Title: La montanara
Author: Anton Giulio Barrili
Release date: June 4, 2009 [eBook #29036]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)
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Capitan Dodero (1865). Settima edizione L. 2 —
Santa Cecilia (1866). Quarta edizione » 2 —
I Rossi e i Neri (1870). Seconda edizione » 6 —
Il libro nero (1871). Quarta edizione » 2 —
Le confessioni di Fra Gualberto (1873). Seconda edizione » 3 —
Val d'Olivi (1873). Terza edizione » 2 —
Semiramide, racconto babilonese (1873). Terza edizione. » 3 50
La legge Oppia, commedia (1874) » 1 —
La notte del commendatore (1875). Seconda edizione » 4 —
Castel Gavone (1875). Seconda edizione » 2 50
Come un sogno (1875) Sesta edizione » 3 50
Cuor di ferro e cuor d'oro (1877). Terza edizione » 3 50
Tizio Caio Sempronio (1877) Seconda edizione » 3 —
L'olmo e l'edera (1877). Ottava edizione » 3 50
Diana degli Embriaci (1877) Seconda edizione » 3 —
La conquista d'Alessandro (1879). Seconda edizione » 4 —
Il tesoro di Golconda (1879) Seconda edizione » 3 50
La donna di picche (1880). Seconda edizione » 4 —
L'undecimo Comandamento (1881). Seconda edizione » 3 —
Il ritratto del diavolo (1882) Seconda edizione » 3 —
Il biancospino (1882) » 4 —
L'anello di Salomone (1883) » 3 50
O tutto o nulla (1883) » 3 50
Fior di Mughetto (1883). Quarta edizione » 3 50
Dalla Rupe (1884) » 3 50
Il conte Rosso (1884). Seconda edizione » 3 50
Amori alla macchia (1884) » 3 50
Monsù Tomè (1885) » 3 50
Il lettore della principessa (1885) » 4 —
Lutezia (1878). Seconda edizione » 2 —
Victor Hugo, discorso (1885) » 2 50
Arrigo il Savio.
Il giudizio di Dio.
Il merlo bianco.
1886.
Tip. Fratelli Treves.
Capitolo Primo.
Mandato a confine.
«Illustrissimo Signor Conte,
«Con grave rincrescimento, ma non senza il conforto di vedere evitato un male più grande, annunzio alla Signoria Vostra Illustrissima come il governo di Sua Altezza Serenissima abbia posto gli occhi sui diportamenti del signor conte Gino, di Lei figlio primogenito. Le sue relazioni con persone indegne e non convenienti al suo grado, i viaggi frequenti, uno dei quali fu protratto, come consta a questo ufficio, ben oltre i confini dei prossimi Stati di Parma e Piacenza, e finalmente lo scandaloso episodio della scorsa domenica, nella villa dove il predetto conte Gino di Lei figlio ha osato trarre da un mazzo di fiori sconvenientissime allusioni alla bandiera piemontese, hanno costretto il governo di S. A. S. ad uscire da quei riguardi che il cuore paterno del nostro augusto Signore avrebbe pur voluto osservare.
«La severità delle disposizioni sarebbe stata più grande e meglio proporzionata alla gravità dei trascorsi, se all'animo della prefata Altezza Sua non fosse piaciuto di temperare i proprii e giusti rigori, pensando ai meriti della S. V. Ill.ma, e ricordando com'Ella, da leale e fedelissimo suddito, anche in tempi più sciolti, quali furono quelli dell'infausto 1848, ricusasse costantemente di riconoscere il sedicente governo dei rivoltosi. Egli è per ciò che la prefata Altezza si è degnata di comandare che il conte Gino Malatesti vada a confine a Querciuola, e più non ne esca fino a nuovo ordine, come correzione sua, se è possibile, e come esempio salutare ad altri nobili, che potessero derogare siffattamente al grado loro, e venir meno in tal guisa alla benevolenza del Padrone, da dimenticare in qualche modo il loro obbligo di fedeltà.
«La differenza fra il trattamento usato al predetto suo figlio e quello che toccherà agli altri suoi complici, dimostrerà alla S. V. Ill.ma quanta clemenza alberghi nell'animo del nostro venerato Signore. Disponga Ella pertanto, appena ricevuta questa confidenzialissima lettera, che il figlio suo conte Gino, senza indugio di ore, senza tentar di comunicare con altre persone, o di presenza, o per lettere, sia avviato alla sua destinazione. Non le nascondo che questo ufficio dovrà vegliare dal canto suo all'adempimento rigoroso dell'ordine e delle sue modalità, quali ho avuto l'onore di significarle.
«Colgo l'occasione, illustrissimo signor Conte, per rassegnarle gli atti della mia servitù, ecc., ecc.»
Così il direttore di polizia del duca di Modena, in un giorno del 1857, che non occorre di precisare. La lettera era diretta al conte Jacopo Malatesti.
Il conta Jacopo era un fedel servitore del duca. La madre sua, una Lanzoni, era stata dama d'onore di Maria Beatrice d'Este, ultimo rampollo delle famiglie Cibo ed Estense. Il padre era morto ciambellano del duca Francesco IV. Egli, poi, si era diportato stupendamente nel 1848, poichè aveva voluto accompagnare fino alla frontiera il suo buon padrone Francesco V, quando questi, costretto ad abbandonare la sua residenza ducale, era corso a ricoverarsi sotto le grandi ali dell'aquila austriaca. Ragioni domestiche, prima tra le quali la cura del suo patrimonio, non gli avevano consentito di andare più in là, fino a Vienna; ma, anche ritornato in patria, il conte Jacopo aveva dato un insigne esempio di fedeltà al suo padrone, poichè si era chiuso nel suo palazzo, tenendone chiuse le finestre e le persiane verso la strada, fino a tanto durò la baldoria dei liberali. «Baldoria» era il termine usato da lui. Il palazzo dei Malatesti sorgeva sulla strada maggiore della città; le occasioni di ostentare la chiusura delle finestre erano molte, e per conseguenza erano anche molte quelle di far perdere la pazienza ai liberali. Ma nessuno lo aveva molestato; si era riso alla prima circostanza, si seguitò a ridere per le altre; e voi lo sapete, quando un popolo ride, è un popolo che non rompe i vetri a nessuno. Il conte Jacopo raccolse i benefizi di quelle risate, e potè vantarsi più tardi che i ribelli non avessero osato. Nell'aprile del 1849, prostrate sui campi di Novara le fortune d'Italia, Francesco V era ritornato tra i frementi suoi sudditi, ma con le baionette austriache al fianco, e primo a muovergli incontro, per dargli il benvenuto nei suoi felicissimi Stati, fu il conte Jacopo Malatesti.
Come potesse educarsi tanto diverso da lui il conte Gino, in verità non si riesce ad intendere. Ah, questi figliuoli, questi figliuoli!… come girano nel manico! come vengono su diversi dai padri! Il conte Gino era venuto su un fior di liberale, da una stufa sanfedista! E non si contentava mica di essere un liberale dentro di sè, conservandosi per tempi migliori; no, voleva dare anche scandalo alle turbe. Figuratevi che sdegnava di presentarsi a Corte, quantunque vivesse con uno sfoggio da gran signore, mettesse volentieri in mostra i suoi cavalli e facesse regolarmente le follìe di tutti i suoi pari. Ma che volete? In mezzo a tutte queste grandezze, il liberale a quando a quando scattava fuori, e lo dimostrava sopra tutto una certa smania di discendere, di stringer la mano a tutti, di darsi del tu con avvocatuzzi e mediconzoli, magari anche con commessi di banco: gente inferiore, non conveniente al suo grado, come diceva con sua particolare eloquenza il signor direttore di polizia.
E poi, quel suo viaggiare continuo! Per Bologna, passi, che era negli Stati pontificii; quantunque, avendo essa un certo numero di teste esaltate, si sarebbe piuttosto gradito che il conte Gino si astenesse dall'andarci. Parma e Piacenza, così così! Per che farci, del resto? Veduti una volta a Parma i dipinti del Correggio, a Piacenza i cavalli dei Farnesi, non si dovrebbe più sentire il bisogno di rifare la strada. Già, qualunque sia il movente del viaggio, salvo quello di una stretta necessità domestica commerciale, un suddito che viaggia è in procinto di diventar meno «fedelissimo» d'un suddito che sta fermo. Si prende tropp'aria; l'ossigeno della libertà è pericoloso, senza contare il rischio di tingersi nel carbonio delle idee sovversive. Ma il conte Gino Malatesti aveva fatto peggio che calare a Parma e Piacenza; si era trafugato in Lomellina, e via via fino a Torino, capite? a Torino, dove sventolavano i tre colori, quell'abominio, e dove vivevano liberi, quasi rispettati, tutti i rompicolli d'Italia.
Sicuramente, il giovinotto avrebbe potuto invocare per questa scappata più che le circostanze attenuanti: avrebbe potuto addurre a sua scusa lo aver seguita la marchesa Baldovini, quella bella matta, che aveva una figlia già grandicella, la quale prometteva di diventar così bella anche lei, tanto da parer sua gemella. Era uno dei fiori della generazione passata, la signora marchesa Baldovini, Polissena di nome, e molti vecchi la ricorderanno ancora con un palpito. Nata intorno al 1820, era del 1857 una bellezza matura e stupenda, citata a Piacenza come a Bologna, a Torino come a Firenze, nota insomma a tutta l'Italia superiore per la sua alta galanteria, per il suo matto spendere, per le teste che aveva fatte girare. E giovane sempre, ad onta di tante avventure, che facevano argomentare più anni dei suoi trentasette; e un certo modo di vestire, e un garbo, una baldanza, nel far sue le più stravaganti novità parigine, che non si poteva andare più in là, nè immaginar niente di meglio.
Molti avevano fatto pazzie, o semplicemente sciocchezze, per la marchesa Polissena. Doveva il conte Gino astenersi da quella di accompagnarla fino a Torino, dove la chiamavano alcuni interessi di famiglia? Ella, in fondo, lo aveva quasi rapito. Da principio si era parlato di giungere fino alla frontiera parmense, donde la marchesa avrebbe proseguito da sola il viaggio. Ma là, dopo Piacenza, la capricciosa signora aveva detto a Gino:—Sarebbe bella, se voi veniste fino a Torino.—Ed egli aveva risposto:—Sarebbe anzi bellissima.—E senza permesso era andato oltre, ed era rimasto due settimane, nella capitale dell'aborrito Piemonte. Si possono fare molte cose, in due settimane. Perciò immaginate come fosse pedinato, osservato, invigilato, quando fu di ritorno sotto la giurisdizione della Bonissima!
Colpa sua, questa volta, e non più della marchesa Baldovini: una domenica, essendo andato in villa, presso Reggio, con certi avvocatuzzi e mediconzoli (professionacce, come vedete!) aveva salutato sul finir d'un banchetto i tre colori d'Italia. Quello era lo scandaloso episodio, a cui alludeva nella sua lettera il direttore di polizia. Il brindisi, ispirato da un mazzo di fiori che sorgeva in mezzo alla tavola, includeva i soliti voti di distruzione dell'ordine stabilito. I diritti degli Este e dei Cibo, passati per il matrimonio di Maria Beatrice nella augusta casa di Lorena, erano audacemente negati; la felicità dei ducati di Modena, Massa, Carrara e Guastalla, la sicurezza di Parma e Piacenza, e degli altri Stati contèrmini, la stessa pace d'Europa, tutto era turbato, minacciato da quel brindisi. Un esempio voleva essere, e pronto. Gli avvocatuzzi e i mediconzoli sarebbero andati a meditare nuove combinazioni di colori in fortezza. Gran mercè per il conte Gino, figlio al conte Jacopo, che era figlio di ciambellani e di dame d'onore, personaggio di pura fede e degno di tutti i riguardi, esser mandato semplicemente a confine.
Il nostro giovinotto non ebbe che il tempo strettamente necessario a far le valigie. L'ordine della polizia ducale era chiaro e non ammetteva eccezioni. Ma perchè le valigie le facevano i servitori, il conte Gino ebbe il tempo di ricevere una solenne ramanzina dal conte padre, in presenza della famiglia, radunata nella camera di giustizia, dov'era dipinto, in mezzo a tutti gli stemmi di parentela, lo scudo dei Malatesti. I Malatesti di Modena, come quelli di Rimini, di cui erano una diramazione, portavano lo scudo inquartato: il primo e il quarto di verde, con tre teste di donne, di carnagione, crinite d'oro: il secondo e il terzo d'argento, con tre sbarre scaccate di nero e d'oro, di due file: il tutto con la bordura inchiavata d'argento e di nero.
Quanto a salutare la bella marchesa Baldovini, non c'era neanche da pensarci. Le valigie erano fatte; la carrozza era pronta nel cortile del palazzo; bisognava partire, e subito. Tra le persone di servizio ci potevano essere, c'erano sicuramente, le spie; anche per via la carrozza sarebbe stata invigilata dalle guardie ducali travestite. Tutto ciò che il conte Gino ottenne, fu di passare per il Corso, l'antica via Emilia, dove alloggiava la marchesa, quantunque il Corso mettesse a porta Sant'Agostino, verso Reggio, mentre, per escire da porta San Francesco, sulla via di Toscana, bisognava fare un più lungo giro, con una voltata ad angolo acuto.
Il palazzo Baldovini, nobilissima costruzione del Cinquecento, resa pesante e goffa da certi restauri ed intonachi del Settecento, era muto d'ogni luce, quantunque fossero a mala pena le nove di sera. Non era giorno di conversazione, del resto, e le finestre del salottino, dove Polissena aspettava i più intimi visitatori, guardavano dalla parte del giardino. Il nostro povero eroe sentì uno schianto al cuore, pensando che a quell'ora egli era aspettato lassù. Ma la carrozza tirò via, e il conte Gino aveva ventisei anni: un'età in cui gli schianti del cuore non sono niente più pericolosi dei raffreddori.
Sospirò, nondimeno, uscendo dalla città della Bonissima e allontanandosi Dio sa per quanto tempo dall'ombra materna della sua Ghirlandina, una delle sette più alte torri d'Italia. E il suo sospiro fu così forte, da muovere il servitore che gli faceva compagnia nel viaggio.
—Soffre, illustrissimo?—domandò questi rispettosamente, ma con quell'accento affettuoso e quasi familiare dei servitori del vecchio stampo.
—Sì, Giuseppe, e molto;—rispose il conte Gino.
—È dolorosa,—ripigliò allora il servitore,—dover lasciare da un momento all'altro la sua città, la sua famiglia… gli amici! Perchè Lei, illustrissimo, non avrà avuto tempo a vederne nessuno.
—Figurati! Due ore fa pensavo a questo viaggio, come ci pensavi tu stesso, che non ne sapevi un bel nulla. Ma tu ritornerai domani o doman l'altro; ed io, invece… chi sa quando rivedrò la mia Modena!
—E i suoi amici!—soggiunse Giuseppe.—Se crede, signor conte… se vuole avere un po' di confidenza in me… Ella mi conosce poco, perchè son sempre stato più accanto al signor conte Jacopo che a Lei; ma sono un uomo fidato, e se posso servirla… se ha commissioni da darmi, non dubiti, farò ogni cosa a dovere. La penso come Lei, sa? come Lei, e mi strapperebbero la lingua, piuttosto che cavarmi di bocca un segreto che Ella mi avesse confidato,—
Il conte Gino mise una mano sulla spalla del servitore.
—Bravo, Giuseppe!—gli disse.—E grazie; se occorrerà, metterò la tua amicizia alla prova.—
Ma egli non aveva veramente da confidargli nulla. Con gli amici suoi non c'era ombra di combinazioni politiche. A quei tempi non occorreva neanche cospirare; la rivoluzione era nell'aria; i giovani e i maturi si riconoscevano per via a cert'aspetto più ilare, più baldanzoso di prima, si stringevano la mano con forza, anche quando si vedevano per la prima volta, e non c'era più altro da aggiungere, nè concerti da prendere, nè parole d'ordine da far correre intorno.
Otto anni prima era stata una triste caduta delle speranze italiane. Ma a quella caduta era seguito più dolore che abbattimento di spirito. Anche i principi, i tirannelli, rientrando nei loro dominî sotto la scorta delle baionette austriache, non potevano esser peggio ispirati, poichè gli stranieri, abbastanza tranquilli da prima, erano ritornati burbanzosi e tracotanti; nè solamente trattavano con soldatesca arroganza i ribelli, coloro che avevano osato prender le armi per la «guerra santa», ma anche i pacifici e timorosissimi sudditi, che avevano tremato per le incertezze dei nuovi tempi e veduto con una certa soddisfazione il ritorno degli antichi padroni. Ahimè! Qual compagnia rumorosa e molesta conducevano quei cari padroni con sè! Non era per le vie che un batter di sproni, e un saltellar di sciabole sul ciottolato. I caffè invasi; i quadrivii occupati, contesi al passaggio dei cittadini; da per tutto un vocìo di ordine ristabilito, di armi vittoriose, di birbanti italiani rimessi al dovere. Anche quei pacifici e timorosissimi sudditi erano Italiani, e l'offesa toccava anche loro. Nè il caro ed amato principe si prendeva la briga di reprimere la burbanza de' suoi alleati, quando nei caffè insolentivano con gli uomini, o per le vie mancavano di rispetto con le donne, o nelle botteghe pagavano quel che volevano, se pure non pagavano affatto. Si narra del ritorno degli Austriaci a Milano (veramente, dopo la caduta dell'effimero regno di Eugenio Beauharnais), che un caldo amico dei vecchi oppressori andò incontro ai soldati delle uniformi bianche, e, vedute entrare le artiglierie in città, preso da un impeto di passione, si fece avanti per toccare con le sue dita un cannone. Tanto amore doveva avere il suo premio, e l'ebbe subito dalla bacchetta di nocciuolo di un caporale, che gli levò dal dorso della mano due centimetri almeno di pelle. Bravi caporali, che picchiavate così sodo; bravissimi tenenti, che facevate suonar così bene gli sproni e saltellare le sciabole sui selciati italiani; eccellenti principi, che non facevate rispettare i vostri fedelissimi sudditi, e lasciavate che i vostri felicissimi Stati fossero trattati come territorio di conquista; grazie a voi tutti, dal profondo dei cuori!
Così erano alienati dalla restaurazione gli animi di quei medesimi che l'avevano invocata. Frattanto, il giovane Piemonte reggeva contro le esortazioni e perfino contro le minacce dei consiglieri settentrionali. Generalmente, non s'intendeva come fosse spalleggiato, incuorato a resistere, e pareva strano quell'ardimento di un piccolo Stato che manteneva, unico in Italia, la sua costituzione liberale ed ospitava i fuorusciti, i naufraghi di tutte le rivoluzioni della penisola. Ma già tutti intendevano come da quella diseguaglianza di forme e d'indirizzi, che era visibile tra esso e gli altri Stati italiani, dovessero nascere attriti, malumori, quistioni grosse, e un giorno o l'altro ragioni di guerra.
E poi, quel piccolo Piemonte, che pochi anni addietro aveva dovuto rimettere la spada nel fodero, che aveva dovuto ricevere entro le mura di Alessandria un presidio nemico, sentendo suonare dalla sua musica schernitrice l'inno dei Fratelli d'Italia, quel piccolo Piemonte aveva sollecitamente provveduto a riordinare l'esercito. Un bel giorno, che è, che non è, quel piccolo Piemonte osava mandare ventimila uomini a combattere nella Crimea, accanto agli eserciti di Francia e d'Inghilterra. Le condizioni d'Europa incominciavano a chiarirsi: Francia e Inghilterra da un lato; Austria e Stati minori della Germania dall'altro. Si metteva da questo anche la Russia? Dall'altro si aggiungeva la Turchia. Erano ancora tre contro tre, e il Piemonte nel mezzo, il Piemonte, che, vincendo al ponte di Traktir, accennava di voler crescere ancora, e chi sa, di rifar esso l'Italia.
Questi i fatti d'allora; queste le ragioni per cui non era mestieri di cospirare, la rivoluzione essendo nell'aria, come l'ossigeno. Quind'innanzi non sarebbe più bisognato dare il proprio nome ad una società segreta, ordire focosi disegni di rivolta a giorno fisso, farsi spiare, correr pericolo di tradimenti e d'insidie. Una parola colta a volo, un'occhiata, una stretta di mano e un sorriso, dicendo le comuni speranze, affratellavano i cuori. Che bisogno c'era egli di dire il giorno e l'ora, se l'uno e l'altra erano vicini? Poteva battere da un anno, poteva battere da due; ma a chi aveva tanto sofferto, a chi ricordava tanti secoli di servitù e di vergogna, due anni, tre anni, anche quattro, si potevano aspettare, maturando i propositi della riscossa. Ormai questa non doveva mancare; i giovani di quella generazione sentivano istintivamente che ne sarebbero stati essi i soldati.
Il conte Gino era uno di questi cospiratori, senza giuramento e senza parola d'ordine. A Torino, dove la polizia s'immaginava ch'egli avesse preso accordi con qualcheduno, a Torino egli non aveva fatto altro che respirare un po' d'aria libera. Neanche s'era avvicinato a fuorusciti modenesi o parmensi, che egli, figlio di cortigiani ducali, conosceva solamente di nome. Per altro, aveva passeggiato sotto i portici di Po, dove si confondevano tutte le parlate d'Italia, quasi prenunziando l'unità della patria intorno all'aula del palazzo Carignano; aveva incontrato Giovanni Prati e Giuseppe Revere, i due poeti, i Diòscuri della nuova êra italiana, amati, seguiti, acclamati dalla gioventù pensante e volente; aveva udita la tribunizia eloquenza del Brofferio, e la diplomatica parola, qualche volta impacciata, ma sempre piena di pensiero, del conte di Cavour; aveva veduto per via, riverito universalmente, un re soldato, un re galantuomo, che pareva col mobile sguardo prometter sempre un'alzata di scudi per il giorno vegnente; a farvela breve, nei passeggi, nei ritrovi, nei parlamenti, nelle rassegne militari, dovunque, aveva indovinata la cura operosa dei tempi grossi; sentito quasi l'odor della polvere.
E questo, ritornando a Modena, questo aveva comunicato, senz'aria di mistero, come senz'ombra di millanteria, a giovani della sua età, sebbene, come diceva il direttore di polizia, «non convenienti al suo grado.» Dèi buoni! Quelli erano stati i suoi compagni di studio, i suoi colleghi d'università. Come mai avrebbe potuto egli non considerare uguali coloro che erano stati seduti con lui sulla medesima panca, a sentire le medesime lezioni? Più saggi dei moderni, quantunque niente più fortunati, i tiranni antichi avevano lavorato a rendere la nobiltà ignorante. L'istruzione, a tutti egualmente impartita, accomuna le classi, colma gli abissi e sopprime i confini. Che conti e che marchesi? Queste distinzioni, quando non sono una giunta particolare e naturalissima al nome di famiglie veramente storiche (nel qual caso si potrebbero anche ommettere, senza toglier lustro a que' nomi), non hanno più valore che per le dame, essendo dimostrato che una corona di tre fioroni, o di nove perle, fa ancora un bel vedere sui biglietti di visita e sugli sportelli delle carrozze. Povera feudalità, ridotta ad un semplice ufficio decorativo! Ma siamo giusti, perbacco, e non dimentichiamo che la corona sullodata sta anche bene sulla biancheria, come a dire sui capi delle tovaglie e dei fazzoletti da naso.
Ai suoi buoni amici plebei, compagni d'università e fratelli di fede,
il conte Gino Malatesti non aveva nulla da scrivere. L'offerta di
Giuseppe non poteva dunque favorire la politica. Ma il pensiero di
Gino, svegliato da quella offerta inaspettata, corse subito ad altro.
—Tu, dunque,—diss'egli, dopo un istante di pausa,—mi servirai fedelmente? Ad ogni rischio? E mio padre non saprà nulla?—
Ad ognuna di quelle domande aveva risposto con bella progressione di calore un sì del suo compagno di viaggio.
—Bene;—ripigliò il conte Gino;—tu puoi rendermi un servizio maraviglioso. Non mi hanno permesso di fare neanche un saluto, temendo forse che il saluto nascondesse Dio sa che cosa! Tu dunque andrai domani, o doman l'altro, al palazzo Baldovini, con un pretesto qualunque…. Potresti, per esempio, riportare un libro, che mi è stato imprestato: il Mauprat, di Giorgio Sand, che è per l'appunto rimasto sul mio tavolino. Con questa scusa cercherai di vedere la marchesa Polissena, e potrai consegnarle il biglietto che io ti scriverò alla prima fermata.
—Non dubiti, illustrissimo;—rispose Giuseppe;—farò la commissione a dovere. Anche la signora marchesa,—soggiunse poscia, abbassando la voce,—è della buona causa?—
Gino trattenne in tempo una risata, che già gli faceva impeto alla gola. Ma era buio fitto, e Giuseppe non vide neanche la contrazione dei muscoli.
—Ah!—disse Gino.—È una dama di alto sentire. Tu le darai notizie di me, del modo in cui son dovuto partire da Modena. Forse domani la cosa sarà conosciuta; ma la marchesa deve sapere che io avevo tentato di vederla. Il biglietto, poi, come farglielo giungere?… Se ti frugano, alle porte?… Capirai che un sospetto può nascere….
—Sospetti su me, illustrissimo? Non ne hanno.
—Bravo! E come lo sai?
—Ne ho avuta la prova;—rispose Giuseppe, sospirando.—Si figuri che m'hanno domandato di fare… la spia. Ed io ho ricacciata la mia rabbia in corpo, ed ho lasciato credere che al bisogno avrei anche traditi i miei padroni. Volevano sapere chi bazzica in casa, che discorsi si fanno…. Ed io ho detto tutto; s'immagini; non c'è niente da nascondere.
—Lo credo bene!—esclamò Gino.—Ma è strano, sai! È strano che non si fidino neanche di mio padre.
—Che vuole, illustrissimo? Così è;—rispose il servitore.—Ma io li ho serviti bene, da vecchio carbonaro.
—Carbonaro, tu, Giuseppe?
—A quei tempi, sì.
—E in casa di mio padre?
—Ho sempre fatto il mio dovere, signor conte.
—Lo so, e non parlavo per questo;—disse Gino.—Ti esprimevo la mia meraviglia e nient'altro. Chi lo avrebbe mai immaginato che ci fosse un carbonaro, in casa Malatesti!… E nel Quarantotto, poi, come hai fatto a tenerti in corpo il tuo segreto?
—Amavo la casa, illustrissimo; amavo i figli del mio padrone, che erano cresciuti così belli e fiorenti sotto i miei occhi. Ma anche tenendomi il segreto in corpo, come Ella dice, ho fatto quanto era in me, per servizio della buona causa. Fu bene che avessi nascoste con tanta cura le mie opinioni, perchè, quando venne la restaurazione, nessuno dubitava del vecchio servitore di casa Malatesti, ed ho potuto rendere qualche grosso servizio ai patrioti.
—Bravo Giuseppe! Tu mi parli con una confidenza!
—Signor conte, Ella è dei nostri;—rispose Giuseppe.—Non la mandano in esilio, per questo?
—È vero;—disse Gino, che a quella parola «esilio» si sentiva crescere di qualche cubito nella propria estimazione.—Tu dunque sei per me l'inviato della provvidenza. E mi porterai il biglietto. Ma se ti frugano, laggiù?
—Se mi frugano, non troveranno un bel nulla. Ci son tanti modi di nascondere un pezzettino di carta! Lasci fare a me, signor conte; e nella rivolta della giacca, o nella fodera delle maniche….
—Bene, bene!—interruppe Gino.—Ne parleremo a Paullo. L'essenziale è di far sapere ciò che mi è occorso alla marchesa Polissena.—
L'idea di poter mandare un biglietto alla bella Baldovini calmò gli spiriti esacerbati del conte Gino, il quale finì con pigliar sonno. Quando si svegliò, la carrozza entrava a Paullo.
Il servitore avrebbe potuto accompagnarlo fino a Pievepèlago ed anche fino a Fiumalbo, dove, per andare a Querciola, sarebbe bisognato abbandonare la strada maestra. Ma il conte Gino preferì che Giuseppe ritornasse a Modena, tanto gli premeva di mandar sue notizie alla marchesa Polissena. E là, nell'osteria di Paullo, sopra un foglietto di carta, strappato dal suo taccuino, scrisse pochi versi a punta di matita. Avrebbe potuto scrivere una lettera; ma sarebbe riescita troppo voluminosa, e il vecchio carbonaro non avrebbe saputo dove nasconderla, mentre un bigliettino, convenientemente arrotolato, poteva celarsi da per tutto, anche in una cucitura ribattuta degli abiti.
Il biglietto del conte Gino alla marchesa Polissena diceva brevemente così:
«Saprete il caso che mi è toccato. Mi mandano a confine in Querciola, alle falde del Cimone, fuor del consorzio dei viventi… peggio ancora, lontano da Voi. Ne perderò la ragione; non mi parrà di vivere, fino a tanto non riceverò una vostra lettera. Il portatore di questo foglio mi è affezionato, e in qualunque modo mi farà avere i vostri caratteri. Addio! Mi si spezza il cuore, nel dover scrivere questa triste parola. Speriamo di mutarla in un arrivederci, e presto! Vi amo.»
Suggellò il biglietto, dopo averlo piegato più stretto che potè, e lo consegnò al fido Giuseppe.
—E dimmi,—gli soggiunse,—potrai farmi avere ad ogni modo la risposta?
—Non dubiti, illustrissimo; se una risposta ci sarà, gliela manderò certamente.
—Troverai persona fidata e sicura?
—Troverò tutto; Ella non si dia pensiero di ciò.
—Ad ogni modo, mi scriverai anche tu?
—Sì, illustrissimo; purchè Ella non rida della mia mano di scritto e dei miei errori d'italiano.
—Va là!—disse Gino.—Tu pensi da buon italiano, e questo è l'essenziale.—
Dopo di che, il giovanotto abbracciò il servitore e s'incamminò per la via dell'esilio. Erano le cinque dopo il meriggio, quando egli giunse a Fiumalbo, e salutò la petrosa balza del Cimone, tinta di rosso dai raggi obliqui del sole, che andava a nascondersi dietro l'Alpe di San Pellegrino.
Capitolo II.
I re della montagna.
Il Monte Cimone, alle cui falde era confinato il conte Gino Malatesti, è la più alta vetta dell'Appennino centrale. Duemila centocinquantasei metri sul livello del mare non sono ancora l'altezza del Monte Bianco; eppure il Cimone è debitore a questa sua elevatezza metrica di esser chiamato il Monte Bianco degli Appennini; modesto e generoso Monte Bianco, che per uno o due mesi dell'anno si lascia togliere dalla calva cervice il suo berretto di neve.
Alpestre, poco agevole ai piedini d'una bella signora delle nostre città, è il fianco del vecchio Cimone; ma la sua salita non offre difficoltà all'alpinista che all'ultimo passo, quando occorre, per guadagnarne la vetta, inerpicarsi sul petroso cono formato dalla emersione di alcuni strati del macigno appenninico. Ho detto il petroso cono, e infatti il Cimone presenta da lungi la forma di un cono, rozzamente tagliato, con la vetta spuntata in un pianoro, che ha forse cento metri di giro. A greco il balzo è più scosceso che dalle altre parti, e al piè della roccia, dove incomincia a distendersi il Pian Cavallaro, sgorga la Beccadella, una ricca fonte che basterebbe da sola a far girare la ruota d'un mulino. E quella fonte non è la sola, nè la più alta del monte. Ce n'è qualche altra più in su, verso levante, dalla parte del Cimoncino, con grande meraviglia dei signori naturalisti, a cui, più della salita, riesce arduo di spiegare una così alta origine di copiose sorgenti.
Invito i miei lettori ad una ascesa che non sarà senza compensi. Bolognesi e Modenesi non si terrebbero per alpinisti, se non fossero andati almeno una volta lassù. Le limpide mattinate son rare, pur troppo; ma quando il vecchio Cimone non ha il suo cappello di nuvole, quando sul piano, dintorno a lui, si diradano le nebbie, la veduta è stupenda, dall'Adriatico al Tirreno, dalle Alpi tirolesi, svizzere e francesi, fino alle Maremme e alle isole dell'Arcipelago toscano.
Mentre noi abbiam fatta l'ascensione del monte, il nostro viaggiatore è smontato alle prime case di Fiumalbo. Di là, per andare a Querciola, il conte Gino doveva lasciare la strada maestra e piegare a sinistra, ma per una via meno agevole e con altri mezzi di trasporto. Perciò, consigliato dal vetturino, era disceso davanti alla porta d'un molino, dove una frasca indicava che il mugnaio faceva a ore avanzate anche l'oste, e dove molto probabilmente il nostro Gino avrebbe anche potuto trovare una cavalcatura e una guida per andare a Querciola. Smontato, adunque, e accolto con tranquilla urbanità dal mugnaio, chiese tutto ciò che gli bisognava, incominciando dal desinare.
L'oste mugnaio nuotava nell'abbondanza; ma non aveva lì per lì nulla di pronto. Se il viaggiatore poteva aspettare, egli sarebbe andato a cercare una gallina sul prato, dietro alla casa, e la sua donna non avrebbe indugiato troppo a fargli un brodo conveniente. Ma il conte Gino sentiva gli stimoli della fame, e di una fame da viaggiatore che ha ventisei anni. In pari tempo, sentiva dalla cucina un grato odore di lardo. Il mugnaio cuoceva la minestra per la famiglia. Orbene, e non si poteva mangiar di quella, senza aspettare il brodo di là da venire? Se c'erano delle galline, sicuramente non mancavano le uova. Egli dunque avrebbe sorbito un paio d'uova calde, e magari due paia. Un pezzetto di cacio sarebbe bastato per finire il suo pranzo, che a quell'ora, con quell'aria, e dopo tante ore di viaggio, si poteva chiamar luculliano.
—Se si contenta Lei, facciamo pure così;—disse il mugnaio.—Teodemira, una tovaglia di bucato e una posata al signore. Badi, sono di ottone, le posate.
—Tanto meglio;—rispose Gino.—Sembreranno d'oro.—
La minestra fumante venne in tavola, e il nostro eroe assaggiò la minestra. Era buona, e sarebbe anche stata migliore, se dalla cappa del camino non fosse caduto un po' di fuliggine entro la pentola scoperchiata. Non crediate che il conte Gino la respingesse per così piccolo guaio. L'elegante giovanotto, lo stomaco delicato, che si era già adattato benissimo al condimento montanaro del lardo, si contentò di ritirare con la punta del cucchiaio i grumi di fuliggine galleggianti sulla liquida superficie. Che cos'è infine la fuliggine? Fumo di vivande, condensato lungo le pareti di un camino. Gli antichi, nei loro sacrifizî, in cui erano insieme sacerdoti e cuochi, non offrivano forse il fumo agli Dei?
Mentre il conte Gino attendeva a quella cura, e non senza ridere un pochino del caso suo, un nuovo personaggio entrò nella sala. Era un giovinotto alto e bruno, vestito d'una cacciatora di velluto verde d'oliva; portava le uose di cuoio alle gambe, teneva ad armacollo un bel fucile a due canne, e sulla testa un cappellaccio nero di feltro. Ma questo, da uomo bene educato, se lo levò subito, alla vista del forastiero, scoprendo una capigliatura folta, ricciuta e nerissima.
—Oh, signor Aminta, buon giorno!—disse il mugnaio, andandogli incontro, con atto rispettoso.
—Buon giorno, Gasparino!—rispose quell'altro.—E il grano?
—Per domani, signor Aminta.
—Come? Ancora domani?
—Che vuole? Era tanto! Venga a vedere e si persuaderà.—
Il cacciatore entrò nel mulino, seguendo il mugnaio, e il conte Gino non lo vide più ricomparire nella sala. Stava per finire la minestra, quando il mugnaio ritornò presso di lui.
—Ebbene,—gli disse Gino,—avete pensato alla cavalcatura e alla guida?
—Sissignore,—rispose il mugnaio,—e siamo abbastanza fortunati, perchè il signor Aminta ci pensa egli.
—Chi è il signor Aminta?
—Quel giovane cacciatore che ha veduto poco fa.
—Che, forse dà cavalli a nolo?
—Nossignore, non ne ha bisogno. È il figlio del re della montagna.—
Gino credette lì per lì che il mugnaio gli raccontasse una favola da bambini.
—Caspita!—esclamò.—C'è un re della montagna, qui? E vive nei dominî di un semplice duca?
—Sicuro;—rispose il mugnaio, sorridendo alla celia.—I Guerri si chiamano così, nel nostro paese, tanto son ricchi. Tutto ciò ch'Ella vede dal monte Cimone all'alpe di San Pellegrino appartiene ai Guerri.
—Ah, capisco;—disse Gino.—Perciò li chiamate i re della montagna. E come mai il figlio del re, senza che io abbia avuto l'onore di essergli presentato, si degna di mandarmi una mula e una guida per Querciola?
—Gli ho detto che Vossignoria doveva andare lassù, e il signor Aminta s'è offerto a servirla. Quanto alla presentazione, non ce n'è proprio bisogno. In questi paesi ogni forastiero che arriva è un ospite dei Guerri. La conoscenza, poi, la faranno per istrada.
—Bene!—conchiuse Gino.—Seguitiamo gli usi di questo paese. E datemi le uova, frattanto; non vorrei far troppo aspettare il figlio del re.
—No, scusi;—replicò il mugnaio:—non le posso dar altro. Il signor
Aminta se l'avrebbe a male.
—Perchè? Non devo dunque mangiar altro?
—Per ora no, se non le dispiace. Il signor Aminta è escito per mandare l'avviso a casa sua, dov'Ella troverà assai meglio di quello che può offrirle la nostra cucina.
—Oh diamine! È grossa. Eccomi dunque invitato per forza.
—Qui è l'uso, quando passa un forastiero sul territorio dei Guerri.
—Ma qui, scusate, sono in paese abitato.
—Ha ragione; ma il mulino appartiene ai Guerri.
—Ed io mi trovo sul territorio del re, non è vero?—disse Gino, ridendo.—Ma sapete che è un uso piacevolissimo, e che tutti i re dovrebbero introdurlo nei loro Stati? Ottima istituzione, questi re della montagna! Passa un forastiero, in queste gole, e lo invitano a pranzo. Una volta si usava altrimenti; il forastiero, che si arrisicava in questi passi, era invitato bensì, ma a buttarsi con la faccia a terra, e lo svaligiavano senza misericordia. A proposito, e le mie valigie?…
—Le ha fatte prendere il signor Aminta.
—E per che farne, di grazia?
—Per mandarle a casa sua.
—Di bene in meglio!—esclamò Gino, che non sapeva se dovesse ridere, o andare in collera.
Ma perchè andare in collera, poi? Era venuto a cascare nei dominii d'un re, e quel re non somigliava punto al duca di Modena, suo riverito padrone. Questi lo discacciava, quell'altro lo accoglieva. In una cosa sola si manifestava una specie di analogia tra loro; ambedue facevano quel che volevano, senza consultare l'intenzione dei sudditi.
—Io, per altro,—soggiunse Gino, come ultimo atto di protesta,—debbo andare a Querciola.
—Che ci vuol fare, a Querciola?—disse il mugnaio, crollando le spalle.—È un paesaccio.
—Sia quel che gli pare; debbo andarci e ci andrò;—rispose
Gino.—Mettete che io abbia da farci degli studi.
—In questo caso potrà sempre inerpicarsi lassù ed arrivarci in un'ora di cammino. Ma, come abitazione, si troverà meglio dai Guerri.
—Dai Guerri? Chi sono i Guerri?
—Gliel ho detto poc'anzi: la famiglia del….
—Ah sì, lo ricordo ora, del signor Aminta. Ed anche non ricordandolo, dovevo immaginarmelo.
—Hanno un alloggio molto comodo;—rispose il mugnaio.
—Lo capisco;—disse Gino.—Sarà una reggia, se i padroni sono i re della montagna. E voi mi dite che in un'ora si può andare a Querciola?
—Dalle Vaie, sicuro.
—Le Vaie! Che cosa sono le Vaie?
—Il luogo di abitazione dei….
—Basta, ho capito anche questo;—interruppe Gino, ridendo.—Caro amico, vi ringrazio delle vostre informazioni, che finiscono tutte ad un modo, come i salmi. Non mi resta ora che di pagarvi il conto.
—Perdoni, signor mio;—disse il mugnaio, schermendosi.
—Come? Non si usa pagare il conto, alla vostra osteria?
—Si usa, sì; ma in questo caso…. Ella non ha mangiato che una cattiva minestra…. E poi, il signor Aminta non permetterebbe.
—Ah, per tutti i… re della montagna, ed anche della pianura, questa è grossa davvero. E se io volessi darvi uno scudo….
—Quando Vossignoria lo volesse ad ogni costo…—rispose l'altro, facendo bocca da ridere.
—Ah, finalmente!—gridò Gino, mettendo mano alla borsa.—Ne vinco una io, sul vostro signor Aminta.—
Pagato a quel modo lo scotto, il conte Gino escì dall'osteria, per avviarsi sulla strada che avevano già presa le sue valigie. Quasi sarebbe inutile il dire che lo guidava il mugnaio, poichè egli, ignaro affatto dei luoghi, non avrebbe saputo da qual parte voltarsi.
Passarono sopra un ponte di legno il ruscello che forniva l'acqua al mulino, e di là presero a salire un sentiero largo e sassoso in mezzo ad una boscaglia di cerri, rada nei tronchi, che apparivano grossi e diritti, ma folta in alto, per la diffusione dei rami.
I cerri sono le quercie delle alte convalli, dove il freddo regna più a lungo. Robusti e previdenti, hanno la corteccia più fitta, e le loro ghiande portano il cappuccio lanoso.
Il conte Gino aveva fatto appena un cento metri di strada, quando attraverso i radi tronchi dei cerri vide discendere dall'erta uomini e cavalli.
—To'!—diss'egli.—Una cavalcata. Com'è pittoresca!
—È il signor Aminta che ci viene incontro;—rispose il mugnaio.
—Sempre Aminta!—gridò il conte Gino.—Caro mio, Torquato Tasso dovrà esservi molto riconoscente.
—Chi è questo signore?—domandò candidamente il mugnaio.
—Il padre di Aminta;—rispose Gino.
—Scusi,—replicò quell'altro, sicuro del fatto suo,—il padre del signor Aminta si chiama Francesco.—
Gino diede in una matta risata, e il mugnaio pensò ch'egli fosse matto davvero, volendo sbattezzare il signor Francesco Guerri, per chiamarlo Torquato. Ma rise anche lui, vedendo ridere il suo compagno di viaggio.
Il nostro giovanotto era di buon umore, e la cosa vi parrà singolare, in mezzo a tanti dolori che lo avevano accompagnato sulla via dell'esilio. Ma io già ve l'ho detto, Gino Malatesti aveva ventisei anni. Aggiungete la novità del caso, che lo faceva ospite per forza di gente che non lo conosceva affatto, e che egli conosceva anche meno. E poi, non dimenticate la bella natura, questa regina sempre giovane e lieta, che fa anch'essa ogni cosa a suo modo, e che, dentro la cerchia del suo regno, per un giorno almeno, ha potestà di giocondare gli spiriti.
La cavalcata intravveduta da Gino si componeva di due soli cavalli. Sul primo torreggiava il signor Aminta; l'altro era condotto a mano da un famiglio.
Come fu a venti passi da Gino, il signor Aminta balzò leggero di sella e gli mosse incontro a piedi.
—Perdoni la libertà grande;—gli disse, scoprendosi.—Gasparino le avrà già detto….
—Sì, mi ha detto molto;—rispose Gino.—Ma io non so veramente con qual diritto dovrei dare tanto incomodo a Lei…. ignoto come sono….
—È un viaggiatore: è un ospite;—replicò l'altro, con bella semplicità di parole.
—E non sa ancora il mio nome;—soggiunse Gino, disponendosi a fare la sua presentazione da sè.
—Avrà tempo a dirlo, se vorrà;—disse Aminta.—Gasparino mi aveva accennato che Ella si reca a Querciola, per passarci alcuni giorni.
—Che potrebbero esser mesi;—replicò Gino.
—In quel luogo!—esclamò l'altro.—Ma ci sarà da morire d'inedia.
—Necessità, signor mio!—rispose Gino, stringendosi nelle spalle.
—Rispettiamo la necessità;—disse Aminta, inchinandosi.—Ma non c'è posto per Lei, a Querciola. È un paese di caprai, e non ci son famiglie, ch'io sappia, le quali possano offrirle una ospitalità pur che sia.
—Pure, debbo andarci; sono costretto!—disse Gino, sospirando.
—Ci andrà domani, doman l'altro, quando le piacerà;—rispose il signor Aminta.—Per ora si degni di smontare da noi.
—Non abuserò della sua gentilezza?
—Che dice Ella mai? La nostra casa sarà onorata della sua presenza. Del resto,—soggiunse quel principe ereditario,—che ci staremmo a far noi in queste alte solitudini, se, quando ci arriva un forastiero, non lo accogliessimo a festa? Aggiunga, signor mio, che altrove starebbe peggio che da noi. La vita è dura, tra questi monti, in mezzo ad una gente buona e leale, ma rozza….
—Non mi pare, non mi pare;—interruppe Gino.—Si fermi almeno alle buone qualità, se non vuole aggiungerne delle altre.—
Il signor Aminta ringraziò col gesto, e additò al forastiero il cavallo che era stato condotto per lui. Anzi, per colmo di gentilezza, volle mettersi egli stesso dall'altra parte, per offrirgli le redini.
Gino non aveva bisogno d'aiuti, e lo dimostrò subito, balzando in sella con una grazia di cavaliere perfetto. Nella perfezione del cavaliere c'entrano anche, lo immaginate, i ventisei anni di cui lo ha privilegiato il suo atto di nascita.
Il cavallo di Gino Malatesti era un bel rovano, di larga cervice e di garretti robusti, con due occhioni intelligenti e gli orecchi tesi, che indicavano una serietà di nobile animale, non ignaro della importanza degli uffici a cui è destinato. Gino gli palpò amorevolmente il collo, e n'ebbe in risposta un nitrito di soddisfazione.
—Strano!—diss'egli.—Non mi aspettavo di trovar cavalli, in queste balze.
—Cavalli di montagna, signor mio;—rispose Aminta.—Sono addestrati a correre per i greppi, e son saldi di passo come le mule.—
Aminta era montato in sella anche lui, e andava primo, per insegnare la strada. Così salirono l'erta del monte, e di là dalla boscaglia dei cerri il conte Gino vide una piccola valle, con un'altra costiera, vestita da un'altra boscaglia. Ma lassù, dalle vette dei faggi e delle quercie, appariva un campanile; e accanto al campanile una mobile striscia di fumo indicava la presenza di una casa. C'era abitato, lassù, e i bisogni dello stomaco e quei dello spirito potevano esservi soddisfatti egualmente.
—È là;—disse il signor Aminta, voltandosi al forastiero e additando il campanile.—Fra dieci minuti ci siamo.—
Andando avanti, e girando intorno alla macchia, si scopriva un po' meglio il paese. Là, dietro il campanile, era un ceppo di case, le une a ridosso delle altre, male ordinate e di misero aspetto. Anche la chiesa doveva essere una povera cosa, a giudicarne dal campanile, corto, gobbo e tutto sbrendolato nell'intonaco. Ritornando alle case, d'intonaco non si vedeva pur l'ombra; erano tutte murate a falde di macigno, ed apparivano così nere, da lasciar credere che tra pietra e pietra non fosse stata neanche messa la calce. Un po' meglio in assetto era la via che conduceva all'abitato, e questa parve a Gino una buona testimonianza della cura che i re della montagna avevano dei loro cavalli.
All'ultima svolta della strada gli si mostrò finalmente la chiesa, in tutta la sua maestà decaduta. Il finestrone della facciata aveva avuto in altri tempi una cornice di stucco, e certamente un cornicione doveva aver collegato il timpano alla gronda del tetto; ma cornice e cornicione erano spariti da un pezzo. Anche il muro, nella parte superiore, era tutto scrostato; solo nella inferiore, accanto alla porta d'ingresso, durava ancora ne' suoi contorni di rosso mattone un san Cristoforo seduto, col bambino Gesù posato sulla sua spalla destra, e con la mano levata. In atto di benedire i popoli, o di prendere al Santo una ciocca de' suoi capegli rabbuffati? Il pittore aveva lavorato in modo da lasciar adito a tutt'e due le supposizioni, e magari ad una terza. O san Cristoforo delle Vaie! nobile tipo di taglialegna, certamente copiato sulla faccia del luogo! Voi eravate enorme, come vuole la leggenda. Bontà vostra, che restavate seduto (o inginocchiato, non rammento più bene); se no, sfondavate con la testa la gronda del tetto.
Il Gino ammirò san Cristoforo e tirò via, seguitando il compagno. La via, rasentando il fianco della chiesa, si faceva più stretta, poichè sorgeva dall'altra parte una casetta di due piani, fatta a capanna, con una piccola scala all'aperto. Sull'ultimo gradino di quella scala era seduto un prete, magro ed ossuto, che portava in testa, scambio del berretto a tre spicchi, una papalina di velluto nero, e se ne stava là in osservazione, beatamente traendo boccate di fumo da una vecchia e corta pipa di Gessèmani.
—Don Pietro, buona sera!—disse il signor Aminta passando, e levandosi il cappello.—Viene da noi?
—Dopo cena, sicuramente.
—Perchè non prima?
—Caro Aminta, la pentola è al fuoco, e non bisogna mancarle di riguardo. Poveraccia! È quella di tutti i giorni, e un sentimento di gratitudine comanda di esserle fedeli. Non vi pare?
—È giusto, è giusto;—disse il signor Aminta.—A più tardi, dunque; e buon appetito.
—Non manca mai, quello! Altrettanto a voi e al vostro compagno di viaggio.—
Così dicendo, Don Pietro si alzò a mezzo, levandosi la sua papalina dal capo.
Gino rese il saluto, e disse frattanto in cuor suo:
—Ecco qua: noi ci lagniamo di dover vivere nelle nostre città capitali, che hanno il grave torto di non rassomigliar tutte a Parigi. E qui, e in tanti luoghi consimili tra i monti, vive un popolo industre e buono, che si contenta de' suoi villaggi appollaiati sui greppi, nè sembra accorgersi che le sue abitazioni sono catapecchie e stamberghe. Anche qui ci sono i ricchi, i potenti, e si adattano al modesto costume dei padri loro. Non manca neppure il re, e questo re della montagna molto probabilmente non possiede le querci per sedercisi sotto, a render giustizia, ma per tagliarle via via e mandarle ai lontani cantieri. Qui non saranno ricercatezze di cibo, non salse, non intingoli; ma pezzi di cinghiale, uccelli di passo, quarti di bove o d'agnello, arrostiti all'omerica, e magari serviti in piatti di argilla, su d'una tovaglia di canapa. Ma che importa? Sono felici egualmente.—
Così andava almanaccando, e gli ricorrevano alla mente i bei versi di
Bernardo Tasso, intorno alla vita campestre:
O pastori felici,
Che d'un picciol poder lieti e contenti
Avete i cieli amici,
Nè di mar paventate ire o di venti!
Noi vivemo alle noie
Del tempestoso mondo ed alle pene;
Le maggior' nostre gioie
Ombra del vostro bene,
Sono di fiele e d'amarezza piene.
Questo è su per giù il ragionamento che tutti fanno, quando, sottratti al fascino delle città rumorose, si trovano al cospetto della santa natura. Non bisognerebbe per altro che la cosa durasse! A buon conto, Gino Malatesti ricordava tutte queste belle cose, per conchiudere che i re della montagna dovevano vivere anch'essi maluccio.
Il suo monologo fu interrotto dalla fermata del signor Aminta. Quaranta o cinquanta passi più su dalla chiesa e dalla canonica che vi ho descritta, sorgeva la casa, o, per dire più esattamente, il ceppo di case che Gino aveva veduto da lungi, sovra il colmo dell'erta. Erano parecchi tetti raccolti in pittoresco disordine attorno ad un tetto più alto. La fabbrica di mezzo, la più grossa, senz'essere niente più intonacata delle altre, manifestava certe sue pretensioni signorili, nell'ordine doppio e abbastanza regolare delle finestre, come nelle persiane verdi del pian di sopra, che contrastavano allegramente con le mura nerastre e con le rappezzature del tetto.
Il signor Aminta era smontato da cavallo, davanti ad un portone, o piuttosto ad un grand'arco, aperto a guisa di breccia nel muro. Sotto quell'arco profondo era un andito, mezzo occupato da cinque o sei scaglioni di pietra, che non andavano mica diritti, ma giravano un pochino di sbieco, fino ad un pianerottolo, fiancheggiato da due tozze colonne, unico sfoggio architettonico di quella costruzione, evidentemente fatta in più tempi. Tra le colonne era un uscio spalancato, che lasciava vedere le pareti affumicate di una larga anticamera.
—Ci siamo;—disse il signor Aminta al suo ospite, che era smontato da cavallo egli pure.—Chiuda gli occhi, per altro.
—Li terrò bene aperti, anzi, per vedere una casa ospitale;—rispose
Gino, sorridendo.
E saliti quei cinque o sei scaglioni di pietra, entrò, seguendo il signor Aminta, nella vasta anticamera, dove non era che un grosso camino contro la parete, e davanti al camino una panca a semicerchio, col suo schienale alto, per ripararla dall'aria di fuori. Là, nelle sere d'inverno, e, dato il clima del luogo, anche in quelle di primavera e di autunno, dovevano raccogliersi intorno alla fiammata i re della montagna, coi loro famigli e con qualche viandante intirizzito. Nè sedie, nè altri arredi, si vedevano là dentro. Unico lusso, e certamente di altri tempi, una fascia di pietra che correva intorno alla cappa del camino, recando una leggenda scolpita a grosse lettere: «Dalla guerra alla pace» e uno scudo nel mezzo, alla spada rizzata in palo, con la punta abbassata.
—Avanzi di pretese nobilesche!—pensò Gino, vedendo lo scudo, ma non avendo tempo di leggere il motto.
Il signor Aminta, che fino allora lo aveva preceduto, gli faceva cenno di passare in un'altra stanza, più piccola, ma più arredata della prima. Il nostro giovanotto vide una tavola di querce appoggiata al muro, e alcuni seggioloni con le spalliere e i sedili di cuoio; roba antica, se volete, ma non elegante. Di là il nostro Gino fu fatto entrare in una terza stanza; e questa era una piazza d'armi senz'altro. Anche là si vedeva il camino, con la sua cappa alta, di pietra serena, scolpita a fogliami, e la leggenda che sapete e lo scudo che conoscete, ma questa volta dipinto, la spada d'argento e il campo d'azzurro.
Gino diede una guardata all'intorno, ed ebbe argomento a mutare un pochino la sua prima opinione. Aveva veduta anzitutto, nel mezzo della sala, una lunga tavola da pranzo, capace almeno di trenta posti. Era una tavola di querce, inverniciata a dovere, come si vedeva dai piedi lavorati al tornio, poichè la lastra era ricoperta da un gran tappeto rosso, listato d'un fregio nero. Dalle pareti pendevano alcuni vecchi quadri a olio, con ritratti di famiglia, non eccellenti forse come opere d'arte, ma con le loro cornici intagliate e dorate a fuoco. Dove non erano quadri, sorgevano da terra scaffali di libri, che attrassero tosto l'attenzione del viaggiatore. Strana cosa, là dentro! Erano tutte edizioni moderne, volumi rilegati di marocchino, e, dando un'occhiata ai titoli, il conte Gino riconobbe poeti e prosatori italiani, antichi e nuovi, insieme con opere francesi, inglesi e tedesche, nel loro testo originale.
Questa fu la gran maraviglia di Gino, e gli strappò un grido dal labbro.
—Poca cosa!—disse il signor Aminta, accostandosi.—Non siamo abbastanza provveduti, in materia di libri.
—Come?—gridò il forastiero.—Ci hanno….—E qui voleva dire:—Ci hanno assai più di noi, ad onta dei quattromila volumi che ingombrano la nostra biblioteca.—
Infatti, la libreria dei conti Malatesti era stata messa insieme da un prozio vescovo; archeologia sacra e teologia, in gran parte, e non era stata più accresciuta nè completata. Là, invece, nella libreria dei Guerri, c'era in quattro cinquecento volumi il fiore di quattro letterature.
Perciò il conte Gino terminò la sua frase, dicendo:
—Ci hanno tutta roba moderna, e mostrano di aver familiari le lingue estere.
—Ah sì!—disse il signor Aminta.—Ma non creda che le abbia familiari io, queste lingue. Faccio molto a sapere il mio italiano, e un po' di francese, che non ho mai occasione di parlare.—
Gino voleva chiedere chi fosse, in famiglia, che sapeva, oltre il francese, il tedesco e l'inglese. Ma, da persona bene educata, si astenne dal domandare quello che il suo interlocutore non aveva creduto opportuno di dirgli.
Frattanto, nel voltarsi a guardare intorno, ebbe un altro argomento di maraviglia; un pianoforte, niente di meno, un pianoforte a coda, ed anche della fabbrica di Erard, se non vi dispiace di saperlo. Al conte Gino, che si era avvicinato per dare un'occhiata alla scritta, non dispiacque davvero.
Come avrete veduto da questo scampoletto di descrizione, la sala era da pranzo e serviva di salotto e di biblioteca ad un tempo. La sua ampiezza giustificava benissimo quella moltiplicità di destinazioni.
Gino, dopo aver guardata la scritta, si era arrisicato a sollevare il coperchio, e stava arpeggiando con le dita sulla tastiera, quando un uscio si aperse ed entrò nella sala il signor Francesco, il padre di Aminta, il vero re della montagna, bel vecchio dalla barba bianca, dall'aspetto grave e buono, per consuetudine malinconico, ma che sapeva sorridere d'un sorriso dolce e tranquillo come il suo occhio azzurro e come la sua voce di tenore baritonato. Eravamo davanti al pianoforte, e questo accenno al registro vocale non vi parrà fuori di luogo.
Anche il signor Francesco Guerri fu molto cortese con l'ospite, anch'egli sfuggì l'occasione di sapere chi fosse. Evidentemente, quello era un uso di lassù: forma di galateo montanaro che non è senza grazia, sebbene non vada esente da qualche piccolo guaio. Sapere chi si accoglie, lo riconosco ancor io, non salva sempre il padrone di casa dal pericolo di farsi portar via le posate; ma è chiaro che dove c'è l'uso di accoglier tutti con eguale cordialità, senza domandare il suo nome a nessuno, il pericolo che la gente abusi della vostra ospitalità non sarà punto scemato. Nè un padrone di casa può essere così certo del suo occhio, da riconoscere a prima vista la gente di cui debba fidarsi, poichè le apparenze ingannano. I carabinieri, a buon conto, in certi luoghi ed occasioni, usano la precauzione lodevolissima di domandarvi le carte.
Il signor Francesco, dopo i complimenti consueti, introdusse l'ospite nella camera a lui assegnata. Era piccola, o, per dir meglio, appariva piccola a chi veniva allora da quella gran sala, ma c'era tutto il necessario per viverci bene. Il letto era a baldacchino, con le sue brave cortine di damasco, e il conte Gino osservò che aveva sul copertoio un grosso e soffice cuscino di piume.
—Le notti son fredde, tra questi monti;—disse il signor
Francesco.—Ma speriamo che Ella non ci si ritroverà troppo male.—
Gino si era maravigliato nella sala, e si maravigliò ancora nella camera da letto, vedendo quel lusso, antico ma sodo, ed anche certi graziosi nonnulla, come lavori di lana e ricami all'uncinetto, che facevano pensare al Journal des Demoiselles ed ai suoi esemplari d'opere femminili, tanto preziose nell'arredamento di una casa.
—Ah, ah!—diss'egli tra sè.—Qui c'è la mano di una donna.—
E quella camera, da prima, e tutta la casa di poi, e i luoghi circostanti s'illuminavano, agli occhi della sua mente, d'una poetica luce.
Questo fenomeno occorse la prima volta nel settimo giorno della creazione. Almeno, così dicono i poeti, che sono stati da per tutto, anche a latere del Padre Eterno, nel periodo delle grandi novità. Gli alberi frondeggiarono ad occhi veggenti, gli uccelli fecero il verso d'amore nel bosco, i fiorellini sbocciarono dal prato; Adamo, poi, si svegliò in soprassalto, e disse…. Che cosa disse Adamo? Sicuramente egli deve avere incominciato da una esclamazione, da una invocazione all'Altissimo; verbigrazia da un: «Dio…. misericordioso!» invocazione che fu il principio e l'esempio di tutte le altre, venute poi, nell'ordine progressivo dei tempi.
Ah, donne gentili, siete voi il tormento e la consolazione. Con voi si può vedere la luna in pien meriggio, ma senza di voi c'è buio a tutte le ore del giorno. La vostra presenza, a buon conto, reca la grazia nella conversazione degli uomini, o quanto meno l'obbligo di evitare certe locuzioni improprie con cui l'uomo dimostra ed afferma la sua indipendenza nel consorzio incivile. Dove voi siete, egli si studia di parer più garbato, e qualche volta ci riesce; ad ogni modo, bisogna tenergli conto dell'intenzione, vedendolo star sulla vita, ravviarsi i capegli, arricciarsi i baffi, tirar fuori dalle maniche e mettere in mostra i polsini della camicia, fare insomma tutti quegli atti, leggermente e graziosamente scimmieschi, per cui egli accenna il desiderio di piacere.
M'è occorso ieri (scusate la parentesi) di fare un piccolo viaggio. Eravamo tre uomini, nella carrozza dei fumatori, e ne capitò all'ultim'ora un quarto, un giovinotto bello come il Fauno di Prassitele, che appena entrato s'impossessò del suo sedile e dei due posti che c'erano, accomodandovi le membra per dormire, e puntando i suoi delicatissimi piedi contro il bracciuolo di mezzo. Mezz'ora dopo non gli bastavano più i due posti; alzò una gamba e sconfinò sul mio territorio, posandomi sulle ginocchia una scarpa, che fui costretto a prendere con due delicatissime dita, per ricondurla ne' suoi legittimi confini. Avrebbe egli fatto così, se io fossi stato una graziosa signora? Si sarebbe egli pure accomodato a dormire? Dèi immortali, mi parrebbe già di vederlo, ritto sulla vita, tirarsi su i baffettini, aggiustarsi il nodo della cravatta, lanciarmi occhiate assassine, spiando l'occasione di entrare in discorso, e fors'anco entrandoci senza aspettar l'occasione. Certamente, sarebbe diventato molesto, ma ad un altro modo; perchè proprio è così, noi siamo una razza noiosa come le mosche, e il senso della misura ci manca, così nel bene come nel male.
Come io tengo a bada voi con le mie chiacchiere, così il signor Francesco, il re della montagna, aveva tenuto a bada il suo ospite, descrivendogli per sommi capi la vita che si faceva tra quelle gole alpestri, e dandogli di passata un'idea dei lavori a cui si può attendere utilmente, nel taglio ragionevole dei boschi e nell'ingegnosa combinazione delle serre. Gino s'innamorò delle serre, e promise a sè stesso di andare un giorno a vederle, quelle poetiche chiuse di lastroni e di legna, che fanno pescaia alle acque e ricettacolo ai tronchi galleggianti, per lasciarli poi, a cateratta dischiusa, precipitare affollati in un serbatoio inferiore, e così via, di pescaia in pescaia, fino ai grandi depositi della pianura. Il nostro giovanotto non conosceva quelle industrie montanare; ignorava che lassù ci fossero costumanze e fatiche così selvaggiamente poetiche come quelle dei pioneers americani. Ma gl'Italiani ignorano molto, in Italia, e non è colpa loro, perchè l'ignoranza incomincia dalla scuola.
A un certo punto della conversazione, apparve il signor Aminta sull'uscio e fece un gesto a suo padre. Allora il signor Francesco disse al suo ospite:
—Signor mio, le abbiamo fatto aspettare un po' troppo il suo pranzo. Ma Ella ci scuserà, perchè non era la nostra ora, così che siamo stati colti alla sprovveduta.
—E mi rincresce del loro incomodo;—disse Gino.
—No, nessun incomodo;—ripigliò prontamente il vecchio, non lasciandogli il tempo di proseguire.—Per noi questa è la cena. L'anticipiamo un pochino, quest'oggi, come Ella ha dovuto ritardare il pranzo. Gli uomini,—soggiunse il signor Francesco,—debbono trovar sempre il modo di andare d'accordo, e non ci riusciranno, io credo, senza qualche concessione scambievole. Non le par meglio così, che star fitti nel proprio uso e nella propria opinione?—
Gino rise e approvò largamente. Non era più luogo da complimenti e da scuse, davanti ad un ragionamento così semplice e così largo ad un tempo.
—Mi permetta almeno di cambiar abiti;—diss'egli, che aveva vedute le sue valigie deposte in un angolo.—È affar di cinque minuti.
—Per che fare?—rispose il signor Francesco.—Ella è molto bene, così, e ci farebbe torto a volersi mettere sulle cerimonie. Via, ci contenti, e venga com'è.—
Gino si acquetò, vedendo che la miglior cerimonia era lì per lì l'obbedienza. E il signor Francesco, presolo amorevolmente per il braccio, lo condusse verso l'uscio.
—Mi permetta allora,—riprese Gino, che aveva sempre bisogno di qualche cosa,—mi permetta allora di dirle il mio nome.
—Poi, poi!—interruppe il vecchio.—Ci sarà sempre tempo. Ella è una persona garbata, e noi non avremmo merito nel riceverla, se non conoscessimo il cavaliere all'aspetto.
—Pure,—ripiglio Gino,—sarei tanto lieto di dirle il mio nome. Per obbligo di reciprocità;—soggiunse.—So infatti che Loro son Guerri.
—Bene, si consideri per oggi un Guerri anche Lei, un fratello minore, un figlio della famiglia;—replicò il signor Francesco.—Le dispiace, forse?
—No, davvero, e quando è così non parlerò più del mio nome, neanche domani;—disse Gino sollecito.—Son Gino Guerri, adunque. È un bel nome; suona bene!—
E rideva, il giovanotto, ed entrò ridendo nella gran sala, dove in quel frattempo era stata apparecchiata la mensa.
Qui, se io sapessi di esser letto da gente digiuna, amerei descrivere la tavola e le dodici, proprio dodici, qualità diverse di principii che facevano bella mostra di sè nei piattellini disposti in ordine, a destra e a sinistra di un vaso antico di Faenza, che torreggiava nel mezzo, pieno riboccante di fiori. Gino ammirò quello sfoggio, che dalle olive di Lucca andava fino alle sardelle di Nantes, passando per le acciughe della Gorgona, e che dalle polpettine di cipolla e prezzemolo, in salsa di capperi, si arrisicava fino alle altezze squisite del salmone rosato di Nuova York, passando per tutte le conserve, distinte di tanti nomi, del tonno di Sardegna, che ha certamente i suoi pregi. Pensate pur male di me, povero narratore, che vi sembrerò un ghiottone, ma non pensate male del mio eroe, che ammirò lo sfoggio della quantità, senza fermarsi ai particolari, e che volse subito la sua attenzione al vasellame. I piatti di mezzo, i tondi o le scodelle dei posti in giro, erano tutti di vecchia maiolica, e portavano tutti dipinto nel centro lo scudo dei Guerri, con la spada in palo e con la leggenda che sapete. Il finimento apparteneva per lo stile dell'opera alla prima metà del secolo scorso, e i gialli vivi e gli azzurri spersi, e la ricchezza degli ornati, dicevano chiaramente che quel vasellame era uscito da una delle migliori fabbriche di Romagna.
Gino ammirava ancora, abbracciando con l'occhio tutta quella ricchezza ceramica, quando dall'uscio di rincontro apparvero due signore.
—Ah, ecco le nostre donne!—disse il signor Francesco.—Ora Ella farà un po' di conoscenze in famiglia.—
La prima che si avanzava era un bel tipo di donna attempata, coi capegli brizzolati, ma la carnagione ancor fresca e lucente.
—Mia sorella Angelica;—ripigliò il signor Francesco.—Ella fa qui da padrona di casa, poichè i miei figli hanno perduta la madre.—
E sospirò, il re della montagna, mentre Gino salutava.
La seconda che veniva verso di lui era più giovane di qualche anno, bruna, dall'occhio ardito, dalle labbra tumide, indizio di bontà.
—Mia cognata Olimpia;—disse il signor Francesco.—Suo marito, mio fratello secondogenito, verrà forse più tardi. Egli è alla serra, e non c'è stato il tempo di farlo avvertire. Un altro mio fratello, il più giovane di tutti, quasi giovane come il mio Aminta, non verrà, perchè vive lontano da noi, a Sassuolo, per ragion di negozio.—
Gino salutava i presenti, e accennava del capo agli assenti. Gli pareva strano, frattanto, che gli altri fossero presentati a lui, ed egli a nessuno. Ma lassù comandava un galateo diverso, l'antico. Nelle nostre case moderne i padroni sono altrettanti piccoli principi, a cui bisogna far riverenza; nelle vecchie, o dove gli usi son vecchi, principe è l'ospite, e a lui son rivolti gli omaggi di tutti.
Mentre egli pensava, un'altra figura di donna apparve nella sala.
Capitolo III.
Tra l'Ariosto e il Tasso.
Figura di donna, ho detto, e aggiungerò di donna giovane, quantunque lo avrete già argomentato da certa disposizione di effetti, che del resto è proprio casuale, e perciò senza merito mio. Quella giovane donna veniva ultima nella sala da pranzo, perchè era l'ultima di fatti nell'ordine gerarchico della famiglia e in quella legge della precedenza, che non è solamente a Corte, ma si ficca un po' da per tutto: perfino, che vi dirò?… perfino in un branco di pecore. Ma che importa esser gli ultimi, per certi rispetti, se per altri ed essenziali si può essere i primi? Quella figura di donna, apparsa ultima nella sala, fu facilmente, trionfalmente la prima, agli occhi del conte Gino Malatesti.
Come, direte voi, già a questi punti? Nossignori, non c'è già che tenga. È permesso di ammirare, anche senza cadere innamorati sul colpo. E poi, queste son sottigliezze che vanno lasciate in disparte. In ogni ordine di cose c'è quel che si vede, e quel che si guarda; che ci possiamo far noi? L'ultima di casa Guerri era di quelle che si guardano.
Vorrei descriverla; ma le descrizioni sono così poco efficaci! S'infilzano parole l'una a fianco dell'altra, si girano frasi, si rigirano periodi, si riesce a far della prosa robusta, desolazione ed abominio dei popoli. La descrizione, checchè faccia, non sarà mai la pittura. Nondimeno, anche nei passaporti c'è il desiderio di dipingere in qualche modo, e nessuno ignora che in una descrizione qual si sia, certi tocchi particolari hanno la virtù di richiamare alla mente del lettore una immagine piuttosto che un'altra. Quando, ad esempio, si dice capegli biondi, capegli rossi, vengono subito agli occhi due tipi distinti di carnagione, il bianco fino e pallido, o il bianco vivace e lentigginoso. Se vi dicono capegli castagni, la carnagione vi si offrirà subito agli occhi d'un bianco traente al bruno, non senza riflessi dorati; se vi dicono capegli neri, d'ebano, o d'ala di corvo, vedete prontamente una carnagione alabastrina e perlata. Così, per via di naturali richiami e associazioni d'idee, il povero narratore si aiuta.
Or dunque, non per voler descrivere, e molto meno per gareggiare con la pittura, vi pregherò d'immaginare una figura di donna piuttosto alta, snella, ma dal fianco prominente, su cui si disegna con castità medievale ed incomincia ad abbozzar le sue pieghe una veste di lana colorita a larghi quadri scozzesi. La vita risale tutta chiusa fino alla radice del collo, donde esce e biancheggia una piccola gorgiera di mussolina; le maniche, strette fino ai polsi, vi fanno sentire la greca modellatura delle braccia. Nel complesso, eccovi una figura di giovane castellana, a cui non manca che la borsellina di seta, pendente da una cintura molleggiante di cuoio, per darvi l'illusione perfetta.
Le mani son belle, e guai se non lo fossero, uscendo da quelle maniche così strette. Il volto è di contorno romano, ma con lineamenti raffinati, raddolciti dall'espressione moderna. Le sopracciglia son nere, diritte, segnate senza fiacchezza, ma altresì senza le esagerazioni del classicismo di seconda mano, e di sotto a quelle sopracciglia gli occhi grandi sfavillano nerissimi, circonfusi di una luce bianca azzurrognola. Nel naso profilato, nelle labbra di vermiglio pallido, sottili di forma e a mala pena incurvate sugli angoli, nel mento pieno e risentito, nella rotondezza eretta del collo, il moderno antropologo vedrebbe una grande fermezza di volontà, come nell'orecchio piccino e nella vivacità dello sguardo una rara delicatezza di sentimento. Ma che dire della carnagione, che è pregio essenziale nella bellezza femminile, tanto che senza di questo la medesima purità dei contorni si riduce ad un accozzamento di linee, felice sì, ma spietatamente geometrico? La dicono bianca come la neve, sì, per seguitare l'usanza; ma come la neve, quando il primo raggio di sole la tinge di rosa sulla vetta di un'Alpe. E questo, ancora, è l'effetto da lontano; per descrivere la cosa veduta da vicino bisognerebbe chiedere i paragoni alla superficie interiore di certe conchiglie orientali; donde per altro si avrebbe l'idea di una durezza vitrea, laddove sarebbe necessario rendere l'impressione del delicato, del pastoso e del morbido.
Lettori, badate a me, qui si va fuori di strada. I nostri vecchi non avevano tante sfumature di discorso, e quando vedevano una fanciulla sul far di questa, sgranavano tanto d'occhi, esclamando: «Dio… misericordioso, che bel tocco di ragazza! che occhio di sole!» Ciò è volgare in parte, e in parte sbrigativo, lo so, ma per contro è sincero. Ed una bella esclamazione, che dica lì schietto schietto il senso fatto su di noi dalla vista di una bella persona, val più di tutti gli artifizi del discorso, di tutte le ricercatezze della parola, di tutte le capestrerie della frase.
I capegli della fanciulla, lo avrete già indovinato per la solita associazione d'idee, erano neri nerissimi; ed anche lucenti, riccioluti, come quelli del suo fratello Aminta. Ma se ne vedevano pochi, di quei capegli maravigliosi, poichè il loro volume era imprigionato in un gran fazzoletto di seta, rigirato a casco dalla fronte alla nuca. Vi parrà una moda strana, ma il costume dei monti in cui siamo vuol proprio così. È un costume antico, se permettete, e s'accorda con ogni forma d'abbigliatura. Quando la testa è ben formata, e ricca la capigliatura imprigionata là dentro, vi par di vedere Minerva, con quel suo elmo ateniese, che tondeggia sul collo e fa punta sulla fronte, lasciando libere a mala pena due ciocche di capegli che scendano dalle tempie ad accarezzare le guance e a coprir mezzi gli orecchi.
Bellezza, tu sei veramente la cosa più maravigliosa, il bene più invidiabile che al mondo sia; nè l'ingegno ti vale, nè la ricchezza ti agguaglia. Tu sei la forma divina che l'uomo intravvede, poichè nell'interno d'ogni uomo c'è il principio d'un artista, che si svolgerà o non si svolgerà, poco importa, ma che riconoscerà, sentendola quasi istintivamente, una legge d'ordine e d'armonia, la quale è da per tutto, ma in nessun'altra cosa si estrinseca meglio e s'incarna, che in una figura di donna. L'ingegno, lo so, potrà celebrarti degnamente; ma che serve? Tu sei egualmente, e puoi stare senza inni di poeti, avendo le adorazioni d'una moltitudine che ti sente e s'inchina. La ricchezza, so anche questo, può coprirti di diamanti. Ma son proprio necessarii i diamanti? Non lo erano per esempio alla fanciulla dei Guerri.
Infatti, lettori, ecco qua un punto per cui la nostra eroina non somiglia a tante altre. Ci sono delle bellezze a cui stanno bene gli ori e le gemme; delle altre, invece, che con questi amminicoli non s'intenderebbero più. Gli antichi Greci diedero i pendenti di tre gocce agli orecchi di Giunone, non agli orecchi di Venere, e meno ancora agli orecchi di Minerva. Certe armonie delicatissime di forma non sopportano frastaglio d'ornamenti; certe sfumature di tinta, pari alle tenerezze giovanili dell'alba, sarebbero oppresse da tutto quel luccichìo di brillanti, che fa un po' troppo ricordare i pendagli cristallini dei lampadarii nelle feste da ballo. Ah, le bellezze di un collo semplicemente vestito del suo candore e della sua morbidezza! Signore mie dolci, seguite il consiglio di un ignorante; lasciate il collare ai cani, agli uomini politici e alle bocce d'assenzio di Neufchâtel. Quanto agli orecchini, pensate che un bell'orecchio piccino e trasparente, vale tutti i brillanti dell'India e del Capo, e che il non averlo neanche forato, come può fin d'oggi dimostrare l'abbandono di una usanza selvaggia, così potrà essere un giorno il contrassegno d'una classe più elevata.
—Fiordispina, la mia figliuola!—disse il signor Francesco, presentando l'ultima venuta al suo ospite.
Gino fece una gran riverenza. E quantunque fosse colto da un senso di maraviglia, non potè astenersi dal fare una delle sue solite osservazioni. Egli osservò, infatti, che i nomi lassù erano tutti presi dai classici. Il nome di Aminta veniva dal dramma pastorale del Tasso; Fiordispina. Angelica, Olimpia, escivano dai canti dell'Ariosto. Di nomi comuni egli non aveva sentito ancora che quello del signor Francesco, del padrone di casa. Ma questo si capiva facilmente, ricordando che nelle famiglie il primogenito suol prendere il nome del nonno; donde avviene che due soli nomi si alternino per parecchie generazioni, mentre per tutti gli altri nati di una casata ci sia libera scelta, e in questa scelta la moda e i gusti particolari trionfino. Lassù la moda non era giunta, o non aveva attecchito; i gusti particolari favorivano l'Ariosto ed il Tasso. Gino Malatesti s'aspettò di veder capitare da un momento all'altro Bradamante e Clorinda, Ginevra ed Erminia.
Ma nessuna altra donna apparve nella sala da pranzo, e non fu neanche il caso di veder comparire nessun Ruggero o Mandricardo. La famiglia era tutta radunata, tranne quei due uomini, fratelli del signor Francesco e da lui accennati poc'anzi, uno dei quali era alla serra, e sarebbe capitato più tardi, e l'altro era a Sassuolo, nè sarebbe venuto altrimenti.
Venne in quella vece il momento di prender posto a tavola. L'uso moderno avrebbe portato di mettere la signora Angelica al posto di mezzo, e il signor Gino alla destra di lei. Ma lassù regnava l'uso antico, e il posto d'onore fu dato all'ospite, che ebbe alla sua destra la signora Angelica, il signor Francesco alla sinistra. Fiordispina sedeva accanto a suo padre; Aminta dall'altro lato, presso la signora Olimpia; tutto il resto della tavola rimase vuoto, chè i commensali non si potevano inventare, per compimento della scena.
Il pranzo fu copioso, in piena armonia con l'abbondanza dei principii. Dominarono, come potete credere, i piatti di cacciagione, ma non mancarono quelli di pesce, in un luogo così ricco d'acque correnti. E a proposito di correre, i vini prelibati non furono lenti, come non erano scarsi. A mezzo il pranzo, entrò nella sala il secondogenito dei Guerri, e fu presentato col nome di Orlando. Evidentemente, quella era una casa ariostesca, e il nome del nuovo venuto confermava la teorica foggiata lì per lì da Gino Malatesti. Per il signor Orlando non c'era che il guaio di essere stato innamorato di Olimpia, e di averla sposata; ma come evitarlo, quel guaio?
Angelica era sua sorella, e se anche non lo fosse stata, avrebbe dovuto amar piuttosto Medoro. Egli, poi, non avrebbe voluto cambiare il suo nome in quel di Bireno, che fu il nome di un traditore. Il signor Orlando, adunque, si era adattato a quel piccolo guaio, della poca corrispondenza dei nomi, o non ci aveva neanche badato. Innamorandosi d'una Olimpia, poteva anzi rallegrarsi, di essersi imbattuto in un altro nome ariostesco, da tirare in famiglia.
Nomi ariosteschi, adunque, con qualche spruzzatina di Torquato Tasso; ma tutt'insieme una famiglia patriarcale, in mezzo a cui si riposava, espandendosi, lo spirito di Gino Malatesti. Il giovanotto, che aveva già pensato tante cose e fatto tanti raffronti, non potè neanche astenersi dal meditare su quel pranzo magno, alle falde del monte Cimone, in quella casa di povero aspetto contadinesco, dove si era immaginato di dover fare un pasto magro. Ora è chiaro che le lezioni dell'esperienza debbano servire a qualche cosa, se l'animo che le riceve non è foderato di sughero. Proprio allora il conte Gino fece giuramento a sè stesso di non giudicar più dalle apparenze e di aspettare in ogni cosa la fine.
Ma non aspettò che finisse il pranzo, per giudicarlo eccellente; che questo gli sarebbe parso magnifico, anche senza tanto contrasto di condizioni e chiaroscuro di circostanze, per cui dalla triste via dell'esilio tra i monti era capitato davanti alla scodella di minestra fuligginosa del mugnaio, e finalmente alla tavola ospitale dei Guerri. Per i quali tutti egli ebbe parole di somma cortesia. Educato com'era, esperto di tutte le delicatezze del conversare, Gino Malatesti innalzò quel giorno tutte le sue piccole qualità aristocratiche al grado superlativo. Voleva piacere a' suoi ospiti: unico modo di mostrar loro la sua gratitudine.
—E dopo ciò,—diss'egli alle frutta,—triste cosa sarà dover andare a
Querciola.
—Ma sì, triste cosa!—ripetè il signor Francesco.—E si potrebbe ancora, con sua licenza, o usando della libertà che gli anni concedono, chiamarla una pazzia. A Querciola, mio signore, non troverà nulla di ciò che è necessario per vivere, quando non si è taglialegna o caprai. Non ha una casa laggiù dove ci sia una camera a mala pena abitabile. Ci sarebbe quella dei Paoli;—soggiunse con atto di concessione il signor Francesco, rivolgendosi al fratello Orlando.—Ma i Paoli, che ebbero un figliuolo medico e professore di chimica all'Università di Modena, vivono poveramente anche loro.
—Verissimo;—disse Orlando.—Ho avuto occasione di entrarci l'altro giorno, per dire qualche cosa al vecchio Azzolino, Vuol crederlo? Non c'era neanche una sedia che si reggesse sulle gambe.
—Eppure,—disse Gino, sospirando,—dovrò andare a Querciola. L'ordine parla chiaro;—soggiunse, volgendo alla signora Angelica, sulla sua destra, un discorso che era incominciato con la sua brava direzione a Fiordispina, sull'estrema sinistra.
—L'ordine!—esclamò la signora Angelica.—C'è un ordine, per
Vossignoria?
—Ne giudichi Lei;—disse il giovane, cogliendo la palla al balzo.—Gino Malatesti, figlio del conte Jacopo, di Modena, si recherà a confine in Querciola, ed ivi rimarrà fin tanto che al nostro Venerato padrone non piaccia disporre altrimenti. Così scriveva ier l'altro a mio padre il signor direttore di polizia. Come ella mi vede, signora Angelica, sono un condannato politico… e condannato senz'ombra di processo.—
Ciò detto, gli parve di respirare più libero. Era finalmente venuto a capo di palesare il suo nome.
La signora Angelica aveva fatto un gesto di commiserazione, ma non aveva proferito parola. Il signor Francesco, capo della famiglia, l'unico a cui sarebbe toccato di dire qualche cosa, era rimasto pensieroso, e, forse per non essere obbligato a parlare, aveva in quel punto afferrato il suo bicchiere di lambrusco, e lo tracannava d'un fiato.
—To'!—disse Gino tra sè.—Son caduto in mezzo a duchisti. Il re della montagna è un buon suddito di Casa d'Este, come mio padre.—
Per altro, se erano duchisti com'egli pensava, i Guerri non erano scortesi coi loro avversarii, quando questi rivestivano la qualità di ospiti, e le attenzioni di quella gente al forastiero nè crebbero per il suo titolo conosciuto di conte, nè diminuirono per il suo peccato egualmente conosciuto di cospiratore politico. La signora Angelica, riavutasi certamente dalla prima sensazione spiacevole, parlò del dolore che il signor Gino aveva dovuto provare, separandosi da suo padre e da tutta la sua cara famiglia. Gino riconobbe che infatti il dolore era stato a tutta prima fortissimo, ma che poi lo aveva temperato grandemente un pensiero di riverenza per suo padre. Il conte Jacopo era un fedelissimo suddito, e certamente, se poteva dolergli che il figliuolo, per qualche atto o parola che accennasse ad altre idee, avesse destato il sospetto dell'autorità, doveva anche piacergli, che quel figliuolo andasse confinato tra i monti, anzi che rimanere a Modena, sotto la vigilanza della polizia, e col pericolo di dare altri argomenti alla severità del governo ducale.
—Dunque, signora mia,—conchiuse Gino,—bisogna ripetere col proverbio antico, che tutto il male non vien per nuocere. Mio padre è più tranquillo, ed io debbo esser felice della tranquillità di mio padre. Infine, ho fatto il male, ed è giusto che faccia la penitenza; una penitenza che, come vedo dai principii, non è punto dolorosa!—soggiunse egli, ridendo.—Resta sempre la necessità di andare a Querciola, lo so; ma per un buon vicinato si può anche accettare una cattiva residenza. Ella mi ha detto, signor Aminta, che Querciola è distante a mala pena un'ora di cammino dalle Vaie, non è vero?
—Fortunatamente;—rispose Aminta.—E non credo che l'ordine del governo le vieterà di passeggiare nei dintorni.
—Tanto più che io qui non avrò occasione di cospirare;—ripigliò il conte Gino.—La politica è bandita dai monti.
—Eh, chi lo sa?—disse il signor Francesco, levando il suo bicchiere nuovamente pieno all'altezza dell'occhio, e guardando attraverso il cristallo la bella tinta del vino.—Se sui monti è aria libera, come sfuggirne il contatto? come evitar la politica? Politica d'analogia, lo capisco, ma sempre politica!—
Qui il conte Gino si avvide di non aver mantenuto il suo giuramento, e di essere ricascato subito nel fallo di giudicare dalle apparenze. Peggio ancora, si era mostrato scortese coi monti, dicendoli alieni dalla politica, e il signor Francesco, pensatamente o no, aveva rivendicata la loro nobiltà di sentire. Il monte è l'aria libera, è l'abito, è l'istinto medesimo della libertà. Può dire altrettanto di sè la pianura?
Ma il signor Francesco Guerri, avesse o non avesse rilevato il piccolo e sicuramente involontario errore del suo ospite, si era tenuto con la sua risposta assai alto, e proprio fra le nuvole, come qualche volta usava fare il Cimone. Si sa, la politica del monte non è intieramente quella del piano. Il conte Gino, del resto, anche senza badare a quelle sottigliezze di distinzione, non reputò necessario di tirare il re della montagna nei bassi strati delle applicazioni, delle necessità, degli ostacoli, della ragione storica e della topografica, in cui vanno spesso a battere e a naufragare i principii. Ricondusse abilmente il discorso alla vita e alle costumanze della città, avendo il piacere di tornar più gradito alle signore che lo ascoltavano.
C'è nell'uomo una inclinazione naturalissima a dir male degli assenti. Ciò forse avviene perchè da lontano si vedon meglio le cose, e nella natura umana c'è più da criticare che da ammirare. Gino cedette alla tentazione, e disse male degli usi e delle mode cittadine: garbatamente, si capisce, sfiorando l'argomento, passando dall'uno all'altro come una farfalla spensierata, per il gusto di provar l'ali e di farle risplendere al sole. Allora, lo ricordate, usava il crinolino, quell'orrida gabbia fatta a campana, ma non tanto orrida come la gobba d'oggidì, che fa parer le signore tanti dromedarii rizzati sulle gambe posteriori. La critica del crinolino fece ridere Angelica, Olimpia e Fiordispina. È forse vero che i nomi imprimano carattere? Quelle donne che davano nei nomi loro l'illusione di essere uscite dal mondo poetico dell'Orlando Furioso, non potevano sicuramente non ridere delle goffe usanze del mondo moderno. E risero, come avrebbe riso Elena, sulle rive del patrio Eurota, se il dottor Fausto, scambio di parlarle il linguaggio eterno dell'amore, si fosse fermato a descriverle certe fogge d'allora, verbigrazia quel cartoccio da confetti che portavano sul cocuzzolo le donne tedesche del Quattrocento.
E i cappellini, a proposito, i cappellini di quell'anno!… Le piume di struzzo non si usavano più tanto; i fiori, partiti in due cascatelle e piantati tra l'ala del cappellino e la guancia, erano ancora in onore; ma i frutti accennavano già a voler prendere il posto dei fiori. Una moda fresca fresca era quella dei grappoli d'uva alle gote. Ne veniva la necessità di allargare a cerchio le falde laterali, sicchè la faccia delle donne paresse una luna in quintadecima. Si poteva dare di peggio? Ah, meglio, cento volte meglio, un fazzoletto di seta rigirato intorno alle tempia!
—Vivaddio, se è una moda,—conchiuse Gino,—questa almeno si capisce. Io intendo l'ornamento della persona, ma voglio che non sia tale da aggravare, da trasformare la figura umana.
—Non è una moda, per altro; è una necessità del nostro clima;—osservò Fiordispina.—Qui si è fuori di casa ad ogni momento, e l'aria di questi monti è sottile.
—Ebbene, signorina,—riprese Gino, felicissimo di aver da disputare un pochettino con lei,—veda come la necessità è stata più graziosa della libera scelta. Ne è venuta fuori una foggia d'acconciatura, che ha un solo difetto, quello di nasconder troppo i capegli, ma che seconda benissimo i contorni della testa, non ne guasta le proporzioni, non ne turba i rapporti con tutto il rimanente della persona. Quel cappellino a cuffia, dalle ali larghe e tondeggianti, che si usa laggiù, con tanta esposizione di erbaggi al posto degli orecchi, e con quel gran fiocco di nastri sotto il mento, è una vera iniquità. Le madonne bisantine non sono niente più goffe, esteticamente parlando, dalle nostre signore, vestite all'ultima moda di Parigi.—
Marchesa Polissena, e voi passavate per la Dea delle ultime mode, nella città della Bonissima! La vostra immagine, aggravata dall'aureola bisantina del cappellino a cuffia, coi grappoli d'uva alle guance, col gran nastro diffuso in due larghe staffe sotto il mento e in due non meno larghi capi pendenti sul petto, con la vasta mantiglia di velluto, ornata di trine e di frange, scendente con ampio giro sulla cerchia mostruosa di una veste che s'accostava al diametro della campana maggiore della Ghirlandina, la vostra immagine, dico, non si offerse in quel punto agli occhi di Gino Malatesti?
Pare di no. Il conte Gino, vivendo a Modena, nelle consuetudini eleganti de' suoi pari, non aveva avuto mai occasione di meditare sulle esagerazioni della moda. Solamente lassù, tra quei monti, dove la bella natura regna sovrana e vuole ogni cosa accomodata, proporzionata a sè, Gino Malatesti si accomodava, si proporzionava all'ambiente anche lui; era perciò naturale che certe esorbitanze, non vedute, o non osservate da prima, gli saltassero agli occhi, gli strappassero dalle labbra una parola di critica. Le critiche, poi, sono come le ciliegie; quistion di stagione per queste, e di momento opportuno per le altre.
Era dunque dimenticata, per allora, la marchesa Polissena. Lo spirito dell'uomo ha le sue interferenze come la luce del sole. E in quei discorsi allegri parve anche dimenticata la storia del condannato politico. I discorsi, finalmente, furono interrotti dall'arrivo del prete, accolto a festa, mentre la bella Fiordispina preparava il caffè.
—Don Pietro!—gridò il re della montagna.—A quest'ora si viene?
—Che dirle, signor Francesco? Sono stato chiamato in fretta, per il mio ministero di pace.
—Ah!—disse il re della montagna, con accento di rammarico.—È stato un caso grave?
—Speriamo ancora;—rispose il prete.—Ma siamo oltre i novanta.
—Si tratta del vecchio Lorini, dunque?
—Sì, e com'Ella vede, signor Francesco mio, i giorni possono dirsi contati. Morbus et ipsa senectus. Ma non parliamo di cose tristi. Ho fatta la mia corsa fin sotto a Monticelli, ed ecco la cagione del ritardo.
—È venuto almeno in tempo per fare un brindisi;—disse il signor Francesco.—Le presentiamo, caro Don Pietro, il signor conte Gino Malatesti, di Modena. Egli ha voluto dirci il suo nome, ed abbiamo saputo nel medesimo tempo che egli, per causa d'opinioni politiche, è stato mandato a confine in Querciola.
—Brutto paese!—esclamò Don Pietro.—Perchè non alle Vaie?
—Ma sì!—ribattè il signor Francesco.—Glielo domandi un po' Lei.
Perchè non alle Vaie?
—Signori miei,—rispose Gino, sospirando,—se il nostro venerato governo avesse saputo che Querciola era ad un'ora di cammino dalle Vaie, mi avrebbe mandato anche più in là. Il confine che lor signori avrebbero voluto per me, non sarebbe stato un castigo, ma un premio.
—Non gli faremo dunque saper noi quello che ignora;—rispose il signor Francesco, ridendo.—E deve ignorarlo, sicuramente, se pensiamo al conto che fa di noi montanari. Ma c'è anche il suo lato buono, in questa sua ignoranza. Qui il governo si sente meno, ed anche ce n'è meno bisogno. Qualche strada di più sarebbe desiderata, non lo nego; qualche argine, qualche ponte, non tornerebbero inutili. Ma infine, quel che occorre a noi, bene o male, lo facciamo coi nostri denari, e, non chiedendo nulla, ci avvezziamo a non aver bisogno di nessuno. Ma ritorniamo al nostro ospite. Don Pietro, Lei è oratore; faccia un brindisi Lei, uno di quei brindisi che sono discorsi, e di cui Ella ha il segreto.
—Perchè no? perchè no?—disse il prete, che non era insensibile alla lode.
—Bravo!—gridarono le signore.—Ci faccia il discorso. Don Pietro!—
Fiordispina, presso alla quale si era seduto il vecchio ministro dell'altare, gli versò il vino nel bicchiere. Don Pietro alzò il calice, osservò attraverso il cristallo la bella tinta di topazio del suo vino, lo fiutò da conoscitore provetto; poi, levatosi in piedi, parlò in questa forma:
—Vin santo! O ben nomato, poichè mi reca una buona ispirazione! Veramente, miei signori, il brindisi, usanza pagana, disdirebbe a un sacerdote. Ma come è santo questo vino, non sono santi forse tutti i doni della terra? E non è memoria nelle Sacre Carte che delle loro primizie si facesse offerta nei luoghi eccelsi all'Altissimo? Anch'io offrirò a Dio il liquore ch'egli ha infuso nel tralcio delle nostre colline, e pregherò (si può infatti pregare da per tutto) e pregherò al vostro ospite tutte le benedizioni del cielo. Sia salva la sua casa; sia prospera la sua famiglia; siano adempiuti tutti i suoi voti.
—Tutti?—mormorò Gino, mentre s'inchinava all'augurio.
—Tutti, certamente!—rispose Don Pietro.—Non sono essi onesti e nobili? E può il conte Malatesti averne di altra ragione? Possiamo noi immaginare che ne abbia altri, conoscendo la cagione per cui egli è venuto pellegrino quassù? Mi confido adunque nella rettitudine dell'animo suo, ed offro i suoi voti, e domando e prego che siano esauditi da Dio, nel suo gran giorno di giustizia e di pace. Non ha egli fatto alleanza col suo popolo? Così possa esser vicino quel giorno! Così possiamo anche noi vedere il nuovo Israele posar libero e felice nelle sue sedi, da Dan fino in Betsèba!
—Ah!—esclamò Gino, che aveva capito… l'ebraico.
—Sì,—riprese Don Pietro, commentando la sua frase nella forma della ripetizione,—dico il nuovo Israele. Non c'è qui una immagine di popolo eletto? E non ce ne affida questo doppio raggio di gloria e di sventura che illumina la fronte della patria? E l'aver tanto sofferto non è segno di aver bene meritato da Dio? Esaudite, Signore, i voti dell'ospite! Rivolgete i vostri occhi all'Italia!—
In quel momento, col suo calice levato, Don Pietro Toschi, parroco delle Vaie, sembrava Melchisedec, il re sacerdote, quando offriva l'olocausto all'Altissimo sovra il poggio di Salem.
Gli astanti erano commossi; Gino Malatesti aveva le ciglia umide. Si levò tuttavia e rispose:
—L'augurio muove da un pensiero che non mi giunge nuovo in questa nobile casa, quantunque io ci sia ospite da poche ore soltanto. Ricorderò che il signor Francesco Guerri ha cortesemente raddrizzata una mia storta opinione, dicendomi: «Se sui monti è aria libera, come sfuggirne il contatto? come evitar la politica?» Mando un saluto a quest'aria libera, dove non sono o non si conoscono tiranni, ed auguro al mio paese di liberarsi dai suoi.
—E di non meritarne degli altri!—soggiunse Don Pietro.—Sia questa la seconda parte del voto!
—Certamente!—rispose Gino.—Le ricadute son gravi, e noi ne abbiamo fatta una triste esperienza. Speriamo che questa abbia insegnato qualche cosa agli afflitti di quindici secoli. Ed ora, o signori, permettete che io beva alla salute vostra, alla prosperità di questa casa ospitale, che ho trovata sul mio cammino, come un'oasi benedetta in mezzo al deserto. Signor Guerri,—conchiuse Gino, volgendo il discorso al suo ospite, ma tosto mandando gli occhi in giro, fino ai suoi figli,—poichè siamo nell'oasi, Dio prosperi le vostre giovani palme.—
Una stretta di mano, ma vigorosa, fu il discorso del re della montagna, in risposta alle parole affettuose di Gino Malatesti.
—Ella è un amico di casa, se ne ricordi.
—Ahimè!—disse Gino….—Che è ciò? Son sceso di grado?
—Perchè?—domandò il re della montagna, non intendendo lì per lì l'allusione del suo ospite.
—Perchè, signor Francesco mio, dianzi era stato adottato per figlio.
—Ah, sì;—rispose il vecchio, sorridendo;—quando ignoravamo ancora l'esser suo e non vedevamo in lei che la sua qualità d'ospite. Ma Lei ha voluto farsi conoscere, ed ora sappiamo il suo nome e il suo titolo.
—E per questo che Ella sa,—ribattè Gino Malatesti,—mi leva quello che mi aveva accordato? Io me ne lagno, e chiedo alla regale ospitalità delle Vaie di non mutar nulla dai suoi cominciamenti per me.
—Sia pur come vuole!—rispose il signor Francesco.—Non è sua, la casa? Prenda il posto che le piace, al focolare domestico dei Guerri.—
La sala era vasta, e mentre i commensali, alzatisi da tavola, stavano chiacchierando in un angolo, quattro fantesche, giovani e forti montanine, sparecchiarono in un batter d'occhio. Gino si avvide del cambiamento di scena, quando ogni cosa era fatta. Lasciato il signor Francesco a discorrere col vecchio parroco, si accostò allora a Fiordispina, e le chiese in grazia di far sentire qualche cosa sul pianoforte, se, come aveva immaginato, era lei la musicista di casa.
La bella figlia dei monti arrossì un pochettino, ma non istette a farsi pregare, come fanno le dilettanti della pianura; non si scusò neanche con la solita ragione del non ricordare che musica vecchia, ben sapendo che la vecchia è molto spesso la buona, e andò di buon grado a sedersi davanti al suo Erard, di cui il conte Gino sollevò prontamente il coperchio. Si fece silenzio nella comitiva, quando la fanciulla dei Guerri alzò la ribalta e posò le dita sulla tastiera, traendone i primi accordi, un po' timidi, ma precisi.
Il pianoforte è molesto nelle città, come tutte le cose delle quali si abusa. C'è un modo di far soffrire il mio amico Arnaldo Vassallo: basta suonargli la Stella confidente. Il pianoforte, strimpellato in ogni luogo e a tutte le ore del giorno, è una vera afflizione dell'umanità, e non si capisce come Mosè, che era profeta e poteva prevederlo, non lo abbia fatto figurare tra le piaghe d'Egitto. Ma questo istrumento, che è di tortura in città, può riescir di piacere in montibus altis, dove manca ogni musica, anche quella dei grilli, e dove infine, a mente fresca e serena, osservando le cose di questo mondo da una sommità ragguardevole, sareste capace di riconciliarvi col peggiore dei vostri nemici.
E le campane, del resto? Non succede lo stesso con le campane? Questo sacro ma uggioso bronzo, che co' suoi rintocchi medievali urta i nervi alle nostre generazioni ammalate d'emicrania, è piacevole in villa, dove il suono si diffonde all'aperto, risvegliando pensieri di festa; è giocondo, poi, è divino sulla vetta di un'Alpe, dove il suono vi giunge affievolito, ma sempre argentino all'orecchio, senza che pur vediate la chiesa e il campanile, perduti nella nebbia luminosa della valle sottoposta.
Ritornando al pianoforte, non sarà mai considerato nemico un istrumento come quello, se ne traggono suoni le dita di una bella ragazza. Il pensiero melodico sarà di Chopin, o di Mendelssohn; ma esso è passato nella mente di lei, dove vorreste regnar voi; ha vibrato per tutti i suoi nervi, prima di tradursi in quella pioggia di note.
Gino Malatesti, seduto accanto al piano, guardava. Guardava lei, si capisce, e ad un certo punto la fanciulla se ne avvide, si confuse, perdette il filo, e fece, come si dice volgarmente, un pasticcio.
—Ebbene, signorina?—diss'egli, vedendo che la suonatrice rimaneva in tronco.
—Ah, non so più!—mormorò Fiordispina.—Non sono avvezza….
—No, continui, la prego!—
E c'era tanto arder di preghiera in quelle poche parole, che Fiordispina ripigliò la suonata, andando fino alle ultime note senza fermarsi.
Poi venne Don Pietro, che volle un motivo del Verdi, il coro famoso dei Lombardi, e poi l'altro, non meno famoso, del Nabucco. Voi già capite dove s'andasse a finire: con gli inni del Quarantotto. Don Pietro Toschi era un quarantottista travestito.
Ora paiono cose dell'altro mondo; ma allora, nel periodo acuto dei dolori italiani, era così, come io vi racconto. Tutti li avevano in mente, gli inni del riscatto, e li canticchiavano tutti tra i denti. Anche quando si diceva male del Quarantotto, de' suoi canti, delle sue piume, delle sue coccarde e dei suoi discorsi in piazza, era facile sentire nell'amaro della critica il dolce dell'amore profondo, indimenticabile, eterno. Infine, si erano commessi errori su errori, ma si era vissuti, si era allargato il cuore alle divine speranze, e tutti i ceti, tutti gli uffici sociali, si erano fusi in quel sacro entusiasmo. Anche Don Pietro Toschi, si era riscaldato il cervello; aveva veduto molti giovani passare da Fiumalbo, per correre alla Guerra Santa, e aveva gridato: «bravi! che Iddio vi benedica!» Poi erano venute le disgrazie; ma la reazione, che aveva dilagato al piano, non si era potuta spingere fino a quei monti, dove i cuori erano uniti e le labbra chiuse. Qualche commissario, capitato lassù, era stato affogato nel lambrusco dell'ospitalità.—«Brava gente!—aveva dovuto riferire ai superiori.—Pensano ai fatti loro, amano il vin buono, e lo fanno bere agli amici.»
Così la tirannide si spegneva, o rimetteva della sua ferocia in quegli alpestri confini. Il monte Cimone non conosceva impiegati ducali, e i suoi echi potevano liberamente ripetere le note degli inni patriottici. Il conte Gino gustò molto quella musica. Conosceva quegli inni, uditi da giovinetto; sentì che erano ricordati in onor suo, e non si dolse davvero di una disgrazia che gli meritava quella dimostrazione di stima affettuosa. Gran serata, che egli non si aspettava certamente nel mattino, muovendo da Pievepelago! Il nostro giovanotto aveva il cuore pieno, riboccante di affetto, di poesia e di gloria.
Quella notte, nel letto ospitale dei Guerri, il conte Gino Malatesti sognò grandi cose. Il duca di Modena era fuggito; la sua città natale era libera, e giurava una lega con tutte le altre città italiane. Egli poi, montato a cavallo, inseguiva il tiranno, fuggente come Serse a Salamina, o come il Barbarossa a Legnano. Il conte Gino non era solo; molti venivano con lui, tra gli altri suo fratello Aminta. E al fianco gli galoppava Minerva galeata; ma l'elmo della Dea somigliava molto ad uno di seta, che il conte Gino aveva ammirato il giorno prima alle Vaie.
Capitolo IV.
La vita alle Vaie.
Venne il mattino, tiepido e fragrante mattino, uno di quelli che fanno così grato il muoversi, quando non si sta bene in un luogo, o si spera di trovar meglio, ma che per contro fanno così dolce il restare dove il soggiorno è piacevole. E il conte Gino Malatesti doveva andare a Querciola. Era l'obbligo suo, e lo aveva accennato ai signori Guerri, prima di ritirarsi nella camera ospitale.
Perciò, all'alba del giorno seguente, erano già pronti due cavalli nel cortile: i due cavalli che Gino conosceva, il suo del giorno avanti e quello del signor Aminta, o, se piace meglio a voi, come piaceva al conte Malatesti, di suo fratello Aminta.
Il signor Francesco, alzato anch'egli per tempo, diede il buon viaggio al suo ospite. Ed anche il felice ritorno, come potrete immaginare, poichè queste cose si dicono sempre. Le signore non si erano presentate nel salotto, ma il conte Gino, come fu in sella, ebbe il piacere di vederle apparire sopra un terrazzo scoperto, a fianco della casa, e di mandar loro un rispettoso saluto. Tra esse, naturalmente, e quasi sarebbe inutile il dirlo, era anche Minerva galeata.
I nostri due cavalieri, fatta una breve salita, andarono costeggiando la montagna per un sentiero sassoso, all'ombra dei soliti cerri; guadarono due o tre torrentelli, e dopo mezz'ora di cammino scopersero le prime case di Querciola.
Veramente, il nostro Gino Malatesti non aveva scoperto nulla. Querciola aveva i tetti di legno o di falde di pietra; e falde e tavole, essendo tutte coperte di musco, si confondevano facilmente col verde grigio della costiera. La scoperse Aminta e la indicò al suo compagno di viaggio, che la distinse a sua volta ed intese non trattarsi d'altro che d'una doppia fila di casipole, mezzo nascoste in una piega del monte.
—Quella,—disse Aminta,—è Querciola sottana, e ci arriveremo in un quarto d'ora.
—Come'?—esclamò Gino.—C'è ancora una Querciola soprana?
—Sì, un quarto d'ora di cammino più su, dietro quella macchia di roveri.
—In verità,—disse Gino, ridendo,—non avrei creduto necessario che ci fossero due Querciole. Una bastava, se non era d'avanzo.
—E dobbiamo andare a quell'altra,—rispose Aminta,—se Ella vuol trovare un alloggio meno orribile degli altri, nella casa dei Paoli.
—Che! Non occorre;—disse Gino.—Orribile più, orribile meno, sceglierò il più vicino.
—Ma badi!—osservò Aminta.—L'orribile più sarà orribile troppo.
—Ebbene,—replicò Gino,—che importa? Sia pure il peggio dei peggi. Non debbo io anche interpetrare degnamente le intenzioni del governo ducale? Mi vuol confinato a Querciola, in punizione de' miei peccati; sarà edificato di sapermi ad alloggio nella Querciola peggiore. Anzi, se non le dispiace, Aminta, la chiameremo sempre così: Querciola peggiore, per non far onta ad un grazioso indumento di cui la Querciola sottana è ben lungi dal ricordare la bianchezza.—
Si rise, a quella trovata, e l'allegria fece parere meno lunga la salita. Quindici minuti dopo, come aveva detto il signor Aminta, i cavalli giungevano trottando davanti alle prime case di Querciola peggiore.
Il giovane Guerri conosceva tutti i capi di famiglia delle due Querciole e non gli era difficile di trovare un alloggio per il conte Malatesti, poichè tutti erano cattivi ad un modo, e non sarebbe stato neanche il caso di scegliere. Si fermò pertanto alla prima del villaggio, con grande soddisfazione del suo compagno, il quale promise a se stesso che per sua propria elezione non avrebbe mai fatta la traversata del paese. E questo si capisce benissimo, non essendo bisogno di traversare Querciola, per uno che volesse andare alle Vaie.
La casa Mandelli, poichè questo era il suo nome, poteva chiamarsi egualmente una catapecchia. Buono, per chi doveva abitarci, che la scala era di fuori, tutta a lume di sole, poichè altrimenti non si sarebbero veduti gli scalini, così rotti e sconnessi com'erano, e uno meno pratico avrebbe potuto fiaccarcisi il collo. Gli usci sgangherati, l'impiantito logoro, le mura con certe crepe lunghe fino al tetto, raffidavano poco, facevano pensare che la vita dell'uomo è sospesa pur troppo ad un filo. Pure, vedete, tanta è l'abitudine di star lì, quelle case si tengon ritte. È vero altresì che quando cascano, son mucchi di rottami, tra cui cerchereste inutilmente, tra legno o pietra, due palmi di buono.
Casa Mandelli poteva appigionare una camera. C'era un letto, in quella camera, e largo abbastanza; ma Gino Malatesti fremette involontariamente, guardandolo. Ci sono dei letti terribili, anche senza pensare al romanzo inglese che da uno di questi s'intitola; letti assassini, dove si appiatta una banda sitibonda e famelica, banda invisibile nel giorno, ma operante, e come! nel cuor della notte. Son là, i nemici striscianti e i nemici saltanti; non sono lontani quegli altri che caleranno dal cielo con la tromba, ma non a guisa d'angeli che debbano risvegliarvi per l'ora solenne del giudizio, bensì di tormentatori esimii, che v'impediscano di prender sonno, e vi lascino, vittima consapevole e invano repugnante, in balia dei loro amici e commensali, dopo avervi succhiato essi medesimi qualche oncia di sangue.
Il signor Aminta aveva tirato in disparte il padrone di casa e gli stava facendo sottovoce un lungo discorso. Il conte Gino capì che egli raccomandava al contadino qualche utile novità, per rendere abitabile quel bugigattolo, e discretamente si tenne lontano; anzi andò verso la finestra, da cui si aveva una veduta ristretta di cielo, ma per contro abbastanza bella, per il verde intenso della montagna.
Poco stante, il suo compagno gli venne accanto, poichè aveva finito di ragionare con quell'altro.
—Che cosa le avevo detto io?—incominciò.—Non si sta bene, a Querciola. Ma oramai, sia bene o male, l'alloggio lo abbiamo, ed ogni commissario che il governo ducale può mandare quassù ad accertarsi della osservanza dei suoi precetti, troverà il condannato nel suo carcere. Ma per ora, siccome Ella non è condannato a morire di fame, venga a far colazione.
—Andiamo;—rispose Gino.—C'è un oste a Querciola?
—No,—disse Aminta,—ma Ella ha qui il suo cavallo.—
Il conte Gino sorrise, e solamente le buone creanze lo trattennero dal fare una matta risata. La risposta del signor Aminta gli richiamava alla mente gli esercizi del tedesco, insegnati col metodo dell'Ollendorf.—«Avete voi veduto il mio caro zio?—No, ma io ho trovato il vostro buon temperino.»
—Che c'entra il cavallo?—domandò egli allora.
—C'entra,—rispose Aminta,—per escire da Querciola e ritornare alle Vaie. In un'ora siamo venuti quassù; in tre quarti d'ora saremo di ritorno a casa.
—Ma, veramente….—balbettò Gino.—Non sarà un abusare della loro cortesia?
—Che!—disse Aminta,—In primo luogo ci aspettano. In secondo luogo, la farebbe magra, a star qui fin d'oggi, ed è già molto che venga a dormirci stasera. In terzo luogo, spero bene che accetterà di venire tutti i giorni a desinare da noi. È il desiderio di mio padre, che aspettava per l'appunto a dirglielo quest'oggi.
—Tutti i giorni, poi!—esclamò Gino, confuso.
—Ebbene? Che difficoltà ci trova? Il cavallo sarà sempre a sua disposizione qui sotto. Mi sono inteso col bravo Mandelli, perchè faccia subito un po' di pulizia nella stalla, e credo,—soggiunse Aminta, ridendo,—che la cosa gli riesca molto più facile dell'altra, di mettere in assetto questa camera. Ella dunque non avrà che due corse da fare ogni giorno: una per aguzzar l'appetito, e l'altra per avviare la digestione. Badi a me, signor conte: in questi luoghi bisogna andare, andar sempre; è l'unico rimedio per non morire di noia, e per non diventar scimuniti.
—Capisco;—disse Gino.—Se non incontravo ieri la provvidenza dei
Guerri, povero a me! finivo male, con questa bella alternativa.—
E rimontò a cavallo e si avviò per la discesa, col suo gentilissimo ospite, a cui propose subito di lasciare da banda le cerimonie, passando dal noiosissimo lei al grato e italianissimo tu. Del resto, non era egli stato accolto come figlio, nella casa dei Guerri? E non doveva trattare Aminta come un fratello?
Vi ho detto dianzi, quando eravamo nella casa Mandelli, che la veduta era molto ristretta. Ma la prospettiva oramai si allargava, per il conte Gino Malatesti. Di lassù, anche tra i cerri e gli abeti, vedeva già tante cose in lontananza! La bella Minerva galeata, per esempio; e mi pare che basti.
Così sempre avviene, del resto, e non c'è da maravigliare per questo fenomeno di ottica, che è la cosa più naturale del mondo. Non sono soltanto i colori, che hanno la loro sede nel nostro occhio, come vogliono i fisici. Noi facciamo spesso la nostra prospettiva aerea nel profondo del cuore, e non abbiamo mestieri dell'azzurro dei cieli, quando il sereno è nell'anima nostra.
Gino fu accolto con gran festa alle Vaie. Come aveva trovato il soggiorno di Querciola? Brutto, naturalmente; ma tanto meglio per i Guerri, che avrebbero avuto la fortuna di vedere il loro ospite più spesso. Si capisce che tornò in campo la proposta già fatta da Aminta, e che il conte Malatesti credette obbligo di piccola cortesia schermirsi un pochino, ma obbligo di vera riconoscenza accettarla. Per intanto, volendo adattarsi agli usi della famiglia, ricusava di far colazione. I Guerri pranzavano a mezzodì, e cenavano alle sette Erano allora le dieci, ma Gino non aveva fame, poteva aspettare, sarebbe stato felicissimo di aspettare il mezzodì. Per la cena, s'intende, avrebbe dovuto contentarsi di farla a Querciola.
Tutte queste cose furono presto discusse e concertate. Poi il signor Francesco e suo figlio Aminta si ritirarono, avendo qualche negozio da sbrigare, e il conte Malatesti se ne andò in giardino, anche per lasciar libere le signore di attendere alle faccende domestiche da quelle buone massaie che erano certamente, e desiderose di dar occhio a tutto nel governo della casa.
Poca cosa, il giardino, non essendo la stagione ancora molto inoltrata. Quella primavera, il Cimone aveva raccorciato, ma non buttato via, il suo mantello di neve, e le notti delle Vaie erano ancora freddine, ma accanto al giardino scarno si vedeva la stufa, e questa era piena di vasi d'ogni grandezza, disposti in ordine, a scaglioni, tra cui si poteva passare comodamente, ammirando una bella varietà di piante, anche delle specie più rare. Gino Malatesti ammirò una graziosa raccolta di eriche, coi fiorellini fitti fitti, foggiati a campanule bianche e vermiglie.
Mentre stava osservando quelle eriche, non sapendone il nome e la provenienza, ma indovinandone il pregio, gli baluginò davanti agli occhi la fanciulla dei Guerri, escita allora dal porticato della casa alla luce aperta del giardino. Lasciò subito di guardare le piante e si avanzò verso l'invetriata della stufa, per veder meglio la gloriosa apparizione, che incedeva snella e leggiera tra le aiuole deserte di fiori. Era essa il fiore del giardino, il giglio delle convalli, e la sua bellezza verginale si accordava maravigliosamente con quella dell'agreste natura.
—Bella ragazza, in fede mia!—disse Gino tra sè.—Chi sarà il felice mortale che la sposerà? Mi pare che abbia l'età da marito, oramai. Ma qui ci saranno partiti per lei? Questi re della montagna son ricchi, sicuramente; ma le loro pretese, dato il luogo, non possono mica essere troppo alte, o lo saranno solamente… sul livello del mare.—
Quella scappata del suo pensiero lo fece sorridere; ma non s'indugiò, il pensatore, e riprese subito il filo del suo ragionamento.
—Bella ragazza, in fede mia!—ripetè egli, come per pigliar la rincorsa.—L'uomo che la sposerà può dirsi fortunato fin d'ora. Ma forse, come troppo spesso avviene, sarà un uomo che non intenderà la propria fortuna. Questa fanciulla è un fiore alpino, ma cresciuto in una stufa, come queste eriche maravigliose. Suona con grazia e sentimento; conosce parecchie lingue; ha avuto certamente una educazione inferiore a questo livello barometrico, ma superiore a questo livello sociale. Dove sarà stata in conservatorio? A Modena, o a Reggio; fors'anche da quest'altra parte, in una città di Toscana. Mi pare d'indovinarlo da una certa rotondità di pronunzia, da una certa scioltezza di frase. Questi fiori umani, educati con gran cura per la vita elegante di una città, vengono ad avvizzir qua, tra boscaiuoli e caprai. Povere fanciulle! Vivono in un ambiente che non dovrebbe più essere il loro; risplendono inutilmente, nella delicatezza delle loro forme, ad occhi che vedono grosso come quelli de' buoi; spandono soavità di profumi per nari disavvezzate nel grave odore della terra smossa. E qui, care angiole, fanno delle torte, come la Carlotta del Werther, quando non lavano i pannilini al torrente, come la Nausicaa dell'Odissèa. Sì, ma poi fanno anche dei figliuoli robusti e belli come il signor Aminta, destri cavalieri e gran cacciatori, induriti al sole dei campi e all'aria sottile delle Alpi. Buona razza montanara, veramente italiana, all'antica! E infine, la vita non è meglio così, con una mente sana in corpo sano? Ma allora, tra questi usi patriarcali, a che serve la coltura dello spirito? Che sciocco son io! Serve per chi l'ha, gli tien buona e fidata compagnia, lo aiuta a vivere, facendogli intendere la rara bellezza di tutto ciò che lo attornia. Io stesso, che ho studiati i classici, non sento più profondamente il bello di questa natura agreste, e meglio che non faccia il popolo che ci è nato? Bella fanciulla dei Guerri, salute a voi! Possiate trovare la pace dell'anima su questi monti, goderne l'aspetto e l'aria balsamica, senza desiderare di più! Possiate trovare a marito un uomo non troppo zotico e materiale, che si mostri degno di possedere la bellezza della vostra persona, intendendo meglio la delicatezza del vostro pensiero!—
Era un monologo in tutte le regole, il suo. Ma noi li stendiamo sulla carta, i monologhi, e dobbiamo tirarli a fil di logica, mentre nel fatto essi procedono più rotti nell'argomentazione e più snelli. Molte cose, necessarie nella scrittura, lo spirito le vede e le tralascia, non dicendo a se stesso se non quel tanto che gli piace di più.
Il conte Gino, per altro, non fu molto contento del suo soliloquio. E perchè, Dio buono, se lo aveva fatto egli? L'uomo è di sua natura egoista. Si può senza troppo sforzo di educazione arrivare al punto di non desiderare la casa e la fortuna del prossimo; ma nessuna educazione può condurci a vedere di buon occhio che altri s'impadronisca e goda il pacifico possesso d'un fior di bellezza che abbiamo osservato ed ammirato noi. Noi, capite? Noi persona prima del singolare, quantunque i grammatici, buona gente, l'abbiano assegnata al plurale. L'ammirazione nostra è una specie d'ipoteca che prendiamo sulla cosa che ci ha colpiti e che farebbe tanto bene ad appartenerci. Ora, per un sentimento di questa natura, il conte Gino era triste? Lo sospetto fortemente, ricordando che nella chiusa del suo monologo egli fece una spallata, come se volesse con quella scacciar l'uomo «non troppo zotico e materiale», a cui in una spensierata liberalità di discorso aveva concessa la fanciulla dei Guerri.
Dopo quella spallata, il giovinotto escì dalla stufa. Fiordispina, traversando le aiuole, veniva dalla sua parte; era già abbastanza vicina, e poteva entrare nella stufa, ed anche rasentarla soltanto; ma nell'uno e nell'altro caso avrebbe veduto l'ospite, ed egli avrebbe avuto l'aria di essere stato ad osservarla, a spiare i suoi passi. Escì, dunque, ed ella lo vide e gli sorrise.
—La signorina,—disse Gino, muovendo verso di lei, che si era fermata,—veniva a vedere i suoi fiori?
—No, veramente;—rispose ella;—andavo più in là. Non cerco fiori, porto foglie;—soggiunse, mostrando il suo grembiale, che teneva raccolto per i due capi.
—Ah!—esclamò Gino.—Un pasto mattutino! E dov'è la famigliuola che lo avrà dalle sue mani?
—Qui presso. Vuol vederla?
—Volentieri, se permette.
—Bene, venga allora con me.—
Gino s'inchinò e la seguì. Fiordispina andava leggiera lungo le invetriate della stufa. Sicuramente, se egli fosse rimasto là dentro, ella lo avrebbe veduto allora, poichè rivolse, passando, un'occhiata curiosa alle piramidi dei fiori.
—Ah, signorina!—disse Gino.—Che stupende eriche ho vedute or ora!
—Son belle davvero;—rispose Fiordispina.—Eriche del Capo di Buona
Speranza.
—Niente di meno!—esclamò il giovinotto.
—E delle prime che siano venute in Europa;—replicò Fiordispina.
—Ed io, abitante del piano,—disse Gino,—dovevo venire a trovarle fra i monti!
—Mah! Segno che c'è qualche cosa, anche tra i monti!—ribattè la fanciulla.
—Lo so, signorina, lo so, e non potrei dimenticarlo mai più. Ma parlavo delle eriche del Capo.
—Infatti,—ripigliò Fiordispina,—c'è una ragione naturalissima, che spiega la novità della cosa. Un amico della famiglia, che ha viaggiato molto, le ha portate in dono a mio padre.
—Buona Speranza!—mormorò Gino.—Buona Speranza!—
E cercava il filo di un madrigale; ma non gli venne, ed egli ci rinunziò, anche per il fatto che si era giunti davanti ad un porticato rustico, e che la fanciulla metteva il piede là dentro.
Erano le stalle. Perdonate il vocabolo, o lettrici garbatissime, e sopratutto non arricciate il naso, dovendo seguire fin là i nostri due personaggi, perchè altri vi avranno condotte, letterariamente parlando, in luoghi peggiori di questi. La stalla, in fin de' conti, è sana, e non c'è caso che sia male abitata: o se lo è qualche rara volta, si manda per il veterinario, la cui diagnosi e la cui terapeutica sono assai meno complicate di quelle del fisiologo, dell'antropologo e del moralista.
La fanciulla dei Guerri aperse l'uscio di una stanza bene illuminata da due finestre alte, e dove, oltre la paglia sparsa sul pavimento, si vedevano lungo la parete alcune casette di legno.
—Richiuda, la prego;—diss'ella a Gino, che l'aveva seguita.—Le mie bestiuole mi vogliono bene, ma sarebbero anche capaci di antepormi la libertà.
—Cattive bestiuole, allora!—rispose il giovanotto.
—Che vuole? Sono irragionevoli, e non intendono la loro grande fortuna;—replicò ella, dando in uno scoppio di risa argentine.
—Come lo dice!—esclamò Gino.—Pare che non ne sia persuasa.
—Anzi, ne sono persuasissima;—disse la fanciulla ripigliando la sua gravità.—Le mie bestiuole hanno fortuna davvero, perchè vivono qui ben riparate dalla neve, dalla pioggia, dai venti, con la sicurezza del cibo ogni stagione dell'anno, e senza alcun timore delle martore. Poi, hanno tutti i giorni un po' di foglie verdi, come ora. Vede? Anche nel cuore dell'inverno, perchè non ne manchino mai, si pianta l'insalatina dentro la stufa.—
Mentre ella così parlava, erano escite dai loro abitacoli di legno parecchie coppie di conigli, tutti bianchi, senza la più piccola macchia di nero o di bigio, con gli occhi grandi e mobilissimi, i musi rosei, le orecchie lunghe e morbide. Vennero saltellando verso Fiordispina, ma videro quell'altro che si accostava anche lui, e scapparono tutti alla lesta. La fanciulla li richiamò, chinandosi a terra con le sue provvigioni, e quei graziosi animali, via via rinfrancati, tornarono, per avere la parte loro in quella distribuzione di foglie di cavolo. Brassica sativa, che diamine! Il nome latino sarà più difficile, ma un po' meno prosaico. E intanto che addentavano allegramente le foglie verdi, quei timidi animali si lasciavano correre la mano carezzevole di Fiordispina sulle orecchie e sul dorso. Uno di essi, certamente beniamino, si lasciò anche prendere di soppeso, ma senza abbandonare la foglia, che continuò a sgranocchiare tra le braccia della sua bella padrona.
Gino potè ammirarlo anch'egli e carezzarlo un poco. Ma stando egli a così breve distanza dalla portatrice, vedeva anche molto bene la graziosa testina di lei e le ciocche morbide, ricciolute, finissime, che sbucavano fuori dalla cerchia gelosa del suo fazzoletto di seta. Aveva tralasciato di accarezzare il coniglio; taceva; non respirava neanche; forse aspirava le fragranze giovanili di Fiordispina. Le donne, lo sapete, anche stando ad occhi bassi, vedono, in simili casi, o indovinano tutto quel che succede. Fiordispina calò a terra il suo piccolo beniamino, che seguitò a sgranocchiare, come se nulla fosse; quindi, risollevata la persona, si tirò con molta naturalezza due passi indietro.
—Dunque,—diss'ella, rompendo il silenzio,—le piace la mia famiglia?
—Signorina,—rispose Gino, scuotendosi,—tutto ciò che la circonda mi piace.
—Complimenti?
—Io? Non so farne.
—Badi; allora le vengono alle labbra spontaneamente.
—Se lo dice per questa volta, badi anche lei, signorina: non è stato un complimento. Sarei disposto a provarglielo.
—Sentiamo;—disse Fiordispina, senza levar gli occhi dalle sue candide bestiuole.
Il conte Gino incominciò:
—Che cos'è, prima di tutto, quello che la circonda? Le cure dei suoi, del babbo, delle zie, del fratello; non è vero? Ella ora mi permetterà di dirle, e mi crederà quando io le dico che queste amabili persone mi piacciono. Allarghiamo il cerchio intorno a Lei: viene la casa, ed io sarei un ingrato, se non amassi il luogo dove ho ricevuto una così gentile accoglienza, una così schietta e cordiale ospitalità….
—C'è dell'altro?—interruppe Fiordispina.
—Sicuro, perchè la cerchia s'allarga ancora;—rispose Gino.—Intorno a Lei, ai suoi parenti, alla, casa, ci sono le Vaie, c'è questa convalle così verde e così fresca, con le sue belle boscaglie, le sue cascate cristalline, il suo stupendo Cimone che fa la guardia lassù. Signorina,—conchiuse il giovane,—tutto ciò che la circonda è bello; sarà forse un complimento, e non un omaggio reso alla verità, il dire che mi piace?—
Fiordispina rimase un istante sopra di sè, non sapendo che opporre a quella argomentazione serrata. Ma una donna, saprete anche questo, non può restare troppo a lungo senza ragioni con cui schermirsi da un attacco di parole.
—Sì;—diss'ella, dopo quell'istante di pausa;—ma Ella non ha risposto alla mia prima domanda. Le parlavo de' miei conigli; se ne ricorda? Capisco;—soggiunse ella subito, non lasciandogli tempo a rispondere;—questa mia le sarà parsa un'occupazione volgare. Ma l'avverto, signor conte, che non ci sono solamente i conigli. Passeremo poi alle galline, ai colombi….
—Ed anche ai buoi!—gridò Gino, interrompendo a sua volta.—Son belli anch'essi, e i loro occhioni umidi piacquero tanto ai Greci, che essi ne fecero una particolarità della bellezza di Giunone, della regina di tutti gli Dei. I buoi, si dice, non sono intelligenti. La cosa non è provata; ma, se anche lo fosse, che importerebbe? Questi animali sono operosi e buoni; vivono nel campo e per il campo; hanno la pazienza dignitosa, che non è facile trovare in altre bestie, e neanche tra gli uomini; formano parte integrante del paese, componendosi stupendamente con la sua prospettiva, e completano, direi quasi, il sentimento morale che sorge spontaneo dalla sua agreste bellezza.
—Ho piacere che senta la poesia dei nostri monti, delle nostre convalli, com'Ella diceva poc'anzi.
—E che crede, signorina? Che della poesia non ne nasca più, nelle nostre pianure?
—Ah, bene!—esclamò Fiordispina.—Questa è una restituzione.
—Per esser pari;—disse Gino umilmente.
—E lo siamo ora;—rispose la fanciulla.—A me piace molto la sincerità.
—In ogni cosa?
—In ogni cosa. Perchè mi fa questa domanda?
—Per aprirmi la via a fargliene un'altra.
—Interroghi pure; son qua;—disse Fiordispina con quella sua gravità che mal nascondeva la voglia di ridere.
—Orbene,—riprese Gino,—per la sincerità…. Ella non ignora che sono stato accolto dal signor Francesco come un figliuolo della famiglia. Fratello con Aminta, lo sono del pari con Lei. Per la sincerità, dunque, mia sorella Fiordispina dovrebbe dirmi una cosa.
—Anche due.
—Non sarò tanto indiscreto. Le domanderò solamente come passa la sua vita alle Vaie.
—Ma…. Come vuole che la passi? Come la passerei dovunque: cioè molte ore del giorno in casa, a cucire, a curar le faccende di casa, a leggere, a suonare il mio pianoforte, e poi, mattina e sera, un pochettino a passeggio.
—Ah sì!—disse Gino. Il passeggio…. Che passeggio può essere il suo, alle Vaie?
—È bello anche qui, e piacevolissimo;—rispose la fanciulla.—Ci sono, sparse in questi dintorni, tutte le bellezze naturali che nelle città si ottengono a forza di imitazioni e d'artifizi. Stamane, andando a Querciola, non l'ha veduta, la cascata del Chiuso? Dicono che somigli tanto all'orrido di Varenna, sul lago di Como. E la salita del Poggio? Dev'essere una specie di Montagnola, col suo bel colmo all'aperto, meno la vista di Bologna nel basso.
—E meno la gente a passeggio per i suoi larghi viali;—osservò il conte Gino.
—Che importa?—replicò la fanciulla.—Si è più soli, qui, ma si è per compenso più liberi. Cerca la compagnia della gente chi ha ragione o desiderio di farsi vedere.
—Per il desiderio, passi; ma la ragione, nel caso suo, ci sarebbe davvero. Ma lasciamo stare questi discorsi, che avrebbero l'aria di preparare un complimento….
—Non hanno più l'aria;—interruppe Fiordispina, ridendo.—Il complimento è già fatto.
—Ah sì? Non me n'ero avveduto;—rispose candidamente Gino.—Ma l'orizzonte di queste sue passeggiate?…
—È breve, e mi basta.
—Le basta? Le basta? Mi permetta di dirle che ciò è molto strano.
—Perchè?
—Perchè…. Non saprei come dirglielo, ma sento così. Ci sono i momenti, nella vita, che l'anima non si contenta della sua prigione, e vorrebbe spaziare in più libera cerchia; dei momenti che il pensiero va lontano, di là dai monti, cercando.
—Per trovar che cosa?—domandò Fiordispina.
—Non so; forse altri monti. Ma questa è colpa del mondo, che è fatto così, non dell'anima nostra, che anela a cose migliori. E poi, signorina, anche ignorando la meta, si cerca, si desidera, si aspira, per un'idea confusa di ciò che sarà, o di ciò che dovrebbe essere un giorno.—
Fiordispina levò gli occhi, mandando anch'ella uno sguardo, lo sguardo dell'anima, di là dai mari e dai monti; poi disse:
—C'è una ballata di Goethe, che esprime un sentimento come questo.
Nel Wilhelm Meister, mi pare.—
Il conte Gino Malatesti non era così forte di letteratura straniera.
—Ho piacere d'incontrarmi con un tant'uomo;—diss'egli;—ed ho piacere che Ella possa citarlo così. Ma anche questo è strano, nelle convalli del Cimone; e sia detto senza offendere la dignità di questo bel monte. Dovrà Ella, signorina, vorrà e potrà viverci sempre?—
La fanciulla rimase un istante sovra pensiero. Non c'era qui nessun autore da citare? Io penso piuttosto che Fiordispina non era pedante, come son troppi, uomini e donne che hanno studiato, e che non condannava la gente a sentire ad ogni tratto un saggio delle sue letture predilette.
—Non mi risponde nulla?—ripigliò il giovanotto.
—Che cosa rispondere a questa domanda? Non è in mio potere;—disse Fiordispina.—Sarò io la foglia che vola dove il vento la porta? Sarò io l'umile pianta che muore dove è nata? Certo è che bisogna rassegnarsi. Foglia o tronco, ci governa il destino.
—È fatalista?
—No davvero; dico il destino, per modo di dire, ed intendo una volontà superiore. Ma lasciamo la filosofia, per carità;—soggiunse ella, con un gesto di terrore.—Vede, signor conte? I miei conigli scappano. Queste povere bestiuole non hanno meritata una lezione così severa. Del resto, non la intenderebbero neanche. Basta a loro di aspettare ogni giorno la provvidenza mia, come l'aspetteranno a quest'ora le galline e i colombi.
—Andiamo!—disse Gino.—Se possiamo adoperarci per la felicità di qualcheduno, sulla terra, non dobbiamo farci pregare.
—Ecco un bel pensiero, signor conte.—
Così dicendo, la fanciulla dei Guerri si avviò verso l'uscio. Gino la seguì, e richiuse diligentemente la porta, senza farselo dire da lei. Vedrete da questo piccolo particolare che il conte Malatesti non era uno sventato, e che entrava con molta sollecitudine nella gravità dell'ufficio.
Per quella mattina non più ragionamenti con la fanciulla dei Guerri; fu solamente quello scambio di parole che era necessario nelle piccole vicende, nelle insignificanti peripezìe d'una visita al pollaio e alla colombaia. Poi venne l'ora del pranzo; ed anche a tavola non furono che discorsi vani, o senza importanza, tra i quali il nostro giovanotto se la cavò discretamente, nascondendo il sentimento di tristezza che si era impadronito di lui.
Che cos'era avvenuto? Esplorare i segreti di un'anima è cosa difficile assai, e meglio varrebbe inventare di sana pianta. Ma le invenzioni non giovano che a patto di essere verisimili. Voi per esempio avrete sentito dire le mille volte che spesso avvenga di esser tristi senza ragione. Ma è proprio vero, questo? E non è a vederci piuttosto un effetto della nostra ignoranza, per difetto d'indagini? In quei momenti di tristezza, chi ben cerchi, c'è sempre il fatto d'uno squilibrio morale tra ciò che siamo e ciò che vorremmo e dovremmo essere. Sia luogo o genere di vita, o sentimento più intimo, se ciò che noi siamo per necessità, o che la nostra stoltezza ci ha condotti ad essere, non corrisponde a quello che intravvediamo di meglio, è naturale che la tristezza ci offuschi lo spirito. Ma se fossimo quel che vogliamo, o dobbiamo, saremmo poi più felici? Altro errore, pur troppo, altro inganno di prospettiva, poichè non ci contentiamo mai di quello che abbiamo, e desideriamo sempre ciò che è da raggiungere ancora. Così l'uomo è triste, e di simili tristezze è tessuto il drappo funebre della nostra esistenza.
Il conte Gino aveva poi, per argomento di tristezza, tutto quello che non diceva a sè stesso. Vi è occorso mai di ricevere una lettera e di lasciarla per qualche tempo chiusa sul tavolino, sperando che qualche noia più grande, magari una vera disgrazia, vi levi l'incomodo di leggere quello scritto, in cui fiutate il rimprovero, o una seccatura a cui non potrete sottrarvi senza venir meno a tutte le norme dell'onestà? Con pari sospensione d'animo viveva il conte Gino, a cui una parte della sua vita avrebbe potuto rimproverare quella avventura sui monti, quella volata al sereno, quella ebbrezza (chiamiamola pure così) quella ebbrezza di ossigeno. Ah, se gli fosse riescito di cancellare!… Ma che cosa? Dio buono! Era qui il nodo della quistione, il punto che ricusava di guardare, la cosa, che non osava dire a sè stesso.
Capitolo V.
Il commissario e l'applicato.
Ritornato quella sera a Querciola, il conte Gino Malatesti indovinò la ragione dei discorsi che il signor Aminta aveva fatti sottovoce al Mandelli. E ancora indovinò perchè il signor Francesco Guerri e suo figlio, ritiratisi a colloquio d'affari, lo avessero lasciato solo, fino all'ora del pranzo, in quella dolce libertà che gli aveva permesso di scendere nella stufa e di aver poi quella lunga conversazione con la bella Fiordispina.
La sua camera, in casa Mandelli, era completamente trasformata. Gino incominciò a vedere un letto nuovo, di ferro, col suo tappeto da piedi, il suo comodino accanto, il suo candeliere e perfino il grazioso arnese di velluto su cui posar l'orologio. Più in là era un cassettone, e vicino a questo, in un angolo, l'attaccapanni. Di rincontro alla finestra era una piccola scrivania, con carta, penne, calamaio, ed anche dei libri. Guardò quei volumi, e riconobbe la Divina Commedia, la Bibbia, un compendio di Storia romana, e finalmente un dizionario storico-geografico del Ducato di Modena.
Tutta quella roba era stata caricata, portata e messa a posto nella giornata. Parecchie persone, di certo, avevano lavorato all'impresa, sotto la scorta di Aminta, che infatti, appena finito il pranzo, era sparito da casa, non ritornando che verso sera, quando per il conte Gino era venuta l'ora di ritornare a Querciola. Ottimo fratello Aminta! Ma se egli aveva lavorato con tanta sollecitudine lassù, non mancavano traccie del pensiero di Fiordispina. I libri, sicuramente, li aveva scelti lei. Quel copertoio trapunto, che si vedeva disteso sul letto, quel grazioso arnese per deporvi l'orologio, quel piè di lampada ricamato che stava sulla scrivania, non erano forse opere sue? Aggiungete che a pian terreno, nella stalla del Mandelli, dov'era stata rinnovata la paglia, riposava il cavallo su cui Gino Malatesti aveva già fatto tre corse. Un famiglio dei Guerri, destinato al governo del cavallo, doveva rimanere a Querciola, come servitore di Gino.
Un sentimento di gratitudine si associò naturalmente nel cuor suo alla sensazione di piacere che gli aveva destato la vista di tante novità. Quella notte, sdraiato nel soffice letticciuolo, al tepore delle morbide coltri, al profumo delle lenzuola di lino (le aveva prevedute di canapa, e con molti stecchi per giunta), il nostro giovinotto sognò beatamente i suoi ospiti e benefattori delle Vaie. Era più che mai il figlio prediletto dei Guerri. Aminta gli aveva stretta la mano, giurandogli eterna amicizia; Fiordispina lo amava; il signor Francesco gli sorrideva, e Don Pietro Toschi, parroco delle Vaie, lasciata la pipa in canonica, si disponeva ad andare nella sagrestia, per vestire i sacri paramenti e dar la benedizione di rito. Così almeno pareva a Gino, perchè nel sogno non vediamo solamente gli atti, ma leggiamo anche nei cuori e indoviniamo le intenzioni della gente.
Per intanto, mutata facilmente la scena, egli passeggiava in un bosco di cerri, e Fiordispina era sospesa al suo braccio. Che pace, Dei immortali, che soavità, che fragranza d'idillio! Ecco, si erano fermati, e con le punte dei coltelli incidevano i loro nomi nei tronchi degli alberi: egli il nome di Fiordispina; ella il nome di Gino. Ma che malìa era quella? Aveva proprio scritto egli? La fanciulla dei Guerri veniva accanto a lui, per leggere il suo nome, e scambio di quello, vedeva inciso nella corteccia un altro nome, e ben chiaro: il nome di Polissena.—Che è ciò? domandava turbata.—Non so; come può essere avvenuto questo cambiamento? Io avevo pure scritto: Fiordispina.—Ebbene, quel che tu fai, conte, è ben fatto. Purchè non sia il nome di un'altra!…
Fremeva egli a quelle parole di lei; smaniando, si affrettava a cancellare; ma quel nome, che egli non intendeva come si fosse formato sotto la punta del suo coltello, quel nome restava, anche inciso nelle bianche fibre del tronco, dopo che egli ne aveva strappata la corteccia. E si disperava, tempestando di colpi quelle lettere fatali; ma Fiordispina non era là più a vederlo, Fiordispina era sparita; ed egli, gettato sdegnosamente il coltello, dava in uno scoppio di pianto.
Destatosi da quel brutto sogno, riebbe un po' di calma, non intieramente la serenità dello spirito. Oramai poteva capire come e perchè fosse rimasto malinconico, dopo il suo colloquio con la fanciulla dei Guerri. Ma infine, sorgendo il sole e cacciando davanti a sè le torpide nebbie della vetta del Cimone, infine, che cosa aveva egli fatto di male? Si era forse innamorato alle Vaie, mostrandosi infedele al suo amore di Modena? Il sole incominciava ad apparire dal monte, e un primo raggio batteva alto sulla finestra della sua camera. Gli parve allora che un simile dubbio non fosse neanche possibile. Maledettissimo sogno! Come lo aveva spaventato! Fortunatamente, nel suo esame di coscienza, fitto alla bella luce del giorno, il conte Gino Malatesti non trovò che cortesie e gentilezze, risposta naturale a gentilezze e cortesie. La gioventù, l'innocenza, la grazia, si sa, ispirano sempre un pochino di tenerezza, domandano qualche piccolo omaggio. È da cavalieri, poi, servire a tutte le dame, non amando che una. Egli non aveva detto niente di particolare alla fanciulla dei Guerri, niente che potesse apparire una dichiarazione d'amore, e da questo lato la marchesa Polissena poteva vivere pienamente tranquilla.
Doveva esser bella, in quell'ora del sonnellino d'oro, la regina de' suoi pensieri. Perchè ella certamente riposava ancora, in quel punto. Era una gran dormigliosa, la marchesa Polissena. E doveva star così bene, con la sua cuffiettina di pizzi, donde sbucavano le ciocche de' capegli dorati! Gino ripensò allora i bei giorni, le ore liete, e quella famosa corsa in Piemonte, che sicuramente aveva fornito al sospettoso governo ducale uno dei più forti capi d'accusa contro di lui. Strana donna, la marchesa Polissena! Curioso impasto di paure e di audacie, di rispetti umani e di cieche temerità! Perchè spesso, quasi sempre, egli era obbligato ad infingersi, a fare il cerimonioso, in obbedienza agli ordini della bionda signora. In casa di lei convenivano ufficiali dell'esercito ducale, consiglieri, magistrati, senza contare tutti i nobili, vecchi e giovani, pari di grado e d'importanza al conte Gino Malatesti. C'erano delle serate che la marchesa gli rivolgeva appena il discorso. Ma guai se egli, adattandosi a quel giuoco e volendo pur secondarlo, faceva il galante intorno a qualche altra. Passando daccanto a lui, con un pretesto, o chiamandolo per suo aiutante nella distribuzione del tè, gli gettava una di quelle parole che lo facevano tremare per ogni vena.
Dopo una di quelle collere, per l'appunto, era cascato il viaggio a Torino. Doveva fingere di avere anch'egli necessità di andare a Piacenza, ultima città dello Stato limitrofo ed amico; ottima occasione per accompagnare un tratto di strada la signora marchesa Baldovini, che noti interessi di famiglia chiamavano allora a Torino. Da Piacenza era sconfinato sul territorio piemontese, cedendo così volentieri ad un bel capriccio di lei, che era in uno de' suoi momenti di audacia, di temerità, di pazzia. Ma da Torino la marchesa Polissena era ritornata sola a Modena, ed egli aveva dovuto, per rispetto a lei, rimanere dell'altro in Piemonte. Non a Torino, veh! per causare il pericolo delle distrazioni. Polissena si era fatta accompagnare fino ad Alessandria, e là aveva condannato il conte Gino a rimanere tre giorni, a contemplare i rossi baluardi della cittadella, o a contar le ore sul quadrante del palazzo comunale. Questo rimanere più a lungo e da solo nel territorio scomunicato, aveva certamente insospettito il governo ducale. Francesco V poteva creder benissimo che quello del giovane conte Malatesti non fosse un viaggio a Citèra, per offrir sacrifizi alla madre d'Amore, ma un vero e proprio pellegrinaggio a Delfo, per consultare gli oracoli della Patria.
Ahi, Polissena! Da quel giorno gli sgherri avevano posto gli occhi su lui. Se egli soffriva il confine a Querciola, si poteva benissimo accusarne un discorso tra amici in festa, ma non senza farne risalire l'origine a quel viaggio, e per conseguenza all'amabile capriccio della marchesa Baldovini. Lassù, nei pressi del monte Cimone, gli era avvenuto di trovarsi solo, di respirare un istante più liberamente, senza il pericolo che la marchesa gli passasse daccanto e gli gittasse una di quelle parole che lo facevano tremare. Ma infine, come prima, nel salotto di lei, anche allora, alle falde del Cimone, egli non si sentiva in colpa. E perchè, poi, le sarebbe stato infedele? Gratitudine, sì, ne aveva molta ai signori delle Vaie, e doveva in qualche modo dimostrarla. Quelle cure amorevoli, quegli inviti a pranzo, erano cose di tutti i giorni; ma egli, nella condizione in cui era, non poteva neanche ritrarsene. Per altro, si sentiva sicuro di sè, avrebbe anche fatto buona guardia al suo cuore, contro gli inganni della fantasia, contro le tentazioni del tempo e del luogo. La cosa era necessaria altresì per riguardo a quella gentile fanciulla, così bella, così intelligente, ma pure così inesperta delle cose del mondo. Sarebbe stato brutto, indegno di lui, turbar la pace di quell'anima verginale. Al posto, adunque, signor Gino degnissimo, al posto! È così facile, quando si vuole davvero!
Chi gli diceva di no? Chi mai gli bisbigliava nel cuore che certe cose è più facile immaginarle che farle? Sicuramente un genio maligno, uno spirito noioso, che vive dentro di noi e fa la critica di tutti i nostri pensieri. Dovrebb'essere il diavolo della logica: un diavolo arguto, dopo tutto, e non cattivo come sembra; ma riesce ordinariamente antipatico, perchè contraddice volentieri e ci mette alla disperazione con le sue ironie sanguinose.
Ah sì, spirito malnato? Credi proprio che sia tanto difficile il fare una cosa, quando si vuole davvero? Aspetta un pochino anche tu, e vedrai come ci si riesca.
Davanti a quel fermo proposito, il genio maligno taceva, quasi umiliato, e ritirava le corna. Gino, frattanto, inforcava il cavallo, per ritornare alle Vaie.
Ci andò per due giorni ancora, abbastanza contento di se medesimo. Oramai, forte della sua risoluzione, il nostro giovinotto poteva credersi agguerrito al pericolo. Parlava liberamente con Fiordispina, non cercando mai, ma neanche sfuggendo l'occasione di trovarsi solo con lei. Più volentieri restava in conversazione con la famiglia riunita, e allora faceva pompa di tutto quello che sapeva, ragionando con garbo, girando le frasi con arte, dando alle parole tutte le più dolci inflessioni di voce. Non è forse lecito, questo? Non è anzi un dovere, quando vogliamo farci ascoltare senza troppa noia da un numeroso uditorio? Cercar di piacere alla gente non fu mai un delitto; è anzi una bella cosa, quando è l'unica che possiamo fare, a ricambio di tante gentili attenzioni che ha la gente sullodata per noi.
La sua presenza era molto gradita, nella casa dei Guerri. Anche i re conoscono la noia, e un discorritore ameno, che parli gravemente di mode e gaiamente di cose scientifiche, buon dilettante per ragionare senza sussiego di arte e di lettere, diplomatico raffinato per toccare, senza scoprirli, i segreti dei gabinetti, e per dipingere con un rapidissimo tocco i piccoli difetti dei sovrani esteri, che sono fratelli e cugini del padrone di casa, è veramente la man di Dio in un circolo intimo, donde il cerimoniale è per due ore sbandito. Per i re della montagna, il conte Gino era come una gaia nota di sole nel fosco della macchia; la sua presenza una bella meteora, la sua conversazione un fuoco d'artifizio. Anch'essi, tanto buoni e ricchi di quella gentilezza che non s'impara lì per lì, ma che è il frutto di una lunga educazione, fors'anco eredità di famiglia, anch'essi, dico, si facevano più amabili al contatto dell'ospite, fresco degli usi e delle garbatezze cittadine, brillavano anch'essi di quella vernice, che, a dirvi la cosa molto volgarmente, tutti i corpi son capaci di prendere per sola virtù di strofinamento. Ed avveniva allora nella casa dei Guerri ciò che spesso accade in una brigata di persone civili, quando, per opera non avvertita di uno, che abbia garbo e misura, tutti si accorgono con meraviglia di avere avuto più spirito.—Come è passato il tempo! si dice. E siamo proprio noi, che ci siamo divertiti così?—
Vi ho detto che Gino fu ancora per due giorni alle Vaie, con molta sicurezza di sè. Ci era andato il terzo giorno; ma la sua tranquillità era stata turbata sul più bello. Si stava appunto per prendere il caffè, quando vennero a chiamare il signor Aminta, che andò subito fuori, e ritornò dopo cinque minuti.
—Sai?—diss'egli a Gino.—Ci sono due signori a Pievepelago.
—Ah!—esclamò Gino, turbato.—Cercano forse di me?
—Lo credo, perchè hanno domandato la via di Querciola. L'uomo che è venuto ad avvertirmi in fretta mi dice che all'aria gli sembrano due impiegati del governo ducale.
—Due commissarii! Troppo onore;—borbottò Gino.—E come ne sei stato avvertito?
—Prevedevo la visita,—rispose Aminta,—ed ho stabilito il mio servizio di esplorazione.
—Grazie, mio buon amico e fratello! Ed ora, potranno esser qua da un momento all'altro.
—No, perchè si erano messi a tavola, quando il mio esploratore montava a cavallo. Del resto, puoi riceverli qui.
—Che! Non mi conviene davvero.
—E perchè?—domandò il signor Francesco.—Ella è in casa sua.
—Appunto per questo che a Lei piace di dire;—rispose Gino, ridendo.—I satelliti del tiranno vedrebbero che sto troppo bene, fra queste montagne. Cattivi come le scimmie, mi farebbero subito un brutto servizio presso l'autorità superiore, e questa, con un suo nuovo rescritto, mi manderebbe Dio sa dove.
—Allora scappi subito!—dissero le signore.
Aminta corse nella scuderia, a far sellare il cavallo di Gino. Per quel giorno, intanto, addio conversazione!
—Ci porti notizie, quando saranno ripartiti;—disse il signor
Francesco, stringendo la mano al suo ospite.
—Oh, sicuramente; non dubiti. Signore mie, compiangano un povero condannato, che deve obbedire al precetto.—
Cinque minuti dopo, era a cavallo, e Aminta lo accompagnò fin sulla strada.
—Non correre tanto;—gli disse.—Per venire a Querciola debbano passare di qua. Se anche hanno trovato muli a Pievepelago, non c'è pericolo che vengano al trotto. Comunque, noi non offriremo loro i cavalli per raggiungerti. Quando ci rivedremo?
—Se mi lasciano,—disse Gino,—fo una trottata stasera.
—Bravo! Ti hanno guastata la fine del pranzo; vieni a cena.
—Eh! Perchè no? A rivederci. Se non posso liberarmi, ti mando
Pellegrino con le mie notizie.—
Pellegrino era il famiglio dei Guerri, collocato da questi al servizio di Gino Malatesti.
Il nostro confinato era già da due ore nel suo eremo di Querciola, e incominciava a credere che quello di Pievepelago fosse stato un falso allarme, quando sentì un batter di ferri sul selciato della strada.
—Ah, ah, ci siamo!—disse Gino tra sè.—Ed hanno anche trovate le cavalcature, quei manigoldi!—
Lo scalpitìo, frattanto era cessato, perchè i cavalli, o muli che fossero, avevano raggiunto il colmo della salita, davanti alle prime case di Querciola. Non andò molto che Gino sentì un rumore di passi su per le scale.
Il vecchio Mandelli precedeva i forastieri. Affacciatosi all'uscio della camera, che Gino aveva lasciato socchiuso, disse al suo inquilino:
—Signor conte, son qua due signori che cercano di Lei.
—Entrino pure;—rispose Gino, smettendo di leggere, ma lasciando aperto sulla scrivania il Dizionario storico geografico dello Stato di Modena.
Il vecchio Mandelli si ritirò, e in sua vece si presentarono le due facce proibite che avevano guastata la digestione del conte Gino, facendolo correre con tanta fretta dalle Vaie a Querciola. Dico facce proibite per far piacere al nostro eroe; ma nel fatto erano due facce insignificanti; completamente rase, perchè a que' tempi non si amavano le barbe, e i pizzi e i mustacchi erano proibiti come le pistole corte, anzi come le pistole d'ogni misura e le armi d'ogni genere. I due possessori di quelle facce erano vestiti di nero, e i loro atti apparivano molto cerimoniosi, ma non senza quel po' di sussiego che ha sempre indicata la dignità di un ufficio governativo. Dal contegno dell'uno rispetto all'altro, dalla distanza che il secondo mantenne venendo dietro al primo, si capiva facilmente che quegli era inferiore di parecchi gradi al suo compagno di viaggio.
—Ella ci perdonerà, signor conte, se veniamo a scomodarla;—disse il superiore.—Adempiamo un incarico del governo.
—Facciano pure;—rispose Gino, accennando due seggiole, ma non degnandosi di domandare in che consistesse l'incarico.
—Niente di noioso o di lungo, per altro;—ripigliò l'oratore.—Una semplice ricognizione, e punto offensiva. Sua Eccellenza desiderava di sapere se Vossignoria ha trovato modo di collocarsi a Querciola.
—Ci sono venuto subito, appena ricevuto l'ordine;—rispose Gino, niente ingannato dalla forma garbata in cui quell'altro gli presentava la cosa.
—Veramente,—disse il commissario,—questo è un paese poco abitabile, se debbo giudicarne dalla strada che abbiamo fatta per giungerci, e dalla meschina apparenza delle case. M'immagino che Sua Eccellenza non lo conoscesse altrimenti che sulla carta.—
Gino rispose con un cenno del capo, che voleva dire e non dire. A quel discorso del signor commissario, in verità, non c'era nulla da rispondere.
—Siamo tra contadini a dirittura;—continuò il commissario.—Ed Ella, signor conte, non ci avrà distrazioni.—
Gino sospirò; poi rispose al signor commissario:
—Che farci? Il confine è una punizione, e come tale non ammette passatempi, oltre quelli che un uomo industrioso, ed anche di facile contentatura, sa trovarsi da sè.
—Studiando, non è vero? Ha qualche libro, come vedo.
—Poca roba, signor mio: la Bibbia, la Divina Commedia, una Storia
Romana antica….
—Ah, buono studio!—esclamò il signor commissario.
—Certamente!—disse Gino.—È molto interessante. Par di vivere in tempi migliori.
—E stava per l'appunto vivendo cogli antichi, quando noi siamo venuti a disturbarla.
—No, per il momento facevo dell'altro; cercavo qualche notizia in questo Dizionario storico e geografico del Ducato. Desidero di conoscere questi paeselli di montagna, per fare qualche passeggiata.
—Ottima cosa, poichè si è in campagna;—disse il commissario.—E qui ci ha una bella prospettiva?
—Ne giudichi Lei, signor commissario. Si affacci pure alla finestra.
Vedrà molto verde.—
Il signor commissario si degnò di andare alla finestra, e di metter fuori il suo naso.
—Sì, veramente, molto verde;—diss'egli ridendo.—Nient'altro che verde.—
Gino, frattanto, si sentiva cacciar tra le dita qualche cosa, come una lettera, o un foglio di carta ripiegato.
Si volse a guardare il compagno del commissario, l'inferiore di grado, il semplice applicato, e vide ne' suoi occhi un lampo, un cenno d'intelligenza, una raccomandazione muta. Poi quel lampo si estinse; il cenno e la raccomandazione si smarrirono nella tinta scialba della sua faccia marmorea.
Il giovanotto ebbe a mala pena il tempo di far scorrere in tasca il foglio di carta, perchè il signor commissario si era già ritirato dal vano della finestra, per rivolgersi a lui.
—Del resto,—disse l'oratore del governo ducale, dopo aver data una guardatina in giro,—Ella è abbastanza bene, in questa cameretta.
—Con qualche mobile preso in affitto;—rispose Gino umilmente.
—Difatti,—riprese il commissario,—questi mobili non somigliano punto agli altri della sala d'ingresso, e stuonano anche con la misera apparenza della casa. Mi maraviglio che abbia potuto trovarne in questi dintorni.
—Appena giunto a Querciola ne dubitavo anch'io;—rispose Gino, seccato da quel discorso, ma vedendo la necessità di condurre il suo interlocutore fuori di strada.—Ma offrendo danaro… Ella mi capisce!
—Buona cosa averne molto;—osservò giudiziosamente quell'altro, che forse pensava in quel punto al magro stipendio per cui faceva da tanti anni un ingrato mestiere.—Ella è felice, signor conte!
—Ma sì, ma sì! Non mi lagno.
—Ed ha notizie di suo padre, di quell'ottimo conte Jacopo?
—Nossignore, e di nessuno della mia famiglia;—rispose Gino, contentissimo di essere uscito salvo dalla rassegna dei mobili.—I miei parenti mi tengono il broncio, e si capisce, perchè il governo mi ha preso in sospetto come un reprobo.
—Eh via!—disse il commissario, con accento di benevolenza somma.—Non chiami castigo una correzione paterna, per una colpa giovanile… che forse non sarà nemmeno una colpa.
—Dice bene, e levi pure il forse.
—Tanto meglio, e me ne congratulo con Lei;—ripigliò il commissario.—Allora è da sperare che tutto venga in chiaro tra breve, e che, per conseguenza, dopo un paio di mesi… dopo tre….
—Metta anche sei;—interruppe Gino.—Non è privilegio della verità il venire così presto alla luce. Ella sa, signor commissario, che questa bella signora l'hanno relegata nel fondo di un pozzo.—
Il vecchio funzionario sorrise. Capiva anch'egli benissimo che il confine non sarebbe levato così presto e che il conte Malatesti non poteva pascersi di troppe speranze in proposito.
—Speriamo almeno,—diss'egli,—che per i meriti del suo signor padre…
—Ecco, veda;—replicò Gino, mozzandogli le parole in bocca.—Per i meriti di mio padre possono dare un'altra decorazione… a mio padre. Il figlio, se ha errato, paghi; se non ha errato, riconoscano la sua innocenza. Non Le pare?
—È la logica, lo riconosco;—rispose il commissario, che incominciava a seccarsi di quella disputa, in cui il conte Gino voleva aver sempre ragione.—Ma Ella vuol troppo severo il nostro venerato governo, ed amo credere che ciò sia perchè Ella non ha ragione di meritarne i rigori.
—È così;—disse Gino.
—Dunque, signor conte… vuol notizie di Modena?—
Gino aveva sperato che il commissario si disponesse a prendere commiato, e già era per alzarsi. Il resto della frase lo trattenne. In fondo, meglio così; la conversazione prendeva un tono migliore, e le notizie di Modena erano sempre buone a sapersi.
—Mi fa un favore;—diss'egli inchinandosi.
—Prima di tutto, il suo signor padre sta bene. L'ho veduto ieri mattina in via Emilia, che andava a fare la sua solita passeggiata. Gli altri di casa sua, tutti bene egualmente. È ammalato il conte Azzolini, canonico del Duomo; ma quello ha ottantasei anni, poveretto, ed è pieno di acciacchi. Il marchese Frassinori è caduto ier l'altro da cavallo, ma senz'altro danno che qualche contusione. Le belle signore di Modena son tutte in grande fermento, per la riapertura del teatro.
—Diamine!—esclamò Gino.—E perchè si riapre il teatro?
—Caso strano, signor conte, caso eccezionale! È venuta a passare qualche settimana in patria la nostra famosa Venturoli, stella di prim'ordine nel cielo dell'arte, reduce dai suoi trionfi di Pietroburgo. Ella ha accettata la proposta di farsi sentire dai suoi concittadini, e darà quattro rappresentazioni, due della Lucia di Lamermoor e due della Sonnambula, che sono, come Ella sa, i suoi due cavalli di battaglia. Grande aspettazione, perciò, e si prevede che verrà molta gente, anche da Guastalla e da Reggio. Noi siamo debitori di questa fortuna insperata alla signora marchesa Baldovini.
—Ah, bene!—disse Gino.—È una dama di buon gusto, la signora marchesa. Strano, per altro, che non mi abbia detto nulla di tutto ciò, l'ultima sera che ebbi l'onore di andare alla sua conversazione.
—Si capisce: la cosa è nata lì per lì, appena si seppe che la Venturoli era giunta. La marchesa ha conosciuta la celebre cantante a Milano. La conosceva già da ragazza, io credo; ma deve aver rinnovata la conoscenza, quando la nostra insigne concittadina fece quel gran fanatismo alla Scala, sei o sette anni fa. L'altra sera, in conversazione, fu detto alla marchesa che la Venturoli era a Modena. So la cosa dall'illustrissimo signor presidente del tribunale, che ha qualche bontà per me, ed è così bravo dilettante di violino. La marchesa ebbe allora l'idea di farla cantare a Modena. Detto fatto, andò la mattina dopo a trovarla, e venne a capo di tutto, È onnipotente, la signora marchesa! Ier l'altro era già ottenuto il permesso e combinato ogni cosa. Si aspetta un tenore, con un baritono e alcune seconde parti, mandato a cercare in fretta a Milano. Quanto al basso, c'è l'Orlandi, nostro modenese anche lui, che fortunatamente era a casa, in attesa di scrittura. Ah, saranno quattro serate magnifiche, quattro serate deliziose!
—Ella ama molto la musica, signor commissario?
—Dica che ne vado pazzo, signor conte. Che si fa celia? Un po' di buona musica, è il maggiore dei conforti.
—Sarà dilettante, m'immagino; suonerà qualche istrumento.
—Nelle ore d'ozio, e piuttosto male, il violoncello;—rispose il commissario, con l'atto e l'accento di finta umiltà, per cui vanno distinti i virtuosi seguaci d'Euterpe… e d'altre Muse parecchie.
—Ottimamente!—disse Gino, salutando.
E sorrise, pensando alla bella figura che doveva fare il signor commissario, con quell'enorme violino ritto tra le ginocchia. Ma sorrise per poco, ritornandogli a mente la signora marchesa Polissena, che pensava a metter su spettacoli teatrali, e proprio in quel giorno che egli correva da Modena a Pavullo, per recarsi al suo luogo di esilio. Ahimè! Così va il mondo. Anche quel povero Ovidio, cavaliere e poeta, veleggiava tristamente verso l'Eusino, e frattanto le belle dame romane, amate e cantate da lui, andavano allegramente a teatro, non cercando più l'elegante profilo del poeta nella precinzione dell'ordine equestre.
—Beati loro che si danno bel tempo!—soggiunse Gino, dissimulando l'amarezza del ricordo particolare sotto quella espressione di rimpianto generico.
—Che vuole, signor conte? Si fa il possibile per tener lontana la noia. Il paese è tranquillo e contento e speriamo che le cose vadano di bene in meglio. Quando il raccolto è buono e la gente ha lavoro, che desiderare di più, se non qualche ora di svago intelligente, nel culto delle arti belle?
—Ha ragione;—disse Gino.—E tutto sia per il meglio, nel migliore dei mondi possibili.—
Così dicendo, si alzò per davvero, volendo farla finita. Il nostro giovinotto non ne poteva più; aveva un diavolo per occhio.
—Mi duole, signor commissario,—riprese,—di non aver nulla da offrirle.
—Oh, non s'incomodi; abbiamo desinato a Pievepelago.
—Ma neanche un bicchier di vino che meriti questo nome. Il raccolto dell'altr'anno dev'essere stato scarso, perchè qui non han nulla di nulla.
—A proposito: e che mangia?
—Vivono le galline, fortunatamente;—rispose Gino.—Ova sode, ova a bere, ova fritte, ova in tegame; questo è il fondamento del pranzo. Vien poi qualche vecchio gallo, che sacrifico ad Esculapio, per ottenere un po' di brodo.
—Via!—esclamò il commissario.—Osservo con soddisfazione che non le manca il buon'umore: segno che sa adattarsi alle circostanze. Lo dirò, se permette, a Sua Eccellenza.
—Dica pure, dica pure;—rispose Gino;—aggiunga, per altro, che non mi lagnerò, se mi richiamano a casa.
—Capisco, ed anche in tempo utile per assistere ad una rappresentazione della Sonnambula; non è vero, signor conte? Questo mi par difficile, non glielo nascondo; ma creda pure che dal canto mio gliel auguro di tutto cuore. La mia servitù!—
Gino stese la mano al signor commissario. E non tanto per lui, che gl'importava pochino, quanto per aver argomento a stringer poi quella dell'applicato, personaggio muto, ma più amico dei fatti che non delle parole, come abbiamo veduto testè.
Quando finalmente fu solo, diede una rifiatata di contentezza; maravigliandosi, per altro, di aver saputo dire tante bugie. Ma è la necessità che fa l'uomo industrioso, e con quelle bugie così naturalmente infilate, il nostro giovanotto aveva custodito il segreto dei piccoli vantaggi materiali e morali che si era procacciati nel suo luogo d'esilio.
Udito il batter dei ferri sul ciottolato della strada, discese per chiamar Pellegrino.
—Ho bisogno di sapere se i due che sono partiti si fermano alle Vaie.
Dovrei ritornarci io, e non mi piacerebbe d'incontrarli laggiù.
—Vado a vedere;—disse Pellegrino.
—Ma senza farti scorgere!
—Non dubiti; conosco tutti i sentieri, e non ho neanche da seguirli fin là. In un quarto d'ora sono alla Pietra Aguzza, donde si vede netta la strada delle Vaie e il portone della casa Guerri.
—Ottimo osservatorio!—disse Gino.—Va dunque, e ritorna appena vedrai quei signori avviati a Fiumalbo.—
Pellegrino escì sulla strada, e il conte ritornò nella sua camera, sorridendo ai mobili che avevano destata la maraviglia del signor commissario.
—Miei buoni amici delle Vaie!—diss'egli in cuor suo.—Vi ho fatti passare per gente che dà la roba a pigione. Scusatemi! Lì per lì non sapevo che altro inventare, e mi sembra già molto di aver trovata questa gretola, per cavarmi d'impiccio.—
In fondo, poi, non gli era capitato a Querciola il peggiore dei commissarii possibili. Un altro arnese della sospettosa polizia ducale avrebbe potuto spingere più avanti le indagini: voler vedere tutta la casa, per esempio, scoprire nella stalla un bel baio ancora sellato e domandare dove mai il conte Gino avesse preso in affitto quel generoso cornipede. Per fortuna sua, il signor commissario non era stato troppo curioso; era anche un dilettante di musica, un suonatore di violoncello a ore avanzate, e i cultori delle arti hanno sempre un lato buono, moralmente parlando, anche se quel lato è artisticamente il cattivo. Ma forse, a proposito di musica, si poteva sospettare che il signor commissario fosse stato un pochino malizioso. Con troppa compiacenza aveva data la sua notizia teatrale! E non era da supporre che conoscesse le relazioni del conte Gino Malatesti con la marchesa Polissena Baldovini? Forse no, e il caso ci aveva avuta la parte sua, come in tante cose di questo mondo. La città, veramente, non era grande, ed anche un semplice commissario di polizia poteva aver conosciuto quel segreto galante del confinato di Querciola; ma in casa Baldovini ci andava Gino come ci andavano cento, a dir poco, dei più ragguardevoli cittadini di Modena, e in questo caso il numero dei frequentatori era piuttosto fatto per confondere lo spirito di un osservatore, che non per guidarlo nelle sue ricerche indiscrete. Finalmente se la marchesa Polissena si era presa in quei giorni tanta cura per quattro rappresentazioni straordinarie, se a lei si doveva che la celebre Venturoli si disponesse a cantare, a deliziare i suoi concittadini con le immortali melodie della Sonnambula e della Lucia di Lamermoor, niente era più naturale del dirlo, quando il discorritore era un dilettante di musica.
Ahi, Polissena! E questo doveva udire dei fatti vostri il povero confinato di Querciola? Doveva egli vedersi dimenticato, trascurato a tal segno? Certamente egli non si aspettava di sapere che aveste preso il lutto, o che vi foste confinata in villa, inconsolabile come Calipso per la partenza di Ulisse. Simili prove di affetto e di dolore veemente si lasciano alle Immortali, che possono far ciò che vogliono, senza badare a rispetti umani, e mandando a quel paese la piccola diplomazia di società. Ma se la marchesa Polissena voleva dissimulare, conveniamone col conte Gino, ella poteva appigliarsi ad un pretesto più ovvio, ad uno espediente meno chiassoso, che non fosse quello di promuovere una stagione teatrale a primavera inoltrata.
—Leggiamo la lettera!—disse Gino, dopo aver fatte, in due o tre o giri per la sua camera, tutte queste considerazioni melanconiche.—E vediamo chi l'ha scritta. Forse è Polissena, che ha trovato il modo di mandarmi una parola di conforto.—
Cavò di tasca il foglio, che era suggellato, ma non portava soprascritta. Lo aperse, e vide subito che quello della lettera non era il carattere di Polissena, bensì di Giuseppe, del servitore che lo aveva accompagnato a Paullo.
Ah, bene! Il suo Carbonaro! E come era venuto a capo di mandargli la sua lettera, proprio per le mani di un impiegato di polizia? Gino Malatesti era giovane; viveva, anche da liberale in un modo tutto suo, e non conosceva i particolari andamenti delle società segrete, che correvano allora per sottilissime fila tutte le città e borgate della penisola italiana. Tra i loro accorgimenti più fini, le società segrete avevano questo, per l'appunto, di mettere uomini fidati in uffici anche umili, ma di grande utilità, intorno al grande avversario comune. A queste loro creature domandavano poco, e solamente nei casi di stretta necessità. E dal canto loro, questi servitori devoti si sentivano molto sicuri, poichè il loro ufficio particolare non era noto che a pochissimi, aiutando a ciò la stessa costituzione delle società segrete, i cui affiliati non si conoscevano tutti fra di loro. La catena era lunga, ma ognuno sapeva del suo vicino di destra e di sinistra, e tutti gli altri anelli si perdevano nell'ombra; nè importava cercare di più, sapendosi spalleggiati e immaginando anche un ordinamento più forte, una catena più lunga e una rete più fitta.
Comunque fosse riescito il suo bravo Giuseppe a fargli pervenire la lettera, egli era un uomo prezioso. Quali notizie gli avrebbe recate la lettera? Gino si dispose a leggere con uno strano batticuore.
—Ecco,—diceva egli tra sè,—qui forse c'è la spiegazione di certe cose che mi hanno fatto un senso così triste, buttate là dal signor commissario. Il mio tormentatore non lo immaginava di certo che accanto al suo veleno, distillato con tanta voluttà, venisse così pronto l'antidoto.—
Così pensando, incominciò la lettura:
«Illustrissimo,
«Eccomi a renderle conto della mia commissione. Appena giunto a palazzo sono andato nella camera di V. S. ed ho trovato il libro che mi aveva detto di portare in quel luogo. Ne ho fatto un involto, e volevo metterci anche la lettera; ma ho pensato che l'involto poteva essere inavvertentemente aperto in presenza di altre persone, e me ne sono astenuto….»
—Bravo il mio Giuseppe!—esclamò a questo punto il lettore.—Ecco qui il vero tipo del cospiratore, che medita su tutto e prevede le più piccole circostanze.—
«Andai verso il tocco—(proseguiva lo scrivente)—dalla nota persona, cioè quando mi fui accertato che era sola in casa, e domandai di parlarle, perchè avevo da consegnarle un libro. La cameriera mi disse che la signora non riceveva. Io allora diedi il libro, accennando che venivo da accompagnare V. S. e che desideravo anche di portarle i suoi saluti, insieme con una sua lettera, per una certa commissione, che non sapevo qual fosse, ma che credevo importantissima, per il modo con cui mi era stata raccomandata da lei la massima sollecitudine. Con questo mezzo, dopo due andate e ritorni della cameriera, potei essere ammesso alla presenza della signora; anzi fu lei stessa che si degnò di venire in anticamera. Consegnai la lettera, ed ella, dopo aver data una scorsa allo scritto, mi disse:—Grazie; sta bene.—Domandai se avesse niente da comandarmi, e mi rispose di no. Mi arrischiai a dirle (scusi se in questo ho arbitrato da me) che avrei trovato il modo di far giungere a V. S. lettere, carte ed altro che mi fosse consegnato; ma ella non mostrò di gradire l'offerta. Avrò fatto male, e gliene chiedo scusa, signor padrone; ma la mia intenzione era di far bene per il suo servizio. Ora, se debbo dirle tutto quello che penso, mi pare che la sua condanna al confine abbia raffreddato molte persone, di quelle che V. S. credeva più amiche, o con le quali andava più spesso. Il conte Nerazzi, per esempio, il marchese Landi, quando ho dato loro un cenno del suo viaggio, mi hanno risposto con un semplice monosillabo. Sarà forse perchè non hanno confidenza in un povero servitore; ma una notizia almeno potevano chiederla e mostrare un po' di amicizia per la sua persona. Oso sperare che in questo Ella non troverà sbagliato il mio umile ragionamento.
«Altro non mi resta a dirle, signor padrone, e mi rincresce davvero di non aver niente di meglio. Il signor conte, suo padre, sta bene al solito; mi ha chiesto fin dove l'avessi accompagnato, e poi mi ha rimandato senza aggiungere altro; ma mi è parso di leggergli negli occhi qualche cosa che il suo cuore di padre non aveva da dire a me, e che Ella, del resto, indovinerà molto bene.
«Mi comandi, signor padrone, che andrò nel fuoco, per poterla servire, e mi creda sempre il suo ubbidientissimo servo
Il conte Gino rimase male, dopo quella lettura. Ahimè l'antidoto sperato! Giuseppe, nella sua piccola diplomazia epistolare, lasciava indovinare assai più che non scrivesse. Ci si vedeva, nel suo racconto minuzioso, la gran dama seccata di dover concedere un'udienza all'inviato di Gino; alle cui notizie, poi, dava tanto poca importanza, da andarle a ricevere in piedi, sull'uscio di un'anticamera. La bionda Polissena si era mutata per lui, come il Landi e il Nerazzi, ricordati in buon punto dallo scrivente, per illuminar la figura della signora marchesa. I tiepidi amici facevano più che un riscontro, davano risalto alla freddezza dell'amica. Già, non era di Gino, la colpa? Che pazzia era stata la sua, di farsi mandare a confine? In quelle sciocchezze del giovanotto la signora marchesa non ci aveva che vedere, non essendosi mai occupata di politica. L'amore, infine, non vuol saperne di quella cattiva compagnia, e un uomo che veramente ami una gran dama non deve compromettersi con quella femminaccia. Neanche lei, la bella e savia marchesa, voleva compromettersi per il conte Gino Malatesti. Che diamine! Con tanti personaggi eminenti, di cui era composta la sua conversazione, magistrati, ufficiali del Duca, nobili ciambellani, signori ammessi a Corte, che si sarebbe detto di lei? E forse per protestare contro simili giudizi, contro simili sospetti, la marchesa Polissena aveva colta a volo la prima occasione, mostrandosi tutta invasata di artistici furori. Poteva credersi dolente per il caso di Gino Malatesti una bella dama che si adoperava tanto per far cantare la celebre Venturoli?
Ah, come vedeva da quelle considerazioni balzar fuori netta e spiccata la figura morale della marchesa Polissena! Furente (sicuro, proprio furente, e mettete pure che quella esagerazione di sentimento non fosse senza una certa dose di voluttà), il conte Gino andò a sedersi davanti alla sua scrivania, e la penna incominciò a scorrere sulla carta. Il giovanotto non scriveva alla marchesa; scriveva a Giuseppe, suo servo fedele, innalzato di punto in bianco al grado di confidente. Anch'egli, senza avvedersene, prendeva le forme del cospiratore, e l'esordio della sua lettera veniva fuori misterioso e guardingo come un coro di congiurati. Per sue ragioni particolari gli premeva assaissimo di conoscere tutti gli andamenti della nota persona. Aveva veduto dalla prima lettera di Giuseppe come egli fosse intelligente; continuasse ad esserlo per utile suo. Da ciò che la nota persona faceva, egli, il conte Gino, avrebbe argomentato quel che pensava, e sugli atti e sui pensieri di quella avrebbe regolato il suo modo di pensare e di operare. La cura amorosa traspariva dalle frasi; ma non era detta apertamente, e questa era già una bella diplomazia. Inoltre, la nota persona poteva anche essere un uomo, e le apparenze erano salvate a buon prezzo.
—Come manderò io questa lettera?—disse Gino, dopo averla suggellata.—Se fosse ancora qui l'applicato!—
Ma l'applicato seguitava il signor commissario sulla via di Fiumalbo, e il conte Gino pensò che il mettersi sulle tracce dei due personaggi, anche col pretesto di mandar notizie a suo padre, non sarebbe stato senza pericolo.
—Ebbene,—ripigliò,—di che cosa m'impensierisco? Non è qui vicina la provvidenza dei Guerri? Aminta, il mio fratello Aminta, ci penserà egli a farla ricapitare.—
Poco dopo la chiusa del soliloquio giungeva Pellegrino. Egli aveva veduto i due signori di Modena discendere dalle Vaie, senza fermarsi, e prendere la via di Fiumalbo.
—Benissimo!—disse il conte.—Allora è tempo di sellare il cavallo.—
Mezz'ora non era passata, e Gino scendeva alle Vaie, con la fretta di un uomo che ha tante notizie da dare di sè, a persone che le udranno con piacere, e non vede l'ora di consolarsi in quella dolce «corrispondenza d'amorosi sensi.»
E le furie di poc'anzi? Deposte nella lettera, miei signori, deposte nella lettera per il suo servo Giuseppe. E poi, in quell'angolo del cuore dove ci aveva l'immagine della marchesa Polissena, non ci voleva guardar più, per quel giorno, nè per gli altri seguenti, fino a tanto non avesse risposta dal suo confidente. Si fanno di questi compromessi, col proprio cuore, e più spesso che non sembri. Quante volte, soffrendo per qualche cosa, non vi è egli avvenuto di escire in questa risoluzione:
—Non voglio pensarci!—
Ci si penserà sicuramente più tardi; ma per intanto è così, come avete risoluto di fare, e il corruccio e il dispetto, carabinieri zelanti, vegliano all'osservanza del presente decreto.
Capitolo VI.
Ombre e leggende.
Il conte Gino era aspettato con ansiosa cura alle Vaie. Le signore lo accolsero con un sorriso amabilissimo, che fioriva allora allora sul terrazzino, come in risposta alla serenità di buon augurio, diffusa sul volto del cavaliere. Gli uomini erano discesi sull'uscio di strada, per tenergli le staffe, e lo abbracciarono, come se tornasse da un lungo viaggio.
—Ebbene?—domandò Aminta,—Chi erano?
—Commissarii, applicati, gente della polizia ducale;—disse Gino;—venuti a farmi una visita, quantunque io non abbia avuto mai il piacere di conoscerli.
—Volevano assicurarsi…—disse il signor Francesco.
—Già;—rispose Gino;—assicurarsi che veramente io fossi al mio luogo di pena. Ed ho sudato, sa? ho sudato, a nasconder loro che questo è un luogo di delizie. Avevano osservati i miei mobili, troppo eleganti per quella povera casa. Mi perdonerete, amici miei; ho detto una grossa bugia, accennando così di passata che quei mobili li avevo presi a nolo. Dove, poi, non me lo han chiesto, ed io non ho avuta occasione di dire una nuova bugia, facendoli venire da Paullo, o da un altro luogo più lontano.
—Sì, questa sarebbe stata una bugia;—disse il signor Francesco;—ma l'altra non lo è. Non ci paga forse il nolo con le sue visite?—
Non c'era da far altro che inchinarsi; e Gino s'inchinò.
—Noi, del resto, siamo stati qui un paio d'ore in agguato;—disse Aminta a sua volta.—Avevamo visti quei due signori andare in su, e abbiamo voluto aspettare per vederli al ritorno, ma con le finestre chiuse, e guardando di sotto le tendine. In due erano venuti, in due se ne ritornavano, e questo ci ha consolati. Temevamo già che ti portassero via.
—Oh, non c'è questo pericolo;—gridò Gino, ridendo.—Mi han lasciato capire che la correzione sarà lunga. E non potrà essere altrimenti,—soggiunse il giovinotto,—se vorrà essere efficace.—
Quella sera, come già immaginate, il conte Gino rimase a cena dai Guerri, e poichè non era sera di luna, non gli fu permesso di ritornare a Querciola.
—Così resto io a confine?—diss'egli.—E mentre gli agenti del tiranno, venuti ad assicurarsi de visu, non sono ancora a Paullo? Per fortuna, sono lontani quanto basta, per non sentir più la voce del pianoforte.
—Hai capito, Fiordispina?—disse la signora Angelica.—Ti si domanda di suonare.—
Fiordispina era di buonissimo umore. Corse alla tastiera e attaccò l'andante maestoso del bellissimo inno di Goffredo Mameli.
—Ecco qua!—rispose la fanciulla.—Se hanno orecchi per sentire, sentano questo!
—Che cosa si ardisce suonare?—gridò una voce dall'anticamera.—L'inno della rivolta? È un orrore, e meriterà tutti i rigori della legge.—
Era la voce di Don Pietro Toschi. Il vecchio prevosto delle Vaie giungeva sempre a quell'ora, e nessuno si lasciò cogliere dallo spavento, udendo la sua ammonizione.
—Ah!—esclamò egli, entrando nella sala.—Loro signori se la ridono? Ebbene, non c'è da ridere. Se un agente del governo ducale udisse questa musica, ci sarebbe un processo per tutti.
—Dobbiamo cessare?—domandò Fiordispina.
—No, continuate, figliuola mia. I primi Cristiani si ritiravano a pregare nei loro sotterranei, ma non interrompevano neanche i loro inni per l'avvicinarsi dei pretoriani. Qui poi i pretoriani non sono neanche vicini.—
I signori Guerri raccontarono allora a Don Pietro che i pretoriani erano passati per l'appunto in quel giorno dalle Vaie. E il buon prevosto si rallegrò che dopo quella visita il conte Gino Malatesti non dovesse avere altre noie.
—Vede?—diss'egli.—Sono venuti ad autenticare il suo cambiamento di domicilio. Io ora lo scriverò nel registro della parrocchia, ed Ella apparterrà alle Vaie per ragion civile e per ragione canonica. Le piace?
—Così voglio;—disse Gino, andando anche più in là.
E i suoi occhi, in quel punto, s'incontrarono con quelli di Fiordispina. Fu un lampo, come potete immaginarvi facilmente; ma per quel lampo la fanciulla arrossì, ed egli si sentì correre una vampa alla fronte.
Fiordispina aveva posate nuovamente le sue belle mani sulla tastiera del pianoforte, ed arpeggiava sommessamente. Gino le chiese un'aria della Sonnambula; ma cambiò subito opinione, e chiese in quella vece un'aria del Pirata. Fiordispina aveva lo spartito nella sua biblioteca musicale; dopo un'aria gliene suonò un'altra, e ad una ad una gliele eseguì tutte.
—Che bella musica!—diceva ella, frattanto.—Non so come sia, che l'ho suonata così poco, finora. Oggi piace molto anche a me.
—Ha mai letto il Leopardi, signorina?
—Sì, una volta. Perchè mi fa questa domanda?
—Per venire ad un raffronto fra il poeta e il musicista. La musica del Bellini è come la poesia del Leopardi; non piace, ordinariamente, che in certe condizioni d'animo; ma allora non piace più che quella; tutto il resto è rumoroso ed aspro, o fiacco, lezioso e svenevole.—
Quella sera la fanciulla dei Guerri suonò meglio e più lungamente che mai. Un'aria seguiva l'altra e tutti i grandi maestri diedero il loro contributo alle artistiche commozioni di Gino. Ma una grande maestra diede certamente il maggiore, poichè Gino ne contemplava l'opera maravigliosa coll'attenzione concentrata e con la beatitudine diffusa di un Pater extaticus.
Possiamo immaginarci che ciò fosse per effetto di riconoscenza. La fanciulla dei Guerri aveva dimostrata tanta sollecitudine per lui! Il meno che Gino potesse fare in ricambio, era di darle un primo premio di bellezza. E di bontà poi! Quegli occhi sereni dicevano con tanta eloquenza la bellezza dell'anima sua! E ridevano, quegli occhi, come ora non si usa più, ma come si usava un tempo, se dobbiam credere ai poeti latini e agl'italiani del Risorgimento.
Quando il nostro Gino si ritirò nella camera ospitale dove egli aveva già dormito e sognato una notte, la sua ebbrezza era al colmo. E le furie? Vi ho già detto che c'era un compromesso col suo dolore. Non voleva pensarci, e non ci pensava: ecco tutto. Pensava in quella vece ad altro, e cominciava a credere che quella ebbrezza non fosse tutta musicale.
—Orbene!—esclamò, levando la testa dal guanciale, come per rispondere ad un contradittore invisibile.—E se fosse dell'altro, che male ci sarebbe? Lasciate che per una volta io respiri una boccata d'aria salubre. Vi par troppo, una pagina d'idillio, tra cento di romanzo moderno? Infine, non è dato di sognare? Ecco un sogno, e preghiamo che duri.—
Il sogno di Gino Malatesti durò una settimana, senza che più gli tornassero a mente le sue noie di città. Ma una sera, così di punto in bianco, non richiamati da alcuna associazione d'idee, i sopraccapi dimenticati si ripresentarono a lui.
—Si saran dati bel tempo a Modena!—pensò il giovinotto.—L'avran finita quest'oggi, la loro piccola impresa musicale fuori stagione! Chi sa? Forse all'ultima rappresentazione della Sonnambula avranno domandato il bis. Un altro paio di rappresentazioni, perchè ricusarle ad un pubblico che applaude e rompe le panche? Ci sarà anche il pretesto della beneficenza, per continuare. Le nostre belle signore, pur di avere un'occasione di brillare, farebbero anche l'elemosina ai Turchi. E lei sopra tutte! Non è forse la regina della moda?—
Un piccolo rimorso gli venne; ma egli lo scacciò, come si spaccia un ladro domestico.
—Orbene!—gridò egli, ripetendo una sua esclamazione favorita.—Che è ciò? Avevo un obbligo, sicuramente, ma l'ho forse distrutto io?
—Troppo presto e troppo volentieri lo dice il signor Gino;—rispondeva una voce interiore.—Non pensa egli al fatto strano di esserne uscito senza lagrime?
—Ci penso;—replicava egli, seccato…—Ma che vuol dire? Forse che, per non aver sofferto troppo avrò meno ragione io? Facciamo la peggio: ci siamo incontrati ad essere stanchi in due; ella di me, io di lei. Così avviene di tutte, o di quasi tutte le relazioni che si stringono in società, e che rappresentano il superfluo del nostro tempo. Il necessario è quello che va dato all'ambizione, alla vanità sua sorella; il superfluo è quello che si dà all'amore. No, correggiamo, non è l'amore, questo, è la galanteria. Ma non bisogna usarne troppo, perchè viene a noia, come tutti i cibi galanti. L'abitudine aiuta molto, lo so, a mantenere queste relazioni; la lontananza le rompe senza sforzo, senza lagrime, e questo lo vedo ora, pur troppo. Dovevo vederlo prima, e avrei oggi più merito di essermi liberato. Infine non son io che lascio; è lei che mi ha dato il benservito.—
Così ragionava, e per uno spirito preoccupato non vi parrà che ragionasse male. Qual è, del resto, lo spirito che pensi e ragioni fuor d'ogni vincolo o influenza particolare? Neanche i filosofi, mi dicono, poichè sotto alla libertà della speculazione, sotto alla lealtà dell'indagine, si cela sempre la ragion di sistema, che tanto più naturalmente comanda, in quanto che è la medesima causa che ci muove a pensare, a cercare.
Il raffronto tra la marchesa Polissena e la fanciulla dei Guerri non si fermò solamente al fatto che una si fosse dimenticata di Gino e l'altra venisse a lui, chiamata da tutte le voci arcane della gioventù e dell'affetto nascente. Le loro qualità intrinseche ed estrinseche dovevano trovarsi a contrasto sotto gli occhi del giudice, e la botanica, amica compiacente, fornire i termini di paragone tra la civetteria sapiente dell'una e le grazie ingenue dell'altra. La marchesa Polissena gli apparve allora come una bella gardenia, fiore lucente ed aperto, bellezza spampanata e trionfante, accompagnata da fragranze acutissime; la fanciulla dei Guerri come un caro e modesto fiorellino delle Alpi. Il conte Gino avrebbe potuto ricordare l'Edelweiss, se questa graziosa stelluccia vegetale fosse stata fin d'allora alla moda. Egli pensò in quella vece a quelle eriche del Capo, che aveva pur conosciute lassù, e che alle delicatezze della forma congiungevano un così gentile profumo.
E andava là, di giorno in giorno, vivendo così del suo nuovo amore, che gli pareva il primo ed il vero, senza parlare, senza desiderare di più, respirando tacitamente le fragranze del fiore divino. Godeva intanto la bella e confidente amicizia dei Guerri, e gli sembrava che così dovesse durar sempre la vita, che non si potesse desiderare di vivere, nè di aver vissuto mai altrimenti. Era anche così adatta la scena! così amante la natura dintorno a lui! Oh dolci calme, soavi tepori primaverili dell'estate tra i monti! Gli usignuoli cantavano ancora nel folto dei boschi; la gioventù e la speranza levavano inni continui dagl'intimi penetrali dell'anima sua.
Era solo, lassù, ben solo, tra l'amicizia e l'amore, che si rivelavano a lui in quella forma nuova e con quella insolita forza. Veramente, i re della montagna non erano i Guerri, o quel titolo si addiceva anche a lui, che sentiva di regnare così pienamente, e rendeva ogni giorno in grazia elegante, in sorrisi amorevoli, ciò che andava ricevendo in liete dimostrazioni di affetto.
Ma un giorno, dopo quella settimana di pace profonda, casa Guerri ebbe un ospite nuovo. Era un parente, per verità, e veniva dai monti del Reggiano. Scendendo dal suo eremo di Querciola, il conte Gino trovò alle Vaie quel personaggio inatteso, che riesce sempre importuno nella compagnia formata a modo nostro, alla quale non avremmo da toglier nulla e nulla avremmo da aggiungere. Notate poi che quel personaggio era giovane, ed anche bello; una figura d'Ercole adolescente, ma dal viso aperto, dall'aria candida e buona; occhi azzurri, capegli biondi, naturalmente ricciuti, ed abiti semplici, da cacciatore.
—Nostro cugino Ruggero Guerri;—disse il signor Francesco, presentando il nuovo ospite al vecchio.
—Felicissimo di conoscerlo;—rispose Gino, che non si sentiva neanche felice.
Ma così è, lettori miei: il superlativo, entrato nell'uso del discorso, ha perduta ogni virtù di significazione. Si chiama illustrissimo l'uomo a cui non possiamo dar titolo d'illustre; è eccellentissimo il tribunale, che non è mai stato eccellente.
Ruggero Guerri! Altro personaggio ariostesco. E accanto a Fiordispina, poi! Si doveva vederci l'effetto del caso, una di quelle lontane preparazioni del destino che vengono poi improvvise e noiose, come un colpo tra capo e collo? Altro che felicissimo! Il conte Gino Malatesti fu seccatissimo della comparsa di quel cugino, che era così giovane, così biondo, e si chiamava anche Ruggero. Che cosa era venuto a fare, dai monti del Reggiano a quelli del Modenese? Che cosa voleva, quell'arcangiolo in cacciatora, e che cosa avrebbe ottenuto alle Vaie? Immaginate. lettori, che il conte Gino cominciò subito ad aprir gli occhi ben bene, e che quel giorno, e i giorni seguenti, osservò attentamente ogni cosa. Ma il cugino Ruggero non diede argomento a giudizi, come aveva dato argomento a sospetti. Stava molto con gli uomini, e passava lunghe ore alle serre, col signor Francesco e col signor Orlando; alle donne parlava poco, senza mettersi in pretesa, con vera semplicità campagnuola. Sì, ma anche questa semplicità non può nascondere il desiderio di raggiungere un fine? Gli uomini dei campi non conoscono le nostre delicatezze di spirito, non usano le nostre smancerie di linguaggio; ma danno un'occhiata lunga e luminosa come il primo venuto, ed essi, o i loro parenti, possono fare una molto chiara domanda di matrimonio.
In queste osservazioni e in questi dubbi si guastò l'umore del conte. Qualcheduno se ne avvide e gliene domandò; ma egli non aveva nulla, e questa risposta poteva bastare per gli uomini. Non bastò a Fiordispina, quando ella molto candidamente gli chiese che cosa avesse e si sentì rispondere quel nulla, a fior di labbra e discretamente impacciato.
—Oh, non me lo dica, signor conte;—replicò la fanciulla.—Ha ricevuto qualche notizia spiacevole da Modena?
—No, signorina, nessuna notizia.
—Ma allora che cos'ha? È così mutato, da qualche giorno!—
Il conte Gino taceva, e allora la fanciulla ripigliò a domandargli:
—Si annoia, forse? Comprendo che qui non c'è gente abbastanza, per tenerle compagnia.
—No, davvero!—scappò detto a Gino.—Vorrei anzi che ce ne fosse un po' meno.—
La fanciulla lo guardò con aria di stupore. Era egli che parlava così? L'elegante, il gentile, il garbatissimo conte Gino Malatesti? Ma sì, propriamente egli, e due grinze sdegnose agli angoli delle labbra commentavano ancora la frase che gli era sfuggita di bocca.
—Com'è cattivo!—esclamò allora Fiordispina.
—Ha ragione, signorina;—diss'egli.—Sono veramente cattivo. Ma voglia scusarmi, per una volta soltanto, ed ascoltare anche una mia preghiera. Non faccia parlar l'uomo quando egli è in collera. È troppo brutto, in quei momenti. Io, del resto, mi vergognerò sempre di esserlo stato con Lei.
—Vede?—gridò ella.—Non lo è più.—
Gino s'inchinò, senza risponder altro, perchè in verità gli pareva d'esserlo ancora, e non voleva mettersi al caso di dover dire la ragione del fatto. Una cosa era sempre dispiaciuta su tutte le altre, a quel cavaliere elegante, a quello spirito raffinato: di esser geloso e di darlo a divedere.
Per quattro o cinque giorni ancora il conte Gino dovette godersi la compagnia dell'Ercole adolescente. E notate che lo vedeva solamente all'ora del pranzo; ma che in quell'ora, diventata lunga su tutte le altre del giorno, il signor Ruggero stava seduto alla sinistra di Fiordispina. Erano cugini, erano i più giovani della compagnia, e niente era più naturale del vederli seduti vicini a tavola; ma perchè una cosa piaccia a tutti, non basta ch'ella sia naturale.
Cionondimeno, parve al conte Gino di osservare che dopo quel suo dialogo con la fanciulla dei Guerri, ella parlasse meno col cugino Ruggero. Già, è da notare che non aveva molte occasioni di discorrere con lui, perchè durante il giorno egli era sempre fuori con gli uomini di casa. Giungeva con essi per l'ora del pranzo, e trovava sempre Gino a chiacchierare con le signore. Dopo il pranzo esciva da capo e non ritornava che per la cena. Ma allora il conte Gino non era più là a vigilare, e si poteva capire che il signor Ruggero non escisse più, ma rimanesse con gli altri nella sala comune. Che cosa faceva allora? Una sera il nostro geloso senza ragione volle rimanere a cena, per averne l'intiero, non importandogli affatto di dover ritornare a notte alta nel suo eremo di Querciola. E vide allora che gli uomini restavano seduti a tavola, mentre le signore si raccoglievano da una parte per attendere a qualche lavoruccio; che Fiordispina andò poi a suonare il pianoforte, e che l'Ercole adolescente stette a sentirla, ma da lungi, in piedi, nel vano di una finestra, senza batter palpebra, senza fare un cenno del capo, senza dire alla cuginetta una parola di lode, senza dar segno di gradire almeno la musica. Era un contadino, e non bisognava farne le meraviglie.
Sì, tutto bene; ma anche un contadino poteva essere un pretendente e diventare un marito. È forse necessario per questo di gustare la musica e di applaudire ai talenti musicali delle ragazze? La possibilità di un matrimonio era sempre là, librata a mezz'aria, e la presenza di quel giovanotto, di quel cugino, capitato alle Vaie senza ragione apparente, mutava troppo facilmente la cosa possibile in una cosa probabile. Immaginate come ne dolesse al nostro povero Gino, geloso senza ragione, ed anche senza diritto. E un giorno che egli non vide più capitare il signor Ruggero all'ora del pranzo, restò dubbioso, come dovrebbe rimanerlo un ambasciatore, accreditato presso una corte, donde vede sparire l'inviato straordinario di un altro governo. Si voleva sapere da prima perchè c'era, e si passavano in rassegna tutti i fini per cui poteva esser venuto; quando se ne va, si domanda perchè è partito, e si dubita che la sua missione abbia sortito buon esito.
Il conte Gino, da quella persona bene educata ch'egli era, non volle domandare perchè il signor Ruggero Guerri fosse partito dalle Vaie, e rimase con la sua curiosità, ignorando quali speranze lo avessero condotto, quali concerti lo accompagnassero a casa, quali occasioni potessero farlo ritornare. La fanciulla appariva tranquilla, serena come prima, forse un tantino più ilare. Perchè più ilare? Per essersi liberata da una noia, o per aver avuto una notizia che suol chiamare il sorriso sul volto delle ragazze da marito? Il conte Gino non ne capiva nulla, e si sentiva una spina nel cuore.
Ma se egli non poteva chieder nulla al signor Francesco, nè far parlare il suo buon fratello Aminta, qualcheduno doveva pure istruirlo. Gino pensò al vecchio prete, e alcuni giorni dopo la sparizione del signor Ruggero, disceso da Querciola un'ora prima del solito, passò davanti al portone dei Guerri senza smontar da cavallo. Se i quadrupedi sentono la maraviglia, il generoso animale dovette maravigliarsi molto, quel giorno, argomentando da una pressione di ginocchio del suo cavaliere, che questi non voleva fermarsi al portone dei Guerri, e stupirsi poi della gran novità che lo faceva fermare cento passi più giù, davanti all'umilissimo ingresso della canonica.
Bene si stupì il prevosto delle Vaie, ricevendo la visita del conte Gino. Ma questi fu pronto a dirgli che essendo calato da Querciola un po' prima del consueto, avrebbe fatto ora molto volentieri, visitando la chiesa e quel certo quadro antico di cui gli aveva parlato più volte Don Pietro, suo amico degnissimo. Il pretesto fu ammesso naturalmente per buono. Il sagrestano, mutatosi in garzone di scuderia, prese il cavallo per le redini e lo condusse nella sua stalla, dai Guerri. Frattanto il conte Gino entrava in chiesa, per vedere il famoso quadro, che rappresentava lo sposalizio di Santa Caterina, salvo errore, ed era forse stato di un buon autore, a' suoi tempi, ma non lo lasciava più scorgere, sotto i ritocchi di un restauratore assassino.
Veduto il quadro senza fermarcisi troppo, era naturale che stessero a chiacchiera. L'argomento non poteva fornirlo che la vita di quei monti, o la famiglia dei Guerri, tutt'e due le cose insieme. Si parlò adunque del signor Francesco, del fratel suo Orlando e del figliuolo Aminta, bravissima gente, che il prevosto delle Vaie amava come se fossero sangue del suo sangue e carne della sua carne. Era dipeso per l'appunto da essi che Don Pietro Toschi fosse rimasto in quella magra anzi magrissima fra tutte le parrocchie di montagna. L'aveva accettata quarant'anni prima, contro la promessa che glien'avrebbero data un'altra più ricca; c'era rimasto venticinque anni aspettando; finalmente la buona occasione era venuta di scendere al piano e di fare un bel cambio. Ma allora Don Pietro aveva anche cambiato parere. La chiesa e la canonica di Fagliano eran belle e ben provvedute; la mensa parrocchiale rendeva tre volte tanto di quella delle Vaie; il popolo era tranquillo e virtuoso: il sagrestano della chiesa, miracolo inaudito, era un buon diavolo, che non pretendeva di far egli da parroco; insomma, quella era proprio la man di Dio. Ma non c'erano i Guerri a Fagnano, e Don Pietro Toschi si era assuefatto a vedere i Guerri. Perciò rispose al vescovo, che gli proponeva il passaggio:—«Se Vostra Eminenza permette, rimarrò dove sono. Son vecchio, tra gente che conosco e che mi vuol bene. L'inverno è rigido, ma i bei giorni ci sono più frequenti che al piano; e poi, le mie quattr'ossa si sono avvezzate; ci vorrebbe uno sforzo per adattarle a un ambiente diverso.»
—Così son passati altri quindici anni;—proseguiva Don Pietro, parlando al conte Malatesti;—e sono contento più che mai d'aver risposto picche a Fagnano. Le mie giornate vanno via l'una dopo l'altra come le foglie dell'ontano, quando si accosta l'inverno. Questi amici mi sono stati riconoscenti di ciò che han voluto chiamare un sacrifizio, e mi aiutano volenterosi a discendere la fiumana della vita. Francesco ed Orlando li ho conosciuti ragazzi; Aminta l'ho battezzato io; Fiordispina egualmente.
—E la mariterà;—disse Gino.
—Dio voglia;—rispose il prete.—Sebbene, non vedo ancora con chi.—
E fece un mezzo sospiro per appoggiare la frase.
—Ma… con suo cugino Ruggero;—osò dire il giovinotto, facendo uno sforzo sovrumano per mettere fuori quel nome.
—Sì, sarebbe stato un buon partito per lei;—replicò Don Pietro.—I
Guerri stabiliti sul Reggiano non sono così ricchi come questi del
Modenese, ma Ruggero ci ha il vantaggio, economicamente parlando, di
esser figlio unico.
—Ecco dunque una buona occasione;—riprese Gino, con un altro sforzo, non meno doloroso del primo.
—Eh, si fa presto a dirlo, come a pensarlo;—rispose Don Pietro.—Ma per giungere al fatto, bisogna che parecchie cose si accordino; le volontà, per esempio.
—Capisco; ma se sono d'accordo i babbi….
—Questo è il primo punto, sicuramente. E l'accordo ci poteva essere, tra loro. Son cugini, i due vecchi, e per l'uno e per l'altro, con la vita che fanno, lontani dalle città, non si potrebbe sperare un'occasione migliore. Ma forse i giovani sono ancora… troppo giovani. Fiordispina, per esempio, non vuol saperne, di andare a marito.
—Lo ha dunque detto? L'hanno interrogata?
—Eh, sì, credo bene… alla larga…. Ma la risposta è stata come se fossero venuti a mezza spada.
—A mezza spada!—ripetè il conte Gino ridendo.—I miei complimenti.
Don Pietro!
—Che!—esclamò il vecchio prete.—Non è ben detto?
—Ma sì, egregiamente. Notavo soltanto la militarità della frase.
—Ebbene, che c'è di strano? Perchè son prete?—rispose Don Pietro, accettando di buon grado la celia—Anche la nostra è milizia. Veda per esempio San Paolo; non ci viene rappresentato con una spada lunga tanto?—
Così scherzava a sua volta il bravo prevosto delle Vaie, e il suo interlocutore lo lasciò dire fin che volle. Contento di aver saputo ciò che gli premeva di sapere, Gino si rallegrava di aver potuto dare un nuovo giro alla conversazione, dissimulando in questo modo la curiosità, e le ragioni per cui quella curiosità poteva essergli venuta.
Quando fu di ritorno alle Vaie per l'ora del pranzo, il nostro giovanotto era così ilare in volto, che Aminta gli domandò ridendo se avesse avuto notizie da Modena.
—Che idea!—esclamò Gino.—C'è bisogno di notizie della città, per esser contenti in montagna?
—Scusami;—disse Aminta.—Da tre giorni eri così rannuvolato!
—Anche il monte Cimone lo era;—rispose Gino;—e vedilo oggi, come rosseggia al sole!
—Vai dunque coll'atmosfera?
—L'uomo è un barometro che cammina, mio caro. Io segno bel tempo, quest'oggi.
—Ah, meglio così, e rimani al bello stabile;—replicò Aminta.—Eccoti frattanto una lettera, che potrà giovare all'uopo.
—Lo credi?—mormorò Gino, prendendo la lettera dalle mani di Aminta.—Quando non si desidera di saper nulla di ciò che avviene lontano da noi, una lettera è sempre una noia.
—Prendila allora come correttivo, e non dolerti col messaggero, perchè l'ho portata io.
—Dove l'hai presa?
—A Pievepelago, dove sono andato stamane. Me l'ha consegnata un servitore, che domandava appunto all'albergatore del Falco reale se ci fosse qualcheduno per rimettere una lettera al conte Malatesti, a Querciola. L'albergatore, che mi aveva veduto passare poco prima davanti alla sua insegna, mi venne a cercare, e il servitore mi consegnò la lettera, mentre i suoi padroni aspettavano di far cambiare i cavalli.
—I suoi padroni!—ripetè Gino.—Chi saranno costoro?
—Non saprei dirti, M'è parso di vedere un signore vecchiotto e grassotto, con la barba bianca, tagliata a ghirlanda, e una signora bionda, con una ragazza bionda come lei. Del resto, leggi la lettera, e capirai più che io non ti possa dire, nella mia ignoranza.
—Hai ragione;—balbettò Gino, che aveva già capito più che non dicesse e non credesse di dirgli l'amico.—Ma leggerò più tardi.—
E stava per mettere la lettera in tasca, fingendo una tranquillità che non aveva.
—Se si trattiene per noi, ha torto;—disse la signora Angelica.—Legga pure liberamente. Tanto, non è ancor l'ora di metterci a tavola.—
Gino s'inchinò, ed obbedì, aprendo la lettera. Aveva già data un'occhiatina alla soprascritta, e riconosciuto il carattere di Giuseppe.
A voi parrà che ciò dovesse calmarlo un pochino. Ma no, signori; ciò accresceva i suoi dubbi e le sue ansietà. Perchè mai una lettera del suo servo Giuseppe gli era portata da così strani viaggiatori? Perchè mai veniva a battere da quelle parti la signora bionda, che Aminta aveva veduta, con una figlia bionda come lei? Di signore bionde con figlie egualmente bionde, se ne danno sicuramente parecchie migliaia, nel mondo, e la città di Modena, per la sua parte, poteva averne anche un paio; ma a farlo apposta, quella lì era accompagnata da un signore vecchiotto e grassotto, con la barba bianca tagliata a ghirlanda. Se quelli non erano i Baldovini, bisognava dire che la natura si fosse compiaciuta a fabbricare dei doppi, nelle sue combinazioni ternarie.
Il conte Gino represse un sospiro e si ritirò nel vano di una finestra, in apparenza per aver più luce, nel fatto per nascondere il viso, mentre leggeva la lettera.
Giuseppe diceva poco di veramente importante. Incominciava narrando che tutti, in casa Malatesti, godevano buona salute, secondo l'uso. Seguitava raccontando che a Modena si erano fatte sei rappresentazioni della Lucia e della Sonnambula, scambio di quattro che avevano annunziate; che la società elegante era andata in visibilio per la celebre Venturoli; che i giovanotti l'avevano accompagnata l'ultima sera a casa con le fiaccole; che le signore le avevano offerta una cena sontuosa; che tutti, infine, erano diventati pazzi per la cantante. Nient'altro, per allora; ma il poscritto era importantissimo, nella semplicità del racconto, poichè spiegava a Gino in che modo quella lettera doveva essergli ricapitata.—«Le scrivo (diceva Giuseppe) approfittando di un'occasione favorevole. Severino, il cameriere dei signori Baldovini, accompagna i suoi padroni ai bagni di Lucca, dove la signora marchesa passerà l'estate, mentre il signor marchese andrà fino a Firenze, per vedere i suoi amici Geroglifici. Non so se scrivo bene il nome, e Lei mi perdonerà se ho fallato. Son quelli che studiano per la coltivazione dei campi.»—
Qui il nostro lettore diede in uno scroscio di risa.
—Ah, vedi?—gridò Aminta.—Non era poi una lettera che dovesse rattristarti.
—No davvero;—disse Gino.—È il mio servitore che mi scrive. Indovina un po' come chiama i Georgofili!
—Non saprei;—rispose Aminta.—Garofani?
—No, sarebbe troppo facile. È andato a cercare la variante più strana; ha scritto Geroglifici!—
Qui, insieme con Aminta, risero di cuore tutti i presenti. Gino, rasserenato, mandò uno sguardo a Fiordispina, che andava e veniva per la stanza, anch'ella sorridente e felice. Divino sorriso! Come s'illuminava per lui, quel sorriso, di tutte le liete notizie che gli aveva date Don Pietro! Il cugino Ruggero, l'Ercole adolescente, era partito per sempre; era un pretendente fallito, un'ombra dileguata. Ed anche per Gino Malatesti un'ombra era passata, alle falde del Cimone, ma per andarsi a dileguare nella val di Nievole.
Per altro, pensandoci bene, era stato un grande amore, quello della marchesa Polissena! E un grande rammarico era stato il suo, per l'esilio di Gino Malatesti da Modena! Bel modo, poi, di passargli daccanto, senza fermarsi mezz'ora, senza pur chiedere se fosse morto o vivo! Vedete un po' che strano contrasto, e un mese dopo i più terribili ardori, dopo i più solenni giuramenti di un amore eterno! Si sa, di eterno non c'è che la nostra sciocchezza, nel mondo; ma si vorrebbe almeno che certi aggettivi, come sono usati sinceramente, a significare la forza della passione, così non fossero dimenticati troppo presto. Non si salvano dunque neppure le apparenze? Morta la virtù, non c'è neanche più ipocrisia? Ecco qua la bella e ardente Polissena della fuga di Torino, che passava tranquillamente in vettura di posta da Pievepelago, vedendo lassù, dalla parte del Cimone, biancheggiare a mezza costa le case di Querciola, e non aveva nemmeno un pensiero per il povero confinato. Un servitore della signora marchesa poteva avere in tasca una lettera per Gino Malatesti, e ricordarsi di consegnarla a qualcheduno, che gliela facesse ricapitare. Lei, frattanto, passava di là, biondamente obliosa, per andarsene ai bagni di Lucca, alle conversazioni, alle passeggiate, ai concerti. Strana combinazione, se Gino avesse quel giorno accompagnato Aminta, come gli accadeva qualche volta di fare! Che incontro sarebbe stato quello! Ah, davvero, l'aveva scappata bella; e pensava, non senza un leggero brivido, che non è prudente andare a diporto sulle strade maestre.
Meditò su queste cose il tempo strettamente necessario a mettere in chiaro la bella serenità di spirito della marchesa Polissena; poi diede una crollatina di spalle. Filosofia, son queste le tue consolazioni.
Ma sì, ragazzi miei belli, che navigate tra due acque, che vi cullate tra due amori, l'uno dei quali è già nato, e l'altro non è morto ancora, queste lezioni vi toccano. Credete di essere necessarii, e già si pensa a voi, come si penserebbe al Gran Turco.
Andiamo al fondo, per altro; andiamo al fondo delle cose. Non era meglio così? Amava egli forse più la marchesa Polissena? Non aveva detto egli stesso, facendo il suo esame di coscienza, che il suo sentimento per lei era tutt'altra cosa da quello che provava per la fanciulla dei Guerri?
Si dirà che queste son distinzioni troppo sottili, ed anche arbitrarie, mentre la diversità di un amore da un altro dipende al più al più dalla diversità dell'oggetto. Ma io, se permettete, entro più che nei panni, nel cuore del personaggio; trovo che egli pensava così, come ho avuto l'onore di dirvi; so che era in buona fede, pensando così, e non domando di più. Finalmente, se la casuistica esiste, è segno, che risponde, o rispondeva da principio, ad un bisogno dell'animo umano.
Comunque fosse del suo primo e del suo secondo amore, Gino Malatesti si sentiva libero di cuore e di spirito, tanto che gli pareva di essersi levato un gran peso di sullo stomaco. Anche Fiordispina era libera, e la notizia, avuta nel medesimo giorno che si sentiva libero lui, gli parve di buon augurio. Non Polissene di qua, non Ruggeri di là, per far ombra alla scena; il cuore di Gino Malatesti brillava, sgombro di nebbia importuna, come la vetta rosea del Cimone sul sereno azzurro dei cieli.
O fanciulla dei Guerri, come foste felice quella sera anche voi, vedendo così lieto l'ospite del vostro buon padre! Da parecchi giorni egli non lo era più, e la cosa vi aveva profondamente turbata. Una sua parola acerba era venuta ad illuminarvi la mente; ma che ne potevate voi, se in casa di vostro padre c'era un ospite di troppo? Del resto, ilare come allora, il conte Gino Malatesti non lo era stato mai, dacchè il destino lo aveva sbalestrato alle Vaie. Sempre, anche nelle ore più confidenti, una piccola nube gli oscurava la fronte, e dietro a quella nube s'indovinava un triste pensiero appiattato: forse la sua città natale abbandonata, forse i parenti lontani, forse le care consuetudini interrotte, mutate violentemente da un decreto ducale. Ma che importava più di guardare il passato? Per allora il conte Gino rideva; per la prima volta appariva felice; il suo occhio era così limpido, che si sarebbe giurato di potergli leggere in fondo all'anima i più riposti pensieri.
Così pareva a lei, fanciulla intelligente, ma inesperta della vita. Se si fosse guardato nel fondo di quell'anima, si sarebbe veduto ancora un po' di torbido. Anche nel fondo di un ruscello, talvolta, si giurerebbe di non trovare che sabbia tersa e lucente. Ma chi stende la mano, raccatta sempre con la rena un po' di fango. I detriti della riva, depositati nell'alveo, non turbano la limpidezza delle acque; ma a patto di non rimestarle troppo.
Quel giorno, contento il signor Gino, erano contenti tutti, e si ciarlò più allegramente del solito nell'intima conversazione dei Guerri. Don Pietro, capitato sull'ora del caffè, domandò perchè non si fosse ancora pensato a fare qualche bella gita nei dintorni, al monte Cimone, al Cimoncino, a Bismantova, all'alpe di San Pellegrino. E il lago della Ninfa! Perchè non si andava a visitare il lago della Ninfa, per vedere la bella dai capegli biondi, tramutata in sasso?
Gino non aveva una grande curiosità di veder belle dai capegli biondi, dopo la triste esperienza che gli pareva di aver fatta di una fra queste. Ma una bella tramutata in pietra è sempre uno spettacolo degno di esser veduto, non foss'altro per riscontrare se la finezza dei lineamenti duri inalterata nella nuova sostanza. Il nome di Ninfa, poi, lo colpì più del color dei capegli e del tramutamento in sasso.
—Che storia è questa?—diss'egli.—Forse un avanzo dell'antica mitologia?
—Non saprei dirle, signor conte;—rispose Don Pietro.—Si dice la Ninfa, e potrebbe dirsi la Fata, la Sirena, l'Ondina, od altro di consimile, perchè son tutte forme diaboliche della stessa famiglia.
—Ma c'è una leggenda?—riprese Gino.
—Sicuro, ed eccola qua. Un giorno (Ella non mi domandi il mese e l'anno, perchè non glieli saprei dire) un giorno avvenne ad un cacciatore di passare tra i faggi, inseguendo una cerva, sulle rive del lago. Dall'altra parte, dove mancavano gli alberi e sorgeva in quella vece un picco aguzzo a mo' di scogliera, vide una bellissima figura di donna, che pareva una bagnante, escita allora dall'acqua, e in atto di rasciugare al sole la sua capigliatura bionda. Il cacciatore rimase estatico ad ammirarla; il che, per dirglielo così di passata, diede tempo alla cerva di mettersi in salvo. Quanto rimanesse egli in contemplazione non so, perchè la leggenda non lo dice; il fatto sta che quando egli fece per avvicinarsi alla bella figura, costeggiando la riva del lago, trovò un canaletto d'acqua, e in fondo al canaletto un roveto così fitto, che non ci fu verso di passare dall'altra parte. Quando ritornò al suo posto primitivo per rivedere la bella, un velo di nebbia si era levato dal lago; fors'anche l'oscurità della sera aveva calato quel velo dall'alto, e il cacciatore non vide più nulla. Ma la bella apparizione gli era rimasta impressa, come scolpita nel cuore. Domandò di quella bagnante ai carbonai che lavoravano nella valle, ai pastori che passavano i mesi della buona stagione sul monte, poco sopra il lago, e tutti a gara gli dissero:—Non ci tornate, bel cacciatore; è la Ninfa del lago, che si pettina al sole i capegli d'oro. Guai a voi, se v'innamorate di lei. Ella getta un fascino sui giovani e li conduce a morire.—A morire! Di che?—Di crepacuore, per non potersi avvicinare a lei. Lo scoglio su cui va a sedersi è alto, e non c'è modo di giungervi, costeggiando la riva. Quanto al gittarsi a nuoto, non c'è neanche da pensarci, perchè il lago è senza fondo, e nel bel mezzo ci ha un vortice, che v'inghiotte ogni cosa.—
Qui il narratore prese fiato e fece un sorrisetto al suo uditore.
—È vero questo?—domandò Gino, che non aveva perduto una sillaba.
—Che il lago della Ninfa è senza fondo?—disse Don Pietro.—Non voglio crederlo. Che c'è un vortice in mezzo? Non appare, ch'io sappia, da nessun movimento della superficie. È voce antica, e si ripete da tutti i nostri montanari; ecco tutto.
—Ma nessuno si è arrisicato nel mezzo del lago?
—L'acqua è molto fredda, e le salamandre che abbondano alla riva, tanto che se ne trova una sotto ogni sasso, rendono poco piacevole entrarci a piè nudo. Del resto, a recarsi nel mezzo del lago, sarebbe necessaria una barca. C'era il signor Francesco Guerri, nostro degnissimo amico qui presente, che aveva promesso di mettere lassù un burchiello; ma credo che ciò sarà nella settimana dei tre giovedì.
—Bella stima che si fa delle mie parole!—disse il signor Francesco, ridendo.—Sappia Lei, uomo di poca fede, che io non ho dimenticato nulla, e che il burchiello promesso è già arrivato a Pievepelago, dov'è andato il mio Aminta a riceverlo. Domani sarà alle Vaie, e lo faremo portare, senza levarlo dal carro, fino alla Beccadella, donde, coll'aiuto di quattro ruote, e a forza di braccia, se sarà bisogno, lo manderemo su, fino alla riva del lago. È contento, ora, di avermi fatto parlare? Aspettavo che la cosa fosse condotta a buon termine, per proporre la gita al nostro ospite.
—Oh!—gridò Gino.—Sarà una vera festa per me. Ma c'è il resto della leggenda, se non erro.
—Sicuro che c'è;—rispose Don Pietro.—Ad onta di tutte le ammonizioni, il cacciatore ritornò sulle rive del lago. Da principio andava guardingo, rimaneva appiattato tra i faggi, per non turbare la quiete della Ninfa, che stava sempre rasciugando i bei capegli d'oro al sole, e cantava frattanto una canzone, di cui egli non intendeva le parole, ma coglieva benissimo la soave melodìa. Ardì avanzarsi un giorno allo scoperto, e gli parve che ella, non che turbarsi della sua presenza, gli sorridesse e gli accennasse del capo. Lo chiamava forse a sè? Il giovane innamorato tentò allora di avvicinarsi; ma c'era sempre l'ostacolo di quel canaletto così profondo, in cui si vedevano guizzare le negre salamandre attraverso alcuni tronchi di faggio che infracidivano là dentro, galleggiando a mezz'acqua. Più oltre si vedeva fitto, irto di mille punte il roveto, e di là non c'era speranza di aprirsi una via. Neanche si poteva ascendere dai fianchi della montagna fino a quella punta scogliosa che sorgeva sul lago, essendo da quella parte tutta una balza a piombo, per un'altezza spaventosa. Il lago della Ninfa, se non lo sa, è scavato in una insenatura del monte, in una specie di cratere che gli fa come una tasca sul fianco, e l'acqua della sorgente, che scaturisce da un masso più in alto, ci sta come l'acqua santa nella sua pila di marmo. Tastati inutilmente tutti i passi, l'innamorato cacciatore dovette contentarsi di guardare da lungi. Venne l'autunno, ed egli seguitò a contemplare l'amor suo; venne l'inverno, e si copersero i monti di un mantello di neve, il vento incominciò a fischiare più rumoroso tra i faggi, e la Ninfa seguitava a star là, come se non sentisse il freddo pungente dell'Appennino, sempre pettinando al sole i suoi capegli d'oro. Ed egli pure, insensibile al freddo, non badando alla neve, nè al vento gelato, poichè era caldo d'amore, sdrucciolando più e più volte sul ghiaccio del sentiero, chiudendo gli occhi al nevischio che gli flagellava la faccia, ascendeva tra i faggi fino alla conca del lago, per ammirare ogni giorno la bella incantatrice. Prodigio inaudito! Si era la Ninfa impietosita di lui? Un bel ponte di cristallo, largo quanto lo specchio delle acque, si stendeva tra lui e la scogliera inaccessibile. E la Ninfa del lago seguitava a cantare, a guardarlo, a sorridergli, ad accennargli del capo. Arrisicò un passo, poi due, verso di lei, che cantava sempre, sorrideva e accennava del capo. Corse allora più rapido, volò più leggero sulla superficie cristallina, che il nevischio veniva coprendo di piccole stelle opache. Ma ohimè! Quando il cacciatore è già a mezzo del ponte, la via trema sotto i suoi piedi, dà suono di cristallo che si spezzi. Non è più in tempo a retrocedere; una fenditura di qua, una fenditura di là, e cric! la lastra si è rotta, il cacciatore s'inabissa nel baratro. Il ponte di cristallo non era altro che una crosta di ghiaccio. Lo sventurato non fu più visto da quel giorno tra i vivi. È fama per alcuni che la Ninfa del lago scendesse a consolarlo nel fondo delle acque. Altri crede di no. La Ninfa del lago era sempre stata immobile e fredda come una pietra lassù; pietra divenne, per giustizia divina, nè più scese a bagnare il bianco piede nell'acqua.
—Stupendo!—gridò Gino, poichè Don Pietro ebbe finito.—Ed è sempre visibile lassù?
—Sì, sebbene il tempo e l'azione alterna del caldo e del gelo le abbiano un po' guastati i contorni.
—Bella storia! Meriterebbe di esser vera, e andrebbe cantata col titolo: La Ninfa di pietra.
—Da bravo, dunque!—disse il vecchio prete.—Una ballata in piena regola, e mano al Ruscelli!
—Se fossi un poeta,—rispose Gino, tentennando la testa,—non ci sarebbe bisogno di un simile aiuto. Ma non lo sono, e il rimario non basta. Quando si va?
—Anche doman l'altro, appena sia condotto lassù il burchiello;—rispose il signor Francesco.
—Doman l'altro? È domenica;—disse Don Pietro.—Io ci ho la spiegazione del Vangelo. Il dovere prima di tutto; poi la buona compagnia, i faggi, il lago e la leggenda.
—Giustissimo; sia per lunedì, allora.
—Se potrò, volentieri.
—Se non potrà, lo sapremo, e rimanderemo la gita. Nessuno ci comanda, e siamo qui tutti l'un per l'altro;—replicò il signor Francesco.
—Così va bene;—disse il prete.—Questa gita mi sarà graditissima, dopo tanti anni che non l'ho più fatta. Ho una gran voglia di provare le mie gambe. La salita dalla Beccadella al lago, se ben ricordo, è cattiva.
—Oggi più di prima;—rispose Aminta.—Ci sono passato io l'altro mese e l'ho veduta. Le pioggie di primavera hanno fatti i solchi molto profondi, e in un luogo hanno addirittura sfondato il sentiero.
—Manda una squadra d'uomini a farci due giornate di lavoro;—disse il signor Francesco al figliuolo.—Sarà tanto di guadagnato per il trasporto del Leviathan.—
Si era ai tempi, lo ricordate, che tutta Europa si dava pensiero di uno smisurato piroscafo inglese, chiamato per l'appunto il Leviathan dei mari. Oggi, il signor Francesco Guerri, se dovesse parlare del burchiello che aveva destinato al lago della Ninfa, lo paragonerebbe più volentieri al Duilio.
Così fu concertata la gita al lago, e così furono dati tutti i provvedimenti perchè riescisse ogni cosa a dovere. Noi ci siamo un po' indugiati su questi discorsi, perchè la conversazione della gente dabbene è sempre molto piacevole, anche quando gli argomenti son lievi.
La conversazione si spezzò in dialoghi, come per solito avviene, quando una brigata si muove e ognuno si dispone a riprendere il carico, dolce o molesto, delle proprie faccende. In quel punto, Gino Malatesti si ritrovò molto naturalmente daccanto a Fiordispina.
—Che bella storia ci ha raccontata Don Pietro!—diss'egli.—Non pare anche a Lei, signorina?
—Bella, quantunque assai triste;—rispose la fanciulla.—Ma ho veduto che in letteratura è quasi sempre così; il lieto fine par sempre meno artistico, ai signori scrittori.
—In una leggenda, del resto,—disse Gino,—il pauroso e il patetico son sempre di regola.
—Da bravo!—saltò su a dire Fiordispina.—La metta in versi, come Le ha consigliato Don Pietro.
—Anche Lei, signorina?
—Anch'io; perchè no?
—Quando non si è poeti!…—esclamò Gino.
—Quando non si è poeti… si diventa;—rispose la fanciulla.—Non basta una forte commozione a schiuder la vena della poesia?
—Eh! per il sentimento, capisco.
—Il sentimento è tutto, o quasi tutto;—replicò Fiordispina.
—Ma un po' d'arte non guasta, anzi è necessaria;—disse Gino.—E questa non la dà che un lungo esercizio.
—Non troppo lungo, via! Se no, consuma l'estro. Ritorniamo all'essenziale, che è la commozione.
—Perdoni, signorina; io conosco qualche cosa di meglio della commozione, per render poeta un uomo. Esempio: una preghiera sua.
—Ah!—gridò ella, inarcando le ciglia e minacciandolo col dito levato.—Il topolino bianco che fa capolino dalla sua tana!—
Il topolino bianco era il complimento. Al conte Gino era avvenuto più volte di dirne, e di graziosissimi; donde, per convenzione di discorso, il loro nome, trovato dalla fanciulla, di topolini bianchi.
—Ecco, signorina…—rispose il giovanotto, volendo giustificarsi;—il topolino bianco può ammettersi terzo fra noi, quando viene per annunziarci la verità.
—Bene, la prendo in parola;—replicò Fiordispina.—Se non è stato un complimento, il suo. Ella deve provarsi, e scrivere la ballata.
—La condanna è severa;—diss'egli.
—Ma meritata; non le pare?
—Sia;—rispose Gino, inchinandosi.—Se così vuole davvero, mi proverò. Ma poi?…
—Poi trascriverà la ballata sul mio albo.
—Sull'albo! Anche Lei, signorina, ne ha uno? E perchè non l'ho ancora veduto?
—Perchè non me ne ha chiesto, ed io non ho avuto occasione di dirgliene. Del resto, eccolo qua; era alla vista di tutti.—
Così dicendo, la fanciulla dei Guerri si accostò alla sua piccola libreria, e di mezzo a certi libri trasse un volume rilegato di marocchino, coi fermagli d'argento.
Gino prese il volume dalle mani di lei e lo aperse. Era tutto pagine bianche.
—Come?—esclamò.—Un albo vuoto?
—Sicuramente. E chi ci doveva scrivere? buono, o nulla.
—Bellissima risposta! Ma badi, signorina, vedo qui un altro topolino bianco.
—Perchè?
—Perchè Ella dice anticipatamente che le piacerà quello che ci scriverò io.
—Scriva,—rispose la fanciulla,—e non si dia pensiero d'altro.
—Ahimè!—mormorò Gino.—Debbo pure darmi pensiero di ciò che altri ci scriverà dopo di me.—
Gino aveva fatto il viso malinconico, parlando così; Fiordispina fece il viso serio, udendo quelle parole.
—Ecco,—diss'ella,—ora mi fa torto. Non ci ha scritto nessuno prima di Lei; non ci scriverà nessuno dopo. Sono montanara, signor conte, e molto ferma nei miei propositi, l'avverto. Ne dubita forse? È cattivo.
—No, no! Non sono cattivo, perchè sono felice;—rispose Gino, colto da un soave turbamento, e abbassando la voce, poichè anche a dir poco voleva parlare solamente per lei.—Se fossi cattivo, Minerva non mi assisterebbe più, nell'impresa poetica alla quale mi accingo.
—Si tratta di poesia;—disse Fiordispina.—Dovrebbe assisterla
Apollo.
—No, signorina. Apollo è la forma, il metro, il ritmo, tutto ciò che vorrà, meno il pensiero. Il pensiero è Minerva…. e per me,—soggiunse Gino, additando maliziosamente una certa acconciatura di testa,—anche Minerva con l'elmo.—
L'allusione era così diretta e il gesto così comico, che Fiordispina non potè trattenersi dal ridere.
—Per un fazzoletto di seta, dir elmo è troppa!—rispose.—Ma me lo leverò, non dubiti. Portare un fazzoletto in testa, è anche un esser troppo montanara.
—No, resti così…. montanara, se montanara è, come dice Lei, una persona ferma ne' suoi propositi. Resti così, signorina, sul monte Ida.
—Oh, questo, poi!…—gridò Fiordispina,—Sull'Ida, no. Non sa lei che Minerva fu vinta, lassù?
—Per il giudizio di uno sciocco!—rispose Gino.—Crede Ella che sia tale ancor io? È cattiva Lei, ora.
—Or dunque, per non esser cattivi, ritiriamo ciò che si è detto;—replicò Fiordispina, chinando la testa con atto di comica rassegnazione.—Ma ritiri anche Lei il suo monte Ida, per carità. Non ci ho che vedere, con l'Ida, e mi attengo al nostro Cimone, tanto meno classico, ma non privo di poesia.
—Divina fanciulla!—esclamò Gino infiammato.
Ma voi siete pregati di credere, o lettori discreti, che questa esclamazione fu fatta con gli occhi. Con gli occhi, ripeto, quando essi parlano, lampeggiando l'idea, e le labbra si contentano di mormorare un suono indistinto, il suono del desiderio, della giaculatoria, della adorazione, dell'estasi, o di tutte queste cose insieme.
Capitolo VII.
Al lago della Ninfa.
Jamque dies aderat, avrebbe detto qui un poeta latino, per cavarsela con un bel trapasso alla greca. E già era venuto il gran giorno, che fu un lunedì, come sapete, destinato alla gita del lago della Ninfa, preceduta da una salita sulla vetta del Cimone.
Fino ad un certo punto era tutta una strada. Partiti verso le tre del mattino delle Vaie, i nostri viaggiatori giungevano al pian Cavallaro coi primi lumi dell'alba. Colà, per fare omaggio al nome del luogo, lasciarono le cavalcature, e dopo avere assaggiata l'acqua fresca, quasi gelida, della fonte Beccadella, presero risolutamente a salire la vetta del Cimone.
Ve l'ho già detto altrove, o non ve l'ho detto? Nel dubbio, ve lo ripeterò: l'ascensione di questo altissimo tra i vertici dell'Appennino settentrionale (duemila cento sessantacinque metri, scusate!) non offre difficoltà che all'ultimo passo, cioè nel guadagnare quel suo petroso ciglio, che è formato, dicono, dalla emersione di alcuni strati del macigno appenninico. L'ossatura del monte è in gran parte di simili strati, ai quali non piacque la posizione orizzontale, o non fu lasciata piacere da quelle cause che sapete, o che più facilmente non saprete, poichè oggi ancora si cercano. Infatti, vedete: c'è stato un tempo che tra i geologi fu una quistione indiavolata circa la crosta della Terra; chi la voleva cruda e chi cotta, e i primi erano quelli del sistema nettuniano, e gli altri del plutoniano. Vinse per un po' di tempo chi la voleva cotta; ma tra questi si manifestarono ben presto gli screzi; nacquero i dubbi e le liti sul grado di cottura. Poi tornarono a galla coloro che la volevano cruda, e si accapigliarono con quelli che la desideravan almeno un po' riscaldata a bagno maria. Questo è suppergiù lo stato presente della disputa.
Per cattivo che fosse quell'ultimo passo, le vecchie gambe di Don Pietro furono le prime a superarlo, e senza bisogno d'aiuti. Lodando lui, ridendo, offrendo la mano alle signore, si giunse in breve ora sul cono, dalla vetta spuntata, vero osservatorio alpino, che aveva forse cento metri di giro.
Nel bel mezzo di quel pianerottolo sorgeva una piccola torre. Dico che sorgeva, e sarebbe più giusto il dire che cascava a pezzi. Era stata edificata nel 1816, per servire come stazione trigonometrica agli ufficiali che delineavano la carta topografica dello Stato Estense. Non cercate più ora quella piccola torre; mezzo diroccata ai tempi del nostro racconto, crollò del tutto qualche anno dopo. Oggi è surrogata da un bel torrione, di cui gli scienziati si faranno un osservatorio e gli alpinisti potranno farsi un ricovero. Così, quando l'opera sarà inaugurata, e inaffiata spero da qualche bottiglia di lambrusco, non sarà più il caso di partirsi un giorno prima da Fanano e di passar la notte in un tugurio di pastori, ai Faggi, come toccò allo Spallanzani, per voler essere la mattina degli 11 agosto del 1789 sulla vetta del Cimone, e goderci lo spettacolo sempre maraviglioso della levata del sole. Oramai si potrà giungere sul Cimone a tutte le ore del giorno, dormire lassù, levarsi per tempissimo e godere, non che la levata del sole, tutti i preliminari della cosa: l'alzarsi della cameriera in sul bruzzico, l'aprire la finestra della cucina, sul balzo d'Oriente, lo accendere i fornelli, e il portare una tazza di caffè fumante al padrone.
Che volgarità son queste? Non c'è altro da dire sul romper dell'alba e sul levarsi del sole? Amici lettori, il mattino osservato dalla vetta di un monte è stato descritto tante volte, che in verità non si sa più come cavarsela, per rinfrescare in qualche modo il soggetto. Potrei dire con laudabile brevità: «splendido!» Ma neanche questo sarebbe nuovo, avendolo già detto il duca di Wellington, a Waterloo.
Ma lasciamo questi discorsi. Ai nostri amici delle Vaie toccò una di quelle fortune così rare sui monti, che sono le mattinate limpide tutto intorno, senza nebbie interposte fra essi e il gran giro dell'orizzonte che sembrano comandare dall'alto. Salutato il grande astro rosseggiante che si affacciava dalle vette dei monti toscani, i nostri amici si volsero intorno a veder sorgere, quasi nascere a grado a grado dalle tenebre, tingersi di bei colori e risplendere gloriosa la gran catena delle Alpi, dalle Marittime alle Retiche; biancheggiare di sotto e illuminarsi via via la grande pianura per cui correva il Po in lunga e tortuosa fascia d'argento; più oltre accennarsi in una candida sfumatura l'Adriatico, donde, percorsi rapidamente con l'occhio i dorsi dell'Appennino bolognese e del toscano, veduta Bismantova, con la sua gran faccia di sfinge supina, ma di sfinge europea che abbia il naso aquilino, era permesso di veder le Maremme verdeggianti, le rive del Tirreno e le isole dell'Arcipelago toscano, ninfe nuotanti sopra una grande distesa d'azzurro.
—Andiam, che la via lunga ne sospigne;—aveva detto ad un certo punto Don Pietro.
E obbedendo al cenno dantesco, che non era stato neppur solo, poichè si era veduto e ricordato con parole dantesche il sasso di Bismantova, la brigata si mosse per ritornare alle falde del cono, dove i cavalli aspettavano.
La fonte Beccadella si sprigionava rumorosa dal masso, scendeva copiosa tra due sponde rivestite di felci, tanto copiosa (l'osservazione è dello Spallanzani, che era un uomo pratico) da bastare a mettere in moto la ruota di un mulino. La brigata stette alquanto ad ammirare la fresca sorgente, i muschi che inverdivano i sassi, e le felci che piegavano intorno i loro ombrelli dentati, o rizzavano dignitosamente i loro pastorali dalla vetta ricurva, come se fossero altrettanti vescovi in processione. Poi, rimontati a cavallo, scesero tutti verso greco, dietro la guida di Aminta, addentrandosi in una fitta selva di abeti e di faggi. Fu un'allegra discesa, dove soli i cavalli vedevano il sentiero, mentre i cavalieri dovevano guardarsi dai rami protesi che ad ogni tratto schiaffeggiavano il viso.
Ad un certo punto, le veduta si aperse sopra una vasta conca di azzurro intenso, chiusa d'ogni parte nel verde.
—Bello!—esclamò Gino, a cui Fiordispina aveva indicata la scena.—Il suo nome?
—Non lo ha riconosciuto ancora?—domandò la fanciulla.
—Che? il lago della Ninfa?
—Per l'appunto.
—Ma….—disse Gino.—Cerco la Ninfa, e non la trovo. È tutto verde, in giro al lago.
—Ancora un po' di strada e vedrà scoprirsi da quella parte la roccia biancastra.
—Ella crede dunque, signorina, che noi non possiamo vedere niente più della nuda roccia? E la Ninfa in persona non sarà ad aspettarci?
—Ci sarà sicuramente;—rispose Fiordispina.—Non le ha detto Don
Pietro che è stata convertita in sasso?—
Il conte Gino seguiva con gli occhi tutte le curve graziose di quello specchio azzurro, mentre la cavalcata scendeva la costiera, in mezzo alle aste rossiccie di una macchia di abeti. Anzichè lago della Ninfa, quel volume d'acque si sarebbe potuto dir occhio; un occhio limpido e sereno, a cui erano ciglia i faggi della riva e sopracciglia le prominenze della balza; uno di quegli occhi bovini, pieni di stupore, con cui Iside, o la santa natura, contempla il cielo suo padre e ne riflette l'immagine in terra. Ahimè, nient'altro che l'immagine!
Questi occhi d'Iside, o di Giunone, o d'altra divinità che raffiguri la virtù feconda della madre terra, son comuni tra i gioghi dell'Appennino settentrionale, e sarebbe piacevolissimo ragionarne a lungo, se non si temesse di dar noia al lettore. Dal lato superiore della gran valle del Po, i laghi son tutti lunghi e vasti come la catena delle Alpi da cui prendono le acque, come i fiumi a cui debbono restituirle. Dal lato inferiore, sono meno alti i monti, meno lungo è il corso dei fiumi, le nevi durano meno sui dorsi dell'Appennino, e i laghi, quantunque più numerosi, sono infinitamente più piccoli; veri laghetti, serbatoi montanini, dai quattro agli ottocento metri di giro, formati sempre nelle alte convalli, dove in antichissimi tempi erano altrettanti ghiacciai. Sull'Appennino le nevi disciolte, ma più ancora le selve fitte, nutrono fonti vive e perenni; son queste che fanno lago, cento o dugento metri più sotto, in qualche piega del monte. Dalla parte inferiore, dov'è come il labbro della conca montana, è facile riconoscere tuttavia la mora dell'antico ghiacciaio, enorme parete di massi ammonticchiati, rivestiti di verdura e arieggianti una collina a chi li guardi dal basso. Sui fianchi del lago, un picco ignudo, una cresta scogliosa, una spina dentata di rocce, lasciano ancora indovinare gli strati di vecchio macigno terziario, che il ghiacciaio ha corrosi via via, trovandoli sul confine del suo regno. Se l'epoca glaciale fosse durata nel nostro piccolo mondo venti trenta secoli di più, certamente quelle pareti si sarebbero corrose dell'altro e sfiancate, scendendo a formare altre more di sassi sul confine del ghiacciaio medesimo, che le aveva da principio sfaldate. Ma per bontà di un cambiamento di temperatura, che ha permesso a noi di nascere (non so per qual fine e nemmeno con quanto utile nostro), quelle pareti rimangono in piedi, come segni delle antiche erosioni che han dato la forma più recente al nostro pianeta. Vogliano i cieli benigni che sia anche l'ultima.
La cavalcata era giunta al confine della macchia, donde si stendeva in dolce pendìo un tappeto erboso, un verde pulvinare, fino alla riva del lago. Qua e là il declivio era seminato di massi enormi, le cui facce scabre si vedevano chiazzate di licheni e annerite dai geli di un numero sterminato d'inverni. Un geologo ci avrebbe veduto altrettanti esemplari dei famosi massi erratici, fatti scorrere fin là sul piano inclinato del ghiacciaio, e deposti sul limite della mora. Un pittore, senza cercar tanto, avrebbe messo mano ai pennelli e si sarebbe affrettato a ritrarli, per portar via una bella impressione dal vero. Gino, che non era geologo nè pittore, si contentò di osservare. La poesia del luogo era grande, la pace incantevole, e Fiordispina, bella come una Dea, certamente più della Ninfa che fino allora aveva regnato da sola in quel verde di macchie, su quell'azzurro di lago, affascinando e traendo a morte i viandanti ignari, i cacciatori della leggenda.
Mentre egli ammirava tacendo, i suoi compagni si affollavano intorno alla barca, che i boscaiuoli di casa Guerri avevano tirata lassù a forza di braccia. Non era una barca molto grossa; era un burchiello, capace di due persone sedute e di una terza che stesse al maneggio dei remi. Ma era la prima che andasse lassù, e alla Ninfa del lago poteva parere una grande maraviglia. Doveva trovarsi male, quella povera Ninfa; il suo regno era finito; il suo recesso non avrebbe più avuto segreti, poichè era consentito di correre il lago da una riva all'altra e di giungere fino al suo letto di pietra.
La barca non era stata ancora lanciata nell'acqua. Il signor Francesco aveva ordinato che fosse tenuta sulla riva, in attesa della brigata. Don Pietro doveva benedirla, il padrino e la madrina imporle un nome. Il padrino, si capisce già, sarebbe stato l'ospite, il conte Gino Malatesti; la madrina poi… debbo dirvi anche questo? la madrina sarebbe stata la fanciulla dei Guerri.
Mentre la comitiva stava intorno al burchiello, che i boscaiuoli traevano ancor più presso alla riva perchè fosse pronto al mistico bacio delle onde, Gino guardava il masso bianchiccio, che sorgeva, bizzarramente stagliato, dall'altra parie del lago. Egli doveva cantare la Ninfa, poichè ne aveva fatto solenne promessa a Fiordispina; voleva perciò impadronirsi del soggetto. Era dunque laggiù, era quella veramente, la Ninfa del lago convertita in pietra! La vecchia balza calcarea, isolata sul fianco della montagna ed impervia, colorata dai caldi riflessi del sole mattutino, poteva benissimo aver raffigurato in altri tempi la chioma, il profilo di una faccia umana e tutto insieme il corpo di una persona sdraiata; ma via, per innamorarsene, anche da lontano, ci voleva proprio un cacciator da leggenda.
—Che cosa pensa?—gli domandò Fiordispina.
—Penso,—rispose Gino,—alla fantasia del nostro ottimo prevosto.
Egli è Pietro, e su quella pietra ha edificata una graziosa leggenda.
Mi dica lei, signorina, ora che ha quel bizzarro profilo sott'occhio.
Le par proprio quella una figura da innamorarsene a prima vista?
—È di sasso,—replicò la fanciulla,—e chi sa quanti sconcerti atmosferici hanno lavorato a guastarle il profilo! Povera ninfa del lago! Ci vuole sicuramente uno sforzo di volontà, per ricostruirne i contorni. Ma noi, fra cent'anni,—soggiunse la fanciulla, sospirando,—saremo più riconoscibili di lei?
—È un pensiero filosofico, signorina;—disse Gino;—ed anche molto pietoso per quella povera morta. Ma non basta a salvarla; ne conviene?—
La fanciulla non ebbe tempo a rispondere.
—Venite qua, Fiordispina;—gridò in quel punto il vecchio prevosto.—Ed anche Lei, signor conte. I due più giovani della brigata si stringano intorno al più vecchio. Così! E tutti gli altri in giro, perchè siamo al momento solenne. Che nome vogliamo noi dare a questo burchiello?
—Dica Lei, signor conte;—mormorò Fiordispina, a cui era rivolto il discorso di Don Pietro.
—Non l'oserò mai;—disse Gino, che avrebbe dato volentieri il nome della fanciulla.
—Bene, vedrò dunque io d'interpretare il suo pensiero;—rispose
Fiordispina.—Facciamo una cosa alta, non è vero?
—Siamo in alto per questo;—disse Don Pietro. Fiordispina, allora, si accostò al vecchio prete e gli susurrò una parola all'orecchio.
Don Pietro si scosse, sospirò, levò gli occhi al cielo, come per chiamarlo testimone ed auspice di un voto del cuor suo; poi, con atto paterno, baciò in fronte la fanciulla.
—Che tu sia benedetta,—diss'egli,—come io benedico nel nome di Dio questa fragile barca. Va,—soggiunse allora, sospingendo il burchiello,—va nel nome d'Italia, che Fiordispina Guerri t'ha imposto, e conduci le sue fortune all'altra riva, alla meta sospirata dei nostri cuori.—
La scena, piccola com'era, aveva una grandezza semplice, una solennità commovente.
—Italia!—gridarono tutti.—Viva l'Italia!—
—Così l'avete chiamata?—mormorò Gino, volgendosi alla fanciulla, e dimenticando in quel punto le forme cerimoniose di discorso che aveva sempre usate con lei.
—Non è il vostro sospiro, conte?—diss'ella di rimando.—E non siete qui per amor suo?—
Così, senza lunghi discorsi, che non era il caso, senza bandiere, che non ce n'erano di pronte, ma con grande effusione di cuori, fu lanciata sulle acque l'Italia. Illustre signor commissario, e voi non eravate là per riferire del fatto!
Il conte Gino, preso da un impeto subitaneo, era saltato dentro il burchiello, e di là porgeva la mano a Fiordispina. La bella montanara, presa la mano del conte, balzò ardita e leggiera sul capo di banda, prima che alcuno pensasse a trattenerla, o a sostenerla nel salto.
—Che fate?—gridò la signora Angelica.
—Non vede, signora?—disse Gino.—Andiamo alla meta.—
E afferrava i remi, per adattarli sugli scalmi.
—Aspettino almeno che venga un uomo con loro;——disse il signor
Francesco.—Aminta, entra anche tu nel burchiello.
—Crede al vortice, Lei?—chiese Don Pietro al vecchio Guerri.
—No, davvero; ma sono due giovani, e un po' d'esperienza….
—Li lasci andare, sor Francesco. È un viaggio che tocca ai giovani.
—Non temer nulla, del resto;—disse Aminta a suo padre.—Noi andremo lungo la riva, tenendo la fune.—
Il pensiero di Aminta parve buono al vecchio Guerri. Il lago, di forma elittica, non misurava che trecento metri nella sua maggiore larghezza, e la fune legata alla poppa, quando gli uomini che ne tenevano il capo andassero lungo la riva seguitando il corso della barca, poteva bastare per accompagnarla fino al piede della balza, obbligando all'uopo il rematore a piegare da un lato, anzichè a tenersi nel mezzo del lago.
Gino, allegro e superbo della sua piccola audacia, vogava arditamente, contemplando la fanciulla, che stava seduta a poppa, con una mano penzoloni fuori del capo di banda, sfiorando l'acqua fresca col sommo delle dita e segnando lo specchio azzurro d'una piccola striscia d'argento.
—Voi siete Minerva, o la saviezza incarnata;—disse Gino alla fanciulla.—Così fossi io Achille, per obbedirvi e giungere sotto il vostro patrocinio alla vittoria sperata!
—Sì, se non ci fossero altri pericoli che questo!—esclamò Fiordispina ridendo.—Ma per l'impresa a cui alludete, signor Gino, se anche io fossi Minerva, ci vorrebbe un Ulisse.
—E vada per Ulisse;—replicò Gino.—Siamo in acqua, di fatti, ed egli ne corse molta, con l'aiuto della Dea.—
La fanciulla sorrise, ma non rispose più altro. Pensava ella a tutte le avventure dell'eroe itacense? e alla lunga solitudine della casta Penelope?
Frattanto, il suo mite sorriso correva sulle acque, illuminando quella pace profonda, meglio che non facessero i raggi obbliqui del sole, penetrando a lunghi sprazzi dorati tra i faggi e gli abeti, lunga e fitta selva di lance vigilanti, ond'erano contornate e chiuse le verdi rive del lago.
—Eccolo, il famoso vortice!—disse Gino, mentre il burchiello sotto l'impulso dei remi giungeva quasi a rasentare il centro dello specchio azzurro.—Vedete che tranquillità d'acque!
—Mio fratello crede più di voi alla voce popolare;—rispose la fanciulla.—Egli ci tira insensibilmente da un lato e non ci lascia andar sopra al punto pericoloso.
—Ma ci permette di vederci dentro;—replicò Gino. Guardate là, come si distingue il fondo. Ci saranno sei metri d'acqua, a far molto.
—Avete ragione; le cose vedute da vicino pèrdono assai del loro carattere pauroso. Anche la ninfa del lago dà meno illusione agli occhi, quanto più ci accostiamo al suo trono di pietra. L'unica cosa che le rimanga è la sua capigliatura dorata. Infatti, al raggio del sole, la vetta dello scoglio par bionda. Non amate il biondo, voi, signor Gino?
—Sia il colore delle donne di pietra;—rispose il giovane, senza pure voltarsi sui remi a guardar la scogliera.—La donna vera, la donna vivente, sia ala di corvo… come voi.
—Ahi—gridò Fiordispina.—Il topolino bianco!…
—E vi dispiace, signorina? Qui almeno dovrebbe essere tollerato. Credete che sia mai stato detto un complimento, in questo punto del globo?
—No, davvero; è la prima volta di certo. Accettiamolo dunque. Ma se quella bionda vi sente, povera la nostra barchetta!
—A proposito!—disse Gino.—Mi fate pensare che bisogna tener d'occhio la riva.—
Così dicendo, si volse, e levatosi in piedi vogò con la faccia rivolta alla sponda. La balza, dalla parte del lago, offriva agli occhi uno scoscendimento di sassi, di lastroni sfaldati, che ingombravano il lido. Quello era un vantaggio per la barca, che poteva accostarsi, senza toccare con la chiglia il terreno, ed offrire un più facile approdo ai nostri due viaggiatori. Il conte Gino rallentò la voga, per non urtare nei lastroni sporgenti; e quando venne a rasentarli con la prora, fu lesto a disarmare i remi, per saltar subito a riva. Di là, trattenendo con una mano il piccolo legno, tese l'altra a Fiordispina, che lo imitò prontamente.
—Terra! terra!—gridò Gino alla comitiva, che dalla sponda opposta aveva seguito con gli occhi il viaggio dei due giovani argonauti.—Aminta, tira il burchiello a te, e seguici sull'intentato pelago.
—Con poco rischio, oramai;—rispose Aminta, mentre lavorava con la squadra dei boscaiuoli a tirare la fune.
Lasciamo che la barca ritorni indietro, rasentando la scogliera, e seguiamo i due giovani. Gino aveva presa la fanciulla per mano e la conduceva di sasso in sasso fino al piede della balza. La ninfa del lago era là, supina sul guanciale di pietra, ma ohimè, come aveva già detto Fiordispina, non più riconoscibile.
—Siete qui, affascinatrice leggendaria?—diss'egli, accostandosi al sasso.—Vi tocchiamo, finalmente, e come il vortice non ci ha inghiottiti, così le vostre bellezze non ci faranno smarrire la ragione. La cosa, del resto, sarebbe stata impossibile, qualunque fosse il poter vostro. Vedete questa gentile fanciulla? Orbene, sappiate, vo' dirvi una cosa all'orecchio, com'ella dianzi ne ha bisbigliato una a Don Pietro.—
E si accostò al masso, mormorando parole indistinte.
—Ecco!—esclamò Fiordispina.—La Ninfa non è cortese come Don Pietro, che ripetè ad alta voce ciò che io gli avevo bisbigliato all'orecchio.
—La Ninfa è di pietra;—rispose Gino.—Se fosse viva, e se potesse parlare, ripeterebbe che io vi amo. Ecco una cosa che non è mai stata detta qui. Vi dispiace, signorina?—soggiunse egli, vedendo che la fanciulla si era turbata.—Son io stato troppo audace e vi ho offesa con le mie pronte parole? Perdonate, Fiordispina! Non è sempre dato tacere quello che si ha nel cuore. Il mio è pieno di voi.
—Non ho da perdonarvi nulla;—rispose Fiordispina, abbandonandogli con atto confidente la mano ch'egli aveva afferrata.—Siete sincero, e la sincerità è una bella cosa, che deve piacere ad ognuno. Ma dite, signor Gino, avete voi pensato… a tutto?
—Tutto!…—diss'egli, perplesso.—Tutto… siete voi, oggi.
—Oggi!—ripetè la fanciulla, crollando mestamente il capo.—Son io, l'oggi, e siete voi, Gino. Ma il domani! Il domani è la vostra famiglia, che vi richiama. Il domani è il conte Jacopo, vostro padre, la cui volontà dovreste consultare… e rispettare.—
Gino rimase un istante sopra di sè.
—Mi fate pensare,—diss'egli poscia,—che dovevo parlar prima al vostro. Correggerò l'errore, non dubitate.
—No, non lo fate!—gridò la fanciulla.—Io non vi domanderò di leggere meglio nel vostro cuore, perchè vi offenderei, parlandovi così. Vi domanderò invece di essere ben certo di ciò che vostro padre potrebbe consentirvi, negarvi. Ho pensato molto a queste cose, sapete? Ci ho pensato lungamente, e da gran tempo. Io, signor conte, vi ho amato fin dal primo giorno che vi ho veduto. Non so se queste cose si debbano dire; ma voi attribuirete la mia sincerità alla inesperienza degli usi del mondo. Per me, eravate infelice, condannato a vivere tra questi monti, lontano da casa vostra e da tutte le vostre cose più care. Dovevano venire a voi tutti i cuori, per medicare le ferite vostre, per farvi dimenticare le amarezze della vita. Era naturale che io vi amassi, conte Gino; dirò di più, era fatale. Ma quando mi sono avveduta che anche voi mi amavate,—e qui, la voce della fanciulla fu quasi per ispegnersi in un singhiozzo,—allora ho incominciato a tremare. Che avverrà? ho detto allora a me stessa. Che avverrà? vi ripeto oggi ancora. Per me, conte Gino, io non lo so, non oso cercarlo. C'è buio, nel futuro, ed ho paura di andare innanzi, perchè temo di trovarci un gran vuoto, un terribile vuoto.
—Qual pensiero!—esclamò Gino.—Perchè questi timori? Non avete voi fede in me? Non l'ho io meritata?
—Ho fede in voi;—rispose la fanciulla.—Ma su di voi, su di me, su di noi tutti è il destino. Ho pensato molto, vi dicevo poc'anzi. Qui si pensa molto, quando si pensa; nulla ci distrae, nulla turba il quieto ed assiduo lavoro dello spirito; nessun pensiero, nessun affetto si diffonde o si perde; si raccolgono, si fortificano tutti nel profondo dell'anima. Che voi abbiate dei doveri, lo so; che abbiano a cozzare con le inclinazioni del vostro cuore, lo prevedo. L'idea che vi ha meritato il confine, non è sicuramente un'idea leggiera, se ad essa avete sacrificati gli affetti della famiglia e le consuetudini della vita. Chi sa quali altri sacrifizi non vorrà essa da voi? La patria, Gino Malatesti, sta sopra ad ogni cosa. Avete un bel nome; i vostri padri, prima di essere gentiluomini di corte, furono soldati, e sperarono tutti di collegare il loro nome al ricordo di qualche utile impresa; italiani di nascita, furono certamente italiani di pensiero, ed anche servendo a barbari, a predatori, ad avventurieri fortunati, si dolsero di veder correre la patria loro da tanti ladroni stranieri. Sventurati nell'esito delle loro fatiche, non vi hanno lasciata una patria rifatta, gloriosa e felice; ma hanno potuto lasciarvi un titolo ed una corona, come obbligo e incitamento a proseguire un'opera grande, da essi intravveduta, da essi vagheggiata. Per qual ragione ci sarebbero dei nobili, in un paese, se non fosse per dare l'esempio alle turbe? Lo stemma e la corona non furono inventati, che io creda, per dare un bel rilievo ai suggelli delle lettere, o per adornare gli sportelli delle carrozze, ma per offrire un segno di collegamento nella battaglia. Oggi, poi, tutti coloro che hanno potuto nutrir meglio lo spirito, hanno l'obbligo sacro di trovarsi ai primi posti, per l'ora delle prove solenni. Voi non credete già che l'Italia poserà sempre sotto lo scettro, o sotto il bastone dei suoi sette signori. C'è chi veglia e lavora a destarla. Forse lo scoppio dell'ira è vicino.
—Non tanto,—replicò Gino,—non tanto da impedire che voi portiate il mio nome. Sarò più forte, nell'ora delle prove, se voi sarete la contessa Malatesti.—
Fiordispina chiuse gli occhi, come per non vedere l'altezza a cui egli voleva trascinarla con sè.
—Bella cosa!—mormorò ella, dopo un istante di pausa.—La mia mano nella vostra; la vostra fede suggellata nella mia! Ma è forse un sogno. Vostro padre vorrà? Non dovrete combattere? E un combattimento di questo genere non porterà obblighi di molta delicatezza, e per voi e per me? Pensate anche alla mia famiglia, conte Gino. Ci chiamano i re della montagna, ed abbiamo il nostro orgoglio anche noi, sotto la semplicità dei nostri costumi. Noi non dobbiamo e non vogliamo sapere che il conte Jacopo Malatesti possa aver ricusata per un giorno, per un'ora, l'alleanza dei Guerri. Il carico della battaglia sarà tutto per voi. Potrete sostenerlo? Dio lo voglia, come io lo desidero. Ma se è troppo grave rinunziateci.
—Perdonate!—interruppe Gino.—Quali difficoltà immaginate voi ora?
Perchè mio padre non dovrebbe volere? Se egli vi vede, Fiordispina….
—Ecco, voi ne trovate un'altra, di difficoltà;—replicò la fanciulla.—Vostro padre dovrebbe ancora vedermi. La cosa è più lontana che non vi sembri, accennandola. Gino, ve ne prego! Nessuna leggerezza, in un così grave argomento! Con l'amore e con l'onore non si scherza, e voi stesso, voi cavaliere perfetto, potreste insegnarlo ad una povera montanara come son io. Pensate a me, qualunque cosa avvenga di noi. Giuratemelo, e questo mi basterà, perchè il vostro giuramento sarà quello di un uomo leale.
—A voi lo giuro e al cielo che ci vede;—disse Gino.—Il mio cuore è vostro; siete voi l'amor mio. E voi, Fiordispina?…
—Non chiedete di me;—rispose ella, con accento di nobile alterezza.—Voi avete forse già amato, signor conte. Io non ho amato mai, e vivrò di questo amore per sempre. Con queste poche parole io vi ho detto ogni cosa. O la felicità con voi, o la infelicità per tutta la vita.—
Il burchiello si accostava alla scogliera, portando il fratello di
Fiordispina.
—Ebbene?—gridò Aminta.—Non venite a darmi il benvenuto nella vostra isola?—
Gino accorse, stese la mano ad Aminta, lo abbracciò stretto e lo baciò su ambedue le guance. Era anche la sua risposta alle ultime parole di Fiordispina.
—Dov'è questa Ninfa, che io non la vedo?—disse Aminta, volgendo gli occhi al sommo della balza.
—Eccola!—disse Gino, indicando Fiordispina.
La fanciulla era seduta sul masso, e la sua bella testa di Minerva Glaucopide spiccava con la precisione di un antico cammèo sul fondo azzurro del cielo.
—Vada per il complimento!—rispose Aminta, ridendo.—Ma non ha i capegli d'oro, che ci ha promessi Don Pietro.
—In pochi minuti tutto ciò è stato cambiato;—disse Gino.—Adesso la Ninfa li ha neri come ala di corvo. Aggiungi che non affascina più i cacciatori, ma dà eccellenti consigli agli ospiti di casa Guerri. Sai di che cosa abbiamo parlato, aspettandoti?
—Dell'Italia, ne son certo;—rispose Aminta.—Mia sorella non pensa ad altro, non vede altro, e noi salutiamo in lei una Romana antica.
—È troppo poco;—disse Gino.—Permettimi di credere che se fossero state così le Romane antiche, Roma comanderebbe ancora alle genti.
—Hai sentito, Fiordispina?
—Sì;—rispose la fanciulla, dall'alto.
—E ti pare?…
—Che il conte Malatesti abbia ragione. Prendiamo senza finta modestia quel che ci viene. Non è il valore, non è l'altezza della mente, che mi regala il nostro ospite, riconoscendo in me l'amore della patria. Oggi il culto dell'Italia nel segreto delle nostre case, o sulla vetta dei monti, lontano dal sospetto dei tiranni e dall'orecchio dei delatori; domani l'impeto della rivolta, il riconoscimento e l'alleanza delle libere volontà alla luce del sole. Ma allora voi combatterete, e noi pregheremo.—
Gino era in estasi, e taceva, come tutti gli estatici. Aminta, che non aveva le sue ragioni per rimanere a bocca aperta, ma che aveva pur sentito profondamente il discorso di sua sorella, stette un momento sopra di sè, poi scosse la testa con atto risoluto, e rispose:
—Combatteremo!—
Proferì quella parola, come se avesse giurato. Il conte Gino, scosso a sua volta da quell'accento solenne, prese la mano di Aminta e la strinse fortemente, associandosi al giuramento.
Il resto della giornata non si racconta. La scampagnata fu gaia, piacevole, amena, con momenti di grato riposo alternati da scoppi di pazza ilarità, con aliti di frescura che rianimavano gli spiriti, con ondate di tepore che scaldavano il cuore. Infatti, c'è questa sequela di sensazioni materiali in tutte le gioie intense, in tutte le belle riunioni e scorribande all'aperto, dove la natura è scena, e i nostri pensieri si effondono senza timore o sospetto.
Quella sera, appena giunto co' suoi ospiti alle Vaie, il conte Gino volle ritornarsene al suo eremo di Querciola. Sentiva il bisogno di raccogliersi, di meditare, di assaporare la sua felicità.
Nell'atto di separarsi da Aminta, che secondo il solito lo aveva accompagnato un tratto, sul limitare del bosco, Gino disse all'amico.
—Ti ho chiamato fratello, e vorrei esserlo davvero.
—Grazie!—rispose Aminta.—Questo sarebbe anche il mio desiderio.
—Amo tua sorella;—rispose Gino, chinandosi sulla sella e parlando a bassa voce, come se temesse di farsi udire dagli alberi della foresta.
—Oh, il gran segreto!—esclamò Aminta, ridendo.
—Come? Già lo sapevi?
—Me n'ero avveduto da un pezzo. Sfido io, a non avvedersene! Credo che lo sappiano a quest'ora tutti i sassi della montagna.
—E dimmi….—ripigliò Gino.—La cosa non dispiace a te?
—No, davvero. Sei un uomo leale e la mia mano stringe volentieri la tua. Conte Gino Malatesti….
—Non parlar, di contea, te ne prego!—interruppe Gino, turbato.—Vorrei che i re della montagna non isgradissero la mia alleanza.
—Ebbene,—rispose Aminta,—se tu mi avessi lasciato finire, non avresti da domandarmelo ancora. Volevo dirti per l'appunto questo, con tutta la solennità possibile ed immaginabile. Conte Gino Malatesti, i re della montagna in questa stretta di mano ti accettano.—
Capitolo VIII.
La marchesa Polissena.
Fu una gran luce, quella notte, nella solitaria cameretta di Querciola. Si narra che una gran luce sfolgorasse pure da una capanna di Betleem, dove era nato il nuovo signore dell'universo. Meglio di tanti re della terra, quel nuovo nato doveva regnare con l'amore; ed era l'amore, non altro che l'amore, quello che diffondeva la gran luce improvvisa fra le tenebre del mondo.
Fiordispina lo amava! Fiordispina glielo aveva confessato! Come? Egli avrebbe voluto rammentar le parole, ad una ad una, e per che modo, per quale artifizio di trapassi, anch'egli fosse venuto al punto di manifestarle i suoi sentimenti più intimi. Ma era proprio vero che aveva parlato? Proprio vero che la fanciulla dei Guerri aveva accolto benignamente l'amor suo? Accade sempre così, quando si vuol ricordare in che modo si è palesata questa gran fiamma del cuore, e non si riesce a trovare come si sia dichiarato l'amore, in quella stessa guisa che il più delle volte non si sa come sia nato. Egli sapeva almeno come fosse nato quello di Fiordispina.—«Vi ho amato dal primo giorno che vi ho veduto»—gli aveva detto la fanciulla. Santa innocenza del cuore! Ed egli poteva rallegrarsi di essere la prima immagine che si fosse specchiata in quel terso cristallo. E si ricordava ancora in buon punto che la dolce confessione gli era stata fatta assai prima, sebbene con altre parole, a proposito di un albo dalle pagine bianche, su cui egli sarebbe stato il primo a scrivere…. e l'ultimo.
Primo ed ultimo! Unico, dunque? Divina cosa! Non c'è amor vero che questo.
Sì, tutto bene; ma dava egli il ricambio di una simile innocenza? Non aveva egli già amato, e parecchie volte in sua vita? Riandando nella onestà della sua mente il passato, quanti amori, grandi e piccini, non avrebb'egli trovato, morti d'ogni età, lungo i meandri della memoria, nè tutti pure onorati di sepoltura! Timidi fiori dapprima, turbamenti, desiderii, cessati per mancanza di oggetto, svaniti per la sua indegnità; poi matte imprese, ripeschi, galanterie, illusioni del senso, che vuol decorare di un nome più nobile i suoi ardori fumosi! Tale, a dirne uno, non era stato l'amor suo per la marchesa Polissena?
Quel nome, di fatti, veniva ancora alla mente di Gino. Ma egli, oramai, poteva fermarcisi senza terrore, senza rimorso, per sola ragione di studio. La marchesa Baldovini egli l'aveva conosciuta ed ammirata da lungi, essendo ancora giovinetto. Ella non si era neanche degnata di guardarlo, non si era forse neanche accorta della presenza di lui, di quell'adolescente, che serbava ancora, studente d'università, l'aspetto del collegiale. Lo aveva veduto poi, aveva scambiato qualche parola con lui, per convenienza, per uso di società; ma quel po' di frasi comuni non era neanche da mettersi in conto. Ahimè! In quel modo non nasce l'amor vero. Fiordispina, a buon conto, lo aveva amato il primo giorno che lo aveva veduto. Polissena, no. Lo aveva sentito parlare, e non si era mostrata punto commossa; neanche gli aveva lasciato indovinare o sperare che i suoi discorsi le piacessero più che tanto. In quei primi tempi, se egli ben ricordava, la marchesa Polissena prestava molta attenzione alle gentilezze di un colonnello austriaco, giunto in missione presso la corte di Modena. Nè egli se n'era impensierito; neanch'egli amava quella donna, sebbene gli paresse bella e fatta per ispirare una passione in piena regola.
Dopo quel primo incontro con lei, Gino Malatesti era stato distratto da altri pensieri, aveva avuto le sue piccole avventure, i suoi ripeschi, i suoi capricci, tutti decorati di quel gran nome che sapete, e mutati ad ogni tanto, come si mutano le figure in un caleidoscopio, ad ogni voltata del cannocchiale. Un giorno, anzi una notte, incontratolo in una festa da ballo, la marchesa Baldovini si era degnata di ballare una quadriglia con lui, e tra una suonata e l'altra, così di punto in bianco, guardandolo fissamente negli occhi, gli aveva detto:—È vero che amate la tale?—
Gino era rimasto un po' sconcertato da quella domanda improvvida. Avrebbe voluto negare, perchè in verità quell'amore, a cui alludeva la dama, non era, e sopratutto non gli pareva più in quel momento, una cosa tanto bella da vantarsene, o da accettarne il dolce peso con l'atto d'infinita modestia di chi vuol dire e non dire. Ma la marchesa Polissena aveva subito soggiunto:
—Lo so di certa scienza, e mi ha fatto pena… per voi.
—Per me, marchesa?—aveva egli balbettato.
—Sicuramente. Queste son forse conquiste degne di un giovanotto vostro pari? Una plebea, che ha la bellezza del diavolo e nulla più. Non vi vergognate? A me, vedete, signor conte, voi fate l'effetto di un gentiluomo, che ha tenute e foreste per far la gran caccia, e se ne va, umile borghese, la mattina di domenica, fuori porta San Francesco, a contendersi, con altri dieci o dodici suoi pari, una cingallegra smarrita.
—Smarrita!… in dodici, poi!—mormorò Gino tra i denti.
Ma rise, perchè bisognava ridere; e quella risata fu l'orazione funebre recitata sulla tomba…. di una cingallegra smarrita.
—Ah! la gran caccia!—esclamò egli poi, sospirando.—Ne parlate facilmente, voi, bella signora. La gran caccia è molto faticosa, e più ancora difficile. Essa, ad ogni modo, richiede cacciatori più esperti.
—Non mi parlate degli esperti!—replicò la marchesa.—Io non li amo.—
Che c'entrava lei? Questa domanda si affacciò naturalmente al pensiero di Gino.
—Neanch'io, se penso come han guadagnata la loro esperienza;—rispose allora, umilmente.—Ma per seguitarli, per oltrepassarli, che sarebbe meglio, bisognerebbe sempre osare….
—Siete anche timido? Dopo tutte le vostre avventure, di cui non mi congratulo niente con voi?—
—Timidissimo, marchesa. Soltanto, come tutti i timidi, potrei avere un giorno il coraggio della disperazione.—
Così avevano chiacchierato, negli intervalli della quadriglia; così avevano seguitalo a chiacchierare argutamente, nell'angolo di una sala, dove la marchesa Polissena teneva corte d'amore. E quel dialogo, dond'era incominciato il suo romanzo con la bella marchesa, lo rammentava egli allora, dopo quattro anni. Egli, capite? Egli che non ricordava più, dopo dodici ore, come avesse detto: «vi amo» alla fanciulla dei Guerri. Da una conversazione, mezzo audace e mezzo frivola, in una festa da ballo, era nato un amore di quattro anni. Com'è il caso di ripetere col poeta che «poca favilla gran fiamma seconda!»
All'alba, sul finire della festa, dopo un cotillon in cui non era stato egli il cavaliere della marchesa Polissena, ma più d'una volta il rapitore fortunato o il ballerino prescelto, il conte Gino Malatesti aveva trovato il modo di accompagnar la dama fino al portone del suo palazzo, e si era separato da lei raccomandandole di dormire fino a sera, per aver cura de' suoi occhi, che erano senza fallo «i più belli di Modena.» Tanto cammino si era fatto in cinque ore! Ma notate che erano cinque ore di notte, e di notte, lo sanno tutti i camminatori, si va più svelti del doppio, in paragone del giorno.
Aggiungete che la marchesa si era lasciata cadere quella notte dallo scollo della veste un mazzolino di violette di Parma; che il conte Gino lo aveva raccolto e che la marchesa glielo aveva lasciato ritenere, mostrando a tutta prima di non avvedersi neppure del fatto. Più tardi, avendo il giovane accennato il suo piccolo bottino, la marchesa si era degnata di sorridere, e con aria di benevolenza regale gli aveva detto:—Vedremo se saprete conservarlo, anche appassito, e più, disseccato.—
—Vedrete, bella signora;—aveva risposto Gino. animandosi.—Vi porterò questi fiori un altr'anno, in questo medesimo giorno.—
La bella signora aveva dato in uno scoppio di risa.
—Ma bravo, conte! Prendete di queste scadenze, per le vostre visite?
Ed io che ne aspettavo una da voi entro gli otto giorni…. almeno?—
La risposta, s'indovina. Ed anche la visita che seguì. Gino Malatesti lasciò passare a mala pena il giorno dedicato al riposo dei «più begli occhi di Modena» e la mattina dopo, fra le due e le tre del pomeriggio (scusate è sempre mattina, per chi non lavora e non ha ancora pranzato), si presentò al palazzo Baldovini per chieder notizie e lasciar due biglietti di visita. Due biglietti, si sa, per dire ad una signora e a suo marito:—«sarei tanto felice di entrare in relazione d'ossequio ed amicizia con voi due.»—Se la signora è vedova, si lascia un solo biglietto. Se è vedovo il marito, non si lascia nemmeno quello. Desiderio d'ossequiare, di entrare in relazione di amicizia, non ce n'è più, e pare già troppo l'obbligo del saluto per via.
Voleva dunque lasciare i due biglietti di visita. Ma per il conte Gino Malatesti non si faceva anticamera. Il servitore aperse il salotto. La marchesa Polissena era là, e Gino fu ammesso alla presenza della Dea. Forse era il suo giorno di ricevimento? No, ma le belle dame son fatte così; hanno il giorno solenne, in cui vedono venti, trenta persone, e si annoiano a vicenda, o si divertono qualche volta, sentendo le notizia e mettendo la frangia alle notizie del prossimo. Ne hanno poi altri due o tre, in cui non ricevono visite, o non escono a farne; sono in casa, ed ammettono gl'intimi. Nè sempre al plurale, si capisce; perchè non è sempre dato, o non sempre piace, di averne più d'uno.
Le violette di Parma erano a mala pena appassite; ma la marchesa Polissena non aspettò che il mazzolino fosse disseccato, par confidarne un altro a quel grazioso custode. Ne ebbe due, ne ebbe tre, ne ebbe quattro, nello spazio di un mese, il conte Gino Malatesti; a mezza primavera, quando le violette cessarono, ne aveva già una provvista sufficiente per le infusioni di tutto l'anno. Questo ve lo dico io, poco rispettosamente per i fiori della marchesa Polissena; ma voi non dovete credere che il conte Gino pensasse a far servire quei dolci pegni di un amore al primo stadio, per curare i suoi raffreddori.
Frattanto, la marchesa Baldovini aveva preso ad esercitare una grande autorità sull'animo di lui. Pareva essersi dimenticata del ripesco che aveva rimproverato al conte Gino, poichè non le era più occorso di farne cenno; ma gli domandava, ad ogni visita, come avesse passati quei giorni in cui non si erano veduti che un'ora a teatro, a caso per via. Più tardi, spesseggiando le visite e le occasioni di trovarsi insieme, prese a domandargli come avesse passate le ore e i minuti; ed egli, grato a lei di tanta cura amorevole, si avvezzò volentieri a dar ragguaglio, non che dei minuti, dei secondi, a raccontarle atti e pensieri, opere ed ommissioni. Inebriato dalla passione, si era fatto schiavo senza avvedersene, come quei contadini (scusate il paragone), come quei contadini del tempo andato, che i sergenti arruolatori ubbriacavano ben bene, e che il giorno dopo, con loro meraviglia grande, si accorgevano di aver firmato l'ingaggio. Polissena comandava a bacchetta; diceva brevemente: «fate la tal cosa» come se il farla, senza aver sentite le ragioni, fosse nell'ordine prestabilito dai fati. «Non andrete più dalla tale» era un comando che poteva anche piacere, poichè indicava un sentimento di gelosia, e agli innamorati piacciono le donne gelose. «Non parlerete col tale» era più difficile, qualche volta, ma si poteva anche obbedire, non portando altra conseguenza che un risparmio di cappello, due chiacchiere di amici comuni, e raramente uno scontro sul terreno, ottimo per una mezza cavata di sangue, e per il crescere che si fa, con queste imprese, nella estimazione della gente. «Andrete a Reggio, domani», oppure: «mi seguirete fra due giorni a Bologna, lasciando credere di essere andato a Sassuolo» era anche meglio, poichè prometteva uno o due giorni di allegre scorribande, da cui era bandita la cerimoniosa serietà del salotto, o la trepidazione dell'incontro fuori via. Lo stesso si dica del viaggio a Torino, quantunque allora, dopo quattro anni di quella vita, la scorribanda potesse parere un po' lunga. Polissena era una donna imperiosa; ma aveva momenti di grazia incantevole, giorni in cui pareva una fata benefica, una bambina capricciosa, tanto più cara quanto più erano frequenti i capricci. Poi, tutto ad un tratto, diceva: «finiamola, con le pazzie»; e allora ridiventava la signora, marchesa Baldovini, chiusa nel suo sussiego, bastionata nella sua severità, tutta magistrati, ciambellani, generali, diplomatici, gran giustizieri, e patrona per giunta di non so più qual opera pia, congregazione divota, od altro che vi piaccia d'immaginare, in un tempo e in un ambiente come il suo.
Così il nostro Gino era caduto nella rete; così, protestando qualche volta, e sentendosi dare del ragazzo, aveva finito con adattarsi alla sua servitù, decorata di un nome più grato, ma solamente a quattr'occhi. Dopo tutto, perchè lagnarsi? Quella donna apparteneva alla sua medesima classe sociale; egli viveva nell'ozio, e poteva obbedire senza fatica. Perciò si era avvezzato, aveva presa la piega, formata l'abitudine; andava oltre, placidamente, col trotterello dell'antico cicisbeo, e sarebbe potuto andare così, fino…. Ah sì, parliamone: fino a quando? Una marchesina cresceva, accanto alla bella marchesa. Non crediate che fosse proprio al suo fianco; era in conservatorio; ma nelle vacanze faceva le sue piccole apparizioni, e spesso la bionda Polissena, con accento tra tenero e grave, amava ricordare che presto avrebbe ripreso il suo ufficio di mamma. Si rideva, intorno a lei, con aria incredula, e si diceva: «Mamma, Lei, signora marchesa? Vorrà dire sorella!» Era una consolazione quella, e il complimento poteva anche avere un aspetto di verità. Ma infine, o presto o tardi, il giorno doveva venire, in cui la marchesa Polissena, da regina giovane ch'ella appariva, passasse nel novero delle regine madri, e facesse anche ufficio di tappezzeria nelle feste, dov'ella aveva così graziosamente regnato. Baie! C'era tempo ancora a pensarci. La marchesa Polissena era così giovane, così bambina, alle volte! E sempre così bella, poi! Quando voleva, solo a mostrare i suoi denti, in un sorriso, e a muover gli occhi, sprigionandone un lampo, era ancora lei la più bella di Modena: una città dove le belle non sono poche, nè poco.
Il conte Gino andava dunque là, con quel suo guinzaglio lento, che lo tratteneva senza dargli noia, poichè si era adattato, da cane intelligente e mansueto, a misurare il suo passo su quello della padrona. E pensava che la cosa potesse durare così…. Cioè, diciamo la verità tutta quanta, non pensava affatto; andava là, comandato, accarezzato, portando la sua felicità, come il soldato porta lo zaino, lamentandosi a mala pena nelle ore di sole. Qualche volta, lo sapete, egli deponeva il dolce peso, andando a prendere, nella società non sua, quelle boccate d'aria libera che dovevano essergli imputate a delitto dal sospettoso governo ducale. Forse per noia, non confessata a sè stesso, dell'ambiente afoso in cui viveva, si era buttato a cercar fuori le piccole consolazioni. Leale nell'amore, non le cercava già in altri amori, bensì in altra ragione di cose; la indipendenza del suo paese era il pensiero che lo consolava del fatto di aver perduta la sua. Il giorno della liberazione si sentiva vicino; così non poteva durare, per bacco! Non già per lui, che non osava pensarci neanche, e si sarebbe stimato meno, se gliene fosse venuto solamente il sospetto; ma per la patria sua, per l'Italia, no, mille volte no, così non poteva durare. Stato pericoloso dell'anima sua! Il governo ducale ci aveva messo, aveva creduto di metterci un termine, mandando il conte Gino Malatesti a confine in Querciola.
Cacciato con quella rapidità fulminea dell'ordine ducale, Gino Malatesti si era sentito spezzare il cuore. Niente si muta senza affanno, neanche una triste condizione in una migliore, o più grata. L'uomo liberato dai ceppi, non guarda forse con mestizia, breve, sì, ma profonda, alle pareti del carcere, a quelle ignude pareti che furono testimoni e confidenti di tante angosce, di tante afflizioni di spirito?
L'amore, che forse languiva, si ravvivò nell'anima di Gino Malatesti, battè l'ali sulla via dell'esilio con lui. Ah, quella donna! Se avesse sparsa una lagrima! Se almeno gli avesse fatto sapere quella cosa tanto naturale, tanto facile alle donne, come a tutte le creature deboli, e gliel'avesse scritta in due sole parole: «ho pianto!» Come lo avrebbe consolato, confortato a soffrire! Che balsamo avrebbe recato alla sua acerba ferita! Ci sono anche le lontananze utili, quelle che i francesi dicono con modo felicissimo les absences heureuses. Son quelli, per così dire, gli sprazzi d'acqua fredda che ravvivano una fiamma vicina ad estinguersi. Ma la bionda Polissena non aveva dato cenno di sè al condannato; peggio ancora, non si era degnata di rispondere una buona parola al suo messaggero; peggio ancora del peggio, aveva ripresi, raddoppiati i suoi passatempi cittadini, come se nulla fosse avvenuto di doloroso, o solamente di spiacevole per lei. Era proprio la gran dama, che non perdeva il suo tempo a piangere sopra un capriccio svanito, e non voleva portarne il lutto, neanche per una settimana, come si usa nelle Corti.
Queste cose lo avevano profondamente ferito, ed io vi ho descritta la scena a suo luogo. Orbene, vedute alla distanza di un paio di mesi, queste… anzi quelle cose non lo ferivano più. E voi, senza che io ve l'abbia detto, ne sapete il perchè. La boccata d'aria sana aveva fatto il miracolo; quella apparizione celeste delle Vaie, quel senno e quella innocenza, quel fiore di poesia, di pensiero e di studi, avevano rivelato a Gino Malatesti un nuovo mondo, il migliore. Strana novità, in mezzo a quella agreste natura, dove noi per solito non vediamo che boscaiuoli e pastori, gente buona ma ruvida, menti vergini, anime schiette, qualche volta, ma ottuse!
C'è un fiore, nelle regioni alpine, uno strano fiore…. Non l'edelweiss, badate, non l'edelweiss, di cui si è già tanto abusato. È un fiore umilissimo, confuso spesso tra cento, nello smalto allegro dei prati. Nel mezzo del calice slabbrato ha come una piccola lastra tondeggiante, e dall'orlo di questa si ripiega tremolante verso il mezzo una piccolissima forma, petalo, o lacinia del calice istesso, che vogliam dire, ma che vi dà l'immagine di un uccellino il quale stia a guardarsi nello specchio. È forse l'ophrys speculum. Lascio volentieri ai botanici la cura del nome. Il semplice curioso che vede il bizzarro fiorellino e lo ammira, non può trattenersi dal dire tra sè e sè: come mai, in questa selvaggia natura, un fiore così gentile nella sua figura, così bello nella sua novità?
Semplice curioso, lasciatevelo dire: non c'è nella vostra domanda, nella vostra maraviglia, che l'effetto di un pervertimento del vostro giudizio. Assuefatto a vedere i bei fiori dalle forme insolite e dalle figure strane entro le stufe dei giardini signorili, non ricordate più che quei fiori son nati all'aria libera, sono sbocciati spontanei, si sono educati per virtù naturale nel loro ambiente selvaggio crescendo a tal bellezza di forme sotto gli occhi di Dio fino a tanto non si posarono sovr'essi gli occhi di un viaggiatore, che ne raccolse i semi, o scavò dalla terra i loro bulbi preziosi.
Ammirato, affascinato dalla bellezza, dalla grazia del fiorellino silvestre, Gino Malatesti poteva dirsi guarito. E ripensando alla marchesa Polissena, dopo due mesi di vita alle falde del Cimone, poteva ragionare tranquillamente sul modo in cui ella si era diportata con lui, per conchiudere filosoficamente in questa forma:
—Era l'abitudine, la sola abitudine che ci teneva legati. Non la nostra volontà, che sarebbe parsa una mancanza di cortesia, ma un caso esterno, indipendente da noi, poteva solo troncare quel vincolo. E il caso è venuto, ha spezzato, ha interrotto, ci ha sviati ambedue. Si poteva, per altro, si doveva salvar l'apparenza delle cose. Io, senza pensare a questo dovere di cerimonia, ma credendo di amar tuttavia, mi ero bene affrettato a farmi vivo con lei. Ed essa, invece? Non è il caso di dire che le mancarono le occasioni. Io gliene avevo pure offerto una, e sicura. Ma no: silenzio, ripresa di passatempi, di distrazioni, a cui ha dato una bellissima chiusa il viaggio di Lucca. E passandomi davanti agli occhi, per giunta! Dunque?… Dunque è da credere…. Via, diciamo le cose come stanno, senza riguardi, senza ipocrisie, roba buona soltanto per le trattazioni in contradditorio, come dicono i legali. Dunque è da credere che la marchesa Polissena non fosse solamente stanca di un amore durato quattr'anni, ma che avesse già pronto l'altro, da sostituirgli. Il surrogante, ecco il segreto. Ma chi sarà, il surrogante?—Quello era un abisso, in cui si smarriva la mente del pensatore. Che, si fa celia? Trovare, fra i cavalieri che circondano una donna, quale sarà il preferito del domani? Tanto varrebbe attentarsi di pronosticare, fra cento api che ronzano intorno ad una rosa, quale fra tante giungerà seconda a rapire la sua parte di miele. Aggiungete, per render più difficile la cosa, che il fiore è inerte e il calcolo delle probabilità può favorire l'ape più forte e più ardita; laddove la donna, specie quando ha l'ingegno e l'esperienza della marchesa Polissena, sa sceglier lei, e fingere fino a tanto che le importi di fingere. Qualche volta ella sceglie fuori della cerchia conosciuta, ed allora addio indagini sottili, addio calcoli di probabilità. Direte che in tal caso, se è più difficile pronosticare, è più facile indovinare, andando sull'orma, poichè mentre la donna sa fingere, l'uomo, scelto da lei in una classe diversa, facilmente si tradisce e si scopre. Ma il nostro Gino non era là, per fare quello studio, e doveva almanaccare da lungi.
Del resto, se l'idea gli era venuta, il pensatore l'aveva anche scacciata. No, niente di fuori via. La città non era così grande, da dissimulare una di queste avventure. La marchesa Polissena, tutta sussiego, misura e riguardi sociali, non doveva aver scelto che tra suoi pari, tra coloro che potevano essere ad ogni ora da lei; a farla breve, tra i frequentatori della sua casa. Lì, non altrove, bisognava cercare e trovare.
Prima di tutto, non un cavaliere maturo. Ricordando parecchi esempi, Gino aveva ragione di credere che questi fossero piuttosto gli amori delle donne giovani. Ancora non ne aveva indovinata e svolta la teorica sottile; ma, come vi ho detto, aveva presenti alla memoria gli esempi. Sentiva in quella vece, aveva per certa la teorica contraria, applicabile alle donne che son vissute di più nelle consuetudini del mondo elegante, che hanno già acquistata l'esperienza, non avendo perduta ancora la bellezza, nè il desiderio di piacere. Quelle, si sa, amano i giovani, magari gli adolescenti. Si forma lentamente nella donna, e ad una certa età si rivela, l'istinto educatore. Si respira il profumo di un affetto giovanile, l'incenso di una ammirazione sconfinata, e si dà in ricambio la grazia, l'uso della civil compagnia, la garbatezza dei modi, la gravità precoce, tutte le virtù cardinali del moderno gentiluomo. Si prende un giovane ardente, rumoroso, matto, e se ne fa un modello di serietà, di discrezione, di tenerezza contegnosa, un cavaliere, insomma. E non per far concorrenza ai governi, nè in quel modo che essi sogliono fabbricare i lor cavalieri; quantunque al suo alunno, durante la veglia d'armi, e anche dopo, la nobile e dotta educatrice ami spesso far portare la croce.
Chi, dunque? L'indagine diventava scientifica; e il conte Gino aveva una bella equazione da sciogliere.
Il Mortanelli? No, non era più abbastanza giovane. E poi, era uno sciocco. Parlava sempre de' suoi cavalli, che non erano neanche belli, e spesso nelle conversazioni si rideva delle sue compere, in cui otto volte su dieci era ingannato dai mercanti. Il conte Sestoli? Che! Quello era un piccolo vanaglorioso, refrattario ad ogni educazione di quel genere. Proteggeva tutte le figuranti di teatro, e non istava bene che con quelle. Il principe Orsi di Frassinoro? Bello, assai bello, ma di una bellezza femminea. Le donne non amano negli uomini quel genere di bellezza che possiedono esse. Poi, il signor principe Orsi di Frassinoro era innamorato ferocemente di se stesso. Passava tre ore ogni mattina allo specchio, e la cosa era risaputa da tutti. Si diceva qualche volta di lui:—Oh Dio! Come è bello! Se non avesse quei pizzi biondi e quei baffettini, che cosa stupenda! Con quegli occhi azzurri, con quella tinta di cera vergine sul viso, si direbbe una donna, una bellissima donna, russa o svedese. Gran trionfatore tra le borghesuccie che aspirano all'alto, il principe Orsi di Frassinoro non era tagliato per ottenere la più piccola vittoria nella sua propria classe. Le donne eleganti e galanti sentivano per quell'effeminato l'antipatia istintiva che avrebbero sentita per ogni donna la quale potesse gareggiar con loro di bellezza o di grazia. Non poteva esser un amante, il Frassinoro; era troppo un rivale.
Gira rigira, la batteva tra due: il conte Nerazzi e il marchese Landi; ambedue amici suoi, belli senza eccesso, non sciocchi a prima vista, ma neanche spiritosi. Dei immortali! Anche noiosi la parte loro, con quel fare compassato, e con la cura astuta che mettevano a nascondere, facendola spiccar meglio, una piccola vittoria, o a darsi merito di non averne ottenuta mai una. Ma sono questi gli uomini che piacciono.—«Ebbene, Landi, qual è oggi la dea dei vostri pensieri?—Signora, non c'è dea, per me, e dubito perfino di aver dei pensieri.—Ah, molto spiritoso, ed anche discreto; due cose che ordinariamente non vanno molto d'accordo. Ve ne faccio i miei complimenti. E voi, Landi, non amate?—No, signora; il mio giorno non è ancora venuto.—Come! C'è un giorno ed un'ora da aspettare?—Sì, il giorno e l'ora del nostro destino. Se amerò, non amerò leggermente.—È giusto e vi lodo. Fossero tutti come voi!»—E la dama galante che ha fatta questa scoperta, la mette bravamente in serbo. Avrà un altro amore, lei; ma il Landi, o il Nerazzi, secondo i gusti, è un buon amico, e un grande amore non esclude una piccola amicizia, una certa simpatia, nata da conformità di pensieri, «siccome tra cortesi alme si suole.» E lo difende, il giovane amico, quando gli altri lo attaccano.—«Il Nerazzi è un buon giovane; c'è in lui la stoffa di un cavaliere perfetto.—Non mi dite male del Landi; è un uomo serio, d'una sensibilità molto rara, di una delicatezza a tutta prova.»—
O il conte Nerazzi, dunque, o il marchese Landi. Qui il nostro Gino Malatesti ricordò in buon punto la prima lettera ricevuta dal suo confidente Giuseppe. «Mi pare (scriveva il buon servitore) che la sua condanna abbia raffreddato molte persone, di quelle che V. S. credeva più amiche, e con le quali andava più spesso. Il conte Nerazzi, per esempio, e il marchese Landi, quando ho dato loro un cenno del suo viaggio, mi hanno risposto con un semplice monosillabo. Sarà forse perchè non hanno confidenza in un povero servitore; ma una notizia almeno me la potevano chiedere, e mostrare un po' di amicizia per la sua persona. Oso sperare che in questo Ella non troverà sbagliato il mio ragionamento.»
No, buon Giuseppe, il vostro padrone non lo aveva trovato punto sbagliato. Ed ora, poi, ripensandoci, lo trovava profondo, sottile, profetico. Forse, chi sa? Giuseppe aveva già fiutato qualche cosa del vero. Perchè indicava nella sua lettera piuttosto quei due, che tanti altri amici del conte Gino? Erano quelli con cui il conte andava più spesso. Sì, questa era la frase; ma non rispondeva intieramente al vero, perchè Gino andava con quelli, come con tutti gli altri, e non aveva preferenze. Ah, il suo servitore Giuseppe, volendolo o non volendolo, aveva messo il dito sulla piaga. Il conte Nerazzi e il marchese Landi erano i due più avanzati, per vogargli sul remo. Ma quale dei due il preferito?
Il conte Nerazzi era un bel giovane; ma, per mentire in qualche modo al suo nome di famiglia, aveva i capegli rossigni. La marchesa Polissena, che li aveva di un bel biondo acceso, poteva amarli rossigni? Le simpatie, ordinariamente, non si formano sulla somiglianza del colore, e meno ancora nel sopraccolore, che rende più intensa una tinta e la esagera. Il marchese Landi era bruno, ed anche leggermente più stupido del Nerazzi: due ragioni forse per piacer di più alla marchesa Polissena. Qui il conte Gino faceva un gran torto a se stesso, poichè egli era piaciuto prima di quell'altro alla dama, e il suo ragionamento gli portava per conseguenza legittima un grado maggiore di stupidità, in confronto di quella che egli attribuiva al Landi. Ma voi sapete che l'onestà, la probità, la lealtà, e via via tutte le virtù umane, non salvano il più perfetto cavaliere da un po' d'ingiustizia, quando egli deve nell'interno della propria coscienza giudicare il suo simile.
Ritornando al paragone fra i due supposti pretendenti, il Landi era di più antica nobiltà. Apparteneva ad un ramo trapiantato da tre secoli a Modena, dei Landi di Piacenza, grande famiglia principesca, che aveva posseduto città e castella, ed esercitato diritti di vera sovranità. Si diceva infatti: lo Stato Landi, per indicare i possedimenti di quell'antica famiglia. Aggiungete che tra il casato dei Landi e la marchesa Baldovini si era notata una sera, in conversazione, una affinità casuale, ma strana. E di quella conversazione e di quella affinità si ricordò il conte Gino in buon punto.
Si era venuti a parlare dei Landi di Piacenza, e il marchese Baldovini, forte in araldica e in genealogia (non sapeva altro, il brav'uomo!) aveva detto al marchese Landi, modenese:
—Sapete, Emilio, che i vostri maggiori avrebbero potuto vantare qualche diritto alla successione della grande famiglia omonima, quando ella venne a spegnersi in una donna, come la casa Farnese?
—Ah, è vero!—aveva risposto Emilio Landi.—Ricordo la cosa, molto confusamente, per altro.
—Ve la spiego io. L'ultima di casa Landi fu Donna Polissena, che entrò nella famiglia dei Doria Pamfili, di Roma, e furono questi che ereditarono ogni cosa.
—Polissena! Come me!—aveva esclamato la marchesa.
—Già!—rispose Emilio Landi.—Polissena è un bel nome antico.—
Ed era diventato rosso, facendo quella scoperta.
Gino Malatesti aveva osservato la cosa, ma senza fermarcisi troppo. Infine, non era che un complimento, reso necessario dalla somiglianza, dalla identità d'un nome di battesimo.
Ma ora, ritornandoci su, capì meglio; indovinò la cagione di quel rossore; e sorrise e si stropicciò le mani. Perchè oggi, lo sapete, non si grida più: eureka! Quando si scopre qualche cosa, ci si stropiccia le mani e si ride.
Nel caso di Gino Malatesti, la risatina indicava ancora che egli non era solamente felice di avere scoperto un segreto, ma anche perfettamente guarito dell'amor suo per la bionda marchesa.
—Infine,—diss'egli, conchiudendo lo studio,—sia Landi, Nerazzi, e magari tutt'e due, che importa a me? Buona fortuna, signori!—
Capitolo IX.
Due lettere
O Fiordispina! Voi foste allora la donna più felice d'Italia, per non dire del mondo; amante, amata, e sul mattino dell'amore. Perchè, infatti, qual cosa è più bella del principio, nel giorno, e del mattino nell'amore? L'alba promette il meriggio, la luce, la vita, il piacere. Ogni sensazione è fresca, in quell'ora; ogni pensiero è gaio, e la speranza involge tutto de' suoi grati colori. Sull'alba, poi, il calar delle nebbie, il dileguarsi delle nuvole, vi scopre da principio le vette dei monti, vi mostra a mano a mano più ricisi i profili delle colline, vi rischiara le insenature delle convalli, dove la bella luce del giorno nascente illumina ad un tratto qualche ceppo di case, e va a cercare sotto un pergolato la graziosa figura di una fanciulla mattiniera, escita sul terrazzino a respirare la fragranza dei fiori. Così nell'alba dell'amore, i cuori si scoprono a vicenda le loro delicatezze arcane, le loro virtù recondite, i tesori del sentimento e tutto il meglio della nostra povera creta. Ed è grato lo studio, ed ogni novità che si scopre è un'allegrezza per noi.
I giorni delle Vaie si seguivano e si rassomigliavano; cosa piacevolissima, quando i giorni son belli. Gino Malatesti si era fatto grave, di quella dolce gravità che nasconde la beatitudine, ma lascia indovinare i gaudii anticipati di un'anima, la quale sa e può trattenere i suoi desiderii nella certezza del possesso. Dio, quante parole inutili! Ma le ho buttate là, e rimangano pure. Il giovanotto scendeva ogni mattina da Querciola, ma quasi sempre a piedi, e faceva per via un bel mazzolino di fiori selvatici. Giungeva alle Vaie ogni giorno alla stess'ora, cioè verso le undici, ed ogni giorno, a quell'ora, una bella forma di fanciulla appariva sul terrazzo, di fianco alla casa dei Guerri. Gino salutava, e si fermava ad un certo punto, per gittar sul terrazzo i suoi fiori, senza fallar mai il colpo, che sarebbe stato di mal augurio sbagliar la parabola. Poi, fatto un altro saluto, entrava in casa, presentava i suoi omaggi alle signore, chiedeva notizie di tutti, dava le sue, quando ne aveva, e faceva un po' di musica con Fiordispina, o leggeva qualche pagina di libro, ad alta voce, aspettando l'arrivo degli uomini, degli amici suoi, che ritornavano per l'appunto sul mezzodì, dalle loro occupazioni quotidiane.
Dopo il pranzo si scendeva in giardino, a far quattro passi e a visitar le piante rare. Esse non erano più tutte nella stufa, poichè la stagione calda permetteva a molte di rimanere all'aperto; ma alcune si tenevano sempre là riparate, perchè le notti, alle falde del Cimone, quantunque di estate, non erano calde abbastanza. Per altro, nelle ore del giorno, le finestre della stufa erano tutte spalancate, perchè i fiori bevessero la loro parte d'aria e di luce.
Fiordispina e il conte Gino correvano sempre a visitare la bella raccolta di eriche del capo di Buona Speranza. Sentivano forse che il nome era di buon augurio per essi? Fiordispina ammirava i grappoli di campanelluzzi eleganti, variamente colorati, che pendevano dalle asticciuole ramose; Gino la seguiva nelle sue osservazioni, ma non così attentamente com'ella avrebbe voluto, e vedeva le guance di Minerva tingersi di un incarnato più vivo, quando ella si accorgeva che il compagno guardava troppo un mazzolino di fiori selvatici, sporgente dalla gala di mussolina che ornava e nascondeva ad un tempo lo scollo della sua veste di lana.
Anche le gite lontane si seguivano frequenti, ed un giorno si andò fino a Bismantua. Si era parlato tante volte di far quel viaggio! Fiordispina non c'era mai stata, e Gino moriva dalla voglia di guadagnar quella vetta, che rassomigliava tanto al profilo di una gran testa arrovesciata, in atto di guardare il cielo. Si dice questo in grazia di un naso colossale, che è raffigurato dal colmo della montagna, a chi lo guardi da lunge.
Quel giorno, si sa, venne in campo la famosa terzina dantesca, dove il sasso di Bismantua è ricordato. Il Poeta passa in rassegna le più difficili strade da lui fatte ne' suoi continui viaggi, per paragonarle alla faticosa salita del suo Purgatorio.
Vassi in Sanleo e discendesi in Noli, Montasi su Bismantova in cacume Con esso i piè; ma qui convien ch'uom voli.
—E qui è stato il padre della patria;—disse Gino, salendo anch'egli «con esso i piè» ma non senza fatica sull'erta del monte.—Di qui ha veduto il nostro Cimone e l'Alpe di San Pellegrino, l'Alpe di Succiso, il Mal Passo e l'Orsaro; qui gli si è stesa davanti agli occhi quella fila di giganti che sono laggiù i monti Apuani. Non credete voi, Fiordispina, che tutte queste scene di sassi, orridamente belle, ammirate da lui sul colmo di Bismantua, siano entrate per molta parte nella composizione del Poema sacro?
—Sì,—disse Fiordispina,—dovete aver ragione. Ma io penso ancora un'altra cosa, quassù. Penso che in molti versi, sparsi qua e là nella Divina Commedia, il Poeta mostra di credere alla grandezza del suo lavoro; ma che nessuna cosa indichi meglio questa sua fede, che il fatto di aver vedute o descritte con un cenno maestro tante regioni d'Italia. Da ogni terra ch'egli ha visitata, Dante prende un'idea, un colore, una immagine, e le aduna nel suo poema, che sarà la Bibbia degli Italiani, quasi volesse rappresentarci la penisola già unificata nella sua mente profetica.
—Ah!—gridò Gino.—Si avverasse presto il gran sogno!—
Così la gita di Bismantua si era mutata in un pellegrinaggio di voto, come se i nostri due innamorati fossero andati ad un santuario antico, per venerare gli Iddii della patria. Ma a tutti fa questo senso Bismantua, anche senza aver compagna nella salita una bellissima donna, che abbia letto Dante e lo ami.
Quel giorno, sotto la vetta del monte, Gino Malatesti incise tre nomi sulla corteccia di un faggio: il nome del Poeta su in alto; più sotto il nome di Fiordispina ed il suo. Oh, non c'era pericolo che facesse errori, scrivendo il nome di lei! Questi malanni non occorrono che in sogno.
Nella realtà, piuttosto, ne occorrono degli altri. Il conte Gino, per esempio, al suo ritorno di Bismantua, trovò una lettera, che aveva lasciata per lui il procaccia. Da qualche tempo, sapendo che il conte Malatesti faceva capo ogni giorno alle Vaie, era uso del procaccia di consegnargli le sue lettere laggiù, o di lasciargliele, se non lo avesse trovato.
—Notizie di casa tua;—disse Aminta, separando la lettera di Gino da quelle dei Guerri, e consegnandola all'amico.
—No,—rispose Gino, dopo aver dato una guardata alla soprascritta,—non è il carattere dei miei.—
Ma dopo aver guardato il carattere, guardò anche il bollo postale. La lettera non veniva da Modena; veniva invece da Lucca.
Chi poteva scrivergli da Lucca? Erano già scorse parecchie settimane senza che Gino Malatesti ricordasse la esistenza di quella graziosa città. Da Lucca? Ah, gli tornava allora la memoria del passato, e sebbene quello della soprascritta non fosse il carattere di una certa persona, la provenienza della lettera lo seccò molto, molto, molto; lo seccò tanto, che egli cacciò la lettera in tasca, senza darsi la briga di aprirla.
—Tu fai sempre complimenti con noi;—disse Aminta, che aveva veduto quell'atto.
—No, sai? non ne faccio;—rispose Gino.
—Ah, dico bene! Non ne sarebbe il caso;—replicò Aminta.—Noi intanto leggiamo bene le nostre.
—La mia è la lettera di un noioso;—disse Gino.—Ci sarà sempre tempo a leggerla.—
E gli parve di respirar meglio, poichè l'ebbe seppellita nel fondo della tasca, con quel po' po' d'epitaffio.
Bel coraggio! direte. Bella tranquillità d'animo! E il più bello fu questo, che non sapete ancora. Gino Malatesti non lesse quella lettera neanche a Querciola; non la lesse il giorno appresso, nè l'altro che seguì. Passarono otto giorni, a farvela breve, e la lettera di Lucca stava sempre là suggellata; non più in una tasca dell'abito, ma in un angolo del suo cassettone. Ciò avviene qualche volta a tutti, e non è sempre una prova di coraggio, ahimè, nè di tranquillità d'animo; ve ne ricordate? Si è messa quella lettera in disparte, rimandandone la lettura fastidiosa ad un momento più tranquillo; ma quel momento non vien mai; e i giorni passano, frattanto; e quando, rovistando le vostre carte, quella lettera malaugurata vi viene davanti, fremete, vi adirate con voi medesimi, e paghereste qualche cosa perchè non ve l'avessero scritta.
Dunque, coraggio e tranquillità d'animo, no; piuttosto una diffidenza, un sospetto, che confinavano con la paura di legger cose spiacevoli, di esser tirato in altre difficoltà, solamente (ma era già abbastanza per lui) di rinnovare sensazioni dolorose. E perchè le noie sono come le disgrazie, loro sorelle maggiori, che non vengono mai sole, otto giorni dopo l'arrivo della lettera, rimasta suggellata nel suo cassettone, e mentre Gino se ne stava alle Vaie, seduto nel salotto dei Guerri, capitò una fantesca ad annunziare:—sono arrivati due signori.—
—Ebbene,—disse il signor Francesco,—falli entrare.
—Cercano del signor conte Malatesti;—ripigliò la fantesca.
—Falli entrare egualmente;—replicò il vecchio Guerri.
A quell'annunzio il conte Gino si era fortemente turbato. Chi diamine poteva cercar di lui? E là, poi, in casa d'altri, quando il suo domicilio era a Querciola?
—Aspettate;—diss'egli, trattenendo col gesto la donna, che già si moveva per obbedire al comando del signor Francesco.—Non è conveniente che io regali questa seccatura ai miei ospiti. Andrò a ricevere questi importuni nell'anticamera.—
E prima che il signor Francesco potesse rispondergli, escì dalla sala, per entrare in quella cameretta che conoscete.
Poco stante, avvisati dalla fantesca che potevano salire, apparvero i due forastieri sull'uscio. Gino riconobbe il commissario di polizia e l'applicato che aveva già ricevuti una volta, sul principio della sua dimora a Querciola.
L'atto suo fu di meraviglia, e non lieta. Il commissario se ne avvide benissimo, e cercò di rimediare con una buona parola.
—Non si turbi, signor conte, la prego;—diss'egli.—Portiamo notizie allegre.—
Non c'erano notizie allegre da quella parte, per il conte Gino
Malatesti, e il suo viso non si rasserenò punto punto.
—Siamo stati a Querciola;—ripigliò il commissario;—ma abbiamo avuto il dispiacere di non incontrarla. Ci han detto che forse avremmo potuto trovarla qui, dai signori Guerri, dov'Ella usa venire….
—Sì, a far visita;—interruppe Gino, seccato e confuso ad un tempo.
—Ottima cosa avere dei buoni vicini!—osservò il commissario.—Si passa gradevolmente qualche ora del giorno, in attesa d'un fortunato cambiamento.
—Ha qualche cosa da annunziarmi?—disse Gino, riconducendo il signor commissario all'argomento della sua visita.
—Sì, e tale che le farà piacere. Ma io non ardirò sostituirmi al suo signor padre, cui spetta il piacere di dargli la notizia, dopo avere avuto il merito di provocare il fatto. Eccole una lettera del signor conte Jacopo, che le spiegherà meglio la cosa.—
Gino prese con mano tremante la lettera che gli porgeva il commissario; l'aperse, non senza fatica, e lesse quel saggio della prosa paterna.
«Mio caro figlio,
«Avrei dovuto, per i torti vostri e per il danno morale che essi hanno recato alla mia casa, lasciarvi dove il giusto rigore del Governo vi aveva confinato. Ma son padre, e mentre la mia severità non muta i suoi giudizi, il mio cuore e lo stesso decoro della famiglia non potevano che farmi desiderare di veder cancellata con un atto di clemenza sovrana quella macchia che i vostri diportamenti hanno fatta al buon nome dei Malatesti. Sua Altezza Serenissima ha voluto accogliere benignamente le mie preghiere, ed esagerando nella sua grazia qualche merito mio, non vedere nei vostri atti che l'effetto di una leggerezza giovanile, che il tempo e i consigli correggeranno, se già non è bastato l'esempio salutare di tre mesi di confine. Quasi sarebbe inutile il dirvi che io mi sono impegnato formalmente e solennemente per Voi, promettendo che d'ora innanzi avreste mutato intieramente il vostro tenore di vita, e in particolar modo per quel che si attiene alle relazioni, alle amicizie. Meno amici avrete, e più potrete sperare di averli sicuri. Del resto, vi sarà libera la scelta nella vostra medesima classe, con maggiore onor vostro e rispetto al principio di autorità, di cui tutti, se onorati del favore sovrano, rappresentiamo una parte. Nutro speranza che non mi farete bugiardo, e non mi costringerete a considerarvi straniero alla nostra famiglia. Desidero frattanto di rivedervi presto, e a quest'effetto mi recherò giovedì mattina ad incontrarvi a Sassuolo. La mia età non mi permette di fare un più lungo viaggio. Vi aspetterò dunque colà, nella giornata di giovedì, lasciandovi in questo modo il tempo di fare le vostre valigie.
«Vostra madre, i vostri fratelli e le vostre sorelle vi abbracciano con me.
«Vostro padre
«Conte JACOPO MALATESTI.»
Giovedì, a Sassuolo! E che giorno era quello? Ahimè, un martedì. Gino rimase istupidito dal colpo. Giovedì a Sassuolo! Ma bisognava dunque partire quella sera medesima? Al più al più, sull'alba del giorno seguente? Il poveretto non ci vedeva più lume, e sicuramente si sarebbe trovato in un bell'impiccio, dovendo ripigliare la conversazione col signor commissario, se in quel punto non fosse capitato Aminta al soccorso.
—Gino,—disse questi, entrando nell'anticamera,—ricordati che sei in casa tua. Spero che dopo aver parlato d'affari con questi signori, vorrai invitarli a passare in quell'altra sala, dove noi vi aspettiamo.
—Ringrazio;—rispose il commissario, senza aspettare che il conte Gino ripetesse l'invito.—Ringrazio ed accetto subito, poichè la nostra missione è compiuta. Essa è stata anche gratissima, e speriamo che, come è piaciuta al signor conte Gino Malatesti, così sarà per piacere ai signori Guerri, suoi ospiti.—
Così dicendo, il cerimonioso personaggio entrò nella sala, seguito dall'applicato e da Gino, che non si era per anche riavuto dal suo stordimento. Qui si fecero i soliti saluti, e il signor Francesco offerse una refezione, che fu ricusata, poichè i due visitatori avevano già desinato a Pievepelago.
—Accetteranno almeno una tazza di caffè ed un bicchier di vino;—disse allora il vecchio Guerri.
—Per non rifiutar le sue grazie;—rispose il commissario, inchinandosi.
Vennero i bicchieri sul vassoio d'argento, con la bottiglia di vin Santo delle grandi occasioni e con la catasta dei cantucci, ben ordinati nel piatto.
Il signor commissario amava i dolciumi, secondo l'uso di tutte le virtuose persone, e intinse volentieri un cantuccio nel suo vino. Come l'ebbe inzuppato ben bene, lo immerse beatamente in bocca, facendo batter la lingua contro il palato, e chiudendo gli occhi a mezzo, in atto di buongustaio che voglia concentrare tutte le facoltà dell'anima intorno alla voluttà del momento. Felicissima bocca del mio signor commissario! Essendo ella così soavemente vellicata, immaginate voi quante dolcezze ne uscirono.
—Sicuramente!—diss'egli.—Reco una buona notizia, che piacerà a tutti gli amici del nostro signor conte, desiderato oramai da tutta Modena. Sua Altezza Serenissima—(e qui un inchino tanto fatto)—ha revocata la pena del confine, che si era degnata di applicargli, senza processo, notino bene, senza processo. I processi restano, e costituiscono sempre uno spiacevolissimo precedente, nella vita di un gentiluomo. La sentenza c'è e non c'è, quando il processo manca; la pena è applicata così, alla breve, in modo di correzione paterna, e quando è revocata non ne resta più traccia. Il signor conte ringrazierà, ne son certo, la clemenza sovrana; la quale si è esercitata più presto che io non prevedessi, in grazia dei meriti singolari dell'illustrissimo conte Jacopo, suo degno genitore, che è senza dubbio uno dei soggetti più eminenti dello Stato.—
Finito il suo discorsetto, il degno commissario finì il suo cantuccio e il suo resto di vin Santo, con la coscienza di aver meritato l'uno e l'altro.
—Mi compiaccio molto della fortuna che gli tocca; disse allora il signor Francesco Guerri.—A noi dispiacerà di perdere un così buon vicino; ma non dobbiamo essere egoisti. Non è vero, figliuoli miei?—
Alle prime parole del commissario, Fiordispina era diventata pallida, e si era sentita mancare, tanto che aveva dovuto appoggiarsi alla tavola, per non dare un triste spettacolo della sua debolezza. Ma fu un momento, e non altro. Gli occhi del signor commissario, volgendosi torno torno nel giro del discorso, erano giunti fino a lei, e Fiordispina fece uno sforzo supremo per non dare a divedere la sua commozione. Anch'ella, come Aminta, rispose con un cenno di assentimento e con un sorriso alle ultime parole del babbo.
—Ne son tutti felici, ed è giusto;—ripigliò il commissario.—Oso dire che il primo sono stato io, ed ho accettato con giubilo l'incarico di portar la notizia al signor conte, mentre qualche altra necessità del nostro ministero mi chiamava da queste parti. Del resto, se è lecito nella soggetta materia esprimere tutto il proprio pensiero, la pena del confine è tra le lievi la meno adatta al suo scopo correttivo. Un uomo che ha potuto, per qualche bazzeccola, trascorso di lingua, od altro lieve errore di gioventù, richiamare sopra di sè l'attenzione del governo, s'invigila meglio a casa, che tra i monti e sui laghi dell'Appennino. Non credono?
—Veramente….—rispose il signor Francesco.—Non saprei dirle. Mi dispenso volentieri dallo avere una opinione in questa materia, che è di spettanza del governo e dei suoi savi consiglieri.—
L'accenno malizioso ai laghi era evidente, come lo sforzo di ragionamento con cui il signor commissario aveva tirato il discorso fin là. Il signor Francesco Guerri non volle mostrare di averlo capito; ma la sua risposta, fatta più prudente dal pensiero della difesa, parve dar noia al dolcissimo signor commissario.
—Ella, signor conte,—riprese questi, voltandosi a Gino,—mi perdoni la libertà di un giudizio che non esce dalla cerchia delle mie attribuzioni. Posso anche ammettere che la sua lealtà di suddito sia stata sospettata a torto, per informazioni non bene accertate. Il migliore dei governi, si sa, non può sperare di aver servitori tutti egualmente accorti, che sappiano sceverare il vero nelle relazioni di un fatto, cogliere da un ponderato esame le intenzioni della gente, misurarne secondo i casi la importanza, distinguendo l'assoluta dalla relativa. Ad ogni modo il perdono è intiero e cancella fin l'ombra dei sospetti passati. Ella si prepari a fare le sue valigie, perchè l'illustrissimo signor conte suo padre le viene incontro domani a Sassuolo.—
Un'altra occhiata andò in giro, e si fermò sul volto di Fiordispina.
Era forse l'occhiata consuetudinaria dell'impiegato di polizia, che
deve aver l'aria di scrutar gli animi e i cuori. Ma la fanciulla dei
Guerri n'ebbe un senso di freddo, e stette più salda che mai.
—Mi duole,—diceva frattanto il conte Gino,—mi duole che il mio signor padre si voglia scomodar tanto per me. Le mie valigie son presto fatte. Ma io, signor commissario,—soggiunse egli con una certa alterezza di accento,—senza partecipare alla sua opinione sulla lievità di certe pene, mi ero avvezzato, gliele confesso sinceramente…. mi ero avvezzato alla mia.
—Capisco…. capisco….—rispose quell'altro, sconcertato dalla schiettezza del conte.—Una così bella compagnia…. si lascia mal volentieri. Ma Ella potrà ritornare, da libero visitatore, in questi bei luoghi.
—Lo spero bene!—ribattè il conte Gino.
Il momento non era piacevole. Ma il signor Francesco Guerri mise fine alla scena, alzandosi di scatto, per dar commiato ai suoi ospiti. Si rivolse per altro all'ospite caro, e non badò punto ai noiosi.
—Conte Gino,—diss'egli, stendendo la mano al giovanotto,—vada a prepararsi per la sua partenza da Querciola. Mio figlio Aminta le terrà compagnia. Le Vaie, del resto, sono sulla strada del ritorno, e noi avremo tempo a farle i nostri saluti amichevoli e i nostri augurii sinceri.—
Anche il signor commissario aveva dovuto alzarsi.
—E noi frattanto,—diss'egli,—ritorneremo a Fiumalbo, per l'altra parte della nostra missione.
—Ah, già!…—rispose il signor Francesco.—C'è un'altra parte….
—Dobbiamo vedere il sindaco;—ripigliò il commissario.—Sarà reperibile, a quest'ora.
—Credo bene. Se vuole, manderemo anche ad avvertirlo.
—No, non occorre; troveremo noi questo signor Cervarola. Si chiama così, non è vero?
—Lorenzo Cervarola, per l'appunto. La sua casa è a cinquanta passi dal mulino di Fiumalbo.
—Grazie! Ci andiamo subito, perchè vorremmo sbrigarci;—disse il signor commissario.—Far bene e presto è il gran fine, il gran desiderio; ma pur troppo non è sempre possibile, in materia amministrativa.
—Col suo ingegno e col suo zelo, signor commissario!…
—Eh, lo zelo è grande davvero; così fosse l'ingegno!—rispose quell'altro, umilmente.—Ma si farà quello che si potrà. Il governo desidera un po' di relazione, fatta de visu et de auditu sullo stato e sui bisogni reali di queste industriose popolazioni. Accogliere i legittimi voti, togliere gli abusi, se ce ne sono, concedere tutte le agevolezze compatibili con le esigenze del servizio, son questi i criterii di un ottimo governo; ed il nostro, la Dio grazia, non lascia nulla a desiderare, per questo lato.—
Il signor Francesco Guerri s'inchinò leggermente. Un inchino costa poco e fa risparmiare molte parole inutili, pericolose.
—Signor conte,—ripigliò il commissario, volgendosi a Gino,—voglio sperare che i doveri del nostro uffizio ci permetteranno di vederla domattina, al suo passaggio da Fiumalbo.—
Gino s'inchinò anche lui, ma il suo inchino poteva anche parere l'atto di un uomo che si stringe nelle spalle.
—Se questa sorte ci fosse negata,—proseguì il commissario,—abbia fin d'ora i nostri augurii, ed accolga la preghiera che io Le faccio, di presentare i miei più rispettosi ossequi all'illustrissimo signor conte Jacopo. Il degno personaggio ha un po' di benevolenza per me, ed io gliene sono riconoscentissimo.
—Grazie!—mormorò Gino, in ricambio a quel fiume di parole.
Ma dopo quel «grazie» fu ancora costretto a stringere la mano del signor commissario, del suo tormentatore, del suo aguzzino. Meno spiacevole gli fu la stretta di mano dell'applicato. Vi rammentate che in quella stretta il conte Gino aveva già ricevuto un messaggio del suo servo Giuseppe. Se anche quella volta gli fosse capitata una simile fortuna! Egli si era ben preparato a riceverla; ma il bravo applicato non aveva niente da dargli. Piuttosto avrebbe avuto qualche cosa da dirgli. Guardò infatti il conte Gino con una cert'aria, gli strinse la mano in un certo modo, che il giovanotto ne rimase un po' sconcertato.
—Che cosa vorrà dirmi con la sua occhiata e con la sua stretta?—pensò.—Veda lui di spiegarsi più chiaro. Io del resto so bene una cosa: che niente potrebbe esser peggio della sentenza che mi ha portata il suo superiore immediato.—
Partiti i due rappresentanti del governo ducale, ci fu un po' di scena muta, nel salotto dei Guerri.
Anche questa volta parlò primo il signor Francesco, che aveva la testa più forte e il cervello più libero.
—Andate, conte;—diss'egli.—Non farete in tempo a preparare le cose vostre, se aspettate dell'altro.
—Si, vado;—rispose Gino, scuotendosi;—ma ritornerò al più presto possibile.
—Questa sera, perbacco! Pellegrino s'incaricherà lui di trasportare le valigie. Aminta vi aiuterà a farle.
—Sì, sì;—mormorò Gino, che non aveva più volontà. E si allontanò, seguito da Aminta, dopo aver salutate le signore, più che con le parole sue, con gli occhi pieni di lagrime.
—Coraggio, via!—gli disse il signor Francesco, che lo aveva accompagnato sull'uscio di strada.—Si direbbe che nei momenti solenni, dove è più necessaria l'energia del carattere, essa vi manchi del tutto. Siate uomo, conte Gino: pensate alla vostra famiglia, che rivedrete doman l'altro; a vostro padre, che abbraccerete domani.
—Ma io, signor Francesco…. padre mio… avevo posto il mio cuore qui! E se permettete….
—No, amico mio!—interruppe il vecchio Guerri, abbracciandolo.—Non dite nulla, perchè il tempo stringe. Mi parlerete del vostro cuore, quando verrete a riprenderlo.—
Mezz'ora dopo, andando a spron battuto per la via del bosco, Gino ed
Aminta giungevano a Querciola.
Il Mandelli fu maravigliato di quella partenza improvvisa del suo inquilino; ma lo aveva sempre veduto così poco, che non ebbe ragione di piangere. Non si dovevano commuovere niente di più i rustici abitanti di Querciola, che non avevano veduto mai il forastiero traversare il paesello, tranne una volta, ed al trotto, confuso in una allegra cavalcata co' suoi amici delle Vaie: coi re della montagna, come si usava dire lassù.
Le valigie furono presto fatte. L'unica noia un po' grossa era quella di mettere in ordine le carte, che ingombravano il tavolino e i cassetti del conte. Sul tavolino, per esempio, c'erano alcuni fogli pieni di versi e di cancellature; il principio di una ballata, che portava un bel titolo, scritto a grossi caratteri: La Ninfa del Lago.
—Che?—disse Aminta.—Scrivevi dei versi?
—Per tua sorella;—rispose Gino,—E resteranno incompiuti.
—Li finirai a Modena e ce li porterai a leggere per il quattro di ottobre. Hai due mesi di tempo, non poco nè troppo, per tutte le cose che avrai da fare laggiù;—disse Aminta, appoggiando forte sulla frase.—Il quattro di ottobre è l'onomastico di nostro padre.
—E tutti i suoi figli debbono fargli corona, in quel giorno!—rispose
Gino, animandosi.—Non mancherò, te lo prometto.—
Nel raccogliere le carte che stavano pigiate entro i cassetti, venne fuori la lettera di Lucca.
—To'!—disse Aminta.—Ecco una lettera che non hai neanche aperta.
—Ah sì, è vero;—rispose Gino, crollando la testa.
—Perchè non la leggi?—chiese Aminta.
—È la lettera d'un noioso; ci sarà sempre tempo;—replicò Gino.—Oggi ho un diavolo per occhio.—E con atto risoluto cacciò la lettera in tasca, per farla finita una volta. Sì, questo era il suo pensiero, per farla finita. Ma oramai non poteva più sciogliersi da un altro pensiero, che era quello della lettera, ritornata nel suo soprabito. Il foglio malaugurato gli dava noia, gli destava un senso di bruciore sul petto. Oh, finalmente! Che cos'era quel foglio, di cui sentiva tanta paura? Non ne aveva forse avuto abbastanza, di dolori, e non sopportava egli già la pena più acerba, con quella energia che gli aveva infusa una esortazione del vecchio Guerri, del padre di Fiordispina? Alla peggio, non era quello il suo giorno triste? Non era quello il momento di bere tutto, fino alla feccia, il suo calice di amarezze? La curiosità non c'entrava punto, e questo egli lo sapeva bene; se non ne fosse stato certo, gli sarebbe bastato ricordare otto giorni della più superba noncuranza. Il conte Gino andò allora nel vano della finestra, cavò di tasca la lettera, la spiegazzò un poco fra le dita; poi ruppe il suggello.
—Ah, finalmente!—borbottò egli.—È fatta. Vediamo questo maledetto foglio, che fa tanta paura. Non ne salterà mica fuori una vipera!—
Corse, come potete credere, alla firma: «Emilio Landi.»
—Ah!—gridò allora.—Emilio Landi.»—
E rise, d'un riso convulso, che fece voltare il compagno.
—Che c'è?—chiese Aminta, tralasciando di serrar la cinghia di una valigia.
—Te lo dicevo io!—esclamò Gino.—L'ho aperta, ed è la lettera del più sciocco, del più noioso tra gli uomini.
—Ebbene?—disse Aminta.—Leggila egualmente. C è sempre qualche cosa da imparare, anche nella lettera d'uno sciocco.
—Leggerò, sicuramente, leggerò;—rispose Gino, rifacendosi dalla firma al «Carissimo.»
La lettera, come sappiamo dal bollo postale, veniva da Lucca. La data, in principio del foglio, diceva più chiaramente: «Dai bagni di Lucca.» Era dunque ai bagni di Lucca, il marchesino Landi? Gino Malatesti avrebbe potuto gridare con Amleto: «Ahi, profetica anima mia!» Ma egli, se non ruppe in quel grido, pensò certamente qualche cosa di simile.
Ed ora, leggiamo quella famosa lettera insieme con lui. Secondo il giudizio di Aminta Guerri, ci sarà sempre qualche cosa da imparare, anche nella lettera d'uno sciocco. A buon conto vedremo se il marchese Emilio Landi fosse a dirittura uno sciocco personaggio, come piaceva al conte Gino di gabellarlo.
«Carissimo amico,
«Che cos'è avvenuto di te? Ti sei insalvatichito, vivendo tra i monti? Perchè da tre mesi non dài segno di vita agli amici? Avevi forse paura di comprometterli? Potevi bene immaginarti che le tue notizie mi sarebbero state gratissime, ed anche pensare che nessuno avrebbe trovato a ridire nella lettera di un uomo che manda un cenno della sua salute e delle sue occupazioni ad un amico d'infanzia. Voglio credere che qualche forosetta, qualche bella ninfa dei boschi ti abbia incantato. Non vedo altra ragione che possa scusarti di un così lungo silenzio.»
—Sciocco!—ripicchiò il conte Gino, come fu giunto alla fine del paragrafo.
Poi, come era naturale, ripigliò la lettura.
«Pensando a questo, mio caro Gino, ti ho perdonato. Perdonato, bada bene, e non giustificato. L'odore del foin coupé è buono, ma in estratto; il gradirlo sul posto è da cacciatori, ma per un giorno, e non di più. Comunque, lo ripeto, ti ho perdonato, e la mia amicizia per te non si è punto affievolita. Vedine infatti la prova: ho una buona notizia che ti risguarda, e mi affretto a comunicartela. Ma procediamo con ordine, come dice mio zio, quando discute.
«Ero venuto con lui a Lucca, per queste acque che gli hanno decantate. I luoghi di bagni hanno il loro periodo di voga; oggi son tornati alla moda i bagni di Lucca. E gli ammalati, creduli sempre, seguono il consiglio dei buontemponi. Eccoci dunque a Lucca, come l'anno scorso eravamo a Graefenberg, per esperimentare i miracoli della doccia. Venuto qua, mi son trovato come in casa mia. C'è mezza Modena, figùrati, anzi tutta Modena, poichè ci ho incontrata la marchesa Baldovini, sempre bella a quel Dio! Ma perchè è venuta alle acque di Lucca, la bionda marchesa, che ha in casa sua la fontana di gioventù? E con che coraggio ha messa in mostra la sua figliuola! Un bottoncino di rosa, caro mio, un occhio di sole, e tutto il meglio che vorrai. Dovresti vederla, come noi la vediamo qui, ammirata da tutta la colonia bagnante e bevente, in cui pure si ritrovano tante bellezze straordinarie. È tutt'altra cosa da quella timida verginella, che ci veniva di tanto in tanto alla vista, ne' suoi modesti abiti di educanda. È un angelo sempre, ma un angelo con le ali dispiegate. Così doveva essere a diciott'anni sua madre, e si pensa naturalmente a quel verso di Orazio, che dice… Come dica, non lo ricordo più bene, e non voglio farti ridere guastandolo. È quel verso in cui Orazio loda la madre, ma lascia intravvedere che gli piace anche maledettamente la figlia.»
—Ah!—esclamò Gino.—È dunque innamorato della figliuola? Se la sposi e sia finita. Ma che bisogno c'è di seccar me coi suoi inni?—
Ripigliò la lettura, poichè gli premeva di giungere al fine.
«La marchesa Baldovini è sempre il buon cuore fatto donna. Si è parlato subito di tante cose e di tante persone. Puoi immaginarti, mio caro, che si è parlato anche di te. Dirò anzi che tu sei stato ricordato dei primi.—Sapete? mi ha detto. Il confine del Malatesti durerà poco. In verità, è durato già troppo, e contro tutte le mie sollecitazioni, contro tutte le promesse che mi erano state fatte. Non ne avevo parlato mai, perchè non mi piace vantarmi, nè lasciar concepire speranze, che non possano convertirsi tosto in realtà. Ma questa volta siamo al punto buono. Ho ricevuta ieri la lettera che mi dice: «Si farà grazia al vostro protetto. Non c'è più che da firmare il rescritto, poichè Sua Altezza mi ha detto finalmente di sì.»
«Io, come puoi bene immaginarti, le ho chiesto subito il permesso di mandare a te questa buona notizia. Era una consolazione per me, poichè mi era dato di associarmi in qualche modo alla sua buona azione.—Fate pure (mi ha risposto) purchè la notizia non abbia l'aria di venire da me, e sopratutto purchè il Malatesti non sappia che ho fatta questa parte per lui.—Ma perchè questo? domandai.—Il perchè mi par chiaro; voi stesso, Landi, avete decorato del nome di buona azione ciò che ho potuto ottenere io, seguendo l'impulso di un'amicizia costante. Ora, delle buone azioni è bene sentir gli effetti, senza conoscerne l'autore; lasciatemi il gusto della modestia, che mi procurerà una gioia più viva di tutti i ringraziamenti del mondo.—Ho promesso perchè la marchesa voleva così; ma, come vedi, non mantengo ciò che ho promesso. Appunto perchè la marchesa Baldovini ha fatta una buona azione che ti risguarda, è giusto che tu ne sia avvertito da chi ha potuto essere a parte del segreto. Ma ti prego, mio caro, sii prudente; non dirne nulla a lei, quando la rivredrai. Passerei a' suoi occhi per un linguacciuto, e la dama sarebbe capace (me lo ha minacciato, anzi) di mettermi alla porta.»
Seguivano altre chiacchiere, che Gino lesse a volo, o non lesse. Gli si era come offuscata la vista, per il gran turbamento che lo aveva preso. In mezzo a quella novità di cose gli sarebbe stato necessario racapezzarsi, poichè veramente non sapeva che pensare di tanta generosità d'animo, di tanta amicizia, in contrasto con la freddezza apparente e col silenzio ostinato della marchesa Polissena. Ma il fratello Aminta era là, che aveva finito il suo lavoro; e Gino Malatesti, non sapendo che pensare, si appigliò al partito di non pensare, e rimise in tasca la lettera.
Le valigie erano fatte, ed Aminta le consegnò a Pellegrino, che doveva portarle alle Vaie. Il Mandelli era sull'uscio, e Gino gli strinse la mano, ringraziandolo della sua ospitalità, che del resto aveva rimunerata, oltre il prezzo pattuito, con qualche donativo alla famiglia. Ciò fatto, senza dare un pensiero d'addio a Querciola, dove in tre mesi di confine era vissuto così poco, Gino Malatesti rimontò a cavallo. Partito dalle Vaie nel pomeriggio, ritornava alle Vaie sull'ora del tramonto.
—Far presto e bene,—avrebbe detto il signor commissario,—è la grand'arte della vita. Ed io godo, vedendo la sua prontezza, signor conte Malatesti, godo nel pensare che questi esempi le vengono dall'alto.—
Gino Malatesti, per altro, non sapeva di aver fatto nè ben nè male, poichè tutto il carico dagli apparecchi era stato sopportato da suo fratello Aminta. Neanche pensava di aver fatto presto, mettendo appena due ore tra la partenza ed il ritorno. Una cosa sola sapeva e pensava egli in quel punto: che la mattina, sull'alba, cioè fra dieci ore, a dir molto, avrebbe dovuto lasciare il suo paradiso.
Capitolo X.
La fanciulla dei Guerri.
Che pensava frattanto la fanciulla dei Guerri? La poveretta, partito Gino, si era ritirata nella sua camera verginale. A piangere, sicuramente, a piangere, guardando tra le lagrime i mazzolini, che il conte Malatesti soleva gittarle ogni giorno. Quei fiori, la più parte disseccati, erano tutto il suo dolce passato; gli ultimi, ancor freschi, solamente appassiti, sarebbero disseccati anch'essi tra breve. Nè ella sapeva quando sarebbe ritornato il donatore, e pensava invece con terrore che chi parte…. No, no, non era possibile! Gino Malatesti, un animo nobile, un gentiluomo, doveva ritornare, come aveva giurato.
Il conte Gino era giunto tra quei monti, era apparso a lei con l'aureola del proscritto. Fiordispina Guerri non aveva veduto il nobile, il cavaliere di città, l'elegante giovanotto, come tante altre avrebbero fatto al suo posto. Lo aveva ammirato perchè amante della sua patria e per lei disposto a soffrire; si era sentita attrarre da lui, perchè egli recava con sè, profumo incantevole, quella gentilezza di atti e di pensieri che ella stessa chiudeva nell'anima; lo aveva amato, perchè egli rispondeva ad un tipo ideale del suo cuore, quel tipo che ogni fanciulla ha sognato nella sua celletta di educanda, o nella pace un po' fredda delle pareti domestiche.
Anch'ella lo aveva intravveduto, quel tipo: da principio nel Damone e nel Pizia delle Novelle del Soave; poi nel Niso e nell'Eurialo dell'Eneide, tradotta del Caro; meglio ancora nel Telemaco di Fénélon, su cui aveva studiato il suo francese, e nel Tancredi della Gerusalemme, che l'aveva iniziata alla grandezza dell'ideale cavalleresco e alle bellezze del linguaggio più nobile che mai abbia parlato per bocca italiana l'amore. Questo tipo, sempre conteso, sempre gelosamente nascosto alle fanciulle nella loro educazione morale, trapela ad ogni istante, da ogni pagina della loro educazione letteraria. A farlo a posta, si ottiene un fine ben diverso da quello che presiede alla educazione femminile. Non vedendo mai quel tipo nella sua verità più umana e più umile, una fanciulla se lo foggia nella fantasia, più grande del vero, elegante, eroico, tenero, maraviglioso, sublime, come tutti quei tipi di perfezione, che ricorrono, per onore della umanità, nei poemi più emendati, nelle novelle più castigate, nelle storie più sommariamente narrate. Anche il giovane Scipione, in Ispagna, Curzio sull'orlo della voragine, Caio Gracco, nel Foro, perfino Cesare, nelle Gallie, diventano personaggi poetici, tipi leggendarii di virtù pericolosa, come Tancredi e Telemaco.
Alle Vaie, dov'era ritornata dopo parecchi anni di conservatorio, alle Vaie quel tipo ideale non esisteva, e la fanciulla dei Guerri aveva un po' sofferto, per avvezzarsi a quel crudo contrasto fra le immagini della scuola e la realtà della vita.
Qualche volta, sui primi tempi, ricordando le favole dell'infanzia e le belle fantasie del poeta così caro alla sua famiglia, la fanciulla dei Guerri si figurava di essere una principessa chiusa da qualche scongiuro di strega in un castello incantato. Era necessario, per liberarla, che ad un bel cavaliere, dopo molte prove eroicamente sostenute, toccasse la sorte di possedere il talismano, davanti a cui tutti i ponti levatoi si calavano e tutte le porte meglio chiuse si aprivano. E il bel cavaliere giungeva, e il mago custode spariva fremendo, e Fiordispina era condotta dal cavaliere con gran pompa e dimostrazioni d'ossequio alla corte del re suo padre. Nelle favole cavalleresche il padre è sempre re, e il suo regno è facilmente tagliato dalla pezza, nei vasti dominii di Artù.
Altre volte il sogno prendeva un diverso indirizzo. La realtà incominciava a gravar d'ogni parte, come un'aria densa, sulle ali della fantasia. Il suo fratello Aminta era un giovanotto tagliato alla montanara, ma di buon'indole e di sentimenti generosi; aveva dimenticato una parte del latino imparato alle scuole di Modena; le cacce, i mercati, le serre, avevano un po' trasformato la sua dolce natura. Ma il fondo restava, ed ottimo; una donna di delicato sentire, amandolo com'egli meritava, avrebbe potuto trasformarlo da capo, trarre il cavaliere dalla ruvida corteccia del montanaro. Perchè la fanciulla dei Guerri non avrebbe potuto operare un miracolo come quello, sull'animo giovane e buono di un altro principe della montagna? Era un vicino, un congiunto di sangue, e le occasioni di vederlo, di studiarlo, non sarebbero mancate. A quel giovane montanaro ella infondeva i suoi proprii sentimenti, il suo modo di vedere, tutto quel po' che aveva imparato, tutto il più che alla sua mente dicevano le aurore e i tramonti, le acque correnti, le solitudini profonde e i grandi echi delle alti convalli. Così intesa, così avviata alle regioni del pensiero, la vita poteva ancora esser bella. Perchè, voi lo indovinate, o lettori, Fiordispina era tirata al fantastico dalla sua stessa condizione, dal contrasto naturale tra un'educazione perfetta, che aveva ricevuta in conservatorio, e il nuovo genere di esistenza a cui la condannava oramai il soggiorno delle Vaie. Un po' romantica, adunque, ma tanto da non guastare; e poi, sotto quel lieve tessuto di sogni e di larve poetiche, la donna di carattere non aveva indugiato molto ad apparire.
Proprio in quel tempo si era incominciato a dire, nella gran sala dei Guerri:—Tra qualche giorno avremo la visita del nostro cugino Ruggero. Suo padre ci annunzia che il giovinotto è andato a Reggio, per certe faccende di casa, e poi verrà da noi, per vedere le serre. Dev'esser grande, oramai, il cuginetto! Come passa il tempo! Ci par ieri, il giorno che lo abbiam visto bambino, in compagnia di sua madre.—
Era passato per la mente della fanciulla che il giovane montanaro dei sogni fosse il cugino Ruggero? Sì e no; anzi diciamo meglio: ne sì, ne no. Poteva esser egli, come poteva esser un altro. Quando la fanciulla sognava, nessuna immagine spiccata si offriva agli occhi della sua fantasia. Il montanaro discepolo non aveva dunque un tipo, un viso conosciuto, o altrimenti foggiato su notizie domestiche. Anche il principe del talismano, il principe liberatore, faceva capolino qualche volta, ed anch'egli era un'immagine confusa, non era biondo, nè bruno. Era il principe, era l'invocato, il consolatore che si aspetta, pensando a lui tra un punto e l'altro dell'ago frettoloso.—Vediamo;—dice tra sè la fanciulla;—giungerà egli, prima che io abbia finito questo ricamo, che sarà pure così lungo?—Così immaginarono i Greci che usasse Penelope, aspettando il marito. E perchè Ulisse non giungeva mai, la bella regina era costretta a disfar nella notte il pezzo di tela che aveva ordito nel giorno. Ma ciò, evidentemente, per la necessità del romanzo, in cui, elementi perturbatori della tacita aspettazione di lei, entravano i Proci importuni e arroganti. Le fanciulle non hanno da disfar nulla, salvo qualche maglia mal fatta, o qualche punto mal messo; aspettando l'invocato, il principe del talismano, fanno sempre nuovi lavori, adornano dei loro ricami la camera dei parenti, la culla del fratellino, il salotto, e via via tutta quanta la casa, prima che il principe arrivi. Talvolta, ahimè! giunge la sua caricatura, il suo nano, il suo buffone arricchito e giubilato. Che pianti, allora, mie povere bambine! Come è diversa, come è lontana quella figura, dalla immagine non veduta bene, ma sentita nel sogno! E come si preparano, in un giorno di festa (così è costume di chiamarlo, perchè vi adornano a festa) i giorni dolorosi delle ripugnanze invincibili!
Non auguriamo questa sventura alla fanciulla dei Guerri. A lei, quando meno lo aspettava, il principe del talismano era apparso. Aveva corona di conte, e si chiamava Gino Malatesti. Inoltre, era proscritto, per grande amore della sua terra, l'Italia, per quella Italia che ella aveva imparato ad amare nelle rime di tutti i poeti della patria; così degli antichi, che le avevano lasciati leggere in iscuola (Dante, ad esempio), come dei più recenti, che aveva trovati, gelosamente custoditi, nella piccola libreria di suo padre e di suo fratello Aminta. Proscritto! Quel nome era allora un titolo di nobiltà, ben maggiore di tutte le corone e di tutti gli stemmi; era il marchio della sventura, il sigillo del valore; era come un diritto alla pietà, all'amore, poichè la pietà è sua sorella, in ogni cuore di donna. Fiordispina si era impietosita: e quando aveva guardato dentro di sè, si era avveduta di amare il proscritto, di amarlo con tutte le forze dell'anima.
E qual pace in lei, quando ebbe scoperto lo stato del suo cuore! Calde e vaste ed impetuose correnti attraversano il grembo dei mari profondi; mentre la superficie è tranquilla, e limpida e tersa come un cristallo sembra sorridere al cielo, di cui porta amorosamente i colori. Ah, fosse durata sempre così, la sua vita, senza chiedere, senza sperar nulla di più, confusi in quella estatica calma degli amori eterni! Ma anche Gino l'amava di quel medesimo amore? Sì, l'arrivo di Ruggero, del cugino, aveva giovato ad istruirla anche di ciò. Biondo e forte montanaro, Ercole adolescente, anima candida, che a guisa di molle cera avresti potuto prendere ogni impronta dalla volontà della gentile educatrice, aveva ella pensato a te un solo momento? Fiordispina intravvide ciò che forse era passato per la mente de' suoi; lo intravvide alla gelosia che la presenza di Ruggero aveva destata nel cuore di Gino. Ma come? Era proprio geloso, il conte Malatesti? E di chi? Ruggero Guerri era un bel giovane, e la bellezza, anche non osservata in modo particolare, è fatta per piacere agli occhi e per ispirare la simpatia. Fiordispina non poteva sentir ripugnanza per suo cugino; avrebbe potuto amarlo, sì, come amava suo fratello Aminta, come si amavano tutti, in quella buona stirpe sana dei Guerri. Ma amarlo di un altro amore, lui? Era possibile? Poteva il conte Gino solamente pensarlo?
Il cugino Ruggero, venuto per pochi giorni alle Vaie, ne era ripartito, senza capir nulla, senza indovinare, senza immaginare neanche il segreto delle calde e vaste ed impetuose correnti che attraversavano il grembo di quel mare azzurro e tranquillo. Siamo sugli Appennini, e scambio delle correnti del mare si dovrebbero ricordare i gorghi di un lago. Ci pensava ella, in quel punto, al lago della Ninfa, e al giorno in cui era andata con Gino a visitarlo? O scoglio solitario, o letto della Ninfa, al cui piede erano approdati insieme! O sasso di Bismantua, dove il suo nome era stato inciso nella scorza di un faggio, accanto a quello di Gino, e sotto a quello del divino Poeta, del padre della patria! Come si erano collegati, consertati e confusi quegli amori supremi! Certe cose non si sentono e non s'intendono più, nelle città popolose. Dante, ad esempio, non è tra noi che un importuno, strumento di tortura ai cervelli adolescenti del ginnasio e del liceo, pascolo gradito solamente ai vecchi barbogi, ai commentatori, a tutta la noiosa caterva degli eruditi. Quando per caso è citato in un libro, si sospira, si levano gli occhi al firmamento, come se si volesse fare un'offerta delle proprie afflizioni all'Altissimo. C'è ancor questa abitudine delle offerte, pur non credendo alla divinità. Se poi è citato in un romanzo, apriti cielo!—Come? «Anche qui, la smania erudita?»—Ma là, sul monte, dove non arrivano le sinfonie dei sapori acuti e degli odori dell'arte nostra, lassù il padre della patria intellettuale è ancora onorato. Il monte, come già per gli antichi popoli, è sempre un altare, su cui si offrono, ostie innocenti e grate, i nostri sensi più miti, i nostri affetti più nobili.
Così tutti quei giorni di purissima gioia erano passati davanti agli occhi di lei. Pensando a quei giorni, era possibile immaginare che Gino non fosse più Gino? No, l'amore che gli traspariva dal volto, che aveva reso tante volte eloquente il suo labbro, doveva essere custodito così gelosamente nel suo cuore, com'erano custoditi da lei tanti poveri fiori appassiti. Infine, doveva andare. Poteva egli ribellarsi al comando? Dimenticar la famiglia? quella famiglia, in cui ella stessa… No, doveva andare, non poteva trascurare i suoi, le persone da cui dipendeva tutto, anche per lei, per la sua felicità futura. Andava, finalmente; sarebbe ritornato. Stare un mese, anche tre, lontana da lui, triste cosa! Ma è delle donne il soffrire in silenzio. Avrebbe sofferto; sarebbe stata forte; voleva esser forte, e sorridergli.
Si scosse, allora, richiuse i suoi fiori, ed escì sul terrazzo, per respirar l'aria viva della montagna. Era tempo. Si udiva da lunge lo scalpitìo dei cavalli. Gino ritornava da Querciola alle Vaie: appariva già, tra le lunghe file dei cerri. Portava egli forse il mazzolino consueto, raccolto nel bosco per lei? No, pur troppo, veniva a mani vuote, per allora. Ma come avrebbe potuto raccogliere i fiori delle balze, ritornando a cavallo? Ed anche in compagnia di Aminta. Si può pensare a queste cose, in presenza di un terzo, sia egli pure un fratello? L'amore ha la sua verecondia, o non è più l'amore.
Ma vedete, come il pensiero di Gino rispondeva al suo. Il cavaliere si era arrestato al punto in cui soleva fermarsi ogni mattina, scendendo alle Vaie. Non aveva gittato un mazzolino, ma faceva un saluto, un gran saluto, in cui parve offrirle tutto se stesso. Un alito caldo venne ad accarezzarle la guancia; ella arrossì, come soleva, ma respirò, bevve quel soffio consolatore, e rientrò nella sala poco prima del suo diletto. Quando lo vide apparire sull'uscio, era calma, era forte; e gli sorrise, mentre egli si avvicinava, e dagli occhi e dalle labbra, dall'atteggiarsi di tutta la persona di lei, spirava un pensiero solo:—Grazie, bel conte, vi amo, vi aspetterò!—
Gino Malatesti era triste. Parlò del suo viaggio come un poveretto che va incontro alla morte. Amava la sua famiglia, sì, ma non si era ancora assuefatto all'idea di lasciare il suo dolce luogo di pena. Qual pena, infatti! L'avrebbe accettata di grand'animo per tutta la vita. Ma sarebbe ritornato, e presto. Alla peggio, perchè bisognava prevedere anche il peggio, non voleva mancare per i quattro di ottobre, all'onomastico del re della montagna. Se il signor Francesco era un re, non dovevano trovarsi presenti tutti i suoi vassalli, per rendergli omaggio di fedeltà?
—Vassalli!—rispose il vecchio Guerri, sorridendo.—Che dice Ella mai, signor conte?
—Il mio pensiero più intimo e più caro;—rispose Gino.—È ciò che voglio essere per Lei, in attesa di meglio.—
L'allusione era chiara, e il vecchio Guerri finse, da quel prudente uomo ch'egli era, di non averla capita. La raccolse Fiordispina e la chiuse nel cuore.
Poco stante giunse Don Pietro. Il degno uomo aveva risaputa la grande notizia, ed accorreva, per salutare il conte Gino.
—Le esprimerò l'animo mio con un detto di Cicerone; diss'egli.—Tibi —gratulor, mihi doleo. E non solamente mi dolgo con me, ma con una —gentile signora, che abbiamo avuto occasione di riverire insieme. —Povera Ninfa del lago, a cui Ella aveva promesso una ballata!
—Oh, non dubiti, Don Pietro;—rispose Gino, più gravemente che non richiedesse la cosa;—tutto quel che ho promesso farò.—
Quel tutto, si capisce, non andava soltanto per risposta a Don Pietro.
—Farò, tempo futuro!—esclamò questi, cercando di volgere nuovamente il discorso in burletta, poichè intendeva bene che la nota gaia doveva metterla lui, in quel triste concerto.—Se Dio vuole, Ella non aveva neanche incominciato.
—S'inganna;—replicò Gino.—Parli mio fratello Aminta per me.
—Gli restituisca la sua stima, Don Pietro;—disse Aminta, così tirato nel discorso da Gino.—Ho veduto io poc'anzi tutto un quaderno di versi.
—Niente di meno!—scappò detto al prevosto.
E avrebbe voluto soggiungere: «troppa grazia, sant'Antonio!»—ma gli parve inopportuno, e se ne astenne.
—Aminta non dice tutto;—rispose Gino.—Son già parecchi, i versi della ballata; ma sono anche più le cancellature, i pentimenti, che non ne ha avuto un maggior numero la famosa ottava della rosa, nel manoscritto dell'Ariosto. I miei versi entreranno almeno per questo in paragone coi suoi;—soggiunse Gino umilmente.—Anch'io, del resto, da poeta novellino, cerco di fare il meno peggio che so. Non dubiti dunque, Don Pietro; la ballata che Ella aspetta da me, sarà il compito mio, la mia consolazione, nei tristi ozi di Modena.
—E ce la porterà?…
—La manderò prima. Se la signorina vuole imprestarmi il suo albo, quei versi, scritti là dentro, saranno i miei messaggeri alle Vaie.—
Fiordispina si alzò, per andare alla sua biblioteca, che era in fondo alla sala. Gino, vedendo l'atto di assenso, si affrettò a seguir la fanciulla.
—Ah, signorina!—mormorò egli, sospirando, mentre ella apriva l'invetriata.—È assai tristo il partire.
—Coraggio!—rispose ella.
Ma la sua voce tremante diceva chiaro com'ella avesse più mestieri di trovarne per sè, che non d'infonderlo altrui.
—Coraggio!—ripetè Gino.—Ne ho; ma questa partenza, così improvvisa, mi lacera il cuore.
—Ebbene, non dovevate….—rispose ella, facendo uno sforzo supremo, per reprimere un singhiozzo;—non dovevate partire ad ogni modo, per ottenere….
—Un consenso?—diss'egli, compiendo la frase, rimasta interrotta sul labbro della fanciulla.—E l'otterrò. È la mia certezza, sarà il conforto di questa separazione. Mi amerete voi sempre?
—Sempre!—rispose la fanciulla.
—Giuratelo,—
Fiordispina levò gli occhi umidi al cielo e stese la mano al conte
Malatesti.
Le parole non erano udite, ma l'atto fu alla vista di tutti. Ed era un atto solenne.
Gino doveva partire all'alba; però la conversazione fu breve, quella sera, nella gran sala delle Vaie. Il giovanotto recò l'albo di Fiordispina nella sua camera, in quella camera dove aveva passata la prima notte del suo dolce esilio alle falde del monte Cimone.
Dormì poco, il conte Malatesti, in quell'ultima notte d'esilio; dormì poco, e pianse assai. L'alba apparve più presto ch'egli non l'aspettasse. Già l'aveva annunziata il grugar dei colombi nel cortile ancora immerso nel buio; l'accompagnavano i primi rumori della casa, e lo strepitar dei cavalli che Pellegrino sellava sull'ingresso della scuderia. Gino si era vestito in fretta, e già infilava il soprabito, quando sentì battere all'uscio della sua camera.
—Su!—gridò la voce di Aminta.—È l'ora. Il caffè ti aspetta fumando.—
Nella gran sala erano già parecchi dei Guerri, e comparvero tutti all'entrata dell'ospite: il signor Francesco, la sorella Angelica, la cognata Olimpia, il fratello Orlando, la figliuola Fiordispina, che il conte Malatesti cercò subito con gli occhi pieni di tristezza e di desiderio.
—Signor conte,—disse il vecchio Guerri, poichè Gino ebbe bevuto,—rammenti che questa casa è sempre sua, come fu per questi tre mesi. Perdoni!—soggiunse;—avrei dovuto dire tre giorni.
—Grazie!—rispose Gino.—Lo so. Dolce casa delle Vaie, dove ho trovata la pace…. la cara pace che gli uomini intendono così tardi, nella vita, e che io, felice su tutti, ho gustata così prima del tempo! Mi abbracci, signor Francesco…. padre mio!—
Il vecchio Guerri gli aperse le braccia e lo tenne lungamente stretto sul cuore; poi si ritrasse, e col rovescio della mano cacciò una lagrima importuna dagli occhi.
—Mi permettono, le signore?—ripigliò Gino, accostandosi alla signora
Angelica.—In altri tempi si usava, e l'uso era bello.—
Così dicendo, prese la mano della signora e s'inchinò per baciarla. Era un po' confusa, la signora Angelica, anzi sconcertata senz'altro. E non meno confusa, non meno sconcertata la signora Olimpia, a cui si volgeva il conte Malatesti, dopo aver baciata la mano della cognata. Avrebbe voluto schermirsi, ritirare la sua. Ma era donna, e pensò che un suo atto di timidezza, di ritrosìa, sarebbe stato un guaio per sua nipote Fiordispina.
Quando egli giunse davanti alla fanciulla dei Guerri, fu per lui una violentissima stretta di cuore. Baciò, ribaciò quella mano delicata, che tremò sotto le sue labbra; poi, non reggendo più allo spasimo, diede in uno scoppio di pianto, ed uscì a precipizio dalla sala.
Aminta ed Orlando lo seguirono fuori, cercando di consolarlo. Gino abbracciò lo zio di Fiordispina; poi salì a cavallo e partì, accompagnato dal fratello di lei. Si volse alla casa, salutò ancora la famiglia, che si era affacciata sul terrazzo per dargli l'ultimo addio, sventolò il fazzoletto, fino a tanto la strada diritta gli permise di vedere i suoi ospiti, gli amici suoi, il suo tutto. Solamente a Fiumalbo, scorgendo alcune brigate di viandanti, pensò a rasciugar le sue lagrime.
La vettura, fissata in anticipazione da Aminta, doveva aspettare il viaggiatore davanti all'ingresso del mulino. Ma prima che i nostri due cavalieri giungessero là, un uomo si spiccò dall'uscio di una gran casa bianchiccia, e venne verso il mezzo della strada, chiamando ad alta voce il conte Malatesti.
—Che vuole costui?—disse Gino.
—Siamo davanti alla casa del sindaco:—rispose Aminta;—sarà qui ad alloggio il signor commissario.—
Gino stava per mandare a quel paese il sindaco, il commissario e tutti i suoi pari, quando ravvisò l'applicato. Fermò allora il cavallo, per sapere che cosa avesse da dirgli quell'altro.
—Signor conte, una parola, di grazia!—incominciò l'applicato.—Il signor commissario desidera vivamente di offrirle i suoi omaggi.
—Non si potrebbe fare a meno…—borbottò Gino,—di disturbarlo a quest'ora?
—È già quasi all'ordine;—riprese l'applicato, senza aver l'aria di capire.—Finiva appunto di vestirsi, quando ha sentito i cavalli. Vorrebbe Ella scendere un momentino? Farebbe un piacere anche a me;—aggiunse a mezza voce, inchinandosi.
—Scenderò;—disse Gino.—Vuoi tenermi il cavallo, Aminta?
—Siamo a pochi passi dal mulino;—rispose Aminta.—Lo conduco laggiù, e potrai venire con tuo comodo a piedi.—
Disceso da cavallo, il conte Malatesti si avviò verso la casa del sindaco, in compagnia dell'applicato.
—Grazie!—mormorò questi.—Quando saremo più sotto alla casa, e non più veduti dalle finestre, rallenti un poco; ho qualche cosa a dirle.—
Gino ricordò allora l'occhiata che quell'altro gli aveva data il giorno prima. E rallentò il passo, dove il compagno indicava.
—Non ho tempo per farle un lungo discorso;—incominciò l'applicato, come furono al coperto.—Ma badi, signor conte, un'altra burrasca si prepara, e più grave. Se ha amici potenti a Modena, com'è dimostrato dalla grazia ch'Ella ha ottenuta, ad onta di certe aggravanti, non perda un minuto a scongiurarla.
—Ma che è? che debbo fare?—chiese Gino, turbato.
—Giuseppe è avvertito; le dirà ogni cosa. Si tratta dei suoi amici di qui.
—Dei Guerri?
—Per carità, stia zitto; non dia segno di nulla, a nessuno; rovinerebbe me e la mia povera famiglia.
—Non tema, non tema;—disse Gino sollecito.—Vedrò Giuseppe; saprò da lui quello che c'è di nuovo, e quello che dovrò fare.
—Con prudenza, mi raccomando;—rispose ancora l'applicato.—Sono un amico della buona causa; comprometter me sarebbe un far danno a quella.
—Lo so, non dubiti, sarò prudente;—bisbigliò Gino, mettendo piede sulla soglia.
In capo alle scale appariva allora il signor commissario. L'ufficioso personaggio chiese un milione di scuse per la libertà grande che si era presa, fermando il signor conte Gino a mezza strada e obbligandolo a scendere da cavallo. Ma in verità non lo aspettava così presto. Come si vedeva che il signor conte aveva fretta di giungere a Sassuolo e di cader nelle braccia di suo padre! Amor di figlio, e largamente ricambiato dal degnissimo conte Jacopo! Lo riverisse in nome suo, quell'eminentissimo soggetto! Il conte Jacopo doveva sapere per la bocca di suo figlio che nessuno, nei felicissimi Stati di Modena, Massa, Carrara e Guastalla, gli era più affezionato, più sviscerato, più divoto servitore del commissario Camotti.
Gino promise, per farla finita con tutte quelle smancerie; toccò la mano a lui, la strinse all'applicato e ritornò sulla strada.
La testa gli ardeva, per tutto quello scombussolìo che ci avevano messo le parole oscure dell'applicato. Si ritrovò al mulino, e davanti alla vettura, senza sapere come avesse fatto a giungervi.
Aminta lo vide stralunato, ma attribuì quella condizione di spirito all'angoscia del distacco.
—Animo, dunque!—gli disse.—Dammi un abbraccio e parti.—
Gino gli gettò le braccia al collo e lo baciò ripetutamente sul viso.
—Sempre uniti, non è vero? Qualunque cosa accada, siamo l'uno per l'altro;—mormorò Gino singhiozzando.—Casa Guerri ha in me più che un amico riconoscente. Un fratello per te. Aminta; un figlio per tuo padre. Darei, non una, cento vite per voi.—
Aminta non capì il discorso di Gino; ma neanche era necessario di capire ciò che si poteva mettere sul conto della commozione. Aiutò l'amico a salire in carrozza, gli strinse ancora una volta la mano, gli diede un addio affettuoso, poi fece un gesto al vetturino.
—E svelto!—gli disse, ritraendosi dal montatoio. Il vetturino fece scoppiettar la sua frusta, e i cavalli partirono di trotto, poi presero a dirittura il galoppo.
—Povero ragazzo!—esclamò Aminta, restando là in mezzo alla strada fino a che vide la carrozza.—Com'è addolorato! Ma se ha da ritornare, che c'è da disperarsi tanto? Mia sorella, piuttosto…. Son così tenere al pianto, le donne!
Capitolo XI.
La notte di Sassuolo.
Che viaggio fosse quello del conte Gino Malatesti è facile indovinarlo, dopo aver veduta la partenza.
—Giuseppe è avvertito; Giuseppe le dirà ogni cosa;—ripeteva egli, ad ogni tanto.—Ma che? Una nuova burrasca, e più grave, si addensa. E sugli amici miei, sui miei ospiti, sul padre e sul fratello di Fiordispina!—
Così pensava, così veniva tormentando lo spirito. Ma che avevano fatto i Guerri, da meritare gli sdegni del governo ducale? Erano forse sospettati, presi di mira per colpa sua, per le oneste accoglienze che avevano fatto ad un povero confinato? Ma non era egli perdonato e richiamato in patria? E che giustizia era quella, che assolveva il reo, e perseguitava gl'innocenti, per il solo fatto di non avergli negato l'acqua ed il fuoco?
Un'idea gli si affacciò, ma tardi, alla mente. Il viaggio al lago della Ninfa: la barca gittata in quelle acque, nel nome della patria, della gran madre Italia! Ma come potevano risapersi quelle cose a Modena, se lassù non erano che i Guerri, e famigli affezionati dei Guerri? Pure, qualcheduno, o per vanto, o per altra leggerezza, doveva aver accennata la cosa. «Ad onta delle aggravanti» aveva detto a lui l'applicato. E quali, le circostanze aggravanti, se non erano quelle? Ma allora, perchè il perdono a lui, e agli altri la persecuzione, fors'anco il processo e la pena?
Gino Malatesti arrivò a Sassuolo in uno stato veramente compassionevole. E partendo dalle Vaie credeva di aver bevuto tutto il suo calice di amarezza, il poveretto! I terrori stillati nell'anima sua da un umile impiegato, che pur credeva dargli un avviso salutare, lo avevano quasi impietrito.
Un servitore di casa sua, ma non il fido Giuseppe, era in vedetta all'entrata del paese. Veduta la carrozza, si fece innanzi, riconobbe il conte Gino, e gli annunziò la presenza del padre. Poteva dunque smontare, ed egli lo avrebbe accompagnato. Gino seguì macchinalmente il messaggero, entrò in una casa senza domandar di chi fosse, e salita una scala, ed entrato in un salotto grande vuoto e freddo come son quasi sempre i salotti dei palazzi di campagna, si trovò al cospetto (bisogna proprio adoperare la classica parola) del conte Jacopo Malatesti. Avrebbe dovuto salutarlo con effusione di affetto, buttarsi magari a' suoi piedi ed abbracciargli le ginocchia, come un figlio pentito; ma questo, che non avrebbe fatto mai, poichè non aveva da pentirsi di nulla, non gli passò neanche per l'anima. Mormorò appena una parola, e porse la guancia, come se la separazione fosse stata di due giorni e si trattasse soltanto di un amplesso di cerimonia.
Fortunatamente il conte Jacopo non era molto espansivo per indole, e faceva le sue dimostrazioni d'affetto con una grazia riguardosa, piuttosto destinata a salvar le apparenze, che rispondente ad un bisogno del suo cuore paterno. Il signor conte non era venuto senza un perchè ad aspettare il figlio a Sassuolo. Voleva aver tempo e libertà di fare una lavata di testa, ma coi fiocchi, e lontano dalla famiglia, la cui presenza gli avrebbe tolta l'occasione, scemata la gravità della cosa. A Sassuolo, poi, era smontato in casa di un vecchio amico suo, il barone Pradini. Il palazzo era grande, e aveva un quartierino appartato per gli ospiti; luogo adatto se altro fu mai ad ogni libertà, ad ogni severità di discorso.
L'incontro, adunque, fu freddo e cerimonioso che nulla più. Gino, d'altra parte, era come smemorato; non vedeva, non intendeva niente di ciò che gli stava dintorno, o che gli toccava di fare. Desiderava la presenza di Giuseppe, il nostro povero Gino; ma Giuseppe non c'era, ed egli doveva starsene con l'anima in soprassalto fino a Modena, che era come dire fino al giorno seguente. E peggio ancora quella fermata a Sassuolo, che non il viaggio di Fiumalbo fin là; poichè nelle ore passate in vettura aveva smaniato da solo, in piena libertà, mentre da Sassuolo a Modena, con suo padre al fianco, doveva tenere un contegno rispettoso di figlio, e di figlio che ritorna a casa, perdonato sì dal governo, ma non ancora, nè forse mai intieramente, dal capo della famiglia.
Infatti, egli aveva ferito quel padre nel più vivo dell'esser suo, in quella fedeltà che casa Malatesti si vantava di aver mantenuta, anche in tempi difficili, al governo legittimo. Ciò che Gino aveva fatto per meritare i primi rigori dell'augusto padrone, non era solamente una offesa al suo blasone, ma anche uno scandalo enorme, e suo padre non aveva tralasciato di dirglielo, là, nella camera di giustizia, al cospetto di tutta la famiglia radunata, poco prima che il giovanotto partisse per il suo luogo di pena. Scialacquare il fatto suo in feste, amori, cavalli ed altre pazzie di gioventù, sarebbe stato minor male; alla peggio, poteva rimanere senza il becco di un quattrino, alla morte di suo padre, e i fratelli gli avrebbero fatto un piccolo assegno, se pure non gli fosse bastata la sua paga d'ufficiale nell'esercito austriaco. Parecchi giovani di grandi famiglie italiane avevano già preso servizio in Austria, ed erano arrivati agli altissimi gradi della milizia, dando anche il loro nome ad intieri reggimenti. A tutto, dunque, ci sarebbe stato rimedio. Ma essere un liberale, lui, il figlio di quel gentiluomo che non aveva voluto riconoscere il governo dei ribelli, nel Quarantotto, cioè nel tempo di tante follìe, per cui tante deboli teste si erano smarrite, che orrore, che abominio inaudito!
Il conte Jacopo, per darvi un'idea del personaggio, anche fisicamente considerato, era vecchio, ma d'una vecchiezza ancor verde e non senza pretese. Rapato la testa, rase le guance, senza ombra di baffi sotto il naso, era una figura di cortigiano del buon tempo, in cui si era dovuto rinunziare alla parrucca incipriata, ma si protestava sempre (molto innocentemente, per verità) contro le basette, le zazzere ed altri arruffamenti di peli dell'êra napoleonica. Pure, il suo po' di barba l'aveva portata anch'egli, e fino a pochi anni addietro: barba a ghirlanda, in forma di soggolo, come il marchese Baldovini. Ma egli aveva avuto il coraggio di sacrificare quell'avanzo di una vecchia moda, perchè la barba a ghirlanda distingueva allora, su tanti celebri personaggi del giorno, un certo ometto pericoloso, torinese di nascita, il quale aveva portata quella barba a rappresentare il Piemonte, anzi l'Italia (ahimè tempi calamitosi!) al Congresso di Parigi.
Eppure, credete a me, non c'era pericolo che i due uomini si rassomigliassero mai, neanche fisicamente. Il conte Jacopo era di membra asciutte, risecchito e duro come un santo della scuola Bisantina. Per altro, non ve lo immaginate diritto sulla persona. Forse lo era, ma non appariva punto, poichè egli teneva volentieri il collo rannicchiato nella cravatta, nascosto sotto il bavero del soprabito, come le testuggini usano nasconderlo sotto l'orlo della loro scatola ossea. Certi diplomatici camminano così per vezzo; ma sicuramente hanno imparato da qualche ciambellano come il conte Malatesti. Quel collo rannicchiato dà alla faccia sporgente un'aria curiosa, in cui si vedono riuniti, ma non fusi, due opposti sentimenti, due espressioni, due atti, la riverenza e la familiarità. Si potrebbe dire che quella è la faccia, anzi la maschera, dell'ossequio confidenziale; maschera carnevalesca, che ha per i superiori un sorriso compiacente, per gli eguali una bonarietà amena, per gl'inferiori una rigidezza sarcastica.
Gino doveva trovare quest'ultima espressione sul volto di suo padre. L'uguaglianza che un vicendevole affetto ispira così naturalmente nella intimità della famiglia, non era mai esistita tra lui e il conte Jacopo; ma per quella volta la distinzione era anche più spiccata del solito. Gino era trattato da inferiore, da inferiore che ha fallito e che merita un castigo. Pure, non lo aveva già avuto, il castigo, in tre mesi di confine? E la riprensione paterna non l'aveva già avuta, prima di partire da Modena, alla presenza di tutti, nella gran camera di giustizia del palazzo Malatesti? Ahimè, la faccia del ciambellano era più dura che mai, e Gino aveva un presentimento che quella maschera gli serbasse ancora di peggio.
Per un paio d'ore il nostro giovinotto ebbe tregua. Era presente il padrone di casa, e le leggi della ospitalità passavano avanti a tutte le collere. Ma come il padre ed il figlio furono soli nel loro quartierino appartato, il conte Jacopo, scambio di ritirarsi nella sua camera, si rivolse a Gino e gli disse, con aria tranquilla, ma con accento severo:
—Sedete, e parliamo d'affari.
—Ci siamo!—pensò Gino, tremando.
E sedette, sopra una seggiola, accanto allo specchio del salotto, mentre suo padre prendeva posto sopra un canapè, con la dignità di un giudice antico.
—Vi ascolto, padre mio;—disse Gino, sperando di disarmare la severità del conte Jacopo con la sommessione delle parole e degli atti.
Il conte Jacopo incominciò pacato, anzi freddo, con una lentezza che prometteva un lungo discorso.
—Sua Altezza Serenissima si è degnata di cedere alle mie preghiere, e ciò per riguardo all'onore della nostra casa, che fu fedelissima ai Lorena, come era sempre stata agli Estensi. Ha ceduto, dico, alle preghiere di un padre, sebbene il momento fosse inopportuno alla clemenza, e piuttosto adatto ad un raddoppiamento di rigore.—
Gino capiva poco la distinzione; ma il suo pensiero corse naturalmente a quelle parole oscure che gli aveva detto l'applicato di polizia: «Se ha amici potenti a Modena, com'è dimostrato dalla grazia ch'Ella ha ottenuta, ad onta di certe aggravanti, non perda un minuto a scongiurarla.» Ad onta di certe aggravanti! Quali erano, le circostanze aggravanti, a cui alludeva l'applicato? Qualunque fossero, le commentava allora la frase di suo padre: «momento inopportuno alla clemenza…. piuttosto adatto ad un raddoppiamento di rigore.»
Intanto il conte Jacopo proseguiva il discorso:
—I tempi son guasti e certi animi son diventati incorreggibili con un regime di bontà; è necessario dare esempi salutari, esempi di severità, perchè non avvenga di peggio. Ma a questo provvederà la vigilanza del governo. Per quello che risguarda la mia casa, provvederò io senza fallo. Vi ho scritto l'altro dì, e voglio sperare che non ritornerete a Modena per fare quel che avete fatto finora. Perchè, badate bene, se io, fidando troppo nella vostra lealtà, ho potuto lasciar correre qualche leggerezza giovanile, oggi, avvertito dall'esperienza, non son più disposto a chiuder gli occhi sui vostri diportamenti. Ottenendo una grazia insigne da Sua Altezza, ho assunto un impegno, a cui non verrò meno. Messo in sospetto dal passato, dovrò raddoppiare la mia vigilanza, e pensare in tempo ai rimedi. Ne convenite?—
Era una domanda formale, o una figura rettorica? Il conte Jacopo si era fermato, e Gino pensò che bisognasse rispondere.
—Non so che vogliate dire, padre mio. Io non ho nulla che mi rimorda, che mi punga la coscienza, da far riconoscere necessaria la vostra severità.
—Lo so;—disse il conte Jacopo, tentennando la testa.—Voi siete impenitente.
—Ma in che, padre mio? Voi mi avete accusato di leggerezza, per certi discorsi…. che mi valsero una condanna. Su ciò non discuto. Ebbi la pena e non debbo dir altro. Questo vi posso promettere, da figlio rispettoso, e consapevole dei vostri impegni paterni, che io vivrò d'ora in poi nel più prudente riserbo, e tutto intento ai miei studi. Volete che io mi chiuda nelle mie camere, che io non veda più nessuno? Lo farò volentieri.
—Non vi domando un simile sacrifizio.
—Non sarà tale per me; sono avvezzo alla solitudine, oramai.
—Sì, anche troppo;—disse il conte Jacopo, con un accento sarcastico.—E nessuna lettera vostra, delle rarissime che ci avete scritte, accennava al rammarico di non essere in luogo più popolato. Ma basti di ciò, per ora. Voi dovete mutare il vostro tenore di vita. E per farvelo mutar bene, in modo che convenga a me, ho risoluto di ammogliarvi.
—Ammogliarmi?—gridò Gino.—Ammogliarmi?
—Sicuramente. Avete venticinque anni suonati, e mi par suonata anche l'ora da ciò.
—E sia;—disse Gino, pensando che alla fin fine il terribile decreto di suo padre non poteva avere esecuzione da un giorno all'altro.—Ma in questo almeno vi piacerà di consultare il mio desiderio?—
Il conte Jacopo diede a suo figlio un'occhiata, che parve volesse passarlo fuor fuori. Poi, molto tranquillamente, e quasi pesando le parole ad una ad una, rispose:
—Certamente, poichè il vostro desiderio non potrà essere disforme dalle tradizioni e dagl'interessi della casa Malatesti. Almeno nelle alleanze,—soggiunse il vecchio, rendendo a Gino la pariglia del suo avverbio puntiglioso,—almeno nelle alleanze vorrete conservare quella dignità che non vi è piaciuta in materia d'opinioni politiche.—
Gino non ebbe il coraggio di fiatare. E il vecchio proseguì, mutando il tono grave nel sarcastico:
—Del resto, non dubitate. Io non sono un padre di palcoscenico, che voglia rendere infelice il protagonista sentimentale a cui ha dato la vita per volontà dell'autore. Sono un padre vero ed umano, un po' rigido, se volete, ma per debito di onestà, per rispetto a tante generazioni di galantuomini che lo hanno preceduto, che deve considerare le convenienze della famiglia, aver occhio alle sue condizioni economiche, e le une e le altre, insieme con le proposte che possono rampollarne, vuol sottoporre alla vostra alta approvazione. Avrete dunque il diritto di scegliere, non dimenticando che Malatesti siete nato, con mille anni di nobiltà accertata e riconosciuta, che vostra madre è una Pallavicina, con altrettanti, e che dovete qualche cosa a questo sangue; almeno almeno,—e qui il vecchio battè ancora sull'avverbio,—di non fallire alle consuetudini.
—Ah!—mormorò Gino, che si sentiva perduto. Ma il vecchio Malatesti non mostrò di dargli retta, se non per piantar meglio il dardo nella ferita.
—Avete dunque capito, mi pare;—riprese egli, implacato.—Ho fatte le mie indagini, ho meditato su tutti i partiti che potevano offrirsi, e per venir subito alla migliore delle proposte, a quella che raccoglie in sè tutte le condizioni di sangue, di ricchezza, di educazione, ed anche di bellezza (poichè questa non va dimenticata, quando c'è) ho pensato che convenisse molto a voi la figliuola del mio amico Baldovini.—
Andava per le spicce, il conte Jacopo, e bisognava rendergli questa giustizia, che non voleva far soffrire troppo a lungo suo figlio, per l'incertezza del modo in cui doveva essere finito. Il povero Gino ebbe un tremito nervoso, e gli si offuscò la vista, all'udire quel nome. Ma vide allora, come in una nube, la lettera del suo grande amico Emilio Landi, in cui era magnificata, levata a cielo, la bellezza della giovane Baldovini.
—Come?—balbettò egli.—Una bambina!…
—Ha diciott'anni;—ribattè il conte Jacopo.—Lo so da suo padre, e non me lo ha negato sua madre. Voi non l'avete guardata molto attentamente…. Parlo della figliuola, si capisce!—soggiunse il vecchio, non sapendo rinunziare all'occasione di lanciare un bel frizzo.—Non l'avete guardata molto attentamente; ma vi consiglio di farlo fin da domani, quando andrete a visitar la marchesa.
—Oh, padre mio!—esclamò Gino, trascurando l'ironia e non vedendo che l'orrore della cosa;—con tutto il rispetto…. con tutta l'obbedienza che vi devo, non ci andrò.
—Non ci andrete? E perchè, se è lecito domandarvelo?
—Perchè… perchè…. Voi non mi costringerete a dirlo. Ma un'alleanza con quella casa….
—C'eravate così intimo!
—Ebbene, per quella medesima intimità….
—Ragazzate!—sentenziò il conte Jacopo.
—Ma il mondo, padre mio….
—Il mondo vedrà nel fatto d'oggi la più bella, la più categorica, la più solenne smentita a tutte le sue ciarle di ieri. Se pure,—soggiunse filosoficamente il vecchio Malatesti,—se pure il mondo si ricorderà di averne fatte, fino a tre mesi fa. Non mettiamo dunque fuori di queste scuse; non mostriamo di volerci attaccare a' rasoi. Infine, volete voi che io dica al mio vecchio amico Baldovini le ragioni, gli scrupoli, per cui ricusereste la mano ch'egli ci offre? Perchè egli ce l'offre, capite? egli in persona; e la marchesa Polissena approva un'idea, che ella medesima ha ispirata al marito. Voi sapete che il Baldovini non fa nulla senza sua moglie.—
Un interlocutore che avesse amato il frizzo come lo amava il vecchio
Malatesti, avrebbe colta a volo l'occasione per dire che la moglie non
gli ricambiava la cortesia. Ma il nostro Gino pensava a tutt'altro.
Egli rivide in nube la lettera di Emilio Landi e fremette.
—Mi sarei dunque ingannato?—pensò.—Quella lettera sarebbe stata scritta… sotto la dettatura di lei?—
Si poteva fare molto cammino su quella traccia che il caso metteva dinanzi alla immaginazione di Gino. Ma egli doveva difendersi dalle incalzanti argomentazioni di suo padre.
—Ma che significa tutto questo amore così tardo dei signori Baldovini per me?—domandò egli, scuotendosi, e mostrando un rancore che non sentiva in cuor suo.—Mi hanno almeno dimostrato un po' d'amicizia nella sventura che mi era venuta addosso?
—Vi potrei rispondere che questo disegno d'alleanza ne è una luminosissima prova, e certamente più seria di una lettera di condoglianza;—rispose il vecchio Malatesti.—Ma io posso dirvi ben altro. Sappiate che la marchesa Polissena si è unita, alleata a me, nelle pratiche occorrenti per il vostro perdono. Ella ha disposto a favor vostro il ministro, che non è mio amico, sebbene mi tratti sempre con tante cerimonie. Forte di questo appoggio, io non mi sono inginocchiato inutilmente a Sua Altezza.
—Con mille anni di storia!—osò dire Gino Malatesti.
Il vecchio conte saltò dal cuscino del canapè, come se lo avesse spinto una molla.
—Che intendete di dire, malcreato?—gridò egli inviperito per la tracotanza del figlio.
—Che per me, padre mio, non dovevate inginocchiarvi davanti a nessuno, foss'anche un duca della casa di Lorena, tanto più recente della vostra.—
Il conte Jacopo volse in giro un'occhiata sospettosa; poi, come non fosse ancora ben certo, andò verso l'uscio, lo aperse e guardò nell'anticamera. Finalmente, richiuso l'uscio dietro di sè, ritornò verso il figliuolo, che era rimasto là, non sapendo che pensare di quella scena, e gli disse a mezza voce, ma con intensità tanto maggiore di accento:
—Sciocco! Imparate qualche cosa della vita anche voi. I duchi e i re non sono opera nostra; li fanno le circostanze, i tempi, la concatenazione degli eventi, e più di tutto le follìe dei popoli. Se non fossero state queste follìe, i Malatesti avrebbero ancora uno Stato, come lo avrebbero i Pallavicini, donde pur discendete, per vostra madre. I rivolgimenti politici hanno spogliate le nostre famiglie, ci hanno dispersi qua e là, nelle corti di più fortunati signori. Ed eravamo duchi di Ravenna nel 752, ricordatelo; duchi di Ravenna, e non per diritto longobardico, ma per avanzo di potestà romana; poi fummo signori di Rimini, di Pesaro, di Fossombrone, di Fano, di Cesena, di Cervia; padroni della Marca, insomma, assai prima che si parlasse di casa Borgia nel mondo. So la mia parte di storia, e dovreste saperla anche voi. Dovreste sapere altresì che i Malatesti, perduti gli antichi dominii, ridotti allo stato di semplici gentiluomini, hanno almeno serbati i loro privilegi, quei privilegi di cui fate alle volte così poca stima, e che pure vi servono tanto, eleganti fannulloni, per correre di qua e di là, onorati da per tutto, inchinati dal volgo alto e basso. Voi giovani vi date bel tempo, sfruttando l'economia e la previdenza dei vostri maggiori; noi frattanto, padri non degeneri dagli avi, dobbiamo pensare a mantenervi lo stato, a procacciarvi le alleanze che guarentiscano ai vostri figliuoli l'agiatezza e gli onori del grado. Pensate che ho tre figli, io, e in tre parti andrà divisa la mia sostanza, niente più larga di quella d'un modesto banchiere.
—Se non è che questo,—disse Gino, appena un sospiro del conte Jacopo gli permise di collocare una frase nel discorso,—ci sono sul Modenese altre ricchezze e maggiori di quelle che può darci un'alleanza coi Baldovini.
—Ci verremo, alle maggiori, ci verremo;—rispose il conte Jacopo.—Ma i Baldovini non hanno solamente ricchezze; hanno credito. La marchesa Polissena è potente a Corte. Non ho dovuto sperimentarlo io? Soltanto dopo che la marchesa è entrata in lizza, allora soltanto, ho potuto esservi utile, ottenere il vostro perdono da Sua Altezza, io, ciambellano antico, io più fedele alla casa del Duca, nei giorni della sventura, che non fossero tanti nobili di più fresca data, compresi gli stessi Baldovini. Pensate a questo, Gino, e finiamola con le vostre ripugnanze inesplicabili.
—Inesplicabili! Vi piace di chiamarle così;—mormorò Gino.—Ma io non vi ho detto ancora tutto.
—Parlate, allora. Siamo qui per dirci ogni cosa. Appunto per questo ho voluto venirvi incontro a Sassuolo.
—Ebbene, padre mio…. Se non fossi io l'uomo più adatto a far felice la giovane Baldovini…. Se ella amasse già un altro….
—E chi, di grazia?
—Il marchese Landi.
—Come lo sapete?
—Ho una sua lettera, in cui non fa che parlarmi della marchesina, dei suoi vezzi, dei suoi trionfi di società. È una lettera di un innamorato.
—Come v'ingannate!—esclamò il conte Jacopo.—Emilio Landi è uno dei vostri…. Via! mi fareste dire delle cose….
—Ditele, padre mio; non vi trattenete per me.
—Ebbene, sì, uno dei vostri successori;—replicò il vecchio
Malatesti, compiendo la frase.
—Me ne rallegro con la marchesa;—disse Gino, che vedeva così confermato un suo recente sospetto.—Ma ecco una ragione che dovrebbe rendermi molto penoso il rimetter piede in quella casa.
—Sciocchezze, ve l'ho già detto una volta.
—E siano pur tali;—ribattè Gino.—Ma anche di queste si vive. Ora, io non sposerò mai la figlia dei Baldovino Non posso…—soggiunse, alzando la voce, per darsi in quel modo un po' d'energia.—Non posso, non devo, non voglio.—
Il conte Jacopo si morse le labbra, vedendo così sfidata la sua autorità paterna.
—Ecco un discorso che stona con la vostra condizione rispetto alla mia;—diss'egli, dopo un istante di pausa.—Che voi possiate e dobbiate, mi sembra di averlo dimostrato abbastanza, nè intendo di spenderci altre parole. Che voi non vogliate… è ciò che vedremo. Badate bene, Gino! Potrei anche diseredarvi.
—Ma non togliermi la vostra stima, padre mio;—replicò il giovane, animandosi.—Questa mi è cara assai più delle vostre sostanze. Ascoltatemi, ve ne supplico, e poi giudicate.
—Non ho fatto altro finora;—disse il vecchio Malatesti.—Ma poichè avete ancora qualche novità in serbo, son qua per ascoltarvi.—
Così dicendo, si ricompose sul sedile e stette in atto di giudice ad udire il figliuolo.
Gino, ridotto agli estremi delle sue difese, fece uno sforzo violento e svelò tutto il suo cuore. Tanto avrebbe dovuto farla, un giorno o l'altro, la sua confessione generale; e meglio allora che poi. Narrò come fosse giunto a Fiumalbo, per recarsi a confine in Querciola; come avesse conosciuti i Guerri e ricevute le dimostrazioni più affettuose, le prove di una ospitalità che doveva essere ricordata con gratitudine, non solamente da lui, ma da tutti i Malatesti. In quella casa aveva conosciuto un angelo di bellezza e di bontà; la sua virtù, la sua educazione, avrebbero innamorato il conte Jacopo, come avevano innamorato suo figlio. Bisognava vederla, bisognava conoscerla, quella divina fanciulla. I Guerri, poi, erano ricchi…. Egli si vergognava, in verità, di dover mettere in conto queste cose; ma infine, se potevano persuadere suo padre, erano argomenti non ispregevoli, perchè i Guerri erano infatti ricchissimi, e conosciuti per tutto l'alto Modenese come i re della montagna.
Il conte Jacopo era rimasto ad ascoltarlo, taciturno, immobile, senza batter palpebra, e Gino sperò di essere stato eloquente. Alla fine, il vecchio Malatesti parlò.
—Re! Un bel titolo, non lo nego, e val più che marchese. Ma son nobili, questi re?
—Padre mio! Vi assicuro….
—Tacete! Una sciocca passione vi farà anche trovare una genealogia ed uno stemma per la vostra Dulcinèa. Avete infatti qualche cosa di Don Chisciotte nell'anima. Il sentimento della cavalleria, senza dubbio, e la propensione alle avventure agresti. È una ubbriacatura come un'altra. Non vi mancherà più altro che di giudicar la montagna più abitabile della pianura, e la società dei taglialegna preferibile a quella delle persone educate. Non mi dite più nulla. Vi ho ascoltato con pazienza, per vedere fin dove giungesse la vostra follìa, e riconosco che era tempo di richiamarvi a casa, perchè avreste fatto qualche ragazzata irrimediabile, dopo tutte le altre… che costeranno care, ve ne avverto, assai care ai vostri ospiti.
—Care!—esclamò Gino atterrito.—Spiegatevi, in nome di Dio! È un obbligo d'onore per voi.
—Che cosa?—ribattè alteramente il vecchio Malatesti.—Vi verrebbe forse in mente di dare una lezione a me?
—Me ne guardi il cielo!—rispose Gino, tentando di disarmare suo padre con l'umiltà dell'accento.—Ma se i signori Guerri han da soffrire una persecuzione per colpa di un Malatesti, è il capo di questa famiglia che deve soccorrerli. E voi, dicendomi tutto….
—Vi dirò per ora che quella è la vostra camera;—interruppe il conte
Jacopo.—Andate a riposarvi, o a meditare su ciò che vi tocca. Forse,
anzi senza il forse, l'alleanza vostra coi Baldovini sarà più utile ai
Guerri che non l'altra, sognata da questi montanari con noi.—
Gino s'avvide che non c'era più nulla da rispondere, più nulla da ottenere. E non ribattè nemmeno, quantunque ne soffrisse acerbamente in cuor suo, l'offesa che si faceva in quel punto alla dignità de' suoi ospiti. Si ritirò, mormorando un saluto, mentre il conte Jacopo si avviava dall'altro lato alla sua camera, duro, impettito, col collo rannicchiato e la maschera alta.
La triste notte di Gino Malatesti non si descrive. Furono pianti dirotti, furono disperazioni a cui non recò tregua neppure il sonno, poichè lo accompagnavano dolorose visioni. Gino sognò i Guerri in carcere, accusati di lesa maestà, e Fiordispina che tendeva a lui le braccia supplichevoli, implorando aiuto e protezione. A lui! Ma che poteva far egli? Andar là, dove non poteva mandarlo neanche un comando di suo padre? Ahimè, sì, bisognava risolversi. Gino Malatesti, avvilito come gli ultimi della sua stirpe, si umiliava davanti alle potenti sirene, come essi si erano umiliati davanti ai duchi, ai tiranni d'ogni specie. La bionda sirena lo attirava, lo involgeva tutto in uno di que' suoi sguardi luminosi, e accanto a lei, consigliere della viltà, sorrideva Emilio Landi.—Sì, devi risolverti; saremo tutti per i tuoi Guerri; una nostra parola farà cessare ogni persecuzione contro di loro. Che cosa si domanda a te? Un monosillabo.—E il salotto allora diventava una chiesa; e, Dio mi perdoni, il sofà della marchesa Polissena si tramutava in altare. Una fanciulla vestita di bianco, bellissima invero, ma non lei, non Fiordispina, era al fianco di Gino. Il sì era richiesto; il sì era profferito; ma gli aveva bruciate le labbra, ed egli balzava indietro, fremendo. Lode al cielo, non era stato che un sogno. Ma la realtà era forse più lieta?
Tristi, odiose necessità sociali! Il decoro di casa Malatesti voleva un sagrifizio da lui. Ah, il decoro di casa Malatesti, qual riso amaro gli chiamava alle labbra! Francava la spesa di mantenerlo, quel decoro, dopo che i suoi maggiori lo avevano trascinato nella polvere, sull'orma di tanti fortunati bricconi! Ma già, l'obbligo, la tradizione delle famiglie storiche!… Sì, storiche oramai nella debolezza, non potute rinsanguare neanche dall'errore di qualche passione colpevole, tanto agli evitati mali dell'eredità si sostituiscono vigorosi i pregiudizi, i costumi, i vizi dell'ambiente, nuove cause di decadenza, e più gravi!
Gino Malatesti la sentiva allora, l'oppressione dell'ambiente morale in cui era vissuto. Voleva uscirne, e la cappa di piombo si aggravava su lui, come la tetra vôlta del carcere Tulliano, sotto cui si era soffocati, assai prima di morire strozzati.
La luce del giorno lo colse, ancora tutto immerso e perduto in vani disegni. Il poveretto non sentì mai tanto come allora la inanità degli sforzi di un uomo, quando tutto congiura contro di lui. L'accortezza che prevede… l'abilità che riesce… tutte parole vuote di senso! L'uomo ha il suo fato. Unico rifugio la coscienza; unica libertà il soffrire.
La carrozza aspettava, e poco dopo, salutati i Pradini, si ripartiva per Modena. Il conte Jacopo era taciturno, ma calmo, come se nulla fosse avvenuto. La maschera si era rifatta umana, scegliendo per altro, fra tutte le espressioni possibili, quella del sorriso cortigiano. Era del resto l'espressione consueta del conte Jacopo, e Gino ne rimase ingannato.
—Padre mio,—osò dirgli, alle porte di Modena,—vi vedo più tranquillo… più buono con me…
—Sì,—rispose il conte Jacopo,—nella fiducia che sarete buono anche voi, e obbedirete a vostro padre.
—Ma…—balbettò Gino.
—Non c'è ma che tenga: obbedire è l'obbligo vostro, se volete riacquistare la benevolenza mia.
—Ve ne prego, ve ne scongiuro;—rispose Gino umilmente;—ditemi almeno dei signori Guerri…. Che pericolo li minaccia?
—La loro sorte non è in mia mano.
—E di chi?—
Il vecchio Malatesti non rispose direttamente alla domanda incalzante di suo figlio. Tentennò un poco la testa; poi lasciò cadere dall'alto, stanche e fredde, come una pioggia lenta d'autunno, queste poche parole:
—Vi ho già detto che io non ho nessun potere sul ministro. Fummo rivali nella grazia del principe, ed egli se ne ricorda.—
Poi sospirò, il conte Jacopo, ed aggiunse:
—Così si preparano, nella gelosia dei servitori, le cadute dei legittimi padroni.—
Ma queste filosofiche considerazioni non avevano che fare col triste caso di Gino Malatesti, e il nostro povero giovanotto lasciò cadere il discorso.
Oramai non aveva più speranza che in Giuseppe. Piccola speranza, in verità, poichè da quel fidato servitore non c'era da aspettarsi aiuto. Ma quel brav'uomo sapeva le cose appuntino, e il sapere ciò che si trama contro di noi, contro gli amici nostri è già un'arma nelle nostre mani, il principio e il fondamento di ogni difesa. Pochi minuti ancora, e lo avrebbe veduto, lo avrebbe interrogato, il suo fedel servitore. La carrozza era entrata in Modena, svoltava un angolo ben conosciuto, giungeva davanti al palazzo Malatesti, infilava il portone, per andarsi a fermare davanti alla scala padronale. Due servitori si presentarono allo sportello, ma uno di essi era il portiere, l'altro…. non era Giuseppe. Entrato in casa, Gino fu lungamente in balìa della famiglia, abbracciato, guardato, interrogato, poi nuovamente abbracciato, come sempre avviene in simili casi. Soltanto un'ora dopo gli fu concesso di ritirarsi nella sua camera, per darsi la ripulita necessaria e mettersi in arnesi di città.
Finalmente! Era nel suo nido. Come lo avrebbe veduto volentieri, in ogni altra occasione! Ma allora, con tutte quelle tristezze, con tutte quelle curiosità pungenti nell'anima, non guardò, non vide nulla. Cioè…. dico male; vide il campanello e suonò per chiamare il servitore.
E il servitore venne, ma non era Giuseppe.
—Ah, Silvestro, sei tu?—diss'egli, come per dissimulare sotto la cortesia del saluto un primo e naturalissimo gesto di dispiacere.—Puoi dirmi dov'è andato a ficcarsi il mio abito grigio! Sai? quello che ha i bottoni metallici.
—Illustrissimo, non ne so nulla;—rispose Silvestro.—Cercherò nell'armadio.
—Nell'armadio non c'è;—disse Gino.—In quei cassetti nemmeno.
Chiamami Giuseppe; egli forse ne saprà qualche cosa.—
Silvestro obbedì, e Gino respirò vedendolo andare così risolutamente. Aveva già incominciato a temere che gli avessero mandato via il suo fido Giuseppe.
Questi, da buon cospiratore, non si era mostrato molto premuroso, all'arrivo del padroncino, e infatti non era neanche venuto in anticamera. Bisognò andarlo a cercare nella camera di servizio, dove se ne stava tutto intento alle opere del suo ministero. Andò, chiamato, e fu felice d'incontrare per via il conte Jacopo, di esserne interrogato e di potergli rispondere:—vado dal signor conte Gino, che cerca un suo abito grigio e non lo trova.—
Le dimostrazioni furono brevi, tra Gino e il suo buon servitore. L'uscio della camera rimaneva aperto, qualcheduno poteva ad ogni momento passare di là. Ma fingendo di rovistare nei cassetti, aprendo e chiudendo via via un mobile o l'altro, per cercar sempre un abito grigio che era stato ritrovato alla bella prima, Giuseppe ebbe tempo e modo di dire al padroncino tutto ciò che più gl'importava di sapere.
Alla polizia ducale, forse venti giorni prima, era giunta notizia di una festa sulle rive di un lago, di discorsi pronunziati, di evviva all'Italia, di voti temerarii per la distruzione dell'ordine stabilito, di una piemontesata, insomma, come allora si diceva, riferendo ogni protesta, ogni dimostrazione di sentimenti patrii, alle mene, alle istigazioni dell'aborrito Piemonte. Capi di quel tentativo, di quel principio di ribellione, erano i Guerri, i ricchi padroni delle Vaie, nè da meno di loro si era mostrato un parroco, che aveva osato imporre ad una barca il nome scomunicato d'Italia. La cosa era enorme, tanto enorme, che a tutta prima non si voleva credere alle relazioni avute. Si erano chiesti nuovi particolari, e i nuovi particolari avevano confermati i primi, aggravandoli. L'autorità, grandemente turbata, vedeva necessario un castigo esemplare. Ma in quel frattempo il ministro di Stato aveva promesso di richiamare a Modena, prosciogliendolo dal confine, il giovane conte Malatesti; voleva mantenere la promessa fatta alla signora marchesa Baldovini. Perciò si era stabilito d'ignorare la parte avuta dal conte Gino in quella festa, non vedendoci al più che una nuova ragazzata; di richiamare a Modena il giovanotto, e, lui partito da Querciola, di aprire un'inchiesta sulla faccia del luogo, interrogando all'uopo tutti i famigli dei Guerri, e d'istruire un processo, se fosse stato del caso.
Gino fremette, udendo tutte quelle notizie, che gli dava a spizzico il suo fedel servitore.
—E la marchesa ha mano in tutto ciò?—chiese egli, come Giuseppe ebbe finito il racconto.
—Ha avuto mano nella liberazione di Vossignoria;—rispose il servitore;—è naturale che fosse istruita del resto. A proposito, non deve dimenticare che la signora marchesa mi ha mandato l'altro giorno a chiamare.
—E perchè?
—Ne giudichi Lei, illustrissimo. Mi ha chiesto se conoscevo i signori Guerri. «Tu hai accompagnato il tuo padrone a Querciola,—mi disse,—e ne saprai qualche cosa. Che gente è quella? Quanti sono in famiglia? Come vivono? Sento che ci hanno anche una bella ragazza. L'hai veduta?»—Io, scusi la mia indiscretezza, ho creduto subito ad un sentimento di gelosia. Ma non sapevo nulla di nulla, e mi fu facile dimostrarglielo, poichè avevo accompagnato Vossignoria fino a Pievepelago, e non potevo conoscere le persone ch'Ella aveva conosciute poi a Querciola, o nei dintorni di Querciola. Persuasa dalle mie risposte, la signora marchesa mi fece altre interrogazioni. Voleva sapere da me se Vossignoria mi avesse scritto qualche volta. Io stetti in guardia, e risposi di no. Non si sa mai, ho detto fra me. La signora marchesa è donna, e potrebbe un giorno o l'altro lasciarsi sfuggire un segreto che al mio padrone importasse di non veder propalato. Ho fatto male?
—No, hai fatto benissimo;—rispose Gino, abbracciandolo.—Va, buon
Giuseppe; parleremo meglio stasera.—
Ah, la signora marchesa voleva dunque conoscer tutto, per filo e per segno; sapere ciò che lo aveva trattenuto, ciò che gli aveva reso dolce il suo luogo di pena! Quella donna che per tanto tempo aveva mostrato di non darsi alcun pensiero dell'amico proscritto, quella donna che aveva lasciate senza risposta le sue lettere, che era passata da Fiumalbo, non curante di lui, superba, gloriosa di altre conquiste, quella donna aveva seguiti i suoi passi! Non già molto attentamente, nè giorno per giorno. Le sue erano notizie raccolte più tardi, e che ella cercava di completare, interrogando Giuseppe. Perciò allora soltanto ella si era ricordata dell'uomo che le aveva recata la lettera di Gino Malatesti!
La marchesa Polissena conosceva ancora l'episodio della fanciulla dei Guerri. Da chi poteva averlo risaputo? Dal ministro di Stato; era facile indovinarlo. Se la polizia ducale aveva avuto un referendario compiacente per la gita del Lago, niente di più facile e di più naturale che la relazione si fosse estesa dai particolari del fatto alle persone che ci avevano partecipato. E quali esagerazioni, in quel rapporto dello spione! Si parlava di discorsi, di evviva, di voti espressi per la caduta del governo ducale! Evidentemente il referendario non aveva cognizione diretta delle cose; scriveva d'udita, e le scarse notizie di un imprudente famiglio dei Guerri diventavano sotto quella penna assassina un vero atto di accusa. Non avviene sempre così, nell'esercizio di quel brutto mestiere? La spia vuol farsi un merito delle rivelazioni, e vi aggiunge sempre molto del suo.
Così il conte Gino ricomponeva nella sua mente ogni cosa, ricostruiva il fatto che doveva cagionargli tante angosce e tanti terrori. In quella ricostruzione mentale, vedeva anche il suo dolce segreto conosciuto dalla marchesa Polissena, fors'anche dal conte Jacopo, prima che egli fosse di ritorno a Modena, con la speranza di persuadere suo padre. Della marchesa, in ogni altro momento, gli sarebbe importato poco. Non era sicuramente la gelosia che la rendesse curiosa, ed egli oramai ne sapeva il contrario. Pure, mettendo da parte il sospetto della gelosia, il guaio non era che più grande per lui. Polissena, volendo dare la sua figliuola ad un Malatesti, conosceva il segreto di lui: e Gino e i Guerri, pur troppo, erano in balìa di quella donna, poichè ella conosceva il ministro e lo muoveva a sua posta. Come dubitare del poter suo, se ella aveva ottenuto il perdono di lui, proprio allora che per il rapporto della spia sarebbe stato il caso di aggravargli la pena?
Ma allora?… Il perdono per lui, e un'inchiesta per gli altri. Tutti i ragionamenti, tutte le meditazioni di Gino venivano a quel punto. E allora gli si affacciò alla mente quella figura di commissario, tutto dolce e carezzevole, che davanti a lui aveva nascoste le unghie e fatte le fusa. Forse a quell'ora, mentre Gino ricordava la faccia patibolare e gli atti umili del signor commissario, l'inchiesta contro i Guerri era già incominciata; il signor Francesco, il signor Orlando, il povero Don Pietro Toschi, Aminta, suo fratello Aminta, erano già stati chiamati alla presenza del Minosse ducale. E non potevano esser già incarcerati? Dio santo! Un brivido corse per tutti i nervi del povero Gino. Ma no, non era possibile che si giungesse di primo colpo fin là. Il commissario non aveva che un applicato con sè; niente sgherri, niente apparato di forze. Si trattava di una semplice visita, di qualche interrogatorio abilmente condotto, per sincerare i fatti, e non altro per allora, non altro. Il peggio, sicuramente, sarebbe venuto poi; fors'anche presto, fra due o tre giorni, quanti bastavano per andare e tornare. Comunque fosse, non c'era tempo da perdere.
Quella sera, il conte Gino Malatesti, che aveva mostrato a suo padre tanta ripugnanza contro le visite, il conte Gino Malatesti andò al palazzo Baldovini. Non era giorno di conversazione. Meglio così.
Capitolo XII.
Una inchiesta misteriosa.
Voi combattevate, o Gino, e la fanciulla dei Guerri pregava. Così, sui portali marmorei delle nostre città di Liguria, l'arte medievale ha raffigurato il virtuosissimo barone San Giorgio, che spinge il destriero a galoppo e calpesta il drago arrovesciato, ficcandogli la punta della sua lancia nella gola spalancata, mentre sul ciglio di un sasso una giovine principessa inginocchiata, a mani giunte, implora la vittoria del suo campione dalla clemenza di Dio.
Tra l'antica rappresentazione e il caso presente correvano per altro due differenze. Gino Malatesti non aveva ancora piantata la lancia nella gola del drago, e Fiordispina, anche pregando con tutto il fervore dell'anima sua, non aveva l'aria di guardare ad altro, come la principessa di Cappadocia. Fiordispina teneva gli occhi rivolti a Fiumalbo, a quella lunga fila di monti e colline che separavano il Cimone dalla pianura modenese. Di là aspettava oramai la luce degli occhi suoi, la vita del suo cuore: pregando il cielo, confidava anche nel suo Gino, e discacciava come indegni di lui, del suo carattere, della sua lealtà, i neri presentimenti che venivano ad assalirla.
Intanto a Fiumalbo s'incominciava a discorrere, a far castelli in aria, sulla presenza di quei due impiegati del governo ducale. Si era creduto a tutta prima che fossero due ingegneri, venuti a studiare per la costruzione di un ponte, già tante volte domandato e mai ottenuto, scambio di quello di legno che ogni piena un po' grossa abbatteva, e che i Guerri, buona gente, rifacevano sempre a spese loro. Il sindaco Cervarola, interrogato dagli anziani del paese, non diceva nè di sì nè di no; ma era molto pensieroso, il brav'uomo, più pensieroso del solito, e pareva che gli pesasse la carica. Al signor Aminta, che gli chiedeva anch'egli notizie, il signor sindaco aveva risposto:
—Che ne so io? Vogliono saper tante cose! Ora vi sembra che mirino di qua, ora sembra che guardino di là. Mi è passato per la testa che vogliano fare un censimento nuovo delle famiglie.
—Un censimento! Che diavolo? Ma se è stato fatto da poco!
—Che cosa ho da dirvi io?—Fors'anche un nuovo catasto. Vogliono poi tante cose! Chi è il tale, chi è il tal altro, che mestiere fa, dove abita, dove si può vederlo…. Ieri, per esempio, mi hanno domandato anche di Pellegrino Menghi, che è il vostro servitore, e di Lorenzo Tamaroni, il vostro caposquadra alle Serre.
—Due uomini,—borbottò il Guerri, facendo una spallata,—che non hanno niente a vedere con la giustizia.—
Così erano rimasti, sapendone meno di prima, e sospettando ogni cosa. Ma il giorno seguente nuove voci si sparsero in paese. I due ufficiali del governo andavano di qua e di là, prendendo lingua da tutti i casolari, chiedendo cose di nessun conto; per altro, qualcheduno era anche chiamato alla loro presenza, nelle stanze della casa comunale. Di che si fosse parlato non si poteva sapere, perchè i chiamati all'interrogatorio non volevano appagare la curiosità degli amici, e neanche delle loro famiglie. Avevano paura, e si eran cucita la bocca.
Altro che censimento! altro che catasto! C'era la ragion politica, lì sotto. Del resto, il signor Francesco Guerri conosceva i due personaggi per impiegati di polizia, ed era già troppo non aver capito alle prime che razza di commissione fosse la loro. Perciò il vecchio Guerri chiamò a sè Lorenzo Tamaroni e gli disse:
—Che è stato? Ti hanno interrogato ieri. Su che?—
Erano alla Serra, ma in luogo appartato, e nessuno degli uomini addetti al lavoro poteva udire il discorso. Lorenzo Tamaroni diede tuttavia un'occhiata sospettosa in giro; poi raccontò minutamente ogni cosa.
—Il signor sindaco mi ha fatto chiamare ieri mattina.—È per ordine del signor commissario, venuto da Modena;—mi ha detto subito, quando mi son presentato da lui. Infatti, poco dopo è capitato il signor commissario col suo aiutante; si son seduti tutt'e due alla tavola del sindaco, e quando siamo rimasti soli noi tre, mi han detto di sedere e di rispondere con sincerità a tutte le domande che mi avrebbero fatto. Uno domandava e l'altro scriveva.—E così? (mi ha detto il primo). Siamo al lavoro delle serre?—Sì, illustrissimo.—E si fatica molto?—Eh, sicuramente, non è un mestiere troppo comodo.—Guadagnerà molto, il vostro principale?—Non saprei.—Come? Non lo sapete?—Signor mio, che vuole? Faccio il boscaiuolo, io; si dà al tronco dell'albero fino a tanto che possa cascare con una spinta; si svetta, si scortica, e poi, giù nel gran solco, fino alla serra. Quando ce ne sono cinquecento ammucchiati, s'incomincia a voltargli l'acqua, che faccia lago, e ci possano galleggiar dentro; poi, quando se ne son fatti entrare tanti che bastino, si apre la cateratta, e via, che pare il diluvio. Ecco quello che faccio io, che facciamo tutti noi, illustrissimo; e quel che succeda del legname, quando lo abbiam perduto di vista, e i guadagni che può procurare al padrone, non è cosa che possiamo sapere noialtri.—A proposito d'acqua, siete andati un giorno a lanciare una barca in un lago?—Nel lago della Ninfa, sì, illustrissimo.—Ed era grossa?—Che! Un guscio di noce.—E perchè l'avete lanciata?—Per obbedire agli ordini dei nostri padroni.—Ma essi, che idea avevano?—Se ho bene inteso, quella di assicurarsi che non ci fosse un vortice nel mezzo del lago.—Benissimo; e si è anche fatto un po' di festa.—Capirà, illustrissimo, quando si è in tanti, e si è fatto un lungo viaggio….—Festa patriottica, con discorsi ed evviva; si è dato alla barca un bel nome….—Non so.—Come? Neanche questo sapete?—Signor mio, non lo so; forse dal posto in cui ero, non ho potuto sentirlo.—Ve lo dirò io, il nome d'Italia. Non vi piace forse?—Eh, gli è un nome come un altro.—E non sapete dunque chi abbia dato quel nome? Chi c'era, intorno alla barca? I signori Guerri, non è vero?—Come padroni, ci dovevano essere di sicuro.—E il prevosto Don Toschi?—Anche quello,—E il conte Malatesti?—Non so se si chiami così; ma un giovanotto che chiamavano il signor conte, l'ho veduto benissimo.—È forse lui che ha dato il nome alla barca?—Sarà, ma non posso giurarlo; Le ho già detto che ero distante, e non ho sentito nulla.—Dite piuttosto che siete duro d'orecchio, perchè eravate ben vicino, come caposquadra, al comando della manovra. Basta, andiamo avanti. E il conte Malatesti, come era amico coi vostri padroni?—Non lo so; non me l'han detto.—Voi non sapete mai nulla di nulla. Eppure, sentite, vi converrà parlare; è per utile vostro, se non volete aver guai.—
Qui Lorenzo Tamaroni fece una sosta, per introdurre nel dialogo una sua osservazione.
—Capirà, signor Francesco; non era un bel complimento che mi faceva il signor commissario. Ma io non mi sono perduto d'animo.—Son qui per dire tutto quello che vogliono (risposi) ma a patto che io lo sappia. Ora, dell'amicizia di questo signor conte coi miei padroni io ne ebbi la prima notizia quel giorno. Ho saputo che erano vicini di casa.—E il conte era sempre alle Vaie?—Non lo so.—Badate, Tamaroni, il tacere le circostanze che vi son note, il trincerarvi dentro i vostri eterni «non so» potrebbe costarvi caro.—Oh senta, illustrissimo; costi un po' quel che vuole; non mi si potrà far dire quello che non è alla mia cognizione. Sono da vent'anni al servizio dei signori Guerri, ma non ho altre occasioni di vederli che tra i boschi, dove passo le mie giornate.—Ma là, sul lago della Ninfa, dov'eravate tutti, che discorsi sono stati fatti? Che cosa diceva il signor Francesco Guerri?—Niente, stava a vedere.—E il prete? Non ha simulato di battezzare la barca?—Nossignore, ha dato una benedizione. Anche a me han benedetta la casa, quando i signori Guerri l'han fatta costruire, e non mi sembra che abbia fatto niente di diverso per la barca.—Qui—(soggiunse Lorenzo Tamaroni, ritornando alla forma narrativa)—il signor commissario si è volto all'aiutante, che scriveva sempre come un altro sant'Agostino, e gli ha detto sottovoce, ma in modo che potessi sentirlo ancor io:
—Questo è un merlo del becco giallo! Ora vedremo un po' gli altri. E, voltandosi a me, mi congedò con queste parole:
—Andate, Tamaroni; vi richiameremo, se ci occorrerà di saper altro da voi, di quello che non sapete.—Ed io andai, senza aspettare che me lo dicesse una seconda volta. A dirle il vero, signor padrone, mi pareva mill'anni.—
Il vecchio Guerri stette saldo davanti a tutti quei segni precursori di una grossa burrasca che minacciava di scaricarsi sulle Vaie. Non così saldo si mostrava il povero boscaiuolo, che amava i suoi padroni e aveva ragione di temere per essi.
—Ed ora, signor Francesco,—riprese egli,—che cosa succederà?
—Che vuol che succeda? Nulla.
—Dio voglia! Ma se mi chiamano ancora, come mi hanno minacciato di fare?…
—Se ti chiamano ancora, di' pure liberamente tutto quello che sai. Infine, tu non hai detto niente di meno, e non potevi dire niente di più. Discorsi sovversivi, brindisi, evviva, non se ne sono fatti. Io, poi, non so nemmeno chi abbia dato il nome alla barca. Vorrei essere stato io, per vantarmene.—
Il signor Francesco non diceva tutta la verità, in quel momento. Ricordava benissimo che il nome era stato dato da sua figlia e dal conte Gino; ma, come padre e come ospite, non voleva che il boscaiuolo lo dicesse, in un secondo interrogatorio.
—Del resto,—soggiunse il vecchio Guerri,—se domandano la cosa a me, non ho nessuna difficoltà a caricarmi la coscienza di questo peccato. Che cos'è l'Italia? Un'espressione geografica. Dando questa sua bella definizione, il principe di Metternich ha proferito la parola, e il principe di Metternich è uno dei loro. Dopo un così grande esemplare di ortodossìa politica, perchè non potremmo proferirla noi?
—È giusto;—rispose il boscaiuolo, che non conosceva il signor principe, ma che si sentiva istintivamente raffidato dalla confidenza con cui ne parlava il padrone;—si dice Italia come si direbbe un'altra cosa: Francia, Spagna, America, Portogallo…. ed altri paesi.—
La geografia di Lorenzo Tamaroni non andava niente più in là. Con quei quattro nomi aveva vuotato il sacco della sua erudizione. Ad un esame lo avrebbero bocciato di sicuro; ma il bravo boscaiuolo non era fortunatamente a quell'impegno, e quelle poche cognizioni bastavano alla sua felicità.
Congedato dal padrone, se ne ritornò sul lavoro. Il signor Francesco lo seguì poco dopo, tranquillo in apparenza, e tutto intento alla distribuzione delle acque nella serra. Ma quel giorno, dopo il pranzo, fu una gran conferenza nella casa dei Guerri, avendo il capo della famiglia creduto necessario di consigliarsi coi suoi. Fiordispina fu più addolorata di tutti, e la sua agitazione commosse il vecchio, che si studiò di calmarla, fingendo una sicurezza che non aveva nel cuore.
—Non temo per me;—disse la fanciulla.—Son donna, e poco mi posson fare. Temo per te, babbo; temo per voi uomini.
—Eh via, non esageriamo!—raccomandò il signor Francesco.—Ho detta la cosa, perchè era necessario avvertirvi tutti, e intenderci sulle risposte che daremo, se verranno ad interrogarci. Ma andiamo al fondo e guardiamo che c'è. Son venuti in due, come l'altra volta, ma per dare una buona notizia al conte Gino. L'occasione sarebbe stata scelta male, per annunziargli la sua grazia, se avessero avuto dei gravi sospetti. Fanno una piccola inchiesta, per uso, per amore dell'arte; ecco tutto.
—Ma porteranno la loro relazione a Modena;—osservò la fanciulla.
—Che relazione! Un pugno di mosche;—replicò il vecchio Guerri, facendo una spallata.
—Speriamolo;—disse Aminta.—Ma nel dubbio, bisognerà avvertire il conte Gino.
—Sì, bravi! perchè la lettera caschi in mano alla polizia del Duca.
—Possiamo mandarla per mezzo di un uomo sicuro. Pellegrino per esempio.—
La conferenza si fermò a questo punto. Pellegrino, in verità, era stato interrogato anche lui; ma non aveva avuto da dire niente più del Tamaroni. Pensando a tutti quegli interrogatorii, il signor Francesco capì che i suoi servitori e famigli erano tutti fedelissima gente. Da loro, per certo, non era partita l'accusa; probabilmente da qualche invidioso, da qualche nemico celato, come tutti ne hanno, e come potevano averne anche i re della montagna a Fiumalbo. Questa supposizione era avvalorata dal fatto che si accennava a discorsi non fatti, ad evviva non proferiti. L'accusatore non era dunque da cercare tra i presenti alla scena del Lago. Del resto, e si cascava sempre qui, se anche i famigli di casa Guerri si fossero sbilanciati nelle loro risposte al commissario, poco potevano aver detto, perchè poco c'era da dire, e tutto il guaio si restringeva ad un nome, al nome d'Italia, che era stato imposto ad un misero burchiello.
Don Pietro, che aveva sulla coscienza quell'altro peccato della benedizione, capitò quella sera all'ora solita. Non sapeva ancor nulla, lui; nè il commissario lo aveva chiamato al redde rationem.
—Curiosa inchiesta, che non si estende agli accusati!—disse il prete, com'ebbe udito ogni cosa.—Del resto, e quanto a me, so già quel che mi tocca: una chiamata in Curia e una solenne lavata di testa. Ma io potrò rispondere a Monsignore:—Non so ancora che il nome d'Italia sia scomunicato. Mi diano istruzioni, e starò all'obbedienza.—
Tutto ciò andava benissimo, ma non toglieva di mezzo le apprensioni. Ad accrescerle, anzi, venne poco dopo l'annunzio di una visita. Il signor commissario e il suo applicato, domandavano di essere ammessi a riverire i signori Guerri. A riverire, capite? Questo era il linguaggio ufficiale, la veste, la maschera del pensiero; ma bisognava vedere, che cosa ci fosse sotto.
I due visitatori furono ricevuti con calma solenne da tutta la famiglia riunita. Non si era re della montagna per nulla. Ed anche alla calma solenne si accompagnò una squisita cortesia.
—I nostri incarichi sono finiti;—disse il signor commissario, premendo al solito sulle parole;—non abbiamo voluto andarcene, senza una visita di congedo a lor signori.
—Come?—non potè trattenersi dal dire il vecchio Guerri.—Finiti così presto?
—Che vuole? Cose da nulla…. almeno, per quanto risguarda il tempo che si poteva mettere a sbrigarle.
—Ci duole,—disse il signor Francesco,—ci duole che se ne vadano senza accettar nulla da noi. Se avessimo saputo che la loro partenza era così imminente….
—Oh, grazie!—interruppe il commissario.—Non ci è neanche permesso di dare incomodo alle persone in mezzo a cui ci chiamano i nostri doveri d'ufficio. Il nostro ministero è delicatissimo, e ciò in compenso dell'essere qualche volta odioso.
—Che dice Ella mai?
—Oh, non dubiti, perchè la cosa è proprio così come ho l'onore di dirle;—rispose con un sospiro il commissario.—Siamo servitori fedeli, con l'obbligo di essere accorti, di vigilare, di sospettare, sì, anche di sospettare. Infine,—soggiunse egli, con un altro sospiro, ma che pareva di sollievo,—su noi riposa lo Stato, da noi dipende la sua tranquillità, la sua sicurezza interna, che è principio e fondamento della sicurezza esterna. Ci sono tante piccole cose, germi inavvertiti di malcontenti, che bisogna osservare! Dal trascurarli derivano i guai maggiori all'ordine stabilito. Principiis obsta, lo ha detto anche il poeta, sero medicina paratur.—
Nessuno osò più interrompere il signor commissario, che era montato sul pulpito e voleva far la sua predica, anche col testo latino, come avrebbe fatto Don Pietro.
—Una cosa è da raccomandare, anche a questi paesi più lontani dalla vigilanza e dall'azione del governo centrale;—proseguì il commissario.—Fiducia in lui, che è provvido, paterno, bene intenzionato. Abbiamo in esso il tipo, il modello, l'esemplare dei governi possibili. Pure, non mancano quelli a cui sembra di star male, e che si voltano di qua o di là, sperando meglio. Se si domandasse loro: «che cosa?» si troverebbero bene impacciati a rispondere. Le novità allettano gli spiriti deboli, ecco il guaio. Ma tante novità sognate, si vedrebbe che cosa sono, allo stringer dei conti: miseria e rovina per tutti, salvo per coloro che hanno interesse a pescare nel torbido. Qui, infine, si è felici, relativamente, lo capisco, come si può esser felici sulla terra. E infatti noi ci occupiamo della terra; è istituto del reverendo di parlarci del cielo.—
Don Pietro, così personalmente indicato, reputò necessario di far riverenza al predicatore. Questi frattanto proseguiva:
—La terra dà quel che può, e, aiutando l'avvedutezza dei proprietarii, dà tutto ciò che basta ai loro desiderii. Non è gravata da altre tasse fuor quello che servono a mantenere un'autorità, distributrice di sicurezza, di benefizii morali e materiali a tutto lo Stato. Non coscrizioni che defraudino i campi delle valide braccia e le famiglie dei loro sostegni. Non cure del domani, che se ne prende il carico momentoso un principe umano e prudente, vero padre dei sudditi. Sotto l'egida sua, sotto l'imperio delle provvide leggi, il piccolo commercio respira, le piccole industrie fioriscono, e fanno le fortune anche grosse. Questa verità palmare dovrebbero intenderla primi fra tutti i grandi proprietarii, scambio di sognar novità, di favorire idee sovversive. Perchè, poi, che cosa succede? Il padre è amoroso, è buono; ma viene il giorno che non vuol parerlo tre volte. Ammonisce con gli esempi; ma se gli esempi non servono, mette mano ai castighi. Non le pare?
—Fa il dover suo;—rispose il signor Francesco, a cui era rivolta la domanda.
—Ho piacere che in questo Ella sia del nostro avviso. Lo sia in tutto, e sarà grande vantaggio per tutti. Umili servitori dello Stato, e ignari delle conseguenze che può portare l'opera nostra, non possiamo rassicurare, nè promettere; c'è una gerarchia, e noi siamo ai più bassi gradini. Solamente ci è dato di esprimere un modesto desiderio. Ella, signor Guerri, per consenso di tutti, è il primo proprietario e per conseguenza l'uomo più autorevole di questa regione, i cui semplici costumi ritraggono della antica convivenza patriarcale. Il suo ufficio potrebbe dunque esser quello di un Mentore, cioè di una guida amorevole, di un esempio sicuro per queste buone popolazioni, che il governo tien d'occhio, come ogni altra parte dello Stato. Ma l'ora è tarda;—conchiuse il commissario, parendogli di aver detto quanto bastava, e dando perciò la sbirciata d'uso al suo orologio;—noi dobbiamo levar l'incomodo a questa bella riunione, dolenti di avere interrotte le sue occupazioni.
—Una partita di briscola chiacchierina;—disse il signor Francesco, sorridendo;—e non ancora incominciata, com'Ella ha potuto vedere. I nostri ossequii, signor commissario, ed anche i nostri augurii migliori per il suo prospero viaggio.—
Il signor commissario se ne andò, seguito dal suo taciturno e malinconico aiutante. Povero signor commissario! Aveva egli predicato invano, che lo accomiatavano con una burletta? Tale non era la sua opinione, e la burletta gli pareva assai povera, certamente poco spontanea, non accompagnata da nessuna allegrezza di spirito.
—Ad ogni modo,—pensò egli, scendendo le scale,—te la daremo noi, la briscola chiacchierina. La tua gente ha chiacchierato poco, ma gli altri, che non dipendono da te, hanno detto quanto basta, per far onore alla mia commissione. Nei nostri quaderni c'è tanto da darvi noia per un pezzo.—
Ai soliloqui del commissario e alle sue legittime speranze di gratificazione, se non forse di un aumento di grado, rispondeva il colloquio dei rimasti.
—Ahi, ahi!—disse primo Don Pietro.—La lezione è stata dura.
—Infine,—rispose Aminta, poichè il vecchio Guerri taceva,—se ne vanno senza chiederci nulla.
—E questo è il male, figliuol mio;—replicò il vecchio prete.—La predica del commissario mi dice che non se ne vanno con le pive nel sacco. Questi signori hanno raccolto quanto bastava. Non volevano andarsene senza far l'atto di presentarsi. Certamente, potevano supporre che fosse giunta a voi altri qualche notizia dei loro interrogatorii, e in questa supposizione molto ragionevole non hanno potuto dispensarvi da qualche allusione. Mi par chiaro.
—È chiarissimo;—aggiunse il vecchio Guerri.—Ma che farebbe Lei, Don
Pietro?
—Cercherei di avvertir subito subito il conte Gino di ciò che si prepara. È una burrasca che potrebbe dar noia anche a lui.—
Pellegrino Menghi, famiglio di casa Guerri, partì quella medesima notte da Fiumalbo, conducendo a Modena un carico di legname. Erano bei tronchi d'acero, debitamente stagionati, che andavano ad uno stipettaio modenese, la cui commissione era stata ricordata in buon punto. Ora il bravo Pellegrino conduceva un carro; ma portava una lettera, nella gran buca della sua giacca di fustagno, ed anche un libricciuolo, per il conte Gino Malatesti. Quella lettera, scritta da Aminta Guerri, diceva poco o nulla; accompagnava un libro che il conte Gino aveva dimenticato alle Vaie, nell'ultima notte che era dormito lassù, e prendeva occasione da quell'invio per mandare all'amico, all'ospite gradito e caro, i saluti suoi e quelli di tutta la famiglia.
Il libro, che Gino Malatesti non aveva punto dimenticato, era stato scelto tra i più innocenti della libreria delle Vaie. Figuratevi che era il Novellino, in una piccola e modesta edizione di Parma. Non dava molto impaccio al portatore, e non c'era caso che gli si vedesse far grinze di fuori, al petto della giacca. Comunque, se avessero frugato Pellegrino alla porta, perchè tutto poteva darsi e bisognava prevedere ogni cosa, l'invio di quel libro innocente giustificava la innocentissima lettera. Pellegrino Menghi, arrivato alla presenza del conte, avrebbe detto l'essenziale a voce. Sapeva pure tutto ciò che importava di far conoscere al conte, poichè era un giovanotto intelligente, ed anche a lui era toccata la noia di un interrogatorio intorno alla famosa gita del lago.
Passarono i quattro giorni che Pellegrino doveva star lontano dalle Vaie, tra andata e ritorno. Ma il messaggero non comparve. Ne passò un altro, che fu il quinto, e i signori Guerri, non vedendo comparir Pellegrino, incominciarono a stare in pena, temendo che gli fosse accaduto qualche guaio. I timori si tramutavano quasi in certezza verso la fine del sesto giorno, quando il signor Aminta, che era andato in traccia del suo famiglio di là da Fiumalbo, riconobbe da lunge il carro vuoto che ritornava, e Pellegrino che gli veniva a passo lento daccosto.
—Ebbene?—gli domandò, muovendogli incontro.
—Eccomi qua, signor Aminta.
—Con due giorni di ritardo!
—Per forza!—rispose Pellegrino.—E col dispiacere di aver fatto un viaggio inutile.
—Come? Non hai veduto il signor Gino.
—Non l'ho veduto.
—Ed eri andato a bella posta!
—Che vuole?—ripigliò Pellegrino.—Appena giunto, e scaricato il legname, sono andato a cercare il palazzo Malatesti. Ho chiesto del signor conte Gino, e il portiere mi ha risposto brevemente: non c'è.—Mi rincresce, perchè dovevo consegnargli un involto.—Datelo a me, gli sarà ricapitato.—Non potevo ricusare, e cavai l'involto di tasca.—C'è un libro e una lettera;—dissi allora, consegnando l'involto a quell'uomo;—avvertite anche il signor conte che se ha comandi da darmi per i miei padroni, io sono per tutto questo giorno alla Rosa, fuori porta di San Francesco.—
—Bravissimo!—disse Aminta.—E allora come va che non hai veduto il conte?
—Ecco qua. Avevo appena finito, che il portiere mi rispose:—Sarà impossibile che vi mandi a dire qualche cosa, perchè non è in città.—Diamine!—esclamai.—Dov'è andato?—A Bologna, e non ritornerà che domani a sera, o doman l'altro.—Ringraziai, allora, e me ne tornai alla locanda, pensando che cosa avrei dovuto fare. Se ritorno alle Vaie, dissi fra me, il signor Aminta mi sgriderà, e giustamente, poichè m'aveva mandato perchè vedessi il signor conte. Così aspettai un altro giorno, sempre fermo alla locanda. Il giorno seguente non osai muovermi neanche; soltanto verso sera m'incamminai verso il palazzo Malatesti e giunto là mi presentai nuovamente al portiere.—Non ho potuto partire, in questi due giorni,—gli dissi,—e son venuto ancora a vedere se il signor conte Gino ha comandi da darmi.—Il conte Gino non è ancora ritornato.—C'è speranza che ritorni domattina?—Nè domattina, nè per parecchi giorni ancora; ha scritto che le sue faccende lo tratterranno dell'altro, forse una settimana, a Bologna.—
—Che faccende!—esclamò il signor Aminta.
—Non me ne ha detto nulla;—rispose Pellegrino, che aveva presa l'esclamazione per una domanda.—Ella capirà, signor Aminta, che io non me la sentivo di restare una settimana a Modena, lasciando Lei e il signor Francesco nell'incertezza. Perciò mi son risoluto di ritornare. Ma se vuole che io rifaccia la strada….
—No, non occorre, per ora. Al poi, penseremo più tardi.—
Quella sera in casa Guerri si seppe che il viaggio di Pellegrino era stato inutile, come l'espediente del libro e della lettera ond'era accompagnato. La cosa dispiacque molto anche a Don Pietro, che aveva avuta l'idea di quel viaggio. Non si parlò di briscola chiacchierina, ve lo assicuro; da parecchie sere non si pensava più a quei piccoli svaghi.
Capitolo XIII.
Il segreto di Pellegrino.
La mattina seguente, non senza meraviglia sua, Don Pietro si vide capitare in chiesa il famiglio dei Guerri.
—Che c'è?—gli domandò.—Vuoi confessarti?
—Eh, quasi!—rispose Pellegrino.—Son venuto a cercarla in chiesa, appunto per averne l'aria.
—Sentiamo dunque,—disse Don Pietro, tirando il giovanotto in uno stanzino accanto alla sagrestia, dov'era infatti un inginocchiatoio, con un seggiolone daccanto.—Se è una mezza confessione, qui nessuno ti ha da vedere, e puoi parlare liberamente, figliuol mio.
—Incomincio subito,—disse Pellegrino.—Ella saprà, almeno avrà potuto indovinare, che il signor conte Gino vedeva molto di buon occhio la mia padroncina.
—Non so, e non ho indovinato nulla;—rispose Don Pietro.—È questo che avevi da dirmi?
—Scusi, era necessario, per cominciare. A me era parso che fosse così. Ma se non c'era nulla tra loro due, tanto meglio.
—E perchè?
—Perchè, vede, ho avuto certe notizie, laggiù…. certe notizie che m'avevano già guastato il sangue. Ma se Lei mi assicura che non c'era niente fra il signor conte e la padroncina, io dormo tranquillo, e il signor conte può sposar chi gli pare.
—Che storia è questa?—gridò il prete, turbandosi.—Tu mi dirai ogni cosa. Come sai che il conte Malatesti si sposa?
—Eh, come lo sanno tanti altri, che lo hanno sentito laggiù, nella locanda della Rosa. Lei, deve sapere, Don Pietro, che io, aspettando un'occasione di vedere il conte Gino, avevo detto al suo portiere: rimarrò tutto questo giorno a Modena, e sono alloggiato alla Rosa, fuori porta San Francesco. Dunque, eccomi alla Rosa, non sapendo che fare. Lei indovina già quel che ho fatto: mi son seduto sopra una panca, e ho bevuto un bicchier di trebbiano. C'era della gente che mi ha offerto di giuocare una partita ai tressetti, ed ho fatto volentieri il quarto ai tressetti. Così mi è accaduto di far conoscenze e di barattar quattro ciarle coi miei compagni, gente di servizio come me. Uno di essi era nientemeno che sottocuoco in una casa di nobiloni.—«Ciriaco,—gli hanno detto ad un certo punto,—è dunque vero che la marchesina si marita?»—«E che cosa volete che facesse?—ha risposto lui.—Il suo giorno è venuto.»—E lì, di chiacchiera in chiacchiera, son venuto a sapere che lo sposo era il conte Malatesti. Non ho potuto trattenere la lingua, e ho domandato se si trattava proprio del conte Gino. Allora hanno domandato a me come lo conoscevo, ed io, facendo l'ignorante, ho risposto, che lo avevo incontrato una volta a Pievepelago.—«Ah, sicuro!—mi dissero.—Lo avrete veduto quando lo avevano mandato lassù in esilio. Ora gli hanno perdonato, e il signor conte, forse per mostrare che fa giudizio, si è risoluto di prender moglie.»—«E si farebbe giudizio tutti, a quelle condizioni!—soggiunse un altro.—Sposa la più bella ragazza di Modena.»—«Ah, sì? Ci ho gusto,—risposi,—perchè mi è parso un signore molto grazioso. E chi è la sposa, se è lecito?»—«La padroncina di Ciriaco, la marchesina Baldovini»—Eccole, Don Pietro, quello che seppi il primo giorno, mentre aspettavo che il conte Gino capitasse alla locanda, o mi mandasse a chiamare. Non vedendolo, e sperando che ritornasse da Bologna, dove mi dicevano che fosse andato, aspettai ancora due giorni; e questi li occupai, facendo amicizia con Ciriaco, passeggiando e trincando con lui. Mi ha confermato tutto, e mi ha detto anche tante altre cose, di questo matrimonio, delle relazioni che c'erano già tra il signor Gino e casa Baldovini, che ora si andrebbe troppo in lungo a volerle riferire. Signor prevosto,—conchiuse filosoficamente Pellegrino,—il conte Malatesti non si lasciò vedere; era sempre a Bologna, come mi disse la seconda volta il portiere, e in un modo da lasciarmi capire che potevo risparmiare la fatica di andarci una terza. Ma se anche fosse ritornato a Modena, mi par di capire che aveva ragioni tanto forti da non iscomodarsi con una gita alla locanda della Rosa.
—Questo è un giudizio temerario,—disse Don Pietro.—Non va bene dubitare così degli amici. Se era a Bologna!…
—Il primo giorno, sì, e infatti il portiere mi aveva detto graziosamente:—ritornerà stassera o domani.—Ma due giorni dopo, era un'altr'aria. Di sicuro aveva ricevuto l'imbeccata.
—Non dal conte Gino, allora.
—O da chi poteva averla ricevuta?
—Dalla famiglia, per esempio. Tutto ciò che mi hai raccontato non mi persuade ancora. Per credere che il conte Gino Malatesti si sia dimenticato affatto di noi, bisognerà che me lo confermino con giuramento almeno tre testimoni.
—Uno più dell'uso!—esclamò Pellegrino.—Ma si è egli degnato, appena giunto a casa, di scrivere due righe ai padroni? Conosco il suo carattere, per essere stato tre mesi con lui e aver portato i suoi biglietti ad Aminta, quando non si trattava d'altra distanza che quella da Querciola alle Vaie. Son io che vado a Fiumalbo per le lettere, e di suo non ho visto tanto così!
—È vero;—confessò malinconicamente Don Pietro.—Ma chi sa che cosa gli è accaduto, a quel povero ragazzo?
—Oh, non si è mica rotto il braccio destro,—ribattè Pellegrino.—Può viaggiare; potrà anche scrivere. Io, del resto, non c'entro.
—E dimmi,—riprese Don Pietro,—hai parlato di queste cose con nessuno?
—No, neanche col signor Aminta. Mi è sembrato di capire che avrebbero fatto dispiacere. Sa! per quel tal sospetto che avevo e che le ho detto in principio. Ma ora che so…
—Ora che sai,—interruppe Don Pietro,—devi tacere per tutto il resto che non sai. Tu hai fatto bene, tenendo subito le tue notizie per te; hai fatto bene,—soggiunse sospirando, come un uomo che non è ben persuaso di quel che dice,—hai fatto bene a confidarle a me, prima di farne uso con altri; puoi accettare il mio consiglio, che è quello d'aspettare un altro poco.
—Anche un mese, anche un anno;—disse Pellegrino.—Ella può viver tranquillo, che io non fiato. Son venuto da lei come da un confessore.
—Ma intendiamoci, veh!—rispose Don Pietro.—Non mi hai dette queste cose in confessione, e al bisogno potrò servirmi delle tue notizie.
—Lei è un uomo prudente; faccia come Le pare.
—Grazie, figliuol mio! Vattene ora alle tue faccende; io ritorno a casa per dir le mie ore.—
Ahimè, povero Don Pietro! Per quella mattina non lesse altrimenti il breviario, tanto era rimasto male, udendo tutte quelle novità dolorose.
Da principio, per dire il vero, non ci capiva nulla di nulla. Un colpo inatteso, una mazzata sulla testa, ha piuttosto per suo effetto di stordirvi il cervello, che non di muoverlo a cercare donde sia venuta la botta e perchè mai ve l'abbiano appioppata. Poi l'uomo percosso via via si ripiglia e pensa. Don Pietro adunque pensò; pensò prima di tutto a quel giovanotto, che si era come confessato a lui, accennandogli i suoi sospetti intorno alla visita del cugino Ruggero, e mise le notizie recate da Pellegrino a riscontro con quella faccia così aperta, con quel tratto così nobile, in cui egli aveva amato di riconoscere la congenita lealtà della stirpe. Siamo tutti così, pur troppo, ancora e sempre imbevuti d'antico, e facili a vedere nel sangue quella nobiltà che solamente dovrebbe esser frutto della educazione morale. I dotti parlano oggi più che mai di eredità; il popolo vi dice ancora che un tale non dirazza da' suoi vecchi, come se la razza ci avesse tutte le virtù teologali e cardinali, insieme con tutti i doni del Paracleto. E quando un gran signore vien meno a certe norme di gentilezza o di onestà, che credevamo intimamente collegate al suo nome, ci sfugge sempre l'esclamazione:—ed era nobile, costui!
Vera o falsa che fosse l'opinione delle genti, Don Pietro Toschi non aveva conosciuto di nobili che il conte Gino Malatesti, e da lui argomentava volentieri che fossero tutti fior di cavalieri, non senza ammettere, per omaggio naturalissimo all'esemplare, che il conte Gino fosse il più cavaliere di tutti. Inoltre, il vecchio prete conosceva Gino per un ardente innamorato, e non senza ragione così innamorato, non senza ragione così ardente. Fiordispina Guerri era bella, virtuosa, colta e gentile tanto, che non si sarebbe potuto desiderare di più. Avrebbe potuto diventar principessa o regina, senza che la cosa dovesse recar maraviglia a nessuno. Era anche ricca, forse più ricca che non fossero i Malatesti, e ciò poteva ricordarsi utilmente, in materia di nozze e di un consenso del padre di Gino. Finalmente, il giovanotto aveva pianto a calde lagrime, partendo dal luogo di pena; aveva abbracciato questo e quello, promesso, giurato…. E tutto ciò doveva finire con le notizie recate da Pellegrino? Era dunque vero, ciò che dice il proverbio: lontan dagli occhi lontano dal cuore? Già il signor conte aveva incominciato male, non scrivendo subito una lettera ai Guerri, appena giunto a Modena. Ma questa, sul principio, era parsa a Don Pietro la promessa di una bella novità.—Egli tace (pensava), ma poi ci capita alle Vaie con una domanda formale.—Questo pensiero, ahimè! era stato sopraffatto da un altro; le voci corse in paese di una inchiesta dei due ufficiali del governo ducale, la conferma di quelle voci per i discorsi del Tamaroni, le parole agrodolci del signor commissario, tutto concorreva a far dimenticare per un tratto le cagioni, buone o cattive che fossero, del silenzio di Gino Malatesti. Il vecchio prete ci pensava allora, dopo le riflessioni di Pellegrino, e a quelle riflessioni ne aggiungeva altre di sue, poichè in tutto quel tempo che Pellegrino era stato a Modena o in viaggio, il conte Gino aveva continuato a non dar segno di vita. Le prime notizie che si avevano di lui, era bisognato andarle a raccattare in città, fra le chiacchiere di alcuni servitori, in una volgare osteria di fuori porta. Ed erano belle notizie davvero! Il conte Gino era a Bologna… alla vigilia di sposare una marchesina Baldovini, celebrata come la più bella ragazza di Modena.
Immaginate con che animo andasse quella sera il vecchio prete alla conversazione dei Guerri; come soffrisse, vedendo quella fanciulla calma e pensosa, che non levava quasi mai la faccia dal suo ricamo; come gli dolesse di dover custodire il segreto, davanti alla gravità malinconica del signor Francesco, che di tanto in tanto rivolgeva occhiate amorose ma tristi a sua figlia. Ah, davvero, quel maledetto segreto pesava sulla coscienza a lui, candido e schietto alpigiano, che non aveva dovuto portar mai altro fardello morale, fuor quello, reso oramai leggiero dalla consuetudine, dei peccati della parrocchia.
Due giorni dopo, il povero Don Pietro non ne poteva già più. A farlo apposta, gli capitò Pellegrino tra' piedi.
—Ebbene, reverendo,—gli aveva detto il famiglio,—non è ancora venuto niente?
—Niente, e tu lo sai meglio di me;—rispondeva Don Pietro.—Non sei tu che vai per le lettere a Fiumalbo?
—Eh, dicevo bene per questo!—esclamò Pellegrino.
—Niente, nientissimo! È un trattare, scusi il termine, da veri birbanti. E con quella faccia, che pareva l'angelo Gabriele!
—Senti,—disse Don Pietro, rabbruscandosi,—non mescolar gli angeli col fango della terra!
—Oh, scusi, sa! Dicevo così per dire.
—E dicevi male. Hai piuttosto ragione quando dubiti. Io, per tua norma, non reggo più a mantenere il segreto, e se credi, ne avverto il signor Francesco.
—Gliel'ho già detto, faccia Lei;—rispose Pellegrino.—Anche a me dispiace che i padroni vivano ingannati, credendo quel signorino uno stinco di santo.
—Pellegrino!
—Ah, scusi ancora, reverendo! Sempre così per dire, e quando si ha il vizio….—
Don Pietro non istette a sentirne altro, e tirò via, col suo breviario fra le dita, per il sentiero della montagna. A quell'ora il signor Francesco Guerri doveva essere alla serra, e il vecchio prevosto deliberò di fare una passeggiata alla serra.
—Che buon vento?—gli disse il signor Francesco, andandogli incontro, appena lo vide comparire alla svolta del sentiero.
—Vento di tramontana;—rispose Don Pietro,—E dura da due giorni, e non mi lascia aver pace.
—Siete più tenero di me!—disse il signor Francesco, tentennando la testa.—Io non ho pace da un pezzo, eppure sto zitto.
—Ma non sapete tutto quel che so io, e che in questi due giorni mi ha già dato noia per cento;—replicò Don Pietro.—Venite qua, signor Francesco, facciamo due passi e vi dirò tutto. Mi parrà minor peso, e lo porteremo in due.—
Qui il vecchio prevosto riferì all'amico Guerri tutto ciò che aveva saputo da Pellegrino.
—Il vostro famiglio,—soggiunse poi,—venne da ragazzo prudente a confidarsi con me. Non lo sgridate, se ha taciuto con altri, poichè io medesimo glielo avevo ordinato. Del resto, pensate che tutte queste cose le avrebbe dette al vostro Aminta, e che Aminta, giovane com'è, anche un pochino impetuoso, non si sarebbe facilmente contenuto.
—Sì, ha fatto bene a tacere;—rispose il signor Francesco.—Del resto, io ho altro per il capo, che di sgridare Pellegrino. Penso sempre a quella relazione, io! Quanto al signor contino, c'era da immaginarselo, che le sue smanie dovessero finire così. Mio caro signor prevosto, se io dovessi dirvi ciò che credo di queste alleanze, ce n'avrei per tutta la giornata. A non guardare che la cosa in sè stessa, ci sarebbe da esser contenti di questo matrimonio che si prepara laggiù. Imparentarmi con nobili, non è mai stato di genio mio, e vi assicuro che non lo avrei fatto di buona voglia. Ma non vorrei ora che quel signorino di Parigi mi avesse stregata la mia figliuola!
—Oh, per questo, poi, non c'è da temere!—disse Don Pietro.—Fiordispina è una savia ragazza. Può darsi che lo vedesse di buon occhio, ma penserà anche lei al vecchio proverbio: chi non ci vuole non ci merita.
—Volesse il cielo che ragionasse così!—replicò il vecchio Guerri.—Voi siete il suo confessore, Don Pietro; esplorate il suo animo, consigliatela voi.
—Non credo che sia opportuno di farlo per ora.
—E perchè? Meglio oggi che domani.
—Sì, capisco, e meglio domani che doman l'altro. Ma sarà poi tutto vero, quello che hanno raccontato a Pellegrino? Non ci sarà ancora tempo e modo di disfare ciò che si è incominciato? Mi sembra ancora così strano che il conte Gino abbia cambiato opinione, e peggio ancora sentimenti ed affetti, nello spazio di una settimana!
—Dite pure che vi manca l'animo;—osservò il vecchio Guerri.
—E sia; mi manca l'animo;—rispose Don Pietro.—Amo meglio confessarlo schietto, che girare intorno alle difficoltà, col pretesto di studiarle meglio. Povera fanciulla! Credo davvero che avesse posto il suo cuore in quel giovanotto. Ma chi non gli avrebbe creduto, al conte Malatesti? Io non avrei dubitato di confidargli ogni cosa più cara, ogni segreto più geloso.
—Incominciando dalle vostre opinioni politiche!—notò ancora il signor Francesco.—E infatti, con le vostre benedizioni, vedete dove si è giunti? Ad una inchiesta, che ci condurrà ad un processo.
—Oh, questo m'importa assai meno di tutto l'altro;—rispose il vecchio prete.—Andrei volentieri, per sei mesi in prigione, e magari per un anno, pur di sapere che il conte Gino ritorna alle Vaie, per fare la sua brava domanda. Del resto, amico mio, non credo più tanto al processo, nè ad altre noie consimili. I giorni passano, e niente si vede apparire. In fondo, io penso che abbiano cercato troppo, e che il poco che hanno trovato sembri loro più facilmente quello che è: voglio dire un bel nulla.
—Meglio così!—disse il Guerri.—Noi ci saremmo compromessi per un ragazzaccio, e la cosa non sarebbe stata da gente seria come noi. A me, veramente, ne importava tanto come a voi. Ma i miei figliuoli!… Vedete? Io non vorrei che Aminta avesse da dimostrare il suo amore per la patria andando a marcire in prigione. Quando verrà l'occasione di romperla, come dicevamo nel Quarantotto, vada di là dal Po, prenda un fucile e rischi la sua vita come un altro. Ma in fortezza, e sotto il duca di Modena, no. Queste son belve, non uomini, e mandano volentieri per il boia. Se avessero la forza, farebbero essi da carnefice!—
Don Pietro non ardì risponder nulla a quel padre, che era crudelmente ferito in due affetti ad un tempo. Anch'egli, il buon prevosto delle Vaie, temeva assai più che non lasciasse vedere al suo vecchio amico; anch'egli incominciava a capire che con ragazzi non c'è da fidarsi. Un po' tardi, in verità; ma fino al dì della morte, c'è sempre tempo da imparare qualche cosa. Ora, egli aveva imparato questo: che gli uomini non si giudicano a prima vista, e guai a chi mette il suo cuore e la sua testa a repentaglio per loro, senza averli pesati, considerati per tutti i versi, e veduti anche alla prova.
Così passarono i giorni e le settimane. Di processi, di persecuzioni politiche, non si ebbe più nuova; e questo era bene. Ma per contro non si sapeva più nulla del conte Gino Malatesti. Di lui tutti tacevano, alle Vaie; e tutti guardavano Fiordispina. La fanciulla, che era sempre stata d'indole grave oltre l'età, non pareva punto mutata da quella di prima. Parlava poco, e solamente per rispondere alle domande altrui; leggeva alle sue ore, lavorava di cucito, di ricamo, secondo l'uso; suonava pochissimo, ma senza farsi pregare, quando suo padre le domandava di farlo. Attendeva con la solita cura alle faccende domestiche; più volentieri a queste, che ad ogni altra occupazione. Il lavoro materiale, si sa, è un grande conforto alle pene dello spirito, poichè spesso impedisce di pensare, ed è il pensiero quello che uccide. Ma che pensava, la fanciulla dei Guerri, quando pur le accadeva di pensare? Non era dato d'intenderlo, senza interrogarla. E poichè nessuno la interrogava, il cuore di Fiordispina custodiva il segreto delle sue afflizioni.
Così passarono le settimane, e passarono i mesi. Aspettava ella? Aspettava ancora qualcheduno? Certo, una promessa solenne le era stata fatta, e chi stima ha fede, e chi ha fede aspetta. Ma venne il giorno 4 di ottobre, onomastico del signor Francesco Guerri, e l'aspettato non venne. Quel dì, Fiordispina fu più triste del solito; ma quel dì, per la prima volta, si sforzò di sorridere a suo padre, i cui occhi la interrogavano, non osando interrogarla le labbra.
—Figlia mia! figlia mia!—mormorò il signor Francesco, stringendosela al seno.
—Ebbene, babbo, ebbene?—diss'ella, reprimendo un singhiozzo.—Questo giorno, che è sempre stato così lieto per tutti noi, ti commuove tanto? Ne vogliamo vedere con egual gioia altri cento.
—Saranno troppi,—rispose il vecchio Guerri, accettando volentieri la via di salvezza che Fiordispina gli offriva.—Me ne basterebbero venti. Ma capisco che per l'affetto de' miei figliuoli sarebbero pochi. Diciamo dunque cento, ed anche centomila.
—Siano tutti quelli che Dio vorrà;—soggiunse Don Pietro, associandosi volentieri a quelle chiacchiere vane, che dissimulavano tanto dolore.—Sempre uniti, nella calma dolcezza della vita di famiglia, che cosa si potrebbe desiderare di meglio?—
Il giorno onomastico del signor Francesco fu festeggiato senza l'ospite che tutti dovevano aspettare, poichè egli aveva giurato di non voler mancare, a cui tutti pensarono e che nessuno ardì nominare. Ma un altro ospite era venuto, e portava i saluti e gli augurii di un altro ramo della buona schiatta dei Guerri. Avrete già capito che quell'ospite era il cugino Ruggero.
«Sarebbe stato il mio vivo desiderio (diceva il padre di lui, nella lettera che gli aveva consegnato per il suo parente delle Vaie) che i nostri vincoli si restringessero maggiormente. Il mio Ruggero è giunto a quell'età in cui bisogna pensare ad accasarsi. Per dirvela in confidenza, abbiamo proposte vantaggiose per ogni rispetto, da Reggio e da Modena; ma, prima di risolvere qualche cosa, lasciatemi tentare un'ultima prova con voi.»
E seguitava su questo tono, nel modo e con gl'intenti che il lettore discreto immaginerà facilmente. Don Pietro avrebbe potuto dire che quella volta il Guerri del Reggiano veniva a mezza spada col Guerri del Modenese. Al signor Francesco parve una buona occasione per rompere il silenzio in cui si erano chiusi tutti da due mesi. E tratta a sè la figliuola, le parlò risoluto in questa forma:
—Vedi, Fiordispina? È tempo di pensare al futuro, di assicurare la tua sorte, di maritarti, insomma. L'ho detta, finalmente! Che io ti ami, lo sai; ma l'amore dei vecchi non deve essere egoistico, e questo debbo provartelo io.
—Padre mio!—esclamò la fanciulla.
—Sì, capisco;—riprese il vecchio Guerri;—la solita storia. Sto tanto bene così! Non mi mariterò mai!
—No, padre;—rispose Fiordispina.—Non voglio dir questo. Nella casa dove son nata non ho avuto che esempi di sincerità, e non sarò io che darò il primo esempio d'ipocrisia. Ti dirò invece schiettamente: sono una fidanzata che aspetta.—
Il signor Francesco fu colpito da quelle semplici e risolute parole.
—Fidanzata!—diss'egli.—Senza di me?
—Oh, non senza di te;—replicò la fanciulla.—Sii buono, babbo, come sei sempre stato con tua figlia. Non hai tu approvata la mia scelta? Se io non ti avessi letto nell'anima, avrei io osato di prendere questo impegno…. con me stessa?—
Il vecchio stette un poco sopra di sè, non potendo negare, e non sapendo che rispondere. In verità, non gli restava da far altro che pigliarsela con se medesimo.
—Ah, sciocco, tre volte sciocco!—gridò.—E sono stato io che ho approvato! Ben mi sta, quello che è poi avvenuto. Lo vedi che fa il tuo fidanzato? Aveva premesso di ritornare, per questo gran giorno, alle Vaie. Ma noi lo abbiamo aspettato invano, se pure è da credere che lo abbiamo aspettato.
—Io l'ho aspettato;—rispose Fiordispina.
—Ebbene?… non è venuto. E che pensi di lui!
—Che non avrà potuto.
—Ma almeno poteva farsi vivo con una lettera. Ha egli mai scritto, dal giorno che è partito da noi?
—Avrà scritto; replicò Fiordispina;—e più d'una volta avrà scritto.
—E allora?
—Allora, padre mio, le lettere si saranno smarrite per via.
—Tutte?
—Tutte, sicuramente: la seconda nello stesso modo e per le stesse ragioni della prima; la terza come la seconda, e così via. Io ho sognato, padre mio, che le lettere del conte Gino, erano state intercettate all'ufficio postale di Modena. Ho sognato ancora che egli, non vedendo risposta alla prima nè alla seconda sua lettera, sospettò di una sottrazione, e provò a mandar le sue lettere per altra via; ma si fidò di un servo, e quel servo lo tradiva.
—Una gran fede…. nei sogni!—esclamò il vecchio Guerri.
—E nella voce del mio cuore,—ribattè la fanciulla.—Abbiamo stimato il conte Gino Malatesti, te ne rammenti? Lo abbiamo stimato come un perfetto cavaliere. Perchè lo giudicheremmo diverso, senza aver prove de' suoi torti? Perchè lo disprezzeremmo su mere apparenze?—
Il signor Francesco ammirò la costanza della sua figliuola, ma vide in pari tempo la necessità di scuoterla, di distruggere quella fede. Infine, un giorno o l'altro doveva saperla anche lei, la dolorosa verità. Non era meglio che la sapesse da lui, e subito, poichè l'occasione era venuta?
—Senti:—incominciò egli allora;—se io ti dicessi che il conte Gino ci ha dimenticati, e che….
—E che? Non ti fermare, padre mio!—gridò Fiordispina.—Continua!
—E che doveva anzi sposare un'altra donna?—ripigliò il vecchio Guerri.—Che a quest'ora l'avrà sposata, e che può essere già andato a fare il suo viaggio di nozze?…—
Fiordispina impallidì e vacillò. Quel povero padre, intimorito, si cacciò avanti per sostenerla. Ma era stato un turbamento momentaneo, e la fanciulla già riprendeva padronanza di sè.
—No, non temere,—diss'ella, vedendo l'atto di suo padre.—Son forte, vedi, e posso ascoltare ogni più triste nuova. Come hai tu avuto questa? Da chi?—
Il signor Francesco narrò allora tutto ciò che aveva riferito Pellegrino, ritornando da Modena. Erano vecchie notizie, oramai; nè altro aveva egli cercato di sapere.
—Mi permetti di non credere?—disse Fiordispina.—Oh, perdonami, babbo! Non a te, sai? non a te, ma alle ciarle volgari che Pellegrino ha raccattate per via. Quanta gente onesta non è stata mal giudicata, ed anche condannata, per le ciarle del volgo? Non credo a queste; non credo;—ripetè la fanciulla;—non voglio credere. Sarebbe una cosa infame! Il conte Gino Malatesti non è capace di una slealtà come questa.
—Avremo nuovi ragguagli, e ti persuaderanno;—rispose il vecchio.
—No, padre, no, non cercar nulla. Aspettiamo. Io aspetto;—disse la fanciulla, con calma risolutezza di accento.—Ti dispiace tanto che la tua figliuola invecchi nella casa dove è nata? La casa non fa paura a me; mal per male, è questo il minore, ed avrà le sue consolazioni nell'amore di tutti voi. Dicono che le vecchie zitelle son cattive e noiose. Anche questa è una delle menzogne che tanti ripetono, pensando di essere molto arguti, e che tutti gli altri credono, per risparmiare la noia di osservare essi medesimi la verità delle cose. In che la mia buona zia Angelica, rimasta a governare la casa, è meno graziosa meno amorevole di un'altra donna? della zia Olimpia, per esempio? Ed anche la zia Angelica, la mia seconda madre, avrà bisogno di chi l'aiuti un giorno e la liberi da una parte di cure. Poi, senti, babbo; mi viene in mente che noi non somigliamo a tanti altri, e questo pensiero, in un giorno di afflizione, ha pure la sua importanza e la sua gloria. Iddio ci ha fatti sani e forti, perchè potessimo anche soffrire più nobilmente degli altri. Quante volte non l'ho io udito da te? I Guerri sono come il vecchio Cimone, alle cui falde han messo radice. I venti e le nevi lo flagellano, le pioggie e i soli alterni fanno prova di sgretolarlo, i fulmini lo segnano dei loro solchi profondi, ed egli è sempre là, da migliaia d'anni, immutato e immutabile.—
Il vecchio Guerri asciugò una lagrima, e strinse al seno la sua forte figliuola.
—Che dirò io a tuo cugino?—chiese egli poscia.—Una bugia pietosa?
—No, padre, la verità;—rispose Fiordispina.—La verità, quando si può dirla, ha un accento che persuade, e piace per la sua semplicità anche quando non ci è grato di udirla. Infine, essa non offende nessuno, e il nostro cugino Ruggero non potrà ritenersi offeso da noi, quando tu gli avrai detto sinceramente che io ero…. che sono ancora fidanzata ad un altro. Se il conte Gino Malatesti ha da ritornare, la mia fede è impegnata con lui. Se non ritornerà…—conchiuse la fanciulla, vincendo a fatica la sua commozione,—Ruggero Guerri, nostro parente, non deve accettar egli i rifiuti di nessuno.
—È la tua ultima parola?
—Sì, padre mio, l'ultima.
—Mi farai morir di crepacuore, o di rabbia;—brontolò il vecchio
Guerri.
—No, padre, non mi dir questo! Sarei capace di andarti dinanzi, sai? Mi ucciderebbe lo spavento. Promettimi di esser calmo e di vivere per i tuoi figli, che t'amano tanto! Son forte io, donna, e non lo sarai tu, uomo, provato a tutti gli affanni della vita? Non voglio che si pianga per me, in questa casa. Infine, tu lo vedi, non piango io.
—Ora!—esclamò il vecchio Guerri.—Ma poi?
—E poi come ora;—replicò l'animosa fanciulla.—Ne dubiti? Lo giuro per te, e possa io non veder più la faccia di mio padre, se mi avverrà di spargere una lagrima. Vuoi di più?—soggiunse, animandosi, in quella amara voluttà di sacrifizio.—Se è vero quello che ti hanno riferito di lui…. meglio così! Lo zio Orlando, per celia, vedendomi sempre coi libri per le mani, mi chiama qualche volta la romantica. Orbene, credilo, padre mio, leggendo molto i nostri poeti, ho veduto molte eroine, e mi son dispiaciute tutte ad un modo. Son donnicciuole, finalmente, povere creature deboli che il capriccio degli autori ha poste in condizioni difficili, e in cui le ha mantenute qualche tempo, ma senza merito loro. Son donnicciuole, ti ripeto, quando non sono fantasmi senza un'oncia di sangue. Era piuttosto necessario l'esempio d'una donna vera, capace di soffrire in silenzio, e di custodire entro l'anima il suo dolore, come un balsamo, come un'aroma prezioso. Sarò io quella donna. Va, padre mio, e non si parli più di queste tristezze fra noi.—
Il signor Francesco baciò ancora una volta sua figlia; poi si ritrasse, piangendo. La creatura debole, in quel punto, era egli, quel vecchio re della montagna, avvezzo ai geli del Cimone, provato, come diceva sua figlia, a tutti gli affanni della vita. Ma di questa debolezza lo scusava largamente il suo affetto paterno.
Aminta, dopo quel colloquio di suo padre con sua sorella, non poteva più esser tenuto al buio d'ogni cosa. Già nel silenzio del conte Gino egli aveva fiutato un cambiamento d'idee; ma taceva, anch'egli aspettando, e divorava la sua rabbia. Come seppe finalmente del matrimonio di Gino, non ci vide più lume e minacciò di farne una delle sue. Lo rattenne suo padre con fiere parole; lo calmò un poco Don Pietro con amorevoli esortazioni. Egli stesso, il buon prevosto delle Vaie, sarebbe andato a Modena, per informarsi di tutto. Forse non era vero niente di ciò che avevano detto a Pellegrino, e il silenzio ostinato del conte Malatesti poteva aver ragioni che di lassù non era dato indovinare.
Intanto, bisognava dir qualche cosa al cugino Ruggero. Ma qui, fosse o non fosse ammogliato il conte Malatesti, la risposta non poteva essere che una. E si prese il triste incarico di darla il signor Francesco, in quel medesimo giorno che aveva parlato a sua figlia.
—Vostro padre vorrebbe;—diss'egli al suo giovane parente;—ed io, figuratevi, non vorrei meno di lui. Ma la nostra parola era già impegnata.
—Col conte Malatesti?—chiese arditamente Ruggero.
—Sì; come lo sapete?
—Lo avevo immaginato fin dalla mia prima venuta;—rispose il giovane, con molta semplicità.—Ma poichè quell'altro si è ammogliato con una Baldovini…. credevo di potermi avanzar io.
—Come sapete che ha preso moglie?—gridò il signor Francesco, che una notizia così certa non l'aveva neppur egli.
—Mi han detto….—balbettò Ruggero.—Ma in verità non ne so nulla. Eccovi almeno ciò che è giunto al mio orecchio: che il conte Gino Malatesti si ammogliava. Io, allora, ricordando di aver conosciuto qui il signor conte, e immaginando che potesse trattarsi di un altro matrimonio, domandai con chi, e mi fu detto il nome di una marchesa Baldovini. Allora pensai: non era dunque vero quello che io avevo sospettato? E perchè appunto in questi giorni mio padre mi aveva accennati certi suoi disegni, anzi era sospeso tra due proposte, una di Modena e l'altra di Reggio, mi son fatto coraggio e gli ho detto:
—Sentite, padre mio; se mi fossi ingannato, l'altra volta, alle Vaie!… e se la nostra parente Fiordispina fosse ancor libera!…—A mio padre non è parso vero, perchè infine l'idea di questa alleanza l'aveva avuta lui, e l'aveva sempre vagheggiata. Ed ecco, mio buon cugino,—conchiuse malinconicamente Ruggero,—ecco perchè son ritornato qua, a fare un altro viaggio inutile.
—Povero ragazzo!—esclamò il vecchio Guerri.—Come siete buono, Ruggero, e come meritate di esser felice! Credete pure che io sono dolentissimo di non potervi chiamare mio figlio. Del resto, lo scriverò molto chiaramente a vostro padre, ringraziandolo dell'onore che ci ha fatto e dicendogli le cose come stanno. Mia figlia ha un suo modo di vedere, che sembrerà forse un po' strano, ma che in fondo ha persuaso anche me. Un altro padre vi tacerebbe la vera ragione; io voglio dirvela, anche per appagare il desiderio di Fiordispina. Ella si ritiene fidanzata al conte Malatesti. Se il conte ha dimenticato le sue promesse, peggio per lui, che ha mostrato di non meritarla. Ma nel fatto ella sarebbe…. come ho da dire?… un partito ricusato. E in questo caso (è mia figlia che parla) non si debbono accettare da un Guerri i rifiuti di un Malatesti.
—Rifiuti! Rifiuti!—borbottò il cugino Ruggero.—Son certi rifiuti, questi, di cui si contenterebbe un principe.
—Ho piacere che la pensiate così!—gridò il signor Francesco prendendo la mano dell'Ercole adolescente e stringendola forte tra le sue.—Perchè infine, la parola è di mia figlia, e va intesa con discrezione.—
Sospirò, così dicendo; ed era un sospiro, il suo, che esprimeva due sentimenti, uno di dolore e l'altro di soddisfazione. Soddisfazione momentanea, se vogliamo, mentre il dolore era continuo. Ma anche nel dolore sono i momenti di sollievo; quando, ad esempio, ci si dimostra con una buona parola che quel dolore è inteso, e che la nostra sventura non può avvilirci agli occhi di nessuno, perchè essa è della specie più nobile, e perchè infine non ce la siam meritata.
Quel giorno medesimo il cugino Ruggero partì dalle Vaie, calmo, tranquillo, sereno in apparenza, come era già partito una volta. Non lo giudicate severamente, vi prego. Sentiva anch'egli, e non meno profondamente di un altro; ma sentiva da uomo giovane e sano, che è sempre vissuto tra i monti, lontano dai piagnistei e dalle teatralità della vita cittadina. Sarebbe stato felicissimo se Fiordispina gli avesse detto di sì; ma non avrebbe intuonato un inno, nè spiccato un salto d'allegrezza, come faremmo noi, gente sensibile e nervosa. Gli avevano detto di no, in modo semplice e cortese, tale da non offendere la dignità della sua casa, nè il suo amor proprio di giovanotto, e ne sentiva un gran dispiacere; ma non era abbattuto, non piangeva, non rotava gli occhi, non digrignava i denti, non si disperava, come faremmo noi, gente…. Vi ho detto già che gente siamo, e non ripeterò gli aggettivi.
Poi (perchè non dire anche questo?) ci sono gli uomini che parlano molto, e quei che parlano poco. Il cugino Ruggero apparteneva alla seconda categoria. Nella sua taciturnità aveva inoltre i conforti del pensiero, e materia a molti pensieri gliene offriva la novità del suo caso. Figuratevi che era partito da casa sua con tre partiti in vista. Egli veramente preferiva sua cugina, che conosceva già e che avrebbe amata moltissimo, quando fosse diventata sua moglie. Ma, perduta la speranza di aver quella, gliene restavano altre due, fra le quali poteva scegliere, altre due che non conosceva affatto, ma che avrebbe vedute, prima di ritornarsene a casa. Suo padre, infatti, gli aveva parlato così:—Tu andrai prima alle Vaie, e farai quest'altro tentativo coi nostri parenti; ma poi, bada, io non voglio che si perda altro tempo. Se è un no, o se non è un sì tanto fatto, come dobbiamo volerlo noialtri, scendi subito a Modena e vedi quell'altra; poi, essendo tutta strada, passi a Reggio e vedi quell'altra ancora. Son figliuole di nostri amici tutt'e due; gli affari ti danno il pretesto di una visita. Così, veduta la seconda e veduta la terza, ritornerai a casa, mi dirai quale ti sarà piaciuta di più, e noi risolveremo, con cognizione di causa.—
Uomo saggio, il signor Guerri del Reggiano, e che non amava andar per le lunghe; viva l'anima sua! È così piacevole aver da trattare con persone di questa fatta! Sì, sì, no, no; e avanti, senza perdersi in chiacchiere.
Ruggero, adunque, salutò i suoi parenti delle Vaie, li ringraziò delle amorevoli accoglienze, chiese i loro comandi per Modena, e partì. Con lui, approfittando della buona occasione, partiva un altro personaggio, il vecchio prevosto delle Vaie. Gran novità, come vedete, e gran meraviglia tra i suoi parrocchiani.
Capitolo XIV.
Consolatore e giudice.
Don Pietro era veramente addolorato. Si poteva dire che non lo fosse mai stato tanto per sè, come lo era per i suoi amici. Ma in quel rammarico non c'entrava anche un pochino di suo? Anch'egli, se ci pensava, anch'egli era stato ingannato da quella faccia d'angelo Gab…. Ah, non angeli, nè santi, in paragone con gli uomini! Aveva ripreso Pellegrino, e non doveva cascar egli nel medesimo errore.
Povera fanciulla, così bella e così buona, così degna di esser felice! Se il conte Gino andava sposo ad un'altra, la bella Fiordispina non sarebbe stata felice mai più. Egli la conosceva, oramai. Se la fanciulla aveva detto a suo padre: «rimarrò a governare la casa» si poteva star certi che avrebbe fatto così. Se aveva promesso di non versare una lagrima, si poteva giurare che avrebbe mantenuta la sua promessa. Non avrebbe pianto, no; il cuore le si sarebbe spezzato, ma il suo volto non avrebbe tradito lo schianto. Quello che Fiordispina diceva, si poteva prendere per Vang…. Ah, triste mania dei paragoni! Don Pietro si morse la lingua per punizione.
—Infine!—conchiuse, cercando una scusa al suo fallo.—È un modo di dire. Quella buona fanciulla non ha mai mentito; è l'innocenza, è la verità personificata.—
Il pretesto con cui Don Pietro partiva per Modena era la compera di certi drappelloni per la chiesa parrocchiale. Quelli che c'erano, li aveva trovati entrando in uffizio, e fin d'allora già vecchi, stinti e sgualciti. Immaginate come fossero diventati in quegli ultimi tempi. Eppure, il vecchio prevosto avrebbe tirato innanzi con quelle anticaglie ancora per un paio d'anni, pensando che i suoi parrocchiani non badavano a certe apparenze. Ma poichè a Modena doveva andare, i drappelloni fornivano facilmente la scusa.
Da vent'anni Don Pietro non era più sceso alla capitale del ducato. E che ci sarebbe andato a fare, semplice di costumi e privo di bisogni com'era? Già, cala mal volentieri al piano chi vive in excelsis, e non ha nessuna curiosità della terra chi vede i cieli vicini. La città si era abbellita, sicuro; glielo dicevano tutti, ed egli lo credeva facilmente. I marchesi Frassinori avevano fatto restaurare la facciata del loro palazzo; una facciata del Tignola, che i nuovi stucchi rendevano due tanti più goffa. I conti Ansiglioni avevano fatto dipingere sopra un muro, in fondo al cortile, una magnifica prospettiva, una fuga di colonne, con alberi e un po' di cielo attraverso. Veduto dall'ingresso del portone, quel colonnato, con quello sfondo di giardino e di cielo, dava l'illusione del vero. Ottimamente! Di queste e d'altre bellissime cose Don Pietro sentiva parlare, ma non gli entrava mai nell'anima la curiosità di vederle.
Un viaggio lo avrebbe fatto volentieri, prima di morire; il viaggio di Roma, della eterna città. Ma dipendeva da certe circostanze, quel viaggio, e Don Pietro aveva fatto a quel proposito un voto, che teneva chiuso gelosamente nel cuore. Non se n'era aperto mai con nessuno, neanche col signor Francesco Guerri, con cui pure non voleva aver segreti. «Quando l'Italia sarà libera e unita, con Roma per capitale, e lo Stato in pace con la Chiesa, andrò a sciogliere il mio voto sulla tomba del principe degli Apostoli.» Così aveva parlato a sè stesso il vecchio prevosto delle Vaie. Rosminiano in gioventù, e acceso di entusiasmo per il Nuovo saggio sull'origine delle idee, si era anche innamorato della gran sintesi giobertiana, ed aveva anch'egli intravveduta un'eco di concordia religiosa e politica in una applicazione dei concetti che ispiravano l'opera del Primato morale e civile degli Italiani. Ma che cosa non aveva sperato egli di pacificare e di concordare, dal suo alpestre ritiro delle Vaie? Perfino quei due grandi filosofi, che se n'erano dette tante nel corso di dieci o dodici anni, palleggiandosi anche l'accusa di panteista.—Infine, diceva egli, sono idealisti tutt'e due. C'è poi tanta distanza dall'ente ideale, astratto, possibile, indeterminato, in cui il Rosmini vede il primo psicologico, e l'ente reale, concreto, infinito, che è il primo ontologico del Gioberti? Due pensatori che cercano Dio! Lasciateli fare; sono ambedue sulla medesima strada, e si toccano col gomito più ch'essi non credano.—
Frattanto, era invecchiato con la voglia di Roma. I due grandi filosofi erano morti, punto pacificati tra loro: uno di essi in odio alla Curia, l'altro a mala pena tollerato in un freddo «Dimittantur opera» che accennava ad una tregua, ad una sospensione d'armi, anzi che ad un patto d'alleanza tra le idee moderne e lo spirito antico. Anche le speranze d'Italia, così vivaci nel 1848, erano andate a male, per diffidenza di principi e per discordia di popoli, nè si vedeva quando potessero rinascere. Nulla appariva in aria, o si sperdeva al primo soffio di vento. Chi sarebbe stato così forte, o, essendo pur così forte, si sarebbe mostrato così animoso, da accettar la difficile impresa di collegare tanti sparsi voleri? Don Pietro, qualche volta, per disperato, esciva in certi voti terribili, invocando da Dio un solo governo, ed austriaco, da Milano a Palermo.—Ah, se l'amore scambievole e se la cura del futuro non vi possono unire all'opera santa,—diceva egli tra sè,—vi unisca in uno sforzo violento l'odio di un comune oppressore.—
Intenderete ora come e perchè Don Pietro Toschi non fosse andato a sciogliere il suo voto sulla tomba del principe degli Apostoli. Oramai, desiderando sempre, non sperava più nulla. Quanto a Modena, che ci sarebbe andato a fare? Non sentiva nessun desiderio di veder da vicino il governo del Duca. Bene aveva corso il rischio di esser chiamato alla città, per ricevere nella Curia vescovile una solenne lavata di capo. Ma quella burrasca era passata, e ci voleva un altro dolore per condurlo laggiù.
Ecco dunque il buon prevosto delle Vaie che entra in città, in una grande città, dopo vent'anni di vita ristretta al suo borgo campestre. Quante volte non vi sarà accaduto di vederlo, il prete di montagna, per le vie cittadine, dove pare una dissonanza, assai più del medesimo contadino con cui vive, e a cui dice la messa! Il prete di montagna lo riconoscete subito, qualche volta al suo nicchio spelato, al suo soprabitone stinto, luccicante sulle costure, qualche altra alle grosse scarpe munite di fibbie enormi, alle calze di lana, rugose e nodose, e simili altri difetti del suo vestiario trasandato, ma sempre alla sua andatura semplice, allo sguardo attonito, al viso arsiccio e screpolato, dove gl'inverni e le estati han giuocato a chi tagliasse di più. Quella figura vi parrà stupida e goffa, accanto a quella del prete di città, che passa svelto, a piccoli passi, con la mantellina raccolta in armoniche pieghe sul braccio, guardandosi appena d'attorno, e di tanto in tanto incurvando l'indice verso la fronte, per prendere il suo nicchio nero e lucido e rispondere al saluto della gente. Quando il prete di città s'imbatte per via in un prete di montagna, non c'è caso che lo guardi o lo saluti; non c'è spirito di corporazione, non c'è vincolo, non c'è relazione di gerarchia tra quelle due autorità. Ma lo guardiamo noi, il prete di montagna; e sorridiamo, guardandolo, e un diavolo che vorrebbe parere arguto ci bisbiglia all'orecchio:—domandagli un poco come sta Perpetua.—
Poveri preti montanini, poveri sacrificati! Son essi, infine, che celebrano nei luoghi altissimi, come l'antico Melchisedec; son essi gli unici consolatori di tanto popolo afflitto. Perchè, badate, in città, quando siete ammalato e triste, non vi mancano i conforti, le assistenze e gli aiuti; lassù il contadino non ha che il suo parroco. Non sono la gente più felice del mondo, i montanari, e l'aria purissima che spira sulle alte convalli penetra in un soffio gelato da tutte le fessure della casa, da tutti i buchi del tetto. Sta bene che se ne contentino: che una panca dalla spalliera alta, davanti al focolare, una paiuolata di castagne, un pezzo di polenta, o di pattona, o di pan di veccia, bastino al loro bisogno. Le legna costano poco, a mala pena la fatica di raccoglierle; il cibo è gramo, ma sano, e li tien magri come cani da caccia: avanti dunque, avanti sempre così. Dio concede loro anche le gioie della famiglia; che cosa si vorrebbe di più? Sicuro; ma quando la moglie è sopra parto, dov'è la levatrice, che l'assista? Quando la bambina è inferma, e le arde la fronte, e un punto bianco si forma e cresce nascosto nella cavità della gola, dov'è il medico che curi in tempo l'angina difterica? Qualche volta ce n'è uno in condotta, e per tre comuni ad un tempo; e va, e trotta tutto il santo giorno, quel poverino, ma senza bastare a tutti i bisogni. Poi, ci sono i malati a cui occorrerebbero due visite al giorno, ed è bazza se la famiglia del montanaro ha il medico una volta per settimana. Aggiungete che la medicina ordinata lì per lì domanda un viaggio, spesso di notte, per vie scoscese, sotto il flagello della pioggia, o dentro il turbinìo della neve che accieca. Ne passo, e delle peggio. La società è matrigna col montanaro; non le basta di lasciarlo ignorante; ha ancora da mantenerlo infelice. Vedete la Chiesa; essa non lo abbandona, e se pure non può far nulla, pochissimo, per il suo bene materiale, si occupa almeno della sua pace spirituale. Dove noi non mandiamo più un maestro, nè un medico, contenti di mandarci a certe scadenze un esattore, ella manda a vivere un parroco, un prevosto, un arciprete, un pievano, un rettore. Chiamatelo come volete, è un amico per tutti quei derelitti, e li consola tanto più facilmente, in quanto che le sue consolazioni le distribuisce in latino.
Don Pietro Toschi, prevosto di montagna, è a Modena. Vedrà finalmente il conte Gino Malatesti. Ringrazia il giovanotto che lo ha accompagnato fino in città; si congeda brevemente da lui; non ha bisogno d'altro, poichè conosce la strada del Vescovato. Capirete che la prima visita di Don Pietro è per Monsignore, per il suo ordinario. È ricevuto dal segretario. Non ha niente da chiedere, soltanto da ossequiare, ed è presto ricevuto anche da Monsignore. Ossequi, genuflessioni, bacio all'anello episcopale, tutte queste cose s'immaginano facilmente. Poi il vescovo domanda notizie di Fiumalbo, della chiesa delle Vaie, dello spirito di quelle popolazioni; conforta il buon prevosto a perseverare, e gli ripete anche il «pasce oves meas» degli Atti apostolici. Di ramanzine, di lavate di capo, di accenni alla festa del Lago, neanche l'ombra. Evidentemente, il vescovo di Modena non ha saputo nulla di nulla. L'inchiesta famosa, l'inchiesta terribile del signor commissario, è rimasta a dormire negli scaffali della direzione di polizia; forse, non c'è nemmeno arrivata. Tanto meglio, perbacco! Altre due chiacchiere sui tempi guasti, sul bisogno di certi restauri al Duomo, che Don Pietro vedrà, appena uscito dall'udienza episcopale, e una benedizione congeda il visitatore. In mezz'ora, Don Pietro s'è sbrigato di quell'ufficio preliminare; se ne va in Duomo a pregare; poi si mette in viaggio, per trovare i suoi drappelloni. Ci sono i mercanti da ciò, ed egli non deve cercar molto; il curato del Duomo gli ha dato gli opportuni recapiti.
Frattanto il buon prevosto prende lingua. Dov'è il palazzo Frassinori, che è stato decorato di una nuova facciata? Da tanti anni non ha più veduto Modena, e vorrebbe, poichè finalmente gli è accaduto di ritornarci, fare un viaggio e due servizi, comperare i drappelloni per la chiesa parrocchiale delle Vaie e dare una guardata a tante belle novità modenesi, di cui gli han detto mirabilia. Dov'è il palazzo Ansiglioni, che ha nel cortile una così bella prospettiva? Dov'è il palazzo Baldovini, celebrato fra i più insigni della città? Dov'è il palazzo Malatesti, che gli hanno citato ancora come un esemplare di severità architettonica?
Capirete che di tante indicazioni gliene premeva una sola, e quella sola ritenne. Il palazzo Malatesti era anche vicino al Duomo, nella via di S. Eufemia. E lo vide subito, e lo guardò lungamente, passando. Dunque viveva là dentro il signor conte Gino? E per parlare al suo giovane amico, al confinato di Querciola, all'ospite delle Vaie, non aveva da far altro che infilar quell'androne, e dire il suo nome al portiere gallonato, in fondo alle scale?
Ma no, egli non sarebbe entrato là dentro. Con qual fine, oramai, e con quale utilità avrebbe cercato di parlare al conte Gino? Poc'anzi, il curato della cattedrale gli aveva data una triste notizia. Egli stesso, il signor curato aveva congiunti in matrimonio il conte Gino Malatesti e la marchesina Elena Baldovini. Da quel fausto giorno ne erano già passati quaranta, e gli sposi felici erano già ritornati dal loro viaggio di nozze. Che trafittura per il cuore di Don Pietro! No, egli non voleva più vedere il conte Gino; non sarebbe andato a cercarlo; avrebbe ripresa la via dei monti, rinunziando volentieri anche alla triste soddisfazione di farlo arrossire. Sospirò, il povero prete, dopo aver fatta quella risoluzione, e se ne andò dal mercante a cui lo aveva indirizzato il suo collega del Duomo. Ma nelle attraversare la piazza Grande, per andarsene sul corso di Canal Chiaro, dov'era la bottega indicata, Don Pietro non poteva astenersi dal ricordare tratto tratto la biblica sentenza: «Maledictus homo qui fidit in homine!»
Vi è mai accaduto…. Ma perchè vi domando io una cosa tanto naturale! Certamente vi è accaduto, e più volte, di cercare una persona per ore e per giorni, senza combinarla mai, nè in casa, nè per via; poi di imbattervi in essa, al primo angolo di strada, quando avevate smesso di cercarla, o non v'importava più di vederla. Il caso toccò per l'appunto a Don Pietro. Egli si era avviato da piazza Grande al corso di Canal Chiaro, quando alla prima svolta della strada gli occorse di dover cedere il passo ad un signore, che veniva sullo stesso marciapiede, e che si disponeva ad usargli la medesima cortesia. Affrontati, si guardarono necessariamente, volendo cansarsi a vicenda.
—Conte!—esclamò il vecchio prevosto.
—Don Pietro!—esclamava Gino.
Nè altro disse, turbato com'era. Ma prese con affettuosa reverenza la mano del suo vecchio amico e lo trasse in mezzo alla via.
—Dove va?—disse poscia, non trovando una frase migliore, per attaccare il discorso.
—Qui presso, per una commissione.
—Non può rimandarla?
—Ma…—balbettò Don Pietro, che non vedeva la utilità di una conversazione con lui.
—Via, si lasci trattenere!—riprese Gino.—Se non si tratta di una cosa urgente, si degni di venire a far due passi con me.
—Le pare, signor conte?—disse di rimando il vecchio prete.—Non siamo mica più alle Vaie!—
Il conte Gino si rannuvolò, udendo ricordare quel nome.
—Perchè mi dice questo?—esclamò.
—Perchè qui, a Modena,—replicò Don Pietro umilmente,—fra tante persone civili, al fianco di Lei, elegantissimo cavaliere e conosciuto da tutti, stonerebbe un poco la mia giubba montanara.
—Dica piuttosto che sarà sempre bene andare in luogo meno frequentato;—mormorò Gino, sospirando.—I curiosi son tanti! Andiamo dunque da quella parte, se non le spiace.
—Dove?
—Accanto al Duomo. Sull'ingresso della chiesa, non parrà strano che l'elegantissimo cavaliere si fermi a parlare col ministro di Dio, ancorchè sia montanaro, come Ella dice.
—E andiamo!—rispose Don Pietro, mettendo fuori un lungo sospiro.
Che cosa aveva da dirgli, il conte Gino Malatesti, e che a lui fosse ancor utile di sapere? Don Pietro non poteva immaginarselo; indovinava per altro che avesse da dirgli molto, e che sentisse ancora di non essere indegno di perdono, poichè non aveva sfuggito il colloquio, anzi mostrava di desiderarlo tanto.
Cionondimeno, da quell'ottima pasta d'uomo ch'egli era, Don Pietro
Toschi reputò conveniente di non tenere il suo compagno in angustie.
Andò anzi incontro alle sue confidenze, dicendogli:
—Ho notizie dei signori Guerri, che Ella certamente ricorderà. Stanno tutti bene, e l'altro giorno hanno celebrato l'onomastico del capo della famiglia. Se ne rammenta? Il quattro di ottobre era la festa di san Francesco. Non mancava che Lei, e fu doloroso che si dovesse aspettarla inutilmente.—
Gino, a quelle parole, si fermò sui due piedi, guardando in viso il compagno.
—Mi aspettavano!—diss'egli, commosso.
—Certamente;—rispose Don Pietro.—Non aveva Ella promesso di venire per quella occasione alle Vaie? È vero,—soggiunse il prete, tentennando la testa,—che molte cose aveva promesse….—
Gino badò poco all'accento di triste ironia, con cui Don Pietro aveva proferite quelle ultime parole.
—Ma che cos'è dunque avvenuto?—gridò egli, interrompendolo.—Le mie lettere al signor Francesco?…
—Ne ha Ella mai scritte?—domandò con piglio ironico il vecchio.
—Tre, rimaste tutte senza risposta. Confesso,—soggiunse Gino,—che non erano liete; confesso che esponevano al signor Guerri una condizione di cose molto difficile per tutti, e che forse perciò era da argomentare che la famiglia Guerri volesse lasciare a me tutto il carico di una risoluzione incresciosa. Cionondimeno, e persuaso già di questa necessità alla seconda mia lettera, scrissi ancora la terza.
—Non ricevuta,—disse Don Pietro,—come non furono ricevute le altre due.
—Possibile? Eppure, sospettando di tutto e di tutti, le due prime le avevo consegnate io medesimo alla posta; e la terza, poi, per maggiore sicurezza, andai ad impostare a Bologna, dove mi chiamavano i tristi preparativi delle mie nozze. Potevo io credere che neanche quella giungesse alla sua destinazione? Ma è orribile, sa?—gridò Gino, infiammandosi via via, quanto più pensava alla gravità della cosa.—È orribile, questa congiura, ordita contro di noi. Neanche il segreto dell'anima mia fu rispettato! Non mi fu dato neppure di dir le ragioni per cui operavo contro i voti del mio cuore, contro la stessa mia felicità! E mi si è fatto passare agli occhi dei signori Guerri per il più sconoscente, per il più vile degli uomini!
—Signor conte,—mormorò Don Pietro,—non teme che questa sua esaltazione possa essere notata? Qualcheduno che passa, anche senza udire le sue parole, può osservare i suoi gesti. Si calmi, la prego, si calmi!
—Ah, vedano e osservino pure tutto quello che vogliono. Nessuno giungerà a vedere che inferno ho qua dentro.
—Eppure, è necessario che Ella si calmi;—riprese Don Pietro.—La prudenza lo vuole.
—Prudenza! Perchè? Non c'è più ragione di temere, oramai.
—Che so?—disse Don Pietro. La polizia ha cent'occhi e cento orecchi.
—E n'abbia mille!—rispose Gino.—Ho comperato a caro prezzo il diritto di non temerla più. Mia suocera è potente;—soggiunse egli, con un amaro sorriso;—mia suocera ha nelle sue bianche mani il cuore del ministro; è la padrona di Modena, lei! Fa ciò che vuole! Non ha fatto di me, di me, capisce? non ha fatto di me il marito di sua figlia? Ah! Tutto avrei creduto possibile al mondo, anzi che questo, che io conducessi in isposa la figliuola di Polissena Baldovini. Ah, mio buon amico, mio padre, se sapesse quanto ho bisogno di sfogarmi con Lei! Non è forse Dio che l'ha mandata? Ho molto sofferto, Don Pietro, e soffro ora più che mai. Perchè, infine, se lassù… alle Vaie… non sanno per quali terrori, per quali angosce è passato il mio cuore, io sono un uomo disonorato, mi capisce. Don Pietro? disonorato!
—Povero signor Gino!—esclamò il vecchio prete.—Ella mi spaventa, ora, con la sua esaltazione.
—Voglio raccontarle tutto!—riprese Gino.—Anche Lei mi avrà giudicato male. Anche Lei mi avrà disprezzato. Ebbene, Don Pietro, io non merito il suo disprezzo; merito la sua compassione; merito il perdono dei suoi amici, che non ardisco più chiamar miei dopo ciò che è avvenuto. Senta!—soggiunse il giovanotto, con l'atto e l'accento di un uomo alla cui mente si affacci un'idea improvvisa, che dovrà signoreggiarlo,—mi crede Ella un uomo serio?
—Ma sì, la credo tale, non ho mai creduto altrimenti di Lei;—rispose
Don Pietro.
—E aggiunga,—riprese Gino,—e aggiunga: incapace di commettere un sacrilegio. Perchè sarebbe un sacrilegio, non pure per me, ma per un miscredente, per un ateo, abusare con Lei del suo alto ministero, e della opinione che Ella ne ha.
—La credo incapace di ciò;—rispose ancora Don Pietro.—A che vuol venire, con queste proteste?
—Or ora vedrà;—disse Gino.—Entriamo in chiesa, e riceva la mia confessione. Non può ricusarmelo, Don Pietro! Ella verrebbe meno al suo ufficio di consolatore e di giudice. Venga!—
La voce e il gesto tradivano la commozione violenta dell'animo. Don
Pietro temette che, ricusando egli ancora, potesse accadere di peggio.
—Andiamo!—diss'egli.—Ella non avrà invocato inutilmente il mio ufficio di consolatore. Quanto al giudice,—soggiunse,—egli è molto più in alto.—
Gino Malatesti si calmò a grado a grado, seguendo il vecchio prete nell'antico duomo di mastro Lanfranco e della contessa Matilde. Le tre vaste navate, partite da colonne e pilastri alternati, che ricordano nella robusta fattura gli ultimi anni dell'undicesimo secolo, erano deserte in quell'ora, e una luce fioca penetrava dall'alta galleria di colonnini sostenente la volta ogivale del tempio. Don Pietro andò alla sagrestia, per rivestire gli abiti sacri. Era nella chiesa metropolitana della sua diocesi, e poteva confessare colà, come ogni altro ministro del santuario. Gino Malatesti lo vide ritornare, e tosto lo seguì verso un confessionario, dove s'inginocchiò alla grata, con un aspro desiderio di versare nel seno amorevole di Don Pietro, del prevosto delle Vaie, del confessore di Fiordispina, tutta la piena delle sue afflizioni.
Ciò non vi parrà troppo conforme alla solennità dell'atto religioso. Ma perdonate, io descrivo un uomo, con tutte le sue passioni, e con tutte le contraddizioni che la passione comporta, che la passione richiede.
E disse, nell'impeto della passione e del dolore, disse lungamente, il povero Gino Malatesti, con voce soffocata spesso dalle lagrime, com'egli fosse venuto riluttante ad accettare la legge altrui, a compiere il sacrifizio di tutte le sue affezioni, della sua dignità, dell'onor suo. Già, fin dal primo colloquio che aveva avuto con suo padre a Sassuolo, si era persuaso della impossibilità di vincerne l'animo, di renderlo propizio ad una alleanza coi Guerri. Avrebbe potuto resistere, sì, certamente; ma, nella condizione in cui era, non lo doveva già più. Sospettato dal governo ducale, mal perdonato, e solamente per grazia della famiglia, non avrebbe egli con la sua costanza procacciato persecuzioni e danni gravissimi ai suoi amici delle Vaie? Ma questo non era ancor tutto. A lui, quantunque mal perdonato, non avrebbero torto un capello; in vece sua, per ciò che era avvenuto nella festa del Lago, sarebbero stati processati e puniti i Guerri, e non solamente essi, ma ancora quanti altri avevano preso parte alla festa. Appena ritornato a Modena, aveva infatti conosciuto fin dove giungesse il mandato del commissario di polizia. E proprio allora, lasciandogli intendere quanta parte potesse avere una sua risoluzione nella sorte dei Guerri, gli era stato imposto di chiedere la mano della giovane Baldovini. Del resto, che chiedere? Già il conte Jacopo, suo padre, l'aveva chiesta per lui; non si trattava più d'altro che di accettare quanto aveva fatto suo padre. Si decidesse, adunque; sarebbe finita male per i suoi amici, per i re della montagna, se non avesse appagati i desiderii, obbedito ai voleri della marchesa Polissena. Costei, per ragioni che oramai tornava inutile il dire, voleva il matrimonio di Gino Malatesti con la sua figliuola. Lei potente in Modena; lei padrona del cuore del ministro; da lei dipendeva che i Guerri fossero molestati o non fossero. Nè tuttavia il conte Gino si era arreso agli argomenti del padre; si schermiva ancora contro gli assalti della marchesa Polissena; difendeva con ogni sforzo la sua felicità minacciata. Ma il commissario era ritornato da Fiumalbo; la sua relazione, piena di fatti, e più di bugie, conchiudeva per la massima severità contro i Guerri, di cui si riferivano altri discorsi, e gravissimi, oltre quelli che erano stati tenuti nella festa del Lago. Anche il conte Gino aveva letto quel documento, poichè gli era stato posto sott'ccchio dal padre, ed aveva veduto come il commissario zelante fosse andato a rivangare nel passato, accennando ai profughi che i Guerri avevano soccorsi, ospitati, aiutati a passare il confine, nei primi tempi della restaurazione ducale; non tacendo delle armi che avevano nascosto nei sotterranei delle Vaie; raccogliendo infine con arte malvagia tutto ciò che la leggerezza dei testimoni, l'invidia degli emuli, avesse riferito a danno dei Guerri. Il conte Gino si era spaventato; aveva veduta la rovina di una egregia famiglia, non d'altro colpevole che di averlo accolto come ospite e di averlo trattato come uno de' suoi.
Eppure, aveva tentato ancora di resistere; si era umiliato ai piedi della marchesa Polissena, piangendo, implorando il suo patrocinio. Polissena era stata dura, acerba, imperiosa più che mai.—«Vi ho conosciuto,—gli aveva detto,—e non vi amo; non m'importerebbe punto di avervi per genero, se in faccia al mondo, che ha troppo già chiacchierato di noi, non mi foste debitore d'una riparazione.»—Il poveretto aveva allora scritto una lettera addolorata al signor Francesco Guerri. Era la seconda, e come già la prima, scritta due giorni dopo il suo arrivo a Modena, non aveva ottenuto risposta. Il tempo stringeva; la relazione del commissario doveva essere restituita dal conte Jacopo alla marchesa Baldovini, con una risposta finale. O l'annunzio delle nozze, e la relazione, col benigno consenso del ministro, si sarebbe stracciata; o la rottura di ogni trattativa, e contro i Guerri si sarebbe avviato il processo. Il signor Francesco imprigionato? La sua casa perseguitata? Le sue industrie rovinate? Fiordispina, anch'ella, chiamata davanti alla sbarra di un tribunale? Forse incarcerata col padre e col fratello Aminta? Gino Malatesti era vinto; chinò la fronte, accettando che fossero annunziate formalmente le nozze. E la terza lettera ai Guerri, una lettera scritta col sangue del suo cuore, l'aveva impostata egli, per maggior sicurezza, a Bologna.
Come mai quella lettera non era pervenuta alle Vaie? Certo, le lettere di Gino erano intercettate all'ufficio postale di Modena. Ma anche qualcuno che conosceva la sua mano di scritto le intercettava in un altro ufficio, sulla via di Fiumalbo. Don Pietro ricordò allora che alcun tempo dopo la partenza di Gino Malatesti da Querciola, un ufficiale delle poste, mandato per l'appunto da Modena, col pretesto di verificare, di esaminare, di studiare Dio sa che, si era impiantato e Fiumalbo. Lassù, dunque, non bastando la vigilanza a Modena, lassù si sequestravano le lettere dirette ai Guerri.
Ma quella del signor Francesco al conte Gino, portata in Modena, consegnata alla porta del palazzo Malatesti da Pellegrino Menghi, come si era smarrita? Gino protestava di non averla ricevuta. Il poveretto non sapeva neppure che Pellegrino fosse disceso a Modena. Era stato custodito da tutte le parti, spiato, vigilato a dovere, e aveva ben ragione dicendo che una vasta congiura si era ordita contro di lui, stringendolo come in una rete di ferro.
Infine, a lui, ignaro di tutto, era parso d'indovinare che i Guerri non intendessero l'animo suo, nè la necessità del sacrifizio a cui aveva pur dovuto adattarsi. E questo era stato ben grave, più grave che il medesimo Don Pietro non potesse immaginarsi, dopo il racconto di Gino. Perchè, infine, doveva egli dir tutto? La cosa era brutta, orribile, odiosa, dopo un solenne giuramento da lui fatto, davanti agli altari; ma così era, egli non amava la donna che gli avevano data per forza. Tra lui e quella donna si frammetteva sempre un'immagine….
Don Pietro non avrebbe voluto sentirne più altro. Quei discorsi di immagini misteriose confondevano il suo spirito invecchiato nella ingenuità della vita campestre. Ma Gino incalzava, Gino che la vedeva ancora, l'immagine, Gino che la sentiva, bella come la passione, terribile come il rimorso. Ed anch'essa, anche Elena, doveva indovinarlo, quel non so che di arcano, di contrario a lei, ond'era occupato lo spirito di suo marito. Nè si attentava di chiedergli nulla? Nè si fermava a dolersene? Quella giovane sposa osservava, con la curiosità attonita dei bambini, quando stanno davanti a tal cosa, nuova per loro, che non sanno ancora se li farà piangere o ridere.
Gino Malatesti non lo intendeva, o non si fermava a pensarci, egli che tanto vedeva dentro di sè. Quand'anche lo avesse inteso e ci avesse pensato, probabilmente non se ne sarebbe doluto, fors'anche gli sarebbe parso un giusto riscontro alla sua medesima freddezza. L'animo di Elena si allontanava da lui senza sforzo, o, per dire più veramente, anche nella vicinanza più stretta non si fondeva con quello di Gino. E in quella calma noncurante, sotto l'aspetto di una confidenza superficiale, si maturavano i germi di nuove curiosità.
Un giorno la bella contessa Malatesti aveva detto a sua madre, con quel piglio d'ingenua che la sa lunga più che la parola non dica:
—Mio marito è uno smemorato, ma uno smemorato d'una specie nuova. Ha sempre l'aria di cascar dalle nuvole; ora diresti che vuol ricordarsi di qualche cosa, ed ora che vuol dimenticarsi di qualche altra.—
La marchesa Polissena aveva guardato attentamente sua figlia; ma la pupilla di Elena era serena, nessun pensiero sottile luccicava là dentro.
—Mi pare strano;—rispose allora, con tranquillità la sempre bella marchesa.—Egli ha già tanto dimenticato, a venticinque anni, con quel suo carattere d'uomo felice!
—Ah, lo credi anche tu un pochino egoista?—replicò la contessa.—Ma perchè prendono moglie allora? Non potrebbero contentarsi di amare sè stessi?—
La marchesa Polissena non reputò necessario di dire a sua figlia come e perchè Gino Malatesti si fosse ammogliato. Le bastava che di quel matrimonio non fosse molto dolente sua figlia. Carattere assai più felice di quello che essa riconosceva in suo marito, la contessa Elena Malatesti poteva anche consolarsi di una freddezza che veniva a lei come la prima e sola rivelazione dello stato matrimoniale. Non aveva da far paragoni, allora, per vedere in quella freddezza smemorata un'offesa. I paragoni li avrebbe fatti poi, e come! Il sangue non è acqua, e la contessa Elena Malatesti non per niente era figliuola di Polissena Baldovini.
Ritorniamo a Don Pietro. Egli aveva ascoltata la confessione di Gino Malatesti, lo compativa, era vinto; più ancora, egli stesso esortava quel disgraziato a dimenticare, a cacciar da se l'immagine importuna della fanciulla dei Guerri, a concentrare tutti gli affetti suoi nella donna che aveva sposata. Era il caso di venire a bella posta dalle Vaie, per far quella parte! Ma ricordate che in quel punto Don Pietro Toschi aveva la stola, esercitava il suo ministero di consolatore e di giudice. Ahimè, tra non molto avrebbe dovuto esercitarlo anche lassù, dove gli occorreva ritornare, e donde sarebbe stato meglio non muoversi affatto.
—Figliuol mio, soffrite!—diceva egli a Gino.—Tutto ciò è avvenuto per una suprema volontà, di cui non dobbiamo scrutare i fini reconditi. Soffrite, mio povero amico, ma soffrite in voi e per voi; che vostra moglie non veda sorgere un'ombra tra voi due. È un'ombra di dolore, lo so; ma dovete cacciarla egualmente, come se fosse un'ombra di peccato. Infine, voi siete legato da un nodo indissolubile, a quella giovane vita; nè per effetto di noncuranza vostra debbono sorgere altre ombre ad offuscare la mente di vostra moglie, a turbare nel cuor suo il sentimento dei più sacri doveri.—
Capitolo XV.
Anima forte.
Il povero Don Pietro riprendeva in quel medesimo giorno la via dei monti. Ah sì, come lo aveva pensato dianzi, nel tribunale della penitenza, lo pensava ancora in carrozza, sulla strada di Sassuolo; gran fortuna sarebbe stata per lui non muoversi dalle Vaie. Santi gioghi d'Appennino, quanto meglio è il vivere sotto le vostre grandi ombre, anzi che scendere nei centri popolosi, a confonderci lo spirito in mezzo a tutte quelle passioni intricate e malsane, che muovono i desiderii e governano gli atti degli uomini civilizzati! Anche lassù, nei volghi agresti, hanno imperio le cupidigie, e generano il peccato; ma lassù non sono dotte complicazioni di colpa, non artificiose cospirazioni di più vizi, non raffinatezze di crudeltà e di scelleraggine.
Crudeltà e scelleraggine, erano queste le parole che venivano alla mente di Don Pietro Toschi. Infatti, era ben crudele, ben scellerato il disegno che aveva oppresso la onesta volontà di Gino Malatesti, e di cui aveva a soffrire per sempre una povera fanciulla innocente. Don Pietro aveva indovinato, frammezzo a tutte le reticenze di Gino, come il suo giovine amico sarebbe stato alieno, riluttante ad ogni idea di matrimonio con Elena Baldovini, anche se il cuor suo non fosse rivolto e consacrato all'amore di Fiordispina Guerri. E pensava allora con raccapriccio che le città, le città sole, celano di cosiffatti orrori sotto la superficie levigata delle loro consuetudini.
Il vecchio prete aveva ignorato fino allora tutte quelle combinazioni sapienti con cui la società elegante aggiusta ogni cosa, confidando perfino di aver nascoste altrui le sue piaghe, perchè le ha dissimulate a se stessa. Indovinando il vero, Don Pietro si turbava profondamente, pensando che Elena Malatesti potesse un giorno indovinarlo anche lei. Quale sventura, se la giovane contessa giungesse a sapere di qual mercato fosse stata vittima, a quali convenienze l'avesse sacrificata sua madre! Anima candida nella sua semplicità montanara, Don Pietro Toschi non si sarebbe persuaso mai che la contessa Elena sapesse, immaginasse già tutto, e non ci vedesse niente di strano. Il dabben uomo ignorava che su queste cognizioni del passato, così facilmente raccolte dalla innocente fanciulla nella gran confusione della vita odierna, si preparano gli argomenti del proprio diritto a fare altrettanto, o almeno si tengono in serbo come giustificazioni per tutte le debolezze del futuro. Non si può dire che la società moderna ami distruggere le vecchie istituzioni; essa le conserva molto rispettosamente e le adatta ai nuovi usi, come si fa dei vecchi palazzi. Perciò, anche dal matrimonio ella ha saputo cavar profitto, conservando le belle forme monumentali, rafforzandone le fondamenta, ove occorra, incatenando con dotta arte le mura maestre, cementando le crepe, rinfrescando l'intonaco; ma dentro…. oh, dentro, ella è stata felicissima nelle sue novità, aprendo usci e corridoi, dando aria da una parte e levandone il soverchio da un'altra, mutando in salotti i loggiati, dividendo in gabinetti le spaziose gallerie, adattando insomma, adattando sempre, con giudiziosa sollecitudine, affinchè nell'antico edifizio trovi comodità maggiore la gente nuova, con le sue nuove miserie, che sono poi, a ben guardare, le vecchie miserie trasformate. Non vi piace la immagine del palazzo antico? Eccovi una quercia, tre, quattro volte secolare. Ha cento rami, che stende in largo ombrello sul sentiero, e alle vecchie frondi ne aggiunge ogni anno di nuove, tanto che la direste un esempio di eterna giovinezza. Vi accostate; il suo tronco è aperto nel mezzo, cavernoso, smidollato addirittura. Ma che importa? L'apparenza da lontano è stupenda; il pittore paesista si ferma, mette mano alla tavolozza e ne fa un bozzetto per la prossima esposizione; poi, avvicinandosi anch'egli, vede l'antro scavato nel tronco, ed esclama:—oh guarda! c'è posto per due!—
Ah, Don Pietro! Don Pietro! Che vi serve essere stato prevosto quaranta e più anni, e avere studiato da mezzo secolo il trattato De Confessario? La società moderna ha più complicazioni di debolezze, che non ne abbiano veduto e segnato i vostri casisti più famosi. Buon per voi esser vissuto sempre tra la gente dei campi, dove è rustico, feroce qualche volta, ma semplice, indotto, quasi senza cognizione di sè stesso, il peccato.
Il povero prevosto aveva un aspetto compassionevole, quando giunse co' suoi drappelloni nuovi, e con le sue cognizioni anche più nuove, alle Vaie. Lo aspettavano tutti con ansia, e primo fra tutti il signor Francesco Guerri, a cui raccontò per filo e per segno quanto aveva udito dal conte Malatesti.
—Infine,—conchiuse il buon prete, sospirando,—il signor Gino è stato mosso da un buon sentimento, Ha voluto salvar tutti noi da molte noie, anzi da gravissimi dispiaceri, che per la casa vostra sarebbero stati anche una vera rovina. Me lo ha giurato, e per dare maggior solennità al suo racconto, ha voluto dirmi ogni cosa in confessione.—
Non c'era nulla da rispondere a quel ragionamento di Don Pietro. Il signor Guerri capì benissimo che il conte Malatesti si era trovato colto in mezzo a troppe difficoltà, e che il meno male per tutti era per l'appunto il partito a cui s'era appigliato. Ma pensò anche a sua figlia, il vecchio Guerri, a sua figlia che tutte quelle spiegazioni non avrebbero persuasa egualmente, o non sarebbero bastate a guarire.
Aminta fu più aspro e più schietto.
—Meglio tutti noi in carcere e la casa in rovina, se potevano trovarci in colpa per amor di patria; ma egli doveva mantener la sua fede.—
Anche Fiordispina seppe ogni cosa; ma non volle essere consolata.
—L'avevo immaginato;—diss'ella.—Il conte Gino è infelice, io gli ho perdonato. Non mi si dica più altro.—
Da quel giorno il nome di Gino Malatesti non fu più pronunziato alle Vaie. Al padre, che la esortava a dimenticare, l'animosa fanciulla rispose:
—Quello che ti ho promesso ho mantenuto; non ho pianto, non piangerò.
—Grande promessa!—esclamò il signor Francesco.—Amerei meglio vederti piangere.
—Perchè, padre mio? Perchè sfogassi il mio dolore? No, non sarà mai! Vedi? Sento un piacere molto profondo a non piangere. Non creder dunque che io divori le mie lagrime. Mi par d'essere in sogno, e che il sogno duri. Aspetto io che finisca? Non so; vado avanti così, senza desiderare, senza aspettare, senza temere. I giorni passano, ed io sono ancor lì a vivere con le mie care memorie. È forza? è debolezza? Non so neppur questo. Qualunque cosa sia, ringrazio il Signore che me la manda.—
Il vecchio padre non chiese di più. Ella era grave, tranquilla, operosa; attendeva alle solite cure, e niente era mutato per lei nella casa dei Guerri.
L'avrete già veduta, anche senza fermarvi a considerarla, quella casa severa, dove tutti, vecchi e giovani, son gravi nell'aspetto, misurati nelle parole, riguardosi negli atti, uniformi, quasi monotoni nelle consuetudini della vita, non sorridendo mai che a fior di labbra, attendendo con fredda regolarità a tutte le cure della giornata. «Gente metodica!» si esclama, e pare di aver detto ogni cosa. «Come possono trovarci gusto, a viver così?» soggiunge qualcheduno. E infatti, non ci trovano gusto; tirano avanti così, perchè questo è l'obbligo, e sopportano la vita come un fardello. Pensateci un poco, guardate attentamente, e vedrete che tutte quelle persone vivono sotto il peso di una grande sventura, o d'una piccola che credono grande, perchè ognuno ha il suo modo di vedere e di sentire le noie e le afflizioni di questo mondo. Se cogliete quelle persone sul punto in cui si raccolgono insieme, a tavola, per esempio, osserverete ancora che si guardano in viso, come interrogandosi a vicenda, ma che tutte egualmente si chiudono in sè, per un sentimento che pare di diffidenza scambievole, e non è in quella vece che un delicato riguardo. Così vivono, così tirano innanzi, noverando i giorni della loro tristezza.
Così andava la casa dei Guerri, poichè l'aveva colpita la sventura di un alto disinganno. E lei, la figliuola prediletta, l'angelo della famiglia, per cui tutti vivevano, su cui tutti avevano gli occhi, era calma negli atti, serena nell'aspetto, e niente tradiva l'interna pena di quella giovane esistenza. Pareva una di quelle soavi creature dei primi secoli cristiani, che santificavano la casa, non potendola più rallegrare, e già consacrate al nuovo Iddio, vivevano quiete e forti nel mondo. Una pietà non sempre più ardente, quantunque più rumorosa, doveva inventare i cenobii, le fastose solitudini, i violenti sagrifizi e le spettacolose penitenze; ma per allora tenevano il campo, non abbandonando la casa, le semplici virtù umane, fedeli al culto di tutti i doveri domestici: e figlie e spose e madri esemplari, accettando il posto in cui le aveva collocate la sorte, venerando il loro Iddio, pronte ad affermarlo con l'olocausto della vita, ma desiderose di edificargli un tempio nelle loro famiglie, vivevano le Cecilie e le Moniche, combattendo in un modestissimo campo non oscure battaglie.
Fiordispina Guerri non aveva più facile il sorriso, nè la parola lieta; e di ciò si doleva profondamente, ma non le era dato mutarsi. Pronta a tutti gli sforzi morali che non dimandassero gaiezza di umore, quando vedeva i suoi troppo accigliati, andava a sedersi davanti al pianoforte e ripassava la sua musica, senza scegliere, come le veniva alle mani. E le mani obbedivano agli occhi, e gli occhi seguivano l'indicazione delle note. Così sembrava prender diletto nella sua occupazione musicale, e le armonie suscitate da lei, se non allietavano nessuno, sortivano almeno quell'effetto che sempre ha prodotto la musica: rasserenavano gli spiriti.
—Chi sa?—disse un giorno fra sè il signor Francesco Guerri, dopo qualche mese di quella vita monotona, mentre la sua bella figliuola, seduta al pianoforte, passava da un preludio delicato di Bach ad un'aria allegra di Mozart.—Chi sa? Potrebbe fare un miracolo, il tempo!—
Appunto in quei giorni capitò alle Vaie una lettera dei cugini Guerri, che vivevano sul Reggiano. Annunziavano ai loro congiunti del Modenese il prossimo matrimonio di Ruggero con una Campolonghi di Modena. Famiglia ottima, i Campolonghi, ed eccellente partito; perciò si affrettavano a darne l'annunzio, sicuri che la cosa avrebbe fatto piacere ai loro cari parenti. Il signor Francesco aveva appena mandata la sua lettera di congratulazione, quando ne giunse un'altra da Modena; e questa la scriveva Ruggero, il semplice ed affettuoso Ruggero. Non accettato da Fiordispina, per ragioni che non offendevano il suo amor proprio, il cugino Ruggero mandava di tanto in tanto sue nuove alle Vaie. Quella volta, poi, era felice di mandarne un'altra più importante, sperando che i suoi buoni congiunti avrebbero veduto volentieri quella unione, che rispondeva a tutte le esigenze della famiglia, come a tutti i voti del suo cuore.
—Ne sono veramente felice!—disse Fiordispina, poi ch'ebbe letto anche lei.—È un bravo giovane, il nostro cugino Ruggero.—
Il vecchio Guerri tentennò la testa, e battè ripetutamente le labbra, come se volesse trattenere una osservazione, che era lì lì per saltar fuori.
—Capisco;—riprese la fanciulla, notando l'atto, e andando risolutamente incontro al pensiero di suo padre.—Ma tu lo sai bene, babbo; io non ero fatta per lui.
—E per chi, Dio buono, per chi?—gridò il signor Francesco, che oramai non poteva più stare alle mosse.
—Per te, per voi tutti;—rispose la fanciulla.—E non è già una bella sorte? Fatemi il piacere, se mi amate davvero come io vi amo, non mi state così aggrondati da mattina a sera! Che è ciò? Pare che qualcheduno vada a morire, e che voi dobbiate accompagnarlo. Non ho da voler nulla, io, che son l'ultima della casa; ma una cosa mi permetterete di volere, ed è questa, che non siate più tristi di me. Sono tranquilla, io, sono contenta; potete esser tranquilli e contenti anche voi. Ma basta, non aggiungo altro; se no, quando viene Don Pietro, gli direte che ho fatto una predica. Scriveremo invece al cugino Ruggero, e lo pregheremo che ci mandi il ritratto della sposa. Ho una grande curiosità di vedere com'è.—
E scrisse lei la lettera, un miracolo di temperata festività e di buon gusto, congratulandosi col cugino della sua scelta ed augurandogli ogni bene. Le suonava graziosamente all'orecchio il nome della sposa, Marianna, che ne raccoglieva due egualmente belli, Anna e Maria, Non le restava che un desiderio, e vivissimo, di veder la figura.
Il ritratto fu presto mandato, e non da Ruggero, ma dalla stessa fidanzata di lui, dalla signorina Marianna Campolonghi, alla vezzosa e cara Fiordispina Guerri, che era tanto felice di poter chiamare cugina, anche anticipando di due mesi, che tanti ne dovevano correre ancora da quel giorno alla celebrazione delle nozze. La lettera era semplice, ma piena di garbo; faceva fede di buoni studi e prometteva una cara donnina, degna del cugino Ruggero e nata a bella posta per farlo felice. Allo scritto corrispondeva poi la figura; il dagherrotipo mandato dalla signorina Marianna alle Vaie recava l'immagine di una bella ragazza, alta e snella, di capel bruno, di carnagione pallidina ma sana, con due begli occhi grandi ma espressivi, come se ne vedono tanti, per fortuna sua, nella regione Emiliana.
Il matrimonio si faceva tra due mesi, cioè a dire verso la fine del carnevale. Peccato che la stagione, così fredda ancora, non permettesse agli sposi di fare una corsa alle Vaie! La cosa spiaceva tanto a Marianna; spiaceva a Ruggero; spiaceva anche ai parenti di lui. Nè poteva spiacer meno ai congiunti loro delle Vaie, e Fiordispina, nelle sue risposte, non rifiniva di esprimere col suo il rammarico di tutta la famiglia.
Perchè ella scriveva assai volentieri quelle lettere, quasi volesse scusarsi con altrettanta amabilità, della freddezza dimostrata parecchi mesi prima al cugino Ruggero. Le donne hanno di queste delicatezze, le quali spesse volte vanno sprecate come i fiori gentili del prato, che nessuno li avverte, quando sono sbocciati, e poi li recide, insieme con tutte le altre erbe pazze, la falce del villano.
Ma per allora, anche non intese in quel modo, le cortesie della cugina e di tutti i parenti delle Vaie erano molto gradite da Ruggero Guerri, e non meno dalla famiglia Campolonghi. E la conseguenza di tanto gradimento fu una argomentazione come questa:
—Se non possono gli sposi andare a Fiumalbo, per la stagione che sarà ancora troppo rigida, perchè non potrebbero discendere i signori Guerri a Modena? L'inverno, gli ultimi giorni di carnevale, dovrebbero esser anche un potente incentivo a questo viaggetto, che recherebbe un po' di novità nelle loro consuetudini.—
Ed anche quei del Reggiano, messi a parte del disegno, incalzavano con le loro preghiere. Quella del matrimonio di Ruggero, infine, era una buonissima occasione per raccogliere insieme i due rami dei Guerri. Buonissima, in verità, e solenne per giunta; non andava trascurata.
Il disegno fu ventilato anche alle Vaie, non già perchè sembrasse accettabile, ma perchè bisognava trovar ragioni da opporre, scuse oneste da metter fuori. Ma l'idea di quella gita piaceva tanto ai signori Campolonghi, che l'avevano avuta per i primi! Ma piaceva tanto alla signorina Marianna! La graziosissima sposa voleva conoscere Fiordispina, e non si dava per vinta alle ragioni, dichiarava fiacche le scuse.
Donde tanto amore e tanto desiderio? Lettori miei, non bisognerebbe guardar tanto nel sottile, sopra tutto in questa materia già di per sè molto delicata. L'amore, l'amicizia, la simpatia, nascono perchè vogliono nascere, e i germi non possono sempre cercarsi col microscopio. Le grazie di Fiordispina, decantate dal cugino Ruggero, il piacere cagionato da quelle sue lettere così gentili e garbate, quell'altro non meno grande di poter vedere riunita ad una sola mensa tutta la schiatta dei Guerri, sarebbero ragioni bastanti a spiegare, a giustificare l'insistenza delle preghiere. Un'altra ragione si può trovare nella insistenza medesima. Incominciamo tutti a manifestare un desiderio per mostra di gentilezza, ci torniamo sopra per civiltà, e finiamo con invaghirci della nostra idea. Non vi basta? Mettete ancora che la signorina Marianna aveva un fratello, avvocato, che stava per finire le pratiche, ed era come suol dirsi un giovane di belle speranze. Quale speranza più bella, da aggiungere a tutte le altre? Anche il signor Campolonghi padre, pensando alla venuta di Fiordispina a Modena, diceva come il vecchio Guerri, ma per altra ragione:—chi sa?—
Bisognava dunque rispondere a quelle reiterate preghiere, a quelle istanze continue, che venivano a gara da Modena e dai monti Reggiani.
—Che altre ragioni si trovano?—diceva il signor Francesco.—Perchè già, capisco, a nessuno di voi questo viaggio piace, e a Fiordispina meno che agli altri.
—Perchè?—domandò la fanciulla.
—Come?—esclamò il vecchio Guerri.—Ti decideresti ad andare… laggiù?
—Laggiù come in ogni altro luogo;—replicò Fiordispina.—Non siamo mica proibiti, a Modena. Nè io ho da vergognarmi di nulla, o da temere di veder chi si sia.
—Ebbene,—disse il signor Francesco,—allora decidi tu. Si ha da risponder sì all'invito dei nostri parenti?
—Io, allo stato delle cose e per non aver aria di gente ostinata, risponderei sì;—disse Fiordispina.—E tu, babbo?—
Il vecchio Guerri meditò ancora un istante il suo «chi sa?»; vide nella risoluzione di sua figlia un principio di mutamento felice, e conchiuse:
—Andiamo dunque a Modena e raduniamo ad una tavola tutta la progenie dei Guerri.—
Quando la cosa giunse all'orecchio di Don Pietro, il bravo prevosto delle Vaie rimase a dirittura di sasso. Ma da queste pietrificazioni dello stupore si rinviene poi sempre, ne rinvenne anche Don Pietro, restandogli tuttavia in corpo una grande curiosità.
—Figliuola mia, che novità è questa?—domandò egli a Fiordispina, appena ebbe occasione di parlare da solo a sola con lei.—Perchè questa risoluzione di andare a Modena?
—Un invito formale, e già ripetuto più volte da due parti;—rispose la fanciulla.—Non gliel'ha già detto mio padre?
—Sì, capisco l'invito;—disse Don Pietro;—ma non capisco egualmente l'accettazione.
—Vuol saperlo, il gran perchè?—ripigliò la fanciulla.—Glielo dirò, a patto che mi serbi il segreto.
—Posso prometterlo;—disse Don Pietro.—Ma avete dei segreti per vostro padre?
—No, e sì. Non ne ho, se si tratta di cose che possono avere una buona e una cattiva interpretazione, e per cui resti dubbio se vadano fatte o non fatte. Ne ho, se si tratta di pensieri miei, che possono parere ridicoli. E questo è il caso, per l'appunto;—conchiuse Fiordispina.—Ho la speranza di rivedere quell'uomo.
—Ed ecco per l'appunto ciò che temevo;—rispose Don Pietro.
—Che male c'è? Turbo io la pace di qualcheduno?
—Mettete a repentaglio la vostra, figliuola mia, e vi par poco?
—Non tema per me, Don Pietro. La mia testa è salda e il mio cuore è già provato ad ogni scossa.
—Tanto meglio, figliuola mia, tanto meglio. Ma che curiosità è la vostra?
—Curiosità di montanara;—rispose Fiordispina, sorridendo.—Non mi sarà dunque concesso di vedere se quell'uomo è felice? E noti che io desidero ardentemente di saperlo felice;—soggiunse ella, animandosi.—Ella mi conosce, Don Pietro, e sa che non ho l'uso di mentire. Un cuore che ama ha tesori di bontà e di compassione per tutti.
—Anche per gl'ingrati?
—Anche e sopratutto per questi. Ma non mi ha detto Lei che quell'uomo è stato costretto a far ciò che ha fatto? Perchè lo chiama Ella un ingrato?
Don Pietro si smarriva tra gli assalti di quella logica femminile, ed amò meglio darsi per vinto.
—Il cielo vi guardi;—conchiuse, dopo una mezza serqua d'interiezioni, che non dicevano nulla.—Infine, credo anch'io che possa essere una crisi felice. Vi auguro, figliuola mia, che possiate guarire del tutto.
—Di che? D'un male che è la mia vita?—replicò Fiordispina.—No, padre mio, non voglio guarire, nè del tutto, nè in parte. Mi conceda di parlare una volta, una volta almeno, con libertà piena ed intiera; ho conosciuto per quell'uomo l'amore, l'amore de' miei poeti, che è il nobile, l'elevato, il gentile, e dica pure quanti aggettivi vorrà, purchè conduca a questo, che un amore elevato è il solo che sia degno della creatura umana, e come il solo degno, è anche il solo vero. Che uomo fosse il conte Gino Malatesti, nel tempo ch'egli visse tra i nostri monti, Ella sa quanto me, se non forse meglio di me. Il mio pensiero s'innalzava col suo. Come due profumi confusi si son levati ambedue, vaporando al cielo. E dovranno essere separati? È impossibile, padre mio; lo dica anche Lei, che è impossibile.
—Il conte Gino si è pur separato da Voi;—disse Don Pietro.—Lascio stare le ragioni onorevoli, accenno il fatto com'è.
—Ebbene, qui per l'appunto è la mia giustificazione;—riprese la fanciulla.—Egli si è separato da me; non l'amor suo, che è stato per me, e a cui mi son serbata fedele. Vede, Don Pietro, che questo non è un sentimento volgare. Unica volgarità,—soggiunse Fiordispina, chinando la testa ed abbassando il tono delle parole,—unica volgarità, poichè neppur io sono una creatura perfetta, è questo piccolo sentimento di curiosità che ha preso me, povera montanara, di vedere quella gentil cittadina, che ha saputo rapirlo.—
Curiosità montanara, diciamolo anche noi, ma soggiungiamo subito: Quanta altezza di pensiero in quella curiosità! Don Pietro Toschi non lottò più; era vinto e convinto. Del resto, i signori Guerri avevano già scritto a Modena, annunziando la loro andata, e oramai, per fare quel gran matrimonio, non si aspettava che la loro presenza.
Quando si dice «i signori Guerri» s'intende il capo della famiglia,
con una larga rappresentanza. Nel fatto non andavano mica tutti.
Aminta, per esempio, non volle muoversi dalle Vaie, quantunque lo zio
Orlando dichiarasse che sarebbe rimasto egli volentieri.
—No, no, resto io. Che cosa andrei a fare io, a Modena? Le città non mi divertono. E se qualcheduno ha da rimanere a custodire la casa, questo qualcheduno vo' esserlo io. Andate voi altri, andate.—
Non ci fu verso di smuoverlo; Aminta era saldo nelle sue risoluzioni, come il monte Cimone al suo posto.
Ed anche saldo ne' suoi risentimenti, aggiungiamo. Egli non aveva perdonato a Gino Malatesti; egli non aveva tesori di bontà e di compassione da spandere. A qual pro', del resto? Aminta lasciava questi tesori a sua sorella. Era già molto avere un angiolo in casa; quanto a lui, uomo, aveva già fatto assai chinando la testa ai voleri di suo padre, mentre pure sentiva una voglia feroce, una voglia pazza di calare a Modena e di battere la sua mazza alpigiana sulla faccia del conte Gino.
—Prendi, vigliacco ingannatore, in cui la mia famiglia ha creduto! Prendi, bugiardo proscritto, che hai avuto paura di farti fare un processo. Si grida, perdio, si strepita, quando si è il primo colpevole! e se vogliono fare il processo agli altri, si chiede la parte propria, si reclama il proprio posto al pericolo, si va in carcere, in galera, alle forche, ma con la fronte alta, fieri di non avere che una parola e di saperla mantenere!—
Capitolo XVI.
Delizie coniugali.
La sera del martedì grasso dell'anno 1858, era una bella piena nel teatro Comunale di Modena. L'impresario avrebbe voluto tutte così le serate della stagione; ma gl'impresari son mostri insaziabili e non pensano, nel loro egoismo, che il bello delle cose belle è per la massima parte nella loro rarità.
Tutte le stelle del firmamento, tutte le dee dell'Olimpo modenese erano quella sera a teatro, dando coi loro vezzi naturali e con lo sfoggio delle loro abbigliature un'apparenza di vita più rigogliosa ad una società naturalmente ristretta e poco nutrita, poco rinnovata dal concorso o dal passaggio di elementi forastieri. Le città italiane, innamorate dell'arte, appassionate singolarmente per la musica, hanno queste occasioni solenni per mettersi in gala, per dare il loro sprazzo di luce, e in certe sere dell'anno, vedute nel recinto del loro massimo teatro, vi possono sembrare altrettante capitali.
Non dimentichiamo che allora la città di Modena era ancora la capitale di un piccolo Stato, e che intorno ad una Corte si raccoglieva una ricca aristocrazia, uno splendido stato maggiore di varie armi, una grassa borghesia, ed una magra ma numerosa falange d'impiegati dell'ordine politico e dell'ordine giudiziario. Oggi, aboliti i piccoli principati, le rispettive loro capitali hanno perduto tutte qualche cosa della vecchia loro importanza, e questo, che è un male, senza dubbio, ma non un mal così grave da non potersi sopportare, dà argomento di acerbi rimpianti a taluni nobili antichi. Perchè lagnarsi soltanto? Perchè non pensare mai a qualche onesto rimedio? Il gran male, il vero male è quest'altro, che tutti i ricchi corrono oramai ai grossi centri. Se i signori vivessero un po' più nella terra loro, o accanto ad essa, gioverebbero meglio al fine da cui ripetono la loro medesima origine. A buon conto, avrebbero assai meno ragioni per rimpiangere le vecchie consuetudini, ridando un po' di vita alle città loro e insieme un po' di lustro alle proprie corone. Così questa società italiana, che è stata la più ricca, la più varia, la più universalmente colta d'Europa, avrebbe speranza di rifiorire, in quella sua vivace varietà d'aspetti e di tempre, su tutte le altre del mondo.
Ma lasciamo da banda queste superbe malinconie, che molti non intendono più. Il romanzo, questa rappresentazione della vita, deve correre, obbedendo ai suoi nuovi maestri, sulla china della verità fisiologica, correre fino a rompersi il collo nei chiassi del casetto patologico, unico svago che gli sia consentito, e che anzi gli è molto raccomandato dai pratici. Impersonale, oggettivo, realistico, non si attenti di fermarsi un minuto, per dire una verità a chi lo segue, nè per cogliere un fiore sui margini del sentiero. Lo hanno chiuso a forza in una delle sue cento forme, che ad essi piaceva di più; lo hanno sigillato in quella col sigillo della loro dogana; hanno sentenziato quali saranno le vie che dovrà tenere, quali i mercati a cui dovrà fermarsi, quali le droghe di cui potrà essere infarcito. E poi, dopo aver promulgati tanti decreti e regolamenti dalle loro bigonce, i signori giudici e moderatori hanno il coraggio di annoiarsi, di sbadigliare in pubblico, di arricciare il naso, specie quando vedono il loro beniamino andar zoppo a certi usci.—Non di qua! Non di là! Volgarità eccessiva! Imitazione forastiera! Vita italiana vuol essere, vita italiana, per bacco! Dove s'è mai vista, negli usi nostri, tutta quella robaccia! Siamo noi così male ridotti!—Ah, poveri giudici! poveri moderatori supremi! Vuol essere una fatica da cani, la loro!
Le dame più cospicue di Modena erano quella sera a teatro. Non poteva dunque mancare la marchesa Polissena Baldovini, più bionda che mai, imbellettata, incipriata e felice. Sedeva davanti a lei, nel suo palchetto di seconda fila, Sua Eccellenza il ministro, dimenticando per un'ora le gravi cure dell'ufficio (severas super urbe curas), discutendo amabilmente di musica antica col suo buon marchese Baldovini, e mandando tratto tratto qualche occhiata assassina alla gentile marchesa.
In un altro palchetto, ma della prima fila, era la bella figlia di Polissena (matre pulchra filia pulchrior), la contessa Elena Malatesti. La madre aveva la società più grave, oramai, la più autorevole, e la più monumentale, senza rinunziare per altro a qualche saggio della più gaia e della più elegante. Ma questa si raccoglieva più volentieri intorno alla figliuola, e vi si aggiungeva altresì la più risonante per tintinnìo di sproni e di sciabole. Cappa e spada, una volta riunite, si dividevano allora; gli uomini di cappa si volgevano naturalmente alla madre; gli uomini di spada alla figlia.
Ma per allora, essendo in principio di spettacolo, non si vedevano che due cavalieri, nel palco della contessa Elena. Suo marito era in visita, e di quei due che vi ho accennati uno era il marchese Emilio Landi, che conosciamo per una sua lettera dai bagni di Lucca. In verità, stando a quello che ve ne ho detto a suo tempo, il marchesino Landi avrebbe dovuto esser piuttosto dalla marchesa Polissena. Ma bisogna anche sapere che il regno di lui era durato poco, nel cuore della Baldovini. L'orgoglio aveva vinta la tenerezza, e un ministro di Stato, che si tingeva i capegli (molto bene per altro, e la cosa non si riconosceva che alla luce del sole), era succeduto nel regno. La maestà scoronata di Emilio Landi si era facilmente consolata di quel piccolo guaio. Infine, non ci sono trionfi graditi che a patto di durar poco. Anche il divo Cesare dovette annoiarsi parecchio, ad averli così lunghi, col peso della corona sulla testa, il tintinnìo de' trofei nelle orecchie, e il continuo sobbalzo di un cocchio senza molle, sul maledetto selciato della Via Sacra, inerpicantesi per il clivo Capitolino.
Emilio Landi era entrato allora allora nel palco, e prendeva, di rincontro alla signora, il posto d'onore che l'altro personaggio gli aveva ceduto, mettendosi con discreta familiarità al fianco di lei.
—Siete maravigliosa, stasera;—disse Emilio, incominciando.
La contessa Elena accolse il complimento ad occhi socchiusi e tirando indietro la sua testina bionda. Era quello un atteggiamento che andava stupendamente alla sua figura rosea, un tal po' irregolare nelle fattezze, ma fine, e che di graziosa e piacevole la rendeva affascinante senz'altro: un atteggiamento studiato se vogliamo, ma che tra tanti artifizi a cui ci ha avvezzati la bellezza, poteva anche sembrar naturale: un atteggiamento, insomma, che un pittor ritrattista del secolo scorso avrebbe invidiato, se pure non è più giusto il dire che ad un pittor ritrattista del secolo scorso la contessa Elena Malatesti lo aveva audacemente rubato.
—Che ve ne importa a voi, Landi?—domandò la signora, dopo aver preso quell'atteggiamento lezioso.
—A me? moltissimo;—rispose il giovanotto.—Si gode tutti, alla vista di un bel fiore, o di un bel frutto dorato. Sia pure nell'orto delle Esperidi, e custodito da un drago, è già grande fortuna ammirarlo da lungi.
—Custodito! da un drago! Ma sapete, Landi, che siete antico, stasera!
E il drago sarebbe il nostro buon Lesarini?—
Così rispondeva la contessa Elena; e il Lesarini, che era per l'appunto il personaggio seduto al fianco della signora, sorrise beatamente, tra i due pizzi grigi, che gli vestivano con aristocratica prolissità le guance scarne.
Non era nobile, il signor Lesarini, che debbo ora descrivervi; era abbastanza ricco per vivere ozioso, e amava consumare i suoi ozi fuori del ceto in cui l'aveva fatto nascere il caso. Tra i suoi pari sarebbe stato un signore; ma ognuno ha i suoi gusti, ed egli preferiva stare coi nobili, facendo il servitore. Uomo maturo, si atteggiava a giovanotto, accettando seriamente il titolo di «molto pericoloso» che gli davano tutti per celia, lasciandolo volentieri accanto alle loro metà, compiacente amico, accompagnatore discreto, drago senza rostro e senza artigli, animale innocuo e felice, che stava accanto all'arrosto e si pasceva di fumo. Anche le signore lo avevano accettato per quello che amava di essere, e se lo contendevano, figuratevi, se lo strappavano a gara. Lesarini di qua, Lesarini di là, era il cucco delle dame, che ci si divertivano un mondo, lo mettevano a tutte le salse e lo incaricavano ancora delle loro piccole commissioni.
Il Lesarini sorrise beatamente, come vi ho detto. L'uffizio di drago, e nell'orto, non gli dispiaceva niente affatto.
—Sicuro;—replicò Emilio alla dama;—e armato fino ai denti.
—Si capisce;—rispose il Lesarini.—Io qui rappresento l'autorità di
Gino.—
Di Gino, capite? e non del conte Gino Malatesti. È usanza dei Lesarini di non chiamar mai i loro nobili amici per il casato, nè per il titolo che li distingue. Non altrimenti usano con le dame, chiamandole semplicemente, familiarmente, per il loro nome di battesimo, e preferendo il vezzeggiativo, se c'è. Così, quando si degnano di ragionare delle loro imprese col volgo profano, sogliono attaccare dei discorsi come questi:—«Sapete? ieri Corinna mi ha ricordato…. Gino mi rispondeva…. Elena mi pregava iersera…. Ho incontrato stamane Polissena e mi ha detto: ah bravo, Pippo! vi trovo in buon punto; dovreste accompagnarmi dal dentista….» Raccontando queste maraviglie, i Lesarini trionfano, fanno la ruota come i pavoni, o, se vi piace meglio, come i tacchini. Che si fa celia? Darsi del voi con la gente titolata! Essere i confidenti delle dame più cospicue della città! Avere un posticino nel piccolo Olimpo mandamentale! No, per tutti gli Dei che lo costituiscono, non c'è fortuna più grande per un signor Lesarini.
Un'altra specie di Lesarini è quella che fa la corte ai grandi uomini. Il piccolo personaggio vi conosce, vi onora del suo saluto ed anche, a ore avanzate, della sua conversazione. Vedendovi da lunge, scende dal marciapiede, attraversa la strada per muovervi incontro. Voi lo aspettate, credendo che voglia stringervi la mano, chiedervi notizie della vostra salute. Ma che? Il Lesarini vi abborda e vi dice, come se continuasse un discorso:—«Vengo da Muller, ma inutilmente, e adesso vado da Bauer. Sai? il senatore non può far la bocca alla birra di Chiavenna, ed io mi son preso l'incarico di trovarne dell'altra, o di Gratz, o di Baviera.»—A voi non importa un fico secco che il senatore non gradisca la birra di Chiavenna. Lo stimate per il suo carattere, lo ammirate per la sua parsimonia di parole in Senato, lo amate, lo venerate per i capolavori che ha dati alla patria. Ma no; il Lesarini vi ha da raccontare quel che egli mangia e quel ch'egli beve; e mentre voi, per convenienza, gli rispondete un «ah!» che vuol dire e non dire, egli vi guizza di mano.—«Lasciami, perchè ho fretta; debbo andare da Bauer.»—E vada pure; ma non senza fermarsi otto dieci volte per via, raccontando a tutti la medesima storia.
—Vi ha incaricato di ciò, Lesarini?—chiese Emilio Landi al vecchio cavaliere, al drago della contessa Elena.—Siete un uomo fortunato, voi! Ma ecco….—soggiunse, con un risolino arguto il giovanotto,—ecco un suon d'armi, che annunzia un cambiamento di guardia.
—Dite un rinforzo!—notò la contessa, che aveva udito anch'ella un tintinnìo di sciabola nel corridoio.
L'uscio del palchetto si aperse e comparve nel vano il bel luogotenente De Wincsel; biondo, dagli occhi glauchi e dalle guance rosate; a farvela breve, un angelo vestito da ufficiale di cavalleria. Il barone De Wincsel era un fiore esotico trapiantato in Italia come i suoi riveriti padroni della imperial casa di Asburgo Lorena. Nella sua bellezza bionda e rosea spiccava il tipo conosciuto degli oppressori, un tal po' dilavato nella tinta, ma grazioso per la finezza dei lineamenti, che poi, col crescer degli anni, per quella medesima finezza, fors'anche per le basette ispide e folte sotto un naso troppo piccolo, prende qualche volta un aspetto felino.
La contessa Elena accolse il nuovo visitatore con atto di familiare amabilità, mostrando così al marchese Emilio di non dar nessun peso ai suoi frizzi. Già, se ella avesse dovuto badare a tutte le punture di spilla del Landi, le sarebbe mancato il tempo per meritarne delle altre. Elena Malatesti era tuttavia nel primo anno del suo matrimonio, e già gli arguti Modenesi le avevano appiccicato il suo nomignolo di Generala. Infatti, ella non si vedeva mai senza l'accompagnamento di «un brillante stato maggiore.» Aiutanti, ufficiali d'ordinanza, ufficiali stranieri in missione temporanea, si davano la muta nel salotto della contessa, nel suo palco a teatro, allo sportello della sua carrozza sulla pubblica passeggiata. Infine, quando si è detto la Generala, non occorrono spiegazioni; la contessa Elena aveva il suo soprannome, e mostrava di averlo guadagnato.
Che diceva il conte Gino? Credo che non dicesse nulla. Il nobile, l'intelligente, l'arguto Gino Malatesti era diventato un altr'uomo da quello di prima. Il panno appariva sempre quello, ma era un panno stinto. Del resto, anche così ridotto alla condizione di ombra, anzi perchè diventato ombra, adempieva con garbo al suo uffizio di signore e padrone alla moderna, cioè di compagno, di associato, di tutore, di tutto quel che vorrete, fuorchè padrone e signore. Per lui, dopo tutto, era sempre lì pronta una parolina gentile della moglie; a lui andavano di pien diritto, e non mancavano mai, gli ossequiosi saluti e gli atti di amichevole deferenza di tutto lo stato maggiore di sua moglie. Godeva infine di una società che avrebbe potuto far felice Ulisse, nella sua reggia d'Itaca, in mezzo all'assiduità complimentosa dei Proci, se il fiero marito di Penelope, nascendo con le idee di tremil'anni dopo, avesse voluto rinunziare al gusto di spiccare il suo grand'arco dalla parete e di fare un'ecatombe, non consentita dal codice penale e disapprovata da tutti i ben pensanti del giorno.
E il conte Gino si contentava di quella vita? Ci si adattava? I ben pensanti del tempo suo, che sarebbero stati tutti d'accordo per disapprovare un suo atto d'insofferenza, non sapevano capacitarsi di tanta sua dabbenaggine.—Ma è cieco?—dicevano.—O piuttosto ama di parerlo?—
I più furbi, i più sottili, argomentavano che lasciasse così libera la figlia, perchè amava sempre la madre. Ma poteva reggere, quella supposizione? E il marchesino Landi che gli era succeduto? e sua Eccellenza il ministro di Stato, che era succeduto a tutt'e due? Del resto, il conte Gino si vedeva poco nel salotto della marchesa Polissena; pochi minuti nel suo palchetto a teatro, e a passeggio mai. Anche quella supposizione fu dunque abbandonata. Che altro pensare dei fatti suoi? Un osservatore moralista sentenziò brevemente:—È la penitenza. Casa Malatesti avrà presto un gran santo.—
Il barone de Wincsel, entrato nel palco e sedutosi accanto al marchese Landi, che restava ancora per tutto l'atto al posto d'onore, parlava poco e guardava molto. Era ancora nel periodo delle occhiate e dei sospiri, l'angelo vestito da luogotenente, e aspettava la dolce parola che gli permettesse di spiccare un volo più ardito. E poi, egli non era un parlatore, un chiacchierone, come il marchesino Landi; faceva assai più rumore con gli sproni e con la sciabola, che non con la lingua. Non dimenticate che quello era il tempo in cui si sentivano saltellare le durlindane sui selciati delle città, con gran noia dei viandanti pacifici; nè i generali pensavano a reprimere questo mal vezzo nordico, nè i pronipoti del cavaliere Bajardo avevano ancora insegnato col loro gentile esempio che si può essere valorosi soldati anche portando per via un bastoncello di nocciolo, o una mazza di giunco.
Il De Wincsel guardava e sospirava. La contessa Elena credette conveniente di sviare con qualche discorso l'attenzione di Emilio Landi. Quanto al Lesarini, in verità, non occorrevano tanti artifizi, poichè egli non capiva nulla e non si accorgeva di nulla. Il discorso della contessa Elena si aggirò sulle dame che erano quella sera in teatro. Lei esponendo, Emilio facendo le chiose, si passarono in rassegna tutti i palchetti. La Randoni, sempre nobile, sempre severa, un tipo di matrona antica; come mai aveva potuto mettere al mondo una figliuola così pallida e scarna? E poi, perchè quell'abbigliatura verde? Nessuno per consigliarle un altro colore, che l'abbattesse meno? Un po' meglio la Frassinori; ma che pretensioni, Dio buono! Si credeva una Giunone, o poco meno. A proposito, e perchè non si vedeva l'avvocatino? Dov'era Giunone non doveva mancare il pavone, l'animale a lei sacro.
E la Dal Pozzo Farnese, sempre bella, sempre rigogliosa e fresca come un fior di stagione! Di quella si diceva bene, non potendo fare altrimenti. La Dal Pozzo Farnese era una sorella di Emilio Landi. Tra presenti si usano di queste cortesie! Ma quelle due borghesucce arricchite delle Fantuzzi, che volevano gareggiare di eleganza con le nobili dame, com'erano spietatamente conciate dalla critica di Elena Malatesti e dalla vena compiacente del Landi! Ah, una novità, quella sera! Anche la Campolonghi in teatro; e tutta in fronzoli, e coi brillanti agli orecchi. Naturalissimo; era sposa. E chi era il fortunato mortale? Uno delle parti di Reggio; sicuramente quel giovinotto alto e biondo, un po' timido, impacciato nei modi, ma bello, che si vedeva spuntare dal fondo del palco. Ma chi era quell'altra donna, dal viso bianco e dai capegli nerissimi, che sedeva di rincontro alla sposa? Una fanciulla, certamente, com'era dimostrato dalla giovinezza dell'aspetto e dalla semplicità dell'abbigliatura. Ma non doveva essere modenese, poichè Elena Malatesti non si ricordava di averla veduta mai, e il marchese Landi nemmeno. E aveva guardato Elena, la bella sconosciuta; e la guardava ancora con molta attenzione.—Chi sarà costei?—La parentela dei Campolonghi si conosceva tutta, e il viso di quella sconosciuta non rispondeva a nessuno dei nomi che Emilio Landi poteva citare, tessendo la genealogia di un'intera tribù.—Chi sarà costei?—Neanche il sapiente Lesarini poteva appagare su questo punto la curiosità di Elena Malatesti.
—Chiunque sia, è molto bella;—conchiuse Emilio Landi.
—Vi pare?—disse Elena, che non voleva persuadersene.—Ma già, dimenticavo che voialtri uomini prendete fuoco come l'esca. Guardate almeno com'è tutta affagottata!
—Affagottata, poi, non mi sembra. È messa con molta semplicità.
—Alla moda di cent'anni addietro!—ribattè la contessa.
—Cento son troppi, via! Diciamo di cinque;—volle correggere Emilio
Landi.
—E siano anche cinque;—replicò la contessa.—Cinque è come cento, in
materia di moda.—
Intanto, quelle guardate della sconosciuta le davano noia. Perchè? Non guardava anche lei, forse? Ma quella sconosciuta era bella, e quelle guardate così lunghe, venendo da una bella persona, così semplice negli abiti, così composta negli atti, avevano l'aria di un giudizio in corso. Finalmente, che vi dirò? la contessa Elena era molto curiosa, voleva saper tutto, e le dava noia di ignorare chi fosse quella giovane donna, non mai veduta fino allora, e sicuramente la più bella tra quante erano allora in teatro.
—Lesarini, voi dunque non ne sapete nulla?—gridò la contessa.—Ma che uomo siete voi? Discendete un pochino e domandate a qualcheduno che sia meglio informato.
—È permesso di ignorare qualche cosa, a questo mondo;—osservò il Lesarini, alzandosi di scatto;—ma è obbligo sempre d'istruirsi, per servizio delle belle signore.—
Si mosse, così dicendo, per discendere in platea.
—Ah Lesarini!—esclamò la signora, mandando a lui la parola e l'accento appassionato, ma l'occhiata furtiva al barone De Wincsel.—È doloroso, sapete, questo vostro plurale!—
Il vecchio cavaliere sorrise beatamente, fece la ruota, ma non rispose verbo. Quando sono accusati di galanteria con molte, e di galanteria fortunata, s'intende, i Lesarini non rispondono mai. Confermare non possono; negare non vogliono; perciò lasciano correre, felici abbastanza che, in mancanza di storia, una leggenda si formi.
Andato il Lesarini a prender lingua, la contessa Elena seguitò la rassegna col Landi, e il giuoco innocente delle occhiate col De Wincsel. Ma tratto tratto guardava anche verso il palchetto della sposa Campolonghi, e quante volte puntava da quella parte il binocolo, tante vedeva lo sguardo della sconosciuta rivolto su lei.
—Andiamo via!—diss'ella finalmente in cuor suo.—È una provinciale di certo, e non sa ancora come son fatte le gran dame.—
Con questo ragionamento, che appagava la sua superbia e che aveva anche una certa apparenza di vero, la contessa Elena mise lo spirito in pace e si lasciò guardare dell'altro, come una dea dell'Olimpo, Giunone, ad esempio, scesa per gran degnazione in mezzo agli Etiopi. Infine, ad un uomo può dispiacere di esser guardato con una certa insistenza da un altro; ad una donna non può spiacer mai d'essere argomento di curiosità femminile, o di ammirazione mascolina, quando ella crede di esser bella, o sa di essere abbigliata all'ultima moda.
Si badava poco alla musica, come vedete. La musica è il linguaggio dei Numi, non c'è che dire; la musica piace anche molto alle signore, per questa ragione semplicissima, che il linguaggio dei Numi copre le voci dei mortali e permette loro di chiacchierare comodamente nei palchi. Quando si recita un dramma o una commedia, la cosa è molto difficile. Altre voci umane si alternano sul palcoscenico, l'uditorio della platea vuol sentir tutto, e zittisce spietatamente le dee che fanno chiasso sui lati. Viva dunque la musica! Quando si è prestata una mezza attenzione alla cavatina del tenore, o al duetto amoroso fra tenore e soprano, o all'aria del baritono, se questi è un bell'uomo e fraseggia con gusto, o al pizzicato degli strumenti a corde, o alla grande uscita delle trombe, per dare anche la parte sua all'orchestra, il rimanente non fa che aiutare il discorso, e le due o tre file di palchi son tutto un cinguettìo, come la frappa di un olmo sull'ora del vespero, quando ci son calate a riposo le passere.
Il terz'atto dell'opera era finito, e il marchese Landi si alzava già, per andarsene a vedere il ballo da un palco di giovanotti, più vicino al proscenio, quando capitò il conte Gino Malatesti. Sebbene fisicamente fosse sempre quello di prima, il conte Gino non pareva più lui, tanto può sull'aspetto di un uomo l'abbattimento dello spirito. Levate il sole ad una bella scena campestre, e non riconoscerete più nemmen quella. Sfiaccolato, cascante, senza brio nello sguardo, senza vivacità nel discorso, il conte Gino Malatesti era invecchiato di dieci anni in sei mesi. Entrò lento, con la sua aria d'uomo rifinito, stese lentamente la mano al De Wincsel, più lentamente rattenne col gesto l'amico Landi al suo posto, e si assise nel fondo del palco, rispondendo breve a ciò che quei due gli dicevano. Poco stante, essendo ripresa la conversazione tra essi e sua moglie, si ecclissò, rimanendo sul posto, e non si seppe neanche più che ci fosse.
—Vedete mio marito;—disse dopo qualche minuto la contessa Elena.—È capace di dormire.
—Non dormo;—riprese Gino;—ascolto ciò che dite voi altri.
—Ecco, se dovessi dire, non ne hai proprio l'aria;—osservò Emilio
Landi, mettendosi galantemente dalla parte della signora.
—Se almeno tu volessi raccontarci le visite che hai fatte!—ripigliò la contessa.
—Mi avrai veduto;—rispose Gino.—Sono stato da mamma….
—Cinque minuti!—interruppe ella.—E poi?
—E poi dalla Pallavicino, dalla Borsi, dalla Frassinori.
—Che dice la divina Giulia?—domandò la contessa.—È sempre nemica della musica del nostro Verdi?
—Ah, non so…. non ne ha parlato.
—Di che parlava, dunque? Ella non ha quasi altro tema.
—Non saprei dirti;—replicò Gino, confuso.—Si parlò di cose da nulla….
—Vedete, Emilio?—esclamò la contessa, rivolgendosi al Landi.—Mio marito va a far visite, e non sa nemmeno di che cosa gli abbiano parlato.—
Il conte Gino si seccava, e sorrideva tacitamente, a labbra chiuse, come l'uomo che si secca. A levarlo di pena giunse il vecchio Lesarini, glorioso e trionfante. Quella volta il marchese Landi fu per andarsene davvero; ma anche stando in piedi volle rimanere un istante, per sentire le novelle del messaggero.
—Nunzio, che rechi?—diss'egli con piglio alfieresco al nuovo venuto.
—Ho trovato, finalmente;—rispose il Lesarini.—Ho faticato un pochino, chiedendo di qua e di là; ma ora so tutto, so tutto.
—Che cosa?—domandò la contessa, che aveva l'aria di non ricordarsi più della sua grande curiosità di mezz'ora prima.
—Il nome di quella signora….—replicò il vecchio Ganimede,—anzi di quella signorina, del numero quindici.
—A mano manca!—riprese il Landi, con accento rossiniano.
—Sicuro;—disse quell'altro.—Infatti, è proprio a mano manca.
—Ma finitela con queste chiacchiere;—gridò la contessa, spazientita.—Come si chiama questa signorina?
—Per cui tanto reo tempo si volse!—soggiunse, come se volesse compier la frase, l'impenitente marchese Emilio.
—Una Guerri;—disse il Lesarini.—Sapete, e se non lo sapete ve lo dico io, che la Campolonghi sposa un Guerri, del Reggiano. Gente ricca, questi Guerri, ma vivono quasi sempre in montagna. Orbene, quella ragazza è una Guerri, di Fiumalbo, cugina dello sposo, e venuta a Modena, per assistere alle nozze.—
Il conte Gino, sulle prime, non aveva badato al discorso del Lesarini.
Non avea neanche udito il nome dei Guerri; udì invece il nome di
Fiumalbo, e si scosse.
—Che c'è?—domandò egli.—Che dite di Fiumalbo?
—Ah sì!—esclamò il Landi.—Tu ci sei stato, da quelle parti, e dovresti anche conoscerla, quella bellezza rara.
—Che bellezza? Dove?—riprese Gino, turbato.
—Laggiù, al numero quindici. Prendi il binocolo, se vuoi vederla meglio. È una Guerri, di Fiumalbo.—
Gino aveva preso il cannocchiale, ma lo lasciò tosto cadere, e fu bene che il Landi non lo avesse ancora abbandonato del tutto, se no, povera madreperla, e povere lenti! Guardava frattanto, il povero Gino, guardava là, dove il Landi gli aveva indicato, e donde oramai non poteva più sviar l'occhio; ma intravvide appena, e una nube gli offuscò la pupilla.
—Guerri! di Fiumalbo!—diceva frattanto la contessa
Elena.—Sicuramente tu dovresti conoscerla, se ci sei stato sei mesi.
Anche a me pare di aver sentito nominare questa famiglia. Da chi mai?
Ah, ricordo, da mia madre, otto o nove mesi fa, quando ebbe le prime
notizie tue dal ministro.—
Guardava intanto suo marito, quella diavola di contessa, così giovane e già così diavola! Gino si era fatto bianco nel viso, come un cencio lavato. Balbettò poche parole, che nessuno intese, poi si volse all'uscio del palchetto, barcollando.
—Che hai?—gridò Emilio Landi, cercando di trattenerlo..
—Nulla, nulla; un semplice capogiro. Prendo un po' d'aria nel corridoio.
—Lesarini, Landi, seguite mio marito;—disse la contessa.—Sorreggetelo, che non caschi. Ah, ah! Venuto a tempo, questo capogiro!—
E rise, la bella signora. Poi, volgendosi dall'altra parte, puntò il cannocchiale verso la sconosciuta, non più sconosciuta, che in quel momento si ritirava anch'essa in fondo al suo palco.
—Scena doppia, a quel che sembra!—mormorò la signora.
—Che dite, contessa?—domandò il De Wincsel, udendo il suono, ma non cogliendo il senso delle parole.
—Nulla, barone. Guardavo una ragazza, che il Landi mi diceva tanto bella.
—Dove?
—Laggiù, al numero quindici. Ma ora non è più in vista. Voi per altro non avete perduto nulla. È un tipo di contadina.
—Sapete bene, contessa,—susurrò in tono di madrigale il De
Wincsel,—che io non me ne lagnerò. Non guardo che una donna, io.
—Fate bene, De Wincsel;—rispose la contessa.—E sia sempre una sola. Un uomo ci si trova male, fra due donne. Il minor male che gli tocchi è di perder l'una senza aver l'altra.—
La bella signora che faceva queste savie riflessioni avrebbe potuto illuminare, non solamente il barone De Wincsel, ma anche noi, povero volgo ignaro, soggiungendo qualche altra considerazione intorno alla donna che si trova fra parecchi uomini, e ci vive tranquilla, come nel suo elemento. Ma di questo ella non si curò più che tanto, la nervosa contessa, e noi ci abbiamo perduto una cognizione che per l'autorità della persona sarebbe stata importantissima. E non è a dire che si trattenesse per difetto di sincerità. Figuratevi che dentro di sè la contessa Elena rendeva perfino giustizia a Fiordispina Guerri, di cui dianzi aveva pur fatto un così acerbo giudizio.
—È bella, infine, e la gelosia non deve farmi travedere;—pensò ella, mentre il De Wincsel stava ancora cercando il senso delle parole di lei, come un avventor di caffè cerca il motto della sciarrada nel giornale con cui ha fatto colazione.—Del resto, sono io proprio gelosa? È bella, non c'è che dire, e capisco che il mio signor marito, nell'ozio forzato del suo confine a Querciola, abbia potuto invaghirsi di quel fiore di bosco. Che amori devono essere stati fra lor due! Perchè poi, sapendo queste cose, la mia signora madre abbia voluto ad ogni costo fare di me una Malatesti, in verità non arrivo a capirlo. Intendo la vendetta, che è il piacere degli Dei. Ma c'era bisogno che ne fossi io la vittima? Io, nel caso di mamma, gli avrei lasciato sposare la sua montanara, con la certezza di esser meglio servita fra un paio d'anni, dal pentimento e dalla noia del signor conte Malatesti.—
Ah contessa, contessa! Ecco un ragionamento molto leggero, che non fa onore alla vostra perspicacia. In primo luogo voi non potevate per nessuna ragione esser la vittima, nella vendetta della marchesa Polissena vostra madre, e la degna signora vi conosceva benissimo per sangue suo, scegliendovi come istrumento. In secondo luogo, dato e non concesso che il conte Malatesti potesse pentirsi fra due anni di un matrimonio in casa Guerri, sarebbe sempre stata una vendetta troppo lenta per la vostra signora madre. Non la serviva meglio, e in soli sei mesi di tempo, un matrimonio del conte Gino in casa Baldovini? Pensateci, nervosa contessa, e ci darete ragione, sincera come siete, e spregiudicata parecchio.
Il grazioso Lesarini interruppe quel sapiente monologo, ritornando nel palco.
—Ebbene?—gli chiese la contessa.
—Nulla,—rispose egli.—Un semplice capogiro; forse effetto del caldo.
—E dov'è, ora?
—Qui nel corridoio col Landi; ritorna subito.—Alla contessa importava poco che suo marito ritornasse, o restasse fuori dell'altro. Rispose tuttavia con un gesto di soddisfazione, che poteva essere di ringraziamento per le notizie del Lesarini, ed anche di chiusura al discorso.
Il ballo stava per incominciare, quando riapparve il conte Gino, ancora seguito da Emilio Landi.
—Come?—esclamò la signora.—Siete ritornato? Credevo che foste andato a far visita…. laggiù.—
Il conte Gino le rivolse un'occhiata severa, che, per esser la prima, non doveva turbarla molto; poi freddamente soggiunse:
—Son venuto a prendervi, per ritornare a casa.
—Che novità è questa, Gino?—domandò ella, facendo un gesto di stupore.
—Non è una novità, che io vi accompagni;—replicò Gino, con studiata lentezza di frase.—Spero bene che non mi lascerete andar solo, e non incomoderete il barone De Wincsel per ricondurvi, quando io ci sono.
—Egli…. o un altro! Ce ne son tre, di cavalieri e di amici;—mormorò ella, che aveva indovinato il valore dell'argomento.
Si alzò, nondimeno, e accettò la mantellina che era pronto ad offrirle il più vecchio dei tre.
Ed egli e gli altri due capirono poco in quella scena coniugale, nata lì per lì, senza cagione apparente. Nei palchi, poi, fu una grande maraviglia; nessuno capì perchè la contessa Elena Malatesti se ne andasse sul bel principio del ballo. Ma già, era tanto capricciosa e strana, la contessa Elena! Tutta sua madre, infine, quando sua madre aveva vent'anni. Il povero marchese Baldovini ne sapeva qualche cosa! E ciò lo compensava, il brav'uomo, di tutto l'altro che doveva ignorare, in processo di tempo.
Quel che avvenne in casa Malatesti s'immagina. La contessa aveva obbedito al comando, con aria di vittima ingioiellata e rassegnata al sacrifizio. Ma come fu giunta a palazzo, fece una scenata coi fiocchi. Ella capiva benissimo che se non si ribellava subito, se non mostrava i denti a suo marito, quell'uomo così dolce, ma così freddo, che l'aveva sposata per forza, che amava lei quanto ella amava lui, sarebbe diventato un tiranno, non le avrebbe lasciato più un'ombra di quella libertà che ella aveva imparato ad apprezzare, appena uscita di conservatorio, nella casa di sua madre. E gliene disse, al conte Gino, gliene disse di crude e di cotte, sperando che quell'uomo perdesse la pazienza e levasse la mano per batterla. Ma il conte Gino era un signore. Stette un poco a sentire, sdegnoso e taciturno, quella furia scatenata; poi si ritirò nella sua camera, lasciando la contessa più inviperita che mai.
La mattina seguente capitò al palazzo Malatesti la marchesa Polissena. Veniva a vedere perchè la contessa sua figlia fosse partita così presto da teatro. Che diamine! Non si va via dallo spettacolo, quando esso è sul più bello. Ci sono dei doveri sociali anche nei divertimenti, ed occorrono ragioni assai forti per rinunziare alle commozioni artistiche di un passo a due. La marchesa Polissena seppe allora che sua figlia aveva dovuto andarsene per obbedienza ai capricci di un marito geloso o seccato.
—Che vuol dir ciò?—chiese ella, entrando con piglio tragico nello studio del conte Gino.—Perchè queste scenate, che non si usano più, che non si sono usate mai, nella buona società? Elena mi ha confessato tutto. Voi dunque vi mettete a fare il tiranno? È una parte odiosa e ridicola, ve ne avverto, e intendo che la smettiate.—
Il conte Gino lasciò passare quella raffica; poi freddamente rispose:
—Mi duole di dovervi avvertire che in casa mia faccio quel che mi pare, e di quel che faccio non rendo conto a nessuno.
—È il vostro programma?
—Decoratelo pure di questo nome: è il mio modo di vedere.
—Non è il mio, e avrete la compiacenza di cambiarlo;—rispose la marchesa Polissena.—Voi siete il marito di Elena, ma io sono sua madre. Non ve l'ho concessa, ricordatelo, non ve l'ho concessa perchè aveste a tiranneggiarla.
—Ah, signora!—esclamò Gino, spazientito.—Meglio avreste fatto a non concedermela, poichè vi piace di usare questo verbo, scambio d'un altro che sarebbe più adatto.
—E quale di grazia?
—Debbo io rinfrescare la vostra memoria? Questo matrimonio, di cui vedevo tutto l'orrore (perdonate, se non trovo altro vocabolo), questo matrimonio, che voi per la prima avreste dovuto giudicare impossibile, voi me lo avete imposto, signora!—
La marchesa Polissena si morse le labbra. Ma ella non era donna da turbarsi per così poco.
—Sia pure;—diss'ella;—imposto, perchè vi è stato offerto come il corrispettivo di certi perdoni. Accettando i benefizi che v'erano annessi, dovevate accettarne le condizioni.
—Le ho io violate?—gridò Gino.—Da sei mesi la vostra figliuola è padrona di far tutto ciò che le pare e piace; da sei mesi ella ha in me un marito esemplare.
—Parleremo di ciò;—ribattè la marchesa.—Per intanto, iersera avete sfoderata la vostra autorità, e molto inopportunamente, per il luogo e per l'ora. Con quale ragione? Sareste voi capace di dirlo?
—È una ragione onesta, signora, e non temerò di sottoporla al vostro giudizio;—rispose Gino, con calma.—Ho veduto iersera un capriccio, di ragazza viziata, e il proposito deliberato di offendermi. Posso lasciar correre molte cose, signora; non posso egualmente permettere che si deridano sentimenti sacri, di rispetto e di amicizia, per chi è tanto al disopra di noi; non posso permettere che si entri con quell'aria di sprezzo nel santuario dei miei ricordi, e mi si butti in faccia quello che io ho sempre gelosamente custodito, come la parte migliore di me.
—Di bene in meglio!—esclamò la marchesa.—C'è qui una progressione ammirabile. E coloro che credettero un giorno di essere qualche cosa in quel vostro santuario, possono invidiare il posto che voi avete dato a certi ricordi più freschi. Gino,—soggiunse la marchesa, mutando improvvisamente il tono delle sue parole,—voi mi ricordate in mal punto l'offesa che ho ricevuta da voi.
—Da me? V'ingannate, bella signora;—rispose Gino, dissimulando a stento il fastidio di quella disputa;—già un'altra volta ho avuto occasione di dirvelo, e speravo oramai di avervi persuasa. Chi aveva dimenticato, di noi due? Mandato a confine, senza che mi lasciassero il tempo di vedere nessuno, vi scrissi, e non ebbi risposta. Non potevate darmi un cenno di voi, lo capisco; eravate tanto impegnata nella stagione teatrale immaginata e architettata da voi!
—Sciocchezze!—mormorò Polissena.—Volevate voi che io mi rendessi la favola di tutta la città? La mia condizione era forse tale da permettermi di trascurare ogni riguardo per voi?—
Gino raccolse con un sorriso amaro quella grande argomentazione.
—Ah sì!—diss'egli di rimando.—I riguardi, le apparenze, le convenienze sociali volevano che voi andaste ai bagni di Lucca, accompagnata da Emilio Landi. Ma non vi biasimo, badate; un cuore guarito non sente più certi dolori, e il mio amor proprio aveva ceduto in tempo ai consigli della ragione. È quasi ridicolo, per non dir peggio, che io parli ora a voi, mia suocera, di queste ragazzate del tempo antico. Ho infine accettata la legge vostra; sono passato sotto il giogo, come un vinto; che cosa volete di più? Sono un marito esemplare, già ve l'ho detto; concedo a mia moglie ogni libertà….
—Troppa!—interruppe la marchesa.—E le fate veder troppo chiaramente che non l'amavate, sposandola.
—Perdonate, non ho di questi rimorsi;—replicò Gino.—Ella non ha trovato in me un uomo pazzo d'amore per lei, ma almeno almeno un compagno affettuoso e cortese. Uscita appena di conservatorio, doveva ella essere già tanto esperta, da distinguere tra gli ardori della passione e il sentimento delicato dell'amicizia? Io dimentico, o signora, che voi non le avete nascosto una parte del mio passato. Ciò che io ne ho veduto ieri sera, mi spiega molte cose del suo carattere e dei suoi diportamenti con me. Ma sapesse ella anche tutto,—proruppe Gino, irritato dai vincoli che la delicatezza imponeva al suo discorso,—di che aveva a lagnarsi? Fui l'uomo più compiacente del mondo; ho popolato la mia casa di sospiranti; ho veduto succedersi al fianco di vostra figlia tutti i tipi più graziosi, come i più antipatici.
—Colpa vostra!—notò la marchesa.
—Che dovevo far io?—replicò Gino.—Una scena coniugale ad ogni nuovo aspirante che si presentava? Chiudere le porte di casa mia, mentre erano aperte quelle di casa vostra?—
La marchesa Polissena rispose con una crollata di spalle.
—Voi date troppa importanza ad alcuni scherzi innocenti, che sono il passatempo della gioventù;—diss'ella poscia, con un sorriso di compassione.—Auguratevi di non aver mai da rimproverare a vostra moglie altri torti che questi, di esser bella, di piacere, e di sentirselo dire.
—Ed ho lasciato correre, come vedete;—rispose Gino.—Ho lasciato dire, ho lasciato ascoltare.
—Per giungere allo scandalo di iersera!—replicò la marchesa.—Meglio valeva incominciare subito. La mia Elena avrebbe saputo fin da principio a che vita era condannata da voi.
—Non dimenticate,—disse Gino,—che lo scandalo di ieri sera, come vi piace di chiamare una partenza da teatro, ha avuto ben altre cagioni. Vi ha ella ripetute le sue parole?
—Sì, e non ci ho veduto che una cosa, assai perdonabile agli occhi di un uomo di garbo. Vostra moglie è gelosa.
—Di un'ombra;—rispose Gino.—E quest'ombra, suscitata con discorsi imprudenti da voi.
—Sì, ora accusate me!—gridò Polissena.—Dopo essere diventato coi vostri amori di montagna la favola di tutta Modena, pretendevate che niente giungesse, nemmeno l'eco delle vostre sciocchezze, all'orecchio di Elena? Pure, ella seppe dimenticare quella storia, poichè vi ha sposato. Date colpa a voi, se la vostra freddezza, il vostro essere sempre col pensiero altrove, hanno richiamato alla sua mente i discorsi di tutti. Un caso che non so ancora spiegarmi, o che potrei spiegarmi troppo bene, le ha condotta davanti la vostra innamorata. Doveva ella non darsene per intesa? Conoscete assai male le donne, conte Gino, se credete che possano tollerare queste offese al loro amor proprio.
—Ah, manco male!—esclamò Gino.—L'amor proprio, che non è punto l'amore!
—E che perciò? Anche quando l'amore ci è uscito dal cuore, l'amor proprio rimane;—replicò Polissena.—Non offendete l'amor proprio di una donna, quando ne avete perduto l'amore. Ma questi sono discorsi vani, tra noi;—soggiunse la bella sdegnata.—Ditemi piuttosto che cosa contate di fare.
—Io?—chiese Gino, maravigliato.—Nulla.
—Ma vostra moglie è offesa.
—Lo sono più di lei; e mi fate pensare che ella deve scusarsi con me di una sgarbata allusione.
—Non lo sperate!—gridò Polissena.—Se anche Elena acconsentisse ad umiliarsi davanti all'ombra della vostra Dulcinea, non lo permetterei io, mi capite? Io, sua madre, non le permetterei di avvilirsi al cospetto dell'ombra. La chiamo così, per imitarvi,—soggiunse la marchesa, con piglio sarcastico,—quantunque l'abbia veduta anch'io, in carne ed ossa, la contadina per cui avete tanto sospirato. Bella, sì, d'una sciocca bellezza! La bellezza dei capegli neri! Ve ne ricordate, conte Gino? La sentenza è vostra, e di quei tempi che davanti ai vostri occhi avevano grazia solamente le bionde. Molto involontariamente, credetelo, ma ho pur dovuto pensarci, vedendo quell'ottava meraviglia. Gran cosa, la vostra contadina! Divinità eccelsa, a cui tutto si dovrebbe sacrificare, la dignità di mia figlia e l'onor mio! Badate Gino! ho ancora le braccia lunghe, e posso farvi pentire.—
Stendeva il braccio, così dicendo, e quel braccio pareva lungo davvero, con quella bianca mano aperta in atto di minaccia.
—Come?—gridò Gino.—Che cosa ardireste ancora?
—Tutto! Non dimenticate che i vostri Guerri hanno sempre un conto aperto con la giustizia.
—Sarebbe un'infamia!—esclamò Gino, torcendo il viso, inorridito.
—Come vorrete;—replicò Polissena.—Io difendo mia figlia, e prendo le armi dove sono.—
Gino rimase un istante sovra pensiero, considerando il pericolo a cui erano esposti i suoi poveri amici ed ospiti di Fiumalbo. Il suo sagrifizio non era dunque bastato a liberarli per sempre? Quella donna furibonda lo teneva ancora incatenato a' suoi piedi?
—Vi ho detto, signora, quello che volevo io;—mormorò egli, dopo quell'istante di pausa.—Ditemi che cosa volete voi.
—Che facciate delle scuse ad Elena.
—Delle scuse? L'ho io dunque offesa così gravemente?
—Sia grave o leggera l'offesa,—replicò Polissena,—essa ebbe testimoni tre persone.
—E per caso,—riprese Gino,—dovrei fare delle scuse anche ai tre testimoni?
—Una buona parola andrebbe detta, sicuramente. La scortesia del vostro comando ad Elena può averli feriti benissimo.
—Dio mio! Il Lesarini, ferito? È un uomo che non conta nulla. Il Landi, ferito? È un vecchio amico nostro, e vorrà dimenticare queste scioccherie.
—C'è il De Wincsel;—notò la marchesa.
—Ah, sì, il De Wincsel! Ci venivo;—rispose Gino.—Al barone De
Wincsel darò tutte le spiegazioni che egli mi chiederà.
—È un uomo delicato e non chiederà nulla.
—Tanto meglio per la sua delicatezza;—replicò Gino, spazientito.—Penserò, del resto, al vostro consiglio. Non credete voi che io debba in questo caso consultare anche mio padre?
—Che bisogno c'è di parlare al conte Jacopo?
—Lo vedo io, il bisogno, e spero lo riconoscerete anche voi. Mia moglie, per un semplice invito a lasciare il teatro, mi mette al punto di dover discutere con voi i termini di una solenne riparazione. È un affare grave, adunque, un affare di Stato! Se ella si è consigliata con sua madre, non dovrò io consigliarmi con mio padre?—
La marchesa Polissena stava per dargli risposta, quando fu bussato all'uscio, e un servitore entrò, annunziando l'arrivo di due signori, che chiedevano di parlare al conte Gino.
—Falli passare nel salotto;—disse Gino, dopo aver dato una guardata ai biglietti di visita che il servitore gli aveva consegnati.—Vengo subito da loro.—
Il servitore s'inchinò ed escì, per eseguire i comandi ricevuti.
—Suocera mia, permettete?—ripigliò Gino, volgendosi a Polissena.—Ripiglieremo la nostra conversazione più tardi. Se pure,—soggiunse con aria dolente,—non vi sembra che abbiamo discorso già troppo per così piccolo argomento.
—Che cosa vogliono questi signori?—domandò la marchesa, senza por mente alle parole di Gino.
—Non so; vado a vedere;—diss'egli.
—E chi sono?
—Due amici, signora.
—Due amici! E mandano i loro biglietti di visita!
—Mah!… Forse per non vedere storpiati i loro nomi da un servitore;—rispose Gino, sorridendo.
Era il suo primo sorriso, dacchè la marchesa Polissena era entrata nello studio. Ed era anche giusto che sorridesse, il povero conte Gino. La visita di quei due personaggi gli recava la speranza di un diversivo, di uno di quei buoni ed utili diversivi, che sono invocati, salutati come la man di Dio, nei momenti difficili.
La marchesa non domandò altro e lo lasciò partire, rispondendo con un cenno del capo al suo ossequioso saluto.
Capitolo XVII.
Le vittorie di Polissena.
Non erano due amici, in verità, quelli che aspettavano il conte Gino Malatesti. Uno di essi era un semplice conoscente, lo Schwabe, anch'egli barone, o qualche cosa di simile, anch'egli luogotenente di cavalleria, come il barone De Wincsel. L'altro era il marchesino Frassinori, un fatuo, un pretensioso, che egli non poteva soffrire.
—Li prego, vogliano sedersi;—disse Gino, assai cerimoniosamente, additando due sedie.—In che posso servirli?—
I due visitatori aspettarono che il conte Malatesti avesse preso posto sulla poltrona; poi sedettero anch'essi, stando bellamente sulla vita.
—Veniamo, signor conte,—disse il luogotenente Schwabe,—incaricati di una commissione del signor barone De Wincsel.
—Ah, bene!—rispose Gino, inchinandosi.—E che vuole?
—Vorrebbe…—ripigliò quell'altro.—Ma in verità, il verbo è improprio, nel caso presente. Il signor barone desidera uno schiarimento da Lei. Iersera, essendo egli in visita nel palco di Vossignoria, gli parve che Ella lo trattasse con molta freddezza, insolita in Lei. Gliene avrebbe richiesto direttamente, o allora, o più tardi, nell'uscir da teatro, fidando nelle loro buone relazioni d'amicizia. Ma questo egli non potè fare, poichè Vossignoria accompagnava a casa la signora contessa. Ora, Ella intenderà, signor conte; pensandoci su, gli son cresciuti i dubbi nell'animo. E siccome gli sta molto a cuore la stima di Vossignoria, che sa di non aver demeritata, la prega per mezzo nostro di volerlo rassicurare su questo proposito.—
Il discorso era gentile, e il conte Gino ammirò la delicatezza del barone Da Wincsel. Bisognava rispondere, e rispondendo non esser da meno.
—Il barone è cortese;—rispose Gino, inchinandosi ancora.—Egli mi offre una facile occasione per dirgli che ha male interpretato un momento di umor nero e dubitato a torto dei miei sentimenti per lui. Ma vedano, signori;—soggiunse egli tosto, frenando col gesto un bel movimento dello Schwabe;—ciò che sarebbe stato possibile ieri, da uomo a uomo, non lo è più egualmente stamane.
—E perchè di grazia?—domandò quell'altro.—Favorisca spiegarci la differenza che ci vede, e che non ci vediamo noi, l'assicuro.
—Ecco, signori miei;—ripigliò il conte Gino.—Ho sempre creduto che quando si presentano due gentiluomini, per incarico di un terzo, a chiedere una spiegazione…
—Uno schiarimento, perdoni!—interruppe lo Schwabe.
—Sia pure uno schiarimento;—disse Gino.—Quando si presentano due gentiluomini, per chiederlo in forma solenne, è cortesia fare in modo che essi non si siano scomodati invano. La loro commissione, signori, è larga, e non potrebb'essere altrimenti, trattandosi di persone così rispettabili; può andare dalla domanda di uno schiarimento a quella di una riparazione. Date certe circostanze, lo capisco;—soggiunse Gino, andando incontro ad una osservazione che già vedeva fiorir sulle labbra del suo gentilissimo contradditore.—Ma appunto perchè la solennità del messaggio suppone l'ampiezza del mandato, mi permettano di usare della maggiore cortesia verso le Signorie Loro, ricusando uno schiarimento che ridurrebbe a troppo piccole proporzioni il loro ufficio cavalleresco!—
Il luogotenente Schwabe stette un momento sopra di sè; volse un'occhiata al compagno, come per interrogarlo, e n'ebbe in risposta un cenno del capo, che voleva dirgli:—fate voi.—Allora il bravo luogotenente, non volendo abbandonar così presto il terreno su cui si era piantato da principio, rispose in questa forma a Gino Malatesti:
—Signor conte, noi intendiamo benissimo le ragioni che la muovono. Esse sono delicate, come la quistione per cui siamo venuti. Ma noi ci terremo fortunati, lo creda, assai fortunati, se per uno schiarimento necessario da amico ad amico Ella penserà di essere, non già davanti a padrini, ma bensì ad amici comuni.
—Grazie!—replicò il conte Gino.—È doloroso per me di non poter approfittare di un'offerta così gentile e così gentilmente espressa. Vogliano dire al signor barone De Wincsel che la sua domanda, toccando il diritto mio di esser freddo, o triste, o di umor nero alle mie ore, io, conscio di non aver mancato a nessun dovere di gentiluomo, la considero… inopportuna.—
Il luogotenente si strinse nelle spalle e chinò la testa, come un uomo persuaso di aver fatto quanto era nel poter suo e perciò di non aver nulla a rimproverarsi.
—Quando è così,—diss'egli, alzandosi,—noi non abbiamo più, signor conte, che a domandarle….
—I nomi de' miei rappresentanti, non è vero?—disse Gino per risparmiargli la fatica.
—Sì, signor conte.
—Ebbene, vogliano fissarmi un appuntamento per questa sera, e avrò l'onore di presentarli.—
Il luogotenente prese dal suo taccuino un biglietto di visita e ci scrisse con la matita poche parole accanto al suo nome.
—Eccole il nostro recapito;—disse, porgendo il biglietto al conte
Gino.—Alle sei, se Le pare.
—Anche alle cinque;—rispose Gino.—E prima, se credono; purchè mi concedano il tempo di trovare due amici. Non prevedendo la loro visita, son costretto a farli aspettare un pochino.
—Che dice Ella mai? Faccia il suo comodo;—disse il tenente.—Aspetteremo i suoi rappresentanti dopo le cinque, com'Ella propone. E grazie, signor conte, e voglia perdonarci il disturbo.—
Qui furono inchini da una parte e dall'altra, e i due padrini del barone De Wincsel si ritirarono, accompagnati dal conte Gino Malatesti fino all'uscio della casa.
Ah, finalmente! il diversivo era trovato; Gino poteva smaltire la collera in qualche modo, sfuggendo alle persecuzioni, alle minacce della terribile suocera. Ma una cosa non aveva egli preveduto, cioè di trovarsela ancora davanti, mentre ritornava nelle sue stanze, per prendere il cappello e il pastrano.
Polissena era là, ritta accanto alla portiera, in atteggiamento severo, disposta a fargli pagare il pedaggio.
—Vi battete?—gli disse.
Gino la guardò con tanto d'occhi, avendo l'aria di cascar dalle nuvole.
—Non crediate di potervi infingere con me;—riprese Polissena.—Ho udito tutto.
—Me ne duole;—disse Gino.—Qualunque cosa avrei potuto credere, fuor questa, che voi, signora, aveste il costume di ascoltare agli usci.
—Tenetevi le vostre lezioni!—gridò la marchesa.—Non ne ricevo e non ne tollero. Il vostro duello non avverrà.
—Che intendereste di dire? Come potreste opporvi voi?
—Lo so io, il come. Vi dico che non vi batterete, dovessi per ciò farvi mettere sotto chiave.
—Mi fareste passare per un vile;—disse Gino.—Non ci mancherebbe più altro; sarei completo, in fede mia!—
Frattanto era giunto a spiccare il pastrano dalla gruccia.
—Signora,—soggiunse egli,—i miei doveri! E vogliate essere più umana con me, ve ne prego!—
Polissena rispose alla preghiera con un gesto di minaccia, e si ritirò verso le stanze di sua figlia, mentre egli muoveva verso l'uscio di casa, per andare in traccia di due padrini.
Le ricerche non furono lunghe, nè difficili. I due primi gentiluomini a cui si rivolse il conte Gino Malatesti accettarono subito, recandosi ad onore di servirlo. Gino diede loro il ricapito dei padrini avversarii, e l'ora e il luogo dove li avrebbero trovati ad aspettare. Il mandato suo, si capisce, era di accettare lo scontro, senza discutere sulle cause: quanto alle condizioni, le desiderava gravissime. I due padrini non accolsero la seconda istruzione così favorevolmente come avevano accolta la prima.
—Se noi domandiamo le condizioni più gravi,—gli dissero,—si crederà poi in città che fossero gravi le offese.
—Ma è già grave,—ribattè Gino,—che mi si voglia imporre l'umore con cui debbo entrare nel mio palco, a teatro.
—Sì, va benissimo; hai un monte di ragioni;—risposero i padrini.—Ma tu non devi dare argomento di supposizioni calunniose alla gente. Del resto, lascia fare a noi; ci regoleremo secondo le circostanze, e provvederemo all'onor tuo, come vorremmo che in un caso simile fosse provveduto al nostro. Ti va?—
Gino ringraziò i suoi padrini, e se ne ritornò al palazzo Malatesti, verso le quattro del pomeriggio.
La contessa Elena non era in casa. Poco dopo la partenza del marito, era escita a far visite, in compagnia di sua madre. Più tardi era venuto un servitore di casa Baldovini ad annunziare che la contessa si fermava a pranzo dai suoi.
—Tanto meglio!—pensò Gino, come il suo servitore gli ebbe fatta relazione della cosa.
Era appena entrato nel suo studio, quando sopraggiunse suo padre. Il conte Jacopo appariva più grave, più accigliato del solito, e Gino capì tosto che dalla marchesa Polissena, o da Elena stessa, era stato informato di tutto.
—Che c'è di nuovo?—gli disse suo padre, sedendosi davanti alla scrivania, in quel medesimo atteggiamento di giudice che abbiamo già veduto a Sassuolo.—Che cosa sono questi duelli e questi dissapori in famiglia? Non debbo io saper nulla?
—Padre mio,—rispose Gino,—tutto ciò è avvenuto improvvisamente, e mi sarebbe mancato il tempo di adempiere un obbligo urgentissimo di cavalleria, se fossi venuto subito da te per consiglio. La marchesa Baldovini del resto, se è lei che ti ha informato, poteva aggiungere che io stesso non volevo risolver nulla, di ciò che ella pretendeva da me, senza ricorrer prima al tuo senno e alla tua esperienza. Vuoi tu ascoltarmi, ora?
—Parla;—rispose il vecchio, senza smettere il cipiglio con cui era entrato poc'anzi.
Gino narrò tutto, dal principio alla fine, rifacendo anche brevemente la storia di sei mesi, che tanti ne noverava il suo matrimonio. Il conte Jacopo lo ascoltò, senza interromperlo mai, senza dar cenno di approvazione o di biasimo.
Così, del resto, dovrebbero ascoltare i giudici. Il conte Jacopo Malatesti non aveva portato mai la toga e il berretto; pure, doveva esser venuto al mondo col bernoccolo del magistrato. Solo a vederlo, si sarebbe potuto credere di aver davanti uno di quei vecchi consiglieri di corte, la cui gravità vigilante non tradisce mai un movimento, anche lieve, la formazione di un pensiero, e gli occhi non brillano che a guisa di punte luminose, per penetrare nei meandri oscuri di un processo, mentre la faccia, immobile come una maschera, tutta a scomparti come una libreria, non fa mostra che di dottrina legale, e in ogni fascio di que' muscoli magri è ristretto un titolo di Codice, da ogni grinza fa capolino un commento.
Gino parlava, e parlando interrogava con gli occhi la faccia di suo padre. Quella faccia era muta, e il nostro giovinotto poteva temere di non aver favorevole il suo giudice. Perciò fu grande la sua maraviglia, quando, finita la sua esposizione, si sentì dire dal conte Jacopo:
—Va bene.—
—Ah!—esclamò egli, sollevato.
—Mi rincresce del duello;—riprese il conte Jacopo;—ma ci vorrà pazienza, ed io non lo disapproverò, in questa occasione. Un gentiluomo non deve sopportare che nessuno gl'insegni a qual ora e in quali circostanze gli è permesso di ricondurre a casa sua moglie.
—Padre mio! Tu dunque mi approvi? Tutto è bene, in quel che ho fatto?
—Non tutto;—rispose il conte Jacopo.—Da qualche tempo aspettavo che tu vedessi la necessità di mettere un po' d'ordine nella tua famiglia, che è a mala pena incominciata. Certa leggerezza di modi, che è permessa oramai in casa Baldovini, non è ancora lecita, e spero non lo sarà mai, in casa Malatesti.—
Gino avrebbe potuto rispondere a suo padre:—«o allora perchè volere questa alleanza coi Baldovini?»—Ma egli avrebbe messo in un grave impaccio quel vecchio gentiluomo, che, come tanti e tanti del suo tempo e del suo grado, vedeva nel matrimonio un contratto, stipulato per la continuazione della stirpe, e, dopo ciò, lentamente degenerato in un vincolo di convivenza, e quasi quasi di tolleranza scambievole, sotto le apparenze di una gran dignità.
Del resto, il conte Gino pensava in quel momento a tutt'altro.
—Ah, padre mio!—esclamò egli.—L'ordine! A che serve, quando l'amore non c'è?
—Serve a mantenere il rispetto;—rispose il conte Jacopo.—Serve a far sentire presente e vigilante l'autorità del marito, per i giorni in cui potrebbe essere sconosciuta. Non sono stato severo coi miei figli, che per vederli alla lor volta severi con gli altri. La vita è una catena di doveri, e guai se un anello si rompe!—
Gino era tuttavia con suo padre, quando capitarono i suoi padrini a cercarlo.
—Falli entrar qua;—disse il conte Jacopo.—Non c'è niente di male, che senta anch'io quello che hanno combinato.—
I due padrini furono introdotti, e parvero alquanto impacciati alla presenza del vecchio.
—Parlate liberamente, amici miei;—disse Gino.—Mio padre sa tutto, e ciò che noi facciamo ha la sua approvazione.
—Egregiamente!—risposero quelli.—Ma in verità faremo assai poco.
—Perchè? Non vi ho io dato i più larghi poteri?
—Non abbiamo avuto occasione di usarne. È accaduto un fatto nuovo, un fatto strano, che rimanda il tuo duello ad altro tempo, e fors'anche alle calende greche.
—Qual fatto?—gridò Gino.
—Or ora te lo spiegheranno i padrini del barone De Wincsel, che sono venuti con noi, e che aspettano là, nel salotto.
—Questa è nuova!—disse Gino.—Che ho io da fare con loro, dopo averli messi in relazione con voi altri?
—È sempre il fatto nuovo, il fatto strano, che ti abbiamo detto poc'anzi. Una novità ne chiama un'altra. Il barone De Wincsel è agli arresti, e i suoi padrini si credono in dovere di mettersi a tua disposizione. Vuoi riceverli, dobbiamo risponder noi per te?—
Gino interrogò con lo sguardo suo padre.
—Va,—gli disse il conte Jacopo.—S'intende che se quei signori sono tanto cortesi per mettersi a tua disposizione, tu, che non hai nulla con loro, non puoi accettare un'offerta così generosa. Aspetterai che il barone De Wincsel sia libero, per essere allora, come eri oggi, a disposizione sua. Non era egli lo sfidatore?
—Certamente.
—Ebbene, la cosa è chiarissima. Tu gli fai una grazia, rinunziando al tuo diritto di non rimanere più di quarantott'ore impegnato. Va dunque, e rispondi in questo senso.—
Gino ammirò la dottrina cavalleresca di suo padre, e pensò che si giudicano male gli uomini, non badando che agli usi della loro vecchiaia. Il conte Jacopo era stato a' suoi tempi un cavaliere inappuntabile, i cui pareri, in materia d'onore, facevano testo.
Così preparato, il conte Gino entrò nel salotto, insieme co' suoi padrini. Il luogotenente Schwabe e il marchesino Frassinori salutarono assai gravemente, e il primo di essi espose il rammarico di tutti e due per ciò che era accaduto. Andati a vedere il barone De Wincsel, per riferirgli tutto ciò che era stato concertato coi padrini del conte Malatesti, avevano trovato un suo biglietto, e gran mercè che gli fosse stato consentito di scriverlo. Il barone De Wincsel era agli arresti in Cittadella, nientemeno; non sapeva il perchè di quell'ordine, e dalla scelta del luogo in cui lo mandavano, capiva che non sarebbe stato affare di poco. Così andavano a monte le pratiche da essi incominciate, per condurre i due gentiluomini sul terreno; ma perchè il signor conte Malatesti era stato incomodato dai padrini del barone De Wincsel, essi credevano obbligo loro di mettersi a disposizione sua.
—Si sostituiscono al loro primo?—chiese il conte Gino, volendo averne l'intiero.
—No, signor conte, non è in poter nostro;—rispose il luogotenente Schwabe.—Il nostro primo è impedito da forza maggiore; noi siamo venuti a dargliene avviso, disposti a pagare per lui, se a Lei dispiace di essere stato incomodato per nulla.
—Grazie!—disse Gino Malatesti.—Se io fossi lo sfidatore, non dovrei accettare un simile atto di generosità; non lo accetterò, essendo lo sfidato. Diranno al barone De Wincsel, quando avranno modo di vederlo, che io non approfitterò contro di lui, del termine che l'uso cavalleresco mi concede, e mi terrò sempre a' suoi ordini.
—Ella è, signor conte, molto più generoso di noi;—rispose il luogotenente Schwabe.—Offrirci era il nostro dovere, grato e pericoloso dovere, poichè all'onore d'incrociare la spada con Lei avremmo dovuto associar l'obbligo di non attaccar mai, ed Ella sa che si sta male, non uscendo mai dalla difesa. Ella, per contro, non avrebbe nessun obbligo di aspettare il nostro primo oltre il limite stabilito dagli usi. Mi conceda la sua amicizia, La prego.—
Gino Malatesti stese la mano al signor Schwabe, pensando che quello straniero era molto assennato ed anche molto gentile. Tutti così, del resto, quei signori del Settentrione, quando dimenticavano di essere conquistatori e guardiani. Sicuramente li vedeva con que' medesimi occhi il Niccolini, quando diceva di loro:
/# Ripassin l'Alpe e tornerem fratelli. #/
Quanto al marchesino Frassinori non era necessaria tanta abbondanza di cortesi parole. Gino Malatesti non lo poteva soffrire, per una di quelle antipatie naturali, che la diversità di carattere fa nascere tra persone del medesimo ceto; antipatie profonde, che raramente scoppiano in una violenta contesa, e che, non iscoppiando, permettono spesso il saluto, e qualche volta una stretta di mano. La civiltà, rendendola comune, ha guastato anche questa bella testimonianza di una leale amicizia.
Partiti quei due, e ringraziati i suoi rappresentanti, Gino ritornò da suo padre, per raccontargli come fosse finita la cosa. Il conte Jacopo udì ed approvò. Quello era il giorno delle approvazioni. Forse nel cuore di quel padre era entrato un po' di rimorso? Potrebbe essere; ma in questo caso il rimorso non nuoceva punto all'egoismo, poichè ad ogni modo il pericolo di un'alleanza borghese era stato scansato. Al conte Jacopo premeva frattanto che l'autorità maritale non fosse indebolita, e l'improvviso arresto del barone De Wincsel gli pareva un altro tiro della marchesa Baldovini contro la dignità di suo figlio. Le donne per solito, capiscono poco certe necessità della vita, e soddisfatte di aver messo ostacolo ad un fatto che loro dispiaccia, non badano se quell'ostacolo nuoce alla riputazione di qualcheduno, non badano se può aver conseguenze anche più gravi di quelle che esse hanno saputo evitare. Ora, arrestato il De Wincsel, non c'era il pericolo che la malignità della gente attribuisse il colpo alla famiglia di Gino Malatesti? a lui, per esempio, a lui, conte Jacopo, facilmente creduto troppo tenero della pelle di suo figlio, e poco o punto dell'onore di lui?
Vide questo, il conte Jacopo, e perciò non poteva esser quieto. Inoltre, restava l'obbligo che il suo Gino facesse la pace con sua moglie. Brutta pace, in quelle condizioni turbate, e sotto l'impressione della vittoria di Polissena Baldovini! Doveva dunque farsi, quella pace, col sacrifizio della dignità di Gino?
La contessa Elena, per buona sorte, avea fatto sapere che sarebbe rimasta a pranzo dai suoi parenti. Era il momento buono per ferire un gran colpo.
—Lasciami pensare cinque minuti;—aveva detto il conte Jacopo a suo figlio.
E si mise a passeggiare, borbottando, mentre Gino aspettava. Era una battaglia morale che il vecchio conte dava a qualcheduno, forse a se stesso; e quella battaglia finì con una vittoria.
—Vieni!—diss'egli finalmente, volgendosi al figlio.
—Dove?
—Dal ministro.—
Gino pensò al grande sacrifizio che faceva in quel punto suo padre. Il ministro e il conte Jacopo erano nemici da lunga mano, sotto le apparenze dell'ossequio cortigiano, ed egli lo sapeva, ne aveva veduti gli effetti. La sentenza per cui egli era stato mandato a confine, più che a punir lui, non era diretta a ferire suo padre? Per ottenere il perdono di Gino Malatesti (doloroso perdono! così non fosse venuto mai!) c'era voluto un sorriso di donna, mentre sarebbe dovuta bastare una preghiera del conte Jacopo, del più fedele tra tutti i sudditi del Duca.
Pensando queste cose e immaginando quanto dovesse costare a suo padre la risoluzione fatta in quel punto, Gino Malatesti afferrò la mano del vecchio e la baciò in un impeto di affetto e di gratitudine.
—Sì, è un sacrifizio, ma bisogna farlo;—disse con nobile semplicità il vecchio gentiluomo, che aveva inteso nell'atto il pensiero di suo figlio.—Se il marchese Paolo ha ancora un briciolo di cuore, lo intenderà, e vorrà tenermene conto.—
Escì allora, seguito da Gino, e andò difilato alla casa del potente avversario, dell'antico rivale politico.
—Sua Eccellenza è in casa?—domandò il conte Jacopo al portiere gallonato, che stava a pie' delle scale.
—Sì, illustrissimo; è tornato da poco. Fra mezz'ora andrà a tavola.
—Sta bene; avrò il tempo di dirgli una parola.—Ciò detto, salì le scale e fece passare al ministro il suo biglietto di visita. Due minuti dopo, egli e suo figlio erano introdotti dal salotto nello studio, e, mentre essi entravano da una parte. Sua Eccellenza appariva con atto premuroso da un'altra.
—Conte! Quale fortuna?…
—Dite un dispiacere, Eccellenza, per cui vengo ad implorare il vostro patrocinio.
—Lasciatemi essere egoista e soggiungere che il vostro dispiacere è una fortuna per me. In tutto ciò che un uomo può per un altro, abbiatemi per vostro servitore.
—Tutto ciò che potete, Eccellenza!—esclamò il conte Jacopo.—Io non vi demanderò certamente di più. E senz'altri preamboli….
—Consentite, caro conte, che ne faccia uno io,—interruppe il ministro,—pregandovi di lasciare l'Eccellenza in disparte. Rammento che fummo amici, e che voi mi chiamavate Paolo, senz'altro. Quali ragioni ci abbiano raffreddati, io non so; voglio credere che sia avvenuto per qualche error mio, troppo aiutato in voi da un sentimento di alterezza, che ho sempre ammirato. L'uso del potere, come ho dovuto sperimentare in altri, riesce a guastare i migliori caratteri, e forse ha guastato anche il mio. Ma siamo ancora gli amici d'una volta, non è vero?—soggiunse il ministro, prendendo amorevolmente la mano del conte Jacopo.—Voi stesso lo avete capito così bene, che siete venuto da me, in un momento di bisogno, come io sarei venuto da voi. Questo volevo dirvi, di questo volevo ringraziarvi. Ed ora, mio vecchio amico, parlate.—
Il conte Jacopo, s'inchinò, commosso, e strinse ripetutamente la mano del ministro.
—Prima di tutto,—diss'egli poscia,—vogliate rispondere ad una mia domanda. Il barone De Wincsel è agli arresti per la sfida mandata a mio figlio?—
Il ministro rimase un istante perplesso, o finse di esserlo; quindi, mostrando di vincere una sua ripugnanza, rispose:
—Mettete che sia così.
—Ebbene,—ripigliò il conte Jacopo,—io vi domando la sua liberazione. Spero che intenderete il perchè della domanda, della preghiera che vi faccio. Non si ha da dire in Modena, e neanche da sospettare, che un Malatesti abbia sfuggito il pericolo di un duello, mandando agli arresti il suo avversario.
—Nessuno lo dirà:—osservò il ministro.—Se qualcuno lo dicesse, non lo crederebbe nessuno.
—Grazie;—rispose il vecchio Malatesti.—Ma ad ogni modo, per la tranquillità dell'animo mio, ve ne prego…
—Ahimè, Jacopo!—esclamò il ministro, con accento di sommo rammarico.—La prima cosa che mi chiedete è appunto quella che io non posso concedervi, e per due distinte ragioni.
—Due ragioni!—ripetè il conte Jacopo.
—Sì, due! La prima è questa, che impegnerebbe anche uno più potente di me, come a dirvi Sua Altezza Serenissima. Ho data una parola; e a questa non si manca.
—È strano!—esclamò il conte Jacopo.—E chi può aver chiesto a voi una parola simile, in cosa che risguarda mio figlio?
—Quando io ve lo dicessi, il fatto non si muterebbe per ciò.
—Sia;—riprese il vecchio Malatesti, intendendo di essere andato troppo oltre.—Ma gli arresti del barone De Wincsel non vorranno mica essere eterni. Quando egli escirà….
—Il barone escirà per sottomettersi ad un arbitrato, e chiedere scusa al conte Gino, o per ritornarsene a Vienna;—rispose il ministro.—Per questo sono già avviate le pratiche opportune.
—Andrete fin là!—gridò il conte Jacopo.
—Fin là, mio buon amico, ed oltre ancora, se fa bisogno. Ciò per la seconda ragione, che io vi dirò schiettamente. Non entra nei concetti del governo che si facciano duelli tra ufficiali, specie stranieri, e cittadini dello Stato, specie della classe più alta e più in vista. C'è, non molto lungi da noi, chi bada a queste cose, le nota, le propala artificiosamente, per farsene arma contro di noi. Parlo liberamente,—soggiunse il ministro,—davanti al conte Gino, vostro figlio, che è stato in Piemonte e sa benissimo ciò che io voglio dire. Ora gli artifizi non debbono offuscare i fatti, e il fatto, nel caso presente, è questo, che le nostre intenzioni son pure. Ma poichè in politica non basta essere, e bisogna anche parere, sopra tutto parere quello che si è, noi non daremo occasione o pretesto a sospettare di noi quello che non è. Un diritto storico sostiene Casa d'Este e i suoi legittimi eredi; l'amore dei popoli è e deve apparire l'unica difesa di questo sacro diritto. Questo fu sempre il mio pensiero, questa la mia dottrina di governo, a cui s'aggiungono i consigli dell'esperienza. Non è più possibile, dopo il gran fatto della Rivoluzione francese, dopo il lievito di idee nuove, anche false e pericolose, che l'impresa napoleonica ha lasciato per tutta Europa, e più che altrove in Italia, non è più possibile, io dico, fondar nulla sui principii di un cieco assolutismo. Eppure, voi lo sapete al pari di me, in tempi che volevano prudenza somma, fermezza e dolcezza paterna, noi non abbiamo quasi fatto altro che della cattiva politica.—
Il conte Jacopo scosse malinconicamente la testa, come per rispondere:—«lo so benissimo!» Ma l'atteggiamento delle labbra voleva soggiungere:—«che ci ho da far io?»
—Voi non ci avete colpa;—ripigliò il ministro, indovinando il pensiero del vecchio Malatesti.—Voi siete stato fuori di queste miserie; beato voi! Ma se volete dimenticare i nostri dissidi, riconoscerete anche la lealtà delle mie intenzioni. Si vede il meglio e si pon mano al peggio, pur troppo. E perchè questo? Perchè non si è sempre padroni di fare ciò che la dottrina e l'esperienza consigliano. Abiti inveterati, ragioni d'ambiente, i medesimi dirizzoni dei nostri tutori…. Perchè, infatti, noi siamo ancora sotto tutela. I maneggi e le insidie di un governo che ebbe sempre l'audacia all'altezza delle proprie ambizioni, hanno costretta la Casa d'Asburgo ad una estrema vigilanza, di cui qualche volta hanno sentito il peso i suoi protetti, assai più che non i suoi stessi nemici. Così abbiamo dovuto apparire troppo rigidi noi, i quali non desideravamo che di aver pace e di darne. Di ciò vi ho detto abbastanza, mio vecchio amico, e vi soggiungerò col nostro poeta: «Se' savio e intendi me' ch'io non ragiono.»—
Citava anche Dante, il signor ministro, e lo chiamava «il nostro poeta.» Ah, di sicuro, la rivoluzione era nell'aria.
Gino ascoltava, maravigliato da tutta quella soavità di discorso e da tutta quella umanità di pensieri. Il marchese Paolo era un mago, un incantatore, un affascinatore di spiriti. Ed era quegli il terribile ministro che aveva mandato lui a confine senza ombra di processo? Sicuramente; e in una breve esposizione delle sue idee, seguita da un discreto accenno alla pratica cui era stato condannato, lasciava anche intendere come avesse potuto ordinar cose contrarie alla sua teorica, al suo ideale di governo.
—Ritorno al punto donde eravamo partiti;—ripigliava frattanto il marchese Paolo.—Questi duelli, questi scontri in cui si compiace troppo la bollente gioventù, sono riprovati dalla ragione, condannati dalla legge morale. Ma quello che avrebbe condotto il vostro figliuolo a incrociare la spada col barone De Wincsel era anche contrario alla ragione di Stato. Se mi fosse giunta per le vie ordinarie la notizia della sfida, avrei provveduto egualmente ad impedire il duello. Ne fui straordinariamente avvertito, ve lo confesso, e promisi di fare quello che ho fatto; lo promisi tanto più volentieri, in quanto che il provvedimento rispondeva perfettamente al mio modo di vedere. Non sapevo, mio caro Jacopo, non potevo credere che non rispondesse egualmente al vostro.
—Per la ragione che vi ho detta;—rispose il conte.—Ragione intima, come vedete, ragione delicatissima.
—Non lo nego, e per ciò appunto lodevole;—replicò il ministro.—Siete una stirpe di soldati, voi altri, e non dirazzate dai vostri antichi, no davvero! Sono le grandi occasioni, quelle che mancano a voi, come a noi. Ma chi sa? L'avvenire è così grande!
—Io mi auguro,—disse il conte Jacopo, non intendendo quell'accenno al futuro,—io mi auguro almeno che mio figlio viva da gentiluomo e curi severamente l'onore della sua casa. Egli ha potuto in qualche cosa dispiacervi, lo so, ma voglio anche sperare….
—Volete parlare del suo confine a Querciola?—interruppe il ministro.—Ahimè! Quella è stata una dolorosa necessità dell'ufficio. Ma egli non mi serba rancore d'una pena, che fu del resto leggerissima e non lascerà traccia nella sua vita di cittadino. Essa era del resto diretta, anzi che a punir lui, a tenere in rispetto certi altri spiriti impazienti, che avrebbero potuto comprometterlo.—
Impazienti! Aveva proprio detto impazienti! Gino raccolse quel mite aggettivo e lo messe accanto alle altre concessioni di Sua Eccellenza. Ma che diavolo era quel signor ministro? Fiutava i tempi, o era, dentro la sua conchiglia ufficiale, una perla d'uomo e di cittadino?
Comunque s'avesse a giudicare di ciò, il nostro Gino non istette alle mosse.
—Se mio padre permette, Eccellenza,—entrò a dire gli timidamente,—bramerei di aggiunger io qualche cosa.
—Vostro padre mi farà questa grazia;—rispose con la sua amabilità singolare il ministro.—Parlate, signor conte, parlate pure liberamente, come fareste ad un amico.
—Ho veramente bisogno di questa libertà e di questo incoraggiamento benevolo;—disse Gino Malatesti.—Vostra Eccellenza ha toccato poc'anzi del confine a cui sono stato condannato. Non mi lagnai da principio della pena che mi fu inflitta, riconoscendo di averla meritata; non me ne lagnerò mai, ricordando che nel mio luogo di pena ebbi accoglienze più che ospitali, fraterne.
—Lo so;—disse il ministro.
—Orbene, io debbo aggiungere che lassù, alle falde del Cimone, non rattenni la lingua, ricaddi in quel fallo che mi aveva già meritata la prima punizione.
—Anche questo mi è noto;—rispose il ministro.—Ho letto di certa gita ad un lago, e del nome che qualcheduno ha voluto imporre ad una piccola barca. Troppo piccola, invero, me lo vorrete concedere;—soggiunse egli, sorridendo;—troppo piccola, per portare una così grande fortuna!
—Lo riconosco. Eccellenza;—disse Gino umilmente.—Ma non voglia dimenticare che il qualcheduno son io. E se l'inchiesta non ha messo in chiaro questo punto, è mio obbligo di gentiluomo, anzi meglio, di galantuomo, dichiararmi colpevole di ciò, come di tutto l'altro che può essere spiaciuto al governo.
—A quel che vedo,—disse il ministro, sempre con quel suo sorriso sul labbro,—voi vorreste, conte, andare nuovamente a confine. Ma badate, stavolta, essendo recidivo, potrebbe toccarvi di peggio.
—Sia quel che si vuole, Eccellenza, purchè per il reo non siano condannati gli innocenti. Dio santo!—continuò Gino, animandosi.—Avevo già argomento di credere che nessuno sarebbe stato molestato per una colpa mia, tutta mia, ed oggi son costretto a temere da capo.
—Perchè?—disse il ministro, aggrottando le ciglia.—Chi e che cosa ha potuto farvi credere che si vogliano colpire persone innocenti, se di innocenti si tratta?
—Ma…. veramente….—balbettò Gino, non volendo proferire il nome della marchesa Polissena.—Non mi domandi Vostra Eccellenza come io lo so; pensi soltanto che me lo han fatto creder possibile.
—Vi han fatto credere una cosa…. assai dura per me;—rispose gravemente il ministro.—Certo, un'inchiesta è stata fatta. Era obbligo dell'autorità il farla, come sarebbe obbligo mio di appurare i fatti, e di condur le cose fino ad un processo, non per colpire innocenti, ma per mettere in chiaro la verità e dare ad ognuno il suo. Ma questo, come è legalmente giusto, sarebbe prudente del pari? Eccovi il dubbio, che mi ha trattenuto finora…. e che mi tratterrà certamente dell'altro. La politica è scienza ed arte; vostro padre, esperto com'è delle cose del mondo, può dirvi quante transazioni e compromessi ella consigli e richieda.
—Vostra Eccellenza ha una bell'anima;—gridò Gino, usando spontaneamente l'artifizio di chi vuole ad ogni costo ottenere una grazia.—Mi ha mostrato or ora i suoi dubbi; faccia un atto di carità, mi rimandi con la certezza che i signori Guerri non saranno molestati.
—Vi premono molto!
—Sì;—rispose Gino.—Il primo e il vero colpevole son io; è dunque un sentimento di onestà che deve muovermi a pregare per essi Vostra Eccellenza.
—Aggiungete alle sue preghiere le mie;—disse il vecchio Malatesti.—Mio figlio, nella sua impazienza giovanile, ha prevenuto il mio pensiero. Preme anche a me, Paolo, preme a me più che a lui, che i signori Guerri di Fiumalbo, ospiti e amici di Gino, non abbiano a pentirsi della loro cortesia, della loro liberalità, verso un conte Malatesti. Contentate un padre, mio buon Paolo!—soggiunse il vecchio, con accento supplichevole.—Contentate un padre, che ha già troppe ragioni di rammaricarsi del male che ha fatto.—
Il ministro guardò con aria di stupore quel vecchio gentiluomo, che gli apriva con tanta schiettezza il suo cuore.
—Perchè dite questo, Jacopo?
—Perchè lo sento, e perchè mi sembra di esser meno colpevole, accusandomi. Se sapeste come son pentito di aver voluto queste nozze, e di averle imposte a mio figlio! Mi scusi almeno nel cuor suo il pensare che io credevo di assicurare la sua felicità.
—Eh via, non temete tanto che essa sia per mancargli!—rispose il ministro.—Siamo calmi e prudenti, nel considerare le cose. Appunto perchè ho veduto che s'incominciava a perder la calma e si rischiava di dimenticare la prudenza, ho fatto io quello che ho fatto. So che non c'è nulla di cui vostro figlio abbia seriamente a dolersi. Un po' di leggerezza, lo capisco; troppa gente in casa vostra!… Ma qui la contessa non ci ha colpa. Gli usi della casa paterna le hanno dato l'esempio. Questi usi, poi, non sono insoliti nelle nostre città, e non bisogna neanche accusare quella povera marchesa Polissena. In Italia le abbiamo sempre avute, queste case ospitali, veri porti di mare, dove affluiscono tutti, cittadini e forastieri, nobili di sangue e nobili d'intelligenza, poeti, maestri di musica, scultori, pittori, diplomatici e soldati. Un padrone di casa che abbia un bel palazzo e delle consuetudini di magnificenza, una signora che sappia ricever bene le persone che la sua bellezza ha attirate, qualche bella ragazza per farle riscontro, un buon Erard da suonare, un bell'albo da riempire di versi e di bozzetti, di massime e di tocchi in penna, una tazza di tè alla sua ora, dei vecchi quadri, delle vecchie tappezzerie da far ammirare dagli intelligenti, ma sopra tutto dagli ignoranti, ed eccovi il salotto naturalmente formato, eccovi il ricevimento obbligato in chiave. È storia vecchia oramai. Capisco che per esser vecchia, non dovrebbe esser più quella dei nostri giorni. I gusti e i passatempi dovrebbero cambiare secondo le età. Occasioni di passar la serata gradevolmente, ogni città ne offre a tutte le borse, a tutti i gradi d'intelligenza e di educazione. Il salotto alla francese si capisce ancora, ma in Francia, a Parigi: dove son cento, questi luoghi di amabile ritrovo, e ogni padrona di casa può scegliere la sua società. Da noi la società non può esser scelta, quando il salotto è unico, e tutti ci si affollano, e quei tutti son sempre i medesimi. Il salotto del tipo nostro, vero anacronismo vivente, è un allargamento della famiglia, una invasione, un quartiere d'inverno, che tutti, amici e conoscenti, prendono in casa vostra, ed è naturale che il padrone sia quello che ci vive peggio di tutti. Vo' dirlo questa sera alla marchesa Polissena. Ciò servirà per dare una diversione alle sue collere. Ci verrete anche voi, non è vero?
—Il mio Gino non potrà fare a meno di recarsi a cercare sua moglie;—rispose il conte Jacopo.
—Ah, già, la contessa Elena è a pranzo da sua madre;—notò il ministro, ricordandosi.—La marchesa mi ha detto anche questo. Venite anche voi, Jacopo. Ci sono dei momenti che tra moglie e marito un testimone è necessario, per rendere impossibili i discorsi aspri, ed anche i silenzi noiosi. Del resto, lasciate fare a me;—soggiunse il ministro.—Metteremo la pace in quello spirito esacerbato della marchesa. Ella ha un po' di deferenza per me; nè io, se bisognerà, le risparmierò le osservazioni.
—Ve ne sarò grato, mio buon Paolo!—disse il vecchio Malatesti.
—E ai signori Guerri…—disse Gino a sua volta.—Ai signori Guerri nessuna molestia, non è vero, Eccellenza?
—Conte Gino,—rispose gravemente il ministro,—ho fatto una solenne promessa a vostro padre. I vostri ospiti ed amici di Fiumalbo non saranno toccati, fino a tanto sarò io a questo posto, per la fiducia del principe, e per la mediocrità dei tempi.—
Ancora i tempi! e dichiarati mediocri! Evidentemente, il ministro diceva così per modestia, e un umile cenno del capo, ond'era accompagnata la frase, voleva darle un significato di quella fatta. Ma insieme con l'umiltà del gesto veniva un'occhiata espressiva, che il conte Gino poteva interpetrare molto diversamente.
—È tempo che vi leviamo l'incomodo;—disse il conte Jacopo, alzandosi.—Poc'anzi il vostro servitore è comparso sull'uscio, e voi l'avete rimandato con un gesto.
—Che!—disse il ministro.—C'è sempre tempo, per mettersi a tavola. Aggiungete, mio caro Jacopo, che un buon antipasto vale il migliore dei pranzi. La vostra visita mi ha colmato d'allegrezza, sapete? Grazie, grazie, grazie!—soggiunse il marchese Paolo, con grande effusione di cuore, e stringendo forte le mani del vecchio Malatesti.
Poi, rivolgendosi a Gino, così gli parlò:
—State di buon animo, mio giovane amico. Se la vita domestica ha qualche pena, non vogliate affliggervi oltre misura. In fondo, questa vita non è profondamente triste che per le condizioni medie, siano esse di fortuna, o d'intelletto. I gran signori a cui tutte le ambizioni son lecite, i grandi ingegni a cui son comandate, non si fermano troppo a meditare su queste miserie e non ne sentono l'affanno invincibile. Anche quando hanno l'inferno in casa (e voi non lo avete; mettiamo che sia appena appena un piccolo purgatorio) possono escirsene fuori «a riveder le stelle», come il marito di Gemma Donati, il quale fu un savio, pari al marito di Santippe. Chi ha le grandi cose nell'animo deve raccogliersi in quelle, per prepararsi alle grandi cure. La patria ha mestieri di uomini capaci di servirla e sciolti da ogni altro pensiero, per dedicarsi intieramente ad essa. Voi m'intendete, non è vero? Sia piccolo grande lo Stato, ha sempre un fine più vasto e più alto di ciò che appare nelle sue circostanze presenti. Abbiate dunque le idee tanto larghe da comprendere quel fine, a cui potreste aver la fortuna e l'onore d'indirizzarlo voi stesso; non rimpicciolite queste idee nelle noie e nei sopraccapi della vita domestica; tutte cose che si acconciano per via, e ordinariamente da se.—
Bei consigli, in verità, quelli del marchese Paolo al conte Gino Malatesti. Egoistici, se vogliamo, ma niente più di tanti e tanti altri che governano il mondo. Ma che potevano fare quei consigli, ad un cuore infranto come quello di Gino? Il ministro non vedeva che un lato della quistione: i dissapori e le noie domestiche del giovane Malatesti. Egli dimenticava Fiumalbo, e la fanciulla dei Guerri.
Quella sera, secondo l'uso suo, il marchese Paolo andò a visitare la sempre bella Polissena. Le apparizioni serali del potentissimo personaggio in casa Baldovini erano la gloria e la forza della signora marchesa, il cui salotto poteva considerarsi come un'appendice della Corte ducale. Si era sicuri di trovar là il Governo, e si andava a raccogliere i sorrisi, a raccattare i monosillabi, che cadevano dalle sue labbra venerate. Dico i monosillabi, perchè non a tutti il marchese Paolo soleva parlare, come aveva fatto quel giorno ai Malatesti, in un momento di giustificata espansione. Ora, se i discorsi mancano, anche i monosillabi hanno il loro pregio, quando sono la voce del potere; di un potere tanto più eccelso, tanto più glorioso, in quanto che esso è esercitato in nome di un padrone assoluto, senza sindacato di Camere alte e basse, come senza divisione di autorità, di uffici e di carichi.
Polissena aspettava il ministro; lo aspettava per consigliarsi con lui, in apparenza, ma nel fatto per avere da lui l'autorità di minacciare un grosso guaio a suo genero, al ribelle, che voleva comandare in casa propria. Immaginate dunque lo stupore della bella marchesa, allorquando, poi ch'ella ebbe toccato il tasto della vendetta che bisognava trarre dei Guerri, si udì rispondere dal ministro una sola parola, e la meno aspettata:—Impossibile.—
—Impossibile, avete detto?—gridò ella.—E perchè?
—Perchè, cara mia, non c'è nulla di grave contro essi.
—E l'inchiesta?
—L'inchiesta è insufficiente. Non è riuscita a mettere in chiaro che certi discorsi fossero proferiti da alcuno di loro. Se c'è un filo da seguire, esso conduce dove non vorremmo andar noi, cioè a vostro genero.
—Strano!—esclamò Polissena.—Mi avevate pur detto!…
—Ho detto, sì, e ho detto male;—rispose il ministro.—Ora, con piena cognizione di causa, vi dico che non si può.
—Non si può! Non si può!—ripetè la marchesa,—Ma che ministro siete voi dunque?
—Un ministro come tanti altri del secolo decimonono;—replicò pacatamente il marchese Paolo.—Il potere è assoluto di nome, ma non lo è ugualmente di fatto. Il secolo agisce come l'aria, come l'etere, è qualche cosa d'invisibile, d'impalpabile, che s'infiltra da per tutto, e non ci lascia godere le beatitudini del vuoto.
—Non mi parlavate così questa mane!—notò Polissena.—Sopra tutto,—-soggiunse con accento di amarezza,—non mi parlavate così l'anno scorso, al mio ritorno dai bagni di Lucca. Ma allora… ma allora!…
—Ebbene, che significa questo allora? Vi preparate, marchesa, a dirmi una cosa spiacevole e non vera, credendomi capace di prometter prima, per non mantener dopo! Via, siate giusta, Polissena, ed ascoltatemi. Sono il vostro buon servitore, voglio esserlo fino a tanto non vi prenda fastidio di questi capegli che incominciano a brizzolarsi maledettamente. Ma l'impossibile non si dee domandare a nessuno. Vi ho detto allora che si poteva fare un processo di ribellione ai Guerri, e, fidandomi di una prima impressione, su cui non ero più ritornato col pensiero, mi sono lasciato sfuggire qualche altra parola poco misurata, stamane. Ma ci ho pensato, quando voi siete partita; ho voluto rileggere quella benedetta inchiesta, e mi sono facilmente avveduto che non c'era nulla di grave, che si sarebbe commessa un'ingiustizia, a voler separare la causa dei Guerri da quella del conte Gino. Ora, le ingiustizie, o presto o tardi, si pagano; ve lo assicuro io, si pagano, anche quando la coscienza e l'intenzione del male mancassero. Vedete un po'! Ed io che ero tanto felice di non dover più pensare a quell'episodio di Fiumalbo!…
—Perchè allora ci siete ritornato stamane?—domandò la marchesa.
—Per non contrariarvi, Polissena, per calmarvi, in un momento difficile. Stamane, in verità, non ci vedevate più lume. Siete bella anche quando siete in collera; ma io vi amo meglio quando siete di buon umore. Ho tanto bisogno di pace! Via, siate buona, marchesa! E se volete ancora servirvi di me nel futuro, per quanto potrà durare il futuro di un ministro, non guastate la mia autorità nel suo principio, nella sua base, che è come dire nella mia stessa coscienza.—
Il ministro aveva proferita l'ultima frase col piglio di un uomo che non ha altro da aggiungere. «Ho detto» esclamavano in questo caso gli antichi oratori.
Polissena indovinò il salmo dell'antifona, ed abbassò prontamente le ali. Non poteva sperar nulla per le sue vendette da Paolo, poichè in lui il ministro prendeva il posto dell'amico. Pazienza, mia bella signora, pazienza! Non si ha tutto quel che si vuole, in questo povero mondo.
Un'ora dopo capitò il conte Gino, ed era, per caso insolito, accompagnato da suo padre. Al conte Jacopo, se non al figliuol suo, bisognava fare buon viso, e la marchesa Baldovini fece di necessità virtù.
—Ho sentito di qualche malinconia tra i nostri figliuoli;—disse il conte Jacopo, entrando risolutamente in materia.—Spero bene che la nube sarà dissipata. È questo il mio vivo desiderio, e risponde anche al vostro interesse, marchesa.
—Al mio?—esclamò Polissena.—In che modo?
—In questo, che voi non dovete fare uno scandalo, per una scioccheria.
—Non vedo come potrebbe nascere uno scandalo;—replicò Polissena, che le ultime parole del ministro avevano già ridotta agli estremi della sua resistenza.—Vostro figlio avrebbe voluto farne uno, battendosi col barone De Wincsel. Ma per fortuna ci si è messo riparo.
—E sta bene;—disse il conte Jacopo.—Anch'io, senza ammirar troppo l'espediente, lo accetto negli utili.
—Vorrete almeno desiderare con me che queste scene non si ripetano;—ribattè la marchesa.
—Figuratevi!—esclamò il vecchio Malatesti.—Spero anch'io che non si ripeteranno, perchè voi dal canto vostro consiglierete la vostra figliuola a non darne occasione. Elena è una cara donnina, a cui vogliamo tutti un gran bene; ma è giovane, ed ha bisogno di consigli. Ella, del resto, non ha ancora guadagnato il privilegio di fare a modo suo.
—Che cosa intendereste di dire?
—Solamente questo, che la gaia vita delle feste e dei ricevimenti, con tutti i pericoli che ne derivano, si può e si deve rimandarla ad altro tempo; a quel giorno, che arriva pur troppo, e per tutte, in cui le ebbrezze son dissipate, ma almeno la famiglia è assicurata. Non è strettamente morale, ciò ch'io vi dico;—soggiunse il vecchio gentiluomo.—Ahimè! riconosciamo pure che non lo è niente affatto. Ma è secondo gli usi antichi delle grandi famiglie: e questi usi, nella corruzione generale, avevano la loro parte buona. Conserviamo almeno questa parte, marchesa.—
La bella Polissena non fu tarda a conoscere «il velen dell'argomento» come lo avrebbe chiamato il ministro, nella sua smania recente di citazioni dantesche. Ed anche davanti al vecchio Malatesti, la madre furibonda di Elena dovette abbassar le ali e tacere.
Il conte Gino, quella sera, ricondusse a casa sua moglie. Nè si parlò tra di loro di ciò che era avvenuto; nè fu più occasione di tornarvi poi. Del barone De Wincsel nessuna notizia per tutta la settimana. Si seppe più tardi che egli era escito dagli arresti, per ritornarsene a Vienna. Così procedevano allora le cose, nei felicissimi Stati di Modena, Massa, Carrara e Guastalla.
In que' giorni la fanciulla dei Guerri era già ritornata alle Vaie; triste, non rassegnata, ma calma; così calma, da ingannare i suoi, che la videro perfino sorridere. Aveva tante cose da raccontare di Modena! La cuginetta era graziosa, amorosa, veramente carina. Ben presto l'avrebbero veduta anche loro, poichè nel finir della primavera sarebbe venuta a conoscere i suoi nuovi parenti delle Vaie.
Il cugino Ruggero non era meno felice della sposa; e sicuramente doveva esser felice, poichè aveva fatto un'ottima scelta. Buonissima famiglia, quei Campolonghi; ricchi, senza orgoglio di gente nuova, e assai benveduti in città; nel complesso, adunque, un matrimonio eccellente. Si erano fatte gran feste; si era stati allegri; essa, la montanara, non aveva ballato, perchè il ballo non le piaceva, ma aveva preso parte alle gioie degli altri, ed era stata perfino a teatro.
Nessuno le domandò se avesse anche veduto il conte Gino Malatesti.
La povera fanciulla non versò la piena del suo dolore che ai piedi del confessore, del buono e compassionevole Don Pietro.
—Figlia mia!—esclamò egli.—Ve lo avevo pur detto! Perchè andare laggiù?
—Ebbene, che c'è di male?—replicò la fanciulla.—L'ho veduto, e son qua, più forte a soffrire, che non mi sentissi da prima. Essa è bella, padre mio, molto bella; ma egli è infelice. Gli ho perdonato; pregheremo per lui.—
Capitolo XVIII.
Per l'Italia.
Aminta Guerri non aveva perdonato. Indole schietta e sana, uomo tutto d'un pezzo, come si diceva una volta (e si diceva, perchè si usava ancora esser tali), Aminta ignorava certe transazioni dalla coscienza, per sè, e non le intendeva negli altri. Chi prometteva una cosa e ne faceva un'altra, era per lui un mancatore di fede: ed egli non concedeva a quell'uomo le circostanze attenuanti, se non per mutare il suo odio in disprezzo.
A questi patti, voi lo intendete, Gino Malatesti non poteva sperar nulla di buono da lui. Avrebbe dovuto resistere ad ogni volontà, sfidare ogni pericolo, per meritare la stima e l'affetto di Aminta. Un po' di carcere ai suoi amici!… Ebbene, tanto meglio. Non era quello il tempo da ciò? Vengono pure i bei momenti eroici, per un popolo sventurato! Poveri i vecchi a cui era mancata perfino l'occasione di farsi utilmente vivi a quel modo! Ma allora, vivaddio, anche il carcere era una battaglia, e doveva esser lieto chi ci andava, e render grazie a chi gliene porgeva occasione.
Vedete infatti; di tanti martirii, di tante sofferenze, s'incominciava a raccogliere il frutto. Gravi risoluzioni erano state prese nel segreto dei colloquii diplomatici, e quel segreto lo sapevano tutti, in Italia. Il Piemonte si armava a furia; la Francia, la nobile Francia, caldeggiava l'impresa. Ancora qualche mese, e una frase severa di Napoleone III all'ambasciatore austriaco appiccava il fuoco alle polveri. La guerra imminente! E qual guerra! La guerra divina, di tutto un popolo contro i suoi oppressori. Lungamente abbracciato dai suoi, benedetto dal padre. Aminta Guerri andò per certi negozi domestici fino a Massa, nella primavera del 1859. Da Massa si avviò a Carrara; di là scese alla Magra e non respirò fino a che non ebbe passato il confine. Era libero, libero; non aveva più birri alle calcagna, non più timore di carceri ducali. Da Sarzana, viaggiando a furia, si recò a Genova; e là, prima ancora di entrare in un'osteria per mangiare un boccone, veduti alcuni soldati per via, domandò loro dove avessero il quartiere.
—In piazza di San Leonardo,—gli dissero,—ma il quartiere si chiama di Sant'Ignazio. C'è il deposito del 7^o reggimento.
—Che significa il deposito?
—Significa che il reggimento è già partito; qui non c'è che un battaglione di deposito, per gli arruolamenti, per la contabilità, e per tante altre cose che non sappiamo noi. Siamo volontarii, e non lo conosciamo per altro che per gli arruolamenti.
—Volete accompagnarmi, camerata?—disse Aminta al volontario che gli aveva dati i ragguagli.
—Volentieri; ma badate, ci si dà del tu, tra compagni d'arme.
—E diamoci del tu; non domando di meglio.—
Il volontario parlava italiano con uno spiccato accento veneto. Disse il suo nome; era un Fogazzaro, di Verona, bruno, ben fatto, simpatico a quel Dio, e spesso parlava in versi.
—Ma non è roba mia;—soggiungeva subito;—son versi di Aleardo Aleardi, il nostro gran poeta, che gli Austriaci hanno mandato nella fortezza di Josephstadt.—
Ventisei anni fa (non dimentichiamo la data) l'Aleardi era un gran poeta, e nessuno era ancora saltato fuori ad accusarlo di languori, di svenevolezze, quasi, Dio ci perdoni, di rammollimento, d'infiacchimento della balda gioventù italiana. Aminta Guerri doveva trovare i Canti di quel poeta in molti zaini di combattenti. Ora tutti li hanno in tasca, e non per rileggerli!
L'amico Fogazzaro condusse Aminta per certi traghetti, viottole, discese e salite, fino al colmo di una collina, dov'erano due conventi tramutati in caserme. Entrato in uno di questi, e detta una parola al soldato di guardia, fece salire il borghese al pian di sopra, gli mostrò un uscio su cui era scritto: «Maggiorità» e gli disse:
—Va dentro, e fàtti soldato d'Italia; io ti aspetto nel corridoio.—
Entrato nella camera, e ammesso alla presenza di tre ufficiali, uno dei quali aveva il grado di maggiore. Aminta Guerri disse il suo nome, la patria, e che volesse da loro. Aveva le carte e le mostrò; fu misurato, esaminato, approvato; ebbe un numero di matricola, fu consegnato ad un sergente, perchè lo conducesse con altri al magazzino del vestiario. Un'ora dopo era soldato d'Italia, col suo farsetto di tela e il suo berretto di cotone, in attesa del cappotto grigio e del cheppì, che sarebbe andato a cercare in giornata. Per intanto, se voleva, andasse a prendere la sua razione di pane.
—È buono, sai, il pane di munizione;—gli disse l'amico Fogazzaro.—Lo chiamano di munizione, perchè coi pezzettini di crosta e magari della mollica, si può caricare il fucile e far buon colpo, come con le palle di piombo. Ma non badare; lo digerirai stupendamente anche tu, dopo che saremo andati a San Benigno, a caricare un centinaio di brande, e di là saremo ritornati a Sant'Ignazio. Tutti santi, qui!—soggiunse il Fogazzaro;—e la loro lontananza te li fa invocare cento volte in un giorno. Dico invocare….
—Ho capito, ho capito;—rispose Aminta, ridendo.
Il nostro giovanotto andò quel giorno a San Benigno per le brande, e dormì quella notte nel letto che aveva portato sulle spalle, attraverso le vie della città. La mattina seguente faceva parte della squadra che andava per i viveri, e portò sulle spalle un bel peso di carne sanguinante. In quella gita ebbe il piacere di sentir la parlata domestica, e di conoscere nel suo compagno di fatica un altro modenese. Si chiamava Prampolini, era avvocato, poeta alle sue ore anche lui, innamorato del Leopardi, grande ammiratore di Pietro Giordani.
La compagnia, come vedete, non poteva esser migliore. Andare alla fatica qua e là, stare a lavorar di scopa in quartiere, mangiar la zuppa nella gamella, parlando di letteratura e d'arte, citando i poeti e gli scrittori della patria, in verità, era una festa. E come si rideva! Non sempre, per altro, non sempre; qualche volta alla schietta risata bisognava sostituire l'occhiata, l'ammicco intelligente, che obbligava a sforzi erculei, per tener chiusa la bocca. Ciò avveniva quando si era «in rango» per dare il numero, o per staccare il passo in buon ordine, al cenno di un vecchio sergente, o per sentire la nomenclatura di tutti i pezzi del fucile, con le analoghe spiegazioni, in una lingua che non aveva nè babbo nè mamma. Nei primi esercizi, il comando «al tempo!» che indicava di rimettersi in posizione, per ripetere un movimento sbagliato, era sempre argomento di ilarità rumorose, che facevano scappar la pazienza, ma poi anche le risate al sergente. Alla domenica, prima di escire dal quartiere, dovevano rimettersi «in rango» per sentire la spiegazione del regolamento, fatta dal caporale di settimana. Il caporale, avvezzo al suo dialetto, maltrattava la lingua madre, e allora i volontarii ad osservargli:—«Scusi, signor caporale, non abbiamo capito.»—Ah, non capite? Non capite?—ribatteva il caporale.—Ebbene, se non capite l'italiano, i vadd a spieghevlo 'n piemonteis!»
Era buono, il caporale; una vera pasta di zucchero, ad onta della sua severità apparente. Dopo il comando: «rompete le righe» per cui erano tutti liberi di andare dove loro piacesse, Aminta andava a presentare le sue scuse.
—Ma se lo so!—esclamò il caporale rabbonito.—I seve d'bravi fieui; ma, con tutti i vostri dialetti, non capite l'italiano. Basta, fra poco faremo tutti una sola famiglia, e parleremo piemontese. Non è vero che lo capite, il piemontese?—
Erano belli, quei vecchi soldati piemontesi delle due classi del 1828 e del 1829, richiamati allora sotto le armi. Avevano fatte le campagne del Quarantotto e del Quarantanove; poi, ritornati alle case loro, e non pensando più di dover ripigliare il fucile, erano diventati uomini gravi e pacifici; la più parte si erano anche ammogliati. Ma anch'essi, i Contingenti, come si usava chiamarli, anch'essi sentivano l'onta di Novara, e fieri e contenti erano venuti a raccogliersi sotto le note bandiere, maestri di guerra, narratori di liete e di dolorose gesta, alle classi più giovani. Uno di essi, un Cucchietto, nativo dell'alto Piemonte, aveva fatto parte del triste manipolo cui era toccato di passare per le armi il general Ramorino: un soldato (diceva egli) che era morto bene e che non era un traditore.—«Ma allora,—chiedevano i giovani,—perchè è stato fucilato?»—«Per aver disobbedito, per aver voluto fare di sua testa»—rispondeva il contingente, con quel suo tono assoluto.
Non bisognava far di sua testa: bisognava obbedire; questa era la regola. E si obbediva; e obbedivano tutti, in quel benedetto esercito. Tipi di gentil gravità e di ferrea disciplina, accettata per sè, voluta egualmente negli altri, erano quegli ufficiali che Aminta doveva ben presto conoscere, dal colonnello Berretta fino a Carlo Rivalta, il più giovane fra i sottotenenti del reggimento. Rigido osservatore dei regolamenti, ma buono per il soldato, quell'aiutante maggiore Coppier, con quelle sue gambe lunghe e sottili, per cui era chiamato «il capitano più grande del vero,» e con quel suo gran naso, che stava a cavaliere di una bocca femminea, donde non era mai escita una mala parola. In mezzo a quella gravità i volontari recavano la loro gaiezza; ma non era una gaiezza baldanzosa; era una gaiezza disciplinabile, già mezza disciplinata fin dai primi giorni di quartiere; era l'esuberanza di vita, propria della gioventù intelligente, governata dall'amor patrio, contenuta dalla dignità dell'esempio.
In capo ad otto giorni Aminta Guerri aveva imparato il maneggio del fucile e le prime evoluzioni di compagnia. La mattina del nono giorno, sul piazzale della Cava, sotto la guida del sergente Bernaroli, compieva la sua educazione militare con la scherma di baionetta. Sapete? quella scherma famosa con cui il fantaccino para tutti i colpi del cavaliere e finisce infallibilmente a buttarlo giù dall'arcione. S'intende che nei depositi di cavalleria s'insegnava in pari tempo al cavaliere la scherma di sciabola, per cui gli era dato di disarmare il fantaccino, facendogli saltare la baionetta dalla canna, infallibilmente, in tre colpi.
La mattina del decimo giorno, un grosso drappello di volontarii, così addestrati al mestiere, lasciava il deposito, per andare a raggiungere il reggimento, già in linea sulle rive della Sesia. La strada ferrata da Genova ad Alessandria era tutto un passaggio di soldati d'ogni forma e colore. Egualmente da Alessandria a Novara, poichè, dopo Montebello, Frassineto, Palestro e Vinzaglio, i due eserciti alleati avevano mutata la linea di operazione e l'obbiettivo, spingendosi rapidamente a minacciare il nemico verso il centro politico, e strategico per conseguenza, delle sue fiere difese. Da Novara si andava allora più speditamente su Milano, e l'esercito combattente non si sarebbe potuto raggiungere che sulla via di Magenta. Avanti dunque a Novara, drappelli di tutte le armi, soldati piemontesi e soldati francesi, bersaglieri e cappotti grigi, zuavi, cacciatori di Vincennes e artiglieri della Guardia imperiale. Si stava a disagio, nelle carrozze; si esciva fuori dai finestrini, per aggrapparsi alle prime sporgenze e rampicarsi fino ai sopraccieli, dove si posava finalmente, ammirando la campagna e respirando l'aria libera. Il fumo, anche! Ah! che fumo d'Egitto? Importava poco, il fumo della vaporiera. Del resto, a que' tempi, sulle strade ferrate non si bruciava ancora che carbone. E si andava allegri, salutando le stazioni con grida fraterne, cantando tutte le canzoni patriottiche di quell'anno, e quelle di dieci anni addietro, ma più spesso e più volentieri la Bella Gigogin, una scioccheria smisurata, che esprimeva benissimo la spensieratezza di quel tempo e di una generazione molto sicura del fatto suo. Anche i soldati francesi cantavano la Gigoginne, facendo un grazioso miscuglio di parole italiane, piemontesi, lombarde, con desinenze di Francia.
Da Novara si cominciò a far cammino a piedi. Si entrò a Magenta ancor seminata di brandelli di carne e fumante di sangue: orrendo spettacolo, che pur sollevava gli spiriti! A Milano gran meraviglia per il Duomo, e grande allegrezza per le accoglienze fraterne, più belle a gran pezza del Duomo. E via, il giorno dopo, per correre sulle traccie dei reggimenti, che erano sempre due marcie più in là. Correvano tutti, quei reggimenti benedetti, perchè Garibaldi era volato su Brescia, e bisognava collegarsi con lui. Piemontesi e Francesi, cappotti grigi e calzoni rossi, cheppì e turbanti, penne di cappone ondeggianti all'aria e nappine azzurre battenti sugli omeri, si andava tutti di conserva, spesso nelle fermate confondendosi, sulle piazze barattando gli abiti e le insegne, ballando insieme, senz'altra musica fuor quella che si sprigionava dai cuori.
Andiamo, corriamo anche noi; se no, finiremo Dio sa quando. Gli eserciti alleati erano in linea da Desenzano a Montechiaro. Il giorno 24 di giugno, fu San Martino di Pozzolengo da un lato e Solferino dall'altro; una grande giornata, una battaglia napoleonica per la massa in azione, per lo sforzo maraviglioso, per gli effetti strategici. Aminta Guerri prese quel giorno il suo battesimo di fuoco. Ci capì poco, anzi nulla, come in ogni battesimo avviene al battezzato; non ebbe altra impressione del fatto, e non serbò altro ricordo che quello di un grande intronamento di orecchi.
Gli eserciti alleati non riposavano sugli allori. Inseguito fino al Mincio il nemico fuggente, investirono la piazza di Peschiera. I Piemontesi, mantenendo la prima disposizione dei corpi combattenti, piantarono il campo sulla sinistra, e incominciarono tosto i lavori d'approccio. Aminta aveva fatto il facchino e lo spazzaturaio in caserma; imparò a fare lo zappatore, scavando fossi e rizzando parapetti. Rafforzato il campo, scavate le vie coperte, si incominciò a lavorare di notte, poichè le parallele giungevano troppo sotto gli occhi della piazza assediata, e l'opera, continuata di giorno, poteva essere più facilmente guastata. Ma anche di notte, e come gli era concesso dall'oscurità, vigilava il nemico. Dai bastioni, ad ogni tanto, partivano razzi, illuminando la campagna; poi, sotto l'arco dei razzi, veniva la corda delle cannonate. Era dunque un lavoro utile, da parte degli assedianti, il notturno; ma era anche oscura la morte, quando toccava.
Nella sera del 30 giugno il battaglione di Aminta fu comandato di avamposto; noioso servizio, poichè la notte avanti gli era toccato il faticoso, cioè quello di lavorare nelle trinciere. Ma pazienza; quando si è in mare si naviga, e quando si è in terra si va. Il battaglione, messo in ordine di marcia due ore dopo il rancio, partì dalla cascina Fedalora, intorno a cui era formato il campo, e si avviò per la nota strada che metteva ai lavori d'approccio; poi, ad un certo punto, piegò a sinistra, nella direzione del lago, per non dar nell'occhio al nemico, che vigilava sui bastioni. Sull'imbrunire, ripiegando nuovamente a destra, giungeva ad un casolare, dove si stabilì la gran guardia, e di là si spiccarono due compagnie, per procedere ancora verso i forti. Una di esse rimase ad un certo punto in sostegno; l'altra, che era quella di Aminta, proseguì la sua strada, lasciando ancora qualche manipolo d'uomini lungo le prode dei campi, per collegare le sentinelle avanzate ai sostegni. La notte era sopraggiunta, e le due ultime squadre della compagnia, guidate da un tenente, s'inoltravano ancora pei campi, seguendo certi sentieri fiancheggiati da piccole siepi d'acacia. Il tenente collocò due posti di quattro uomini, poi un terzo, poi un quarto, e finalmente le sentinelle avanzate. Aminta ci capiva poco, e ci vedeva anche meno, per il gran buio che regnava in que' luoghi, interrotto solamente a quando a quando dai razzi, a cui tenevano dietro le cannonate del nemico. Altro non vide e non intese che questo: dietro una svolta del sentiero era stato collocato con tre uomini il caporal Piras, suo superiore immediato; di là dalla svolta, dieci quindici passi più oltre, era collocato lui in sentinella.
—Tu rimarrai qui;—gli disse infatti il tenente, dopo averlo condotto sul posto, di contro ad un muro a secco, che sosteneva un campo e lo divideva dal sentiero.
—Che debbo fare, signor tenente?—domandò il giovanotto.
—Ah, siete volontario?—riprese il tenente, udendo la parlata del fantaccino.
—Sissignore.
—E siete alla vostra prima guardia?
—Sissignore.
—Se lo sapevo, mettevo qua un altro;—borbottò il tenente.
—Che importa?—disse Aminta.—Mi dica quel che ho da fare, e lo farò come un altro.
—Lo credo, lo credo, e supplirete con la buona volontà all'esperienza;—rispose il tenente.—Badate dunque; voi siete da questa parte l'ultima sentinella del campo. Da questo sentiero, in mezzo a piantagioni di grano turco, si riesce all'aperto, sotto le fortificazioni del nemico. Non vi occupate di ciò che può accadere altrove; guardate là, davanti a voi, attento ad ogni rumore che possa darvi indizio di gente che s'avvicina. Al primo calpestìo date il «chi va là?», scambio di sparare, come fanno i novellini, mettendo sossopra i compagni, e spesso per una cosa da nulla. Date il «chi va là» come vi ho detto; poi, quando siete ben certo che si tratta di uomini, non di ramarri, o di lepri, sparate in quella direzione il vostro colpo, e vi ritirate, ricaricando, sulle altre sentinelle.
—Dove sono?—chiese Aminta.
—Le avete vedute; qua dietro, sulla vostra destra. Dopo la svolta troverete le prime, e via via tutte le altre, sempre sulla destra, se date le spalle al nemico. Spero bene che non gliele darete,—soggiunse il tenente;—perciò non diremo più sulla vostra destra, ma sulla vostra sinistra, guardando il nemico, e sulla sinistra del campo. Se il nemico si avanza in forze preponderanti, vi sarà facile avvedervene, e avrete tempo a ripiegarvi sulla compagnia di sostegno.
—Sissignore;—disse Aminta.
—A proposito, e per ogni buon fine,—disse ancora il tenente,—se dato il «chi va là?» vi fosse risposto da amici, eccovi il santo e la parola d'ordine: San Martino, Malplaquet. Ve ne ricorderete?
—Sissignore, non dubiti.
—Bene! e adesso, buona guardia!—
Così dicendo, il tenente metteva con gesto amorevole la mano sulla spalla di Aminta. Ma gli cadde anche addosso con la persona, mentre si udiva un gran rombo, e una vampa, un'ondata di fuoco, passava, tingendo l'aria di un rosso cupo.
Aminta credette lì per lì che il tenente gli fosse cascato morto tra le braccia. Povero tenente Parodi, così buono coi soldati! Non era più giovane, il tenente Parodi, e aveva disegnato, appena fosse finita quella campagna, di prendere la sua giubilazione. Si sapeva nel reggimento che una brava donnina l'aspettava, per dargli la mano di sposa. Povero tenente Parodi!
Ma non era nulla, per fortuna; un urto dell'aria, uno stordimento momentaneo, da cui il tenente si riebbe subito.
—Diavolo!—esclamò egli, rialzandosi.—Una palla da trentasei, passata troppo vicina. Ho sentito il soffio caldo sulla guancia. Consoliamoci che non sia stato un bacio!—
Aminta, al lume improvviso di quella vampa aveva anche intravveduto che il sentiero era molto stretto.
—Se passano di queste giuggiole,—diss'egli,—si sta male davvero!
—Vedete di che si tratta;—ripigliò il tenente.—Bisogna accostare le spalle al muro. Gli occhi di là, mi raccomando; e non colpi inutili, che guasterebbero il sonno alla gente.—
Ciò detto, il bravo tenente se ne andò; fatti quindici passi, era alla svolta del sentiero.
Aminta era rimasto solo, sentinella avanzata, sentinella morta, cioè l'ultima del campo, in luogo pericoloso, la più vicina al nemico. Questo pensiero sosteneva il suo spirito, abbattuto dai terrori della notte. La battaglia di giorno è gloriosa; si procede alla luce del sole, che intorno a voi tinge d'oro ogni cosa e vi dà l'illusione dell'andare a guisa d'un dio antico, entro una nuvola luminosa, mentre i fumi della polvere vi esaltano, come i fumi di un vino generoso. Ma la vigilia di nottetempo, soli, come abbandonati da tutti, con un nemico vicino e invisibile, tra insidie che si tendono nell'ombra, agguati che si preparano, a cento, a cinquanta, a venti passi da voi, è la cosa più triste che si possa immaginare. Aminta doveva star là con l'orecchio teso; non poteva sparare senza una cagione ben certa. Di questo egli si era già persuaso nelle notti antecedenti, passate sotto la tenda, quando una schioppettata rompeva il silenzio della campagna, e subito altre schioppettate rispondevano a quella, e in due minuti s'impegnava un fuoco d'inferno su tutta la linea degli avamposti. Allora, su, tutti! Bisognava correre ai fasci d'armi, e, se il fuoco continuava, disfare anche le tende, mettersi in ordinanza, con lo zaino in ispalla, pronti a marciare. Non era stato che un falso allarme; il fuoco cessava. Allora si rifacevano i fasci d'armi e si deponeva lo zaino; ma intanto, poichè l'alba era vicina, non si rifacevano le tende, e si battevano i denti, aspettando che battessero la diana i tamburi.
Dunque, non colpi inutili. Ma se fosse stato sorpreso, senza poter dare l'allarme con una schioppettata! Aminta si tenne a buon conto col fucile alto, con l'indice al grilletto e il pollice al cane. E stava là, ritto impalato, vedendo i razzi che descrivevano la parabola davanti a lui, e sentendo le cannonate. I colpi erano regolari; ogni cinque minuti ne veniva uno. Quando il razzo fischiava, illuminando un tratto di paese, egli diceva tra sè:—Ecco, è qua che arriva; questa è la buona!—
Ancora tre cannonate infilarono la viottola dov'egli stava in sentinella. Così almeno gli parve, poichè, sentendo il colpo, vide anche passare l'ondata dell'aria rossastra, e molto bassa, come la prima volta, quando c'era il tenente. Quel fuoco assiduo, ragionandoci su, non gli dispiacque. Fino a tanto che erano cannonate, non doveva esserci pericolo di ricognizioni. Il nemico sicuramente non avrebbe tirato addosso ai suoi esploratori.
Pure, ad ogni tratto, si sentivano rumori, da quella parte che egli doveva guardare. Quante volte non fu per gridare il suo «chi va là?» Ma capì che erano lepri, ramarri, come diceva il tenente, o martore, od altri animali predatori dei campi.
Rimase molte ore in quel posto. L'esercito faceva un servizio stupendo; metà degli uomini lavoravano nelle parallele; i battaglioni d'avamposto, costretti a custodire un gran raggio di terreno, non potevano cambiare di quattro in quattr'ore le guardie. Del resto, vigilare in un luogo, vigilare in un altro, era tutt'uno, e la conseguenza era questa, che non si dormiva in nessuno. Aminta non aveva che una noia di più: quella di tenere il fucile alto, e l'indice al grilletto e il pollice al cane. Un vecchio soldato non avrebbe fatta quella inutile fatica; ma il nostro Aminta aveva promesso di supplire con la buona volontà al difetto d'esperienza, e voleva esser pronto ad ogni occasione, senza perdere un minuto secondo.
Finalmente le cannonate cessarono. Era il caso di stare più attenti di prima. Che rabbia! Proprio allora incominciavano a cascargli le braccia. Provò a rimanere col fucile abbassato, ma in linea orizzontale, tenendolo con ambe le mani nei punti buoni. Quello era il suo modo di riposare le braccia.
Era forse da un'ora in attesa, quando gli parve di sentire un frussi frussi davanti a sè. Un altro ramarro? o una lepre? No, era stato un rumore più forte; ma era anche cessato. Forse un manipolo di nemici, che voleva andare guardingo, e perciò, fatto un po' di strepito per inavvertenza d'un soldato, si fermava tosto, per distrar l'attenzione delle sentinelle morte? Ah, se queste era, il nemico fallava i suoi conti, perchè l'attenzione di Aminta era più tesa che mai. Ancora uno strepito, il suono di cosa che strisci violentemente tra le foglie; certamente un uomo che s'avanza in un campo di grano turco; poi più nulla: poi da capo un rumor sordo, ma cadenzato, uniforme. Aminta è cacciatore e non ricorda più che gli usi del cacciatore; si abbassa, mette l'orecchio a terra ed ascolta. Non c'è più dubbio; son passi d'uomini; e di là, donde vengono, son passi di nemici.
Sorse in piedi, rimise il fucile al petto e aspettò ancora due minuti. Il rumore dei passi cresceva; oramai si sentiva allo sbocco del sentiero.
—Alt! chi va là?—gridò egli con voce poderosa.
Gli rispose un colpo di fucile. La palla passò sovra la sua testa, gnaulando.
Stavolta non e' era più dubbio; poteva tirare con cognizione di causa. Spianò il fucile e lasciò andare il suo colpo. Quindi, cercando una cartuccia nella giberna, si ritirò, secondo la consegna. Giunto alla svolta, aveva già calcata la cartuccia in fondo alla canna, e rimetteva a posto la bacchetta, quando si sentì dare il «chi va là?» ma con voce sommessa.
—Savoia;—rispose.
—Ah sei tu, Guerri?
—Son io, caporal Piras;—replicò egli, che aveva riconosciuta la voce del superiore.
—Che c'è?
—Il nemico.
—Ne sei ben sicuro?
—Perdio! Ho dato il chi va là, e mi hanno risposto con una schioppettata.
—È giusto;—disse il caporale.—Infatti ne ho udite due.—Ma arriviamo fino alla svolta, per sentire se si avanzano.—
Mossero allora verso l'angolo: il caporal Piras, piccolo sardo animoso, il soldato scelto Guenzi, che era con lui, e il nostro Aminta, volontario, che stava adattando un altro cappellotto al luminello del suo fucile.
Giunti laggiù, udirono i passi di gente che si avanzava lenta, fermandosi ad ogni tratto, come per ascoltare.
—Punta sulla mia spalla;—bisbigliò il caporale all'orecchio di Aminta;—e tu, Guenzi, un passo più in là, ma pronto subito a ritirarti. Ci siete? Fuoco!—
Tre colpi partirono, e i tre tiratori furono pronti a nascondersi dietro l'angolo. Parecchie fucilate risposero, e non solamente dal sentiero, ma anche da un campo che era più in là, poichè i nostri sentirono fischiare qualche palla entro la viottola, dove si credevano al riparo.
—Non importa;—disse il soldato scelto Guenzi, un piemontese di buon umore.—A qualcheduno l'abbiamo accoccata, e noi siamo sani tutti e tre.
—Animo, Via!—disse il caporal Piras;—ripieghiamoci sulle altre sentinelle.—
I due soldati obbedirono al comando, e appena furono al posto più vicino, ricaricarono i fucili.
—Che c'è, caporal Piras?—domandarono le sentinelle.
—Una pattuglia austriaca,—rispose il caporale.—Aspettiamo che si presenti, per mandargli la seconda di cambio.—
L'alba era vicina, e un leggero barlume, diffondendosi per l'aria greve, permetteva di distinguere appena i profili dei bastioni e il lungo dorso di monte Baldo. Le fucilate ricominciarono, da una parte e dall'altra; ma la ricognizione austriaca veniva innanzi molto lentamente. Ed era naturale, poichè tastava terreno davanti a se, volendo sapere dove fosse e come in forza il nemico.
Le sentinelle si erano ripiegate sui posti avanzati: e così, procedendo verso sinistra, e facendo ad ogni tanto i loro colpi, giungevano ad un punto dove il sentiero si spartiva in due.
—Caporal Piras, dov'è la ritirata?
—Sempre a sinistra, ha detto il tenente. Dunque per di qua.—
Entrarono allora risoluti nella viottola più bassa. Erano in quindici, e restavano in quindici, tra soldati e caporali. Ma dov'era il sergente Jemina, che avrebbero dovuto trovare per via? Già troppo cammino avevano fatto, dopo quel bivio, senza trovare nessuno, nè soldato, nè sott'ufficiale. E il fuoco continuava dai campi; e il nemico si avanzava, disposto a ventaglio, ma non per far fresco, davvero!
Un dubbio sorse nella testa di Aminta.
—Caporal Piras!
—Ebbene, che hai?
—Questa non è la strada.
—Perchè?
—Perchè non troviamo più nessuno dei nostri. Veda, del resto; il sentiero, in cui siamo entrati, piega insensibilmente verso il lago. Non crede Lei che tirando avanti così riesciremo all'aperto, sotto i bastioni di sinistra?
—Il Guerri ha ragione;—disse il soldato Isoardo;—andiamo in trappola!
—Pare anche a me;—borbottò il caporale, dopo alcuni istanti di osservazione.—Pure, il tenente ci ha detto: sempre a sinistra!
—Sempre a sinistra; ma non troppo!—replicò il soldato Isoardo.
—E allora che si fa? Saremo tagliati fuori!—disse il Guenzi.
—Questo poi non mi conviene;—rispose il caporal Piras.
—Neanche a me,—disse un altro.—Caporale, che pesci si piglia?
—Vada al lago, chi vuole pigliar pesci;—ribattè il caporale.—Io ritorno per di qua, a cercare l'altro sentiero.
—Sì, ritorniamo;—dissero tutti.
Ma il nemico era già al bivio; bisognava spazzare il cammino.
—Da bravi!—esclamò il caporal Piras.—Qui c'è una cosa sola da fare:
una carica alla baionetta Oramai ci si vede quanto basta. Guenzi,
Isoardo, Guerri, qua in prima fila con me! E voi altri serrate sotto!
Non un colpo; baionette spianate; e avanti, Savoia!—
Savoia! Come è dolce il tuo nome, gridato nella mischia sanguinosa! Come scorre facile, ardente dalle labbra, accompagnando il passo, affrettandolo contro le ordinanze nemiche! Savoia! Savoia! Fu un grido solo, un urlo disperato, e su per la viottola campestre quel pugno di fantaccini incalzava come una falange macedone.
L'avanguardia nemica aveva scaricati i suoi fucili contro la piccola schiera, ma non ne aspettò l'urto; balenò davanti alla rovina e diè volta. Il passo era libero; due soli feriti; uno di essi Aminta, a cui era sembrato ricevere uno spintone al braccio destro, e che aveva creduto lì per lì di essere stato urtato da un compagno, nella furia del correre. A tutta prima non ne aveva fatto caso; ma poi, sentendo di non poter reggere il fucile, abbassò gli occhi a guardarsi la manica, e la vide strappata poco sotto alla spalla. Recò allora la mano allo strappo, e sentì un dolore acuto. Con la sensazione del dolore all'omero, gli venne alla mano uno spruzzo caldo di sangue.
—Cose da nulla!—disse il caporal Piras, dopo che ebbe verificati i danni.—Se rimanevamo a scaramucciare da lontano, ne buscavamo assai più. Eccoci finalmente all'incontro dei due sentieri. Prendiamo dunque quest'altro, che dev'essere il buono.—
Era il buono davvero. Il manipolo delle sentinelle ci aveva fatti a mala pena dieci passi, quando vide accorrere di là una compagnia di sostegno.
—Che c'è?—chiese il capitano Cattaneo, che ne aveva il comando.
—Una pattuglia austriaca;—rispose il caporal Piras.—Noi l'abbiamo caricata alla baionetta.
—Bravi!—esclamò il capitano Cattaneo.—Tanto più che non sarà solamente una pattuglia, ma molto probabilmente l'avanguardia di una ricognizione delle solite.
—Infatti, signor capitano, ci sparavano addosso anche dai campi laterali.
—Vedete? Ve lo dicevo io? Ed eravate in pochi, per una carica.
—Signor capitano, allo stretto si pareva di più. E poi, non era ancora giorno chiaro.
—Ah sì! La nuit tous les chats sont gris;—osservò il tenente
Gordolon, un nizzardo, che parlava bene e volentieri il francese.
Il capitano Cattaneo ordinò alla compagnia di sostegno di prender posizione lungo le siepi. Il nemico era in forze, di là da un campo di grano turco, e sopra le vette delle piante ancor giovani si vedevano tratto tratto apparire le teste dei soldati, coi loro alti pentoloni neri.
Il fuoco ricominciò. Veramente, non era cessato; ma la compagnia di sostegno gli diede una gagliarda ripresa.
—Tenetevi più radi!—gridò il capitano ai suoi soldati.—Così! A dieci passi l'uno dall'altro! E tirate più basso, nel verde; la palla si farà strada.—
Aminta, col suo braccio sanguinante, era stato mandato indietro, ad aspettar l'ambulanza. Un bravo soldato, il Tonazzi, lo aveva fatto sedere al piede di un gelso, e lo rinfrancava con qualche sorso di rum della sua fiaschetta. Che rabbia! Li vedeva, di là, i negri cappellacci con l'aquila bicipite di argento falso, che luccicava ai primi raggi del sole, e non poteva più spianare il suo fucile, per mandar loro qualche palla, egli cacciatore dall'occhio sicuro e dal colpo infallibile!
Come il capitano Cattaneo aveva detto dianzi, quella era una ricognizione in tutte le regole. Non accennava a volersi avanzare di più; ma faceva un fuoco assai vivo. Perciò il battaglione si avanzò tutto quanto, pronto ad entrare in azione, e venne anche una compagnia di bersaglieri al passo di corsa, per snidare il nemico dal campo, dove pareva aver messe le barbe.
—Oh, bravo, Arrigozzi!—gridò il tenente Gordolon ad un bell'ufficiale dalla persona alta e dal fiero aspetto, che guidava i cappelli piumati.—Sei venuto a prendere la tua parte?
—Spero bene che ci avrete lasciato qualche cosa;—rispose l'Arrigozzi, passando e salutando con la sciabola.
I bersaglieri, giunti al sentiero, si ordinarono tosto in manipoli, e si cacciarono risoluti nel campo, con le baionette puntate in avanti. Frattanto il tenente Parodi aveva detto ai suoi:
—Ora voi altri, ragazzi miei, prendete un po' di riposo, che lo avete guadagnato. Chi ha pane nella sacca ne mangi un boccone. La zuppa verrà tardi, quest'oggi.—
Niente fa scorrere il tempo come le schioppettate. Con questo non s'intende di raccomandarle agli annoiati, che potrebbero anche abusarne; si dice solamente per accennare un fatto psicologico, abbastanza curioso, e che a molti parrà anche in contraddizione con la eterna lunghezza delle ore di pericolo. Forse la ragione di una tale diversità di sentimenti sta in ciò, che il pericolo in guerra è un pericolo sui generis, affrontato in molti, che s'incuorano a vicenda e si riscaldano, e son capaci anche di celiare, di ridere e di far ridere. Infine, che ne so io? Quanti hanno avuto pratica di queste cose vi diranno che al fuoco non hanno contate le ore.
La scaramuccia durò un pezzo, tanto che venne la zuppa, prima che i bersaglieri e la compagnia di sostegno avessero finito di scambiar colpi con un nemico, il quale si era ritirato sotto la protezione delle batterie e non voleva aver l'aria di cedere. Venne la zuppa, portata in due grosse pentole di ferro, sostenute da una stanga, passata attraverso i due manichi mobili. Fumava, l'aspettata, la sospirata, e mandava un soavissimo odore di lardo. I soldati si rizzarono in piedi, fiutando il vento, come le cavalle di Omero.
Ahimè! Quella zuppa doveva finir male. I quattro soldati di cucina che la portavano, ebbero a passare in una larga radura, donde la videro gli artiglieri austriaci dai bastioni. Un ufficiale di cattivo umore, a cui forse non avevano portata la sua, si prese il gusto matto di turbare la colazione degli altri. Un cannone fu puntato, partì il colpo, e una delle solite palle la trentasei venne a ficcarsi nel terreno, venti o trenta passi discosto dagli invocati distributori del brodetto spartano. Titubarono alquanto i soldati, e pensarono di piegare da un lato; così perdettero tempo, e un'altra palla arrivò, anche più vicina della prima. Essi allora non aspettarono la terza; rovesciarono le pentole, e via.
Non li disprezziamo per ciò. Quei soldati erano dei buoni, e avevano fatto in ogni incontro il loro dovere. Ma è regola che il soldato di cucina non si batte. Se non si batte, perchè correrebbe il rischio dei compagni che si battono? Sono ventiquattr'ore che egli regala a sè stesso, alla famiglia, alle probabilità matematiche di portar salva la pelle a casa.
Aminta assistè dal suo posto ad una scena curiosa. I soldati che si battevano, non avendo le stesse ragioni dei loro compagni di cucina, scambio di fuggire dal posto preso di mira, si buttarono per disperati, a raccogliere i pezzi di carne lessa, e le manate di riso, per riempirne le loro gamelle, che, poveracci, avevano già slacciate dagli zaini. Quel giorno, adunque, in premio della loro carica alla baionetta, gli uomini del caporal Piras mangiarono il riso senza brodo, ma per contro bene imbrattato di terriccio e sparso anche di sassolini. La fame è cieca e non bada a queste piccolezze.
Poco dopo venne il medico Baratelli, a visitare i feriti. Trovò che il soldato Guerri aveva l'osso dell'omero scheggiato, e allora, fatta una fasciatura alla lesta, mandò il ferito all'ambulanza del campo. Quel medesimo giorno Aminta era avviato all'ospedale di Brescia.
Il carro dell'ambulanza si mosse dalla cascina Fedalora mentre il reggimento si disponeva a lasciare il campo, insieme con tutta la divisione, per passare il Mincio e andarsi a piantare entro il famoso Quadrilatero. Un'altra divisione doveva sostituire quella comandata dal vecchio e prode Mollard, nell'assedio di Peschiera. Dicevasi che per allora Peschiera e Mantova si sarebbero mascherate, e che il grosso degli eserciti alleati avrebbe investito il campo trincerato di Verona, sperando di trarre a giornata l'esercito nemico e di dargli un altro Solferino là dentro. Al povero Guerri non sarebbe toccato più niente di quella distribuzione, poichè andava all'ospedale. «Distribuzione» era il vocabolo usato allora dai soldati piemontesi, per indicare le schioppettate. Qualcheduno anzi v'aggiungeva «di fagiuoli», dicendola ottima, per accompagnare l'eterno e solitario riso della minestra quotidiana.
Aminta partì, salutato dal bruno Fogazzaro, dal pallido e gentil Prampolini, dal biondo angelico Simone, dal nero Isoardo, dall'olivigno Piras, e a farla breve da tutti i suoi amici più cari, dai suoi dilettissimi fratelli d'armi. Gli parve, spiccandosi da loro, mentre il veicolo si metteva in moto, di separarsi dalla sua stessa famiglia. È infatti una famiglia, il reggimento; anzi un aggregato di famiglie, come i vecchi clans della Scozia; ed è padre il capitano, nonno il maggiore, bisnonno il colonnello.
E la famiglia sua vera, che aveva lasciata alle Vaie? Ci pensò allora, dopo aver ricevuta la parte sua, nella grande distribuzione. Fino a quel giorno era vissuto in uno strano tumulto di idee, nella confusione della gloria, e gli era sembrato di marciare in mezzo ad una polvere luminosa, che gli nascondesse tutto intorno l'aspetto delle cose.
Da suo padre aveva ricevuto una lettera sola. Dio sa quante altre n'erano andate smarrite! Ma da altri modenesi aveva sapute le notizie della patria. Il duca Francesco V era fuggito a Vienna. Il conte Jacopo Malatesti, fedele alla sventura, lo aveva seguito a Vienna. E suo figlio Gino? Si diceva che fosse sparito dalla città, ma della via che aveva presa non si sapeva nulla di certo. Il marchese Paolo, ministro del duca, non si era mosso dagli Stati felicissimi, ma non più fedelissimi, dicendo a chi voleva e a chi non voleva sentirlo, com'egli avesse disapprovato sempre il poco liberale indirizzo del governo del suo signore, insistendo spesso per fargli dare una Costituzione. Pochi credevano; i più sorridevano e lasciavano dire. Erano così felici di aver scosso il giogo! E il marchese Paolo, probabilmente citando più che mai il gran poeta della patria, si era ritirato a vivere in una sua villa sul Reggiano, dopo aver mandato un saluto amorevole al Governo provvisorio. I governi provvisori sorgevano da per tutto, in quei giorni. La tirannide era stata dissipata, come una nebbia molesta, dal sole di Magenta. La Lombardia, i Ducati, la Legazione di Bologna, la Toscana, erano libere; già si aspettavano le rivoluzioni di Palermo, di Napoli, di Roma. Quanto a Venezia, ci si andava; la città delle Lagune aspettava fremente.
Un celebre chirurgo militare, il Larrey, osservò che al tempo suo (quello delle grandi guerre napoleoniche) guarivano più facilmente le ferite dei vincitori, che non quelle dei vinti. Sapere che la tua ferita è stata utile a qualche cosa, è già un conforto: udire che il tuo reggimento procede di vittoria in vittoria, che il tuo esercito è entrato nella capitale del nemico, ed ha potuto dettare, giunto alla sua meta, le condizioni di pace, è una gioia in cui si annegano molti dolori. Così stando le cose, Aminta Guerri partiva felice per l'ospedale di Brescia. Portava un omero scheggiato, fors'anche spezzato; ma non sentiva al braccio che un gran calore: l'infiammazione dei tessuti, forse; molto probabilmente le forze della natura, che già lavoravano al doppio ufficio della eliminazione e della riparazione.
Il carro dell'ambulanza andava con motto uniforme sulla grande strada maestra, che da San Martino di Pozzolengo metteva a Desenzano. Aminta rivide il bel lago di Garda, che sembrava un mare, ma che, scambio degli effluvii marini, portava quelli dei cedri e degli aranceti di Salò. Addio Lonato, dall'alto castello veneziano, che raffigura da lungi le immani rovine di una rocca ciclopica. Addio Ponte San Marco, dove Aminta non vide nè il ponte nè il santo, ma donde mandò un saluto e un pensiero affettuoso a Calcinato su Chiese, nobile borgo ospitale, bianca apparizione torreggiante dal colmo d'un poggio, sul fondo verde azzurro della pianura lombarda.
Calcinato domanda un ricordo, se pure non è più giusto il dire che lo comanda, a chiunque faccia la via da Brescia a Peschiera. È una grossa terra e val molte città, col suo vasto abitato, con la sua chiesa più vasta dell'abitato, e co' suoi cuori più vasti della chiesa. Calcinato è forse il paese d'Italia che abbia veduto passare più soldati, dal Quarantotto in poi, causa la sua poca distanza dal Mincio, su cui tante volte si sono messe a cimento le fortune della patria. Ho detto che il paese è largamente ospitale; aggiungerò che è italiano fino al midollo. Fossero mille, diecimila, ventimila i suoi ospiti. Calcinato non si è sgomentato mai. Alto, sopra il suo poggio solitario, non ha mai badato a miserie. E lo paga de' suoi nobili sacrifizi l'amore di quanti soldati furono ospiti suoi, cappotti grigi, camicie rosse che fossero. Si rammenta sempre come una gloria la sua bella piazza castellana, che vigila i colli di San Martino; la sua gran chiesa bianca, che guarda Brescia e Bergamo, intravvedendo Pontida; il sembiante aperto e il sorriso fraterno de' suoi abitanti; la festa dei suoi giardini; la grazia de' suoi salotti; la gentilezza modesta delle sue fattorie; perfino il profumo dei suoi larghi fienili, delle sue legnaie, sotto i porticati delle corti campestri.
Mentre noi c'indugiamo in questi ricordi, Aminta Guerri è giunto a Brescia, ed è calato dal carro dell'ambulanza, davanti all'ingresso dell'ospedale di Santa Eufemia.
Capitolo XIX.
Sant'Eufemia!
Si sentiva debole, il povero Aminta. La via da Desenzano a Brescia non è lunga, e la rendeva anche più breve il viaggio in istrada ferrata, poichè da alcuni giorni quel tratto di ferrovia, rotto dagli Austriaci, era stato riparato dai nostri. Ma le scosse del convoglio, i trapassi faticosi dal carro dell'ambulanza di campo al convoglio, nella stazione di Desenzano, e dal convoglio a un altro carro d'ambulanza, nella stazione di Brescia, non erano fatti per ridar le forze ad un uomo, che aveva una palla in un braccio, l'osso dell'omero scheggiato, fors'anche spezzato, e una febbre da leoni per giunta.
Egli era meno infelice tuttavia di tante migliaia di feriti del 24 di giugno, che avevano dovuto far la strada su carri scoperti, alla vampa del sole, sdraiati su poca paglia, messi a rinfusa, cercando un ricovero negli ospedali improvvisati di Desenzano, e via via di Lonato, di Ponte San Marco, di Rezzate e di Brescia, senz'altra cura possibile, lungo la strada, fuorchè la speranza di ottenerne, appena giunti in un rifugio, che fosse meno riboccante di loro compagni di sventura.
Aminta salì nondimeno da sè le scale di Sant'Eufemia, leggermente sorretto da un infermiere. Fu fatto entrare in una corsìa, dov'era ancora un letto libero. Si dice ancora, ma si potrebbe dire che era stato lasciato libero a mala pena, poichè il soldato che l'occupava da sette giorni era andato quel giorno a dormire il gran sonno. Lui partito, si era mutata la biancheria e messo a capo del letto un altro cartellino. Su questo fu scritto un altro nome, quello di Aminta Guerri, vi si aggiunse la patria, il reggimento, e, appena fu giunto il medico per la visita, anche la qualità della ferita. Così il letto del N. 151 aveva cambiato proprietario.
—Speriamo bene;—aveva detto il medico, dopo avere attentamente visitato il ferito.—Mi pare che tutto proceda a dovere. La palla si sente e non sarà difficile estrarla. Riposate ora un tantino.
—Signor dottore,—disse Aminta,—vorrei chiedere una grazia.
—Scrivere alla vostra famiglia?—disse il dottore.
—Sì; come ha indovinato alla prima!
—Eh, ci vuol poco, mio caro. È il primo pensiero del ferito, appena giunge all'ospedale. Le prime cure che riceve da persone ignote, quantunque amorevoli, richiamano alla sua mente quelle che vorrebbe avere dai suoi.
—È vero;—disse Aminta.—E se potessi far sapere ai miei che son qua, all'ospedale di Sant'Eufemia…
—È presto fatto;—replicò il medico militare, un forte e simpatico giovanotto, a cui non toglievano bellezza, aggiungendo gravità, le due lenti piantate sul naso.—Ho qua dentro dei foglietti di carta e delle buste. Dettate e scriverò. Nessun ringraziamento, vi prego; son cose che fanno perder tempo, e basta sottintenderle.—
Aminta diede il nome e il ricapito dei suoi. Il dottore scrisse poche linee per lui, dando anche notizie rassicuranti intorno al suo stato di salute. Poi mise il foglietto nella busta, suggellò, aggiunse l'indirizzo; tutto alla svelta, a suon di tamburo; finalmente consegnò la lettera a un infermiere, perchè fosse gittata immediatamente nella buca, all'ingresso dell'ospedale.
—Adesso, dunque, riposate. Niente ringraziamenti, vi ripeto: siamo qui l'uno per l'altro; abbiamo servita in faccia al nemico comune la medesima causa; io, più fortunato di voi, ho della carta da lettere pronta nel portafoglio, e le braccia sane per servirmene. A rivederci tra poco; dormite un paio d'ore, vi prego.—
Aminta non accettò la raccomandazione, che dopo aver chiesto e saputo il nome del simpatico uomo, che faceva tutto alla svelta, e bene, e non voleva neanche essere ringraziato. Bravo dottor Pesce! Anch'egli alpigiano come Aminta Guerri; poichè era nato sull'Appennino ligustico, a Campo Ligure, com'egli sull'Appennino modenese, a Fiumalbo.
Saputo il nome, e risposto con un sorriso alle ultime esortazioni amichevoli del dottore. Aminta piegò la testa sul guanciale e prese sonno. Ne aveva bisogno più assai che non credesse, di quel sonno ristoratore; e non dormì solamente le due ore che gli aveva raccomandato il buon medico. La febbre, per miracolo, non soverchiò la stanchezza, e neanche gli diede sogni spiacevoli. Si era addormentato pensando ai suoi monti; sognò di vederli, e di abbracciare suo padre.—«Infine,—gli diceva, mostrando il suo braccio ferito,—l'ho anch'io, la mia brava testimonianza di aver servito il paese. E non è, perdio, una misera condanna a tre mesi di confine!» Aminta Guerri, lo ricordate, non aveva perdonato, come sua sorella; il suo pensiero ricorreva spesso, e sdegnosamente, alle nobili imprese del conte Gino Malatesti. Al campo gli era giunta una lettera, in cui si diceva, tra l'altre cose e notizie di Modena, che il conte Gino era sparito. Sicuro! Tanto sparito, che non se n'erano più avute novelle. Se il conte Gino avesse avuto un'oncia di cuore, se avesse inteso il dover suo, si sarebbe arruolato in un reggimento piemontese, o nell'esercito di Garibaldi; avrebbe fatta la sua brava campagna, e presa magari in petto la sua brava palla, redentrice d'ogni colpa. A quel patto, a quel patto solo, avrebbe perdonato Aminta Guerri le colpe di Gino Malatesti. Ma il conte Gino non aveva fatto nulla di ciò. Se lo avesse fatto, altri modenesi lo avrebbero saputo, altri modenesi lo avrebbero narrato ad Aminta. Nessuno gli aveva data una simile notizia; solo avevano potuto scrivergli che il signor conte era sparito. Sparito!
La mattina seguente, fu fatta una vera e compiuta esplorazione della ferita, ed anche estratta la palla. Era conica, la palla, e di carabina Stutzen; ma alla breve distanza a cui era stato colpito Aminta, le era mancato il tempo di allargare le sue ali di piombo. Perciò non era stata troppo grave la lacerazione dei tessuti. Dalla poca quantità delle schegge raccolte, fu anche facile argomentare che l'osso non era stato troppo maltrattato.
—Speriamo bene, anzi meglio di ieri;—disse il simpatico dottore.—Ora che la medicatura è fatta, voglia starsene tranquillo, signor mio, non muoversi, sopratutto non commuoversi, non agitarsi inutilmente. La vita dell'ospedale è noiosa; ma ci vuol flemma. Coraggio e sangue freddo, come dicono al reggimento! E aspetti la famiglia, sì, ma con moderata impazienza.—
Aminta sorrise a quelle raccomandazioni, fatte con un tono di burbero benefico.
—Grazie, tenente!—diss'egli.—Ella non mi vuol guarire soltanto con le mani.
—Eh, si capisce;—rispose il dottore.—Le mani in chirurgia; la lingua in medicina. Ella non ha bisogno solamente di chirurgo, ma anche di medico. Stia dunque ai consigli.—
L'ultimo venuto della famiglia è sempre il beniamino. Aminta Guerri, ultimo venuto a Santa Eufemia, fu il beniamino dell'ospedale. Triste famiglia, un ospedale; ma non dimenticate che si era nel 1859, in un ospedale di Brescia.
Ordinariamente, in un ospedale, è squallore e tristezza, anche quando vi regna la pulizia. Le suore di Carità fanno un servizio ammirabile, assai gradito ai poverelli, che certamente non avrebbero avute mai tante cure in casa propria, e più certamente ancora non videro in casa propria tanta nettezza, tanto ordine, tanta puntualità, tanta abbondanza del necessario. Ma un po' di superfluo, Dio buono, quanto è necessario alla vita! Quelle mura scialbe dello stanzone non destano alcun pensiero giocondo nell'animo, non fioriscono di nessuna consolazione lo spirito abbattuto. Pagine bianche e mute, vi lasciano tracciare con la fantasia tutti i segni più neri, leggere tutte le malinconie che volete. E là, fra tanti letti in fila, tutti della medesima forma, custoditi alla vista dalle medesime cortine, è un principio di depressione del povero orgoglio umano, pur tanto utile a stimolare le energie della vita; in quell'odor molle di corruzione, che nessun profumo varrebbe a dissipare, e che gli stessi effluvii di farmacia mettono in evidenza, pur volendolo vincere, è un principio di morte. Così muore lo spirito, prima che il corpo si spenga. Lo stanzone, il dormitorio in comune, è lieto tra i sani, tra i forti, in una caserma, quando un motto allegro scoppia nel buio e fa scoppiar le risate all'intorno; è uggioso e triste senza fine, dove son venti o trenta uomini che stanno male, e dove chi ne ha meno finisce presto con sentirne di più. Infatti, nella corsìa dell'ospedale si moltiplica il pensiero delle vostre miserie per quello di tutte le altre che vi circondano. Ma non così a Santa Eufemia, nell'anno glorioso; sebbene, in onta alla consolante dottrina del Larrey, si morisse anche delle proprie ferite, dopo aver vinto, e sapendo che l'esercito di cui si era parte onorata, proseguiva la sua opera liberatrice.
Anche a Sant'Eufemia erano scialbe le mura; ma l'ospedale non si aveva tempo a sentirlo, poichè la famiglia appariva da tutti gli usci, brulicava per tutte le corsie, s'inchinava amorosa a tutti i capezzali. Le donne gentili di Brescia assistevano esse i feriti; servivano gli ammalati più gravi, consolavano di buone parole coloro che potevano udire e rispondere, allegravano di graziosi motti i convalescenti. In certe strette, dove i feriti non avevano più bisogno d'altro che di riposo e di nutrizione ricostituente (non è questo il vocabolo?), non pareva più d'essere tra due letti d'ospedale, ma in un salotto; salotto improvvisato, ma pur sempre un salotto. Per l'appunto da due convalescenti erano occupati i due letti alla destra di Aminta, corrispondenti ai numeri 152 e 153. Il 152 era un giovanotto di Casalmaggiore, che aveva avuta a San Martino una ferita sul dorso della mano sinistra, nell'atto di puntare il fucile, prima di aver la sua laurea d'avvocato nella università di Pavia. Il 153 era un gentiluomo di Pistoia, ferito alla regione frontale, ma anch'egli in via di guarigione. Lo chiamavano il poeta, perchè egli, più sfregiato che offeso dallo strisciar di una palla austriaca dalla fronte alla tempia sinistra, diceva di voler coprire lo sfregio con una corona d'alloro. E intanto scriveva rime, come il suo conterraneo Gino Sinibaldi, e fregiava di sonetti e di madrigali gli albi delle belle infermiere.
Aminta vide passar davanti al suo letto le più leggiadre apparizioni, i più varii e i più nobili tipi della bellezza femminile. Vide ed ammirò anch'egli quelle due luci che il 153 chiamava, in un impeto lirico, «i più begli occhi d'Italia» e che il 152, capo ameno se altro fu mai, simulando la parlata e l'accento di un viaggiatore tedesco in Italia, ribattezzava per «belle parrocchie.»—Ma che parrocchie!—esclamava il 153.—Arcipreture, collegiate, abbazie, cattedrali, basiliche! Un par d'occhi come quelli non si dovrebbero portare attorno così, impunemente, audacemente, per tentare al furto i poveri mortali. «Signora… (e qui il nome della felice proprietaria di quel paio d'occhi) non sarebbe forse più prudente metterli in uno scrigno? o consegnarli allo Stato, perchè fossero conservati tra i diamanti della corona?»—
Aminta non udiva sempre di così allegri discorsi. Qualche volta si parlava anche dei compagni più gravemente feriti, subitamente aggravati. E appunto due giorni dopo che gli era stata estratta la palla dall'omero, da un letto alla sua sinistra sentì proferire un nome che lo fece sobbalzare tra le lenzuola. Malatesti, Malatesti, avevano detto? Non ne era ben certo. Un ferito parlava con un infermiere, venuto accanto al suo letto. Il nome di Malatesti, o qualche cosa di somigliante, era stato pronunziato. Si volse, come potè, a stento, e tese l'orecchio. Ma il ferito parlava a bassa voce, e l'infermiere egualmente.
Restò a lungo turbato, cercando e non trovando nella sua mente confusa il modo di soddisfare la curiosità ond'era tormentato. Ma aveva poi udito bene? E se anche aveva udito bene, non ce n'erano altri, di Malatesti, in Italia?
Aminta era in questi dubbi, quando incominciarono le visite mattutine. Una bellissima signora bresciana, proprio quella dei «più begli occhi d'Italia», apriva in quel giorno la marcia. Giunta al letto di Aminta, entrò nella stretta, si avvicinò al suo capezzale, e gli domandò con la sua vocina soave come avesse passata la notte.
—Sognando di Lei;—avrebbe risposto il 153. Ma il nostro Aminta era il 151; non rispose che un «bene, grazie», come avrebbe fatto ogni semplice mortale, alla domanda di ogni semplice dama, e sessagenaria per giunta.
—Ha bisogno di nulla?—domandò ancora la bella infermiera.
—Sì, signora;—osò dire Aminta.—Di una notizia.
—Ah, bene! Mi dica;—rispose ella, contenta di potergli esser utile in qualche cosa.
—Vorrei sapere…—ripigliò Aminta.—Le chiederei, in grazia, di dirmi se tra i feriti c'è qui un Malatesti.
—Sì,—rispose la signora,—ho sentito questo nome.
—È modenese?—domandò Aminta.
—Non so; ma aspetti, si fa presto a saperlo.—Così dicendo, la bella signora, escì leggiera leggiera dalla stretta e ritornò sopra i suoi passi, fino all'uscio di una cameretta, dove alloggiava l'infermiere della sala. Aminta la vide ricomparire, due minuti dopo, alla sponda del suo letto.
—Sì,—diss'ella, ripigliando il discorso,—è un conte Malatesti, di
Modena. Lo ricordo benissimo, ora; è un soldato volontario del 13^o
Reggimento; occupa il primo letto della corsia.—
Aminta era preso da una strana inquietudine. Tutti quei particolari eccedevano, oramai; gl'impedivano di saper subito l'essenziale.
—E scusi…—diss'egli;—è ferito… gravemente?—Forse la bella signora si era avveduta del turbamento di Aminta; forse non era in lei che un sentimento di pietà femminile. Comunque fosse, ella si mostrò meno franca nel rispondere a quell'altra domanda.
—Gravemente?… Non credo, se per una ferita grave si ha da intendere che ci sia pericolo di vita. Non so bene come sia ferito; mi pare alla spalla; quasi come Lei, Ma si spera… si spera molto.
—Ho sentito dire,—ripigliò Aminta,—o mi è parso di sentire d'un
Malatesti che stava assai male.
—Sì, dev'essere una notizia di ieri sera;—rispose la signora, abbassando le ciglia pietose sui «più begli occhi d'Italia».—Si è temuta una recrudescenza, per un forte accesso di febbre… Ma questa mane, poc'anzi, quando son passata daccanto al suo letto, mi è parso abbastanza tranquillo.
—Ha detto che è ferito alla spalla?
—Sì, vicino alla spalla… più in qua… sotto la clavicola destra.
Ma si calmi, la prego. E sopratutto non parli troppo; le farà male.
—Ancora una domanda, signora! È lontano di qui?
—Le ho detto che è in principio di questa corsìa. Ma già, ella non può voltarsi a vedere, e meno ancora contare i letti. Il suo amico è al numero 140.
—Grazie, signora;—disse Aminta.—Il conte Malatesti è infatti un amico mio. Speriamo bene.—
I più begli occhi d'Italia si spiccarono finalmente da Modena, per brillare di luce pietosa su Casalmaggiore e Pistoia. Colà si aveva meno bisogno di chieder notizie, e molto più di ammirare la loro bellissima proprietaria. Beati convalescenti! Ed anche beati cuori tranquilli, che non sentivano, come Aminta Guerri, il rimorso di un falso giudizio.
Aminta soffriva acerbamente del suo. Povero Gino! povero Gino! Lo aveva dunque accusato a torto? Sparito, il conte Malatesti, sparito da Modena! Sì, sparito da Modena, ma per passare il confine, anzi i due confini di Modena e di Parma, per correre in Piemonte, e indossar la divisa del volontario. Ma perchè non ne faceva un cenno, la lettera? Ah, sì, che poteva dire la lettera? Il conte Gino, il figlio di Jacopo Malatesti, di un fedel servitore del Duca, non poteva mica toccar la tromba, per annunziare al popolo e al comune il suo virile proposito. Era sparito, come fa in simili circostanze l'uomo forte e modesto, che la voce del dovere ha chiamato. E senza lasciar trapelare il suo segreto da anima nata, senza mandar notizie di sè ai parenti, agli amici, era entrato, egli cavaliere esperto e magnifico, in un reggimento di fanteria, forse per meglio nascondersi, per sottrarsi alla vista, alla curiosità de' suoi pari, al pericolo di notizie che sul suo conto si potessero spargere. Ignoto a tutti, fuorchè al suo reggimento, aveva fatta la sua brava campagna, e una palla in petto aveva premiato il suo doppio eroismo, mentre tutti gli altri lo dicevano semplicemente «sparito da Modena» e Aminta Guerri lo accusava di non aver fatto seguire i fatti, i forti fatti, alle chiacchiere vane, alle piccole glorie di una condanna al confine. E come lo aveva mal giudicato in ciò, non poteva Aminta Guerri averlo giudicato male in qualche altra cosa? Per esempio nel suo mancar di fede alle Vaie? A buon conto, sua sorella Fiordispina, quella che più di tutti aveva a soffrirne, non aveva dubitato del cuore di Gino; sua sorella Fiordispina gli aveva perdonato, senza mestieri di giustificazioni, di pentimenti, di atti da eroe. Povera Fiordispina! Ed ella aveva profondamente sofferto; e soffriva ancora; avrebbe sempre sofferto. Sono nel mondo creature di tempra più nobile, vasi d'elezione, secondo il detto di un grande, ai quali è stato affidato, come a sua propria sede, il dolore; e da quei cuori più alti, come da fari accesi sulle tenebre vaste dei mari, il dolore umano spande la sua luce più bella.
Il medico giunse, guardò il ferito, gli toccò il polso, e trovò cresciuta la febbre.
—Ebbene, che è?—diss'egli.—Abbiamo fatto qualche pazzia? Il cervello ha lavorato troppo, non è vero?
—Ella vede tutto, tenente!—mormorò Aminta.—Indovina tutto!…
—Eh, ci vuol poco;—rispose il dottore.—Abbiamo una bella febbrona.
—La ferita, forse….
—La ferita non ci ha che fare; la ferita procede bene. Qui ci siamo riscaldati la testa, dico io. Forse col pensiero della famiglia? Si calmi; la famiglia verrà. Vuol farsi trovare dai suoi più ammalato che non sia veramente?
—Ha ragione, tenente! Vedrò di calmarmi, non penserò a nulla.
—Bravo, così va fatto. Neanche a tutte queste belle signore che passano, mi raccomando. Ah, bene! La vedo sorridere, mio caro Guerri. Abbiamo già dunque il cuore impegnato con una di queste angiolesse custodi? Lo dicevo ben io, che questa febbrona non veniva dal braccio!
—S'inganna, tenente; ho il cuore altrove. E poi, nel mio stato…. Le pare? Mi dica ora, di grazia;—soggiunse tosto il ferito, vedendo il dottore già sulle mosse per continuare le sue visite;—come sta il 140?
—Benissimo!—esclamò il dottore, inarcando le ciglia.—Conosce già i numeri di tutta la corsìa!
—Si tratta di un mio concittadino, del conte Malatesti;—rispose
Aminta.—Mi hanno detto che è qui, al numero 140.—
Il dottore rimase un istante perplesso, guardando di sotto alle sue lenti il curioso. In quell'istante la sua risoluzione era fatta.
—Il 140 va molto meglio,—rispose.
—Con una palla nel polmone!—disse Aminta.
Qui, altra guardata attraverso le lenti. Ma con tutta la sua penetrazione, il bravo dottore non poteva mica indovinare che il ferito giuocasse di scherma con lui e gli facesse una finta così audace, per obbligarlo ad una certa parata.
—Ebbene,—diss'egli allora,—che cosa c'è di strano? Con un polmone forato si può vivere… quando non si muore subito: il che, mi concederà, guasta anticipatamente tutta la cura del medico. Il conte Malatesti è stato ferito il 24 giugno; siamo al 5 di luglio; son passati dunque undici giorni, ed egli è ancor vivo. Sarebbe già, da solo, un bel fondamento di speranza; ma non è solo, perchè un certo miglioramento si è già manifestato nelle sue condizioni generali.
—Mi avevano detto….—balbettò Aminta.
—Ah, caro il mio Guerri! Se Ella dà retta agli infermieri, crederà che qui siano tutti moribondi. Qui, invece, ho l'onore di dirglielo, guariscono tutti, nella proporzione del novantacinque per cento.
—È alta!—disse Aminta.
—Sì e no;—rispose il dottore, mettendo per amore della verità scientifica un correttivo all'asserzione pietosa.—Ella deve anche pensare che qui abbiamo tutti i feriti che si son potuti trasportare. Hanno durato agli strapazzi del viaggio; c'era la fibra. Ma basta; ora finisco il mio giro.
—Mi fa un piacere, tenente?
—Purchè Lei stia zitto un paio d'ore, e tranquillo tutto il resto del giorno, sì.
—Mi saluti il conte Malatesti; gli porti un augurio del mio cuore!
—La servirò.—
Ciò detto, il tenente medico si allontanò dal capezzale di Aminta, per andare a finire il suo giro. Da quella parte là, per fortuna, non aveva che convalescenti.
—Sì, sì! Potrà sentirli i saluti?—borbottava egli tra i denti.—Ed anche approfittare degli augurii, quel povero conte!—
Finito il giro, andò a cercar l'infermiere della sala, che stava nel suo camerino, leggiucchiando un giornale.
—C'è qui un uso….—gli disse il dottore,—un uso che non va.
—Ho preso il giornale or ora;—rispose l'infermiere, alzandosi tosto.—Sono i primi due minuti di riposo, dalle cinque di stamane.
—Non parlo di riposo;—ripigliò il dottore,—parlo dall'uso di dar notizie dei feriti gravi agli altri feriti, che lo son meno, ma che potrebbero ancora aggravarsi.
—Non mi pare di aver fatto nulla di simile.
—Al 151, per esempio, si è detto che il 140, un suo concittadino, ha il polmone forato e che il suo stato è gravissimo. Queste notizie turbano. La debolezza di chi le riceve, l'amicizia, metta anche in certi casi la parentela, tutto ciò aiuta a far crescere l'ansietà, l'agitazione, la febbre. Non va, dico, non va.
—Mi accusa a torto, signor tenente;—replicò l'infermiere.—Le giuro, da buon italiano come sono, non ho detto nulla di nulla, nè al 151, ne ad altri.
—Allora il signor Guerri mi ha ingannato;—disse il dottore.—Gli ho risposto di non credere a ciarle d'infermieri…. Capirà, dovevo parlar così!… Ed egli non mi ha detto nulla in contrario.
—Creda, signor tenente, avrà voluto tirare a indovinare. Qualcheduno gli avrà detto che qui c'è il conte Malatesti….
—E che ha il numero 140, e che ha un polmone forato!—aggiunse il dottore.
—Ma proprio non gliel'ho detto io;—ribattè l'infermiere.—Se non sono le signore….
—Ah, donnine belle!—esclamò il dottore, tentennando la testa.
—Sicuro, donnine belle!—ripetè l'infermiere.—Non ce ne dovrebbero essere, negli ospedali, a confonder la testa.
—Bravo! La confondono a Lei?
—No, dico ai feriti.
—Eh! per questo, vada là! Un po' d'aria di famiglia fa bene. Vestono con eleganza; mettono in mostra qualche colorino allegro, che fa un po' di contrasto, che rompe questa monotonia nosocomiale. Veda anche il nome, quanto è brutto! Nosocomio! E siamo poco belli noi altri, con le nostre divise; e son brutti lor signori, con quelle cappe nere, che li fanno rassomigliare a tanti confratelli della buona morte. Lasci che le signore vengano, che le signore risplendano, che le signore sorridano; è tanto di guadagnato per la salute. Dico soltanto che bisogna guardarsi dal notiziario. Veda, per esempio; ieri il 151, non aveva più febbre; oggi gli è ritornata. La cosa mi rincresce tanto più, che oggi può capitare suo padre.
—Potrò dunque lasciarlo passare?
—Certamente. La vista della famiglia non fa mai male. È una febbre diversa, una febbre benefica, quella che dà la vista della famiglia ai feriti.—
L'infermiere s'inchinò, e il dottore, escito dal camerino, scese per la scala di servizio, che era lì accanto, riuscendo, come quello stanzino di guardia, a metà del camerone, o piuttosto del gran corridoio, dov'erano in fila i letti degli ammalati.
Da quella scala, poche ore dopo, il bravo infermiere vide affacciarsi una piccola comitiva, che domandava di vedere il volontario Guerri. L'accompagnava un soldato di guardia (un piantone, per usar la parola propria) che portava il permesso del dottore.
—Il volontario Guerri è in questa corsìa, per l'appunto;—disse l'infermiere.—A sinistra, al numero 151. È il padre, Lei?
—Sissignore,—rispose il primo della comitiva.—E come va, il mio povero figliuolo?
—Bene, una guarigione sicura. Complicazioni non se ne temono, con quella costituzione robusta. L'osso è scheggiato per una parte assai piccola, e le schegge vengono fuori benissimo, ad ogni medicatura.
—Grazie!—esclamò il vecchio Guerri, mandando un respiro tanto fatto.—Ella mi ridà la vita. Avrà un po' di febbre, m'immagino.
—Sì, un pochettino; ma non per la ferita. Non ne ha avuto stanotte, per esempio. Gli è venuta stamane, per certe chiacchiere di signore, che gli hanno dato una notizia spiacevole d'un suo amico, un conte Malatesti, che è al numero 140, e grave, assai grave. Ella capirà, signor mio…. quando si è amici…. sentir dire lì per lì….—
Il signor Guerri non stette a capir altro, ma si volse indietro e vide Fiordispina impallidire. La zia Angelica era stata pronta a sostenerla.
L'infermiere non finì la sua frase. Anch'egli aveva veduta quella bella ragazza, che veniva alle spalle del signor Guerri, e non gli era sfuggito il turbamento che l'aveva colta.
—Che ha?—gridò egli.—Si sente male?
—Nulla, nulla!—rispose il vecchio Guerri.—Con questo caldo, e con questo odor grave….
—Ha ragione;—ripigliò l'infermiere.—Noi siamo abituati; ma lor signori, che vengono di fuori, lo sentono. Aspetti, prenderò qualche sale, e lo faremo aspirare alla signorina.
—No, grazie, non ne ho bisogno;—disse Fiordispina, scuotendosi.—Non ho più nulla.—
Ma il pallore ond'era coperto il suo viso, contrastava con le parole.
—Andiamo;—ripigliò essa, tuttavia, sforzandosi di sorridere.—Vediamo Aminta. Dov'è?
—Per di qua, signori, per di qua!—disse l'infermiere, guidando i visitatori.
E giunto davanti al numero 151, entrò nella stretta, per dare la buona novella al volontario Guerri.
—Sono arrivati i suoi, sono arrivati;—gli disse.—Ora non sarà più triste, non soffrirà più d'impazienza.
E si ritirò, vedendo sorridere Aminta; si ritirò, per lasciare il passo libero ai parenti del ferito.
—Babbo…. sorella…. zia….—balbettò Aminta, commosso.—Vi ho qui, finalmente?
—Vai meglio, non è vero?
—Sì, molto meglio. Anzi, mi pare d'esser guarito, ora. Per altro, vedete? non posso abbracciarvi.
—Non te ne dar pensiero; ti abbracceremo noi, e tu ci renderai più tardi l'abbraccio.
—Don Pietro!—esclamò Aminta, poi ch'ebbe baciato suo padre e le donne.—Anche Don Pietro, è venuto? Che bontà è stata la sua!
—Ma sì…. ma sì! grande bontà!—rispose Don Pietro con le lagrime agli occhi.—Quando penso a voi altri, che avete messa a repentaglio la vita per fare tante belle cose, mi pare che dovremmo venir tutti, dai monti e dai piani, per baciare le vostre ferite.
—Sempre giovane, il nostro Don Pietro! Tu lo vedi!—disse il signor
Francesco.
—Se fossi giovane! Se fossi giovane!—borbottò il vecchio prete.—sarei qua, e verreste a trovarmi; o sarei là…. e preghereste per me.—
Si ritrasse, ciò detto, lasciando Aminta coi suoi. Avevano tante cose da dirsi! Egli frattanto dava una giratina per la corsìa, ma voltando subito da destra.
—Dov'è il numero 140?—chiese egli sottovoce all'infermiere.
—Ah! il conte Mala….
—Zitto, per carità!
—Ho capito;—disse l'infermiere, che incominciava a non capire più nulla.—Eccolo là; è il primo della corsìa.—
E mentre seguiva il prete, soggiungeva contrito:
—L'ho fatta bella anch'io; anzi l'ho fatta peggio. Perchè io, finalmente, ero avvisato! Ma chi diavolo ha da pensare che queste notizie debbano far tanto male anche alle persone sane? Oramai c'è da temere perfino di metter loro tra le mani un giornale. A proposito, non ho neanche potuto leggere il mio!—
Un altro infermiere appariva nel corridoio.
—Ah, bravo!—gli disse.—Sei venuto a rilevarmi? Avevo proprio bisogno di andare a prendere una boccata d'aria. Guarda; ci son qui alcuni signori. Quel vecchio, e le due signore, sono parenti del 151; il prete, laggiù, è un parente o un amico del 140.
—Viene a tempo, il prete, per il 140!—disse quell'altro.
—Eh, pare di sì. Povero giovane!—
Mentre i due infermieri facevano questi discorsi Don Pietro Toschi era giunto al capezzale di Gino Malatesti. Il ferito era immobile nel suo letto, pallido, cereo nel volto, non più vivo che nello sguardo. Ma come aperto, quell'occhio! come lucente! Pareva che il poveretto, sentendo prossima la fine, volesse bere per lo sguardo tutta la luce del giorno che fuggiva.
Gino vide Don Pietro e lo guardò fissamente; poi mosse le labbra, accennando di voler parlare. Don Pietro gli fe' cenno di non affaticarsi; e intanto si curvò lui, si curvò tanto, che il suo orecchio venne a toccar quasi le labbra di Gino.—Grazie!—mormorò a quell'orecchio il ferito.
—Mio caro signor Gino!—disse il vecchio prete, rattenendo a stento le lagrime.—Mio valoroso amico! Vi porto i saluti di Aminta. Soldato della patria anche lui, rimasto ferito, sotto Peschiera, e trasportato da pochi giorni a Sant'Eufemia. Se egli potesse muoversi, come verrebbe volentieri ad abbracciarvi!—
Un lampo di allegrezza balenò dagli occhi di Gino Malatesti. E lo sguardo, fisso negli occhi di Don Pietro, e il moto delle labbra, sembravano dire al visitatore:—«Continuate! continuate!»
—Aminta è ferito all'omero, ma si spera bene, come per voi;—proseguì il vecchio prete.—Vogliamo farle ancora, quattro chiacchiere insieme, e tutti e due, miei bravi ragazzi, racconterete le sante imprese ad un povero ottuagenario, che non ha potuto seguirvi con la croce nel pugno. Non potendo far altro, son venuto anch'io a trovare il nostro ferito. E qui abbiamo saputo di voi, di ciò che vi è costato il vostro amor patrio. Ma speriamo….—soggiunse Don Pietro.—Speriamo!
—Più nulla da sperare;—mormorò Gino.—Veduto da voi; perdonato…. da tutti; mi basta!
—Oh, non è questa l'opinione dei medici;—rispose Don Pietro.—Non vi mettete in capo delle tristi idee! Fidate nella scienza dei pratici, ed anche un pochino nella vostra bella gioventù.
—Son così debole!—mormorò il ferito.
—Per il sangue perduto, e che dovete rifare;—ripigliò amorevolmente Don Pietro.—La vostra debolezza mi fa pensare che le parole vi costano, e che dovete risparmiarvi. Lasciate parlar me, caro Gino! Parlerò, non dubitate; parlerà anche il signor Francesco, che è qui. Voi perdonerete ad un padre, se egli non corre subito a baciarvi, dovendo dare il primo pensiero a suo figlio!—
Il ferito obbedì alla raccomandazione. Ma i suoi occhi interrogavano sempre Don Pietro.
Sopraggiunse in quel mezzo il dottore, e si accostò all'altra sponda del letto.
—Ella ha trovato un amico, reverendo?—gli disse, mentre con la mano accarezzava la fronte al ferito.
—Sì, e quale amico! Come un figliuolo, per me!—rispose Don Pietro.—Abbiamo passate tante belle ore insieme! Ed altre ne passeremo, non è vero, dottore?
—Certamente, certamente!—disse il dottore, sforzandosi di accompagnare la parola con un sorriso fiducioso.—Il nostro prode Malatesti deve esserci conservato. Egli non è amato solamente da Lei. Al reggimento ci si pensa sempre moltissimo, e il suo colonnello manda ogni giorno a chieder notizie. Ieri, poi, ci ha incaricato di annunziargli che è stato messo a rapporto, per la medaglia al valore. Ci ha diritto due volte, il conte Malatesti. Già ferito ad una gamba, poteva lasciare il campo, e non volle. Era troppo leggera, la ferita, capisce? Leggera o no, il regolamento parla chiaro, ed egli, restando ancora pochi minuti al suo posto di combattimento, aveva meritata la medaglia. Ha voluto meritarla, zoppicando e facendo fuoco per un'ora, fino a tanto non ebbe l'altra ferita. Bravo soldato! bravo soldato!—esclamò il dottore, ripulendo col fazzoletto le sue lenti, che gli si erano un pochettino offuscate.—Ce ne vorrebbero centomila, di questi, e s'andrebbe in capo al mondo.
—Bravo! bravo Gino!—balbettò Don Pietro, con voce soffocata dalla commozione.—E dica, signor dottore: nessuno della sua famiglia è stato avvertito?
—Si è scritto a Modena, sì; ma pare che laggiù non ci sia nessuno dei suoi. Ci ha risposto il sindaco, che la contessa Malatesti è a Reggio, presso la marchesa Baldovini sua madre. Da Reggio hanno scritto che la marchesa Baldovini è incomodata, e che sua figlia non può lasciarla.—
Don Pietro chinò la fronte, e mandò un sospiro a bocca chiusa.
—Ma il nostro conte non ha bisogno di nessuno;—soggiunse il medico, tornando ad accarezzare la fronte al ferito.—Egli è soldato ed ha intorno i suoi fratelli…. la sua famiglia militare, non è vero?—
Gino mosse lievemente la testa, in atto di assentire alle amorevoli parole del medico. Poi, non volendo rompere la consegna con lunghi discorsi, mormorò una parola soltanto:
—La lettera….
—Ah, sì!—rispose il medico.—Il nostro Malatesti vuol farle sapere che ha ricevuto una lettera da Vienna; una lettera di suo padre. Gli era stata mandata al reggimento; dal reggimento è venuta qua, ed io ho avuto il piacere di leggerla a lui. Eccola qua, nella tasca del suo cappotto grigio. È una lettera che onora due persone ad un tempo: il padre ed il figlio.—
Così dicendo, il dottore aveva ficcata la mano nella tasca del cappotto, che pendeva alla gruccia, daccanto al capezzale, e ne traeva fuori il documento in discorso.
—Ecco!—soggiunse, spiegando il foglio e porgendolo a Don
Pietro.—Legga anche Lei, come il nostro amico desidera.—
Gino sorrise al medico, e mormorò un dei suoi «grazie!»
—E poi staremo qualche ora tranquilli, non è vero!—disse il medico, chinandosi su lui e parlandogli quasi all'orecchio.—Sarei contento se dopo la visita dei vostri amici, poteste dormire un pochino.—
Don Pietro frattanto leggeva la lettera, che, col permesso di Gino, leggeremo anche noi. Il conte Jacopo scriveva in questa forma a suo figlio:
«Mio caro Gino,
«Ero già molto dolente di non ricever tue nuove da Torino, quando la tua lettera è venuta a dichiararmi la risoluzione che hai presa. Mi chiedi perdono. E di che, figliuol mio? A te piuttosto dovrei chiederlo io, che non ho lavorato a farti felice, e che, scambio di accompagnarti in Piemonte, ho preferito di seguire il mio signore in Austria. Ma io, caro Gino, son della vecchia generazione, e mi sarebbe parso di non meritare la stima di nessuno, neanche la tua, se avessi fatto un voltafaccia all'ultim'ora, e sopra tutto senza ombra di pericolo. Aggiungi che, fedele alla buona, dovevo esserlo anche alla cattiva ventura. A voi giovani, a voi liberi, le vie del futuro. Ti mando la mia benedizione e l'augurio che tutti i tuoi voti si adempiano.
«Tuo padre, che ti bacia,
—Buon padre!—mormorò Don Pietro, commosso.
E rese la lettera al dottore, che fece l'atto di voltarsi da fianco, per rimetterla al suo posto.
—No, no!—disse Gino, con quel suo filo di voce. Il dottore comprese il gesto delle labbra, più che non udisse la parola.
—Avete detto di no?—chiese egli, curvando la testa più presso al ferito.
—Nel cappotto no;—rispose Gino.
—Allora qui, sotto il vostro guanciale?
—No;—disse Gino, mentre i suoi occhi si volgevano a guardare Don
Pietro.
—A lui?—ripigliò il dottore, vedendo quella guardata.—Ma il vostro amico l'ha letta.—
Lo sguardo di Gino non si spiccava più dalla faccia di Don Pietro.
—Che debbo farne?—chiese a sua volta il vecchio prete.—Mostrarla, forse…. ad altre persone?
—Sì;—rispose il ferito.
E nello sguardo gli brillava la contentezza di essere stato capito.
—Bene!—replicò Don Pietro.—Il primo a leggerla sarà il signor
Francesco Guerri. Ma sappiate, mio Gino, che non sarebbe necessario.
Tutto ciò che è avvenuto era stato inteso per il suo verso, e niente,
si è mutato per voi alle Vaie, dal giorno che voi ne siete partito.
M'intendete? niente mutato, e tutti amici vostri, come prima.—
Il medico, tiratosi un po' indietro, accennò con gli occhi al prete. E questi, che intese la mimica, fece poche altre parole, poi si tolse di là, promettendo di ritornare tra poco. Anche il medico si mosse dopo di lui, e lo raggiunse quasi vicino al letto di Aminta.
—Povero conte Malatesti!—gli disse.—Se sapeste come ha pianto, quando gli ho letta la lettera di suo padre! Allora non era così debole, così rifinito come ora; ed anche il dolore aveva un'espressione più forte dalla medesima saldezza della fibra.
—Ah sì, povero conte Malatesti!—ripetè il vecchio prete.—Forse meno infelice oggi, nel punto di lasciare la vita, che non lo fosse prima di ricevere quella palla in petto! Egli ha sofferto molto, nella vita, portando i rimorsi di una colpa non sua, ma del conte suo padre.
—Appunto!—disse il dottore.—C'è una frase, nella lettera….
—Ah!—esclamò Don Pietro.—L'ha osservata anche Lei? È quella in cui il conte Jacopo esprime il suo dispiacere di aver fatto contro ai desiderii del figlio. Ed è per quella frase che il conte Gino desidera che la lettera sia veduta da altri. Le dico un segreto non mio, signor dottore; ma tra noi, in questo momento, è cosa necessaria. Possiamo parlare qualche minuto in disparte?
—Sì, venga qua;—rispose il dottore.—C'è il camerino dell'infermiere.—
L'infermiere in quel mentre stava accanto al letto di Gino Malatesti, dandogli a bere un sorso di brodo: unico suo nutrimento, oramai. Poco stante, il ferito chiuse gli occhi e si assopì. La fibra, eccitata un istante dall'arrivo dell'amico e da tutti i ricordi delle Vaie, si rilassava da capo. Ma il suo sonno, come al solito, doveva esser breve.
Anche al sonno riparatore è necessario, negli infermi, un buon resto di forze; perciò è naturale che non dia lunghi sopori una vita che sfugge. Così nella mente di Gino Malatesti erano anche poche idee, come è poca cerchia di luce intorno ad una fiammella che sta per ispegnersi. Egli sentiva gratitudine per il dottore, per quell'amico degli ultimi giorni, che oramai non esciva neanche più da Santa Eufemia, per esser pronto ad ogni chiamata. Pensava anche a suo padre, già tanto severo e crudele con lui, ma nobilitato, purificato da un pentimento sincero. Poi, si raccoglieva a contemplare un'immagine di donna, una immagine dolorosa e cara, che si offriva a lui sempre nella sua ultima forma, quando gli era apparsa un istante nel teatro di Modena. Che istante era stato quello, per il povero Gino! Ferito da un'aspra parola della contessa Elena, si era alzato dal suo posto. Anch'essa, la povera Fiordispina, si era ritirata dal suo. Nè più l'aveva veduta; ma da quel punto, e in quella forma, in quell'atto, gli era rimasta impressa negli occhi. Così come aveva cercato di stordirsi dapprima, quando suo padre lo aveva costretto alle nozze con la Baldovini, così aveva egli cercato di stordirsi, dopo quell'incontro, battendosi col barone De Wincsel. Non n'era venuto a capo, per la intromissione audace della marchesa Polissena; ad altro ancora aveva dovuto pensare, perchè fosse stornata dal capo dei Guerri una nuova tempesta. Ma dopo d'allora la sua vita era stata un tormento quotidiano dello spirito, reso anche più doloroso dalla necessità di portar la sua maschera d'uomo tranquillo e felice. Per fortuna erano sopraggiunte le cure politiche, turbando in vario senso gli animi della sua classe. La marchesa Polissena si era sempre occupata poco di politica; ma quella volta bisognava pensarci, poichè si trattava di un grosso temporale, e il suo primo pensiero fu di dispetto contro gli uomini potenti, che mettevano l'Italia, o, per dire più esattamente, la sua piccola corte a soqquadro. La contessa Elena, si capisce, seguitava le idee di sua madre, come ne imitava gli esempi.
Anche il conte Jacopo vedeva addensarsi la burrasca, e se ne addolorava profondamente. Egli, che da tanti anni era stato messo fuori delle grazie del Duca, riprese proprio allora a mostrarsi in Corte, mentre tanti altri fedeloni, favoriti del giorno innanzi, diradavano le visite, preparandosi a prendere di largo: mentre lo stesso marchese Paolo, spiando l'occasione di lasciare l'ufficio, si teneva quasi sull'ali, disposto ad allontanarsi anche lui.
—Jacopo,—gli disse il marchese Paolo, un giorno che le notizie di Parigi e di Torino erano venute più tristi che mai per la causa dei tirannelli d'Italia,—voi siete un uomo raro.
—Perchè dite questo, mio buon Paolo?
—Perchè voi serbate fede alla sventura.
—Non ho fatto così, anche nel Quarantotto? E vi è parso allora un difetto?
—Nè allora, nè oggi;—rispose il marchese Paolo;—quantunque oggi, a giudicarne da certi indizi, mi sembri che se si va….
—Non si torna più, volete dire? Ebbene, non si torni;—replicò il conte Jacopo.—I vecchi Malatesti si contenteranno di finire con me. Non sono mai stati furbi, lo sapete; sarebbero assai più di quel che sono, se si fossero voltati, come i girasoli, ad ogni sole nascente. Ma poi…. che importa ciò?—soggiunse egli, stringendosi nelle spalle.—Guardate i girasoli. Non muoiono anch'essi? Si muore tutti, amico Paolo, e non c'è altro conforto, per l'uomo di carattere, che di esser vissuto disprezzando chi andava disprezzato, e di lasciare, dopo morto, un nome non disprezzabile.
—Onore ai vecchi Malatesti!—esclamò il marchese Paolo.—E fortuna ai nuovi!
—Parlate di mio figlio?—rispose il conte Jacopo.—Egli è andato dove lo chiamavano le sue idee giovanili, che io non ho ispirate, vivaddio, nè educate. Qualunque cosa egli faccia, e per quanto io mi dolga di saperlo su quella strada, mi è caro di pensare che egli non ha aspettato il nuovo sole, per fargli festa. Noi vecchi restiamo al nostro posto. La via è senza uscita, ci dicono? Ebbene, poichè ci si è entrati, e per nostra elezione, c'è anche onore a non ritornare più indietro.—
Questi discorsi trattenevano un poco il marchese Paolo. Ma egli non seguì il Duca, quando questi dovette partirsene, e non si ritirò da Modena che quando fu proclamato il governo provvisorio. Ai pochissimi che andarono a visitarlo in quel giorno, che doveva essere così triste per lui, disse chiaro e tondo che egli «lo aveva preveduto»; che non si erano voluti seguire i suoi consigli, rispettosi, ma fermi e frequenti; che infine egli era nato italiano e non si sentiva straniero in casa sua; solamente per non dar noia con la sua presenza a nessuno, sarebbe andato il giorno dopo in campagna. Infatti, se ne andò in una sua villa, presso Reggio, tranquillo, rassegnato agli eventi, col desiderio di essere dimenticato per allora, non senza una lontana speranza di essere ricordato in tempi più calmi.
Il conte Malatesti, niente furbo, e contento di non esserlo, aveva seguitato il suo signore sul territorio austriaco. Egli credeva di essere italiano, mantenendo le sue convinzioni, perseverando anche in un errore, per non dare il brutto esempio di un cambiamento consigliato dall'utile personale. E poi, e poi, era della vecchia generazione, il conte Jacopo. Ben poteva scrivere da Vienna al suo Gino, sapendolo arruolato nel 13° Reggimento dell'esercito piemontese: «A voi giovani, il futuro.»
Ahi, quale futuro, povero Gino! Fu molto, fu ogni cosa per lui, che la immagine soave di Fiordispina Guerri consolasse il suo breve sonno: che quella immagine, così amorevolmente pietosa come gli era apparsa nel sogno, gli apparisse ancora al suo ridestarsi.
Era là, daccanto al suo letto, la fanciulla dei Guerri; era là, viva e palpitante per lui. Spalancò gli occhi, il poveretto, la guardò attonito, la guardò lungamente, quasi non potesse credere a tanta fortuna; da ultimo aperse le labbra, mormorando il suo nome.
—Tacete, ve ne prego!—diss'ella sommessamente, chinando il bel viso su lui.—Tacete, Gino; non vi affaticate, e confidiamo in Dio!—
La vista di Fiordispina Guerri parve dar nuove forze a quel povero morente. Viveva di quella contemplazione muta. Riconoscente di quel perdono e di quella cura amorosa, Gino Malatesti ebbe ancora la virtù di sorridere alla sua consolatrice. Ma oramai non gli restava che un soffio di vita. Quella medesima notte, vegliando essa al suo capezzale, il ferito mandò un gemito, e a lei, che si era prontamente accostata a guardarlo, mormorò:
—Mi sento morire.
—Gino! che pensieri son questi?
—No, mi sento morire;—ripetè egli, con voce soffocata dal rantolo dell'agonia.—Raccogliete la mia anima…. ve ne prego!—
Si era chinata su lui, la povera fanciulla, per rialzargli la testa, leggermente, come un'altra volta aveva fatto, dandogli un po' di sollievo. Ma la testa di lui ricadde inerte sull'origliere, e un soffio rapido sulle labbra di Fiordispina, e un fiotto di sangue apparso sulle labbra di Gino Malatesti, dissero chiaramente alla fanciulla dei Guerri, che tutto era finito.
Capitolo XX.
Vent'anni dopo.
Sette anni fa, il mio amore per le vecchie castella, per i monti e i laghi dell'Appennino, mi condusse a Reggio, donde risalii a Canossa, alle Carpinete, a Bismantua, e di là, sempre per vie di montagna, a Fiumalbo, per salire la vetta del Cimone.
Eravamo in parecchi, amici provati, ed anche avvezzi a fare insieme quelle escursioni estive. Uno di essi, l'ingegnere, conosceva benissimo i luoghi, e ci aveva anche assicurato che presso Fiumalbo, da certi suoi conoscenti, avremmo trovato alloggio e cavalli, per far l'ascensione con ogni comodità.
Non fu vana promessa. Poco sopra Fiumalbo avemmo i cavalli, e al nostro ritorno (poichè allora non volevamo fermarci) avremmo anche avuto l'ospizio. Il padrone di casa, un bell'uomo, ancora giovane, dall'aspetto severo, ma dai modi singolarmente cortesi, si mostrò dolentissimo di non poterci accompagnare, per sue ragioni di famiglia, che lo chiamavano quel giorno in paese. Ringraziammo, accettando le guide che egli aveva messe a nostra disposizione, e ci avviammo su per un bosco di cerri, al dorso sassoso del Cimone.
—L'amico non può;—mi disse l'ingegnere, quando fummo al largo ed egli potè mettere il suo cavallo al pari col mio;—ma se anche potesse, verrebbe difficilmente con noi. Le alture non lo tentano più.
—Niente di strano;—risposi.—Ho già avute occasione di osservare il fenomeno. Son tutti così, questi abitatori della campagna: hanno i meravigliosi spettacoli della natura a uscio e bottega, e non c'è caso che si vogliano scomodare un'oretta per andarli a contemplare. Così avviene che i cittadini della pianura si facciano alpinisti e conoscano a palmo a palmo i gioghi e le vette, mentre i signori montanari non fanno cento passi lontano da casa.—
L'ingegnere mi lasciò fare tutte le variazioni possibili sul tema, pensando forse alla beatitudine di certa gente, a cui basta una parola, per mettere in moto il cervello e svolgete un'intiera teorica, senza curarsi più affatto del punto di partenza. Io ero felice di chiacchierare a distesa, e non badai lì per lì al silenzio dell'amico. Credo anzi di averlo interpetrato allora come un atto di assentimento alla bontà delle mie osservazioni. Vedete dove si ficca la vanità, e fin dove ci seguita!
Giungemmo col sole alto alla vetta del monte, e dopo una breve fermata scendemmo a visitare i laghi. Quello della Ninfa mi piacque moltissimo, forse perchè aveva una leggenda, che il capo della scorta ci raccontò. Vedevamo laggiù, dall'altra parte dell'acqua, lo scoglio dorato che raffigurava imperfettamente il profilo di una donna supina, e volentieri saremmo andati anche noi ad ossequiare la Ninfa; ma come? Da una parte il sasso era tagliato a piombo; dall'altra era tutto un prunaio; quanto al passare dal mezzo, ci sarebbe voluta una fede più forte della nostra.
—Peccato che non ci sia una barca!—esclamai.
—C'è stata;—mi rispose l'ingegnere;—ma non c'è durata molto.
—Lo credo bene, che non ci poteva durare!—entrò a dire il capo della scorta.—C'ero io, quando s'è lanciata in acqua, e l'ho detto subito, che la Fata non ne sarebbe stata contenta. La primavera dopo, quando ci ritornai, non c'era più barca. Eppure, vedano, era stata tirata a riva e legata con una fune a quel tronco d'albero là, che allora non aveva due palmi di giro.
—Sfido io!—mi disse l'ingegnere all'orecchio.—C'è stata una piena, nell'inverno; un bel carico di neve e di ghiaccio ha fatto affondare la barca, il peso ha strappata la fune, e addio roba! S'è affondata di sicuro, senza bisogno che la Ninfa la vedesse di mal occhio.—
Benedetti ingegneri! Son come i medici, loro, ed hanno una ragione per ogni cosa. A me, lo confesso, piaceva assai più lo sdegno della Ninfa. E notate che non sono poeta; lo sono così poco, che poco lungi di là, vedendo un faggio che portava sul tronco i segni di parecchie incisioni fatte con una punta di coltello, incisioni già antiche, con caratteri oramai illeggibili, feci un'osservazione come questa:
—Che scioccherie! Guastare un bel tronco, per far sapere alle genti il suo riverito nome…. Che gusto c'è, dico io, che gusto?—
L'ingegnere per quella volta non mi lasciò andar fuori, ed io sentii una toccatina di gomito, che mi persuase a smetter subito subito.
—Se sapeste!—mi disse egli poscia.—C'è tutta una storia d'amore, sotto quelle incisioni.
—Leviamo allora la corteccia, e leggiamola;—risposi.—O piuttosto, poichè siamo già troppo lontani dall'albero, siate tanto gentile da raccontarmela. Non cerco altro che storie, io!
—Domani;—mi replicò l'ingegnere.—Ve la racconterò domani.
—Perchè non oggi?
—Anche oggi, alla fermata; ma a patto che siano lontani gli uomini della scorta. Capirete bene!…
—Non capisco nulla, ma fa lo stesso. Avete le vostre ragioni, e mi basta.—
Per quel giorno diedi io il segnale della fermata, vedendo un'eminenza dove le cavalcature non avrebbero potuto stare che a disagio. Colà andammo a seder noi, mandando la scorta e i cavalli su d'un ripiano più basso.
—Ho capito;—disse l'ingegnere;—voi volete la storia. Andiamo dunque a ristorarci lassù.—
Volevo la storia e l'ebbi, per allora in compendio, ma dal principio alla fine. Il gentiluomo mandato per punizione a vivere in que' luoghi salvatici; l'ospitalità di una famiglia montanara; gli amori, le corse al Cimone, la gita al lago della Ninfa, la barca lanciata in acqua, i nomi dei due amanti incisi sui tronchi dei faggi; il richiamo del gentiluomo a Modena; i pianti, le promesse, i giuramenti, l'oblio, le nozze con un'altra donna, le angosce, i pentimenti, le giustificazioni e la morte; tutto, insomma, e senza che un nome fosse pure proferito.
—Ora vi ho contentato;—mi disse l'ingegnere.—Ma voi mi prometterete di non ricordarvi più del racconto che vi ho fatto, fino a doman l'altro, quando saremo ritornati a Modena.
—Perchè?
—Il perchè lo so io; promettete! Ed anche di non accennare stasera, in presenza dei nostri ospiti, alle particolarità della nostra visita al lago.
—Non sanno forse che ci andavamo?—risposi.
—Lo sanno; ma voi mi farete cosa gradita a non parlarne, e a tagliar corto se ve ne domandano essi. Promettete?
—Figuratevi, caro amico! Se non è che questo!… Faremo delle chiacchiere vane; parleremo magari di politica…. che Iddio ce ne scampi, per altro!—
Erano forse le otto di sera, quando si giunse alla casa degli ospiti: una casa vastissima, o, per dire più veramente, un ceppo di case alte e basse, la cui contiguità chiaramente indicava il bisogno d'ingrandimenti successivi, lasciando anche argomentare che si fosse molto pensato alle comodità interne, senza badare affatto a contentar l'occhio del viandante con una armonica disposizione di linee esteriori. Smontati da cavallo innanzi al portone, trovammo sulla soglia il signore che quella mattina ci aveva augurato il buon viaggio. Egli ci pregò di salire in casa sua, con molta semplicità di discorso, senza nessuna di quelle dichiarazioni d'indegnità, di casa non adatta, di accoglienza alla buona, che sono il consueto accompagnamento degl'inviti di montagna.
Noi piuttosto avremmo voluto scusarci. Eravamo cinque ospiti, tutti vestiti alla carlona, stazzonati, gualciti, stinti e inzaccherati da due settimane di vita zingaresca. Ma a che far complimenti, tra uomini? Il nostro aspetto, poi, non era niente peggiore di quello che presentava la casa.
Per altro, come fummo entrati nella gran sala del primo piano, ci colpì l'aria di signorile abbondanza che regnava colà. Era nel mezzo una gran tavola, sontuosamente imbandita, con due grandi doppieri sui capi, le cui fiamme si riflettevano lungo le pareti, sui cristalli di quattro scansìe piene di libri riccamente rilegati, e sulla cassa impiallacciata di un pianoforte a coda. In verità, ci trovammo male, là dentro, coi nostri abiti gualciti e le nostre scarpe inzaccherate. Ma infine, i nostri ospiti sapevano bene donde venivamo, e non ignoravano certamente che scorrevamo i monti senza impicci di valigie e di sacche da viaggio.
Questo pensiero ci calmò un pochettino, mentre rispondevamo con inchini e frasi scucite alle oneste accoglienze del padrone di casa, bel vecchio ottuagenario, ancora molto robusto, e triste e cortese come suo figlio, che ci aveva salutati sull'uscio di strada.
L'ingegnere conosceva quel vecchio, e si prese egli la briga di presentare ad uno ad uno i suoi quattro compagni di gita, che capitavano là ad incomodare i padroni di casa.
—Per incomodare, son pochi;—rispose il vecchio.—Desideriamo che si trovino bene, e ce lo provino, facendo una lunga fermata.—
Tutto ciò era detto con molto garbo, ma anche con molta gravità. Il vecchio parlava con noi, ma aveva l'aria di pensare a tutt'altro.
Dietro a lui apparvero allora due donne: vecchia la prima, e non più giovane la seconda. Strano contrasto! La vecchia aveva i capegli quasi neri; la più giovane li aveva bianchi del tutto, e non li nascondeva. Due ciocche d'argento sbucavano dal fazzoletto di seta, che ella portava addoppiato, secondo il costume montanino, intorno alle tempie.
Vedute le signore, dovemmo pure scusarci dei nostri poveri arnesi. Ma il vecchio non ci lasciò continuare.
—Per carità, non facciamo complimenti;—diss'egli.—La casa non c'è avvezza; e noi meno della casa.—Capii che non occorreva insistere, e condussi il discorso sui libri, domandando il permesso di avvicinarmi alle scansie che avevo vedute da principio. C'erano molti libri moderni, sugli scaffali, e fui lieto di poter proferire, leggendo, parecchi nomi d'amici.
La signora più giovane, che era la figliuola del padrone di casa, mi aveva accompagnato in quella piccola ispezione. Le domandai se leggesse molto.
—No, non più tanto;—mi disse.—Il tempo manca.
—Come?—esclamai.—Anche qui, signorina?
—Qui più che altrove;—rispose ella.—Le faccende di casa son molte.
—E non bisogna dimenticare i bambini;—soggiunse l'ingegnere, che si era avvicinato in quel punto.—La signorina li ama assai, e fa scuola a tutti i ragazzi del vicinato.—
Quella signorina dai capegli bianchi come la neve, che amava molto i bambini, ed era rimasta a governar la casa di suo padre, scambio di prendere un marito che non avrebbe dovuto cercare, così bella come era stata sicuramente nella sua prima gioventù, e come appariva tuttavia, ad onta de' suoi otto lustri, quella signorina, dico, fece sull'animo mio una profonda impressione.
E non essa soltanto, ma ogni cosa ed ogni persona, in quella casa tanto ospitale, eppure tanto malinconica: i cui abitatori vi destavano tanta simpatia, e vi gelavano le parole in bocca, quando cercavate di esprimerla.
Durante il pranzo si ragionò di varie cose, ma parlò quasi sempre l'ingegnere, dando notizie di Modena, e venendo a discorrer poi di opere pubbliche. L'ottuagenario prese la parte maggiore alla conversazione, ma non si scaldò un tantino che quando si cadde sulla politica. Dio buono, anche in montagna? Sì, lettori garbati, più in montagna che altrove. E con che ardore, lassù! In fede mia, se i nostri uomini politici sapessero da che altezze son sempre osservati, e alle volte giudicati, tremerebbero senz'altro. Ma essi ordinariamente non badano che alla opinione delle grandi città, spesso ristretta ad un battibecco di cinque o sei giornali, mentre il grosso della popolazione pensa a far fortuna, o a darsi bel tempo, o a tutt'e due le cose insieme, volgendo agli uomini politici un'occhiata stracca, e solamente nelle grandi occasioni, attraverso la prosetta rachitica dei sunti parlamentari. In quelle alte solitudini, in quelle paci campestri, gli uomini politici son forse stimati più grandi del vero; per contro, si domanda loro di più. E come sono flagellati a sangue, quando perdono il tempo in chiacchiere! come sono profondamente odiati, quando fanno il male, scambio del bene che si aspettava da loro!
Ripeto: se sapessero come son giudicati, tremerebbero. E se vi pare che questo verbo disdica ad uomini politici, mettiamone pure un altro; diciamo che si vergognerebbero di tanta miseria, di tanta povertà d'ideali, e quind'innanzi ad ogni loro atto andrebbe compagno il pensiero: che cosa ne diranno quei di lassù? Fortunatamente gli uomini politici non sanno nulla di questi severi giudizi, e possono seguire, senza timori e senza sospetti, le loro modestissime inclinazioni. E gli abitanti della pianura, i beati cultori dell'aurea mediocrità, respirano liberamente, pensando che non ci sono più grand'uomini, che non ci sono più eroi, per escire di riga, per guastare la bella armonia del concerto.
Io, come il lettore s'immagina, durai gran fatica a sostenere quella conversazione. Politica, santi Numi! Politica lassù? Mi ero posto in guardia; sapevo poco di ciò che si faceva nelle alte sfere; non conoscevo personalmente nessuno degli uomini che giudicava dall'alto il mio ospite. Egli potè credermi, magari Dio, più sciocco del vero, e alieno per trista elezione dalle cose della patria. A mala pena mi venne fatto di trovare la gretola, scappai fuori, cercando di tirare il discorso sui monti, sulla loro formazione, sulla loro emersione, sui fatti geologici e meteorologici che li avevano condotti alla forma presente, e su tante altre cose affini, egualmente importanti, sperando di esser preso anch'io per un fossile, anteriore al periodo glaciale.
Avrei potuto parlare di letteratura, argomento che oramai è da tutti, grazie all'assiduo lavoro della critica spicciola, che c'istruisce per due soldi la settimana, e ci fornisce anche, bontà sua, il lume a mano, per iscoprire le più riposte bellezze dei capilavori moderni. Ma le poche parole ch'ebbi occasione di farne con la figliuola del mio ospite, mi persuasero che neppur quello era argomento per me. La signorina aveva buon giudizio; ma domandava troppo all'arte nuova, e più assai ch'ella non possa dare, costretta com'è dalle esigenze del gusto presente, e più proclive a secondarle che non sia adattata a combatterle. Figuratevi! Le domandava di riaccostarsi alle forme antiche; di seguire la tradizione paesana; di aver presente questa teorica barbogia, che il pensiero è un fiore delicato, il quale non nasce su tutti i margini di strada, e vuol essere educato con ogni cura nei giardini, e presentato come una maraviglia alle genti. No, no, niente letteratura! Geologia, piuttosto, geologia e paleontologia, dove i vecchi strati delle rocce e le antiche specie organiche si studiano bensì, ma sotto l'aspetto della classificazione, senza obbligo di abbracciar sempre un partito.
Il pranzo era stato servito con abbondanza montanara, quasi feudale. La cacciagione e il pesce di fiume avevano fornita la mensa. Dei vini non si parla neanche: il lambrusco, il trebbiano, il vin santo, erano a dirittura eccellenti. Pure, non venni a capo di esilararmi un tantino; anch'io, come le trote del mio ospite, era un pesce fuor d'acqua.
L'ingegnere, quando ci fummo tutti ritirati nelle nostre camere, mi prese in disparte e mi disse:
—Ebbene, che opinione vi siete fatta dei nostri ospiti?
—Caro amico,—risposi, cercando di eludere la quistione,—un buon pranzo, e non ancora digerito, comanda la gratitudine ad ogni stomaco ben fatto.
—Lasciamo gli scherzi;—replicò l'ingegnere.—Vi domando che cosa pensate, sinceramente, di queste persone? Son curioso di saperlo.
—Appagherò la vostra curiosità, quando voi avrete risposto ad una mia domanda. Che spessore attribuite voi a queste pareti?
—Ma…. non saprei. Bisognerebbe misurare. Del resto, parlate sottovoce, e non ci sarà caso che nessuno vi senta.
—Orbene,—ripigliai,—sentite la mia opinione. Mi par d'essere in una casa incantata. C'è nell'Orlando furioso, ed anche nelle Mille e una notte, d'onde l'Ariosto ha cavato tante altre belle cose, la storia di un'isola, dove tutti gli abitanti erano rimasti di sasso. Qui mi sembra di vedere un caso consimile. Ci sono delle persone gentili, molto gentili, ma in modo tutto lor proprio, che non è quello del comune degli uomini. Accolgono con affabilità, parlano con amorevolezza, ma si direbbe che è tutto lavoro meccanico, superficiale, e che il cuore non c'entra per nulla. Cioè, non esageriamo,—soggiunsi tosto, vedendo di essere andato oltre il mio pensiero, per la stessa difficoltà di esprimerlo,—il cuore c'entra per le sue parti meno profonde; ma nel fondo, nel nocciolo, è come gelato. Il pensiero, dal canto suo, è qualche volta con gli ospiti, ma più spesso si chiude entro di sè medesimo, per contemplare Dio sa che. Per dirvela in poche parole, non mi sembrano persone di questo mondo, quantunque ci vivano, e abbiano l'aria di muoversi in mezzo a noi tutti.
—Avete ragione;—mi rispose l'ingegnere.—C'è passato un gran dolore, su questa casa di galantuomini. Li avete veduti, i capegli bianchi di quella signorina? Alla sua età molte donne li hanno così, e la tintura benefica di Madama Allen corregge gli errori del tempo. Ma questa, vedete, li ha bianchi da oltre vent'anni; in una settimana la sua ala di corvo si è tramutata in ala di cigno. Il suo dolore non ha dato lagrime, si è gelato intorno al cuore; e tutti, intorno a lei, si sono raccolti in un muto rammarico. Ella non ha voluto contristare nessuno; ma tutti son tristi con lei e per lei.
—Ed è la fanciulla della storia che mi avete raccontata quest'oggi!—esclamai.
—Sì, stavo appunto per dirvelo.
—Oh, non dubitate! Lo avevo immaginato fin dal primo momento che siamo entrati in questa casa. Ma come può aver durato tanto al dolore?
—Un medico ve lo direbbe. Gli organismi sani resistono e conservano. Noi ammalati, con l'aneurisma congenito nelle arterie e il tubercolo appiattato nel polmone, non si resiste all'affanno, si muor di dolore; qui invece ne vivono. Si può anche dire che qui è il dolore nella sua forma più nobile. La fibra sana resiste, il sangue vivo e rutilante vorrebbe ribellarsi, chiedendo tutte le gioie, tutte le ebbrezze dell'esistenza; ma l'anima costringe il sangue, l'anima comanda alla fibra.—«No,—dice essa, la vincitrice immortale,—io soffro, soffrite voi pure con me.»—
—Ingegnere!—esclamai.—Siete poeta?
—Chi non lo è?—diss'egli, stringendosi nelle spalle.
—Eh, molti e molti che conosco io;—risposi.
—Non lo credete;—ripigliò l'ingegnere.—Voi mi parlate di una gente che conosco anch'io, e forse più intimamente di voi, perchè io vivo tra gli uomini, e voi, caro amico, dividete il vostro tempo tra i libri e le nuvole.
—Non tanto, ingegnere! Non tanto! Ma se è per farvi piacere…
—Per farmi piacere,—soggiunse egli,—dovete credere quello che io so di tanti campioni della prosa, millantatori di una certezza negativa che non hanno nell'anima. Son povera gente, ve lo dico io, povera gente che si vergognerebbe di credere come noi, gabellati da essa per ispiriti deboli, e che poi, trascinata dalla necessità del sistema, non sa far altro che sostituire una metafisica sua a quella che avrebbe voluto discacciare per sempre. Oh, le fanfaluche di cui si nutrono e in cui credono fermamente, gli apostoli della negazione! Ci sarebbe da fare un bel libro, sapete!
—Ma non per convertirli!—risposi.
—Lo so. Per convertirli, ci vorrebbe un corso di matematiche. È là,—disse l'ingegnere, trionfante,—che io mi sentirei di ridurli a miglior consiglio, questi amenissimi roditori della scienza, che osservano i fatti e non vedono le relazioni, che studiano la materia e non intendono la legge, che non si elevano a nessun concetto di integrazione, che non sospettano neanche della vitalità delle astrazioni e della virtù generatrice degli assiomi. Ma noi filosofiamo,—soggiunse l'amico, ridendo,—ed è tempo di andare a dormire.
—Ecco una verità assiomatica!—risposi io.—Dunque, buona notte!
—Buona notte! E ricordate la storia che vi ho raccontata. C'è la materia d'un libro.
—Ora che ne conosco gli attori!—esclamai.—Vi pare possibile? segnatamente con quella libreria, dove entrano anche le pubblicazioni più recenti! Dio guardi se ci capitasse la storia, che voi mi consigliate di scrivere.
—È vero;—mi rispose l'ingegnere.—Non se ne parli più.—
Fatte queste parole, ce ne andammo a dormire. La mattina seguente, bevuto il caffè insieme coi nostri ospiti delle Vaie, prendemmo congedo da loro, per ritornarcene a Modena. Quando fui in sella, mi parve di essere Gino Malatesti. La fanciulla dei Guerri era là, bellissima ancora, co' suoi capegli bianchi e con le rughe precoci intorno ai grandi occhi pensosi.
Avrei voluto dirle una buona parola, dond'ella intendesse che io conoscevo la storia de' suoi nobili dolori; ma mi parve cosa puerile. Anche una massima generale avrebbe stonato, e mai certe generalità sentenziose mi parvero più sciocche d'allora. Strinsi la mano a tutti, senza aggiungere una frase, dopo le tante di ringraziamento che aveva fatte l'ingegnere per noi. La mano di Fiordispina era fredda; ma io l'avevo sentita tremare. Forse in quel luogo medesimo, davanti alla casa campestre, Gino Malatesti era salito in arcione, e di là aveva mandato l'ultimo saluto con l'ultima promessa, ahimè, non attenuta alla fanciulla dei Guerri!
E il povero prete? Ah, quello era morto da un pezzo, e non soffriva più dei dolori altrui. Pace all'anima di Don Pietro Toschi, e sia sempre il suo nome ricordato con venerazione alle Vaie.
Mi accomiatai tristamente dai Guerri, che non dovevo più rivedere. Mezz'ora dopo, ero a Fiumalbo; il giorno seguente a Modena, donde ritornai subito a casa, tra i miei sopraccapi, che m'aspettavano tutti, e i miei libri, che avevano l'aria di dirmi,—«La vuoi finire con le malinconie? Vieni, la consolazione e la vita sono con noi, morti parlanti, senza la malignità, l'ambizione e l'invidia dei vivi».—
Ritornato alle mie cure, non dimenticai la storia delle Vaie. Spesso, quante volte mi accadeva di parlare con cittadini di Modena, chiedevo notizie dei personaggi che ci avevano avuta la parte loro. Seppi così che il conte Jacopo Malatesti era morto in esilio volontario a Vienna, mentre il marchese Paolo era divenuto senatore del regno d'Italia; seppi che la marchesa Polissena Baldovini viveva tuttavia, facendo la bella, come poteva. E vive ancora, poichè non ha più di sessantacinque anni; ma i suoi capegli son sempre biondi, anzi oggi più biondi che mai, e fa il bocchino, quando i giovanotti le dicono celiando:—«Voi, marchesa, siete un'altra Ninon de Lenclos.»—La contessa Elena, sua figlia, non è con lei; intorno al 1861 si era rimaritata, diventando baronessa De Wincsel; ma un anno dopo era separata dal marito. E da quanti altri, poi! Ventiquattr'anni son lunghi, per la storia di una donnina come quella.
Vive essa, vive sua madre, vivono tutti coloro che sentono meno e non danno troppe molestie al cuore. Son morti invece, l'un dopo l'altro, i miei ospiti delle Vaie. Primo il vecchio signor Francesco; poi Fiordispina; ultimo Aminta, nello scorso anno, pochi mesi dopo la sua buona sorella. Strano, quando una casa incomincia a disfarsi, come va tutta e presto in rovina!
Ma i Guerri non sono dimenticati, e la storia degli amori di Fiordispina è più viva che mai, nelle alte convalli dell'Appennino modenese e parmense; la sanno tutti, dal Cimone all'Alpe di Succiso, e dal Malpasso all'Orsaro. Fra cent'anni sarà una leggenda. Speriamo che trovi il suo poeta, e che questi non dimentichi di celebrare col più caldo de' suoi inni la nobile schiatta onde escono i Guerri. Di questi forti e nobili cuori si compone un'Italia che conosciamo così poco, l'Italia montanara, dove si sente più forte e più alto, glorificando la patria in excelsis.
I. Mandato a confine 1
II. I re della montagna 16
III. Tra l'Ariosto e il Tasso 38
IV. La vita alle Vaie 58
V. Il commissario e l'applicato 76
VI. Ombre e leggende 100
VII. Al lago della Ninfa 129
VIII. La marchesa Polissena 148
IX. Due lettere 166
X. La fanciulla dei Guerri 187
XI. La notte di Sassuolo 202
XII. Una inchiesta misteriosa 225
XIII. Il segreto di Pellegrino 240
XIV. Consolatore e giudice 261
XV. Anima forte 279
XVI. Delizie coniugali 293
XVII. Le vittorie di Polissena 320
XVIII. Per l'Italia 349
XIX. Sant'Eufemia! 373
XX. Vent'anni dopo 400
NOTA DEL TRASCRITTORE: i seguenti refusi sono stati corretti
La notte de[del] commendatore (1875). Diana degi[degli] Embriaci (1877) se dovesse ridere, o andare il[in] collera. ma con le oro[loro] cornici intagliate e dorate a fuoco. Era finalmente finalnalmente[finalmente] venuto a capo torno[tornò] in campo la proposta le due faccie[facce] proibite i mustacchi erano probiti[proibiti] nelle vacanze feceva[faceva"] le sue piccole apparizioni il conte Malatesti facena[faceva] capo Ci[Chi] poteva scrivergli da Lucca? Ma io non ardirò sostistuirmi[sostituirmi] oveva[doveva] inventare i cenobii e oramai;[,] per fare quel gran matrimonio —Lasciatemi essere egoista s[e] soggiungere In capo ad otto giorni Aminto[Aminta] dond'ella intentendesse[intendesse]