Title: Pensieri, Discorsi, Illustrazioni
Author: Francesco Domenico Guerrazzi
Release date: January 6, 2015 [eBook #47889]
Most recently updated: October 24, 2024
Language: Italian
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SCRITTI
DI
F.-D. GUERRAZZI.
PENSIERI. — DISCORSI.
ILLUSTRAZIONI.
FIRENZE.
FELICE LE MONNIER.
—
1847.
[159]
..... e non fia che si svegli?
La man le avessi io avvolte entro ai capegli!
Petrarca.
Riposa in pace, o donna di provincie, o alma genitrice di eroi! — Bene sia che la tua mano si riposi lungamente, dacchè per troppo lunghi secoli ella stringesse lo scettro dei popoli della terra! — Alla tua Aquila si logorarono le ali nel trasportare la vittoria per tutte le vie del firmamento. — Il tuo brando percuotendo e ripercuotendo sopra gli elmi dei nemici si è consumato, — consumato per sempre!
Riposa in pace, o gloriosa! — Tu cadesti, perchè anche le Pleiadi scomparvero dallo emisfero; perchè un giorno i cieli piangeranno perdute anche le loro sorelle di luce; perchè tutte le cose nostre, hanno morte quaggiù.[2]
Tu però fosti sempre e sarai la figlia primogenita del pensiero di Dio. — Giove sembrava avesse teco diviso lo impero: a lui il governo dei cieli, a te quello della terra.[3] Nessun popolo mai portò impressa così vasta la orma dell'Onnipotente.
[160]
I cieli e Roma narravano la gloria di Dio; la opera delle sue mani annunziavano il Firmamento e il Campidoglio. — L'anima di uno Scipione divisa basterebbe adesso a dieci generazioni di eroi: come Ercole fece alla gente dei pigmei con la spoglia del lione, Pompeo avrebbe potuto riporre nel cavo del suo scudo un intero popolo di oggi. Lo sguardo di un Romano e la spada di un Barbaro si strinsero una volta in duello di morte; — il ferro vinto cedeva. — Mario fugò il Cimbro con gli occhi![4]
A rompere le ire del superbo Antioco quali tolse compagni Popilio nel periglioso viaggio? La bacchetta proconsolare, e il genio di Roma. E il tiranno si trovò preso dentro il circolo di Popilio, non altramente che lo scorpione cinto da carboni infiammati: — ma il tiranno fremeva, e si umiliava, — mentre lo scorpione avrebbe saputo trafiggersi da forte.
Regi barbari e schiavi ingombravano le aule dei Senatori. — A guisa del mendico, che importuna il limitare del dovizioso, i dominatori dei popoli stendevano supplici la mano ai cittadini di Roma limosinando una corona. E il popolo di Roma nei giorni di tripudio gettava a cotesti suoi soggetti dominatori di popoli pugni di corone e di popoli, come gittava per vaghezza migliaia di Germani o di Galli alle fiere nei virili suoi giuochi.
Il giorno in cui Giove rende l'uomo schiavo, gli toglie mezzo il senno;[5] Roma superò Giove, perchè valse a [161] mutare in eroi anche gli schiavi. Spartaco col ferro delle catene si compose una spada, e ardì insorgere contro Roma, e morire di ferita nel petto. E Spartaco morendo levò gli occhi al cielo, e lo benedisse per la morte gloriosa. — Cotesto esempio non sarà imitato: da Spartaco in poi non vissero più schiavi. — Perchè dunque, o come, si vorrebbero invidiare e seguire i destini del servo romano?
Quando la morte ti aperse le mani, o Roma, il mondo sembrò che tornasse nella pristina confusione delle cose; come le foglie della Sibilla, terminato il responso. — Nel naufragio della civiltà, delle leggi, di una religione per bene cento secoli durata, peristi, e le rovine di tutta la terra ti furono portentoso sepolcro.
Dormi in pace, non agitarti dentro il sepolcro. — Encelado fulminato, potrai forse prorompere a modo di vulcano, ma non infrangere i fati che siedono sopra il tuo avello; nella guisa stessa che il Titano non può levarsi di sul petto la montagna di fuoco.
E pure qualche volta, spettacolo di miseria e di spavento, lanciato in aria il coperchio della tua sepoltura, balzasti fuori col collo reciso brancolando pei campi dello universo in traccia di una testa conveniente per te.
Invano prendesti il capo degli Ottoni; invano quello dei re Longobardi; invano dei Carlovingi. — Troppo ti [162] furono pesi quelli degli Svevi. — Giulio, Gregorio e Alessandro, sia che il volere li trattenesse, sia che il sacerdozio gl'impedisse, male seppero adattarsi il tuo elmo pesante. — I capi di un Doge, di un Gonfaloniere, di un Duca di Milano, apparvero troppo piccoli alle immani tue spalle. — Quietati! — Due furono teste che convenivano a te: una sta in Roma, e fu di Cesare; — l'altra stava in mezzo all'Oceano, — e fu di Napoleone; entrambi tuoi figli, — entrambi aliti della magnifica anima tua.
Le antiche mura che ancor teme ed ama, E trema il mondo,[6] andarono disperse in polvere per tutti i venti della terra, quasi cenere di parricida. — Roma insana di dolore si cacciò, come Catone, da se stessa le mani dentro le viscere, e le stracciò in brani, aborrente di sopravvivere ai suoi fati; — poi scese una grande adunanza di Barbari a flagellarla legata alla colonna, — a ferirla di lancia inchiodata sopra la croce della necessità,[7] — e parvero eroi a cagione dell'agonia della nemica; — ancora, si assembrarono in numero infinito per vedere se fosse morta bene, e se bene stesse chiusa dentro il sepolcro, rompendo orribilmente il cadavere per assicurarsi meglio: — nè ciò bastando (chè la tomba stessa metteva spavento), si congregarono un'altra volta per seppellirne il sepolcro. — In verità, le ire della fortuna, la onnipotenza dei fati, e la paura dei popoli, hanno sepolto prima il cadavere, poi la sepoltura![8]
Avete mai veduto la fiammella scaturire da una fossa funerea, svolazzare per la campagna come vaga di cosa che non trova, e poi tornarsi delusa pellegrina a chiudersi [163] nell'antica dimora? — Così, come a Dio piacque, sopra questa terra visse un poeta, il quale superato il tremito delle ossa, e lo spavento dell'anima, si cacciò dentro ai romani sepolcri: rovesciò tutti gli avelli, speculò tutte le urne, rimescolò le antiche ceneri, tentando se mai una favilla romana fosse rimasta per alimentare un fuoco nuovo. Dio di misericordia! — La Fortuna e Nemesi avevano conservato la lampada accesa dentro il sarcofago di Tullia, la figlia diletta del supremo oratore di Roma....[9]
«Sospenda ogni alito il creato, — taccia ogni vento, e sia pur quello che spoglia del profumo i fiori in primavera, — non muova un'aura, quantunque sopra candida nube ella si affretti di recare in cielo il voto degl'innocenti oppressi. — Angioli del paradiso, voi pure cessate i cantici, fermate il remeggio delle ali sante; deh! mi sia dato conservare la scintilla: io l'ho trovata, io vi ho trasfuso dentro, per alimentarla, l'anima mia; per lei ho cominciato a leggere in parte l'arcano della genesi nuova: — amare, e parlare...»
Il Fato strinse il suo libro di granito, e sorrise. — Quando l'aria esterna ebbe vinta quella del sepolcro, la lampada dilatò con estremo conato la sua pupilla luminosa, e si spense per sempre! — L'aria che respiriamo più assai riusciva mortale che il fiato della tomba di Tullia.
E quando il poeta vide la lampada morta a cagione dell'aria, che egli pensava pura, ruppe la cetra, percuotendola nell'angolo della tomba della figlia di Cicerone, [164] gittò via dalla fronte la corona di alloro, e postosi a giacere sopra il terreno nudo, vi battè ambe le palme, esclamando con grandissimo pianto: «Apriti, o Madre, e cuoprimi; voglio morire anch'io!»
Riposa dunque in pace nel tuo sepolcro, o Roma; e dove mai la esultanza visitasse le tombe, rallegrati: — tu sei la più grande ombra nei regni della morte, siccome fosti la più immensa dimostrazione di forza e di sapienza nella vita.
[167]
Al Dio che ama l'Italia come il primo alito della sua creazione; al Dio che la coprì del sublime arco dei cieli quasi di un manto di gloria; al Dio che pose nell'occhio la lacrima della pietà, nell'anima il sospiro dello amore, Angioli candidissimi della preghiera, offrite il voto dei labbri innocenti.
Come una goccia di pioggia cade inosservata nel seno dell'Oceano; come una foglia, soffiando il vento autunnale, si stacca dal ramo nativo, e poichè incerta percorse breve spazio di cielo si posa sopra la polvere, così passano e non sono più i giorni dell'uomo che il sepolcro rinchiude intero.
Un altro uomo dimora nelle case abitate da lui, e nessuno domanda ove sia andato. — Nessuno conosce chi fosse: — visse, e morì: questa è la sua storia. Quindi la stessa pietà guarda quella tomba, nè susurra parola, e i posteri gli passeggiano sul capo come sopra una pubblica via.
O Dio di amore, ne sovvieni di consiglio per mantenerci l'anima degno tempio della tua Divinità. — Ci comparti un cuore per la sventura. — Diffondi sul nostro intelletto [168] la luce della sapienza, come diffondi la luce del Sole sopra le cose create.
Belli quanto i fiori dei nostri prati, splendidi come gli astri dei nostri sereni, sieno i frutti del nostro ingegno, e numero non vaglia a calcolarli. — L'orecchio non oda gemito senza che lo spirito vi risponda col gemito; l'occhio non veda pianto senza che vi risponda col pianto. — Salvaci l'anima dal deserto degli affetti.
Allora le nostre madri guardandoci baldanzose ci chiameranno: corona della loro vita. — Il padre si accosterà all'oppresso difeso, e tremante di gioia gli mormorerà con parole sommesse: Il tuo salvatore era parte delle mie viscere.
Lo straniero scorrendo le belle contrade non le dirà più illustri per le rovine; non più ci chiamerà polvere di eroi.... L'ossa dei padri fremono di sdegno nelle antiche sepolture! — Ogni cosa è sacra in questa terra. — Già l'abitava una gente di cui la memoria durerà finchè il mondo abbia spazio da sostenere una creatura sola. — Perchè non potremo emularla? — La Natura non disereda i suoi figli; — l'uomo codardo disperde con le sue mani il tesoro della sapienza e del valore. Ma noi siamo nati alla vita della gloria e della virtù. Amen.
[169]
[171]
Se la fortuna fosse stata copiosa dei suoi beni a Socrate, Anito e Melito, invece di farlo condannare a bere la cicuta, sarebbero andati a casa sua per bevergli il vino di Samo.[10] — Questa sentenza, comechè dettata da uno ingegno argutissimo del secolo trascorso, a me parve sempre più presto gioconda che vera.
Considerando io, con quella diligenza che per me si è potuto maggiore, lo intendimento universale degli uomini, mi venne fatto conoscere com'essi da ogni superiorità aborriscano, impazienti la sopportino, e ardentissimi la detestino.
Di queste superiorità varie appariscono le maniere. Alcune di loro, siccome non ci possono essere rapite, così neanche noi le possiamo dare; altre, quantunque possano venirci tolte, pure non ci è concesso compartirle; ultime in dignità, come in invidia, paionmi quelle che potendo noi perdere o donare, possono ancora dagli altri venire acquistate. Libere, grandi, divine, e veramente ben nostre le prime; serve, imbecilli, e affatto non nostre le seconde.[11]
E tacendo delle altre, le quali, ricercando sottilmente la materia, mi arriverebbe per avventura di riscontrare; le superiorità, o vogliamo dire qualità che [172] cadono meglio nell'odio dell'universale, sono lo intelletto prima, la forza poi, e la venustà e le dovizie. Non però tutte vengono con misura uguale aborrite, e meno delle altre le ricchezze; conciossiachè in queste concorrano abbondevolmente le condizioni per le quali chi le possiede può perderle o donarle, chi n'è privo acquistarle.
Certo non vuolsi punto negare, e noi per desolata esperienza troppo acerbamente il sappiamo, come le largizioni e i beneficii più spesso generino sconoscenza che amore, e nonostante, a cui riesca usarli con buono accorgimento e con modi onesti, di rado avviene che non conciliino ossequio e credito grandissimo. Quelli ai quali il cielo amico concesse la facoltà di beneficare, avvertano che possiamo uccidere un'anima a colpi di beneficii, come si narra che l'arciero di Metona cacciasse l'occhio destro di Filippo il Macedone con una freccia di argento.[12] Inoltre, le ricchezze si perdono assai più agevolmente di quello che si acquistino, e dacchè la compagnia nella miseria sembra che giovi, ci rallegriamo nel presagio della caduta imminente dell'uomo che fortuna locava in parte più eccelsa. E bene di ciò somministrano argomento gli esempi delle antiche e delle moderne Storie, fra i quali basti annoverare Creso doviziosissimo, meglio assai che dai castelli muniti e dalle armi, sovvenuto dal nome di Solone;[13] e Ugolino conte della Gherardesca, il quale avendo domandato a Marco Lombardo quello che gli paresse della felicità del suo stato e della copia dei beni terreni, n'ebbe in risposta: «E' parmi che non vi falli altro che l'ira di Dio;»[14] e Piero degli Albizzi nostro, a cui, raggiunto il grado supremo di prosperità, certo giorno di solenne convito fu mandato a donare un nappo pieno di confetti, e intra quelli un chiodo, per ricordargli ch'ei conficcasse la ruota [173] della fortuna.[15] Per le quali cose nessuno deve temere tanto avversa la sorte quanto coloro che ebbero a sperimentarla prosperevole sempre: così Filippo di Macedonia, essendogli un giorno recati tre faustissimi annunzi, levate le mani al cielo, supplicava: «Fortuna, io ti prego di darmi dopo questi grandi beni qualche mediocre avversità.»[16] E a Carlo di Angiò, colto in mezzo degli eventi secondi da fato nemico, pareva acquistare assai se gli consentiva la Provvidenza cadere gradatamente; per la qual cosa sopraggiuntagli la dolente nuova della ribellione della Sicilia, così supplicava a Dio: «Sire Dio, dappoi che ti è piaciuto voltarmi contraria la fortuna, piacciati che il mio calare sia a petitti passi.»[17]
Labilissime ancora la potenza, la bellezza, e la forza: la prima per evento fortunoso; la seconda e la terza per evento fortunoso e per necessità. Gli eventi fortunosi talora si partono dalle mani degli uomini, come furono quelle di Ciro, di Tamerlano, di Gengiskan, di Alarico, Attila, Genserico e simili; tale altra da quelle del destino, come accadde a Cambise, di cui lo esercito spense la sabbia infuocata del deserto etiopico, a Napoleone vinto dai diacci del settentrione, e a Filippo II, la grande armata del quale le onde dell'Oceano infransero come il giovanetto in un momento di stizza rompe i suoi trastulli.[18] Alla bellezza poi quando non sopravvenga vicenda che prima della stagione la guasti, giunge il tempo inevitabile, se non il giudizio, in cui ogni umana creatura dovrebbe appendere lo specchio al tempio di Venere col motto: «Dacchè contemplarmivi qual era non posso, come sono non voglio;» secondo è voce che la famosa cortigiana Mnesareta facesse. Lo stesso dicasi della forza; e al vecchio immemore degli anni di rado la fortuna arride come ad Entello, e con frequenza [174] maggiore ci viene fatto incontrare Miloni, i quali presumendo troppo, mentre si affaticano a fendere la querce vi rimangono presi, e diventano preda dei lupi. — Ma pel divino intelletto procede la bisogna altramente. Vitale e splendida l'aurora, sublime il meriggio, magnifico il tramonto. Il mattino di Omero sarà la Iliade, il vespro l'Odissea. Questa fiamma divina non teme furto di Prometeo. Simonide, gittato in mare dallo iniquo nocchiero, non si lagna delle perdute dovizie se mai gli avvenga potere attingere la riva, imperciocchè porti seco tutti i suoi beni; e Biante, sapientissimo, esprime la sentenza medesima, mentre si aggira pellegrino senza viatico per molteplici contrade. E quando il malignare degli uomini giungerà a inebriarti di amarezza e a turbarti la pace dell'anima, la intelligenza scintillerà come il sole luminoso e parato sopra le onde di un mare in tempesta. I gridi stessi del dolore suoneranno sapienza. Anzi nella guerra disonesta mossa dal genere umano alla intelligenza, mentre questa nella sublimità della via lo sfolgoreggia dei suoi fulmini, cotesto fuoco non ridurrà mai in cenere, ma feconderà anche contro il volere di colui che lo spande, essendochè le alte intelligenze, a modo di specchi tersissimi entro ai quali Dio si contempla, non possano fare a meno di riflettere una luce divina....!
Però che tutte queste cose considerando, io concedo che gli uomini di alto ingegno non abbiano diritto a godimenti terreni, come neppure ragione di lamentarsi dello squallore o degli affanni; mentre all'opposto parmi che i loro fratelli possano credere di avere diritto e ragione di cruciarli quanto meglio sappiano e possono. — Essendo ormai stabilito che delle due curve di cui si compone la vita dell'uomo d'ingegno, corporea e spirituale, la seconda termini in cielo, — poco deve importare [175] se la prima termina all'ospedale. Questo re del pensiero presume non dovere pagare nulla il superbo diletto di passeggiare sopra la testa dei suoi compagni di creta? Nulla la facoltà celeste di sfogliare con alito leggiero le carte del libro del Destino, il quale agli altri tutti figliuoli di Adamo si presenta chiuso fatalmente così come di bronzo si fosse? E mentre per lo universale la morte è oblio di esistenza innominata, non deve pagare nulla la facoltà di posarsi sopra la spalla del tempo e valersene, come Dante e Virgilio di Gerione, per traversare l'Oceano dei secoli ed attingere la eternità?
L'oblio — la seconda morte — la morte dell'anima, che non può vincersi con monumenti marmorei, nè con gli obelischi, nè con le stesse piramidi (imperciocchè penda tuttavia ignoto se la più grande delle piramidi di Egitto fosse inalzata per un re o per un bue, il re Cheope o il bove Api), — con breve foglio molto meglio si può.
Oh, sacri intelletti, placatevi pensando come le fibre del vostro cuore e della vostra mente compongano una lira eolia, traverso la quale scorre l'alito infiammato di Dio. Gli anni dei Grandi non si misurano col sole: — essi lo precorrono di miriadi di secoli a illuminare tempi che non sono anche nati per lui. E voi, Uomini, ferite questi Grandi, feriteli nel cuore, conciossiachè dal sangue che ne sgorga voi ricaverete vitale nudrimento che Dante appella: — il pane degli angioli; — affrettatene la sera, che a modo delle piante e dei fiori approssimandosi la notte emanano più fragranti i profumi; — infrangeteli come lo insetto fosforico, che disfatto sopra la parete v'imprime una traccia più lunga di splendore. — Vendicatevi, uomini, quanto meglio atrocemente potete, di essere amati, ammaestrati, e dilettati...!
Ma quando l'anima ha distratto la sua esistenza [176] nel mondo, sparpagliando le sue divine facoltà come le foglie di una rosa sopra un torrente che passa; — quando a guisa di aquila che abbia mudato le penne ella libra lo immenso suo volo con gli occhi fissi nell'eterno sole; — quando scintilla luminosa s'immerge nel fonte di tutto splendore, — allora cessi la guerra; imperciocchè due firmamenti concedesse Dio agli uomini, uno celeste, ornato di piante e di stelle, opera delle sue mani; l'altro terrestre, opera in parte di Dio stesso e degli uomini, composto delle rinomanze degli eroi e dei poeti, e di quanti altri vissero gloria ed orgoglio della gente umana. Onorate almeno, o genti, i vostri grandi defunti, se pur volete che altri subentrino nel doloroso ministero d'immolarsi per voi. — Affinchè la vittima non repugni dal sacrificio, nuovi fiori e nuovi incensi si apprestino, astergasi con acqua lustrale l'altare, celinsi e bipenni e coltelli: — le sembianze e le voci dolorose dei morenti con una nuvola di gloria, con un suono di armonia nascondansi. Pera Quirino, purchè vada ad albergare fra i Numi![19] — E gli stessi sacrificati, fatti ormai cittadini del cielo, di leggieri perdoneranno, conciossiachè appunto vi amino molto per le molte angosce patite per voi, e l'odio passi sopra la loro anima innamorata come nuvola spinta da vento procelloso traverso il disco della luna. O genti, placate le ombre dei vostri Grandi defunti, dacchè riesca tanto lieve conseguirlo: poco desiderano, di poco esse si contentano; una preghiera, una laude, una pietra, una memoria, un fiore, un grano d'incenso basta per loro; e placate che sieno, vi guarderanno dall'alto a modo di piissime stelle, e come stelle vi additeranno la via per cui l'uomo si eterna; o visitando in ispirito le antiche dimore, le conforteranno con una traccia di gloria, come appunto i libami cari agli Dei, quantunque consumati dal fuoco, si lasciano [177] dietro un profumo durevole. Così i Greci operavano, dedicando un tempio espiatorio a Socrate, e a Fidia mastro supremo di bellezza erigendo una cappella, e tutti i loro Grandi onorando di simulacri e di monumenti nel Ceramico, o nel luoghi illustrati dalle geste inclite di quelli. — Nè Roma sapientissima fu tarda a imitare i giovevoli esempi; onde fra i suoi cittadini nacque un desiderio irresistibile di fama, una cupidigia immensa di laude, a costo pure di rimanere consunti dai baci infiammati della gloria, in quella guisa medesima che noi vediamo la farfalla innamorata della luce che la incenerisce, e udimmo di Semele arsa dal suo onnipotente amatore.
E bene incolse finalmente alla Grecia conservare coteste memorie, dacchè per esse non venne mai meno l'onta della viltà, il bisogno del riscatto, e la misericordia del mondo. E così Dio la protegga, come meritano la sua lunga sciagura, la grandezza antica, e l'onore reso agl'incliti trapassati. Il sangue di Maratona non imporpora ancora le guancie della Grecia, ma incomincia a farne battere il cuore; — non anche le cinge le tempia l'olivo cecropio, ma l'albero caro a Minerva è piantato; — la mano ardita e franca non anche tratta la lira dei suoi antichi poeti, ma già ne ha teso le corde, e meglio assai del tendere le corde ella apprestava argomento ad altissimo canto: — i suoi occhi già già scintillano come nel giorno in cui palpitante si sporgeva dai suoi promontori a contemplare la battaglia di Salamina. — Beata lei che non siede più nelle tenebre e nella ombra della morte! Il miracolo è operato. Salute, salute alla Grecia, nostra sorella maggiore negli affanni e nella gloria!
Nè certo il desiderio mi fa velo allo intelletto con propizi vaticinii, presagendo che ricovereranno la perduta [178] grandezza, e recuperata manterranno, tutti quei popoli che per istituto pubblico della debita onoranza proseguiranno i loro gloriosi defunti. La Francia ebbe il Panteon pei suoi Grandi passati; — oggi la Baviera dedica un tempio a Odino, e v'inaugura i simulacri di Genserico, di Atalarico, di Attila e di altri tali, per cui Mnemosine, genitrice delle Muse, abbrividisce ricordandoli...! Veramente fra costoro e i Temistocli, gli Scipioni, i Milziadi e i Fabrizii, troppo immenso è il tratto che corre: — ma giova considerare infine come alla contrada non sia dato vantare eroi migliori di quelli, e che i principi ben possono ordinare una statua, non un Eroe. La fattura di questo è opera di tale che siede troppo più in alto di loro; nè la immortalità si dispensa da mani mortali quantunque nate a stringere lo scettro. Noi, Italiani, abbiamo Santa Croce; a noi principio, e che pur vale per qualsivoglia splendidissimo fine straniero, però che gli stessi Britanni mal sappiano chi contrapporre a Michelangiolo. Abbiamo ancora le statue delle Logge degli Uffizi, opera lodata e lodevolissima; ma e Santa Croce e gli Uffizi sono cosa eventuale, non duratura, non ordinamento perenne di governo civile.
Intanto che coi desiderii e coi voti gli uomini ben nati affrettano un provvedimento che formerà tanta parte di sapienza civile e di pubblica morale, personaggi privati, come possono meglio, s'ingegnano riparare al difetto; e Canova, magnanimo cuore se altri fu mai, inaugurava immagini di marmo nel Panteon romano, che il tempo sembra consentirci eterno, affinchè accolga rinomanze eterne; Giancarlo Di Negro e Niccolò Puccini ne imitano l'esempio nelle loro ville amenissime consacrate
Al decoro, al gentile, al bello e al buono.
[179] Ma, egli è mestieri pur dirlo, il simulacro di cui massimamente si appagano le ardue anime dei Grandi vuole essere inalzato dal popolo, — dal Briareo dalle cento bocche e dalle cento mani, — il dominato dominatore di tutti, — del quale i re, i poeti, gli artisti, gli uomini insomma per ogni maniera cupidi di fama, domandano supplichevoli la laude o le larghezze, o la tutela, o la vendetta. — Sì, la laude, — perchè i potenti, i sacerdoti, e tutti insomma cui arse desiderio di gloria, non crederono che la corona, la tiara, e la ghirlanda, a ragione fosse posta sopra la testa loro se il voto dell'universale non ve la confermava. Al popolo fu concesso essere sopra i re, quando creò i suoi re; e quando qualche volta, ma rado, prendendo da se questa facoltà li distrusse, il popolo scelse quelli a cui disse: Voi sarete i miei Grandi: ed anche in questo i principi si trovarono ad essere sottoposti al popolo. — Sì, la larghezza, — imperciocchè le perle del diadema reale per la più parte si composero delle lacrime congelate del popolo, e il poco oro della reggia e del tempio venne comprato con la massa enorme di rame che estrassero dalle viscere del popolo come da una miniera. — Sì, la tutela, — perchè se il popolo ti guarda, chi ti toccherà? se il popolo ti odia, chi ti salverà? — Sì, la vendetta, — perchè il popolo quando pose la sua mano sopra un capo quantunque potente, sopra un regno sebbene vetusto, dopo istanti od ore fu detto: Qui visse un Uomo, e qui fu un Regno!
E nonostante, assai più fatale dell'oblio nuoce l'altro peccato, che consiste nell'onorare gl'immeritevoli. — Nequissima turpitudine, comune a tutti i tempi, ai nostri poi miserabilmente speciale. Allora la virtù torce sconsolata lo sguardo dal mondo, e sopra questo si addensa una ecclissi dolorosa: le lacrime amare che le [180] sgorgano dagli occhi si convertono in pioggia di desolazione quaggiù, ed a ragione; imperciocchè se il primo fatto nasce da oscitanza, il secondo poi deriva dalla offesa premeditata: nè difetto di debito ossequio percuote mai tanto quanto l'oltraggio manifesto.
Però io desidererei che non si ponessero immagini ai vivi (specialmente se principi), e nemmeno ad avi di principi regnanti; conciossiachè la esperienza ammaestri come troppo spesso passioni non rette nè giuste possano persuadere oggi tale atto di cui ci pentiremo forse domani: e i principi virtuosi dovrebbero piuttosto meritare che desiderare una statua, e sapere che di tutte le lusingherie, pericolosissima è quella che li espone al voto delle presenti generazioni e delle future. Ed in quanto agli avi dei principi tuttora regnanti, il sospetto che dai trecconi si abbia in mira piuttosto di piaggiare il vivo che lodare il morto, dovrebbe persuadere il consiglio generale di rifiutare simili dimostrazioni, le quali non si nega che possano essere sincere, ma bisogna convenire che potrebbero ancora essere bugiarde; e la lode, assai più della moglie di Cesare, non ha da comparire sospetta. — A me sembra pertanto senno grandissimo quello che nella moderna Roma fece dettare la legge che vieta erigere simulacri ai Pontefici viventi, però che il popolo, talvolta insanendo, fu visto al tempo di sede vacante precipitarli nel Tevere.
Mentre dunque l'uomo vive, non abbia statua; ma chiuso il giorno supremo, per quello che sparse di se larga fama nel mondo, si proponga al popolo se abbia o no meritato l'onore della statua; e dove il consenso universale lo conceda, passato un anno si torni a proporre un'altra volta, e così fino alla terza; e vincendo sempre pel sì, vada consolata cotesta ombra di simulacro marmoreo. Ove poi il primo anno si rigetti il partito, [181] si proponga l'anno dopo, o forse meglio decorso spazio maggiore di tempo: in mezzo secolo tre volte o quattro; conciossiachè nel periodo di mezzo secolo le passioni si acquietino, le opinioni mutino, e sia sperabile allora che la verità generosa levi soltanto la voce.
Come, dove, e avanti cui avesse a proporsi il partito, io lo dirò un'altra volta. — Per ora basta così. Questo concetto mi sorse doloroso nella mente considerando come gli uomini mossi dalle passioni, vento contrario alla vita serena, s'ingannino. E non dico già di quelli che hanno grosso intendimento, ma sibbene anche di coloro che fanno professione di filosofia, e furono dai cieli benedetti d'ingegno. Ed in conferma di questa mia sentenza valgami per tutti lo esempio del Byron, il quale alla distanza di pochi anni giudicò tanto diversamente Napoleone. Nel 1815 egli cantava così:
ODE A NAPOLEONE BONAPARTE.
Pesa Aniballe: quante libbre trovi
In cotesto supremo capitano?
Giovenale, Satira X.
Lo imperatore Nepote venne accolto dal Senato, dagl'Italiani, e dalle provincie della Gallia. Le sue virtù morali, e la militare prestanza, furono lodate largamente, e quelli che ritraevano qualche privato benefizio dal suo governo annunziavano con voci profetiche la restaurazione della pubblica felicità..... Ma la sua vituperosa renunzia, la sua vita per pochi anni protratta in miserabilissima condizione tra imperatore ed esule, finchè......
Gibbon, Decadenza ec., vol. VI.
«Egli cadde; ma pure ieri fu re! ed armato a combattere contro ai re. Ed ora tu sei una cosa senza nome, — abietta, — e nonpertanto viva! E questi è l'uomo dai mille troni? Questi colui che seminò la terra [182] di ossa nemiche? E può egli sopravvivere così? Dopo lui, che salutammo follemente stella mattutina, nè uomo mai, nè demone precipitava in tanta immensa miseria.
»Uomo malvagio, perchè la stirpe che ti stringeva le ginocchia flagellasti? Contemplando sempre te stesso divenisti cieco, e il fastidio di guardarti insegnasti.... Con tanto magnifica potenza, — potenza di salvare — l'unico dono che ai tuoi adoratori largisti è stato il sepolcro. — No; — prima della tua caduta gli uomini non potevano credere come tanta ambizione andasse congiunta a tanta bassezza!
»Gran mercè dello insegnamento; — egli varrà ad ammaestrare i futuri guerrieri, assai meglio che le sentenze della divina filosofia non facciano, siccome invano hanno fatto fin qui. Il fascino che occupava la mente degli uomini si è rotto, nè tornerà più a prostrarsi davanti questi idoli della spada dalla fronte di bronzo e dai piè di creta.
»Il trionfo, l'orgoglio, e la gioia della battaglia, e la voce della vittoria scuotitrice della terra, erano l'alito della tua vita. Il brando, lo scettro, e il dominio che gli uomini, come se vinti da necessità naturale, obbedivano, e co' quali si era oggimai addomesticata la fama, tutto è spento. Spirito tenebroso! oh quanto deve lacerarti amara la tua rimembranza!
»Chi desolava è desolato! Il vincitore è vinto! L'arbitro degli altrui destini adesso supplica pel suo proprio destino! Gli rimane forse qualche speranza d'impero che valga a fargli sopportare cosiffatta vicenda, o teme soltanto la morte? — Morire da re, o vivere da schiavo. Ah! la tua scelta fu coraggiosamente codarda.
»Colui che vecchio intese fendere la querce, non temeva che gli si potesse richiudere. Incatenato al tronco [183] che si provò invano di rompere, — quando si vide solo — quali furono gli suoi sguardi dintorno? Te incolse una pari sventura nella superbia della tua forza, e un destino più tenebroso del suo ti percosse. Egli cadde preda delle belve della foresta; — tu se' condannato a divorarti da te stesso il cuore.
»Il Romano, quando ebbe sfuocato il cuore rovente nel sangue di Roma, gittò via il pugnale, e ardì ridursi a casa nella sua salvatica grandezza. Egli osava partirsi per maggiore onta degli uomini che avevano sopportato il suo giogo e lo lasciavano incolume. L'ora della sua gloria fu quella in cui spontaneo abbandonò il potere.
»Lo Spagnuolo, quando l'agonia del dominio ebbe perduto ogni splendido incanto per lui, cambiò le corone in rosarii, lo impero con la cella, e la sua follia vaneggiava innocente quando si convertì in solenne annoveratore di grani di rosario, e in sottile disputatore di credi; — pure beato lui, se non avesse conosciuto mai o le reliquie della superstizione, o le tirannidi del trono!
»Tu poi — dalla mano repugnante ti era strappato il fulmine; — In poi troppo tardi lasciasti l'arduo comando, al quale ti teneva la tua debolezza attaccato. E comunque tu sii uno spirito maligno davvero, fa male al cuore considerare il tuo tanto avvilito, — e pensare che il bel mondo di Dio sia stato sgabello a creatura sì abietta!
»E la terra prodigava il suo sangue per costui che si mostra tanto avaro del proprio! E i potenti tremando con tutte le membra gli si prostrarono davanti rendendogli mercè per un trono! bella libertà, noi dobbiamo tenerti ben cara, dacchè i tuoi più acerbi nemici palesarono con modi così disonesti la interna paura! [184] Oh! non possa mai tiranno al mondo lasciare nome migliore dietro di sè per ingannare il genere umano.
»I tuoi gesti iniqui stanno scritti nel sangue, nè così scritti invano: la fama non parla più dei tuoi trionfi e ne rivela le infamie. Se tu morivi come sa morire l'onore, forse qualche altro Napoleone sarebbe sorto a vituperare il mondo di nuovo. — Ma chi vorrebbe ascendere all'altezza del sole per rovinare poi in una notte senza stelle?
»Pesata la polvere di un eroe, ecco ella è vile quanto la creta del plebeo. Le tue bilance, o Morte, sono giuste per tutti quelli che muoiono: pure io credeva che una qualche più lucida scintilla, capace ad abbagliare e a stupire, animasse i grandi viventi, nè mi pareva possibile che il disprezzo giungesse a farsi ludibrio dei conquistatori del mondo.
»Ed ella, il vago fiore dell'Austria altera, la tua pur sempre sposa imperiale, come sopporta col cuore l'ora della tua sventura? Sta ella sempre unita al tuo fianco? Dovrà ella pure curvarsi, partecipare il pentimento tuo tardo, la lunga disperazione di te omicida rovesciato dal trono? Ov'ella ti amasse sempre, abbila cara: sarebbe la gemma più bella del tuo perduto diadema.
»Affrettati alla squallida tua isola, e guarda il mare: cotesto elemento può sostenere il tuo sorriso, perciocchè egli non fosse mai dominato da te; — e con la mano neghittosa, nelle tue torbide fantasie scrivi sopra la sabbia che la terra è libera come il mare, adesso che può applicarsi alla tua fronte il motto del pedagogo di Corinto.
»Nuovo Timour, nel carcere della tua gabbia quali pensieri saranno i tuoi mentre covi il cruccio imprigionato? Uno solo: — il mondo fu mio! — A meno che somiglievole [185] in tutto a colui di Babilonia, tu non abbi perduto col tuo scettro ogni sentimento, e la vita non dovrebbe più a lungo rinchiudere uno spirito così largamente dimostrato, — così lungamente obbedito, — e così indegno d'impero.
»Oh simile al rapitore del fuoco celeste, vorrai resistere all'urto, e dividere con lui la eterna condanna, l'avvoltoio e la rupe! Maladetto da Dio, esecrato dagli uomini, l'ultima tua azione, quantunque non la più trista, eccita il riso di Satana stesso. — Vi fu un giorno, — vi fu un'ora in cui la Terra era della Gallia, e la Gallia era tua: allora, non anche sazio, la rassegna dello immenso potere sarebbe stato atto di fama più pura di quella che circonda il nome di Marengo, e avrebbe diffuso una luce di oro sopra il tuo tramonto traverso il crepuscolo dei secoli, — malgrado qualche nube passeggiera di delitto.
»Ma tu eri nato al trono e a vestire la clamide di porpora, come se cotesto manto di follia avesse avuto virtù di soffocare le rimembranze del tuo petto. — Dov'è adesso la clamide scolorata? Dove sono le vanità di cui ti compiacevi ornarti: — la stella, — i cordoni, — la piuma? Stizzoso fanciullo d'impero! — dimmi, ti furono involati i tuoi trastulli? — Ma dove dunque potrà riposarsi l'occhio stanco che va in traccia di qualche osa di grande? dov'è dunque che splende una gloria incontaminata, una vita senza onta? — Sì, — uno, — il primo, — l'ultimo, — il migliore, il Cincinnato dell'Occidente, chè non trova la invidia ove emendarlo, legava agli uomini il nome di Washington per farli vergognare ch'egli solo nacque tra loro.»[20]
Nel 1821 il potentissimo poeta, ricredendosi, consolava la grande anima con questo altro canto:
[186]
ODE A SANT'ELENA.
«Pace a te, o isola dell'Oceano! Salute alle tue acque e ai tuoi venticelli! Dove la marea con moto alterno agita i tuoi flutti soavemente così, che paiono pennacchi di piume candidissime! Magnifica sarà la ghirlanda della storia sopra la tua onda, e ti fiorirà eternamente verde intorno alla fronte quando i popoli che adesso ti abbandonano alla oscurità, con giusta vicenda giaceranno nell'oblio. Immota nella tua gloria, incontaminata nella tua fama, la laude dei secoli santificherà il tuo nome!
»Salute al Capitano che riposa dentro di te la mole della immensa sua rinomanza! Quando egli avrà compito il suo tramite terreno, quando sarà chiuso il libro della sua vita, la storia consacrerà le sue geste: le sue prodezze si annovereranno fra le prime di tutti i tempi, e i re della terra s'inchineranno dinanzi al suo valore. I canti dei poeti, gl'insegnamenti dei sapienti, lo chiameranno maraviglia e grazia del mondo. — Le meteore della storia impallidiranno al tuo cospetto — ecclissate dal tuo splendore, — o fulgidissima meteora della Gallia.
»O isola luminosa di gloria! Te rinfreschino sempre salutifere le aure. Pellegrini di remote nazioni e tribù libere come le tue onde, verranno a salutarti. E il vagante pel mondo si fermerà sopra la tua sabbia corrusca da lontano per contemplare una terra cotanto famosa. Ogni gleba, ogni pietra, ogni dirupo santificato dalla orma dell'Esule, lo tratterranno. Per lui tu acquistavi una luce divina, e il tramonto del suo sole fu la levata del tuo.
[187] »Dove sono le mani che lo hanno incatenato? mani che si affaticarono invano di contendere con lui. I popoli gli resisterono qualche volta, ma non lo superarono mai. I potenti, che spesso s'inchinarono alla sua potenza, recuperarono le loro corone fra le sue prede di guerra! Il vincitore è vinto; l'aquila giace adesso contristata, e tentano muovere guerra di tenebre al raggio della tua stella. — Ma la tua gloria apparisce scintillante di nuovo splendore, e percorre sublime il suo ascendente come il pianeta degli anni.
»Lieti sieno gli arbuscelli delle tue montagne; copiosa la verdura dei tuoi prati; limpidi e perenni i rivi delle tue fontane; incolumi i tuoi annali da qualsivoglia sventura. Tu sorgi in mezzo all'ampio Oceano, come un magnifico altare di cui le reliquie saranno salutate dalle preghiere del genere umano. Le tue costiere respingano la rabbia delle procelle, e le aperte sponde la contesa del mare e del vento. Superba riposi l'aquila sopra i tuoi bastioni per ornare te, — che sei l'orgoglio del mondo.
»Il giglio adesso fiorente rimarrà appassito. — Dov'è la mano che valga a nudrirlo? I popoli che lo rilevarono lo contempleranno cadere: infauste rugiade lo maladiranno. Allora la violetta che cresce nella valle confiderà ai venti il suo redivivo profumo, e quando fie che lo spirito della libertà imprechi anatema sopra i sepolcri della tirannide, la vasta Europa tremerà di paura che la tua stella prorompa ad ecclissare le funeste comete del Settentrione.»[21]
Il presagio del poeta fu legge del Fato, e la statua di Napoleone sorge adesso di nuovo sopra la sua colonna, quinci guardando le Provincie di Francia, ch'egli amò tanto, — ch'egli amò troppo, — come il patriarca Giacobbe [188] affacciato al balzo di un monte vedeva i suoi figliuoli padri della tribù educare i greggi per le pianure della Giudea: e la sua benedizione scendeva salutifera e perenne sopra di loro....!
Ma chi avrebbe mai potuto presagire che la statua di lui, supremo cantore della Inghilterra, prodigio d'intelletto, e cuore nobilissimo, donata dal Thorwaldsen al Capitolo di Westminster, perchè fosse collocata fra le tombe dei re, sarebbe andata dispersa?
Gli esecutori testamentari del poeta hanno mosso lite contro i Doganieri per lire trentamila di sterlini. Perderanno essi o vinceranno? Forse vinceranno, dacchè Giudici, Avvocati e Doganieri insieme uniti compongano una delle meglio potenti calcine con le quali apparisce murato questo egregio monumento sociale. Ma vincano o perdano, la vergogna è sicura; senonchè io dubito forte che i Doganieri di puro sangue possano mai sentire vergogna. Basta, quello che io so di certo si è questo, che trentamila anni basteranno appena al popolo inglese per lavarsi della colpa della morte di Napoleone: cotesta è macchia uguale a quella di Lady Macbeth: nè anche tutta l'acqua dell'Oceano ha virtù di stingerla, e per istropicciarla che uomo faccia, sempre e più sempre apparirà vermiglia, vivida e fumante. — Grave, e più di questo, io direi quell'altro obbrobrio di sopportare che il vincitore fortuito di Waterloo tenga nelle cantine del palazzo di Aspley-House la statua del gran Capitano, opera del Canova e dono di Luigi XVIII; — e l'altro infine, della prodigiosa codardia nel tollerare che un Collegio tristo d'ipocriti mandi disperso l'omaggio che un genio ha reso all'altro genio, diseredi il più sublime dei suoi poeti del retaggio di onore, e contamini la fama di un popolo grande davanti Dio, e davanti le generazioni degli uomini. Cotesto Collegio dava pur dianzi a [189] Campbell tomba in Westminster; la negava al Byron. E sì che la luce del Campbell, a paragone di quella del Byron, pare fiammella di lucciola dirimpetto ai raggi del sole: ma le nottole non temono le lucciole, e fuggono il sole. — Forse è meglio così. Bruto e Cassio furono più amorevolmente desiderati, e più onoratamente rammentati, quando il popolo romano non vide comparire le loro immagini nei funerali di Tiberio!
[191]
ALLA NOBILE DONNA
SIGNORA ANGELICA BARTOLOMEI,
nata Palli.
Alloraquando nelle serate lunghissime d'inverno io alternava seco, rispettabile Signora, i seguenti ragionamenti senza studio come senza ira, e così proprio secondo che scaturivano dal cuore, io non pensava certo che potessero un giorno formare soggetto di stampa. Ma l'uomo trama e la Fortuna tesse; ond'è che offerendomisi il destro di pubblicarli, io non ho voluto farlo senza intitolarli all'onorato suo nome, parendomi giustizia renderle in parte quello che le appartiene per diritto di legittima proprietà.
Ora mi sembra che nostro malgrado noi concorressimo in questo, cioè che le umane lettere volgono fra noi a infelicissima decadenza: e quanto ciò sia grave danno, per certo non importa discorrere; dacchè a dimostrare non pure la utilità, ma la necessità delle umane lettere, tali e tanti uomini vi si affaticassero attorno, che volendo aggiungervi parola, avrei più che di altro sembianza di colui che s'ingegnasse sospingere al mare le acque di un fiume. I tempi nostri paionmi assai somiglievoli [192] all'uffizio di questa settimana santa, ove al cessare di ogni salmo spengono un lume, finchè non vengono le tenebre; e allora incomincia il turbinìo delle cieche percosse. — Però, come riesce agevole avvertire lo effetto, non potremmo con pari facilità indicare le cause di simile decadenza.
Invero, dei molti fatti che occorrono alla mente come radice di tanto male, se noi vi posiamo sopra il pensiero, troviamo che tanto potrebbero essere quanto ancora non essere. Cagione di decadenza ci sembrò la poca protezione, anzi lo abbandono, od anche meglio il disprezzo compartito alle lettere umane; ma consideravamo poi che nè abbandono, nè disprezzo, nè persecuzione erano bastate mai a trattenere gli altissimi intelletti a compire le belle opere per le quali salirono a tanta rinomanza; e per tacere degli altri (imperciocchè delle sventure dei nostri Grandi vanno attorno grossi libri stampati), Dante non rivelava la sua visione, esule, condannato al fuoco, e costretto a mendicare la vita a frusto a frusto? Campanella non concepiva prose e versi e utopie di umana felicità, nello squallore di una prigionia più che trilustre? Condorcet, mentre deliberava uccidersi per fuggire al patibolo, non sognava sogni di umana perfezione, sino al punto di presagire la immortalità a noi atomi per un minuto animati? Voltaire sopra i muri del carcere segnò i versi della Enricheide; e Torquato, rinchiuso come colpevole e matto, scriveva nobilissime carte tutte piene di filosofia. E poichè gli esempi potrebbero prodursi infiniti, così sarà consiglio buono rimanerci a questi.
Cagione di decadenza ci parve il poco o il nessun costrutto che i letterati ricavano dalle onorande loro fatiche: ma per quanto me ne giungesse notizia, nè Omero mai nè Dante ritrassero copia di beni dai canti divini. Milton (e fu fortunato) vendè trenta ghinee il [193] Paradiso perduto; e al giorni nostri, Carlo Botta (Tito Livio della Italia moderna) si ridusse a pagare lo speziale dei farmachi somministrati alla inferma consorte con tante copie della Guerra Americana, a ragguaglio di peso di carta. Giuseppe Parini si lagna che il sì lodato verso non giovi ad apprestargli un vil cocchio, che basti a salvare lui (offeso nelle gambe da dolorosa malattia) dal furore della tempesta,[22] e peggio ancora con un grido del cuore, che io per me stupisco di vedere espresso in versi, egli esclamava:
La mia povera madre non ha pane
Se non da me, ed io non ho danaro
Da mantenerla almeno per domane.
E nonostante, nessuna forza al mondo poteva dissuadere cotesto ostinato amatore della sua musa dallo educare con sommo studio un lauro nel suo povero letto, e appendervi corone. E per altra parte, le larghe mercedi non fruttarono sempre egregie opere d'ingegno; e di questo io non adduco esempio oltre quello dei quattordicimila scudi all'Achillini pel famoso sonetto: Sudate, fuochi, a liquefar metalli. Aggiungi che gli scrittori forse non hanno mai ricavato dalle opere loro una qualche mercede come ai tempi che corrono. In Francia e nella Inghilterra retribuiscono assai le opere d'ingegno, e se ciò non nuoce, neppure mi sembra che giovi, conciossiachè senza offesa di alcuno a me paia vedere come molti svegliati talenti avrebbero provveduto meglio alla fama se meno fossero stati premurosi di accumulare pecunia. Gli editori d'Italia insomma, quantunque non senza gemito grande, pure qualche cosa si lasciano adesso cascare di mano; sottile è vero, sufficiente per vivere, ma non pertanto bastevole a non far morire. Gli editori nostri [194] conoscono come l'adipe torni nemica al talento, e non vogliono fare quello che nelle Sacre Carte si minaccia:
il cor t'ingrasso
Perchè dramma non v'entri d'intelletto.
Cagione di decadenza dicono le menti volte ai subiti guadagni, alle mercature, alle strade ferrate, alle macchine a vapore, allo speculare sopra il prestito pubblico, e simili altri mercimonii siffatti. Ma io, di grazia, domando: E i padri nostri non davano opera continua al commercio? Non erano gl'Italiani pressochè gli unici negozianti e banchieri dei tempi di mezzo? E a' giorni nostri, qual popolo mai può vantarsi più trafficante del britanno, e qual popolo moderno più di quello si onora di nobilissimi scrittori? Anzi Rogers, Roscoe, Lewis, Campbell furono mercanti o sono, e Scott, giudice di pace, si viveva in intima corrispondenza di poesia con Unfrido Davy, fisico sommo, preso quegli (cosa singolare a narrarsi) dalla passione di curare i boschi, questi di pescare i salmoni. E poi chi dice che nelle strade ferrate e nel vapore non occorre poesia? Considerate il futuro. La vicenda del mondo di nuovo e in nuovo modo si alterna. Il commercio asiatico, quasi smarrito pel Mediterraneo, vi torna con auspicii migliori. L'uomo percorre i mari e i deserti a pari della rondine. Alessandria, Tiro e Sidone resuscitano dalle antiche rovine, come forti ristorati dal sonno. Venezia con la sua cintura d'isole, simile a cigno circondato dalla piumata famiglia, torna a specchiarsi superba per le adriache lagune. La Provvidenza restituisce alla Italia e alla Grecia le corone che in parte volenti e in parte repugnanti deposero già tempo dalle auguste loro fronti. E spingendo oltre lo sguardo, ecco l'uomo rovesciare le barriere con le quali un male genio volle un popolo diviso dall'altro; [195] pcco sparire gli spazi, mescolarsi le nazioni, le lingue confondersi, e nascerne una nuova, ampissima, e accomodata a tutte le necessità fisiche e morali del continuo rinascenti: astii e gare sopprimersi, nessuno più geloso delle contrade altrui, imperciocchè in brevi giorni il Lappone o il Samoiedo può venire a bevere la tepida aura che muove dalle nostre colline, e scaldarsi le membra irrigidite ai raggi del nostro sole: le antiche società disfarsi, e con esse, leggi, instituti, religioni e costumi, come le cose che vediamo talvolta menare seco la piena di un fiume, e sorgere nuove capacità e attitudini per diventare tutti una famiglia sola. Il magnetismo o elettricismo ci si presenta sempre come trovato di empirico, e diffida i dubitativi; ma forse anche a lui apparecchiano i tempi magnifiche sorti. Intanto il fulmine imprigionato, la vita per breve momento restituita al defunto, — quasi orma mossa oltre il tremendo limitare della eternità! — e la favella per molte miglia trasmessa con prestezza maggiore della luce, paionmi cose, e sono, da esaltare la fantasia di qualsivoglia prosatore o poeta, e dar soggetto a qualunque più alta scrittura. E neppure le scienze possono reputarsi ragionevolmente cagione di decadenza; conciossiachè chi non troverebbe più adattato argomento di poesia alle stupende ricerche del Cuvier che non in tutte le composizioni dell'Arcadia, di buona memoria? Rammento una bella Orazione, non so se letta o favellata all'improvviso dall'Arago alla Camera dei Deputati di Francia, nel 25 marzo 1837, intorno al progetto della legge sopra la istruzione secondaria. L'egregio oratore volendo confutare la strana proposizione che gli studi scientifici non contengono cosa che possa suscitare l'anima umana, così si esprime: «Eulero fu personaggio per pietà insigne. Un amico suo, ministro di certa chiesa di Berlino, visitandolo un [196] giorno, gli disse: «La religione va perduta miseramente, la fede manca di base, e il cuore repugna a lasciarsi commuovere con lo spettacolo delle bellezze e delle maraviglie della creazione. Lo crederete voi? Io ho presentato la creazione con tutto quanto offre di più leggiadro, di più poetico, di più maraviglioso; citai gli antichi filosofi e la Bibbia, e nonostante mezzo auditorio è rimasto distratto, l'altro mezzo o si pose a dormire o uscì di chiesa.» — Eulero, consolando il ministro rispose: «Or via, procurate di fare la esperienza che io vi propongo: invece di desumere la descrizione del mondo dai filosofi greci e dalla Bibbia, prendetela dagli astronomi: svelate il mondo come le indagini astronomiche ce lo hanno fatto conoscere. Nella predica vostra voi avete per avventura descritto il Sole a modo di Anassagora che lo immaginò una massa di fuoco grande quanto il Peloponneso: dite al vostro uditorio che secondo misure esattissime e sicure, il nostro Sole è un milione e dugentomila volte più grande della Terra. Voi per certo favellaste di cieli di cristallo uno dentro l'altro incastrato? ditegli che così non possono essere, e che le comete li romperebbero; che i pianeti sono mondi, e Giove supera in grandezza millequattrocento volte la Terra, Saturno novecento; descrivete le maraviglie dell'anello, parlate delle lune molteplici di cotesti mondi remoti. Giungendo poi alle stelle e alle distanze loro, non contate a leghe: infinite sarebbero le cifre, nè le comprenderebbero bene; per punto di paragone prendete la velocità della luce; avvertite com'essa percorra ottantamila leghe per minuto secondo; aggiungete non isplendere stella di cui la luce pervenga a noi in minor tempo di tre anni; e di alcune poi non ci vuole meno di trent'anni. E dalle cose certe passando alle [197] probabilissime, insegnate come noi potremmo vedere stelle dopo milioni e milioni di anni che cessarono di scintillare, perchè la luce che emana da cotesti splendori impiega molti milioni di anni a percorrere lo spazio che li divide da noi.» — Tal era in succinto il consiglio che Eulero dava all'amico suo. E seguitandolo, il ministro rivelò il mondo della scienza e non più il mondo della favola. Eulero lo attendeva impazientemente, e l'amico sopraggiungendo disfatto in sembianza e sbigottito, esclamò: — «Eulero mio, a quali tempi fummo noi riserbati! Dimentico l'uditorio del rispetto dovuto al luogo sacro, mi ha applaudito come si costuma in teatro.» —
Forse, e senza forse, causa schifosa di decadenza sembra che possa estimarsi il Giornalismo nel modo che ai giorni nostri noi lo vediamo esercitato da taluni in Italia. Potrebbe sostenersi anche meglio com'egli sia non causa, ma conseguenza. Però, principio od effetto, mi pare brutta e turpe piaga della nostra letteratura. Francesco Troloppe, con argutissimo trovato, osserva che la provvidenza compartì ai giornali l'odore nauseante di cui li sentiamo gravi, per prevenire i lettori contro le brutte cose che in essi si contengono, non altramente nè con pensiero diverso da quello pel quale dava il fragore ai serpenti a sonaglio onde la gente se ne guardasse e stesse lontana. — Io non sono davvero di quelli che pensano doversi annoverare la Critica fra le Muse; nonostante io la reverisco, e confesso che giova. Ma qual è la critica di cui intendo discorrere io? Di quella esercitata da uomini valorosi e prudenti, che il fiore dello intelletto adoperarono in comporre opere egregie. Questi che di sè porsero tanto buon saggio, e non altri, giunti in cotesta parte della vita, ove la mente desiderosa di riposarsi aborre dalla concitazione che nasce dal [198] creare; questi, dico, possono dare opera al più facile lavoro di esaminare le creazioni altrui. La molta esperienza, l'animo pacato, la gloria conseguita, la coscienza delle fatiche sofferte e delle difficoltà superate, e poi l'onesto esitare dei propri giudizi, la convenienza, il decoro, e soprattutto il pudore, che mai non si scompagna dalla vera sapienza, come la stella mattutina precede sempre il pianeta della vita, e molte altre condizioni che troppo ci tornerebbe lungo discorrere, ci somministrano sicurissimo pegno che gli avvertimenti loro sarebbero mossi dal senso dell'onesto e del bello. E certo, per insegnare bellezza essi non andrebbero a far tesoro dei difetti del brutto, e ne farebbero mostra con intento maligno. O voi, fabbricanti delle regole che conducono al bello, ditemi se quando un maestro di disegno intende insegnare il nudo ai suoi scolari, forse presenti loro un gobbo od uno sciancato? E voi, come volete conoscere il bello e additarlo altrui, se sembra che non abbiate sortito altro senso tranne quello del laido e del sozzo? Le cose belle s'insegnano con modi ingenui e con esempi di bello. Ma se piace a Dio, e sia detto in lode del vero, io vedo tali che trattano la penna a cui molto meglio starebbe trattare il remo, con la modestia di un cavadenti, e la coscienza di........
E qui il paragone mi manca, imperciocchè io temerei commettere ingiustizia grande assumendo per subbietto di paragone una cosa qualunque, comecchè schifosamente miserabile e luridamente codarda, costituirsi Draconi e Soloni, e dalle loro soffitte, come Moisè dall'alto del monte Sinai, promulgare leggi sopra le ragioni del bello e del grande ch'essi furono condannati a non conoscere giammai. Ma da costoro poco danno può uscire, dacchè, sebbene al ragno possa talora venir fatto velare con la sua tela le chiome del Giove di Fidia, egli [199] si rimarrà pur sempre un insetto tiranno delle mosche soltanto; il peggio sta in quanto io sono per esporre.
Tragedi laureati di sibili, autori erpetici di opera rientrata, per la quale nessuno stampatore acconsentì fare le parti di Lucina; poeti che non colsero in Pindo altro che ortica; filosofi fantastici che non seppero ragionare nè immaginare; e simile altra genía, mettono in società latrati e livore e stupida presunzione, e menano uno schiamazzo tanto disonesto quanto imbecille: ed anche di loro non è da curarci. Succedono i pedanti, i quali armati con una corazza di punti e virgole, brandendo una copula e cavalcanti un dittongo, favellano parole da far piangere gli angioli: neppure di loro vuolsi prendere pensiero. Vengono dopo i mediocri (Dio nella sua misericordia ci salvi dai mediocri!), arena molta e fastidiosa, ch'entra per gli occhi e li fa dolere; neve abbondante e ghiaccia che intirizzisce il cuore. A costoro par bello vagheggiare il proprio nome stampato, quando anche fosse sopra un avviso di partenza di battello a vapore, o sopra una sentenza graduatoria. Cotesti non si potendo inalzare fino all'altezza degli ingegni eccellenti, presumono abbassarli fino a loro; ed essi pure compongono arnesi per tagliare, limare e inverniciare quanto reputano unicamente bello. Gl'ingegni supremi essi aborrono, non altramente che se altrettanti Cornelii Silla si fossero, e chi passa il regolo pena di morte, come a Remo per avere saltato le mura di Roma. Io per me penso vedere questa brutta guerra della mediocrità contro la superiorità in molti instituti promossi ai giorni nostri sotto sembianza di carità; ma per ora mi taccio, proponendomi di svolgere a comodo questo singolare argomento: solo mi conforto considerando come in verun secolo mai vissero splendide altezze, delle quali basti pel mio assunto ricordare Napoleone e Byron: — ed [200] anche da questi poco male ne viene. Subentrano coloro che ingegno hanno e non poco, ma senno punto: vani, presuntuosi e superbi, dominati dal demonio di correre ad ogni costo su per le bocche degli uomini, invidiano Erostrato che bruciò il tempio di Diana. Non sacerdoti, ma piuttosto masnadieri delle lettere paionmi costoro: violenti e brutali, tu li vedi avventarsi contro nobili ingegni, come i grassatori costumano sopra le publiche vie contro i doviziosi viandanti. Chi siete voi? Quali sono le opere vostre? Chi vi conosce? Chi vi conoscerà? Certo incresciosi siete, e molto, come un vento importuno che muove dal deserto, e passa via; ma chi ricorda il vento dell'anno, del mese, e del giorno passato? Declinate la faccia, svergognati, e rispettate gli uomini di cui gli errori formerebbero per voi la gloria più grande che mai vi sia lecito sperare! Avete voi più sapienza di tutto un popolo? Si contiene in voi la sapienza dei tempi? Operate, io vi dico, operate, e assumerete alcun poco di verecondia e di modestia. Ecco qua l'arco di Ulisse; provate a tenderlo con le vostre braccia paralitiche. Vi pare egli un bel che notare i difetti di una opera grande? Chi non conosce come ogni cosa ne abbia? Davvero vi aspetta la gloria di Colombo per questo! Se voi infiamma il sacro amore del bello, questo cercate, questo insegnate, o piuttosto pregate che dall'alto discenda in voi virtù che vi renda capaci a ricercarlo e a impararlo. Dove l'opera meriti oblio, a che tanta ira maligna? Pensate voi che il tempo non distruggerà cotesta povera opera con la falce, con la quale miete popoli e imperi, come l'erba del campo? E il tempo precipitò in Lete anche le ottime cose. Ond'è dunque tanta ira? Perchè, e come siffatta concitazione contro l'opera di un minuto che il vostro biasimo farà per avventura durarne due? Perchè uccidete un morto? E la vostra [201] censura e l'opera censurata periranno in un medesimo punto, come Rita Cristina, quel mostro umano a due teste. E dove poi la opera sia tale che abbia forza da collocarsi sopra le spalle del tempo, e costringerlo a portarla per qualche spazio di secolo, e a che monteranno le parole vostre? Allora voi, come è più probabile, vivrete la vita dello insetto, breve e noiosa, o durerete nome di scherno. Nel collegio dei magnanimi voi starete come Tersite nell'assemblea degli eroi di Omero, per latrare ed essere percossi. Io, comunque mi senta poco amorevole alla Mitologia, riporrei nonostante volentierissimo tra il coro delle Muse, accrescendone il numero, la Modestia piuttosto che la Critica, imperciocchè udii come Socrate, filosofo e scultore, velasse anche le Grazie; il quale esempio ho veduto ai giorni nostri imitato dal Finelli, e penso che abbia fatto bene. Le Grazie del Canova, balenanti nude nel riso di lor bellezza, io non dirò che mi paiano male femmine, ma certo neppur vergini e Dee, e piuttosto mi appariscono seguaci della Venere terrena che non della celeste. Il Baretti guastò molti, e molti continuerà a guastare, perocchè i traviati non considerino come i tempi del Baretti procedessero troppo diversi dai nostri; e forse quel suo scrivere acerbo, o tollerabile od efficace allora, suona adesso grossolano e brutale. Però egli era vecchio, dotto per lunghi studi, ed aveva già fatto bello acquisto di fama, onde qualche cosa gli si poteva concedere, e nonostante frustando lo stile altrui, troppo spesso egli adopera brutto limo di frasi e di parole non italiane, nè belle: egli biasima Dante, egli lacera Goldoni, e leva a cielo Metastasio; e i posteri non hanno approvato il suo giudizio: egli gitta in mucchio con gli scrittori di quisquilie Muratori e Maffei, venerati adesso come maestri solenni di erudizione e di storia: per la qual cosa veggano [202] i discreti come sia agevole andare errati, e le opinioni loro propongano, come conviene, a modo di dubbio, e non per via di formule da disgradarne quelle delle Dodici Tavole. Sommi pontefici in fatto di lettere non si danno; e per questi a me piace e giova concludere, come Geremia concludeva le sue Lamentazioni, o meglio ancora citando quanto insegna in proposito Beniamino Franklin nella sua vita: «Conservai sempre l'abitudine di esprimermi con modesta diffidenza, o di non adoperare mai, per una proposizione che poteva essere impugnata, le parole certamente, indubitatamente, o qualunque altra che potesse farmi credere troppo tenero della mia opinione. Io piuttosto diceva: — suppongo, mi sembra che questa cosa sia così, per la tale o tale altra ragione; oppure la cosa sta così, s'io non m'inganno.» E prego a leggere di cotesta pagina fino al punto in cui conclude, citando il verso del Pope: for want of modesty is want of sense, perchè mancanza di modestia è mancanza di senno.
Ora avanzano gli altri a cui più specialmente io mi rivolgo, e sono quelli che non protervi, non inverecondi, ma ingegnosi e buoni, pure si lasciarono abbindolare per soverchia facilità di costume dai tristi cottimanti di giornale. Oh di loro certo mi duole! Quantunque la mala compagnia non giunga a pervertirvi il cuore e lo ingegno, però io vedo ogni giorno rimettere dei modi ingenui; non anche procedono le vostre parole meretricie affatto, e nonostante incomincia a venirne meno il bel candore; già il limo del trivio le contamina, già le appassiscono il fumo e il miasma vinoso della taverna: non sono nere ancora, e il bianco muore. O sconsigliati, voi mietete il vostro grano in erba; fiori voi cogliete, non frutti. Costretti ogni giorno a concepire e a produrre, le vostre creazioni di un'ora durano la vita di un minuto; [203] più spesso nascono morte. Il vostro pensiero nelle continue emanazioni si spossa, come le membra dell'etico si disfanno pei quotidiani sudori: io vedo uscire dalle vostre menti cose superbe, vane, snervate, mal connesse e viete, e mille volte ripetute; che se i giornali non fossero, voi le fareste gravi, profonde, durature, e come di onore a voi, così di conforto e di gloria alla patria che in voi confida. Senza grande fatica di vita nulla concessero gl'Immortali a noi uomini. Le vostre carte effimere paionmi responsi della Sibilla scritti sopra le foglie che il vento disperde, e nessuno raccoglie. Guaritevi dalla febbre di volere ogni giorno intorno agli orecchi il ronzio della fama; confidate il nome vostro non all'ale dello insetto, ma a quelle dell'aquila; che se è bello ottenere onoranza dai contemporanei, divino è poi conseguirla dai posteri. Imitate il Gran Cancelliere d'Inghilterra, il quale rivelando i suoi concetti presagiva che gli uomini non lo avrebbero compreso se non se dopo lungo spazio di secolo. Consolatevi del difetto di ossequio immediato, imperciocchè se mancheranno ai vostri altari quotidiani sacrificii ed incensi, non per questo sarete defraudati della laude meritata. Così racconta Eliano (se la mente non erra), come certi popoli avendo cessato d'immolare vittime sopra l'ara di Augusto, la Natura, quasi riparando al fallo degli uomini, vi facesse crescere un lauro trionfale. Insomma, per amore vostro, per amore della patria comune, io vi esorto, onorandissimi giovani, a separarvi dalla compagnia malvagia e inetta, a ritemprarvi nel santuario dell'anima, e a impiegare lo ingegno in opere grandi e generose.
Conosco una generazione di uomini che crede ai beni del Giornalismo, e lo va encomiando come rugiada fecondatrice e potente di vitalità. Io per me non gli nego un moto e una vita, ma quella che si manifesta nel corpo [204] di un eroe dopo la sua morte, — vita di vermi. Per vivere non basta muoverci, sibbene bisogna camminare con passi liberi e franchi, e con testa levata verso il cielo, — patria divina dell'uomo. Questo mio giudizio però non si estende a quei Giornali che si propongono diffondere a tenuissimo prezzo cognizioni utili di scienze, commercio, industrie, lettere ed arti, ed anche a quelli che esercitano la critica sopra la opera altrui, purchè muova da persona grave, illustre, soprattutto onesta, come io diceva nelle pagine antecedenti, e sia vereconda, generosa e gentile indagatrice di ogni maniera di bello.
Ma senza dilungarmi più oltre sopra questo argomento, tutte le cause discorse qui sopra, e le altre ancora taciute, ognuna per sè o insieme raccolte, io per me penso che possano come non possano generare la decadenza fatale; imperciocchè, senza saperne la ragione vera, abbiamo veduto le scienze e le lettere peregrinare dai Caldei per gli Etruschi, fra i Romani, fra i Greci, in mezzo ai Saracini, e così in giro per le varie contrade del globo: e senza saperne del pari la ragione vera, ora nacque un sublime ingegno nella Grecia, tale altro in Italia, ora nella Germania, adesso nella Inghilterra; e poi la Natura si riposò per qualche secolo come spossata dal parto prodigioso. Di questi ingegni sublimi la Italia fu feconda meglio di qualunque altra terra: ai giorni nostri sembra esaurita; ma forse nel segreto del destino rifà le forze per generare qualche altro gigante del pensiero. — Così sia. Nel buio e nel freddo della mezzanotte consoliamoci nella speranza della luce e del calore dell'alba, dacchè la vita delle nazioni non si consuma come la vita dell'uomo, pel quale la gioventù passa irrevocabile, e la esistenza, rotta in minuti, correndo alla morte misura il tempo della sua durata, ma [205] si rinnuova come le stagioni di un anno che non ha mai fine.
Favellando però di decadenza, io ho inteso accennare a decadenza imminente, non presente; poichè pel tempo che corre, vivono ed operano tali ingegni da illustrare qualunque tempo più splendido della italiana letteratura. Vive in Lombardia Manzoni, nobile ingegno, quantunque io non so perchè volontario si taccia. Vive quel caro Grossi, ma la lira mutata in protocollo, spaventa con questo la sua Musa che lo ama tanto, come con la vista del capo della Gorgone. Pellico vive come lampada al mancare dell'alimento; ed altri pur vivono, non incapaci certo, ma per quello che sembra poco vogliosi di fare. Però mi giova credere che l'apparenza m'inganni, e che nella quiete e nella meditazione apparecchiano opere di lunga lena e non foglie di giornale. Niccolini vive, e non solo vive, ma giunto in quella parte della età dove il comune degli uomini raccoglie le vele, scende nuovo Entello nella arena e combatte, e tale ne manda raggi di luce splendidissima, che ci lascia incerti se per noi si deva il suo mattino al suo vespero, o piuttosto questo a quello preferire. Potesse in lui non tramontare la vita, come non tramonta l'anima! Uomo per eccellenza di intelletto, ma più per costanza di cuore, veramente grande. — E vive tra noi Giusti, di cui le labbra fanno sorridere il più sottile sorriso di Talia, e prorompere nella voce poderosa con la quale Nemesi spaventa i malvagi. Degli altri forza è che taccia; perocchè troppo sarebbe lungo l'argomento, e questo solo ci basti, che per ora almeno in lettere, scienze ed arti, possiamo reggere il paragone con qualunque altro popolo incivilito.
Oltre però il naturale difetto, quello che a parere mio deve riuscire nocivo, massimamente alle condizioni della nostra letteratura, è la incertezza nella quale viviamo [206] non solo intorno agli scopi, non solo intorno ai mezzi dell'arte, ma perfino intorno alla lingua.
Alcuni che si chiamano puristi, hanno chiuso il vocabolario della lingua, come ai tempi del doge Pietro Gradenigo chiusero in Venezia il Gran Consiglio, e da nuove parole aborriscono non altramente che se viperino sangue si fossero. Altri, all'opposto, secondo il costume dei Romani, ospiti larghissimi di ogni maniera di Numi Stranieri nel Panteon, ai nuovi vocaboli spalancano gli usci. La lingua parlata troppo si dilunga dalla scritta, e la distanza diventa quotidianamente maggiore. Noi pendiamo sempre dubbi se la parola che stiamo per adoperare sia o non sia di buona lega, ed il pensiero aspetta fremendo che noi abbiamo esaminato prima se la veste con la quale anela prorompere sia veramente italiana. E intanto, mentre apparecchiamo la vesta, il pensiero etereo per eccellenza si è dileguato, e troppo spesso ci avviene di vestire cadaveri. Ai tempi del Metastasio correva lamento che la nostra lingua eletta si riducesse a poche migliaia di vocaboli: adesso invece di ampliarla, taluni scrittori l'hanno maggiormente ristretta. Da una parte la lingua parlata diversa dalla scritta, per cui è forza che noi ci traduciamo; dall'altra il giro breve delle parole dentro le quali si svolge il pensiero, rendono la condizione dello scrittore presso a poco simile a quella di Antioco preso nel circolo di Popilio.
E discrepanze non meno gravi ci turbano intorno ai mezzi dell'arte. Una volta procedevano più procellose, oggidì si presentano più temperate, e non pertanto funestissime sempre. Io non vorrei profferire nemmeno i nomi di Classici e di Romantici, dacchè per se stessi non significhino nulla, e l'accettazione data ai medesimi, noi la trovammo spesso incompleta, confusa e di mala fede, a seconda delle passioni dei faziosi; — ma insomma [207] quelli che reputavano bella unicamente la forma adoperata dai Greci e dai Latini, conobbero alla fine che essi rinnuovano il caso di Merlino il savio. Mago, di cui lo spirito vivo era stato confinato dentro a un sepolcro, egregio invero per materia e per lavoro, — ma tuttavia sepolcro. Per via di una quistione frivola, uomini generosi si trovarono avviluppati con quanto d'immobile o di retrogrado immaginarono i nemici di Dio e della umanità; si vergognarono, e a farli risensare contribuirono potentemente i grandi ingegni moderni. Infinite sono le vie che conducono al bello; immensi i colori di questa iride che si rinnuova perpetuamente: e di vero, perchè non dovrebbe essere così? Il pensiero, eterno pellegrino che si arrischia per i più disperati sentieri, per lande ghiacciate, per ardenti deserti, o come mai non dovrebbe i sandali logorare e le vesti? E poi la fantasia si stancherà piuttosto a immaginare, che la natura di produrre cose nuove; e quindi nuove sensazioni, nuove passioni, nuovi intenti, nuove voglie, e tutto nuovo. E' vi fu un tempo in cui ancora io diceva col predicatore: «Quello che fu sarà, e nulla di nuovo è sotto il sole.» Adesso il minuto che nasce mi sembra diverso da quello che muore; imperciocchè non credo più che cadano aridi e segregati come i grani della sabbia dell'orologio a polvere, ma ogni minuto porti seco tutta la esperienza dei secoli trapassati, e tutta la speranza dei secoli avvenire.
Nonostante, dei convertiti, alcuni non procedono affatto sinceri, e molti si rassomigliano agli antichi cristiani, i quali non sentendosi virtù per incontrare il martirio con atti esterni, acconsentivano ai riti dei pagani, ed agli altari dei Numi presentavano incensi, onde ebbero il nome di turificati. Questi romantici turificati profferiscono parole oblique, giudizi incerti, e quando rendono lode ai sommi nostri contemporanei, lo fanno [208] con un certo mal garbo, ed un non so che di amaro si mescola nella dolcezza della parola, che il biasimo a cui bene intende riescirebbe meno acerbo della lode. Nè questo avviene già per astio, per doppiezza di animo o per bassa voglia, ma sì per l'amore che l'uomo porta alle antiche abitudini, comunque sieno triste e gravose: imperciocchè la nostra natura ci persuada ad affezionarci alle cose in proporzione dei travagli, delle cure e dei dolori che ci costano; onde ben a proposito Byron ci racconta che il prigioniero di Chillon abbandonava il suo carcere con un sospiro...
Ma via, lasciamo i mezzi dell'arte; gli uomini alla fine intenderanno come diverse strade menino a Corinto, e come il bello non siasi esaurito nelle forme greca e latina, e come tutto in cotesta forma non sia bello; quello che grandemente importa si è, che anche intorno agli scopi dell'arte dura penosa discordia. Questa ricerca, più che non si crede, va congiunta con quella della forma; ed io considerandola separata esporrò come alcuni ammantarono la Musa di paludamento sacerdotale, sopra le palpebre le posero lacrime perenni, e su le labbra sospiri, nelle mani un turibolo, e la educarono a salmodiare, e la costrinsero a starsi genuflessa davanti una bara... Povera Musa! Ella sì gioconda e sì cara, assuefatta a increspare in compagnia di Zeffiro la superficie limpidissima dei laghi; ella che trascorreva sopra le rose senza piegarne le cime; ella che sfolgorava seduta sopra un raggio di sole; ella che amava tanto immergersi nel chiarore della luna... — ella col capo piegato su l'omero, le mani incrociate, mormora il De profundis, e dice: «Pazienza, pazienza: Dio diede, Dio tolse: sia fatta la volontà del Signore.»
Apollo tonsurato
Recita il canto fermo!
[209] Altri fra le chiome della Musa, una volta stillanti ambrosia, intrecciano le serpi di Tisifone, il petto le agitano co' furori delle Eumenidi, le armano il braccio co' flagelli di Nemesi. La Musa fatta Pitonessa si contorce e spuma sotto la forza del Dio che la invade, ed ora piange disperatamente, ora mugghia di sdegno, le divine e le terrene cose maledice, tutte le ceneri rimescola, tutti i sepolcri scoperchia, e giura che in coteste ceneri ha pur da trovarsi una favilla, che in qualche sepoltura le verrà pur fatto d'imbattersi nella sepolta viva, e dove mai la rinvenga non si ricrede per nessun segno di corruzione che la guasti; ma ecco, vedetela, le si accosta smaniosa, e la chiama a nome, e l'accarezza con dolce favella, e la invita a svegliarsi perchè l'ora è tarda, e le sue sorelle, che da gran tempo si posero in cammino, di lungo tratto la precorsero nel fatale sentiero. Quando poi vede tornarle vano il tanto affaticarsi, allora le caccia le mani entro i capelli, e la squassa e la trascina per la polvere, d'infami note la vitupera, la calpesta, la lacera, e vuol che viva, e purchè le possa dire: Surge et ambula, la Musa con pronte voglie partecipa l'avvoltoio, e le viscere eternamente divorate di Prometeo.
Uomini incliti per ingegno stanno da quella parte e da questa; ed io non so per quale influsso di stelle maligne, il numero abbondi piuttosto nella prima che nella seconda, e le tenere menti, incerte cui seguitare, si sgomentano. Vedeteli dubbi sopra la lingua, dubbi sopra mezzi dell'arte e sopra i fini dell'arte; nel crocicchio delle diverse vie si consumano a studiare qual sia la buona strada, e intanto perdono il vigore che li rende franchi a percorrerla. Per causa del timore d'incamminarsi male perdono le cause del cammino.
Nel romanzo storico più che altrove s'incontrano [210] discordanti i pareri. Un uomo, dell'amicizia del quale, onoranda Signora, ambedue noi andiamo superbi, e che tenghiamo in parte di fratello maggiore, sia per senno, sia per esperienza e per fama, dissente da noi sopra molti particolari relativi a questa maniera di composizioni. E prima di tutto disapprova la lingua, dacchè la prosa poetica a lui sembra cosa nuova e non bella. Davvero anche a me suona cosiffatta prosa oltre ogni credere fastidiosissima, quando viene adoperata a modo di tumida veste, per cuoprire la povertà dei concetti; e molti mi occorsero di quelli che uguali a Clitarco, ad Ansicrate, ad Egesia, e agli altri presi a dileggio da Dionisio Longino o da Dionigio di Alicarnasso, cui parendo essere invasi da divino ispiramento non danno in furore, ma in baie. Quel tumideggiare è pure la increscevole cosa, e sovente accade che mentre pensano toccare la cima del sublime, altro non fanno che gonfiare le gote, e dovrebbero sapere che Minerva gittava lontano da sè il flauto, vedendo come nel suonarlo le si gonfiassero le gote. Ma qui, come altrove, non bisogna apporre all'arte il vizio dell'uomo. Nel secolo passato i critici avevano bandito la crociata addosso ai versi sciolti in odio del Trissino, il quale non li seppe comporre se non se acquosi e sciapiti, e del Frugoni che li volle fare gonfi e vuoti, e del Cesarotti che li dettò fragorosi e ridondanti; e adesso, poichè Parini e Alfieri e Foscolo impressero loro evidenza, forza, concisione e vaghezza, chi negherà ch'essi costituiscano forma nobilissima di poesia? Io per me volentieri mi unisco a quelli che pensano non essere troppe le pieghe che si danno al bel manto della nostra favella, molto più che parmi breve la distanza che separa il verso sciolto dalla prosa poetica, avendo anche questa il suo ritmo e la sua armonia. E come io non credo punto la prosa poetica forma biasimevole, [211] così penso ancora non essere nuova. Molte prose dell'Alighieri ci compariscono dettate con metafore ardite e tropi e traslati che si addicono alla forma poetica, e le descrizioni che incominciano le giornate del Decamerone io non saprei ben distinguere qual forma si avessero, se con che la poetica per eccellenza. Nè qui cessano gli esempi: e se l'amore di brevità non mi dissuadesse, mi sarebbe agevole addurne altri dei vari secoli o tempi della nostra letteratura. Per le quali cose io pregherei che non si avesse a riprendere la prosa poetica, ma sì coloro che ne fanno tanto aspro governo.
Intorno poi alla sostanza, temono il romanzo storico di trista compagnia alla storia; credono che ne alteri la fisonomia, e paventano che uso com'è a mescere il vero col falso, per amore di una favola vana, non ci faccia smarrire il cammino che conduce alla utile verità: cosicchè la storia, solenne generatrice di politica e di filosofia, si avvezzi a fondare i suoi ragionamenti sopra immaginazioni bugiarde, e quindi trarre conseguenze fallaci, là dove meglio si manifesta la necessità del vero. Questa accusa non mi sembra ragionevole: prima di tutto perchè gli uomini gravi dando opera alla filosofia e alla politica non eserciteranno per certo la intelligenza loro sopra racconti o romanzi; e poi, senza che per me si adoperi quel linguaggio sibillino o piuttosto da sciarade, che mettono in uso i nostri critici saccenti per parere profondi, e ragionando così alla casalinga, io domando se i poemi epici e le tragedie e i drammi partoriscano tutti questi malanni? Se sì, io mi taccio, e do vinta la causa; se no, allora neanche il romanzo storico merita tanta accusa. Nè mi si apponga tra il poema epico e il romanzo correre divario grandissimo; imperciocchè questo potrebbe per avventura darsi in quanto alla dignità, ma non in quanto ai mezzi co' quali queste due [212] composizioni vengono condotte. Il romanzo storico come procede nella sua composizione? prende per argomento un fatto pubblico o privato; anima i personaggi che vi partecipano, dà loro moto, affetti, linguaggio, sembianza, e perfino vesti, quali essi ebbero veramente o poterono avere verosimilmente. Oreste, Agamennone, Clitennestra e Medea, io voglio che mi sappiate dire se favellassero, operassero e si trovassero ai casi per lo appunto come gli antichi o i moderni tragedi immaginarono. Chi è che lo sa? Chi lo può sapere? Noi crediamo che cotesti personaggi, di cui ci sono note soltanto le vicende supreme, in cotesto modo ragionassero; noi crediamo i casi esposti che condussero alla catastrofe finale, che noi conosciamo unicamente, in tale o in tale altro modo avvenissero; e quella favella e quei casi noi crediamo in Sofocle, in Eschilo, in Euripide, in Seneca, quantunque in Voltaire, in Alfieri, in Niccolini, in Ventignano noi li troviamo diversi.
Che se il romanziero entra nel regno della storia, come l'asino nei giuochi olimpici, scompigliando ogni cosa, la colpa è dello asino e non dell'arte.
Che se il romanziero si perde in troppo lunghe e fastidiose descrizioni di sembianze, di vesti e di luoghi, anche questo fastidio si attribuisca al poco ingegno dello scrittore e non dell'arte.
Che se il romanziero invece d'immaginare episodii e personaggi, i quali giovino a dimostrare meglio il fatto principale o renderlo più vario, più curioso e più bello, si proponga lo sviluppo di due azioni ugualmente principali, di cui una vera, l'altra fantastica, e divida in due la sua favola e guasti l'arte; — l'arte non ha colpa, e il vizio è dell'uomo.
E per di più vogliano considerare i discreti che al poeta drammatico soccorrono molti uomini e le arti loro, [213] mentre al romanziero tocca a formare i suoi personaggi cavandoseli dal cervello: egli ha da architettare le fabbriche, egli ornare le sale, egli dipingere boschi e cielo e stagioni e fiumi e navi; egli deve dare a bere, mangiare, dormire e vestire a tutte le creature della sua fantasia. Nei poemi epici ad ogni piè sospinto non c'imbattiamo noi in ipotiposi, prosopografie, similitudini, descrizioni e simili? ora dunque perchè siffatte cose saranno colà lodate, e biasimate nel romanzo? Nel romanzo poi s'insinua un altro elemento a renderlo più completo, ed è il buono umore per chi sa esporlo. Questo elemento rigettano da sè sdegnosamente i poemi epici e la tragedia, come idalghi spagnuoli paurosi di contaminare la nobiltà del loro sangue; lo accolgono invece come anima i poemi eroicomici. Il romanzo e i drammi ricevono il buono umore non come forma esclusiva, nè lo rigettano come plebeo, imperciocchè queste due composizioni non aderiscano a forma prefinita, ma si modellino sopra la vita umana. Il romanziero, in certo modo, è panteista: tutto reputa buono e dicevole, purchè sia in natura; e se rincresce, colpa è di quelli che lo adoperano con mal garbo. Egli ritratta gli uomini quali vivono e sentono, e non quali li ha fatti l'arte con certe sue regole statuarie. E se alcuno dicesse: ma a che giova la descrizione del grottesco, del tristo, e dello scellerato? A che giova? giova a farvi conoscere la umanità; giova a farvi conoscere le malattie che la travagliano, onde si possano con opportuni rimedii curarle. E badate bene a quello che io dico: se le lettere devono tornare utili agli uomini, devono ancora coraggiosamente imprendere tutto quanto è capace a partorire un simile effetto, e non ispaventarsi a perdere un poco di lindezza, e trattare ulcere e piaghe; se poi vogliono durare o diventare cose da museo, impagliate e messe [214] in iscaffali, si ostinino a riprodurre una formula consumata. La formula deve sempre contenere le passioni e la sapienza dei tempi; quando i tempi superano i confini, allora conviene dilatarla; — ed oggi le passioni e le smanie del sapere mi paiono immense.
Ma qui mi fermo, perchè mi sento sospingere verso quei nuvoli ragionatori che io tanto aborro, e non mi voglio avviluppare senza filo pei laberinti dei ragionamenti e non ragionamenti, considerazioni e limitazioni, restrizioni, ampliazioni di tutti coloro che io battezzerei per legislatori delle cose di questo mondo e di quell'altro con lo inchiostro in cui tuffano la penna. E poi mi fermo, perchè chi fa orologi deve badare che le lancette segnino l'ora giusta senza arrovellarsi a dire quali e quante ruote egli adopri. Le prefazioni all'opere d'immaginazione mi paiono paracadute, come troppo spesso le opere a cui vanno aggiunte sono palloni volanti. E così parodiando, servatis servandis, la risposta di Scipione accusato di peculato, mi fosse concesso esclamare: «Invece di perdere tempo a confutare le oziosità di coloro che si affibbiano la giornea di critici, perchè scrittori non possono nè sanno essere, andiamo a dettare una qualche bella storia o a immaginare un romanzo!»
Ora venendo a ragionare un pocolino di me, ma prestamente, e con quella velocità con la quale toccando a caso un tizzo infuocato ritiriamo la mano, dirò che non reputo cosa giusta avermi classato, siccome hanno fatto capo coda, fra i desolatori del genere umano. Prima di tutto il genere umano ha bene altro a pensare che tenere dietro alle mie povere fantasie, nè egli vorrebbe dare del capo nei muri per tanta piccola cosa come sono le mie parole; e finalmente perchè l'accusa mi sembra falsa del tutto.
Quando vogliamo giudicare un libro, giustizia impone [215] che l'esame deva fondarsi sopra il suo insieme, non già sopra una qualche parte staccata; più ancora, nei componimenti drammatici non bisogna credere che le parole poste sopra i labbri di un personaggio contengano la espressione della fede dello scrittore. Questo sarebbe errore a un punto, e ingiustizia. L'anima umana precede più spesso che noi non supponiamo per via di contrasto; e dal vagheggiare che uomo faccia di tristi spettacoli, anzichè trarre la conseguenza di feroce talento, bene spesso si dilunga meno dal vero colui che pensa derivare simile disposizione dalla veemente impressione che gli atti di ferocia o di perfidia fecero sopra un'anima troppo sensibile, e viceversa: così la storia della letteratura ci narra come Bernardino di Saint-Pierre, tanto tenero scrittore, fosse uomo acerbo anzi che no, e Anna Radcliffe e Mathurin, immaginatori di orribili cose, ingegni miti e piacevoli.
Crebillon, quel truce compositore di tragedie, fu tenerissimo alla moglie e la pianse vedovo sconsolato per ben cinquant'anni... Non vi pare ella cosa, più che mortal, quasi divina piangere cinquant'anni la consorte defunta! E tanto abbondò in Crebillon il tesoro di amore, che dopo averlo sparso a piene mani sopra la famiglia, i parenti e gli amici, gliene avanzando pur sempre, lo prodigava ai cani e ai gatti. I cani e gatti in casa del Tragedo furono più numerosi dei personaggi nelle sue tragedie, imperciocchè si narra ch'egli non ne ospitasse mai meno di una ventina; e il dabbene uomo andava a raccoglierli per le vie, nel proprio mantello li avviluppava per ischermirli dal freddo, e con tanta carità li custodiva, che poco più poteva adoperarne San Vincenzo di Paola ai pargoli ridotti a miseria uguale. — Un moderno scrittore di Francia, celebre pei suoi terribili drammi (capaci da fare sconciare le donne incinte), tale [216] fu visto usare amorosa cura verso la sua dama, che venuto espressamente in Italia per fare acquisto d'impressioni, giunto a Pisa, dichiarò non potere andare più avanti, i fati costringerlo a tornarsene in Francia, perchè la sua Signora più che non potesse sopportare si trovava molestata dalle zanzare! — E questo fatto io lo assicuro per vero, perchè lo so di certo; e lo so di certo, perchè me lo diceva quel molto terribile compositore di drammi; — e tanto basti.
Io ho creduto e credo che la Provvidenza abbia stabilito che l'uomo non deva essere mai lieto per delitto, e che nè senno, nè prestanza, nè splendore di trono, nè santità di scopo varranno a rendere accetto il colpevole a Dio. La fatalità gli si avvinghia alla vita come i serpenti di Laocoonte: ogni cosa ch'ei tocchi si appassisce; ogni fortuna che a lui si aggiunge precipita; ogni esistenza rovina. L'offerta di Caino, si componga pure delle più pingui spighe del campo, sarà maledetta: — e questo mio concetto io manifestava scrivendo la Battaglia di Benevento.
A me parve che i popoli, i quali fecero getto della propria virtù, meritino i flagelli di cui la Provvidenza li percuote; ma che non sia sotto simile pretesto concesso al cittadino fuggire travaglio in benefizio del suo paese; e che se adoperarsi per la patria quando sorge grande e avventurosa, frutta gloria, la carità dei suoi, condotti in fondo della miseria, sia degna di venerazione e tanto più luminosa; aspetta questi incliti spiriti una corona nei cieli quanto più loro mancava ogni premio terreno: — e questo mio concetto manifestava scrivendo l'Assedio di Firenze.
E trapassando alle domestiche storie, i talami macchiati repugnante il coniuge, e con infamia maggiore lui consenziente, funestissimo seme di fatti sovversivi l'umano [217] consorzio; e mi studiai con intento più efficace di quello che persuade Tantalo nell'Eneide ad ammonire i dannati ad esclamare a mia posta: Discite justitiam moniti.... — E questo concetto io manifestava scrivendo la Veronica Cybo e la Isabella Orsini.
Altre più cose credo non disperanti ma severe, e così Dio mi assentisse il senno come mi dava il cuore di manifestarle, strappando dalla piaga le bende che vi fasciarono attorno la ipocrisia e la viltà, senza curarmi delle strida del dolore o delle imprecazioni dei malvagi, affinchè gli uomini imparassero a medicare, non a dissimulare le piaghe.
Ma ormai fia a me più bello cessare che proseguire. Il tema è lungo, nè i tempi corrono propizi ai Geremia. Ella, rispettabile Signora, di spirito mansueta e di ogni soave consiglio sostenitrice tenerissima, non partecipa interi i miei sentimenti: io lo so, nè me ne adonto. Sia dubbio od ossequio, io assai propendo a rispettare le convinzioni altrui. Tristano Shandy, racconta Lorenzo Sterne, non volle uccidere neppure la mosca che lo infastidiva, ma, chiusa la finestra, la cacciò via dicendo: «Va, creatura, il mondo è largo assai per bastare a noi due senza darci molestia.» — Pensi un po' V.S. con quanto maggiore obbligo noi dobbiamo comportarci egualmente per le opinioni degli uomini che non occupano spazio, e si spandono per un mondo senza confine.
Ma se per avventura io non posso sperare la sua adesione intera ai miei sentimenti, io, mercè sua, confido che mi vorrà conservare intera la sua benevolenza.
[219]
Et olim meminisse iuvabit.
Æneid.
..... Talleyrand, che morì principe di Benevento, uomo non punto volgare, ma levato certamente a cielo assai più che per avventura non comportavano li meriti suoi, soleva dire: in politica occorrere fatti molto peggiori dei tristi, ed essere gli stolti. — Io per me credo lo stolto in politica essere il tristo, e viceversa, e di questo ogni uomo si renderà di leggieri persuaso, quante volte cercando per le storie conosca, come la gagliarda politica non possa andare disgiunta mai nel governo dei popoli dalla sana morale.
E dove la rettitudine avesse a fruttare danni ai Governi che la praticano, e la fraude vantaggi, questa sarebbe la maledizione più dura che mai si fosse aggravata sopra il genere umano. Potremmo allora smentire apertamente la parola sacra, che ci assicura del patto di alleanza eterno tra il cielo e la terra!
Ma come piace a Dio, procede assai diversa la cosa: chi dicesse la morale e la politica starsene insieme [220] unite come due sorelle di amore, direbbe poco; imperciocchè le si abbiano a considerare a modo di due elementi necessari a comporre una medesima sostanza. E quel divino spirito di Focione annunziava una verità, che il Creatore stesso avrebbe potuto rivelare, allorquando persuadeva a Nicocle ateniese, morale e politica essere una medesima cosa nel mondo.[23]
Non pertanto, meditando attorno l'epoche diverse della vita dei popoli, qualche volta non apparisce vera del tutto la proposizione esposta qui sopra.
Poichè la vita dei popoli, come quella degli uomini, conosce la infanzia e la decrepitezza e la infermità, così avviene talora, che lo Stato abbisogni di partiti estremi, i quali non formano il suo modo naturale di esistenza; in quella guisa medesima che il medicamento non compone il cibo dell'uomo. Legge suprema degli Stati è vivere. Si fas est rumpere leges, in questo caso lice. Senza colpa si varca il Rubicone. Misericordia e giustizia assolvono il fatto, quale e' si sia, che preserva la patria dagli estremi destini.
Dunque nella vita dei popoli occorrono giorni nei quali può stare velato il venerando simulacro della virtù; altri nei quali torna pericolosamente dubbioso o rammentarla troppo, o troppo dimenticarla, altri (e questi sono i gloriosi) in cui qualunque via che torca dal retto cammino conduce a sicurissimo esizio.
La esordiente società romana abbisognava di nozze; non le concedendo i vicini, i Romani rapiscono le donne. In cotesti tempi i patti paiono insidie, e sono. La figlia di Tarpeio domanda in premio della rocca tradita quello che usano i Sabini intorno al braccio sinistro: essi invece di monili precipitano sopra la sciagurata gli scudi, e la uccidono.[24] Allora gli Ardeati e gli Aricini [221] compromettono nei Romani la lite di un campo, e i Romani giudici, per sentenza usurpano il campo. Gli uomini consolari vanno indarno esclamando: «troppo maggiore essere la ingiuria alla buona rinomanza e alla fede, che il beneficio del campo usurpato. Che cosa mai riferirebbero a casa i legati? Quali parole andranno essi spargendo? Questo gli alleati udiranno, questo i nemici, e con quanta inestimabile amarezza i primi, con quanto grande esultanza i secondi?»[25] Voci perdute! Il bisogno, persuasore orribile di mali, preme più urgente assai che il desiderio della bella fama, e Scaprio, uomo plebeo, promotore della rapina, prevale. Ai costumi rispondono le leggi. Il disposto delle dodici tavole, secondo quanto Cicerone referisce, piuttostochè reprimere, favoriva le fraudi.[26]
Ed esempi di necessità a rompere le leggi della morale, sono in tempi più recenti le stragi degli Sterlizzi, quelle dei Mamelucchi, le altre dei Giannizzeri, e forse le giornate del Settembre dai Convenzionali di Francia consentite, o volute; — e sopra tutto (imperciocchè con maggior agio ragionisi dei casi alquanto dai moderni nostri discosti) i modi tenuti dal duca Valentino in Romagna.
La fama di costui intristisce con i tempi. Morto povero, lontano dal trono, spenta la sua famiglia, esecrato per costume da tutti, perchè dovrebbero affaticarsi gli scrittori a rivendicarne il nome? E non pertanto ai tempi di lui le terre d'Italia erano tutte piene di tiranni senza cuore e senza intelletto, lupi contenti di un brano sanguinoso, non già lioni cupidi di magnanima preda; sicchè i popoli e la terra stessa andavano di giorno in giorno dileguandosi dentro ai sepolcri: nessuna cosa venerata, o santa; nessuna legge rispettata o temuta: ogni vincolo sciolto, e la repubblica [222] declinante a Sterminio inevitabile. Il Borgia (e lasciamo dire la gente) accolse un concetto rigeneratore: forse egli adoperò mezzi alla propria sua indole consentanei, ma certamente quali le condizioni dei tempi volevano. L'esito non potè giustificare il principio: se fosse giunto a completare il suo sillogismo di sangue, gli uomini lo avrebbero salutato ottimo, massimo. Ahimè! pur troppo che la stirpe nostra infelicissima qualche volta giunge a tale, che a redimerla nulla giova, tranne il sacrifizio di sangue! Al Valentino essendo mancata la fortuna, il comodo che doveva uscire dall'edificio finito non potè fare sì che andassero in oblio le prime pietre destinate a starsi sepolte nei fondamenti per sempre. È una gran croce quella che grava le spalle dei riformatori dei popoli! Trono o patibolo, laude od infamia, inferno o paradiso. E se alcuno stupido o protervo negasse la fortuna, io vorrei dirgli: «Chinati a quella forza indomata, arcana e feroce, alla quale, non che altri, Silla e Mario sagrificarono.»[27]
Rammentansi essi le immanità di Augusto, di Carlomagno, e di Pietro il Grande? Il manto imperiale di Napoleone ricuopre solamente splendidi gesti? Maometto Alì, uomo del quale sebbene la Europa stesse in aspettazione grandissima, e superiore alla forza e intelligenza sue, pure dimostrava intendere le ragioni degli stati e degli uomini assai argutamente, al principe Muskau, che confortavalo a dettare le Memorie della sua vita, quando con molto senno rispose: «Io nol farò, e desidero che altri nol faccia, perchè dovrebbero tacersi tutte quelle epoche della mia vita, che pure sono le più lunghe, nelle quali, debole e povero, mi era forza appigliarmi a non generosi partiti.»
Quanti uomini che fama hanno di grandi, come il Gigante delle tempeste di Camoens, dalla cintola in [223] giù voglionsi lasciare immersi nell'abisso! Basta che tocchino il cielo col capo. Se male non mi sovviene, Esiodo immagina che i primitivi Dei derivassero dall'Erebo e dalla Notte. A Carlo, a Pietro, a Napoleone, e ad altri magni concessero i fati anni sufficienti e potenza a esporre nella massima parte, o intero, il concepito disegno. Nessuno poi è tra loro, che interrotto nei primordi della vita non avesse lasciato fama più trista di Cesare Borgia, a cui popoli benevolenti rimasero per lungo tempo fedeli, a cui fu traditore Consalvo chiamato il grande, a cui similmente fu amica la bella morte incontrata mentre combatteva da prode uomo in battaglia.
Tito Livio nel nono delle Storie ci somministra esempio della seconda epoca, nella quale il destino dei popoli sembra pendere incerto tra la magnificenza e la ferocia. Veturio Calvino e Spurio Postumio, conducendo lo esercito contro a Luceria, lo avventurano entro le forche caudine. I Sanniti lo circondarono, ma non sapendo in qual modo dovessero usare della vittoria, spedirono per consiglio a Erennio Ponzio, uomo grave di anni e di sapienza preclaro. Udito il caso, egli risponde: «lascinsi andare.» — Non talentando il consiglio, si rimandano ambasciatori a consultarlo, ed egli per questa volta li accommiata dicendo: «uccidansi tutti.» I Sanniti, considerata la discrepanza dei pareri, rimasero su quel subito di avviso che, come il corpo, lo spirito fosse ad Erennio diventato per decrepitezza imbecille, ma poi non si potendo persuadere che tanto lume di senno fosse così ad un tratto venuto meno, lo fecero condurre sopra un carro al campo, ove gli domandarono ragione delle contrarie sentenze; la quale egli addusse con sapienza ammirabile: «Buono parmi che fosse il consiglio di spegnere i Romani, imperciocchè [224] distrutti due fioritissimi eserciti, essi torneranno nella pristina debolezza, donde voi v'ingegnerete a non lasciarli più uscire; e buono era anche l'altro, che liberi si rimandassero, dacchè il benefizio insigne vi farà eternamente amico un popolo potentissimo.» Ed insistendo i capi dell'esercito per sapere se tra questi due estremi gli sovvenisse qualche provvedimento mezzano, riprese: «Qualunque altro diverso da questi non toglie nemici, e non procura amici.»
Ma il corso della vita dei popoli continua pei secoli: per correre acqua migliore si alzano le vele; la crisalide si fa farfalla; cessano i giorni che l'uomo o i popoli tengono comuni coi bruti; incomincia la epoca morale, o la necessità inclita della grandezza. Non de solo pane vivit homo, predicò Gesù Cristo; bene non vive la gente sodisfacendo ai soli materiali bisogni: esiste in lei un altro spirito vitale, che abbisogna del nudrimento di amore, di fede e di gloria. La carriera dei popoli sopra la terra procede in questo periodo maestosa come quella del sole in mezzo ai cieli. Tutto adesso è grande, uomini e cose: le leggi severe, la dottrina di Zenone presiede ai contratti, i giudici professano la filosofia stoica,[28] non la cinica, non la cirenaica,[29] non la scettica, o come spesso avviene, tutte e tre insieme praticamente, non già per teorica, che a loro è ignota perfino la scienza del vizio e dell'errore. I detti, i gesti, i monumenti e i volti spirano religiosa reverenza, e quando la lingua, nella quale furono favellati quei detti, non suonerà più sopra le labbra degli uomini, e di quei gesti perverrà un eco lontano alle tue orecchie, dalle rovine stesse sorgerà una voce, che li empirà di spavento, oh anima squallida dei giorni che corrono! Allora Cammillo respinge legato ai Falisci [225] il pedagogo traditore; allora Cammillo bandito accorre in aiuto della patria prostrata, e giunge quando Brenno gitta la spada dentro la bilancia gridando: Guai ai vinti! e fa provargli intera l'acerbità della minaccia troppo presto volata dalle barbare labbra. Regolo viene a Roma per confermare la patria nella guerra contro Cartagine, e stretto dalla religione del giuramento, torna al supplizio. Carlo Zeno tratto dalla carcere perchè vinca i nemici, salva la patria, e si riconduce a prendere i ceppi in Venezia.[30] Allora, perchè più a lungo non mi diffonda nella narrazione di fatti, i quali pure si accostano soavemente al cuore dell'uomo, vivono i personaggi che fanno esaltare gli egregi nepoti, e lieti della letizia che animò Correggio all'aspetto dei dipinti di Raffaello, esclamare: «Anch'io sono uomo!»
Ma il retaggio di sapienza e di gloria pesa sopra le spalle dei popoli. Guai a loro se per un solo momento diventano immemori dell'ardua dignità! O sia che scadano alquanto dalla consueta virtù, o sia che infastidendo il vero vi sostituiscano l'esagerato e il bugiardo, uguali danni li attendono. Quanto l'uomo impiega nella esagerazione, altrettanto toglie alla sostanza. Se desideri avere la misura del falso, fa conto di ragguagliarla sopra quanto vedi ostentare oltre al confine del vero; e questa sentenza ti giova, o lettore, a conoscere la virtù mentita di cui oggi ha copia quasi incredibile nel mondo.
Ed io amo allargarmi alquanto sopra siffatta materia, imperciocchè davvero la cosa di per se stessa lo merita, e le nuove e le antiche ipocrisie si vogliono flagellare senza intermissione, come senza pietà. Quando Roma precipita in fatali rovine, ecco Seneca filosofo spingere oltre il possibile la dottrina di Zenone. Non date fede allo ipocrita. Seneca stoico lauda la maritale [226] illibatezza, e adultera poi con Agrippina, e con Giulia figlia di Germanico. Seneca dispregia le dovizie, e per le immani sue usure cagiona la ribellione della Brettagna, e la morte di ottantamila Romani. Seneca aborre gli agi, e possiede tre milioni di sesterzj, e cinquecento tripodi di legno cedro co' piedi di avorio. La umanità sembra poca pei tesori dell'amore di Seneca, e Seneca, roso dalla invidia, calunnia e perseguita i migliori di lui: egli odia la menzogna, e compone panegirici a Claudio imperatore, poi lo vitupera morto, e scrive al senato l'apologia del parricidio di Nerone! Che più? Seneca non cura la vita, e Seneca piagnoloso offre a Nerone tutte le sue ricchezze per riscattare pochi giorni, ed infami. Nerone prende il tesoro, e gl'impone la morte; e Seneca allora, dacchè gli è forza incontrare il fato supremo, muore non come un filosofo, ma come uno istrione, e desidera a conforto della scenica agonia il fragore del plauso.[31] E noi pure abbiamo i Senechi nostri, e moltissimi, e non meno pravi, ma degli antichi più nani, e miserabili assai.
Considerate all'opposto Papiniano, avvocato!... sì in verità, io vi dico avvocato, ma di cotesti avvocati Natura fece e poi ruppe la stampa: non protervo petulante, ma semplice di modi e di parole, risponde a Caracalla che gl'impone escusare in Senato la strage fraterna: — non poterlo fare. — E quel feroce, a cui il sangue del tradito pesava forte su l'anima, instando veemente, egli senza punto turbarsi soggiunge: — molto più agevole cosa essere commettere, che scolpare il fratricidio. — Nè con semplicità e costanza punto minori il visconte di Orte scrisse a Carlo IX che gl'imponeva trucidasse gli Ugonotti di Baiona: — Sire, tra i cittadini e gli uomini di arme mi è venuto fatto incontrare cittadini dabbene, e soldati valorosissimi, ma non un [227] carnefice; per la qual cosa eglino ed io supplichiamo la Maestà vostra a impiegare le braccia e vite nostre in cose che le si possano fare. — Montesquieu, interprete degno di tanta grandezza, osserva: — questo grande e generoso coraggio considerava impossibile una viltà.[32] Per onore della stirpe umana vuolsi aggiungere come d'Orte non fosse solo a operare il fatto magnanimo, e la Storia memore ricorda ancora Montmorin. Uomini, a chi ben considera, non pure da uguagliarsi, ma da preporsi agli antichi, avvegnadio dovessero questa fortezza ricavare dall'animo proprio, mantenuto sano nel mezzo alla peste degli esempi pessimi, mentre gli antichi a cagione del costume, della educazione e di quanto insomma costituisce il vivere civile, fossero a bene operare quasi condotti per mano. Gli austeri intelletti si palesano naturalmente senza artifizio. Chi si fa banditore della propria virtù dimostra temere, e quindi non meritarsi che altri favellino con lode di lui. Gli uomini, generalmente, molto si sentono inclinati ad ostentare quello che non hanno, e più tenaci afferrano le cose che più sfuggono da loro. I falsi e gl'ipocriti urge il bisogno per simulare il contrario di quello che sono; la virtù vera scaturisce dal cuore, come polla di acqua viva: suo scopo è la grandezza, la semplicità la formula. — E poichè i falsi intellettuali corrispondono ai fisici, tu vedi le donne pallide dipingersi il volto di vermiglio. Montaigne ci racconta come un solenne magistrato essendosi condotto a visitare un capitano, gli favellasse sempre di saracinesche, mezze-lune, false brache, controscarpe ed altre opere della fortificazione, di cui egli non intendeva niente, e il capitano era peritissimo, invece di tenere proposito di costumanze e di leggi in cui meritamente godeva fama distinta.[33] La corruttela, decadendo l'impero romano, assunse lo stoicismo [228] come maschera, la tirannide la prese in parola, ed irridendo lo sottopose ad esperienza di sangue.
Adesso mi prende vaghezza di raccontare un fatto, il quale siccome conferma mirabilmente le proposizioni enunciate, così ancora è fecondo di applicazioni efficaci. Sagunto, città alleata di Roma, si era mostrata in certa occasione infestissima ai Cartaginesi, i quali avendola presa in odio, le mossero guerra, e di aspro assedio la strinsero. I Saguntini ricorrendo per soccorso ai Romani, i mali orribili ai quali si trovano condotti riferiscono, la religione dell'amicizia e la santità dei patti invocano, Roma difendersi in Sagunto dimostrano; e tutto invano. I Romani (secondo narra la fama che per tre giorni agli Abderitani avvenisse) erano ebbri: non gli ascoltarono; immemori della consueta maestà, i concetti generosi obbliando, o sprezzando, dentro un infelice cerchio d'interesse momentaneo si costringono, si chiudono la porta del futuro, e con una parola miserabile l'arbore glorioso e trionfale, educato dal senno e dalla virtù degl'incliti capitani, sterilendo esclamarono: — l'oro e il sangue romani sono per Roma!
Otto mesi interi l'assedio di Sagunto durava, quindi nella lunga agonia abbandonata periva. La morte rese immobili le labbra dei Saguntini, e non pertanto con bene altra voce che questa nostra non suona, i sepolcri proclamarono al mondo la infamia di Roma.
Però presso i Romani non si trovò nessuno il quale o tanto amasse la perfidia, o tanto procedesse nemico al pudore, che asceso sopra i rostri così annunziasse la rovina della infelice città: — Quiriti, la pace regna in Sagunto!
E la pena in breve tenne dietro alla colpa. Prostrata Sagunto, ecco i Cartaginesi si apparecchiano a invadere la Italia. I Romani pensosi per tanto turbine [229] di guerra mandano ambasciatori in Cartagine, fra quali Q. Fabio, a provvedere alla salute della patria. Le blande proposte provocavano superbe risposte; dichiarata la guerra, gli ambasciatori si conducono nella Spagna allo scopo di tenere bene edificati quei popoli, le alleanze antiche confermare, procurarne delle nuove, dare ad intendere comune nemico essere i Cartaginesi, e come tale si unissero ai Romani per combatterlo. Furono da per tutto ributtati, e dai Seniori dei Volsci in ispecie alla presenza del senato così duramente ripresi: «Quale insania, quale impudenza sono elleno queste vostre, o Romani, che osiate richiederci, affinchè noi alla amicizia cartaginese preponiamo la vostra? Chi più si mostrò infesto ai Saguntini; i Cartaginesi, o voi altri? Costoro li sterminarono avversi, voi li tradiste benevoli. Andate, e fatevi a cercare alleati là dove non sia giunta notizia della saguntina strage.»[34]
Quindi Annibale scese in Italia, e quindi Ticino, e Trebbia, e Trasimeno, e Canne: — spaventevole espiazione!
I Romani espiarono la colpa, e fecero senno. D'ora in poi, non che gli amici e i confederati sovvenissero, gli stessi popoli vinti con ogni maniera di blandizie tennero bene affetti; anzi conoscendo come sovente la ingiuria nell'onore, nella vanità aspreggi più il sangue, che quella fatta nelle sostanze, avendo avuto bisogno nell'ultima guerra punica, in difetto di uomini liberi, di schiavi, a istigazione di Tiberio Gracco mossero una legge con la quale ordinarono pena del capo contro qualunque rimproverasse loro la Servitù.[35] Arti romane erano dettare leggi ai popoli.[36] Romani esercizi vincere i superbi, e perdonare ai vinti. Ufficio romano disciplinare a ordinato vivere civile i popoli volenti.[37] Non solo i popoli [230] del mondo, ma gli Dei stessi si riparavano all'ombra del Campidoglio e del Panteon. Simbolo della maestà romana diventarono a ragione i fasti consolari: un cumulo di verghe costrette di lacci tenaci, e Roma nel mezzo, sotto forma di scure, pronta alla difesa, alla offesa terribile. — Così i Romani con sapienza e giustizia, meglio che con le armi, dominarono l'universo, e quando nel giorno della sventura ebbero mestiero del sangue e degli averi dei confederati, chiesero con fiducia soccorso, e con agevolezza l'ottennero, non più temerono le sdegnose parole dei Volsci, e non invano sperarono che le placate ombre dei Saguntini non irrompessero dagli aperti sepolcri gridando: «Guardatevi dai traditori!»
Certo non forma argomento di questo breve discorso la esposizione delle cause per cui Roma, dalla più sublime magnificenza alla quale Dio concedesse mai ad una generazione di uomini pervenire, decadesse in fatali rovine. Gibbon e Montesquieu lo hanno già fatto. Ma in pochissimo stringendo il molto, basti allo scopo nostro affermare, che la ingiustizia, la ipocrisia, la rapina, le fedi rotte, i codardi abbandoni, il patteggiare co' barbari, la viltà, i vizi, e le infamie pubbliche e domestiche, condussero l'impero Romano a condizione sì estrema, che supera qualunque lutto.
Corrotti i costumi, a nulla valsero le leggi, che senza quelli possono assomigliarsi a flauti senza sonatore; splendide di saviezza furono le costituzioni di Nerone, di Domiziano, di Comodo, di Eliogabalo, di Caracalla e degli altri bruti, piuttosto che imperatori, come scrive Giuliano nei Cesari,[38] e la giustizia agonizzante periva. E in quella guisa, secondo la sentenza di un filosofo antico, che la copia delle medicine e la frequenza dei medici danno manifesto indizio di molte [231] e gravi malattie, così la moltiplicità delle leggi indica gli ordini civili guasti profondamente.[39] — E mancata la prestanza militare, alla quale compartivano i Romani per antonomasia il titolo di virtù, a nulla valsero le fortezze. Le fortificazioni del Reno con tanto studio innalzate dall'imperatore Valentiniano non contennero gli Alamanni irrompenti, nè i Quadi quelle del Danubio. Disprezzate o prostrate le muraglie costruite nell'Armenia, Cosroe potò minacciare Costantinopoli. Il passo delle Termopili, difeso dal codardo Geronzio, non trattiene un momento Alarico e i suoi Goti: meglio era lasciarlo vuoto, chè la memoria dell'estinto Leonida sarebbe stata più temuta assai che la presenza del capitano di Arcadio. Le fortezze senza coraggio si assomigliano alle spade poste per decorazione sopra i catafalchi dei soldati nel giorno dell'esequie. Non fosse, non muro, non bastita mai gioveranno tanto alla salute del popolo, come il sentimento che pose in bocca degli Spartani (ai quali per istatuto di Licurgo era vietato circondarsi di mura) queste parole, allorchè Pirro assaltò l'aperta patria loro con 25,000 fanti, 2000 cavalli, e 24 elefanti: «Se tu sei un Dio, non angustierai quelli che non ti offesero: uomo, avanzati, troverai uomini pari a te stesso.»[40]
E nessuno dei popoli che vissero, o vivranno nei secoli, sia tanto, non dirò superbo, ma stupido, che voglia paragonarsi ai Romani. La mano romana non irrigidiva nella Scizia per gelo, nè per calore si prostrava nell'Affrica. A noi una frazione dell'antica Numidia arde i guanti, e scotta le mani; poniamola giù via, lasciamo andare una provincia che Cesare avrebbe donato maggiore a qualche suo famigliare! Ma che dico io maggiore? Cesare si offriva pronto a donare a M. Ofrio raccomandato di Cicerone tutto quel paese che [232] oggi si nomina Francia, protestando, che se altri amici aveva a raccomandargli, a lui non sarebbero venuti meno i regni da elargire[41]I Romani, quasi in sollievo dei brevi ozi, gittano ponti sopra il Danubio, che tuttora rimangono; tra il Clyde e la Twede fabbricano muraglie in Brettagna, nelle sabbie infocate dell'Affrica costruiscono strade, per le quali noi pure oggi passiamo, intorno alle quali noi spenderemo dieci anni a rassettarle, per vederle tornate guaste tra cinque. I giuochi stessi di cui occupiamo l'efemeridi nostre, le splendidezze e le magnificenze sono trastulli da infanti a paragone delle romane. Un giullare americano ci empie di maraviglia scherzando co' lioni, e Marc'Antonio percorreva Roma sopra un carro tirato da questi medesimi animali, Eliogabalo da tigri. — Lucio Metello 142 elefanti, M. Scauro 150 tigri, Silla 100 lioni, Pompeo 410 tigri, 500 lioni, elefanti, ed altre assai belve, Augusto 36 coccodrilli, Tito nella dedicazione del Colosseo 500, o, come Dione Cassio assicura, 9000 fiere gittavano a straziarsi nei circhi per diletto del popolo. Cesare lastricò il gran circo di argento, Eliogabalo lo sparse di polvere di oro. I teatri erano capaci di 150,000, e perfino di 485,000 persone.[42] Eh via! lasciamo degli antichi Romani; noi altre squallide anime dei popoli moderni, loquaci, presuntuose, infingarde, buone insomma a nulla, assomigliamo a quei magnanimi trapassati come una lumaca a un cavallo di battaglia.
Ma quando la virtù non fece perdonare altramente la potenza, e il diritto dei Quiriti, esteso da Giustiniano alle Provincie, non fu ampiezza di onore, ma comunione odiosa di viltà e di tributo; quando i popoli soggetti videro le mani romane spiegate sempre alle rapine, e non più strette al brando, e come gregge si trovarono venduti in prezzo di paci infami; quando [233] finalmente, dimenticati i magnifici concetti della repubblica, prevalse la turpitudine dell'impero, allora quel così tanto stimato nome romano, a caro prezzo perfino una volta comprato, non pure si repudiava e fuggiva, ma con orrore si abbominava.[43]
Venite, e vedete se mai fu pena eguale a quella dell'impero romano. Dalle più remote regioni si mossero popoli, quasi ad un convegno di vendetta, per istraziare le membra d'Italia, ed erano di quei popoli che Mario atterriva con solo uno sguardo. Qui si riunirono genti nate fra i geli della Scizia e gli ardori dell'Arabia per depositarci sul capo un tributo di obbrobrio, nella guisa che costumavano di fare gli antichi Greci sopra la vittima espiatoria destinata ad essere lanciata negli abissi del mare.[44] Da ora in poi gli sfregi sopra la faccia compongono gli annali di Roma. Di lei non avanza neppure la rovina: naturali e stranieri congiunsero le mani per seppellirne perfino la tomba; imperciocchè la tomba medesima era argomento di troppa vergogna pei primi, di troppo terrore ai secondi.[45] Per grado estremo di decadenza, il nome romano stette a denotare pei barbari quanto di più abietto è mai dato d'immaginare: «Noi altri Longobardi, scrive Liutprando, vescovo di Cremona, legato dell'imperatore Ottone, allora quando presi da sdegno vogliamo offendere un nostro nemico con qualche grandissima ingiuria, non sappiamo immaginarne altra maggiore di quella, che chiamarlo Romano.»[46]
La caduta delle foglie d'autunno, l'arena travolta dal turbine, la nebbia dileguata dal sole, la spuma del mare dietro nave che passa, il fumo nell'aria, lo strascinare del serpe sopra il granito, formano materia malinconica ad altrettanti paragoni per denotare la traccia dei popoli nel seno del tempo, come lo potrebbero del [234] pari per accennare la traccia del tempo nel seno della eternità. E nonostante, una rovina così profonda duole al nemico stesso; imperciocchè l'odio non vorrebbe togliere il sentimento della vergogna e del dolore. Queste sono le piaghe Che Annibale, non che altri, farian pio.[47]
E la misura della vendetta non sembra anche colma. Popoli civili non ci hanno calpestato meno duramente dei barbari. Filosofi e poeti di alto intelletto ci oltraggiarono di contumelie non meno acerbe di quelle che Longobardi o Goti profferissero. Se essi abbassarono lo sguardo nel calice che la Provvidenza ci destinava a trangugiare, già non lo fecero mossi dal pietoso pensiero di vedere se approssimavasi al fine, e dirci poi: «Fa cuore, fratello, egli è finito!» nemmeno per temperarne l'amaro con qualche dolcezza di affetto; all'opposto per riempircelo sempre di aceto e di fiele, per aggiungervi assenzio. — Se hanno steso la mano alla corona del dolore, è stato per conficcarci le spine più addentro nel cranio. Se posero il dito nelle nostre ferite, non fu per lenirle di olio e di vino, come il Samaritano, sibbene per invelenarle coll'arsenico. — Se ci tennero dietro in questa lunga giornata di secoli a vederci portare la croce, nol fecero per soccorrerci a modo del Cireneo, ma per respingerci dall'ombra se vi cercavamo un refrigerio al capo che ardeva, per contendere una stilla di acqua alle labbra febbrili, siccome corre fama che facesse a Cristo Aasvero il giudeo errante. Fra gli aneliti della nostra agonia mescolarono truci sarcasmi: i nostri occhi gravi di morte mal potendosi sollevare al cielo, il quale pure si mostrava crucciato, furono costretti a vedere l'ammiccare schernitore delle loro bocche: i nostri orecchi, percossi da tintinnii funesti, se mai tornarono ad acquistare la facoltà dell'udito, [235] non ascoltarono altro che rampogne e scede e motteggi obbrobriosi. — Noi miseri, e voi non felici!
Che se pensaste come per tutti venga il dies iræ, — e, come giunta l'ora, neanche al Figliuolo di Dio fosse dato rimuovere dalle sue labbra la bevanda, — assumereste spirito di carità, e deporreste la protervia insolente. — Insultava egli Mario a Cartagine? Vedetelo rovina di un uomo non inferiore alla rovina della emula di Roma: Mario sta seduto sopra un altare rovesciato, e pensa, con ispirito dimesso, come provincie e popoli e tempi e Numi si disfacciano sotto la forza prepotente del Fato.
E nonostante io domando perchè l'impero romano caduto commuove tanto perenne tesoro di vendetta, ed ingiuria? Perchè non si perseguitano con odio pari gl'imperii dei Faraoni, de' Tolomei, dei Califfi, e degli altri potenti della terra?
E mi sembra potermi rispondere con verità: Perchè l'Eterno non commetteva a verun popolo del mondo così magnifica opera come al romano, e a verun popolo mai egli affidava così gran parte d'intelligenza e di forza per bene eseguirla. Il popolo romano fu il mandatario più infedele della Provvidenza, quello che calpestò più ingrato maggiori doni di Dio. Il popolo romano aveva avuto missione di felicitare la terra, ed ei la fece una cloaca e un sepolcro. Discite juistitiam moniti, con quello che segue.
Ora chi ha letto, veda se possa trarne argomento per giudicare il presente, e presagire il futuro. La immagine di Giano bifronte non è simbolo bastevole per la storia, imperciocchè ella abbia tre faccie. Serbarono i cieli a questi tempi nostri, che superano in durezza ogni più duro metallo, udire dalla tribuna di un popolo [236] cristiano scendere a modo di maladizione sopra i martiri le parole: l'ordine regna in Varsavia. — Coteste parole parvero e furono, pel mondo spaventato, somiglievoli al suono di un coperchio che cada a chiudere la bara di una nazione! Tutti i cuori commentarono col ribrezzo della paura la sentenza lugubre di Tacito: ubi solitudinem faciunt pacem appellant! Certo non io pretendo che un popolo lasci gli esercizi della sua vita, e patria e famiglia, ed ogni altra cosa più caramente diletta, e versandosi fuori dei confini della sua terra provveda alla fortuna di un altro popolo cimentando la sua. E poi, rompere una catena non significa ristaurare la libertà. La potenza non si acquista per via di procuratore: bisogna saperla prendere da sè, e da sè mantenerla; ma, e neanco consento che una nazione grande si ponga a guisa della meretrice della Scrittura su i canti a tendere lacci di morte con iniqua blandizie.[48] — E cotesta meretrice, ai derelitti scampati dallo eccidio, qual dava ristoro per la strage dei parenti, le sostanze perdute, la patria abbandonata? Un pane composto con farina di obbrobrio, con lievito di disprezzo, con acqua di lagrime, riarso dall'ardore di rinfacci continui, e pesato dalla mano dell'avarizia: pane dato con la balestra. Viene per tutti il dies iræ e se Dio talvolta non solleva immediatamente la mano al castigo, non torce mai i suoi occhi altrove; e questo popolo dovrebbe sapere che non possono le nazioni mantenersi grandi senza essere generose, e per lei venne più volte il dì della ira, perchè più volte mancò di fede. E dovrebbe però pensare che se adesso non si trova ridotto a servaggio infelicissimo, era fortuna non senno. Fortuna, perchè la gente mossa da settentrione ormai possedeva terre coltivate e industrie e città, e aveva lasciato a casa beni e famiglia; — fortuna, perchè i conquistatori troppi non si trovarono d'accordo [237] sopra le parti della preda. I barbari che invasero lo impero romano, comunque formati di popoli diversi, componevano un corpo obbediente a un capo, e si traevano dietro in tende o in carri quanto governa con amore l'anima umana. Che cosa faceva in cotesta agonia il popolo ingannatore? Quello che fanno le vittime apparecchiate al sagrifizio.... lambiva il coltello che gli stava pendente sopra la gola. Se cotesto giorno tornasse, chi chiamerà costui? Dove troverà egli alleati? Quali adunerà nella ora del pericolo nemici? I tuoi amici per colpa tua giacciono nel sepolcro. Guai a lui se chiamasse! Gli spettri dei popoli scoperchierebbero le sepolture per dirgli come al malvagio Riccardo: — Disperati e muori! — Poichè hai fatto piangere tanto, o farfalla insanguinata, sarebbe anche giusto che nell'ora della tribolazione tu sentissi il ridebo e il subsannabo delle Sacre Carte. Il bel fiore della libertà, nudrito dei divini pensieri della sapienza, educato dall'amore dei principi e dei popoli, castamente cresceva, e tu due volte lo hai colto per inghirlandarne la fronte svergognata di una cortigiana e la coppa della ubbriachezza. La prima volta tu lo contaminasti di sangue, sicchè divenne spaventevole ai principi, sospetto ai popoli; la seconda tu lo contaminasti di vili pensieri, sicchè tutti volsero gli sguardi altrove, come da cosa piena di schifezza. Se questo spirito di vita potesse mai aborrirsi, tu non ti sei astenuto da fatto o da detto che lo rendesse odioso per sempre. Stattene all'ombra dei gran gigli d'oro; statti contento al fiordaliso: egli solo è degno di te.
Tu vanti: che per non perdere tempo a imparare le lingue altrui, con la forza delle armi insegnasti al mondo la tua.[49] — Avresti dovuto dire con i tuoi cuochi, di cui popoli le cucine del mondo; avresti dovuto dire co' tuoi ballerini; e più ancora co' tuoi parrucchieri. Il [238] gran capitano, giovandosi delle braccia nostre, ti condusse tuo malgrado a correre l'universo; ma che potevi tu farti di tanta gloria? Tu vi gemevi sotto come se fosse stata una croce, e non rifinivi mai da chiamare il Cireneo che te la sollevasse; e un bel giorno tu la gittasti a terra, come peso troppo grave alle tue spalle. Minacciatrice superba con Buonaparte, egli scomparso tu diventasti a un tratto e serva e mima e danzatrice dei tuoi vincitori. Per Dio! Eglino stessi non avrebbero voluto vederti precipitata in tanta bassezza, imperciocchè i vincitori amino potere rispettare il vinto: non fosse altro per fare comparire più bella la propria vittoria. L'aquila gloriosa lo seguì nella sua rupe traverso l'Oceano, e si posò con lui dentro al sepolcro; e tu vi sostituivi il gallo, simbolo anche troppo magnanimo alla tua condizione. Veramente il tuo genio ti conduce come un vento a scorrere la terra, e mescerti importuna in ogni vicenda, e tutto involare per recartelo a casa, e guastarlo imitandolo, a guisa di scimmia che imiti l'uomo. Una splendida azione tu converti in miniatura da ventaglio, la effigie di un grande uomo in boccetta di acqua odorosa o in iscatola da sapone. Ma il maggiore tradimento che mai abbia sofferto la virtù, tu lo commettevi ai dì nostri. Ahimè! per te l'onore non ha più entusiasmo, la fede convinzione, la patria affetto, lo ingegno scopo di gloria. Per te il Dio milione regna e governa; per te si rese manifesto come anima umana a diuturna, pertinace e continua corruzione, non regga; tu hai pubblicato la tariffa del prezzo che si vuole per imporre silenzio a taluni, per indurre a favellare tali altri, per comprarli tutti. Il collegio dei tuoi rappresentanti è quasi una orchestra, ove ognuno ha scelto la sua parte: chi dà fiato ai tromboni, chi tempra le corde dei violini per suonare, a fine di conto insieme uniti, la [239] solenne sinfonia della pubblica imposta. Nè mi si dica: fatali essere gli sconvolgimenti politici, averci i popoli a guardare bene due volte; imperciocchè a me pure paia così, ma non vi sarebbe punto mestieri di partiti estremi, e le leggi pongono facoltà di rimediare al male, e se nol fai, segno è che non vuoi, epperò meriti il manto che ti se' gittata sopra le spalle. Dio ti avea posta come il cuore nella Europa, perchè tu palpitassi per tutti, ma tu hai impietrito il cuore, e ti sta morto in seno più che Napoleone dentro la cappella degl'Invalidi. — Ma forse non è senza consiglio supremo che ciò succeda, volendo la Provvidenza mostrare nuovamente in te come le nazioni quanto più furono beneficate da lei, tanto più saranno punite del tradito mandato. Se te avessero divisa, e ad ogni brano preposto un duca o marchese, e riempitolo di armi straniere, or che faresti?... Dunque non insultare alla miseria altrui:
Tutti siam rei: le lacrime
Son la miglior preghiera.[50]
Ma in te vivono molti nobili figli che non oltraggiano, e stanno pensosi dei propri destini, e conoscono le sventure dei popoli presentare qualche cosa di divino, come le querce tocche dal fulmine: essi meditano il modo per rendere più miti le condizioni umane, ed invocato aiuto dall'alto, quanto sanno meglio si adoperano nella magnanima impresa. E noi ci chiamiamo amici di chiunque abbia viscere di umanità, non dei rigattieri di carità e dei rivenduglioli dell'amore del prossimo. Un giorno, tardo ma certo, saranno mutate le sorti mortali, non per virtù nostra, ma per lo spirito che agita le nuove generazioni. Questo spirito, versato dall'alto di un patibolo sopra la terra, tornerà al cielo coll'ultimo uomo. Nelle procelle del mondo, traverso il turbine delle passioni, [240] Cristo splende, faro divino, per ricondurre i traviati a salvezza. Cristo strinse nei fianchi Attila, e le mani mansuete valsero a rompere i reni del feroce. I barbari trucidarono i Santi, e rimasero atterriti dalla pace ed alle parole di perdono che profferirono i labbri dei morenti, finchè caddero genuflessi adorando i martiri santi che eglino stessi avevano fatto. Cristo tolse all'uomo lo istinto del tigre; rimane adesso a vincere più acerbo istinto, quello della volpe. Gl'ipocriti mal si convertono; dal granito puoi ricavarne architrave o colonna, dal fango non ricavi altro che sozzura; e i Farisei crocifissero Cristo, non però lo spensero. Vive la sua legge che insegna: — voi li conoscerete dalle opere: coloro che si pongono a orare in mezzo ai tempii, ipocriti; quelli che portano la carità a modo di gonfalone, ipocriti; che ogni istituto di benevolenza infeudano in proprio nome, che su pei canti appiccano i cedoloni del poco bene che fanno, che mostrano sempre il cuore senza mai darlo a nessuno, — ipocriti! ipocriti! Poichè specularono sopra la carità, ebbero la loro mercede: adesso sgombrino il mondo. Se i filosofi di Francia non procedevano avversi a Cristo, noi avremmo ora percorso gran tratto di cammino della vita migliore. Posti in disparte i vizi di cotesti uomini, io per me credo che volessero il bene e che si affaticassero a conseguirlo; onde io non posso persuadermi come mai contrariassero tanto le discipline cristiane, le quali pur mirano maravigliosamente a quello che eglino desiderarono. Amore degli uomini vero, indole aperta, aborrimento della tirannide, libertà onesta, dignitosa uguaglianza, fratelli tutti, e di patria comune cittadini, e modestia nei modi, verecondia negli atti, pudore nei costumi, persecuzione dei pubblicani, guerra implacabile agl'ipocriti, carità segreta, esercizio di pratiche benevole con la mano destra ignorato [241] dalla sinistra; preci brevi e di cuore, e soprattutto sagrifizio di sè in benefizio altrui: — tutto questo essi desideravano, e Cristo insegnò diciotto secoli prima. L'odio contro ai sacerdoti traviava i filosofi; ma dovevano i filosofi disprezzare la perla a cagione del guscio che la chiude? — lo ignoro, e dubito forte che gli uomini sieno per giungere a tal grado di perfezione da superare il confine segnato da Cristo; quello che so di certo si è che il Cristianesimo dirittamente inteso contiene la morte del verme che rode le presenti generazioni, l'amore storto ed esclusivo di sè, e presenta una formula larghissima entro la quale gli uomini possono svolgersi per lungo spazio di tempo verso il loro miglioramento.... — Ma intendiamoci bene: il Cristianesimo.......
[245]
Il grido
Che dal tumulo a noi manda Natura.
I Sepolcri.
Chiunque non tiene per disagiata una via che la troppa frequenza di uomini e di animali rende un po' sozza; chiunque può sostenere un alquanto lungo cammino, lasci Livorno uscendo dalla porta Colonnella, e s'indirizzi lunga la costa meridionale del mare. Bello afferma taluno l'aspetto del cielo e delle acque sereno quando una brezza lieve lieve le spiana, e vi produce un moto, che il poeta in sua mente paragona al brivido della donna innamorata; — dico in sua mente, però che la scienza delle relazioni sia cosa segreta, e l'orbo può giurare non esservi luce, — almeno per lui. Bello dice tale altro il mare in iscompiglio, e le nuvole imperversanti, lo scoppio del fulmine, e il grido disperato del naufrago sublime! — Gli uomini chiamano l'ente che si compiace di aspetti siffatti o scellerato o stolto, ed egli loro: — e la ragione a cui? I più hanno forza su i meno, — e questa forza sarà ultima ratio rerum, finchè non la sotterrino coll'ultimo dei viventi. Gli dieno pertanto la caccia, e lo distruggano, ma non lo insultino: — non fu già per lui grave insulto la vita? Non gli pongano memoria, perchè desiderava la fossa, come lo esiliato la patria, ma non esecrino il luogo dove posa la testa. Rammentati, [246] o uomo, che non conviene alla terra maledire la terra! — Chi poi, per natura inchinato a melanconia, desidera le dolenti sensazioni, si faccia lungo la riva nell'ora che volge il desìo ai naviganti, e vedrà il sole spoglio della superbia dei raggi accostarsi al mare come un grande oppressore alla morte. Se però circoscritto è il corso del sole, tutte le vite mortali lo compongono. Chi è che lo vide nascere? Qual è colui che potrà vantarsi di vederlo morire? Cade nel mare come finse la favola che Anteo cadesse sopra la terra; quivi deriva il vigore per apparire alla dimane glorioso di potenza e di luce. A noi una volta caduti insulta il verme comune: ognuno di noi porta la sentenza di morte su la fronte, il carnefice nel seno. Scoperchiate le fosse, e guardiamo cosa rimanga di coloro che piansero e fecero piangere. — La morte non ha ministri, nè consiglieri, nè governatori di Provincie: indistinti le offriamo tutti un trono di putrefazione. Forse il cervello di colui che lasciava altissima fama tra i suoi confratelli di polvere non seppe nudrire che un tossico amaro, mentre il cervello di chi visse e moriva negletto, alimentò la rosa che si mostra sopra i capelli della vergine, — quasi in satira di sua fugace bellezza. — E pure con questo v'ha tale che sdegna toccare la mano del compagno, dove la sua non sia riparata da guanto; e tale altro saluta ora col cappello levato, ora con un tenue curvare della persona, ed ora finalmente con un semplice addio. — Tutti gli scrittori su l'arte drammatica, lo Schlegel inclusive, non hanno saputo peranche definire se questo mondo sia una tragedia bernesca, ossivvero una farsa lagrimevole; — che però valga a far piangere e ridere, io che scrivo, e voi tutti che mi leggete, senza eccezione nessuna, possiamo prestarne giurata testimonianza.
E fin qui per parentesi. Adesso ritornando al soggetto, [247] vedrà il sole vermiglio accostarsi al tramonto (direbbe un secentista) — rosso per la vergogna di ritirarsi davanti la tenebra sua nemica, — e lungo la riva i vetri di alcune case lontane riverberarne il raggio, e parere tutte in fiamma: a mano a mano digrada il colore, e si alza, e si restringe su le croci dei campanili, o su l'estreme banderuole delle case, come la vita al cuore, e quivi vien meno. In quel punto udrà la squilla che piange il giorno che spira, udrà il canto del marinaro che saluta la luna sorgente dai monti opposti della valle Benedetta, e dell'artefice che cessa dall'opere per riposarsi e tornare alle fatiche domani, finchè non giunga il riposo dal quale nol desteranno il bisogno di nudrire la vita, nè gli stridi della famiglia desolata. — Giunto che sia il passeggiero davanti la chiesa di Santo Iacopo in Acquaviva, declini a diritta, e percorra fino al termine il braccio che si addentra nel mare; qui posi, e contempli la vasta pianura. — Il peso della umanità fia che gli gravi più leggiero su l'anima. In questo luogo vissero santi Anacoreti, che se le sorti mortali avessero potuto migliorare con la preghiera, le avrebbero certamente migliorate; qui insolentirono Conti, Marchesi, ed altri fieri Baroni che ci vennero dalle isole.[51] Quali sono le vicende che la storia racconta di coteste creature? La storia è muta della loro fama, com'è ignoto il sepolcro che ne rinchiude le ceneri: solo una fama lontana ci referisce che il vescovo Sant'Agostino su questi lidi al mistero della Trinità meditasse, e che il Redentore in forma di fanciullo qui gli apparisse.[52] Ora se il passeggiero ricalcando le orme già impresse ritorni al mio Livorno, vedrà le prossime colline festose di vigne e di oliveti; un po' più lungi altri monti non tanto cari alla natura, ma pur verdi; finalmente in fondo alla scena le Alpi genovesi, quasi sempre [248] coperte di neve; e questi oggetti considerando paragonerà i più vicini colli alla giovanezza baldanzosa di liete speranze, e i medii alle cure sterili della virilità, gli estremi poi alla deserta decrepitezza. Nondimeno di là da quelle Alpi crescono altri olivi, altri aranci diffondono soavi profumi, altri uomini alzano inni di grazie al Creatore; Genova si specchia per entro il mare tirreno, le ossa di Andrea Doria fremono amore di patria. — Di là dalla decrepitezza chi è che sappia dirmi cosa rimane?
Sponde fortunate, v'amai quanto si può amare cosa terrena; spesso mi compiacqui affidare su questi abissi di acque il mio corpo, e fui vago di quello che altri chiama pericolo, ed io saluto di morte. Qui rinvenni conforto allo stanco pensiero, qui meditai su le colpe della schiatta che parla. — Or donde avviene che non vedete più il vostro quotidiano visitatore? Saremmo noi forse mutati? — No, siamo gli stessi; ma io seppi sagrificare un piacere per odiare meno i miei simili.
Correva nelle mie patrie campagne antico un costume, che le fanciulline del vicinato accompagnassero alla fossa i pargoletti defunti, i quali noi chiamiamo angioli; e finchè durava nella sua primitiva purezza io non so quale altro instituto al mondo si sarebbe potuto immaginare più commovente o più tenero. Vedevi coteste bambinelle vestite di una veste bianca, immagine della loro innocenza, procedere pensose su l'ente arcano e terribile che non può essere veduto, ma deve essere sofferto, che non ha forma, ma deve sformare tutte le creature della terra,[53] e portare chi la bara, chi i lembi del tappeto rosso: sorreggeva questa l'origliere su cui il morto capo si riposava, stringeva quella il crocifisso di argento, e sovente lo baciava; altre finalmente con le fanciullesche lingue tentavano ripetere le preci del sacerdote, e non vi riuscivano, e in chiunque le udiva muovevano [249] il riso, — se non che con tanta compunzione pregavano, con tanto proposito di fare opera meritoria, che in fondo a quel riso sgorgavano le lacrime, e ti sentivi suscitare in mente un desiderio immenso di baciarle tutte, di farle tutte felici. I padri più facoltosi ponevano alla memoria di que' cari una tavoletta di marmo; ed io ne osservai una nel Camposanto di Santo Iacopo che rappresenta in basso rilievo una mano che, scarna, armata di falce, sbuca da un mucchio di scogli e sta per recidere una rosa. Sotto il basso rilievo si legge che la lapide copre una vergine colta da immaturo destino. Per quanto ne abbia mossa domanda, non mi è venuto fatto conoscere a cui la bella immagine appartenga. Chiunque ella si fosse, giuro che era un'anima bennata.
Il bel costume, di tanto oggi apparisce pervertito, ch'è un dolore vederlo, una vergogna raccontarlo. Certa caterva di donne accompagna le povere creature al sepolcro, immemori dell'affanno amarissimo della madre che pur testè contemplavano nell'abbandonare la carne della sua carne, impassibili alle tracce del pianto che bagnano tuttavia le guance del defunto, con la testa levata, percotendo del piè la terra come le figlie di Sion, camminano senza por mente alle sacre preghiere, e si proverbiano con tali parole che io non le voglio dire. Di ritorno dall'ufficio solenne le udii prorompere in turpi canzoni, ed una volta le vidi mescersi tra la folla di una vicina taverna, e con la bara, col tappeto, il Cristo in mano... tripudiare in tresche, non so s'io debba dirmi o più nefande o più empie. A prezzo, è vero, accompagnarono le Prefiche antiche i defunti alla tomba; ma almeno fingevano il pianto: — chi mai vorrebbe comprare un oltraggio ai suoi morti? — Certo giorno, preso da vaghezza di seguitare una di queste associazioni, vidi deporre su la terra la bara, e mentre il sacerdote recitava [250] la orazione per benedire il cadavere, venire le proterve a contesa pe' fiori che lo circondavano. Interrotte il buon sacerdote le preci, paternamente le ammoniva, badassero alla carità del prossimo, al timore di Dio. Non per ciò si rimanevano punto; chè anzi di lì a poco rompendo in lite manifesta, si gittavano sul petto del trapassato, e strappandone il mazzo dei fiori se lo toglievano poi con iscambievoli percosse inferocite di mano. Il sacerdote mutò di sembiante, e stette come avvilito da così profonda infamia: — io mi fuggii maledicendo.
Nè mai per tempo mi verrà meno la memoria di quel grido che mi lacerò l'anima in simile occasione; — volsi la testa, e vidi una vecchia zoppicando affrettarsi dalla estremità del campo, e far cenno con la mano che sospendessero di comporre il corpo nella sepoltura: — mezza la testa lo copriva uno straccio di seta nera, e quindi scaturivano certi capelli irti da accomodarne una Furia: aveva la fisonomia truce, lo sguardo lustro e maligno. Giunse affannosa, si precipitò sul cadavere, e con una furia di rabbia si dette a tagliargli la veste, gli sfiorò anche le carni, ed io ne vidi gocciare alcune stille di morto sangue. — Domandava alla donna che mi stava vicina: — «A che quell'atto?» Mi rispondeva senza punto turbarsi: «Eh! non è nulla, signore; Io fa perchè il becchino non gli rubi il camice...» — Dio eterno!!!
In questo Camposanto riposa Antonio Benci, scrittore forbitissimo della patria favella. Nacque in Livorno, e per quanto gli concesse lo ingegno, che sortì pronto e vivace, onorò la patria sua con opere assai fregiate. Il Benci avrebbe provveduto molto meglio alla sua fama, se invece di ostinarsi dietro alla composizione di commedie e di romanzi ed altre cosiffatte opere d'immaginativa, per le quali mi parve sempre poco per natura disposto, avesse atteso a dettare scritti di [251] morale, di storia e di critica, in cui fu reputato eccellente.
Questa sua ostinazione, come a lui, nocque a moltissimi, e troppo spesso ci tolse opere egregie. Una volta eravamo doviziosi d'ingegno, e con dolore sempre, ma con danno non grave di questo nostro paese, vedevamo sprecarlo. Ora poi cominciamo a patirne penuria, e ragion vuole che attendiamo a farne risparmio. La vita dissipata, la vertigine dei casi, il desiderio soverchio di provvedere ai beni terreni, il poco rimerito di fama, o qualunque altra causa più vera, ci hanno dissuaso dall'educare nel povero tetto un alloro con lungo studio, il quale ornava a un punto le tempie dell'uomo e della patria. Come colui che ha poco lume, a noi bisogna ripararlo col cavo della mano onde venti maligni non ce lo spengano e rimanghiamo desolati da tenebre insolite. Giova pertanto non logorarci in vani conati; poniamo diligente cura a conoscere noi stessi, dacchè insieme col difetto di volontà noi ci accorgiamo essere questi i vermi che rodono la gloria delle lettere italiane.
Ma per tornare al Benci, la sua morte accadde inosservata, mancarono pompe, e memorie; non gli mancarono affetti, perchè egli seppe amare, ma furono di pochi amici che non fuggono mai il capezzale dell'uomo dabbene. Or come avvenne questo? E sì ch'egli ebbe pratiche molte, che io mi guarderò bene profanare col nome di amicizie; ma per sua somma sventura ei l'ebbe principalmente tra i professori di umanità, tra i rigattieri di filantropia, e simile geldra d'ipocriti vecchi e nuovi, che putono un miglio lontano di mozzicone di lumen christii e di pappe di asili infantili. Il Benci per certe sue fantasie si allontanava dal mondo, e il mondo, siccome avviene, lo dimenticava; allora i professori di amore del prossimo, considerando che nell'onorario avrebbero [252] rimesso le spese delle lacrime e del moccolo, non se ne dettero per intesi, e lo lasciarono cadere nel regno delle ombre senza sonetti, e senza necrologie co' Genii in fondo, i quali con una mano tengono la face rivolta a terra, e con l'altra facendosi velo agli occhi figurano piangere un pianto uguale a quello di coloro che ne ordinarono la stampa. Ma via, meglio così; imperciocchè mi paia meno tristo andare sconsolato di pianto, che sentirsi schernito col pianto bugiardo. — Egli scomparve quieto e indistinto, come una gocciola di pioggia nel mare. — Povero Benci!
Difficilmente io per me penso che sia dato all'uomo morire in modo più tranquillo, ed anche più lieto, di quello col quale moriva il Benci; e questa sua pacatezza in parte mosse da costanza; ma in parte ancora (e mi è pur forza dirlo) da una cotale condizione del suo spirito che lo conduceva, io non saprei ben dire, se a raziocinare con rigore di logica sopra principii falsi, o a raziocinare stortamente con principii veri; — non sempre però, nè spesso, ma, per sua disgrazia, nei casi più solenni della vita.
Pochi giorni (credo due) prima ch'ei ci lasciasse, io andai a visitarlo. I medici lo avevano fatto spacciato, ed anche a me pareva che per questa volta avessero dello bene pur troppo, imperciocchè al male consueto di per se letalissimo, erasi aggiunto non so quale ascesso di umori nel capo. Tampoco vedeva lume, e l'affanno che lo travagliava grandissimo alzava con frequenza coperte e lenzuola: nonostante mi riconobbe alla voce, e subito vispo e lieto mi fece festa, come se non fosse stato mai infermo; mi stese la mano, e quantunque apparisse giallastra come cera vieta, serpeggiata da vene sporgenti colore di piombo e violetta verso la radice delle unghie — io gliela strinsi di cuore.... Però il madore freddo che [253] n'emanava mi corse su doloroso pei nervi del braccio fino al gomito; — nelle viscere penetrò con prestezza elettrica: — era sudore di morte.
«Ti vedo volentieri» — cominciò egli con voce alta dominando l'affanno e lo spasimo — «prima di andarmene: perchè adesso me ne vado davvero, e tu non puoi immaginarti con quanto inestimabile gusto.»
Ed io, stringendogli un tal poco la mano, con suono più dolce che poteva ripresi: — «Ma come, Tonino mio, ci hai gusto lasciando vedova la moglie e orfano il fanciullo? Tu ora non pensavi a questo, Tonino mio?»
«Anzi io ci pensavo ahora y siempre, oh poverini! E appunto perchè ci pensavo, io mi persuado morire opportunamente. Morire opportunamente! Francesco dopo la disgrazia che l'uomo ebbe di nascere, questo è il beneficio più grande che sortisse dai cieli. Mia moglie non ha bisogno di me, ed io troppo più che non conviene ho bisogno di lei: ella è capacissima a governare la casa, massaia ottima, adattata ad amministrare il patrimonio, ed io nulla. La età mia che sopravanza di molto la sua, e la infermità, e la indole strana sempre, adesso poi stranissima, mi hanno reso un vero impedimentum, come Giulio Cesare diceva dei carriaggi. La pazienza di questa donna a sopportarmi è stata angelica, ma alla fine pazienza non è contentezza di spirito. Il bimbo, o mi perda adesso o mi conosca quando inoltrato negli anni io non potrò educarlo e soccorrerlo, parmi tornare il medesimo; — al che aggiungi il guadagno di non affliggersi per difetto di conoscenza. — E poi,» soggiunse in aria di mistero «io sono innamorato....»
Ed io, piegando verso lui l'orecchio per sospetto di avere frainteso, interrogava: «Tu sei...?»
«Innamorato — del più veemente amore che io mi [254] provassi nella vita, — per la mia fossa. Un mese fa io me ne andai al Camposanto di Santo Iacopo e me la ordinai da me stesso.... — Oh come ella è riuscita bellina! precisa nei lati e negli angoli, sicchè mi tornerà attillata alla vita come un vestito da sposo. Per questa volta mi sono mostrato incontentabile; perchè, capisci bene, Francesco, non si può dire al becchino come al sarto: — portala via, e fammene un'altra; — questa veste deve durarti un pezzo, fino a quando? — Fino al giorno del giudizio. Prima di mettermi a letto, per non levarmi più, Dio mi concesse di rivederla: la terra scavata a canto a lei formava un arginello tutto coperto di una erbetta verde ch'era un incanto a vederla. Oh bellina la mia fossa! Oh come me ne innamorai cento e più doppii! Come vi riposerò io bene dentro, e come io farò onorevole figura tutto fasciato di verde! — Una cosa sola m'incresce, e se la morte, cortese creditrice, mi concedesse un mese di grazia a pagarle la cambiale che trasse sopra la mia vita, e che io accettai cinquantotto o sessanta anni sono, mi accomoderebbe assai....»
Commosso profondamente, m'ingegnai insinuare in lui la speranza che mi mancava, e con un filo di voce che mi usciva a stento dalla gola stretta, gli dissi: «Ella sarà cortese, e ti prorogherà il pagamento anche a molti anni.»
«Basta un mese per finire il mio romanzo côrso. Io lo composi con amore, vi meditai lungamente sopra, fu il consolatore delle mie notti d'insonnia, il compagno del mio esilio, ma di giorno in giorno io differiva a scriverlo, ed ora la morte mi sta sopra e il tempo si fa corto. Adesso io lo dètto notte e giorno, e quella mia povera moglie scrive a distesa; — mi pare correre un palio con la morte, ma la morte vincerà.... vincerà di certo. Onde tu, Francesco, amico mio, fa senno, e giovati delle mie [255] estreme parole: non rimettere mai a domani quello che tu puoi fare oggi. Il pigro si volta ora da un canto ora dall'altro, come l'uscio sopra gli arpioni, finchè la morte arriva a dargli la spinta e a chiuderlo, a cagione della saracinesca che si apre per di fuori del tempo da chi ha in mano la chiave dell'eternità. Vorrei stampassero il mio romanzo e le commedie: — il rimanente delle opere mie non ne vale la pena....»
Qui gli mancarono a un punto la conoscenza e la voce: muoveva le labbra, ma non articolava le parole. Io svincolai la mia dalla sua mano, nè lo rividi più. Seppi poi che morì contento come un Santo, non pure per la persuasione di andarsene nella dimora dei giusti, quanto, e molto più, per la contentezza di riposare nella sua fossa bellina!...
Di niente altro al termine del suo terreno viaggio egli ebbe cura, tranne delle sue commedie e del suo romanzo: e questo non fu stampato mai, e quelle non si rappresentano più. All'opposto si ristampano meritamente la sua bella traduzione della Guerra dei Trent'Anni di Schiller, e le sue scritture filologiche, critiche, storiche e morali.
Ebbe natali illustri e larghezza di censo. La Fortuna con lo scemargli il secondo, offuscava alquanto lo splendore dei primi; ma poichè in lui furono copiosamente ingegno e virtù da bastargli sole per qualsivoglia stirpe o retaggio, e', finchè visse, fece onorato tesoro di amore di patria vero e di affetti pei congiunti e per gli amici. Così come fu dolce essergli amico in vita, torna cara e gradita la sua memoria, dopo la sua morte, a noi che lo riverimmo e lo amammo.
[257]
Il pellegrino ariete, che tutti
Abbandonando della patria terra
I ritrosi costumi, a miglior culto
Si arrese obbediente, e nuovo assunse
Abito e tempra, e di Merino ha nome.
Arici.
Se, come i più dei filosofi concedono, la condizione pastorale costituisce il secondo periodo che l'uomo percorre onde ridursi a vivere vita civile, antichissimo è certo il commercio della Lana. Numa, per sentenza di Plinio, o piuttosto Servio, secondo quello che ne lasciava scritto Macrobio, faceva imprimere su le monete la immagine di bove o di pecora, o di qualche altro domestico animale, per promuovere la cura del bestiame, di cui parte principalissima compongono le pecore: e il denaro appunto presso i Romani fu chiamato pecunia, perchè portava impressa l'effigie di alcuni tra i rammentati quadrupedi, che si comprendevano sotto il vocabolo generale di pecus, come narra Varrone. Le donne latine dai tempi ultimi del regno, dove tanto furono severi i costumi, fino ai primi dell'impero, in che tanto apparvero corrotti, intesero allo studio della lana. Ci riferisce la storia come il figlio di Tarquinio rinvenisse Lucrezia occupata a' distribuire il compito della lana alle ancelle, e come Augusto imperatore non cingesse mai altre vesti che le tessute dalle mani di Livia sua [258] moglie. I Censori, che furono magistrati preposti ai costumi, ebbero eziandio l'incumbenza di badare alla cultura delle pecore; e ciò non già perchè i Romani, considerando molti tra gli uomini in nulla differenziare dal bestiame, tranne nel numero dei piedi, li riputassero degni di custode comune, — ma perchè meglio si vigilasse questo ramo di pubblica economia. Instituirono premii, i quali narra la storia che si chiamassero ovini, pe' padri di famiglia che vi poneano pensiero, e ammende pe' trascurati. L'Italia nostra produceva in cotesta epoca lane siffatte che non cedevano alle affricane, nè alle asiatiche, e spesso occorrono versi in Virgilio che celebrano le lane pugliesi e le tarantine, come le migliori del mondo. I Barbari, che tutto (meno il cielo) distrussero tra noi, rovinarono anche questo ramo d'industria umana, e l'Italiano avvilito, non che pensasse a migliorare il suo stato, trovò brevi i giorni della vita — per piangere.
Imperando Claudio, Marco Columella, zio di quel tanto celebrato Columella che scrisse libri intorno le faccende rurali, introdusse primo nelle vicinanze di Cadice la pecora affricana, e la congiunse col montone spagnuolo. Tornarono invano le diligenze di quest'ottimo cittadino, imperciocchè simili imprese, dove non sieno protette da liberali Governi, o poco sussistono, o lentamente si allargano. I Mori, che parte della Spagna conquistarono, la industria della lana non neglessero affatto, ma il principio vero di questo commercio, che poi salì a tanta altezza presso gli Spagnuoli, vuolsi attribuire a Don Pedro IV. — I maligni che studiano del continuo un pretesto per essere ingrati ai benefattori dell'umanità, lasciarono detto, non essere derivato da animo benigno quanto operava Don Pedro, sibbene dalla necessità di affezionarsi i Castigliani, onde contro [259] i fratelli bastardi di Eleonora loro madre lo difendessero. Noi però che lasciamo a Dio quello ch'è di Dio, la conoscenza del cuore, — e ci restringiamo a lodare gli effetti senza porre mente alla causa, collochiamo il nome di Don Pedro nello scarso numero di quelli che onorano la nostra specie. Il cardinale Ximenes, prevalendosi di alcune vittorie riportate dal re Ferdinando contro i Mori, trasse dall'Affrica quantità grande di Merini, ed ampliò nella sua patria il commercio della lana. Di lì in poi, il lanificio in Ispagna di male in peggio precipitava; sia che dobbiamo incolparne la vicenda consueta delle cose del mondo, o piuttosto l'accidia degli Spagnuoli, fuori di modo accresciuta dalle piastre che annualmente mandava loro Acapulco; nè in oggi sapremmo riportare in quale condizione vi si trovi, perchè nulla c'invita a ricercare le cose di quella infelice contrada. Buone e belle pecore, da tempi che non conservano memoria, ebbero certo gl'Inglesi; ma come quelli che per essere divisi dall'Europa assai lentamente progredirono nella civiltà, per molti secoli si ridussero a mangiarne le carni, ed a vestirne le pelli. I Fiamminghi li ammaestravano nella tosatura, e cotesti isolani, in meno che non fa mezzo secolo, di 10,000,000 di sterlini le finanze loro avvantaggiarono, Giovanni Kemp instruiva primo i suoi concittadini nel lanificio, ed Eduardo IV, per promuovere le patrie manifatture, proibì la introduzione dei panni stranieri. I successivi sovrani, intenti sempre alla maggiore prosperità del lanificio, vietarono l'estrazione delle lane. Giuliano e Lorenzo dei Medici è fama che da Enrico VII ottenessero estrarne quante loro ne abbisognassero, e i Veneziani 600 sacca soltanto. Enrico VIII, dai nostri storici tanto a cagione del suo scisma vituperato, richiese Carlo V di 3000 merini, e questi che cercava ogni via per farselo [260] amico nella contesa contro Francesco I, di leggieri lo soddisfece. Ottenute le 3000 pecore, Enrico due per parrocchia con un montone distribuiva, alla custodia del principal possidente della contrada le commetteva, e così i fondamenti del regno glorioso di Elisabetta apprestava. Questa regina ogni privilegio dei Fiorentini e dei Veneziani soppresse, e l'estrazione della lana con la confisca dei beni e il taglio della mano, per la prima volta, difese; per la seconda con la pena di morte.
Venendo ora a parlare della patria nostra, troviamo scritto come gli Umiliati, Ordine utile di Frati, introducessero o perfezionassero il lanificio in Firenze. In breve que' sottili cervelli dei Fiorentini, superati i maestri, tanti miglioramenti seppero rinvenire, che furono i panni loro a tutti gli altri preposti; nè potendo co' propri soddisfare alle infinite richieste, presero ad incettarli greggi in Inghilterra, in Olanda, in Ispagna ec. ec., e poi cardandoli — cioè cavando fuori il pelo col cardo, — cimandoli — recidendo il pelo soverchio con forbici, e tingendoli, li facevano comparire maravigliosi. La tintura in ispecie occupava ogni loro diligenza, ed ognuno, per quanto leggermente versato nella storia del suo paese, conosce come dovessero i tintori sodare, ossivero prestare all'Arte della Lana malleveria per 300 fiorini d'oro; come ufficiali detti delle magagne giudicassero della bontà delle tinte; finalmente come ogni giuoco, meno quello degli scacchi, fosse nelle botteghe appartenenti all'Arte della Lana proibito. Immensi tesori derivarono ai Fiorentini da siffatto commercio, dei quali perchè abbia idea il lettore, riferirò uno squarcio delle Storie fiorentine di Benedetto Varchi, che dice così:[54] «E perchè niuno non si maravigli come ciò sia possibile, che il Comune di Firenze con meno di 25,000 fiorini di [261] entrata il mese abbia fatte e sostenute tante e tali guerre contra tanti e tali principi e repubbliche, sappia che l'entrate straordinarie, cioè i balzelli e gli accatti posti a cittadini così sopportanti, come non sopportanti, sono state sempre, si può dire, molto maggiori che l'ordinarie; e che questo sia vero, racconta meser Cristofano Landini, uomo dotto ed eloquente, ed a cui deve non poco la fiorentina repubblica, nel principio del suo comento sopra la grande opera di Dante, che dal 1377 infino all'anno 1406 si spesero soltanto nelle guerre 115 centinaia di migliaia, per usare le sue proprie parole, cioè 11,000,000 e 500,000 fiorini d'oro; e perchè ogni 100 fiorini pesano una libbra giusta, 1,000 fiorini sono 10 libbre; dunque 40,000 fiorini fanno una soma di mulo, la quale pesi 400 libbre; onde saranno fra tutti 287 some di fiorini, e ne avanzano 20,000 che sono una mezza soma; e perchè 200,000 fiorini fanno una carrata di 2000 libbre, moltiplicano in tutto 57 carrate e mezzo appunto; e tanti ne spesero in meno di 50 anni in 4 guerre i Fiorentini.[55] Racconta il soprannominato Cristofano, che 77 case di Firenze (e racconta quali) pagarono di straordinari dall'anno 1430 infino al 1453, 4,875,000 fiorini, che sono in detto tempo più che 100 some d'oro, che fanno meglio che 20 carrate; ed io trovo che lo stato popolare dal 27 al 30 cavò di straordinari in 3 anni 1,419,500 fiorini d'oro. Nè sarà alcuno il quale prenda ammirazione onde tante e così gran somme di danaro si cavassero, solo che sappia che oltre l'Arte della Seta, secondo membro di Firenze, ed oltre le altre industrie, l'Arte della Lana sola, lavora ogni anno da 20 a 23,000 pezze di panni, come si può vedere a' libri dell'Arte dove dette pezze si marchiano giornalmente tutte quante.» —
[262] Esposta adesso sommariamente la storia del lanificio in Firenze, ci si presentano due quesiti da sciogliere: 1º Per quali cause cessasse in Toscana; — 2º Se si potesse, e come, ridurlo in parte alla primiera prosperità.
Agevole cosa è rispondere al primo. Fidenti troppo i Fiorentini nel mistero della propria manifattura, trascurarono i mezzi di raccogliere in patria la materia greggia. Svelato il segreto, per le leggi di Elisabetta proibito cavar lane dall'Inghilterra, ebbe il lanificio in Toscana terribile scossa; cadde poi in completa rovina, quando gli Spagnuoli e gli Olandesi, rifiutando le lane allo straniero, giunsero a saperle lavorare perfettamente quanto altri.
Riguardo al secondo quesito, affermiamo potersi ravvivare con l'introduzione del Merino nelle nostre campagne.
Il Merino, ovis hispanica, ha comune la patria col Merino inglese: ambidue sono figli dell'Affrica. Non sia grave al lettore leggerne la descrizione che fa di questo animale l'Arici nella sua Pastorizia:
Guarda che un misto di selvaggio ancora
Dell'inospite suolo, onde a noi venne,
Ti palesa Merin! se non che il grave
Contegnoso andamento, e l'alterezza,
Dell'ispanica terra esser ti dice
Abitatore. Or chi n'acquista, al vello
Badi, agli atti, alle forme, onde non erri
Nella scelta il giudicio, e di non vera
Ignobil razza adempia indi l'ovile.
Tra le iberiche madri alto si estolle
Il maschio, e nell'andar libero e pronto
Par che ad arte misuri e studii il passo.
Scuro e vivace ha l'occhio, oltre misura
Largo il capo e compresso, irte le orecchie,
E giù ravvolte a spira ambe le corna:
[263]
Denso ha il ciuffo elevato, e sime nari,
Grossa cervice, e breve il collo e largo;
Tra i rilevati muscoli si spande
Lanoso il petto, in molto adipe avvolto,
Tonda è la groppa, e molle si riposa
Sovra l'anca piegata agile e piena.
La coltura di questa razza di pecore nobili, ove fu promossa con intelligenza e in proporzione del terreno, partecipò nuovo impulso alla rurale economia. Afferma Lorenzo Pignotti non essere gran fatto acconcia la Toscana nostra a questa coltura, perchè piena di colline, dove l'olio, il vino, il grano e le biade sono ottimamente coltivate; non offre pascoli necessari per nudrire il bestiame, e perchè le nostre migliori pecore producono 3 4 libbre di lana ordinaria, mentre le spagnuole e le inglesi producono 8 o 9 libbre di lana eccellente.[56] La seconda di queste ragioni vien meno con la introduzione del Merino; la prima, comecchè in parte non vera, diverrà in breve falsa pei miglioramenti delle Maremme. Che se la coltura del Merino tanto è prosperata in Sassonia dove con travaglio e dispendio infiniti si conserva questo prodotto di regioni meridionali, quanto meglio potrebbe riuscire in Toscana, dove quasi sempre tepido è l'aere, e i giorni sereni! Qui poco è bisogno di stalle, e dì e notte può vagare il bestiame a suo bell'agio pei prati. Edgardo re, dopo tre anni di caccia ostinata, narrasi che estirpasse i lupi dalla Inghilterra: qui, sia benignità di clima, che favorevole ad ogni cosa gentile torni infesto alle dannose, o che altro, questi feroci animali di rado o mai si fanno vedere. Affermano i geografi lo Xenil e il Douro, riviere della Spagna, capaci di guarire alcune malattie a cui vanno sottoposte le pecore, la qual cosa non ardisco approvare, e negare nemmeno, ma anche le nostre pianure sono liete di lavacri, [264] che dai suoi gioghi a noi versa Appennino, e qui puranche si bevono chiare, fresche e dolci acque. Sono le coste propizie agli armenti, però che i vapori salini di cui si impregnano l'aria e le piante producono nei visceri degli animali un acido salutifero, e le Maremme, come ognun sa, per bene 50 miglia si sprolungano lungo la riva del mare. Nè in Maremma soltanto occorrono luoghi acconci alla coltura del Merino. Le parti montuose della Toscana, dove crescono gli alberi destinati alla costruzione, offrono eccellente pascolo alla coltura delle pecore, buona è la terra magra ed asciutta; l'umida e bassa buonissima, come quella che può fornire fieni onde nudrirli nei pochi giorni che non possono pascolare pe' prati. Lieve sarebbe tra noi la spesa di fabbricare una stalla per ricovrarle nel tempo in che punge rigido il vento, o in quello affannoso della canicola, dacchè abbastanza ci provvide il cielo di conveniente legname. La maggiore spesa consisterebbe nella compra di un gregge: ma a tanto può giungere il guadagno che deriva dalla vendita della lana e degli agnelli, che noi non dubitiamo punto ad accertare che in 4 o 5 anni sarebbe ricuperato il capitale. —
Ed ecco quanto ci è parso bene favellare intorno questo soggetto. Sieno le nostre parole di eccitamento altrui a più profonde meditazioni, sieno eccitamento a tentare. Sentenza degl'infingardi, che amano gittare lo sconforto nell'anima dei generosi, si è quella che l'esperienza tentata e non riuscita, abbia a menare seco il ridicolo. Se la natura non fosse stata mai interrogata, mai avrebbe risposto. Lo studio di osservare manifesta non pure il buono ingegno, ma anche il buon cuore, imperocchè l'uomo accidioso sia uomo maligno. Rammentino i popoli che sono gli artefici della propria prosperità, e che Dio, secondo il bel pensiero di un moderno [265] scrittore, ha detto all'uomo: «Debole opera delle mie mani, io non ti sono in nulla obbligato. Abbi in dono la vita: tu troverai il mondo, nel quale ti pongo, ingombro di beni e di mali: tua sia la cura per distinguerli, tuo il pensiero di schivare le spine, e incamminarti pel sentiero dei fiori. Sii l'arbitro della tua ventura: in te commetto i tuoi successivi destini.»
Vedete alla pagina seguente la Tavola fondata su L'esperienza del come possano moltiplicarsi i greggi, salvo inaspettati avvenimenti.
OSSERVAZIONI.
Ponghiamo che 5 a 6 per ogni 100 femmine rimangano sterili, — che la metà dei nati sia maschi, metà femmine, — che il numero degli agnelli morti sotto un anno sia maggiore di quello degli adulti e delle madri. — Chiamiamo sottanni gli agnelli di un anno, adulti que' di due, che sono in istato di produrre. — Alla fine dell'anno gli agnelli sono portati nella colonna dei sottanni, questi nella colonna degli adulti, e gli adulti in quella delle madri. In questo modo è calcolato il progressivo incremento.
[266]
LEGENDA:
M = Madri; A = Adulti; S = Sottanni; P = Pecorini; Mon = Montoni; P1 = Pecorini d'un anno
EPOCHE. | PECORE. | MONTONI. | ||||
---|---|---|---|---|---|---|
M | A | S | P | Mon | P1 | |
1828. Gennaio | 300 | — | — | — | 10 | — |
Si defalca | 6 | — | — | — | — | — |
1829. Gennaio | 294 | — | — | — | 10 | — |
Aumento | — | — | — | 135 | — | 135 |
294 | — | — | 135 | 10 | 135 | |
Si defalca | 4 | — | — | 8 | — | 8 |
1830. Gennaio | 290 | — | — | — | 10 | 127 |
Aumento | — | — | — | 130 | — | 130 |
290 | — | 127 | 130 | 10 | 257 | |
Si defalca | 4 | — | 7 | 8 | — | 15 |
1831. Gennaio | 286 | 120 | 122 | — | 10 | 242 |
Aumento | — | — | — | 130 | — | — |
detto | — | — | — | 50 | — | — |
286 | 120 | 122 | 180 | 10 | 242 | |
Si defalca | 6 | 3 | 5 | 10 | — | 18 |
1832. Gennaio | 280 | 117 | 117 | 170 | 10 | 224 |
Trasporto | 397 | 117 | 170 | — | 10 | 224 |
Aumento | — | — | — | 240 | — | 240 |
397 | 117 | 170 | 240 | 10 | 464 | |
Si defalca | 11 | 3 | 8 | 18 | — | 29 |
1833. Gennaio | 386 | 114 | 162 | 222 | 10 | 435 |
Trasporto | 500 | 162 | 222 | — | 10 | 435 |
Aumento | — | — | — | 310 | — | 310 |
500 | 162 | 222 | 310 | 10 | 745 | |
Si defalca | 20 | 6 | 14 | 25 | 2 | 35 |
1834. Gennaio | 480 | 156 | 208 | 285 | 8 | 710 |
Totale | — 18 | 47 — |
[269]
Stamane, o vogliam dire stamani, rendendomi secondo il solito al tranquillo mio studio, la memoria mi attraversava al pensiero quel verso di Dante: — le leggi son, ma chi pon mano ad esse? — Ed io bandiva questo verso, ed egli, a guisa di un mendicante importuno, tornava ad assediarmi più fastidioso che mai, sicchè scelsi pel meglio di meditarvi un po' sopra; e la materia doveva essere ben disposta in mente, perocchè subito l'intelletto sbalzasse con un salto omerico[57] sul commercio, e dal commercio sul credito, e dal credito sul fallimento ec. ec, come per chi ne ha voglia potrà leggersi qui oltre. Le mie idee si aggiravano entro un luogo vuoto, quale senza corda confesso essere l'interno della testa accomodatami su le spalle dai cieli benigni, o maligni onde non le prendeva paura d'incontrarne altre che le facessero arrossire per l'umile veste di cui andavano abbigliate, ossivvero retrocedere perchè non sufficienti a correre una giostra di sillogismi: ed ora che io le spingo fuori presso a poco col garbo di un geloso che accompagna alla porta un ospite malgradito, dichiaro invano sarebbe loro gettato il guanto della sfida: — abborrono ogni contesa. — Se v'è del buono sel prendano, il tristo lo lascino stare; — se tutto tristo, le abbiano per non nate, o le si gettino tra le rovine del niente, come diceva [270] l'altro anno un poeta romantico.[58] — È egli un bene il commercio? — Secondo: i punti di vista di uno oggetto sono varii; — dal basso in alto cresce, dall'alto in basso diminuisce, e via discorrendo. Io per me penso che senza commercio non avremmo goduto i prodotti dei paesi le mille miglia lontani dai nostri; ed allora lo suppongo un bene, — biasimando per indole la rigida setta degli Stoici, e coloro che la suprema ventura ripongono nello spogliarsi di ogni piacere della vita... felicissimo allora tra le cose create il macigno! felicissima delle umane condizioni la morte! — e confacendomi meglio con quell'antico Sapiente che volle statuito un premio a colui che avesse trovato un piacer nuovo. — Gloria dunque al commercio, però che accresca il novero dogli umani godimenti. — Taluno anche esclama: Gloria al commercio, che le utili cognizioni diffonde per tutta la terra, che stringe in vincolo di fraternità i remoti popoli ec. ec. ec: ma questo non dico già io, che rammento l'amor fraterno che portarono gli Spagnuoli in America, e parmi vedere Tipoo-Saib mostrarmi la tempia rotta in segno dell'amore fraterno portato dagli Inglesi nell'India ec. ec. ec. Ora se il commercio è un bene, o parte almeno di bene, principalissimo sostegno gli è il credito. — E qui nota, lettore, un altro sbalzo omerico, perchè tengo per fermo che tu sappi avere il commercio cominciato da prima per via di baratti, poi in questa maniera mal potendo durare, mediante compra e vendita a pronti contanti, come quello che camminava ristretto, provvedendo ai bisogni esclusivi di un popolo; finalmente provvedendo anche agli altrui con promesse o verbali o scritte che rappresentassero il prezzo della merce da ritirarsi dopo alcuno spazio di tempo, onde dare agio al rimborso dei rivenditori, e così di seguito. — Nelle attuali condizioni del commercio pertanto, mancando il credito, cessa il [271] vento, e la nave sta. — Si legge in un libro, stampato con licenza dei Superiori, come mediante questo credito meglio di 15 milioni al giorno nella banca di Amsterdam circolassero; come in cotesto paese fossero mercanti che per ben 60 milioni all'anno trafficassero. — Di fibra sottilissima è il credito, e dilicato quanto l'erba sensitiva, di cui le proprietà il lettore può riscontrare a bell'agio in Linneo, p.... vol.... ediz. in.... rilegato in marrocchino verde. Se dunque un semplice tocco l'offende, pensate un po' voi che sarà mai quando si tratti di colpi di scure; e colpi di scure e peggio sono pel commercio i fallimenti.
Di questa parola fallimento domandai l'altro ieri la etimologia ad una parrucca grecista in erudizione grandissima; e come delle dieci, le nove volte avviene con siffatte creature, dopo un lungo meditarvi sopra mi disse con sussiego da Idalgo: non saperne nulla. — Ridotto dunque ai miei mezzi, io vi faccio sapere fallimento in latino chiamarsi decotio, decozione, da cottura, o scottatura, e poichè se scotti, voi meglio di me vel sapete, così ancora meglio di me comprenderete se l'etimologia sia giusta. — In italiano non mi riuscirebbe di tanto agevole spiegazione, dove non mi soccorresse la voce pubblica, che decomponendo il verbo fallire lascia un l per via, e lo deriva da fa — lire, monete toscane di 20 soldi precisi; — cosa che quantunque in apparenza diversa potrebbe pure accordarsi colla scottatura. Dell'inglese failing, o bankrupty, non dico nulla; della faillite francese nè meno: ognun dal canto suo cura si prenda. — L'evento pur troppo dimostra vera la burlevole origine della parola, e malgrado le declamazioni dei filosofi, «il negoziante non cessò di considerare il fallimento come un mezzo di migliorare fortuna, e di farsi ricco davvero dopo il terzo fallimento.»[59] Furonvi uomini che [272] comprarono fattorie con le perdite fatte in commercio, e si additò persona che per avere perduta la nave in mare si fabbricava un casamento in terra ec. ec. ec. Fin da quei tempi si notarono gli errori, si proposero rimedii; — non mancarono leggi ed ordini per provvedervi; ma non sortirono l'effetto; — perchè non sortirono?
Prima sputò tre volte, e poi tossì,
Quindi a parlare incominciò così:
La novella di Fra Pasquale.
Nol sortirono: 1º Per difetto dei Negozianti; 2º Per difetto di ordine.
1º Per difetto dei commercianti: — perchè la più parte di questi hanno maggiore vergogna (e ciò in loro onore) a perseguitare il ladro, che il ladro a rubare; — perchè con l'arrendevolezza propria (e ciò in loro torto) si preparano l'altrui in simili casi; — perchè l'uomo naturalmente infingardo si spaventa a dovere prestare l'opera sua come Agente, Sindaco provvisorio, o definitivo. — Su la importanza di accettare questi uffici, nell'Indicatore Livornese Nº 8 comparve uno scritto, del quale non dico parola, rammentandomi certo statuto di Carlo Magno per l'Accademia francese, che proibiva agli Accademici scambievolmente lodarsi; e nei casi presenti lo raccomando alla pubblica attenzione. — Ora per tornare alla lista dei perchè, — dicono le male lingue, ed io consiglio tutti a non badarle, bastare che un qualcheduno di oltre mare o di oltre monti piova tra noi, e racconti ai nostri non troppo destri in geografia esser venuti da Bengodi, terra dei Baschi, ove si trova la montagna del formaggio parmigiano; oppure dai paesi del Soldano, in cui si fanno di smeraldi le macine da mulino;[60] e noi tutti gli facciamo di berretta, e a mani giunte lo scongiuriamo a degnarsi di vuotarci i magazzini; — perchè molti dei [273] creditori ricevendo in manica dal fallito una somma di danaro, volgarmente detto contentino, firmano la concordia, e costringono gli altri, ridotti in piccolo numero, a seguitarli di santa ragione; — perchè fuggendo (come acqua l'idrofobo) dai Tribunali, non fanno dichiarare il fallimento, e impediscono i magistrati a prenderne contezza; con altri assai perchè, che tengo belli e registrati in uno scartafaccio, il quale un giorno o l'altro darò ai miei tipografi, affinchè lo stampino — (per concorrere alla nobil gara di promuovere con ogni più utile mezzo la pubblica instruzione, e solo per lo affetto sperticato che nudrono pei loro patriotti,[61] ec. ec. ec.) a L. 10 il volume ec. ec. ec.
2º Per difetto di ordini: — perchè se a molto provvidero, non fu provvisto a tutto, e se la catena difetta di un anello, non istringe persona; — le spese enormi che occorrono, — la lentezza del procedere, dissuadono dal cimentare giudizi; — ai definitivi reparti non possiamo dare luogo se prima il processo criminale non è risoluto; — il processo si prolunga anni, — e dove il danaro irregolarmente accettato poteva impiegarsi con utile, chiesto nelle regole sta morto, e non frutta. — Ordina il Codice di Commercio si trasferisca il fallito in carcere, anche prima di conoscere se doloso o infelice sia il fallimento (Art. 455): in pratica, quantunque promossa la domanda di arresto, quantunque manifesta la bancarotta, passeggia, commercia, e proteo redivivo s'incappa da contrabbandiere, o s'immaschera da mezzano. — L'uomo sospetto di aver commesso un furto cum fustibus et gladiis è rinchiuso immediatamente in carcere: il fallito doloso che prese merci e danari nei 40 giorni antecedenti il fallimento (445), che non giustifica perdite (593), che non pure non tenne i libri in regola, ma nè anche presenta libri (594), non è tocco. — Forse perchè il fallimento doloso è meno grave del furto semplice? [274] Filangeri, amico degli uomini, non dubitò consigliare che al bancarottiere si dovesse con un ferro rovente segnare in fronte la nota dell'infamia, e condannarlo a carcere perpetuo.[62] La riforma Leopoldina, § 79, parifica il fallimento doloso al furto qualificato, epperò gli applica la pena dai 3 ai 20 anni di lavori pubblici; la legge del 1º agosto 1827 dai 7 ai 20 anni.
Una volta, una legge d'iniquità puniva il misero oppresso dalla fortuna, e il vile speculatore del delitto: qualunque fallito, negli antichi tempi della repubblica fiorentina, nudata la parte del corpo che l'uomo cela per verecondia, doveva pubblicamente e tre volte batterla su la pietra dove si legava il carroccio. — In tempi più recenti le leggi di Europa condannavano il fallito in buona fede al carcere perpetuo. Questo stolto rigore faceva a ragione sollecita la gente a fuggire i temuti giudizi, a celare nei suoi principii la cosa, a sottrarla dall'ingiusto ordinamento. — «La energia del negoziante non deve essere indebolita o spaventata dalla pena: è bastante quella che dipende dalla cosa stessa. Il legislatore deve punire nel negoziante la negligenza e la frode,»[63] scrisse il nostro Filangeri; e le odierne leggi non solo vollero rimandato libero l'onesto fallito, ma ristorando l'offesa della sorte, disposero che potesse a titolo di soccorso domandare una somma sopra i suoi beni (538); imperciocchè il Codice di Commercio fosse compilato da una gente che sapeva e voleva leggere la Filippica 2ª di Cicerone al punto in che divide in tre classi i falliti: — fortunæ vitio, vel suo, vel partim fortunæ, partim suo vitio. —
Tolto così il timore d'involvere il reo coll'innocente, non v'è motivo di sfuggire per questa parte il Tribunale.
Deplora il nostro Filangeri la facoltà concessa ai [275] negozianti di stipulare col fallito doloso: e a ragione si lagna; perchè non deve appartenere all'individuo il far sì che un'azione sia o non sia delitto. Pei delitti pubblici non basta la quietanza dell'offeso, e la legge del 1786 e l'altra del 1827 parificano, come vedemmo, il fallimento doloso al furto qualificato. — Il Codice di Commercio provvide anche a questo, ordinando all'art. 440 che ogni fallito dovesse dentro tre giorni dalla cessazione dei pagamenti farne la dichiarazione al tribunale. La legge del 1º agosto 1827 richiamò in vigore questo articolo; ma non sottoponendone l'ammissione alla pena determinata all'art. 587 nel citato Codice, non impedì l'evento di quanto esposi qui sopra.
Adesso io me ne stava sul pensare ai modi di meglio far camminare le cose in hac lacrimarum valle, perchè ogni uomo, per quanto incapace di reggere la sua testa, non renunzia alla dolce illusione di potere ordinare le altrui; quando ad un tratto mi rinvenni a piè della scala, onde mi convenne dare agli scalini di pietra l'attenzione che divisava impiegare con le teste di carne e d'ossa dei miei fratelli in umanità, premendomi assai più i termini della mia persona, che il principio della loro. Salito allo Studio, trovai un uomo ridente, pieno di arguzie, proverbi ed altri motti leggiadri, il quale mi dichiarava, come avendo ricevuto un 100 voleva restituire un 25, per la gran ragione che poteva volendo non dar nulla. Chiamai i datori del 100, e dissi loro: doversi nei casi attuali decretare una corona civica all'uomo che volendo può esser 4⁄4 ladro, e consente di rimanersi 3⁄4 soltanto; in ispecie poi che il minimo moto per la parte loro lo avrebbe fatto diventare i consueti 4⁄4. — Gl'intelligenti intesero, si strinsero nelle spalle, e firmarono: uno, ispirato dall'ombra di colui che condusse la impresa dei molini a vento,[64] proruppe voler [276] purgar la terra dai mostri, e so di certo che lo farà quando abbia trovata la clava di Ercole, la quale, per quello che racconta Ovidio, arse sul monte Oeta col suo proprietario, — di cui l'anima, come tuttogiorno avviene anche tra noi, Seneca nelle tragedie manda in cielo, e Omero nell'Odissea pone nell'inferno.
[277]
E se il mondo sapesse il cor ch'egli ebbe,
. . . . . . . . . . . . . . .
Assai lo loda, e più lo loderebbe.
Dante.
Qualunque ornamento, sia pur quanto pensi leggiadro, tu ponga attorno alle Grazie ed alla Verità, non puoi far sì che in parte non le adombri; e poichè la principale loro bellezza consista appunto nel manifestarsi da ogni lato scoperte, l'antica sapienza ordinò che nude del tutto fossero rappresentate. Innamorati pertanto degli antichi concetti, nel referire un'azione generosa, che è la vaghissima delle Grazie dell'anime, noi lasceremo ogni importuna amplificazione alla vanità dei retori, tenendoci stretti alla ingenua esposizione del fatto.
In questi ultimi mesi con inaudita frequenza sgomentarono gl'incendii rustici, non solo nel contado nostro di Livorno, ma ed anche per l'universa Toscana. I mobili cervelli del popolo, desiderosi d'investigarne la cagione, immaginavano da prima derivassero dalle ultime leggi proibitive intorno la caccia; se non che poi, osservando meglio, conobbero come gl'incendii accadessero più sovente nelle scarse facoltà della povera gente, la quale non aveva nè volere, nè mezzi d'impedire la mania di lanciare piombo alle nuvole, che nei vasti dominii dei signori potenti: onde costretti di farsi in traccia di un nuovo motivo, pensarono alle compagnie instituite per l'assicurazione del fuoco, e supposero che avessero promosso cotesti piccoli incendii, e per conseguire col timore [278] un cumulo di premii che forse non avrebbero ottenuto colla ragione. Sospetto destituto di ogni buon fondamento, non sembrando possibile che uomini integerrimi, per guadagno volessero senza assicurazione correre il pericolo del sinistro dei lavori pubblici a tempo o a vita destinati per pena agli incendiari con la legge dei 30 novembre 1786. — Ma di ciò sia che vuolsi: noi tornando alla storia, dobbiamo raccontare come in una notte del trascorso mese fosse nel circondario della pieve di Salviano appreso il fuoco al pagliaio d'un certo chiamato Canaccini. Alla vista delle fiamme accorsero i più prossimi, e con ogni argomento loro s'ingegnavano d'estinguerle; per mala sorte gli sforzi della buona gente riuscirono indarno, chè la violenza del fuoco prevalse, ed in poca ora distrusse gran parte dogli averi della povera famiglia. Dolenti tutti, circondavano il dolentissimo contadino, e gli profferivano parole di conforto, quando Giovan Batista Pannocchia, con certi suoi nuovi modi, fece osservare doversi a parole consolare l'uomo di cui il danno è inevitabile, ma quando vi ha luogo di ripararlo coi fatti, questi, e non i discorsi, giovare agl'infelici: però voltosi al Canaccini, soggiunse: «Sicchè, compare, prendi animo, e se domani vuoi fieno per le tue bestie, vieni o manda a' miei pagliai, e togline quel tanto che te ne farà di bisogno.» — L'offerta del Pannocchia mosse la generosità de' circostanti, che il giorno dipoi su quell'aia medesima un nuovo palo inalzarono, e il Canaccini ebbe un pagliaio più grosso di prima.
Il nostro Pannocchia (e ciò sia detto per tornare un passo addietro) è uno di quei tutori, che convertirono in benestanti i pupilli miseri alla fede loro commessi.
Adesso la sciagura allontanata dal Canaccini soprastava più grave al buon Pannocchia; e poche notti dopo l'incendio rammentato, arsero senza riparo i suoi quattro [279] pagliai. — I contadini affollati per sopprimere il fuoco si partirono senza dirgli parola; ma all'alba del giorno successivo, qual con barrocci, qual con carra cariche di fieno, di paglia e di strame, furono a casa dell'uomo onesto, e con grida festose lo destarono da un sonno tranquillo. Il sole che sorse salutò un monumento di amore, là dove avrebbe illuminato una traccia di cupidigia colpevole o di rabbia feroce senza la pietà di quegli ottimi contadini. — Ci affida il Vangelo che le opere buone saranno nove volte più rimeritate nella vita futura, ed è questo grandissimo motivo al bene per l'uomo, composto in maniera che di rado si muove se timore di danno o desiderio di premio non lo dirige. Veramente non essendo qui la patria nostra, dobbiamo intendere a guiderdoni meno caduchi di quelli che ci possono offrire le creature che muoiono; ma tengo per fermo che Dio stesso esulti della sua fattura quando vede un uomo riconoscente. — Intanto giunga questa lode, che è figlia del cielo quando si parte da labbri incontaminati, alle orecchie dei buoni che la promossero, e li rallegri.
Nell'imprendere lo Indicatore Livornese promettemmo registrarvi gli annali della civiltà di questa terra, e non c'inganna il desiderio se crediamo che le cose referite vagliano sopra ogni altra a dimostrarla. Forse rigido giudizio ci aspetta dal postero che ricercherà severo la storia dei nostri tempi; pure da questi pochi e radissimi fatti comprenderà non tutti essere stati iniqui i suoi padri, ed essere vissute anime capaci di operare il bene, ed altri non adontarsi di farlo palese, perchè si partisse da gente di umile condizione. — Forse la nostra memoria sarà benedetta: — noi allora morti non udremo la voce dei figli; ma cos'altro ci giova nella vita presente quanto la speranza di questo compianto?
[281]
Adelante, Pedro, con juicio.
Gli economisti inglesi vanno predicando adesso la libertà di commercio. Tennero dapprima un sistema opposto; se per errore o per buono accorgimento, poco importa che per noi ora sia ricercato. In questo punto giova considerare le nuove dottrine che essi s'ingegnano far prevalere.
Libertà suona parola d'incanto, sembra prodigio la teoria d'introdurre lo Evangelo nel commercio, e le menti deboli ed eccessive poco si curano investigare se questo Evangelo vi si troverà seduto come sopra un letto di rose, o come sopra un pettine da lino.
Quello che merita considerazione gravissima innanzi tratto, egli è come in Inghilterra la teoria della libertà del commercio non deva ricevere colà la sua applicazione sopra tutti i prodotti, ma sopra alcuni, nè subito adesso, ma dopo interposto spazio convenevole di tempo.
Gli economisti inglesi predicando la libertà del commercio, e nello attendere a volerla applicata prudentemente e tempestivamente, mirano a vari scopi di egregia sapienza.
[282] La più parte degli economisti, e potremmo dire tutti, appartengono al partito democratico, sicchè con la introduzione libera delle sostanze alimentarie confidano conseguire i fini seguenti:
1º Copia di sostanza pel popolo.
2º Eccellenza di nutrimento.
3º Certezza del medesimo.
4º Prezzi discreti.
5º Scadimento della aristocrazia; perchè gli aristocratici possidenti principalissimi rimangono privati della facoltà del monopolio; costretti a vendere le proprie raccolte ai prezzi della concorrenza, si vedranno menomate le rendite enormissime, fonte così di potenza soverchiante negli ordini politici dello stato come di miseria pubblica. Questo forma un argomento tardo, ma infallibile di rivoluzione in senso democratico; e i cittadini inglesi operano da quei solenni uomini che sono, ingegnandosi pervenire, in virtù di riforme e provvedimenti parlamentari, senza scosse dello stato, là dove gli stati manchevoli di siffatti mezzi civili non possono mai giungere se non con violenza. Dura necessità! la quale fece troppo spesso calunniare il principio dond'ella mosse, e, diciamolo pure, fece troppo spesso dimenticarlo anche agli operatori medesimi del bene.
6º Se non scadimento, modificazione almeno di aristocrazia, la quale cosa a fine di conto torna tutt'uno; imperciocchè, ove i grandi proprietari sopportino con animo repugnante simile diminuzione di rendita, converrà favoriscano con ogni potere le industrie agricole, togliendo largo spazio di terra allo esercizio dei piaceri per ricavarne maggiore costrutto. — In simile intento, che noi dobbiamo desiderare e sperare che sia per essere il meglio accolto dai Signori, ecco dal porre studio indefesso alla cultura dei campi, e dal mescersi frequentemente [283] con gli agricoltori, nascere tra essi e gli uomini di villa tutti quei beni che Lambruschini e Capponi, ed altri buoni avvertirono derivare fra noi dal sistema di colonia; e che consistono nella remissione dei modi superbi, nella conoscenza dei patimenti del popolo, e compassione di quelli; chè sovente la durezza nasce dalla ignoranza, o dalla incredulità: ozii diminuiti, e impiego utile del tempo: e per altra parte, le invidie scemate, mansuefatti i costumi, la selvatichezza ammollita, e placati i rancori delle classi povere. — Nè qui si arrestano i beni: poveri in Inghilterra sono molti, e troppi quelli che si applicano alle industrie manufatturiere, mentre la perfezione delle macchine e i miglioramenti quotidiani rendono ogni giorno più inutile la opera loro. Però le miserie di cotesti infelici contristano il cuore; e mal pagati da un lato, oppressi soverchiamente dall'altro, non curano prolungare la vita, ma con lo abuso dei liquori distruggerla, siccome apparisce dalle investigazioni ordinate in proposito dal Governo, referite dal Bulwer: così grandissima parte di quelli che sono volti alle industrie manufatturiere e non trovano pane, attenderanno alle agricole con vita serena, e cesserà nei miseri il delirio dell'odio e della disperazione. E come plebe affamata e bestiale è verme di qualunque stato, e argomento perpetuo di perturbazione, così popolo civile e contento somministra base durevole a bene disciplinata democrazia.
7º Accrescimento d'industrie manufatturiere e facile smercio di quelle presso gli esteri, perchè diminuito il prezzo del genere greggio, diminuito il prezzo della mano di opera pel minore costo delle sostanze di cui si ciba, diminuito il prezzo di acquisto per la libera introduzione delle manufatture nelle contrade straniere.
[284] Non può sfuggire a chi osserva attentamente le cose del mondo, come gl'Inglesi non isbaglino mai nell'amministrazione della fortuna pubblica, o almeno non commettano mai errori che non possano con facilità emendare: e ciò perchè la necessità sia maestra suprema di sapienza. I Francesi sbagliano più frequentemente, perchè hanno minore bisogno di essere savi; e, come Machiavelli osserva, che i loro male orditi politici riparano con la forza, così gli errori economici ristaurano con la fecondità prodigiosa del suolo, ricchezza d'industrie agricole e copia di danaro.
La Inghilterra ci ha superato e ci supera con la perfezione delle sue macchine e con la bontà delle sue instituzioni. Ella non può, e potendo non dovrebbe, mettersi a sedere in mezzo della via aspettando gli altri popoli che hanno le gambe inferme per camminare, o non le sanno adoperare: procede franca e spedita, e fa bene. Però considerando ella come in onta della ignavia dei governati e della inettezza dei governanti, gli altri popoli, mercè la pace diuturna, si affatichino quanto più possono provvedere a se stessi, come ogni giorno più s'ingegnino sottrarsi al disonesto tributo, e come le industrie, a modo delle preghiere di Omero, quantunque zoppe arrivino più presto o più tardi al punto per dove si erano mosse, con lo stupendo spirito di previdenza che anima la Inghilterra, ha procurato nuovo sbocco alle sue manufatture nella China, nelle isole remotissime dell'Oceano ove andò a fare vergognare cotesti isolani della loro nudità, provvedendoli di Bibbie e di acquavite, di santi missionari e di cotoni filati; insomma afferrandoli per tutti i manichi che presentano dalla parte dell'anima e da quella del corpo. Attendendo a nuove scoperte, non trascurano il vecchio continente, e agli argomenti materiali di superiorità aggiungono gli spirituali: [285] prima vinsero con le macchine, vinceranno adesso con le macchine e con la economia politica.
Io ammiro grandemente gl'Inglesi, e nessuno si trova meglio di me disposto a onorarli; ma quando m'imbatto in qualcheduno di quel popolo sparvierato contemplare il mio bel sole, temo sempre che mulini il modo di portarselo a Londra per rimandarmelo a comprare convertito in candele.
La Inghilterra non ha tolto del tutto il dazio alle sostanze alimentarie, quantunque la necessità le stringa la gola con mano di acciaio. Tra due anni cesserà per queste ogni dazio, e a parere mio saviamente, perchè durante questo termine potrà, chi ha senno, mettere a coltura tutte le sue terre, e bilanciare con la copia del prodotto la perdita sul prezzo; non ha tolto i dazi sopra gli olii, molto meno sopra i vini,[65] e meno ancora sopra le sete lavorate: intanto si affatica indefessa intorno questa industria, e già, se le statistiche non ingannano, v'impiegano meglio di 40 mila persone. Insomma io porto opinione che la libertà di commercio, come di tutte le teorie buone astrattamente, desideri opportuna e discreta applicazione. Quando dentro al mio paese, mercè savi ordinamenti, i generi greggi che produce riceveranno l'accessione della industria da non temere concorrenza straniera, sta bene che se ne faccia libero cambio con i prodotti manufatturati degli altri paesi, ma prima mi sembra poco savio partito. Io non pretendo ricavare dalla Inghilterra cotoni sodi per rimandarli ai suoi mercati manufatti, ma neppure ella ha da prendere le mie sete gregge per farmele ricomprare lavorate: di grandissimo cuore io approvo questa società di commercio libero, ma perchè la società non riesca a taluno dei Soci leonina, è forza che ognuno depositi [286] la messa proporzionatamente uguale di capitale. Ora nel caso nostro, la messa si compone di bisogni: noi abbiamo per ora troppi bisogni e gl'Inglesi troppo pochi. Ed anche sopra la libera introduzione dei cereali a me sembra che non siamo in condizioni pari a quelle della Inghilterra. La Toscana ogni anno patisce una mancanza di molte centinaia di migliaia di sacca di grano, dicono sopra un milione e mezzo, e la Toscana possiede terreni da riparare in tutto o in parte al difetto: però queste terre funestate dalla malaria desiderano spese transitorie, ma gravi. Ora che il possidente voglia scapitare metà del costo del prodotto per farle lavorare, non è ragionevole sperare: si contenterà del poco, si contenterà eziandio ritornare su i suoi nel presagio di futuri guadagni, ma non consentirà mai a rovinarsi a un tratto per arricchirsi a bell'agio. Meglio è fringuello in man, che in frasca tordo, — diranno i possidenti, e si rimarranno al sistema delle fide. La introduzione libera dei cereali per ora, perpetuerà la provvista all'estero del milione e mezzo delle sacca mancanti. Onde non accadesse carestia, io vorrei che nel porto-franco di Livorno, grani senza dazi se ne ricevessero quanti ne venissero; ma non senza un qualche dazio s'introducessero nel territorio riunito, il quale dazio ad ogni rumore di diffalta si sospendesse, e ottenuto che avesse la coltura nostra il suo maggiore incremento, cessasse affatto. — Qui però vedo il Fisco volgermi lieto la faccia, farmi bocca da ridere, e soprattutto stendere ambe le mani per raccogliere questo dazio. Abbassa le mani, o Fisco, che io non mi sento troppo amorevole per te, nè cotesto dazio intendo abbia ad essere tuo; il danaro che gittasse questa tassa, dovrebbe impiegarsi nel modo che fosse reputato più savio a promuovere la coltura delle terre maremmane, dando dei soccorsi direttamente [287] agli agricoltori. — Pertanto intendiamoci bene, libertà di commercio intera, ma quando non offenda la industria e l'agricoltura nazionali; e intanto che ci adoperiamo a renderci degni e capaci di praticare la bellissima teoria in tutta l'ampiezza della sua formula, intorno alla sua applicazione ricordiamoci delle parole che fa volgere Alessandro Manzoni da Antonio Ferrer al suo cocchiere: Adelante, Pedro, con juicio.
[289]
[291]
Nella I. e R. Accademia delle belle Arti di Firenze.
La più parte degli uomini esalta il sole quando tutto scintillante di raggio e fecondo di vita è sorto dall'Oriente: ignavi non avvertirono, od obliosi dimenticarono le tinte giocondissime con le quali lo precedeva l'aurora, come un'ancella che sparga fiori davanti ai passi del suo re: e meno ancora pongono mente al punto prodigioso in cui la natura apre le palpebre della notte quasi una lapide di sepolcro. E sì ch'è cosa anche ai mortali concessa, potere forza aggiungere a forza, mentre spetta all'Onnipotente solo accendere la vita e la luce. Ma considerando attentamente questa nostra natura umana, mi sembra siffatto oblio necessità, e mi rimango dall'attribuirlo alla ingratitudine. Così, bene c'insegna Orazio, prima di Orfeo e di Omero, così avanti Agamennone e Achille, vissero poeti egregi e capitani famosi, di cui non ci pervenne dalla età remota neppure il nome; e così infine prima di Giotto dipinsero uomini d'inclito ingegno andati in dimenticanza all'apparire di lui. Pensare, come taluni fanno, che avanti Giotto dipingesse Cimabue, e avanti Cimabue, tenebre profonde ingombrassero gli uomini, parmi concetto vano: dalla ignoranza assoluta a Giotto, corre tratto troppo più lungo che da Giotto [292] a Raffaello. Colui che primo piantò il trave maestro, adattandovi sopra travicelli cadenti, ebbe a meditare più profondamente assai di Callimaco, che ridusse a capitello le foglie di acanto, e il cesto e il tegolo soprapposti alla fossa della vergine corintia. Nè le arti poterono mai rimanere spente in Italia, nè veramente lo furono. Come nelle altre cose tutte, nelle arti gli uomini ricordano unicamente quelli che molto bene o molto male loro apportarono, e i secondi più presto dei primi. Corre per le bocche degli uomini celebrato Nerone meglio assai degli Antonini, e riesce ancora a considerarsi amarissimo come sogliansi distinguere i tempi, piuttosto che dalle prosperevoli, dalle infelici venture; onde sovente tu intendi favellare dell'anno della peste, della guerra e della fame; di rado, o non mai, dell'anno dell'abbondanza, della pace e della salute. E ritornando a favellare su l'arte, due maniere di uomini qui udimmo andare ricordati: coloro che la incamminavano all'altezza suprema, e gli altri che la inchinano alla decadenza; Giotto quindi e Michelangiolo, Donatello e il Bernino; e Michelangiolo e il Bernino, dai quali lo scadimento incomincia, quantunque ingegni maravigliosi si fossero, più largamente si lodano di Donatello e di Giotto.
Giotto pertanto fu come il sole della pittura, e Dio volle che le vagheggiate anime di Giotto e di Dante uscissero quasi figlie di un solo pensiero dalle mani di lui. Dante nacque poeta, e non fu superato in parte: Giotto sì, e in tutto. Donde la differenza? Forse perchè le passioni, argomento principalissimo di poesia, per trapassare di tempo non mutano, e quelle desse che si svegliarono dentro la culla del primo uomo si addormenteranno con l'ultimo nella sua tomba. Inoltre, lo eloquio col procedere degli anni acquista lindura, non già veemenza nè efficacia, per le cui ultime qualità fino dal suo nascere [293] apparisce ammirando. La pittura poi, come quella che consiste meglio nella imitazione degli oggetti esterni, che nella significazione del sentimento intimo, ha bisogno di lunghe esperienze, si avvantaggia delle quotidiane osservazioni, quella di oggi aggiunge all'altra di domani, lasciando così un retaggio di progresso agli studiosi.
E nonostante mi parve che a mansuefare gli animi feroci, l'arte di Giotto contribuisse più assai della poesia dell'Alighieri; nè per pensarvi che vi abbia fatto sopra, io seppi fino a questo momento mutare consiglio. Non è vaghezza di antitesi quella che mi persuade a giudicare così, nè studio di contrasti; ed io propongo al lettore i miei pensieri come programmi di sperimenti da farsi, piuttosto che come dogmi da rispettare. Ora a me sembra che il poeta commuova potentemente per via delle passioni, le quali, comecchè a lui proprie, pure riflettono nella massima parte per necessità quelle dei suoi contemporanei. In Dante l'odio soverchia troppo l'amore, e Geri del Bello minaccia sdegnoso il divino poeta, perchè tarda la vendetta della sua strage. In Dante l'ira rugge, la benevolenza argomenta; — il suo fiele corrode, la benignità ragiona. — I pittori ai tempi di Giotto si esercitavano poco nell'ornamento degli edifizi privati; se togli i palazzi degli Estensi e degli Scaligeri, o qualche altra rara eccezione, questo egregio artista adoperò l'arte sua principalmente per chiese e per cappelle. Così in certo modo imposero il giogo a Giotto, ed egli lo portò a guisa di corona, siccome agl'ingegni rari suole sempre avvenire. Compenetrandosi del concetto religioso, egli ricevuto dall'alto lo spirito del disegno, come gli Apostoli nel giorno della Pentecoste quello delle lingue, imprende mediante l'organo della vista a rendere miti i cuori.
Argomento sopra ogni altro potentissimo a conseguire [294] un tanto scopo, appariva la donna, — anello tra il cielo e la terra nelle società vergini, — anello tra la terra e l'inferno nelle società corrotte. L'uomo percuoteva la femmina col cupido sguardo della fiera: era mestieri nobilitare lo spirito con la forma, fare la bellezza divina, e persuadere la devozione con le sembianze della Donna. Altissima materia all'arduo scopo la Madre di Cristo; e l'arte in Giotto corrispose al pensiero: cessarono i rigidi contorni e i truci sguardi; non più squallidi volti, non più tristi sembianze, e pallori sinistri: ecco dalla faccia traluce un affetto dolcissimo, l'iride piove sopra coteste tele copia di colori giocondi, e non pertanto modesti; l'anima palpita sotto la impressione della pittura.
E qui la pittura dimostrò potenza molto maggiore della poesia, dacchè in versi male possiamo significare la bellezza. Dove il poeta s'ingegni farlo con argomenti fisici, la descrizione suona sempre vaga, spesso volgare; se per via di astrazione, e allora riesce ancora più incomprensibile. Dante descrive la bellezza di Beatrice con un paragone:
La sua bellezza mi pareva un riso
Dell'Universo....
il quale, per quanto ne apparisca sublime, pure alla mente non rappresenta immagine; e Giotto, Masaccio, e Raffaello improntano con il disegno e i colori il volto della Madonna nell'anima nostra, assai meglio di quello che ai poeti non sia per avventura concesso. Ai giorni nostri vedemmo il Sansimonismo affaticarsi verso simile intento; ma remosso il principio religioso, la teoria del filosofo rimase parola morta e non senza scandalo. Mercè la Madre di Cristo, la donna diventò oggetto di devozione, e nel muovere dei suoi occhi onesti e tardi poterono vedere [295] la via che conduce al Cielo. Io non mi stendo a svolgere il concetto, quantunque questi cenni mi appaiano pochi ed oscuri. Altri vi mediti sopra.
La pittura sopra tutte le arti sorelle valse a diffondere il Cristianesimo, ed è ragione; imperciocchè consideraste voi mai, come conviene, con quali tipi ella si manifesti? — Per le donne: — una donna che unisce la floridezza della vergine alla dignità della madre, e sorride col figlio in braccio di cui è genitrice e ancella, sua reverenza e suo orgoglio, e da cui ricava potenza a consolare gli afflitti, e comparire sul mondo come una stella mattutina ed arca dell'alleanza. — Pei fanciulli: — un mansueto che allontana da se i discepoli perchè i parvoli gli si possano accostare: sinite parvulos venire ad me. — Per gli uomini: — un innocente che stette mansueto davanti giudici iniqui, non riprendendoli con parole acerbe, nè vantando superbamente la innocenza e sapienza sua, come in Senofonte leggiamo che Socrate costumasse; — un innocente che dall'alto del patibolo con le labbra amareggiate dalla infame bevanda di aceto e di fiele, e dalle aperte ferite versò sopra gli uomini benedizioni, sangue e perdono. — Una madre che con l'anima trafitta dalla spada del dolore comprime tremendamente il cuore perchè adesso non le si spezzi d'angoscia; — più tardi, fra un'ora, fra pochi momenti potrà rompersi; morto insomma il figliuolo; — ora ha da vivere, inebriato di affanno, ma ha da vivere onde gli occhi del caro agonizzante si confortino nella vista del prodigioso amore che si chiama di madre; — un amico che nessuno altro retaggio dall'amico moribondo desidera, tranne quello di martirio e di amore. — Veramente io mi tenni sempre lontano dalla sterilità dell'ateismo, come dalle febbri della superstizione; ma Cristo, Maria e Giovanni parmi avere a durare sacra e pietosa ricordanza nel mondo, [296] finchè vi s'incontreranno due occhi per piangere e un cuore per sentire.
Il quadretto è uno dei ventisei dipinti dal Giotto nell'armadio della Sagrestia di Santa Croce. Rappresenta l'Adorazione dei Re Magi. Quivi il medesimo magistero, il disegno, l'affetto e i colori medesimi di quelli adoperati nell'altro quadretto della Nascita di Gesù Cristo da me illustrato. — Gli Artisti vedano e imparino; non però imitando a modo di gregge servile, ma ricavandone forza di sguardo a contemplare la Natura. L'arte si chiama nipote di Dio,
Si che Vostr'arte a Dio quasi è nepote,
Inf. II. v. 105.
però che imiti la Natura. Ove l'arte imiti l'arte, sempre più si allontana dalla sua parentela celeste. — Oggi alcuni artisti s'ingegnano ricondurre l'arte ai suoi principii, e copiano Giotto, e in ciò affermano consistere il purismo. A parere mio fanno mala prova. Chi va dietro agli altri, suoleva dire Michelangiolo, non passa mai avanti di loro. Il sole della pittura sorse con Giotto, giunse al meridiano con Raffaello; ma la Natura somministra sempre ali poderose e nuove per salire in alto a chiunque si faccia ad amarla con religioso intendimento.
[297]
Nella I. e R. Accademia delle Belle Arti di Firenze.
E' sembra che la tavola da noi impresa a illustrare venga indicata da Giorgio Vasari nella Vita di Masaccio là dove dice: «È di sua mano una tavola fatta a tempera nella quale è una Nostra Donna in grembo a Sant'Anna col Figliuolo in collo, la quale tavola è oggi in Sant'Ambrogio ec.» Cotesta tavola, come lo stesso biografo ci avverte, appartiene alla prima maniera di fare del Masaccio; ed invero quel solenne maestro, persuaso in processo di tempo di condursi a Roma, colà per virtù di studi alacrissimi e di meditazioni profonde, per cui mostrandosi al popolo come uno scemo di senno e trascurato ebbe nome di Masaccio, condusse il suo stile a tanto suprema altezza, che poco ci volle per attingere la eccellenza. Chiunque si faccia a considerare attentamente questo dipinto non ridotto a perfezione, noterà due cose che paiono ereditate dal paganesimo. Ingegni posteriori al Masaccio, e più potenti di lui, non seppero affrancare l'arte dalle tradizioni dei Gentili: colpa non loro e neppure colpa dei primi padri del Cristianesimo, [298] ma sottile consiglio che li rese inchinevoli ad assorbire, anzichè combattere con troppa fatica, quanto della religione antica poteva conciliarsi con la nuova: contenti del principio, poco curavano la forma, ed all'opposto abbracciandola se ne avvantaggiavano; nè arguti com'erano, potevano non avvertire gli uomini attenersi più tenaci alla forma, come quella che riesce a tutti sensibile, che alla sostanza intesa da pochi; e la forma e i riti esterni più che non si pensa stanno congiunti co' temperamenti degli uomini e con le condizioni dei paesi e dei climi: così dove la primavera fiorisce tepida e lieta, e il cielo sereno si volge con le sue splendide curve sopra i campi, la religione proromperà sempre fuori dei templi mescolando timiami e cantici agli odori e alle armonie che emanano dalla natura. Questa considerazione spiega ancora la causa dell'architettura delle chiese, rimasta per la massima parte fra noi di stile greco o romano; del tutto gotica, o con quale altro nome più acconcio si abbia a chiamare, nelle frigide regioni.
Delle due cose a considerarsi notabili, la prima consiste nelle tre figure aggruppate una sopra dell'altra, nel modo stesso che i Gentili costumavano fare nelle statue di Erme od Ermete, poste sopra i crocicchi delle vie. La seconda negli angioletti quasi che nani in proporzione delle figure principali.
Quando gli uomini non seppero concepire la Divinità spiritualmente sublime, la ritrassero materialmente smisurata; e noi vediamo in questo i Greci antichi, comunque trovatori di ogni più esquisita maniera di bello, andare errati come gli artefici dei grossi mosaici bizantini. I primi ritrassero Giove di statura assai maggiore agli altri Dei consueti, e i secondi effigiarono Cristo su per le volte dei tempii immane per grandezza di forme [299] in proporzione delle figure che gli posero al fianco. Non senza sorriso in alcune terre dei Della Robbia mi è venuto fatto osservare una Nostra Donna dentro il suo manto accogliere una popolazione di devoti incappati, non altrimenti che la favola racconta Ercole chiudesse nella pelle del leone infinito numero di pimmei.
La mia fortuna mi serbò tanto onore da assistere negli anni andati a certo colloquio tra un filosofo scienziato, e letterato d'ingegno rarissimo, oggi defunto, e un pittore che tuttavia sostiene la gloria del nome italiano. Insisteva il primo affinchè il secondo dichiarasse chi, se quegli ch'era non fosse, avrebbe prescelto essere degli antichi maestri famosi nell'arte. A cui il pittore rispondeva: quegli che concepì la idea di effigiare Dio, trascorrente nella sua solitaria grandezza lo spazio infinito dei cieli, con braccia aperte in atto di sospendervi con la man destra il sole, con la sinistra la luce!
La poesia peccò come l'arte. Omero presenta Nettuno, che dipartendosi da Samo in quattro passi giunge ad Ega, il che fa poco meno di un grado per passo, come si prende cura di informarci il Pope; e in altre parti, Minerva, che si pone sul capo la celata capace di cuoprire i fanti di cento città, e il carro di Giunone che con un salto degl'immortali destrieri arriva al finimondo, sicchè con un altro salto (nota irridendo il Perrault) non si sa dove mai sarebbe capitata la figlia di Saturno. Lo spirito d'imitazione servile, peste degl'ingegni anche migliori, invogliò il Tasso a imitare la celata di Minerva, e quindi descrisse l'Angiolo Custode che per tutela di Raimondo leva dall'armeria del cielo lo scudo
di lucidissimo diamante,
Grande che' può coprir genti e paesi
Quanti ve ne ha fra il Caucaso e l'Atlante.
[300] Lo Strabocchevole non costituisce il sublime; se no, chi arriva i Seicentesti, i quali desideravano a Carlo V
Che ai bronzi tuoi serva di palla il mondo,
e nientemeno volevano che ai suoi funerali servisse il sole di torcia a vento! — Povera polvere! coronata se vuoi, ma polvere sempre. Longino, o piuttosto Dionisio di Alicarnasso, nel suo trattatello del Sublime leva a cielo i passi di Omero da noi accennati; ma con sua pace, egli si mostra in questo meno buono intenditore di sublime, di quando celebra concetto altissimo quello della Genesi ove Moisè racconta: — E Dio disse: sia luce; e luce fu. — Il sublime più spesso sta nei sentimenti che nelle immagini; pure a me sembra che il Manzoni abbia toccato il sublime così del sentimento come delle immagini in quei suoi versi:
O Figlio, o Tu cui genera
L'Eterno eterno seco,
Qual ti può dir dei secoli:
Tu cominciasti meco?
Tu sei: del vasto empiro
Non ti comprende il giro:
La tua parola il fè.
Masaccio pertanto, sia negli affetti dei volti, sia nei parchi ed acconci panneggiamenti, negli scorti dei quali, se non fu inventore, si acquistò bellissima fama per averli intesi meglio di ogni altro suo predecessore, e per pregi infiniti, si mostrò raro e felice intelletto. Ma se per tutto quello appartiene allo stile poco andò lungi dalla perfezione, per ciò poi che riguarda la immaginativa io non vedo di quanto avanzasse l'arte, o almeno io non vedo che l'arte da Giotto a Masaccio progredisse in proporzione dello stupendo incominciamento ch'ebbe [301] dal primo. Io non so chi si fosse il poeta che compose in sua lode i bei versi:
Pinsi, e la mia pittura al ver fu pari:
L'atteggiai, l'avvivai, le diedi moto,
Le diedi affetto: insegni il Buonarroto
A tutti gli altri, e da me solo impari.
Masaccio non era uomo da insegnare al Buonarroti. Questi sortì dai cieli un'anima ardua, un salvatico ingegno, che da nessuno impara, che si nudrisce, anzi pure divora se stesso; ed egli ce lo rivelò con quel suo detto:
Io vo per vie men frequentate, e solo.
Nella mia mente Michelangiolo si confonde con Tacito. — Quando popoli grandi arrivano all'agonia della loro civiltà, noi troviamo come la Natura crei qualche gigante di severo intelletto, destinato a rotolare sopra il suo sepolcro il coperchio di granito. Tacito scrive i funerali della nazionalità romana, Michelangiolo scolpisce e dipinge i funerali della nazionalità italiana; e gli Annali del primo spaventano come il Giudizio Universale del secondo. —
Ma per tornare a Masaccio, a me sembra trovare nei suoi tempi la ragione per cui l'arte non potesse ampliarsi gran tratto, però che nulla avvenga quaggiù senza causa convenevole; e se talora rimane troppo occulta, e si sottrae alle investigazioni umane, male negheremmo che una causa sia. Gl'ingegni dei cittadini diventarono molli, intenti ai commerci, cupidi di guadagni, e sopra tutto alieni miseramente dalle armi. I cittadini non combattono più, ma pagano le battaglie; la politica diventa cavillosa, proditoria e vile, come [302] la procedura dei giudizi in mano dei tristi che bene si chiamano sacerdoti della giustizia, — s'egli è a modo dei sacerdoti pagani, per isgozzarla; le ambizioni e i tumulti del governo, retaggio di pochi astuti. Studi vi furono, ma non gagliardi e virili: bene scopersero le opere famose dei greci e dei romani scrittori, le commentarono, le schiarirono, a lezione migliore ridussero; ma coteste sono industrie, non arti: lettere e favelle antiche appresero, ma la favella e la letteratura nostre patirono danno; la civiltà defunta disotterrarono come una città sepolta sotto la lava del Vesuvio, la propria neglessero; forse s'essi non erano, riuscivano meno politi, ma certo più forti. Giotto e Dante per lungo tratto di tempo rimasero senza eredi degni di loro. Se al seme ottimo corrispondeva il frutto, Raffaello, Lionardo e Michelangiolo avrebbero dovuto esserci successori di cotesti divini intelletti; ed eglino giovando ai tempi, e i tempi a loro, non avrebbe il primo stemperato l'anima bella nel delirio della voluttà, nè cercato il secondo asilo nella reggia dei tiranni, nè il terzo riparato prima nella salvatichezza, poi nella contemplazione delle cose divine, e sfiduciato ormai di ogni speranza terrena. Forse il genio loro li ammoniva giungere per la patria i giorni novissimi, ed essi nati o troppo presto o troppo tardi, ma certo inopportuni; però se non avventurosi al paese gli anni in cui vissero, furono grandi e pieni di avvenimenti magnifici. — Stati, ridotti in vaste monarchie, il principio democratico oppresso, l'aristocratico offeso, ma conservato a morte più lontana e irrevocabile, mentre il primo dorme nel suo sepolcro come dentro una culla, rifà le sue forze col sonno, e quando lo credono polvere, obliato, un giorno n'esce a tessere per la sua testa rinnuovata una ghirlanda non di fiori, ma di teste di re; — l'antico [303] equilibrio del mondo distrutto; un altro contrario a quello sostituito; battaglie non per città o per castelli, ma pel dominio del mondo; la Riforma e le sue guerre come istituto infeconde, come opposizione terribili; nuove armi adoperate, nuovi mari tentati, nuovi mondi scoperti, popoli sconosciuti e innumerabili con poca mano di gente audacissima disfatti, e le altre maraviglie insomma del secolo decimosesto dovettero generare nelle menti degli uomini, se non grandezza, almeno inquietudine maravigliosa, sviluppo di forze, e moltiplicità stupenda d'intenti, per cui le immaginazioni si esaltarono, e ognuno confidando nelle proprie ali tentò nuovi spazi e li percorse fortunato.
Ai tempi nostri miseri, le arti immiseriscono. Dopo il saturnale di sangue della rivoluzione francese venne il saturnale della vanità del più superbo fra gli uomini, ed ambedue spossarono il mondo. I Pontefici, non che abbiano pensato ai giorni nostri, almeno fin qui, ad ornare di dipinti le logge del Vaticano o la Cappella Sistina, riparavano a stento la fiammella minacciata dal soffio della usura: Rotschild sostiene San Pietro come la corda l'impiccato. I principi e i baroni non portano più amore alle avite dimore; in meno che volge un mezzo secolo diventeranno dominio di uno Schylok arricchito col giuoco delle azioni dei cammini a vapore o di un contadino cosacco: e i popoli non sanno più generare i grandi capitani e gli uomini famosi nel consiglio e nella sapienza; essi sono stanchi di produrre invano: guasti dal costume, di se medesimi diffidano, e par che credano essere condannati a strascinare la vita come una catena: — mal credono! Depongano giù dall'animo cotesta paura, che è una calunnia per la Provvidenza; col presagio [304] di giorni migliori, negli antichi maestri impariamo i modi delle arti di guerra e di pace per esercitarle poi quando a Dio piaccia. Così il prudente colono nella stagione iemale, quando tutto pare sopra la terra morte e squallore, apparecchia il filo della falce per la mietitura.
[305]
Quadro esistente nella I. e R. Accademia delle Belle Arti di Firenze.
Può egli convenientemente affermarsi essere stato il Perugino maestro vero di Raffaello? Le intelligenze supreme, come quelle del Sanzio, hanno esse mestiero d'insegnamento? Bene Lucifero annunzia la venuta del sole, ma non lo accende. Ai figli dell'aquila basta mostrare dalla vetta delle Alpi lo spazio, e dire: — vola! — onde, confidati alla potenza delle ale, poggino là dove occhio umano non li può seguitare. La poesia e la pittura sgorgano da un fonte comune, e questo fonte è il cuore sublimato nella contemplazione di quanto Dio ne concesse moralmente o fisicamente bello. Se la pittura ad effigiare il suo poema adopera l'iride dei colori, e se la poesia l'armonia della lira, ciò non fa sì che il concetto abbia sede in parte diversa. Chi insegnerà all'uomo la mesta pacatezza del pensiero, e la segreta voluttà che sente nel vedere un magnifico tramonto, o nello udire un suono che sembra voce di genio invisibile, o nel contemplare una sembianza irradiata di gioventù e di bellezza? Chi educherà l'anima ai misteriosi colloquii col suo Creatore, per cui, da queste terrestri miserie sollevandosi, arriva a presentarsi faccia a faccia avanti a Dio? Chi il subito commuoversi, chi il brivido delle fibre tenuissime, e il nobile entusiasmo e lo sdegno generoso, e tutti gli altri elementi [306] che formano l'anima dello artista e del poeta come le corde di un'arpa divina?
Ma posti anche in disparte tutti questi attributi psicologici, a me sembra, non che difficile, impossibile, che uomo possa per virtù imparare quanto pure si referisce alle ragioni del bello, considerato anche più materialmente. L'Urbinate non fu visto frequentare le scuole di Lionardo e di Michelangiolo, e nonostante apprese da ambedue loro, bastandogli a questo fine la vista. Per le intelligenze disposte, comprendere il meglio e conseguirlo, avviene a modo di favilla che arde le polveri. Una parola scende sopra cotesti sacri capi, come le lingue infocate sopra gli Apostoli il dì della Pentecoste. Con uno sguardo penetrano a un punto ed illuminano uno abisso, ove altri non vide, tranne tenebre e confusione. A me sembra non potersi avvertire abbastanza la seguente verità: che le cose belle pei supremi intelletti non corrispondono punto a lavori, ma ad altrettanti emanazioni facilissime e spontanee. — Però, malgrado i ragionamenti esposti fin qui, sebbene io non creda che le lezioni del Perugino creassero la intelligenza dello Urbinate, pure di leggieri concedo che da lui meglio che da altri egli ricavasse copia d'ispirazioni per arrivare alla eccellenza dell'arte, di cui terrà (e non fie vano lo auspicio) eternamente la prima sede.
E forse anche potrebbe riuscire vano lo auspicio, quante volte ci facciamo a considerare come se Raffaello non veniva al mondo, appena ci saremmo persuasi che il Perugino potesse andare superato nella poesia del concetto, nella tenerezza delle passioni, nella soavità delle forme, nei sobrii colori, nel magistero del disegno, e in ogni altra di quelle parti che costituiscono il valentissimo dipintore.
[307] Porge testimonianza di questo la Tavola che ho impreso a illustrare. Consideriamola attentamente, imperciocchè coteste opere, come il Montesquieu diceva del carattere di Alessandro Magno, meritino essere esaminate a grande agio.
La Regina del dolore si presenta in mezzo al quadro, e tiene in grembo il suo figliuolo Gesù, deposto pure ora dalla Croce, sostenuto dal capo da un Santo, che io credo Santo Iacopo, e dai piedi dalla Maddalena: un poco più indietro compariscono un vecchio, dalla parte della Maddalena, e dalla parte di Santo Iacopo, San Giovanni, Tutta la composizione spira una mestizia profonda, eppure tranquilla solennemente; un dolore che commuove le tue viscere umane, e che pure non sembra cosa terrena. Santo Iacopo piagne, ma siccome il suo capo sta accanto a quello di Cristo, in cui la Madre si affissa, così adempie l'ufficio angoscioso di sorreggere il capo del Maestro, volgendo altrove, per un senso squisito di gentilezza, la faccia, onde la Madre non veda coteste sue lagrime, e ne ricavi argomento di affanno.
La Maddalena con sottile intendimento sta intenta a considerare i fori sanguinosi che lasciarono i chiodi nel piedi divini, e pare che di questa più che di ogni altra cosa si disperi. Ho detto con sottile intendimento, imperciocchè i dolori comuni volentieri sminuzzino le cause dell'afflizione, mentre i grandi rimangono assorbiti per entro una sintesi di amarezza infinita. Quindi l'anima disposta a consolarsi sta percossa e si lagna delle livide carni, degli spenti occhi, dei capelli bruttati di sangue e simili, mentre all'opposto l'anima per sempre desolata concentra il sentimento in una punta acuta che le toglie il pensiero e la parola.
Il cuore del vecchio è una coppa da gran tempo [308] vuota o colma dalla mano della sventura. Molte rughe l'angoscia ha già solcato sopra il sembiante di lui: egli non piange, perchè volge ormai lunga stagione ch'ei pianse le ultime sue lagrime; ma ben si comprende come cotesto affanno che soffre, sia l'ultimo peso che farà traboccare la vita nel sepolcro. Nè egli già si duole del sepolcro, perchè da molti anni lo desidera come lo assetato la fonte dell'acqua pura. Quante volte coteste labbra devono aver detto alla fossa: — Tu sei la madre mia! — Quante volte deve egli avere teso le orecchie per sentire se Dio lo chiamasse alla sua pace, nella stessa guisa che il prigioniero attende la voce del custode che lo restituisce alla libertà!
San Giovanni meno degli altri si mostra rassegnato: egli leva la faccia al cielo e par che dica: — Nei tesori della tua misericordia, perchè non trovasti modo, o Signore, di risparmiare questo sagrificio di sangue? — Se mai dall'affetto ardente dello animoso discepolo volò cotesto rimprovero contro la Provvidenza, avvenne di quello come della bestemmia dello zio Tobia: — l'angiolo dell'accusa, nel registrarlo sopra i suoi libri, lasciò cadere una lagrima, e ve lo cancellò per sempre. —
Cristo anche nella morte è divino: da quel suo volto spira a modo di eco soavissimo l'amore che il mosse a supplicare perdono ai suoi medesimi uccisori. Non orma di angoscia, non vestigio di sensazione dolorosa; quanto aveva di umano, con la sua natura di uomo, passò. Ora il pensiero che per lui andò placata la giustizia eterna, lasciava diffusa per le celesti sembianze l'altera contentezza del più grande benefizio che Uomo o Dio potessero largire. — Egli dorme come un eroe nei sogni del suo trionfo.
Ma sopra ogni altra cosa, venite e considerate, come si merita, l'atteggiamento e la sembianza della Madre [309] di Cristo. Non linea, non fibra, non tocco di quel volto senza dolore; però non disperato come di persona che gittati gli argini della pazienza prorompa, o impietrito come di persona per troppa angoscia diventata stupida, e quinci emana un senso di solennità religiosa, uguale a quello che usciva da Gerusalemme desolata a commuovere i precordii di Geremia profeta. La Madre guarda gli occhi del Figlio, imperciocchè quivi ella vedesse la favilla estrema di vita, e le rammentino la traccia ultima della esistenza di lui. — Forse ella sa che la morte non ha forza di prevalere sul Cristo, che il termine del martirio terreno è continuazione della sua gloria nei cieli: anzi ella lo sa, non vi bada adesso; più tardi il pensiero le revocherà tutto questo alla memoria, e ne andrà consolata.... per avventura anche lieta. Lei diranno le genti beatissima tra le madri, ed ella si terrà pur tale, e tendendo un giorno le braccia aperte verso il Cielo, l'amore materno, a guisa di ali di fuoco, lei trasporterà verso il suo Creatore, verso il suo Figlio ch'è nei cieli: ora ella si mostra madre terrena, quantunque di natura più eletta di ogni altra figliuola di Adamo. L'arte antica e la moderna non seppero, per quanto io conosca, presentarci tipo di dolore così sublime come quello della Madonna. Veramente Niobe supera ogni affanno che pensiero umano valga a superare. Niobe non impreca, non si stempra in lacrime, non prorompe in urli o in atti deliranti, ma cade segno di vendetta che per uomini sarebbe infame, per Numi poi è inconcepibile; cruda, sterile e ignobile vendetta, la quale non può fare a meno che susciti maledizione e furore: il sangue dei figli di Niobe fuma ira; e se Niobe potesse, l'avventerebbe come una fiamma da ardere l'Olimpo, e farebbe bene. — Ma il sangue di Cristo supplica perdono: egli volente lo sparse, egli l'offerse per prezzo di riscatto, e tornerebbe ad offerirlo di [310] nuovo: di qui la differenza maravigliosa dei due tipi di dolore materno, di Niobe e di Maria, che io reputo argomento degno di nobile e profonda scrittura.
Ma se il dolore di Niobe cede a quello della Madre di Cristo, supera poi qualsivoglia dolore effigiato da mano o da parola mortale. Paragonate Niobe con Laocoonte, non parlo già del Laocoonte di Virgilio, sibbene del Laocoonte di Polidoro, Atenodoro ed Agesandro, perocchè gli scultori vinsero il poeta, e sentirono più magnanimamente di lui. Il Laocoonte degli scultori soffra col coraggio dell'uomo forte, e con la dignità dello innocente oppresso, e non fa punto sembianza di prorompere nelle immoderate strida, che nel poeta suscitarono la similitudine anche più infelice del loro non bene mazzolato:
E di orribili strida il ciel feriva;
Qual mugghia il loro allor che dagli altari
Sorge ferito, se del maglio appieno
Non cade il colpo, ed ei lo sbatte e fugge.
Eneid. l. II.
Comunque però vinca il Laocoonte scolpito il Laocoonte del poeta, pure, anche il primo del quale ragiono s'ingegna svincolarsi dai nodi dei serpenti, e ai figli che gli stanno accanto, avviluppati nelle medesime spire, ei non bada. Non così Niobe! Oh non così! Ella, sente fischiarsi sul capo la romba dei dardi celesti, e per se non li teme, e non tenta nemmeno sottrarvisi; solo si ricovra in grembo la fanciulletta unica della bella figliuolanza che la rese infelicemente superba, e con estremo conato si sforza salvarla dalla vendetta celeste. Amore di madre non si supera nè si uguaglia, e di questo vadano orgogliose le donne; chè se di altre dignità si mostravano loro i cieli avari, questo solo basta a formare la corona della loro vita, e a farle perdonare di [311] ben molti peccati. Le donne non ebbero mai più gentile lodatore di quel Martino Lutero, di cui il nome solo mette spavento alle mie leggitrici cattoliche. Fra Martino, il quale ebbe, come il Bandello lasciò scritto, — un bellissimo ingegno, — notando la sua Bibbia, al punto in cui si narra il sacrifizio d'Isacco, scriveva così: «Quali mai furono i sentimenti di Abramo allorchè acconsentiva a svenare il suo figliuolo unico? Certo egli non ne tenne parola con Sara....» — Lo Chateaubriand avverte sembrargli cotesta riflessione per semplicità e per tenerezza quasi sublime. Perchè quasi? Io di mia propria autorità tolgo l'avverbio modificativo, e la dichiaro del tutto sublime, e se taluno si avvisasse riprendermi, io me ne appello a tali giudici, che so troppo bene che mi daranno ragione, — voglio dire le Madri.
So per lettura di effemeridi che pittori francesi, fra i quali Delacroix, concepirono e dipinsero la Pietà, (che Pietà suole chiamarsi in arte, la Madonna col Figlio morto in grembo); ma primieramente perchè non ebbi mai sott'occhio cotesti quadri, e poi perchè mi sento pochissimo disposto a giudicare con favore della pittura francese, così parmi onesto tacerne.
Piuttosto mi permetterò alcuna parola discorrere intorno alla famosa Pietà del Buonarroti. Veramente, quando uomini quale io mi sono, ci facciamo a ragionare di cotesti prodigi d'intelligenza, pudore e dovere persuadono a procedere molto rimessi, e a modo di dubbio: però la reverenza del nome non ha da togliere il giudizio: ossequio non suona tirannide, come libertà non corrisponde a licenza. Ora dunque a me sembra la Pietà di Michelangiolo comprendere copiosamente in sè tutte le qualità egregie e riprovevoli di quel divino intelletto. — Il pensiero e l'arte, e se vogliamo meglio, la [312] parte materiale o la spirituale, in cotesta opera sconfinano i supremi limiti della Natura; per la quale cosa il dardo per tensione soverchia dello arco forvia dal segno, e l'effetto viene a mancare. Quanto di più infelice e di pauroso può esercitare il patimento sopra la creatura umana; quanto lo strazio può lasciare sopra la nostra carne di miserabili vestigi, — tutto è ritratto dallo spietato scultore in quel gruppo. L'anima nostra, sotto la sferza cocente del dolore, s'irrita: ella gronda sangue, non lagrime, e rimane stupida di ribrezzo, non commossa a pietà.
La Madre in Michelangiolo, sola con solo, sta col suo Figlio in grembo, lacero nelle membra, infranto da torture ineffabili, senza che nulla temperi lo spettacolo del morto staccato dal patibolo. Da quel congresso tremendo la Madre non può uscire che in due maniere, o col cuore impietrito, o col cuore rotto. Ora il concetto spinto a simili estremi ci vince; noi ci pieghiamo gemendo sotto questa forza, come se fosse un giogo di ferro, ma tenerezza, pietà, lagrime, ogni maniera insomma di sensi gentili, irrigiditi per soverchio rigore vengono meno. Ma ogni uomo è dominato dal proprio genio, e tale appunto la natura dispose, onde dai modi diversi di concepire e ritrarre il concetto nascesse poi celesta infinita varietà di cose, per cui l'Universo sembra che infaticabilmente si rinnuovi. Nè creda alcuno potere dominare il suo genio, però che muovendogli guerra si sposserà nella lotta, e in ultimo si troverà inetto ad imprendere opera che valga. Di tutte le contese, la più sterile è quella che combattiamo contro noi stessi... — Chiunque si fosse quegli che immaginò ferreo il freno da imporsi al pensiero, certo fu volgarissimo ingegno. Quando Sansone può starsi legato, è segno che gli cadde il vigore dei capelli. Trovi l'acerbo censore Milizia quanti pur sa difetti [313] nel Moisè: egli deve confessare, il primo senso provato alla vista di cotesta statua, essere stata la paura. Ora se Michelangiolo si fosse studiato a togliersi la facoltà di atterrire che gli veniva dalla Natura, l'arte non avrebbe potuto dargli di commuovere blandamente, ed egli sarebbe rimasto come uomo abortivo.
Affermano alcuni che il concetto non costituisce l'arte; ma io non so comprendere arte che cosa sia senza concetto: ambedue formano un nesso che non può stare diviso, e i vizi e le virtù del concetto si trasfondono necessariamente nei modi di significarlo. I critici vengono dopo, come i soldati tenevano dietro al trionfo degl'Imperatori romani: accompagnando essi con parole di biasimo gl'ingegni sublimi, li ammoniscono mortali essere stati e fallaci come gli altri uomini tutti. Sterile scopo ed astioso; imperciocchè lo schiamazzo non tolga che gli errori commessi si emendino, nè che per le virtù esercitate i gloriosi ascendano al Campidoglio, nè che i futuri grandi uomini possano salirvi scevri affatto da colpa.
[315]
Esposto nell'I. e R. Accademia di Firenze nell'anno 1829.
Credette Cimabue nella pintura
Tener lo campo.
Dante.
Prima che per me si discorrano alcune parole di lode intorno all'opera della quale l'egregio nostro Tommaso Gazzarrini volle onorare la diletta sua Patria, abbia sincerissime grazie ed elogio il cittadino che seppe affidarne la commissione all'ottimo artista con magnificenza degna piuttosto degli antichi tempi di gloria, che singolare nei moderni, per pochezza di anima e per avarizia distinti. — Tengo celato il nome onde la sua modestia non si offenda, ma ben può bastare per chiunque legge la cosa. — Desidero un'opera delle vostre mani, disse il liberale cittadino all'artista; — e prezzo, soggetto, tutto insomma, lasciava all'onestà e, all'ingegno del pittore. — Il pittore commosso condusse il quadro con tale una tinta, che di rado s'incontra su le tavolozze umane, — la gratitudine. Narrasi di Raffaello Mengs, che avendo terminato il ritratto di Giuseppe II, questi sebbene assai, come meritava, lo commendasse, nondimeno dicesse parergli men bello di altro che scorse attaccato nello studio del pittore; alla quale osservazione il Mengs rispose: — «Ciò avviene perchè [316] è di un mio amico.» — L'imperatore soggiunse: «Ed anche nel mio procurate di porvi l'amico;» ma siccome gli affetti non si comandano, così il ritratto di Cesare rimase per sempre inferiore a quello dell'oscuro amico. — Se noi vorremo volgere la mente alla miseria del pensare, ed allo spasimo dell'ostentare; se alle interne cupidigie ed alle frugali magnificenze esterne; se allo studio del comparire e non essere; se alla quartana di conseguire il molto col poco; se al costume di acquistare tutto a peso o a misura; se alle barbare ignoranze; se alle povere stupidezze: io non conosco davvero nella nostra favella parole bastanti a celebrare l'uomo che accolse nello spirito il desiderio gentile di possedere un'opera che fosse, e non paresse bella, e sentì che l'ingegno non si compra, non si paga; ma soltanto in parte si ricompensa. Il secolo venale in tutte le cose pretende patti chiari e patti avanti, e le passioni più nobili sono calcolate alla ragione del sei per cento all'anno. Tuttogiorno intendiamo il rimprovero, a noi, moderni, non esser mai riuscito di aggiungere l'eccellenza nell'arte dei nostri padri; ma qual potente adesso manderebbe, come papa Giulio II, cinque corrieri e tre Brevi alla Signoria di Firenze per indurre il Buonarroti a tornarsi in corte di Roma? e se lo incontrasse, come a lui accadde, a mezzo cammino, gli parlerebbe: «Poichè tu non sei venuto a trovar noi, noi siamo venuti a trovar te;» e minaccerebbe in questo modo un cortigiano che volle scusare Michelangiolo chiamandolo ignorante: «Tu gli di' villanìa che non diciamo noi: lo ignorante e lo sciagurato sei tu e non egli: levamiti dinanzi in tua malora!» e cotesto cortigiano era vescovo! — Bei tempi quelli dei nostri padri per le arti! Leone X, assunto al grado supremo dell'umano potere, con pubblico editto dichiarava essere suo intendimento le arti come [317] altissimo mezzo di civiltà, e parte sostanziale di ottimo governo, con ogni suo studio sovvenire. Allora non principe, non gentiluomo, non monastero di frati o di monache, non semplice mercante occorreva, il quale consentisse a starsi privo di un qualche dipinto, di una qualche scoltura di artefici valorosi. Perfino nei cuori feroci della gente data ai ladronecci ed al sangue, capiva il soave talento delle belle arti, e quel Ramazzotto da Scaricalasino, masnadiero, ebbe vaghezza di fabbricare in Bologna un tempio, e con ornati di ogni maniera decorarlo. — Se dunque in tanta diversità di costume, in tanta trascuranza, per non dire disprezzo manifesto d'ingegni, ci serbiamo quali ora siamo, deve attribuirsi senz'altro a miracolo di Dio. — Peccato che le arti belle abbisognino di protezione! Bene amate voi lettere, che, a guisa dell'arca del patto, qualunque umano sussidio schivate, ed a cui poco accette, o maligne giungono le rugiade dall'alto! —
Il quadro del professore Tommaso Gazzarrini rappresenta una Beata Vergine nell'atto di deporre il suo divino Figliuolo, che le si è addormentato in collo, entro il lettuccio il quale viene preparato da un giocondo angioletto, mentre un altro angiolo di sembianza più mesta par che gl'invochi un lieto sogno sul capo. Solenne è la bellezza del volto della Vergine, e se lungamente contemplandolo ti sovviene come tra breve lo disfarà il dolore più fiero che mai possa travagliare anima di madre, ti partirai sconsolato dal quadro. Il pargolo, con infinita diligenza condotto, dorme davvero, improvvido dell'avvenire nella sicurezza di sua innocenza. Nei due angioletti, l'uno operoso, l'altro assorto nella preghiera, forse intese l'artista significare la vita attiva e la vita contemplativa, che gli antichi teologhi, secondo che Dante ammaestra, rappresentavano sotto i simboli di Lia e di [318] Rachele; — ma di questo la verità al suo posto. La Natura, null'altro fuorchè la Natura, guidò la mano e la mente del nostro pittore nella espressione e nei moti delle sue figure; — intorno la quale Natura, dacchè cade in acconcio, mi piace avvertire che io per me la paragono a un codice del Dante manoscritto nel trecento, in cui due sono le difficoltà che s'incontrano: prima di leggerlo, seconda d'intenderlo (si ritenga però che la seconda non è tolta dalle moderne edizioni, nè anche da quelle dell'Ancora). Una volta era più facile leggere la Natura, perchè non tanto rare si vedevano le belle sembianze, e l'artista effigiando ritratti veniva quasi a toccare l'estremo dell'arte. Milizia, che tra buone e cattive tante cose scrisse su lo arti, favellando della eccellenza delle opere greche, afferma che i Greci pei costumi, pel clima e pel governo loro forse soli poterono vedere la bella natura, e renderla ancora più bella a cagione dell'amore che nudrirono per le Grazie; e racconta come instituissero una pubblica festa in cui si premiava tra la bene disposta gioventù coloro che sapevano dare baci più leggiadri. — Oggi, continuando con le idee del medesimo scrittore, in qual modo osservare la venustà delle forme se dai busti, dalle fasce, dai lacci, dalla inerzia, dalle stesse carezze, prima che nate distrutte? — È accaduto per la Natura quello che avviene ai quadri che la gente del mestiere chiamano restaurati (per mostrare almen col vocabolo ai Signori che spendono bene il danaro), dei quali, se vuoi distinguere il merito, bisogna prima che tu separi ciò che è sacrilegio di restauratori da quello che fu sapienza del pittore. Ci vuole occhio arguto per discernere, come cuore gentile per sentire; e fin qui della prima parte, cioè del leggere. Conosciute le arcane bellezze, l'arte domanda genio per avvivarle, o piuttosto per fedelmente [319] tradurle. Canova non sortì dal cielo un bel volto, e testimoni ne sieno gli occhi di chi vide il suo ritratto dipinto nella Galleria di Firenze; pure quando lo scolpì colossale nel marmo, seppe cogliere un atomo di misteriosa bellezza, e infonderla nel suo sembiante, in guisa che irradiato da luce celeste ti appare quasi divino. Certo le forme rappresentate dal Gazzarrini furono tolte dalla Natura; ma prima le accarezzò con caldissimo amore, e le ritrasse poi lieto d'ineffabile piacere. Questo valoroso artista, per esaltare lo intelletto alla contemplazione delle linee segrete e sublimi per cui la Natura procede maravigliosa, adopra la musica; e quando la melodia dei suoni gl'investe l'anima, comprende cose che raramente è concesso vedere ad occhi mortali. Se alcuno dei miei lettori dubitasse, l'artista e il poeta non essere mai tanto bene disposti a concepire il sublime che dopo avere ascoltato un concerto, o fatto un'azione generosa, si persuada ch'egli è uno dei due, stupido o maligno. — Venendo ora a parlare più particolarmente della pittura del Gazzarrini, mi reputerei degno della taccia di vano o di peggio, dove potendo adoperare il giudizio di persona illustre nell'arte, con perverso consiglio nol facessi; — nè temo che sia per venirmene rimprovero, dacchè non mi è parso sentire finora che manifestare i sensi di amore e di ammirazione che l'uomo nudre per l'altro uomo sia colpa da riprendersi. Lorenzo Bartolini pertanto, onorandomi di sue lettere, mi scriveva: «In breve, credo, vi si offrirà occasione per rendere giustizia ad un artista di vero merito. Il nostro Gazzarrini ha terminata la sua bella Madonna, il merito della quale principalmente consiste nel non essere una produzione accademica: originale nello stile, amorevolmente condotta, con armonia singolare di tinte, leggiadria di pieghe, vaghezza di teste, [320] — sorprendente poi la testa e l'estremità superiori del putto Gesù: l'espressione del sonno è veramente soave e degna di chicchessia; infine quella è la strada per ricondurre gli artisti traviati ad operare con l'amore dell'arte, e far dei quadri che onorino i nostri tempi e la nostra nazione.» E in altra lettera aggiungeva: «Sento con sommo piacere, che voi pensiate come io penso sopra il merito della bellissima Madonna dell'amico Gazzarrini. Certo questo vero artista merita una grande occasione; assai sarebbe necessario pel progresso delle Arti.» — Un altro giovane artista mi scriveva intorno al medesimo soggetto in questa sentenza: «Della Madonna del nostro Gazzarrini io vi dirò che mi sembra bellissima, e che, più di ogni altra cosa operata dagli artisti moderni, mi rammenta i tempi felici del cinquecento. — Il magistero, l'arte ch'egli vi ha adoperata, come voi potrete conoscere, sono pressochè immense: il colorito divino e pieno di trasparenza, le ombre leggiere e variate; e voi vi troverete il lungo studio che ha fatto sopra i maestri del colore. Guido, Tiziano, Veronese, Tintoretto ec. ec.» — Il Gazzarrini ha studiato questi grandi, e tuttavia studia; e ciò per desiderio di grandezza vero, perocchè gli uomini, appena giunti a certo grado di fama, si rimangano come stanchi; egli poi per la parte del colorito poteva rimanersi dallo studiare, dove volgiamo l'attenzione ai suoi dipinti, e specialmente al ritratto del nostro Granduca; e chi non vede i pregi del colorito in quel quadro, peggio per lui. Eppure nella Madonna ha superato se stesso; e vi si vede una diligenza di pennello da sbalordire, dimodochè se voi v'avvisaste dividere quella pittura in otto e dieci parti, di ogni parte avreste un bel quadro; e questo si chiama sapere. — Uno avanzo di greca scoltura svela la grandezza dell'arte in quei tempi remoti, perchè la bellezza [321] esiste in quel frammento separato, e dà idea della statua intera. Però l'artista non deve esercitare l'arte con regole fisse: e questo fu tra i Greci, e dovrebbe essere tra noi, e voi lo avete già detto. L'Apollo non ò trattato come il Colosso di Montecavallo, e così dovrebbe essere nella pittura, e così nella architettura ec.
Ma siccome mai comparve sereno senza che nebbia nuvola, quantunque picciolissima, in parte non l'adombrasse, così tra tanto consenso di lode sorse lo stupido, sorse il maligno, e nulla potendo biasimare sul disegno, nulla sul colorito, intorno alla composizione nulla, irrise al cuscino di velluto che l'angiolo appresta al bambinello Gesù, ed all'ale poste sopra le vestimenta dell'angiolo stesso. Osservazioni entrambi di ogni buon fondamento manchevoli; imperciocchè io non saprei vedere qual ragione si opponesse alla verosimiglianza dell'origliere di velluto. Forse la povertà del Redentore? Veramente attesta Plinio che in quei tempi con una libbra d'oro si comprasse una libbra di seta; ma poniamo mente, di grazia, che i Magi d'Oriente gli avevano offerti doni preziosi, onde non parrà strano se tra questi vi fossero sete, naturale prodotto delle contrade orientali. Forse perchè la manifattura del velluto in quei giorni non si conoscesse? Se l'Holosericus villosus equivale al velluto, quantunque si abbia dalle istorie che primo ad adoprarlo fosse Eliogabalo imperatore, ciò non dimostra che per lo innanzi s'ignorasse; e Tacito ricorda come nell'anno di Roma 769 venisse proibito ai cittadini romani l'andarne abbigliati; e G. C. nacque, secondo quello che ne dicono i cronologisti, l'anno di Roma 755. Riguardo all'ale, non istarò ad esporre che anche Raffaello lo ha fatto, perchè i grandi uomini non si debbono imitare negli errori, ed egli ne abbia commessi la sua parte in fatto di anacronismi, fino al punto [322] di dipingere Apollo sul Parnaso con un violino in mano, che è una maraviglia a vedersi. Mi stringerò soltanto a dire, che siccome io so di certo nessuno di questi critici avere mai veduto angiolo in viso, essi hanno tanta ragione da sostenere che debbono portare le ale attaccate alle spalle, quanta ne abbiamo noi a supporre che le tengano sopra le vesti; e al peggio caso, da giudici non iniqui sospenderemo la quistione fino a nuovi schiarimenti. Queste poi non sono circostanze da badarsi, e insistendovi più oltre temerei di nuocere alla gravità del soggetto.
Ora secondino i cieli il nostro Tommaso Gazzarrini, affinchè gli sia dato condurre nella cattedrale di Livorno il fresco del Martirio di Santa Giulia; ed io quanto più posso lo scongiuro a farlo presto, onde i miei occhi prendano conforto dei recenti spettacoli di cui va funestata la città. — In quella guisa che il sangue di Abele chiedeva vendetta al cospetto del Signore, una cupola, non ha guari imbrattata, grida mano di bianco alla pietà dei fedeli: e bianco scongiurano certe figure tinte in certa cappella, e battezzate per angioli, le quali se partecipino dell'angelico io, come non sortito alla vista di sostanze che non hanno corpo, non posso affermare e negare nemmeno; solo però dopo lunghi confronti con molte e diverse razze di uomini, francamente affermo che nulla partecipino dell'umano. Pensino gli ottimi Operai al passo dell'Ariosto che dice: Non fu sì grande nè benigno Augusto — Come la tromba di Virgilio suona, con quello che seguita; — e cogliendo una bella occasione di farsi memorabili, accomiatino l'illustre artista con accendergli il desiderio nel cuore di farsi ancora più grande per vie maggiormente onorare l'amatissima ed amantissima sua Patria.
1. Questo è il principio di un Racconto che sto meditando.
2. Pag. 159. —
Tutte le nostre cose hanno lor morte
Siccome noi, ma celasi in alcuna
Che dura più, e le vite son corte.
Dante.
3. Pag. ivi. —
..... redeunt spectacula mane,
Divisum imperium cura Jove Cæsar habet.
Virgilius.
4. Pag. 160. — Plutarco in Mario.
5. Pag. ivi. — Omero.
6. Pag. 162. — Petrarca.
7. Pag. ivi. — Columna necessitatis. Bacone, de Sapientia veterum, immagina che vi stesse attaccato Prometeo.
8. Pag. ivi. — Questa idea fu ripetuta altrove. Vedi Voyage en Italie di Michele Montaigne, T. 2, p. 115; e Gibbon, St., c. 71. — Ma io voglio riportare il passo del Montaigne cittadino romano, sì perchè il libro è rarissimo, sì perchè le sue idee sono veramente belle, e sì perchè troppo suonano diverse da quelle dei moderni viaggiatori francesi. — «Touts ces jours-là il ne s'amusa qu'à étudier Rome. Au commencement il avoit pris un guide françois; mais celui-là par quelque humeur fantastique s'estant rebuté, il se piqua, par sa propre estude, de venir à bout de cette Science, aidé de diverses cartes et livres qu'il se faisoit lire le soir, et le jour alloit mettre en pratique son apprentissage: si qu'en peu de jours il eust aysément reguidé son guide. — Il disoit qu'on ne voyoit rien de Rome que le ciel sous lequel elle avoit esté assise, et le pian de son giste; que cette science qu'il en avoit estoit une science abstraite et contemplative, de laquelle il n'y avoit rien qui tombât sous les sens; que ceux qui disoient qu'on y voyoit au moins les ruines de Rome, en disoient trop; — car les ruines d'une si espouvantable machine rapporteroient plus d'honneur et de révérence à sa mémoire; ce n'estoit rien que son sépulcre. Le monde, ennemi de sa longue domination, avoit premièrement brisé et fracassé toutes les pièces de ce corps admirable, et parce qu'encore tout mort, renversé et desfiguré, il lui faisoit horreur, il en avoit enseveli la ruine mesme. — Que ces petites montres de sa ruine qui paraissent encore au-dessus de la bière, c'étoit la fortune qui les avoit conservées pour le tesmoignage de celle grandeur infinie, que tant de siècles, tant de feux, la conjuration du monde reitérée tant de fois à sa mine, n'avoient pu universellement esteindre. Mais qu'il estoit vraisemblable que ces membres desvisagés qui en restoient, c'estoient les moins dignes, et que la furie des ennemis de cette gloire mortelle les avoit portés, premièrement, à ruiner ce qu'il y avoit de plus beau et de plus digne; que les bastiments de cette Rome bastarde qu'on alloit à celle heure attachant à ces mâsures antiques, quoiqu'ils eussent de quoi ravir d'admiration nos siècles présens, lui faisoient ressouvenir proprement des nids que les moineaux et les corneilles vont suspendant en France aux voustes et parois des églises que les Huguenots viennent d'y démolir. Encore craignoit-il qu'on ne les reconnust pas tous, et que la sépulture ne fust elle-mesme pour la plupart ensevelie, etc., etc.»
9. Pag. 163. — Sotto il Pontificato di Paolo III avendo aperto la tomba di Tullia, figlia di Cicerone, fu veduta dentro una lampada tuttavia accesa, che si estinse tocca appena dall'aria esterna. Vedi Nodot, note alla Satyr. Titi Petroni Arb., nella Matrona di Efeso.
10. Pag. 171. — Voltaire.
11. Pag. ivi. — Et quidem quæ in nostra sunt potestate, natura sunt libera quæ prohiberi et impediri nequeant at quæ in nostra non sunt potestate imbecilla, serva, quæ impediri non possunt aliena. Epittetus Man. c. I.
12. Pag. 172. — Plutarco, nella vita di Filippo il Macedone.
13. Pag. ivi. — Erodoto, Elio, l. I. — Plutarco, nella vita di Solone.
14. Pag. ivi. — Giovanni Villani, Storie.
15. Pag. 173. — Machiavelli e Ammirato, Storie.
16. Pag. ivi. — Plutarco, nella vita di Filippo il Macedone.
17. Pag. ivi. — Giovanni Villani, Storie.
18. Pag. ivi. — Gl'Inglesi in cotesta occasione coniarono una medaglia, ove da una parte si vedevano i navigli rotti dalla terribile tempesta col motto: afflavit Deus et dissipati sunt. — Schiller (Don Carlos, Atto III, Sc. 7) Immagina che Luigi Perez duca di Medina Sidonia, ammiraglio della grande armata, si salvasse solo, e che presentatosi tremante a Filippo II, questi dicesse: averlo spedito contro gli uomini non contro le tempeste, e ringraziarlo per avergli conservato un buon servitore. Ma io trovo nelle Storie che altri si salvarono con lui, e che Filippo castigò severamente Ferrando Lopez e Antonio di Guevara.
19. Pag. 176. — I senatori uccisero Romolo, e propagarono essersene andato ad abitare co' Numi. Plutarco, In vita Rom.
20. Pag. 185. — Moore ci avverte che le tre ultime Stanze furono aggiunte dal Byron per evitare la tassa imposta allora a tutte le pubblicazioni più brevi di un foglio, e che le considerava appena degne di essere lette. A vero dire, io non so comprenderne la ragione: se una sentenza giusta e generosa, espressa nobilmente, costituisce materia di poesia, parmi che poetiche per ogni conto si abbiano a considerare le tre Stanze rifiutate.
21. Pag. 187. — Byron in certa lettera a Murray rifiuta questa Ode come sua; ma gli altri continuano ad attribuirgliela. Io me ne glorierei. Comunque sia, il suo maraviglioso cambiamento di opinione sul conto di Buonaparte si desume da altre composizioni di cotesta musa superba.
22. Pag. 193. —
Nè il sì lodato verso
Vile cocchio ti appresti,
Che le salvi, a traverso
De' trivi, dal furor della tempesta.
Parini, Ode La Caduta.
23. Pag. 220. — Mably, Dialog. de Phoc.
24. Pag. ivi. — Tit. Liv., Hist. l. I.
25. Pag. 221. — Tit. Liv., Hist. l. II.
26. Pag. ivi. — De Offic., l. III. — Vero è bene che lo stesso Cicerone al libro I De Orat. diceva delle leggi delle XII Tavole: Dicam quod sentio, bibliothecas, mehercule, omnium philosophorum unus mihi videtur duodecim tabularum libellus, si quis legum fontes et capita viderit et auctoritatis pondere, et utilitatis ubertate, superare. Ma Cicerone era un avvocato! Or qua or là, secondo spira il vento.
27. Pag. 222. — Plutarco, Vite di Silla e Mario.
28. Pag. 224. — Cic., de Officiis, lib. III.
29. Pag. ivi. — Ormai è tardi, e al danno non sarà riparato ora, nè poi: ma quella che volgarmente s'intende per filosofia epicurea deve dirsi cirenaica, ch'ebbe origine non da Epicuro ma da Aristippo di Cirene, qui posuit summum bonum in voluptate, quæ sensum movet. Cic. II, Acad.
30. Pag. 225. — Vita di Carlo Zeno, volgarizzata dal Querini.
31. Pag. 226. — Vedi Marziale, Petronio, Dione Cassio, Tacito, e Dandolo che pubblicò un bello scritto nel Subalpino, intorno allo Stoicismo nel primo secolo dell'impero romano. Vero è però che la invettiva di P. Suillio oratore contro Seneca merita poca fede, conciossiachè Seneca lo avesse accusato di avere difeso le cause per mercede contro il divieto della legge Cincia. Nodot in Tit. Petronio Arbitro. Richiamata in vigore la Legge Cincia, quanta brevità nei processi, quale speditezza nei giudizi, e sopra tutto come ristretto il gregge forense?
32. Pag. 227. — Esprit des Lois, l. III.
33. Pag. ivi. — Montaigne, Essais, l. I.
34. Pag. 229. — Tit. Liv. Hist., e Plutarco, Vita d'Annib.
35. Pag. ivi. — Machiavelli, Discorsi, l. II.
36. Pag. ivi. —
Tu regere populos imperio. Romane, memento.
Hæ tibi erunt artes etc.
Æn. l. VI.
37. Pag. ivi. —
Victorque volentes
Per populos dat jura.
Georg. l. IV.
38. Pag. 230. — Julianus, in Domit.
39. Pag. 231. — Narrasi che i Locresi avessero nella repubblica loro un ordinamento singolarissimo, ed era che qualunque proponeva una legge nuova, dovesse presentirsi al popolo con una corda al collo, e se la legge era trovata improvvida o inutile o dannosa, ipso facto lo strangolavano. Immaginate un po' voi se costà tra loro i legislatori si contassero sopra le dita!
40. Pag. ivi. — Plutarco, Vita di Pirro.
41. Pag. 232. — ... liberæ mihi dantur a te quibus scriptum est. M. Ofrium quem mihi commendas vel regem Gallia faciam vel Lepitiæ legatum. Si vis, tu ad me alium mitte, ut ornem. Cicer. Epist. ad Fam. l. VII.
42. Pag. ivi. — Per questi diversi fatti, senza imporre al lettori di crederli come articoli di fede, vedi Plin. Hist., l. II, 8. — Aell. Lamprid. in Heliogab. — Plutar. in Pomp. — Dion. Cas. Hist. et Not. Dignit. Imp. Occid.
43. Pag. 233. — Nomen civium Romanorum aliquando non solum magnum æstimatum. sed magno emptum, nunc ultra repudiatur, ac fugitur, nec vile tantum sed abominabile pene habetur. Orosius, l. VII, c. 28.
44. Pag. ivi. — Omero, Iliad.
45. Pag. ivi. — Questa idea, come fu detto nella Introduzione a Roma, la quale comunque ardita è pur vera, appartiene al Montaigne, Voyage en Italie, scritto dal medesimo un po' in francese, un po' in italiano: e può servirle di commento il cap. 71 del Gibbon. I Romani ridussero in calcina la maggior parte dei marmi del Colosseo.
46. Pag. ivi. — Eos nos Longobardi tanto dedignamur, ut inimicos nostros commoti nihil aliud contumeliarum nisi Romane appellamur. In Legat.
47. Pag. 234. — Petrarca, Canzone Spirto gentil ec.
48. Pag. 236. — Salomone, Proverbi.
49. Pag. 237. — Di questa burlevole iattanza è autore lo Chateaubriand, uomo, a vero dire, di bellissimo ingegno, ma spesso scorrente la isconvenienze difficili a qualificarsi. Histoire de France.
50. Pag. 239. — Niccolini, Ode Il Pianto.
51. Pag. 247. — Si dice quel luoghi appartenessero ai Marchesi di Corsica.
52. Pag. ivi. — Il leggendario del Santi narra che il miracolo accadesse sopra le rive di Civitavecchia. Il padre Magri però, che ci dice sapere di certa scienza come Livorno derivi da Ligure figliuolo di Fetonte, ne accerta che accadde lungo il lido di Livorno presso Santo Iacopo In Acquaviva. Io per me ho le mie buone ragioni per accostarmi al sentimento del padre Magri.
53. Pag. 248. — Byron's Cain.
54. Pag. 260. — Varchi, Storie, lib. IX.
55. Pag. 261. — Questi 11,000,000 e 500,000 fior., attesa la scarsezza dei metalli preziosi nei tempi in che non era scoperta l'America, devono, per quello che afferma Robertson, moltiplicarsi per 7 in relazione ai tempi moderni; onde calcolato il fiorino d'oro ad un moderno zecchino, equivarrebbero a Lire fiorentine: 1,073,333,333.6.8.
56. Pag. 263. — Pignotti, Saggio, ec.
57. Pag. 269. — Considerando ec. che molti del miei lettori non sapranno che significhi sbalzo omerico, così credo bene avvertirli come nel lib. V dell'Iliade Giunone dalle candide-braccia, con Minerva dagli occhi-di-bove, sferzarono i cavalli; e quei di buon grado volarono per mezzo la terra e il cielo stellato. E quanto di aereo spazio vede cogli occhi un uomo assiso sopra una vedetta guardando sul pelago vini-colore, tanto ne balzan di un salto gli alto-sonanti cavalli delle Dee. Vedi la versione letterale del Cesarotti, e le osservazioni antipode di Longino e di Perrault su questo passo.
58. Pag. 270. — Vedi Tazia, tragedia del conte Severino de' Giorgi Bertola da Rimino. Livorno 1827.
59. Pag. 271. — Filangeri, t. 2.
60. Pag. 272. — Boccaccio, Novella di Calandrino.
61. Pag. 273. — Vedi gli avvisi sulle cantonate: citazione nuova.
62. Pag. 274. — Filangeri, T. 2 e 3.
63. Pag. ivi. — ivi, t. 2.
64. Pag. 275. — Vedi Don Chisciotte.
65. Pag. 285. — Nel 14 maggio corrente, Bowring propose la soppressione dei dazi sopra i vini esteri alla Camera dei Comuni, e tale incontrò opposizione tra amici e nemici, che gli fu mestieri ritirare subito la proposta.
PENSIERI. | |
A Roma | 159 |
Pensieri in prosa da farsene una Preghiera in versi | 167 |
DISCORSI. | |
Discorso I — Del modo di onorare gl'illustri defunti | 171 |
Discorso II — Sopra le condizioni della odierna Letteratura italiana | 191 |
Discorso III — Frammento al Capitolo X della continuazione ai Discorsi sulle Deche di Tito Livio | 219 |
Discorso IV — Delle Sepolture di Santo Iacopo | 245 |
Discorso V — Della Introduzione dei Merini in Toscana | 257 |
Discorso VI — Del fallimento | 269 |
Discorso VII — Lo incendio di un Pagliaio | 277 |
Discorso VIII — Riccardo Cobden | 281 |
ILLUSTRAZIONI. | |
L'Adorazione dei Magi, quadro di Giotto | 291 |
Sant'Anna, la Vergine e il Figlio, quadro di Masaccio | 297 |
La Deposizione di Cristo dalla Croce | 305 |
Una Madonna col Bambino, del prof. T. Gazzarrini | 315 |
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.