognarle le mie illusioni?—Perchè sono artista?
19 febbraio. Anche tu, Lidia, dovevi sposarti in febbraio. Oggi si marita quella ragazza con cui ho passato più di un'ora gentile, là sui monti, dove tremavo di vederti.—È finita ogni mia speranza!
20 febbraio.—Da vari mesi trascuro i poveri, per darmi a un po' di studio…. A che studiare? Io non riuscirò. Ho sempre scritto pensando a qualche anima gentile…. Ed ora? Che deserto!
Mio Dio, Ti supplico, ginocchioni, gettato a terra Ti supplico, fammi morire!
Ho letto le memorie dell'anno scorso.—Mio Dio, fammi morire.
Risparmiami un altro anno di tormenti.
Trovo nel cassetto una memoria che mi diede Vittoria. Oh piango!—E devo scrivere pei musei e pelle biblioteche.
Ho lavorato cinque ore. Scendo. Trovo i confetti della sposa.
21 febbraio.—Perchè sono sì sconfortato?—Si muore così bene a trent'anni.
25 febbraio.—Ho lavorato tutto il giorno, come un somaro, come uno scolaretto. A chi dedico ora i miei pensieri?
26 febbraio.—Ho sentito le campane—solenni—di San Carlo suonare come in quelle sere in cui dopo la mia malattia nel 74 io passeggiavo solo nei giardini pubblici… O Lidia, come Ti amo ancora!
Oh suicidio!—È sera: è buio. Dispero.—Lidia, non potei resistere. Lessi una tua lettera a me: tu fai voti pel mio avvenire.—Sono scorsi due anni e Tu mi hai dimenticato!
27 febbraio.—Hanno finito di sorridere per me le fanciulle…. e non mi hanno mai sorriso.—Come vi voglio bene, o miei ferri vecchi, o povere armi, che fra tante tempeste mi avete dato occasione a un po' di svago! Le conosco tutte:—alcune mi rammentano delle date: quando Lidia mi scrisse: quando scrissi a Lei: quando ero disperato: quando ero consolato…—Avevo giurato di non aprire più queste memorie, di perdere la chiave di questo cassetto. Se potessi mutare camera, idee, abitudini, e pigliare un po' di speranza!
28 febbraio.—Povero mio cuore!… Sciocco! povera mia carne che nulla godesti, che avesti l'inferno nelle fibre e che sarai mangiata dai vermi! Povera giovinezza che sei passata, senza godimenti, senza voluttà, senza ubbriachezze!—E il mio inno a Dio?
3 marzo.—È primavera: è giovedì grasso, ho assistito in cimitero alla cremazione del prof. Goletti. Una donnina elegante e bella ciarlava. Gli uccelli sentivano l'amore.—Sono solo!—Stanotte ho vegliato penosamente. Mio Dio, darei tutto a' tuoi poveri, sacrificherei questa mostruosa passione per le cose antiche, mi rinnegherei, ma Tu dammi—per un'ora sola—il conforto sommo di appoggiare la mia testa sul seno di una donna che mi ami—che io ami!—Chi mi ha amato? È primavera: mi guardo nello specchio—come sono brutto io!
4 marzo.—Perchè questo sconforto? Perchè ti ho amato troppo. E Tu lo meritavi?—Cominciano i giorni delle indecisioni, dei dubbi, degli spossamenti.—Dammi l'oblio,—dammi anche l'imbecillita: ch'io non abbia più memoria.
5 marzo.—-S'io prendessi moglie avrei coraggio di distruggere queste annotazioni? Avrei coraggio di conservarle?—Non prenderò moglie.
6 marzo.—Un giornale, la Lombardia, parlando delle cose politiche, mi insulta. Che m'importa?—Ieri a sera ho accompagnato mia madre alla fiera di Porta Genova, ero felice d'averla con me. Oh sento come spenderei bene le mie premure con una donna!
La notte veglio penosamente. Sento un gran vuoto! Mio fratello ieri non si sentiva bene: ed io penso come sono cattivo con lui. Gli darò tutte le mie armi. Che mi resterà per un po' di svago? Le mie armi mi danno l'unico conforto: mi sento artista!
7 marzo.—Come sono melanconico, la mattina quando mi desto!—Come mi spavento pensando che il mio nome è lanciato al pubblico! Chiunque mascalzone avrà diritto di sindacare i miei atti della vita privata? Come mi spiacerebbe s'io divenissi ridicolo!—Chi mi insulterà? E rinuncierò io a quella soavissima e dolce pratica religiosa della eucarestia? ho sempre pensato a Te, Lidia.
Perchè non lavoro? Perchè l'unica mia gioia è il desiderare la morte? Qui nel mio studio sono tormentato da tutti i miei ricordi, da tanti rimorsi, da troppa sfiducia.
—Perchè ricordo quei mesi in cui studiavo il tedesco e l'inglese? Sono qui ancora i miei libri, Goethe e Byron, e mi fanno la più grande tristezza.—Disimparo le lingue per dimenticare le mie prime illusioni. O mio Gesù, lessi per primo libro in inglese e tedesco il tuo santo vangelo. Come era il mio amore?
9 marzo.—È una splendida giornata. A questo sole, a questo cielo, a questa gran vita che si diffonde io grido:—Mio Dio, fammi morire!—Come è profondo il mio sconforto! Di notte veglio tormentosamente pensando al mio avvenire. L'ho aspettata con ansia la primavera, per lavorare quassù al tepido, all'aria dolce, ed oggi mi sento che il marzo e l'aprile vengono a spossarmi funestamente. Non ho più la speranza in Te che mi consoli: ho la tua memoria che mi tormenta.—Ho bevuto stanotte molto bromuro di potassio. E come sono turbato! Devo fuggire da questo mio studiolo. Quanta tristezza!—Dove vado? In biblioteca fra i libri vecchi. Fuggo! fuggo da questo abborrito studiolo!—E quando, vecchio, sempre più disilluso, o infelicissimo o colpevole o—peggio—sterile, quando le cercherò ancora le memorie della mia giovinezza?
10 marzo. (Sera).—Suonano le avemarie. Come sarei felice vicino ad una donna! Nel buio scomparirebbero le mie bruttezze. Forse parlerebbe potente—poetessa unica—l'anima mia. Oh miei ricordi!
Credevo d'esser ambizioso e non lo sono!—Sono ammalato.
Era di marzo; ero convalescente, ero innamorato dei fiori e dei bambini, nel 1874, amavo amavo amavo la mia fanciulla! E mi cadevano i capegli e mi sentivo buono!—Ed oggi?
Adorai la Madonna nella Pinacoteca. Nel mio studiolo, venne un giovinetto mio conoscente, profumato, elegante, distinto…. Come in faccia sua mi sentivo piccino e sciocco e originale!
17 marzo.—Ho qui le bozze delle sciocchezze archeologiche che ho scritto pel Vallardi. Stamattina ho giocato con qualcuna delle mie armi antiche di predilezione, ero contento! O perchè ognuna di voi ha un ricordo per me?
Una sciocchezza. Il mio articolo pel Vallardi fu composto da varie donne. Vi leggo i nomi scritti in lapis. Perchè è un buon augurio? Perchè di così poco mi sento contento?
19 marzo.—È primavera. Stasera dovrò presiedere la Commissione degli studi alla Patriottica, una commissione di professori e di illustri. Che m'importa della scienza?
Sono nervosissimo.—Queste cose antiche che mi stringono d'attorno sono polverose. Vorrei avere dei fiori e degli uccellini.—È primavera!
25 marzo.—Stamattina dissi a mia madre: ho il nichilismo nell'anima; dovevo dire: ho l'amore il più potente! E chi ama me? E così domandando chi mi ama, che sarà di me, se sarò felice, così, aspettando, pregando, soffocandomi, bestemmiando, ho lasciato scorrere otto anni, i più belli della giovinezza.
Sto correggendo le ciarle archeologiche pel Vallardi. Penso a Limbiate in questo giorno piovoso, e leggo qualche verso di Byron.
Fra sei giorni devo fare il buffone (per beneficenza) alla Patriottica ed oggi voglio uccidermi in uno dei peggiori accessi di amore e di odio.
28 marzo.—Continua il mio parossismo.—O mio avvenire! Oggi voglio fare una visita in cimitero.
Ma perchè scrivo? È l'unico mio conforto.
(Sera).—Perchè vengo quassù? Per annotare: anche questo giorno è passato, un giorno di noia, di sconforto, di tormento, come tutti gli altri. A trenta anni.
Sento un suono di pianoforte. O mio gentile, o mio santo, o mio mesto ideale della donna!
(Sera).—Il parossismo è passato.—Sono spossato!
1.° aprile.—La mia giornata incomincia colla noia. Io non posso più stare in questo odiato bugigattolo del mio studio, dove mi perseguitano tutte le memorie più tristi…. Si je vous ai fait du mal…. Senza dubbio, mi hai fatto un grandissimo male.
Le mie memorie più dolci sono quelle di Limbiate, dei boschi, delle solitudini, del cimitero. Ieri ho visitato Mantegazza, De Albertis, Induno, nei loro studi: come li invidio! Il mio studio l'avrò, e nel mio studio verrà una donna a sorridermi?… Mi guardo nello specchio. Non ero poi sì brutto: dopo la malattia ho perduto i capegli e la giovinezza. Ero venuto quassù per scrivere il verbale della Associazione Costituzionale.
Perchè gli altri miei amici sono contenti?
Vidi ieri un mio amico—un gentile e bel giovinetto. Come lo sento il desiderio d'essere gentile e bello.
Torno quassù. Che disamore! che mancanza di fede e di entusiasmo!—Tutti i giorni l'istessa noia: la biblioteca, la Congregazione, la Patriottica.
Spossato come sono, morrei calmo e, direbbero i miei parenti, sereno. Non spero nulla. È finito tutto per me! Non leggo più Byron nè Goethe nè Dante: disimparo il francese, l'inglese e il tedesco (oh mie notti invano spese!), e oblio tutto, e se mi faccio inscrivere alla Società Storica Lombarda è per ironia.
Che importa a me di ciò che è grande e nobile e generoso?
La mia noia mi avvelena tutto.—Andrò in Biblioteca.
Una sola passione mi rimaneva—le mie armi. Un solo odio mi rode—l'odio contro me stesso che nulla volli o seppi godere nel mondo inebbriante. Che importa a me di tutti questi sogni? Da otto anni, da dieci, da dodici anni, io farnetico: c'è da impazzire.—Ora tutto è finito!
L'oubli seul sépare.—Ecco l'obblio.
Hai ucciso l'anima mia.
(Sera).—S'io prendessi moglie?—Oh suicidio!
2 aprile.—Proprio nel momento in cui preparo la tromba per la buffonata di stasera alla Patriottica (che tormento per me!) apro il mio mobiletto, e leggo questa mia frase a Lidia—La mia giovinezza non ha più scopi.
L'anima mia è ammalata a morte. Mi divertirò stassera? Farò ridere gli altri? Non volevo scrivere, ma lessi…. Dopo due anni, ho pensato sempre a te, o Lidia.
5 aprile.—Come sei triste, o primavera, per me!—Sono disoccupato. Il mio cervello si ottunde: sento un peso alla testa: non saprei scrivere due righe. Potessi divenire pazzo!—Vorrei viaggiare, ma ecco un nuovo tormento: non posso, e potendo non vorrei: il sole mi macchierebbe orrendamente la faccia: sono già sì brutto!
Ricevo la notizia che il povero Don Angiolo di Limbiate è morto e già sepolto. Ecco un altro anello al nostro passato che si spezza. Ricordo i soli delle brughiere, le nostre caccie, i nostri giorni felici.
7 aprile.—Ieri ho fatto una visita in casa G. La signorina è gentilissima con me. Arriverà il giorno in cui io abbrucierò queste pagine? È un sacrificio necessario pel mio avvenire.—Sono stanco, impigrito, senza speranza, senza dolore e senza gioia.—Perch'io possa mutare vita è assolutamente necessario ch'io non venga più quassù, ch'io non pensi più, ch'io non prenda più la penna…. A che?—Lidia mi ha fatto gli auguri di un avvenire felice. Sarò felice? Con chi?—O la mia vita sarà nel dolore sempre per lei che si è dimenticata di me?—Ti sei fatta sposa? Dove sei? Dolore! dolore! dolore! Non so scrivere e non so sperare.
Oggi per gli altri fui impaziente e risoluto: per me sono sempre stato un somaro e uno schiavo.
È primavera. Rinverdiscono gli alberi: tornano le rondini…. Un poco di pace, un poco di pace!—cessi l'odio.
Oggi ho comperato il letto a una povera mamma giovane. Una volta la carità la facevo in nome Tuo, ispirandomi a Te, o Lidia, ed ero gentile… Ed ora?—Bisogna ch'io fugga questo luogo e queste memorie.
Domenica 10 aprile.—È domenica. Io non prego Dio: ma lo maledico: io impreco, io bestemmio, perchè io odio. Tormenti indicibili d'amore e d'odio, di gelosia, di furore! E c'è il mondo che vede, che parla, che vuol ciarlare, che ciarlerà: quindi io chino la testa, e mi soffoco: mi vinco, mi uccido, mi sbatto a terra e faccio l'indifferente!
L'indifferente?…. Fuggi! fuggi, lontano lontano, viaggia e dimentica.—Perdo in salute, peggioro il mio carattere: ma sto qui…—Ho letto con voluttà mestissima le mie ultime volontà a mia madre. O gente positiva, come ridereste voi se mi vedeste piangere! Mi ammalerò ancora? perderò i capegli? diventerò gentile nell'anima ma schifoso nel corpo?
—Prendi moglie, mi dicono gli amici, e una signorina mi fa tante gentilezze, una signorina ricca, d'ottima famiglia, e côlta.
(Sera).—A te, povero foglio di carta che puoi essere bruciato, a te consegno le espansioni dell'anima mia—il sangue del mio cuore.
S'avvicina Pasqua e spererò nel perdono di Dio. Dio non può perdonarmi…. Eppure ti prego ginocchioni:—Fammi morire, prima ch'io muoia maledetto dagli altri e fa che tutti sappiano ch'io muoio, augurando la felicità agli altri.
Rilessi le memorie dell'aprile dell'anno scorso. Dove seppellirò queste pagine?
14 aprile.—Ho messo in ordine queste mie cose vecchie. Ho cambiato di posto a' miei manoscritti e a' miei libri letti nella malattia del 1874. Per far luogo…. a che? Spero ancora di scrivere?—Oggi sono stanchissimo. Sono spossato dall'odio e perdono! Ma che scopo ha la mia vita?—Due dì fa sono stato a Limbiate: oh primavera! oh primavera, come io ti sento! Vidi i fiori, i bambini, le rondini, le farfalle. O fanciulle, se sapeste come io mi tormento!—Giù, là in fondo, in quel terzo giardinetto tutto il dì siede una mamma felice e gentile.
15 aprile (sera).—Venerdì Santo. Tu risorgerai, o Gesù, ma l'anima mia è morta.—Sono spossato, Oggi ho pensato delle cose gentili, pure, con un po' di speranza.
16 aprile.—Ho accettato di scrivere le appendici artistiche del Pungolo per l'Esposizione. Avrò coraggio di scrivere? E che scriverò?… Uscivo dalla Direzione del Pungolo: mi sentivo contento, superbo: con un po' di speranza…. Perchè Ti ho ricordata? Il mio supplizio deve essere eterno?
17 aprile.—Un po' di giorni fa sono stato a Limbiate. Come ho ricordato i miei tormenti! Ho tentato di scrivere un racconto Tisi ed isterismo per scrivere i tormenti di un giovane e di una giovane: oggi trascrivo qui queste righe:—«Il corpo sentiva addoppiarsi la vita e la robustezza, sentiva un veleno diffondersi prepotentemente per tutte le fibre: v'erano dei momenti in cui tremavo di febbre e sentivo come in me spezzarsi qualcosa, dei momenti senza mia coscienza in cui mi gettavo a terra, abbracciando l'immensa madre. Nei campi graffiavo a smuovere le zolle, cercando la feconda vita degli insetti e dell'erbe, odorava con voluttà l'odore che usciva da quelle viscere, scaldate dal sole. Questa terra coprirà un giorno le mie ossa, dicevo, e precorrendo col pensiero, vivevo una vita superstite nei mille atomi del mio corpo, che si sarebbe sfatto, per rinascere, per fecondare l'amore degli insetti e dell'erbe: e gioivo, gioivo, piangendo, e parevami che le mie mani strette negli steli, i miei capegli mossi dal vento, il mio occhio fisso in qualche fiore, mi dessero la massima delle voluttà, che emana dai capegli di una maliarda, dall'abito infocato, dalle pupille spossate. Terra! terra! Come ti ho amato! E da quei deliri, da quei contorcimenti mi levavo, fissando lo sguardo nel cielo….»
Chi capirà il mio tormento?—Vi vidi insieme e contenti! Oh siate felici!
(Sera). Leggevo una lettera di Lidia a me, la più gentile, la più confidente…. Ed ecco uno sciocco amico, illuso letterato, mi chiede denaro…. Vita stupida fra questi giornalisti!—Che scopo ha la mia vita? L'Arte?—Non credo all'Arte.
Lunedì 18.—Ieri a sera, vicino ad una Birreria e casa di giuoco, mentre raccontavo ad un mio amico d'infanzia i miei scoraggiamenti e le mie amarezze, udii il suono dell'orgia. Voci di donne e canti di avvinazzati…. Dio! perchè mi fai tanto soffrire?—Oggi visitai un mio amico che è felice pensando che sposerà la sua Zozò: cara famigliarità! dolci scherzi! tenere confidenze! My dear Zozò.
—Sono rimasto qui al tavolo più di tre ore. Non mi è uscita un'idea mediocre dal cervello. Come farò?
(Sera). Dottore, dottore, senti il mio martirio orrendo. Ho amato una vergine: mi ha dimenticato: e sono legato a lei. Quella vergine non la vedrò più, ma spero nel perdono di Dio.
Dottore, dottore, come si guarisce da queste malattie? È orrendo il mio tormento! Che cosa ho fatto per meritarmi tanto castigo? Mio Dio, la mia fede era tanto gentile e l'anima mia era sì pura!
Martedì 19.—Io non reggo più. Ho dormito affannosamente con una smania terribile.
Sono l'ultime righe che scrivo. E come se morissi e ricevessi il pane dell'amore di Dio, parlo a tutti dal profondo dell'anima mia.—Perdonatemi tutti: sii felice, tu prima di tutti e di tutte, o Carlo. Sii felice, Tu, povero Peppino, e ricordati di me che ti ho amato tanto e ti ho sempre ispirato gentili sensi di affetto e salde parole di dovere: cresci buono e studioso e fidente nella vita. Perdonami, o R., il mio Tintoretto, il mio Giuliano!… E Tu, Lidia, povero cuore, Tu, gentile mia illusione, ricordami, se puoi, ricordami come si ricorda un fratello. Ma non odiarmi! E perchè? perchè odiarmi? Dio ti conceda le dolcezze che a me vennero dal tuo ricordo, quelle sante paci, quelle soavi e purissime religioni. Non ti affligga Dio coi miei martirii. A te ripeto: Sii felice! sii felice, sii felice! come quattro anni fa. E ricordo che anche tu mi avevi fatto questo augurio: Soyez heureux comme vous méritez de l'être.—O Lidia, il mio pensiero era di darti mia madre, di darti il mio cuore, di farti contenta, ed io avrei lavorato, forse avrei acquistato un nome, e Tu dovevi essere la mia pace. Perdonami e sii felice!—E a Te, mia mamma, che dico? Quante volte mi sarei ucciso, ma sempre ho pensato a Te. Eccoli, o mio amore sincero, costante, vigila, eccoti il mio cuore.—Non spaventarti dei miei martirii e delle mie bestemmie. Ho avuto dei momenti di fede così gentile, che Dio mi salva.
—Credevo fossero l'ultime righe! Ancora aggiungo:—O mia madre, o mia Lidia, perdonatemi, ricordatevi di me. Ancora una volta perdonatemi, perdonatemi.
5 maggio 1882. Venerdì.—È passato più d'un anno: ed apro il mio mobiletto: e noto questa data….
Come sono invecchiato! Non ho più fede! Non ho più speranza! Non ho più coraggio! Ho aperto questo mobiletto per vedere se c'erano nascoste certe mie annotazioni di cose antiche militari.—Da Lipsia, Sacher-Masoch mi invita a scrivergli un articolo…. È questa la gloria sognata? Il mio articolo sarà tradotto in tedesco.
Chiudo ancora il mobiletto: e non l'aprirò più fino a un altro anno. E poi?
Oh chiudete me sotterra!
Non amo più le mie memorie.
——
Da Milano.
Prima di chiacchierare un pochino e di aprire un foglio solo del mio gramissimo albo, devo dirvi, o amici miei, che ai tanti di luglio dell'anno di grazia 187…, in una caldissima ora di mezzogiorno, io mi trovavo in un vagone di seconda classe: e devo dire che il conduttore aveva spalancato lo sportello, gridando:—Serravalle!—Viaggiavo da modesto baccelliere: avevo lasciato Milano e correvo inverso Genova. Da Genova, alla ventura, dovevo partire per qualche paese della riviera.
Ora che ho posto la data di luogo e di tempo, fedele come un notaro, permettete che io mi presenti a voi con una penna d'oca e una cartaccia in mano, come siete soliti a vedermi e a canzonarmi. Ma aspettate!… La penna, a vero dire, l'avevo già stizzosamente rosicchiata da un mezzo mese e già era caduta in minuzzoli e sfilacci sulle pagine del mio Codex repetitæ prælectionis: la cartaccia era nelle mie mani e sotto i miei occhi (e c'è ancora nel mio cassetto): e ve la spiego innanzi, avvertendovi che contiene tutta roba rubata. Ma per mia scusa dico che niente mi pareva di più naturale: cioè voler sapere qualcosa e volerlo con minore fatica. Se desiderate, leggete:
«Il paese compreso fra il Varo e la Magra, fra l'Alpi, l'Apennino e il mare chiamossi anticamente Liguria, e Ligustico il mare interposto fra le amene sue rive e la Corsica. Prima delle guerre e delle mutazioni di stato avvenute in Italia per effetto della rivoluzione francese del 1789, tutta quella contrada, divisa in Riviera di Levante, Riviera di Ponente e marchesato di Finale rinchiuso in quest'ultima divisione, e denominata la Repubblica di Genova, corrispondeva in grandissima parte all'antica Liguria: perciocchè la contea di Nizza e la signorìa di Dolceacqua, Oneglia e Loano erano in potestà del re di Sardegna; Monaco, Mentone e Roccabruna formavano un principato dipendente da una famiglia francese» et cætera: «E quantunque la repubblica signoreggiasse eziandio un tratto nella Lunigiana e una parte delle pendici settentrionali dell'Apennino verso la Lombardia, erano nondimeno i monti liguri feudi imperiali appartenenti a famiglie genovesi» et cætera: «Riviera di Ponente, di lunghezza littorale miglia 102: Riviera di Levante lunga miglia 60: e paesi al di là dei gioghi, come Novi, Carcare, Calizzano ed altri» et cætera: «Il clima di tutta la Liguria è salubre, temperato, favorevole alle produzioni più preziose dell'Italia. Il suolo non è generalmente fertile: in qualche luogo è coperto di foreste, o presenta pascoli deliziosi: in altri invece non offre se non nude ed aride rocce:» et cætera: come olii, vini, agrumi, castagne, fichi, mandorle ed altri frutti. «Le antichità più notevoli del genovesato sono: le rovine di Luni, presso Sarzana: di Libarna alle falde dell'Apennino e a settentrione di Genova: d'Alba Docilia (la moderna Albisola Superiore) e di Vado, poco discosto da Savona; il ponte romano….»
Vi avverto ancora che queste notizie scritte sulla mia cartaccia sono tutta roba rubata: io non ne so tanto: vi domando perdono e ve ne interrompo la lettura; perchè anche a me l'interruppe la voce del conduttore, che, avendo gridato:—Serravalle! Serravalle!—di tutta forza sbattè lo sportello del vagone.
Fu proprio a Serravalle ch'io chiusi il dotto foglio, e lo misi nella sacca da viaggio: poi, quando il treno s'incamminò, sbuffando, cigolando, sbatacchiando i cuscinetti, avviandosi colla cadenza misurata degli stantuffi e col pettegolo bollire della caldaia, io, affacciatomi alla finestrella del vagone a tutto mio agio, giacchè ero solissimo, incominciai a guardare le valli e i monti e il cielo.
E pensavo, pensavo. Al mio occhio scappavano i pratelli, scappavano i vigneti, scappavano i colti rapidamente. E qua una chiesicciuola, là una villa, qua un ponte, là una capanna di paglia mi facevano nascere cento voglie e mille… Come posso dirle certe bizzarrìe? La poesia della natura mi stringeva il cuore dolcissimamente. Desideravo due gradini su un umile sagrato, per sedermi a sera su uno e per contemplare l'altro deserto: desideravo un'aiuola di rose fiorite per gettarvi in mezzo le pagine di un libro melanconico: desideravo un fiume corrente che mi susurrasse:—Semper—o un placido seno d'acque in cui sfiorasse l'ali acute la rondinella e fuggisse agli azzurri del cielo: desideravo un covone di paglia dorata sul quale una villanella sedesse, intenta a cucire un grembialino…. Alla mia immaginazione la chiesicciuola mi schiudeva le porte: vedevo il battisterio polveroso, giù le lastre delle tombe, le madonne, i seggioloni, gli stinchi dei poveri morti, la luce che scendeva dalle vetriere a tramontana: ed io sedevo su un gradino dell'altare; l'altro gradino non era deserto, ma sparso di petali di fiori…. Che v'era accaduto? Mi pareva che il ronzìo dell'organo, come un calabrone s'aggirasse alle volte cercando un'uscita. La villa mi invitava ai giardini, ai prati, ai sedili, alle aiuole, alle scalee di marmo. E quanto belle erano le bianche anticamere, le fresche sale, i terrazzi inondati di luce! E dappertutto mi giungeva una fragranza di rose e di donna, e un lontano murmure di poesia, triste nella dolcezza, come la memoria o il presentimento di un sogno. Mi trovavo dunque felice, e perchè?… Il fiume mi mostrava nel suo fondo le vene rosee e candide di ghiaia, i tappeti di sabbia, i guanciali di alghe, e sulle rive i campi, i paesi, i mulini: e su e su, a ritroso della corrente, io volevo andare alle scaturigini: e là volevo piangere. Mi trovavo dunque infelice, e perchè? Ma l'acque fragorose dicevano;—Che sono le tue lagrime per il corso nostro? Noi andiamo al mare.—Il seno, che il fiume lasciava a uno svolto, aveva le sponde tranquille e le campanule tremolanti alla superficie: una fanciulla sorridendo si specchiava nell'acqua, ma le ondine gorgoglianti dicevano:—Che è l'azzurro de' tuoi occhi per la faccia nostra? Noi riflettiamo il cielo.—La capanna che desideravo si apriva, e la villana, che sedeva sul covone, cantava allegra allegra, riacconciando il grembialino del figlio morto pel figlio che le nascerà…
E così sognavo, sognavo. Al mio occhio scappavano i pratelli, scappavano i vigneti e i colti e i monti rapidissimamente.
Un treno che passò sul binario vicino, squarciando l'aria come una negra meteora, mi fece ritirare la zucca dalla mia finestrella. Dov'ero? Ah! nel vagone. Con buonissima volontà rifrugai nella mia sacca, presi il foglio della descrizione, roba rubata, e volli cercare un rifugio alle fantasmagorìe che mi rendevano il capo leggiero, come una bolla di sapone, vuoto e iridescente: feci forza per leggere, e lessi.
Due ore dopo, alla mia destra, al di là di un paese coi tetti di lavagna e le torri delle fucine fumanti come la gola di Vulcano,—io vidi il mare! Che contemplazione fu la mia! Il mare!
Era di un azzurro intensissimo: si confondeva all'orizzonte con una zona lucente: finiva alla spiaggia colla catena mutabile delle onde, che si gonfiavano colle loro crespe spumanti, piene di guizzi, di luce….
È impossibile ch'io descriva quel primo amore che mi trasse all'infinito facendomi rigurgitare l'anima in petto, spandendo il mio desiderio nei liberissimi cieli!
Quando raccolsi la cartaccia da notaro che m'era caduta di mano, e quando la riposi in fondo alla sacca, proprio in fondo trovai il mio albo sfogliato, quattro sbiaditi colori d'acquerello, due pennelli arruffati.
Sulla quale carta, coi quali colori, coi quali peli avevo intenzione di buttar giù qualche poverissimo acquerello.
Sobborgo di Genova.
Filatere interminate di vagoni, ruote scorrenti nel polverio nero, carichi immani, locomotive tozzotte dal fischio che pare lamento di fatica, io vi saluto. Luccicate al cielo, rumoreggiate sotto le gallerie, scuotendo le ossa fossili dei primi uomini, portate ricchezza, col vostro strido destate il fiat della vita, e col fumo mandate l'incenso santissimo, l'incenso del lavoro. Passate e passate.
Dove me ne vado io?
L'agenzia degli omnibus da Genova per la riviera mi pare posta innanzi a una bottega da parrucchiere. È cosa sicura: lì, su un piazzaletto vi sono e carrozzoni e bestie e mulattieri, un subbisso d'affaracci. Mi ci incammino. Chi può dire com'io abbia le orecchie straziate!—Sciü, sciä ven? Sciü, sciä, ven?—-Chi vuol condurmi qua, là, lontano, vicino, più oltre, sulla strada, a pochi passi, alla casa. Ma no, no, no! Voglio andare a Sestri Ponente!
Nella bottega, Balilla, l'impresario coiffeur, in maniche di camicia, ti rade il baffo destro, o marinaio, ed esce a dare la pietanza alle rozze; ti rade il sinistro e scappa fuori ad ungere le ruote all'omnibus: ti lascia, e sei tutto pelato, coll'unico pizzo genovese, sotto il labbro inferiore. Oh che figura! E intanto passano sul tuo volto insaponato ombre di code irrequiete per le mosche, ombre di camiciotti svolazzanti all'aria della marina, ombre di ruote, e lustri…. di fanali e di ottoni? Oibò: lustri d'occhi. O genovesine bellocce, per amore dei vostri occhi desiosissimi, vi prego d'una cosa: date un buffetto al damo quando vi compare innanzi col solo pizzo, e dite che i bersaglieri lombardi hanno i baffi audaci alla Manara.
Il parrucchiere, che li lasciò col baffo dritto raso, uscì col troguolo della biada.—A Sestri! a Sestri!—incominciò a gridare, col sorrisine genovese, quello che nasce dalla golaccia delle palanche e che si invernicia di un: caro, sono tutto ai vostri comandi, da umilissimo servitore.
—A Sestri! Sciü, sciä ven a Sestri?—così si fece incontro a me che giravo un po' lontano dalia piazzuola, e davvero aspettavo la ventura: così mi invitò, ed io andai lì dinnanzi ad una specie di barcaccia spellata sulle ruote, aggravata su due cavallucci, che labbreggiavano al di sopra di un truogolo.
—Sciü, sciä ven a Sestri?
—Quando partite?
—Allun! sciä munte chi, che mi vaggu cumme u vapure.
Ed io stetti per porre il piede sul predellone di quell'omnibus che sembrava già pronto.
Intanto che il parrucchiere rientrò in bottega, o marinaio, e ti rase anche il baffo sinistro, io di botto mi sentii alle nari un puzzo così virulento, che mi parve si fosse aperta la vetrina di un acquavitaio, ed ascoltai nelle orecchie questa vociaccia soffogata che diceva:—U Balilla u nu parte mancu in te chì e staseia. Sciü, sciä munte con mi.—Mi volsi e vidi un camiciotto sbiadito, un volto d'arrosto, un cappellaccio di paglia: un vetturale che m'additava un'altra barcaccia sulle ruote, i cui cavalli aspettavano il turbinìo delle frustate. Tra l'attendere un'ora sotto al sole, e il mettersi in viaggio tosto, è naturale che si scelga. Detto, ascoltato, fatto.
Il parrucchiere che uscì per ungere le ruote del suo omnibus e che tornò a gridare:—A Sestri! a Sestri!—vide me che ponevo il piede sul predellone di un omnibus rivale. Altro che Ballila che gioca il tiro al tedesco! E il camiciotto nemico peggio! Che furia! Io divenni quasi smorto, e quasi lasciai cadere parasole e sacca.
—Pelandrun! galeotto! Ti me vëgni a robâ i posti? Se ti nu me-a paghi oræ diventa…!
—Cöse t'eû che te paghe? T'æ i cavalli guersci e ranghi, l'omnibus co-e molle rutte, che da ûna parte u l'ha u xembo cumme tò muggië, e t'eû ancun che te a paghe?
—Puscioû che te vêgne mille diai in corpo! T'eû ancun avei raxun? U sciü u l'ëa xà con mi.
—Se u l'ëa xa con ti n'ho piaxei: oûa u l'è con mi. L'è a i bigetti che mì dagga mente. A Sestri! a Sestri! Partimmo subito!
—Pendin da furche!
—Ti me caxiæ sotta æ grinte!
—Ti me caxiæ sotta æ grinte, e se nu te rumpo quello brûtto muro lì, ciû tösto me fassu appende!
—A Sestri, a Sestri!
—A Sestri!
—Sciü, sciâ munte con mì!
—Sciü, sciâ munte con mì!
—Con mì!
—Con mì!
Questo è quello che si può scrivere. Le bestemmie genovesissime venivano giù come la tempesta maggenga nelle litanie dei santi: e i due furibondi si tenevano, come su un bastione, Balilla ritto sulla cassetta dell'omnibus, colla frusta alzata; l'altro con un piede sul predellino davanti e il sinistro sul mozzo della ruota pronto ad investire.
Grida e bestemmia, bestemmia e raglia, arrivarono i rinforzi: vennero fuori cioè dalle stalle e dalla barbierìa tanti garzonacci membruti, che alle litanìe risposero l'ora oro nobis ma con che indulgenza!
—Pelandrun!—Pelandrun!—Galeotto!—Galeotto!
—U sciü u l'ëa xà con mi!
—Oûa u l'é con mi!
Io mi sentii tirare le falde dell'abito, ed afferrare il parasole e la sacca, poi spingere innanzi, e poi strappare indietro, e risospingere. Intorno si urlava come tanti insatanassati: temevo le forche e i rasoi. E già fuggivano spaventate le colombe ai tetti, scorrazzavano i cagnuoli arruffati, e dondolavano i piattelli all'insegna del parrucchiere….
Làh! manco male: a dividere il campo di battaglia arrivò in tempo una lunga fila di muli carichi di sucidissime corbe, tempestanti maledettamente coll'unghie, colle code a sferza.
Spiaggia di Sestri Ponente.
Nel descrivere questo stabilimento di mio non ci metto nemmanco una banderuola, nè una fune: punto primo, perchè non sono azionista di quella società di marinara e marinai, amici più del vino che dell'acqua benedetta: punto secondo, per amore del vero.
E faccio conto che vi sono circa a trenta baracche o cabine, allineate verso il mare, coperte di tela, e questa rare volte è comperata e tagliata apposta, ma spessissimo staccata da un albero da paranzella, perchè già troppo stirata ai quattro venti: fors'anche bucata? Oh allora…. Zitto, là, linguaccia. Quanto al mettere pezze il genovese pare fatto espresso, e le bagnanti non dimenticano punto gli spilletti riparatori, se mai…. Tra l'una e l'altra baracca vi sono certi vicolucci, certi vicolucci…. Lah! tiriamo dritto, senza odorare gli acri profumi di certe tolette…. Vi sono dei vicolucci che lasciano vedere terra terra qualche lembo di lenzuolo cascante, qualche tacco di stivaletto arrovesciato, qualche legaccio insidiatore. Scappa, scappa, santo Antonio dalle tentazioni!
Tra la quindicesima e la sedicesima baracca, press'a poco, vi è tanto spazio da collocare due panche e sette od otto scannelli di Chiavari, e da fare, spiegando a cielo una tenda a liste bianche e turchinicce, un'anticamera al mare e un verissimo bagno a vapore ai poverini, alle poverine, che hanno la sventura di aspettare. Qui è ritto un palo bianco che porta una bandiera coi tre colori sul campo giallo dato dalla spruzzaglia del mare, dal sole, dalla pioggia. Più in là, vicino alla palizzata che chiude il cantiere, sta la maggiore baracca degli azionisti, cucina, magazzeno, dormitorio, cantina: n'esce il fumo nauseoso dei friggæ, n'escono i rosari genovesi: là vedi le facciuole paffutelle dei bimbi addormiti, a guanciale la sabbia: là spii il bariletto tenuto in guardia dal cagnuolo bruno. Da quella trabacca ai pali del cantiere sono tese tante corde, e su queste, spettacolo della caducità delle umane cose! stanno i vestiti marinareschi delle signore, a braccia penzoloni, slavati, flosci, i neri conci in verdi, i bianchi in gialli, sbiadite quelle poche filettature rosse da diavoletto, perdute le crespe e gli sgonfi. Oh davanti a questa parata davvero c'è da passare a capo chino!
E sulla ghiaia della spiaggia, al cocentissimo sole, sono buttati ad asciugare i lenzuoli, ai quattro angoli stirati da quattro ciottoloni, e, più che buttati, scaraventati cappellacci di paglia, zucche prosastiche per le prime lezioni di nuoto, mutande maschili, scarpe di corda antipaticissime e disusate, sacche e braconi stillanti, appena svestiti, i bianchi cerchioni di sughero per salvataggio, gialli cuffiotti di taffetà, buoni per coprire le zucche secche, non le vostre care testine, o capricciosette nasconditrici di bellezze; e pancucce di legno, secchie dipinte in turchino, avanzi di stuoie, gambe di scannelli: et cætera, et cætera, uff!
E ancora sulla ghiaia, passando a dire delle cose animate, vedi schiene color di rame, schiene bianchissime, schiene tali e quali le fece Iddio, schiene come appena le permette di spiare il lenzuolo: ma tutte tutte decorate dalle immense tese dei cappelloni d'oro.
Eh via! Che vi frulla? Ch'io adesso voglia popolarvi lo sfondo di macchiette? Proprio no. Domani parleremo di marinai e di marinare e di bagnanti cittadini e cittadine.
Intanto voglio usare l'ultime gocce che m'ho sulla tavolozza, e dipingo;—di faccia il mare, a tre strisce, una verde oscura, come una pineta, l'altra paonazziccia, l'altra celeste: l'aria limpidissima: di qua e di là i monti tutti innondati di sole.
Scogliera di Cornigliano.
Ti rivedessi! A te venivo, o scogliera, nelle mie ore solitarie.
Ricordo il sentieruzzo attraverso il terriccio delle rupi sfaldate, la scoscesa salita, il varco tra le due corna estreme, il varco dove giunge il rugghiare dell'onda e il diguazzarsi delle ondine flottanti. Dall'alto io contemplo il mare!
Non mi volgo a sinistra, ove il fumo della locomotiva si addensa candidissimo nell'atmosfera velata che incombe alle nere officine, il fischio stride insistente tra le fitte case e il suono delle ruote, si mischia a quello delle industrie frementi. Va e va, lunga fila di carri: in fondo è il faro di Genova, la gagliarda mercantessa.
Nè mi volgo a destra, ove, al di là del castelluccio di santo Andrea, in mezzo al vasto fragore dell'opere fabbrili, ecco sul curvo lido i poderosi carcami dei bastimenti nel cantiere e le bianche trabacche pei bagni e le macchiette affaccendate intorno alle barche, cui striscia l'irrequieta frangia del mare. Le case di Sestri s'addossano alle case, i campanili levano il capo lucente d'ardesie embricate, le torri degli opifici danno col fumo nuvole conglobate e fuggenti allo splendidissimo cielo. Le montagne parate a vigne, sparse di ville, colorite gaiamente da giardini, si stringono a sfondo voluttuoso intorno a te, voluttuosissima Pegli, l'accarezzata dal tepido flotto; e le indecise linee degli ultimi promontori sfumano dietro le nebbie perlacee che fasciano la marina di sopori innamorati….
A te mi arrampico, o scogliera, nelle mie ore melanconiche. E contemplo giù il mare!
Rammento il varco tra le due corna estreme, le foglie lacerate degli aloè, le tenaci erbette grasse col fiorellino giallo, gli scheggioni di quelle rupi, e giù la scogliera e la spiaggia. Qua vedo angolosi profili, qua masse tondeggianti, qua pozzetti, a tinte turchinicce e livide: e qua sul dorso dì certe coste che si diramano come tante catene di montagne, formando tanti valloncelli scavati dalla rabbia di corrosione, sul dorso bruciacchiato le incrostazioni biancastre dell'acqua; là la massa nera si dirupa, là nelle basse caverne e negli anfratti sonanti sonvi i biechi colori dell'onda, il bruno funereo e il verde bavoso.—Ecco il mare! Ecco i capi sporgenti degli scogli arrotondati dal lavoro eterno ed alterno, l'immenso flusso che investe, il franto riflusso che rota. A voi vengo, o ultimi capi, all'ondoso rombare; o scogli circonfusi dal polverio acre dell'acqua: o scogli, a tratto attuffati, a tratto stillanti come tante teste a ciocche d'argento: o scogli remoti, dove non mi giunge voce d'uomini, dove mi schiaccia infinita battaglia di giganti.—Più in là la spiaggia è come un dolcissimo tappeto di sabbia.
Ti rivedessi: In te mi affisavo nelle ore fantastiche della mia contemplazione, onda della spiaggia, onda degli scogli.
Rammento i tuoi grigi pennacchi che venivano sulla varia superficie del mare, venivano incalzandosi e sfioccandosi: rammento il tuo gonfiare, il tuo colmo trasparente-verdiccio, e il concavo lenissimo: rammento la furia del voltolarti, la spuma bollente e il fragore del muggito, il torrente bianco che s'allargava sulla ghiaia, dibattendo le ondine, sommovendo i ciottoli, e i mille rivoletti che ridiscendevano con trosce lucenti, rigando la spiaggia a seconda del vento.
Rammento il torrente bianco che rompeva sui capi degli scogli, rimbalzando con pioggia sulle punte più alte, e il suo travolgersi, l'urtarsi, il frangersi, il ritornare tumescente, e le mille ondine, le cascatalle, le crespe: rammento il rombare dell'onda, poi il flagellare guazzoso, i mille gorgogli e i mille sospiri gravissimi: rammento i begli occhi iridei della spuma, che scoppiavano come tanti occhi di fantasime….
Vanavano come le speranze.
Spiaggia di Pegli.
Stando io sulla spiaggia al nascere del giorno, ascoltavo un mattutino festevole e mosso a rintocchi. Da quale chiesetta mi giungeva? Non so. Ma dal suono delle campane la s'indovinava; un luogo tutto di pace, a fiori, a lampadette, a luci miti, con note d'organo amorose, col bianco battisterio, coi fraticelli lentissimi e salmodianti in processione. E forse l'aveva la piazzuola dinnanzi, e la piazzuola colle siepi di rosai guardava il mare: e le belle fanciulle, sfilando alla sacra portella, si rivolgevano, pregando e sospirando, all'azzurro scintillante. E forse anche la brutta che aveva vent'anni e il pezzotto comperato coi propri soldi, la bruttina sorrideva a un'illusione…. Oh le campane squillavano annunziando:—Nasce il sole ed è l'amore del creato!
Al mattino, essendo appena imbiancato il tenebrore dallo schiarirsi dell'oriente, il mare era placidissimo. Nessuna vela, nessun uccello, alla spiaggia nessun uomo. La vastissima acqua dava tante e tante crespature curve sorradenti, che si succedevano soavi e venivano a morire sulla spiaggia; sembravano ciglia e ciglia aperte alla prima luce da un dormente stanco d'amore. Le crespature morivano in un gorgoglio, e questo pareva lamentasse:—Lasciatemi la pace della notte!—Le ondine facevano una spuma lenta e senza luci: le dicevi l'ultimo sorso sulle labbra di un voluttuosissimo ebbro.
Se io fossi pescatore, mi sceglierei quella casetta tutta bianca che guarda il mare, vorrei quella barca impeciata che al sole luccica, come se fosse d'argento, andrei alla spiaggia, cantando la canzone gaia e spensierata.
Spiaggia di Sestri.
I marinai sono macchiette, a vero dire macchione, color carnesalata, con un grande cappellaccio di paglia, slavato e cotto, e coll'uniche mutande turchine. Baciccia, Faccin, Balillu, Néto…. Sicuramente le contesse e le marchese ne ricordano tanti, come un dì le matrone ricordavano, invidiando, i gladiatori.
I marinai sono buoni diavolacci che, tutto il giorno, attendono ai bagnanti. Si pigliano su in collo i bimbi, a due a due, porgono la manaccia alle signorine, danno una palmata umida sulle spalle dei giovanotti, adagiano le mamme sulla sabbia. guizzano coi babbi fino a un miglio dalla spiaggia per mostrare il faro di Genova che sorge dall'ondoso piano. E cantano ai bimbi strillanti e promettono una barca d'argento piena di pesci d'oro. Sorridono alle signorine e dicono:—Brava!—se l'amara spruzzaglia del fiotto non trovò la spaurata bocchina aperta. Esclamano coi giovanotti, al confronto della loro mano bruna colla pelle cittadina:—Mié: u mainâ a l'hà a pelle neigra cumme u carbun…—Incoraggiano benevolmente le mamme:—Scignue, nu agé puia: tegnive a mi.—Con buona dimestichezza dicendo ed additando:—Là gh'è a Lanterna: nui atri semo cumme i vapui de Marseggia che arrivan: femo fume,—per far fumo concludono in mezzo all'onde:—Sciü, me o de un sigaro?—…. Un sigaro? Oh nuova, direte: tu i sigari li cavi dalle tasche delle mutande da bagno, belli e accesi? Come c'è la bottega pei delfini? I veri nuotatori o fumatori li cavano dal cocuzzolo del cappellaccio, e dal cocuzzolo pure il marinaio toglie lo scattolino degli zolfanelli.
Rare volte Néto era nel gruppo dei marinai, vestiti dei camiciotti turchini, a sera seduti sulla spiaggia, tra un cerchio di bimbi cittadini e qualche fanciulla pubescente, i marinai che raccontavano le istorie delle conchiglie fine e dei coralli della Madonna. Intanto l'onda faceva l'eterno rumore: e le donne pensavano all'eterno amore. La costa era sparsa di lumicini giallosi, la ghiaia chiara, la sabbia persa e su questa i ciottoli lucenti come pezzetti di specchio. Se c'era la luna! Luna nuova, luna crescente, plenilunio, luna scema: tenera, falcata, o tonda, sfumava giù il suo lustrore ed ondoleggiava nell'acqua cheta o scappava su mille creste guizzanti. Se c'erano le stelle! A sciami, a sciami gloriavano gli ozi del paradiso…. Tutto azzurreggiava…. O marchese, o contesse, o borghesine, seni tutti femminei dolcissimi, che vi gonfiavate, deprimendovi all'unissono coll'onda!… Tutto taceva sospirando…. Néto passeggiava sul lido, e guardava il mare. Qualche volta gli veniva dietro il cagnuolo bruno, tristo come lui: qualche volta un suo fanciullo scempio, un poverino che cercava tutto il dì i ghiaiotti che gli piacessero e non li trovava mai.
Néto taceva.
Il fanciullo scempio sedeva sbadatamente sulla spiaggia e gettava la sabbia all'onda. Una volta udii che borbottava a sè stesso:—Guarda a mè barchetta, a và cumme u vento,—e accennava un alcione: una volta vidi che accarezzava il cagnuolo bruno, e questo lo leccava sulle mani e sul viso. Povero fanciullo! Forse quella era l'unica illusione, e quegli gli unici baci!… Lì intorno sorridevano tante mamme e tanti babbi felici.
Volete sapere l'istoria disgraziatissima di Néto?
Incomincio da te, Barchetta….
Forse la barchetta dell'amore, che va e va, colla prora inghirlandata di fiori, a cielo stellato, a gran notte?
No: avvezziamoci alla prosa della vita e scottiamo le carni al sole del mezzogiorno. Barchetta è una barcona: la barcona è una donnaccia: la donnaccia è la maggiore azionista delle baracche a mare, quella che alla spiaggia reca alle bagnanti le lenzuola, sbatte ai bagnanti le mutande. La Barchetta ha un volto tra l'allegro e il traditore, con due occhietti usi a spiare il fondo ai fiaschi, un collo a crespe cicciose, su un seno affagottato da farla dire mamma di tutti quanti i marinai, una schiena aggraziata come un barile. La barcona è una furbaccia, amicissima, prima di tutto, di quello che ha in tasca, poi de' suoi crediti, poi di quello che vorrebbe avere, poi del suo marebagno. La donnaccia sacramenta coi marinai quando è mal tempo, e quando è buono storce gli occhietti fra quei quattro peli di qua, di là, a sommare gli avventori: ha il saluto per chi viene alla spiaggia a fare il bagno, non per chi, già fattolo, se ne va: si dà colle mamme a persuadere i bimbi ritrosi che là sotto l'onda ci sono i pesci d'oro, e i pesci d'oro alla sera portano ai buoni un bastimento con tanti marinai, tanti cuochi, tanti cannoni; fugge le nonne austere che non vogliono bagnare la loro autorità: porge il cappellaccio e le scarpe alla marchesa: fa la sorda alle chiamate un po' volgari: promette sempre mare tranquillo fino a settembre: consiglia il bagno breve, ma la cura lunga: solleva dieci tele e si caccia, nè insidiosa, nè insidiata, nelle baracche, vede e non vede….
Ah donnaccia, se sei barchetta, hai satanasso in prora: troppi e troppe, peccatori tutti, colla fantasia venendo dietro a te, si sentono il sangue dare un tuffo e i nervi un pizzicore. Barchetta diavolessa! Ma che cielo stellato, che gran notte, che azzurro! Prosa, e sole di mezzogiorno: sollione.
E voi altre, brutte marinare? Nemmeno ricordo come abbiate nome. Tu che, sorridendo, mi auguravi il buon giorno? Tu che rubavi il bastimentino a' tuoi bruni bimbi per darlo agli inviziatelli cittadini, che strillavano a solo vedere un marinaio a schiena nuda? Tu che coprivi pietosamente col lenzuolo il pieduccio torto a quella signorina distesa su per la sabbia e vergognosa perchè la sua mamma la vi teneva a forza?
O buonacce, ricordo che non eravate belle.
Ma, tu, Filomena, vienmi innanzi. Ti porrei un pezzotto bianco sulle treccie disciolte, ti darei un'anfora di terra e tu la recheresti sul capo, come una siciliana, contemplerei bene il tuo profilo austero ed italiano, e ti direi:—Va, bella, va cercandoti un cielo più ardente.
Ma no! Ritorna ancora e dammi da bere. Ho sete.
Spiaggia di Pegli.
Tu come avevi nome? Felice. È tu? Felicissima. O amanti pallidi, che alla mattina venivate al mare sotto un solo ombrellino, facendovi vento con un solo ventaglio, sorridendo con un solo sorriso consapevole, ah! era proprio l'onda che colle sue luci guizzanti vi aveva abbattuti gli occhi e la ghiaia che vi dava l'andatura stanca, proprio il vento che vi aveva scomposti i capegli e la brezza della marina che vi scoloriva i labbrucci? Ah?
O felicissimi, alla sera vi stavate alla spiaggia, seduti in disparte, su una sola panca, anche su un solo scannello, contemplando il mare, contemplando il cielo.
Pegli.
Sulla strada da Sestri a Pegli c'è un piazzaletto con quattro robine a ombrello, e in fondo un muro grigio, squallido e graffiato, con un'antaccia chiusa. Sporgono al di sopra del muro, di lontano, le alberature nude, le vele appuntate, e le banderuole a fiamma delle barche peschereccie; di lontano s'ode la voce del mare. Vi è il cimitero; lì non si strascica vecchia che dica rosario.
Il pescatore che è morto aveva in prora alla sua barca la poppatola della Madonna, in collo la medaglietta di Savona, dava i pesci di livello al curato, andava alla chiesa, si segnava colla santissima acqua del mare. Il pescatore è sepolto tra le quattro mura nella ghiaia: e d'un remo non si fa croce. La Madonna beve ancora l'acqua salsa che le fiotta incontro nelle placide mattine di pesca: la medaglia è giù col morto, finchè fra i ciottoli e il carcame non la rubi il becchino: il curato ha cambiato il nome dell'offerente, ma ha l'istessa qualità di pesci. La chiesa ebbe funerali e battesimi: il mare tante volte con una striscia placidissima, lucente, appena sfiorò la sabbia, baciando i piedini alle fanciulle che cercavano nicchi e coralli, e i pescatori dissero:—Domani lasceremo giù tutte le reti.—Tante volte cogli avanzi del naufragio voltolò l'onda, fino a vomitare bava nel cimitero, e i pescatori dissero:—Vento galeotto.
E staccarono le reti tese ad asciugare dal murello squallido, graffiato: e tirarono su le barche urtandone le poppe, le catene, senza svegliare i poveri morti.
O felicissimi, che alla sera contemplavate il mare, contemplavate il cielo, ho a dirla?… Quando la filatera dei bimbi chiassosi vi saltellava vicino, voi vi pigliavate il meno restio, il più bello, l'elegantissimo, tutto vestito di bianco ricamato, colla fascia di seta azzurra, il cappellino alla marinara, e col fargli scattare sul nasino la cassa dell'orologio o col chiudergli di botto il ventaglio profumato sotto il mento, subito l'innamoravate delle vostre ginocchia, sì da poterlo baciucchiare e lisciare coll'invidia più carina. Ho a dirla?
(Egli, Gigio Augeri, su quell'orologio aveva misurato un paio di mesi desiosissimi, senza pace, senza voler più un amico, con una dolcezza e un tormento solo, dopo che Lei, Giulia, su quel ventaglio istesso, all'ultima festa da ballo aveva fatto scrivere per promessa una devise col certissimo toujours. E Gigio un giorno aveva succiato un bacio sulla manina paffutella di Giulia, e Giulia aveva sentito dal geloso gorgeretto per la spina della vita correrle un brivido d'amore. St, st, st. L'ho detto sotto voce e nessuno ha capito una parola, neanche quelli che hanno mangiato i vostri confetti, birichini). La storia è breve: aravate anime gentili: vi amaste: e, grazie a babbo di lui, a mamma di lei, eccovi i più dolci sposini nell'aspettare la felicità della felicità.
Dunque il bimbo d'altri era sulle vostre ginocchia, un idoletto su un altare.
E voi, a due voci:—Bello, bellissimo, a chi vuoi bene? A me o a lei? A tutt'e due istessamente. Bellissimo, chi sa come la mamma gioca con te! E il babbo? Ti vogliamo tanto bene anche noi. Danne dieci baci per uno….E come hai nome?
—Guido.
E qui, alla risposta di quel biondino, ecco il bisbiglio tra voi due:
—Sai, sposuccio mio, Guido è un nome gentile di maschietto…. di maschietto!
—Perchè sorridi, Giulia?
—Sempre daccapo a scherzarmi! Perchè?… Ma vedrai, giusto!… Mi ci metto, Gigio, di puntiglio!
—Magari….
—Scommettiamo, Gigio? Scommettiamo un cavalluccio con quattro ruote rosse, il primo balocco?
Il bimbo udendo a parlare di balocco, esclama, allargando le manine:—Per me?
E Giulia:—Sì, caro, anche per te…. Ma, ora che ci penso, sai, quelle vernici lustre su tanti cavallucci sono avvelenate. No, no: ci vuol giudizio, noi mamme!
Gigio, con un fare impaziente, come se dicesse: «Giulia, sei cattiva, lentissima e scompiacente,» Gigio, un po' malizioso, spicca le parole:—C'è tempo.
—E pazienza! Ma scommettiamo?… Stassera non m'hai ancora domandato che cosa pensi io…. Io penso che…. dev'essere un maschietto—e la sposuccia, col mignolo nella bocchina, sorride da inviziatella, simulando un gran mistero: poi da bambina:—Mi porteranno un maschietto, se avranno un po' di giudizio…. perchè lo desideri tu, Gigio, perchè lo desidero io.
—Capisci….
—Capisco benissimo.
—Tutti desiderano così: e poi le cose bisogna pensarle, perchè…. Adesso siamo qui in faccia al mare, ma poi torneremo in città, e…. E passeranno gli anni, gli anni, gli anni. Ho già lo studio avviato, i clienti, il nome, sicuro.
—Gigio e Guido Augeri.
—Adagio, adagio.
—Perchè?
—Ma che cosa si è detto tante volte a tante?
—Che cosa si è detto, Gigio?
—Che le usanze vanno rispettate, che al primogenito io voglio….
—Vuoi….
—Al mio primogenito babbo vuole si dia il suo nome.
—Perchè lo dici ancora?… Ma…. Guido è un bel nome, e se è bello, se piace a me, se deve piacere a te….
—Ma non è quello di babbo,
—Ma….
—Non te l'ho detto anche ieri a notte?
—Cattivo, perchè mi guardi così?—e Giulia fa sporgere dalla gonna un piedino, poi appoggiando sul tacco altissimo a un ciottolone, lo move febbrilmente, come una linguetta di serpentello tentatore.
—Eccoti imbroncita—disse Gigio torcendo il collo ad un bottone.
Qui un minuto di silenzio.
Ricomincia lei con voce piagnucolosa e compiacente:—Guido è tanto bello! A dire «Guido, fammi un bacio. Guido, va a scuola. Guido, scappa i pericoli….»
—Guido! Guido! Guido! uff!
—Sì, sì.
—Mah!
—O Guido o niente!
—Guido, scappa i pericoli! Sicuro: e il maggiore…. quello di prender moglie!
—Sicuro: certe testoline!… Ma come corri? Già un figlio che prende moglie? Ma sai che…? Non rispondi? Che cos'hai?… Eccoti imbroncito: a te: alle solite…. bisticciandomi, perchè?… E la cosa dovrebb'essere tutto affar mio. Lei come c'entra?… (Non risponde?…) Oh non risponderò più io, quando mi chiamerà: ed è lui che mi chiama! Ma voglio dire, sì, si: se suo papà non vuole il nome di Guido, la mia mamma è più buona, e desidererebbe che il suo nome di Bice…. Le usanze vanno rispettate…. E chissà che, pensando a lei, sempre a lei, con tutta intenzione, io possa accontentarla…. e pregando la Madonna: già la Madonna ascolta noi donnicciole, eh?… (Tace sempre!…) una bambina mi piacerebbe di più, mi farebbe maggior compagnia, una massaìna, cucirebbe con me e vorrebbe tutto il suo amore alla mamma, perchè già degli uomini….
—Già.
—E se mai…. Vorrei conoscerlo a fondo quel giovinetto che le mettesse in subbuglio il cuoricino!
—Oh come? Una figlia che prenda marito?
—Già….
E dopo due minuti di silenzio dispettoso, tu, sposuccia, accomiatando il biondino, senza un bacio, gli dicevi:—Va, e mandami qui subito subito quella bellissima fanciullina, quella là che corre: la vedi?… Com'è cara!… Tu va, e mandami lei, di' che l'aspetto, la desidero, la voglio!
E il bimbo:—Sissignori….
E Gigio:—Sissignora.
Il bimbo, aspettando i confetti, vuol farsi un merito di più e aggiunge:—Si chiama….
—Come si chiama?—sospira Giulia.
—Bice.
—Oh che combinazione!—diceva lo sposo, mordendosi i baffi:—L'educazione, le mamme, i capricci, il mare, questi marmocchi, il matrimonio: cose serie! Credete di mettervi tranquilli e che tutto vada secondo i vostri desideri?
Mentre la sposa, come una cingallegra, chiacchierava tra sè:—Ecco che ci penso! Le vestirei un abitino americano scollato, in bazin bianco, a davanti principessa, rigato a pieghettine…. sì o no?… poi una larga cintura in surah ciliegia, annodata di dietro a lembi sciolti…. Oh il cappellino? Capellino a tese rivoltate…. Sei qui, cara, carissima bimba?
Gigio colla punta del bastone schiacciò lì su un sasso una povera formica, che, cammina, cammina, cammina era venuta in quattordici giorni da Pegli sin presso allo strascico profumato e inamidato e frusciante di Giulia.
Voltri.
Questa via discende e non ha fiori: questo crepuscolo infosca ed è silente. Passate e cantate: passarono e cantarono le mamme vostre, precipitarono e tacciono: e le nonne e le bisnonne.
Passate e cantate. Avete fiori nelle treccie? Fiori di cimitero. Avete gaia nota d'amore sulle labbra? De profundis.
—Tu che vuoi la massaina, tu prega la Madonna a capo al letto, tu che eri sì divota in monastero—certo così avrà detto lo sposo, e sarà rimasto tutta notte al tavolo a scrivere lettere al babbo, avvertendolo di quel desiderio capriccioso della nuorina. Certo lei avrà disciolte le treccie, pungendosi colle forcelle, avrà spento le candele della toletta, trovandosi allo specchio brutta e cattivaccia, avrà tossito per implorare compassione…! Certissimo sarà nato quel che sarà nato, perchè al mattino alla spiaggia i due sposini (o amanti più che pallidi!) venivano ognuno col suo parasole, ognuno col suo ventaglio, ognuno col suo dispetto sulle labbra.
E andavano nell'acqua restii e paurosi…. Oh vedi! Lei a un tratto si lascia andar giù, il collo, il mento, la bocchina, con uno sforzo, giù! fino alle nari! L'acqua verdissima in giro alla testa sembra stringerla con cerchi d'argento, scoppiano le bolle d'aria spumeggiando e le crespe dell'ondina trasparentissima svelano le carni bianche sommerse, con certi guizzi fuggenti!
Lo sposo, gittandosi rapidamente sulla dispettosa, sommove tanto i fiotti, sì che questi gli nascondono anche gli occhietti semichiusi e trepidanti. Poverino! Egli caccia sotto le mani e solleva su la personcina.
Lei, la bellissima, tosse infantilmente, mostra il seno commosso, e sorride spaurata, tra il gocciare dei capegli e delle mani tersissime, giunte in atto di chi ringrazia.
—M'hai dato uno spavento!—disse Gigio.
—Oh niente! Non so com'è stato! È niente sai? Per me, per te…. Ma se m'avesse veduto il mio Guido, allora sì, povero Guido…. che non c'è!—dice lei.
—Avrebbe pianto colla sorellina…. che anche lei ci sarà—aggiunge compiacente lo sposo.
—Guido e Bice?—conclude la sposa:—facciamo la pace.
Uno per uno: non c'è che dire. Ma si accontenteranno quegli sposini? Amoroso, amorosissimo idillio!
Spiaggia di Cornigliano.
—Da dove venite?
—Dalla marina.
—Lavaste i pannicelli?
—No.
—Calaste giù nell'acqua fino alle ginocchia, gaie bagnanti?
—No.
—Tuffaste i fratellini nell'onda?
—No.
—Aiutaste i babbi a tirare in secco le barche?
—No.
—Recaste a casa le reti, le vele, i remi?
—No.
—Oh che faceste?
—Aspettiamo.
—Perchè?
—Speriamo.
—Fanciulle mestissime, non invidiate le fanciulle cantanti. Per esse e per voi questa via discende e non ha fiori: questo crepuscolo infosca ed è silente.
Il mare, il cielo, i monti, tutto è d'un azzurriccio-perla.
Una barca peschereccia da prora a poppa è ninnata bel bello, come se in essa stia assopito un bambino inviziato al petto della nutrice. Non ha vele, nè remi: la linea di sommersione è quasi fosforescente: dal bordo filettato di luce vien giù la catena dell'ancora a perdersi nelle smorte profondità, colle anella pallide, intorno a cui danno del muso i pesci, s'appiccica qualche floscia medusa, e si gonfia alternamente l'onda. Il catrame spalmato, il legno stillante di globulini d'acqua, il ferro degli attrezzi riflettono l'azzurriccio-perla. Fumiga in prora un lampione spento, con una striscia nerastra e grassa che si sfilaccia su nel freddo aere…
Dal fondo della barca si è svegliato il pescatore, e sorge anche la sua donna: serenarono felici; lui, attuffato nel sonno; lei dormicchiando a gomitello.
O fanciulla, fanciulla, mia bionda fanciulla! Quand'io, melanconico e sorridente, vorrei dirti:—Vieni al mare! Ti mostrerò il cielo su cui si smorzano l'ultime stelle, e tu mi dirai le tue poesie d'Iddio e dell'amore!—in quell'ora in cui il tremolio antelucano dei colori aperti bacia nell'anima i desideri castissimi, il pescatore grida alla sua donna:—Su, rappezziamo le reti.—S'ella si stropiccia gli occhi, egli, scherzando, le tende le manacce: sulle palme luccicano le squame dei pesci: ecco un cielo stelleggiato: sulle palme contando i soldi, n'andranno le squame; ecco l'alba….
Nella barca si drizza uno stendardo di reti: le maglie rossastre dondolano fiaccamente sulle sfondo de' monti, del cielo, del mare, tutto d'un cangiante celestognolo che ai primi raggi si spolverizza d'oro da ventiquattro carati….
Vado.
—Bisogna metter giudizio, figliuolo caro, e…. almeno almeno, mi dico io, visitare i Rr. Pp. Scolopi di Savona.—Sì, sì, quando ci ritornerò: ora a Savona ho date le spalle, sono ad un'osteriuccia di Vado, dove aspetto l'omnibus che mi faccia viaggiare verso il formidabile capo di Noli. Sì, sì…. Oste, o l'oste, dammi un bicchierino!
Sono a Vado: Vada Sabata, Vada Sabatiorum, o Sabatium, Sabata, Sabatium. Sabatium era costrutto sulle falde del monte: al basso appestavano l'aria le tristi paludi. Sia che il mare si discostasse dalla spiaggia, depositando un guanciale arenoso, sia che Adriano o Antonino o Augusto quivi dessero mano a lavori suntuosi per continuare la strada Emilia Ligustica, il fatto è che la città s'accomodò sul lido, prese il nome di Vado, crebbe, si stemmò poi colla mitria arcivescovile e….
Ho dimenticato qualcosa pel mio professore dagli occhiali d'oro, che mi tiene la sua santa mano in capo?
No: il latino c'è: Bruto che scrive a Cicerone, parlando dei Vada Sabatiorum: «Constitit nusquam prius quam ad Vada veniret, quem locum volo tibi esse notum. Iacet inter Apenninum et Alpes impeditissimus ad iter faciendum.»
* * *
La costa di Vado mi appare arsiccia. Sotto quest'ora prossima al meriggio, tra i visacci bruni che popolano l'omnibus (tutti visacci!), sporgendo il capo da una finestretta, nel polverone, vedo qualche palma che si allunga e si strataglia sulle nubi focate, sorgendo tra mezzo a casette calcinate dal sole, e poi nelle lande ferrugigne qua e là delle grandi fornaci che mi sembrano moschee, dadi stracotti col cupolone di creta. In fondo, alla spiaggia, i colori più caldi sono come ruvidamente tagliati fuori dal quadro da una spranga di turchino buio, azzuolo, più che azzuolo, dal mare che a st'ora addensa un colorone, quale non è su alcuna tavolozza.
Davanti a questo spettacolo non c'è pace, non c'è ammirazione.
No: l'anima mia s'ammala di desideri, e, ferventissima e impotentissima, ribolle e si spossa d'inutili sogni. O mare! o cielo! o sole! E voi, Aquiloni della Grecia, Marôut dell'India, Keroubim della Giudea! O vento del Gulf Stream, vento elettrico del Giappone, vento dell'equatore, pampero del Chilì, harmattan dei Cafri! Mare, dove ti perdi? Tu, cielo, quanti dii alberghi, all'insegna del sole, delle stelle e della luna piena?… Voi, venti, quante preghiere dissipate nella pazza vastità degli spazi?
Vorrei sedere alla spiaggia…. e vorrei credere…. e volare e salire….
Oh chi sale l'omnibus?
La marinara col guarnellino di telaccia gropposa.
* * *
Vorrei credere?… Credere?… Mi sento in capo il turbante che mi stringe i polsi…. Chi m'ha fatto mussulmano?
Al mattino saluterei il sole che m'arde le carni: il mezzogiorno l'udrei bandito da un pinnacolo della moschea: e la sera…. Se alla sera fossi ancora alla spiaggia, colla fanciulla dai nerissimi capegli, pregherei il mare che mi strappasse anche il corano e le speranze! Tuffatevi, Uri, tuffatevi: se m'aspettate oltre tomba, avvinghiandomi, fareste crecchiare un bel carcame!
* * *
Che aria arroventata! Che colori taglienti! Che scabbia m'ho indosso!… Dove sono i miei acquerelli? Vorrei stemperarli nel rhum!… Intanto vi racconterò un'istoria, intanto che l'omnibus trotta, trotta, trotta. La racconterò a te, bronzina marinara. E ti guardo!… Devi sapere che da noi, nelle città fredde, dove si vestono i velluti e le pellicce, si usa leggere dei libri di poesia stampata, e si fanno dei versi per una fanciulla. Oh! le fanciulle sono smorte, clorotiche, pensose, quando escono di collegio. Noi giovinotti per loro… per loro! diventiamo smorti, poeti e sospiriamo! C'è un amore, un perpetuo crepuscolo, che dicono…. che dicono…. ah platonico!… Tu non sai, marinara brunetta?… Ti dirò che una fanciulla bionda, la mia fanciulla che mi cantava le poesie d'Iddio e dell'amore, m'ha fatto piangere, e m'ha ammalato a letto. Mi offriva vaniglie, viole del pensiero, versi francesi, e sorrisi da santa Cecilia l'organista…. O marinara brunotta, sai che ti guardo e ti guardo!… I miei colori sono sbiaditi per il tuo ritratto. Dammi i tuoi: il nero de' tuoi capegli, la bragia delle tue carni, il verde-abisso delle tue pupille… Tu vuoi scendere dall'omnibus? Vengo con te! Andiamo sotto una palma. È troppo vicina a casa! Andiamo alla spiaggia. Insegna la strada a un povero forestiero. Andiamo alla spiaggia, o che ti strappo il guarnellino!
Mi pare d'essere alla spiaggia… Sì o no?…. Il mare!… Venite, o poeti, giullari dell'ignoto: venite, o filosofi, perpetue gocce, che non cavant lapidem misterii: sibille, ossessi, dogmatici, pittori, idealisti, realisti, ed ubbriachi… No! nessuno di voi venga: di nessuno ho bisogno per abbuiarmi la mente: è già tutta una cappa di caligine: le vostre lingue di fuoco, passandovi, v'hanno lasciato un negro bacio. Facciamo un falò di tutte le bugìe delle scienze e dell'arti: sarà il faro a chi viaggia sull'immenso mare. Quanta vanità!
Il mare!… È bello: ma a lui tendo le braccia invano. È infinito: là, là, sempre là, là, non c'è l'amore, ma la schiuma e l'amarezza: in fondo? giù? Mostri, schifosi polipi, ossame e putridume… O marinara brunazza, lasciami giù vedere la medaglietta che hai in seno. Ami tu le stelle? Nessun poeta ha potuto infilzarle per farne una collana. Ami tu l'alba? ami le tinte azzurrine-perla? Non reggono alla lascivia.
Ma guarda che mi vien da piangere!… Stamane l'ho veduta una certa marina, ma ero solo. Adesso sono con te. Su, su, allegria! E tu cantami, chè voglio essere assordato, tappami gli occhi, rubami quel libro di poesie e di sorrisi… Mare turchino buio, azzuolo, più che azzuolo: tinte ubbriache…. Tace anche l'onda… Tu canti:
Lauda, Saona, lauda Dominum. Viri Vadi fundaverunt eam In tempore dispersionis eorum.
Ma come stridi, marinara, che ti sei fatta mesta? Questo è latino di chiesa? Canti così? Sei consorella? Non voglio più sorelle! Cambia tono, e vinci la tinta del mare colla voce…. Musica e pittura!… Voglio la canzone che canti con tutti i pescatori della spiaggia! Non sono, ve', geloso per una femmina!?
* * *
—Dove vai?—grido io spaventato:—Mi lasci proprio adesso?—Mi dia il mio guarnellino—gridi tu.—Dove vai?—È mezzogiorno: vado alla fornace.—Alla moschea, là?—Sì.—Chi c'è?—Il mio babbo.—Le Uri non hanno babbi….—E poi pensandoci: e sono tutte bianche, e vogliono guanciali con piume di cigno e non ghiaia, sigarette muschiate non pipe, e pascià…. non scolari di Scolopi….
Se alla sera fossi ancora alla spiaggia colla fanciulla nerissima, pregherei il mare che ci sguazzasse un po'. Che sbuffi da cratere! Che luna color di rame! Che bruciaticcio di fornace!
Oh poveretto me! non ho abbozzato una macchia: il mare avvalla, la spiaggia si slontana…. Dove sono? A chi racconto la mia istoria platonica? A chi comando un altro bicchierino di rhum?
Ahi!… ahi!… ahi!… Che altalena è questa?
* * *
Poscritto. X luglio. Vado.—Scrivo colla mano sinistra, perchè la destra l'ho trovata avvolta in una benda di telaccia gropposa. L'oste mi dice….
Non capisco quanto tempo è passato: capisco però che è sera. L'oste mi dice che non ho pagato il mio posto nell'omnibus: sono disceso, cioè, sono cascato, perchè sento anche le due ginocchia ammaccate e non trovo più l'albo. E mi vedo in conto, qui all'osteria, rhum, rhum, rhum…. Che diamine! Sotto questo sole di mezzogiorno il bevere così è cosa pazza da far commettere colpe, altro che acquerelli!
Ho perduto l'alba. Buon per voi: c'erano dei grandi foglietti platonici.
Vi è un'ora in cui la spuma del mare si fa cinerea, pare densissima e senza luci.
È questa in cui io giaccio alla spiaggia su una lingua di sabbia.
S'io mi adagiassi supino, sentirei il capo profondarsi lenemente, e forse qualche onda, s'io allungassi le braccia in croce sul dolce declivo, verrebbe a intepidirmi le mani.
In questa soavissima postura, con voluttà i capogiri mi farebbero provare quella sensazione unica—come se l'anima fuori uscisse dal corpo oscillante e anch'essa si dondolasse sull'acque…. È uno scherzo? un'illusione? Non so. So che realmente c'è un riposo, un oblìo, una cupidità di pace, un finire stanco dopo tante battaglie. Se il vento sperdesse l'anima sui colmi dell'onde, se i minimi rimasugli vanissero all'infinito!… Non è la morte, non è la distruzione, non è il funerale! Senza cataletto, senza chiovi e segatura, senza la marmaglia dei parenti, le torce, le portinaie e i numeri del lotto! Mormora il mare d'intorno: e sopra l'altissimo cielo fonde gli azzurri…
Pace, pace: nulla sul mare, nulla in cielo: non una barca favolosa che raccolga l'anima pellegrina per portarla a nuovi lidi, non l'angiolo sognato che aleggi per me… E perchè mai? Qual fanciulla piangerebbe?… Nulla sul mare: nulla vi è in cielo. Vorrei morire….
L'alga, dolcemente sospinta dal fiotto del mare, venne, venne, venne, e fu portata alla spiaggia. L'alga s'illanguidì e disse:—Nella solitudine è la pace. M'era stato prescritto un viaggio dal destino; io non mi affrettai: non avevo vele, nè remi; io sono giunta.
Il mare finisce con una lista nera di lavagna: l'aere giallo-infaonato al basso si colora d'un riflesso di luci crocee, all'alto si stinge nella dispersione dei cieli…. Sulla spiaggia l'onda insurge: il mostro d'acqua è sudicio, oscuro: solo la cresta arruffata stacca sull'orizzonte e riceve l'ultimo lume del giorno: le lame si rincorrono sulla ghiaia, sovrapponendosi coi cumuli di spuma ribollente, formando quasi i mutabili scaglioni di un'amplissima scalea….
L'onda culla i miei pensieri: l'onda rotola un cranio.
Pegli. Hôtel Gargini.
—Ed ora, signora marchesa, le schizzerò il figurino per la festa da ballo dell'Hôtel de la Mediterranée. Festa di beneficenza, già s'intende. La duchessina avrà trentamila lire in diamanti: la baronessa in abito di taffetà brillante verde-luce…
—Nel campo della moda nulla di nuovo. È molto se le signore stesse pensano all'avvenire: le opinioni di quelle che fanno legge in materia di toletta sono così contradditorie!
—È vero!
—Così contradditorie in questo momento ch'è impossibile di riassumerle.
—Impossibile!
—Una grande battaglia si combatte fra le gonne lisce e le tuniche….
—Dunque? Senta, marchesa: una guarnitura in luppolo rosato, con fogliame verde, ch'è una meraviglia, la pingo sopra un abito di tulle bianco o bleu pallido…—e via discorrendo, disegno la gonna lunga davanti, non osando in faccia a lei accennare quella moda insidiosissima….
—Che ora è?—dice lei.
—Dodici ore.
—Di già? Scusi; sono stanca e mi ritiro.
—Marchesa….
—Felice notte.
—Marchesa! Marchesa! Chi non la vede? Lei è una bellezza fresca, rosea, inzuccherata.
Dal salone dell'albergo, cui corrisponde la sua camera, sento la sua gonna frusciare elettricamente, sento il suo uscio richiudersi, sento per un pezzo i suoi passolini. La cameriera infine reca fuori gli stivaletti, alti, traditori, tepidi, e li lascia proprio sulla soglia.
La fanciulla del mattino fu un sogno, quella del mezzogiorno un delirio. A sera ho desiderato di morire: a notte?
La cameriera dalla stanza reca fuori le profumate biancherie, un nuvolo di trine, pieno di lampi.
—Felice notte!—mi dice anche lei, con un certo sorriso…. E quand'io mi levo dal tavolo, vuole accendermi il lume.
Monti di Sestri.
O chiesina, se in te prega a quest'ora la giovinetta montanara, fa ch'ella sorrida guardando il bambinello della tua Madonna! O chiesina, che sei detta di Virgo Potens!
Passato per lungo il borgo di Sestri, io mi incammino sulla viottola montana a tondi ciottoloni, tra i bigi murelli delle vigne sprazzate d'ombre tremolanti, fra le gioconde trasparenze del fogliame delle viti e i frastagli pallidi degli ulivi mestissimi: vedo i sentieruzzi fra le siepi verdeggianti che strisciano giù giù alla valle, o che cogli scheggioni lucenti s'inerpicano alle case nascoste ritrosamente fra i macchioni dei querciuoli. Giungo all'acquedotto colle stillazioni bisbiglianti: ed ecco il mulino. La scabra facciata ha gli arcucci soffogati, la portella infarinata, e giù in fondo a questa nella fresca semiluce il tranquillo girare delle ruote goccianti: ha la finestra bianca coi garofani della molinara, i mattoni a mezzetinte sudice, il fumaiolo coi due tettucci fuligginati. O Santa Madonna, che ti stai dipinta sotto la gronda, tu cadi a poco a poco! Le rondinelle a beccate godono di tue scalcinature: le rondinelle fanno le nidiate: o santa Madonna, benedici le nidiate e avrai vespri e mattutini di innamorati… Ti saluto e passo: passo sulla stradetta che si schiara al sole più gaio che batta di luglio sui ciottoli bianchicci: nè più vi sono murelli a destra, nè a sinistra: ma invece là il bosco che va su con dolce pendìo, qua la valle e il monte opposto: e vedo le casette arrampicate, coi tetti di lavagna, sfacciatelle ed avvistate, come alle feste i pezzotti delle tue donne, o riviera genovese; vedo le muriccie sgrigiate, diritte, a rustica scalea, e sopra, i festoni delle viti; le brigatelle di palazzine e i romitorî dei vignaiuoli; i prati coll'ombre sparse dei mandorli e dei ciliegi, i colti allistati, gli orticelli copiosi, i giardini variopinti; vedo le chiese tra le nebbie azzurricce del mattino, come tra gli incensi, le cappellette, su, quali pecore sbandate, sul ciglio della frana squarciata nel monte, a segnare la via al santuario. O santuario sull'estremo cocuzzolo del Gazzo, che di giorno vegli la vallea collo sfavillar della tua crocetta, e che di notte vegli sonnecchiando col lumicino minutissimo, se in te prega a quest'ora la monachina bianca, fa ch'ella pianga, guardando il bambinello della tua Madonna!… Io ti saluto dal mio sentiero e passo: cammino, sorrido, e vengo a te, melanconica chiesina delle sante litanie. Hai la gradinata su cui la vergine molinara ascende col libricciuolo nelle mani, col marinaio in cuore: hai la piazzuola col parapetto a sedile, da dove i giovinotti guardano innanzi la vita, sperando: hai la salita coi mattoni a spinapesce e i filari dei cipressi, sulla quale i vecchi la guardano indietro, invidiando. Andate, andate alla chiesina: voi ci vedete la bara: costoro che vengono dopo ci vedono il battesimo…. O bella gradinata! o bella piazzuola! M'affaccio dal parapetto e contemplo…. Il mare! giù, oltre la valle, come una fascia scintillante tra i vani delle case Sestrine, tra gli scheletri dei bastimenti su pel lido, tra il fumo delle incessanti officine. Oh mare d'acqua benedetta! Insidiosa d'ozi e d'amori, bellissima riviera genovese!
Anch'io ascesi la gradinata, mi fermai sulla piazzuola, anch'io venni su per la salita alla chiesina del marinaio…. E vidi i voti: chi v'appese un nastro, chi una corona, chi un rozzo bastimentino, chi una fune, e un pezzo di vela….
Anch'io pregai: anch'io vi posi un fiore….
* * *
O Virgo, hai le virgines. Sei chiesuola tutta bianca, a battenti spalancati, con note d'organo dolcissime. Siete monachine vestite di nero, avete nero cappuccione che vi cela il volto, sfilate silenziose dalla porta segnata di croce alla chiesuola.
O monachine, io entrai sotto l'androne freddo del vostro monistero, e vidi una finestretta e su quella era scritto Parlatorio. Oh con chi parlate?
Giù alla spiaggia cocente, alla palizzata che chiude il bastimento in costruzione, vidi una fanciulla bisbigliante ad una fessura. Era la marinarina: e fuggì e riprese ad empirsi il grembiale di scheggioni di legno. Su quella fessura non era scritto Parlatorio. Oh con chi parlava?
* * *
Stando io sulla piazzuola e guardando innanzi, vedevo in fondo alla portella paonazziccia per l'incenso un lumicino, e guardando indietro, indovinavo nella zona nebulosa, che a sera fonde e mare e cielo, un altro lumicino.
O monachelle, io penso che, dal chiostro passando alla chiesuola, nelle stellate notti primaverili, io penso che a tante di voi, tra le lagrime di consunzione, nella preghiera inavvertita e confusa nel canto delle compagne, collo strascico delle tarde litanie, il vostro lumicino dell'altare parve la piccolissima facella accesa dal pescatore a sera, quando voi, gioconde marinarine di un dì, candide e furtive nuotatrici dell'ora bruna, avevate la croce al collo e non sul cuore, croce d'argento e non croce di spini: la facella spiata nell'attesa soavissima e impaziente!
O pescatori, io penso che il vostro lumicino di prora vi fa pregare ed è come posto dinnanzi ad un altare, se la barca è drizzata al paesello, alla casuccia, forse alla finestra di lei, se il tuffo ninnante dei remi, al sussurro sospiroso del mare spianato, s'accompagna alla canzone che non suona, ma che blandisce il desiderio della fantasia.
Se voi, monache, se voi, pescatori, siete vecchi, non va disperso il mio pensiero. Non l'ho avuto per voi.
* * *
La campanella di Virgo Potens non suona mai da morto! Non dice mai:—Don, don, don. Vedi: pel funerale lo scaccino moccioso apre l'armadio rosso di sacristia e contempla le torce, pensando che la provvidenza dei poverini, mandando una giornata ventosa, farà stillare giù le grasse goccione di provento. Vedi: suora Brigida e suora Agnese fanno ronzare i vetri grigi della chiesa, strascinando le due panche, il seggiolone e i quattro candellieri di ferro. Suora Lucrezia sbatte la bianca coltre polverosa sull'erba delle quiete tombe. Suora Maria nell'orticello ha già colto i fiori ch'erano per l'altare bianco, e suora Margherita sul leggìo dell'organo ha già aperto la musica del de profundis. Vedi: le novizze nel corritoio si bisbigliano. «Quella nostra povera compagna l'aveva nove Madonne benedette nel libro della messa, e a capo al letto il san Giuseppe della buona morte. Oh speriamo!» E l'abbadessa, sola, sul poltronone, s'incomincia a dire. «Eppure l'era una buona figliuola! Potevo darle la cella meno umida e lasciarla al Parlatorio un po' più: potevo permetterle che cucisse la vesta d'oro per la nostra pia protettrice e dirle qualche buona parola!… Requiem eternam….»
La campanella non suona mai da morto! Non conta mai quelle istorie piagnolose e lugubri: ma sempre suona a festa: e, se una monaca è all'ultima avemaria del rosario di questa vita, suona a doppia festa.
Io vorrei essere lassù tutto l'anno, a quella chiesuola, e vorrei su quella gradinata, su quella piazzuola, su quella salita, andare innanzi passolino passolino, facendomi il poeta dei crepuscoli, e vorrei coll'anima illanguidita della sera, vorrei pregare la Madonna. La campanella non suona mai da morto! E vorrei….
No, no: campanella, addio! Tu non suoni mai pei battesimi.
Monache e fanciulle, sapete che la Madonna vuole il bambolino.
* * *
Al tramonto, nell'ora in cui la campanella, sotto il tettuccio di lavagna, suona verso la valle, suona melanconica e credente, come una novizza in cantoria, se un biondo raggio di sole, entrando per la portella aperta, giungesse a baciare il sorriso della tua statuina, o chiesa del marinaio, se un soffio d'aria fremente dalla marina traesse un lamento da una canna dell'organo soavissimo, se la canzone del pescatore venisse a morire tra i fiori dell'altare candido, o Virgo, in queil'ora in cui anch'io mi sento buono e confidente, vorrei sedere su i tuoi gradini e sorridere alla bianca melanconia, e sorridere coll'ultimo sorriso….
Una monachina mi troverebbe pallido e dolcemente morto, come se in una visione amorosa io posassi inebbriato in un bagno di profumi, e mi preparerebbe la verginea bara della sua sacristia, la candela benedetta, la croce d'argento, il libro del de profundis, la corona bianca col velo a stelle di talco…. Sarebbe bella o brutta la monachina?… La monachina forse penserebbe: Egli aveva vent'anni! E gli facciamo il funerale!
E tu, gioconda, fastosa, pomposissima bagnante, che hai scherzato con me? Forse tu nemmanco muoveresti un passo a porre un filo d'erba odorosa sul mio capo agghiacciato dopo tante febbri. Forse tu diresti: Non so quali sieno i fiori di cimitero.
Sono i più gentili, e non sono per te.
Mare e cielo.
L'acqua del mare giace bigia e tranquilla, e sembra tratto tratto alzarsi con una oscillazione sola, vastissima, dispersa. Là dove la nostra fiacca pupilla dice:—è l'orizzonte—con un dolce movimento tremola una bianchezza lattea. Ma là non c'è la linea, il confine, la nostra imbecillità; là regna un deserto di luce, un'amplissima curva che si perde in un'altra curva, che finisce alla terra…. E il cielo dove incomincia ad essere azzurro? Dove finisce?… Perchè? perchè? perchè?… Quanto sperpero d'aria, d'acqua, e di pensiero! È l'infinito: tanto ne sa il teologo, come il chimico: quello freddamente lambiccante Dio dai volumi di san Tomaso; questo trionfante sulle sue formole che nulla hanno creato e nulla creeranno: tanto ne gode il poeta, il quale dall'Arte non trae che patemi; quanto il marinaio che dal mestiere guadagna il pane….
Mare e cielo! Vorrei correrli tutti! Essere un'onda spinta e risospinta, per vagare e vagare, per mutarmi in un fiocco di spuma al collo di un'ondina, e formare una collana di perle: essere un millimetro cubo di gas, per vagare e vagare, e correre ad accendermi vicino alle stelle d'Iddio…. Pavoneggiarmi un minuto, esser bello, adorare il Paganesimo, adorare il nostro Ieova, aver veduto il mare, il cielo…. ma finire! O Natura, per carità, lasciami finire!
Sull'acqua c'è un fruscìo: se si spazzolasse un drappo serico di mille miglia ci sarebbe l'istesso effetto sulla ghiaia che sorbe l'onda. Il cielo si vela biancamente, e, checchè ne dicano i signori professori, sembra, dove l'occhio nostro lo guarda, scavarsi in abissi profondi e vibrare con milioni d'atomi azzurri, di contorni indecisi, di ghirigori trasparenti. S'accende la luna: mezza luna, scema a destra, sbiadita, oleata…. Per compagna le pende vicino una stella, la punta di un dardo arroventato, che scocca raggi all'innanzi….
Chi sono io?… Chi sono!… Tutto tace…. Il mare ha coscienza di questa sua poesia? e il cielo?…
La massa salsa ed amara è la stupida materia: non insulto la luna, le stelle e lo spazio inafferrabile dove neppure i palloni sanno approdare, ma…. Deserto è il mare: deserto è il cielo: deserta l'anima mia. Il navigante ha la sua mappa in quel deserto: l'astronomo la sua tavola nera: la donna nell'anima il suo prospetto della dote, controdote, posto in teatro, e paradiso.
Deserto solo vi è dove vi è la noia della vita.
Pax.
Vicino alla spiaggia c'è il fondo basso, e l'acqua non ha colore: è come una vernice che asseconda i guanciali grigi e translucidi di sabbiolina, qua e là segnati dallo strisciare di qualche guscio vivente, qua e là avvivati da qualche scheggia di corallo: nessun'alga. Le fanciulle lavano i ginocchi e le coscie, e ve ne sono di dodici, di quattordici, di diciott'anni. Andiamo in là dove il fondo più s'inchina, sparso di ciottoloni: l'acqua è verdiccia: quando la batte il sole e l'illumina negli strati inferiori, a cerchio ballonzolano grottescamente le iridi sopra i ciottoloni…. Lontano, lontano andiamo, dove non ci sia più fondo, e il concavo dell'onda è turchino come solfato di rame, dove si vegga cielo ed acqua, la torma dei fiotti che non posa mai, la estensione aerea che non dà pace mai…. Andiamo innanzi ancora: lo stesso squallore portentoso dell'infinito.
Un giorno ho sognato la barchetta dell'amore, e, risognandola oggi, per ritrovarla ho detto:—Andiamo lontano lontano, anima mia.
Eccomi dove sognai! Ma la torma dei fiotti non posa mai, sotto la estensione aerea che non dà pace. Io voglio pace! chi mi concede pace? Quando l'avrò? Da chi?
Lontano lontano vedo galleggiare una strana barca di pioppo, una cassa da morto, vuota, senza coperchio…. È la barchetta?… Mi vi adagio, apro la bibbia che mi hai dato tu, fanciulla del mio dolore, perchè la mi serva di vela, e, lettore cullato, cappuccino nel gran coro sonante, e viaggiatore insolito, mi avvio lontano dove mi porta l'onda…. Più lontano ancora…. Non ispero incontrarti, o barchetta dell'amore che sognai un dì, no: sulla mia vela è scritto:—A chi molto amò sarà molto perdonato:—sulla tua, o spiensierata, o dorata, o tripudiante, le mercantesse e i mercanti hanno scritto somme e moltipliche col risultato:—Tutto è illusione!
Voi non vi scaldaste al sole dell'anima. Io non avrei il coperchio e fino all'ultimo minuto di mia vita riposerei lo sguardo su quel cielo che ho tanto e tanto amato!
Requiem immensam dona mihi, Mare….
A volte mi sento piccino, buono, umile, senza più una frasca d'osteriaccia alla fronte che di me faccia la parodia di un poeta, senza più i miei vocabolarioni da cui combino le parole per bruttare la carta, senza più quelle vane vesciche che mi appiccico per galleggiare. Mi sento piccino: mi basterebbe un gusciolo di conchiglia, color madreperla, coi bordi occhiuti, per nicchiarmi e fluttuare…. senza abbattermi nella cassa, e nella tartana dell'amore…. Va e va e va!… Addio!… Nessuno risponderebbe. Oh quale felicità! Il nulla, il deserto, l'infecondità.
Se mi cambiassi in una perla! Se venissi a posare sul seno di una dama, non al collo dell'ondina che non c'è….—Ecco un pensiero che ci tenta anche moribondi! Poserei pure…. T'amo! T'amo!… Nessuno risponderebbe. Sentirei i palpiti di quel cuore:—i fiotti del nulla, del deserto, dell'infecondità.
Sii buono,—m'aveva detto la mia povera mamma, quand'io credevo a lei, e solo a lei.
S'io fossi stato buono, avessi baciato i bimbi, amato i poverelli e i fiori, e nel mio studiolo conservato il profumo della mia santa, senz'altro amore, senza ambizione, senza tormento, vedendo la morte lontana lontana, avrei dischiuso la mia porta alla mamma…. che veniva a casa, offrendomi una fanciulla che sapeva pregare…. E avrei vissuto. Ecco la vera pace.
Nella cassa da morto avrei sepolto tutti i libri: e la perla l'avrei gemmata in un anello che stringesse forte…. Ma non sì forte come le mie labbra quando baciano.
Pegli. Hôtel Garcini.
Che cosa è la donna?… La donna ideale pel giovinetto è un flacon d'odore: purissimo cristallo, essenza inebbriante. Chi lo guarda, lo porge in alto e lo adora sul fondo di cielo sereno. Contenuto e contenente riflettono l'azzurro immacolato. Il giovinetto la dice la donna-angelo, e fa delle poesie. La donna reale pel giovanotto, in società, è lo stesso flacon: parliamone bene. Ma il cristallo affaccettato è a suo posto, non alto, non basso, su un vero tavolo da sala, fra una bomboniera, un viglietto di visita, un romanzo e due guanti di Svezia. Ogni faccetta ti riflette un migliaio di cose: civetteria, amicizia, amor proprio, sacrificio, pregiudizi, eleganti convenienze, dispetti, vendettucce… Il contenuto, sempre essenza inebbriante e limpidissima, non si mostra mai qual'è. Il giovanotto la dice la donna-interessante, e fa delle pazzìe…
Monti di Borzoli.
E un dì venni a te, cappelletta sulla montagna.
Avevi la facciata al mare, la scabra facciata su cui il mattino dava rosari di perle colle gocce di rugiada tremolanti sui fili dei ragni; su cui la sera stendeva palii di luce freddissima coi raggi della luna. Io non so chi ti pregava, pallida Madonnina del cimitero; so che non vidi mai fiore, ne' lumicino, so che il marinaio t'ama, o Vergine, sulla prora del bastimento, sculta in legno e tutrice di viaggi lucrosi, so che ti baratterebbe con Venere lasciva se nei porti tu rechi cinque e quella sei!
E venni a te, cappelletta sulla montagna. Tu vegliavi i morti, i morti nel povero cimitero, ove il mattino portava sul vento della marina il fumo delle fervide industrie, ove alla sera le aliuzze stridenti degli acridi tra l'erbe turbavano il lontano soavissimo bacio dell'onda. Io non so chi vi pregava, o morti; so che non vidi mai fiore, nè lumicino, nè croce, so che la requie è squallida tra la vastissima vita, so che il sospiro di un moribondo corrisponde al gorgoglio della spuma perdentesi tra la ghiaia, allo sfaldarsi di un sasso, al battere delle zampine di un insetto, all'aprirsi di una corolla al raggio mattutino. Dico la vita, e intendo quella della natura tutta, che opera dalla polvere dell'ossa del primo animale al fremito della fecondazione nell'imminenza di questo minuto in cui voi coordinate il suono di due lettere; la vita che fu, che sarà: la stupenda attività delle forze, la strapotenza di quella gittata di dadi che si chiama il destino…. E se l'uomo doveva esser parte della famiglia, e la famiglia della tribù, e la tribù del regno, e i regni….—No: fallata è la via, perchè tolsi i nomi dall'autorità minuscola, che si misura a giorni, ad anni. Dirò: se l'uomo doveva essere l'atomo turbinato dal tempo, in questa esistenza complessa della umanità, sia pure e sia fatalmente: ma la coscienza della vita individuale di ogni minuto, tormentata dall'ironia di quell'infinito Tutto, che tutto ingolla, io non so perchè fu data, e a quale ineffabile martirio!
Ero lo stanchissimo viandante; venni a te, cappelletta sulla montagna, e, arso dal sole, cercai un'ombra…. Riposai all'ombra dei cipressi.
Pegli. Hôtel Garcini.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
—Oh, oh! perdoni, ma questo poi no!
—Marchesa, mi ascolti, e non rida, s'io dico: un po' di scetticismo! Lei si spaventa alla sola parola, ma, in pratica, quante volte Lei fu più scettica di me, che oggi voglio scherzare. Dunque? dicevamo?
—Lei diceva….
—Dicevamo dell'amor platonico. E lei ci crede?
—Stupenda creazione della poesia! Platone, imaginando la teorìa sua, unì il cielo alla terra: fece la donna sorella dell'uomo: levò gl'innamorati alla incorruttibilità degli Dei.
—È vero, mah!… E Platone istesso diede esempio, amando….
—Amando…. Come avrà amato lui!
—Amando una donna di sessant'anni. Oh! ma perchè si sorprende, marchesa? Sarà stata un'intellettuale bellezza, pari sola all'ideale altissimo della mente del filosofo. Non crede, marchesa? Ecco la natura umana! Anche lei! ammira la teoria, mi sfiderebbe perchè l'appanno d'un dubbio, ma non amerebbe un Platone di sessant'anni!
—Gli è storica questa circostanza?
—Certo.
—Mi pare….
—La tolgo dall'imbarazzo, marchesa. Platone da quell'amore metafisico calò alla terra, e amò la giovinetta Agatissa.
—Sarà stata bella?
—Ecco la natura umana!…. Dicevamo? Se mi lascia continuare le dirò….
—Dica.
—Le dirò che gli antichi non accettarono la sentenza di Platone: la poesia greca e la latina non sono velate. Sorse il cristianesimo, e illuminò le anime degne dell'Ideale: la gran folla fu travolta nelle turbinose vicende dell'evo-medio. L'amore platonico comparve nel duodecimo secolo, e sorsero i trovatori che inneggiarono la bellezza e i cavalieri che facevano voto di pugnare contro la forza brutale a difesa del sesso gentilissimo. Nei romanzi si disse tanto e tanto, ma…. Una colpa è dei novellieri, i quali crearono tante mandole da far credere che ogni cuore avesse cinque o sei o sette corde armoniche: mentre invece i cavalieri, che partivano per le guerre o le crociale o i pellegrinaggi, trattavano la donna come un usciere tratta un mobile impegnato, coi suggelli e coi visti. Natura umana! Venne il Petrarca:—La bellezza terrena sublima le anime nobili all'amore perfetto della bellezza celeste—e, così strimpellando, cantò, cantò, cantò: ma poteva anche lasciare qualche ninnananna (giacchè ha addormito i lettori) per addormire anche i suoi figliolini, lui…. che…. Messer canonico, chi ve li cullava i vostri, la bionda, la nera o la castagna?—Ogni anima gentile, sì, amando la donna di un altro, o fingendo d'amarla, dalla bertesca dei poeti ne lodava i rigori, i virtuosi rigori, o le compassionevoli concessioni: e così la donna-moglie e la famiglia furono lasciate ai poverini senza garbo, che temevano di avere alle tempia…. l'alloro. Dalla cavalleria platonica l'Italia ebbe l'ordine dei cavalieri serventi: servivano la dama, acconciavano il marito, che li eleggeva leali, devoti, a curargli il sacro deposito. Era il tempo delle calze rosate, delle giarrettiere a ricami, de' nei capricciosissimamente svelati o nascosti, e il servente doveva intendersene meglio d'una cameriera; e il marito saliva in Parnaso, accademico e gingillato, sotto il nome di cortese o di astemio…. Ai nostri dì? Le istituzioni sono varie: non hanno veramente una ditta: il capriccio svolazza fra mogli e amanti: e i mariti, distrutto il Parnaso, salgono agli onori o al palcoscenico. Natura, natura umana! Siamo di creta: gli è il guaio: e se nella nostra creta si fa uno screpolo, chi vi fa capolino? La testa del serpente che tentò Eva. Vede, nemmeno si può discorrere a modo, perchè oggidì la gente va, viene, sta, ride, piange: una confusione!…
—Ride anche lei?
—Dove siamo andati colle ciarle? A dir male dell'amore platonico, di cui fu detto troppo bene. Comincio a dubitare dell'amore platonico….
—Comincia? Grazie: con quello che ha detto! Finisca.
—Finisco con una cattiveria che ho letto in un libro. Sofia era un'amante poetica, ideale: e lui un bravo giovinotto che credeva alla espressione: amo la sola anima: come si vede, di poca esperienza, e sì che aveva due bellissimi occhi. Ma perchè mo' non si deve credere alla sola anima? Natura umana! È tempo di dire la vita com'è, di calare dalle nebbie dell'ideale: sono nebbie che danno le malattie, e queste lasciano il nervoso, e questo ha bisogno dell'idropatia. Dunque? Sofia e Gilberto: storia non mia.—Gilberto dal suo dovere fu chiamato sul campo, combattè, e perdette un occhio. Sicuro, sicurissimo tornò a Sofia: e lei? Fu donna, fece una smorfia che le impedì di vedere una medaglia al valore guerresco.—Ma dunque? non amavate l'anima?—Se gli occhi sono lo specchio dell'anima, come contemplerò io debitamente la vostra, or che ve ne manca uno?
—Ah che scetticismo!
—Che cattiveria!… Ma chi insegna a noi uomini ad essere così cattivi? Marchesa, prendo il cappello, per non essere obbligato a rispondere alla mia domanda.
Oggi il mare ci fa un regalo. Strozzati lì in un canale della scogliera, si contorcono cinque o sei foglietti di carta. All'ora del bagno li vedevamo galleggiare, lucidi abbaglianti: stasera ci portano i numeri del lotto? Peschiamoli e vediamo. È carta scritta. Ma come? ci trovo delle parole, non so…. Prima che vadano a girare prosaicamente tra le gambe delle lavatrici di Cornigliano, peschiamoli e leggiamo, signora marchesa. Sono note? sono frammenti di un libro? Che diamine?… Senza commenti, proviamo a incominciare.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Foglietto I. Nel dì de' morti. Venne nella casa la coltre del cataletto? Venne, come è destino, e si partì. Tutto si partì? Ecco il vuoto: ecco le religioni soccorritrici. Io so che qualcosa si affaccia agli usci, tiene in rispettoso timore i vivi, guarda le gocce di cera sul pavimento o i petali sparsi di qualche fiore o la segatura, fa più triste il silenzio, più desolato il disordine, occupa nessun posto, e li occupa tutti, sorprende nell'aria nauseosa pel fumo delle torce l'ultima preghiera morente del corteo che sfilò, la prima parola di comando che disse l'erede, saluta gli oggetti che saranno dati ai legatari, s'appiatta dappertutto, sbuca dalle pieghe del testamento e domanda:—È finito?—È finito: il morto viaggia al cimitero. All'indomani tutto sarà come prima, come un mese fa, come un anno fa: ognuno ripiglierà il suo posto: pare impossibile che possa essere altrimenti…. O Dio! il posto vuoto è divenuto un altare, e noi aspettiamo lui o lei che aspetta noi! Fede abbiamo ogni giorno: ma quando sommeremo gli anni agli anni, tristissima desolazione sarà quella di accorgerci che ricordiamo un nome ai figli, o ai figli dei figli, che la vicenda della vita fu varia, che il tempo, il quale raschia le iscrizioni sulle croci di cimitero, cala e cala le sue nebbie nell'anima nostra! E noi giurammo eterno dolore!…. Nevicò tanti inverni in camposanto!… E noi? O giovani, noi saremo su un seggiolone, scongiurando la morte che ne stia lontana, o giù tra le quattr'assi nell'eterno buio. E voi, o fanciulle, che leggete sorridendo, avrete fatto portare l'inginocchiatoio di penitenza nella parrocchia e più vicino ogni dì al confessionale e all'altare delle sette indulgenze, o basso giacerete colle mani in croce. Se avremo figli, noi dagli occhi di quelli, quando ci si stringeranno attorno domandando:—State bene?—noi attingeremo gli sbiaditi ricordi di pianti e di sorrisi, e ci interrogheremo sconfortati:—E noi giurammo eterno il dolore?—Se avremo figli, essi verranno sulla nostra fossa e prometteranno di venire sempre: ohimè! pongono una croce di legno: è l'immagine più vera del dolore: essa perde il nome, si tarla, si sfianca, cade, e serve a cuocere la cena alla famiglia del becchino…. Nevicherà tanti inverni in camposanto!…
O giovinetti, o giovinette, ascoltate quel ch'io vi dico nel dì dei morti. È silente intorno a me la campagna: solo le squille di una campana lontana mi giungono attraverso il bosco, come le voci venerande di chi non è più, versandomi nell'anima i ricordi del passato: s'agitano i penduli tralci delle viti, quasi facendomi cenno ch'io mi raccosci sotto i loro padiglioni e pianga: scrosciano sotto a' miei piedi le foglie secche dei roveri, ed ognuna parmi dica:—Così passano e sono calpestate le speranze!—: il vento investe il bosco, e l'ondeggiare delle cime dei pini mi sembra saluto mestissimo dell'autunno che muore…. Addio!…
—Poesia!—suonarono a me d'intorno i fremiti della gran lira di Dio, dalle mille e potentissime corde vibranti in ogni atomo delle cose create. Amore! Dissi sorrisi del cielo alla terra la blanda luce dei crepuscoli e l'azzurra immensità degli spazi dell'aria e i lieti colori dell'arcobaleno. Amore abbracciò! Chiamai vincoli di una unione fecondatrice i raggi solari e le piogge. Amore sorrise! Chiamai saluto il tremolare delle stelle, contemplazione il prodigio delle tenebre, assopimento d'estasi amorosa il silenzio notturno e bacio il riflettersi della luna sulla superficie delle acque. Amore suscitò le divine armonie della natura! Ascoltai voci di un linguaggio inesauribile nei venticelli che accarezzano i fiori e danno al mare il gorgoglio e l'argento della spuma!… Guardai la terra. Amore abbracciò, sorrise, suscitò le divine armonie della Natura. La terra si popola d'animali e si veste di piante. Dall'elefante all'infusorio, dal pardo bellissimo al verme, dall'albero il più spaventoso per mole alla vegetazione microscopica, dalla rosa ch'è la regina della primavera, a quella parmenia che fa orrendi i crani insepolti, passa ed accende e trascina una corrente animatrice. Nozze perpetue nella Natura, sulla terra, nelle acque, nell'aria, sempre l'opera di una potenza ineluttabile, maga divina dalle multiformi trasformazioni. Guardai l'uomo. Amore abbracciò, sorrise, suscitò le divine armonìe dell'anime innamorate. Canti d'amore s'innalzano dalle culle, dai tetti virginali, dai talami: sorride il bambino alla mamma: erra smanioso col pensiero nei labirinti fatati dell'avvenire chi delira per un volto tra mille carissimo o per una larva azzurra figlia solo di cupida fantasia: freme al dolcissimo bacio la sposa e freme il compagno: tra i baci della febbre e la febbre dell'amore è concepito l'uomo nel ventre della madre. Nasciamo per l'amore e per l'amore viviamo!—Ama!—è il fiat divino della conservazione del mondo.
Se il sole dell'amore non ci scalda il cuore negli anni della giovinezza, l'anima si agghiaccia nel dubbio e bestemmia delirando:—Chi sono io? e perchè sono?—Addio, addio, tranquille e sante illusioni di un dì! Nel dubbio voi, fanciulle, consultate e consultate lo specchio: noi, giovani, apriamo lo scrigno: nell'anima inaridita nascono i tossici della solitudine, le invidie: e le invidie per chi? O Dio! per l'amica che sciupò i fiori virginei, gittandoli nella carrozza di un milionario paralitico pei vizi; per l'amico che s'inchinò innanzi alla giumenta d'oro. Addio! È sepolta la giovinezza al suono di due campane:—Odio a noi stessi; odio al nostro destino: è sepolta desolatamente, e se ad essa si dovrebbe porre un'iscrizione, questa sarebbe—Semper pro me. La trista virilità viene innanzi con tutta la ipocrisia della posatezza. Addio!… Chi siete? Siete, o madonne, le arpie in cuffia, e la bibbia vostra è il libro dell'avere: siete, o messeri, i mestieranti e nel cuore avete la bottega la più sozza. Andate, andate per la via fatale che vi è prescritta. Nessuno avrà dolore per voi: e perchè? Ma quando comprendeste l'amore? E l'amore è fede.
Venite, o tranquille e sante illusioni del futuro! O giovinetti, o giovinette, amate e fremete. Accogliete nell'anima il raggio che vibra dalle pupille intensamente fisse in voi: il cuore ribollirà nella speranza, ed esulterà trionfando:—Sono potente! E sono per amare!—Nella religione dell'amore troverete a fratelli i brutti, i sofferenti, i poveri: e farete somma carità con uno sguardo più che con tutte le limosine ufficiali: benedirete al sole, perchè è l'amore dell'universo, e scalda il cedro e scalda la muffa. Venite, o tranquille e sante illusioni del futuro! Baciatevi, o sposi, e fremete. Tra le due teste giovanili ecco la testolina di un bambino. Date fiori nei capegli a quel bambino, sulla culla ove dorme, al seno che lo nutre. Fiori nelle manine di lui che s'alzano al cielo, fiori tra gli occhi suoi e quelli della fanciulla complice dei primi pianti soavi e dei primi sorrisi consapevoli, fiori tra la sua mente e l'azzurro e cadano sulla testina di lei!…—Anche tu ami, o figliuolo? O donna, il figliuolo nostro ama! E chi non ama? E la sua vergine sorride.—Fiori alle vostre nozze…. Amore! amore! amore!…—O figliuoli, ho irrigidite le membra fatalmente. Sugli occhi posatemi un fiore, ed uno sulla pietra.—E si muore! Ma la vita fu vicenda di fiori e d'amore….—E la donna? Come volarono gli anni! La mamma, sempre santa, bellissima, felice, sempre porse fiori e sempre amore. E porge fiori alle tombe…—Andate, andate per la via fatale che vi è prescritta. Chi ama piangerà per voi. Sempre comprendeste l'amore. E l'amore è fede.
E se la fede cancella il dolore a poco a poco è dono d'Iddio. Dico a voi che piangete, a voi che sorridete,
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Foglietto II: Confessioni. Foglietto III: A mia sorella. Foglietto
IV….
* * *
—Perchè non legge più, marchesa?
—Mio Dio!… perchè…. sa lei?… Sono commossa….
—Ha gli occhi rossi.
—Non so…. Ho paura che ci arrivi una brutta notizia…. È un presentimento: chi ha scritto queste cose si è gittate in mare…. Temo…. Perchè furono sparsi quei foglietti sull'acque?… Temo un suicidio…. Chi può avere scritto?
—Si ricorda, marchesa, di quell'artista che a Vado andò in omnibus, chiacchierò tanto e poi perdette l'albo? Il vento l'avrà portato al mare, quell'albo, l'avrà sfogliato, disseminando le confessioni su per l'acqua…. Si ricorda di quel poverino?
—Era ubbriaco!
Porto di Genova.
O Zena procace, dall'Aquasola dominatrice del mare e dei colli di Albaro e degli orti del Bisagno! Zena, gemmata di ville da Portofino ad Arenzano, sullo sfondo degli argentei uliveti o delle montagne boscose, con tanto azzurro di cielo da darlo a scialacquare a mille poeti! Zena, aperta al libeccio che da Spagna ancora spira l'alito infocato dell'arabe fanciulle nel sangue de' tuoi figli Sabazi, internali, ingauni e genuati. Zena, consolata dai ponentelli freschissimi puritani, bruna donna di Lerici, bionda etrusca di Sarzana, Janua antica, perfino le tue fortificazioni mi sembrano fascie e corone d'amore alle pendici caldissime!
Quante volte io volli sapere, più che la tua fastosa voluttà, la tua potenza! E seppi che Filippo Visconti, quando l'ebbe nelle spire della sua biscia, si credeva già signore d'Italia. Il duca d'Alba vedeva l'occupazione tua come la base ad una monarchia saldissima. Se il duca di Zenua ti avesse aunghiato per la Spagna! Il signor Le Noble scriveva a Luigi XIV: «Genova e Marsiglia unite sotto lo stendardo dei fiordiligi darebbero legge a Cadice e ai Dardanelli, terrebbero la Barberia in forzato rispetto e farebbero tremare il sultano nel suo stesso serraglio di Costantinopoli.»
Ma non so più leggere. Quando il luglio è implacabile coi suoi trenta gradi, io fuggo le morte biblioteche. Io voglio l'aria, il cielo, il mare! Io voglio amare!… Amo voi, o marinai di Zena, che storicamente ancora intarsiate nel vostro dialetto tante parole arabe, spagnuole, greche e francesi; amo voi, o vele, o chiglie, o coste rivestite di bordature, impernate, calafatate, colle fodere di rame, o alberature sorelle! Ah! so che colle vostre bestemmiacce, colle tinte sudice e coi rappezzi grossolani come quelli sulle tonache dei frati, colle corde bisunte, colla cifra fatta in catrame e la solita [ancora] GENOA, coll'odore di mare salato, voi fugate la poesia a mille miglia lontano a rimbellettarsi su qualche paio di labbra di corallo, a incipriarsi su qualche collo d'alabastro…. Ho detto la poesia? Ho sbagliato: dovevo dire la Nonna poesia: quella in cuffia, colla tabacchiera e il mazzo dei tarocchi lì sul tavolo: è titolata, sfoggia genealogia e stemmi, e nulla fa di bene se non ha le rose dell'aurora, le polite pieghe del peplo, le note della lira, il profumo dell'olimpo: cinguetta coi poeti e i professoroni ufficiali, è pettegola e si liscia. Via! di codesta donna marchesaccia siamo stufi. C'è una bella scapigliata, con grand'occhi acuti, senza rimario sotto le ascelle, senza svolazletti, la penna d'oca e l'elmo di Minerva, c'è una giovinetta che s'asside anche all'ombra delle vele, viaggia coi marinai e mangia il pane duro, conta i soldi e canta Dio e il mare. È la vera poesia. E Natura, diffondendola in ogni atomo delle cose create, non le disse mai:—Sarai aristocratica: sarai democratica,—ma le impose:—Non mentirai!
Voglio conoscere la potenza di Genova? Vado a gustare la grandiosa poesia del suo Porto.
Il molo vecchio costrutto da Marino Boccanegra nei faustissimi giorni del Comune, il nuovo d'Ansaldo di Masi, la Lanterna su cui si accesero i primi lumi nel 1316, il robusto emporio del Portofranco, i porti di sbarco, gli argini, vorrebbero ancora dieci trombe di cintrago che li proclamasse ai regni dei voli lirici, o meglio dieci portavoci di capitani che rivelassero a questo bassissimo mondo quante doble hanno fruttato, e quanti futuri dii frutteranno. Sull'immenso sfondo verdognolo azzurro nereggiano gli scafi snelli dei mille bastimenti: e sugli scafi s'inclinano i bompressi, si drizzano i bassi alberi, gli alberi di gabbia, quelli di pappafico e l'aste: le sartie s'appoggiano alle gabbie, i pennoni recano il velame arrotolato, e le corde, le puleggie delle manovre dormenti e delle correnti formano gli apparecchi altissimi dei lucrosi saltimbanchi del mare. Anch'io userò il vecchio paragone: il porto è tutto una selva nella quale i venti vogliono i loro giochetti, ed ecco le vele triangolari, le quadre, quelle che tornarono sbrandellate, il fumo dei tubi ritorti, e i tubi sbiecati. Come hanno giocato in alto mare! Lo sanno i marinai che hanno appeso quindici o venti voti al santuario di Savona, o i marinai che hanno appeso il loro sacco d'ossa ai corallumi del glauco cimitero. Nel porto si stringe la gran famiglia: le prore sono, per così dire, i volti, le poppe danno il nome di battesimo, l'alberatura di tre, di due tronconi, segna la casta e l'anima è giù nella pancia. Le barchette vanno e vengono, come i domestici, come le formiche intorno al granaio. Io vorrei dirvi il giuoco dei riflessi del cielo e del mare, le bolle delle aspergini tranquille, gli scherzi dei vermi marini sulla costa, le gradazioni. Ma non posso! Però voglio dirvi come appaiono tumide le vele tese dal vento, come imbizziscono le banderuole a fiamma e come sembri che i catenoni dell'ancore e le scalette giù giù tremolino col tremolare degli strati dell'acqua e si perdano in un serpeggiamento vano…. Ma che? Come mai si può osservare? Genova è Genova: la folla è turbinosa, l'affaccendarsi incrociantesi…. La locomotiva su un argine ripiglia fiato rapidamente ed urta i vagoni a specchiarsi in mare. Bestemmiano, inturgidendo i muscoli, i nudi facchini michelangioleschi: i carrioni con quattro, sei cavalli accodati sembrano dire:—facciamo tremare la terra, la terra è nostra:—si fischia; si urla; si inneggia.
La scena, o signori, è unica, e l'entrata gratis; vedete:—il mare, il progresso, e su il guadagno, e su ancora la poesia, e su ancora il sole che ride di tutto.
—O marinaio poeta, che hai letto nel gran libro dell'utile e nelle grandi notti sull'estensione dell'Atlantico, dimmi le tue rime.
—Cuoio, acciaio, canape, corna, indaco, cocciniglia, grano, olio, pepe, pelo di camello, tonno, salsapariglia.
—Ma no, che non sono rime! Noi diciamo amore fa rima con dolore. Non capisci? E sei homo, come me, sei homo sapiens.
—Che cosa dice?
—Homo sapiens significa uomo sapiente. Ah? tu non intendi il latino, sicuro.
—Uomo sapiente?
—Ebbene? Ci pensi?
—Nulla affatto. Fa rima con niente.
A questo punto il sole che rideva, mi parve sghignazzasse: io, furbo! apro l'ombrellino.
S'io fossi il cintrago, il banditore medioevale di Genova, da ogni legno che venisse di Sardegna con sale, ne riscoterei mine tre: e mine tre o mine una di grano da ogni legno che tornasse di Corsica, oppure de Maritima et Romania. E poi marabottini d'oro dalle galee che andassero in corso al di là della Sardegna o in Ispagna. Adunerei il popolo a suono di tromba, citerei ai placiti, ordinerei le guardie della città, pranzerei coll'arcivescovo, e davanti a qualche palazzo de' Fieschi, de' Grimaldi, dei Doria, degli Spinola, per privilegio di magna prosapia fasciato di marmi bianchi e neri, canterei le glorie di Genova mia. Vorrei essere il cintrago e campare vecchissimo vecchissimo, dal tempo dei consoli ai dogi biennali, e dire:—N'ho vedute di cose traverso i secoli!-
E canterei così:—Ho squillato la mia tromba pei consoli, pei podestà, pei capitani della libertà, i Fieschi, i Grimaldi, i Doria, gli Spinola, per il reggimento dei dodici, dei ventiquattro coll'abate del popolo, per la signoria d'Arrigo, quella di Roberto di Napoli e di Giovanni XXII, pei guelfi, pei ghibellini, pei dogi perpetui della stirpe Guarca, Montalda, Adorna e Fregosa, pei dogi biennali, i nobili privilegiati, tra l'imperversare delle fazioni di Portico nuovo e di Portico vecchio, pei commessari francesi della repubblica ligure.
E narrerei:—Venite al porto. Io ho veduto le venerande galee, i galioni, le galiazze, le galeotte, le cetee, i taridi, i panfili, le vacchette, le borbotte, i golabi, le gatte, le cocche, le saettìe, i portantini, gli uscieri, le flotte di quei genovesi che ghermirono la Corsica, la Capraia, la Gorgona, Tunisi e Minorca, Almeria, Tortosa; navigatori e guerrieri, i ghibellini contro Carlo, i guelfi che preferirono lo esiglio al pane dato dai vincitori, i sostegni del seggio bizantino, i mercatanti da Ceuta al mar Libico, all'Egizio, al Sinaco, al Panfilio, al Lido, all'Arcipelago.
E inviterei:—Moviamo al tempio di san Matteo, monumento de' Doria, al san Donato dalla torre costantinopolitana: a san Tomaso, al san Marco col Veneto lione, che rugge ancora coll'ultimo lamento di Andrea Dandolo, il suicida di Curzola memoranda; che freme ancora all'invisibile sogghigno trionfale di Pagano Doria trascinante dalla poppa della galea capitana lo stendardo de' Veneziani. Andiamo al Campo Pisano: ivi i tredicimila prigionieri fatti alla Meloria cainesca e le larve disperatissime dei tremila uccisi fecero ringhiare il proverbio tremendo:—Chi vuol veder Pisa vada a Genova—: i catenoni del porto della rivale furono tagliati a pezzi, perchè potessero essere appesi qua e là per le piazze e le vie della trionfatrice: inventore di questa vendetta luciferina Niceto Chiarli re delle incudi: e per lui i fabbri, devoti alle balestre, alle bombarde, alle pignatte di fuoco lavorato, ascoltavano in Santo Sisto un'annua messa di suffragio. A San Sepolcro sorgono le memorie de' crocesignati, dei cavalieri, degli spedalieri, e dei cinque cardinali affogati nei cinque sacelli da Urbano VI. Alla Casa di San Giorgio v'è il codice di Gazaria, o i cartulari della compera di Caffa, Scio e Famagosta. Al Borgo di Prè si spartivano le prede nel secolo duodecimo. Al Duomo, ricordato anche da Fazio degli Uberti per li porfidi et marmi orientali, non vi so dire gli archi acuti, coi fasci di colonnine, gli ornati a mosaico, le zone, la simbolica cristiana orfica, le tre navi, le sedici colonne di breccia africana coi piedestalli di basalto, il coro, il presbiterio, la cupola, la tribuna…. Avevo già novant'anni, o messeri, e madonne, ed io, cintrago, l'ho veduto l'architettore! Era l'Embriaco, guerriero di terra e di mare, consolo ed artista. E poi passarono gli anni! Un giorno sotto queste vôlte, che accolsero le reliquie conquistate a Mirrea e il sacro catino a Cesarea, sdegnosamente si ricusò il giuro di fedeltà a Federigo imperatore!… E un altro giorno si confermò Simone Boccanegra! Quante glorie di dogi! E in un tempo funesto cinquanta fanciulle vestite di bianco, recando l'ulivo, imploravano pace da Luigi XII!
E dirò ancora:—Andrea Doria fu insigne sul mare: Ambrogio Spinola conquistò le Fiandre: Megallo Lercaro rappresenta la forza dei traffici e delle colonie di san Giorgio benedetto. Volete leggere di scienze, lettere e d'arti? Andalo del Negro, il Caffaro, Battista Vernazza, Giustina Vageria, Bartolomeo Falamonica, Ansaldo Ceba, Matteo Senarega hanno scritto: Tadisio Doria, i due Vivaldi, Colombo, Antonio Noli, Usodimare hanno viaggiato: le pagine degli artisti le vedrete nei palazzi: Via Nuova, a detta del Vasari, è unica al mondo….
Imbocco la tromba d'oro, squillo tre volte tre, e proclamo a tutti i venti. Udite, udite, udite:
Ditis opes Asiæ et claros orientis honores
Quantaque ab Euxino traditur ora salo
Pisanas acies Thuscæ decora inclita pubis,
Et traxi ad ligures gallica signa manus:
Subjectis dominans tenui cervicibus Alpes
Et tremuit nostras Aphrica terra trabes.
Afflictus toties Venetus, qua fugerat olim
In patriis novit tela petitus aquis.
Frustra, Galle, cupis, frustra es frustator, Ibere,
Frustra sæva, Ferox Insuber, arena capis.
Vinco ego dum vincor, par est victoria damni,
Sumque eadem domina servaque facta mea.
* * *
In quel tempo in cui dal faro di Genova pendevano i lampioni fumigati e le galee a velatura e palamento, dall'alta poppa teatrale, sparando una straccia di bombarda, si piegavano su un fianco, in quei tempi in cui una barca metteva fuori tanti remi da sembrare un millepiedi, si poteva incominciare con quei versi la descrizione di Genova, prendere l'aire, e gonfiarsi su fino al settimo cielo della poesia. Benedetti tempi! Perchè non sono io nato allora? Allora non c'era questo vezzo ribaldo di schizzare degli acquerelli fuggi fatica: così, e così, quattro pennellate, senza fondo, senza un contorno deciso, magari spropositati di disegno, su un brandello di carta qualunque, per far ridere una marinara che non ci capisca un ette, per far sorridere una marchesa, la quale indovina la sua silhouette elegantissima nei tratti del pennello tinto d'azzurro. Lasciamola lì. A quei tempi c'era l'incisione scrupolosa che vi dava l'idea dell'infinito mare con mille o mille dugento righe orizzontali e digradanti. La città si vedeva chiara e netta, come una mappa: sulle terrazze dei palagi c'era l'A, B, C, D: nel cartellino poi appiccato sul mare si leggeva la brava spiegazione dell'A, B, C, D….
—Adesso c'è la fotografia.
—Verissimo. Chi vuole le cose ammodo ricorra alla raccolta di vedute che il padre Abate Giolfi pittore dedicava a Sua Eccellenza il signor Giuseppe Boria Duca di Massanova e di Facina.
—-Ricorra alle fotografie del Degoix.
Io non posso tracciare giù la pianta della città, nè m'intendo di cose serie da imbandirvi, come s'usa, i primi cenni, la scorsa da un capo all'altro, la Genova considerata militarmente, le vecchie mura, il porto, il portofranco, l'acquidotto, le Belle Arti, i palazzi, ecc., ecc.
Poh! questa mancherebbe: che voi mi pigliaste sul serio. No! no! Sono chi sono: un poveraccio faticato dagli studi sui codici, un esule volontario dalle dotte e morte biblioteche, un antiquario, che, lavandosi la faccia nell'acqua limpidissima e scacciando la polveraglia dei morti, incomincia a vederci meglio. Oh poesia strapotente del cielo e del mare! Oh vita mia! Oh liberi sogni d'artista! Se poi…. Marchesa, mi presti il suo occhialino capriccioso: attraverso quelle lenti devo vederne di belle cose, se già ci è passato il suo raggio visuale! Marchesa, mi favorisca il suo albo…. Ella insidiosissimamente ha tutto profumato con quel suo muguet!… Viaggiamo insieme verso Genova: in prima classe, già s'intende.
Mi pare e non mi pare, ma il fischio della locomotiva, che entra appunto nella stazione, ha come insultato il mio esordio, l'epigramma dello Scaligero; perciò m'imbizzisco, e dimentico l'altro di Maurizio Cattaneo, l'eroe delle tre navi, il vincitore della flotta di Maometto, dimentico il distico di Antonio Asteggiano da Villanove, i versi di Bettinelli, di Chiabrera, le lodi di Bonamico, di Muratori, di Giovanni Villuani, del Brusoni, di Sua Maestà l'Imperatore Cantacuzeno….
* * *
O Genova! o Genova! Chi può mai descrivere i tuoi palazzi di via Balbi, della Nunziata, della Nuova o della Nuovissima, e le casette a otto piani nelle strettucce che sembrano scolatoi al mare? Chi ti dirà il nobile effluvio dei cedri e il plebeo fetore del baccalà; la splendida pace dei pensili orti e l'arrabattarsi lucroso nel porto: la vita opulentemente stanca nelle sale d'ozio e la insaziabile voluttà della marmaglia saettata dal sole: la bianca melanconia degli atri, degli scaloni, delle corti solitarie e l'immensa gazzarra delle mille navi? Chi dirà, in qual reggia, in qual sala dipinta da Guercino, Van Dik e Bubens, cento cavalieri e quaranta dame furono convitati magnificentissimamente, serviti con piatti d'argento e d'oro, e i piatti ammucchiati a formare tante colonne fino alla volta: e chi descriverà la cena del pollivendolo, il tozzo rosicchiato, sotto l'incarco d'una gabbiona pidocchiosa e insudiciata?
Ma da che parte si deve incominciare?
—Venturi non immemor ævi—Sibi et Urbi—è scritto sui potenti fastigi: Lodovico XII diceva ai patrizi di San Giorgio: «Voi siete meglio alloggiati di me:» e lo dicevano Carlo V e Filippo II. Genova è la città dei palazzi: vi architettarono l'Alessi, il Lurago, il Vannone, il Bianco: vi pinsero il Calvi, il Semini, il Cambias, il Tavarone, il Fiasella, i Carloni, l'Ansaldi.
Le facciate sono incrostate di marmi o coperte di freschi mitologici, storici; le colonne di bianco Carrara o i pilastri di cupe bozze sorreggono gli architravi stemmati delle porte maestre; le cornici, le statue, le balaustre, gli scudi, i timpani, le piramidette, i festoni, i bassorilievi, i loggiati, le inferriate sporgenti, con forte armonia s'intonano alle linee del quadro, dovuto alla scuola di Michelangiolo e del Bernino: una intera via, due, tre, quattro…. quattro prospettive sceniche di sedi olimpiche. Nei vestiboli lastricati di marmi o s'adagia un larghissimo scalone, coi lioni maestosi, veglianti sui piedestalli, oppure un velo d'acqua frescamente scende a bagnare le muscose spalle di due cariatidi reggenti la conchiglia, oppure tra le colonne appaiate scintilla, come sfondo, l'azzurro mare e il cielo secato dagli apparecchi aerei delle infinite alberature. Vi sono scalee che danno a cortili, e nuovamente cortili che danno a scalee, e su ancora…. Arriviamo ai terrazzi, alle logge, ai giardini sostenuti da baluardi, agli elisi, ove le rose e gli aranci, la flora ligure venustissima non suade che amori, coi profumi spossatori dei talami sempre fecondi. E vi sono scalee che accedono alle straricche anticamere e agli appartamenti: ori, pietre, stucchi, cristallo, basalto, alabastro, colonne doriche, ioniche, corinzie, tele, freschi, statue, tutto vedi…. Cioè, non vedi niente: perchè subisci là dentro un'arte sola strapotentissima, la seduzione. Là comprendi quella incasta mitologia del decadimento, là fremi all'incondito atteggiarsi delle Veneri, là capisci che la Medicea formosissima non è donna, perchè perfetta. Sui terrazzi, ove ghignano i mascaroni e nelle sale ove stringono l'occhietto le ninfe, una ebrietà di tripudi ti dà il capogiro…. La dama, di cui si sparge l'olezzo mondano, la dama che imagini con te, la vorresti coi nèi, colla cipria, colla sapiente raffinatezza del secolo pettegolo, colla insidia vampirica delle corti di Francia, nata espresso per esser civetta e dannatrice accorta d'uomini. Ghigni anche tu, e anche tu stringi l'occhietto…. E quando pensi che le acute scarpine, la veste bergère a fiorami d'ortensia, il busto colmo e giù appuntato, gli accroche-coeurs, i nèi…. i meno svelati…. tutto è finito! La dama giace sotto in qualche chiesa barocca, sotto la pietra barocca, già dimenticata dalla prece barocca, già…. Ah i lombrichi appartengono al realismo!… Quando ti trovi solo, tu piangi d'amarissima voluttà! Guardi, cerchi e fantastichi: vedi il bruno ritratto di colei che t'avrebbe avvinghiato, lo scrittoio a specchi ed oro su cui t'avrebbbe scritto il bigliettino galeotto, le bugie olandesi che t'avrebbe accese….(11) Ti vanno e ti vengono innanzi gli occhi le manine bianche, colle unghie rosee, coi braccialetti che segnano nella carnicina grassottina la depressione sotto l'oro massiccio. Non sono ancora accese le complici bugie per le?… Passi per le stanze del riposo, coi moschetti di drappo a pennacchi, colle coltri dense, coi cuscini gonfi, coi tavolini da notte inesplorabili: tutto sa l'odore della vipera. Passi nella biblioteca, lunga, lunga, lunga…. Un volumaccio è ancora aperto su un leggìo: ha il labbro rosso, le pagine gialle e su una gottaccia tabaccosa…. Vegliava il geloso marito nella biblioteca…. Passi nella galleria dei quadri, delle statue, delle incisioni, delle conchiglie, in altre sale, in altre…. La semiluce è triste: è triste la memoria dei morti: è tristissimo l'insaziabile desiderio per coloro che non sono più. Chi guardi? Chi cerchi? Chi domandi?—È morta da un un pezzo, eh!
Passando innanzi ai portoni, la vedi sotto il velo d'acqua freschissima. Adagio: prima di mettere il subbuglio in qualche cuoricino. La vedi che ha già fatto la doccia e sale lo scalone mollissimamente. Adagio ancora: prima di compromettermi con qualche mammina. La vedi che, col parasole stillante, ti ride in faccia… Per un capriccio la è passata sotto le spalle delle cariatidi a spruzzarsi un po' giocherellando. Del rimanente sappi che la vestiva un abito lunghissimo, alto, così e così. È la padrona del palazzo che tornava dalla messa e ascendeva al sommo terrazzone…
O logge aeree, o grotte verdiccie; ultimi fastigi su cui trionfa lo stemma, primi gradini col salve! O fiori che vedete il mare, marmi che riflettete il cielo!… Donna, che mi appari, più formidabile del Doria, appoggiata alla colonna, a cui già concessero le spalle la mamma, la nonna, la bisnonna, fervidissima stirpe: o donna, sei padrona del cielo, del mare, dell'infinito, dell'invisibile! Andrea Doria nel classico suo palazzo fuor di Porta San Tomaso accoglieva Carlo e Filippo re e la loro corte, e li faceva servire a suono di fischietto, come se egli fosse sulla sua capitana. Tu accogli me, come se tu fossi nel tuo regno e comandami col tuo riso… Non sono imperatore, nè grande, nè poeta! E tu hai il riso del tuo regno, del cielo, del mare, dell'infinito, dell'invisibile!… Io servirò te… Andrea fischiava due coronati e ben faceva: tu fischi me colla gola del serpente. Il tuo regno è il deserto: lo so: la vanità della tua bellezza non ti concedette che il tormento della tua bellezza.
O donna, stringi il libro delle preghiere convulsamente.
* * *
Se babbo, invece di darmi tra mano un codice ne' bei giorni della mia giovinezza, m'avesse lasciato la carissima tavolozza, io avrei schizzate tante macchiette quante ne abbisognavano per la processione del Corpus Domini: e potrei sorridere nel mio studiolo ad una ad una di quelle che passano sotto gli arcucci dei tragetti, e s'affaccendano nella contrada del mercato: una contrada fonda come un pozzo, dove da una finestra all'altra delle case è in mostra sulle corde tutta l'opera fatta dal bucato nella settimana: panni bianchi, panni rossi, panni azzurri, l'allegra coccarda dei marinai a tre colori bagnati di sudore. Alle botteghe a destra e a sinistra, qua e là panche e corbe, e corbe e panche. La dico una contrada quella dove c'è di tutto, dal mazzolino di fiori per lei, marchesa, al mucchio appetitoso di lumache testacee chiuse nelle gabbie, come i passerotti: e pel pittore tocchi di verde smeraldo, di cinabro, di giallolini: oh che gazzarra! Fogliami spiccati, creste accese di galli, fette avvistate di zucche, e via! Dove non c'è una cosa sola, quella santa pulizia. Oh che sciupo di penne di pollastri e di spine di pesci! Che misto di magro e grasso! Che confusione di venditrici austere e di sguaiate esibitrici! E odore di baccalà, e grida senesi e filatere di muletti, e risse sempre pronte…
Ho detto una processione di macchiette: nè più, nè meno. I montanari sono già calati dalle viottole, quello colle frutta, quello col pollame, quello col fieno, quello colla farina. Ecco i due pescatori tozzotti che vengono reggendo l'uno di qua, l'altro di là, la cesta piena di murun, il re dei pesci; ecco la donnaccia colla stadera e colla corba dei funzéti beli: ecco la fante del curato colla sporta e il libro della messa: e la massaia che cammina cogli occhi a terra, a guardare le sue scarpe nuove dal pattume e dagli scheggioni: ecco una ribaldella….
Che sei, ribaldella? Sei la bellissima dagli occhi neri. Se io fossi pittore manierista, ti pingerei col pezzotto bianco, colla crocetta d'oro in collo, colla camicia e le bretelle delle coriste pastorali, colla gonna azzurra…. Ma tu sei la bellissima dagli occhi neri. Hai la testa scoperta e i capegli scarmigliati, il guarnellino procacemente discinto, la veste a strappi: sei tutta polverosa e spensierata…. Anche tu somigli a quella sdegnosissima patrizia che appoggiava le spalle alla colonna del terrazzo marmoreo. Chi sei? Che cosa vendi?
* * *
Marchesa, le restituisco l'albo e il pince-nez. Mi scusi, ma…. le sue lenti mi paiono maliziose, sì da farmi vedere sempre, troppo, anche quando non voglio.
Mi metterò gli occhialoni d'antiquario e leggerò il catalogo dell'Armeria genovese, che m'ha dato un reverendo scolopio. Dunque c'erano:—«un cannone di legno antichissimo: un rostro di nave probabilmente dei tempi delle zuffe con Magone cartaginese: alcune corazze con intagli, geroglifici e sigle; la fama le diceva usate dalle donne genovesi ch'erano andate a combattere in Terrasanta, la forma del petto le dichiara….»
Se le dichiara! Anche pel dì d'oggi! Date due massime corazze per la patrizia e per la ribaldella,
Monti di Pegli.
Chi vi coglie? Fiorite ed appassite, e non sapete che sul candidissimo seno di una dama, sulle braccia tarlate di una crocetta nera, altri fiori, meno belli di voi, più belli di voi, agitano i petali al susurro di una parola rovente, al prorotto singhiozzare d'una preghiera. Fiorite ed appassite, e chi passa vi guarda e dice che le speranze, i dolori, si sciupano in questa vita, come i vostri petali ad uno ad uno, quando posate nelle mani della elegante passeggiatrice. Ella vi sfoglia per sapere l'amore che dura un giorno….
Non sa l'amore e si trova senza speranze e senza dolori.
Sestri Ponente.
Quella notte al lido tacevamo….
Il vasto libro dell'astronomia è aperto sopra il nostro capo.
Leggavi il sapiente e l'idiota, il felice e l'infelice.
Quella notte al lido tacevamo.
Sestri Ponente.
Le stelle più poetiche delle notti estive, le stelle inseguentisi con velocissime curve, le soavi luci cangianti che scorrono al bacio d'argento del mare! E il mare rispondendo al cielo sussulta, e dove le crespe sue accarezzano i fiori, fiori della spiaggia, fiori delle profondità, ogni ondeggiamento porta un gorgoglio—Amore!—ed ogni gorgoglio una spruzzata di perle….
Sestri Ponente.
Al tramonto rilucono le crocette dei campanili, le facciatelle delle chiese sembrano parate a solennità con drappi d'oro e rosati, le rupi hanno profili avvistati, le ombre azzurrigne invitano ai bisbigli d'amore, dalle corna dei monti si stendono le pezze di porpora e si allargano giù per le chine, scappando ai piani, dalle valli si leva un vapore paonazziccio, nei paesi ogni casetta ha una gronda lucente e un comignolo giocondamente fumante….
O anime gentili e mestissime, io contemplo i fiorellini strisciati dall'ultimo raggio di sole.
E perchè di quei fiorellini io colgo e bacio l'appassito?
Sestri Ponente.
Aspetteremo una notte senza luna e senza stelle, a mare cupo, a pace di cimitero.
Ti metteremo remi neri, vele nere, in prora corona di fiori funerari, o barca che t'apparecchi al viaggio per là, da dove non si torna. La notte sarà un immenso tempio parato a lutto, la spuma dell'onda sarà l'argento della coltre, la pace sarà la desolazione… O Signore! Nè alla spiaggia venga fanciulla che pianga, nè lungo il viaggio batta seguace ala d'alcione. Solitudine vastissima!
E coi remi accarezzeremo il mare, e volgeremo le vele al vento, sì da farle crepitare come se baciate insistentemente, e petalo per petalo, o poeta della notte, sciuperemo i fiori della corona.
—L'amavi?
—Era la mia vita.
—Come aveva nome?
—Illusione.
—Áncora,—gongolò il mio professore cogli occhiali d'oro—deriva da =angkyra= e =angkyra= da =agkylos= che significa uncinato. I greci non conobbero questo istrumento che dopo la guerra di Troia. Plinio ne fa inventori i Fenici, i Tirreni e Pausania menziona Mida re dei Frigi.
—L'ancora,—mi disse un fabbro nudo fino alla cintura, re d'una fucina in cui si profondava fino alle caviglie nel polverio nero, s'arroventava la gola e lagrimavano gli occhi—può pesare da 150 a 4000 chilogrammi,—e alzava un martello da venti, lasciandolo cadere su un'incudine suonante come un concerto di dieci campane.
—Ha l'anello, o cicala, il fusto, i bracci, le marre o patte, e il ceppo—mi accontentò un ingegnere navale, aprendo il suo portafogli, come chi dicesse:—ho i miei affari, non il tempo per chiacchierare.
—All'ancora maestra si dava il nome di ancora di salute: e c'è l'ancora di misericordia—mi soggiunse un marinaio segnandosi di croce.—Ma si calano colle gomene pregando Dio.
—L'ancora—mi suonò nelle orecchie il curato—è l'emblema…
E non volli più ascoltarlo.
E tu, fanciulla, mi domandi?
Ti ho risposto.
Io ti parlerò; parlerò di desolazione.
Alla sera ho sognato che tu eri raggiante come un faro, avevi una stella in fronte e stringevi un'ancora per me.
A lume di luna, che ti rende macchietta mestissima, che fai? Colle gambe nell'acqua, che ti pone intorno alle ginocchia un anello oscillante d'argento, che guardi?
Colla camiciuola al basso già inzuppata, che alle mamme cittadine fa pensare al raffreddore (che non verrà), che cosa spii? Spii il mare: vuol mettersi al buono.
Dimmi, e perchè? Perchè tornerà. Chi? Il babbo marinaio che è partito con in collo la santa medaglietta di Savona, che è partito per l'America da due anni, il giorno della Concezione? Il babbo che più non scrive? Tornerà il bastimentino: il bastimentino fatto con uno scheggione di legno…
O Bacciccin! Aspetta, aspetta, o caro bimbo: ancora non conosci il dolore. E se non tornasse il bastimentino? La tua Lena ne farà un altro.
E se non tornasse il babbo?
E passavano giù nella valle, pel letto asciutto del torrente. I mulattieri col cappello di paglia, la camicia azzurra, la fascia rossa, avevano la frusta a chiovetti d'ottone schioccante ad ogni minuto, e la bocca coi barbigi arsicci ad ogni secondo schioccante di bestemmie: le bestie poderose colla gran placca sulla fronte, a protettrice la Madonna, col campanaccio e i pendagli: le carra, a ruote di cannone, trabalzanti sotto un monte di barili, di sacca, di legname, di balle, o che altro. E un carro, e due, e tre, e sei, ed otto… La processione senza croce, ma coi moccoli! Bisogna dirlo, pel mulo, è regola genovese, un santo tirato giù di paradiso è un pungolo alla groppa.
Oh come io studiavo le facce! Faccie biscagline, faccie castigliane, faccie senza battesimo: e tutte alla golaccia avevano il capestro; no, cioè le cordicelle colla santa medaglietta di Savona.
Perdonate: chi mi bisbigliava è quel curato colla veste colore abete, e proprio resinosa, col tricorno a cordicelle allentatissime, colla faccia non da benedizione, il quale curato da questi mulattieri non si ha altro che qualche gomitata, e non ascolta che litanie non canoniche. So che costoro hanno la fermata all'osteria e non alla chiesa, so che anche a notte l'eco dei cimiteri in suono d'ossa sbatacchiate su per le croci di legno ripete lo scoppiettare dalle loro fruste, so… E che cosa so? Niente: che passavano e passavano e passavano, macchiette variopinte, sullo sfondo della vallata, che mi tiravo da banda al tempestar dell'unghie dei muli, che qualche volta in cuor mio dicevo:—Buon viaggio!
E se ancora passate, passate, passate, metteteci un po' di garbo ad avvisare le signorine: e del resto, buonissimo viaggio!
E l'osteria di solito è posta al canto della via principale e di un tragetto: quella fornisce i bevitori mulattieri che si assetano sulla strada da Savona a Genova; questo che fra due murelli d'orti va al mare, dà i pescatori e i lavoranti del cantiere. L'insegna è dipinta d'azzurro, e non c'è nome d'oste o di vedova che lì non s'abbia il suo battesimo popolare. Chi entra deve guardarsi dalla focaccia gialla-unticcia, che odora su un gran piatto di peltro, e dal barile sgocciolante, ritto in piedi, coperto di frasche di vite, e fatto tavolo a sette od otto mezzine di maiolica dipinta. Pareti a tutte tinte, dalle sudicie alle aerine, come le tavolozze dell'avvenire; pancone a gambe divaricate: sfondo di sale e sale a parate grigie di ragnatele. Chi amasse poi lo studio degli accessorii, vi trova la lampada di ottone coi quattro becchi, la statuina del Ballila, sul muro gli ultimi numeri estratti al lotto di Genova scarabocchiati a carbone, ai vetri le sfogliacce a tenda, alla soffitta negra e rognosa il finestruolo per spiare giù.
Nella strada cresce un remore di sonagli e di zampe e di ruote, cresce e poi s'arresta…. Ecco entra nell'osteria un mulattiere col camiciotto sudato, colla frusta in collo, colla destra mano che suffrega le labbra bruciate. L'oste non c'è. Il mulattiere leva la voce ed incomincia:—Per Dio Sacrrr….!
Il curato che passa davanti all'osteria guarda la bestiaccia (non dico il mulattiere), e fa il suo conto:—Un mulo come questo vale una parrocchia di montagna.
Venivano giù per le stradette colle corbe piene di frutta, colle ceste del pollame, col fascio di fieno, colla sacca infarinata. E quello aveva la berretta rossa e lasciava nei passi soleggiati una fragranza dolce di prugne e di pesche, come maturate nelle stufe: e quello un pezzotto di vela incatramata e ad ogni brusco sasso eccitava il canto mattiniero del gallo imprigionato: quello si nascondeva sotto sotto e scendeva con fruscio fra i murelli e fra le siepi: e quella berretta bigia veniva giù fra un polverio, come una Dea fra le nebbie. E c'erano i fanciulli cantacchianti e i cagnuoli a mozze orecchie e coda ritorta, i cagnuoli d'avanguardia.
Venivano giù dagli orti fecondi, rigati da cannuccie bianche a sostenere le viti: dalle case fatte di pietra accostate senza calce, angolose e bige: dai pratelli stesi sul declivio, come tanti rappezzi sulla vesta arsiccia della montagna, arsiccia e stracciata dalle rupi; dai molini stillanti, dove le paie delle ruote avevano i bei riflessi lucenti d'azzurro girando all'insù, dove fuggendo giù si tingono di verdemare, sommovendo l'acqua.
Amo i vostri orti, e le case, e i pratelli e i molini: non amo i vostri cimiteri. Invidiate il marinaio: l'ossa sue, rotolate nei fondi glauchi, hanno posa di quando in quando, cullate dalla voluttuosissima vegetazione del mare: le vostre si corrodono tra gli scheggioni quelle non pagano il nolo della requie; le vostre su un bisunto libriccino e sul cartone dell'offitium hanno fatto notare:—soldi trenta.
Ma voi avete, montanari, la bianca chiesuola delle sante litanie e per me le litanie sono tutte un canto d'amore.
Sorridevano gli sposini, sorridevano le fanciulle, sorridevano le mamme…. Quel povero infelice che aveva deforme la persona, sospettosamente passava tra gli allegri bagnanti, e cercava la spiaggia deserta e sedeva di faccia al mare. Era un amore il cielo: era un amore il mare. E l'infelicissimo sentiva che le stelle scintillavano nell'anima della notte con palpito di soavità, sentiva che il fremito delle onde era un sussulto della vita universale della natura, si sentiva parte dell'infinito Amore…. Non gli sorrideva la donna.
Vidi al davanzale di una finestra una bottiglia in cui era piantato un tralcio di vite: questo, rigogliosissimo, aveva tanti e tanti grappolini verdi.
Il bimbo che mi era insieme:—Qual è il paese, mi disse, dove ci son gli ometti così piccoli da fare la vendemmia alle pergole come quelle lì?
O Madonna! che cosa avrei dato per essere come lui, per potergli rispondere da pari a pari:—Quello dove gli sposini s'addormentano dentro un bottone di rosa.
A mia sorella nel giorno dei morti, 2 novembre 1873.
Meditai, cercando la solitudine, e scrissi, appoggiandomi al muro di un cimitero. Guardando il cielo fra i neri boschi e sorridendo nell'azzurro alle larve della fantasia, io credetti d'aver pensato a qualcosa: contemplando le croci del tristissimo campo, m'accorsi che i miei pensieri furono deliri di mente malata. Tutto finisce! E che resterà di queste pagine?
* * *
Passa la bellezza, come profumo all'aria, e il suo ricordo sarà un rimpianto. Dura invece la bontà, come l'incenso nel chiuso tabernacolo, la carità fatta non invecchia mai, ed è sempre sorella alla carità da farsi.
Ama chi sorride e non chi ride. Ricordati che il sorriso è raggio d'alba nel crepuscolo della meditazione, che il riso è lume vulgare in una lucerna di terra; l'alba è foriera del giorno sempre: la vile lucerna un dì o l'altro si spezza.
La musica è l'arte gentile, la primigenia figlia del cuore umano, nata col primo amore, col primo dolore.
La speranza fu data al cuore dell'uomo, come ai giardini il fiore. Ma qual è il fiore che sempre mantenga la sua freschezza e il suo profumo?
Ama la solitudine. Siccome tra il silenzio dei boschi puoi nel crepuscolo intendere il suono soavissimo delle campanelle lontane, così nella pace del cuore potrai sorridere all'armonia dilungantesi de' tuoi ricordi.
Gli occhi stanchi di pianto sono i più degni di riposarsi nella contemplazione del cielo.
Se l'anima tua è un tranquillissimo ruscello che scorre dall'alto tra due rive di fiori, perchè sempre rifletta il colore del cielo, prega che i fiori non diventino alberi, e gli alberi non facciano bosco. Parlo di quei fiori che hanno profumi fugaci.
Se l'anima tua è un'onda tempestosa, non disperare che si franga nel buio per sempre. Prima di rotolare agli scogli drizza la cresta possente, e più è furiosa, più è illuminata dai lampi dell'uragano.
Se saprai amare, saprai pregare,
La mente cerca senza trovare nei labirinti della filosofia: il cuore trova senza cercare nel giardino della giovinezza.
Tutto finisce! Anche il dolore: e la pianticella che dedicasti alla requie di un caro un giorno schiuderà il fiore che offrirai a un carissimo vivente. Tutto finisce!
Sia costante la tua volontà nell'operare il bene: se ad esso non puoi spingerti col volo robusto dell'aquila, abbandonati collo slancio placidissimo della colomba.
Ricordati: medita la vita di fronte alla morte. Vedrai quanti pregiudizi, quante paure, quante viltà svaniranno in faccia alle croci: di quell'esosissimo giogo di delitti contro-coscienza complici sono i vivi, liberatori i morti. Prova l'anima tua, affacciandoti sull'orlo di una fossa scavata, non curvandoti dinanzi al disprezzo della società.
E se la vita è una comedia, perchè non a tutti gli attori fu data la maschera?
E se la vita è un pellegrinaggio di fratelli, perchè la meta a tutti non è mostrata collo stesso raggio d'intelligenza?
Il filosofo tracciò sul cranio dell'uomo le cifre che segnano nel cervello le facoltà della vita: il teologo notomizzò l'anima e credette trovare i peccati capitali e le virtù: il materialista rise di tutto. Quanto è più potente l'amore! La parola t'amo è la sintesi imperiosa di tutte le virtu, di tutti i peccati: l'amore di Beatrice fece immortale il genio, l'amore di Cleopatra fece immortale la vergogna.
Ama chi piange. Ricordati che le lagrime sono il battesimo della virtù.
L'arte è la grande arpa a innumeri corde, l'arpa del cuore, cui corrispondono i suoni del creato: è l'immenso prisma che svela i colori della luce. Fremano adunque le note al tocco il più santo: brillino le iridi al raggio di sole il più puro.
Piangere a un'armonia, è sorridere agli angioli.
Se la stella dell'amore brilla sopra un cranio, io credo che anche le mascelle, che paiono spolpate per ghignare all'uomo col cinismo del materialista, possono sorridere a Dio col sorriso della fede.
La monachella che a notte balzò esterrefatta dal letto, che si rannicchiò pudibonda sull'inginocchiatoio, storcendo le braccia, le quali nel sogno erano aperte ad abbracciare cupidamente, la monachella che supplico:—Vade retro!—al mattino, suonando l'organo ad onore della Madonna, trovò sì dolci armonie, che le suore dissero:—Pare santa Cecilia!
Non era santa: era innamorata.
Il piede della donna calpesta le rose, calpesta le vipere.
Venne nella casa la coltre del cataletto? Venne, come è destino, e si partì. Tutto si partì? Ecco il vuoto: ecco la religione soccorritrice. Io so che qualcosa s'affaccia agli usci, tiene in rispettoso timore i vivi, guarda le gocce di cera sul pavimento o i petali sparsi di qualche fiore o la segatura, fa più triste il silenzio, più desolato il disordine, occupa nessun posto e li occupa tutti, sorprende nell'aria nauseosa pel fumo delle torce l'ultima preghiera morente del corteo che sfilò, la prima parola di comando che disse l'erede, s'appiatta dappertutto, buca dalle pieghe del testamento, e domanda:—È finito?—È finito: il morto viaggia al cimitero. All'indomani tutto sarà come prima, come un mese fa, come un anno fa: ognuno ripiglierà il suo posto impossibile che possa essere altrimenti…. O Dio! il posto vuoto è divenuto un altare, e noi aspettiamo lui o lei che aspetta noi!
Fede abbiamo ogni giorno: ma quando sommeremo gli anni agli anni, tristissima desolazione sarà quella di accorgerci che ricordiamo un nome ai figli, o ai figli dei figli, che la vicenda della vita fu varia, che il tempo, il quale raschia le iscrizioni sulle croci di cimitero, cala e cala le sue nebbie nell'anima nostra! E noi giurammo eterno il dolore!… Nevicò tanti inverni in camposanto!… I figli avranno figli ancora, e avranno nipoti!… Nevicherà tanti inverni in camposanto!… E noi? O giovani, noi saremo su un seggiolone, scongiurando la morte che ne stia lontana, o giù tra le quattr'assi nell'eterno buio. E voi, o fanciulle, che leggete sorridendo, avrete fatto portare l'inginocchiatoio di penitenza nella parrocchia e più vicino ogni dì al confessionale e all'altare delle sette indulgenze, o basso giacerete colle mani in croce. Se avremo figli, noi dagli occhi di quelli, quando ci si stringeranno attorno, domandando:—State bène?—noi attingeremo gli sbiaditi ricordi di pianti e di sorrisi, e ci interrogheremo sconfortati: E noi giurammo eterno il dolore?—Se avremo figli, essi verranno sulla nostra fossa e prometteranno di venire sempre: ohimè! pongano una croce di legno: è l'immagine più vera del dolore: essa perde il nome, si tarla, si sfianca, cade, e serve a cuocere la cena alla famiglia del becchino… Nevicherà tanti inverni in camposanto!
Molte cose vedrai, frequentando la società, moltissimo imparerai nella solitudine della tua meditazione. Ma tutte vedi e apprezza con una sola unità di misura, col ricordo insistente:—La mia missione è missione di carità.
Natura crea il nostro corpo: l'arte il nostro spirito.
Se la sera ti concede il bacio della soave melanconia, benedici le tue lagrime e sorridi alle tue speranze. È il bacio di un angiolo custode.
La vanità dei sistemi filosofici portò sugli scogli della vita null'altro che la spuma dell'orgoglio. Il Vangelo irradiò il mondo, santa luce d'aurora, e fu l'amore universale, come il sole che scalda il cedro e l'arbuscello.
Amare è sperare: sperare è vivere oltre tomba.
Se tu, ogni sera, annotassi le impressioni avute nella giornata, avresti un dì un libro di preghiere.
Perchè ti parlo così? Perchè amo la melanconica ora del sole morente.
Ricordati: i vecchi che già esaurirono cuore e mente scrivono colle spalle: i giovani hanno l'ingegno nel cuore. Ecco perchè le biblioteche possono dare ogni anno ai futuri topi buon pasto di dissertazioni erudite: ecco perchè una fanciulla ad una poesia può consacrare una lagrima o un sogno.
Io parlerò parole di desolazione, perchè la fede fu data prima a gioia per essere angoscia dappoi: perchè la speranza è un àncora che ha catena di dolori: perchè la carità è la livrea ufficiale dell'usura che da cinque in questa vita e spera cento nell'altra. E questo pei cosidetti buoni. E pei tristi? Tutto è uno sghignazzo che scroscia colle rughe schifose dell'anima decrepita,
Ho amato la solitudine, in essa solo ho sentito me stesso, e ti ho detto:—-Io ti parlerò parole di conforto, perocchè la fede è la stella che fulgidissima brilla sull'oscurità degli scogli e dell'onda, nella notte del terrore: la speranza ha catena di dolori, ma più questa è lunga, più l'ancora serve nei mari profondi: la carità è lume amorosissimo d'eguaglianza.
Oh ti supplico! getta quel libro da cui esce il ghigno di Mefistofele: chiudi quello da cui scoppia il riso tripudiante del mondo: ama quello tra le cui pagine potresti porre, a segno, il fiore che offristi a tua madre.
Cercare Dio colla luciferina superbia dei sistemi filosofici è vedere il sole attraverso le nubi: trovare Dio colla fede e colla speranza che danno il dolore e l'amore è abbagliare l'anima allo splendidissimo sole di mezzogiorno.
Ama la carità, e pensa che la minima è quella che si fa a denaro. Ama la carità, e pensa che più è quello che ricevi, che quello che dai.
Un pensiero d'amore è il fiore dell'anima. Forse che all'umile arbuscello in camposanto non fu concesso il fiore?
Sai tu che sia il dolore? Troppe volte è l'ultima parola vuota di un verso vuotissimo per far rima con amore.
Non invidiare ad alcuno il tristo dono dell'ingegno: tutte le cognizioni che ci danno i libri sono come i secchi delle Danaidi portati al cuore. Esulta se in te hai il potentissimo dono di amare.
Sai tu che cosa sia la melanconia? Molte volte il fondersi di due crepuscoli, quello dell'amore con quello del dolore.
Se un uomo ti stringesse la mano, sì che tu avessi ad arrossirne, domanda:—Non pensate che vi posso essere sorella?
Che cosa sono i ricordi? Troppe volte la tisi dell'anima.
Ama la croce. L'avesti a capo della tua culla, l'avrai sulla tua fossa.
Non consultare lo specchio per conoscerti. Consulta i volti di coloro cui dirigi una parola di carità.
Ama la musica. Credila il preludio di quel giorno eterno di cui il sole sia l'amore.
Vedesti il mare? Ricordati che se il turbine della passione si scatena nel tuo cuore può toglierti i placidissimi ricordi di tua madre, come l'onda che si rovescia sulla spiaggia cancella il nome che tracciasti nella sabbia.
Vedesti le Alpi? Ricordati che l'aquila pone il nido sulle rocce eccelse, e s'affisa nel sole, coll'ali proteggendo i suoi figli.
Breve è la vita, ma ferve qualche cosa in noi che coll'intensità vince la estensione.
Sai tu che voglia dire la parola per sempre? Nella vita vuol dire promettere ciò che non è in noi: in morte, ciò che speriamo nell'ultima illusione.
Rivedere i luoghi ove hai gioito, e dove non gioirai mai più, è come porre una corona di semprevivi sopra una fossa.
Che è la vita senza speranza? Una gittata di dadi fra le tenebre, fra i deliri.
È silente intorno a me la campagna: solo le squille di una campana lontana mi giungono attraverso il bosco, come le voci venerande di chi non è più, versandomi nell'anima i ricordi del passato: s'agitano i penduti tralci delle viti, quasi facendomi cenno ch'io mi raccosci sotto i loro padiglioni e pianga: scrosciano sotto a' miei piedi le foglie secche dei roveri, ed ognuna parmi dica:—Così passano e sono calpestate le speranze! Il vento investe il bosco, e l'ondeggiare delle cime dei pini mi sembra saluto mestissimo dell'autunno che muore…. Addio!
Meditai, cercando la solitudine, e scrissi, appoggiandomi al muro di un cimitero. Guardando il cielo fra i neri boschi e sorridendo nell'azzurro alle larve della fantasia, io credetti d'avere pensato a qualcosa: contemplando le croci del tranquillissimo campo, m'accorsi che i miei pensieri furono deliri di mente malata. Tutto finisce!… A pochi passi da me, alla mia sinistra, vidi una nuova croce bianca, e su quella il nome:—Maria.
Povera Maria! sola avevi un cespo di viole! Ed io non conoscevo la tua fossa scavata da meno di un anno! Tu avesti la coltre, la corona, la croce, l'ultime memorie sulla terra, tutte bianche, com'io potevo averle! Povera morta! natura, tristissima inventrice di martiri, t'aveva solo concesso l'amore della tua mamma, e tu, pallida, vedesti svanire ad una ad una le frementi illusioni della giovinezza, e tu, pallidissima, stringendoti al seggiolone della mamma, ti sentisti più vecchia di lei…. Ohimè! spezzato lo specchio, sciupati i fiori sul davanzale della finestra, dispettosamente sturbati i nidi delle rondini, letta e riletta la Filotea, tu aspettavi…. i capegli grigi! Il dolore potè più che la religione, sterilissima d'affetti nell'anima inaridita: e vennero i dì in cui ancora ti specchiasti, in cui volesti i fiori e le rondini, in cui leggesti l'amore nel gran libro del cielo: ohimè! era l'illusione del passato illuso, non le speranze dell'avvenire! E da quei dì la passeggiata dai colli la riducesti al solo giardino, poi al solo corritoio, poi alla sola stanza della mamma! E quando la testa si chinò sotto al peso dei capegli, trovasti il raggio di sole venirti solo a visitare sul letto: forse, vedendo la luna strisciare sulle coltri colle meste luci della notte, ti presentisti già involta di bianco e già tranquilla…. Morta senza avere vissuto, stanca di pace, impotente a delirare, fredda, senza favilla di poesia, come una lampada accesa dinnanzi una croce obliata, e spenta dal soffio del becchino…. Eppure l'amavi la tua casetta e in essa, fanciulla, speravi tanto!… Dimmi: e tua madre? Poverina! la madre volle nel cimitero la tua croce rivolta verso la vostra collina: a' vespri scese a te, ti diede un cespo di viole, ma fu l'ultimo. Ella partì da questi luoghi e per sempre: la tua casetta, miserrimo patrimonio, non serberà più la tua memoria, perchè gli estrani non sanno che sia il dolore di un cuore deserto. Ma senti, Maria, avrai fiori da me, e da me sempre un ricordo. Io non ti conobbi, ma, te morta, amai il tuo giardinetto melanconico, ed ora amo la tua croce bianca…. S'io dovessi giacere nel camposanto istesso, fa sì ch'io vi dorma al più presto: la coltre bianca a vent'anni è la sublimazione dell'amore: a trent'anni è un lenzuolo di ghiaccio.
L'esule che cammina, che cammina, canta la canzone fanciullesca della sua terra. A quelle note gli rispondono gli echi della patria: susurrano i boschi, bisbigliano i laghi, suonano i monti: la campanella della chiesa ove ebbe il battesimo, il vento che geme tra le croci del cimitero dei padri, la canzone notturna di una donna che piange, oh tutto gli dice:—A rivederci!
L'esule che cammina, che cammina, canta la canzone fanciullesca della sua terra.
Vedesti il mare, o esule? Vedesti il lavoro eterno ed alterno dell'onda coll'onda? Così è dell'uomo: è perseguito dall'infinito, è sbattuto all'infinito. Oh fortunato se sopra il suo capo vede brillare una stella!
Carità somma è nella musica. È raggio di sole, è bacio di luna nell'anima del cieco.
Che cosa è un libro di filosofia? Troppe volte è l'abito di lusso che copre la povertà del cuore.
La mamma t'insegnò che sempre sei sotto l'ali di un angiolo custode: la vita t'insegnerà che sarai sempre sotto l'incubo di un ghigno, il ghigno del dubbio. Oh, se puoi, rammenta sempre la mamma!
Ama la poesia. Essa dà l'ali al cuore.
Ama i cimiteri. Se la fede che hai nel cuore è fioca come il lumicino a notte acceso sulla tomba, deh! prendine cura, alimentala, soccorrila coll'amore. Che direbbe l'angiolo bianco custode nel piissimo luogo, se, passando innanzi la croce, nemmeno potesse leggerne il nome? Il lume che hai nel cuore sia vivido, così vivido sarà agli occhi di Dio il nome di chi ami.
Nulla avvi che maggiormente possa agghiacciare l'anima quanto l'elegante disprezzo che la società collo spirito arguto dei giovani versa sulle cose più intime e più sacre per affetto.
Ama la solitudine. Se qualcuno sorge fra i tuoi timidi ed occulti pensieri, tu prima di domandarlo con altro nome, chiamalo con questo,—fratello!—E se tu arrossirai, la tua solitudine sarà popolata.
Per chi studia e studia l'uomo scettico? I vermi della terra non fanno distinzione tra il suo cervello fastoso di nullità filosofiche e quello del vulgare idiota.
L'arte è la promessa del Sommo Perfetto.
Per chi studia l'uomo fidente? La donna che ne conobbe l'amoroso ingegno è il lume delle sue veglie.
La mamma ti diede una religione col battesimo dell'acqua: rendila tutta tua col battesimo delle lagrime.
Che cosa è la vita dell'uomo scettico? È un sentiero deserto che conduce a un cimitero desertissimo.
Finchè avrai lagrime per la musica, avrai religione pel dolore.
Il poeta solitario è come la lampada che arde innanzi le tombe: si consuma, gettando i suoi raggi sulle morte memorie. Ma sacra è la requie,
Una lagrima ad una lagrima. Le due amarezze si fondono in una ineffabile dolcezza.
Il flusso dei giorni fuggenti ha il riflusso delle memorie.
Sai tu che cosa è lo spirito? Troppe volte è la gola arrabbiata del serpe in cui la maldicenza ficca la sua saetta per trarnela avvelenata e scoccarla a tradimento.
Io non so che vita tu avrai. Te l'auguro felicissima: e somma felicità è poter lasciare un figlio. Ricordati: ch'egli impari tutto da te: il primo altare è il grembo di una madre, le prime panche di scuole le sue ginocchia, il primo raggio di poesia il suo sorriso.
I fiori crescono dappertutto, nei voluttuosi giardini degli harem, nei deserti cimiteri delle Alpi.
Le gioie intime che ti dà la religione saranno tanto più sante per te, quanto più cercate nella solitudine. Di esse sii custode con somma gelosia, nutrendo in te una soave mestizia. Nell'anima tua la croce del passato, piantata fra i fiori e gli spini, sotto il sole d'Iddio, protenda sempre l'ombra verso l'avvenire: a quell'ombra crescerà la viola della cara melanconia e sarà santa e profumata.
Per un fiore appassito nel libro dei ricordi rugiada è una lagrima di dolore.
Non passasti mai a sera davanti alla chiesa delle monache? Non udisti il canto delle litanie? Oh! prega requie per le povere morte-vive: pensa che quella poesia d'amore è più accetta a Lei se esce dalle bocche che cantano la ninnananna accosto ad una culla.
Se a sera cercherai un luogo solitario e nelle tenebre una stella che t'irraggi, proverai che l'anima non ha confini, che il campo dei ricordi si sposa all'azzurro delle speranze.
Quando verrà il giorno in cui troverai insufficente agli sfoghi dell'anima tua la formula di preghiera che t'insegnò la madre, t'accorgerai d'avere nel cuore la poesia stupenda che ti avrà versato l'amore, come torrente di lava.
Una parola di carità sulla bocca di uno scettico è come un fiore tra le mascelle di un cranio.
Sedesti sulla riva di un melanconico fiume, a sera, solitaria co' tuoi pensieri? Che ti dissero l'acque che passavano e passavano, l'acque che passeranno e passeranno?… O Dio! l'infinito è la desolazione!
Se il sole dell'amore non ci scalda il cuore negli anni della giovinezza, l'anima s'agghiaccia nel dubbio e bestemmia, delirando.—Chi sono? e perchè sono?—Addio! addio, tranquille e sante illusioni di un dì! Nel dubbio voi, fanciulle, consultate e consultate lo specchio, noi, giovani, apriamo lo scrigno: nell'anima inaridita nascono i tossici della solitudine, le invidie: e le invidie per chi? O Dio! per l'amica che sciupò i fiori della giovinezza, gettandoli nella carrozza di un milionario paralitico pei vizi; per l'amico che s'inchinò innanzi la giumenta d'oro. Addio! È sepolta la giovinezza al suono di due campane.—Odio a noi stessi, odio al nostro destino—: è sepolta desolatamente, e se ad essa si dovesse porre un'iscrizione, questa sarebbe—Semper pro me.—La trista virilità viene innanzi con tutta la ipocrisia della posatezza. Addio!…. Chi siete? Siete, o madonne, le arpie in cuffia e la bibbia vostra è il libro dell'avere: siete, o messeri, i mestieranti e nel cuore avete la bottega la più sozza. Andate, andate per la via fatale che vi è prescritta. Nessuno avrà dolore per voi: e perchè? Ma quando mai comprendeste l'amore? E l'amore è fede.
Se le squille dell'avemmaria, nel crepuscolo vespertino, ti straziano il cuore colla santa voluttà delle lagrime, oh piangi, evocando ricordi e suscitando speranze! Piangi e pensa che il tuo volto commosso sorride agli angioli, e gli angioli sorridono alla terra. In quell'ora non vi sono cattivi.
Ama la musica. Essa, come la religione di Gesù, affratella i felici e gl'infelici, i grandi e i piccoli, i belli o i brutti.
Piangi il partire delle rondini, piangi il cadere delle foglie. Confida che a primavera le rondinelle e le nuove foglioline ti portino nuove speranze.
La nausea dei sensi fu data ai bruti: all'uomo l'inestinguibile brama dell'infinito.
Sul libro della tua vita non hai che pagine candide: sono pochi i foglietti che hai svolto, incerti quelli che svolgerai. Se l'angiolo bianco, restituendo un dì il libro all'angiolo nero, trovasse fra le pagine un fiore, lo recherebbe alle fosse de' tuoi morti, dicendo:—Dio lo diede, è fiore di carità.
Se saprai tacere, saprai parlare. Il silenzio del savio è un gran libro chiuso.
Educa bene la mente. Se avrai figli, un giorno non ti chiederanno solo il pane del corpo.
La tomba è un leggìo sul quale la eguaglianza depone il volume chiuso d'ogni mortale, co' suoi fogli bianchi e neri: la verità rompe i suggelli e spalanca ai vivi le pagine un dì più nascoste.
Ai nostri dì nei sacrari si è introdotta una mitologia bottegaia, De' successori degli apostoli i più, come gli auguri romani, non possono guardarsi in faccia senza ridere: i molti abbassano gli occhi: pochissimi sanno levare la fronte alla croce, e levarla sorridendo. Ricordati: a te ministro di religione sia il cuore.
Amare l'arte significa sublimare l'ideale. Le civiltà antiche sono come i quadranti solari della umanità su cui l'idea radiante del Sommo Perfetto, segnò gli anni del progresso.
Cerca la solitudine: in essa troverai te stessa, e alla natura leverai l'immenso inno dell'amore.
Ho letto i libri dei filosofi ed ho riso: ho baciato la madre ed ho sorriso.
Osserva che il giorno, cioè la vita quotidiana, è luce, è lavoro, cui succede il crepuscolo, la semiluce, la pace. Siccome natura provvida ha fatto il giorno lungo pei bisogni della vita, il crepuscolo breve alla poesia, così la operosità dell'uomo è duratura, la bellezza della donna è fuggente.
La modestia sia la Vestale attentissima pel fuoco sacro che hai nel cuore.
L'anima nostra è tale che a volte sia piccina a contenere una goccia di rugiada, a volte sia troppo vasta per contenere i mari.
Opera la carità col cuore, che è carità indefinita, non colla mano, che è misurata.
L'anima precorre tempo e spazio, e non è come l'occhio, che crede cominci il cielo dove comincia l'orizzonte.
Meditai, cercando la solitudine, e scrissi appoggiandomi al muro di un cimitero. Guardando il cielo fra i neri boschi e sorridendo nell'azzurro alle larve della fantasia, io credetti d'avere pensato a qualcosa: contemplando le croci del tristissimo campo, m'accorsi che i miei pensieri furono deliri di mente malata. Tutto finisce! E che resterà di queste pagine?
Oropa, 11 luglio 1874.
Amica,
Credimi, amica mia, accompagnare questa data di tempo, 11 luglio, con quest'altra cara di luogo è una vera fortuna: io lo so! Ieri notte a Milano agitavo il ventaglio sì rabbiosamente da lacerarlo, oggi a sera, guardando sui monti i lumi accesi, indovinavo i focolari, e senza affatto paura tra la queta famiglia dei boscaioli fingevo un posticino anche per me ad ascoltare le vecchie istorie delle valli. Toltami finalmente all'afa di Milano e rinfrescatemi le labbra con un'acqua purissima, sento bisogno di fare qualcosa o per lo meno di chiacchierare un pochino. Se mi ascolti, quando ti rivedrò prometto farti tanti baci di più, e di dirti ancora la mia compiacentissima amica.
Da Milano a Biella voler descrivere il viaggio sarebbe come dire:—Leggi l'orario e ti divertirai!—Sì, una monotonia, un piano, una noia da far piangere, quando si rammentino le vetture dei nostri nonni. Almeno noi ebbimo l'aiuto del vapore; e la locomotiva, sbuffando una negra tempesta mischiata alle faville ed alla polvere, ci tolse in fretta alle immense praterie, alle adacquatrici maestre, ai campi di granoturco, alle filarate di gelsi, e via via.
A Biella ti s'allarga il cuore: la collina è gaia, la macchia generale del paese viva e svariata, le montagne a sfondo, se sono belle pei pittori, sono bellissime certo e buonissime per due poveri occhi stanchi di tutto, persino dei pince-nez affumicati, per due meschini polmoni, nati proprio per l'aria dell'Alpi. Ma ahimè! bisogna prepararci ad uno strazio! scesi appena dal vagone, una turba di monellacci-vetturini così assedia i viaggiatori, che andarne illesi con tutto l'abito a posto o senza una trafittura nel cervello, è cosa da schizzare un quadretto e recarlo votivamente al Santuario.—Oropa! Oropa! Oropa!—scoppia il grido d'ogni parte, e schioccano le fruste e imbizzarriscono le bestie. Lah! tiriamo innanzi colla carrozza. Biella non saprei giudicarla, così di sfuggita: ha portici, chiese a colonnati classici, vie discrete, ma insomma le muraglie danno sempre l'idea del caldo; riposiamo dunque lo sguardo sulla verzura, l'immensa verzura che, assumendo cento toni, si stende nelle valli, pare si rannicchi nelle gole, s'inazzurra nei lontani sfondi, trionfa sui monti, e finisce alle cime con qualche ciuffetto che stacca sul cielo come una pennellata bizzarra. Le strade abbenchè erte sono bellissime e senza scheggloni, e per lo più ombreggiate, ma con tante e tante svolte sì che le quattro miglia da Biella a Oropa fanno un viaggetto di un paio d'ore. A sinistra s'incontra lo stabilimento idroterapico di Cossilla, un bianco fabbricato tutto ad archi acuti soprapposti, elegante, tale che l'immaginazione dentro ci gioca, cercando l'insidia degli sprazzi d'acqua, e, forse più, degli sprazzi di luce de' begli occhi. Una signora in veste da camera stancamente si sorreggeva ad una colonnina di un loggiato, e pareva una figura veneta, nell'attesa della gondola tizianesca. Poi la strada s'inerpica e lascia giù vedere, oltre l'insieme grandioso, i dettagli pittorici di certi ponticelli di legno, certe chiuse fresche, e siepi e casette e cascate e rompimenti, e certe nicchie erbose da destare la vocazione d'eremita. Oh! cara mia, non voglio dimenticare le belle macchiette: le donne e gli uomini attendono ai lavori, non ci alzano il capo incontro, ond'io solamente ti so dire che recano falcioni da fieno e corbe, o tranquillamente girano il fuso della conocchia o impagliano scranne: ma i bimbi e le ragazzine sono creature con una faccia bellamente audace, con un corpo tondo, sodo, sicurissimo, macchiette da acquerellare sul tuo album. Non so i nomi dei paeselli: so bensì che in ognuno c'è una fontana ristoratrice. Lo stabilimento idroterapico che di quando in quando ci addita il vetturale colla sua frusta, si viene avvicinando all'occhio, con grande inganno, perchè la strada raddoppia i giri ed i rigiri. Un po' di pazienza ancora. Infanto ci sono sempre da ammirare i bei massi quarzosi, i pendii sparsi di fieno falciato, e i castagni che curvano i loro rami con protezione sui passeggiatori.
Eccoci alio stabilmento Mazzucchetti. È una casa grande, bianca, con tante finestrine da collegio, un terrazzo, una scalea, i portichetti, un tutt'insieme che mi rammenta i muraglioni scabri della riviera genovese e le cellette di Monte San Bernardo. I lenzuoli tesi ad asciugare, l'aria frizzante, e qualche signora accoccolata su un panchetto collo scialle, fanno subito pensare, con un moto di pigrizia:—Io non sono ammalata! Dio sa che bagni freddi!—Poi ci consoliamo entrando e chiedendo dopo il viaggio il tranquillo lettuccio. Ancora ci stringiamo nelle spalle, passando per un corritojo appoggiato ad una roccia stillante e per gli altri ancora soprapposti, come nella costruzione dei conventi. È inutile che io ti descriva la mia cameretta; quello che ti voglio dire è che la sento freschissima, e corro a spalancarne le finestre. Una guarda giù verso Biella, ove digradano le montagne, e là si stende un piano azzurro sterminato, una diffusione di vapori che solo ti rammenta il mare. E come lo rammentai! Pensai a Lucy che in questi giorni sarà a Pegli, candida nuotatrice delle ore cocenti, mesta, poeticissima indovina dei dolori altrui, quando la sera sederà alla spiaggia, interrogando il gran libro del cielo! L'altra mia finestra guarda su verso il Santuario le montagne paonazzicce e verdi, separate alle falde dalla striscia sassosa del torrente: vedo certe casette, che mi rammentano i miei giocattoli di un dì, le bell'ombre invitanti alla lettura, le bianche cappelle che segnano la via alla chiesa.—Cara mia, la penna vale niente: colla matita mi sforzerò di mostrarti qualcosa al mio ritorno.
Per oggi non posso dirti nient'altro, perchè non istetti insieme ai bagnanti, nè mi ghiacciai coll'acqua salutare. Ma domani comincerò a far annotazioni.
Da una finestra vedo dei parasoli chiari spargersi sul terrazzo, e sott'essi degli abiti di foulard crudo; qualche fanciullo cattivello correre all'impazzata; e quattro uomini sedersi coi giornali in mano. Dall'altra vedo niente; solo ascolto le gentilissime voci di una conversazione francese nella quale a vece di punti e virgole ci sono delle risa: e giù il fragore delle acque cadenti e il sonare dei campanacci delle mandre su per i pendii.
Ti dirò solo come io so che nello stabilimento c'è ogni sorta di cure, sala di lettura, sala da ballo, sala da bigliardo, posta, ufficio telegrafico, coiffeur ecc. Spero di trovarmi bene: un vantaggio grande che si ha dal bevere a questi zampilli montani si è quello del'obblio: sì, io ho dimenticato che ieri a Milano soffocavo!… Ma sopraggiunge la sera colle nebbioline nelle valli e col suono delle avemmarie: ti vorrei avere vicina, e vorrei che Lucy colle sue manine ci aprisse il volumetto dell'Aleardi. Che begli istanti sarebbero! Che amorosissima pace!
Scusami se chiudo l'Aleardi, ma gli è perchè passeggiando sul terrazzo mi viene incontro una signora. Porta essa una casacca assettata con baschine ripiegate, in casimiro, riccamente guarnita di ricamo, imperlata di lustrino. Tu la conosci: è la contessa V. di Napoli: ed io pure la conobbi ai bagni dell'Ardenza. Dà la colpa a lei, m'interrompe la lettura e mi conduce a passeggiare.
A rivederci adunque.
Oropa, 23 luglio 1874,
Amica,
Scrivere questa lettera è per me un peccatuccio che mi punge la coscienza. Difatti, lodare i monti, l'aria freschissima, l'acqua salutare, la vita montana, a chi proprio non vede che i muraglioni soffocanti di una città, e spalanca le labbra, invano supplicando al giardino del caffè Cova un alito di vento ossigenato e una tazza sudata di acqua ristoratrice, lodare, dico, ciò che io gusto e altri invidia con troppo ardore, non mi pare una bella cosa. Ma dunque dovrei tacere? No, certo: e tu non vuoi perchè mi stuzzichi con lettere nelle quali paiono messi giù da te apposta i termini di paragone fra le mie giornate e le tue. La colpa è a metà: bada che dico alla mia coscienza di mettersi tranquilla, e intingo la penna.
Da due settimane sono a Oropa, e per quanto abbia pensato a riscriverti, davvero non mi ci sono mai decisa, non sapendo come incominciare le mie descrizioni. Se ti dicessi le giornate tali quali sono, farei un guazzabuglio da spaventarti: capisco che bisogna mettere ordine.
Penso e ripenso…. Pure non so raccogliere le idee principali, e a queste subordinare le secondarie: sai, gli schizzi che ho fatto colla matita mi guastarono anche la penna.
Come mi sbrigo? Fa conto ch'io abbia tra le mani il tuo albo e sbizzarrisca di foglietto in foglietto.
* * *
Sappi dunque, amica cara, che al mattino non mi sveglierebbero punto i canti delle falciatrici di fieno, nè il rumore delle scarpacce dei pastori, nè il muggito delle acque cadenti. No! ma mi sveglia, picchiando sull'uscio colla nocca delle dita, la bagnina, che ha tanto coraggio d'augurarmi il buon giorno! Cattivissima e ruvida, a cinque ore! Sonnolenta, brontolona, freddolosa, raccolgo le poche robe, mi involgo in uno sciallo, e scendo al bagno. L'acqua è così fredda che manda il sonno a mille miglia, e, stringendo le gambe e le braccia come con tante anella d'acciaio tagliente, fa sentire strapotente il bisogno di un moto il più accelerato. Gli è in quest'ora che pei corritoi vedi correre gli uomini imbacuccati nelle copertone di lana, e le signore scendere in giardino al primo raggio di sole.
* * *
Dopo la colazione, ad ore otto, lo Stabilimento a poco a poco si acquieta: i signori escono a passeggio, e di solito verso il santuario dì Oropa, le signore si chiudono nelle camere: solo si vede qualche crocchio di politici, in cui biancheggia la Gazzetta del Popolo, l'Opinione, la Nazione e altre carte imbrattate: qualche romantica e qualche romantico, coll'albo o con un libro, si dilungano giù pei viali ombreggiati del monte. Buon disegno e buona lettura. Per me li ammiro e vorrei…. Ma oh! vedi prosaccia, batto i denti, solo pensando che m'aspettano, a undici ore, la doccia e l'orizzontale. Sai, amica mia, e l'una e l'altra danno tante migliaia di trafitture di ghiacciuoli spietatissimi, sì che ci sarebbe da gridare, credendo di essere conci come pelli da crivello!
* * *
Alle dodici e mezza squilla la campanella del pranzo. A tavola ti presento conti e contesse, marchesi e marchese, e cavalieri e ufficiali e commendatori: ti mostro abiti elegantissimi, pizzi, gioie e pettinature; ti faccio ascoltare discorsi in fiorentino aspirato, in ruvido piemontese, in italiano guasto da labbra milanesi, in rapido veneziano, in pretto genovese. Mescola tutto assieme: tra la vanità, la pompa, le chiacchiere, esce una sola risultante, data da madre natura: una fame impaziente. Ond'è che i medaglioni stemmati oscillano prosaicamente da un collo bianco su un piatto di zuppa, un panetto o una dozzina di grissini valgono un pizzo, da cento labbra fuggono le eleganti vacuità per dare adito alla forchetta. Signor medico cavaliere, evviva dunque la cara idropatica, che dà buon sapore alla cucina!
* * *
Dopo pranzo c'è la sfilata all'ufficio della posta. Di loro, signori uomini, non mi occupo: parlo delle mie consorelle peccatrici di vanità. Vedo sottane in seta adorne di pieghettati in granadina, guarniture di ricami bianchi, corsetti a punta davanti e a baschina di dietro, fisciù in granadina, arricciature in tulle di Bruxelles, gonne con sbiechi di velluto, tuniche polacche, cappelli a veli svolazzanti, e via e via. In particolare poi ti cito la contessa B. di Torino, le due contesse R. e S. di Firenze, la marchesa S. di Piacenza, la contessa C. di Milano.
* * *
Il terzo bagno non merita di essere nominato: e la cena si assomiglia al pranzo. Dunque sto zitta: e attendo la sera.
A sera c'è radunata nel salone, si fanno crocchi, si ballano dei lancieri e delle quadriglie, si chiacchiera….
Vuoi ascoltare? Mi fai un verissimo piacere: perchè così rompo l'ordine cronologico, e salto con te di palo in frasca.
—Dunque che mi dice, contessa?
—Che vuole, commendatore?
—Innanzi tutto, notizie della sua salute.
—Oh la va per benino. L'aria è fresca, l'acqua frizzante, ma la cucina…. la cucina!
Sdruccioliamo nella prosa. ti consiglio a cambiar posto.
* * *
—C'è nessuna sociabilità: io non so perchè, Perchè coi nuovi venuti si è così discortesi? Non dovrebbero gli ospiti vecchi fare gli onori di casa ai nuovi? Si sa, la noia stizzosa dei primi giorni fa andar a male la cura.
—Perchè, dice? Perchè l'Italia è fatta, ma non sono fatti gli italiani.
Qui si dicono belle verità: cambia crocchio o saresti segnata a dito.
* * *
—Sì, sì, l'ho veduto il corsetto.
—Com'era?
—Era aperto a cuore: aveva un fisciù in granadina nera e malva: lo stesso ricamo forma attorno delle conchiglie spiegate: una arricciatura….
Ti diverti? Credo che il Mode tu l'abbia già letto.
* * *
—Questo stabilimento manca di molte cose,
—Ha mille ragioni.
—Manca di sala da lettura, di gabinetti di fiori, di libri, di musiche.
—E poi, sa, le signore devono inerpicarsi su al santuario per la messa della domenica! L'erta è difficile.
—A questo si provvederà. Avremo una mezza festicciuola: s'inaugurerà dal vescovo di Biella un altare nel corridoio, con lusso di fiori e di festoni.
—Quando?
—Ma non ha letto il programma? No? Oh guardi mo! Domenica avremo la cerimonia religiosa: poi i giuochi profani, cioè il tempio di Bacco con zampilli di vino, la corsa nel sacco, il ballo popolare, e a dopo pranzo, ancora il ballo, la lotteria artistica, i fuochi di artifizio, il falò. Un complesso da far strabiliare i bagnanti d'Andorno e di Cossilla.
—Ma bene! ma bene!
—Vedremo. Così ci sarà un po' d'allegria: qui la vita è troppo monotona, e sì che c'è tanta gente!
—Tutti i giorni il direttore deve rifiutare domande.
—Persino gli abbaini sono occupati,
In questo crocchio non c'è male. Peccato che scenda la notte.
* * *
Prima di recarmi nel salone voglio bisbigliare con te:
—Perchè sei così triste?
—Io? no.
—Ma sì!
—Ti sbagli.
—Che cosa aspetti?
—Una tua stretta di mano.
Oropa, 27 agosto 1874.
Amica,
Devi sapere ch'io sono venuta ad Oropa coll'Albo da disegno e qualche libro, di quelli che, scritti in faccia alla natura, vogliono essere letti sotto l'immenso cielo, con una zolla d'erba a leggìo, con un fiore a segno, coll'auretta che ne volge le pagine, quasi profumando i pensieri ad esse consegnati. Cara amica, tra pochi giorni io partirò da questi monti! Sono certissima che l'albo mi farà spargere qualche lagrimuccia, quando co' suoi fogli disegnati mi rammenterà i luoghi cari alla meditazione, quando colle traccie dei fogli staccati mi ricorderà le manine gentili, che strinsero la mia in rendimento di grazie. Quei libri, colle righe sottolineate appassionatamente, letti e riletti nei brani descrittivi, declamati in quelli affettuosi, poseranno sul mio tavolo da lavoro, in città, non più aperti nella triste semiluce, a carissimo ricordo, a dubbiosa promessa:—A tante persone ho detto: a rivederci l'anno venturo…. Ci rivedremo?
Ho incominciato così la mia lettera per farti capire ch'ella non è punto una lettera. No, voglio che noi passeggiamo insieme discorrendo.
* * *
Quando io penso ai mesi di luglio che ho passato per l'addietro, e li confronto col luglio e l'agosto di quest'anno di grazia, dico la verità che ho tale stizza con chi mi mandò ad arroventarmi ai bagni di mare e con me stessa così pigra, come se io avessi le radici nella mia città, tale stizza ho, che mi mordo la lingua, piuttostochè fare di peggio. E dico alle eleganti che strascicano la seta sulle ghiaie di Pegli:—O poverine!—A me poi leggo gli spettacoli diversi la cronaca cittadina e il bollettino meteorologico di qualche foglio! Ma mi era possibile sopportare l'afa di un teatro, la noia di un concerto, la perpetua atmosfera di piombo colato? Oh, in riparazione, ho fatto anch'io un mezzo voto al santuario d'Oropa: quello, cioè, di accettare nella vita tutto e con pazienza, tranne…. l'estate in città!
* * *
A mille e ventidue metri sul livello del mare, da un monte su cui l'arnica coi fiori gialli dieci volte in un dì è circonfusa di nebbie, per poi brillare come un oro al sole più raggiante, io figgo giù gli occhi a voi poverini: laggiù, laggiù, indovino le aguglie della mia città. Tanto io sto bene, che dimentico di essere stata male, nell'aria bevo a sorsate l'oblìo a me sì necessario, guardo su le cime del brullo Mucrone, con invidia, poi giù ancora contemplo il vastissimo piano. Vedi: in quel semicerchio di monti, a sinistra, il paese d'Andorno, che spicca illuminato su una frana rossiccia, nel mezzo ecco certi dossi boscosi di un verde metallico, a sinistra i tetti del Favaro. Al di là, il piano si stende, con macchiette bianche, con lucidi serpeggiamenti, con ombre pavonazze di colline, poi si fonde tranquillamente in un tono azzurriccio, su cui a liste si vedono le ombre proiettate dalle nubi: il piano si perde, sfuma in un vapore. L'occhio dice—finisce:—ma il desiderio va oltre, si spande, e trova ancora i piani, i monti, il mare!
Credi: queste vedute così estese mi fanno meditare…. Che cosa è il desiderio? Che cosa è la vita? Sugli orizzonti del pensiero perchè, come su questo, tramonta un altro sole, quello della speranza?—Non so rispondere io, non sai tu: risponde il canto di una fanciulla, Ella è contenta, torna alla casetta sua, e della vita non conosce i misteri nella fortunata ignoranza.
* * *
La fanciulla è una falciatrice di fieno. Vogliamo, o cara, copiarla sull'albo? Ella porta una gonna di cotone bleu, col busto compagno, colla camicia bianca stretta al collo con pieghe gelose: un fazzoletto rosso è allacciato sul capo con una foggia bellissima, sì da lasciare due lembi svolazzanti sulle orecchie. Non guardo punto a' suoi lineamenti: tutto è nell'espressione, e questa dice:—Ho la contentezza del cuore.—E fa tanto piacere discorrere con essa! Perchè la fanciulla non è ritrosa, perchè dice che ha tante mucche e tanto fieno falciato, e i fratelli e il babbo lavorano giù negli opifici del Biellese. La vita le va per benone, e lo sposo, grazie alla Madonna d'Oropa, sarà un garzonotto, bersagliere dell'Alpi.
* * *
Le casette che vedi sui monti sono le stalle per le mucche nella stagione dei pascoli: all'inverno i pastori scendono al piano, e le lasciano ai venti e alle nevi. Le sono casine murate a sassi irregolari, coi tetti di pietra lucente, col portichetto a pilastri azzurrigni, coll'orticello verdeggiante, cinto da un muricciolo di scheggioni ammucchiati: vicino c'è sempre uno zampillo, e lì distesi sul declivo i rotoli casalinghi di tela montanara, c'è un frascato che invita ai discorsi…. Oh che discorsi! Fra il ciondolare dei campanacci e il mugghiare delle vacche, non si sa che dire:—Vogliamo assaggiare una ciotola di latte? un po' di burro fresco?
Detto, fatto: l'assicuro io, che ho visto personcine morbide, che non si sdraiano se non sul velluto, persone gravi che siedono su seggioloni d'autorità, magari nel Parlamento e nel Senato, signore e signori su un pratello o su un panchino di legno s'assettano alla meglio, e, chiacchierando colla massaia che fila e coi bimbi venditori di mazzoni d'arnica, si sentono figli anch'essi d'Adamo, e costole di Adamo, il primo fannullone o il primo contemplatore della natura. Fra le ciarle si ascoltano i nomi del santuario di Graglia e di quello d'Oropa.
Discorriamo d'Oropa.
* * *
O meglio ancora, avviamoci. È una delle più belle passeggiate, per la strada pittoresca, e perchè la meta, celata nel seno del monte, invoglia a continuare sempre il cammino per iscoprirla. Prima del 1620 non era il caso di dire—avviamoci. Oh no! bisognava baciare i cari e la soglia della casa, poi mettersi al pellegrinaggio, per selve, per frane, per stagni, per ciglioni di precipizi. Che parolacce le sono queste? Oggidì, grazie all'abate Bertodani, si passeggia su una strada larga, liscia, ombreggiata, ad ogni tanto facendo sosta al parapetto per contemplare o una cappella, o giù la vallea col mugghiante Oropa, o la vetta su del Mucrone, oppure per cogliere una margheritina e per interrogarla. Purchè si eviti il sabbato, giorno in cui i valligiani salgono a vere processioni, e l'ora in cui passano gli omnibus fragorosi. E va, e va: il santuario si scopre solo all'ultima voltata della strada: apparisce un aggregato immenso e basso di fabbriche diverse, tutto bigio, con una cancellata a lance d'oro, sullo sfondo di un monte arsiccio. Tutti quelli che lo descrissero usarono le cifre, dicendo le misure, la fondazione, gli ampliamenti, e via: io vorrei adoperare la matita, ma non so proprio da dove incominciare, nè so metter giù le linee da ingegnere o da prospettico. Pazienza! chiudo l'albo e m'abbandono alle impressioni. Il primo cortile ha l'aria animata di un luogo di fiera: la piazza, da cui vedesi il piano del Vercellese e del Novarese, la scalea barocca piena di gente oziosa e sdraiata, la fronte dell'edificio reale colle statue dipinte e gli stemmi d'oro, i porticati dorici, tutto mi piace e mi ricorda qualche cosa di Genova: il secondo cortile colla fontana, la chiesa e i pratelli mi dà una mestizia indefinita. Oh quanta gente! E concorre da tutte le valli! Ti dirò che ascoltai un canto di litanie, triste, confidente, soavissimo, che usciva da una finestra della chiesa: e vidi ad allietar la gronda di quel luogo d'ospitalità un nuvolo di rondini, aleggianti, coll'ali azzurre. E contemplando gli archi, la fontana, la chiesa, i pratelli, ebbi un momento di dolcissima mestizia.
* * *
Fuori dell'ospizio abbiamo due bellissime passeggiate: l'una sulla strada che deve condurre a San Giovanni d'Andorno, l'altra al cimitero nuovo. La prima fu incominciata nel 1870: taglia la cresta della montagna, all'alto resa pittoresca da una frana di sassi, immensa, arida, scheggiosa; al basso allegrata da una selva di faggi, dalle cascate dell'Oropa, da un ponticello di legno, e mille accidenti che invero la fanno somigliare al viale di un parco. Peccato che proceda così a rilento! E fortuna che è così bella! L'altra strada va su alle chiese, e devia ad uno spiano, ove si è eretto un muro elittico ad una cappellina gotica così cara da far pensare alle bianche nozze, non alla pace della buia notte. Continua poi di faccia alla precedente, e dovrebbe arrivare fino allo Stabilimento idropatico del cavalier Mazzucchetti: questa è ancor più lieta, più ariosa, popolata da cascinali, fresca d'acqua, propizia d'ombre e di riposi.
* * *
Una terza passeggiata è al lago del Mucrone: non te l'ho citata ora, perchè te l'avrei detta altre volte parlando dei sentieri da capra, perchè so di una signora che volle su arrampicarsi, ma a metà discese nella corba e sulle spalle di un montanaro!
Ma ancora quante altre passeggiate! Ami la natura? Sì: orbene puoi scorrazzare ad un masso gigante, ad un rompimento, ad uno zampillo, ad una mandra di mucche, ad un cespo di rododendron, ad un sorbo carico di grappolini rossi. Va e va! Dimentica, se qualche cosa hai che ti fece soffrire.
Quando sentirai una voce che ti domandi, ascoltala, ridiventa mesta, e chiama anche tu, chiama l'amica.
Oropa, 8 settembre 1874.
Amica,
Gettando uno sguardo sui bauli già empiuti e chiusi, sola nella mia camera spogliata, tanto melanconica davvero, sento uno di quegli stringicori che cento volte fanno dire addio. E in fondo in fondo un dispettuccio mi punzecchia la coscienza, come un morso di zanzara. Devo dirtelo? Mi pento di essere stata teco un po' imbronciata; e il dolore non è per te proprio, giacchè penso che, fra un giorno, dandoti una stretta di mano, avrò subito ottenuto il tuo sorriso; il dolore è per me, che mi lamento e mi lamenterò sempre di non aver saputo tracciare una dozzina di righe nei dì più lieti di questo soggiorno. Mi sarebbe stata cosa gradita, in città, nei momenti di noia, aprire un foglietto, nel quale trovare delineati quei particolari, che, a volerli dappoi richiamare col ricordo, sfumano dietro un velo della nostra mente, per eccitare il desiderio. Rispondi, cara: non è così? Alcune volte una sola data scritta sul tuo portafogli non ti fa dire:—Ah ci sei?—e non t'illudi di poter arrestare per poco il tempo, farlo retrocedere a tuo agio, legarlo fisso a quel punto, che è tuo?
È vero che peccato confessato è mezzo perdonato: ma a me non so punto perdonare, ed ho tanta severità da impormi una riparazione. Se non avrò un ricordo colla data di tempo, almeno lo voglio con quella di luogo.
* * *
Scrivo adunque Oropa sull'unico foglietto di carta che mi rimane, e ancora desidero….
Desidero che cosa? Forse il bagno all'alba, la doccia a spilli, la sem-immersione ghiacciata?.. E perchè no? Brontolando di pigrissìma stizza, sia pure, dal letto passavo sul balcone per avviarmi alla vasca, ma, senti, sul cielo mattutino vedevo i monti tanto belli e tanto in pace: uscendo dalla buia stanzuccia della doccia a mezzodì, trovavo vigore in dosso, sì che speravo che la mia mano non avrebbe per l'avanti solo svolte le pagine di qualche libro, ma si sarebbe stretta a un alpenstok; a vespro, per la reazione del bagno, sceglievo la più erta passeggiata, e su per gli scheggioni cantarellando, a tratto facendomi silenziosa, pensavo ai nomi insigni delle Alpi, con cui fregiare il mio bastone dal corno di camoscio, e pensavo ai libri che si accorderebbero alla poeticissima contemplazione della natura. No, signora mia, non fui una pigraccia: col desiderio ho fatto poi di quei voli da conoscere tutta la rosa dei venti. Se tu ti fossi seduta sull'estremo masso di quel dosso, detto dei tre cantoni! Come non illudere te stessa! Come non credere d'aver l'ali, dinnanzi un panorama sterminato, che ha solo per raffronto il mare?
* * *
I più bei dì del mio soggiorno li trovo qui ricordati da sette ad otto giornali politici, di quelli che non servirono a involgere niente, tanto grami sono i disutilacci! Essi me li ricordano col loro bollettino meteorologico: questo segnava per noi un'atmosfera da caldaia bollente. Grazie tante: da noi non ho veduto mai termometro, e lo star bene aveva due sole gradazioni superlative.—Sto benissimo. Sto arcibenissimo.—Vuoi di più, mia cara?
Voi che facevate? I vostri spettacoli cittadini vi persuadevano a quel sonno che non concedeva madre natura, spietata infuocatrice, e la vostra languidezza e i vostri sudori non commuovevano il cielo inesorabilmente azzurro.—Noi che facevamo? Non credere che fossimo qui per essere solo i martiri dell'acqua ghiacciata: stammi ad ascoltare, e tu pure applaudirai.
* * *
Entro in argomento, parlandoti addirittura della nostra festa del 24 luglio. Devi sapere che i preparativi servirono a divertire una settimana prima eccitando desideri e impiegando facoltà pensatrici, perchè tutto andasse per bene. Fu aperta una sottoscrizione, fu tenuta un'adunanza, fu eletta una commissione, col nome di una gentile patronessa in capo: abbiti le iniziali dei due signori direttori,—conte colonnello F, commendatore colonnello G.—Un programma venne affisso, e la fama gonfiò le gote, sonando la tromba su a Oropa, per la valle, e giù ai bagnanti d'Andorno e di Cossilla: così per l'entrata principale dello stabilimento sfilarono molte gentili spettatrici, e pel cancello che dà al sentiero dei monti vennero ritrose le guardatrici di mucche, e pieni di voglia i robusti garzonotti.—Sullo spiano innanzi lo stabilimento, ponendo delle panche e dei sedili si determinò uno spazio rettangolare: in giro la gente si affollò, ai posti d'onore sedendo le dame e i cavalieri, dietro, le ancelle e i valletti, dietro ancora, il popolo minuto; fu dato il segno: e nella onorata lizza comparvero i campioni…. Sei o sette giovanotti, i quali entrarono colle gambe in un sacco, se ne strinsero le funicelle intorno alla vita; e poi al suono di una musica olimpicamente eccitatrice di muscoli gagliardi, presero a saltare verso la meta, balzando innanzi come spiritati, e cadendo arrovesciati, impigliandosi, e sorgendo da animosi.—T'assicuro che proprio bisognava ridere di buon cuore, e bisognava applaudire, perchè nella gara non c'era punto pericolo, ma c'era tutta la gioia e tutto lo spettacolo grottesco: si rise e si battè le mani a tutti, e se pel vincitore non s'intrecciò una corona classica, poco male, che per lui splendette nelle mani della patronessa un dieci lire d'oro, caro come un sole. Dopo di che, la lizza non fu contrastata colla forza, sibbene colle dolci paroline, e le coppie, dapprima vergognose, poi audaci per gli applausi e pel vicino tempio di Bacco, largo dispensiero di vini, le coppie del ballo popolare slanciaronsi, rispondendo all'invito del programma: bagnini, montanari, bagnine, cameriere, stancarono le gambe, non le voglie, fino all'ora di cena. Evvivano gli spassi!
* * *
Dopo cena trovammo sullo spiano e sul terrazzo, dondolanti sui fili all'aria del vespro, tanti palloncini di carta, lisci o crespi, e d'un colore o di due o di tre: e vedemmo un aereostato salire maestosamente, su, su e mostrare alle nostre bocche attonite la sua boccaccia infuocata, e su, e su…. Non scorgemmo più niente: invidiammo gli immensi campi della poesia azzurra, ci fecimo augurio d'essere palloncini: ma oh! a rammentare la nostra natura impotente un altro aerostato compagno non volle spingersi, dondolò, si fe' ribelle a tutti i voti, e cadde a terra, con una fiamma fugace, ricordandoci quel detto di Salomone sulla vanità delle vanità….. S'accesero i palloncini variopinti, e da tutte le finestre dello stabilimento brillarono due candellieri: illuminazione fastosa ad onore della Dea Salute, e della sua invidiata sorella Contentezza. Pel contrasto dei lumi, fatti bui il monte e la vallea, lo spazio allegro parve più ristretto e più affollato: molti rossori si confusero ai riflessi dei palloncini vermigli, molte ritrosie furono vinte dall'onda armoniosa, e la danza regnò, esultò, non diede più stanchezza. Intanto da una rupe di faccia al teatro della gazzarra, salivano al cielo, squarciando l'aria e crepitando e scoppiando, cento razzi a pennacchi di fuoco, a gruppi di stelle, a luci vividissime; le girandole disegnavano vortici di scintille: il bengala tricolore pingeva, come nei sogni delle fate, il paesaggio sì da farlo credere trasparente: e un immenso falò finale annunziava a quei di Cossilla e Andorno il tripudio dei bagnanti confratelli.
* * *
Dopo il falò lo spiano fu animato da fervidissime danze: e incominciò la festa, la vera festa distinta, nelle sale. Udimmo un pezzo a quattro mani, eseguito con sì gentile intendimento d'arte elettissima da farcene per lungo tempo aver caro il ricordo: udimmo un motivo della Linda, che fu un regalo grazioso. Poi fra le danze e i complimenti, c'intrattenemmo discorrendo della giornata, e ognuno facendone la chiusura colle più grate lodi. Non era finita, no! Con grande sorpresa, a dieci ore, squilla la campanetta degli arrivi, e s'odono la voce del maggiordomo e i passi di nuovi venuti. Chi saranno? a quest'ora? che?… Entra nella sala un'elegante dottore Dulcamara, con uno spigliato moretto: quello pieno di gentilezza per le signore, e questo di regali: lo specifico elisire ci venne offerto con canto briosissimo e con lazzi sollazzevoli da eccitare le risa le più belle. La sera si passò piacevolmente, e a mezzanotte la sala era ancora lieta e affollata.
* * *
Il dì dopo a mattina, molte camerine di bagno furono deserte, ma a capo di molti letti posava il mazzetto di fiori offerto, gentile testimone alla schietta gioia della sera e del placidissimo riposo della notte.
E s'io ebbi il mazzetto ti confesserò a voce, e in un orecchio ti dirò….
(LETTERE ALLA Vita Nuova.)
Dallo Stabilimento Idropatico Mazzucchetti.
All'altezza di mille metri press'a poco sul livello del mare, tra il flagellare rabbioso della doccia orizzontale, della pioggia, del soffione, della circolare, e le bastonature della colonna mobile e il rombare cupo dell'acque che s'avventano nelle vasche dei bagni scozzesi, colla massima convinzione affermo e provo che, fra i sorrisi delle bocche contente, a questo mondo si deve porre non ultimo quello dell'uomo, che, uscendo di sotto ai freddi portici di uno stabilimento idropatico, va alla sala di lettura, e, per aspettare la tarda campanella del pranzo, piglia un giornale qualunque, e due, e tre…. Un giornale? Che cos'è? Come si fa? Che affaracci ci sono laggiù nel basso mondo?… Mah? È gran che se l'uomo capisce qualche cosa delle sessantamila lire, dell'articolo di fondo, dei dispacci turchi e dei serbi. Ma ecco il bollettino meteorologico:—32, 34, 35 gradi! A Milano si bolle come la minestra, a Bologna si va in brodo, a Firenze si prepara l'arrosto. Oh implacabile cielo! Cielo, che ti compiaci dei nostri foulards agitati, degli incessanti ventagli, dei nobili sudori e dei plebei, delle tolette svelatrici e de' costumi senza foglia o camicia!—Mi pare di vederla questa Milano!—dice l'uomo:—Vampeggiano i tetti coi mille fumaiuoli abbrunati, vampeggiano i selciati lucidissimi, vampeggia il Duomo, come un gigante calcinato dal sole, e sulla maggiore aguglia la povera Madonnina dorata saetta dei baleni scottanti. La città è mezzo deserta. Chi ha fretta s'impaccia sotto le tende sporgenti dalle botteghe e magari sogna una cabina da bagno in riva al mare: corrono gli omnibus e i broughams sopraccarichi di bauli, colle bianche faccine di dentro, che vanno a farsi brune, e i cocchieri sul serpe, colla facciona cioccolatte, che, rubando la corsa al padrone, andranno all'osteria a farsi biondi: gli scolaretti, che all'esame hanno trovato lo scoglio del greco o dell'algebra, fanno trottare le sartine, e le sartine, nell'odoroso percale, sudate, rubiconde, rompono l'aria insidiosamente: gli uomini d'affari hanno comperato il parasole: le sentinelle personificano la rassegnazione umana: i preti guardano insù; ma solo le portinaie discinte escono giù cogli annaffiatoi in mano e i numeri del lotto in cuore: il cielo è un piombo che non lascia sperare una stilla. Chiuse le persiane dei primi piani, secchi i fiori degli abbaini, colme le tazzone di birra per gli uomini, e dallo sciame minuto della poveraglia invocati i sorbetti della carriuola tintinnante…. Oh che arsura! oh che sollione! oh che vita! Solo godono un po' di fresco le beghine sdentate, che all'alba lumacano alle chiese chiamate dalla campana pettegola, e i gatti unghiati, che in ogni ora del giorno scappano alle cantine muffe senza buscarsi il raffreddore…. Oh, per carità del buon Dio, venga presto la sera per lasciarci dire: anche oggi è andato! La sera, dopo una passeggiatina calma e silenziosa, si va al caffè, su una piazzuola, dove ci sia un filo di verde e ancora qualche abitino assestato alla persona e qualche scarpetta bassa. Ah! come ci sediamo volentieri! Bell'invenzione, sapete, quella delle seggiole di legno piegato a vapore, leggiere come una galla, col sedere che lascia passar l'aria! Facendoci vento col panama e col fazzoletto, aggiustandoci più in su dei ginocchi le pieghe sudate dei pantaloni, torcendo la faccia a una buffata di fumo caldo che c'invia il vicino, ed occhieggiando:—Il tale?—si domanda.—È andato in campagna, alle acque, ai monti, al mare.—Sì?—Sì.—Eh! ci andrei anch'io, se….—Che cosa?—(Non si vuole confessare la verità e si dice:)—Se non avessi affari!—Si è pigri, sissignori: si temono i bauli, il viaggio, le novità, l'eleganza, le donnine…. Passano i giorni e i giorni: si rimane soli. Il tale? Partito. Il tal'altro? Partito. Al caffè non si trova più una persona, che c'inviti a quattro asciuttissime chiacchiere: la frutta è cara: il caldo addoppia, lo dice il termometro della Galleria. E come si dorme? Come si ha appetito? Come si passeggia e si accudisce agli affari? Eh lo sapete, il lenzuolo è di troppo: il ghiaccio rovina i denti: i boschetti incominciano a perdere il loro verde intenso, se non piove! Si dorme allo scrittoio, si appisola negli uffizi, si russa nelle chiese e nelle caserme…. Mi ricordo che in una di quelle giornatacce da forno m'era saltato un ghiribizzo strano, caldo caldo: eh! quistione di nervi, sicuro, e vi dirò che….—così ciarla l'uomo, e lascia il giornale, si guarda l'unghie, che forse sono ancora livide per la doccia, dà una stropicciata alle mani, vede dalla finestra passare di fuori, galoppando, una signora imbacuccata nello scialle: si sente un brivido all'osso sacro e capisce che non ha fatto bene la sua reazione. Allora sorride…. Uomo contento! esce dalla sala, è innondato di sole, è avvolto nell'aria frizzante, vede monti e valli e cielo e cielo: giù il piano sterminato: muoiono le tinte verdi nelle azzurre: spiccano paesetti, città, serpeggiamenti d'acque: poi si stende come un mare trasparente e celeste, una vastità fantastica, un regno di vapori….
Quell'uomo è contento. Lo volete contentissimo? Supponete ch'egli sia un giovanotto, il quale non pensi di correre dietro alla signora infuriata, nella veste da camera, colle ciabatte senza tacco, col naso rosso e i capegli impastati sulla fronte (marchesa, mi perdoni!): supponete che salga gli ottanta gradini della scala, fra la parata dei lenzuoli, e giunga alla sua cameretta. Questa è piccolina, col bel letto di ferro, gaia, colle persiane rinfrescate da riflessi verdi chiarissimi, col calamaio secco e la penna rugginosa…. Bene! Scriviamo agli amici, poco, pochissimo, quello che si potrà: già ci sono le circostanze attenuanti…. Che cosa scrivere?… Giuro che la doccia smorza la fiaccola della fantasia, l'orizzontale cambia il cuore in un pezzo di ghiaccio, e il semicupio ad acqua corrente ci condanna a bassa prosaccia. Che cosa scrivere?… Nella camerina, ad un piuolo pende un cappello biellese che ha un mazzetto di rododendron nella ghiera, un fiocco di mignin morbidissimo, una vaniglia, una concordia e una violetta del pensiero: poveri fiori appassiti in quattro giorni! Sul tavolo c'è una Guida, con un itinerario attorno al Monte Rosa, segnato da grandi chiazze bianche che vogliono dire ghiacciai, da nomi francesi e tedeschi, da vene lattee di torrenti: lì in un canto c'è un lungo bastone, che, come quello di santo Antonio, porta legato all'estremità il conforto dei pellegrini: eccovi la fiaschetta impagliata del rhum…. Il giovanotto lascia la penna, e colla matita schizza lo stemma del Club Alpino, lo scudo colla stella, sormontato dall'aquila coll'ali tese, accompagnato dal cannocchiale, dalle corde, dal piccone, dalla scure. Il giovinetto lascia la matita e rimane appensato. Non sono i monotoni ricordi della città! Non l'acre ridestarsi di quei ghiribizzi strani, che si guariscono coll'idropatia! No, no, no!… È la sana, la liberissima, la grande aria dell'Alpi, che, per così dire, irrompe nella cameretta a dare sfondi, a ricolorire monti e valli e cielo nella fantasia dell'uomo innamorato!
Ecco come pensa il giovinetto:—Quanti bei luoghi ho veduto! Come voglio rammentarli ancora! Oh mio caro rododendron!… È mattina. Tutto il mondo a quest'ora, ai nostri occhi ancora sonnolenti, pare debba essere una valle bassa bassa, e la valle, in fondo a cui c'incamminiamo noi, la ci sembra la più seppellita; violastra, fredda, tutta un'ombra senza un'ombra. Non c'è luna: l'ultima stella della notte sgorga tanta luce che pare avanzi dritta e velocissima verso la nostra pupilla; è immota, non splende per chi muore, è solo un gioiello per la misteriosa immobilità dei cieli. Mugge un invisibile torrente; perdendosi nei faggi opachi, corre alla notte che noi abbiamo lasciato alle spalle, nel paesetto. A quest'ora ineffabile l'aria e la luce pare si confondano: il crepuscolo lo diciamo freddo, il vento oscuro: la risultante una sola—Pace grandiosa. Taciono i monti. Noi scambiarne le prime parole colla ragazza che ci serve di guida, pel bisogno di sentire una voce umana in tanto deserto: lei, col guarnellino, la gerla sulle spalle, dice che ha accompagnato ieri e l'altr'ieri tanti signori, e hanno fatto colazione, con tanta allegria…. Davvero a quest'ora ci rincrescerebbe morire, ai piedi di questi altissimi monti…. Il cielo s'è schiarito un po': i mille accidenti delle spaccature, delle gobbe, delle creste, delle valli, prendono rilievo: ma ancora regna l'intonazione violastra, più netta, più larga, più fredda. Col piede si schivano i rigagnoletti, danno stringicore i fiori che dondolano all'ondina piangente, ci fanno abbrividire i pratelli irrugiadati. Il cielo s'è schiarito ancor più: come? quando? Su un estremo picco la luce del sole ha dipinto una pezza di rosso-carminio. È il mattino: con questa parola si dice tutto! Già canta un fringuello. Camminiamo, su, su! Sotto ai faggi dalle cortecce lucenti e dalle foglie ovate, sugli scheggioni, di qua, di là, per le breccie dei macigni e sulle schiene, poi sui pendii sparsi di massi rotolati e d'altri conficcati, poi sui sentieruzzi teneri, spolverizzati di squamucce d'argento, tra le selvette fresche di felci, si cammina e si cammina…. Il sole scappa giù ampio e gaio: fra poco ci coloriremo a' suoi raggi…. Siamo all'alp. È una cascina di pietre ammucchiate, col tetto di lastre micacee, col fienile, la stalla, la fontana che trabocca dal tubo di legno: il sentiero fangoso, puzzolente, trito da cento unghie, accompagna ai pascoli, alle grotte sotto cui hanno dormito le capre, fra gli enormi massi vellutati d'efflorescenze verdicce. All'alp si beve il latte nella biella, nella cucina affumicata, sui trespoli, tra le fascine, i secchi gialli e le macchiette dei vecchi pastori in calze groppose, e quelle dei bimbi seminudi: le ragazze corrono alla fontana. Una sola finestra scaccia il fumo e fa entrare la luce: chi non vede un pezzo di montagna festante al sole, da quella balestriera livida, angolosa, abbruciata e slavata! Chi non sente sotto, dalle fessure del pavimento di legno, le vacche agitare i collaracci e magari il latte schizzare con suono acuto nel vaso di rame della massaia! Chi non ha comperato un cucchiaio di legno!… Quando ci siamo nuovamente incamminati, la guida ci si fa un po' più vicina, non ci precede più di venti passi, ma solo di cinque (la colazione ha messo tra noi un po' di confidenza), e non risponde più quell'asciutto—Sissgnor—ma, cogli occhi bassi, muove la manina ad accennare qualche fiore, qualche erba: ecco la genziana aromatica e la mattutina profumata (sassifraga) e i garofanetti coi petali a ritagli minutissimi. La guida è una bella ragazza, dritta come un bersagliere, tondina, piccola, bionda: ha dato i fastidi a rangé, canterella sottovoce, e si arrischia anche a risponderci che si chiama Main…. Sul monte non crescono più arbusti di carpini, nè frassini, nè faggi: solo scheggioni fessi e macigni e zolle inaridite. Sui pendii s'affollano le felci: qua calpestate pesantemente da poco mostrano come un sentiero nuovo, svelando tra il verde gaio dell'insieme il verde freddo delle loro pagine inferiori: altrove schiantate da un pezzo e disseccate appaiono come cuprei ricami: su su digradano ondulando. Incomincia una frana sconvolta, un torrente secco: i cespi del rododendron ferrugineum sbucano da ogni crepaccio ove ci sia una manciata di terra, ricchissimamente adorni di fiori vermigli: alcuni corimbi staccano sulle tinte cineree-lucenti delle pietre, altri sul cielo azzurro di sette azzurri, altri sui guancialetti dell'erica che odora di miele…. Oh meraviglia! suona un campanaccio grave: dòn dòn, dodòn, dodòn: una vacca appare, col muso gemmato d'acqua, le corna sporche di terra, con una bava che fila giù dalle mascelle spostate dal ruminare: sbarra gli occhioni, colla coda sferza una mosca, poi sprofonda la gamba nana nei cespi di rododendron, sviluppando l'adipe del tardo corpaccio, strascinando le densissime mammelle sui fiori gentili. Suona un altro campanaccio, e un altro, e un altro: è un concerto da festa. Vediamo l'intera mandra: il pastore su un'eminenza s'appoggia al bastone, come un cavaliere al lanciotto: le caprette colle gambe lanose e divaricate, sporgendo il collo, s'arrampicano sui tetti delle stalle o sui grandi basamenti dei macigni…. E canta il pastore:—L'America l'è granda—: muggono le vacche: e le caprette col tremulo belato fingono le cornamuse nasali…
È mezzogiorno. Dal colle si domina il portentoso anfiteatro dei monti: monti rocciosi a destra, a sinistra, giù la comba aperta che dà origine a una voragine profondissima, il principio di un'altra valle laterale che si perde Dio sa dove: in fondo, alta, vi è una cima dentata, dalle abbaglianti pezze di serico bianco che si spiegano e si stratagliano sui ghiacciai. È impossibile dire le tinte violastre dell'ombre lontane trasparentissime, su cui si fondono i larici, e impiccioliscono, e fanno selve bluastre e s'inerpicano sulle torri di fantastiche ruine. Il sole è grande colorista. Eccoci ai larici dal fusto eretto, dai rami cadenti, dalle foglie lucide di mille ispidi aghetti e flessuose ad ogni vento: eccoci ai coni crocchianti, all'erbe dei camosci, ai radiconi che disegnano informi spine dorsali di mostri, alle scalee ammucchiate dai giganti, ai ginepri tenacissimi. Il sole scalda l'acro odore delle cortecce. Qua, da un'insenatura umida e lucida come acciaio, un torrente sembra con cento braccia cadere aggrappandosi di picco in picco: là invece tranquillo, spiegato, maestoso, si abbandona giù come un velo di limatura d'argento: il rombo è il misterioso crescendo degli abissi: ogni dove con prorotto singhiozzo nelle tane scavate gorgogliano acque sotterranee. Certe locuste, saltabeccando da stordite in ogni direzione, vibrano seccamente colle ali: dall'alto gridano le marmotte…. Dove siamo? A quale altezza? In una conca strozzata fra i macigni c'è una bella isoletta di neve. La neve? La neve ai tanti di agosto! Facciamo subito un punch frappé. La neve! Si tocca, si mangia, si vede scintillare, si getta nella gerla di Main… Il terreno è fracido: s'è fusa la neve il giorno prima, ed oggi è nato un fiorello azzurro melanconico: più su, come pennacchietti orientali, tremolano i fiocchi argentei del mignin, odora il gratissimo fiore della concordia, l'amaranto che dà il responso dalle radici a chi lo vuole interrogare. Più in su ancora all'alp di nitido larice, la fanciulla nitidissima, che veste di panno rosso, parla il tedesco dai denti stretti e legge il libricciuolo della messa stampato a Kemden e col legno imprime sul burro le cifre col rosone del babbo, nella coulisse piccina della sua finestrella specchiante, la fanciulla che sorride ha posto un mazzolino di viole del pensiero, esili, rigide di contorni, pallide, odorose, insieme alla cara vaniglia dell'Alpi. Più in su ancora si cammina sulla neve, il piede freddo, l'occhio infastidito dalla vasta bianchezza, la mano stretta al bastone, il collo saettato dal sole: e su e su: si sdrucciola e si ride. Ma che! in fondo c'è un precipizio: finisce o non finisce questo tappeto, che addoppia le tinte abbrustolate delle cime? Qui vicino ai massi sporgenti e neri il piede rompe una fragile crosta insudiciata: là la monotona eguaglianza è tolta da strisce che vi lasciarono le trosce d'acqua: là si avvalla ed è ondeggiata. La nostra ragazza procede dritta, senza fallare, equilibrata, colla gerla sulle spalle, e ride alla nostra domanda:—Finisce o non finisce?—Chi s'arresta, sdrucciola: chi s'imbizzisce, falla: chi sdrucciola e chi falla arrischia di rifare il cammino in meno di dieci minuti fino al fondo. E su e su, ci arrampichiamo poggiando i piedi nell'orme profonde lasciate dalla guida: crepita la neve e s'ode il nostro anelito frequente.—Ohe, che gioco lungo!—dico io, e mi sento floscio ed annoiato…. Oh santa fiaschetta del rhum, ti benedico, ti voglio, ti bacio! A te devo il passo sicuro, l'occhio indagatore, il petto ristorato: più la sorsata m'arde la gola, più mi pare di divenire un piccolo re della natura. Bevi, bevi anche tu, bionda fanciulla: alla cima urleremo a squarciagola il grido selvaggio dei pastori…. Chi ha detto ch'io sono stanco? Ch'io casco sulla neve?… Vedremo i laghetti freddi e le vacche immote sulle rive a specchiarsi e le pecore lanose sdraiate sui pendii e i corti vitelli dalle gambe lunghe, che labbreggiano cercando le mamme, e le mandriane brune che addormono in grembo la testa del mandriano…. Udiste il nostro grido d'allegria?
È sera. Il cielo al suo cobalto mischia il nero: addensa la tinta: taciono i monti e si aggravano sulle valli: non stride un grillo, non geme un uccello, ma solo rombano i torrenti. Io guardo le cime e mi domando:—Se dovessi ancora salire lassù nel tenebrore? Una notte tra i faggi e le balze? Senza provvisioni?—e cammino tacitamente e spio il volto della ragazza, che di rubicondo e sanissimo, s'è fatto freddiccio e violaceo: fiori ed erbe e sassi e ruscelli sereneranno tranquilli: alle stelle mi sento quasi tentato di dire:—A che vi affollate in questa zona di cielo? Non vi è pupilla che vi contempli, non v'è dolore, non v'è amore!—…. Sfilano le vacche, ciondolando i campanacci e smottando il terreno: le conto, una, due, quattro, sei…. Non le conto più: ascolto dei sospiri gravissimi, dei fruscii, delle note sorde: non è il dodòn, dodòn, no, ma un tardo addio. Si sbandano ancora le caprette, ma trottando, quasi paurose di slontanarsi dalla torma: ballonzano pesantemente i montoni, come cose balorde: segue il mandriano con un fascio di radiconi sul capo…. Si vorrebbe udire un suono di campana benedetta, vedere un cimiterio, passare innanzi a un'osteria dal focolare vampeggiente: insomma accorgerci del massimo beneficio degli uomini stretti in società, l'aiuto, il ricordo, la speranza, l'oste, il prete…. Si pensa saltando di sasso in sasso:—È questo il sentiero che deve battere il medico condotto, se è chiamato di notte da chi non istà bene? Oh che luoghi! E lo speziale? Vorrei vederla quella bottega, io che mi prendo le medicine inglesi! Oh che gente! Eppure qui si vive tutto l'anno da migliaia d'anni, qui si nasce e si muore e si ignora che c'è la città, la nostra città, che ci sono io che a st'ora mi sento ed ho grandi bisogni!—Cala sempre più la notte…. Di lontano, dei lumi! Ci guardiamo di dietro per gustare di più la tetra oscurità senza compassione, e poi affisarci nei punti rossigni, provvisti, carissimi, umani…. Aaah! I nomi di Ludwigs Höhe, di Parrospitze, di Signalkuppe, di Schwarzhorn, e cent'altri, che ci si ficcarono tutto il giorno nel desiderio ambizioso, diventano strani, crudeli, ghiacciati: vengono insidiosissimi e saporiti, per così dire, nella gola quei battesimi ambrosiani delle nostre buone donne di servizio: se la Peppa ci desse qui un risottino fumante! Se Perpetua allagasse di conza un piattone di stufato!… Aaah!…
* * *
Arriviamo al paese, all'albergo, ai grandi lumi, caldi e vivissimi: la guida ci precede: ci viene incontro una cameriera tutta in chiaro…. Che effetto strano in quell'eleganza! Giacchè l'abbiamo abbandonata, ci volgiamo indietro all'oscurità, a gettare uno sguardo alle prime luci che incomincia a nevicare giù la luna: a quest'ora, al termine del pellegrinaggio, siamo quasi dolenti di non soffrire più privazioni, d'esser giunti, d'esser sicuri: con stringicore ci sovveniamo di qualcosa, di qualcuno, di qualcuna: è un lampo di poesia, la chiusa, la consacrazione della giornata. Il mio amico pensa di sicuro:—Se mia cugina vedesse dove sono!—ed io sospiro:—La mia povera Tea è in collegio!—Squilla una campanella per noi. La gente che c'è, donnine avvolte nelle ciarpe e uomini in gilé bianco, s'affaccia ai nuovi venuti, lì dallo spiano del terrazzo, qua dalla lobia del châlet. Oh seccature! oh figurini profumati! oh statuette di porcellana! Suona un pianoforte: e s'odono delle risa inviziatelle, aristocratiche, maliziose…. Noi, un po' orsi, pesanti, impolverati, goffi, rizziamo il capo facendo dondolare sul cappello il mazzetto di fiori.—Mi rincresce,—dice la cameriera:—ma la table d'hôte è finita.—(Meglio! meglio!)—Mi spiace, ma….—Non importa: arriviamo da….—giù un nomaccio:—Ceneremo da alpinisti.—A cena, sulla candida tovaglia, fra le posate e le bottiglie lustranti, fra le boccette della senape e di cent'altre leccornie obliate da noi, in mezzo a tante meraviglie, apriamo e riapriamo la Guida: il seguire sulla carta il viaggio e il pronunciare delle sillabe, spitze ed höhe, sul musino bianco e pastosello delle cameriere è la gioia che fa passare ogni stanchezza: i bei nomoni sono come il pepe delle vivande che si mangiano. Stamattina, questi nomi erano muti, colle, passo, comba, alp, cima, horn, erano bianco su nero, parole: a quest'ora sono quel che sono!—Si guarda l'itinerario pel domani: e quei nuovi nomi, quelle nuove x diventano desideri ardentissimi. E si ciarla, si ciarla, poi si prendono dalla caminiera del salon i biglietti litografati dell'Hôtel et Pension, si leggono le promenades et environs—ascensions principales—voyages—le elevazioni sul livello del mare delle principali vette dei monti nei dintorni: si sa che on parle allemand, français, italien—on tient des mulets et des guides pour la commodité des Voyageurs: fanno pietà in un angolo i parasoli delle signore e gli alpenstock bianchissimi col cornetto di camoscio e i cappellini alla moschettiera colla piuma spavalda: si scarabocchia il nome sull'albo dei forestieri. Guarda, guarda: c'è il dottor tale, milanese, peuh! C'è la famiglia tale! Schiva! Tutte scarpette basse e piedini di butirro!… Vicino s'ode nuovamente il suono del pianoforte e un calpestìo di danze… La fiamma della candela sembra ingrossarsi al nostro occhio, vestirsi di nubi vaporose, razzare, tremolare: la mano stropiccia gli occhi come per cacciarne fuori delle briciole di pane pungenti, la testa si china sulla Guida, il ghiacciaio dell'itinerario si allarga come un lenzuolo… un lenzuolo di un ottimo letto… Chi dà un letto?… Intanto che già si sogna vagamente e penosamente di camminare per scheggioni, per grotte, per frane, attraverso ghiacci, la cameriera ci tocca su un braccio. Eravamo addormentati.
Anche voi, o lettori, dormite a questa mia cicalata? Vi domando mille perdoni. L'esordio è finito.
E sulle mie labbra c'è il sorriso dell'uomo contento. Voi, amici miei, avete 32 gradi, voi passeggiate dalla Galleria al forno del vostro studiolo. Io tolgo adesso gli occhi da' miei fiori, dalla mia Guida, dalla mia fiaschetta, e fremo agli ultimi brividi freddissimi che m'ha lasciato la doccia delle 11 ore.
La mia escursione è incominciata da Biella, s'è spinta su al Corno del Camoscio vicino al Monte Rosa, è calata ad Orla, ha voluto il riposo allo Stabilimento Idropatico d'Oropa.
Io mi dico:—Come si fa a scriverle, certe cose?—e mi arrovello. Voi direte:—Come si fa a leggerle?—e….
E chiudete pure il giornale: io apro la Guida.
«Il Circondario di Biella è limitato al nord, all'ovest e al sud-ovest dalle linee di separazione delle acque della Sesia e del Leiss e poscia della Dora, ed è chiuso all'est ed al sud da confini meno naturali, che tagliano le vallate dei torrenti che hanno origine dalla costiera settentrionale ed occidentale. Esso ha una superficie di 960,48 chilometri quadrati, e una popolazione di 126,360 abitanti (censimento del 1861). Vi sono quindi 131,56 abitanti per chilometro quadrato, mentre in media nel regno d'Italia non si hanno che 83,54 abitanti per chilometro quadrato. E questo non è poco, ove si consideri che il 57% del suolo biellese è montuoso. Principali torrenti sono al nord la Sessera che volge verso l'est ed al sud il Cervo, cui fanno capo la Viona, l'Elvo, l'Oremo, l'Oropa, la Strona, la Roasenda, tutti gli altri torrenti insomma che non mettono nella Sessera.» E basta. Mille grazie al signor Quintino Sella che pronunciò queste parole nel discorso inaugurale della prima riunione straordinaria della Società italiana di Scienze naturali in Biella. Io non lo saccheggierò più: perchè, rubando male, il terreno diluviale, le alluvioni, il diluvium, il pliocene, il calcare, le roccie feldispatiche e micacee, l'anfilobo e la diorite, la formazione sienitica e il melafiro, e l'altre parolone mi potrebbero procurare qualche tirata d'orecchi da chi ha sulle corna la poesia e gli acquerellisti.
Biella (Bullarella, Buraiella, Buiella, Bucella, Bugella) è al confluente dell'Oropa cel Cervo. Che sia città antica (153 ab U. C.) lo comprovano la iscrizione di Caio Publicio Crescenzio e l'altre che si conservano nella casa parrocchiale, il sepolcro de' romani Melii, ora divenuto battisterio, la medaglia fatta per commemorare la ruina di Gerusalemme. Da Lodovico il Pio e da Lotario fu donata al conte Bosone nell'826: poi da Carlo, da Ottone, da Corrado, da Federigo I alla chiesa vercellese: nel secolo XIII si levò ad animosa controversia per sottrarsi al dominio di Vercelli: nel XIV provò il furore della peste, segnò di croci rosse i militi contro Fra Dolcino, si scosse di dosso il vescovo tirannello Giovanni Fieschi: nel 1379 diede giuramento di fedeltà al conte di Savoia: nel 1525 gli imperiali vi aguzzarono l'unghie. Trascrivo un particolare che soddisferà la curiosa domanda di alcuni miei amici:—«Il maresciallo francese Brissac estese la sua occupazione su parte del Biellese ed obbligò il comune ad inviare a Parigi dei legati per il giuramento di fedellà ad Enrico II e per ottenere la conferma di tutti i privilegi. Si fu in quell'epoca che si incominciò il commercio delle lane colla Francia e principalmente con Lione, e ne venne il motto francese di Biella, perchè il comune di Lione accordò con diploma 23 gennaio 1558, il privilegio di cittadinanza ai Biellesi.» (Guida per gite ed escursioni nel Biellese, edita e compilata per cura della Direzione del Club Alpino, sezione di Biella, 1873). Poi Biella ebbe ancora la peste, gli Spagnuoli e i Francesi, peggiori della peste, e di nuovo i Francesi.
Biella è una cittadina simpatica, che si presenta pulita, sanissima, affaccendata, percorsa da cento omnibus dalla stazione verso il santuario e verso Andorno. Nella via maestra vi sono dei portici sotto cui s'impaccia la gente ai giorni di mercati popolosi: tutto vi si trova, dalle usuali terraglie impastate colle argille di Ronco e Ternengo agli immensi tesori delle fabbriche grandiose. Nuove piazze, nuove vie, nuovi edifizi accennano ad intendimenti edilizi di buon gusto. De' monumenti conosco il Duomo, incominciato nel 1402 e finito nel 1825: vorrebbe esser gotico nell'insieme, ma stentato nell'ornamentazione, senza gusto, senza carattere, goffo e pretenzioso, coll'alto peristilio che mischia persino dei capitelli semi-egiziani agli archi acuti, alle colonne allampanate, al terrazzo sopracarico di tabernacoletti, di sfere, di piramidi, in tutto ha qualcosa del cartone dipinto a gesso e colla: nell'interno si può perdonare qualcosa, in vista d'una pittura del Lanino e d'un pulpito in legno scolpito.
Il Battistero è un tempietto ottagono, di mattoni grossi, incoronato da tanti arcucci venerandi, con una scoltura che porta effigiati due putti carnosi, bene atteggiati sullo sfondo di un colonnato a rigidi profili. Una porticina conduce a un sotterraneo, un'altra al piano terreno. Il pretino che ci accompagnò ci disse che giù c'erano due tombe di vescovi: dal mazzo di chiavi una sola scelse e ci aprì il battistero, nudo, gretto, squallido. De' Melii, delle lapidi romane e delle notizie che gli domandai intorno al Galliari, al Cogrosso, al Vacca, al Fea, al Gonin, il povero schiccheratore di fedi di nascite e di morti ne sapeva come le ragazze che, colla gabassa sulle spalle, comperano gli zoccoli. San Cassiano si presenta coll'alto peristilio sbiancato: è chiesa di fondazione antica, di cui le memorie rimontano al 1200. Ma, povera Arte! Ero insoddisfatto. Per conto mio, ho guardato e riguardato la porta e la porticina antica dell'albergo d'Europa, con alcuni dettagli di fascie robuste, tracce di finestroni, la scoltura dei due angioletti che si baciano, reggendo lo scudo col motto Ubi Pax ibi Deus, e i due stemmi che spiccano sul campo nero d'un riquadro. Il mio pretino, eruditissima guida, mi perdonerà se taccio del Seminario, del Palazzo vescovile, della Trinità, dell'Amministrazione dell'Ospizio d'Oropa, dell'Ospedale, del S. Paolo, del S. Filippo, ecc., mi saranno invece grati i lettori se dico loro che nella città vi sono 9 fabbriche di drapperia e filati, 12 depositi di lane e rappresentanze di case estere, 2 fabbriche di maglie, 8 di bordati, 5 di cappelli, 5 concerie, la grandiosa fonderia di ghisa degli Squindo e l'altra dei Girelli, la nota cartiera Amosso e la birreria di Menabrea. Sella, Rosazza, Poma, Bozzalla, Garbaccio, Boussu, Trombetta, nell'industria hanno tanto nome, quanto splendore avevano nei tempi andati i Ternengo, la casa Lamarmora, i principi di Masserano, i principi della Cisterna. Benedetto il Cervo e l'Oropa! Sì, il lavoro ferve animatissimo dappertutto, sia nei vasti fabbricati che hanno 400 finestroni, da dove rombano le macchine più meravigliose del progresso, sia sotto ai portichetti smattonatì dove le ragazze, cantando, impagliano scranne o filano colla conocchia della nonna. Esempio siano: il lanificio Piacenza a Pollone, la fabbrica dei Poma a Occhieppo superiore, a Miagliano il cotonificio pure Poma, colle case degli operai costrutte sul modello di quelle di Mulhouse in Alsazia: esempio presenti la fia della Nastasia al Favaro. Lo dico con orgoglio: gli stabilimenti industriali di Biella sommateli voi, io v'ho date le cifre: 190 sono quelli del Circondario (Guida del Club Alpino, ecc.). Si lavora, si lavora, si lavora, ognuno secondo le proprie forze: i figli della fia di Nastasia un di mangeranno il pane che sa di sudore onoratissimo e di lucido acciaio strofinato e di grasso abbruciato, se pure non lo faranno mangiare agli altri: il lavoro ha sempre avuto un premio.
Per controbilanciare il poco bene che ho detto di Biella, come accoglitrice di cose d'Arte, devo parlare e col massimo piacere di Biella-Piazza, o sia di Biella alta, un gruppo della città, su un poggio, dove difficilmente capita il viaggiatore per Oropa. Al sommo dell'erta salita si presenta un edificio del rinascimento, di gusto squisitissimo, con finestre rettangolari, fascie dipinte di azzurro, linee egregie, i campi illustrati da storie belligere, gli occhi di bue, e sotto la gronda le tracce elegantissime degli archetti che sporgevano a sostenere il tetto. Di sotto al sudiciume, alle moderne manomissioni, all'opera del tempo, esce un profumo d'Arte gentile, corretta, spigliata. Di chi fu quella casa? Ho domandato invano. Nell'interno c'è la fabbrica di maglierie dei Guglielminotti: domina la sbiancatura e l'adattamento. Nell'istessa viuzza, su cui dà il fianco, s'incontrano delle fascie di terra cotta, due o tre a frange trilobate, una a targhette, grifoni e flessuoso svolgersi di foglie. Il palazzo del principe della Cisterna mostra l'architettura salda e già capricciosa del cinquecento: portone col poggiuolo marmoreo, finestre col timpano spezzato e i busti, colonne bozzate, e all'alto un loggiato d'arconcelli coperto. Lo dicono anche il Castello. Nell'interno ho visitato una torricella colla scala a chiocciola, i solai spaziosi, adorni di una porta acuta a fascia di terra cotta, lo scalone nudo, a cui è unita la tradizione della morte segreta, un muraglione cioè pieno di coltelli e trabocchetti, e finalmente i saloni. Il palazzo è ridotto a filatoio. Ma bisogna ancora vederle quelle travature, quei freschi a chiaroscuro che ricingono le somme pareti, quel camino eretto sugli orecchioni, colla cappa scolpita, ornata, dorata, colle statue sedenti e gli stemmi e gli stucchi e i finestroni! Bisogna immaginare il decoro sontuoso degli arazzi, dove ora sporgono le cornici di legno spezzate e i chiodi ritorti: i mobiloni di noce, le seggiole di broccato, i ritratti degli avi, dove ora s'ammucchiano i telai spezzati! L'ambiente è austero. Citerò anche la chiesa di Sant'Anna che doveva esser bella, se non intervenivano a vituperarla pennello e cazzuola, sì che pare che i santi del Gaudenzio Ferrari e le sante stecchite fra le colonnine d'oro spirali, pare rimpiangano i buoni tempi. Attiguo c'è il palazzo Ternengo, con un cospicuo archivio patrio, si dice. Poi c'è il Palazzo del Comune, la casa Lamarmora, quella dei principi di Masserano, ora stabilimento idropatico. Dal Piazzo volevo scendere in Vernato per gustarvi un bel quadro antico, e poi a San Sebastiano attratto dal Cristo del Ferrari, dall'Assunzione del Luino, dalla Trinità del Moncalvo, e da altri dipinti di scuola lombarda e vercellese, che avevo già veduto l'anno scorso: ma l'amico che mi accompagnava si diceva stanco all'aria della città. È vero, è calda, è noiosa. Vogliamo respirare.
Giacchè ho incominciato la tiritera parlando di monti, finirò rendendo il mio omaggio alla simpatica Biella e facendo voti pel suo Club Alpino. Fu istituito dal signor Giuseppe Corona, è presieduto da Q. Sella, diretto da Corona Giuseppe e Lodovico Garzena, Amosso, Pozzo, Prario, Vallino, Vercellone. L'illustrano Sella, l'astronomo padre Denza, il vescovo Losana, l'erborista Zumaglini. Per un pezzo io ho avuto tra le mani la Guida edita dalla Direzione: da Piedicavallo, dall'Alp Pianell, dal Colle della Mologna grande, dal Colle di Loozonèi, dall'Alp Ober-Loo, da Lomatta, da Gressoney, dal Colle d'Ollen, da Alagna, da tutti i luoghi in cui verificavo l'ore del mio orologio con quelle notate dalla Direzione su quel libricciuolo carissimo, mandavo un saluto a quegli egregi che, istituendo la società del Club Alpino, preparano all'Italia uomini sani, entusiasti alle bellezze grandiosissime, desiosi di scuole tanto larghe, quanto l'anfiteatro dei monti. E di nuovo un saluto!
Dopo che abbiamo chiacchierato tanto, vi parrebbe tempo, o signori, di fare una passeggiatina? Vi sono torrenti scroscianti che c'invitano, freschissimi castagneti, gruppi di frassini, pendii, scese, scaglioncini da giardino inglese, frane dirotte, ciclami nicchiati sotto ai massi stillanti, stradoni e stradette mulattiere, ponti altissimi e plance traballanti, paesotti, manifatture e castella e storiche memorie: di lontano sempre i sommi deserti delle Alpi. Volete carrozze? Biella ne ha a centinaia. Volete cavalli? Eccovi bestie membrute, colle gaie sonagliere. Volete camminare da alpinisti? Provvedetevi un paio di scarpe dal calzolaio Crosa di Via Maestra.
Dove si va? All'Ospizio di Oropa. In questo ci arresteremo un po' fra alcuni giorni: scegliamo per ora le scorse. Si va a Cossila, lunga e sottil, sino allo stabilimento idropatico aperto nel 1858 dal dottor Vinea ed ora tenuto del dottor Emilio Coda con poco prospere sorti: si va al Favaro dalla fia di Nastasia e si può salire alla vetta della Burcina: a Pollone, al grandioso lanificio Piacenza: a Sordevolo, paese sull'Elvo, dove strepitano le industri macchine del Vercellone, del Sormano, del Maia, dove ancora si rappresenta eroicomicamente il mistero della passione e morte: all'austero convento della Trappa (1058 m.), fra le cui tetre rovine d'arcate, di sale, di celle, di refettori, si scalcinano all'eterno oblio i moniti salutari dipinti; dietro la Trappa in un piccolo abituro c'è la tomba, colla scritta C. W. 1803, dell'ultimo di quei laboriosissimi monaci agricoltori: si va all'Ospizio di Graglia, di cui ciarleremo più sotto: ai due Occhieppo: al villaggio di Graglia: al castello di Gaglianico, donato nel 1152 da Federigo imperatore al vescovo Uguccione, il fondatore di Biella-Piazzo: al castello di Moncavallo: alla vetta del Bricco e al castello di Ternengo, a Pettinengo, a Mosso: ad Andorno, a Sagliano-Micca, all'Ospizio di san Giovanni, pei quali luoghi prometto tre ciarle: si va alla Colma d'Andorno, ai tre Turlo, alla Bocchetta della Sessera: a Tolegno; alle castella di Perrione, di Verrone, di Valdengo, di Perretto, di Castellengo, di Repolo, di Masino, d'Azeglio… Volete altro? Non finirei più: e vi dico che queste sono tutte scorse bellissime che soddisfano tutti i gusti. La signora troverà la strada comoda o la carrozza, o strillerà capricciosamente sulla sella dei muli: la ragazza avrà i fiorellini, i maschiotti le noci da rubacchiare e i prati dove scorrazzare, saltando le rustiche barriere. C'è un poeta nella comitiva? Canterà le chiare, fresche, dolci acque: intanto che il prete sberretterà cento cappelle colla Madonna negra, l'uomo serio calcolerà i cavalli-vapore della tale e tal'altra macchina, l'innamorato, che non manca mai, vedrà la gonna diletta sventolare voluttuosamente alle frizzanti aure dell'Elvo, dell'Oropa, del Cervo, e il botanico incomincierà e proseguirà per non finire:—Cyclamen europæum, rudici orbiculari, foliis synanthiis cordato orbiculatis obtusiusculis denticulates subzonalis lacitis corollæ lanceolatis corollæ fauce integra. C. æstivum Reich, excurs. 407, C. litorale Sadler. C. officinale Wend. C. retroflexum. Moeneh apud Duby… etc. Dove lascio me? Io avrò sempre da sorridere alle lapidi dei morti e alla formica, che, arrampica, arrampica, arrampica, vuole scalare i dadi di pietra degli antichi castelli. Poveri morti e povera formica!
Ho promesso due righe per l'Ospizio di Graglia, per Andorno, Sagliano e San Giovanni: la sosta la faremo all'Oropa.
L'Ospizio di Graglia sorge a 826 m. sul livello del mare, su di un colle verdeggiante, fra monti verdeggianti, e signoreggia una pianura verdeggiante che muore nel glauco nebbioso dell'orizzonte, dall'Elvo fin oltre il Ticino e a Milano. Ed ecco le Alpi Graie, il Monviso, la catena degli Appennini, Superga, la cupola di san Gaudenzio di Novara, l'aguglia del nostro Duomo: e sotto sotto i villaggi dall'Elvo alla Serra. E per la povera penna la descrizione è finita: nel calamaio ho solo il nero sbiadito dell'inchiostro e l'acido dell'aceto, negli occhi ho il sole fulgidissimo, coloritore, diffuso, nel cuore ho una mestizia indefinita: tra gli ampi spettacoloni e la mia povera pupilla sempre si pone una lente colle iridi più care, una bella lagrima e ben calda…. Dite quello che volete: ma è così, e così ho imparato solitariamente ad amare Madre Natura. L'Ospizio ha una facciata greggia, con un piccolo corpo avanzato nel mezzo, cioè due loggiati sovrapposti a tre archi, e un terrazzo al sommo: su un fianco i mattoni addentellati promettono la continuazione dell'edificio: dall'interno s'alza una cupola di 38 metri, a foggia di un torrione. Non squilla nessuna campanetta pei nuovi venuti: non s'invoca nessun santo, nè si scioglie voto: chi arriva a piedi trova che l'ingresso al santuario è l'ingresso a una trattoria. L'odore delle bistecche sale su ai tre corridoi dei tre piani, ove s'allineano gli usci delle camere ospitali. La chiesa è costrutta secondo la forma di una croce greca, un po' squallida, un po' fredda, colle pitture della cupola fatte da Fabrizio Calliari e una statua in legno della Madonna. Il tutto insieme che aspetto ha? Un aspetto tranquillo, polito e, diciamolo, melanconico. A me ha fatto l'effetto di una solitudine in una gran solitudine. Il passeggiare nei freschi corritoi mi sembra una occupazione da fraticelli vecchissimi: fra il toc-toc degli orologi a torricella, le gerle delle guide che sono andate alla chiesa o a succiare l'acqua della fontana, fra i busti dei benefattori, le lapidi degli insigni visitatori, leggiamo l'uffiziolo, quieti, strascicando le ciabatte larghe, cogli occhi imbrogliati dal sonno della pace, passandoci la mano grinzosa sulla testa pelata che luccica di riflessi d'avorio…. Ah che vita!… O fraticelli, non falliamo l'uscio delle cellette: elegantissime signore vengono all'Ospizio nei mesi d'estate e d'autunno, e vi rimangono nove giorni, lasciando al decimo sui mobili la cipria rosea, e nei cassettoni quei profumi nobilissimi, indizio ch'è passato un serpente: è vero, entrando in una camera così abbandonata di fresco si è persino rispettosi dinnanzi al grande disordine sparso da una piccola manina, e si soffre caramente un ignoto abbandono, e si ama la cipria e l'opoponax. Verrà la lercia fantesca, affagottata come una monaca, a spolverare i mobili colla scopa, a spargere il suo tanfo di sudore e di sacristia. D'altro non so dirvi, perchè non ho letto il libro del teologo Marocco: Rimembranze di un viaggio da Torino a Graglia. Dall'interna piazzuola sotto il giro degli alberi, dopo avere fatto un sonnellino ristoratore, colla pancia al sole e la testa all'ombrìa verde, ho dato uno sguardo alle poche cappelle che vanno su su al monte, abbrustolandosi al meriggio. Le statue in terra cotta del Tabacchetti non valevano due soli degli svolazzucci dorati che dal collo lanuginoso della nostra guida, la Main, scappavano sotto le trecce attorte della gentilissima testina. Povera figliuola! Rammento la sua tinta bruna, gli occhi ingenui se guardavano, pudichi se erano guardati, il sorriso confidente dei sedici anni, e quel mento e quel collino da gran dama! Aveva il suo fazzoletto, la pezzuola, il corsetto, la gonna, il grembiale, tutto a modo, tutto per lei: due sole cose mi facevano compassione, le scarpacce e la gerla: quelle parvero dirmi:—Noi costiamo tanto e tanto!—e questa:—Ho portato delle colazioni, con molta roba di Dio, su alle cime pei gran signori che mangiano coi guanti: ma la mia povera padroncina all'inverno, quando mi colma di legna gelate e mi fa ballare giù, giù giù, fino al Favaro, trova una minestra lunga e bianca bianca….—Ah, signori miei, non mi commovo alla polenta ruvida, al latte coagulato, ai formaggi duri, anzi per me le considero come leccornie capricciose d'un giorno all'anno, ma la minestra che fa scaldare le mani attorno alle scodelle, che si mangia a cucchiaiate, che fa tanto bene allo stomaco, l'auguro saporita a tutti, massime alla povera gente! E in tutti i giorni dell'anno!… Quando la Main fosse stata sposa (e glie lo desideravo presto), mi pareva che un grande garofano dovesse su quei capegli spirare l'aperta allegria di un mattino di maggio, e lei, volgendo la testina all'insù a prendere ingordamente il sodo bacione di un bersagliere del Favaro, lei dovesse mostrare tutto il suo collo, candido di sotto, rispettato dal sole. Sì, Main, io ho amato le tue trecce bionde, lo ripeto ancora, attorte dietro la testina, e la medaglietta d'Oropa che si perdeva giù fra le modeste pieghe della tua camiciuola. E ti rammento Graglia perchè là eri lieta, sollazzevole, senza pensiero. Un dì forse racconterò la brutta istoria delle tue lagrime, io che le ho viste cadere sulle tue manine, come le prime gocce di un grande uragano. Non avevi mai pianto, povera capretta dei monti!
Sino da quando io ero alle prime scuole, fra i doveri morali e civili, che imparavo a sillabare, come tipo di un dovere sublime, mi giganteggiava innanzi la figura nera di un soldato, di cui mi pareva rammentarne l'uniforme, coi nastri alle bottoniere, la grande tracolla e la miccia bituminosa e fumante. Pietro Micca era giù nel sotterraneo, fra i barili di polvere: suonavano i picconi dei nemici sempre più vicino: crepitava la fiamma della miccia nel buio. Si udì uno di quei sospiri che fremono come l'aria del liberissimo mare, quando sembra sdegnoso di confini: la piccola fiamma—sicurissima—avvampò. Poi successe il caos che tuona, l'inferno che strugge, sbattendo le ruine al cielo, la tremenda ridda delle mille viscere squarciate e palpitanti, i rivi di sangue sulla terra abbrustolata e fessa, i cervelli oscenamente incollati e le ossa scheggiate. Torino è salva! i francesi distrutti! la rocca è saltata! Io leggevo e rileggevo quel racconto, e con me i piccolini sillabanti finivano a guardare il vecchio maestruccio che piangeva. Eravamo nel 1859: a chi è di già agghiacciato a certi entusiasmi valga qualcosa la data. È giunto il tempo in cui io ho potuto pellegrinare nel Biellese a visitare la casetta del martire minatore: ma il mio povero maestruccio ha finito di addentare mozziconi ultimissimi di sigari e giace sotto fra le quattr'assi: come l'ho ricordato!… Sagliano-Micca è la continuazione del borgo d'Andorno: un paese di 2300 abitanti, colla solita via maestra a case belle e brutte, alcuni lanifici, stabilimenti di filature, 600 operai fabbricatori di cappelli, un collegio-convitto, e giù il Cervo strepitante che si mesce alla Moreccia. La casa del Micca dà in un vicoluccio: due muretti e una scala, ecco tutto. Non vi fila la vecchia discendente dell'animoso, ma una vecchia Madre, la Patria, sublimemente silenziosa e presente, sembra alla religione invocare la santa illusione di una seconda vita. Che Pietro Micca ritorni al suo focolare e vegga! Ch'egli ancora santifichi questo santuario degli Italiani! Ch'egli viva eterno giacchè è morto colla fede dei primi cristiani!… Sei lapidi fregiano gli scheggioni storici della casetta:
Entra e vedrai il marmo—che ti addita l'umile abituro—del gran minatore Pietro Micca.
Pietro Micca—il sesto giorno di marzo 1677—trasse in questa casipola i natali—il ventesimonono di ottobre 1704 impalmò Maria Pasquale Bonini—da cui venne allietato del figlio Giacomo—e la memoranda notte del 29 agosto 1706—allo sboccar delle schiere francesi—nella vegliata rocca di Torino—incendiando animoso le mine—ostia volontaria s'immolò alla patria—ammirate nel saglianese—un Codro novello.
Amedeo Maria di Savoia duca d'Aosta—il quarto giorno di agosto 1864—-visitando non ancora quadrilustre—la casipola di Pietro Micca—mostrò—di nutrire i sensi del generoso—che alla vita antepone la patria—ridestò negli animi la speranza—di nuove glorie all'Italia—e fece atto di viva gratitudine—verso il soldato pel cui eroismo—la corona ducale fu conservata—e la regia posta in capo—ai principi di Savoia.
Giuseppe Garibaldi—il diciannovesimo di giugno 1859—pria di avviarsi alla guerra italica—inspirandosi all'abituro dell'eroe biellese—il cui magnanimo sacrificio—salvò il Piemonte dal franco invasore—vi appose in omaggio del generoso—un serto di fiori—arra certissima del serto d'alloro—che avrebbe incoronata la fronte—all'eroe niceno—le cui mirabili gesta tanto conferirono—a redimere la Lombardia—dal teutono oppressore.
A Pietro Micca—morto a difesa d'Italia—contro l'invasione straniera—nel loco ove nacque—alcuni modenesi—crociati per la indipendenza della patria—pronti all'armi al cessare della pace—questa memoria—1848.
Alla memoria di Pietro Micca—morto eroicamente—nel compimento di un santo dovere—alcune donne—delle diverse provincie d'Italia—come esempio ai figli—posero questa lapide—il III agosto 1876.
Salve—Pietro Micca—vera gloria d'Italia—di santissimo eroismo—splendido esempio—Te fra gli itali campioni—la storia illustra ed eterna—e Sagliano che ti diè culla—sull'abituro reso grande da te—nel secondo centenario di tua nascita—pone riverente questo ricordo—addì 27 agosto 1876.
L'esempio del Micca ha valso: un secolo dopo di lui Giacomo Antonio Pasquale nelle milizie napoleoniche seppe meritarsi il vanto d'esser nato (1778) in Sagliano: a Ronzon in Aragona nel 1813, minatore e sott'ufficiale del genio, con 100 soldati combattè fiera guerra sotterranea contro 3000 spagnuoli, non cedendo il forte che onorevolissimamente, dopo la caduta di Lerida e di Maquinenza..—St'anno, non so perchè anticipandolo, s'è celebrato il secondo centenario del Micca: non ho veduto apparecchi in Sagliano: so che ci furono discorsi e banchetti, ma principalmente attesto che il maggiore Pasquina del 17° fanteria, dalla festa ritornato al nostro stabilimento idropatico, fu salutato con sincerissimi evviva: egli mostrava fregiato il suo petto da due medaglie al valor militare e dall'altre delle campagne dell'Indipendenza. Nell'esercito italiano si continuano le tradizioni memorande del piccolo esercito piemontese.
Andorno è borgo antico: fu donato dal vescovo Liutprando, da Carlo il Calvo alla chiesa vercellese, riconfermato da Ottone III: nel 1378 dal vescovo Fieschi venduto a Ibleto di Challand: un anno dopo per la spontanea dedizione si affidava alla mano leale di Amedeo VI di Savoia. Il castello colla torre fu un'antica commenda dei cavalieri gerosolimitani: ora guarda giù, rintonacato alla moderna, e vede le industrie animose, svariate, produttive: esempio massimo il cotonificio di Miagliano. Lo stabilimento idropatico (600 m.) così bene diretto dal dott. Carlo Corte, così frequentato dai milanesi, flagella le sue docce su morbidi corpicciuoli, candidissimi e nervosi, dove un dì borbottavano incappucciate e insaccate, giallissime e linfatiche, le monache cistercensi: e dove si chiudeva come in un castello l'arcigno vescovo Fieschi, sui bei giardini della montagna, sugli spiani claustrali scorazzano sanguigni giovanotti, inseguendo farfalle… o fanciulle. La natura intorno vi è mesta: giù prati con salici, dossi boscosi di castagneti, edifici bianchi e rumorosi opifici, e folte case e cielo compiacente. Vi paiono luoghi che conoscete da un pezzo, che avete visti e stravisti, dove avete letto l'Aleardi e fumata la prima sigaretta, per piacere alla prima fiamma vagabonda sulle rive a cercare il fiorello azzurro non ti scordar di me… Vedete anche il grano turco che vi rammenta le aie e le canzoni lombarde e le melanconie erotiche alla luna, quando lei colle sue manine voleva cavarsi il capriccio di scartocciare le pannocchie: vedete le viti coi grappoli dell'idillio; lei che vivrebbe anche d'un grano solo al giorno se… Vedete le patate. In altra occasione vi farò della poesia, per ora no, e vi dico che la natura di Andorno sta a questa di Oropa precisamente come una fanciulla brianzuola ad una donna alpigiana.—Ad Andorno è nato nel 1707 e morto nel 1794, il valente pittore di prospettiva Bernardino Galliari, che all'eccellenza dell'ingegno, semplicità di costume, bontà e religione accoppiando, colle opere sue dentro e fuori d'Italia il suo nome eternò. Così l'iscrizione sul suo sepolcro nella chiesa parrocchiale.
L'Ospizio d'Andorno è detto di San Giovanni ed è assai insù nella valle del Cervo, ad un'ora e mezza di vettura dal borgo. Il Cervo colle sue acque battezza una generazione laboriosa, amantissima del focolare paterno, dalla montanara, che coi calzoncini di panno (vireire o virùi) sui pendii scoscesi delle prealpi, suda alla raccolta del fieno selvatico (siùn), agli imprenditori, ai maestri di muro, agli opranti, che colla certezza delle braccia robuste e del cuore gagliardo, corrono l'Europa, vanno in Algeria, si fanno lodare all'istmo di Suez. La montanara abbella il suo alp con qualche medaglietta di San Giovanni e d'Oropa: i nuovi arricchiti innalzano ville sontuose e cooperano all'edilizia pubblica, aprendo stradoni, costruendo ponti, facendo segare marmi e pietre per cimiteri e chiese. La valle è magnifica: montagne verdeggianti e dolci, poi rocciose ed erte, piene di paesetti come nidi selvatici, ricche di borghi alle comode falde, capricciose e franate nelle insenature, dominatrici dalle cime, cave squarciate e pascoli e torrenti diroccianti, e in fondo il Cervo colle lavatrici, le gore, le furie, le lingue secche di sabbia, i labirinti dei ciottoloni, le corna delle scheggie, le spume, le pennellate d'oltremare e le velature d'asfalto, i capricci dell'artista e le calcolate architetture dei ponti. Signori miei, questa è Svizzera. Fumano le allegre gole degli alti camini e rumoreggiano gli opifici con gagliarda festa di lavoro: consoliamoci, questa è Italia!
L'Ospizio è un luogo tranquillissimo, romito, senza sfoggio d'architetture, poggiato tra il verde; Nessuna severità: ci si potrebbe arrivare con sei cavalli! Tre casette con portici tozzi, una quarta a quattro piani, un altro fabbricato, chiudono per tre lati una piazza colla fontana, un terrazzone da cui la vista signoreggia giù per la vallea. Ci sono entrato da un sentiero nicchiato sotto ai faggi, se potessi dirlo, una corritoia di verzura: l'Ospizio mi ha abbarbagliato gli occhi, cacciandomi dentro mille punture di luce, mille serpentelli, mille zigzag, colla sferza del suo sollione. Oh che sollione! Diventano verdi le tonache dei preti, e rosee le guance delle monachelle. Dell'esterno della chiesa vidi i capitelli di marmo bianco di Mozzucco, la statua del protettore, la facciata che a sinistra s'appoggia sul petrone di San Giovanni, e leggendo le iscrizioni Vox clamantis in deserto—parate viam Domini, pensai che questo Ospizio deve procurare poche novene cenobitiche in onore del suo santo, finchè avrà l'albergo Peraldo, fatto apposta per trasgredire il gran precetto del digiuno, punto primo per pulire a nuovo le coscienze. Nell'interno della chiesa c'è il cattivo gusto del seicento e del settecento: nel cupolino il pennello di Fabrizio Galliari vuolsi abbia superato l'opera del cupolino di Graglia. La Guida del Club Alpino cita, ed è giusto, i due evangelisti e la nascita del precursore del Bernardino Galliari, cita la cappelletta scavata nella roccia, e così soddisfa, se non gli amatori dell'arte, i curiosi e i pellegrini, i quali non capiranno mai la bellezza di quel lumicino scoppiettante in quell'umido eterno: ma la Guida tace, e non so perchè, nella seconda o terza cappella di destra, quella tavola delicata, ingenua, dolce e robusta a un tempo, che è chiusa nella sua cornice azzurrina ed oro, di stile elegantissimo rinascimento.—Che effetto m'ha fatto questo Ospizio? Dico chiaro e tondo: la devozione non m'è apparsa nè a Graglia, nè qui: là capitai in ora di pranzo, qui pure. Vidi gente che mangiava a quattro ganasce, gente che fa la sua vacanzetta di nove giorni coll'alloggio gratis, vidi poca poveraglia, preti tozzotti, fantesche ruvide, pretenziose provincialette, e qualche alpenstock che ambiva fregiarsi coi nomi della Mologna grande o della pcita, o del Croso, o del Maccagno, giacchè dall'Ospizio vi sono i passaggi per Gressoney, per Valle Sesia, per Alagna. Buon appetito e buon viaggio.
Da Gressoney (1310 metri).
Ti scrivo dalla più simpatica cameretta che sì possa abitare. Pareti di larice rosso, un gran lettone, per tappeti delle pelli di camoscio, nel catino un'acqua ghiacciata, e dalla finestretta qual vista! Compererei questa cameretta, per non so quante mila lire, a patto di starci tanti anni, senza un pensiero, senza un rumore fastidioso, così come sono, innamorata dei silenzi dei boschi e delle valli,
L'alberghetto châlet, colla gronda sporgente e le grandi lobie di legno, è posto su un dolce pratello nel fondo della gran valle della Lys: alle spalle s'ergono i boschi di larici e scroscia una grande cascata, di fronte ancora boschi e cime; in fondo il campanile di Gressoney, il ponte, il torrente lattiginoso; in fondo ancora il Monte Rosa, coi ghiacciai del Lyskamm, e la Vincent-Pyramide, lo Schwarzhorn, il Ludwigshöhe, il Parrospitze, il Signal Kuppe. La valle della Lys è dei più bei luoghi dell'Alpi ch'io mi abbia visto. Questo hôtel-pension Delapierre è una casina lucida, specchiante, poetica.
Il comune di Gressoney tiene tutta la vallata, da Trina fino ai ghiacciai. Trina che trovasi a mezz'ora da Gressoney Saint-Jean, offre un alberguccio modesto, ove chi vien giù da Oropa sarà contento di trovare buona birra e all'uopo anche un letto. Gressoney Saint-Jean, quantunque distante un tre ore dai ghiacciai, è molto conosciuta nel mondo alpinistico. Fu eretto qui il primo buon albergo delle vallate alpine del versante italiano. Quivi fanno capo i passaggi della Valdobbia, dell'Ollen, della Pisse, del Lyskamm, della Betlina, della Betta-Furka, della Ranzola, e altri. La punta di Zumstein si denomina da un valligiano di quel nome, che tradotto in francese dicono Delapierre.
Curiosa è questa vallata per la confusione di favelle che vi si odono, dal francese al tedesco, con tutte le gradazioni intermedie di dialetti.
Due delle escursioni più belle da Gressoney, sono la salita al
Granhaupt, per la sua vista sul Monte Rosa, e l'escursione al Grand
Plateau sul ghiacciaio della Lys, molto interessante.
Un magnifico viaggetto in due tappe porta a Zermatt in Isvizzera: prima tappa a Fierg per la Betta-Furka; seconda tappa a Zermatt per le cime Blanches, Ghiacciaio di Aventina e quelle del Teodolo, facile e bellissimo.
Rimontando la valle, s'incontra la frazione di Gressoney la Trinità, indi Orsia, d'onde si dipartono i sentieri per la valle della Sesia da una parte, per la valle d'Ayas dall'altra. Adesso mo interroghiamo monsieur Delapierre: egli ci distingue «les promenades et environs, les ascensions principales, les voyages» soggiungendo che «l'ont tient des mulets, des guides pour la comodité des voyageurs.» O amica mia, quali passeggiate! Che bellezze! Alla cascata de l'Oobach, alla Cours de Lys, alla punta de la Rum, all'Ober e Montil Alpenz!
Le ascensioni possono spingersi alla Punta dei tre Vescovi, al Corno
Bianco, al Monte Nery, al Colle di Liskamm, al Corno del Camoscio.
E i viaggi? A Pont-Saint-Martin, a Brusson, a Châtillon, ad Alagna, a Maglia, a Varallo, a Piedicavallo….
Vedi, amica cara, io non mi starei quieta finchè sul mio alpenstok avessi tutti questi nomi, che per te sembrano appena appena nero sul bianco, per me sono quel che sono!
Che vita si fa, e che società c'è? Qui la cura è quella dell'aria. Ci alziamo presto e apriamo la finestra, poi scendiamo giù nel piazzaletto avanti l'albergo. Chi s'aspetta? Di che si ciarla? Una compagnia è partita per una gita: vogliamo vederli al ritorno. Che fiori ci porteranno? Ci conserveranno una manciata di neve? ecco tutti i nostri pensieri. S'entra nella sala: chi suona il pianoforte, chi legge i libri inglesi, chi spoglia gli album dei passeggeri. A tratto, dèn dèn, s'ode la campanella. Arrivano degli alpinisti, colla sacca sulle spalle, il lungo bastone, il plaid, i calzaretti a stringhelle. Donde vengono? Dove vanno? Se potessimo seguirli su ai ghiacciai! Ecco i nostri pensieri. Esce loro incontro madama Delapierre a dire che le spiace molto, ma se vogliono alloggiare non ha più posto; però se s'accontentano alle dépendances…. Ride la ragazza che loro serve di guida Ed essi mostrano sul Rosa, qualche larga pezza di serico bianco. Dormire? Essi fanno la cura del moto. Buon viaggio! Lasciano sull'albo i loro nomi.
Sono da Milano?—Li conosci?—Sì, no.—Chi possono essere?—Io credo uno d'averlo visto a una festa in casa ***—Sì, sì,—Bel giovanotto!—Già.—Perchè già?—Eh!… Si ride. E ridono le mamme. Intanto tornano i giovanotti, portando per regalo, quali il mignin, quali la concordia, quali la vaniglia e la viola dell'Alpi.
Si ciarla a colazione, in questo refettorio di gaudenti, si ciarla tutto il giorno nella sala, sul piazzaletto, sulle lobie, si passeggia e si ciarla prima di pranzo, facciamo toletta; e poi ciarliamo a pranzo. A pranzo tu vedresti freschissime vesti bianche, pettinature d'ottimo gusto col fiore alpino, gioielli preziosi, trine delicate, e, quel che più importa, visini allegri, nobili, capricciosetti. Qui vi sono molte signore torinesi, una signora milanese, che villeggia a Broni, la inglesina, la francese e la Y X.
Siamo in fondo a una valle, passano dinnanzi povere contadine vestite di panno rosso e vecchie insaccate di panno nero, vediamo picchi e ghiacciai; pure, amica cara, qui a dopo pranzo si risuscitano come cose attuali le mode, gli spettacoli, i pettegolezzi della città…. Si spogliano giornali di moda e cronache segrete…. Dove sarà la marchesa T. di Milano?—A Chamounix.—E la poetessa P. A. R. di Faenza?—Mi dicono ai bagni di mare.—La marchesa-alpinista D. M. di Genova è all'Oropa.—Chi sarà alla salute di Cannobbio?—La V. di Milano e la contessa S. di Bergamo.—Mi dicono che all'Oropa ci siano dei colonnelli bellissimi e simpatici.—E ad Andorno molti milanesi.
Sfogliamo le cronache segrete:—Perchè l'Y un anno è ammalato di nervi, un altro di stomaco, un altro di gambe, e va un anno all'Oropa, un altro anno a Santa Caterina, un altro al mare?—Perchè?—Perchè all'Oropa, a Santa Caterina, al mare è andata la X.—Indaghiamo questa X.—Veste sempre all'inglese, ha il parasole-alpenstok, predilige la penna d'aquila nel cappellino.—Ed è ammalata?…—Di cuore!…
E qui uno scroscio di risa maliziose e contente.
Da Alagna (1205 metri).
Ho passato l'imponentissimo Col d'Ollen (2909) ed eccomi alla tanto rinomata Alagna: un paesetto cacciato giù, nella Valle della Sesia, ai piedi delle Due Gemelle. Come sono cari questi châlets! Murati al piano terreno, che serve per stalla e cantina, s'alzano in legno di larice rosso, ricinti nei due o tre piani da ballatoi assai sporgenti, e finiscono con un grazioso cuspide, qualche volta frangiato. Ma bisogna vedere le finestrine, le panche, le balaustrate, le scalucce! Sembrano costrutte per i pittori o per gli innamorati.
All'ombra dei larici quale tranquillità! Per queste straduzze quale oblìo! La chiesa spicca col bianco campanile e colle sue mura fra l'intonazione bruna e violastra della valle. E vicino, anzi intorno alla chiesa, si stende il cimitero colle cappelline della Passione.
Mi dicono che la prima capanna sia stata costrutta da un Enrico Staufacher: la piccola colonia crebbe a poco a poco, diventò paesetto, si spopolò per le emigrazioni degli Alagnesi in Isvizzera, in Francia, in Germania, in Ispagna, ma gli esuli volontari tornarono ancora e con danari acquistati coll'arte dell'intagliare legni e dipinger soffitti; il paese s'arricchì, l'amore al luogo natìo è spiccatissimo e gentile. Alagna vide sorgere belle casine e decorarsi la sua chiesa.
Ora ha il villino Grober e lo châlet del cavalier Farinetti, delizie da mettere nella scatolina colla bambagia.
Immaginati un paesaggio alpestre: picchi, foreste di larici, casette che sembrano inerpicate, mucche pascenti, gruppi di pecore, cime scoscese, aspre, abbrustolate, eppure sparse di neve, immaginati il Monte Rosa che giganteggia dominatore.—E le macchiette? Uomini colle calze groppose e gli zoccoli di legno, ragazze vestite di scuro, colle pieghettine sulla schiena, vecchie curve sotto il carico di legna o di fieno.
Passa anche qualche Fobellina, il cui costume tradizionale è pittoresco e notissimo. Una specie di grembiale ricamato s'attacca su quasi fino al collo, la cintura è altissima, di sotto la corta gonnella sporgono le calze di panno o di maglia, come s'usa nella Valle del Cervo (le vireire o virtù).
Alagna è quartiere di grande concorso per gli alpinisti, essendo il centro ove convergono molti passaggi: Col d'Olen, Col della Pisse, Passo del Turbo, Passo della Piana, Col di Mond, Col di Rima, ed altri meno frequentati. La salita alle vette più importanti del Monte Rosa non è praticata da qui.
Da Alagna si può stringere l'alpenstok fino a…. a… interroghiamo il signor Guglielmina, buonissimo albergatore dell'eccellente Monte Rosa: ci risponde che ci sono a fare escursioni, passeggiate e viaggi.
Il viaggio sarebbe a Varallo per Mollia. Da Alagna a Mollia vi è una strada mulattiera che segue la Sesia, pittoresca, ora fra prati, ora su roccie; da Mollia a Varallo ventisei chilometri si percorrono benissimo in vettura.
Escursioni da metter la scintilla elettrica nel cervello sono quelle al Corno Bianco pel lago del Tailli, ai ghiacciai della Sesia, alla punta delle Loccie per vedere Macugnaga, al Colle del Turlo, a Rima, a Fabello, a Zermate, al Riffel.
Vuoi passeggiate? Si va a Riva-Valdobbia a vedere la grande pittura a fresco della chiesa di Melchiorre d'Enrico d'Alagna, eseguita nel 1597, a godersi la magnifica vista del Rosa; si va alla cascata dell'Otro (metri trentatrè), all'Orrido, al Corno di Stoful, all'Alpe di Bors e di Von Decco, all'Alpe del Campo e di Von Sattel, alla cima des Kuffers Grod. Ti mostrerà fotografie, ma non c'è macchina, non c'è carta, non c'è nitrato d'argento che possa darti una mezza idea di questi luoghi. E poi! questo patois tedesco e francese ti fa parer d'essere su nella Svizzera famosissima.
L'albergo di Guglielmina ti dice come la gente onesta e laboriosa si abbia sempre un premio.
Passano e ripassano alpinisti di tutte le provincie; vi si fermano per un mese o due delle famiglie milanesi e torinesi. L'anno scorso avevamo insigni e pomposissime signore, decoro dei nostri bastioni, e molti signori. St'anno ebbimo anche il distinto archeologo A. C. e un duca inglese con un nome che mi suona aspretto, ma celebre.
L'albergo ha belle camere, eleganti corritoi, lieto salone da pranzo, simpatica sala da conversazione: vi trovi mescolato il larice alle pitture, le sbarre di legno alle dorature delle sbarre di di ghisa, il carattere montanaro al comfort esigentissimo cittadinesco.
Avrei tante cose a dirti: ma sento una certa campanella che mi fa fare un salto di gioia…. Arriva qualcuno? Chi arriva?
Arriva la zuppa fumante, e chi impugna l'alpenstok sa come si stringa volentieri anche il cucchiaio.
A rivederci,
5 agosto 1880.
Quando un mio amico, chimico-farmacista d'archiginnasio, mi tirò fuori da uno scaffale polveroso il librattolo di messer Giovanni Graziano bergamasco, professore di medicina a Padova, e me lo spalancò dinanzi, sì ch'io vi lessi Thermarum Patavinarum Examen, Patavi MDCCI, e quando mi citò le disquisizioni dell'Arduino, del Lorgna, del Mastino, io confesso che non mi vidi innanzi agli occhi (e come no?) altro che il conte Lelio Piovene da Vicenza, lo scopritore della fonte che ancora ne conserva il nome, e Fulgenzio e Domenico Griffani, usurpatori di essa; e il Serenissimo Principe, e i Provveditori, e i Pregadi, gli ufficiali della sanità pubblica, tutti riuniti in consiglio, una folla negra di parrucconi grigi, coi musi nascosti dai ricciolotti tiepoleschi, inferraiuolati, arcigni, incollarati, misteriosi. Mai, mai, mai non avrei sognato di vedere, nemmeno fuggitiva come un baleno, la faccia sorridente così gaia e la strettissima toletta bianco e nera di quella nostra signora milanese…. Amici miei, neppure le iniziali del nome vi dò: vorrei solo potervi dire il fascino di quelle linee elegantissime, il gusto di quella semplicità, l'audacia di quell'abito, che una signora mia conoscente dichiara il più bello e il più nuovo st'anno sin qui veduto a Recoaro. Il conte Lelio sullodato quand'ebbe scoperta l'acqua salutare, deve aver sorriso mestamente, pensando ai cento malanni della misera umanità, e deve aver sognato solo volti scialbi di montanari e di pastori, giù scendenti dalle Alpi Retiche, col melanconico brontolìo del rosario sulle labbra. Ma sì! Se egli avesse potuto ficcare gli occhi sino a noi! Avrebbe veduto, in groppa agli asinelli, le più care signore, felici di svelare una scarpina col tacco all'Efftein, e gli eleganti giovanotti felicissimi di poter loro tener la staffa; i buoni papà e le mamme che lasciano volontieri sviarsi tra i crocchi dei caffè e dei piazzali le loro ragazze sui diciassette, e i bimbi allegri, vestiti alla marinaresca che già offrono cavaliermente il braccio alle signorine, e i mariti che domandano: dov'è mia moglie? e le mogli che non domandano: dov'è mio marito? e i patriarcali piovani che sono sempre pronti e convinti a dire che tutto succede con permissione del Signore. Che festa! che gaiezza! che profumo di gioventù e di lusso! E quante speranze di confetti e quante benedizioni dal cielo! Il patrizio vicentino avrebbe veduto saloni elegantissimi per caffè e concerti; stabilimenti idropatici; alberghi d'aspetto svizzero, coi maggiordomi dalle basette all'inglese, colla tabella piena di titoloni, di contesse, di marchese, di duchesse…. E la villa Tomello l'avrebbe veduta quel cittadino d'una serenissima repubblica, la bianca villa che accolse e ancora deve accogliere la prima e la gentilissima Regina d'Italia? E avrebbe sognato, tra il basso fragore del torrente Agno, bisbigli di donna per lo meno in sette lingue e ciarle e riso e armonie di concerti musicali?
Pace nell'altra vita a quel conte Lelio: e pace in questa ai mariti e ai babbi che mettono mano alle borse!
* * *
Con questi quattro scarabocchi io non pretendo di cucirvi una corrispondenza: vi mando delle note a lapis e se potessi vi darei più volentieri degli acquarelli che ho pennellato sul mio albo. La via provinciale che da Vicenza conduce per Tavernelle a Recoaro è lunga 42 chilometri e con due cavalli l'ho percorsa in quattro ore. Le montagne, i campi di granoturco, i cascinali, i prati, somigliano affatto a quelli della sponda dell'Adda tra Lecco e Bergamo: solo i vigneti hanno un aspetto diverso, perchè le viti sono arcadicamente maritate agli olmi. I binari di un tramway si vedono già collocati, una macchina sbuffa potentemente e fra pochi giorni sarà aperto al pubblico un servizio opportunissimo fra Tavernelle e Valdagno. Nel lungo paese di Montecchio v'è il palazzo Cardelina, un esastilo grandioso, d'inspirazione Palladiana, con statue, scalee, muraglioni, cancellate, ma quasi deserto e mestissimo. Su un colle si veda la fastosa villa del cantore epico dell'Italia liberata dai Goti, il Trissino: e su su due castelli che dai crepacci delle mine sembrano l'uno ringhiare verso l'altro con astio feroce: la tradizione li dice i manieri dei Capuleti e dei Montecchi.
Una fermata a Valdagno, scrive l'egregio dottor Schivardi, è di rigore: e nota che è capoluogo, borgata, con una bella piazza Roma, il giardino dei conti Valle, le fabbriche di panno del signor Manzotto.
Io mi compiaccio ad osservare delle poderose facciate di case del secolo XVI, con balconi in ferro o parapetti a fogliami traforati in sasso; vedo dei gustosi martelli di porta, e per la prima volta disegno dei mascheroni o meglio delle testaccie tonde e scipite di greci e di turchi, sporgenti dagli archivolti, come serraglie bizzarre. Da Valdagno a Recoaro la strada si fa ripida, i monti giganteggiano, il verde è intenso: tutta la valle si restringe.
Recoaro (da Recubarium, luogo di riposo, o da Rex aquarum, re delle acque) fino agli ultimi anni del secolo XVII non era che un paesucolo composto di gruppi di casolari qua e là sulle pendici delle Alpi Retiche. Ora è un paesotto; meglio è un solo albergo, un solo caffè, un solo stallo…
* * *
Chi sono e dove sono i Recoaresi? Tra questa folla in cento abiti, dalle foggie date dalla nostra Chaillon alle vestaccie affagottate delle alpigiane tirolesi, tra il sonare di otto o dieci lingue e la babele di cento dialetti, fra il va e vieni delle carrozze, il tempestare delle unghie degli asinelli, e gli inviti: paron! paron! paron! io non so dirvi chi sono e dove sono i Recoaresi. La scena è pittoresca; il paese lungo, la via erta, le case affatto moderne e come quelle della riviera ligure, la chiesa piccina e tutta bianca, il campanile grosso, tozzotto, degno d'un proposto capo pieve, una casa col tetto a quattro pioventi, un po' acuminato, la gronda a volticciuole e l'aria di un torracchiotto; in fondo le allee che a zig-zag vanno alle fonti, il santuario di Santa Giuliana raccosciato come tra il verde; a sinistra, quasi sempre incoronata di nubi, la vetta dello Spitz, e giù l'Agno dalle acque saponacee e dal letto sassoso, e a chiudere la scena, aduste, violastre, cornute, le formidabili alpi tirolesi.
Dello Stabilimento Giorgietti, del piazzale, dei divertimenti e delle cure vi parlerò un'altra volta.
Per ora, prima che si muti la folla degli ospiti, mi faccio premura ricordarvi che c'è qui il simpaticissimo e spiritosissimo Pompiere del Fanfulla, la contessa W. alla villa Tonello, la marchesa P. di Venezia. E infine dico alle lettrici colla massima gioia che, fra la tolette di vera eleganza, noto sempre quelle delle nostre gentilissime concittadine, signora C., signora M., signora S.
11 agosto 1880.
Il buon milanese che, vergognoso, solo, rincantucciato nel fondo di una vettura, arriva sulla piazza della Fonte Lelia, allo stabilimento del mio amicone Giorgetti, e guarda l'orologio e vi trova segnate le 6,30 dopo il mezzogiorno non può a meno di consolarsi, dicendo:—Qui fra i monti si fa presto sera. Almeno domani la Sagra sarà finita, e tutto sarà in pace per la mia cura felice. Che festa è quella d'oggi sul calendario?—Sì, le mie signore lettrici: a 6.30 le campane di Recoaro tampellano giù nella vallata con un suono maestoso e lieto: sulle allee trottano a torme gli asinelli bardati, e i mulattieri vociano nel loro festosissimo dialetto; davanti alle cento trabacche variopinte una folla oziosa brulica con un ronzio da vincere la voce del Prechel dirocciante nelle tane dell'Agno: là le grida dei venditori e le risa delle compratici: qui un'ondata di musica e un acciottolio di tazze da caffè e… È appunto qui che proprio il nuovo arrivato non s'arrischia a dare un'occhiata: ma è appunto qui per sua condanna che deve discendere dalla vettura, e sgranchirsi, e pigliarsi il fascio dei paracqua, dei parasole, dei bastoni, e far calare le non stemmate valigie, e cavare di tasca il telegramma del Giorgetti che ieri gli assicurava una camera… ritarda persino il maggiordomo! Quelle 6,30! benedetta ora per gli stomachi deboli! Proprio sotto la verandah d'ingresso v'è il crocchio del dopopranzo, le ciarle graziose, i bisbigli crudeli, i commenti arguti. Qui le scarpine proterve che batterebbero i tacchi anche sui frantumi di un paradiso, pur di correre ad un trionfo d'orgoglio: le calze nere e bianche, e carnicine, quanto pii schiette, tanto più superbe: qui la seta stupenda, i percali capricciosi, i velluti, i merletti antichi, le foggie studiatissime e le semplicità insidiose, i colori, i profumi, le linee olimpiche e le birichine audacie del Watteau: qui le candide manine straricche di anella, e le braccia nude, dal colore della cardenia, misteriosamente affogate nelle trine e roseamente tormentate dalla depressione dell'oro massiccio dei braccialetti… Il nuovo arrivato non ha coraggio di arrischiare un solo sguardo su quei volti femminili, e maledicendo al suo stomaco, al suo fegato, alle sue febbri intermittenti, si dice condotto nel regno della vanità, non nella severa valle d'Igea. Buona notte all'amico. Siccome è un figliuolo tanto giudizioso, ed ha la guida alle acque di Recoaro, prima di soffiar sul lume, legga quanti malanni affliggono l'umanità fisicamente e ricordi quanti altri la percotano moralmente, e poi si rassegni a pigliare il mondo com'è. Sognando qualche bionda testina di veneziana, con un garofano di Vicenza alle treccie, una collana di perle al collo, pensi a sant'Antonio, che solo, nel deserto, meditabondo ed arcigno, doveva sbadigliare fino a sgangherarsi le mascelle. E ciò è poca lode di messer Domeneddio, che, creando Recoaro, lo volle proprio sacro ad Imene ed alla Salute; ei volle che la vita qui fosse animatissima, come una perpetua sagra, senza santi di calendario: il giorno rallegrato dalla festa del sole, dalla vista dei monti, dallo scroscio dei torrenti; il crepuscolo vespertino poetizzato dalle gite sui somarelli pei viottoli deserti, e la notte dedicata alla musica, alla tombola, alla danza.
* * *
E si fa sera—la sera solenne dei monti. Le cime aduste e stagliate mano mano prendono le tinte violastre che fondono in un velo solo le frane, i torrenti, le insenature, le gobbe, gli ruffii selvatici, gli scaglioni, i torracchiotti: giù per i pendii vestiti di boscaglie, una fredda oscurità cancella i contorni dei faggi, dei castagni, dei pioppi, e versa il solo verde cupo della solitudine; i pratelli erbosi sembrano aggelati da cento rivoletti che, gorgogliando dalle chiuse e perdendo il luccicore, per tane e bugigattoli si smarriscono giù in fili bisbiglianti; i falciatori tornano soli e senza canzoni su pei viottoli di sassi ammontati e sui sentieruzzi guazzosi, sciacquano i falcioni alle cascatelle, e si dilungano tra i macchioni dei castagni, dove s'alza un filo di fumo color cobalto da un tettuccio di tegole muscose. Il cielo è del più intenso azzurro, profondo senza un fiocco di nube; e la prima stella sembra aprire e chiudere, ammiccando, la sua pupilla di luce, quasi mesta fra tanta pace, fra tanto silenzio, fra tanta solennità di morte. L'uggioso guaiolare di qualche cane, qualche lontanissimo muggito, il fragore basso dell'Agno: ecco i saluti di questo deserto che si addorme, che si sprofonda nell'oscurità, che ha i fremiti degli abissi e i sussulti del vento.
* * *
E si fa notte—la notte lieta dello stabilimento Giorgetti. Il mercante turco attraversa il piazzale con un paggio non maomettano che gli regge religiosamente il narguilè e s'abbatte coll'ambasciatore russo: una signorina francese che fuma la sigaretta getta uno sbuffo che va a sfioccarsi fra le tese di un tricorno da piovano bergamasco: un professore col cappello a tuba cede la destra ad un musseto che trotta colla sua greppia: due dame che combatterono per la toletta, si passano vicino e la gonna della trionfatrice fruscia ironicamente sulla coda della vinta: un giovanotto incendiato ed ardentissimo s'incontra col Pompiere del Fanfulla e, guardate combinazione! una signorina accetta il braccio e il bisbiglio di un signorino. Ma chi ve la dipinge tutta questa folla! Sul piazzale si addoppia la vita alle prime battute di una quadriglia. Il prezioso filo d'acqua del conte Lelio Piovene, là sotto un portico del settecento, nella nicchia umida, ferrugginosa, magnesiaca, con un lumino scoppiettante a lato, sembra piangere di dover colare giù nelle bottigliette che si spediscono a Milano, a Venezia, a Verona, lui che la salute la vorrebbe regalare in luogo, accompagnato dall'allegria e dal corteo degli asinelli. Il ringhioso leone repubblicano, dagli archi bugnati, guarda giù, come un protettore, e se a vece del messale di San Marco, stringesse l'altro storico di Recoaro lo dovrebbe aunghiare un po' meno crudelmente, perchè ci sono pagine di color roseo e celeste. La folla si versa nel salone del Vicentino; là la tombola, i lancieri e le ciarle. E l'amico milanese, che non ha osato guardare le teste femminili, là le vedrebbe innondate di luci e di sorrisi, contornate da capelli biondi, neri e castagni, tante volte adorne nobilmente di mazzolini di edelweiss, di ciclami, di margherite, di grappolini di sorbo! E la cura? la cura felice, per cui s'è mosso l'amico, affrontando sette ore di ferrovia, i pericoli di un tramway snodato come una biscia, le scosse di una vettura a capponaia? La cura non ha orario e non ha metodo e non ha noia. Bevete e bevete.
* * *
Uno sguardo all'elenco dei forastieri ed ho quasi finito. Abbiamo avuto qui tanto corone da far invidia al fondatore dell'archivio araldico del Vallardi: i nuovi venuti da Milano sono il marchese C., i conti T., la nobile B.; da Torino, la contessa B. di G. e il commendatore V.; da Bologna, la contessa A. Volete anche della politica alle acque? È arrivato quel nostro insigne concittadino, che è il senatore G., prefetto di Verona, l'onorevole O., l'onorevole R., e il nostro marchese V., se pure egli non desidera d'essere posto fra i filarmonici.
* * *
Proprio l'ultime righe e ho finito. A Vicenza ebbi il piacere di conoscere quel cesellatore famoso, queir ageminatore, quello sbalzatore, quell'incisore che è il Coltellazzo. Come a lui, così a voi non nascondo un mio schietto convincimento: il nostro Gaggino a Milano è più amoroso dell'antico, è più ingenuo, è più fino; ed oltre all'arte del fare, conosce gli accorgimenti sagacissimi dell'irrugginire e dello sdrucire. Il Coltellazzo è creatore e libero: il Gaggino è archeofilo. Concludo dicendo che tra questi monti, a Valdagno, ho conosciuto un dotto istoriografo della vallata, il signor Giovanni Soster, il quale raccoglie documenti, pubblica monografie, incetta cose antiche, sì che la sua casa può dirsi un piccolo museo di memorie locali.
20 agosto 1880.
Da Recoaro, per Rovegliana e i sentieruzzi montani, l'arrivare a Schio sul dorso di una somarella orecchiuta, coll'armoniosa compagnia di un mussaro, che, menando botte da orbo sulla groppa paziente della barberina, fa rimbombare anche la nostra carcassa di ventiquattro costole; e lo sdrucciolare di sella colla disinvoltura di un pievano che stringa sotto le ascelle il parapioggia di cotone rosso e finisca di sonnecchiare sull'eterno salmo dell'eterno breviario non deve punto garbare alle mie gentili signore, che conoscendo già Schio, non possono soffrire di vedermi tanto goffo e impacciato da non rispettare i civili costumi di questa città dell'industria, sì moderna e sì famosa. Accetto il consiglio: Wer reisen will, tret'an am frühen Morgen und lasse heim die Sorgen! rinuncio agli sproni e alla nobile gualdrappa, prendo a nolo una prosaica carrozza, mi ci accomodo poltronescamente, e mi lascio trascinare sulla strada maestra, che corre ai piedi dei monti, fra colti e vigneti; dolcemente passa un colle, per selvette cedue di castagni e massi lucenti di micaschisti, e, per valloncelli e distese di campi, attraversando i paesi di Malo e di San Vito, ci conduce a Schio.
* * *
Malo, con circa 3000 abitanti, presso la sinistra riva del Torlo, antico feudo dei vescovi di Vicenza, è un paesotto lungo lungo, che qua e là presenta qualche facciata di casa a linea severa, qualche finestra coi vetrucci tondi, qualche porta di tipo schietto, insomma qualche dettaglio che sa meritarsi uno sguardo da noi, avvezzi all'uniforme e merciaia pezzenteria di tante nostre borgate, a cui la ferrovia portò la secchia dell'imbianchino e i portenti artistici del ferro fuso. Se Malo sia proprio stato costrutto nel secolo VI dal gotico Amali e se la classica chiesa parrocchiale sia fondata sulle mine di un castello, lo domanderei al gentilissimo signor I. Rossi dei Club alpino italiano, a lui che mi fece imparare per queste valli tante belle cose antiche, ed io tutte le perdetti di memoria, quando sì fieramente e sì potentemente sussultai di gioia e di meraviglia nell'opificio di Schio. Così pochissimo so dirvi di San Vito: che sia stato percosso dalla peste del 1630 lo lessi in una lapide nel muro del cimitero: che conservi nella chiesa parrocchiale alcune pale del Maganza, lo credo benissimo, giacchè lo trovo in un libro stampato.
* * *
Schio, con circa 10,000 abitanti, con giurisdizione distrettuale su quindici comuni, giace lungo il torrente Leogra: a nord ha i monti Novegno e Summano; ad ovest, il Corneto, il Bufelan, la Cima di Pasta; a sud-est, la pianura veneta. Il Leogra, unitamente al Gogna, per mezzo di un canale, detto la Roggia, dà ai terreni una rete irrigatoria per più di 700 ettari, e agli opifici una forza di oltre 800 cavalli. L'agricoltura qui non spiega alcun sistema particolare: anzi, il lombardo che è abituato ad ammirare meritamente i propri latifondi, come una mappa, sì ordinati, geometrici, proficui, qui si scontenta nel vedere le viti inacidire i grappoli, nascondendoli nelle chiome amiche degli olmi, il grano-turco soffocato nell'ombre, i gelsi lasciati egoistici padroni dell'aria e della luce, le falde delle montagne improvvidamente disboscate. Ma il visitatore tace quasi a sè stesso il suo malumore, perchè al disopra di questo arruffio di verde e sullo sfondo delle montagne denudate, vede sorgere le immense torri che sbuffano il fumo del carbon fossile e l'alito possente delle macchine a vapore. È Schio! Quando si pronuncia il nome di questa città, non pare possibile si possa dire Schio antica e Nuova Schio. Schio antica? mi osserverete anche voi con fare dispettoso. Ho capito benissimo. Lascio quindi ai foglietti del mio taccuino le annotazioni su alcuni particolari dello stile gotico-francescano (secolo XV), sugli stalli di legno (1504) e sulla Vergine del Verla (1512), che vidi nella chiesa di San Francesco; certe altre sul San Nicolò, nel 1536 dato ai cappuccini, sulla Santa Trinità (secolo XV), sull'antica rocca, distrutta nel 1512, e sul tiglio secolare. Ricordo solo il nome del domenicano Giovanni da Schio, morto verso il 1266, il predicatore alla famosa pace di Paquara; quello di Gerolamo Bencucci, benemerito a Giulio II, Leone X, Clemente VII; quello di Giordano Pace, precettore d'Ippolito Aldobrandini; di Francesco Gualtieri, pittore; dei due valorosi Manfron: di Bernardino Turinzio, letterato e fondatore dell'Accademia olimpica di Vicenza; di Francesco Grisellini, che fu nel secolo scorso segretario della nostra Società patriottica… Chiudo i fogli del mio taccuino, condannando al vostro oblìo tanti altri nomi illustri, perchè voi, le mie signore, vi spazientite quando io piglio la penna d'oca del professore, e, badate! torcete anche la faccina dal muso riccioluto di messer Nicolo Tron, patrizio veneto, che, col busto sì impettito, dalla sua nicchia rococò sul palazzo municipale, guarda giù la Schio nuova, come un nonno la sua nipotina diletta. Ma io vi condanno a prendervi l'inscrizione latina e il numero romano. Nicolao Trono, equiti divi Marci, utilium artium patrono scientissimo, primi Scledi mercatores m.h.p.p.a. MDCCLXXII. Questo magnifico signore, per la Repubblica ambasciatore in varie contrade d'Europa, dall'Inghilterra, dall'Olanda, dalla Francia, imparò a conoscere e a derivare macchine, sistemi opranti per l'arte della lana, che, stabilita in questa vallata nel secolo XIV, subiva le fortunose vicende della vita politica italiana. Per opera sua principalissima, nel 1738, sotto la firma Stal e Conig, coi capitali di vari soci, sorse un opificio con 44 telai, 500 impiegati nell'arte, su 4000 abitanti di Schio, nel luogo ora occupato da parte della sezione Rossi del Lanificio, verso il giardino, sulla via Palestro. Subite varie mutazioni, l'opificio di Schio, nel 1818 pel prezzo d'it. L. 7800, era arricchito del primo apparato di macchine a cardare, per opera del benemerito signor Francesco Rossi, il padre dell'illustre senatore Alessandro, unitosi allora in Società col signor Eleonoro Pasini, padre del geologo fu senatore Lodovico. Per parlarvi dell'industria dei pannilani dovrei farvi un grosso libro di economia e di meccanica industriale: e in mezzo a quei mastri di Mercurio tra un fragore di Vulcano, coll'entusiasmo mezzo artistico, mezzo poetico, tutto italiano, di un giovane che si sente trascinato ad inneggiare alla strapotenza del progresso, come raccapezzare un'idea? I magazzini sembrano una dogana di città mercantile, le macchine a vapore con ritmo possente scuotono le gallerie, i telai danno una completa immagine della celerità, dell'ordine, della perfezione; gli operai hanno l'aria severa di chi sente la coscienza del primo dovere dell'uomo, il lavoro. Più di 500 persone, dice il signor Rossi, sono occupate, nelle due vallate del Leogra e dell'Astico, per l'arte della lana, e in massima parte dalla Società del Lanificio, fondata nel 1873, per iniziativa del senatore Alessandro Rossi, col capitale di 24 milioni di lire. Ed eccomi coi nomi del Tron e dei Rossi, a parlare della Schio nuova. Lo scopo del fondatore di questa città del progresso fu di rendere possibile all'artiere di diventare proprietario, a poco a poco, di una casa sana, comoda, libera, costruendogliela o cedendola al costo.
Così, 16 ettari di terreno sono per più di metà occupati da costruzioni, o isolate, o unite, od aggruppate, con orti, corti, giardini; e non c'è quella monotonia che incoglie nella città di Sir Titus Salt, Saltaire, dalle larghe strade, dalle piazze ornate di sontuosi edifici pel culto e per l'istruzione, dall'elegante parco. Monotoni non saranno i quartieri ad Essen, ma ivi, come a Saltaire, le case, date a pigione dalla ditta industriale, non sono acquistabili. Oggidì a Schio le case nuove sono presso a 100; gli abitanti 500, di ogni condizione. L'illuminazione è bastante, copiosa l'acqua; le vie macadamizzate, e, tranne la principale che è comunale, son tuttora in manutenzione privata.—Così si espresse il signor Francesco Rossi nel 1878: come io debba modificare i suoi dati non so precisamente: certo è che Schio nuovo, sulle cui mura è scritto—il lavoro e il risparmio nobilitano l'uomo—cresce e crescerà e starà a modello di civile progresso e di vera morale educativa. Non vi sono taverne col tanfo del vino e dell'acquavite, nè gazzette colle acri fermentazioni dei romanzi e della falsa declamazione, nè spassi romorosi che facciano perdere la tranquilità dell'onesta vita dell'artiere. Ma vi sono le Scuole elementari, l'asilo, l'ospizio di maternità, la Palestra, il Bagno, il Lavatoio pubblico, il Panificio, ecc., ecc. Il sentimento che si prova visitando questi luoghi è tutto di dignità e d'amore. L'Asilo solo meriterebbe un libro popolare che lo illustri: la direttrice è la madre dei bimbi, le signorine istitutrici ne sono altrettante sorelle, la educazione, mirando tutta al cuore, sembra la più facile, la più persuasiva, la più proficua, per questi figli d'operai che sino dai tre anni sono avvezzi ad aver sottocchio il Nazzareno soave che invita a sè i piccini, e che grandicelli, nell'opificio tergendosi il sudore, leggeranno la scritta della massima morale, civile e religiosa:—L'operaio e il padrone sono eguali dinnanzi a Dio.
(Cannobio) 10 Agosto 1881.
Ecco, sbarco dal piroscafo, attraverso la piazza dell'imbarcadero vedo sì e no il nostro Conte Gilberto Borromeo, il nostro giovane letterato, l'E. B. e senza voler interrogare se c'è ancora sotto questo cielo quella gentilissima signora milanese, la L. C., dalle trecce nere, e quella bionda figlia di Genova la superba… (Niente! niente per ora!)… e senza voler sapere, dico, se i bagnanti alla Salute siano proprio oltre il centinaio,—salgo su pei viottoli del Cannobio… Al monte! al verde! all'azzurro! E la strada dopo i colatoi fra casetta e casetta, i portici semibui, le faccende delle botteghe, l'umida tenebria di un lavatoio e le spavalde accigliature di un torracchiotto, la strada esce fuori a sgranchirsi tutta al sole e a distendersi nella valle, qua ombriata da un profluvio di verde, là sciacquata quasi dai torrentelli colla sabbia argentina….
Passo dinnanzi allo stabilimento, dò un'occhiata alle muriccie su cui siedono cinque o sei giovanotti, ascolto un nome di un bell'astro, sbircio un lembo di paradiso fulgido e gaudente in gonnella e un mondo sciancato, sbillicante, riottoso al moto, e su e su e su… vado a sciogliere il voto alla mia Sant'Anna di Traffiume.
* * *
Sono solo.
Ecco il paesaggio mi si allarga dinanzi. Monti a destra, monti a sinistra, monti di fondo. I frassini, i tigli, gli aceri verdeggiano in sinfonia sul davanti e si fondono cromicamente colle nebbie azzurriccie della valle Cannobina: alle falde, qualche striscia di sentierucolo nei colti, qualche bugigattolo nelle vigne, qualche tocco di rosso in una macchietta all'ombra d'una siepe: su nel folto del bosco, le linee taglienti delle strade alle valli. E in alto il riso azzurro di un cielo profondissimo.
Allo svolto di un muretto, dove finiscono gli scheggioni ammucchiati del viottolo e cominciano le fughe serpeggianti delle scorciatoie sui pratelli; ecco un suono di campana… O Sant'Anna benedetta!
Nello stesso paesaggio di toni verdi e freschi ecco uno specchio lucente su un fondo translucido e sabbioso, di qua una parete di rupe a picco e bruciacchiata dagli uragani, di là un'altra massa fantastica di torracchiotti, di gobbe, e di arruffaglia, nel mezzo un anfratto nero, come la portaccia dell'ignoto, e su a cavalcioni dell'abisso, un ponticello bianco, due ciuffi di verde, e una chiesuola—la mia chiesuola col suo campanile a berrettaccio di mago e la sua voce tutta santa, tutta cara, tutt'ingenua, come la preghiera d'una mandriana.
E su, e su, e su. Dal ponticello si spia giù quell'orrida spelonca dei primi e mostruosi misteri tellurici: le pareti levigate dalla rabbia delle alluvioni, gli spacchi angolosi dei terremoti, i morsi giganteschi delle bufere, le bave isputacchiate dall'acque e le rogne dei licheni, i rovai dalle foglie sanguigne e la cupa opacità delle caverne, e il torrente senza colore, senza pace, senza pietà, che si storce, si gonfia, si avalla, si morde, si flagella e rimugghia con una sola nota di tinta e di suono—lo spavento.
* * *
Sono solo.
E quando la campanella ha cessato i suoi rintocchi, per raccogliersi pensierosa come negli echi della vallata, mi pare…. È o non è?… Mi pare e non mi pare di udire una cantilena che vien giù dal bosco, un suono basso di accordi e un suono argentino quasi di lamenti… È una preghiera… Sì, sì… Ed ecco qualche cosa che si fa spiare dall'occhio: un brulichio lungo, lentissimo, a pochi colori. È una processione. Sì, sì, una fila, due: c'è qualche lume abbacinato, qualche crocione d'oro, qualche cotta scialba di pievano, e qualche giubba verde di sindaco o qualche stendardo rosso…
Sono dugento povere donne montanare, bronzine, robuste, nei loro abiti scuri e colle scarpaccie di panno: sono altrettanti mariti e padri e fratelli e figli, abbruciati, tozzotti, colle tonache delle confraternite a zone rosse e gialle, a zone verdi e nere.
Sono alpigiani di un paesello della Val Vegezzo. Da quasi un mese si è inaridito il filo d'acqua vicino agli scheggioni delle loro capanne, e per sè e pei bimbi e per la mandra vengono giù ad implorare una Madonna del Gaudenzio. Non hanno più schiuma nei torrenti delle valli native, e per non cadere ancora sfiniti colle otri sulle spalle pei sentieri calcinati dal sole, arrivano colle gonne groppose e sudate e colle croci sulle spalle e le croci nel cuore, a strisciare contro le vostre sete profumate e i nostri paraseli di pizzo…
Oh che dite le mie signore, che sorridete, il dito mignolo in aria e l'anulare carico di gioie, frugando con una pagliuola nel fondo di una tazzona ghiacciata?
* * *
Non son più solo.
Una signora si fa portare una seconda tazzona e fra un sorso e l'altro mi dice che alla Salute c'è la gentile nostra contessa Dal Verme, la bellissima Signora P. A., la augusta signora T. M., e ci fu là brillante nobilissima L. C., e in un crocchio a lodare il mio amico architetto Giachi per le sue opere edilizie intorno alle doccie, le signore M. C., F. A., E. B. L'egregio nostro barone Galbiati mi racconta che lo stabilimento è pieno zeppo e la vita che vi si conduce è molto quieta di giorno, la cura e i lamenti pel caldo… e qualcuno dice anche per le bistecche; a sera un po' di musica, qualche trillo di fanciulla dilettante, qualche commento solitario ad una romanzetta in core e amore, alle 10 1/2 a letto. E tutto è finito. Vedrem.
Ritorno ancora colla mente all'antico convento: e m'aggiro in que' luoghi, cercando un posto solitario ove raccogliermi ad ordinare ed esprimere le mie vive impressioni.
La storia vi lasciò il dignitoso suggello delle memorie: il genio dell'artista desta gli echi del passato col fremito del presente. Così è: la polve giace polve, ma la favilla dell'Arte risuscita le anime e riscrive nel volume della vita dell'oggi le passioni delle remote età. I grandi avvenimenti sono come grandi colonne, travolte nel fiume del tempo: le acque passeranno e passeranno, e l'oblìo cancellerà sempre i languidi profili del passato: ma a chi si affaccerà a contemplare la immensa massa dell'acqua, fremeranno sempre, rigurgitando, almeno colla spuma, le onde, sovra i ruderi sepolti.
L'uomo può dirlo?… Ohimè! egli lo spera! L'uomo è l'atomo turbinato dal tempo: e la Vita, grande poetessa con una missione, o inconscio giullare del caso, sembra compiacersi a creare i contrasti.
Il convento di Pontida venne edificato da Alberto di Sogra, in occasione che si ricostruiva la chiesa del villaggio, che è pare la presente. Alberto stesso ne fu primo priore, e per consenso dell'abate di Cluny vi fece osservare la regola cluniacese. Nel 1121 vi morì prete Liprando, il prete famoso, il quale nei tumulti avvenuti in Milano per la quistione del celibato ecclesiastico, ebbe mozzi naso e orecchie: lo stesso che per provare la simonìa dell'Arcivescovo Grossolano si offerse di passare in mezzo al fuoco,
Nell'anno 1119 il Comune di Milano ampliò notevolmente il convento, e vuolsi vi aggiungesse un ospedale. Nel 1167 vi fu giurata la santa lega: io ne vidi le lapidi memorande: sembravano scolpite colle punte delle spade: Foederatio longobarda Pontidae.—Monaci posuere. Nel 1372, divenuto asilo de' guelfi bergamaschi, fu assediato e distrutto da Barnabò Visconti. Nel 1492 i Benedettini di Santa Giustina di Venezia subentrarono ai cluniacesi, obbligandosi a pagare annualmente alle Procuratie 150 ducati aurei. Nel 1798 fu soppresso e fatta la vendita de' beni.
A' nostri dì, in quel convento, pei corritoi e per gli androni strillano i bimbi, e dalle porte delle celle vedi le mamme curvate sul paiuolo bergamasco, impugnando il matterello, lo scettro della famiglia, e tramestando la polenta d'oro.
Sotto gli archi Sansoviniani del solitario cortile, cantano le allegre setaiuole, variamente affaccendate: e la fanciulla che tira su la secchia all'orlo del pozzo de' frati, sorride, contemplandosi in quello specchio d'acqua oscillante.
Si trova bellina: e il damo de' monti le ha già regalata la collana di coralli. Ahi! il curato l'ha già vista rossa in volto…
Nelle quattro gallerie, sull'istesso cortile, nelle quali il nome Biblioteca intagliato su un cappello di porta, richiama alla mente il vecchio sapere scolastico, senza fremito di vita «de omnibus rebus et de quibusdam aliis,» nelle gallerie regna la sola scienza del guadagno, e modernamente signoreggia coll'abbondanza di bozzoli ammucchiati.
—Erano più felici i nostri vecchi? Siamo più felici noi?—Lo domando al soprastante.
E questi mi risponde.—Colla seta si fanno aspate, faldelle, trafusole, matasse e matassine, per mettere in commercio.
In uno stanzone vanno e vengono le fanciulle, in un altro squilla incessante un campanello applicato a quel congegno, per cui si passa la seta al provino per ben valutarne il tiglio; in un altro fra i libri mastri, le corbe, i robinetti, le lucerne da filanda, gli schioppi, i vagoni e le gabbie da caccia, canta tuttodì un merlo vivace, a piena gola.
Dappertutto è vita: la prosa efficacissima e necessaria si è sovrapposta co' suoi strati moderni alle lapidi poetiche, illuminate dalle luci dell'Arte.
Ma dove lascio te, povera chiesetta del convento? È una cosina graziosa, di stile puro, colla facciata a finissime modanature: la porta rettangolare, e le due eleganti finestre, dimezzate da un agile pilastrello a reggere gli arconcelli egregi, rispondono nel cortile Sansoviniano: due altre finestre, assai semplici fra la semiluce che accresce il rispetto alle cose antiche, di tratto gettano nell'anima una corrente di vivissimi pensieri, perchè dai loro bruni telai lasciano vedere uno spicchio di cielo sereno, smagliantissimo, e l'allegro fogliame di un orto innondato di sole. Cosicchè peni a vedere lo sconnesso pavimento, su cui si prostrarono i frati, e sotto al quale, sopra i loro seggioloni disfatti, immagini gli antichi scheletri, confusi nelle tetre ironie della tomba: nè puoi godere il bell'affresco dell'altare, un po' secco, ma sentito; nè la ricchissima fascia che ricinge di ornati, di figurine, di fantasie, di colori, le somme pareti della chiesetta.
—Ove saranno tante anime? Quando, proprio qui, dov'io sorrido, elle supplicavano, si sentivano più forti dell'oblìo e del tempo?… Ove saranno?… Così a me sempre piace interrogare il mistero.
Rispondono dalle grandi stie allineate lungo i muri i polli chiassosi, beccandosi acerbamente, perchè l'uno ruba all'altro il posto a mangiare. Se quei polli mi rappresentano la folla, ciascun di essi è veramente filosofo.
Alla bellissima porta si presenta un figuro lungo, un chierico di sessant'anni, bianco, cogli occhi orlati di rosso, il quale, facendo dondolare una cotta grigiastra al disopra di un soprabito abbondante, ci domanda in bergamasco:—Hanno detto che vogliono vedere la chiesa grande?
—Andiamoci.
Proprio in quel momento dal campanile, che sembra pesare sulla corte, dal manto del San Giacomo di rame, scoccano gravemente le ore, e il ronzio si perde sotto gli archi e nel lungo corritoio.
Questo mette capo allo scalone del convento, un convento esso stesso, amplissimo, solitario, colla sbarra cadente, coi gradini, che, a volerli popolare di macchiette, esigerebbero una processione da Corpus Domini, a' tempi de' buoni Comuni, nè più, nè meno.
Siamo alla chiesa. Venne fondata nell'anno 861, da Aganone, vescovo di Bergamo, e ricostrutta verso il 1087. È grave edificio di architettura gotica, a tre navate, con maestosi piloni, spaziosa, con un quadro che vuolsi del Palma, ed altri grandissimi. Ma sgraziatamente fu tocco dalla manìa del nuovo: quindi è discorde di stili, appesantito nelle volte da poche opportune pitture di trafori, ripulito dalle memori tracce dell'antichità.
La sacristia risponde alla chiesetta del convento, ed è, com'essa, bella, elegante, colle linee graziose dell'arte risorta. In un andito si vede in bassorilievo l'arcigno e potentissimo Lione di San Marco; e due marmi a rozze figure del disperso sepolcro d'Alberto (1095).
Confesso: in tutti i luoghi percorsi non ho avuto un pensiero che fosse mio, proprio mio, sempre frastornato da traffici moderni.
Ma c'è nel convento un angolo romito, dal quale l'occhio, posandosi sul verde de' monti o sul cielo di crepuscolo o sulle abbandonate aiuole di un orticello, chiama e richiama dall'Ignoto il seducente bianco fantasma della meditazione: e la Poesia induce nell'anima la dolcezza dell'assopimento.
C'è un loggiato dove vorrei la mia sosta tranquilla. Un portichetto, a quattro o cinque colonne, sporge sul melanconico terrazzo: l'erba cresce sui sentieruzzi, segnati solo da qualche gentile orma di piede piccino che va ad una siepe di lamponi: un fusto di colonnina col capitello sorge a vetustissima memoria: una vasca d'acqua nel bacino immoto e nerastro riflette le foglione di una zucca: i ragni tessono i loro fili d'argento. Di fronte il Canto, a monotoni castagni: lì basso biancheggia, con dolcissimo fascino, la quieta e rolonda cappella per la Pace: di fianco si allarga la valle, e il bagliore dorato di un tramonto di settembre involge lutto in un amplissimo velo da fata…
Come lo ricordo!
Vorrei un seggiolone a grandi borchie, colla pelle che s'accartoccia a lasciar sfuggire l'imbottitura, vorrei un coroncione da frate sul dossale, e un arazzo a' piedi, e un liuto con una corda spezzata, e due fiori appassiti. Vorrei stancarmi nel contemplare e nel pensare: vorrei chiudere gli occhi a poco a poco, e aprire l'anima ai sogni e sentire una musica che blandisce, ed odorare un profumo. Strana cosa è il sonno!… Sento una calma, un riposo, una vicina oscurità. Non è poi strana cosa la morte!… Che è?… La oscurità incombe. Chi ha spezzato le corde al liuto? Quelle rose non erano fresche al mattino?… Nessuno risponde.
Fontanella è una chiesa, assai antica, in onore di santo Egidio, alla falda meridionale del Canto. D'ogni parte circondata da solitarie selve di castagni e da vigneti, su un ermo piazzaletto fra la più triste poesia, sorge il rozzo edificio di carattere robusto, colle finestre che sembrano feritoie di castello, col campanile che è una vera torre feudale. Il tempo l'ha dipinto colle indefinibili tinte che sono sulle sue ali. Lungo il fianco sinistro della chiesa, un portichetto deserto sfonda con melanconiche linee e con un buio fantastico: qui sotto si allogherebbero tanti seggioloni tarlati, e qui si aprirebbe un libro da coro, e si indovinerebbero sul pavimento gli ammuffiti avanzi della stola, delle pianete, delle cocolle, e le gocce di cera de' funerali, e gli asperges e i secchiolini: su due mensole al muro posa, polveroso, semiaperto, sconnesso un cofano da morto… ricordo forse del vicino ossario… Niente di antico qui sotto; vecchio il loggiato, vecchi i pensieri, cioè coll'uggia dello squallore. Antichi invece sono gli avanzi di case, sotto un tappeto d'edera, a destra della chiesa: e antico è l'avello che giace pesantemente, scaldando al sole il granito, serrando l'ombra e l'immobilità: non un nome… E la Natura ci irride crescendo intorno le ortiche dell'oblìo.
—Che cosa è la vita dell'uomo?…
Chi requia qua dentro? Fu felice o infelice? Fu uomo o donna?… Si acconcia Ella alla idea—Per sempre?—In vita si promette ciò che non è in noi; in morte, ciò che speriamo nell'ultima illusione.
Sul piazzaletto compare il prete del luogo, vestito di verde, come la speranza… del guadagno… non cerchiamo tanto: egli è felice, colla sua pipa e le ciabatte e gli incerti; e ci fa invidia. Don… don… don… (come diamine si chiamerà?) Il messere, insomma, ci condurrà alla chiesa: cioè alla sua serva, giacchè lui desidera finire quella delizia anticanonica che ha nella pipa.
Ed è peccato! A Fontanella, mestissima chiesina, avrei voluto trovare un prete bianco, modesto, tranquillo, e digià arrivato all'ultima scena della commedia.
Il cortiletto in cui entriamo, seguendo il giro dell'antico colonnato, ha l'aria tranquilla, rassegnata direi, di un passato che è scorso in pace, e in pace sopporta l'obblìo; due o tre archi: quattro finestre; due gelsi; dei rottami; un portico. E qui facciamo una sosta. C'è una tomba. Il coperchio ha scolpita, giacente nell'ultimo sonno, una donna di mezza età, coi capegli lunghi, con una corona in testa da contessa o da marchesa; il manto le è fermato sul petto levigatissimo da un gioiello; una cintura le allaccia la sottoveste; e le mani, senz'anello, sono incrociate al mesto saluto della pace. Il coperchio è quello che di veramente antico può presentare questa tomba. L'urna male gli si adatta, per forma, per diversità di pietra, per gli stemmi scolpiti. Giace sopra un gradino, e sotto un arco, colla data 1419.
Due parole di fretta. Il Pellegrino nella «Vinea Sacra» disse questa tomba esser quella della regina Teutberga, moglie di Lotario, re di Lotaringia, la quale, ripudiata, avrebbe cercato ricovero fra questi monti bergamaschi, confortandosi alle parole del beato Alberto di Sogra. Una scena fra questi e la regina è rappresentata su un grande quadro della parrocchiale di Pontida. Ma alla tradizione popolare, e al sasso che serba, sotto un castagno, le certe impronte dei due, osta la cronologica verità. Teutberga morì verso il 951 e Alberto nel 1095 come dice la iscrizione del suo sepolcro. Fontanella ebbe un Convento di Cluniacesi, con un abate e dodici monaci, e un archivio nella torre del castello detta «la Botta». Il Ronchetti ha provato che fondatrice fu una piissima vergine Toperga, vissuta a tempi di Alberto, ivi sepolta, ed ivi venerata come beata, in un sepolcro, con otto lampade.
Tutte queste cose, lette, pesate, discusse, per me turbano la pace di quella tomba. Amo meglio l'indeterminato.
La chiesa è a tre navate, che, colle colonne informi, coi capitelli vari e tozzi e frammisti, coi grafiti, affermano la impotenza artistica delle prime costruzioni; il campanile s'alza davanti all'altare maggiore; una tavola bellissima rappresenta il Rinascimento—Sant'Egidio; gli altri arredi e la sacrilega imbiancatura suggeriscono alla serva guida la sapiente esclamazione:—Tutti dicono che è una bella chiesa! Ma sì, se fosse nuova! se…
Io non sono architetto e studioso per analizzare i particolari; mi lascio vincere dall'insieme, che è severo, raccolto, pieno di poesia storica e religiosa. Non domandò la mia fantasia:—Chi pregò? Come vi pregò?… Il povero uomo passa; il cofano vecchio e l'avello antico rinchiudono l'enigma della sfinge.
Le rimanenti case di Fontanella io vorrei assomigliarle a certi luoghi veduti nei sogni, nei quali corre l'occhio e inciampa il piede, e la luce non è luce, e l'aria vi è morta. Per anditi regolari, per archi bui, per muraglie a dadi di pietra si giunge a certi bugigattoli di tragetti e di scale, dove, se al dissopra delle finestrine, se dalle pareti addentellate, se tra le gronde protese, si vede un po' di cielo azzurro, sembra un fesso da cui scappa l'anima prigioniera alla libertà della vita e dell'amore. C'è davvero del bello!… Là si immagina un trovatore col liuto ad un pertugio di torre per consolare un dolore, e si ode invece un lungo muggito di mucca e si vede una fanciulla cho spalanca una stalla. Si sogna forse una donna melanconica e stanca, e appare un vignaiuolo, barcollante sotto una corba d'uva, che si sfrega contro le strette pareti della viuzza.
C'è un portico finalmente, dove il sole scalda ogni minima ragnatela, e ogni fuscello di paglia; c'è una cucina oscura con una scodella di latte, una facciata di castello, una gran botte, e uno, due, tre, quattro grappoli d'uva.
E c'è una bionda fanciullina, con due begli occhi e un bocchino, una cara, tranquilla creatura, che, fra tanta e tanta imponenza d'antico, accompagnandoci sin presso a una tomba, sorrideva, inconscia di tutto.
Oh tornerei lassù a baciarla!
Sono schietto, schiettissimo e dico la verità: quando la locomotiva esce fuori fischiando dal grande antro invetriato della nostra stazione milanese, se in qualche vettura mi trovo fortunatamente anch'io, io pure fischio colla gola del serpente…. Brutta città, aria malsana, noie e fastidii, vi derido!
Addio!… Il fumo sbuffa a globi allegramente; suonano gli stantuffi, luccicano gli ottoni, e la filatera pesante scorre, come su un pendìo insaponato sulle rotaie che s'inazzurrano a perdita d'occhio o diritte stupendamente o con quelle curve dolcissime che la scienza ha segnato col compasso. Va e va, scappano le case affollate, i traffici, gli altri mille carrozzoni allineati pei viaggi. La strada è sorretta ad un terrapieno, fra i campi di biada, e le siepi, colla compagnia dei pali telegrafici e dei cantonieri dalla banderuola svolazzante.
Respiriamo!… Abbiamo già veduto gore, fossatelli, fiori a bizzeffe, cascine e macchiette.
Alla prima stazione ascoltiamo qualche parola di dialetto campagnuolo.
E va e va! Sicuro che l'inglese leggerà sempre istessamente la sua guida rossa e il mio babbo calcolerà che st'anno il frumento sarà magro magro. Brava gente! Ma noi che viaggiamo perchè nessun libro ci ha fatto bene, noi che vorremmo turbinarci tra il fumo del gran tubo, saltabeccando pel cielo, noi abbiamo la testa che gira, come il fiocchetto della tendina al finestruolo….
Che finestruolo!… Sporgiamo mezza persona, e sfidando il polverone e i minuzzoli accesi di carbon fossile ci diciamo i re dell'aria!…
Benedetta età la nostra! Cioè la mia: perchè il mio compagno a differenza di pochi mesi, è già uomo fatto, ha dei clienti e non so quanti crediti. Ho parlato in plurale perchè ho questo vizio, come un rettore magnifico dell'Università, quando mi credo un re dell'aria!
Il nostro orario ha un'orecchietta alla pagina tale:—linea
Milano-Varese.
Da Varese andremo al Lago Maggiore e precisamente? Non abbiamo deciso nulla: e se volete accompagnarmi, subìte un po' delle mie indecisioni e de' miei entusiasmi.
Se tra i miei lettori c'è qualche Varesino, mi congratulo con lui ch'è nato fra quei colli e quei monti avvolti da quell'aria che fa guadagnare gli ostieri e scapitare l'amor platonico: se c'è qualche Varesina le dirò che ho veduto dei porticati, dei poggioli antichi, delle vie pittoresche, de' bei quadri presso il proposto…. Che cosa importa a lei? Ho ammirato una villa bianca avvistatissima senza una mosca, e un giardino su un colle, e un sentiero che si curvava fra un roseto, un pratello in toletta, e montava e montava…. C'era posto per due, per tre no.
O Varesina, al sommo di quel colle, quando il sentiero t'avrà fatta arrossire, mi dirai come ti chiami….
Varese ha dei punti bellissimi dove guarda la campagna, il suo gran campanile sorge su, tutto colorito, distinto, rilevato: filari d'alberi verdeggiano sulle salite e ai giardini pubblici: la villa Ponti dall'alto proclama alle otto valli di Laveno, di Cuvio, di Marchirolo, di Gana, di Arcisate, di Stabio, di Malnate e di Vedano, sono milionaria!
A dire la verità ho un foglietto dove ho copiato un po' di memorie storiche di Varese—ad esempio:—È antico; forse risale a duemila anni avanti Cristo: fu dominato dai Romani, i quali vi eressero un castello di cui dura la memoria—a Belforte.—Fu saccheggiato dai Goti e dai Longobardi, fece guerra a Como, ebbe un vicario, sei consoli, e castella a Induno, Arcisate, Biandronno distrutti dai milanesi.
Solite storie d'ogni comune medioevale. Quello che voglio far notare è che Varese nel 1768 venne da Maria Teresa dato in signoria a Francesco III duca di Modena e a Teresa di Castelbarco.—Non dico altro di cose storiche, cedo la parola all'amico mio, il quale dichiara che a Varese si mangia male e i cuochi sotto la berretta hanno una zucca, non una testa da cristiano…. Ripiglio la parola io perchè non voglio battibecchi tra un'aria così santa e cara e dico che ho deciso per valle di Cuvio di recarmi a Luino.
Lasciamo da parte la Madonna che su una gobba di monte spiccata, accompagnata da cappelle e casette, toccata dal sole con color d'oro, fusa dall'ombra con veli paonazzicci deve di lassù vedere il formicolìo degli uomini che s'incontrano colle donne, per le strade di Varese e si vogliono bene: la Madonna deve essere felice quando li vede venir su, su coi muletti, comperandosi le medaglie, baciandosi alla sfuggita…. Non ci montai, quindi nulla posso descrivere.
Valcuvio meriterebbe proprio che gli acquarellisti vi si recassero in carovana. La strada, dapprima erta ed elegante, si strozza nelle callaie dei paesi, fra le casette angolose, pittoresche, esce e s'alza, s'abbassa, s'inaridisce su certe coste di macigni ove le tinte ferrugginose luccicano di pagliette d'argento e d'oro, si storce rabbiosamente in certe pieghe di montagna ove proprio c'è la cappelletta, la croce della disgrazia e il mendicante che prega: si fa stretta e si allarga tra i praticelli spianati, coi filari di salci, coll'aria tranquilla della pianura.
Non s'incontra dapprima anima nata, tranne quell'accattone. Le capanne sono celate dietro brune cataste di legna, o tra ammassi scaglionati di fascine; frequenti sono le boscaglie, lucidissimi gli stagni d'acqua, sempre gaio il fogliame vicino e aereo, soffice il lontano fuso coi monti, col cielo, con alcune cime nevicate… I punti più deserti sono per il pittore melanconico.
Proseguendo verso Luino la valle piana sembra promettere gli agi; infatti sorgono le case e le casette, già imbiancate, già colle vernici. Un torrente scorre tra gli argini, e mansueto, serio, prelude alle ruote di ferro che muoverà: ecco degli stabilimenti a spesse finestre, col tubo, col brontolìo: ecco comparire dei pali, dei fili telegrafici su cui panni veder scorrere dispacci d'inglesi. Presento, vedo i cappelloni col velo bianco e le vesti affagottate, i lords e le miss: qualche venerando pesce grosso si purga i polmoni aspersi dalla natìa fuliggine coll'aria del lago… In quei luoghi dove stampano i talloni piatti i lords e le spesse orme le miss, potete esser certi che vedrete qualcosa: infatti viali larghi fiancheggiati da piante si curvano con dolcissimo meandro. Presentite la curva che li disegna? È il lago: il lago appare, s'apre, si sfonda… Luino alla foce del Margorobbia e del Tresa contempla il bacino, Monti ed acqua!
Scendiamo di carrozza. Non c'è più all'orecchio il rotolare monotono dei cerchioni di ferro e i sobbalzi delle molle sconnesse: c'è un fruscio come di raso spazzolato, l'onda che bagna la ghiaia, la ghiaia che sorbe l'onda: nell'intermittenze come dei sospiri gravi. Non sembra di camminare, l'uomo, atomo, è sempre fisso innanzi alla immensa bellezza della natura. C'è per l'occhio un riposo, un piano liscio, levigato tra due catene di monti tutti in pace, c'è per l'anima un cielo terso e limpidissimo. In un attimo si ama tutto e tutto ci parla: la spiaggia ciottolosa, curva, l'arena bagnata, la frangia d'argento dell'onda, il suolo fatto dagli uomini e le case e le ville, e le frane spaccate dal caso.
L'aria che viene dai monti, che s'infresca dal lago, che si poetizza dal cielo, entra in noi, scaccia da noi l'animaccia stanca, scettica, cittadina e ci dà un po' dell'anima della natura, col bisogno di salire in alto, coi voli dei desiderii amplissimi, coll'ali della poesia che non ha metro nè rimario!—Si diventa buoni e si ama, si ama, si ama!… Io qui non invito quelli che hanno la bottega nel cuore, nè le donnine che portano sempre lo specchio al servizio delle uniche loro carni bianchissime: non invito la folla che mangia, beve, ride, ma sibbene le anime torturate dai desiderii inesplicabili, affannate dalle spossatezze del deserto, i cuori che hanno amato o che amano! E vengano i nervosi all'idropatia! Le isteriche stancate dell'attendere! le vinte del corpo! Qui si ama, si ama!—E il lago seduce sempre, cantando l'eterna canzone senza esigere la sua gentile senseria.—Qui si combinano dei matrimoni. Spargete i confetti a manciate pei bimbi dei pescatori, e da quelle facciole ridenti e negre traete augurio per i vostri futuri scapatelli!…
Rammentando che Luino fu patria dell'angelico Bernardino, lo stupendo pittore che effigiò le sante e gli angeli con sorrisi di cielo, andiamo al molo che serra le acque cupe: il lago flagella i dadi di pietra e il ripicchio si diguazza come stanco di battaglia. Per la via lunata, passati sotto un arco che mostra un poderoso leone di pietra, incontriamo una stradetta montana su un terrapieno: a sinistra il lago, a destra la montagna. È una stradetta non disagiata, non ricca, un tesoro pittoresco, a tratti s'inclina e quasi tocca la ghiaia, a tratto si solleva e mostra giù giù il lago coll'abbagliante luccicare tra i boschetti o col verde intensissimo lungo le coste profonde, o coll'irrequieto spumeggiare attorno agli scogli: più in là la massa azzurra si acquieta, e pare, per così dire, a zone smerigliate dai venti, in là ancora sorgono i castelli di Cannero solitarii, piangenti il romanticismo e l'oblìo: la sponda infine è deserta.
Qui dove passeggiamo noi il murello di riparo alla stradetta serpeggia o lumeggiato o smorto in ombra con toni trasparenti, e la montagna affolta boschi e boschetti e sprazza luci sulle zolle, e s'infosca nelle ripiegature delle falde: grotte, acque, fiori, pratelli stiacciati da cumuli di macigni… Oh i monti!
Il cittadino che li contempli in un attimo vi ha famigliari, e non c'è pendìo di vallicella ove non sogni d'essere stato già un'altra volta a piangere un dolore: non richiama una gioia definita, ma ricorda d'aver sorriso e spera di sorridere dall'alto di quella cima boscosa, da dove si deve vedere l'altro versante… Di là… Monti e valli e case e gioie e dolori!… Se ha letto un bel libro, sente di doverlo rileggere su quel masso, attraverso quel torrentello, sguazzando sul fondo translucido e sabbioso l'ombrellino… di chi? È un fatto: nei quadretti, e nelle memorie, e nelle speranze compone sempre, direbbero i pittori, una figurina di donna, che ne' suoi occhi sintetizza tutto il linguaggio della natura…
Rincorriamoci, o fanciulla: il lago ci invita al bagno: la montagna ci prepara la reazione. E che bagno! Vorrei staccarvi per lenzuolo un lembo azzurro di cielo, ma… E poi corriamo!
Corriamo sui massi spaccati, profilati, da dove pendono i ciuffi d'erba, nelle tane, nei bugigattoli, sui cigli di quei muraglioni erti e schistosi, che la grande architettrice ha dipinti coi licheni, lisciati coll'acqua, graffiati coll'azione dei geli… Corriamo! Dove corre il desiderio? Le gambe sono umane, umano il ventre. Su dunque s'incontrano tre o quattro case da pupattola, scheggioni ammucchiati, coll'uscio aperto e la massaia che prepara la cena… Vogliamo cenare cantando la canzone dei pescatori e vedendo il lago a strisce di specchio tra le connessure delle pareti? Vogliamo bisbigliarci nella semiluce? Vogliamo pescare?
Giungiamo a Maccagno inferiore detto imperiale, già feudo dei
Mandelli, con mura, misto imperio, e diritto di zecca.
Una chiesa su una piazza sostenuta da arconi di pietra come un acquedotto, una largura che muove al lago, ove dondolano sette od otto barconi, quattro case e l'osteria-stazione, da dove esce il suono bambinesco di una cornetta. Ecco Maccagno.—Arriverà il piroscafo da Luino, un punto nero che borbotta. Sediamo su una panca. Il lago si sperpera innanzi giù fino a Stresa: l'occhio nuota in quelle tinte perline e su nel cielo focato.
Il tramonto è vicino. Non è l'ora stanca della città: è il preludio del riposo poetico: è l'ambiente di tutte le trasparenze, tutti i desiderii, tutti i sogni; col tramonto il cielo bacia l'anima nostra, e l'anima vola su quelle nubi che fingono delle isolette scorcianti in un mare più tranquillo del mare della vita, vola… Il piroscafo sbattendo le pale fracassose nell'acqua canta chiaro e netto:—L'uomo non ha ali: l'uomo non ha pinne. Prendete il biglietto: primi o secondi?
Siamo sul San Gottardo, coi marinai, coi macchinisti fuligginosi, colla folla minuta dei contadini, colle valigie stemmate e coi viaggiatori distinti dal Bedeker. Monti e lago pigliano una tinta metallica, tutto sembra profondarsi, e su altissima luce brilla la prima stella della Notte.
Il piroscafo ha fatto la traversata: il timoniere colla mano sui raggi di una ruota di bronzo specula acutamente il punto da sbarco, il capitano parla col portavoce agli uomini bruni giù nella pancia. Sulla spiaggia appaiono case e portici, e portici e case, fuggenti nell'ombre che si addensano nella gran montagna paonazza cupa.
Un facchino grida:—Chi ha bagagli per Cannobbio?-
L'ora è tarda, a domani. Vi basti sapere che a Cannobbio ci sono molte cose a vedere: il borgo, la Salute, l'orrido, le appariscenti valligiane e la signora Antonietta del Biscione, che stringe la mano a chi arriva, porgendo una manina pastosella e capricciosa.
Hai perfettamente ragione, mio amico. Vi sono dei luoghi insigni per memorie d'arte e di storia o per lo speciale ambiente, nei quali l'anima del visitatore s'appassiona con gentile virtù, e la fantasia, correndo a ritroso del tempo, s'ingagliardisce, rivivendo di fronte ai robusti sembianti degli avi. Nelle giornate di noia stanca, giova moltissimo il fuggire la folla fastidiosa, l'indispettirsi dei minuscoli capricci, il cercare la solitudine. Questa è fatale se il cuore vuole tutta occuparla colle sue malinconie, è sana se in essa l'anima cerca per punto d'appoggio una calda emozione.
Una passeggiata all'abbazia di Chiaravalle non è gran cosa, che possa rompere le gambe di un cittadino. Si esce dalla porta Romana, e si piega per circa tre miglia verso sud-est, camminando in mezzo a una pianura monotona, la pianura lombarda, che al cielo non sa levare altro che le capitozze pesanti degli eterni filari, qualche ramicello pelato, qualche volo di corvi, qualche crasso fumo di stalla. Ma che cosa merita quel cielo? E poi, signor mio, ogni acqua che scorre, all'occhio dell'agricoltore, sembra far galleggiare i sacchetti d'oro; ogni prato ti pare una mappa; ogni casa è segnata a cifre, a cifrone. Se tu vedessi i fieni ammontati nelle cascine, il latte che trabocca, spumando, dalle brente, e i formaggi che stanno, come in biblioteca, negli stanzoni a corridoi! Se tu vedessi!
Il paese di Chiaravalle è un povero aggregato di case. Rovagnano n'era l'antico nome. San Bernardo, capo dell'abbazia di Clairvaux nella Sciampagna, venuto in Lombardia, e fondato in questo luogo l'abbazia e il monastero dei cistercensi, l'intitolò Chiaravalle, per amor di ricordo. Chiaravalle, favorito dalle famiglie milanesi, illustrato dalla virtù e dal sapere dei monaci, crebbe di fama e di ricchezza: molti cospicui personaggi venivano a visitarlo: Ottone Visconti vi morì.
Al giorno d'oggi, camminando sulla strada, che fiancheggiata da due placide acque, conduce ad una porta austera, il visitatore ha l'occhio triste e l'anima triste. La campagna intorno è silente e spopolata: le mura dell'edificio, dove rovinate, dove salde, dove rifatte, sono come le pagine di un libro di storia. Mute, vi narrano una verità.—Che cos'è il tempo!
Vi furono giorni in cui il potentissimo abate, collo stendardo della cicogna, scendeva alle soglie imponenti dell'abbazia, fra la sua corte fastosa, arbitro delle liti tra popolani e nobili, fra paese e paese, scendeva a ricevere una comitiva guerresca od ossequente; e i monaci, sui vasti dominii, sulle settantamila pertiche, si spargevano, fratelli di preghiera e di lavoro, ad una nuova opera, asciugando i paduli, guidando le acque, applicandole all'utile, creando il sistema lombardo delle marcite; e i reggenti di Milano venivano agli altari recando i diplomi dei frequentissimi privilegi; e i vecchierelli sotto il saio vegliavano sui libri o cantavano nel coro, o sfilavano al cimitero. La Guglielmina boema vi dormì poco sonno di morte. La ricca nobiltà milanese vi restò a tripudio, quando uscì ad incontrare Beatrice d'Este, che arrivava sposa a Galeazzo Visconti. Potenza successe a potenza, pietà a pietà, mistero a mistero… Infine, nel 1795, la più prosaica caria bollata era affissa ai venerandi battenti colla cera rossa. E oggidì la locomotiva, tagliando il pratello della pace antica, sbuffa faville ai morti, e passa fischiando…
L'abbazia sorge vicina al villaggio, e coi ruderi del convento è chiusa da una cinta. Entrando nella corte per una volta oscura, si ha dinnanzi la chiesa, ragguardevole edifizio, con una cupola ottagona, sovrastata da una torre ad archi, a colonnine, a piramide: le linee sono dignitose, le tinte robuste, e i dettagli qua e là accentati dai curiosi scherzi del tempo e del caso. L'ignoranza degli uomini piccoli vuol mostrarsi dove può: eccola chiarissima, pretensiosa, patentata, nel guasto arrecato alla facciata, Povero secolo decimo settimo! Dio sa com'hai resa barocca anche la preghiera!
L'interno della chiesa è grande, tetro, umido: un segreto squallore vi regna: la solitudine co' suoi misteri, la semiluce coi pochi raggi del giorno, colle ombre freddicce, fanno parer eterni i passi sul pavimento: e va e va:—e danno all'aria un che di morto, di chiuso, d'ammuffito, che tronca il respiro, e assopisce il pensiero in una incertezza di languore…. Fantastichiamo?
Ma in questo stato d'anima, il cuore a un tratto affretta i palpiti, con un sentimento dolcissimo di speranza o di ricordo: eccoci desti! e si gode d'esser desti, d'amare, di dover combattere, di voler vivere! Il cuore si ribella alla morte.
Triste è lo sguardo che danno le sante screpolate degli affreschi; triste la polvere fredda che s'adagia sugli stalli del coro; triste il tremolo ardore delle lampadette nella grande solitudine: tristissima la pace che il tempo ha fatto intorno a noi. Luino, l'angelico, ha dipinto: l'ottimo Garavaglia ha intagliato: altri molti hanno lavorato e vi giacciono nell'oblio; san Bernardo un giorno arse di zelo e fu una fiaccola. Ma oggidì?
È santo quel sorriso che ci fa buoni e mesti: è salutare quella polvere che noi solleviamo, galoppando audaci, sul nostro cammino; chiamo luce quella che illumina l'anima, come i lampi. Più e più nei luoghi austeri l'estro si accende, e si figge all'ideale. La pace? Prima vogliamo la battaglia.
In fondo al coro vi è una porticella che mette al cimitero: è un luogo raccolto, circondato da un muricciuolo che lega le une alle altre tante cappelle mortuarie, ad arco, uniformi, severe, segnate solo da qualche avanzo di pittura o di epigrafe: qui i nomi di Pagano e Martino Torriano, dei Novati, dei Piola, degli Archinti. Un'unica crocetta nel mezzo compendia tanti nomi, tante grandezze, tanto oblio, in tanta pace, Qui venne con onorevole scorta armata sepolta la Guglielmina, nel secolo XIII, la famosa fondatrice della setta dei Guglielmiti, la quale pretendeva d'essere papessa, e più: qui fu venerata con feste, lampade, devozioni: di qui fu dissepolta e trasportata a Milano sulla piazza della Vetra, per essere abbruciata e vituperata co' seguaci suoi. La storia vi è lunga, ma interessante per gli scrittori milanesi: qualche sera chiacchiereremo, perchè già adesso tu non hai tempo.
Che cosa t'ho descritto? Non so. E ti ho descritto, o credo? Non so, davvero. Queste mie righe sono impressioni, Tratti di penna, schizzi: se tu volessi linee rigide e contorni precisi, sai che ci sono guide, buone e grame, e fotografie. Dunque non gettarmi in un cantuccio, se non adopero squadra nè metro.
Però, se vuoi, eccoti le dimensioni. Incominciamo da serii:
Altezza della torre, piedi 57.
Altezza della piramide, piedi 34.
Lunghezza della chiesa…
Capisci! Sei tu che non mi ascolti! Dunque, zitto i zitto! zitto!
Per ordinare le mie idee, bisogna che col pensiero io vada indietro tre o quattro anni: cinque per l'appunto! Ed ecco mi ricordo una passeggiata a Chiaravalle, una sosta, una colazioncina in un prato, e poi un'ascensione chiassosa, quindi una meditazione seria. Come fosse adesso! Voglio rammentarmi la torre della chiesa e il cimitero.
Prima di tutto, vi confesso ch'io ho un gusto matto per i campanili, tanto che in un certo paese ho fatto un abbonamento con un sagrestano, perchè mettesse a mia disposizione tutte le chiavi d'una chiesa. Quei bugigattoli, quelle scalucce di legno dagli incerti gradini, quel buio, quegli uscioli, per cui solitamente si deve passare per giungere alla torre, mi piacciono in modo strano; e poi quelle funi che pendono giù, o sfilacciate, o giù conducendo l'unto dagli ordigni dell'orologio!—E tic-toc-toc: dall'alto l'inesorabile tempo ci grava sul capo. Se poi stridono i falchi, o stormeggiano i passerotti, o un amico pauroso mi grida:—Manca un gradino… avanti lo stesso.
A Chiaravalle la torre che sovrasta alla cupola ottagona offre tutte le emozioni che voglio. Ecco, al tetto della chiesa, al primo riposo, si giunge coll'abito concio dalle ragnatele, col cappello schiacciato da qualche buio arco che non rispetta le proporzioni della figura umana, coll'occhio intenebrato e polveroso: travi, tegole e calcinacci sono amici, amiconi degli archeoflli curiosi. Al tetto c'è un ballatoio: e da questo una scala a piuoli al primo giro d'archi della torre; e da una colonnina di questo un'altra scala a un'altra colonnina del secondo giro, e via e via; ma sui piuoli tarlati il piede si poggia con precauzione, e gli staggi sono un po' zoppi. All'ultimo piano di colonnette si leva la piramide, e noi che le passeggiamo intorno, la vediamo tutta irta coi mattoni a spinapesce, qua e là resa bizzarra da qualche ciuffo d'erba, bruna rossastra, sormontata da un globetto con una croce nel mezzo, La vista di lassù spazia sui piani e sui piani: monotonia, Pure, c'è da trattenersi su una buona mezz'ora, e anche più; si ritarda la discesa, pensando un po' a quelle scalucce malsicure che ci terranno sospesi fra il cielo e i tetti.
Terra! terra! abbiamo toccato il suolo della chiesa: all'ultimo gradino ci sentiamo piccini, come profondati, giù nel tenebrore: camminiamo, e il passo ci sembra pesante, lo spazio per il piede troppo, per l'occhio poco, e giungiamo al cimitero. Con un movimento spontaneo si dà uno sguardo all'insù; le proporzioni della muraglia, della torre, si allungano sul cielo, e là, in cima, ci pare sia restato qualcosa di noi: qui basso siamo vuoti e melanconici: un che inspiegabile signoreggia tacito intorno a noi, e noi subiamo una pace per gli occhi, per le orecchie, per la bocca, un'aria morta ci involve, entra in noi, esce: ci pare di dormire da lungo tempo, o di svegliarci con altri sensi diversi dai nostri. È una bizzarria questa? A me succede così. Credo animato un arbusto solitario, un mucchio di rovine, un silenzio di crepuscolo: qualcosa requia, ma spiandomi: un che d'ignoto, posandosi lento, incombe e incomberà su di me. È una stramberia, temo l'oblìo… Sapete? certi sogni senza senso comune si possono dire in poesia: in prosa bisogna rendersi conto d'ogni contorno che ha la parola, e toccare liscio se non si vuole errare e buscarsi, un'orecchiata dai professori!—C'è la pace, ecco tutto: una pace antica, un silenzio, un'immobilità, un mistero.
Le cellette mortuarie di stile gotico c'invitano colle loro linee severe, colle reliquie degli affreschi, coi frammenti delle epigrafi. Vediamo! Ognuna di esse racchiudeva il monumento di qualche cospicua famiglia: dove giaceva il pesante avello, a due versanti, coi quattro orecchioni, o dove si levavano sulla groppa dei lioni le colonnine torte a reggere l'arche coi tabernacoletti gotici, ai dì nostri cresce la mal'erba, fra i tritumi e i calcinacci: le muraglie hanno le tracce dell'ugna del tempo: gli archivolti non portano più le nere cortine di morte, ma si lasciano addobbare dalle ragnatele. Queste cellette erano numerosissime: e chi coll'immaginazione sapesse tutte riedificarle, degradarle in squallida linea, colorirle tristamente, e fingere dalla porticella del coro la sfilata dei monaci salmodianti, quegli potrebbe a messer l'abate chiedere l'eterna pace. Si dorme tanto bene all'ombra dì tramontana, nelle abbazie dei cistercensi, fra il silenzio degli uomini e della natura!—In una celleita, Manfredo Archinto supplica Nostra Donna: in un'altra, una lucertola viva serpeggia sull'ala di una santa morta: in un'altra, san Bernardo, imprudentissimo, presenta al cielo la Guglielmina boema…
Nel secolo XIII, nella Lombardia, già infestata dalle sètte degli eretici, comparve la bella Guglielmina. Chi era? La dicevano la figlia di un re di Boemia. Con chi era? Con un bambino che le morì. Monaca, fuggita, amante: tantissime se ne dissero. Essa abitò a Milano, e fu di tale pietà, che i monaci di Chiaravalle e le Umiliate, e tutto il clero, e tutta la nobiltà pigliarono ad amarla, compreso un tale Andrea Saramita: e salì, e salì, la Guglielmina salì fino alla dignità sopranaturale: fu della quella che salverebbe giudei, saraceni e mali cristiani, fu detta papessa, santa, divina. Ma umana, morì, lasciando di voler essere sepolta a Chiaravalle.
Quivi giacque venerata, e ad onore di lei i monaci, in tre solennità annuali, distribuivano pane e vino. I discepoli rimasti, una Manfreda, il Saramita, Albertone da Novate, continuarono a celebrarne i misteri.
Nel giorno di Pasqua del 1299 la Manfreda indossò degli abili pontificali, e, costituita una gerarchia ecclesiastica femminile, cantò litanie, predicò, disse messa in casa di certo Jacobo da Ferno, con epistola letta da Albertone, con vangelo composto dal Saramita. E vogliono gli storici che queste adunanze finissero con scandali tali e tali criminosi piaceri, sì che la inquisizione di Sant'Eustorgio col fuoco volle purificare i corpi et le anime inquinate. Si fece un gran processo, arse la catasta in piazza della Vetra, e Guglielmina si trovò scacciata dal paradiso e buttata all'inferno.
Chi parla della Guglielmina finisce sempre così:—È da domandarsi se era veramente colpevole la Guglielmina, o se solo lo furono i suoi seguaci. È questo un problema la cui soluzione merita un attento studio di storico imparziale.
Ma se sapessi dove sono i documenti!
Warum ein unerklärter Schmerz Dir alle Lebensregung hemmt?
Dinnanzi alla villa barocca, tutta fradicia di pioggia e tutta chiusa, come un sepolcro, si stende un gran viale allagato, e di fianco le due siepi di carpini si perdono giù giù, fino a confondersi colle loro tinte brunastre nei colti uniformi, su cui la triste giornata del Natale addensa un torpido coltrone di nebbiaccie.
E un povero rampichino tra quei negri viluppi di stecchi, che un dì erano piante squadrate a piramidi ed a vasi, di ramo in ramo; svolazza salticchiando, la testolina in basso, il pennacchietto arruffato, le piume impacciucchiate, e viene e viene, e viene qua ai cancelli panciuti della corte, alle tortuose scalee dei terrazzi, alle fredde fenditure delle imposte, da cui il verno scolla le vernici squammate…
Ecco la facciata della villa. Un Giusepp'Antonio Castelli la ideava con tutta la tracotanza e il fasto dei Tiepoleschi: un gran parruccone sporco la approvava col cipiglio arcigno e la penna d'oca alzata, come un ritratto dell'Ospedale. Ecco le finestre avvolte nei cartocci; le finestrette tonde con un contorno da maniglia o con davanti ciascuna un busto di Cesare romano; le mensole sbrodolanti il gesso dalle arselle; i cornicioni spezzati dalle curve e dalle volute di cento contrabassi; le inferriate gremite di viticci e di nodi e di fogliaccio; i pilastretti a gozzi aggrappantisi su alla gronda; le nicchie sgangherate colle statue delle virtù araldiche che somigliavano alle buone ciambellane di Filippo V di Borbone; e l'attico gibboso e tormentato sotto il peso di uno stemma in cui c'entravano quaranta maggioranze di Castiglia e di Leon.
E il povero rampichino, frugacchiando alle fredde fenditure delle imposte, si lamenta co' suoi zilli capricciosi che si perdono contro i vetrucci rotti, i piombi caduti, il vano oscuro della finestra…. È una formica morta assiderata due mesi fa, quando la strascinava una gran pula di frumento? È un vermiciattolo ch'era giunto la notte prima dalla peschiera a musaico alla pozzetta d'acqua fra due mattoni spezzati? Che cos'è? che cos'è che becca il rampichino?… Becca, si fa sottile, becca, s'appiatta e s'arruffa, becca, ficca la testa sotto ai bilichi, e trova un posto ove la soglia è corrosa dalle antiche pedate, ed entra nel buio.
* * *
Oh come i morti s'obliano nello squallore, giù nei saloni del vasto appartamento! V'è una semiluce che piove solo dalle finestrette ad occhi di bue, dietro le schiene degli Augusti in pietra arenaria: v'è il silenzio che là là sembra ingoiarsi con un freddo da cantina per le porte spalancate: v'è un abbandono che scolora tutto cogli strati di polvere e di muffa, e che dà a tutto un aspetto di remoto, di sconfinato, di sepolto, colle tristi simmetrie dell'immobilità e del sonno. Una sala s'apre nell'altra, l'altra nell'altra, l'altra nell'altra, via, via… Da questo capo a quello del palazzo la fuga di quei sepolcri fastosamente rococò è infinita: tutte le finestre chiuse: scorciano i vani delle porte, come un lungo corritoio fra i scenari di un palcoscenico deserto, e i sopraornati confondono i loro fogliami flaccidi, i loro motti sbiaditi, i loro canestri pastorali, i loro trofei militari, le loro donnaccie nude, come una fila di grotteschi cartelli d'anniversari nel magazzeno di una cattedrale.
E il rampichino salticchia verso un'alcova. Nella prima sala vi sono le pareti bianche, il soppalco colle travi e i contentini dipinti a sfogli e reticelle a gesso e colla, intorno allo zoccolo di finta Macchiavecchia quaranta seggiole coperte di una bazzana con una ninfa in guardinfante, e nell'alcova coi putti di stucco, fra due canterali a pancia gravida, un lettone sui cavalletti e tutto giallo a passamani d'argento.
Lì, o uccellino, in mezzo secolo non è mai sonata una parola di vita. La marchesa vedova, quella che aveva aggiunto all'attico della villa lo stemma colle quaranta maggioranze di Castiglia e di Leon, vi giaceva ammalata fradicia da sette anni non parlava più del marito, se non per consolarsi che, a conto di messe, era già in luogo di salvazione: facendo chiamare dalla vecchia nutrice i tre figli ogni sera per benedirli, al primo diceva «marchese Asdrubale,» alla seconda «donna Ines,» al terzo «don Apollonio.» E, raccogliendosi tutta nei suoi pensieri, taceva sino alla sera del giorno appresso: a meno che le arrivasse qualche corriere di Spagna con una lettera di un principe di Madrid che le annunciava la prossima gravidanza della moglie, o qualche procaccio da Milano colle benedizioni dell'abbadessa vecchia di Santa Radegonda o dell'arcivescovo capo-rito di Sant'Ambrogio. Taceva lei per delle settimane: ma susurrava qualche servo del morto padrone che quel malore che le rodeva l'ossa era come, che so io, come uno struggimento per una grande passione ambiziosa insoddisfatta: e che il marito non aveva voluto un certo dì ch'ella seguisse re Carlo II (Dio lo riposi) a una caccia presso la Bellingera e che il futuro marchese, il primogenito Asdrubale, fosse già stato promesso ad una principessina madrilena che non era nata…
Basta: in una sera di Natale, in quel lettone, quella madre… (madre la direte?)… quella squallida ammalata, moriva rassegnatissima, togliendosi dall'anulare un anello coi cinque suggelli dei cinque feudi della famiglia, e ponendolo sull'indice del suo primogenito: con una carta piena di ghirigori istituiva il maggiorasco: al marchese Asdrubale ordinava la seppellissero nel palazzo, e fissava le libbre milanesi della cera: a donna Ines e a don Apollonio raccomandava, loro vita natural durante, di pregare per lei… che era morta.
E il rampichino salticchia verso un crocefisso. Nella seconda sala ancora le pareti bianche, il soppalco colle stesse dipinture, intorno allo zoccolo di finto Belgiazzo, due tavoli dorati a gambe di capra, e trentadue seggiole coperte della solita bazzana con una Venere allo specchio, e nell'alcova con una santa gesuitesca in marmo nero, ai piedi di un lettone, come il primo, una seggioletta impagliata, e un inginocchiatoio col grande crocefisso.
Lì, o uccellino, non è mai sonata una parola di speranza. La triste secondogenita, che nella sera di Natale rammentava quell'altra notte, quando la madre le moriva, e che contava ancora angosciosamente i pochi mesi, i mesi tormentosi della sua libertà, prima d'entrare nel monastero, si contorceva sotto le coltri, si strozzava il pianto, udiva le campane per la pianura buia, s'immaginava i babbi e i bimbi che si avviavano alla chiesa, i bimbi! i bimbi!… E il povero crocefisso fu trovato alla mattina dalla nutrice dischiodato dalla croce e con alcune chiazze di sangue recente sull'avorio.
Donna Ines è morta abbadessa di Santa Radegonda.
E il rampichino salticchia verso un gran librone. Nella terza sala torno torno alle pareti quattro macchinose scansie che dalle graticciate di rame lasciano vedere tutti i volumi giallacci della teologia seminaristica, la volta, in gloria, dipinta con una Fede seminuda e cicciosa, un solo tavolotto con carta, penna, calamaio, spolverino, e un solo seggiolone colle orecchie al dossale: il gran libro è su un leggìo da coro.
Lì, o uccellino, non è mai sonata una parola di fede. L'infelice terzogenito, che rammentava quella notte di Natale, quando gli moriva la madre, e quella mattina, quando avevano veduto il crocefisso della sorella colle macchie di un sangue caldo, e che aveva sfogliato tutti i libri più devoti per sapere com'erano orrendi i tormenti dell'inferno, lì, sul seggiolone, quando tramontava il giorno e gli pareva di udire i canti delle mamme… sì, sì, una folata di vento gli portava dagli alti finestroni della chiesa un ronzio di voci felici, credenti, devotissime a Dio… Quando calava la sera sui campi e la pace sulle mamme e sulle bambine, egli, di sotto al San Tomaso in-folio, traeva un pugnale aguzzo e… E il povero librone fu trovato alla mattina dalla nutrice divelto dalla copertura e con un buco che lo passava irosamente parte a parte, come una cornata del diavolo.
Don Apollonio è morto cardinale di Santa Prisca.
E il rampichino salticchia verso venti, quaranta, ottanta quadri di antenati e di battaglie e di assedi, verso un pellicano impagliato, verso una spada d'argento di Filippo V, verso un trono di feudatario, verso un tronino di Dio… Tutto l'appartamento ha le porte spalancate e le finestre chiuse: il silenzio si fa sempre più oblioso e il verno più sconsolato.
Nella quarta, nella quinta, nella sesta, in tutte le sale continuano le mura bianche e i soppalchi dipinti o le vôlte stuccate, le seggiole a gambe di capra e le poltrone a ranocchio, e le alcove deserte. Ecco qui nella galleria pendono gli antenati di toga, di spada, di rocchetto, tipi cipigliosi del Tanzo, del Nuvolone, del Porta, ma tutta gente che si era fatto onore per la famiglia: le antenate coi guardinfante o colla tonaca, faccie lunghe del Cerano e del Legnani. ma donne benedette dal Signore nella prole o nelle visioni. Ecco nella sala delle battaglie, sulle tele crostose di un Borgognone di terza mano, dinnanzi alle fantastiche bicocche dei turchi, i guerrieri indiavolati e nel fumo dei cannoni cristiani i nemici che se la danno a gambe. Ecco nel museo le bestie impagliate che vissero nel parco: il pellicano ha una scansia di vetro colla cupola: un Crivellone ha abbozzato, nero e rosso, intorno alle pareti i cani che leccano il sangue, i cinghiali che ruzzano a salmontone, gli uomini che muoiono sbudellati. Ecco nell'armeria, fra le labarde dei servi d'anticamera, una spadina a zuccotto, donata nientemeno che da un re, il quale non sapeva tenere la penna ad Utrecht. Ecco nella sala delle udienze un gran trono, velluto cremisi ed oro, per assidersi a dopo pranzo a giudicare, con diritto di vita e di morte, i vassalli famelici tutto l'anno. Ecco nella cappella un tronino barocco, offerto al buon Dio a peso d'argento, perchè a un tanto per oncia rimetta i peccati a tutta la prosapia.
La gloria dell'appartamento incomincia dal santo alcova della vecchia testatrice e finisce col confessionale pagato dall'unico erede dei cinque feudi.
In questo regno, o rampichino, non è mai sonata una parola di gioia.
Eccolo il marchese Asdrubale!… Ebbe ventimila pertiche di terra grassa, questa villa, un palazzo ionico in Milano; creò cinque benefizii per cinque oratorii dei morti, sciolse dai livelli due monasteri, istituì varie messe pei poveri giustiziati a San Giovanni alle Case rotte; ebbe perfino trenta cani bracchi, segugi, mastini, da leva, da ferma, dodici amici senatori, una moglie infeconda e che gli visse accanto circa settantotto anni, sette mesi e qualche giorno. Eccolo il vecchio Feudatario di Filippo V, di Luigi I, ancora di Filippo V, e poi di Ferdinando VI, e poi di Carlo III! Largo! fate ala! rendetegli l'omaggio!… Viene dal tronino di Dio, e passa innanzi al suo trono di feudatario, alla spada d'argento del re Borbone, al pellicano impagliato, ai venti, ai quaranta, agli ottanta quadri d'antenati e di battaglie e di assedi…. Largo! fate ala! rendetegli l'omaggio!… Ma se non si muove alcuno per le sale!… E lui, da un capo all'altro del palazzo, procede vestito di nero e con quell'anello in dito…. Non c'è più nessun mascherone dei Tiepoleschi che, ghignando, racconti altre istorie, dopo quella della mamma, dell'abbadessa e del cardinale…. Il vecchio si fa innanzi, barcollando, viene, viene, passa dalla biblioteca, passa dal secondo alcova, passa dal primo alcova, viene, viene, cercando un primogenito anche lui.
Il marchese Asdrubale è morto grande di Spagna.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Si è fatto sera. La vecchia e i tre figli sono tutti sepolti nello buca gentilizia della cappella, in quattro cofani di velluto nero, tutti e quattro distesi su quattro seggioloni disusati, sotto una pietra incisa coi cranii e le clessidre e gli svolazzi che annodano le tibie.
È la sera di Natale. La madre e i tre figli sono tutti seduti nel salone della festa al così detto pranzo di famiglia, sulle seggiole di seta rossa, chinati sulla trapunta tovaglia di Fiandra, sotto la luce di una gentile lumiera di Murano, e fra i calici arrubinati e le argenterie scintillanti.
È la notte di Gesù piccino. La vecchia guarda mestissima il marchese Asdrubale…. È l'ora delle gioie di Natale. E la badessa donna Maria Ines di Santa Radegonda racconta la sua amorosa gloria di mamma, quando le era nato quel bambino biondo, come quello del Signore. E il cardinale Don Apollonio di Santa Prisca racconta la sua tranquilla felicità di babbo, quando la sua gioconda, la sua bella, la sua fanciulla sorridente gli porgeva a baciare le due bimbe così rosee e ricciutelle, come le angioletto sulla capanna di Betlemme.
La vecchia tornava nella buca: e il marchese Asdrubale scagliava via l'anello.
* * *
O rampichino, o rampichino timido e santo, quand'esci all'alba dal palazzo e per i rami dei carpini ti avvii giù là in fondo ai campi e al paesetto, o rampichino, o rampichino modesto e gentile, non raccontare le istorie delle sale barocche abbandonate, non raccontare le ciarle del convito di Natale….
* * *
Alla mattina del Santo Stefano, il piovano di ****, che aveva da' suoi antecessori ereditato l'obbligo di benedire a Natale li defonti del palazzo, perchè un marchese Asdrubale aveva lasciato, con decima di miglio, di avena, di frumento, un beneficio alla confraternita della Buona Morte,—alla mattina un poco tarda, il piovano, aprendo con una chiave irrugginita la cappella sepolcrale, trovava sulla pietra un uccelletto morto di freddo, lo spazzava via con una pappuccia, e, guardando per un corritoio una fuga di saloni e di saloni, incominciava a dire, stringendosi nelle spalle:—Requiem æternam dona eis, Domine….
Whilst thou art fair and I am young.
BYRON.
Giù, giù, sui campi mestissimi della nostra pianura lombarda, s'intorbida la pallida alba del Natale.
Ecco i colti, qua aggelati nelle tinte verdi umidiccie del frumento in germoglio, là a cinquanta passi addormiti nei lividi nebbionacci del verno e dei concimi: i solchi colatoi bianchi di brina e giù inzuppati da pozzatelle di pioggia: i gelsi coi tronchi neri e le capitozze goccianti, in filatere allineate, come i morti a guardia di un immenso camposanto obliato: i capannotti col tettuccio di sagginali fradici, l'acciottolato fangoso e il sentieruolo senza più l'aia: i pagliai col cappuccione ammuffito e sullo stocco la crocetta che si scorteccia: le strade sepolte nel molliccio, colle rotaie allagate, e i fossatelli pieni del mosaico giallastro delle foglie flagellatevi dagli acquazzoni.
Ecco là un paese su uno sfondo tutto cenerugiolo e senza misura: i muricciuoli di una pallidezza sucida da cenci immollati: gli orti bruni, senza più una siepicina, tutti a stecchi ed arruffaglie: le finestre ingozzate di fogliaccie: le casette rattrappite l'una sull'altra, come chi si stringa nelle spalle: i palazzotti, su alti, a grandi fioriture nere, coi solai abbandonati: e le chiese, più alte ancora, coll'aspetto più freddo del nudo mattone e i vani più bui delle arcature dei tetti: e, più alti ancora, i campanili, nudi e soli, che sguardano cogli occhioni abbacinati nelle nebbie….
E su tutto, sui campi infiniti e sui paeselli perduti, un umido intenso, una tristezza plumbea, una distesa persa, che non chiamiamo cielo, ma chiamiamo oblìo.
E si intorbida sempre più la squallida alba del Natale.
Là, in fondo in fondo si accende un lumicino, una lucciola oleosa, un occhio giallo e sonnolento, e poi là, dall'alto dall'alto, si ode uno scricchiolìo: lo strido di un ceppo scheggiato, un rantolo pesante e brontolone.
Il curato si veste: e il sacrestano incomincia a pigliare la fune della campana….
* * *
O colombi, che con volo obliquo e soavissimo calate innanzi alle scalee delle misteriose ville rococò a bere dolcemente nei cavi della vecchia arenaria le piogge del dicembre infecondo: o passeri, che, stormeggiando bellicosi, vi affollate sui santi cornicioni delle chiese smattonate a beccare protervamente le lolle sospintevi dai venti: o rampichini muraiuoli, che col capo in giù vi aggrappate ai sagginali che tappano le finestruzze, arruffando lo spavaldo ciuffetto, per cacciarvi in una stalla piena di marmocchi, di contadine e di fole: o reatini, reatini minimi, che nei rosai brinati dei cimiteri sbattete l'ali rapidissime, quasi cercando i nonni ai radiconi del campo e ai cataletti del beccamorto, i nonni aggelati che, come voi sono i simboli del verno:—o miei amici, amici della mia casta infanzia e della mia trepida giovinezza, gentili poeti dei voli e dei susurri, poveri uccelli che avete sete, che avete fame, che avete freddo, che avete le nebbie nell'animuccia, venite alla mia finestra in quest'alba sì mesta, venite ai miei vasi di fiori, venite alla mia stanzetta.
Voi bevete le lagrime degli infelici? Voi beccate via le pule delle nostre speranze inaridite? E vi tenete caldi sui nostri cuori e dentro vi covate ancora le nuove illusioni della vita? E foracchiate ancora nelle case di chi ha amato, cercando sempre le agugliate di refe della massaia per i vostri nidi e le briciole dolci dei nostri bambini per i vostri zuccotti senza piume?
Povera finestra, sempre quella, da cui non entrano più le tranquille visioni dell'alba, e le placidezze amorose dei plenilunii: poveri fiori della mia vecchiaia, che vi siete disseccati sulle radicine delle più soavi viole del pensiero: povera stanzetta della mia morte, senza una culla, senza un ritratto di donna, senza un ricordo della mia giovinezza!
Venite voi, amici, che non ci abbandonate nei verni.
* * *
E vi dirò.
Era bello il mio bambino roseo: era santa la mia Madonna bionda: il presepio tranquillo, la mia casetta, la casetta del povero poeta.
E lui aveva due occhioni a gemma, pieni dei riflessi del più azzurro cielo; una boccuccia a pozzette che balbettava i nostri nomi felici in terra; due mani a guancialini che rubavano già i pesantissimi grappoli dorati della nostra vite sul portichetto. Lei in quelle pupille specchiava le sue tanto dolci; a quelle labbra si pendeva, succhiando colle sue, inebbrianti di baci; tra quelle dita intrecciava le sue, così belle e così carezzose. La casetta, quella dei babbi e dei bisnonni, piena di fiorelli campestri, di specchi pallidi, di mezz'ombre pacifere.
Sì, sì, era il mio bambino bello, anche quando su un occhio aveva una gran toppa di carta turchina odorante di aceto; o quando gustava la boccuccia impacciucchiata di vinaccioli e di mocci; o quando colle manine, impudicissimo, si teneva un piedino grasso, come un tomboletto, sgranandone le dita, come coccole di burro…. Era la mia Madonna santa, lei che piangeva da medichessa, lei che smoccolava quel nasino, lei che toglieva il pannicello per vederlo tutto nudo, il suo ometto peccatore!… E sul mio presepio gli angioli del cielo non scendevano coll'ali a porre la bindella spiegazzata col pax hominibus bonæ voluntatis; ma nemmanco i notai della terra erano venuti coi parrucconi ad aprire i volumacci delle ipoteche: ed era piccino, ed era disadorno, ed era soffogato dai ciliegi e dai mandorli; ma un bisnonno l'aveva chiamato Palazzetto del ritiro, un nonno vi aveva messo i mobili del Maggiolino, e il mio babbo aveva piantalo per me quegli alberi che s'erano fatti grossi pel mio bimbo.
Desideravamo l'autunno, la stagione più cara, più intima, più dolce per la nostra lunga contemplazione amorosa. Era forse una foglia, la prima che si staccava dal ramo, che ci diceva quanto noi potevamo essere felici? Desideravamo i crepuscoli rosei, colla mitica stella di Lucifero, colla sottile falce della luna, coi cirri spolverizzati d'oro: e quando voi, o colombi, stendevate il volo su quel terrazzo fiorito, là dove, infelicissima e peccatrice, bisbigliava quella dama infeconda con quel cavaliere, più volte babbo: e voi, passeri pendenti ad un ciuffo di parietaria, dal rosone della facciata spiavate giù nella chiesa tutta calda di lumi i poverelli, famelici fra le nidiate dei bimbi che cantavano le lodi ambrosiane del Signore: e a voi, rampichini muraiuoli, intricati nei garofani delle finestrette, giungeva il guaiolare degli orfanelli dell'Ospedale: e a voi, reatini, salticchianti sulle rose innanzi le croci cadute, taceva sempre impassibile il silenzio di chi nella fossa dei vermi aveva sognato il bel paradiso d'oro:—noi, piegati su una culla candidissima, rattenendo il respiro, come l'unica necessità che accusasse la nostra vita del corpo, noi ci sentivamo purissimamente degni di compiacerci per gli occhi giù fino in fondo dell'anima, ove stava il segreto religioso della nostra giovinezza: noi, affaccendati innanzi ad una seggiolina, versando il latte butirroso in una scodella, ci dicevamo tanto ricchi e pasciuti che avremmo dato tutti i nostri pani a tutti i poverelli e le briciole del nostro bambino a tutti gli uccellini: noi, inginocchiati nel portichetto dei nonni, udendo le leziose impazienze di quella boccuccia che, tartagliando i nostri nomi, pareva comandasse al destino di non dividerli mai, su tutta la terra, credevamo ad un Dio che apparisse nei sogni agli innocenti e nei sorrisi agli amorosi: noi, semi-addormentati allo spegnersi dell'ultime luci del giorno, compiangendo tutti i libri luciferini che indagavano il nulla eterno, l'avevamo dinnanzi la nostra vita, tanto sicura e tanto in pace!
E l'avremmo vissuta tutta! Desideravamo che l'autunno si avanzasse a morire nel verno, la stagione carissima, intimissima, dolcissima per la nostra eterna contemplazione amorosa…. Eterna?… Erano forse le foglie, le ultime foglie che coprivano la terra, che ci dicevano come noi dovevamo essere felici?… Desideravamo le serate lunghe….—Com'è di fuori?—Dai vetri sudati non spiavamo nè tenebrore, nè stelle, nè luna, nè pigre nuvolaglie. Oh volevamo la nostra stanzetta, piccina, come la nostra ambizione, calda come un nido, illuminata come un santuario! Volevamo essere noi, noi soli, coi nostri ricordi, colle nostre ciarle, col suo balbettìo, col suo respiro, co' suoi starnuti, col nostro bimbo che ci aveva dato tutta la pace! Ci amavamo! Ci amavamo, perchè nessuno era venuto a soffiarci il gelo dei sapienti nell'anima! Ci facevamo indietro indietro nella memoria a trovare le prime paure e i primi rossori, i mutui sguardi e le feconde religioni dell'amore ricambiato! Misuravamo giubboncini e camiciuole! O bimbo, quando credevi di fare il tuo discorsone, pensavi alla mamma? quando tu dormi, ti sogni di lei? quando starnuti, non ci dici grazie? O piccino! O piccino! Eravamo tanto egoisti che sobbalzavamo di scatto, scacciando l'idea e la domanda:—Dove saranno i colombi? e i passeri? e i poveri rampichini? e i poverissimi reatini?—Eravamo di dentro, con un lettuccio tutto morbido di coltroncini, colle cucchiaiate fumanti di pappa, con un cosetto d'avorio pacciucchiato, e, Dio mio! con un libro gualcito al capitolo più serio e più sociale….—E i villeggianti pieni di galanterie? E i contadini che hanno fame? E gli orfanelli dell'Ospedale? E i morti?—Oh eravamo di dentro, colle fila d'oro dei destini in mano, colla gioia di tre vite tutte felici, colle speranze di tre cuori tutti innamorati!… E si fantasticava, si fantasticava…. Era un mondo senza oro e senza pensieri….
Sì, sì, che affrettavamo i minuti e i desideri!
Il nostro bambino sarebbe cresciuto giorno per giorno…. O mia cara, i suoi piedini battono già risoluti sulle tue ginocchia: ed ecco le gambette le affagottiamo in due gran calze rosse, e le calcagna le affondiamo in due scarpine piatte: e, ondeggiando, come un nonnuccio senza bastoncello, e brancolando, e due, tre volte acculattando d'un botto (ti sei fatto male?) ecco, eccolo…. ahi!… Piccino, tu corri troppo! Eccolo da una canestra piena di guancialetti da popattola e di cuffiette a mezzi gusci d'ova, eccolo a uno scrittoio ingombro di carte, senza una sola poesia stampata: da te a me…..
Il nostro bambino sarebbe cresciuto giorno per giorno…. Diventiamo vecchi anche noi? Oh i bei vecchietti!… Mia cara, ecco finalmente s'imbianca un'alba di dicembre. Pel buio della pianura suonano le campane gioconde: dicono che in cielo cantino gli angioli, mandando giù le parole latine a tutti i presepi delle monache e dei marmocchi: per le viuzze del paese alla chiesa s'avviano i contadini puzzanti di frustagno: di là, di là, di là, dalle contrade polverose della storia sacra si mettono in carovana i Re Magi coi carrioni d'oro e colle barbe d'argento….
È Natale!… Mia carissima, ecco che il grand'omino, cogli occhi ingarbugliati dal sonno, sarebbe sdrucciolato dal lettuccio, le calze grinzose, le gambe pienotte, la camiciuola discinta su una spalla grassoccia, una scarpetta scalcagnata nelle mani…. Una scarpetta pei doni del bambino!… Ed ecco che s'avvia coll'ondeggiare di un proposto in piviale, scantona un tavolo, barcolla contro una seggiola, si rifà, cammina, cammina, e si perde nel vano di una porta: e là si ascolta un sospirone dal naso tappato per il raffreddore e dall'anima rigonfia di promesse…. Quanto oro avresti dato per quel tomaio sì rifrusto che doveva chiudere per lui tutti i doni della terra? Dentro una dozzina di confetti, e torno torno una carrozzuccia di latta che odora di vernice e un ginnastico tirolese dinoccolato nelle sue membra di abete bianco e un agnello lanoso col suo mantice che soffia il lamento arcadico e felice!
È Natale! è Natale!… O Madonna, o mia Madonna bionda e della terra, non mi svegliare dal casto sogno, per amore della tua mamma! O bambino roseo, bambino della mia Madonna bionda e della terra, bambino del mio presepio, bambino della casetta del povero poeta, vieni e dammi questo bacio lungo, questo bacio santo, questo bacio di Natale!
* * *
Giù, giù, sui campi mestissimi della nostra pianura lombarda si fa crassa di un nebbione rossigno la mattina del Natale.
Dormono i campi: si sgranchisce il paesello. Ecco qua un grigio pesante e un silenzio di morte: là un lume piccino e uno strido di ceppo scheggiato….
Il curato, si è vestito e il sacristano tira la fune della campana….
Il primo squillo profondo di un saluto benedetto.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
(Qui la carta del manoscritto è bruciata).(12)
Oh blest be thine unbroken light!
BYRON.
Luccicava una stella, alta, fulgida, azzurrina. E pareva, come inestinguibile ricordo, mi ammiccasse lontano lontano sulla casa di una fanciulla ch'io avevo amato indarno.
E pensavo…..
Infine mi staccai da quella finestra, ripulii quel vetro, e mi posi a meditare seriamente sul mio avvenire di antiquario patentato.
Avevo dalla parte sinistra del petto una lettera gratulatoria del mio primo maestro di latino e una credenziale amplissima del mio solito padre confessore: cose che mi facevano sognare quanto prima un busto di sasso freddo, cogli occhi senza pupille, col manto sulle spalle, colla civetta al basamento, sotto il portico classico per lo meno di una Accademia di provincia. Avevo torno torno a tutte le pareti, in tanti colombarii, una eccelsa necropoli di libri teologici: spirituale conforto per cui m'ero chiuso lì, in campagna, a prepararmi pel regno dei cieli almanco un volumaccio ed una penna di dottore, giacchè fino alla graticola di san Lorenzo o al sasso di santo Stefano non avevo coraggio di arrivare colla virtù del desiderio.
E dovevo sgobbare….
—Primus dicitur fuisse Melchior, qui, senex et canus, barba prolixa et capillis, aurum obtulit regi Domino. Secundus, nomine Gaspar, juvenis imberbis, rubicundus, thure, quasi Deo oblatione digna, Deum honoravit. Tertius fuscus, integre barbatus, Balthasar nomine, per myrram filium hominis moriturum professus….(13)—Così avevo trovato, giust'in punto a mezzanotte, sfogliando, innanzi a tutti i messali, il Beda. Il Beda! Sapete voi che peso ha il Beda?…. E vi dico la verità che, avendo dovuto pigliarlo da uno scaffalone alto, per la paura che mi scappasse furiosamente dalle mani fracassando i vetri a me e rompendo il sonno del fattore giù al mio pianterreno, e per quel tanto di moto sui venti piuoli della scaletta traballante, vi dico che mi ero sgranchito un po' o un pochino mi era parso d'aver cacciata la pigrizia di Morfeo.
Gli altri libri erano lì, più comodi alla mano, all'occhio. Nientemeno che il French…. Peuh! anche a lume di candela, quando lo si sa, si legge correntemente l'inglese: il French…. Stair of the Mages(14). E il Trübel, De Magis advenientibus, De Stella, De Critica sacra(15)… Che polvere fra quei vecchi amici dello zio canonico!…. E c'era lo Stolberg, Dissertatio de Magis(16): il Rhoden… Che polvere maligna! la si caccia intorno alle pupille e mi fa sentire come delle briciole pungenti!… Lo Stolberg, l'ho già veduto, mi pare: il Rhoden, De primis Salvatoris venerat…(17) Scusate se m'interrompo con uno sbadiglio… veneratoribus, debb'essere: ablativo plurale della III… E c'erano lo Spanheim, Dub. evang.(18): si capisce benissimo, senz'aprirlo, dal solo cartellino del dorso… E perchè sempre le abbreviazioni? Le Thes. Theol. Phil.?…(19) Quando si ha sonno!
E c'erano, c'erano… Ma il Beda mi aveva soddisfatto. Che più? Avevo concesso sfogo ad uno, a due, a tre, a quattro sbadigli, avevo alzato una spalla più dell'altra per sentire accidiosamente il collo sepolto nel bavero, m'ero avvicinato al tavolino, allontanando con prudenza un mozzicone acuto di penna d'oca; e, trascinandomi dietro un seggiolotto, non avevo più sentito la mia zucca che si perdeva nel sonno….
O santi Magi adorati nella mia infanzia! Per la sera dell'Epifania io vi sognavo, esploratori affaticatissimi, che passavate colle barozze dei regali, coi mille moretti, coi settemila cavalli,(20) passavate innanzi al fesso di tutte le imposte da cui vi spiavano i bimbi devoti! Avevate le barbaccie bianche, i pallii di porpora e d'armellino, e l'incesso profetico dei re. V'era apparso su tra i rami delle immense palme il lumicino fumicoso della cometa che guida a Betlemme? Udivate sotto le gronde col miagolìo dei mici anche i nostri sospiri religiosi?
O pallidi miti evocati nelle fredde ore dello studio! Per l'alba dei morti io vi ho sognato, placidi dormenti, forse ridotti ad una sola mascella sdentata, a quattro sfilaccie d'oro di tutta la veste episcopale d'onde vi ammantava il Barbarossa,(21) a un solo mucchietto di polvere immota! Come vi riposavate sotto i fanatici fiori di marmo e le pitture oltremarine(22) della gotica cattedrale di Colonia? E sotto la monastica nudità del macigno e del mattone lombardo(23) del nostro Santo Eustorgio? E tra i musaici d'oro delle cupole bizantine(24) di santa Sofia Costantinopolitana?
E proprio mi pare…. Mi pare, in questo crepuscolo della fantasia che si fonde colle memorie del cuore, in questa tranquilla ora di sonno per i mortali e per gli immortali, in questo soave oblio dei dolori e delle religioni, mi pare di vedervi ancora… Non vi chiamo santi Magi adorati, non vi chiamo pallidi miti dissepolti, ma vi sento placidi custodi della notte e del silenzio e della pace! Siete sorti dalle iridi di quella lagrima che mi trovavo sul ciglio, contemplando una stella? O dalle pagine gialle e allumacate di un vecchio morto che credeva ai morti? Dite perchè l'astro è su nel cielo? Perchè il verme roderà il nostro cuore? Perchè si piange? Perchè si ghigna?
Non rispondete nulla e tacete e camminate; così, sempre così, o viatori di una notte, che non voleste mai lo scampanio dei cuochi sacrestani; che non vi arrestate sulle porte alle chiese barocche delle sette indulgenze: che non avete mai nessun dono eterno per i cori reboanti di voci fratesche e nessuna visione per i silenti corritoi delle monache assopite!
Non rispondete nulla e tacete e camminate: così, sempre così, o viatori di una notte, che passate avanti ai cimiteri, piangendo sui cumuli piccini ove sono le crocette bianche; che entrate giocondamente furtivi nelle casuccie innanzi a cui avete veduto le orme degli zoccolini stampate nella neve, mentre tutto è pace nella campagna; che vi affacciate timidi ai fessi dei balconi, dove vedete spuntare una scarpetta, mentre tanto è il peccato nella città!
O vecchi, vecchioni di mille ottocento ottantadue anni! O amici, amicissimi di tutti i bimbi morti nati, e nascituri! Se vi vedo proprio! se vi voglio vedere!
E camminate, e camminate…. Eccovi! eccovi!… Come siete belli! Come siete grandi! come siete dolci! Gathaspar! Melchior! Bitisarch!(25) O se volete meglio, Magalath! Pangalath! Saracen!(26) O se volete meglio ancora, Appellius! Amerius! Damascus!(27)
Voi! voi! voi! Chi dice che siete venuti per visitare le vostre tombe favoleggiate?
La stella vi accenna la culla di Betlemme!
Un'arca acuta(28) giace sontuoso guadagno di uno scaccino e gloria scetticamente ufficiale di una città ghiacciata; un cenotafio romano(29) è chiuso col vuoto eterno al tardo garrito degli antiquari canonici derubati delle vostre ossa, e non del beneficio: e l'altra tomba…. Dove tripudia di lascivia il Mussulmano vi fu la vostra tomba? Chi ricorda la vecchia regina Elena?(30)
E la culla invece l'abbiamo in tutte le nostre case, dove un grembo di donna accoglie un bambino o il desiderio di un bambino.
Betlemme ha irradiato il mondo!
Voi! voi! voi! Chi dice che siete venuti per la vostra gloria da calendario? La stella vi accenna le nostre gioie!
Voi, ignorantissimi figli dell'Asia, che ascoltavate solo i fatidici echi di Zoroastro(31) e leggevate solo nel cielo veggente dei deserti, voi irridete le laudi gotiche del canto e del marmo alemanno! Voi, alte ed ispirate vedette, sul monte della Vittoria a spiare la luce immortale della stella Nazzarena(32) non vi ingloriate dei grossi ceri che vi smoccolano putolentemente i merciai delle confraternite spagnolesche! Voi, nomi patriarcali delle tre stirpi di Noè(33), che rendeste a Dio i doni che Abramo diede ai figli di Keturah e che la regina Saba diede a Salomone(34) non vi fate superbi, udendo tronfiamente proclamare che alla santa Sofia dell'Islamita(35) rimane ancora il nome e la gloria della vostra Sapienza!
Voi siete venuti per il nostro amore! Vi chiamano i bimbi, vi chiamano le mamme, vi chiamano i vecchi; e quei vagiti e quei sorrisi e quelle preghiere sono i nostri affetti. Chi nasce, chi confida, e chi è vicino a morire!
Betlemme ha irradiato il mondo!
Oh venite! venite! venite anche da me!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Chi nasce! Sapete com'è bello chi è innocente? Chi ci può far credere a Dio? Chi è la religione purissima dell'anima nostra? Oh come chi nasce ha bisogno d'amore!
Chi confida! Vedete come è santa chi ha nel cuore l'amore! Come ci bacia per farci coraggio! Come sola ci ha data la pace! Oh quanto chi confida ha bisogno di speranza!
Chi muore!… Ah sento d'aver avuto l'amore e la speranza!… Perchè mi è dolce l'ultima luce del crepuscolo?… Perchè è tanto soave l'addio di chi ci ha accompagnato fino ai primi tenebrori?… Come sei cara, tu! Tu, e tu, e tu, figlia, bambino, bambini! Come siete cari, voi che, insieme aggruppati al mio seggiolone, mi dite sorridendo:—Noi continueremo a vivere, ad amarci, e a ricordarti!—Oh quanto chi muore ha bisogno di fede!
Svegliandomi di botto, ho trovato il Beda capitombolato a' miei piedi, e il fattore che ascendeva le scale, domandando:
—Che c'è?
Il Beda giaceva colle pagine sfogliate e aperte contro il suolo, come un uccellaccio della notte caduto sopra una tomba: e il fattore mi diceva:
—Suo zio canonico di quest'ore non li toccava mai certi libroni.
—Ed è morto solo.
—Solissimo.
Cogli occhi sonnacchiosi io guardavo la stella sempre alta, fulgida, azzurrina: e la biblioteca mi pareva più triste, più fredda, più antica.
Oh i Magi non si fermeranno mai a un davanzale tanto deserto!
Devoted in the stormiest hour. BYRON.
O da una bruna siepe d'ortaglia verso il bastione rompesse fuori un canto sonoro di gallo: o da due finestre umidiccie in tutta la facciata sonnolenta di un collegio di suore venisse trasodando un barlume di luce giallosa su un corso solitario; o sotto i pilastri di un foppone suburbano si raccosciasse pigramente la solita povereila del mattino, il fazzoletto a gronda sugli occhi, la polenta e il rosario nelle mani, a guardare la folla bianco-nera delle croci:—v'è chi di voi ha udito la prima voce della Quaresima? Chi ne ha indovinato gli sguardi? Chi se l'è veduta innanzi nella sua lercia e sconsolata figura?
* * *
All'alba le vie popolari della città sembravano sfondare giù giù in un sonno cenerugiolo: chiuse le botteghe, chiuse le porte, chiuse le finestre: le gronde, le altane, i comignoli perduti in una nebbia torpidiccia; il selciato sudicissimo: i lampioni dormigliosi: il cielo d'un colore di gesso annacquato. E va, e va, e va, non c'era in volta anima nata. In qualche luogo, in certi bugigattoli alti, sotto i poggiuoli o le scale, si gonfiava a un venticello di scirocco qualche lurido saccone di Pierrot o dondolava qualche giubba verde di Beltrame: e su certe portine affumicate girava una cassetta colle quattro faccie di carta inoliata, e, spento quel po' di moccoluccio, non vi si leggevano più gli sconci caratteri del cuciniere: davanti a qualche topaia di cantina fuggiva qualche gattone foderato di velluto e di mistero.
Nelle vie larghe e aristocratiche le facciate di granito impallidivano a un certo albore che si spiegava giù dai fastigii delle chiese: tutto chiuso: su dai tetti allineati torreggiava qualche campanile: il selciato aridissimo: rade le fiammelle del gas: il cielo con una luce d'acquario marino. Non una persona viva. I portoni colle maschere delle lionesse, le finestre coi cappelli del Vignola, qualche balconata colle vesti doriche delle cariatidi, accennavano nell'immobilità del sonno e della pietra che anche lì era finito un grande carnevale, quello dei classici: nessuna cassetta spenta che dicesse che li s'erano mangiati i tortelli, ma certe piastre lucide di bronzo a segnare dove si cucinavano bancariamente i milioni: gli stessi gatti che fuggivano coi topi o che cercavano gli amori.
Erano terminati i veglioni: i vetturali avevano frustato i ronzini: gli ubbriachi si sorreggevano l'un l'altro per cadere insieme: le mascherine si erano dileguate….
* * *
O mia lettrice, oggi io vi brontolo nel quarto d'oretta della vostra insidiosissima e stanchissima noia, quando voi, sotto le coltri e il baldacchino e magari la protezione di una Madonna su fondo d'oro, vi provate ad aprire gli occhi per rivedere lì intorno, nella camera da letto, nel disordine d'una battaglia stizzosa, e sul tappeto e sulle seggiole e sui tavoli, la vostra gonna affiorata, una nuvola antica di luci temporalesche, e il vostro busto a cordelle, tutto a schiume di trine, e un vostro guanto a bracciale, ancora colla pienezza rotonda delle vostre polpe, e le calze rosate in avvolgimenti serpentini, e le scarpette Montespan coi tacconi fiaccati dalla danza perversa…. Vi ricordate tutto? Vi ricordate il dono che avete fatto a un povero poeta? Vi ricordate come la vostra mano, sguantata, fosse più flessuosa e confidente e olezzante di muschio?
Siete tornata a casa stamattina alle sette, in una carrozza coi vetri appannati, con una pelliccia di tigre, sui coltroncini imbottiti, con una amica che ciarlava e col marito che taceva: avete fatto una dormitona fino a mezzogiorno, sognando baffi neri e baffi biondi: avete sonnecchiato sino alle due, decisa pei baffi neri: e sino alle quattro, convinta invece pei biondi: e covate sotto, obliqua, come una liopardessa, aspettando caldamente che i botoletti di scuderia abbaino dietro agli staffieri che faranno dondolare sulle dodici molle, trascinandolo fuori dalla rimessa, il gran cocchione pel corso di gala.
* * *
Gli ubbriachi erano stramazzati per la ventesima volta: e le mascherine si erano messe strillare, dileguandosi agli angoli delle vie.
Quaresima! quaresima!—sembrava intonasse il primo campanone del Duomo al di sopra del colpevole silenzio dell'alba; e la sua voce pareva il rimbrotto cadenzato di un nonno certosino che sta allineando una processione che si sbranca e non vuol andare verso le tombe: e le campanelle pettegole di cento campanili sopra i solai deserti si sbatacchiavano ossesse colle ciarle dottoresche delle matrine incuffiate che tormentano i bimbi per l'esame di coscienza.
O santo, o santone, che ci hai a dire col tuo fatidico tuono di bronzo? O prioresse tabaccose, perchè volete guaiolare colle voci dei gesuiti?
I vecchi canonici, piccini piccini sotto l'immenso Duomo, s'avviavano al pieno buio del coro. Le beghinelle, ipocrite per aver la sola età della Madonna o quella di sant'Anna, dondolanti negli androni delle sacristie, lumacavano verso il focherello del braciere.
Quaresima! Quaresima!—continuava il nostro campanone, e quasi pareva che la sua voce, come un enorme calabronaccio, ronzasse in ogni casa, sotto ogni letto di dormiente, nella camera ove un dì era morto qualcuno.—Quaranta giorni per noi: per noi!—ciancicavano le altre pinzochere, e sembrava accorressero, acciabattando, dalle guantaie a strappare le mezze mascherette nere, e nelle sarte a nascondere i ritagli di trine, e ai capezzali dei felici, fugando le visioni e i profumi….
Oh i buoni canonici, nonni senza figli, sugli stalli pontificali, colle armelline del re, si addormentavano, sognando, su le vetriere dei finestroni, le belle scale di Giacobbe che conducono al Dio del perdono. Le arpie senz'amore, zie pel testamento, sulle seggiole impagliate, colle caste mantiglie, si facevano arcigne, immaginando fremebonde, giù per le lastre dei sepolcri, gli orrendi castighi che ci precipitano all'inferno.
* * *
—Perchè sei tanto triste?—sembrava dirmi la prima occhiata di luce che, strisciando fra gli alberi secchi di un giardino, veniva a sbirciare nei vetri del mio studiolo…. Ed io spensi il lume.
Tornando da un veglione, avevo accompagnato a casa una frotta di amici strillanti.
E, solissimo, m'ero dilungato fino ad una siepe d'ortaglia verso un bastione, e poi ad un corso remoto, e poi ai due pilastri di un ossario suburbano.
M'ero chiuso nel mio studiolo: avevo nel fosco del crepuscolo acceso il lume, e cercavo la mia chiave per deporre in un cofanetto antico un lungo guanto a bracciale che odorava di serpente.
Spensi il lume, e, arrovesciatomi sul letto, volli dormire.
Mi volgevo a destra, mi volgevo a sinistra, mi soffocavo contro i guanciali….
Veniva sempre a ferirmi l'orecchio un canto acuto, sonoro, biblico, il canto di un gallo. E dal fondo delle mie memorie, di là dalle mie campagne innocenti, dai primi anni delle mie malattie religiose, ascoltavo come una voce che diceva;—Sei tu? Ricordi le caste mattine primaverili, e l'ultima stella della notte, e il tuo primo pensiero? e la tua prima preghiera?
E mi giungeva all'occhio un chiarore lontano lontano, quasi mistico, in cui si movevano cento figure bianche di ragazze e di monache, e stava fisso un crocione con un'àncora, e genuflessa, come in purissimo tormento, una fanciulla che guardava e che vedeva Iddio.
E mi pareva d'essere in un vasto campo seminato di croci e di fiori, ed io non cercavo nessuna croce e non avevo nessun fiore. Una vecchia, una vecchia mendicante, mi diceva:—Pregate pei morti.—Oh morto mi sentivo io! perchè nell'anima avevo il gran gelo dell'oblìo! E, volgendomi alla terra, supplicavo:—Ditemi voi! Voi siete ben più felici di noi, quando siete ricordati!
E allora mi alzavo dalle coltri, e rompevo la serratura di quel cofanetto antico, per gettarmi sulle mie memorie, per sapere proprio che un dì avevo pianto anch'io, e avevo sperato e avevo creduto!
Il tarlo su quei foglietti ingialliti aveva già fatto cadere dei monticelli di polvere di legno….
* * *
O gentile lettrice, ecco che la vostra cameriera entra nella stanza da letto, e, raccogliendo in una cesta imbottita la vostra gonna, il vostro busto, e le calze e le scarpine, vi domanda:—O-dov'è l'altro suo guanto a bracciale?
—Era tanto sucido che devo averlo buttato per via stamattina,—così rispondete.
Quando la vostra carrozza dava un subito balzo, perchè un ubbriaco attraversava la strada?
Gli amici mi dicono che non ho toccato vino.
È una grande ubbriachezza il dolore!
26 febbraio 1882.
AMBROGIO BAZZERO Pag, I
Parte I 3
« II 53
« III 93
« IV 119
Carta sciupata 143
Omnibus 149
Lo stabilimento dei bagni 153
L'onda 156
Pace 159
Marinai 160
Marinare 163
Idillio 165
Requiem 166
Idillio 167
Fanciulle cantanti 173
Idillio ivi
Fanciulle mestissime 175
Mattina 176
Mezzogiorno 177
Sera 184
Notte 186
Virgo Potens 187
Deserto 194
Lontano lontano 196
Fiaba 198
Vera pace 199
La donna? ivi
I morti? 200
Platonismo? 202
Suicidio? 206
Poesia 212
Genova 217
Fiorellini 230
Notte stellata 231
Stelle cadenti ivi
Al tramonto 232
Barcanera ivi
L'ancora 233
O caro bimbo 234
Convogli 235
L'osteria 237
I montanari 238
Infelicissimo 239
Buona vendemmia! Buon riposo! 240
Dall'Oropa: (lettere all'amica) I 267
Dall'Oropa: (lettere all'amica) II 272
Dall'Oropa: (lettere all'amica) III 279
Dall'Oropa: (lettere all'amica) IV 287
Dall'Oropa (lettere alla Vita Nuova) I 294
Dall'Oropa (lettere alla Vita Nuova) II 317
Sui monti: I 331
Sui monti: II 336
Da Recoaro I 340
Da Recoaro II 345
Da Schio 351
Sant'Anna 358
Il convento di Pontida 363
Fontanella 369
Monti e lago 374
Chiaravalle I 383
Chiaravalle II 388
Natale in famiglia 395
Natale 405
La stella dei Re Magi 415
Quaresima 424
(1) Angelica Montanini, dramma in quattro atti di Ambrogio Bazzero, Milano, 1875, presso l'editore C. Barbini. N. 172 della Galleria teatrale.
(2) Tintoretto, scene veneziane in un prologo e due parti. Milano 1875 presso l'editore C. Barbini. N. 184 della Galleria teatrale.
(3) Il fidanzato di Maria.
(4) Ugo, scene del secolo X, Milano, tipografia di Lodovico Bortolotti
e C., 1876.
(5) Lidia aveva scritto che un'antica promessa la legava a un altro
uomo. (N. del R.)
(6) Parole d'una lettera di Lidia. (N. del R.)
(7) Parole di Lidia sopra un biglietto d'augurio. (N. del R.)
(8) Parole d'una lettera di Lidia. (N. d. R.)
(9) Il Tintoretto, scene veneziane in un prologo e due parti di A. Bazzero, Milano, presso l'editore C. Barbini, 1875, N. 184 della Galleria Teatrale. (N. d. R.)
(10) Parole di una lettera di Lidia. (N. d. R.)
(11) Intanto Lei, signor professore dagli occhiali d'oro, vegga il mucchio dei volumi chi mi sono rubacchiato, per la storia di Genova: Caffaro, Giacomo di Varagine, Giorgio e Giovanni Stella, Gotifredo d'Albaro, Bartolomeo Senarega, Agostino Giustiniano, Oberto Foglietta, Jacopo Bonfadio, Paolo Interiano, Pietro Bizzarro, Filippo Caconi, l'Accinelli….
(12) Intendiamoci. Tra le cose vecchie che per la mia professione di antiquario ho acquistato dagli eredi del parroco di Beverate, provincia di Milano, pieve di Seveso, in un armadio di noce con catenazzo ho trovato n.° 37 filze di confessi per stole nere e bianche, e tra esse un breviario con questo foglio manoscritto, di suo pugno, che lui conservava. Mi dicono che quelle parole inglesi vogliono significare che so io…. una verità, come a dire del Vangelo. Il compianto curato si rese defunto proprio pochi giorni innanzi al Natale dell'anno corrente: mangiava poco: era fiacco e, per dire una sua debolezza, constatata eziandio dal medico condotto in luogo, qualche volta piangeva vedendo i colombi, i passeri, i rampichini, i reatini, ecc., ecc. Aveva 75 anni.
(13) Beda, De Collect. nello Smith, Diction. of the Bible.
(14) Edw. Hayes Plumptre nello Smith, ivi.
(15) Ivi.
(16) Ivi.
(17) Ivi.
(18) Ivi.
(19) Edw. Hayes Plumptre nello Smith, ivi.
(20) Barhæbreus in Hyde, nello Smith, Diction. g.c.
(21) Moroni, Dizion.
(22) Pfeilschmidt e Zwirner, Domhaus von Köln.
(23) Rota, Sepol. dei Magi.
(24) Hammer. Constant.
(25) Moroni, Dizion. g.c.
(26) Spanhein in Dub, Evang., nello Smith, Diction. g.c.
(27) Spanhein in Dub, Evang., nello Smith, Diction. g.c.
(28) Crombach, Hist. Sanct. Magor.
(29) Rota, Sepol. dei Magi, g.c.
(30) Moroni, Dizion g.c. Hartmann, Dissert. hist.
(31) Vos autem, o filii mei, ante omnes gentes ortum ejus percepturi estis.—Abulpharagius, Dynast. Lib. nello Smith, Diction. g.c.
(32) Smith, Diction. g.c.
(33) Beda, nello Smith, Diction, g.c.
(34) Smith, Diction. g.c.
(35) Moroni. Dizion. g.c.
NOTA DEL TRASCRITTORE: =….= rappresenta caratteri greci; [ancora] rappresenta un simbolo rappresentante un'ancora