The Project Gutenberg eBook of Isabella Orsini, duchessa di Bracciano

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Title: Isabella Orsini, duchessa di Bracciano

Author: Francesco Domenico Guerrazzi

Release date: December 13, 2011 [eBook #38298]

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni, and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ISABELLA ORSINI, DUCHESSA DI BRACCIANO ***
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Gli Editori intendono valersi dei diritti accordatigli dalle Leggi sulla Proprietà letteraria.


ISABELLA ORSINI
 
DUCHESSA DI BRACCIANO,
 
RACCONTO
 
DI F.-D. GUERRAZZI.
 
 
UNDECIMA IMPRESSIONE.
 
 
 
FIRENZE.
SUCCESSORI LE MONNIER.
1880.

AL MARCHESE
 
GINO CAPPONI.

Col desiderio di porre l’onorato tuo nome a cosa maggiore in segno di gratitudine per la tua benevolenza, di rispetto pel tuo carattere, e di ammirazione per la dottrina, ti dedico frattanto questa domestica storia.

Il tuo rispettoso e affezionato amico
F.-D. GUERRAZZI.

3 aprile 1844.


INDICE

CAPITOLO PRIMO.

LA COLPA.

Ma Gesù chinatosi in giù scriveva col dito in terra. E com’essi continuavano a domandarlo, egli rizzatosi disse loro: Colui di voi ch’è senza peccato gitti il primo la prima pietra contro a lei. — Gesù le disse: Io ancora non ti condanno: vattene, e da ora innanzi non peccar più.

S. Giovanni. VIII.

Ave Maria! Creatura di cui la vista persuase l’Eterno a offerirsi vittima espiatoria per la stirpe onde nascesti alla giustizia irrevocabile della sua legge; — Vergine, nel seno della quale Dio penetrò come raggio purissimo in acqua pura;1 — Madre, che nel tuo grembo, meglio che nell’Arca Santa, la Divinità conservasti, abbi misericordia di me.

Ave Maria! Regina dei cieli: Dio con gli Angioli più amorosi, che mai creasse nella esultanza della sua gloria, ti circondava. Dio pei campi del suo firmamento le stelle più luminose per tessertene una corona sceglieva; sotto i tuoi piedi il sole poneva, e la luna. Cristo riposa sopra il tuo braccio come sopra un trono eccelso a governare il creato. Tu, che puoi tutto, abbi misericordia di me!

Ave Maria! Dio versò il suo sangue in osservanza dei fati della sua legge. Tu vinci anche i fati; imperciocchè, quando ti vennero meno le amorevoli inchieste, tu deponesti l’Eterno dal tuo braccio divino, e davanti lui ti prostrasti, e con la preghiera ottenesti quello che non aveva potuto impetrarti la domanda: — perchè quale uomo mai, o qual Dio, potrebbe vedere la propria madre prostrata al suo cospetto, e respingerla sdegnoso da sè?2 Dio è sopra la natura, non contro la natura. Misericordia dunque, misericordia di me!

Ave Maria! Solo che tu volga uno sguardo di benignità sopra l’anima del parricida, ecco diventerà candida come quella del pargolo battezzato pure ora. Tu, che hai una lacrima per ogni sventura; — tu, che dalla miseria a soccorrere i miseri apprendesti; — tu, che possiedi una consolazione per ogni tribolato, un buon consiglio per ogni traviato, un soccorso per qualunque fallo, una difesa a qualsivoglia colpa, tu sarai sorda solamente per me?

“La contemplazione delle tue glorie nell’alto ti dissuade dallo abbassare più oltre i tuoi sguardi a questa valle di lacrime? Le laudi dei celicoli ti hanno reso forse molesti i gemiti dei tuoi divoti? Madre del tuo Creatore, ti sarebbe per avventura incresciuta la tua origine terrena? Lassù nel cielo si costuma egli come nel mondo?....

“Ahi trista me! Me misera! La mente mi vacilla a modo di ebbra: pur troppo, pur troppo m’inebbriò il dolore, e la parola m’imperversa procellosa per le labbra quasi un vento di bufera.

“Maria, perdono! Tu sai se infante non aborrendo io bagnarmi i piè nudi per l’erbe rugiadose, lasciato il letto tepido, mi conducessi a sceglierti i fiori, che dai calici aperti bevevano i raggi primi del sole mattutino; tu sai se io vigilava sempre a guisa di vestale, perchè il lume della lampada domestica a te consacrata non si estinguesse; — e se qualche fatto non degno della tua santa vista commisi, io prima ti velai il volto, e poi te ne chiesi perdono. In te sola confido.

“M’infiamma il sangue, anzi pure le midolle mi consuma e le ossa uno amore....

“Chi è che ha detto amore? Ho io profferito amore? Ah! per pietà, che nessuno lo sappia.... che nessuno lo intenda.... che le mie orecchie non lo ascoltino dalle mie labbra! Folle! E che importa questo, se ho l’inferno nel cuore? — Sì, un amore infame mi arde tutta, un amore da far piangere gli angioli. Maria, non mi guardare nell’anima! Tutti i confessori del paradiso, non che tu, Vergine immacolata, diventerebbero rubicondi per vergogna a guardarmi nell’anima!

“E non pertanto questa fiamma così arde segreta, che nessuno contemplando la mia pallida faccia potrebbe dire: — Ecco un’adultera! — Chi dei viventi saprà distinguere in me come tinga la colpa, o come il dolore? In quella guisa, che la lampada sepolcrale arde illuminando gli scheletri umani senza comparire di fuori, così l’amore mi vive nell’anima, splendendo sopra le reliquie miserabili della mia contaminata virtù.

“Ma in questa fiera battaglia ogni spirito vitale è venuto meno. Già si approssima l’ora in cui si aprirà lo abisso entro il quale rovineranno verecondia di donna, reverenza di marito, decoro di famiglia, e amore di madre, e tutto insomma, e la salute dell’anima con essi!

“La salute dell’anima! la perdizione eterna! E se io, disperata ormai di superare la corrente, mi lasciassi sopraffare dalle acque....? Se, anima piena di amarezza, io ardissi fuggire dal tristo carcere del corpo....? Se prima della chiamata io disciogliessi le ali fuori della vita, e riparassi sotto il manto del perdono di Dio....? si apriranno esse le braccia di Dio per accogliermi, o mi respingeranno? E di vero, non sono io intieramente corrotta? Dio non penetra nei nostri cuori, e non vede come li abbia rosi il peccato? In questa acerba contesa io difendo quella parte di me che diventerà polvere; l’altra, che ha da vivere immortale, ormai è perduta. Sia che io rimanga, o che fugga; sia che mi abbandoni, o che resista, Isabella, tu sei dannata.... dannata per sempre!

“Dov’è, chi è colui che pose questa legge iniquissima? Se io non valgo a rompere, voglio mordere almeno questo fato di ferro. Non ho combattuto, e non combatto tuttora? Qual è in me la colpa, se io non posso vincere? In che cosa peccai, se un serpe mentre io dormiva mi si è insinuato nel cuore, vi ha fatto il nido, e lo ha reso a vedersi più tremendo della testa di Medusa? In che peccai, se non mi basta la lena a portare questa croce? I caduti non s’irridono, non si condannano, ma si aiutano. Ebbene, poichè colpa pensata vale colpa consumata, e portano ambedue la pena medesima, scendiamo interi negli abissi del delitto, e moriamo....”

Queste ed altre parole in parte profferiva, in parte mormorava fra i denti una giovane donna bellissima di forme, davanti la immagine della Madonna, opera divina di Frate Angelico.

E cotesta immagine, simbolo di celeste verecondia e di casti pensieri, sembrava come sbigottita da preci siffatte; imperciocchè per le parole assai, ma più pel modo col quale venivano pronunziate, paressero e fossero in parte immani empietà. La donna non istava atteggiata a reverenza, ma dritta, proterva, a fronte alta, con occhi torvi ed intenti, affannoso il petto, tremule le labbra, dilatate le narici, strette le mani, inquieti i piedi, — leonessa insomma, piuttostochè donna, e molto meno poi donna supplichevole.

Aveva ella ragione?

I Greci ricercando sottilmente la natura di questo nostro cuore, conobbero tali vivere vizi così inerenti alla sostanza umana da non si potere vincere dalle forze unite della volontà, delle leggi, dei costumi, nè dalla religione: però con quello ingegno portentoso, che a loro soli concessero i cieli, resero amabile il vizio, e lo fecero contribuire al bene della repubblica: invece di aspettare quello che non poterono prevenire, gli andarono incontro. A modo di quanto si narra di Mitridate avendo a bere veleno, vi si abituarono per tempo, togliendogli la facoltà di nuocere. Osarono anche di più: fecero gli Dei complici dei misfatti degli uomini; non potendo sollevare questa polvere fino al cielo, abbassarono il cielo fino alla polvere, e il colpevole diventò argomento non di odio, ma di compassione, come quello che aveva ceduto alla onnipotenza del fato, cui Giove non che altri cedeva, e che guidando i volenti, i repugnanti strascina.

Il quale concetto esteso ad ogni maniera di azioni, sopra modo accoglievano nelle cose di amore. — Anacreonte, al quale cominciano già a incanutire le chiome tante volte coronate della lieta edera e di pampini, se ne sta solo davanti al fuoco in una trista notte d’inverno. Borea imperversa per lo emisfero e pei mari, e un turbine di gragnuola forte percuote la casa del poeta. Egli non ricorda i raggi del sole di primavera diffusi sopra i fiori e sopra i capelli delle donne bellissime, non le molli erbe piegate appena dai piè fugaci delle danzatrici, non l’aure pregne di vita, che gli parevano susurrare nelle orecchie: — amore, amore; — i suoi pensieri versano intorno alla caducità delle nostre sorti quaggiù; vede la vita volgere più veloce della ruota del carro vincitore nei giuochi olimpici, i nostri giorni dileguarsi più ratti di un’ombra sopra la parete: le rose della sua fantasia appassiscono alla considerazione della morte. All’improvviso è battuto alla porta del poeta, ed accompagna il colpo una voce di pianto. — Può non sentire pietà il poeta, se la pietà è una delle più armoniche corde della sua lira celeste? Apre Anacreonte la porta, e comparisce un fanciullo, molle di pioggia, e pel dolore allibito: povero fanciullo! i capelli grommati di diacciuoli gli stanno giù distesi lungo le guance; le labbra ha livide, le membra intirizzite. — “Qual mala ventura, o bel fanciullo, ti sforza a vagare per questa notte consacrata agli Dii dello inferno?” E intanto senza aspettare risposta gli spreme il gelo dai capelli, lo spoglia, lo asciuga, e col calore del fuoco lo ravviva; nè ciò gli bastando, le mani del fanciullo si ripone in seno per iscaldarle soavemente co’ tepidi effluvii del suo sangue. Poichè tornò sopra le labbra il cinabro, e la tremula luce alle pupille, il fanciullo sorridendo dice: “Or vo’ provare se la pioggia mi ha guasto l’arco;” — e lo tende dopo avervi adattata la freccia. Anacreonte improvviso si sente ferito prima di accorgersi che Amore irridendo abbandonava la sua casa. — Vendetta di Apollo fu, se Mirra arse di fiamma incestuosa per Ciniro; vendette di Venere gli amori di Pasifae pel tauro, di Fedra per Ippolito; e volere di Giunone e di Minerva lo immane affetto di Medea per Giasone: poche commisero colpe, o nessuna, di cui non attribuissero la causa a qualche Nume; e così i tragedi, giovandosi della fede universale nel fato, rappresentarono sopra le scene quegli orribili fatti, che diversamente non si sarieno potuti sopportare. E certo vive, piuttosto sembra talvolta vivere in noi qualche cosa che può meglio di noi; nè le nostre credenze, comunque tanto procedano lontane dalle dottrine antiche, vi repugnano affatto. Forse non crediamo noi, che la prima madre venisse tentata dal serpente? E da cotesta ora in poi le orecchie della donna si lasciano andare più facili delle altre alle insinuazioni del tentatore. Forse il tentatore non istà fuori, ma dentro alla femmina, e le siede nel sangue sottile, nel finissimo tessuto delle vene, nei pori della pelle dilicata, nel mobile cervello, e nel cuore mobilissimo: e quando pur fosse così, il tentatore apparirebbe più inevitabile e gagliardo. Ma le donne sole cedono alle persuasioni di un demonio, che ora va tentando con l’odio, ora con la voluttà, ora con lo amore, ora con la copia dei beni, e, per non discorrerle tutte, con quante passioni hanno potenza di muovere il cuore dell’uomo? Oimè! a pochi bastò la costanza contro la lascivia e l’oro, crudelissimi, sopra ogni altro, tiranni dell’anima nostra. Personaggi incliti delle antiche e delle moderne storie, uomini venerati e venerabili, o per quanto durò ai medesimi la vita ebbero a combattere siffatte passioni, o troppo spesso vi giacquero sotto: — e se tra noi fu inalzata alla degnità del sacramento la penitenza, parmi evidentissima prova, che neppure Dio sperò che ci avessimo a mantenere innocenti; no, non lo sperava, dacchè imponeva a Simone Pietro, che perdonasse non solo sette volte, ma bensì settanta volte sette.3 — Povera Isabella, chi è senza peccato ti scagli la prima pietra....

Aveva ella torto?

Il primo sorso non inebbria mai, e chi vuole, può deporre la tazza, e dire: — Basta! — Che Amore nato appena, il grande arco crollando, e il capo, sieda re dello spirito, e gridi: — Voglio, e vo’ regnar solo, — lo cantano i poeti immaginando;4 ma la verità non è questa. Amore di momento in momento si compone l’ale di dolci pensieri e di ardenti desiri, e i suoi dardi si fanno duri in proporzione che il cuore, contro il quale si dirigono, diventa molle. Nè Delia accecava perchè contemplò il sole una volta sola; e chi vuole fuggire le Sirene imiti lo esempio di Ulisse, e turi le sue orecchie con la cera. Noi fidiamo troppo, o troppo poco, in noi stessi. Quando la fiamma di uno sguardo, o il fáscino di una voce ci lusingano, e la Provvidenza con senso arcano ci avverte, non tenghiamo conto dell’ammonizione; e diciamo, — “Non anche questo affetto trasmoda; ove trasmodasse, basteremo al riparo:” — quando poi lo sentiamo soverchiare, differiamo il rimedio di giorno in giorno; vinti finalmente, accusiamo il destino, che ci siamo fabbricato con le nostre mani medesime. Così avendo il potere ci manca il volere, e avendo il volere ci manca il potere; noi siamo i nostri reziarj.5 Delle leggi del fato l’uomo può subire quelle che stanno fuori di lui; le altre, che stanno dentro di lui, non hanno forza: vincesi il corpo, l’anima no. E se Dio ci concesse l’anima capace da poterne adoperare le facoltà perfino contro il suo trono immortale, perchè, o come vorremo incolparlo, se combattenti codardi gettammo lo scudo sul principiare della battaglia, o se aborrimmo adoperare la spada che ci fu posta nelle mani? Atomi queruli ed ingiusti, noi vorremmo che il Creatore, rompendo gli ordini eterni delle cose, s’inchinasse ad ogni momento dalla volta dei cieli per riparare ai nostri falli, e per acquietarci le procelle del cuore, che vi andiamo suscitando; egli.... il Creatore, che lascia rotare vorticosi nello infinito i frammenti di mondi lacerati, e distendersi nella orribile sua immensità la tempesta dell’Oceano! Anche la colpa conosce una specie di dignità; osiamo averla. Lucifero bandito dalle sedi celesti non accusava veruno, oppure incolpava sè stesso perchè non era riuscito nello intento; e Lucifero nella sua tetra grandezza ci apparisce tale, che se noi non possiamo desiderargli destini migliori, non ci possiamo astenere da imprecare per male augurato il momento nel quale egli provocava lo sdegno dello Eterno. Ma noi troppo siamo inferiori, sia nel bene sia nel male, alle angeliche nature. Per darci ad intendere che valghiamo qualche cosa, presumiamo farci l’onore di credere che Satana ne abbia tentato. Dove Satana potesse volgere sopra di noi i suoi sguardi di fuoco, non ci tenterebbe ma riderebbe. Può egli darsi Satana peggiore delle triste nostre inclinazioni, e del volere nostro intentissimo a educarle ed a crescerle? — Io non voglio per certo togliere e diminuire alla povera anima d’Isabella la compassione degli uomini e la misericordia di Dio, ma solo persuadere che la misera morte alla quale venne condotta fu pena condegna ai meriti, o piuttosto ai demeriti suoi.

Mentre Isabella profferiva la strana preghiera che in parte è stata riferita qui sopra, un cavaliere di fiera sembianza, aitante della persona, sporse la testa dal limitare della sala, e stette ad ascoltare le parole della donna; poi con placido passo le si accostava chiamando: — “Isabella!....”

La donna a quella voce improvvisa rimase percossa: le si fece il volto più bianco, le labbra si mossero senza suono; e la palpebra pesa le cadde, mentre intorno l’occhio si diffuse un lividore cagionato dalla rete delle tenui vene diventate sanguigne, o di colore di piombo. Ella stramazzava per certo, se il cavaliere era meno pronto a sorreggerla. Dopo breve silenzio, il cavaliere riprese a dire così:

— “Isabella! voi avete qualche cosa sul cuore, che desiderate celarmi: perchè questo, Isabella? Sono io forse così povero amico vostro, che non mi reputiate degno di essere messo a parte dei vostri più riposti segreti? O così mi credete voglioso delle mie contentezze, che non sappia anteporre loro, comecchè con mia angoscia inestimabile, il riposo e i desiderii vostri? Parlate; io per amor vostro mi chiamo parato a tutto, ma parlate una volta.... Ahi misero me! E quale vi ha bisogno, Isabella, che voi favelliate? Io ho inteso anche troppo: non mi credete animoso voi? Ecco che io vi provo il contrario. Voi pregate la mia morte; ed io posso, anzi voglio unire le mie preghiere alle vostre; io richiamerò sopra le mie labbra la più soave delle preghiere che m’insegnasse la madre dilettissima. Giù via, Isabella, prostratevi; io, lo vedete, mi son già prostrato.”

E la donna, male sapendo che cosa si facesse, cadde genuflessa; ed ambi pregarono.

Ma coteste non furono preghiere pure e serene, che s’inalzano al cielo come un profumo di anime innocenti, e gli angioli si piacciono portare sopra il dorso delle ale candidissime al trono dello Eterno, e Dio le accoglie come ospiti celesti, e le consola non altramente, che se afflitte figlie del suo amore si fossero. Coteste preghiere volarono dai petti anelanti, rubiconde e scomposte, per modo che non sarebbero apparsi diversi i delirii della lascivia; e per l’aria si aggirarono fosche, a guisa di nuvole sorte da impuri effluvii terreni; nè toccarono le soglie del cielo, ma ricaddero respinte come il fumo della offerta del primo omicida, ad accrescere la passione dei peccatori.

E fu ragione; imperciocchè coteste preci non uscissero sincere dal cuore, e chi le profferiva temeva venissero esaudite, e dette appena avrebbe voluto revocarle. — Mente mortale, o come mal ferma nel desiderio del bene! Però le guance accese si toccarono; le mani convulse si cercarono, e si tennero intrecciate; e le preghiere terminarono con giuramenti orribili di amarsi sempre in onta dei sacri vincoli, del decoro geloso di famiglia, della morte, e dello inferno. Tanto procederono immemori di loro, che dello iniquo giuramento chiamarono in testimonio la Donna divina, alla quale intendevano supplicare per salute; e la Madre della misericordia non torse altrove la faccia, persuasa che se bugiarde furono allora coteste preci, le avrebbe poi dovute ascoltare anche troppo sincere il giorno del pentimento.

Intanto la giustizia registrò la colpa nel libro ove nulla cancella se non che il sangue.


CAPITOLO SECONDO.

L’AMORE.

E bevea da’ suoi lumi
Un’estranea dolcezza,
Che lasciava nel fine
Un non so che di amaro.
Sospirava sovente, e non sapeva
La cagion dei sospiri.
Così fui prima amante, che intendessi
Che cosa fosse amore:
Ben me ne accorsi alfin....
 
Tasso.

Messer Antonfrancesco Torelli era dei migliori uomini della terra di Fermo: copioso dei beni di fortuna, onorato dai suoi, riverito dagli stranieri, lieto di moglie egregia, e di un figlio in cui aveva riposta ogni speranza dei suoi anni cadenti.

Beato lui, se avesse creduto vero quello che pur troppo è verissimo; cioè, il migliore ammaestramento che possono apprendere i figliuoli derivare dagli esempii degli ottimi genitori; e non avesse mai accomiatato da casa il dilettissimo suo Lelio! che non avrebbe prodotto contristati di amarezza i suoi ultimi giorni verso il sepolcro. Ma egli compiacendo ai tempi, desiderò il figlio perito nelle arti cavalleresche, ed il suo cuore paterno esultò nel presagio che le gentili donne di Fermo salutassero il figliuolo suo pel più compito e cortese gentiluomo di tutto il paese. — In questo pensiero, avendo Antonfrancesco servitù grande col cardinale dei Medici in Roma, gli venne fatto molto di leggieri accomodare nella corte del granduca Cosimo il suo Lelio in qualità di paggio nero. Ma Cosimo, logoro per lo smodato esercizio di tutte le passioni, essendo venuto a morte non bene ancora maturo, Lelio, giovanetto di leggiadre maniere e di forme venuste, piacque a donna Isabella figlia di Cosimo, duchessa di Bracciano, la quale ottenne che il bel paggio si acconciasse al servizio di lei.

In quei tempi, i gentiluomini servendo in corte dovevano apprendere a trattare le armi di taglio e di punta, a combattere con la spada e il pugnale, ed anche a difendersi inermi dagli assalti improvvisi di stilo o daghetta, e su ciò andarono per le stampe eccellenti trattati, che servirono di modello alle altre nazioni.6 Non trascuravano il trarre di arcobugio, comecchè questa non fosse reputata nobilissima cosa; molto importava maneggiare cavalli, sia nella corsa, sia armeggiando, sia (arte più difficile assai) corvettando davanti alle dame, solenni giudici allora di simili industrie.7 Venivano poi le destrezze della caccia, tra le quali primeggiava quella di lanciare opportunamente gli sparvieri grifagni e i falconi, adesso caduta in disuso, o per quello che io sento solo mantenuta in Olanda; seguitavano gli accorgimenti dello scalco, e del complire con leggiadria le nobili donne. A onore del vero, quei gentiluomini facevano sembianza tenere in pregio le lettere, ma non le virili, nè quelle che sgorgano nuove e bollenti dalla immaginazione infiammata per la virtù del cuore, sibbene le altre calcate sopra forme già ricevute e castrate ad usum Delphini; e queste lettere componevano la delizia degli arnesi di corte, a cui la esperienza e la paura aveva insegnato a toccare cautamente siffatta pericolosa materia. Certamente sarebbe ingiustizia lasciare inosservato qualche scrittore, che acceso dagli estremi aneliti della Repubblica, osò dettare libri se non fortemente, almeno con coscienza; ma gli ultimi sospiri durano sempre poco, e lo scrittore tacque, o piegò il capo ai destini. Ve ne fu qualche altro che scrisse la verità, ma non osò pubblicarla, come se avesse voluto instituire eredi delle vendette i remoti nepoti; e per quello che sembra, i nepoti fecero aprire il testamento, ma conosciuto il legato repudiarono la eredità. Le arti poi e le scienze accoglievansi con migliore viso; ma la chimica era studiata principalmente pel fine di comporre l’oro e i veleni di cui gli uomini di quel tempo, in ispecie i Medici, diventarono solenni manipolatori, e per quello che ne leggiamo, sembra che le ricerche moderne non arrivino a gran pezza l’antica tossicologia. Michelangiolo, immortale monumento della dignità umana, e testimonianza eterna della verità che l’uomo fu creato a similitudine di Dio, quando non ebbe più patria, si consacrava intiero al Paradiso, e gli subentrava Benvenuto Cellini, uomo di arguto ingegno ma scemo di cuore, che logorò la sua potenza nei lavorii di cinti, di monili, boccali, piatti, e simili altre quisquilie del lusso; onde, allorquando egli ebbe a condurre la statua del Perseo, non seppe più sollevare a grandi cose la mente avvezza agli arnesi del mondo muliebre, per la quale cosa Alfonso dei Pazzi la morse con lo acerbo epigramma:

Corpo gigante, e gambe di fanciulla
Ha il nuovo Perseo: sicchè tutto insieme
Ti può bello parer, ma non val nulla.

Ma ritornando al nostro Lelio Torelli, egli era riuscito a maraviglia in tutti gli esercizi che desiderano forza e scioltezza di membra. Alle discipline, ove bisogna assottigliare lo intelletto, o non avea rivolta la mente, o non vi era arrivato; e nemmeno prendeva vaghezza dei suoni, dei canti, o dei balli; i suoi sguardi cadevano sopra un coro di femmine leggiadre, con minore compiacenza di quella che si fermassero sopra un cespuglio di rose, e infinitamente poi minore di quella, con la quale per piani o per boscaglie teneva dietro al cignale ferito. Nessuno più prestante di lui a balzare di un salto in sella; nessuno più infallibile a lanciare un dardo, o ad assestare un colpo di arcobugio; e per non distenderci in troppe parole, in ogni maniera di prodezza superava facilmente non pure tutti i giovani coetanei, ma si trovava appena chi, anche tra i maggiori, potesse vantarsi a seguitarlo di gran lunga secondo.

Però, assai più che non conveniva a nobile fanciullo, si mostrava voglioso di garbugli e di risse, e in queste palesava indole feroce; imperciocchè se per forza o per inganno gli veniva fatto superare l’avversario, non così di leggieri si placava, ma chiuso ai miti sensi della pietà e del perdono, continuava a percuotere, finchè o la stanchezza, o gli accorsi al trambusto non glielo avessero cavato di sotto. E poi gli durava il rancore; e guai se un giorno avesse avuto luogo a sfogare il tesoro di vendetta accumulato nel profondo dell’anima! i suoi nemici avrebbero fatto bene a procedere, come suol dirsi, con l’olio santo in tasca. Del rimanente, tenace negli amori quanto negli odii, a esporsi nei pericoli sempre primo, anzi egli solo voleva correrli, e quelli che prediligeva avevano a ristarsene; e ciò non si creda già per amore di lode, o per istudio della gratitudine altrui, chè queste cose non cercava, o sprezzava; ma per generosità naturale, ed anche per un certo sentimento di prevalenza ai suoi compagni, di cui lo ascendente era più facile aborrire che evitare. Piuttosto temuto che amato, piuttosto riverito che seguitato, egli sembrava degnissimo d’impero.

Ma certa volta accadde, che donna Isabella avendolo chiamato a gran fretta, egli ebbe appena tempo di sbrigarsi dalle mani del suo avversario, e le comparve così com’era sanguinoso davanti. La nobile signora, vedutolo in cotesto stato, con voce sdegnosa gli disse:

— “Toglietevi dal mio cospetto; voi mi fate orrore.”

Da quel giorno in poi Lelio non sembra più lo stesso: se intende profferire qualche motteggio, che nei tempi passati avrebbe fatto rientrare in gola con furia di colpi allo incauto parlatore, oggi dal comprimere forte che fa delle labbra, dal rossore che gli accende il viso fino alla radice dei capelli, ci accorgiamo come usi violenza a sè stesso per frenarsi, e sorride più dolce, e benignamente guarda. Nella persona va più composto di prima, e cura con diligenza maggiore la chioma biondissima, e la mondizie degli abiti; però quel bel colore di amaranto, che sfumato gli rendeva così fiorite le guance, adesso è impallidito; il volto ha pensoso, e gli occhi azzurri un poco rientrati sotto le sopracciglia. Ma non è tutto ancora: Lelio si apparta spesso dai compagni, e sta mesto e taciturno a considerare lunga ora o un fiore, o un falco che gira con magnifiche ruote per lo emisfero, una nuvoletta che oscilla perplessa pel sereno celeste, come se i venticelli innamorati se la contendessero; e molto più spesso la sera, sopra il pendío di un colle, con ambe le mani intrecciate davanti alle ginocchia, e la faccia elevata con intentissimo sguardo, contempla il sole che declina, e l’oro, e la porpora, e i doviziosi colori della madreperla e dell’iride, co’ quali il potente padre della vita circonda il suo sepolcro momentaneo. Appena guarda il suo giannetto spagnuolo, che si affatica invano risvegliare lo inerte signore co’ nitriti, e invano il levriere gli corre davanti, poi cuccia uno istante, gli torna incontro, fugge di nuovo a precipizio, gli abbaia intorno, lo guarda, gli lambisce le mani, gli salta addosso: Lelio placidamente co’ cenni e con voce gl’impone starsi quieto, sicchè il povero animale, veduti riuscire inutili tutti i suoi accorgimenti, con gli orecchi bassi e con la coda dimessa si pone a giacere ai piedi del padrone: nè incontravano sorte migliore le armi, quantunque talora le afferrasse come mosso da subita smania, e le trattasse così smoderatamente, da venirne tutto molle di sudore, e sentirsi per alcun giorno prostrato di forze.

Madonna Isabella possedeva un volumetto delle rime di messer Francesco Petrarca che si toglieva quasi sempre a compagno delle sue passeggiate solitarie: quel libro disparve, chè Lelio se lo era appropriato, e non si saziava mai di leggervi dentro.

Com’era avvenuta tanta mutazione nel giovane? — Un giorno, mentr’egli tutto sprofondato nel libro si avvolgeva a sghembo pei sentieri del bosco di Cerreto, certe sollazzevoli giovanette della villa lo aspettarono in cima del viale nascoste dietro alle roveri, e gittandogli copia di viole nella faccia, gli dissero ridendo: — “E’ non sono occhi cotesti da logorarsi su i libri: ridi, e fa all’amore!” — E un castaldo giovialone, che passava portando un paniere di uva sopra il capo, ridendo più forte favellò: — “O voi sì, che ve ne intendete! o mira come ei sia innamorato fracido! Si avvicina il finimondo, le nostre ragazze non conoscono più amore.”

E quando nelle notti serene madonna Isabella, aperti i balconi della sala, diffondeva pel bruno aere torrenti di armonia, cantando e sonando, sia che ripetesse numeri e poesie già composte, o sia che lasciandosi andare alla ispirazione che l’agitava, componesse allo improvviso i versi, e le note alle quali gli sposava, Lelio, come cosa inanimata, se ne stava giù nel giardino appoggiato a un tronco di albero, o ad un piedestallo di statua, e beveva uno incanto fatale, reso più intenso dal tempo, dall’ora, dagli odorosi effluvii, che l’erbe ed i fiori spruzzati di rugiada tramandano, e dalla luce dolcissima che piove dal firmamento stellato; e tanto cotesta estasi rapiva fuori di sè il povero giovane, che chiusi i balconi, remossi i lumi, abbandonati tutti gli animali alla quiete che loro persuade la natura, egli solo rimaneva, immemore, sempre fisso nel luogo medesimo, finchè i primi raggi del sole ferendogli gli occhi non lo richiamassero agli ufficii consueti della vita.

E prima ch’io continui nel racconto di questo amore, mi giovi dichiarare quello che accennava qui sopra; voglio dire come non per finzione di poeta, ma con verità di storico affermassi la Isabella duchessa di Bracciano dotta in comporre versi e prose e musiche non solo pensatamente, ma anche allo improvviso. Nè qui restavano le virtù della inclita donna, che oltre la lingua materna favellava e scriveva speditamente gl’idiomi latino, francese, e spagnuolo; nelle arti del disegno intendeva quanto qualsivoglia più celebrato maestro; ed in ogni ornamento, che a perfetto gentiluomo si addice, e in ogni maniera di donnesca leggiadria così compita, da esserne reputata meritamente piuttosto maravigliosa, che rara. E tutte le cronache che ci sono capitate tra mano, le quali parlano di questa infelice principessa, quasi concordi adoperano le seguenti parole: — «Basti dire, che ella era estimata da tutti, così vicini come lontani, una vera arca di virtù e di scienze, e per queste sue eroiche virtù l’amavano tutti i popoli, e il padre le portava svisceratissimo amore.»8 — Beata lei, se tanti bei doni di natura, e tanto frutto di discipline gentili avesse saputo, o potuto adoperare a rendere avventurosa la sua vita, e la sua memoria immortale!

Lelio, quando gli veniva fatto, s’introduceva nella sala d’Isabella, e quivi, speculato bene che nessuno l’osservasse, prendeva gli strumenti sopra i quali le agili dita della sua signora avevano volato, e li baciava smanioso, al cuore se li accostava e alla testa, e di largo pianto bagnavali; e se rinveniva fogli dove Isabella avesse vergato qualche verso, leggeva e rileggeva, e poi provava a formare rime egli stesso; ma comunque l’anima gli traboccasse di poesia, non rispondeva la voce amica a significare tanto e bollentissimo affetto, nè forse sarebbe riuscito a cui per lungo studio si fosse esercitato nell’arte del dire: sicchè fremeva, seco medesimo si corrucciava, e finalmente concludeva cancellando con le lagrime quanto aveva scritto con lo inchiostro. Però quel conforto, seppure possiamo considerarlo tale, gli venne meno: donna Isabella, trovando le sue polite carte imbrattate, nè le riuscendo rinvenire il colpevole, di ora in avanti le ripose con molta avvertenza.

Ma veramente, eccetto quel guasto dei fogli, donna Isabella non poteva desiderare paggio più assiduo e più diligente di Lelio: dai moti del volto, tanto ei la contemplava fisso, aveva appreso a conoscere i più riposti pensieri dell’animo di lei, nè gli faceva mestieri di altra dimostrazione per soddisfare alla sua signora; la quale assiduità poi cresceva al punto, da comparire fastidiosa quante volte la Isabella conversava col signor Troilo, dacchè egli allora immaginasse mille trovati, o per entrare non chiamato nella stanza, o per non uscirne più. E siccome di rado avviene, che due creature che si odiino, o che divisino nuocersi, per quanto s’ingegnino celare giù nel profondo il proponimento loro, a cagione di qualche indizio non se ne porgano scambievole avviso, così gli sguardi di Troilo e di Lelio s’incontravano acerbi come due spade nemiche; e quanto più Troilo si ostinava a guardarlo bieco, perchè o per reverenza per timore Lelio declinasse gli occhi, questi tanto più si ostinava a tenerglieli fitti nella fronte con espressione inenarrabile di rabbia: il senso delle poche parole che si ricambiavano conteneva sempre qualche cosa di amaro; amaro il suono della voce; amari gli atti, il portamento, ed i gesti.

Lelio, certo giorno, insinuatosi secondo il costume nella stanza d’Isabella, si era recato in mano il suo leuto, e facendo sembiante tasteggiarlo, prese a cantare una canzone, che più di ogni altra piaceva alla Isabella: non si attentava spiegare tutto il volume della sua voce limpidissima, trattenuto dalla reverenza del luogo, e perchè, ignaro di musica, l’aveva appresa a aria ripetendola chi sa quante volte; ma infervorandosi a poco a poco, cesse allo impeto che lo moveva, e di rado, o non mai, gli echi di cotesto sale risonarono di canto così poderoso. Sopraggiunse inosservata Isabella, e commossa a tanta dolcezza, si accostò pianamente, e quando Lelio ebbe terminato la canzone, gli pose una mano sopra i capelli, palpandoglieli per vezzo, ed esclamò:

— “Chi ti ha insegnato cotesto, mio bel fanciullo?”

— “Amore.... grandissimo, che mi ha preso per la musica.”

— “E tu, segui i consigli di cotesto amore, perocchè lo esercizio delle belle discipline affinando lo intelletto ingentilisca il cuore.”

E siccome la duchessa gli teneva sempre la mano sul capo, Lelio con voce sofferente così se le raccomandò:

— “Madonna..., per amore di Dio, io vi supplico di levarmi la vostra mano dal capo....”

— “Doveva io non porvela mai....” risponde la duchessa con voce un cotal poco risentita; e la ritira a sè prestamente.

— “O signora mia, abbiatemi misericordia, chè ella mi ardeva il cervello.”

— “Io non vedo perchè la mia mano deva farvi ufficio della camicia di Nesso.”

— “Non lo so neppure io.... ma lo sento.” E queste parole profferiva il fanciullo con voce sì tremula, così pietosa, che la duchessa gli accostò il palmo della destra alla fronte, e come atterrita riprese:

— “Dio mio, come ti brucia! povero Lelio!... non vorrei che male lo prendesse.... Aimè! ti svieni! E qui non giunge nessuno per soccorrerlo.... Lelio! Lelio! Ahi, che mi muore fra le braccia! Vergine santa, aiutatelo voi!”

E Lelio fattosi bianco in volto come voto di cera, tutto madido di freddo sudore, chiuse le palpebre, abbandonava il capo sopra il seno di donna Isabella, che lo reggeva con ambedue le braccia; ma di lì in breve rinveniva, e aperte con un gran sospiro le palpebre, poichè riconobbe dov’era, e rammentò il modo e la cagione del suo venir meno, disse mestamente:

— “Mi era parso morire — oh! perchè non sono io morto davvero?”

Allora la duchessa si affaccendò a prendere certe sue acque stillate preziosissime, e gliene bagnò le tempie, comunque il giovane per reverenza ripugnasse.

— “Lascia, lascia,” diceva la duchessa; “io vo’ farti da madre: già per età potrei esserlo....... quasi.... e per amore..... di certo. Bisogna bene ch’io ti ami, perchè tua madre vera è lontana, e non può aiutarti, povero figliuolo. Ma che cosa sono queste smanie? donde viene questo disperarti? Parlami, aprimi il tuo cuore intero: io mi sono accorta del tuo impallidire, del tuo struggerti, e vedo come ti tremi il braccio allorchè me lo porgi per salire a cavallo. — Ami forse? Male accorto, non lo celare a me! Anch’io conobbi gli affanni dello amore e so compatirli. Tu, gentile come sei, non puoi avere posto i tuoi affetti in basso luogo, e se fosse troppo alto, oltre che non vi ha disuguaglianza che amore non uguagli, tu, e per natali incliti, e per censo, e molto più per bontà, mi sembri degno di qualunque più illustre parentado; e se io nulla valgo, ti prometto adoperarmi con tutte le forze per vederti contento.”

Frattanto Lelio era ridivenuto sano come se non avesse avuto nulla; anzi, deposta ogni tristizia, si mostrava ridente, e le guance gli comparivano floride del colore della giovanezza, primavera della vita.

— “Oh! sì, giusto,” rispondeva con finta verecondia; “sanno eglino di coteste cose i fanciulli? sono pensieri da diciotto anni? Che cosa è amore? un frutto, un’arme, uno sparviero? Ho inteso sempre dire che crescendo il giovane smagrisce, ma torna poi più rigoglioso di prima. Io, signora mia, mi sento così lieto, così bene disposto, che non mi riesce desiderare di più; e profferendovi con tutte le viscere quella mercè, che io posso maggiore, per la vostra pietà, mi raccomando affinchè vogliate continuarmi la benevolenza di madre che voi mi avete promessa, dandovi fede di gentiluomo, che io dal canto mio mi studierò sempre a non demeritarla giammai.”

— “Lo farò, Lelio,” soggiunse quasi suo malgrado Isabella: “perchè io abbisogni più che non credi di persone che mi amino davvero.... Io, vedi, Lelio, sono misera, ma misera assai, e nessuno sopra questa terra mi ama; mi amava, e svisceratamente, il padre mio, ma mi ha lasciata. O padre mio, perchè mi hai lasciata così sola.... senza consiglio.... derelitta da tutti....?” — E mentre in siffatto modo favellava, Lelio, posto un ginocchio a terra, e baciandole il lembo estremo della vesta, profferiva queste parole:

— “Io faccio voto a Dio essere tutto vostro fino alla morte.”

La duchessa, come quella che per necessità e per uso sapeva padroneggiare i moti dell’animo, accorgendosi essersi lasciata andare più che a lei non convenisse, per distrarre sè e Lelio dai mesti pensieri e dagli eventi.

— “Orsù,” disse, “Lelio, io non voglio che vada perduto il tesoro della voce che ho in voi discoperto: io intendo che non dobbiate più cantare ad aria, e mi vi offerisco disposta a insegnarvi la musica. Se voi proseguite con la medesima prontezza con la quale avete incominciato, non passerà molto tempo che non troverete pari in corte del serenissimo mio fratello Francesco. Prendiamo la musica della canzone che avete cantato pur dianzi; io vi mostrerò le note, e i luoghi dove conviene alzare, dove abbassare la voce: il signore Giulio Caccini, musico romano, l’ha composta espressamente per me; ella è piana, e soavissima per melodia....”

— “Se avessi saputo prima, onoranda signora, di cui ella fosse opera, mi sarei guardato bene apprenderla a mente, e molto più cantarla.”

— “Perchè questo, Lelio? avete per avventura inimicizia col signor Giulio?”

— “Io non ci ho cambiato mai parola; ma cotesto suo volto mi torna sinistro, mi pare che abbia tutto intero un collegio di Farisei dentro il cuore....”

— “A me sembra l’opposto: con tutti è amorevole e discreto; dolce parla, e dolce ride; io mi vi confesserei....”

— “Ed io lo tengo per il più solenne traditore che mai sia stato da Giuda in poi. Notate cotesto suo riso: non sembra suo; io credo che lo abbia accattato da qualche rigattiere; in quelle sue manine vellutate non vedete le zampe del gatto, che ha ritirato gli ugnòli? A tutti raccomanda carità, amore del prossimo, ma per amore suo, perchè non trova conto che la gente cerchi pel minuto, e dopo giusto esame metta i bianchi co’ bianchi e i neri co’ neri.”

Ed Isabella sorridendo: — “Non giudicate, Lelio, se non volete essere giudicato.”

— “Queste sono parole sante, che devono intendersi per filo e per segno, avvegnachè bisognerebbe in caso diverso rinnegare la esperienza e la vita. E poi io posso giudicare, perchè non repugno di essere giudicato.”

E Lelio aveva ragione; e ne fu prova un fatto di sangue. — Le cronache raccontano, come il capitano Francesco degli Antinori dovendo portare a Eleonora di Toledo, moglie di Piero dei Medici, una lettera amatoria del cavaliere Antonio suo fratello, per cagione di cotesto amore confinato a Portoferrajo, aspettato il destro che don Piero uscisse con la sua comitiva, salisse subito in Palazzo-Vecchio, recandosi alle stanze di donna Eleonora, la quale allora abitava quelle dipinte che riescono sopra la Piazza del grano, e subito chiedesse udienza al portiere: ma questi aveva ordine assoluto di non lasciare passare anima al mondo, però che la signora si acconciasse la testa. Il capitano instava trattarsi di cosa importantissima: non badasse a cotesto ordine; gli concedesse passare, o almeno andasse ad avvisarne la signora. Il portiere, nato ed educato in Inspruck, non volle intendere ragione; la signora aveva ordinato che per lo spazio di un’ora non consentisse lo ingresso a persona, e finchè tutti i sessanta minuti non erano scorsi, nessuno doveva passare: e non ci era rimedio. Il capitano prese a passeggiare su e giù per l’anticamera sbuffando; e venutogli presto a fastidio quell’oscillare a modo di pendolo da orologio, vide che anche il mansueto Caccini stava aspettando udienza: mutate seco lui alcune parole di cortesia, e sembrandogli tutto dolcezza, e per di più svisceratissimo della signora Eleonora, cui egli con aria di compunzione e con le lacrime agli occhi chiamava la sua adorata e virtuosa padrona, gli dette incautamente la lettera, raccomandandogli che per quanto amore portava a Dio, guardasse bene di non consegnarla altrui, se non se proprio nelle mani di donna Eleonora. Il musico, appena il capitano ebbe voltato le spalle, si nascose nel vuoto di una finestra dietro la tenda, e aperta la lettera perfidiosamente, conobbe quello di cui correva generale il sospetto, cioè gli amori del cavaliere con la principessa; laonde, nella speranza della buona mancia, ne andò difilato al granduca, ove domandato prima umile perdono dello avere aperta la lettera, scusandosi col dire che a ciò lo aveva condotto lo infinito amore che portava alla dignità del graziosissimo e serenissimo suo signore e padrone, gliela ripose in mano. Il granduca leggendo si mutò in volto; ma, terminata che l’ebbe, con apparente pacatezza la ripiegò a bello agio, e dopo aversela messa nel seno, a voce cupa, com’era il suo costume, così è fama che gli favellasse in brevi parole: — “Musico, qui vedo quattro colpevoli: il cavaliere Antinori che scrisse, il capitano Antinori che portò, Eleonora che doveva ricevere, e te che apristi la lettera: va; ognuno avrà mercede secondo i meriti.”

Isabella per eccellenza di naturale singolarissima femmina, e dai casi ardui della vita resa mesta, non diffidente, di subito soggiunse:

— “Chiunque mi vuol bene, ha da smettere questi mali umori senza ragione: a mio parere, sono disonesti ed ingiusti, e per lo più palesano indole inchinevole alla tristizia. Tutti abbiamo diritto di essere giudicati a seconda delle opere: tu fa, Lelio mio, di avere sempre migliore l’animo della mente, e ti parrà la vita meno infelice che agli altri figliuoli di Adamo. Ora vieni, e impara la canzone di questo valoroso Romano. Come vuoi tu che l’uomo capace di concepire così dolci note, abbia dentro di sè un cuore malvagio?”

Vedi maniera di giudicare degli uomini!

La duchessa, recatasi in mano la carta della musica, e ordinato a Lelio male repugnante le sedesse a lato, incominciò a indicargli dove la voce avesse a posarsi, e come e dove scorrere distesa, o avvolgersi in gorgheggi melodiosi; insomma tutti gli accorgimenti del musico arguto. Ma Lelio badava assai più alle mani candidissime, che non alle note; più che alle mani, al volto angelico che si animava al canto; e rimasto estatico, non pure cessava dallo accompagnare la signora Isabella, ma egli era gran fatto se durava in lui l’alito vitale. Ed Isabella gli diceva: — “Ma seguita.” — Ed egli, traendo a fatica un filo di voce, continuava per tacere un momento dopo; ed Isabella di nuovo: — “A che ti stai?” — E così alternavano i rimproveri e il silenzio. Lelio poi, come lo persuadeva l’amoroso desio, accostava il suo al volto della duchessa; onde avveniva sovente che qualcheduno degli anelli della chioma nerissima di lei, agitati dal moto della testa, gli toccassero la guancia: allora vedevi trepidare il fanciullo per tutte le membra, corruscargli gli occhi di luce maravigliosa e di lacrime; le labbra aride crisparglisi; pareva gioia, ed era dolore. E poi la guancia (maraviglioso caso!) nel punto tocco dai capelli diventava ad un tratto vermiglia come se vi avessero applicato una piastra candente di metallo, e la voluttà che ne veniva al giovane paggio così lo agitava acre e convulsa, da non la potere sopportare; ma riavutosi alquanto, tornava alla prova, in quella guisa appunto che vediamo la farfalla condotta dallo istinto fatale ostinarsi ad aleggiare intorno alla fiaccola che la consuma. Così, nulla badando al tempo che fuggiva, dimorarono lungamente i nostri personaggi; finchè la duchessa, levando a caso gli occhi, vide starle davanti messere Troilo Orsino.

Troilo dalla pallida fronte. — I suoi occhi sotto le ciglia nere ed irsute sfolgoravano come quelli del milvio intenti alla preda. La destra teneva dentro la sopra-veste di velluto nero, con la sinistra sopra il fianco reggeva il cappello a larghe falde ornato di piume nere, immobile così, che lo avresti creduto inanimato. Isabella senza sospetto al mondo sostenne cotesto sguardo sinistro, e non lo badò; e con modi facili disse

— “Benvenuto, messere Troilo, prendete parte nelle mie contentezze: ecco che io ho scoperto in questo dabben giovane una nuova virtù; canta come un angiolo, ed io mi propongo coltivargliela, finchè arrivi alla eccellenza; onde tornato a casa, sua madre ne abbia gioia, ed egli sia la delizia delle gentildonne di Fermo.”

E Troilo:

— “Voi rinnoverete la ingiustizia di Amerigo Vespuccio, dacchè io prima assai di voi aveva scoperto che cotesto fanciullo col debito governo sarebbe riuscito, più che altro, musico maraviglioso.”

Sentì Lelio l’acerba e disonesta puntura, e divampò per la faccia; pur tacque.

— “Signora duchessa,” proseguiva Troilo “io ho da parlarvi di cose che non sono senza rilievo: piacciavi concedermi ascolto. — Paggio, prendete; riponete nella mia stanza, e avvertite di non comparirci davanti prima della chiamata.”

— “Salvo il vostro onore, messere Troilo, io m’intrattengo qui ai servigi della clarissima duchessa mia signora; epperò, ove a lei non piaccia diversamente, pregovi a tôrre in pace s’io di qui non mi rimuovo.”

Questa volta toccò a Troilo farsi rosso; e già muoveva le labbra a qualche acerba risposta, quando Isabella interpostasi prestamente così favellò:

— “Lelio, obbedite a messere Troilo.”

E Lelio, presa spada, guanti e cappello, inchinatosi prima in atto di ossequio, s’incamminava lentamente verso la porta.

— “Paggio!” gli gridò dietro l’Orsini, “fate di sostenere la mia spada con ambedue le mani; è pesa, e potrebbe cadervi.”

E Lelio, tratta di un lampo la spada dalla guaina, e la volgendo in velocissima ruota attorno alla sua persona, con voce baldanzosa, e senza interrompere il cammino, rispose:

— “State di buon animo, messere Troilo; chè il cuore e la lena mi bastano da sostenerla come conviene a gentiluomo contro a qualunque cavaliere onorato; — intendete, contro a qualunque cavaliere....”

E non fu sentito se aggiungesse altre parole, perchè già si era fatto lontano.

— “Ed ecco come,” parlò dispettoso Troilo chiudendo l’uscio della sala, “la tua biasimevole rilassatezza ti educa intorno una corona d’insolenti.”

— “Degli insolenti non mi era anco accorta, bensì di qualche ingrato, Troilo....”

E qui sedutosi accosto, cominciarono a favellare con parole sommesse, ma concitate; e dagli atti e dalle sembianze era dato argomentare come non piacevolezza, non benevolenza, o affetto altro più tenero, reggessero cotesto colloquio, sibbene rampogne, e rancori, e paure, avendo la Provvidenza nei suoi eterni consigli ordinato che l’uomo per delitti non abbia ad essere lieto giammai.

Ora io voglio che i miei lettori, e meglio le mie leggitrici, conoscano essere decorsi tre buoni anni dal giorno in cui costoro si giurarono eternità di un affetto, che non avrebbe mai dovuto avere incominciamento; e tre anni fanno molte eternità nelle cose di amore. — Eternità! vedete un po’ voi se sia concetto o parola che alla mente e alle labbra dell’uomo, e più a quelle della femmina, convengano! I contratti di amore principiano ordinariamente bilaterali, e spesso terminano unilaterali; il meglio sta, ma è raro, nello scioglierli a tempo fisso per consenso scambievole. I contratti di amore hanno di particolare anche questo, che mentre nelle permute, nelle compre, nelle locazioni, e simili, il contraente prima di obbligarsi vuole conoscere il fatto suo circa le stime, gl’inventarii, e gli accessorii, con diligenza consueta praticarsi da qualunque che non sia improvvido del tutto, qui poi stipula e si obbliga col capo nel sacco, riserbandosi a cose consumate di stimare e inventariare quanto abbisogna. E questo giorno tristissimo dello inventario per Isabella e per Troilo era arrivato e passato, e a questa ora chi sa quante volte lo avevano compilato. La verità della storia però ci consiglia a manifestare come la donna si fosse trovata in grande scapito, cosa che aveva contribuito assai ad alienare gli animi. Infatti, in lei era ardore di arti ingenue, e scienza, e vaghezza di scienza; ingegno pronto e felice, ed entusiasmo grandissimo; bontà d’indole somma; sensi disposti alla compassione; modi eletti, leggiadrie donnesche, e cortesie veramente regali. Rimane il sentimento di amore: e che in lei mancasse potenza di amare, io non vorrei dire perchè non sarebbe vero, ma ella stessa restava delusa scambiando lo impeto della immaginazione per una necessità invincibile del cuore; e siccome nulla conosciamo di più etereo della fantasia, nè che più presto svapori, così ella si sentiva sovente non pure maravigliata, ma atterrita di trovarsi fredda per cose o per uomini, verso le quali ed i quali l’era parso ardere poco anzi. Avventurosa lei, se la natura o l’arte avessero equilibrato meglio il suo cervello col suo cuore! Maestri gravi e solenni insegnamenti non l’erano mancati; ma se fra i precetti suasivi rigidezza, ed i precetti consiglieri di facilità, vediamo come più amabili preferire i secondi, tra rudimenti severi poi, e sciolti esempj, non è da domandarsi nemmeno se ottengano preferenza questi ultimi! E nella casa paterna la circondarono esempj pessimi; e poi, misera! punirono in lei, più di tutti innocente, colpe o conseguenze di colpe di cui avrebbero dovuto più giustamente portare le pene i fratelli. Infatti, le varie cronache che ho esaminate concordano in un giudizio medesimo, espresso così da una di quelle:« — E ciascuno diceva, che bisognava averci rimediato prima che il principe Francesco e gli altri suoi fratelli si servissero del mezzo suo per cavarsi le loro voglie con le altre gentildonne della città; menandola tutta notte fuori vestita da uomo, e pretendere poi ch’ella fosse una santa.»9 — Isabella pertanto possedeva, o, a meglio dire, era padroneggiata da ciò che chiamano temperamento poetico; cuore caldo in balía d’immaginazione ardente, o cavallo sfrenato a cavaliere furioso, condizioni piene di eventi luttuosissimi.

E Troilo, quale era egli comparso nel dì dello inventario? Troilo dalla pallida faccia, dalle ciglia irsute, e dall’occhio grifagno? Se consideriamo la persona, a vero dire, pochi sarebbero occorsi cavalieri in Italia da sostenere il paragone con lui, avvegnachè così comparisse in ogni suo membro ottimamente composto, e nel volto formoso, che artisti di grido lo pregarono a voler fare da modello, onde non è da dire in quanta superbia fosse salito costui. Costumava rasi i capelli, polite le guance, e copia di peli nerissimi sopra il labbro e sul mento: avendo anche sentito dire, come Alessandro Magno declinasse alquanto il capo sopra l’omero destro, egli per non essere da meno di lui, aveva imitato quel vezzo: vestiva panni o velluti sempre neri; mesto le più volte, e pensoso; di rado parlante; non già perchè si reputasse poco valente favellatore, che all’opposto presumeva tanto di sè, da degradarne Marco Tullio, ma perchè la sua natura porgeva così. E quando discorreva poco, lasciava la gente persuasa ch’ei fosse uomo di alti spiriti e sottile speculatore delle cose umane; ma se lasciava andarsi a troppo lungo sermone, allora tutta si faceva manifesta la vanità dell’animo suo, siccome avvertivano i nostri vecchi, che dal suono si conosce la saldezza del vaso. Come poi i cieli avessero lasciato sdrucciolare quel capo sopra coteste spalle, era tale quesito da non si potere sciogliere così sopra due piedi: certo è, che avrebbe formato la disperazione di quanti si avvisarono argomentare dai segni esterni le passioni o i concetti dell’anima. Di mano era prode quanto qualunque gentiluomo dei suoi tempi, e più feroce di tutti; negli scontri sanguinosi fra i baroni, pei quali andavano infami le strade di Roma, primo sempre al cimento, era ultimo nella ritirata; forte nacque, e forte combatteva, sebbene la prodizione fosse il bello ideale delle sue imprese, e il suo eroe prediletto quel famoso Alfonso Piccolomini, guastatore di strade, che Ferdinando dei Medici da cardinale salvò di sopra alle forche, e da granduca ve lo mise.10 Ma nelle battaglie, dove più che la ferocia giova lo ingegno, o l’una temperata dall’altro, mostrò tanta dappochezza, da non potergli mai affidare la condotta di un colonnello di fanti: e nei negozj non riuscì punto meglio, perchè talora con importuno silenzio inspirò sospetto; tale altra con vaniloquio anche più importuno, dispetto; onde ristettero da spedirlo più oltre e lo tennero in casa come il Bucintoro, arnese dorato ed inutile che i Veneziani mettevano fuori per la pompa delle nozze del doge con la Teti adriatica; così le sue commissioni consisterono in congratulazioni, come ne fanno testimonianza le tre ambascerie di Francia, dove una volta fu mandato per rallegrarsi della vittoria riportata dal duca d’Angiò a Moncontour contro l’ammiraglio Coligny, la seconda quando Carlo IX condusse per moglie la secondogenita dello imperatore Massimiliano, e finalmente la terza allorchè il duca d’Angiò, che poi fu Enrico III, venne eletto re di Polonia. E non ostante, vanitoso com’era, non rifiniva mai di volere fare toccare con mano alla Isabella quale e quanto sacrificio durasse per lei non combattendo le guerre che non avrebbe mai combattuto, e sospirando le vittorie che non avrebbe riportato giammai. L’amore suo per Isabella fu ozio, fu impeto di sangue giovanile, fu superbia di vincere donna venustissima di forme, e chiara per meritata celebrità; e presto gl’increbbe, imperciocchè le forme, comunque belle, piacciano svariate, e lo ingegno della donna, come quello che lo umiliava, era per lui argomento piuttosto di odio che di ammirazione. Io non affermerò che odiasse Isabella, ma soffriva impazientemente quel laccio, e con tanta maggiore impazienza, quanto conosceva non potere ormai liberarsene, e stringerlo irrevocabilmente con nodo fatale: chiuso l’animo al gentile, al decoro, al retto, e al bello, se Isabella declamava le poesie altrui o le proprie, il sonno lo prendeva: atroce ingiuria per qualsivoglia poeta, ma per una poetessa fuori di misura sanguinosa! La musica gli provocava la emicrania. Con tutto questo, una gelosia fredda e spassionata lo agitava, non perchè egli amasse Isabella, ma perchè Isabella dovesse amare lui: tutti doveano leggere intorno al collo di lei le parole che usavano anticamente incidere sopra il collare degli schiavi: — Appartiene a Troilo Orsini! — Insomma sopraggiunsero i tempi in cui la lieve ghirlanda di dittamo e di rose tessuta dallo amore si era convertita in una catena grave di rimorso e di rampogna uscita dalle mani delle Furie infernali.


CAPITOLO TERZO.

IL CAVALIERE LIONARDO SALVIATI.

Essendo di fortuna e d’ingegno meno che mediocre, mi sento non dimanco avere dalla natura un bene particolare ed egregio, nel quale io mi sento tanto superiore a molti, quanto quasi di ogni uomo in tutte le altre cose mi conosco più basso. Questa è una cotal mirabile inclinazione, ed una come natural conoscenza ch’io ho nella amicizia... Io sono a questa parte quasi rapito dallo Dio del mio ingegno.

Salviati, Dialogo dell’Amicizia.

Come i poeti immaginano una vergine mesta sopra il margine del rio sfiorare una rosa, darne le foglie sparte in balía della corrente, e contemplare l’onda che passa con essa, così Isabella, con la guancia appoggiata alla mano destra, chiuse le palpebre, considerava le care rimembranze trasportate dalla fiumana del tempo. Dove la innocenza? dove le giovanili affezioni? dove la serena purità dell’anima? L’albero della vita, che l’era apparso un giorno sì lieto di perpetua fronda, adesso, oh come orribilmente brullo! E le scarse foglie rimaste crepitano aride, e pronte a staccarsi al primo fiato che vi soffi dentro. È rimasta sola delle figlie di Cosimo: Maria morì di diciassette anni per colpa di amore; Lucrezia, forse pel medesimo fallo, a ventuno spariva dal mondo. Stella d’influsso sanguinoso era stata per le donne di casa Medici l’amore! Quel caro giovanetto don Garzia, da lei amato tanto,11 l’aveva abbandonata pur egli; ed ora non le riusciva pensare a lui, senza che la immaginazione le presentasse quel sembiante di angiolo, che vorrebbe parlare, e non può, e si sforza accennarle col capo, e i capelli grondanti sangue gli contaminano tutta la bellissima faccia. E questo pensiero, Dio sa se le pungeva il cuore! imperocchè la fama della tragedia domestica fosse arrivata fino alle sue orecchie, ma la sua anima rifuggisse inorridita nel crederla vera. Il padre Cosimo, che agli altri figliuoli o rigido, o crudele, ella aveva provato tanto benigno, si era dipartito non vecchio ancora dal mondo; e sebbene morendo le avesse lasciato, come segni manifesti della sua predilezione, scudi settemila, un palazzo, scudi tremila sul Pisano, orti ed abitazioni in Firenze, e gioie che valevano un tesoro, tutta questa copia di beni non giovava a procurarle persona amica, in cui sfogarsi, e da cui tôrre consiglio. Del cardinale Ferdinando non era da farsi conto, come quello che uscito giovanissimo di casa, e ridottosi ad abitare Roma, colà aveva riposto il cuore e i pensieri, o se pensava alla casa, lo faceva per orgoglio, e per istudio di maestà, verso la quale si mostrava propensissimo per modo, che in processo di tempo, assunto al trono della Toscana, prese per insegna il re delle api col motto: majestate tantum. E per di più, ella aveva motivo di reputarselo poco amorevole, avendo nei tempi passati favoriti piuttosto che ripresi gli amori di don Francesco con la Bianca; ma si accorgendo poi come cotesta passione mettesse radici profonde, e tali da partorire disordini, aveva tentato riparare al mal fatto, attraversandola con tutto il suo potere; la quale cosa, siccome valse a concitarle contra il rancore cupo di don Francesco e la vendetta della Bianca, non fu efficace del pari a riacquistarle l’amore del cardinale Ferdinando, e molto meno quello della regina Giovanna sua cognata; Giovanna, piissima donna, ma pure donna, e umiliata nelle più dolci affezioni di consorte, di madre, e nella dignità dell’alto lignaggio, vedendo preposta a lei figlia d’imperatore, e regina nata di Ungheria e di Boemia, una avventuriera Veneziana. E quella angoscia, che del continuo le cruciava l’anima e le guastava la salute, la rese all’ultimo desiderosa di vendetta per modo, che una sera passando sul ponte a Santa Trinita, s’incontrò nella Bianca, e fatta fermare la carrozza, ordinò agli staffieri la prendessero e la gettassero in Arno; e se non era il conte Eliodoro Bastigli, uomo veramente dabbene, che le facesse considerare quanto sconvenisse cotesto atto a regina e a cristiana, aggiungendo che se ne rimettesse a Dio, e gli offerisse le tribolazioni in isconto dei peccati, cotesto era l’ultimo giorno della Bianca;12 imperciocchè gli staffieri, non la guardando tanto pel sottile, già si muovevano per metterle addosso le mani. Però non tanto poteva vincere sè stessa la povera donna, che non aborrisse mortalmente chiunque avesse contribuito ad alienarle il cuore del suo consorte; e tra questi parendole, e non a torto, che primeggiasse Isabella, per questa cosa, e per essere d’indole, di voglie, di esercizj, e di studii non solo diversa, ma contraria, non v’era male che non le desiderasse; e comecchè se ne pentisse poi e se ne confessasse, nonostante, prevalendo la inferma natura umana, tornava a odiarla più ardentemente di prima. Di don Pietro, rotto ad ogni più vituperevole atto, immemore non pure della dignità principesca, ma perfino dello essere dell’uomo, non era da parlarne nemmeno. Ahimè! in tanta angustia si trovava sola: nessuno poteva sovvenirla di consiglio e di aita; in quel momento volgeva tra sè pensieri pieni di amarezza; di quei pensieri che lasciano traccia con una ruga sopra la fronte, e nel cuore tal piaga, che Dio solo può sanare, e la morte far porre in oblio.

Lelio, schiusa la porta della sala, annunziava:

— “Il molto magnifico cavaliere Lionardo Salviati domanda salutarvi, signora.”

— “Lionardo Salviati!” ella esclamò: e stata alquanto sopra di sè, soggiunse: “per certo, Dio me lo manda.”

E Lionardo venne introdotto con le debite cerimonie.

Non vi è che dire: — l’arte vorrebbe ch’io facessi parlare subito questi due personaggi, e m’ingegnassi inventare un dialogo vivo, gagliardo, e vibrato bene, onde non venisse meno il calore della narrativa; tutto quello che nei racconti o nei drammi impedisce che l’azione proceda spacciatamente al suo fine, vuolsi riprendere come errore: le diverse parti hanno da cospirare allo scioglimento a modo di altrettante linee rette, le quali, come sappiamo, compongono il passaggio più breve da un punto all’altro. E a coloro che avessero potuto dimenticarlo lo ricordava quel dabbene Guizot allora quando ambasciatore a Londra non volle che sopra le sue argenterie s’incidesse altra arme tranne una linea retta col motto «linea recta brevissima;» onde ebbe nome di Catone francese, e a Parigi ne fecero le luminarie e i falò: — non vi pare egli che si acquisti a buon mercato in Francia il titolo di Catone? — Io per me non posso ripetere altro che questo, che chi tale si avvisa ha ragione, ma che io non posso astenermi dal commettere il peccato. Quante volte non succede anche a voi, gentili mie leggitrici, di vedere il bene, ed appigliarvi al peggio! E poi io comincio a invecchiare, ed i vecchi nestoreggiano: di più, allorquando consentiva il mio ingegno a esporre queste ed altre vicende per via di racconto drammatico, io disegnai, dietro la scorta di simile accorgimento, fare conoscere quante maggiori cose per me si potesse relative alle persone e ai tempi sopra le quali e sopra i quali verserebbe il mio racconto. Infatti, io non dico a tutte, ma alla più parte di voi, amabili mie leggitrici, chi darebbe simili notizie ov’io non fossi? Ora che siamo qui in famiglia, confessate se voi avreste mai tempo e pazienza di attingerle dai tomi in-foglio o in-quarto, donde io l’estrassi! volumi pesanti e tarlati, che contaminerebbero la lindura dei vostri candidissimi guanti con una traccia di polvere punto meno orrenda a vedersi del sangue sparso sopra il fianco di Adone. Lasciatemi dunque favellare a mio talento; siate un poco amiche a me, che mi professo tutto vostro, e che quanto più posso, con le ginocchia della mente inchine, vi onoro. Forse potrebbe darsi che io non v’infastidissi: dove però andassi errato, il rimedio sta in facoltà vostra: voi potete fare in quel modo, che in caso simile consigliava messere Lodovico Ariosto:

Passi chi vuol tre carte o quattro, senza
Leggerne verso....

che non per questo rimarrà mozza la storia, o procederà meno chiara.

Chi era pertanto, e donde veniva questo magnifico messer Lionardo Salviati?

Messer Lionardo nacque da Giovanbatista di Lionardo Salviati e da Ginevra di Carlo di Antonio Corbinelli. La sua famiglia spesso fu nemica dei Medici. Il cardinale Salviati congiurò co’ Pazzi per distruggerli fino dalle radici, andò fallito il disegno, e così com’era in roccetto, lo appiccarono alle finestre del Palazzo della Signoria. Questo accidente non guastò punto la buona amicizia, e molto meno la buona parentela delle famiglie; ed un Salviati fu genero del Magnifico Lorenzo, cognato di papa Leone Decimo, ed avo del granduca Cosimo, nato da Maria d’Iacopo Salviati, per modo che Lionardo poteva considerarsi parente d’Isabella. Lionardo (sebbene questo non si avesse a dire in quel tempo, ma che può bene palesarsi adesso) contava appena due anni più d’Isabella, ed erano stati educati insieme; sicchè questi le aveva portato e portava svisceratissimo affetto, non altramente che sorella o altra persona più congiunta per sangue si fosse. Dotato di temperatura gentile, e di complessione dilicata,13 poco si trovò acconcio ai violenti esercizj cavallereschi del tempo, e si dette intero agli studii delle lettere e della filosofia. Era pallido in volto, con barba scarsa, ed in sembiante mesto; di lena fu debole, e nonostante ebbe voce assai gagliarda, pronunzia chiara e soave da guadagnarsi l’attenzione; e rendendosi nel discorso più simile a pregante che a comandante, a sua voglia delle orecchie e dello animo s’insignoriva di chiunque favellare lo ascoltava. Il granduca Cosimo nel 1569 lo aveva insignito della dignità di cavaliere di Santo Stefano, ed egli, poco uso a vedere delle cose oltre la scorza, portava la croce rossa devotamente sopra il petto, persuaso che non avesse avuto altro scopo, tranne quello di liberare il sepolcro di Cristo dalle mani dei cani (chè in quei tempi così per vezzo appellavano i Turchi, i quali a posta loro ci pagavano a misura di carboni). Lionardo, nato quando i destini della repubblica erano sepolti, nudrito in corte, parente del principe, e ben veduto da lui, non avendo mai accolte nell’animo le parole ardenti dei libertini, di cui parte ramingava in miserabile esilio, parte aveva spento o la morte naturale, o la scure giuridica, o il pugnale dello assassino; anzi avendo sentito fino dalla infanzia vituperarli come facinorosi susurratori per pescare nel torbido, e nemici infestissimi di Firenze, aveva preso a considerare davvero Cosimo I liberatore della patria, tutela fidatissima e sostegno della salute di quella, personaggio insomma di alto affare, da preporre piuttosto agli antichi che da paragonare ai moderni. Aggiungi, che la sua vanità di scrittore rimase pienamente soddisfatta da Cosimo, il quale «pareva bene che amasse i virtuosi, e ne faceva segno alcuna volta piuttosto colle parole che coi fatti; conciossiachè essendovene pure alcuni, nessuno ne fu da lui aiutato, onorato e sollevato, se non leggermente.»14 E di vero, quando Lionardo ebbi recitata la orazione in lode della sua incoronazione, senza far bocca da ridere gli disse: «che tra le altre cose per le quali teneva cara la dignità ricevuta, era questa così degna e così alta orazione che ne succedette:»15 come se Cosimo, che non credeva più al bianco che al nero, fosse uomo da starsi sopra coteste novelle; ma lo faceva così per acquistarsi rinomanza a buon mercato, e perchè, come dettava il proverbio fiorentino, sapeva quanto la carne di allodola16 vada a genio ai letterati, i quali se spesso mandano fuori vento, più spesso ancora vengono di vento pasciuti. E certo non fu colpa di Lionardo se Cosimo non rimase per le sue scritture famoso nella memoria dei posteri, imperciocchè non lasciasse sfuggire occasione di levarlo a cielo con ogni maniera di encomii.

Ma con quanto coraggio, o con quale giustizia potremmo muovere rampogna a Lionardo Salviati, se scrittori solenni, di cui giovi ricordare soltanto Bernardo Davanzati, nel quale il volgarizzamento di Tacito avrebbe dovuto inspirare lo esempio se non dello ardire, almeno del pudore, senza mutare fronte recitavano dai pergami: «la creazione di Cosimo contenere laude divina, avendo egli acquistato il principato, bene di tutti gli umani il più desiderabile e soprano, chiamato per amore, modo di tutti gli altri il più santo e il più giusto; — e per virtù dell’animo, già conosciuta dai suoi in guisa eroica e naturale, averlo spontaneamente fatto principe; — Siena pel suo dolce e piacevole imperio potere quasi dire come Temistocle, fuggitosi in Persia: Se io non perdeva, guai a me, ch’io sarei perduta! — avere a tutti gli sbanditi restituito la patria e gli averi; mite, benigno, pio, clementissimo, diligente a tenere provveduta l’annona onde il popolo non patisse penuria di viveri, a diminuire le pubbliche gravezze studiosissimo sempre, e così alacre cultore della giustizia, che quella amò più di sè stesso; di cui porse manifesto segno allorquando, mentre la guerra ardeva contro Piero Strozzi, pregò Dio che facesse vincere non lui, ma chi avesse mente migliore, e la causa più giusta?»17 Se dunque, dico, da simili e da altre enormezze scrittori nè parenti nè amici non aborrivano, male potremmo muovere rimprovero contro Lionardo, se ignorasse o volesse ignorare le armi apparecchiate dal cardinale Cybo, e la perfidia di Francesco Vettori, di Roberto Acciaiuoli, di Matteo Strozzi, e del più tristo di tutti, Francesco Guicciardini, e i terrori sparsi, e le violenze commesse; e la notte dell’8 gennaio 1537, in cui, Cosimo presente, fu tra i mentovati di sopra, e Alessandro Vitelli, stabilito si eleggesse Cosimo duca, e se il bisogno lo richiedesse, vi si adoperasse la forza; e la mattina del 9, ove tra gli urli dei soldati che gridavano: — Viva il duca e i Medici! — e le minaccie del Vitelli, che giurava se i senatori non si affrettavano ad eleggere il signore Cosimino, erano tutti morti, venne creato spontaneamente duca.

Cosimo aveva promesso al Guicciardino lasciarsi governare da lui; ma per questa volta lo schermitore fu vinto di scherma, e, parve impossibile, da un giovanetto di diciotto anni! Gli aveva promesso ancora di tôrre per moglie una sua figliuola; sennonchè a lui non bastò neanche il cuore di rammentarglielo, e morì avvilito dal disprezzo altrui, e di sè stesso.

È ufficio dello storico (ma io sono un povero narratore di novelle), ebbene, è ufficio di qualsivoglia onesto, riferire i bei tratti di cui si onora questa nostra umana natura. Benedetto Varchi generosamente racconta nel libro quindicesimo delle Storie un’azione generosa: prima di tutto ci ammonisce come nella notte precedente alla elezione spontanea di Cosimo, in una pratica segretissima venisse concluso, ch’ei si creasse duca in ogni modo, quando bene bisognasse adoperare la forza; e poi narra di quell’ottimo Palla Rucellai, che disse arditamente non volere più nella repubblica principi o duchi, e per palesare fatti consuonanti alle parole, prese la fava bianca, e mostratala a tutti la gettò nella borsa esclamando: — “Questa è la mia sentenza.” — Al Guicciardini poi e al Vettori, che di ciò lo riprendevano, notandogli che la sua fava non valeva più che una, rispose: — “Se voi avevate deliberato quello che disegnate di fare, non occorreva chiamarmi;” — e rizzatosi per uscire, il cardinale Cybo lo ritenne con astuta dolcezza, spaventandolo con la mostra delle armi circostanti, e col pericolo che avrebbe potuto correre; ma il valentuomo per nulla sbigottito riprese: — “O messere cardinale, io ho passato sessantadue anni, sicchè poco male oggimai possono farmi.” — Magnanimi esempii sono questi, i quali non possono ricordarsi nè lodarsi abbastanza; e quante volte meco stesso considero, come Benedetto Varchi queste storie per commissione di Cosimo dettasse, a lui medesimo le leggesse, ed egli senza dimostrare animo turbato le ascoltasse, mi è forza concludere, che gli uomini capaci di dire la verità mi paiono anche più rari dei principi capaci di udirla, e le piaggerie essere più spesso una viltà dei cortigiani che una pretensione dei governanti.

Siena, ecco come fu lieta! Di trentamila anime che conteneva sul principio della guerra, si trovò ridotta a dieci: tra miserie, battaglie, e strazii da fare drizzare i capelli, e che possono, da cui ne avesse vaghezza, riscontrarsi nel diario del Sozzini e nei racconti del Roffia, perirono cinquantamila contadini, senza contare punto coloro che in paesi stranieri si refugiarono. Il contado ne rimase deserto, rovinata la cultura dei campi, le industrie distrutte, sicchè tuttavia Siena se ne risente. E così a dire di Tacito, ove fanno solitudine appellano pace. Scipione Ammirato, forse per coscienza, o per orrore, volendo non tradire la verità, e per altra parte non rincrescere ai Medici, con ordinamento dei quali scriveva, prese il partito di lasciare una laguna alla sua storia, e parve il velo dipinto da Timante sul volto ad Agamennone nel sacrificio d’Ifigenia. Bernardo Segni,18 all’opposto, nelle storie che furono pubblicate dopo la sua morte, descrisse questa infamia di Siena concludendo: «Si arresono al duca, avendo perduto tutto il dominio, distrutta ogni loro facoltà; e quasi la vita di tutti gli uomini di quella patria e di quella provincia.»

Circa all’annona, dieci volte fu carestia, e tre volte strinse per modo, che la gente si periva di fame; nè già si creda in piccolo numero, perchè nella carestia del 1554, tra la città e il dominio, morissero meglio di sessantamila persone:19 nel 1549 il grano costò lire ventisette al sacco, nel 1551 lire trentadue; nel 1554 lire trentasei e soldi sedici; e nel 1556 lire quarantadue e soldi dodici.20

Se mite ei fosse e clemente, ne fanno fede certi estratti di memorie manoscritte delle Librerie Magliabechiana e Riccardiana,21 dai quali ricaviamo, centotrenta e più dei principali cittadini di Firenze nel breve giro di pochi anni dichiarati ribelli: quanti capitavano nelle mani, impiccati o decapitati; qualcheduno mandato alle Stinche, a beneplacito, o in galea; parecchi assassinati; a tutti levata la roba, e fino alle donne la dote. Nella più parte dei memoriali in cui veniva supplicato per la vita di qualche ribelle, Cosimo di mano propria scriveva brevemente: s’impicchi.22 In qualche luogo ho letto, che degli assassini stipendiati ne tenesse fino a mille; nè già tutti uomini plebei, ma in parte costituiti in dignità: e poi faceva anche da sè, avvegnachè, lasciando da parte il figlio don Garzia, nessuno storiografo nega che di propria mano trucidasse Sforza Almeni perugino, «lasciando però,» aggiunge Aldo Manuzio, «che i beni di lui andassero agli eredi, ed adempiendo alle volontà del trafitto espresse in certa carta che gli fu rinvenuta nelle tasche.» Non vi pare egli questo un tratto di benignissimo principe?... Della preghiera fatta a Dio nella guerra dello Strozzi perchè desse vittoria alla causa più giusta, possono somministrare buono argomento di verità, e la commissione del vescovo di Cortona mandato in Francia sotto pretesto di complire la regina, ma in sostanza per corrompere i famigli di Piero Strozzi onde gli propinassero il veleno recato seco entro un’ampolla, per cui gli venne nome di vescovo dell’Ampollina,23 e la lettera scritta al capitano Giovanni Orandini conservata nello Annale XII della Colombaria, nella quale leggiamo queste parole intorno all’ordine di assassinare lo Strozzi: «Onde per qualche modo andando a Siena, per via di una archibusata, o in qualunque altro modo che migliore paresse a voi, levarci dinanzi l’arroganza di costui; — il che facendo, si può promettere diecimila scudi di fermo, oltre ad acquistare la grazia nostra, e gradi, e provvisioni.»24 Per la quale cosa è mestieri confessare, che se molto fidava in Dio, moltissimo confidava ancora nelle archibugiate; o piuttosto, che se è vero che invocasse il nome di Dio, ciò facesse perchè chi usa ingannare gli uomini arriva a tanta insania, da credere di potere prendere a gabbo anche Dio. E per dire qualche cosa ancora intorno alla temperanza d’imporre nuovi carichi al popolo, bastino queste poche parole di uno storico lontano dalle cupidigie del principato, quanto dalle enormità dei libertini: «Aggravò i cittadini e i sudditi con inaudite gravezze, raddoppiando gli antichi tributi, e dei nuovi aggiungendone molti; — nel maneggiare lo imperio ha in gran parte distrutto l’onore e la facultà della patria e di tutta la Toscana.»25

Pio certamente egli fu, imperciocchè pene immanissime promulgasse contro la bestemmia ed altri peccati, dopo che un terremoto subissò Scarperia, spaventò Firenze, ed in un giorno sette saette fulminarono il Palazzo della Signoria; e soprattutto poi, perchè con prontezza non mai lodata abbastanza, appena ricevuta la lettera di Pio V, che gli faceva pressa di consegnare al Maestro del sacro palazzo monsignor Pietro Carnesecchi, accompagnata dalla commendatizia del cardinale Pacheco; il quale ammoniva Cosimo com’egli di due cose lo avesse lodato presso il papa, cioè non esservi principe in tutta la cristianità più zelante di lui della Inquisizione, e non esservi atto che per suo particolare contento e consolazione, comecchè grave, non fosse per fare eseguire;26 senza punto mettere tempo fra mezzo, avendo il Carnesecchi in casa, anzi pure seduto alla propria mensa, lo fece arrestare, e consegnare al padre Maestro.27 — Questo sagrifizio dei doveri della ospitalità e dei vincoli dell’amicizia, avvegnachè il Carnesecchi in tutta la sua vita si fosse dimostrato devotissimo a casa Medici, ed avesse servito lungamente Clemente VII come protonotaro, e Cosimo come segretario in Venezia; questo sagrifizio di uomo celebrato per bontà e per dottrina dal Sadoleto, dal Bembo, dal Mureto, e dal Manuzio, comecchè l’Ammirato, studioso di scemare la importanza dell’uomo, lo dichiari non ignorante;28 questo sagrifizio, dico, meritava un premio proporzionato, il quale, se non leggiamo pattuito espressamente, apparisce abbastanza promesso nelle seguenti parole nella lettera del 19 giugno 1566, del cardinale Pacheco a Cosimo: «Tenendo ancora per certo, che da questo caso dipenderà gran parte della buona corrispondenza che V. E. deve tenere col papa in questo pontificato.» Infatti, Pietro Carnesecchi nel 3 ottobre 1567 fu decapitato in ponte, e abbruciato,29 e Cosimo nel 4 marzo 1569 fu per privilegio del papa coronato granduca, con facoltà di usare corona ed armi reali. Ma il Carnesecchi andò a morte con maravigliosa costanza, anzi si direbbe con qualche ostentazione di forza, conciossiachè volesse vestire panni elettissimi, e guanti bianchi: Cosimo poi, quando chiuse gli occhi al sonno eterno, era egli ugualmente tranquillo?

Nonostante questi fatti, noti adesso per trovarsi stampati in tutte le storie, ed allora notissimi per le cose discorse largamente di sopra, io per me vorrei perdonare al Magnifico cavaliere Salviati, se celebrando Cosimo non rifinisse di levare a cielo la clemenza, la strenuità, la prodezza e la mansuetudine sua, e lui ad Augusto preponesse, però che questi ebbe ad usare le proscrizioni, e Cosimo no, quantunque Cosimo si contentasse assomigliare ad Augusto, sotto la costellazione del quale, ch’era il Capricorno, il suo astrologo D. Basilio lo assicurava essere nato;30 ma una colpa, che nè io nè altri possiamo perdonare al Salviati, si è lo insegnamento contenuto nelle parole seguenti, alle quali sentendo ribrezzo di mettere la mano, le riporterò tali quali occorrono scritte: «Quelli che i principati dalle loro patrie o dalle loro repubbliche stati loro profferiti ricusano; ciò facendo, non pure di viltà di animo, ma di empietà ancora, o di arroganza manifestissimo indizio hanno dato. Di viltà, dico, mancando di coraggio, e gli onori rifiutando, e i governi, che sono cose appetibili; di empietà, se atti conoscendosi, hanno negato, in quello che per sè si poteva, di prestar l’opera loro alla patria; d’arroganza, se stimatisi inabili, hanno in questo giudizio a quello della repubblica il lor parere anteposto.»31

Ahi! messere Lionardo, come tristo ragionare è cotesto! Come suona sofistico e callido, e affatto indegno di uomo grave! Come e dove vi trasportava il mal genio, o il bisogno di mentire adulando! Parrebbevi onestà, se alcuno si prevalesse dei doni di uomo preso da manía? Molto più dei doni che non si possono fare, come la libertà della patria che da Dio viene, e a Dio spetta, ed è inalienabile, perchè non appartiene a nessuna, ed appartiene a tutte le generazioni; e la generazione presente, che disereda i posteri, come nemica del suo sangue non opera alto valido. Sarà arrogante il medico, se non abusa della malattia dello infermo, ma pietosamente lo risana? — I popoli, quando stanchi della propria dignità si accasciano in terra come il cammello invocando qualcheduno che li cavalchi (posto che ciò non avvenga, come suole quasi sempre accadere, per tradimento o per fraude), o si possono, o non si possono guarire: nel primo caso, si guariscono, e poi, se lo esempio di Licurgo sembra duro a seguirsi, si adoperi quello di Solone e di Andrea Doria, o piuttosto scelgasi volontario esilio, dacchè l’uomo mal vive cittadino là dove principe imperava; nel secondo caso, consumato ogni sforzo, come Silla getti la scure, e lo abbandoni alla ira di Dio: almeno tali devono governarsi le anime che il mondo saluta grandi, che partite da questa terra esercitano le lingue degli oratori e le fantasie dei poeti, e finalmente che ricordano derivare l’uomo origine divina. Per forza o per ingegno, offerta od usurpata, a verun cittadino è lecito togliere la libertà alla propria patria: questo contende la morale, questo la pietà, questo la religione di tutti i popoli, e principalmente poi la cristiana. — Sì certamente, la carità cristiana, perchè rigettata la distinzione di San Tommaso come scolastica, e proposta piuttosto a modo di disquisizione astratta che vera in pratica, di tiranno imposto a forza, di tiranno recatosi addosso volontariamente, onesta è quella azione che possiamo eleggere sempre, conforme insegna Aristotele. Ora, come l’occupare la libertà della patria può essere cosa eleggibile in ogni tempo? Per la parte dell’occupante, potrà o vorrà consultare vie via il volere degli occupati? Saprà o vorrà egli conoscere se fu spontaneo davvero, e universale il moto che lo spinse in alto, o quando declini, o quando cessi? Per la parte degli occupati, non può essere a meno che non sia momentanea afflizione e infermità della patria: avvegnachè la patria consista nella fida cittadinanza alla quale consacriamo affetti, reverenza, e, al bisogno, le sostanze e la vita; e questa tolta, la città in cui viviamo non può chiamarsi patria altrimenti, nè merita i mentovati sacrificj. E se la patria è più che madre, chi può ridurre in servitù la propria madre? Se questo offerisse la madre, come insana non si deve ascoltare; se questo accettasse il figliuolo, come empio si deve aborrire. E notate, che simili usurpazioni, come odiosissime, vanno circondate da simulacri bugiardi di libera dedizione; e Giulio Cesare stesso ordinò, nei lupercali lo presentassero di una corona. Inoltre, la libertà, dopo la vita, è preziosissima cosa: ora quanto più ci torna cara una cosa, tanto meno se ne presume il dono; e quando pure potesse alienarsi, potremo supporre ceduta legalmente la libertà in un momento di ebrezza, di furore o di errore? Finalmente la città inferma, immaginiamo, che chiami un cittadino a racconciarle il freno; per certo lo chiama e lo desidera fino a tanto che sia stato conseguíto un simile scopo. Ora, o il cittadino è capace a compiere il presagio della patria, o no: se capace, soddisfaccia al bisogno per cui venne chiamato, e si parta; o non è capace, manca al fine, e si parta. Ma io forse mi affatico a dimostrare quello che non abbisogna punto di prova; quale presunzione, quale insania è mai questa di concludere per via di argomento ciò che la natura e Dio scolpivano nel nostro cuore? — E Lionardo Salviati scrivendo le riferite sentenze, forse non le credeva; lo fece per apparato di eloquenza, o piuttosto per amplificazione rettorica, e si accôrse, comecchè tardi, del torto: ma ormai non era più tempo a ripararlo; sicchè non n’ebbe in seguito mai il viso lieto, maledì l’ora che apprese a scrivere prose, e sconfortato dai disinganni, atterrito da memorie di sangue, supplicò Dio, che lo intese, ad abbreviargli una vita tanto male impiegata in disutile della verità e degli uomini da lui pure amati ardentissimamente.

Rimarrebbe far conoscere adesso quanto nelle lettere il Salviati nostro valesse; ma non lo concedendo, com’io vorrei, la indole di questo libro, m’ingegnerò come meglio io possa, stringendo in poco il molto. Nelle lingue latina e greca egli fu intendentissimo, della italiana maestro solenne; più apprese, e acquistò tesoro maggiore di dottrina di quella che insegnasse o mettesse fuori, secondo l’uso di quei letterati, i quali, meglio che ad altro, possiamo assomigliare alle arche degli avari; compose copia di poesie, gravi e giocose, che come piace a Dio ai giorni nostri ignoriamo, e non istampansi. Dettò a venti anni il Dialogo dell’Amicizia, in cui introduce Girolamo Benivieni a favellare delle lodi dell’amicizia a Iacopo Salviati e a Piero Ridolfi. La occasione sarebbe stata commuovente davvero, fingendo egli che Girolamo per la perdita dell’amicissimo suo Pico della Mirandola, portentoso giovane, chiamato la fenice degl’ingegni, si fosse deliberato lasciarsi morire; ma poi, di repente mutato consiglio, convertì in gioia il dolore, pensando che Dio aveva, come meritevolissimo, chiamato per tempo il Pico al premio dei Santi: ma la parola priva di calore, le distinzioni scolastiche, il difetto di fantasia e di passione, muovono a tutto altro che a piacere o a pietà, e il fastidio precede di troppe pagine il laus Deo. Le commedie, la Spina e il Granchio, e’ sono uno impasto fatto con lievito avanzato nella madia di Plauto e di Terenzio, sicchè pensate voi se infortito! — Solite balie mezzane, soliti bari e truffatori, e vecchi che credono tutto, e vicende impossibili, e riconoscimenti inverisimili, e riboboli fiorentini, e favella dura, sicchè noi restiamo maravigliati come la gente prendesse diletto a coteste rappresentanze che oggi oseremmo appena imporre come penitenza dei peccati. Delle cinque lezioni sopra un sonetto del Petrarca, è da dirsi che ci somministrano piuttosto la misura della pazienza grandissima dei nostri padri, che del grande ingegno dell’oratore. Le orazioni, le funebri in ispecie, paiono proprio fiori da morto. Sotto il nome dello Infarinato, contristò con acerbe scritture l’anima dolorosa di Torquato Tasso; ma la Gerusalemme rimane, e cotesti scritti non si leggono più da nessuno: e questa azione fa torto al Salviati come scrittore e come uomo, seppure anche in questo non lo scusa la sua cieca devozione per casa Medici. Castrò, come si diceva in quei tempi, il Decamerone di Giovanni Boccaccio; ma i posteri hanno riso della castrazione, e, lasciato al Salviati il frutto della castrazione, hanno voluto il Boccaccio intero. Grande però fu la sua venerazione per questo sommo scrittore, e scrisse tre volumi di Avvertimenti intorno alla lingua ricavati dal Decamerone: questi volumi possono anche ai giorni nostri, e forse più che mai nei giorni presenti, consultarsi dagli studiosi della gloriosissima nostra favella. La lingua adoperata dal Salviati è pura, ma non dice nulla; pare un ornamento di cadavere: non idee, non pensieri, non immaginazioni; costretto a evitare il grande, che sta nel vero, forza è che ricorra al falso, e già vediamo spuntare in lui la sinistra aurora del secento. Di ciò sia prova questa figura della Orazione per la incoronazione di Cosimo I: — «Queste mura, Beatissimo Padre, e queste case, e questi tempii, pare che ardano del desiderio di presentarsi davanti ai piedi di Vostra Santità; e questo fiume, e queste piaggie, e questi monti, par che piedi desiderino per venire; e questi mari e questo cielo, lingua per favellare, e per potere di tanto beneficio, se non quello che hanno in animo, rendervi almeno qualche grazia, e presenzialmente riconoscersi debitori.» — Parole copiose, eloquenza nessuna; epiteti, aggiunti, riempitivi a ribocco; un periodo intramezzato vie via da molti altri periodi tra loro parimente rompentisi, sicchè la locuzione procede confusa, ardua, imbarazzata, e sopra modo penosa. Parini reputò potesse leggersi con profitto: io, tranne gli Avvertimenti che ho detto sopra, non lo credo; e Annibale Caro, sebbene indirizzasse il suo giudizio al medesimo Salviati, lascia conoscere abbastanza che non reputava commendabile il suo stile, come quello che abbondava di parole, vagava incerto, era pieno di epiteti oziosi, di periodi lunghi, e di molti più membri che non bisogna alla chiarezza del dire; il che sapete che fa confusione; e si lascia indietro gli auditori.

Insomma messere Lionardo non fu buono cittadino, e nemmeno valoroso scrittore, e nonostante uomo di eccellente naturale, tenero degli amici, e del bene loro studiosissimo. Alcuni reputeranno impossibile che possa uno individuo essere uomo ottimo e cattivo cittadino; pure, se contrarietà è, noi la vediamo in natura, e potrei citare esempii moderni, se la discretezza lo consentisse.

Lionardo, entrato nella stanza, ebbe cura di assicurarsi prima se bene il paggio avesse chiuso la porta, tirò la portiera, poi si mosse alquanto sorridente verso Isabella, le stendendo in atto amico la destra. Ma Isabella gli andò incontro con impeto, ambe le mani gli pose sopra le spalle, ed appoggiò il capo al suo seno, esclamando:

— “O buono, o egregio mio Lionardo, voi almeno non vi siete dimenticato della vostra Isabella!”

Lionardo confuso per cotesto abbandono, e commosso profondamente, replicava:

— “Mia cara Isabella, signora duchessa, o come, e perchè avrei dovuto dimenticarvi io?”

Così rimasero alcun poco di tempo; e quindi postisi a sedere sopra al lettuccio, Isabella guardandolo in faccia continuò:

— “È tanto tempo che non ci siamo veduti! E’ mi parete un po’ male disposto. Lionardo, il soverchio studio vi nuoce....”

— “O Isabella,” disse Lionardo, “il mio male sta qui dentro,” e si percosse il cuore; “ed io prego continuamente Dio che mi chiami alla sua pace, e sembra che egli, com’è misericordiosissimo, già cominci ad ascoltarmi. Ma lasciamo di me, ch’io per me qui non venni, o duchessa. Ora vi scongiuro, ascoltatemi come fratello. Finchè io vi conobbi, se non felice, sicura, stetti lontano da voi. Avrei desiderato che voi vi manteneste felice...., perchè” e qui abbassò la voce “felicità vera consiste nello esercizio della virtù; — ma i miei sforzi tornarono inutili, e inutili gli avvertimenti di Cosimo vostro padre, il quale pure vi ammoniva sovente, dicendo: — Isabella, io in questo mondo non ho da vivere sempre....”32

Isabella riprendendo la donnesca alterigia, lo interrompeva così:

— “Messere Lionardo, ch’è questo che voi dite? S’io male non mi appongo, voi mi recate oltraggio....”

— “Isabella, per certo io non veniva a questo. Credete ch’io goda parlandovi come faccio? Pensate ch’io abbia così male spesi i miei anni vivendo, da avventurare parole inconsiderate, o peggio? Perchè mi respingete? Perchè infingervi meco? Ma non importa: io non cerco i segreti del vostro cuore; se non mi credete degno di parteciparmeli, io consento ignorarli; ma udite quello che si crede di voi, udite il pericolo e provvediamo al riparo....”

— “Io non commisi errore: chi può incolparmi? Quale traccia....?”

E il Salviati le susurra nell’orecchio: — “La traccia è fuori della Porta a Prato....”

— “Ah!” gridò spaventata Isabella: e dopo alcuni momenti balzando in piedi in atto di partire, soggiunse: — “Almeno egli sia salvo....”

E Lionardo trattenendola per la vesta: — “Fermatevi, meglio provvederemo noi qui.”

E Isabella, scotendo il capo, e con ambedue le mani tirandosi indietro dalla fronte i capelli, come se, fatta audace per la disperazione, volesse che vi leggessero intera la propria vergogna, mormorava:

— “Ebbene, io sono colpevole....!”

— “Isabella voi correte pericolo di vita....”

— “Io, e da cui?... Forse tornava di Roma Giordano?”

— “No; ma e che cosa importa Giordano?”

— “E chi, se non egli, vorrebbe con giustizia attentarmi alla vita? Francesco forse? Punirebbe in altrui il suo peccato? Piero?... così sprofondato in ogni maniera di più sozzo vizio, che l’acqua di Arno non basterebbe a lavarlo?”

— “Giustizia!.... E voi, figliuola di Cosimo, cercate giustizia quaggiù? — Francesco odia in altrui quanto indulge a sè stesso: una fama incerta gli è pur giunta all’orecchio, che i suoi nemici, estrema gioia dei vili, dileggiano la sua casa pubblicando vituperii, che o non sono veri, o, se veri, la più parte procedono da lui; e poi nel cupo animo teme della sua Bianca, e intende spaventarla, ove mai pensasse ad altro affetto che non fosse il suo....”

— “Lionardo, voi favellate fiere parole, le quali come non posso impugnare, così non posso accogliere interamente. Insomma, e’ paiono timori più o meno verosimili; ma da pensare una cosa a volerla, e da volerla a farla, corre sempre un gran tratto....”

— “Sì certo, i parenti vostri sono usi di commettere le feroci voglie alla ragione: ma io farei tristo ufficio sparlando presso voi delle persone di cui la fama vi è cara. — Isabella, credetelo sopra l’anima mia, voi correte pericolo di vita....”

— “Lionardo, voi così savio capirete troppo bene come in casi tanto importanti male può l’uomo convincersi dell’altrui convinzione; voi avete fatto molto, avete fatto anche troppo, onde mi neghiate onestamente il meno....”

— “È vero; e poi io venni qua disposto a mettere in avventura la vita: non vi raccomando discrettezza per me, ve la chiedo per voi, e per tale, che so che amate più di voi....”

— “Sta bene, parlate.”

— “Ieri mi recai di buon mattino da Francesco, il quale mi aveva mandato a chiamare, ond’io lo informassi intorno alla correzione del Boccaccio, che ho impreso dietro gli ordini di lui: egli era sceso nella officina chimica; io nonostante mi feci annunziare da uno staffiere, il quale di lì a poco tornò dicendomi, che andassi pure costà, che il serenissimo padrone, come persona di casa, mi riceveva senza cerimonie nella officina. Io rinvenni Francesco tutto affaccendato intorno ad un fornello, considerando certa sostanza chiusa dentro un’ampolla di vetro. Appena mi vide, così mi parlò: — «Buon giorno e buono anno, cugino Lionardo; io sto dietro ad una esperienza che non mi riesce condurre a termine; or ora leggerò il vostro lavoro del Decamerone, che avrete emendato da pari vostro, lasciando stare le bellezze, e togliendo quanto offende i buoni costumi e la religione. Peccato, che cotesto grande uomo non avesse costumi buoni! Ma non vi è pericolo, Lionardo, ch’ei sia andato perduto? N’è vero, cugino, che messere Giovanni prima di morire si pentisse, e lasciasse il mondo in odore di santità?» — Alla quale domanda risposi, che il Beato Giovanni Colombini nella vita del Beato Pietro dei Petroni ci assicura, come il Beato Pietro, poco prima che si partisse a vita migliore, mandasse Giovacchino Ciani a riprendere il Boccaccio dei suoi scritti e dei suoi costumi meno che onesti, e nel tempo stesso a svelargli certi segreti così riposti nel proprio animo, che il Boccaccio teneva per fermo nessuno, tranne lui, potesse saperli. Della quale cosa percosso, messere Giovanni pianse amaramente i trascorsi passati, e rendendosi a Dio ne fece mirabile penitenza.33 — «Gran mercè, riprese Francesco; voi mi avete dato una consolazione desideratissima, accertandomi che il nostro messere Giovanni adesso stia in luogo di salute. Or via, siatemi cortese di aspettarmi per un po’ di tempo, tanto ch’io mi sbrighi da questa faccenda: andate costà in libreria, vi troverete in buon dato libri, e parecchi nuovissimi.» — Entrai nella libreria, fingendo leggere il primo libro che mi capitò tra mano, ma seguitava con occhio obliquo il lavorío di Francesco. Costui non finiva mai di soffiare nei carboni, guardare attraverso l’ampolla, e poi volgersi a un vasetto sopra la tavola; e quindi presa un pocolino di polvere tra le dita, considerandola attentamente diceva: «Bisogna dire che i nostri vecchi ne sapessero più di noi, che ce ne abbiano date ad intendere a serque: il colore ci è; l’apparenza l’ho trovata; ma il sapore.... il sapore...., e l’arsenico sembra fuori di dubbio che ci entrasse: eppure nelle note al mio Poggio, e nella Cronaca Trivigiana leggo che il Conte di Virtù.... — in fè di Dio, gli era proprio tagliato a suo dosso questo titolo! — avvelenasse con tossico che pareva in tutto e per tutto sale, lo zio Bernabò, facendoglielo porre così naturale sopra i fagiuoli.... ma non mi riesce a trovarlo; io darei mille ducati....!» — In questa, ecco uno staffiere entrare nella officina, ed annunziare il bargello. Io non so per quale motivo presi a tremare; guardai la stanza, speculando se vi era modo di quinci partirmi, e trovai una porta che metteva in cortile. Sul punto di uscire. Dio m’inspirò tornare: seguitai la prima ispirazione, che quasi sempre ho provato buona, e mi posi cautamente in ascolto. Il bargello era entrato, e così favellava: «Il cavaliere Antinori, come sa la Eccellenza Vostra Serenissima, arrivò ieri da Portoferraio....”

— “Come!” interruppe Isabella, “il cavaliere Bernardo venne a Firenze senza che noi ne abbiamo notizia?”

— “Il cavaliere Antinori a questa ora è sepolto. Dio faccia misericordia all’anima sua!”

— “Gran Madre del Signore! ch’è quello ch’io sento! Lionardo, ne siete voi sicuro?”

— “Lasciate che io termini. — Il bargello continuava: — «Lo conducemmo subito dal cavaliere Serguidi, che gli fece una bravata terribile per l’onta recata al suo principe, ammonendolo che si costituisse in colpa, e si commettesse alla clemenza vostra. Ma il cavaliere negava a spada tratta, finchè il Serguidi con voce minacciosa cavò una lettera dicendo: — «Or via, negherete voi questa?» — Il cavaliere, visto appena quel foglio, diventò come un panno lavato; tutto sbaldanzito alzava le mani supplichevole, senza potere articolare parola. — «Andate via;» conchiuse il Serguidi, «voi non meritate perdono.» — Il cavaliere si partiva che pareva ebbro, sì gli tremavano le gambe sotto, e tirava di lungo per andarsene a casa come se non fosse fatto suo: io gli tenni dietro con la famiglia, volendomi un po’ prendere spasso di costui.» — «Delle tue,» — interruppe Francesco; «porgimi quel soffietto; va innanzi, ch’io ti ascolto: non mi tacere nulla, chè ci prendo propriamente gusto.» — E il bargello: — «Ei camminava d’inspirazione, perchè si avviava verso il Palagio. Quando fu alla porta dei lioni, io me gli scopersi, e gli dissi: — Messere, togliete in pace ch’io vi serva da maggiordomo: il serenissimo nostro padrone vi ha preparato un quartiere da pari vostro qua dentro.... — Il cavaliere mi guardò come trasognato, e si lasciò condurre a modo di agnello: stamane poi prima di giorno sono entrato in prigione col cappellano, e se la dormiva ch’era uno incanto....» — «Dormiva?» interrogò Francesco alzando la faccia, che pareva imbrattata di sangue, di sopra agli ardenti carboni. — «Dormiva.» — «Egli non doveva dormire!» — «Eppure dormiva.» — «Voi gli avete lasciato passare l’ultima notte in pace. Così si può dire che non abbia sofferto nulla! E non posso tornare da capo.... n’è vero?» — Il bargello faceva col capo cenno affermativo. — «Io l’ho scosso, ed egli si è svegliato alzandosi a sedere sopra il letto; e ha domandato: — Che ci è egli? — Svegliatevi un momento, gli ho risposto; poi dormirete a bello agio: eccovi un prete; voi non avete più di una ora a morire.» — «Ed egli?....» cercava di nuovo Francesco. — E il bargello: «Egli ha risposto: sia fatta la volontà di Dio.» — «Come, propriamente così?» — «Così per l’appunto.» — «Ma che non hanno paura di morire?» — «E’ pare che ce li abbiate avvezzati.» — «No, in questo modo è troppo poca cosa la morte: provvederemo. Séguita.» — «Si è confessato per filo e per segno, e poi mi ha chiesto in grazia di scrivere: gli ho dato carta, penna e calamaio; ma tremava così forte, che non poteva formare lettera. Vedete, Serenissimo.» — E mostrava una carta. Francesco, deposto il soffietto, l’ha tolta in mano, e la esaminando parlava: — «Mira un po’ i bei grotteschi! non vi leggo nulla.» — «Ve lo diceva che non potè scrivere parola. Allora io ho creduto bene osservare: Messere cavaliere, poichè mi accorgo che voi non potete fornire il fatto vostro, consentite ch’io faccia il mio; e messegli prima le manette, gli ho passato la corda al collo, e l’ho fatto strangolare in buona regola....» — «Va bene: e il capitano Francesco?» — «Oh! Il capitano ha preso vento; si è cacciato la calcosa tra i viandanti, ed in Firenze non si trova....» — Qui non è da dirsi in quale matta frenesia abbia rotto Francesco: mandava spuma dalla bocca, sangue dagli occhi: — «Va, corrigli dietro!» urlava; «spedite cavallari apposta, scoppiate cavalli.... ai confini.... ai confini.» — E il bargello non sapeva che cosa farsi. Intanto l’ampolla di vetro, non so per qual causa, si è spezzata: le schegge in parte hanno colpito la faccia del bargello internandosi nella carne; quel tristo cacciava fuori dolorosissime strida. Allora Francesco ad un tratto è tornato cupo e silenzioso; se non che volgendosi al bargello, gli ha detto freddamente: — «Affrettate a curarvi, perchè il vetro è avvelenato.» — Il bargello fuggiva a precipizio mugolando: — «Povera moglie! poveri miei figliuoli!....» — Se in quel punto mi avessero tratto sangue, non me ne sarebbe uscita una goccia: mi sentivo come inchiodato là dov’era; già mi tenevo spacciato raccomandando la mia anima a Dio. Per ventura Francesco si è lasciato andare giù sopra una sedia, abbassando la testa come uomo che si sprofonda dentro un pensiero; ed io distintamente più volte, e ve lo giuro sopra la vita di mia madre, ho sentito mormorargli fra i denti: — «Ora provvederemo alle femmine, e presto; — ma Giordano è in Roma, — e senza il consentimento suo non mi parrebbe ben fatto; — potrei arbitrare, — ma no; — pensi egli a renderne conto.... — a cui? A Dio, a Dio.... O questo Dio ne pretende pure tanti dei conti!....» — Avendo intanto ripreso animo, mi sono appressato pianamente alla porta del cortile, e sono uscito a ripararmi sotto il cielo; imperciocchè io temeva, da un punto all’altro, che sprofondasse la volta del luogo maladetto....!”

Isabella a quel truce racconto si era rimasta come impietrita; e il misero Leonardo, nascondendosi il volto tra le mani, in suono quasi di pianto diceva:

— “O Signore! Ed io ho potuto usare la favella, il nobile dono che voi avete compartito alla creatura, per laudare costoro! Che cosa penseranno i posteri di me? Possano andare disperse le opere mie! Possano dimenticarle presto i nepoti! — E tu. Dio, che vedi se sia dolore il mio di augurare la morte ai figli della mia mente, intorno ai quali la salute ho spesa e lo ingegno, tu sai ancora se questo voto si parta proprio dal cuore.”

Veramente io penso che grandissima dovesse in quel momento l’amarezza contristare la povera anima di Lionardo Salviati!

Ma indi a poco richiamando lo spirito ai casi presenti, il Salviati voltosi alla Isabella favellò:

— “Orsù via, Isabella, coraggio....”

— “Non è viltà la mia.... è raccapriccio, è ribrezzo. — Infelice Eleonora! così giovine, così lieta, tanto affezionata ai piaceri e alla vita! Bisogna salvarla.... bisogna avvisarla.”

— “Duchessa, ricordatevi non essere vostro il segreto; intorno a salvarla ci adopreremo.... poi.”

— “Sì, unico amico mio, mio padre, mio tutto; io mi rimetto, anima e corpo, nelle vostre braccia....”

— “Bene! il tempo stringe. Voi dovete scrivere una lettera a madama Caterina di Francia: ella è donna di cuore alto; educata nei mali, deve avere appreso a soccorrere i miseri; e nata Medici, aborrirà che la sua casa s’infami con tragedie domestiche. Il sangue ancora può darsi che qualche cosa faccia: sicchè ognuna di queste considerazioni per sè, o tutte insieme riunite, mi sembra pure che abbiano ad essere attissime per muovere il reale animo suo a concedervi asilo, e provvedervi mezzi di fuga. Io assumo il carico di farle pervenire la lettera fino a Parigi: stasera parte un mio congiunto dei Corbinelli, accorto giovane e discretissimo, per Lione, e la consegnerà al luogotenente della città, o se non gli parrà mezzo affatto sicuro, per amore mio si condurrà sino a Parigi. Tosto che torni la risposta, non sarà arduo trasportarvi a Livorno, e colà imbarcarvi per a Genova, o meglio per a Marsiglia: quivi giunta, si può dire che siate in salvo....”

— “Ma, e la Eleonora...?”

— “Allora faremo in modo avvisarla, e potrà venire con esso voi, o andare in Ispagna dal duca di Alva, meglio dal suo fratello vicerè a Napoli. — Or via dunque, scrivete la lettera, chè il tempo vola....”

E Isabella si pose a scrivere; ma comecchè ella possedesse maravigliosa facilità a comporre, adesso le mancavano le parole, cancellava, tornava a cancellare, faceva da capo; gli affetti che molti e profondi le turbavano la mente, di leggieri possono immaginarsi. Alla fine la lettera fu scritta, e:

— “Lionardo,” prese a dire, “sentite un po’ se così va bene. Io non ho mai durato tanta difficoltà nel mondo, quanta nello scrivere questa lettera. Dimenticate che siete lo Infarinato, vi prego....”

— “Porgete.” — «Onorandissima come Madre. Persona che vi è congiunta per sangue, la sola superstite delle figlie di Cosimo dei Medici, vi scongiura che le salviate la vita. Se io sia innocente o no della colpa che intendono vendicare nel mio sangue, concedete che io taccia; ma se pure fossi in colpa, la giovanezza, la lontananza del marito, e le occasioni, e gli esempj, e il cuore di femmina pur troppo inchinevole ad amare, parmi che non mi dovessero fare considerare del tutto indegna di perdono. Molto ho da temere dal duca di Bracciano, più molto dal mio fratello Francesco. Io mi vi raccomando quanto più so e posso: porgetemi aiuto secondo che la urgenza del pericolo domanda, affinchè non venga tardo. A me salverete la vita, alla casa nostra la fama, e voi farete azione da quella magnanima Reina che siete, di cui vi darà Dio condegno merito. Dove meglio reputerà la prudenza vostra opportuno, io mi chiuderò in qualche santo monastero, intendendo e volendo spendere al servigio di Dio quanto mi avanza di questa misera vita, per ottenere dalla infinita sua misericordia la remissione delle mie colpe.

»A Caterina reina di Francia....»

— “Mi sembra che vada a dovere; copiatela, e aggiungete, che la risposta sia con sopraccarta diretta al mio nome.”

— “Ma!” riprese Isabella abbassando gli occhi e tingendosi in volto di rossore.... “e Troilo lo abbandonerò io...?”

— “Troilo,” disse gravemente messere Lionardo, “conosce come il Turco minacci la Cristianità: egli deve andare in Ungheria a combattere contro i nemici della fede, e con morte onorata acquistarsi il perdono di Dio.... Ma a lui soprattutto guardatevi di fare trapelare cosa alcuna; egli vi perderebbe di certo, e sè stesso con voi....”

Isabella sciolse un profondo sospiro, e si pose con mano tremante a copiare la lettera. Appena fu terminata, Lionardo arse la minuta, e con molta diligenza compose un plico. Mentre che il Salviati, dopo avere suggellata la lettera con le armi dei Medici, stava per iscrivere la sopraccarta, si sentì un rumore come di corpo che sospinto con violenza investa in parete, o percuota nel pavimento; e schiusa allo improvviso la porta, fu visto Troilo, che alzando la portiera, e mettendo in avanti il capo, teneva la faccia di profilo, esclamando con ira:

— “E’ pare che ti sia venuta in fastidio la vita....”

Lionardo quanto più speditamente potè nascose la lettera in seno; ma non gli venne fatto con tanta prestezza quel moto, che Troilo non se ne accorgesse. Troilo, mutati due passi oltre la porta, si fermò, volse attorno quel suo sguardo sinistro, e poi, fissando la duchessa con amaro sorriso, favellò:

— “Dacchè ponete guardie alla vostra porta, io vi conforto, signora, a sceglierle se non più proterve, chè questo è impossibile, almeno più gagliarde....”

— “Io aveva creduto che in casa mia la manifestazione della mia volontà fosse bastevole....”

— “E voi avete creduto male, dacchè vedete come io sia penetrato qua dentro.” — E in questo punto deposto il riso, e dandosi in balía al furore, continuò: — “Che sotterfugi, che tradimenti sono eglino questi? Voi mi volete condurre alla mazza, madonna Isabella! e se alla mazza si ha da andare, dobbiamo essere in due. Se voi siete dei Medici, io sono degli Orsini; e fo voto a Dio che cane mai non mi morse, ch’io non volessi del suo pelo. — Che fate voi, cavaliere? Che cosa è il foglio che vi siete nascosto nel seno? Presto, mettetelo fuori; io voglio vederlo....”

— “Cavaliere,” riprese il Salviati con voce pacata, “ella è cosa che non riguarda punto voi, e non potete pretendere onestamente....”

— “Questo è ciò che vedremo quando avrò letta la carta.”

— “Concedete ch’io mi astenga dal soddisfarvi.... cavaliere.”

— “Signor Salviati, io sono poco uso a sentirmi contrariare: datemi la lettera, che buon per voi!”

— “Troilo, per quanto avete cara la nostra grazia, io vi comando tacervi, ed uscire....”

— “Isabella, è tempo ormai che dismettiate i comandi, e cominciate a obbedire....”

— “Messere Troilo, io vi assicuro sopra la coscienza di cavaliere onorato, che questa lettera non vi riguarda....”

— “La coscienza! forse quella con la quale diceste le lodi del serenissimo signor Cosimo? Un cavaliere onorato non s’introduce fuggiasco in casa altrui, non si mescola dei fatti che non lo riguardano, non viene a ordire trame; e se trame non fossero, non repugnereste a darmene conto....”

— “E chi siete voi dunque, messere Troilo, di grazia....?”

— “Io...! Io sono quegli a cui dava in custodia la sua donna il duca di Bracciano....”

— “Ed osate farvi un diritto di questa custodia? Ah! messere Troilo....”

— “Che cosa intendete? Salviati, guai a voi! Io sono uomo da mozzarvi la lingua.... sapete....”

— “Troilo! ove trascorrete? Voi gli dovete onoranza, non altrimente che se mi fosse fratello....”

— “Onoranda gente davvero sono i fratelli vostri.... La lettera, Salviati, la lettera!”

— “Io non sarò per darvela mai....”

— “Badate, ch’io vi adopererò la forza....”

— “Userestemi voi villania? Non vedete voi ch’io sono disarmato....?”

— “Tanto meglio: così verrò più agevolmente a capo dei miei desiderii. E, aveste spada, tornerebbe lo stesso: chi tratta la penna regge male la spada....”

— “La lettera mi sta sul cuore,” disse il Salviati, facendo croce delle braccia sopra il petto; “e non l’avrete se non mi strappate ambedue....”

— “E lo farò....”

— “Forsennato! Prima di giungere a lui, e’ vi sarà forza passare sopra il mio corpo!” grida Isabella ponendosi tra mezzo a Troilo e a Lionardo.

— “Indietro!” proruppe Troilo; e di un urto mandò la duchessa traverso al lettuccio.

— “Ahi misera! misera Isabella! a quale uomo sagrificasti la tua vita....”

— “La lettera....!”

— “Vi ho detto il modo per averla....”

— “Il sangue vostro sia sopra di voi.” — E traendo fuori la daghetta, Troilo cacciò innanzi la mano manca per afferrarlo. Lionardo non mosse passo; imperterrito, con le braccia incrociate sul petto, si disponeva a patire una violenza contro la quale, e per la fievolezza della persona e per trovarsi disarmato, non poteva opporre nulla. Troilo già lo afferrava, quando si aperse fragorosa la porta, ed entrando in sembianza turbata Lelio Torelli, a voce alta gridò:

— “Il magnifico signore duca di Bracciano....!”

Questo nome parve la testa di Medusa per Troilo: dette indietro, ripose prestamente la daga nel fodero, e s’ingegnò ricomporre il volto; se non che quei due affetti contrarii, di furore e di reprimento, invece di ricondurvi la serenità, glielo sconvolsero in modo che metteva paura a vederlo.

Isabella, che giaceva tolta fuori di sè, si drizzò sopra il lettuccio come per virtù di elettricismo, e stette disfatta con gli occhi intenti verso la porta.

Il cavaliere Salviati, pensando che non essendo di casa poteva allontanarsi onestamente salutando il duca così di passaggio, salvo a complirlo in modo convenevole a suo tempo, senza affrettarsi troppo, e con la solita sua compostezza quinci si tolse.

Percorrendo le sale, e giù per le scale, maravigliò forte di non incontrare il duca, nè vedere nel cortile o alla porta vestigio alcuno che indicasse l’arrivo di tanto personaggio: non sapeva come spiegare la cosa, ma non riputando prudente tornare addietro per chiarirla, pensò che gli sarebbe bastato un’altra volta.

Isabella e Troilo tennero per alcuni istanti gli occhi drizzati verso la porta, pure aspettando di vedere comparire messere Paolo Giordano; ma poichè ebbero atteso invano, Troilo rinvenuto primo dal suo sbigottimento, domandò a Lelio: — “Ebbene, il duca..?”

E Lelio, che avvisava ormai avesse potuto mettersi in salvo il cavaliere Salviati, con aria ingenua a un punto e beffarda si volse a Isabella, e riprese a dire:

— “Il magnifico signore duca di Bracciano manda a salutare la signora duchessa, e le fa sapere che sbrigate alcune sue faccende a Roma, conta venire a starsi con esso lei verso la metà del prossimo mese di giugno....”

E fatto un profondissimo inchino, non senza sogguardare così un tal poco alla trista Troilo, si ritirò. Troilo si accôrse dell’inganno, e forte mordendosi le mani, mormorò fra i denti:

— “Sozzo cane traditore, tu me la pagherai!”


CAPITOLO QUARTO.

L’OMICIDIO.

FRANZ — Voi volete farmi morire di languore. Io morrò di disperazione nella età della speranza, e voi ne avrete la colpa.... Dio mio! io che non ho goccia di sangue che non sia vostro! io, che respiro soltanto per amarvi, e per obbedirvi in tutto....

ADELAIDE — Esci dal mio cospetto....

FRANZ — Signora!

ADELAIDE — Va, accusami dunque al tuo signore:

Goethe.Goetz di Berlichingen.

La diffidenza si era insinuata nel cuore d’Isabella come un aspide in fondo al nido: le suonavano a modo di ronzio insopportabile le immani parole di Troilo; vedeva il sospetto codardo, sentiva che anche da lui avrebbe potuto essere tradita e accusata; e fissando questo abisso d’infamia, ne risentiva una vertigine morale punto diversa dalla vertigine fisica, che sorprende il risguardante qualche dirupo delle Alpi: però non è da dirsi se studiasse ogni argomento per non trovarsi insieme con Troilo, o trovandovisi, fare in modo che qualcuno l’accompagnasse. Per altra parte, era cresciuto il bisogno di tenere il Torelli presso di sè; e la solerzia del giovane, la sua devozione, e l’assiduità dal medesimo posta a bene servirla, fecero sì che la Isabella non potè trattenersi dal guardarlo con occhio di singolare amorevolezza. Procedendo sempre, come fu suo destino, improvvida, non pensò che il fanciullo era oggimai diventato uomo, che in cotesta età le passioni mandano sottosopra l’anima a guisa di uragani; non temè, nè si accôrse dello ardore funestissimo, che infiammava il sangue di Lelio. Tranne baciarlo in fronte, siccome costumava quando era garzoncello, si compiaceva tuttavia a scompartirgli la bella chioma sopra la fronte, e percuoterlo dolcemente nelle guance, a usargli insomma ogni maniera di vezzi co’ quali le madri accarezzano i figliuoli dilettissimi; e se tutto questo fosse un mettere zolfo sopra il fuoco, lascio pensarlo a coloro, che o sentono il furore di un primo affetto, o si ricordano averlo pure una volta provato. Quasi sempre assorta nei casi imminenti, la Isabella non badava nè si accorgeva di certi moti di Lelio, che in condizione più riposata di animo avrebbe agevolmente conosciuto. Allorchè ella si recava a passeggiare in giardino, chè ormai di casa usciva più poco, le accadeva tanto spesso trovarsi come tolta fuori di sè, che per non investire o pianta, o statua, od oggetto altro qualunque, si apprendeva al braccio di Lelio, e secondo che l’agitavano gl’interni pensieri, ora più, ora meno fortemente glielo stringeva; sicchè l’anima di lei per via di coteste strette meglio che elettriche si trasfondeva nel giovane, il quale con lunghissimo sguardo come delirante la contemplava, e a larghi sorsi beveva il veleno che già gli aveva attossicato irrimediabilmente la esistenza.

La faccia del Torelli, oh quanto mutata! Ormai non poteva più conoscersi qual fosse la sua età: con le labbra accese ed aperte come uomo arso da tormentosa sete, le guance scarne, la pelle tesa sopra le ossa, tutt’occhi; spesso madido di sudore. L’acceso desiderio, che gli stava confitto come un ferro tagliente nel mezzo del cuore, aveva partorito tale e siffatto disordine nel sistema dei nervi, che la sensazione più leggera bastava per farlo tremare da capo alle piante per ispazio di tempo grandissimo; le vene gli si erano infiammate, e ad ogni moto, comecchè tenue, il petto gli anelava in guisa, che pareva gli si volesse rompere; lo travagliava un affanno continuo; la vista gli si smarriva allo improvviso in una massa di luce sparsa in miriadi di faville, o aggirantesi in circoli vorticosi; e nelle tempie sempre un martellare senza posa, e schifo di cibo, e notti insonni, o travagliate da spaventosissime fantasime. Cosiffatta miseria non poteva durare, e non durò.

Volgeva a sera il giorno più bello del mese di giugno: il sole tramontato con i suoi ultimi raggi empiva in parte lo emisfero di una luce serena di oro purissimo, e dal punto in cui cotesta luce cessava cinque raggi pure di oro si diffondevano mirabilmente in su per lo azzurro dello empireo, in modo che alla commossa fantasia rappresentavano la mano del Creatore, che si stendesse pacata a benedire la natura; le foglie trionfali degli allori, quelle acute dei mirti, le frastagliate delle quercie, e tutte insomma della famiglia multiforme degli alberi, apparivano contornate distintamente in quel campo magnifico, sicchè avresti creduto potere annoverarle; il venticello vespertino agitava le cime delle piante, le quali movendosi l’una verso l’altra parevano ricambiarsi misteriosi colloquii: e gli uccelli prima di chiudere gli occhi alla quiete, con dolcissimo coro, che la natura insegna, e sola può insegnare la natura, cantavano un inno di gloria al Signore; le acque rotte tra i sassi non sembra più che piangano, ma liete mormorino pel continuo incalzarsi che fanno; più soave spirano il profumo dagli aperti calici i fiori; con le facoltà concesse dai cieli alle cose create, il cielo, la terra e le acque instituiscono una gara a cui meglio riuscirà di manifestare la gratitudine verso il Gran Padre del mondo, e da tutte insieme nasce uno incanto, e sorge una favella, che sembrava dire, e diceva certo: siamo nate ad amare!

Isabella si era condotta sopra il verone, e qui seduta, pone il braccio su l’omero di Lelio, e sopra il braccio appoggia la faccia: gli occhi solleva al cielo, in atto che rammenta Niobe; o piuttosto una testa di Maddalena penitente, come poi seppe immaginare il nobile pensiero di Guido. Quella sembianza di preghiera, di mutuo dolore, e di pace stanca, è sovraumana a vedersi: bene l’aveva disfiorata la sventura; la febbre lenta che le consuma la vita gliela vela di mesto pallore, ma cotesta fronte comparisce pur sempre portentosa di bellezza; — bella come quella di un angiolo decaduto!

Ella guardava il cielo, e Lelio lei, dacchè nel volto di cotesta donna egli avesse riposto il suo paradiso; e così stava immobile e intento, che non pareva cosa viva; gli si empirono gli occhi di lagrime, che presero a sgorgare copiose giù per le guance, senza fare atto di angoscia, nè di altro: così talora ho veduto cadere la rugiada raccolta nel cavo degli occhi di qualche statua, e mi parve che piangesse: ma quindi in breve le lagrime cessarono, arido gli divenne lo sguardo, dilatato, e corrusco di luce sinistra; lo invase un tremore come se fosse il ribrezzo della febbre, e fors’egli era; e allo improvviso, non sapendo quello che si facesse, vinto da troppo maggiore potenza, che a lui fosse dato di superare, le gittò le braccia al collo, e la coperse di baci pel capo, pel volto, e pel seno, con una smania convulsa, con tale e siffatto delirio, che in verità metteva compassione, conciossiachè si saria detto: costui versa l’anima in quei baci.

Isabella un momento smarrita, richiama l’alterezza della dignità offesa, e forse, assai più della dignità, la principesca superbia; e tremante anch’essa, ma per altissimo sdegno, respinge energicamente il giovane paggio, e si svincola dalle braccia di lui; quindi senza far motto, con occhi orribili, s’incamminava alla stanza per cui si giungeva al verone; e Lelio, annientato, le trasse dietro come immemore del commesso misfatto. Isabella si accosta con veloci passi verso una tavola, e risolutamente stende la mano al campanello di argento; poi allo improvviso sosta, quasi che il volere e il disvolere le contendessero nella mente; già un pensiero più mite sembrava che spuntasse tra la procella della passione, comecchè l’ira durasse: così vediamo pei mari la furia del vento gareggiare con la furia dell’onda; ma placato il vento, tornata a splendere l’alma luce del sole, continuare il mugghio dei marosi minaccevoli e turbati. Dopo qualche esitanza pur vinse il primo consiglio, e scosse a più riprese il campanello. Non bastò la prima nè la seconda volta; finalmente comparve uno staffiere, al quale la duchessa ordinò: — “Venga il maggiordomo....”

E il maggiordomo, passato altro buono spazio di tempo, si recava a ricevere i comandi della duchessa. Era il maggiordomo don Inigo, gentiluomo spagnuolo, fidato e discreto come una buona lama di Toledo: non rideva mai; oltre quelle richieste dalla necessità, era un gran caso se in capo a un mese lo udivano favellare tre parole. Di forme robustissimo, torvo il ciglio, il volto di colore bilioso; — chi sa che cosa mai si volgesse in cotesta anima! Era chiuso come un sepolcro.

— “Mea Señora!” disse inchinandosi.

— “Don Inigo, Lelio nostro ci ha dimostrato desiderio di ridursi a vivere a casa con i suoi vecchi parenti; e a noi è sembrato non doverci nè poterci opporre a così onesto desiderio.... La madre sua, poveretta! chi sa con quanti voti lo richiama, e mi parrebbe crudeltà differirle più oltre questa consolazione. Riveda il figliuol suo cresciuto in ogni maniera di studii che a valente gentiluomo si addicono; lo riveda virtuoso e dabbene.... e soprattutto innocente, — e sia l’orgoglio della sua vita. Don Inigo, voi accompagnerete Lelio sino a Fermo, e direte ai suoi parenti, che Lelio ci faceva sempre buona ed onesta guardia, che ci sarà sempre ricordanza amorevole come di figlio; che in ogni cosa dove possano avvantaggiarlo le mie facoltà, si valgano di me non altrimenti che se io fossi di loro; in ispecie poi alla madre assicurate che i costumi pravi su di lui non poterono punto, che io non ebbi a dolermi in nulla del giovine, tranne certe fanciullaggini, ardimentose troppo, ma che col tempo si perdonano, appunto perchè fanciullaggini; nonostante, confortarla io a scegliergli presto tra le fanciulle di Fermo chi per venustà di persona, per soavità di modi, e corrispondenza di affetti possa ridurre in pace uno spirito di soverchio ardente, un cuore che non è senza qualche procella. Inigo, condurrete il suo giannetto bianco con tutti gli arnesi di velluto cremisino, vesti, masserizie, insomma ogni cosa, sicchè non rimanga presso di noi pure una piuma di lui, che la intendiamo donata, e doniamo. Dalla guardaroba del duca nostro marito scerrete una collana e un medaglione da appuntarsi alla berretta, e glieli porrete nella valigia; vi porrete ancora cento ruspi di oro, e il certificato amplissimo dei suoi onorati servigi, che voi firmerete e munirete del nostro sigillo ducale. Se il caso facesse che il giovane si trovasse male disposto, prendete una delle nostre carrozze, e a nome nostro chiedete le pulledre della posta, che ve le daranno, e partite ad ogni modo. Domani il sole non deve vedervi a Firenze. Addio.”

E qui, alzata la destra, faceva il cenno col quale l’orgoglio dichiara alla umiltà che gli si tolga davanti. Ma poi, premurosa di temperare la durezza dell’atto, aggiungeva:

— “Andate, Lelio, andate; noi formeremo sempre mai voti per la vostra felicità, e ci torneranno accettissime sempre le nuove del vostro buono essere.”

Don Inigo non sapeva darsi pace intorno alle tante parole spese per tale negozio, a cui gli sembrava bastante la parola — andate, — se togli quanto concerneva il giannetto, i ruspi, la collana, e simili; ma prima di essere carico di tutti quei discorsi, aveva seco stesso deliberato lasciarli a casa, o farne getto per la via. Lelio con volto dimesso, composta ad arco la persona, quasi rotto per la immensità dello affanno che l’opprimeva, si allontanò seguendo il maggiordomo, più che altro somiglievole al condannato dietro al carnefice che lo mena a guastare.

Isabella lo guardò fisso; stette ancora a guardare lungamente la porta dond’era scomparso, poi dandosi forte della palma nella fronte esclamò:

— “Ahi! sciagurata femmina! quanti infelici per te....”

Isabella non mosse piede fuori della stanza, ch’era la sua maritale. Questa stanza compariva spartita in due sezioni: la prima, che faceva capo a tre finestre sopra il verone, spaziosissima, tappezzata di damasco operato ad armi dei Medici e degli Orsini, di colore verde: intorno alla camera, a certe distanze ricorrevano dei medaglioni di bassorilievo in marmo rappresentanti varii ritratti di famiglia dentro grosse cornici dorate: due porte l’una contro l’altra al termine della stanza andavano distinte per larghi pilastri di porto-venere; e sopra le porte un cornicione con due corridietro, od orecchioni, come dicono in arte, in mezzo ai quali un busto composto di marmi di qualità diverse, bianco la testa, il rimanente broccatello; e sotto, la portiera con due cortine a frange di oro: nei canti due ampissimi vasi chinesi, o piuttosto giapponesi, turchini, con mascheroncini, maniglie, ed altri ornamenti di argento dorato condotti con sottile magistero; appoggiati alle pareti due stipi di ebano intarsiati di madreperla, maraviglia a vedersi, e seggioloni, e sgabelli di ebano ricoperti di damasco pur verde; in mezzo, una tavola di ebano e di argento, del medesimo lavoro degli stipi. Questa prima sezione terminava in un arco di cui l’estremità posavano sopra una cornice assai sporgente sostenuta da colonne, la base e il capitello delle quali erano di bronzo dorato di ordine corintio, ma il fusto a spirale di porto-venere ricinto nel cavo della spirale da un ramo di foglie di mirto in bronzo dorato; il vano dell’arco coperto da tende di damasco. Oltre l’arco era il letto, immenso di mole, e carico piuttosto che ornato d’intagli, di amorini, di fogliami, e frutta, e piume, da mettere sospetto in chiunque avesse dovuto giacervi sotto: quali e quante fossero suppellittili, arnesi, e masserizie là dentro, troppo riuscirebbe lungo a descrivere; basti all’uopo nostro conoscere che a canto al letto si vedeva una tavola del Crocifisso con la Madonna da un lato, e San Giovanni dall’altro, che posava sopra un zoccolo alto un braccio circa dal solaio: questa tavola mercè d’ingegni volgeva sopra mastietti incastrati nel muro, e lasciava l’adito ad una porta segreta, la quale mediante certa scala a chiocciola conduceva nelle stanze terrene meno frequentate dalla gente.

Le ombre avevano occupato il cielo da lunga ora quando a Isabella parve tempo convenevole a chiamare le sue cameriste, le quali ebbero ordine di accendere una lampada, metterla sopra la tavola, e andarsi con Dio. Avendo esse domandato se desiderasse che le dessero mano a spogliare le vesti, rispose breve: — che farebbe da sé; — ed avendole accomiatate di nuovo, andò alle porte, e tirò le stanghette, per cui nessuno, mal suo grado, avrebbe potuto penetrare là dentro.

In balía dei suoi pensieri, si pose a percorrere in tutti i lati la stanza con passi ora lenti, ora concitati; un momento si fermò a contemplare la lampada. Di lavoro singolare, rammentava questo arnese uomini e cose di cui appena giunse a noi fama incertissima: era di bronzo, e presentava di faccia una testa di elefante con la proboscide rivolta in su, donde usciva il lucignolo; di profilo, un cigno di cui il collo ritorto sopra il petto componeva il manico; di pianta, ti offriva la testa di Medusa con la bocca atteggiata a disperato dolore, e per questo pertugio versavano l’olio; di sotto poi, un altro mascherone, col quale componevano uno insieme ingegnoso le altre parti della lampada. Isabella, nel guardarla fisso come faceva, pensava meno alle rovine dei popoli che alla madre sua, la quale gliela aveva donata insieme a molte altre antichità etrusche trovate negli scavi fatti a Castiglione della Pescaia. Certo, Eleonora di Toledo fu donna aspra di modi, di spiriti alteri, e poco per natura disposta al perdono; nonostante, le sue viscere di madre si sarebbero commosse, ed avrebbe sovvenuto alla figlia deserta, che adesso per la partenza di Lelio rimaneva affatto priva di un’anima in cui confidare. Isabella si affaticava a imprimere séguito ai suoi pensieri per condurli a sciogliere le imminenti difficoltà, ma i pensieri a modo di cavalli sfrenati, vinta la mano alla ragione, divagavano ora qua ora là, in mille andirivieni, secondo che o il sangue o gli affetti scotevano il suo cervello; si stancava per cercare, ma lo intelletto gli si sprolungava infinito davanti, sterile di trovati, come un deserto dell’Affrica si presenta alla caravana privo di qualunque pianta e di asilo. Stanca di cotesto stato, si mosse finalmente verso la sezione della stanza ov’era il letto; alzò la tenda dell’arco, e passata oltre lasciò di nuovo caderla. Il letto compariva sopra modo lindo, con lenzuoli bianchissimi di tela di Olanda, ornati di trine di Malines, e coperta bambagina ricamata con sottile lavoro: le accorte cameriste vi avevano sparso sopra rose fresche e fiori di arancio, sicchè poco più si sarebbe accomodato un letto da sposi. Isabella prese un lembo del lenzuolo, e lo piegò traverso al letto, come usa fare chiunque intende giacersi; ma scoperto che l’ebbe, non andò oltre in cotesto suo disegno, e si rimase immota accanto a quello.

— “Ecco!” dopo un lungo guardarlo ella diceva, “questo letto maritale apparisce lindo e odoroso come la prima notte delle mie nozze: è bianco, è polito quanto l’ala del cigno; eppure qual miserabile giaciglio di popolo davanti a Dio non è meno contaminato di questo? Sopra il capezzale stanno due chiodi, che, o a destra io mi volga o a sinistra, mi si conficcano dentro le tempie, — l’adulterio e l’omicidio; perchè questi due pensieri nascono gemelli, ed io lo so. Qui a capo del letto un demonio, contro cui acqua santa non giova, agita l’ale, e scuote sul dormente sonno di febbre, e fantasime di paura.... — Eppure qui ebbi un giorno quiete di paradiso: qui fui salutata con la dignità di madre; qui adagiandomi pensai che se il sonno si fosse prolungato eterno, la mia anima poteva sperare di essere accolta come ospite nelle sedi celesti. — Ricordo il momento in cui Giordano tolta dall’altare qui mi condusse, ed accennatomi il letto mi disse: — «Sposa mia, io ti consegno questo letto, e con esso il mio onore, e la buona rinomanza della famiglia. Io, sovente impiegato in lontane ambascerie, o nella milizia, non potrò starti sempre al fianco per consigliarti e sovvenirti: assumi per tempo virile animo, e impara a guardarti da te stessa: sappi che niuna cosa è tanto necessaria a te, e accetta a Dio, e a me grata, e onorata ai figliuoli che hanno a nascere da noi, quanto la tua onestà; imperocchè l’onestà della donna è una corona di gloria sul capo al marito; l’onestà della madre fa la massima parte della dote alle figliuole, chè i costumati giovani domandano sempre, e con buona ragione, donde nasca la fanciulla che intendono togliere a moglie; la onestà in ogni femmina assai più pregiasi della bellezza; anzi, senza onestà e senza verecondia, o non è bellezza o presto trapassa. Lodasi il viso bello, ma gli occhi disonesti lo fanno lordo di biasimo e di vergogna, pallido di dolore e di tristizia di animo. Piace una bella persona, una speciosa femmina; ma un cenno disonesto, un disonesto atto d’incontinenza subito la rende vile e brutta. La disonestà dispiace a Dio, e di niuna cosa si trova essere Iddio tanto severo punitore nelle donne quanto della loro poca onestà; rendele infami, contennende, e male per tutta la vita soddisfatte. E pertanto, donna mia, se tu vuoi fuggire ogni apparenza di disonestà, dimóstrati a tutti onesta, non fare dispiacere a Dio, a te stessa, a me, ai comuni figliuoli, e ne avrai lode, e grazia da tutti.»34 — Se qui davanti mi comparisse adesso Giordano, e mi domandasse: Come hai conservato i miei ricordi? Come i tuoi giuramenti mantenesti? — Non parlerebbe il mio rossore per me? Queste pareti, questi ornati; e soprattutto queste immagini di santi non griderebbero ad una voce: noi siamo polluti! noi siamo polluti! Potrei, o dovrei io, postergata ogni pudicizia, domandargli a mia posta: e voi come avete conservato i vostri? — La colpa altrui, se toglie il diritto di accusare, non iscusa per questo la tua colpa; e poi, quando la donna si abbandona in braccia diverse che quelle del suo marito non sono, sempre le viene in odio il marito, non cura i figli, la famiglia distrugge; la qual cosa nel marito rispetto alla moglie non sempre vediamo apparire. Aggiungi, che i figli adulteri stanno in casa monumento perpetuo di vergogna; non possono, o mal possono cacciarsi per legge, ma dal cuore si cacciano per odio, fanno nascere la voglia di spengerli, o si sopportano come nemici, perseguitati dagli altri, che come ladri della loro sostanza li considerano, percossi, avviliti, così che l’anima affannosa della madre non sa bene se deva desiderare che vivano in tanto miserabile vita, o se piuttosto si muoiano; e ciò nei trascorsi degli uomini fuori di casa difficilmente avviene, o non mai. Ecco la moglie infedele guasta l’anima di tutti: già sono sparsi i semi dell’odio; la colpa ha seminato il delitto, e la pena lo mieterà. Oh! fossi morta prima di perdere la mia innocenza! o piuttosto non fossi io nata! Isabella, sei sola; lascia l’alterezza del sangue, abbandona il contegno che t’impone alla vista delle genti la tua nascita reale; e siccome ai miseri convengono lo squallore e le lagrime, piangi ora, che puoi, la tua fama perduta, la tua innocenza, la tua salute, i tuoi figli, e la tua famiglia; piangi dirotta, chè forse questa facoltà, che ti senti di piangere, è il primo segno che la misericordia di Dio ti manda a farti palese che la sua collera si mitiga verso di te....”

E piangendo forte si lasciò andare boccone sul letto, movendo il più doloroso lamento che mai femmina facesse in questo mondo. Così lunga pezza si giacque, quando le parve udire, ed udì certo un rumore di passi nella parte antecedente della stanza. Si alzò ratta, e levata la tenda dell’arco, ella vide comparirle davanti, non senza maraviglia e paura, Lelio Torelli. Quantunque un funesto presentimento tutta la sconvolgesse, pure, resa animosa dalla urgenza del pericolo, ella si trasse innanzi, e domandò:

— “A che venite voi? Che cosa cercate?”

— “Io vengo a domandarvi il mio cuore, che avete spezzato, la mia vita, che avete spenta, la mia anima, che voi avete perduta....”

— “Ah! Lelio, abbiate pietà di me, non vogliate crescere la mia sventura, già tanto per sè stessa insopportabile....”

— “L’avete voi sentita per me? Voi mi avete rotto come un fiore, che spensierata troncate dal gambo giù nella spalliera del giardino, e odorato appena gettate lontano da voi. Ma l’anima di un cristiano si getta via come una rosa vizza? si calpesta egli un cuore, che non ha sangue se non per voi, a modo di una pietra? No, no, la vostra ferocia ha suscitato la mia; ed io vengo....”

— “E a che vieni, forsennato?”

— “Io vengo a chiedervi amore, e a mantenermi la promessa antica: io vengo a pretendere la mercede dei patimenti sofferti....”

— “Tu vaneggi, figliuolo mio! Di quale promessa mai parli? Chi ti ha persuaso a soffrire?....”

— “E i baci, e i sorrisi, e le dolci parole, e lo stringere delle mani, e gli sguardi pietosi.... li avete voi dimenticati? Non io ho potuto obliarli; eglino accesero nel mio seno questa fiamma che mi divora. Che è la parola? Quale vi fa mestiero di favella? Il labbro è la più inerte di tutte le parti del corpo a manifestare l’amore; egli dice una cosa sola, ma gli occhi, ma il volto, svelano mille affetti in un punto: e voi con tutte queste lusinghe mi avete promesso. Come! voi, donna di così alto senno, avete potuto credere che la mia povera anima valesse a resistere a tanto? Abbiate voi pietà di me! A voi sta sentire compassione di una miseria, che pure è colpa vostra. Isabella, per Dio, un po’ di amore, una goccia di amore a questo disperato....”

— “Lo pensi tu, Lelio! O non vedi ch’io ti posso essere madre...?”

— “Che importa a me cotesto? La vostra faccia è bella. Quando mai l’uomo amò col calendario alla mano? Che monta il tempo? Tutta la vita è un baleno. Chi sa se il cielo domani coprirà la terra! Almanco questo baleno, questo soffio fugace sia consolato di un poco di amore.... Non me lo sono io forse meritato?”

— “Lelio, ma non sai, ma non vedi che io sono donna altrui?...”

— “Vi trattenne questo forse di darvi altrui? Perchè farete impedimento a me di quello che per altro non vi trattenne? Sarete avara meco di uno affetto, del quale faceste così larga copia ad uomo che ne fu sempre indegno...?”

— “Odimi, Lelio.... Io, vedi, non mi sdegnerò teco; ma se tanto non basta, pensa alla mia eterna salute....”

— “E se io mi darò la morte con queste mani; se io per voi andrò dannato; pensate voi che possa salvarsi l’anima vostra che fu cagione si perdesse la mia?”

— “Errai; e della mia colpa ne porto le pene, e non sono le meno amare quelle che adesso mi dai. Tu mi vedi avvilita davanti a te. Dov’è l’orgoglio del sangue? Ecco, io sono una peccatrice contrita ai piè del suo servo. Lasciami la virtù del pentimento. L’anima nostra può tornare mercè la penitenza così candida come la rese il battesimo....”

— “Vi pentirete poi; — ma adesso amatemi.”

— “Io non posso amarvi....”

— “Ebbene, lasciatemi amare....”

— “Quali parole invereconde? Quali improntitudini sono queste? Partite, o io chiamerò la mia gente....”

— “Guarda bene da pure tentarlo, Isabella! Io sono deliberato di uccidermi, e di uccidere....”

— “Madre di Dio! Lelio, abbi pietà di tua madre: torna alla madre tua, che ti aspetta....”

— “Mia madre! Sì, tu, donna crudele, senti pietà della madre mia! — le hai tolto un figlio, e le rendi un cadavere. Io non so più di madre, nè di padre, nè di me stesso; tu sola sei la mia vita, tu il sangue mio. Isabella, mercè di Lelio; io sto nelle tue mani. Vuoi tu ch’io sia uno eroe? lo sarò; uno assassino? lo sarò. Desideri ch’io mi precipiti giù dal verone ove mi sono arrampicato a gran pena per venire da te? ti giuro che lo farò; ma inebriami una volta del tuo amore; dimmi che mi ami; un sorso.... un sorso solo a queste aride labbra....”

— “O vendetta di Dio, come grave mi percuoti! Mi si spezza il cuore di affanno....”

— “Senti se io merito da te un benigno risguardo. Quando ti vidi presa per Troilo, io ti amava, e tacqui. Non basta: per non ti contristare, io non ti dissi in quanto basso luogo tu ponevi il tuo affetto, nè come lo indegno in altri volgari amori si mescolasse; io per tuo amore ricopersi agli occhi delle genti le sue iattanze; io non meno mi affaticai a velare le tue stesse incautezze: a me si deve se la fama dei vostri amori non giunse agli orecchi del duca; io vi circondai di mistero; giorno e notte vegliai intorno a voi. Quando Troilo in punta di piedi pel buio della notte veniva alla tua stanza, io gli tenevo dietro con taciti passi.... poteva ucciderlo a mano salva, e Dio sa se spesso me ne prese la tentazione; eppure nol feci, pensando allo affanno che ne avresti sentito. Però lo accompagnai, lo guardai; atterrii i famigli con la novella di uno spettro notturno, perchè non ardissero vagare per le stanze prima di giorno; e mi posi a vigilare fuori della porta, insonnia non curando nè freddo, per salvarvi dalla sorpresa, alla quale voi nella imprevidenza vostra tanto poco pensavate.... Immagina tu qual cuore fosse il mio quando sentiva dopo lunga ora i teneri commiati, i dolci baci, e la promessa di rivedervi la notte appresso! E tutto questo feci, e tutto questo penai, per amore tuo, e sempre avrei sofferto in silenzio, se tu lo amassi ancora: ma adesso tu lo conosci; sai esserti nemico, di lui hai da temere più che di qualunque altro, e temi; e quindi te adesso supplico ad amarmi, ad accettarmi, qual più mi vuoi, difensore, servo.... e tutto insomma, tutto... purchè tuo....”

— “Lelio, figliuol mio, cálmati: io, sebbene con mio sommo rossore, comprendo la immensità del tuo affetto; freddo cenere ed ossa, io serberò memoria di te; tu amasti più che ad uomo è concesso di amare: ma ascolta la preghiera di una caduta in fondo ad un abisso di miseria: ascoltala come se movesse da tua madre; abbi pietà di me; esaudisci la supplica che ti manda dalle profonde viscere una moribonda, chè ormai sento non potere più vivere, ed anche potendo non vorrei. Un giorno ti compiacerai di avermi usata misericordia; al capezzale del letto, dove lo sguardo della mente rivede la trascorsa vita, e l’anima anela nel dubbio, se da cotesta indagine le verrà speranza di salvazione, l’opera santa che mi farai adesso ti precederà come la nuvola del popolo ebreo a sgombrarti la via del paradiso. Il tempo ti sanerà questa piaga: forse Dio tenta ora la tua virtù per vedere se ne uscirai vittorioso, e già ti apparecchia guiderdone condegno dei meriti; gli angioli stessi in questo momento ti guardano. Non essere da meno di quello che di te si ripromette il paradiso. A te buona e casta consorte, a te onorati figli in questa vita; e a te fama duratura, e gloria immortale dopo la morte....”

— “Sirena! incantatrice! maliarda! Chi è che ti negherebbe il vanto d’immaginare cose vane, e di cantarle allo improvviso? Va, il tuo cuore è più bronzo di questa lampada. Ora, che temi di essere venuta in forza altrui, favelli lusinghiera e fallace; dianzi, al cospetto d’Inigo, minacciavi e schernivi; nè so bene se adesso tu sii più abietta, di quello che dianzi tu fossi insolente. Dianzi mi dileggiavi come un fanciullo; come presuntuoso mi riprendevi, quasi tu avessi derivata la tua origine da altri che da Adamo; nulla che mi appartenesse consentivi a tenerti dintorno; volevi cancellarmi dalla tua memoria, e, se onestamente il potevi, anche dalla vita; per istrazio maggiore, la collana del tuo marito mi gettavi intorno al collo, come la corda del condannato; e un pugno di monete per sanare le ferite grondanti sangue del cuore desolato. — Eh! taccia una volta l’amore, che accolsi per così vile, così bassa, così feroce creatura. Lo esempio dell’altrui crudeltà mi faccia crudele. A che mi tengo io più? Perchè non corro a manifestare la tua infamia a Paolo Giordano? Perchè non godo almeno vederti precipitare nel sepolcro con morte disonorata, e di sangue?”

— “Va, accusami....”

— “No, non andrò ad accusarti; io ti segherò le vene....”

— “Uccidimi....”

— “Accusarti! ucciderti! E che mi giova cotesto? Ah! no, Isabella, il tuo amore, dammi il tuo amore....”

— “Indietro...!”

— “È impossibile! è impossibile! Bisogna che tu sia mia.... un momento.... poi venga la morte.... e lo inferno....”

E tale dicendo, si avventa ad Isabella per ghermirla: ella indietreggia, egli incalza. Isabella, palpitante, non vedeva aperta nessuna via allo scampo: voleva di nuovo raccomandarsi a Dio, ma dubitava che come indegna non la volesse esaudire; si teneva spacciata. — Allo improvviso di sopra la spalla della duchessa comparisce una lama lunga e forbita; si spinge innanzi ratta come il fulmine, e con immane ferita apre il seno di Lelio, e lo trapassa fuor via da un lato all’altro. Il ferito dà indietro un passo, agitando le mani levate come uomo che stia presso a naufragare, ma non può profferire parola intera; solo alcuni suoni indistinti, ed anche pochi; il sangue traboccando ribollente e fumante con uno spruzzo cuopre la lampada, e spenge il lume: nel buio fu sentita la tavola andare rovesciata sottosopra a cagione dell’urto col quale il Torelli l’aveva investita, e il trabalzare, e il cadere, e il rotolare dell’infelice trafitto.

Isabella proruppe in un grido così pieno di angoscia disperata, da disgradarne quello che avrebbe gittato Lelio, se il cuore fesso orribilmente in due parti non gli avesse troncata a un punto la favella e la vita; e quindi ella pure stramazzò sul pavimento, per modo che parve essere lo spirito anco da lei dipartito.

Isabella stette lungamente immemore di sè; poi quando, comunque tuttavia in mezzo al letargo, l’anima fu tornata agli ufficii consueti della vita, la percosse una voce, ed era voce di femmina, e di femmina piangente, che diceva: — Rendimi il mio figliuolo; — e poichè ella non poteva rispondere, chè la lingua le stava fitta nel palato, dopo alcuna dimora sentiva aggiungere: — Sii maledetta! Il sangue di colei che fece versare sangue, sarà versato! — Poi le appariva Lelio davanti, senza sguardo, per occhiaia spaventevole, sconcio tutto nella faccia di enchimosi, co’ capelli sozzi di sangue e di polvere; e si poneva lì dritto davanti a lei, ma non faceva parola: ben si vedeva come si affaticasse a muovere le labbra per cavarne una voce articolata, ma riuscendogli con grande stento a trarne appena un singulto, raccoglieva nel cavo della destra il sangue atro, grondante giù dalla ferita, e glielo gittava nel volto, in atto di maledizione! Qui Isabella svegliatasi, balza a sedere, e non osa schiudere gli occhi; pure alla fine, mossa da coraggio o da paura, si sforza di aprirli, e li apre. Ch’è questo? Ella si trova adagiata nel proprio letto: la tavola era in mezzo della stanza, e la lampada di bronzo ardeva, comecchè di pallida luce. Precipita dal letto; prende la lampada, vi fissa sopra ansiosamente lo sguardo, e non vede traccia di sangue in veruno dei tanti incavi co’ quali era lavorata, nè tampoco traccia che fosse stata ripulita e rasciutta, e neppure le sembra che vi abbiano rinnuovato l’olio. Con la lampada in mano, sebbene esitante, si accosta allo specchio per vedere se avesse il volto macchiato di sangue, e lo contempla come per l’ordinario polito: guarda la tavola, guarda il pavimento, e riscontra tutto terso più che mai fosse, e asciutto bene. Non sa che cosa pensare: ondeggia in tempesta grandissima di pensieri, e tra sè dice: — Per certo io ho sognato; — e siccome noi siamo inchinevoli sempre a credere massimamente quello che a noi piace e giova, così Isabella a forza di dire a sè stessa: — E’ fu un sogno; un mal sogno in verità! a questa ora chi sa quante miglia si trova lontano da noi il povero Lelio! — aveva quasi persuaso la sua mente a dubitare dell’atrocissimo caso.

Schiuse i balconi, e conobbe dall’alba nascente approssimarsi l'Ave Maria; e indi a breve tempo la campana della cappella venne a confermarla in cotesto pensiero; e poichè la campana, cessata l'Ave Maria, continuò a sonare a messa, divisò andarsene a pregare Dio e i Santi, affinchè di un po’ di refrigerio fossero misericordiosi a lei povera donna, colpevole, è vero, ma tanto a un punto senza fine infelice. I miseri sentono necessità dell’altare. — Si compose di propria mano la chioma, vestì una veste negletta di colore scuro, e sola si avviò alla vicina cappella.

Una volta correva il costume seppellire in chiesa; però vediamo i pavimenti coperti di lapide, e in mezzo alle lapide un chiusino rotondo, bene spesso fermato mediante grappe di bronzo. Sopra le lapide occorrono armi gentilizie di bassorilievo, offesa di piedi, e le immagini dei defunti con le mani incrociate sul ventre, involte in larghissime cappe in atto di dormire, ed iscrizioni che ricordano le virtù del morto, ma più assai delle virtù del morto la pietà o la superbia dei vivi.

Sopra una di queste lapide, e precisamente al punto dove si apre il chiusino, venne a posarsi Isabella, e quivi in piedi e immobile stette ad assistere al sagrifizio divino fino al punto in cui il sacerdote mormora i detti arcani, che hanno virtù di fare scendere in terra il Dio del cielo: allora seguendo lo esempio altrui, e molto più il proprio impulso, si lasciò cadere sopra le ginocchia, prostrandosi in atto di reverente umiltà; ma la terra le vacillò sotto allo improvviso, e il ribrezzo di precipitare dentro la sepoltura valse a farle stendere le braccia intorno a sè per sostenersi a qualche persona, o cosa. Ella incontrò un braccio, e forte a quello si strinse: assicuratasi alquanto, guatò in quel buio, e riconobbe Troilo nel suo soccorritore, per lo che disse sommessamente:

— “Ahimè! sotto i nostri piedi sacrileghi Dio fa tremare la terra....”

— “Non è niente! Il chiusino della lapida fu smosso stanotte! A vedere, la calcina non ha anche fatto presa....”

Isabella si cacciò le mani nei capelli, e mordendosi acerbamente le labbra giunse a non prorompere in grida. — Fatta vesana, fuggì a precipizio di chiesa: le ombre tuttavia spesse nella cappella non concedendo che troppa gente avvertisse a cotesto atto, impedirono lo scandalo.

È fama ancora, che a cagione di cotesta avventura gran parte dei capelli alla Isabella diventassero bianchi; la quale cosa se nelle cronache non trovo riscontro da confermare, nemmeno mi occorre per negare, non essendo nuovo d’altronde, che questo avvenisse per cause molto meno terribili.

Infatti, quando lessero a Maria Antonietta regina di Francia la sentenza di morte, quindi in breve i capelli le diventarono bianchi; e questo fu maggiore motivo.35 Ludovico Sforza il Moro venuto in potestà di Luigi XII, pensando alle gravi offese fatte a quel re, nel corso di una notte sola incanutiva;36 e il signore d’Andelot tenendo la faccia appoggiata alla mano quando gli portarono la notizia del supplizio del suo fratello ordinato dal duca di Alva come complice dei conti di Egmont e di Ornes, tutta quella parte della barba e del sopracciglio compressa dalla mano mutò colore, e parve vi fosse caduta sopra farina; e questi forse appaiono motivi uguali.37 Finalmente il Guarino, vista ch’ebbe sommersa una delle due casse di manoscritti greci, che, raccolti a gran pena, da Costantinopoli trasportava in Italia, ne prese tale sconforto, che i capelli di neri subito gli si mutarono in bianco;38 e questo fu motivo molto minore. — Ma diverse sono le anime, e diversamente toccano le menti le cose mortali.39 La bilancia trabocca così per un grano come per una libbra, e molte volte taglia più e meglio una, che le cinque spade.40


CAPITOLO QUINTO.

PASQUINO.

DON LOPEZ
 
Valgame el cielo! que es esto
Por que passare mis sentidos?
Alma, que aveis eschuchado?
Ojos, que es que aveis visto?
Tan publica es aja mi aprenta
Que ha Uegado a los oidos
Del Rey, que mucho si es fuerza
Ser los posteros los mios?
Ay hombre mas infelice!
 
Calderon de la Barca.
A secreto agravio secreta venganza.

Ernando, o Ferdinando dei Medici, fu principe prestantissimo, e di animo valoroso: quarto figlio di Cosimo, nacque lontano dal trono, e dalle sue speranze. Qual destino a lui fosse riserbato ignorava, ma per certo non chiaro come alla sua vasta ambizione conveniva, imperciocchè Francesco avesse a succedere al padre nel principato, Giovanni vestisse la porpora cardinalizia, e Garzia fosse preposto all’ammiragliato. E questo pensiero lo faceva stare di pessima voglia, e lo rodeva per modo, che ne cadde infermo di languore. Quando poi avvenne il caso del cardinale Giovanni e di don Garzia, il padre Cosimo, solertissimo nel provvedere allo stabilimento della famiglia, instò presso la corte di Roma, ed ottenne che il cappello di Giovanni sopra il capo di Ferdinando si trasferisse. Giaceva infermo nel letto Ferdinando, allorchè con solenne cerimonia gli presentarono il cappello rosso, e tanto potè in cotesto giovane cuore di quattordici anni la contentezza della cupidigia soddisfatta, che da quel momento prese a migliorare, e ben presto tornò nello stato primitivo di salute.41 Mandato a Roma con le paterne istruzioni, e assistito da uomini versati nel maneggio degli affari, non solo mantenne, ma gli riuscì ancora di ampliare presso cotesta corte l’autorità della sua casa, che pure era grandissima. E di vero, le storie raccontano come Pasquino pubblicasse alcune volte cartelli, dove si leggeva scritto: Cosmus Medices pontifex maximus.42 Oltre la destrezza suprema di Cosimo, gli valse non poco, siccome in tutte le cose, la buona fortuna; però che Giovanni Angiolo dei Medici promosso papa, sebbene non fosse di famiglia congiunta con quella dei Medici di Firenze, pure compiacendo ad una sua vanità volle farlo credere: onde in simile concetto non è da dirsi come largheggiasse in favori verso la famiglia di Cosimo, eleggendo cardinale Giovanni, cedendogli il suo proprio cappello, donandogli la sua casa e il suo giardino, promettendogli tenerlo in luogo di figlio; e tanto s’infervorò in questo concetto, da lasciarsi andare al punto di scrivere a Cosimo: «Le cose sue le abbiamo per nostre, e le nostre vogliamo che sieno sue; e l’uno averà sempre a servirsi e aiutarsi dell’altro, e sarà sempre tra noi un cuore e un’anima medesima.»43

Ferdinando questo ascendente ampliava in parte per la sagacia e buona fortuna paterna, in parte con la protezione splendida largita alle arti e alle lettere, comunque cadute in etisia, e in parte all’animosa prontezza di cui fece prova nelle occasioni difficili. Intorno al quale proposito nelle memorie manoscritte occorre un caso notabile, che non mi sembra di trapassare sotto silenzio, ed è questo. Il cardinale Ferdinando, recatosi certo giorno a complire papa Pio V, nell’atto d’incurvarglisi davanti lasciò vedere una forte corazza di ferro, che portava sotto la veste rossa. Il papa, accortosi della corazza, così piacevolmente gli favellò: — «Riccardo Plantageneto, sostenendo la guerra contro i suoi baroni, ridusse in cattività un vescovo, che armato di piastra e di maglia gli aveva proceduto contra sopra tutti i suoi avversarii infestissimo. Il Papa interponendosi pregò Riccardo a rendere la libertà a cotesto suo figlio, e il Plantageneto mandò al Papa la corazza del vescovo, col motto proferito dai figli di Giacobbe quando gli mostrarono la veste polimita di Giuseppe: — guarda, e vedi se questa è la vesta del tuo figliuolo Giuseppe! — Cardinale dei Medici, quale vesta è mai quella che portate sotto il manto cardinalizio?» — E Ferdinando dandosi forte di un pugno nel petto, e facendo risuonare l’armatura, rispose alteramente: — “Beatissimo Padre, questa è la veste che conviene a un gran principe.”

Ma più che di queste cose, assai vuolsi lodare il cardinale per la costanza maravigliosa con la quale, nonostante le amarezze infinite di cui lo contristava il fratello Francesco, egli attese sempre a procacciare il bene della propria famiglia: e sì che Francesco gli porgeva quotidiani e gravissimi argomenti per alienarselo, sia negandogli con avaro consiglio danaro anticipato sopra le sue pensioni, di cui a cagione della soverchia liberalità sovente era scarso, sia sprofondandosi ogni giorno più negli amori dell’avventuriera veneziana. E quando conobbe arrivato al colmo il mal contento dei popoli per lo insano procedere di Francesco, a cui non repugnò, accompagnando l’esequie della moglie Giovanna, cavarsi la berretta civile, e salutare la Bianca, che stava a vedere da un balcone di casa Conti,44 e fredde appena le ceneri della donna reale condurre in segreto matrimonio in isposa la femmina che le aveva abbreviato certamente la vita, si recò a Roma, attendendo quivi a vigilare sopra la prosperità e il decoro della casa.

Quando poi volle il destino che toccasse a lui il trono di Toscana, allontanò i consiglieri pessimi del fratello, e attese davvero a felicitare con tutte le forze i popoli soggetti. Non incontriamo fra noi comodo pubblico, instituto di salute, o fondazione caritatevole, dove il nome di Ferdinando non vi si trovi unito, sia come inventore, o come promotore: ma poichè riesce molto più agevole creare una città che una cittadinanza, così non potè rilevare lo spirito decaduto dei suoi popoli, e forse non lo volle; oppure era un fine a conseguirsi impossibile nella condizione di principe in cui egli era, e che non voleva e non poteva abbandonare. Tentò almeno di sottrarre la Italia alla servitù spagnuola, e scrisse animoso ai diversi Stati italiani, affinchè, deposta ogni miserabile gara, si unissero a lui per rivendicarsi in libertà; ma non gli venne fatto nè anche questo, atteso lo avvilimento in cui erano caduti: e forse ogni tentativo sarebbe riuscito invano; conciossiachè si dieno pei popoli, come per gl’individui, certi momenti di agonia nei quali nè il moto giova, nè la quiete; e mentre la seconda non impedisce la morte, il primo l’affretta. Vero è però, — chè come mi parve una volta, adesso ugualmente mi sembra, — che nè un Dio, nè un popolo, possano stare a lungo composti dentro al sepolcro; Cristo vi rimase tre giorni, ma le giornate dei popoli si compongono per avventura di secoli. E i principi italiani ai tempi di Ferdinando consentivano vivere, agire, e respirare a beneplacito della Spagna, a lei tendevano supplichevoli le mani, dal ciglio e dal labbro di lei pendevano. Dio mio, quanto erano mai miserabile cosa cotesti principi, che a modo del mendico limosinante il soldo accattavano il diritto di fare del male per conto altrui, di tosare, secondo il detto di uno ingegno argutissimo, di seconda mano! Come non apparivano contennendi, e dirò quasi fattori col diritto di vita e di morte? anzi pure guardiani di negri opranti allo zucchero, col nerbo in mano. — Ma di ciò basti: e a Ferdinando non venne neanche dato di aggiungere il suo nobile scopo contraendo amicizia con la Francia: dacchè Enrico IV non volle procedere punto diverso dalla natura dei Francesi, che «richiesti di un benefizio, pensano prima che utile ne hanno a trarre, che se possono servire; e quando non ti possono far bene, tel promettono; quando te ne possono fare, lo fanno con difficoltà, o non mai;45 natura appetitosa del bene altrui, e che lo ruberìa col fiato.»46 E quello che riesce a considerarsi mirabile si è, che i Francesi, mutabilissimi in tutto, abbiano poi dimostrato singolare costanza a persistere in cotesto loro costume, di cui anche Giulio Cesare porge testimonio nelle sue storie. Maria dei Medici, figlia di Francesco, a prezzo di tanto tesoro, e mercè tante sollecitudini da Ferdinando maritata ad Enrico IV; cotesta Maria, che doveva continuare i legami di amicizia e di sangue tra Medici e Francia incominciati con le nozze di Caterina, bandita di Francia, reietta dalla casa e dalla vista del figlio, strema di tutto, periva miseramente a Colonia, e le faceva l’esequie la pietà del pittore Rubens. Vedi umano giudicio, come in balía della fortuna, che lo governa a suo senno!

Tale fu Ferdinando dei Medici, e ai miei lettori non dorrà s’io mi sia trattenuto alquanto a farglielo conoscere. D’altronde io noto come la più parte degli scrittori di racconti si stemperino a descrivere le sembianze, e molto più i panni dei loro personaggi, da parere tutti una generazione di sarti; per me, se volete conoscere come Ferdinando vestisse, e qual sembrasse, in Livorno vi mando nella Darsena, dove vedrete la sua statua marmorea sopra la base intorno alla quale stanno legati quattro schiavi di bronzo; in Pisa, nel Lungarno a capo della strada Santa Maria, ove il suo simulacro di marmo sembra che voglia sollevare, a vero dire con pochissima intenzione, Pisa caduta, la quale però per essere di marmo non può rilevarsi affatto, e sta così mezzo tra risorta e caduta; e in Firenze, in Piazza della Santissima Annunziata, dove sorge pomposa la sua statua equestre, composta di bronzo rapito al fero trace, come dice sotto la cinghia della sella. — Ho amato meglio per questa volta esporre la indole e i costumi di lui; se m’ingannai, o se dispiacqui, domando perdono, e riprendo la storia.

Era il giorno di Pasqua. Una cavalcata magnifica uscita dal palazzo dei Medici si aggira pomposamente per le vie di Roma. Il cardinale Ferdinando si recava in cotesto giorno solenne a complire il papa, ch’era Gregorio XIII, per tenerselo bene edificato. Il cardinale procedeva sopra una bianca chinea arnesata di velluto chermesino e napponi di seta vermiglia, per la massima parte delle groppe coperta dal manto cardinalizio: al suo fianco veniva Paolo Giordano Orsini duca di Bracciano, vestito alla borgognona, o vogliamo dire alla spagnuola, sopra un focosissimo cavallo romano stornello, e seco lui si tratteneva famigliarmente di cose, per quanto era dato comprendere, di lieve importanza, conciossiachè il cardinale sembrasse attendervi poco; e solo talora vi assentisse crollando la testa. Intorno poi, clamorosa e festiva compariva la corte del duca, ma più splendida assai quella del cardinale; il quale, secondo che gli persuadeva la sua natura amplissima, costumò mantenere onoratamente un numero non minore di trecento tra gentiluomini, cortigiani, e tutta gente spettabile per qualche virtù. A vero dire, piuttosto che a grave corteggio di cardinale, si assomigliavano alle gualdane che nei giorni festivi scorrono per la terra dandosi buon tempo: infatti tra loro motteggiavano o gareggiavano chi meglio maneggiasse i cavalli, facendoli da un punto all’altro mutare andatura, o costeggiare, o spiccare corvette o ballottate, e simili altre maestrie; e alle gentildonne affacciate ai balconi mandava o dolci sguardi, dolci sorrisi, e talora anche baciamani, e baci, dei quali parte andavano indarno, e parte ancora si vedevano ricambiati. E fu vista ancora errare per l’aria una rosa, e suonare un cachinno, che parve di donna; e la rosa cadde sopra la criniera lattata della chinea del cardinale; ma per subito muoversi degli occhi in su, non riuscì a nessuno discernere donde cadesse, imperciocchè le finestre delle case di ambedue i lati della via in quel punto comparissero chiuse. Di licenza siffatta un poco erano da incolparsi i tempi, un poco ancora i costumi facili del cardinale, che giovane, potente, e non vincolato da veruno ordine, nelle cose di amore procedeva meno temperato di quello che alla dignità sua convenisse, e i cortigiani, siccome vediamo quotidianamente accadere, la libertà del padrone spingevano fino alla sfrenatezza, persuasi che se al cardinale fosse mai caduto in testa redarguirli, egli avrebbe cominciato con torvo cipiglio, per concludere poi con giocondo sorriso. D’altronde, giovani erano, e amabilissimi tutti; e la vita corre così veloce, che davvero io non vorrei biasimarli, se di ogni fiore di primavera si facessero ghirlanda intorno ai capegli: e così a Dio piacesse che non si avessero a rampognare gli uomini di colpe più gravi, come di queste potremmo di leggieri perdonarli.

Dopo la cavalcata seguiva la turba della plebe, la quale senza perchè applaudisce, senza perchè disapprova, e plaudente o improbante, destinata sempre ad essere percossa, finchè un giorno, stanca di esaltare e di deprimere, anche a lei venga voglia di percuotere, e allora, che Dio ci tenga nella sua santa guardia! Ma queste voglie la prendono di rado, e il passaggio del potente in mezzo a lei è come quello della rondine in mezzo agl’insetti dell’aria; — mangia, e vola.

Così percorrendo la città di contrada in contrada, giunse la cavalcata al canto del palazzo Caracciolo Santobuono, sopra le rovine del quale nei moderni tempi fabbricarono il palazzo Braschi. Quivi stanziavano allora Marforio e Pasquino.

Che cosa è Marforio? Che cosa è Pasquino?

Marforio è una statua colossale dell’Oceano giacente trovata nel Fôro di Marte; donde le venne il nome. Clemente XII la fece trasportare nel Campidoglio, e quivi adesso si mostra orgogliosa ai passeggieri. Pasquino è una statua plebea. Un plebeo, buono umore davanti la bottega del quale fu scavata, le dette il nome: è mutilata, è incerta; adesso pare che si sieno trovati di accordo a battezzarla per un frammento di Ajace: ad ogni modo umana cosa, nè Dio, nè Semideo; e quantunque i meriti suoi di gran lunga superino quelli di Marforio, troppo le corse diversa la fortuna, imperciocchè invece degli onori del Campidoglio, per poco stette che nel Tevere non la precipitassero. Adriano VI fu quegli che le mosse tanto dura persecuzione; e se nol fece, deve attribuirsi allo arguto cortigiano che lo persuase, da quel tronco sepolto in mezzo al limo sarebbero uscite più voci che da un popolo intero di ranocchie. Ed ecco come la ingiustizia degli uomini si manifesti negli stessi tronchi, e nei marmi: Marforio in Campidoglio come un capitano trionfante; Pasquino per poco non capitò nel Tevere, e passata così fiera burrasca, felice lui se sta murato nel canto del palazzo Braschi. Marforio, secondo il costume dei felici, che fortuna qualunque estolle il tuffa prima in Lete,47 non ricorda più i tempi passati: diventato signore, albergato splendidamente, si è fatto cortigiano, e tace; o se talvolta parla, va cauto, va circospetto, e sebbene colosso marmoreo, cammina leggiero come se temesse calcare uova; adula quasi: ma Pasquino, senza capo, senza braccia, e senza gambe, esposto ai venti e alla pioggia, si conservò popolano; e sempre parla, e sempre morde, e non finisce mai di dire la sua, nasca quello che ne può nascere; tanto, peggio di perdere testa, braccia e gambe, non gli può andare. Marforio però abbandonava la fama; all’opposto Pasquino non conobbe mai decadimento di bella rinomanza. Marforio è un disertore, Pasquino gettò via le gambe per non mai fuggire; quindi il popolo ha dimenticato Marforio, e crebbe a mille doppii l’amore al suo Pasquino. Marforio in Campidoglio nel fondo della corte del Museo Capitolino, accompagnato dai Satiri di bronzo trovati nel teatro di Pompeo, re della fontana a cui è sopraposto, si annoia, e se fosse dato ad un Oceano di marmo sbadigliare, egli sbadiglierebbe. Per lo contrario, Pasquino palpita, e vive, ha simpatia col popolo, e comunque acefalo, sentenzia, ragiona, e rivede i conti meglio di quelli che hanno capo. Già per vivere in questo mondo non è provato punto che vi abbisogni il capo; testimonio Plinio, che afferma trovarsi un popolo di acefali da lui chiamati blemmii, la quale cosa se poteva parere ai tempi di cotesto scrittore stupenda, per noi cessò da lunga stagione di maravigliare le genti.

Pasquino spesso è Nemesi perseguitata, che vibra nel buio un colpo contro l’uomo che beve le lacrime del popolo, e questo colpo lo giunge nella fronte preciso come il sasso lanciato dalla fionda di David; — è Nemesi che raccoglie l’acqua amara che sgorga nelle contrade della oppressione, e ne tempera il vino spumoso della superbia; — è Nemesi che mesce i vermi tra i fiori della felicità spietata; — è Nemesi che fa traboccare il feroce negli aperti sepolcri, mentre gli freme tuttora la voce di minaccia sopra la bocca: — ella mesce di terrore le tenebre, popola di fantasime i sogni, empie il capezzale di rimorsi, dà voci alla zolla che cela il delitto ignorato, e perseguita con gli affanni le vite, con le disperazioni le morti. — Ma troppo spesso Pasquino nasce dalla perfidia umana; conciossiachè siavi una gente a cui la natura disse: — odia, — come all’aquila disse: — vola; — e l’uomo odia, come l’aquila vola. O Signore Dio, perchè creasti il serpente che avvelena, la fiera che divora, l’upas che uccide, e l’uomo che odia? Ecco, il cielo sereno è un’angoscia per lui, il sole splendido una ingiuria, il lago limpido uno scherno, l’anima tranquilla una offesa: egli vorrebbe possedere lo sguardo del basilisco, i fiati del cholera, i bitumi dello asfaltide, la disperazione di Giuda, per contristare quella serenità di azzurro, di linfe, e di anima innocente.

La verità è il sole più sfolgorante del diadema di Dio. Nei giorni della creazione egli avrebbe dovuto appenderla come unico luminare alla volta dei cieli. La verità deve uscire palese dalle labbra dell’uomo, come gl’incensi religiosi dai turiboli di oro. La opera delle tenebre desidera consumarsi nelle tenebre. La verità non deve prendere la larva della menzogna. Perchè mai la verità assumerebbe il sembiante della calunnia? Il cuore del codardo può diventare luogo acconcio per un nido di vipere, non mai il tempio della verità. La verità deve predicarsi alla faccia del giorno dai luoghi eccelsi, dalle vette dei colli, dalle aperte sponde dei mari; la verità deve confermarsi davanti gli uomini che la detestano, e davanti ai giudici che la condannano a modo di Socrate innocentissimo. La verità arse sopra i roghi, ma ecco rinacque dalle sue ceneri a guisa di fenice; la verità saliva sopra i patiboli, e tornò a palpitare nei suoi lacerti, come l’animale che rivive negli scissi frammenti. La verità non ingannava, nè lusingava persona, imperciocchè ella abbia detto: «Io mi chiamo martirio sopra questa terra, e gloria in cielo: chi mi vuole seguire mi segua; io sono una dura compagna della vita.»48

Chi ha orecchie da ascoltare ascolti: io riprendo il cammino.

Pasquino, ed anche Marforio non salito allora in Campidoglio, apparivano in quel giorno solenne nella pienezza della loro gloria, cinti all’intorno di una raggiera di satire di tutti i colori e di tutte le dimensioni; e anche lì il popolo in calca stava leggendo, o facendosi leggere, e quanto gli parevano più acerbe le parole, meglio avvelenate, più acconce a vituperare un nome, a contristare uno spirito, a disperare un’anima immortale, e più rompeva in risa insane, e in dimostrazioni di allegrezza.

E la cavalcata notando alla lontana così magnifico apparecchio esultava, e se non l’avesse trattenuta la reverenza avrebbe precorso il cardinale; — si stringeva, s’ingegnava scuoprire da lungi: chi si alzava sopra le staffe, e chi faceva prova di raccogliere la luce con la mano aperta a guisa di tettoia sopra le ciglia.

— “O egli è concio pel dì delle feste,” dicevano i cortigiani; “fa proprio pasqua Pasquino; ne vorremo udire delle belle, la materia non manca; il fieno è così alto, che invita la frullana;” — e via discorrendo, sicchè il ronzìo si sentiva da cento passi allo intorno.

Il cardinale passando vicino alle statue temute, non torse collo, e non fece sembiante di volgervi lo sguardo.

Diversamente i cortigiani, che vi caddero sopra come colombi in un campo di biade, non badando e non curando se investissero o pestassero i popolani, i quali si dettero a saltare chi di qua chi di là, imprecando e urlando nel modo che fanno le rane quando il toro si accosta alle sponde del padule. — Ond’è, che cotesta gioventù spensierata e strepitosa allo improvviso si tace? Sovvengavi delle miriadi di passere, che popolano la vasta chioma di un rovere, e che garriscono senza posa, dondolandosi per le fronde con moto irrequieto, se allo improvviso apparisce un falco volteggiante con le sue larghe ruote in prossimità dell’albero, tacersi sì, che paiono còlte da subita morte, e rannicchiarsi, e stringere le ale, e non che ardire il volo di ramo in ramo, ingegnarsi di stare celate sotto una foglia: in questa guisa i cortigiani sbaldanziti continuarono gravemente, e in silenzio la cavalcata.

Pasquino aveva versato un torrente di malignità contro il cardinale, perchè sopra gli altri reputato felice. Una delle satire, che riguardava lui, diceva così. Marforio domandava a Pasquino: “Qual’è la mula che il Medico cavalca adesso?” — E Pasquino: “Cavalca la mula del Farnese;” — e ciò alludeva agli amori, secondo che porgeva la fama, tra Ferdinando e Clelia, figliuola del cardinale Farnese. Ma questa era cosa da tollerarsi: quelle poi che apparivano veramente infami versavano sopra Francesco, sopra la Bianca, sopra Isabella, il marito, Eleonora di Toledo, e don Piero dei Medici; ed io, come invereconde troppo, mi guarderò bene di riferirle.

Il cardinale non torse il capo; ma guardando obliquo ed acuto aveva quasi con animo presago incontrato e letto quei vituperii; e fatta avanzare la chinea di un passo, occupando il duca di Bracciano con certa sua novella, operò destramente per modo ch’egli non si addasse di nulla. Quando poi convenevole tempo gli parve, fatto cenno ad una sua lancia spezzata, gli ordinò con voce sommessa quello che avesse a operare. Ebbe appena la cavalcata svoltato il canto, che la lancia si voltò indietro con grande impeto, dando degli sproni al cavallo. La turba si era raggranellata daccapo, e gioiva di una perfida gioia, e lodava Pasquino; e gli decretavano per acclamazione una corona di alloro. Senza pur dire: — largo — la lancia investe col cavallo la calca, che di nuovo non fu lenta a sbarattarsi, distribuendo, senza contarli, colpi di calcio di alabarda a destra e a sinistra, sopra le braccia, la testa e le spalle di coloro che punto mostravano di nicchiare; ed arrivato a Pasquino, gli avventa contro con tanto e tale impeto la mano chiusa nel guanto di ferro, che ne riporta visibilmente graffiature, e fatto rifascio di tutti i cartelli se li porta via, partendo con la medesima furia con la quale se n’era venuto, senza darsi un pensiero al mondo della turba, che come prima lo vide lontano, levò il capo, sempre a modo dei ranocchi, e si dette a schiamazzare, a bestemmiare al corpo e al sangue, a volere far carne, e fendergli il cuore, e lì taglia, ch’egli è rosso; terminò poi come sempre succede, che chi ebbe contusioni vi pose lo impiastro, e chi la testa rotta se la fece fasciare.

Ossequiata Sua Santità, per meno lungo sentiero si ridusse il cardinale al suo palazzo, dove chiuso nello studio, senza valersi dell’opera di segretario, scrisse lettera al fratello Francesco, nella quale taciuti i rimproveri che pure ad ambedue loro si facevano meritamente, narrava dei vituperii pubblicati in contumelia della casa a cagione del vivere scorretto della Isabella di Bracciano, e della Eleonora di Toledo, e lo confortava a prendervi con la gravità sua quel rimedio che gli fosse sembrato a praticarsi migliore, ottenendo che le rammentate signore si riducessero a vivere più modestamente. Scritta la lettera, la consegnava ad un cavallaro, ordinandogli che si ponesse subito in via, e giunto a Firenze, ad altri, tranne che al Granduca, non la consegnasse per quanto avesse cara la vita. La lettera, siccome egli comandò, giunse pur troppo nelle mani di Francesco; e quando ebbe partorito quei luttuosissimi casi che danno argomento a questa Storia, non è da dirsi se il cardinale ne rimanesse contristato: ma veramente egli ebbe torto, conciossiachè non si dovesse lasciare andare a quel così subito empito, considerando di quanto cupa e feroce natura fosse il fratel suo, quanto dissimulatore, quanto inchinevole a mettere le mani nel sangue; come colui che allevato nei costumi spagnuoli, riputava obbligo di onore, pari al marito e al fratello, vendicare il torto della moglie e della sorella, e per di più, era stato nudrito in corte di Filippo II, per immanità d’indole fino nei suoi tempi chiamato demonio del mezzogiorno. — Basta, il fato volle così, e forse non sarà stata l’ultima volta, come neppure la prima, che Pasquino avrà fatto versare lagrime e sangue.

Francesco, ricevuta la lettera, la lesse due volte, e senza che si potesse indovinare dalla sua faccia pallida e austera se gli porgesse buone o sinistre novelle, se la ripose con molta cura nel seno; poi voltosi alla moglie, e alla sorella e alla cognata, che si trattenevano in donneschi ragionari, disse loro: — “Lo eminentissimo cardinale Ferdinando sta bene, e vi saluta.”

Passati alcuni giorni, rimandò il cavallaro del cardinale a Roma, con lettera contenente breve orazione: giungergli gratissima la prova della solerzia usata in vantaggio dell’amplissima loro casata, comecchè per somma sventura fosse caduta sopra cosa di per sè rincrescevole assai; stesse sicuro che avrebbe trovato rimedio a tutto senza scandalo, e in modo che se ne chiamerebbe contento; anzi, il fatto meritando grave considerazione, pregarlo, come aveva praticato negli altri importantissimi negozi, così in questo a non lo lasciare privo dei suoi prudenti consigli.

Spedito questo cavallaro, dopo una o due ore ne spediva un altro, al quale commetteva, che, lasciata ogni divisa, vestisse abito da mercante, e condottosi fino a Roma, si presentasse senza darsi a conoscere al signore Paolo Giordano Orsini duca di Bracciano, gli consegnasse in proprie mani la lettera che gli dava, e poi se ne tornasse, senza pure riposarsi in Roma; per quanto aveva cara la grazia sua, i suoi comandamenti eseguisse. Diceva la lettera:

— «Magnifico sig. duca cognato nostro onorandissimo. — Ricevute le presenti, vorrà V. S. Illma cavalcare senza porre indugio tra mezzo alla volta di Firenze con un solo famiglio, o due al più. Apprenderà il motivo, ch’è urgentissimo, della sua chiamata dalla nostra bocca, non essendo cosa da fidarsi alla scrittura; intanto vogliamo che sappia, come questo negozio, sebbene a noi non estraneo, riguardi principalmente Lei, e la salute della sua famiglia. Di questa sua partita sarà bene che non informi persona a Lei attenente, e meno di ogni altro lo eminentissimo cardinale Ernando nostro germano. Faccia la via incognito, schivando studiosamente di darsi a conoscere; prenda così le sue misure, da giungere verso la bruna a porta Romana, portando, tanto V. S. Illma che i suoi famigli, una penna bianca alla berretta.

«Troverà qualcheduno che farà mettere dentro alle porte tanto Lei quanto i famigli, senza dare nome, e noi staremo aspettandola in palazzo.

«Dio la conservi nella sua santa guardia ec.»49

Paolo Giordano, letta e considerata bene la lettera, levò il fazzoletto di tasca, e si asciugò la fronte grondante sudore; poi si pose a passeggiare, tornò quindi a leggere la lettera da capo, e non sapeva darsi pace.

— “Mi sono io venduto alla catena” — andava farneticando tra sè, “con questi mercadanti nati pure eri! Io principe romano! Che lignaggio è il vostro? Donde nascete voi? Quando casa mia onoravano baroni, cavalieri, e uomini di alto affare, i vostri maggiori non erano degni di reggere loro la staffa. — Al ricevere questa nostra cavalcherete.... con un famiglio, due.... non vi darete conoscere a persona.... entrate fuggiasco. — La Dio mercè non siamo sudditi vostri.... comandate ai vostri servi.... Io non andrò; ho fermo di non andare, e non andrò....”

E torna a passeggiare. Intanto una voce interna, quasi partisse da qualche suo consigliere, lo raumiliava dicendo: — Ma egli è tuo cognato, egli è principe di corona, che non può muoversi per venire da te; egli è potentissimo, egli è ricchissimo, di autorità inestimabile in corte di Roma. Poi la cosa riguarda te, sicchè pare giusto che tu debba andare verso lui, ed anche porgergli grazie se si dimostra cosiffattamente amorevole pei tuoi vantaggi: arrogi che ti alleva in corte il tuo figliuolo Virginio, e gli farà lo stato, perchè sopra il tuo ci è poco da contare: nelle tue strettezze, nel diluvio universale dei tuoi debiti, chi può se non egli esserti arca di salvazione? Bracciano, o Bracciano, nobile arnese dei padri miei, io ti vedo in profezia diventare preda di qualche fortunato mercante che dopo avere preso le terre, prenderà anche il titolo.... e così dopo avere sfrattato la mia illustre prosapia dal castello, sfratterà il mio nome dalla memoria degli uomini. — Dunque mi parrebbe giovevole andare, e tenermi bene edificato questo parente per amore del debito. — Amore! — avrei dovuto dire odio: ma gloriosissimo San Pietro, come potrò io odiare i debiti, se i debiti furono le mie fasce quando prima venni nel mondo, e saranno il mio lenzuolo funerario quando scenderò nel sepolcro? il Bernia compose un capitolo sopra il debito; fece male, doveva comporvi un poema epico. — “A Firenze.... Titta! Fa di sellare tre cavalli a dovere; ci converrà fare cammino. Tu e Cecchino verrete con esso meco: lasciate la livrea, ponetevi una penna bianca alla berretta, e non dimenticate i gabbani. — Egli è dovere condurre questo povero Cecchino: lo menai via da Firenze, ch’era, si può dire, sposo novello; e rivedrà volentieri la vecchia madre, e la moglie. Penso che me ne saprà grado, o almeno me lo fingo; e questo fingimento mi fa bene. — Costoro godono meglio di noi: credono allo amore, e si amano, e si rivedono con piacere, e si lasciano con affanno.... Io poi ricordo appena di aver moglie; e sì, che Isabella è pure vaghissima femmina, e di alto animo, e di ornato intelletto, e davvero io ho mostrato fare un gran caso di tutti questi suoi pregi! — Parmi ch’io lo deva avere per giunta se in casa mia non sarò odiato: — mi basterebbe dimenticato.”

E se non m’inganno, qual fosse Paolo Giordano Orsini in molta parte lo ricaviamo da questo suo discorso: — il piombino dello archipendolo, di cui un braccio fosse il vizio, l’altro la virtù, per sè fermo perpetuamente, e incapace a muoversi se impulso esterno nol facesse oscillare da una parte o dall’altra. Spensierato, prodigo, e subito così a inferocirsi come a placarsi; ma per colpa dei tempi più spesso trascorrevole nella ira che propenso alla pietà: e poi, quando era aizzato da chi sapesse prenderlo pel suo verso, non possiamo immaginare enormezza a cui non si trovasse parato. Io non voglio dire che assomigliasse Claudio, il quale avendo fatto ammazzare la moglie Messalina, quindi a poco postosi a tavola domandò del perchè la imperatrice non venisse;50 ma dopo le sanguinose collere, che in balía loro lo trasportavano, tale lo sorprendeva un oblío dei commessi misfatti, che nè i sonni gli si turbavano, nè differiva i conviti, nè trascurava le feste, sollazzevole così, come se nulla fosse avvenuto: dissimulatore non per concetto, ma per abito, e tanto più pericoloso, in quanto che quei suoi modi facili assicuravano di una certa ingenuità di naturale.

Si partiva pertanto da Roma, e giungeva a Firenze, dove fu introdotto nel modo convenuto, e quindi a poco in palazzo.

Francesco stava seduto a mensa in compagnia della Bianca, e non sì tosto ebbe visto il duca, che levatosi in piede gli porse cortesemente la destra, e lo baciò sopra ambedue le gote: compite coteste accoglienze, il duca s’incamminava verso la Bianca, che non si mosse, e fattole omaggio, le baciò ossequioso la mano.51

Francesco tornato a sedere,

— “Giordano,” disse “voi dovete essere stanco; ma prima che ve ne andiate a riposare, sedetevi, vi prego, e ristoratevi alquanto di cibo e di bevanda: voi lo vedete, noi siamo in famiglia.”

E Paolo Giordano, senza aspettare che gli venisse reiterato lo invito, si assise a mensa a canto a Francesco.

Certo nè a poeta nè a romanziere mai si presentò così magnifica occasione per isfoggiare la sua facoltà descrittiva. Senza far torto a nessuno, poche corti allora, e forse anche adesso, possedevano gli arnesi preziosi di cui i Medici avevano tesoro; e non già preziosi per la materia, quanto molto più pel lavoro: — credenze di argento, vasi, vassoi, orciuoli, bacini, coppe, fiaschi, candelabri, tutto insomma era maraviglia a vedersi; — ma io lascerò stare, e mi stringerò a quello che meglio desidera il mio argomento.

Il duca, quantunque assuefatto alla profusione romana, rimase sorpreso della copia immensa delle vivande: e guardando più accuratamente, la sua sorpresa si accrebbe nel considerare le varie generazioni dei cibi: — passere minutamente tritate intrise con rossi di uova, e con farina inzaffranata, spolverizzate di zucchero, — agli e nasturzi indiani, — cipolle maligie crude, rafani tedeschi, scalogni, e raponzoli; — inoltre, dentro vasi di finissimo cristallo per condire, giengiovi, pepe nero, noce moscada, garofani, zenzero, e simili; — in mezzo, una piramide di uova; e da per tutti i lati, manicaretti e intingoli di strana apparenza; di più maniere formaggi posti in diaccio dentro piatti di argento.

Siccome le vivande note poco talentavano al duca, si avventurò ad assaggiare alcune delle sconosciute, e bene gliene incolse, imperciocchè fossero composte di polpe di francolini, di fagiani, di pernici e di starne, ma acconciate così, che gli bruciavano il palato, e gli facevano lacrimare gli occhi: si ricordò di Porzia, che trangugiò carboni ardenti; non si sapeva persuadere come uomo potesse nudrirsi in cosiffatta maniera: chiedeva spesso da bere per temperare l’arsura, e le bevande che gli porgevano erano diacciate così, che gliene spasimavano i denti, e i nervi del capo. E poi vini fumosi e frizzanti, da dare la volta al cervello dopo il secondo bicchiere. Gli pareva un convito infernale, e che per assuefarsi a cotesti alimenti e a cotesti liquori, il granduca e la granduchessa avessero dovuto durare maggiore fatica di Mitridate, che beveva e mangiava senza danno qualunque tossico, per gagliardo che fosse. In breve, fu spento, se non sazio, in lui il naturale desiderio del cibo e della bevanda, e prese a guardare il cognato, che silenzioso attendeva a empirsi lo stomaco, con una specie di rabbia, di cipolle novelline spolverizzate di zenzero; e poi ad un tratto cessava dalle cipolle, prendeva un uovo, e rotto il guscio vi gettava dentro una cucchiaiata di pepe nero, e beveva; quindi da capo cipolle; e di tratto in tratto ordinava: — da bere. — Il coppiero gli recava un bacino con un fiasco pieno di acqua, e un piccolo bicchiere pieno di vino suvvi, ed egli rovesciato quasi tutto il bicchiere nel bacino, lo riempiva di acqua e lo trangugiava di un sorso.52 Cotesto depravato costume non era un piacere, ma visibilmente travaglio, conciossiachè giù dalla fronte gli gocciasse il sudore, le pupille mandasse torte, ansasse, e nel volto di colore si tramutasse, ora facendosi vermiglio come fuoco, ed ora giallo come le candele che gli ardevano davanti.53 A Paolo Giordano parve, com’era pur troppo, cotesto un volersi distruggere, e allora pensava che sarebbe stata cosa più lesta gittarsi a capo fitto dai finestroni del palazzo. Con simile idea per la mente egli volse gli occhi alla Bianca, e gli occhi della Bianca ricambiarono co’ suoi uno sguardo d’intelligenza. Giordano aveva voluto esprimere questa domanda: — E come mai voi che pur siete accorta femmina, consentite che costui così si uccida? — E la Bianca aveva risposto: — Se ci patisca, Dio lo sa; voi sapeste con quale arabico umore mi tocca a fare! Proverò non ostante, e voi vedrete. —

E quando tempo le parve, la Bianca, côlto il destro, con quella maggiore piacevolezza che troppo bene sapeva e poteva adoperare, così favellò:

— “Mio signore e consorte, vorrestemi di grazia essere cortese di un dono?”

— “Dite....”

— “Vorreste, per amore mio, essere contento di rimanervi da cotesto cibo crudo, che io temo forte non vi abbia a far male?”

— “Bianca, io ve l’ho detto un’altra volta, e desidererei non avere a dirvelo la terza: in casa mia, e nel mio Stato, così nelle piccolissime come nelle grandi cose, assoluto signore voglio essere io....”

— “Nè io vi contrasto il dominio, chè anzi troppo mi onora chiamarmi vostra schiava; ma per questa volta vi supplico, cuor mio, gioia mia, vogliate sodisfarmi....”

E così dicendo, stese la mano al piatto per toglierglielo davanti. Francesco, preso da impeto rabbioso, con la manca strinse il braccio della Bianca forte così che vi rimase impressa di un colore turchino la traccia delle dita, e fremendo del bramito di fiera, la guardò bieco, e lungamente negli occhi; poi senza profferire parola, lento lento aperse la mano. La Bianca ritirò il braccio illividito senza ardire dolersi, e ricacciò dentro gli occhi due lacrime pronte a sgorgare: umiliata e confusa, non seppe nascondere la vergogna, il dispetto, e la rabbia, fuorchè gridando: — “Candia!...”

E il destro coppiere le pose tosto davanti il bacino di argento, il bicchiere di vino di Candia, e una caraffa di acqua. Ella, lasciata stare l’acqua, prese il bicchiere, e presto presto lo mandò giù di un fiato.54

Al duca pareva assistere al convito di Domiziano, quando fece portare i cataletti intorno alle tavole col nome dei commensali: avrebbe desiderato essere mille miglia lontano di là: si rammentava essersi sentito meno tristo accompagnando i funerali di sua madre.

Francesco, come un fanciullo stizzoso, immaginava potere dimostrare quali e quante fossero la potenza e la libertà sue di fare a capriccio, empiendosi la bocca di cipolline tutte coperte di zenzero, bevendo uova impepate, e tracannando acqua gelata, finchè una cosa che poteva più di lui, voglio dire la natura, quasi sdegnosa di sentirsi così manomessa, gli fece fallo, ed egli gittato un grandissimo sospiro, si lasciò cadere riverso sopra la spalliera della seggiola, col capo abbandonato giù sul petto, le braccia ciondoloni, esclamando:

— “Non ne posso più....”

La Bianca e Giordano gli furono prontamente dintorno; e gli alzarono la testa: egli teneva la bocca aperta e torta come se lo avesse preso l’accidente di gocciola; gli occhi aveva appannati, e il respiro affannoso.

— “Chiamate il signore Baccio, o il Cappelli,” disse la Bianca con immensa ansietà: “andate.... muovetevi.... qualcheduno per amore di Dio....”

E Francesco brontolando:

— “Nessuno si muova... Acqua... neve... diaccio... un poco di aria... aria...”

Apersero tutti i balconi; gli portarono acqua, e neve, e diaccio; ed egli ambedue le mani tuffò dentro la neve, e così gelate se le accostava a più riprese alla fronte; mescolò nell’acqua diacciata certo suo elisir, e bevutone alquanto si sentì un poco sollevato. La Bianca, che fino a quel punto lo aveva sovvenuto con amorevolissima cura senza dire parola, allora si avventurò a domandargli:

— “Volete andare a letto?”

— “Sì, fatemelo rinfrescare... rinfrescatelo voi... nessuno altro della famiglia venga qua dentro...”

E la Bianca di sua mano empì due argentei recipienti di neve; e il coppiere, portatili nella stanza da letto, li pose sotto il lenzuolo, tirandoli su e giù lungo il letto per raffreddarlo.

Scorso che fu un quarto di ora, Francesco, che silenzioso si era rimasto a sedere, si alzò allo improvviso, e disse:

— “Andiamo.”

Bianca e Giordano lo sorressero, e giunto a canto al letto, strappandosi piuttosto che spogliandosi le vesti, si gettò a giacere. Giordano allora pianamente favellò:

— “Serenissimo, riposatevi: domani discorreremo a migliore agio...”

— “No... chi ha tempo non aspetti tempo; io mi sento meglio. Bianca, ritiratevi: io ho a parlare a Giordano di cosa che deve rimanere tra me e lui...”

E poichè qualunque osservazione lo avrebbe irritato, Bianca si partiva, e restava Giordano. Questi si pose a sedere presso il cognato, aspettando che gli fosse venuta la voglia di favellare. Francesco stato alquanto sopra di sè, come uomo che pensasse il modo di cominciare, finalmente così prese a dire:

— “Giordano, ascoltatemi bene: — già parmi inutile ricordarvi, che appartenendo alla mia famiglia, voi siete come cosa nostra.... e nemmeno mi sembra avervi a rammentare quanto le vostre cose mi stieno a cuore....”

— “Bontà vostra...”

— “Non m’interrompete, ascoltate. Ora nell’amarezza dell’anima mia ho da palesarvi tal fatto, che al solo pensarvi sento empirmisi di rossore la faccia... E fosse almeno rimasto celato, che se non si fosse potuto perdonare, almeno avremmo potuto dissimularlo; ma no, egli è diventato pubblico; — forma argomento di scherno pei miei nemici... Giordano, noi siamo diventati ludibrio delle genti!” — E riposatosi alquanto continuava: — “Ludibrio delle genti! Voi siete offeso in me; io in voi. La nostra casa è piena di vergogna; — Giordano, la vostra moglie, la mia sorella ci ha coperti di vituperio...”

— “Isabella!...”

— “Purtroppo! E delle sue disonestà ne vanno attorno le pasquinate, e i cartelli...”

— “Alla croce di Dio, e chi ardiva?... Io gli strapperò il cuore dal petto, fosse anche in Duomo...”

— “E così confermare con la vendetta quello che non ha tanto pubblicamente palesato la ingiuria. Siate uomo, e frenatevi. Il traditore è vostro congiunto...”

— “Chi mai?”

— “Troilo...”

— “L’amico della mia scelta! Quegli a cui aveva confidato la custodia del mio onore... Ah!”

— “Costui calpestando i sacri vincoli del sangue, costui ha tradito il benefattore e l’amico...”

— “Ma ne siete voi certo?”

— “Diconsi esse queste cose senza certezza?”

— “E come io ho potuto ignorarlo fino ad ora, io misero tradito?”

— “Le orecchie dei consorti sono sempre le ultime ad ascoltare la propria vergogna... Provvidenza di Dio!”

— “Francesco, non potreste voi essere per avventura ingannato? Il principe, comecchè solertissimo, non tutto vede, non tutto ascolta di per sè stesso...”

— “Io vedo tutto...”

E non era vero; imperciocchè se mai visse principe che si rapportasse a consiglieri maligni, egli fosse uno: ma per questa volta aveva ragione.

— “Orsù, questo fato non può mutarsi, bensì vendicarsi...”

— “Sia....”

— “Ci ascolta nessuno?” — interrogò Francesco alzandosi a sedere sopra il letto; e sollevata la tenda di seta, girò attorno alla stanza lo sguardo indagatore. — “Andate a vedere, Giordano, se le porte sono bene chiuse. La Bianca potrebbe starsi in ascolto: eh! le sono donne; io non posso più vivere con costei, e non so farne a meno: io giurerei che cotesta fattucchiera mi ha ammaliato... Potessi rompere lo incantesimo.... mi proverò...”

— “È tutto chiuso....”

— “Sedete, accostatevi, e stabiliamo la maniera di provvedere, la quale, avendoci fatto sopra matura considerazione, mi parrebbe avesse ad essere questa.” — E qui abbassando la voce, prese a susurrare lento, con pace, parole arcane, non altramente che se recitasse il rosario. Di tratto in tratto s’intendeva un detto più alto, come dalle volte di una spelonca si stacca la gocciola, e cade sul pavimento, rompendo in cadenza il silenzio pauroso del luogo. Giordano non pareva cosa vivente, se non che la destra spesso gli si apriva distesa, e spesso gli si stringeva a pugno chiuso. Francesco cessò il susurro fissando intentamente il cognato che si restava immobile e sbigottito: alla fine anch’egli con voce sommessa favellò:

— “Voi mi avete versato lo inferno nell’anima. E che dirò io a Virginio, se un giorno mai mi domandasse: — Dov’è mia madre?”

— “Virginio non lo saprà; e lo sapesse, dirà: — Ben fece... — Io educo Virginio...”

— “Francesco, ma non pensiamo noi, che dopo la morte vi ha pure ad essere un giudizio?..”

— “Per cui non ha giudizio. — Ed onta avremo tra i vivi e tra i morti, se non osassimo quello che a gentiluomini impone l’onore. E che? Mentre io vincendo il grido del sangue vi abbandono la vita della sorella, non saprete voi staccare l’animo vostro da una moglie colpevole?”

— “Ella non è madre dei vostri figliuoli. Ad ogni modo io non devo convincermi della vostra convinzione; volendo ancora, io non potrei: io voglio vedere da me stesso...”

— “E se non vi riuscisse vedere, sarebb’ella meno colpevole per ciò? Chi ve la salva dal sospetto? E Cesare non sofferse neppure la sua moglie sospettata...”55

— “Ma non la uccise. Di questo lasciate il pensiero a me. — Mi concedete voi adoperare quei modi che mi parranno più acconci...”

— “Fate, ma cauto, senza scandalo, e non riveli la vendetta quello che non ha palesato la ingiuria...”56

Qui fu sentito battere alla porta, e Francesco con voce minaccevole domandò:

— “Chi batte?”

— “Don Pietro.”

— “Il mio fratello! — Egli non ha da vedervi, Giordano. Partite; andate ad abitare il casino di San Marco: prendete costà sopra cotesto stipo la chiave; troverete persona per ricevervi. Vi raccomando il segreto... Partite... e quando avrete scoperto la odiata verità, tenete sempre davanti la mente che voi siete gentiluomo e cristiano.”57

Giordano si sentiva il cuore così stretto, che non potè articolare parola: baciò la mano al cognato, e si allontanò passando per una porta opposta a quella ov’era stato battuto.

Francesco, ricomposto il lenzuolo che lo copriva, dolcemente disse:

— “Entrate, don Pietro.”

— “Dio vi guardi, Serenissimo...”

— “Grazia vostra...”

— “Eccomi ai comandi di Vostra Altezza.”

— “Mi pareva ora; chè andarono a vuoto quattro o cinque chiamate...”

— “Temeva disturbare le gravi occupazioni di Stato, — e della fabbrica di porcellana di Vostra Altezza;58 e poi, parmi che giunga sempre presto chi giunge a tempo.”

— “Voi dovreste rammentarvi più spesso, don Pietro, che voi mi siete vassallo: e se non vi riuscisse a rispettare meglio l’autorità del capo della famiglia, dovreste almeno rispettare assai più la maestà del principe. — Che cosa fate? Perchè vi aggirate così per la stanza? Sedetevi, ed ascoltatemi pacatamente.”

— “Don Francesco, ricordatevi ch’io venni qui sotto la fede vostra, e perchè sapeva che da luglio la quaresima è lontana; non mi vogliate trucidare con un sermone....”

— “Sedete: non vi chiamo per me; mi muove amore per voi, e studio della reputazione e della prosperità vostre....”

— “Donde vi è venuta questa partita di amore fraterno ad un tratto? Ve l’ha mandata da Lisbona il re Sebastiano co’ galeoni del pepe?59 Queste tenerezze bisogna dirle per modo e per verso, chè le sono cose da fare strabiliare i cani.”

— “Merito io cotesto? Non ho dato e non do prove continue di amare il mio sangue?”

— “Il vostro non so... ma il sangue vi piace...”

— “E poi vi dolete che noi non vi abbiamo nella nostra grazia, ed empite di querele la corte, ne scrivete al Cardinale. Ma come reggere con voi? Già, secondo il costume vostro, di una cosa entrando in un’altra, mi avete fatto perdere la bussola, e per poco non ricordo il motivo della chiamata. E sì, che quando lo udrete io voglio vedervi sbaldanzito, e la petulanza vostra si convertirà in miserabile avvilimento...”

— “Fratel mio, che voi riuscirete a infastidirmi non contrasto, dacchè io già mi senta mezzo concio; ma per farmi andare in giro la testa, io ve la do per giunta.”

— “Ebbene, voi mi assolvete da qualunque riguardo; sicchè io vi dico che voi siete il più abietto, il più svergognato, il più infame cavaliere che viva in tutta la Cristianità....”

— “Queste sono parole strepitosissime: passate ai fatti.”

— “La vostra moglie è un’adultera...”

— “Lo so.”

— “Come? Lo sapete, e non vi siete ancora vendicato?”

— “Noi altri Medici nelle donne non dobbiamo avere mai fortuna...”

— “Come? — Che cosa intendete dire?” gridò Francesco facendo un balzo sopra il letto. — “Di qual fallo potreste voi appuntare la granduchessa Giovanna?”

— “Dio l’abbia in pace: ella era una santa.”

— “E della Bianca?”

— “Oh la Bianca!... Dopo le vostre nozze io non saprei di che cosa incolparla; ma per lo avanti...”

— “Avanti non mi apparteneva, ed io non ho diritto d’investigare il suo costume prima che fosse mia.”

— “Eh qui non parliamo punto di voi; gli altri prendono questo diritto per voi.”

— “Quando noi le gettammo addosso il nostro manto granducale, scomparve la donna, e sorse la principessa; ed inalzandola noi al nostro talamo, la rigenerammo in un battesimo di maestà.”

— “Il bucato non lava tutto, e talora va via piuttosto il pezzo, che la macchia; e voi dovete avere un certo segno rosso sopra le mani, che tutta l’acqua dell’Arno non può lavare; — e questo segno viene dal sangue del Bonaventuri...”

— “Chi è che sostiene avere io fatto ammazzare il Bonaventuri? Lo affermasse anche mio padre, io gli direi: — Tu menti per la gola! — Io non ordinai, io non commisi nulla... e lo posso giurare.”

— “Tra ordinare, insinuare, presentire, subodorare, tollerare, infingersi, e simili, se questo giudizio avesse ad agitarsi davanti a giudici del mondo, le marmeggie dei curiali rodi-leggi (dico dei tristi vè! che ai buoni io faccio di berretta, e mi professo umilissimo servitore) vi saprebbero trovare tante limitazioni e tante distinzioni, che per certo nessuno potrebbe condannarvi; — ma davanti a Dio non si comparisce per via di procuratori: e voi credete nascondervi cotesta macchia col guanto, o dare ad intendere ch’ella sia un rubino?”

— “Ingrato!... sconoscente! Quanto vi hanno dato i miei nemici per farmi morire di passione? — Sono modi questi da praticarsi verso il vostro signore, che se volesse potrebbe troncarvi come una canna? E nel momento che si prende a cuore le cose vostre, che vorrebbe conservarvi la reputazione. Ma io bene doveva sapere ch’ella è opera perduta; — tanto varrebbe lavare l’arme de’ Pucci.”60

— “Vi domando perdono, Serenissimo; io non aveva pensiero di contristarvi: ho fatto così per dire, essendo in famiglia. Se qualcheduno si avvisasse favellare meno che rispettosamente in presenza mia dell’Altezza Vostra, io vi giuro da gentiluomo onorato, che lo passerei da banda a banda. Persuadetevi bene di questo, Francesco, voi non avrete mai migliori amici dei vostri fratelli, e voi in ogni occasione mostrate non farne conto nessuno; preferite loro un Serguidi, un Belisario Vinta, e per giunta patite che da costoro ci venga fatto oltraggio.... Francesco, voi vi dolete di noi, ma davvero non siete giusto. Da parte dunque ogni acerbo ragionamento: continuate a favellare...”

— “Ebbene; io scopersi lo infame contaminatore della vostra dignità, e l’ho spento.”

— “Povero cavaliere! Se lo meritava; ma egli era un dabbene uomo....”

— “E chi vi ha detto che fosse cavaliere?”

— “Bernardino Antinori, che avete fatto strozzare nelle carceri del Bargello? Chi me lo ha detto? Eccone una nuova! Chi me lo ha detto? Apparentemente, chi lo sapeva. Francesco, concedete che io vi dica quattro parole così a modo mio, aperte, franche, come il cuore le detta, sebbene voi le reputerete, secondo il solito, partorite da cervello balzano. Noi possiamo fare quello che ci pare, ma ad una condizione, ed è questa: che ci bisogna lasciare dire altrui quello che loro piace. La gente che adoperiamo in simili negozii, vile nacque ed iniqua si mantiene: se trovasse chi le gettasse davanti tozzo più grosso, farebbe a noi quello che da noi comandata fa agli altri. Sperate voi fedeltà o segreto da cotesti vituperati? Per le taverne e nelle oscene ubriachezze vomitano vino e parole di sangue spesso vere, ma più spesso esagerate a mille doppi, e giù nel popolo, che poco ci conosce, noi troviamo ai danni nostri accumulato tale un tesoro di odio che mette paura a vederlo....”

— “Avete terminato?”

— “Ora termino. Aggiungete la maladizione della penna. — La penna è un trovato infernale: io per me penso che il Demonio precipitando giù dal cielo, restasse spennacchiato nell’ale da un fulmine di San Michele, e coteste penne caddero sopra la terra, e l’uomo le raccolse, e le appuntò, e adesso le adopera come frecce attossicate col pessimo dei veleni, ch’è lo inchiostro. Chi sa quanti mercatanzuoli a questa ora, sotto una compra di lane, o sotto il conto della trattura della seta, avranno registrato: — «Ricordo come oggi a dì tanti, anni tanti dalla salutifera Incarnazione, Francesco de’ Medici ha fatto strangolare il cavaliere Bernardino Antinori per adulterio con donna Eleonora di Toledo, moglie di don Pietro dei Medici!»61 — E oltre i mercadanti, sonvi i filosofanti, gli storiografi, e l’altra generazione dei letterati, ai quali io faccio buon viso, dacchè non ci è rimedio di levarli dal mondo. Questi non possiamo far tacere; il meglio sta nel prendercela un poco in pazienza, e poi un poco dando loro la soia, un poco del pane, condurli a scrivere a modo nostro.

Non fu sì savio nè benigno Augusto,
Come la tuba di Virgilio suona:
L’avere avuto in poesia buon gusto
La proscrizione ingiusta gli perdona.

“Di ciò abbiamo esempi buoni in casa; e senza ricordare Lorenzo il vecchio, il padre nostro informi, che spinse la tolleranza fino ad ascoltare da Messere Benedetto Varchi la lettura di quella sua storia impertinentissima, e tale da fare dormire in piedi. — Ma il buono uomo si addolcì tutto, e da quella ora in poi non rifinì mai da levare Cosimo a cielo, e paragonarlo a Traiano, a Marco Aurelio, e non so a quali altri. — Ma ancora io mi accorgo, che vi concilio il sonno; sicchè ora tocca a voi favellare. Eravamo rimasti...? Dove? — Ah! che avevate fatto strozzare il cavaliere Antinori.“

Francesco per natura e per abito accostumato a’ sobrii parlari, e a cogliere diritto il suo fine, in quei profluvii di eloquio, per cotesti aggiramenti di pensiero si sentiva come sopraprendere da capogiro. Gli fu mestiero raccogliersi alquanto, e dopo un convenevole spazio di tempo, così riprese il discorso:

— “Dunque se sapevate le disonestà di donna Eleonora, perchè vive?”

— “Perchè, se recito il confiteor, parmi avere più peccati di lei; e poi perchè non so chi mi salverebbe dallo zio duca di Alva, e dal cognato Toledo; i quali, per dirla tra noi, non sono corpi di santi.”

— “E noi non varremo a tutelarvi contro un vicerè e contro un duca?”

— “Chi salva dal pugnale dell’assassino?”

— “Un buon giaco di maglia, un buon cuore, una buona compagnia, e una buona vigilanza.”

— “Ebbe queste, ed altre avvertenze, Lorenzino a Venezia....”

— “Non l’ebbe; e fu spento.”

— “Sarà; ma rimane sempre vero, la migliore difesa consistere nel non avere mai fatto male a nessuno.”

— “Comunque; — non è da tollerarsi tanta infamia: io non potrei;... l’onore di nostra casa nol consente. — Bisogna levarci questa vergogna dal viso, — e va tolta.”

— “O dov’è il comodo mio? Per me vi affaticavate, a me pensavate, e al mio bene unicamente provvedevate? Per voi dunque mi avete chiamato? Per voi io ho da diventare omicida? Per voi espormi agli odii di gente potentissima, e vendicativa?”

— “Io tanto poco fo caso degli odii e delle vendette loro, che vi giuro da gentiluomo, che, raccolto il processo delle turpitudini di cotesta rea femmina, lo manderò io stesso al re Filippo, partecipandogli segretamente la cagione e il modo della sua morte.62 Io prendo sopra me ogni evento, e prometto al bisogno dichiarare essersi proceduto a questo per mio consiglio, ed anche per mio espresso comandamento.”

— “Orsù, voi volete ch’io vi accomodi della vita di Eleonora, ed io lo farò: una moglie non vale la pena che ci guastiamo il sangue; ma anche voi da buon fratello dovete accomodarmi di un servigio, che a voi costa poco, e a me farà un bene grandissimo. Io vi domando che mi doniate, o mi prestiate — per non rendervi più, — quarantamila ducati: le mie terre nel Pisano questo anno non mi portarono un ducato di rendita; tra scoli, fossi e colmate, mi va via un tesoro....”

— “Tutti inabissati di debiti! Tutti spiantati! Voi, il Cardinale, il duca di Bracciano, dareste fondo al Perù! Donde ho da cavare tanto danaro?”

— “Una stretta data con garbo alle mammelle della repubblica, ed è pareggiata ogni cosa. Ma a voi non fa mestiere di questo: la fama narra mirabilia; dice che tra oro coniato, in verghe, e in gioie, voi abbiate cumulato meglio di dieci milioni di oro. Se così è, vi consigliano male, perchè se levate il danaro dal commercio, terminerete col diventare principe di un camposanto.”

— “Sfaccendati! Poltroni! non sanno quello che si dicano!”

— “Dalle rendite pubbliche voi vi avvantaggiate, tutte le spese fatte, meglio di ducati trecentomila....”

— “Chi è che ardisce farmi i conti addosso?”

— “Provate a impiccare l’abbaco. — E poi, dai commerci del corame, delle gioie, dei grani e del pepe, voi ricavate un tesoro....”

— “Tutti falliscono! Tutti mi portano via! Io ho deliberato cessare dai commerci: — forse,.... però non sono deciso,... continuerò in quello del pepe; ma non più cuoio, non più grani; — chi traffica in grano muore in paglia.”

— “Farete come vi aggrada; ma daretemi voi i quarantamila ducati?”

— “Dio buono, ma dove profondate voi tanta moneta?”

— “Datemela, ch’è bene spesa: io la impiego a procurarvi amici. Io la spendo nel popolo, in feste, in conviti, e in piaceri. La gioventù si abitua al fasto e alle lussurie: io ve la snervo; io ve l’avvilisco; io la castro nell’anima; io le tolgo la dignità dello spirito e la forza del corpo; io ve la dispongo alla sementa, e voi potete seminarvi quello che meglio vi torna.”

— “Voi siete pure lo strano umore di uomo! Avrete i quarantamila ducati; ma mi farete un obbligo di rimettermeli a poco per volta sopra le rendite del Pisano....”

— “Per obblighi, io ve ne faccio quanti volete.”

— “Inoltre....”

— “Ahimè! cominciano le restrizioni....”

— “No; voi penserete a spacciare la iniqua moglie, quando e dove io vi ordinerò....”

— “E anche questo sia concesso. A quando i ducati?”

— “Domani.”

— “Oh! Buona notte. Adesso bisogna ch’io vada a fare un po’ di bene. Una gentildonna ha da presentarmi una sua fanciulla da marito, perchè io le dia la dote. Poi abbiamo uffizio nella cappella di San Cappone con una brigata di compagnacci da far piangere il diavolo. Forse, se ci entra, ripasseremo il codice delle quaranta pagine; e alla fine una cocchiata con accompagnatura di chitarre e arpicorde: all’alba dei tafani verrò a voi pel buon giorno, e pel buon anno....”

— “Don Pietro! Don Pietro! Voi non volete mai mutare costumi; e dovreste pur pensare che del tempo sprecato così malamente converrà un giorno renderne conto a Dio. — Almeno aveste addosso un buon giaco....”

— “Finora il mio giaco fu la buona coscienza; ma da stasera in poi io vedo che mi bisognerà portarlo. — Dio vi abbia in guardia.” — E così dicendo andò via a precipizio.

— “E voi parimente. — Bianca!” — E passato qualche tempo di nuovo: — “Bianca!”

E la Cappello accorse ansante come persona che siasi mossa con fretta da luogo lontano.

— “Che cosa desidera il mio signore?”

— “Hai tu sentito nulla dei colloquii che abbiamo tenuto or ora qua dentro? Io ti avevo accomiatato non mica per me, dacchè tu sai se io per te conservi secreto sul cuore comunque piccolissimo, ma per loro....”

— “Chi loro?”

— “L’Orsini e don Pietro....”

— “Di don Pietro non sapeva io....”

— “Pensa! Io ho tenuto proposito delle loro mogli, e della vita poco laudabile che menano: mi sono raccomandato, perchè procurino persuaderle alla convenienza, e fare loro una squartata a dovere: non hai tu inteso nulla?”

— “Nulla.”

— “Vero? via, qualche cosarellina avrai poi inteso.”

— “Da gentildonna onorata....”

— “Bè. — Tu stai sull’ingrugnato per via del rimproccio di stasera. Ma che vuoi tu? io mi stizzisco così di leggieri, e me ne pento poi. Quello che ho sul cuore ho sopra la lingua. Sono troppo sincerone. Te ne domando perdono....”

— “Oh signore!” — rispose l’artificiosa Veneziana; — “voi altri uomini di alto affare avete sempre pel capo mille pensieri e mille inquietudini; la colpa è nostra che vi venghiamo a disturbare: ma crediamo fare del bene, e se non indoviniamo, meritiamo compatimento. Sì giusto! vale la pena che vi prendiate cura di me. Voi mi avete raccolta, si può dire, per la strada, e mi avete messa a pari delle regine, e delle più grandi principesse della Cristianità. La mia vita sta nel reverirvi e nello amarvi, e per quanto io mi studii, non mi pare amarvi abbastanza....”

— “Buona Bianca! Eccellente femmina! — Io mi sento affaticato, e vorrei pure riposarmi. Porgimi un bicchiere di acqua di cannella. Gran mercè, Bianca. Ora diremo le preci; per istasera basteranno le litanie.”

E Bianca prese un libro coperto di velluto cremisino con fermagli di oro; s’inginocchiò accanto al letto recitando le litanie, alle quali Francesco molto devotamente rispondeva ora pro nobis. — Terminate le litanie, Francesco profferì queste parole:

— “Ecco, un giorno sta per compirsi: noi li contiamo quando sono passati, — quando non sono più nostri; — un giorno adesso cade dalla mano del tempo nello immenso oceano della eternità. — Prima però che si tuffi in cotesto abisso, guardiamone l’agonia per argomentare la vita che ha consumato.... — Va, va in pace anche tu, o giorno della mia vita; prendi animoso il viatico; e raggiungi i tuoi fratelli che ti hanno preceduto: tu sei scevro di lacrime, tu sei passato innocente. L’angiolo dell’accusa non ti scriverà sopra il suo eterno registro. Anzi, io lo posso dire francamente, se la fortuna ti avesse tessuto nella trama mortale di Tito, egli non avrebbe oggi esclamato: — Ho perduto un giorno!”

Ma chi mai presumeva ingannare costui? Dio? Sè? — O cuore umano, quanto tremendo a vederti!!

Francesco, con un fascio di cipolle sopra lo stomaco e due omicidii sull’anima, si addormentava placidamente, come un operaio della vigna del Signore.63


CAPITOLO SESTO.

IL FIGLIO.

Ma il bacio della madre, oh! non ha pari
E vivon mille affetti in quello affetto.
Oh! figli, figli lagrimati e cari,
Chi più vi muoverà la bianca cuna?
Chi più vi guiderà nei vostri lari?
Ci apre il labro la madre, e ad una ad una
Ci scioglie le parole, e il primo accento:
È madre:
 
Ispirazioni di Bisazza da Messina.

Caterina di Francia! — Moglie di re, madre di re.... e non pertanto quale più trista femmina che mai abbia vissuto o viva nel mondo, accetterebbe col reame di Francia i dolori della sua vita, o la sua fama dopo la morte! Nata da principe aborrito, fanciullina, derelitta, e sola, venne in potestà di repubblicani inferociti che volevano vendicare in lei le ingiurie del suo sangue, ed esporla sopra i bastioni alle artiglierie dei suoi parenti, i quali per certo non si sarieno rimasti dal trarre...! E nonostante, alacre e animosa, punto curando il pericolo presentissimo, ella congiurava per la grandezza della sua casa. In lei posero i cieli lo istinto e la capacità del regno. — Moglie giovanetta di Enrico II, si vide posposta a Diana di Poitiers ormai matura adultera del re suo marito; e tacque, e chiuse in cuore la offesa alla donna, alla moglie e alla regina, ed ella si rimase come un fuoco nascosto per comparire improvviso a illuminare o a spaventare il mondo. — Madre di Francesco II, alla esperienza e gravità sue vide preferite le frivolezze di Maria Stuarda, moglie quasi infante di re fanciullo; e tacque, e blandì col riso sopra le labbra le follie dei reali giovanetti, mentre guardava addensarsi sul capo il turbine fatale ai gigli di Francia. — Alla perfine, eccola regina vera, e regna. — Come Niobe ella ripara sotto il suo manto una testa pargola di re. Non dubitate, ella saprà molto meglio difenderla dalla ira delle fazioni, che la Niobe antica non facesse dagli strali dei figli di Latona. Che cosa appariva il regno? Che cosa il re? — Carlo IX era un uccello, — un sinistro uccello se vi piace, — che si contendevano gli artigli di un falco e di un avvoltoio. I Guisa si dichiaravano suoi difensori; ma comprendete voi un re che abbisogni di un suddito che lo protegga? Gli Ugonotti anch’essi lo volevano proteggere, come un padrone lo schiavo; e gli uni e gli altri erano più potenti di Caterina. I primi si dicevano amici della religione e del trono, e commisero atti che la religione avrebbe desiderato esser cieca per non vedere: amici del trono, essi composero una genealogia che gli faceva discendere da Carlo-Magno per cacciare dal regno i Capetingi, come Capeto ne cacciava i Carlovingi; e per ultimo si fecero demagoghi, e si spensero. — I secondi, avversi ai riti cattolici, consentirono che Enrico IV scambiasse Parigi con una messa: avversi al trono, terminarono col dare un re alla Francia. Non pel re dunque si combatteva, ma pel regno. Caterina non doveva dubitare soltanto della corona, ma del capo; deposta la clamide reale, lei e i suoi figli aspettava la veste di terra e di verdura che la morte concede ai cadaveri. Fiero retaggio apparecchiato dalle insidie di Luigi XI, dalle sventure di Luigi XII, dalle insanie di Francesco I, e fatto più arduo per le dottrine di Lutero, e degli altri settarii che lo seguitarono. Lo equilibrio non poteva allora come adesso mantenersi con l’oro sparso, e col gettare dei voti nella urna; — qui bisognava un fiume di sangue; — qui invece di voti era forza gettare teste nella urna del destino: — e Caterina accettò quel retaggio con tutte le sue conseguenze, — tutte! — Certo coteste non sono virtù di donna, ma neanche di uomini: pure gli enti che la Provvidenza pose al governo dei popoli in questi casi estremi appartengono appena alla umana natura; anime di bronzo create là dove si generano il fulmine, l’uragano e gli altri flagelli di Dio. Caterina impedì che andasse disperso in brani il reame di Francia nella maggiore stretta che prima o poi egli abbia dovuto patire.

Lodano Luigi XI, perchè tagliando le teste alla idra feudale instituiva la grandezza del regno; e plaudendo il fine, ai mezzi non badano. — Lodano il cardinale di Richelieu, che ridusse per ultimo i baroni servi dorati di corte. — Lodano ancora i Convenzionali, quando col sangue dei Girondini scrissero essere la Repubblica una e indivisibile. Ma lasciando di questi ultimi, erano poi così savii i primi come predica il mondo? Trasportati anche essi dallo ardore del disegno, ogni estrema forza essi adoperarono ad abbattere una muraglia, senza conoscere quello che dietro di cotesta muraglia potesse loro apparire; e dietro il muro abbattuto trovarono una fiera dai denti acuti, dagli occhi infiammati, avida anch’essa di mordere, cupida di avere, affamata dalla necessità, sitibonda di sangue, — il popolo flagellato insomma. — I due principii invasori, senza un principio tra mezzo che o li disgiungesse, o li temperasse, certo giorno si avventarono addosso, e il secondo divorò il primo; ma trangugiato che l’ebbe, sentì risuscitarlo dentro le proprie viscere, e da quell’ora giace infermo, e giacerà.... fino a quando? I destini del mondo stanno chiusi nel pugno di Dio. Però a me sembra, cosa strana a pensarsi, che Luigi XI e Richelieu, i più assoluti dei dominatori, sieno stati padri delle rivoluzioni dei popoli. Caterina dei Medici, femmina, con re bambini sopra le braccia, con forze più deboli delle loro, anzi pure senza forze, fece per la Francia assai più che essi non fecero: nè i casi le consentirono essere più mite; nè fu di costumi niente più trista dei suoi tempi; ed io vorrei che mi dicessero se Luigi XI, se Richelieu, se Francesco, ed Enrico di Guisa, se lo stesso Coligny, sieno stati migliori di lei? Eppure una perpetua infamia si rinnuova in Francia sopra la memoria di Caterina dei Medici: non vi è generazione che in passando non la maledica, e non le imprechi grave sul capo il marmo del sepolcro, e la vendetta di Dio! — Quello poi che riuscirebbe inverosimile a credersi, se non fosse vero, a lei regina sepolta in tomba reale con la corona e il manto dei re, mancò una bocca — bocca comunque comprata, — che pronunziasse la laude venale sopra il suo feretro. Tre giorni dopo la sua morte, il predicatore Lincestre così dall’alto del pergamo la raccomandava agli astanti: «La Regina madre è morta, la quale vivendo, fece molto bene e molto male, e per me credo molto più male che bene. In quest’oggi si presenta una difficoltà, che consiste in sapere se la Chiesa cattolica deva pregare per lei che visse tanto male, e così spesso sostenne la eresia, quantunque si dica che in ultimo sia stata per noi, e non abbia acconsentito alla morte dei nostri principi. Su di che io devo dirvi, che se volete recitarle un pater ed ave così a casaccio, fate voi; varrà per quello che può valere: e lo rimetto nella vostra libertà.»

Basta: — dal giudizio degli uomini si appella a quello di un giudice che non può fallare. — Intanto, per questo giudizio terreno giovi pensare che è giudizio di tali che può dubitarsi perfino se abbiano veramente giudizio, e che Caterina come Italiana non deve sperare giustizia da un popolo presuntuoso, un tempo grande a caso, perchè vi spruzzò sopra gli effluvii del suo genio una immensa anima italiana.

Caterina dei Medici regina di Francia, desiderosa di risparmiare infamia alla famiglia donde nasceva, aveva risposto alla lettera di donna Isabella, mostrandosi dispostissima a darle asilo, ma la consigliava e pregava di mandare subitamente ad esecuzione il concetto disegno: avere ordinato a Genova la raccogliessero; a Marsiglia l’accompagnassero, e quindi sotto buona scorta fino a Parigi la conducessero, dove avrebbe pensato ella a metterla in parte sicura dai sicarii e dai pugnali. Il cavaliere Lionardo Salviati, ricevuta appena la lettera, la fece pervenire quanto più sollecitamente e secretamente potè nelle mani della Isabella col mezzo di don Silvano Razzi, monaco camaldolese amicissimo suo, per evitare sospetti ed incontri funesti. Ma Isabella da poco tempo in qua aveva perduto la consueta costanza; erasi invilita nell’animo, presentiva il fato, e lasciava sopraffarsi da quello. I manoscritti che ci rimangono intorno a questo miserabile caso, in siffatta maniera favellano: «Ma l’accordo non seguì altrimenti, perchè così non era la volontà di Dio benedetto, essendo le cose sue troppo scoperte, che ormai non si potessero più colorire i disegni, e poi i suoi pensieri conoscevano tutti.»64 — Insomma, o non potesse, o non volesse, il fatto sta che prima assai della risposta di Caterina regina di Francia, ella poneva giù dall’anima ogni disegno di fuga.

La duchessa aveva una sorella di latte: ella bevve l’avanzo dell’alimento della figlia del popolo; e avventurata lei, se come del latte, si fosse nutrita delle virtù domestiche della buona nutrice! Però essendo dotata di naturale eccellente, volle sempre al suo fianco la sorella, che aveva nome Maria, e l’amò d’amore svisceratissimo. Senza di lei non le pareva poter vivere; e a lei confidava i più riposti secreti del cuore, fintantochè questi furono tali da potersi confidare senza vergogna; quando poi cessarono essere innocenti, allora prese a ravvilupparsi in ambagi e in reticenze; molto più, che avendo provato mettere a parte Maria di qualche suo pensiero, che se non poteva reputarsi colpevole, almeno incominciava a deviare dalla diritta strada, n’ebbe cotale ammonimento, che le tolse la voglia di continuare. Maria, comecchè buona femmina fosse, e non la guardasse tanto pel sottile, pure troppo bene si accorse che il cuore della sua padrona non era più con lei, e si accorse ancora che non lo potrebbe riacquistare se non per via di compiacenza ai suoi stolti desiderii, e facendosi per così dire complice sua. Ciò non le consentiva la propria religione, e nè anche la fede avuta sempre nella sua padrona, e poichè non trovava maniera di riunirsi a lei qual fu, deliberò lasciarla qual’era. La povera giovine, per non istaccarsi dal fianco della Isabella, aveva ricusato onesti partiti da accasarsi, e a lode sua conviene anche aggiungere, avere ella soffocato qualche affetto che sentiva nascersi nel cuore. Le prime rose della giovinezza erano alcun poco appassite per lei: ma vissuta castamente, e schiva di ogni reo costume, si manteneva pur sempre sanissima e bella. Mentr’ella stava in simile situazione di animo, la fortuna le parò innanzi un giovine chiamato Cecchino del Bandieraio, di cui le andarono a genio la persona, e più della persona assai la pietà che dimostrava grandissima verso la sua vecchia madre. Maria, rimasta sola di casa sua, non ebbe a domandare licenza a nessuno, tranne alla padrona; e questa, tanto la vinceva allora la passione, senza dolore lasciò che Maria l’abbandonasse, la quale poteva considerarsi come l’àncora estrema di salvazione per lei; anzi la vide allontanare con piacere, come persona di cui lo aspetto le riusciva importuno. Però, secondo che le porgeva la sua natura veramente reale, ella non le fu parca di doni: le dette in copia vesti, masserizie, gioie, e denari, e dolci parole, e raccomandazioni che in ogni suo bisogno facesse capitale di lei. Quando vennero al punto del dividersi, prevalse l’antica tenerezza, e l’abbracciò tanto strettamente, che non pareva potesse distaccarsi da lei, e pianse; — ma un bacio ardente dello amore asciugò subito cotesta lacrima, e Maria fu ben presto dimenticata.

Maria all’opposto non seppe dimenticare Isabella, e non cessò mai di recarsi giornalmente al palazzo per vederla: ma di cento volte le veniva fatto di vederla una sola, imperciocchè le dicessero ora, che non poteva; tale altra, ch’era assente; e la povera Maria se ne tornava indietro mortificata, col cuore grosso, e gli occhi sovente lacrimosi, ma non aveva fornita anche mezzo la strada, che scusava Isabella, credeva vero il motivo del commiato, si dava torto per averne dubitato, e si confortava nel presagio che sarebbe stata più avventurosa domani. Il giorno appresso si rinnovava l’avventura, e a inacerbirle il rammarico si aggiungeva il ricorrere che la gente faceva a lei per essere raccomandata alla Isabella. Invano ella assicurava con mesto sembiante oramai non potere più nulla sopra l’animo della duchessa: non la credevano; pensavano volesse schermirsi da rendere servigio, e le dicevano: «Sapersi, tanto lei quanto Isabella essere tutta una cosa, un’anima in due cuori; quanto piaceva a lei, essa fare; quello che voleva, potere: non ributtasse la preghiera della vedova e della orfana, intercedesse e ottenesse; operasse cotesta carità, ricordasse essere nata dal popolo; non insuperbisse; un giorno il Signore potrebbe provare anche lei, e allora le sarebbe dolce pensare al bene che aveva fatto, e potrebbe domandarne il compenso dal popolo, che glielo renderebbe gratamente, conciossiachè ella sapesse che il popolo conserva viscere di gratitudine.»

Immaginatevi se cotesto era un dare delle coltella nel cuore alla povera giovane: nonostante, come meglio poteva s’ingegnava, e nel suo segreto si confortava nel pensiero, che se la duchessa le aveva tolta la grazia sua, non se l’era in verun conto demeritata.

Intanto Cecchino si era accomodato per lancia spezzata col signor Paolo Giordano, che lo aveva condotto a Roma. Egli stette dubbio di menare seco la Maria, ma considerando che da tutti a un tratto non poteva essere abbandonata senza infamia la vecchia madre,65 decise lasciarla, molto più che sperava tornare spesso a casa. Ma la fortuna gli troncò i disegni, che di mese in mese promettendo tornare, e non tornando mai, aveva compiuto i tre anni; e in questo frattempo la madre con inestimabile amarezza della moglie e di lui se n’era andata con Dio. Allora Maria gli scrisse, che non restando altro che la tenesse a Firenze, anzi essendole venuta in fastidio, voleva ad ogni patto raggiungerlo a Roma; ma Cecchino le rispose, non si movesse, imperciocchè il duca pochi più giorni potrebbe differire per mettersi in cammino alla volta di Firenze, e sarebbero tornati in su tutti assieme; non gli parendo bene, che ella donna sola si avventurasse al viaggio, mentre le strade erano rotte da masnade intere di grassatori, e in Roma stessa non si viveva sicuri. E la buona Maria, tolta la cosa con santa pazienza, aspettava ogni giorno il marito.

Era la sera del quattro luglio 1576, e la Maria se ne stava soletta traendo dalla rocca la chioma, e in silenzio, dopo avere cantato alcune ottave della canzone di Giosaffatte e Barlaam, e tutto lo episodio della morte di Zerbino e d’Isabella, commoventissima immaginazione di Lodovico Ariosto,66 quando sentì battere alla porta di strada. Trasalì come avviene a chi ha il cuore sollevato; balzò in piedi, e tirata la corda della porta si recò a capo di scala con un suo lume in mano, tra il sì e il no di vedersi comparire davanti il suo Cecchino: invece ella vide entrare un uomo tutto nero, che messo il piede dentro la soglia con molta avvertenza richiuse l’uscio, e poi prese a salire gravemente le scale. Maria n’ebbe sospetto, ma come donna animosa non si lasciando punto sopraffare dalla paura, guardando meglio, ravvisò nell’uomo nero don Inigo, il taciturno maggiordomo della duchessa.

— “Buona sera, don Inigo; ben venuto: che miracoli sono questi?”

Ed Inigo, con parole che ormai non ritenevano più dello spagnuolo, e non per anche erano diventate italiane, le rispose:

— “Dio vi guardi, señora Maria, e la Santissima Vergine del Pilar.” — E continuava a salire: giunto in sala, si riposò alcun tempo, e finalmente disse:

— “La mia Señora mi manda a voi perchè verso la mezzanotte voi vi troviate quanto più potrete cautamente alla porta segreta di fianco al palazzo; picchierete due volte, e vi sarà aperto. Dalla Señora apprenderete il resto: la quale si raccomanda a voi per la massima discretezza, trattandosi di cosa ove ne va la morte o la vita. Buona notte.”

Ed alzandosi, don Inigo com’era venuto se ne andava.

— “Don Inigo, sentite, fermatevi un momento: volete bagnarvi la parola? O che cosa sia questa? Gran Madre di Dio! levatemi di pena! se ne sapete voi nulla, non mi lasciate in questa tribolazione....”

Intanto don Inigo, arrivato in fondo della scala tirava su il saliscendi, e mezzo fuori della porta si voltava a inchinare Maria; poi, senza aggiungere verbo, tirato l’uscio a sè, scompariva.

Rimasta sola, Maria cominciò a mulinare col cervello: e che cosa fosse, e che cosa volesse, se bene, o male; ad ogni modo un gran segreto covava li sotto; dunque Isabella le ritornava la confidenza antica? Riacquistava la sorella amatissima? se l’avesse posta a parte di qualche sua contentezza se ne sarebbe rallegrata; se di qualche suo affanno, l’avrebbe consolata: proprio il suo angiolo custode l’aveva trattenuta da partirsi per Roma; ed è pur troppo così, che non bisogna lasciarci prendere dallo impeto della furia, che basta non esserseli meritati, la fortuna a lungo andare ripara i suoi torti, e la città vi rende onore, e gli amici tornano ad amarvi e a riverirvi a mille doppi di prima. E in questi dilettabili pensieri diventata tutta lieta, non trovava luogo che la capisse, faceva un gran rimestare di su e di giù per la casa; si acconciò i capelli, si vestì da festa, e poi (conciossiachè io non sappia quello che avvenga degli uomini delle altre parti del mondo, ma in queste nostre contrade quando una gioia veemente ci occupa tutti, forza è che prorompiamo nel canto) la Maria si dette a intuonare non più Giosaffatte e Barlaam, non più il mesto episodio di Zerbino e d’Isabella, ma la canzone:

Vaghe le montanine pastorelle,
Donde venite si leggiadre e belle?
Vegnam dall’alpe presso ad un boschetto:
Piccola capannella è il nostro sito,
Col padre e con la madre in piccol letto,
Dove natura ci ha sempre nutrito.
Torniam la sera dal prato fiorito,
Che abbiam pasciute nostre pecorelle,67

con quello che segue; e tutto le veniva terminato presto, sicchè l’ora le pareva che fuggisse innanzi a lei come la farfalla al fanciullo quando smanioso la perseguita, ed ella volando di ramo in ramo della siepe, sembra che si prenda giuoco di lui. Finalmente le ore batterono, e Maria porgendo intentissima le orecchie le contava con le dita stese su per le labbra; ma si confuse nel novero: stette più avvertita al ritocco; se non che anche questa seconda volta i latrati di un cane per la via le interruppero la successione dei suoni, e si rimase sapendone quanto prima: si fece alla finestra per domandarne a qualcheduno che passasse; non vide persona: si attentò battere alla parete per interrogarne il vicino, e questi, che forse in quel punto pigliava sonno, stizzoso per essere disturbato rispose acerbo: — “Non lo so.” — Parendo a Maria patire niente meno di San Lorenzo sopra la brace, arrovellata dalla curiosità, deliberò andare, e nel caso di troppa fretta avrebbe aspettato all’aria aperta, passeggiando; imperciocchè dal caldo grande, e dalla impazienza grandissima, stando in casa gliene veniva un martirio da non poterlo in verun modo sopportare. Però la impazienza non era meno veemente dall’altra parte; conciossiachè giunta che fu alla porta segreta, e bussato appena la prima volta, le si aperse davanti, e vide madonna Isabella seduta sopra l’ultimo scalino di pietra, bianca in volto come un voto della Santissima Annunziata, con un lume ai piedi, che parte della persona le illuminava, e parte lasciava nelle tenebre. Isabella veduta Maria si alzò, e senza profferire parola le strinse affettuosamente la destra, e se l’accostò al cuore, e tolto il lume cominciò a salire la scala rischiarandole i passi.

Giunte nella stanza, Isabella depose il lume presso alla culla di un pargolo. Maraviglia a vedersi era il lavoro della culla tutta messa ad oro; maraviglia la coperta di velluto trapunta di bei fogliami di oro; di seta e di oro le fasce donde uscivano lembi di trine d’inestimabile valore. Chi ha veduto nella galleria del palazzo Pitti il ritratto di Leopoldo de’ Medici infante che poi fu cardinale, di leggieri si formerà idea del come fosse questo fanciullo addobbato; ma la maraviglia a vedersi maggiore era certamente il fanciullo stesso, oltre ogni credenza leggiadro. Lo sguardo di Maria corse subito sopra cotesta creatura, e vedendola tanto vezzosa, prese a vagheggiarlo, siccome le donne costumano, in questa maniera:

— “E chi sei, bel fanciullino? Gesù! Quanto egli è caro! E chi ti ha fatto questi occhietti? E come ti chiami? Mettendoti due ali, parresti uno angioletto di amore.68 Su via, sta lieto, ridi un po', mostrami i bei dentini.”

E qui postogli l’indice sopra la fossetta del mento lieve lieve lo vellicava, e il pargolo si pose a ridere festoso e alzava le manine al volto della Maria, quasi volesse renderle le carezze.

Isabella muta, ma in parte sollevata dalla immensa mestizia che la opprimeva, si stava considerando quella scena commovente; pure alla fine, come la urgenza dei casi desiderava, così prese a dire: — “Vedi? Questo bel capo in breve compresso dentro una mano di ferro, o battuto contro la parete, o calpestato andrà in frantumi: questi occhi schizzeranno fuori dai cigli rovesciandosi giù per le guancie; queste membra tenerelle e candidissime in breve diventeranno una massa informe di carne insanguinata....” —

— “Ohimè! E chi sarà il rinnegato che farà questo? Chi mai ardirà l’orribile misfatto nel palazzo Orsini?”

— “L’Orsini.”

— “Io non capisco. Il signor duca mi parve sempre cavaliere onorato, e cristiano....”

— “Questo fanciullo è mio, e non del mio marito.... intendi!”

— “Misericordia! — Ma perchè siamo cristiani se non se per perdonare? Confidate in Dio; confidate nella virtù del pentimento, gettatevi ai piedi del vostro marito....”

— “Egli ucciderà me e lui....”

— “Gittatevi ai piedi del vostro fratello....”

— “Egli ucciderà me e lui....”

— “E chi ve lo ha detto? Voi sospettate troppo: e’ non mi pare bene credere capaci uomini battezzati di tanta enormezza....”

— “Ah! Maria, gli uomini sono disamorati e crudeli. Essi vogliono amare noi quanto loro piace; ma se noi cessiamo amare loro, questo dicono delitto, e come delitto acerbissimamente puniscono. Giordano, che dove io mi morissi consunta di amore per lui non si sarebbe mosso da Roma neppure per dirmi: — Vattene in pace, o anima affannata, — volerà come saetta a trucidare me e questa creatura, perchè io ho dimostrato non mi curare di lui...”

— “Tal sia del duca; i fratelli però....”

— “I fratelli hanno preso un’ombra, ch’è vanità, e chiamarono onore. Essi che vorrebbero soverchiare tutti, e in tutto, si sono resi schiavi di questa vanità, ne hanno fatto un codice, che citano senza requie: ma le carte sono affatto bianche; ognuno vi legge quello che la passione gli detta: una cosa sola vi apparisce significata mercè di caratteri di sangue, e questa cosa è morte....”

— “Ebbene, se non si trova più misericordia nel mondo, fuggite, riparatevi in qualche riposto asilo dove chiederete perdono del vostro fallo al Signore, il quale certamente vi perdonerà....”

— “Io non posso partire, nè voglio: io mi sento colpevole, e non intendo sottrarre il mio capo alla pena che mi verrà destinata; io non so più che cosa farmi di una vita piena di rimorsi, di una vita contaminata: di ora in avanti, se mi avvenga incontrare la faccia altrui, bisognerà che io abbassi la mia; — e una figlia di principe che portò corona, deve aborrire dalla vita quando l’è forza declinare la faccia rossa di vergogna.... Ma quale ha colpa questa creatura? Ella è innocente: deve la mia causa separarsi dalla sua. Questo pargolo ha da essere salvo....”

— “E lo sarà.”

— “O Maria, così favellando mi dai l’unica contentezza di cui oramai è capace la dolentissima anima mia. Prendilo.... è tuo.... e come tuo lo salva....”

E così dicendo, tolto il fanciullo, glielo pose sopra le braccia. Il pargolo, a cui lo aspetto della Maria era già riuscito grazioso, alzando le mani verso il viso di lei, pareva che anch’egli come sapesse meglio la supplicasse; e Maria baciandolo con affettuosissima passione favellava:

— “Sì, mio bello angiolo, non pensare, che io ti salverò. — Sì, che tu non morrai; tu hai da vivere, hai da essere lieto; e se gli uomini sono crudeli, le donne sanno essere pietose: e riusciamo noi meglio di loro, perchè Dio aiuta la pietà, e odia i cattivi....”

— “Maria, io non mi aspettava meno dallo amore che sempre mi hai portato svisceratissimo, e porti. Iddio e la tua coscienza ti dieno per la buona opera quel rimerito che io nè in parole nè in fatti non potrei renderti mai. Io lo confesso, nei giorni della mia colpa ti allontanai da me; come importuna mi venisti in fastidio. Non adontartene: l’uomo cadrebbe mai in fallo, se non cacciasse lontano da sè il suo angiolo custode? — Tu mi vedi punita abbastanza del mio errore con la presente miseria; e per satisfarti intieramente, come me ne corre l’obbligo, Maria, io te ne chiedo perdono....”

— “O dolce signora mia, che parole sono queste? Voi mi volete fare piangere, e qui abbiamo mestieri di animo fermo e risoluto. Orsù, ditemi quello ch’è da farsi. La notte e il silenzio copriranno di mistero le cose; nessuno le saprà, e voi pure vivrete.”

— “Ecco: io presaga della ottima mente tua avevo apparecchiato quanto bisogna. — In questo forziero troverai gioie e moneta sufficiente per formare uno stato. — Se il fanciullo vivrà, voi le adopererete per allevarlo come conviene; se a Dio piaccia chiamarlo a sè, le terrete per voi. Questa è una lettera che confido solennemente alla tua segretezza. Allora quando sarai giunta in Parigi, la rimetterai proprio in mano a madama Caterina regina di Francia....”

— “Parigi! Francia! Che mi parlate voi? Io non credeva mai questo.”

— “O che cosa credevi?....”

— “Ma!... portarmi meco il fanciullo; mutare di strada, ridurmi ad abitare qualche casetta oltrarno, e quivi dare ad intendere che il figliuolo fosse mio....”

— “Ciò tornerebbe a nulla, perchè cercheranno questo innocente coll’ardore del segugio lanciato dietro alla fiera, e mentre lui non salveresti, tu correresti pericolo. Con bene altri argomenti vuolsi difendere questo caro capo: appena lo spazio di mille miglia tra i suoi persecutori e lui potrà dargli salvezza....”

— “Ah! signora. Io non posso abbandonare Firenze....”

— “Come, non puoi? Ti penti forse del dono? Vuoi tu mancarmi di fede?”

— “Signora, voi sapete ch’io sono donna altrui. Mio marito si trova lontano: ora, come posso io partirmi onestamente senza il suo volere? Come abbandonare una terra ch’egli non volesse abbandonare? Se tornando egli, e sapendomi partita, il suo amore per me si convertisse in odio, e dicesse: — Poichè se n’è andata, stia con Dio: — se, fattami randagia pel mondo senza di lui, egli dubitasse dello amore ch’io gli porto grandissimo, e della fedeltà che sempre gli ho conservata, e mi disprezzasse.... Ahi me misera! Io mi sentirei morire, io certamente ne morrei di dolore....”

— “Tu ami assai questo tuo marito, o Maria?”

— “E come non lo dovrei amare io? Quando derelitta da tutti sopra questa terra; morti i genitori, senza parenti, discacciata da voi, io supplicava Dio che mi chiamasse a sè, perchè ogni motivo di vivere mi era venuto meno, e non mi esaudendo il Signore, sentivo sprofondarmi nella disperazione; questo amatissimo giovane ebbe misericordia di me, e mi disse: — Vieni, povera derelitta; agguantati al mio braccio; noi faremo insieme il viaggio della vita: se cerchi amore, io ti offro un cuore capace di amare: — ed io mi vi appigliai come San Pietro alla veste di Cristo quando gli parve pericolare sopra il mare; e fui salva, e la vita mi piacque, e tuttavia mi piace, però che io senta di piacere a lui.... al mio marito.... al mio sposo.... alla unica mia consolazione sopra la terra....”

— “Te beata! Ma assicúrati, Maria; io starò sopra gli avvisi appena ei torni; e allora o farò in maniera di favellargli io medesima, o manderò un religioso di santi costumi e di dolce facondia che lo sappia tutto raumiliare, e gli faccia toccare con mano la tua buona e pia opera; cosicchè, se egli ama la virtù, come dev’essere amando te, non solo non ti porterà rancore, ma dove prima ti amava una volta, adesso ti amerà mille...”

— “Voi dite bene, voi; ma se non poteste favellargli, o mandare; — se nell’amarezza del caso improvviso, preso da passione si guastasse, o se cadesse infermo... Ahimè! Io tremo tutta in pensando ch’ei potesse infermare, e non avere la sua Maria a canto al letto, che lo custodisse...”

— “Io ti giuro sopra l’anima mia, che farò avvisarlo prima che passi le porte di Firenze: non temere, io mi lego con parola di principessa, e di cristiana...”

— “Ma quando io potessi credervi sopra questo punto, Isabella, come sopporterei di bandirmi perpetuamente dalla patria?”

— “E che cosa trovi adesso che ti piaccia in questa nostra terra? Lo spirito della repubblica vi è irrevocabilmente cessato, non come fiamma spenta per forza, ma come fiamma che abbia consumato ardendo anche il verde della candela. La più parte degli spettabili cittadini erra, o spontanea o costretta, in mesto esilio, sicchè può dirsi di Firenze quello stesso che si diceva di Pisa dopo la sconfitta della Meloria, che per vedere Pisa era forza andare a Genova. — In Lione e in Parigi tu incontrerai il fiore della cittadinanza nostra. — Le fabbriche regie e i tempii in Francia o superano, od agguagliano i nostri. Colà come qua la terra produce frutti giocondi; colà come qua il sole e le stelle mandano la benedizione dei raggi; colà come qua si ama, si odia, e si nasce, e si vive, e si muore, e Dio esalta gli umili, e prostra i superbi, e ascolta la preghiera delle anime innocenti come la tua...”

— “Sì, ma delle immagini a me piace supplicare in città davanti quella della Santissima Annunziata, e in campagna davanti a quella dell’Impruneta; — sì, ma l’organo non mi esalta se non n’echeggiano i suoni per la volta di Santa Maria del Fiore; quel soavissimo rezzo vespertino non mi rinfresca se non mi percuote la faccia tra il Duomo e San Giovanni. O mia signora, io quando vedo un tronco di albero tagliato alla radice, mezzo sepolto nel fango, diseredato oramai di fiori e di frutti, e le migliaia di formiche che vi correndo sopra lo rendono fastidioso e vuoto, penso tra me: tale ha da essere lo esule. E poi, io amo vedere le facce consuete, amo dire, se qualcheduno mi nasce accanto: — È figliuolo di Ginevra, o di Laudomine; — se muore: — Dio riposi la buona anima di Giulio, di Lapo, di Baccio; — ma fuori di casa ti senti sempre intorno alle orecchie: — è figliuolo del forestiero, è compagno del forestiero; — e senza punto volerlo, non rifiniscono mai di farti capire che non sei nulla costà, e non appartieni a cotesta terra; e ben per te se ti concedono che tu beva dell’aria loro, che alla loro luce t’illumini, al sole ti scaldi. Chi mi darà ascoltare più lo idioma nel quale la mia madre dolcissima mi garriva inerte, diligente mi lodava? — E quando ogni altra cosa in terra straniera non fosse per venirmi meno, chi mi darà potermi inginocchiare sopra la lapide che cuopre le ossa dei miei genitori, e pregare loro de profundis? — Nelle tribolazioni della mia vita, allorchè mi pareva ogni cosa mi abbandonasse, io mi condussi sopra il sepolcro dei miei padri, e mi dolsi con loro della non meritata fortuna, pregandoli ad accogliermi nella eterna pace: allo improvviso mi sembrò ascoltare una voce, e la udii certo, che mi consolava dicendo: — Non disperare, continua il tuo cammino nella via del Signore, che già sei presso al termine dei tuoi martirii.”

Isabella, mentre Maria discorreva, mutò con subita vicenda di colore più volte: allo improvviso le si gettò ai piedi, e forte abbracciandole le ginocchia, così prese a dire:

— “Maria, per le ossa dei tuoi parenti, e per la salute della mia anima e della tua, non mi negare quanto mi avevi promesso. Vedi una madre senza fine desolata; vedi se mai fu dolore uguale al mio: io non lascio le tue ginocchia, se non mi dai pace; io non leverò la mia faccia dalla polvere, finchè tu non abbi pronunziata la parola di vita. Tu tornerai un giorno in questa terra che ti è sì cara, e questo giorno non si farà troppo aspettare, imperciocchè coloro che vogliono la mia morte mi seguiranno presto dentro al sepolcro. — E tu, infelice prima di sapere infelicità che cosa sia, leva le mani, e supplica questa donna, che sola ti può conservare la vita. Io non posso nulla per te; lo starmi accanto ti reca certissima morte... Maria!... Maria! così ti usi la Madonna misericordia al capezzale del letto, come tu adesso la userai con me! — Pietà di una madre che sta per vedersi trucidare un figliuolo su gli occhi.... mercè per Dio....!”

E vedendo come la Maria esitasse incerta di quello che aveva a fare, drizzatasi come furente, prese sotto il braccio il fanciullo, che trasse doloroso vagito, e s’incamminò risoluta verso i balconi:

— “Poichè,” mormorava convulsa “poichè non mi è riuscito salvarti, nemmeno io ti vedrò morire: noi moriremo insieme; di ambedue noi raccorranno le membra sfracellate. Maria, rimanti con Dio. — Contro di te non parli il parricidio, che tu potevi impedire.... Via da questo mondo dove la virtù è crudele, crudele l’odio.... tutte le cose scellerate, e crudeli...”

Come persona, che dopo avere tra il sì e il no duramente conteso, si risolve a un partito, Maria corse dietro a Isabella, e afferratala per la vesta esclamava:

— “Ebbene, io partirò.... per Francia....”

E Isabella gittatole un braccio intorno al collo, singhiozzava senza potere profferire parola. Riavutasi alquanto dalla veemente commozione,

— “Rompiamo ogni indugio,” parlò, “avvegnachè l’ora si avvicini.” — E sfasciava il fanciullo dagli addobbi di velluto, e le fasce, e le trine, e il tappeto pose nella culla dorata, poi accese il fuoco nel camino, e vi gettò sopra ogni cosa.

— “Sieno distrutti questi addobbi per sempre: non ti farebbero fregio, ma vergogna; tu devi dimenticare la tua origine. Figlio del peccato, ti basti se la colpa dei genitori non sarà punita fino in te. Maria, io ti auguro che ti riesca figliuolo dilettissimo, e tu certo così lo terrai; imperciocchè noi amiamo le creature per gli affanni che ci costano, e pei beneficii che loro facciamo; e tu cominci a farne tale uno per lui, che bene possiamo col cuore comprendere, non già con le labbra significare. — Maria, egli ti sarà l’orgoglio della vita, il sollievo della vecchiezza: ecco io ti cedo tutti i diritti di madre, che saprai adoperare molto meglio di me. Tu li eserciterai innocente, e con benigno sguardo del cielo, essendo pietà in te quello che in me sarebbe colpa; — però da qualunque origine si dipartano, sacri e santi diventano i diritti di madre. Tu lo alleverai nel timore di Dio: fa che sia umile e mansueto; a lui non convengono sensi superbi. Vigila attenta che non gli s’insinuino nel cuore consigli feroci.... — Tu non gli dirai come nacque, e ahimè! neanche chi gli fu madre: egli mi disprezzerebbe, e l’onta dei figli pesa sopra l’ossa dei genitori più grave della lapide di marmo. — Se poi un giorno tu lo conoscerai, come spero e desidero, inchinevole alla compassione... se allora volesse sapere ad ogni modo la sua madre chi fosse, tu gli dirai: — Una infelice! — Maria, io ti scongiuro che tu gli raccomandi di non lasciare mai questa crocellina di perle ch’io mi levo dal collo, e la metto al suo... Guarda di bene tenerlo a mente, perchè questo è il mio testamento, e queste sono le parole novissime che io ti parlo. — Addio, sangue mio, perdonami la vita che io ti ho dato; perdonami la colpa in che io ti ho generato... Addio... per non vederti mai più... forse in paradiso un giorno. Ma come posso sperare che Dio mi rimetta il peccato? — Io piangerò giorno e notte, io espierò il mio fallo col sangue, e la giustizia placata non impedirà che la misericordia congiunga in cielo quanto il misfatto separò sopra la terra. — Ma, e mi perdoni il voto la Madre di Cristo, se in un luogo oltre questa vita noi non potremo essere uniti, tu, figlio, abbi il paradiso: nella eterna miseria tornerà di qualche conforto alla madre tua saperti beato nelle sedi celesti. — Maria!... prendilo... io non lo benedico per paura che la mia benedizione non sia per recargli sinistro augurio...”

— “Povera donna! Beneditelo, beneditelo, chè il Signore assisterà alla vostra benedizione come a quella di un santo...”

— “Lo credi, Maria, davvero?”

— “Così Dio abbia la mia anima come io lo credo....”

— “Signore, purifica per un momento le mie mani, ond’io possa benedire questo capo innocente!” esclamò Isabella levando gli occhi al cielo, e mentalmente orando. Allora parve venirle dall’alto, e certamente le venne, una virtù, che le si diffuse nel volto a modo di raggi. Stese fiduciosa le mani sopra il fanciullo, e proseguì:

— “Va, figlio mio, io ti benedico....”

Ciò detto, prese il lume tutta tremante, e continuò:

— “Andiamo: prima che aggiorni verranno a prenderti a casa, e sarai condotta a Livorno, dove una galera ti aspetta. Andiamo, chè il subito non mi pare presto abbastanza.”

Maria prese il fanciullo, e lo coperse con un panno bruno. Isabella la precedeva rischiarandola come fece al venire. — Arrivata in fondo della scala, alzò più volte la mano per aprire, e parve non potesse; ma ad un tratto un nuovo pensiero cadutole in mente le ridava la prima forza, e costanza.

— “Un bacio... un altro bacio... un altro ancora.. Maria... Figlio mio... per sempre addio...”

Maria la baciò piangendo, e uscì ratta ratta rasentando i muri con frettolosi passi.

Isabella rifinita di angoscia lasciò cadersi sopra gli scalini, e appoggiò la fronte sopra la pietra; ma la sua fronte era più fredda della pietra.


CAPITOLO SETTIMO.

LA GELOSIA.

Che dolce più, che più giocondo stato
Saría di quel di un amoroso core?
Che viver più felice e più beato,
Che ritrovarsi in servitù di Amore?
Se non fosse l’uom sempre stimolato
Da quel sospetto rio, da quel timore,
Da quel martír, da quella frenesia,
Da quella rabbia detta gelosia.
 
Questa è la cruda e avvelenata piaga
A cui non val liquor, non vale impiastro,
Nè murmure, nè imagine di saga.....
 
Ariosto, XXXI.

«Beati i poveri di spirito, perciocchè il regno dei cieli è per loro»69 — Queste sono parole di Cristo, e quantunque io non dubiti punto che non sieno state apprese nel profondo consiglio col quale furono dettate, nonostante mi piace alcuna cosa discorrere, non sopra loro, che non hanno mestieri di commento, ma dietro la scorta di loro. — L’uomo pertanto ha da sfuggire delle scienze quella che lo fa dubitare. Egli deve amare primamente, ma dirittamente, sè, poi la famiglia, poi la patria. Sonovi state, e forse sono tuttavia anime cosiffatte, che la patria sopra sè stesse amano; ma chi guarda sottile, comprende che alla patria sagrificando la vita, oltre la quale le altre cose paiono contennende o di piccolo pregio, a cotesto sacrificio le persuase una immensa cupidità di laude, una libidine irrefrenata di fama; insomma la propria rinomanza amarono meglio della propria vita. L’anima nostra non ha da essere menade, nè baccante per le contrade del sapere; la scienza conosce le sue orgie funeste più assai di quelle della dissolutezza: non sempre dalla sua urna scaturiscono chiare, fresche, e dolci acque; qualche volta avvelenano. L’albero della scienza non solo non è l’albero della vita, ma il Signore ha detto all’uomo: «Non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, perciocchè nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai».70 — L’uomo che ha veduto troppo, come Delia contemplando il Sole, è rimasto per soverchia luce acciecato; il suo cuore diventò cenere; a nulla si esalta, in nulla ha fede: virtù, delitti, rettitudine e vizi, suonano una medesima cosa per lui, frutti dolci in una contrada, attossicati in un’altra; colpa della terra e del clima: l’anima è un sospiro che cessa coll’agonia; la patria, il luogo dove posiamo giorno per giorno la testa riparata dalla procella; un nome, Iddio.

L’uomo deve contentarsi di stare al quia; ove egli si ponga così all’avventura peregrinando attraverso le regioni del sapere, i mali che gli ridonderanno da questo suo errare irrequieto, non gli riusciranno punto minori di quelli ci vengono dal continuo andare randagi per lo mondo fisico. Questo gli torrà la famiglia, gli amici e la patria; quello la fede e gli affetti. Giobbe bene a ragione assomiglia la soverchia sapienza ad un mucchio di cenere, dacchè veramente ella sia reliquia infelicissima di un fuoco che non si accenderà mai più. Io l’ho pur detto di sopra: il Creatore avrebbe dovuto sospendere la verità alle volte del firmamento come unico luminare: allora nessuno avrebbe dubitato sopra la luce e il calore benefico di lei, come forse avviene del Sole; e ho detto forse, conciossiachè non sia mancato chi dubitasse essere il Sole una massa di fuoco, e lo pretendesse piuttosto un cumulo di ghiaccio imprimente un moto di rotazione alle molecole dell’aria: — la quale opinione è tedesca. — Aasvero l’ebreo errante comprende il simbolo di questa agonia insaziabile di sapere: egli cammina, cammina per lande deserte, per sabbie infuocate, per campi nevosi; egli ha veduto la cupola di San Pietro, le moschee di Costantinopoli, i tempii di Brama, quelli di Budda; ha veduto adorare cani, bovi, coccodrilli, e serpenti; ha veduto inalzare alla dignità di Dio fino le cipolle!71 sacrificii incruenti, sacrificii di sangue, e vittime umane; tutto insomma ha veduto; quello che sapeva ha dimenticato, quello che ha appreso non basta a placare la superba febbre della sua intelligenza; quello che vorrebbe sapere per fare paga l’ardente sete, sta chiuso dentro l’urna del destino: aborre tornare a casa, perchè nessuno ve lo aspetta; i suoi parenti sono morti, le generazioni hanno dimenticato il suo nome; egli non ama nessuno; nessuno lui; rifiuta amici, repudia affetti, e rifugge da legare lacci, che scioglierà domani. Forse nel gran giorno in cui Dio rivelerà la eterna sua faccia alle moltitudini delle cose create si quieterà la sua agonia, e Dio gli darà pace, non perchè abbia amato molto, ma perchè molto ha sofferto.72

State contente, umane genti, al quia;73 — altrimenti voi vi sentirete crollare sotto i piedi la terra, sprofondare sopra la testa le volte dei cieli. Voi crescete educate nella suprema idea di un Ente animatore col soffio della sua bocca immortale quanto ha vita nello universo; che rompe come canna fragile il persecutore, e ripara sotto lo immenso suo manto l’oppresso: e tu errando troverai popoli che Dio non conoscono nè adorano, o si fanno Dio di cani, serpi, bovi, elefanti, e cipolle, e spesso di un mostro tremendo di forme, ma più tremendo assai pei riti sanguinosi. Ti sembra pietà custodire il padre infermo e canuto, confortarlo nei momenti estremi con ogni maniera di amorevoli ufficii, e comporgli in pace le spente palpebre: eppure furonvi, e vi hanno anche popoli, ch’estimano filiale misericordia strappare i padri dai letti dolorosi, sospenderli a un ramo attraversato a due alberi, e acceso sotto un gran fuoco, girare attorno gridando: — il frutto maturo bisogna che caschi, — finchè il vecchio non cada, e si consumi dentro le fiamme.74 E tu padre delle nostre contrade, qual mai soffriresti supplizio per non vedere morire, o strappare dalle tue braccia gli amatissimi figli? In China si offrono i figli pasto ai cani, o si gettano alla riviera. In Affrica li vendono, e testimonio Clapperton, non volendo egli comperare due negri che la madre gli offeriva, prese costei a maledirli, e a percuoterli, come quelli che dovevano essere stregati perchè disprezzati dal bianco.75 Pietà tra noi comporre gl’incliti estinti dentro monumenti egregi per materia e per lavoro, altrove pietà pascersi delle membra dei cari defunti. Rimorso e odio pubblico aspettano quaggiù l’uomo crudele, che potendo non soccorse al pericolante nell’acqua; in China, rimorso e rampogna aspettano colui che salva il naufrago. Leggi, e pene, e giudici noi abbiamo contro il furto, e tanto più lo puniamo, quanto più vi adoperarono ingegno, o destrezza; gli Spartani avevano premii pei ladri; e più larghi, quanto meglio si dimostravano arguti. Nel paese dei Battas lo adultero còlto in fallo diventa preda del marito offeso, che lo lega ad un albero, e convita la parentela a mangiarlo: ogni commensale si accosta per ordine di dignità, e taglia il pezzo che meglio gli talenta; il marito sceglie primo, ed è giusta, e per quanto leggiamo, come parte meglio saporosa, si riserba le orecchie; in altre contrade il marito offre la moglie a cui primo gli giunge per casa, come dono ospitale: e se questo avviene adesso tra popoli da noi chiamati barbari, gli Spartani, solenni maestri di civiltà, lo costumavano una volta, allo scopo che dalle proprie mogli uscissero uomini gagliardi per la difesa della patria. Vereconda cosa sono i connubii presso gli uomini, e presso gli Dei; imperciocchè il divino Omero racconti come lo stesso Giove circondasse di una nuvola impenetrabile agli occhi dei mortali e dei celesti i suoi abbracciamenti con Giunone. Sir Bank ci narra avere veduto nei suoi viaggi un simile atto esercitato in pubblico, e con molta cerimonia costituire il rito dell’adorazione di certi popoli selvaggi, al quale assistevano con tali manifestazioni di pietosissimo zelo, da richiamare sopra il ciglio lacrime di tenerezza; e tanto basta.

Nè già crediamo che di cosiffatte immani costumanze le genti presso alle quali si praticano non sappiano porgere, male o bene, la ragione. Non credono perchè non comprendono; astrattezze fuori dei sensi non arrivano a concepire, quindi le rifiutano. Presumerebbero, gli stolti! che Dio si dimostrasse come un teorema di Euclide sopra la lavagna: per religione vorrebbero un’algebra; per altare, l’aritmetica; per sagrificio votivo, un conto fatto in regola; per sacerdote, un computista. Estimano pietà troncare una vita diventata oramai irremediabile dolore; il proprio seno reputano più decoroso sepolcro, che la terra o i marmi non sono; temerario consiglio rompere i disegni della natura; utili alla repubblica i cittadini educati per tempo nei sottili accorgimenti; bellissima cortesia mostrarsi così amico dell’ospite, da offerirgli la cosa più caramente diletta. Peregrinate; apprendete, e mentre vi punge il desiderio di raccogliere fiori da tutto lo universo per inebriarvi di voluttuose fragranze, ecco insinuarvisi nel cuore il mal verme del dubbio, che ve lo imputridisce. Il cuore scettico è morto; ma siccome la mente vive, così noi sembriamo come gente sopravvissuta a noi stessi: custodi quasi dei nostri sepolcri. — In verità, io vi consiglio a starvi contenti al quia. Amate molto, leggete poco, e leggendo, più che altro vi aggradi la poesia, vino purissimo dell’anima, licore prezioso che emana da fontane celesti. — E qui notate ch’io parlo dell’alta poesia, figlia della mente infiammata dal cuore, conciossiachè anche la poesia che scende unicamente dallo intelletto generi dubbio. Chi più sarebbe stato avventuroso del Byron? Quali mai creò la natura poderosissime ale, che meglio delle sue valessero a volo smisurato? Chi ebbe maggior cuore, chi miglior mente di lui? — Ma egli volle vedere troppo, troppo conoscere, troppo sottilmente indagare la genesi degli affetti; nuovo Atteone, porta la pena delle temerarie investigazioni; i suoi stessi fidatissimi veltri lo perseguitano, e lo lacerano. Quasi per vaghezza volle aggiungere la corda del dubbio alla sua lira; parve a lui, che si allargasse la copia dei suoni svariati, e s’ingannò: cotesta corda gli tagliò le dita peggio del filo di un pugnale. Consiglio sapientissimo fu quello dell’Eforo, che ruppe con la scure la nuova corda aggiunta alla lira argiva. Tre furono le corde della lira di Olimpo e di Terpandro, quando accompagnarono i canti di Dio e della umanità; dodici di quella di Timoteo, quando cantava al convito di Alessandro e di Taide, onde ne usciva la infamia di lui, che si era acquistato il nome di magno, e lo incendio dell’antica Persepoli; e tre saranno le corde di qualunque lira, che intende a condurre la umanità per quanto vi ha di onorato e di grande sopra la terra, alla patria eterna dei cieli: — queste corde poi sono, amore, fede e speranza.

Ma come entra tutto questo nella mia storia? — Voi vedrete che ci entra benissimo; imperciocchè proseguendo vi sarà manifesto come povere genti, timorose di Dio, e ferme nei precetti della carità cristiana, vi somministreranno esempii di virtù, che ormai voi ricercate invano presso uomini o di maggiore ingegno, o di più larga istruzione dotati.

Giordano in compagnia di Cecchino e di Titta si erano ridotti, studiando i passi, al casino di San Marco. Pensavano questi due servi potersi ristorare di cibo e di bevanda, e dare alle membra stanche pur finalmente riposo; ma s’ingannarono. Giordano appena entrato si lasciò cadere sopra la prima seggiola che gli si parò davanti, e quivi stette immobile alcun tempo con gli occhi chiusi; dipoi alzò la destra verso la fronte, e ve la tenne come se temesse che gli si fosse spezzata, e mormorava tra sè:

— “Qui avvelena ogni cosa! Qui respiro un’aria di delitto! Mi hanno versato l’inferno nell’anima! Orsù, voi Titta e Cecchino; qui abbisogna adesso che compariscano intere la fedeltà, la prestanza, e la discretezza vostre. Andate al mio palazzo; presentatevi a madonna la duchessa; avvertitela.... no.... aspettate.... Da scrivere....”

E il custode del casino, prontissimo esecutore degli ordini ricevuti, portava quanto gli veniva richiesto. Giordano agitato com’era si provò a scrivere, ma la mano tremante gli negava l’ufficio: voleva affrettarsi, e non gli riusciva; gli bisognò posare. Tornò più quieto a scrivere brevissime note, che suggellò, e porse a Titta, continuando lo interrotto discorso:

— “Non l’avvertite di nulla: porgetele questa lettera, e le direte precedermi voi di uno o due giorni. Io non sono a Firenze; — badate bene. In casa osservate attentissimi ogni atto, ogni detto notate, e quando avvenga o si dica cosa che per poco vi paia importante, venite cautamente a referirmela. Io non mi muovo di qua. — Andate, siatemi fedeli, non mancate al vostro signore: in breve saprete.... saprete quello che non avreste voi dovuto sapere mai.... e quello.... pur troppo! che non avrei mai dovuto dirvi io....”

E con un cenno della mano gli accomiatava. I servi, piegata la persona ad atto di ossequio, si dipartivano.

Venuti sopra la strada, e mutati forse cento passi, Titta prese a dire così:

— “Spero che la fortuna consentirà alla fine di lasciarci cenare: abbiamo sofferto in questa nostra cena più sinistri che lo imperatore Carlo nel suo regno....”

— “Io poi penso, anzi pensava, ed ho deliberato in questo momento di abbandonare il soldo del duca, e ricondurmi qui presso a casa mia.”

— “Domine aiutalo! Avresti per avventura perduto il cervello? Talvolta lo fa, quando camminiamo di questi giorni sotto la sferza del sole....”

— “Io non ho perduto il cervello, Titta; non l’ho perduto. Vedi, quando m’ingaggiai per lancia spezzata col signor duca, io lo feci per le ragioni che or ti dirò. Mio padre si era trovato ai tempi della repubblica, e mi donava un mal dono, perchè invece di accomodarmi l’animo ai tempi, non rifiniva mai di favellarmi del signor Giovanni delle bande nere, del Giacomino, del Ferruccio e di altri tali, per cui mi entrava la febbre addosso di menare le mani, parendomi che anche dentro di me la natura avesse cacciato qualche cosa; ma dove potessi sfogare questa smania io non vedeva: la guerra di Siena era finita, e poi mi sarei piuttosto tagliato le mani, che unirmi agli strozzatori di cotesta nobile cittadinanza. Condussi moglie per attutire questo feroce talento: e’ furono novelle. Ad arte meccanica io non sapeva adattarmi; mercè donna Isabella, ch’è sorella di latte di mogliema, presi soldo come lancia spezzata del signor duca, confidando che egli condotto dal papa o dai Viniziani per generale, avrei militato almeno contro i nemici di Cristo, questi sozzi cani di Turchi, che Dio confonda. Ora ho logoro gli anni migliori della vita a Roma senza levare un ragno da un buco, e la spada mi si è arrugginita nel fodero.”

— “Ah sì! La morte si fa tanto aspettare, che vale proprio la pena di andarle incontro. — O non è tanta vita trovata? Non hai riscosso la paga? Che cosa puoi fare di meglio nel mondo, che mangiare e dormire?”

— “E perchè questo? Gli uomini di cui la rinomanza corre su per le bocche dei popoli, non erano carne ed ossa come noi siamo? Non bevevano gli stessi raggi di luce? Non gl’intirizziva il verno, non li scaldava la state? Non piangevano essi? Non ridevano essi? Mortali non erano come siamo noi?”

— “Senti, Cecchino, vi hanno uomini, che crescono come pini, altri come strame: questo nasce ogni anno, e ogni anno vi si mette dentro la falce; lo lasciano a seccare su i prati, e poi lo danno alle bestie. Noi siamo di questa seconda specie. — Il fieno può dire: io voglio diventare pino? Tanto vale che uno di noi presumesse diventare duca, o principe, o che so io. Quando avrai lasciato un occhio in Affrica, un braccio in America, una gamba in Ungheria, al rimanente tronco del tuo corpo dentro al quale l’anima immortale si sarà ritirata come il presidio nel cassero della fortezza, daranno il titolo di sergente, e un paio di giulii di paga. Negli stati popolari, qualche volta uno di noi poteva scappare avanti; ma adesso la gloria è pei grandi signori: la nostra parte è quella di farci ammazzare; sicchè il meglio sta nel tirare la paga, e conservarci più che possiamo in salute. Se la vita è male, anche peggio è la morte. Chiamano questo mondo valle di lacrime, ma pare che agli uomini garbi di piangere, perchè nessuno vorrebbe uscirne neanche con lo sfratto....”

— “E poniamo che tu abbi ragione: ma io non mangerò mai il pane acquistato con la viltà e col delitto; — egli mi romperebbe i denti, mi si convertirebbe in veleno dentro le viscere: io voglio conservarmi in pace con me stesso.”

— “Che Dio ti aiuti! O che cosa vuoi che i padroni si facciano della tua virtù? Tu mi pari Diogene, che condotto al mercato per esservi venduto gridava: — Chi vuole comprare un padrone! — La virtù è vela con la quale facciamo poco cammino sul mare della vita; adesso pei tempi che corrono, la virtù torna in proposito come uno scaldaletto nel mese di agosto. La vigilanza sopra la salute dei nostri padroni, la obbedienza ai comandamenti loro, una pazienza tedesca di aspettare dietro al cantone, una prontezza di assestare nel buio un colpo che spacci senza dar tempo ad un Gesù Maria, e il mistero per non metterli in cimento, ci procureranno quella fama che a noi è dato di conseguire, e pane per noi e per le nostre famiglie....”

— “Mai no, che questo non farò io, — no per San Giovambattista mio protettore; io prego ch’ei mi mandi prima la mala morte.... — Andate, spiate, referite. — Io mi morderò piuttosto la lingua, che fare la spia. — E aggiungi, Titta; non senti tu qui dentro un odore di sangue? E un giorno di questo sangue dovremo rendere conto. E noi qual pretesto, o quale scusa potremo addurre di questo sangue versato? Potremo dire: — Chiedetene conto al nostro padrone?....”

— “Veramente tu mi metti addosso qualche scrupolo; no pel sangue, chè questo entra nel mestiero.... E di vero essi ci hanno comprato l’anima e il pugnale, e certamente per adoperarlo in modo diverso da quello costumato dallo imperatore Domiziano; ma cotesto nome di spia mi ritorna traverso la gola.... Oltrecchè il duca ci avvilisce senza bisogno. — Quale ha mestieri (perchè io vedo chiaro che qui dentro giace nocco) di spie per sapere se gli sia infedele la moglie? Non ti pare egli così, Cecchino? O che vorrebbe essere egli il primo marito che intacca il pane di oro? Questi signori chiappano talora certe fantasie! Proprio chi più ne sa, meno ne apprende. Ben fece Rinaldo di Montalbano quando gli misero davanti la coppa piena, che il marito senza corona beveva, e il coronato rigettava: — Tengo la moglie mia per bella e buona; — e buttò via la tazza. Questo è prudente vivere di marito; e poi volga la fortuna la ruota, e il villano la marra: ma quando vuolsi cercare il nodo nel giunco, a che sommano tutte queste stimate? Tanto è detto antico: — Le femmine sono tutte di un conio....”

— “Non è mica vero; e vedi, io giurerei che adesso parli una cosa, che tu non credi.... O non fu donna tua madre?”

— “Ah sì! Mia madre fu donna; ma di lei già non parlava io, nè pensava punto a lei: dico delle altre....”

— “E tu non credi che nessuna donna possa amare...?”

— “Io per me lo credo, comecchè paia alcuna volta il contrario. Pónti sopra la bocca di una spilonca, e géttavi dentro un grido; l’eco te lo replicherà sei o dieci volte. Ma il grido è tuo, o della spilonca? È tuo. Pare che ti rispondano altre voci, ma t’inganni, perchè tutte quelle voci sono una cosa con la tua voce stessa. Così se dirai a una donna: — io ti amo, — ella ti risponderà: — io amo, io amo, io amo; — ma guai se credi che ella lo abbia profferito da sè; e’ fu l’eco della tua voce, e male per te se t’innamori della tua voce come Narciso s’innamorò della propria faccia.... ai tempi antichi, quando le donne toccando un fiore rimanevano incinte....”

— “Senti, Titta, io sono giovane, e di poche tavole; ma comprendo chiaro che il tuo cuore gronda sangue, forse per qualche meritata ferita: tu non sei stato amato, o sei stato tradito; ma tu hai amato?”

— “Io ne parlo da filosofo, vedi, senza avere riguardo a me in nulla. Quello che ti dico sta nella natura; e non può essere che proceda altramente. La incostanza è frutto della giovanezza, come la fravola odorosa e vermiglia della primavera; la costanza è frutto degli anni maturi, come la nespola è il frutto dell’autunno: — però nella donna la virtù si deve chiamare la nespola della vita! — Tutte le cose belle appariscono splendide di varietà. Guarda l’arco baleno, guarda il collo della colomba davanti al sole, guarda la coda del pavone. — Perchè le api fanno il dolce mèle e la cera? Perchè volano ora sopra questo fiore ora sopra quell’altro. E le femmine sono mosse dallo studio medesimo delle api. Gli stolti siamo noi, che pretendiamo prendere un’anima, e riporla in gabbia come un uccello, o inchiodarla come fa del ducato sopra il suo banco il cambiatore; anzi, più crudeli che stolti, anche morti sporgiamo di sotto terra il braccio diventato nudo osso, e presumiamo tenere pei capelli una povera donna. Se si manterrà buona vedova, — dicono i testamenti, — abbia tanto; se no, nulla: sensi bruttissimi in brutte parole: perchè noi siamo morti, non hanno gli altri a godere della vita? Noi baciamo come beviamo; badisi al vino, non al bicchiere: poco importa, anzi nulla, se la tazza di oggi sia quella d’ieri; quello che importa moltissimo si è, che il vino di oggi rallegri il cuore, ed esalti lo spirito....”

— “Tutto questo starebbe bene se la vita fosse come un libro, che arrivati al laus Deo chiudiamo, e mettiamo là per non più vederlo; ma tu sai che il libro della vita, quando è consumato, ritorna alla luce riveduto e corretto dallo Autore, per non morire mai più.76 Quindi noi pensiamo che avremo a riscontrarci un giorno nella valle di Giosafat: e se la nostra donna avesse tolto un altro marito, o due, chi seguirebbe ella? Con chi si accomoderebbe per la eternità?”

— “Con quello che meglio allora le talentasse: e non vi sarebbe mestiere di dare del capo nei muri, imperciocchè tutti avrebbero la volta loro; tutti sarebbero contenti, solo che tu pensi alla durata della eternità delle donne, la quale, per quanto mi venne assicurato da persone degne di fede, comprende tutta una settimana, e qualche volta un miccino del lunedì!”

— “Va, va, tu morrai disperato, poichè rinneghi l’amore. L’amore, dolcissima corrispondenza degli spiriti, che di due anime ne compone una sola, che raddoppia le forze e gli aiuti, che si nutrisce di mutuo sacrifizio come la viola della rugiada.”

— “Novelle, figliuolo mio, novelle: amore è istinto di rapina, è agonia di dominio, è tenacità di possesso. — L’uomo ama la donna, come ama il campo. Tempo già fu, ma un tempo lontano lontano; fa il tuo conto, anche prima di Adamo, in cui il mio e il tuo non significavano niente nelle lingue degli uomini: il passeggero vedeva pendere dall’albero un frutto maturo, lo coglieva e il mangiava. Ma una notte si trovarono insieme certi astiosi, e intorno ad una terra, che meglio delle altre appariva feconda, scavarono una fossa, e la mattina dissero: — Nessuno passerà questa fossa, perchè la terra quivi dentro compresa è roba nostra. — Non li badarono gli altri, e fecero come per lo innanzi. Allora gli astiosi piantarono una pietra nel confine, e minacciarono mali a cui osasse passarla. Non ottennero niente meglio di prima; gli uomini esclusi la reputarono burla. Finalmente gli astiosi posero sopra cotesta pietra una mannaia e dissero: — Chi passerà il termine, avrà mozza la testa. — Gli esclusi sempre più ridevano della nuova giulleria, e passarono; ma gli altri, tesi gli agguati, li presero, e li guastarono davvero. Allora piansero delle donne, dei figliuoli mandarono dolorosissimi gridi, e la proprietà entrò nelle teste degli uomini perchè furono troncate le teste....”

— “E che cosa ha da fare questo con l’amore?”

— “Io te l’ho detto, cervellone, amore del campo è uguale allo amore di donna. Le donne furono un dì come le fontane: chi aveva sete vi appressava le labbra, e beveva. Uno astioso certo giorno si avvisò dire: — Questa donna è mia; — e perchè gli credessero, inventò certi suoi sciolemi di certezza dei figli, ed altre diavolerie, come se alle cavalle e alle vacche non venissero figliuoli senza tante novelle; e poichè vide che non capivano un’acca, si raccomandò a un ciarlatano, che faceva da medico, da dottore, da buffone, e da astrologo; e questi così per celia giurò, che il Dio Coccodrillo, tenuto in reverenza grandissima, gli aveva susurrato negli orecchi, che bisognava lasciare stare la femmina di quel tristo, aliter sarebbero arrostiti dopo morte a fuoco di carbone di cerro. Non si veniva a capo di niente: il ciarlatano volle vincere la prova, e giovandosi di una invenzione fresca fresca, ch’era un frutto della terra innominato allora, e poi chiamato canapa, attorto in filo lungo e capace a legare e a stringere, ordinò che ai caparbii si mettesse intorno al collo, e si tirassero su alti sopra un ramo di quercia. Le quercie stupirono delle nuove ghiande, la lingua si arricchì di una parolaccia che si chiamò adulterio, gli uomini acquistarono un delitto, e così di male in peggio venite adoremus, come dice lo invitatorio del Diavolo.”

— “Io ti ascolto, e rido, perchè davvero sono tali sconcezze le tue, che sarebbe fiato gittato rispondervi a dovere. Io ti leggo traverso al seno, e vedo che in cuor tuo tu vuoi la baia di me....”

— “La baia! Io parlo del miglior senno che abbia mai avuto.”

— “Allora tu sei stato sempre matto.”

— “Matto! Or via: meglio che farti legare e guastare, o non sarebbe che il tuo fratello di morte dicesse: — Colui che nasce dalla terra e deve tornare alla terra, non deve usurpare la terra: vieni, cíbati di questi frutti, che ho colto prima di te; vieni, scáldati a questo fuoco che ho acceso prima di te, e ripárati in questa spilonca che ho trovato, ed è capace per tutti? — Non sarebbe meglio, che il padrone della bellezza, lieto rivo e fugace, invece di respingerne l’assetato, così gli favellasse amoroso: Dissétati anche tu, povera anima; non intisichire di agonia, inébriati di amore, e vivi; non voglio che tu vada a male per cosa di cui tu soffri inopia, e a me ne avanza per benedire e santificare. Tanto, bocca baciata non perde ventura, ma si rinnuova come fa la luna....”

— “Ma di grazia, ove hai scavato tutte queste giullerie? Comunque tristissima, non è mica farina del tuo sacco....”

— “E di vero non è: se ti fosse toccato in sorte di udirla come la udiva io dalla bocca di quell’altissimo filosofo, di quel divino....”

— “Chi mai divino?”

— “Pietro Aretino.”

— “Ah! non voglio sentirne altro. Divino certo lo chiamarono, e chiamano; il quale titolo se non rende testimonianza della sua divinità, attesta certo la suprema codardia degli uomini, che o glielo conferirono, o glielo consentirono.”

— “Tu lo calunnii: egli fu nelle amicizie tenacissimo, e portando amore maraviglioso al sig. Giovanni delle bande nere, lui con disagio e pericolo seguitava nelle più arrisicate fazioni....”

— “Cotesta amicizia guasta la fama di quel valentuomo. Io so troppo bene che mentre il signor Giovanni combatteva, costui si deliziava con le meretrici del campo....”

— “Non è vero, perchè talora rilevò delle ferite....”

— “E che monta questo? Da quando in qua toccare una ferita significa prodezza? Anche Achille gli dette di buone pugnalate, ed ei se le tolse piagnendo, e supplicando la vita. E al Tintoretto, che cosa seppe rispondere quando gli tolse la misura col pistolese? Cheto come olio. — E quando Piero Strozzi lo minacciò di farlo ammazzare nel letto, non si rinchiuse in casa, non inchiodò porte e finestre per paura dell’aria?”77

— “O che si fa egli con gente che ti coglie disarmato e alla sprovvista?.... E in quanto a Piero, se dava soggezione a Cosimo vostro duca, qual maraviglia se cercava guardarsene il Divino? E quel suo cuore sviscerato per le sue figliuoline Austria e Adria! Tu lo avessi veduto quanto pensiero se ne dava, e come fu studioso di assicurare loro la dota nelle mani del duca di Urbino, e come le raccomandava a tutti i suoi amici....”78

— “Le amava per venderle....”

— “Per Dio, non dirlo...!”

— “Non dirlo? Io lo dico, e lo dirò per quanto il fiato mi basti. O che pensi che anche a me non giungesse la fama vergognosa della morte di cotesto sozzo cane vituperato? Non morì egli udendo con riso infame le schifezze delle sue sorelle meretrici nel bordello di Venezia?79 Lévamiti dinanzi, tu sei fracido fino alle ossa. Va, mangia pane insanguinato: io tolgo a patti piuttosto morire di fame: — va, tienti la tua fede, io la mia. Al capezzale del letto, nella ora della tua morte, tu vedrai il diavolo che ti sgraffierà dalla fronte la cresima: io spero vedere la moglie castissima e dilettissima, i figli buoni, e la pace degli angioli. — Separiamoci, tu va solo a casa Orsini.”

— “Io, vedi, dovrei corrucciarmi teco, e farti conoscere che Titta non pate villanía; ma anche questo appresi dal Divino, che ai banditori delle verità è per giunta se tocca meno della lapidazione. Io dirò al palazzo che ti ha preso male, o che so io; inventerò una scusa per lasciarti tempo a dare le spese al tuo cervello, e ridurti domani al tuo solito posto....”

— “Gran mercè; io non voglio tornare, e non tornerò. — Titta! accóstati. Vedi, cotesta casa è casa mia: lì nacqui, e lì crebbi. — Titta! Non vedi un lume alle finestre? Dimmelo; ho gli occhi offuscati di lacrime, e non iscorgo bene. Santissima Vergine! è una donna quella che sta affacciata al balcone? — Titta, travedo, o vedo bene?”

— “Vedi bene; ella è proprio una femmina.”

— “O questa è Maria! Povera donna, ella mi aspetta? Chi sa quante notti ha passato alla finestra! O che consolazione rivedere la mia cara, la mia dolce Maria!....”

E così esclamando spiccò tale una corsa, che non gli avrebbe tenuto dietro un capriolo.

Titta si affaticava invano a raggiungerlo, e gridava:

— “Cecchino, férmati! Cecchino, senti!”

E l’altro correva più che mai. Affannoso, sudante, arriva Cecchino alla porta di casa sua, e appena con voci interrotte chiama: — Maria! — Cecchino! — le rispose la donna con un grido di altissima allegrezza; e sparve dalla finestra, e fu sentita precipitare quasi giù per le scale. In meno che non si dice un amen fu aperto l’uscio di strada, e con le braccia levate si corsero quelle due buone creature incontro, confondendo baci, lagrime e sospiri, con tale una passione irrefrenata e profonda, da fare tenerezza a chiunque avesse potuto vederle, come propriamente lo fa anche a me adesso, che lo racconto....

Titta arrivò tardi, e trovò l’uscio chiuso e incatenato. Volle prima battere, ma poi si trattenne, dicendo:

“Tanto varrebbe bussare alle porte di un camposanto, e aspettare che venisse ad aprirmi il primo padre Adamo. Requiem æternam dona eis, Domine. — Ormai Cecchino ha dato un tuffo a capo fitto nello scimunito. — Non vi è stato verso da cavarne niente di buono; e Dio sa se mi vi sono slogato le spalle, perchè io gli voglio bene come a figliuolo, e disegnava farmene un allievo. — Vedete un po', una femminuccia me lo ha cavato di sotto. È inutile! finchè le donne non saranno tolte via, e gli uomini non s’innesteranno come susini, il mondo camminerà di male in peggio. Ma egli è giovane; e il sangue vuole la sua parte; domani tornerà, un poco abbattuto, s’intende, ma tornerà. Ora sta a me far tutto; ed io incomincerò da mangiare, e poi andarmene a letto, e dormire finchè ne abbia voglia.... — E intanto il signore Paolo Giordano aspetta? — Aspetti sicuro! io non ho bisogno di lui: questi padroni vorrebbero che fossimo buoni, e cattivi; mansueti, e coltellatori; fedeli, e traditori; tonti, e saputi; angioli, e demoni; e poi non mangiassimo mai, mai non vestissimo, e non chiedessimo: insomma se un servitore possedesse la metà delle virtù che domandano i padroni da loro, non vi sarebbe così povero fante che non meritasse avere per servo almeno un marchese. E poi, a che monta vegliare? Non ha da essere in casa la Giulia? In meno di cinque minuti saprò più di quello che io non potrò tenere a mente, o referire; ed anche senza tanti anfanamenti, se io vorrò fare seco del ben bellezza, chi fie che mi trattenga? Certo non ella; il nostro bene è durevole e forte, non circoscritto, non mai sterile; noi invece dello individuo amiamo la specie: ella tutti gli uomini; io tutte le donne; in modo che per noi non si dà lontananza, non assenza, siamo sempre presenti, sempre innamorati, siamo come perle di un medesimo vezzo; di ogni fiore facciamo ghirlanda, e ce ne incoroniamo la vita. — Un fiore non fa primavera; l’amore non è compreso in uno affetto solo.” — E questi, e tali altri concetti rivolgendo per la mente, si allontanava dalla casa di Cecchino, tardandogli oramai di arrivare al palazzo del suo signore.

Con animo più giocondo io ritorno a Cecchino e alla Maria. Abbracciati e lieti salirono, o piuttosto volarono su per le scale, offerendo la immagine delle colombe, che con ale tese e aperte si affrettano al dolce nido, la quale per essere stata adoprata dal Dante, a me non rimane a fare altro che ricordarla. Giunti nel mezzo della sala, si rinnuovarono le amorose accoglienze: uno interrogava l’altro, e l’altro per risposta domandava a sua volta; e senza pure aspettare queste risposte, cose sopra cose ricercavano, e via, e via, sicchè dai labbri di ambedue prorompeva un turbine di parole ardenti di curiosità e di passione. Ma alla fine si accorsero di cotesto singolare colloquio, e ne risero svisceratamente, e tornarono a cambiarsi castissimi baci.

— “Orsù,” tutta rubiconda con occhi sfavillanti favellò la Maria; “tu se’ sozzo di polvere e di sudore; aspetta ch’io ti porti da lavare mani e viso.”

E quindi a poco tornò, ponendogli davanti la catinella piena d’acqua; e lieta cantando come se fosse di bel mezzo giorno, si fece all’armario, prese uno asciugamano di elettissimo lino tutto odoroso di fior di gaggío, e glielo porse per asciugarsi, ed ella pure lo andava aiutando in questo ufficio. Nè qui si rimase la cura della buona femmina, che quando è dabbene, davvero ella è la cara gioia pel cuore dell’uomo; e postasi a sedere, ordinò che anche il suo Cecchino sedesse, e sporgendo le mani gli strinse dolcemente la testa, e se l’adagiò in grembo, e col pettine gli rinettò i capelli, ne cacciò via la polvere, li sviluppò dai groppi, e spartiti per quanto si distende il cranio, gliene acconciò sopra le orecchie e intorno al collo, meglio che se vi avesse adoperato il calamistro.

E tenendolo sempre su le gote con ambedue le mani, gli alzò il volto, lo guardò fisso ridendo, e vedutolo bello se ne compiacque, come pure è lecito a onesta moglie gloriarsi di leggiadro e valoroso marito; e datogli un grosso bacio in mezzo alla fronte, esclamò proprio col cuore:

— “Tu mi pari un angiolo....”

— “Ma questo angiolo” rispose Cecchino “non essendo spoglio per ora della sua veste terrena, ha la maggiore fame che mai figlio di Adamo avesse al mondo....”

— “Or come questo? Io mi pensava che tu non avessi bisogno di niente. Perchè non lo hai detto prima? Non credere mica che tu mi colga sprovvista. Poco trovi in casa tua, ma però tanto che basterà....”

— “Che cosa vuoi? Abbiamo fatto oggi più di cinquanta miglia di un fiato. Siamo arrivati a notte, e ci hanno fermato fin qui senza darci tempo di bagnare la bocca....”

— “Ma, e non sei tu venuto col signore duca?”

— “Sono, ma non si ha a sapere; ei non è smontato al palazzo. — Però di questo a bello agio....”

— “Sì, cuore mio, a bello agio.” — E intanto la Maria aveva imbandita la mensa in un battere di occhio, non tanto per le poche masserizie e vivande che pose sopra la tavola, quanto per la gran fretta che si dava. I Fiorentini ebbero fama di sottili e di parchi oltre misura convenevole a chiunque vive onestamente, e questa fama tuttavia dura. Certo, una volta furono tali; ma non si creda che si lasciassero patire: ed anzi dalle leggi che chiamano suntuarie, rinnovate spesso, e richiamate in vigore, apprendiamo come la civile parsimonia non nascesse spontanea, ma in virtù di provvedimenti continui; sappiamo ancora come lo statuto concedendo pei pranzi due sole vivande, l’arrosto e il lesso, i Fiorentini molto di leggieri lo eludessero adoperando moltissime ragioni carni lesse e arrostite, per l’unico lesso ed arrosto consentiti dagli statuti. Intorno al vestire, Franco Sacchetti in certa sua novella piacevolissima ci ha conservato le infinite arguzie usate dalle donne, per le quali i giudici non potevano mai coglierle in fallo, nè riusciva loro mai di applicare la legge.80 E poi quando giungevano in Firenze persone di alto affare, i cittadini che le ospitavano pagavano la multa, e sfoggiavano con insolita magnificenza. I ricordi dei tempi ci hanno conservato il modo tenuto dal Magnifico Lorenzo con Franceschetto Cibo e la sua corte, quando venne a fare le nozze con la sua figlia; e questa avventura dimostra come sia arte antica in tutti coloro che attesero a spegnere la libertà della patria, osservare studiosamente le apparenze, mentre affilano la scure per tagliare la sostanza. Ma le casse erano piene di fiorini di oro, grandi i commerci, maravigliose le industrie, stupende le imprese; e allora concepivano e mandavano a compimento cose che ai giorni nostri il solo vederle sbalordisce. Ingiusta poi è la fama che dura intorno alla grettezza fiorentina; testimonio recente noi lo troviamo nelle satire del D’Elci, là dove dice:

... a te torno, o mia frugal Firenze,
Dove avarizia ha splendide apparenze.81

Molti lo confermano, ma, come avviene spessissimo, piuttosto sopra la fede altrui che per osservazione propria. I Fiorentini ai giorni presenti agita il demonio del lusso e della pigrizia: come tutti gli altri popoli della Europa, non dirò che non credano, ma poco fidano nel paradiso celeste; si sono fabbricati anch’essi un nuovo paradiso terrestre senza l’albero della scienza. Poco importa se raccogliamo fiori di un giorno, e caduchi; anzi, che si rinnovino è bene; qualsivoglia durata pesa; vivere, e godere comprende lo scopo supremo delle umane voglie. — Una volta il secolo dubitava tra il bene e il male; e certo grandissimo travaglio era cotesto della mente e del cuore; pure lo stesso tormento rendeva testimonianza di vita: oggi il secolo crede, sì, crede, ma la sua fede non è nel bene. Viviamo tutti come se il medico ci avesse spediti; e’ pare che temiamo che domani il cielo non sia per cuoprire la terra: non più piramidi, non più obelischi; la più faticosa opera che osiamo imprendere noi, sta in comporre un mazzo di fiori; la tela del ragno ci sembra cosa troppo secolare, ci costituiamo numero ed enti nati per consumare il grano. Orniamo pertanto di papaveri le tempia dei nostri eroi, sia il sonno la epopea dei nostri tempi, lo sbadiglio la storia. Nel sepolcro ci aspetta vita maggiore che sopra questa terra, almeno durante il periodo della putrefazione. Nessuno ci può muovere ragionevole rampogna: noi pei tempi, i tempi per noi: la nicchia e il santo corrispondono a maraviglia. Perchè logorarci per procacciare una rinomanza che detestiamo? Perchè attendere a studii i quali potrebbero fare sospettare la nostra esistenza, che noi con ogni maniera di sforzo c’ingegniamo mettere in oblio? I figli nostri cresceranno peggio o meglio di noi: se peggio, riesce indarno ogni argomento; se meglio, vergognerebbero delle nostre miserie. — Bene dunque ci avvisiamo a dormire, a tacere, a godere, e a morire. Questo veramente si chiama il trionfo della morte! —

E i piattelli posti sul desco erano due; uno dirimpetto all’altro. Tutto appariva presto, e a Cecchino non dava il cuore di gustare le vivande che aveva desiderato; anzi teneva la faccia rivolta al capo della mensa, e ad un tratto versò una grossa lacrima, e proruppe in un gemito profondo. La moglie, vista quella subita desolazione, gli domandava smaniosa:

— “O Santa Vergine, ch’è questo mai? Cuore mio, che cosa ti affligge? Dimmelo via, non lo nascondere alla tua povera consorte....”

— “Ahi! Maria, non ti ricordi come l’ultima volta che sedemmo a questa mensa noi fossimo tre....”

E qui successe un silenzio lunghissimo. Primo a romperlo fu Maria, la quale in questa maniera riprese a dire:

— “Madonna Laudomine è andata propriamente in paradiso. Con quanta allegrezza non vide ella avvicinarsi la ultima sua ora! Come non favellava co’ Santi, che parevano accorsi per assisterla nel suo transito! Ormai questa vita le si era fatta grave; il dolce lume del giorno non rallegrava più le sue amorose pupille: — e tua madre non avrebbe più veduto la tua faccia, Cecchino. Ella moriva come una sposa che va a nozze, e lieta di saperti così bene avviato nel sentiero del Signore, che niente varrebbe ormai a fartene abbandonare la traccia. L’ultimo suo pensiero fu a Dio; il penultimo a te. — Digli, — parlando le parole estreme mi ammoniva — digli ch’io lo benedico, digli che i suoi discendenti l’onoreranno perchè ebbe carità per sua madre; e per ultimo gli dirai, che quando fie sazio di anni, sua madre lo aspetterà in paradiso. — Per le quali cose conforta lo spirito travagliato, e non volere lasciarti in balía del dolore....”

— “Certo, la buona donna era vecchia, e adesso è fatta cittadina del cielo; ma non ostante desideratissima e dolcissima sopra tutte le cose mi sarebbe stato poterla vedere....”

— “E chi può dire che adesso, in questo momento che noi favelliamo, non ci stia qui dintorno? Se, come è fede, noi siamo anima e corpo, perchè l’anima che sente amore, concedendolo Dio, non tornerà a visitare le persone e i luoghi che in questo mondo le furono cari? Consólati, Cecchino mio; pei tempi che corrono, il peggio non istà nel morire, bensì nel vivere....”

Allora Cecchino consentì a nutrirsi, ma gli era passata la voglia; sicchè in breve ebbe posto fine alla cena: forse più che non volle, beveva.

La donna, molto per curiosità, e molto ancora per distrarre il marito dai sinistri pensieri, tornò sopra il conto del duca.

— “Dunque il signor duca è arrivato?”

— “È arrivato; ma mi fa mestieri trovarmi altro pane....”

— “Come? Ti avrebbe per avventura cacciato?”

— “No, me ne sono venuto io stesso.... — Ora, senti; comecchè alle donne non istia bene confidare le cose che devono rimanersi segrete, nonostante, io, per averti sempre conosciuto discretissima, e dabbene femmina, non ti nasconderò veruna parte dell’animo mio. Il duca è venuto, e credo con mali pensieri. Con mistero, e a notte, noi penetrammo in Firenze: favellò a lungo col cognato, poi si ridusse guardingo alle stanze del casino di San Marco; quivi rimase solo, e mandò me e un’altra lancia spezzata al suo palazzo per dare ad intendere alla signora Isabella, che domani, o l’altro appresso, ei sarebbe arrivato: intanto spiassimo, ed ogni fatto e detto a lui diligentissimamente referissimo....”

— “E la cagione?...”

— “La cagione è manifesta,” riprese Cecchino abbassando la voce: “fino a Roma corse la fama della vita della signora Isabella; io per me tengo per fermo ch’egli sia venuto a vendicare il suo onore nel sangue della moglie; — e della vita della duchessa all’ora in cui siamo io non darei un soldo lucchese.”

— “E non vi sarebbe modo di salvare cotesta male arrivata signora?”

— “Nessuno; perchè, a quanto sembra, i fratelli hanno voglia di castigarla più assai del marito: oltrechè mi pare ch’ella sia per ricevere pena condegna ai suoi meriti; e se io invece di andare a spiare i fatti suoi, rendermi partecipe della sua morte, e macchiarmi le mani nel suo sangue, ho tolto commiato volontario dal duca, non perciò mi sentirei punto disposto di correre pericolo per tale che non merita nulla.”

— “O questo come puoi dire? Dunque la bella rinomanza di una gentildonna sarà in balía del primo paltoniere che si avvisi contaminarla? Da quando in qua l’accusa ha da essere leggera in proporzione ch’è grave il fallo apposto, e truce la pena?”

— “La persuasione non abbisogna mica di testimoni, e di strumenti: e poi quando il popolo parla, Dio ha parlato; e se non è lupo, cane bigio non manca.”

— “Ed io, comecchè a malincuore, vo’ porre che la colpa vi sia: ora dimmi, e chi avrebbe dato sopra la sua moglie diritto di morte al duca? Questo giudice ha la coscienza netta? Questo accusatore è innocente? La mani ha pure questo sacerdote? E se non è innocente, perchè mai giudica e condanna in altrui la colpa ch’egli pure ha commessa?”

— “Oh! ci corre tra il marito e la moglie. La moglie mette in casa figliuoli che non vi dovevano entrare, divide la sostanza tra persone con le quali non si doveva dividere: il figlio sospettato illegittimo viene rejetto da tutti; gli altri lo disprezzano; egli gli odia; e questi germi pessimi troppo sovente abbiamo veduto partorire nelle famiglie frutti sanguinosi.”

— “E tu non dici il vero; imperciocchè l’uomo procreando figliuoli fuori di casa, vorrà forse abbandonarli? Se mai avvenga ch’egli li abbandoni, ecco il mondo lo biasima, e la sua coscienza lo riprende: dove poi a loro provveda, non assottiglia ingiustamente anch’egli la sostanza ai figliuoli legittimi? No, pari i doveri, pari le colpe, e pari avrebbero ad essere il perdono, o le pene....”

— “Eppure non è così, e come la discorri non mi ci entra. Una ragione vi ha da essere, sebbene non mi riesca trovarla....”

— “Senti, tu non la trovi perchè non ci è; se ci fosse, ti ricorrerebbe spontanea alla mente. Io, pensando tra me, ho veduto che il mondo si riposa sopra certi principii che va chiamando verità: alcuni di questi pare vedere e toccare; tanto i letterati grandi, quanto gl’idioti, ci acconsentono, e dicono: — Sta bene; — altri poi non s’intendono, paiono alchimia, e bisogna stillarci sopra il cervello per andarne capaci. I primi mi paiono monete di buona lega, i secondi moneta falsa; i primi scendono dalla natura, i secondi dallo artifizio.”

— “Eh! Le buone femmine non la devono squattrinare tanto pel sottile, e obbedire alla legge che gli uomini impongono....”

— “Legge violenta, giudice iniquo, e pena scellerata....”

— “In fe’ di Dio, tu sei riuscita tale favellatrice, che mi fai spavento. Chi ti ha messo in bocca queste invereconde parole?”

— “La ragione....”

— “O forse il bisogno di difendere le bieche tue opere?” E Cecchino commosso da sdegno maraviglioso prese un coltello, e trapassata la tovaglia, lo conficcò quasi un pollice dentro la tavola. La povera Maria, tutta accesa in favore della sua signora, non pose mente a cotesto atto; anzi con insistente petulanza:

— “Che opere e che non opere vai tu fantasticando?” replicava. “Io ti dico che non ci hanno ad essere due pesi e due misure, e che non ci sono....”

— “E va bene. Quando della turpitudine della duchessa e tua non mi occorresse altra prova che la presente tua sfrontatezza, dovrebbe bastarmi, e averne ancora per giunta. Queste erano le festività, queste le accoglienze, e questi i baci? Ahimè misero!....”

E la Maria, percossa dalla mutata sembianza del marito, si avvisò domandargli qual subito pensiero lo tenesse occupato; ma questi ormai non la badava più, e se ne stava come uomo tratto fuori di sè, e favellava accenti tronchi in parte dolorosi, in parte minaccevoli:

— “Ahi! Titta, com’erano le tue parole vangelo. — Ed io correva a scavezzacollo verso la bene amata consorte! Valeva meglio mi fossi fiaccato le gambe; ancorchè i mariti fossero cani, non basterebbero a guardare le donne loro: — i ladri entreranno pei tetti. — Io mi voglio buttare via: tanto nel mondo è finita ogni cosa per me. Però tu non hai ad essere lieta della mia morte, Maria; — no, faccio voto a Dio che la mia maladizione ti si attaccherà come un tarlo nelle ossa. — Tu mi hai tradito, altri tradirà te; ti si apparecchiano giorni tristi, vita squallida, e morte amarissima....”

In mezzo a queste querele, che la passione gli spingeva alla bocca, ecco muovere dalla prossima stanza un suono di fanciullo che piange, e una voce che chiama:

— “Mamma! — Mamma!”

A Cecchino si drizzarono i capelli irti a modo dello istrice, si fece in volto prima bianco come un lenzuolo di morto, poi rosso di fiamma; gli tremarono convulsi i labbri, balenò con gli occhi luce sinistra, e subito dopo invaso da bestiale furore afferra Maria per le braccia, e la strascina nella camera. Appena posero i piedi sopra la soglia, che il bambino si levò a sedere sopra il letto, e stendendo festoso e giulivo le mani verso la Maria, che ormai considerava come oggetto gradito, replicò:

— “Mamma! — Mamma!”

La voce strideva a Cecchino fra i denti come un bramito di fiera: sospinse da sè con tanto impeto Maria, che la male arrivata femmina andò a investire riversa nel letto, e cadde sopra il fanciullo: ella pure, vinta dalla sorpresa e dalla paura, sbalordita dallo evento, combattuta anche dalla ira, non era capace a formare parola: ma la ira presto le cadde giù dall’animo, e a commoverla più potentemente sopraggiunse la pietà. — Per poco non le si rompeva il cuore agitato dal groppo di passioni tanto veementi: scivolò giù dalla sponda del letto, e postasi in ginocchio, fece delle mani croce, e col sembiante supplicava al marito furibondo.

E il marito per via di cotesti atti sempre più inferociva, e brontolava cupamente:

— “No... hai da morire... dobbiamo tutti morire... non vi è pietà... non voglio averla per me... pensa se a te... e se a questo serpentello...”

E la donna singhiozzando:

— “Cecchino!... Cecchino!... senti...” — E non le riusciva aggiungere altro.

— “Prepárati a morire... Hai un’ora... mezza... no... cinque minuti di vita...”

— “Senti... Lasciami...”

— “Riconcíliati con Dio.... Ma è inutile.... tanto, traditori non entrano in Paradiso...”

— “Non posso...”

— “Hai terminato?”

E Maria sfinita di angoscia, per la impotenza di cavare dalla gola la parola intera, con la destra faceva l’atto di chi nega una cosa; e la furia ch’ella poneva in quel moto era tale, che lo scritto viene meno a significarla. O come la stringeva ineffabile affanno, pensando che poche voci avrebbero placato cotesta procella, composte le ire, salvato tante e così care vite, e non potere pronunziare cosiffatte parole! E Cecchino invasato dal demonio, ogni indugio aborriva, nel pensiero omicida infuriava, e gli pareva mille anni di tuffare le mani nel sangue di lei! — Povera donna!

— “E se a te non importa finire, a me tarda incominciare.... Allo inferno, rea femmina!....”

E sguainata la daghetta, la manca sospinse in avanti per ghermire. Maria proruppe in un grido, e percosse come corpo morto sul pavimento. Cecchino, chiuso il cuore alla pietà, non si ristava; piegò la persona, ed intendendo a immergerle nel seno la lama della daghetta, le strappava rabbiosamente e veli e panni, quando con sua maraviglia vide uscirne una lettera: immaginò che fosse dell’odiato adultero, e ne trasse argomento di miserabile gioia, proponendo estendere fino a lui la vendetta. Prende la lettera, si accosta al lume, e legge nella sopra carta:

«Alla Maestà Cristianissima di Caterina regina di Francia.»

Pensò trasognare: guardò la terza e la quarta volta; lo scritto stava pure come aveva letto la prima. — Spiega il foglio, e trova:

«Onorandissima come madre. — Considerando la gravità dei miei peccati, e la pena che me ne possa incogliere sopra questa terra valgami ad ottenere dalla misericordia infinita di Dio quel perdono di cui lo supplico con tutte le viscere dell’anima mia, ho deliberato di non sottrarmi al destino, qualunque e’ si sia, che la Provvidenza mi apparecchia. Ma sebbene io mi appigli a questo partito, che mi pare essermi dettato dal mio Angiolo Custode, non posso poi nè devo inviluppare nella mia rovina una creatura innocente, e per ogni verso degnissima di commiserazione. Io confido pertanto questo figlio del mio dolore alla vostra pietà: pensate che la sua culla è circondata di serpenti, e la sua vita è la vita della belva del bosco, a spegnere la quale ogni uomo pensa avere ragione e diritto. Non vi vogliono meno della prudenza e della autorità di Regina gravissima e potentissima quale voi siete, per salvare questo misero capo: se non che mi è a bene sperare cagione vedere come la donna a cui raccomando questo figliuolo perchè lo riponga nel grembo della M. V. quasi in porto fidatissimo di salute, lascia patria, casa, e parenti, per consolare di un qualche conforto me peritura. Questa donna è mia sorella di latte: nata e vissuta nelle vie del Signore, mi abbandonò rejetta nella ora del peccato, e mi ritorna spontanea in quella della sventura. La urgenza dei casi non patendo indugi, ella si pone sola in cammino da me scongiurata; ma io farò in modo che la raggiunga in breve l’amatissimo suo marito. Giovani entrambi fedelissimi, meritano la benevolenza della M. V., che prego a somministrare loro le più larghe grazie e favori di cui il vostro animo regio è così copioso largitore con tutti, e specialmente poi con quelli che in vantaggio dei congiunti vostri e della magnifica vostra casa si mostrarono volenterosi di assumere incarichi ancorachè con manifesto pericolo delle loro sostanze e persone. Io non ho a dire altro, che supplicare la M. V., per l’amore di Gesù Cristo nostro Salvatore, di prendere sotto la sua protezione questa misera creatura. Dio ve ne darà quel rimerito, che non posso io. — Pensi la M. V. essere queste le parole novissime di persona a voi stretta per sangue; — questo essere il mio testamento; — e con questa fiducia morire rassegnata e compunta, chi altramente avrebbe concluso la vita disperata e bestemmiando. Quando giungerà alla M. V. la notizia della mia morte, che presento vicina, vogliate ricordarvi di me nelle vostre orazioni, e fare suffragare l’anima mia. Vi auguro in questo mondo le maggiori felicità, che la gloriosa mente e il cuore magnanimo della M. V. sanno, per così dire, creare; e baciandovi le mani mi dichiaro della M. V. indegna, ma pure affettuosissima figliuola. — Isabella duchessa di Bracciano.»

Prima assai di arrivare in fondo, Cecchino accorto dell’errore suo, spogliata la ira, venne preso da tale una passione al cuore, che non potè fare a meno di sfogare con lacrime copiosissime. Depose il foglio; già prima assai aveva scagliato lontana da sè la daga, e tutto in pianto si abbandonò sopra la sua Maria, sollevandole amorosamente il capo, e con mille nomi dolcissimi chiamandola. Ma la povera donna non dava segno di vita, e nella caduta aveva percosso così duramente, che dietro la orecchia destra le si era rotta la pelle, e grondava sangue. Per poco stette che Cecchino pure non venisse meno; ma lo sostenne il pensiero di provvedere alla salute della sua donna amatissima: le fasciò la ferita, l’adagiò sopra il letto, tentò farla rinvenire con acqua e con aceto, col fumo della esca, con quello delle penne di pollo; insomma non vi fu argomento che egli non mettesse in opera; ma la donna non rinveniva. Egli poi non irrompeva in lagnanze inopportune: gemeva di tratto in tratto, e alzava supplichevoli gli occhi al cielo. — Alla fine disperato le si pose al fianco, l’abbracciò stretta, la inondò di lacrime, la ricoperse di baci, e tra i singhiozzi esclamò: — “Signore, fate ch’io muoia qui accanto a lei!”

Ma il Signore non volle un tanto danno, e profferito ch’ebbe appena Cecchino cotesto scongiuro, che Maria, anch’essa sciolto un profondo sospiro, aperse gli occhi, immemore di quanto fosse accaduto.

Cecchino si pose in ginocchio davanti a lei, non osando pure aprire la bocca: ma alla Maria tornava a poco a poco la memoria dei casi passati, e si sforzò rilevarsi; e vista aperta la lettera da lei custodita con gelosa cura nel proprio seno, sollevò Cecchino da terra, e sorridendo con un languido sorriso mormorò queste parole:

— “Di poca fede, perchè hai dubitato?”82

E quindi a breve, guardate dal balcone le stelle soggiunse:

— “Cecchino, non abbiamo tempo a perdere: tra pochi momenti verranno per noi. Mentre io vesto il bambino, tu metti assieme i tuoi panni, e cúciti addosso l’oro e le gioie della signora; — al rimanente è stato già provveduto.”

Cecchino non aveva volontà propria; ormai obbediva come cosa passiva allo impulso che gli veniva dato: tante, e così diverse, e tanto profonde erano state le passioni che lo avevano commosso nel giro di poche ore, ch’ei si sentiva quasi annullato; ma dove fosse rimasta in lui facoltà di pensare e di volere, non si sarebbe mai opposto ai desiderii della sua moglie, che animata da spirito di carità, di sacrifizio e di amore, gli pareva creatura da uguagliarsi piuttosto alle sostanze celesti, che anteporsi alle mortali. Insomma, come cosa santa la riveriva ed amava. — Di tali e così subiti trapassi vanno capaci le umane menti quaggiù! Misere intelligenze in balía della passione, come un fragile schifo commesso alle tempeste dell’oceano, per poco piangiamo, per poco ridiamo, ma, e questo importa assai più, per poco ancora trascorriamo a fatti che come ci tolgono la dignità dell’uomo e la pace dell’animo, così ci rendono meritevoli in questa vita del vituperio degli uomini, e nell’altra dello sdegno di Dio.

Nè s’ingannava punto Maria; perchè non istette guari, che comparvero due uomini sotto casa, e battuto con molta circospezione alla porta, invitarono con piana voce Cecchino, recatosi alla finestra, di scendere, e avacciarsi, essendo apparecchiata ogni cosa. Andò prima Maria col pargolo; seguitava Cecchino con un forziere, chè pochi panni era prudente portare; e dato il primo passo fuori della porta si voltò indietro sospirando, e disse:

— “Ti lascio per non rivederti mai più!”

E scesi che furono, Maria chiamando Cecchino maravigliò forte di non trovarselo al fianco: stava per rifare le scale, quando apparve di nuovo Cecchino affannoso, che le favellò sommessamente:

— “Mi era scordato del rosario di mia madre sospeso a capo del letto, e sono tornato per esso. Se fosse appartenuto alla tua, tu non te ne saresti dimenticata....”

Maria gli prese la mano, e gliela strinse, — perchè conobbe che non aveva difesa, — e l’accusa le piacque.

Camminarono alcun tempo in silenzio, e trovata una carrozza che aspettava presso al canto del Giglio dietro San Lorenzo, vi entrarono tutti, e si diressero a porta San Frediano. Quando vi furono vicini, uno degli sconosciuti scese, e chiamato il gabelliere mutò seco lui alquante parole, ch’ebbero virtù di fare aprire la porta. — Lo sconosciuto tornò alla carrozza, persuase a scendere l’altro compagno, e disse:

— “Potete andare: — buon viaggio; — Dio vi accompagni.”

Maria, per la pratica grande che ne aveva, e perchè già cominciava l’orizzonte dalla parte di oriente a diventare di colore rancio, riconobbe in cotesto uomo il cavaliere Lionardo Salviati; onde ebbe baldanza di chiamarlo a sè, dicendo:

— “Favoritemi ascoltare una parola, signore....”

E il cavaliere ascoltava.

— “Messer Lionardo,” gli mormorò all’orecchio “quando la vedrete, assicuratela che il suo figliuolo si trova in salvo: ditele che mio marito viene meco, sicchè non si prenda altra pena. Se potete, salvatela; perchè la sua morte, senza il vostro aiuto, è sicura. La roba che ho lasciato in casa, fatemi la carità di dire al vostro amico don Silvano che la venda, e ne dica tanto bene pei morti, e.... pei morti secondo la mia intenzione....”

— “Sarà fatto.”

E messere Lionardo, chiuso lo sportello, ordinava che la carrozza partisse.

Maria favellando di morti accennava Isabella, ma le rimanendo, comecchè languidissimo, un fiato di speranza, non lo volle spengere alla sua fede con quella trista commissione; ma in cuore ritenne che avendola data pei suoi cari defunti, ormai vi si poteva comprendere anche l’anima d’Isabella.


CAPITOLO OTTAVO.

LA CONFESSIONE.

Venuta la mattina della Pasqua, la donna si levò in su l’aurora et acconciossi, et andossene alla chiesa... il marito dall’altra parte levatosi se ne andò a quella medesima chiesa, e fuvvi prima di lei... e messasi prestamente una delle robe del prete con un cappuccio grande a gote, come noi veggiamo che i preti portano, avendosel tirato un poco innanzi, si mise a sedere in coro.... Ora venendo alla confessione, tra le altre cose che la donna gli disse, avendogli prima detto come maritata era, si fu che ella era innamorata.... Quando il geloso udì questo, gli parve che gli fosse dato di un coltello nel cuore.

Boccaccio, Giorn. VII, Nov. V.

Evento dei tempi di cui tenghiamo proposito singolarissimo, e di considerazione veramente degno, si è quello di vedere come nei conventi si mantenessero, e dai frati si manifestassero spiriti avversi al potere costituito, nel modo stesso che nei tempi antecedenti si era per loro dimostrata opposizione maravigliosa al principato che si costituiva. Del qual fatto dandomi io a investigare le cagioni, parmi che in parte le si debbano attribuire alla vanità, vizio naturale, che molto di leggeri alle menti dei migliori si appiglia, nè da noi figliuoli di Adamo, per quanta industria sappiamo adoperarvi dintorno, affatto mai non si scompagna; parte al difetto della vita attiva, e al chiudersi nella contemplazione di una cosa; per cui avviene che la contemplazione così s’insignorisce dell’anima, che l’uomo si compenetra della idea, la idea dell’uomo, e diventano tutta una sostanza necessariamente palpitante e vivente, nè l’una puoi sopprimere se l’altro non uccidi. La quale condizione siccome feconda di geste inclite, così talvolta lo è di luttuosissimi fatti: — per lei sono l’eroe e il pazzo; ella guida al trionfo o al patibolo, e lo intervallo, a cui ben vede, apparisce meno largo di quello che altri per avventura non pensa. Forse la cagione del fatto considerato può nascere da carità del prossimo, che non consente a cuori appassionati sopportare la vista del mal governo al quale viene condotta la stirpe redenta da Cristo a prezzo di sangue, ed odiano l’uomo che presume ridurre in menzogna lo eterno riscatto. — Può anche dirsi, che in alcuni sia desiderio irresistibile di martirio, che inebbria a modo di ogni altro amore lo spirito dell’uomo, e fa parergli bella la morte per una parola lanciata nella faccia al tiranno nel momento della sua feroce superbia, e che vi rimarrà impressa come se l’avesse sfolgorata il fulmine di Dio. — E forse, e senza forse, altre più molte sono le cagioni del fatto, che o per cortezza d’ingegno, o per essere il luogo male acconcio a simili ricerche, io cesso discorrere, le quali congiuntamente, e non ognuna per sè, lo partoriscono, essendo l’origine delle azioni nostre complessa oltre ogni credere, e tale da perdervisi dentro i meglio vigorosi intelletti.

Dagli alti pergami scendeva pertanto una parola animosa, ma spesa invano, non altramente che se fosse parlata dentro un camposanto. Così la predica del sabato dopo la seconda domenica di Quaresima di Fra Girolamo Savonarola valse a far sì che gli ascoltanti in lacrime dirotte ed in altissime grida prorompessero, ma non valse a impedire a Lorenzo il principato, e a lui profeta inerme la morte infame; nè più tardi la predica del Padre Marcello di San Francesco in Duomo, la quale, per quanto le memorie dei tempi ci tramandano, incominciava: «Firenze, io sento che tu mi vuoi ammazzare; io la rimetto in te: degli altri predicatori hai ammazzato. Sappi, Firenze, che questa sarà la mia corona: volesse Dio ch’io fossi al primo della Quaresima. Apri pure gli occhi ai tuoi peccati, Firenze: tu sei fatta una pubblica meretrice: ma guai a te! guai a te!»83 potè trattenere le libidini e la tirannide del Granduca Francesco. Quando la fortuna dei popoli precipita, il braccio solo di Dio sarebbe bastevole puntello alla grande rovina. I fati devono essere adempiti, l’antica sapienza immaginò Giove sottoposto al Destino.

E Francesco compiacendo al suo fiero talento, avrebbe desiderato tenere sopra le ginocchia la testa mozza del frate, e pungerne con uno spillo la lingua come usò la empia Fulvia del sacro capo di Cicerone; ma lo trattennero i rudimenti paterni, e i consigli dei savi educati alla scuola di Cosimo.

La molla tanto acquista di forza in respingere, quanto più noi la tenghiamo compressa. Un fuoco chiuso s’irrita dentro al recipiente, e fa violenza nelle pareti finchè non le rompa; una voglia contradiata si fa agonia, l’agonia diventa furore. Fino al 1750, cosa incredibile, e vera, in Firenze sopra la piazza della Signoria, là dove fu bruciato Fra Girolamo, ogni anno la mattina del 23 di maggio si trovava la fiorita, o fiori sparsi come si costuma davanti alle chiese nelle feste di qualche santo.84 — A che montano i fiori? Coi fiori tessiamo le ghirlande pei morti. — A che nuoce uno amore manifestato una volta l’anno, e co’ fiori? Chi è quel così male accorto nemico, che volesse spegnere una vita consunta da etisia? Non gittate il fiato indarno: la candela è giunta al verde: sofferite anco due o tre pallidissimi getti di luce, e poi regnerete in pace nei dominii ampi dell’erebo e della Notte.

La mente di Cosimo apparecchiò un alveo larghissimo, lo munì di argini validi, e ad ogni urto gagliardi; poi consentì, anzi desiderò che la opinione pubblica a modo di acqua vi dilagasse dentro. Egli fermo sopra gli argini ne guardava con solerzia ed accortezza supreme lo impeto e i moti; e conobbe sorgerne di tre generazioni uomini.

I primi, ed erano i più, incapaci di pensare e di agire, vero ripieno della stirpe umana; e questi lasciava come innocui che il gran flutto del tempo li riportasse nel nulla donde li aveva prima dipartiti: appartenevano a questa generazione tutti coloro i quali nello scontrarsi per le vie, volgendo cautamente uno la faccia a mezzo giorno, l’altro a tramontana, per non essere avvertiti dal bargello o da cui per esso, si stringevano con molta compunzione le mani, alzavano gli occhi lacrimosi al cielo, sospiravano profondi, della servitù di Babilonia discorrevano, Gedeone, Giuda Maccabeo, o Debora ricordavano, nelle braccia del Signore la causa loro confidavano, come se il Signore dovesse affannarsi a dare una patria a cui non la merita, e combattere le battaglie di un popolo che ha paura dell’armi. — Vi appartenevano coloro, che copiosi dei beni di fortuna stavano lontani dalla città compiangendone i cittadini di cui pareva non si considerassero parte; e come Scipioni sdegnati, riparavano magnanimamente dalla pubblica sventura entro uno asilo lieto di quanto l’abbondanza della terra o la industria degli uomini sanno produrre di più esquisito per soddisfare le voglie fisiche dei mortali nel mondo. Dandosi sembiante di nocchieri stanchi, e rotti dalle fatiche, stavano dalla riva a considerare le nuove procelle: — essi, che non avevano mai navigato neppure sopra la piana superficie di un lago! E invece di nocchieri, parevano ed erano del tutto somiglievoli al topo romito di Lorenzo Pignotti,

Che per andar dal mondo assai lontano,
Entrò dentro d’un cacio parmigiano.85

Pessimi cittadini, e strumento validissimo di tirannide!

Vi appartenevano coloro, che volendo alla propria ignavia e alla comune viltà apprestare onesto motivo, affermavano doversi aspettare a primavera: ma non dicevano quale; sicchè questo loro detto corrispondeva al cartello che alcuni venditori appiccano nelle botteghe; ove sta scritto perpetuamente: — oggi non si fa credenza, domani sì; — e quanto prima dovere andare il mondo a soqquadro: sapere, e saperlo di certa scienza, che il Turco voleva entrare in Ungheria, e tentare Vienna, e non essersi per anche messo in campagna, perchè non avevano cucito le tre code al turbante del Gran Visir.... Filippo II di Spagna avere detto apertamente, che Cosimo non aveva voluto imprestargli danaro, e guai a lui! Eglino essere come i pescatori di anguille, che per pescare con frutto attendevano le acque torbe. Vi appartenevano quelli, che orridi per folta capelliera, e per faccia tutta irta di peli, ormai non potevano produrre altra testimonianza della umanità loro, tranne la punta del naso; — e gli altri, che tenevano in tasca forbiti pugnali sizienti sangue, e che per ora, onde non lasciarli asciutti, se ne servivano per mondare le pere; — e gli altri che per addestrarsi alle armi, e afforzarsi contro ai perigli, con uno spadone a due mani davano a torto e a traverso manrovesci, fendenti, e punte da Orlando entro sacchi ripieni di semola; e quando erano tutti in sudore, scalmanati e rubicondi esclamavano: — «Beviamo! abbiamo bene meritato della patria!» — e giù bicchieri di santa ragione. Costoro una capacità avevano certo, e se il lago di Bientina fosse stato vino, a questa ora sarebbe asciutto da duecento e più anni a questa parte; — e gli altri infine, che alle stelle remote ed alla luna confidavano le secrete ansietà, i lai arcani, e gli ardori interni, che il giorno dopo della esalazione loro correvano manoscritti per tutta la città. Vi appartenevano finalmente, non già perchè venga meno il catalogo, ma perchè non riesca sazievole il novero troppo lungo dei disutilacci che non fur mai vivi, quelli i quali si affaticavano a far credere che mediante l’alfabeto si poteva racquistare la perduta dignità: — «I figli della terra, essi dicevano, misero lo scompiglio nelle sedi celesti ponendo Olimpo sopra Ossa, e Ossa sopra Pelia, e provocarono la tremenda procella dei fulmini di Giove: noi meglio avvisati torneremo nei cieli alla sordina; fabbrichiamo copia di scale tascabili, apparecchiamo degli spaghi, e così quando se lo aspetteranno meno, noi daremo una scalata alle nuvole. L’uomo è più da temersi col naso cavalcato da un paio di occhiali di Roma, che cavalcante egli stesso un buon destriero di battaglia; un libro in-quarto difende meglio un popolo di una fortezza; da una lettera sola scaturiscono più libbre di civiltà, che da un cannone da trentasei libbre di palla; un elle ferisce meglio di una lancia, un j lungo fende assai più di una scimitarra; un dittongo può diventare il passo delle Termopili, — o le Forche Caudine: — lasciate fare a noi; col tempo e con la pazienza foreremo le Alpi anche con una lesina: vedete il tarlo!....» — Ahi sciagurati! Il tarlo rodendo muore nella ignobile tomba che ha scavato. Enceladi in-sedicesimo, non si fa guerra a Giove con gli aghi, le corazze di malva, e le barbute di gusci di noce, come gli eroi della Batracomiomachia di Omero! Nè uomini nè donne; androgini morali, molto più nuocciono alla parte a cui si appigliano, che le cavallette di Moisè non guastarono le mèssi nelle pianure egiziane.

Ma quello ch’era a considerarsi più strano consisteva in questo, che anche presso i fuoriusciti, anzi principalmente presso loro, non si rifiniva mai di congiurare: quei di fuori tacciavano di accidia e di peggio quei di dentro, e li proverbiavano sopra la primavera, sopra l’autunno, e simili altre miserie; quei di dentro mettevano accusa a quelli di fuori: ambo i lati smaniosi di fare, ambo i lati incapaci di fare, ardenti come fuoco quando la occasione d’irrompere si allontanava, diaccio quando pareva avvicinarsi: una parte biasimava l’altra, e sopra tutto erano irreconciliabili in massima, chè taluni sostenevano il mondo avere ad essere un arcolaio, tali altri una girandola. I fuoriusciti stavano per la girandola, quei di casa per l’arcolaio: «Poniamo, dicevano i primi, fuoco alle polveri, e vedrete come lieve scintilla gran fiamma secondi; vedrete qual mole di lava ardente inonderà la terra: fate, ardite; se qualcheduno per caso ne restasse appeso per la gola a cagione della Legge spolverina,86 non se ne dia per inteso, dacchè dalle sue ossa nasceranno vendicatori, e il suo sangue cadrà come rugiada di vita sul fiore che sospiriamo.» — «Non vuolsi avventurare così grossa posta, rispondevano i secondi: chi va piano va sano; tardi, ma certo: festina lente, tarde, sed tuto (con le altre leggende per le quali anche la pizzuga presume farsi credere generale di eserciti). La vita dei popoli è lunga lunga; se non sarà dato di goderne a noi, bene! ne goderanno i nipoti dei bisnipoti dei nostri nipoti (questi, come vedete, la pigliavano larga); anche a noi tarderebbe stendere la mano al frutto bagnato di tanto sudore, ma noi sappiamo contenerci prudentemente, ma noi sappiamo aspettare. Il mondo è un arcolaio, vi diciamo; intorno alle stecche voi vedete accomodata la matassa: a vero dire, apparisce un poco arruffata, pure pian pianino, con giudizio, senza troppa fretta, noi giungeremo a dipanarla.»

E i primi dicevano ai secondi: «Ma voi state in seno delle vostre famiglie, ma voi coprono i tetti paterni, voi l’avito censo alimenta, voi ragionate così davanti al domestico focolare; e noi andiamo randagi in terra straniera, noi divora l’agonia del suolo natale, noi tollerano impazientemente ospiti avari, nè i patrii affetti ci scaldano, nè il patrio sole.»

E i secondi replicavano: — «Dunque non è amor di patria quello che vi muove, bensì dei vostri comodi particolari!» Nè qui restava la turpe vicenda delle rampogne; chè anzi così trascorrevano smodate e piene di scandalo, da muovere perfino la compassione dei loro stessi nemici.... Privi di senno nel concepire, senza coraggio nel mandare ad esecuzione, mancavano dello estremo benefizio della sventura, — voglio dire della dignità nel sopportarla.

Tutti questi umori di lunga mano conoscevansi, e non che ne insospettissero, ne ricavavano maraviglioso diletto, come di vedute grottesche della lanterna magica politica, le quali si dipingessero passando sopra le pareti della sala degli Otto.

Le due rimanenti maniere di uomini concordavano in questo, che favoriti dai cieli di ottimo discernimento, assottigliato per lungo esercizio dei buoni studii, erano destinati a formare il credito della fazione a cui si fossero rivolti. — Ma differenziavano poi in questo altro, che alcuni si erano lasciati persuadere, e chinato il capo servivano; ed alcuni non petulanti, non pervicaci, non superbi, si erano avvolti nella solitudine e nel silenzio, convinti che là dove le magnanime parole vengono interdette, la migliore cosa che avanza all’onorato cittadino è tacere.

Costumano gl’Indiani quando fanno la caccia agli elefanti, condurre seco alcuni di cotesti animali addomesticati, che scorto appena il salvatico gli si fanno dintorno tutti festosi, e s’ingegnano avviarlo verso il chiuso: ov’egli repugni, a suono di colpi di proboscide, metà carezza, metà percossa, ve lo costringono; e ridotto nel chiuso, guasto dallo esempio, depone subito gli spiriti feroci, e lascia mettersi addosso la gualdrappa di scarlatto, gli arnesi indorati, e i campanelli di argento. — Non diversi erano gli argomenti posti in uso per vincere la gente, e ridurla alla propria devozione, la quale poi non pativa difetto di ragioni valevoli a giustificare il partito abbracciato; ed invero davano ad intendere: «Non giova egli mitigare un destino, che per quanto sembra a noi non è concesso mutare? Non giova egli rendere umano un potere, che inacerbito può diventare feroce? Quando ci manca la facoltà di tôrre via Polifemo, meglio vale aprirgli due occhi, che acciecarlo dell’uno. Se i tempi sinistri ci contendono di spargere la gioia sopra le generazioni, adoperiamoci a risparmiare loro delle lagrime amare. Così operando, noi sagrifichiamo i nostri affetti privati a vantaggio della umanità, le nostre ambizioni particolari deponiamo; non agli uomini, ma a sè stesso compiace colui, il quale anche con qualche suo carico non opera il bene che le condizioni del secolo gli consentono solo di fare.»

I rigidi all’opposto sostenevano: — «che quando davanti ai popoli adunati non può rendersi conto delle proprie azioni, bisogna condurci nella vita in cosiffatto modo, che la presenza basti per la orazione: nè il popolo discernerla tanto per la sottile; e allorchè vede anima da un lato, e prezzo dall’altro, reputa il contratto di compra e vendita perfezionato, e nella notte tutti i gatti sono grigi, come insegna il proverbio; e male, avvolti in una cappa medesima, possiamo distinguere gli Ebrei dai Sammaritani: il popolo abbisogna di fede, la quale non si persuade per via di astrattezze e di ragionamenti, ma in virtù di un fatto, o di un domma semplicissimo. Il libro del destino essere chiuso ad occhi mortali; e presumere troppo di sè chiunque avvisasse prognosticare oggi quanto sarà per accadere domani: ora, se i presagi loro venissero meno, se quel fato, che riputavano immobile, prendesse a girare più volubile della ruota della fortuna, qual gonfalone desidereranno vincitore? A quale fazione si accosteranno? A qual parte rimarranno fedeli? Quale tradiranno? I nuovi obblighi anteporranno agli antichi, o piuttosto gli antichi ai nuovi? Perchè lo inclito personaggio si porrà egli in condizione da non conoscere in qual lato il suo dovere lo appelli in certi momenti solenni in cui la sola esitanza è peccato gravissimo avanti Dio, e misfatto presso gli uomini? Nè quella vantata temperanza del male giova punto, anzi nuoce; imperciocchè sia della umana natura desiderare, cercare, e trovare ai gravi mali rimedio, mentre ai sopportabili si adatta, e a mano a mano perduta qualunque virtù, l’anima dell’uomo diventa più paziente della schiena di un cammello. Arrogi, che le parti si smarriscono nello insieme; e contemplando la fabbrica, nessuno ci consiglia indagare la forma delle singole pietre, mentre l’obelisco di granito, monolito e solitario, leva la fronte senza paura di fulmine, e rende testimonianza perenne che fu creato dalla natura, e formato dagli uomini per celebrare le lodi del sole.»87

A vero dire, il discorso loro suonava piuttosto superbo che giusto, conciossiachè l’uomo, fragilissimo tessuto di vene e di nervi, io non so come possa paragonarsi agli obelischi di granito: e che non fossero obelischi lo dimostrava chiaro lo sparire improvviso ora di questo ora di quello, e lo acciaccarsi per la misteriosa, tenebrosa e tenace persecuzione che veniva loro mossa: da per tutto contrarietà; discordia in casa, ingiustizia nei tribunali, orrore in chiesa; accolti con disprezzo; rigettati con acerbità; nelle più care affezioni insidiati; nelle sostanze disfatti. Non basta ancora: — il senno vilipeso come follía, la costanza riputata insania, le intenzioni calunniate, e diseredati perfino dello scopo unico a cui tende la virtù infelice, — il premio della lode.

Però pochi annoverano le storie, che con animo invitto abbiano resistito a così infame guerra: alcuni rarissimi, non potendo più oltre sopportare, e mutare non volendo, tolsero a lasciarsi morire di fame, o a volgere contro sè stessi le mani omicide, e i nomi di cotesti grandi infelici, più che altrove occorrono registrati nelle storie di Tacito, di Dione e di Svetonio; altri, più presto singolari che rari, deliberarono bevere intero il calice di fiele che la tirannide appressava alle loro labbra: anzi, pensandovi sopra, due soli io vedo in questa terra essere quelli che ardirono subire interi i novissimi fati; ma uno fu Cristo, ed era Dio; l’altro, uomo invero, ma di natura quasi divina, e si chiamò Socrate.

Ora lasciamo di Dio: ma quale fama al mondo può uguagliare la fama di Socrate?

— Oh! questa ella è pure la insopportabile lettura, parmi sentire che dica qualche mio leggitore: ora vedete, quando la narrazione precipita, e la catastrofe dovrebbe correre diritta al suo fine, questo singolare cervello, senza darsi un pensiero al mondo dell’ansietà nostra, si pone a inabissarsi in novelle che nulla fanno al caso, menando il cane per l’aia e andandosene a Roma per Ravenna. Questo è uno intendere l’arte niente; conciossiachè gli animi si raffreddino, l’azione proceda così a balzelloni come persona ebbra, e tutto lo effetto rimanga guasto da cima a fondo, senza rimedio. — O lettore mio benevolo, ed anche, se ti piace, malevolo; considera di grazia, che se tu premi moltissimo a te stesso, anche io qualche cosa importo a me; e se scrivo compiacendo al tuo ingegno, deh! non mostrarmiti acerbo, nè farmi il viso dell’uomo di arme, se talora mi prende vaghezza di compiacere al mio. A me torna grato gittarmi come una tavola sopra il mare dei pensamenti, e lasciarmi in balía dei flutti, che mi sbattono in quella parte e in quell’altra. Io ho bisogno d’inebriarmi di fede e di speranze, come di muschio. Quando io immagino che dai miei concetti, dalla ironia, e dalle rampogne, possa uscirne un qualche frutto, io bacio la penna, e penso che la felicità, volando via dal mondo, nel battere le ale lasciasse cadere la penna come una rimembranza di sè, e come pegno che forse un giorno potrebbe tornare a visitare queste sedi terrestri. Vorrai tu, o lettore, arguirmi di follia, o tentare di curarmi? La tua compassione mi riuscirebbe più importuna della tua crudeltà. Trasillo, alienato di mente, stava nel Pireo contando le navi ch’entravano in porto, di nuovo le spediva, e fuori di modo rallegravasi quando tornavano a salvamento, come colui che immaginava appartenerglisi tutte. Eliano racconta come suo fratello, tornato di Sicilia, desse opera a guarirlo di cotesta infermità, e riuscisse a sanarlo. Trasillo riacquistato con la ragione il sentimento della sua povertà, imprecò sul capo del fratello l’Eumenidi, e maledisse alla pietà capace di rapire un bene, incapace a preservare da un male.88

Titta giunse (dacchè tutti, vivi o morti, arriviamo al nostro fine) al palazzo del duca: tirò la corda quattro volte e sei, e nessuno rispose. — Si vede bene, egli seco stesso pensava, che il marito è fuori, e non si aspetta in casa; e se i mariti si avvisano arrivare improvvisi, devono scontare la mala creanza: ma io, che non sono marito, non voglio aspettare, e ci pongo subito rimedio. —

E quanto meglio seppe introdusse tra i ferri del cancello il braccio destro e parte dell’omero, e con la punta delle dita prese il saliscendi, e lo aperse. Ciò fatto, si avviò pianamente alla stanza del portiere, che stesi i gomiti sopra una tavola, con la guancia riposata sul dorso delle mani, dormiva un sonno da disgradarne i ghiri. Il sollazzevole uomo, recatosi in mano il corno, da un lato se lo appressò alla bocca, con l’altro ricoperse quasi l’orecchio manco del portiere, e quindi raccolto quanto più fiato poteva dentro il capace polmone, ne trasse un suono che fece tremare da cima a fondo il palazzo. Io non dirò quale urlo sgangherato mettesse fuori il portiere, nè quale enorme salto spiccasse: cose sono queste che molto meglio le si possono immaginare che descrivere: non era morto, nè vivo; tremava tutto; in qual mondo si trovasse non sapeva. Non creatura umana, non bestia dentro il palazzo e fuori per la contrada, poterono tenersi salde nel letto nel giaciglio, chè balzarono spaventate per vedere che cosa fosse.

Quando Titta ebbe intorno pressochè tutta la famiglia del duca, si volse al maggiordomo don Inigo, e gli disse:

— “Vengo pei servigi dello eccellentissimo signor duca: arrivo pure ora, e preme che io consegni a Madama la duchessa una lettera.”

— “In cotesto arnese Vostra Signoria non può presentarsi alla nostra padrona; fatevi in prima orrevole come conviene, e poi mi proverò di annunziarvi.”

Condottolo in guardaroba, gli fe trarre gli usatti polverosi e ogni altra veste, e ricopertolo dell’assisa orsina, lo confortò ad aspettare tanto che avvisasse la signora duchessa.

Isabella non dormiva: il sonno da gran tempo non iscuoteva più la quiete dalle sue ale sopra cotesti occhi infelici; ed anche senza invocarlo ella lo lasciava passare, imperocchè, se acerba la travagliava la veglia con gli argomenti del pensiero, assai più doloroso la stringeva il sonno con i suoi torbidi fantasmi. Ormai rassegnata al destino imminente, per cosa che avvenisse non si turbava; chiudeva le pupille, e mormorava sommessa: — In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum. — Sentì schiudere l’uscio della stanza, le parve che alcuno le domandasse se potesse entrare, e rispose con un moto, ch’ella non sapeva se consentisse o negasse, sicchè rimase maravigliata altamente quando riaprendo gli occhi si vide un uomo davanti col ginocchio piegato presentarle sopra un cuscino di velluto cremisi una lettera. Nudrita nelle maniere contegnose di corte, tolse la lettera con un tal quale piglio affatto principesco, e lesse la carta, poi la commise nelle mani del maggiordomo, ordinando:

— “La riporrete, don Inigo, nello archivio. — Alzatevi. — Don Inigo, date a questo soldato la solita mancia dei corrieri; anzi doppia, perchè la nuova che porta mi giunge oltremodo gradita. Inigo, tra pochi giorni dopo tanto lunga assenza noi rivedremo il serenissimo signor duca. — Dio vi abbia in guardia. Buona notte: andate.”

E quando ebbero preso commiato, Isabella, senza avvertire se qualcheduno ascoltasse le sue parole, dal lettuccio ove si era posta a giacere, di nuovo così favellò a madonna Lucrezia Frescobaldi, sua dama di compagnia:

— “Madonna Lucrezia, noi siamo pronti a fare la nostra dipartita, sicchè parmi bene che ci abbiamo a provvedere di viatico.”

Madonna Lucrezia apparteneva alla generazione di quelle pallide e sfumate creature, le quali sogliono accompagnare i potenti: vengono con la fortuna, e vanno con essa; non già perchè triste o maligne, ma perchè sta nella loro natura a guisa dello elitropio di volgersi a seconda della curva del sole; partecipano della famiglia delle foglie, che come nascono con la primavera, così vengono meno nello autunno. Volontà propria non possiedono, a negare o ad affermare incapaci; nel modo che i barometri si modificano alle impressioni dell’aria, le menti loro si piegano giusta la volontà dei loro signori. Pericolosissima gente questa fu sempre considerata e si considera anche adesso, imperciocchè dove i signori non incontrassero voglie tanto disposte a servirli, forse assai meno cose oserebbero di quelle che noi li vediamo avventurare ogni dì; molto meno poi se trovassero anime come quelle della popolana Maria, che promettono obbedienza e la prestano, ma non vendono la coscienza, e quando arrivano in parte ove è mestieri dispiacere al padrone della terra o al Signore del Cielo, confidando in colui che veste il giglio della valle, alimenta anche il tardigrado, poveri e soli si mettono a perigliare pel deserto della vita esclamando come il patriarca Abramo: — Dio provvederà!

Ma i potenti di rado possiedono amici; troppo gran copia di beni avrebbe loro compartita la fortuna. Tolgano esempio da quel re di Spagna, se desiderano stare in compagnia di un amico; — si facciano dipingere insieme con un cane.

Madonna Lucrezia pertanto, affettuosa come la regola del tre, rispondeva:

— “Serenissima, faccia quello che il suo cuore le ispira.”

— “Sì, ho deliberato confessarmi a Dio delle mie colpe; ma io vorrei qualche santo uomo, veramente maestro in divinità, il quale sapesse confortare l’anima stanca, e porgere riposo alla mente combattuta dal dubbio. Vi corre alcuno alla memoria, che fosse capace da tanto?”

— “Io non saprei.”

— “A me parrebbe adattato al mio bisogno quel frate di San Francesco chiamato Padre Marcello, che mena tanto rumore per la città...”

— “Serenissima, anche a me ne parrebbe bene.”

— “Però non si converrebbe chiamarlo, perchè forse non consentirebbe a venire; o venendo, ciò non potrebbe succedere così segretamente che gli oziosi non lo giungessero a sapere, e a me sopra modo talentano la discretezza e il mistero...”

— “La dice saviamente, Serenissima; salvo onore dell’Ordine, talvolta cotesti Padri accolgono più superbia sotto quel saio, che un barone sotto un mantello di broccato.”

— “E andando io alla chiesa, potrei di leggieri venire conosciuta.”

— “La non v’è cosa più facile...”

— “Forse.... domani no.... chè ormai è tardi troppo, ed io mal potrei in tanta angustia di tempo concentrarmi in me stessa, e ricercarmi come conviene nell’anima...”

— “Certo, in così breve ora non le sarà dato di rammentare tutti i suoi peccati, Eccellentissima Signora Duchessa...”

— “Che cosa sapete voi dei miei peccati? E quali, e quanti essi sieno? Chi vi ha detto che mi riuscirà ricordarli difficile?”

La Lucrezia, per troppa voglia di compiacere alla sua padrona, seguendo l’usato costume, assentiva dove aveva a dubitare. Il cortigiano anco il meglio sparvierato qualche volta incappa in questo; ma se lambisce la meta, di rado riurta dentro così, che gli si rompa il carro. La Lucrezia poteva rispondere: — Eh! mia signora, se mi sono coperta con la mano la faccia, sappia che tra dito e dito ho avventurato un occhio a modo della Vergognosa di Campo Santo, e ne ho vedute anche troppe. — Ma figuratevi! Costei non avea pur balía a concepire cosiffatti pensieri; li avrebbe cacciati come una tentazione del demonio: però rispondeva come d’ispirazione:

— “Per una coscienza dignitosa e schietta come la sua, che di tutto si fa scrupolo, che ogni fuscello converte in trave... capisco bene che lo esame di coscienza la è cosa seria... Certo, volendo bevere grosso come tante e tante costumano!.... Ma per lei, Serenissima, mi pare abbia ad essere cosa seria....”

Sono eglino di vecchia data gli ami da pescare? Io per me penso che con essi da Adamo in qua abbiano preso i pesci. Così, per quanto sia l’adulazione antica, per quanto ogni uomo giuri conoscerla e detestarla, non ostante per virtù di lusinga rimasero presi, e sempre si prenderanno gli uomini, e specialmente le donne. Se ne persuada chi legge; noi siamo ordinati a ricordarci della esperienza e dei suoi insegnamenti, come delle rondini che passarono pel nostro cielo, come del fumo che uscì dal nostro cammino dieci anni indietro.

Isabella, comecchè avesse voglia di altro, pure sorrise sentendosi lodata, e Dio sa quanto a diritto.

— “Domani l’altro mattina ci potremmo levare per tempissimo, e coperte di una mantiglia nera andarcene in Santa Croce, e farvi le nostre devozioni, e tornarcene inosservate a casa quando fosse ancora buona otta.”

— “Maisì, Serenissima, che la mi pare ben pensata con la solita eccellenza del suo ottimo giudizio.”

“— Bene, via; fate che la cosa rimanga in voi, e non la manifestate ad anima viva....”

— “Per questo poi la Serenità vostra conosce la fedeltà e discretezza mie....”

— “Andate a riposarvi, chè l’ora si fa tarda: e domani potrei forse chiamarvi di buon mattino.”

— “Dio la tenga nella sua santa custodia.”


Non pellegrino mai, nè romeo, pervenne a toccare tanto devotamente il luogo del suo pellegrinaggio, come Titta sedeva alla perfine a mensa. In così ampia copia di cibi e di bevanda, presto ebbe sazia la fame, ma per la sete fu ben altra cosa; imperciocchè, come la fiamma cresce per legna che vi gettiamo sopra, dal bere riardeva in lui più intensa l’agonia del bere. Però Titta non era uomo da lasciarsi rubare la mano della ragione dal vino: troppo ve ne sarebbe voluto; tuffava così la sua intelligenza nel vino come le anatre diguazzano pei laghi, o piuttosto a guisa dei destri nuotatori che toccato appena il fondo tornano a galleggiare sopra la superficie; e in cotesta mezza veglia del pensiero egli si mostrava più che mai fosse astuto e maligno. Accade sovente all’anima, che nella pienezza dello esercizio delle sue facoltà non abbia potenza d’immaginare o definire una cosa, che alla mattina, non bene occupata dai sensi negli ufficii consueti, vede mirabilmente distinta per mezzo ai tenui sogni che precedono la vita come l’alba precede al giorno. In questo modo stesso noi vediamo uomini mezzo ebbri molto meglio concepire e operare, che se fossero affatto sani.

I servi, considerando come con costui non si finisse mai, si erano dileguati mano a mano, ed egli secondo il suo desiderio rimasto solo con la Giulia, così riprese a favellare:

— “O Giulia! O vino! O carte! O stelle polari di questa mia vita; che cosa diventerebbe il mondo senza di voi? Una lanterna spenta, una candela senza lucignolo, una lampada senza olio. Se qualcheduno mi dicesse: — Tu hai a scegliere: — io risponderei: — Non posso; — perchè Giulia non può stare senza il vino, e il vino non può stare senza le carte: e sono cose queste come Ser Cecco e la Corte del Berni:

Ser Cecco non può star senza la Corte,
Nè la Corte può star senza Ser Cecco....

Esse vivono necessariamente insieme; formano tutte una sostanza sola; esistono unite come l’anima e il corpo. Togliete l’anima al corpo, e voi vedrete questo disfarsi come Giulia si disfarebbe senza il vino, e il vino si disfarebbe senza le carte. Giulia!....“

— “Io per me non m’intendo di tanti riboboli; ma chi sa a quante tu li avrai già detti.... E’ mi hanno aria le tue parole di panni vecchi; che per troppo uso e’ cascano a pezzi....”

— “O Giulia! Io ti giuro da gentiluomo, foi de gentilhomme, come diceva Francesco I di Francia, che quello che ho detto a te non l’ho mai detto a nessuno....”

— “Certo a nessuno....”

— “Credilo come credi al pane: io per amore mi sento un Mongibello, ma per costanza sono fermo come le Alpi....”

— “E al danno aggiungi lo strazio contro me povera femmina; che ora fanno non so nemmeno io quanti mesi, che ti piango e ti desidero invano, stancando con le mie preghiere e coi miei voti tutti i Santi del Paradiso....”

— “O Giulia!”

— “E sì, che in questo tempo non mancarono i lusinghieri che mi venissero attorno, e persone che mi promettessero mari e monti: ma di loro non m’incresce; bensì duolmi di un povero giovane, che le tentò tutte per innamorarmi, e vedendo di non vi potere riuscire si precipitò....”

— “Nella osteria del Fico....”

— “Come, mi faresti tu il torto a non ci credere?....”

— “Ma Giulia, come vuoi tu che creda siffatte cose io che le ascolto, mentre neanche tu, che le dici, le credi! — Non t’ingrugnire, no; viemmi accanto; senti, quando io ti abbraccio, parmi abbracciare il genere umano. — Non t’ingrugnire, no, figliuola mia; senti, ragioniamo sul sodo. — Io vorrei dalle procelle della vita ripararmi in un porto di pace; e tu potresti ripararvi meco, perchè, Santa Vergine, in qual parte posso sperare riposo in cui tu non sia? Delle cose passate non si avrebbe a parlare: io celebrando teco il sacrosanto matrimonio, farei delle tue venture come un grandissimo bucato nelle acque del fiume Lete. Che cosa m’importa domandare alla fontana che mi disseta oggi: — Chi hai tu abbeverato con l’acqua di ieri? — Gli anni passano, Giulia; e bisogna armarci di provvidenza...”

— “Ma e’ mi pare, che tra i miei e i tuoi qualche dozzina ne corra....”

— “Poni da parte, Giulia, un momento queste giullerie donnesche, e ricorda che voi altre siete fiori: crescete presto, cessate presto, e il meglio che rimanga di voi è la memoria. Io ti ho detto di ragionare sul sodo. Ormai scorsero anni ben molti, ch’io mi accomodai per lancia spezzata col signore duca Paolo Giordano: io ho rilevato per lui parecchie ferite: una volta, nella battaglia di Lepanto, se io non era, un Turco gli tagliava netta la testa come un giunco, e nonostante io mi rimango lancia spezzata. E la finisse qui: ma io sempre ho visto i cavalli da carrozza scendere alla carretta; e un giorno o l’altro noi ci possiamo trovare, prima di muovere le piante al gran viaggio, a fare una posata nello spedale di Santa Maria Nuova....”

— “Ma come rimediarci? Tu mi pai un po’ parente dei topi, che volevano attaccare il campanello al collo del gatto....”

— “Femmina, stammi a udire, imperciocchè sia provato che noi altri uomini possediamo molto maggiore comprendonio di voi. — Bisognerebbe pertanto poterci mettere da parte un gruzzolo di moneta, e poi vedere di aprire una botteguccia dove condurre qualche traffico di buona riuscita. Tu ci accudiresti, ed io ti aiuterei a badarvi, e m’ingegnerei in altre faccende....”

— “Non lo aveva io detto, che tu raccontavi la novella dei topi? per far queste cose ci vogliono di danari....”

— “Certamente, e con la tua dote....”

— “Io non ho dote....”

— “Non hai dote? O Giulia!”

— “O Titta!”

— “Allora l’ultima parola è detta fra noi. — Addio.... Tu vêr Gerusalemme, io verso Egitto, come disse Alete ad Argante.”

— “Ma, o che non potremmo fare il matrimonio senza dote?”

— “Non si può: la dote, vedi, Giulia, è proprio come la veste del matrimonio; senza di lei comparirebbe ignudo; e tu pensa quanta sarebbe indecenza mostrare un così solenne sacramento ignudo. — E se volgiamo il pensiero ai tempi antichi, noi sappiamo le Muse esser rimaste fanciulle in casa, perchè Apollo non poteva provvederle di altra dote che di foglie di alloro....”

— “Però tu non puoi darmi ad intendere che della moneta non ne abbi acquistata; e dove l’hai messa?”

— “Tutta spesa in opere pie, Giulia, in opere di carità: e gli amici mi devono un tesoro. Come fare? Quando ne ho, non mi riesce ricusarli; e così mi ritrovo al verde troppo più spesso ch’io non vorrei.... Però ritorneranno un giorno, ma adesso non vi è da farne conto....”

— “Via, nè io poi voglio dirmi del tutto strema: ma la è piccola cosa....”

— “Ogni pruno fa siepe; con la buona voglia e il lavoro sì alza la cupola del Duomo. Ora dimmi, quanto tieni tu in serbo? Mil....?”

— “Cen....”

— “O Giulia!”

— “Un cento di ducati....”

— “Ahimè, non servono a nulla!”

E Giulia si strinse nelle spalle. Titta stato alquanto sopra di sè, continuava:

— “Ma non è mai lecito disperare della patria, come disse Temistocle: se tu mi aiuti, ci è modo di venire a capo della fortuna. Stammi attenta, femmina.... Tu dei sapere che il duca mio signore è uomo astioso...”

— “Peggio per lui...”

— “Gli si è cacciata in testa una strana fantasia; egli pretende che la gente sopra la rinomanza di Colombo, di Amerigo, dei Cabotto, del Pigafetta, e degli altri abbiano a tirare di frego; egli vuole fare una scoperta prodigiosa. Non basta: egli intende che tutto il mondo la sappia; e a questa scoperta lo abbiamo ad aiutare noi...”

— “O virtù del vino!”

— “Femmina, ascolta. Questa scoperta consiste nel conoscere che la sua moglie gli è infedele. Notizie traverse gliene sono pervenute, ma egli vuole saperle di certa scienza, e toccare con le sue mani; allora confiderà questa bellissima cosa alle sette trombe della fama, ed anzi io penso che la farà stampare dal Torrentino in ottavo.... — Fàtti più in qua, ch’io vo’ parlare basso. — Egli, il duca, mi ha mandato a posta per vedere come va la bisogna, e per riferirglielo; e dove io gliene porga notizia certa, mi ha promesso trecento ducati di presente, oltre la grazia sua in perpetuo, e comodi quali io sappia desiderare maggiori....”

— “Di’ tu da senno!”

— “Rammentami un santo in cui tu abbi fede; io giurerò per quello. Così, per mercè tua, noi guadagneremo la moneta, e mettendo co’ tuoi trecento scudi...”

— “Ho detto cento.”

— “Cento scudi con questi trecento ducati, avremo messo insieme quanto abbisogna per mandare a compimento le nostre nozze...”

Allora la donna improvvida e malvagia prese a raccontare quanto sapeva (e ne sapeva anche troppe) sul conto della propria signora, la quale sopra le altre donne della sua famiglia l’aveva prediletta e prediligeva, e molto anche aggiunse per aggravarla; finalmente gli partecipò, siccome stando ad oregliare, secondo il suo costume, alla porta della duchessa, aveva ricavato che il giorno appresso di buon mattino sarebbe andata a confessarsi da Padre Marcello di San Francesco. A Titta sembrò adesso conoscerne più assai di quello che gliene facesse mestieri. La donna non rifiniva più di dire; come i ciechi, che, secondo porge il proverbio, con un soldo cominciano, e per due non ismettono. — Titta pensando come ormai nulla giovasse vegliare, si lasciò in balía del sonno; e la donna infervorata stette un pezzo prima di accorgersi che il suo futuro marito dormiva profondamente.

— “Pensa quando saremo maritati!” esclamò ella; e stizzita datogli con la mano un grande urto sopra la spalla, si ridusse a dormire nella sua stanza.


Il suono che spinse Titta fuori del suo corno, colpì nel palazzo Orsini un’altra persona, e questa fu Troilo. Egli si sentì il cuore oppresso di affanno: balzò da giacere appoggiandosi sopra il gomito destro, e spinse fuori dalla sponda del letto ambedue le gambe; poi irresoluto ristette, tese lungamente l’orecchio per conoscere dal moto qual caso fosse avvenuto, e poichè quindi in breve tutto tornò nel suo primo silenzio, egli si fece animo per vestirsi, e scendere cautamente alle stanze della duchessa.

— “Entrate” disse Isabella con voce pacata e sicura, quando senti toccare la porta della sua stanza: e Troilo entrò. Ella non sorpresa, non paurosa, gli volse uno sguardo, e riprese tranquilla la consueta attitudine. Troilo fu il primo che incominciasse a favellare così:

— “Isabella, non sapete voi che Paolo Giordano sta per fare ritorno a Firenze?....”

— “Lo so.”

— “E come lo sapete voi?”

— “Per lettere che mi ha mandato, le quali dicevano che fra pochi giorni si sarebbe ridotto a casa....”

— “E non avete voi letto altro in coteste lettere?”

— “Null’altro....”

— “E sì, che io so che vi stava scritta un’altra notizia, almeno dovevate voi leggerla.”

— “Quale?”

— “Che voi all’arrivo di Paolo Giordano sarete fatta morire di mala morte....”

— “Dio disponga di me come gli piace. Troilo, io sono apparecchiata a morire....”

— “Che parlate voi? Voi avete un mondo intero a percorrere: piena di forza, di potenza e di bellezza, come consentirete a lasciare una scena dove sostenete così bene la vostra parte? Quando il frutto è acerbo, non deve lasciarsi scuotere dai rami della vita. E forse voi non aveste mai tempo migliore di questo per godere convenientemente delle cose umane, nè troppo facile a lasciarvi portare dalle illusioni della giovanezza, nè troppo esitante, per le incertezze degli anni che declinano. Ecco incominciare per voi la stagione di cogliere i fiori della esperienza....”

— “Io sono decrepita nel cuore, e amo la morte come non ho mai amata persona nel mondo....”

— “Ma voi fate onta alla Provvidenza divina, e a voi stessa. Non vi lasciate andare a così tristo abbattimento; voi potreste pentirvene, e forse sarebbe tardi. Su, via, prendete animo; non vi sconfortate, per Dio!....”

Isabella piegò lo sguardo, e tenutolo alquanto fermo sopra Troilo, soggiunse:

— “Gran mercè! Tenete per voi il vostro coraggio; io ne serbo quanto basta. Troilo, quando il rimanermi qui non fosse ferma deliberazione dell’animo mio, pensate voi che mi avanzasse per avventura altro partito da prendere? No. Fuggendo, io mostrerei al mondo la mia vergogna. Quello ch’è incerto, o pochi conoscono, io paleserei; più della colpa assai direbbe la paura, quindi maggiore assai la necessità della vendetta. E poi, in qual parte potrei io ripararmi nella quale, ferro, o laccio, o veleno non mi aggiungessero? E concesso ancora ch’io sapessi rinvenire luogo capace a difendermi, io ho meditato sopra il soccorso che l’uomo ci getta come un tozzo di pane al lebbroso; ho sentito la rampogna acerba e incessante mossa contro la mia colpa, non perchè biasimevole, ma perchè manifesta; ho sentito la pietà che rode le ossa, e la compassione che avvelena il sangue; ho visto gli sdegni superbi, i sorrisi amari, i presti fastidii; e brividi di morte mi agghiacciarono da capo alle piante. — No, meglio morire di un colpo, che disfarci atrocemente sotto questo martirio rinnovato di giorno in giorno, anzi pure di ora in ora, di minuto in minuto. Prometeo non iscelse per certo la vita a patto di sentirsi divorare le viscere dallo implacabile avvoltoio.”

— “Questo vostro sbigottimento nasce, Isabella, dal non avere saputo immaginare rimedio altro diverso che la fuga: altri partiti ci avanzano....”

— “Io non so vederli....”

— “E sono i più agevoli....”

— “Se provvedessero con sicurezza alla onestà!..”

— “Persuadetevi, che più certi non si possono dare.... Paolo Giordano ci vuole morti; e questo noi abbiamo a ritenere per fermo. Ora, — dacchè noi non possiamo più stare in questo mondo assieme, — dacchè qualcheduno di noi ha da scegliere diversa dimora, egli n’esca, che ci vuole cacciare, non noi, che ce lo avremmo tollerato a grande agio....”

— “E così allo adulterio aggiungere l’omicidio? E per ammenda di un delitto commetterne un altro, che offende più gli uomini, e Dio?”

— “L’uno è quasi il figliuolo primogenito dell’altro; e la necessità scusa; imperciocchè quale precetto o quale legge c’impone rispettare una vita, che si è convertita in pugnale per trafiggere la nostra? Porgiamo ascolto alla natura, benignissima madre, che mai non falla; e questa vi dirà che delle due cose, uccidere od essere ucciso, meglio è uccidere....”

— “Voi mi fate ribrezzo.”

— “E perchè?”

— “Perchè, se io interrogo il mio cuore, una voce mi grida: — Quale precetto mai, quale legge ci persuade a punire colui che non commesse la colpa? Quale giustizia sopporta che facciamo una vittima perchè commettemmo un delitto? No, così non si cambiano le parti nè in questo mondo nè in quell’altro....”

— “All’altro penseremo poi; per ora pensiamo a questo Voi, Isabella, dovete pure avere appreso da vostro padre il modo di comporre una bevanda soave al gusto, e che addormenti dolcemente.... e non faccia risvegliare mai più....”

— “Ahi tristo! Voi vorreste rinnovare gli orrori della famiglia di Atreo....”

— “No, io non intendo incominciare nulla di nuovo; basta che continuiate nella pratica dei domestici esempii....”

Isabella declinò la faccia diventata alcun poco vermiglia; poi sollevandola, e scuotendola da una spalla all’altra siccome era suo costume, riprese con voce risoluta:

— “Ebbene, questo delitto non contaminerà le carte della storia: la casa nostra non avrà la sua Clitennestra; e dove voi, Troilo, vi avvisaste concepire sinistro disegno sopra la vita del vostro cugino, guardatevi! Io lo difenderò con tutte le mie facoltà; eziandio con la vita....”

— “Isabella, voi non potete separare la vostra fortuna dalla mia: noi volenti strinse per poco lo amore; noi non volenti stringe adesso con nodo indissolubile il delitto....”

— “Questi sono vincoli pei codardi; io non ho paura, e li rompo....”

— “Pur troppo io conosco che non avete paura, e pur troppo io comprendo in che cosa vi affidate.... A voi arride la speranza del perdono; voi riposate sopra le parole accorte, le arti del simulare, la voluttà degli amplessi.... — Si, tu, malvagia femmina, nei tuoi artificii confidi; e se a consacrare la tua pace ti fia mestieri un sacrificio e una vittima, ecco, il mio capo è destinato alla espiazione di lutti....”

— “E allora fuggite, riparatevi altrove. Vi preme forse necessità di averi? Io posso darvi quanto desiderate; — prendete tutto quello mi trovo a possedere di contante e di gioie: — pel viaggio ch’io sto per imprendere, nulla giovano i danari.”

— “E se voi temevate i sicarii, voi cugina di Caterina di Francia, come me ne potrò salvare io senza protezione e senza appoggio? Se voi contrista il pensiero dei soccorsi scarsi, tepidi ed anche acerbi, come potrò sperarli io larghi, efficaci e piacevoli? Invano tentate comparire generosa con largire soccorsi che non giovano, e persuadendo provvedimenti che non assicurano. Qui non vedo altra via tranne il veleno....”

— “Ed io vi giuro sopra l’anima mia che Giordano vivrà....”

— “No, tu devi avvelenarlo....”

— “Se tu non movessi la mia compassione, mi moveresti il riso....”

— “Ora ascolta, e ridi a tua posta poi. — Noi abbiamo un figlio. Io già immaginava la tua perfida ostinatezza. Togliti cotesta larva di pentimento, invereconda! e sappi che col mio sangue tu non farai il lavacro delle tue sozzure, per Dio! — Noi abbiamo un figlio: io ho già mandato per lui; e se tu non consenti a salvarmi, — e a salvare anche te stessa, sconsigliata che sei, — prima che sorga il sole io te lo getto trucidato nelle braccia. — Morto che sia Giordano, noi ci sposeremo, non già perchè possiamo tornare ad amarci mai; anzi, se tu mi aborri, piacemi significarti che io pure nientemeno ti aborro; ma per placare la cupa superbia degli orgogliosi tuoi fratelli, che presumono nessuna nobiltà al mondo possa pareggiare la loro, e furono poc’anzi mercanti; e ci assentano la vita.... E tu starai volentierosa lontana da me, come io con tutto il cuore ti giuro fuggirti le mille miglia lontano....”

Mentre Troilo queste parole con feroce passione profferiva, Isabella manifestava ad ora ad ora segni d’impazienza, d’ira, e di voglia accesa a usare qualche mal tratto contro il cavaliere villano; ma con immenso sforzo si represse, e quando costui ebbe terminato, ostentando nel sembiante e nella voce una serenità che certamente l’era lontana dall’animo, rispose:

— “Egregio padre in vero, che ricorda i figli soltanto per trucidarli. Troilo, il cuore della femmina può errare ed essere ingannato, quando è amante; ma non s’inganna nè erra, allorchè è madre. Tu ti flagelli invano nei tuoi truci disegni; — il tuo figliuolo adesso si trova in parte ove non teme le tue carezze paterne....”

— “Anche il figliuolo mi hai tolto?”

— “E ardisci lagnarti ch’io lo abbia salvato dalle tue mani parricide?”

— “Rendimi il figliuolo! — Rendimi il mio figliuolo! io ti sego le vene....”

— “Ferisci!....” — E Isabella pallida in volto del pallore della morte, ma pure pacata, gli porgeva nuda la gola. Troilo stette alquanto sopra di sè, e quindi mormorò:

— “E che cosa importa a me la sua morte? Io voglio vivere....” E ripose nella guaina lo stile. — Poi allo improvviso, come vela dianzi tumida per forza di vento, al cessare di questo cade giù inerte lungo l’antenna, quel suo cuore codardo, privo affatto di costanza, si avvili; un rivolgimento stupendo quanto improvviso si operò dentro di lui; e di baldanzoso diventato timido, con occhi incerti, con voce dimessa, rivolgendosi ad Isabella, in sembianze che s’ingegnava rendere supplichevoli, ed erano abiette, proseguiva:

— “Deh! Isabella; quello che la passione mi spingeva sopra le labbra obliate, vi prego: il sangue invade la mente, e l’uomo non sa talvolta quello che si dica o si faccia. Voi sarete perdonata, io lo spero e desidero; solo che voi vogliate (tanto dono di persuasione, di bellezza e di grazia il cielo vi concesse), Paolo Giordano non caccerà le sue mani nel vostro sangue. — Deh! ottenendo il vostro perdono, ottenetemi anche il mio; o se, accorta come siete, vedrete che possa giovarvi negare, negate: della discretezza mia non dubitate punto, chè troppo grossa posta ne corre anche a me; e a tempo debito, voi favorendomi, prenderò commiato da questa casa funesta, continuando nella milizia, dove a questa ora avrei acquistato grado e nome distinti. — Me lo promettete voi, Isabella? Posso contarvi? Parlate di grazia.... parlate. — Non mi lasciate qui sopra le spine: mi sento l’anima contristata di angoscia ineffabile; vi ricordi finalmente me essere padre del vostro figliuolo...”

— “Valeva meglio non rammentarlo, Orsini; in verità era meglio. Comunque sia, nel modo che avrei difeso Paolo Giordano difenderò voi. Menzogne io non dirò certo, ma ove possa onestarsi la colpa, per amore di tutti io lo farò; e se Dio mi dà vita, m’ingegnerò conseguire, se non perdono, pietà. Ormai per me non può più darsi gioia nel mondo; pure io mi terrò meno infelice assai, sapendovi avventuroso. Ora partite, Troilo, io ho bisogno di pace....”

E Troilo, declinata la testa, con le braccia in croce sopra il petto, si allontanava.

Isabella gli tenne dietro col guardo, e intese lungamente fissa nella porta donde costui era sparito: di subito dandosi forte del palmo aperto dentro la fronte:

— “Misera!” esclamò; “me misera! per quale uomo io ho perduto la mia dignità di donna, e la salute dell’anima....”

Era una notte di luglio limpida e serena, e le stelle alternavano per le sfere i loro moti celesti, piovendo una rugiada di luce sopra la terra, che non merita tanto sorriso di amore. I tempi, le cose, e gli uomini che vedeste allora, voi raggi castissimi, tornarono morendo colà donde uscirono prima di nascere: altri, bene altri voi vedrete uomini, e tempi; ma quella luce che emana da voi durerà eterna, o come tutti gli altri fuochi vi consumate ardendo? È scritto, che un giorno Dio sperderà in atomi, che non s’incontreranno mai più, questa massa di fango insanguinato che noi chiamiamo terra; e bene sta, — e quasi tarda che sia: ma è scritto parimente, che i vostri amabili occhi si spengeranno, e Dio vi chiuderà le palpebre come a vergini morte in mezzo ai tripudj della vita. La voce dell’Eterno, pari al muggito di mille oceani in tempesta, tornerà a fremere per le solitudini sterminate delle tenebre e dello abisso. Di tanta immensità di cose create non rimarrà nè uno eco, nè una memoria, nè una ombra; — come l’occhio cerca e non trova la goccia caduta nel mare, come l’occhio cerca e non trova la stella che scende giù dallo emisfero per le notti di estate; così il tempo fie che precipiti nel seno della eternità; — questa madre terribile ucciderà il suo figlio stringendolo nelle braccia, e lo seppellirà nelle proprie sue viscere. O Signore, e come può l’uomo pensando alla morte delle stelle conservare nel cuore disegni sinistri? Migliaia di secoli scorreranno prima che le stelle cessino di narrare nei cieli le glorie di Dio; — e da mille secoli prima che ciò avvenga questo mio ente diviso in molecole infinite sarà agitato pei vasti regni della natura. E nonostante, considerando come un giorno avrete a morire anche voi, bellissime luci di amore, mi cade l’animo sbaldanzito, e mi pare cosa del tutto a concepirsi impossibile come gli uomini, creature di un minuto, incontrandosi passando sopra una terra che passa con loro, invece di sollevare la mano per percuotersi, non si balenino un riso, e si dileguino nel nulla, apparizione leggiera, fugace, ma almeno gioconda.

Per questa notte, un uomo, come serpe che striscia, attenuando la persona, rasentando lungo i muri, coprendosi col più denso delle tenebre, e levando talvolta la testa per imprecare al raggio remoto di cui le stelle sono pie alla squallida terra, si affrettava verso un luogo determinato. Questo luogo fu il convento di Santa Croce. Giunto alla porta del chiostro, tirò pianamente la corda del campanello, moderando la voglia che si sentiva grandissima di dargli tale strappata, da svegliare tutto il Convento: si pose ad origliare alla commessura, e poichè non gli parve sentire muovere passo, lasciato trascorrere convenevole spazio di tempo, tornò a suonare di nuovo: e così ripeteva quattro volte e sei, e già era trascorso in alcuno atto d’impazienza, quando gli sembrò udire, e udì certo, qualche rumore di dentro: si ricompose subito, e si acconciò la persona a devozione. Una mano franca aperse deliberatamente la porta: e per quei tempi non era poco; conciossiachè vivessero in tanto sospetto, che per aprire in ora tanto avanzata desiderassero segnali e contrassegni, come si costuma nelle fortezze assediate; e nel punto medesimo una voce piena, e non pertanto piacevole, favellò:

— “Deo gratias: che domandate voi nel nome santissimo di Dio....”

— “Reverendo Padre,” rispose lo sconosciuto “Dio in questo momento chiama a sè un solenne peccatore. Come tutti i nodi giungono al pettine, così in questa terribile ora gli tornano a mente i commessi misfatti, e dispera della misericordia divina, e bestemmiando coloro da cui nacque, e l’ora in che venne al mondo, corre presentissimo pericolo di morire dannato...”

— “Misero lui perchè peccava; più misero assai, perchè dispera della misericordia del Signore!....”

— “E così mi affaticava a dimostrargli io; ma come ignorante di divinità, ho veduto fare poco frutto le mie parole: tuttavolta non ho mai smesso di raumiliarlo, e persuaderlo a credere, che alla per fine ogni cosa si accomoda, che Dio è tanto vecchio, e ne ha vedute tante e poi tante, che adesso non deve starsi sul difficile, e cercare il nodo nel giunco, e il quinto piede al montone; che un bel bucato di pentimento, ma di quello proprio vero, ha lavato bene altre colpe che le sue per avventura non sono...”

— “Certo, grandissima è la virtù del pentimento, e Dio come il buon pastore si travaglia principalmente dietro la pecora smarrita.”

— “E il moribondo ha detto: — Ma chi ardirebbe presentare la mia anima a Dio, senza paura che non si coprisse gli occhi con le mani? Chi leverà per me una preghiera, senza paura che le vengano chiuse le porte del cielo in faccia? Un solo... un solo giusto io conosco al mondo, che varrebbe a ispirarmi un filo di fede.... ma è troppo tardi.... egli non verrà.... a questa ora rinfranca con breve riposo le membra affaticate nelle opere di Dio... Ahimè è troppo tardi!... E traendo doloroso guaito, si rotolava smanioso per il letto. Alla fine mi riusciva a fatica a cavargli di bocca il nome di questo venerabile uomo, che certamente non vuolsi negare santissimo e dottissimo, essendo questo vostro reverendo Padre Marcello, che Dio sempre letifichi. — E comecchè l’ora sia tarda, nonostante mi è parso bene mettermi in avventura, sperando che mi sia conceduta la grazia di potere anch’io povero peccatore contribuire alla salvazione di un’anima battezzata....”

E siccome il frate stava pensoso sopra sè, e non rispondeva, egli soggiunse ponendo tra una parola e l’altra certa pausa studiata:

— “Oltrechè, essendo il moribondo fuori di modo ricchissimo, e grande mercatante, nè per quanto io mi conosca avendo figli, o parenti se non lontanissimi, ho pensato che inestimabile quantità di pecunia avrebbe lasciato per essere spesa in opere pie, elemosine, uffizii, eccetera.”

Però il frate non aveva punto dato ascolto al ragionamento finale di costui: e allo improvviso, come se risensasse, favellò:

— “Tanto, morire una volta dobbiamo; e la migliore delle morti sicuramente è quella che noi incontriamo nel servigio di Dio. Questa vita di sospetto sembra una morte di tutti i momenti. — Dabbene uomo, tu nella semplicità del tuo cuore consigliasti come il più dotto dei Padri della Chiesa. Dio volle dare mercede uguale tanto agli operai che vennero matutini, quanto agli altri che si fecero verso sera alla sua vigna. La carità non guarda l’orologio; e l’ora più luminosa per lei è quella in cui può portare maggiore soccorso ai poveri afflitti. La carità operata nel buio della notte è quella che più si manifesta all’occhio di Dio. La casa del Signore non rimane mai vuota: picchiate, e vi sarà aperto. La fontana della pietà celeste non viene mai meno: domandate, e vi sarà dato da bere; — il sangue del Redentore scorre perenne lavacro per le anime pentite e umiliate. — Certo, pieni di pericolo camminano i tempi, e mani invisibili percuotono i sacerdoti. La religione adesso geme sopra il sangue dei martiri che bagna la terra senza fecondarla. E vi è chi vuole la religione sua ancella, anzi pure complice, e presume vestirla della sua assisa; le proprie armi gentilizie sostituire sopra la stola alla Croce, e stipendiarla come una lancia spezzata. — Tolga Dio tanta infamia: la religione ha mandato di mettersi in mezzo fra l’oppresso e l’oppressore, salvare il primo sotto le fimbrie del sacro manto, guardare in faccia il secondo, lanciargli contro l’anatema, e trascinarlo pei capelli davanti a un tribunale dove egli è polvere... Ma questa città ha lapidato i suoi profeti; — gli angioli piansero quando videro Fra Girolamo arso dal popolo, e pei cieli corse un lamento: — O Signore, o Signore, è forse venuta la fine del mondo? — Come nello uffizio della settimana santa al terminare di ogni salmo spengono un lume; e quando saranno spenti tutti, batteranno le tenebre, e come ferocemente! — Tu mi potresti ingannare. Giuda tradì Cristo baciandolo; ma io voglio piuttosto essere tradito una volta, che sospettare per tutta la vita.... Va innanzi, uomo; ch’io ti vengo dietro....”

— “Come, siete voi?....”

— “Io sono Frate Marcello. Gli altri dormono, ma a me il Signore ha detto: — Veglia, perchè la tua vita sarà breve, e dormirai presto i sonni perduti dentro il sepolcro. — La preghiera è la mia sposa, la predicazione la sorella, il pianto la mia voluttà....”

E tratto a sè l’uscio, si cacciava dietro ai passi dello sconosciuto.

Lo sconosciuto, il quale (imperciocchè io non ami procedere per via di sorpresa) era Titta, camminava a capo chino con passi obliqui come persona presa fortemente da qualche passione; e di vero la cosa stava siccome appariva. Egli, che aveva logorato tanti anni di vita negli articoli di fede ai quali credeva Margutte, adesso, nel giro di poche ore, la sua fortuna gli poneva davanti due generose anime, quella di Cecchino, e l’altra del Padre Marcello; sicchè, quando se lo pensava meno, un dubbio gli sorgeva nella mente, che forse egli aveva forviato per tutto il tempo ch’era vissuto nel mondo, e, senza troppo comprenderla, quella dignità gli sembrava un fatto stupendo. — Inoltre, quel confidarsi pronto e spontaneo in lui, tanto poco di confidenza meritevole; la onesta baldanza che nasce dal sentirci innocenti; l’oblio o il disprezzo di qualunque pericolo quando si trattava di fare opera di carità, lo agitavano di affetti così nuovi e profondi, che non sapeva darsene pace. Quello poi che ai sottili indagatori di questa nostra umana natura, senza comparire punto impossibile, giungerà maraviglioso, era questo, che mentre procedeva deliberato di condurre a fine la insidia tramata ai danni del frate, supplicava l’Angelo Custode che lo trattenesse, e frugava nelle latebre intime del cuore in traccia di una qualche virtù, che gli servisse a modo di áncora, alla quale appigliandosi, salvarsi dal naufragio.

Fra Marcello, quantunque le strade di Firenze ignorasse, pure conobbe che per bene due volte lo aveva fatto passare nella medesima via, onde gli parve bene di percuotere sopra la spalla il suo conduttore, e dirgli

— “Fratello, avvertite al cammino...”

— “Ah! voi avete ragione; io mi era sprofondato in un pensiero dal quale, se la mercè vostra non mi soccorreva, non so quando mi fosse avvenuto di uscire; e perchè questo caso non si rinnuovi, piacciavi rispondere ad alcuni dubbi che mi sono caduti nel pensiero. Ora via, Padre, dove pensate voi che ci menino con tutte queste contese intorno alla religione?”

— “Questo è troppo lungo discorso; ma io ho fede che meneranno a bene. Per me Lutero è un cerbero, che abbaia perchè non gli hanno gettato l’osso: ma egli morse le foglie, non la radice; lacerò la frangia, e non la stoffa. Egli è noioso come una critica, e dura soltanto perchè dura il difetto: se la Chiesa si forbisca nella piscina mistica, manca Lutero con altri innovatori. Già non s’intendono fra loro nel fabbricare la nuova Babelle; ritorna l’antico prodigio della confusione delle lingue, tutti percorrono sentieri senza riuscita. Queste tribolazioni passeranno; ma prima che passino, io temo che vi se ne aggiungeranno molte altre delle nuove: ribellato lo spirito umano dall’autorità, forza è che si stanchi nel cammino dei superbi ragionamenti. Immaginando le superstizioni e gli errori necessaria sostanza delle religioni, si legheranno per distruggerle tutte; e questi io presagisco essere giorni pieni di dolore: vedo rinnovarsi l’aceto, e il fiele, e le spine, e le percosse, e i chiodi, e la lanciata di Cristo; vedo il dubbio come un vento venuto dal deserto inaridire le mèssi della fede, della carità, e della speranza. Ma poichè l’uomo col solo lume della ragione non attinge le sedi celesti, rimarrà spaventato considerando nel cielo uno abisso come nello inferno, e sentirà di nuovo bisogno di un Dio, che abbia avuto dolore, amore e senso di umanità, e cercherà di nuovo il suo Cristo, il quale, come si racconta che per San Francesco facesse, staccherà le braccia dalla croce per abbracciarlo. La religione rivenuta pronuba delle anime umane, dopo averle sposate sopra questa terra co’ vincoli dell’amore, le avvierà verso la patria eterna a cui tutti aspiriamo, ch’è il cielo...”

— “Bè, bè, queste paionmi cose da venire di là da giudicare i vivi e i morti. Lasciamo il cielo, dacchè, come dite, è negozio lungo: di questa nostra terra, di questa cosa che chiamano patria terrena, che ne pensate voi?”

— “Figliuolo mio, ella è morta: no, non è morta... è apparenza di morte il sonno che l’opprime... ma così è grave questo sonno, che oggimai parmi che senza un miracolo di Dio ella non possa risvegliarsi mai più. Sappi, sappi, figliuolo mio, che non possono tormentare oppressori, se non consentono a lasciarsi tormentare gli oppressi; nè la difficoltà consiste a tôrre di mezzo il tiranno, sibbene a procurare le virtù costituenti l’onesto vivere civile. Questa città nel tempo della morte del duca Alessandro palesava come possa, spento il tiranno, rimanere la servitù; e ciò avverti per le sorti interne: in quanto alle esterne poi, Dio è forte, e sta coi forti. Questi stolti immaginano vincere Spagna col Cristianissimo, il Cristianissimo con la Spagna, e stendono ora all’uno, ora all’altro, supplichevoli quelle mani che dovevano chiudere per minacciare e percuotere ambedue. — Fuori i barbari! — gridava il glorioso pontefice Giulio II; e barbari erano tutti quelli che non ebbero nascimento quaggiù. O stolti! che credete la baronia di Spagna e di Francia avere a lasciare i dolci castelli, e le consorti, e i figli, perigliarsi su i mari, arrampicarsi per le cime ardue dei monti, e convenire nelle vostre contrade per combattere un torneo a tutta oltranza, e darne il premio a voi neghittosi, che lo state a vedere. O stolti! quel popolo che non sa difendere la terra nella quale lo pose la natura, non merita possederla; il mondo è di cui se lo piglia; così provvide la legge del fato. Luigi XI fece la Francia unito e forte reame. Carlo V ebbe lo intendimento medesimo per Germania e Spagna. Quel sì vantato Lorenzo de’ Medici, che cosa fece egli? Con artificj da giocoliere mantenne in equilibrio discorde i frammenti dei frammenti di un popolo. Non fu monumento quello, ma un mosaico di pietruzze, o piuttosto una statua di carta pesta, e il primo vento che si messe dalle Alpi la rovesciò: Carlo VIII corse la Italia con gli speroni di legno. Ora siamo rotti sopra la vita, i popoli italiani stettero a vedere morire la repubblica di Firenze come un gladiatore combattente: alla morte onorata applausero tutti, non la soccorse nessuno; e la repubblica cadendo scrisse col proprio sangue sopra l’arena una sentenza fiera, e che deve compirsi: — E voi pure cadrete, ma infami. — Venezia si finge seduta sopra un trono, e siede sopra il sepolcro che la deve raccogliere. Genova fa come la rondine, che composto il nido in luogo eccelso si tiene sicura, e non pensa alla freccia del cacciatore, che arriva alle nuvole.... Io respiro un’aria di avelli; io calpesto una terra di camposanto....”

— “E allora, Padre, non vi sia grave ascoltare queste parole, che cento e più anni fa compose un canonico, che la sapeva lunga, ma lunga davvero:

O ciechi, il tanto affaticar che giova?
Tutti tornate alla gran madre antica,
E il nome vostro appena si ritrova.“89

— “Poni mente: primo perchè il cielo non mi largiva il dono della profezia, e siccome potrei per avventura andare errato, così bisogna fare quello che dobbiamo, senza darci pensiero di quanto sia per avvenire; secondo, perchè da un maestro mio intesi dire, che un Dio e un popolo, comecchè morti, non possono stare lungamente dentro il sepolcro: e di vero, Gesù Cristo vi dimorò tre giorni. Le giornate dei popoli veramente sono secoli; ma gli uomini fuggono come ombre; la umanità rimane. Ogni buon germe fruttifica al cospetto di Dio, e a tempo debito uscirà a giocondare la terra; se non ne mangeremo noi, seminiamolo, ne mangeranno i nostri figliuoli. Terzo, perchè io vi ho detto, che non la reputo morta, ma sì appresa da mortale letargo. Ormai non mi giova, anzi aborro spendere la vita che Dio mi compartiva, a scolpire una cassa di marmo egregio con sottile lavoro, e riporvi dentro la patria, e poi ammantarmi di paramenti maestosi, accendere lumi sopra candelabri di oro, empire d’incenso i turiboli, e cantarle intorno con note divine la preghiera dei defunti. Questo io aborro, comecchè con infinita amarezza dell’anima lo vegga praticare da uomini di nobile ingegno, ma di cuore pusillo... Hai tu sentito narrare della regina Giovanna, la madre di Carlo V? Quando le morì il consorte Filippo, ch’ella amò tanto, non lo volle sepolto, ma imbalsamato lo pose sopra un letto ricchissimo di velluto nero, e finchè visse gli sedeva accanto, ad ora ad ora spiando se mai si risvegliasse: questa era carità, e follia. Io poi imito lo esempio caritatevole con sapienza, imperciocchè non reputi morta la patria, ma addormentata come per forza d’incantagione; e giorno e notte la veglio, profferendo sopra di lei parole di amore, più spesso di dolore, e d’ira: talvolta con sali spiritosi, e con altri cosiffatti argomenti m’ingegno richiamarla alla vita; tale altra le mani le caccio dentro alle chiome, o le appresso alle labbra un carbone ardente, come Dio fece ad Isaia, o le incido la carne presso il cuore per vedere se ne spicci vivido sangue. — Certo.... certo, fin qui indarno tornarono le parole, e dei capelli mi rimasero in mano intere le ciocche strappate.... Ma se presso allo svegliarsi, queste parole d’ira, di dolore, e di amore, questi fatti di carità e di sdegno valessero a romperle il letargo dalla testa un minuto, un secondo, prima del tempo stabilito dal fato, non ti parrebbe la mia vita, cento vite di cittadini santamente spese....”

— Questo cervello di frate, pensava Titta fra sè, mi pare un molino a vento; ma anche simili molini, quando la stagione corre propizia, macinano grano, e bene. Per uscire da questo vespaio, non ci è altro rimedio che farlo incappucciare; — e non ostante mi sembra una grande e nobile creatura. L’Aretino non era degno di legargli il calzare; — però di mutamento non è più tempo, e mi bisogna lasciare il trave tarlato per paura che non rovini la casa.... — Eccoci al punto!.... Davver davvero, io commetto un solenne tradimento: ma gettato sul mucchio delle mie cattive opere, non ne crescerà il volume.... E poi, guai a cui gli torcesse pure un capello.... Alfine non si tratta di cosa grave; poche ore di chiusa, co’ migliori comodi che sapesse mai desiderare.... E gli chiederò perdono..., ed egli come umanissimo me lo concederà.... —

Così tra sè mulinando, vide esser giunto alla posta; ch’era lo sbocco della via del Mandorlo: allora accostatesi le dita della mano destra alle labbra, ne trasse un fischio acutissimo, e allo improvviso, senza sapere donde fossero piovuti, staccandosi quasi dalle pareti delle case, ecco apparire quattro uomini, che circondarono il frate. Padre Marcello sentendosi infiammato di subita ira, stese la mano, e forte stringendo il braccio a Titta, con voce commossa gli disse:

— “Tu mi tradisci!” — Ma indi a poco ridivenuto mite, in suono mansueto gli aggiunse: “Dio ti perdoni. — Domine, in manus tuas commendo spiritum meum.

— “No, Padre mio, non dubitate; noi non vogliamo farvi un male al mondo. Io ve lo giuro per la Santissima Nunziata, che sendo qui presso, come vedete, può dirsi in certo modo che mi ascolti. Noi non abbiamo bisogno della vostra vita, ma sì della vostra cappa. Noi vogliamo per qualche ora diventare voi, senza però che voi cessiate essere voi. Voi a tempo debito sarete ricondotto al convento come una sposa. Intanto, voi non potreste venire innanzi se prima non consentiste a farvi bendare gli occhi...”

— “Fate... Assai più gravi oltraggi ebbe a soffrire il mio divino Maestro. Non mi dolgo per me, ma io mi addoloro per quelle povere anime allo esizio delle quali io troppo bene mi avveggo che voi tramate qualche opera di tenebre....”

E porse il capo alla benda, studioso di evitare più che per lui si potesse i contatti della gente tristissima. Bendato il frate che fu, e assicuratisi bene che non potesse vedere, lo condussero nella piazza della Santissima Nunziata, dove aggiratolo per tutti i lati, affinchè non si addasse del cammino per lo quale intendevano avviarlo, percorsa la via dello Studio, e la piazza di San Marco, lo messero dentro al casino.

Condottolo in una stanza apparecchiata all’uopo, che corrispondeva al giardino di cui le finestre però erano state chiuse con saldissime imposte inchiodate esternamente, Titta esitando, che quasi sentiva venirsi meno il cuore all’atto inverecondo, con una voce dimessa così favellò:

— “Padre, non vi sia grave se vi tolgo la cappa di dosso....”

— “Guarda, che tu commetti sacrilegio, e se Dio ti cogliesse in questo punto di mala morte, tu ruineresti irreparabilmente nello inferno....”

— “Padre, in primis, protesto ch’io già nol faccio per recarvi oltraggio; poi mi obbligo solennemente a riportarvela fra non molte ore; ed infine, essendo il caldo grandissimo, io non mi persuado come possa commettere tanto brutto peccato liberandovi per alcun poco di tempo da così grave cilizio....”

— “Quando io vestiva questo abito, giurai che non lo avrei deposto finchè mi durava la vita....”

— “E voi non rompete il giuramento, imperciocchè patite violenza, e non vi concorre per nulla la volontà vostra....”

— “Ma perchè mi usi violenza? In che cosa ti nocqui? Dove mai ti conobbi?”

— “O Padre, avreste dovuto accorgervi ch’io violentato adopro violenza...”

— “Se conosci il male, perchè non te ne astieni?”

— “Arduo sarebbe stato prima di ora: adesso poi, impossibile.”

— “Sciagurato! Io ti compiango. Quando mi riporterai questa veste, sarà macchiata di sangue: forse ad occhio mortale non comparirà quel sangue, ma Dio lo vedrà: un’anima cristiana starà allora davanti al suo trono, e chiederà vendetta.... e l’avrà....”

— “E fosse la sola!” mormorò Titta. — “Padre, l’ora si fa tarda, datemi la vostra cappa....”

— “Oh! prendimi, prendimi piuttosto la vita....”

— “Io vi ho detto abbisognare noi della vostra cappa, e non della vostra vita: io, quanto più so e posso, mi raccomando umilmente, affinchè non consentiate che noi vi mettiamo le mani addosso. — Toglieteci la necessità di questo estremo; anche noi obbediamo a cui può molto più di noi. E non obbedendo, saremmo tutti morti....”

— “Ebbene, strappatemela di dosso; — e Dio rimeriti colui che n’è cagione a misura delle opere.”

Titta e gli altri si strinsero attorno al frate, il quale per quanto gli bastarono le forze fece prova resistere: ma in breve rimase superato, come colui che di piccola lena era: e troppo lo vincevano i suoi avversarii. Avuta la cappa, si allontanarono frettolosi, come lupi che ghermita la preda s’intanino; e Padre Marcello, accortosi dal silenzio essere rimasto solo, si tolse la benda.

Vôlti attorno gli sguardi, vide una stanza ornata di pitture egregie, ed insigne di opere di scoltura condotte in marmo e in bronzo; vide apprestato un letto magnifico, una tavola coperta di varie ragioni cibi e bevande, ed i doppieri che tramandavano vivissima luce: ma da tutte queste cose torse gli occhi contristati, e li posò sopra uno inginocchiatoio dove gli occorse un crocifisso e un libro, che dalla mole gli parve, ed era, un messale. Col cuore pieno si gettò davanti al crocifisso, e si sciolse in lacrime amare.

Egli pianse, conciossiachè comunque piissimo uomo ei si fosse, nonostante anche in lui quel di Adamo vivesse; pianse la ingiuria atroce sofferta e il sacrilego strazio; pianse l’offesa fatta a Dio; pianse per l’anima o anime a cui aveva compreso ordirsi tradimento; e fervorose inalzava le preghiere perchè il Signore sorgesse, e agli empii la sua virtù dimostrasse. Certo non fu mai con voti più ardenti supplicato un miracolo, nè con maggiore fede atteso, nè da casi più urgenti voluto: ma a cui poteva operarlo piacque diversamente.


Le stelle incominciavano a farsi meno spesse nel cielo, quando dallo interno della chiesa di Santa Croce, vicino alla porta maggiore della facciata, fu udito un fragore di chiavi, e un muovere di passi pesanti. Subito dopo, tutto di un tratto tirarono il catorcio. Un frate converso sporse il capo guardando a destra e a sinistra, lo sollevò fiutando quasi la vivida aura matutina, e stropicciandosi presto e forte le mani esclamò: — bella giornata! — Poi salutato di nuovo con uno sguardo il firmamento, rientrò in chiesa investigando se le lampade fossero rimaste accese; e poichè, sebbene accese, un lume così fioco tramandassero, che parevano presso a morire, si affrettò verso la sagrestia per infondervi nuovo olio.

In questo mezzo, un altro frate, strisciando lungo le mura, s’introdusse sospettoso e furtivo in chiesa per la porta maggiore, e con presti passi si accostò ad un confessionale sotto l’organo, lo aperse, e vi si chiuse dentro.

In fede di Dio, cotesta apparizione avrebbe cacciato addosso lo spavento ai meglio animosi, imperciocchè al passare di dietro le colonne della navata del tutto scomparisse, e allo improvviso attraversando il raggio delle lampade appese agli archi, una figura nera e lunga pel pavimento, sopra la parete si vedesse trascorrere veloce come una fantasima.

Non andò guari, che da più parti convennero alcuni devoti ed alcune devote, recando in mano quale la lanterna, e chi il torchietto, che l’aria quieta non valeva ad agitarne neppure la fiammella, e tutti si accolsero, a modo che i colombi fanno alla pastura, intorno al confessionale di sotto l’organo. — Cominciano le confessioni: ma in quel giorno, con maraviglia non piccola dei devoti, Padre Marcello pareva avere messo da parte la consueta mansuetudine. Poco udiva, meno favellava, e negli atti e nelle parole troppo appariva diverso da quello che era.

A certa madre, che si accusava avere maledetto il figliuolo perchè si fosse ardito di batterla, disse: — “Ha fatto bene, conciossiachè ora vi castighi per non averlo voi o voluto o saputo castigare quando era tempo.”

A tale, che ricevuto in deposito del danaro da uno amico, aveva nei proprii bisogni convertito la pecunia depositata, e domandava adesso perdono e consiglio, rispose brevemente acerbo: — “Gettatevi in Arno.”

Vi fu una femmina, che confessava essere troppo inchinevole alle ire, e intemperante di lingua, per cui spesso tra lei e il marito correvano di brutte parole, e si empiva di subuglio la casa; ond’ella dalla carità del frate supplicava sapesse indicarle rimedio efficace: e il frate senza più: — “Chiedetene alle cesoie.”

Ad altra donna, che esposta una serie di peccati non piccola, minacciava andarsene per le lunghe, ruppe la parola di bocca interrogando: — “Quanti anni contate voi? — Sessantacinque, Padre, come viene ferragosto. — Meglio per voi; così, dacchè voi non sapete lasciare il peccato, presto il peccato lascerà voi.”

A tale, che con lacrime molte si accusava avere tradito un suo parente facendogli la spia agli Otto, chiuse dispettoso lo sportello in faccia, esclamando: — “Largo è lo inferno!”

E prima che io termini, piacemi riportare quanto egli disse a un curiale. — “Padre, favellava il curiale, in certa lite nella quale sentiva avere il torto, ingannai l’avversario, e mi riuscì ottenere una sentenza favorevole.” — “Figliuolo mio, le difese forensi mi paiono talvolta partite a primiera giuocate fra due professori di carte. Poco male! Peccato più, peccato meno, ci vorrebbero più argani a tirare su un’anima come la vostra in paradiso, che non ne abbisognarono per portare le campane in cima al campanile: è tempo perso; potete andare....”

Se via se ne andassero i penitenti sbigottiti non è da domandare. — Cotesto, pensavano essi, vorranno dire santo uomo? Lui teologo sommo, e in divinità dottissimo? Lui a conoscere le infermità capace, a trattarle pietoso, a guarirle unico? Più che di altro costui ha sembianza di uomo di arme; e meglio del cappuccio sopra la testa, o del breviario nelle mani, gli starebbe una barbuta e una spada.

Allo improvviso, due donne avvolte dentro ampissima mantiglia di seta nera, curando poco la turba, che genuflessa e stipata stava intorno al confessionale, trapassano; e mentre una occupa la nicchia del penitente, l’altra in atto di preghiera le si pone ai piedi. La turba sentendosi così urtare senza compassione, non che osasse lamentarsi, si scansa rispettosa, dicendo: — “Coteste hanno ad essere due grandi signore; — passano, e pestano!...”

— “Padre!” comincia colei che tiene il confessionale.

Il confessore si agitava commosso visibilmente, e si recando alla bocca un lembo della cappa, e quello stretto tra i denti rispondeva:

— “Dite su!...”

— “Padre!....” — E la parola per continuare mancava. Il confessore, non più impaziente, ma aspettato spazio convenevole di tempo, riprende sommesso...

— “Dite su!”

— “Padre mio, è egli ben vero che Dio a qualunque grande peccato perdoni?....”

— “Questa è la colpa più grave della quale avreste potuto per avventura accusarvi. Avete voi bene esaminata la vostra coscienza? Siete voi disposta a non celare nulla dei vostri atti e detti, opere, omissioni, pensieri, insomma senza restrizione nulla? Ricordatevi che Santo Agostino insegna, la confessione essere plenaria dimostrazione della infermità interna per isperanza di ottenerne guarigione; e comecchè questo sia moltissimo, tuttavolta non basta, e si richiede un cuore contrito ed umiliato: — questo cuore contrito portate voi? Se così è, come vi auguro, parlate; l’uomo si stancherà prima di peccare, che la misericordia di perdonare...”

— “Amen, Padre mio, amen! Io parlerò confidando nel perdono, non già perchè io possa meritarlo, ma perchè, come mi dite, è grandissima la divina bontà. Io sono figlia, madre, sposa, e cittadina del pari colpevole...”

— “Bene!”

— “Cittadina, poco giovai: a molti nocqui, e se pure ad alcuno feci del bene, io sento come mi movesse meno la perfetta carità, quanto una pompa vana di comparire soccorrevole. Io non celai alla mia sinistra la elemosina data dalla destra; anzi mi piacque che lo sapesse il mondo, e che per la gente se ne favellasse...”

— “Questo non è merito, ma non peccato. Voi avete comprato fama terrena: coteste elemosine voi non troverete registrate nei libri del paradiso. Recepisti mercedem tuam, avete ricevuto la vostra mercede. È la carità del Fariseo; quella che ai giorni nostri maggiormente costuma. Gli uomini adesso danno un soldo a suono di tromba, lo avvisano con le campane, ne fanno appiccare i cedoloni sopra tutti i canti... Vanità di vanità! dice il predicatore. Fate conto dunque che le vostre sieno partite saldate...”

— “Nè figlia porsi ascolto ai consigli del padre, nè ai suoi ammonimenti obbediva. — Io non ho da vivere sempre — egli diceva: — ma lui e me avventurosi, se mi avesse dato meno consigli, e, Dio faccia misericordia all’anima sua, esempi migliori!”

— “E sposa?...”

— “Sposa! — La natura mi largiva un dono funesto: fantasia ardentissima, voglie irrequiete, disposizione maravigliosa a imparare e a ritenere. Tutto quanto è capace ad esaltare la mente e ad infiammare il cuore io appresi, e con passione esercitai. Nudrita di delizie, festeggiata, e lusingata sempre con parole soavi; circondata da lascivie e da costumi rotti ad ogni maniera d’intemperanza; data in moglie ad un uomo che io non conosceva, nè egli mi conosceva, poco ci andammo a genio, meno ci amammo: egli soldato, io cultrice delle Muse. Un giorno, oppresso da insopportabile fastidio il mio marito partiva: doveva rimanere lontano tre mesi, e vi stette tre anni. Io volli presumere troppo di me, e la superbia mi prese. Poi mi piacque immaginare un fato, che sola la mia mente concepiva, una passione invincibile nudrita unicamente dalla mia fantasia, e creando, e dirò quasi imprestando ad un uomo di per sè nullo le qualità di perfezione che io sognai per gli estri della poesia... fabbricai con le mie mani lo abisso ove caddi... e mi perdei. Quando io mi svegliai, vidi la mia casa piena di obbrobrio, e davanti a me uno abiettissimo uomo, e me più abietta di lui, però che a lui mi fossi sottoposta. — La mèsse della colpa fu da me largamente raccolta, lacrime senza fine amare, e dolori ineffabili, e disprezzo di me, e pentimento tardo pur troppo, ma immenso, profondo, e tale insomma, che io credo che il Signore possa avere veduto lo uguale, superiore non mai...”

— “E molte furono le volte che commetteste adulterio?” insisteva con voce roca e lenta il confessore.

— “O Padre, basta... non ricercate più oltre, se non volete vedermi morire di vergogna ai vostri piedi.”

— “Bene! — Ma lo adultero eravi forse congiunto per sangue? Come si chiama egli?...”

Dove meno fosse stata in quel punto commossa Isabella, le volava di bocca il nome di Troilo: ma incapace a formare parola, avendo dovuto riprendere lena, pensò non solo non correrle obbligo di rivelare il nome del complice, anzi all’opposto la carità imporle di tacerlo religiosamente; per la qual cosa, allorchè il confessore tornava a insistere:

— “L’adultero è per avventura vostro congiunto? Come si chiama egli?”

Ella risoluta rispose: — “Io accuso me, non gli altri. Questo non posso dirvi, nè voi potete domandare, nè io vi dirò....”

— “Come! questo è di sostanza! Secondo i gradi della parentela il peccato muta specie, ed aggrava notabilmente. Ed io vo’ che avvertiate, due essere le parentele; naturale la prima, spirituale la seconda, che nasce dal tenere al sacro fonte una creatura..... Onde per gius canonico, vedete, il cugino — a modo di esempio — del vostro marito vi sarebbe congiunto in secondo grado, e lo adulterio diventerebbe incesto, peccato che offende più Iddio, e molto maggiormente disturba gli ordini del vivere civile...”

— “Ahimè! Di quanto orrore mi penetrate voi le ossa....”

— “Ora dunque parlate: vi è parente costui?”

— “Voi vi siete apposto... Cugino...”

— “Cugino!”

— “Nè qui finisce...”

— “No?”

— “Madre infelice... un figlio.”

— “Un figlio? E come si chiama? E quanti anni ha?”

— “Pochi mesi....”

— “Non anni, è vero... non anni?”

— “No, mesi; ma ciò che importa?”

— “Assai...”

— “E siccome egli non è per lato di tutti i genitori ai suoi fratelli fratello, così io lo bandiva dalla mia casa, non già dal mio cuore.”

— “E dove lo mandaste? Dove si trova egli?”

— “Questo non importa che io vi dica, o Padre. Ho fatto come l’aquila; gli ho apprestato il nido in parte ove non può arrivarlo maltalento umano. In quanto alle sostanze, il mio figliuolo legittimo non ne patirà jattura, avendolo provveduto co’ danari donatimi dal mio defunto padre, che morendo mi lasciò casamenti, e poderi, e gioie di molto valore...”

Qui si rimase alcun poco in silenzio: considerando poi come il tempo incalzasse soggiunse:

— “Adesso, Padre mio, mantenetemi la promessa. Io non vi ho taciuto nulla, vi ho aperto la mia infermità: sanatela voi; profferite la parola prodigiosa che mi ritornerà la innocenza perduta, e mi farà degna di confidare nel perdono; apritemi le porte del paradiso; datemi, voi che lo potete, l’oblio..”

E poichè il Frate non rispondeva, la donna continuava smaniosa:

— “Perchè tacete, o Padre? È così grande peccato il mio, che il Signore nei tesori della sua misericordia non sappia ritrovare perdono? Non lo negava Pietro? Non lo perseguiva Paolo? E non pertanto furono vasi di elezione, ed apostoli delle genti! Io per me non chiedo tanta grazia; mi basta un frusto di pietà, una stilla di refrigerio e di oblio. Scioglietemi dal peccato, salvatemi dalla mia disperazione. Io so che in articulo mortis voi potete assolvere anche dai casi riservati. — Sentite, fate conto ch’io sia in transito; credetelo, io mi trovo in agonia; poche più ore mi avanzano per vivere: presso alla tremenda partita, voi non mi potete negare il viatico di speranza e di perdono, per cui l’anima s’incammina al tribunale di Dio, dove tremando e confidando aspetta che venga confermata la sentenza del sacerdote che lo rappresenta sopra la terra...”

E il Frate non rispondeva.

Isabella torna a supplicare, a interrogare, e a piangere; ma sempre invano. Il confessionario vocale diventò silenzioso come un sepolcro. Allora Isabella presa da impazienza stese la mano, e la cacciò dentro alla tribuna occupata dal confessore, tentando incontrarlo nel cieco aere: ella temeva che qualche male improvviso lo avesse incolto. Quali e quanti fossero la sua maraviglia, il suo cordoglio, e il terrore, quando conobbe a prova scomparso il Frate, sel pensi chi legge. Un ghiaccio le strinse il cuore; e appena dalla gola chiusa mandando un singulto, cadde priva di sentimento sopra lo inginocchiatoio.

E bene le giovò avere vicina madonna Lucrezia, la quale occupata poco dai propri pensieri porgeva attenzione grandissima alle cose circostanti; imperciocchè accorse con subita premura, e adoperando accortamente ogni mezzo per farla risensare, l’ebbe in breve ora ricondotta agli uffici consueti della vita.

Isabella da una parte pensando tutta fremente al pericolo corso di empire di scandalo la chiesa, e di darsi a conoscere; e dall’altra parte, con ispavento punto minore vedendo diventare il giorno chiaro, si appoggiava al braccio di madonna Lucrezia, e quantunque vacillasse, pure con presti passi quindi si tolse.

Venuta all’aria aperta, levò gli occhi al cielo, e vide una dopo l’altra scomparire le stelle, non come fiaccole spente per forza di vento, ma a modo di splendori che godono confondersi dentro fuoco più grande: — così le anime umane, emanazioni della Divinità, sciolte dalle membra che le legano, amano mescolarsi nel seno immenso di Dio. Dalla parte di oriente, un tenue velo di vapori colorato di oro circondava Firenze la bella, simile a una Madonna dei suoi immortali pittori, circonfusa del nimbo radiato. La natura con tutte le cose create, come un citarista versa da tutte le corde della lira un torrente di melodia, levava al Creatore l’inno della mattina: non vi era oggetto, non animale che o con la preghiera, o col voto del cuore, o con la letizia dello sguardo, o col profumo, o col canto verso il cielo, non si avviasse a salutare il Padre della luce, e un murmure indistinto si diffondeva lontano lontano quasi fremito della vecchia terra che si rallegrasse nel sentirsi scaldare le membra intirizzite dal benefico calore. Salute, primogenito del pensiero di Dio, salute, o Sole, imperciocchè nulla sia morto davanti al tuo cospetto, e ogni cosa palpiti e si ravvivi, e dagli stessi sepolcri dove giacciono i miei cari defunti tu estragga fiori, ornamento delle chiome di giovani amanti, e di donne innamorate.

Isabella levò gli occhi al cielo, e tornò il sorriso al suo pallido volto, e piegando la faccia alla plaga donde il sole nasceva, così favellò:

— Come bella è la vita! — Ma per goderla bisogna possedere giovanezza di anni, e giovanezza di cuore, e innocenza, ed entusiasmo; bisogna essere tali da reggere il paragone con gli effluvii dei fiori, col canto degli uccelli, con le tinte dell’ale della farfalla, con la esultanza dei primi raggi matutini. O vita! Dacchè come fui non potrei goderti, sofferirti come io sono non voglio: chi cessò di regnare getti la corona; il manto reale rimasto sopra le spalle a cui mancò il regno, è peso e ignominia. Ma la morte mi si approssima forse desiderata, come l’ombra dell’albero al viaggiatore che cammina fino dall’Ave Maria per lande infocate sotto la sferza del sole? Mi accosto alla morte col desiderio del pellegrino stanco, che vede a sera tra lo incerto chiarore del crepuscolo spuntare il campanile del suo villaggio? Posso dire al sepolcro: — Tu sei il mio sposo? Mi aspetta oltre la soglia della vita pace? Sì, mi aspetta la pace, avvegnachè io abbia amato, sperato, e sofferto molto. Di un’altra cosa mi pento, ed è di avere desiderato di porre un mediatore tra me e il mio Dio. Il sacerdote mi ha respinto dal tempio: a me basta che tu, o Creatore di tutti, non mi respinga dal cielo. Io mi confesso a te, o Signore; tu non abbisogni di dichiarazioni, perchè con uno sguardo mi hai scandagliato l’anima, e penetrato nelle mie midolle. — Vorrei che il mio spirito movesse verso di te sul primo raggio che sta per isgorgare giù da quel monte.... Ma dove questo non possa farsi, tieni aperte le braccia, o Signore, perchè non istarò molto a ricovrarmi sotto le grandi ali del tuo perdono. —


I penitenti rimasti attorno al confessionale aspettarono lunga ora che Padre Marcello ritornasse; ma poichè videro riuscire le dimore vane, alcuni si fecero in Sagrestia per domandarne: ne ricercarono in cella, in libreria, e non lasciarono luogo senza tentarlo; non lo trovarono. Cominciando ad accogliere qualche sospetto, presero voce fuori del Convento, e raccolsero che taluno pensava averlo veduto in via del Diluvio, col cappuccio tirato sopra gli occhi, camminare come un uomo cui prema sollecita cura; a tale altro era parso vederlo passare per Borgo a Pinti così avacciando il cammino, che spesso intricandosi nei lembi della tonaca accennava cadere. — Dove poi fosse andato ignoravano, e neppure avrebbero potuto immaginarlo. Cresceva la maraviglia, non senza mescolarvisi un poco di paura. Il Priore mandò alcuni zelanti dell’Ordine perchè con bella maniera s’informassero dai gabellieri delle porte: andarono, ricercarono quanto meglio potevano sottilmente, ma nessuno valse a somministrarne notizia. Intanto, fra le indagini, il terrore, e il dolore, passò la giornata; parecchie ore della notte si successero, e i frati stavano adunati nel refettorio, chi pregando, chi col suo vicino favellando: i più animosi si offerivano salire in pulpito, ed annunziare ai popoli la sparizione e forse il martirio del Padre Marcello; i timidi confortavano ad aspettare, a vedere meglio, a non precipitare: quanti erano capi, tante le sentenze, come avviene ove si accoglie una congrega di uomini dubbiosi a deliberare sopra qualche dubbiezza; — quando di repente fu sentito un languido squillo del campanello della porta di strada. Assorsero tutti come un uomo solo, chè forte vedemmo in ogni tempo essere lo spirito di corporazione, e s’incamminarono, senza che ne rimanesse indietro pure uno, verso la porta. Chi narrerà convenientemente le lacrime, i gridi di gioia, le accoglienze amorose, i reiterati abbracciari, i baci, e tutte le altre dimostrazioni di affetto in che proruppero i nostri Frati, quando videro ricomparire il loro Padre Marcello? Egli a tutti rispose, tutti abbracciò, e baciò: gli scorrevano sul volto dolcissime lacrime; ma quel suo volto compariva stravolto, e impresso così profondamente da qualche interno corruccio, che moveva a un punto compassione, e paura.

Parlò breve, e disse: — “Avere corso un pericolo grandissimo; essere vivo come per miracolo: dovere la vita alla misericordia di Dio, e per certo ancora alle preghiere dei suoi fratelli: nella pienezza del cuor suo ringraziarli, e supplicarli a volerlo accompagnare in chiesa per rendere mercede al Sommo Dio, che con aiuto tanto visibile lo aveva soccorso in cotesta acerba avventura.”

Andarono, e ringraziarono Dio; poi Fra Marcello si restrinse col Priore a parlamento, dove avendo considerato il caso, e quello che poteva nascere, a scanso di scandali crederono bene pel momento dare luogo al tempo, e tenersi in disparte, perchè non ne venisse danno a Frate Marcello, e all’Ordine: partisse per Roma, e subito; colà a cui spettava partecipasse lo strazio e il mal governo che si facevano alla Chiesa di Dio, confortasse a prendere solleciti provvedimenti, e tornasse poi gagliardo degli aiuti del Pontefice contro questi falsi cattolici, i quali trascorrevano in atti per tal modo nefandi, da cui i luterani medesimi compresi da orrore avrebbero aborrito.

Titta fu quegli, che riconducendo il Frate incolume a notte inoltrata al Convento, aveva mantenuta fedelmente la promessa.90


CAPITOLO NONO.

LA MORTE.

Pues esta noche ha da ver
El fin de my desgravio
Medio mas prudente, y sabio
Para acabarlo de hacer.
Leonor (ahi de my) Leonor
Bella como licenciosa
Tan infeliz como hermosa
Ruina fatal de my honor.
Leonor, que al dolor rendida
Y al sentimiento postrada
Dexò la muerte burlada
En las manos de la vida,
Ha de morir......
 
Calderon de la Barca.

Un servo arriva affannoso, e avvisando la duchessa, che lo eccellentissimo signor duca ha fatto capo alla strada con la sua nobile accompagnatura; dopo pochi istanti ne sopraggiunge un altro, avvertendo che il duca entrò nel cortile, che scese, e che a questa ora messe il piede sopra le scale. La duchessa, quando ebbe ciò udito, sorse in piedi, e circondata dai gentiluomini di famiglia, dalle damigelle, e dalle donne, tenendo al fianco Troilo, composta la fronte a serenità, richiamando, e Dio sa con quanto ineffabile sforzo, un sorriso sopra le labbra, mosse nè frettolosa, nè lenta, con bella e dignitosa leggiadria verso il marito.

S’incontrarono in cima alle scale: si gettarono le braccia al collo; si baciarono reiterate volte, e parevano commossi profondamente, ed invero erano: — ma da quali affetti commossi? Questo poteva vedere solo Dio. — Ai circostanti sembrava che la commozione nascesse dal desiderio lungo di rivedersi adesso appagato, dal piacere di riunire le membra di una famiglia con troppo danno separata; insomma dalle domestiche gioie, delle quali gli uomini fanno così poco conto quando le possiedono, con rammarico inestimabile le piangono perdute, e con tanta esultanza a pochi fortunatissimi è dato potere riacquistare. E sciolto dagli amplessi della consorte, il duca, come colui che di modi gentileschi era copiosamente adornato, strinse la mano a Troilo, lo baciò e abbracciò, gli altri di casa non pose in dimenticanza, che all’opposto gli accarezzava e chiamava a nome, di loro e delle famiglie con molta premura interrogava, mostrando avere conservato buona memoria di tutto, e di tutti.

Ridottisi quindi nelle secrete stanze, il duca, la duchessa e Troilo, Paolo Giordano favellò:

— “Parmi bene, Isabella, che noi mandiamo subito ad avvisare il Serenissimo vostro fratello, affinchè ci sia cortese di farci accompagnare a casa Virginio nostro: — troppo mi tarda vederlo. Io so bene ch’ei ci cresce rigoglioso, e si mostra dispostissimo ad ogni maniera di esercizi che si addicono ad un principe grande; e lasciando del mio sangue, nascendo dal vostro, che ha onorato il mondo con tanti uomini virtuosi in armi e in sapere, non poteva essere a meno.... Ma qual gioia provata per messaggio o per lettera può uguagliare quella che deriva nel cuore paterno dal vedere la cara immagine, e dallo udire la soave voce del figlio....!”

— “Giordano, ho già provveduto. La madre conosce i desiderii del padre prima assai che dal suo cuore s’incamminino verso le labbra.”

— “Dilettissima mia.... che cosa vi dirò io? Abbiatene mercè. O come consola questa aria di casa, che posso chiamare veramente mia! Come questi affetti scendono soavi sopra l’anima, e paiono un fiato di primavera, che sgombri ogni nuvola di tristezza, di cure moleste, e di rancore. Sì... sì, l’aria dei campi aperti, e della vetta dei monti, quella marina che mi pungeva la faccia il giorno della battaglia di Lepanto, non dirò che non mi tornassero faustissime, e gradito anche mi fu il fremito della battaglia, e il lampo del sole su per le armi cristiane gloriosamente diffuso, e sopra ogni cosa accetto il grido superbo della vittoria;.... ma tu, aria di casa mia, — aria di casa mia — io non ti ho trovato altrove....!”

— “Però non si ottiene fama seggendo in piuma, come dice il Poeta; e voi avete aggiunto un monumento nobilissimo di laude alla onoranza inclita di casa vostra. Certo è impresa ardua assai fare crescere quello ch’è tanto in alto; solo concedesi alle aquile cominciare il volo dalla cima delle Alpi...”

“Novelle! Il Poeta vostro a senno mio avrebbe potuto rassomigliare molto meglio la gloria al fumo in aere od alla spuma nell’acqua.91 Pace, riposo, è il sospiro incessante dell’uomo. Quanto più gagliarde noi formiamo le cose nostre, o le imprese; quanto più acri ci mordono le passioni, il tempo vi esercita sopra il peso dell’ale, e con maggior prestezza uomini, cose, e rinomanze, e cuori distrugge. Questa potenza fa come il vento, che le più alte cime più percuote; e la bufera, che schianta la rovere sopra il dorso della montagna, usa mercede alla viola nella vallata... Io sono vecchio....!”

— “Ahimè! Credete voi forse che le passioni più capaci a scompigliare il cuore umano sieno quelle che occorrono nei campi, o nei parlamenti? Spesso nelle stanze dorate, e sotto le cortine di damasco si accendono tali fiamme, da disgradarne, non che altre, quelle dello inferno....”

— “Checchè sia degli altri, ecco qua, io ho il volto pieno di rughe, e a voi il tempo con la calugine delle estreme sue penne ardì appena lambirvi l’angolo degli occhi.”

— “Egli è forse il volto solo, che invecchia? Non sapete voi, che l’uomo sopravvive talvolta a sè medesimo? Ignorate voi, che sovente il cuore ci sta dentro il seno come un morto nella bara? Ahi! Giordano, per la morte di Dio io vi giuro che i dolori da voi patiti nello starvi lontano dalle pareti domestiche non furono punto più gravi di quelli che soffersi io rimanendomi qui in casa derelitta, e sola. — Io ravviso nel mio pallido volto i segni della rovina dell’anima. — Non impugnate; cessate di negare facendo cenno col capo: io possiedo un amico rigido, che nè per minaccia, nè per supplicazione, nè per mercede vuol cessare dal dire la verità; che infranto in mille pezzi assume mille lingue per ripetermela più importuna che mai; che dovrebbe bandirsi di corte, poichè non si vuole piegare a lusinghe, e non pertanto è arnese del quale noi non possiamo fare a meno.... E si chiama — come ormai avete indovinato — Specchio....”

— “No in verità, io non mi era apposto; e giusto andavo mulinando col cervello chi mai si fosse questo Anassarco di corte....”92

— “Il magnifico messer Virginio!” annunziò un paggio alzando la cortina della porta; e subito dopo fu visto entrare un giovanetto sul finire della adolescenza, di mirabile sembiante, grave nei modi, e vestito di colori oscuri.

Avete voi veduto quel feroce animale chiamato giaguaro come si lanci orribilmente dal suo nascondiglio sopra la preda aspettata? Nemmeno io l’ho visto, ma fate conto che con isbalzi punto minori Paolo Giordano si precipitasse sul figlio Virginio; conciossiachè in quei tempi le passioni certo non sempre piacevoli si dimostrassero troppo più spesso che non faceva mestieri, o gioconde, o feroci, ma veementissime sempre, e in quella guisa che il vento Simoun manda sossopra le sabbie del deserto, sovvertivano i sentimenti dell’anima. Lo strinse convulso, lo baciò pei capelli, pel volto, e pel seno, lo tenne lungamente nelle braccia, quasi con gli amplessi lo soffocava, come il boa nelle sue spire il nemico: — geloso, aborriva che altri della sua gioia partecipasse: lo tirò in disparte, lo guardò fisso fisso negli occhi, e poi rompendo in dirottissimo pianto, tra i singhiozzi esclamò:

— “Oh figliuolo mio! mio sangue vero! Speranza e orgoglio della nobile casa Orsina!”

Meravigliarono tutti; e Virginio, invece di corrispondere a così stemperate dimostrazioni di affetto, stavasene a modo di sbigottito, e guardava la madre desideroso di più soavi amplessi; ma il padre s’ingegnava assorbire tutta l’attenzione del figlio, e tra la madre e lo sguardo del figliuolo s’ingegnava interporre la sua persona. Alla perfine Virginio si sciolse da coteste ardenti carezze, e volò nelle braccia che la madre gli tendeva aperte, e si ricambiarono uno abbracciamento lungo e dolcissimo, il quale io in questa terra non saprei rassomigliare che ad un altro amplesso dato da madre amorosa a figliuolo diletto; nè forse lassù in cielo gli amplessi degli angioli davanti il trono dello Eterno superano in affetto quelli materni.

Paolo Giordano guardò con occhio pieno di mestizia quelle due creature: il suo cuore si sollevò in un sospiro che compresse a mezzo, e respinse verso la sua sorgente; poi gli occhi gli si offuscarono di sangue e di bile, e li volse trucemente contro Troilo; il quale annichilito teneva fitti i suoi sopra il pavimento. Non si ha da dubitare, che se Isabella e Troilo non fossero stati in quel punto preoccupati, la prima nella esultanza del figlio, e l’altro dai rimorsi della coscienza, in quei così spaventevoli sguardi di Paolo Giordano avrebbero letto la propria condanna, avvegnachè rivelassero lo inferno.

E come se sopportasse impazientemente che così si tenessero congiunte due anime destinate a separarsi presto, piuttosto geloso di uno amore che voleva e intendeva avesse a diventare tutto suo, chiamato a sè con voce alquanto acerba Virginio, gli disse:

— “Esaminarti come tu sii valoroso in lettere a me non appartiene, chè di siffatte novelle io comprendo poco; ma dimmi su, come maneggi un cavallo? come tratti tu l’arme? Ti fanno paura le spade?”

— “Provate!....”

— “Di grandissimo cuore.” — E Paolo Giordano fece portare da un famiglio gli arnesi necessarii alla scherma, ch’egli non lasciava mai indietro, come colui che si sentiva peritissimo in questo esercizio. Qui cominciarono uno assalto oltremodo furioso, in cui se Paolo Giordano si mostrò, com’era naturale, di maggiore lena del figlio, questi alla sua volta di agilità pari alla paterna, e per i suoi anni veramente maravigliosa.

— “Troilo!” esultante Paolo Giordano esclamava, “Troilo, in fe’ di Dio, è una delle migliori spade ch’io mi abbia trovato fin qui. Fatemi grazia, Troilo, provate un po’ anche voi; nei tempi, te pure, o Troilo, estimavano franca spada i nostri capitani.”

— “Nei tempi! — Ma adesso mi sento sgagliardito. Oh! quanto era meglio che mi fossi condotto anche io a far procaccio di bella fama, o di morte onorata....”

— “E che? Troilo, guardando casa mia, avreste voi per avventura acquistato vergogna?....”

— “No... ma egli mi sembra che sarebbe stato più desiderabile trovarmi alle Curzolari....”

— “Troilo, io voglio che sappiate che in ogni parte, e in ogni ufficio dove uomo si porti da cavaliere leale, può guadagnarsi onore... — Ora via, fatemi contento, provate.”

E Troilo provò; ma il braccio gli tremava, e valeva appena a sostenere la spada: si tenne sopra le difese, e in breve, come svogliato, declinò la punta:

— “Non sono più quello di prima; morì di me gran parte. Se Dio mi concede vita che basti, ho deliberato andare a ritemperarmi nella religione di Malta....”

— “Farete opera meritoria, Troilo: e giova adesso lo andare, che il sommo Pontefice ha compartito indulgenze larghissime a chiunque si muova per combattere contro gl’infedeli. Voi siete stanco di oziare, io di travagliarmi; e ambedue cerchiamo nuovi modi di vita. Così va il mondo: non ci acquietiamo mai nelle sorti presenti; facciamo come gli infermi, che dando volta ora su questo, ora sopra quell’altro fianco, s’ingegnano confortare il loro travaglio. Io non so se il sepolcro ci darà fama; ma certamente il sepolcro solo varrà a darci riposo. — Ma che parlo io di sepolcro! E perchè voi siete così mesti nei sembianti? Questo è giorno di esultanza, questo è uno dei giorni che spiana più di una ruga sopra la fronte e sopra il cuore: godete! Io mi sento il più lieto uomo della terra. La mia casa deve risonare di grida festose.... Giubbilate! vi scongiuro, giubbilate! — io vi comando....”

— “Credete voi che la gioia possa comandarsi come una colonna di fanti!” parlò con voce languida Isabella.

— “E qual cosa impedisce ch’ella non venga spontanea?”

— “L’anima nostra prende agevolmente l’abito della mestizia, nè può lasciarlo così di subito come noi altre donne facciamo di un velo o di una cintura. E poi, si danno gioie modeste e segrete, che all’aria aperta svaporano, che voglionsi custodire a modo del fuoco di Vesta dentro il sacrario della anima...”

— “No, viva Dio! io amo la franca e viva gioia, amo il giubbilo fragoroso che si compiace dei fuochi, si diletta dei banchetti e dei festini, i fiori e i suoni desidera. — Ben venga l’allegria, che s’indora co’ primi raggi del sole matutino, e si rinfresca di rugiade, pei prati discorre e pei boschi, dietro le fiere si affatica. — In campagna, su, in campagna: dentro queste prigioni che chiamano città, non possiamo respirare a nostro agio: una oppressura stringe il petto, e affanna il cuore. Costà vedremo se vi riuscirà continuare nella mestizia. — Io voglio vedervi lieti: io vi farò tutti contenti, o non sono Paolo Giordano Orsini duca di Bracciano. — Isabella, sentite: ho deliberato recarmi a complire il Serenissimo fratello vostro: prenderò meco Virginio; e resagli, come per me si conviene, debita onoranza, torrò commiato subito, e ci ridurremo senza porre tempo tra mezzo a starci in villa, al bel nostro Cerreto. Quivi sono ombre, e fiere, e macchie; colà scorrono copiose e fresche acque: quindi l’occhio si delizia sopra grandissima parte di questo paradiso terrestre che le genti salutano col nome di Toscana. — Nessuno speri gustare le dolcezze domestiche meglio che per la quiete dei campi, o all’ombra delle foreste; e noi colà ci sentiremo felici. — Non vi piace così, Isabella? Certo, voi accogliete troppo entusiasmo nell’anima per negarmi questo. Marito io di poetessa, apro il cuore allo spirito della poesia....”

— “A me gradisce quanto piace a voi, signore mio; — pure, considerate come faccia grandissimo caldo, e avreste minore fastidio camminando di notte....”

— “Sì veramente, che qui respiriamo noi! — Non sentite, che pare che piova fuoco? In Firenze non capisco più il sole: durante il verno, scivola così di nuvola in nuvola, come un fallito che mescolandosi nella calca s’ingegni sottrarsi al donzello della Mercanzia; nella estate poi, ci sta conficcato come un chiodo, e le vuole il bene che portò al suo figliuolo Fetonte.... E poi ad uomo di arme ha da recare fastidio il sole? — Che ne di’ tu, Troilo?”

— “Salvo vostro onore, acconsentirei allo avviso della duchessa....”

— “Or bene, via, se ti dà noia il sole, tu andrai in carrozza con lei; — e noi viaggeremo a cavallo....”

— “A cavallo verrò ancora io!” disse con voce commossa Troilo. E Paolo Giordano sorridendo rispose:

— “Non te l’ho detto mica per offesa, Troilo; io mi credeva che tu volessi continuare a farle quella buona e fedele guardia che tu le hai fatta fin qui....”

E posto fine alle parole, tolto per mano Virginio, assicurando che presto ritornerebbe accompagnato con onorevole corteggio di gentiluomini, si dipartiva per andare a complire il suo cognato.

Partito che fu, Troilo e Isabella, com’è da credersi, con tutte le facoltà dell’anima loro si fecero a pesare le parole profferite da Paolo Giordano, e a sottoporre a minuto esame i gesti, gli sguardi, ed ogni particolare sfuggito ad occhi meno veggenti dei loro. Così stavano sprofondati nella indagine, che se in quel punto il terremoto avesse scosso la città, non se ne sarebbero accorti, siccome corre fama, e si legge per le storie, che avvenisse ai Romani e ai Cartaginesi combattenti la battaglia del Trasimeno. Maravigliosa cosa poi fu questa, che entrambi nel punto stesso ed in modo affatto contrario le riflessioni loro concludessero, e mentre Troilo deponeva la paura, l’altra dava l’addio alla speranza.

E senza adoperarvi il linguaggio delle labbra, con le infinite altre favelle che la sembianza umana è capace di significare, si erano manifestati a che cosa pensassero, e come il giudizio loro decidesse; e poichè pur troppo si accorgevano non accordarsi, una voglia smaniosa si era cacciata addosso a Troilo di conoscere più apertamente i sensi d’Isabella. Ma licenziare i molti convenuti non pareva onesto, nè prudente stringersi al cospetto di loro in segreto colloquio, ed era pericoloso lasciare Troilo che continuasse cenni ed ammicchi, a tutti sciaguratamente palesi, di volerle ad ogni costo parlare; ond’ella per lo meno reo partito scelse andare presso una sua tavola; e quivi recatosi in mano il canzoniere del Petrarca, cercò un sonetto, lo lesse attentamente in prima, e incisa lievemente con l’ugna la parte della pagina dove voleva che l’attenzione di Troilo si riposasse, lo lasciò aperto, accennando dell’occhio al medesimo che si facesse a leggerlo: poi, tolto motivo di non so quale parola profferita dagli astanti, provò di mescersi nei loro colloquii, cosa che le venne conseguíta molto di leggeri, come colei che era disinvolta e arguta molto. Troilo, quando gli parve tempo convenevole, si accostò al tavolino, e lesse nel punto segnato:

Ma del misero stato ove noi semo
Condotte dalla vita altra serena,
Un sol conforto, e della morte, avemo:
Che vendetta è di lui ch’a ciò ne mena;
Lo qual in forza altrui, presso all’estremo,
Riman legato con maggior catena.

Troilo fece spallucce, dicendo tra sè: — Questa ormai gode reputarsi spacciata; ma come non si scorge chiaro che Paolo Giordano è il più lieto uomo del mondo? A costei piace, e giova, che tu vada lontano, Troilo. Ma noi ci conosciamo di vecchio: e non mi sono mai sentito disposto come adesso a starmi qui, e a vederne la fine. Che a me convenga rendere la piazza, trovo giusto; e se la vogliono con una mano, io gliela do con due: ma qui bisogna capitolare a patti onorevoli; andare agli accordi con vantaggio; ed io intendo uscirne con tutti gli onori della milizia, armi e bagagli, e non essere cacciato come un vecchio fante di famiglia senza ben-servito. —

Nè andò troppo lungo tempo, che Paolo Giordano ricomparve accompagnato orrevolmente, ma senza Virginio. Quando Isabella lo vide solo, le si spense in cuore l’estremo alito della speranza, a renunziare al quale la creatura umana con difficoltà infinita si conduce. Allora le parve davvero sentirsi leggere in faccia la sentenza di morte. Ed è la morte una molto terribile cosa per tutti, ma segnatamente poi per quelli che da infermità fisica non si trovano disposti a patirla. Le corse un brivido nelle ossa; le diventarono bianche le guance e la fronte; le labbra le si crisparono pagonazze e convulse. E senza dubbio non si vuole punto negare che bene il suo intelletto l’avvertisse, avvegnachè non era da credersi che presente il figlio volessero usare violenza contro la madre. Ella andò incontro a Paolo Giordano, e con una espressione inenarrabile lo interrogò:

— “Dov’è Virginio nostro?”

— “Il fratel vostro lo ha voluto trattenere ad ogni costo: ha detto che anche troppo egli è facile a svagarsi, e poi fa sudare acqua e sangue a rimetterlo in carreggiata. Veramente mi parve ardua cosa ch’io non mi abbia a godere il figliuolo mio dopo tanti anni di lontananza; ma voi sapete che a me tocca tenere bene edificato il Serenissimo.... Però ha promesso mandarlo per un giorno in villa accompagnato dall’aio....”

— “In villa! Qual villa?”

— “Al Cerreto.”

— “E quando?”

— “Presto....”

— “In villa lo manderà sicuramente, ma non al Cerreto.... Forse domani...”

— “Non mi ha detto domani....”

— “No? — Ma a me il cuore lo porge.... Ahimè! perchè non gli ho dato il bacio dello addio?....”

— “Temete che vi manchi tempo a baciarlo?”

— “Credete voi che io avrò tempo a baciarlo?” domandò Isabella cacciandogli addosso due sguardi da penetrare nei più intimi ripostigli del cuore. E Paolo Giordano, mandando obliqui i suoi occhi, s’ingegnava sfuggire da indagini e da contestazioni:

— “Lo credo benissimo: o chi vi ha a tenere? E, in caso di oblio, noi manderemo per esso. — Orsù dunque, a cavallo; a che ci trattenghiamo più oltre? Al Cerreto, alla pace.... alla quiete.... al riposo delle durate fatiche.... ai dolci sonni!”

— “Stultum est somno delectari, mortem horrere, cum somnus assiduus sit mortis mutatio.

— “Che andate voi mormorando, Isabella?”

— “Tornavami al pensiero una sentenza di Seneca nel libro dei costumi intorno al sonno, fratello della morte....”

— “Come si addice cotesta citazione al caso nostro?”

— “Niente.” — E due lacrime, — due lacrime sole le proruppero dagli occhi, non già scendendo giù per le guancie secondo l’usato costume, ma schizzando a zampillo come l’ultima freccia scoccata dall’arco del dolore.93

— “A cavallo!...”

E i famigli istigati dalle premure di Titta, che ormai si erano accorti avere ad obbedire come il duca, e più del duca con prestezza mirabile apparecchiavano cavalli, carrozze, e un carro di masserizie non solite a trovarsi in villa. Il maggiordomo don Inigo aveva domandato con la solita brevità: — Se avesse a caricare molte argenterie, e biancherie; — ma Titta gli rispondeva:

— “Mai no, maggiordomo, chè io faccio conto che al Cerreto vi soggiorneremo per poco.”

E si posero in via. — Il sole dardeggiava cocentissimo i suoi raggi; tacevano i venti; non ispirava un alito, e la vampa infuocata del tiranno dei cieli opprimeva le cose e gli animali. Le fronde degli alberi stavano immobili, chè non fiato, non sospiro di vento osava agitarle; le acque non mandavano il consueto mormorío; in tanto silenzio, e in così grande solitudine, sole le cicale quasi ebbre di calore si affaticavano nel canto fastidioso, che deve terminare con la loro vita; e qualche ramarro traversando veloce più che saetta la via, andava cercando un refrigerio di cespuglio in cespuglio: ad aggravare l’affanno del cammino, sommossa dalle zampe dei cavalli sorge la polvere, e ricade tenacissima sopra i capelli e le vesti dei cavalieri. I cavalli, smarrita la solita vivezza, incedono anelanti, con le orecchie dimesse, e giù pei colli e per le anche grondano sudore. — Paolo Giordano acceso in volto, e molestato anch’egli da insopportabile smania, dissimula non ostante il disagio, e dice con voce, che s’ingegna fingere festosa:

— “Questo bagno di sole ravvivare il sangue; l’uomo nato in terra italiana doversi rinfrescare infaticabilmente il petto co’ raggi del pianeta del giorno; il calore essere padre di vita, anzi la vita stessa; conciossiachè noi nasciamo caldi, e moriamo freddi;” — e simili altre novelle, alle quali attendevano pochi, rispondeva nessuno.

Intanto a grandissima pena giunsero sopra le sponde dell’Arno. Nei giorni precedenti era caduto un rovescio improvviso di pioggia, che sebbene avesse aumentato la intensità del calore, per modo che sembrasse piovuto fuoco, nonostante l’Arno se n’era riempito, e menava le acque grosse giù per la china. Chiamato il navalestro, accorse vedendo tanto nobile e così inaspettata comitiva, e propose passarla in due volte; molto più che le acque essendo gonfie, e la barca trovandosi pel soverchio peso ad affondare di troppo, potevano correre il rischio di qualche sinistro. Ma tutti si mostravano impazienti di valicare il fiume, e sopra gli altri il duca; però scesi i cavalieri dai palafreni loro, le donne dalla carrozza, entrarono in barca alla rinfusa con le bestie e co’ cariaggi, senza punto pensare alle parole del navalestro, che non si rimaneva di ammonire. Paolo Giordano e Isabella si erano condotti sopra la parte estrema della barca, che doveva prima toccare la sponda, senza ricambiarsi parola. Paolo Giordano si pone a guardare fisso le acque che scorrono; — scorrevano quasi spinte da forza arcana, e gorgogliando profondo pareva quasi si lagnassero della fuggevole durata consentita loro dai fati. Allo improvviso, come se volgesse il discorso a sè medesimo, favella:

— “Queste acque, che mi passano con tanta furia davanti gli occhi, si acquieteranno certamente nel mare; ma le anime umane, non meno transeunti di queste acque, dove mai giungeranno?”

— “Dove piacerà alla misericordia di Dio,” risponde Isabella.

— “Misericordia! Dite piuttosto dove le meneranno le opere e i meriti che si saranno acquistate in questo nostro correre alla morte, che si chiama vita....”

— “Giordano mio, nessuna creatura umana presuma salvarsi mercè i suoi meriti. — Che cosa siamo noi, se Dio non ci sovviene?”

— “Voi confidate molto nella misericordia di Dio?”

— “Intieramente.”

— “Ma se i sacerdoti vi avessero chiarito imperdonabile....?”

— “Non mi terrei per disperata, e vorrei udire io stessa questa parola di rigore dalle labbra immortali del Padre di ogni carità....”

— “Ma Dio è giudice e vendicatore; egli visita le generazioni, e punisce i peccati dei padri nei remotissimi nepoti....”

— “Noi conosciamo un’altra legge, e sta nel perdono, nella carità, e nello amore; e quella beatissima donna di Santa Teresa chiama infelice il demonio, perchè non sa perdonare, nè amare...”

— “Domine aiutaci! — Andiamo capovolti! — Ve lo aveva detto io!”

Questi gridi interruppero improvvisi il colloquio. Subito dopo, ogni cosa era paura e subuglio. La corda entro cui scorrevano le guide della barca si ruppe; lo impeto delle acque sospingendola di traverso, stava per sommergerla, priva com’era di quel sostegno: urgeva imminentissimo il pericolo, diventato maggiore pei moti incomposti degli uomini e degli animali: l’orlo della barca toccava già l’acqua; già stava per riempirsi irreparabilmente.

Paolo Giordano in quel trambusto non solo non parve che se ne spaventasse, ma anzi ne godesse, e con un grande urlo esclamò:

— “Tutti allo inferno!”

Ma il navalestro fu in tempo a cacciare la stanga dalla parte ove la barca minacciava affondare, e questa ristette a un pelo dallo sparire sotto acqua. — Riparato così al subito pericolo, gli altri sovvennero il navalestro; e adoperandovi le forze riunite, valsero a tenere ferma, sebbene con fatica, la barca: allora un garzone con altra corda in mano si gittò nel fiume, e superata la corrente mise piede sul greto, e con l’aiuto di qualche villano, che aspettava dall’altra riva per traghettare, tirando la corda di cui un capo era rimasto legato alla barca, la condusse in luogo di salute. Scesero, e al navalestro, che col berretto in mano andava ricordandosi alla memoria loro, che parevano ai sembianti fratelli germani dell’oblio, Isabella guardandosi addietro, parlò:

— “Perchè ci hai salvato? Molti sarebbero morti innocenti, che ora andranno dannati.”

E Paolo Giordano:

— “Perchè ci hai salvato? Chi te lo aveva detto? E chi te lo aveva domandato? Saremmo iti allo inferno senza pure accorgercene.”

Troilo e gli altri lo guatarono in cagnesco. Il dabbene uomo pensava trasecolare. Rimaneva ultimo don Inigo, tutto nero, pallido in volto, truce negli sguardi. Se agli occhi del navalestro gli altri sembrarono il demonio, questo pareva la versiera: ormai in cuor suo aveva fatto una croce sopra la mancia sperata; nonostante per non mancare al costume si mosse per chiedergliela, ma la voce gli venne meno a fiore di labbra. Don Inigo gli sbarrò addosso due occhi per cui il navalestro dette indietro tre passi, e don Inigo col medesimo sembiante lo incalzava pure sempre, e quegli sempre indietro. Don Inigo si cacciò la mano sotto il giustacore; e l’altro, temendo che ne traesse daghetta o pugnale, si tenne per ispacciato; ma invece ne cavò due bellissimi ruspi, e glieli porse. Il navalestro non si fidava, ma l’amore del danaro vinse la paura; si accostò, e stese anch’esso la mano aperta, ma tremante. Don Inigo lasciò cadervi dentro i ruspi senza dire parola; li prese l’altro senza fiatare: quegli volse le spalle al navalestro, il navalestro a lui, che correndo a gambe verso la barca, non si tenne sicuro finchè non vi si trovò dentro. Allora aperse la mano, sospettando che le monete fossero diventate di piombo, siccome suole accadere, giusta la volgare credenza, di quelle che vengono coniate nella zecca infernale; ma di oro, come gli parvero prima, così anche adesso gli parevano: ad ogni modo se le chiuse bene in saccoccia esclamando:

— “Io le farò benedire, perchè se non era la Tregenda quella che ho passato poco anzi, vo’ che mi si dica non essere io il navalestro del Petroio!”

Eccoli giunti a Cerreto-Guidi; eccoli giunti a piè delle ardue cordonate per le quali si perviene faticosamente in cima alla villa.

Villa! Sì certo così chiamavano e tuttavia chiamano il fabbricato che fu una volta proprietà d’Isabella Orsini a Cerreto-Guidi. Bellissima colà ride la natura, e fa di sè lieta mostra, e nonostante gli uomini mettendovi sopra quelle funeste loro mani sono giunti a renderla luogo di terrore: un poggio che lasciato stare intatto sarebbe stato quanto altro mai delizioso e leggiadro, fasciarono di mattoni e di pietre, e lo convertirono in fortilizio. Quattro scali ripidissimi, due per parte, conducono alla sommità: i primi formano angolo a piè del colle, e si distendono a destra l’uno, l’altro a sinistra; i secondi prendono principio là dove questi terminano, e si riuniscono in angolo davanti la piazza del palagio. I muri vengono giù a scarpa, tutti di mattoni di colore vivacissimo, sicchè paiono pure ora tinti di sangue: le bozze, i cordoni, e gli orli dei parapetti sono di pietra di Gonfolina; i primi scali attraversano quarantadue cordoni l’uno dall’altro assai più di un gran passo discosto, i secondi di quarantatrè; il poggio sotto è scavato, e l’uomo vi si avvolge per tortuosi sotterranei. In mezzo alla muraglia occorre parimente di pietra una immane arme; ma le palle medicee, o per provvidenza di tempo, o per opera umana caddero, come cadde la famiglia dei Medici, come cadde la potenza di lei, come cadranno tutti i potenti del mondo nel sepolcro. A cui più tardi, a cui più presto, ma a tutti fatalmente sovrasta l’autunno, imperciocchè noi siamo fronde attaccate all’albero del tempo, e il tempo anch’egli è fronda peritura della eternità. Ma caduti gli uomini, e spente le cose, avanza la fama, la quale comecchè vecchia e zoppa, non muore mai, nè si ferma; e sebbene tardi, arriva sempre a raccontare ai posteri i vizi e le virtù dei trapassati. Vissero tristi potenti, che le strapparono la lingua, e crederono averla resa muta: ma la lingua della fama rinasce come la testa della idra; e Dio non consente che venga Ercole per lei, avvegnachè la mandi sopra questa terra a modo di precursore della sua tarda, ma inevitabile giustizia. —

Il palagio contiene una sala vastissima terrena: in fondo ha un arco, e dalla parte destra dell’arco mediante larghe scale di pietra si ascende al primo piano.

Entrati appena a mano destra, occorre un quartiere. Entratevi, andate in fondo, ed ecco troverete una stanza che fa cantonata: uno dei lati, quello di fianco, guarda mezzogiorno; l’altro di facciata, ponente. Adesso ha una sola finestra sopra la facciata; nel tempo della nostra storia ne aveva due. La seconda si apriva nel lato di ponente: vi sono due porte: una grande, e palese; l’altra piccola, e segreta, una volta coperta dalla tappezzeria di damasco verde. Io ho misurata la stanza, e la trovai dieci passi lunga, e sette larga. Nel muro vidi uno armario profondo, di cui nessuno si accorge dove non guardi attentamente: voltate in su gli occhi al soffitto altissimo; avvertite, sono sedici travicelli, che posano sopra un trave maestro.... Ma non è per farvi contare i travi e i travicelli, che io vi persuado a voltare in su gli occhi; no in verità: badate bene, là sotto il trave maestro accanto al terzo travicello, contando dalla parte parallela alla facciata, e osserverete un fóro....

Ricordate cotesta stanza, e quel fóro. — Corrono ormai duecentosessantotto anni che quel fóro sta così....

Cerreto fu detto dalla copia dei cerri che ombravano il colle e larghissimo tratto di paese, come Frassineto dai frassini, e Suvereto dai sugheri, e Rovereto dai roveri.94 — Ora dove andarono i cerri? L’occhio del passeggero cerca invano un albero sotto del quale riposare il capo riarso dalla vampa del sole, e non unicamente a Cerreto, ma per quanto si distende la Toscana, e perfino sopra i gioghi ardui degli Appennini, ogni giorno più scarsi s’incontrano gli alberi. — Oh! ella è pure trista necessità quella di spogliare la terra di tanto stupendo ornamento. Sparirono le selve, e con esse le Driadi, e le Amadriadi, e i Fauni, e i Silvani, e l’altra amabile famiglia di cui le popolava la fantasia dei poeti; sparirono le selve, e con esse i cavalieri erranti, le lancie corse, le imprese onorate, le fate, i nani; e le regine della bellezza di che le faceva liete la immaginazione dei romanzieri. Le Ninfe dei boschi seguitarono al mare ululando i tronchi diletti, e li raccomandarono alle Vergini oceanine, non altramente che se fossero stati figliuoli dilettissimi: e le oceanine Vergini ne presero cura, gli foggiarono in navi, gli ornarono di vele candidissime come le ale dello smergo, dettero loro la velocità dello albatro, la vaghezza dello alcione; poi con le mani e con gli omeri nudi ne spinsero la poppa; e i venti secondi, gareggiando con le Ninfe, soffiarono dentro le vele, e si compiacquero distendere pel cielo azzurro la bandiera della nostra contrada.

La nave, percorso mari intentati, portò arti, riti e insegnamenti di ordinario vivere civile a popoli sconosciuti e selvaggi, e la bandiera della contrada era salutata nelle remotissime spiagge come un segno di salute. Ahimè! questo è un desiderio che ormai non potrebbe più andare, quantunque volendo, adempito. La patria ha perduto la chioma dei suoi boschi, in quella medesima guisa che le greche vergini si recidevano i capelli sopra le tombe dei diletti defunti. I nostri alberi furono convertiti in navi, ma non per noi; i venti ne spiegarono la bandiera, ma non era la nostra; sostennero battaglie, ma non per le sorti della patria; andarono cariche di merci, ma non raccolte nelle nostre campagne, nè dalle mani nostre fabbricate: bene furono condotte per mari ignoti a traverso inusitate procelle e immani pericoli da italiani uomini, ma di coteste imprese altri raccolse il frutto, e alla patria venne una sterile rinomanza. Nazioni barbare ci comprano i boschi, mentre presso di loro il ferro si astiene dalle querce sotto le quali i Druidi celebravano i misteriosi sacrificii. — Ahi! gente trista, che vendi tutto, e potendo venderesti anche il tuo sole e il tuo cielo, perchè, se in te non hai parte alcuna di ardimento o di gloria, diseredi i tuoi nipoti? Perchè, non contenta della tua vilezza, apparecchi ai tuoi figli una eredità di vergogna e di lacrime? Qual giudicio ti aspetta oltre la fossa, dacchè i figliuoli si accorgeranno di avere avuto genitori soltanto dal male che ne ricevono!

Ma Cerreto allora andava ombroso di copia di cerri, di olmi, di lecci, di querce e di alberi di ogni maniera; e per quei boschi volavano di ramo in ramo fagiani, francolini, ed altre infinite famiglie di uccelli; per le frasche saltavano caprioli, daini, cervi, e lepri, e cignali; sicchè era luogo sopra ogni altro adattissimo alle cacce, delizia suprema della vita dei principi.

Mentre Isabella sorretta dal suo consorte poneva il piede sopra lo scalo, inciampò nel primo cordone, e ne sentì acerbo dolore; onde voltasi a Paolo Giordano sorridendo mesta gli disse:

— “Malo augurio è questo: un Romano tornerebbe indietro.”95

E Paolo Giordano, non occorrendogli alla mente nulla di buono, si tacque, sforzandosi a sua posta di ridere.

Giunti nel palagio, ognuno andò nelle sue stanze; il duca in quelle ov’era la camera dal fóro qui sopra descritta, attendendo alle mondizie della persona.

Fatto ch’ebbero lavacro delle membra con acque odorifere, cambiate le vestimenta, acconci i capelli, si ridussero nel piazzale avanti il palagio.

Il sole privo di raggi sembrava un occhio insanguinato, e lo emisfero da quella parte offriva l’apparenza di un lago di sangue. Immenso spazio di paese si distendeva davanti ai nostri personaggi, chè da quella sommità in gran parte i contadi di Firenze, di Pistoia, di Volterra, di Pisa, di Colle, di Samminiato, e perfino di Livorno, si scorgono. Gruppi di case si vedono su per quei poggi dintorno come gregge di capre alla pastura; dai casolari s’innalzavano diritte colonne di fumo, e voci di canzoni melanconiche si diffondevano per la campagna, alle quali rispondevano alla lontana altre voci del pari piene di mestizia. Da una nuvola nera di tratto in tratto guizzava una lingua di fuoco simile alla spada dell’Arcangelo vendicatore nascosto per avventura là dentro. Il sole intanto si attenua.... adesso pare una margine di ferita.... è sparito! Isabella, mossa da impeto irresistibile, sporgendo ambe le braccia con l’abbandono disperato col quale vediamo sparire sotto la terra i dilettissimi nostri, esclamava:

— “Addio, o sole, addio!” — E con le mani si coperse la faccia.

— “Addio a domani,” riprese Giordano; “e fa di levarti con meno tristo sembiante di quello col quale ci abbandoni. Belle campagne, amiche selve, ozii beati, pur torno alfine a godervi, nè io sarò per certo a lasciarvi sì presto. Io sono stanco di correre dietro alla gloria, che mai si raggiunge; o se si raggiunge, quando l’uomo pensa di stringere un sommo bene, torna con le mani vuote al petto. Io voglio deliziarmi nelle domestiche dolcezze, le sole veraci nel mondo. Mi rendo in colpa, e vi domando perdono, Isabella, e mi vi lego con giuramento di non lasciarvi mai più. Mercè vostra, se io tornando a casa non vi comparvi straniero; grazie sieno alla bontà egregia della indole vostra, se dopo tanti anni riducendomi a voi mi fate credere di essermi partito pure ieri. Il mio cuore è infermo; a voi sta guarirlo affatto dalla febbre dell’ambizione, che lo ha travagliato mai tanto.”

E Isabella lo guardava, e sorrideva mesta senza aprire labbro; ma Troilo, che le parole reputava vere, consolandolo favellava così:

— “Ora come potete dire avere speso i vostri giorni invano? voi in cento battaglie avete raccolto tanta mèsse di allori, da coronarne due Cesari; e per tacere delle altre, a Lepanto, combattendo fortissimamente vi acquistaste tal nome, che la storia registrerà con orgoglio nelle eterne sue pagine. Deh! vogliate appagare il mio lungo desiderio: narratemi le vicende di cotesta battaglia di giganti.”

— “Più tardi, Troilo, più tardi: ma, io ve lo ripeto, tutto è vanità. Guarda, e vedrai qual bene uscì da tante morti, da tanto affanno, e da tante ferite? I Cristiani l’uno dell’altro astiosi non seguitarono il corso della vittoria; i Turchi insorgono più infesti che mai; e Don Giovanni, malgradito vincitore, riporta in premio della sua prodigiosa prestanza l’oblio, e lui avventuroso se non lo incoglie anche peggio! Quel suo gran cuore di soldato, che si espande nei pericoli del combattimento, condannato a rodersi in corte, presto cesserà di battere;96 imperciocchè la gloria fosse la sua aria, il suo sangue il pericolo, le battaglie la vita. Appunto lo esempio di cotesto illustre infelice mi persuade a fare senno, e a piegare le vele affaticate dal lungo cammino. — Veramente è tardi, ma pur meglio una volta che mai; la mia vita ha consumato anche il vespero.... almeno Dio mi conceda riposato il tramonto!”


Gli scudieri avevano con molto accorgimento apparecchiato le mense giù nella sala terrena, e liete apparivano dei doni di Cerere e di Lieo; molti doppieri mandavano luce vivissima, la quale si rifletteva con raggi infiniti pei lucidi argenti, per le porcellane candide, e pei forbitissimi cristalli. Avevano aperte tutte le porte che mettevano capo nella sala; e di riscontro alla porta maestra che dava adito al piazzale, l’altra corrispondente ai giardini; e nonostante, tale era la gravezza dell’aere affannoso, che non una fiaccola vedevi oscillare sopra i candelieri, e le pieghe delle portiere stavano immobili non altramente che se di marmo o di piombo si fossero. — Per tante foci non iscaturiva refrigerio alcuno di aria fresca.

E si assisero a mensa. Paolo Giordano faceva ogni sforzo affinchè i commensali si dessero in balía alla gioia scapigliata e fragorosa: egli aveva mestieri di eccitamento; s’ingegnava stordirsi; nel rumore di allegrezza bugiarda intendeva celare la interna procella: insomma due cose egli cercava principalmente, coraggio a persistere, e capacità a simulare. Alla perfine gli venne conseguito il disegno: i commensali, non avendo motivo di reputare falsi i conforti di Paolo Giordano, si abbandonarono a franca ed aperta dimostrazione di esultanza; e così venne temperata la gioia artifiziosa e ghiaccia che ostentava costui. Troilo, comecchè, seguendo il costume degli ignoranti, assai presumesse di sè, e quindi sperando bene gli sembrasse non potere sbagliare, pure non se ne stava del tutto tranquillo, e per lo meno reo consiglio divisò affogare ogni tristizia nel vino. Cominciarono i colloqui a diventare concitati e vivaci; i motti arguti volavano di labbro in labbro; di su, di giù, s’incrociavano i detti lepidi, e non mancarono parole di doppio significato, e novelle, che fanno abbassare gli occhi e sorridere le donne. Ferveva la mensa; gli scudieri si affaccendavano attorno recando vini di più maniere, e fumanti vivande; il mormorio, che nasce da molte voci favellanti insieme, indizio certo di festoso banchetto, empiva attorno la sala e di tratto in tratto era rotto da altissime risa.

Ma Isabella partecipa a cotesta giocondità quanto importa per non dare prova del turbamento che l’angustia; e non le sfugge che Paolo Giordano, mentre conforta gli altri e lei a bere sovente, egli non beve mai, tocco appena con le labbra il bicchiere, lo pone sopra il vassoio. I suoi occhi cercano spesso quelli di Giordano; ma Giordano li schiva a sommo studio; o, se pure li incontra, li torce altrove con prestezza maravigliosa. Non è già ch’ella si affanni di questo, dispostissima a tutto; ma per una vanità insita alla nostra natura, si compiace nel volere manifestare a Giordano come lei si potesse uccidere, non ingannare.

E poichè agli uomini non mancano mai motivi di bevere e di nuocere, così nè importa riferire, nè giova, in quante guise e per quante cause bevessero.

Troilo in parte cedendo alla universale esultanza, in parte anche per procurarsi viepiù la grazia del cugino, si alza improvviso, e tenendo in mano un bicchiere colmo, in questo modo propizia a Paolo Giordano:

— “Alla salute del cavaliere fortissimo di Cristo, al felice combattitore di Lepanto....”

Non vi è cosa al mondo che pesi tanto immensamente insoffribile, quanto la laude in bocca al nemico: nessuna ingiuria può crucciare quanto cotesto elogio; e a Giordano poi parve fuor di modo molesto, come colui che conobbe troppo bene dipartirsi da stupidezza, ma mescolata da malizia; ed è anche questa offesa non piccola alla vanità dell’uomo, lasciare lo stolto in fede di averti potuto gabbare. Pure Giordano simulò; che quando aveva tolto a sostenere la prova, sebbene la sua natura non glielo consentisse, era capace per arte a simulare quanto il meglio addestrato.

Allo invito di Troilo risposero tutti acclamando; e comecchè nella frenesia di cotesto urlo grande fosse la virtù del vino, pure così sgorgava sincero dal cuore, che il guerriero n’ebbe conforto, e gli temperò l’amaro che gli porgeva la origine di cotesto grido, pensando da cui movesse, e perchè.

Giordano si levò anch’egli in piedi, e preso un bicchiere, atteggiando la persona al saluto diceva:

— “Per me è troppo! Ma lingua umana non potrà mai esaltare tanto che basti le anime inclite di coloro che combattendo in cotesta memorabile giornata perirono.”

— “Oh! di grazia, signor duca, non ci negate il piacere e l’onore di sentire raccontare da voi le vicende di cotesta battaglia: ve lo chiediamo per quanto amore portate alla vostra dama....”

— “No; a che monta? Non lo avete voi letto per le storie dei tempi?”

E i commensali di nuovo con voci diverse:

— “Ma così allo ingrosso; — senza distinzione di fatti e di casi: — chi più offendesse, chi meglio difendesse. — E poi, altro, bene altro è leggere una relazione di battaglia, che udirla da tale che vi combatteva, il sangue suo vi versava e vinceva. Per mercè, narrateci la battaglia.”

E Titta che vi aveva accompagnato Paolo Giordano, e al suo fianco combattuto, e salvatogli la vita, desiderava che la prodezza sua insieme a quella del suo signore si manifestasse; sicchè più degli altri premuroso instava onde Paolo Giordano, che pure era bel parlatore, esponesse le vicende e i pericoli della battaglia famosa. Nè la repugnanza di Giordano poi, a guardargli sottilmente nel cuore, si sarebbe conosciuta sincera; non già ch’ei fosse miles gloriosus, ma ad ogni soldato piace ricordare le zuffe e le ferite, e mostrarsi largo dispensiere di laude ai nemici, o vincitori, o vinti; — se vincitori, per onestare la disfatta; — se vinti, per fare più bello il trionfo.

Titta pertanto, con tal suo garbo che non era preghiera, non comando, e dell’una partecipava e dell’altro, aggiungeva:

— “Di grazia, Eccellenza, se la modestia trattiene lei, non defraudi me delle mie lodi; perchè ancora io combattei; e avendomi la fortuna piuttosto che la mia prodezza fatto abilità di salvare la vita ad uno strenuissimo guerriero, non posso renunziare ai vantaggi che mi vengono da questa azione, comunque condotta dal caso....”

— “Tu mi hai vinto, ed io non potrei tacere onestamente quando il silenzio dovesse essermi ascritto a ingratitudine. Orsù, favorite le orecchie; io favellerò breve e disadorno, com’è concesso a un soldato. E voi, Isabella, ritenete quanto sarò per dire, e fatene nobile argomento dei vostri canti.... avvegnachè al guerriero oggimai per guiderdone null’altro rimanga, tranne il riso della bellezza, e la luce del canto....”

— “Non basta?” — domandò Isabella.

— “È troppo. — La Cristianità si era commossa profondamente: baroni di alto lignaggio, uomini plebei, da tutte parti accorrevano a combattere i nemici di Cristo, molti per ottenere la remissione dei peccati, e le indulgenze bene in questa occasione largite dal pontefice Pio V; ma come erano le voglie dei combattenti prontissime, immensa la cupidità di stringersi a mortale battaglia, così non accordavano le segrete intenzione dei principi collegati. Desideravano la giornata i Veneziani, la desiderava caldissimamente il Pontefice; ma Filippo II repugnava avventurarsi in impresa dove ne andavano tutte le forze del regno, e dove la vittoria forse avanzava meglio le cose degli altri collegati che le sue; nè in quel suo profondo e maligno consiglio amava che gl’italiani uomini acquistassero una bella fama, temendo che non venissero a sentire il bisogno, come vuole la nostra natura, di acquistarne una molto maggiore. Il gran Commendatore di Castiglia era stato imposto a don Giovanni di Austria come un freno da rodere, e non rifiniva mai da susurrargli negli orecchi, temperasse quei suoi spiriti bollenti; suprema gloria, suprema religione essere il vantaggio del re suo fratello: sicchè l’anima grande di cotesto magnanimo pendeva contristata da incertezza affannosa. Ma ogni giorno accorreva nuova gente per combattere, non cercando altro premio nè altra gloria, tranne quella di spargere il proprio sangue per la fede. Don Giovanni mandava dal cuore profondi sospiri, stava torbido; con gli occhi fissi al pavimento ora divampava vermiglio, ora pallidissimo allibiva. Ad aggiungere sproni a cotesta anima, di per sè focosa, si univano i conforti di Gabrio Serbelloni, generale delle artiglierie, di Ascanio della Cornia, maestro generale di campo, e di Sforza conte di Santafiore, generale degl’Italiani pel re Filippo, e sopra tutto una cura97 misteriosa e profonda che gli prorompeva dal cuore, e che pure sapeva quel forte regalmente comprimere: — e nonostante, pareva che la battaglia non sarebbe accaduta, chè la fortuna legata ai peggiori con ogni sua possa attraversava la impresa; e già una fama molesta si spargeva, che per essere la stagione tarda, fortunevoli i venti, avrebbero in cotesto anno tentato senza più impadronirsi di Castelnuovo, o della Velona, o di Durazzo, o di Santa Maura. Arrogi che don Giovanni stesso, concitato di grandissimo sdegno contro i Veneziani, per poco stette a perdere la occasione per la quale il suo nome perverrà immortale ai più tardi nepoti. Le galee veneziane scarseggiando di soldati, parve bene a don Giovanni di fornirle con le sue genti italiane e spagnuole; rimedio peggiore del male, conciossiachè non passasse giorno che non ne nascessero tumulti, e risse, e zuffe sanguinose. Il capitano Muzio da Cortona, posto sopra la galea di Andrea Calergi nobile cretense, venuto a contesa con alcuni Veneziani, messa mano alla spada, ne ferì parecchi; onde vi si fece tumulto, fu chiamato all’arme, e volgendoglisi quanta accorse quivi gente veneziana allo incontro, malamente il conciavano; ma il Veniero generale veneziano, come se ciò non bastasse, lo fece prendere, e così grondante sangue senza misericordia impiccare. Don Giovanni, estimando offesa la sua autorità, era deliberato a tôrre una solenne vendetta contro i Veneziani, rigettando gli argomenti co’ quali Marcantonio Colonna e il provveditore Barbarigo s’ingegnavano raumiliarlo. — Ma Dio, che vegliava alla salute nostra, operò sì che pervenisse col mezzo di certa nave di Candia la nuova infelice della perdita di Famagosta; ed aggiungeva la fama, come Marcantonio Bragadino e Astorre Baglioni, difesala valorosamente dieci mesi, costretti per diffalta di munizioni e dalla impazienza dei cittadini, l’avessero resa a patti onorati: ma il barbaro vincitore rompendo la fede, ordinò prima, che al Bragadino si mozzassero le orecchie, e poi fattolo trarre a vituperio sopra la piazza, dopo inenarrabili strazii volle che lo scorticassero vivo; nè di ciò ancora contento, riempita la pelle di fieno, la sospese all’antenna di una galeotta, mostrando per la Soria e per le altre contrade del Turco lo infame trofeo. — Allora don Giovanni, chiusi gli occhi, e diventato pallido in volto come per morte, parve uomo che avesse ricevuto una percossa fortissima sopra il capo; e così stette alcun tempo: poi componendosi a regale atteggiamento, si volse al Veniero pacato, e la mano gli stendendo disse: — Pace! noi non abbiamo nemici altri che i Turchi. — Quel sembiante, quelle parole, e il modo col quale furono profferite, fecero raccapricciare gli amici che gli stavano attorno: pensate quale effetto avrebbero sortito sopra i nemici! Marcantonio Colonna, che gli era accanto, mi affermò che nella luce sinistra degli occhi di cotesto magnanimo principe a lui parve leggere la morte di ventimila infedeli. Il Veniero strinse la invitta destra, e la baciò, e non potè ristarsi da esclamare fra i singulti: — Disgraziato Bragadin! Povero sangue! — Spagnuoli, Tedeschi, e Italiani, deposta ogni ira, si gettarono lacrimando le braccia al collo, si baciarono in bocca, e si dissero: — Pace! — Quindi con súbita vicenda cacciandosi le mani fra i capelli, percuotendo dei piedi la terra, con orribilissimo grido urlarono: — Arme, arme! — Ed arme sia! — rispose don Giovanni recandosi in mano la spada nuda, che agitata traverso ai raggi del sole parve mandare, e mandò certo vivissimi lampi di luce divina; ed ordinò che sopra la sua galera spiegassero il gonfalone della Lega mandato dal Pontefice, ov’era dipinto il Crocifisso con l’arme dei collegati sotto, nel mezzo quella del Papa, a mano destra quella del Re, e a sinistra quella dei Veneziani. Il vento, e non fu lieve auspicio di vittoria, distese per l’aria il glorioso vessillo, per modo che pareva mani invisibili lo tenessero tirato pei quattro lati; e don Giovanni fissandovi gli occhi con pietosissimo affetto, esclamò: — In hoc signo vinces!In hoc signo vinces! — esclamarono i prossimi; e queste sacre parole, con prestezza prodigiosa propalate, vennero in un momento dai più remoti legni ripetute. Il gran Commendatore di Castiglia, che aveva dal Re mandato segreto di attraversare la impresa, sia che considerasse quanto era grande pericolo mostrarsi avverso, sia piuttosto che dallo impeto universale si sentisse stravolto, mutati atti e sembiante, procedeva più animoso degli altri, e sovente mormorava: — Da Madrid si può comandare di starsi fermi, ma davanti il nemico non si può obbedire! —

“Un altro successo nel quale vedemmo manifestarsi palese la mano di Dio fu questo, che essendo i nemici lontani, e potendo schivare di venire a giornata, e qualcheduno dei caporali loro avendolo con moltissimi ragionari persuaso, allo improvviso giunsero le spie, le quali avvisarono essere rimasto indietro il nerbo dell’armata cristiana. Notizia che in parte era vera, ma accresciuta di mille doppi dalla fama, avvegnadio si movessero tardi e non arrivassero in tempo le ventisei navi capitanate da don Cesare Davalo d’Arragona, in quei tempi dolentissimo per la morte del marchese di Pescara suo fratello, morto il luglio avanti: il quale insieme con don Giovanni era stato proposto a capo di tutta la impresa. Sopra queste navi andarono le fanterie tedesche condotte dai conti Alberigo da Londrone, e Vinciguerra d’Arco, per modo che essendosi vinta la impresa massimamente per lo sforzo degli Italiani, a cagione loro non c’incolse diminuzione di gloria. — Nel medesimo errore condussero noi le nostre spie referendoci con false notizie mancare nell’armata turchesca Aluccialì con ottanta galee. Così da una parte e dall’altra maraviglioso era il desiderio di combattere, parendo ad ognuno doverne avere la meglio. Alì Pascià del mare, considerando spirargli prosperevole il vento, senza frapporre altro indugio mosse tutta l’armata con fretta molta, ed ordine poco, dal golfo di Lepanto. Il cavaliere Gildandrada, mandato innanzi a specolare, tornava il sei di ottobre, che fu sabato, nel cupo delle tenebre, a farci avvertiti dello approssimarsi dei nemici: navigammo tutta la notte; e la mattina all’alba sette ottobre, giorno della festa di Santa Giustina vergine, attingemmo le Curzolari, anticamente chiamate Echinadi, distanti circa trentacinque miglia da Lepanto. In questa, ecco tornare Giovanni Andrea Doria, avvisando si disponessero a combattere, conciossiachè l’armata turchesca secondata dal vento stava per giungere loro addosso. Allora don Giovanni con mirabile serenità comandò che l’armata si mettesse in ordinanza, la quale fu questa: le galee si divisero in centro, in corni, in vanguardia e in dietro-guardia, in maniera che parevano disegnare la forma di un’aquila. — Giovanni Andrea Doria capitanava il corno destro con cinquantatrè galee, ed ebbe insegna verde attaccata alla punta dell’antenna. Agostino Barbarigo condusse il corno sinistro con altrettante galee, spiegando bandiere gialle dal calcese. Fu preposto alla retroguardia don Alvaro di Baxan, marchese di Santacroce, con trenta galee e bandiera bianca sopra la poppa, disposto a soccorrere dove meglio ne apparisse il bisogno. Guidò la vanguardia con otto galee don Giovanni di Cardona, portante anch’egli insegna bianca. La battaglia poi, di sessantuna galea, governava don Giovanni con bandiera azzurra in cima all’albero; e siccome presagivano che lo sforzo disperato si sarebbe vôlto da questa parte, così posero a difesa della galea reale, a mano destra, la Capitana del papa con Marcantonio Colonna generale, Romagasso, ed altri cavalieri; a sinistra, la Capitana veneziana con Sebastiano Veniero generale, appresso la quale era la Capitana di Genova con Alessandro Farnese principe di Parma, e dall’altra parte la Capitana di Savoia con Francesco Maria della Rovere duca di Urbino: i lati di questa battaglia venivano chiusi a destra dalla Capitana di Malta, a sinistra dalla Capitana Lomellina, dove combatteva io stesso; — avanti alla poppa della Reale stavano la Capitana e la Padrona di Spagna col gran Commendatore. Ottimo accorgimento poi fu, come dimostrò lo effetto, di porre le sei galeazze veneziane, munite ognuna di quattrocento archibusieri elettissimi, di sessanta cannoni di bronzo, di tormenti e di fuochi artificiali da offendere, davanti forse un mezzo miglio i corni e la battaglia; le due governate da Andrea Pesaro e Pietro Pisani di fronte al corno destro; le due di Antonio e Agostino Bragadino, innanzi al sinistro; a capo della battaglia le altre di Giacomo Guoro e Francesco Duodo. — Ahimè! perchè non mi arride un genio amico, e perchè non mi ascolta tutta la Cristianità, per celebrare col canto, che eterna anche i mortali, quei magnanimi che accorsero volontarii a prendere parte nella memoranda giornata? Io pregherei la Madre di Dio, che non circonda la fronte di allori caduchi in Elicona, a richiamarmi alla memoria i nomi tutti degl’incliti che vinsero vivendo, e de’ martiri che vinsero morendo; e principalmente di questi, dacchè sebbene io creda che si delizino adesso nelle sedi beate, pure il suono della laude torna più degl’incensi gradito anche ai celesti. Ma non isfrondiamo l’alloro; che forse nascerà chi con voce migliore valga a dispensare il meritato guiderdone a cotesti generosi: così almeno giova sperare! Dalla parte opposta, condotta dal vento greco-levante, che le spirava secondo, si avanza l’armata nemica, occupando largo spazio di mare, frettolosa e scomposta, come quella cui tardava sterminarci, e temeva le sfuggisse davanti una vittoria certissima. Descriveva la forma di mezza luna: trecento e più erano le vele. Alì Pascià generale di mare, e Pertau generale di terra, guidavano la battaglia; Siroc governatore di Alessandria, e Memetbeg governatore di Negroponte, il corno destro; il sinistro Aluccialì vicerè di Algeri. La Reale turchesca non appariva meno gagliardamente difesa della nostra, avendo ai lati sei galee principali, tre di qua e tre di là, su le quali a mano destra erano Pertau, Mamud Rais capitano dei Giannizzeri, Saderbei governatore di Metelino, e a sinistra Mustafà tesoriere, Caracoza governatore della Velona, e Caragialì capitano dei corsari. Don Giovanni, poichè ebbe veduta in ordine l’armata, sceso dentro un agile legnetto, trasvolava di galea in galea, confortando a combattere valorosamente con brevissime e fortissime parole, chè il tempo, il luogo, e la indole dell’uomo non consentivano lunghe dicerie. Corre fama che giunto sotto la Capitana di Venezia, nel vedere Sebastiano Veniero, vecchio di settantasei anni, tutto cinto di elette e splendide armi, col capo scoperto per canizie venerabile, acceso in volto di stupendo ardore, confortare i suoi ad operare virtuosamente, ammirando la bontà dell’uomo, gli gridasse: — Padre! padre! benediteci tutti!... — E il Veniero guardando il cielo, quasi impetrando dall’alto la facoltà di benedire, stese il braccio, e fece il segno della salute esclamando; — siate benedetti in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. — Dalle galee usciva un fremito, annunzio di prossima strage....“

— “Io mi ricordo” interruppe Titta “che giunto sotto la nostra Lomellina, ci fece un baciamano, e gridò: — A voi non dico nulla, uomini prodi, — e sparì via....”

— “I cappuccini e i gesuiti col crocifisso in mano, e con parole ardenti sopra i labbri, senza paura del pericolo imminente, di su, di giù, trascorrevano suscitando le ire, aizzando il furore, a tutti concedendo remissione di peccati, e indulgenze amplissime, e speranza certa di vincere, e preda infinita....” Quando don Giovanni si ridusse al bordo della sua galea, gli occorse agli occhi una fregatina piena di vigorosi rematori in atto di aspettare: ne domandava al governatore della sua galea, il quale rispose: — averla apparecchiata ad ogni evento, perchè il principe potesse mettersi in salvo: — e don Giovanni fieramente: — Affondatela; fo voto a Dio di volere piuttosto morire combattendo per Cristo, che campare con vergogna. — Al Commendatore, che per debito di ufficio lo ammoniva ad avvertire meglio sopra il fatto del combattere: — Orsù, disse, il tempo della consulta è passato; ora attendete ad operare il consultato. — Ecco balena la Reale turchesca; si spande il rimbombo dell’artiglieria: il segnale è dato, la Reale nostra risponde; la battaglia è ingaggiata. Disegno dei nemici fu spingendosi innanzi a forma di mezza luna col vento in poppa insinuarsi nei nostri lati, passare alle spalle, e invilupparci dentro un cerchio di morte. Le sei galeazze poco curarono, e quei prestanti Veneziani imperterriti e fermi non fecero atto finchè non li ebbero a mezzo tiro di archibugio; allora, di subito, e in un medesimo punto, spararono trecento sessanta cannonate, e duemila quattrocento archibugiate! L’orribile fragore sbigottì quei medesimi che lo avevano suscitato: il mare si commosse come per burrasca, e le galee sospinte da urto violentissimo presero a vacillare incapaci di governo; ma presto i nostri si riconfortarono notando i danni del nemico, e caricati con maravigliosa velocità gli arcobugi, continuarono a trarre disperatamente. E io vo’ che sappiate come in questa bisogna giovassero i nuovi arcobugi a ruota, ch’essendo piccoli, e a maneggiarsi accomodati, non era chi non isparasse almeno tre volte prima che i nemici avessero sparato una sola con quei loro gravissimi: e tale fu il primo momento della splendida vittoria. La virtù vinse il furore; e i Turchi, mai più avvezzi a simili incontri, ebbero ad allargarsi laceri e sanguinosi, a mutare ordine di battaglia e a dividersi in tre schiere come la nostra armata.

“Quantunque grande apparisse la prestanza dei nostri, la quale pure è dono prezioso dell’alto, volle nonostante il Signore con segno più visibile della grazia sua palesarci come per noi combattesse, dacchè in quel punto accadde notabile mutazione di vento; cessò il greco-levante favorevole ai Turchi, e mosse un ponente-maestro propizio ai Cristiani, portando il fumo contro di loro, e privandoli del vedere. Scirocco intanto, non ismarritosi nell’animo, ordinava alle sue galee schifassero le galeazze, e rasentando il lido colà dove il fiume Acheloo sbocca in mare, si cacciassero fra la terra e le galee del Barbarigo, e facessero prova di assalirlo alle spalle. Barbarigo però, punto meno astuto capitano, le estreme galee fa che si approssimino alla terra, e descrivano con le altre una linea diagonale, componendo uno angolo acuto di cui un lato veniva formato dalla terra, l’altro dalle sue galee; e tolto in mezzo Scirocco, usando del vento propizio lo spinge contro la isola. Aspramente si combatte per ambe le parti; ma le galee turchesche perdendo sempre più mare, investono nel lido; i Cristiani le seguono, le raggiungono, sopra quanti Turchi mettono le mani addosso tanti tagliano a pezzi; le galee parte vengono in nostro potere, parte con le artiglierie affondano, parte finalmente abbruciano. Ma non senza sangue da questo lato acquistammo vittoria; dacchè, per tacere delle altre morti, mentre più infuria la mischia tra Scirocco e Barbarigo, quasi nello istante medesimo cadono quegli morto, questi ferito mortalmente di una freccia in un occhio, mentre allontanando lo scudo dalla faccia si affatica a concitare i combattenti agli estremi conati. Barbarigo, sentendosi percosso a morte, mentre vacillando indietreggia, deputa in luogo suo Marco Quirini, che secondato da Antonio Canale e dal Cicogna, i quali tutti fecero in quel giorno testimonianza amplissima di onorata virtù, seguita il corso della vittoria, distruggendo le reliquie di cotesta squadra governata da Memetbeg Pascià di Negroponte, e da Alì rinnegato corsale. E in questa fazione furono visti il Cicogna, che guasto per la faccia e per le mani da una pignatta di fuoco artificiato, sopportando inenarrabili spasimi, non volle mai ritirarsi se prima non ebbe vinta la galea nemica, la quale adesso come trofeo nobilissimo è conservata nello arsenale di Venezia; e il provveditore Antonio Canale, che vestito di una veste lunga e bianca imbottita di cotone, con cappello simile in testa, e in piedi scarpe di corda per non isdrucciolare, menando uno spadone a due mani, empiva di terrore e di strage le galee nemiche sopra le quali balzava con agilità e destrezza maravigliosa. Giovanni Contarini dei conti di Zaffo però ebbe la gloria di prendere la galea di Scirocco, e trovatovi sopra morto questo nemico del nome cristiano, gli fece troncare la testa, e conficcatala sopra una picca gridò tre volte: — Ecco la testa di Scirocco! — per confortare i suoi, ed atterrire i nemici. Presso al timone giaceva il moribondo Barbarigo, e ad ora ad ora domandava ai circostanti: — Abbiamo anche vinto? — Quando strappata dalla poppa nemica la insegna, il Quirino accorse alla volta del Barbarigo gridando: — Vittoria! — il morente si terse il sangue dagli occhi gravi ormai del sonno della morte, vide la odiata insegna, e rise, poi pregò che gliela porgessero, e recatasela in mano, vi si ravviluppò dentro come nel suo lenzuolo sepolcrale; e non osando noi separarlo dal trofeo sul quale esalava l’anima gloriosa, con la bandiera medesima lo sotterrammo a grande onoranza in terra benedetta....98

“Ma lo sforzo disperato accadeva intorno alla battaglia. — Alì Pascià si era spinto innanzi animosamente, e come i Turchi costumano, con immenso fragore di tamburi, di trombe, di ceramelle, e di altri istrumenti guerreschi; nè presumevano atterrirci meno con urli di minaccia, e scede, e strepito di arme percosse tra loro. Don Giovanni, armato di piastra e maglia, stringendo nella destra un’azza pesante, si loca sublime con la persona scoperta sopra il castello da poppa, ed ordina a Lopez di Figheroa capo degli archibusieri, che per cosa dicano i nemici o facciano, nessuno ardisca porre mano a ferire se prima egli non ne desse il segnale alzando l’azza. I Turchi sempre e più sempre si accostano, e sparano archibugi, e scoccano freccie sopra i nostri con danno non piccolo; e molto ancora ci portavano angustia due colubrine da prora, le quali ci avrebbero deserti se più pronti fossero stati a caricarle, e a spararle. Ci pareva duro dovere stare fermi a tanto strazio, molto più che di tratto in tratto vedevamo caderci al fianco qualche amico o congiunto, e lacero rimuoverlo dal ponte, e calarlo di sotto. Avremmo quasi tacciato di viltà don Giovanni; ove noi non sapessimo chente uomo ei si fosse, e volgendogli lo sguardo addosso, ci pareva una statua di bronzo in mezzo alle freccie e alle palle che gli fischiavano attorno, di cui egli faceva caso quanto del vento che gli agitava le chiome. Quando la Reale turchesca ci venne sotto a meno che a mezzo tiro di archibugio, don Giovanni leva l’azza, e l’agita impetuoso a mulinello: i nostri colpi parvero un colpo solo; il fumo sospinto verso i nemici ci tolse la vista del danno che avevano ricevuto; allorchè si dileguava, il ponte avverso ci apparve quasi abbandonato. Prima però che il fumo passasse via, don Giovanni ordina dare di forza nei remi, e la galea sospinta ancora dal vento scorreva come un uccello. Un altro accorgimento aveva preparato don Giovanni, e fu questo, di far troncare allo improvviso i rostri o speroni alla sua galea, perchè accostandosi meglio alla nemica, gli fosse fatta maggiore comodità di potervi saltare sopra: cotesto esempio da noi tutti immediatamente imitato fu un altro motivo di vittoria.

“Il fumo passa, e la galea di Alì apparve quasi deserta sul ponte. Don Giovanni, còlto il destro, gridava: — Avanti, cavalieri, andiamo alla vittoria.... noi non possiamo se non vincere, perocchè morendo ci aspetti una palma in paradiso; vivendo, un lauro sopra la terra. — E posto fine al parlare, come colui al quale tardava fare, corre con maraviglioso ardore alla prora, lo seguitano gli altri volenterosi, ed ecco, in meno che non balena, si arrampicano, saliscono, e stanno nella Reale turchesca. Alì, provvido capitano intanto dalle galee circostanti aveva domandato soccorso, che movendosi tostano per via di scale e di corde saliva da poppa, mentre i nostri penetravano da prua: per la qual cosa la battaglia rinfrescata s’inacerbiva, e ridottasi tutta intorno all’albero maestro, nè i Turchi valevano a cacciare i Cristiani, nè i Cristiani a conquistare intera la galea mezzo occupata. Tanto era grande la calca, così stipate le schiere, che nessuna arme giovava, tranne i pugnali; e i combattenti, come li trasportava il furore, vi adoperavano i morsi non altrimenti che se belve si fossero: e tu vedevi quella foresta di capi ora piegare da questo, ora dall’altro lato, come campo di biade mature agitato da venti contrarii. Non domandavano quartiere, nè lo desideravano: guerra di esterminio fu quella. Ma ecco, quale che ne fosse la cagione, i Cristiani prendono a balenare, lasciano piede, indietreggiano, e gli avversarii dove i nostri levano l’orma pongono incalzando la loro, e crescono in ardimento quanto i Cristiani degradano in vilezza: già molti degli attergati sospinti dal moto irresistibile cadono riversi nel mare, altri più fortunati saltano sopra la Reale di Spagna.... Che più? Che più? Don Giovanni stesso è travolto dai suoi nei passi dolorosi della fuga. Non meno provvidi, i nostri avevano già munita la Reale di nuove milizie, che arrivando alla riscossa non solo impedirono ai Turchi invadere la nostra galea, non solo li trattennero sopra l’orlo estremo della prua, ma duramente gli rincalzarono indietro, e ai nostri fu dato salire di nuovo sopra la Reale dei Turchi. Sul ponte della galea s’ingaggia nuova zuffa, e ormai da più di un’ora versavasi sangue, nè si sapeva da qual parte si sarebbe inclinata la vittoria; sangue era la coperta, giù dalle pavesate lungo i fianchi della galea colava sangue, e il mare sollevando la spuma orrendamente vermiglia pareva che ribollisse di sangue. Ahi! truce vino, che dispensa nei suoi conviti la guerra. — Quattro volte fummo respinti, quattro volte penetrammo nella Reale dei Turchi: laceri da ambe le parti, da ambe le parti per morti illustri dolentissimi: e dei superstiti quale ferito, quale spossato sì, che la mano non reggeva più l’arme. In una di queste zuffe avvenne che rimanesse morto lo strenuo cavaliere Bernardino Cardine senza ferita: una palla di smeriglio gli percosse la rotella, la quale per essere coperta di finissimo acciaio non venne rotta, ma tanto violentemente gliela fece battere nel petto, che il Cardine ne cadde senza vita sul ponte. E l’ultima volta che don Giovanni fu respinto, successe un altro caso notabile, che indietreggiando egli senza mai voltare la faccia al nemico, sia che il piede sopra lo intavolato lubrico gli sdrucciolasse, o quale altra ne fosse la cagione, cade, ed accenna precipitare supino nell’acqua; se non che un soldato spagnuolo, che non gli si era mai dipartito dal fianco, lo abbrancò forte con la destra per la cintura mentre con la manca si atteneva al sarchiame: allo improvviso il soldato prorompe in un grido; il braccio manco gli ciondola giù cionco; egli e don Giovanni senza rimedio precipitavano, quando allo Spagnuolo venne fatto afferrare co’ denti un cavo, e quivi si tenne finchè, accorso prontissimo lo aiuto, furono salvi ambedue. Don Giovanni illeso da qualunque percossa si apparecchia agli estremi conati. — Prodi uomini, grida, anche uno sforzo, e abbiamo vinto. — Mentre però attende a riordinare i suoi Spagnuoli, che in quel giorno mostrarono davvero virtù romana, avvennero due successi pei quali ci fu data vinta la impresa. La galea comandata dal signore Alfonso d’Appiano sfolgoreggiava con le artiglierie la Reale turchesca, ed essendo bassa di prora, portava tutti i suoi colpi nel corpo della galea nemica, fracassando quanto incontrava; e a questa bassezza andammo pure debitori di un altro principalissimo motivo di vittoria. Una palla sbalza un fusto immane, o troncone, e lo sbalestra con tanta violenza contro Alì, che rotto in più parti della persona, dà con le spalle dentro l’albero maestro, e schizzatolo del suo sangue cade giù moribondo. — O che fa egli Marcantonio Colonna? Il valore dell’uomo, la memoria delle imprese passate, la caldezza con la quale questa impresa aveva promossa, ad un tratto e al maggiore uopo vennero meno? Come sta egli irresoluto? Com’egli, generale del Pontefice, vede impassibilmente discorrere tanto sangue cristiano? Egli si talenta spaziare pei mari come se andasse a diporto in barca a godersi il ventolino della sera; anzi pure sparisce dal ponte, e non sanno più ove siasi cacciato. — Questo uomo singolarissimo aveva avuto la costanza di starsi in mezzo agli scoppi delle artiglierie, agli sbalzi dei fusti, al precipitare degli alberi e delle corde, fra i varii e orribili aspetti della morte, fra tante cause di pietà e di furore, senza commoversi punto, aspettando tempo opportuno a esterminare il nemico: quando conobbe la fortuna parargli davanti la occasione, andò sotto il ponte, e volgendosi con gran voce ai condannati al remo, così favellò: — Gente! Dio vi aveva riscattato, e voi vi siete resi indegni del riscatto; l’acqua del battesimo fu sparsa sopra il vostro capo invano: voi lo avete così contaminato di pensieri iniqui, che ormai non dà più luogo a una benedizione. Voi siete disperati della salute eterna. In questo mondo quando profferiscono il vostro nome, le vostre madri, le vostre mogli, o le vostre figlie declinano vergognando la faccia; i cittadini vi tengono come bestie feroci. Il cielo vi rifiuta, e la terra vi aborre. Ebbene, io vi riconcilierò con Dio e con gli uomini: io posso far sì che dai vostri parenti sia ricordato il nome vostro con orgoglio: io posso operare in maniera che la mano del più cortese cavaliere della cristianità si stenda verso la vostra senza tenerla per disonorata.... — E quei miseri ad una voce dicevano: — Deh! signor nostro, misericordia di noi! Dateci almeno comodità di morire combattendo. — Ebbene, rispose Marcantonio, io vi dono la libertà: non vi movete dagli scanni; io torno sopra il ponte: quando udirete uno squillo di tromba, riunitevi; e al secondo, con quanta maggiore forza vi concedeva la natura, adoperandovi gli ultimi sforzi puntate i piedi, e agitate i remi. Quando sentirete avere noi investito la galea nemica, saltate fuori, e combattete come l’anima v’ispira. — Tornò sul ponte, e afferrato il timone indirizzò la prua contro la poppa di Alì. Il primo squillo di tromba si fece sentire, poco dopo il secondo. La galea dava un balzo come foca ferita: l’acqua flagellata ribolle, e mugghia fremente e spumosa fuggendo via. La galea, percorso un breve tratto di mare, con urto irresistibile investe il luogo designato. La Reale turchesca per poco non capovolta: con l’orlo della pavesata si tuffa in mare da un fianco, dall’altro mostra scoperta la carena; la più parte dei difensori rimane con impeto irresistibile balestrata lontana nell’acqua, e così pure avveniva dell’ammiraglio, se non si appigliava all’albero maestro con ambe le braccia. Quando tornò diritta, il Colonna prevalendosi dello sbigottimento dei nemici, saltò sopra la galea accompagnato dai suoi, e se ne rese padrone. Riarse la ira dei comandanti turcheschi; le galee messe in custodia dalla Reale, e sette nuove se ne mossero ad un tratto per condurre don Giovanni a pessimo partito. Il Veniero solo si fece contro a tutte, sostenendone lo impeto con prodigioso valore; ma quel fiero vecchio sopraffatto dal numero vedeva scemare di momento in momento il numero dei suoi; una freccia gli aveva trapassato un piede, e un poco per l’acerbità del dolore, un poco per la perdita del sangue sentiva non potere più reggere: urgeva il bisogno del soccorso, e non sapeva piegarsi a domandarlo. Giovanni Loredano e Catarino Malipiero videro il pericolo dell’inclito vecchio, e accorsero a sovvenirlo; questi prodi giovani potevano starsi dietro le pavesate che ci tornarono validissimo riparo della giornata, ma non glielo consentiva la egregia natura; dalla cintola in su si mostrano scoperti, e mentre combattono da veraci campioni di Cristo, percossi di arcobugio cadono entrambi morti nelle corsíe. Il marchese di Santa Croce, che già si era mosso, giunse se non a tempo per salvare la vita al Malipiero e al Loredano, opportuno almeno a vendicarne la morte; i Turchi furono tagliati a pezzi, e le galee caddero in nostro potere. Corse fama nei tempi, che il Veniero s’impadronisse della Capitana di Pertau Pascià, ma la fama non raccontava il vero, e fu la Lomellina, che vinse Pertau...“

— “Ah! signor duca, a voi non istà esporre questa parte della battaglia. Fummo noi che superammo la Capitana del Pascià; e davvero se vi adoperammo lo estremo della nostra virtù a vincere, non ci opposero punto meno gagliardo furore i nemici. Morì, mi ricordo, quell’ottimo Marino Contareno; morirono, e in ricordarlo mi prende ribrezzo ed affanno, con esempio immortale i quattro fratelli Cornaro; ahimè! il fiore dei magnanimi periva; ma, comunque fulminati attorno dalle galee nemiche, non lasciammo la presa, e ci scagliammo laceri, ma deliberati di vincere o di morire. Certo ogni orma impressa da noi costava sangue, ma i passi erano alla vittoria: già anelanti, e pugnando con le coltella, arriviamo a mezza galea. Il signore duca a capo di tutti pareva un angiolo che ci conducesse al trionfo...”

— “E se tu, Titta, meno avevi in cuore il tuo padrone, a questa ora non rimarrebbero di lui che le nude ossa, e il nome. Bene la mente dolorosa ricorre a Orazio e a Virginio Orsini, consorti miei, che mi caddero ai piedi mortalmente feriti; bene m’ingombra l’anima di tristezza la memoria di Fabio mio nepote, percosso a un punto di arcobugio in una spalla, e di fuoco nel collo, avvoltolarsi per la coperta morendo senza piangere il fiore della perduta giovanezza, anzi contento di essere chiamato presto alla pace di Dio; ed io mentre mi chino a soccorrerlo, ecco sento trafiggermi di freccia la gamba destra; e quando levo la faccia, una mano stringente un pugnale rovina sopra di me improvvido di difesa; il pugnale sfugge dalla mano, e innocuo mi cade sopra la persona; la mano anch’essa mi cade sul capo, ma separata dal braccio, e con la mano un lavacro di sangue m’inonda il volto...”

— “Così è; mi capitò proprio a tiro, senza che io ci pensassi nemmeno, e la tagliai netta come un giunco...”

— “Ed io mi ti professo debitore della vita, e finchè Paolo Giordano Orsini avrà un cuore e una casa, Titta Carbonana occuperà un posto nel cuore e nella casa di Paolo Giordano Orsini... — Beviamo! — Alla memoria dei morti alla battaglia di Lepanto!”

— “Dio li abbia in gloria!...” acclamarono da tutte le parti.

— “Orsù dunque,” riprese Paolo Giordano, “diamo compimento alla storia. La Lomellina, soccorsa da Vincenzo Querini, delle sette galee che la combattevano ne prese cinque. Pertau gittatosi dentro un caicco a furia di remi si allontana; e noi vedemmo le spalle di quel feroce vôlte in amarissima fuga. Molti si danno vanto della morte di Caracozza; ma la verità è che Giovambattista Benedetti cipriotto, uomo d’inestimabile valore, superata prima la galea Corcut, accortosi avere dappresso Caracozza, gli si avventò addosso disperatamente. Con ira punto minore Caracozza rovina contro lui, sia che lo strascinasse vaghezza di gloria, sia, come credesi piuttosto, un odio antico: s’incontrarono: — una scarica di arcobugi fatta da ambe le parti gl’involse di fumo, e quando il fumo sparve, ambedue stavano supini, e spenti per molte ferite tutte nel petto. Al Benedetti subentrava Onorato Gaetano, nepote del papa, il quale, secondo che udimmo da persone degne di fede, aiutato da Alessandro Negroni, e da Pattaro Buzzacherino, con non troppa difficoltà condusse a termine cotesta onorata fazione. I Cristiani schiavi sopra le galee turche, accortisi dallo scompiglio che la fortuna abbandonava li aborriti padroni, rompono le catene, e afferrate quelle armi che il furore e il caso ministrano, fanno acerba vendetta dei lunghi patimenti, e assicurano la vittoria. Mentre queste cose succedono nella battaglia e nel corno sinistro dell’armata cristiana, procedeva alquanto avversa la sorte nel corno destro. Giovanni Andrea Doria, il quale doveva scostarsi dalla battaglia soltanto quattro corpi di galea, trasgredì il comando, e si distese pel mare. Dicono che il facesse con buono intendimento, sia per dare campo alla battaglia e al corno sinistro che si allargassero, e si ponessero con agio in ordinanza, sia per sospetto di non rimanere avviluppalo da Uccialì, che gli veniva incontro con molto maggiore numero di galee che non erano le sue; sia finalmente per prendere il vento in poppa onde dare dentro con impeto ai legni nemici. Ma Uccialì, espertissimo capitano di mare, quando conobbe le galee del corno destro così sparpagliate e lontane, non potere di leggieri l’una l’altra soccorrere, senza punto curarsi di essere sotto vento, si strinse addosso alle smembrate con forze di gran lunga superiori, e uccisi i principali capitani, ne prende dodici. Qui apparve la virtù di Benedetto Soranzo, da paragonarsi piuttosto all’antica che preporre alla moderna; imperciocchè, visti morti o feriti intorno a sè tutti i compagni, ed egli stesso essendo in più parti della persona impiagato, non gli bastò l’animo di considerare la sua galea calcata da orme turchesche, nè potè patire che rassettata un giorno i nemici se ne valessero ai danni della patria dolcissima; onde strascinatosi al luogo dove si conserva la munizione della polvere, vi appiccò il fuoco, e sè, la galea, e tutti i nemici che vi stavano sopra con orribile scoppio slanciò rotti e mutilati per l’aria. Uno solo per somma ventura campava; e fu Giacomo Giustiniani, che sospinto senza offesa lontano nel mare, potè per miracolo salvarsi a nuoto. Nè certo vuolsi tacere il fiero scontro della Capitana di Malta, la quale investita da tre galee turchesche combatteva intrepidamente mostrando dura fronte alla fortuna; se non che Uccialì ravvisando lo stendardo di San Giovanni, come colui che si professava capitale nemico della Religione di Malta, non vergognò spingerle contra altre tre galee per averla ad ogni modo. Fra Pietro Giustiniano, generale, considerando soprastare a sè e ai suoi l’ultimo fato, li esortò a morire animosamente, dacchè per vincere non v’era speranza, e del rendersi non parlava nemmeno. Durò la mischia di sei galee contro una, gloriosa pei Cristiani, infame ai Turchi, tre ore; due terzi della gente giaceva uccisa, l’altro terzo grondante sangue; il generale per tre immani piaghe versava la vita; cinquanta cavalieri nobilissimi avevano spirato l’anima; la galea fino al castello occupata; lo stendardo caduto in potere dei nemici; e nonostante faceva prova difendersi. Frate Agnolo Martellini, vostro cavaliere fiorentino, ridotto a men tristo partito degli altri, sosteneva la onorata agonia. Uccialì compreso di rabbia ordinava si mettesse fuoco alla galea, ma il Doria facendo forza di remi sopraggiunse alla vendetta, e la fece; imperciocchè urtando i nemici stanchi dallo aspro combattimento, ne menò orribile strage, ammazzando Caragialì, capitano di Algeri, con moltissimi altri caporali turcheschi. — E belle di fama e di sventura furono le galee toscane, le quali per mala sorte seguitarono il Doria. La Fiorentina, combattuta da sette galeotte, rimase vuota di soldati e di ciurma; sopravvisse ferito gravemente Tommaso dei Medici, la più parte dei cavalieri di Santo Stefano combattendo fino all’ultimo sospiro compiva la vita. La galea di San Giovanni, guidata dal cavaliere Agnolo Biffoli, patì una stretta punto meno dolente, chè il capitano vi fu ferito di due archibugiate nella gola, ed oltre al cavaliere Simone Tornabuoni e Luigi Ciacchi, vi morirono sessanta uomini di valore; e peggio capitava la galea sopra la quale combatteva Ascanio della Cornia, circondata da quattro nemiche, se meno pronto giungeva al soccorso Alfonso di Appiano, capo delle galee fiorentine. Ma ormai da ogni lato sonava il grido della vittoria, e Uccialì vedendo movergli contro tutta l’armata nemica per invilupparlo, e prostrarlo, deliberò partire. Don Giovanni di Cardona si avvisò contrastargli la fuga con le otto galee di Sicilia, ma scompigliato da forze maggiori, riportati non piccoli danni, ebbe a cedere il passo. I provveditori Canale e Quirini si misero a dargli la caccia; sennonchè avendo stanchi i galeotti per le durate fatiche, con infinita amarezza lo contemplarono ridursi a salvamento con quaranta legni, la nostra galea corfiotta, e lo stendardo di San Giovanni. In questa fuga accaddero due casi degni di memoria, i quali furono, che Giovambattista Mastrillo Nolano, e Giulio Caraffa Napoletano, mentre sono con altri compagni condotti prigioni sopra due diversi brigantini, mostrando nel momento stesso la medesima audacia come se si fossero data la intesa, si sollevano contro i Turchi, accoltellano i Rays, e quanti altri fecero sembianza resistere, e di schiavi e vinti diventati liberi e vincitori, tornarono a noi, che a braccia aperte li accogliemmo, co’ brigantini nemici pieni di schiavi e di ricchissima preda.

“Circondato da nere nuvole, il sole declinava al tramonto, gittando lungo per le onde uno sguardo obliquo, per cui avveniva che la parte rischiarata mandasse vivida luce, e l’altro mare fosse ingombro di tenebre: al fiotto dei marosi si accompagnavano gli urli, le imprecazioni, le supplicazioni, e i singulti, e da lontano parevano un pianto solo, — il pianto della natura sopra lo strazio dei suoi figliuoli certo da lei non creati per lacerarsi così. Per la striscia di luce comparivano casi da far piangere gli angioli, e taluni, ma pochi, degni affatto della origine celeste dell’uomo. Vedevi una gente chiusa al terrore salire sopra le galee che abbruciavano, cacciarsi tra le fiamme, senza sospetto che in quel punto ardendo le polveri preda e predatori dirompessero in frammenti minutissimi; altri non sazi ancora di combattere, siccome l’odio implacabile li flagella, si acciuffano pei capelli o per le barbe, e in difetto di arme co’ pugni percuotonsi, co’ denti si lacerano, ed ora la testa dell’uno or la testa dell’altro con infelice vicenda sparisce sotto le onde, finchè queste, sdegnose quasi che durasse tanta ira in creature così fragili e caduche, le avviluppano nello immenso seno, e non compariscono più. — Poc’oltre si contendono un albero, o fusto, o troncone, per appigliarvisi, e rimanervi tanto che giunga il soccorso; ma mentre, più caritativi e meglio assennati, poteva bastare a tutti la tavola della salute, consumando le forze estreme per possederla ognuno esclusivamente per sè, li opprime un fato comune; tale altro stupido di paura, abborrendo annegare, afferra un frammento di galea che arde, e fuggendo l’acqua perisce per dolorose bruciature; — e infiniti palischermi guizzavano di qua e di là pieni di gente ebbra di vittoria, che le teste dei Turchi natanti toglievano a bersaglio, come il cacciatore costuma delle anitre per gli stagni; e a quale si accostava supplicando la vita lasciavano che mettesse le mani sopra la banda del caicco, oppure gli porgevano il remo quasi per aiuto, poi a colpi di accetta tagliavano le mani, o fendevano loro la testa con disoneste ed infami ferite. Pochi di questi burchi (avvegnachè il ben fare sia sempre poco) andavano in traccia dei cari parenti e dei compagni, vivi o morti ch’e’ fossero; pietosa e vana cura, però non vana tanto, che a qualcheduno non venisse fatto trovare quello che andava cercando, e lo amato capo dalle onde estraeva: se speranza di salvarlo in vita balenava, con ogni maniera di ufficio lo proseguiva; morto poi, lo rivestiva, lo armava, nella destra gli poneva stocco o zagaglia, lo faceva orrevole, e come vivo e ascoltante lo lodava. Questa battaglia, dove combatterono assai più di cinquecento vascelli, durò da mezzogiorno fin presso alle ventidue ore: vi morirono dei nemici, chi dice ventimila, chi trentamila, e chi un numero maggiore; su di che mi stringo a dire, che molti certamente furono, ma nessuno li contò.99 Dei nostri mancarono alla chiamata settemila sei cento cinquantasei; liberammo dodicimila schiavi cristiani; i vascelli presi sommarono a duegento: noi perdemmo la sola galea corfiotta: degli altri legni nemici, se togli quaranta scampati con Uccialì, quale rimase sommerso, quale arso; acquistammo cento diciassette cannoni, duegento cinquantotto pezzi di artiglieria minore, e diciassette petriere; prigioni circa quattromila, tra i quali, per tacere degli altri, comparivano notabilissimi i figliuoli di Alì, di cui il maggiore moriva di angoscia a Napoli, e l’altro trattenuto in prigione cortese dal papa. Immensa la preda. Nella galea di Alì trovarono ventiduemila soldanini di oro, in quella di Caracozza quarantamila; e in tutte le altre copia così di pecunia come di armi, di arnesi e di vesti doviziose, conciossiachè i Turchi estimando mettere in fuga i Cristiani con la vista, e di girsene, piuttosto che a battaglia, a giocondo ritrovo, procedevano ornati, di magnifici abbigliamenti vestiti, circondati di tutte quelle delizie cui erano costumati a godersi nella sicurezza della città; oltrechè seco loro apportavano le spoglie nobilissime di Cipro e delle riviere cristiane, che nel lungo corso avevano lasciato deserte.

“Ma il generale Veniero, come colui che avendo consumato gran parte della sua vita sul mare era sottile speculatore dei venti, persuase a don Giovanni, il quale, deposto ogni altro affetto, lui abbracciava, lui onorava unicamente, lui padre chiamava, e a modo di padre con reverenza filiale proseguiva, a ripararsi, senza mettere tempo di mezzo, in qualche porto vicino, ed indicò Petalà sopra la riviera della Natolia, dacchè il tempo minacciasse fortuna. L’armata assentiva al comando, e adoperandovi forza di vele e di remi, verso le quattro ore di notte gittò l’áncora in Petalà, lungi sei miglia dal luogo del conflitto.100 Don Giovanni, consigliato dalla egregia sua indole, volle prima di tutto si provvedesse ai feriti, e quanto meglio fu dato con animo prontissimo gli obbedimmo. Ed egli stesso non indulgendo a fatica, così senza prendere cibo si recò a visitare i giacenti. Poco invero poteva egli giovare effettualmente a quei miseri; ma la presenza amica, la maestà dello aspetto, una parola di refrigerio rese a qualcheduno di loro meno acerbo lo spasimo delle piaghe, più tolleranda la morte. Ora accadde, che passando presso a un giacente sopra un mucchio di paglia, don Giovanni sentisse con molta familiarità salutarsi:

“— Buona sera, don Giovanni!

“E questi, a cui non giungeva nuova la voce, ma su quel subito non ricordava di quale si fosse, rispose nel paterno sermone come appunto favellava il giacente:

“— Dio vi guardi, prode uomo, e la Santa Vergine: voi, a quanto pare, siete rimasto offeso; sopportate pazientemente: fo voto a Dio per la vostra salute.... A poco prezzo avete acquistato una fama immortale....

“— Il prezzo non è poco; — ma non importa. Don Giovanni, voi avete sembiante di non ravvisarmi...

“— Mi sembra!... Ma sarebbe impossibile!... Don Michele...?

“— Cervantes Saavedra, tutto vostro per la vita, e per la morte.

“— Ah! Don Michele mio, datemi la mano....

“— Io ve l’ho data, don Giovanni; se potesse crescermi di nuovo, io di nuovo ve la darei, in fede di Dio....

“E il giacente mostrava per l’aria scura il braccio mutilato involto di panni sanguinosi. Don Giovanni allora riconobbe in lui il soldato che lo sostenne precipitante in pericolo di vita: tacque, e se il buio non era, noi vedevamo piangere lo invitto capitano. Scorso un lieve spazio di tempo, Don Giovanni riprese con voce tutta commossa:

“— E quando siete arrivato? E perchè non vi mostraste?

“Don Michele rispose:

“— Tardi venni, perchè da Genova a Napoli, mercè il santo collegio delle muse,101 di cui mi confesso sacerdote indegnissimo, non mi trovai danaro sufficiente da pagare cavallo o vettura, e Dio sa se io me ne affliggeva, timoroso di giungere intempestivo; ma, come piacque alla Nostra Signora, mi trovai alla mostra che faceste alle Gomenizze. Aveva statuito mettermi nella battaglia al vostro fianco, disposto a difendere con la mia vita il fortissimo campione della Cristianità, e il sangue più nobile di Spagna; la fortuna amica per questa volta mi assentiva pieno il disegno, ed io devo ringraziarla se avendole data la vita, me la ritorna indietro con una mano di meno. Mi parve poi bene non farmi conoscere, perchè se la morte mi risparmiava, avrei potuto stringere la vostra destra onorata, e rallegrarmi della vostra gloria; se all’opposto era destinato ch’io soccombessi, ignorandolo voi, non ne avrebbe sentito cordoglio l’animo vostro per me amorosissimo; e se finalmente dovevamo morire ambedue ci troveremmo adesso alla presenza di Dio....

“Queste parole semplici, e nonostante maestose di grandezza, ci empivano di maraviglia, quando uno Spagnuolo interruppe il silenzio religioso, osservando: — Chi mai avrebbe creduto incontrare tra i guerrieri di Lepanto il nostro poeta! — Alla quale considerazione Don Michele sempre pacato rispose:

“— Cavaliere, voi cessereste dallo stupore, ove poneste mente che tutto quanto apparisce grande, forte e magnifico, è poesia. — Don Giovanni nostro deve salutarsi come l’altissimo poeta della Spagna.... Di due ragioni vi hanno poeti: — quelli che operano le cose belle, e gli altri che le cantano. — Don Giovanni ci ha dato l’argomento del poema: — adesso chi comporrà per lui la nobile epopea? Ah! Signore... non io.... che non mi sento da tanto. —

“Così s’incontravano i due più eletti spiriti che abbia mai partorito la Spagna: entrambi grandissimi, e infelicissimi, e tenuti in piccolo conto in quella contrada, che tra i posteri avrà fama principalmente perchè patria di loro.

“Come troppo bene aveva preveduto il Veniero, imperversò nella notte una spaventevole procella. Le galee rimaste accese, più che mai divampanti di fiamme, ora apparivano sopra la sommità dei marosi, ora sparivano, o sbattute trasversalmente volavano per la superficie delle acque.... Davvero avevano sembianza di demoni, che sbucati dallo inferno fossero accorsi a raccogliere le anime, ad esultare della immensa strage nel luogo del conflitto! — Alla dimane, migliaia di cadaveri ingombravano i lidi, e il mare roteava le azzurre sue onde come nei primi giorni della creazione: cotesto flutto fremente rompentesi contro la riva, pareva che dicesse: — O terra, riprendi i tuoi figliuoli; con un soffio delle mie narici ecco ho respinto da me questa polvere insanguinata e rabbiosa, che chiami umanità. Se i tuoi figli si avvisano solcarmi il volto, io richiudo tosto quel solco, e nessuno può trovarne la traccia; se io li sopporto sul dorso, io il faccio come dei trastulli costumano i garzoni volubili, per sollazzarmi, e per romperli. Ecco io mi sono purificato da loro; l’orma dello eccidio di Lepanto rimane sopra di me come il volo dell’alcione per l’aria. Tu, mia indegna sorella, soffri le costoro città, e lacera quotidianamente, e in mille guise torturata, non sai vendicarti, anzi dagli aperti solchi tramandi perenne sostanza per nutrirli; deh! fa senno e fenditi una volta a seppellirli tutti. Se pure offesa senza misura ti muovi, sobbissi qualche città, o qualche catena di montagne tranghiotti; le tue ire paiono piuttosto di madre che rimprovera, che di giustiziere che punisce. Io, tempo già fu, venni a mondarti con universale lavacro, e mi tarderebbe di ritornarvi adesso, che ti contemplo assai più sozza di prima, se non mi respingesse dalle tue sponde la parola di Dio. Vieni, supplica meco il Creatore che revochi il comando, ed io ti purgherò per sempre con la moltitudine delle mie acque, — con un diluvio, — per questa volta — senza Noè....

“Tale la mia commossa fantasia immaginava. — Come il mondo cristiano esultasse, voi sapete. Il sommo Pontefice volle che abbattuto lungo tratto di mura presso a porta Capena, per quella breccia Marcantonio Colonna entrasse in Roma, e a modo degli antichi Cesari trionfando al Campidoglio si riducesse; dove giunto, gli fu presentato un grosso dono di danari, che da lui accettato ne ringraziò prima il Papa, e poi subito depositò affinchè ne facessero la dota a molte orfane e povere donzelle. Così, ricco non di altro tesoro che di fama accresciuta, tornava Marcantonio alle sue case, tanto più grande quanto più solo: anima veramente romana! I Veneziani, ai quali pure i due terzi dei caduti in battaglia spettavano, non patirono che come morti si piangessero quei valorosi che caduti combattendo con l’arme alla mano rivivevano a secolo immortale, e i loro più stretti parenti comparvero nelle pubbliche grazie che si resero a Dio vestiti di broccato e di altre stoffe preziose: sangue anch’essi latino! Quello però che voi non potete avere inteso, si è questo, che Filippo di Spagna acerbamente sofferse la vittoria, rampognando il fratello di avere posto in avventura le forze della monarchia, senza che la vittoria valesse a produrgli vantaggio; e mentre il sommo Pontefice saluta nella effusione del cuore don Giovanni con le parole dello Evangelista: — Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Joannes, — vi fu tale in Consiglio, che non rifuggì da proporre si consultasse se gli si dovesse tagliare la testa. Vergognò Filippo medesimo della tremenda viltà dei suoi consiglieri; viltà maggiore di quella che avesse potuto desiderare egli stesso. Scampava don Giovanni la vita, ma percosso dal rimprovero disonesto, lo divora adesso lo sconforto e il dolore: — e ciò era astio spagnuolo! Quale ne venne da tante morti, da tanto valore, e da così prodigiosa vittoria, comodo ai Cristiani? dalla rinomanza in fuori, nulla. Gloria, ebbrezza delle anime grandi, oh come scadi dalla estimazione e dal desiderio, quando sei fatta traffico di principi, ghiacci calcolatori delle nobili passioni! Ognuno pensa a sè, e per oggi; lo indomani non conosce, o non cura. Venezia in mare, la Pollonia in terra, rimangono abbandonate come due vedette perdute incontra agli sforzi dei nemici della fede. Un giorno (disperda il Signore l’augurio) abbattuti quei due baluardi, i Cristiani si sveglieranno agli urli dei contadi, alle fiamme delle arse città; — se Dio non provvede, fra venti anni noi saremo tutti Turchi...”

Qui dava termine Giordano al suo lungo racconto, e intorno intorno correva un fremito come di gente che approva in un punto ed aborrisce una cosa; e poichè in altri bei ragionari si fu trattenuta alquanto la compagnia, vedendo come le stelle dal cielo ormai declinassero, e sentendosi vaghezza di riposo, Paolo Giordano levatosi da mensa, l’accomiatava con dolci e reiterati saluti, pregandola starsi pronta domane per correre i boschi prima che la sferza del sole si facesse sentire di soverchio cocente. Egli stesso dato di braccio alla consorte Isabella fino alle scale l’accompagnava, dove baciatale la mano, con augurii di notte felicissima da lei si dipartiva.

Ognuno si ritirò nelle proprie stanze, e forte lo premendo il bisogno di ristorare le membra stanche, si dava in balía del sonno.


In meno che non volge mezza ora pareva che dormissero tutti.

Pareva!....

Paolo Giordano vegliava....

Venuto nelle sue stanze, si abbandona sopra un seggiolone, appoggiando la faccia al pugno sinistro, e lasciando giù pendente la destra. È bianco, e contraffatto, e non mormora parola: due bei bracchetti bianchi col collarino di scarlatto ricamato di oro, accostumati a ricevere le sue carezze, gli giacciono ai piedi, lo guatano fisso, e quasi ingegnandosi di richiamare l’attenzione del padrone sopra di loro, gli vanno lambendo dolcemente la mano. Sembra che di nuovo si agitasse nell’anima del duca una contesa fierissima tra il volere e il disvolere; ma bene esaminata ogni cosa, discusso quanto poteva giovare, e quanto nuocere, librate le ragioni del bene e del male, o almeno quelle che a lui parevano tali, e la offesa, e la vendetta, e il perdono, assai potè conoscersi chiaro a quale conclusione scendesse quando gli sfuggirono dai labbri le parole:

— Ella è cosa che bisogna compire!

E quindi subito:

— “Titta!”

— “Signore.”

Paolo Giordano strascicando la voce tra i denti:

— “Hai.... tu.... apprestato?....”

— “Hollo.”

E successe un silenzio affannoso: poi lo ruppe Paolo Giordano chiamando:

— “Titta!”

— “Signore...”

— “Ah! era pur meglio restare morti nella battaglia di Lepanto!”

— “Era....”

— “Dì, non ti pare bella mogliema? Non ti pare leggiadra, prestante, dotta in tutte le graziosissime guise del bel parlare gentile?”

— “Maisì, signore, maisì!....”

— “E non ti pare sacrilegio spegnere a un tratto con un soffio proditorio tanta luce di venustà e d’ingegno?”

— “Era pur meglio, signor duca, che noi fossimo morti nella battaglia di Lepanto!....”

Il duca si alzò da sedere asciugandosi la fronte grondante di sudore; — passeggiò nella stanza agitato; poi allo improvviso fermandosi, e ficcando gli occhi negli occhi di Titta, favellò:

— “Ma non sai altro che formare augurii di cosa ormai a conseguirsi impossibile? — Non hai tu in pronto un consiglio che valga? — Nulla! — Nulla! — Siete uomini voi, o echi di spilonche?”

— “Non avete voi detto essere una cosa che bisognava compire? Come volete voi che consiglino i servi, quando i padroni manifestano che terranno i consigli in parte di resistenza ai desiderii loro?”

— “Titta, hai ragione; — tu hai meco sempre il torto solenne di avere sempre ragione.... Quanto ti ordinava apprestasti?....”

— “Tutto.... e potete riscontrarlo da per voi stesso.... guardando.... in su....”

— “Sta bene.... non importa.... mi fido....” — E in vece di sollevare lo sguardo lo affiggeva al pavimento. — “Ora prendi questi due bracchetti, e va quanto meglio ti verrà fatto silenzioso alle stanze di madonna la duchessa; batti soave.... e le dirai....” — E qui abbassò la voce continuando a parlare. Titta assentiva col capo. Paolo Giordano quindi a poco riprese nel solito suono:

— “Adoperandovi parole piacevoli; con maniere affatto ufficiose. Hai capito? — Ora vai....”

E siccome pareva che Titta mettesse tra mezzo alcuna dimora, Paolo Giordano ripete:

— “Vai....”

Titta prese i bracchi, e mentre stava per passare la soglia della porta, si sofferma, e voltata la faccia a Giordano, lentamente favella:

— “Ho io da andare, signor duca?....”

— “Vai.... vai.... Ella è una cosa che bisogna compire!”

E Titta andò. — Egli ascende pianamente le scale, si accosta alla stanza di donna Isabella, — e appena la tocca, gli viene domandato di dentro:

— “Chi è? Che cosa volete?”

— “Da parte del signor duca io devo supplicarvi, madonna, ad accettare questi due bracchetti, ch’egli vi manda in dono affinchè voi li teniate cari per amor suo; e desidera ancora che domani li proviate a caccia com’essi sieno addestrati, e capaci: — pregavi inoltre, che di tanto voi gli vogliate essere cortese, di condurvi a stare alquanto seco lui, avvegnadio gli paia strano che dopo tanti anni di lontananza non dobbiate incontrarvi insieme senza testimoni.... E veramente anche a me pare....”

Titta entrando vide come Isabella stesse con la signora Lucrezia Frescobaldi prostrata davanti una immagine della Beata Vergine, leggendo orazioni entro a un messale; ond’ei pensò tra sè: — “Meglio così, ella si è provvista di viatico pel gran viaggio.”

Isabella si leva in piedi, e rimasta alquanto sopra sè, domanda alla Lucrezia:

— “Vo io, o no, a dormire con mio marito? Che dite voi?

E la Frescobaldi stringendosi nelle spalle rispose:

— “Faccia quello che vuole: egli però è suo marito.102

— “Vadasi dunque.”

E la povera signora scese lenta, ma pure senza tremare.

La Lucrezia, o la curiosità la movesse, o la compassione, o piuttosto, come io credo, ambedue queste cose, uscendo dalla consueta impassibilità deliberò seguitarla inosservata alla lontana. Appena l’ebbe vista entrare nelle stanze del marito, affrettò velocissima il passo, e appose l’orecchio alla porta.

Udì liete accoglienze, e un salutare festoso.

— “Come a Dio piace, la incomincia a dovere,” — susurra a fiore di labbra.

Poi le parve ascoltare, e ascoltò certo, suono di riso: e di baci dati e restituiti.

— “Di bene in meglio....”

E trattenendo il fiato, intende tuttavia cupidamente.... — Ma oggimai più non mi lice andare oltre con le parole, e ripeterò col Poeta:

Gli abbracciamenti, i baci, i colpi lieti,
Tace la casta Musa vergognosa,
E dalla congiunzion di quei pianeti
Ritorce il plettro, e di cantar non osa.
Sol mormora tra sè detti secreti,
Che. . . . . . . . . . . . . . . . .103

La Lucrezia in punta di piedi tornava alle sue stanze, pensando: — “Io fo conto che tempesta in casa non vi abbia più da essere, o se pure vi sarà, noi la vedremo conchiudere con qualche baleno, ma senza fulmini.”


Mezza ora forse, o poco più, era passata dal momento in cui madonna Lucrezia abbandonava la porta delle stanze di Paolo Giordano, che si aperse di nuovo, e ne uscì Titta, il quale traversata la sala si condusse alla porta dello appartamento di Troilo, e colà giunto, si dette a bussare con le nocca senza troppo riguardo.

Troilo, comecchè gli paresse non avere motivo a sospettare, tuttavolta o per cagione della insolita fatica, o del calore del sole, o del bere soverchio, si sentiva acceso il sangue, e svoltolandosi per il letto non poteva chiudere occhio. Ond’è che avendo inteso subito il rumore scese il letto, ed aperse.

— “Cosa è che vuoi, Titta, con quel tuo viso da cataletto?”

— “Vostra Signoria, se alla prima non si appone, alla seconda non falla. Il signor duca m’invia a significarle, che non trova modo di prendere sonno....”

— “Giusto come a me....!”

— “Tanto meglio; — onde vi prega volere andare a tenergli un po’ di compagnia, e a fare insieme due chiacchiere.... Così vi terrete sollevati tutti e due....”

— “Erat in votis! Attendi; in un amen mi vesto, e vengo teco.”

E abbigliatosi con quelle vesti che prima gli capitarono sotto le mani, presto fu in punto. Titta con un torchio acceso in mano lo precedeva, ma arrivato alla porta di Paolo Giordano, trattosi da parte, e inchinata la persona, favella ossequiosamente:

— “Passi, Eccellenza!”

Entrato Troilo, Titta chiuse, dando volta alla chiave, ponendosela in tasca; e intromesso che fu colui nella seconda stanza, anche di cotesta chiuse con molta accortezza la porta, rimanendo di fuori.

Troilo, posto piede nella stanza, vede Paolo Giordano seduto accanto al letto davanti una tavola, e, o fosse la fantasia, o la virtù del lume, da una ora a questa parte gli sembra di dieci anni invecchiato. Giordano senza levare gli occhi gli dice:

— “Troilo, sedete.”

Cotesta voce non contiene in sè minaccia, nulla ha di rancore, è placida, è sommessa, — e non pertanto non pare articolata dalle labbra; — uscita così dagl’imi precordii come dal fondo di una sepoltura, ebbe forza d’infondere un ghiaccio nelle ossa di Troilo.

E Troilo sedeva.

— “Troilo, a me fa mestieri favellarvi parole, che giova a me dirle, ascoltarle voi negli orrori delle tenebre.... negli arcani silenzi della notte.... Troilo, dopo tre anni lunghissimi di lontananza io torno a casa.... ma questa dove torno è casa mia? Posso io dormire sicuro? Posso io sedermi senza sospetto a mensa?....”

Troilo côlto alla impensata, improvvido di consiglio, si tace.

— “Troilo! Quando io mi partiva da casa, conoscendo la donna che mi fu moglie — che adesso mi è moglie, — di mobile fantasia, sciolta nei modi per colpa di educazione assai più che a severa gentildonna non conviene.... facile a trascorrere.... petulante.... proterva.... io aborrii lasciare confidato il tesoro del mio onore in mani non dirò infedeli, ma per certo pericolose. — Di cui doveva confidare io, se non del mio sangue? Te dunque scelsi, a te raccomandai il mio onore, che pure è il tuo, e ti scongiurai con le lacrime agli occhi ad averne buona e vigilante custodia.... Te lo ricordi, Troilo? È vero? Vorresti forse smentirmi?.... E volendo, potresti?”

— “È vero...”

— “E ti ricordi le promesse che mi facesti allora? Te le sei ricordate tu sempre? Rendimi ora dunque ragione: come hai tu esercitata guardia leale intorno a mia moglie?....”

Giordano tiene il braccio destro col pugno teso sopra la tavola.... orrendamente ha contratti i muscoli della fronte, le sopracciglia aggrottate, e le pupille a mezzo sotto di loro nascoste mandano traverso ai peli arruffati una luce come di fuoco ardente dentro un roveto. La lingua di Troilo sta confitta al palato; e Giordano di nuovo:

— “Come hai tu esercitato vigilante custodia intorno alla mia moglie?”

E poichè la risposta non viene, egli continua:

— “Se devo porgere ascolto alle novelle che me ne giunsero fino a Roma, veramente io ho perduto la mia fama senza rimedio; la mia casa è piena di obbrobrio: ormai io non potrò più udire il nome della donna mia senza sospetto che lo profferiscano per onta o per dileggio. Virginio non potrà udire il nome della madre senza abbassare la faccia per la vergogna. Nefande cose avemmo ad ascoltare, cugino, e tali a cui inorridisce la natura.... tali che sono a sopportarsi impossibili, che nè posso, nè so, nè voglio a patto niuno sofferire io....”

— “Giordano!....” con voce di agonia replica Troilo; — “un cavaliere come voi fornito di quell’ottimo discernimento che tutti conoscono.... pratico delle cose del mondo.... vorrà credere a parole bugiarde.... ai detti di uomini oziosi.... e maligni? Noi generalmente il popolo estima felici; e genti cui l’astio rode gioiscono nello avventarci strali avvelenati. — Facciamoli piangere, esse dicono; così nel pianto saranno uguali a noi....”

— “E tu ben parli; ma la nequissima voce mi venne confermata da tale, che ormai non posso più dubitare.”

— “Ella è poi di fede degna come voi reputate?”

— “Lascio a te giudicarne. Me lo confessava Isabella....”

— “Ah! Isabella....?”

— “Isabella....”

— “Vostra moglie....”

— “Ella dessa.... mogliema. — Ora mi dì, Troilo.... il tuo nome è Orsini? Il sangue che nelle tue vene discorre è un sangue stesso del mio? — Rispondi!”

— “E a che dirvi quello che voi troppo bene sapete?”

— “Perchè mi giova in questo momento solenne udirlo da te, ed essere certo che tu lo ricordi, che te ne senti convinto... Così mi trovo circondato di traditori, — che dal mio sangue in fuori... io non ardisco sperare non essere tradito... Dunque tu sei mio sangue...? Ora dammi un consiglio!... Isabella... l’ho io da perdonare, o da ammazzare?...”

— “E devo consigliarvi io?”

— “Sì...”

— “Ma nè io, nè altri mi crede capace da tanto. Voi avete molto maggiore senno di me...”

— “Io però non lo penso; e posto ancora che ciò fosse, estimi forse che non si perda in simili casi il senno? Orsù, io t’impongo di consigliarmi...”

— “E allora... considerate, Giordano, come sia misericordioso il Signore;.... e come gl’incliti personaggi che a lui si rassomigliano compariscano miti e clementi:.... ottenga pietà presso di voi la debolezza della natura, la età della donna, e gli esempj non buoni nei quali venne nudrita;... vi ritorni al pensiero quello che con la solita prudenza ragionavate poco anzi, la fantasia mobile, la indole immaginosa, il tempo, il luogo, la occasione;... ed anche... il fato, Giordano, dacchè noi tutti governa un fato insuperabile.... e usate misericordia.... Isabella non potrà più presentarsi al vostro cospetto decorosa d’innocenza; voi non la potrete amare mai più.... e forse stimarla nemmeno.... e non pertanto avanza all’offeso una contentezza, acre è vero, eppure desiderabile sempre, quella cioè di sentirsi immeritevole della offesa, — e di vedere l’offensore pentito nel profondo dell’anima....”

— “Vedi se ti manca il senno! Tu non patisci certamente difetto di eloquenza.... Ed io lo immaginava! — Davvero io vorrei seguitare il tuo consiglio, ma un pensiero me ne distoglie, ed è questo: in simile negozio ci va soltanto dell’onore mio? Il decoro di famiglia non deve estimarsi a modo di fidecommesso, che a me non è dato alienare, e neanche diminuire, ma che nella sua interezza io devo rendere ai figli così immaculato e chiaro come io dai miei maggiori lo ricevei? Diversamente operando, non ti pare egli che un giorno potrei sentirmi dire dai padri: — Che cosa hai tu fatto del nostro patrimonio? — E dai figli: Non è questo il nostro retaggio...?”

— “Io crederei fosse bello le vendette ardue cercare, e compire; le altre, che per farle basta volerle, parmi dimostrazione di animo grande abbandonare. Vincere altrui è cosa lodevole, vincere poi sè stesso, divina....”

— “Ed anche per ciò io mi persuaderei a perdonarla.... quasi...., sennonchè un altro motivo mi cruccia, ed impedisce che il mio cuore si apra alla pietà; ed è la ostinazione della donna a tenermi celato il nome dello adultero....”

— “E nol sapete voi?”

— “No.... E tu lo sai?...”

— “Io? No.”

— “E questo pensava anch’io, perchè altro ti venne in pensiero, che guardarmi la donna, ed hai per ciò con la casa mia e meco un torto grandissimo, Troilo; un torto del quale io non so come possa mandarti assoluto. — Ma forse non vuolsi attribuire a te solo tutta la colpa, e in parte.... anzi in grandissima parte.... è mia, che sapendoti e giovane e cupido di gloria, e di alto cuore, ad altro dovevi attendere tu che a fare lo eunuco di palazzo....”

— “Ed ella dunque recusa di svelarvi il nome...?”

— “Nè per preghiera, nè per minaccia, nè per la speranza del perdono costei a verun patto assentiva mitigare la esacerbata anima mia....”

— “Certo, grave colpa è questa.... E tentaste tutte le vie?”

-“Tutte....”

— “Vedete dunque, Giordano, come male consigli chi non sa come le cose stieno: — se questa sua caparbietà avessi conosciuto avanti, io vi avrei consigliato in modo diverso.”

— “Diverso!”

— “Anzi contrario....”

— “Lo vedi tu stesso! Io mi vi trovo sospinto irresistibilmente: almeno conoscessi colui che non trattenne pudore di contaminarmi la casa mentre io versava il mio sangue per la fede di Cristo.... colui che non lo dissuase la reverenza della casa mia.... e più della reverenza la paura della mia spada! — Ah! mi parrebbe essere non infelice affatto, se potessi cacciargli le mani nel seno.... strappargli il cuore, e sbatterglielo nelle guancie.... — E vedi, Troilo, io glielo farei, quanto è vero Dio.... ma il codardo si cela.... Oh chi sei tu, che mi hai ferito a morte, e non mi hai tolta la vita? Qual è il tuo nome? Móstrati! — Niente.... Ahi! quanto lacera il dolore della offesa fatta da persona oscura, o abietta, o ignorata, contro la quale non possiamo vendicarci, o vendicandoci rimarremmo macchiati più assai dalla vendetta che dalla offesa....”

— “E veramente simili offese desiderano lavacro di sangue...”

— “E poichè non posso versare quello dello adultero aborrito... che di’ tu?...”

— “Parmi...”

— “No... parmi” — dice Giordano levandosi in piedi; — “qui fa mestieri aprirmi il tuo concetto intero...”

— “Allora...”

“Allora? Perchè esiti tu? Qui non ci ascolta nessuno... nessuno...”

— “Allora... il decoro geloso di famiglia domanda che... sparisca da questo mondo Isabella...”

— “Sta bene,” — rispose Giordano; e stesa la mano al cortinaggio, ne tira da parte le cortine, aggiungendo: — “Ecco... guarda; — io l’ho fatto...”

— “Ah vendetta di Dio!” — urla Troilo; e dando tre o quattro balzi allo indietro con le mani dentro i capelli, percuote con le spalle e col capo violentissimamente nella opposta parete.

Colei che fu donna Isabella Orsini giace resupina sopra il letto a modo di sedente: sciolte e rabbuffate le chiome, tesi i bracci, con le mani attrappite; il volto nero, e chiazzato di sangue; aperta la bocca, e sozza di bava sanguinosa; gli occhi aperti, intenti, scoppianti fuori dai cigli... Una corda sottile le stringe tuttavia il delicato collo, di cui i capi si perdono pel buio della stanza, e terminano al soffitto.

Infelice spettacolo di colpa e di perfidia!

«Così perì Isabella dei Medici, che avrebbe fatto sè ed altrui felici, se il cielo le avesse dato o minore bellezza, o maggiore virtù, o migliori parenti.»104

Giordano pallido anch’esso nel volto come per morte, ma comprimendo con violenza prodigiosa la passione che gli sconvolge l’anima, immobile dal luogo ove tiene aperte le cortine, sporge il braccio destro verso il cugino, e continua a favellare così:

— “Ora il mio letto diventò deserto... chè ogni donna tremerà le si converta in supplizio; — la mia casa è deserta, perchè il padre non può vivere col figlio di cui ha strangolato la madre... Giorni torbidi, e infami, — notti insonni, e piene di rimorsi e di paura, — morte acerba... giudizio di Dio tremendo, — ecco la pace che mi hai dato, Troilo! — Troilo, tu, e non altri! — Uomo iniquo ed abietto... io ti conosco... intero... e vedo e so come a costei, che fu moglie mia, meno deve essere stata dura la morte, che la coscienza di avere perduto la sua dignità di principessa, di consorte, e di madre... per così miserabile e schifosa creatura come sei tu. — Ribaldo! Non è morto il segreto con la tua complice... no... nè con la strage di lei, da te consigliata, Giordano perdeva la traccia del traditore. — Ora a te sta morire. Io potrei e dovrei astenermi di levarti l’anima trista con questa mano di cavaliere onorato; un sicario basta al sicario; — ma come patisci giusta morte, così non voglio che tu possa, ove mai c’incontrassimo nell’altro mondo, lagnarti del modo della pena...”

Così dicendo, prende due spade nude poste ai piedi del cadavere, e gettandone una per terra alla volta di Troilo, soggiunge:

— “Toglila su, e difenditi; e poichè sei vissuto da traditore, muori almeno da gentiluomo...”

Come asta di arco tesa da mano robusta, che lasciata la corda violentemente si addirizza, così Troilo di curvo fattosi diritto, quasi lo invadesse il demonio, dà un balzo verso la finestra aperta alle sue spalle, afferra con ambe le mani il parapetto, e con un altro balzo si precipita fuori. Volle fortuna, comecchè cadesse a capo fitto, per essere la finestra poco elevata da terra, e per esservi l’erba cresciuta sotto foltissima, non ne riportasse alcun male, onde tornato subitamente in piedi si cacciò giù alla dirotta per le scale di pietra.

Paolo Giordano, visto l’atto, come colui ch’era valido di membra, ed agile molto, con prestezza punto minore, di un salto ebbe varcato la finestra; — e giù via incalzando con la spada ignuda nella mano il fuggitivo.

Non parola, — non minaccia; — soltanto udivasi con duplice cadenza il suono dei passi accelerati per le scalee.

Trascorreva Troilo avanti, ma nel lungo corso perduta la lena, disusato ormai dai cavallereschi esercizii, lo avrebbe raggiunto sicuramente Giordano, se questi a mezzo del secondo scalo urtando forte col piede dentro a un cordone di pietra, non fosse stramazzato sopra la viva selce, sdrucciolando per lungo tratto, e per quelle asperità macolandosi costole e petto, e in parte scorticandosi, e rompendosi le mani ed il viso. Gli scappò dalla destra la spada, la quale a balzelloni, rompendo i silenzii della notte, con pauroso fragore, chè di elettissimo acciaro ella era, andò a fermarsi lontano lontano sopra la pubblica via.

Non che gli fosse dato abilità d’inseguire Troilo, Giordano allora potè a stento rilevarsi; ma sollevata appena la persona sopra i gomiti appuntellati a terra, tese la faccia dalla parte onde Troilo si dileguava; e gli cacciò dietro per lo buio della notte questa truce sentenza:

— “Poichè non sei voluto morire da cavaliere, non passeranno mesi che tu morirai come un cane!”

Titta raccolse il suo signore malconcio: gli lavò le piaghe, e con amorevole cura gliele fasciò; poi lui gemente e fremente ripose sur un lettuccio nell’anticamera.

Andò quindi per madonna Lucrezia, la quale percossa dal fiero caso, tanto a lei più tremendo quanto meno aspettato, rimase meglio di una ora a ricuperare gli spiriti e la parola; nè mai ebbe più bene mentre che visse, nè fu veduta più ridere o rallegrarsi. Tornata in sè, Titta le si pose davanti, e col dito indice della destra alzato in mezzo ai sopraccigli, lento lento profferì queste parole:

— “Madonna!... sentite bene!... La signora duchessa è morta allo improvviso.... di accidente.... sopraggiuntole nel lavarsi con acqua fredda la testa... per cagione del quale accidente... cadde in grembo vostro... e la sorprese la morte senza avere tempo di darle soccorso.... Badate, madonna, da sbagliare, se avete cara la vita!... Gli avvisi da parteciparsi della sua morte alle corti — preparati fino da ieri — parlano per lo appunto così.... Tenetevi dunque per avvertita...”105

Sciolto il cadavere dal laccio, fu trasferito da Titta nelle sue stanze; e adagiato sopra il Ietto, Lucrezia mandò per Inigo, e gli disse parola per parola quanto l’era stato imposto da Titta. Il maggiordomo, dato uno sguardo al cadavere, troppo bene si accôrse del caso, e con la mano manca preso il lembo del lenzuolo gli coperse la faccia nera per lo travaso del sangue, mentre col dosso della destra si asciugava una lacrima. — Inigo il maggiordomo, reputato cuore di pietra, piangeva.

— “Dio riceva in pace l’anima di questa povera signora!” — E dato un grosso sospiro, non parlò, più.

Al cadavere d’Isabella furono fatte l’esequie grandi e solenni: famigli, parenti — e il marito — e i fratelli, presero le vesti gramagliose. Sopra il feretro le recitarono la orazione funebre composta da uno accademico della Crusca in forbitissima favella toscana.

Prezzo del sangue fu, in parte il pagamento, in parte la composizione dei debiti di Paolo Giordano Orsini; e questo narra il Galluzzi.106 Il Settimanni poi ci fa sapere come il duca di Bracciano conseguisse dalla munificenza del cognato premio anche maggiore, cioè nell’ottobre prossimo la donazione di Poggio a Baroncelli, oggi Imperiale.107 La quale notizia indusse per avventura in errore taluno, che scrisse la strage della Isabella avvenuta al Poggio Imperiale, e non a Cerreto.108

E Dio, che non paga il sabato, dette anch’egli il guiderdone a Paolo Giordano condegno ai meriti. Orribilissima morte lo incolse; la sua anima si contaminò di nuovi delitti, conciossiachè il sangue chiami al sangue, come vediamo succedere pel vino; e il giudizio rimase aperto, talchè n’ebbero temenza i suoi successori. E se ci saranno dalla fortuna non avversa largiti tempo e salute, i nuovi casi della vita di Paolo Giordano ci somministreranno argomento per altro racconto.

Come Troilo finisse, lo ricaviamo dal passo seguente delle storie del Galluzzi. «Il Granduca determinò pertanto di esplorare l’animo della Regina e inviare a cotesta corte un suo segretario, valendosi del pretesto di esigere il residuo dei suoi crediti procedenti dagl’imprestiti fatti al re Carlo IX, giacchè appunto spiravano allora i termini delle assegnazioni. A questo solo effetto doveva estendersi la sua commissione, ma si accordava la libertà, secondo la occasione, di rimproverare alla Regina il suo malanimo verso la casa Medici, e la ingiuria fatta al Granduca. Arrivato il segretario a Parigi, ed esposta la sua commissione, la Regina gli disse: Io non so come potrò aiutare questo desiderio del Granduca, poichè accomoda al re di Spagna un milione di oro per volta, e con noi guarda adesso in sì poca somma. — Rimostrò il segretario che se il re di Spagna era stato servito di grosse somme, aveva anche mostrato di tenere più conto del Granduca che non aveva fatto lei, la quale lo aveva maltrattato, e fattogli ingiuria che non meritava. — Questo confesso, diss’ella, e lo feci perchè il Granduca non tiene conto di me, anzi con tanto dispiacere mio e del re ci ha fatto ammazzare sugli occhi Troilo Orsini, ed altri, che non ci pare ben fatto, essendo questo Regno libero, e che ognuno ci può stare. — Replicò il segretario che avendo l’Orsini e altri peccato gravemente contro il Granduca, non conveniva a lei, che pure era del suo sangue, proteggerli e soccorrerli con danari. — Or basta, riprese la regina, scrivete al Granduca che non proceda più di questa maniera, e massimamente in non fare ammazzare persona in questo Regno, perchè il re mio figlio non lo comporterà.»109


La morale poi del libro (e qui protesto servire al genio del tempo, che non trovando più morale addosso alle persone, per incontrarla in qualche parte la desidera almeno relegata e rilegata dentro a un volume) è questa:

Ponemmo sul principio la sentenza di Gesù Cristo per la donna adultera:

Colui di voi ch’è senza peccato getti il primo la pietra contro di lei.

Però la misericordia del Signore non derogava alla sua legge scritta nel Deuteronomio, e nello Esodo:

Non commettere adulterio.

Ed ogni seme di colpa forza è che generi il frutto doloroso della pena.


Nota alla pag. 44, verso 1.

Crediamo far cosa gratissima di pubblicare una lettera autografa d’Isabella Orsini, la quale dimostra la bontà della indole di lei, che volentieri s’induceva a impegnare un gioiello per provvedere ai bisogni delle serve, e raccomanda quel suo vecchio servitore. Questa lettera è conservata nel suo originale con altri documenti preziosissimi da un dotto e pio sacerdote.

Mco M. Giannozzo

Non ho prima che adesso possuto darvi risposta perchè mi sono avuta a stroppiar del dito grosso, et dubito che mi resti un poco impedito. ricevetti le cose mandatemi da M. Guglielmo ciò è dua para di maniche, d’argento uno paro et l’altro d’oro et quattro para di seta, tre pezze dargenteria et tre mostre di velo, non so quante braccia sia il pezzo. penso che staremo dalle parti di qua qualche giorno. però mi parrebbe al proposito dovessi fornir la casa di grano et legne alle mie donne inanzi salga più di prezzo et se non avete comodità di denari potrete impegniar quel mio giojello per cento o cento cinquanta scudi a qualche vostro amico et servirvi di quelli denari a questo effetto et mandatemi la somma delli debiti che ho per fino all’ultimo di questo mese. viene costà biagio mio stalliere per aver certi sua denari delle paghe vecchie. di grazia fate che valerio gnene dia quanto prima aciò che se possi poi tornare a servirmi per queste male strade. fatemi fare braccia 106. di cerretti di seta bertina et bianca a poste come vedrete qui la mostra in un pocho di carta et non essendo questa mia per altro state sano. di Camaldoli il dì 30 di luglio 1564.

Vostra degnia Isabella Medici
Orsina
al di fuori

Al Magco M. Giannozzo da Ceparello nostro Carismo

FINE.

NOTE

[1]
Come raggio di sole in acqua mera.
(Dante.)

Gli Gnostici, distinti con lo epiteto di dociti, negarono in Gesù Cristo la natura umana, e lo supposero un fantasma, però che: non dignum est ex utero credere Deum, et Deum Christum.... non dignum est, ut tanta majestas per sordes et squallores mulieris transire credatur. Questa eresia fu condannata fino dai primordii della Chiesa da San Giovanni.

[2]

L’altro esempio fu, che si legge scritto da Cesario, che nel contado di Lovagno fu uno cavaliere giovine di nobile lignaggio, il quale in torneamenti e nell’altre vanitadi del mondo aveva speso tutto il suo patrimonio: e venuto a povertà, non potendo comparire cogli altri cavalieri, com’era usato, divenne a tanta tristizia e malinconia, che si voleva disperare. Veggendo ciò un suo castaldo, confortollo, e dissegli che s’egli volesse fare il suo consiglio, egli lo farebbe ricco, e ritornare al primo onorevole stato. E rispondendo che sì, una notte lo menò in un bosco: e faccendo sua arte di nigromanzia, per la quale era usato di chiamare i demonii, venne uno demonio, e disse quello che domandava. Al quale rispondendo com’egli gli aveva menato uno nobile cavaliere suo signore acciocchè egli lo riponesse nello primo stato, dandogli ricchezze e onore: rispose, che ciò farebbe prestamente e volentieri, ma che conveniva che in prima il cavaliere rinnegasse Gesù Cristo e la fede sua. La qual cosa disse il cavaliere che non intendeva fare. Disse il castaldo: Dunque non volete voi riavere le ricchezze e lo stato usato? andiamci: perchè m’avete fatto affaticare indarno? Veggendo il cavaliere quello che fare pure gli convenia se volea essere ricco, e la voglia avea pur grande di ritornare al primo stato, lasciossi vincere, e consentì al mal consiglio del suo castaldo; e avvegnachè mal volentieri e con grande tremore, rinnegò Cristo e la sua fede. Fatto ciò, disse il diavolo: Ancora è bisogno ch’egli rinnieghi la Madre di Dio, e allora di presente sarà fornito ciò ch’elli desidera. Rispuose il cavaliere, che quello giammai non farebbe; e diede la volta, partendosi dalle parole. E vegnendo per la via, e ripensando il grande suo peccato d’avere rinnegato Iddio, pentuto e compunto entrò in una chiesa, dov’era la Vergine Maria dipinta col figliuolo in braccio, di legname scolpita; davanti alla quale reverentemente inginocchiandosi, e dirottamente piangendo, domandò misericordia e perdonanza del grande fallo che commesso avea. In quell’ora, un altro cavaliere, il quale avea comperato tutte le possessioni di quello cavaliere pentuto, entrò in quella chiesa; e veggendo il cavaliere divotamente orare, e con lacrime di doloroso pianto dinanzi alla imagine, maravigliossi forte, e nascosesi dietro ad una colonna della chiesa, aspettando di vedere il fine della lacrimosa orazione del cavaliere compunto, il quale bene conoscea. In tal maniera l’uno e l’altro cavaliere dimorando, la Vergine Maria per la bocca della imagine parlava sì, che ciascheduno di loro chiaramente l’udiva, e dicea al figliuolo: Dolcissimo figliuolo, io ti priego che tu abbi misericordia di questo cavaliero. Alle quali parole niente rispondendo il figliuolo, rivolse da lei la faccia. Pregandolo ancora la benigna madre, e dicendo, com’egli era stato ingannato, rispuose: Costui, per lo quale tu preghi, m’ha negato: che debbo fare a lui io? A queste parole la imagine si levò in piede; e posto il figliuolo in sull’altare, si gettò ginocchione davanti a lui, e disse: Dolcissimo figliuol mio, io ti priego, che per lo mio amore tu perdoni a questo cavaliere contrito il suo peccato. A questo priego prese il fanciullo la madre per mano, e levandola su, disse: Madre carissima, io non posso negarti cosa tu domandi: per te perdono al cavaliere tutto suo peccato. E riprendendo la madre il figliuolo in braccio, e ritornando a sedere, il cavaliere certificato del perdono per le parole della madre e del figliuolo, si partia dolente e tristo del peccato, ma lieto e consolato della perdonanza conceduta. Uscendo dalla chiesa, il cavaliere, che dopo alla colonna avea ascoltato e osservato ciò che detto e fatto era, li tenne celatamente dietro, e salutollo, e domandollo perchè egli avea tutti gli occhi lacrimosi: ed egli rispuose, che ciò avea fatto il vento. Allora il cavaliere secondo disse: Non me lo celate tutto ciò che in vêr di voi è stato detto e fatto. Onde alla grazia che avete ricevuta, per amor di quella che l’ha impetrata, io voglio porgere la mano. Io ho una sola figliuola et unica, vergine, la quale vi voglio sposare, se v’è in piacere: e tutte le vostre possessioni grandi e ricche, che da voi comperai, vi voglio per nome di dota ristituire, e intendo di avervi per figliuolo, e lasciarvi reda di tutti i miei beni, che sono assai. Udendo ciò il giovane cavaliere, consentì al proferto matrimonio. E adempiuto tutto ciò che promesso gli era, ringraziò la Vergine Maria, dalla quale riconobbe tutte le ricevute grazie. (Passavanti.)

[3]

Signore, quante volte, peccando il mio fratello contro a me, gli perdonerò io? Fino a sette volte? — Gesù gli disse: Io non ti dico fino a sette volte, ma fin a settanta volte sette.

(S. Matteo, Cap. 18.)

[4]

Parini. Il Mattino.

[5]

Reziarj erano i gladiatori che combattevano con una rete, ed inseguivano i Marmilloni o Galli, che portavano un pesce per cimiero, gridando: Non peto te, Galle, sed piscem peto.

[6]

Il sig. Morbio riporta nella Storia dei Municipi Italiani una parte dell’opera de Achille Marezzo, bolognese, maestro generale dell’arte dell’armi, che insegna la difesa a chi inerme fosse assaltato con daghetta, stilo o pugnale. — Ivi: — «Opera nova de Achille Marozzo bolognese, maestro generale dell’arte dell’armi.» Nella seconda facciata del libro leggesi: — «Opera nova chiamata duello, o vero fiore dell’armi de singulari abatimenti offensivi et difensivi, composta per Achille Marozzo gladiatore bolognese, che tratta de’ casi occorrenti ne l’arte militare, dicendosi tutti i casi dubiosi per autoritade de iureconsulti, et tratta de gli abatimenti di tutte l’armi, che possano adoperare gli homini, a corpo a corpo, a piedi et a cavallo, con le figure che dimostrano con l’armi in mano tutti gli effetti, et guardie che possano fare o con la spada sola, o con pugnale accompagnata, o rotella o targa, o brochiero largo, o stretto, o imbracciatura, e così con spada da doi mani, o armi inastate de tutte le sorte, col pro et contra, et con diverse prese et strette de megia spada, et molti documenti a chi volesse ad altri insegnare de combattere, o de scrimere, con infinite prese de pugnale che legendo in questo apertamente potrai vedere a parte con il segno del passeggiare, et le lettere che denotano el tutto, et questo e fatto per dare lume agli homini generosi, che si dilettano della virtù de l’armi, e ancora per quelli che vorranno ad altri insignare, con suma diligentia corretto et stampato.» — Trascriveremo alcuni ammaestramenti che Marozzo dava per disarmare l’assalitore. — «Documento sopra a molte prese de stilo, ovvero daghetta, o pugnale, che facilmente tutte se possano fare, accadendo, come se costuma a questi moderni tempi, che de molti huomini si ritrovano essere offesi per non havere arme in mano ne manco scentia. Et io vedendo de questi casi occorrere, me sono mosso amorevolmente con l’arte mia, a scrivere queste cose, come trovarete davante in questo libro, acciò che quelli, che se dilettano de la militia, sieno avvertiti ad imparare tale presa, per conservatione de la vita loro. Et notati, che dite prese che qui serano composte in tutte l’armi, a lotta serano molto utile, per quelli che se essercitarono in tal virtude, o vero arte.

»Hora nota che qua daremo principio alla prima presa, havendo denotato de quanta utilitade e a sapere deffensarse dal suo inimico, mi sono sforciato dare principio a questa prima presa de stillo, over dagetta. Et nota, che avendo il tuo inimico una de l’arme sopradette in mano, e necessario a guardargli sempre con l’occhio alle mani accio che lui non te possa gabare, avenga dio chel tuo inimico te tirasse sopra mano d’una dagetta, tu te repararai con la mano manca pigliando il braccio tuo alla roversa, cioe il braccio tuo dritto, et in questo medesimo pigliare, tu geterai la tua gamba dritta de dietro a la destra del tuo inimico trahendo in questo medesimo gettare il braccio tuo dritto al collo allo inimico, storcendo in tale gettare la tua mano sinistra verso la parte dritta del sopra detto, tirando le dette braccia gioso a terra, facendo a questo modo farà lui uno capo fitto in drieto.

»Havendo el tuo nimico con l’armi sotto mano, come appertamente dimostra la figura, fermarai l’ochio tuo al pugno sopra detto: cioe che traendoti lui disotto insuso per amazarti de una ponta tu te gieterai con braccio tuo manco al suo braccio dritto, voltando il pugno tuo con le dita ingioso, et pigliarai lo stretto passando in el pigliarlo de la tua gamba destra, mettendola de fuori da la dritta del sopra detto tuo nimico, et in questo medesimo gettare de gamba tu pigliarai la coscia destra con la tua mano dritta al sopra detto, cacciandoli, in questo pigliare, la testa tua sotto il suo braccio destro, et volterai le spalle alla roversa, et a questo modo, tel portarai via, et getarallo in terra, et serai diffeso galantemente, e polito.

»Volendo declarare il modo da deffensarsi da uno che te tirasse de una dagetta per amazarti sopra mano, come in questa tertia parte si vede, tu te reparerai trahendo la mano tua dritta al braccio destro del tuo inimico, pigliandolo in questo tale gettare il detto braccio per di fuori alla roversa passando in detto tempo con la tua gamba manca alla destra del sopradetto, pigliando in tale passare con il tuo braccio mancho la sua gamba dritta, e a questo modo tu lo butterai per terra indrieto, e se seria risolto, et gli darai a lui delle ferita.»

[7]

Nè erano senza grave pericolo siffatti esercizj. Nelle cronache di Tommaso Costo napoletano, che comprendono lo spazio dall’anno 1563 fino al 1586, leggiamo come in Napoli nel carnevale del 1579 Muzio Pignattello, uno dei figliuoli del marchese vecchio di Lauro, correndo a schiera con altri immascherati sotto le finestre della principessa di Bisignano, che allora abitava nel palagio che fu del principe di Salerno, dove poi fu fatta la chiesa dei gesuiti, precipitò insieme col cavallo in cosiffatto modo, che essendo allora ventuna ora, non visse più che insino a notte. — E più sotto: Onde si esercitava continuamente, e in giocar di arme, et in saltare, et in volteggiare, et in cavalcare, et in ballare, et in ogni altra attitudine conveniente a cavaliere torneava, e giostrava, ed il tutto faceva con tanta felicità, che pochi in alcune cose lo pareggiavano, ma in tutte niuno. Nel 1559, quando si fecero in Francia le nozze della sorella del re Enrico II con Filiberto duca di Savoia, e delle sue figlie, Claudia e Isabella, la prima con Carlo di Lorena, la seconda con Filippo II re di Spagna, il re correndo la lancia contro il conte di Mongomery, fu percosso in maniera, che «la lancia del conte troncandosi nel colpo, alzò la visiera dell’elmo del re, e nella fronte inverso l’occhio destro ne scassò una sverza in tal guisa, con alcune altre minori dalla parte di sotto, che il re diede vista di qua e di là di cadere; il che veggendosi, vi corse il principe di Ferrara, ch’era in ordine per correre il suo arringo, il duca di Guisa, ed altri signori, e scesero il re, e tostamente disarmatolo, lo portarono quasi di peso in palazzo, e il distesero mezzo morto sopra il letto, e conobber tosto i medici, cavandone cinque sverze, che la ferita era mortale. Dolevasi il re, che poichè gli conveniva pur morire di arme, come alcuna volta da astrolagi eragli stato predetto, non gli fosse avvenuto in guerra reale, e non in giostra dove gli pareva perdere la vita per giuoco, e senza pro veruno, o pregio degno di re.» (Adriani, Storie, lib. 16.)

[8]

MS. della Bibliot. Reale di Parigi, N. 10, o 74, Capponi, e mio.

[9]

MS. sopra citati.

[10]

A dì 16 marzo, fu impiccato al Bargello Alfonso Piccolomini. Ma di questo bandito è da parlarsi più a lungo.

Il sig. Alfonso del sig. Iacopo Piccolomini, nobilissimo Senese, e ricco di beni di fortuna, come quello ch’era signore di castella, et altri beni dai quali cavava grossa entrata e rendita, cominciò fino dalla puerizia a dar segno della cattiva riuscita che fece, e da giovanetto cominciò a darsi al mal fare, e compiacersi d’esser capo di masnadieri, e gloriarsi d’aver molte inimicizie, e sapersi da tutti bravamente et ingegnosamente riguardare e difendere; per il che facendo ammazzare or questo or quello, fu necessitato per timore della giustizia ritirarsi ad un suo grosso castello vicino ad Ancona, ove quivi dimorò qualche tempo; ma non potendo il di lui genio facinoroso e sanguinario comportare star così ozioso dentro un castello, balzò in campagna con 300 uomini al tempo di papa Gregorio decimoquarto, e nella Marca con diverse specie di crudeltà ammazzò molti uomini e donne; predava e storpiava bestiami, abbruciava case e biade; dipoi passò nella campagna di Roma, facendo l’istesso, ove dimorò più mesi sempre in campagna svaligiando et uccidendo i passeggeri: nè furono buone le diligenze che da Roma si fecero per rimediarvi; perchè egli stando su gli avvisi, e come pratichissimo di quelle campagne, se sentiva che le genti che venivano per combatterlo fussero in numero superiore al suo, e da non potergli resistere, si ritirava in luoghi sicuri, e se il contrario, gli aspettava in luoghi vantaggiosi, e così gli obbligava tornarsene a Roma senza far nulla, o vero con qualche perdita di loro. Onde per minor male, e per levar questa peste d’intorno a Roma, il pontefice per opera del sig. Iacopo, richiesto dal cardinale Ferdinando de’ Medici, s’indusse a ribenedirlo, ma però con queste parole: — «Il cardinale de’ Medici mi levò di su le forche un uomo il quale una volta si farà impiccare;» — le quali parole furono una vera profezia, perchè il medesimo cardinale de’ Medici, divenuto granduca di Toscana, lo fece poi impiccare, come si dirà. Alfonso così ribenedetto passeggiò alcuni giorni per Roma con grand’indegnità, quanto all’universale, del pontefice; ma stimolato esso dal suo genio inquieto, non contento di viversi così civilmente, riprese la mala vita l’anno 1589, e raccolto buon numero dei suoi uomini, ritornò in campagna, e ricominciò a far di molto male, e toccando con gli suoi lo Stato fiorentino sempre predando, e facendo dimostrazioni di nemico, più tosto che di suddito, obbligò il granduca, allora Ferdinando già cardinale, a spedirgli dietro il sig. Cammillo del Monte con numero cento cavalli e mille fanti, con facultà concessagli dal pontefice di poter seguitarlo anco dentro lo Stato della Chiesa da per tutto, e fino a dieci miglia vicino alle porte di Roma. Così andando, il detto sig. Cammillo lo combattè, dissipando et uccidendo la maggior parte dei suoi; ma Alfonso con alcuni se ne scappò, e non potendo esso ritirarsi tra i Veneziani, nè tra altri principi d’Italia, sendo da tutti ributtato, come nemico comune, e pubblico guastatore di strade, e non essendo abile di resistere a tanta forza, ridotto con due soli compagni, si trasferì in abito di pecoraio, e capitò in casa di un contadino tra la Romagna e lo Stato di Firenze; ma ivi riconosciuto, fu data notizia del suo arrivo a chi guidava la gente di S. A., ove subito fu spedito con buona squadra di soldati da’ quali si lasciò vilmente far prigione, e condotto a Firenze fu tenuto alcuni giorni in prigione; et esaminato più volte, benché senza tormenti, confessò tutto quello che attestava la pubblica fama, onde la sera del 15 marzo 1590 a ore otto fu condotto in cappella, e dal bargello annunziatogli la morte; del che non s’alterò, come quello che molto ben sapeva di meritarla, e non messo manette nè ceppi ai piedi, com’è solito, ma lasciatolo sedere, e stare con suo comodo; e così approssimandosi l’ora dell’esecuzione, mostrò una gran viltà; e come cristiano si confessò e si comunicò, senza farsi sopra di ciò pregare; ma non diede però quell’indizio di salute che si desiderava, poichè non mostrò segno di vero pentimento, come si vede negli altri, e che in lui bisognava perchè era pubblica voce, e forse confermata da lui medesimo nel suo esame, che per opera sua gli uomini che erano periti erano più di 300, et una infinità di roba rubata, case e campagne arse, e guastate. Fu impiccato al ferro la mattina del 16 del detto mese di marzo 1590, circa l’ore 13, ove stette fino alle 22 ore, e doppo fu levato dalla compagnia.... e condotto nel tempio, ivi fu sepolto. Un suo castello ch’era vicino ad Ancona, di rendita migliaia di scudi, andò in potere della Chiesa, et altri suoi beni nello Stato di Siena, che erano assai, andorno al fisco del granduca con ogni resto del suo avere, del che s’andò alimentando et educando una sua figlia pargoletta rimasta sola, che di comandamento di S. A. S. fu messa nel monastero delle Murate di Firenze.

[11]

Salviati. Orazioni per la morte di don Garzia, p. 25 e 45.

[12]

Vedi Cronaca di Firenze pubblicata dal Morbio.

[13]

Lettera di Bastiano Rossi, nello elogio degli Illustri Italiani: Orazione del Cambi, e Notizie degli uomini illustri dell’Accademia Fiorentina.

[14]

Segni, T. 2. p. 337.

[15]

Orazione delle lodi del cav. L. Salviati fatta all’Accademia Fiorentina da Pier F. Cambi.

[16]

Vale — piacere di esser lodato, — ed è modo basso.

[17]

Bernardo Davanzati. Orazione in morte di Cosimo I.

[18]

Storie, Libro 15.

[19]

Segni, Storie, libro 14.

[20]

Elenco pubbl. dal cav. Fabbroni nei Provvedimenti Annonarj, riportato nella Vita di Cosimo I di Aldo Manuzio. Edizione di Pisa, 1823.

[21]

Questi documenti si trovano a p. 261, Tomo II, delle Storie dell’Ammirato. Edizione di Firenze, 1827.

[22]

Vita dell’Aldo Manuzio sopra citato.

[23]

Ammirato. Edizione di Firenze del 1827. Tomo ultimo.

[24]

Aldo Manuzio, p. 132, in nota. È questa lettera singolarissima, che ci pare pregio dell’opera riprodurre intera in questa appendice. «Strenuo mio cariss. — Ogni buon principe debbe desiderare tre cose oltre a molte altre: l’una di conservare l’onore, l’altra lo Stato, la terza l’aver causa di provare li servitori, ed avere occasione di gratificarli e beneficarli. A noi pare che con la venuta di Piero Strozzi ci sia dato occasione di pensare a due di queste: la prima di parerci troppa vergogna che costui insolente abbi procurato di venire a Siena, e starci con troppo disonor nostro su gli occhi; onde abbiamo pensato di fare due cose per questo mezzo: l’una di cercare per ogni via e verso di levarci dinanzi questa vergogna; la seconda sperimentare li nostri servitori ed amici fedeli, con avere occasione di beneficarli servendoci bene in questo affare; perchè della terza, di conservar lo Stato, non ci passa per pensamento che costui ci possa nuocere, essendo noi per provvedere in modo alle cose nostre, che largamente resteranno sicure. Onde per eseguire questa nostra intenzione siamo certi, ogni persona avere qualche amico confidente, che potessi per qualche modo andando in Siena, per via d’una archibusata, o in qualunque altro modo che migliore paressi a voi, levarci dinanzi l’arroganza di costui; e confidati assai che in voi sia totalmente l’animo di servirci, abbiamo pensato di proporvi questo, acciò vegghiate di trovare almanco due persone fidate: ma vorriano essere forestiere, o vero ribelli, o banditi dello Stato nostro; li quali acconciandosi in Siena per soldati, o in qualunque altro modo che migliore paressi, potessino, presa l’occasione, o con archibuso o altro, ammazzare costui. Il che facendo, si può prometter loro al fermo dieci mille scudi, oltre ad acquistare la grazia nostra, e gradi e provvisioni, come a voi paressi di prometter loro. Il che facendo, sarà sotto parola di principe eseguito da noi senza alcun dubbio, dilazione, o scrupolo, abbondantissimamente: e nel particolar vostro, vi promettiamo raddoppiare prima la nostra buona grazia; secondariamente tutto quello che voi sapete desiderare per utile ed onor vostro, sapendo che con voi non bisogna usar termine d’offerirvi danari, perchè offerendovi quanto può essere a comodo vostro con la nostra buona grazia, largamente vi potrete promettere da noi quanto vi parrà essere necessario per comodo, onore ed util vostro. Non potriamo più di quello che facciamo incaricarvi, e stringervi il desiderio che abbiamo di tal cosa, perchè parendo a noi che ci tocchi nell’onore, e stimandolo sopra ogni altra cosa, pensate quanto noi lo desideriamo: perchè, sebbene gli è molti anni che costui ha fatto professione di fuoruscito, e che gli averiamo potuto nuocere molte volte, non mai abbiamo pensato tal cosa; ma ora, che vuole arrogantemente mostrare di competere, e far sì su gli occhi nostri di parer qualcosa, ora ci pare che abbi cerco di offenderci nell’onore, e però desideriamo sperimentare gli nostri servitori ed amici. Cercate dunque di trovare due almeno, o quelli che più vi paresse, che fossino atti a tal cosa, e vedete di persuadergli a questo effetto, con ordinar loro quello intrattenimento che vi parrà che basti per potere stare su luogo o dove andassi per fare tal cosa, che vi rimborseremo di quanto dessi loro, o vi manderemo il modo, avvisandocelo per tale effetto, come meglio vi parrà. Bisogna bene che vi certifichiamo, che il tener voi segreto tal cosa importa assai; ma quando bene qualcuno di loro lo scoprissi a Piero, non per questo c’importa, ma solo lo diciamo del segreto per quello tocca a chi avessi andare a far l’effetto. Del sapere l’un dell’altro, o altri che andassino a questo, tutto lo lasceremo risolvere come meglio vi parrà. E questa nostra aremo caro resti appresso di voi o che l’abbruciate, come più vi parrà a proposito, e non venga in notizia d’altri che vostra, eccetto però se per animar qualcuno di quelli avessi a far lo effetto bisognasse; però non ci estenderemo più con questa, credendo aver satisfatto assai alla intenzione nostra, e pensiamo al certo dover anco restare satisfatti dell’opera vostra, desiderando sopra modo tal cosa. Dateci risposta particolare di quanto arete eseguito, dicendoci li nomi di quelli mandate, uno o più che siano; e senza fare dimostrazione di parlarci, o venire da noi per tal cosa, ci risponderete in mano propria, che noi solo vedremo il tutto, ned altra persona che il Segretario, che questa scriverà, sarà conscio di tal cosa: e Dio vi conservi. — Di Fiorenza, li 5 gennaio MDLIII. — Il Duca di Fiorenza.»

[25]

Segni, Storia, p. 159, 184. Ed. di Milano.

[26]

Galluzzi, Storia. T. 2, p. 313.

[27]

Maccrie. Storia della Riforma, p. 275, dove cita Thuani. Hist. ad an. 1566.

[28]

Storie, Cap. ult.

[29]

Tuano, Hist. ann. 1566, narrò che abbruciarono il Carnesecchi; Laderchi, ann. 1567, rimprovera Tuano per avere affermato che abbruciarono il Carnesecchi, senza specificare se vivo o morto, negando che la Chiesa abbia fatto mai abbruciare vivi gli eretici, ma nell’ultimo volume confessa essersi ingannato. Ant., T. 23, f. 200; Maccrie, Storia, p. 276: il Carnesecchi però fu prima decapitato, poi abbruciato. Galluzzi, T. 2, p. 315.

[30]

Aldo Manuzio, Vita di Cosimo, p. 51.

[31]

Orazione nelle esequie del Serenis. G. D. Cosimo, p. 275.

[32]

MS. della Bibl. Reale di Francia, e MS. Capponi, e mio.

[33]

Mazzucchelli, nota 17 alla vita di messer Giovanni Boccaccio scritta da Filippo Villani: — «A questo silenzio, e alla mutazione di sua vita, contribuì non poco ciò che narra il B. Gio. Colombini, Fondatore della Religione de’ Gesuati, al Cap. XI della vita del B. Pietro de’ Petroni Certosino suo amico. Scrive egli, che il B. Pietro poco prima di morire diede ordine a Giovacchino Ciani, suo compagno, di portarsi dal Boccaccio, e di riprenderlo a suo nome degli scritti suoi men che onesti, e di consigliarlo a mutar vita, scoprendogli nel tempo stesso molti secreti dell’animo di lui, i quali il Boccaccio credeva che niuno al mondo sapesse. Il che poco dopo la morte del B. Pietro, seguita a’ 29 di maggio del 1361, essendo stato eseguito con istordimento del Boccaccio, il quale sapeva che il B. Pietro non lo aveva veduto giammai, ne diede egli notizia al Petrarca suo amico, comunicandogli il suo proponimento di mutar vita. Il Petrarca, recando fede all’ambasciata, lodò con sua lunga lettera, ch’è la quinta del lib. I delle Senili, il Boccaccio del buon uso ch’era per farne, siccome anche avvenne. Fu allora per avventura che fama corse, essersi egli fatto frate della Certosa di Napoli, sul qual supposto gli scrisse un sonetto Franco Sacchetti, il quale si legge nella prefazione delle Novelle di questo, e incomincia:

Pien di quell’acqua dolce d’Elicona ec.;

e gli dice:

Avete preso certosana vesta ec.

Si sa per altro ch’egli era cherico; come prova chiaramente il sig. Manni nel Cap. XIII della sua Vita.»

[34]

Agnolo Pandolfini. Trattato del governo della buona famiglia. — Questo libro, aureo per lingua e per insegnamento di buoni costumi, con molte aggiunte fu pubblicato di recente a Napoli, ma tolto ad Agnolo Pandolfini, ed attribuito a Leone Battista Alberti.

[35]

Byron, Il Prigioniero di Chillon, n. 2.

[36]

Abrégé de Mézeray.

[37]

Montaigne, Voyage en Italie. T. I.

[38]

Sismondi, Letteratura del Mezzogiorno. T. I.

[39]

Sunt lacrimæ rerum, et mentes mortalia tangunt. Eneid.

[40]

Paradiso, Canto XVI.

[41]

Galluzzi, Storia del Granducato, T. II, p. 271.

[42]

Galluzzi, Storia del Granducato, T. II, e Ammirato, Libro ultimo.

[43]

Galluzzi, Storia del Granducato, T. II.

[44]

Morbio, Storia dei Municipii Italiani, Firenze, p. 27.

[45]

Machiavelli, Della natura dei Francesi.

[46]

Machiavelli, Ritratti delle cose di Francia.

[47]

Ariosto, Satire.

[48]
Martirio in terra appellasi,
Gloria si appella in cielo.

Beatrice Tenda, di Tedaldi-Fores, giovane poeta spento in floridissima età.

[49]

Nella Cronaca MS. del Settimanni nello Archivio delle Riformagioni espressamente si dichiara: «Fu fatto venire Paolo Giordano da Roma perchè acconsentisse alla morte d’Isabella.» — E quivi pure si racconta, come nello agosto successivo alla morte d’Isabella «fossero fatti sparire il figlio di Giovanni Battista de’ Servi, e Carletto Fortunati, lancia spezzata, come quelli che erano reputati drudi d’Isabella.» E che Giordano alle istigazioni altrui acconsentisse alla strage della moglie, pur troppo impudica, lo confermano ancora i MS. Capponi, della Biblioteca R. di Francia, e mio. — Il signore Bell nel suo racconto dell'Accorambona ci avverte come pei costumi spagnuoli, nei quali era stato educato Francesco, correva assai più grande l’obbligo nei fratelli di vendicare le disonestà della sorella, che nei mariti quelle della moglie. Il Galluzzi nella citata Storia, Lib. IV, cap. 2, scrive. — «È certo che a donna Isabella furono fatti funerali più pomposi che a donna Eleonora, e che il granduca e il cardinale non solo mantennero dopo con l’Orsini buona corrispondenza, ma s’interessarono per acquietare i suoi creditori, e dare alla di lui sconcertata economia qualche sistema. Tutto ciò proverebbe che, o la morte di donna Isabella non fu violenta, o che il granduca e i fratelli essendo di concerto con l’Orsini, con la loro dissimulazione resero lo eccesso più detestabile.» Davvero tra l’una ipotesi e l’altra corre troppo grande divario perchè uno storico solenne se la deva passare così scivolando. Da tutte le memorie dei tempi e da tutte le storie ricaviamo come la strage fosse imposta, e pagato il prezzo del sangue, che non si limitò unicamente nelle premure di acconciare la dissestata economia dell’Orsini, ma giunse perfino, secondo che ce ne porge testimonianza la Cronaca del Settimanni sopra citata, a fare donazione nell’ottobre di cotesto anno della villa Baroncelli a Paolo Giordano e a Virginio; il quale fatto forse indusse in errore l’Ademollo, che affermò nelle sue note al racconto intitolato Marietta dei Ricci, donna Isabella Orsini essere stata strangolata nella villa Baroncelli, oggi Poggio Imperiale.

[50]

Svetonio, Vita di Claudio, in fine.

[51]

La Bianca non era ancora moglie di Francesco I: viveva tuttavia l’arciduchessa Giovanna. Questo è anacronismo; ma la povera Giovanna, comecchè donna piissima, che condusse vita di silenzio e di sacrifizio, non era personaggio tale da ravvivare il racconto. Anime sante, ma pallide, nate a soffrire e a tacere!

[52]

Vedi le note seguenti.

[53]

Fino al tempo del granduca Ferdinando I si adoperavano in corte candele di cera gialla: egli le mutò in bianche, come conosceremo dalla lettera del Soderino riportata più sotto.

[54]

Michele Montaigne, invitato a pranzo dal granduca Francesco, osservò come questi bevendo mescolava molta acqua nel vino, mentre la Bianca tracannavalo quasi puro: «On porte à boire à ce duc et à sa femme dans un bassin où il y a un verre plein de vin descouvert, et une bouteille de verre pleine d’eau: ils prennent le verre de vin, et en versent dans le bassin autant qu’il leur semble, et puis le remplissent d’eau eux-mêmes, et rasséent le verre dans le bassin que leur tient l’échanson. Il mettoit assez d’eau; elle quasi point. Le vice des Allemands de se servir de verres grands outre mesure est ici au rebours, de les avoir extraordinairement petits.» Voyage, T. II, p. 59.

[55]

Svetonio, Vita di Giulio Cesare.

[56]
Porque dixo la venganza
Lo que la offensa no dixo?
 
Calderon de la Barca.
[57]

Queste ultime parole furono sentite dire da Francesco quando licenziò Giordano dopo il segreto colloquio tenuto fra loro. MS. Capponi, e mio.

[58]

«Era una delle principali passioni di Francesco I fabbricare porcellane elegantissime, che poi mandava in dono ai principi e a grandi baroni.» Galluzzi, T. III, p. 119.

[59]

«Francesco con una compagnia di mercanti esercitava questo commercio del pepe, e v’impiegava i suoi galeoni. La compagnia acquistava 30,000 cantara di pepe a 32 crusadi per cantaro, col patto della esclusiva di venderlo a tutto il mondo.» Galluzzi, T. IV, p. 106.

[60]

Quest’arme fa una testa di Moro.

[61]

E veramente si trova registrato così entro un libro di Ricordi.

[62]

L’atrocità, narra il Galluzzi, Lib. IV, c. 2, Storia del Granducato, l’atrocità del fatto fu celata al pubblico, e velata con le attestazioni di uno accidente sopraggiuntole per palpitazione di cuore, a cui asserivano i fisici essere stata sempre soggetta. Al re di Spagna fu confidato per mezzo dello ambasciatore tutto il successo con scritto a parte li 16 luglio, in questi termini: «Sebbene nella lettera vi si dice dello accidente di donna Eleonora, avete nondimeno a dire a Sua Maestà Cattolica che il signor don Pietro nostro fratello l’ha levata egli stesso di vita per il tradimento ch’ella gli faceva con i suoi portamenti indegni di gentildonna, i quali per il suo segretario ha fatto intendere a don Pietro suo fratello e pregatolo a venir qua, ma egli non ci è voluto venire, e nemmeno ha lasciato che il segretario parlasse a Don Garzia. Noi abbiamo voluto che la Maestà Sua sappia il vero appunto, essendo deliberati ch’ella sappia sempre ogni azione di questa casa, e particolarmente questa, perchè se non si fosse levato questo velo dagli occhi, non ci sarebbe parso di potere bene e onoratamente servire Sua Maestà, alla quale, con la prima occasione se le manderà il processo ove ella conoscerà con quanta giusta cagione il signor don Pietro si sia mosso.» Gradì il re Filippo la confidenza etc.

[63]

Credo fare cosa gratissima pubblicando la seguente lettera, ch’io reputo affatto inedita, e sconosciuta generalmente. È stata ricavata dalla Biblioteca Reale di Francia, ove si conserva sotto No 10, O 74. La copia manoscritta è scorrettissima, in parte manchevole, e in parte non leggibile, ed io m’ingegnerò a correggerne il dettato per modo che possa intendersi. Per questa lettera, scritta evidentemente da persona anzi che no mordace, e poco amorevole alla casa dei Medici, in ispecie poi al granduca Francesco e alla Bianca Cappello, conosceremo quanto sia falsa la fama dello avvelenamento di Francesco e della Bianca. Il genere di vita dai medesimi praticato non aveva mestiero di altro argomento per farli morire sollecitamente, avvegnachè comprenderemo di leggieri com’essi si avvelenassero tutti i giorni.

«Lettera di Giovanni Vettorio Soderini allo Illustrissimo Signore Silvio Piccolomini sanese, in ragguaglio della morte et esequie del Granduca Francesco.

»E’ merita il pregio della opera, e mi si appartiene, signore Silvio Illustrissimo, scrivere a vostra signoria illustrissima una grande e prolissa lettera. Quando, che alli giorni passati la Morte cavalcò sopra il suo destriero magro e disfatto per investirsi del titolo di Grande. La Morte ottenne a Roma il titolo di Grande, e conseguita ch’ella ebbe cosiffatta indecentissima intitolazione, se ne cavalcava frettolosa alla volta del Poggio a Caiano, e quivi con irresistibile forza e pari valore assaltò il Grande Etrusco di Firenze e Siena, e lo abbattè alli 19 di ottobre 1587 a 4 ore e mezzo di notte, e di 47 anni lo privò di vita dopo strani e disusati scontorcimenti, e ululati e muggiti diversi. Stette senza favella da dopo desinare fino al punto in cui fu soprappreso da febbre scottantissima. Il signor Pandolfo de’ Bardi, e il signor Troiano Boba, hanno sempre attestato che fosse per soverchio insolito esercizio scalmanato, e così presa una calda per essersi fermo in frigido luogo vicino all’acqua, come pure per causa di vecchi disordini, troppa continua beuta di elisir, e suo acquerello, et acqua arzente, e da mezzi minerali alchimiata e alterata; immoderata e nociva familiarità con l’olio di vetriolo ed uso troppo frequente di acqua di cannella stillata; e dal mangiare paste e composizioni calide, torte con tutte sorte di speziarie, gengiovi, noce moscada, garofani e pepe, polpe di capponi, fagiani, francolini, pernici, starne, e passere minutamente tritate, intrise con rossi di uova, crusca di zucchero, e farina inzaffranata; sorbire prima di pasto, fra pasto e dopo pasto continuamente uova con pepe lungo di Spagna pesto; empirsi sempre di cibi grossi, triviali, e di robaccia dura a smaltire, come agli d’India con pepe nero, cipolle, porri, scalogni, aglietti, malige crude, ramolacci, radici, rafani tedeschi, raponzoli, carciofi, cardoni, gobbi, sedani, nuchette, e nasturzii indiani, castagne, pere, funghi, tartufi, e in istrabocchevole quantità sorte di ogni formaggio; bere vini crudi, frizzanti, raspati, indigesti, grechi fumosi e gagliardi, e vino di Spagna, di Portercole, e di Reno: lacrima, chiarello, vino di Cipro, Malvagia, Candia, vino secco di Spagna, di Corsica, di Pietra Nera con la neve, avendo lo stomaco frigidissimo, e il fegato caldissimo; ai quali vecchi disordini voglionsi aggiungere i nuovi nella presente mala valetudine, come in mezzo alla febbre ardente bere gli sciloppi gelati, reluttare in tutto e per tutto il cristere, mandare giù pillole involte in pasta di ostie tenute a raffreddare nel diaccio, medicine e bevande nevate, e nel colmo dell’ardore della febbre sotterrarsi le mani nella neve; bere dopo il farmaco un gran bicchiere dì acqua agghiacciata; saziarsi a strane ore di latte infrigidito, e tirar giù due bicchieri di mosto ancora bollente, e poi per l’arsione della gola, aridità di lingua, asciuttezza di fauci e palato, collepollarsi fra le gote dentro in bocca con due pallottole di cristallo di montagna affreddate nel ghiaccio o nella neve, e raffreddare il letto con lo scaldino pieno di ghiaccio alla foggia del principe Carlo. Questo ed altro faceva a guisa del cardinale S. Angiolo, della Queva, del vicerè di Napoli, di Giannettino Doria, e del Signor Prospero Colonna, ma vi si tolse giù restandone chiaro. Non fece testamento prima, nè poi; solo sottoscrisse una polizza di sua mano di scudi 50,000 da distribuirsi tra i suoi servitori di corte. Confessollo il padre Maranta, il quale mi afferma che non ispecificò il numero e la quantità degli scudi da distribuirsi, ma raccomandò in generale che fosse rimunerata la servitù, e rincrescergli di non potere vivere tanto da farlo da se stesso. Il confessore non fu a tempo di memorargli se volesse erogare più altro a benefizio dei suoi, perchè chiusi gli occhi non potè muovere la lingua, o crollare la testa. Nel ricevere i sacramenti proferì le orazioni, la confessione della messa, e il Miserere assai speditamente. Monsignor Abbioso lo linì della estrema unzione. Il cardinale di Firenze fu assistente alla data dei sacramenti, e alla più parte delle cerimonie.

»Saperà ancora V. S. I. come interrogatolo uno intrinseco suo, che cosa volesse dire che in tanta felicità di stato, e abbondante potenza di tutte le cose, mai non si rallegrasse, così rispondesse: — «Certo ch’io dubito, che questa mia moglie non mi abbia fatto qualche malía affatturamento, comecchè separato e disgiunto da lei, vivere e posa avere non posso.» — Intorno a che più volte ragionando la Bianca disse: — «Da mio marito a me hanno a correre ore, e non giorni.» —

»La morte, finito l’uno prima, andò alla volta della granduchessa, che stava chioccia, e la sopraggiunse mentre con ansia investigava lo stato del marito, e si sforzava di fargli ricordare la promessa per la promozione di D. Antonio, perchè fidandosi sopra il bene essere del Granduca, non gli chiese in vita danari, beni o roba, ma indovinando la morte del suo marito dal calpestio di un andito all’altro, dalla una all’altra camera, dal rumore delle carrozze e dei cavalli, e dal vedere il signore Pandolfo de’ Bardi con gli occhi molli, le guancie infuocate e bagnate, sospirante spesso, e semivivo, comecchè la sua damigella L. V. N. A. gliele avesse poco anzi messa in dubbio, cacciato il capo sotto, frastagliando parlò: — «Conviene anche a mi morire col mio signore.» — E mandato un sospiro interno per entro il cuore, non fiatando più fino alle quindici ore e mezzo dell’altra mattina, spirò; e come undici ore prima trapassò il marito, similmente undici ore dopo morì la moglie; facendo comparire con simili accidenti un atto in commedia terminato in doppia tragedia nel sopraddetto spazio breve dall’uno all’altro. Il successore, che con iscusa di rinforzo della sua gotta, si era su le tre ore licenziato da lei, alle sette e mezzo giunse alla porta a Prato, ove scontrato il primo capitano dei Lanzi, rispettosamente, con temenza, e tremandogli la voce (credo io per la grande novità di mutazione) gli disse: «Ora avete ad essere così fedele a me, capitano, da qui innanzi, come a mio fratello siete stato.» Il palazzo granducale fu dipoi come per lo avanti custodito dai Lanzichenecchi soliti, e gli Spagnuoli, che già per questo effetto si erano chiamati dal Monte, si rimandarono. In seguito chiamato Bernardo Buontalenti, fedelissimo discuopritore dell’intimo Etrusco, gli dette il contrassegno, e si fece scuoprire sotterrato il tesoro di cinque milioni e mezzo di oro, e di 700,000 scudi di elette gioie; onde, chi vorrà negare che non siamo venuti alla età dell’oro? Già per comune discorso danno al nuovo signore per moglie la vedova di Francia, ma non vi è fondamento, ch’essendo vissuta regina, regina intende morire; e altri altre, secondo la opinione di quelli che vogliono indovinare: staremo a vedere et udire quello che nascerà, perchè questi son giudicj temerarj. Il nuovo signore pensa già, tratta, discorre e ragiona di volere rivoltare e ritravagliare il mondo, rifare e ritoccare ogni qualunque cosa, rivolgere sottosopra ogni mal fatto, ogni sconcio correggere, moderare ogni scempiezza; levarsi dattorno i ministri mozzorecchi, sbandirsi innanzi tutti i ribaldi, mandar via i cortigiani oziosi, superflui e girovaghi; cacciare in malora i parassiti, gli adulatori, le finte meretrici, tutte le triste persone, e di male affare; gastigare i malvagi, i maligni, i rei, gli scellerati, i mariuoli, i tagliaborse, dileguare i banditi, punire i ruffiani, i sicarii, i grassatori; far morire gli assaltatori di strade, gli assassini, gl’ingannatori, i seduttori, i bestemmiatori, i viziosi, gli scorretti, i bislacchi, tutti gli uomini di mala vita; mandar via, e segregare dal commercio degli altri i vagabondi e i girovaghi, tòrre insomma la vita ai pessimi, far vivere esaltando, accarezzando, giovando, riconoscere premiando, e amando sempre i buoni, e perseguitando i contrarj; proibire i giuochi, le bische, le baratterie, i ritrovi, le carte, i dadi, le scommesse, e le altre barerie; levare i grecovendoli, temperare e moderare i postriboli e le taverne; mutare le segreterie, li magistrati, gli uffiziali, i giudici, i rettori, gli auditori, gl’infedeli et insufficienti ministri, e gli uffici distribuire per i meriti, e non per i favori, e ai necessitosi; rivedere i conti a tutti, e i non buoni gastigare e cassare, avendo riguardo ai poveri bisognosi, e sovvenirli di limosine, giovarli, aiutarli di comodità, esercitando sempre le doti potentissime di principe, che sono liberalità e clemenza; afferma, tra le altre cose, la nostra Siena essere mal trattata e mal governata: non volerla così, e doversi guidare dal Piccolomini vostro cugino, e dal Pannilini. Basta, staremo a vedere, imperciocchè non manchi chi affermi essersi soltanto dalla padella entrati nella brace, Venere sempre dominante, ed essersi mutata la frasca non il vino; ma ragionevolmente scorti e conti gli errori dell’altro governo, potrà agevolmente correggerli nel suo. E di già le avviso la sua prima azione, ch’è stata d’imprigionare il procuratore di Livorno, aggravato d’infiniti rubamenti e querele, il quale ha voluto primieramente ammazzarsi col darsi percossa di un Cristo, nostro Signore, posto in croce, e appresso in Santa Maria Nuova si è morto. Il cardinale ebbe sempre in urto a cagione della sua iniquezza, poco rispetto e malvagità, Pietro Lazzero Zeffirini cabalista di Siena, nomandolo sempre ghiotto, impiccato, mozzorecchi, e tristo; così non prima morto il fratello, e forse prima, o in quel punto e in quella ora, diede ordine a messer Guido Del Caccia gonfaloniere, che facesse dare la caccia a costui, e preso, lo facesse custodire in lato iscampabile; talchè data rigida commissione al Cagnaccio principale, che con insolenti cani andanti alla presa dell’uomo lo rabburchiasse, fu carpito in casa, onde gli disse: — «Siete prigione del granduca.» — «Del granduca prigione io sono sempre» (rispose). — Al che con sinistra e soprastante maniera lo garrì dicendo: — «Havete ad essere prigione dadovero.» — Scandalizzossi il signore Piero Lorenzo, e disse: — «Prigione io, ministro di Sua Altezza? voglio vedere il mandato, e suo chirografo.» Ed esclamando — io protesto, io ti farò, io ti dirò, — lascia pure minacciare e bravare a lui! Intanto ei lo afferrò per un braccio, e fattolo muovere lo condusse al buio presso di Bora, e forse peggio, avendo ad essere giudicato delle tante querele, misfatti, e male opere da messere Lorenzo Osimbardi, successore in suo luogo; ciò ch’è stato caro, et ha piaciuto a tutta la gente.

»Ora l’altra sera dopo la morte, il cadavere del Grande Etrusco fu portato in lettiga con la guardia del signor Piero Antonio dei Bardi con 200 torcie bravissimamente portate da uomini di arme, e stefaniani, e uomini di corte, fino alla porta della città, e a quella di S. Lorenzo con gli stangoni in ispalla dei cavalieri, e dei cortigiani; e la seguente sera fu portato il cadavere della Bianca con assai meno caterva, 20 torcie sole, alla semplice, alla pura, alla solinga, et abietta bene. Il cadavere del granduca si vide con la corona, e così stette fino all’avello. Il Buontalenti domandò se doveva lasciarsi vedere la Bianca, e incoronata; gli fu risposto: che si era vista, e che aveva portato la corona pure assai; e instando egli, dove si avesse a seppellire, gli fu risposto: dove volete voi; al che replicando, fu risposto interzando: dove volete voi: non la vogliamo fra i nostri. Onde involta in un lenzuolo fu alla rinfusa gittata nel carnaio, ch’è la tomba maggiore generale alla plebe. Per lo innanzi ambedue i cadaveri furono aperti, e mi accertarono maestro Baccio Baldini, e maestro Leopoldo Carlini da Barga, essere stato nelle interiora dell’uno e dell’altro la medesima simpatia di malore: come di corruzione di fegato e polmone, di trista abitudine, di panniccoli nello stomaco, e mal colore di arnioni; se non che nel cadavere della donna fu gran copia di acqua, comecchè infetta da due anni in dietro d’idropisia: e queste combinazioni di morte accostatesi insieme nello spazio di 11 o 12 ore, siccome da prima in altrettanto si ammalarono, hanno fatto credere allo ignaro volgo e alla rozza gente di collegazione di spiriti, e a me hanno fatto sovvenire dell’antica commedia di Plauto intitolata Commorientes, e degli due Plantuomini di... che in Venere obiere. Alcuni altri imburiassati da popolaresche voci hanno creduto che, siccome risuona di fuori il grido da più bande, che sieno morti di veleno, ma sono baie; chè fu di natura. Et in vero, egli è stato un atto di commedia in iscena comparso bene, molto presto finito in doppia tragedia; in somma abbiali fatti uscire di vita o il medico, o Dio, io la intendo a mio modo.

»Con la sopraintendenza del cardinale di Firenze il nobile Bernardo Vecchietto, il ...... Ricasoli, Bernardo Buontalenti, e messer Francesco Lenzoni, hanno ad attendere alle cure dell’esequie, le quali si processioneranno alli 15 decembre del presente anno.

Qui sembra che la Lettera termini, e sia stata ripresa assai dopo, perchè continua con queste parole:

»Gianvettorio, come di sopra si può leggere, ha narrato la vita del granduca Francesco, i disordini che fece nella vita, la causa della malattia, e così della moglie, e della morte dell’uno e dell’altra. Ora narrerà succintamente l’ordine dell’esequie, delle quali per non essere tedioso descriverà solo quello che sostanzialmente gli parrà da tenere conto, e lascerà stare la borra, e però dice:

»Che si partirono dal palazzo granducale con 6 trombetti muti a cavallo: era il palazzo parato di nero, e nel cortile il cataletto entrovi la effigie del granduca con la corona, e così era portato in San Lorenzo dove avevano destinato i posti ai magistrati, agli ambasciatori dei principi, e a quelli delle comunità. Messere Pietro Angioli da Barga fece la orazione funerale, dopo che fu entrato il cataletto col cadavere finto, la quale fu tenuta dotta, elegante e breve, in latino, dandogli quelle laudi che si potevano e convenivano a lui, biasimando i ministri cattivi i quali offuscarono in buona parte il buono animo e il governo suo, siccome interviene e interverrà sempre a tutti i principi che troppo si fidano dei loro ministri, i quali per lo più sono furfanti, e mercenarj, e però sarà bene avere loro l’occhio e l’orecchio alle mani; e che del dolore che si ebbe della perdita di tanto principe se ne afflisse inconsolabilmente il popolo, se non lo confortava la successione del fratello, dal quale si deve sperare una vita gioconda e felicissima, con quelle altre adulazioni convenienti ad un Oratore, che ha da lodare una cosa. Vi furono 11 vescovi. Del baldacchino che gli fu portato, non istarò a dire come fosse, nè manco del panno ch’era sopra il catafalco, ch’era tutto di broccato di oro con frange: napponi di oro ricchissimi, e le imprese e i ricami ricchissimi: 80 cavalieri con quelli del baldacchino che lo portavano, e 80 nobili a cavallo gramagliosi, andavano per le strade per far cansare gl’impedimenti, e andare ognuno in regola; alla porta vi erano 8 gigantesse di carta di chiaro scuro, tra le quali una sola sendovi, per essere morte, femmina, stima che significasse la Bianca quegli che scrive, non vi avendo ad essere altro simbolo che potesse denotare colei. Erano in San Lorenzo gli scudi delle 16 città tutti posti in fila in testa; e dai lati del coro eravi la sua andata a Genova quando vi venne il re Filippo, sendo esso principe di poca età; vi era ancora quando andò allo imperatore per la moglie Giovanna di Austria regina nata, quando s’impadronisce dello Stato, e che i Cappucci lo riveriscono rendendogli la obbedienza; la macchina di Pratolino, l’addirizzamento dell’Arno, il porto et accrescimento di Livorno, le fazioni fatte dalle sue galere co’ Turchi, e altre fatte da lui quando andò al Poggio, vivo, e tutto vigoroso. Era il catafalco alto braccia 32, e sotto esso catafalco fu fino a 3,500 tra torcie e fiaccole per la chiesa, e su esso catafalco posto il baldacchino di tela di oro nera, e sotto il baldacchino il simulato corpo. Alle orazioni e preci della messa grande, celebrata dal cardinale di Firenze, assisteva tutto il clero. La chiesa parata tutta, e archi, e colonne di rasce bianche e nere, intramezzate con più sorte di motti. Il viaggio fu di piazza dai Gondi per la via del Palagio a S. Croce, al ponte Rubaconte, per la via dei Bardi, per la via dei Guicciardini, a San Felice in Piazza, per via Maggio, per il Ponte a Santa Trinita dall’Antinori, al canto dei Carnesecchi, dai fondamenti del Duomo, e voltando dalla via dei Servi, dai Pucci, dai Medici, a San Lorenzo, processionarono 7225 passi in 5 ore. Innanzi al feretro andarono tutte le regole di frati, preti, canonici, vescovi, arcivescovi, la guardia dei Tedeschi col capitano armato a cavallo, ed essi tutti a negro rivestiti; 82 uomini d’arme, 250 cavalleggieri, 270 cavalieri con il loro abito lungo, 29 capitani, e tra essi 45 prigioni, e tutto a bruno con le insegne basse, archibusi sotto il braccio, e bandiere strascinate; 6 stendardi grandi di città principali, uno dei cavalieri di S. Stefano, portati a cavallo da persone nobili vestite di abito lungo di velluto dovizioso, e quello di mare portato a piedi; e arrivati che furono alla porta della chiesa, li riceverono sei nobili, e li portarono diritti intorno al catafalco per piantarli dentro a certi zoccoli fatti di terra, i quali, insieme a tutti gli altri abbigliamenti, rimasero alla chiesa. Dietro andarono i magistrati, la corte, i signori, i conti raccomandati, ambasciatori delle comunità e città, collegi di dottori di leggi, e di medicina, e studj, e la famiglia dei Medici. Seguirono appresso a tutti questi gramagliosi come gli altri di abito lungo, ma maggiore strascico per il gran bruno, 100 imbacuccati, 10 cavalli coperti di velluto nero, con amplissimi e potentissimi strascichi sostenuti da 60 giovani; le sue armi, cimieri, cornetta, stocco, zagaglia e la sopracoverta delle armi ricamata di oro furono portate a cavallo dai paggi, e con loro 17 baldacchini delle arti con drappelloni nuovi portati bassi, terragnioli, bandiere, e bandieruole portate ugualmente chine, e attorno la sembianza del morto da una banda e dall’altra. Nè può celebrarsi con quanta allegria e frequenza di popoli, che non saranno mai nozze o feste viste, e fatte così con tanta splendidezza, che ombreggiarono quelle dello invittissimo Carlo V ordinate e consumate a Brusselles, nelle quali si rappresentò andante la nave Magellana che fece il giro del mondo; e quelle di Giovanni Galeazzo Maria Visconti, che durarono 18 ore a passare, e vi furono 3000 torcie accese; e quelle del duca Alfonso di Ferrara, che per la copia grandissima di lumi fecero l’alluminatissima notte apparire limpidissimo giorno.

»Le doglienze agli re ed ai principi furono queste:

»Il sig. Ciro Alidori da Castel Rio allo Imperatore, in Sassonia e in Pollonia. Il sig. Giovanni Vincenzo Vitelli in Ispagna al re Filippo, con istruzione di raffermamento di collegazione, e di amicizia, e di servitù; e più appresso la SS. R. M. C., affinchè abbia moglie che possa essere per lui, benchè i più stimino, che per trapassare il negozio con più reputazione sposerà prima don Pietro. Il sig. Giovanni Niccolini a Roma. Il sig. Razio dal Monte in Francia col notaro a cintola il Paccalli per accomodare a modo della regina la vertenza che pende tra loro sopra il Poggio a Cajano di acconcimi, miglioramenti, ed altre pretensioni, e cacciarvi dentro 10,000 scudi prestati già al re nella scappata che fe già di Pollonia. Il sig. Rutilio Montalvo a Mantova. Il sig. Luigi Andonara a Venezia; duro et aspro ginepreto fare scilome a quei Magistrati, per dare loro ad intendere che non si sia beuto, ond’ei parlò così piano in Pregai, che appena fu sentito, sicchè dal segretario maggiore venne presa scritta la orazione, e poi gli rispose, ed egli riuscì acconciamente. Il sig. Emilio Pucci andò a Napoli, Sicilia, e Malta. Il sig. Luca Vaina in Baviera, e in Allemagna. Il sig. Alfonso Appiano d’Arragona a Ferrara. Il conte Bevilacqua ed il sig. Adriano Tassoni al duca di Urbino. Il sig. Matteo Bolli in Savoia, il quale non potè passare la Magra allora grossissima di acqua, ed essendosi abbattuto con tre dei suoi in un tal sergente della banda di quei paesi, con parole di orgoglio e presunzione, contendè perchè lo facessero passare a ogni modo, e lo trattò di villano. Il sergente, adunata la sua gente, lo aspettò poco dopo sopra la strada di Lerici, e a mano armata pose lui e tutti i suoi in pericoloso stato, per il che lo Standera con parole pacificatorie, spintosi innanzi alla volta sua, quietamente e posatamente dimostrò con buone ragioni al sergente, che per essere il sig. Matteo persona pubblica, dependente da principe di potenza grande vicino ai suoi signori similmente potenti, non volesse essere cagione di risse tra loro, con danno che ne verrebbe alla guerra contro ai Saracini comuni nemici. A così fatta persuasione sedossi lo scandaloso tumulto, del quale poi dolutosene a Genova n’ebbero gli aggressori notabile punizione, ma il sergente si dileguò. Il sig. Giulio Ricasoli a Massa, a Lucca, e a Genova; ma arrivato a Sarzana lo raggiunse il corriere speditogli dietro dal cardinale, con ordine che non passasse più innanzi, imperciocchè avea avuto certezza di là, che non volendo dargli del Serenissimo non arebbe udienza, onde se ne tornò subito indietro. Il conte Germanico Ercolani ed io siamo stati destinati per costà al Serenissimo di Parma, ma io ho voluto satisfare all’animo mio, lasciando il carico di tutto al conte, non avendo voluto disconciarmi della persona a così lungo viaggio per conto di morti tanto poco amati, niente apprezzati, meno dolsuti, e punto pianti.

»Intanto il cardinale duca è tale da fare stare in cervello ogni papa, e si crede che non si smantellerà presto i panni che ha indosso, servendosi della porpora fino al primo conclave, del quale essendogli per legge e per bolle vietato lo introito, come privato potrà, se non fare un papa a suo modo, ammogliare almeno don Pietro con quella di Gardona, o altra, e procurare schiatta successora. Alcuni altri hanno opinione, che conoscendo egli benissimo che la felicità consiste in sapere, potere, volere, e avere in tutti i modi, sia per adoperare la mestola che gli è capitata nelle mani, e che gli hanno insegnato ad usare come conviene, et esercitare il grado che ha, attendendo a rassettare le cose guaste.

»Ha ordinato riformatori della corte l’arcivescovo di Pisa, e il vescovo Masi, che l’acconcino alla Borgognona, e alla grande di Spagna. Maiordomo maggiore, sotto maiordomo maggiore, maestro di casa, e sotto maestro di casa, maestro di camera, e sotto maestro di camera, maestro di sala, e cavallerizzo maggiore, il quale ha dato al sig. Giovanni Vincenzo Vitelli. Gridò a testa delle candele gialle che vide accese sopra la credenza di argento, dicendo che le vuole bianche a tutti i servigi palatini, e aggiunse che non vuole essere ceraiuolo, nè calzolaio, nè compratore di gioie, nè di corame, nè tornitore, nè tagliatore di pietre, nè bicchieraio, nè stovigliaio, nè alchimista........ A Gian Bologna di Doagio, che gli spiegò lo intenso animo suo dì voler fare un cavallo di getto, maggiore per ogni verso un terzo di braccio di quello di Roma, da collocarsi sulla piazza della Dogana, dirimpetto alla Dogana, domandandolo quanto voleva per principiarlo, — rispose: 600 scudi: — al che disse: o cuore pusillo! — Ha ordinato dispensarsi danari ai mendicanti e ai prigioni: altri si liberino. La moglie di Piero Ridolfi studia la rettorica del Cavalcanti per fare uscire ambasciatore il suo marito. — Il popolo vuole supplicare per la reddizione e diminuzione della metà della paglia e delle farine, e che si levi in tutto e per tutto la gabella del ceci molli, della carne per i gatti, trippe, peducci, zampe, budella, il dazio che si paga per l’aere, per la stesa delle tende di mercato vecchio e muricciuoli quivi et altrove, segni delle stadere, tassa delle osterie, piombi ai fiaschi, segnatura di barili, gabella di bestie e legnami, carlini di teste e grossi nuovi, lire del contado, calde arrosto, lupini dolci, e tutte sorte di civaie, aranci, cedri, limoni, lastricature di strade; e sarà facile, perchè di simili aggraviuzzi non ne tiene conto alcuno.

»Il sig. Alfonso Piccolomini, cugino di VS. Illustrissima, farà impiccare come lo abbia nelle mani, e lo disse da per se nella presa del Lazzeri, del quale è fuora la composizione, che dice:

Già si è fatta vendetta
Della carrozza Alcedema già detta.
Gli amici dei cavalli havuto han bando;
Ma per Lazzeri quando?
Io non pensai giammai udir quell’ora
Che il Boia dica: Lazzeri, vien fuora:
Allor potrò cantare in larga vena,
Zeffiro spira, e il bel tempo rimena.

»Gli ha dato un giudice delegato di fuori di qua, perchè non si palesino le sue azioni, tra le quali se vi fosse mescolamento dei suoi affari si sopprimerebbero, nè si saprebbe cosa, che di ciò sia.

»Ha fermo a nome di segretari il cav. Antonio Serguidi, il cav. Belisario Vinta, e P. Paolo Corboli, ma l’effetto principale è della nuova riforma della Segreteria nella guardia delle terre, città, e borghi. L’Usimbardi è più che mai in favore del suo padrone, e come capo di tutti i segretari della pratica segreta, e sopra il dare degli uffizj, dei quali Pietro Conti rimane Cancelliere per tenerne la lista, riscontrarli col quadernuccio, e non altro; per la quale è stato dato fuori una Caterina, che dice:

Caterina tu non guardi,
E’ governa l’Usimbardi;
E se punto tu ti fidi
Farà peggio del Serguidi.

»A Benedetto Uguccioni ha ordinato si rivedano i conti, e che quando comanda i lavori abbia rispetto e discrezione pei poveri. Assai temono la cassazione, ad assai più ha detto che stieno di buono animo, e sperino bene, promettendo farsi loro protettore. Dei vecchi servitori del fratello, paggi ordinarj, paggi neri, lance spezzate, scudieri, cortigiani e uffiziali, saranno cassi e licenziati sino alla somma di scudi 20,000 l’anno; molti capitani delle bande saranno mutati, e ferme nuove lance spezzate, e nuovo ordine fatto di archibusieri a cavallo, come moltiplicato il numero dei Tedeschi a guardia della sua persona. E com’è di dovere, vuole principalmente servirsi di quelli che condusse di Roma fino a 300 bocche, i quali innanzi tutti conviene rimeritare, e beneficare come ha fatto. I danari lasciati da suo fratello ai servitori ha ripartito tra i più meritevoli a uguali porzioni, ad alcuni ha raffermo la provvisione, e che non servano. Ha ordinato rimettersi a don Pietro, liberalissimo e magnanimo signore, 10,000 scudi al mese con gli interessi, comportando così la ragione di stato, per non palesare o toccare i tesori della cassa palatina.

»Fa professione di benigno, piacevole e cortese signore, e similmente di gratitudine, e di beneficare chi gli è stato servigiato, tra i quali si può vedere che sia, con speranza di molto merito, Riccardo Riccardi, che ricercato di entrargli mallevadore a Giovanni Battista Michelozzi, gli prestò egli stesso 18,000 scudi. E questo avvenne perchè al Michelozzi non bastava lui solo per mallevadore, ma voleva bensì tutti tre i fratelli, onde egli sdegnato e preso dal puntiglio, volle dimostrare di avergli egli solo, e contolli l’uno sull’altro; perchè l’onore e l’ambizione, che non possono far fare agli uomini? Al conte Ulisse, e alla moglie per antica affezione, ha concesso abitare il casino, ma non ci sverneranno, secondo si crede, perchè vi si riparerà don Antonio, al quale, essendo indisposto, messere Andrea Albertan negò, quantunque richiesto, la pietra belzuar, allegando che Bernardo speziale ne aveva, e che andasse a quello, e ciò per fuggire le taccie che falsamente gli avevano cacciato fuori le sciocche lingue intorno alla morte del granduca e della granduchessa. Ognuno afferma essere stata cosa importante ch’ei non abbia 10 anni meno, perchè altrimenti saria stato troppo portato verso le donne, sebbene alcuni pretendano che si muta la persona, ma non le voglie......... A don Filippo, spedalingo di Santa Maria Nuova, vuole si rivedano i conti; intanto gli ha fatto ritornare scudi 11,000 per completare il prezzo di 18 poderi contermini a Pratolino, che dallo Uguccione e Buommattei furono stimati scudi 30,000.

»Asdrubale Cliva, fatto prigione a Roma a istanza sua, è stato condotto in queste carceri per dare conto delle tante querele appostegli conforme dice la profezia in rima:

Asdrubalaccio tosto
Dolgasi, che per lui la sorte varia,
Che trar gli farà un dì dei calci in aria.

»Similmente, con ogni studio e autorità, ha dato ordine che si spengano e dissipino ovunque sono gli assassini e banditi. Ha fatto il cavaliere Beccheria capo e persecutore loro con sufficiente numero di satelliti birreggianti secondo il bisogno.

»Ora il popolo minuto per avergli corso dattorno, e gridato: palle, palle, e duca, duca, pensa ch’ei sia diventato tutta una pasta con lui, e spera che Arno e Arbia abbiano a correre savore, e non solamente savore, ma sapa dolce, e mostarda fine, anzi salsa reale: così ognuno fruga e rifruga, mesta e rimesta, si spinge innanzi, si ringalluzza, e si fa forte. Io ho fatto dipingere un gatto soriano, con gli occhi di topazzi sfavillanti, con un motto, che gli esce dal c... di fra le zampe, e che dice: in tenebris lucet.

»È stato pure dipinto un sole incoronato con cappello ed arme, e alcuni vi hanno scritto sotto: custos, et causa salutis; dulce decus nostrum; altri: laborum dulce lenimen; ed altri finalmente: instar operum pretiose.

»Fino a questo oggi gli sono state porte 2000 supplicazioni, le quali tutte si sperano graziate coll'ita est concedesi, e non come quelle del defunto duca, che avendo supplicato alla Divina Maestà di volere cambiare vita obbligandosi a trattare bene, contro il solito suo, i bambini, le balie, e la brigata, fu rimessa la informazione al protettore nostro San Giovanbattista, et ebbe un rescritto: — si rimette agli ordini di Giustizia; — onde infiniti versi sono stati appiccati in vari luoghi, dei quali i più notabili che sieno apparsi e veduti, sono questi:

Medicea stirpe, del ben fare ignuda,
Di sudore e di fame al mondo nata;
Tanto in te stessa, quanto in altri cruda,
E del comun languir fatta beata,
Finchè in te stessa alma gentile intruda,
Che in Francia, Spagna, e Fiandra si dilata;
Lupa, Lion, sotto di Pietro il manto
Cangerai alfine in riso il lungo pianto.

»E prima era divulgato il seguente sonetto:

Nol so se sia del Ciel destino, o fato,
Che Firenze in tal modo è fatto inferno,
Sendo ridotto a così rio governo,
Che ciascun piange come disperato.
Hanno gli empj al maggior gli occhi bendato.
Fa seppellirsi, Dio giusto ed eterno!
Co’ loro inganni giù nel basso Averno,
E pon miglior ministri in ciascun lato.
Pietro gli uffici incanta e l’Uguccione,
Ti rinnegar con la sua propria voce,
Il Troscia, il Giovannaccio col Cappone;
Carlo Napoleon, che ai banchier nuoce,
Filippo Alberto il negro uccel briccone,
Che i tristi assolve, e i giusti mette in croce.

»E della Bianca:

Qui giace in un avel pien di malie
E pien di vizj, la Bianca Cappella,
Bagascia, strega, maliarda e fella.
Che sempre favorì furfanti e spie.

»e di più:

In questa tomba, in questa oscura buca,
Ch’è fossa a quei che non han sepoltura,
Opra d’incanti, e di malie fattura,
Giace la Bianca moglie del Granduca.

»Il sig. Orazio Rucellai mio biscompare gli trattò dell’arcivescovo di Pisa! affinchè tra tanto dolce non fosse mescolato un po’ di amarore; ma egli assicurollo dicendo, ch’egli era qua per suoi particolari negozj, e non per altre faccende; ma si vede bene che l’arcivescovo mesta tutto, onde è stato scritto, e divulgato così:

Di grazia, Serenissimo Signore,
Fate mercede a tutto il popol grata,
Prendete una granata,
Cacciate l’Uguccione col Corsino,
L’Antella, il Troscia e il Conte in un cantone;
E quello ippocritone
Arcifiscal pisano
Tenetevel lontano,
Chè ognuno ha gran timore
Che non vi faccia infiscalare il cuore,
Perchè egli è tanto tristo,
Che faria diventar cattivo Cristo.

»E il prelodato mio biscompare ricordògli, che la più importante cosa che si appartenga e che si desideri da un principe, si è che stia in grazia di Dio, cerchi con ogni studio mantenersi la sanità e la benevolenza delle persone, più appresso conosca che negli uomini, quantunque per molte parti perfetti, pure andare sottoposti a varie imperfezioni, tra le quali deve annoverarsi quel desio di cui ciascuno è punto, ansio e anelante, cioè la vendetta in cui sta volto con ogni studio, e con ogni arte, e con ogni pensiero, nè può vivere, nè può stare, non trova posa o quiete, e sempre cerca farla, e continuamente pensa, e si stimola in essa; allo incontro poi ricevuto il benefizio, tosto anzi subito se lo dimentica, non ha punto pensiero, nè si rammemora di chi gli ha fatto servizio, lo fugge, lo declina, e se crede trovarlo lo scansa. Dovere l’uomo prode essere più pronto a rimunerare chi gli è stato benefattore, che alla vendetta, e alla ira. Ciò essere parte di principe generoso e magnanimo, e così facendo essergli per avvenire sempre bene, e moltiplicare nelle felicità per se, e per i suoi. — E più appresso, dovere avere innanzi lo scritto degli Spiriti Volterrani, che dice: — chi ha in odio la ingratitudine non faccia servizj, imperciocchè egli sempre incapperà in essa; — ma ciò non doverlo trattenere punto, perchè il principe quando ha fatto il bene è contento per se, e poi giovando a uno si contentano molti per lo esempio, o per la speranza. Inoltre, che avesse sempre in mente lo scritto a Santa Croce del Barberino: frustra habet, qui non utitur; e poichè anche quivi è scritto, che il mondo si regge con le opinioni, cercare di conformarsi nelle sue opinioni con le migliori, e oltre a ciò porsi davanti gli occhi la gran buona mente di Samadio re, il quale diceva intendere a ragunare tesori per istrascinarsene dietro le some cariche, per darne a quanti bisognosi incontrasse, e poi rifarsi da capo, affermando il Principe essere un Giove per tutti onde giovare a ognuno, e più che per altro per questo doversi reputare uguale a Dio; finalmente il principe avere a fuggire tutti i ministri, i quali per proprio conto abbiano affetti particolari, e passioni di loro comodo, utile e interesse.

»E così speriamo che la porchetta nuoti, il mondo vada in guazzetto, in candito e in gelatina. Fiorentini e Romani corrono la cavallina; Orsini, Mattei, Cecchi, Menichelli, marchese d’Ariano, monsignore del Monte, Titta, Arragonia, ed alcuno di loro gli è commensale continuo. — Se non che monsignore del Monte, non si volendo contentare, si è ridotto a mangiare solo con don Virginio, e gli è stato ordinata stanza separata, servimenti e vivande da principe.

»Monsignore S. Galletto è comparso tra i primi per S. S. a dargli dell’altezza, e del serenissimo, visitando il più potente e ricco cardinale che mai abbiano creato, perchè il cardinale di Portogallo fu reggente, non re; — vi sarebbe Gastone se fosse eletto re di Pollonia, ma si afferma dicerto che sarà eletto quello di Svezia, se la vittoria del combatterlo stando nella vittoria delle armi, non inchini a Massimiliano.

»I mandati, o lettere ai Cardinali, non sono mancate, tra i quali a Gioiosa, e a Farnese, ma più per ironia, che per altro:

Correte, forestieri e terrazzani,
Dacchè il granduca nostro Cardinale
I fegatelli lancia in bocca ai cani.

»Ed è corsa ancora una Caterina, che dice:

Caterina, gatti, gatti,
Assai ciance, e pochi fatti.

»Il cittadino è rimesso; gli amici sono diventati servitori, i servitori schiavi. I forestieri sopra tutti gli altri graditi, e antesignani.

»Il granduca attende a terminare tutti i lavori incominciati dal fratello, tanto di fabbriche, quanto di uffizj manuali, e anzichè no accresce, avendo preposto a tutti il signore Emilio Cavalieri signore di virtù, d’ingegno, e d’invenzione rara; come addrizzare Arno in canale, condurre in piazza l’acqua di Montereggi, finire il Palazzo, alzandolo dietro secondo l’architettura dell’Ammannato; levare la Dogana, e appianando case allargarsi dalla piazza del Grano, edificare quivi grandi logge, e, sopra, granai pubblici; rafforzare gli Uffizj rimettendo sotto gli architravi, colonne doppie in coppia vicine, levando quelle di pietra serena, finire la Galleria dall’altra banda, e farne rigirare intorno delle altre unite a quella per tutta la piazza granducale, e rigirando dal Sole rientrare sopra la Dogana in palazzo. Ha in animo di edificare un ospedale pei convalescenti. Dove aveva ad albergare la Sapienza ora alloggia la bestialità, e vi crescono le stalle alla barba di Niccolò da Vagliano, che ciò prevedere non potè, e dietro a se nell’orto fare un memorabile Semplicista. Vuol fare terminare il palazzo Pitti, e in mezzo della piazza pendente fare trasportare la gran pila elbigna, e similmente mettere mano a rizzare la colonna giacente di S. Marco, e dove si può abbellire et ornare la città, farlo. Gli è dispiaciuto notabilmente il disfacimento della facciata del Duomo, e per riordinarla a modo vi fa invigilare sopra il cavaliere Pacciotto con altri architetti. Ha fantasia d’ingrandire e illustrare il palazzo dell’Ambrogiana, dove avendo compro un podere, ha donato al venditore sopra la stima fatta Sc. 300. Usò liberalità con aver dato elemosina ai poveri, e, mancata la provvisione ai contadini, li sovvenne del suo. A quattro, trovati a pescare in bandita, fattisigli venire innanzi, volle sapere chi fosse stato il primo a spogliarsi per pescare, e intesolo, diede a questo 4 scudi, e agli altri uno per uno, minacciando loro per la seconda volta la cavezza. Fatte l’esequie, alle quali egli non intervenne, ma le stette a vedere circa a mezzo corridore per una gelosia, dacchè i cardinali non vanno mai ai morti, se non ai papi, aspettiamo qualche amorevolezza giovevole per molte cose proprie e particolari, almeno quando riceverà la Gran Croce di Gran Maestro, o alle nozze; ma aggravj di momento per ora non si tolgono, e le imposizioni importanti si mantengono. Levò ancora il dazio delle stufe, del legname della Opera, e si crede che così si farà del corame, e di altre piccole cosette di non molta rilevanza, o acconcio. Quanto al Governo, Marco Tullio Cicerone lasciò scritto ogni uomo sapere bene incominciare, la importanza essere nel perseverare, e più nell’ottimamente finire. Ultimamente deve VS. Ill. sapere che ogni nuova granata spazza bene sempre, e netta lindamente la casa da prima. Io per me faccio conto che dove prima mi conveniva portare, e andar carico di una soma di acqua, d’ora in poi sarà greco, lagrima, o chiarello, ma sempre a soma, e da asino; e qui ricordando a VS. Ill. ch’Ella non è per essere così pronta a comandare a me, ch’io non sia altrettanto e più sollecito a servire lei, le bacio le mani di cuore, e me le raccomando ec.»

[64]

MS. Capponi.

[65]
La età di nostra madre mi percuote
Di pietà il core, che da tutti a un tratto
Senza infamia lasciata esser non puote.
 
Ariosto, Satira I.
[66]

L’Ariosto era comunissimo in Italia in quei tempi; adesso nelle campagne ne conoscono appena il nome. Montaigne, che viaggiava la Italia nei tempi del granduca Francesco, scrive nel Tomo III dei suoi Viaggi, p. 172: «Considerai tre cose: di vedere la gente di queste bande lavorare, chi a batter grano, o acconciarlo, chi a cucire, a filare, la festa di Domenica. La seconda, di veder questi contadini il liuto alla mano, e fino alle pastorelle l’Ariosto in bocca. Questo si vede in tutta la Italia. La terza, di veder come lasciano sul campo dieci, e quindici, e più giorni il grano segato, senza paura del vicino.» — Pare che a quei tempi i Francesi fossero più ladri di noi....

[67]

Poliziano, Canzone nella raccolta del Padre Affò.

[68]
Mettigli l’ale, è un angiolel di amore.
 
Perticari
[69]

S. Matteo, Cap. V, 3.

[70]

Genesi, Cap. II, 17.

[71]
Porrum et cæpe nefas violare et frangere morsu
O sanctas gentes quibus hæc nascuntur in hortis
Numina!
 
Giovenale, Satira 15.
[72]

Aasvero, è fama fosse un giudeo, che a Cristo ascendente sul Golgota negò un poco di acqua per dissetarsi, ed impedì che alla ombra della sua casa alquanto si confortasse; quindi fu condannato a vagare sempre avvilito e maledetto. Questa leggenda, comunissima in Germania, contiene, come ognuno vede, un mito. Edgard Quinet sopra questa leggenda ha costruito un dramma, i personaggi del quale sono sfingi, venti, trofei di arme, rovine, fiumi, e perfino l’Oceano. In mezzo a tante e tanto immani stranezze, io non vorrei negare che cotesto dramma non contenga parti nobilissime di stupenda poesia.

[73]
State contente, umane genti, al quia;
Chè se potuto aveste veder tutto,
Mestier non era partorir Maria.
 
Dante.
[74]

E questo leggiamo non solo che avvenga ancora di presente presso taluni popoli della Oceania, ma anticamente avveniva presso i Trogloditi, ed altre nazioni, come ce ne fanno testimonianza Eliano, Diodoro, e Strabone nel lib. 12, e specialmente Agatirchide nelle Storie, fram. de’ Trogloditi; loro vitto, circoncisione, funerali ec.

[75]

Clapperton, Viaggi nell’interno dell’Affrica.

[76]

Egli è concetto tolto dal famoso epitaffio che fece a sè stesso Beniamino Franklin:

Il corpo
di
Beniamino Franklin
Somigliante alla coperta di un libro vecchio
Da cui siensi staccati i fogli
E la doratura e il titolo cancellati
Qui giace
Pastura dei vermi
Contuttociò
L’opera non sarà perduta
Avvegnachè com’egli credeva
Ricomparirà
In una nuova e più bella edizione
Riveduta e corretta
Dall’Autore.

Vita di Franklin, p. 253.

[77]

Achille della Volta dette in Roma delle pugnalate allo Aretino, per cui ne andò stroppiato di un braccio per tutta la vita. In proposito di questa avventura il Berni nel sonetto contro Pietro Aretino scriveva:

Tu ne farai tante e tante
Lingua fradicia, sciocca e senza sale,
Che alfin si troverà pure un pugnale
Miglior di quel di Achille, e più calzante.
Il papa è papa, e tu sei un furfante ec.

Tintoretto sentendo come lo Aretino con ogni maniera di maldicenza lo straziasse, un giorno che lo trovò presso alla sua bottega, con bel garbo lo invitò a entrare per vedere certi suoi dipinti: andò l’Aretino, e il Tintoretto messe prima la spranga per di dentro, poi senza profferire parola fattosi ad un armario ne trasse un pistolese, o mezza spada, e recatasela ignuda nelle mani, si mosse incontra con mal piglio allo Aretino. «Ahimè! Tonio, esclamava tremante Pietro, che cosa intendereste di fare voi? Guardate da lasciarvi prendere dalla tentazione del demonio! Voi mi ammazzereste senza sacramenti... come... un cane...» — Ma Tintoretto sempre innanzi, e venutogli al fianco, lui, che non aveva membro che stesse fermo, misurò col pistolese, e quando lo conobbe prossimo a lasciare gli spiriti, sempre torbo in vista gli disse: — «Non temete di nulla, messer Piero; siccome mi venne vaghezza farvi il ritratto, ho voluto prendervi la misura: potete andare; voi siete tre pistolesi e mezzo per l’appunto.» — E apertogli l’uscio, lo licenziò. Da quel momento l’Aretino disse sempre bene del Tintoretto. L’Aretino essendo stato pur troppo intrinsecissimo del sig. Giovanni delle bande nere, continuò la sua servitù col granduca Cosimo suo figliuolo, dal quale spesso riceveva presenti, come ricaviamo dalle sue lettere; però mostrandosi avverso a messer Piero Strozzi nel tempo della guerra di Siena, compose in suo dileggio un sonetto piacevolissimo il quale incomincia:

E Piero Strozzi armavirumquecano ec.

Piero lo fece avvertire che portasse l’olio santo in tasca, perchè ad ogni modo voleva farlo ammazzare, anche nel letto; per lo che sbigottito l’Aretino durò qualche anno a non uscire più di casa. Non posso por fine a questa nota senza ricordare gli epitaffi, o epigrammi, nel vero significato della parola (dacchè per epigrammi intendevano gli antichi le iscrizioni funerarie piene di contumelie composte pei vivi), che si ricambiarono Paolo Giovio e Pietro Aretino. Il Giovio dettò:

Qui giace l’Aretin, poeta tosco:
Di tutti disse mal, fuorchè di Cristo,
Scusandosi col dir: non lo conosco.

E l’Aretino di rimando:

Qui giace il Giovio, storicone altissimo:
Di tutti disse mal, fuorchè dell’asino,
Scusandosi col dire: egli è mio prossimo.
[78]

Di questo sviscerato amore dell’Aretino per le sue figliuole ne fanno fede le sue lettere.

[79]

È fama che l’Aretino, stando a sedere, e dondolandosi sopra i piedi di dietro della seggiola, udendo certi biechi atti delle sue sorelle, preso da riso smoderato perdesse lo equilibrio, e caduto supino percuotendo del capo sopra il pavimento rimanesse morto. Anche il Berni nel sonetto citato gli rinfaccia la mala vita delle sue sorelle meretrici nel bordello di Venezia.

[80]

Novella 137.

[81]

Satira VII.

[82]

Paucæ fidei, quare dubitasti? (S. Matteo.)

[83]

Morbio, Storia dei Municipj italiani.

[84]

Fu accennato altrove, e si riporta nella edizione del Reggimento delle Repubbliche di Fra Girolamo Savonarola, fatta a Pisa dai Caparro, in principio.

[85]

Favole.

[86]

Legge crudele contro alle congiure e ai banditi, pubblicata sotto Cosimo I, e dal nome del suo autore Spolverini chiamata così. Galluzzi, Storia del Granducato.

[87]

Gli obelischi erano inalzati al Sole. In Ammiano Marcellino si leggono tradotte in latino le iscrizioni dedicatorie al Sole del grande obelisco di Roma.

[88]

Eliano, Storie varie.

[89]

Petrarca.

[90]

Il signor Prof. Giuseppe Arcangeli, persona dotta e proba, si compiacque dettare sopra il personaggio del Padre Marcello il commento seguente, che pubblichiamo ad istanza del signor F.-D. Guerrazzi, desideroso di mostrare in questo modo il conto ch’ei fa delle qualità intellettuali e molto più morali del signor Prof. Gius, Arcangeli.

L’Editore.

Il Padre Marcello, o più comunemente Marcellino, fu così chiamato, come i Frati costumano, da San Marcello sua patria: ma alla Religione il suo vero nome fu quello di Evangelista, ed al secolo di Lorenzo. Nacque d’Adamo e d’Agata Gerbi, nella suddetta Terra, capo-luogo della montagna pistoiese, nel 1530, anno fatale alla Repubblica di Firenze. Questa famiglia Gerbi pare che fosse fra le potenti della Terra: perocchè leggo nella Cronaca del capitano Domenico Cini come fino dal 1488 seguitando la parte dei Cancellieri era venuta a fieri scontri coi Calestrini seguaci della Panciatica; tantochè i Fiorentini deliberarono per l’amor della pace di bandire i capi delle famiglie rivali co’ più animosi de’ lor consorti. Ma pensando dall’altro lato che il cacciare le due parti avrebbe spopolato la Terra, vollero che il bando fosse per una sola, e rimisero la cosa alla sorte. Toccò la peggio ai Gerbi, i quali costretti a lasciare la dolce patria, vollero almeno che una durevole memoria di loro vi rimanesse, e fondarono perciò un benefizio sotto il titolo della Visitazione, di cui fino ai dì nostri è stato investito uno dei Gerbi. Alcuni si ripararono nei monti del Frignano nel Modenese: altri andarono a cercar la ventura nel regno di Napoli. Pare però che dopo la cacciata di Piero dei Medici alcuni ripatriassero, finchè, vinti i Cancellieri nella fatal battaglia di Cavinana, ne doveron partire novamente. È probabile che il padre del nostro Marcello perisse, in quella battaglia, e gran parte della fortuna sua fosse predata dai vincitori, perchè il medesimo ci racconta come viveva soletto coll’afflitta madre, la quale avvezza a più prospero stato non poteva sostenere di buon animo la povertà. Da giovinetto si rese frate di San Francesco nel convento di Giaccherino presso Pistoia; e mostrato per tempo il suo potente ingegno, fu dichiarato cittadino pistoiese, e per questa via ebbe un posto di grazia per l’Università di Parigi fiorente allora pei teologici studj. Nei quali si avanzò maravigliosamente, vi sostenne diverse tesi, ed ebbe laurea con plauso da quel solenne collegio. Preceduto dalla buona fama, ritornò tra i suoi frati, i quali lo adoperarono in ufici gravissimi e principalmente nell’apostolico ministero. Quale e quanto vi si mostrasse ce lo direbbero, senz’altre prove, le generose parole che riferisce la Cronaca pubblicata dal Morbio, opportunamente riportate in questo libro dall’autore. E il Dondori, nel ragguaglio che ci dà assai minuto della vita del nostro frate, allude a questo coraggio narrandoci alla sua rozza maniera, come il P. Marcellino fece una grande esagerazione, e discese a riprensioni molto vive: e Francesco I disse che bisognava lasciarlo predicare, perchè era mandato da Dio a riprendere i peccati non tanto colla parola, quanto colla vita esemplare. Ed invero, segue sempre il Dondori, predicava con franchezza e autorità e libertà grande, sicchè non era nessuno che non sentisse ancora palpitare il cuore e non impallidisse pieno di spavento. Questa tolleranza medesima usata sul principio da Lorenzo il Magnifico verso il Savonarola, avevala adoperata pel nostro P. Marcello anche Cosimo primo, il quale udendolo predicare in Duomo con apostolica libertà, faceva le viste di compiacersene, e come raccontano di Luigi XIV a riguardo di Massillon, così diceva ai cortigiani che l’attorniavano: ecco come si vorrebbono tutti i predicatori. Anzi per farselo amico, eraselo scelto a confessore: e due volte volle farlo vescovo, prima di Volterra, poi di Cortona. Ma l’austero frate ricusò quell’onore costantemente, come più tardi ricusò da Gregorio XIII il cappello cardinalizio. Quantunque spendesse gran tempo nel predicare, recandosi in vari paesi d’Italia, pure non dismesse mai gli studj; e quando ebbe fermata la stanza in Roma, molte furon le opere che egli scrisse, a dichiarazione specialmente delle Scritture. Rimando alla Biblioteca pistoiese dello Zaccheria chi avesse curiosità di saperne i titoli e l’edizioni. Citerò solo un’opera assai curiosa, la Metamorfosi d’un virtuoso, che pubblicò col pseudonimo di Lorenzo Selva. È un Romanzo degno in molte parti d’esser paragonato alla eleganza squisita del Firenzuola. L’autore sotto il finto nome di Acrisio vi discorre probabilmente molti casi della prima sua giovinezza, trattenendosi in special modo a descrivere una fanciulla bellissima dell’animo e della persona, la quale onorava come la più cara immagine della virtù, anzi (dice nel proemio) come la virtù stessa. Bellissime sono le descrizioni della montagna di Pistoia, con frequenti allusioni storiche, con aneddoti e novelle graziose, e con poesie sparse qua e là di tanta vaghezza e semplicità, da rimanertene lungamente nell’animo la dolcezza. Eppure questo libro è pochissimo conosciuto anche da quelli che si dilettano di studj eleganti. Habent sua fata libelli. E sì che fu letto avidamente appena vide la luce, e se ne ripeterono quattro edizioni. L’ultima notata dallo Zaccheria è la fiorentina del 1615 scorrettissima e scemata di qualche passo ardito contro il miserabile fasto spagnuolo, piaga dolorosa fra le tante che in quel tempo affliggevan l’Italia. Il P. Marcello non smesse mai finchè visse di predicare. Il popolo romano accorreva sempre ad udirlo. Sentendo avvicinare il suo fine, annunziò in Araceli l’ultima delle sue prediche; e il giorno dell’Epifania dell’anno 1593, pallido ed abbattuto salì sulla cattedra che avea fatto coprire d’un velo nero, e cominciò colle parole di Giobbe: Sto et non respicis: clamo et non exaudis. Era il generoso dolore di Dante quando gridava: Son gli giusti occhi tuoi rivolti altrove? Dopo la predica si pose giù colla febbre, e poco dopo cessò di vivere, nell’età sempre fresca di anni sessantatrè. Per non lasciare addietro nessuna cosa di lui, io dirò pure (e me ne sappian grado i devoti e i romantici) che per l’autorità sua si cominciò in Roma a suonare la campana de’ morti alla prim’ora di notte, pia costumanza che si distese ben presto per tutta Italia. — Un ritratto del P. Marcellino trovasi nel Convento di Giaccherino presso Pistoia, ed un altro in tela, rimasto obliato lungamente in una soffitta, è stato finalmente collocato nella Sagrestia della Chiesa Propositura di S. Marcello. Questo è l’unico monumento che rimanga di lui nella patria. Chi ne bramasse più distese notizie, ricorra al Dondori nella Pietà di Pistoia, allo Zaccheria nella Biblioteca Pistoiese; finalmente ai Santi Pistoiesi, opera del Canonico Ferdinando Panieri. La più compiuta notizia fra quante ne sian pubblicate fin qui sarà data sicuramente nella Biografia pistoiese che Enrico Bindi e Giuseppe Tigri preparano con diligentissimi studj; la quale, quando sia favorita siccome merita dai nostri concittadini, non tarderà a comparire, recando onore grandissimo alla nostra città ed incremento non lieve alla patria letteratura.

Giuseppe Arcangeli.
[91]
Ormai convien che tu così ti spoltre,
Disse 'l Maestro, chè, seggendo in piuma,
In fama non si vien, nè sotto coltre:
Sanza la qual chi sua vita consuma,
Cotal vestigio in terra di sè lascia,
Qual fumo in aere od in acqua la schiuma.
 
Inferno, XXIV.
[92]

Anassarco, filosofo di Abdera, fu pestato dentro a un mortaio per comandamento di Nicocreonte tiranno di Cipro. Mentre i carnefici lo pestavano, egli finchè gli bastò la lena diceva: — «Pestate pure la scorza di Anassarco; voi non potete nulla sopra l’anima sua.»

[93]

Nelle Memorie del maresciallo di Bassompierre noi leggiamo il seguente passo notabilissimo. — «Maria dei Medici sul declinare della sua autorità di reggente disegnava negare ad alcuni baroni, che a grande istanza la pressavano, il richiamo di alcuni banditi, ma non osava pronunziare il rifiuto prima di conoscere la sua condizione presente; quindi ostentando un motivo, chiama in disparte Bassompierre, e gli domanda quali mezzi di resistenza le rimangano. Bassompierre risponde: — Nessuno, — molto più che alcuni amici, come il marchese di Ancre, l’avevano abbandonata. — Lors la reine ne peut se tenir de jeter quatre ou cinq larmes, se tournant vers la fenètre afin qu’on ne la vît pas pleurer, et ce que je n’avois jamais vu, elles ne coulèrent point comme quand on a accoutumé de pleurer, mais se dardèrent hors des yeux sans couler sur les joues.»

[94]

Molti sono i luoghi in Italia, a dire del Muratori, Antiq. ital., che trassero nome dagli alberi: Frassineto, Rovereto, Suvereto ec., e vie discorrendo.

[95]

Lamoignon-Malesherbes, il vecchio difensore di Luigi XVI, essendo tratto al patibolo, mentre urtava col piede in uno scalino della prigione, osservò «che un Romano sarebbe tornato indietro.»

[96]

«Non passò molto che si ebbe l’avviso della morte di don Giovanni di Austria, cagionatagli da febbre e da spiacevole noia di soverchie cure.» Costo, Storia del Regno di Napoli.

[97]

Qual fosse la segreta cura di don Giovanni ce la seppe rivelare l’illustre signor cavaliere Carlo T. Dalbono nel suo bellissimo libro delle Tradizioni Popolari del Regno di Napoli. Nelle Fiere di Castelnuovo espone come don Giovanni salvasse nell’assalto di Granata una giovanetta maomettana della quale divenne amante riamato, e n’ebbe un figlio, dolcissima cura dei genitori. Cresciuto di anni e di bellezza, don Giovanni teneva in corte il garzone a modo di paggio insieme con altri nobilissimi giovani. Sventura volle che don Giovanni essendo vago di nudrire bestie feroci avesse tra le altre una immane leonessa; mentre i paggi giocavano in prossimità del serraglio, una palla cadde vicino alla leonessa; i giovanetti, come succede, presero a istigarsi a vicenda per vedere chi tra loro meglio animoso fosse andato a raccoglierla. Arrighetto, seguendo gl’impulsi della sua magnanima natura, accorse prontissimo e ne rimase infelicemente sbranato... — Nove giorni dopo la tragica morte del figlio, don Giovanni partì da Napoli con l’armata navale. Il dì 24 agosto giunse a Messina, dove collegatosi con le galee dei confederati mosse alle Curzolari, e quindi al golfo di Lepanto dove fu combattuta la immortale battaglia. Narra il cavaliere Dalbono come fino a qualche anno addietro, nella chiesa di santa Barbara in Castelnuovo, si vedesse una lapide con questa iscrizione:

ARR.
R. FILIUS AMORIS
1571.
[98]

«Le ferite del Pike erano mortali; nondimeno conservando ancora malgrado crudeli patimenti tutto lo eroico suo ardore: — Avanti, avanti, miei bravi, sclamò egli, vendicate il vostro generale! — Tali furono le ultime parole che potè rivolgere alle sue truppe, parole che le infiammarono di nuovo coraggio. Alcuni soldati lo portarono poi sulla riva, e cammin facendo clamorose acclamazioni gli annunciarono la riuscita dell’attacco, e riconfortarono i suoi ultimi momenti: poco dopo lo condussero a bordo della nave il Pert, e gli recarono la bandiera nemica: a quella vista ripresero i suoi occhi il loro splendore accostumato, ed accennò che gliela mettessero sul capo, e spirò gloriosamente circondato dai trofei della vittoria.» Trelawny, nelle Memorie di un cadetto di famiglia, racconta come Dewit, famosissimo corsale, ferito a morte dentro la bandiera nemica si avviluppasse, e quivi chiuso rendesse l’ultimo fiato.

[99]

Ma nessuno li contò. Questa è la espressione che adopera quel giudizioso Ludovico Muratori narrando negli Annali la battaglia di Lepanto.

[100]

I particolari della battaglia di Lepanto furono con molta diligenza raccolti dai seguenti scrittori: Adriani, Storia dei suoi tempi. — Costo, Storia dei suoi tempi. — Doglioni, Storie. — Campana, Seguito alla storie del Tarcagnota. — Fra. Dionigi da Fano, Seguito alle storie del Tarcagnota. — Muratori, Annali. — Botta, Seguito al Guicciardino, ed altri non pochi.

[101]
Apollo, tua mercè, tua mercè, santo
Collegio delle Muse, io non mi trovo
Tanto per voi, ch’io possa farmi un manto
 
Ariosto, Satire.
[102]

Queste parole furono quelle appunto che profferivano Isabella e Lucrezia, e tutti i ricordi del tempo ce le conservarono precisamente.

[103]

Tassoni, Secchia rapita, Canto II.

[104]

Botta, Storia d’Italia fino al 1789. Libro XIV.

[105]

L’avviso partecipato alle Corti conteneva le circostanze «che questa infelice, nel lavarsi la testa sopraggiunta da uno accidente, cadde in grembo alle sue damigelle, e fu sorpresa dalla morte senza aver tempo di darle verun soccorso.» Galluzzi. Storia del Granducato, Lib. IV, Cap. II.

[106]

«Il granduca e il cardinale mantennero con l’Orsini la buona corrispondenza, ma anco s’interessarono per acquietare i suoi creditori, e dare alla di lui sconcertata economia qualche sistema. Tutto ciò proverebbe, o che la morte di donna Isabella non fu violenta, o che il granduca e i fratelli, essendo di concerto con l’Orsini, con la loro dissimulazione resero lo eccesso più detestabile.» Lib. IV, Cap. II.

[107]

Cronaca MS. del Settimanni, nello Archivio delle Riformagioni.

[108]

Ademollo, nelle note al romanzo Marietta dei Ricci.

[109]

Galluzzi, lib. IV, Cap. V, T. II.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (côlto/còlto, follia/follía, ronzio/ronzìo e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Sono stati corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo originale):

48 — casi occorrenti ne l’arte [larte]
52 — et una infinità [infinita] di roba
150 — stese la mano al piatto per toglierglielo [toglierglierlo]
202 — non poteva essere abbandonata [abbadonata]
345 — tra i [trai] singhiozzi esclamò
422 — e dovrei astenermi [asternermi] di levarti l’anima
425 — di accidente.... sopraggiuntole [sapraggiuntole] nel lavarsi

*** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK ISABELLA ORSINI ***