Title: Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 03 (of 16)
Author: J.-C.-L. Simonde de Sismondi
Release date: September 23, 2013 [eBook #43802]
Language: Italian
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Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.
DI
J. C. L. SIMONDO SISMONDI
delle Accademie italiana, di Wilna, di Cagliari,
dei Georgofili, di Ginevra ec.
Traduzione dal francese.
TOMO III.
ITALIA
1817.
STORIA
DELLE
REPUBBLICHE ITALIANE
Continuazione del regno di Federico II. — Guerra della Lega lombarda contro questo imperatore. — Viene deposto dal papa nel concilio di Lione.
1234 = 1245.
Non erano appena passati sessant'anni dopo il trattato convenuto in Venezia tra le repubbliche lombarde e l'imperatore Federico Barbarossa, che una nuova guerra si riaccese nella stessa contrada fra la medesima lega lombarda e Federico II, nipote del Barbarossa. Apparentemente sembrava provocata dagli stessi motivi che avevano dato luogo alla precedente guerra; e se da un lato pretestavansi le antiche prerogative dell'Impero, [4] facevansi risonare dall'altra banda i diritti de' cittadini e la riconosciuta indipendenza delle città. Nel tredicesimo secolo, siccome nel dodicesimo, la Chiesa non tardò a dichiararsi la protettrice delle repubbliche ed a ferire più gravemente l'imperatore colle armi spirituali. Si confondono facilmente i due Federici, le due leghe lombarde, le due lunghe contese tra l'autorità reale e la libertà.
Queste due guerre sono per altro distinte da due importantissime differenze. Era la prima necessaria; perchè, rispetto alle città, trovavansi compromessi i loro più preziosi diritti, il loro onore, la stessa loro esistenza. La seconda poteva facilmente risparmiarsi, se l'insidiosa politica della corte romana non avesse accesa e tenuta viva la discordia, e se ai Lombardi non avessero ispirata troppa fidanza le loro ricchezze, e troppo orgoglio il sentimento della propria forza. E siccome i motivi della guerra furono meno puri, n'ebbero altresì meno onorevoli risultamenti. Spiegando lo stesso coraggio e la stessa costanza del precedente secolo, ed adoperando maggiori forze, gran parte delle repubbliche d'Italia non respinsero l'autorità imperiale, che per [5] cadere sotto il giogo della tirannia. L'illimitato potere dei capi di parte, fatti sovrani, subentrò in molte città al legittimo e moderato potere del monarca costituzionale.
Gregorio IX che appena fatto papa aveva date così luminose prove del suo violento carattere e della sua parzialità, scomunicando Federico, erasi posto relativamente a questo principe nella più difficile situazione. L'imperatore regnava senza rivali in Germania, e poteva al bisogno levare in queste contrade formidabili armate; ma preferendo all'aspro clima della Germania i suoi regni della Puglia e della Sicilia, vi faceva l'ordinaria sua residenza; e per tal modo trovavasi, per così dire, alle porte di Roma; inoltre egli si era assoggettati que' baroni che colla loro indipendenza avevano resa debole l'autorità de' suoi predecessori: e ciò che più ancora doveva intimidire il papa, aveva dato prove di tanta intelligenza nell'amministrazione de' suoi stati (come ne fanno indubitata prova le sue leggi) che potè riempire il suo tesoro, ed accrescere le sue armate senza angariare i suoi popoli[1]. [6] In distanza di tre in quattro marcie da Roma aveva stabilite due colonie di soldati saraceni de' quali si era guadagnato l'amore, e ne' quali assai confidava perchè stranieri al timore delle censure e delle scomuniche papali. S'aggiungevano a tutti questi vantaggi la sua profonda conoscenza della politica romana, perchè, cresciuto da fanciullo in mezzo agl'intrighi, aveva appreso a schermirsene; e, nelle sue frequenti controversie colla Chiesa, egli era divenuto così poco scrupoloso che adoperava qualunque mezzo, purchè creduto utile ai suoi progetti. Nato italiano, aveva in Italia più partigiani che mai ne avesse avuto alcun altro imperatore; e per la debolezza de' grandi feudatarj, la sua influenza era cresciuta a dismisura ne' ducati di Toscana, di Spoleti e di Romagna. Nè mancava di partigiani nella stessa Roma, la quale, come le altre città che formavano in allora lo stato della chiesa, cercava di rendersi libera col tener viva la rivalità fra i due capi del cristianesimo; onde, lungi dal favorire gl'interessi del papa, questi non poteva restarvi sempre con sicurezza. Per tali motivi Gregorio IX occupavasi incessantemente di alzare una potenza in [7] Italia che potesse difenderlo; e risguardava la propria esistenza come dipendente da quella della lega lombarda. Erasene perciò dichiarato il protettore; ma mentre cercava col mezzo de' suoi emissarj di accrescerne il coraggio, non voleva romperla così presto con Federico, o perchè la lega acquistasse maggiore consistenza, o perchè non si vedesse dalla medesima costretto ad abbandonare egli stesso la neutralità.
(1234) Da molti storici si dà colpa a Gregorio IX d'avere suscitato contro Federico un rivale nella sua propria famiglia[2]. Del 1234 si seppe in Italia che il giovane Enrico primogenito dell'imperatore, e già da lui nominato re di Germania, disponevasi colà alla ribellione; e seppesi poco dopo che teneva intelligenza coi deputati della lega lombarda, e che i Milanesi avevangli promesso di mettergli in capo la corona [8] d'Italia che custodivasi in Monza, costantemente rifiutata a suo padre. Intanto il papa non poteva prender parte in questa ribellione senza rendersi doppiamente colpevole; poichè non solo avrebbe messe in mano d'un figlio le armi contro al proprio padre, ma l'avrebbe fatto in tempo che riceveva dal padre un servigio di grande importanza. Di fatti, in questo stesso anno, essendo Gregorio costretto a fuggire da Roma, fu visitato a Rieti da Federico che offerse sè ed i suoi soldati in ajuto della Chiesa, e continuò tre mesi la guerra contro i rivoltosi romani[3]. Vero è che non sarebbe questi stato il primo figlio che Gregorio avrebbe armato contro il proprio padre. Il Rainaldi ci conservò negli Annali ecclesiastici una bolla diretta dallo stesso papa l'anno 1231 ai due signori da Romano, ordinando loro di dare essi medesimi il loro padre Ezelino II in mano del tribunale dell'inquisizione, se non rinunciava all'eresia[4].
(1235) Ad ogni modo qualunque siano state le segrete pratiche di Gregorio [9] per determinare Enrico alla ribellione, quando in sul cominciare del susseguente anno Federico partì per recarsi in Germania onde ricondurre suo figlio al dovere, il papa assecondò gli sforzi dell'imperatore, scrivendo ai prelati della Germania per esortarli a non favorire il ribelle[5]. Federico attraversò l'Adriatico da Rimini ad Aquilea, ed entrò senz'armata in Germania, assicurato da tutti i principi dell'Impero della loro fedeltà[6]. Lo stesso Enrico si vide costretto a domandar grazia, e venuto a Worms a gettarsi al piedi del padre, il quale lo mandò prigioniero in Puglia dopo di averlo dichiarato decaduto dalla corona di Germania. Questo giovane principe, la di cui istoria è coperta d'impenetrabili oscurità, non sortì più di prigione, ove morì pochi anni dopo. Attestano alcuni ch'egli si meritò questa perpetua prigionia con nuovi attentati; altri danno colpa a Federico d'aver trattato il figliuolo con eccessivo rigore[7].
Non era supponibile che l'imperatore perdonasse ai Milanesi il delitto del figliuolo, ed i pericoli cui era stato esposto; e quand'anche avess'egli potuto dimenticare la loro offesa, Ezelino III da Romano prendevasi cura di ricordargliela, e di eccitarlo alla vendetta. In un altro capitolo abbiamo avuto opportunità di parlare della famiglia da Romano e della rivalità d'Ezelino II col marchese d'Este. Ezelino III, cui il suo secolo diede il soprannome di feroce, fisserà più lungo tempo i nostri sguardi. Una lunga vita, talenti straordinarj, sommo coraggio, furono da costui impiegati a stabilire una tirannide, quale l'Italia e forse il mondo non avevano ancora veduta. L'arte con cui seppe usurpare la sovranità in mezzo a' repubblicani gelosi della loro libertà, i delitti commessi per conservarla, la sua grandezza, la sua caduta, meritano d'essere studiate dagli uomini [11] nemici della crudeltà e della tirannide, potendo ricavarne importanti ammaestramenti.
Ezelino II dopo avere lungo tempo diretta la parte ghibellina nella Marca Trivigiana, dopo avere ottenuti sorprendenti successi, ed avere estesi i dominj di sua famiglia su quasi tutto il territorio posto alle falde dei monti Euganei, erasi dato alla divozione, ed, abbandonato il mondo, aveva divise le sue sostanze tra i suoi figliuoli. Siccome dava voce d'essersi assoggettato a penitenze monastiche, venne chiamato Ezelino il monaco[8], quantunque effettivamente avesse abbracciate le opinioni dei Paterini o Pauliciani, che alcun tempo dopo provocarono contro di lui le censure della Chiesa. Egli aveva due figli; Ezelino III cui aveva dato i castelli posti tra Verona e Padova, ed Alberico, investito dei feudi del contado trivigiano. Fino del 1232 aveva Federico accordato ai due fratelli un diploma che li dichiarava sotto la speciale sua protezione, ed a dir vero niun altro signore [12] lombardo aveva maggiori diritti al favore dell'imperatore[9].
Alberico conservò lungo tempo la più alta influenza sulla repubblica di Treviso; ma siccome egli aveva strascinata questa città a dividere il suo odio contro i signori da Camino, i più potenti gentiluomini guelfi del territorio, questi si posero sotto la protezione della città di Padova, una delle principali della lega lombarda, dichiarandosi suoi cittadini; e col suo appoggio forzarono finalmente i Trevigiani a rinunciare alla parte ghibellina per unirsi alla guelfa[10]. Ezelino ebbe più costante il favore della sorte: la città di Verona era governata da un senato composto di ottanta consiglieri scelti tra la nobiltà che si rinnovavano ogni anno; e l'elezione del 1225 fu in modo favorevole ai signori da Romano, che i Montecchi (che così chiamavansi i loro partigiani) ne approfittarono per eccitare una sedizione, col favore della quale cacciarono di città Riccardo, conte di san Bonifacio, capo del partito guelfo. Il senato, dominato [13] dal partito ghibellino, affidò ad Ezelino i poteri di podestà col nuovo titolo di capitano del popolo[11]. Dopo tale epoca la repubblica si governò sotto l'influenza del signore da Romano, quantunque per lungo tempo ancora Ezelino fosse abbastanza avveduto per non cambiare le forme della sua amministrazione. Soltanto del 1236 egli persuase i Veronesi a ricevere nella loro città guarnigione imperiale sotto pretesto di rendere più sicuro il partito ghibellino. Queste truppe, poste da Federico sotto gli ordini d'Ezelino, giovarono maravigliosamente a consolidarne il potere[12].
Le città di Cremona, Parma, Modena e Reggio eransi da lungo tempo già dichiarate per la parte ghibellina, avevano abbracciata l'alleanza di Ezelino, e con lui formavano una federazione opposta alla lega lombarda; per cui trovavasi questa divisa in tre parti senza sicura comunicazione: cioè da una parte Milano, Brescia, Piacenza e le meno importanti [14] città del Piemonte; dall'altra Bologna colle città della Romagna, e finalmente nella Marca, Padova, Treviso e Vicenza. Se le due comuni di Mantova e Ferrara, la prima delle quali era influenzata dal conte di san Bonifacio, l'altra dal marchese d'Este, si mantenevano fedeli alla lega, avrebbero assicurata la comunicazione tra le sparse membra, che tanto importava di riunire; ma la costituzione delle repubbliche della Marca e di qualunque altra, ove un capo di parte poteva acquistare molta influenza, non era propria a guarentire la stabilità dei consigli, o la costanza dei cittadini.
Niun altro governo offre la storia, che abbia più delle aristocrazie ben costituite dato prove di maraviglioso coraggio e d'irremovibile costanza. Il senato di Sparta, quelli di Roma e di Venezia sostennero sempre l'avversa fortuna con più nobilità che non fecero mai le assemblee popolari di Atene o di Firenze. Un governo aristocratico, forse con pregiudizio del resto della nazione, giugne ad innalzare l'anima d'una classe privilegiata: ma ciò non si ottiene che assicurando a questa classe dominante tutti i vantaggi della libertà, e tutti ancora [15] quegli affatto illusorj dell'eguaglianza, che più degli altri abbagliano l'immaginazione. Uomini che, senza regnare, possono vantare non esservi nell'umana razza un solo uomo loro superiore; uomini che al di sopra di sè medesimi non vedono che l'Essere degli Esseri, e la regola delle leggi immutabili e astratte al pari di esso; questi uomini sentono più di tutt'altri il sentimento dell'umana fierezza, e sono capaci di forza straordinaria, di grandi sagrificj, di grandi virtù. L'emulazione tra gli eguali innalza il loro spirito; nè l'obbedienza che li rende degni del comando, nè il comando che li prepara all'ubbidienza, gli avvilisce giammai.
Ma quanto possono essere grandi i nobili, tutti fra di loro eguali, d'una ben costituita aristocrazia, altrettanto piccoli sono d'ordinario i nobili della seconda classe in uno stato oligarchico. La nascita può bene dar loro un titolo al disprezzo dei loro inferiori, ma non ad essere superbi della propria indipendenza, perchè anch'essi soggetti ad altri. Piccoli tiranni ne' proprj castelli, e vili cortigiani presso i nobili di primo ordine, hanno tutti i vizj dei despoti, e la viltà degli schiavi; e non riconoscono le distinzioni della nascita che per abbassare [16] sè ed i loro subalterni al di sotto dell'umana dignità.
Da una tale oligarchia erano in allora governate le repubbliche della Marca Trivigiana: la loro costituzione ammetteva la nobiltà, ma non era fatta per la nobiltà; perciocchè la possanza di alcuni nobili non era proporzionata nè con quella degli altri, nè con quella del rimanente dello stato. Nondimeno i potenti cercarono sempre di conciliare l'onore colla subordinazione; si studiarono di nascondere la vergogna attaccata alla condizione di loro soggetti; e per traviare l'opinione, fecero credere che l'intero abbandono di sè medesimi al servigio altrui avesse in sè qualche cosa di veramente cavalleresco. I nobili nelle monarchie, i gentiluomini di second'ordine nelle oligarchie mal conformate, riputarono perciò sempre gloriosa cosa il sagrificarsi per il padrone, quasi che il solo nome di padrone non fosse un obbrobrio per colui che ubbidisce. Ogni città della Marca aveva tra i suoi cittadini qualche signore feudale potente quasi al paro della stessa città; tutti gli altri gentiluomini poi, deboli isolatamente in faccia alla nazione, che per altro disprezzavano, brigavano il favore di questo nobile più potente, siccome [17] cosa di loro gloria[13]. Di qui aveva origine la debolezza di tutti i consigli, l'incertezza delle parti, ed il costante sacrificio del pubblico al privato interesse.
Federico II, cedendo alle istanze di Ezelino da Romano entrò in Italia per la valle Trentina, e giunse in Verona il 16 agosto del 1286 con tre mila cavalli tedeschi. Dopo avere ingrossata la sua armata col partito de' Montecchi diretto da Ezelino, s'innoltrò al di là del Mincio. Le truppe di Cremona, Pavia, Modena e Reggio lo stavano colà aspettando. Con sì ragguardevole ajuto entrò ne' distretti di Mantova e di Brescia, che pose a fuoco ed a sangue.
La città di Padova, la più potente delle tre repubbliche guelfe della Marca Trivigiana, ed a cui era appoggiata in questo lato la sorte della lega, governavasi in allora da un monaco don Giordano, priore di san Benedetto, risguardato qual santo, e che sapeva, colle sue prediche, riscaldare il coraggio [18] de' cittadini[14]: il podestà era Ramberto Ghisilieri di Bologna; come lo era di Vicenza il marchese d'Este. I due comuni formarono di concerto l'ardito progetto d'attaccare il distretto di Verona mentre Ezelino si trovava coll'imperatore: ma avvertito Federico dell'avvicinarsi della loro armata, si portò sopra Vicenza con tanta speditezza, che giunse inaspettato fino alle porte della città prima che il marchese d'Este ed i Padovani potessero darle soccorso[15]. I Vicentini atterriti, e trovandosi privi de' più bravi loro soldati ch'erano all'armata, posero una debole resistenza: le loro porte furono atterrate, la città saccheggiata, i cittadini incatenati senza distinzione; e lo stesso storico Gerardo Maurisio, quantunque venduto ad Ezelino ed ai Ghibellini, fu tre giorni strascinato quasi nudo per le strade dai Tedeschi che gli avevano saccheggiata la casa. Perdette allora tutti i suoi beni, e perfino i suoi libri, che non potè in [19] seguito riavere che coi soccorsi ottenuti dagli amici.
(1237) Dopo questa conquista, Federico riprese la strada dell'Allemagna ov'era chiamato dalla guerra che aveva importantissima con Federico, duca d'Austria; affidando le truppe, che lasciava in Italia, ad Ezelino, il quale seppe destramente approfittare dei successi ottenuti dal monarca. Padova, spaventata dalla sciagura di Vicenza, abbandonava le redini del governo a sedici de' suoi principali gentiluomini[16]; ed in pari tempo in una radunanza generale nel palazzo nazionale, Azzone VII, marchese d'Este, riceveva dalle mani del podestà lo stendardo del comune, ponendo in suo arbitrio la difesa della Marca. Ma la maggior parte de' sedici gentiluomini pur dianzi eletti erano segretamente addetti alle parti ghibelline; e mentre il marchese tornava ad Este per provvedere alla sicurezza delle proprie terre, il podestà non tardò ad avvedersi che i suoi consiglieri erano entrati in negoziati coi nemici della loro patria. Questo bravo magistrato non si scoraggiò in così difficile circostanza, ed avendo chiamati i sedici consiglieri, [20] chiese loro, secondo il costume d'allora, di giurare ubbidienza a' suoi ordini. Da ciò appare, che nelle più difficili circostanze di pericolo della patria, veniva affidata al primo magistrato una quasi dittatoria autorità. I consiglieri prestarono il chiesto giuramento in mano allo storico Rolandino, a quel tempo guardasigilli del comune; ma quando Ghisilieri ordinò loro di recarsi all'indomani mattina a Venezia e di presentarsi a quel doge, col di cui mezzo conoscerebbero i nuovi ordini del comune, un solo ubbidì, e tutti gli altri si ripararono nelle loro fortezze, che fecero ribellare al partito guelfo.
La fuga de' principali nobili accrebbe lo scoraggiamento del popolo, il quale andava ripetendo nelle pubbliche piazze che una città abbandonata dai più ragguardevoli cittadini dev'essere come una nave in balìa dei venti; che in tal modo non governavasi Venezia, la sola delle città italiane in cui i nobili ed il popolo non avessero separati interessi. Per dare soddisfacimento ai gentiluomini e riavvicinare i due partiti, l'assemblea del popolo destituì il podestà Ghisilieri nominando in sua vece Marino, dell'illustre famiglia de' Badoeri di Venezia; ma mentre i Padovani ondeggiavano [21] irresoluti, il marchese d'Este fece separata pace coll'imperatore e con Ezelino, per cui duecento soldati padovani che custodivano varie rocche, furono fatti prigionieri. Invano Marino Badoero alla testa delle milizie della città rispingeva il 23 febbrajo Ezelino e gl'imperiali che volevano far l'assedio di Padova, che anche questo nuovo podestà fu forzato di ritirarsi[17]. I gentiluomini ghibellini, poi ch'ebbero ripigliata l'amministrazione del comune, s'affrettarono di mandare deputati ad Ezelino, offrendogli di riceverlo in città, che dichiaravano sottomessa all'imperatore, a condizione che le fosse guarentito il godimento della sua libertà, e liberati senza taglia tutti i prigionieri. Ezelino non curavasi delle condizioni, purchè in qualunque modo ottenesse d'entrare in Padova, già destinata capitale de' suoi nuovi dominj. Si notò che quando ne prese il possesso alla testa delle truppe imperiali, curvatosi sul suo palafreno, e gettato indietro il caschetto di ferro, baciò le porte della città: nè questo era certo il pegno della sua riconciliazione cogli uomini che allora si erano a lui sottomessi.
Credevasi dai più che Ezelino avrebbe accettata la carica di podestà; ma convien dire che incominciasse a risguardarla come al di sotto delle nuove sue pretensioni. Incaricato da un consiglio, affatto ligio al suo volere, di scegliere questo magistrato, ricusò da prima, con finta modestia, di farlo a nome di tutto il popolo[18]; poi cedendo alle comuni istanze, indicò il conte di Teatino, napoletano, uomo a lui subordinato. Fece in appresso ordinare dalle tre repubbliche di Padova, Vicenza e Verona, che, per la sicurezza del partito ghibellino, prenderebbero al loro soldo delle truppe dell'imperatore, cioè cento Tedeschi e trecento Saraceni. In tal guisa egli s'assicurò d'una gran guardia sempre armata, e che solo dipendeva da lui.
Intanto molti Guelfi eransi chiusi nel castello di Montagnana, ch'essi avevano afforzato; i quali pretendevano di essere i legittimi rappresentanti del comune di Padova, perchè erano i soli rimasti indipendenti dal tiranno. Attaccati da Ezelino, lo respinsero gagliardamente, quantunque combattessero sotto i suoi ordini molti soldati tedeschi e saraceni: ma egli [23] seppe giovarsi di questa resistenza per assodare il suo potere in Padova. Il podestà chiese ostaggi alle famiglie de' gentiluomini e de' cittadini che sapevansi favorevoli al partito guelfo; in appresso adunò, senza distinzione di partito, le più potenti persone della città, e quelle che potevano avere maggiore influenza sui loro concittadini, e pregò tutti a dare una prova del loro amore per la pace, e della loro sommissione all'imperatore, allontanandosi soltanto per pochi giorni dalla città; assicurandoli in pari tempo essere questa l'unica via di smentire le calunniose voci che s'andavano spargendo sul conto loro, alle quali voci per altro egli non dava alcuna fede. In fatti circa venti de' più illustri cittadini di Padova ritiraronsi a Fontaniva, a Carturio, a Cittadella ed in altri castelli loro indicati da Ezelino, e tutti vicini alle sue terre. Pochi giorni dopo, senza che nulla se ne sapesse in Padova, li fece tutti sostenere e chiudere nelle proprie fortezze o in quelle del regno di Napoli[19]. Quando si seppe la cosa in Padova, molti cittadini risolsero di sottrarsi colla fuga alla crescente tirannia; ma ogni volta [24] ch'Ezelino veniva avvisato della fuga di una famiglia, ne faceva abbattere le torri e smantellare le case. Scrive Rolandino, che in sul finire del dominio di questo tiranno più della metà de' palazzi di Padova altro non erano che un mucchio di rovine.
Ezelino teneva gli occhi aperti per impedire ogni tumulto popolare, che in poche ore avrebbe potuto annientare la sua potenza. Egli non si conteneva dall'aggravare il giogo, avendo solamente riguardo di non farlo in modo che, eccitando tutto ad un tratto lo sdegno del popolo, non gli si porgesse occasione di prendere le armi.
Il priore di san Benedetto, don Giordano, che da quel pulpito, su cui predicava ai cristiani, aveva lungo tempo governata la repubblica, trovavasi in città e poteva ad ogni istante illuminare il popolo sulle pratiche di Ezelino. Il tiranno non trascurava in ogni occasione di mostrare il più profondo rispetto per questo ecclesiastico. Un giorno gli mandò alcuni suoi cavalieri, pregandolo da sua parte a venire a palazzo per consigliarlo intorno ad un affare di somma importanza. Il priore li seguì, e montato sopra un cavallo che lo aspettava alla porta, venne condotto al castello d'Ezelino, ove [25] rimase lungo tempo prigione[20]. Intanto tutti i più valorosi cittadini padovani dovettero ascriversi alla sua milizia; ed in tal modo le loro braccia ed il loro coraggio servirono di sostegno a quella tirannia ch'essi avrebbero potuto rovesciare[21].
Mentre una delle più potenti città dell'Italia settentrionale, una città costantemente attaccata al partito della libertà, cadeva sotto al giogo di un tiranno, quelle [27] del centro della Lombardia preparavansi a far fronte all'invasione di Federico II. Questo monarca rientrò in Italia in agosto del 1237, alla testa di due mila [28] uomini di cavalleria tedesca, e fu incontrato nelle vicinanze di Verona da dieci mila Saraceni, che aveva fatti venire dalla Puglia. Nel distretto di Mantova ingrossava la sua armata coll'unione di tutti i Ghibellini lombardi; e Mantova ed il conte di san Bonifacio, spaventati da tanto apparecchio di forze, gli si sottomisero[22].
L'imperatore entrò in seguito nel distretto di Brescia, e dopo quindici giorni d'assedio prese Montechiari ed alcuni altri castelli di minore importanza; poi s'avanzò al mezzogiorno di Brescia in quella parte del suo territorio che l'Oglio divide dal distretto di Cremona. I Milanesi cogli ausiliari di Vercelli, d'Alessandria e di Novara eransi accampati presso Manerbio, ov'erano coperti da un piccolo fiume e da una palude; perchè vedendo l'imperatore di non poterli vantaggiosamente attaccare in tale posizione, nè obbligarli ad abbandonarla, marciò lungo l'Oglio fino a Pontevico, ove passò il fiume, dando voce che andava a prendere i quartieri d'inverno a Cremona, e che colà licenzierebbe le sue truppe fino all'aprirsi della nuova stagione.
I Milanesi credettero terminata la campagna ingannati dalle notizie sparse ad arte dal nemico e corroborate dall'avvicinamento dell'inverno: onde passarono l'Oglio anch'essi per ritornare a Milano, attraversando il paese di Crema; ma quando giunsero a Corte nova si videro con estremo stupore prevenuti dall'armata imperiale. Rinvenuti però ben tosto dalla loro sorpresa, sostennero [30] coraggiosamente l'impeto dei Saraceni e de' Tedeschi; e quantunque dopo una lunga resistenza il rimanente dell'armata fosse affatto sbaragliato, la compagnia detta de' forti, cui era affidata la custodia del Carroccio, restò immobile nella sua posizione finchè venne la notte a separare i combattenti.
Nulladimeno questa compagnia, solo avanzo d'un'armata distrutta, non poteva sperare di sostenere una seconda battaglia all'indomani, che Federico non avrebbe mancato di dare. La strada di Milano che attraversa il Cremasco, era già presa dalle truppe imperiali; conveniva dunque rimontare l'Oglio fino al distretto di Bergamo, che l'armata aveva prima attraversato per entrare nello stato di Brescia. Riflettendo che in così avanzata stagione il terreno reso molle dalle piogge avrebbe ritardata la marcia del Carroccio, i bravi Milanesi risolsero di spogliarlo essi medesimi di tutti i suoi ornamenti, ed in tale stato abbandonatolo tra i carri del bagaglio, si misero in cammino nel cuore della notte. Federico, fatto giorno, non tentò pure d'inseguirli, ma scoperto il Carroccio tra i carri abbandonati, lo fece trionfalmente condurre a Cremona come [31] nobile testimonio della sua vittoria; e poco dopo lo mandò al senato ed al popolo romano con sue lettere che ci sono state conservate, nelle quali egli magnifica questo glorioso avvenimento[23]. Il Carroccio venne collocato in un ricinto del Campidoglio, ove fino al 1727 veniva indicato da un monumento in marmo[24].
Speravano i fuggitivi milanesi d'essere in luogo di sicurezza tostochè giugnessero nel distretto bergamasco; ma i Bergamaschi che in principio della guerra avevano domandato di starsi neutrali, si dichiararono contro i vinti quando conobbero la sorte della battaglia. Molti Milanesi furono nella loro fuga imprigionati o trucidati; altri in maggior numero sarebbero infallibilmente periti, se Pagano della Torre, signore della Valsassina, non veniva incontro ai fuggiaschi, e non li accoglieva ne' suoi feudi facendoli passare per le gole del suo dominio. Egli fece curare i feriti, e provvide ai bisogni di tutti; e quando gli parve tempo, li accompagnò egli medesimo fino nel loro [32] territorio. Quest'atto di benificenza fu la prima cagione della grandezza della sua casa. Il popolo di Milano si mostrò lungo tempo riconoscente, e pose in compromesso la sua libertà piuttosto che parere ingrato verso di così nobile famiglia[25].
Diverse sono le opinioni degli storici intorno alla perdita sofferta dai Milanesi in questa fatale giornata. I loro scrittori la portano a due in tre mila uomini tra morti e feriti; le lettere dell'imperatore ne contano dieci mila. Pietro Tiepolo, figliuolo del doge di Venezia e podestà di Milano, cadde anch'egli in potere degl'imperiali; e Federico con una barbarie [33] affatto impolitica, dopo averlo fatto strascinare in diverse prigioni della Puglia, lo fece morire sopra un palco. La repubblica di Venezia più non seppe perdonare all'imperatore questa crudele offesa, e dopo tale epoca si unì alla lega lombarda, cui per lo innanzi erasi rifiutata di prender parte.
(1238) Federico prese i suoi quartieri d'inverno a Cremona, ma per non rimanere ozioso tutto quell'inverno, visitò Lodi e Pavia, che, quantunque sempre fedeli al partito imperiale, non avevano fin ora osato di prendere a suo favore le armi per timore della soverchiante potenza de' Milanesi. Passò da Pavia a Vercelli, che pure ricondusse alla sua ubbidienza; e non è improbabile che in quel momento di terrore si staccassero dalla lega ed abbracciassero almeno in apparenza le parti ghibelline, anche le altre città del Piemonte, cioè Tortona, Alessandria, Novara, Asti, Torino e Susa[26]. E per tal modo la federazione lombarda trovossi ridotta a quattro sole città, Milano, Brescia, [34] Piacenza e Bologna, le quali pure non mostravansi aliene dall'entrare in trattati coll'imperatore: ma avendo questi domandato che si sottomettessero senza condizioni all'autorità imperiale, i loro cittadini gli fecero rispondere che speravano di morire colle armi in mano, piuttosto che coprirsi di tanta infamia.
I primi chiamati a dar prove della loro costanza furono i Bresciani. Federico, così consigliato da Ezelino, il 3 agosto circondò Brescia d'assedio colle truppe che aveva raccolte in Germania, ov'erasi recato in primavera: assedio non meno notabile di quelli sostenuti contro Federico Barbarossa da Tortona, Crema, Alessandria e Milano, durante il quale per lo spazio di sessanta giorni nè gli assediati diedero minori prove di coraggio, nè gli assedianti di perseveranza e di crudeltà. L'arte della guerra aveva dopo Federico I fatti notabili progressi, e le macchine adoperate da Klamandrino, ingegnere de' Bresciani, erano assai più complicate di quelle che si videro a' tempi della prima guerra lombarda. Ma l'assedio di Brescia non fu circostanziatamente descritto che da Giacomo Malvezzi, storico bresciano, che fioriva in sul cominciare [35] del secolo decimoquinto[27]; e nel suo racconto non troviamo quella perfetta conoscenza de' costumi e de' tempi, che rende interessanti le più minute particolarità, ed esclude ogni sospetto d'invenzione. In questo periodo di tempo i Lombardi non hanno storici coetanei, onde siamo costretti di passare rapidamente sugli avvenimenti loro, e di cercare la descrizione dei costumi e degli uomini nelle storie della Marca Trivigiana, che furono dettate da coloro ch'ebbero parte, o furono testimonj delle cose colà accadute.
In ottobre, vedendo Federico che l'assedio progrediva troppo lentamente, e che i Milanesi, trovandosi la sua armata tutta intorno a Brescia, ne approfittavano per battere a ritaglio i Ghibellini di Pavia e di Lodi, risolse di abbruciare le sue macchine e di ritirarsi a Cremona. Questa prima perdita, che si risguardò come una prova della debolezza del partito imperiale, ravvivò il coraggio delle città guelfe, e procacciò loro nuove alleanze. Il papa, dichiarossi loro protettore, e Venezia e Genova stipularono un trattato d'alleanza [36] col papa e colle città della lega contro l'imperatore, i di cui ambasciatori dovettero partire da Genova senza ricevere il giuramento di fedeltà, che Federico chiedeva a quella repubblica.
Intanto nella Marca Trivigiana erasi riaccesa la guerra tra Ezelino ed il marchese d'Este. Il primo, spalleggiato dalle milizie delle tre più potenti città della Marca, aveva omai spogliato il marchese di tutte le sue fortezze, e forzatolo a chiudersi in Rovigo: ma per quanto si trovasse Ezelino avanzato nel favore di Federico, non ottenne però mai che questa privata contesa si risguardasse come una guerra dell'Impero. Anzi quando Federico venne a Padova, ove soggiornò gran parte dell'inverno, invitò alla sua corte il marchese, e diè segno di volerlo riconciliare con Ezelino. Fece fare solenni nozze tra Rinaldo figlio del marchese, ed Adelaide figliuola d'Alberico da Romano, com'era stato progettato da frate Giovanni da Vicenza; e parve avere divisa la sua confidenza fra i due capi dell'opposto partito. Nondimeno Ezelino faceva dalle sue spie osservare coloro che frequentavano la casa del marchese, i quali furono altrettante vittime destinate al supplicio dopo la partenza dell'imperatore.
[37] (1239) Mentre Federico riceveva in Padova non dubbie prove della divozione di quegli abitanti, ebbe notizia che Gregorio IX lo aveva, in pieno concistoro, scomunicato. Siccome vedeva di non potere impedire che questa sentenza non venisse tra poco a notizia de' Padovani, fece egli medesimo raunare tutti i cittadini nella sala de' consigli generali, ove stava preparato il suo trono, sul quale ascese con tutto il fasto conveniente della dignità reale, mentre il suo cancelliere Pietro delle Vigne, posto al suo fianco, alzossi per arringare il popolo. Scelse per testo del sermone due versi d'Ovidio:
Leniter ex merito quidquid patiare, ferendum est;
Quæ venit indigne pœna, dolenda venit.
Perchè di que' tempi costumavasi anche nelle dicerie profane di cominciare con un testo. Pietro delle Vigne, applicando il suo all'imperatore, dichiarò in suo nome, che s'egli si fosse meritata la sentenza di scomunica, non sarebbesi rifiutato di confessare il suo fallo avanti al popolo, e di sottomettersi al giudizio della Chiesa; ma chiamando lo stesso popolo testimonio dell'ingiusto procedere del pontefice, [38] e passando in rivista le allegazioni cui appoggiavasi la scomunica, si studiò di provarne la falsità.
Il papa, dopo aver rimproverato a Federico la sua empietà ed incredulità, entrando nei particolari, lo accusava d'avere in Roma suscitate ribellioni contro la santa sede, d'avere oppresso il clero e perseguitati gli ordini mendicanti ne' suoi dominj, d'avere spogliate le mense vescovili delle loro entrate, e finalmente d'avere occupato terre e stati, dipendenti unicamente dalla Chiesa[28].
Andava unita alla scomunica una bolla che scioglieva i sudditi dal giuramento di fedeltà, ed assoggettava all'interdetto i luoghi abitati dall'imperatore. Non ignorava Federico l'influenza di tali sentenze sul cuore dei Guelfi, onde incominciò subito ad avere sospetti i due principali signori di questo partito, il marchese d'Este ed il conte di san Bonifacio, ch'egli aveva chiamati alla sua corte. Per assicurarsi di loro, chiese al primo di dargli in mano come ostaggio suo figlio Rinaldo colla consorte Adelaide; inchiesta che gli riuscì più pregiudicievole di tutto quanto [39] poteva temere dalla cattiva disposizione de' Guelfi; perciocchè Alberico da Romano, forse di già ingelosito dell'ingrandimento del fratello Ezelino, si chiamò oltremodo offeso, vedendo condotta in Puglia come ostaggio sua figlia che lo stesso imperatore aveva maritata con Rinaldo d'Este; ed unitosi al signore da Camino, di cui fino a tal epoca era stato nemico, si ritirò con lui a Treviso, e rivoltò la città contro Federico. In appresso mentre l'imperatore marciava coll'armata alla volta di Lombardia, avendo al suo seguito il marchese d'Este ed il conte di san Bonifacio, un amico loro che godeva la piena confidenza dell'imperatore, passandosi la mano a traverso la gola, fece loro comprendere che si volevano decapitare[29]. Trovavansi in quel punto presso ai bastioni di san Bonifacio: spronarono i cavalli, e precipitandosi in quel castello, ne fecero chiudere le porte; e per quante istanze venissero lor fatte da Pietro delle Vigne a nome di Federico, non vollero più sortire. E per tal modo gran parte della Marca si andava inimicando all'imperatore: il marchese d'Este ricuperava una dopo l'altra le [40] terre toltegli da Ezelino, il quale, credendosi alfine talmente stabilito in Padova da poter gustare impunemente il piacere delle più atroci vendette, faceva decapitare sulla pubblica piazza i più potenti gentiluomini, e morire tra le fiamme o sopra un vergognoso palco gl'infelici cittadini che sospettava attaccati alla causa della libertà. Diciotto di questi sgraziati perirono in un solo giorno nel prato della valle di Padova[30].
Trattanto l'imperatore aveva condotta la sua armata nel territorio di Bologna, ove consumò parecchi mesi nell'assedio di alcune rocche: di dove si volse contro i Milanesi senza ottenere verun decisivo vantaggio. L'infelice esito dell'assedio di Brescia non era la sola causa dello scoraggiamento di Federico, e della guerra debolmente tratta in Lombardia. Questo principe dava fede alle predizioni degli indovini ed ai calcoli dell'astrologia giudiziaria, non movendo mai la sua armata se prima un astrologo non aveva determinato il preciso istante della partenza dietro accurata osservazione delle stelle. Allorchè, avvisato della ribellione di Treviso, [41] disponevasi alla marcia per sottometterla, un eclissi del sole lo rimosse dall'impresa[31]. Forse un egual motivo lo consigliò ad abbandonare la Lombardia per isvernare in Toscana; e forse credette a ragione che gli si convenisse di avvicinarsi ai suoi stati delle due Sicilie, ed alla corte di Roma.
Egli fissò il suo soggiorno in Pisa, città che godendo d'una intera libertà sotto la protezione imperiale, abbracciava caldamente tutti gl'interessi della casa di Svevia. Nuovi semi di discordia incominciavano a dividere quegli abitanti, che all'imperatore importava troppo di spegnere in sul loro nascere, perchè aveva bisogno di opporre le flotte pisane a quelle delle repubbliche di Genova e di Venezia sue nuove nemiche. Il possesso della Sardegna era la cagione principale delle fresche discordie.
Nel primo capitolo di questa storia abbiamo osservato che l'isola di Sardegna, dominata dai Mori, era stata conquistata dai Pisani, e che le sue province furono divise tra i gentiluomini di Pisa, i Gherardeschi, i Sardi, i Cajetani, i Sismondi ed i Visconti. Dopo tale epoca [42] le cronache di Pisa sono inesatte ed oscure, e niun lume ci somministrano le sarde. I gentiluomini pisani stabiliti nell'isola rinunciarono presso che tutti al nome del loro casato per prendere quello della propria giudicatura; lo che rende assai difficile il distinguere gli uni dagli altri. Solo alcuni genealogisti avrebbero potuto avere interesse a rischiarare queste tenebre, ma le accrebbero invece colle favole e colle supposizioni; di modo che l'amministrazione di quelle signorie, e la successione dei loro sovrani, feudatari dei Pisani, forma forse la più oscura parte della storia italiana de' secoli di mezzo. I papi accordarono a vicenda protezione ai più deboli di questi signori; e perchè la loro protezione non era gratuita, si arrogarono a poco a poco un diritto di supremo dominio su tutta l'isola. Tosto che questa pretensione ebbe qualche apparente fondamento, Innocenzo III, l'anno 1206, pretese che i Pisani rinunciassero ai diritti ed ai titoli che avevano sopra la Sardegna, e fece sposare l'erede di Gallura ad uno de' suoi cugini[32].
Tra i cittadini che si opposero con maggior fermezza alla domanda del papa, [43] si notarono i Visconti, nobile famiglia pisana, che nulla aveva di comune con quella di Milano. Morto Innocenzo, due fratelli di questa famiglia, Lamberto ed Ubaldo[33], armarono a proprie spese alcune galere, e sprezzando le scomuniche della Chiesa, mossero guerra ai piccoli signori ch'eransi dichiarati feudatari della santa sede, e ricuperarono così varie signorie che pretendevano di loro pertinenza. In tempo di questa guerra, che si prolungò almeno diciotto anni, Lamberto morì, ed Ubaldo, rimasto solo, chiese in isposa Adelaide marchesana di Massa, ed erede delle giudicature di Gallura e delle Torri, ch'egli riclamava come dominj di sua pertinenza, e che omai aveva quasi interamente riconquistate. Gregorio IX, ch'era parente d'Innocenzo III, e perciò ancora della erede di Gallura, approvò questo maritaggio che rendeva la pace alla Sardegna, ed assodava le pretensioni della Chiesa sopra quest'isola. Ubaldo fu assolto dalle censure; ed in contraccambio egli riconobbe la sovranità del papa sulla Sardegna, ed abiurò quella di Pisa[34].
Poichè si ebbe a Pisa sentore di questo trattato tanto pregiudicievole alla repubblica, [44] l'indignazione fu universale. I conti della Gherardesca furono i primi a protestare contro la defezione di Ubaldo; e tutto il casato de' Visconti si credette obbligato a sostenere il suo capo: e perchè questo capo aveva contratta alleanza col papa, abbracciò in corpo le parti della Chiesa, mentre i Gherardeschi si strinsero sempre più a quelle dell'Impero. L'opposizione fra il titolo di Conti e il nome di Visconti, che distingueva le due famiglie rivali, passò alle due fazioni. Quindi in Pisa chiamaronsi i Ghibellini la parte dei Conti, ed i Guelfi quella dei Visconti. L'un partito e l'altro presero le armi e si fecero un'accanita guerra finchè la presenza di Federico ristabilì la pace.
In questo frattempo essendo morto Ubaldo Visconti, Federico fece sposare la sua vedova ad Enrico o Enzio[35], uno de' suoi figli naturali, dandogli il titolo di re di Sardegna, senza pregiudizio però dei diritti che aveva sull'isola la repubblica di Pisa, e per quanto sembra, senza che Enzio visitasse mai il suo regno[36]. Invece [45] di spedirlo in Sardegna, lo creò vicario imperiale in Lombardia, affidandogli il comando delle truppe allemanne e saracene per rinnovare la guerra contro i Milanesi[37].
Federico che aveva approfittato dell'inverno per rappacificare Pisa, per formare una nuova armata, e ravvivare lo zelo de' suoi partigiani, tostochè la stagione permise di trar fuori le truppe, invase il dominio della Chiesa, e si avvicinò a Roma. Molte città dell'Umbria, tra le quali Foligno e Viterbo, si dichiararono per il partito dell'imperatore; ed in seguito gli aprirono le porte, Orta, Città Castellana, Sutri e Montefiascone. Gli stessi Romani sembravano proclivi ad abbracciare la causa di Federico; quando Gregorio, avvisato del vicino suo pericolo dalle grida del popolo, facendosi precedere dal legno della vera croce e dalle teste degli apostoli Pietro e Paolo, sortì in processione dal suo palazzo, accompagnato da tutti i cardinali, e trasportò queste reliquie alla basilica vaticana, benedicendo la gente che si affollava sul [46] suo passaggio, ed invitandola a prendere le armi per difendere la Chiesa. Così imponente processione attraversò Roma in tutta la sua lunghezza[38], sedando dovunque recavasi i movimenti de' Ghibellini, e riscaldando l'entusiasmo del popolo. Intanto i frati di san Domenico e di san Francesco spargevansi in tutte le chiese e predicavano la crociata contro Federico, pubblicando le stesse indulgenze che prima non erano accordate che ai crociati di Terra santa. I preti, ottenutane la dispensa dal papa, si crociarono e presero le armi prima degli altri, ed in un sol giorno Gregorio adunò sotto i suoi ordini un'armata abbastanza formidabile per non aver più timore di tutta la potenza di Federico. Questi, perduta ogni speranza di occupar Roma, si ritirò nella Puglia; ma adontato in modo nel vedere inalberata la croce contro di lui, che condannò alla morte tutti coloro che avevano indosso questo segno di odio contro la sua persona, o di ubbidienza alla Chiesa.
I nemici di Federico non predicavano la crociata per la sola difesa di Roma. In Lombardia un'armata guelfa e crociata, condotta da un legato, assediò Ferrara, ov'erasi chiuso Salinguerra, capo in questa città del partito ghibellino. Questo vecchio ottuagenario che aveva lungo tempo difesa la sua patria, venne imprigionato a tradimento in una conferenza, e mandato a Venezia, ove morì cinque anni dopo in carcere[39]. La città di Ferrara che da molti anni sacrificava la sua libertà allo spirito di partito, dopo aver ubbidito al capo dei Ghibellini Salinguerra, più come a principe che come a cittadino, accordò lo stesso potere al marchese d'Este capo della parte guelfa. Vent'anni più tardi i nobili di Ferrara trasmisero la sovranità al figlio del marchese con questa strana formola, «che sottomettevano alla sua volontà la decisione del giusto e dell'ingiusto.» Dopo tale epoca Ferrara più non deve risguardarsi come una repubblica. È bensì vero che per istabilire una simile tirannia si dovettero esiliare quasi mille cinquecento [48] famiglie, e dividerne i beni tra i loro nemici, onde attaccarli alla difesa del nuovo governo.
Federico tentò di far risguardare l'animosità di Gregorio IX contro di lui come una lite personale che non doveva turbare il riposo della Chiesa. Gregorio, per l'opposto, pretendeva di proscrivere Federico agli occhi del mondo cristiano. A quest'oggetto adunò un concilio a san Giovanni di Laterano per il giorno di Pasqua del susseguente anno, al quale chiamò i vescovi francesi con lettere del mese d'agosto. La sollecitudine colla quale questi prelati si apparecchiavano al viaggio di Roma, li mostrava affatto ligi al papa; onde Federico previde apertamente che avrebbero sanzionata la scomunica papale, e che i suoi partigiani, scoraggiati dall'inimicizia di tutta la Chiesa, lo avrebbero un dopo l'altro abbandonato. Determinato d'impedire ad ogni patto quest'adunanza che poteva essergli fatale, Federico scrisse a tutti i sovrani d'Europa «che non permetterebbe giammai l'unione di un concilio che dalle stesse lettere di convocazione appariva destinato non a rendere la pace alla Chiesa, ma bensì a suscitare una crudel guerra contro il capo del cristianesimo.» [49] In pari tempo ordinò a tutti i suoi partigiani di Lombardia che si opponessero al viaggio dei prelati. Era sicuro di quasi tutta la Toscana; e perchè non rimanessero aperte le strade della Romagna, prese a fare l'assedio di Faenza, che ad istigazione dei Bolognesi erasi ascritta alla lega lombarda. La città si difese ostinatamente tutto l'inverno; ma Federico se ne rese padrone in sul cominciare di primavera.
(1241) Frattanto, a seconda degl'inviti di Gregorio, i prelati francesi eransi recati a Nizza, ove furono ricevuti da due cardinali legati del papa, il quale aveva loro fatta allestire a Genova una flotta di ventisette galere per trasportarli per mare fino alle foci del Tevere. La repubblica di Genova erasi a quest'epoca così caldamente impegnata nel partito della Chiesa, che mentre era costretta di battersi alle frontiere della Liguria col marchese Pelavicino e Martino d'Eboli, che gli avevano mossa guerra in nome dell'imperatore; mentre il suo podestà conteneva nell'interno le famiglie ghibelline dei Doria, degli Spinola e dei Volta, essa mandava a Nizza le sue galere a prendere i prelati che andavano al [50] concilio[40]. Invano gli ambasciatori Pisani giunsero in marzo a Genova per rimuovere que' cittadini da tale spedizione: invano, ammessi in consiglio, rappresentarono, che l'alleanza contratta coll'imperatore obbligava i Pisani ad opporsi al viaggio de' prelati, e ad attaccarli ovunque li trovassero; fu loro risposto che la repubblica di Genova, essendosi dedicata ai servigi del papa, non lascerebbe per verun titolo di difendere con tutte le sue forze la libertà della Chiesa e la fede cristiana, e di proteggere i prelati cristiani, ai quali aveva promessa la sua assistenza.
In fatti non fu appena repressa una sedizione eccitata nella città dal partito ghibellino, che la flotta genovese, già di ritorno da Nizza, ripartì alla volta di Ostia sotto la condotta di Giacomo Malocello, portando a bordo molti vescovi francesi. Intanto Federico aveva fatti armare in Sicilia tutti i suoi bastimenti da guerra, i quali si unirono in Pisa alle galere della repubblica, delle quali aveva il comando il conte Ugolino Buzzacherino, cittadino pisano, della famiglia Sismondi, [51] come le navi di Federico erano sotto gli ordini di Enzio suo figliuolo. La flotta ghibellina si pose tra la Meloria e l'isola del Giglio, ove il giorno tre di maggio si vide a fronte la flotta genovese, che, quantunque alquanto inferiore di forze, non rifiutò l'incontro. La battaglia fu lunga ed accanita, ma i Ghibellini riportarono infine la più completa vittoria. Di ventisette galere genovesi tre colarono a fondo, e diecinove furono prese, restando prigionieri quattro mila Genovesi, i due cardinali, i vescovi e deputati al consiglio: i primi furono condotti in Sicilia, gli altri a Pisa, ove vennero chiusi nel capitolo della cattedrale e caricati di catene d'argento per testificar loro anche nella cattività qualche sorta di rispetto. Immenso fu il bottino dai vincitori trasportato in città, dicendosi che il denaro si divise collo stajo tra i Pisani ed i Napoletani[41].
La disfatta della flotta guelfa si pubblicò da Federico come un manifesto giudizio della provvidenza in suo favore. Pure i Genovesi che non avevano mai avuta una così terribile rotta, e che inoltre furono subito dopo attaccati dai Ghibellini per terra e per mare, non si avvilirono punto, e furono i primi a mandare conforti al papa sull'infortunio de' prelati, scongiurandolo a sostenere coraggiosamente la libertà della Chiesa. «Dal più grande fino al minor cittadino, gli scrivevano, tutti abbiamo dedicato le nostre vite ed i nostri beni a vendicare una così crudele ingiuria, ed a difendere la fede santa di Dio, e non avremo riposo finchè non vengano liberati i vostri fratelli.... Sappia la beatitudine vostra che i cittadini di Genova risguardano come cosa di nessuna importanza il danno sofferto; e che, messo da banda ogni altro affare, lavorano indefessamente a fare nuovi vascelli e ad armarli.... Quindi colle ginocchia piegate supplichiamo vostra santità, per il sangue di Gesù Cristo che voi rappresentate in terra, di non [53] dar troppo valore all'infortunio da noi sofferto, e di non abbandonare la nobil causa che avete fin ora sostenuta[42].»
Intanto il papa scriveva ai sovrani del cristianesimo per interessarli a suo favore, come ai prelati prigionieri per consolarli nel loro infortunio; ed in pari tempo non trascurava la difesa di Roma e del suo territorio contro un nuovo attacco di Federico, che essendosi guadagnato nel sacro collegio Giovanni Colonna, cardinale di santa Prassede, aveva col suo mezzo fatti ribellare alla santa sede i feudi di Colonna, Lagosta, Preneste, Monticello, ec., mentre occupava colle armi Tivoli, Alba e Grottaferrata. Ma il vecchio pontefice non potè sopportare tanti travagli, e morì in Roma il 21 agosto del 1241, tre mesi e mezzo dopo la fatale rotta della flotta de' suoi alleati[43].
(1242) Dopo la morte di Gregorio, la sede pontificia vacò quasi due anni; perchè appena può risguardarsi come un interrompimento dell'interregno il pontificato di Celestino IV, milanese, prima chiamato Goffredo da Castiglione, il quale non sopravvisse che dieciotto giorni all'elezione. Il sacro collegio trovavasi ridotto a pochissimi cardinali: dieci soltanto intervennero all'elezione di Celestino IV, e non più di sei o sette potevano entrare in conclave dopo la sua morte. E perchè per essere uno eletto papa deve avere in suo favore due terzi dei suffragi, bastava a Federico d'avere tre partigiani tra i cardinali per impedire ogni elezione che non fosse di suo aggradimento: talchè dopo così accanita guerra riusciva quasi impossibile agli elettori il mettersi d'accordo[44]. Del resto Federico ascrive ad altre non meno verosimili cagioni la loro irresolutezza: il loro piccol numero li avvicinava tutti in maniera al trono pontificio, che niuno di loro sapeva rinunciare alla speranza di occuparlo. Per metterli d'accordo, l'imperatore loro rimproverava [55] nelle sue lettere il torto che facevano alla Chiesa, e queste lettere erano tali che giammai altro principe non ne aveva scritte di simili ad un conclave[45]. «A voi, diceva loro, figliuoli di Belial; a voi figliuoli d'Effrem, greggia di dispersione indirizzo queste parole; a voi, cardinali che siete colpevoli del conquasso del mondo intero; a voi che siete mallevadori dello scandalo di tutto l'universo, ec.» Questa lettera è probabilmente posteriore alle negoziazioni per un trattato di pace, che Federico intavolò senza effetto colla Chiesa. Quando conobbe di non potersi appacificare colla Chiesa, nemmeno quand'era senza capo, fece ricominciare le sospese ostilità nella campagna di Roma. Intanto più occupato del grand'affare dell'elezione del nuovo papa che della sommissione della lega lombarda, la lasciò molti anni in pace, o a dir meglio l'abbandonò alle dissensioni di cui aveva in se medesima i semi.
La potenza di alcuni gentiluomini che eransi usurpati la tirannide nella loro patria o nelle vicine città, moveva l'ambizione [56] di tutti gli altri. Treviso era soggetto ad Alberico da Romano; Padova, Vicenza, Verona a suo fratello Ezelino; Ferrara al marchese d'Este; Mantova al conte di san Bonifacio, e Ravenna aveva lungo tempo ubbidito a Paolo Traversari. Tale era il furore delle fazioni, che all'esaltamento di una famiglia doleva assai più la caduta del partito guelfo o ghibellino, che la perdita della libertà. I nobili potenti speravano che le repubbliche che tuttavia duravano, sarebbero un giorno o l'altro loro preda; ed i nobili di second'ordine avevano la viltà di accontentarsi delle cariche che il favore de' nuovi principi lasciava loro sperare. In quella città per altro ove i nobili erano più eguali, quest'ordine procurava non già di darsi un padrone, ma di ristringere l'oligarchia e di allontanare affatto il popolo dal governo. La discordia tra i patrizj ed i plebei si manifestò in Milano l'anno 1240. Pretendevano i primi di far rivivere l'antica legge de' Lombardi, che limitava il compensamento di un omicidio ad una piccola somma di danaro, cioè a sette lire e dodici soldi di terzuoli[46]. [57] Il popolo risguardava questa legge come fatta contro di lui, e come quella che metteva a troppo vil prezzo il capo di un plebeo. Lagnavasi inoltre, perchè ne' tempi in cui la repubblica andava soggetta a spese considerabili, i nobili si liberavano da qualunque imposta ritirandosi ne' loro castelli; e perchè, malgrado le fresche leggi che dividevano con perfetta eguaglianza tra i due ordini le magistrature dello stato, e le dignità della chiesa, i nobili soli ne usurpassero tutte le cariche. Onde per sottrarsi ad un giogo che diventava ogni giorno sempre più insopportabile, il popolo risolse di eleggere un protettore; e Pagano della Torre, signore della Valsassina, che aveva, dopo la rotta di Cortenova, salvata parte dell'armata milanese, parve l'uomo più degno di occupare questa carica[47]. E per [58] tal modo mentre il popolo attaccava i privilegi della nobiltà, non rinunciava al vantaggio che un'illustre nascita poteva dare alla sua causa, e sceglieva un nobile per tribuno della democrazia.
Dall'altra banda i gentiluomini milanesi scelsero per loro capo un uomo straordinario, Leone di Perego, frate eloquente dell'ordine de' Francescani, che di que' tempi, secondo raccontano quasi tutti gli storici, si era da sè medesimo eletto arcivescovo, valendosi della piena facoltà che gli aveva dato il capitolo di scegliere un nuovo prelato, siccome ad uomo di provata santità ed alieno da pensieri ambiziosi[48]. Frate Leone da quest'epoca in poi abbracciò i pregiudizj dell'aristocrazia con quella violenza di cui era capace la sua anima di fuoco, comunicò tutta la sua energia al proprio partito, e lo sostenne in mezzo alle [59] disgrazie colla sola forza del suo carattere.
Indipendentemente dalle discordie civili, l'animosità delle città, le une contro le altre, bastava per tener viva la guerra in tutta la Lombardia, senza che l'imperatore vi prendesse parte. Ma i piccoli vantaggi ottenuti dai Milanesi contro i Pavesi, dai Bresciani contro i Veronesi, dai Genovesi contro i ribelli di Savona e di Albenga, d'Ezelino contro il marchese d'Este, non possono descriversi minutamente che nelle particolari storie di quelle città. Nondimeno questa piccola guerra non fu di leggier vantaggio alla parte guelfa, poichè queste contese furono cagione che si unissero alla lega lombarda i marchesi di Monferrato, del Cerreto e della Ceva, e le città di Vercelli e di Novara.
(1243) Finalmente il conclave, dopo lunghe deliberazioni[49], si accordò a collocare sulla cattedra di san Pietro Sinibaldo del Fiesco, uno de' conti di Lavagna, cardinale di san Lorenzo in Lucina, che prese il nome d'Innocenzo IV. Benchè non si sappia qual parte avesse Sinibaldo ne' pubblici affari prima di essere [60] eletto papa, raccontano tutti gli storici ch'egli godeva dell'intima amicizia di Federico, e che fino a tale epoca la casa de' Fieschi di Genova mostrossi attaccata al partito ghibellino: ed è quindi facil cosa che andasse in parte debitore della sua elezione ai partigiani dell'imperatore, i quali almeno festeggiarono pubblicamente tale avvenimento. Parve che Federico prendesse parte alla loro allegrezza; ma egli prevedeva troppo bene gli effetti di tanta potenza sopra un cuore ambizioso, ed è noto aver detto con dolore ai suoi confidenti: «Ho perduto uno zelante amico nel collegio de' cardinali, e lo vedo trasformato in un papa che diverrà il mio più crudele nemico[50].»
Malgrado questo pronostico che non tardò a verificarsi, Federico fece ogni sforzo per pacificarsi colla Chiesa col mezzo di questo nuovo pontefice. Per felicitare Innocenzo sul di lui innalzamento al trono pontificio, e per domandare la pace, gli [61] mandò una solenne ambasciata composta de' più illustri personaggi de' suoi stati, il suo gran-cancelliere Pietro delle Vigne, il gran maestro dell'ordine teutonico, ed Ansaldo de Mari, grande ammiraglio di Sicilia, concittadino del papa, e come lui appartenente ad una casa ghibellina. Gli fece dire d'essere disposto ad una compiuta sommissione, proponendogli ad un tempo un glorioso parentado per la famiglia del Fiesco[51], il matrimonio di una nipote del papa per Corrado suo figliuolo ed erede presuntivo. Innocenzo dal canto suo mostravasi desideroso della pace, per cui entrò volentieri a trattarne: ma egli domandava che precedentemente alle concessioni della Chiesa, Federico accordasse la libertà a tutti i suoi prigionieri, e le restituisse le terre conquistate: l'imperatore invece chiedeva che la santa sede desistesse dal proteggere i Lombardi, e richiamasse il legato che predicava tra que' popoli la crociata contro di lui: e perchè niente potè ottenere dal papa di [62] quanto gli aveva chiesto, assediò Viterbo ch'erasi di fresco ammutinato[52].
(1244) Le negoziazioni si ripresero o continuarono nel susseguente anno, e sapendosi già ammessi tutti gli articoli più importanti, si sperò vicina la pace. L'imperatore ed il papa perdonavano reciprocamente ai partigiani della Chiesa e dell'Impero le vicendevoli offese fattesi durante la guerra. Federico accettava la mediazione del papa per terminare le precedenti sue dispute coi Lombardi; Innocenzo doveva essere rimesso nel godimento di tutte le terre che la Chiesa possedeva avanti alle prime ostilità; tutti i prigionieri dovevano essere liberati, ed annullate tutte le confiscazioni[53]. Ma probabilmente il papa non acconsentiva [63] alle concessioni che egli faceva che per acquistar tempo, perchè conosceva quanto pericolosa fosse la sua posizione in Roma; e forse Federico disponevasi a rompere i trattati tostochè gli si presentasse vantaggiosa opportunità di farlo, imperciocchè quando ancora duravano, cercava di farsi nuovi partigiani in Roma e nel suo territorio. Egli teneva pratiche coi Frangipani perchè gli cedessero le fortificazioni che avevano innalzate nel Coliseo, ottenendo le quali diventava padrone di una fortezza entro la stessa Roma; onde il papa non vedevasi omai sicuro nella sua stessa capitale, e temeva inoltre d'essere sorpreso dai soldati dell'imperatore quando recavasi nelle città del dominio ecclesiastico, Anagni, Città castellana, o Sutri. Il giorno sette di giugno erasi portato a Città castellana, per dare l'ultima mano, come egli diceva, al trattato di pace; ma infatti perchè aveva alcun tempo prima segretamente spedito a Genova un frate francescano per procurarsi la protezione di questa repubblica sua patria. Il 27 giugno ebbe, stando a Sutri, notizia dell'arrivo di ventidue galere ben armate, che i Genovesi gli avevano mandato a Civita Vecchia; perchè in sul far della notte partì [64] quasi solo a cavallo vestito da soldato, e camminò con tanta celerità che appena fatto giorno giugneva in riva al mare, avendo fatto in quella breve notte di estate trentaquattro miglia. Quando poc'ore dopo si sparse in Sutri la notizia della fuga del papa, i suoi partigiani andavano dicendo che Innocenzo aveva avuto avviso dell'avvicinarsi di trecento cavalli toscani, spediti per prenderlo; ed il papa, giunto a Civita Vecchia, diceva lo stesso; quantunque tale racconto mal s'accordasse coll'apparecchio d'una flotta considerabile fatto molto tempo prima per venirlo a prendere a bordo.
Innocenzo trovò sulle galere genovesi lo stesso podestà e tre conti del Fiesco suoi nipoti, venuti ad incontrario. Ogni galera aveva sessanta soldati e centoquattro marinaj d'equipaggio; e tutta la flotta era apparecchiata ad una vigorosa difesa, quando fosse attaccata: ma il podestà riponeva la sua maggior fiducia sul profondo segreto conservatosi intorno a questa spedizione, di cui non aveva avuto notizia che il consiglio di credenza. Trattavasi infatti di attraversare quello stesso mare, ove tre anni avanti erano stati fatti prigionieri i prelati francesi, che a bordo di un'altra flotta genovese [65] andavano al concilio. Federico in questo stesso tempo soggiornava in Pisa, e nel precedente anno i Pisani con ottanta loro galere e cinquantacinque di quelle dell'imperatore erano andati ad insultar Genova. Innocenzo non si trattenne a Civita Vecchia più di ventiquattr'ore, per dar tempo ad alcuni cardinali di raggiungerlo, di dove, col favore d'un gagliardo vento favorevole, passò senza incontrare verun ostacolo tra le isole del Giglio e della Meloria tanto funeste al suo partito, ed arrivò in cinque giorni a Portovenere, e di là dopo cinque altri giorni entrò trionfante in Genova in mezzo alle acclamazioni de' suoi concittadini: le galere erano pavesate con drappi d'oro, e tutta la città partecipava della gioja d'Innocenzo vedendolo fuori di pericolo[54].
Quando Federico ebbe avviso della fuga del pontefice, e seppe che a Genova non aveva voluto ascoltare il conte di Tolosa che gli aveva mandato con nuove proposte di pace, e che senza trattenersi in Italia s'avviava verso Lione, attribuì ad altra cagione la di lui fuga ed il vicendevole odio. Era stata ordita in Roma una congiura contro la vita dell'imperatore: i frati francescani eransi addossato l'incarico di corrompere i cortigiani del principe e que' signori di cui più si fidava. Benchè questi frati fossero banditi dal regno, vi si recavano travestiti per tener vive colpevoli corrispondenze; e quando furono catturati i cospiratori e condannati a morte, tutti asserirono di non aver agito che dietro gli ordini della santa sede[55]. Federico ebbe quest'anno (1244) i primi indizj della congiura; e forse era vero che aveva ordinato di fermare lo stesso papa, onde confrontarlo coi colpevoli ch'egli aveva pur dianzi scoperti, allorchè questi si sottrasse colla fuga a tale affronto.
Attraversando parte della Lombardia per recarsi da Genova a Lione, il papa [67] ridusse al partito guelfo le città di Asti e di Alessandria, che presero parte alla lega. (1245) Giunto appena nella città che aveva scelta per sua dimora, e postosi sotto la potente protezione di san Luigi, convocò per la seguente festa di san Giovanni un concilio ecumenico in Lione, ad oggetto, diceva egli, di assicurare la Cristianità contro i Tartari, e soprattutto per sottomettere al giudizio della Chiesa la condotta di Federico[56]. Ma senza aspettare la sentenza che doveva pronunciare il concilio, rinnovò la scomunica fulminata contro l'imperatore da Gregorio IX.
Intanto i vescovi d'Inghilterra, di Francia, di Spagna, ed anche alcuni d'Italia e di Germania, adunavansi a Lione in numero di centoquaranta; ed Innocenzo aprì il concilio nel convento di san Giusto il 28 giugno del 1245. In tale occasione presentò al senato della Chiesa il prospetto dei mali cui trovavasi la Chiesa esposta: ed era pur vero che i Latini non eransi ancor trovati in più calamitosi tempi. Al nord i Tartari Mogolli [68] avevano invasa la Russia, la Polonia e parte dell'Ungheria. L'Impero dei successori di Zengis[57] che comprendeva di già metà della China, la Persia e l'Asia minore, minacciava omai d'ingojare tutta l'Europa. Al mezzogiorno i Carismiani, cacciati dal loro paese dagli stessi Mogolli, eransi resi padroni di Gerusalemme, ed avevano passato a fil di spada la maggior parie dei Cristiani di Terra santa[58]. L'Impero latino di Costantinopoli assalito da Vatace e dai Greci riducevasi alla sola capitale, ed il sovrano di questa città mezzo deserta, per sovvenire alla propria miseria, demoliva i palazzi de' suoi predecessori per vendere il piombo ed il rame ond'erano coperti. Gli Occidentali, malgrado il pericolo che loro sovrastava, non potevano [69] unirsi per la difesa della Cristianità, perchè la guerra tra il papa e l'imperatore non permetteva loro di pensare a più lontane spedizioni, e perchè lo zelo per le crociate d'Asia era omai spento, per essere promesse le medesime indulgenze a colui che porterebbe le armi contro il capo dell'Impero o contro i Musulmani; e perchè tutti i predicatori apostolici indicavano di preferenza questa più facile strada dell'eterna salute.
Parlando dei pericoli della Chiesa, Innocenzo non si curò di ricordare le colpe del suo capo; e per lo contrario attribuì a Federico tutte le disgrazie e tutti i delitti, accusandolo di spergiuro, d'eresia, d'empietà e di scandalosa unione coi Saraceni suoi sussidiarj, stabiliti a Nocera.
Due deputati dell'imperatore, Tadeo di Suessa e Pietro delle Vigne, eransi, d'ordine di Federico, recati al concilio per farne le difese. Per altro il secondo, che aveva in tante altre circostanze date così luminose prove della sua capacità, della sua facondia e del suo zelo, tacque nella presente; e diede col suo silenzio apparente ragione a' suoi emuli per metterlo in disgrazia del sovrano: ma Tadeo di Suessa, escludendo le accuse date [70] a Federico, dichiarò che questo principe non altro aspettava che la sua riconciliazione colla Chiesa per portare le armi contro gl'infedeli; che offriva al concilio tutte le forze del suo Impero, della sua persona, ed i suoi tesori per difesa della fede; e quando Innocenzo gli domandò quai mallevadori potrebbe dare di così belle promesse, rispose Tadeo; i più potenti di Cristianità, i re di Francia e d'Inghilterra. Noi non ci curiamo, replicò Innocenzo, d'avere mallevadori gli amici della Chiesa, coi quali ella dovrebbe poi inimicarsi qualunque volta il vostro padrone mancasse, com'è suo costume, alle promesse[59].
Il giorno 5 di luglio si tenne la seconda sessione del concilio. Innocenzo rinnovò più circostanziatamente le sue accuse contro Federico, e Tadeo le confutò nuovamente con non minore eloquenza che coraggio; al rimprovero d'aver violati i trattati colla Chiesa, rispose esaminando ad una ad una le supposte infrazioni; nel quale esame la condotta dello stesso pontefice [71] non andò esente da censura. Con minori risguardi trattò ancora il vescovo di Catania ed un arcivescovo spagnuolo, che avevano caldamente ridette le accuse del pontefice, dando loro a nome dell'imperatore un'aperta mentita. Finalmente fece noto al papa ed al concilio che Federico era già a Torino, disposto di venire a giustificarsi personalmente; e fece calde istanze perchè fosse accordato a questo principe un sufficiente termine per presentarsi all'assemblea. Innocenzo rifiutò l'inchiesta, ed il concilio, ciecamente ligio, approvò la risposta del suo capo. Nonpertanto mosso dalle istanze degli ambasciatori di Francia e d'Inghilterra, Innocenzo differì di dodici giorni la seguente sessione, e l'assemblea aderì alla proposta del pontefice. Informando il suo padrone dell'assoluto predominio esercitato dal papa sull'assemblea, Tadeo di Suessa probabilmente lo sconsigliò dal viaggio di Lione, onde Federico non si avanzò oltre Torino. Il 17 di luglio si tenne la terza sessione senza che l'imperatore si presentasse. Incominciando la sessione, Tadeo dichiarò a nome di Federico, che qualunque si fosse la sentenza di un concilio composto di così piccolo numero di vescovi, e senza l'intervento [72] de' procuratari de' vescovi assenti, di un concilio al quale la maggior parte de' sovrani d'Europa non avevano mandati ambasciatori, appellava ad un altro più solenne e più numeroso concilio.
Innocenzo, dopo avere confutata la protesta e l'appello di Federico e del suo ministro, fece leggere la sentenza di scomunica ch'egli aveva preventivamente scritta. Appoggiavasi alla mancanza di fedeltà di Federico al papa, di cui era vassallo come re di Sicilia; alla rottura della pace più volte stabilita colla Chiesa, alla prigionia sacrilega dei cardinali e dei prelati che andavano al concilio di Roma; finalmente all'essersi reso colpevole d'eresia, disprezzando le scomuniche pontificie, e collegandosi coi Saraceni, de' quali aveva adottati i costumi: e chiudevasi con queste notabili parole: «Noi dunque che, quantunque indegni, rappresentiamo in terra nostro Signore Gesù Cristo; noi, ai quali nella persona di san Pietro furono dirette queste parole: tutto ciò che voi avrete legato in terra, sarà legato in cielo; noi abbiamo deliberato coi cardinali nostri fratelli, e col sacro concilio intorno a questo principe resosi indegno dell'Impero, de' suoi regni [73] e di ogni onore e dignità. A motivo de' suoi delitti e delle sue iniquità Dio lo rifiuta, e più non soffre che sia re o imperatore. Noi lo facciamo soltanto conoscere, e lo denunziamo essere, a motivo de' suoi peccati, rigettato da Dio, privato dal Signore di qualunque onore e dignità; e frattanto noi pure ne lo priviamo colla nostra sentenza. Tutti quelli che sono a lui vincolati pel loro giuramento di fedeltà, sono da noi a perpetuità assolti e resi liberi da tale giuramento, vietando loro espressamente e strettamente colla nostra apostolica autorità di non più prestargli ubbidienza come ad imperatore o re, o in qualunque altro modo pretenda di essere ubbidito. Coloro che gli daranno soccorso o favore, come ad imperatore e re, incorrono ipso facto nella scomunica. Quelli cui spetta nell'impero l'elezione dell'imperatore, eleggano pure liberamente il successore di questo: e rispetto al regno di Sicilia sarà nostra cura di provvedervi col consiglio dei cardinali, nostri fratelli, come troveremo più conveniente[60].»
Mentre leggevasi questa carta, siccome i padri tenevano in mano una candela accesa, che in segno d'esecrazione dovevano rovesciare per ispegnerla, Tadeo di Suessa gridò, percuotendosi il petto: questo è il giorno della collera, il giorno delle calamità e della sciagura! ed uscì dall'assemblea. Allorchè Federico ebbe avviso della sua deposizione, gittò uno sguardo d'indignazione sulla folla che lo circondava: «Questo papa, disse, mi ha dunque rigettato nel suo sinodo; mi ha dunque privato della mia corona! ove sono i miei giojelli? mi si rechino subito.» E facendo aprire la cassetta che racchiudeva le sue corone, ne prese una e se la fermò in capo; indi alzandosi con occhi minacciosi: «No, disse, la mia corona non è ancora perduta; nè gli attacchi del papa, nè i decreti del sinodo hanno potuto levarmela; ed io non la perderò senza spargimento di sangue[61].»
Ultimi anni del regno di Federico II. — Assedio di Parma. — Rivoluzioni in Toscana. — Tirannia d'Ezelino.
1245 = 1250.
La perseveranza dei papi nel perseguitare un intero secolo tutti i principi della casa di Svevia fino all'epoca in cui l'ultimo rampollo di questa sventurata ed illustre famiglia perì sopra un palco, è una cosa tanto più notabile, in quanto lo spirito del cristianesimo aveva cominciato ad addolcirsi; e le costumanze e le opinioni non riconoscevano più la pretesa superiorità de' papi sul potere temporale. Lo stesso monaco Matteo Paris, che minutamente descrisse le circostanze del processo intentato a Federico avanti al concilio di Lione, assicura che gli assistenti non l'udirono pronunciare senza stupore e raccapriccio[62]. Da una parte i Pauliciani avevano scossa colle loro prediche la credenza dell'infallibilità [76] papale, specialmente nella Lombardia, ov'eransi moltiplicati assai; e dall'altra il risorgimento delle lettere non era meno contrario alla servitù imposta dalla superstizione. Non si conoscevano allora che tre classi di letterati, giureconsulti, grammatici e poeti, i quali tutti in fatto di religione tenevano opinioni abbastanza liberali; e siccome erano da Federico favoreggiati e protetti, abbracciavano quasi tutti la sua causa contro la santa sede. Tra gli storici coetanei di questo principe o de' suoi figli, molti, e forse i migliori sono apertamente ghibellini[63]. La maggior parte de' gentiluomini che avevano colle azioni loro acquistato qualche diritto alla pubblica opinione, il Salinguerra, i signori da Romano, i marchesi Pelavicino e Lancia, stavano per Federico: la metà delle città libere avevano anch'esse abbracciata la medesima causa; e tra queste la potente repubblica di Pisa, che lo ajutava con tutte le sue forze, disprezzava i fulmini del papa per servire l'imperatore. Mentre così ragguardevole [77] numero d'Italiani impugnavano il potere de' papi di sciogliere e di legare in terra ed in cielo, fa meraviglia che questi ardissero spingere all'estremo le loro pretese, arrischiando tutto lo stato loro sopra un diritto contestato.
Pare che i papi essendosi accorti dei singolari talenti de' principi della casa Sveva, si proponessero di disertarli ad ogni costo, onde imperatori così valorosi ed intraprendenti, rinforzati dai rapidi e necessarj progressi delle opinioni già in voga, non rivendicassero i diritti di cui la Chiesa gli aveva spogliati, e ristabilissero in Roma la suprema loro autorità: autorità che non poteva ripristinarsi senza distruggere l'indipendenza dei papi.
La santa sede entrando in così pericoloso conflitto, affidavasi principalmente alla nuova milizia di fresco creata, che non l'abbandonò ne' suoi bisogni; i due ordini de' Francescani e de' Domenicani. Il più importante servigio che le rendessero, fu quello di sottometterle completamente i vescovi ed il clero secolare, cambiando l'aristocrazia ecclesiastica in un perfetto despotismo. Così adoperando eseguivano il loro voto d'ubbidienza e s'uniformavano allo spirito de' loro fondatori. [78] Avevano essi sull'antico clero il doppio vantaggio del fanatismo e del vigore della gioventù d'una recente istituzione; e con tale superiorità di forze lo attaccarono e gli tolsero l'affetto dei popoli. I vescovi erano in modo assoggettati, o talmente persuasi della loro debolezza, che i concilj, invece di giudicare i papi, come abbiamo veduto praticarsi nel decimo secolo, e lo vedremo ancora nel quindicesimo, erano diventati nel tredicesimo strumenti passivi nelle mani de' pontefici.
Il secondo servigio reso alla santa sede dagli ordini mendicanti fu quello d'impedire tra il popolo il dilatamento dell'irreligione; imperciocchè agl'increduli che facevano valere nelle loro invettive contro la Chiesa i depravati costumi del clero, opponevano quella austera santità di vita che da più secoli non più vedevasi nei grandi prelati. Non dirò già che ottenessero di richiamare a meno libere opinioni coloro che la nascente passione dello studio, o lo spirito di partito allontanavano dal cattolicismo; ma se un uomo dava qualche indizio di timorata coscienza, veniva all'istante assediato dai nuovi monaci che se ne impadronivano; e predicandogli come [79] principalissima virtù la cieca ubbidienza alla santa sede, e facendogli vedere i fulmini della Chiesa pendenti sul capo de' Ghibellini, lo forzavano a riconciliarsi colla medesima, a prezzo non poche volte d'un tradimento a danno degli antichi alleati. A ciò si debbono attribuire quelle imprevedute congiure che si videro scoppiare nelle città più fedeli all'Impero, e quei mali umori che annunziavano i progressi della parte guelfa e l'imminente caduta dei Ghibellini. Nella città di Parma, che fino al 1245 erasi mantenuta fedele all'Impero, e che riceveva ogni anno un podestà scelto dall'imperatore, tre delle più principali famiglie nobili, i Lupi, i Rossi, i Correggeschi, parenti a dir vero di quella del papa, si dichiararono del partito guelfo e dovettero abbandonare la città; e nel susseguente anno (1246) altri Guelfi, pretestando di non potere in buona coscienza ubbidire agli ordini dell'imperatore, si ritirarono a Piacenza ed a Milano[64], ove con Gregorio di Montelungo, legato del papa in Lombardia, ordirono quella trama che diede ben [80] tosto la loro patria alla parte guelfa. Un eguale abbandono del partito ghibellino ebbe luogo in Reggio, per cui, dopo una sanguinosa zuffa, vennero esiliate le famiglie guelfe dei Roberti, dei Fogliani, dei Lupicini[65].
Non contento il papa di suscitare nemici a Federico nelle città lombarde, che incoraggiava a difendere contro di lui la propria libertà, cercava di ribellargli ancora gl'immediati sudditi delle due Sicilie, ai quali spediva due cardinali con lettere dirette al clero, alla nobiltà ed al popolo delle città e delle campagne. «Si maravigliano molti, loro diceva il papa, che oppressi come voi siete da vergognosa servitù, ed aggravati nella persona e nei beni, abbiate trascurato di procacciarvi in qualunque modo, come hanno fatto le altre nazioni, le dolcezze della libertà. Ma la santa sede vi ha per iscusati in vista del terrore che sembra essersi insignorito del vostro cuore sotto il giogo di un nuovo Nerone; e non altro per voi sentendo che pietà e paterno affetto, pensa se i suoi ajuti [81] possono recare sollievo alle vostre pene, o fors'anco procurarvi il bene d'un'intera libertà.... Cercate dal canto vostro come potreste rompere le catene della schiavitù, e far fiorire nel vostro comune la libertà e la pace. Spargasi una volta tra le nazioni la voce, che il vostro regno così famoso per la sua nobiltà e per l'abbondanza de' suoi prodotti, ha potuto, coll'ajuto della divina provvidenza, unire a tanti vantaggi anche quelli di una stabile libertà[66].»
Un certo che di così nobile e liberale spirano i concetti di questa lettera, che ci sforza a rimaner dubbiosi intorno alla giustizia della causa del pontefice e dei Guelfi, ed allo scopo che si proponevano. Ma quand'anche la libertà, e non una licenziosa indipendenza, fosse effettivamente l'oggetto dei Pugliesi e dei Siciliani ribellati, furono certo indegni di così nobil causa i modi tenuti per acquistarla; riducendosi a vili cospirazioni, nelle quali presero parte gli antichi amici ed i confidenti di Federico, da loro guadagnati. [82] I due figliuoli del grande giustiziere del Mora, tutti i Sanseverino, tre fratelli della Fasanella, ed altri molti avevano nel 1244 cospirato coi frati minori per assassinare il loro sovrano. Federico, come si disse altrove, aveva, dietro i primi indizj di tale congiura, fatti imprigionare molti frati, nell'istante medesimo in cui il papa fuggì da Roma. Ciò nulla meno la sentenza del Sinodo e l'esortazione dei cardinali legati riaccesero la sopita congiura, che avrebbe facilmente avuto effetto, se il complice Giovanni di Presenzano, scosso dai rimorsi, non palesava il segreto a Federico. Quando seppero imprigionati alcuni de' loro compagni, i del Mora ed i Fasanella si salvarono nello stato del papa, altri s'impadronirono delle rocche di Capaccio e della Scala, ove furono presi dopo lungo assedio. Un solo fanciullo della casa Sanseverino fu salvato da un domestico della famiglia[67]. Quasi tutti i congiurati, condannati a pena capitale, attestarono prima di morire, che il papa era partecipe della loro congiura. L'imperatore dando notizia di questo macchinamento [83] a tutti i re e principi dell'Europa con una lettera circolare, che forse fu l'ultima che scrivesse Pietro delle Vigne, la chiude con queste gravi parole: «Chiamiamo in testimonio il giudice supremo, che ci vergogniamo di quanto abbiam detto, perchè eravamo troppo alieni dal credere di dover vedere e sentire attestato somigliante delitto; non essendoci mai immaginati che i nostri amici, i nostri pontefici, ci volessero vittima di così cruda morte. Lungi da noi per sempre tanto obbrobrio! Lo sa Iddio, che dopo l'iniqua procedura del papa contro di noi intentata nel concilio di Lione, non abbiamo mai voluto acconsentire alla sua morte od a quella di taluno de' suoi fratelli, quantunque caldamente richiesti da persone zelanti del nostro servigio, limitandoci a difenderci dagli altrui attentati colla giustizia, e non colle vendette»[68].
Ma la più dolorosa perdita di Federico fu quella del suo primo ministro, del suo intimo confidente, del suo amico, Pietro delle Vigne. Ossia che [84] quest'uomo affatto straordinario si fosse macchiato di un tradimento, o che il principe, reso diffidente dalle congiure che ogni giorno si andavano scoprendo, desse troppo facile orecchio alle suggestioni degl'invidiosi cortigiani; o giusta o ingiusta che si fosse la sentenza di Pietro; si dice che Federico esclamasse più volte prima di pronunciarla: «me sciagurato, qual uomo io gastigo!»[69]
Pietro delle Vigne era nato a Capoa affatto povero; la passione per lo studio lo aveva condotto all'università di Bologna, ov'era costretto di andare elemosinando per vivere, sebbene desse prove di maravigliosi talenti nello studio della legge, dell'eloquenza e della poesia. Condotto accidentalmente innanzi a Federico, ebbe la fortuna di meritarsi in modo la sua stima, che lo tenne in corte, facendolo a bella prima suo segretario; in appresso giudice, consigliere, protonotaro, e partecipe di tutti i suoi segreti. Pietro delle Vigne aveva una maravigliosa arte nello scriver lettere; aggiungendo ad una nobile e dignitosa eloquenza una certa qual forza [85] di ragionamento che convince e persuade. Perciò verun principe avanti che s'inventassero la stampa ed i giornali aveva, come Federico, fatto tanto capitale dell'illusione delle scritture, nè provocato colle sue lettere sopra le proprie azioni la pubblica opinione. Nè in ciò solo valevasi l'accorto principe de' talenti di Pietro; abbiamo altrove osservato che approfittò de' suoi consigli e dell'opera sua per riformare le leggi del regno, e per rianimare lo studio delle scienze e delle lettere; abbiamo veduto che lo incaricò di giustificare la propria condotta innanzi al popolo di Padova contro la sentenza di scomunica pubblicata contro di lui; che lo aveva più volte mandato suo deputato al papa, e per ultimo incaricato di trattare la sua causa innanzi al concilio di Lione. Nella quale ultima occasione parve che Pietro mal rispondesse all'antica sua riputazione, conservando un misterioso silenzio, mentre Tadeo di Suessa difese caldamente il suo sovrano[70].
Dopo tale epoca Pietro delle Vigne non ebbe forse più l'intera confidenza di Federico, non trovandolo adoperato in veruna importante occasione, nè meno nello scriver lettere a nome del sovrano; anzi una ne troviamo diretta al medesimo per accertarlo della propria innocenza[71]. È probabile che, senza abbandonare la corte, non vi avesse più quell'opinione che gli aveva dato la confidenza del sovrano; e che soltanto tre anni dopo cedesse alle istigazioni degli emissarj del papa; oppure che i suoi nemici si approfittassero di qualche apparenza per farlo credere a Federico, quantunque non avesse ceduto[72]. Ecco come racconta il fatto Matteo Paris.
Federico giaceva infermo quando Pietro gli si presentò col medico ch'egli aveva guadagnato, il quale gli offrì come medicina una bevanda avvelenata. Il principe, nell'atto di accostare il nappo alla bocca, disse ai traditori: io credo che voi non vogliate darmi veleno. Pietro, turbato a un tempo e sorpreso, si dolse di un dubbio che faceva torto alla sua lealtà, chiamandosene altamente offeso: ma Federico, rivolgendosi in atto minaccioso al medico, gli porse il calice, ordinandogli di beverne la metà. Il medico sbigottito finse d'inciampare e lasciò cadere il calice in terra; ma Federico fatto raccogliere quanto si poteva della sospetta bevanda, la fece dare ad un condannato a pena capitale, che morì all'istante. Avute così evidenti prove del delitto, l'imperatore ordinò che il medico perdesse la vita sul palco, e che Pietro delle Vigne fosse abbacinato; ma questi diede del capo [88] contro il muro con tanta violenza, che si spaccò il cranio, e morì dopo pochi istanti[73]. Matteo Paris è il solo storico contemporaneo che parli circostanziatamente della morte di quest'uomo straordinario; e non bastano a smentirlo le vaghe ed incerte relazioni degli scrittori guelfi de' tempi posteriori. Non devo per altro lasciar di dire che nel secolo decimoquarto credevasi comunemente che Pietro [89] fosse stato vittima della calunnia; onde Dante, ponendolo tra i suicidi nell'inferno, gli fa dire: Canto XIII, vers. 70:
«L'animo mio, per disdegnoso gusto,
«Credendo, col morir, fuggir disdegno,
«Ingiusto fece me contro me giusto.»
Allorchè Federico ebbe notizia della scomunica pronunciata dal Sinodo, non si lasciò punto smuovere, e scrisse a tutti i principi d'Europa per rappresentar loro che il clero, corrotto dalle ricchezze, abusava stranamente del suo potere: scrisse di nuovo al re di Francia per attaccare l'irregolare condotta del papa, e mostrare la nullità del processo contro di lui intentato, invitandolo a riflettere che potrebbe ben venire la volta loro, quando i sovrani non si unissero a reprimere l'arroganza della corte di Roma[74]. Ma in breve oppresso da spiaceri d'ogni genere, tradito dai suoi più cari amici, abbandonato dai principi [90] tedeschi che avevangli sostituito, in qualità di re dei Romani, Enrico, langravio della Turingia, il quale sconfiggeva suo figlio, il re Corrado, ad altro più non pensò che a pacificarsi col papa, onde metter fine alla travagliata sua vita. A tale oggetto sottoscrisse in presenza di molti prelati una professione di fede conforme affatto a quella della Chiesa; ed in pari tempo chiedeva la mediazione di san Luigi: ma tutto inutilmente.
(1247) Nel susseguente anno, non ommise Federico di rinnovare le sue calde istanze per rientrare in seno della Chiesa, sebbene avesse avuta notizia della totale disfatta e della morte del suo rivale, Enrico di Turingia, all'assedio di Ulma. Le condizioni da lui offerte nel presente anno, e ne' due successivi con nuovi schiarimenti, pare che lo mostrino atterrito dalle censure della Chiesa, e che, a fronte della fierezza del suo carattere, e del prospero stato de' suoi affari, non avrebbe ricusato di sottoporsi alle più penose umiliazioni, ai più dolorosi sagrificj, per rappacificarsi col clero. In questo tempo san Luigi si apparecchiava a condurre in Egitto quell'armata di crociati ch'ebbe così sventurato fine. Federico proponeva [91] di unire tutte le sue forze a quelle del re francese, e di fare insieme l'impresa d'Oriente; e perchè tale offerta non era di piena soddisfazione del papa, aggiunse l'altra condizione di militare contro gl'infedeli oltre mare finchè vivesse. Acconsentiva inoltre alla divisione della sua eredità, purchè non ne fossero privati i suoi figliuoli. L'Impero germanico non doveva più essere unito al regno di Puglia; ma il primo rimarrebbe a Corrado, ed avrebbe il secondo Enrico, figlio di Federico e d'Isabella, sua terza moglie[75]. E perchè Innocenzo IV, rigettando la confessione di fede fatta avanti ai prelati per iscolparsi del delitto d'eresia, aveva dichiarato appartenere a lui solo la disamina della coscienza del monarca, e ch'era disposto ad ascoltarlo, qualora si recasse personalmente alla corte pontificia[76]; Federico volle acconsentire ancora a quest'ultima umiliazione, e si pose effettivamente [92] in viaggio, attraversando la Lombardia con un treno affatto pacifico, e non toccando il territorio delle città nemiche, delle quali pareva volerne scordare le offese[77]. E già era giunto a Torino, quando ebbe avviso che i parenti del papa gli avevano ribellata la città di Parma. Abbiamo già osservata che tre delle principali famiglie, i Rossi, i Lupi ed i Correggeschi, essendosi dichiarati del partito guelfo, avevano dovuto uscir di Parma. Erano costoro parenti o alleati dei Fieschi, i quali, all'istante che fu nominato papa uno della loro famiglia, eransi dati alla fazione nemica dell'Impero. Altri fuorusciti parmigiani avevano pure raggiunti i primi a Piacenza, aspettando che le prediche di alcuni frati lasciati in Parma disponessero quel popolo alla sedizione. Quando credettero giunto l'istante favorevole, la domenica del 16 giugno 1247, tutti gli emigrati parmigiani s'avanzarono sotto il comando di Gherardo da Correggio fino al Taro, ove trovarono sull'opposta riva Enrico Testa, podestà imperiale, con un grosso corpo di nobili e popolani di Parma; il quale credendosi sicuro della [93] vittoria attraversò il Taro per attaccarli: ma, durante la battaglia, tutti quelli della sua armata, che segretamente favorivano i Guelfi, si unirono ai nemici. Quest'impensato avvenimento portò lo spavento nelle truppe, che non sostennero l'urto de' Guelfi, restando tra i morti lo stesso podestà, Manfredi di Cornazano, ed Ugo Manghirotti, due de' più illustri Ghibellini, salvandosi gli altri colla fuga. Intanto la massa del popolo, perduti i capi, manifestava con segni di acclamazione il suo attaccamento alla Chiesa, e conduceva in trionfo gli emigrati entro le mura di Parma. Gherardo da Correggio venne sulla pubblica piazza proclamato podestà, e dati il palazzo, le mura e le torri in guardia ai suoi soldati.
Enzo, ossia Enrico, figliuolo di Federico, e re di Sardegna, trovavasi allora nel contado di Brescia all'assedio di Quinzano. Avuto avviso della rivoluzione di Parma, abbrucia le macchine guerresche, e viene a grandi giornate fino alle rive del Taro, lusingandosi di sottomettere i ribelli con un colpo di mano. Federico, informato a Torino dello stesso avvenimento, avvampa di collera contro il papa, e deposto con orrore il pensiero di andare a Lione per [94] umiliarsi innanzi ad un uomo che non cessava di macchinare contro di lui, riunisce tutti i suoi partigiani delle vicine città, e fattane una piccola armata, raggiugne il figlio sulle rive del Taro, di dove si avanza fino a pochi passi dalla città[78].
La perdita di Parma gli toglieva la comunicazione colle città ghibelline dalle Alpi al suo regno di Puglia, la quale mantenevasi per Torino, Alessandria, Pavia, Cremona, Parma, Reggio, Modena e Toscana; oltrecchè Parma e Cremona gli aprivano un'altra importantissima comunicazione con Verona, gli stati d'Ezelino e la Germania. Affrettava perciò la leva di una formidabile armata e faceva avanzare a grandi giornate un corpo di Saraceni, i soli suoi sudditi non esposti all'influenza de' frati, nè al terrore delle scomuniche. Ma prima che potesse formare un'armata abbastanza forte per fare l'assedio di Parma, i Guelfi ebbero tempo di provvederla abbondantemente di truppe e di vittovaglie. Il legato del papa, Gregorio di Montelungo, vi si chiuse con mille soldati scelti di Milano, e seicento di [95] Piacenza, ch'egli vi aveva condotti per difficili strade. Un altro rinforzo vi spediva da Mantova il conte di san Bonifacio, il quale alla testa d'un altro corpo di Mantovani entrava in pari tempo nel territorio cremonese, per guastarlo, onde sforzare i Cremonesi ad abbandonare il campo dell'imperatore per venire in soccorso della loro patria. Anche il marchese d'Este, poco curandosi di lasciare in balìa di Ezelino le proprie terre, si gettò con un corpo di Ferraresi in Parma, ov'eransi pure adunati tutti i fuorusciti guelfi di Reggio, di modo che vi si trovarono due mila cavalieri forastieri e mille della città. La milizia dividevasi per quartieri; e le milizie di due porte occupavansi ogni giorno della guardia della terra, dello scavamento di nuove fosse e dell'innalzamento di bastioni e di palizzate per supplire alla conosciuta debolezza delle antiche mura.
Mentre Parma era alleata dell'imperatore, gli aveva spediti dei soldati, ch'egli teneva nelle vicine città; de' quali, essendogli, dopo l'accaduto, talmente sospetta la fede da poterli trattare come aperti nemici, ne fece imprigionare ottanta a Reggio e cinquanta in Modena, ritenendoli per ostaggi; ed inoltre fece arrestare [96] tutti i giovani parmigiani che trovavansi allo studio di Modena, i quali tutti spogliati de' loro cavalli, delle armi, dei libri e di quanto avevano, furono mandati carichi di catene al campo imperiale[79].
Intanto l'armata ghibellina riceveva ogni giorno nuove genti; erano arrivati dalla Puglia molti Saraceni a piedi ed a cavallo: Ezelino aveva seco condotte le milizie di Padova, di Vicenza, di Verona; ed i Ghibellini di tutte le città d'Italia si univano sotto le bandiere di Federico per ricominciare una sanguinosa guerra: ma ossia che le forze ghibelline non fossero tali da poter impedire ai nemici di battere la campagna, oppure gli mancassero le macchine d'assedio, nè assediò la città, nè venne a giornata con Bianchino da Camino ed Alberico da Romano, i quali con un'armata guelfa eransi trincerati dalla banda settentrionale di Parma sull'altra riva del Po. Tutte le fazioni di questa campagna si ridussero dunque ad alcune scaramucce coi Saraceni, i quali cercavano d'impedire che fosse vittovagliata la città: al quale oggetto s'impadronirono un dopo l'altro de' castelli del territorio [97] parmigiano, tranne Colorno; e tutti li distrussero; di modo che le bande de' soldati guelfi, quando ancora potevano scorrere la campagna, non trovavano viveri di veruna sorte per portare in città: onde i cittadini cominciavano a soffrire la fame, ed i viveri si vendevano a carissimo prezzo.
Credette Federico giunto l'istante opportuno d'atterrire gli assediati con sanguinose esecuzioni. Fece dunque condurre nel prato di Flazano, a due tiri di balestra dalle mura, quattro prigionieri parmigiani, due gentiluomini, e due borghesi, e fece loro tagliar il capo, proclamando in pari tempo che ogni giorno, finchè s'arrendesse la città, farebbe morire quattro Parmigiani, e mille ne teneva allora Federico in poter suo; ma il podestà ed i consiglieri, cui il consiglio generale aveva dati illimitati poteri per la difesa della città, presero le più rigorose misure per impedire che dal campo imperiale si recasse notizia di quanto accadeva; onde il pericolo che correvano tanti cittadini, non consigliasse i loro parenti ed amici a qualche atto di debolezza. Molte spie e messi, che tentarono di penetrare nascostamente in città, furono colti dalle guardie del podestà, [98] ed abbruciati nella pubblica piazza, talchè niuno della città osò parlare di entrar in trattati col nemico. Frattanto nel susseguente giorno erano stati decapitati due altri prigionieri, e tutti gli altri minacciati dello stesso destino, quando i soldati di Pavia che militavano nel campo dell'imperatore, lo supplicarono ad accordar loro la vita de' prigionieri. «Noi siamo venuti, gli dissero, per far guerra ai Parmigiani, ma colle armi e sul campo di battaglia, non per far il carnefice.» L'imperatore si lasciò placare, e da quel punto il suo campo non fu più macchiato da così odiose esecuzioni[80].
Non era lontano l'inverno, e tutto annunziava che l'assedio non sarebbe così presto ridotto a termine; onde Federico che non voleva scostarsi dalla città ribelle, risolse, per assicurare alla sua armata più tollerabili quartieri d'inverno, di fabbricare una città, cui diede il nome di Vittoria, nella quale, poichè si fosse impadronito di Parma, pensava di trapiantarne gli abitanti. Ne fece porre i fondamenti a duecento passi da Parma lungo la strada che conduce a [99] Piacenza. La fece circondare di larghe fosse, dietro alle quali alzavansi bastie di terra difese da palizzate: le porte avevano ponti levatoj, ed il canale, detto naviglio, che scendeva da Parma fino al Po, fu sviato dal suo corso per farlo entrare nelle fosse di Vittoria per girare i mulini. In pari tempo i Saraceni ebbero ordine di trasportare alla nascente città i materiali delle case distrutte nel territorio parmigiano[81].
Mentre Federico occupavasi della fondazione di Vittoria, e che Enzo, suo figliuolo, guardava la linea del Po, le città di Mantova e di Ferrara allestirono una flottiglia carica di vittovaglie d'ogni sorta; e fattala rimontare il fiume, mentre l'armata di terra cercava di forzare il ponte custodito da Enzo, introdussero il loro convoglio per il fiume Parma nella città.
(1248) Intanto l'imperatore allontanavasi spesse volte dall'armata, per cacciare col falcone, poichè la cattiva stagione non gli permetteva di muovere le truppe. La guarnigione di Vittoria erasi, durante l'inverno, indebolita assai per essersi molti capi ghibellini recati [100] alle loro case. Avutosi di ciò sentore in città, il 18 febbrajo, i Parmigiani coi Guelfi sussidiarj progettarono di attaccare improvvisamente la città di Vittoria, mentre l'imperatore stava cacciando co' suoi falconi; e l'assaltarono così bruscamente, che se ne resero ben tosto padroni cacciandone gl'imperiali. Perirono in questo fatto molti Saraceni, quel Taddeo Suessa che aveva tanto caldamente difesa la causa di Federico innanzi al concilio di Lione, il marchese Lancia, ed altri assai distinti personaggi; in tutto circa due mila, periti sul campo di battaglia, e tre mila fatti prigionieri. Caddero in mano de' vincitori il carroccio de' Cremonesi, il tesoro della camera imperiale ricco di molto numerario, di corone, di giojelli, di vasi preziosi. La nuova città fu incendiata in modo, che non rimase pietra sopra pietra. Federico di ritorno dalla caccia incontrò i fuggiaschi e fu con loro strascinato verso Cremona, inseguìto dai vittoriosi Parmigiani fino alle rive del Taro[82].
Non molto dopo questa disfatta Federico ebbe avviso che suo figliuolo Corrado, cui aveva affidata l'amministrazione della Germania, era stato più volte battuto da Guglielmo, conte d'Olanda, coronato dal partito guelfo quale successore del langravio di Turingia, destinandolo alla dignità imperiale tostochè ne fosse spogliato Federico. L'imperatore, oppresso da tante calamità, chiese nuovamente la pace, interponendo i buoni uffici di san Luigi. Questi stava per imbarcarsi con i crociati; e siccome i Genovesi gli somministravano parte de' vascelli pel passaggio del mare, Federico, per avvicinarsi a lui, andò fino ad Asti, offerendo nuovamente la propria persona e le sue truppe per la difesa di Terra santa, a condizione solamente che gli fosse accordata l'assoluzione; ma l'inesorabile pontefice non voleva perdere verun frutto della sua vittoria. Per altro tanta ostinazione non era senza pericolo; essendovi alcuni, anche tra i signori francesi, [102] che, compassionando le disgrazie di Federico, disapprovavano la condotta del clero. Quattro grandi feudatarj, il duca di Borgogna, quello di Bretagna ed i conti d'Angoulême e di saint Paul[83] convennero tra di loro di metter limiti all'autorità giudiziaria che il clero aveva usurpata, e di proteggere coloro che venissero colpiti dalla scomunica, qualunque volta loro sembrasse ingiusta la sentenza degli ecclesiastici. «Non è già colla predicazione evangelica, dicevano nel loro manifesto, che si fondò sotto Carlo Magno l'impero de' Franchi, ma colla forza delle armi; oggi coll'astuzia delle volpi, gli ecclesiastici, un tempo schiavi, usurparono i diritti de' principi.» Tutta l'arroganza ed il fiele d'Innocenzo IV sarebbero venuti meno, se questi signori, dando vigorosa esecuzione al loro progetto, avessero forzato il papa a tornare in Italia e ad avvicinarsi al pericolo. Ma alcuni degli alleati lasciaronsi smuovere dalle scomuniche e dalla veemenza con cui Innocenzo eccitò contro di loro tutto il clero di Francia; altri furono corrotti dai regali e dai beneficj [103] che Innocenzo seppe opportunamente spargere con prodigalità tra le loro famiglie.
Sebbene Federico sentisse tutto il peso delle sue avversità, e desiderasse la pace, non ommise di dare non dubbie prove del suo fermo carattere allorchè stabilì il partito ghibellino nella repubblica di Fiorenza. Questo partito era da lungo tempo in Toscana preponderante. Pisa, la più potente città di questa contrada, era affatto ligia all'imperatore; Siena, fiorente città che contava in allora nell'interno delle sue mura undici mila ottocento famiglie, quasi fino dalla sua origine erasi costantemente conservata fedele al partito; le meno potenti città di Pistoja e di Volterra, e quasi tutti i feudatarj trovavansi armati per la stessa causa; per ultimo ancora nelle città considerate guelfe numerosi erano i Ghibellini e non esclusi dalle cariche pubbliche.
Fiorenza era capo della lega guelfa che comprendeva Lucca, Montalcino, Monte-Pulciano, Poggibonzi e un limitato numero di gentiluomini. Ma quantunque Fiorenza facesse vivamente guerra agli abitanti di Siena, il vicendevole loro odio prodotto da gelosia e da private ingiurie era affatto [104] indipendente dalla gran lite dell'Impero. Nè i Fiorentini eransi apertamente dichiarati contro l'imperatore, riconoscendo anzi la repubblica loro subordinata sempre alla legittima, ma limitata autorità del monarca. Dopo la morte di Buondelmonti accaduta del 1215, la repubblica non aveva potuto riconciliare le famiglie nobili che avevano la maggior parte dell'amministrazione della città: si azzuffavano queste frequentemente o presso le torri che ogni potente famiglia aveva fabbricate, o in quattro o cinque delle principali piazze, nelle quali i nobili d'ogni quartiere avevano erette delle fortificazioni mobili dette serragli, che consistevano in barricate o cavalli di frisa con cui chiudevasi parte della strada, e servivano a proteggere coloro che combattevano. Alcune principali famiglie comandavano le barricate innalzate al di fuori dei loro palazzi, e si affrettavano di chiuderle quando nasceva qualche tumulto: gli Uberti, per modo d'esempio, i quali avevano quello spazio oggi occupato dal palazzo vecchio, signoreggiavano la strada che sbocca da questa banda sulla gran piazza; i Tedaldini difendevano la porta di san Pietro, i Cattanei la torre del Duomo. Una [105] disputa qualunque per un affare pubblico o privato, un motto offensivo incautamente pronunciato, metteva le armi in mano a tutta la nobiltà; ognuno portavasi al suo luogo, e si combatteva contemporaneamente in sei o sette parti della città; ma la sera cessava la rissa, e le parti nemiche ritiravano tranquillamente i loro estinti: il giorno susseguente era consacrato ai funerali; ed i valorosi Guelfi e Ghibellini s'incontravano pacificamente, ed adunavansi ancora talvolta per decretare la gloria dei combattimenti del precedente giorno a quello che aveva date prove di maggior valore ed intrepidezza. Tutti uniti sacrificavano egualmente le private loro nimistà alla gloria della patria; e durante la guerra di Siena, nella quale i Fiorentini ebbero molti vantaggi, niuno avrebbe potuto sospettare che la loro armata fosse in parte composta d'ufficiali e soldati ghibellini.
Mentre trovavasi ancora all'assedio di Parma, Federico, per acquistare maggiore influenza su questa repubblica, nominò suo vicario in Toscana uno de' suoi figli naturali, Federico, re d'Antiochia, cui diede il comando di mille seicento cavalli tedeschi. Nello stesso tempo scrisse [106] alla famiglia degli Uberti, la principale del partito ghibellino, per muoverla a fare un generoso sforzo in di lui favore, cacciando i loro antagonisti fuori di Fiorenza[84]. In fatti gli Uberti presero le armi, ed i Guelfi si affrettarono di porsi in difesa delle loro barricate: ma i Ghibellini non si curando di difendere i proprj trinceramenti si unirono tutti alla casa degli Uberti, e rimasero facilmente vittoriosi dei Guelfi d'un solo quartiere che si erano loro opposti. Marciarono poi tutti uniti contro un'altra barricata guelfa, e la superarono colla medesima facilità; ed inseguendo così di posto in posto i loro avversarj, gli sconfissero dappertutto prima che potessero unirsi, finchè arrivarono alle barricate dei Guidalotti e dei Bagnesi in faccia a porta san Pier Scheraggio. Tutti i Guelfi della città sottrattisi alle precedenti zuffe eransi adunati entro di queste barricate, e per tal modo i due partiti trovaronsi in questo luogo con tutte le loro forze in presenza l'uno dell'altro. Ma mentre durava la zuffa, trovando le porte, secondo l'intelligenza, [107] aperte, entrò in città Federico d'Antiochia, alla testa di mille seicento cavalieri tedeschi. I Guelfi, dopo essersi difesi quattro giorni contro i proprj concittadini e contro i Tedeschi ne' loro trinceramenti, cedettero alla superiorità delle forze nemiche e sortirono da Fiorenza tutt'insieme la notte della candelora, ritirandosi o ne' loro poderi del contado, o ne' castelli di Montevarchi e di Capraja, posti in Val d'Arno, dove si fortificarono di bel nuovo.
I Ghibellini vittoriosi, rimasti padroni della città, atterrando tutte le fortezze che fin allora avevano reso forte l'opposto partito, pensarono di togliergli ogni speranza di ricuperare il perduto potere. Trentasei palazzi colle loro torri furono in pochi giorni distrutti[85], tra i quali primeggiava la torre de' Tosinghi sulla piazza di mercato vecchio tutta ornata di colonne di marmo, ed alta centotrenta braccia. L'architettura militare era in allora il solo oggetto di lusso de' Fiorentini; onde perirono in questa circostanza [108] molte di quelle cose che formavano il principale ornamento della città, ed una non piccola parte della pubblica fortuna. E questo primo esempio dato dai Ghibellini di far la guerra ai più sontuosi edificj non fu sventuratamente dimenticato ne' susseguenti tempi dall'opposta fazione.
(1249) Non contenti dell'intero dominio di Fiorenza, i Ghibellini volevano altresì disporre a loro arbitrio di tutti i castelli de' Guelfi: onde in marzo del seguente anno assediarono Capraja, ove, dopo l'esiglio da Fiorenza, eransi ritirate le famiglie de' loro avversarj. L'istesso imperatore, rientrato in Toscana, si pose a Fucecchio, facendo stringere Capraja con tanto vigore, che in capo di due mesi gli assediati, non avendo più viveri, dovettero rendersi a discrezione. Federico mandò nella Puglia quasi tutti i più distinti personaggi fatti prigionieri a Capraja, e gli si dà colpa d'averne condannati molti alla morte, altri alla perdita degli occhi.
Cacciati i Guelfi da Fiorenza, tutta la Toscana rimaneva a disposizione di Federico: ma i suoi affari non procedevano in Lombardia ed in Romagna con eguale fortuna; perchè i fuorusciti [109] fiorentini, riparatisi in Bologna e nelle vicine città, combattevano valorosamente contro il partito imperiale. Il papa aveva spedito suo legato ai Bolognesi il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, per istimolarli a porre la Romagna sotto il dominio della santa sede. Il giorno susseguente al suo arrivo, il cardinale fu ammesso nel consiglio del comune, nel quale dal popolo e dal prelato si fissò il piano della futura campagna. Era pretore di Bologna Bonifacio di Cari, di Piacenza, che, uscito ne' primi giorni di maggio con una bella e poderosa armata e col carroccio del comune, si fece a guastare la parte del territorio modonese, posta al levante del fiume Scultenna, ossia Panaro; occupò Nonantola, e spianò i forti di san Cesario e di Panzano. Di là, passando all'altra estremità del distretto bolognese, prese molte castella soggette ad Imola, che poi cinse d'assedio.
Era Imola troppo vicina a Bologna per non soffrire dall'ingrandimento d'una città rivale, ed aveva più volte fatto infelice esperimento della inferiorità delle sue forze, onde sentiva di non potersi lungamente sostenere. Altronde i Bolognesi non volevano toglierle la libertà e l'indipendenza; ma chiedevano soltanto che [110] si unisse al partito della Chiesa, promettendole fedeltà. A tali condizioni i due podestà segnarono tra le repubbliche un trattato di pace il 6 maggio del 1248, che fu all'istante approvato dai due consigli generale e speciale, dai consoli de' mercanti, dagli anziani del popolo e dai maestri dei collegi della repubblica bolognese adunati dal podestà nel campo medesimo[86], perciocchè la repubblica trovavasi tutta intera nell'esercito; la sovrana podestà passando alternativamente dal podestà al popolo e dai cittadini, diventati soldati, al magistrato loro generale.
Dopo questo, l'armata bolognese marciò sopra Faenza, Bagnocavallo, Forlimpopoli, Forlì e Cervia, le quali, non essendo caldamente attaccate al partito ghibellino, lo abbandonarono, giurando fedeltà alla Chiesa ed alla lega di Bologna.
(1249) Nel susseguente anno il cardinale Ubaldini faceva nuove istanze alla repubblica bolognese perchè trattasse vigorosamente la guerra contro gl'imperiali ora ridotti in basso stato; non avendo Enzio, figliuolo naturale di Federico, [111] nominato re di Sardegna e suo vicario in Lombardia, che poche forze sotto i suoi ordini: di modo che, quantunque Modena e Reggio fossero le sole città alle quali egli doveva specialmente aver l'occhio, non aveva potuto impedire che varie loro castella si dassero alla parte guelfa. I Bolognesi, determinati di approfittare della presente debolezza degl'imperiali, offrivano al marchese d'Este la carica di capitano generale dell'esercito alleato e delle loro milizie; il quale, trovandosi allora infermo, mandava, rifiutandola, in ajuto de' Bolognesi tre mila cavalli e due mila fanti. L'armata bolognese era composta di mille cavalli, di ottocento uomini d'arme e di tre tribù della città, cioè porta Stieri, porta san Procolo e porta Ravegnana; la quale sortì in bella ordinanza preceduta dal carroccio, e capitanata dal pretore Filippo Ugoni e dal cardinale Ottaviano degli Ubaldini. Posti sufficienti presidj ne' più importanti castelli di Nonantola, Crevalcore e Castelfranco, si avanzò fino al Panaro contro i Modenesi, i quali, avuto sentore dei movimenti dei loro nemici, ne avevano dato avviso al re Enzio, che, poste insieme speditamente le truppe napoletane e tedesche [112] lasciategli dal padre, le milizie reggiane e cremonesi, gli emigrati di Parma, Piacenza e delle altre città guelfe, formò un'armata di quindici mila uomini. Erasi lusingato di trovarsi a fronte dei Bolognesi prima che passassero il Panaro che scorre tre miglia al di là di Modena; ma giunto a Fossalta, distante due miglia, seppe che i nemici avevano occupato il ponte di sant'Ambrogio, e passato il fiume. Le due armate, sebbene si trovassero in presenza ed in aperta campagna, non osarono, per alcuni giorni, di venire alle mani essendo pressochè eguali di forze. Di ciò avutone avviso il senato di Bologna fece marciare due mila uomini della quarta tribù, detta di san Pietro, ordinando al pretore di venire a giornata immediatamente. Perciò il 26 di maggio, in sul far del giorno, essendo la festa di sant'Agostino, i Bolognesi attaccarono i nemici con un movimento che fecero a sinistra, mostrando di volerli prendere alle spalle dalla banda degli Appennini. Li ricevette valorosamente Enzio, il quale aveva divisa la sua gente in due corpi di battaglia, ed in uno di riserva, collocando in cadauno de' primi due metà de' suoi soldati tedeschi, ne' quali assai [113] fidava, onde sostenessero gl'Italiani; e formando la riserva della sola milizia modenese. Dall'altro canto il pretor bolognese aveva partito il suo esercito in quattro corpi: nel primo trovavansi i pedoni ausiliarj del marchese d'Este e parte della sua cavalleria, nel secondo il rimanente de' suoi cavalieri, e due mila Bolognesi della tribù di san Pietro, ch'erano di fresco arrivati al campo; componevano il terzo le milizie delle tre altre tribù ed ottocento cavalli bolognesi; e nella quarta trovavansi le truppe scelte sotto gl'immediati ordini dello stesso pretore consistenti in novecento cavalli, mille cittadini e novecento arcieri a piedi. Questa divisione che dimostra l'intenzione di economizzare le proprie forze, di condurle successivamente alla battaglia, di sostenere con truppe fresche quelle che si vedessero piegare in faccia al nemico, è una non dubbia prova de' progressi che andava facendo l'arte della guerra. La battaglia si mantenne vigorosa fino a sera, senza che si vedesse alcuno apparente vantaggio dall'una o dall'altra banda. Enzio, caduto sotto il cavallo ucciso, fu difeso da' suoi Tedeschi finchè fu rimesso in sella. Non pertanto a notte già fatta i [114] Ghibellini avevano cominciato a piegare in modo, che si ruppe l'ordine della battaglia; onde inseguiti dai nemici, molti perirono sotto i loro colpi, altri smarriti in una campagna, tagliata da' profondi canali, trovaronsi separati dai loro amici e fatti prigionieri. Furono di questo numero lo stesso re, Buoso di Dovara che già cominciava ad essere potente in Cremona, e molti gentiluomini e cittadini modenesi.
Il pretor bolognese, non volendo esporre a qualche impensato accidente un prigioniere di tanta importanza qual era Enzio, si pose quasi subito in cammino per condurlo a Bologna[87]. Allorchè [115] giugneva presso al castello d'Anzola incontrò le milizie bolognesi, che, prevenute dell'accaduto, venivangli incontro per onorarne il trionfo colle trombette ed altri strumenti. Da questa borgata fino alla città tutta la strada era affollata di gente, curiosa di vedere tra i prigionieri il principe Enzio, e per essere figliuolo di così potente imperatore, e perchè re egli stesso. Oltre di ciò, la sua fresca età di venticinque anni, i biondi dorati capelli che gli scendevano fin sopra i fianchi, la gigantesca statura, la nobiltà del viso su cui vedevansi vivamente espressi il suo coraggio e la sua sventura, tutto facevanlo oggetto della universale ammirazione. Grande fu veramente la sua sventura, perciocchè il senato di Bologna fece una legge, poi sanzionata dal popolo, colla quale si vietava per sempre di concedere ad Enzio la libertà, per grandi che fossero le offerte o le minacce del magnanimo suo padre. In pari tempo la repubblica provvedeva nobilmente ai bisogni dell'illustre prigioniere per tutto il tempo del viver [116] suo, e lo alloggiava in uno de' più magnifici appartamenti del palazzo del podestà. Per lo spazio di ventidue anni, che tanti ne sopravvisse alla sua disgrazia, i nobili bolognesi lo visitavano ogni giorno, onde temperare in qualche modo i suoi mali, ma si mantennero egualmente inaccessibili alle offerte od alle minacce di Federico[88].
Poi ch'ebbe posto l'illustre suo prigioniero in luogo di sicurezza, il pretore accordò più settimane di riposo alle truppe; e solo ne' primi giorni di settembre le condusse nuovamente nel territorio di Modena, mentre i Parmigiani avevano convenuto di attaccare, dal canto loro, la città di Reggio, onde queste due città ghibelline non potessero ajutarsi a vicenda. La repubblica di Modena era di lunga mano più debole della bolognese; e la sconfitta d'Enzio, e la lontananza di Federico scoraggiato da tante sventure, facevano apertamente sentire ai Modenesi che non potevano trovare [117] salvezza che nel proprio coraggio. Si chiusero perciò entro le proprie mura, mostrandosi lungo tempo insensibili ai guasti del loro territorio, ed agl'insulti de' Guelfi accampati presso i loro baluardi, finchè i Bolognesi li forzarono ad uscire dalle porte con un'ingiuria creduta in allora tanto grave, che tutti gli storici contemporanei la trovarono meritevole di particolare ricordanza. Essi gettarono con una catapulta entro la città il cadavere d'un asino cui avevano posti dei ferri d'argento, il quale andò a cadere appunto in mezzo alla vasca della più bella fontana della città. Dopo tanta ingiuria i Modenesi si credettero dal loro onore costretti ad uscire contro ai nemici: resi dalla collera più valorosi, ruppero le file degli assedianti, e giunti alla macchina fatale con cui erano stati insultati, la fecero in pezzi e tornarono trionfanti in città.
Dopo tal fatto che poneva in sicuro il loro onore, si mostrarono meno difficili ad ascoltare le oneste condizioni di pace che proponevano loro i Bolognesi. Il trattato fu proposto al pretorio di Modena il 7 dicembre del 1249, e fu esaminato dai maestri delle arti e dal consiglio generale; poscia il 19 gennajo [118] 1250 venne discusso in Bologna dai varj consiglj, dagli anziani del popolo, dai consoli de' mercanti, e da tutti i collegi, ed avendo ottenuta l'universale approvazione, le due nazioni giurarono la pace sotto le seguenti condizioni: che il comune di Modena si obbligava a conservarsi amico ed alleato di quello di Bologna, a dargli ajuto contro i suoi nemici, nessuno eccettuato, come pure a soccorrere il legato apostolico; prometteva inoltre di non far nuove alleanze senza il consentimento del legato e della repubblica di Bologna; di più richiamava tutti i fuorusciti della fazione degli Aigoni (così chiamavansi in Modena i Guelfi), e li rimetteva in possesso de' loro beni. I due partiti dei Grasolfi, o Ghibellini, e degli Aigoni, o siano Guelfi, furono autorizzati a nominare il proprio podestà; ma gli ultimi dovettero nominare un Bolognese. Dall'altra parte il comune di Bologna rendeva a Modena tutte le terre conquistate nella presente guerra, e si faceva mallevadore della pace tra le opposte fazioni; ed i prigionieri furono dai due comuni fatti liberi senza pagamento di taglia. Intanto il legato Ottaviano Ubaldini riconciliò Modena colla Chiesa, togliendo l'interdetto [119] in cui era incorsa da tanto tempo, e permettendo la celebrazione dei divini uffici[89].
Mentre i Guelfi trionfavano nella Romagna e nella Lombardia, la parte ghibellina otteneva non minori vantaggi nella Marca Trivigiana. Da che Federico erasi, l'anno 1239, allontanato da Padova, Ezelino, come si disse nel precedente capitolo, approfittando della ottenuta indipendenza, faceva morire tutti coloro che credeva suoi nemici; ed aveva in modo rassodata in tutta la Marca la sua tirannide, che appena aveva più bisogno di riconoscere l'autorità imperiale. Egli incominciò dall'attaccare le fortezze d'Agna e di Brenta, occupate dai fuorusciti padovani, e resosene padrone, aveva fatti perire tutti quegl'individui delle illustri famiglie dei Carrara e degli Avvocati, ch'eransi colà riparati per sottrarsi alla sua crudeltà. Era in appresso entrato nel territorio del suo capital nemico, il marchese d'Este, ed aveva, nel periodo di dieci [120] anni conquistate una dopo l'altra tutte quelle fortezze, non escluse quelle di Montagnana e di Este, che pure si credevano inespugnabili. Nel distretto di Verona erasi reso padrone del castello di san Bonifacio, antico patrimonio di un'illustre famiglia da più anni rivale della sua; aveva tolte molte terre alla città di Treviso in allora governata da suo fratello Alberico da Romano, il quale pareva che avesse abbracciato il partito guelfo: finalmente aveva a forza occupate le piccole città di Feltre e di Belluno, che da molto tempo eransi poste sotto la protezione di Biachin da Camino, gentiluomo guelfo, che Ezelino spogliò affatto de' suoi dominj.
Ma nel tempo che il signore da Romano andava in tal modo dilatando il suo dominio, giustificando con ciò il titolo che aveva preso di vicario imperiale in tutti i paesi posti tra le Alpi trentine e l'Oglio, faceva scorrere il sangue a torrenti in tutte le città a lui sottomesse, e con una funesta esperienza insegnava agl'Italiani quale dev'essere un tiranno che acquista signoria in un paese avvezzo alla libertà[90]. [121] Farebbe orrore un troppo circostanziato racconto di tutti i suoi delitti; il semplice annovero delle sue vittime non riuscirebbe interessante che a coloro cui non ne sono sconosciuti i nomi, nomi illustri solamente entro i confini della Venezia: ci limiteremo quindi a scegliere in così vasta messe alcuni tratti bastanti a dare un'adequata idea di quest'uomo crudele.
Del 1228 aveva Ezelino fatto prigioniere Guglielmo nipote di Tisone di Campo san Piero, in allora fanciullo di pochi anni, e lo aveva fatto educare nella propria corte. Era costui suo nipote; e morti essendo Tisone e Giacomo di Campo san Piero, pareva che la nimicizia di Ezelino contro questi due signori dovesse essersi spenta, ed aver ripreso il debito vigore, i legami del sangue. Accadde tutt'all'opposto, che Ezelino, l'anno 1240, fece sostenere il giovanetto Guglielmo sotto pretesto di averlo come ostaggio: onde quattro dei signori suoi più vicini parenti presentaronsi ad Ezelino come mallevadori di Guglielmo. Vinto dalle loro preghiere lo rilasciò; ma Guglielmo, [122] troppo giovane per riflettere in mezzo al turbamento ed al terrore, ch'egli comprometteva i suoi generosi amici, fuggì al suo castello di Treviglio che fortificò in modo da non dover paventare un colpo di mano del tiranno. Ezelino fece allora imprigionare i quattro signori di Vado, che furono custoditi nella fortezza di Cornuda, di cui dopo pochi anni fece murare le porte. Per interi giorni udironsi questi sciagurati che con lamentevoli grida domandavano pane; e quando furono, dopo morti, aperte le prigioni, si trovò che le loro ossa erano coperte soltanto da una pelle nera e diseccata.
Nondimeno Guglielmo da Campo san Piero, dopo essersi conservato indipendente sei anni, atterrito dai progressi grandissimi che faceva Ezelino, tentò di riconciliarsi seco lui; gli consegnò le sue fortezze, e venne a mettersi tra le sue mani dichiarando di volergli essere amico, siccome nipote. Ma si racconta che, la notte medesima in cui trovavasi in potere del tiranno, credette di vedere in sogno le ombre de' suoi zii, i signori di Vado, che chiedendo pane, gli ricordavano la dolorosa loro morte ch'egli aveva troppo incautamente [123] dimenticata, e gli fecero sentire, ma troppo tardi, a qual crudele signore si fosse fidato. Non tardò a farne un crudele esperimento. Del 1249 Ezelino gli ordinò di ripudiare la consorte, siccome quella che apparteneva ad una famiglia da lui proscritta; al che rifiutandosi Guglielmo, fu imprigionato, e dopo un anno condannato a morte, confiscati tutti i suoi averi, e posti in ferri i suoi parenti senza distinzione di sesso o di età[91].
Due delle vittime d'Ezelino illustrarono gli estremi istanti della loro esistenza con generosi atti di coraggio. Raineri di Bonello tradotto avanti al tribunale d'Ezelino fu in presenza di tutto il popolo accusato da questi d'aver tentato di dar Padova in mano del marchese d'Este. Raineri rispose denunciando al popolo come apertamente calunniosa ed infame tale accusa, e dichiarando che il vero motivo del supplicio imminente era d'aver dichiarato il suo rammarico per avere i Padovani affidata al tiranno l'autorità sovrana, di che ne [124] facevano così amara penitenza. Ezelino lo condannò ad essere decapitato sulla pubblica piazza[92]. Giovanni di Scanarola fu condotto innanzi al podestà di Verona Enrico d'Ygna, uomo venduto ad Ezelino, e suo degno satellite. Sebbene il prigioniere si trovasse carico di catene in mezzo alle guardie, s'avventò improvvisamente sopra il suo giudice, e, rovesciandolo giù dal tribunale, gli fece tre mortali ferite nel capo con un coltello che aveva avuto modo di portar nascosto sotto le vesti, prima che le guardie avessero tempo di tagliar a pezzi lo Scanarola colle loro alabarde. Da questo fatto ebbe principio, o si rese più celebre il proverbio italiano: Quello che vuol morire è padrone della vita del tiranno[93].
La maggior parte de' giustiziati, coperti d'una veste nera, perdevano la testa sulla pubblica piazza. I loro beni erano confiscati, atterrate le loro case, dichiarati sospetti ed imprigionati i loro parenti ed amici d'ambo i sessi. Ma non tutte le vittime perivano di morte così [125] dolce: accusate indifferentemente d'aver cospirato contro il tiranno, non si allegavano altre testimonianze del loro delitto, che le confessioni strappate loro di bocca coi tormenti: e molti gentiluomini che rifiutavansi di confessare i supposti delitti, si fecero perire in mezzo agli orrori d'una tortura spinta al di là di quanto può soffrire l'umana natura[94].
Tante erano le persone sospette condensate nelle carceri da Ezelino, ch'egli ordinò di far nuove carceri presso alla chiesa di san Tomaso di Padova. Uno di que' vili cortigiani che i tiranni sanno trovare in ogni paese e valersene nell'esecuzione de' loro disegni, chiese, come una grazia, la direzione della fabbrica delle prigioni, affinchè riuscissero veramente infernali. «Ma si rallegrino, soggiugne Rolandino, le anime di quegli sventurati che perirono nel castello (così chiamaronsi quelle prigioni), poichè colui che tante volte era volontariamente entrato in quelle segrete, per assicurarsi che un solo raggio di luce non vi penetrerebbe, colui che [126] aveva posto ogni suo studio nel renderle tenebrose, insalubri e somiglianti al Tartaro, vi fu egli stesso chiuso per ordine di Ezelino, e perì miseramente nell'inferno da lui formato, in preda alla fame, alla sete, agl'insetti immondi, in vano bramando il ristoro di quell'aere che con tanta cura aveva cercato di escludere da quel luogo»[95].
Doveva credersi che poco considerabile fosse il numero di quegli uomini vili e feroci di cui abbisogna un tiranno per dare esecuzione alle sue crudeltà; ma tutt'all'opposto accadde sotto il governo d'Ezelino. Ogni podestà ch'egli mandava alle città soggette, tutti i governatori de' castelli, i carcerieri, sembravano quanto Ezelino insensibili e crudeli. Egli aveva, dopo abbandonato l'assedio di Parma, fissata la sua residenza in Verona, ed aveva affidato il governo di Padova ad uno de' suoi nipoti, Ansidisio Guidotti, forse più crudele del suo signore. Un apologo incautamente raccontato nel pubblico palazzo, ed applicato ad Ezelino[96], fu un delitto espiato [127] colla morte non solo del suo primo autore, ma di tutti coloro che si suppose averlo applaudito. Eran essi dodici, e le loro consorti, i fratelli, i figli, quantunque fanciulli, furono tutti imprigionati.
Di que' tempi all'incirca tra coloro che perirono sul palco furono assai compianti que' della famiglia Delesmanini, una delle più ricche e potenti della fazione ghibellina. Una signora di quella casa aveva di fresco sposato in seconde nozze un gentiluomo affezionato al conte di san Bonifacio, e perciò nemico d'Ezelino. Queste nozze fattesi in Cremona probabilmente senza saputa dei Delesmanini, provocarono in modo la collera del tiranno, che fece imprigionare tutte le persone di quella famiglia, ordinando al suo podestà Guidotti di farle perire. Sebbene un suo fratello avesse sposata una sorella di quegli sciagurati gentiluomini, senza avere alcun riguardo ai legami del sangue e dell'amicizia, fu rigoroso esecutore della crudel vendetta del suo padrone. Volle per altro far esperimento del popolo, temendo che si ammutinasse; e mandò al supplicio un [128] solo Delesmanino, il più giovane ed il meno stimato; ma vedendo che i loro vassalli ed amici non facevano verun movimento, fece strascinare tutti gli altri sulla piazza, ove furono decapitati. «Universale fu la sorpresa, dice Rolandino, per la morte dei Delesmanini, perchè la casa da Romano non aveva avuto in tutta la Marca amici più prossimi, più fedeli, o più zelanti. Tale amicizia parve che si conservasse tra i contemporanei di questa generazione, com'erasi mantenuta inviolata tra i loro padri: ma nulla dobbiamo tanto temere, niuna cosa è foriera di tante calamità, quanto un amico perfido e sleale, che acquista troppa grandezza e potenza.»[97]
Intanto Federico, dopo aver soggiogati i Guelfi di Fiorenza, e rassodata la sua autorità in tutta la Toscana, dava voce di voler abbandonare l'Italia settentrionale a sè medesima, onde raddolcire alquanto la collera del papa, e farsi strada, se era possibile, a qualche riconciliamento. San Luigi, re di Francia, aveva svernato del 1248-1249 nell'isola [129] di Cipro col potente esercito de' crociati che conduceva in Egitto. E perchè in primavera incominciava a mancare di vettovaglie, Federico accordò ai Veneziani, coi quali era in guerra, salvacondotti, onde potessero recar soccorsi all'armata francese, e spediva egli stesso a san Luigi un convoglio di vettovaglie, manifestandogli in una lettera l'ardente suo desiderio di raggiugnere la crociata, ed il rincrescimento di esserne impedito dalla guerra che gli faceva il papa[98]. Dall'isola di Cipro san Luigi scrisse di nuovo ad Innocenzo IV per determinarlo a far la pace col benefattore della cristianità, col principe che aveva di fresco salvata l'armata de' crociati da una spaventevole carestia[99]. Bianca, regina di Francia, non s'interessava meno vivamente per lo stesso oggetto; ma Innocenzo fu inflessibile; e la totale disfatta di san Luigi presso Damietta, la sua prigionia e la morte di Federico, liberarono il papa da ulteriori istanze.
Trovandosi nella Puglia già da un anno, senza aver fatto cose, per quanto si sappia, di molta importanza, Federico fu sorpreso a Florentino, borgata di Capitanata, da una dissenteria che lo condusse al sepolcro il 13 dicembre del 1250, nel cinquantesimo sesto anno dell'età sua, essendo stato trentun anni imperatore, trentotto re de' Romani, cinquantadue re delle due Sicilie.
Nel corso di questa Storia abbiamo dovuto formarci un'idea del carattere di questo principe; ma siccome verun sovrano fu attaccato con maggiore accanimento, nè difeso così caldamente, riesce quasi impossibile lo spogliare le sue azioni dalle imputazioni della calunnia, o dal favore de' suoi zelanti partigiani. Non saprei meglio chiudere ciò che ho fin qui detto intorno a questo principe, che trascrivendo ciò che ne dissero due storici della susseguente generazione, uno de' quali Giovanni Villani, fiorentino, fu uno zelante Guelfo, l'altro Nicolò di Jamsilla, napoletano, uno de' più caldi Ghibellini.
«Federico, dice Villani, fu un uomo di gran valore e di grande affare, savio di scrittura e di senno naturale, universale in tutte le cose, seppe la [131] lingua latina, e la nostra volgare, e tedesco, francesco, greco e saracinesco: e di tutte virtù copioso, largo e cortese in donare, e savio in arme; e fu molto temuto. Fu dissoluto in lussuria in più guise, e tenea molte concubine e mameluchi a guisa de' Saraceni, ed in tutti i delitti corporali si volle abbandonare, e quasi vita epicurea tenne, non facendo conto che mai altra vita fosse; e questa fu principale cagione, perchè egli venne nemico di santa Chiesa e dei chierici ec.»[100].
«Federico, scrive Giacomo di Jamsilla, fu uomo di gran cuore, ma la somma sua sapienza ne temperava la magnanimità; di modo che le sue azioni non procedevano giammai da impetuosa passione, ma da maturità di giudizio.... Amò la filosofia, di cui fu studioso, e la propagò ne' suoi stati. Prima ch'egli regnasse, sarebbesi a stento trovato nelle Sicilie un letterato; ma egli aprì, nel suo regno, scuole per le scienze e per le arti liberali, chiamando con isplendidi premj da tutte le parti del mondo i [132] più rinomati professori. Nè a questi soli accordava liberali assegnamenti, ma prendeva dal proprio tesoro di che pagare il mantenimento de' poveri scolari, affinchè niun uomo, di qualunque condizione si fosse, venisse da povertà costretto a lasciare lo studio della filosofia. Diede egli medesimo non dubbie prove de' suoi studj letterarj rivolti principalmente alla storia naturale, avendo scritto un libro della natura e della cura degli uccelli. Amò la giustizia e la rispettò talmente, che tutti i suoi sudditi potevano liberamente piatire contro di lui, senza che il suo rango gli dasse alcun vantaggio presso ai tribunali, o che qualunque avvocato facesse difficoltà di patrocinare contro l'imperatore i suoi sudditi. Ma malgrado tanto amore per la giustizia, non lasciava di temperarne talvolta il rigore colla clemenza»[101][102].
Innocenzo IV torna in Italia. — Sue guerre con Corrado e Manfredi. — Sua morte. — Roma sotto il suo pontificato; il senatore Brancaleone. — La Toscana: il governo popolare si stabilisce in Fiorenza.
1251 = 1255.
Colla morte di Federico II ebbe fine in Italia l'autorità degl'imperatori, la quale, sebbene ne fossero controversi i limiti, era però confessata da tutte le repubbliche[103]. Di ciò ne furono principale cagione i principi di Germania che protrassero ventitre anni l'elezione del nuovo re de' Romani, e la debolezza di Rodolfo d'Absburgo, eletto re di Germania dopo la morte di Federico II, e de' suoi immediati successori Adolfo ed Alberto, i quali non avendo potuto [135] scendere in Italia a ricevere in Roma la corona dell'Impero, non ebbero il titolo d'imperatori. Dopo sessant'anni Enrico VI, di Lussemburgo, entrò in Italia per farvi rivivere i diritti dell'Impero; ma dopo la subita morte di questo monarca un secondo interregno lasciò i popoli italiani in piena libertà di rassodare la loro indipendenza e di rompere tutti i legami che gli univano alla Germania.
La storia degl'imperatori formò dunque fino alla morte di Federico II una importantissima parte di quella delle repubbliche italiane; onde non lasciai di tener dietro alla maniera con cui poc'a poco s'andarono staccando dall'Impero; come crebbero i loro privilegi a danno di quelli degl'imperatori, de' quali per altro riconobbero sempre l'alto dominio; come dopo averne eccitata la gelosia loro, seppero resistere alle loro forze; e per ultimo come facessero causa comune coi papi per balzare dal trono in nome della religione la più illustre e potente famiglia della Germania. Riandando questi avvenimenti, abbiamo pure veduto come nel seno medesimo delle città non pochi cittadini, sdegnati della lega che vedevano formarsi contro il capo dell'Impero, [136] presero le armi in difesa de' suoi diritti; e come tutte le repubbliche trovaronsi lacerate da intestine fazioni, e molte cadute sotto il giogo della tirannia avanti che conseguir potessero lo scopo che si erano proposto.
Dopo la presente epoca le cose della Germania saranno alquanto più separate da quelle dell'Italia; e poco dovremo occuparci dell'elezione degl'imperatori e del governo della Germania: ma non perciò la storia de' popoli liberi d'Italia potrà scompagnarsi da quella de' loro vicini e de' loro nemici. Gl'interessi delle nazioni cominciarono ben tosto ad essere in contrasto in questo paese, ed a contrappesarsi vicendevolmente, onde siccome non si può scrivere la recente storia d'un popolo senza abbracciare quella di tutta l'Europa, così la storia delle repubbliche italiane de' secoli di mezzo comprende quella di quasi tutto il mezzogiorno. Nelle rivoluzioni del regno di Napoli che decisero dei destini di quasi tutte le città libere, vedremo i Francesi e gli Arragonesi in guerra coi Tedeschi e cogli Arabi; ed in un tempo o nell'altro vedremo presentarsi sulla scena che ci siamo proposti di rappresentare, quasi tutte le nazioni.
[137] La morte di Federico II equivaleva per il papa ad una grande vittoria, perchè sembrava che dovesse portare uno straordinario cambiamento allo stato d'Italia. Ne sentì tutta l'importanza Innocenzo IV, il quale scriveva in tal modo al clero del regno di Sicilia: «Esultino i cieli, la terra si riempia d'allegrezza, essendosi, per la morte di costui, cambiati in freschi zefiri ed in feconde rugiade il fulmine e la burrasca che Dio teneva sospese sulle vostre teste»[104]. Non tardò l'accorto pontefice a formare il vasto progetto dell'unione di tutto il bel regno di Napoli al patrimonio di san Pietro; al quale oggetto invitava con sue lettere il clero, i nobili, i borghesi del regno, a prendere le armi contro il loro re, e poco dopo così scriveva alla città di Napoli. «Coll'assenso de' nostri fratelli i cardinali, abbiamo prese sotto la protezione della santa sede le vostre persone, i vostri beni e tutta la città, ordinando che perpetuamente rimanga sotto l'immediata sua dipendenza, obbligandoci a questo, che la Chiesa non accorderà giammai la sovranità, o [138] qualsiasi diritto sopra la medesima a veruno imperatore, re, duca, principe o conte, o ad altra persona»[105].
Per approfittare di così favorevoli circostanze ed essere più vicino alle conquiste che meditava di fare, Innocenzo partì da Lione in sul cominciare di primavera alla volta d'Italia. Venne ricevuto in Genova dai suoi concittadini con istraordinario giubilo, accresciuto dalla presenza dei deputati di quasi tutte le città lombarde, colà recatisi per incontrarlo, ed ottenere che volesse onorare della sua presenza quelle città: inchiesta avidamente accolta dal pontefice, siccome quella che maravigliosamente giovava ai suoi progetti[106]. Il partito ghibellino, scoraggiato dalla morte di Federico e dall'abbandono di molte città amiche, signoreggiate dai Guelfi, chiedeva pace; e se tal pace facevasi sotto gli occhi e colla mediazione del pontefice, veniva a rendersi più certo il trionfo della santa sede. Le città di Savona e di Albenga ed il marchese del Carreto, [139] che, finchè visse l'imperatore, ebbero guerra con Genova, avevano già mandati ambasciatori a questa città, offrendole di governarsi sotto i suoi ordini e di unirsi alla parte guelfa. Gli stessi Pisani, che in ogni tempo eransi mostrati caldissimi partigiani della casa di Svevia, avevano spedito un frate domenicano a Genova per trattare un accomodamento. Vero è che quando i Genovesi chiesero al domenicano la cessione del castello di Lerici, posto in riva al mare al confine dei due territorj, questi rispose loro: «Vi cederemmo piuttosto Cinzica, uno de' quartieri della nostra città»; ed ebbe così fine ogni trattato.
Il viaggio d'Innocenzo in Lombardia fu un continuo trionfo: i Guelfi si affollavano in sulla strada, e per assicurarlo dagl'insulti de' Ghibellini avevano formato alcuni corpi di guardie d'onore, che tenevan luogo di vere armate. Ma le città ghibelline, come Pavia e Lodi, sul di cui territorio doveva passare il papa, scoraggiate dalla morte del loro capo, non volevano certamente provocar davvantaggio la collera del pontefice: che anzi, bramando di far dimenticare le antiche offese, si dicevano disposte a riconciliarsi colla parte guelfa, e permettevano [140] ai loro esiliati di rientrare in patria[107]. In fatti la città di Lodi, tribolata dalle armi dei Milanesi, entrò nella lega; e Pavia fece con Milano un trattato di pace, ch'ebbe poi corta durata.
Il papa aveva poste le armi in mano ai Lombardi contro l'imperatore; ma se gli aveva spinti in una pericolosa guerra contro un grande monarca, gli aveva così potentemente sussidiati colle armi spirituali, che n'erano usciti vittoriosi. Federico aveva dovuto abbandonare l'assedio di Brescia e di Parma; non aveva osato d'intraprendere quelli di altre più potenti città, quali sono Milano, Genova e Bologna; ed un anno prima di morire, erasi allontanato da un paese, per opprimere il quale sentivasi troppo debole. Mossi da queste considerazioni i Milanesi mostrarono al pontefice il più vivo attaccamento, recandosi, per così dire, la città in corpo ad incontrarlo, onde duecento mila persone fiancheggiavano tutta la strada a dieci miglia dalle [141] mura. Inventarono per onorarlo un nuovo ordigno, sotto il quale fece il suo solenne ingresso in Milano: era questo coperto di un drappo di seta e portato dai più ragguardevoli gentiluomini; ordigno adoperato poi nelle cerimonie religiose, e detto baldacchino. I Milanesi intrattennero il papa più di due mesi nella loro città, e gli accordarono l'autorità di nominare in quell'anno il podestà, ricevendo essi, in compenso degli onori grandissimi con cui lo colmarono, indulgenze e grazie spirituali.
Benchè gloriosa, lunga fu però la guerra che i Milanesi sostennero per favorire Innocenzo, e cotal guerra aveva esaurite le pubbliche entrate; onde nel precedente anno avevano dovuto ordinare, a favore del comune, un ritardo di otto mesi a pagare i suoi debiti, ed accrescere le gabelle onde poter soddisfare ai nuovi impegni. In pari tempo accordavano a tutti i privati debitori quelle facilità medesime che si arrogava la repubblica[108]; col quale apparente atto di giustizia si venivano ad accrescere i disordini e le perdite causate alla società [142] da questa specie di fallimento. Nè bastando queste gravezze, finalmente i Milanesi risolsero di chiamare un magistrato straniero, cui accordarono un illimitato potere di stabilire, ove e come lo trovasse più opportuno, dogane, gabelle, pedaggi. Sebbene quest'odiosa scienza non fosse in allora così ben conosciuta come nella presente età, il nuovo magistrato Beno de' Gozzadini di Bologna fece quanto seppe per accrescere colle concussioni i profitti del comune. Ne' primi quattro anni il popolo si sottomise, senza lagnarsi, alle arbitrarie gravezze di Gozzadino; e nell'ultimo anno fu innalzato alla suprema carica di podestà onde incontrasse minori ostacoli, e più sollecitamente pagasse il pubblico debito. Ma le sue concussioni stancarono finalmente la pazienza del popolo; il quale, ammutinatosi, mise a morte l'infelice podestà, siccome autore d'insoffribili gravezze. Ed è cosa notabile che, morto il Gozzadino, il popolo non essendo sollevato dalla maggior parte delle gabelle che questi aveva inventate per sovvenire ai bisogni dello stato, gli storici milanesi, prendendo parte alle prevenzioni del popolo, hanno continuato a maledire la memoria di [143] questo finanziere[109]. Il papa erasi appena partito da Milano, che scordando tutto quanto aveva per lui sofferto, e la splendida accoglienza fattagli, scrisse da Brescia a quell'arcivescovo per eccitarlo a sostenere vigorosamente le libertà ecclesiastiche contro il podestà ed i consigli, che alcuna volta non le rigettavano. Lagnavasi in particolare che si obbligassero alcuni monaci, detti umiliati, ad esercitare alcune pubbliche incumbenze alle porte ed alle dogane, siccome coloro che con maggiore economia e fedeltà riscuotevano le gabelle. Ordinava all'arcivescovo d'impiegare contro la repubblica le censure ecclesiastiche, e tutto il rigore degli spirituali castighi per rintuzzare gli abusi che si fossero introdotti nel governo. Tanta ingratitudine del pontefice offese i Milanesi se non abbandonarono affatto il partito guelfo, cessarono almeno di esserne i più caldi partigiani: imperciocchè nominarono loro capitano generale il marchese Lancia di Monferrato, zio di Manfredi, reggente di [144] Sicilia e zelante ghibellino; e gli affidarono dal 1253 al 1256 il governo degli affari della guerra e della giustizia, a condizione che mantenesse al soldo della repubblica mille cavalli forastieri. Il marchese Lancia non venne però a stare in Milano, ma vi mandò ogni anno in qualità di suo luogotenente un podestà da lui nominato.
Sebbene avessero scelto per loro giudice e generale un Ghibellino, non sembra che a tale epoca i Milanesi avessero affatto abbandonata la parte guelfa; e la guerra che coll'ajuto del marchese Lancia fecero ai cittadini di Pavia, dovrebb'essere una contraria prova. Non può dirsi lo stesso degli abitanti di Piacenza, i quali avanti che morisse Federico, a motivo dell'odio che nudrivano contro i Parmigiani, staccaronsi del partito che questi avevano di fresco abbracciato, si collegarono con Cremona, col marchese Pelavicino e con tutti i Ghibellini, e ricominciarono la guerra che nel principio del secolo avevano intrapresa contro Parma. Ad eccezione di questa sola guerra, le parti e le alleanze, tutto aveva cambiato aspetto: pareva che ogni armata fosse passata nel campo nemico per rinnovare la pugna.
[145] Due passioni l'una dall'altra affatto indipendenti dividevano in due opposte fazioni gli abitanti di tutte le città d'Italia. Da una banda la gelosia e la reciproca diffidenza de' plebei e de' nobili teneva viva la discordia in seno ad ogni repubblica; dall'altra i partigiani dell'Impero e quelli della Chiesa dividevano l'Italia in due parti che si facevano un'accanita guerra. Tra le fazioni politiche nate in seno di ogni città, e le fazioni religiose che regnavano in tutto l'Impero, non eravi veruna stabile alleanza: nè i papi eransi dichiarati protettori della plebe, nè gl'imperatori della nobiltà. A Milano i gentiluomini erano Ghibellini, Guelfi i popolari: a Piacenza era tutto il contrario. La scelta di ogni famiglia tra queste due grandi fazioni non era figlia di personali considerazioni e di viste d'interesse; ma era stata determinata dalla propria inclinazione verso il capo della religione o verso il capo dello stato: puri n'erano i motivi, sincero l'attaccamento. Dal canto loro il papa e l'imperatore eransi procurati partigiani in quelle città nelle quali più vicini interessi avevano già accesa la discordia, prendendo a favoreggiare il partito più debole, a lusingarne le passioni, [146] tenendo in ogni luogo un diverso linguaggio secondo credevan più conveniente a sedurre la classe degli uomini con cui trattavano. Coloro che per interno sentimento erano Guelfi o Ghibellini, non abbandonavano le proprie affezioni; coloro la di cui alleanza era stata per interesse cercata dal papa o dall'imperatore, potevano cangiare colla politica. Generalmente parlando, non potrebbesi in verun modo spiegare la lunghissima durata in tutta l'Italia delle fazioni guelfe o ghibelline, i prodigiosi sagrificj che tutti i più virtuosi cittadini facevano allo spirito di partito, l'eguaglianza delle forze e le frequenti alternative di vittorie e di sconfitte, volendole originate da solo personale interesse. L'egoismo non suole ispirare energia, e colui che non calcola che i suoi avvantaggi, li troverà sempre nel riposo. Più nobili cagioni armavano i cittadini d'ambo i partiti; due virtuosi sentimenti, lo spirito religioso e lo spirito di giustizia, erano stati dalla discordia posti in guerra fra le due podestà religiosa e politica.
Non può negarsi che i papi non usassero una troppo aperta ingiustizia contro gl'imperatori, invadendo i loro più sacri diritti, eccitando il tradimento in [147] seno alle loro famiglie, calunniandone il nome, e privandoli per fino colle inique sentenze della loro corona. Il rango, la potenza, le virtù de' personaggi, oggetto di tanta ingiustizia, ne rendevano le sventure più illustri, e queste lasciavano nell'anima de' popoli una profonda indelebile traccia: imperciocchè sebbene siano degni di commiserazione tutti gli sventurati, quella che sentiamo pei sovrani veste un carattere ancora più nobile, innalzandoci in qualche modo al grado di coloro che ci spinge a soccorrere: noi la chiamiamo col nome di lealtà, ed andiamo superbi dell'entusiasmo onde ci investe.
Dall'altra parte presso un popolo superstizioso la religione può allontanarsi dalle regole dell'eterna giustizia, ed opporsi colla giustizia del mondo. Questa religione non permette agli uomini di esaminare le vie del cielo; comanda una illimitata ubbidienza; ed il cieco fanatismo che loro ispira, l'odio contro gli eretici ed i nemici della fede, l'attaccamento alla Chiesa, sono ne' loro motivi passioni non meno pure del fanatismo di lealtà; e sono egualmente fondate sopra un assoluto disinteresse personale e sopra un [148] pieno virtuoso convincimento[110]. Da ambo le parti si videro le grandi famiglie, fedeli ai principj una volta adottati, tramandarli di padre in figlio, senza che le sciagure o le persecuzioni potessero giammai staccarle dalla propria fazione. Si vide pure la plebe più mobile e più suscettibile d'entusiasmo, mostrarsi egualmente disposta ad ammettere le due contrarie passioni; e fu veduta, a seconda che si seppe risvegliare in essa que' sentimenti che le erano più naturali, combattere con energia, non per interesse proprio, ma per i legittimi diritti dell'Impero, o per le sante libertà della Chiesa.
Perchè le due repubbliche di Piacenza e di Cremona erano governate dalla fazione ghibellina, invece di tenere la più breve strada per recarsi negli stati della Chiesa, Innocenzo fu costretto di andare da Milano a Brescia, Mantova, [149] Ferrara e Bologna[111]. Le quali città, essendo addette alla parte guelfa, lo accolsero tutte con ogni maniera di onorificenza; ma parve che la presenza del pontefice, invece di accrescere l'affetto del popolo verso la Chiesa, lasciasse semi di divisione e ravvivasse il coraggio e le passioni de' Ghibellini. Innocenzo, attraversata la Romagna, s'avanzò fino a Perugia, ove rimase alcun tempo.
Ma prima che il papa giugnesse a Roma, il re di Germania, suo rivale, era già sceso in Italia per porsi alla testa de' Ghibellini. Aveva Federico, morendo, lasciati cinque figliuoli, de' quali due soli legittimi, cioè Corrado, che coronato re di Germania mentre ancora viveva il padre, governava da molti anni quello stato, ed Enrico figliuolo di una principessa d'Inghilterra, che Federico con suo testamento surrogava a Corrado, ove questi morisse senza figliuoli. Manfredi, principe di Taranto, figliuolo naturale dell'imperatore e di una marchesa Lancia, era di tutti i principi di questa famiglia il solo che avesse la [150] maggior parte delle virtù e de' talenti del padre. È probabile che Federico lo avesse legittimato, poichè lo vediamo da lui sostituito a Corrado e ad Enrico quale erede delle sue corone, se l'uno e l'altro morivano senza figliuoli[112]. Bastardi erano ancora Federico re o duca d'Antiochia, ed Enzio re di Sardegna prigioniere de' Bolognesi; ma non sono ricordati nel testamento dell'imperatore[113]. Il giovane Enrico stando in Sicilia teneva in dovere que' popoli; e Manfredi come reggente del regno abitava nella Puglia. In ottobre del 1251 Corrado partì di Germania alla testa d'una potente armata per venire a prendere possesso de' nuovi suoi stati.
Corrado, dopo avere visitate alcune città ghibelline della Marca Trivigiana, e ricevuto da Ezelino un rinforzo di truppe cavate da Padova, Verona e Vicenza, vide che non avrebbe potuto attraversare l'Italia per entrare nel suo regno senza essere forzato ad indebolire [151] la sua armata con diverse battaglie in modo di non avere abbastanza forze per ridurre all'ubbidienza i suoi sudditi ribelli: onde non volendo scontrarsi colle armate guelfe, invitò le flotte siciliane e pisane a portarsi sulle coste del Friuli; e girando intorno alle frontiere veneziane si recò ad aspettare le flotte a Porto Navone in fondo all'Adriatico[114]. Colà s'imbarcò in principio del 1252 con un'armata composta di Tedeschi e Lombardi, sopra una flotta di trentadue galee metà di Sicilia e metà di Pisa[115]. Dopo una felice navigazione sbarcò a Siponto nella Capitanata.
Il principe Manfredi, che nell'assenza di Corrado aveva amministrato il regno, gli si fece incontro riponendo in sua mano i poteri di cui era stato depositario. Questo giovane principe aveva, nell'anno che durò la sua reggenza, date luminose prove di grandi talenti e di vigoroso carattere. Le lettere scritte dal papa a tutti i comuni, e le pratiche de' frati minori avevano sollevate quasi tutte le province. I Napoletani dichiaravano di più non [152] voler vivere interdetti e scomunicati, nè ubbidire ad un principe che mai non otterrebbe l'investitura pontificia, nè si pacificherebbe colla Chiesa[116]. Capoa seguì l'esempio di Napoli; Andria, Foggia e Bari ribellaronsi apertamente; ed il partito de' ribelli, armato in Anversa, teneva la vittoria sospesa. Manfredi, che non aveva che dieciotto anni, aveva ricuperate colla rapidità delle marcie tutte le città, tranne Napoli e Capoa, di modo che Corrado non aveva che a seguire le orme del minor fratello per impadronirsi di tutto il suo regno.
Ma il re de' Romani, invidiando la somma riputazione che Manfredi erasi acquistata, quasi non avesse altri nemici in collo, prese ad abbassare il fratello, spogliandolo di parte de' feudi che gli aveva dati il comun padre. Corrado era geloso e crudele perchè era debole; ed internamente facevasi giustizia e sentiva quanto fosse inferiore al padre ed al fratello. Per altro trattò abbastanza destramente la breve guerra che doveva ancora sostenere per metter fine alla conquista del suo regno. I conti d'Aquino, [153] i di cui feudi stendevansi dal Volturno al Garigliano, e che potevano perciò tenere aperta una comunicazione tra Capoa e lo stato della Chiesa, eransi uniti ai ribelli. Corrado andò subito ad attaccarli co' suoi Tedeschi, ed il fratello l'accompagnò alla testa de' Saraceni di Nocera. Aquino, Suessa, san Germano, e tutte le fortezze che que' gentiluomini avevano sollevate, vennero in potere del re; onde Napoli e Capoa trovaronsi da ogni lato circondate dalle regie armate; Corrado non ommise di entrare in qualche trattativa col papa[117] mentre disponevasi a ridurre queste due città.
Non ignorando Corrado i mali che l'inimicizia colla santa sede aveva procurati a suo padre, avrebbe tutto sagrificato alla pace. Colla solenne ambasceria che mandava al papa per domandargli le due corone dell'Impero e della Sicilia, gli faceva offerta di porne in suo arbitrio le condizioni. Ma Innocenzo che scopertamente dichiarava voler unire le due Sicilie agli stati della Chiesa, e togliere alla casa Sveva l'impero della Germania[118], [154] non poteva aprir trattati coi legati; gli accolse gentilmente, ma li rimandò senza venire ad alcuna conclusione.
Intanto Capoa, trovandosi bloccata e fuori di speranza d'essere soccorsa, erasi data in potere del re, il quale con tutte le sue forze andò il primo di dicembre a stringere l'assedio di Napoli. Questa città, dopo avere lungamente resistito, e reso vano un assalto del nemico uccidendogli molta gente, trovossi chiusa anche dalla banda del mare da una flotta siciliana che si pose all'ingresso del porto (1253): perchè, incominciando a sentire mancamento di vittovaglie, propose di capitolare. Ma Corrado che voleva vendicare la sua offesa dignità, non volle ascoltare i suoi deputati; e quando, nel seguente ottobre, i Napoletani gli s'arresero a discrezione, ne fece perir molti sul palco, e spianare le mura della città[119].
La caduta di Napoli fece sentire al papa che aveva tentato invano di soccorrerla, e che la Chiesa non era tanto potente da far l'acquisto e conservare le due Sicilie; onde volendo pur togliere uno stato così vicino a Roma alla casa di Svevia, i di cui partigiani erano in Roma tutti nemici della santa sede, progettò di dare questo regno, come feudo della Chiesa, ad alcun altro principe il quale lo conquistasse per diventare vassallo dei papi e sempre loro creatura[120]. Da questa politica d'Innocenzo IV riconobbe la sua elevazione la famiglia d'Anjou, ed ebbero origine i funesti diritti de' Francesi sul regno di Napoli.
Innocenzo non erasi da principio rivolto a Carlo d'Anjou. I suoi predecessori avevano acquistato sopra l'Inghilterra que' medesimi diritti ch'egli pretendeva di avere sulla Sicilia. Enrico III, figliuolo di Giovanni, uomo debole ed impolitico come suo padre, governava allora l'Inghilterra, il quale nelle frequenti guerre civili che doveva sostenere, invocando [156] la protezione papale contro i suoi sudditi, aveva rese frequenti ed intime le comunicazioni tra le due corti. Perciò Innocenzo, per mezzo del suo segretario Alberto di Parma[121], offrì la corona della Sicilia a Riccardo, conte di Cornovaglia, fratello d'Enrico. Riccardo aveva fama di possedere immense ricchezze; e le guerre civili avevano fatto nascere in Inghilterra il coraggio e l'arte militare. Non era per altro a credersi che Riccardo potesse sostenere una lunga guerra in tanta distanza dal suo paese, o che gl'Inglesi lo ajutassero molto tempo in così difficile impresa. Di fatti lo stesso conte, nominato in appresso da una fazione re di Germania, non potè mai montare su quel trono. Forse Innocenzo spingeva più in là le sue segrete speranze, lusingandosi che i due rivali, indeboliti dalle battaglie, [157] aprirebbero alla Chiesa alcuna via di appropriarsi l'immediato dominio della Sicilia.
Ma il principe inglese non si lasciò abbagliare dalle offerte del papa, e motivò il suo rifiuto, sulla insufficienza de' suoi tesori, sulla necessità d'avere in mano alcune fortezze che assicurassero la ritirata delle sue genti in caso di sinistro avvenimento; e più di tutto sul parentado di sua famiglia con quella di Svevia: perciocchè l'ultima moglie di Federico era sua sorella, ed Enrico, chiamato dopo Corrado alla corona, era suo nipote. Ma un funesto accidente non tardò a dissipare lo scrupolo prodotto dalla parentela. Il giovane Enrico morì repentinamente, e corse voce che morisse di veleno: onde gli emissarj del papa, dando consistenza a quest'incerto racconto, incolparono apertamente Corrado della morte del fratello[122]. Benchè tale delitto fosse così poco verisimile, bastò il semplice sospetto a far che i reali d'Inghilterra accettassero le offerte del pontefice, onde Enrico III [158] stimolava egli stesso il papa ad accordare la corona di Sicilia non al fratello, ma bensì al suo figliuolo Edmondo[123]. In pari tempo Carlo, conte d'Angiò e di Provenza e fratello di san Luigi, avendo avuto sentore di questo trattato ed essendo incessantemente travagliato dalle istanze della consorte, che desiderava non essere da meno di sua sorella, regina di Francia, offrì liberamente ad Innocenzo sè ed i suoi tesori e soldati in servigio della Chiesa. I suoi ambasciadori esaltavano la gloria militare che Carlo aveva acquistata in Terra santa, ed il coraggio ed il cieco zelo de' suoi soldati; la facilità ch'egli avrebbe di farli scendere in Italia, colla quale confinavano i suoi dominj, o pure di condurre le sue genti per mare dai porti della Provenza a Roma ed a Napoli. Ma tutti questi trattati furono rotti dalla morte di Corrado, il quale, appena ristabilito l'ordine nel suo regno, fu sorpreso a Lavello nella primavera del 1254 da mortal malattia, che lo trasse al sepolcro in età di 26 anni, mentre si disponeva a ripassare in Germania[124]. [159] Corrado aveva sposata Elisabetta figlia d'Ottone, duca di Baviera, dalla quale era nato Corradino, che trovavasi in fanciullesca età presso la madre. Sentendosi vicino a morte, lo raccomandò caldamente a Manfredi, ed essendone contento lo stesso principe, dichiarò tutore di Corradino e balivo del regno[125] il marchese Bertoldo d'Oenburgo, generale delle truppe tedesche, che lo avevano in grandissima stima.
La morte di così gran principe della casa di Svevia in così breve tempo, dai papi e da alcuni scrittori guelfi si attribuì ad un'orribile serie di delitti. Si accusò Federico d'aver fatti morire due figliuoli del suo primogenito Enrico[126]; Manfredi d'aver soffocato sotto i guanciali suo padre ammalato a Fiorentino[127]; Corrado d'aver avvelenato il giovane Enrico[128]; e Manfredi di avere fatto altrettanto di Corrado[129]. Non sonovi forse esempi [160] d'una famiglia, egualmente illustre e valorosa, accusata di più enormi delitti, e con sì poca apparenza di verità. Corrado sentì così vivamente le calunnie contro di lui divulgate dalla corte di Roma, che può in parte accagionarsi della sua morte il dispiacere avutone[130].
Ai messi che recavano la notizia al papa della morte di Corrado, tenevano dietro gli altri spediti dal marchese d'Oemburgo per raccomandar alla clemenza del pontefice il fanciullo Corrado, rappresentandogli che questo fanciullo di tre anni non aveva potuto commettere verun delitto onde meritarsi di essere spogliato della sua eredità: che il padre, morendo, aveva lasciato ordine di assoggettarsi interamente alla Chiesa, e che Roma non troverebbe altro re più di Corradino sommesso ed ubbidiente. Ma Innocenzo che, pensando di ritenere nella sua immediata dipendenza la corona di Sicilia, aveva sospeso ogni pratica cogli altri principi, ricusò pure di negoziare con Corradino; [161] e rispose agli ambasciadori tedeschi che voleva, prima di nulla risolvere, avere in sua piena podestà il regno delle due Sicilie; che trovando in appresso ragionevoli le pretese di Corradino, non avrebbe mancato, poichè fosse giunto alla pubertà, di vedere quale grazia potrebbe accordargli[131].
Dopo così orgogliosa risposta, Innocenzo domandò truppe alle repubbliche guelfe della Lombardia, della Toscana, della Marca d'Ancona; ed i conti del Fiesco, suoi parenti, fecero pure a Genova leve di soldati per suo conto. Mentre il papa adunava la sua armata nella città d'Anagni, i suoi partigiani eccitavano i Siciliani alla ribellione, rappresentando loro quanto vergognosa cosa fosse il dominio de' Saraceni e dei Tedeschi. Effettivamente i grandi giustizieri di quasi tutte le province erano Arabi, ed Arabi gli altri principali impiegati civili e militari. La sollevazione non tardò a scoppiare in tutte le province, e continui avvisi di nuove congiure giugnevano al marchese ed a Manfredi; perchè il primo, scoraggiato da tanti mali, si [162] appigliò finalmente al partito di dimettersi dalla reggenza del regno, e si unì agli altri baroni che si erano mantenuti fedeli al sovrano, per disporre Manfredi a prendere le redini del travagliato governo.
Nelle presenti circostanze, in cui l'autorità reale trovavasi esposta a mille rischi ed umiliazioni, rifiutava a Manfredi cotale inchiesta: ma riflettendo ad un tempo che forse era egli il solo che potesse in tanto turbamento di cose salvare la monarchia, ne accettò la reggenza a condizione che sarebbero posti a sua disposizione tutti i tesori di Corrado, de' quali Bertoldo erasi riservata l'amministrazione, e che passerebbe nella Puglia per far leva di un'armata pronta a servirlo in ogni incontro. Bertoldo non attenne le sue promesse, onde moltiplicandosi le sedizioni, e l'armata del papa trovandosi già presso ai confini del regno, Manfredi risolse di andargli incontro egli stesso e di fargli aprire le porte di tutte le fortezze. Il papa era assai vecchio, ed il popolo stanco dell'ultima amministrazione; onde non poteva ridursi ad odiare i nuovi padroni ch'egli stesso si era scelti, che facendone esperienza. Un'imprudente resistenza [163] non poteva che accrescere i mali della guerra, ed il più sicuro consiglio era quello di aspettare salute dagli avvenimenti.
Manfredi si fece precedere da' suoi ambasciadori, i quali da parte sua dissero al papa ch'egli risguardava la santa sede come la naturale protettrice dei pupilli e dei deboli, che l'ultimo re, morendo, aveva espressamente posti i suoi figliuoli sotto la protezione del pontefice; e che se per conservare questa eredità ad un orfano, voleva Innocenzo stesso prenderne il possesso, Manfredi non si opporrebbe altrimenti alle sue mire, che riservavasi soltanto tutti i diritti suoi e di suo nipote, e che precederebbe tutti i Pugliesi nel dar prove del suo rispetto e devozione per la santa sede. In fatti si avanzò fino a Ceperano, posto al confine dei due stati, e tenne egli stesso le briglie del cavallo del papa mentre passava il Garigliano[132].
Sopraggiugneva Innocenzo circondato da tutti gli esiliati del regno, da tutti quelli che colle loro pratiche avevano, fin dai primi anni del regno di Federico, [164] cercato di turbarne l'amministrazione, i Sanseverino, i del Mora, i d'Aquino e Borello d'Anglone, che tutti mostravansi premurosi di accrescere cogl'insulti l'umiliazione di Manfredi. I Sanseverino, se devesi prestar fede allo Spinelli, rifiutavansi, incontrandolo, di salutarlo; un legato del papa esigeva da tutti i baroni il giuramento di fedeltà alla santa sede, quasi che il regno le fosse devoluto per sempre; ma ciò non bastando, osò perfino di chiederlo allo stesso Manfredi, mentre un'ingiusta investitura del papa spogliava questo principe di una parte de' suoi dominj a Taranto, e li trasmetteva a Borello d'Anglone suo nemico.
Costui, poco dopo la morte di Federico, aveva da Manfredi ottenuta una grazia, ma l'aveva scordata per risovvenirsi soltanto del suo rancore verso la casa di Svevia: audacemente disputava intorno ai diritti del principe e pareva che si dasse minor premura di spogliarlo de' suoi beni, che di fargli sentire d'essere diventato suo eguale. Per ultimo postosi alla testa di alcuni soldati s'avviò verso Alesina per prendere possesso della contea tolta a Manfredi, il quale trovavasi allora a Teano col papa. Ebbe intanto avviso che Bertoldo d'Oenburgo, [165] altra volta reggente, avvicinavasi con una armata per rendere omaggio al papa, e partì subitamente con un magnifico seguito per abboccarsi seco avanti il suo arrivo. Tenne la stessa strada di Capoa, e raggiunse Borello che l'aveva di poco preceduto: le due scorte, inasprite da mille precedenti ingiurie, s'insultarono e vennero alle mani: Borello fu ucciso contro il volere del principe, come lo attestano i suoi partigiani; ed è da credersi, perciocchè aveva troppa accortezza per non vedere che, quantunque figlio dell'imperatore e presontivo erede del trono, questo avvenimento lo poneva in grandissimo pericolo. Il papa citò Manfredi a presentarsi al tribunale di uno de' suoi nipoti, per purgarsi, se ancora lo poteva, dell'omicidio ond'era accusato; ed in pari tempo gli negò un salvacondotto per recarsi al tribunale: d'altra parte la città di Capoa fece prendere gli equipaggi del principe e spedì truppe per arrestarlo. Manfredi erasi chiuso in Acerra, il di cui conte era suo stretto parente; ma non tardò ad avvedersi che ognuno cercava di tenersi da lui lontano: lo stesso marchese d'Oenburgo che aveva approvata la sua condotta, si astenne dall'aver seco un abboccamento, e mise in [166] campo contro il figliuolo dell'augusto suo padrone alcune lagnanze di cui non erasi prima nemmeno sognato. Bentosto il marchese Lancia, zio materno di Manfredi, gli diede avviso che non era in Acerra sicuro, perchè vi sarebbe assediato con forze superiori; e che se egli, a seconda dell'ordine pontificio, si dava spontaneamente in potere del papa, sarebbe stato chiuso in una prigione, per essere in seguito condannato all'esilio ed alla perdita de' suoi beni, e fors'anco alla morte.
Una sola strada vedeva il principe aperta alla sua salvezza, quella di attraversare il regno e rendersi a Luceria nella Capitanata, ponendosi confidentemente in mano dei Saraceni abitatori di quella città, e risvegliando nel cuor loro, se era ancor tempo, l'affetto che sempre conservarono alla sua famiglia. Ma il comandante di Luceria era Giovanni Mauro, creatura del marchese d'Oenburgo, che di già erasi sottomesso al papa; e per giugnere a Luceria dovevasi attraversare una vasta contrada occupata dai suoi nemici.
Manfredi dando voce che andava alla corte pontificia, partì d'Acerra avanti la mezza notte con un seguito troppo numeroso per viaggiare inosservato, e troppo [167] debole per sostenere una lunga pugna. Facevano parte della scorta i due fratelli Marino e Corrado Capece, gentiluomini napoletani, i quali avendo le loro terre lungo le montagne che dovevansi attraversare, ripromettevansi di condurlo senza accidenti fino a Luceria. Per evitare il castello di Monforte, ove teneva guarnigione il marchese d'Oenburgo, dovettero praticare aspri sentieri a traverso di scoscese montagne, i di cui precipizj debolmente illuminati dalla luna sembravano, ancor più che non lo erano, spaventosi agli uomini ed ai cavalli. Attraversando senz'essere conosciuto la terra di Manliano, formata, come molte altre del regno di Napoli, di una sola strada lunga, angusta e tortuosa, e senza veruna uscita laterale, udiva quella gente interpellarsi se dovessero fermare quel convoglio, per osservare se vi fosse il principe fuggitivo, lo che facevagli comprendere che il suo destino dipendeva dalla fantasia di alcuni contadini[133]. In così difficile istante alcuni de' muli che portavano la salmeria e precedevano gli uomini d'armi, essendo caduti, obbligarono alcun tempo la comitiva a trattenersi, [168] senza che gli ultimi ne conoscessero il motivo. Pure i Manlianesi limitaronsi a chiudere le porte della fortezza appartenente al borgo, senza fare altre novità.
Di là il principe giunse colla sua gente al castello d'Atripalda ove i signori Capece avevano le loro donne; le quali[134] si tennero assai onorate d'aver per loro commensale il figlio d'un imperatore: «ed il principe, osserva Nicola di Jamsilla, poteva farlo senza compromettersi, perciocchè tale è la prerogativa delle donne, che possono loro tributarsi senza viltà i più grandi onori, che non sarebbe permesso di rendere agli uomini più potenti.» È questa la prima volta che troviamo negli storici contemporanei le massime cavalleresche della galanteria, che forse ebbe principio molto prima ne' paesi settentrionali.
D'Atripalda recavasi Manfredi a Guardia de' Lombardi, Bisaccia e Bimio, terre di sua ragione, ma i suoi vassalli lo prevennero che non potrebbe dimorarvi a lungo senza pericolo, essendosi le città vicine arrese al papa. Melfi gli chiuse le porte; Ascoli, sentendo che s'avvicinava, si rivoltò, massacrando il governatore che [169] sapevano attaccato al principe, Venosa lo accolse con rispetto; ma i cittadini non tardarono a fargli sapere ch'erano minacciati d'assedio, se non prendevano parte alla lega guelfa e ch'erano troppo deboli per difendersi.
Intanto Giovanni Mauro era partito da Luceria per recarsi alla corte del papa, lasciando in quella città suo luogotenente Marchisio con mille soldati Saraceni, e trecento Tedeschi, ordinandogli di tenere sempre chiuse le porte della città. Per andare da Venosa a Luceria, doveva il principe passare tra Ascoli e Foggia, città non solo nemiche, ma dove erano di già arrivati alcuni distaccamenti di truppe pontificie per fermarlo. Trovandosi ormai giunto in tanta vicinanza di Luceria, credette prudente consiglio il separarsi dalla sua scorta, che diresse alla volta di Spinazzola, mentre col gran cacciatore di suo padre e due scudieri, la notte del primo di novembre, si fece ad attraversare le campagne della Capitanata. Mentre usciva di città alcuni suoi amici, che l'avevano conosciuto, lo seguirono, nè egli osò di congedarli. Quando furono affatto fuor di strada cadde una dirotta pioggia che faceva la notte oscurissima: pure non lasciarono di camminare verso [170] Luceria, diretti dal primo cacciatore, e giunsero ad una casa della caccia reale, che dopo la morte di Federico era stata abbandonata, e si riposarono alquanto, asciugandosi intorno ad un gran fuoco, ad un fuoco reale, come piacevolmente diceva il principe[135]; ed era veramente la sola cosa reale che gli fosse rimasta nel presente stato. Ripigliarono la via un poco prima che facesse giorno; e quando furono a poca distanza da Luceria, Manfredi lasciò addietro gli amici che lo avevano seguìto[136], e coi tre scudieri ch'egli aveva scelti, si avvicinò alla porta.
Trovavansi riuniti sulle mura e sulla loggia che soprastà alla porta molti Saraceni: «Ecco il vostro signore e principe, gridò loro in lingua araba uno degli scudieri di Manfredi, che viene a porsi nelle vostre mani: egli s'affida interamente a voi; apritegli le porte!» A queste parole i Saraceni furono compresi da subito entusiasmo, e compresero allora che si tenevano chiuse le porte contro il figlio del loro re, e che Marchisio [171] era suo nemico. «Entri, entri, gridarono allora, avanti che il governatore sia informato del suo arrivo; entri! e noi ci facciamo mallevadori per la sua persona.»
Marchisio si era fatto portare al palazzo le chiavi di tutte le porte: ma sotto di quella ove trovavasi Manfredi era aperto l'alveo del ruscello che attraversava la città. Avvertito da un Saraceno di quell'apertura, Manfredi, sceso tosto da cavallo, chinossi a terra per entrare nel canale. «No, non soffriremo mai, gridarono tutti gli altri, che il nostro principe entri in così vil modo nella sua città;» e spingendo tutti ad un tempo le porte, le sforzarono; e levando Manfredi sulle loro braccia lo portarono in trionfo verso il palazzo.
Marchisio, udito questo tumulto, usciva colla sua guardia, avanzandosi contro il principe, determinato di venire alle mani, quando tutto il popolo gridò ad una voce: «scendete dai vostri cavalli, prostratevi innanzi al vostro principe, al figlio del vostro imperatore!» Marchisio, confuso, gittossi di fatti a terra, ed il suo esempio fu seguìto dalle guardie che, piegando un ginocchio, rinnovarono tutti insieme il giuramento di fedeltà.
[172] E per tal modo Manfredi si alzò dal fangoso rivo per salire sul trono; imperciocchè la somma della rivoluzione stava in questo avvenimento. Luceria, fortissima città, non era in verun modo esposta agli insulti di una sommossa popolare, onde gli ultimi sovrani vi avevano depositati i loro archivj ed i loro tesori. Il principe vi trovò la così detta camera fiscale di Federico e quella di Corrado, quella del marchese d'Oenburgo e quella di Giovanni Mauro; perchè col danaro colà ritrovato potè subito assoldar truppe. L'universale odio del popolo confondeva i Tedeschi cogli Arabi; sembrando agli Italiani gli uni e gli altri soldati stranieri e mezzo barbari, armati a favore d'una autorità oppressiva; onde sì gli uni che gli altri, dopo la morte di Corrado, erano stati cacciati dalle città dov'erano acquartierati e riuniti insieme dalla persecuzione. Manfredi trovò tra i Saraceni di Luceria molti soldati tedeschi; altri molti ne riunì in pochi giorni; ed in breve tempo, colle genti di queste due nazioni mise in piedi un'armata così forte da tener testa al papa, e da far pentire il marchese d'Oenburgo del suo vile abbandono.
Erasi costui avanzato con un'armata guelfa fino a Foggia, colà preceduto da [173] suo fratello Oddo. Da un'altra banda erasi innoltrato fino a Troja il legato Guglielmo, cardinale di san Eustachio, e nipote del papa, con un'armata ancor più poderosa di quella del marchese. Ebbero colà avviso che quel principe, che fino allora avevano risguardato come un fuggiasco, ordinava a queste ed a tutte le altre città di pagare i consueti tributi. La potenza del principe aveva fatto rinascere il rispetto nel cuore del marchese, onde gli spedì un regalo di abiti, di cui Manfredi aveva urgente bisogno, essendo egli arrivato a Luceria vestito soltanto delle proprie armi. Bertoldo cercò in pari tempo di entrare in negoziati col principe; ed a tal fine andò presso al legato a Troja. Ma mentre Manfredi mostrava di occuparsi di queste insidiose negoziazioni, teneva gli occhi addosso al marchese Oddo ch'era rimasto a Foggia; il quale, avendo osato di fare una scorreria nel territorio di Luceria, fu dal principe impetuosamente attaccato e rotto in modo, che dovette fuggire fino a Canosa. Allora il principe si portò sopra Foggia, ed attaccata questa città da una banda colla cavalleria che aveva inseguìto il marchese, mentre l'assaliva dall'altra l'infanteria che sopraggiungeva [174] da Luceria, la prese in due ore d'assalto. Tosto che questa notizia si sparse nel campo del cardinal nipote a Troja, la sua armata, tocca da panico terrore, abbandonò repentinamente la provincia, e fuggendo si disperse quasi tutta. I due generali guelfi colle scoraggiate loro truppe dovettero ripiegare sopra Napoli, ove appena giunti ebbero avviso della subita morte d'Innocenzo[137].
La morte di così ambizioso ed intrepido pontefice fu un colpo di fulmine per il partito guelfo delle due Sicilie, un disastro assai maggiore di quello della disfatta de' suoi generali. I cardinali adunati a Napoli, sostituendogli uno de' conti Signa, Alessandro IV, parente d'Innocenzo III e di Gregorio IX, non seppero dare al loro partito un capo così accorto, così ardito, e dirò ancora così violento com'era stato l'ultimo papa.
(1255) Gli amici di Manfredi, rinvenuti da quel primo terrore che tutto faceva piegare al partito guelfo, incominciavano a prendere le armi in Calabria ed in Sicilia, ed egli stringeva vigorosamente i ribelli della Puglia e di Terra di Lavoro: e sebbene le sue armate fossero [175] di numero ancora inferiori a quelle del papa e de' suoi legati, vi suppliva con molte e grandi virtù militari, con un carattere generoso, con un'amabile galanteria, che gli guadagnavano il cuore de' sudditi. Due volte, troppo fidando alla parola degli ecclesiastici, accordò ai legati del papa capitolazioni ch'essi violarono, ma due volte ancora li castigò, colle sue vittorie, della loro mala fede. La Terra di Lavoro fu l'ultima provincia ch'egli riconquistasse; Napoli e Capoa gli aprirono spontaneamente le porte, e così Manfredi ricuperò in due anni tutto il regno che gli aveva tolto il pontefice.
Innocenzo IV regnò undici anni e cinque mesi; e se la gloria d'un papa può misurarsi, come quella d'un conquistatore, per le perdite e le umiliazioni de' suoi nemici, niuno de' successori di san Pietro ebbe un regno più glorioso del suo. Nel concilio di Lione, Innocenzo condannò un potente monarca; lo depose dal trono; armò contro di lui i sudditi e gli alleati, lo vide morire, e morire i suoi figliuoli, dopo umilianti disfatte; e parve che la sua vendetta gli accompagnasse anche entro il sepolcro, ove entrarono scomunicati; egli corse trionfante [176] l'Italia tolta al partito imperiale; s'impadronì di tutto il regno di Napoli innalzando il dominio di san Pietro al più alto grado di potenza cui giugnesse giammai nè prima nè dopo; finalmente morì quando il morire era per lui una felicità, perchè non conobbe la disfatta delle sue armate. Se poi vogliamo ricordarci che Innocenzo fu l'amico di Federico; che senza esserne stato offeso fu l'implacabile persecutore dell'amico e de' suoi figliuoli; che chiamato ad essere il padre di tutti i cristiani, ed il protettore degli orfani, rigettò le suppliche del moribondo Corrado e di Manfredi che affidavano alla sua clemenza la sorte d'uno sventurato fanciullo; finalmente che Innocenzo fu il primo che mise in campo il funesto pensiero di chiamare i reali di Francia nel regno di Napoli, dove le loro guerre accanite fecero, pel corso di tre secoli, versare il sangue più puro della Francia e dell'Italia; la memoria d'Innocenzo diventa esecrabile.
Malgrado l'immenso potere che questo papa esercitava in tutta l'Italia, e quasi su tutta l'Europa, i soli Romani non piegarono sotto la sua autorità, conservando intatte le libertà della repubblica a fronte delle prerogative papali. Non abbiamo [177] veruno storico romano anteriore al XIV secolo, veruno che, rammentando i più antichi tempi, abbia veduto in Roma altro che la corte del papa; talchè l'indipendenza di quella repubblica non ci vien presentata che a grandi intervalli e come oggetto secondario dalle storie degli altri paesi; e ciò in così poco vantaggioso aspetto da farcela credere, più che altro, una sediziosa oligarchia. Uno de' nobili, col titolo di senatore, era incaricato dell'amministrazione della giustizia in città; e papa Gregorio IX aveva soltanto ottenuto che tutti i chierici ed ecclesiastici addetti alla sua corte ed ai cardinali ed i pellegrini non fossero soggetti alla di lui giurisdizione[138]. L'indipendenza adunque della propria persona e de' suoi preti era tutto ciò che il papa osava chiedere in Roma. Altronde non aveva torto di temere la giurisdizione del senatore il quale, alla testa de' suoi clienti, attaccando i suoi nemici, assediando le case, atterrandone le torri, faceva meno il giudice che il capo di parte.
Alcuni nobili romani avevano afforzate le case, altri in maggior numero eransi impadroniti de' solidissimi monumenti de' più gloriosi tempi di Roma. I sepolcri e gli archi trionfali erano stati convertiti in rocche inespugnabili, dall'alto delle quali si facevano giuoco dell'autorità de' pontefici, della potenza del senatore, della furia della plebe. L'abitudine delle guerre private rassomiglia in modo all'abitudine del ladroneccio, che facilmente si fa passaggio dall'una all'altra. Talvolta i gentiluomini uscivano di notte armati dalle loro fortezze per ispogliare i magazzini de' mercadanti; facevano de' prigionieri nelle strade, ch'erano costretti di pagare grosse taglie per riscattarsi; ed in mezzo ad una città si credevano in istato di guerra colla medesima e con tutta la società. Questi abusi crebbero a dismisura in tempo che Innocenzo soggiornò in Lione; onde il popolo, volendo liberarsene, determinò di non affidare il potere giudiziario ad alcuno de' suoi concittadini, ma di chiamare, come praticavano altre città, qualche forastiere di specchiata integrità, accordandogli un illimitato potere, a condizione che ristabilisse in Roma l'ordine e la tranquillità.
Brancaleone d'Andalo, bolognese e conte di Casalecchio, fu quello che scelse [179] il popolo di Roma per suo dittatore; ma Brancaleone che conosceva l'incostanza de' Romani ed il proprio inflessibile carattere nel giudicare i colpevoli, non accettò l'offerta carica che a condizione di averla per tre anni, mandando trenta giovani delle principali famiglie romane a Bologna, ostaggi per la sua persona. Tutto gli venne accordato, ed egli in principio del 1253 entrò in Roma.
La giusta amministrazione di Brancaleone fu accompagnata da un tale carattere di severità che fa orrore. Qualunque attentato contro la pubblica tranquillità, commesso da un gentiluomo, fu rigorosamente punito: se taluno osava resistere, marciava alla testa del popolo contro la rocca in cui erasi rifugiato il colpevole; la chiudeva con istretto assedio, e non soleva ritirarsi finchè, venuta in suo potere, non era atterrata. Molti gentiluomini furono condannati ad essere appiccati alle finestre del loro palazzo; e la tranquillità di Roma fu acquistata collo spargimento del sangue più illustre.
Brancaleone volle altresì richiamare le campagne romane all'antica loro dipendenza: per la qual cosa mandò ambasciadori a Terracina chiedendo a quella piccola città il giuramento d'ubbidire [180] ai suoi ordini, e di associarsi all'assemblee, all'armata ed ai giuochi pubblici de' Romani. Innocenzo IV, trovandosi allora in Assisi, spedì una bolla al senatore per fargli sentire che gli abitanti di Terracina erano immediati vassalli della santa sede, e non tenuti a verun servizio verso la città di Roma; gli raccomandava di ritirare, pel rispetto dovuto alla santa sede, i dati ordini; essendo determinato in caso contrario a difendere con tutte le sue forze i cittadini di Terracina[139].
Brancaleone cercò invano di richiamare lo stesso pontefice a ciò ch'egli credeva di sua pertinenza; ed il racconto, che ne abbiamo in Matteo Paris è la più luminosa prova dell'indipendenza de' Romani e del loro magistrato verso Innocenzo IV. «Nello stesso tempo, egli scrive, essendosi il papa trattenuto alcuni mesi in Assisi, per parte de' Romani e del senatore Brancaleone, gli furono spediti deputati ad intimargli di rientrare sollecitamente nella città di cui era pastore e sommo pontefice. Soggiungevano i Romani, che si maravigliavano [181] di vederlo errante qua e là come un vagabondo o un proscritto, abbandonando Roma, la sede pontificia, la greggia di cui doveva rendere stretto e rigoroso conto al sovrano giudice, per andar in traccia di danaro. Il senatore ed il popolo romano ordinavano pure al popolo d'Assisi di non permettere che soggiornasse più oltre in quella città un pontefice che s'intitolava dalla sede di Roma, non da Lione, da Perugia o d'Anagni (luoghi ove il papa aveva lungamente dimorato). Esigevano che la città d'Assisi lo rimandasse, altrimenti avrebbe veduto il suo territorio messo a soqquadro. Conobbe allora Innocenzo che, se non tornava a Roma, Assisi sarebbe distrutta dagl'irritati Romani, come era accaduto ad Ostia, Porto, Tusculano, Alba, Sabina ed ultimamente anche a Tivoli. Rientrò dunque in Roma più forzatamente che di propria volontà, e non senza timore di qualche sinistro. Ad ogni modo, dietro gli ordini del senatore, vi fu onorevolmente ricevuto[140].»
La tornata d'Innocenzo a Roma fu anteriore alla sua spedizione contro Manfredi [182] ed il regno di Napoli: e poco dopo, la morte del pontefice lasciò Brancaleone assoluto padrone di Roma, la di cui amministrazione fu sempre egualmente severa e vigorosa. I Romani mostraronsi alcun tempo soddisfatti nel vedere i più principali gentiluomini, allorchè turbavano l'ordine pubblico, trattati con tutto il rigore della giustizia; ma a lungo andare quest'estrema severità si rese loro odiosa non meno dell'anarchia. Scoppiò una sedizione contro Brancaleone, eccitata dall'illustre famiglia degli Annibaldeschi, nella quale il senatore fu portato via dal Campidoglio e posto in prigione. Coloro che avevano alcun titolo di lagnanze contro di lui, furono invitati a produrle; ed era facile il prevedere che il processo intentato contro di lui innanzi al suo successore Emmanuele de' Maggi di Brescia sarebbe terminato con una condanna capitale.
Ma Brancaleone, al primo sentore della sedizione, aveva spedita la consorte a Bologna, per ottenere da quel senato che facesse strettamente custodire gli ostaggi dati dai Romani e mandasse deputati a Roma a chiedere la sua libertà. Invano il nuovo papa Alessandro IV rappresentò ai Bolognesi che il magistrato ch'essi [183] domandavano era sospetto d'essere parziale di Manfredi, figlio e successore del loro nemico Federico; invano lo dipinse qual caldo ghibellino, indegno affatto della protezione di così zelanti guelfi; invano passando dalle sue persuasioni a quelle del rigore, li minacciò dell'interdetto se non mettevano in libertà gli ostaggi loro consegnati[141]: i Bolognesi si mostrarono così fermi nel difendere l'illustre loro concittadino, che i Romani dovettero rimandare libero Brancaleone; il quale, giunto a Fiorenza, segnò un atto di rinuncia alla sua carica, che ci fu conservato[142]. Sembra che dopo il corso pericolo, la rinuncia di Brancaleone dovesse essere sincera e senza pentimento: pure quando, dopo due anni, fu dai deputati romani invitato nuovamente a riassumere una carica che il popolo troppo amaramente allora pentivasi d'avergli tolta, Brancaleone tornò a Roma, e per la seconda volta vi ristabilì la sicurezza ed il governo popolare: ma il desiderio della vendetta aggiungendosi forse all'abituale severità del suo carattere, mandò al supplicio [184] alcuni degli Annibaldeschi, e tutti gli altri cacciò da Roma. Scomunicato da Alessandro IV, per vendicarsene, costrinse questo pontefice con tutta la sua corte ad uscire di Roma, ed in appresso attaccò Anagni, patria d'Alessandro, e la rese soggetta alla repubblica romana. In questa seconda amministrazione, per forzare i nobili a rispettare il popolo, distrusse cento quaranta delle loro torri e rocche; obbligò il papa a riconoscere la sua autorità, ed a rappattumarsi con lui. Sembrava che la repubblica romana avesse assicurata la sua indipendenza, quando Brancaleone, assalito da grave malattia, morì desiderato da tutto il popolo. Il suo capo fu riposto in un vaso prezioso sopra una colonna di marmo, e per onorare la sua memoria fu nominato senatore un suo parente[143].
Dopo aver osservate le rivoluzioni che la morte di Federico produsse nel mezzodì dell'Italia, convien vedere quali ne furono le conseguenze nelle altre province della medesima contrada, poichè tutte [185] provarono l'immediata influenza di tale avvenimento.
(1250) L'ultimo atto dell'amministrazione di Federico in Toscana esiliava da Fiorenza i Guelfi, e poneva l'assoluto potere della città tra le mani de' gentiluomini ghibellini; e la prima conseguenza della morte di Federico fu la chiamata de' Guelfi, e lo stabilimento di un'amministrazione che lasciava alle inferiori classi della nazione la più estesa influenza. «In quel tempo, dice il Villani[144], i cittadini di Firenze viveano sobri e di grosse vivande e con piccole spese e di molti costumi, grossi e rudi, e di grossi drappi vestivano le loro donne; e molti portavano le pelli scoperte senza panno con berette in capo e tutti con usatti in piede, e le donne fiorentine senza ornamenti, e passavasi la maggior donna d'una gonnella assai stretta di grosso scarlatto, cinta ivi su d'uno schegiale all'antica, ed un mantello foderato di vajo cotassello di sopra, e portavanlo in capo: e le donne della comune foggia vestivano d'uno grosso verde di cambrasio per lo simile modo ed usavano [186] di dare in dote cento lire[145] la comune gente, e quelle che davano alla maggioranza duecento, o insino in trecento lire era tenuta senza modo gran dota, e la maggior parte delle pulzelle che n'andavano a marito avevano venti anni o più, e di così fatto abito e costume e grosso modo erano allora i Fiorentini con loro leale animo, e tra loro fedeli; e molto voleano lealmente trattare le cose del comune, e con la loro così grossa e povera vita, più virtuose cose, ed onori recavano a casa loro, che non si fa a' nostri tempi, che pur morbidamente viviamo[146][147].»
Un popolo che sa conservare così virtuosa sobrietà, un popolo arricchito da un florido commercio, e provveduto di tutti i beni che rendono la vita più dolce, non rimane lungo tempo schiavo. Il nuovo governo creato dai Ghibellini sotto l'influenza di Federico era assolutamente aristocratico; e perchè nelle famiglie nobili [187] conservavasi la medesima semplicità di costumi, e la medesima energia che nelle popolane, la forza di tali famiglie non fondavasi soltanto nelle leggi, ma ancora nelle armi. Tutti i fratelli si ammogliavano, tutti avevano una numerosa figliuolanza che avvezzavano alla guerra: ed eranvi alcune famiglie che contavano fin trecento individui. Quella degli Uberti era in Firenze la più potente, e fors'anco la più orgogliosa; essa aveva fatta la rivoluzione, manteneva una viva corrispondenza coll'imperatore, e possedeva in Firenze i palazzi meglio fortificati. Si dice che i nobili, resi insolenti dal loro potere, vessarono sovente la plebe con estorsioni ed atti violenti ed ingiuriosi. Il 20 ottobre del 1250, prima che accadesse la morte di Federico, tutti i più ricchi borghesi di Firenze si animarono a prendere le armi, e si adunarono nella piazza di santa Croce, avanti ad una chiesa che vide allora per la prima volta formarsi lo stato popolare di Fiorenza; avanti a quella chiesa ove i sepolcri de' grandi uomini fiorentini, ossia la repubblica degli estinti trovasi adunata anche ai nostri giorni. Di là, attraversando la città, s'avanzarono verso la casa degli Anchioni a san Lorenzo ove abitava il podestà, [188] e lo costrinsero a rinunciare la sua carica. Dopo ciò si divisero per quartiere in venti compagnie, a cadauna delle quali fu dato un capo ed uno stendardo; nominarono un giudice in luogo del podestà, e questi fu Uberto di Lucca, al quale diedero il titolo di capitano del popolo; per ultimo formarono il consiglio dei dodici anziani, prendendone due per ogni quartiere della città; e questo consiglio, che s'intitolò signoria, doveva rinnovarsi ogni due mesi. Tale fu la costituzione che si diedero i Fiorentini in mezzo al tumulto di una sedizione, sotto la quale per altro operarono nel corso di dieci anni le più grandi cose[148].
La prima cosa di cui saggiamente occuparonsi i Fiorentini nell'atto che fondarono la nuova costituzione fu l'organizzazione della forza militare. Essi non potevano temere d'essere oppressi dalla loro armata, perchè l'armata era la nazione, ma vollero che fosse sempre in ordine, sempre ben disciplinata per difesa della patria e della libertà. Tutti i [189] cittadini di Firenze furono registrati in una delle venti compagnie di milizia; tutto il territorio venne diviso in novantasei compagnie ausiliari; i soldati nominarono i propri ufficiali; tutti furono subordinati al capitano del popolo; tutti al primo allarme erano tenuti di trovarsi nella piazza di santa Croce; e la prima cura del popolo, ricuperando i suoi diritti, fu quella di scegliere i colori de' suoi gonfaloni e delle sue imprese.
Per tutelare il popolo contro gli attentati de' nobili, si determinò di spianare le fortezze, col favor delle quali i gentiluomini si sottraevano al poter delle leggi. Non si volle per altro, o non si ardì di fare questa novità tutto ad un tratto; e la legge ordinava ai nobili di abbassare le loro torri in modo che non oltrepassassero le cinquanta braccia: fu questa la prima legge pubblicata in nome del popolo. I materiali procurati colla demolizione di tante private fortificazioni, furono utilmente impiegati nell'innalzamento delle mura della città nel quartiere al mezzodì dell'Arno. In pari tempo fu fabbricato il palazzo del podestà, rocca solida ed imponente, che adesso serve ad uso di prigione. Vennero colà alloggiati i membri del governo, che fino a tal epoca dimoravano [190] in private case, e riunivansi soltanto nelle chiese.
Tali furono i principj della rivoluzione che si fece in Firenze mentre ancora vivea Federico; ma quando pochi mesi dopo, cioè il 7 gennajo 1251, si ebbe notizia della di lui morte, si pose l'ultimo suggello all'edifizio della libertà[149]: furono richiamati tutti i Guelfi esiliati, costretti i nobili delle due fazioni a segnare un trattato di pace, ed aggiunto al capitano del popolo un nuovo podestà scelto in una famiglia guelfa di Milano.
Non fu appena stabilito in Firenze il governo popolare, che que' cittadini, animati dal sentimento della loro novella forza, cercarono di tirare nel loro partito tutta la Toscana. La sola città di Lucca erasi anch'essa dichiarata pei Guelfi, ma Pistoja, Pisa, Siena, Volterra, e pressochè tutti i gentiluomini seguivano la contraria parte. I Fiorentini invasero il territorio di Pistoja e lo guastarono; poi entrarono in quello di Pisa, attaccando quella repubblica, creduta di forze eguale a Fiorenza; ma Pisa trovavasi già in guerra colle città di Lucca e di Genova, e [191] si era privata di molte braccia per equipaggiare la flotta che aveva accordato al re Corrado, che dalla Germania recavasi per mare nel regno di Napoli; altronde la rotta, per cagione della mal regolata disciplina delle truppe, sofferta nel secondo anno della guerra l'aveva notabilmente indebolita. Mentre i Fiorentini del 1252 stringevano d'assedio Tizzano, castello dei Pistojesi, i Pisani attaccarono l'armata lucchese a Montopoli, e fecero molti prigionieri; ma dopo l'ottenuta vittoria tornando disordinati verso Pisa, nè più credendosi esposti ad essere attaccati, si trovarono all'improvviso sopraggiunti da' Fiorentini presso Pontedera e rotti avanti che potessero ordinarsi in battaglia[150]. I prigionieri lucchesi approfittarono di tanta confusione per mettersi in libertà, e legare colle stesse corde i loro mal accorti vincitori. Tre mila prigionieri, tra i quali trovavasi anche il podestà, furono il frutto di questa vittoria. Dopo questo fatto l'armata fiorentina [192] attraversò il territorio di Siena per rinfrescare di viveri e di gente il castello di Montalcino, che, quantunque posto sulla strada che conduce da Siena a Roma, aveva domandata la protezione de' Fiorentini. I Sanesi furono battuti sotto le mura di questo castello, e l'armata fiorentina, dopo avere scorsi i territorj di tutti i loro nemici, rientrò trionfante in Firenze.
In memoria specialmente di tali avvenimenti, la repubblica determinò di coniare una moneta d'oro, il fiorino, poi chiamato zecchino, che fissò al titolo più puro di ventiquattro caratti, e del peso di un ottavo d'oncia[151]. In mezzo alle rivoluzioni monetarie, e mentre la mala fede dei governi alterava il numerario dall'una all'altra estremità dell'Europa, il fiorino o zecchino di Firenze fu sempre lo stesso non solo in peso ed in titolo, ma ancora di presente porta l'impronta di quello battuto nel 1252. Vero è che la lira di conto, che non è che una moneta ideale, non mantenne sempre i medesimi rapporti col fiorino: ebbe in origine lo stesso valore, [193] ma il corso del cambio, che era libero e variabile, accrebbe costantemente il prezzo della moneta d'oro. Quando cadde la repubblica fiorentina, il fiorino valeva sette lire fiorentine; oggi tredici lire, sei soldi, otto denari, corrispondenti ad italiane lire undici e quaranta centesimi[152].
L'anno 1253 è celebre nei fasti di Firenze per la sommissione di Pistoja. Vedendo le loro campagne esposte a frequenti saccheggi, e molte castella forzate d'arrendersi ai nemici, i Pistojesi, stanchi di sostenere una lotta così disuguale, acconsentirono di richiamare tutti i Guelfi esiliati, mettendoli a parte della amministrazione del comune: e permisero ai Fiorentini di fabbricare una rocca nella loro città presso a Porta Romana e di tenervi continuamente guernigione. La repubblica fiorentina non aveva richiesta quest'ultima condizione per farla sua suddita, chè la sua ambizione non andava ancora tant'oltre; ma perchè le fosse tolto di sottrarsi in avvenire alla [194] sua alleanza, o di perseguitare i Guelfi protetti dai Fiorentini[153].
(1254) Più glorioso ancora fu pei Fiorentini il susseguente anno, chiamato l'anno delle vittorie. Sotto la condotta del loro podestà, Guiscardo di Pietra Santa, milanese, cinsero d'assedio Montereggione, fortezza dei Sienesi, e risguardata come la principale difesa del loro territorio. Perchè i Sienesi temendo di perderla, proposero condizioni di pace assai vantaggiose ai Fiorentini, e rinunciarono alla loro alleanza coi Ghibellini, senza che ciò peraltro alterasse in alcun modo l'interna forma del loro governo[154]. Gli uomini più illustri per lettere e per impieghi civili, siccome nei più bei tempi d'Atene e di Roma, militavano anch'essi nelle armate della repubblica; così Brunetto Latini, uno de' primi ristoratori delle lettere in Italia, autore d'un libro intitolato il Tesoro, nel quale trovansi riuniti tutti i lumi [195] di quel secolo[155], Brunetto Latini, il prediletto maestro di Dante, militava nella guerra di Siena, e fu egli che, notajo essendo, stese e firmò il trattato di pace tra le due repubbliche.
Poich'ebbe prese le rocche di molti signori ghibellini nelle vicinanze di Siena, l'armata fiorentina entrò nel territorio di Volterra, una delle antichissime città degli Etruschi fabbricata sopra un'alta montagna, e da più lati circondata di precipizj, dagli altri difesa da alte mura formate di enormi sassi quadrati; maravigliose opere anteriori ai tempi romani, e tutt'ora esistenti. I Fiorentini erano ben lontani dal lusingarsi di poter prendere così forte città, quando quegli abitanti essendo usciti dalle porte ad attaccarli, furono, malgrado il vantaggio del terreno che combatteva per loro, rotti dalla furia delle milizie fiorentine, che vivamente inseguendoli entrarono nella mal [196] abbandonata città. Allora il vescovo alla testa de' suoi chierici che portavano delle croci, e le donne coi capelli disciolti vennero a gettarsi ai piedi dei vincitori chiedendo grazia. L'ottennero; non fu sparsa una goccia di sangue, nè saccheggiata una sola casa; ma il governo venne riformato in vantaggio del partito guelfo: sicchè fu conservata la libertà, ma i capi della fazione ghibellina furono forzati di allontanarsi dalla loro patria[156].
Prima che terminasse l'anno, l'armata vittoriosa invase il territorio di Pisa, spargendo in quella città tanto terrore, che que' cittadini domandarono la pace, ed acconsentirono a svantaggiose condizioni, che peraltro non furono lungo tempo osservate. Dopo una campagna così gloriosa rientrò trionfante in settembre del 1254, accolta con trasporto di gioja da tutti gli abitanti che le si fecero incontro fuori delle porte.
La città d'Arezzo non aveva presa parte alle guerre della Toscana; i Guelfi ed i Ghibellini essendovi egualmente potenti, [197] avevano pure egual parte nel governo; mantenendo la città internamente tranquilla, e sicura al di fuori col favor de' trattati fatti coi loro vicini, ed in particolare colla repubblica di Fiorenza. Accadde che del 1255 i Fiorentini mandarono sotto la condotta del conte Guido Guerra, gentiluomo guelfo indipendente, cinquecento cavalli agli abitanti d'Orvieto per soccorrerli contro quelli di Viterbo. Per recarsi ad Orvieto questa gente doveva attraversare il territorio di Arezzo: quando passò vicino alla città, gli Aretini guelfi chiesero ajuto al conte Guido per cacciare dalla città loro i Ghibellini, e, per prezzo dell'ottenuto soccorso, gli diedero, contro la fede de' trattati, il possesso della loro fortezza. Nello stesso modo press'a poco la fortezza di Tebe era stata occupata da un generale spartano[157]; ma il senato di Lacedemone condannò il generale e ritenne la fortezza: i Fiorentini all'incontrario, presero tutte le armi e si portarono sotto Arezzo per ristabilirvi i [198] Ghibellini. Sebbene fossero questi nemici, erano in pace con Firenze; e perchè il conte Guido mostrava di voler difendere la sua conquista, ed i Guelfi, ch'eransi valsi dell'opera sua, non sapevano risolversi a rimandarlo senza ricompensa; i Fiorentini accomodarono gli abitanti d'Arezzo di dodici mila fiorini, che poi non furono loro più restituiti[158], affinchè con questa somma potessero gratificare il conte, rientrare in possesso della fortezza e ristabilire la pace entro le loro mura[159].
Abbiamo accennato che i Pisani non mantennero a lungo la pace che avevano [200] forzatamente segnata: ma rotti un'altra volta presso Ponte al Serchio dall'armata combinata fiorentina e lucchese, furono costretti di soggiacere alle condizioni che loro erano state prima accordate, e di consegnare inoltre il forte di Motrone posto in riva al mare presso di Pietra Santa, con patto che i Fiorentini lo potessero, a voglia loro, distruggere o conservare. Assai difficile e dispendiosa doveva riuscire la guardia di questa rocca posta a molta distanza da Fiorenza, di modo che dopo un segreto consiglio degli anziani, la signoria determinò di farla spianare. Ma i Pisani che non prevedevano così fatta risoluzione, temevano all'opposto che i Fiorentini, acquistando uno stabilimento in riva al mare, non andassero in seguito dilatandosi, e giugnessero ad avervi un porto. Perchè mandarono un segreto negoziatore a Firenze per prevenire questo successo. Era allora uno degli anziani Aldobrandino Ottobuoni, cittadino assai riputato, ma di povere fortune. A costui si diresse segretamente l'agente pisano, e cercando di persuaderlo che quanto era per proporgli non era altrimenti contrario al dover suo, nè agl'interessi della sua patria, gli offrì quattro mila zecchini d'oro, [201] a condizione che riducesse i suoi colleghi ad ordinare la demolizione di Motrone. Sebbene tale risoluzione era già stata adottata il giorno avanti, Aldobrandino licenziò l'agente pisano con disprezzo; e riflettendo che i Pisani non sarebbonsi presa tanta premura per la distruzione di Motrone, se non conoscessero estremamente vantaggioso ai Fiorentini il conservare questa fortezza, si recò al consiglio degli anziani, e seppe così bene esporre le ragioni che dovevano determinarlo alla conservazione di Motrone, che la signoria, rivocando il precedente atto, ordinò che la rocca si conservasse. Aldobrandino ebbe la generosità di non parlare dell'offerta che gli era stata fatta; e furono i nemici dello stato che manifestarono la disinteressata sua condotta[160].
Pontificato d'Alessandro IV. — Crociata contro Ezelino; sua disfatta e morte. — Manfredi re di Sicilia: soccorre i Ghibellini toscani: battaglia di Monte Aperto o dell'Arbia.
1255 = 1260.
Innocenzo IV con una smisurata ambizione e con intollerabili oltraggi aveva provocata la fuga, poi la vendetta di Manfredi; ma la morte di questo papa lasciò lo stato della Chiesa ed il partito guelfo esposti a sventure proporzionate alle passate prosperità. I cardinali adunati in Napoli affrettaronsi di dare un altro capo alla Chiesa nella persona del vescovo d'Ostia, della famiglia dei conti di Signa, la quale aveva dati nello stesso secolo alla cristianità Innocenzo III e Gregorio IX. Il vescovo d'Ostia si fece chiamare Alessandro IV. «Egli era, dice Matteo Paris, buono e religioso, assiduo alle preghiere, costante nella astinenza, ma troppo accessibile alle parole degli adulatori, ed agli avidi [203] consigli de' suoi avari cortigiani[161].» Procedette con minore impeto e vigore, ma ancora con meno talenti, nella guerra contro Manfredi; e non è ben certo se la sua apparente moderazione debba attribuirsi a sentimenti più cristiani anzi che ad un carattere più debole. Abbiamo osservato nel precedente capitolo, che ne' primi due anni del suo regno perdette quasi tutte le terre conquistate dal suo predecessore nel regno di Napoli. Nello stesso tempo i suoi generali ed i legati pontificj trattavano la guerra in Lombardia, ove uno dei primi atti del regno di Alessandro fu quello di far predicare la crociata contro il feroce Ezelino. In sul finire del 1255 mandò lettere circolari a tutti i vescovi, ai signori, alle città libere di Lombardia, dell'Emilia e della Marca Trivigiana. «Un figlio di perdizione, diceva egli, un uomo di sangue riprovato dalla fede, Ezelino da Romano, il più inumano dei figliuoli degli uomini, approfittando dei disordini del [204] secolo, si è usurpato un tirannico potere sopra gli sventurati abitanti del vostro paese. Col supplicio dei nobili, col massacro de' plebei, egli ha spezzati tutti i vincoli dell'umana società, tutte le leggi della libertà evangelica.... Ma noi pensando alla vostra salute, e specialmente in ordine alle cose spettanti al Signore, abbiamo rivestito dell'ufficio di nostro legato presso di voi, il nostro figlio, l'arcivescovo eletto di Ravenna, affinchè rappresentandoci in codeste province, riscaldi lo zelo de' fedeli, perseguiti colle armi spirituali e temporali Ezelino ed i suoi perfidi amici, munisca del simbolo della croce i fedeli che prenderanno le armi contro di lui, gl'incoraggisca, loro offrendo per riconoscenza le medesime indulgenze accordate a coloro che vanno in soccorso di Terra santa. Risvegli questi uomini oppressi dal sonno della morte, assicuri coloro che vegliano per il bene, svelga finalmente e disperda, fabbrichi e pianti, disponga ed ordini, colla prudenza che gli viene da Dio, come conviene alla fede ortodossa, all'onore della Chiesa, alla salute delle [205] anime ed alla tranquillità della vostra patria[162].»
Che nobile soggetto era una guerra predicata in nome di Dio contro il nemico degli uomini! Diffatti per accrescere nemici contro Ezelino dovevansi aggiugnere agli umani motivi altri ancora d'un ordine superiore; imperciocchè Ezelino era tanto superiore di forze e di virtù militari e politiche a' suoi avversarj, ed aveva in modo consolidata la sua autorità coi delitti, che niuno argomento era troppo forte per risvegliare l'entusiasmo de' suoi nemici, niuna ricompensa troppo nobile per coloro che lo superassero.
Dopo la morte di Federico, Ezelino risguardavasi qual sovrano indipendente, ed il supplicio di tutti i più distinti personaggi della Marca segnava l'epoca dell'assoluta indipendenza ch'egli acquistava. Pareva che volesse rifarsi de' riguardi che aveva troppo lungo tempo avuti per la pubblica opinione, e voleva tutto il popolo testimonio del suo furore, [206] quasi insultando la sua sofferenza. Dopo che le sue vittime erano perite nell'aere infetto delle carceri, o poichè erano spirate in mezzo ai tormenti atroci della tortura, ne mandava i cadaveri alle patrie città, facendo loro troncare il capo sulla pubblica piazza. Spesso i gentiluomini venivano condotti a schiere sulla medesima piazza, e colà dati in preda al ferro de' suoi sicari, indi fatti in pezzi e consumati sul rogo. Dall'alto delle case udivansi di giorno e di notte le lamentevoli voci degl'infelici che perivano nelle torture, e risonavano entro al cuore di tutti i cittadini[163]. Nè soltanto i nobili trovavansi esposti alla ferocia d'Ezelino, che ogni sorta di distinzione gli era egualmente odiosa; e siccome non si curava nè meno di trovare alcun pretesto che apparentemente adonestasse gli atti di sua crudeltà, ogni uomo distinto era punito coll'estremo supplicio. I ricchi negozianti, i legisti illuminati, i prelati, i monaci, i canonici di specchiata pietà, e perfino coloro che si facevano distinguere per le grazie della persona, perivano sul palco [207] ed i loro beni erano confiscati. Soleva Ezelino sforzare i proprietarj a vendergli le loro case, specialmente quelle ch'erano situate in luoghi forti, o presso alle porte della città, ma pochi giorni dopo si riprendeva il denaro colla vita del venditore. Tutti, se fosse stato possibile, avrebbero cercato di sottrarsi colla fuga a' suoi furori, ma il tiranno faceva diligentemente guardare i confini de' suoi stati; e se taluno era sorpreso in atto di uscirne, senza veruna forma di giudizio, e senza nè meno interrogarlo, gli si amputava una gamba, o veniva privato degli occhi.
Poco mancò peraltro che il coraggio di due gentiluomini liberasse la terra da questo mostro. I due fratelli Monte ed Araldo di Monselice, venivano condotti dalle guardie del tiranno a Verona, ove allora dimorava Ezelino, per esservi giudicati[164]. Giunsero presso al pubblico palazzo, mentre Ezelino desinava; il quale udendo le loro grida, montò in tanta collera, che, abbandonata la mensa, scese le scale senz'armi, gridando: Vengano alla malora i traditori! Monte, appena [208] vedutolo, si libera dalle mani delle guardie, si avventa contro di lui e lo rovescia a terra, cadendogli sopra. Mentre tentava di togliere al tiranno il pugnale che supponeva avesse sotto la veste, ed in pari tempo gli lacerava il volto coi denti, una guardia gli tagliò colla sciabla una gamba, ed altre fecero in pezzi il fratello che voleva dargli ajuto. Monte insensibile alla prima ferita ed agli altri colpi che venivano sopra di lui scaricati, non abbandonava il tiranno, e faceva inutili sforzi per soffocarlo. Finalmente perì, ma perì sopra il corpo d'Ezelino che aveva lacerato coll'unghie e coi denti, il quale tardò lungo tempo a rimettersi dalle riportate ferite e dal concepito terrore[165].
In marzo del 1256 il legato pontificio, Filippo, arcivescovo eletto di Ravenna, si recò a Venezia, ove incominciò a predicare la crociata. Trovò in questa città molti fuorusciti e specialmente padovani, salvatisi dalla furia di Ezelino. Il più distinto era Tisone Novello di Campo Sampiero, giovane appena uscito di fanciullezza, figliuolo di quel [209] Guglielmo di cui abbiamo descritta la morte, ed ultimo erede d'una famiglia vittima quasi tutta del tiranno. I fuorusciti padovani per meglio guadagnarsi l'appoggio della repubblica nominarono loro podestà Marco Quirini, gentiluomo veneziano; ed il legato seguendo la stessa politica affidò la carica di maresciallo dell'armata ad un altro gentiluomo veneziano, Marco Badoero, e scelse Tisone Novello per portare lo stendardo. Infatti moltissimi Veneziani presero la croce; altri per naturale sentimento di sdegno verso un così feroce tiranno, di cui in tanta vicinanza avevano potuto conoscerne i delitti; altri mossi da gelosia contro un principe che ogni giorno rendevasi più potente, e che stendeva omai i suoi confini a sole sette in otto miglia dalla loro capitale. Somministrarono al legato navi da guerra, onde potesse rimontare la Brenta ed attaccare Padova.
La guerra cominciata nella Marca Trivigiana facevasi con forze eguali. Il marchese Azzo d'Este veniva risguardato come capo naturale della parte guelfa. Era stato spogliato da Ezelino di molte terre, ma gli restavano il Polesino di Rovigo, ove dimorava; e conservava tanta [210] influenza nella città di Ferrara, ch'egli la governava omai piuttosto come suo principato che come repubblica. Mantova trovavasi nella stessa dipendenza verso i conti di san Bonifacio. Al conte Riccardo era succeduto il figliuolo Luigi, il quale tenevasi, come Mantova, attaccato al partito della Chiesa, ed implacabile nemico di Ezelino. Per lo stesso partito stava pure la repubblica di Bologna; e Trento, ribellatosi di fresco ad Ezelino, ne aveva scacciati i partigiani. D'altra parte ubbidivano ad Ezelino Verona, Vicenza, Padova, Feltre e Belluno; erasi inoltre segretamente rappacificato con Alberico suo fratello, che governava Trivigi, ed aveva contratta alleanza col marchese Oberto Pelavicino e Buoso di Dovara, capi di parte ghibellina in Lombardia, che alternativamente o di comune accordo reggevano Cremona col titolo di podestà, esercitandovi un potere quasi dispotico, ed inoltre stavano per insignorirsi di Piacenza e di Parma. In Brescia mantenevasi viva tra le due fazioni la guerra civile; ma il partito ghibellino sembrava più potente; ed Ezelino lusingavasi che per metter fine alle private liti de' suoi cittadini, Brescia si porrebbe in sua mano, ond'egli verrebbe [211] ad aggiugnere così nobile acquisto ai suoi stati.
Ond'essere meglio a portata di approfittare delle corrispondenze che manteneva in Brescia, e vendicarsi ad un tempo de' Mantovani che costantemente eransi fatti conoscere suoi nemici, Ezelino alla testa delle milizie di Padova, Verona e Vicenza, e de' suoi antichi vassalli di Bassano e di Pedemonte, corse il distretto mantovano, che tutto pose a fuoco e sangue. Poi accampò le sue genti in riva al lago che circonda questa città, quasi volesse intraprenderne l'assedio. Aveva d'altra parte ordinato ad Ansedisio de' Guidotti, suo luogotenente in Padova, di marciare contro l'armata del Legato e di chiuderle il passaggio, afforzando la Brenta[166].
Ezelino conservava sul trono tutto il valore che gli aveva agevolata la strada per salirvi; ma d'ordinario i ministri di un tiranno sono più vili del padrone. Ansedisio non prese le convenienti misure per impedire la marcia de' crociati: perchè volendo travoltare le acque della Brenta onde le navi veneziane non potessero rimontare il fiume, aprì un passaggio ai pedoni che lo attraversarono senza bagnarsi; e mentre il legato s'impadroniva dei castelli di Concadalbero, di Buvolenta, di Cansilva, egli teneva inoperosa la sua armata a Pieve di Sacco. Bentosto abbandonò anche l'armata, e tornò a Padova, ove poco dopo la fece ritirare. Tante perdite servirono a scoraggiare i soldati, molti de' quali servivano di mala voglia, ed accrescevano la confidenza dell'armata nemica, la quale attribuiva così prosperi avvenimenti all'aperto favore del cielo, poichè non potevano darne lode al prete che la comandava, il quale aveva date sicure riprove della sua incapacità. Il lunedì 18 giugno, l'armata de' crociati s'incamminò da Pieve di Sacco verso Padova, guidata dall'arcivescovo di Ravenna, il quale circondato da' suoi preti intuonò l'inno:
Vexilla regis prodeunt;
Fulget crucis mysterium...
[213] ripetuto con entusiasmo da tutta l'armata. Al ponte del Bacchiglione, discosto solo due miglia da Padova, i crociati posero in fuga alcune bande d'Ansedisio, per sostenere le quali arrivarono troppo tardi altre truppe che vennero disperse di mano in mano che uscivano di città; di modo che, approfittando i Guelfi della confusione de' fuggiaschi, entrarono assieme nel sobborgo di Padova, e se ne resero padroni.
All'indomani attaccarono in più luoghi le mura e le porte della città. E mentre in ogni altro luogo i crociati combattevano debolmente, il legato, circondato di frati, di preti, di soldati, di cavalieri, tentava di prendere d'assalto la porta di ponte Altinato. I crociati vi si erano avvicinati coperti da una specie di galleria mobile detta vinea, la quale teneva luogo dell'antica testuggine. Dall'alto delle mura versandosi olio e pece infiammati per allontanare gli assalitori, la galleria prese fuoco; di che avvedutisi i crociati, la spinsero contro la porta che pure era di legno, ed aggiungendovi altre materie combustibili, la ridussero ben tosto in cenere. Gli assediati che avevano eccitato il primo incendio, non avendo modo di fermarne i progressi, [214] uscirono atterriti per l'opposta porta collo spaventato Ansedisio, mentre l'armata crociata, appena spente le fiamme, entrava trionfante in città[167].
I crociati avendo sottomessa Padova piuttosto per favore del caso, che per forza di valore o d'ingegno, usarono senza misericordia di una vittoria senza gloria. Poca gente perdette la vita in città, perchè pochi osarono difendere le loro proprietà; ma i vincitori saccheggiarono per sette giorni consecutivi i beni di que' miseri cittadini, così che quella nobilissima città, dopo avere perdute tante ricchezze e tanto sangue ne' diciotto anni che fu soggetta ad Ezelino, fu spogliata dei miseri avanzi dell'antica sua opulenza da coloro che si annunciavano per suoi liberatori.
A fronte della perdita di tutte le loro fortune i Padovani non lasciavano però di felicitarsi di un avvenimento che, togliendoli ai mali della tirannide, li rendeva alla comunione della Chiesa; e sentirono tutto il prezzo della ricuperata libertà quando videro aprirsi le prigioni di Ezelino. In quella di santa Sofia, posta [215] nel sobborgo, furono trovati trecento prigionieri ed altrettanti in quella di Cittadella che s'arrese pochi giorni dopo[168]. Eranvi nella città altre sei più piccole prigioni, tutte piene d'infelici. Si vedeva uscirne uomini agonizzanti, rispettabili matrone, dilicate fanciulle oppresse dalla miseria sofferta nelle prigioni, e ciò che pose il colmo a tanto spettacolo, molti fanciulli privati degli occhi e barbaramente mutilati in più atroci guise.
Ma un nuovo disastro più terribile de' già sofferti, era preparato all'infelice Padova. Quando Ezelino ebbe avviso della perdita di questa città, la più potente di quante ne possedeva, trovavasi accampato in riva al Mincio con un'armata di circa trenta mila uomini, dei quali undici mila appartenevano alla città ed al distretto di Padova: i quali conoscendo egli a sè mal affetti, ebbe paura che si ammutinassero; locchè volendo prevenire, li condusse di notte tempo con una marcia sforzata a Verona, ove giunsero in sul fare del giorno. Fece entrare tutti i Padovani disarmati nel ricinto [216] di san Giorgio, e disse loro che, per placare la sua collera, dovevano essi medesimi consegnare tutti i soldati venuti da Pieve di Sacco, perchè in questa terra le sue truppe erano state tradite. Ciascuno, vedendo indicata una vittima, felicitavasi d'essersi sottratto al pericolo, e trovava dei pretesti per iscusare la collera del tiranno, e così tutte le genti di Pieve di Sacco furono chiuse in prigione. Ezelino chiese in appresso quelle di Cittadella, i cui compatriotti eransi arresi senza combattere, e corsero la sorte dei primi. Allora domandò tutti gli uomini della campagna padovana, che furono consegnati dagli abitanti della città; poi chiese i nobili, che vennero di buon grado sagrificati dai plebei; finalmente spedì contro questi ultimi i suoi soldati di Pedemonte, e li fece tutti mettere in catene. Per tal modo tutta un'armata lasciossi imprigionare, senza speranza di uscir mai dalle carceri, imperciocchè dopo avere spogliati quegli infelici, gli abbandonava al freddo, alla fame, alla sete; e siccome non perivano abbastanza sollecitamente, col ferro, col fuoco, o sopra infame patibolo li faceva tutti perire. Di così bella armata composta della [217] più bella e più valorosa gente di Padova, appena se ne salvarono duecento[169][170].
(1256) Le armate crociate che a quest'epoca combattevano in Europa, non erano d'altro composte che della feccia delle nazioni, d'uomini ignoranti e superstiziosi, spinti in mezzo ai pericoli dalle prediche de' preti senz'avere acquistato il necessario coraggio per sostenerli a sangue freddo. Forse quest'uomini condotti da esperti generali sarebbero col tempo diventati buoni soldati; ma il loro fanatismo opponevasi naturalmente ad ogni disciplina; e l'esperienza di abili ufficiali valutavasi assai meno del potere dei preti; onde non si curavano di chi sapesse ben condurli. La crociata contro Ezelino, una guerra intrapresa per la causa della libertà e dell'umanità, venne macchiata non solo dalla superstizione, [218] che pure talvolta può associarsi coi più nobili sentimenti, ma ancora dalla viltà e dall'anarchia prodotte da quella medesima superstizione. Ogni corpo d'armata era capitanato da qualche religioso, ed i Bolognesi avevano alla loro testa quello stesso frate Giovanni da Vicenza, che vent'anni prima predicava la pace in Lombardia: generale veramente degno de' suoi ufficiali e soldati! Filippo, arcivescovo di Ravenna, era un prete ignorante e senza carattere. Egli avanzossi fino a Longara sulla strada di Vicenza colla sua armata, occupando i suoi soldati nell'andare in traccia de' migliori vini e di ciò che poteva trovarsi di più squisito per vivere delicatamente.
Mentre l'armata trovavasi a Longara, si presentò al legato Alberico da Romano, che venne accolto con tutte le dimostrazioni di cordialità. Alberico aveva lungo tempo mostrato di seguire il partito della Chiesa, ma non era senza fondamento il sospetto di taluno, che fosse d'accordo col fratello, e che i due tiranni si fossero allogati nelle opposte fazioni per vie meglio assicurare l'ingrandimento della loro famiglia, e penetrare più agevolmente i disegni de' loro nemici. La venuta d'Alberico destò la diffidenza ne' gentiluomini [219] dell'armata, ma il legato non prestò fede ai loro consigli. Pochi dì dopo per altro scoppiò nel campo una sommossa: i Bolognesi protestavano di non voler più servire senza paga, e nello stesso tempo pubblicavasi ch'era omai vicina l'armata d'Ezelino; onde tutto ad un tratto, senz'ordine e senza apparente cagione, i crociati presero la strada di Padova. Fortunatamente che il podestà Marco Quirini, penetrando il motivo di questa subita risoluzione, di cui sospettava l'autore, mandò avanti un messo con ordine di chiudere le porte all'armata, e di non dar ricetto a qualunque fuggiasco dal campo di Longara. Poco dopo l'arrivo del messo, si presentò a Padova, accompagnato da numerosa scorta, Alberico, chiedendo a tutte le porte d'essere intromesso; ma vedendo rifiutate le sue istanze, partì alla volta di Treviso, nè più tornò al campo de' crociati[171].
Dopo non molti giorni, Ezelino s'avanzò verso Padova per farne l'assedio, ma trovò che i nemici avevano cavata una larga fossa tre miglia fuori della [220] città, e munita di ridotti che difendevano coraggiosamente; perchè avendoli inutilmente attaccati, si ritirò, licenziando l'armata quantunque potesse tenersi ancora due mesi in campagna.
(1257) Nel susseguente anno non ebbe luogo verun avvenimento di molta importanza. Ezelino, spaventato dalla perdita di Padova, cercava, per rifarsi da questo colpo, di formare nuove alleanze, sia coi Ghibellini di Lombardia, sia coi due pretendenti alla corona imperlale, Riccardo conte di Cornovaglia ed Alfonso di Castiglia, che avevano divisi i voti del collegio elettorale e dei principi di Germania. Dall'altra banda il legato non aveva nè talenti, nè attività, nè fors'anco mezzi per trattare vigorosamente la guerra; di modo che passò la buona stagione senza tentare veruna impresa. I due partiti sembravano principalmente occuparsi delle dissensioni civili di Milano e di Brescia. Nella prima i nobili e l'arcivescovo erano in guerra colla plebe; nell'altra le forze guelfe e ghibelline erano pari e quasi in procinto di venire alle mani. Il legato pontificio passava dall'una all'altra città per predicarvi la pace. Ezelino in vece incoraggiava alla guerra i nobili milanesi e bresciani, offrendo il suo ajuto [221] agli uni ed agli altri; ma malgrado l'acerbità degli odj, diffidavano tutti delle sue offerte, ed i suoi stessi partigiani non acconsentivano di riceverlo entro le mura delle città ch'egli diceva di voler proteggere.
(1258) Soltanto in quest'anno potè il legato ridurre i Bresciani ad entrare nella lega della Chiesa: ma mentre soggiornava nella loro città, si seppe che il marchesa Pelavicino, alla testa de' Cremonesi, aveva attaccati i castelli di Volongo e di Torricella, posti sulle rive dell'Oglio. Il legato uscì tosto di città per obbligare il marchese a ritirare le sue genti, menando seco tutti i Guelfi di Brescia, le milizie di Mantova, e tutti i crociati che l'avevano seguìto: intanto Ezelino, marciando di notte dalla banda di Peschiera con forze superiori, si pose alle spalle dell'armata crociata, la quale sorpresa da panico terrore, non gli oppose quasi veruna resistenza. Furono fatti prigionieri quattro mila Bresciani, il podestà di Mantova con molti suoi compatriotti e lo stesso legato pontificio: cosicchè di tutta l'armata guelfa non si salvò che Biachino da Camino colla sua gente, facendosi [222] strada a traverso l'armata nemica[172][173].
Quando a Brescia si ebbe avviso della rotta dell'armata, i Guelfi rimasti in città tentarono di placare i loro concittadini ghibellini, rendendo la libertà a coloro che trovavansi in prigione, e ricevendoli di nuovo in consiglio e nelle cariche: ma una forzata condiscendenza non fece mai dimenticare i volontarj oltraggi; onde tosto che i capi ghibellini si videro liberi, aprirono le porte ad Ezelino. Mentre l'armata del tiranno entrava per una porta, uscivano dall'opposta il vescovo, i magistrati e moltissimi Guelfi, seco conducendo le loro famiglie e tutto quanto potevano portare di effetti preziosi, compiagnendo l'infelice loro patria cui preparavansi tante calamità; «imperciocchè, [223] dice Rolandino, le inondazioni, la peste, gl'incendj, o qualsiasi sciagura non opprime di tanta miseria colui che la prova, quanto la perdita della libertà sotto un padrone crudele[174].»
Brescia era stata sottomessa dalle forze riunite d'Ezelino, di Buoso di Dovara e del marchese Pelavicino. In forza delle fatte convenzioni tutte le conquiste dovevano possedersi in comune dai tre capi: ma Ezelino si credette reso abbastanza potente dalla sua vittoria per potere, senza correre verun rischio, staccarsi dai suoi alleati, o trattarli piuttosto da superiore che da eguale. Nulladimeno, siccome destro politico ch'egli era, si fece ad accrescere la gelosia vicendevole tra il marchese e Buoso, ambedue capi di parte in Cremona, e sotto certi rispetti consignori di quella città, che governavano colla loro influenza aristocratica, siccome i due più potenti, più ricchi e più valorosi gentiluomini del territorio. Ezelino consigliava il marchese a disfarsi di Buoso, il solo che ponesse ostacolo al suo ingrandimento. Mostravasi in pari tempo a Buoso affezionatissimo, offrendogli il governo di Verona, se voleva recarvisi [224] come podestà. Ma le offerte d'Ezelino in cui non avevano que' signori intera confidenza, non furono accettate; e quando, dopo essere rimasti alcuni mesi in Brescia, le milizie cremonesi vollero ripatriare, nè Buoso nè il marchese osarono rimanere a discrezione d'Ezelino, e andarono insieme a Cremona: ma non vi furono appena arrivati ch'ebbero nuovi avvisi d'essersi Ezelino dichiarato solo signore di Brescia, esercitandovi senz'alcun riguardo tutti i diritti della sovranità, e non risparmiando i supplicj e le confiscazioni.
Intrattenendosi questi due signori intorno alla superchieria loro usata dall'infedele alleato, vennero a comunicarsi vicendevolmente le insidiose offerte di Ezelino; perchè altamente sdegnati di tanta perfidia e di tante crudeltà, delle quali ne ricadeva parte dell'odio sopra di loro, siccome coloro che avevano così potentemente contribuito alle sue conquiste, giurarono di abbassare un tiranno omai fatto esoso a Dio ed agli uomini. Proposero quindi al marchese d'Este di allearsi con lui e coll'armata de' crociati contro Ezelino, a condizione che non fossero costretti perciò di rinunciare all'antica fedeltà verso la casa di Svevia. Il trattato fu stabilito per una [225] parte tra il marchese Oberto Pelavicino, Buoso di Dovara ed il comune di Cremona, e per l'altra parte dal marchese d'Este, dal conte Luigi di san Bonifacio, e dai comuni di Mantova, Ferrara e Padova[175]. Col primo articolo del trattato riconobbero tutti i diritti di Manfredi sul regno delle due Sicilie, e promisero d'impiegare tutto il loro credito per riconciliarlo colla santa sede. Col secondo i confederati si obbligarono a perseguitare fino alla morte i due fratelli Ezelino ed Alberico da Romano. I gentiluomini promettevano di marciare personalmente a questa guerra con tutte le loro forze; ed i comuni, oltre le proprie milizie, obbligavansi d'assoldare mille duecento cavalli, e di pagare un quarto delle spese della guerra. Finalmente i confederati dichiararono solennemente che alcun ordine del futuro imperatore, alcuna dispensa del papa, non potrebbe assolverli dal giuramento che prestavano gli uni a favore degli altri, nè dalle loro vicendevoli promesse.
Questa lega fu sottoscritta a Cremona il giorno 11 giugno del 1259. Precisamente nella stessa epoca gli abitanti di Padova eransi impadroniti del castello di Friola nello stato di Vicenza, l'avevano poi afforzato, e lasciatavi guarnigione. Ezelino vi accorse da Brescia con un corpo di Tedeschi; e con quasi tutte le milizie di Verona e di Vicenza, riprese Friola, e condannò indistintamente allo stesso supplicio la guarnigione e gli abitanti, laici, ecclesiastici, uomini, donne e fanciulli[176]. Vennero loro cavati gli occhi, tagliato il naso e le gambe, ed in così miserabile stato abbandonati alla pubblica compassione. Dall'una all'altra estremità d'Italia non vedevansi che infelici mutilati che, colle loro ferite stimolando la compassione, tutti ad una voce accusavano Ezelino dell'orribile loro stato[177]. [227] Ma le atrocità di Friola furono le ultime che Ezelino commettesse nella Marca Trivigiana.
La discordia mantenevasi sempre viva in Milano tra i nobili e la plebe. Lusingavasi Ezelino che la nobiltà, cui aveva da lungo tempo offerta la sua protezione, gli darebbe in mano così potente città, se gli riuscisse di presentarsi all'improvista innanzi alle sue mura. Adunò dunque in sul finire d'agosto dello stesso anno la più bella armata ch'egli avesse mai avuta, e venne ad assediare Orci nuovi castello bresciano in riva all'Oglio sulla strada che conduce da Brescia a Crema, che tenevasi guardato dai Cremonesi.
Il marchese Pelavicino, venuto alla testa dei Cremonesi per difendere il castello, si accampò a Soncino sull'opposta riva dell'Oglio. Il marchese d'Este colle milizie di Ferrara e di Mantova avanzossi fino a Marcaria venticinque miglia lontana da Orci nuovi sulla sinistra dell'Oglio; finalmente i Milanesi si mossero per unirsi ai Cremonesi a Soncino. Ezelino non poteva più conservare la posizione d'Orci nuovi, perchè colla marcia d'un giorno gli poteva essere tolta la comunicazione con Brescia. Fece dunque lentamente retrocedere verso quest'ultima [228] città tutta la sua infanteria, sperando che le truppe di Milano e di Cremona passerebbero l'Oglio per inseguirla. Nello stesso tempo con tutta la sua cavalleria, la più numerosa che si fosse giammai veduta nelle guerre di Lombardia, rimontò l'Oglio fino a Palazzolo, ove attraversò il fiume; di là, dopo avere uniti alla sua armata i gentiluomini fuorusciti di Milano, si avanzò fino all'Adda, che pure passò senza incontrare veruna resistenza.
La milizia milanese, sotto gli ordini di Martino della Torre, erasi posta in cammino per raggiugnere i Cremonesi; ma avuto a tempo avviso della marcia di Ezelino, ripiegò sopra Milano per difendere la sua patria; talchè il tiranno, passata l'Adda, trovò d'avere a fronte gli stessi nemici che supponeva d'aver lasciati in riva all'Oglio. Tentò di aver Monza con un colpo di mano, e fu respinto; e questo scacco lo fece accorto della pericolosa sua posizione, avendo due armate nemiche alle spalle, e due fiumi che doveva ripassare per rientrare in paese amico. Ravvicinandosi all'Adda volle almeno tentare d'impadronirsi di una delle rocche che ne signoreggiavano il passaggio; ma avendo [229] attaccato quello di Trezzo, ne fu respinto: allora ripiegando verso Vimercate, guadagnò il ponte di Cassano che non era ancora stato fortificato.
Se n'era appena reso padrone, che l'armata del marchese d'Este, formata delle milizie di Cremona, Ferrara e Mantova, attraversando la Ghiaradadda, attaccò la testa di quel ponte, che prese a viva forza. Tutti gli altri ponti dell'Adda furono muniti di truppe, i guadi posti in istato di difesa, ed il nemico del genere umano circondato da ogni banda di armate superiori, che non poteva ragionevolmente lusingarsi di vincere.
Ezelino non erasi trovato al ponte di Cassano quando la testa era stata presa dai nemici. I suoi astrologi gli avevano indicato questo castello e quello di Bassano e gli altri della stessa desidenza come di sinistro augurio. Ezelino era tanto più superstizioso, in quanto che non aveva alcuna religione; e la sua anima che non ammetteva la credenza d'un Dio, soddisfaceva al bisogno di credere, ammettendo implicitamente l'influenza degli astri. Allorchè fu nominato in sua presenza il ponte di Cassano, fu veduto fremere; e senza voler fermarsi, tornò a Vimercate per riposarsi: colà avuto [230] avviso della perdita del ponte, balzò a cavallo[178] e s'avanzò impetuosamente per riprenderlo; ma un dardo che gli attraversò il piede sinistro, lo costrinse a dar a dietro, con che sparse lo scoraggiamento nella sua truppa. Ricomparve ben tosto a cavallo alla testa della sua armata che passò il fiume a nuoto senza trovare resistenza. Fu però attaccato dal marchese d'Este quando gli ultimi soldati uscivano dal fiume, ed avanti che avesse potuto rimettere l'ordine nelle sue file; di modo che in quella confusione la cavalleria bresciana, in vece di eseguire i movimenti ordinati dal capitano, prese la strada di Brescia. A questo primo indizio d'insubordinazione fu visto il tiranno tremare. Il movimento de' Bresciani non si potè celare agli altri soldati; gli uni serravansi intorno ad Ezelino, siccome intorno a quel solo che li potesse difendere, gli altri tenevano dietro ai Bresciani o cercavano di mettersi in salvo fuggendo. Intanto i Milanesi passavano l'Adda per inseguire il nemico, il quale, circondato da ogni lato, avanzavasi lentamente lungo la strada di Bergamo: i [231] suoi più fedeli cadevano intorno a lui, le file si schiarivano, egli medesimo finalmente caduto da cavallo e gravemente ferito nel capo da un tale, cui aveva fatto mutilare il fratello, rimase prigioniere.
«Ezelino prigioniere, dice Rolandino, conservava un minaccioso silenzio, tenea fiso a terra lo sguardo feroce, e non dava sfogo alla profonda sua indignazione. Da ogni parte s'affollavano intorno a lui il popolo ed i soldati, per vedere quest'uomo poc'anzi tanto potente, questo famoso principe, terribile e crudele più d'ogni altro principe della terra; e la gioja era universale»[179].
I capi dell'armata non permisero che fosse in verun modo oltraggiato; ma condotto alle terre di Buoso di Dovara, si chiamarono i medici per curarlo; ma egli vi si rifiutò costantemente, lacerando le bende poste alle sue ferite; e l'undecimo giorno della sua prigionia morì a Soncino, ove fu sepolto[180].
Era Ezelino di bassa statura, ma tutto in lui annunciava il coraggio ed il valor [232] militare. Parlava disdegnosamente, superbo era il suo portamento, ed il penetrante suo sguardo faceva tremare i più arditi[181]. La sua anima tanto avida di crudeltà non pareva sensibile ai piaceri dei sensi; onde non amò veruna donna, e fu nell'ordinare i supplicj egualmente crudele verso ambo i sessi. Morì di sessant'anni dopo averne regnati trentaquattro[182].
Tosto che fu nota la morte di quest'uomo, tutte le città soggette si affrettarono di scacciare i suoi satelliti, d'aprire le prigioni e di chiamare l'armata della Chiesa. Vicenza e Bassano chiesero ai Padovani i loro podestà; e Verona affidò questa carica a Martino della Scala, suo gentiluomo, che faceva allora il primo passo verso quel supremo potere, e che avrebbe tra poco nella sua patria fondando una tirannia meno violenta ma più durevole di quella di Ezelino. [233] Ovunque intanto udivansi risuonare voci di libertà; e tutte le città volevano reggersi a comune. Treviso cacciò fuori delle sue mura Alberico, fratello d'Ezelino, che l'aveva anche troppo a lungo dominata. Costui venne a chiudersi colla sua famiglia nella rocca di san Zeno fabbricata in mezzo ai monti Euganei; ma la lega delle città guelfe, non volendo che alcun germoglio di quest'odiosa famiglia si conservasse, mandò le milizie di Venezia, Treviso, Padova e Vicenza ad assediare san Zeno: vi giunsero poco dopo anche le truppe del marchese d'Este. Alberico, avendo perdute per tradimento le opere esteriori del forte, ritirossi sulla sommità della torre colla consorte, sei figli e due figlie; ma dopo avervi sofferta tre dì la fame, venne a darsi in mano del marchese d'Este, ricordandogli che sua figlia era stata sposa di Rinaldo d'Este; ma invano: era giurato l'esterminio di tutta l'iniqua stirpe da Romano. Tutti furono uccisi, e le divise membra mandate a tutte le città, ch'erano state tiranneggiate da quella famiglia[183][184].
Caduta la casa da Romano, tutta la Marca Trevigiana e la Lombardia trovaronsi in pace. I popoli si domandavano l'un l'altro perchè avessero combattuto e qual fosse il motivo delle cessate contese: e s'avvedevano allora per un felice esperimento, che la morte d'un sol uomo, d'un tiranno nemico del genere umano poteva bastare a ritornare la pace a tutti i popoli[185].
E veramente in queste contrade lo spavento cagionato dal carattere di Ezelino aveva perfino affogata la ricordanza dell'antica lite guelfa e ghibellina; e perciò i primi, quando s'allearono col marchese Pelavicino, promisero senza difficoltà di fare ogni sforzo per riconciliare il papa col re Manfredi, e rendere così la pace a tutta l'Italia: ma il papa e Manfredi esacerbati da un antico odio, e divisi da personali interessi, non erano in verun modo disposti a rappacificarsi.
Avendo Alessandro IV ereditata forse tutta l'ambizione, e niuno de' talenti del suo predecessore, non voleva rinunciare ai progetti d'ingrandimento in parte già eseguiti da Innocenzo; ma volendo dargli intera esecuzione, li mandava a male per mancanza di politica, e più di tutto per la cattiva scelta de' suoi mandatarj. L'arcivescovo di Ravenna che aveva fatto capo della crociata contro Ezelino, era stato cagione di tutti i disastri sofferti dai Guelfi, i quali non ripresero coraggio che quando, fatto prigioniere, vennero diretti da più esperti condottieri. Nè dai legati apostolici era stata meno inconsideratamente trattata la guerra nelle due Sicilie. Uno di costoro, il [236] cardinale Ottaviano degli Ubaldini, incaricato di difendere contro Manfredi la Puglia e la Terra di Lavoro, lasciò così strettamente chiudere la sua armata in Foggia, che per sottrarla alla fame ed alle malattie che la consumavano, fu costretto di fare a nome del papa un trattato col principe, con cui gli dava il possesso di tutto il regno, tranne Terra di Lavoro che sola restava alla santa sede. Il papa rifiutò di approvare il trattato, e perdette anche Terra di Lavoro occupata in pochi giorni dalla vittoriosa armata di Manfredi. Un altro legato pontificio, frate Rufino dell'ordine de' Minori, che governava la Sicilia e la Calabria, si lasciò sorprendere dagli abitanti di Palermo, che, postolo in prigione, inalberarono le insegne di Manfredi[186]. Il terzo fu, a dir vero, per alcun tempo più felice degli altri: era questi Pietro Ruffo, uno degli antenati senza dubbio di quel cardinal Ruffo, che a' nostri giorni diresse la sommossa del regno di Napoli. Mandato, come questi, in Calabria, in mezzo ai nemici, senza danaro e senza soldati, seppe risvegliare il fanatismo, e formarsi un'armata [237] di contadini, ora accortamente spargendo false notizie, ora supplendo col suo ardire alle forze che gli mancavano[187]. Ma questi prosperi avvenimenti furono meno stabili che quelli ottenuti dal suo tardo nipote. I suoi rivoluzionati contadini furono dispersi dalle truppe di Manfredi, ed egli costretto di ritirarsi alla corte papale sulle navi che l'avevano condotto in Calabria[188].
Manfredi, sempre dal papa risguardato come un capo di ribelli, aveva soggiogate tutte le province che oggi formano il regno di Napoli, governandole in nome di suo nipote Corradino col titolo di reggente. Egli conosceva la sua potenza abbastanza ferma per occuparsi della riforma degli abusi introdottisi nello stato, e per cercare di meritarsi colla civile amministrazione non minore gloria di quella che aveva saputo guadagnare colle sue imprese militari. Erano le cose in tale stato ridotte quando si sparse nel regno la notizia della morte del giovane Corradino. Pare che Manfredi non si prendesse troppa cura di riconoscere le sorgenti di una [238] notizia così favorevole ai suoi interessi, e che forse ebbe principio nella sua corte: ma accolse le preghiere dei vescovi, dei signori e di tutti i baroni dello stato che gli chiedevano di ricevere egli stesso la corona e di governare ormai in proprio nome col titolo di re quelle province ch'egli solo aveva salvate[189]. Ma quando la notizia della sua coronazione fu nota in Germania, non tardarono ad arrivare alla sua corte ambasciatori di Corradino e di sua madre. Riclamavano questi contro la falsità della notizia, attestando che Corradino era sempre in vita, ed esigendo da Manfredi che gli [239] conservasse il titolo ed i diritti da lui medesimo fino allora conosciuti. Manfredi accordò una pubblica udienza agli ambasciatori, loro rispondendo in presenza di tutti i suoi baroni, che dopo essere salito sul trono, non poteva più discenderne; che questo trono era inoltre stato da lui ripreso dalle mani del papa; che nol poteva conservarsi senza l'appoggio dell'amore de' sudditi verso la sua persona; che l'interesse de' suoi baroni e dello stesso suo nipote non permettevano che l'eredità della casa di Svevia fosse governata da una donna e da un fanciullo; ma che il solo erede era Corradino, al quale egli conserverebbe il regno, per essergli trasmesso dopo la sua morte: che se Corradino voleva prima godere delle prerogative di presuntivo erede della corona, e farsi conoscere dai popoli che doveva un giorno governare, non aveva che a venire alla sua corte, ove sarebbe ben accolto e festeggiato; e per ultimo Manfredi prometteva d'incamminarlo sulla strada gloriosa de' loro padri, e di amarlo come suo figliuolo[190].
(1260) In tale stato trovavansi le cose di Manfredi, quando i principali gentiluomini ghibellini di Fiorenza vennero ad implorare il suo soccorso per rientrare nella loro patria. Gli rappresentavano che non era del suo interesse il tenere tutte le sue truppe in istato di guerra nelle province del regno, perciocchè ciò non poteva farsi senza impoverire lo stato e disgustare i sudditi che vedevano di mal occhio tutta la forza militare essere posta in mano de' Saraceni e de' Tedeschi; che nè pure poteva licenziarle senza indebolirsi, ed abbandonarsi, in certo modo, in balìa de' suoi naturali nemici i Guelfi ed i prelati; sicchè il solo partito cui poteva appigliarsi nella presente situazione, era di mandare i suoi soldati nelle province al di là di Roma nella Toscana e nella Romagna, ove sarebbero a carico de' suoi nemici; che colà si ridurrebbe la somma delle operazioni de' Guelfi, senza che potessero per altro impedire l'ingrandimento di autorità che a lui ne verrebbe dal ristabilimento de' gentiluomini in ogni tempo devoti alla sua casa.
I Ghibellini che chiedevano gli ajuti di Manfredi, erano stati cacciati da Firenze verso la fine del 1258, in conseguenza [241] di una cospirazione diretta a riprendere al popolo l'autorità di cui erano stati spogliati. Citati dal podestà a giustificarsi innanzi ai tribunali, presero le armi contro gli arcieri del comune, tentando di difendersi nelle loro case[191]. Il popolo gli attaccò; Schiatuzzo degli Uberti e molti suoi clienti caddero morti; un altro Uberti ed un Infangati furono fatti prigionieri, i quali, convinti essendo d'avere cospirato contro la repubblica, furono condannati a perdere il capo. Gli altri Ghibellini alla testa de' quali trovavasi Farinata degli Uberti, il più grand'uomo di stato del suo secolo, dovettero uscire di città, e ripararsi a Siena, ov'erano ben accolti dalla fazione ghibellina allora dominante.
Nel trattato di pace stipulato del 1254 tra Siena e Firenze, era stato convenuto che le due repubbliche non darebbero asilo ai nemici ed ai ribelli dell'altra[192]. Perciò i Fiorentini fecero intimare a Siena l'osservanza dei trattati acciocchè vietasse entro le sue mura le [242] ostili adunanze dei Ghibellini. I Sienesi, che avevano già fatto un trattato d'alleanza con Manfredi, non lasciaronsi sopraffare dalle minacce degli ambasciatori di Firenze, e risposero che avevano contratta alleanza coll'intero popolo fiorentino e guelfo e ghibellino, i quali tutti avevano allora un'egual parte della sovranità; che oggi vedevano una metà di questo stesso popolo scacciato dai suoi focolari, onde non sapevano dove fosse la repubblica: che non prenderebbero conoscenza delle loro civili discordie; ma che il popolo di Siena non romperebbe l'alleanza con quella parte del popolo fiorentino ch'era esiliata, perchè era infelice. Questa risposta procurò ben tosto ai Sienesi una dichiarazione di guerra, ed allora fu che i Ghibellini di Firenze, per cagione dei quali stava per incominciarsi la guerra, mandarono ambasciatori a Manfredi per ottenere il suo ajuto.
Il re di Sicilia, anche prima di ricevere l'ambasceria de' fuorusciti fiorentini, aveva mandate truppe per difendere la repubblica di Siena[193]. Il conte Giordano [243] d'Anglone giunse in Toscana con un corpo di cavalleria tedesca. Entrò in Siena in dicembre del 1259, e fu adoperato dalla repubblica nell'espugnazione delle fortezze ribelli di alcuni gentiluomini. Ma l'acquisto di Grosseto, di Montemassi e dei conti Aldobrandeschi non era ciò che stesse a cuore degli emigrati fiorentini; onde questi facevano istanza a Manfredi d'accordargli in particolare delle truppe ausiliarie specialmente [244] destinate a ristabilirli nella loro patria.
Manfredi non si lasciò subito muovere dalle istanze dei fuorusciti fiorentini, non volendo, mentre ancora vedevasi circondato da segreti nemici, privarsi di un maggior numero di soldati. Sapeva che gli emigrati sono sempre pericolosi consiglieri, perchè non avendo più nulla da perdere, non temono d'esporre i loro alleati qualunque volta travedano in alcun fatto la più lontana speranza di prospero successo. Diffatti loro sempre conviene di tentar la fortuna colle forze straniere, quando essi più non possono essere colpiti da verun sinistro. Manfredi per rimandare con onesti modi gli ambasciatori ghibellini offrì loro una compagnia di cento uomini d'armi tedeschi, siccome il solo corpo di cui potesse allora disporre. Tutti gli ambasciatori disponevansi a partire senza accettare così debole soccorso, che non credevano proprio che ad eccitare le risa de' loro nemici, ed a scoraggiare affatto i loro partigiani. Ma Farinata fece loro comprendere che dovevano approfittare delle offerte di Manfredi, qualunque si fossero. «Facciamo soltanto d'avere i suoi stendardi nella [245] nostra armata, e li pianteremo in tal luogo, che ben dovrà in appresso mandarci più importanti soccorsi.»
In maggio del 1260 l'armata guelfa fiorentina entrò nel territorio di Siena per guastarlo; e dopo aver presi molti piccoli castelli, venne ad accamparsi presso alle mura di Siena stessa, avanti alle porte di Carnuglia. Frequenti erano le scaramucce tra le due parti, ma non venivano mai a formale battaglia. Un giorno Farinata degli Uberti, dopo avere riscaldati i Tedeschi seco condotti col vino ed altre spiritose bevande, sortì alla loro testa di città, e caricò impetuosamente il campo fiorentino. I Tedeschi penetrati troppo avanti tra le truppe nemiche, non ebbero più modo di ritirarsi, e perirono tutti combattendo, dopo aver fatto grandissimo danno ai Fiorentini, e quale non dovevano temere da così poca gente. La bandiera di Manfredi, rimasta in potere de' Guelfi, fu ignominiosamente strascinata nel campo, ed in appresso portata a Firenze, ed esposta ai nuovi oltraggi della plebe. Ecco ciò che desiderava Farinata, il quale scrisse al re di Sicilia che l'onor suo era compromesso, e che doveva vendicare gl'insulti fatti ai suoi stendardi; [246] Manfredi gli mandò ottocento cavalli tedeschi ed alcuni pedoni, che furono posti sotto gli ordini del conte Giordano d'Anglone, ed uniti alle altre truppe ch'egli comandava col titolo di vicario generale del re Manfredi in Toscana.
Premeva ai fuorusciti fiorentini di venire senza ritardo ad un'azione che decidesse della loro sorte: ma i magistrati di Siena erano troppo prudenti per seguire così caldi consigli, o per avventurarsi troppo avanti sul territorio nemico, quantunque spalleggiati dalle truppe ausiliarie tedesche. D'altra parte credevasi a Firenze che il re non avesse accordati che tre mesi di paga alle sue truppe, e che, passato questo tempo, sarebbero sforzati di ritirarsi; talchè si pensava di non mettersi in campagna che dopo la loro partenza. I due castelli di monte Pulciano e di mont'Alcino ch'eransi posti sotto la protezione de' Fiorentini, trovavansi assediati da Sienesi; ma perchè situati molto al di là di Siena, i Fiorentini non s'attentavano di soccorrerli con una marcia pericolosa. Per determinarli ad avventurarsi nel cuore d'un paese nemico con tutte le loro forze, onde si dovesse poi venire necessariamente ad un fatto [247] d'armi, Farinata intavolò un finto trattato cogli anziani di Firenze, per opera di due frati minori. Scriveva loro che il popolo di Siena era scontento del proprio governo; che i fuorusciti avevano gagliardi motivi di malcontento, e perciò disposti a riacquistare il favore della loro patria, rendendole un importante servigio; ch'essi avevano il modo di consegnare all'armata fiorentina la porta di san Vito a Siena, ma che per riuscire nell'intento dovevasi loro guarentire la ricompensa di dieci mila fiorini, e fare che sotto pretesto di soccorrere mont'Alcino si avanzasse sulle rive dell'Arbia una potente armata. Questa trama si maneggiava da soli due anziani, uomini presontuosi, che avevano in consiglio maggiore influenza di quel che si meritasse la loro incapacità.
I due anziani, poi ch'ebbero ottenuto l'unanime assenso de' loro colleghi, adunarono il consiglio del popolo; e proposero di vettovagliare Montalcino con una più poderosa armata di quella che in primavera di quell'anno era entrata nello stato di Siena. La maggior parte de' gentiluomini guelfi, che nulla sapevano della macchinazione di Farinata, ma che più de' plebei conoscevano l'arte della [248] guerra, s'opposero ad un'intrapresa che risguardavano come imprudentissima. Il conte Guido Guerra, e poi Tegghiajo Aldobrandi rappresentarono come pericolosa cosa fosse l'attraversare lo stato di Siena guardato da un'armata di Tedeschi di cui ne avevano sperimentata la superiorità in altro fatto d'armi, in tempo che sarebbesi potuto vettovagliare Montalcino coll'ajuto degli Orvietani, senza strepito, senza pericolo e con piccola spesa; in oltre doversi sperare dal tempo vantaggiosi cambiamenti. Ma il popolo che diffidava dei nobili, ne rifiutò i prudenti consigli. Uno degli anziani interruppe l'Aldobrandi, villanamente rimproverandolo di non aver coraggio quando si doveva farne uso. Cece dei Gherardini, altro gentiluomo, volle appoggiare l'opinione di Tegghiajo, ma gli anziani gl'imposero silenzio sotto comminatoria dell'ammenda di cento fiorini. Il cavaliere offrì subito il pagamento dell'ammenda per avere il diritto di parlare; fu raddoppiata; indi portata fino a quattrocento fiorini, senza che perciò rinunciasse alla domanda di parlare; ma fu ridotto al silenzio dalla minaccia di pena capitale, se ostinavasi a disubbidire. Intanto il popolo, ciecamente diffidando [249] de' gentiluomini, e ciecamente abbandonandosi ai consigli di magistrati inesperti, ordinò la riunione dell'armata.
Affinchè fosse più poderosa, i Fiorentini chiesero ajuto a tutti i loro alleati; onde i Lucchesi gli mandavano quante forze potevano disporre sia d'infanteria che di cavalleria; e numerosi corpi di truppa arrivarono pure da Bologna, Pistoja, Prato, Samminiato, san Gemignano, Volterra e Colle di val d'Elsa. Le forze proprie de' Fiorentini consistevano in ottocento cavalieri ascritti ai ruoli delle milizie, ed altri cinquecento al loro soldo. Giunti sul territorio di Siena vi trovarono quasi l'intera popolazione d'Arezzo e d'Orvieto; ricevuto il quale ultimo rinforzo, s'innoltrarono fino a Monte aperto, montagnetta situata cinque miglia al levante di Siena, sull'opposta riva dell'Arbia. Colà passarono in revista l'armata, che si trovò forte di tre mila cavalli e trenta mila fanti.
Gli anziani di Firenze aspettavano inquieti che fosse loro data in mano la porta di san Vito, come si faceva loro sperare dai messi che d'ora in ora mandavali Farinata, con segrete istruzioni di sedurre i principali Ghibellini del campo fiorentino. Finalmente questa porta [250] s'aprì tutto ad un tratto[194], uscendone impetuosamente la cavalleria tedesca per caricare i Guelfi, seguita da quella degli emigrati fiorentini, e da quella che avevano potuto adunare i Sienesi, in numero di circa mille ottocento uomini d'armi. Tennero dietro alla cavalleria cinque mila fanti di Siena, tre mila vassalli della campagna, tre mila soldati mandati dalla repubblica di Pisa, e due mila Tedeschi, in tutto tredici mila uomini. Quantunque di numero assai più debole della Fiorentina, quest'armata non era divisa d'opinione come quella de' nemici, dalla quale staccaronsi i Ghibellini diretti dagli Abati e dai Della Pressa per unirsi ai fuorusciti; mentre Bocca degli Abati che stava presso al capitano dei gentiluomini, Jacopo del Vacca de' Pazzi, gli troncò con un colpo di sciabla il braccio con cui portava lo stendardo[195]. [251] Nell'istante in cui scoppia il tradimento, non potendosi conoscere l'estensione del pericolo, l'immaginazione di tutti lo rende più grande; un maresciallo di truppe tedesche, che con quattrocento cavalli aveva girata la collina di Monte aperto, e che in quell'istante di confusione attaccò i Fiorentini alle spalle, raddoppiò il loro terrore. La cavalleria presa da panico timore fuggì a briglia sciolta: faceva più lunga resistenza l'infanteria, ma trovandosi rotta la sua ordinanza, non combatteva dietro un piano generale. Un corpo si chiuse nella rocca di Monte aperto, ma fu ben tosto forzato d'arrendersi [252] a discrezione; i più valorosi eransi adunati intorno al carroccio, i quali coraggiosamente combattendo per difenderlo, rimasero quasi tutti morti o prigionieri; altri finalmente posti sul rovescio del colle, vedendo disfatti i primi due corpi, cercarono salvezza colla fuga. Solamente di Fiorentini furonvi più di due mila cinquecento uomini morti, non essendovi famiglia che non avesse a piangere alcun suo parente: degli ausiliarj i più maltrattati furono quelli d'Arezzo, d'Orvieto e di Lucca; talchè in totale il numero de' morti dell'armata guelfa montò a dieci mila, e più considerabile ancora fu quello de' prigionieri.
Questa disfatta distrusse affatto la potenza del popolo fiorentino; tutta la città quando n'ebbe avviso riempissi di grida di donne che chiedevano i loro mariti, i fratelli, i figliuoli: pure rientrando i fuggitivi l'un dietro l'altro, andavano ripetendo, dice Lionardo Aretino, che non dovevansi piagnere coloro ch'erano morti per la patria in battaglia, ma coloro ch'erano sopravvissuti, perchè i primi avevano terminata gloriosamente la vita, gli altri rimasti ludibrio de' loro nemici. E con queste parole scoraggiarono in modo i loro concittadini, che tutta [253] la parte guelfa risolse d'abbandonare la città, non perchè non fosse fortificata, o mancasse di difensori capaci di tenere molto tempo contro i nemici, ma perchè il tradimento de' Ghibellini alla battaglia d'Arbia faceva temerne di nuovi; tanto più ch'eranvi ancora molti Ghibellini in città, i quali tra la comune costernazione mostravano un'insultante gioja. Un principio di discordia erasi già manifestato tra i plebei del partito guelfo e la nobiltà, la quale disapprovava l'imprudente spedizione nello stato di Siena, e la ruina dell'armata. Mentre i ricchi borghesi che avevano abbracciato con zelo il partito guelfo, mostrarono la propria ambizione, e s'abbandonarono alla loro gelosia contro i gentiluomini della stessa fazione, il basso popolo, straniero al governo, vedeva con indifferenza la tornata dei Ghibellini; i quali altronde erano pure loro concittadini, la di cui vittoria non disonorava la gloria nazionale, sicchè non dovevasi, per respingerli, esporre la patria a nuovi pericoli.
I capi dello stato erano informati di tali sentimenti del popolo, e tutti i più distinti cittadini del partito guelfo nobili e popolari il 13 settembre, nove giorni dopo la disfatta, uscirono di città colle [254] loro donne e figli. Alcuni ripararonsi a Bologna, ma i più andarono a Lucca, ove fu loro dato il quartiere di san Friano, ed il portico che circonda la chiesa di questo nome. Ritiraronsi egualmente a Lucca i Guelfi di Prato, di Pistoja, di Volterra, di san Gemignano, e di tutte le città e terre di Toscana, tranne quelli d'Arezzo, cosicchè Lucca rimase sola costantemente il propugnacolo di tutto il partito guelfo.
Poi ch'ebbero diviso il bottino fatto sull'Arbia, i Sienesi presero a sottomettere alcune fortezze limitrofe del territorio fiorentino, mentre i fuorusciti ghibellini di Firenze avanzavansi verso la loro patria sotto la condotta del conte Guido Novello, uno de' signori di Casentino, della medesima famiglia del conte Guido Guerra, ma di opposto partito[196]. [255] Avevano pure con loro il conte Giordano d'Anglone ed i cavalli tedeschi che il re Manfredi aveva loro accordati. Quest'armata ghibellina giunse in faccia a Firenze il 27 settembre e fu ricevuta senza opporle resistenza. I Ghibellini, postisi alla festa del governo, abolirono tutte le leggi fatte da dieci anni in poi, per accrescere l'autorità del popolo; e la repubblica fiorentina, benchè assoggettata al governo de' nobili, rimase però sotto la protezione di Manfredi, cui tutti i cittadini furono tenuti di giurare fedeltà. Il conte Guido Novello fu nominato per due anni podestà di Firenze, ed i soldati tedeschi del conte Giordano si pagarono colle entrate della città.
Intanto si adunò ad Empoli una dieta delle città ghibelline toscane per trattare dell'amministrazione futura di questa provincia, e dei mezzi di consolidare il partito ghibellino e l'autorità di Manfredi. Gli uomini più distinti di ogni città vi si recarono con tutti que' gentiluomini che avevano qualche dominio territoriale. Il conte Giordano aprì la dieta colla [256] lettura degli ordini che aveva ricevuti dal suo signore: e perchè era richiamato nel regno colle truppe tedesche, invitava i Ghibellini a provvedere alla propria sicurezza, onde non avessero a soffrire qualche sinistro, in tempo della sua assenza.
Approfittando delle parole del conte, i deputati di Pisa e di Siena dichiararono che non sapevano vedere alcun mezzo di assicurare la fazione ghibellina, gl'interessi di Manfredi, e quelli della loro patria, finchè lasciavasi sussistere Firenze, città ricca e popolata, la di cui ambizione era ancora più grande delle sue forze, la quale, essendosi risguardata lungo tempo come la capitale de' Guelfi di Toscana, non cesserebbe giammai di favorire quel partito; che tutto il popolo era affezionato ai Guelfi, ed aveva approfittato della morte di Federico per attaccare i Ghibellini all'impensata; che sarebbe certamente pronto a fare lo stesso, qualora se gli presentasse l'opportunità di farlo; che perciò la salute della parte ghibellina era attaccata all'intera ruina di Firenze, alla demolizione delle sue mura ove riparavansi i loro nemici, alla dispersione di quel popolo che adunava forze e ricchezze per vendicarsi un giorno del presente disastro. [257] I deputati delle città più deboli e delle terre che Firenze aveva quasi affatto ridotte in suo dominio, sotto apparenza di proteggerle, appoggiarono la domanda dei Pisani e dei Sienesi; come pure fecero molti de' gentiluomini fiorentini i quali desideravano di ricuperare l'indipendenza di cui i loro antenati godevano nelle loro fortezze, e rompere ogni legame colle città.
Allora alzossi Farinata degli Uberti[197]: «Io non ho stimato mai, diss'egli, con [258] voce concitata, che dopo la battaglia dell'Arbia, e dopo una tanta e sì rilevata vittoria, m'avesse a dolere d'essere rimasto in vita; ora grandemente mi doglio ch'io non sono morto nella battaglia. E veramente non è cosa alcuna umana che si possa dire stabile o ferma, e molte volte accade che quello che noi crediamo essere giocondo, è di poi molesto e pieno di dolore ed angustia. E non è abbastanza il vincere nella battaglia; ma molto più importa in compagnia di chi tu vinci. L'ingiuria più pazientemente dell'avversario, che del compagno e collegato, si sopporta. Questa doglianza non fo al presente perchè io tema della rovina della mia patria, perciò che in qualunque modo la cosa passi, mentre che io sarò vivo, non sarà distrutta. Ma bene mi lamento e con grande indegnazione mi dolgo delle sentenze di coloro che hanno parlato innanzi a me. E pare [259] appunto che noi ci siamo raunati in questo luogo per consultar se la città di Firenze si debba disfare, o lasciarla in quella condizione che ella si trova, e non a fine di pensare in che modo insieme con l'altre si possa mantenere nello stato della parte amica. Io non ho apparato l'arte oratoria, nè gli ornamenti del parlare, come coloro che hanno detto innanzi a me; ma secondo il volgare proverbio, io parlo come io so, ed apertamente dico quello che io ho nell'animo. E pertanto io affermo che non solamente la città mia, ma ancora me ed i miei cittadini riputerei troppo miseri ed abbietti, se a voi stesse il disfare, o non disfare la nostra patria. E certamente voi non lo potete fare, e non è posto in vostro arbitrio, perciò che noi con ragioni uguali siamo venuti nella vostra lega e nella vostra confederazione, non per disfare le città ma per conservarle. Le vostre sentenze non so dunque se sono da essere riputate, o più vane o più crudeli, ma e' si può dire e l'uno e l'altro: conciossiacosachè confortino prima quello che non è posto in vostro arbitrio, appresso non dimostrano altro che una somma crudeltà, ed uno acerbissimo [260] odio verso i vostri collegati. E pareva cosa più tollerabile, essendo tutti convocati per la salute comune, por da parte gli odj, e le inimicizie antiche, e non cercare sotto questo colore la destruzion d'altri. Ma egli interviene che chi consiglia con odio, sempre consiglia male, e chi desidera di nuocere al compagno non cerca l'utilità comune. Io vorrei domandare, voi, chi è quello che avete in odio? S'egli è la terra di Firenze, vorrei sapere che hanno fatte le case e le mura? Se sono gli uomini, vorrei sapere se sono gli usciti, o noi che vi siamo dentro? Se siamo noi certamente questo errore è nostro, che ci siamo intesi coi nemici, stimando che fossero amici e collegati. Ma la vostra è ben grande iniquità che fingete d'essere amici, e fate con noi confederazione, e d'altra parte avete gli animi de' nemici. Se gli usciti sono quelli che più tosto che noi avete ad odio, perchè cagione perseguitate voi la terra, e le mura, che sono contra loro e per loro offesa, e non difesa? E per tanto ogni volta che voi pensate della distruzione di quella, non contra ai vostri nemici, ma contra ai vostri confederati tornano questi vostri [261] pensieri. Voi potreste dire, Firenze è capo della parte guelfa. Si risponde, ch'ella era quando essi tenevano la città, ma ora ch'ella si tiene per noi quale è la cagione ch'ella si dice essere più della parte de' Guelfi, che de' Ghibellini? perciò che le mura e le torri sono secondo gli abitatori di quelle. Ancora mi potrebbe essere detto, il popolo e la moltitudine tiene con la parte contraria. A questo si risponde che nella battaglia fatta di prossimo al fiume dell'Arbia, si vide per esperienza, che buona parte de' cittadini si fuggì dal canto nostro. D'onde si dimostra che il popolo più tosto con noi tiene, che coi nostri avversarj. Appresso facilmente si può giudicare che gli avversarj nostri abbandonando di loro propria volontà la città di Firenze non si rifidavano nel popolo di dentro, che era fautore della parte nostra. Ma diciamo che la moltitudine che tiene con la parte nostra per le ragioni assegnate ci sia a sospetto, noi ch'abbiamo vinto non meritiamo essere a sospetto o ributtati. E voi avete trovato per rimedio che la nostra città, la quale non è inferiore ad alcun altra di Toscana, per questo sospetto sia disfatta? Chi è [262] quello che dia un consiglio di questa qualità? Chi è quello che abbia ardire un odio concepito nell'animo con la voce sì aperta di mostrare? E pare a voi cosa conveniente che le vostre città si conservino, e la nostra sia distrutta? e voi vi ritorniate con grande prosperità nelle vostre patrie, e noi che insieme abbiamo acquistata la vittoria, in scambio del nostro esiglio ci sia restituito o retribuito la destruzione della nostra patria, più acerba e più dolente che la cacciata nostra? Ma è alcun di voi che mi reputi tanto vile, che io abbia a restar paziente, non dico a vedere questo, ma solamente ad udirlo? Se io ho portate l'armi, e perseguitati i miei nemici, da altra parte io ho sempre amata la mia patria. E non patirò mai che quella che gli avversarj conservarono, sia per me distrutta, nè consentirò che i secoli futuri abbiano a chiamare i nostri avversarj conservatori, e me distruttore della patria. Non sarebbe cosa alcuna di maggiore infamia che questa, nè cosa più vile, che per paura che non sia ricetto de' nemici disfare la terra tua. Ma che vo io multiplicando in parole? Finalmente esca di me una voce degna. Io dico, che se del [263] numero de' Fiorentini non fossi se non io solo, non patirò mai che la mia patria sia disfatta, e se mille volte bisognasse morir per questo, mille volte sono apparecchiato alla morte.»
Avendo fatto fine al parlar suo, subito uscì di consiglio, ed era tanta l'autorità del Farinata, che mosse gli animi di tutti gli uditori, e massimamente perchè era cosa manifesta che nella parte ghibellina non v'era uomo più eccellente e di più riputazione, e dubitavano tutti che questo sdegno ch'egli aveva preso, non avesse a fare grandissimo danno alla causa comune. E per tanto fu prestamente sopito questo ragionamento di distruggere Firenze; e non si parlò d'altro che di placare l'indegnazione di questo virtuoso cittadino; al quale oggetto gli furono mandati i più riputati personaggi del suo partito, per ricondurlo nell'assemblea, e quando rientrò, tutti i principali Ghibellini, rinunciando ad ogni spirito di discordia, non trattarono d'altro che di consolidare la loro fazione in Toscana con mezzi di comune aggradimento. Convennero di assoldare a carico della lega ghibellina di tutta Toscana mille uomini d'armi, i quali sarebbero sotto il comando del conte Guido Novello, oltre [264] quelli che ogni città manterrebbe per proprio conto.
Questi sono precisamente i tempi eroici della storia della moderna Italia, i quali rimarranno sempre uniti alle memorie poetiche. Dante il suo maggior poeta ed il più elevato ingegno nacque cinque anni dopo la rotta d'Arbia, e fissò l'epoca della sua discesa all'inferno quarant'anni dopo. La generazione de' suoi padri è quella ch'egli incontra nel mondo di là, ed alla quale accorda lode o biasimo. Abbiamo detto che Bocca degli Abati, il traditore che atterrò la bandiera fiorentina, fu uno di coloro ch'egli vide attuffati presso al conte Ugolino negli eterni ghiacci dell'ultimo cerchio dell'inferno. Trovò pure nell'inferno Farinata, che il suo attaccamento alla casa di Svevia, l'inimicizia dei papi, ed il disprezzo delle loro scomuniche, avevano fatto colpevole d'eresia. In un vasto piano che vomitava fiamme in ogni lato, innalzavansi qua e là de' sepolcri, a guisa di orribili caldaje fatte rosse da perpetuo fuoco: erano aperte, ma il coperchio che doveva chiuderle stava sospeso sopra di loro, e da quelle arche infernali uscivano spaventose grida e sospiri.
O Tosco, che per la città del foco
Vivo ten' vai così parlando onesto,
Piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
Di quella nobil patria natío
Alla qual forse fui troppo molesto.
Subitamente questo suono uscío
D'una dell'arche; però m'accostai,
Temendo, un poco più al duca mio.
Ed ei mi disse: volgiti, che fai?
Vedi là Farinata che s'è dritto:
Dalla cintola in su tutto 'l vedrai.
Io aveva già 'l mio viso nel suo fitto,
Ed ei s'ergea col petto e con la fronte,
Come avesse lo 'nferno in gran dispitto:
E l'animose man del duca e pronte
Mi pinser tra le sepolture a lui,
Dicendo: le parole tue sien conte.
Tosto che al piè della sua tomba fui,
Guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
Mi domandò: chi fur li maggior tui?
Io ch'era d'ubbidir desideroso,
Non gliel celai, ma tutto gliele apersi:
Ond'ei levò le ciglia un poco in soso;
Poi disse: fieramente furo avversi
A me ed a' miei primi ed a mia parte,
Sì che per duo fïate li dispersi.
S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogni parte,
Rispos'io lui, e l'una e l'altra fiata:
Ma i vostri non appreser ben quell'arte.
............
E se continuando al primo detto,
Egli han quell'arte, disse, male appresa,
Ciò mi tormenta più che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa
La faccia della donna che qui regge,
Che tu saprai quanto quell'arte pesa:
E se tu mai nel dolce mondo regge,
Dimmi perchè quel popolo è sì empio
Incontr'a' miei in ciascuna sua legge?[198]
Ond'io a lui: lo strazio, e 'l grande scempio,
Che fece l'Arbia colorata in rosso,
Tale orazion fa far nel nostro tempio.
Poi ch'ebbe sospirando il capo scosso,
A ciò non fu' io sol, disse, nè certo
Senza cagion sarei con gli altri mosso:
Ma fu io sol colà, dove sofferto
Fu per ognun di torre via Firenze,
Colui che la difesi a viso aperto[199].
Decadimento e servitù delle repubbliche lombarde. — Rivoluzioni nelle repubbliche marittime. — Loro rivalità. — Costantinopoli ritolta dai Greci ai Veneziani ed ai Francesi.
1250 = 1264.
Ne' primi tempi abbracciati da questa storia le repubbliche lombarde richiamavano la nostra attenzione più che tutte le altre città d'Italia. In queste solamente l'amore di libertà produceva quell'eroico coraggio che fa sprezzare i pericoli e la vita per la difesa e per la gloria della patria. Nella lunga lotta ch'ebbero a sostenere con Federico Barbarossa, abbiamo veduto rinnovarsi quelle virtù che altra volta illustravano la Grecia, e malgrado la barbarie del dodicesimo secolo abbiamo trovato presso i loro scrittori racconti abbastanza circostanziati per formarci un'adequata idea del loro carattere, e per interessare vivamente il nostro cuore ne' loro infelici o prosperi avvenimenti. Ma quest'epoca gloriosa fu di breve durata; e già in sul cominciare del tredicesimo secolo abbiamo veduto [268] languire quel nobile eroismo del secolo precedente; e siamo omai giunti all'epoca in cui mancò. Nello spazio di tempo che comprende questo capitolo, i signori della Torre e Pelavicino stesero il loro dominio sopra quasi tutte le città della Lombardia, nelle quali l'amore di libertà era venuto meno anche prima che cadessero sotto la loro tirannia.
Noi non abbiamo preso a scrivere che la storia dei popoli liberi d'Italia; e di mano in mano che c'innoltriamo a traverso de' secoli, ogni generazione ne rapisce alcuna delle nazioni che appartenevano al nostro argomento. In tal maniera il vento che volge le onde d'arena della Libia, le spinge lentamente sopra l'Egitto; di già l'ardente sabbia copre campagne altra volta fertilissime; assedia Alessandria, si spinge avanti la popolazione, le arti, la cultura, e ristringe ogni anno i confini della terra abitabile in quel paese che fu inaddietro il giardino dell'universo.
Rintracceremo in questo capitolo le cagioni del decadimento delle repubbliche lombarde, e le circostanze della loro oppressione. Dovremo peraltro accennare ancora alcuni tentativi fatti più tardi per sottrarsi alla servitù; ma siamo [269] giunti ormai al termine del lavoro impostoci a loro riguardo. Dovremo bensì parlare dei signori della Torre, Visconti e della Scala; ma solamente come di principi nemici, le cui pratiche possono recar danno alle repubbliche, non appartenendo essi più alla nostra storia che per gl'immediati rapporti colla medesima. Il principale difetto del soggetto che abbiamo preso a trattare, quello che dissuase dall'intrapresa altri di noi più abili scrittori, è questa mancanza d'unità, la quale incomincia di già a scemare, e finalmente cesserà affatto. Nel rimanente di questo secolo più non dovremo occuparci che d'un solo corpo di repubbliche, talora divise e talvolta riunite dagli stessi interessi. Giunti al seguente secolo, troveremo questo corpo composto di minore numero di membra, ed invece d'essere costretti a valerci di qualche artificio per dare unità alla storia di cinque o sei potenti repubbliche, non potremo, anche volendolo, separarle interamente.
Pare che due principali cagioni concorressero a mutare la forma del governo nelle città lombarde; l'interna discordia tra la nobiltà ed il popolo, che in queste città privava i cittadini d'ogni sicurezza [270] e forse d'ogni libertà, ed il cambiamento della militare disciplina, che accrebbe a dismisura il potere de' capitani degli uomini d'armi. La prima di queste cause privava il popolo della volontà, l'altra della forza di difendere i suoi diritti.
Niuna delle repubbliche italiane ebbe una costituzione che meriti d'essere proposta come modello. Le due più perfette sono l'aristocrazia di Venezia e la democrazia di Firenze, sebbene in ambedue la libertà di tutti non si trovasse legata colla sicurezza individuale. Della quale unione sembra che nè pure si prendessero pensiere gli autori delle bizzarre ed incoerenti costituzioni di Milano e delle altre città lombarde; e l'ordine sociale non aveva alcun solido fondamento.
Le passioni più impetuose nel tredicesimo secolo di quel che lo siano nella età nostra, erano cagione di più frequenti delitti, e la moltiplicità degli stati indipendenti agevolava ai colpevoli la fuga: onde l'amministrazione della giustizia criminale occupava più di tutt'altro oggetto, e quasi esclusivamente, il governo. Il desiderio di comandare non tardò peraltro ad unirsi al bisogno di reprimere [271] i delinquenti, e si crearono nuove magistrature, meno per assicurare la felicità della nazione, che per soddisfare all'ambizione d'un maggior numero di individui.
I delitti de' particolari moltiplicarono le particolari inimicizie delle famiglie, come l'elezione de' magistrati fu causa della costante gelosia fra gli ordini dello stato. I delinquenti puniti dalle leggi nel presente secolo appartengono quasi tutti alle ultime classi della società, onde i loro delitti sono veramente personali, ed i loro congiunti non hanno nè volontà, nè forza di difenderli viventi o di vendicarli estinti. Per lo contrario nel tredicesimo secolo v'erano tanti delinquenti tra i grandi come tra i plebei. Questo cambiamento ne' nostri costumi, agevolò la maniera di governare le nazioni; sotto altri rispetti non abbiamo motivo di potercene molto gloriare. I frequenti omicidj ricordati dalle storie, non erano assassinj, ma conseguenze delle private guerre: al presente i tribunali non si occupano dei duelli, che sono per noi la forma regolare[200] [272] delle guerre private, e l'omicidio usato dalle persone di rango. Gl'intrighi amorosi terminavansi altra volta con un ratto, oggi colla seduzione; la colpa è forse la medesima, ma la seconda sfugge alla sopravveglianza delle leggi. Uomini avidi ed ingiusti appropriavansi colla violenza le altrui fortune, oggi coi fraudolenti fallimenti. Altravolta commettevansi i delitti allo scoperto, oggi celatamente. I parenti e gli amici, senza avere avuto parte al delitto, non rimanevano stranieri o alla difesa del colpevole, o alla vendetta dell'offeso: quindi la pubblica autorità era sempre chiamata a spiegare tutta la sua energia per reprimere delitti che ponevano in pericolo lo stato, e per assicurarsi di delinquenti protetti da potenti alleati.
I podestà, cui era confidata la giurisdizione criminale, furono perciò rivestiti del più assoluto potere; sì che pareva che, rispetto a loro, non si avesse timore di renderli troppo forti con pericolo della libertà, ma bensì di lasciarli troppo deboli per mantenere l'interna tranquillità. Si avvezzarono i popoli a chiamarli signori e padroni, onde tra questi ed i tiranni non rimaneva altra [273] diversità che quella della durata della loro dominazione.
Frattanto nuove cagioni d'anarchia si andavano ogni giorno aggiungendo alle antiche: abbiamo osservato quanto fossero profondamente radicate negli animi italiani, quanto sangue avevano fatto versare, quante ricchezze sovvertite avessero le fazioni de' Guelfi e de' Ghibellini. Il desiderio della vendetta si andava moltiplicando colle sventure, e rendendo più difficile la pace.
La nobiltà aspirando ad avere le prime parti nel governo della patria, erasi appropriati tutti gl'impieghi civili e militari, e quasi tutti gli ecclesiastici. I consoli, gli anziani, i consiglieri, gli ambasciatori, i comandanti delle porte, i capitani delle milizie, i canonici delle cattedrali, erano tutti gentiluomini; e questi erano tanto gelosi di non associarsi nelle cariche i plebei, che, avendo a vicenda risvegliata la gelosia degli ultimi, diedero origine nelle città lombarde a quelle frequenti guerre civili che avevano per oggetto di costringere i nobili a dividere colla plebe tutte le pubbliche incumbenze. La pace di sant'Ambrogio a Milano accordava ai plebei la metà delle cariche, dalle funzioni d'ambasciatore [274] fino a quelle di trombettiere del comune[201].
Indipendentemente dalla gelosia eccitata dalla distribuzione delle pubbliche cariche, i nobili erano inoltre esosi alla plebe, perchè sembrava che fossero essi soli cagione di tutte le pubbliche calamità. Le rivalità de' nobili facevano ogni giorno versare il sangue de' cittadini; le fazioni guelfe e ghibelline erano diventate pei primi contese di famiglia; ed anche le guerre esterne tra una ed altra repubblica potevano talvolta sembrare un risultato delle loro violenze e del loro impeto inconsiderato. Era universale opinione, e si andava pubblicamente dicendo che senza i nobili l'Italia goderebbe d'una imperturbata pace; quasi che le passioni cui si abbandonavano, fossero attaccate alla loro nascita, non alle loro funzioni ed all'esercizio del potere. Il popolo stanco di soffrire tanti mali, di cui dava la colpa alla sola nobiltà, si moveva di quando in quando alla vendetta sempre estrema nel primo empito della passione; impugnava le armi [275] contro i nobili, gli esiliava, li perseguitava, li faceva perire sopra un palco: allora gli abitanti della campagna si rivoltavano contro la città; le terre ove abitavano i gentiluomini prendevano le armi contro la metropoli, ed il disordine e la pubblica ruina giugnevano all'estremo.
Il numero degl'individui ond'erano composte le famiglie, e quel legame che le univa in separato corpo, formavano in gran parte la potenza de' nobili. Quando l'autorità pubblica è debole si sente il bisogno di accrescere la forza individuale con parziali società. Un'intera famiglia era sempre apparecchiata a salvare, a difendere, a vendicare qualunque de' suoi individui. Lo stesso nome, lo stesso sangue, l'onore della classe, erano bastanti motivi per riunire i più lontani parenti, e perchè mettessero a rischio la vita e le fortune loro per la salvezza o la vendetta d'un solo individuo. D'altra parte i plebei cercarono d'acquistare la stessa specie di forza; ed in cambio dei legami della natura, ne formarono d'artificiali, contraendo fraternità che, senz'essere unite dal sangue, presero spesse volte il nome di famiglia. Sembra che in Milano vi fossero [276] molte di tali fraternità plebee, tutte figlie di due potenti società chiamate la Motta e la Credenza. Quelle associazioni che in sul finire del precedente secolo ebbero in Francia il nome di clubs, erano per molti capi simili alle fraternità delle repubbliche italiane, le quali formavano uno stato nello stato, nominavano magistrati per sopravegliare quelli della repubblica, assoggettavano a disamina gli affari nazionali, e si arrogavano le prerogative della sovranità senza che la costituzione ne attribuisse loro il diritto.
Furono appunto queste fraternità milanesi che, dandosi un capo perpetuo, innalzarono le prime un potere monarchico nello stato, e distrussero la repubblica. Ma prima di riferire più circostanziatamente questo avvenimento che mutò i destini di quasi tutta la Lombardia, conviene dare un'occhiata ai cambiamenti operatisi nella disciplina militare, da noi poc'anzi indicati come una delle cause dello stabilimento della tirannide.
Gli Arabi e gli Ungari che guastarono l'Italia nel decimo secolo, combattevano a cavallo, armati alla leggera; ma la principale forza de' Franchi e de' [277] Tedeschi nello stesso secolo e ne' due susseguenti, stava ancora nell'infanteria. Le armate di Federico Barbarossa erano in gran parte formate di pedoni; ed i nobili che combattevano a cavallo, non erano però coperti di quella pesante armatura, nè accostumati ancora a quella ordinanza ferma, inalterabile, che formò il carattere della cavalleria dal tredicesimo fino al quindicesimo secolo. I cittadini delle città italiane potevano combattere con eguale vantaggio tanto contro la cavalleria leggera, come contro l'infanteria tedesca; e sembra che, come questi ultimi, avessero per armi difensive uno scudo, un caschetto, cosciali e bracciali, che loro coprivano parte del corpo davanti, e per tutt'armi d'offesa una larga spada tagliente. Soltanto alcuni corpi privilegiati avevano inoltre alabarde e balestre; ma l'infanteria non portò mai, come quella de' Romani, quel pesante e terribile pilum che una mano inesperta non avrebbe saputo lanciare.
Queste armi appropriate ai borghesi che non dovevano vivere continuamente sotto le insegne, proporzionate al coraggio ed alla fisica costituzione di corpi mantenuti robusti dalla temperanza e, dagli esercizj faticosi, dovevano farli [278] capaci di tener testa alle truppe migliori allora conosciute; e ne diedero luminose prove nella prima guerra lombarda.
Trovavasi per altro anche a que' tempi nelle armate imperiali una qualità di truppe di cui bastava perfezionare l'armatura perchè l'infanteria non le potesse più star a fronte, e questi erano gli uomini d'arme. Il cavaliere era tutto vestito di ferro, ed in parte n'era coperto anche il cavallo, onde affrontava impunemente le frecce degli arcieri, e con una lunga e grossa lancia feriva i pedoni e li teneva in modo lontani, che non potevano offenderlo colla spada. Tali armature non abbisognavano d'alcun cambiamento, ma soltanto di renderne più forte ogni parte; dovevasi far più densa la corazza, più pesante il caschetto, lo scudo più impenetrabile, più lunga la lancia e più soda; bisognava che il ferro o il rame onde l'uomo era coperto, non lasciassero veruna giuntura, verun lato debole per cui la morte potesse aprirsi una strada; bisognava che il cavaliere soggiacesse ad un continuato esercizio per avvezzarsi al faticoso peso delle armi; bisognava trovare, o far nascere una più robusta razza di cavalli e più coraggiosa [279] per portare così enorme peso, e galoppare in tempo della battaglia a seconda dei casi. Tale perfezionamento dell'armatura cavalleresca si operò lentamente dai gentiluomini. Mentre i plebei occupavansi delle cose del commercio e delle arti, e perdevano ogni giorno l'antica forza e l'abitudine alla guerra, i nobili non avevano nelle loro fortezze altra occupazione, altro divertimento che quello dell'armeggiare, esercitandosi in tutto ciò che poteva dare maggiore forza ed arrendevolezza alle membra; a ciò tendevano tutti i loro giuochi, i loro tornei: vivevano tra i loro cavalli ed avevano la stessa cura per l'educazione del loro destriero, come per l'educazione de' loro figliuoli. Questo destriero destinato per la battaglia non veniva adoperato in tutt'altre circostanze; anche nel campo il cavaliere adoperava il palafreno fino all'istante in cui doveva entrare in battaglia. Il cavallo e l'uomo resi forti dall'esercizio delle loro forze, furono capaci di sforzi superiori a quanto possiamo immaginare. L'armatura, il cavaliere ed il cavallo s'andarono facendo sempre più forti fino alla fine del quindicesimo secolo, quando l'abituale uso dell'artiglieria rese inutile questa [280] cavalleria perfezionata con tante cure. Nel quindicesimo secolo l'armatura era tanto pesante che un cavaliere abbattuto non poteva rialzarsi da sè medesimo.
Quando il cavaliere si trovò coperto di una corazza impenetrabile alla freccia dell'arciere ed alla spada del pedone, l'infanteria delle città trovossi affatto incapace di sostenere l'urto della cavalleria. I cavalieri stretti in ordine di battaglia, abbassavano le loro lance e rompevano le file attraversandole di galoppo senza che niente potesse fermarli, e senza esporsi a verun pericolo. L'infanteria romana avrebbe, non v'ha dubbio, resistito a sì grand'urto, lanciando il pilum alla testa de' cavalli nell'istante opportuno di abbatterne molti e gettare il disordine tra le file: l'infanteria svizzera, ancora meglio ordinata sotto questo rapporto, oppose più tardi all'urto della cavalleria una selva d'immobili lance, contro le quali gli squadroni andavano a rompersi: ma le nazioni europee s'avvidero troppo tardi di questa maniera di combattere; onde dalla Norvegia fino all'estremità dell'Italia la cavalleria ebbe in ogni luogo tanta superiorità sulla fanteria, che si terminò col non farne più verun conto, credendosi affatto inutile nelle battaglie.
[281] Per una strana rivoluzione la forza militare si trovò dunque tutta in mano della nobiltà, ed i pochi furono infinitamente più forti dei molti. Prima dell'invenzione delle armi da fuoco, e quando i soldati si battevano corpo a corpo, il numero delle truppe influiva assai meno che al presente sull'esito delle battaglie; perchè non eranvi che coloro i quali venivano a fronte l'uno dell'altro che potessero combattere. Quattro in cinquecento cavalieri gettavansi arditamente in mezzo a dieci mila pedoni, perchè al più potevano combattere ad un istesso tempo contro dei cinquecento cavalieri mille fanti, e gli altri nove mila dovevano rimanere inutili spettatori del combattimento finchè venisse la volta loro subentrando ai primi: e più volte accadeva che un piccolo corpo di cavalieri rompesse una colonna di parecchie migliaja di pedoni senza che un solo cadesse di cavallo. Non era dunque rigorosamente parlando una pugna ma un massacro, non trovando resistenza che in altro corpo di cavalieri egualmente armati, i quali urtandoli con eguale impeto e con eguali lance, potevano coglierli ed abbatterli. Se le lance si rompevano, i cavalieri combattevano colla spada o colla sciabla: [282] talvolta riusciva loro di trovare la connessura delle corazze, o il difetto dello scudo; ma il più delle volte la battaglia terminavasi senza che morisse alcun cavaliere; e come si legge ne' romanzi di cavalleria, la sciabla picchiava sul capo del cavalier nemico, e lo stordiva senza però aprir l'elmo ond'era coperto.
Questo prodigioso vantaggio che i nobili avevano acquistato sul popolo nelle battaglie, doveva accrescerne l'odio e la gelosia. Ma i gentiluomini non potevano nelle città conservare la loro superiorità, come in campagna, perchè quando vi scoppiava una rivoluzione gli steccati, o serragli, chiudendo tutte le strade, impedivano che i cavalli passassero, mentre le milizie assediavano le case de' nemici, o afforzavano le proprie. I gentiluomini erano dunque cacciati facilmente dalle città; ma giunti in campagna, riprendevano la perduta superiorità, ed il popolo non ardiva d'inseguirli.
Poichè i cittadini cessarono d'essere tutti soldati o almeno soldati utili, le città dovettero assoldare degli uomini d'arme per non restare in balìa de' loro gentiluomini, e per tal modo la loro [283] difesa fu affidata a mercenarie braccia. Troviamo i primi esempi di cavalleria assoldata dalle città nella guerra contro Ezelino, verso la metà del tredicesimo secolo, e l'uso si rese ben tosto generale in tutta l'Italia. Per non essere vittima del primo inventore, i popoli sono forzati di adottare all'istante i nuovi mezzi di attacco e di difesa, di cui un solo fa utile uso.
Siccome gli uomini d'armi riconoscevano dalla loro educazione la forza necessaria per combattere sotto il peso dell'armatura, i soli gentiluomini fecero lungo tempo la guerra a cavallo, e solamente fra loro si potevano trovare uomini d'armi. Vedremo in appresso, che i grossi stipendj che si offrivano ai cavalieri, furono cagione che molti uomini d'ogni classe si dedicassero fino dalla fanciullezza a questo mestiere; e che questi nuovi mercenarj, capitanati da gente, com'essi, senz'onore e senza patria, formarono quelle bande di condottieri che nel susseguente secolo ebbero tanta parte nelle rivoluzioni delle repubbliche italiane. Nel tredicesimo secolo i soldati a cavallo, essendo tutti gentiluomini, non soffrivano di militare che sotto capi di un rango superiore; giacchè [284] (tale è la stravaganza del punto d'onore) erano ben disposti a vendere il proprio sangue, non però le vane loro pretensioni.
I fuorusciti furono probabilmente i primi che si accontentassero di ricevere un soldo straniero, servendo ad una causa cui non erano altrimenti interessati. Perdute improvvisamente tutte le loro ricchezze, e non sapendo accomodarsi a meno agiato vivere, risguardarono il mestiere della guerra come il più nobile di quanti potevano esercitarne. Gli emigrati ghibellini di Firenze formarono una piccola armata mercenaria sotto il comando del conte Guido Novello, mentre i Guelfi capitanati dal conte Guido Guerra furono al soldo di potentati stranieri nelle guerre di Parma e di Sicilia. Alcuni feudatarj che intrattenevano alle piccole loro corti più gentiluomini che non potevano, cercarono di supplire colla guerra alle sottili entrate de' loro feudi. I marchesi Lancia e Pelavicino furono un dopo l'altro al soldo dei Milanesi ora con cinquecento, ora con mille cavalli. E non solamente chiedevano il pagamento della loro bravura, ma ancora della nobiltà, volendo oltre il danaro onorifici titoli che soddisfacessero [285] l'ambizione loro, com'era quello di capitano generale, ed anche di signore della repubblica.
Mentre in tal guisa si esacerbavano i partiti, ed a dismisura crescevano i disordini dell'anarchia, fu veduto nascere fuori dello stato un potere militare, afforzarsi, confondersi coi poteri civili, e minacciare la libertà. Milano, la più potente delle repubbliche lombarde, fu la prima di questa provincia a piegare sotto il giogo del dispotismo, seco ben tosto strascinando nella sua caduta tutte le altre.
«Dopo la morte dell'imperatore, dice Galvano Fiamma[202], godendo Milano al di fuori perfetta pace, nacque ne' cittadini l'ambizione di dominare, che fu cagione di crudelissime guerre». I nobili da un lato, dall'altro il popolo, ossia la confraternita della credenza, scelsero per loro capi due cittadini, che chiamarono podestà; titolo accordato soltanto al capo della repubblica, il quale, oltre l'essere sempre forestiere, non rimaneva in carica che un anno, e le di cui prerogative, quantunque assai ampie, [286] erano però dalle leggi circoscritte[203]. Per lo contrario il podestà de' nobili, Paolo di Soresina, e quello del popolo, Martino della Torre, avevano un illimitato e perpetuo potere perchè non se ne conoscevano nè gli attributi nè la durata.
Martino della Torre era nipote, o, come altri vogliono, fratello di quel Pagano della Torre, signore della Valsassina, che aveva con tanta generosità soccorsi i Milanesi dopo la rotta di Cortenova[204]. Dopo tale epoca, quella famiglia era diventata al popolo assai cara, sospetta alla nobiltà; e Pagano, finchè visse, fu risguardato come il difensore ed il tribuno della plebe. Egli conosceva l'arte di affezionarsi il popolo, lusingandone le passioni; e quella di rendersi necessario, esacerbando gli animi de' plebei contro la nobiltà. Martino aveva tutti i talenti di un capo di partito, e maggiori virtù di quasi tutti gli usurpatori. Quando si vide capo dello stato, e quasi assoluto signore, salvò i suoi [287] nemici, che i tribunali avevano condannati alla morte come convinti d'avere cospirato contro lo stato, dichiarando che, siccome non aveva mai saputo dar la vita ad un uomo, così non priverebbe mai di vita un altr'uomo[205].
Sembra che il capo de' gentiluomini, Paolo di Soresina, non avesse un carattere così deciso: sempre disposto a riconciliarsi colla fazione nemica, non ebbe difficoltà di maritare sua sorella con Martino della Torre, rendendosi egualmente sospetto alle due fazioni. Ma il vero capo della nobiltà era l'arcivescovo frate Leone da Perego. Probabilmente questo accorto prelato, non osando di mostrarsi armato alla testa d'una fazione, aveva egli stesso suggerito di fare in apparenza capo dei nobili un uomo senza energia, onde poterlo dominare a sua voglia.
L'attentato di un gentiluomo che uccise un suo creditore, perchè lo stringeva al pagamento, pose le armi in mano ai due partiti. Dopo avere spianata fino ai fondamenti la casa dell'uccisore, [288] il popolo scacciò tutti gli altri nobili dalla città; i quali nel mese di giugno del 1257 si adunarono intorno all'arcivescovo, e, soccorsi dai Comaschi loro alleati, presero i castelli del Seprio, della Martesana, di Fagnano, di Varese ed altre importanti terre. Il popolo sotto il comando di Martino della Torre trasse fuori di città il carroccio per ridurre al dovere i gentiluomini; ma in molte scaramucce rimase perdente; e quando tutto si apparecchiava per una battaglia generale, s'interposero gli ambasciatori delle città vicine, e persuasero le due fazioni a sottoscrivere una pace, in forza della quale i nobili tornarono in città. Il solo arcivescovo non potè approfittarne, e morì poco dopo in Legnano, lasciando la sua fazione senza capo[206].
Non si tardò a vedere che questo trattato tra il popolo ed i nobili non aveva chiaramente fissati i diritti degli uni e degli altri, e convenne di prevenire la discordia, che dopo pochi anni andava ripullulando, affidando a sessantaquattro [289] arbitri nominati metà per parte, l'incumbenza di stendere un nuovo trattato, che assegnasse ad ogni ordine i rispettivi privilegi in un modo irrevocabile, e che, prevedendo tutti i casi, e scendendo a tutti i particolari, non lasciasse verun appiglio a nuove contese. Questo trattato solennemente stipulato il giorno 4 aprile del 1258 nella basilica di sant'Ambrogio, da cui ricevette il nome, ci fu conservato dallo storico Corio[207]. Sanzionando una perfetta eguaglianza tra i due ordini, tanto rispetto alle nomine de' pubblici impiegati, che coll'abolire tutte le antiche condannagioni, e coll'ammettere tutte le alleanze, pareva che questo trattato dovesse perpetuare in Milano la concordia; ma sgraziatamente non durò più di tre mesi; ed i nobili furono nuovamente forzati a lasciare la città in sul finire di giugno. Sperando di ripararsi in Como, trovarono la città divisa dalla stessa lite che lacerava la loro patria; onde le due fazioni milanesi s'associarono a quelle di Como, e dopo una calda battaglia accaduta entro le mura di questa città, nella quale il popolo fu vittorioso, [290] e dopo una seconda datasi in campagna in cui i nobili avvilupparono l'armata plebea, fu conchiusa con vantaggio de' gentiluomini una seconda pace che non doveva aver più lunga durata di quella di sant'Ambrogio.
Per quanto vantaggiose fossero le condizioni imposte dai nobili dopo la battaglia, in cui la loro cavalleria aveva deciso della vittoria, non erano appena rientrati in città, che il popolo riprendeva sopra di loro tutta la sua superiorità. Ma la lotta tra le due fazioni rendeva sempre più necessaria l'autorità de' loro capi, ed i plebei non d'altro occupandosi che dell'abbassamento de' nobili, dimenticavano interamente la propria libertà: anzi, a tale era giunto l'odio del popolo verso la nobiltà, che per ridurla all'estremo avvilimento parve compiacersi di averla compagna sotto il dominio di un signore. Ciò accadde del 1259 in cui determinarono d'eleggere un protettore della plebe, cui diedero i titoli di capo, d'anziano e di signore del popolo. L'elezione per altro non fu affatto tranquilla. La Credenza unita a tutti gli artigiani ed alle più basse classi della plebe destinava questa dignità a Martino della Torre, il prediletto capo [291] della fazione popolare; ma l'altra società, la Motta, composta delle più ragguardevoli famiglie popolane, di quelle famiglie che per le loro ricchezze e per le cariche occupate nella repubblica avevano acquistato qualche considerazione, temendo forse la soverchia potenza di Martino, nominò un altro capo. In fatti avendo la Motta perduto il suo capo in un ammutinamento, si unì quasi tutta al partito de' nobili ed a Guglielmo Soresina, successore di Paolo e capo della nobiltà.
Seguendo i consigli di un legato pontificio che bramava di ristabilire la pace in Milano, il podestà bandì i due capi di parte; ma Martino, sicuro del favore e degli ajuti delle ultime classi del popolo, rientrò dopo due giorni in città, e, fattosi riconoscere per anziano e signore del popolo, ottenne che si ratificasse la sentenza di bando contro il suo concorrente Guglielmo di Soresina, e contro i suoi partigiani.
In tale stato di cose i nobili milanesi si volsero ad Ezelino, sperando di rientrare col suo ajuto in patria, ed essendosi a lui uniti presso Orci Novi, ch'egli aveva stretta d'assedio, lo persuasero ad avanzarsi oltre l'Adda, ove questo tiranno [292] fu rotto e fatto prigioniero, in parte coll'assistenza di Martino della Torre. Così glorioso avvenimento accrebbe maravigliosamente l'influenza di Martino sopra la sua patria; perciocchè come i suoi avversari infamarono la propria causa unendosi al più odiato tiranno, così egli acquistò nuovi diritti alla riconoscenza de' suoi patriotti salvandoli da dura servitù.
Nè i Milanesi furono i soli che ricompensassero i servigi di Martino: che nello stesso tempo gli abitanti di Lodi lo nominarono signore della loro città, senza che per altro credessero d'avere con ciò rinunciato alla loro libertà; perchè anco i Milanesi risguardavansi sempre come repubblicani, quantunque gli avessero di già accordato il titolo di loro signore: ma Lodi era una città assai più piccola e più debole di Milano, e per conseguenza la potenza di un signore, e d'un signore straniero assai più sproporzionata a quella del popolo. In Lodi cessarono allora le dispute, nè Martino la tiranneggiò; ma questo piccolo stato fu ridotto ad essere tra le sue mani un istrumento di cui si valse per ridurre Milano in servitù.
[293] Frattanto i gentiluomini milanesi, quasi tutti fuorusciti, formavano un corpo di cinquecento uomini d'armi oltre alcuni cavalleggieri; onde malgrado l'estrema superiorità del popolo di Milano per ricchezze, per numero, per potenza, non poteva Martino opporre a quella terribile cavalleria, che una infanteria plebea incapace di resisterle, poichè colui che fino dalla fanciullezza non erasi accostumato a vestire la corazza ed a combattere sotto così pesante soma, non poteva più accomodarvisi dopo essersi applicato ad un altro genere di vita. Una lunga e dura scuola era necessaria per esercitare il mestiere del soldato, onde non credevasi possibile che un plebeo diventasse mai cavaliere. Martino che aveva combattuto contro Ezelino di concerto col marchese Pelavicino, credette di poter senza pericolo servirsi della cavalleria del marchese in ajuto della propria potenza e di quella del popolo. Perciò a nome della repubblica di Milano conchiuse un trattato col marchese, in forza del quale ebbe questi il titolo di capitan generale, e fu preso con un corpo di cavalleria al soldo del popolo che gli assicurò l'annua pensione di mille libbre d'argento e la piena autorità in Milano per cinque anni.
[294] Pelavicino, come abbiamo altrove osservato, era uno zelante ghibellino; e si vuole inoltre che in odio della santa sede avesse abbracciata l'eresia de' Pauliciani, onde proteggeva i predicatori di que' settarj in tutte le città da lui dipendenti, non permettendo agl'inquisitori di dar corso alle sanguinose loro procedure. L'alleanza di Martino della Torre col Pelavicino fu risguardata dalla santa sede come l'abbandono di una città e di una famiglia, che fin allora eransi mantenute fedeli ai Guelfi; e malgrado che Martino non abbandonasse questa fazione, i papi più non gli perdonarono quest'alleanza cogli eretici, e risolsero di punirlo, come di fatti lo fecero con una tarda, ma premeditata vendetta, innalzando, per deprimere la sua casa, la famiglia rivale de' Visconti.
Lo stesso Pelavicini, già da lungo tempo signore di Cremona, aveva pure ottenuto, dopo la morte di Ezelino, di farsi nominare capitano generale di Brescia e di Novara: indi coll'ajuto di Martino della Torre s'impadronì ancora di Piacenza; di modo che quasi tutta la Lombardia veniva governata da questi due signori.
[295] I fuorusciti milanesi, perseguitati dalle loro forze riunite di città in città, finalmente del 1261 si chiusero in numero di circa novecento nel castello di Tabiago, ove furono ben tosto assediati dall'infanteria milanese e dalla cavalleria del marchese. Tutte le cisterne del castello furono in breve asciugate per abbeverare i cavalli di tanti gentiluomini; i quali, mancata l'acqua, essendo periti di sete, i loro insepolti cadaveri guastarono l'aria: talchè gli emigrati privi de' loro cavalli, indeboliti dalle malattie e dalle privazioni d'ogni genere, trovaronsi perfino nell'impotenza di farsi strada a traverso ai loro nemici. Costretti dopo lunghi sforzi di arrendersi, furono tutti incatenati e condotti a Milano sulle carrette. In tale occasione Martino della Torre li salvò dal furore della plebe che chiedeva la loro morte; ma li fece chiudere nelle prigioni, nelle torri e ne' campanili delle città, o in vaste gabbie di legno, esposti alla vista del popolo quali bestie feroci; lasciandoli più anni in tanta miseria.
Ogni cosa riusciva prospera alla famiglia della Torre, il di cui dominio sopra Milano sembrava da quest'ultima vittoria consolidato. Pure Martino volle [296] assicurarsi di un altro pegno della sua grandezza. Dopo la morte di Leone da Perego il capitolo della cattedrale non aveva ancora nominato il successore. Il capitolo era composto presso a poco dello stesso numero di nobili e di plebei. Questi, dietro le istanze del capitano del popolo, proponevano Raimondo della Torre cugino o nipote di Martino; ma i nobili gelosi della gloria di Martino, si rifiutavano di aderirvi, e davano i loro suffragi a Francesco da Settala. Questa doppia elezione dava alla corte pontificia il diritto di appropriarsi la contrastata elezione. Il papa escluse i due competitori, e nominò l'anno 1263 Ottone Visconti che allora soggiornava in Roma. Era questi un canonico della cattedrale appartenente ad una delle più nobili famiglie milanesi. Martino, offeso da tale inaspettata elezione, si appropriò quasi tutti i beni della mensa episcopale; per lo che l'arcivescovo ed il papa si unirono ai nobili, e rialzarono le prostrate forze di questo partito.
La città di Novara aveva probabilmente, come Milano, nominato il marchese Pelavicino suo capitano solamente per un determinato tempo; onde rientrata nell'esercizio de' suoi diritti, l'anno 1263 ne affidò la signoria a Martino [297] della Torre, che quasi nello stesso tempo ebbe avviso d'un importante vantaggio ottenuto dalle sue truppe sopra i partigiani dell'arcivescovo ne' contorni del lago Maggiore. Ma furono questi gli ultimi prosperi avvenimenti di Martino, il quale in sul cominciare di settembre trovandosi in Lodi da grave infermità oppresso, e sentendosi morire, chiese ed ottenne dal popolo di Milano, che volesse accordare a suo fratello Filippo quell'autorità di cui egli era rivestito.
Non sarebbe facile a decidere se l'immatura morte di quasi tutti i signori della Torre riuscisse utile o dannosa a questa famiglia. Un successore egualmente destro ed intraprendente, prendendo subito il luogo del defunto, avvezzava il popolo all'idea dell'eredità del supremo potere; ed essendovi stati, in meno di vent'anni, cinque capi della stessa famiglia, succeduti l'uno all'altro, si venne a risguardare l'ultimo quale rappresentante di un'antica dinastia. Filippo successore di Martino non gli sopravvisse che due anni, nel quale breve spazio consolidò l'autorità suprema nella propria casa, estendendola prima sopra Como, poi Vercelli e Bergamo, che del 1264 lo nominarono volontariamente loro signore. [298] In tutte queste città, siccome nelle altre che suo fratello si era prima rese soggette, il popolo non credeva di rinunciare alla sua libertà: egli non voleva darsi un padrone, ma bensì un protettore contro i nobili, un capitano delle milizie, un capo della giustizia. L'esperienza mostrò troppo tardi che queste prerogative riunite costituivano un sovrano.
Filippo della Torre approfittò di questo accrescimento di potere per isvincolarsi dall'onerosa alleanza del marchese Pelavicino. Erano passati i cinque anni convenuti con Milano, ed il suo ajuto più non era necessario, perchè della Torre aveva finalmente in tante città a lui subordinate adunati abbastanza gentiluomini per formarne un rispettabile corpo di cavalleria. Il marchese fu licenziato, ma sebbene gli fossero strettamente mantenute le condizioni del trattato, concepì un profondo sdegno a cagione di questo congedo, e cercò di vendicarsi sui mercanti milanesi della condotta del loro principe[208].
Era effettivamente principe perchè aveva a sè soggetta la Lombardia, la quale comechè non s'avesse a rimanere lungo tempo sotto il dominio dei signori della Torre, il carattere repubblicano andava avvezzandosi all'ubbidienza, ed i Visconti rivali dei Torriani più omai non avevano a combattere che contro un principe nemico, non contro i cittadini.
La preponderanza della cavalleria nelle battaglie, ed il vantaggio che ne traeva la nobiltà, fu nell'aperte pianure della Lombardia una delle immediate cagioni della caduta delle repubbliche. In mezzo alle colline della Toscana, ove la cavalleria pesante non può stendersi nè agire liberamente, i nobili non erano così avvantaggiati; lo erano poi meno nelle repubbliche marittime, la di cui forza consisteva nelle galere, e dove il popolo, che ne formava gli equipaggi, aveva il sentimento della sua indipendenza. Dopo averle lungo tempo lasciate da un canto, è [300] ormai tempo di riprendere il filo della storia delle loro rivoluzioni.
Mentre l'odio eccitato da una nobiltà arrogante precipitava i Lombardi sotto il giogo del dispotismo, in Venezia ove la nobiltà non era intimamente persuasa della propria forza, quella stessa nobiltà s'innoltrava per una via legale e regolare verso lo stabilimento di un governo aristocratico, che fondava sopra le ruine del potere monarchico dei dogi. Venezia avendo sempre volto il pensiere ai suoi ricchi stabilimenti dell'Oriente, ed alle guerre necessarie per la loro conservazione, non aveva presa parte alle rivoluzioni dell'Italia, nè conobbe le fazioni guelfe e ghibelline: onde non si ebbe occasione di parlare delle esteriori relazioni di questa potente repubblica; come le sue interne riforme operatesi lentamente e per gradi, non richiamarono a sè i nostri sguardi. Soltanto abbracciando un lungo spazio di tempo si riconosce lo spirito ond'era animata questa repubblica, e lo sviluppo di quel sistema che doveva farne la più severa e durevole aristocrazia dell'universo.
Nelle altre città d'Italia l'esterior forma del governo fu in origine repubblicana; e quando si prese a riformarne gli abusi, [301] credettesi di doversi allontanare da tutte le forme che prima esistevano, e convenne accostarsi naturalmente alle monarchiche. Per lo contrario a Venezia, antichissima essendo l'istituzione dei dogi, i quali inamovibili magistrati furono per quattro interi secoli giudici supremi, generali di tutte le forze dello stato, circondati da un fasto orientale preso dalla corte di Costantinopoli, più volte autorizzati a trasmettere la propria dignità ai loro figliuoli, erano, rispetto alle prerogative, eguali ai re d'Italia. Anche la forma essenziale del governo era affatto monarchica; e quando se ne scorgevano gl'inconvenienti, ogni limitazione dei poteri del doge parve una conquista fatta a favore della libertà. La nazione fece causa comune colla nobiltà, e non si adombrò delle prerogative che questa si attribuiva.
Di già l'anno 1032, quando Domenico Flabenigo era stato creato doge, il potere monarchico, in seguito di una sommossa, aveva sofferte alcune restrizioni[209]. Il popolo aveva dati al doge due consiglieri, senza il di cui consentimento non poteva prendere veruna determinazione: era stata [302] proibita l'associazione d'un figlio col padre, e nelle più importanti occasioni il doge era stato sottomesso all'obbligo di adunare a sua scelta i principali cittadini per deliberare con loro intorno agl'interessi dello stato. Coloro ch'egli pregava ad assisterlo, ebbero il nome di pregadi; e questa è l'origine del più antico e più illustre consiglio della repubblica di Venezia.
Ma la formazione di un corpo assai più importante, di quel corpo che in appresso attribuissi la sovranità, e formò da sè solo tutta la repubblica, fu posteriore di cento quarant'anni a questa prima limitazione dell'autorità ducale. Dopo la sgraziata spedizione nell'Arcipelago del doge Vital Micheli, il quale, ingannato dai negoziati della corte di Bizanzio, espose la sua flotta al contagio, e perdette il fiore de' soldati, scoppiò in appresso al suo ritorno un tumulto, nel quale fu ucciso da un plebeo[210]. Un interregno di sei mesi precedette l'elezione del suo successore, e la nazione veneziana gettò in quel frattempo i fondamenti di un governo veramente repubblicano, onde evitare che l'inconsideratezza di un solo uomo non mettesse in pericolo tutto lo stato.
Fino a quell'epoca la nazione non aveva avuta in faccia al governo verun rappresentante; s'adunava essa medesima, e con questi parlamenti o assemblee generali il doge divideva la sovranità. Ma quanto più la nazione cresceva di potenza, queste assemblee diventavano più tumultuose; e restando incomplete per l'assenza di molti cittadini, giudicavansi più incapaci di sopravvegliare il governo e di difendere contro i suoi attentati la pubblica libertà. Si credette, secondo il sistema che fu poi chiamato rappresentativo, che la nazione potrebbe delegare i suoi poteri ad un minor numero di cittadini che agirebbero in suo nome ed osserverebbero il governo. Si credette che affidando loro la comune difesa, li si darebbero pure i proprj interessi e sentimenti, e per tal modo si fece il primo passo, forse necessario, verso l'aristocrazia. Senza abolire le generali assemblee del popolo, che nelle più importanti occasioni si convocarono fino al quattordicesimo secolo[211], si formò un consiglio annuale di quattrocento ottanta cittadini, rappresentanti i sei sestieri della nazione e le dodici più antiche [304] divisioni de' suoi tribunati. A questo consiglio venne affidata la somma di tutti i poteri non attribuiti al doge, ed in unione al medesimo la sovranità della repubblica[212].
Forse la maggiore di tutte le difficoltà in politica è di fare che il popolo elegga degnamente i suoi rappresentanti. Pochi uomini resi famosi dalle loro virtù e dai loro talenti possono ottenere un'opinione universale, il popolo può conoscerli, e procedendo a scegliere tra questi, prendersi cura della scelta; ma s'egli deve nominare un corpo numeroso, se deve estrarre dalla folla centinaja d'individui che vi rimanevano inosservati, trovasi costretto d'agire a caso, senza cognizione di causa e senza interesse. Quando le elezioni sono tranquille e facili convien dire che il popolo sia quasi straniero all'opera che sembra da lui fatta. Abbiamo veduto ne' saggi di costituzioni fatte a' nostri giorni, le liste de' notabili, degli elettori, de' pubblici funzionarj partire in apparenza dal popolo con una regolarità numerica che appagava i matematici inventori di tutti questi sistemi; ma il popolo non era [305] stato giammai meno rappresentato che da' suoi mandatarj; imperciocchè i cittadini convinti dell'inefficacia di tutte le loro funzioni, o non assistevano alle assemblee, o agivano come a caso e senza prendersene pensiero; e talvolta non conoscevano pure lo scopo delle operazioni che facevano[213].
Si può, non v'ha dubbio, provvedere a tanti inconvenienti; ma i mezzi opportuni poche volte si praticarono, ed alcune delle repubbliche italiane non li hanno pure conosciuti. Tutte hanno creduto non potersi accordare le elezioni de' consigli al popolo, e preferirono di confidarle o ai loro magistrati, oppure ad un ristretto numero di elettori a ciò creati, oppure anche alla sorte, piuttosto ch'esporsi al tumulto, all'ignoranza, alla noncuranza della massa del popolo, in una determinazione ch'esse non credevano fatta per lui.
A Venezia furono dunque destinati dodici tribuni per far ogni anno l'ultimo giorno di settembre l'elezione del maggior [306] consiglio. Due di questi tribuni appartenevano ad ognuno de' sestieri o divisioni della città e della nazione. Ognuno di loro doveva scegliere nel proprio sestiere quaranta cittadini, e perchè in una repubblica che credeva contenere i discendenti del fiore della nobiltà romana, si faceva grandissimo caso de' natali, si volle che la nuova legge proibisse agli elettori di accordare troppo favore alle famiglie illustri, e fu vietato di prendere più di quattro membri del gran consiglio nella stessa famiglia.
È probabile che i due tribuni per ogni sestiere fossero la prima volta nominati dal popolo del proprio sestiere; e malgrado le loro contraddizioni, apparisce dalle cronache conservata al popolo tale partecipazione alle elezioni fino a tutto il dodicesimo secolo. Ma venendo tutte le altre nomine senza eccezione attribuite al maggior consiglio, questo fece sue bentosto anche quelle degli elettori che dovevano rinnovarlo: quindi sotto colore di limitare nelle mani degli elettori una pericolosa prerogativa, ma in fatto per accrescere la propria, dichiarò che le nomine de' tribuni non si risguarderebbero che quali semplici designazioni, e si arrogò il diritto di [307] confermare o rigettare i nuovi membri che verrebbero presentati dagli elettori, prima di rassegnar loro i suoi poteri.
L'annuale elezione del consiglio sovrano pareva conservare l'essenza del governo rappresentativo; ma effettivamente erasi stabilita l'aristocrazia, e la nazione si era, senz'avvedersene, spogliata della sovranità. Il maggior consiglio, padrone delle proprie rielezioni, doveva, malgrado l'apparente sua ammovibilità, essere sempre press'a poco composto degli stessi individui. Quel rispetto per gl'illustri natali, che presiedette all'origine di questo corpo, doveva accrescersi sotto il suo regno; e la rivoluzione che in sul finire del tredicesimo secolo rese ereditaria la carica di consigliere, era senza dubbio preparata dall'eredità reale nelle famiglie che quasi sole composero questo corpo ne' cento trent'anni della sua durazione.
Ma la nobiltà che nel tredicesimo secolo trovavasi già in possesso del poter sovrano a Venezia, veniva nonpertanto mantenuta nell'eguaglianza e nell'ubbidienza alle leggi dal timore del doge e dal rispetto del popolo. I nobili veneziani non avevano allora alcun possedimento in terra-ferma, verun castello [308] ove rifugiarsi a dispetto della pubblica autorità, verun vassallo che potessero armare per la propria difesa. Se fossero stati chiamati a prendere le armi contro il popolo, avrebbero dovuto combattere a piedi come l'ultimo della plebe nelle anguste contrade di Venezia impraticabili ai cavalli, o pure stando nelle barche e nelle galere, i cui marinaj erano tutti uomini liberi e valorosi quanto i nobili. E perchè niun sentimento della propria forza poteva in essi risvegliare l'insolenza, non se ne rendevano giammai colpevoli. I nobili veneziani si mantennero perchè si credettero deboli; i nobili lombardi si perdettero per essersi conosciuti forti. Dopo l'undecimo secolo la repubblica di Venezia non fu più lacerata da fazioni civili; cercò costantemente e di comune accordo gli stessi oggetti, al di fuori la gloria e la grandezza nazionale, nell'interno la soppressione del potere arbitrario, il mantenimento dell'eguaglianza tra i nobili, e della prosperità per tutti i sudditi.
L'amministrazione della giustizia affidata ad un solo uomo nelle repubbliche lombarde diventò naturalmente arbitraria e violenta. Si credettero necessarie al mantenimento dell'ordine l'esecuzioni [309] d'un podestà o capitano rivestito degli attributi dittatoriali; ma per mantenere l'ordine si sagrificò la libertà. In tempo che tutte le città d'Italia adottavano la straniera istituzione de' podestà, i Veneziani spogliavano il doge della pericolosa prerogativa di giudice criminale, ed affidavano questa delicata incumbenza ad un nuovo senato, la quarantia, che in appresso si chiamò vecchia o criminale per distinguerla da altri due tribunali composti egualmente di quaranta individui e destinati ad analoghe funzioni. La vecchia quarantia fu istituita l'anno 1179 dal maggior consiglio, di cui i giudici erano membri[214].
Il doge formò lungo tempo il consiglio de' pregadi con una scelta libera ed istantanea. Consultava intorno agli affari di stato chi voleva e quando voleva. La vigilanza del maggior consiglio impediva bensì che questa scelta arbitraria avesse funeste conseguenze per la nazione; ma ciò non bastava: pareva in opposizione allo spirito della repubblica il lasciare ad un uomo la facoltà d'accordare e di togliere titoli d'onore ed una pubblica [310] confidenza; si ebbe timore che questa prerogativa potesse dargli una corte, e che l'adulazione guastasse il cuore de' gentiluomini; non volevasi che verun di loro scendesse sotto al livello de' suoi eguali, o si facesse a credere d'avere un superiore. Del 1229 il consiglio de' pregadi diventò parte della costituzione dello stato[215]. Fu composto di sessanta membri nominati ogni anno dal maggior consiglio, e fissate le sue incumbenze sotto la presidenza del doge. Ebbe il carico di preparare gli affari che dovevano sottoporsi alla decisione del maggior consiglio, e soprattutto d'aver cura del commercio e delle relazioni esteriori dello stato.
Nella stessa epoca i Veneziani ristrinsero i limiti de' dogi. Approfittarono dell'interregno che precedette l'elezione di Giacomo Tiepolo, per creare due nuove magistrature unicamente destinate ad opporsi alle usurpazioni de' dogi. La prima fu quella de' cinque correttori della promission ducale incaricata di riconoscere in ogni interregno il giuramento d'inaugurazione che doveva prestare il doge, [311] e di farvi, di consenso del maggior consiglio, le correzioni ed aggiunte che trovassero convenienti al mantenimento dell'onore di così sublime dignità e della libertà di tutti. L'altra magistratura fu quella de' tre inquisitori del doge defunto, la quale esaminava l'amministrazione del capo dello stato dopo la sua morte, confrontandola col giuramento che aveva prestato quando entrò in funzione; di ricevere ed esaminare le lagnanze e le deposizioni de' cittadini contro di lui; e se lo meritasse, di condannarne la memoria, assoggettando i suoi eredi alla ammenda. Non pertanto questo giudizio poteva sempre essere portato innanzi al sovrano consiglio da' procuratori nazionali, chiamati avogadori del comune[216]. E per tal modo le usurpazioni del capo dello stato si poterono sempre reprimere senza scosse, e senza che i magistrati dovessero lottare contro di lui per frenare la sua ambizione.
Pare che il giuramento del doge formasse per lo addietro la gran carta delle libertà nazionali; ma il potere di questo capo dello stato venendo gradatamente [312] ristretto dal sovrano consiglio, il suo giuramento si ridusse ad essere una rinuncia non solo a tutte le antiche prerogative della sua carica, ma quasi alla personale sua libertà. La raccolta delle promesse ducali divisa in centoquattro capitoli è probabile che siasi cominciata verso il 1240, e continuata soltanto fino al cadere dello stesso secolo. Il doge prometteva d'osservare le leggi della sua patria, e d'eseguire i decreti di tutti i consigli; prometteva di non tenere corrispondenza colle potenze estere, di non riceverne gli ambasciatori, di non aprirne le lettere senza l'assistenza del suo piccolo consiglio; di non dissigillare nemmeno le lettere che gli fossero dirette da' sudditi dello stato se non in presenza d'uno de' suoi consiglieri; di non acquistare veruna proprietà fuori dello stato veneto, e d'abbandonare quelle che avesse all'atto della sua nomina; di non prender parte in alcun giudizio nè di fatto, nè di diritto; di non cercare d'accrescere il suo potere nello stato; di non permettere a veruno de' suoi parenti d'esercitare dipendentemente da lui alcun ufficio civile, militare o ecclesiastico negli stati della repubblica o fuori; finalmente a non permettere che alcuno cittadino piegasse [313] innanzi a lui le ginocchia, o gli baciasse le mani[217].
L'anno 1172 la nomina del doge fu trasferita con tutte le altre elezioni dall'assemblea del popolo al maggior consiglio, che delegava in origine ventiquattro, e ne' tempi susseguenti quaranta membri, che la sorte riduceva ad undici. Dopo il 1249 questa elezione diventò assai più complicata. Trenta membri estratti a sorte in tutto il consiglio si riducevano a nove con una seconda estrazione. Questi dovevano scegliere a pluralità di sette suffragi quaranta membri dello stesso consiglio, che poi la sorte riduceva a dodici. In appresso i dodici ne nominavano venticinque, che la sorte nuovamente riduceva a nove; i nove ne nominavano quarantacinque, e questi erano dalla sorte ridotti ad undici, i quali finalmente nominavano i quarantuno elettori del doge, che dovevano eleggerlo colla maggiorità di venticinque suffragi[218]. Alcuni scrittori risguardarono questa complicazione della sorte e dell'elezione come una mirabile [314] invenzione politica. Sarebbe per altro difficil cosa il circostanziare i vantaggi proprj di così intralciata combinazione, e forse que' medesimi che l'inventarono non seppero prevederne verun utile risultato. Poteva con questo metodo eleggersi un doge di Venezia, perchè doveva soltanto rappresentare e non agire: ma quando il capo dello stato deve esercitare le funzioni di giudice, o di amministratore, o di generale, con questo metodo non si otterrà che per accidente la scelta del più degno.
È cosa naturale che i Veneziani non si prendessero troppa cura delle cose d'Italia, e che, tranne i pochi soccorsi dati all'armata crociata contro Ezelino, non ci abbiano data occasione di parlare delle loro guerre. Le conquiste che fatte avevano grandissime in Levante, domandavano per conservarle sforzi tanto superiori ai loro mezzi, che tutta l'attenzione dei capi della repubblica era rivolta a quella sola parte. Abbiamo veduto nel precedente capitolo che Enrico Dandolo si era stabilito in Costantinopoli, e che suo figliuolo, contro gli usi dello stato, aveva avuta la facoltà di esercitare in Venezia le funzioni del doge come suo luogotenente. Per altro, morto [315] Dandolo[219], più non si permise al suo successore di allontanarsi dalla capitale; fu incaricato un altro magistrato, il balìo di Costantinopoli, di governare la porzione di quella grande città che spettava alla repubblica, e la colonia veneziana che vi si era stabilita. Questo magistrato prese come il doge il titolo di signore di un quarto e mezzo dell'impero romano; titolo che rendevasi ogni giorno più vano, imperciocchè dopo la morte di Dandolo e di Enrico di Fiandra, i Greci avevano in ogni parte prese le armi contro i Latini, e cacciatili da quasi tutte le loro conquiste, chiudendoli, sto per dire, entro le mura di Costantinopoli. Pure quando il pericolo si fece urgente, i Veneziani, come l'attestano due delle loro cronache manoscritte, per non lasciar cadere il conquistato impero, l'anno 1225 consultarono se fosse conveniente di trasportare a Costantinopoli la sede della repubblica, sicchè, abbandonando le loro lagune, tutta la nazione andasse a chiudersi in quella superba città, la quale a stento potevano, stando così lontani, difendere: si racconta che la proposizione non fu rigettata [316] nel maggior consiglio che per la maggiorità di due soli voti[220].
Le isole del mar Egeo, che quasi tutte erano cadute in potere della repubblica, non esaurivano meno la nazione di gente o di danaro, quantunque i suoi consigli punto non si occupassero della loro amministrazione o della loro difesa. Erano queste state date in feudo a dieci potenti famiglie, molte delle quali vi mantennero la loro signoria fino al sedicesimo e diciassettesimo secolo. La repubblica sentendosi troppo debole per sostenere sola tutti i suoi diritti, aveva abbandonate le isole dell'Arcipelago ai particolari che ne facessero la conquista, loro permettendo di reggerle colle leggi o assise di Gerusalemme, che l'impero di Costantinopoli aveva adottate[221]. L'isola di Candia in cui Venezia più che in Costantinopoli aveva fatto il centro della sua potenza in Levante, richiedeva assai più cure per governarla, e maggior coraggio e vigilanza.
Numerosi sono gli abitanti di quest'isola, e, stando alle testimonianze de' Veneziani, il loro carattere è perfido e incostante. Potrebbesi per altro spiegare tanto per le virtù loro che pei loro vizj le frequenti sedizioni e l'avversione che mostravano per un giogo straniero. I Veneziani per tenerli in dovere mandarono in Candia una colonia: ma quel popolo che fabbricava ed equipaggiava con estrema facilità flotte di cento navi in pochi mesi, quel medesimo popolo i di cui mercanti erano domiciliati in tutti i porti del Mediterraneo, a stento trovava alcuni uomini che rinunciassero per sempre alla loro patria, anche loro offrendo in altro paese dignità, poteri e ricchezze. A formare la colonia concorsero in ugual parte i sei sestieri di Venezia; la quale colonia, appena giunta nell'isola, ebbe il possesso di cento trentadue feudi di hautbert o cavallerie, e di cento otto feudi di scudieri, ossia sergenti d'armi[222]. Dunque il numero delle famiglie veneziane che passarono in Creta, era soltanto di cinquecento quaranta. Alla testa della colonia fu stabilito un duca per rappresentare il doge, il quale veniva [318] eletto ogni due anni dal maggior consiglio di Venezia, ed era, come il doge, assistito da due consiglieri superiori. Eranvi a Candia come a Venezia i giudici del proprio, i signori della notte, quelli della pace, il piccolo consiglio, o signoria, il grande cancelliere, e soprattutto il maggior consiglio, che nella stessa epoca di quello di Venezia fu dichiarato nobile ed ereditario. Perciò quando, del 1669, la città di Candia fu presa dai Turchi, e che la repubblica perdette la colonia, i gentiluomini di quel consiglio richiamati nella metropoli, furono risguardati come non avessero mai perduti i loro ereditarj diritti; e tutti i nobili candiotti dichiarati nobili veneziani, e come tali registrati nel libro d'oro[223].
Le frequenti sedizioni de' Candiotti, le non meno frequenti invasioni de' Greci sudditi di Vatace, di Teodoro Lascari, o di Paleologo tennero questa colonia in continui pericoli in tutto il tredicesimo secolo. Fu pure contrastata ai Veneziani dai Genovesi che quasi nel tempo della prima conquista avevano saputo formar uno stabilimento nell'isola. Questo popolo era geloso degl'immensi dominj che i Veneziani avevano acquistati nel Levante, e più ancora dell'estensione del loro commercio e delle loro ricchezze. I Genovesi avevano più volte [320] tentato di appropriarsi alcune isole dell'Arcipelago, ed alcune piazze forti della Morea. Tale gelosia avvelenò una lite eccitata tra le due popolazioni dal solo punto d'onore nella città di Tolemaide ossia san Giovanni d'Acri.
Di tutte le conquiste fatte in Terra santa più non restavano ai Cristiani che due o tre piazze sulle coste della Siria, la più forte delle quali era san Giovanni d'Acri, ov'eransi rifugiati quasi tutti i Latini scacciati dal regno di Gerusalemme[224]. Ognuno presumeva di trovare in questo asilo la stessa indipendenza di cui aveva goduto ne' feudi ond'era stato spogliato; di modo che questa sola città trovossi divisa in sei o sette differenti sovranità. Il re di Gerusalemme, i conti di Tripoli e di Edessa, il gran maestro dell'ospitale e del tempio, i Pisani, i Veneziani, i Genovesi avevano tutti il proprio quartiere. Nacque tra gli ultimi [321] una contesa pel possesso della chiesa di san Sabba, che non era stata con precisione assegnata all'una delle due nazioni. I Veneziani, per decidere questa disputa, volevano farne arbitro il papa; ma i Genovesi presero le armi, ed impadronitisi della chiesa, la fortificarono; nè di ciò contenti assalirono i magazzini de' Veneziani in Acri ed in Tiro, e gli scacciarono dal loro quartiere[225].
Non prenderemo a descrivere le zuffe che per vendicare questa prima offesa i due popoli si diedero in tutti i mari dell'Italia e del Levante. Siccome nelle battaglie navali s'affrontano ad un tempo la furia de' nemici, i pericoli del mare, e spesso quelli della burrasca, gli uomini danno prova della maggiore intrepidezza di cui possa essere capace una debole creatura, la quale in tale cimento sembra innalzarsi al livello de' dominatori della natura. Ma i prosperi o gl'infelici avvenimenti delle battaglie di mare non influiscono direttamente sulla sorte delle nazioni come quelle delle armate di terra; e quando non trovasi tra i guerrieri [322] qualche illustre personaggio che a sè richiami lo sguardo della posterità, quando le battaglie navali sono dirette da capitani oscuri, quando finalmente la guerra si fa piuttosto da armatori indipendenti che dalle flotte d'una nazione, difficile e nojoso diventa il racconto delle particolari circostanze; di modo che tutto quanto noi potremmo dire intorno alle vicendevoli sconfitte delle flotte veneziane e genovesi, nulla aggiugnerebbe all'idea generale che formar ci possiamo d'una inutile perdita di gente e di tesori.
Vero è per altro che la rivalità de' Genovesi coi Veneziani produsse un notabile cambiamento nelle alleanze delle due nazioni. I Veneziani che fino a tale epoca erano stati i protettori del partito guelfo, ed avevano lungo tempo fatto guerra a Federico II poi ad Ezelino, staccaronsi dal papa per allearsi da una banda coi Pisani, implacabili nemici dei Genovesi, dall'altra con Manfredi che aveva da vendicare sui Genovesi le antiche ingiurie, ed in particolare l'ajuto dato al loro compatriotto Innocenzo IV[226]. La lega dai Veneziani contratta coi nemici [323] del papa incoraggiò i Genovesi a contrarne un'altra che fu ancora più scandalosa. Spedirono essi ambasciatori a Michele Paleologo, imperatore dei Greci, per impegnarlo a perseguitare più caldamente i Veneziani loro comuni nemici, esibendosi di ajutarlo a ritogliere dalle mani de' Veneziani e de' Francesi la città di Costantinopoli, che avrebbe dovuto essere la capitale di Paleologo, e che di tanti acquisti era quasi il solo che ancora fosse in potere de' Latini. Il trattato di alleanza fu sottoscritto a Nicea il giorno 13 marzo del 1261[227]. Paleologo esentò i Genovesi dai diritti di pedaggio in tutti i suoi porti, e questi invece gli promisero un certo numero di vascelli di guerra ad un determinato prezzo. Infatti essi ne armarono sei, e dieci galere, che immediatamente spedirono in Levante.
Baldovino II, debole e spregevole principe, era in allora imperatore latino di Costantinopoli, e regnava solo fino dall'anno [324] 1237; il quale avendo nelle sue angustie talvolta vilmente e sempre invano supplicati i principi dell'Occidente ad ajutarlo, era ritornato nella sua capitale, ove per procacciarsi un poco di danaro, faceva levare il piombo dai tetti delle chiese e dei palazzi di Costantinopoli, indi faceva demolire questi edificj per provvedersi di legna da fuoco; vendeva od impegnava le sacre reliquie; e per ultimo dava il proprio figlio come ostaggio ad alcuni banchieri veneziani, che gli prestarono alcune somme di danaro[228]. Per lo contrario i Greci in sessant'anni di sventure e di esiglio avevano ripreso un poco di coraggio e di energia. Dopo la caduta del loro impero non ammettendo più padroni ereditarj, i soli talenti aprivano la strada al trono. Teodoro Lascari, Giovanni Vatace, e finalmente Michele Paleologo aveano rialzato in Nicea il trono de' Cesari, e riunito a poco a poco al loro dominio la maggior parte delle province dell'Europa e dell'Asia, che i crociati avevano tolte ai loro predecessori. Questi principi non meno valorosi guerrieri che [325] accorti politici avevano potuto volgere tutte le loro forze contro i Latini, perchè i Bulgari ed i Saraceni, loro naturali nemici, indeboliti da interne fazioni, non gli davano più molestia.
I soli difensori, i soli sostenitori dell'impero latino di Costantinopoli erano i Veneziani; perchè i Francesi non isperando più di arricchirsi coi saccheggi, si affrettavano di abbandonare la Grecia e di tornare alla loro patria, mentre ogni anno nuovi negozianti giugnevano ad ingrossare la colonia veneziana, e nuovi vascelli, e nuovi valorosi guerrieri venivano a difenderla. Se dobbiamo per altro credere ad uno storico greco, fu l'imprudenza de' Veneziani che perdette la città[229]. Aveva Michele Paleologo con Baldovino conchiusa la tregua d'un anno, quando il nuovo balìo o podestà di Venezia, Marco Gradenigo, giunse nel porto di Costantinopoli[230]. Questi rinfacciò ai Latini il vergognoso loro ozio in mezzo ai nemici, e li persuase [326] ad intraprendere l'assedio di Dafnusio, isola e città all'imboccatura del Bosforo nel Ponte Eusino. Egli si valse in questa spedizione delle truppe veneziane e francesi che trovavansi in città, non lasciando alla guardia delle mura che il debole Baldovino colle donne e coi vecchi.
Nello stesso tempo, dopo avere dato il titolo di Cesare ad Alessio Strategopulo, l'imperatore Paleologo lo aveva spedito contro il despota dell'Epiro. Questo generale essendosi innoltrato fino alle porte di Costantinopoli colla sua armata, fu avvisato dai contadini del sobborgo, i quali, trovandosi allora al confine dei due imperi, viveano in una licenziosa indipendenza, che Baldovino in quell'istante non aveva truppe, e si offrivano d'introdurlo in città.
In fatti, dopo avere concertata ogni cosa con Strategopulo, que' contadini che chiamavansi volontarj[231], il giorno 25 luglio del 1261 entrarono in Costantinopoli per una segreta apertura che metteva capo in una delle loro case, ed impadronitisi [327] della porta Aurea[232], che dai Latini tenevasi chiusa, e spezzatala colle scuri, si fecero a gridare dall'alto delle mura: viva l'imperatore Michele! vivano i Romani! Strategopula che trovavasi acquartierato colla sua truppa presso il convento della Fontana, aspettandovi il convenuto segno, entrò subito in Costantinopoli per la porta che gli era stata aperta. I Comani o Tartari, ch'erano i Saccomani della sua armata, si sparsero ne' quartieri della città per saccheggiare le case de' Latini, mentre i Greci si rimanevano con bella ordinanza intorno al loro generale. Lo spavento incusso dai Comani, gl'incendj che andavano eccitando ovunque potevano penetrare, la sommossa de' Greci di Costantinopoli, che volevano scuotere il giogo de' Latini, portarono la confusione tra i Franchi; i quali, preceduti dall'imperatore Baldovino, fuggirono [328] verso il porto, andando a bordo de' vascelli che vi si trovavano. La flotta veneziana, che aveva fatta l'impresa di Dafnusio, arrivava allora opportunamente presso al tempio di Sostenione, e servì a dar ricovero all'imperatore, al balìo, al patriarca latino, a tutti i Francesi ed alla maggior parte de' Veneziani che abitavano in Costantinopoli. Sì grande era il numero degli usciti, che ben tosto consumarono tutti i viveri della flotta, onde molti perirono di fame avanti che potessero essere trasportati all'isola di Negroponte, colonia de' veneziani, ove soggiornarono alcun tempo.
E per tal modo Costantinopoli, dopo essere stata cinquantasette anni sotto il dominio de' Francesi e de' Veneziani, tornò ad essere la capitale dell'impero greco, che a quest'epoca parve riprendere nuovo vigore, e che doveva ancora mantenersi quasi due secoli[233].
Mentre i Latini abbandonavano Costantinopoli, che vedeva con piacere allontanarsi questi illegittimi suoi [329] figliuoli[234], Michele Paleologo avvisato a Meteoria che la reale città era stata occupata dalle sue truppe, ringraziò il cielo d'un avvenimento che non osava sperare, perchè l'anno precedente non aveva potuto impadronirsi con una grossa armata del solo sobborgo di Galata. Preceduto da un'immagine della Vergine e circondato dal senato e da tutti i grandi della nazione, entrò in città per la porta aurea, cantando inni di rendimento di grazie[235]. L'imperatore andò ad abitare il palazzo dell'Ippodromo, perchè quello di Blacherna, da più anni abitato soltanto dai Franchi, era imbrattato ed annerito dal fumo. «Si vide allora, scrive Niceforo Gregora, che la regina delle città più non era che un campo di desolazione pieno di rottami e di ruine, molte case erano cadute, e quelle che ancora rimanevano non erano che miseri avanzi salvati dalle fiamme. Bizanzio [330] aveva affatto perduta la sua bellezza ed i suoi più preziosi ornamenti negl'incendj più volte appiccativi dai Latini, quando la ridussero in servitù: e come ciò fosse poco, niuna cura si presero di ripararla, quasi fossero da lungo tempo persuasi di doverla in breve abbandonare[236].»
Ma non tutti i Latini erano usciti di città: oltre i Genovesi che avevano ajutati i Greci a farne la conquista, eranvi ancora i Pisani e molti Veneziani. Molti degli ultimi trattenuti dagl'interessi del loro traffico, o dalle parentele contratte coi Greci, non avevano voluto abbandonare nè le loro proprietà, nè la loro famiglia; altri accortisi troppo tardi della subita perdita della città non trovarono luogo sulle navi. Conosceva Michele troppo bene la debolezza e la povertà della sua nuova capitale per privarsi dell'ajuto e delle ricchezze di così industriosi abitanti: onde non solo riconfermò ai Genovesi tutti i privilegi accordati nel precedente trattato d'alleanza, ma un egual travamento prometteva pure ai Veneziani ed ai Pisani che volessero soggiornare ne' suoi stati. Non però acconsentì ai primi, [331] ch'erano i più numerosi e resi più arroganti dalla sua amicizia, di abitare nell'interno della città, ove potevano diventare pericolosi; e li trasportò a Galata situata nell'opposta riva del porto, mentre non ebbe paura di lasciare in città i Veneziani ed i Pisani sotto la sopravveglianza del popolo che gli odiava. Del resto accordò alle tre nazioni di appropriarsi il quartiere loro rispettivamente assegnato, vivendo colle proprie leggi, e sotto il governo di quel magistrato che alle determinate epoche loro manderebbe il consiglio generale della loro patria[237]. I Genovesi intitolavano questo magistrato podestà; i Veneziani, balìo; console i Pisani. E per tal modo i mercanti italiani formavano in Costantinopoli tre piccole repubbliche che conservavano l'intera loro libertà ed indipendenza, continuando i loro cittadini ad esercitare la navigazione ed il commercio con quella [332] industria ed attività ch'erano allora proprie di quelle nazioni.
Sebbene Michele Paleologo avesse accordati tali privilegi ai Veneziani dimoranti in Costantinopoli, non aveva però fatta la pace colla loro repubblica, nè rinunciato alla speranza di spogliare affatto i Latini delle isole e delle province che ancora possedevano in Levante. Attaccò l'Eubea, facendo che quel principe si ribellasse ai Veneziani, e s'impadronì delle isole di Lenno, di Chio, di Rodi e di molte altre, poste nel mar Egeo[238]. Accordò per altro in feudo ai Genovesi l'isola di Chio, volendo con ciò compensarli di quanto avevano operato a suo favore nelle sue imprese marittime. È questo uno degli stabilimenti che i Genovesi conservarono più lungo tempo in Levante, essendogli stato tolto per tradimento dai Turchi soltanto del 1556, perchè i Greci che abborrivano il clero e la signoria de' Latini favoreggiavano i Musulmani. Oggi vi sono circa cento cinquanta mila Greci, de' quali sessanta mila abitano la città. Quest'isola, una delle più belle colonie de' Genovesi, non erasi conservata sotto l'immediata dipendenza della repubblica; [333] perchè, essendole stata data in pegno per una somma di danaro, nove famiglie la pagarono, e fecero l'impresa a loro spese. Più tardi queste famiglie si unirono tutte sotto il nome de' Giustiniani; e del 1365 tutti i Giustiniani si trasportarono a Chio[239]; ove l'assoluta oligarchia della loro famiglia si mantenne due secoli; essi conservano ancora al presente il titolo di principi di Chio. Tutti non lasciarono questa loro patria adottiva, essendovi ancora molti Giustiniani in quell'isola che vivono coi prodotti delle loro terre sotto il dominio de' Turchi; le famiglie tornate a' nostri giorni in Genova, chiedevano ne' primi anni del presente secolo alla repubblica le somme che le avevano date in deposito quando essa le investì del perduto principato. Allorchè fu data ai Genovesi la proprietà dell'isola di Chio, non erano altrimenti disposti a fondare un'oligarchia nella loro colonia [334] ed a render principi i loro gentiluomini. Egli era in quel tempo presso a poco in cui cominciava a manifestarsi la discordia tra la nobiltà ed il popolo; discordia lungo tempo fatale al riposo della repubblica; discordia la quale pose più volte lo stato sotto il dominio di un padrone; e la quale avrebbe finalmente distrutta affatto la libertà, se nel carattere di un popolo marittimo non esistesse una cotale energia che difficilmente può assoggettarsi al giogo. Gli uomini la di cui patria non è soltanto posta sulla terra ma ancora sul libero Oceano, non possono, tornando in porto, sopportarvi lungamente una tirannia, dalla quale vanno esenti viaggiando sul mare.
Nella prima metà del tredicesimo secolo, il poter sovrano era stato in tal maniera diviso tra il governo ed il popolo. Eransi questi riservati i suoi parlamenti o assemblee generali, nelle quali risolvevansi gli affari di maggiore importanza, i cambiamenti nella costituzione, la pace, la guerra, le alleanze. Accadde più volte, che il senato, consultato intorno ad un importante affare, dichiarò nelle sue deliberazioni, che potendosi compromettere l'intera nazione, alla sola nazione [335] toccava il decidere[240]. Più volte ancora si vide il podestà adunare il parlamento, non solo per trattare di qualche impresa contro i nemici dello stato, ma per formare nello stesso tempo la sua armata; imperciocchè tutti i cittadini uniti in assemblea, dopo avere dichiarata la guerra, prendevano le armi e seguivano lo stesso giorno il loro pretore nel campo.
Finchè il popolo delibera egli stesso ed agisce senza l'interposizione de' suoi rappresentanti, i consigli gli sono quasi affatto inutili; quindi l'annuale senato della repubblica non figura nella storia di Genova che a lontani intervalli, senza che si possano perciò ottenere chiare nozioni intorno alle sue prerogative. Ma se piccola cosa sono i consigli, importantissimi sono i magistrati, siccome coloro che diventano depositarj di tutte le sovrane funzioni, che il popolo non ha potuto riservare a sè stesso.
In Genova, in sull'esempio delle altre repubbliche italiane, il podestà rimaneva un anno in carica, doveva essere forestiere e gentiluomo, ed esercitare le incumbenze [336] di giudice criminale, e di generale delle truppe dello stato. Conduceva seco due legisti e due cavalieri.
Veniva in appresso un consiglio di otto nobili genovesi, eletti probabilmente ogni anno dalle compagnie de' nobili; perciocchè pare che i gentiluomini si fossero divisi in otto società formate sull'andare delle associazioni popolari di Milano. Tali compagnie eransi arrogate alcuni poteri non contemplati dalla costituzione, ma tacitamente riconosciuti dalla repubblica. Frattanto esse di già formavano un'oligarchia che aveva risvegliata non solo la gelosia de' plebei, ma quella ancora de' nobili, che a principio non essendosi inscritti in alcuna di tali associazioni, si trovarono in certo modo respinti fuori della nazione; per la qual cosa nel 1227, essi cospirarono, ma inutilmente, per ispogliare le compagnie nobili delle loro prerogative[241]. Il consiglio degli otto nobili eletti da queste compagnie era incumbenzato di tener conto delle spese e delle riscossioni della repubblica, come pure di prestare assistenza [337] al podestà nelle sue funzioni; ed aveva presso di lui cinque notai del comune.
Quattro tribunali, composti ognuno d'un console alle liti e di due notai, amministravano la giustizia ne' quattro quartieri della città. Venivano dalla repubblica nominati alcuni podestà subalterni per governare le terre del territorio e specialmente quella porzione che trovavasi oltre le Alpi liguri.
La nobiltà erasi avvantaggiata sul popolo formando delle particolari società; il podestà era nobile, nobili i giudici ed i consoli, nobile il solo de' consigli che avesse influenza, quello degli otto; onde il potere della nobiltà non era soltanto grandissimo, ma in istato d'andare ogni giorno crescendo. Però la gelosia del popolo non perdeva di vista il potere degli otto; a ciò fare caldamente incitato da que' nobili che, esclusi dalle già dette società, non erano soddisfatti della piccola parte che avevano nella sovranità della loro patria. Questa gelosia si manifestò del 1227 colla congiura di Guglielmo de' Mari, e prese un diverso carattere in tempo che la guerra di Federico II occupava tutte le menti non già del governo della repubblica, ma dei diritti della nazione, di quelli della chiesa, e [338] di quelli dell'impero. A tal epoca non si videro che Guelfi e Ghibellini: e gli ultimi, detti mascherati, affatto esclusi dalla sovranità, fecero, armata mano, molti tentativi per ripigliare quell'autorità che si erano esclusivamente appropriata i Guelfi[242]. L'attaccamento alle fazioni alla repubblica straniere s'indebolì dopo la morte di Federico, ed una contesa più nazionale intorno alle prerogative dei nobili e del popolo succedette alle fazioni guelfe e ghibelline.
I nobili che si staccano del proprio ordine per ergersi in demagoghi, sono più avvantaggiati che tutti gli altri capi di parte, acquistando essi facilmente la più alta e perniciosa influenza sopra coloro che prendono a guidare. Torna loro così agevole il parer generosi, mentre altro non sono che egoisti e calcolatori; lo spacciarsi protettori del popolo, quando al contrario ne corteggiano il potere soltanto per armarsi della sua forza; possono prendere a prestito tante utili virtù, ed il popolo essere così facilmente sedotto dall'apparenza di quelle, che costoro sono di tutti gli ambiziosi i più fortunati. Di fatti pochi [339] uomini, nati in città libera, hanno con modi diversi da questi usurpata la tirannide. Genova non mancò di nobili demagoghi, e se non si assogettò stabilmente al loro dominio, ebbe più volte l'imprudenza d'accordar loro il supremo potere.
Il primo di questi nobili lusinghieri del popolo fu Guglielmo Boccanigra. Nel 1257 mentre Filippo della Torre podestà dell'anno precedente partiva alla volta di Milano sua patria, si levò contro di lui il popolo a rumore accusandolo di venalità, ossia d'infedeltà nell'amministrazione della repubblica. Il consiglio degli otto nobili, ed i sindicatori della condotta dei magistrati caddero in sospetto, perchè non avevano proceduto contro di lui con rigore. Il popolo ripeteva ad alta voce che non voleva omai più essere la vittima di nobili e di podestà corrotti; che voleva scegliere tra i cittadini virtuosi un capo che fosse il depositario della sua autorità, e la di cui passata condotta fosse la guarentìa del suo amore della patria e della libertà: aggiunse ben tosto che Guglielmo Boccanigra era il solo che si fosse meritata la sua confidenza colle sue costanti liberalità, col suo amore pel popolo, soccorrendolo [340] contra la nobiltà. I sediziosi s'avanzarono verso la chiesa di san Siro, portando in trionfo Guglielmo, e postolo a sedere presso l'altare, lo proclamarono capitano del popolo, ed in tale qualità si affrettarono di prestargli il giuramento di ubbidienza. Il susseguente giorno, i sediziosi nominarono trentadue anziani, quattro per compagnia, per formare il consiglio del nuovo capitano; e la prima legge che sottoposero alla loro decisione, fu quella che determinava la durata delle funzioni di Guglielmo. Gli anziani assecondarono la frenesia del popolo, o fecero la corte al suo capo, decretando che Guglielmo sarebbe dieci anni capitano del popolo; che morendo prima del termine gli verrebbe surrogato uno de' suoi fratelli; che avrebbe sotto i suoi ordini, pagati dallo stato, un cavaliere, un giudice, due scrivani, dodici littori e cinquanta arcieri, che farebbero giorno e notte la guardia al suo palazzo ed alla sua persona. Per ultimo gli diedero la facoltà di nominare, salva la loro approvazione, il podestà annuale[243].
Ed ecco con questa rivoluzione compiutamente fondata la tirannide; ma fortunatamente per Genova il popolo era troppo impaziente per sopportarla lungo tempo. Del 1259 i nobili cominciarono ad avvedersi che Guglielmo, il quale ogni giorno si arrogava nuove prerogative, aveva di già molto perduto della sua popolarità. Ordirono contro di lui una congiura, ma intempestiva; e Guglielmo che n'ebbe sentore, trovò parte del popolo ancora disposto a difendere il suo idolo. Egli pronunciò contro i suoi nemici una sentenza di esiglio, e fece spianare le loro case. Domandò in seguito al suo consiglio, e facilmente ottenne, che gli fosse accresciuto il salario, e data subito una somma di danaro per mettersi in istato di difesa[244]. Frattanto se la mala riuscita di questa congiura accrebbe la sua potenza, accrebbe pure l'odio che una parte della nazione nudriva contro di lui. E già, se crediamo all'annalista genovese coetaneo, del 1262 Guglielmo si comportava da tiranno; dava e toglieva gl'impieghi di proprio arbitrio, sprezzava le deliberazioni dei consigli, [342] trattava in nome proprio le alleanze, annullava le sentenze de' tribunali, ed escludeva i nobili da ogni parte dell'amministrazione. Questi preser di nuovo le armi in tutti i quartieri della città, ed occuparono le porte affinchè il capitano del popolo non potesse chiamare gli abitanti della campagna in suo soccorso. S'avviarono poi verso la gran piazza ove trovavasi il capitano con circa otto cento uomini: strada facendo tagliarono a pezzi suo fratello, che con un corpo di gente cercava di opporsi al loro passaggio. Intanto i cittadini che avevano prese le armi a favore del capitano, l'andavano a poco a poco abbandonando e si univano ai nobili. L'arcivescovo, per impedire lo spargimento del sangue genovese, s'inoltrò tra le parti, facendo sentire a Guglielmo che disperata era la sua causa, ed avendolo persuaso a rinunciare alla carica di capitano del popolo, lo tolse in tal modo al castigo dovuto ai tiranni. Furono colla sua mediazione ristabilita in Genova la pace ed il governo quali erano avanti ii 1257[245].
Ma il popolo non tardò a dolersi d'essere ricaduto sotto il dominio della nobiltà, e malgrado la fresca esperienza dell'abuso che i suoi favoriti facevano del loro credito, andava ancora cercando qualche nobile che volesse essere suo capo. Il primo a presentarsi, due soli anni dopo l'abdicazione di Guglielmo, fu Simone Grillo, che la repubblica aveva nominato ammiraglio delle galere che spediva in Levante; ma quando vide che i nobili stavano all'erta, partì colla sua flotta, ed il tumulto eccitato in suo favore si dissipò in poche ore[246].
Un più pericoloso demagogo cercò in seguito di farsi un partito nel popolo, e fu questi Oberto Spinola, capo di una delle quattro più nobili, più antiche e più potenti famiglie di Genova. Queste famiglie che verso la metà del tredicesimo secolo cominciavano ad uscire assolutamente dalla linea di tutte le altre, erano i Grimaldi, i Fieschi, i Doria e gli Spinola. Pareva che nell'elezione del 1264 i Grimaldi avessero avuto maggior parte alle magistrature ed a tutti i consigli, che le tre altre famiglie. Tutte ne aveano conceputo gelosia, ma Oberto [344] Spinola seppe egli solo approfittarne. Tentò di ottenere la carica di capitano del popolo, che era stata data a Boccanigra, e sebbene non riuscì nell'intento in quest'occasione, si pose in relazione col partito popolare; relazione, che mantenutasi nella sua famiglia, fu lungo tempo cagione alla repubblica di pericolose scosse, minacciandola frequentemente di rapirle la libertà[247].
E per tal modo le due più potenti repubbliche marittime riformavano nello stesso tempo la loro costituzione, ma in senso contrario. Una, partendo da una democrazia reale, s'avanzava segretamente, lentamente e senza scosse verso un'aristocrazia forte e regolare: l'altra, governata da una nobiltà inquieta, faceva violenti sforzi e spesso inutili per tornare alla democrazia; spesso ancora invocava imprudentemente la potenza di un solo uomo per istabilire l'autorità di tutti. Infinite circostanze influiscono sempre sulla costituzione de' popoli. Benchè i Genovesi ed i Veneziani avessero le stesse abitudini, il medesimo carattere, il medesimo [345] amore per la libertà, benchè parlassero il medesimo linguaggio, nello stesso tempo, e per così dire nello stesso paese, presero due contrarie direzioni per arrivare allo stesso scopo. In un altro capitolo avremo occasione di volgere lo sguardo alla terza repubblica marittima, a Pisa, la cui storia, meno conosciuta, è per molti rispetti simile a quella di Genova.
Carlo d'Angiò, chiamato dai papi, procura in Italia al partito guelfo una assoluta superiorità. — Conquista il regno di Napoli. — Disperde l'armata di Corradino, e fa perire questo principe sul patibolo.
1261 = 1268.
Il regno d'Alessandro IV era stato un'epoca favorevole alla fazione ghibellina. Manfredi, approfittando della debolezza di questo pontefice, aveva stabilita la sua autorità nel regno di Napoli; e nello stesso tempo i Ghibellini fiorentini avevano obbligata tutta la Toscana ad accostarsi al loro partito: e se nella Marca ed in Lombardia era stata distrutta la tirannide d'Ezelino, lo fu col favore dell'alleanza contratta co' capi ghibellini, il marchese Pelavicino e Buoso di Dovara, da' Guelfi di Milano, di Ferrara e di Padova. Finalmente a quest'epoca la casa della Torre a Milano erasi alienata dalla santa sede; ed a Verona, come nella Marca Trivigiana, Mastino della Scala erasi posto alla testa del partito ghibellino. Ma Alessandro IV morì il [347] 25 maggio del 1261, ed il suo successore con mano più ferma e potente rovesciò bentosto la bilancia politica d'Italia.
Questo successore, che prese il nome di Urbano IV, era francese, nativo di Troia nella Sicampagna[248] e di bassa condizione, ma aveva saputo co' suoi talenti acquistarsi il vescovado di Verdun, poi il patriarcato di Gerusalemme. Era quest'istesso anno tornato da Terra santa per sollecitare i soccorsi del papa e de' Latini in favore de' Cristiani di Levante. I cardinali, che trovavansi ridotti al numero di otto, dopo tre mesi di conclave senza aver riuniti i suffragi a favore d'un membro del loro collegio, credettero di non poter trovare tra i prelati non cardinali chi fosse più del patriarca di Gerusalemme degno della tiara.
Forse Urbano non sarebbe stato severo giudice di Manfredi, se la causa [348] di questo re avesse dovuto essere da lui solo giudicata; ma, agli occhi di un papa, Manfredi era reo del gravissimo delitto di non essersi assoggettato al giudizio della santa sede che lo aveva condannato. L'indipendenza de' sentimenti è ciò che più offende le anime intolleranti; e l'altrui libertà diventa un'ingiuria in faccia a chi volle sempre vivere nella servitù. Urbano che non aveva alcuna personale cagione d'inimicizia con Manfredi e niun interesse nella sua caduta, Urbano che non poteva ripromettersi dalla sua politica nè l'incremento del potere della Chiesa, nè la libertà di Terra santa, pure attaccò Manfredi con maggiore violenza ed ostinazione, che non avrebbe fatto lo stesso Innocenzo IV.
Durante la vacanza della santa sede, i Saraceni di Manfredi erano entrati nella campagna di Roma: Urbano non si limitò a dar ordine al re di Sicilia di richiamarli[249], ma pubblicò contro di lui una crociata, con tutte le indulgenze che accordavansi a' liberatori di Terra santa; nominò capitano delle truppe pontificie [349] Rugiero di san Severino, uno degli emigrati napoletani, commettendogli di adunare sotto le sue insegne tutti i ribelli del regno. In tale maniera obbligò le truppe di Manfredi alla ritirata, e l'annalista Rainaldo crede pure che Urbano le attaccasse personalmente[250].
Urbano, non contento di questo primo atto, che avrebbe potuto risguardarsi come una giusta difesa dello stato della Chiesa, citò Manfredi a comparire innanzi a lui per purgarsi de' delitti onde era incolpato, delle sue relazioni co' Saraceni, della sua perseveranza nel far celebrare i santi misteri ne' paesi colpiti dall'interdetto, finalmente delle condanne e pene capitali di molti suoi sudditi che egli risguardava come altrettanti omicidj, perchè non conosceva nè la sovranità, ne l'autorità giudiziaria del re di Sicilia. Questa citazione non fu a Manfredi notificata, ma soltanto affissa alle porte della chiesa d'Orvieto, residenza d'Urbano[251]. Informato che Manfredi trattava con Giacomo re d'Arragona di [350] dare al di lui figliuolo sua figliuola Costanza, (1262) scrisse a Giacomo per dissuaderlo dall'alleanza colla famiglia di Manfredi, di cui gli enumera tutti i supposti delitti, indi soggiugne: «Come mai ha potuto entrare nel tuo cuore così strano progetto? come mai, o figliuol mio, l'altezza dell'animo tuo ha potuto tanto abbassarsi? come hai tu solamente tollerato che ti si proponesse per consorte di tuo figliuolo la figlia d'un uomo qual è Manfredi? è forse tuo figlio talmente disprezzato dagli altri principi, che non possa trovare un'illustre sposa tra le fanciulle di reale stirpe? Qual vergogna sarebbe la tua di macchiare con tale maritaggio lo splendore del tuo sangue! qual detestabile opera, legare con sì stretta parentela un figliuolo tanto devoto alla Chiesa col suo nemico e persecutore[252]!» A fronte di così calde rimostranze questo matrimonio, che trasmetteva agli Arragonesi il diritto ereditario alla corona di Sicilia, ebbe effetto: ma san Luigi che aveva domandata per suo figlio una figlia dello stesso Giacomo, [351] parve così scandalizzato dal pensiere di contrarre qualche relazione con un nemico della Chiesa, che sospese il trattato, e diede ad Urbano speranza di non procedere più avanti. Questi prese da ciò motivo di felicitarlo; anzi mandò in Francia uno de' suoi notaj sotto coperta di ringraziare il re di tale deferenza[253]; ma in realtà per far rivivere il progetto, formato prima da Innocenzo IV, di trasferire la Corona di Sicilia a Carlo d'Angiò fratello di san Luigi. La lettera del papa al suo notaro Alberto ci svela le difficoltà che ritardavano questo trattato.
«Noi abbiamo ricevute le tue lettere dalle quali rileviamo, tra le altre cose, che il nostro caro figlio in Gesù Cristo, l'illustre re di Francia, ascolta gli artificiosi discorsi di coloro che vogliono dissuaderlo dai negoziati, per istringere i quali ti abbiamo mandato alla [352] sua corte. Essi cercano di fargli credere che Corradino nipote di Federico, già imperatore de' Romani, possa avere alcun diritto sul regno di Sicilia, e che nel supposto che ne sia cotale diritto decaduto, sarebbe per concessione della santa sede passato in Edmondo figlio del nostro carissimo figlio in Gesù Cristo, il re d'Inghilterra. Così adunque, benchè veda nella nomina di suo fratello l'onore e la felicità della Chiesa romana, ed i mezzi di soccorrere l'Impero di Costantinopoli e di Terra santa, come ardentemente lo desidera, pure sta in forse; e forse non avrebbe il torto se ciò che dicono certi suoi consiglieri fosse vero; egli teme d'invadere ciò che risguarda come eredità d'un altro.... Noi offriamo il sagrificio delle nostre lodi a Dio, a quel Dio che tiene in sua mano i cuori de' re; noi gli rendiamo grazie di conservare il re di Francia in tanta purità di coscienza.... Ma questo re deve avere in noi e ne' nostri fratelli maggiore confidenza; deve credere senza ombra di dubbio, che mentre lo risguardiamo come il prediletto figlio della Chiesa romana, che mentre noi nudriamo per lui un particolare affetto, [353] non esporremmo la sua persona o i suoi stati a qualche pericolo, nè il suo nome alla maldicenza ed allo scandalo, nè la sua anima, di cui ci è confidata la difesa, alla dannazione. Egli deve credere che noi ed i nostri fratelli vogliamo, col divino ajuto, conservar pure le nostre coscienze e salvare le anime nostre innanzi all'autore d'ogni salute; e noi sappiamo di certa scienza, che niente di tutto quanto vogliamo fare, non offende i legittimi diritti di Corradino, o di Edmondo; o d'alcun altra persona[254].»
La sentenza di deposizione, fulminata nel concilio di Lione da papa Innocenzo, colpiva tutta la discendenza di Federico II; e la Chiesa aveva pronunciata nel più solenne modo la diseredazione di Corrado e di Corradino, onde il santo re Luigi non osava opporsi a tale giudizio, benchè ne sentisse nel suo cuore l'ingiustizia, e non volesse raccoglierne i frutti; per la qual cosa rifiutò la corona di Sicilia, che il papa gli aveva offerta per uno de' suoi tre minori [354] figli[255]. L'investitura formalmente accordata da un papa a Edmondo, figliuolo del re d'Inghilterra, ritraeva i principi francesi dall'accettare le offerte d'Urbano, più che non faceva il diritto ereditario della casa di Svevia sui regni che tuttora possedeva. Il papa, per calmare i loro scrupoli, unì al suo notajo Alberto un uomo più interessato a procurare nemici a Manfredi, Bartolomeo Pignatelli, arcivescovo di Cosenza, irriconciliabile nemico del suo re.
Questo prelato passò prima alla corte d'Enrico III re d'Inghilterra, che trovò impegnato in una guerra civile co' suoi baroni, perchè rifiutavasi di eseguire i capitoli della gran carta del regno, che egli aveva giurato d'osservare. L'arcivescovo approfittò dell'imbarazzo in cui era il re, per ottenere da lui e da suo figliuolo Edmondo una formale rinuncia a tutti i diritti che Alessandro IV aveva potuto trasferir loro sul regno di Napoli. Per ridurli a tale atto si fece a rappresentar loro, che non avevano punto [355] soddisfatte le condizioni espresse nell'investitura; che non erano presentemente in istato di soddisfarle; e che intanto la Chiesa aveva bisogno di pronti e potenti soccorsi. In pari tempo offriva al re inglese tutto il potere della Chiesa contro i suoi sudditi; e ricompensò la condiscendenza d'Enrico III e d'Edmondo collegandosi con loro contro le libertà britanniche[256].
L'arcivescovo di Cosenza si recò colla rinuncia di Edmondo presso san Luigi; e, dimostrando essere i diritti della Chiesa maggiori di quelli di Corradino, se non dissipò interamente i rimorsi del santo re, li fece almeno tacere. Di una affatto diversa natura era la negoziazione pendente con Carlo d'Angiò, che gli scrupoli non ritraevano dall'accettare una corona, cui la propria ambizione e la vanità della consorte gli facevano desiderare; ma il papa l'accordava a troppo onerose condizioni: e siccome non prometteva che ajuti vani di parole ed un titolo litigioso, Carlo d'Angiò, che doveva conquistare il regno a sue spese e colle proprie forze, esponendosi a tutti i pericoli [356] ed a tutte le difficoltà dell'impresa, non voleva impegnarsi in una guerra, finchè la santa sede si ostinava a guardare per sè i frutti de' suoi pericoli.
Il papa aveva da principio proposto, che Carlo d'Angiò promettesse di rimettere alla Chiesa Napoli, tutta la Terra di Lavoro e le adiacenti isole, inoltre la valle di Gaudo. Carlo vi si rifiutava apertamente, e quest'inutile negoziato fece perdere al papa un anno[257]. Finalmente, per mezzo dell'arcivescovo di Cosenza, Urbano offrì al principe francese l'investitura de' due regni della Sicilia e della Puglia, quali erano stati posseduti dai re Normanni e Svevi, tranne soltanto la città di Benevento col suo territorio, ed un annuo tributo di dieci mila once d'oro.
(1264) Poichè furono accettate tali condizioni, il papa spedì in Francia Simone, cardinale di santa Cecilia, per affrettarne l'esecuzione. Gli consegnò le più pressanti lettere dirette a san Luigi, nelle quali accusava Manfredi d'avere raddoppiate le vessazioni contro la santa [357] sede dopo avere avuto avviso delle negoziazioni intraprese per ispogliarlo de' suoi stati, e gli rappresentava coi più vivi colori i pericoli ai quali questo principe esponeva la religione, se la Francia non prendeva le difese della santa Chiesa[258].
Quando Carlo d'Angiò scese in Italia, aveva quarantasei anni: come figlio di Francia aveva per suo appannaggio la contea d'Angiò, e per conto della moglie era sovrano della Provenza. Questa era la quarta figliuola di Raimondo Berengario, ultimo conte di Provenza. Le maggiori sorelle avevano sposato i re di Francia, d'Inghilterra e di Germania[259], onde Berengario, dopo averle così riccamente maritate, lasciava l'ultima erede de' suoi stati, affinchè suo marito rinnovasse la casa de' Conti di Provenza[260]. Allora era questo il maggior feudo della corona di Francia; e Carlo d'Angiò, dopo i re, era fuor di dubbio il più ricco e potente principe d'Europa. Anche le sue qualità personali lusingavano [358] il papa di felice successo; e nella guerra di Terra santa erasi acquistata riputazione di valoroso soldato e di esperto capitano: «Fu Carlo, dice Giovanni Villani, uomo savio e prudente nel consigliare, prode nelle armi, aspro e temuto da tutti i re del mondo, magnanimo e di pensieri elevati, che niuna intrapresa gli era superiore; costante nelle avversità, fermo e fedele nelle sue promesse, parlando poco ed adoperando molto; non fu quasi mai veduto ridere; di temperati modi come un religioso, zelante cattolico, aspro nel fare giustizia, di guardatura feroce. Fu di statura alta e nerboruta, di colore olivastro, e col naso assai grande. La sua persona sembrava più che quella di alcun altro veramente fatta per la reale maestà. Dormiva pochissimo.... Fu prodigo d'armi verso i suoi cavalieri; ma avido d'acquistare da qualunque parte si fosse, terre, signorie, danaro, per supplire alle sue intraprese. Egli non si dilettò mai di buffoni, di trovatori, o poeti, nè di cortigiani»[261].
Mentre Carlo adunava un esercito per l'impresa cui erasi impegnato, e mentre Beatrice, sua consorte, aspirando ad avere, come le altre sorelle, il titolo di regina, impegnava tutti i suoi giojelli per provvederlo di danaro, altri Francesi combattevano di già in Italia a favore della chiesa. Se dobbiamo credere a Matteo Spinelli, Roberto, conte di Fiandra e genero di Carlo, aveva, in luglio del 1261, condotta in Italia una grossa armata di crociati francesi per attaccare Manfredi, che questi Francesi non conoscevano, e per difendere la chiesa, benchè affatto stranieri a' suoi interessi[262]. Tale sorta di gente, sotto il nome di religione, non pensa che a soddisfare a quella inquieta attività che la spinge sempre a tentar nuove cose, [360] senza mai prender a cuore la causa cui sembrano servire. Costoro ripongono il loro godimento nei mezzi e non nel fine d'ogni cosa; il loro coraggio non è animato da una passione abbastanza nobile per esporsi a grandi sagrificj; ma da un segreto sentimento della propria nullità, da un nascosto disprezzo di sè medesimi, che associano al desiderio di illudere gli altri. Impazienti di segnare qualche orma d'un'esistenza, che per sè medesima non merita di fissare l'attenzione del pubblico, armansi indifferentemente a vantaggio o in danno della Chiesa, per la libertà o per la tirannide: sempre sperando coll'essere prodighi delle loro vite, di uscire da quella nullità che tanto li tormenta; ed ignorano che non il disprezzo della vita, ma il solo amore d'una nobile causa rende l'uomo glorioso; che, per rendere un culto alle idee generose, non si deve adoperare in maniera che i più grandi sagrificj impiccioliscano, ma sentirne la grandezza e non lasciare di farli; che colui che sprezza la sua esistenza non fa che indicare agli altri il disprezzo in cui la debbono tenere; che quello che cerca gli altrui suffragi senza nutrire egli stesso veruna stima di sè medesimo, [361] potrà forse veder soddisfatta la sua vanità; ma non acquisterà gloria.
I crociati francesi, dopo aver ricevuto a Viterbo la benedizione d'Urbano IV, inoltraronsi fino al Garigliano, e vennero più volte alle mani con Manfredi e co' suoi Saraceni: talvolta vittoriosi e talvolta vinti, versarono il proprio e l'altrui sangue; ma
Fama di loro il mondo esser non lassa;
Non ragioniam di lor, ma guarda e passa[263].
L'avviso del vicino arrivo di Carlo d'Angiò operava di già un cambiamento nel sistema politico d'Italia. Il partito ghibellino aveva acquistato, per la sola inconsiderata condotta degli ecclesiastici, una superiorità sproporzionata alle sue forze, ch'egli perdette tosto che i suoi avversarj ebbero speranza d'uno straniero soccorso. Filippo della Torre, signore di Milano, ch'erasi per politica accostato ai Ghibellini a fronte dell'inclinazione della sua famiglia e della sua patria, fu il primo a staccarsene. L'anno 1264, come l'abbiamo osservato nel precedente capitolo, licenziò [362] il marchese Pelavicino, che con i suoi cavalieri era stato preso al soldo del comune di Milano[264]; si collegò con Carlo, e chiese ed ebbe da lui un podestà provenzale, Barral di Baux, che governò Milano un anno. In pari tempo il marchese Obizzo d'Este, che quest'anno succedeva a suo avo nel governo di Ferrara, rialzava il partito guelfo nella Marca Trivigiana[265] e stringeva alleanza col conte di san Bonifacio, signore di Mantova, e con tutte le città che avevano scosso il giogo di Ezelino. Vero è che la Toscana restava ancora tutta intera in potere de' Ghibellini, nella quale lega era stata forzata ad entrare del 1263 la stessa repubblica di Lucca, cacciando dal suo territorio tutti que' Guelfi stranieri, cui da tre anni prestava generoso asilo[266]. Ma questi Guelfi, ed in particolare i Fiorentini, riunitisi in Bologna, eransi tutti dati alla professione delle armi. Sempre disposti [363] a combattere per la stessa causa, essi cercavano di vendicarsi sui Ghibellini lombardi dei mali sofferti nella loro patria. Essendo a Modena scoppiata una lite tra le due fazioni, volarono in soccorso de' Guelfi, i quali, cacciati di città i Ghibellini, rimasero soli padroni dell'amministrazione della repubblica[267]. Colà i fuorusciti fiorentini nominarono loro capitano Forese degli Adimari, sotto la di cui condotta, pochi mesi dopo, fecero trionfare i Guelfi anche in Reggio[268]: e finalmente avendo avuto lo stesso successo a Parma[269], tutta la contrada posta tra il Po e gli Appennini fu principalmente per opera loro richiamata all'ubbidienza della Chiesa. Oltre i pedoni avevano formato un corpo di quattrocento cavalli ben montati e ben disciplinati, essendosi procurati a spese de' loro nemici quanto loro abbisognava.
Intanto Manfredi non trascurava verun mezzo per difendersi dai nuovi nemici che la Chiesa gli andava facendo. In sul finire di settembre mandò in Lombardia [364] il conte Giordano con quattrocento lancie e molto danaro per unirsi al marchese Pelavicino, onde impedire la discesa de' Francesi in Italia[270]; ed egli medesimo il 18 ottobre dello stesso anno entrò nella Marca d'Ancona con nove mila Saraceni. Nel 1261 era stato eletto da una fazione senatore di Roma[271], onde aveva nominato Pietro di Vico suo vicario in quella città, mandandogli un corpo di truppe tedesche perchè si fortificasse nell'isola del Tevere. Il vicario di Manfredi veniva spesso alle mani coi partigiani del papa[272], sperando di potere quando che fosse rendersi padrone di tutta la città. Per ultimo Manfredi aveva impegnati i Pisani ad allestire una potente flotta, che unita a quella della Sicilia ammontava ad ottanta galere, e che pareva sufficiente ad impedire il passaggio di Carlo d'Angiò, qualora preferisse la via del mare[273].
Appena ridotti a termine i preparativi di guerra da ambo le parti, papa Urbano IV morì, e, fino all'elezione del suo successore, Manfredi potè lusingarsi che il nuovo pontefice sarebbe men caldo nel perseguitarlo. Ma Urbano che non trovò che otto cardinali quando fu fatto papa, non dimenticò di crearne molti; di modo che l'elezione del suo successore trovossi tra le mani delle sue creature; la sua influenza, mantenendosi anche dopo la sua morte, il conclave gli sostituì il cardinale di Narbona, anch'esso francese, ed immediato suddito di Carlo d'Angiò, il quale in tempo dell'elezione trovavasi legato straordinario presso di questo principe. O la politica della corte di Roma non fu mutata dalla sua accessione, o non si rese che più subordinata alla politica francese.
I Romani, egualmente incapaci di servire e di viver liberi, mentre Urbano IV negoziava ancora con Carlo d'Angiò, avevano fatto offrire a questo principe l'ufficio di senatore della loro città, che l'opposta fazione aveva conferito a Manfredi. Pare che il solo motivo che li movesse a dare questa carica a due monarchi, fosse vanità ed amor della pompa: invece d'onorare uno de' loro [366] eguali colla loro confidenza, si credevano al contrario onorati trovando un re che volesse loro comandare. Sebbene il papa avesse ragione di temere dell'influenza che un principe potente acquistar potrebbe in Roma, se veniva ad esercitarvi quella magistratura, aveva permesso però che fosse data a Carlo, perchè sentiva troppo bene quanto tornerebbe utile a questo principe l'aver Roma dipendente nella circostanza d'attaccare il regno. Frattanto sotto comminatoria d'annullare il trattato d'investitura, il papa volle da Carlo il giuramento di rinunciare alla dignità di senatore tosto che avesse fatta la conquista delle due Sicilie, o soltanto della maggior parte di quelle province, avendolo in prevenzione assolto del contrario giuramento cui i Romani intendevano d'obbligarlo, quello di conservare finchè vivesse la dignità senatoria[274]. Carlo impaziente d'avvicinarsi agli stati che doveva conquistare, risolse di venire per mare a Roma, onde prendervi possesso della dignità di senatore, senz'aspettare l'armata destinata a combattere Manfredi.
Clemente IV, successore d'Urbano, aveva raffermata la missione in Francia del cardinale di santa Cecilia, autorizzandolo, benchè non l'avesse fatto il suo predecessore, a commutare in una crociata contro Manfredi i voti di coloro ch'eransi crociati per liberare Terra santa. Nè i motivi religiosi furono i soli mezzi che s'impiegassero in Francia per unire una potente armata; anche considerabili leve di gente si fecero nelle suddite contee d'Angiò e di Provenza. Beatrice prodigava i tesori della sua ricca eredità per fare dei soldati a suo marito; e Carlo, ricordando le passate vittorie sugl'infedeli, assicurava i più ricchi feudi nelle due Sicilie a coloro che l'ajuterebbero a conquistarle. Finalmente san Luigi che vedeva con piacere il suo caldo ed inquieto fratello occuparsi fuori del proprio regno, lo provvide per l'impresa di Napoli d'uomini e di denaro. Con tanti mezzi Carlo adunò un'armata di cinque mila cavalli, di quindici mila pedoni e di dieci mila balestrieri[275]. Ne diede il comando a suo genero [368] Roberto di Bethune, figlio del conte di Fiandra, cui san Luigi diede per consigliere Giles le Brun, contestabile di Francia; e Guidi Monforte, quarto figlio del conte di Leicester, che dopo la rotta di suo padre ad Evesham erasi rifugiato in Francia, si unì con lui. Mentre la contessa Beatrice disponevasi a scendere in Italia con quest'armata, Carlo, presi con lui soli mille cavalieri, s'imbarcò a Marsiglia sopra una flotta di venti galere, che vi aveva fatto allestire, e fece vela per le foci del Tevere.
L'ammiraglio di Manfredi dopo aver cercato di chiudere la navigazione del Tebro con palificate, erasi situato colla sua flotta presso le coste dello stato della chiesa. Una terribile burrasca sopraggiunta mentre Carlo attraversava il mar di Toscana fu la salvezza di quest'ultimo, perchè costrinse la flotta combinata di Sicilia e di Pisa a prendere il largo. Vero è ch'egli stesso non isfuggì alla violenza della tempesta, e fu gittato con alcune galere verso Porto Pisano, ove poco mancò che non fosse sorpreso dal conte Guido Novello, luogotenente di Manfredi in Toscana. Rimessosi in mare, il suo vascello fu spinto dal vento verso la foce del Tevere, onde entrato in una [369] leggiera nave, rimontò con quella il fiume, ed andò ad alloggiare quasi solo nel convento di san Paolo fuori delle mura di Roma. L'inquietudine da cui fu preso, trovandosi solo, e quasi tra le mani de' suoi nemici, cessò ben presto, perchè lo sopraggiunsero le truppe che erano con lui montate sulla flotta. Il 24 maggio del 1265 fece alla loro testa il suo ingresso nella capitale del mondo, in mezzo alle grida de' Romani che lo proclamavano loro difensore[276].
Passò il rimanente dell'anno prima che l'armata crociata, condotta dalla contessa Beatrice, giugnesse in soccorso di Carlo, e questi approfittò del presente ozio per negoziare col papa che risiedeva in Perugia. Le prime relazioni furono miste di lagnanze e di rimproveri. Carlo avea preso possesso del palazzo di Laterano per alloggiarvi con i suoi cavalieri; ma Clemente ben tosto gli scrisse: «Tu hai fatta di tuo solo capriccio e senza alcuna necessità un'azione che verun principe religioso non avrebbe fin qui osato di fare, ordinando, in onta alla decenza, alle tue [370] genti d'entrare nel palazzo di Laterano.... Vogliamo che tu lo sappia, e che sii persuaso che non sarà giammai per piacerci che il senatore di Roma, qualunque siano la sua dignità ed i suoi meriti, abiti l'uno o l'altro de' nostri palazzi della città.... A te dunque s'appartiene, mio caro figliuolo, d'accomodarti senza dispiacere al nostro volere. Cerca un'altra stanza per te in una città così abbondante di palazzi, e non ti far già a credere che ti facciamo sortire con disonore dalla nostra casa, quand'anzi noi pensiamo di provvedere all'onor tuo»[277].
Carlo si sottomise con docilità a questa riprensione, e pochi giorni dopo il papa commise a quattro cardinali di porre sul capo del conte d'Angiò, nella basilica di san Giovanni di Laterano, la corona dei regni di Sicilia al di qua ed al di là del Faro, di consegnargli il gonfalone della chiesa, di fargli prestare il giuramento d'osservare le condizioni della sua investitura, della quale ne fu fatta lettura a tutto il popolo, e di ricevere [371] in nome del pontefice la promessa di vassallaggio per tutti i paesi che avrebbe conquistati[278].
Le principali condizioni annesse a questa investitura erano: l'eredità per i soli discendenti di Carlo in ambo i sessi, ed in loro mancanza il ritorno della corona alla Chiesa romana; l'incompatibilità della corona di Sicilia con quella dell'impero, o col dominio della Lombardia o della Toscana, l'annuo tributo d'un palafreno bianco e di otto[279] mila once d'oro; il sussidio di trecento cavalieri mantenuti tre mesi ogni anno in servigio della Chiesa; la cessione di Benevento e del suo territorio al patrimonio di san Pietro; finalmente il preservamento di tutte le immunità ecclesiastiche pel clero delle due Sicilie. In prevenzione fu pronunciata la perdita d'ogni diritto sui due regni contro quel re discendente di Carlo d'Angiò, che non sarebbe fedele mantenitore di tutte l'espresse condizioni[280].
Intanto l'armata crociata si andava lentamente adunando in Borgogna, di dove passò in Savoja, ed attraversate le Alpi, pel Monte Ceniso scese in Piemonte in sul finire dell'estate del 1265[281]. Il marchese di Monferrato, alleato della fazione guelfa e delle città di Torino e d'Asti, lasciò libero il passaggio ai Francesi.
Benchè il partito di Manfredi avesse avuta in Lombardia qualche perdita, conservava però ancora una linea di città ghibelline che sembravano tagliare ogni comunicazione tra l'Italia superiore e la bassa. Mastino della Scala, potente cittadino di Verona, erasi coll'appoggio del partito ghibellino reso padrone della sua patria; Brescia e Cremona erano dipendenti dal marchese Pelavicino, che pure reggeva le città di Piacenza e di Pavia. Pare che il marchese Pelavicino si fosse dapprima posto in vicinanza delle due ultime città colle proprie truppe e con quelle che gli aveva mandate Manfredi sotto gli ordini del marchese Lancia; e che perciò l'armata de' crociati lasciasse la strada che naturalmente dovea tenere [373] da Asti a Parma. Pelavicino rimase nella sua posizione con circa tre mila cavalli tedeschi e lombardi finchè i Francesi furono nel Monferrato, e non ritornò verso il Nord a Soncino che quando li vide entrare nel Milanese. Un'altra meno forte divisione sotto il comando di Buoso da Dovara custodiva il piano del Nord del Po ed il passaggio dell'Oglio. I Francesi non sapevano quale strada tenere, quando Napoleone della Torre loro si fece incontro e li condusse a traverso del Milanese fino a Palazzuolo sul territorio di Brescia, ove dovevano passar l'Oglio. Il marchese Obizzo d'Este ed il conte di san Bonifacio gli si affacciarono dall'opposta banda del fiume; onde Buoso di Dovara, temendo d'essere avviluppato, non osò, o non fu in istato di opporsi al passaggio dell'Oglio; e rimase chiuso in Cremona, mentre l'armata guelfa s'avvicinò a Brescia, prese Montechiaro, sconfisse a Capriolo l'armata di Pelavicino che gli era corsa incontro; indi per lo stato di Ferrara entrò ne' paesi occupati dai Guelfi[282].
L'armata francese giunta a Ferrara, invece di trovare opposizione lungo la strada di Roma, incontrava dovunque nuovi rinforzi di Guelfi; prima i quattrocento uomini d'armi de' fuorusciti fiorentini, poi i sudditi del marchese d'Este e del conte di san Bonifazio, indi quattro mila Bolognesi, strascinati dalle prediche del vescovo di Sulmona, presero la croce contro Manfredi e si unirono all'armata francese, la quale arrivò alle porte di Roma gli ultimi giorni dell'anno.
[375] (1266) Carlo non aveva danaro per pagare così numeroso esercito; il papa rifiutavasi di somministrarne, e forse non lo poteva[283]. Se il conte d'Angiò differiva fino alla primavera ad avanzarsi contro al nemico, non avrebbe potuto probabilmente impedire la diserzione della sua armata; si pose perciò subito in cammino, prendendo la strada di Ferentino, onde entrare nel regno per Ceperano e Rocca d'Arce.
Manfredi nulla aveva trascurato di tutto quanto poteva contribuire a tenergli il popolo affezionato, e per eccitarlo ad una vigorosa difesa aveva adunato presso Benevento un parlamento de' baroni e de' feudatarj del suo regno, e gli aveva esortati ad armare tutti i loro vassalli per la difesa delle proprie famiglie[284]. Aveva inoltre richiamate tutte le truppe, prima mandate in Toscana ed in Lombardia, e spedito in Germania per assoldare due mila cavalli. Aveva confidata al conte di Caserta, suo cognato, la difesa del Garigliano nel luogo in cui presso Ceperano questo fiume serve [376] di confine a' suoi stati; aveva lasciata a San Germano una forte guarnigione di Tedeschi e di Saraceni, ed egli medesimo col grosso dell'armata trovavasi a Benevento. I Francesi s'avanzavano verso il suo regno per la strada superiore, ossia di Ferentino. Il conte di Caserta abbandonò vilmente il suo posto, lasciando senza difesa il passaggio del Garigliano: la fortezza di Rocca d'Arce, creduta inespugnabile, venne presa d'assalto, e quella di San Germano cadde in potere del nemico dopo una battaglia nella quale la maggior parte de' Saraceni fu tagliata a pezzi dai Francesi[285].
Se i Pugliesi avevano manifestato poco attaccamento al re e poco zelo per la sua difesa quando le forze sembravano eguali, i primi successi de' Francesi accrebbero la loro inclinazione alla ribellione, e la viltà si nascose sotto l'esteriore del malcontento e della sedizione. Aquino e tutti i castelli della contrada aprirono le porte al vincitore; le gole delle montagne d'Alife furono abbandonate, ed egli penetrò senza incontrar resistenza fino nella campagna di Benevento a due miglia da questa città, presso [377] alla quale Manfredi aveva adunata la sua armata. Questo principe, che scopriva tra i suoi aperti indizj di tradimento e di scoraggiamento, tentò di prender tempo ritardando la marcia di Carlo con proposizioni d'accomodamento; ma a' suoi ambasciatori rispose il conte in francese: «Andate, e dite al sultano di Nocera che io non voglio che battaglia; e che questo giorno o io metterò lui all'inferno, o egli manderà me in paradiso[286].»
Il fiume Calore che scorre innanzi a Benevento divideva le due armate: forse se Manfredi si fosse approfittato delle sue naturali fortificazioni per evitare la battaglia, l'armata di Carlo, che già mancava di vittovaglie, sarebbe stata ridotta a dure necessità, come l'assicurano alcuni storici contemporanei; ma Manfredi non voleva rimanere più oltre nell'avvilimento di andare rinculando in faccia ad un nemico, cui ogni successo procacciava nuovi partigiani, e che fino allora aveva sempre saputo procurarsi munizioni col saccheggio delle campagne. Divise dunque la sua cavalleria in [378] tre brigate: la prima di milleduecento cavalli tedeschi, comandata dal conte Galvano; la seconda di mille cavalli toscani, lombardi e tedeschi sotto gli ordini del conte Giordano Lancia; e la terza comandata da lui medesimo era composta di millequattrocento cavalli pugliesi e saraceni. Quando Carlo vide che Manfredi disponevasi a combattere, si volse a' suoi cavalieri e disse loro: «Venuto è il giorno, che tanto abbiamo desiderato;» poi fece quattro corpi della sua cavalleria, il primo di quattro mila cavalli francesi comandato da Gui di Monforte e dal maresciallo di Mirepoix; il secondo diretto da lui medesimo era composto di novecento cavalieri provenzali, ai quali aveva uniti gli ausiliarj di Roma; il terzo sotto gli ordini di Roberto di Fiandra e di Giles le Brun, contestabile di Francia, era formato da settecento cavalieri fiamminghi, brabantesi e piccardi; finalmente il quarto, capitanato dal conte Guido Guerra, era quello de' quattrocento emigrati fiorentini[287]. Questi corpi non formavano tutti assieme che un'armata di tre mila lance, e Giovanni Villani non ne dà un maggior numero a Carlo d'Angiò, [379] forse per accrescer gloria al suo eroe, facendolo vincere con minori mezzi. Calcolando però le truppe che Carlo aveva condotte di Francia, e quelle che aveva trovate in Italia, la sua armata doveva essere almeno più numerosa del doppio.
Dall'una e dall'altra parte si cominciò la battaglia coll'infanteria, la quale sebbene cogli sforzi suoi non potesse decidere della vittoria, non però combatteva con minore accanimento. Gli arcieri saraceni passarono il fiume, ed attaccarono con alte grida i Francesi sull'opposta riva. L'infanteria europea che allora mancava egualmente d'appiombo e di leggerezza non poteva resistere meglio ai volteggiatori, che alla cavalleria, ed i Saraceni ne fecero da lontano colle loro frecce un'orribile carnificina. Per sostenere la sua infanteria si mosse il primo corpo di cavalleria francese gridando, montjoie chevaliers! Il legato del papa li benedì in nome della Chiesa, assolvendoli da tutti i loro peccati in ricompensa dei pericoli cui si esponevano pel servigio di Dio. Gli arcieri saraceni non sostennero l'urto della cavalleria francese, e ritiraronsi con perdita; ma la prima brigata della cavalleria tedesca scese allora [380] nel piano di Grandella per incontrare nemici degni del suo valore[288]. Il suo grido di battaglia era Souabe cavalieri! In questo secondo incontro l'avvantaggio fu ancora di Manfredi; ma ossia che i Francesi fossero più vicini al loro campo, o che più rapide ne fossero le manovre, ricevevano sempre i primi i rinforzi della seconda, terza e quarta linea, sicchè ogni volta ristauravansi coll'arrivo di fresche truppe: e già combattevano tutti i loro quattro corpi di cavalleria, quando non erano ancora venuti alle mani che due di Manfredi. Si dice che questo principe conoscendo le truppe guelfe fiorentine che combattevano valorosamente, gridasse dolente: «Ove sono adesso i miei Ghibellini pei quali io feci tanti sacrificj!.... Qualunque siasi la fortuna della giornata, questi Guelfi possono [381] oramai essere sicuri che il vincitore sarà loro amico.»
Frattanto nel caldo della mischia fu dato ordine ai Francesi di tirare ai cavalli, ciò che tra i cavalieri era considerato come una viltà; e per questa manovra i Tedeschi perdettero tutt'ad un tratto il vantaggio che avevano sopra i Francesi. Manfredi vedendoli piegare esortò la linea di riserva ch'egli comandava a sostenerli vigorosamente: ma appunto in questo momento della crisi incominciò la diserzione dei baroni della Puglia e del Regno: il gran tesoriere, il conte della Cerra, il conte di Caserta, e la maggior parte de' mille quattrocento cavalli che non avevano ancora combattuto, e che dando vigorosamente addosso a truppe affaticate, avrebbergli ottenuta sicura vittoria, abbandonarono vilmente il loro buon re; il quale, quantunque non si vedesse più intorno che un piccolo numero di cavalieri preferì una generosa morte ad una vergognosa esistenza[289]. Mentre allacciavasi il caschetto, un'aquila d'argento che ne formava il cimiero, cadde sull'arcione del suo cavallo. Hoc est signum Dei, disse [382] a' suoi baroni: «Io avevo attaccato il cimiero colle mie proprie mani, non è ora il caso che lo distacca.» Non avendo più questo real segno che lo distingueva dagli altri, gittossi nonpertanto in mezzo alla pugna, combattendo da bravo cavaliere; ma i suoi essendo già rotti, non potè impedirne la fuga, e fu ucciso in mezzo a' suoi nemici da un francese che non lo conosceva[290].
Finchè si mantenne la battaglia, la perdita era stata eguale da ambo le parti; ma dopo rotti, diventò immensa pei Ghibellini. I fuggitivi furono inseguiti nella stessa città di Benevento, ove i Francesi entrarono in sul far della notte. Colà furono presi i principali baroni di Manfredi, e fra gli altri il conte Giordano Lancia e Pietro degli Uberti, che Carlo mandò nelle sue prigioni di Provenza, ove li fece crudelmente morire. Pochi giorni dopo furono dati in mano di Carlo la moglie di Manfredi, sua sorella ed i suoi figliuoli, che tutti morirono nelle prigioni[291] del feroce Carlo.
Per tre giorni s'ignorò la sorte di Manfredi, che fu finalmente riconosciuto da un suo domestico nel campo di battaglia. Il suo cadavere fu posto sopra un asino e portato innanzi al nuovo re Carlo, che fece subito venire tutti i baroni prigionieri per meglio assicurarsi che fosse veramente Manfredi. Tutti lo affermarono spaventati; ma quando si presentò il conte Giordano Lancia, e gli fu scoperto il volto di Manfredi, battendosi il volto colle mani, e dirottamente piangendo: «O mio Signore, gridò, che siamo noi diventati!» I cavalieri francesi ch'erano presenti furono commossi da questo spettacolo, e chiesero a Carlo di rendere almeno gli onori funebri al morto re: «Ben volentieri, rispose, se non fosse morto scomunicato;» e con tale pretesto rifiutandogli una terra sacra, fece per lui scavare una fossa presso al ponte di Benevento. Pure ogni soldato dell'armata portò una pietra sopra quest'umile sepolcro. E per tal modo fu innalzato un monumento alla memoria di un uomo grande ed alla sensibilità [384] d'un'armata vittoriosa. Ma l'arcivescovo di Cosenza, quello stesso Pignatelli ch'era stato incaricato delle negoziazioni coi re di Francia e d'Inghilterra, non permise che le ossa di Manfredi riposassero sotto questo mucchio di pietre; e dietro un ordine del papa le fece levare da questo luogo, che apparteneva alla Chiesa, e gettare al confine del regno e della campagna di Roma presso al fiume Verde[292].
Lo stesso giorno della battaglia i Pugliesi si poterono accorgere con quale giogo avevano cambiata l'autorità del loro principe, e di quale natura sarebbe il governo de' Francesi. Il saccheggio del campo di Manfredi, e le spoglie di tanti ricchi baroni trovati sul campo di battaglia e fatti prigionieri, pareva che dovessero bastare all'avidità de' soldati; ma quest'avidità andava crescendo a misura che il bottino si faceva più grande. Benevento, benchè non si fosse opposta al vincitore, venne abbandonata al saccheggio, e per lo spazio di otto giorni i suoi abitanti trovaronsi esposti a tutti i mali che possono aspettarsi dalla libidine, dall'avarizia [385] e della brutale ferocia dei soldati[293]. Questa sete di sangue che non sembra propria degli uomini, e che pure talvolta provarono intere nazioni, fu la più ampiamente soddisfatta. Non solamente gli uomini, le donne, i fanciulli, ma anche i vecchi furono senza pietà scannati tra le braccia gli uni degli altri; e Benevento, in fine di questa orribile carnificina, non aveva omai altro che case deserte e lorde d'umano sangue[294].
Intanto presentavansi in folla a Carlo i baroni del regno e i deputati delle città per giurargli ubbidienza e fedeltà. Quando si pose in cammino per andare a Napoli, fu ricevuto in tutte le città quale signore e legittimo re. Entrò trionfante in Napoli colla regina Beatrice, sua consorte, dispiegandovi una pompa all'Italia [386] ancora ignota. Adunò un parlamento de' baroni del regno, che cercò di affezionarsi con affettata affabilità. A tutti prometteva grazie, o per lo meno il perdono della passata nimistà; ma al loro ritorno nelle proprie province faceva tenere loro dietro quella folla di plebaglia francese che formava l'infanteria della sua armata, la quale non aveva prese le armi, che per saccheggiare. Carlo distribuiva ai cavalieri le baronie che aveva confiscate a suo profitto, e divideva tra gli uomini d'un ordine inferiore tutti gl'impieghi lucrosi. In pochi giorni si videro partire dalla sua corte, per tutte le parti de' nuovi stati, numerose bande di giustizieri, d'ammiragli, di comiti, d'ispettori de' porti, di gabellieri, d'ispettori de' magazzini, di maestri del siclo, di maestri giurati, di balivi, di giudici e di notai. A tutti gl'impieghi dell'antica amministrazione aveva aggiunti tutti gl'impieghi corrispondenti ch'egli conosceva in Francia, di modo che il numero de' pubblici funzionarj era più che duplicato. Fieri delle nuove loro dignità, ignorando come il loro padrone la lingua del paese, e sprezzando i costumi nazionali, questi plebei, diventati potenti, scorrevano le province e le spogliavano. Ovunque pretendevano [387] di essere accolti come vincitori, ovunque manifestavano il più alto disprezzo per la nazione suddita. I loro viaggi consumavano i popoli, e la loro dimora diventava ancora più ruinosa; perciocchè portavano seco i registri di tutte le imposte in vigore sotto Manfredi; di tutte quelle che Manfredi aveva abolite o surrogate ad altre; di tutte quelle che nelle urgenti circostanze alcuni cattivi re avevano alle volte tentato d'imporre ai loro popoli. Eransi coll'andare del tempo introdotte molte riserve e privilegi; molte contribuzioni non costavano al popolo il valore nominale; Carlo le fece tutte riscuotere a rigore, e riformò come abuso una tolleranza che altro non era che un beneficio de' passati re. Così que' medesimi che avevano tradito Manfredi, quelli ch'eransi immaginati di trovare sotto la protezione della chiesa e d'un re guelfo una pace ed una prosperità inalterabile, versavano amare lagrime sulla morte del principe di Svevia, ed accusavansi con profondo dolore d'incostanza, d'ingratitudine e di viltà[295].
Clemente IV, avvisato delle vessazioni che si commettevano in nome di Carlo, si credette in dovere di proteggere il popolo contro quel re ch'egli stesso aveagli dato. «Se il tuo regno, gli scriveva, viene crudelmente spogliato dai tuoi ministri, tu ne sei incolpato a ragione, poichè tu hai riempiuti i tuoi ufficj di ladri e di assassini che commettono ne' tuoi stati azioni di cui Dio non può sostenerne la vista.... Essi non temono di macchiarsi con ratti, con adulterj, con ingiuste esazioni, e ladronecci... Come potrei io mai compatire la tua pretesa povertà! Tu non puoi, o non sai vivere in un regno colle di cui entrate un uomo eccelso, Federico, già imperatore de' Romani, suppliva a maggiori spese che le tue, saziava l'avidità della Lombardia, della Toscana, delle due Marche e della Germania, ed inoltre accumulava immense ricchezze[296].»
La vittoria di Carlo d'Angiò che portava la desolazione nelle due Sicilie, cagionava in Toscana e specialmente in Fiorenza sensazioni affatto diverse. Il conte [389] Guido Novello, capitano della gente d'armi di Manfredi, comandava in questa città; e perchè aveva sotto i suoi ordini mille cinquecento cavalli tedeschi o italiani, perchè i Guelfi erano esiliati, perchè tutte le città toscane, dopo la battaglia di Monte Aperto, eransi unite alla sua parte, egli poteva ancora conservare la sua autorità malgrado la caduta e la morte di Manfredi. Ma stava contro di lui l'opinione del popolo, il quale era affezionato alla parte guelfa ed esacerbato non solo dalla persecuzione mossa contro i capi di quella fazione, ma ancora dalla perdita della sua libertà; poichè sotto il governo del conte Guido eransi a poco a poco abolite in Firenze quasi tutte le prerogative d'una repubblica. Quando si ebbe notizia della battaglia della Grandella, il popolo diede manifesti segni della sua gioja per la morte di Manfredi; gli esiliati si avvicinarono alla città, cercarono di sorprendere alcune castella e di legare corrispondenza cogli abitanti della città onde far nascere qualche congiura.
Il conte Guido era un buon guerriero, ma non uomo di stato; e forse la più sperimentata politica non avrebbe potuto salvarlo nelle difficilissime circostanze in [390] cui si trovava; ma egli fece in cambio molti falli e si mostrò debole. Credette di dover temporeggiare, dando qualche soddisfacimento ai Guelfi ed al popolo col chiamarli a parte del governo. Chiamò da Bologna due frati Gaudenti; era questo un nuovo ordine di cavalleria che prendeva l'impegno di difendere le vedove e gli orfani, di mantenere la pace, d'ubbidire alla Chiesa, ma che non legavasi con voti di castità e di povertà, come negli altri ordini. Uno di questi due cavalieri era guelfo, l'altro ghibellino, e Guido li nominò assieme podestà di Firenze. Diede loro un consiglio di trentasei savj presi indistintamente tra i nobili ed i mercanti, i Guelfi ed i Ghibellini. Accordò in appresso, dietro la domanda di questo consiglio, che i mestieri più importanti fossero uniti in corporazioni; onde si vennero a formare dodici corpi d'arti e mestieri[297]. Le sette [391] professioni che risguardaronsi come più nobili, vennero indicate col nome di arti maggiori, e loro si accordarono consoli, capitani ed uno stendardo, sotto il quale gli artigiani erano obbligati di adunarsi in caso di tumulto, per conservare l'ordine nella città. Le arti minori, il di cui numero venne in seguito accresciuto, non ebbero subito il privilegio di formare compagnie. In tal modo il conte Guido gittò le fondamenta d'una aristocrazia plebea, che in appresso vedremo lottare lungo tempo colle inferiori classi del popolo. Forse il conte Guido sperava di allearsi colla nuova aristocrazia; ma la prima cura di coloro ch'egli aveva chiamati a parte del governo, fu quella di abbatterlo.
Le grazie accordate dalla paura non ottengono giammai riconoscenza, perchè infatti non la meritano. I savj scelti tra la plebe si risguardarono come difensori, e non come creature di Guido, che gli aveva nominati. Ricusarono di sanzionare colla loro approvazione le nuove imposte che Guido aveva bisogno di stabilire per pagare la sua cavalleria, composta di seicento Tedeschi e di novecento ausiliarj venuti da Pisa, Siena, Arezzo, Volterra, Colle. Volle perciò [392] disfarsi de' savj, facendo nascere una sedizione contro di loro. I Ghibellini si avanzarono per attaccarli nella sala in cui rendevano ragione, ma i trentasei si sottrassero, e vedendo che il popolo prendeva le armi per difenderli, si unirono a lui sulla piazza innanzi al ponte santa Trinità. Colà il popolo circondossi di steccati e stette fermo aspettando l'urto della cavalleria. Questa non tardò a comparire, ma non potè forzare le barricate, e nelle anguste strade che sboccavano sulla piazza santa Trinità la cavalleria trovavasi esposta alle pietre che si gittavano dalle finestre, e il conte Guido dovette farla ritirare.
Questa sola scaramuccia decise dei destini di Firenze; imperciocchè il conte sgomentatosi quando vide che da tutte le parti il popolo era in movimento contro di lui, e che da tutte le case lanciavano pietre, credette che i primi vantaggi che otterrebbe il popolo lo farebbero più audace, e non pensò più a conservare la sua posizione, ma soltanto a ritirarsi con onore. Fecesi dunque recare le chiavi della città, ed avendo fatta la rassegna de' suoi soldati per assicurarsi se tutti erano con lui, sortì in bella ordinanza alla loro testa il giorno 11 di [393] novembre del 1266, ed andò la sera a Prato[298].
Ma Guido appena arrivato in questa città si pentì della debolezza con cui aveva abbandonato Firenze senz'esserne cacciato, anzi senza quasi avere combattuto. All'indomani in sul far del giorno, si rimise in viaggio per tornare a Firenze, e presentatosi innanzi alla porta del ponte alla Carraja, domandò che gli fosse aperta; ma non era più tempo. Il popolo, che forse non sarebbe stato forte abbastanza per cacciarlo fuor di città, poteva allora vietargliene l'ingresso. Egli si rimase fino a mezzogiorno sotto le mura, adoperando sempre inutilmente le preghiere, le promesse e le minacce; in fine risolse di tornare a Prato. In questo frattempo i Fiorentini stavano riformando il governo; congedarono i due podestà Gaudenti chiamati da Guido; chiesero ajuto ad Orvieto la più vicina delle città guelfe; e mandarono ambasciatori a Carlo d'Angiò per ottenere la sua assistenza.
[394] Carlo, benchè di diverso partito, seguiva la politica di Manfredi; per essere sicuro del regno di Napoli, voleva essere capo di parte in Toscana ed in Lombardia, e tenere in queste contrade due vanguardie, che impedissero l'avvicinamento de' nemici. Mandò quindi a Firenze del 1267 ottocento cavalieri francesi sotto il comando del conte Gui di Monforte; i quali entrarono in quella città il giorno di Pasqua, mentre i Ghibellini, che mediante una tregua vi erano tornati quell'inverno, ne uscivano spontaneamente esiliandosi senza fare la più piccola resistenza, e si rifugiavano a Pisa ed a Siena. Carlo si fece per dieci anni dare la signoria della città, alla quale non era annessa che la prerogativa di tenervi un vicario per gli affari della guerra e della giustizia. I cittadini che avevano l'amministrazione della repubblica sostituirono un magistrato di dodici savj a quello di trentasei istituito da Guido Novello.
I Fiorentini formarono in seguito diversi consigli, senza il consentimento de' quali la signoria non poteva risolvere verun affare d'importanza. Il primo che dovevasi interpellare, si chiamò consiglio del popolo, ed era composto di cento [395] cittadini: da questo la deliberazione era portata entro lo stesso giorno al consiglio di credenza o di confidenza, nel quale sedevano di pieno diritto i capi delle sette arti maggiori. Era la credenza composta di ottanta membri: dal quale consiglio, come da quello del popolo, erano esclusi i Ghibellini ed i nobili. All'indomani la stessa deliberazione veniva assoggettata a due altri consigli, quello del podestà composto di ottanta membri tanto nobili che plebei, senza contare i capi delle arti che avevano diritto d'esservi ammessi, ed il consiglio generale formato di trecento cittadini di ogni condizione[299].
Lo stabilimento di tanti consigli, i di cui membri erano tutti amovibili, rendeva più rare e meno necessarie le assemblee del parlamento, ossia di tutto il popolo. Cinquecento settanta cittadini, distribuiti in quattro classi, dovevano dare i loro suffragi su tutti gli oggetti più importanti di legislazione e d'amministrazione, ed avevano parte alle nomine di tutti gl'impieghi; e perchè dopo [396] un anno venivano loro surrogati altri cittadini, così si manteneva in tutti lo spirito del popolo e non quello del corpo. I consigli avevano adunque sopra il governo un'influenza veramente democratica, e se non erano che rappresentanti, e non lo stesso popolo, potevano in cambio essere ammessi a prendere una parte più attiva nell'amministrazione dello stato, ciò che non avrebbe potuto fare il popolo, e conservare perciò sopra la magistratura una più immediata influenza. Essi lo sentirono; ed i semplici cittadini non vollero lasciare agli ordini superiori della nazione alcuna delle prerogative che potevano riservare a sè medesimi; e questa fu forse la principal cagione che in Firenze e nelle altre repubbliche della Toscana rese così attiva e violenta quella gelosia del popolo verso la nobiltà, de' plebei contro i cittadini, la quale non si vide a così alto grado portata nelle repubbliche della Grecia. Un effetto di tale gelosia fu l'esclusione de' nobili dai due primi consigli.
Intanto un'altra repubblica si andava formando nell'interno della repubblica fiorentina, la quale vi conservò pel corso di forse oltre due secoli il suo governo [397] indipendente, le sue leggi, la sua forza, la sua ricchezza. Era questa l'amministrazione della parte guelfa. Quando i Ghibellini uscirono di Firenze, i Guelfi, così consigliati dal papa e da Carlo d'Angiò, confiscarono tutti i loro beni, de' quali, detratta la parte impiegata ad indennizzare coloro che avevano sofferto nell'ultima emigrazione[300], ne formarono una borsa separata, destinata a provvedere al mantenimento ed all'accrescimento del partito guelfo. Per amministrare questa borsa si trovò opportuno di accordare ai Guelfi una particolare magistratura; furono autorizzati a nominare ogni due mesi tre capi, in principio chiamati consoli di cavalleria, poi [398] capitani di parte. Questi consoli si diedero un consiglio segreto di quattordici membri, ed un consiglio generale di sessanta cittadini, tre priori, un tesoriere, un accusatore de' Ghibellini, e per dirlo in una parola, tutta l'amministrazione d'una piccola repubblica e quasi tutta la forza d'una sovranità[301]. Questo governo di fazione sempre pronto a combattere, sempre regolare e sempre ricco, mantenne sino alla sua fine sopra la sorte della repubblica la più decisa influenza.
I Guelfi fiorentini ebbero appena ristabilito nella loro città il governo popolare, che presero a dare, in tutta la Toscana, superiorità alla loro fazione. Dichiararono perciò la guerra alle repubbliche di Siena e di Pisa che si ostinavano nella causa ghibellina, e che dovevano inoltre lottare colle interne fazioni; perchè in tutte le città di qualunque fazione si fossero, il popolo era geloso della nobiltà.
In luglio del 1267 i Fiorentini ed i Francesi comandati dal conte di Monforte assediarono Poggibonzi, castello vicino a Siena, ov'eransi rifugiati molti [399] emigrati ghibellini e uomini d'armi tedeschi[302]. Carlo d'Angiò, avendo dal papa ottenuto il titolo di vicario imperiale in Toscana, volle prendere possesso in persona di tale dignità, ed il primo giorno d'agosto dello stesso anno fece il suo solenne ingresso in Firenze; poi venne con tutta la sua cavalleria al campo che assediava Poggibonzi. Colà ebbe motivo di avvedersi quanto gli fosse stata vantaggiosa la risoluzione di Manfredi, che tutto commise all'evento d'una battaglia, invece di fermarlo ad ogni castello che difendeva il suo regno, indebolendolo con una continuata serie d'assedj: imperciocchè quello solo di Poggibonzi occupò quattro mesi l'armata reale de' Francesi unita ai Fiorentini, e non s'arrese che in dicembre, quando gli assediati non ebbero più vittovaglie.
In sul cominciare del 1268 Carlo passò sul territorio di Pisa, ove assediò e prese varj castelli di questa repubblica, fra i quali Porto Pisano e Mutrone. Nonpertanto i Pisani non si scoraggiarono, anzi avevano di già pensato a chiamare contro [400] di lui dal fondo della Germania un potente nemico, il quale fosse il loro liberatore, o almeno il loro vendicatore. Il giovane Corradino, figliuolo di Corrado e nipote di Federico, allevato dalla madre nella corte di suo avo, il duca di Baviera, era entrato nell'anno sedicesimo della sua età, e di già dava a conoscere di dover riuscire degno erede delle virtù de' suoi maggiori; e tutti i Ghibellini tenevano gli occhi a lui rivolti, come verso il liberatore dell'Italia ed il vendicatore della casa di Svevia. Sua madre Elisabetta erasi presa maggior cura di renderlo degno della corona, che di fargliela portare troppo presto. Quando Manfredi erasi dichiarato re di Sicilia, Elisabetta aveva riclamato presso di lui per la conservazione de' diritti del figliuolo; ma non aveva in seguito cercato di turbare l'amministrazione di quel valoroso principe, e lo vedeva con piacere difendere un'eredità che doveva tornare a suo figlio. Aveva perciò accortamente rigettate le offerte de' Guelfi che, avanti la venuta di Carlo d'Angiò, proponevanle d'armare Corradino contro Manfredi e di fargli ricuperare gli stati de' suoi padri. Quando i Ghibellini oppressi o esiliati da Carlo vennero a rinnovarle [401] le medesime istanze, quantunque accordasse maggior confidenza a questi antichi amici della sua casa, rifiutavasi ancora alle loro istanze, trovando suo figlio troppo giovane per governare, e sopra tutto troppo giovane per attaccare in così lontano paese un vecchio guerriero, un vecchio politico, sostenuto da tutto l'apparecchio della religione e dal valore d'una bellicosa nazione. Ma i deputati ghibellini ch'eransi portati alla sua corte, non cessavano di stimolare la madre, il figlio e que' loro parenti che potevano avere qualche influenza sul loro spirito. I confidenti ed antichi amici di Manfredi, Galvano e Federico Lancia, parenti di sua madre, Corrado e Marino Capece, que' due Napoletani che avevano accompagnato il principe di Taranto in tempo della sua fuga, erano i deputati della nobiltà ghibellina dei due regni[303]. Rappresentavano a Corradino l'odio profondo che aveva eccitato in tutto il regno la condotta de' Francesi, la loro mala fede, la rapacità, l'insultante disprezzo delle pubbliche costumanze. Gli dicevano che venuti in nome della religione, avevano [402] profanate le chiese, spesso uccisi i ministri dell'altare; che dopo aver promessa al popolo la libertà, avevano violati gli antichi suoi privilegi, ed abolite le sue immunità. Lo assicuravano che tutti i partiti farebbero causa comune per ristabilire sul trono il legittimo erede; che la Sicilia non aspettava che un segnale per ribellarsi, che i Saraceni di Nocera piangevano per tenerezza al solo udire il nome dell'avo suo, di suo padre, o di suo zio, e ch'erano disposti a tutto sacrificare per l'ultimo rampollo d'una famiglia teneramente amata. In pari tempo gli ambasciatori di Pisa e di Siena gli promettevano l'appoggio di metà della Toscana, che attualmente combatteva contro il suo maggior nemico per la sua causa, quantunque non ancora sotto il suo nome. Fecero di più; gli portarono cento mila fiorini de' loro denari per ajutarlo a fare le prime leve. Erano pure arrivati alla corte di Corradino alcuni ambasciatori lombardi: Martino della Scala prometteva i soccorsi di Verona a lui subordinata e di tutti i Ghibellini della Marca Trivigiana. Il marchese Pelavicino, cui le vittorie de' Guelfi avevano spogliato di Cremona, Parma e Piacenza, non comandava che [403] ne' suoi feudi ereditarj ed in Pavia. Risiedeva d'ordinario a borgo san Donnino; di dove mandava ambasciatori a Corradino, offrendogli la sua persona ed i suoi soldati invecchiati al servigio della casa di Svevia.
Corradino, caldo, impetuoso, non seppe resistere a così lusinghiere offerte, e credè giunto l'istante di vendicare suo avo, il padre e lo zio, sì lungo tempo e tanto crudelmente perseguitati. La principale nobiltà di Germania si pose sotto le sue insegne. Federico, duca d'Austria, giovane principe che come Corradino era stato spogliato de' suoi stati da Ottocare II, re di Boemia, si offerse di dividere con lui i pericoli della spedizione; il duca di Baviera, suo zio, ed il conte del Tirolo, secondo marito di sua madre, armarono i loro vassalli per accompagnarlo fino a Verona. Corradino arrivò in questa città alla fine del 1267 con dieci mila uomini di cavalleria, dei quali meno della metà era pesantemente armata[304]. Dopo la dimora di poche [404] settimane in Verona, impiegate nel rinnovare i trattati coi signori italiani, il conte del Tirolo ed il duca di Baviera ricondussero le loro truppe in Germania; e Corradino con circa tre mila cinquecento uomini passò a Pavia, attraversando la Lombardia senza incontrare verun ostacolo.
Da questa marcia Carlo poteva argomentare che Corradino entrerebbe per la Liguria in Toscana, come veramente fece, ed il re francese per chiudergli il passaggio erasi recato ai confini dei territorj di Lucca e di Pisa: ma in tal tempo ebbe avviso dalla Puglia e da Roma, che rendevasi colà necessaria la sua presenza. La ribellione aveva incominciato ne' suoi stati, e Roma governata da un senatore suo parente, ma suo nemico, erasi alleata con Corradino; e finalmente Clemente IV, mandandogli la seguente lettera, lo affrettava a ritornare.
«Io non so perchè ti scriva come a re, mentre pare che tu non ti prenda cura del tuo regno, il quale trovasi senza capo, lacerato da' Saraceni, o da perfidi Cristiani: prima impoverito da' ladronecci de' tuoi ministri, ora viene divorato da' tuoi nemici. Così il [405] bruco distrugge ciò che non potè la cavalletta. Gli spogliatori non gli mancano, bensì i difensori. Se per tua colpa lo perdi, non lusingarti che la Chiesa voglia rientrare in nuovi travagli e nuove spese per fartelo acquistare un'altra volta: tu potrai allora ritornare nelle tue ereditarie contee, e contento dell'inutile nome di re, aspettarvi gli avvenimenti. E forse tu fai fondamento sulle tue virtù, o speri che Dio farà per te miracolosamente quello che tu dovevi fare; oppure, tu ti fidi alla prudenza che tu credi avere, i di cui suggerimenti anteponi agli altrui consigli. Io ero determinato a non più scriverti di questi affari; e ti mando solamente questi ultimi avvisi dietro le istanze del nostro venerabile fratello Raoul, vescovo d'Alba.
«Viterbo il 5 di maggio anno 4[305].»
Lo spavento che sentiva il papa, e che manifestava in questa così poco misurata lettera, era in parte prodotto da' [406] preparativi di guerra che il senatore di Roma andava facendo quasi sotto i suoi occhi. Questo senatore era un principe castigliano. Alfonso X, re di Castiglia, quello stesso che aspirò a portare la corona imperiale, aveva due fratelli, Federico ed Enrico, che dopo essersi contro di lui ribellati co' suoi sudditi, avevano dovuto abbandonare la Spagna e rimanersi più anni al servigio del re di Tunisi[306]. Durante la lunga loro dimora presso i Saraceni furono accusati d'avere adottati i costumi e la religione di quel popolo. Enrico frattanto, stanco del suo esilio tra i Musulmani, era dall'Affrica passato in Italia ne' tempi in cui la conquista del regno di Napoli fatta da [407] Carlo d'Angiò riscaldava le speranze di tutti gli ambiziosi. Il padre d'Enrico era fratello della madre di Carlo, onde il principe castigliano approfittò di questa parentela per essere favorevolmente accolto da suo cugino; ed a questa aggiunse una raccomandazione ancora più potente, prestandogli sessanta mila doppie, prezzo de' suoi servigi presso i Saraceni e de' suoi risparmj. In fatti Carlo lo accolse come fratello; lo raccomandò caldamente al papa, cui chiese perfino che lo investisse del regno di Sardegna, onde toglierlo a' Ghibellini di Pisa. Ma Carlo non tardò ad ingelosirsi dell'influenza che Enrico andava acquistando grandissima sullo spirito del popolo di Roma ed alla corte papale, chiese per sè medesimo il regno di Sardegna, rifiutò di restituire al cugino il prestato denaro, ed eccitò talmente la sua collera, che Enrico giurò di vendicarsi, quand'anche dovesse perdere la vita[307].
Intanto i Romani inaspriti contro la nobiltà da quella stessa gelosia, che animava a quest'epoca tutti i popoli [408] d'Italia, avevano escluso quest'ordine privilegiato dal governo della loro città. Avevano allora nominati due cittadini per ogni quartiere, onde comporne il supremo loro consiglio, e questo accordò il rango di senatore ad Enrico di Castiglia, perchè lo credette opportuno a decorare colla sua reale nascita il nuovo governo. Enrico aveva sotto i suoi ordini circa trecento cavalieri spagnuoli o saraceni, che l'avevano seguìto da Tunisi in Italia; ebbe presto il modo di farne venire degli altri; ed in pari tempo afforzò il suo potere in Roma con una mescolanza di fermezza e di giustizia, rimettendovi l'ordine e la sicurezza: ma fece arrestare come ostaggi alcuni capi del partito de' nobili e de' Guelfi, due Orsini, un Savelli, uno Stefani ed un Malabranca. Diede inallora pubblicità all'alleanza da lui contratta con Corradino, e scrisse a questo principe per affrettarlo a recarsi a Roma[308].
Nello stesso tempo Corrado Capece, dopo aver portate a Pisa notizie di Corradino e dell'imminente sua venuta, aveva [409] fatto vela alla volta di Tunisi sopra una galera pisana per trovare Federico, fratello d'Enrico di Castiglia, che sbarcò sulle coste della Sicilia con duecento cavalieri spagnuoli, altrettanti tedeschi e quattrocento toscani ch'eransi riparati in Affrica dopo la disfatta della casa di Svevia, che ardentemente desideravano di vendicare. Le due galere che portarono questa gente a Sciatta in Sicilia erano cariche di selle e di armi; ma i cavalieri erano in sì misero stato ridotti, che non avevano fra tutti più di ventidue cavalli[309]. Nulladimeno sparsero nell'isola le lettere ed i proclami di Corradino per ricordare ai popoli la fedeltà giurata alla sua famiglia. Bentosto le valli di Mezzara e di Noto, e tutta la Sicilia, fuorchè Palermo, Messina e Siracusa spiegarono le insegne della casa di Svevia; il vicario del re Carlo fu rotto da Corrado e da Federico, ed i cavalli tolti ai Provenzali servirono ai cavalieri giunti dall'Affrica.
Quando Carlo ebbe avviso de' progressi de' suoi nemici in Sicilia, seppe pure che a Luceria i Saraceni avevano prese [410] le armi contro di lui, che la città di Aversa nella Puglia, le città degli Abruzzi, tranne l'Aquila, e molte città della Calabria eransi ribellate. Per queste notizie partì subito per attaccare i suoi nemici prima che ricevessero i soccorsi di Corradino, e, lasciando ottocento cavalieri francesi o provenzali in Toscana sotto gli ordini di Guglielmo di Belselve, venne a grandi giornate in Puglia ed assediò Luceria.
Frattanto Corradino, lasciata Pavia, aveva, per valicare le Alpi liguri, divisa la sua gente in due corpi; con uno de' quali, condotto dal marchese del Carreto, attraversando le terre di questo signore, scese anch'egli a Varaggio presso Savona nella riviera di Ponente, nel qual luogo i Pisani tenevano pronte dieci galere per condurlo a Pisa, dove arrivò nel mese di maggio[310]. L'altro corpo composto della sua cavalleria venne per le montagne di Pontremoli a Sarzana, ove fu accolto dai Pisani medesimi, i quali vollero dare all'ultimo rampollo della casa di Svevia sicure prove del [411] costante attaccamento loro verso quella famiglia. Allestirono perciò trenta galere montate da cinque mila soldati pisani, e le spedirono verso le coste delle due Sicilie ove, dopo aver guastato il territorio di Molo, attaccarono finalmente in faccia a Messina la flotta combinata provenzale e siciliana di Carlo d'Angiò e le presero ventisette galere che abbruciarono in vista del porto[311].
Corradino poi ch'ebbe, alla testa dei Pisani, fatta una scorreria nel territorio di Lucca[312], passò a Siena, ove fu accolto colle medesime dimostrazioni di gioja. Guglielmo di Belselve, maresciallo di Carlo, vedendo che il suo nemico avanzavasi alla volta di Roma, volendo avvicinarlo, marciò da Fiorenza ad Arezzo; ma giunto a Ponte a Valle sull'Arno, cadde in un'imboscata tesa dalle truppe di Corradino comandate dagli Uberti di Firenze, e fu fatto prigioniere colla maggior parte de' suoi soldati, essendo gli altri stati uccisi o dispersi[313].
Corradino, durante il sue cammino a traverso dell'Italia, aveva tre volte ricevuto ordine dal pontefice di licenziare la sua armata, e di venire disarmato ai piedi del principe degli apostoli a ricevere quella sentenza che avrebbe contro di lui pubblicata, minacciandolo in caso di rifiuto di scomunicarlo e di spogliarlo del titolo di re di Gerusalemme, il solo che la santa sede gli avesse permesso d'ereditare da' suoi antenati. Corradino non si era curato di tali minacce, onde Clemente pronunciò in Viterbo, il giorno di Pasqua, la sentenza di scomunica contro di lui e de' suoi partigiani[314], dichiarandolo decaduto dal regno di Gerusalemme, e liberando i suoi vassalli dal giuramento di fedeltà. Corradino non rispose altrimenti a quest'ultima bolla che avanzandosi verso Roma alla testa della sua armata. Passando presso Viterbo, ove dimorava il papa, che vi si era afforzato con numerosa guarnigione, Corradino fece spiegare la sua armata innanzi alle mura della città per incutere timore alla corte pontificia. Difatti i cardinali ed i preti corsero spaventati [413] a trovare Clemente, che stava allora pregando. «Non temete, rispose loro, che tutti questi sforzi saranno dispersi come il fumo.» Indi si recò sulle mura di dove osservò Corradino e Federico d'Austria che facevano sfilare in parata la cavalleria. «Queste, disse ai cardinali, sono vittime che si lasciano condurre al sagrificio[315].»
Corradino fu in Roma ricevuto dal senatore Enrico di Castiglia colla pompa riservata ai soli imperatori. Il senatore aveva presso di lui adunati ottocento cavalieri spagnuoli, molti uomini d'armi tedeschi, e signori ghibellini, che avevano militato sotto Manfredi e sotto Federico. Dopo essersi trattenuto pochi giorni in Roma per dar riposo all'armata, ed appropriarsi i tesori del clero nascosti nelle chiese, Corradino partì il 18 agosto alla testa di cinque mila uomini d'armi alla volta del regno di Napoli.
Le strade del regno dalla banda della Campagna e di Ceperano trovandosi ben fortificate e guarnite di truppe, Corradino risolse di prendere il cammino degli [414] Abruzzi. Passando sotto Tivoli, attraversò la valle di Celle, e scese nella pianura di san Valentino o Tagliacozzo[316]. Informato il re Carlo della strada tenuta da Corradino levò l'assedio di Luceria, ed avanzandosi a grandi giornate, passò la città dell'Aquila, e si fece incontro al suo rivale nella stessa pianura di Tagliacozzo. Non aveva Carlo più di tre mila cavalieri da opporre ai cinque mila di Corradino; ma un vecchio barone francese, Alardo di San Valerì, che tornava allora di Terra santa, gli suggerì un pericoloso, e fors'anco crudele stratagemma, che compensò l'inferiorità del numero. Così consigliato da San Valerì, Carlo divise la sua armata in tre corpi; formò il primo di Provenzali, di Toscani e di Campagnani sotto il comando di Enrico duca di Cosenza che perfettamente rassomigliava a Carlo, e che fece vestire degli abiti e delle reali [415] insegne: formò il secondo corpo di Francesi capitanati da Giovanni di Crari, e mandò questi due battaglioni, quasi formassero soli tutta l'armata, a custodire il ponte e difendere il piccolo fiume che traversa il piano di Tagliacozzo. Frattanto il re con Alardo di San Valerì, Guglielmo di Villehardovin, principe della Morea, ed ottocento cavalieri, il fiore di tutta l'armata guelfa, si nascose in una angusta valle per dare addosso ai nemici in sul finire della battaglia.
Corradino, poi ch'ebbe riconosciuti i due corpi, che supponeva formare tutta l'armata guelfa, divise la sua per nazioni in tre corpi. Egli col duca d'Austria prese il comando de' Tedeschi, affidò quello degl'Italiani al conte Galvano Lancia, e quello degli Spagnuoli ad Enrico di Castiglia. Guadò arditamente il fiume alla testa de' suoi valorosi soldati ed attaccò i Provenzali che furono ben tosto rotti, come pure poco dopo il corpo de' Francesi. I Ghibellini erano talmente superiori di numero, che l'armata nemica si vide in breve distrutta o posta in disordinata fuga. Carlo che dall'alto di un colle vedeva l'uccisione delle sue genti, si disperava, e voleva ad ogni modo andare in loro soccorso, ma il [416] signore di San Valerì, che perfettamente conoscendo la natura de' Tedeschi aveva calcolati gli effetti della loro vittoria, non gli permise di muoversi. In fatti i Tedeschi trovando sul campo di battaglia il corpo d'Enrico di Cosenza cogli ornamenti reali, lo supposero lo stesso Carlo, onde parendo loro d'avere ottenuta intera vittoria, e di non avere più nulla a temere, si sparsero per la campagna per saccheggiare il campo nemico.
Quando Alardo di San Valerì vide compiutamente rotti gli ordini di battaglia delle truppe di Corradino, e che dispersi nell'inseguire i fuggiaschi, erano divisi in piccole bande, e non più in istato di sostenere l'urto della sua cavaleria, voltosi a Carlo, gli disse: «Fate adesso suonare la carica, che giunto è l'istante opportuno.» Infatti questi ottocento scelti e freschi cavalieri spingendosi in mezzo ad un'armata di cinque mila uomini oppressi dalla fatica, e talmente dispersi, che in verun luogo trovavansi duecento cavalieri riuniti e disposti a fare resistenza, ne fecero uno spaventoso massacro. Carlo era sì poco aspettato, che quando la sua truppa entrò di galoppo nel campo di battaglia, si credette da coloro che l'occupavano, [417] che fosse un corpo dell'armata di Corradino che aveva inseguiti i nemici, e non si posero in sulle difese per fargli fronte. I Francesi, vedendo rialzata l'insegna del loro re, accorrevano ad ordinarsi intorno alla medesima, e per tal modo la gente di Carlo andava ingrossando, mentre scemava quella di Corradino[317]. I baroni che gli stavano appresso non vedendo alcun mezzo di restaurare la battaglia, lo consigliarono a mettersi in salvo co' suoi soldati, onde misurarsi un'altra volta, e non rimanere morto o prigioniere. Corradino, il duca d'Austria, il conte Galvano Lancia, il conte Gualferano ed i conti Gherardo e Galvano di Donoratico di Pisa fuggirono assieme; ed a stento Alardo di San Valerì contenne i Francesi che [418] volevano inseguirli; perciocchè se essi dal canto loro rompevano l'ordinanza, avrebbero potuto essere egualmente disfatti: poco mancò pure che nol fossero da Enrico di Castiglia, che tornò co' suoi Spagnuoli sul campo di battaglia: ma questi ancora furon rotti, e Carlo si tenne fino a notte ordinato in battaglia, per non compromettere la sua vittoria.
Corradino fuggendo aveva sperato di trovare il grosso della sua armata ch'era piuttosto dispersa che disfatta; ma quel paese, che gli si era mostrato prima favorevole, andavasi contro di lui dichiarando di mano in mano che aveva avviso della sua rotta. Enrico di Castiglia fu fatto prigioniero e consegnato a Carlo dall'abate di Monte Cassino, cui aveva chiesta ospitalità. Corradino, giunto coi suoi amici alla torre d'Astura in riva al mare, lontana quarantacinque miglia dal campo di battaglia, si fece dare una barca per passare in Sicilia; ma Giovanni Frangipani, signore d'Astura, gli tenne dietro con un'altra barca, e, fattolo prigioniero, lo condusse nel suo castello. Stava il Frangipani dubbioso se dovesse accettare il danaro offertogli per la libertà de' suoi prigionieri, quando si [419] vide assediato dall'ammiraglio di Carlo, e forzato di rimetterli nelle sue mani. Ricevette dal re francese in premio della sua viltà un feudo presso Benevento.
La disfatta di Corradino non doveva mettere fine nè alle sue sventure, nè alle vendette del re. L'amore del popolo pel legittimo erede del trono era così manifesto, che Carlo temeva di nuove rivoluzioni finchè il principe fosse vivo; onde Carlo coprendo la sua diffidenza e la sua crudeltà colle apparenze della giustizia, determinò di far morire sul patibolo l'ultimo rampollo della casa Sveva, l'unica speranza del partito ghibellino. A tal fine adunò in Napoli due sindaci o deputati di ciascheduna città di Terra di Lavoro e del Principato[318]; le quali erano le province a lui più devote e più abbondanti di Guelfi. Eretta quest'adunanza in tribunale, chiese una sentenza di condanna contro Corradino e tutti i suoi partigiani. Ma a fronte della parzialità con cui era stato formato questo tribunale, ed a fronte del timore, che poteva ispirare a' suoi membri [420] il conosciuto carattere del tiranno, la maggior parte di loro non vollero macchiarsi di tanta infamia.
Mentre Carlo abbassavasi vilmente alle funzioni d'accusatore, e rinfacciava il suo rivale d'essersi ribellato contro di lui, suo legittimo sovrano; di avere fatto alleanza co' Saraceni, e di avere saccheggiati i monasterj; Guido di Sucaria, famoso legista, che sedeva tra i giudici, prese la parola per difendere l'accusato. Mostrò che Corradino trovavasi sotto la salvaguardia che le leggi della guerra accordano ai prigionieri; che il suo diritto al trono, che aveva cercato di far rivivere, era abbastanza plausibile perchè, senza delitto, potesse tentare di farlo valere; che i disordini della sua armata non gli potevano altrimenti essere imputati che al capo d'un'armata ben affetta ed amica alla Chiesa si potevano imputare i sacrilegi e le infamità da quella medesima armata in simil guisa commessi; per ultimo, che l'età di Corradino sarebbe un motivo di grazia, quand'anche non avesse alcun diritto alla protezione della giustizia. Un sol giudice provenzale, suddito di Carlo, di cui gli storici non ci conservarono il nome, osò votare per la morte di Corradino; altri si ridussero [421] ad un timido e colpevole silenzio; e Carlo, appoggiato all'autorità di un solo giudice, fece da Roberto di Bari, protonotaro del regno, pronunciare la sentenza di morte contro lo sventurato principe e tutti i suoi compagni[319]. La sentenza fu comunicata a Corradino mentre stava giocando agli scacchi. Gli si lasciò poco tempo per disporsi alla morte, ed il giorno 26 ottobre, fu con tutti i suoi compagni condotto sulla piazza del mercato [422] di Napoli presso al mare: Eravi il re Carlo con tutta la sua corte, ed un'immensa folla di popolo circondava il vincitore ed il re condannato.
Il giudice provenzale che aveva votato per la morte di Corradino lesse la sentenza portata contro di lui come traditore della corona e nemico della Chiesa. Giunto al termine della lettura, quando stava pronunciando la pena di morte, Roberto di Fiandra, il proprio genero di Carlo, si slanciò sopra l'iniquo giudice, e piantandogli nel petto lo stocco che teneva in mano, gridò: «Non s'aspetta a te, miserabile, il condannare a morte così nobile e gentil signore!» Il giudice cadde morto in terra sugli occhi del re, che non osò mostrarne verun risentimento.
Frattanto Corradino trovavasi già tra le mani del carnefice; si staccò egli medesimo il mantello, e postosi in ginocchi per pregare, si rialzò gridando: «Oh mia madre, di quale profondo dolore ti sarà cagione la notizia che ti sarà portata della mia morte!» Poi volgendo lo sguardo alla folla che lo circondava, vide le lagrime ed udì i singulti del suo popolo: allora, levatosi il suo guanto, gettò in mezzo a' suoi sudditi [423] questo pegno di vendetta, e sottopose il capo all'esecutore[320].
Dopo di lui perdettero la testa sopra lo stesso palco il duca d'Austria, i conti Gualferano, Bartolomeo Lancia, ed i conti Gherardo e Galvano Donoratico di Pisa. Per un raffinamento di crudeltà volle Carlo che il primo, figliuolo del secondo, precedesse suo padre e morisse tra le sue braccia. I cadaveri, giusta gli ordini del re, furono esclusi da ogni luogo sacro, e sepolti senza veruna pompa sulla riva del mare. Peraltro Carlo II fece in appresso fabbricare nello stesso luogo una chiesa di carmelitani, quasi volesse calmare quelle ombre sdegnate.
[424] Enrico di Castiglia, senatore di Roma, venne risparmiato, sia perchè cugino del re, sia per rispetto alle istanze fatte dall'abate di Monte Cassino che l'aveva consegnato. Ma si dovevano ancora versare torrenti di sangue. I Ghibellini di Sicilia scoraggiati dalla disfatta di Corradino, furono vinti, e caddero tutti gli uni dopo gli altri in mano de' Francesi, che li condannarono a morte. Tale fu la sorte de' fratelli Marino e Giacomo Capece, e di Corrado d'Antiochia, figlio di Federico d'Antiochia, bastardo di Federico II: il quale i carnefici, dopo avergli cavati gli occhi, appiccarono[321]: questi ad eccezione dello sventurato Enzo che ancora viveva nelle prigioni di Bologna, ove morì quattr'anni più tardi, era l'ultimo de' discendenti illegittimi della casa di Svevia, come Corradino n'era l'ultimo de' principi. Ventiquattro baroni calabresi furono presi nel castello di Gallopoli, e condannati all'ultimo supplicio[322]. Questi esempj di crudeltà erano imitati dai giudici di più basso rango, che trattavano i plebei come vedevano essere trattati [425] i grandi. Molti si mandavano a morire, molti erano mutilati, altri spogliati delle loro fortune, senza neppure essere ascoltati avanti che fosse pronunciata contro di loro la sentenza. A Roma, fece il re troncare le gambe a coloro ch'eransi dichiarati contro di lui, ed in appresso temendo che la vista di tanti infelici gli suscitasse nuovi nemici, li fece chiudere in una casa di legno, cui fu appiccato il fuoco[323]. Guglielmo, detto lo stendardo, uomo di sangue, era stato mandato in Sicilia per reprimere, o punire i sediziosi. Assediò Augusta posta tra Catania e Siracusa. Era questa città difesa da mille de' suoi cittadini in istato di portare le armi, e da duecento cavalieri toscani del numero di coloro che Capece aveva condotti in Sicilia: la sua situazione era tale da rendere lungo tempo vani gli sforzi degli assedianti; ma sei traditori diedero la città nelle mani de' Francesi, aprendo loro una porta segreta. Gli abitanti di Augusta, sorpresi e massacrati nelle proprie strade, non poterono opporre veruna resistenza agli assalitori; pure quando ebbe occupata tutta la città, Guglielmo [426] pose dei carnefici in riva al mare, e facendoli condurre l'un dopo l'altro tutti gli sventurati che scoprivansi ne' sotterranei delle loro case, faceva loro troncare il capo, e gettare i cadaveri nelle onde[324]. Neppure un solo abitante d'Augusta si sottrasse alla crudeltà di Guglielmo; i fuggiaschi, ch'eransi affollati in una barca, affondarono, ed i sei traditori, presi come gli altri da' carnefici, parteciparono della sventura della tradita loro patria. Corrado Capece venne consegnato a Guglielmo dagli abitanti di Conturbia, ed appiccato dopo che gli furono cavati gli occhi. Luceria fu presa dallo stesso Carlo, poichè la fame ebbe fatti perire la maggior parte de' Saraceni che la difendevano[325]; e tutte le città e castella delle due Sicilie tornarono in potere de' Francesi.
Il guanto, che Corradino aveva gettato in mezzo al popolo, si assicura che fu raccolto da Enrico Dapifero, e portato a D. Pietro d'Arragona, marito di Costanza, figliuola di Manfredi, come al solo legittimo erede della casa di Svevia. Forse Corradino volle in fatti, come lo [427] pretesero i re austriaci ed arragonesi[326], trasferire in tal modo alla loro famiglia i proprj diritti al trono delle Sicilie, e ratificarne in tal modo il titolo ereditario; ma pare più probabile ancora, che Corradino, gettando in mezzo a' suoi sudditi il pegno della sua vendetta, suggerisse loro di scuotere un odioso giogo e di lavarsi del sangue de' loro re, del sangue de' loro amici e concittadini, che veniva versato sulle loro teste. Questo pegno di guerra fu realmente rialzato dalla nazione, ed i vesperi siciliani furono la lenta, ma terribile vendetta del supplicio di Corradino, della strage d'Augusta, de' torrenti di sangue sparso dai Francesi nelle due Sicilie.
Smisurata ambizione di Carlo d'Angiò. — Eccita la discordia tra le repubbliche italiane per opprimerle. — Suoi progetti impediti dai vesperi siciliani.
1268 = 1282.
Carlo era finalmente giunto a quel grado di potenza cui agognava da tanto tempo; i due regni di Sicilia gli erano sottomessi; l'erede di quelle corone sagrificato alla sua politica, la famiglia di Svevia estinta, non rimanendo che una sola femmina maritata nell'estremità dell'Europa ad un principe poco ricco e poco potente, femmina che tirando ogni suo diritto da un bastardo non aveva alla successione che un titolo di poco superiore a quello del conquistatore. Carlo non era solamente re delle due Sicilie, ma era il favorito dei papi, che in esso vedevano l'opera loro; e come amico e figliuolo prediletto della santa sede esercitava negli stati della chiesa una potenza che niuno secolare sovrano aveva potuto da lungo tempo acquistarvi. Clemente IV morì un mese dopo il supplicio [429] di Corradino[327], e perchè in trentatre mesi i cardinali non gli avevano ancora dato un successore, Carlo approfittò dell'interregno per accrescere il suo potere negli stati della chiesa. Clemente gli aveva dati dei diritti sopra la Toscana nominandolo vicario imperiale di quella provincia; i Guelfi lombardi lo risguardavano come loro protettore; molte città del Piemonte l'avevano eletto loro perpetuo signore; e per tal modo il re delle due Sicilie era diventato l'arbitro di tutta l'Italia.
Beatrice sua moglie, che per appagare la propria vanità lo aveva impegnato in così pericolose intraprese, non raccolse il frutto di quelle vittorie, che aveva così ardentemente desiderate; perciocchè morì poco dopo la battaglia di Tagliacozzo, e Carlo sposò in seconde nozze Margarita di Borgogna.
Se Carlo conservò lungo tempo l'acquistato potere, non però fu soddisfatta la sua ambizione; che dopo tante prosperità non sembrandogli le due Sicilie uno stato degno di lui, più omai non lo risguardava che come un mezzo per innalzarsi [430] a maggior grandezza. In vece di appagarsi dell'alta influenza che aveva acquistata sopra tutta l'Italia, volle ridurre questa terra in servitù e farne un solo regno il quale gli somministrasse gli opportuni mezzi a far l'impresa del Levante, che stavagli altamente a cuore. Si era perciò procacciate segrete corrispondenze in ogni angolo dell'Italia e della Grecia, tracciandosi una strada cogli inganni, che poi andava allargando colla crudeltà; tesori immensi, larghi fiumi di sangue fece spargere ai popoli che voleva governare; ma invece di ridurli in ischiavitù, gli scosse dal vergognoso letargo, e chiamò sopra di sè e sopra la sua famiglia la tarda ma giusta vendetta degli oppressi.
Tra le circostanze, che principalmente favorirono l'ingrandimento della casa d'Angiò, vuole essere annoverata la caduta de' principali capi del partito ghibellino in Lombardia, il marchese Pelavicino e Buoso di Dovara. Ambedue erano stati allievi di Federico II, ambedue compagni d'armi del feroce Ezelino, finchè, costretti da' suoi delitti, concorsero anch'essi coi Guelfi alla sua distruzione. Uberto Pelavicino era un eccellente capitano, ed era stato uno de' primi a formare un numeroso e potente corpo di cavalleria, [431] che da lui solo dipendeva; aveva riunite sotto il suo dominio molte città, che, nominandolo loro generale, lo avevano, quasi senza accorgersene, fatto loro padrone[328]. L'ambizione di Pelavicino era meno avida e feroce di quella d'Ezelino; egli non aveva fondato il suo potere coi delitti, nè resolo compiuto, onde se ne vide spogliato dall'incostanza de' popoli, senza essere in istato, come Ezelino, di difendere con una lunga guerra gli stati da lui formati.
Quasi tutte le città da lui dipendenti eransi di già sottratte alla sua autorità, quando Corradino attraversò la Lombardia; e solo gli rimanevano molti castelli assai forti, fra i quali, quello ragguardevolissimo di san Donnino, solita sua residenza, tra Parma e Piacenza, il quale [432] si arrese in sul finire del 1268 ai Parmigiani che lo assediavano, e fu interamente distrutto, ed i suoi abitanti dispersi nelle vicine terre. Il marchese Uberto, ch'erasi ritirato in un altro castello, vi morì l'anno susseguente, mentre i Guelfi suoi nemici stavano per assediarlo[329]. Suo figlio Manfredi continuò la nobile famiglia de' Pelavicino, che con leggiere alterazione di nome chiamasi oggi Palavicino; ma quantunque fino a' nostri giorni sia rimasta feudataria immediata dell'impero, non risalì però mai a quel grado di potenza, cui l'aveva innalzata il marchese Uberto.
Buoso di Dovara, lungo tempo collega di Pelavicino, fu forse, disgustandosi con lui, cagione della comune ruina; giacchè appena stando uniti erano abbastanza potenti per resistere ai loro nemici. Buoso fu esiliato da Cremona con tutto il suo partito, e morì miserabile dopo avere compromessa la sua autorità per una insensata avarizia[330].
Le città di Lombardia, quasi tutte addette al partito guelfo, parevano, colla caduta degli antichi loro padroni, ricuperare la perduta libertà; ma esse avevano perduto nelle precedenti rivoluzioni quell'odio della tirannia e del potere arbitrario che forma, per così dire, la salvaguardia delle repubbliche. La passione dominante d'ogni città era il trionfo d'una fazione, non lo stabilimento d'un conveniente governo; ed i mezzi, che venivano adottati per conseguire questo scopo, tendevano di loro natura a distruggere la libertà. Non si può forse ragionevolmente sperare che una repubblica possa stare senza fazioni; ma per lo meno sarebbe desiderabile che le fazioni prendessero origine nel suo seno e che i suoi cittadini non adottassero cause straniere. Un'interna fazione confonde sempre lo scopo ch'ella si propone colla speranza d'un miglior governo. Se gli uni si sforzano di far trionfare i nobili, egli è perchè si lusingano di trovare nell'aristocrazia maggior forza, dignità, prudenza e tranquillità: se altri esaltano il potere popolare, vuol dire che si ripromettono nella democrazia maggiore libertà, indipendenza ed energia. Nè gli uni nè gli altri sceglieranno [434] scientemente per ottenere l'intento loro mezzi distruttivi dello scopo che si propongono, e questo scopo è sempre una salvaguardia dello stato medesimo. Ma quando i cittadini hanno preso parte collo stesso zelo in una fazione più estesa che la loro patria, in una fazione il cui scopo trovasi al di fuori di questa, quello è risguardato come un interesse superiore all'interesse nazionale: allora non sonovi sagrificj che i cittadini non siano disposti a fare per conseguirlo. Nelle dispute di religione, in quelle dell'impero e della chiesa, ridurre in servitù la sua patria, il sottoporla ad un governo violento ma energico, non è già un distruggere lo scopo propostosi, egli è al contrario un giovare spesse volte a somministrare più sicuri mezzi per ottenerlo. Le fazioni furono spinte in Toscana ed in Lombardia ad un egual grado di violenza; ma nel primo paese erano quelle della democrazia e dell'aristocrazia, onde fu mantenuta la libertà; nel secondo quelle de' Guelfi e de' Ghibellini, ed il governo repubblicano fu loro sagrificato.
Carlo d'Angiò, che alimentava le passioni da cui sperava i suoi prosperi successi, fece adunare a Cremona una dieta delle città guelfe della Lombardia. La [435] presiedettero i suoi ambasciatori, i quali rappresentarono alle città, che per non perdere i vantaggi della vittoria che avevano ottenuta sui Ghibellini, eterni loro nemici, per impedire il rinascimento di quell'odiata fazione e per dare maggiore forza ed unione al governo della lega, egli era necessario di nominare un capo. Pretesero che il re Carlo, il quale andava debitore di ogni suo potere ai Guelfi, sarebbe l'uomo più invariabilmente attaccato al loro partito; ed in conseguenza domandavano che tutte le città lombarde lo nominassero loro signore. Vi acconsentirono quelli di Piacenza, Cremona, Parma, Modena, Ferrara e Reggio[331]; quelli di Milano, Como, Vercelli, Novara, Alessandria, Tortona, Torino, Pavia, Bergamo, Bologna e quelli del marchese di Monferrato, risposero, che volevano aver Carlo sempre amico, padrone mai. Non perciò si sgomentarono i deputati di Carlo, anzi fecero fante pratiche, che, avanti che terminasse l'anno, i Milanesi e varj altri popoli acconsentirono a giurare fedeltà al nuovo signore.
Il re di Sicilia non sarebbesi forse limitato a questi primi successi, se a tale epoca non fosse stato strascinato da suo fratello san Luigi nell'ultima crociata, che lo allontanò alcun tempo dalle sue intraprese sull'Italia.
(1270) Mille cause diverse avevano quasi spento l'ardore per le crociate; e le più frequenti comunicazioni coi Saraceni avevano assai diminuito quell'odio che prima ispiravano. Per lo contrario i cristiani di Terra santa avevano date tante prove di viltà, di perfidia, di corruzione, che le loro sventure venivano risguardate come una punizione del cielo. La cieca fede dell'undecimo secolo era stata indebolita dai nascenti lumi del tredicesimo; ed il generoso cavalleresco sagrificio dei grandi aveva fatto luogo ad una più astuta politica. L'abuso delle crociate aveva in sì special modo fatta nascere la diffidenza intorno all'efficacia delle indulgenze; eransi veduti più volte i papi predicare la crociata contro i loro particolari nemici, contro principi commendevoli per virtù e per talenti, contro imperatori che avrebbero potuto essere l'appoggio della cristianità; onde incominciavasi a dubitare della santità delle crociate e delle ricompense che potevano meritare innanzi al [437] tribunale di Dio. Il signore di Joinville, sollecitato da san Luigi ad accompagnarlo in quest'ultima spedizione, racconta che gli rispondesse; «che s'egli si esponeva al pellegrinaggio della croce, ruinerebbe totalmente i suoi poveri sudditi. Inoltre, soggiunge egli nelle sue memorie, ho udito dire da molti che coloro che gli consigliarono l'intrapresa della crociata fecero un grandissimo male, e peccarono mortalmente; perchè, finchè rimase nel regno di Francia, tutto il suo regno viveva in pace, e vi regnava la giustizia; e tostochè l'ebbe abbandonato, tutto incominciò a peggiorare. Fecero pure grandissimo male per un altro motivo; essendo il detto signore tanto indebolito e fiacco della persona, che non poteva sostenere veruna armatura, nè rimanere lungo tempo a cavallo[332].»
Qualunque si fosse il sentimento di Joinville e di molti suoi compagni d'armi, presso ad altri molti le cavalleresche virtù di san Luigi riaccesero per l'ultima volta lo zelo che si spegneva. [438] Non potevasi infatti lasciar di ammirare questo vecchio monarca, che abbandonava le cure e la gloria del suo rango, e senza essere scoraggiato dalla contraria sorte della prima spedizione, imbarcavasi di nuovo con tutta la sua famiglia per intraprendere una guerra da cui non poteva sperarne alcun vantaggio temporale, ma solo perchè la credeva voluta dal suo dovere e dalla gloria di Dio. Arrivato sulla spiaggia delle Acquemorte e nell'atto di montare a bordo del suo vascello, san Luigi si volse ai suoi figliuoli ed in particolare a Filippo che doveva succedergli.
«Tu vedi, mio figlio, gli disse, come malgrado la mia vecchiaja intraprendo per la seconda volta questo pellegrinaggio, mentre la regina tua madre trovasi in età avanzata, e che, coll'ajuto di Dio, il nostro regno essendo esente da turbolenze, vi godevo di quante ricchezze e delizie ed onori è dato agli uomini di godere. Tu vedi, ti dico io, come per la causa di Cristo e della sua Chiesa io non risparmio la mia vecchiezza; non mi lascio smuovere dalle lagrime di tua madre, ripudio gli onori ed i piaceri, e consacro le mie ricchezze in servigio di Dio. Tu vedi come io conduco con meco te, i tuoi fratelli, e la [439] tua maggior sorella, e sai che avrei meco condotto ancora il quarto figliuolo, se la sua età lo avesse permesso. Ho voluto farti rimarcare tutte queste cose, affinchè quando dopo la mia morte avrai il governo del mio regno, non ti esca mai di mente che non si deve nulla risparmiare per Cristo, per la Chiesa, e per la difesa della fede, non la consorte, non i figliuoli, non un regno. Ho voluto nella mia persona darne un esempio a te ed ai tuoi fratelli, affinchè, quando convenga, facciate lo stesso[333].»
In fatti l'esempio del santo re ne aveva strascinati degli altri, quello di Sicilia suo fratello, ed il re di Navarra, Teobaldo. Distinguevansi pure tra i crociati Edoardo, figlio d'Enrico III, re d'Inghilterra, poi suo successore, i conti di Poitou e di Fiandra, il figlio del conte di Bretagna, ed un gran numero di nobili signori[334].
Ma quest'ultima crociata, lungi dall'avere un successo proporzionato al rango, alla potenza ed all'abilità de' principi che [440] la componevano, fu la più sventurata di tutte, in modo che la sua cattiva riuscita e le triste conseguenze che ne derivarono, sconsigliarono poi sempre i cristiani da così pericolose spedizioni. La flotta crociata non potè spiegare le vele avanti luglio, e sbarcò sulle coste d'Affrica un'armata, che dopo l'unione del re di Sicilia e del principe Edoardo, pretendono alcuni numerosa di oltre duecento mila uomini, de' quali quindici mila di cavalleria pesante[335]. La lusinga che il bey di Tunisi farebbesi cristiano, e la supposizione di giugnere più facilmente in Egitto lungo la costa dell'Affrica, fecero preferire questa strada alla lunga navigazione dell'Arcipelago. Ma mentre stavasi aspettando il re Carlo su quelle ardenti spiagge, fra i vortici d'arena che i Saraceni avevano l'arte di dirigere sopra i Latini, l'armata fu assalita dalla peste. Fra i più distinti personaggi caddero prima il principe Giovanni di Francia, ed il cardinale Albano legato [441] del papa: poi infermò lo stesso re san Luigi, che morì il 25 d'agosto con sentimenti di pietà e di rassegnazione degni della passata sua vita. Grandissimo fu il numero de' principali signori e baroni morti in breve tempo dal contagio, e la mortalità de' semplici soldati fu tale, che, senz'avere combattuto, l'armata trovavasi già molto indebolita quando sopraggiunse Carlo d'Angiò e ne prese il comando.
Con minori virtù e sopra tutto con minore disinteressamento, Carlo aveva forse più talenti militari di suo fratello. Egli aveva aspettato a sbarcare le sue truppe dopo la caduta delle piogge autunnali che sogliono rinfrescare e purgare l'aere infetto di quelle spiagge. All'istante, per allontanare le truppe da un campo ove la morte aveva fatto tante stragi, le condusse all'assedio di Tunisi: e perchè il bey spaventato offrì di entrare in negoziazione, Carlo si affrettò di raccogliere i frutti de' generosi sforzi di suo fratello e di tanti cristiani; accordò al bey la pace a condizione ch'egli sarebbe tributario del re di Sicilia; indi facendo imbarcare i suoi soldati, invece di compiere il suo pellegrinaggio e marciare in soccorso di Terra santa, salpò verso i suoi stati. Molti crociati sdegnaronsi [442] altamente, vedendo che la politica di Carlo si faceva giuoco de' loro voti; ma tutti ripresero la strada dell'Europa, ad eccezione di Edoardo e de' suoi Inglesi, che continuarono il loro viaggio verso Terra santa, ove giovarono molto alla difesa di san Giovanni d'Acri attaccato da Bendocdar.
Ritornando i crociati in Europa, fecero un triste esperimento dell'avidità e della crudeltà di Carlo. Innanzi a Trapani furono assaliti da un'orribile burrasca che affondò diciotto grandi vascelli e molti più piccoli con quattro mila persone[336]; e perchè molte navi, spinte dalla tempesta ruppero sulle rive della Sicilia, ordinò Carlo che fossero confiscati a suo profitto gli effetti di tutti i vascelli naufragati, appoggiandosi ad un'antica costituzione del re Guglielmo, che aggiudicava alla corona gli avanzi delle navi gettati dal mare sulle coste. I Genovesi cui appartenevano quasi tutti i vascelli della flotta, e che per formarne gli equipaggi avevano dati alla crociata più di dieci mila uomini, erano in forza di antichi trattati specialmente esentati da così [443] barbara legge; ed in forza della legislazione de' cristiani lo dovevano pur essere i crociati all'attuale servigio della chiesa: ma quand'anche non si fosse potuto addurre verun altro privilegio, la confisca non doveva giammai estendersi ai compagni d'armi del re, a coloro ch'eransi con lui sottratti alla stessa burrasca come alle medesime battaglie. Pure Carlo non volle udir ragioni: tutto fu tolto agl'infelici naufragati, ed il re di Sicilia riebbe sui beni de' suoi amici un tesoro eguale a quello che il bey di Tunisi aveva pagato per liberarsi dall'assedio, e che il mare aveva inghiottito[337].
(1271) Dopo essere rimasto poche settimane in Sicilia, Carlo venne a Viterbo con suo nipote Filippo l'ardito, per impegnare i cardinali a dare finalmente dopo due anni un capo alla chiesa. Mentre i crociati trovavansi adunati in Viterbo, un gentiluomo francese vi commise un delitto, che gl'Italiani risguardarono quale sicuro argomento della ferocia de' suoi compatriotti, e come una nuova ragione di detestarli. Gui, conte di [444] Monforte, luogotenente di Carlo in Toscana, scontrò in chiesa Enrico, figlio di Riccardo, conte di Cornovaglia e re de' Romani. Volendo vendicare sopra di lui suo padre ch'era stato ucciso combattendo contro il re d'Inghilterra[338], attaccò questo giovane principe ai piedi dell'altare ove assisteva devotamente alla messa, e lo passò da banda a banda collo stocco ch'egli teneva in mano; indi uscì di chiesa senza che Carlo osasse ordinarne l'arresto. Giunto alla porta trovò i suoi cavalieri che lo stavano aspettando — Che avete fatto? gli disse uno di loro — La mia vendetta, rispose Monforte — Come? non fu vostro padre strascinato?.... A queste parole Monforte rientra in chiesa, prende pei capelli il cadavere del giovane principe, e lo strascina fino sulla [445] pubblica piazza. Dopo ciò si ritira nelle terre di suo suocero, nella Maremma, senza che Carlo tentasse mai di punire un delitto accompagnato da così odiose circostanze[339]. Edoardo d'Inghilterra, che sopraggiugneva allora da san Giovanni d'Acri, partì da Viterbo fieramente sdegnato contro il re di Sicilia. Filippo si pose in cammino per tornare in Francia; e dopo la partenza di questi sovrani, i suffragi de' cardinali riunironsi finalmente a favore di Tebaldo Visconti di Piacenza, elle allora trovavasi in Terra santa col semplice grado d'arcidiacono. Il nuovo pontefice prese il nome di Gregorio X, e venne soltanto nel susseguente anno a mettersi in possesso della santa sede. Quantunque Carlo mostrasse desiderio che i cardinali ponessero fine alla lunga vacanza della santa sede, non ignorava probabilmente che questa vacanza gli era più utile, che l'elezione di un papa indipendente. Di fatti l'arrivo di Gregorio X (1272) fu la prima circostanza che diminuì il suo potere in Italia. Gregorio, che tornava dalla Siria, ed aveva veduti da presso i pericoli ed i patimenti de' cristiani d'Oriente, ad altro [446] non pensava che alla liberazione di Terra santa. Essendo lungo tempo vissuto fuori d'Italia, non dava alle contese de' Guelfi e de' Ghibellini quell'importanza in cui le tenevano i suoi predecessori; ed altronde il loro principale oggetto era scomparso coll'estinzione della casa di Svevia. La santa sede non aveva più nulla a temere dal canto degl'imperatori, ed il pontefice credeva venuto il tempo di porre in dimenticanza delle fazioni il cui solo oggetto era quello di azzuffarsi, e di riconciliare degli uomini che non avevano giusti motivi di odiarsi. Convocò in Lione un concilio generale per l'anno 1274[340], ed impiegò i due anni precedenti a riunire gli spiriti divisi, a fare della Cristianità un solo corpo, il quale potesse combattere gl'infedeli con maggiore vantaggio.
Quelle che potevano essere più utili all'impresa di Terra santa, erano le repubbliche marittime; ma queste appunto avevano maggior bisogno dell'opera del pontefice per sottrarsi agli attentati di Carlo, per pacificarsi tra di loro, e calmare le intestine discordie. Pisa trovavasi vessata [447] dai Guelfi in nome della chiesa, Genova in aperta guerra con Carlo e con Venezia, e Venezia attaccata da Bologna. Il papa pose mano a calmare tante nimistà.
Per tale motivo Gregorio X si recò da prima in Toscana. Giunse in Firenze il giorno 18 di giugno del 1273 col re Carlo e Baldovino II, imperatore latino di Costantinopoli. Trovò in questa provincia i Ghibellini avviliti dalle complete vittorie dei Guelfi. I Sienesi erano stati rotti dai Fiorentini in giugno del 1269 innanzi a Colle di Val d'Elsa ov'era perito il loro generale Provenzano Salvani, il più potente loro concittadino; e pochi mesi dopo erano i Sienesi stati costretti ad allearsi coi Fiorentini, a prendere parte nella lega guelfa, a richiamare i Guelfi esiliati, scacciando i Ghibellini che gli avevano fin allora governati[341]. I Pisani non erano stati molto più felici de' Sienesi, e, battuti a Poggibonzi, si erano affrettati di fare la pace con Carlo[342]. Ma in queste due città, siccome [448] a Firenze, lo spirito di partito erasi fatto più violento; i Ghibellini, trattati come ribelli di padroni che prima erano, non sapevano assoggettarsi al nuovo ordine di cose, e turbavano incessantemente la tranquillità delle repubbliche che gli avevano esiliati.
Il papa spedì un legato a Pisa per riconciliare quella città colla santa sede, benedirla e levare le censure ecclesiastiche[343]. In seguito Gregorio fece adunare tutto il popolo di Firenze lungo la riva dell'Arno, chiamò presso di sè i commissari de' Guelfi e de' Ghibellini, e conchiuse tra loro un trattato di pace in presenza dei due sovrani che l'accompagnavano. Ordinò che i Ghibellini tornassero alle loro case, e che ricuperassero tutti i loro beni e privilegi tanto a Firenze che a Siena; volle ostaggi da una parte e dall'altra pel mantenimento della pace che si pubblicava, e pronunciò sentenza di scomunica contro il primo che ne violerebbe le condizioni.
Carlo d'Angiò risguardava questa pace come assolutamente contraria ai suoi interessi, perchè faceva abbastanza forti i [449] suoi amici onde non avere più bisogno de' suoi soccorsi, e sottraeva i nemici al rigore della sua vendetta. Per rompere questa pace, che gli era dannosa, non credette di valersi di coperte trame e d'impenetrabili artificj; fece sottomano sapere ai Ghibellini, che entravano in Firenze, d'aver dato ordine al suo maresciallo di ucciderli tutti nella vegnente notte, se non si affrettavano di ritirarsi. Il carattere di Carlo era abbastanza conosciuto perchè si prestasse intera fede a tali minacce; onde tutti i Ghibellini uscirono di città, prevenendo il papa dell'avviso ricevuto. Questi più di loro adirato e contro Carlo e contro i Guelfi fiorentini, si ritirò dopo quattro giorni in Mugello presso il cardinale Ubaldini, rimanendovi il restante della state, e pubblicò l'interdetto contro Firenze per avere mancato alla pace che aveva giurata[344].
Le negoziazioni del papa per pacificare i Genovesi ed indurli a soccorrere Terra santa non avevano miglior successo, [450] ed era sempre Carlo d'Angiò che le impediva. Due delle quattro più potenti famiglie di Genova, i Spinola ed i Doria, collegatesi col popolo, avevano procurato che si facessero molti cambiamenti nel governo per renderlo più democratico; ed avevano in cambio ottenuto che i due capi di queste famiglie, Oberto Doria ed Oberto Spinola, fossero dichiarati capitani del popolo, ed incaricati per un tempo indeterminato di tutte le incumbenze prima annesse alla carica di podestà. Questa rivoluzione ebbe luogo l'anno 1270, nell'epoca stessa in cui Carlo d'Angiò, confiscando i beni de' suoi proprj marinai genovesi, si alienava gli animi di que' cittadini: e fu questo pei nuovi governanti un motivo di favorire i Ghibellini. Dall'altra banda i Grimaldi ed i Fieschi coi capi delle altre famiglie nobili non erano lungo tempo rimasti subordinati al nuovo governo; perchè avendo inutilmente tentato di ribellargli molti castelli, furono costretti di esiliarsi; e riparatisi alla corte di Carlo, andavano istigando questo principe a muovere guerra a Genova per farli rientrare nella loro patria.
Realmente Carlo segnò un trattato coi Guelfi emigrati, in forza del quale dovea [451] per molti anni tenere la signoria di Genova; e subito dopo, senz'esservi stato provocato dalla repubblica, ordinò di prendere in tutti i porli de' suoi dominj i mercanti genovesi che vi si erano stabiliti sotto la guarenzia de' trattati, e di confiscare a suo profitto i loro vascelli e tutte le loro proprietà. Questo ladroneccio fu commesso in sul finire del 1272; ed in principio del susseguente anno, giuntone appena l'avviso a Genova, seguirono le dichiarazioni di guerra di tutti gli alleati del re, e di tutti i Guelfi del Piemonte.
I Genovesi dal canto loro dichiararono la guerra al re di Sicilia ed a tutti i suoi alleati; ma, benchè ne avessero giusta cagione, non usarono il diritto di rappresaglia, e si limitarono a dar ordine ai Provenzali e Siciliani di uscire nel termine di quaranta giorni dal territorio genovese, passato il qual termine, sarebbero trattati come nemici, e presi i loro beni. Il pontefice cercava di pacificare i Genovesi; e Carlo, approfittando dell'animosità che aveva eccitata nel partito guelfo di Toscana, gli attaccava colle armi de' suoi alleati. Faceva avanzare il suo vicario di Toscana nella riviera di Levante alla testa de' Lucchesi, Fiorentini, [452] Pistojesi ed Aretini, mentre il siniscalco di Provenza invadeva la riviera di Ponente, e gli Alessandrini ed i marchesi del Bosco e del Carreto entravano nella Liguria a traverso le montagne del nord[345]. Pure i Guelfi furono battuti su tutti i punti, e le truppe di Carlo furono rispinte.
Un'altra non meno importante guerra impediva ai Veneziani di soccorrere Terra santa. Essi erano stati attaccati dai Bolognesi, i quali pretendevano di non pagare le nuove gabelle, che i Veneziani avevano di fresco imposte alle mercanzie che montavano o scendevano pel Po in mare. Questa guerra che durò tre anni, e che sott'altri rapporti non presentò verun importante avvenimento, fu assai notabile per essersi incominciata dai Bolognesi quand'erano giunti al più alto grado della loro potenza. L'armata che questa sola città mandò sul Po di Primaro l'anno 1270 per fabbricarvi una fortezza che signoreggiasse la foce del fiume, era più numerosa, che le armate colle quali Manfredi, Carlo d'Angiò e Corradino [453] eransi disputati il regno di Napoli; e molti storici la portano a quaranta mila uomini. Vero è che per combattere i Veneziani in mezzo ai canali ed in riva alle lagune, non potevasi adoperare che l'infanteria; onde tutto il popolo prendeva parte in quest'impresa. Nelle altre guerre non gli uomini mancavano, ma i cavalli e le armature, onde mettevansi insieme pochissimi uomini d'armi. I Bolognesi ebbero compiuta vittoria de' Veneziani che avevano tentato d'impedire i loro lavori.[346] Questa fu la sola guerra che il papa potesse terminare nel presente anno; avendone ottenuto l'intento colla mediazione de' frati minori: i Bolognesi atterrarono il forte che avevano innalzato, ed i Veneziani accordarono ai loro vascelli il libero paesaggio sul Po.
Il papa non doveva essere molto soddisfatto di Carlo d'Angiò. Invece di favorire i suoi ambiziosi disegni, doveva temere l'ingrandimento di un principe di già troppo potente per la libertà della Chiesa, e però di questi tempi prese due [454] determinazioni che limitavano l'attuale potere di Carlo, e facevano cadere i suoi vasti progetti. Risolse di dare un imperatore all'Occidente, e di riconoscere per imperatore d'Oriente Michele Paleologo, che in tale occasione riconciliò i Greci colla chiesa romana.
L'impero d'Occidente, dopo la deposizione di Federico II nel precedente concilio di Lione, non aveva più avuto nessun capo universalmente riconosciuto dai sudditi e dalla Chiesa. I principi tedeschi desiderando come le città d'Italia di assicurare la loro indipendenza, parevano avvertitamente prendersi cura di dividere i voti tra i concorrenti, perchè niuno avesse a signoreggiarli. Inoltre ebbero l'accortezza di scegliere all'estremità dell'Europa principi che non avevano nè influenza ne rapporti colla Germania, onde la dignità imperiale altro non fosse che un vano titolo, e perchè le loro liti non dessero alla Germania cagione di guerre civili. Riccardo, conte di Cornovaglia, ed Alfonso X, re di Castiglia e di Leone, fecero assai poco male a sè medesimi ed al regno germanico colle opposte loro pretensioni. Riccardo era morto del 1271 dopo aver portato quattordici anni il titolo di re de' Romani. Alfonso era ancor vivo, [455] e gloriavasi altamente de' suoi diritti all'impero; ma, ad eccezione di pochi uomini d'armi che aveva mandati ai Ghibellini d'Italia, non aveva presa alcuna parte alle rivoluzioni del suo preteso impero, nè era una sola volta uscito dall'antico suo regno per cercare di stabilire la sua potenza sopra i suoi nuovi stati[347]. Forse alla Germania non veniva alcun danno da così lungo interregno; ma perchè il papa disegnava di unire le forze della cristianità contro gl'infedeli, desiderava di darle un capo. Perciò Gregorio ricusò di riconoscere Alfonso per re de' Romani; scrisse agli elettori, da tanto tempo divisi, di ritenere le antiche loro nomine come non fatte; e gli strinse a radunarsi ed a scegliere tra i principi tedeschi un uomo capace di rialzare co' suoi talenti il vilipeso impero. L'anno 1273 fu eletto Rodolfo, conte d'Absburgo, tronco dell'attuale casa d'Austria, essendo concorsi all'elezione non [456] solo gli elettori, ma tutti i principi di Germania. Questa nomina fu approvata dal papa, ed in appresso dal concilio generale di Lione; innanzi al quale gli elettori ecclesiastici, ed il vescovo di Spira, cancelliere di Rodolfo, replicarono a nome del loro signore la promessa di rispettare le libertà ecclesiastiche, e di non invadere i dominj della Chiesa[348].
Il papa chiese pure a Rodolfo di non attaccare il re di Sicilia, nè di far valere qual siasi diritto sul suo regno. Ma Carlo, benchè si trovasse con ciò sotto la protezione della chiesa, era assai inquieto per questa nomina d'un re de' Romani. Vedeva apertamente che la sua autorità in Toscana ed in Lombardia, e lo stesso suo titolo di vicario imperiale datogli dai papi, non potevano essere lungo tempo riconosciuti da un imperatore tedesco; ed i motivi di malcontento che sapeva d'aver dati al pontefice potevano fargli temere che questi non chiamasse finalmente [457] Rodolfo in suo soccorso per opporlo alle sue nuove usurpazioni.
Gli ambiziosi disegni di Carlo non rimanevano entro i confini d'Italia, ma stendevansi anche alla Grecia. Fino del 1267 aveva conchiuso un trattato col fuggiasco imperatore de' Latini, Baldovino II[349], il quale in vista de' promessi soccorsi cedeva a Carlo la sovranità del principato d'Acaja, e quasi tutte le terre che nell'impero orientale tenevansi ancora dai Latini, come pure gli prometteva la terza parte delle conquiste che farebbero in comune. In pari tempo Baldovino fece sposare a Filippo, suo unico figlio, Beatrice figlia di Carlo: ed essendo morto Baldovino del 1272, Filippo prese il titolo d'imperatore di Costantinopoli. Allora il re siciliano si credette strettamente obbligato a soccorrere suo genero, perchè potesse ricuperare i dominj de' suoi maggiori; ma Gregorio X aveva troppo a cuore gl'interessi di Terra santa per permettere che un'armata crociata si adoperasse in imprese [458] straniere al suo scopo nella speranza di riconquistare Costantinopoli, in tempo che aveva opportunità di allearsi coll'imperatore greco, dal quale poteva essere potentemente soccorsa. Accolse adunque gli ambasciatori che Michele Paleologo aveva mandati al concilio di Lione[350] per trattare almeno in apparenza la riunione delle due chiese, per la quale il papa veniva ad estendere la sua protezione sull'impero orientale, come su quello d'Occidente.
Glorioso, non v'ha dubbio, fu il pontificato di Gregorio X, ed avrebbe lasciate più profonde tracce nella memoria degli uomini, se Gregorio fosse vissuto più lungo tempo, o avesse avuto successori degni di lui. L'Italia quasi interamente pacificata dalla sua imparzialità, dopo che il furore delle guerre civili aveva spenta perfino la speranza di riposo; l'interregno dell'impero terminato coll'elezione d'un principe che si coprì di gloria e fondò una delle più potenti dinastie dell'Europa; la chiesa greca riconciliata colla latina, e la lite tra i Franchi ed [459] i Greci per l'impero d'Oriente terminata in una maniera giusta ed onorevole; un concilio ecumenico, cui assistettero cinquecento vescovi, sessanta abati mitrati ed altri mille religiosi o teologhi, il quale sotto la presidenza di questo pontefice si occupò di leggi utili al cristianesimo e degne di così augusta adunanza; tali sono gli avvenimenti che illustrarono il suo pontificato.
Una delle leggi di questo concilio ordinava di chiudere, come si praticò fino al presente, i cardinali in conclave, obbligandoli con diverse privazioni a riunire più presto i loro suffragi per l'elezione del capo della chiesa. Non si accordò loro che un solo domestico o conclavista, fu interdetta ogni comunicazione al di fuori, e ridotto il vitto ad una sola vivanda la mattina e la sera[351]. Il lungo interregno che precedette la elezione di Gregorio X, aveva pure spaventata tutta la chiesa, e mostrata la necessità di prevenire simili avvenimenti, che potevano finalmente privare per sempre il cristianesimo de' suoi capi.
(1275) Per terminare gloriosamente il pontificato, preparavasi Gregorio a condurre egli stesso una crociata in Terra santa, ed aveva impegnati tutti i sovrani d'Europa a trovarsi personalmente in quest'impresa. L'imperatore Rodolfo doveva esserne capo, e Filippo l'ardito, re di Francia, Edoardo, re d'Inghilterra, Giacomo, re d'Arragona, e Carlo, re di Sicilia, avevano promesso d'accompagnarlo[352]. A tutti i sovrani erano state accordate le decime ecclesiastiche per sei anni onde mettersi in istato di adunare le loro truppe, e l'anno 1275 destinato ai loro apparecchi. In tale anno il pontefice scorreva l'Europa onde stabilirvi la pace e riunire le forze del mondo cristiano pel grande scopo cui erasi proposto. Ma, mentre portavasi a Roma, cadde infermo in Arezzo e morì in poche ore ne' primi giorni del 1276. Appena era egli morto che i re, cui aveva ispirato il proprio entusiasmo, rinunciarono ai loro cavallereschi progetti; i Greci tornarono al loro scisma, ed i Cattolici, interamente divisi, volsero gli uni contro gli altri quelle armi che [461] avevano destinate alla liberazione di Terra santa[353].
(1276) Durante il viaggio del pontefice in Francia eransi manifestate in Romagna, in Toscana ed in Lombardia le passioni compresse dalla sua presenza, le quali egli sembrava avere incatenate col vigore e colla santità del suo carattere. A Bologna, del 1273, un tragico avvenimento aveva ridestato l'odio di due già rivali famiglie, le quali trassero seco nella privata loro contesa tutti i cittadini, e fecero rapidamente cadere la loro patria da quell'alto grado di potenza e di gloria cui erasi innalzata in quell'epoca.
Da lungo tempo i Geremei trovavansi alla testa del partito guelfo in Bologna, ed i Lambertazzi del ghibellino; e sebbene in questa città si fosse prima che altrove manifestata la tendenza del popolo alla democrazia, i nobili avevano saputo conservarsi sopra le fazioni quel credito ch'era loro rifiutato nell'amministrazione della repubblica. I Geremei ed i Lambertazzi, opposti in ogni occasione, avevano concepito gli uni per gli altri una violenta avversione; ma il governo [462] aveva fin allora saputo contenerli, e reprimere i loro odj entro le stesse mura ove sedevano ne' medesimi consigli.
Due giovanetti Bonifacio Geremei, ed Imelda, figlia d'Orlando Lambertazzi, dimenticato il vicendevole odio delle loro famiglie si amavano teneramente. Un giorno Imelda consentì di ricevere l'amante suo nella propria casa; ma quando credevano di non essere osservati, una spia rivelò ai fratelli Lambertazzi la debolezza della sorella: essi entrarono furibondi nelle sue camere; l'incauta fanciulla appena ebbe tempo di salvarsi colla fuga; senza che l'amante potesse fare altrettanto: ed uno de' fratelli ferì nel cuore l'infelice Bonifacio con uno di que' pugnali avvelenati di cui i Saraceni ne avevano introdotto l'uso, e di cui in questa epoca il vecchio della montagna soleva armare i suoi terribili assassini. I Lambertazzi nascosero sotto alcuni rottami in un cortile abbandonato il cadavere dello sventurato giovane; ma appena ritiratisi, Imelda seguendo le tracce del sangue sparso, scoprì il corpo dell'amante. La sola cura che desse qualche speranza di guarire le ferite avvelenate era quella di succhiare la piaga ancora sanguinosa. In tal [463] modo tre anni prima Edoardo d'Inghilterra era stato salvato dall'amore della tenera Eleonora. Un avanzo di vita pareva ancora animare il corpo di Bonifacio: Imelda diede cominciamento al suo triste ministero, e dalla ferita del suo amante succhiò un sangue avvelenato, che portò nel suo seno i semi d'una subita morte. Quando sopraggiunsero le sue donne giaceva di già senza vita a lato al cadavere del troppo amato giovane[354].
Dopo tale avvenimento l'odio de' Lambertazzi e dei Geremei più non potè essere contenuto dalle leggi: s'allearono coi popoli prima nemici della loro patria; i Geremei coi Modonesi, i Lambertazzi cogli abitanti di Faenza e di Forlì; e volendo pure far adottare dalla loro patria le loro nimicizie, o le loro alleanze, i Geremei condussero sulla pubblica piazza il carroccio, in segno d'una vicina spedizione contro le città di Romagna, ed i Lambertazzi gli attaccarono. Per lo spazio di quaranta giorni le due fazioni s'azzuffarono continuamente sulla piazza principale o intorno ai palazzi fortificati dei capi delle fazioni nemiche. [464] Finalmente, dopo avere versato molto sangue, i Geremei s'impadronirono di tutte le fortezze dei Lambertazzi, i quali furono costretti di sortire di città coi loro amici e con tutto il partito ghibellino. Giammai in alcuna guerra civile fu spinto più lontano l'abuso della vittoria: dodici mila cittadini furono colpiti da una sentenza d'esilio, confiscati i loro beni; e le loro case, dopo essere state abbandonate al saccheggio, furono atterrate[355].
Frattanto i Lambertazzi si afforzarono, del 1275, nelle città di Romagna ove eransi rifugiati, e specialmente a Forlì ed a Faenza. I Ghibellini, perseguitati presso che in tutta l'Italia, si unirono intorno ai Lambertazzi; il conte di Montefeltro si pose alla loro testa, ed acquistò quella riputazione di grande capitano di cui godè in seguito presso tutte le città d'Italia. Due volte nel 1275 ruppe i Geremei ed i Guelfi presso il ponte di san Procolo, e fece due volte tremar [465] Bologna, che fu in procinto di venire in mano de' Ghibellini. Onde, per assicurarsi dalle loro intraprese, chiese soccorso al re Carlo, il quale l'anno 1276 le mandò per governatore Riccardo di Beauvoir, signore di Durford, con alcune compagnie d'uomini d'armi.
La Toscana parve tutt'intera riunita alla parte guelfa; la repubblica di Siena erasi affatto abbandonata al governo di questa fazione; e quella di Pisa, datasi a Carlo, aveva ottenuta l'assoluzione della chiesa: ma durante il viaggio del papa in Francia, si riaccese la guerra tra questa città ed i Guelfi; ed in pari tempo scoppiò nella repubblica di Pisa quella intestina discordia che dodici anni più tardi condusse a crudel morte il troppo famoso conte Ugolino co' suoi figliuoli.
Nel tredicesimo capitolo abbiamo indicata l'origine delle fazioni che sotto nome de' Conti e de' Visconti lacerarono la città di Pisa. Abbiamo detto che i Visconti, signori d'una parte della Sardegna, e soprattutto di Gallura, avevano fatto omaggio del loro principato al papa per rendersi indipendenti della repubblica, ed avevano poi chiesta la protezione della chiesa contro la loro patria [466] e contro il re Enzo, figliuolo di Federico II. Abbiamo altresì detto che i conti della Gherardesca e di Donoratico, caldi partigiani dell'imperatore, avevano riclamato più fortemente degli altri contro l'affettata indipendenza de' loro rivali; indipendenza che qualificavano di ribellione contro la repubblica. Dopo quest'epoca, i Visconti conservaronsi attaccati alla Chiesa; e perchè il contrario partito dominava in Pisa, per l'ordinario risedevano nella loro giudicatura o principato di Gallura. All'opposto i Gherardeschi avevano in ogni occasione dato prove del loro attaccamento al partito ghibellino, servendo sotto Manfredi; e due di loro seguendo Corradino nella sventurata sua spedizione, gli erano stati fedeli compagni nella prospera come nell'avversa sorte, finchè presi in Astura con lui e col duca d'Austria, perirono insieme sullo stesso palco. Però un altro dei conti Gherardeschi, Ugolino, diventato capo della sua famiglia per la morte de' due precedenti, sembrava meno disposto ad assecondare l'attaccamento disinteressato de' suoi padri al proprio partito, o i doveri d'una vendetta di famiglia, che gl'interessi della sua ambizione. Aveva perciò data sua [467] sorella per consorte a Giovanni Visconti giudice o sovrano di Gallura, formando in tal modo un legame di cognazione tra i capi delle opposte parti. Non già che con ciò apertamente rinunciasse al partito ghibellino; ma solo sforzavasi colle sue pratiche d'assodare presso le due opposte fazioni il suo potere, e farsi strada alla tirannide.
Dal canto suo Giovanni di Gallura era tornato a Pisa quando questa città si riconciliò colla Chiesa, ma vi aveva portati i costumi e le abitudini di un capo d'una semibarbara tribù della Sardegna. Era sempre circondato di soldati e di clienti, e perchè non era stato a costoro permesso di vivere entro le mura della città, egli gli aveva sparsi ne' castelli di confine, e specialmente a Calci, ove un'antica disputa tra i borghesi faceva accogliere da un partito queste bande indisciplinate.
I migliori cittadini di Pisa, e più di tutti gli antichi capi del partito ghibellino, i Gualandi, Sismondi e Lanfranchi, erano egualmente inquieti e della rivalità del conte Ugolino col giudice di Gallura, come della loro alleanza. Per altro non volendo rompere la pace di Toscana, o dar motivi di scontento al [468] re Carlo ed ai Fiorentini, credettero che la repubblica dovesse mostrarsi assolutamente imparziale ne' suoi giudicj, ed allontanare ad un tempo que' turbolenti cittadini che sprezzavano le leggi, qualunque fosse il partito cui erano addetti. Il 24 giugno 1274 il giudice di Gallura fu esiliato co' suoi principali compagni d'armi, ed il conte Ugolino fu tenuto prigione nel palazzo del popolo[356]. Il primo andò a dirittura a Firenze, e fingendo che i Pisani non lo perseguitassero che in odio del partito guelfo, ottenne d'essere accettato nell'alleanza de' Guelfi toscani. Allora colle milizie fiorentine e lucchesi venne ad assediare il castello di Montopoli, di cui s'impadronì nel mese d'ottobre. Ma, mentre continuava ad offendere la sua patria, morì a san Miniato in maggio del susseguente anno, lasciando un figliuolo chiamato pure Giovanni, che per distinguerlo dal padre fu poi detto Nino di Gallura. Questo giovane, nipote per parte della [469] madre del conte Ugolino, fu in avvenire tra i Pisani il capo del partito guelfo.
Questa parentela rese il conte ancora più sospetto ai Ghibellini che governavano Pisa, onde fu esiliato in luglio del 1275. Passò subito a Lucca, e si unì ai Guelfi, come aveva fatto il giudice di Gallura[357]. Frattanto Pisa, snervata dall'abbandono dei capi delle due fazioni, trovavasi troppo debole per tener fronte all'intera Toscana contro di lei congiurata, a' suoi proprj emigrati ed alle truppe del re Carlo. I Pisani furono la prima volta battuti ad Asciano, ove perdettero molta gente; poi l'anno susseguente a Fosso Arnonico; onde si videro costretti a ricevere di nuovo in città tutti gli esiliati, loro accordando la principal parte del governo. Ma Ugolino che non solo erasi alleato coi nemici della sua patria, ma ancora con quelli della sua fazione e della sua famiglia, non potè mai più purgarsi da questa taccia agli occhi de' suoi concittadini. Lo stesso anno (1276) in cui fu richiamato, Ruggero degli Ubaldini, uscito da una famiglia [470] di Muggello, ch'era sempre stata ghibellina, venne promosso all'arcivescovado di Pisa[358]. Egli era quello che del 1288 doveva fare crudelmente pagare al conte Ugolino la pena de' suoi tradimenti.
Intanto, dopo la morte di Gregorio X, tre papi governarono la Chiesa nello spazio di dodici mesi: Innocenzo V, Adriano V e Giovanni XXI. La breve ed incerta loro amministrazione non lasciò tracce degne dell'istoria; ma durante il loro regno nel Nord dell'Italia una rivoluzione abbattè la famiglia della Torre in Milano, sostituendovi quella de' Visconti che ben tosto soggiogò tutta la Lombardia.
Il capo della famiglia della Torre era stato già da più anni creato anziano perpetuo del popolo milanese; ed in tale qualità esercitava sopra Milano e sulle vicine città una quasi assoluta autorità. Fino dal 1265 Napoleone della Torre era stato rivestito di tale dignità, ed egli aveva divise tra i suoi fratelli ed i più prossimi parenti le principali cariche dello stato. A Raimondo della Torre, altro de' suoi fratelli, Gregorio X aveva accordato il [471] patriarcato d'Aquilea, che allora risguardavasi come il più ricco beneficio d'Italia: e tale era la potenza di questa casa, che, oltre le truppe del comune di Milano, poteva colle proprie sue forze mettere in piedi millecinquecento cavalieri[359]. I della Torre tenevano in esilio Ottone Visconti, eletto arcivescovo di Milano, che erasi posto alla testa de' nobili e de' Ghibellini esiliati; le perpetue loro guerre con questi fuorusciti avevano esauriti i loro tesori, che avevano poi cercato di rifare con gravissime imposizioni, le di cui esazioni avevano indisposto quel popolo, dai della Torre in altri tempi protetto contro i nobili. Pure finchè durò il pontificato di Gregorio X, siccome questo pontefice non voleva che alcuna rivoluzione ritardasse la crociata da lui meditata, non aveva mai dato verun appoggio all'arcivescovo Ottone per metterlo in possesso d'una sede, cui era stato canonicamente eletto; e questo arcivescovo, sostenendo solo la guerra alla testa de' gentiluomini piuttosto come un condottiere che come un prelato, era stato chiamato per una continuata serie di romanzesche avventure [472] a dar prove ad un tempo di pazienza e di coraggio.
Nell'anno 1276 che tre papi erano stati successivamente rapiti alla santa sede quando appena vi erano ascesi, Ottone si rese forte ed audace. Alleatosi col marchese di Monferrato, formò un corpo di emigrati milanesi, cui aggiunse alcuni cavalieri spagnuoli, che Alfonso X aveva mandati in Lombardia, quando credeva di far valere i suoi diritti all'Impero. In sul finire di quest'anno, sebbene Ottone avesse avuto qualche rovescio, trovavasi in possesso di Como e di alcuni castelli vicini al lago. In gennajo del 1277 s'impadronì di Lecco e di Civate, e s'avanzò, attraversando la Martesana, verso Milano. Napoleone della Torre gli andò incontro co' principali signori della sua famiglia e con circa settecento cavalli; ma perchè trattavasi d'un nemico più volte vinto, non si tenne abbastanza in guardia, e passò la notte del 20 al 21 gennajo a Desio senza assicurarsi da una sorpresa.
Nel cuore della notte l'arcivescovo introdotto da' suoi seguaci nella terra di Desio, attaccò mentre dormivano i suoi nemici. Francesco della Torre ed Andreotto, suo nipote, e Ponzio degli Amati, [473] podestà di Milano, furono uccisi: Napoleone fu fatto prigioniero con cinque de' suoi parenti, e perchè era caduto in mano de' Comaschi, questi per vendicarsi d'un eguale trattamento ch'egli aveva fatto ad alcuni loro compatriotti, posero i sei prigionieri in tre gabbie di ferro.
Due signori della Torre, Gastone, figliuolo di Napoleone, e Goffredo, essendo ancora liberi a Cantù ove comandavano un corpo di cavalleria, corsero a Milano per chiamare il popolo a prendere le armi ed a liberare i loro parenti; ma il popolo, informato della disfatta de' Torriani, si era di già rivoltato contro di loro, e ne saccheggiava le case, intorno alle quali aveva palificate le strade. Gastone e Goffredo cercarono, scorrendo quelle medesime strade, di sedare il tumulto, ma i sassi cadevano loro addosso per ogni parte[360]. Intanto i cittadini armati concorrevano al Broletto vecchio e risolvevano di mandare deputati all'arcivescovo [474] Ottone per dargli avviso che i Milanesi lo avevano creato signore perpetuo della loro città e per invitarlo ad entrarvi. Per la qual cosa i Torriani, non vedendosi sicuri, sortirono dalia città, pensando di ritirarsi a Lodi o a Cremona; ma queste due città già loro soggette non vollero riceverli, e solamente in Parma trovarono essi un asilo sicuro.
In tal maniera fu fondata la sovranità della casa Visconti sopra i Milanesi, e ben tosto sul restante della Lombardia[361]. Questa era già una dinastia che succedeva ad un'altra: i Torriani che si erano innalzati come demagoghi, vi avevano introdotte delle costumanze monarchiche, abbassando la nobiltà e scacciandola dalla patria. Quando i Visconti entrarono alla testa della medesima nobiltà lungo tempo proscritta, minata e resa mercenaria, trovarono il popolo corrotto dalla servitù ed i grandi snervati dall'esilio. Più non eravi nella nazione spirito d'indipendenza, [475] carattere elevato, nè amore di libertà: e perciò, quantunque si mantenessero ancora lungo tempo in vigore e consigli repubblicani e società popolari, essendo mancato quello spirito di vita che avrebbe dovuto animarli, non furono di ostacolo alle usurpazioni del nuovo signore, il di cui potere si trasmise da padri virtuosi a figliuoli perduti ne' vizj, o affatto inetti, senza che però la nazione cercasse mai di riprenderlo, o che i Milanesi, quand'ancora attaccarono la famiglia Visconti, pensassero a riporsi in libertà.
In questo stesso anno i cardinali diedero per capo alla Chiesa Giovanni Gaetano degli Orsini, che si fece chiamare Nicolò III. Questo pontefice apparteneva ad una delle più illustri famiglie di Roma: aveva la fierezza e l'ambizione convenienti alla sua nascita; e benchè il suo carattere fosse meno puro di quello di Gregorio X e meno disinteressata la sua condotta, benchè si occupasse dell'ingrandimento della sua famiglia o della santa sede, e giammai del bene generale del cristianesimo; pure egli contribuì più che Gregorio X al ristabilimento della libertà in Italia, perchè meno di lui impegnato nell'impresa di Terra santa, [476] sentì che bisognava ristabilire nella propria patria quell'equilibrio che i suoi predecessori avevano distrutto, ed abbassare la potenza di Carlo da loro troppo innalzata.
Carlo era in allora assoluto sovrano delle due Sicilie, senatore di Roma, vicario imperiale in Toscana, ove più non contavasi una sola città che non fosse a lui subordinata; governatore di Bologna, e come tale signore di tutte le città guelfe della Romagna; protettore del marchese d'Este, e perciò onnipossente per mezzo suo nella Marca Trivigiana; signore di molte città del Piemonte e prossimo ad opprimere le altre, alle quali faceva già la guerra. Nicolò III con un'accortezza singolare approfittò della grande potenza di questo re, che dicevasi tuttavia vassallo della Chiesa, per far desiderare all'imperatore Rodolfo la sua amicizia. Quand'ebbe in questa guisa contratta alleanza coll'Impero, vendette a Carlo la sua protezione presso l'imperatore a prezzo d'importantissime concessioni: in seguito la moderazione del re di Sicilia si diede a Rodolfo come regola di condotta, ed il pontefice ottenne in tal modo di determinare, uno col mezzo dell'altro, i due sovrani rivali [477] ch'egli temeva, a spogliarsi in suo favore delle prerogative che gli avevano resi formidabili.
Rodolfo dava voce di venire presto a Roma a prendere la corona dell'Impero, e già stava apparecchiando l'armata che doveva accompagnarlo; ma in pari tempo lagnavasi di Carlo perchè avesse usurpati i suoi diritti su quasi tutta l'Italia, intitolandosi vicario imperiale, quando niun imperatore gli aveva accordato questo titolo. Rodolfo accoglieva i Ghibellini, che, perseguitati in ogni parte d'Italia per la causa dell'Impero, affrettavansi d'adunarsi intorno al nuovo imperatore. Sebbene non avesse questi dichiarata la guerra al re di Sicilia, si prevedeva che l'imminente sua spedizione sarebbe contro di lui diretta. Di che mostrandosi Carlo timoroso, Nicolò si diede premura d'intromettersi tra i due monarchi per riconciliarli, predicando loro moderazione.
Rodolfo era tanto più da temersi, che era uscito vittorioso da una pericolosa guerra con Ottocarre di Boemia, nella quale questo principe aveva perduta la vita; e che aveva conquistati colle sue truppe ed uniti a' suoi stati i ducati d'Austria, di Stiria e di Carinzia. Carlo [478] che temeva la potenza ed il valore di questo imperatore, non poteva far valere alcun diritto sulla Toscana e sulla Lombardia, che pure erano l'argomento della loro controversia; poichè in forza ancora della sua bolla d'investitura e del giuramento che accompagnava il suo vassallaggio verso la santa sede, egli aveva convenuto che queste province non potrebbero essere mai possedute dal re delle due Sicilie, e ch'egli erasi obbligato a rinunciare al vicariato di Toscana ed al senatorato di Roma qualunque volta il papa lo richiedesse. Nicolò III fece questa domanda come necessaria condizione della pace, ch'egli trattava tra Carlo e Rodolfo, ed il 16 di settembre del 1278 Carlo depose l'ufficio di senatore di Roma[362]; rinunciò al vicariato di Toscana; richiamò le sue truppe da questa provincia, e rese al cardinal Latino, incaricato dal papa di far eseguire questa promessa, tutti i castelli in cui teneva [479] guarnigione, tutti gli ostaggi ch'egli erasi fatti dare dalle città. Supponeva il papa che in tali circostanze Carlo manifesterebbe del malumore, somministrando così un pretesto per trattarlo con maggiore severità. Ma quando seppe che aveva ricevuto gentilmente il cardinal Latino, e che la sua moderazione non erasi smentita ne' discorsi, disse: «Questo principe può avere ereditata la fortuna dalla casa di Francia, la finezza da quella di Spagna, ma la circospezione nel parlare non può averla imparata che frequentando la corte di Roma[363].»
Carlo, dietro le istanze di Nicolò, aveva accordata piena soddisfazione a Rodolfo, onde questi non poteva sotto verun pretesto rifiutarsi alle domande del papa. La promessa solenne fatta a Gregorio X di crociarsi, che più non pensava di soddisfare, rendevagli necessario il favore di Nicolò, poichè il solo papa poteva assolverlo dal giuramento e dalla scomunica. Rodolfo in vista di tali considerazioni accordò finalmente la carta da tanto tempo richiesta per separare chiaramente in Italia le province dipendenti dalla santa sede o dall'Impero.
[480] Da oltre un secolo tutti gl'imperatori, all'epoca della loro incoronazione avevano confermato alla santa sede il possedimento di tutto lo stato ecclesiastico da Radicofani sino a Ceperano, ossia fino alle frontiere del regno di Napoli; e di più di tutta l'Emilia, o Romagna, della Marca d'Ancona e della Pentapoli. La santa sede che non aveva mai posseduto queste tre ultime province, facendo fondamento sulla sua perpetuità, non si era affrettata di domandarne il godimento, e soltanto si era data cura di far confermare le donazioni più volte contrastate di Carlo Magno e di Luigi il buono, aspettando che i suoi diritti avessero acquistata la forza che loro poteva dare l'antichità. Gl'imperatori, tutti occupati soltanto del presente, avevano risguardate come vane formole le carte, che copiate da più antichi documenti conservavano alla santa sede un titolo sopra alcune province delle quali avevano essi l'attuale godimento. Ma come i papi l'avevano preveduto, giunse il tempo nel quale un nuovo imperatore, ignorando i diritti della sua corona, e perfino la geografia dell'Italia; impotente ancora nelle province delle quali non gli si contrastava l'alto dominio, prese [481] per titoli indubitati i contraddittorj diplomi de' suoi predecessori.
Un cancelliere imperiale aveva scorse tutte le città italiane, ed aveva senza difficoltà ottenuto il rinnovamento degli stessi giuramenti, ch'esse prestavano agli altri imperatori. Nicolò scrisse a Rodolfo per intimargli di rinunciare ad una sacrilega usurpazione[364]. Gli mandò copia delle carte di Luigi il buono, di Ottone I e d'Enrico VI, e gli chiese d'esprimere con eguale chiarezza quali fossero le città spettanti alla Chiesa, onde liberarle dal giuramento di fedeltà che avevano prestato per errore. Difatti Rodolfo, colle sue lettere patenti del quattro delle calende di giugno, riconosce che gli stati della Chiesa stendevansi da Radicofani a Ceperano; che comprendevano inoltre la Marca d'Ancona, il ducato di Spoleti, le terre della contessa Matilde, il contado di Bertinoro, l'esarcato di Ravenna, la Pentapoli, Massa Trabaria, e tutti gli altri luoghi che un grande numero di diplomi imperiali hanno accordato a san Pietro ed a' suoi [482] successori[365]. Quest'ultima clausola lasciando così libero il campo a nuove usurpazioni, Rodolfo in pari tempo rivocò ed annullò il giuramento di fedeltà che il suo cancelliere aveva ricevuto dai cittadini di Bologna, Imola, Faenza, Forlimpopoli, Cesena, Ravenna, Rimini, Urbino ed altri luoghi pretesi dalla Chiesa, ed ordinò al suo protonotaro di dar parte a tutti i cittadini di questi luoghi, che gli aveva sciolti da ogni obbligazione verso di lui.
In forza del diploma di Rodolfo, lo stato della Chiesa acquistò l'estensione conservata fino ai nostri giorni. Ma i diritti de' quali era in possesso l'imperatore, quelli che poteva trasmettere alla santa sede, altro non erano che una dipendenza, una signoria che pochissimo ristringeva l'autorità de' particolari governi. [483] Tra le province dipendenti dalla santa sede eranvi molte repubbliche, come Bologna, Perugia ed Ancona; varj principati, quali erano Montefeltro e Bertinoro, che non s'avvisarono d'avere in verun modo perduta la loro indipendenza. E come i pontefici avevano lasciati passar molti secoli prima di domandare agl'imperatori la consegna delle province ch'essi avevano date alla santa sede, così lasciarono decorrere altri due secoli prima di chiedere ai popoli di riconoscere questa trasmissione di diritti, o d'esercitare sui medesimi la loro sovranità. Il poter aspettare, essere prodighi del tempo e calcolare sopra una signoria che non avrà fine, fu sempre pei papi un sicuro mezzo a giugnere ai loro fini. Intanto i popoli liberi non credettero peggiorata la loro condizione. Gli storici contemporanei di Bologna si accontentano di dire che lo stesso anno la città si diede al papa, riservandosi tatti i diritti sopra la Romagna; e non suppongono che tale avvenimento meriti ulteriori schiarimenti[366].
Nicolò III, dopo avere accresciuti i diritti ed i possedimenti della santa sede, volle procurare alla propria famiglia il frutto de' suoi acquisti. Nominò conte di Romagna Bertoldo Orsino suo fratello[367]; creò tre cardinali della sua famiglia, e diede pure la porpora a molti signori romani che voleva rendersi ben affetti, onde procurarsi la maggiorità de' suffragi nel sacro collegio. Ma per quanto fosse grande la sua ambizione, pareva combinarsi sempre col mantenimento della pace e della pubblica prosperità. Incaricò il prediletto de' suoi nipoti, il cardinal Latino, vescovo d'Ostia, d'una legazione in Romagna, nella Marca, nella Toscana, nella Lombardia, commettendogli specialmente di riconciliare le fazioni, le città e le famiglie. Lo autorizzò pure a ricevere di nuovo nel seno della Chiesa tutti coloro che erano stati scomunicati come Ghibellini, ed a non avere parzialità per alcun partito spargendo tra i fedeli gli spirituali favori.
Il cardinale Latino cominciò in Romagna la sua missione di pace: vi trovò i Geremei ed i Lambertazzi di Bologna indeboliti da una lunga serie di combattimenti. I primi, ch'erano rimasti in possesso della città, non erano sufficienti a difenderne il territorio, ed ogni giorno provavano nuove perdite, mentre i secondi, nel loro esilio non avendo più nulla da perdere, con improvvisi attacchi si assicuravano quasi sempre la vittoria. Il cardinale incominciò dal far riconoscere in ogni città l'autorità di suo cugino, il nuovo conte di Romagna, affinchè queste dominate da' Guelfi o da' Ghibellini che fossero, trovandosi dipendenti da un capo solo avessero un punto d'unione ed un arbitro delle loro discordie. Recossi in tutte queste città col conte Bertoldo; e perchè il cardinale era predicatore dell'ordine di san Domenico, nell'istante dell'inaugurazione del conte, predicò la pace ai Lambertazzi a Faenza ed a Forlì, ed a' Geremei a Imola ed a Bologna. Giunto in quest'ultima città, dietro gli espressi ordini avuti dal papa, adunò cinquanta commissarj d'ogni fazione, ai quali presentò un progetto d'accomodamento fatto dallo stesso papa, in forza del quale i Lambertazzi e tutti i fuorusciti dovevano [486] essere chiamati a Bologna e riammessi all'intero godimento de' loro beni. Erano peraltro eccettuati alcuni capi, la di cui presenza avrebbe potuto risvegliare i sopiti odj, i quali per certo determinato tempo dovevano ancora soggiornare fuori di Bologna ne' luoghi che loro assegnerebbe il papa; tutte le proprietà prese da ambe le parti dovevano essere restituite; le società popolari, che non servivano che a tener vivo lo spirito di partito ed a far nascere le guerre civili, furono abolite; per ultimo, il papa riservavasi il diritto di mantenere con tutte le pene ecclesiastiche, se il bisogno lo richiedesse, le condizioni della presente pace[368].
(1279) Dopo lunghi trattati la pace fu finalmente conchiusa sotto le condizioni dettate dal papa; ogni partito garantì la pace colla promessa di cinquanta mila marche d'argento; ogni comune della Romagna segnò pure il trattato e diede cauzione per una determinata somma. Finalmente il giorno 4 agosto del 1279 essendo stati conchiusi tutti questi trattati, le due fazioni de' Geremei e de' Lambertazzi si adunarono sulla piazza [487] di Bologna, tutt'all'intorno ornata di ricchi tappeti sparsi di ghirlande di fiori e di festoni di verzure. Stava presso la porta dei palazzo una cattedra magnifica coperta di broccato, nella quale andò a sedere il cardinal legato, accompagnato dagli arcivescovi di Bari e di Ravenna, dai vescovi di Bologna e d'Imola e dall'abate di Galliati, tutti pontificalmente vestiti. Il legato con un eloquente discorso predicò la pace ai cittadini adunati, fece in appresso leggere le lettere del papa ed il sottoscritto compromesso; e infine fece che si avanzassero cinquanta de' più riputati cittadini d'ogni fazione, e fece loro giurare sul santo vangelo, in nome di tutti i loro concittadini, di vivere continuamente in buona pace ed amicizia gli uni cogli altri. I procuratori ed i sindaci delle due fazioni si abbracciarono, e quest'augusta cerimonia si terminò con feste rallegrate dalla gioja universale[369].
Prima che avesse fine il pacificamento di Bologna, il cardinale Latino erasi allontanato da quella città per pacificare anche le città della Toscana. Giunse a Firenze il giorno 8 d'ottobre del 1278, accompagnato da trecento cavalieri, sudditi della chiesa. Vennero ad incontrarlo i magistrati, il clero ed il popolo, preceduti dal carroccio. Firenze non abbisognava meno di Bologna d'un paciere; perchè non solamente trovavansi esiliati i Ghibellini, ma si era pure manifestata nel partito guelfo una nuova divisione. La casa degli Adimari erasi inimicata con quelle dei Donati, dei Tosinghi e dei Pazzi; e queste numerose e potenti famiglie avevano ridotto il popolo a prendere parte alla loro lite. Il cardinale legato impiegò quattro mesi a soffocare queste private nimistà, ad assicurare la riconciliazione delle famiglie coi matrimoni, a punire colla scomunica coloro che rifiutavansi di pacificarsi, i quali poi erano dalla repubblica esiliati. Dopo le quali pratiche, in febbrajo del 1279 adunò il popolo in parlamento sulla piazza di santa Maria Novella, ch'era stata per tale circostanza ornata di fiori; esortò i Fiorentini alla pace, della quale pronunciò le condizioni: il ritorno de' Ghibellini [489] in patria, la restituzione dei loro beni, la partecipazione agli ufficj pubblici; impegnò centocinquanta de' più ragguardevoli cittadini d'ambo le parti a darsi in presenza del popolo il bacio di pace; fece bruciare tutte le sentenze ch'erano state pronunciate; e non abbandonò Firenze finchè non ebbe ristabilita la tranquilità e la concordia[370].
Anche a Siena si fece la pace per le persuasioni dello stesso cardinale a condizioni press'a poco eguali; e furono richiamati i Ghibellini esiliati[371]. Pacificate la Marca d'Ancona, la Romagna e la Toscana, altro non rimaneva al compimento della missione del cardinal Latino che di riconciliare anche in Lombardia i Guelfi ed i Ghibellini. Il re Carlo che, avanti il pontificato di Nicolò, era stato l'arbitro d'Italia, vedevasi ora ridotto al solo governo delle Sicilie; rotti erano tutti i suoi progetti, i suoi nemici tornati al possedimento de' loro beni e del governo della loro patria, quando il [490] papa, sorpreso dalla gocciola, improvvisamente morì a Suriano[372].
Carlo non aveva fatto conoscere quanto fosse irritato per la condotta del papa; ma mentre dissimulava le sue ingiurie, andava assicurandosi della seguente elezione, onde non fosse dato alla chiesa per capo un suo nemico. Quand'ebbe avviso della morte di Nicolò, recossi subito a Viterbo ove trovavansi adunati i cardinali; e siccome Giovanni XXI nel suo breve pontificato aveva sospesa la costituzione di Gregorio X, in virtù della quale i cardinali dovevano essere chiusi in conclave, Carlo seppe ben tosto in quali partiti era diviso il sacro collegio. Aveva contro di lui tutti i cardinali italiani, e particolarmente i parenti dell'ultimo papa. Per giugnere a' suoi fini fece nascere in Viterbo una sedizione, durante la quale fece rapire i due cardinali Orsini e il cardinale Latino e li sostenne in una specie di prigione, mentre strigneva gli altri a nominare il papa[373]. Dopo un interregno di [491] sei mesi i cardinali italiani che restavano in conclave, spaventati dalla sorte dei loro colleghi, il 22 febbrajo del 1281 unirono i loro suffragi a quelli de' cardinali francesi e nominarono papa Simone, cardinale di santa Cecilia, in addietro canonico di Tours. Carlo non poteva scegliere un uomo che gli fosse più attaccato, che più ciecamente favoreggiasse i suoi progetti, o più bassamente servisse alle sue passioni in onta delle leggi della chiesa e dell'interesse della Cristianità.
Al re di Sicilia non poteva riuscire utile il riconciliamento delle due fazioni in Italia: per lo contrario la sua ambizione non potev'essere soddisfatta che dal trionfo de' Guelfi e dalla ruina de' Ghibellini. Il nuovo papa, che fecesi chiamare Martino IV, spogliò del comando della Romagna il conte Bertoldo Orsino, e diede questo contado ad un ufficiale di Carlo, detto Giovanni d'Appia, cui ordinò di attaccare i Ghibellini ed i Lambertazzi cacciati nuovamente da Bologna; di perseguitare Guido di Monte Feltro loro generale, e d'assediare Forlì ove tutti eransi ritirati[374]. [492] Invano questi, già traditi a Faenza da Tibaldello Zambrasi, che approfittò del sonno de' suoi ospiti per darli colla sua patria in mano de' Guelfi[375], spedirono ambasciatori al papa per rappresentargli ch'erano esiliati e proscritti in ogni luogo. Proponevano di ritirarsi ancora da Forlì, purchè il papa loro assegnasse un luogo in cui potessero vivere. Martino non si degnò di rispondere, ed invece li colpì con nuove scomuniche, ordinando in tutta la cristianità il sequestro dei beni degli abitanti di Forlì a profitto della santa sede.
Martino erasi fatto nominare senatore di Roma; ma invece di conservare per sè una dignità conferitagli dal popolo, la trasmise subito al re Carlo, in onta alle costituzioni di Nicolò III, che escludevano [493] i re ed i principi potenti dalla dignità senatoriale. Nello stesso tempo distribuì le truppe francesi non solo in tutta la Romagna, ma nella Marca d'Ancona, nella Campania, nel ducato di Spoleti e nel patrimonio di san Pietro, dando a tutte le città governatori e comandanti, che sceglieva tra gli ufficiali, o nella stessa famiglia del re siciliano. Carlo, per non perdere di vista questo pontefice che vivea sotto la sua tutela, dimorava sempre con lui in Viterbo[376].
Finalmente il re di Sicilia volgeva gli ambiziosi suoi pensieri alla Grecia, che meditava di togliere a Paleologo per darla a suo genero Filippo, figliuolo dell'ultimo imperatore de' Latini; e Martino IV cercò d'adonestare questa nuova guerra con motivi di religione. Scomunicò Michele Paleologo per essere ricaduto nello scisma, o eresia de' Greci[377], accomunando la stessa pena a tutti coloro che contraessero con lui alleanza, o gli prestassero ajuto, mentre l'infelice Paleologo, per aver voluto rappacificarsi colla chiesa d'Occidente, erasi provocato l'anatema del suo clero e di tutti i suoi [494] sudditi. La ribellione era scoppiata ne' suoi stati, e Carlo non aveva avuto vergogna di soccorrere gli scismatici, che non eransi ribellati contro il loro sovrano che per avere egli cercato di riconciliarli col papa[378].
Intanto Carlo annunciava qual nuova crociata la spedizione che stava preparando contro Costantinopoli. Egli aveva formato un numeroso corpo di cavalleria, chiesti soccorsi a tutti i suoi alleati, armati vascelli, e di già spedito, dall'altra banda dell'Adriatico a Canina, presso Durazzo, un corpo di tre mila uomini sotto il comando di Rousseau de' Soli[379], cui in breve sarebbesi unito egli medesimo per occupare il Levante. Ma l'insaziabile sua avidità, la sua ambizione, la sua crudeltà avevano finalmente stancata la fortuna e la pazienza de' suoi sudditi. Un privato nemico, uomo d'un [495] carattere generoso e profondo, un uomo animato dalla gratitudine e dall'amore verso i suoi antichi sovrani, dal desiderio di vendicarli; dall'odio della tirannide; un uomo solo colle sue forze individuali intraprese ad abbattere l'usurpatore che opprimeva il suo paese, e riuscì a preparare e condurre a termine questa grande vendetta nazionale.
Giovanni di Procida, nobile salernitano, era padrone di quell'isola di Procida, posta nel golfo di Napoli, che viene oggi visitata dal curioso forestiere per vedervi conservate le costumanze e l'abito de' Greci. Era inoltre signore di Tramonte, Cajano e Pistilione[380]. I suoi natali non gli avevano però impedito di studiare la medicina, che allora veniva coltivata dai principali signori. Era egli stato il medico e ad un tempo il confidente e l'amico di Federico II e di Manfredi[381], ed aveva prese le armi per [496] Corradino, quando questo giovane principe era entrato nel regno. Dopo la vittoria di Carlo, tutti i suoi beni essendo stati confiscati, erasi egli ritirato presso Costanza, figliuola di Manfredi, e regina d'Arragona, ultima erede della famiglia di Svevia, la quale avealo accolto come un suddito fedele ed uno zelante amico. Il re Pietro d'Arragona, per indennizzarlo di quanto aveva perduto, lo nominò barone del regno di Valenza, signore di Luzzo, Benizzano e Palma[382].
Ma nè feudi, nè ricchezze potevano fare scordare a Procida la tragica morte di Manfredi e di Corradino, la sventura della sua patria e l'oppressione de' suoi concittadini. Dalle corrispondenze ch'erasi egli conservate nelle due Sicilie, riceveva continui avvisi delle vessazioni de' Francesi, delle loro ingiustizie, delle loro crudeltà, ed in particolare dell'affettato disprezzo che mostravano d'una nazione, ch'essi per altro non avevano conquistata, [497] ma che si era da sè medesima data nelle loro mani per la tradita speranza d'un miglior governo.
Giovanni di Procida informava il re e la regina d'Arragona delle lagnanze de' Siciliani, i quali, trovandosi più lontani da Carlo, erano abbandonati a' suoi vicarj, e più crudelmente vessati dei Pugliesi. Faceva sentire alla regina, ch'ella era la sola legittima erede della casa di Svevia e del regno delle due Sicilie; che Corradino, morendo, l'aveva in un modo solenne chiamata a raccogliere la sua eredità ed a vendicare il suo supplicio; che non si trattava soltanto d'un diritto, ma ch'era per lei un dovere d'accettare il governo d'un paese che gli veniva trasmesso dalle leggi delle due nazioni e dai voti dei popoli: e perchè Pietro e Costanza non erano sconsigliati dalla guerra di Sicilia, che per credersi troppo deboli da attaccar soli un re che aveva fama d'essere allora il più potente di tutta la Cristianità, Procida vendette tutti i beni che aveva ricevuti dalla loro liberalità, onde impiegarne il prezzo ne' suoi viaggi diretti a suscitare nemici a Carlo in tutto il mondo allora conosciuto[383].
Nel 1279 passò prima in Sicilia per conoscere personalmente lo stato de' sudditi di Carlo. Trovò che non doveva sperar molto dalle province di terra ferma al di qua del Faro[384], perchè sopra le rovine de' partigiani della casa Sveva molti baroni francesi eransi stabiliti così sodamente quanto potevano esserlo i loro predecessori. Comprese che la vicinanza della corte, i frequenti passaggi delle armate, l'occhio vigilante del padrone che scorreva frequentemente queste province, vi comprimerebbero la ribellione nel suo nascere.
Diverso affatto era lo stato della Sicilia, la quale siccome si era tutta intera dichiarata a favore di Corradino, così i Francesi avevano voluto punire tutta intera. I baroni erano stati spogliati ed oppressi, ma i Francesi non aveano potuto nè tutti imprigionarli, nè tutti scacciarli dall'isola; ed agli antichi oltraggi se ne aggiungevano ogni giorno di nuovi, che per altro non li privavano affatto dei mezzi di vendicarsi. I Francesi abitavano le città e le coste, ma appena osavano di penetrare alcuna [499] volta tra le montagne dell'interno dell'isola, ove tanto i signori che i contadini avevano conservata tutta la loro indipendenza. Tre grandi ufficiali di Carlo governavano l'isola. Eriberto d'Orleans, vicario reale; Giovanni di san Remi, giustiziere di Palermo; e Tomaso de Busant, giustiziere di Val di Noto[385]. La venale loro parzialità, l'avarizia, la crudeltà li facevano degni successori di Guglielmo detto lo Stendardo, il carnefice de' Siciliani[386]. Anche la pubblicazione della crociata contro i Greci irritava maggiormente questi popoli. «Di già, dice Neocastro, avea Carlo spiegate contro i nostri amici della Grecia la croce dell'assassinio, imperciocchè suole appunto sotto questa sacra bandiera spargere il sangue degl'innocenti. I suoi sforzi per istrascinare il popolo siciliano in questa guerra formavano la disgrazia e la desolazione della nostra patria»[387]. Col pretesto di questa crociata, Carlo esigeva da' suoi sudditi [500] insopportabili sovvenzioni di guerra, imposte inaudite. Nello stesso tempo «disponeva arbitrariamente delle ricche o nobili eredi, che dava ai suoi partigiani in matrimonio come compenso dei loro servigi; mentre condannava alla morte, senza che pur fossero accusati d'alcun delitto, o faceva languire entro infernali prigioni, o condannava alla deportazione ed a lungo esilio gli uomini che gli erano sospetti. Molti signori, che la religione, l'età, o la dignità loro facevano venerabili, venivano assoggettati ad insultanti trattamenti come i più vili del popolo; e per colmo d'oltraggio, oltraggio che in ogni luogo precipitò i tiranni, le donne erano esposte alla brutalità dei soldati»[388]. Infatti tale offesa sorpassa tutte le altre: non è la galanteria, che potrebbe eccitare il furore della nazione la più gelosa, bensì l'insolenza del forte esercitata contro il debole; l'impudenza della dissolutezza, che disprezza la protezione che gli sposi ed i fratelli debbono alle loro spose o sorelle.
Giovanni di Procida parlò di vendetta ai Siciliani profondamente ulcerati; fece loro comprendere che si avvicinava il tempo d'esercitarla; ma in pari tempo gli esortò a prepararla lentamente per renderla più sicura, e loro promise i soccorsi di Pietro d'Arragona loro legittimo sovrano, e di Michele Paleologo nemico de' loro nemici.
Andò infatti a Costantinopoli, ed informò il Greco imperatore de' formidabili apparecchi che si preparavano contro di lui[389]. Carlo faceva equipaggiare ne' porti delle due Sicilie cento galee leggeri, venti grossi vascelli, trecento navi da trasporto e duecento palandre per trasportare i cavalli. Quaranta conti avevano promesso d'unirsi alla crociata, e dieci mila cavalli si allestivano sotto i suoi ordini. Nello stesso tempo negoziava col doge Giovanni Dandolo, segnava un trattato, in forza del quale la repubblica di Venezia obbligavasi a prendere parte alla crociata, mandando lo stesso doge con quaranta [502] galere armate in guerra[390]. Queste forze sembravano sufficienti per distruggere l'impero greco, e Paleologo aveva più volte esperimentato l'impetuoso valore dei Latini, e la viltà delle sue truppe. Procida facendogli conoscere il pericolo che gli sovrastava, gli offrì nello stesso tempo di eccitare negli stati del suo nemico una ribellione che non gli permettesse di pensare per molto tempo a guerre straniere. Gli offriva inoltre di mettere Carlo in guerra con una nazione non meno valorosa della Francese, una nazione la di cui formidabile infanteria non lascerebbesi spaventare o rovesciare dall'urto degli uomini d'armi. La sola cosa ch'egli chiedeva a Paleologo era del denaro per supplire alle spese della spedizione degli Arragonesi, e per comperare armi ai Siciliani ribellati.
(1280) Nicolò III governava ancora la Chiesa, e Paleologo che con tanti sagrificj erasi riconciliato colla santa sede, non voleva perdere la sua protezione. Accordò un primo soccorso di danaro [503] a Procida, esigendo che non si facesse la ribellione di Sicilia senza l'assenso del papa[391]. Giovanni, che viaggiava sotto mentito abito di monaco francescano, tornò a Malta con un segretario dell'imperatore greco. Colà si recarono tre de' più principali baroni siciliani, e confermarono al segretario dell'imperatore le promesse di Procida, incaricandolo di far conoscere al papa ed al re d'Arragona la qualità del giogo ch'essi portavano e l'impazienza loro di liberarsene.
Procida passò a Roma coll'inviato dell'imperatore, ed ottennero da Nicolò III una segreta udienza nel castello di Suriano. Colà si pretende che Procida si valesse dell'oro de' Greci presso il conte Bertoldo Orsino e presso lo stesso papa[392]; ma soprattutto ricordò all'ultimo, che Carlo aveva sdegnato d'imparentarsi [504] colla sua famiglia, ed aveva rifiutata l'offerta con un insultante motto[393]; che lo stesso Carlo erasi costantemente opposto a' suoi progetti; che sforzavasi di riaccendere le guerre civili, che il papa cercava di spegnere; per ultimo, ch'egli erasi eretto in arbitro dell'Italia, e teneva quasi la Chiesa in servitù. Per abbassare la potenza de' Francesi altro Procida non domandava al papa che il suo assenso in iscritto a favore di Costanza d'Arragona per far valere i suoi diritti sulla Sicilia[394]. L'ottenne, e munito di lettere pontificie dirette al re di Arragona, si pose in viaggio per la Spagna.
Ma non era appena giunto alla corte di Barcellona, che l'inaspettata morte di Nicolò III poco mancò che non rovesciasse tutti i suoi progetti. Pietro d'Arragona pareva già scoraggiato; ed era a temersi che i Siciliani si disanimassero vedendo il capo della Chiesa dichiararsi contro di loro, invece d'appoggiarli. Procida risolse di tornare a Costantinopoli onde affrettare i sussidj attesi dal re Pietro; e volle che gli ambasciatori di questo [505] re indagassero le disposizioni del nuovo pontefice, e che i Siciliani dal canto loro implorassero la sua protezione, sperando che non solo non gli ajuterebbe, ma gli avrebbe al contrario esacerbati con una manifesta parzialità pei Francesi.
(1281) L'ambasciatore del re d'Arragona aveva per missione ostensibile, presso Martino IV, di felicitarlo intorno alla sua elezione e di domandargli la canonizzazione di frate Raimondo di Pinnaforte, monaco catalano, ch'era morto nel principio del 1275, dopo avere, si diceva, risuscitati almeno quaranta morti, ed attraversato il mar Baleare sopra il suo mantello che gli teneva luogo di nave[395]. Le raccomandazioni dell'Arragonese non furono vantaggiose alla causa del beato; furono anzi cagione che la sua canonizzazione si protraesse fino all'anno 1601. Quando poi l'ambasciatore arragonese volle ricordare al papa i diritti di Costanza alla corona delle due Sicilie, [506] Martino gli rispose adirato: «Dite al vostro padrone che, prima di chiedere grazie alla santa sede, pensi a pagarle con tutti gli arretrati l'annuo tributo, che suo avo promise alla Chiesa allorchè se ne dichiarò vassallo e feudatario[396].»
Gli ambasciatori de' Siciliani furono ancora più mal ricevuti: era stato scelto per questa missione Bartolomeo, vescovo di Pacto, ed un religioso domenicano. Martino non volle ascoltarli che in pieno concistoro; e quando furono ammessi, osservarono con maraviglia, che sedeva tra i loro uditori anche il re Carlo. Pure il prelato, senza punto sbigottirsi, prese per testo le seguenti parole della Scrittura: «Figlio di Davide, abbi pietà di me, perchè la mia figliuola è crudelmente tormentata da un demonio.» Espose in seguito la tirannia e le soverchierie dei ministri di Carlo, e voltosi al re con nobile sicurezza, lo richiese di porvi rimedio. Quand'ebbe terminato il discorso, fu congedato senza risposta; ma sortendo dall'udienza le guardie di Carlo [507] presero i due ambasciatori e li chiusero in carcere[397]. Vero è che il prelato potè a forza di danaro corrompere i custodi e fuggire; ma l'altro penò più anni in una crudele prigione. Il vescovo, tornato in Sicilia, manifestò francamente a Messina l'esito della sua legazione. Altri Siciliani, arrivati da Napoli, soggiunsero, che Carlo preparavasi a spedire nell'isola l'armata assoldata contro i Greci, disposto a punire le sediziose disposizioni de' Siciliani col ferro e col fuoco.
Frattanto Giovanni di Procida aveva nel 1281 fatto un secondo viaggio a Costantinopoli, e ne aveva riportate venticinque mila once d'oro, che diede al re Pietro, colla promessa di più ragguardevole sussidio, che gli verrebbe pagato tosto che la sua armata sarebbesi posta in movimento[398]. Pietro non frappose ulteriori dimore, e, dando voce d'andare ad attaccare i Saraceni dell'Affrica, adunò un'armata di dieci mila uomini a piedi, con soli trecento cinquanta cavalli, e fece equipaggiare pel trasporto diecinove galere, [508] quattro grandi vascelli ed otto palandre[399].
Tutti i trattati di Giovanni di Procida erano rimasti affatto ignoti; ma perchè si conoscevano le pretese sulla Sicilia della regina Costanza, il re di Francia e quello di Napoli concepirono qualche sospetto intorno all'armamento del monarca arragonese. Filippo l'ardito, ch'era suo cognato, gli fece domandare ove volesse portare le sue armi; ed egli rispose che voleva attaccare i nemici della fede siccome avevano praticato i suoi antenati, e che pregava Filippo di voler concorrere a così santa impresa, mandandogli 40,000 lire tornesi di cui aveva grandissimo bisogno. Filippo lo fece; ma non avendo deposto ogni sospetto, consigliava il papa e Carlo a chiedere a Pietro nuovi schiarimenti. Martino mandò all'Arragonese un Domenicano per interrogarlo a nome della Chiesa intorno al segreto della sua spedizione, promettendo i soccorsi della santa sede, se effettivamente armava contro i nemici della fede; e vietandogli di procedere più oltre se pensava di attaccare un principe [509] cristiano. Pietro si accontentò di rispondergli che se una delle sue mani manifestasse all'altra il suo segreto, la troncarebbe all'istante[400]. Allorchè Martino comunicò tale risposta a Carlo: «Io ve lo aveva ben detto, soggiunse il re di Sicilia, che l'Arragonese era un miserabile;» non pertanto egli non prese veruna precauzione. Gli apparecchi di Pietro si prolungarono fino al cominciamento del 1282 che egli spiegò le vele alla volta dell'Affrica. A quest'epoca era già scoppiata la congiura in Sicilia, ma Pietro non poteva saperlo, e stette aspettando l'andamento delle cose nelle vicinanze d'Ippona, facendo freddamente la guerra ai Mori.
Giovanni di Procida non aveva aspettato che la flotta arragonese fosse apparecchiata per passare in Sicilia e scorrere quell'isola sotto diversi travestimenti. Col danaro de' Greci somministrava armi a chiunque non ne aveva; alimentava, riscaldava il loro spirito colla speranza di una pronta liberazione, e soprattutto comunicava ai suoi compatriotti quel profondo implacabile odio contro i Francesi, ch'era la molla di tutte le sue azioni. Egli [510] non formava congiure, ma eccitava le passioni del popolo onde fosse apparecchiato ad ogni avvenimento ed al risentimento dei primi oltraggi, troppo sicuro che non mancherebbe poi qualche eccitamento al comune odio. Chiedeva soprattutto ai nobili ed ai militari che avevano lungo tempo soggiornato nell'interno dell'isola, di passare a Palermo e di frammischiarsi ancora ai loro concittadini, ond'essere a portata di dirigere i movimenti popolari tosto che scoppierebbero[401].
All'indomani della Pasqua, lunedì 30 marzo 1282, i Palermitani, com'era loro costume, si posero in via per andare ai vesperi alla chiesa di Monreale, tre miglia lontana dalla città. Era il passeggio ordinario de' giorni di festa, e tutto il cammino trovavasi coperto di uomini e di donne. I Francesi stabiliti in Palermo, e lo stesso vicario reale prendevano parte alla festa ed alla processione. Questi per altro aveva pubblicato un'ordinanza, che vietava ai Siciliani di portar armi per esercitarsi nel maneggio delle medesime [511] ne' giorni festivi, secondo l'antica usanza[402]. I Palermitani erano dispersi pei prati raccogliendo fiori, e salutando con grida di gioja il ritorno di primavera, quando una giovanetta, non meno distinta per la sua bellezza che pei suoi natali, s'avviò al tempio, accompagnata dallo sposo, cui era promessa dai suoi parenti e da' suoi fratelli. Un Francese per nome Drovet s'avanzò con insolenza verso la giovane, e sotto pretesto di assicurarsi che non avesse armi nascoste, le pose sfrontatamente la mano in seno: la fanciulla cadde svenuta tra le braccia del suo sposo, ed un grido di furore si alza tutto ad un tratto, muojano, muojano i Francesi! e Drovet, ferito colla propria spada, fu la prima vittima della rabbia popolare. Un solo non si sottrasse alla morte di quanti Francesi assistevano alla festa. I Siciliani, quantunque disarmati, ne uccisero duecento in campagna, mentre le campane di Monreale suonavano i vesperi. Dalla campagna il popolo furibondo rientrò in città gridando sempre, muojano i Francesi, e qui la carnificina ricominciò più feroce che mai. Una terribile [512] rappresaglia fa questa del massacro di Benevento e di Augusta, benchè esercitata sopra un minor numero di Francesi: uomini, donne, fanciulli, tutto quanto apparteneva a questa detestata nazione fu messo a morte, ed il ferro andò fino a cercare nel seno d'una sposa siciliana l'abborrito frutto della sua unione con un Francese. Quattro mila persone perirono in questa prima notte[403].
Per grande che fosse l'odio de' Siciliani, mal sapevano risolversi ad imitare l'esempio di Palermo; tutto il mese d'aprile si consumò in vani attacchi de' Francesi contro Palermo ed in trattati di quegli abitanti cogli altri Siciliani. Ma pareva che il furore de' Palermitani fosse contagioso; e la loro resistenza e l'impunità di cui godevano, erano d'incoraggiamento [513] a coloro che volevano imitarli. Gli abitanti di Bicaro ed in seguito quelli di Corleone unironsi a quelli di Palermo, suggellando la loro alleanza col sangue de' Francesi che trovarono nel loro paese, mentre che quelli di Calatafino, governati dal rispettabile Guglielmo de' Porcelets, nobile provenzale, che solo di tutti i Francesi non aveva offesa l'umanità, nè tradita la giustizia, mandavano onoratamente al di là del Faro quest'uomo virtuoso colla sua famiglia. Tutte le borgate e le città dell'isola si andavano una dopo l'altra associando alla ribellione. Messina fu l'ultima ad entrare nella congiura: tutti i soldati francesi eransi rifugiati in questa città; e vi si trovava il vicario reale alla testa di seicento cavalli; ma il 28 aprile i cittadini atterrarono gli stemmi di Carlo d'Angiò, cacciarono il suo vicario ed i soldati al di là del Faro e giurarono di voler essere partecipi della sorte degli abitanti di Palermo. Nel precedente giorno i Palermitani avevano spedita una deputazione a Pietro d'Arragona per invitarlo a venire a prendere possesso del regno di Sicilia e a dare soccorso a' suoi sudditi che si ponevano tra le sue braccia.
[514] La notizia dei Vesperi Siciliani era stata più sollecitamente recata a Carlo d'Angiò; l'arcivescovo di Monreale erasi affrettato di spedirgliela alla corte di Roma, ove allora dimorava. «Sire Dio, gridò Carlo nel riceverla, poichè ti piacque di mandarmi un infortunio, ti piaccia almeno di ordinare che il mio abbassamento si faccia lentamente[404].»
FINE DEL TOMO III.
TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO III.
Capitolo XVI. Continuazione del regno di Federico II. — Guerra della lega lombarda contro questo imperatore. — Viene dal papa deposto nel concilio di Lione. 1234-1245 | pag. 3 | |
Anno | ||
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Conformità e differenze tra i due Federici e le due leghe lombarde | ivi | |
Pericolosa situazione di papa Gregorio IX | 5 | |
1234 | Gregorio IX accusato d'aver fatto ribellare Enrico figliuolo dell'imperatore contro il padre | 7 |
1235 | Federico fa prigioniero a Worms suo figliuolo, e lo manda in Puglia, ove muore | 9 |
Ezelino III da Romano richiama Federico in Lombardia | 10 | |
Ezelino III e suo fratello Alberico eransi tra di loro divisi gli stati paterni l'anno 1232 in seguito all'abdicazione fattane dal padre per divozione | 11 | |
Alberico da Romano signore di Treviso | 12 | |
Ezelino III fatto podestà di Verona l'anno 1226 | 13 | |
1236 | Ezelino introduce in Verona una guarnigione imperiale, che rende più ferma la sua autorità | ivi |
Cremona, Parma, Modena e Reggio fedeli alla parte ghibellina | ivi | |
Opposto carattere delle aristocrazie e delle oligarchie | 14 | |
Oligarchie sediziose della Marca Trivigiana | 16 | |
Federico II entra in Verona il 16 agosto con un'armata tedesca | 17 | |
Sorprende Vicenza, che abbandona al saccheggio | 18 | |
Padova affida a sedici gentiluomini la cura della sua difesa | 19 | |
1237 | Tradimento dei nobili; sforzi del podestà per salvare la repubblica | 20 |
Padova data in mano d'Ezelino | 21 | |
Questi prende con astuzia alcuni ostaggi che fa custodire nelle sue fortezze | 23 | |
Fa arrestare il priore di san Benedetto, di cui teme l'influenza | 24 | |
Federico II riunisce presso Verona un'armata | 28 | |
Invade lo stato di Brescia | 29 | |
Batte i Milanesi a Cortenova il 27 di novembre | 30 | |
I Milanesi fuggiaschi accolti da Pagano della Torre signore della Valsassina | 31 | |
1238 | Federico si avanza nel Piemonte staccando dalla lega quelle città | 33 |
Assedia Brescia senza riuscita | 34 | |
Guerra tra Ezelino ed il marchese d'Este appaciata da Federico | 36 | |
1239 | Federico viene scomunicato da Gregorio IX | 37 |
Pietro dalle Vigne, cancelliere dell'imperatore giustifica il suo padrone innanzi al popolo di Padova | ivi | |
Il marchese d'Este, il conte di san Bonifacio ed Alberico da Romano si staccano dall'imperatore | 39 | |
Principio delle crudeltà d'Ezelino | 40 | |
Federico si porta in Toscana | 41 | |
Guerre civili in Sardegna tra i gentiluomini pisani | 43 | |
I Visconti di Pisa stabiliti in Sardegna si dichiarano per la parte guelfa | ivi | |
Le fazioni di Pisa assumono i nomi di Conti e di Visconti | 44 | |
Federico accorda il titolo di re di Sardegna ad Enzio suo figlio naturale | ivi | |
1240 | Federico s'avvicina a Roma ove Gregorio predica contro di lui la crociata | 45 |
I Guelfi prendono Ferrara e lasciano morire in prigione il vecchio Salinguerra | 47 | |
Gregorio IX convoca un concilio in Laterano pel susseguente anno | 48 | |
1241 | I Pisani armano una flotta per prendere i prelati francesi | 51 |
I prelati s'imbarcano sopra una flotta genovese e sono attaccati e fatti prigionieri il 3 maggio in faccia a Meloria da Ugolino Buzzacherino dei Sismondi | ivi | |
Costanza de' Genovesi dopo la disfatta | 52 | |
Morte di Gregorio IX accaduta il 21 agosto | 53 | |
1242 | Vacanza della santa sede. Lettera di Federico ai cardinali | 55 |
Discordia nelle città cagionata dall'ambizione de' gentiluomini | 56 | |
Pagano della Torre capo in Milano del partito democratico | 57 | |
Fra Leone da Perego arcivescovo di Milano alla testa dei nobili | 58 | |
Guerre tra le città Lombarde | 59 | |
1243 | Sinibaldo del Fiesco eletto papa il 24 giugno col nome d'Innocenzo IV | ivi |
Negoziazioni di Federico col nuovo pontefice | 61 | |
1244 | Il 27 giugno il papa fugge travestito dallo stato della chiesa e s'imbarca | 63 |
Viene condotto a Genova dal podestà | 65 | |
Cospirazione de' Francescani contro Federico, nella quale è complicato il papa | 66 | |
1245 | Il papa giugne a Lione e vi aduna un concilio | 67 |
Il 28 giugno si fa l'apertura del concilio. Disgrazie della Cristianità | ivi | |
L'imperatore accusato da Innocenzo viene difeso da Tadeo di Suessa | 70 | |
Seconda sessione del concilio nella quale è citato l'imperatore | ivi | |
Terza sessione tenuta il 17 luglio | 71 | |
L'imperatore è condannato dal concilio, e deposto dal papa | 74 | |
Capitolo XVII. Fine del regno di Federico II. — Assedio di Parma. — Rivoluzioni di Toscana. — Tirannide d'Ezelino. 1245-1250 | 75 | |
1245 | Accanimento dei papi contro la casa di Svevia | ivi |
Aperta opposizione alla chiesa dei gentiluomini, e dei letterati | 76 | |
Attaccamento al papa de' Francescani e de' Domenicani | 77 | |
Rapide conversioni da loro operate, seguite da subite rivoluzioni | 79 | |
Molti nobili di Parma abbracciano il partito della chiesa | ivi | |
1246 | Il papa tenta di sollevare contro Federico le due Sicilie | 80 |
Congiura dei San Severini contro Federico | 82 | |
Congiura di Pietro delle Vigne | 84 | |
Tenta d'avvelenare l'imperatore | 87 | |
Volontaria morte di Pietro delle Vigne | ivi | |
Sforzi fatti da Federico per riconciliarsi colla Chiesa | 90 | |
1247 | Domanda di passare in Oriente per far la guerra agl'infedeli | 91 |
Va fino a Torino per recarsi alla corte del papa | 92 | |
È richiamato a dietro dalla rivoluzione di Parma scoppiata il 16 giugno | 93 | |
Importanza della città di Parma per Federico | 94 | |
I capi de' Guelfi vi si chiudono dentro per difenderla | 95 | |
I Ghibellini si portano al campo dell'imperatore sotto Parma | 96 | |
Federico fa prova di spaventare i Parmigiani coi supplicj | 97 | |
I soldati di Pavia fanno cessare queste crudeltà | 98 | |
Federico fonda presso Parma una città, cui dà il nome di Vittoria | 98 | |
1248 | L'armata di Federico viene sorpresa il 18 di febbrajo, e distrutta la sua città della Vittoria | 100 |
Federico fa nuove istanze al re di Francia per essere rappacificato colla Chiesa | 101 | |
I grandi signori Francesi irritati dalla durezza del papa | 102 | |
Preponderanza del partito ghibellino in Toscana | 103 | |
Firenze inclina a favore dei Guelfi | ivi | |
L'imperatore manda a Firenze suo figlio, Federico d'Antiochia | 105 | |
I Guelfi cacciati fuori di Firenze la notte della candelora | 107 | |
1249 | L'imperatore insegue i Guelfi ne' castelli di Toscana che assedia | 108 |
1248 | Ottaviano degli Ubaldini legato del papa a Bologna | 109 |
I Bolognesi costringono le città della Romagna ad abbracciare il partito guelfo | 110 | |
1249 | L'armata Bolognese va contro Enzio sul Panaro | 111 |
Battaglia di Fossalta del 16 maggio 1249 | 112 | |
Rotta dei Ghibellini, Enzio fatto prigioniere | 114 | |
1249 | Enzio condotto in trionfo nelle prigioni di Bologna | 115 |
Vi è tenuto fino alla morte, 1271 | 116 | |
I Modenesi insultati dai Bolognesi sono costretti di battersi | 117 | |
Trattato tra Bologna e Modena del 19 gennajo 1250 | 118 | |
1239-1250 | Progressi e crudeltà d'Ezelino da Romano | 119 |
Fa morire di fame i quattro signori di Vado nel 1240 | 122 | |
Fa morire suo nipote Guglielmo di Campo Sampiero, e tutti i suoi parenti | 123 | |
1250 | Coraggio di Raineri di Bonello, e di Giovanni di Scanarola | 124 |
Accusati che muojono sotto la tortura | 125 | |
Fabbrica di nuove prigioni più orribili che le antiche | ivi | |
Crudeltà d'Ansedisio de' Guidotti podestà d'Ezelino a Padova | 126 | |
Strage dei Delesmanini amici e parenti d'Ezelino | 127 | |
Nuovi tentativi di Federico presso san Luigi per la pace della Chiesa | 128 | |
Morte di Federico II a Fiorentino nella Capitanata accaduta il 13 dicembre | 130 | |
Ritratto di Federico fatto da Giovan Villani | ivi | |
Ritratto di Federico fatto da Nicola di Jamsilla | 131 | |
Capitolo XVIII. Innocenzo IV torna in Italia. — Sue guerre con Corrado e Manfredi. — Sua morte. — Roma sotto il suo pontificato; il senatore Brancaleone. — La Toscana: il governo popolare si stabilisce in Firenze. 1251-1255 | 134 | |
1250-1273 | Interregno di 23 anni senza re de' Romani | ivi |
1250-1310 | Interregno di 60 anni senza imperatore riconosciuto in Italia | 135 |
Gl'interessi della Germania si dividono per qualche tempo da quelli dell'Italia | 136 | |
1251 | Gioja d'Innocenzo IV per la morte di Federico II | 137 |
Unisce la città di Napoli allo stato della Chiesa | ivi | |
Innocenzo torna a Genova, e vi trova i deputati di quasi tutta l'Italia | 138 | |
Le città ghibelline cercano di riconciliarsi con lui | 139 | |
Sua andata, ed ingresso trionfale in Milano | 140 | |
Esaurimento delle finanze de' Milanesi | 141 | |
Ingratitudine del papa verso i Milanesi | 143 | |
I Milanesi si accostano alla parte ghibellina | ivi | |
Doppia discordia dei Guelfi e dei Ghibellini, dei plebei e dei nobili | 145 | |
La scelta fra le parti dipendeva dall'inclinazione non dal calcolo dell'egoismo | ivi | |
Fedeltà dei grandi ai loro principj, entusiasmo passaggere della moltitudine | 148 | |
Viaggio del papa da Milano a Perugia | ivi | |
Divisione degli stati di Federico tra i suoi figliuoli | 149 | |
Corrado IV scende d'ottobre in Italia | ivi | |
1252 | Il regno delle due Sicilie amministrato da Manfredi figliuol naturale di Federico | 150 |
Corrado giugne nel regno e ne assume l'amministrazione | 151 | |
Corrado cerca di riconciliarsi colla Chiesa | 153 | |
Corrado assedia Napoli | 154 | |
1253 | Punisce crudelmente i Napoletani della loro resistenza | ivi |
Innocenzo IV offre la corona di Napoli a Riccardo, conte di Cornovaglia | 156 | |
Riccardo rifiuta l'offerta, che viene accettata da suo nipote Edmondo | 158 | |
1254 | Corrado muore inaspettatamente il 21 maggio a Lavello | ivi |
La morte di tutti i principi svevi attribuita dai Guelfi a veleno | 159 | |
I tutori di Corradino, figlio di Corrado, lo pongono sotto la protezione del papa | 160 | |
1254 | Il papa rompe ogni trattato cogl'Inglesi, e vuole sottomettere la Sicilia alla santa sede | 158 |
Insurrezioni nelle Sicilie contro i Saraceni ed i Tedeschi | 161 | |
Manfredi si porta in persona al campo del papa per sottomettersi a lui | 163 | |
Orgoglio degli esiliati che rientrano col papa nel regno di Napoli | 164 | |
Zuffa tra Borello d'Anglone e Manfredi | 165 | |
Borello ucciso dalle genti di Manfredi, che viene accusato d'omicidio | ivi | |
Fuga di Manfredi a traverso le montagne | 166 | |
Attraversa la Capitanata per avvicinarsi a Luceria | 167 | |
I Saraceni di Luceria, malgrado del loro governatore, si dichiarano a suo favore | 170 | |
Ajuti che Manfredi trova in Luceria | 172 | |
Rompe il marchese d'Oemburgo, ed il cardinale di sant'Eustachio | 173 | |
Morte d'Innocenzo IV, il 7 dicembre, elezione d'Alessandro IV | 174 | |
1254 | Carattere d'Innocenzo IV | 175 |
La sola Roma non riconosce la sua autorità | 176 | |
Anarchia cagionata dai nobili romani | 178 | |
1253-1256 | Brancaleone d'Andalo, nobile bolognese senatore di Roma | ivi |
Sua severità contro i nobili romani | 179 | |
Minaccia il papa, e lo sforza a rientrare in Roma | 180 | |
Sedizione contro Brancaleone, che viene imprigionato | 182 | |
È posto in libertà per l'intromissione dei Bolognesi, indi ripristinato nella sua carica | 183 | |
1258 | Muore compianto da tutto il popolo | 184 |
1250 | Costumi e semplicità dei Fiorentini | 185 |
Governo aristocratico stabilito in Firenze da Federico II | 186 | |
Il popolo si rivolta contro i nobili il 20 ottobre del 1250 | 187 | |
Organizzazione civile e militare che si danno i Fiorentini | 188 | |
1251 | Il 7 gennajo vengono richiamati gli esiliati guelfi | 190 |
1252 | Vittorie de' Fiorentini sopra il partito ghibellino e sopra i Pisani | 191 |
Il fiorino d'oro, moneta non mai alterata, battuta in Firenze per la prima volta | 192 | |
1253 | Pistoja si sottomette al partito guelfo, e riceve guarnigione da Fiorenza | 193 |
1254 | L'anno delle vittorie dei Fiorentini | 194 |
I Sienesi sottomessi al partito guelfo | 194 | |
Volterra presa e sottomessa al partito guelfo | 195 | |
I Pisani costretti a chiedere pace | 196 | |
1255 | Arezzo sorpreso per tradimento d'un generale, viene rimesso in libertà | 197 |
Grandi uomini di Firenze in quest'epoca | 199 | |
Disinteressamento d'Aldobrandino Ottobuoni | 200 | |
Capitolo XIX. Pontificato d'Alessandro IV. — Crociata contro Ezelino; disfatta e morte di questo tiranno. — Manfredi re di Sicilia soccorre i Ghibellini toscani; battaglia di Monteaperto o dell'Arbia. 1255-1260 | 202 | |
Carattere d'Alessandro IV | ivi | |
1255 | Fa predicare la crociata contro Ezelino da Romano | 203 |
Orribile crudeltà e gelosia universale d'Ezelino | 205 | |
Coraggio dei due fratelli Monte ed Araldo di Monselice | 207 | |
1256 | Il legato del papa arcivescovo di Ravenna aduna i crociati a Venezia | 208 |
Il marchese d'Este ed il conte di san Bonifacio, signore di Mantova, del numero de' crociati | 210 | |
Ezelino padrone di Verona, Vicenza, Padova, Feltre e Belluno | ivi | |
1256 | Ezelino minaccia Mantova e Brescia | 211 |
Pusillanimità del suo luogotenente a Padova | 212 | |
I crociati s'impadroniscono di Padova il 19 giugno | 214 | |
Orribili prigioni d'Ezelino in Padova | ivi | |
Ezelino si fa dare successivamente in mano undici mila padovani, che aveva nella sua armata, e li fa quasi tutti perire | 215 | |
Viltà ed indisciplina dell'armata crociata | 217 | |
Alberico da Romano viene all'armata crociata per tradirla | 218 | |
I crociati respingono Ezelino che attaccava Padova | 219 | |
1257 | Ezelino cerca di fare nuove alleanze | 220 |
1258 | I Bresciani che s'uniscono ai crociati sono battuti da Ezelino | 221 |
Brescia apre le porte ad Ezelino | 222 | |
Ezelino cerca di perdere i suoi alleati Oberto Pelavicino e Buoso di Dovara | 223 | |
1259 | Questi due signori si uniscono coi Guelfi | 224 |
Atrocità commesse da Ezelino a Friola | 226 | |
S'inoltra in sul finir d'agosto verso Milano | 227 | |
1259 | Trovasi avviluppato dai nemici al di là dell'Adda | 228 |
Rimane ferito il 16 settembre al ponte di Cassano | 230 | |
È fatto prigioniere; lacera le sue piaghe, e si lascia morire il 27 settembre | 231 | |
Tutte le città a lui soggette ricuperano la libertà | 232 | |
1260 | Alberico da Romano suo fratello condannato a morte coi suoi figliuoli | 233 |
Pochi talenti d'Alessandro IV | 235 | |
Rifiuta di trattare con Manfredi, e fomenta le ribellioni in Calabria | 236 | |
1258 | Manfredi prende la corona di Sicilia l'undici agosto, sull'avviso della morte di Corradino | 238 |
Quando sa che vive ancora promette di nominarlo suo successore | 239 | |
1260 | I Ghibellini toscani ricorrono a Manfredi | 240 |
Erano stati cacciati da Firenze in luglio del 1258 | ivi | |
La repubblica di Siena li proteggeva | 242 | |
Giordano d'Anglone spedito da Manfredi a Siena | ivi | |
Farinata degli Uberti sollecita nuovi soccorsi | 244 | |
Farinata espone un corpo di cavalleria tedesca agli attacchi de' Fiorentini, che abusano della loro vittoria | 245 | |
1260 | Manfredi irritato manda nuove truppe contro i Fiorentini | 246 |
Farinata attira i Fiorentini nel territorio di Siena | 247 | |
Opposizione dei gentiluomini guelfi a questa pericolosa spedizione | 248 | |
I Fiorentini con tre mila cavalli e trenta mila fanti s'accampano a Monte aperto in riva all'Arbia | 249 | |
Battaglia d'Arbia il giorno 4 settembre e rotta totale dei Fiorentini | 251 | |
Spavento della città di Firenze dopo tale disfatta | 252 | |
I Guelfi abbandonano volontariamente Firenze il 15 settembre, e si ritirano a Lucca | 253 | |
Il 27 settembre i Ghibellini occupano Firenze | 255 | |
I Ghibellini trattano in un congresso se debbasi distruggere Firenze | 256 | |
Farinata degli Uberti prende la difesa di Firenze | 257 | |
Farinata nell'inferno di Dante | 264 | |
Capitolo XX. Decadimento e servitù delle repubbliche Lombarde. — Rivoluzioni nelle repubbliche marittime. — Loro rivalità. — Costantinopoli ritolta da' Greci ai Veneziani ed ai Francesi. 1250-1264 | 267 | |
Le città lombarde, le prime libere, perdono prima delle altre la libertà | 267 | |
Cagioni della loro servitù | 269 | |
Mancanza di sicurezza individuale | 270 | |
Turbulenze de' cittadini e violenza delle passioni | ivi | |
Le stesse inclinazioni oggi turbano meno la società | 271 | |
Accanimento dell'odio e desiderio di vendetta | 273 | |
Le funzioni pubbliche oggetto di gelosia tra i nobili ed il popolo | ivi | |
La potenza dei nobili fondata sul numero dei membri di una famiglia | 275 | |
Famiglie artificiali pel popolo, o società popolari | ivi | |
Cambiamento nella disciplina militare | 276 | |
Nella prima guerra di Lombardia l'infanteria formava la forza delle armate | 277 | |
Perfezionamento dell'armatura degli uomini d'armi | 278 | |
È opera de' gentiluomini | 279 | |
Forza irresistibile degli uomini d'armi | 280 | |
La forza militare trovasi tutta in mano de' nobili | 281 | |
Gli uomini d'armi perdono il loro vantaggio nelle città | 282 | |
Truppe mercenarie di armatura pesante | 283 | |
Gli esiliati e gli emigrati formano le prime truppe mercenarie | 284 | |
1256 | I nobili ed il popolo eleggono ognuno il loro podestà | 285 |
Martino della Torre podestà del popolo, erede del credito di suo zio Pagano | 286 | |
1257 | Guerra tra il popolo di Milano ed i nobili alleati dei Comaschi | 287 |
1258 | Trattato di sant'Ambrogio fatto il 4 aprile, che divide i pubblici impieghi | 288 |
Nuove guerre civili | 289 | |
1259 | Martino della Torre nominato anziano e signore del popolo | 290 |
Sua influenza accresciuta dalla disfatta di Ezelino | 292 | |
Martino della Torre viene nominato signore di Lodi | ivi | |
Pelavicino si mette al soldo de' Milanesi | 293 | |
1261 | I nobili milanesi assediati nel Castel di Tabiago | 295 |
1263 | Ottone Visconti eletto dal papa arcivescovo di Milano in opposizione a Raimondo della Torre, nipote di Martino | 296 |
La città di Novara nomina Martino suo signore | ivi | |
1264 | Filippo della Torre successore di Martino si assoggetta Como, Vercelli e Bergamo | 297 |
Repubbliche marittime | 299 | |
Potere dei dogi di Venezia | 300 | |
1032 | Loro potere monarchico limitato nell'elezione di Domenico Flabenigo | 301 |
1172 | Creazione del maggior consiglio dopo la morte di Vitale Michieli | 303 |
Difficoltà delle elezioni popolari | 304 | |
L'elezione del maggior consiglio affidata a dodici tribuni | 305 | |
Inclinazione del governo verso l'aristocrazia dopo la formazione del maggior consiglio | 307 | |
I nobili di Venezia non avevano forze individuali come quelli di Lombardia | ivi | |
1179 | Istituzione della vecchia quarantia, tribunal criminale | 309 |
1229 | Istituzione del consiglio de' pregati | 310 |
Nuove limitazioni all'autorità del doge | ivi | |
Giuramento de' dogi | 311 | |
1249 | Elezioni dei dogi; la scelta combinata colla sorte | 313 |
I Veneziani rivolgono tutta la loro attenzione verso l'Oriente | 314 | |
1225 | Pongono in deliberazione se debbano trasportare in Costantinopoli la sede del governo | 315 |
Le isole del mar Egeo cedute in feudo ai particolari cittadini | 316 | |
1225 | Candia resa immagine della Metropoli | 317 |
Gelosia tra i Veneziani ed i Genovesi | 319 | |
1258 | Si contrastano una chiesa in san Giovanni d'Acri | 321 |
Prima guerra marittima tra questi due popoli | ivi | |
1261 | 13 marzo. Alleanza de' Genovesi con Michele Paleologo | 323 |
1237-1261 | Regno e debolezza di Baldovino II imperatore latino | ivi |
Talenti degl'imperatori di Nicea, Vatace, Lascari e Paleologo | 324 | |
1261 | Impresa dei Veneziani sopra Dafnusio | 325 |
Cesare Strategopulo sorprende Costantinopoli il 25 di luglio | 326 | |
I Latini fuggono a Negroponte | 328 | |
In quale stato trovavasi Costantinopoli quando vi rientrarono i Greci | 329 | |
Michele Paleologo assegna Galata per abitazione ai Genovesi | 331 | |
Conserva ai Veneziani ed ai Pisani le loro colonie a Costantinopoli | ivi | |
Cede l'isola di Chio ai Genovesi. Storia di quest'isola | 332 | |
Costituzione de' Genovesi in quest'epoca | 334 | |
Potere della nobiltà | ivi | |
1261 | Gelosia del popolo contro la nobiltà | 334 |
1257 | Guglielmo Boccanigra primo capitano del popolo | 339 |
1262 | Guglielmo deposto in conseguenza di una congiura del popolo | 342 |
1264 | Potenza delle quattro famiglie Grimaldi, Fieschi, Doria e Spinola | 343 |
Capitolo XXI. Carlo d'Angiò chiamato dai papi procura in Italia al partito guelfo un'assoluta superiorità. — Conquista il regno di Napoli. — Disperde l'armata di Corradino, e fa perire questo principe sul patibolo. 1261-1268 | 346 | |
1261 | 25 maggio. Morte d'Alessandro IV. Elezione di Urbano IV | 347 |
Alterigia e violenza d'Urbano IV contro Manfredi | 348 | |
1262 | Urbano vuole impedire il matrimonio di Costanza figlia di Manfredi col figlio del re Giacomo d'Arragona | 350 |
Urbano offre la corona di Napoli a Carlo d'Angiò | 351 | |
1263 | Induce Edmondo d'Inghilterra a rinunciare alla sua investitura | 354 |
Stabilisce le condizioni dell'investitura con Carlo d'Angiò | 356 | |
1264 | Carattere e situazione di Carlo d'Angiò | 357 |
Prima armata di crociati francesi contro Manfredi l'anno 1261 | 359 | |
1264 | Filippo della Torre, signore di Milano, si stacca dai Ghibellini | 361 |
Imprese in Lombardia dei Guelfi emigrati di Toscana | 363 | |
Manfredi cerca di chiudere a Carlo d'Angiò la strada di Lombardia | ivi | |
1265 | Morte d'Urbano IV. Gli succede Clemente IV | 365 |
Carlo nominato dai Romani senatore di Roma | ivi | |
Il voto de' crociati per la Terra santa convertito in una crociata contro Manfredi | 367 | |
L'armata di Carlo condotta da sua moglie e da suo genero Roberto di Bethune | ivi | |
Carlo venuto per mare si sottrae alla flotta di Manfredi, ed il 24 maggio entra in Roma con mille cavalieri | 368 | |
Viene rimproverato dal papa per essersi alloggiato nel palazzo del Laterano | 369 | |
Riceve l'investitura del regno delle due Sicilie | 370 | |
L'armata francese scende in Piemonte sul finire dell'estate | 372 | |
Napoleone della Torre la conduce a traverso il milanese | 373 | |
Ella batte Pela vicino, e delude Buoso di Dovara | ivi | |
Fa reclute in Romagna | 374 | |
1266 | Carlo d'Angiò entra nel regno per la strada del Ferentino | 375 |
Manfredi tradito da' suoi sudditi | 376 | |
Le due armate s'incontrano presso al fiume Calore | 377 | |
Battaglia di Grandella del 26 febbrajo | ivi | |
Manfredi abbandonato dai baroni della Puglia | 381 | |
Disfatta e morte di Manfredi | 382 | |
Carlo gli rifiuta gli onori del sepolcro | 383 | |
La città di Benevento abbandonata dai Francesi al saccheggio | 384 | |
Avidità degli ufficiali mandati da Carlo nelle province | 386 | |
Carlo rimproverato da Clemente IV pel suo cattivo governo | 388 | |
Guido novello capitano della cavalleria di Manfredi in Toscana | 389 | |
Temporeggia coi Guelfi di Firenze | 390 | |
Riunione in Firenze delle corporazioni dei mestieri | ivi | |
Sommossa presso al ponte santa Trinità | 392 | |
Il conte Guido esce di Firenze colla sua truppa il giorno 11 di novembre | ivi | |
Viene respinto quando tenta di rientrarvi | 393 | |
1267 | Carlo manda Gui di Monforte in Toscana per sostenere i Guelfi | 394 |
Nuova costituzione di Firenze | ivi | |
Stabilimento d'una magistratura del partito guelfo | 396 | |
Carlo viene in Toscana il 1.º agosto ed assedia Poggibonzi | 399 | |
I Ghibellini ricorrono a Corradino in Allemagna | 400 | |
Corradino giugne a Verona in fine del 1267 | 403 | |
Carlo vuole impedirgli il passaggio della Toscana | 404 | |
1268 | Carlo viene richiamato dal papa nel regno di Napoli | ivi |
Enrico di Castiglia, senatore di Roma, arma in favore di Corradino | 406 | |
Corrado Capece va in Affrica a cercare gli emigrati ghibellini, che conduce in Sicilia | 408 | |
Carlo assedia Luceria ribellatasi a favore di Corradino | 410 | |
Corradino giugne a Pisa in maggio; potenti sforzi fatti per lui dai Pisani | ivi | |
Rompe in Toscana Belselve luogotenente di Carlo | 411 | |
Minaccia a Viterbo il papa, che lo ha scomunicato | 412 | |
Penetra nel regno a traverso gli Abruzzi | 414 | |
Battaglia di Tagliacozzo il 23 agosto | 415 | |
1268 | Corradino prima vincitore viene disfatto per avere rotta la sua ordinanza | 416 |
È fatto prigioniero ad Astura di dove voleva andare in Sicilia | 419 | |
Tribunale formato per giudicare Corradino | ivi | |
Corradino perde la testa sul patibolo il 26 ottobre | 422 | |
Altre vittime della crudeltà di Carlo d'Angiò | 423 | |
Strage degli abitanti d'Augusta | 425 | |
Il guanto, gettato da Corradino in mezzo alla folla, viene portato a Costanza figlia di Manfredi e moglie del re d'Arragona | 426 | |
Capitolo XXII. Smisurata ambizione di Carlo d'Angiò. — Eccita la discordia tra le repubbliche italiane per opprimerle. — Suoi progetti impediti dai vesperi Siciliani. 1268-1282 | 428 | |
Potenza di Carlo d'Angiò | ivi | |
Morte di Clemente IV accaduta il 29 novembre 1268. Vacanza della santa sede per trentatre mesi | 429 | |
1268 | I capi dei ghibellini nemici di Carlo spogliati del loro potere | 430 |
Tutte le città soggette ad Oberto Pelavicino si rivoltano contro di lui | 431 | |
1269 | Buoso da Dovara, esiliato da Cremona, muore nella miseria | 432 |
Fazioni delle città Lombarde, che più non hanno per loro scopo la libertà | 433 | |
Carlo d'Angiò domanda alle città guelfe di riconoscerlo per loro capo | 435 | |
1270 | Viene obbligato da suo fratello san Luigi ad entrare nell'ultima crociata | 436 |
Zelo di san Luigi: sue esortazioni ai suoi figli | 438 | |
L'armata crociata sbarca in Affrica presso Tunisi | 440 | |
È assalita dalla peste, di cui muojono san Luigi e molti crociati | ivi | |
Carlo d'Angiò fa il Bei di Tunisi suo tributario | 441 | |
Confisca i beni de' Genovesi naufragati, sebbene uniti alla sua flotta | 442 | |
1271 | Gui, conte di Monforte, uccide Enrico figlio del conte di Cornovaglia | 443 |
1272 | Gregorio X nuovo papa cerca di riconciliare i Guelfi coi Ghibellini | 445 |
1273 | Viene a Firenze e fa richiamare in quella città, siccome in Siena e Pisa, i Ghibellini esiliati | 447 |
Carlo d'Angiò sforza colle minacce i Ghibellini ad emigrare di nuovo | 449 | |
1273 | Il papa cerca pure di pacificare i Genovesi con Carlo | ivi |
Guerra de' Veneziani e de' Bolognesi per la navigazione del Po | 452 | |
Il papa la termina con un trattato di pace | 453 | |
Gregorio X vuol dare un nuovo capo all'impero d'Occidente | 454 | |
1257-1271 | Riccardo di Cornovaglia ed Alfonso di Castiglia concorrono all'impero | ivi |
1273 | Rodolfo conte d'Absburgo nominato re de' Romani | 455 |
1274 | Gregorio X riconcilia Michele Paleologo colla chiesa romana | 458 |
Glorioso pontificato di Gregorio X | ivi | |
1275 | Il papa preparasi a condurre i crociati in Terra santa | 460 |
1276 | Muore in principio di gennajo | ivi |
1273 | Origine delle turbolenze di Bologna. Tragica morte d'Imelda dei Lambertazzi | 461 |
1274 | Guerra civile dei Geremei e de' Lambertazzi; esilj di questi | 463 |
1275 | Vittoria di Guido da Montefeltro sui Geremei in Romagna | 464 |
1274 | A Pisa Ugolino della Gherardesca s'avvicina ai Visconti | 466 |
1274 | Ugolino della Gherardesca e Nino di Gallura capi dei Ghibellini e dei Guelfi di Pisa esiliati, e nello stesso tempo arrestati il 24 giugno | 468 |
1275 | Il conte Ugolino si associa ai Guelfi | 469 |
1276 | I Pisani sforzati a richiamare tutti gli esiliati | ivi |
Tre papi in un anno. Innocenzo V, Adriano V e Giovanni XXI | 470 | |
1265-1276 | Guerre di Napoleone della Torre contro Ottone Visconti, arcivescovo esule di Milano | 471 |
1277 | Il 21 di Gennajo Ottone Visconti sorprende e fa prigioniere Napoleone della Torre | 474 |
Il popolo di Milano, sommosso contro i della Torre, fa suo signore Ottone Visconti | 474 | |
Nicola III nuovo papa scuote il giogo di Carlo d'Angiò | 476 | |
Grande potenza di Carlo | ivi | |
Nicola mediatore tra Carlo e Rodolfo | ivi | |
1278 | Riduce Carlo a deporre l'ufficio di senatore ed il vicariato della Toscana | 478 |
Rodolfo conferma e dà esecuzione alle donazioni fatte dagl'imperatori alla santa sede | 480 | |
Estensione dei paesi ceduti da Rodolfo alla santa sede | 482 | |
Non passano subito sotto il dominio del papa | 483 | |
1278 | Il cardinale Latino incaricato di rappacificare la Romagna e la Toscana | 484 |
1279 | 4 agosto. Pace conchiusa a Bologna tra i Geremei ed i Lambertazzi | 486 |
Pace conchiusa a Firenze in febbrajo tra i Guelfi ed i Ghibellini | 488 | |
1280 | Morte di Nicola III accaduta il 19 di agosto | 490 |
1281 | Il 22 febbrajo elezione di Martino IV fatto per l'influenza e le minacce di Carlo | 491 |
I Ghibellini sono di nuovo perseguitati in Romagna | ivi | |
Tutte le fortezze della chiesa affidate alle creature di Carlo | 493 | |
1281 | Preparativi di Carlo per attaccar Genova | 494 |
1279-1282 | Odio di Giovanni di Procida. Sue intraprese | 495 |
Eccita Costanza e Pietro d'Arragona ad assumere la difesa dei Siciliani | 496 | |
Visita la Sicilia e risveglia l'odio del popolo e dei nobili | 498 | |
Va a Costantinopoli ed ottiene sussidj dal Paleologo | 501 | |
Torna a Roma ed ottiene l'assenso de' suoi progetti da Nicola III | 503 | |
L'annuncia a Barcellona, indi torna a Costantinopoli | 504 | |
1282 | Alterigia di Martino IV verso l'ambasciatore Arragonese | 505 |
Gli ambasciatori Siciliani fatti arrestare da Carlo nella corte del papa | 506 | |
Procida porta danaro al re d'Arragona, e lo determina a spiegare le vele verso l'Affrica | 507 | |
Procida di ritorno in Sicilia vi aspetta un'occasione di ribellione | 509 | |
1282 | Oltraggio fatto presso Palermo da un Francese ad una donna all'indomani di Pasqua | 510 |
Massacro dei Francesi eseguito il 30 marzo mentre le campane suonano i vesperi | 511 | |
Gli altri Siciliani seguono l'esempio de' Palermitani entro il mese d'aprile | 513 | |
I Francesi sono scacciati da Messina il 28 d'aprile | ivi |
Fine della Tavola.
1. Giannone, Istoria Civile del Regno di Napoli, l. XVI, c. 8, p. 537.
2. Galvan. Flam. Manip. Flor. c. 264, p. 671, E. t. XI. — Ann. Mediol. c. 5, t. XVI, p. 644. — Corio p. II, p. 97. b. — Potrebbe darsi che questi tre storici si fossero copiati l'un l'altro, non essendo contemporanei. Nella lettera in cui Federico parla di questa ribellione al re di Castiglia, non accusa il papa. Petri de Vineis l. III, c. 26, p. 439.
3. Chron. Richardi de s. Germano, p. 1034.
4. Raynald. An. Eccles. ad an. 1231, § 22, p. 379.
5. Raynal. Annal. Eccles. ad annum 1235, § 9, p. 423. — Vita anonim. Gregorii IX, p. 581, t. III Rer. Ital.
6. Richardi de s. Germano Chronic. p. 1036. — Giannone l. XVII, c. I, p. 552 e 553.
7. Federico scrisse al clero di Sicilia deplorando la morte di suo figliuolo, e raccomandandolo alle loro preghiere. «Per acerbo che sia il dolore, egli dice, cagionato ai padri dalle trasgressioni dei figliuoli, punto non iscema quello ancora più acerbo, che fa provare la natura, allorchè si perdono.» Petri de Vineis Epist. l. IV, c. I, p. 543.
8. Rolandini de factis in March. Tarvis. l. II, c. 6, p. 186.
9. Riferito da Gerardo Maurizio, che l'aveva ottenuto egli medesimo, p. 35.
10. Rolandini l. III, c. 8, p. 205.
11. Vita Com. Ricciard. de s. Bonifacio p. 125. — Parisius de Cereto Chronic. Veronense p. 624.
12. Chron. Veronens. p. 628.
13. Ne sia prova l'avvilimento e la venalità di Roberto Maurisio, un nobile di second'ordine addetto ad Ezelino. Si mostra tale in tutta la storia ch'egli scrisse, e più chiaramente a pag. 45.
14. Rolandini l. III, c. 9, p. 207.
15. Gerardus Maurisius, p. 44 e 45. — Ant. Godius Civ. Vicent. p. 82. — Mon. Patav. p. 675. — Rolandin. p. 207.
16. Roland, l. III, c. II, p. 209.
17. Rolandini l. III, c. 16, p. 213.
18. Rolandinus l. IV, c. I, p. 215.
19. Rolandin. l. IV, c. 3, p. 216.
20. Rolandin. l. IV, c. 4. p. 218. — Può ancora leggersi intorno allo stabilimento della tirannia Gerardo Maurisio, creatura del tiranno che termina la sua storia a quest'epoca p. 47-50: come pure Lorenzo de' Monaci, Ezelinus III, p. 141; ma questi non fece che copiare il Rolandino.
21. Ezelino III era capo del partito ghibellino, e dichiarato nemico della corte di Roma, la quale rovesciò sopra di lui e della sua casa tutti i suoi fulmini perchè il più potente mantenitore dei diritti dell'impero in Italia: fu bensì di carattere feroce, e che non guardava troppo minutamente se i mezzi che impiegava per giugnere a' suoi fini fossero sempre onesti, ma non in ogni parte così scellerato uomo, quale ci viene rappresentato dallo storico Rolandino, e da altri scrittori affatto ligi alla parte guelfa. Siccome il nostro autore non ebbe forse sott'occhio l'accurata storia che della famiglia degli Ezelini da Romano pubblicò, corredata di rari documenti, il sig. abate Verci, non dispiacerà a chi legge la presente opera di vedere accennate le ragioni che ci devono rendere circospetti nel prestar fede agli storici guelfi.
Era troppo facile cosa che in un tempo in cui due contrarie fazioni avevano divise tutte le città di Lombardia, anche le storie dettate da scrittori contemporanei si risentissero della parzialità dell'autore. Il Muratori, che più d'ogni altro doveva conoscere i vizj delle cronache italiane, osserva ne' suoi annali, all'anno 1258, che in particolare gli storici guelfi alterarono la verità secondo la passione che li dominò. Bastava a costoro che Ezelino si rendesse colpevole di qualche clamorosa esecuzione capitale per rappresentarlo come il più crudele tiranno che mai esistesse, senza farsi carico dei motivi che potevano averlo determinato ad insevire contro i suoi nemici, e senza contrapporre ai suoi delitti le sue virtù. L'autore della cronaca piacentina confessando la sua crudeltà, ne trova l'origine ne' tradimenti de' suoi sudditi: Propter multas proditiones quas invenit in subditis suis, et alias quas acriter puniebat, dicitur ipsum fuisse tirannum sævum et crudelissimum. Sc. Rer. It. t. XVI, p. 470. «Del rimanente, fu Ezelino sempre fiero contro i nemici, ma verso gli amici affabile, mansueto e benigno; nelle promesse fedele, ne' proponimenti stabile e costante, maturo nel discorso, ne' consigli prudente, in ogni più arduo affare saggio e circospetto; e finalmente in tutte le sue azioni compariva un egregio e nobile cavaliere.» Tale è il carattere che ci lasciò di Ezelino non uno storico ghibellino, ma Pietro Gerardo, monaco padovano, del partito guelfo, da cui non dissentono il Godi e Galvano Fiamma, che pure lo maltrattarono quanto seppero.
E venendo agli storici delle susseguenti generazioni, Giovanni Basilio lo dice: peritissimus rei militaris fuit, et virtute et prudentia singulari. Il Bologni: Ezelinus innumerabilia quoque virtutis exempla praestitit; e l'accuratissimo Bonifacio nella sua storia trivigiana asserì «essere degno Ezelino per le sue crudeltà di gran biasimo, ma che fu uomo chiarissimo per la cognizione dell'arte militare, e merita d'essere ricordato come grande e valoroso principe.»
Il Brunacci nella storia MS. della Chiesa di Padova, ed il canonico Avogaro nella nuova raccolta d'opuscoli t. X, p. 179 rivendicarono dottamente Ezelino dalle ingiuste imputazioni de' suoi nemici; dietro ai quali ne fece una ben ragionata Apologia nel l. VI della storia della famiglia da Romano l'abate Verci. I suoi dotti apologisti distinguono le sue azioni in due epoche, avanti la presa di Padova, e dopo; e lo dimostrano nella prima epoca, cioè fino all'età di 43 anni, assai meno feroce che nella seconda, quando esacerbato dalle continue congiure e dalle invettive che contro di lui facevano i frati ne' loro sermoni, diventò assai più crudele che prima non era.
Altronde se vorremo con occhio imparziale esaminare i modi tenuti dagli altri signori e dalle repubbliche di que' tempi contro i nemici, non accuseremo di enormi crudeltà il solo Ezelino. Lo storico Rolandino, tanto parziale degli Estensi, racconta che quando il marchese Azzo prese dopo lungo assedio il castello della Fratta, furono messi a fil di spada uomini, donne, piccoli e grandi, in modo che que' miseri abitanti furono tutti disfatti. Leggasi la sentenza decretata nel maggior consiglio della città di Treviso contro Alberico da Romano fratello di Ezelino, e contro la di lui moglie e figli, in forza della quale quell'infelice signore fu barbaramente ucciso, dopo avergli scannati in sugli occhi ad uno ad uno la consorte e sei figli, tra i quali uno ancora in fasce; e poi si dica se Ezelino fu il più crudele di tutti gli uomini. N. d. T.
22. Roland, l. IV, c. 4 p. 218. — Ricciardi Comitis sancti Bonifacii vita, p. 130.
23. Petri de Vineis Epist. l. II, c. I. p. 250.
24. Murat. Antiqu. Med. Aev. Diss. XXVI, t. II, p. 491.
25. Intorno a questa parte della storia di Milano, e della lega lombarda ho consultati: Galvan. Flamma Manip. Florum, c. 269, 270. p. 673. — Annal. Mediol. t. XVI, c. 8. p. 645. — Jacob. Malvecius Chron. Brixian. c. 125. p. 909. Questi è breve e poco soddisfacente. — Chron. Parm. t. IX, p. 767. — Monach. Patav. Chronic. t. VIII, p. 677. — Nulla trovasi nel Chron. Placent. benchè la città di Piacenza avesse molta parte in questa guerra t. XVI, p. 593. — Campi Cremona Fedele, l. II, p. 52. — Corio, delle historie di Milano p. II, p. 98. — Conte Giulini, memorie della città e campagna di Milano t. VII, l. L, LII, p. 515.-525.
26. Enumerando queste città convien dire che l'autore risguardasse alla presente condizione di Tortona, Alessandria, Asti ec., perchè altrimenti non potrebbero dirsi piemontesi. N. d. T.
27. Jacobus Malvecius in Chron. Distinct. VII, c. 128. t. XIV. p. 911.
28. La bolla di scomunica viene riportata ed illustrata negli Ann. Eccl. Raynaldi 1239, p. 475.
29. Rolandini l. IV, c. 13, p. 229.
30. In settembre del 1259. Rolandini l. IV, c. 15, p. 232.
31. Ibid. c. 13. p. 229.
32. Raynaldi an. 1206. § 36. p. 149.
33. Anno 1218.
34. Nel 1237.
35. Gl'Italiani chiamarono questo principe Enrico. Probabilmente il suo nome era Hause o sia Giovanni.
36. Flaminio del Borgo, dissert. IV, dell'istoria Pisana p. 178-185.
37. Parte di questo diploma viene riferito da Giorgio Giulini: Memorie della campagna di Milano l. LII, t. VII, p. 529.
38. Pare che allora il papa soggiornasse nel palazzo di Laterano, lontano più di tre miglia dal Vaticano.
39. Rolandini, l. V, c. I. p. 233. — Chronicon. parva Ferrariens t. VIII, p. 484.
40. Continuatio Caffari Annal. Genuensium Barthol. Scribae l. VI. p. 485, e seguenti.
41. Raynaldi ann. 1241. § 54. p. 509. — Caval. Flaminio del Borgo, dissert. IV, p. 206, con molte scritture originali. — Barthol. Scribae contin. Caffari Annal. Genuens. l. VI, p. 485. — Cronache di Pisa di B. Marangoni. Supp. ad Scrip. Rer. Ital. t. I, p. 499. — Petri de Vineis Epistolae l. I, cap. 8. p. 115. — Ricordano Malespini istor. Fiorentina cap. 128. p. 962. — Paolo Tronci Annali Pisani p. 190.
42. La lettera viene riportata per disteso dal Raynaldo all'anno 1241. § 60 e 63. È scritta in nome di Guglielmo Sordo podestà, e del consiglio e comune genovese.
43. Una vita di questo pontefice fu scritta da un anonimo, e conservata tra quelle del cardinale di Arragona. Scrip. Ital. t. III, p. 575. Ma questa vita è dettata con tanto fiele contro Federico, e con un così affettato stile, che riesce penoso il leggerla, difficile il darle fede.
44. Raynald. 1241. § 85. p. 514. e 1242. § 1. p. 515. — Matteus Parisius hist. Angliae, an. 1242. p. 518.
45. Questa lettera trovasi nella raccolta di quelle di Pietro delle Vigne, l. I, c. 17. p. 138. ed in Raynaldus ad ann. 1242, § 2, p. 515.
46. Dietro il peso della moneta milanese, di cui devo la notizia alla gentilezza del conte Luigi Castiglione; io valuto la lira di terzuoli di quel tempo a quindici franchi tornesi, ossia sette lire e dodici soldi a lir. 114 di Francia.
47. La casa della Torre di Milano pretende essere un ramo di quella di Latour d'Auvergne. Ma i suoi genealogisti non si appagarono di tale origine. Gli annali di Milano fanno rimontare i Della Torre ai tempi di sant'Ambrogio, c. 12. p. 649. Il Corio li fa discendere da un bastardo di Ettore, chiamato Franco, p. II, p. 100. Finalmente un monaco che non voleva essere soverchiato, ascende in retta linea da Pagano fino ad Adamo. Presso il Giulini, p. 544.
48. Ann. Mediol. Anonimi, c. 11-13, t. XVI, p. 649. — Galvaneus Flamma Manip. Flor. c. 273-275, t. XI, p. 677 — Conte Giulini Memorie t. VII, l. LII, p. 542-555. — Corio storia di Milano, p. II, p. 100-102.
49. Il 24 giugno.
50. Ricordano Malespini istorie fiorentine, c. 132, p. 964. — Galvan. Flamma Manip. Flor. c. 276, p. 680. — Raynaldus ad an. 1243, § 12, p. 525. — Flaminio del Borgo nella dissertazione IV, p. 239, confuta questo racconto colle più deboli ragioni del mondo.
51. Nicolai de Curbio, postea Episcopi Assisinatensis vita Innocenti IV, Script. Rer. Ital. t. III, c. 11. p. 592.
52. A quest'epoca Riccardo di san Germano termina la sua storia. Questo scrittore coetaneo indica mese per mese colla più scrupolosa esattezza e sufficiente imparzialità gli avvenimenti del regno delle due Sicilie. La sua lettura non arreca molto piacere, ma istruisce assai; ed io mi sono più volte doluto che le repubbliche lombarde non abbiano prodotto in questo secolo alcuno scrittore del suo merito.
53. Il trattato viene riferito da Matteo Paris. Historia Angliæ ad ann. 1244, p. 554, e da Oderico Raynaldo: ad an. 1244, § 24-29, p. 530.
54. Mathæus Parisius hist. Angliæ ad an. 1244, p. 560, e presso Raynaldi. — Nicolaus de Curbio § 13 e 14, p. 592 v. in vita Innocentii IV. Nicola di Curbio era confessore e cappellano del papa, e lo accompagnò nella sua fuga. — Barthol. Scriba an. Genuens. l. VI, p. 504. — Flaminio del Borgo diss. dell'istoria Pisana p. 242 e seg. Questo scrittore, producendo manoscritti fin allora sconosciuti, ed attentamente esaminando le lettere di Pietro delle Vigne, sparse molta luce e rese interessantissimo questo tratto di storia.
55. Petri de Vineis Epistolæ l. II, c. 10. p. 273.
56. Lettere di convocazione presso Raynald. Ann. Eccles, 1245, § 1, p. 535.
57. Zengis regnò dal 1206 fino al 1227. L'anno 1235 un generale di suo figlio intraprese la conquista del Nord. Veggasi Gibbon c. LXIV, vol. XI, p. 214.
58. La perdita di Gerusalemme può in gran parte attribuirsi al papa, che aveva sommosso questo regno contro Federico e suo figlio, investendone Enrico di Cipro; lo che aveva cagionata una guerra civile in uno stato di già troppo debole per difendersi. Raynald. ad. ann. 1246, § 52. p. 563.
59. Matteus Parisius hist. Angliæ; ad annum p. 580. — Raynald. ad ann. § 27 e 28. p. 540. — Giannone istoria civile del regno, l. XVII, c. 3. § 1. p. 578.
60. Dato a Lione il 16 delle calende d'agosto, l'anno III d'Innocenzo IV.
61. Math. Paris ad an. p. 586 e seguenti; e presso Raynald. annal. 1245, § 58, p. 545.
62. Math. Paris Hist. Angliae ad an. 1245, p. 586. Edit. Londin. fol. 1684.
63. Riccardo di san Germano, Nicola di Jamsilla, Corrado Abate d'Ursperg, Nicola Speciale, Bartolomeo di Neocastro, Gherardo Maurisio, l'autore della cronaca di Ferrara, ec.
64. Chron. Parmen, Scrip. Ital. t. IX, p. 769.
65. Memoriale Potest. Regiens. t. VIII, p. 1114. — Annales veteres Mutinens. t. XI, p. 62.
66. Lettera d'Innocenzo IV scritta da Lione il 6 delle calende di maggio, an. 3. Apud Raynald. an. 1246, § 11-13, p. 555.
67. Diurnali di Matteo Spinelli di Giovenazzo t. VII, p. 1073.
68. Petri de Vineis Epistolæ l. II, c. 10, p. 278.
69. Matt. Paris Hist. Angl. ad an. 1249, p. 662.
70. Pietro delle Vigne conobbe i prelati adunati nel concilio di Lione affatto ligi al papa, e non voleva trattare innanzi a loro la causa di Federico contro il papa che presedeva e dirigeva tutte le risoluzioni conciliari. Se ne accorse, ma troppo tardi anche lo Suessa, e fece un'inutile protesta. Pietro delle Vigne è uno di que' grandi Italiani che hanno maggior diritto ad essere posti nel novero de' più illustri italiani. N. d. T.
71. Petri de Vineis Epistolæ l. III, c. 2, p. 391. — Benvenuto da Imola parlando di altre lettere nelle quali Pietro si chiama colpevole, dice che queste sono false. Excerpta in Comœd. Dantis ap. Murat. Antiq. Ital. t. I, p. 1051.
72. Il racconto di Matteo Paris distruggerebbe, se fosse vero, la supposizione del nostro autore. Se da tre anni Pietro non godeva più dell'intera confidenza del principe, come sarebbe stato scelto, per presentargli, unitamente al medico, la bevanda avvelenata? Per imputargli quest'orribile attentato conviene supporlo nell'intima confidenza di Federico. Ma conviene di più dare a Pietro delle Vigne carattere, opinioni, inclinazioni affatto diverse da quelle costantemente seguite in tutto il corso della gloriosa sua vita politica; lo che non deve supporsi col solo appoggio di memorie tanto incerte ed oscure. N. d. T.
73. Math. Paris p. 662. L'istoria di Pietro delle Vigne è assai oscura, e piena di contraddizioni. Nè io intendo parlare solamente delle favole narrate da Tritemio nel suo Chronic. Hirsang. ad ann. 1229; e ripetute da altri molti; ma ancora de' moderni scrittori e de' più acuti critici. Mi sono più che d'ogni altro valso della Storia della letteratura italiana del Tiraboschi p. IV, l. I, c. 2, p. 5-14, 16-30, da cui per altro mi sono talvolta allontanato per seguire gli autori originali, che ho pure voluto consultare; quali sono, Ricordano Malespini Stor. Fior. c. 131, p. 964. — Giovanni Villani Istorie l. VI, c. 22, p. 169. — F. Franc. Pipini Chron. t. IX, c. 39, p. 660. — Benvenuto da Imola Comment. Antich. Ital. t. I, p. 1051. — Giannon. Istoria Civile l. XVII, c. 3, § 2, p. 584. — Flamin. Del Borgo Dissert. dell'Istoria pisana l. IV, § 2, p. 257. Questi riporta un MS. dell'ospitale di Pisa, stando al quale Pietro delle Vigne sarebbe morto in Pisa, nella chiesa di sant'Andrea.
74. Petri de Vineis Epistolæ l. I, c. 1, p. 87; e c. 3, p. 98. Senza decidere se queste lettere siano o no scritte da Pietro delle Vigne, osserverò soltanto che tutte le lettere di Federico scritte anche dopo la morte del suo segretario furono comprese in questa raccolta.
75. Bartholomæi Scribæ, continuat. Caffari Ann. Genuens. l. VI, an. 1248, t. VI, p. 515. — Raynaldi Ann. Eccl. an. 1246, § 24, p. 558. — Id. an. 1249, § 14, p. 592. — Math. Paris. Hist. Angl. an. 1249, p. 665.
76. Lettera dei papa del 10 giugno an. 3 presso il Raynaldi all'anno 1246, § 20, p. 557.
77. Barthol. Scribæ Ann. Genuens. p. 511.
78. Chron. Parmense, t. IX, p. 770.
79. Chron. Parmense, p. 771.
80. Chron. Parmense, p. 772.
81. Chron. Parmense, p. 773.
82. L'assedio di Parma viene circostanziatamente descritto nella Cronica parmigiana t. IX, p. 770 e seguenti — Vedasi inoltre Rolandini l. V, c. 21, p. 248. — Chron. Veronense t. VIII, p. 634. — Monachi Patav. Chron. p. 683. — Chronic. Placent. t. XVI, p. 464. — Memoriale potestat. Regiens. t. VIII, p. 1115. — Nicolai de Curbio Vita Innocent. IV, § 26, p. 592. — Ghirardacci Storia di Bologna l. VI, p. 169.
83. Paris. Historia Angliæ ad an. 1247, p. 628. — Raynaldi Ann. Eccles. 1247, § 46, p. 574.
84. La lettera credenziale di Federico d'Antiochia ai Fiorentini è posta nel l. III, c. 9, p. 409 di quelle di Pietro delle Vigne.
85. Ricordano Malespini, c. 137 e 139, p. 967; quasi copiato ad litteram da Giovanni Villani nel l. VI, c. 33 e 35, p. 179. — Mach. St. Fior. — L'Aret. St. Fior.
86. Registro nuovo di Bologna, fol. 70 presso Ghirardacci, l. VI, p. 172.
87. Caroli Sigonii Histor. Bonon. Oper. omn. Edit. Palat. Mediol. 1733, 6 vol. fol. t. III, l. VI, p. 273-283. Di qui ha preso il Ghirardacci quasi tutte le particolarità della battaglia. Sigonii de Regno Ital. t. II, l. XVIII, p. 999-1005. — Ghirardacci Storia di Bologna l. VI, p. 171-178. — Fra Bartolomeo della Pugliola, Cronica di Bologna t. XVIII, p. 264. — Mathæi de Griffonibus Memoriale Historicum de rebus Bonon. t. XVIII, p. 113. — Campi Cremona fedele l. II, p. 57. — Memor. potest. Regiens. t. VIII, p. 1116. — Ricobaldi Ferrar. Hist. Imper. t. IX, p. 131. — Chron. Fratr. Francisci Pipini, t. IX, c. 35, p. 657. — Chr. Parm. t. IX, p. 775. — Annal. Veter. Mutin. t. XI, p. 63. — Chron. Mutin. Johan. de Bazano t. XV, p. 563. — Chron. Est. t. XV, p. 312. — Stor. de' Prin. Esten. di Gio. Bat. Pigna l. III, p. 216.
88. Abbiamo una lettera di Federico ai Bolognesi colla quale ricordando le vicende della fortuna, chiede loro suo figlio, e li minaccia in caso di rifiuto di tutto il suo sdegno. Petri de Vineis l. II, c. 34, p. 314.
89. Ghirardacci Stor. di Bolog. l. VI, p. 176. Questa è la guerra che forma l'argomento del poema eroicomico di Alessandro Tassoni, la Secchia rapita.
90. Senza oppormi in generale al racconto dell'autore non devo tacere che molte terre della Marca Trivigiana ebbero motivo di lodarsi del breve dominio d'Ezelino. N. d. T.
91. Roland. de factis in March. Tarvis. l. II, c. 9, p. 188; l. V, c. 2, p. 234, c. 16, p. 245; l. VI, c. 12, ec. p. 262.
92. Ib. l. V, c. 9, p. 239.
93. Roland. l. V, c. 20, p. 248. — Monachus. Patav. in Chron. p. 682.
94. Roland. l. V, c. 9, p. 239.
95. Roland. l. V, c. 10, p. 240.
Accipitrem, milvi pulsurum bella, Columbæ
Accipiunt Regem; Rex magis hoste nocet.
Incipiunt de rege queri, quia sanius esset
Milvi bella pati, quam sine marte mori.
97. Roland. l. VI, c. 2, p. 254; e c. 9, p. 261.
98. Petri de Vineis l. III, epist. 22, 23, 24, p. 431 e seguenti.
99. Math. Paris. Hist. Angl. ad ann. 1249, p. 663.
100. Giovanni Villani Istor. l. VI, c. 1, p. 155.
101. Nicolai de Jamsilla, Historia Conradi et Manfredi, in proemio, t. VIII, p. 495.
102. È cosa veramente singolare che questo così illustre Italiano, ed il suo intimo confidente Pietro delle Vigne non abbiano avuto luogo tra i sessanta uomini più illustri della nostra Italia; anzi non siasi pur sospettato da chi ne fece la scelta, che potessero aspirare a tanto onore; tale è la forza che anche in questa nostra filosofica età conservano le opinioni di parte, che diressero la penna degli storici nemici degl'imperiali. Ma se si vorrà sottilmente esaminare ciò che a favore delle scienze e delle lettere operarono Federico II, e Pietro delle Vigne, si troverà che l'Italia e l'Europa va loro debitrice del rinnovamento degli studj e di quello spirito filosofico, che a fronte degli sforzi fatti per comprimerlo, incominciò, dopo tale epoca, a fermentare tra gl'Italiani. N. d. T.
103. La sola repubblica di Venezia, siccome quella che esisteva avanti che si rinnovasse l'Impero occidentale, non si volle mai riconoscere dipendente agl'imperatori francesi o tedeschi. N. d. T.
104. Innoc. IV, Epist. l. VIII, ep. I, Ap. Raynald. ad ann. 1251, § 3, p. 604.
105. Inn. Epist. l. VIII, ep. 148, ib. § 41, p. 612.
106. Caffari Contin. l. VI, Ann. Genuen. p. 518. — Caval. Flamm. del Borgo l. V dell'Istoria pisana, § 5, p. 282.
107. Nicolai de Curbio Vita Innoc. IV, t. III, p. I, § 30, p. 592. 1. — Galvan. Flammæ Manip. Flor. § 285, p. 683. — Corio Stor. di Milano p. II, p. 109. verso.
108. Giorgio Giulini, Memorie della campagna di Milano, t. VIII, l. LIII, p. 52.
109. Conte Giulini, Memorie l. LIV, p. 113. — Galvan. Fl. Manip. Flor. § 288, p. 685. — Corio Istor. di Mil. p. 112 — Annal. Anon. Mediol. t. XVI, c. 24 e 26, p. 657.
110. Qui l'autore confonde l'abuso che in alcun tempo fecero della religione cattolica i principali prelati, valendosi dell'ignoranza de' popoli superstiziosi, colla natura della religione medesima; la quale, fondata sopra la divina rivelazione, è ben lontana dal chiedere il sagrificio della ragione, volendo anzi che la sommissione de' fedeli sia ragionevole. N. d. T.
111. Jacobi Malvecii Chron. Brix. Dist. VIII, c. 4, t. XIV, p. 920. — Nicolai de Curbio Vita Innocent. IV, 30, 592.
112. Vedasi il testamento di Federico II presso Lunig. Codex Italiæ Diplomat. t. II, p. 910, oppure presso il Giannone l. XVII, c. 6, t. II, p. 617.
113. Se crediamo a Matteo Paris, Federico d'Antiochia sarebbe morto prima di suo padre. An. 1249, p. 665.
114. Monac. Patav. in Chron. p. 685.
115. Flamin. del Borgo Diss. V dell'Istoria pisana, p. 285.
116. Diurnali di Matteo Spinelli di Giovenazzo, t. VII, p. 1069.
117. Nicolai de Jamsilla t. VIII, p. 505 e 506.
118. Nicolai de Curbio Vita Innocent. IV, § 31, p. 592, x. — Dice Matteo Paris che in tempo delle negoziazioni, Corrado fu avvelenato dai partigiani del papa, e che a stento si sottrasse alla morte. An. 1252, p. 725.
119. Matteo Spinelli Diurnal, p. 1071. — Sabas. Malaspina Hist. Sicula l. I, c. 3, p. 789. — Barthol. de Neocastro Hist. Sicula, c. I, t. XIII, p. 1016.
120. Nicolaus de Curbio, Vita Innocent. IV, § 31, p. 592, x. — Raynald. 1253, § 2-5, p. 623, 625.
121. Mathæi Paris Hist. Angl. (Continuatio) ad an. 1253, 1254, p. 761. Matteo Paris si era proposto di terminare la sua storia coll'anno 1250, onde terminando il venticinquesimo mezzo secolo, ricapitola gli avvenimenti degli ultimi cinquant'anni, e chiude le sue osservazioni con una specie di epilogo, p. 697. A fronte di ciò io penso che lo stesso Paris sia il continuatore della storia.
122. Mathæus Parisius an. 1254, p. 765. — Lettera di Corrado in additamentis ad Mat. Paris. p. 1113.
123. Ibid. p. 767.
124. Il 21 maggio 1254. Nicol. de Jamsilla hist. t. VIII, p. 507.
125. Schmidt storia degli Allemanni l. VI, c. 10, t. III, p. 589; lo dice Margravio d'Hocherg, ma tutti gl'Italiani lo chiamano d'Oenburgo.
126. Barth. de Neocastro hist. Sic. t. XIII, p. 1016.
127. Ricord. Malasp. hist. Fior. c. 143, p. 974.
128. Raynald. an. Eccl. 1254. § 42. p. 644.
129. Sabas Malas. hist. Sicula l. I, c. 4, p. 790.
130. Math. Paris ad ann. e Giannone hist. civile l. XVIII, c. 2, p. 631. — Flaminio del Borgo, dissert. V, p. 290. Niuno scrittore coetaneo parlò di veleno. Monac. Patav. l. II, p. 689. — Nicol. de Jamsilla p. 507. — Diurnali di Matteo Spinelli p. 1071.
131. Nicolai de Jamsilla hist. p. 507.
132. Nicol. de Jamsilla p. 512. — Diurnali di Matteo Spinelli p. 1073.
133. Nicolai de Jamsilla hist. p. 523.
134. Ibidem p. 524.
135. Nicolai de Jamsilla historia, p. 529.
136. Pare che Nicola di Jamsilla fosse del numero de' suoi amici; e perciò rese così commovente tutta questa narrazione.
137. Il 7 dicembre 1254.
138. Raynald. ad ann. 1235. § 1, 3, 4. — Storia diplomatica de' senatori di Roma p. I, p. 95-97.
139. Contarini histor. Terracinensis, p. 65 e 67: e Bulla Innoc. IV. Apud Vitale storia diplomatica de' senatori di Roma t. I, p. 114.
140. Math. Paris hist. Angl. 1254. p. 757.
141. Sigonius de Regno l. XIX, p. 1026.
142. Vitali stor. dipl. de' senatori di Roma t. I, p. 117.
143. Raynald. ann. Eccl. 1258. § 5. t. XIV, p. 37. — Sigon. de regno It. l. XIX, p. 1037. — Vitali storia diplom. del senato p. 120.
144. Gio. Villani storie Fiorent. l. VI, c. 7, p. 202.
145. La lira di Firenze di quel tempo corrisponde ad undici lire e sette soldi tornesi.
146. Giovanni Villani era nato verso il 1280, e fu priore della libertà l'anno 1317.
147. Quanta mutazione di costumi in 50 anni! N. d. T.
148. Gio. Villani l. VI, c. 39. p. 181. — Ricordano Malespini, c. 141. p. 971. — Machiav. istor. Fiorent. l. II, p. 96. — Leonardo Aretino l. II, traduzione dell'Acciajuoli p. 35.
149. Gio. Villani l. VI, c. 42. p. 184.
150. Scipione Ammirato istor. Fiorent. l. II, p. 96. a. — Marang. Cron. di Pisa, p. 510. — Flam. del Borgo diss. V, p. 287. § 6. — Gio. Villani l. VI, c. 49. p. 190. — Janotti Manetti hist. Pistor. t. XIX, Rer. Ital. p. 1008.
151. Gio. Villani l. VI, c. 53. p. 191.
152. Storia delle monete della repub. fiorent. d'Ignazio Orsini. Firenze 1760, 1 v. in 4.º fig.
153. Gio. Villani, l. VI, c. 55, p. 193. — Janot. Manetti Histor. Pistorii, p. 1008.
154. Orlando Malavolti Stor. di Siena p. I, l. V, p. 65. — Gio. Villani l. VI, c. 56, p. 193. — Scip. Ammir. l. II, c. 1, p. 37.
155. Se il Tesoro di Brunetto Latini abbracciava tutte le cognizioni del XIII secolo, i lumi di quel secolo erano ben piccola cosa. Ma quest'espressione usata da chi voleva onorare questo uomo singolare non vuol essere presa letteralmente. N. d. T.
156. Gio. Villani l. VI, c. 58, p. 193. — Leonardo Aretino l. II.
157. Febida fu quello che si pose in possesso della Cadmea coll'ajuto della fazione aristocratica, e fu deposto e condannato a dieci mila dramme di ammenda.
158. Gio. Villani l. VI, c. 62, p. 196. — Leonardo Aretino l. II.
159. Poichè i Fiorentini ebbero persuaso il conte Guido a sortire d'Arezzo, gli Aretini nominarono loro podestà Tegghiajo Aldobrandi degli Adimari, uno de' più virtuosi cittadini di Firenze. È questi uno degli eroi ricercati da Dante e trovato nell'Inferno, cant. 16, v. 41, nel cerchio in cui si puniva un cotal vizio associato a tante virtù. Tegghiajo, esposto ad una pioggia di fuoco, cammina senza mai fermarsi sopra una arena ardente col conte Guido Guerra e Giacomo Rusticucci; i quali, quantunque si fossero meritati la collera del cielo, imprimevano ancora un profondo rispetto alla terra. Virgilio, vedendoli avanzarsi, dice a Dante:
«.... a costor si vuole esser cortese;
E se non fosse il fuoco che saetta
La natura del luogo, i dicerei
Che meglio stesse a te che a lor la fretta.»
Diffatti quando Dante ode i loro nomi, sta irresoluto di cacciarsi avanti tra le fiamme per abbracciarli e grida:
«Di vostra terra sono, e sempre mai
L'ovra di voi e gli onorati nomi
Con affezion ritrassi ed ascoltai.»
Nello stesso cerchio e per lo stesso genere di incontinenza era da perpetue fiamme tormentato il maestro di Dante, Brunetto Latini, di cui abbiamo già parlato. È cosa veramente sorprendente che un così vergognoso vizio fosse così comune in una repubblica che sotto ogni altro rapporto era tanto austera e virtuosa; come riesce curioso il vedere in qual modo quegli uomini ad un tempo repubblicani e religiosi risguardavano in quel secolo i giudizj del cielo. Quando li vediamo tributare tanto rispetto a coloro che sono già vittime dell'eterna vendetta, ci sembra di scorgervi quelle idee di fatalismo sulle quali i Greci fondarono le loro tragedie. I delitti di Tegghiajo e di Rusticucci, come quelli di Edipo e d'Oreste sembravano l'effetto della collera degli Dei: ma sotto il peso di questa collera gli uomini non lasciano di mostrarsi ancora grandi.
160. Gio. Villani l. VI, c. 63, p. 197.
161. Paris Hist. Angl. an. 1254, p. 771. — Raynald. an. 1254, t. XIV, § 2, p. 1.
162. Dato dal Laterano il 13 delle calende di gennajo. Epist. Alex. IV, l. II, epis. 7, ap. Raynald. Ann. 1255, § 10, p. 4.
163. Monachi Patav. Chron. l. I, p. 687.
164. Ciò accade l'anno 1253.
165. Rolandini l. VII, c. 5, p. 274.
166. Jacobi Malvecii Chron. Brixian. Diss. VIII, c. 14, p. 923, t. XIV. — Monachus Patav. Chron. l. II, p. 692. — Roland. de factis in March. Tarvisana l. VIII, c. 1, p. 283 e segu. — Laurent. de Monacis Ezerinus III, p. 148 ex l. XIII Hist. Venetæ. — Chron. Veron. Parisii de Cereta p. 636. — Campi Cremona Fedele l. III, p. 63. — Pigna Istoria de' principi d'Este l. III, p. 218. — Chron. Estense t. XV, p. 318. — Ghirardacci Istoria di Bologna l. VI, p. 191.
167. Roland. l. VIII, c. 13 e 14. p. 295-298. — Monachi Patavini Chron. p. 693.
168. Rolandini l. IX, c. 1 e 4. p. 299-302. — Monachus Patavinus, p. 694.
169. Le particolari circostanze sono prese dal Rolandino l. IX, c. 7.-8. p. 304-306: ma il fatto viene attestato da tutti i coetanei. Chron. Veron. p. 636. — Mon. Patav. p. 695. — Laurent. de Mon. Ezerinus III, p. 149. — Ant. Godi Chr. Vic. p. 87. — Chron. Est. p. 230. — Regiurinum Paduæ Chronicatores duo, p. 377, 378.
170. Il fatto ne' particolari è assai diversamente raccontato, e gli scrittori allegati erano tutti guelfi. N. d. T.
171. Roland, l. IX, c. 10, 11, 12. — Mon. Pat. Chr. p. 695.
172. Monachi Patav. Chron. p. 700. — Rolandinus t. XI, c. 8 e 9. p. 331. — Jacobus Malvecius Chron. Brixian. Dist. VIII, c. 17. p. 924. — Chron. Veron. p. 638.
173. Il trattamento usato da Ezelino al legato suo prigioniere, che pure lo aveva tanto maltrattato nelle sue prediche, dovrebbe essere risguardato come un argomento della poca fede dovuta ai racconti esagerati della crudeltà di quest'uomo. N. d. T.
174. Lib. IX, c. 10. p. 333.
175. Questo trattato viene letteralmente riferito dal Campi nella sua Cremona Fedele, l. III, p. 65.
176. Roland. l. XI, c. 17. p. 340.
177. La cosa viene variamente raccontata da altri storici. Si dice che avendo proclamato che tutti i poveri storpiati, mutilati ec., presentandosi in Verona alla sua corte, avrebbero avuto da Ezelino un nuovo abito, e vitto finchè vi rimanessero. Che quando vi si trovarono adunati moltissimi, fece a tutti dare nuove vesti, e ritenere i loro cenci, ne' quali, inutilmente riclamati da que' mendici, trovaronsi nascosti molti danari, e che perciò tutti i mendicanti dolevansi per le città italiane di Ezelino. N. d. T.
178. Il 16 settembre 1259.
179. Roland. l. XII, c. 9, p. 351.
180. Chron. Astense c. 2, t. XI, p. 186.
181. Ant. Godii Chron. t. VIII, p. 90. — Monach. Patav. l. II, p. 708.
182. Rolandini, l. XII. c. 1-9. — Monach. Patav. Chron. p. 702-706. — Chron. Veron. p. 638. — Campi Cremona fedele, l. III, p. 71. — Pigna Istor. de' Principi d'Este l. III, p. 225. — Jacobi Malvecii Chronic. Brixiense Dist. VIII, c. 30-37, p. 931, ec.
183. Rolandini l. XII, c. 14-16, p. 356 e seguenti. Qui prenderemo congedo da questo storico, che termina il suo racconto colla caduta della famiglia da Romano. L'anno 1262 sottomise il suo libro all'approvazione del magistrato e degli uomini dotti di Padova, tutti testimonj dei riferiti avvenimenti.
184. L'autore ebbe torto di seguire troppo minutamente i racconti del Rolandino, uno de' più caldi partigiani della fazione guelfa, e personalmente nemico di Ezelino. Fa veramente maraviglia che mostrando altrove tanta filosofia e buona critica, sia qui disceso a raccontare le puerili favole inventate sul conto d'Ezelino, che pur troppo era colpevole: ma per dare una giusta idea ancora de' suoi nemici, il nostro imparziale autore non doveva dissimulare il barbaro modo con cui fu sacrificata la famiglia d'Alberico da Romano, che forse non era alleata d'Ezelino: e convien dire che il suo animo non sostenne l'immagine di tanti orrori. N. d. T.
185. Monachi Patav. Chron. l. II, p. 707.
186. Nicolai de Jamsilla Historia p. 579.
187. Ib. p. 565, 566.
188. Nicolai de Jamsilla Historia p. 571.
189. Fu incoronato il giorno 11 agosto del 1258; e qui termina la sua storia Nicola de Jamsilla. Io lascio con dispiacere quest'amabile scrittore. Quantunque le sue storie non abbraccino che un periodo di otto anni dalla morte di Federico fino all'incoronazione di Manfredi = 1250-1258, seppe dare grandissima importanza al suo racconto. Un cuore caldo, un vivo affetto pel principe cui era attaccato, la perfetta conoscenza ch'egli aveva delle più minute circostanze degli avvenimenti, sono qualità poco comuni agli storici di que' tempi; e sentesi tanto più vivamente la sua mancanza perchè dopo di lui il regno di Napoli non ha più storici ghibellini.
190. Giannone Istoria Civile, l. XIX, p. 666.
191. Gio. Villani l. VI, c. 65, p. 199.
192. Flam. del Borgo Stor. Pis. l. VI, p. 349. — Malavolti Hist. di Siena p. I, Diss. V, p. 68. — Leon. Aret. l. II, c. 3, p. 41.
193. Tutti gli scrittori fiorentini hanno supposto che le prime truppe tedesche mandate da Manfredi in Toscana siano stati i cento uomini d'armi accordati a Farinata, e che il conte Giordano vi arrivasse dopo avuta notizia della disfatta dei primi. Il loro racconto contiene qualche inverosimiglianza di date; ma viene poi apertamente smentito dai pubblici registri degli archivj di Siena. Il Malav., Stor. di Siena p. II, l. I, p. 1-10, ha cercato di dimostrare quest'opposizione; ed io, per lo contrario, cerco di conciliare le due opinioni. I Fiorentini, quasi tutti coetanei, meritano al certo molta fede, ma la loro testimonianza non è che una sola, perchè il Villani copiò parola per parola Ricordano Malespini senza citarlo, come il Villani fu copiato da Coppo de' Stefani. Lionardo Aretino ripete a modo suo lo stesso racconto. Ricord. Malesp. c. 163-164, p. 987. — Gio. Vill. l. VI, c. 74-75. — Leon. Aret. l. II, p. 45, c. 5. — Flam. del Borgo Dissert. VI, p. 349. — Murat. Ann. ad an. t. XI, p. 34, 8.
194. Martedì 4 settembre 1260.
195. La battaglia d'Arbia ebbe così importanti conseguenze, che tutti gli storici ne hanno parlato. Noi intorno a questa guerra abbiamo consultato Gio. Villani l. VI, c. 79. p. 209. — Sabae Malespinae hist. rer. Sicular. l. II, c. 4. t. VIII, p. 802. — Ricord. Malesp. hist. Fior. c. 166. 167. p. 989. — Leon Aret, hist. Fior. volg. d'Acciajuoli, l. II, p. 53. — Coppo de Stef. hist. Fior. l. II. — Deliz. degli Eruditi t. VII. — Malavolti stor. di Siena p. II, l. I, p. 17-20. — Flam. del Borgo dell'ist. Pisana Dissert. VI, p. 357. — Giunta Tommasi hist. Sanese p. I, l. V, p. 323-337. — Scip. Ammirato hist. Fior. l. II, p. 112-123. — Annal. Ptolomei Lucensis t. XI, p. 1282. — Breviar. Pisanae hist. l. VI, p. 193. — Ann. Cenuen. Contin. Caffari l. VI, p. 528. — Andrea Dei Chron. Sanese t. XV, p. 29. cum notis Uberti Bentivoglienti. — Marangoni Chron. di Pisa ec. ec. Dante allude più volte a questa battaglia, e pone nell'inferno Bocca degli Abati, fra i traditori della patria. Infer. c. XXII, v. 78, e seguenti.
196. Frate Ildefonso di san Luigi, Carmelitano Scalzo, consacrò una vasta e laboriosa erudizione a fare la storia della famiglia de' conti Guidi, e della discordia che gli attaccò a diverse fazioni. Rilevasi da questa storia che questa nobile e potente famiglia possedeva terre in tutte le parti della Toscana, ma specialmente nelle montagne di Pistoja e di Arezzo; che ne aveva pure nella Romagna, e nel ducato di Spoleti, e ch'ebbe in tutto il periodo de' secoli di mezzo grandissima influenza su la sorte della Toscana. Deliz. degli Erud. Tosc. t. VIII, p. 89 a 195.
197. Questo discorso viene riferito da Leonardo Aretino e forse fu da lui composto. Abbiamo altrove osservato, che in tutti i discorsi solevasi prendere un testo, e che quando si permetteva ad un oratore di parlare gli veniva domandato intorno a quale testo parlerebbe. Racconta il Villani, ma alquanto oscuramente, che Farinata troppo occupato dei grandi interessi della sua patria, per isvolgere ingegnosamente qualche antico testo, propose due proverbi volgari, e questi ancora confusi in maniera l'uno coll'altro, che non presentavano alcun ragionevole significato. Questi proverbi sono: come asino sape, così minuzza rape. Sì va capra zoppa che lupo non la intoppa; ch'egli travolse così: come asino sape sì va capra zoppa, così minuzza rape se lupo non la intoppa. Egli seppe non pertanto farne applicazione al soggetto, come vedesi nello stesso Aretino. I nemici di Firenze come i vili animali citati nel proverbio non sapevano innalzarsi al disopra delle corte loro viste e delle loro miserabili costumanze; zoppicavano ancora dello stesso piede ed erano disposti a nuocere nella stessa maniera che avevano tentato di farlo in altri tempi affatto diversi. Gio. Villani l. VI, c. 82. — Ricordano Malespini c. 170. — Leonardo Aretino l. II.
198. Gli Uberti furono sempre eccettuati dalle tregue concesse alcune fiate ai Ghibellini.
199. Dante, Inferno canto X.
200. Ciò poteva esser vero rispetto alla Francia, ma in Italia i duelli strettamente tali richiamerebbero l'attenzione de' tribunali. N. d. T.
201. Questo trattato di pace fu sottoscritto il 4 aprile 1258 tra i nobili ed i plebei. Corio, Istorie milanesi p. II, p. 115, verso.
202. Manipulus Florum, c. 299, p. 685.
203. L'anno 1256. Giorgio Giulini, Memorie della città e campagna di Milano l. LIV, p. 131.
204. Lo stesso l. LV, p. 210 disamina le due opinioni, confrontando le genealogie adotte dagli storici colle iscrizioni delle pietre sepolcrali.
205. Martino della Torre non ebbe figliuoli. Ann. Mediolan. t. XVI, c. 34, p. 664. — Galvan. Fiamma Manip. Flor. c. 293, p. 687.
206. Giorgio Giulini lo dice morto del 1257. Altri genealogisti la differiscono di alcuni anni, l. LIV, p. 139.
207. Bernardino Corio delle Istorie milanesi p. II, p. 114.
208. Scrivendo la storia dell'innalzamento della casa della Torre mi sono unicamente attenuto al conte Giorgio Giulini, che con dotte indagini illustrò questo tratto di storia. L. LIV e LV delle sue memorie, t. VIII, dalla p. 73 alla p. 210. Non ho per altro lasciato di leggere Bernard. Cor. Istor. di Milano, p. II, p. 110-122. — Galvan. Flamma Manip. Flor. c. 285-302. — p. 683-694. Annales Mediolan. t. XVI, c. 28-37. p. 658-666.
209. Sandi stor. civile Veneta p. I, v. II, l. III, c. 1. p. 378.
210. Sandi storia civile Veneta p. I. l. III.
211. Sandi p. I, l. III, p. 413.
212. Sandi p. I, l. III, c. 3, p. 401.
213. Vedasi un paragrafo assai profondo intorno alla spettanza della nazione nelle elezioni nell'opera di Necker, Ultime viste di politica e di finanza p. 106-137.
214. Sandi Storia civile di Venezia l. IV, p. 510, p. I, t. II.
215. Sandi p. I, v. II, l. IV, c. 11. § 1, p. 581.
216. Sandi p. I, t. II, l. IV, c. 3, § 1, p. 621.
217. Sandi p. I, t. II, l. IV, c. 4; p. II, § 2, p. 704.
218. Sandi Stor. Ven. p. I, t. II, l. IV, p. 630.
219. L'anno 1205. Vedasi la Cronaca d'Andrea Dandolo c. 3, p. XLVII, p. 333 e c. 4.
220. Dietro la sola autorità del Sandi, Stor. Civile p. 620, cito le due Cronache ms. Savina e Barbaro, ch'io non ho vedute. Dandolo, Sanudo e Navagero non accennano questo fatto.
221. Sandi t. II, p. I., p. 600.
222. Sandi t. II, p. I, l. IV, p. 609.
223. Parlando della costituzione veneta mi sono attenuto a Vittore Sandi: un nobile veneziano che nel diciottesimo secolo scrisse nove volumi in 4.º intorno alla costituzione del proprio paese merita piena fede in tutto ciò che è semplice erudizione patria. Molta infatti ne contiene rispetto a tutto quanto è veramente veneziano, per tutto ciò che poteva levarsi dagli archivj del suo paese, ch'egli ha accuratamente esaminati. Ma non vi si può prestar fede quando esce dal suo argomento. Cade spesso in gravissimi errori nelle cose della storia generale d'Italia; assurde sono molte volte le sue riflessioni, ed il suo stile è goffo ad un tempo ed affettato. Le memorie storiche e politiche intorno alla repubblica di Venezia di Leopoldo Curti sono meno nojose, ma lascian travedere soverchiamente la sua parzialità; e le sue quistioni colla repubblica fanno dubitare, almeno in Venezia, della sua esattezza. Rispetto al commercio veneziano ho già citate le Ricerche storico critiche del dotto conte Figliasi. Ho pur fatto uso degli antichi storici Andrea Dandolo, Marino Sanudo ed Andrea Navagero. Ho pure letta una voluminosa storia della guerra di Candia nel 1669, che sparge molta luce sullo stato di quella colonia. Istoria dell'ultima guerra tra Veneziani e Turchi di Girolamo Brusoni dal 1644 al 1671 divisa in 28 libri, 1 v. in 4.º 1676.
224. Trovasi nella raccolta degli storici bizantini, t. XXIII, una curiosissima relazione dello stato di Terra santa l'anno 1211, quando l'autore la visitò. Incomincia la sua descrizione dalla città di san Giovanni d'Acri. Vedasi l'Itinerarium Terræ Sanctæ, auctore Villebrando ab Oldenborg canonico Hildesemensi, p. 10. Leon. Allatii t. XXIII.
225. An. 1258 Bart. Scribæ Contin. Caffar. Ann. Gen. l. VI, p. 525.
226. Chron. Andreæ Danduli c. 7, § 8 e 9, p. 365.
227. Questo trattato trovasi stampato nella raccolta dei diplomi del Ducange, t. XX della Bizantina, p. 5. — Hist. de Costantinople sous les empereurs françois di Ducange l. V, § 21, edit. Ven., t. XX, p. 75. — Barthol. Scribæ Ann. Genuens. l. VI, p. 528.
228. Ducange Histoire de Costantinople l. V, § 19, p. 75.
229. Georgi Acropolitae historia c. 85. Byzant. Ed. Ven. t. XVI, p. 77.
230. Sabellicus hist. Venet. dec. I, l. X. — Appendix ad Villeharduin t. XX, Byzant. Venet. p. 100.
231. Θεληματαριοι.
232. Intorno alla perdita di Costantinopoli possono consultarsi Dufresne Ducange, histor. di Costant. sotto gl'imp. francesi l. V, c. 21-34. p. 79, 80. — Byzant. Ven. t. XX. — Giorgio Accropolita istor. c. 85. 89. p. 77. — Byzant. Ven. t. XIV. — Georgii Pachymeris ist. l. II, c. 26-34. p. 78, 91. — Byzant. Ven. t. XII. — Phranza l. I, c. 4 c 5, t. XXIII. p. 6, 7. — Nicephorus Gregoras hist. Byzant. l. IV, c. 2. t. XX. p. 41.
233. Costantinopoli fu preso il 25 luglio del 1261, e secondo il calendario greco l'anno del mondo 6769, indizione 4.
234. μακρὰ καὶ ἀυτοὶ χαὶρειν ἔιπόντες Τὴν νόθον πατρίδα. Niceph. Gregor. l. IV, p. 43.
235. Acropolita, che aveva composti questi inni, ci fa un circostanziato racconto di questa ceremonia: tutto fu commovente, tranne la vanità dello storico, c. 88. p. 80.
236. Niceforo Gregora, l. IV, c. 11. § 6, p. 43.
237. Il ceremoniale cui i magistrati veneziani e genovesi dovevano attenersi in Costantinopoli nelle loro comunicazioni coll'imperatore ci fu conservato da Codino Curopalata de Officiis Const. c. 14. § 8-14. Byz. t. XVIII. p. 91, 92. — È cosa notabile che i Veneziani vi sono meglio trattati dei Genovesi. G. Pachymeris hist. l. II, c. 32, p. 89, 90. c. 35. p. 92. — Niceph. Gregora l. IV, c. 5. § 4. p. 92.
238. Niceph. Gregoras. l. IV, c. 5. § 1, 5. p. 48, 49.
239. Laonico Calcocondila, il solo degli storici greci che tratti di questa infeudazione, ne parla assai confusamente. De Rebus Turcicis l. X, p. 216, Byzant. t. XVI. Osservisi ancora la Storia veneta di Sandi p. I, l. IV, p. 670. Ma io mi sono a Genova informato da un Giustiniani, tornato da Chio colla sua famiglia 33 anni sono.
240. Fra le altre l'anno 1238 pei gravi negoziati con Federico II. Barth. Scribae An. Gen. p. 479.
241. Questa congiura fu diretta da Guglielmo de' Mari. Barthol. Scribae, l. VI, p. 450-453.
242. Tra gli altri l'anno 1239, e l'anno 1241. Annales Genuenses l. VI, p. 482, 486.
243. Ann. Gen. l. VI, p. 523, 524. — Uberti Foglietæ Genuens. histor. l. IV, p. 361. Apud Graevium Thesaur. Antiq. Ital. t. I.
244. Ann. Genuens. l. VI, p. 627. — Uberti Folietæ Genuens. hist. l. IV, p. 366.
245. Barthol. Scribæ Ann. Genuens. l. VI, p. 529. — Uberti Folietæ Genuens. hist l. IV. p. 367.
246. Ann. Genuens. l. VI, p, 531.
247. Ib. l. VII. Lanfranci Pignolae ecc. p. 533, 535. — Uberti Foliet. hist. Genuens. l. V, p. 371.
248. Abbiamo una vita di questo papa scritta in cattivi versi elegiaci dedicata al cardinal nipote da Tierrico Vallicolor. Questo poema d'un migliajo di versi viene più volte citato dall'annalista ecclesiastico. È stampato Scr. It. p. II, p. 405 e segu. Avvi pure una vita dello stesso pontefice scritta da Amalrico Augerio, p. 404, ed una di Bernardo Guidone t. III, p. I, p. 593.
249. Matteo Spinelli da Giovenazzo Diurnali t. VII, p. 1097.
250. Ann. Eccles. t. XIV, p. 68, § 22.
251. Giannone Ist. Civ. del Regno di Napoli l. XIX, c. I, t. II, p. 668. — Continuat. Nicolai Jamsillæ, p. 591.
252. An. Eccles. 1262, § 14, t. XIV, p. 74. — Datum Viterbii 6 calend. maii.
253. Litteræ ejusdem ad Regem Franc. An. Eccles. § 17, an. 1262, 13 cal. augusti. Malgrado le felicitazioni contenute in questa lettera, Filippo, detto l'ardito, sposò in quest'anno Isabella d'Arragona; di che pare che Rainaldo non ne avesse notizia. Guilelmi de Nangiaco Hist. S. Ludovici, p. 371. Scrip. Hist. Franc. t. V.
254. Epist. Urb. IV ad Magistr. Albert. Notarium Ap. Rayn. 1262, § 21, p. 75.
255. Quest'offerta ed il rifiuto di Luigi vengono ricordati in una lettera del papa alla regina di Francia, Rayn. 1264, § 2, p. 101. — Giannone Istor. Civ. l. XIX, c. 1, t. II, p. 670.
256. Urb. IV, Epist. 161 e 162. Rayn. 1263, § 78, p. 98.
257. Gli atti originali di questo trattato furono conservati da Tutini: Dei contestabili del Regno f. 70, 71. Io lo cito sulla fede del Giannone.
258. Ann. Eccles. Raynal. 1264, § 13, p. 103.
259. Quello che assumeva questo titolo era Riccardo, conte di Cornovaglia, uno de' pretendenti all'impero.
260. Gio. Villani l. VI, c. 90, 91, p. 221.
261. Gio. Villani l. VII, c. 1, p. 285.
262. Malgrado l'espresse testimonianze di Matteo Spinelli, Diurnali p. 1097, 1098 di Costanzo l. I, e di Giannone l. XIX, c. 1, p. 671, io dubito ancora che il condottiere di questa crociata fosse Roberto di Fiandra, il quale, quattro anni dopo, fu giudicato troppo giovane per condurre un'armata in Italia e fu posto sotto la direzione del contestabile di Francia. Questa spedizione è leggermente indicata da Vallicolor, Vita Urb. IV, p. 418, ed ignorata affatto dagli storici francesi.
263. Dante, Inferno.
264. Giorg. Giulini Memorie della campagna di Milano l. LV, t. VIII, p. 202.
265. Monachus Patavinus Cron. l. III, p. 722.
266. Gio. Villani l. VI, c. 83, 86. p. 215. Flaminio del Borgo protrae la pace di Lucca fino al 1265; nel che parmi che s'inganni. Diss. VI dell'Istor. pisana p. 408.
267. Gio. Villani l. VI, c. 87, p. 218. — An. Vet. Mutin. t. XI, p. 67.
268. Memoriale Potest. Regiensium t. VIII, p. 1123.
269. Chronicon Parmense t. IX, p. 779.
270. Diurnale di Matteo Spinelli t. VII, p. 1101.
271. Storia dei Senatori di Roma di Ant. Vitali t. I, p. 128.
272. Sabas Malaspina Hist. Sicula l. II, c. 10, 13, t. VIII, p. 808.
273. Flaminio del Borgo Diss. VI, Stor. pisana p. 411.
274. Rayn. Ann. Eccl. 1264, § 3-8, p. 101. — Stor. Diplom. dei Senatori di Roma t. I, p. 131.
275. Annales Veteres Mutin. t. XI, p. 67. Altri scrittori danno a quest'armata maggior numero di combattenti. La cronaca di Bologna di F. B. della Pugliola la porta a quaranta mila uomini, t. XVIII, p. 276; e la cronaca di Parma, t. IX, p. 780, la fa ascendere a sessanta mila.
276. Gio. Villani l. VII, c. 4, p. 227. — Storia dei Senatori di Roma t. I, p. 140.
277. Perugia, addì 14 delle Calende di giugno, ap. Raynald. Annales Eccles. 1265, § 12, p. 118.
278. Raynaldus, 1263, § 13, p. 119.
279. 480,000 lire italiane.
280. Giannone Stor. Civ. del Regno di Napoli, l. XIX, c. 2, p. 679 e seg.
281. Gio. Villani l. VII, c. 4, p. 227.
282. Ricord. Malesp. Hist. Fior. c. 178, p. 1000. — Chron. Astense Gugliel. Venturæ c. 6, t. XI, p. 157. — Benevento da san Giorgio Hist. Montisferrati t. XXIII, p. 390. — Chron. Parmen. t. IX, p. 780. — Chron. Placent. t. XVI, p. 473. — Manip. Flor. Galvan. Flam. t. XI, c. 300, p. 693. — Ann. Mediol, c. 36, t. XVI, p. 665. — Giorgio Giulini Memorie ec. l. LV, t. VIII, p. 211. — Campi Crem. Fedele l. III, p. 75. — Gio. Bat. Pigna Stor. de' Princ. d'Este l. III, p. 232. — Ghirardacci Stor. di Bologna l. VII, p. 208. — Sigonius de Regn. Ital. l. XX, p. 1056. Si accusò Buoso di Dovara d'essere stato sedotto dall'oro di Gui di Monforte, e d'avere aperto ai Francesi il passaggio dell'Oglio. Quest'accusa viene confermata da Dante che pone Buoso nell'Inferno fra i traditori C. XXXII, v. 113-117; accusa per altro non giustificata nè dal carattere di Buoso, nè dalla posizione delle armate. Per lo contrario pare che non avesse sufficienti forze per fermare i Francesi.
283. Raynaldus Annales § 9, p. 133, ad annum.
284. Sabas Malasp. Hist. Sicula l. II, c. 20-22, p. 816.
285. Sabas Malasp. Hist. Sicula l. III.
286. Gio. Villani l. VII, c. 5, p. 129. — Ricordano Malespini Ist. Fior. c. 179, p. 1001.
287. Gio. Villani l. VII, c. 7, 8, p. 231.
288. Sabas Malas. Hist. Sicula l. III, c. 10, p. 826. — Gio. Villani l. VII, c. 8, p. 231. — Ricord. Malespini Stor. Fior. c. 180, p. 1002 e seg. Guglielmo di Nangiaco, Gesta S. Lud. IX Franc. Regis descrive questa battaglia conformemente agli storici italiani, e solo rimprovera Carlo di non avere sparso abbastanza sangue e d'avere risparmiata una parte de' prigionieri. In Duchesne Hist. Franc. Script. t. V, p. 375, 378.
289. Gio. Villani l. VII, c. 9, p. 233 e seg.
290. Questa battaglia si diede il venerdì 26 febbrajo del 1266.
291. La regina Sibilla moglie di Manfredi era sorella di un despota della Morea, e figlia d'un Comneno d'Epiro. Ella ebbe da Manfredi un figlio detto Manfredino, ed una figlia. Furono tutti presi a Manfredonia mentre s'imbarcavano per passare in Grecia. Mon. Patav. l. III, p. 727.
292. Dante, Purgatorio cap. III, v. 124 e seg.
293. Il papa scrisse il 12 aprile 1266 una lettera appassionata a Carlo, rimproverandogli il saccheggio ed il massacro de' Beneventani sudditi della santa sede. Questa lettera non riportata da Raynaldo, e nemmeno nella raccolta degli storici di Francia, o nelle lettere dei papi relativi alla Sicilia, t. V, p. 873, trovasi in Martene Thesaur. Anegdot. t. II, Epist. Clem. IV, epist. 262. p. 306.
294. Sabas Malaspina Hist. Sicula l. III, c. 12, p. 828.
295. Sabas Malasp. l. III, c. 16, p. 831. La testimonianza di questo scrittore merita piena fede, perchè coetaneo e guelfo, e creatura di Carlo.
296. Martene Thes. Anegd. t. II, epist. 530. Clem. IV, p. 524.
297. Le arti maggiori furono i legisti, i mercanti di Calimala o stoffe forestiere, i banchieri, i fabbricatori di lana, i medici, i fabbricatori di sete e merciaj, ed i pellatieri. Le arti minori erano i venditori alla spicciolata di drappi, i beccai, i calzolai, i muratori e falegnami, i fabbri ferrai.
298. Gio. Villani l. VII, c. 14. p. 239. — Ricordano Malaspina c. 184. p. 1007. — Leonardo Aretino l. II. p. 65.
299. Gio. Villani l. VII, c. 15 e 17, p. 241. — Ricord. Malespini Stor. c. 186, p. 1009. — Machiavelli Stor. Fior. l. II, p. 105.
300. Fu nominato un giudice con sei assessori per istimare i danni fatti dai Ghibellini ai Guelfi, stima stampata nelle Delizie degli Eruditi Toscani, t. VII, n.º 12, p. 203-286. La perdita dei Guelfi si valutò 152,160 fiorini d'oro, 8 soldi e 4 denari, o più di un milione e mezzo di lire italiane. Prodigioso è il numero delle case distrutte, molte delle quali non sono stimate più di 15 fiorini: il valore medio è di cento in centocinquanta, e sono qualificate col nome di palazzo quelle che arrivano al valore di 300 fiorini. Le particolarità di questa stima indicano una città manifatturiere e commerciante.
301. Gio. Villani l. VII, c. 16, p. 242.
302. Orlando Malavolti Stor. di Siena p. II, l. II, p. 34. — Marangoni Cron. di Pisa p. 540. — Gio. Villani l. VII, c. 21, p. 245.
303. Sabas Malasp. Hist. Sic. l. III, c. 17, p. 832.
304. Gio. Villani l. VII, c. 23, p. 246. — Monach. Patav. l. III, p. 728. — Chronic. Veron. p. 639. — Giannone Stor. Civile l. XIX, c. 4, p. 692.
305. T. II. Epist. Clem. IV, p. 460, 462. Raynald. ad an. § 3, p. 159.
306. Alfonso di Castiglia aveva violati i privilegi nazionali; aveva alterate le monete e stabilite nuove imposte senza il consentimento delle Cortes. I nobili avevan tentato di formare un'unione per mantenere i loro diritti, ed il principe Enrico erasi posto alla loro testa; ma le sue truppe essendosi sbandate a Nebrissa, egli era stato costretto l'anno 1257 di fuggire a Valenza, di dove passò a Tunisi. Lo seguirono in Affrica ed in Italia alcuni de' gentiluomini che avevano con lui preso parte contro il re Alfonso. Mariana Hist. de las Hispañas l. XIII, c. 11. — Hisp. illust. t. II, p. 599.
307. Gio. Villani l. VII, c. 10, p. 235. — Sabas Malaspina Hist. Sicula, l. III, c. 18, p. 833.
308. Sabas Malaspina Hist. Sicula l. III, c. 20, p. 834.
309. Sabas Malaspina Hist. Sicula l. IV, c. 2, p. 837.
310. Caffari continuator. An. Gen. l. VIII, p. 545. — Gio. Villani l. VII, c. 23, p. 247. — Michael de Vico Breviar. Pisan. Hist. p. 197.
311. Sabas Malaspina l. IV, c. 4, p. 840.
312. Ptolomæi Ann. Lucenses t. XI, p. 1286.
313. Gio. Villani l. VII, c. 24, p. 247. — Cron. Sanese Andreæ Dei t. XV, p. 35. — Malavolti Stor. Sien. l. II, p. II, p. 36.
314. Si osservi la bolla del papa § 4-17, p. 159-161, ad an. Ann. Eccles. Raynaldi.
315. Ptolomæi Lucensis Hist. Eccles. l. XXII, c. 36, p. 1160. — Raynald. Ann. Eccles. § 20, p. 161.
316. Matteo Spinelli di Giovenazzo, il più antico storico che scrivesse in lingua italiana, condusse un giornale fino alla vigilia di questa battaglia, ove pare che restasse morto. Il giornale è scritto in dialetto pugliese, assai diverso dal toscano, onde Muratori credette necessario di stamparlo colla traduzione latina. Vi si conosce l'odierno dialetto di Napoli, t. VII Rer. Ital.
317. Gio. Villani l. VII, c. 27, p. 250 e seg. — Ricordano Malaspina c. 192, p. 1013. — Sabas Malasp. Hist. Sic. l. IV, c. 9 e 10, p. 845. — Lettera di Carlo a Clemente IV del giorno in cui seguì la battaglia. — Raynal. 32, 33, p. 164. — Ricobald. Ferrariensis Hist. Imp. t. IX, p. 136. — Chron. F. Francis. Pipini l. III, c. 7, t. IX, p. 682. — Guglielmo di Nangì Gesta S. Lodov. Presso Duchesne Hist. Fran. Scrip. t. V, p. 378-382. — La battaglia ebbe luogo la vigilia di san Bartolomeo 23 agosto 1268.
318. Sabas Malasp. Hist. Sicula l. IV, c. 16, p. 851.
319. Molti scrittori accusano Clemente IV di avere consigliato Carlo a far morire Corradino; volendo alcuni che quando Carlo lo consultò intorno alla sorte di quel giovane principe, si limitasse a rispondere: «Ad un papa non conviene dar consiglio intorno alla morte di chiunquesiasi.» Altri pretendono che rispondesse: Vita Corradini mors Caroli, mors Corradini vita Caroli. Vedasi il Giannone l. XIX, c. 4, p. 702, e gli altri autori da lui addotti in testimonio della sua sentenza. Tra questi però cita a torto Giovanni Villani, che dice precisamente il contrario. Ciò non parmi probabile: Clemente potev'essere crudele per fanatismo, non per politica; ed inoltre la politica d'un papa non poteva consigliare la morte di Corradino. Abbiamo una lettera di Clemente a Carlo colla quale lo consiglia a trattare i suoi sudditi con dolcezza; e molti scrittori sono di sentimento che si dolesse amaramente della morte del giovine principe.
320. Il racconto di questa morte è preso da Riccobaldo ferrarese che ne riferisce tutte le circostanze dietro l'autorità di uno de' giudici, amico e compagno di Guido di Sucaria. Ricob. Fer. Hist. Imp. t. IX, p. 137. — Ma io approfittai pure di Sabas Malasp. l. IV, c. 16, p. 851 — di Ricordano Malaspina c. 193, p. 1014 — di Gio. Villani l. VII, c. 29, p. 253 — di Franc. Pipino l. III, c. 9, t. IX, p. 685. — Bartol. di Neocastro Hist. Sic. c. 9 e 10 nasconde al solito la verità sotto ampollose declamazioni. Guglielmo di Nangì storico francese di san Luigi è il solo che non onori di una lagrima la morte di Corradino; soltanto la biasima come impolitica. Hist. Franc. Script. t. V, p. 382, 383.
321. Bartol. de Neocastro Hist. Sic. c. 11, t. XIII, p. 1025.
322. Sabas Malaspina l. IV, c. 17, p. 853.
323. Sabas Malaspina l. IV, c. 13, p. 849.
324. Sabas Malaspina l. IV, c. 18, p. 854.
325. Idem c. 19, 20.
326. Giannone Stor. Civile l. XIX, c. 4, p. 705 e gli altri autori da lui citati.
327. Clemente IV morì il 29 novembre, e Corradino subì l'ingiusta sua condanna il 29 ottobre.
328. Nel medesimo tempo il marchese era stato signore di Cremona, Milano, Brescia, Piacenza, Tortona ed Alessandria. Inoltre come capo di partito godeva di una illimitata autorità a Pavia, Parma, Reggio e Modena. Finalmente, come signore di Milano, le città di Lodi, Como e Novara dipendevano pure da lui. Perdette le signorie di tante città tre anni avanti di morire, senza quasi aver potuto combattere per difenderle. Chron. Placent. t. XVI. p. 476.
329. Chronic. Placent. t. XVI, p. 476. — Chron. Parmen. t. XIX, p. 784. — Campi Cremona Fedele l. III, p. 78.
330. Chron. F. Francisci Pipini l. III, c. 45, t. IX, p. 709.
331. Chron. Placent. t. XVI, p. 476. — Giorgio Giulini memorie t. VIII, l. LVI, p. 238.
332. Memorie di Joinville — Nella Collezione delle memorie particolari della storia di Francia, Ediz. del 1785. t. II, p. 158.
333. Surio in vita sancti Ludovici t. IV, die 25 augusti. Ap. Rayn. Annales § 6. t. XIV, p. 175.
334. Guilel. de Nangiaco Gesta sancti Ludovici p. 383. in Duchesne Scrip. hist. Franc. t. V.
335. Gio. Villani l. VII. c. 37. p. 258. — Guido da Corvaria, storico Pisano coetaneo, dice che la flotta era composta di cento e otto vascelli a due ponti, gabiati, di ventotto galere, e buon numero di altri navi. Fragment. Pisanæ Hist. t. XXIV, p. 676.
336. Monacus Patav. in Chron. l. III, p. 732. — Qui termina la cronaca del monaco di Padova.
337. Annales Genuenses l. IX, p. 551. — Uberti Folietta Genuens. Hist. l. V, p. 175, 376. ap. Graevium.
338. Simone di Monforte, conte di Leicester, era stato ucciso il 1.º agosto del 1265 nella battaglia d'Evegham presso di Conventris, combattendo per la libertà d'Inghilterra contro Enrico III e suo figliuolo Edoardo. Il suo corpo fu dai realisti obbrobriosamente stracinato nel fango. Anche Gui di Monforte, suo figlio, era stato in quella battaglia da mille spade ferito. Questi gentiluomini appartenevano ad un tempo alla Francia ed all'Inghilterra.
339. Gio. Villani l. VII, c. 39. p. 260.
340. Litterae Encicl. de Concil. celebrando; ap. Raynald. § 21, t. XIV, p. 192.
341. Malavolti storia di Siena p. II, l. II, p. 38.
342. Guido di Corvaria Hist. Pisanae frammenta t. XXIV, p. 676.
343. Guido de Corvaria Hist. Pis. fragmenta t. XXIV, p. 680.
344. Gio. Villani l. VII, c. 41. p. 263. — Ricord. Malasp. stor. Fior. c. 198. p. 1018. — Leon. Aretino Hist. Fior. l. III, p. 85-90. — Raynaldi Ann. Eccl. § 27, e seguenti p. 212, 213.
345. Ann. Gen. Cont. Caffari l. IX, p. 555, 556, t. VI. — Ubertus Folieta Genuens. Hist. l. V, p. 377.
346. Andreæ Danduli Chr. Ven. c. 8. § 8. p. 380. — Cherubino Ghirardacci Ist. di Bologna l. VII, p. 217 e 223. — Rayn. Ann. Eccles. 1272, § 45. p. 200.
347. Disponevasi quest'anno a passare in Germania quando ebbe avviso dell'elezione di Rodolfo. Mariana Historia de las Hespañas l. XIII, c. 22. p. 610. Si osservi la lettera di Gregorio X ad Alfonso del 16 delle calen. d'ottobre 1272. Presso Raynaldo § 33 e seguenti p. 197.
348. Vedansi i diplomi presso Raynald. § 7-12. p. 220 — come pure nel primo libro di Muller, l'origine della casa d'Absburgo, i talenti e le virtù che Rodolfo spiegò nelle guerre de' suoi piccoli feudi, e la sua inaspettata assunzione all'impero. Geschichte der Schweiz Eidg. B. I, c. 17. p. 507.
349. Histoire de Costant. sous les empereurs françois par Ducange l. V, c. 49, t. XX, p. 87. Vedansi i patti di cotale trattato nella raccolta degli atti giustificativi p. 10.
350. Nicephorus Gregoras l. V, c. 1 e 2, t. XX, p. 63. — Gregori Pachymeris Hist. l. V, c. 10 ed 11, ec., t. XII, p. 205 e seg.
351. Vedasi il Canone apud Raynald. § 24-26, p. 224.
352. Raynaldi Ann. Eccles. § 42, ad annum p. 245.
353. Ib. an. 1276, § 1, p. 248.
354. Ghirardacci Istoria di Bologna l. VII, p. 224.
355. F. Francisci Pipini Chron. l. IV, c. 7 e 8, t. IX, p. 716. — Cherub. Ghirardacci Stor. di Bologna l. VII, p. 226. — Mathæi de Griff. Memor. Hist. t. XVIII, p. 123. — Cronica di Bologna di F. Bartol. della Pugliola t. XVIII, p. 285.
356. Guido de Corvaria Frag. Hist. Pisanæ t. XXIV, p. 682. — Non volevasi allora esiliare il conte Ugolino perchè tutte le città toscane essendo governate dai Guelfi, sarebbe stato un darlo in potere de' suoi nemici.
357. Guido de Corvaria Fragm. Hist. Pis. p. 684. — Gio. Villani l. VII, c. 46, p. 265.
358. Guido di Corvaria Fragm. p. 686.
359. Gio. Villani l. VII. c. 51, p. 268.
360. Memorie del conte Giulini, l. LVI, t. VIII, p. 232, 304. — Corio Stor. di Milano, p. II, p. 123, 138. — Ann. Mediol. t. XVI. c. 39-49, p. 667, 676. — Galv. Flammæ Manip. Flor. t. XI, c. 302-313, p. 694-705.
361. Trist. Calchi Med. Historiog. Hist. Patriæ, l. XVII, apud Guer. Thes. t. II, p. 365. — Georgii Merulæ Antiq. Vicecom. l. V, p. 90, apud Guerium t. III. — Pauli Jovii Novocom. Vitæ XII, Vicecom. Otho. p. 267, ap. Grav. t. III.
362. Nicolò con una costituzione proibì di nominare senatore alcun principe sovrano, e prese per sè tale dignità, di cui Carlo erasi allora spogliato. Vitali Stor. de' Senat. di Roma t. I, p. 176. — Decretali l. VI, cap. fondam. de electione. Raynald. ad annum § 74, p. 298.
363. Raynaldi Ann. 1276, § 69, p. 297.
364. Nicolai III, Epistolæ t. II, l. I, epist. 5, apud Raynald. § 57 e seg. p. 295.
365. Lettera di Rodolfo § 51, 52, e diploma di Goffredo prevosto di Soliez protonotaro, § 53 presso Raynald. An. 1278, p. 294. Questa ricognizione dei diritti della Chiesa fu riconfermata nel seguente anno. Rodolfo rinunciò espressamente a qualunque diritto poteva essere rimasto all'Impero, e fece nuova cessione delle medesime province alla Chiesa. Il diploma venne confermato dai principi dell'Impero. Raynald. ad an. 1279, § 1-7, p. 302 e seg.
366. Cronica miscella di Bologna t. XVIII, p. 288. — Mathæi de Griffonibus Chron. Bonon. p. 126.
367. Diploma accordato a Bertoldo Orsino, presso il Ghirardacci l. VIII, p. 236. Nicolò fece sette cardinali romani, che quasi tutti avevano con lui rapporti di parentela. Ricordano Malespini c. 204, p. 1022.
368. Queste condizioni trovansi nel Ghirardacci l. VIII, p. 239-243.
369. Il Ghirardacci, Stor. di Bolog. l. VIII, p. 248, nomina 138 famiglie ghibelline e 129 guelfe che segnarono il trattato. Cron. Miscel. di Bologna t. XVIII, p. 288, 289. — Mathæus de Griffon. Memor. Hist. t. XVIII, p. 126. — Chron. F. Francisci Pipini l. IV, c. 10. t. IX, p. 718. — Ann. Foroliviens. t. XXII, p. 146. — Annales Cœsenat. t. XIV, p. 1104.
370. Gio. Villani l. VII, c. 55, p. 272. — Ricordano Malaspini Ist. Fior. c. 205, p. 1023.
371. Malavolti Stor. di Siena p. II. l. III, p. 45.
372. Morì il 19 agosto del 1280.
373. Rayn. an. 1281, § 1 e 2, p. 324. — Ptolom. Lucensis Hist. Eccles. l. XXIV, c. 1 e 2, t. XI, p. 1185. — Ricord. Malaspini c. 207, p. 1025. — Gio. Villani l. VII, c. 57, p. 275.
374. Bolla presso Rayn. an. 1281, § 12, p. 326. — Ann. Foroliv. t. XXII, p. 146-153.
375. Tibaldello Zambrasi posto da Dante all'inferno fra i traditori, Canto XXXII; ver. 122, erasi mortalmente inimicato coi Lambertazzi per cagione d'un majale che gli fu tolto. Si fece per più mesi creder pazzo, e risvegliava improvvisamente i suoi concittadini gridando alle armi, o facendo suonare per le strade istrumenti di bronzo. Quando gli ebbe avvezzati a non allarmarsi per verun rumore, introdusse in città i Bolognesi loro nemici. Ghirardacci l. VIII, p. 256.
376. Raynald. Ann. § 14, p. 326.
377. Ib. § 25. p. 329.
378. Pachymerus l. V, c. 22, 23, p. 222 e seg. e l. VI, c. 30, p. 282. — Script. Byzant. t. XII, Venet. Dufresne Ducange Hist. de Constantinople l. VI, c. 8, p. 95.
379. Pachymerus l. VI, c. 32, p. 284. — Niceph. Gregoras Hist. l. V, c. 6, p. 74 e seg. — Byzant. t. XX. — Notæ L. Botvin ad Niceph. Greg. p. 28. intorno al nome di Rousseau de' Soli molto sfigurato dai Greci.
380. Ducange Hist. de Costantin. l. VI, c. 9, p. 95.
381. Tutini degli Ammiragli p. 66. citato da Giannone l. XX, c. 5, p. 56 dice di aver veduto ne' reali archivi uno scritto con cui Gualtiero Caraccioli domandava al re Carlo II il permesso d'andare in Sicilia a trovare Giovanni di Procida, assai vecchio, per farsi guarire da una malattia.
382. Pietro III detto il grande, era stato coronato re d'Arragona negli stati di Saragozza del 1276. Hier Blancæ Rer. Arag. Comment. p. 659, t. III, Hisp. illust. — I feudi dati a Procida sono indicati da Mariana, Hist. de las Españas l. XIV, c. 6. — Hisp. Illust. t. II, p. 621.
383. Gian. Stor. Civ. l. XX, c. 5, t. III, p. 55. seguendo il Costanzo Storia di Napoli l. II.
384. Gio. Villani l. VII, c. 56, p. 273. — Ricordano Malaspini c. 206, p. 1024.
385. Barthol. de Neocastro Hist. Sic. c. 14, t. XIII, p. 1027.
386. Vedasi il fine del capit. 21, ed il massacro d'Augusta.
387. Barth. de Neocastro, c. 12, p. 1026.
388. Nicolai Specialis Rer. Sicul. l. I, c. 2, t. X, p. 924.
389. Gio. Villani l. VII, c. 56, p. 273. — Ricord. Malaspini c. 206, p. 1024. — Ann. Genuens. l. X, p. 575.
390. Questo trattato fu sottoscritto il giorno 3 luglio del 1281. Fu pubblicato nella raccolta de' diplomi in appendice alla storia del Ducange. Ed. Ven. p. 15.
391. Gli storici greci non fanno parola di questa spedizione. Il Ducange peraltro cita Niceforo Gregora l. V, c. 12, ma per uno strano abbaglio perchè il V libro non ha che sette capitoli. — Ducange Hist. de Costant. l. VI, c. 12, p. 97.
392. Dante pose papa Nicolò nell'inferno perchè colpevole di quest'atto simoniaco, c. XIX, v. 98. Pare peraltro che niun commentatore abbia avvertito che il poeta gli rimproverasse questa transazione.
393. Gio. Villani l. VII, c. 53, p. 270.
394. F. Francisci Pipini Chron. l. III, c. 12, t. IX, p. 687.
395. Indices rerum ab Aragon. Regibus gestarum Hisp. ill. t. III, p. 116: quest'opera è un compendio dello Zurita, della quale io non ho più per le mani il testo spagnuolo. — Raynald. ad an. 1275, § 13, p. 237, ex Leandro et Zurita.
396. Giannone l. XX, c. 5, t. III, p. 60, ex Costanzo l. II. — Mariana Hist. de las Españas l. XIV, c. 6. — Hisp. illust. t. II, p. 621.
397. Nicolai Specialis rerum Sicul. l. I, c. 3, p. 924, t. X.
398. Gio. Villani l. VII, c. 59. p. 276.
399. Annales Genuens. Caffari Contin. l. X, p. 576.
400. Gio. Villani l. VII, c. 59. p. 277.
401. Gio. Villani l. VII, c. 60. p. 277. — Jacchetto Malespini contin. Ricordani, c. 209. p. 1029.
402. Bartholom. de Neocastro c. 14, p. 1027.
403. Velly nella sua storia di Francia ad an. aggiugne a questo racconto molte circostanze ed aneddoti intorno alla morte di varj cavalieri francesi. Non so dove gli abbia presi, non certo negli autori da lui citati. Forse furono conservati dalla tradizione. È sopra tal sorta d'autorità che raccontasi che i Siciliani riconoscevano i Francesi alla pronuncia di due vocaboli ceci e ciceri. I Francesi non riuscivano quasi mai a pronunciare il c italiano, e l'accentazione loro riesce ancora più difficile.
404. Giovanni Villani l. VII, c. 61. p. 278.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (terra ferma/terra-ferma, Oemburgo/Oenburgo e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.